Scheda - Eddyburg
Transcript
Scheda - Eddyburg
VOCI SULLA CITTà Edoardo Salzano Memorie di un urbanista L’Italia che ho vissuto © 2010 Corte del Fontego editore Dorsoduro 3416/a - 30123 Venezia [email protected] ISBN 978-88-95124-06-3 www.cortedelfontego.it Redazione: Matilde Galli, Pippi Lanzich ai miei figli e ai nipoti, speranza per il futuro Indice Ouverture Prologo La lunga infanzia xiii xv Nonno Armando - Napoli dalla mia finestra - La casa del Corso - I coloni e Vicienzo Ucciero - La famiglia Salzano di Casoria - Villa Diaz - Le mie educatrici - Giochi Il monumento a nonno Armando - Selva di Val Gardena - Accanto alla guerra Sfollati a Roccaraso - Cade il fascismo, arrivano le SS - Miseria e nobiltà - Via Rasella dall’Hotel Imperiale - L’arrivo degli alleati - Ritorno a Napoli - I boy scout Luigi Cosenza - Villa Pavoncelli - La politica? Non c’era - Un’estate a Colle Isarco L’università, il cinema e Benedetto Croce - Mammà e papà entrano in crisi Memorie di un urbanista. L’Italia che ho vissuto 1 capitolo primo 3 A Roma 1. Nuove amicizie, nuove scoperte - 2. San Pietro in Vincoli - 3. Alberto e la politica - 4. Federico Gorio e la civilità urbanistica - 5. Barbara e l’impegno sociale - 6. Pubblicista capitolo secondo Un nuovo mondo si apre 17 1. Franco Rodano - 2. In quegli anni, nel mondo e in Italia - 3. La rivista «il Dibattito politico» - 4. Emergono i temi della ricerca - 5. Bisogno, consumo, produzione, lavoro - 6. Le trasfomazioni nella società e nel territorio - 7. Comunista capitolo terzo Lavorare non stanca troppo 35 1. La laurea, e dopo - 2. Lavori e lavoretti - 3. Il piano urbanistico provinciale di Teramo e il piano regolatore generale di Giulianova - 4. Il Centro studi della Gescal - 5. Il Ministero dei lavori pubblici - 6. L’Italia alle soglie degli anni Sessanta - 7. Da Fiorentino Sullo alla frana di Agrigento capitolo quarto Nel centro dell’urbanistica italiana 47 1. Al Ministero di Porta Pia - 2. «Salvate gli uomini prima dei mufloni» 3. Dal crollo di Agrigento al decreto sugli standard urbanistici - 4. Gli standard urbanistici - 5. Le sentenze della Corte costituzionale - 6. Amministrare l’urbanistica - 7. «La Rivista Trimestrale» - 8. Che cos’è la città? 9. Urbanistica e società opulenta capitolo quinto Esperienze di vita pubblica 63 1. Consigliere comunale a Roma - 2. Il lavoro sull’attuazione del piano regolatore generale di Roma del 1962 - 3. La battaglia per Capocotta 4. Le borgate abusive - 5. Il Sessantotto - 6. Verso l’autunno caldo - 7. Lo sciopero generale del 1969 capitolo sesto 79 Organizzazione della cultura 1. Nascita e crisi dell’Inu - 2. La ricostruzione - 3. Da che parte sta l’Inu? 4. «Urbanistica informazioni» capitolo settimo 85 La fase gloriosa della sinistra 1. Il compromesso storico - 2. Le elezioni del 1975-76 - 3. Venezia rossa 4. Venezia e il degrado - 5. Il festival nazionale dell’Unità - 6. Dieci anni nel bunker - 7. Verso un nuovo piano regolatore - 8. Il piano comprensoriale - 9. Cambiano le alleanze - 10. La politica della casa capitolo ottavo 107 Venezia forma urbis 1. Le basi per il nuovo piano della città storica - 2. La nuova cartografia e il fotopiano della città storica - 3. Forma urbis - 4. Interruzioni, ripresa e prima conclusione - 5. La proposta dell’articolazione dei piani in due componenti capitolo nono 115 Verso il buio: Tangentopoli e Mani pulite 1. Gli anni della svolta - 2. Si affaccia l’urbanistica contrattata. - 3. Intanto, sull’abusivismo - 4. Il Pci alla testa del movimento degli abusivisti 5. La legge Galasso - 6. L’Inu: la fase del consolidamento - 7. Complicità oggettive - 8. Il tentativo del confronto aperto - 9. La sconfitta: usciamo dall’Inu - 10. L’associazione Polis - 11. La città sostenibile capitolo decimo 137 Attese, tentativi, speranze, delusioni 1. Dodici parchi per il Veneto - 2. La minaccia dell’Expo 2000 a Venezia 3. Il MoSE - 4. Rendiamo vivibili le città imparando dai campi 5. Ritorno all’università - 6. La riforma del tre+due - 7. Le parole - 8. Il Pci nella bufera - 9. Nel Pds veneziano - 10. Città storica di Venezia: il piano distrutto capitolo undicesimo 161 Il mestiere dell’urbanista 1. Un pensionato, libero di pensare - 2. «Micromega» e l’altra Italia possibile - 3. Chi è l’urbanista - 4. L’urbanistica neoliberista capitolo dodicesimo 171 Il mondo di eddyburg 1. Come nasce eddyburg - 2. Tanti cerchi - 3. La Scuola di eddyburg - 4. Sul terreno della società - 5. L’ideologia di eddyburg capitolo tredicesimo 179 Chi difende il paesaggio 1. L’avventura della Sardegna - 2. La pianificazione del paesaggio tra top down e bottom up - 3. Il paesaggio percepito - 4. La sorpresa di Foggia capitolo quattordicesimo 193 Urbanizzazione a go go 1. La mistificazione dei “diritti edificatori” - 2. La legge Lupi e il consumo di suolo - 3. Pubblico e privato nella costruzione della città 4. La perequazione urbanistica - 5. La città vivibile: per chi, e come? 6. La città come bene comune - 7. Lo spazio pubblico della città capitolo quindicesimo Scomparsa la politica? 213 1. Dove siamo: il “pensiero unico” - 2. La politica dei partiti non c’è più 3. La fine del Pci - 4. Qualcosa si muove sul territorio: i movimenti... 5. Il sestante e le solide scarpe - 6. Urbanista oggi Indice dei nomi di persona 235 Ouverture So come comincia la vecchiaia. Tende a scomparire la forza sessuale (ma non il desiderio). Diventa faticoso salire gradini e pendii, senti dolore nei muscoli delle cosce, sebbene continui a camminare bene in piano. Se vai in salita ti manca presto il fiato, anche se da molti anni hai smesso di fumare. Ci metti del tempo a ricordarti che l’università di cui Dereck Drummond è decano si chiama McGill, e che il democristiano di nome Mariano, che hai visto ogni settimana per quindici anni e con cui ti soffermi a chiacchierare in Frezzeria, di cognome fa Baldo. E quando non fai una cosa che ti piacerebbe fare non pensi che la farai più avanti nel tempo, ma che non la farai più. Ecco come è cominciata la vecchiaia per me. Ormai sono in pensione, ma lavoro come prima. Mi piace il mio lavoro: mettere insieme le cose con le parole dette e le parole scritte; raccontare e scrivere per gli amministratori e per i ragazzi, parlando e proponendo a proposito di città, territorio, ambiente, pianificazione. Facendo quel mestiere che ho cominciato, quasi per caso, molti anni fa. Ho imparato a conservare più tempo per me: a correre meno da una città all’altra, da un impegno a un altro, da una riunione a un’intervista, da una relazione a un articolo. Più tempo anche per i ricordi. Perché con la vecchiaia i ricordi ritornano. E diventano importanti: non più aneddoti che racconti per far sorridere gli amici ma ragioni di vita, possibili chiavi per comprendere te stesso. Per comprendere ciò che sei, e ciò che avresti potuto essere se le cose fossero andate in un altro modo. Per lasciare qualcosa di te ai figli e ai nipoti, e far conoscere a quelli che verranno l’Italia che hai vissuto. XIII Ho iniziato a raccogliere i miei ricordi una decina di anni fa. Riguardavano la famiglia e i miei primi vent’anni. Quando avviai il sito web eddyburg li misi in rete, insieme ad altri miei scritti. Più di un lettore mi incoraggiò a proseguire. Marina Zanazzo mi propose di pubblicarli nelle sue raffinate edizioni. Decisi di andare avanti e di raccontare anche i decenni successivi. Raccolsi e ordinai un po’ di materiale ma ben presto fui travolto da altri impegni, in particolare proprio dalla gestione di eddyburg. Ripresi in mano il testo solo un paio d’anni fa. Ma, sollecitato anche dagli amici cui feci leggere la prima stesura (in particolare Maria Pia Guermandi e Vezio De Lucia, vicedirettori di eddyburg), abbandonai presto l’idea di proseguire sulla strada di un’autobiografia “privata”. Volevo raccontare invece gli eventi interessanti – relativi soprattutto all’ultimo mezzo secolo – cui avevo partecipato o cui avevo assistito da vicino, come urbanista, amministratore pubblico, docente universitario. Mi sembrava un contributo più utile, soprattutto in una fase in cui si tende a cancellare la memoria storica, e si impedisce ai giovani di avvalersi degli insegnamenti che germinano dalla consapevolezza del passato. Decisi di inserire comunque in questo libro, ormai diventato un’altra cosa il racconto dei miei primi ricordi: con qualche sforbiciata rispetto a quello pubblicato in eddyburg, e distinto anche graficamente dal testo, esso costituisce il Prologo. Nei capitoli del libro racconto invece l’Italia che ho vissuto attraverso l’occhio dell’urbanista quale ero diventato, che aveva imparato che urbanistica non è solamente tecnica ma un mestiere che impone di occuparsi dei tre aspetti racchiusi nella parola città: urbs, la città come ambiente fisico della vita dell’uomo; civitas, la società che in quell’ambiente vive; polis, l’attività di governo mediante cui la società organizza il proprio spazio. Varie stesure si sono succedute in questi mesi, continuamente sottoposte ad aggiustamenti e integrazioni che devo in gran parte agli amici che mi hanno letto: oltre i citati Maria Pia e Vezio, Piero Bevilacqua, Mauro Baioni, Ilaria Boniburini. Sono grato a tutti, anche se non ho seguito sempre i loro consigli. Ringrazio infine Marina Zanazzo che ha riletto il testo con cura e intelligenza critica rare, e Lidia Fersuoch che lo ha corretto. Nota L’indirizzo completo del sito web di Edoardo Salzano, indicato nel testo e in nota come eddyburg, è http://eddyburg.it. Per raggiungere i testi citati, basta digitarne il titolo nella finestrina cerca, posta nella barra superiore di ogni pagina. Prologo La lunga infanzia Nonno Armando Non sarei nato se, nel 1884, a Caserta, il tenente del genio artiglieria Armando Diaz avesse preso dal mazzo di chemin de fer una carta più bassa. Mio nonno era allora ufficiale di prima nomina. La sera, quando era libero, andava al circolo degli ufficiali, dove giocava volentieri. Quella volta era stato particolarmente sfortunato. A dispetto del suo carattere solitamente rigoroso si era lasciato prendere la mano. Un rapido conto gli aveva fatto scoprire con terrore che perdeva molto di più di quanto avrebbe potuto pagare col suo stipendio. Di farsi prestare i soldi, neanche a parlarne. Prese una decisione difficile: – Gioco un’ultima mano: se perdo, mi brucio le cervella, se vinco, non tocco più una carta –. Vinse, per fortuna, e visse. Quarantasei anni più tardi, nacqui io. A Napoli, in casa. La casa era molto bella. Una specie di villa urbana, di forma molto allungata; occupava tutto il lotto tra corso Vittorio Emanuele (la lunga strada panoramica a mezza costa che attraversa Napoli da Mergellina al Museo) e via Torquato Tasso (che si arrampica verso la collina del Vomero). Due piani, più un vasto scantinato; un cortiletto a un estremo, un giardinetto con una grande palma all’incrocio tra le due strade; entrambi racchiusi da un’alta cancellata nera. Lì abitavano i miei nonni Salzano, mia zia Giannina, i miei genitori: Mauro Salzano e Anna Diaz. Si erano sposati nel 1929, un anno dopo la morte di Armando. Sontuosi entrambi, i funerali e le nozze. Soprattutto il funerale, a Roma. Mio nonno, oltre a vincere la grande guerra (così ero stato abituato a pensare, e c’era del vero), era stato ministro della Guerra nel primo gabinetto Mussolini, con l’ammiraglio Thaon de Revel (un altro “vincitore”) alla Marina militare. E poi, era “cugino del re”, in quanto maresciallo d’Italia e insignito del Gran Collare dell’Annunziata, la più alta onorificenza del Regno. Il trasporto funebre era un affusto di cannone (lo stesso sul quale era stato trasportato il Milite ignoto), trainato da otto cavalli neri. Dalla abitazione XV XV prologo romana di via Giambattista Vico (su piazzale Flaminio), il corteo lo condusse prima alla vicina chiesa di Santa Maria del Popolo, dove si svolse la cerimonia funebre, poi all’Altare della Patria in Piazza Venezia, dove si alternarono a vegliarlo i grandi decorati di tutte le armi, infine a Santa Maria degli Angeli dove, in una monumentale tomba in marmo di Verona scavata nel pavimento della chiesa e contornata da una balaustra di ferro, fu infine tumulato il suo corpo imbalsamato. Era molto popolare mio nonno. Lo è ancora, non foss’altro che per il Bollettino della Vittoria, con il quale annunciò la disfatta generale dell’armata austriaca sul fronte orientale, il 4 novembre 1918. Il Bollettino (che mi toccò imparare a memoria) è esposto ancora oggi, inciso su marmo o bronzo, in moltissimi municipi grandi e piccoli, in tutte le caserme e nelle numerose scuole che portano il suo nome. Era popolare allora non solo perché aveva vinto la guerra, ma anche perché il suo carattere aveva fatto di lui un capo amato dai soldati tanto quanto invece Cadorna, che l’aveva preceduto nel Comando supremo, era odiato. A differenza di Cadorna, rigido e severo ufficiale di chiusa – e forse un po’ ottusa – obbedienza piemontese, il giovane generale Diaz curava con molta attenzione il “fattore umano”. Forse anche perché era napoletano, di antica prosapia spagnola (i suoi avi erano sbarcati nella capitale del Sud nel xvii secolo con Carlo iii di Borbone), abituato a temperare la severità dell’ufficiale con la bonomia tradizionale dei governanti meridionali. A Cadorna, noto per la severità con la quale aveva comandato la fucilazione dei soldati in fuga durante la disfatta di Caporetto, era subentrato il napoletano Diaz che raccomandava ai soldati (mi raccontava nonna Sara) di acquattarsi durante i bombardamenti nelle buche delle granate perché il calcolo delle probabilità le suggeriva come luogo più sicuro. All’attenzione del morale dei soldati, come alla capacità di lavoro collegiale e alla illuministica razionalità con la quale affrontava i problemi si deve, secondo gli storici, il suo successo di ribaltare in un anno la sconfitta di Caporetto. Insomma, dopo la guerra era popolare: lo era di per sè, e lo era perché alla Real Casa (come più tardi al Fascio) conveniva utilizzare la sua immagine come elemento di coesione sociale e come lustro dell’unità nazionale, in quel periodo attraversata dalle tensioni del “sovversivismo”. Dopo la firma del trattato di Versailles, Diaz fu “utilizzato” anche per consolidare il prestigio del Regno all’estero: fece viaggi ufficiali in numerosi paesi stranieri, dai quali riportò cimeli che, anni dopo, colpivano la mia fantasia di bambino: uno splendido costume di cuoio da capo pellirosse con un lungo copricapo di piume di avvoltoio, indossato in una fotografia in cui scambiava il calumet della pace con un capo autentico, della tribù dei Crows. Non lo conobbi: era morto da due anni quando nacqui. Me ne parlava mia nonna, Sara De Rosa, napoletana anch’essa. È lei che mi raccontò della scommessa al gioco («da allora non mi ha aiutato neppure a raccogliere le carte del solitario», mi diceva), e di qualche altro aneddoto della loro vita. La prima scintilla del loro amore scoccò forse a Portici, nel “miglio d’oro” alle pendici del Vesuvio, dove la famiglia XVI prologo di nonna Sara andava in villeggiatura. Un giorno, alzatosi dopo il pranzo nel corso del quale Sara aveva dovuto contenersi (non era bene che le signorine di buona famiglia mostrassero troppo appetito), Armando, che era uscito in giardino a fumare il sigaro, la scorse dalla finestra mentre mangiava gustosamente un peperone ripieno. «Buon appetito, donna Sara», pare le abbia detto scherzosamente. Certo è che tra i due c’era una grande intesa. Memorabili in famiglia erano le lettere che si scambiavano quando lui era al fronte, l’intelligenza con la quale Sara lo consigliava e aiutava nei rapporti politici e in quelli di corte. Non ricordo che mi abbiano parlato molto di questo, però. Forse perché ero bambino (nonna Sara morì quando avevo sedici anni). O forse perché, essendo bambino, ricordavo solo le storielle che mi interessavano. Come quella, che mi dava molto gusto, della “pesca a corte”. Quando si mangiava alla tavola del re (Vittorio Emanuele iii), appena il sovrano aveva terminato il suo pasto nessuna forchetta, coltello, cucchiaio, bicchiere poteva agitarsi: tutti dovevano concludere, e posare il tovagliolo. Sara Diaz De Rosa stava mangiando una bella pesca, continuò a sbucciarla (con forchetta e coltello, naturalmente). Fulminata dagli occhi dei presenti, arrossì, fece cadere le posate nel piatto. Il re l’apostrofò sorridendo: «Continui pure, donna Sara, sarebbe un peccato lasciare una pesca così bella». Mia madre era molto legata ai suoi genitori, come del resto i suoi fratelli Marcello e Irene. Ci teneva a ricordare che quando Armando fu colpito dall’infarto che lo condusse rapidamente alla morte fu lei a correre alla ricerca del sacerdote che gli diede l’estrema unzione. E mia nonna ricordò quell’evento regalando alla figlia una fotografia di Armando Diaz, a mezzo busto e in grande uniforme, racchiusa in una vistosa cornice d’ebano e tartaruga, attraversata da una scritta vergata a mano dalla sua larga grafia: “Ad Anna che nel momento supremo procurò a Lui l’aiuto divino”. Napoli dalla mia finestra Quella fotografia era sempre in evidenza, nella camera da letto di Anna, in tutte le case che abbiamo abitato. Bella era la camera della mamma, nella casa di Napoli. Occupava uno dei due angoli della casa volti verso il mare: l’altra, all’estremo opposto, era la camera dei nonni. Grande, luminosa, sia per il damasco giallo alle pareti, sia per le tre ampie finestre sul golfo. La mia camera era quella accanto, e guardava sullo stesso panorama. Un panorama splendido, così lo ricordo. E vedere Napoli oggi, confrontata con quella della memoria, è cosa che ogni volta mi fa soffrire. Intendiamoci, ancor oggi esso è bellissimo. L’ampio specchio di mare, concluso a occidente dalla penisola sorrentina e dall’isola di Capri (entrambe azzurrine nelle ore più calde della lunga stagione del sole e dell’azzurro; verdebrune di campagna, solcate dalle stradine e disseminate dai bianchi granelli delle case lontane nelle ore in cui la visibilità XVII prologo è maggiore; grigie e confuse con le galoppanti nuvole nei giorni delle tempeste d’inverno), sovrastato dalla mole bonaria del Vesuvio (che ricordo con il pennacchio di fumo e, la notte, rosseggiante alla bocca per la lava eruttante), solcato dalle vele, dalle barche dei pescatori, dalle navi. La superficie delle acque cangiante nelle stagioni e nelle ore, scintillante e screziata di sole nelle numerose belle giornate, oppure cupa e agitata nel grigiore delle nuvole trascinate dal vento, oppure ancora pesante e immobile come una coltre azzurra sotto l’afa del solleone. Questo c’era allora, e c’è ancora. Forse un po’ più torbido, per l’inquinamento dell’aria offuscata e avvelenata dallo smog urbano. Quello che non c’è più è la verdeggiante collina di Posillipo, protesa sul mare, allora appena punteggiata dalle sagome di qualche villa e della Tomba di Schilizzi (il mausoleo virgiliano: una buffa costruzione grigia sormontata da una cupola). Quello che non c’è più è la campagna scoscesa di Villanova, la costa che collega Posillipo alla collina del Vomero, alle spalle della nostra casa. Alle rare costruzioni che nulla toglievano al carattere agreste di quelle parti della città (la grande villa Patrizi, la chiesetta di Sant’Antonio sopra Mergellina, gli sparsi e radi casolari, le ville signorili di Posillipo), alla campagna coltivata di vigne e ortaggi, si sono sovrapposte le orribili costruzioni realizzate negli anni Cinquanta e Sessanta dagli improvvidi distruttori del più bel paesaggio del mondo: pseudoville, condomini, palazzine, viali e vialetti, muri di sostegno e muri di suddivisione dominicale. Una squallida periferia progettata e realizzata con la medesima cultura rapace e cretina che ha costruito le periferie delle tristi città di pianura: lì, seppellendo sotto palazzi e casette le risaie abbandonate e i terreni divenuti incolti “in attesa di valorizzazione edilizia”; qui, dove la natura aveva sorriso per secoli, sommergendo ogni cosa sotto un succedersi di lottizzazioni di cui soltanto i nomi ricordano, con triste ironia, ciò che c’era prima: Parco Làmaro, Parco Comola, Parco Ottieri, si chiamano ancora quegli insediamenti parassiti. “Le mani sulla città” hanno distrutto per sempre il paesaggio della mia infanzia: lo hanno sepolto sotto una «repellente crosta di cemento e asfalto», per adoperare le parole di Antonio Cederna. Della sua bellezza rimane in me, fortissimo, solo il ricordo e, naturalmente, il rimpianto. La casa del Corso La casa del Corso era grande. Dal cortile posto a un capo del lotto si saliva una dozzina di gradini, e si entrava in un ampio androne coperto a botte. Varcata una porta sorvegliata dal cameriere, si accedeva a un grandissimo atrio che occupava un quarto dell’intera superficie della casa. In fondo, una grande scala a tenaglia con ringhiera di ferro battuto dorato e bronzeo portava al piano superiore. Il soffitto, sorretto da quattro grandi colonne scure, era tappezzato di blu. In fondo alla sala, al di là dello scalone, un bagno di marmo bianco e lo studio del nonno. L’atrio e lo XVIII prologo studio occupavano quasi tutta la parete verso monte; quella verso il mare era una fuga di saloni: la sala da pranzo, con l’immenso tavolo finto Rinascimento e grandi quadri con nature morte di fiori e frutta; il fumoir, con il classico caminetto finto e morbide poltrone in pelle; il “salottino veneziano” verde e oro; in fondo, il salone da ballo Luigi xiv, bianco e oro. Accanto alla sala da pranzo, il “riposto” con il grande armadio delle stoviglie e il montacarichi collegato alla cucina. Non sempre noi bambini (dopo di me, cadenzate di due anni, erano nate le mie sorelline Litta e Germana) mangiavamo in sala da pranzo, e raramente frequentavamo i saloni: salvo che a Natale, quando l’albero, circondato dai regali, troneggiava nel salone da ballo; oppure quando i genitori chiamavano qualcuno di noi a salutare gli ospiti, facendoci esibire nella canzone patriottica di turno. I luoghi a noi riservati erano al piano di sopra. A un estremo della casa c’erano le stanze dei miei genitori: la grande camera da letto di damasco giallo, la stanza da toilette (con gli armadi a muro in stile veneziano, la toilette della mamma, il sofà per le sedute di bellezza), il grande bagno, lo studio di mio padre. Al capo opposto, l’appartamento dei nonni e di zia Giannina. Al centro, in corrispondenza del vano della scala e del ballatoio che la fiancheggiava, le nostre stanze. Sul lato a monte della casa, il guardaroba, il nostro bagno, un cucinino. Ma ciò che soprattutto mi affascinava era lo scantinato dove c’erano le cucine. Una piccola scala, a fianco di quella principale, conduceva nel vasto dominio condiviso da nonna Carmela, dal cuoco Luigi Massaro e da Nannina, protetta e confidente della nonna. Mitico era don Luigi. Ogni volta che uscivo gli lanciavo uno sguardo e un saluto dalle finestre inferriate a filo di marciapiede. Piccolo di statura, asciutto, grigio di capelli, sovrastato dall’alto cappello immacolato, Luigi regnava, aiutato da uno sguattero, nella grande cucina: sull’immenso tavolo di marmo tagliava, batteva, impastava, scorticava, sventrava, disossava, farciva; nell’acquaio di marmo lavava le verdure, i pesci, le carni; finalmente, sui numerosi fuochi del lungo piano di cottura, alimentato dalla brace sempre rosseggiante, governava sulle pentole scoperchiando, mescolando, agitando, assaggiando, aggiungendo sapori e odori, spostando dal fuoco più vivo (là dove il piano di ghisa della cucina si apriva sulla brace) ai luoghi più lontani. Un maestoso mortaio di marmo, appoggiato al suo trespolo di legno massiccio, subiva i colpi del pesante pestello sbattuto dallo sguattero per preparare le scorte di pangrattato, oppure per pestare la carne di pollo con la quale, mischiata con una densa béchamel, venivano preparate a bagnomaria le chinelle di pollo, la mia pietanza preferita. Era un cuoco d’alto lignaggio, don Luigi. Era stato chef sui transatlantici, e dalle lontane terre oltre oceano aveva riportato un pappagallo di nome Loreto. Non abitava con noi. La sua casa, che divideva con la moglie e con Loreto, era sul Corso, più avanti, verso la fermata della ferrovia cumana. Ma spesso, prima di tornare a casa, si fermava nel cortile a fumare una sigaretta con il cameriere o con l’autista. Allora poteva essere interpellato, e declamava massime piene di saggezza. XIX prologo – Don Luigi, come finisce la guerra, chi vincerà? – gli chiesi in un’estate del luglio 1941. – Signuri’, tra i vinti non ci saranno i vincitori –. La Sibilla cumana non avrebbe potuto essere più abile. I coloni e Vicienzo Ucciero La cucina era alimentata dalle cantine, altro luogo essenziale dello scantinato. Occupavano la parte verso monte, sbarrate da pesanti cancelli, che nonna Carmela chiudeva con un gigantesco mazzo di chiavi sempre pendente dalla cintura. Non so bene cosa vi fosse riposto: ricordo solo le forme, grandi e piccole, di rossa, trasparente e tremolante cotognata, che profumava nei primi mesi dell’inverno, i formaggi, le bottiglie nelle rastrelliere, i mucchi di patate, i grandi barattoli dalla bocca tappata con la carta oleata e lo spago. E ricordo come le cantine venivano approvvigionate: due volte all’anno arrivavano, sui barrocci o a piedi col carretto (o con il mulo), i contadini che conducevano a colonìa parziaria le numerose proprietà del nonno: piccoli appezzamenti di fertile orto o frutteto nei paesi confinanti (Afragola, Casoria, Giugliano, Qualiano, Vico di Pantano), per l’uso dei quali i coloni pagavano un canone (l’estaglio) corrisposto parte in moneta e parte in natura. Varcata la porta di servizio le coppie di contadini si dividevano: l’uomo andava su, nello studio, dove don Achille Di Santo, ragioniere e contabile di nonno Eduardo, riempiva di minuta grafia un grande registro annotando la quantità di banconote rossicce che i coloni estraevano da logori portafogli e dai penetrali della biancheria, e i prodotti affluiti nelle cantine. Qui nonna Carmela e Nannina ricevevano le donne, e contavano e sistemavano le galline, i capponi e i tacchini collocandoli in una grande stia, i conigli (che venivano subito trasferiti alle competenze di don Luigi), i sacchi di fagioli, di grano e granturco, le pannocchie, le cassette di pomodori, melanzane, peperoni, carote, sedani, cavolfiori, trecce d’aglio, cotogne, mele annurche e renette. Un personaggio importante era Vicienzo Ucciero, mezzadro di Vico di Pantano (l’odierna Villa Literno). A Vico di Pantano c’era la più grande delle nostre proprietà: due o trecento ettari di palude, tra il Volturno e il lago Patria. Luogo di grandi battute di caccia (ricordo le fotografie in cui massicci signori baffuti, con lunghi schioppi, esibivano colline di uccelli e sorreggevano ghirlande di anatre e altri pennuti), e di bufale. Vicienzo era il bufalaro. Sempre con la febbre terzana, amministrava bufale, mucche e qualche moggio (tre moggi sono un ettaro) di campagna coltivata a fagioli e ortaggi. Aveva anche una grande fossa circolare nella quale si buttava il mangiare per i conigli, carote e altre prelibatezze: quando poi era necessario, si abbassavano le piccole saracinesche che chiudevano le gallerie d’accesso, e si prelevava dalla fossa il coniglio da cucinare, o la coppia da dare alla Signora (mia nonna). XX prologo Non tutte le derrate venivano conservate a lungo. Una parte si trasformava in conserve, altre venivano consumate (subito o previa frollatura), oppure veleggiavano verso altri lidi. Avevano diritto a due capponi o a una dozzina di polli, a mezzo sacco di fagioli o a un paio di conigli, a un tacchino o a un canestro di mozzarelle di bufala tutte le persone che durante l’anno avevano collaborato con la Casa: i medici e il pediatra Franzì, il dentista D’Ambrosio e le sarte Buonanno, la maestra privata Martini e la manicure della mamma, l’infermiera che veniva a fare le iniezioni e la signora Crisafo che m’insegnava il francese, le sorelle La Morte che venivano tutte le settimane a rammendare e sistemare i vestiti, e la stiratrice. Quantità più sostanziose di prodotti venivano consegnate alle Piccole suore dei poveri, ai beneficati del parroco della chiesa dell’Arco Mirelli, alle Dame di San Vincenzo dei Paoli. La famiglia Salzano di Casoria Era una famiglia benefica, ed era una famiglia ricca. Come lo era diventata? Il luogo d’origine dei Salzano era Casoria, un grosso borgo agricolo, dagli anni Cinquanta inglobato nella periferia di Napoli, subito al di là dell’aeroporto di Capodichino (una parte del quale fu costruito su terreni Salzano, indennizzati dopo decenni di vertenze). Famiglia di origine contadina fino a inizio Ottocento, era diventata poi di mercanti o artigiani, secondo i racconti di zia Giannina produttori e mercanti di vino. Borghesia laboriosa di campagna, ma già aperta a interessi urbani: i fratelli Eduardo e Mattia, i prodotti migliori di una covata di sette tra fratelli e sorelle, furono mandati alla celebrata scuola napoletana dei Padri Barnabiti. Abitavano in un dignitoso palazzo, costruito da un Mauro Salzano attorno alla prima metà dell’800 nella strada principale. Senza abbandonare le radici paesane (il palazzo rimase di loro proprietà fin dopo la seconda guerra mondiale) all’inizio del nuovo secolo si trasferirono a Napoli, in un palazzo costruito da un Salzano (Mauro o Eduardo) in via San Domenico Soriano, vicino a piazza Dante. Mio padre e sua sorella Sisina, rispettivamente del 1902 e 1903, nacquero a Casoria; zia Giannina fu la prima a nascere a Napoli, nel 1907. L’artefice della fortuna di famiglia fu, all’inizio del secolo, il mitico zio Mattia, fratello di Eduardo: ingegnere, abile imprenditore, in società con tale Gaetanino D’Aniello (di una benestante famiglia di Villaricca, altro borgo della campagna napoletana) mise su un’impresa di costruzioni specializzata in lavori di bonifiche e di grandi infrastrutture, nel Napoletano e nel Foggiano. Mattia morì di febbre spagnola nel 1918. Da allora, dell’impresa di famiglia dovette occuparsi Eduardo, mio nonno. Mio nonno però non era tagliato per gli affari. Laureato in medicina, esercitava la professione di chirurgo all’Ospedale dei Pellegrini (una qualificata istituzione di beneficenza della nobiltà napoletana), dove divenne assistente del famoso chirurgo XXI prologo Caccioppoli, fratello del grande matematico Renato. Ma la chirurgia era un’attività sociale e benefica: il reddito, e la principale occupazione, erano le terre e l’impresa. In vacanza, Eduardo portava la famiglia a Capri, isola frequentata dalla famiglia Salzano fin da prima della guerra ’14-’18. Alloggiavano all’Hotel Quisisana. La famiglia Diaz invece – anche Armando era innamoratissimo di Capri – affittava sull’isola una villa. Fu a Capri che le due famiglie si conobbero: le bambine Giannina, Sisina, Irene e Anna esploravano le campagne e le marine dell’isola, allora frequentata solo da pochi turisti, come Turgeniev e Gorki, e dai soci dei circoli nautici che si spingevano fin lì nelle gite con il cutter. Più raramente, i Salzano villeggiavano in montagna, soprattutto a Cortina d’Ampezzo, dove diventarono amici di Alberto Pincherle, poi noto come Moravia. Le leggende familiari lo raccontano in flirt con zia Giannina. Non ricordo molto di nonno Salzano. La sua presenza gioviale e vociante, il suo affetto ruvido ed espansivo, i suoi munifici regali e il suo spiccato accento napoletano (dal quale la mamma mi teneva lontano, per evitare che inflessioni poco eleganti inquinassero il mio eloquio in formazione) mi accompagnarono solo fino ai cinque anni. Nel 1935 un colpo apoplettico lo portò via all’improvviso. Non ricordo i suoi funerali: forse i bambini non vi erano ammessi. Furono certo grandiosi. Dovette accompagnarlo una vastissima corte di persone dei ceti più diversi, legate al suo ricordo (e ai suoi redditi) dalla sua trasbordante generosità. La sua morte concluse una fase della vita della famiglia e ne aprì un’altra, posta sotto un diverso segno: non il corno ridondante dell’abbondanza e del fasto, del lusso e della generosità scialona, ma la bilancia della parsimonia, la severità dignitosa di un benessere difeso con accortezza e, quando le vicende della Storia lo richiesero, con sacrifici e rinunzie. Fino alla morte di nonno Eduardo, suo figlio Mauro – mio padre – non aveva mai lavorato. Il nonno l’aveva tenuto lontano dagli affari. Laureato in giurisprudenza, Maurino aveva ottenuto la libera docenza grazie ad alcuni studi, pubblicati dall’editore Loffredo, sul “negozio giuridico” e sulla “pubblica amministrazione.” Il suo ruolo nella vita mondana si era consolidato con il matrimonio con Anna Diaz, figlia del duca della Vittoria e legata alla famiglia reale. Fascista come lo erano rapidamente diventati quelli della sua generazione e della sua classe, apparteneva a quella cerchia di persone che, senza esercitare direttamente potere, né politico né economico, contribuiva però a formare l’immagine, la prima fascia del consenso, l’opinione, la cultura, le parole del regime. A formare una certa fronda, anche. L’aristocrazia napoletana gravitava infatti attorno alla corte di Umberto di Savoia e di Maria José, vicina all’ala intellettuale dei Ciano e dei Bottai. Il confine tra mondanità e impegno sociale era labile, seppure esisteva. Non so se contassero di più per Mauro la sua carica di presidente dell’Opera nazionale balilla di Napoli oppure il suo carisma di spadaccino, di velista, di dirigente di mitici circoli nautici, di ballerino nelle feste che, con la mamma, organizzava nella casa XXII prologo del Corso o a villa Diaz. Mammà era sempre al centro: spiritosa, brillante, elegante, era davvero “molto chic”. Aveva dei bellissimi capelli castani con sfumature rosse, che ravvivava con l’henné. Amica fin da bambina dei Salzano, ne temeva, come ho detto, il dialetto e non amava che, quando andavo a salutare nonna Carmela, lei mi prendesse nel letto. Formavano una coppia molto bella, i miei genitori e avevano moltissimi amici: Gino e Didina Santasilia (che abitavano in uno splendido palazzo in piazza dei Martiri), la baronne Anna Ricciardi, Gigione (che mi cantava “O capitan, c’è un uomo in mezzo al mare”), i più anziani Marcello Orilia (arbiter elegantiarum: ordinava le camicie a dozzine a Londra, dove andava ogni anno per rinnovare il guardaroba), Ettore Ricciardi, i baroni di feudi calabresi Baracco e Compagna, e tanti altri che costituivano la crema dell’aristocrazia napoletana. Il salotto di casa del Corso era molto frequentato, ma le feste più belle venivano organizzate d’estate, a villa Diaz, sul Vomero. Villa Diaz Un grande edificio bianco, immerso nel verde di un grande giardino che, limitato da una lunga balaustra bianca, si apriva sul golfo di Napoli. Questa era la villa che la città di Napoli aveva donato al “generalissimo” per le sue vacanze, dopo averne decretato il trionfo. (Per il vero, avevano deciso di regalargli una villa a Posillipo, ma lui ne aveva preferito una al Vomero). Era alle spalle della casa del Corso, a soli cento metri a monte; probabilmente faceva parte in origine del complesso neoclassico della grande e famosa villa Floridiana. Quando, d’estate, ci trasferivamo lassù (con i genitori, le sorelline, le governanti), scendevo, appena grandicello, attraverso gli orti, i sentieri, le scalette e in dieci minuti ero al Corso. Ricordo ancora il sapore dei pomodori colti al volo: un sapore scomparso, mai più ritrovato, cancellato dall’omologazione delle colture artificiosamente allontanate dalla natura, dalla stagione e dal sito, tramite il massiccio impiego della chimica e dei teli di plastica. Grandi feste si svolgevano a villa Diaz, d’estate, coronate da un finale di fuochi d’artificio. Ricordo le signore che, accompagnate dalla mamma, venivano a vederci nei nostri lettini, prima che ci addormentassimo. Erano feste alle quali partecipavano il principe ereditario Umberto di Savoia e Maria José, la sua alta moglie dagli occhi cerulei. Per me villa Diaz significava soprattutto il grande giardino e i giochi estivi. Pochi erano i miei amici, rare le loro visite. Ma mi divertivo molto a giocare con la terra dei vialetti e l’acqua che facevo colare dai rubinetti per l’irrigazione, costruendo col fango argini e canali. Mi arrampicavo sui lecci dai tronchi rugosi, su cui costruivo rifugi segreti in attesa della merenda o della passeggiata. XXIII prologo E mi divertivo – ma ero più piccolo – con il capitano Gamboni Mazzitelli. Così si chiamava l’inquilino dell’ultimo piano della villa, affittuario di zia Irene, sorella di mia madre (a quest’ultima era toccato il piano di mezzo, a zio Marcello, il terzo dei figli Diaz, il piano rialzato e lo scantinato). Capitano di lungo corso in pensione, molto vecchio (aveva probabilmente l’età che ho adesso io), era abilissimo con gli attrezzi di falegname. Mi aveva costruito una daga e uno scudo, accuratamente verniciati, e altri armi per guerreggiare. Ricordo che una volta, mentre duellavamo, si ferì a una mano e perse (così mi sembrò) molto sangue. Quando nonno Eduardo morì (nel 1935) mio padre scoprì che tutto era andato a rotoli. La crisi del 1929 aveva picchiato duro, e nonno Eduardo aveva cercato di nascondere e di aggiustare la realtà: l’indebitamento era molto consistente. Papà e nonna Carmela chiesero consigli autorevoli. Fu consultato anche Raffaele Mattioli, il famoso banchiere e mecenate, fondatore della Banca Commerciale, ma anche dei Classici della letteratura italiana delle edizioni Ricciardi. Mattioli consigliò di dichiarara fallimento, per tentare di salvare qualcosa. Maurino non volle. Gli sarebbe sembrato di tradire la memoria del padre, di svergognarlo dopo morto. S’incaponì. Fece ogni sforzo per tacitare i debitori, vendendo quello che poteva e riprendendo l’attività dell’impresa. In poche settimane i suoi capelli, da neri quali erano, diventarono grigi. Non aveva ancora quarant’anni. Le mie educatrici Ero un bambino molto “perbene”: si occuparono di me una bambinaia di Olevano Romano – balia Nunziata – quando ero piccolo; una governante tedesca – schwester Maria Simon – dopo i cinque anni; una signora ginevrina, madame Crisafo (sposata a un cuoco italiano) mi veniva a prendere il mercoledì pomeriggio e mi portava a spasso insegnandomi il francese. Frère Jaques e i libri di Madame de Ségur, i libri della Scala d’oro, Struwelpeter (così si chiamava in tedesco Pierino il porcospino), le favole di Grimm, Perrault e La Fontaine e le canzoncine dei bambini tedeschi (mi commuoveva soprattutto Roselein rot, un leed di Schiller e Schubert) sono stati i primi alimenti della mia cultura letteraria plurilingue. La mamma era vicina (dormivo nella stanza accanto alla sua), ma lontanissima. La mattina potevamo andare a salutarla, nel suo grande letto di damasco giallo, solo quando eravamo chiamati dal suo campanello. La sera, veniva lei a salutarci di ritorno dai salotti che con papà frequentava. Buono e dolce era il suo profumo odoroso di mughetto, Arpége di Lanvin; gradevole e pungente l’odore dello smalto con cui curava le unghie, sdraiata sul canapè della toilette. La severità di schwester Maria era un prolungamento della sua, ma in lei c’era una morbida dolcezza, concessa con prudenza e ironia. Con troppa parsimonia rispetto al mio bisogno, come capii più tardi. Papà era più distante; probabilmente, anche più occupato. Era accanto alla XXIV prologo mamma, ma in secondo piano. Mi sarebbe piaciuto seguirlo quando faceva (non so in che modo) il comandante dei Balilla: ragazzi appena più grandi di me, che raramente intravedevo. Mi sarebbe piaciuto salire a bordo della sua favolosa barca a vela, la Silphea ii, un cutter col fasciame di mogano di cui potevo solo ammirare il modellino (fu venduta dopo la crisi). Ma fino ai cinque anni ero troppo piccolo per queste cose. E, dopo di allora, la crisi doveva aver cambiato le abitudini: benché noi bambini non ce ne fossimo accorti, la vita era diventata più seria, meno giocosa. Dalle parole di balia Nunziata cominciai a conoscere l’Amore: compariva nelle canzonette che canterellava quando mi accompagnava ai giardini (“Parlami d’amore, Mariù, tutta la mia vita sei tu...”), nelle chiacchiere con le altre bambinaie, negli scherzi che faceva con noi. Non avevo ancora cinque anni quando mi innamorai di Giovanna Pignatelli, che ne aveva tre, andava ancora in carrozzina e aveva dei lunghi boccoli biondi. Avevo sette, otto anni quando, un pomeriggio d’estate, mentre scendevo la lunga gradinata che dal Vomero conduce al corso Vittorio Emanuele, ebbi una improvvisa illuminazione: pensai che l’Amore era il pensiero centrale di tutti, uomini e donne. Perché mi balenò così intensamente questo pensiero? Non riesco a ricordare. Ma ricordo che mi colpì con l’evidenza di un profumo intenso e indiscutibile: ebbi la sensazione di aver raggiunto una verità che fino ad allora non avevo colto. Giochi Giocavo molto da solo: credo che capitasse spesso ai bambini “perbene”, che non fossero forniti di una banda di fratelli. Le sorelline erano piccole ed erano femmine: due buone ragioni per condurre vite completamente diverse. Ricordo, da piccolissimo, un gioco amato, una grande cucina per bambini, con le provviste vere – lenticchie, pastina – portate da don Luigi, forse premio di consolazione dopo qualche malattia. Ricordo una sciabola di latta e un cappello da bersagliere sotto l’albero di Natale del 1934 e una bellissima bicicletta rossa, dono di zio Marcello, alla Pasqua dell’anno successivo. Ricordo infine una macchinetta che, mossa da uno stantuffo premuto dal pollice, emetteva tutte le scintille che una pietra focaia può produrre, e riusciva a illuminare gli angoli bui della stanza. Era simpatico Marcello Diaz, duca della Vittoria per eredità; un avventuroso, un pilota, volontario nella guerra d’Abissinia, dove il suo aereo fu abbattuto, e nella guerra di Spagna (su una carta geografica io registravo, con bandierine patriottiche, le città conquistate dalle camicie nere). Si era fatto dare una concessione in Somalia, a Derna, dove coltivava banane. Arrivava sempre pieno di regali generosi e strani. Era quello che mi trattava più da grande, sia pure sfottendomi bonariamente. La domenica, zia Giannina mi portava a catechismo, dalle suore del Sacro XXV prologo Cuore, in piazza Amedeo. Tornando a casa mi comprava il «Corriere dei Piccoli», che leggevo avidamente. Erano buffe le suore, avvoltolate nei veli neri, con le dita fredde che sporgevano dai mezzi guanti. Era buono il caffellatte nelle grandi scodelle bianche, e il pane e cioccolata che ci davano dopo la comunione. I primi anni ho studiato a casa. Ogni mattina veniva la signora Martini: una volta alla settimana controllava e correggeva i compiti, firmando le pagine con la matita rossa o con quella blu. Al colore della firma corrispondeva l’entità del premio che mi dava il nonno: due lire per la firma rossa, cinque lire per la firma blu. Quando avevo finito di studiare mi era permesso di andare ai giardinetti, al di là della strada. Erano giardinetti privati, per gli ospiti dei due vicini alberghi, il Britannique e il Parker. Il giardinetto del Parker fu in definitiva il mio primo esperimento di socializzazione; guardie e ladri, nasconderella, e cerimonie rituali di impiccagione e squartamento delle bambole delle bambine erano i giochi consueti. A rivedere oggi quel giardinetto (poco più di un’aiuola, qualche albero e radi cespugli) sembra incredibile che per noi potesse essere un’arena così vasta. Quello che c’era fuori di casa e del suo cortiletto, del giardinetto del Parker, delle passeggiate controllate e protette dalla balia, dalla schwester o da madame Crisafo, era sconosciuto e rischioso. Anche affascinante, a volte: peccato che i bambini come me non potessero attaccarsi al paraurti posteriore dei tram sferraglianti, e neppure far arrabbiare il conducente mettendo i fulminanti tra ruota e rotaia oppure, addirittura, staccando il trolley e provocando l’arresto del tram. Neppure il carruoccio era permesso: quel carretto costruito con un rozzo pianale di legno, quattro cuscinetti a sfera come ruote (le due davanti montate su un asse incernierato al pianale e comandato da una funicella a mo’ di timone), con il quale i monelli si lanciavano in spericolate corse lungo le discese, tra i carri e le automobili. D’estate, ci portavano al mare. Ricordo il viaggio verso Lucrino, una grande spiaggia pulitissima e deserta, subito al di là della collina di Cuma. Percorrevamo a piedi un pezzo del corso, fermandoci alla drogheria Stinca a comprare le caramelle, e raggiungevamo, subito dopo la casa di Luigi Massaro, la stazione della Ferrovia cumana. Era divertente guardare dal finestrino il paesaggio prima urbano poi, dopo Pozzuoli, aperto sulla baia. Come tutti i bambini, raccoglievamo conchiglie, facevamo i castelli di sabbia, prendevamo il bagno nelle ore stabilite e ci facevamo asciugare con grandi lenzuoli di spugna. Più tardi, su quella spiaggia fecero arrivare la grande cloaca che portava i liquami delle fogne napoletane. Qualche volta andavamo a villa Pavoncelli, a Posillipo: un luogo dove sarei tornato spesso da adulto. Era una villa di amici. Una serie di scalette e corridoi umidi ci portava giù, alla spiaggetta contenuta tra il muro di sostegno della villa e una breve scogliera, nei cui anfratti, mormoravano, si celavano grandi ranci felloni (i granchi pori). Lì, schwester Maria mi insegnava a nuotare, con teutonica regolarità. Indossava un costume olimpionico nero. Al polso conservava l’orologio. All’ora XXVI prologo stabilita scendevamo in acqua, nuotavamo con lente bracciate per un numero esatto di minuti, poi tornavamo indietro. Noi bambini stavamo in un angolo della spiaggia. Altrove, sulla sabbia e sulla scogliera, chiacchieravano e giocavano i grandi, salutavano festosi gli amici che arrivavano a nuoto provenienti dalla barca a vela giunta dal Circolo, si cimentavano in grandi gare di palla a nuoto, nelle quali, come al solito, mia madre eccelleva. Altre volte, ormai più grandicello, mammà mi portava a villa D’Avalos. Lì non c’era spiaggia: una banchina di cemento, e scogli. Meno bambini, più giovanotti e ragazze. I D’Avalos erano una famiglia colta, grandi appassionati di musica. Francesco, mio coetaneo, diventò più tardi un famoso direttore d’orchestra e compositore. Ammiravo molto questo ragazzo che sapeva riconoscere autori e stili diversi, valutare cantanti, parlare di opere e di sinfonie con i grandi. Dalla terza elementare cominciai a frequentare una scuola. Si trattava del Pontano, la celebre scuola privata dei Gesuiti dalla facciata adorna dei busti degli allievi divenuti famosi, alla quale tornai più tardi, dopo la guerra, per il liceo. Due classi le feci alla Ravaschieri, una scuola pubblica. Non ho conservato molto di quelle esperienze. Frequentavo solo bambini come me, con i quali mi vedevo fuori, ma seguendo complicati rituali: non ci s’incontrava mai casualmente, bisognava che ci fosse un invito trasmesso dall’alto, dalle governanti o, addirittura, dai genitori. Per la prima media andai all’Umberto i, una scuola grande e affollata. Non feci grandi amicizie. Ricordo il contadino che, fuori dal cancello della scuola, vendeva fichi d’India con l’affollato gioco della appizzata: bisognava appizzare un fico con un coltellino spuntato, lasciato cadere dall’alto nella cesta. Costava un soldo l’appizzata “semplice”, quattro soldi quella “continuata”: con la “continuata”, praticata dai più esperti, potevi portar via tutti i fichi che riuscivi a centrare, fino al primo errore. Non ho mai giocato neppure la “semplice”. Il monumento a nonno Armando Prolungando verso il mare la linea ideale che congiunge villa Diaz, al Vomero, con casa Salzano, al Corso, si tocca un terzo punto in via Caracciolo. Lì c’è il monumento ad Armando Diaz: una statua equestre posta su di un alto parallelepipedo di marmo bianco, su cui è scolpito in grandi caratteri il Bollettino della Vittoria, firmato “Armando Diaz, Duca della Vittoria”. Mi portarono con nonna a vedere la fonderia, verso Poggioreale, nella quale si stava realizzando la grande statua: fuoco, fumo e odor di ferro fuso riempiono ancora le narici della mia memoria. L’inaugurazione fu una grande cerimonia. In una fotografia rivedo nonna Sara e mammà, con tailleur e cappellini con la veletta nera, zia Giannina con velo nero in lutto di nonno Eduardo, e me stesso (avevo sei anni), con eleganti pantaloncini dalla XXVII prologo piega ben stirata, camicia col collo tondo, gilet grigio e giacchetta sul braccio: doveva far caldo, quella mattina, in via Caracciolo. Signori in orbace e fez e militari in alta uniforme ci circondavano, e i balilla formavano il picchetto d’onore. Anche a me fu imposta l’uniforme, più tardi. La divisa di figlio della lupa la misi solo per casa. Ma quando frequentai le medie, all’Umberto i, era obbligatorio indossare il sabato la divisa di balilla e andare alle adunate. Ricordo la scomodità delle doppie calze (i calzettoni lunghi, grigioverdi, senza piede e con la stringa sotto, e i calzini neri arrotolati, che scendevano sempre nelle scarpe) e della larga fascia elastica che sostituiva la cintura (e lasciava sfuggire sempre l’orlo dei pantaloni), la noia delle lunghe attese delle esercitazioni nei piazzali assolati e polverosi. Fui anche, per un certo periodo, “marinaretto”, ma la cosa non era molto diversa, solo la divisa era più realistica e rinviava a un mestiere vero. Selva di Val Gardena Meta di vacanze era anche Selva di Val Gardena. Ricordo l’aria pulita, lo scroscio dei torrentelli, l’intenso profumo delle assi di abete sopra le quali giocavamo, le belle passeggiate sulle vicine montagne, le fragole e le stelle alpine che raccoglievamo. Mammà era bravissima, la chiamavamo “occhio di lince”, scorgeva fragoline saporitissime dove vedevamo solo distese di foglie, e stelle alpine lontane decine di metri. Andavamo in treno, e dovevamo essere una bella comitiva: mammà, la sua cameriera, noi tre, la bambinaia. Una volta il nostro treno fu fermato in una stazione sulla linea del Brennero: passava il treno speciale con il quale Mussolini andava a Monaco per incontrare Hitler. A Monaco fu stipulato il patto con il quale gli anglofrancesi lasciavano mano libera a Hitler di rivolgere le sue truppe verso l’Oriente bolscevico. Eravamo alla vigilia della seconda guerra mondiale: una guerra nella quale non ci sarebbe stato nessun nonno Armando a renderci vittoriosi. Accanto alla guerra Avevamo le serrande avvolgibili di legno, nella casa del Corso. Il sole entrava a strisce, faceva strani disegni sulle pareti e i mobili. Una porta filtrante la luce, da fuori a dentro. Da dentro a fuori filtrava i miei sguardi, il mio cercare il mondo. Anche comunicare con il mondo, nella mia fantasia. Come nel giugno del 1940, quando sentimmo alla radio che l’Italia era entrata in guerra. Il discorso del duce, dal balcone di piazza Venezia, le parole bellicose ed entusiasmanti, le ovazioni del popolo. Mi sentivo riempito anch’io di sacro furore. Ritagliai in piccole striscioline un foglio di carta, su ciascuna scrissi “viva la guerra”, le ripiegai e mi accingevo a gettarle per strada, tra le stecche della persiana, per comunicare al mondo la mia partecipazione. XXVIII prologo Mi sorprese zia Giannina, mi fulminò con lo sguardo gelido e mi spiegò che non si inneggia mai alla guerra. Nelle sue parole si esprimeva la cultura cattolica. Nonostante la sostanziale partecipazione al fascismo della mia famiglia, nonostante gli ascendenti militari, la guerra non entusiasmò nessuno. Certo, le vicende sui diversi fronti erano seguite giorno per giorno: si ascoltava religiosamente il quotidiano bollettino di guerra alla radio, all’una. Un’atmosfera di attesa, di sospensione, più che di tifo. Forse la famiglia aveva già cominciato la revisione critica del fascismo. Un episodio che dovette aiutare, in questa direzione, fu certamente la partenza di Maria Simon. La mia schwester era ebrea. Quando il Führer venne in Italia, nel 1938, papà fu avvertito dalla questura che, se non avessimo provveduto ad allontanare schwester Maria, essa sarebbe stata messa in camera di sicurezza insieme a tutti gli altri ebrei stranieri. Non serviva che Maria avesse un genitore ariano, che fosse cristiana protestante. La soluzione infine concordata fu di mandarla per qualche giorno a Foggia, dove papà aveva una casa. Qualcosa mi turbò, di questo episodio, più di quanto mi entusiasmassero le scenografie di cartapesta, le gigantesche bandiere, i fasci e le svastiche eretti lungo il percorso che Hitler e Mussolini avrebbero compiuto salutando, dall’automobile scoperta, la folla inneggiante. All’inizio della guerra papà fu richiamato alle armi. Non aveva fatto il servizio militare, così cominciò dalla gavetta, soldato semplice. Stava alla caserma di fanteria al Corso, verso Mergellina. Sul muro verso la strada c’era una grande scritta: “Fu il Fante il seme e la Vittoria il fiore”. Dopo l’addestramento, da sottotenente e poi tenente, andò in Grecia e in Jugoslavia: ricordo una cartolina di saluti da Mostar, con l’immagine del famoso ponte (cinquant’anni dopo distrutto dalla guerra dei serbi). Cominciarono i bombardamenti. Prima sporadicamente, poi tutte le notti. Era diventato un rito: andando a letto ci si preparava sulla sedia il maglione, le calze, il cappotto che avremmo indossato appena suonata la sirena d’allarme. Nei primi tempi, si scendeva in una stanza appositamente allestita in cantina. Travi di legno puntellavano pareti e soffitto, e sacchi di sabbia avrebbero dovuto riparare dalle schegge. Tutti i vetri di casa erano accuratamente protetti con larghe strisce di carta gommata, per impedire che gli spostamenti d’aria delle esplosioni li frantumassero, minacciando l’incolumità dei passanti. La nonna, Nannina e zia Giannina recitavano il rosario, gli uomini, negli intervalli tra un bombardamento e l’altro, andavano in strada per fumare una sigaretta e guardare le sventagliate dei riflettori, i fuochi degli incendi provocati dalle bombe cadute, le ultime raffiche dell’antiaerea. Ma dopo un po’ di tempo, si capì che, se una bomba fosse caduta sulla nostra casa, il rifugio non avrebbe costituito riparo sufficiente. Al di là di via Tasso c’erano (e ci sono ancora) gli alberghi Britannique e Parker, appartenenti alla stessa famiglia. Attraverso le cucine e i magazzini, dai due alberghi si raggiungevano immense caverne scavate nella montagna di tufo che si alzava verso il Vomero. In quelle caverne erano stati organizzati dei giganteschi rifugi, ben più sicuri della nostra fragile cantina. Furono presi i necessari accordi. XXIX prologo Diventammo frequentatori abituali del rifugio del Britannique. Là c’erano bambini, si poteva girare e giocare. Quando si prevedeva che i bombardamenti durassero a lungo la nonna e noi bambini dormivamo in albergo, pronti a scendere al primo allarme. La mattina dopo i bombardamenti, la città era piena di novità. Non erano novità i fari oscurati delle automobili, né i piccoli bunker costruiti all’entrata dei rifugi: queste erano diventate immagini abituali, come le grandi strisce di carta incollate sulle lastre delle vetrine e sulle finestre. La vera novità erano le schegge: le tracce che avevano lasciato i bombardamenti della notte, e di cui noi ragazzi facevamo incetta ogni mattina per arricchire le nostre collezioni. Schegge piccole e grandi, d’alluminio, di rame e di leghe sconosciute, proiettili dell’antiaerea e spolette dei razzi traccianti, pezzi dalla cui curvatura si poteva comprendere se provenivano dall’esplosione di una bomba grossa o di una di pochi chilogrammi. Privilegiati nella raccolta di schegge erano gli scugnizzi, che si svegliavano presto la mattina e avevano la strada come loro residenza abituale, e i bambini che, come me, disponevano di una grande terrazza privata, luogo di raccolta riservato. Era una strana emozione uscire la mattina e trovare questi strani pezzi di metallo, dalle forme foggiate dall’esplosione. Era forse il primo anno di guerra quando andammo in vacanza a Fiuggi. Forse perché era un luogo più vicino a casa e più distante dagli insicuri confini, rispetto alla consueta Val Gardena. Tornammo a Napoli. La guerra non accennava a concludersi. Si continuava ad andare a scuola, a raccogliere le schegge, a passare le notti al rifugio del Britannique. L’anno dopo andammo in villeggiatura a Sorrento. Di lì, la notte, si vedevano i bombardamenti in lontananza: sembravano fuochi d’artificio, accompagnati da un cupo rombo. La guerra era diventata la cornice permanente della nostra vita. Sfollati a Roccaraso Quando i bombardamenti si fecero più intensi, un certo numero di famiglie, compresa la nostra, prese la difficile decisione di “sfollare”: si radunarono armi e bagagli e ci si trasferì a Roccaraso, un paesino dell’Abruzzo dove qualche volta avevamo trascorso le vacanze di Natale. I marchesi Santasilia con i loro bambini, il barone Enzo Strongoli e la bella moglie, i principi D’Avalos, i nostri cugini marchesi Carignani: tutti ci trasferimmo tra le montagne. Ogni cosa i miei portarono con sè: bauli e bauli contenenti tutta la biancheria personale e di casa, i vestiti e le pellicce, i gioielli e le scarpe, le casse contenenti i 150 chili d’argenteria di famiglia, i libri e i ricordi preziosi, come una copia del «Bollettino della vittoria» vergata dalla mano di nonno Armando. Tutto si cercò di salvare dai bombardamenti: gli oggetti ci seguirono in Abruzzo, i mobili, i quadri e i tappeti furono depositati in una villa di amici a Ottaviano (un paesone tra Napoli e Nola). XXX prologo La nostra vita cambiò radicalmente. Non in peggio. Alloggiavamo in un appartamento costruito sulla rocca che dominava il paese (e che gli dava il nome: rocca di raso, si poteva pensare, e i prati erbosi che circondavano il paese giustificavano il toponimo; solo più tardi lo lessi come una premonizione: rocca rasata, come la storia volle). Sotto di noi abitavano i Santasilia. Una grande stufa Becchi di terracotta riscaldava confortevolmente la casa. Si giocava più di quanto si studiasse; lo studio, del resto, era affidato prevalentemente alla buona volontà del parroco, il quale disponeva anche d’una bibliotechina circolare alla quale attingevamo i libri di Fantomas e polizieschi per ragazzi. Fino ad allora le mie letture si erano limitate alla traduzione per bambini delle grandi storie della letteratura romantica nella collana della Scala d’Oro e all’amato Emilio Salgari (Jules Verne, di cui ricordo una splendida edizione di Le pays des fourrures, illustrata con incisioni d’autore, mi piaceva molto meno). Nel paio d’anni che trascorremmo a Roccaraso le mie amicizie cambiarono. Nel primo periodo passavo le giornate soprattutto con i bambini del paese, i roccolani. La cosa che più mi entusiasmava erano le “gite” in montagna. Si partiva la mattina presto, con una pentola o una padella trafugata in casa, una mezza bottiglia d’olio, un pacco di pasta. Per strada si scavava in un campo qualche patata. Arrivati sulle brulle montagne a pochi chilometri dal paese completavamo la costruzione di una “casola”, iniziata magari durante la gita precedente: un ricovero rozzamente tirato su con muri a secco, e coperto da rami di pino. Si cucinava, si mangiava, i più abili davano la caccia agli scoiattoli con le fionde (fatte con una forcella di legno e due strisce di camera d’aria legate da una toppa di pelle), o addirittura con le frombole, nelle quali il sasso, adagiato nella sede di corda e pelle, veniva scagliato dalla forza della rotazione del braccio. In questo, come negli altri giochi d’abilità e di forza, non solo non eccellevo ma neppure mi cimentavo volentieri. E invidiavo la capacità dei miei amici paesani di giocare a ‘mmazza e piuze, con un bastone lungo che percuoteva, lanciandolo lontano con mira precisa, un bastoncello più corto, rastremato alle due estremità, dopo averlo sollevato da terra con un appropriato colpo su una delle punte. Invidiavo la loro bravura nel precipitarsi giù sui campi di neve, avendo ai piedi due tavole di legno grezzamente foggiate, o due doghe di botte, e scendere più veloci degli sciatori di città calzati con sci di marca accuratamente trattati con la sciolina. Naturalmente anch’io sciavo, ma senza fare grandi prodezze. All’apice della mia carriera di sciatore arrivai a fare dei buoni spazzaneve e qualche assaggio di “christiania”. Naturalmente i miei genitori erano bravissimi, specialmente mammà. Con una slitta trainata da cavalli salivamo alla Piana dell’Aremogna: noi bambini facevamo campetti e i grandi lunghe passeggiate di fondo, ai piedi le pelli di foca (che qualche volta anch’io adoperai, con notevole fatica e impaccio). Altre gite le facevamo in primavera e in autunno: a un certo punto veniva stesa una grande tovaglia, sulla quale comparivano grandi frittate di maccheroni. Una meta tipica delle gite erano le pendici del Monte Tocco, dove prima delle feste di Natale si andava a raccogliere il vischio abbarbicato alle vecchie querce. XXXI prologo A volte raggiungevamo Pietransieri, un paesino poverissimo, dove la vita scorreva cento anni più antica che a Roccaraso, stazione turistica distante pochi chilometri. Pastori, contadini e taglialegna erano i mestieri degli uomini di questo paese, dove ancora si vuotavano i pitali per strada, all’ora serale annunciata dal banditore. Cade il fascismo, arrivano le SS Nel luglio del ‘43 cadde il fascismo. Mussolini fu chiamato da Vittorio Emanuele III, arrestato e portato via con un’ambulanza, verso il domicilio coatto dell’Albergo Campo Imperatore, sul Gran Sasso. In tutto il Paese furono abbattuti i simboli della dittatura: i fasci, gli emblemi del Duce. All’inizio, anche a Roccaraso fu una gran festa. Tutti quelli che avevano ascoltato Radio Londra clandestinamente, con le radioline a galena, uscirono allo scoperto trionfanti, prendendo in mano la situazione. Si discuteva di politica. Espressioni inusitate (come Partito d’Azione, socialisti e comunisti, Comitato di liberazione nazionale) entrarono nel nostro linguaggio. Nel frattempo, sulle montagne e sugli altipiani era cominciata un’azione clandestina che si sviluppò in modo consistente dopo l’8 settembre e il tentativo dell’Italia di uscire dalla guerra. Essa consisteva soprattutto nel fornire soccorso ai prigionieri inglesi e americani evasi dai campi di concentramento e ai paracadutisti smarriti, ai primi partigiani che nelle boscaglie dell’Abruzzo s’erano arroccati. Ci fu, probabilmente, anche qualche colpo di mano contro i militi fascisti o le scarse truppe tedesche. Cominciarono le rappresaglie. Come imparammo più tardi, Pietransieri, colpevole d’aver dato asilo a prigionieri e partigiani, fu distrutta, la popolazione trucidata. A Roccaraso, i giovani e gli uomini adulti erano fuggiti suoi monti. Ogni tanto, pattuglie tedesche guidate da qualche fascista immarcescibile facevano rapidi rastrellamenti. Ma una volta l’azione avvenne in grande stile. La ricordo ancora con precisione. Ci eravamo appena seduti a tavola. Ci attendeva una gustosa minestra di pasta e fagioli, con le cotiche di maiale. Con noi erano i Santasilia. Papà e Gino Santasilia, dopo un periodo di permanenza alla macchia, erano tornati: entrambi avevano assolto gli obblighi militari, credevano d’essere al sicuro. Arrivarono in paese due camion tedeschi: ne scesero di corsa pattuglie di SS, brandendo mitra minacciosi, con i cinturoni guarniti di bombe a mano. Una pattuglia salì correndo le nostre scale, irruppe in casa. Eravamo tutti atterriti. Mia madre andò incontro alle SS e, parlando in tedesco, chiese loro con apparente tranquillità se potevano attendere che consumassimo il pranzo e che papà facesse la valigia. Questo atteggiamento fugò in noi ogni paura. La valigia fu pronta, gli uomini vennero scortati fuori, sulla piazza. I camion li portarono via, in direzione di Rivisondoli, Sulmona, Roma, il Nord. Il giorno dopo apprendemmo che in realtà non li avevano portati lontano: si erano fermati proprio a Rivisondoli. Le SS li avevano affidati alla milizia territoriale tedesca, a un corpo XXXII prologo del Genio. Erano prigionieri in una scuola, dormivano per terra su mucchi di paglia. Dovevano scavare trincee. Trascorsi pochi giorni, alcuni di loro cominciarono ad avanzare ragioni e pretesti per essere esonerati da quella corvée. Il primo fu mio zio Franz Carignani: aveva l’ernia. Con lui tornò a casa Enzo Strongoli. Successivamente, a mio padre fu riconosciuto un vizio cardiaco. Come manovali non valevano un granché. Il cibo a casa non mancava. Mammà aveva barattato un paio di stivali da cavallo con mezzo maiale. Fu grande festa e gran lavoro quando fu macellato, quando le carni e le frattaglie furono trasformate in salsicce, lardo, prosciutto, sugna colata nelle vesciche e nei barattoli. C’erano poi sempre le patate, i fagioli, certi mastelli di marmellata di paese. Ma alla fine fummo nuovamente “sfollati”: non deportati, come accadeva, in quegli anni, in tanti altri luoghi, ma allontanati forzosamente, cacciati da Roccaraso che doveva essere rasa al suolo. Erano infatti di nuovo tornate le SS. Questa volta il messaggio era diverso. Tutti gli abitanti di Roccaraso avevano due giorni per lasciare il paese. Avrebbero potuto portare una valigia a testa. Autobus e camion requisiti dai tedeschi li avrebbero condotti via, non si sapeva dove. L’evento fu traumatico. In due giorni bisognava decidere e agire. Si dette priorità alla sussistenza: non sapendo dove i tedeschi ci avrebbero trascinati, fu deciso di riempire le valigie di cibarie. Tutto il resto, in un’accorta operazione notturna, fu nascosto. Gli uomini avevano scoperto, sotto la cantina della Rocca, scavata nella roccia, una cavità, raggiungibile dalla cantina attraverso una botola. Lì furono nascoste le ricchezze nostre, e delle famiglie amiche; nonché una parte consistente del tesoro della chiesa. Nel nascondiglio fu poi scavata un’ulteriore buca, dove furono deposti i gioielli: ma all’ultimo momento mammà ci ripensò e non volle abbandonarli. Li dissimulò invece all’interno di grandi gomitoli di lana di pecora, con i quali lavorava a maglia. La buca dei gioielli e il fondo della cantina furono cementati, i pavimenti rifatti e sporcati con polvere di carbone. Gli autobus targati Roma requisiti dai tedeschi vennero puntuali a prelevarci. Passammo con le nostre valigie in mano tra le file di militari con i mitra puntati, fummo caricati sui camion e partimmo, per destinazione ignota. Del viaggio non ricordo nulla. Ci scaricarono a Sulmona, e ci fecero accampare in una scuola. Quanto tempo saremmo rimasti lì? Nessuno poteva immaginarlo. Nonna Sara stava a Roma. Come vedova di un ex ministro della Guerra aveva ancora dei privilegi, e delle conoscenze. Riuscì a ottenere che un’automobile del Ministero, con autista, venisse a prelevarci a Sulmona. Un viaggio di molte ore, con le nostre valige piene di carne di porco, ci riportò a Roma. Tutti, eccetto papà: lui e Gino Santasilia erano rimasti a Sulmona, a trenta chilometri dai nostri beni sepolti, pronti a tornare alla Rocca e recuperarli quando la tempesta fosse passata. XXXIII prologo Miseria e nobiltà Arrivammo a Roma che doveva essere trascorsa almeno una settimana dall’esodo forzato da Roccaraso. Faceva già caldo, e i resti del mezzo maiale barattato con un paio di stivali erano marciti. Ci sistemammo a casa di nonna Sara, il portone al numero 1 di via Giambattista Vico, affacciata su piazzale Flaminio. La nonna aveva ricavato un appartamentino tutto per noi. Il bagno era separato dalla stanza da stiro da una tramezza vetrata. Ero nella vasca quando, pochi mesi dopo il nostro arrivo a Roma, arrivò papà, con sei o sette sacchi di stracci: tutto ciò che rimaneva del nostro patrimonio domestico, dei corredi di nozze e dei regali accumulati. Scoppiò irrefrenabile il pianto della mamma. Poi papà ci raccontò. I tedeschi avevano raso al suolo Roccaraso per fare terra bruciata all’avanzata delle truppe alleate. Ma prima avevano cercato i tesori, che certamente le famiglie abbienti avevano dovuto lasciare. Sette giorni di ricerche e di sondaggi. Poi, alla fine, forse aiutati dalla spiata di qualche roccolano, avevano scoperto le cantine murate. Tutto avevano portato via, compreso l’autografo del «Bollettino della vittoria». Erano rimasti solo stracci, accuratamente raccolti e portati a casa da papà. Eravamo diventati quasi poveri. E ancora non sapevamo che nella villa di Ottaviano, dove erano stati ricoverati i nostri mobili, i quadri, i tappeti, si erano accampate le truppe marocchine che risalivano lo Stivale con gli alleati. Faceva freddo, non c’era di meglio per riscaldarsi che bruciare quel legname stagionato. Così finirono le suppellettili della casa del Corso. Così finirono i nostri beni. A Roma ripresi studi regolari: prima al collegio San Giuseppe Demerode, in Piazza di Spagna, poi al ginnasio liceo Tasso, di grande fama. Al Demerode, tra gli studenti interni c’era un ragazzo che si chiamava Zamboni: era un ragazzo ebreo, il cui nome, forse Zabban, era stato camuffato per nasconderlo ai fascisti. Lo sapevamo tutti. Lo sapeva anche un ragazzino fascista che, per questo, veniva rincorso e svillaneggiato durante le ore di ricreazione. Non fece mai la spia. Nutrirci era diventato difficile, e anche vestirci. Due persone si rivelarono preziose, agli estremi nella gerarchia sociale: il cardinale Maglione di Casoria e Maria Ruocco di Venafro. Il cardinale Maglione era segretario di Stato in Vaticano. Molto influente, era, tra l’altro, l’uomo che aveva imbastito e concluso i Patti Lateranensi, che avevano assicurato la convivenza – e nella sostanza l’alleanza – tra fascismo e Vaticano. Era un uomo potente e nato a Casoria. Mio padre lo conosceva bene, il cardinale era un vecchio amico di famiglia. Per suo tramite fu concesso a papà di andare talvolta ad approvvigionarsi allo spaccio del Vaticano. Bellissimi tagli di stoffa, zucchero, torroncini di fichi secchi, sigarette, qualche tavoletta di cioccolata: erano il dono che, di tanto in tanto, arrivava grazie all’intercessione del cardinale Maglione. XXXIV prologo Maria Ruocco era la moglie, sfiancata dalla fatica e dai parti, di un manovale di Venafro che aveva lavorato con papà quando l’impresa aveva vinto un appalto di strade e ponti in quella zona. Era arrivata a Roma con i figli, il marito sperduto in qualche fronte della guerra. Mia madre la ritrovò mentre era accampata in una scuola dove si raccoglievano gli sfollati poveri, che le buone signore per bene assistevano. Maria non sapeva dove andare. Fu sistemata con i suoi figli (uno dei quali lattante) nella casa di via Vico, nello scantinato. Ogni tanto, Maria si recava in campagna, dai contadini, a scambiare merci cittadine (o soldi) con olio, farina, a volte carne, uova: era la “borsa nera”. Una parte di queste merci preziose arrivavano a noi, ci aiutavano a vivere. Ancora più prezioso diventò l’aiuto di Maria quando arrivarono gli americani, e la borsa nera impazzò. La casa di nonna Sara era una miniera di oggetti e di ricordi. Mi sedevo spesso alla scrivania a calatoia che era stata di nonno Armando: nei cassettini c’erano ancora i suoi pennini, fermagli, francobolli, monetine, piccoli blocchetti riempiti di appunti. In una grande vetrina c’erano i trofei di guerra: le medaglie, le fotografie con il capo Crow, i regali di Clemenceau e di Wilson, il Collare dell’Annunziata e così via. In basso, in una cassa foderata di velluto rosso, c’era la sciabola di maresciallo d’Italia. Ciò che mi piaceva di più, e che mi teneva avvinto per ore, erano i libri di zia Irene, la sorella di mamma, che, sposata con l’ingegner Pierino Parisi, aveva lasciato lì parte della sua adolescenza. Entrai in un mondo nuovo, Via col Vento, La saga dei Forsyte, Cronin, Dos Passos, Steinbeck, Maurois: cominciai a conoscere la realtà del mondo attraverso i romanzi. Cominciò in quel periodo anche il mio amore per la poesia, e il romanticismo. Tra i libri di zia Irene avevo scoperto una serie di minuscoli libriccini, rivestiti di stoffe provenzali. Facevano parte di quella serie I Fleurs du mal, che leggevo per far colpo su Maria Stella, la ragazzina che avevo conosciuto a Roccaraso e di cui mi ero innamorato. Via Rasella dall’Hotel Imperiale Nonna Carmela e zia Giannina, con i miei cugini Carignani, anche loro sfollati a Roma, soggiornavano all’Hotel Imperiale, nell’ultimo tratto di via Veneto verso piazza Barberini. Spesso andavo lì per giocare con Luigi. L’albergo era frequentato da ufficiali tedeschi. Un giorno sentimmo un gran botto. Ci affacciammo alla finestra. I tedeschi andavano di corsa verso piazza Barberini, alcuni seguiti da cani lupi; motociclette con sidecar arrivavano e ripartivano. Tutto quel chiasso ci stupì. Più tardi apprendemmo che a via Rasella, una traversa di piazza Barberini, i partigiani avevano fatto esplodere una bomba al passaggio d’un plotone di soldati nazisti. Dopo uno o due giorni la tragedia esplose in molte famiglie: si sparse subito la voce della rappresaglia. Per ogni tedesco ucciso i nazisti avevano ammazzato dieci prigionieri prelevati in fretta e furia, più qualcuno per aggiungere peso alla punizione. XXXV prologo Anche i miei genitori avevano amici a Regina Coeli o nella tremenda prigione di Via Tasso. Mia madre era andata qualche volta in quest’ultima prigione, camera di tortura delle SS (come si seppe più tardi), a cercare notizie di Filippo di Montezemolo, suo amico, ufficiale monarchico antifascista, arrestato e torturato. Uno di quelli che furono trucidati all’indomani dell’attentato. L’arrivo degli alleati Era giugno. L’aria era tiepida, le finestre aperte. Quelle della casa della nonna – al primo piano – davano su piazzale Flaminio. C’era attesa. Da tempo si diceva che gli alleati, bloccati a Nettuno da mesi, sarebbero entrati a Roma: - stasera; - no, domani; - fra una settimana al massimo. Sentimmo colonne di camion tedeschi andare verso la Flaminia, attraversando il piazzale oppure provenendo dal lungotevere. Poi, un lungo silenzio. Si cominciò a veder arrivare dal viale del Muro Torto una fila di soldati diversi, con gli elmetti a padella rovesciata: inglesi o australiani. Alcune camionette con la stella bianca (americani) arrivavano da Piazza del Popolo, quando un camion tedesco scese all’impazzata da Villa Borghese. Un ritardatario. Scoppi, raffiche: una scaramuccia proprio sotto casa. Ci fecero buttare per terra, dietro il davanzale. La mattina dopo, gli alleati entrarono a Roma e la liberarono. Tripudio. Ricordo la folla in piazza del Popolo che assaliva le jeep e i camion con la stella bianca cerchiata, abbracciava i soldati in uniforme cachi che buttavano sigarette e razioni di guerra. La carestia era finita. Gli alleati portavano ogni ben di Dio. Festeggiammo la fine della fame con delle confezioni incerate, di cartone verdognolo, nelle quali c’erano scatolette di ham and eggs, minestre in polvere, tavolette di cioccolata, pacchettini di sigarette: era la quotidiana razione di guerra, di cui i soldati, giunti nella grande città, si liberavano senza rimpianto. Poi arrivarono altre quantità. La minestra di piselli secchi in polvere diventò il cibo più diffuso: la pea soup divenne un sapore familiare, interessante all’inizio (era insolito e sfamava), insopportabile dopo alcuni mesi. Nel linguaggio corrente entrò la politica. C’era stata la breve stagione tra la caduta del fascismo e l’8 settembre 1943; poi l’occupazione tedesca l’aveva rigettata nella clandestinità, e la preoccupazione dominante era la sopravvivenza. L’unica abitudine “politica” era l’ascolto clandestino di Radio Londra, che trasmetteva strani messaggi in cifra, comprensibili solo ai militanti della lotta antifascista, e dava notizie sui fronti di guerra: a noi, ovviamente, interessava la lenta risalita dal sud dell’esercito alleato. Dopo l’arrivo delle truppe alleate scoprii che la politica era vicina: mio cugino Alberto Carignani (il fratello maggiore di Luigi) era nella Resistenza (liberale o azionista, non ricordo). I miei genitori erano vicini a esponenti della clandestinità antifascista monarchica. Ma papà si scoprì presto socialdemocratico: cominciò a frequentare le riunioni, le assemblee, i comizi. Peppino Galasso mi raccontò molti anni dopo (quando XXXVI prologo lo conobbi come sottosegretario per i Beni culturali) che mio padre era stato il primo ad avvicinarlo alla politica, portandolo al Teatro Eliseo a una manifestazione alla quale partecipavano Togliatti e Nenni, Ruini e De Gasperi. Ma per noi ragazzi la politica restava una cosa estranea. Non ne capivamo nulla. Non coglievamo il fermento che agitava la capitale, in quei mesi che separavano il giugno del 1944 (la liberazione di Roma, a opera dell’armata alleata) dall’aprile del 1945 (la liberazione, a opera dei partigiani del Comitato di liberazione italiana). A Roma, del resto, la mia famiglia ci rimase ancora per poco: appena fu possibile tornammo a Napoli, dove erano la nostra casa, i nostri averi residui, l’impresa di papà. Ritorno a Napoli Per tornare a Napoli fu necessario aspettare il turno per salire su un camion. Le strade erano interrotte, le ferrovie non funzionavano. Non so come, mediante quali canali, i miei genitori riuscirono a organizzare quel viaggio. Era un camion scoperto, sul quale erano ammassate le masserizie di alcune famiglie e, sopra, i passeggeri. Del viaggio non ricordo granché. Ricordo però l’arrivo a Napoli. La strada era un canyon tra due pareti di macerie, alte quasi quanto lo erano state le case demolite dai bombardamenti. La nostra casa al Corso era occupata dagli alleati. Andammo ad abitare in un palazzo nobile all’inizio di via Chiaia, dove c’era – e c’è ancora – la famosa pasticceria Caflisch, di ottocentesca origine svizzera, come di origine olandese o belga erano le altre famose ditte di cioccolata e dolci di Van Bol & Feste e Gay & Odin. Era un appartamento di proprietà di amici, molto bello e grande, al primo piano. Aveva un solo inconveniente: una stanza era stata attraversata da una bomba fortunatamente inesplosa, che però con il peso aveva sfondato tetto e pavimento: si poteva attraversare la stanza solo sullo stretto spazio addossato alle pareti. Ma la casa godeva di una amplissima terrazza a livello, aperta su via Chiaia, proprio sul centro elegante della città. La casa del Corso fu venduta, per dieci milioni. E si scoprì che l’impresa di papà di fatto non esisteva più: la guerra aveva travolto tutto. Rimanevano le terre, che poco a poco furono vendute. Le ragazze si incontravano ai “balletti”: festicciole domestiche, dove si bevevano aranciate e si suonavano i dischi sul fonografo a manovella; cominciavano appena ad apparire i giradischi elettrici, e i primi dischi a 33 giri, i V-Disc dell’esercito Usa. Attraverso i dischi cominciai a imparare l’inglese: Frank Sinatra fu un maestro molto migliore di quella signora (non ne ricordo il nome) presso cui andavo una volta alla settimana a leggere Oscar Wilde, The importance of being Ernest. Lo sport che praticavo (un poco) era il tennis. In via Caracciolo era stato riaperto, con aiuti degli alleati, la nuova sede del circolo del tennis, uno dei luoghi di ritrovo dell’aristocrazia napoletana. XXXVII prologo Un’estate andammo a Capri. Era la prima volta che mettevo piede su quest’isola, che ogni giorno per dieci anni – quando abitavamo in corso Vittorio Emanuele – avevo visto dalla finestra della mia stanza, a chiudere la visuale del golfo. Eravamo in un piccolo albergo vicino alla strada Krupp. Pochi ricordi mi rimasero impressi, ma tutti intensi. Un concerto per pianoforte in una villa a Tragara, una grande terrazza a strapiombo sul mare, con i faraglioni immersi in una intensa luce lunare. Fu lì forse che conobbi Perla Cacciaguerra, una ragazza poco più grande di me, poetessa. Mi insegnò ad amare Rabindranath Tagore. Un ingegnere che incontravamo nel ristorante dell’albergo sapeva tutto d’ogni cosa: non c’era evento, piccolo o grande, che non sapesse spiegare. Forse è allora che sognai di diventare ingegnere. I boy scout Prima del fascismo c’erano a Napoli i boy scout. Lo era stato mio padre. Dopo la guerra un gruppo di amici decise di ricostituire l’antica organizzazione. Ci portavano in giro due amici di mio padre, l’ingegnere Luigi Cosenza e il signor Cavallo, un simpatico e distinto commerciante di tessuti. Eravamo un gruppo molto disordinato: una compagine del tutto diversa rispetto a quella che poi i boy scout divennero: irreggimentati e tirati a lustro. Vestivamo divise raccogliticce: pochi fortunati avevano l’uniforme e il cappello del padre, gli altri si arrangiavano con ciò che trovavano. Con grande impegno trasformammo in cappelli con la tesa, tipici del boy scout, i feltri verdi di avanguardista sottratti ai padri o ai fratelli maggiori: scoprimmo che bastava bagnarli e stirarli con un ferro caldo contro una pignatta, per dargli forma. La nostra pattuglia (gli Scoiattoli) era comunque la più organizzata. Ci eravamo dotati di fazzoletti da collo bordeaux, “nastrini omerali”, fischietti col cordoncino, bastoni regolamentari e temperini robusti. La domenica facevamo gite ai Camaldoli accompagnati da Luigi Cosenza. In quegli anni, appena superate due file di isolati uscendo da Piazza Sannazzaro (al Vomero) si era in aperta campagna. Ai pochi casolari abitati da famiglie contadine seguivano rapidamente boschi di castagni, come quello che avvolgeva l’Eremo nel quale ci accampavamo. A volte pernottavamo nelle tende montate alla meglio. All’inizio erano vecchie coperte prese a casa, legate con funicelle e spaghi; poi alcuni ufficiali tra gli alleati, che vedevano di buon occhio la sostituzione dei balilla fascisti con la democratica istituzione scoutistica, ci regalarono qualche avanzo della guerra. La notte facevamo rigorosi turni di guardia. I due di turno vigilavano accanto a un fuoco di bivacco, accuratamente alimentato. Più dei vagabondi, temevamo i lupi che – si diceva – erano scappati durante la guerra dallo zoo della Mostra d’Oltremare, ai piedi della collina dei Camaldoli. XXXVIII prologo Luigi Cosenza Luigi Cosenza era un personaggio davvero singolare. Qualche anno più tardi conobbi la sua storia. Generoso e irruento quando ci organizzava e accompagnava (ricordo un suo corpo a corpo con due giovinastri che ci minacciavano, nelle campagne tra il Vomero e i Camaldoli), lo era anche nella vita. Comunista, era stato amico di Amadeo Bordiga, uno dei fondatori del Pci italiano, ingegnere come lui. Negli anni del fascismo aveva abbracciato la scuola razionalista, e costruito alcune pregevoli architetture a Napoli, assieme al famoso Rudofsky. Era una delle figure eminenti dell’ala intellettuale del Pci a Napoli. Cosenza era ingegnere, come ho detto, portato alla pratica più che alla teoria. Dicono che quando fu incarcerato a Poggioreale (capeggiava una grande dimostrazione, repressa dalla polizia, contro la visita in Italia di Ike Eisenhower, preludio all’ingresso nella nato) convinse il direttore del carcere che le condizioni erano intollerabili e ottenne l’incarico di studiare il progetto per un carcere moderno e razionale. Non progettò il carcere, alla fine, ma la nuova sede della facoltà d’ingegneria, a Fuorigrotta, e la bella sede della Olivetti a Pozzuoli1. Abitava in una casa con una splendida terrazza, a Mergellina. Sulla terrazza scorrazzavano i suoi animali. Aveva avuto anche un leoncino, che tenne anche quando crebbe. Si racconta che una volta chiese agli ingegneri della Olivetti, con cui doveva andare a vedere il cantiere a Pozzuoli, – Vi dispiace se passiamo un momento alla Mostra d’Oltremare, così porto Leo a giocare con i suoi amici? –. Pensando che si trattasse di un cane gli ingegneri risposero – Senz’altro, la macchina è grande –. Si spaventarono molto quando scoprirono che Leo era un leone. Villa Pavoncelli A quei tempi Napoli era anche, per i suoi abitanti, una stazione balneare. D’estate gli scugnizzi si tuffavano in mare dalle scogliere prospicienti via Caracciolo (ma a noi, ragazzi per bene, era proibito andarci: si diceva già che non fosse igienico, perché vi scaricavano le fognature della città). Uno stabilimento molto frequentato era però il Sea Garden a Mergellina, proprio dove dalla strada litoranea si “stacca” la collina di Posillipo. Noi andavamo a mare più su, a Posillipo, dove grandi e intricate ville occupano il costone verdeggiante tra la strada e il mare. 1 È lo stabilimento nel quale Ottiero Ottieri ambientò la sua appassionata descrizione della condizione operaia nella fabbrica fordista del capitalismo avanzato, O. Ottieri, Donnarumma all’assalto, Milano, Bompiani, 1959. XXXIX prologo Palazzo Donn’Anna (che, secondo la leggenda, aveva ospitato Giovanna d’Angiò) non aveva spiaggia: per scendere a mare si attraversavano i suoi diruti saloni dove i tufi delle rocce e quello dei muri si sfaldavano mescolandosi. Le ville che frequentavamo di più erano oltre: villa Pavoncelli, villa Carunchio, villa D’Avalos. La prima soprattutto, abitata da famiglie dell’aristocrazia napoletana molto legate alla mia: i Del Balzo di Presenzano e i Pavoncelli. Da via Posillipo si scendeva per una scaletta, vigilata dal portiere. Si attraversavano corridoi umidi, a volte aperti sul mare, terrazze, ballatoi, scalette e atri, finché si giungeva a una spiaggetta protetta da una breve scogliera. Prima dell’ultima rampa un umido locale scavato nella roccia era usato come spogliatoio. Sulla spiaggetta si apriva un’ampia grotta, ricovero di innumerevoli scafi. Miei amici erano soprattutto i Pavoncelli. Famiglia di nobiltà recente (si diceva, con una certa sufficienza, che erano diventati conti con l’unità d’Italia), la loro ricchezza veniva dalle terre in Puglia, a Cerignola, il paese del grande sindacalista contadino Giuseppe Di Vittorio, che contribuì significativamente a portare nella democrazia repubblicana i mezzadri e i braccianti del Sud. Avevano un’azienda molto ben condotta che produceva, tra l’altro, ottimi vini. Molti anni più tardi conobbi una singolare storia che aveva legato il sindacalista Di Vittorio al proprietario terriero Giuseppe Pavoncelli, nonno del mio amico. Nel 1920 Giuseppe Di Vittorio era un povero bracciante e già un attivo sindacalista nel suo paese. Per Natale il conte Pavoncelli gli inviò un pacco dono davvero allettante: pane, formaggio, taralli, olio. «Quella, per la mia famiglia – raccontò molti anni dopo la figlia Baldina – era l’epoca della povertà assoluta». Il giovane sindacalista rifiutò il regalo e su un paio di fogli di carta intestata della cooperativa La Falce spiegò le ragioni di quel rifiuto. «Io, lei ... siamo convinti della nostra personale onestà, ma per la mia situazione politica non basta l’intima coscienza della propria onestà. È necessaria, e lei lo intende, anche l’onestà esteriore. (...) Si che io, a preventiva tutela della mia dignità politica e del buon nome di Giuseppe Pavoncelli che stimo moltissimo come galantuomo, come studioso e come laborioso, sono costretto a non accettare il regalo, il cui solo pensiero mi è di pieno gradimento».2 Altri tempi, altri uomini, altri mondi, non distanti da quelli che in quel tempo frequentavo ma da me ancora sconosciuti. La politica? Non c’era Non ero comunista allora. Di politica si parlava poco, e meno ancora vi si pensava. Se avessi dovuto definirmi, avrei detto che ero socialdemocratico: una sinistra 2 L. Parise, Baldina Di Vittorio: mi ha insegnato l’onestà, «la Repubblica», ed. Bari, 29 set. 2007. XL prologo sentimentale e “perbene”. È per il partito di Saragat che votai infatti, al mio primo esercizio di democrazia. Della politica mi arrivavano solo echi lontane, attraverso le poche persone del nostro ambiente che partecipavano anche a quel mondo. La dimensione politica di Luigi Cosenza o di Renato Caccioppoli, oppure di Leopoldo Rubinacci (il sottosegretario democristiano, zio e protettore del mio amico Renato Ruggiero), la compresi molto più tardi. Una volta, tra il ‘46 e il ‘48, intuii che esisteva un’altra realtà sconosciuta e potente, fonte per me di timore e soggezione: fu a Napoli, dall’alto del ponte di Chiaia che vidi passare, giù in strada, un grande e compatto corteo di operai delle fabbriche di Fuorigrotta: una folla silenziosa, muta, dai volti chiusi più dei pugni, colorata del blu delle tute. Una realtà che incuteva, insieme, paura e rispetto. Un’estate a Colle Isarco Dopo la licenza liceale, nel 1948, andammo in villeggiatura a Colle Isarco. Ricordo quella vacanza per la conoscenza, fugace, di un gruppo di emiliani di cui faceva parte una ragazza che mi piaceva molto, e per la frequentazione di un singolare personaggio: Chinchino Compagna. Chinchino era il rampollo d’una famiglia di nobili calabresi, ricchissimi e (a quanto si diceva) altrettanto rozzi: vera nobiltà borbonica. La loro ricchezza era prodotta dai cafoni dei latifondi calabresi. Non si era trasformata né in cultura né in lusso. Si diceva (horresco dicens!) che alla loro tavola si mangiasse il formaggio con le mani. Forse oggi definiremmo il Chinchino degli anni Quaranta un giovane teppista. Era certamente ignorante e maleducato: famoso rimase il sonoro pernacchio col quale salutò il presidente dell’elegante circolo del tennis, alla festa per la sua inaugurazione. Quando lo conobbi era in una fase di profonda trasformazione. Frequentando casa Croce (forse ve lo condusse mio padre), aveva scoperto l’esistenza dei libri. Leggere gli aveva cambiato la testa, in pochi mesi. Ricordo le signore amiche di mia madre, tutte rigorosamente monarchiche, commentare scandalizzate: – Capisci, è diventato repubblicano perché ha letto duecento libri! –, meravigliandosi del fatto che si potesse cancellare una fede salda come quella monarchica, semplicemente perché si era fatto l’esercizio frivolo e un po’ stravagante della lettura! A Colle Isarco, dove era con la giovane ed esile moglie Licia, partecipava saltuariamente alle nostre gite: la sua attività preferita era la lettura, fin dalla mattina presto. Le cameriere che facevano le pulizie nei saloni dell’albergo lo trovavano già a leggere all’alba. Chinchino alimentò la mia passione per la poesia regalandomi un libro di cui gli fui allora molto grato, il primo volume di una bella rivista di poesia (la testata era, XLI prologo appunto, «Poesia», diretta da Enrico Falqui). Con una bella dedica, “Un modesto ricordo, un sincero augurio, una certa speranza di sicuri successi in una vita serena, rischiarata da caldi affetti, il mio compreso”. Lo persi di vista. Per meglio dire, lo seguii a distanza: era diventato un uomo pubblico. Con i soldi dei cafoni calabresi fondò una rivista, «Nord e Sud», che riuniva gli intellettuali meridionali e meridionalisti di area repubblicana e socialdemocratica. Lo ritrovai molti anni dopo, bravo ministro per i Lavori pubblici. Morì a Capri sulla spiaggia, per un infarto, sotto il palazzo di Tiberio. L’università, il cinema e Benedetto Croce All’università, in quegli anni, non mi impegnavo molto. Mi ero iscritto a ingegneria senza una vera ragione. Gli argomenti che mi convinsero erano due: al liceo andavo bene in matematica, mio padre aveva (ancora per poco) un’impresa di costruzioni. Se avessi potuto seguire le mie inclinazioni, avrei scelto un mestiere più “poetico”. Ma carmina non dant panem. Dell’università di quegli anni ricordo la mesta cerimonia della “matricola”, consistente in una grande abbuffata di paste offerte agli amici; le aule sovraffollate e i professori inavvicinabili nell’immenso palazzo tra il Rettifilo e via Mezzocannone. Non ricordo come diedi gli esami, meno ancora come mi preparai nelle difficili materie del biennio. I miei interessi erano altrove. Conobbi Carlo Frezza, con lui condividevo la passione per il cinema. A quei tempi si frequentava un circolo del cinema in via Martucci, dove finalmente vedemmo film diversi da quelli dell’infanzia (che erano Capitano Blood o Stanlio e Ollio), e dalle “americanate”, tipo Bellezze al bagno, che si proiettavano dal dopoguerra al cinema Della Palme o al cinema Corona. De Sica ed Eisenstein, Pudovkin e Rossellini, Autant–Lara e Dreyer erano le nostre scoperte e i nostri entusiasmi. Carlo apparteneva a una famiglia della piccola borghesia intellettuale: notai e avvocati. Fu lui a introdurmi nella politica universitaria. Mi ero appena iscritto a ingegneria, quando mi chiese di partecipare a una lista diversa da quelle legate ai partiti, dal titolo goliardico, e un po’ qualunquista, “Bacco Tabacco e Venere”. La lista aveva un programma culturale impegnativo: Carlo avrebbe dovuto dirigere il Centro universitario teatrale nel cui ambito io avrei dovuto mettere su una nuova “sezione cinema”. Accettai. La lista ottenne una rappresentanza nel parlamentino universitario. Con grande fatica organizzai la proiezione di un bellissimo film, che a Napoli nessuno aveva ancora visto, Breve incontro, di David Lean, con Trevor Howard e Celia Johnson: due eccezionali attori drammatici. Fu un grandissimo successo; la sala del cinema Santa Lucia, che avevamo affittato per l’occasione, era gremita, il pubblico attento e silenzioso. XLII prologo Ricordo le lunghe serate, con Carlo, a discutere di cinema, di arte, di poesia. Il tema in voga, nel mondo che frequentava i circoli del cinema, era “lo specifico filmico”: se ne discuteva sulle riviste che leggevamo («Bianco e Nero», «Cinema», «Cinéma d’Aujourd’hui»), se ne dibatteva in sala alla fine delle proiezioni. Dopo il cinema accompagnavo Carlo fino al suo portone, poi lui riaccompagnava me, poi io ancora lui e così via. In quei mesi uscì un articolo di Benedetto Croce, in cui il filosofo sosteneva che il cinema è prosa e non poesia. Eravamo allora entrambi crociani: in quegli anni, a Napoli, o si era crociani o si era comunisti: non c’erano alternative per i giovani intellettuali. La presa di posizione ci turbò moltissimo: non eravamo affatto d’accordo con il Maestro, per noi il cinema era poesia con sei maiuscole, sebbene non fosse ancora chiaro se lo “specifico filmico” risiedesse nel montaggio (come era nostra opinione), o altrove. Mammà e papà entrano in crisi Negli ultimi anni napoletani la famiglia abitava in via Monte di Dio 18, nel bel palazzo della baronessa Barracco, amica dei miei genitori. Una casa molto grande, che girava attorno a un cortile adorno di piante. Vecchi e solidi arredi. Ricordo il nostro bagno, con vasca e lavandini di marmo massiccio, ornati di zampe di leone e dotati di una consunta rubinetteria inglese di ottone brunito dal tempo. Una fuga di stanze: per raggiungere la mia dovevo attraversare quelle di rappresentanza, dove a volte incontravo gli amici dei miei genitori, ascoltavo brevemente i loro discorsi. La musica era sempre molto presente. Si frequentava il San Carlo, ma soprattutto i concerti del conservatorio di San Pietro a Maiella. Fu lì che conquistai l’autografo di Rubinstein, ed è lì che i miei genitori conobbero il maestro Franco Caracciolo, che frequentava la nostra casa e a volte suonava per noi. I confini tra mondanità e cultura erano praticamente inesistenti: si scivolava dall’una all’altra con grande leggerezza. Si discuteva dell’immortalità dell’anima e del paradiso, e la battuta più convincente era del marchese Agostino Patrizi: «Pe ‘mme ‘o Paraviso è quel posto che, se quando sei vivo ti piacevano le sfogliatelle, mangi tutto il giorno sfogliatelle». Una visione un po’ maomettana. Ma questo lo penso adesso: allora l’immagine, e la prospettiva mi colpirono. L’apparente serenità della vita familiare nascondeva una crisi tra i miei genitori. A un certo punto essa esplose: si separarono con una decisione di cui noi figli non comprendemmo le ragioni. Mia madre con le sorelline si trasferì a Roma, mio padre rimase a Napoli in un appartamentino ammobiliato in via Carducci, per badare agli affari (quali, non so, visto che l’impresa si era dissolta e le terre via via vendute). Rimasi con lui, per finire il biennio all’università. Poi, mi trasferii anch’io a Roma e cominciò una nuova vita. XLIII 1. La casa del Corso. XLIV 2. Zio Marcello, nonno Armando e nonna Sara. 3. Nonno Armando Diaz. XLV 4. Con nonno Eduardo Salzano, 1932. 5. 1933. XLVI 6. Con le mie sorelline Germana e Litta, Natale 1936. 7. Con Chinchino Compagna e un amico, 1949. XLVII 8. Con mia madre Anna Diaz e un’amica, 1949. 9. Mio padre Mauro con mia figlia Maria, 1962. XLVIII Memorie di un urbanista L’Italia che ho vissuto Capitolo primo A Roma 1. Nuove amicizie, nuove scoperte All’inizio degli anni Cinquanta la mia famiglia si trasferì da Napoli a Roma. Gradualmente: prima mammà e le sorelle, poi io, infine mio padre. Mi mancava un solo esame per concludere il biennio d’ingegneria, e si decise che quell’esame (meccanica razionale) lo avrei fatto a Roma. Abitavamo in viale Bruno Buozzi, ai Parioli: un quartiere elegante ma brutto, con palazzine tra lo squallido e il mediocre pretenzioso. Qualche raro pezzo di “architettura moderna”. Accanto alla nostra palazzina si trovava la bizzarra Casa del girasole dell’architetto Luigi Moretti, che ebbe una certa notorietà. Avevo già amici a Roma. Incontrati nei salotti che talvolta frequentavo e raggiungevo anche da Napoli. Altri ne conobbi: nel tempo, un nucleo compatto. Ragazzi della buona borghesia, studenti universitari o laureati di fresco, di buona cultura e buoni sentimenti. C’incontravamo la sera in piazza Ungheria, alla Latteria Lotti. Le chiacchiere che facevamo non erano da vitelloni. Si discuteva di libri e di film, di poesia e di musica. E, naturalmente, delle vicende universitarie. Ma anche di amori e di politica. Il clima era quello di una sinistra moderata, con oscillazioni tra una sinistra liberale e una timida presenza comunista. La domenica si andava al mare. Quasi sempre a Fregene, la spiaggia a una ventina di chilometri da Roma. Una bella spiaggia, con alle spalle una pineta. Quest’ultima era stata investita, negli anni Trenta, da una lottizzazione di ville molto signorili, costruite e abitate – nel decennio prima della guerra – dalle famiglie ricche della Roma della borghesia fascista (più tardi cedute a esponenti del mondo dello spettacolo). Negli anni, l’insediamento si era non solo ampliato (era nata Fregene Sud), 3 capitolo primo ma erano cambiati le dimensioni dei lotti, la qualità delle case, il ceto sociale degli abitanti. Barbara, la ragazza che amavo, invitava spesso i nostri amici in una bellissima villa di proprietà della sua famiglia: una delle prime a essere costruite, su un lotto grande il doppio di quelli standard. Il padre di Barbara, Andrea Busiri Vici, architetto, aveva costruito una dimora in stile “mediterraneo”, pubblicata su riviste e libri di architettura. Sul grande prato antistante la casa si intrecciavano chiacchiere e amori. La spiaggia era vicina: un lungo arenile, alla cui estremità nord c’era il “villaggio dei pescatori”. Nei primi anni in cui frequentavo Fregene, era un vero villaggio di semplici capanne, alcune di paglia, abitato da famiglie di poveri pescatori. Mano a mano, negli anni, le capanne furono comprate da romani e trasformate in villette con qualche pretesa di lusso: inizialmente una sola fila frontemare, tra i relitti di duna e il Tirreno, poi via via si infittirono, occupando abusivamente una seconda e una terza fila. Fregene era allora un luogo bellissimo, la spiaggia deserta, la pineta piena di uccelli e piccoli mammiferi, i relitti di dune costellati dalle piante pioniere (tra cui profumati gigli), le palline di alghe feltrite trascinate dalla brezza. Il mio amico più stretto era Peppe Loy. Sardo – il padre era un avvocato antifascista – si era trasferito al seguito della famiglia a Roma ma manteneva solide radici affettive nell’isola. Aveva un fratello, Nanni, e una sorella, Luisa, entrambi più grandi di lui. Nanni era regista cinematografico, anch’egli molto simpatico: divenne famoso con le spiritosissime gag della candid camera ma il suo film più bello rimane quello dedicato alle Quattro giornate di Napoli. Raccontava in modo molto efficace la lotta popolare che aveva condotto alla liberazione della mia città dai nazifascisti prima dell’arrivo degli alleati: le truppe tedesche si erano arrese ai partigiani a condizione di lasciare incolumi la città. Dopo l’8 settembre vi erano stati episodi sporadici di attacco ai soldati nazisti da parte di piccoli gruppi di patrioti: qualche scaramuccia, che aveva provocato una feroce repressione e la proclamazione dello stato d’assedio. L’evacuazione delle abitazioni di tutta la fascia costiera, per una profondità di 300 metri, aveva provocato l’esodo forzato di oltre duecentomila persone con il timore della distruzione di gran parte della città. Il 27 settembre 1944 era scoppiata una vera e propria battaglia: alcune centinaia di abitanti (molti ex militari e marinai che si erano rifiutati di consegnarsi ai fascisti) erano scesi in strada, assalendo perfino i carri armati con armi improvvisate. Dopo tre giorni di combattimento, i tedeschi si erano arresi e avevano lasciato la città. Un film del 1952, ancora 4 a roma sull’onda di quel neorealismo che ci ha dato immagini e storie indimenticabili dell’Italia di quegli anni. Immagini e storie attraverso le quali sono entrati nei cuori e nelle teste di una intera generazione i principi fondanti la Repubblica. Film come Roma città aperta (1945) di Roberto Rossellini avevano fatto comprendere quanto la passione civile, basata sulla dignità dell’uomo, potesse condurre all’eroismo persone appartenenti a mondi e ideologie diversi: anzi, nel pensiero corrente percepiti addirittura come opposti, come il militante comunista e il prete romano. Paisà (1946), anch’esso di Rossellini, aveva tracciato quadri successivi delle tante Italie attraversate dalla linea della guerra e della Resistenza: dalla Sicilia a Napoli e a Roma, dall’Umbria a Firenze, fino alla conclusione, con immagini e silenzi da tragedia greca, nei morbidi paesaggi del Delta del Po. E ancora Sciuscià (1946) e Ladri di biciclette (1948), di Vittorio De Sica, rendevano consapevoli, con la forza della poesia, del disagio e della sofferenza degli strati sociali più colpiti dal fascismo, dalla guerra e dalle diseguaglianze. Quei film furono come delle finestre che mi si aprirono, in quegli anni, su una storia che si era svolta accanto alla mia vita, ma di cui avevo ricevuto solo esili segnali, filtrati dal pensiero allora corrente nel mondo “perbene” a cui appartenevo. 2. San Pietro in Vincoli Dato l’ultimo esame del biennio di ingegneria, mi iscrissi al triennio conclusivo che durò ben più di tre anni. La sede era l’ex convento a San Pietro in Vincoli, prospiciente il parco di Colle Oppio, sovrastante il Colosseo. Avevo scelto la sezione “civile edile”, senza troppa consapevolezza. All’inizio, gli studi furono abbastanza pesanti: c’erano gli esami che non appartenevano al filone edilizio architettonico, ma al funzionamento delle macchine e alle loro tecnologie; erano del tutto estranei ai miei interessi e per di più erano gestiti da professori molto esigenti e severi. Le lezioni che si svolgevano all’Istituto di architettura (uno dei molti che componevano il politecnico) invece mi aprirono il cuore. Nel mondo arido e funzionale degli ingegneri1, sentir parlare dell’estetica di Benedetto Croce e delle poesie di Leopardi e Garcia Lorca era per me un balsamo. 1 Ha descritto mirabilmente la figura tipica dell’ingegnere R. Musil, L’uomo senza qualità, Einaudi, Torino, 1957, p. 41-42. 5 capitolo primo Del resto, la sede di San Pietro in Vincoli aveva sottili legami con la poesia. Un verso di Leonardo Sinisgalli, poeta che amavo, raccontava delle rondini che sfrecciavano attraverso i finestroni dell’aula di disegno, all’ultimo piano: Sinisgalli aveva studiato ingegneria proprio nelle aule che io stesso frequentavo. Cominciai a indirizzare parte dei miei pensieri, e delle mie parole, alla politica. Soprattutto con alcuni (pochi) dei nuovi amici che scoprivo all’università. Il primo fu Bruno Morandi, detto Dado. Dado era figlio d’un famoso ingegnere che progettava – inventava – strutture di cemento armato, tra i primi in Italia ad applicare tecnologie molto avanzate, come quelle delle travi precompresse. Dado condivideva solo in parte gli interessi del padre. Ciò che ci univa era la politica. Scoprimmo di avere gli stessi sentimenti e le stesse emozioni, e maturammo insieme le prime convinzioni. I valori che per noi erano divenuti centrali erano quelli della Resistenza. Ne leggevamo nei libri che raccontavano la sua storia come quello di Roberto Battaglia2 e come le Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana3. In quelle lettere, scritte pochi minuti prima della fucilazione o dell’impiccagione, scoprivamo la realtà di un’Italia nella quale l’antifascismo, oltre a essere un sentimento, si prolungava anche in azioni in cui si rischiava la vita per la costruzione di una società più giusta. Ci rivelavano un aspetto dell’eroismo molto diverso da quello cui ci aveva abituato il patriottismo savoiardo e fascista, di cui la nostra infanzia era stata nutrita: un eroismo votato all’affermazione di valori quali l’uguaglianza, la libertà del corpo e della mente. Le mie letture mi fecero comprendere la portata di un episodio cui avevo assistito da vicino4, a Roma, mentre giocavo con mio cugino Luigi all’Hotel Imperiale in via Veneto, il 23 marzo 1944. Un piccolo commando di partigiani aveva organizzato un attentato colpendo, con una bomba nascosta in un carretto della spazzatura e con un successivo attacco con pistole e bombe a mano, un reparto di soldati tedeschi che percorrevano la centrale via Rasella. Trentadue soldati erano stati uccisi. Immediatamente il comandante nazista diede ordine di raccogliere un gruppo formato da dieci persone per ogni tedesco ucciso e di liquidarlo per rappresaglia. In realtà, di uomini ne furono presi 335: militari e partigiani, ebrei, antifascisti, ma anche civili che con la Resistenza non 2 3 R. Battaglia, Storia della Resistenza italiana, Torino, Einaudi, 1953. Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana (8 settembre 1943 - 25 aprile 1945), a cura di P. Malvezzi e G. Pirelli, Torino, Einaudi, 1961. 4 In Prologo, Via Rasella dall’Hotel Imperiale. 6 a roma c’entravano. Tradotti in una cava di pozzolana sulla via Ardeatina furono trucidati con le mitragliatrici, finiti con il revolver; la cava fu sepolta da un’esplosione di mine. Né quel giorno né il giorno dopo se ne seppe nulla: i giornali, che pubblicavano solo le notizie consentite dai fascisti, tacquero. Due giorni dopo, un crudele comunicato, pubblicato sul «Messaggero», diede dei fatti questa versione: Nel pomeriggio del 23 marzo 1944 elementi criminali hanno eseguito un attentato con lancio di bombe contro una colonna tedesca di polizia in transito per via Rasella. In seguito a questa imboscata 32 uomini della polizia tedesca sono stati uccisi e parecchi feriti. La vile imboscata fu eseguita da comunisti badogliani. Il Comando tedesco è deciso a stroncare l’attività di questi banditi scellerati. Nessuno dovrà sabotare impunemente la cooperazione italo-tedesca nuovamente affermata. Il Comando tedesco, perciò, ha ordinato che per ogni tedesco ammazzato dieci criminali comunisti badogliani saranno fucilati. Quell’ordine è già stato eseguito5. Dopo la Liberazione, il Comune bandì un concorso nazionale per il monumento in memoria dell’eccidio delle Fosse ardeatine, che condusse alla costruzione del più bell’episodio di architettura civile dell’Italia del secolo scorso, e forse uno dei più belli in assoluto. Lo disegnò un gruppo di giovani architetti e scultori6. Accanto alla roccia tufacea della cava, un grande parallelepipedo di calcestruzzo, come una gigantesca lastra, copre le 365 tombe, staccato da terra da una feritoia continua; accanto, un gigantesco gruppo scultoreo rappresenta tre uomini legati; un cancello molto elaborato segna l’ingresso al complesso, da cui si accede alla cava ripristinata, dove gli ostaggi furono raccolti e trucidati. Molti anni dopo, quando si cominciarono a mettere in dubbio gli ideali della Resistenza e, con essi, i metodi della lotta partigiana, si tentò di gettare fango su quell’episodio, definendolo un atto criminale dei comunisti (quasi riecheggiando le parole dell’ukase nazista). Ma la giustizia riabilitò l’operato del gruppo di patrioti riconoscendone la natura di legittimo atto di guerra7. Parlavamo molto del comunismo, ma contemporaneamente ci divertivamo alla lettura del giornale satirico anticomunista di Giovanni Guareschi, il «Candido». Non ci piaceva quello che sentivamo definire come il 5 6 «Il Messaggero», 25 set. 1944. Gli architetti erano Nello Aprile, Aldo Cardelli, Cino Calcaprina, Mario Fiorentino, Giuseppe Perugini; gli scultori Francesco Coccia e Mirko Basaldella. 7 Corte di cassazione, sezione iii civile, sentenza 6 ago. 2007, n. 17.172. 7 capitolo primo totalitarismo del comunismo, ma ancora meno quello fascista. Scavalcammo un crinale decisivo: dopo una lunga riflessione comune, convenimmo che se si fosse dovuto scegliere tra i due totalitarismi, a quello di destra avremmo preferito quello comunista. A differenza di molti nostri coetanei, nella scelta tra Stalin e Hitler non avevamo dubbi. Era un buon inizio. 3. Alberto e la politica Un altro amico col quale dividevo emozioni e scoperte era Alberto Durante. Anche con lui si discuteva molto di politica. Era socialista, ogni giorno comprava l’«Avanti». Io ero ancora oscillante: propendevo verso una sinistra forse più vicina al Pci che ai socialisti. Ma bisogna dire che allora (eravamo negli anni Cinquanta) i socialisti erano molto diversi da quelli che abbiamo conosciuto dagli anni di Craxi in poi. Con Alberto cominciai a leggere i primi libri sul movimento operaio. Il nostro preferito era un libro di Edouard Dolleans, La storia del movimento operaio. L’impostazione di Dolleans era più vicina a Proudhon che a Marx, meno scientifico e più sentimentale. Forse questo dava una particolare concretezza alla sua descrizione dello sfruttamento nel sistema capitalistico, dei tentativi dei proletari di migliorare la loro condizione d’esistenza, delle sanguinose repressioni attraverso le quali si erano via via affermati i loro fondamentali diritti, di organizzazione e di sciopero. In assenza di questi diritti, la loro condizione era di servi. I proletari – cominciai a capire, ma poi fu la lettura di Marx a chiarirmi più precisamente le idee – disponevano di una sola forza per combattere con armi quasi pari il padrone: la possibilità di gestire collettivamente la loro unica ricchezza, la forza lavoro. Solo questo potevano opporre al proprietario dei mezzi di produzione, del “capitale”. Per farlo, dovevano necessariamente essere solidali, pronti al sacrificio dello sciopero. Quest’ultimo rischiava, se prolungato, di minacciare le stesse condizioni di sussistenza delle famiglie proletarie. A sua volta, quindi, pretendeva una solidarietà più ampia: quella degli altri operai, delle fabbriche nelle quali i compagni continuavano a percepire il salario. Ad Alberto e a me interessava anche la cultura architettonica. Leggevamo con attenzione le riviste specializzate, partecipavamo a incontri organizzati da studenti della facoltà di architettura, culturalmente più vivaci dei nostri colleghi politecnici. L’essere informati su ciò che avveniva fuori dallo stretto ambito dominato dal regolo calcolatore e dalla tavola dei logaritmi ci diede momenti di gratificazione. Così fu quando l’Istituto organizzò un viaggio nei paesi scandinavi, la cui produzione 8 a roma urbanistica e architettonica era allora molto studiata dagli architetti italiani. In quel momento storico – a differenza di adesso – essere architetti comportava un forte impegno civile. Il messaggio della Resistenza, la volontà di impiegare ogni strumento per costruire una società più giusta erano molto sentiti. Non era ammissibile praticare un’edilizia (e a maggior ragione un’architettura) che non fosse connessa a una visione della città e momento della sua costruzione. Da questo punto di vista, i paesi scandinavi ci sembravano un modello esemplare. Nel corso del viaggio, Alberto ed io, a differenza degli altri colleghi e degli stessi professori, sapevamo che cosa c’era da vedere e perché in Danimarca e in Svezia; per gli altri l’interesse massimo era rappresentato dalle fantasticherie sulla facilità di rapporti sessuali con le donne scandinave. Vedemmo Copenhagen, Malmö, Götebörg, e Stoccolma, naturalmente, con i suoi nuovi quartieri; infine, dopo un lungo tragitto in pullman attraverso verdissime foreste, Oslo. Avevamo preparato un piccolo dossier con gli articoli delle riviste, soprattutto «Urbanistica» di Giovanni Astengo. Era l’unica documentazione seria disponibile, e così fummo il riferimento per quei pochi tra noi che volevano conoscere le città visitate dal punto di vista dei nostri interessi di studio. La Scandinavia ci piacque moltissimo, la Svezia soprattutto, della quale visitammo parecchio. Ammiravamo il modo in cui gli scandinavi consideravano la natura: disegnavano i loro quartieri in modo che questa fosse sempre presente, ma rispettandone i segni; consideravano elementi del disegno gli alberi, i massi affioranti dal terreno. Ammiravamo l’attenzione alle esigenze della vita domestica degli abitanti, l’intelligenza con la quale provvedevano ai servizi collettivi, che potevano far risparmiare tempo e soldi alle famiglie: le lavatrici di caseggiato, gli stenditoi comuni, gli angoli per i picnic, e i giochi per i bambini e i ragazzi; su su, fino ai complessi scolastici perfettamente integrati alle aree residenziali, alle case per anziani, alle attrezzature sanitarie, ai musei. Ammiravamo la diffusione di quello che più tardi si chiamerà welfare urbano, le condizioni di equità nelle quali viveva (così almeno ci sembrava) la maggioranza della popolazione. Allora non ci domandavamo chi pagasse tutto questo: se gli abitanti di qualche lontana regione nell’Africa o nell’Asia, che pagavano il benessere dei paesi colonialisti come il Belgio e l’Olanda, il Regno Unito e la Francia, oppure i traffici consentiti dalla posizione di neutralità della Svezia in molte guerre. Intanto, come giovani urbanisti (o ingegneri e architetti) ci sembrava che ci fosse moltissimo da imparare per fare meglio il nostro futuro mestiere. E ci stupiva che loro, invece, delle nostre architetture invidiassero la fantasia e gli svolazzi. 9 capitolo primo Eravamo ancora studenti quando affrontammo le prime esperienze professionali. Un signore milanese ci commissionò l’arredamento di un appartamentino vicino alla stazione Termini. Progettammo due piccole sedi di un’agenzia di viaggi. Questa esperienza mi fece conoscere alcuni falegnami molto simpatici, che mi insegnarono ad apprezzare il legno e mi regalarono dei campionari che conservai a lungo. Ma lasciammo presto l’arredamento. Il grosso del nostro lavoro diventò il calcolo delle strutture di cemento armato. I miei colleghi erano in contatto con un paio di piccole imprese di costruzione, che ci commissionavano i calcoli delle semplici gabbie di calcestruzzo delle palazzine e dei villini che costruivano. La tecnica di calcolo era molto semplice, se nasceva qualche problema, Mimì Del Vecchio, uno del nostro gruppo, era sempre in grado di risolverlo. Una volta ci capitò un’occasione importante. Il mio amico Peppe Loy era entrato nell’impresa di costruzioni del suocero (una grossa azienda, con grandi lavori in tutta Italia). Si trattava di partecipare all’appalto-concorso per gli edifici della Fiera del mare di Genova. L’architetto era un progettista qualificato e serio, a noi affidarono i calcoli delle strutture. Lavorammo bene. L’impresa si aggiudicò i due lotti più grandi. Uno di questi era costituito da un certo numero di padiglioni molto vasti, quadrati, ciascuno con un lato di circa quaranta metri. Secondo il progetto, ogni quadrato era coperto da una grande cupola; quattro robuste passerelle collegavano i quattro gruppi di pilastri agli angoli delle cupole. Per queste lunghe passerelle impiegammo travi in cemento armato precompresso, calcolate e disegnate da Mimì. Un giorno ci telefonarono allarmati. Tirando i primi cavi si erano staccati alcuni pezzi di calcestruzzo in corrispondenza degli ancoraggi. Saltammo sul primo treno. Arrivati a Genova angosciati alle sei del mattino, ci precipitammo in cantiere, andammo al banco del ferraiolo, dove si preparavano i cavi, e in particolare gli ancoraggi nelle testate delle travi. Mimì si accorse subito che non li avevano realizzati secondo i nostri disegni: l’errore era dell’impresa, non di noi progettisti. Respirammo. 4. Federico Gorio e la civiltà urbanistica Non sapevo che cosa fosse l’urbanistica finché non incontrai Federico Gorio. Federico era assistente dell’unico professore di urbanistica, Cesare Valle, autorevole funzionario del Ministero dei lavori pubblici (presidente della sezione urbanistica del Consiglio superiore dei lavori pubblici, “il supremo organo tecnico consultivo dello Stato”, del quale anni più 10 a roma tardi divenni membro). Di frequente, le lezioni le teneva lo stesso Gorio, ed era ancora lui che, sempre presente in istituto, seguiva noi studenti. L’urbanistica mi piacque subito. Mi piaceva il forte intreccio tra dimensione tecnica e professionale e quella sociale e politica, testimoniato dalle esperienze alle quali Gorio aveva partecipato e di cui ci raccontava. Tornato dal campo di concentramento in India dove era stato rinchiuso dagli inglesi dopo la sconfitta italiana in Africa, Gorio era stato assunto dall’Usis, un servizio di informazioni culturali degli Usa, con sede a Roma. Lì aveva partecipato a progetti che ci appassionavano molto: si era occupato di edilizia abitativa pubblica, nell’ambito di un progetto pilota messo a punto per affrontare la questione della povertà nel Mezzogiorno, in particolare il risanamento sociale ed edilizio dei Sassi di Matera. Nel dopoguerra infatti, l’Italia e il mondo avevano scoperto, dopo la parentesi fascista, la “questione del Mezzogiorno”: cioè il fortissimo divario tra le regioni meridionali e quelle centrali e settentrionali, che faceva parlare d’un vero dualismo. A questo si intrecciava la “questione agraria”, che aveva nel Mezzogiorno sue caratteristiche peculiari. Il nodo di entrambe le questioni era nel modo in cui si era formato, nel corso dei secoli, l’assetto economico e sociale dell’una e dell’altra parte d’Italia. Nel Sud non c’era stata accumulazione capitalistica, cioè reinvestimento della ricchezza prodotta nello stesso processo produttivo. Non era diventata egemone una classe borghese, legata all’attività imprenditoriale, ma dominatrice era rimasta la classe dei proprietari fondiari: a differenza della prima, i “signori” non reinvestivano in imprese economiche, ma potevano limitarsi a consumare, nel lusso e nello spreco, i redditi che estraevano dallo sfruttamento dei contadini. Questi ultimi costituivano il grosso delle classi lavoratrici, erano legati per la loro sussistenza alle terre che la rapacità del signore consentiva loro di coltivare. La formazione dell’unità d’Italia non aveva appianato questa sostanziale differenza: il cemento dell’unificazione era stato costituito dall’alleanza tra la borghesia del Nord con le classi dominanti del Sud, legate alla rendita e non al profitto, allo sfruttamento delle risorse esistenti (e del lavoro servile), non alla formazione di nuove vie per produrre ricchezza. La stessa costituzione del regno unitario era stata vissuta dalle popolazioni del Sud come una conquista da parte dei “piemontesi”: il brigantaggio ne fu la conseguenza, la repressione il prezzo. Si erano formate estese sacche di miseria profonda. Questa realtà, sopravvissuta fino agli anni del dopoguerra, fu messa in luce da una bellissimo libro, Cristo s’è fermato a Eboli, di Carlo Levi: uno scrittore che, in quanto sospettato di attività antifasciste, era stato confinato in un paesino della Lucania dove aveva appreso, vivendole, le condizioni del Mezzogiorno. 11 capitolo primo La Lucania, Matera, i Sassi furono l’epicentro di quelle “questioni”. I Sassi erano due grandi contigui valloni scoscesi, a forma di anfiteatro, scavati dalla natura ai margini di altopiano delle Murge, entrambi (il Sasso Caveoso e il Sasso Baresano) sede di preistorici insediamenti rupestri. Le grotte, completate da povere strutture edilizie in superficie aggrappate ai costoni, erano state per secoli le abitazioni di famiglie contadine. A partire dal Settecento la città si era espansa sull’altopiano, ma i Sassi erano rimasti immutati fino ai nostri giorni. I contadini vivevano nei Sassi e lavoravano in campagna, nelle lontane terre del latifondo: si lavorava “da stelle a stelle”, si lasciava l’abitazione prima dell’alba, la si ritrovava dopo il tramonto. Uomini e animali vivevano insieme, in condizioni igieniche spaventose. Un indice parla per tutti: la mortalità infantile era, nel 1948, di 436 morti su 1000 nati vivi. Si aprì un dibattito: Da una parte una sorta di “nostalgia regressiva” per un ritorno a forme sociali precapitalistiche, con la mitizzazione della “filosofia della miseria”, dell’“etica grandiosa del fato dei contadini”. Dall’altra, la denuncia dei Sassi come “vergogna nazionale”, sede di inaudita miseria. E, infine, il valore formale, storico-ambientale-paesaggistico dei Sassi e delle chiese rupestri scavate sui fianchi del burrone8. Una missione finanziata dagli Usa condusse una serie di indagini. Si definì un programma, che prevedeva la realizzazione di alcuni borghi agricoli nella pianura e l’assegnazione ai contadini dei terreni espropriati ai latifondisti. In questo quadro, Gorio partecipò alla progettazione del borgo La Martella. Mi piaceva moltissimo lo sforzo di riprendere, in termini attuali, elementi della tradizione abitativa, quali la prossimità della stalla all’abitazione; l’aggregazione per nuclei, ciascuno caratterizzato dalla presenza di un forno comune; l’asciutta modestia dei materiali e delle forme; la cura negli elementi di arredo; l’articolazione dei nuclei sulle gibbosità del territorio e l’aggregazione dell’insieme attorno al nucleo dei servizi9. Come spesso succede in Italia (adesso accade molto di peggio), al buon programma e all’ottimo progetto urbanistico ed edilizio non corrispose la politica. Il nucleo dei servizi non fu completato, i terreni 8 V. De Lucia, Se questa è una città. La condizione urbana nell’Italia contemporanea, Roma, Donzelli, 2006, p. 10. 9 Al progetto parteciparono anche Ludovico Quaroni, Michele Valori, Pietro Maria Lugli, architetti, e l’ingegner Mario Agati. 12 a roma del latifondo non furono espropriati e concessi ai contadini. All’opposizione della Dc, che vedeva nel progetto sociale una impronta bolscevica («volete fare un colkoz», dicevano), si aggiungeva la diffidenza comunista nei confronti di un progetto di matrice sociologica americana. Gorio aveva promosso e curato l’edizione originale del Manuale dell’architetto (1946): un manuale, redatto sulla base di materiali del bravissimo architetto Mario Ridolfi, che insegnava ad architetti, ingegneri e geometri a costruire correttamente. Costruire correttamente: questo poteva essere il motto di Gorio. Per lui, l’architettura non aveva senso se non a tre condizioni: di essere concepita avendo la maggiore consapevolezza possibile del sito, della sua storia, della società che lo frequentava; di definire il progetto con la massima accuratezza tecnica, tenendo conto delle tecnologie impiegabili, del livello di qualificazione delle maestranze, della necessità di tutte le parti di funzionare nel tempo, con la massima attenzione alle parti dell’edificio che diventano elementi della città; infine, di progettare l’edificio con la consapevolezza che si trattava di aggiungere un mattone a un edificio collettivo, la città. Lavorai con Gorio all’università, poi partecipando con lui a qualche concorso di progettazione urbanistica, poi ancora al Centro studi della Gescal, nel quale mi chiamò a collaborare. 5. Barbara e l’impegno sociale In questo racconto della mia vita ho scelto di lasciare sullo sfondo gli aspetti più privati. Tuttavia il motore di molte scelte di vita è costituito spesso da rapporti con altre persone: rapporti di amicizia, di discepolato e di fraternità, e rapporti d’amore. Così fu il mio amore per Barbara, poi divenuta mia moglie e madre dei miei primi cinque figli: a esso è legato il mio avvicinamento a quegli impegni che oggi chiameremmo solidaristici, attività di matrice culturale cattolica volte a intervenire in pratiche di assistenza sociale. Andavamo nelle zone più povere ed emarginate della città, portando alimenti, vestiti, medicine. Fu un’esperienza importante, per più ragioni. Conobbi la miseria delle borgate di Roma, sentii l’odore di quegli insediamenti poverissimi, abitati da un’umanità dolente formata da immigrati delle campagne dell’Abruzzo, del Lazio, delle Marche e della Campania, cacciati dalla crisi dell’agricoltura e attirati dalla grande domanda di manovalanza per l’edilizia. Era l’umanità descritta da Pasolini, dove ai muratori si mescolavano, nei luoghi e nelle vite, i piccoli malviventi del borseggio, 13 capitolo primo della ricettazione, della truffa. Le case delle borgate erano tuguri di latta e cartone, le esigenze degli abitanti (quelle almeno cui noi potevamo in qualche modo rispondere) del tutto elementari. Sradicati dalle loro campagne, allontanati dai loro mestieri e dalle loro piccole comunità, approdavano ai margini – in tutti i sensi – di una metropoli che costruivano a vantaggio della speculazione. Furono un’esperienza e un’emozione analoghe a quelle dell’incontro con il corteo degli operai in sciopero, a Napoli, sotto il ponte di Chiaia, ma molto diverse per i soggetti che scoprivo. Due strati sociali, entrambi vittime del sistema capitalistico. Ma della classe operaia si percepiva la centralità, espressa nel rigoroso e determinato silenzio del loro disciplinato corteo; del sottoproletariato delle borgate si afferrava subito invece – a partire dall’odore – la condizione di emarginazione, sull’orlo che separa la civiltà e il benessere dall’annientamento. Nelle riunioni che organizzavamo per ragionare e discutere, conobbi un approccio diverso ai temi della politica. Le chiacchiere con gli amici di piazza Ungheria, i lunghi colloqui con i colleghi dell’università vertevano più sulla meccanica della politica, sugli avvenimenti esterni, che sulle sue matrici ideali. Nel gruppo di cattolici di sinistra che con Barbara frequentavo10, invece, si ragionava e si studiava per comprendere meglio i contenuti della politica come attività morale del governo degli uomini. Il tema sotteso era il rapporto tra cattolicesimo (e più in generale la dimensione religiosa) e il movimento operaio (e in particolare il comunismo). Le esperienze dei preti operai, la letteratura francese del “personalismo” (Maritain e Mounier), le pubblicazioni in Italia dell’olivettiano “movimento di comunità” erano i fili conduttori. Guardavamo al comunismo come a un pericolo e, al tempo stesso, come a una speranza. Per dei giovani della tranquilla borghesia, come noi eravamo, che la domenica andavano a messa e nelle cui famiglie si leggevano giornali intrisi di anticomunismo, era difficile farci i conti. Una scoperta fu la rivista «Esprit»: ricchissima di saggi, essa era espressione di un gruppo, fondato dal filosofo Emmanuel Mounier, criticamente vicino ai comunisti, molto impegnato in una riflessione che da un lato si riallacciava al pensiero cattolico più audace (Teilhard du Chardin) e a quello della tradizione riletta in chiave anticapitalista (Charles Peguy), dall’altro militava nell’azione politica impegnandosi su temi come la Resistenza antifascista prima, la lotta contro il colonialismo e le segregazioni poi. 10 Ricordo tra loro Piero Scoppola, Fabio Fiorentino, Rocco Capòpardo, Donatella Pedace. 14 a roma 6. Pubblicista Nell’ambito di questo ultimo gruppo di amici iniziai, per così dire, l’esperienza di pubblicista. Nel 1953 era uscita una rivista, «Nuova generazione», espressione di un gruppo di giovani che si collocavano all’estrema sinistra nella Dc: scrissi una lettera alla redazione, che venne pubblicata, in cui indicavo quelli che a mio avviso erano i limiti e le ambiguità della loro posizione11. Seppi poi che la lettera era stata considerata come una critica di parte comunista. Successivamente, con Fabio Fiorentino ne scrissi un’altra in replica a un articolo di Paolo Spriano apparso sul settimanale culturale del Pci, «il Contemporaneo», nel quale si sollevavano riserve sulle posizioni dei francesi cui noi invece eravamo vicini: Spriano li definiva «profeti disarmati», cioè inefficaci12. Noi, naturalmente, li difendevamo. Il direttore Carlo Salinari ci cercò e volle incontrarci, probabilmente per capire chi eravamo. Pubblicò la nostra lettera con grande evidenza: apertura in prima pagina13. Nel numero successivo pubblicò una replica di Valentino Gerratana14. La terza esperienza fu più impegnativa, fu anzi all’origine di una svolta decisiva nella mia vita. La redazione di «Esprit» aveva avviato la preparazione di un numero speciale sull’Italia. Nella politica italiana qualcosa stava cambiando. Sul tema della pace si profilava un avvicinamento tra mondo cattolico e partito comunista. Nella Dc personalità di un certo peso e gruppi di giovani cominciavano a guardare fuori dal loro partito, verso sinistra. Ebbe un effetto dirompente il voto del parlamento sulla costituzione della Comunità europea di difesa, vista a 11 E. Salzano, La volontà di comprensione non copra equivoci interessi, «Terza generazione», 2 [1954]. 12 P. Spriano, La campana di Olivetti, «Il Contemporaneo», 4 (17 apr. 1954). La sintesi dell’articolo contenuta nel sommario era: «Il movimento di Comunità recluta tutti i suoi quadri tra gli intellettuali liberali, liberalsocialisti, socialdemocratici. Su ciascuno di essi cala silenziosa la campana di vetro della Olivetti & C.». 13 F. Fiorentino, E. Salzano, Cattolici e comunisti, «Il Contemporaneo», 11 (5 giu. 1954). La lettera fu presentata nel seguente modo: «Con la pubblicazione di questa lettera dei cattolici Edoardo Salzano e Fabio Fiorentino intendiamo offrire un nuovo contributo al dibattito dei rapporti tra mondo comunista e mondo cattolico. Intendiamo sviluppare e approfondire questa indispensabile ricerca». 14 V. Gerratana, La critica dei miscredenti, «Il Contemporaneo», 12 (12 giu. 1954). In sintesi, l’articolo sosteneva: «Per porre su nuove basi il dibattito tra due forze decisive della coscienza contemporanea occorre superare il pregiudizio idealista che ha isolato le correnti più avanzate della cultura cattolica». 15 sinistra come un’arma per la guerra contro l’Unione sovietica. Si accentuava intanto l’attenzione del Pci nei confronti di ciò che si muoveva nell’area cattolica. Il numero speciale di «Esprit» fu intitolato, significativamente, L’Italie bouge, l’Italia si muove. Fu preparato da un vasto lavoro di consultazione di intellettuali italiani, invitati a rispondere a un ampio questionario. Anche noi (grazie ai contatti che Fabio aveva preso con la rivista) incontrammo il suo direttore, al Caffè Ruschena sul lungotevere. In seguito a quel colloquio scrissi un lungo pezzo, in risposta alle domande del questionario. Lo spedii: ne furono pubblicati numerosi passaggi, soprattutto sul rapporto tra comunisti e mondo cattolico15 15 L’Italie bouge, I Enquête, «Esprit», xxiiime année, 9, sep.-oct. 1955, p. 1396-1446, passim. 16 Capitolo secondo Un nuovo mondo si apre 1. Franco Rodano Mentre ragionavamo sulla nostra collaborazione alla rivista francese, Fabio mi disse: – Bisogna che conosciamo Franco Rodano, gli chiediamo di rispondere al questionario –. Prendemmo appuntamento e andammo da lui. Fu un incontro che cambiò molto delle mie convinzioni, della mia conoscenza, delle mie azioni. Abitava in una bellissima villa silenziosa, in via di Porta Latina, immersa in un ampio giardino con alberi secolari e piante di rose. Sapevo poco allora di Franco Rodano. Sapevo che, durante la Resistenza, aveva fondato il Movimento dei cattolici comunisti. Dopo l’inizio della guerra fredda aveva ricevuto dal Vaticano un decreto di interdetto (dai sacramenti), era entrato con i suoi nel Partito comunista, aveva un ruolo rilevante come pensatore. Ci ricevette in una grande stanza, dalle spesse mura e dalle ampie finestre sul giardino, un cesto colmo di petali di rose, moltissimi libri alle pareti, una piccola scrivania con oggetti accuratamente sistemati. Parlò soprattutto Fabio: gli illustrò il progetto del numero di «Esprit» sull’Italia e gli chiese di collaborare rispondendo al questionario. Rodano fu estremamente critico. Fece domande su alcuni nodi della politica. Coinvolgevano soprattutto il discrimine tra una posizione riformista (correggere gli errori del sistema vigente) e quella rivoluzionaria (proporsi di costruire una società interamente nuova). A questo discrimine corrispondeva la decisione a favore di quale dei due blocchi schierarsi, se quello egemonizzato dell’Urss o quello Atlantico. 17 capitolo secondo Le posizioni intermedie, le “terze forze”, non avevano, secondo lui, senso: esprimevano solo incertezze e timidezze intellettuali o morali. E ancora, secondo Rodano, la posizione di «Esprit», le domande del questionario, nonostante la nobiltà delle intenzioni, erano decisamente collocate su una posizione che a lui sembrava errata e pericolosa. Fabio via via si rivelava sempre più “riformista”. Io parlavo poco, ero pieno di perplessità e di dubbi. Le argomentazioni di Rodano mi colpivano molto, e così il modo in cui intrecciava considerazioni sulla storia e sulla filosofia, sui grandi princìpi e movimenti dello spirito e sulle vicende politiche e sociali più vicine. Mi faceva vedere le cose sotto un’angolazione e una prospettiva che forse avevo intuito, ma mai avevo lette così chiaramente. Ci accomiatammo, tornammo a casa. Fabio deluso, io molto pensoso. Fu dopo questo colloquio che completai le mie risposte al questionario di «Esprit». Le inviai anche a Rodano, accompagnandole con un biglietto di ringraziamento per l’incontro. Dopo qualche tempo mi telefonò, mi chiese di andarlo a trovare. Mi disse che stava lavorando a una nuova rivista politica, e mi chiese di collaborare. Frequentai a lungo Franco Rodano. Poco alla volta imparai la sua storia, conobbi gli eventi ai quali aveva partecipato da protagonista; alcuni, quelli che caddero nei periodi in cui lavoravo con lui, in tempo reale; altri, i più, attraverso brevi racconti suoi o dei suoi più vecchi amici; infine, con la lettura dei due volumi che sua moglie Marisa dedicò alla loro vita in comune16 e che mi hanno fatto comprendere la complessità, la ricchezza, la verità della sua vita e del suo ruolo nella Storia. La casa in cui ci incontravamo, la villa tra via di Porta Latina e via San Sebastiano, era stato il luogo nel quale si erano riuniti in clandestinità, durante l’occupazione nazista, i massimi dirigenti del Pci e degli altri partiti antifascisti per discutere la ricostruzione della vita politica in Italia, le tattiche per la Resistenza e le strategie per il dopoguerra. Seppi più tardi della vita errabonda e clandestina che i miei amici avevano patito a Roma, negli anni bui dell’occupazione nazista della capitale, tra soffitte di conventi e alloggi di amici fidati, con pacchi di manifestini e qualche revolver e bomba a mano; seppi dei rischi, degli eroismi, dei martìri, prezzo che il gruppo cui appartenevano Franco e Marisa pagò per fedeltà ai princìpi e costanza nell’attività politica. 16 M. Rodano, Del mutar dei tempi, 2 vol., Roma, Memori, 2008. 18 un nuovo mondo si apre Seppi più tardi che nella loro abitazione c’erano stati i primi contatti tra tre personaggi che furono un riferimento costante per Franco, negli anni in cui lo frequentai: Palmiro Togliatti, il leader indiscusso del Partito comunista italiano; don Giuseppe De Luca, uomo di grande cultura e religiosità, emissario di quegli ambienti del Vaticano che portarono al papato di Giovanni xxiii; Raffaele Mattioli, il grande banchiere e intellettuale, coinventore dell’Iri e fondatore della Banca commerciale, che aveva protetto durante la Resistenza uomini come Ugo La Malfa e Giorgio Amendola, e creato con l’editore napoletano Ricciardi la più grande e rigorosa antologia della letteratura italiana (era stato anche l’amico che, una ventina di anni prima, aveva consigliato a mio padre di dichiarare fallimento, dopo la crisi dell’impresa di mio nonno Eduardo). Frequentando Franco e Marisa vissi, quasi in presa diretta, episodi significativi della vita politica italiana. Alla costruzione di alcuni contribuii personalmente, a partire dai lavori che facemmo insieme: quelli in particolare che avevano a che fare con la rendita urbana e con il ruolo degli spazi pubblici nella città e nella società. (Ma su quest’ultimo argomento tornerò con ampiezza più avanti, perché costituisce un filone importante della mia attività, lo stesso intorno al quale sto lavorando anche adesso, mentre scrivo queste pagine). 2. In quegli anni, nel mondo e in Italia Verso la metà degli anni Cinquanta qualche spiraglio di novità sembrava aprirsi, nell’Italia e nel mondo, qualche incrinatura nella rigida contrapposizione tra i due blocchi. Il mondo era spaccato tra due realtà statuali, politiche, economiche, ideologiche, facenti capo l’una all’Urss (Unione delle repubbliche socialiste sovietiche), l’altra agli U sa . La guerra contro la Germania di Hitler e i suoi alleati italiani e giapponesi era stata vinta dall’alleanza tra Gran Bretagna, Russia e Usa. Ma già all’indomani della seconda guerra mondiale, nel marzo 1946, Winston Churchill, premier del Regno Unito, aveva pronunciato a Fulton, nel Missouri, quel discorso nel quale per la prima volta si adoperava il termine “cortina di ferro”17. Un anno dopo, nel marzo 1947, il presidente 17 In un’intervista, il leader dell’Urss Iosif Stalin commentò quel discorso: «Lo giudico un atto pericoloso, diretto a seminare i germi della discordia tra gli stati alleati e a rendere difficile la loro collaborazione», «Pravda», 13 mar. 1946. 19 capitolo secondo degli Usa lanciava quella che sarebbe stata definita, dal suo nome, la “dottrina Truman”: la politica di contenimento dell’espansione del comunismo nel mondo, attraverso la costituzione di un blocco militare (il Patto atlantico) e il sostegno economico agli stati europei ove i partiti comunisti minacciavano di prendere il potere (il Piano Marshall). La replica dell’Urss era stata immediata: un blocco militare e una più viva ingerenza negli “stati satelliti”, gravitanti nell’orbita di Mosca. Il rischio implicito nella rottura dell’alleanza antinazista era la guerra: una terza, devastante guerra mondiale, questa volta dotata fin dall’inizio del nuovo armamento nucleare sperimentato dagli Usa a Nagasaki e Hiroshima e rapidamente adottato anche dall’Urss. Perciò, in quegli anni, era sorta una forte aspirazione pacifista. E perciò, in quegli stessi anni, si era manifestato un interesse di nazioni e stati non direttamente coinvolti nell’orbita dell’una o dell’altra delle due potenze maggiori a consolidare una propria autonomia. Iniziative comuni delle diplomazie dei due blocchi contrapposti per tentare le vie della pace (prima tappa, il disarmo atomico), e altre dei paesi del “Terzo mondo” (così si cominciò a definire i paesi non allineati) trovarono sbocchi significativi proprio verso la metà del decennio. Nel 1955 ebbe luogo a Ginevra un primo incontro tra i massimi esponenti degli Stati dell’alleanza anti nazista (Usa, Urss, Gran Bretagna e Francia). Lo stesso anno, in Indonesia, nacque il “Terzo mondo”. Per la prima volta si riunirono nella Conferenza di Bandung i paesi che non si riconoscevano né nel mondo dominato dall’economia di mercato né in quello governato da una rigida economia statalizzata: stati e movimenti di liberazione nazionale di paesi dell’Asia, dell’Africa e dell’Europa (la Jugoslavia di Tito) che volevano essere autonomi rispetto ai due blocchi. Anche in Italia qualcosa stava cambiando, soprattutto nel mondo cattolico. La collaborazione con i comunisti era una componente essenziale per chiunque volesse operare sia, nel mondo del lavoro, a sostegno alle classi lavoratrici sia, nel campo delle grandi questioni mondiali, per sconfiggere la prospettiva di guerra sterminatrice. Ma l’orientamento del Vaticano (era papa Eugenio Pacelli, Pio xii ) era violentemente anticomunista. Ecco quindi le numerose condanne di ogni iniziativa che, dal clero o dalle organizzazioni sociali cattoliche, violasse la pregiudiziale anticomunista. Furono gli anni nei quali furono pesantemente sconfessati personaggi come don Primo Mazzolari, un parroco che diffondeva un pensiero di forte impegno sociale, e don Lorenzo Milani, autore della splendida iniziativa di formazione descritta nel libro 20 un nuovo mondo si apre Esperienze pastorali18, e soprattutto di Lettere a una professoressa19, un libro che animò parte rilevante del Sessantotto. Nella Dc, l’opposizione alla linea dominante si espresse in modo esplicito in occasione del dibattito parlamentare sull’adesione dell’Italia all’Unione europea occidentale: un dispositivo militare che avrebbe consentito il riarmo della Germania occidentale, ostacolato la riunificazione delle due parti nelle quali era stata divisa la nazione tedesca e costituito una palese iniziativa di contrasto con l’Urss, nel momento stesso in cui si tentava di avviare iniziative di distensione e di collaborazione verso il disarmo atomico e la pace. È in questo quadro che nacque l’iniziativa politica e giornalistica alla quale Franco Rodano mi invitò a collaborare, avviando un mutamento profondo nella mia vita. 3. La rivista «il Dibattito politico» Stava nascendo una nuova rivista, «il Dibattito politico». Due deputati democristiani avevano votato contro l’adesione dell’Italia al Trattato militare europeo ed erano stati radiati dal loro partito. Si trattava di Mario Melloni e Ugo Bartesaghi. Il primo era stato partecipe della Resistenza a Milano; giornalista (aveva diretto «il Popolo», quotidiano della Dc), cattolico di sinistra vicino alle posizioni della rivista «Esprit», fervido antifascista e convinto avversario delle ingiustizie sociali, uomo spiritosissimo ed elegante, avrebbe scritto sulla nuova rivista gustosissimi corsivi firmandosi emme. Proseguì più tardi, firmandosi Fortebraccio sull’«Unità». Completamente diverso come cultura e atteggiamento era l’altro compagno d’avventura, Bartesaghi: sindaco di Lecco, austero e rigorosissimo, già accusato nel suo partito di filocomunismo per essere andato con i pescatori del lago di Como a soccorrere la gente del Delta nell’alluvione del Polesine. Contemporaneamente, un gruppo di giovani democristiani, esponenti di punta delle organizzazioni giovanili della Dc (Giuseppe Chiarante, Lucio Magri, Ugo Baduel, Umberto Zappulli), da tempo orientati su posizioni di sinistra vicine a quelle del Pci, avevano abbandonato il loro partito. A casa di Franco e Marisa Rodano, che già frequentavano, incontrarono il gruppo (Vittorio Tranquilli, Filippo Sacconi, Tonino Tatò, Giobatta Chiesa, Franco Rinaldini, Ennio Parrelli, Erasmo Valente) 18 19 L. Milani, Esperienze pastorali, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1957. Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1967. 21 capitolo secondo che aveva attraversato con Franco la storia dell’opposizione al fascismo e della Resistenza, l’esperienza del Movimento dei cattolici comunisti prima, della Sinistra cristiana poi, lo scioglimento di quest’ultima e l’ingresso nel Pci, e infine la vicenda culturale della rivista «Lo Spettatore italiano»: una rivista mensile, edita da Laterza, la cui redazione era formata da Elena Croce e altri dell’area culturale crociana, che si occupavano prevalentemente della parte letteraria, e da alcuni del gruppo di Rodano, che curavano la parte politica. L’obiettivo del «Dibattito politico» era dar voce alle posizioni che favorivano il dialogo tra il mondo cattolico e quello comunista. Il tema immediato era la pace e la sconfitta del terrore atomico; la prospettiva era l’incontro tra due realtà culturali in diverso modo interessate al superamento del sistema capitalistico-borghese. Dietro c’erano i colloqui che, proprio a casa Rodano, si svolgevano tra altissimi esponenti del Pci e del Vaticano. Ma questo lo seppi dopo. Del rapporto stretto che legava il gruppo del «Dibattito politico» e il Pci lo seppi invece subito, quando Franco mi chiese di portare a casa di Palmiro Togliatti, nel quartiere di Montesacro, una copia appena stampata della rivista. Un po’ emozionato presi la mia Vespa e lasciai la rivista alla persona che venne ad aprirmi il cancello della piccola villa oltre l’Aniene. Naturalmente accettai la proposta di collaborazione: avrei scritto solo su ciò che conoscevo, architettura e urbanistica. I primi pezzi li firmai Cpr (Cooperativa progettisti romani): era il nome che avevamo dato al nostro sodalizio professionale con Alberto Durante e gli altri. Mi ero consultato con loro, era la prima volta che a uno di noi veniva fatta una proposta simile. Decidemmo che si poteva accettare, ma che la collaborazione doveva essere espressione di un impegno collettivo. Ma già dopo poche settimane, constatato il disinteresse dei miei colleghi, firmavo col mio nome e cognome. Ero uno dei pochi che firmava “in chiaro”, insieme ai due direttori, Melloni e Bartesaghi, e a qualcuno dei giovani ex Dc. In particolare, restavano coperti da pseudonimo Rodano (Michele C. Di Pietro), Tranquilli (Valerio Trevi), Tatò (Vindice Vernari), Sacconi (Leonardo Castelli), la new entry Giuliana Gioggi (Giuliano Scolastici): in pratica gli iscritti al Pci (credo anche per evitare che qualcuno in quel partito li accusasse di costituire una fazione organizzata). Le firme esplicite erano quindi solo quelle di ex democristiani, cui si aggiungevano quelle di due “laici” sconosciuti: io e il mio amico Rocco Cacòpardo. Rocco, detto Chicco, apparteneva a quel gruppo di giovani intellettuali cattolici di sinistra che frequentavo. Aveva un’intelligenza molto viva, una cultura ricca e giocata su tonalità diverse dalle mie. Aveva ascendenze francesi che s’erano intrecciate ad avi siciliani. Il padre era 22 un nuovo mondo si apre funzionario d’una organizzazione internazionale che aveva base a Montreal, in Canada, dove anche Chicco aveva vissuto. Aveva uno sguardo più cosmopolita degli altri. Il suo punto di riferimento culturale era un gesuita canadese, padre Lonergan, di cui decantava le posizioni molto avanzate. Anche per lui il collegamento politico culturale più vivo erano gli intellettuali francesi cui faceva capo «Esprit», ma conosceva bene Sartre e la filosofia esistenzialista. Era molto incuriosito dal mio mondo di architetti e urbanisti. Abitava in un bell’appartamento dei genitori, in piazza Bologna. Ci propose di trasferire a casa sua il nostro piccolo studio (fino ad allora avevamo utilizzato una stanzetta a casa di Mimì) e ci aiutò a costruire un sofisticato arredamento. Come me, ammirava molto le tesi, le iniziative e la letteratura di Comunità, un movimento molto vivace, che faceva capo all’industriale Adriano Olivetti, e che coniugava gli interessi per la sociologia e la filosofia a quelli per l’urbanistica, l’architettura, il design. Adriano Olivetti era promotore e finanziatore di ottime esperienze. Per molti anni finanziò l’Istituto nazionale di urbanistica e la sua rivista «Urbanistica». Pubblicava a sua volta una bella rivista, «Comunità», che si occupava di tutte le questioni che gli stavano a cuore e che avevano sullo sfondo il progetto di una società nuova. C’era in lui una forte carica utopistica, una grande capacità organizzativa, un’attenzione estrema per la cultura in tutte le sue espressioni. La modernissima Fabbrica Olivetti di Ivrea, oltre a produrre le bellissime macchine da scrivere e a essere sorretta da una rete di servizi sociali di straordinario livello, era la fucina di un ampio gruppo di intellettuali. Per un anno circa scrissi solo articoli in materia di urbanistica e architettura: pezzi brevi, raramente occupavano una pagina intera. Tutti gli articoli – soprattutto quelli più impegnativi – erano il prodotto di una discussione con Franco Rodano, di cui sempre più mi conquistava la capacità di intrecciare ogni argomento con le sue radici culturali, storiche, filosofiche, politiche, vicine e remote. Ogni discussione era una lezione. Mi sentii sempre più legato alla rivista, e piano piano cominciai a occuparmi anche d’altro: cominciai a scrivere su altri argomenti, e a partecipare alle normali attività di redazione. Scrivevo brevi note di politica italiana e internazionale, e di economia, e mi ero assunto il compito di illustrare i pastoni sulla politica internazionale composti da Sacconi, con qualche vignetta satirica ripresa dalla stampa estera. Aiutavo a correggere le bozze, avevo rapporti con l’affascinante mondo della tipografia (si adoperava ancora la linotype e si costruivano le pagine con pacchi di righe di piombo fuso). 23 capitolo secondo Quando il settimanale diventò mensile proposi addirittura la nuova copertina, che venne accettata. Un po’ mutuata dal modello anglosassone dell’«Economist», aveva però la testata composta dai caratteri stencil, quelli stampigliati sulle casse o sulle tavole dei concorsi di architettura con le mascherine traforate: li avevo visti in una pubblicazione di Le Corbusier che mi era piaciuta molto. Cominciò allora la mia passione per il lavoro di redazione, che mi condusse a molti tentativi editoriali: qualcuno effimero, qualcuno di lunga durata. Ma di questo parleremo più avanti. Ciò che più mi piaceva era scrivere. Più degli articoli impegnativi mi divertivano brevi corsivi, dalle 20 alle 60 righe, che occuparono nel tempo una specifica rubrica, «Il rosso e il nero», su temi prevalentemente suggeriti da Franco. I giovani ex democristiani confluiti nel «Dibattito politico» avevano provenienze e abitudini provinciali: Beppe Chiarante e Lucio Magri venivano da Bergamo e da Ferrara, Ugo Baduel da Perugia. La loro cultura politica era sterminata, ma vivevano in un mondo dal quale ogni altra dimensione era estranea: in particolare quella un po’ godereccia e spensierata dei figli della buona borghesia romana. Abitavano in un appartamento subaffittato da una certa signora Scarponi, vicino alla città universitaria: un paio di stanze ingombre di pile di giornali e di calzini sporchi. Con Rocco decisi di estrarli dal loro mondo e di introdurli in un altro, più arioso: almeno la domenica nelle buone stagioni, che a Roma erano molte e lunghe. Prendemmo l’abitudine di passarli a prendere con la Cinquecento di Rocco (io seguivo in Vespa) e di portarli a Fregene, nella villa dei genitori di Barbara, la Busiriana. Là conobbero altre persone. Trascorrevano ore a discutere di un problema politico che stavano affrontando o di un articolo che stavano scrivendo, passeggiando su e giù per il prato; ma poi chiacchieravano del più e del meno, facevano amicizia, si innamoravano. 4. Emergono i temi della ricerca Sul «Dibattito politico» scrissi un articolo impegnativo20, capostipite di una linea di ricerca che si sarebbe sviluppata considerevolmente negli anni successivi. Fu in occasione del processo che vide contrapposti il 20 E. Salzano, L’arretratezza economica del personale economico frena il dinamismo della Sgi, «il Dibattito politico», 77 (16 dic. 1956). 24 un nuovo mondo si apre settimanale «l’Espresso» e la Società generale immobiliare, protagonista delle peggiori speculazioni urbanistiche nella Roma papalina e democristiana. Il processo era stato provocato da una serie di articoli dal titolo «Capitale corrotta=nazione infetta. Cicicov in Campidoglio», in cui il giornalista Manlio Cancogni descriveva analiticamente e denunciava i legami tra potere economico (la grande società immobiliare) e potere politico (il personale della Dc che dominava in Campidoglio). A quella vicenda ebbi modo di partecipare, in un ruolo del tutto marginale, col mio amico Alberto Durante. Nella sua denuncia e nella sua successiva difesa, «l’Espresso» era affiancato da una pattuglia di urbanisti (tra cui Gorio, Vittorini, Vincenzo Di Gioia, Cesare Valle) il cui tramite con la rivista era costituito da Antonio Cederna. Per difendere Cancogni e il suo giornale si voleva quantificare esattamente il maggior valore ottenuto dall’immobiliare con una variante ad hoc operata dal Comune di Roma per l’area di proprietà della società sul colle di Monte Mario. Bisognava misurare alcune superfici sulle tavole del prg. Esisteva un solo planimetro (strumento tecnico per misurare le aree su una mappa) disponibile, lo avrebbe prestato l’architetto Ludovico Quaroni. Alberto ed io andammo nello studio di Quaroni in via Frattina, misurammo le aree, calcolammo il maggior volume edificabile ottenuto con il passaggio da una destinazione edilizia a un’altra. Il processo si concluse in appello con la condanna del giornalista per calunnia. Nell’articolo sul «Dibattito politico» affrontavo la questione da un punto di vista più generale. La tesi che sostenni, e che mi sembra ancora valida, è che la responsabilità maggiore era quella del potere politico, del suo asservimento alla struttura economica, e dell’intreccio perverso tra rendita urbana e profitto capitalistico. Oggi, mezzo secolo più tardi, sostengo (e non sono il solo) la stessa tesi nei confronti dell’asservimento della politica all’economia neoliberista: in modo, ahimè, molto più generalizzato di quanto allora fosse. Sviluppai il ragionamento in una serie di articoli, all’inizio del 1957, dai titoli lunghi e significativi, affrontando i temi che poi rimarranno al centro della mia attenzione. Nell’articolo intitolato La proprietà privata del suolo urbano impedisce l’ordinato progresso della città e la sua organica espansione urbanistica affrontavo la questione della proprietà del suolo urbano, riprendendo largamente l’allora celebre testo di Hans Bernoulli21. 21 Oggi ripubblicato, in edizione integrale: H. Bernoulli, La città e il suolo urbano, Venezia, Corte del Fontego, 2006. 25 capitolo secondo In I progetti di legge sulle aree fabbricabili, non intaccando l’assetto proprietario, rinunciano ad ogni soluzione completa proseguivo il ragionamento sul terreno legislativo22: si stavano discutendo in parlamento alcune proposte in materia di acquisizione di aree per l’edilizia economica e popolare e di prelievo fiscale degli incrementi di rendita derivanti dalle scelte dei piani regolatori, i primi cenni di quei tentativi di più ampia riforma urbanistica che si manifesteranno qualche anno più tardi. 5. Bisogno, consumo, produzione, lavoro Nello stesso anno affrontai un tema che a partire da allora divenne centrale sia nella riflessione del gruppo di Franco Rodano sia nel mio specifico lavoro di urbanista: la questione dell’organizzazione del consumo. A Franco si era riavvicinato il grande economista Claudio Napoleoni – uno dei pochissimi che abbia studiato il capitalismo e la critica marxiana nel tentativo di guardare oltre – e spesso i miei contributi erano discussi anche con lui. Alla scuola dei miei maestri (e grazie anche alle mie letture), avevo compreso la differenza tra il carattere specifico delle grandi funzioni dell’economia (consumo, produzione, lavoro) in relazione alla crescita delle facoltà proprie dell’uomo, e il ruolo che esse avevano assunto nel sistema capitalistico borghese. La posizione che i miei amici avevano formulato, e che fu alla base della mia ricerca successiva, ha la sua premessa in una valutazione del bisogno. Riprendo alcune formulazioni da un testo che Claudio Napoleoni scrisse per le scuole medie superiori: I bisogni umani sono molteplici, e sono suscettibili di indefinito sviluppo. Che i bisogni siano molteplici è una circostanza che risulta immediatamente evidente a una considerazione anche superficiale, della realtà umana, così come essa si presenta in ogni momento dato. (…) Ma dovrebbe pure risultare chiaro che i bisogni non solo si presentano come molteplici in ogni momento dato, ma si sviluppano anche lungo il tempo. I bisogni dell’uomo di oggi non sono certo gli stessi dell’uomo di duemila anni fa; e quella disponibilità di beni che nei tempi antichi poteva essere giudicata degna di un ricco, o magari di un sovrano, potrebbe essere giudicata oggi intollerabile anche dal più umile lavoratore. (…) Questo sviluppo dei bisogni si presenta come 22 I due articoli sono in «il Dibattito politico», rispettivamente 78 (1° gen. 1957) e 79 (16 gen. 1957). 26 un nuovo mondo si apre illimitato, giacché è il fatto stesso che certi bisogni siano stati soddisfatti ciò che fa nascere nuovi bisogni.23 E se l’uomo è riuscito a soddisfare in qualche modo i bisogni più immediati, più elementari, quelli cioè che dipendono dalla sua vita animale, i bisogni della sussistenza, ecco allora che vorrà poi soddisfare bisogni più propriamente umani, come quelli della cultura e della vita spirituale. I bisogni da soddisfare sono imposti o suggeriti all’uomo dalla sua vita fisica, dai suoi affetti, dalla necessità di vivere in una comunità, dal suo intelletto, dalla sua fantasia, e, magari, dalle sue fantasticherie e dai suoi capricci. E tutte queste fonti da cui i bisogni si formano e si manifestano sono stimolate a produrre bisogni nuovi ogni volta che i bisogni vecchi siano stati, in qualche misura, soddisfatti. Non c’è limite a questo processo, né si può immaginare l’eventualità che, nella storia, si arrivi a uno stadio nel quale tutti i bisogni possibili siano completamente soddisfatti, e nel quale quindi l’uomo si possa fermare, cioè, in sostanza, non vivere più. Il consumo è l’attività economica finalizzata alla soddisfazione del bisogno, la produzione ha a sua volta nel consumo la sua finalità. Lo strumento mediante il quale l’uomo produce è il lavoro, altra dimensione essenziale del processo economico. Seguendo anche qui la definizione di Napoleoni, il lavoro è, per sua natura, lo strumento, peculiarmente umano, col quale l’uomo consegue i suoi fini; ed è strumento universale, nel senso che esso è a disposizione dell’uomo per ogni possibile suo fine. I fini che l’uomo può proporsi sono potenzialmente infiniti, ma l’uomo, come essere finito, li può perseguire e raggiungere solo in un processo, passando da ogni determinato ordine di fini ad altri ordini superiori, e intanto questo processo è pienamente umano in quanto ogni suo momento è una tappa per il passaggio ai momenti successivi, e mai un punto di arrivo definitivo. Corrispondentemente il lavoro, in condizioni naturali, realizza la sua natura di strumento universale solo passando sistematicamente attraverso una successione di determinazioni particolari, senza mai fissarsi in alcuna, ma anzi stando in ciascuna solo per conseguire fini che, una volta raggiunti, lo metteranno in grado di acquisire una maggiore efficacia come strumento e quindi di servire per fini superiori. In questo processo naturale di 23 Questa e la citazione seguente sono in C. Napoleoni, Elementi di economia politica, Firenze, La Nuova Italia, 1980III, p. 4 e seguenti. 27 capitolo secondo sviluppo, c’è dunque un rapporto di azione reciproca tra i fini e il lavoro: è il raggiungimento del fine che arricchisce il lavoro, ed è il lavoro arricchito che consente fini più alti24. Questo «processo naturale di sviluppo» dell’uomo è interrotto dallo sfruttamento: Con lo sfruttamento, infatti, il lavoro perde la sua natura di strumento universale, in quanto viene rinchiuso entro una cerchia definita e invalicabile di bisogni, quella dei bisogni della vita fisica. Quando quella parte della capacità lavorativa di un uomo che resta ancora disponibile dopo che egli ha soddisfatto i propri bisogni di sussistenza, e che potrebbe perciò essere ordinata alla soddisfazione di bisogni superiori, viene viceversa piegata verso la produzione occorrente per soddisfare i bisogni di sussistenza di un altro uomo, allora il lavoro rimane fissato entro una categoria determinata di bisogni, il rapporto di interazione tra lavoro e fini è spezzato, il processo stesso dello sviluppo umano (almeno come sviluppo interessante la generalità degli uomini) risulta interrotto. Una precisa visione dell’uomo era quindi il presupposto filosofico della lettura che Rodano e Napoleoni elaboravano sulla società e sulla sua storia. Da questa base partimmo per affrontare l’analisi della città, nel tentativo di individuare le ragioni della sua crisi e le possibili vie di un suo rinnovamento. Ma per giungere a questo risultato, e percorrere lo spazio che separa la riflessione critica sulla natura economico-sociale del mondo attuale dai lineamenti di una adeguata politica urbanistica fu necessario un ulteriore passaggio. Riflettendovi oggi, a quasi mezzo secolo di distanza, esso fu possibile grazie anche all’apporto di Marisa Rodano e alle sue esperienze nella politica e nella società. Il lavoro teorico si intrecciava infatti strettamente con quello pratico di Marisa, fortemente impegnata nel movimento per l’emancipazione della donna. Il suo apporto è stato fondamentale per rendere la questione del consumo un elemento centrale del ragionamento sulla società e sulla città, che mi condusse alla ricerca sull’urbanistica nella società attuale, sulla quale tornerò più avanti. Per comprenderla è necessario tener presente che la condizione delle donne era profondamente cambiata nel quadro delle trasformazioni che avevano caratterizzato l’Italia dopo la guerra e la sconfitta del fascismo. Ricordiamo i tratti essenziali di questo mutamento. 24 Questa e la citazione seguente sono in C. Napoleoni, Sfruttamento, alienazione, capitalismo, «La Rivista trimestrale», 7-8 (1963), p. 402. 28 un nuovo mondo si apre 6. Le trasformazioni nella società e nel territorio Il fascismo e il secondo conflitto mondiale avevano lasciato all’Italia una pesante eredità: le distruzioni di una guerra che aveva attraversato l’intero Paese, soggiornandovi a lungo; un’economia chiusa, “autarchica” e tendenzialmente autosufficiente, largamente basata su un’agricoltura spesso praticata in forme arcaiche e improduttive. Il modo in cui le forze dominanti, che facevano capo sostanzialmente alla Dc di Alcide De Gasperi e al partito liberale di Luigi Einaudi, affrontarono l’adeguamento dell’economia alle condizioni di un mercato aperto provocarono tumultuose trasformazioni nella società e nel territorio. Sul versante della ricostruzione, anziché adoperare gli strumenti della pianificazione, si era lasciata briglia sciolta all’attività edilizia privata. Ognuno costruì dove volle, dove più accessibili e ben serviti dalle strade erano i terreni e dove più forte era la domanda di case provocata dalle distruzioni, dalla scarsità del patrimonio edilizio (nel 1931, data dell’ultimo censimento generale prebellico, 41,6 milioni di abitanti vivevano in 31,7 milioni di stanze) e dalle migrazioni interne. La forte espansione dell’attività edilizia svolgeva anche un altro ruolo, facilitava il passaggio della mano d’opera dall’agricoltura all’industria: per un contadino era più facile imparare il mestiere di manovale o di muratore che quello di operaio nella catena di montaggio. Sul versante dell’economia, l’ingresso dell’Italia nel mercato internazionale aveva rapidamente reso insostenibili le condizioni di gran parte dell’agricoltura e favorito invece l’espansione della produzione industriale. La conseguenza fu che milioni di italiani furono indotti a spostarsi dalla campagna alla città, dalle attività agricole al lavoro nelle fabbriche e negli uffici, dai piccoli centri alle città dove l’industria (Milano, Torino, Genova) o le attività terziarie (Roma) richiamavano occupazione. Dal 1951 al 1971 quasi 20 milioni di abitanti cambiarono residenza. I governi che gestirono la ricostruzione e il successivo periodo di crescita economica (dopo la breve parentesi di quelli con la presenza della sinistra) non governarono né l’uno né l’altro fenomeno: si limitarono a stimolare la spontaneità dell’imprenditoria. Le città in cui le migrazioni portavano nuovi abitanti crescevano a dismisura senza regole se non quella della valorizzazione dei terreni dei proprietari più potenti. Estese periferie prive di servizi dilagarono a macchia d’olio. Le scelte di politica industriale, dominate dai maggiori gruppi capitalistici del Nord, privilegiavano la produzione di beni di consumo durevole; l’enorme espansione della produzione di automobili, 29 capitolo secondo favorita dalla costruzione delle infrastrutture stradali, impediva di investire nel trasporto collettivo, ponendo una delle più pesanti ipoteche sulla vivibilità delle città e sul loro funzionamento, e sul consumo di energia e di tempo. Accanto alle trasformazioni dell’assetto sociale e territoriale, avvennero trasformazioni altrettanto significative nel campo dei poteri. La democrazia che si ricostituì dopo la Liberazione era una democrazia di massa. Il quadro politico era dominato da partiti con una forte base popolare: se i partiti comunista e socialista esprimevano soprattutto la classe operaia e larghi strati del bracciantato e, nelle regioni centrali, della mezzadria, il substrato cattolico della Democrazia cristiana, e la sua stessa storia, ne facevano l’interprete, oltre che delle forze economiche dominanti, anche di porzioni consistenti del mondo contadino, dell’artigianato e della piccola imprenditoria. E dal 1946 il suffragio universale era stato realizzato nella sua pienezza, estendendo il voto alle donne. In questo quadro anche la condizione delle donne era mutata. Già la donna era assoggettata, senza possibilità di scelta, alle mille mansioni del lavoro casalingo. A tutto ciò si aggiungeva adesso il lavoro nelle fabbriche e negli uffici. Nel marzo 1958, dopo le consuete riunioni con Franco (e gli interventi di Marisa) scrissi un articolo che fu intitolato Gestione domestica e organizzazione del consumo25. La sua rilettura, a distanza di molti anni, mi ha riportato alla memoria cose rilevanti per comprendere l’evoluzione di un interesse che mi ha seguito negli anni. Analizzavamo in primo luogo il modo in cui in Italia si svolge il consumo. Esso – scrivevo – è legato strettamente alla vita familiare, e subisce l’ordinamento rigidamente privatistico di questa. Una sola persona, priva di ogni oggettiva qualificazione tecnica, presiede alle innumerevoli incombenze della gestione domestica. La spesa, la scelta delle merci, la formulazione del bilancio e la suddivisione delle sue voci, la preparazione dei cibi, la pulizia della casa, delle stoviglie, la cura degli indumenti e la loro sostituzione, la sorveglianza dei minori anche ben oltre le necessità della partecipazione della donna all’equilibrio della vita familiare: questi sono solo alcuni dei compiti materiali svolti, ogni giorno, dalla casalinga. 25 E. Salzano, Gestione domestica e organizzazione del consumo, «il Dibattito politico», 107 (16 mar. 1958). 30 un nuovo mondo si apre Questa attività, mentre da un lato è assolutamente empirica e non specializzata, dall’altro avviene in forma del tutto gratuita. È quindi completamente priva di ogni metro economico, di ogni ordine previsto, di ogni tecnica razionale, di ogni necessaria disciplina: il servaggio delle casalinghe – costrette a una fatica di cui nessuna remunerazione è possibile – viene così a coprire la reale e gravissima dispendiosità con il quale il servizio domestico viene gestito. Organizzare in forme sociali il consumo consente quindi di raggiungere una molteplicità di obiettivi: liberare la donna dall’obbligo del lavoro casalingo, risparmiare risorse e rendere possibile l’impiego socialmente utile di ingenti masse di forza lavoro, consentire ai lavoratori di ottenere, a parità di salario, maggiori e migliori consumi. L’articolo si concludeva con una nota di pessimismo, che il mezzo secolo trascorso pienamente conferma: Ma può una società come la nostra, fondata su una struttura economica torpida e anarchica, nata per l’iniziativa prematuramente senile di una borghesia impotente, diretta da un personale politico incapace e arruffone permettere simili prospettive, utilizzare siffatti tesori nascosti? C’è, in altri termini, nel nostro sistema sociale, l’esigenza di liberare le grandi riserve esistenti di forza lavoro? Tutto ci risponde certamente di no. Nel quadro degli attuali equilibri politici, l’organizzazione del consumo – ove per avventura, a semplice titolo di ipotesi, potesse in qualche misura realizzarsi – coinciderebbe fatalmente con l’estromissione brutale delle braccia superflue da attività nelle quali, bene o male, riescono oggi a sopravvivere. Per risolvere questo come altri decisivi problemi italiani il privatismo conservatore è insufficiente, i costi da esso pretesi insopportabili. Molti ragionamenti insomma si collegavano al tema dell’organizzazione sociale del consumo e lo nutrivano: l’emancipazione delle donne, il ruolo subalterno del consumo, l’indebolimento della vita collettiva, sempre più cancellata dal prevalere di teorie e pratiche individualistiche. Sul terreno del mio mestiere e della comprensione dei suoi fondamenti, questa linea di ricerca si sviluppò negli anni successivi, in occasione del lavoro sugli standard urbanistici e soprattutto in occasione di una serie di saggi che scrissi, nel 1964 e nel 1965, sulla «Rivista trimestrale», che succedette al «Dibattito politico», e che raccolsi poi nel libro Urbanistica e società opulenta. Ma su questo tornerò più avanti. 31 capitolo secondo 7. Comunista Prima di narrare delle ricadute urbanistiche del mio incontro con il gruppo di Franco Rodano, vorrei far cenno alle ricadute che questo ebbe sulle mie convinzioni politiche. Lavorare con persone più colte di me e più vicine alla Storia (a quella già trascorsa e a quella che via via si tesseva nella politica) mi fece comprendere moltissime cose del mondo che mi circondava. Compresi, tra l’altro, le ragioni per le quali l’insegnamento di Machiavelli, ripreso da Gramsci, aveva reso autonoma la politica da ogni altra dimensione del sapere e del vivere, dalla religione come dalla morale. Compresi la rilevanza del fatto che la catena del sistema capitalisticoborghese, capovolgendo le previsioni di Marx, fosse stata spezzata nel punto più basso del suo sviluppo: nella Russia semiasiatica degli zar anziché negli evoluti stati capitalistici dell’Europa occidentale. Compresi come, grazie a questa provvidenziale rottura e alla faticosissima costruzione di uno Stato (quello sovietico) che aveva reso collettiva la proprietà dei mezzi della produzione capitalistica, era stato possibile sconfiggere il nazismo prodotto dalle viscere del sistema borghese. Compresi perché nella sua stessa nascita erano implicite le ragioni per cui il comunismo sovietico era incapace di svilupparsi oltre le forme, intrise di pesanti eredità autocratiche, nell’ambito delle quali aveva storicamente dovuto vivere. Compresi che rivoluzione non significa necessariamente presa del potere con la violenza da parte di una minoranza, ma piuttosto instaurazione di un regime sociale radicalmente diverso da quello vigente, basato sull’alienazione del lavoro e sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo; quel regime dal cui ventre sempre fecondo nascono inevitabilmente fascismi e guerre. E compresi le ragioni per le quali il compimento della rivoluzione mondiale, al di là dei traguardi, ahimè precari, raggiunti in Urss, poteva avvenire solo a opera dei comunismi occidentali, nutriti di culture e abitudini più aperte alle forme colloquiali della democrazia e del pluralismo culturale. Ero insomma maturo per diventare comunista: comunista italiano, perché coglievo tutta la diversità della cultura politica del “partito di Gramsci e Togliatti” rispetto a quella del comunismo sovietico e degli altri comunismi settari dell’Occidente europeo, e insieme la solidarietà con l’Unione sovietica come baluardo statuale contro il prevalere del dominio capitalistico-borghese nel mondo. Erano, tra l’altro, gli anni del tentativo dei paesi ex coloniali di associarsi per costituire un blocco di potere autonomo rispetto ai due imperi (la Conferenza di Bandung) 32 un nuovo mondo si apre che fu troppo presto dissolto dal prevalere dell’egemonia statunitense sui mercati mondiali. Quando si manifestarono le prime crepe nell’impero sovietico – nei paesi occidentali a esso annessi in seguito alla conclusione della seconda guerra mondiale –, ciò che mi colpì dai primi resoconti giornalistici fu il riemergere delle vecchie famiglie feudali e dei poteri reazionari sconfitti dal blocco antifascista, e la puntigliosa narrazione del modo in cui i cittadini inferociti massacravano i comunisti. Leggevo con commozione, assieme a mia sorella Germana, i paginoni del «Messaggero» e la descrizione dei comunisti infilzati sulle punte dei cancelli di Budapest. E mi domandavo: ma perché mai non interviene l’Armata rossa per porre termine a questo macello? Così, mentre molti intellettuali abbandonavano il Pci, io sentii di essere ormai diventato comunista. Ma mi iscrissi molti anni dopo. 33 34 Capitolo terzo Lavorare non stanca troppo 1. La laurea, e dopo Gli interessi che si erano annodati attorno alla mia partecipazione al «Dibattito politico» avevano rallentato la conclusione degli studi universitari. È solo nel 1957 che mi laureai. Nell’anno successivo mi sposai e cominciò una vita nuova. Bisognava lavorare per mantenersi. La laurea era stata davvero deludente. La tesi (il titolo era Sistemazione urbanistica dei Campi Flegrei) non valeva granché – l’avevo sostanzialmente preparata qualche tempo prima con un collega – ma fu abbastanza scoraggiante illustrarla davanti a due professori (gli altri esaminavano altre tesi) che chiacchieravano tra loro. Vedendoli intenti a raccontarsi i fatti loro mi interrompevo; – continui, continui! –, dicevano, continuando a parlare d’altro. La cosa finì comunque con un buon voto. Continuai a frequentare la facoltà a San Pietro in Vincoli come volontario, a titolo gratuito. La mattina andavo lì prestissimo per preparare le diapositive per la lezione del professore Valle, titolare della cattedra di urbanistica. Avevo cominciato a fare quel lavoro ancora da studente. All’ombra e con il sostegno di Federico Gorio avevo avviato la formazione di un piccolo centro di documentazione. Con qualche collega più giovane di me26, preparavo le diapositive da proiettare e redigevo le schede relative. Senza preparazione specifica, armati di molta buona volontà, ci improvvisammo documentaristi. Avevo invece già maturato qualche esperienza nella redazione di riviste, quando fondammo la «Rassegna dell’istituto di architettura e urbanistica»: un titolo lungo per una rivista abbastanza smilza, stampata 26 Erano Umberto De Martino, Giulio Tamburini, Paolo Jacobelli, Pino Imbesi. 35 capitolo terzo dall’università e alimentata dagli articoli dei docenti dell’istituto. Furono quelli, per tutti noi, i primi momenti di una carriera universitaria che proseguimmo, fino ai livelli più alti. Allora, il passaggio obbligato per aspirare a diventare professori era ancora l’esame di libera docenza. Era una prova per titoli e lezione. Mi cimentai sul tema dell’edilizia economica e popolare (che mi fu assegnato ventiquattro ore prima della prova). Ero preparato sull’argomento, cucinai una buona lezione, superai l’esame Uno dei membri della commissione mi invitò a illustrare lo stesso argomento al suo corso, alla facoltà d’ingegneria di Cagliari. Fu il mio primo volo in aereo. Ma era ormai il 1967. Molte cose erano successe prima. 2. Lavori e lavoretti Il lavoro all’università era gratis. Anche, ovviamente, quello di pubblicista. Mi impegnai quindi anche nel lavoro professionale: inizialmente, con i miei vecchi compagni della Cooperativa progettisti romani, continuai con lavoretti di piccoli progetti edilizi e calcoli di cemento armato. Avevamo preso in affitto dei locali in via Baccina, dietro il muro della Suburra: un ultimo piano assolato, abitato da un simpatico geco. Per arrotondare, appena sposato, grazie a un parente di mia moglie ebbi un incarico d’insegnamento in un istituto tecnico per periti agrari. Insegnavo topografia. Una materia che non mi piaceva e di cui non sapevo niente. Preparavo le lezioni sull’autobus che mi portava alla scuola, che era appena fuori Roma: per fortuna il tragitto era lungo. L’esperienza invece fu breve, e presto mi dedicai più ampiamente al lavoro professionale. Dalla sede di via Baccina, con una formazione di colleghi leggermente diversa mi spostai in un nuovo studio in via dei Leutari, tra piazza Pasquino e Campo de’ fiori. Lì facemmo qualche bel lavoro di progettazione urbanistica assieme al nostro maestro Gorio. Successivamente, con Giulio Tamburini e qualche altro collega (Mario Manieri Elia, Italo Insolera, Giorgio Ciucci, Giusa Marcialis) aprimmo uno studio in via del Tempio, nel Ghetto. Si aggregarono alcuni neolaureati (Massimo D’Alessandro e Maurizio Morandi). Ci furono presto articolazioni e scissioni, dovuti a interessi diversi e ad altre occasioni di lavoro. Giulio e io costituimmo la sezione urbanistica dello studio di via del Tempio, e dopo qualche tempo (con Giorgio Ciucci, Giusa Marcialis, Umberto De Martino) ci spostammo in un appartamento nel quartiere Prati, in via Montezebio: costituimmo la Stass (Studi Associati), con una bella targa d’ottone lucente sulla porta. 36 lavorare non stanca troppo 3. Il piano urbanistico provinciale di Teramo e il piano regolatore generale di Giulianova Due interessanti esperienze professionali le feci in Abruzzo, per la Provincia di Teramo e per il Comune di Giulianova. All’inizio degli anni Sessanta si stava progettando l’autostrada adriatica. Il nostro gruppo di via del Tempio era nettamente contrario al tracciato. Già due pesanti infrastrutture – la ferrovia e la strada statale – rendevano difficile l’agibilità della costa e ne degradavano il paesaggio; aggiungerne una terza significava comprometterli definitivamente. Insolera e Manieri Elia parteciparono a un convegno promosso da Italia Nostra, a Giulianova. I loro interventi piacquero a molti; tra gli altri, al presidente della Provincia di Teramo, Emilio Mattucci. Mattucci era un democristiano intelligente. Aveva compreso che per “evitare guai” il territorio va pianificato: bisogna comprenderne le caratteristiche, deciderne a priori l’organizzazione complessiva valutando opportunità e rischi delle trasformazioni. Benché nessuna legge attribuisse alla Provincia un ruolo di pianificazione del territorio, ci incaricò di redigere uno studio, cui convenimmo di dare il nome di Piano urbanistico provinciale. Inventammo una nostra forma di pianificazione di coordinamento territoriale, cercando di appoggiare le scelte che proponevamo, da un lato, a una lettura (abbastanza empirica) del territorio, dall’altro, a uno studio economico sociale affidato ad amici economisti un po’ praticoni. Qualche anno dopo, sulla base di quel lavoro, il Comune di Giulianova (un popoloso centro sulla costa in provincia di Teramo) ci chiese di redigere il piano regolatore comunale. Ci lavorammo soprattutto Giulio Tamburini e io. Fu un bel lavoro. Instaurammo un ottimo rapporto con l’amministrazione comunale. Il nostro principale referente era il bravissimo assessore all’urbanistica, il geometra Giuseppe Bianchetto, insegnante di materie tecniche nella scuola media, eletto come indipendente nelle file del Pci. Il sindaco, socialista, Romolo Trifoni, era una brava persona, ma si occupava prevalentemente e bonariamente delle piccole richieste dei suoi elettori (divenne più tardi un appassionato ecologista). Un personaggio simpatico era il segretario della sezione locale del Pci, Tonino Franchi, in bilico tra la demagogia del politico furbo e la spinta morale verso la corretta amministrazione. Mi colpì quando ci raccontò del modo in cui raccoglieva i fondi per il partito: gli iscritti agricoltori, che erano la maggioranza, regalavano al partito una determinata quantità di grano, che lui stesso, nel periodo della mietitura, andava a falciare. 37 capitolo terzo Ci furono affiancati alcuni giovani professionisti locali: nel loro ufficio si svolgeva parte del lavoro, che completavamo nel nostro studio romano, dove avevamo assoldato due studenti capaci e motivati: Pietro Garau e Francesco Strobbe. Il primo diventò, molti anni più tardi, direttore della struttura dell’Onu dedicata all’habitat, a Nairobi. Strobbe, invece, fu protagonista di una iniziativa della quale sono ancora oggi molto orgoglioso. Senza fatica, avevo convinto l’assessore Bianchetto della necessità di costituire un piccolo ufficio per la gestione del piano. Il Comune prese quindi la decisione di inserire il ruolo di un tecnico nella pianta organica e bandì il relativo concorso. Inducemmo Francesco Strobbe, che si era appena laureato a partecipare. Vinse il concorso, si trasferì e si ammogliò a Giulianova, e divenne il feroce e fedele custode del piano. Molti anni più tardi, gli amministratori di Giulianova mi invitarono a un convegno che aveva come tema l’urbanistica: volevano capire se fosse necessario aggiornare il piano. Affacciatomi alla balaustra del belvedere della piazza alta (il centro antico era in collina, ma tutta l’espansione novecentesca si era sviluppata sulla stretta pianura costiera) fui piacevolmente colpito di vedere il disegno del nostro piano esattamente espresso sul terreno: l’area destinata ad “attrezzature pubbliche e verde” trasferita dal retino cartaceo alla realtà, e così le zone d’espansione, le strade e ciascuna delle previsioni del piano regolatore generale. Collaborai con l’amministrazione di Giulianova a redigere una variante del piano, che non ne mutava la struttura ma consentiva alcuni completamenti e definiva un nuovo assetto per una zona industriale dismessa, collocata in un punto strategico. La variante fu approvata nel 1990. Mentre scrivo queste pagine (quasi altri vent’anni sono passati), a Giulianova si è formata una attiva associazione dal bel nome, “Il cittadino governante”, che difende gli spazi pubblici dai tentativi di privatizzazione e i paesaggi agricoli dall’invasione del cemento. Sono guidati da un ex sindaco, Franco Arboretti, che aveva compreso l’utilità della buona pianificazione urbanistica, e che si era dimesso dal suo partito (Ds) quando questo l’aveva dimenticato. L’associazione mi ha invitato recentemente a presentare il mio libro Ma dove vivi? 27. Mi ha commosso scoprire che nelle battaglie civili la loro bandiera era il vecchio piano regolatore, di cui difendevano con passione e consapevolezza le scelte: mi indicavano il parco previsto dal prg e malauguratamente trasformato in un gruppo di palazzine con una variante ad hoc, il complesso di spazi 27 E. Salzano, Ma dove vivi? La città raccontata, Venezia, Corte del Fontego, 2007. 38 lavorare non stanca troppo ed edifici pubblici la cui privatizzazione era stata impedita da una loro iniziativa e dalla mobilitazione che erano riusciti a suscitare, il quartiere di edilizia economica popolare criticato dai vincenti di oggi «perché non è conveniente dare le case sul mare ai poveri», scelta che loro continuavano a difendere. 4. Il Centro studi della Gescal All’inizio degli anni Sessanta si erano conclusi i due programmi settennali di edilizia residenziale pubblica ed era stato sciolto l’ente che li aveva amministrati, il cosidetto ina-casa. Un ente che aveva svolto un ruolo importante nella formazione di una moderna cultura urbanistica ed edilizia, grazie al lavoro del responsabile dell’ufficio architettura, Adalberto Libera, e del Centro studi, Federico Gorio. In sostituzione dell’ina-casa fu costituito un nuovo ente pubblico, la Gestione case per lavoratori (Gescal), responsabile di un nuovo programma. Federico Gorio fu incaricato di costituirne il Centro studi. L’ina-casa aveva lavorato molto bene nella manualistica tecnica e nell’applicazione in Italia di metodi e strumenti sperimentati nei decenni precedenti dalle socialdemocrazie europee. Con il Centro studi della Gescal si voleva proseguire e sviluppare quella esperienza. Gorio mi chiamò, mi disse che pensava di articolare il lavoro del Centro studi in quattro ricerche, voleva affidarmi quella dedicata agli standard urbanistici. Si trattava di un lavoro a tempo pieno, con pochissime risorse a disposizione. Accettai con entusiasmo. Ma era la prima volta che sentivo parlare di standard urbanistici (espressione su cui tornerò più volte). A casa consultai la Britannica, che avevamo appena comprato: scoprii che il concetto era molto vicino ai ragionamenti sul consumo comune e sulla sua organizzazione sociale che avevo sviluppato sul «Dibattito politico» e sulla «Rivista trimestrale». Affrontai il tema sulla base della poca letteratura disponibile; ma in realtà mi affidai al ragionamento e alla pratica più che alla ricerca sistematica delle fonti. Il punto di partenza fu costituito dall’ottimo lavoro di Mario Ghio e Vittoria Calzolari, Verde per la città28, dai pochi cenni dedicati all’argomento 28 M. Ghio, V. Calzolari, Verde per la città. Funzioni, dimensionamento, costo, attuazione di parchi urbani, aree sportive, campi da gioco, biblioteche e altri servizi per il tempo libero, Roma, De Luca, 1961. 39 capitolo terzo nel Manuale dell’architetto, dal prg di Roma del 1962 e dalle istruzioni della Consulta urbanistica dell’Emilia Romagna. La ricerca si concluse con una piccola pubblicazione ciclostilata, dal titolo giustamente dimesso «Primo contributo alla ricerca sugli standard urbanistici», di cui curai anche la grafica e l’impostazione redazionale: avevo progettato e curavo io infatti la piccola collana nella quale comparvero i diversi contributi del Centro studi, in qualche modo la sua pubblicazione ufficiale. Ci tenni molto a indicare, in ciascun fascicolo, i nomi di tutte le persone che a vario titolo avevano collaborato, anche materialmente, alla sua realizzazione. Nel corso della ricerca avvenne che la Gescal e l’InArch (una nuova associazione culturale per la promozione dell’architettura, fondata da Bruno Zevi) organizzassero, nel 1964, un convegno sull’edilizia residenziale pubblica. Gorio mi chiese di preparare una comunicazione sugli standard urbanistici. Il convegno era patrocinato anche dai diversi enti interessati alla questione: dai sindacati dei lavoratori alle organizzazioni di categoria. Mi diedi da fare per coinvolgere esponenti rappresentativi di gruppi che potevano esprimere utili punti di vista sull’argomento. Il titolo che proposi per il documento che avremmo preparato fu centrato sulla necessità di individuare gli standard urbanistici in funzione delle esigenze del consumo collettivo. Dovevano essere costruiti come uno strumento per superare, mediante un’organizzazione comune, le modalità dei consumi di beni e servizi ancora largamente gestite in forme individualistiche: dall’assistenza sanitaria, al primo apprendimento e alla custodia dei bambini, dall’approvvigionamento alla ricreazione e allo sport, alla mobilità, abbandonata all’impero dell’automobile. Coinvolsi rappresentanti dell’Unione donne italiane, della cooperazione di abitazione (in quegli anni si avviarono esperienze di cooperative a proprietà indivisa caratterizzate da una forte presenza di attrezzature collettive), dell’Unione sport popolari, dell’Associazione ricreativa e culturale italiana, dei sindacati dei lavoratori. Udi, Coop, Uisp, Arci, Cgil e Cisl furono le sigle che sottoscrissero il nostro documento. La presentazione del documento, nella grande sala di palazzo Taverna a Roma, fu per me un angoscioso fallimento. Quando venne il mio turno, mi presentai sul palco con il breve testo che avevo concordato con gli altri. Bruno Zevi, che presiedeva, mi diede la parola brontolando ad alta voce: «Che cos’è questa storia di presentarsi con il pezzo di carta da leggere! Se uno ha una idea la può esporre stando su un piede solo!». Arrivai al termine del mio discorsetto con moltissimo imbarazzo: era solo la seconda volta che parlavo in pubblico. 40 lavorare non stanca troppo 5. Il Ministero dei lavori pubblici Conclusa l’esperienza della Gescal, nel 1967 ne iniziai un’altra, più lunga e più ricca, in un luogo che in quegli anni aveva un grandissimo rilievo culturale e politico: la piccola enclave urbanistica del poderoso Ministero dei lavori pubblici, situata nella storica sede subito fuori Porta Pia, all’inizio di via Nomentana. Marcello Vittorini mi chiamò a collaborare al Servizio studi e programmazione. In Italia l’urbanistica era in forte ritardo rispetto ad altri paesi europei. Ciò derivava certamente dal provincialismo culturale determinato dal regime fascista, ma anche dal modo in cui in Italia avveniva la formazione degli urbanisti. Negli anni Venti si era sviluppato un dibattito circa l’introduzione in Italia di questa disciplina. Si era aperto il confronto tra due modelli: l’uno, sostenuto da Silvio Ardy e da Cesare Chiodi, proponeva la formazione di un tecnico fortemente orientato alla gestione amministrativa e alla tecnica delle reti infrastrutturali (oltre che informato sugli aspetti edilizi, giuridici, storici, sanitari); l’altro vedeva l’urbanistica come una costola dell’architettura, fortemente centrata sull’attività edilizia. Quest’ultima fu la tesi che prevalse, anche per il ruolo che il suo promotore, l’architetto Alberto Calza Bini, svolgeva nelle strutture del regime fascista. Come scrive un attento studioso di storia dell’urbanistica – Fabrizio Bottini – quella di Calza Bini è da considerarsi una proposta organica della piattaforma culturale e organizzativa, che determinerà la nascita della figura dell’urbanista (ormai si chiama così) in Italia. Palesi sono le differenze con l’impostazione di Ardy e Chiodi. Per Calza Bini l’urbanistica è «il midollo spinale delle applicazioni di edilizia cittadina». E la nuova figura professionale è ben diversa da quella dell’«eletto funzionario comunale» che l’Ardy proponeva a Torino: è un “architetto-urbanista”, un professionista solidamente legato ai diversi interessi (amministrativi, ma anche finanziari, imprenditoriali, proprietari) la cui sinergia caratterizzava il regime corporativo fascista. Una concezione, quindi, omogenea sia al regime, sia ad alcune modalità italiane di produzione e funzionamento della città, ciò che indubbiamente giovò al suo successo e durata nel tempo29. 29 F. Bottini, La corporazione degli urbanisti, in eddyburg, 2004. 41 capitolo terzo Di fatto, benché la pianificazione urbanistica fosse allora riconosciuta come una competenza del potere pubblico e delle istituzioni e la stessa legge urbanistica del 1942 attribuisse un ruolo rilevantissimo allo Stato, non esisteva una struttura tecnico amministrativa capace di esercitarla. Si cominciò a formarla negli anni Sessanta, e di essa faceva parte il piccolo ufficio (Servizio studi e programmazione) cui ero stato invitato a collaborare. Per comprendere l’interesse del lavoro cui ero stato chiamato a collaborare conviene ricordare che cosa succedeva in quegli anni e quale era, allora, il ruolo dell’urbanistica. 6. L’Italia alle soglie degli anni Sessanta Alla fine degli anni Cinquanta l’Italia era profondamente cambiata. Agli anni della ricostruzione erano seguiti quelli del boom economico. L’abbandono del protezionismo era stato un banco di prova per il risveglio dell’industria manifatturiera italiana. I poli produttivi accrebbero fortemente il loro ruolo, grazie a un’intelligente politica industriale dell’apparato statale (Iri ed Eni), che forniva alle industrie acciaio a buon mercato e trovava fonti convenienti all’approvvigionamento energetico, facendo leva su presenze di know how industriale e di mano d’opera qualificata a tutti i livelli, e soprattutto grazie alla scelta di investire sui settori “facili” dei beni di consumo durevoli e all’appoggio che a tale scelta fornivano la politica finanziaria e quella delle opere pubbliche. L’Italia completava la sua trasformazione: da prevalentemente agricola a prevalentemente industriale. I movimenti migratori si orientavano verso il “triangolo industriale”: l’area geografica delle tre grandi città del Nordovest, Milano, Torino e Genova, dove era concentrata l’industria. Il reddito medio aumentava e aumentava la disponibilità ad acquistare i beni di consumo durevoli che l’industria sfornava in grande quantità a prezzi sempre più convenienti. L’industria cresceva, i profitti e l’accumulazione30 rafforzavano i luoghi forti dello sviluppo: ma il territorio e le città ne pagavano duramente il prezzo, e specialmente le popolazioni delle aree da cui lo sviluppo 30 Nel linguaggio dell’economia l’accumulazione è il reinvestimento di quote di profitto nel processo produttivo: l’acquisto di nuove macchine e di nuova forza lavoro, l’innovazione tecnologica, l’introduzione di nuovi processi ecc. 42 lavorare non stanca troppo succhiava risorse, con la fuga della forza lavoro dal Mezzogiorno, dalle aree interne e collinari dell’Italia centromeridionale e con l’indirizzarsi degli investimenti nelle aree già sviluppate. La scelta di privilegiare l’automobile rispetto ai trasporti collettivi rendeva più grave la congestione delle città. Gli squilibri territoriali cominciavano a essere vissuti come un peso per lo sviluppo degli stessi settori avanzati dell’economia. La spontaneità lasciata alle forze imprenditoriali, stimolata e promossa dalle stesse politiche governative, mostrava i suoi limiti. Nel frattempo, mutamenti rilevanti si manifestavano nel quadro politico. Nel 1953 fu sconfitta la “legge truffa”, con la quale l’alleanza imperniata sulla Dc avrebbe avuto la garanzia di assicurarsi la maggioranza assoluta nel parlamento anche se avesse conseguito la sola maggioranza relativa. Di conseguenza erano iniziati processi di mutamento degli orientamenti interni dei gruppi che componevano il partito di maggioranza. Dopo varie oscillazioni, e un pesante tentativo di svolta a destra nel 1960, cominciò ad affacciarsi la proposta politica di una “apertura a sinistra” che condusse, all’inizio degli anni Sessanta, prima alla formazione di maggioranze comunali di centro-sinistra (basate sull’alleanza della Dc con il Psi), e poi al primo governo nazionale di centro-sinistra nel 1962. Di esso facevano parte la Dc, il Psi, Psdi e il Pri. Un peso rilevante sul mutamento degli orientamenti della Dc lo ebbe la fine del papato di Pio xii e l’irruzione sulla scena di papa Giovanni xxiii. Scrive lo storico Paul Ginsborg: L’integralismo di Pio xii fu sostituito da una diversa concezione della Chiesa, piuttosto legata al suo ruolo pastorale e spirituale che non alla sua vocazione politica anticomunista. Si aprì così lo spazio per un dialogo fra cattolici e marxisti e, in campo politico, democristiani e socialisti poterono finalmente trovarsi faccia a faccia per trattare31. Degli argomenti della trattativa fecero parte la programmazione economica, l’istituzione delle Regioni (previste dalla Costituzione ma mai attuate per il timore delle forze conservatrici che si manifestasse una prevalenza comunista in Emilia Romagna, Liguria, Toscana e Umbria), la nazionalizzazione dell’energia elettrica, la riforma della scuola media e la riforma urbanistica. Quest’ultima non andò in porto. 31 P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi. Società e politica, 1943-1988, Torino, Einaudi, 1989I. 43 capitolo terzo 7. Da Fiorentino Sullo alla frana di Agrigento Di riforma urbanistica si era cominciato a parlare alla fine degli anni Cinquanta. L’Istituto nazionale di urbanistica (Inu) aveva proposto un «Codice dell’urbanistica», formulato sulla base delle migliori esperienze dell’Europa socialdemocratica. Membri dell’istituto avevano poi collaborato col ministro dei Lavori pubblici, il democristiano Fiorentino Sullo, autore della proposta radicale che giunse alle soglie dell’approvazione. Il centro della sua proposta consisteva nell’obbligo per i Comuni di espropriare preventivamente tutte le aree di cui il piano regolatore prevedeva l’urbanizzazione (zone d’espansione). In esse il Comune avrebbe poi realizzato le opere di urbanizzazione (strade e altri impianti, verde, scuole e servizi) e le avrebbe assegnate agli utilizzatori per un numero determinato di anni (si prevedeva novantanove). La proprietà delle aree sarebbe rimasta al Comune, il quale avrebbe concesso ai privati solo il diritto di superficie: la possibilità cioè di realizzare gli edifici previsti dal piano urbanistico e di utilizzarli a loro piacimento fino alla scadenza della concessione. Era il modo per bloccare sul nascere la speculazione urbanistica e realizzare, secondo progetti urbanistici ragionevoli, la grande espansione urbana che infatti si verificò impetuosa negli anni successivi. Ma la stampa di destra scatenò una violentissima campagna, distorcendo profondamente il contenuto della proposta. Il giornale romano «il Tempo» aprì l’offensiva con questo titolo Otto milioni di capifamiglia decisi a difendere le loro case32: l’esproprio generalizzato delle zone agricole in cui era prevista l’espansione della città veniva fatto passare per l’esproprio di tutte le costruzioni esistenti! La Dc si spaventò. Le elezioni erano alle porte. Il disegno di legge fu ritirato, e a Sullo non si permise neppure di rispondere pubblicamente, svelando la menzogna degli attacchi33. La distruzione del territorio proseguì. Ma il territorio, a volte, si ribella: tre anni dopo la sconfitta di Sullo, il crollo di alcuni palazzi ad Agrigento e, pochi mesi più tardi, le alluvioni che minacciarono di distruggere Firenze e Venezia riproposero con forza il problema. 32 33 Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, p. 368. Se la sua proposta organica di riforma urbanistica era stata scandalosamente bocciata, il ministro Sullo era riuscito a far approvare una legge che costituiva un’applicazione parziale del metodo proposto: era la legge 167 del 1962, che consentiva di espropriare le aree necessarie per realizzare l’edilizia economica e popolare. Una legge che si rivelò decisiva per impostare una coerente politica della casa nel corso degli anni Settanta. 44 lavorare non stanca troppo Nel crollo di Agrigento non ci furono vittime perché sinistri scricchiolii avevano preannunciato il disastro, ma il rischio fu grande e l’evento riempì per molti giorni le prime pagine dei giornali. Parlamento e governo reagirono. Si convenne che non c’era tempo di elaborare una vera legge di riforma urbanistica: si approvò così in pochi mesi una “legge ponte”, che introduceva alcuni elementi di razionalità nel sistema di pianificazione vigente. Si generalizzò a tutti i Comuni l’obbligo di formare il piano regolatore generale; si disciplinarono il contenuto tecnico e quello amministrativo e patrimoniale dei piani di lottizzazione; si dispose che in tutti i piani urbanistici dovessero essere vincolate adeguate quantità di aree per i servizi collettivi e il verde: erano i cosiddetti standard urbanistici, per i quali fu demandata a un’apposita commissione parlamentare la determinazione delle quantità. 45 46 Capitolo quarto Nel centro dell’urbanistica italiana 1. Al Ministero di Porta Pia Dopo i drammatici eventi del 1966, il ministro dei Lavori pubblici, il socialista Giacomo Mancini, aveva deciso di costituire due nuove strutture: l’una nell’ambito della funzione consultiva, dove si formò la vi sezione urbanistica del Consiglio superiore dei lavori pubblici, l’altra nell’ambito della funzione operativa, con la Direzione generale all’urbanistica. Quest’ultima fu affidata a Michele Martuscelli. Funzionario pubblico, di nascita e formazione meridionale (era nato a Muro Lucano), erede della migliore tradizione dello statalismo meridionalistico, Martuscelli era un vero grand commis d’état come in Italia ce ne sono pochi. Ispido e generoso, ferratissimo nei versanti amministrativo e giuridico, curioso e attento alle altre culture di cui si impadroniva con grande facilità. Attorno alla Direzione dell’urbanistica gravitavano rilevanti personaggi della cultura urbanistica di quegli anni: Giovanni Astengo, Fabrizio Giovenale, Luigi Piccinato, Antonio Cederna, Federico Gorio, Marcello Vittorini, Piero Moroni, Alberto Lacava. Il loro ambiente politico era il nascente centrosinistra. La maggior parte di essi militava nella sinistra del Psi, che faceva capo a Riccardo Lombardi. Ottimi erano i loro rapporti con i comunisti, buoni e a volte ottimi anche quelli con componenti significative della Dc. Nell’ambito della Direzione dell’urbanistica era stato istituito il Servizio studi e programmazione, affidato inizialmente a Fabrizio Giovenale: un vero, generoso apostolo dell’urbanistica sociale. Disponeva solo della collaborazione di due giovani funzionari: un amministrativo, Carmelo Grasso, e un architetto, Vezio De Lucia. L’anno successivo l’ufficio fu affidato a un attivissimo ingegnere, Marcello Vittorini, che avevo 47 capitolo quarto conosciuto a San Pietro in Vincoli mentre era assistente del professore di architettura tecnica. Marcello aveva avuto le risorse per rafforzare il Centro studi. Mi chiese di far parte di un gruppo di giovani tecnici, assunti a contratto, tra i quali ricordo Gianluigi Nigro, Giusa Marcialis, Massimo Perna, Daria Ripa di Meana, Rinaldo Sebasti, Giulio Tamburini. Assunsi l’impegno molto seriamente. Occupavo il mio posto di lavoro nella stessa stanza del giovane architetto Vezio De Lucia, del quale divenni presto (e rimasi sempre) inseparabile amico. Vezio veniva, come me, da Napoli. Mi aveva molto colpito la sua storia, la ragione per la quale era lì, al Ministero. Dopo la laurea aveva lavorato in una grande azienda immobiliare, la Beni Stabili. Guadagnava bene, aveva l’ufficio in un luogo prestigioso, la Galleria Colonna, a Roma. Si occupava di interventi consistenti, e trattava con architetti di fama e con amministrazioni private e pubbliche. Nei suoi ricordi scrive: Ci misi un po’ a capire che le attività di cui mi occupavo erano nient’altro che speculazione edilizia in grande stile. Disponevo allora di un pensiero politico scadente, quello proprio della piccolissima borghesia meridionale, e venivo da una formazione universitaria certamente inadeguata. Ci avevano insegnato che l’architetto deve far propri gli interessi del committente quali che siano, e che a quegli interessi possono essere piegati regole e comportamenti. Ma quegli insegnamenti non ressero a lungo. A mano a mano che aumentavano i miei compiti, e la mia retribuzione, aumentava anche il disagio nel vedermi impiegato in cose che cominciavano a ripugnarmi34. Il crollo ad Agrigento nell’estate del 1966, gli eventi che gli seguirono, lo convinsero che si poteva fare l’urbanista in un altro modo. Partecipò a un concorso, vinse, entrò nel Servizio studi e programmazione del Ministero, dove lo conobbi. Nella piccola stanza che condividevamo, con uno stipendio pari a un quarto di quello di prima. Il lavoro era stressante ma entusiasmante. L’urbanistica e la programmazione economica erano al centro dell’attenzione politica. Dopo la sconfitta del tentativo di riforma urbanistica di Fiorentino Sullo, il crollo di Agrigento e l’appassionato dibattito parlamentare che ne era seguito avevano prodotto un vero colpo di frusta sull’opinione pubblica. Politica e cultura erano combattive e lottavano su diversi fronti per 34 Traggo la citazione dalle “memorie” di Vezio De Lucia, in corso di stampa presso l’editore Diabasis. 48 nel centro dell’urbanistica italiana un efficace e moderno governo del territorio, non più infeudato ai poteri forti della rendita fondiaria urbana. Tra la cultura urbanistica, validamente rappresentata in quegli anni dall’Istituto nazionale di urbanistica, e la politica del parlamento e dei partiti, il ruolo della pattuglia urbanistica del Ministero dei lavori pubblici era spesso di cerniera. In concreto, l’ufficio svolgeva molte mansioni: collaborava all’istruttoria per l’approvazione dei prg comunali da parte del Consiglio superiore dei lavori pubblici, predisponeva proposte di legge nelle diverse materie di competenza del Ministero, definiva programmi e progetti speciali relativi a determinate situazioni o problemi (dai provvedimenti per Venezia e Firenze dopo l’alluvione del 1966 a quelli per le ricostruzioni dopo i terremoti), redigeva circolari interpretative delle leggi, collaborava con altri ministeri e uffici pubblici, e ne contestava le proposte quando le giudicava lesive degli interessi pubblici territoriali. Nei momenti più rilevanti, la pattuglia di testa della galassia urbanistica del Ministero (Martuscelli, Vittorini, Di Gioia, presidente della vi sezione del Consiglio superiore) aveva contatti diretti con parlamentari, sia dei partiti governativi (soprattutto con quelli della sinistra socialista), sia con alcuni del Pci. Una vera collaborazione si stabilì quando furono presentate e discusse le leggi più importanti di quegli anni: la “legge ponte” urbanistica del 1967 e il successivo decreto sugli standard urbanistici, le leggi per la casa dell’inizio degli anni Settanta. Diversi erano gli stili di Martuscelli, di Di Gioia e di Vittorini. Il primo adoperava con abilità e fermezza gli strumenti della burocrazia. Di Gioia aveva la felpata morbidezza dei diplomatici. Marcello Vittorini era un carro armato, un corsaro; lavorava così: si impadroniva di una pratica, magari curiosando sulla scrivania del ministro, o esaminando l’ordine del giorno delle commissioni e comitati di cui il Ministero era parte, oppure perché ne veniva informato da qualche funzionario. A seconda del tempo a disposizione (generalmente brevissimo, un paio di giorni o poche ore) costituiva un piccolo gruppo di lavoro, dettava la scaletta di una relazione o un promemoria o un appunto, distribuiva il lavoro, lo verificava, lo completava e lo inseriva nel fascicolo ufficiale. Poi lo consegnava al ministro, o lo illustrava lui stesso là dove si discuteva (e magari si decideva). Ricordo un paio di occasioni. Il ministro doveva dare il parere al Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica) sull’installazione di un deposito petrolifero. «È uno scandalo – ci diceva Marcello –. L’Italia sta diventando un gigantesco deposito di prodotti pericolosi e inquinanti nelle zone costiere più belle». In pochissimi giorni, mobilitando i più diligenti e assidui del suo ufficio (Vezio c’era 49 capitolo quarto sempre) produceva una documentata relazione: l’unica, oltre a quella dei proponenti, che veniva presentata alla riunione dove si sarebbe deciso. In un’altra occasione, il ministro in carica, il democristiano Natali, abruzzese come lui e suo amico personale, gli chiese di preparare un appunto per il discorso che avrebbe tenuto al convegno nazionale della Dc. Marcello chiamò Vezio e me, ci propose la scaletta del discorso, ci sedemmo alla sua scrivania dalla sera alla mattina dopo, e ciascuno ne compose un pezzo. Facemmo recitare al ministro un discorso nel quale, oltre a una serie di cose molto audaci e ragionevoli in materia di opere pubbliche e loro impatto territoriale, sosteneva la necessità di una riforma urbanistica che comprendesse (riprendendola dalla proposta di Fiorentino Sullo, bocciata pochi anni prima e ripresentata da parlamentari comunisti) l’esproprio generalizzato dei terreni di nuova edificazione o ristrutturazione urbanistica. «L’Unità», che allora era l’organo ufficiale del Pci, illustrò con stupito compiacimento la proposta dell’autorevole ministro democristiano. 2. «Salvate gli uomini prima dei mufloni» Marcello non ci faceva lavorare solo al Ministero. Lui era presente ovunque. Durante un convegno a Cagliari un gruppo di giovani entusiasti lo avevano invitato a una loro iniziativa a Orgosolo. L’argomento era il Parco del Gennargentu, progetto sostenuto dal Ministero. All’ultimo momento, a causa di un impegno imprevisto, chiese a me e a Vezio di sostituirlo. Partimmo. A Orgosolo fummo accolti da un gruppetto di persone. Erano giovani, la maggior parte barbaricini, uno senese. Avevano fondato un piccolo centro culturale, finanziato dall’editore Giangiacomo Feltrinelli (allora non lo sapevamo, ma stava progettando delle azioni di protesta incendiaria in Sardegna). Il loro obiettivo era la promozione dello sviluppo culturale di quel povero paese di pastori, a partire dalla scuola elementare. Uno di loro, il senese, era maestro. Ricordo una suggestiva cena. Un grande spiedo sul fuoco vivo del focolare, i ragazzi che ci raccontavano le loro attività. Circolava un fiasco di vino rosso. Un’immagine degna dei racconti di Omero, una struggente e vivissima immersione in un mondo pastorale, primitivo e intriso di antica cultura. Dormimmo in quella stessa casa, ma al piano superiore faceva freddo, le lenzuola erano gelate, tardammo a prendere sonno. La mattina dopo, il convegno. Ci avevano illustrato la loro tesi. Sembrava che la necessità di istituire nel Gennargentu un parco nazionale 50 nel centro dell’urbanistica italiana fosse motivata essenzialmente dall’esigenza di tutela di un particolare ambiente, nel quale sopravviveva una specie di grande ovino dalle lunghe corna ritorte, il muflone, una volta diffuso nelle grandi isole mediterranee, ora minacciato di estinzione. Ma il Gennargentu era anche la sede di un’antichissima società pastorale, legata al territorio da un’economia povera ma vitale. Lì, secondo i nostri amici, il problema primario non era salvare i mufloni e la natura, già abbastanza protetti dalle usanze locali. L’istituzione di un Parco, per di più gestito dai poteri del Continente, era sentita come l’imposizione di regole estranee: una colonizzazione, la formazione di una riserva indiana. L’impegno culturale e politico doveva essere volto a salvare gli uomini, a liberarli dalla povertà e dall’ignoranza. Più che con parole avevano illustrato la loro tesi con bellissimi manifesti allestiti da loro stessi, con i mezzi di fortuna di cui disponevano. Efficacissimi. Il convegno era nella sala del cinema: un capannone disadorno, di cemento armato e pietra. Su lunghe panche di legno sedevano decine di pastori dall’aria severa e attenta, tutti con la coppola. Con Vezio scambiammo poche parole. Decidemmo di modificare radicalmente il taglio del nostro intervento. Avrei parlato io, che ero il più libero da obblighi ministeriali. Del resto, in quegli anni ero già consigliere comunale a Roma, eletto come indipendente nelle liste del Pci. Iniziai il mio intervento con queste parole: «Compagni e amici, non vi parlo a nome del Ministero dei lavori pubblici, ma vi porto il saluto della Roma democratica e popolare…». Non ricordo le parole successive, ma il tono era quello giusto. Allora non lo compresi, ma ero caduto su una contraddizione che è ancora aperta. Mediante quali passaggi, quali trasformazioni della coscienza collettiva e individuale, quale maturazione di nuove abitudini e regole, una civiltà che ha vissuto per millenni estraendo risorse da una natura che sembrava inesauribile, può sopravvivere in un mondo che si scopre essere “finito”, limitato, vicino all’esaurimento? 3. Dal crollo di Agrigento al decreto sugli standard urbanistici Tra i lavori più importanti della Direzione generale di Martuscelli – non facevo ancora parte del gruppo – ci fu l’inchiesta sui crolli di Agrigento e la gestione delle conseguenze positive dello scandalo sollevato dall’evento. A Martuscelli fu affidata un’inchiesta sulle cause. Fu formata un’agguerrita commissione – coordinata da Giovanni Astengo – che esaminò con scrupolosa attenzione i fatti e le loro cause. L’analisi 51 capitolo quarto metteva in piena luce le gravi responsabilità politiche e le pesanti violazioni della legalità urbanistica all’origine dei crolli. La relazione con la quale la commissione rendeva noti al ministro e al parlamento i risultati dell’indagine, e in particolare la lettera con la quale Astengo e Martuscelli la introducevano, costituiscono uno dei testi più limpidi e una delle denunce più aspre del malcostume politico e urbanistico largamente diffuso in quegli anni. Ecco le conclusioni sulla situazione della “città dei templi”: Gli uomini, in Agrigento, hanno errato, fortemente e pervicacemente, sotto il profilo della condotta amministrativa e delle prestazioni tecniche, nella veste di responsabili della cosa pubblica e come privati operatori. Il danno di questa condotta, intessuta di colpe coscientemente volute, di atti di prevaricazione compiuti e subiti, di arrogante esercizio del potere discrezionale, di spregio della condotta democratica, è incalcolabile per la città di Agrigento. Enorme nella sua stessa consistenza fisica e ben difficilmente valutabile in termini economici, diventa incommensurabile sotto l’aspetto sociale, civile e umano. La città dei “tolli” non è più l’Agrigento di un tempo. Il volto urbano, sfigurato, potrà forse in parte essere ricuperato con generose piantagioni di verde, cui affidare la cicatrizzazione delle ferite e la ricucitura dei tessuti, ma difficilmente, e certo con costi assai elevati, potrà assumere l’aspetto decoroso di una città umana: le ferite inferte, anche curate, resteranno a lungo. Ma ancora più delicato si prospetta il problema dei rapporti umani, che, con l’accertamento e la punizione di colpe, esige che sia posto fine alle sofferenze della popolazione agrigentina, a lungo vessata dall’arbitrio35. Non solo ad Agrigento è così: Ma la commissione, nel rimettere gli atti, sente il dovere di segnalare all’attenzione del signor ministro, dei parlamentari e di tutti i responsabili delle amministrazioni pubbliche e degli enti locali, la gravità della situazione urbanistico-edilizia del Paese, che ha trovato in Agrigento la sua espressione limite. E non può, nel concludere, non auspicare che da questa analisi concreta parta un serio stimolo nel porre un arresto – deciso e irreversibile – al processo di disgregazione e di saccheggio urbanistico. Quel lavoro, svolto prima del mio ingresso al Ministero, rappresenta bene il clima politico ed etico nel quale mi immersi. 35 [G. Astengo, M. Martuscelli], [Lettera di trasmissione al ministro], in Agrigento. Relazione della commissione di indagine, «Urbanistica», 48 (dic. 1966), p. 31. 52 nel centro dell’urbanistica italiana 4. Gli standard urbanistici Il primo rilevante impegno al quale collaborai fu il decreto con il quale, in attuazione alla “legge ponte” del 196736, si stabilivano le quantità e le tipologie degli standard urbanistici. L’elaborazione e la discussione del decreto avvennero sostanzialmente nell’ambito della Direzione generale e del Consiglio superiore: oltre a numerosi funzionari tecnici dei ministeri facevano parte del consesso alcuni esperti esterni, tra cui Luigi Piccinato e Antonio Cederna. Nella lunga elaborazione tecnica, Mario Ghio presentava complessi documenti e griglie di parametri da assumere per la determinazione delle quantità e delle qualità degli spazi da vincolare. Forse Mario era l’uomo che in Italia aveva studiato in modo più approfondito le questioni tecniche connesse alla progettazione degli spazi pubblici. Ghio costruiva e presentava complessi sistemi di calcolo e progettazione, ma le ragioni dell’amministrazione spinsero a fortissime semplificazioni37. Nella discussione ebbe un peso rilevante l’esperienza della Consulta urbanistica dell’Emilia Romagna. Era una struttura di coordinamento volontario dei comuni di sinistra della regione, che da tempo aveva proposto e ottenuto in essi standard molto evoluti. I criteri di redazione dei piani che la Consulta suggeriva diventavano regola comunemente accettata e praticata dai comuni. Tra l’altro, definivano un limite all’espansione dei piani: era suggerito di calcolare rigorosamente il fabbisogno, e comunque di non superare la soglia del 10% di nuovi alloggi. Eppure eravamo nella fase dell’espansione edilizia. Gli standard di spazi pubblici che i criteri raccomandavano erano al livello di quelli praticati nei paesi delle socialdemocrazie europee. E sullo sfondo sociale c’era la campagna che l’Unione donne italiane (Udi) aveva lanciato agli inizi degli anni Sessanta, sulla base delle esigenze e motivazioni cui mi ero riferito nell’articolo sulla gestione domestica e l’organizzazione del consumo del 1954. L’Udi aveva lanciato una vasta campagna per l’istituzione di servizi che alleggerissero le lavoratrici (e le donne in generale) dal peso della gestione domestica; tra le attività svolte su questo tema: una legge d’iniziativa popolare, 36 Legge 6 ago. 1967, n. 765, «Modifiche e integrazioni alla legge urbanistica 17 ago. 1942, n. 1150». Fu definita “legge ponte” perché avrebbe dovuto costituire un momento di passaggio alla legge di riforma complessiva dell’urbanistica, che non è mai stata fatta. 37 Il decreto è descritto nelle “memorie” di De Lucia, in corso di stampa (vedi nota 34). 53 capitolo quarto sulla quale si raccolsero oltre 50.000 firme, e un convegno per la previsione dei servizi sociali nella pianificazione urbanistica38. Al di là delle motivazioni sociali, al di là della tecnica e delle buone pratiche, la discussione andava al sodo: quali fossero i minimi di spazi pubblici da riservare nei piani. I due poli del confronto erano rappresentati da una parte dai parlamentari del Pci, rappresentati in quella sede da Alberto Todros, un ingegnere piemontese, urbanista e amministratore comunale, sopravvissuto al campo di concentramento di Mauthausen, e dall’altra parte dagli esponenti delle imprese di costruzione, rappresentati da Carlo Odorisio, un imprenditore che più tardi seppe lavorare concretamente per un ruolo moderno del settore, orientando l’attività delle aziende alla formazione di profitto industriale anziché all’appropriazione della rendita fondiaria. Allora lo scontro si concluse sulla cifra di 18 metri quadrati per abitante di “spazi pubblici e di uso pubblico”: meno di quanto si praticasse nei comuni evoluti delle amministrazioni di sinistra, ma molto più di quanto si prevedesse nella pianificazione della maggior parte dei comuni nelle altre regioni. 5. Le sentenze della Corte costituzionale Eravamo tra aprile e l’inizio di maggio 1968. Franco Rodano mi disse che Luciano Barca, un deputato del Pci, aveva saputo che una sentenza della Corte costituzionale dichiarava illegittime alcune norme della legge urbanistica: precisamente, quelle che consentivano di vincolare le aree per gli spazi pubblici. Ma il 18 maggio erano state indette le elezioni politiche, quindi avevano deciso di rendere nota la sentenza solo successivamente. Infatti la sentenza 55 del 1968, datata 9 maggio, fu depositata in cancelleria solo il 30, a elezioni avvenute. La sentenza dichiarava illegittime le norme della legge urbanistica allora vigente (quella del 1942) che consentivano di vincolare, nei piani regolatori, le aree necessarie per servizi e altre utilità pubbliche, senza prevedere un’indennità per il proprietario finché l’area non fosse effettivamente espropriata. Prima ancora di entrare nel merito ci si chiedeva: come mai quella sentenza interveniva ventisei anni dopo la norma, e a dodici anni dall’entrata in funzione della Corte? Semplice la risposta: 38 Il titolo del convegno era «Obbligatorietà della programmazione dei servizi sociali in un nuovo assetto urbanistico». Si svolse a Roma, il 21 e 22 mar. 1964. Tre delle quattro relazioni di base furono svolte da altrettanti urbanisti: Giovanni Astengo, Edoardo Detti e Alberto Todros. 54 nel centro dell’urbanistica italiana prima della “legge ponte” i vincoli per gli spazi pubblici coprivano un’estensione minima del territorio; dopo la legge e il conseguente decreto sugli standard, l’incidenza minacciava di diventare molto più consistente (per la proprietà fondiaria). Grande fu lo scandalo. Urbanisti, amministratori comunali, parlamentari dei partiti di sinistra protestarono con forza: quella sentenza significava la morte per l’urbanistica, impediva di adeguare l’Italia ai livelli di civiltà urbanistica degli altri paesi europei. Un animato convegno fu indetto dall’Inu in un teatro romano, l’Eliseo. Intervenni anch’io in quell’assemblea, sostenendo una tesi controcorrente. La lettura della sentenza e di un’altra emanata contemporaneamente (la n. 56, dello stesso giorno), e soprattutto un’intervista rilasciata dal presidente della Corte costituzionale, Aldo Sandulli39, mi avevano infatti convinto di due cose: dal punto di vista dell’equità tra i proprietari di aree, la sentenza era inoppugnabile; la sua attenta lettura, congiuntamente con l’altra, suggeriva al legislatore la via d’uscita percorribile. In poche parole la situazione era questa. Il piano regolatore generale tratta differentemente due categorie di proprietari. Ad alcuni vincola l’area a tempo indeterminato, con la prospettiva dell’esproprio: ma dell’esproprio non è certa la data, né è certo se l’area verrà effettivamente espropriata, e quindi indennizzata. Ad altri, invece, valorizza il terreno, rendendolo edificabile. Le sentenze, mentre dichiaravano incostituzionale questa sperequazione, aprivano la strada a una soluzione accennando a una questione poi chiarita e resa del tutto esplicita nell’intervista di Sandulli. Egli sosteneva che, sebbene il quadro legislativo vigente stabilisse che la facoltà di edificare era un attributo dell’area che “apparteneva” al suo proprietario, con una legge ordinaria il parlamento avrebbe tranquillamente potuto modificare questa “appartenenza”, stabilendo che alla proprietà non “apparteneva” la facoltà edificatoria. Quest’ultima avrebbe potuto dalla legge essere attribuita al potere pubblico, il quale in questo caso poteva concederla agli utilizzatori a determinate condizioni. Si trattava, come si diceva tecnicamente, di separare lo ius edificandi dal diritto di proprietà e di stabilire che il primo appartiene alla collettività. Bastava che il parlamento lo volesse e lo stabilisse: così si sarebbe costituita una condizione di parità di diritti tra i proprietari “penalizzati” e quelli “premiati” dalle scelte del piano. 39 E. Capocelatro, Intervista con il presidente della Corte costituzionale, «L’astrolabio» (27 lug. 1968), ora in «Urbanistica», 53, p. 101-102. 55 capitolo quarto Naturalmente da quell’affermazione si sarebbero dovute trarre tutte le conseguenze. Per rendere equivalenti le condizioni dei proprietari si sarebbe dovuto sottrarre a quelli non espropriati il maggior valore derivante dall’urbanizzazione: si sarebbe dovuto, in altri termini, acquisire al pubblico l’aumento della rendita immobiliare derivato dagli investimenti e dalle decisioni della collettività. Ma il parlamento non scelse la strada suggerita dalla Corte. Tentò di farlo qualche anno dopo, nel 1977, ma in modo del tutto insufficiente, con la legge del ministro Pietro Bucalossi. Nell’immediato, si stabilì che le previsioni dei piani di tipo espropriativo valevano solo per un determinato numero di anni. A tutt’oggi, il nodo non è ancora sciolto, anche se una importante distinzione tra i diversi tipi di vincolo intervenne successivamente, dopo la legge che estese la protezione del paesaggio (legge Galasso). Ne parleremo più avanti. La mia tesi provocò qualche interesse. Ricordo che Giuseppe Samonà, uno dei più autorevoli urbanisti e accademici del tempo, inviò un suo assistente a chiamarmi perché sedessi con loro al ristorante: pensava, come mi disse poi, che io fossi un giurista. Il mio intervento, poi trasformato in un articolo, fu pubblicato nella rivista «Città e società»40. 6. Amministrare l’urbanistica Nell’ottobre 1971 era stata approvata la “legge per la casa”41, risultato delle lotte degli anni ’68-’69, delle quali racconterò nel prossimo capitolo. Essa riformava in modo soddisfacente l’intervento pubblico nel settore. Avevo curato un istant book che illustrava la legge, per facilitarne l’impiego da parte di Regioni e Comuni: a una mia ampia prefazione in cui illustravo la legge nella sua formazione e nei suoi numerosi aspetti, facevano seguito un’appendice legislativa e alcuni commenti ai singoli articoli, che rendevano il testo ancora più operativo. Mi avevano chiesto di scriverlo rapidamente i compagni della Lega per le autonomie e i poteri locali, una organizzazione costituita dai 40 E. Salzano, Intervento all’assemblea dell’Inu del 10 luglio, «Città e società», 6 (nov.-dic. 1968), p. 61. 41 Legge 22 ott. 1971, n. 865, «Programmi e coordinamento dell’edilizia pubblica; norme sulla espropriazione per pubblica utilità, modifiche e integrazioni alle leggi 17 ago. 1942 n. 1150, 18 apr. 1962 n. 167, 29 set. 1964 n. 847; e autorizzazione di spesa per interventi straordinari nel settore dell’edilizia residenziale, agevolata e convenzionata». 56 nel centro dell’urbanistica italiana partiti di sinistra, che cominciava a svolgere un’attività editoriale di servizio ai propri iscritti. Per comporre quel libro impiegai i giorni di vacanza che, con alcuni amici e le rispettive famiglie, trascorsi in Abruzzo, sui monti della Laga, nei giorni del “ponte” di inizio novembre42. Sulla base di quell’esperienza, Stelvio Minelli, responsabile editoriale della Lega, mi chiese di avviare una collana di testi di urbanistica per spiegare la pianificazione agli amministratori. Ne ragionai con Vezio, con il quale mi consultavo sistematicamente. Avevamo letto da poco il libro di Giuseppe Campos Venuti, Amministrare l’urbanistica43, dal quale avevamo imparato molte cose, in particolare sulla rendita. Decidemmo di intitolare la collana come il libro. Il primo volume fu proposto proprio da un’allieva di Campos Venuti, Valeria Erba, con cui stabilimmo una solida e duratura amicizia. Nella prefazione illustravo le ragioni della collana: Sono certamente aumentati, rispetto a dieci o venti anni fa, gli strumenti di cui dispone l’amministratore democratico per gestire le trasformazioni del territorio nell’interesse della collettività. È questo certamente un risultato, e non dei minori, del processo di crescita della democrazia e di rafforzamento del potere delle classi popolari, che è in atto nel nostro paese dalla Resistenza a oggi e che prosegue, con la forza delle ondate di fondo, al di là delle ricorrenti stagioni dell’involuzione conservatrice o del tentativo reazionario44. Ma quel processo, dopo il fallimento del tentativo di Sullo, era avvenuto in modo non lineare, non univoco, non compiutamente organico. Bisognava quindi riconoscere che: Grandi problemi restano ancora aperti anche sul terreno dell’urbanistica: da quello fondamentale del regime di proprietà delle aree e dei fabbricati, tuttora pesantemente condizionato dall’individualismo proprietario e dal libero gioco della speculazione grande e piccola; a quello delle scelte generali sull’assetto del territorio, ancor oggi prodotte dal sovrapporsi delle decisioni aziendali delle imprese private e pubbliche e delle aziende di Stato, che nessun tentativo di programmazione è riuscito a 42 Casa, urbanistica e poteri locali. Come gestire la nuova legge per la casa verso la riforma urbanistica. Il testo coordinato delle leggi urbanistiche. La legge per la casa con note di Alberto Todros, a cura di E. Salzano, Roma, Edizioni della Lega per le autonomie e i poteri locali, 1971. 43 G. Campos Venuti, Amministrare l’urbanistica, Torino, Einaudi, 1967. 44 V. Erba, L’attuazione dei piani urbanistici, Roma, Edizioni delle autonomie, 1987V, p. 9. 57 capitolo quarto imbrigliare; a quello, infine, della destinazione delle risorse nazionali, largamente indirizzate ad alimentare i parassitismi delle posizioni di rendita e gli sprechi dei consumi individualistici, e concesse invece con avarizia alla soddisfazione di quei bisogni sociali (la casa, la scuola, i servizi collettivi, il verde pubblico) che dovrebbero essere la materia stessa dei piani urbanistici e della loro attuazione. La cassetta degli attrezzi cui le amministrazioni potevano ricorrere si era insomma molto ampliata, ma era anche molto confusa e priva di solide basi di potere. Bisognava aiutare i Comuni a comprendere come adoperare nel modo migliore quegli strumenti. Lo facemmo con libri di carattere manualistico (come il primo, e quelli successivi sugli standard urbanistici, sul fabbisogno abitativo, sul controllo edilizio, sul piano urbanistico comunale, sul recupero del patrimonio edilizio, sulle zone agricole e sulle aree industriali, sulla valutazione d’impatto ambientale), con l’illustrazione di esempi significativi o di casi studio (come quelli dedicati a Roma, Milano, Venezia, al Parco di Rimigliano, alla ricostruzione post terremoto in Campania), oppure, più raramente, con volumi dedicati alla discussione d’argomenti d’attualità (come quello sul programma pluriennale d’attuazione e sugli effetti delle sentenze costituzionali). La collana ebbe un ampio successo, significativo per quella piccola casa editrice. Andarono a ruba soprattutto i libri più utili nell’immediato per l’amministrazione concreta dell’urbanistica, come quelli di Valeria Erba e quello di Luigi Falco sugli standard urbanistici. I primi otto titoli vedevano, nella quarta di copertina, solo me come direttore. Dal nono, la direzione fu allargata a Vezio De Lucia e Roberto Mostacci, fondatore e direttore d’un istituto di ricerca sull’edilizia. Via via che aumentavano i miei impegni a Venezia, dove mi ero trasferito nel 1975, la cura della collana pesava sempre di più sulle spalle di Vezio. Uscirono in tutto venticinque volumi, l’ultimo nel 1985, anno che significò una svolta in molti campi. 7. «La Rivista Trimestrale» L’esperienza della rivista «il Dibattito politico» era terminata nel 1957: i giovani e i meno giovani provenienti dall’esperienza democristiana si erano iscritti al Pci e vi avevano acquistato ruoli di crescente rilievo. Chi, come Mario Melloni e Ugo Baduel, nella stampa, chi nella direzione del Pci, come Lucio Magri e Giuseppe Chiarante. Ma l’attenzione 58 nel centro dell’urbanistica italiana di Franco Rodano, di Claudio Napoleoni e dei loro più stretti collaboratori si era spostata soprattutto su una riflessione più profonda attorno alle radici filosofiche, economiche e politiche delle trasformazioni in atto nella società. Il lavoro da fare per promuovere «la fuoriuscita dal sistema capitalistico-borghese» comportava una riflessione che andasse molto al di là della contingenza politica. Rodano e Napoleoni fondarono un nuovo periodico, «La Rivista Trimestrale», edita dal torinese Paolo Boringhieri e sostenuta da un vecchio amico di Franco, Raffaele Mattioli. Cominciai con loro una nuova avventura intellettuale. Dopo aver scritto sulla rivista su temi legati alla politica agraria (con cui avevo acquisito una certa dimestichezza negli anni del «Dibattito politico»), iniziammo una riflessione a tutto campo sulla città e sull’urbanistica. Fu un lavoro molto faticoso, ma che mi apriva orizzonti nuovi. Si svolgeva così. Andavo a casa di Franco: ragionavamo per un intero pomeriggio, qualche volta trattenendomi a cena. A volte vi partecipava anche Claudio, e spesso Marisa. Nei giorni successivi scrivevo; poi tornavo da Franco, discutevamo quello che avevo scritto e andavamo avanti. Le cadenze degli incontri erano grosso modo quindicinali. Battevo a macchina gli scalettoni e i testi via via prodotti, con una bella Olivetti Lettera 22, in più copie veline per poterle leggere insieme. Questo lavoro produsse tre saggi, intitolati rispettivamente Castello, villaggio, borgo, città; La città del capitalismo; Ambiguità della città opulenta, pubblicati tra il 1964 e il 196545. Essi costituivano sostanzialmente un tentativo di comprendere l’essenza della città al di là delle definizioni meramente descrittive e quantitative, cogliendo la natura delle interazioni tra le caratteristiche fisiche e funzionali, la struttura economica, l’assetto della società e dei poteri. 8. Che cos’è la città? Ricordo che l’avvio fu molto faticoso. Ci interessava individuare la differenza tra la città e le altre forme dell’insediamento umano che la storia aveva conosciuto. La trovammo nella relazione che si era manifestata, tra uomo e territorio, nei tre modelli di economia e società che si erano storicamente realizzati: quello dell’autoconsumo, in cui la produzione è 45 Uscirono rispettivamente sui numeri 10 (1964), 11-12 (1964) e 13-14 (1965) della «Rivista trimestrale». 59 capitolo quarto finalizzata all’esigenza primaria del mantenimento e alla riproduzione del produttore (quindi alla sussistenza dell’uomo e della sua famiglia); quello signorile, in cui si manifesta un’eccedenza della produzione rispetto alle esigenze primarie dell’uomo, il cosidetto sovrappiù, ma di questo si impadronisce con la forza un uomo più potente degli altri (il signore); quello infine della borghesia, in cui il produttore difende il proprio sovrappiù dal signore e lo reinveste nel processo produttivo. Le tre forme presentano rilevanti differenze. Nell’economia dell’autoconsumo l’uomo è libero e il suo lavoro è finalizzato al proprio consumo. Nell’economia signorile il lavoratore è servo, non ha alcun diritto salvo quello della sussistenza e della riproduzione, e la finalità della sua attività produttiva (della formazione del sovrappiù) è il libero consumo del signore. In quella capitalistica il lavoratore è reso libero affinché possa vendere la propria forza lavoro al capitalista, e la produzione non è finalizzata al consumo di un individuo, ma a un insieme di bisogni che comprendono quello dei lavoratori (tendenzialmente ridotto dal sistema economico ai bisogni primari della sussistenza e riproduzione, ma che il contropotere del lavoratore nella lotta di classe tende ad accrescere), quello dell’allargamento del processo produttivo (obiettivo perseguito da ciascun capitalista, il quale sopravvive solo grazie al potere che riesce a conquistare nella giungla della concorrenza), e quella infine del soddisfacimento di nuovi bisogni collettivi: quelli connessi alla difesa del sovrappiù prodotto, alla gestione di funzioni sociali (la giustizia, il governo, l’istruzione, la salute, la celebrazione dei valori comuni e così via). La chiave di volta della nostra interpretazione fu espressa in una frase lungamente cesellata, nella quale la matrice della città veniva individuata nella forma del consumo: ci si riallacciava in sostanza alla questione trattata nell’articolo del 1958, di cui ho già riferito, sull’organizzazione del consumo46. Affermavamo che la città è «il luogo in cui l’attività produttiva si svolge obbedendo a una caratteristica determinata: quella, cioè, di non essere rapportata immediatamente, fisicamente, ed esclusivamente, come al suo unico fine, al consumo individuale di un consumatore determinato». Nel percorso del modello insediativo alternativo a quello signorile individuavamo diverse tappe. Quando il sovrappiù rimane nelle mani del produttore si passa, secondo la nostra analisi, dal villaggio al borgo, alla città. Il villaggio corrispondeva alla forma economica dell’autoconsumo e del primo apparire del sovrappiù. Il borgo nasceva quando 46 Salzano, Gestione domestica e organizzazione del consumo. 60 nel centro dell’urbanistica italiana l’accrescersi del sovrappiù ne rafforzava il ruolo, e l’esigenza della sua difesa (rispetto al signore) e dello scambio (con gli altri produttori). La città – sostenevamo – si è formata dalla crisalide del borgo, quando la formazione del sovrappiù e le nuove esigenze sociali (tra cui la necessità politica di opporsi al signore e al suo “castello”) sollecitarono a investire in una serie di luoghi significativi: i luoghi – appunto – finalizzati al “consumo comune”, al soddisfacimento di bisogni legati a funzioni e attività che non erano riferite alle necessità di una singola famiglia, ma alla società nel suo complesso. Da questa iniziale riflessione si dipanava l’esame delle trasformazioni della città (come urbs, polis e civitas), del ruolo che sul suo destino (sulla sua affermazione come forma tendenzialmente universale del rapporto tra società e ambiente, e sulla sua crisi) hanno influito l’affermazione e lo sviluppo del sistema capitalistico, nelle sue manifestazioni sette ottocentesche dell’industrialesimo come in quelle in atto della “società opulenta”. Cercavamo infine di delineare le possibilità e le condizioni di una sua uscita dalla crisi47. 9. Urbanistica e società opulenta I tre saggi suscitarono interesse nel mondo degli urbanisti. Aldo Rossi, un intelligente architetto e urbanista milanese, dopo aver letto il primo saggio, mi chiese di pubblicare, una volta conclusa la ricerca, l’intero lavoro in una nuova collana che stava preparando per l’editore Marsilio, che già ospitava rilevanti collane di testi urbanistici. Accettai. Conclusi i tre articoli, li riordinai in un unico testo, arricchendo e approfondendo alcuni aspetti. Lo spedii ad Aldo Rossi. Il primo libro della nuova collana uscì con l’annuncio della prossima pubblicazione del mio. Ma il testo della presentazione, che non era stato concordato con me, non mi piacque affatto: appiattiva il libro – così almeno mi parve allora – con qualche frase a effetto. Protestai, litigammo, il libro non uscì. Ne parlai allora con Italo Insolera: propose di segnalarlo all’editore Einaudi, con cui era in buoni rapporti, aveva appena pubblicato con lui il bellissimo suo libro sulla storia urbanistica di Roma capitale, 47 I temi di questo paragrafo sono stati sviluppati più ampiamente in E. Salzano, Fondamenti di urbanistica. La storia e la norma, Bari-Roma, Laterza, 20074, p. 25-34. 61 Roma moderna48. I redattori di Einaudi lo lessero, mi chiesero di andare a Torino per discuterne. Presi il treno. Scesi all’albergo Roma (dove Cesare Pavese si era suicidato pochi anni prima). Tutto ok – mi dissero – le mandiamo il contratto, lei ce lo rispedirà firmato e intanto partiamo. Mesi di silenzio. Italo si informò. Seppe che, all’ultimo momento, Giulio Einaudi aveva chiesto un parere al suo vecchio amico Bruno Zevi. Sembra che l’autorevole storico dell’architettura avesse sentenziato: «Questo libro non deve essere pubblicato né ora né mai». Continuando nei suoi tentativi, Italo lo fece avere all’editore Vito Laterza, tramite il suo maestro Leonardo Benevolo. Laterza lo scorse, gli sembrò interessante e ben scritto. Se lo portò in vacanza alle Tremiti, lo lesse con attenzione, mi scrisse una lunga lettera nella quale mi muoveva precisissime osservazioni di merito e mi proponeva alcuni ragionevoli cambiamenti, la maggior parte dei quali accettai. Il libro uscì nel 1969, con una bella copertina verde e blu, in una collana nuova. Ebbe molto successo, soprattutto nel mondo dei giovani architetti sessantottini. 48 I. Insolera, Roma moderna. Un secolo di storia urbanistica, Torino, Einaudi, 1971II. 62 Capitolo quinto Esperienze di vita pubblica 1. Consigliere comunale a Roma Come giovane urbanista avevo aiutato alcune sezioni del Pci romano in qualche analisi della situazione locale. Era nota la mia adesione al gruppo di Franco Rodano. Fu per queste ragioni che la federazione romana del Pci decise di chiedermi di partecipare alle elezioni amministrative del 1966 come indipendente, e di essere eletto per occuparmi della politica urbanistica, affiancando gli altri autorevoli compagni che già se ne interessavano: Aldo Natoli, Piero Della Seta, Antonio Gigliotti49. Il segretario della federazione, Renzo Trivelli, mi chiese un incontro. Venne nello studio di via del Tempio. La sua richiesta mi era stata anticipata dal mio antico compagno di studi Dado Morandi, attivo militante comunista nelle periferie romane. La mia candidatura era emersa nelle riunioni del comitato federale, e aveva via via acquistato credibilità. Dado era orgoglioso di comunicarmelo per primo. Accettai. Iniziò una storia che, con diverse forme e in diverse città, sarebbe proseguita per quasi trent’anni. 49 A quei tempi le liste elettorali venivano formate, nell’ambito del Pci, con un attento “dosaggio” di esponenti delle diverse realtà sociali di cui si voleva guadagnare il consenso: le liste dovevano essere rappresentative dell’insediamento sociale del partito. All’interno delle liste si sceglieva poi un certo numero di candidati su cui l’organizzazione del partito concentrava le preferenze, per fare in modo che i gruppi eletti fossero da un lato rapprentativi delle più forti realtà sociali, ma dall’altro fossero costituiti di esperti dei vari settori d’azione dell’amministrazione, locale o nazionale, su cui ci si doveva impegnare. La formazione delle liste e la decisione, al loro interno, di quelli su cui dirigere i voti era quindi una discussione complessa, che coinvolgeva le diverse istanze del partito, da quelle di base a quelle di direzione. 63 capitolo quinto Poiché ero sconosciuto ai compagni delle sezioni, che avrebbero dovuto votare per me in obbedienza alle indicazioni del partito, mi fu chiesto di preparare un volantino con una mia piccola biografia e una dichiarazione. La propaganda individuale era consentita unicamente ai candidati indipendenti: in quei tempi la personalizzazione della partecipazione alla competizione elettorale, che oggi è una causa del degrado della politica, era considerata colpa grave, per la quale si rischiava l’espulsione. Per farmi conoscere, ed essere sicuri della mia elezione, non bastò il volantino. Mi fecero partecipare a comizi elettorali con membri autorevolissimi del Pci. Il primo fu nella popolare sezione di Torpignattara: in una grande sala gremita, dopo un discorso di Giancarlo Pajetta, tra i più amati dirigenti nazionali del partito, pronunciai un breve intervento. Ne seguì uno all’aperto, in piazza dei Navigatori, con Giorgio Amendola, dirigente storico del Pci dagli anni del fascismo. Lo ricordo come un comizio un po’ freddino. Pieno d’entusiasmo e di pathos invece quello successivo, nel popoloso quartiere di Centocelle, con Pietro Ingrao, adorato dalla base romana del partito. A conclusione della manifestazione, Ingrao fu strappato dal palco e portato in trionfo dai giovani comunisti. Dopo l’ultimo comizio andai a cena in un ristorante di Campo de’fiori, con tutto il gruppo dirigente del partito. Uscendo di lì e avviandoci verso la sede del Pci mi trovai accanto a Luigi Longo, segretario nazionale del partito. Era un vecchio dirigente, formatosi attraverso l’esilio, la guerra di Spagna, la clandestinità della Resistenza e la guerra partigiana in Italia. Molte cose che non appartenevano alla sua esperienza gli sfuggivano. «Non riesco a capire come mai a voi architetti piacciano tanto queste case e questi quartieri degradati e vecchi; è così più bello dove abito io!». La sua abitazione era nel grande, moderno e un po’ squallido palazzo di una cooperativa di deputati, lungo la via che porta all’Eur. Fui eletto. Cominciò il duro lavoro di consigliere comunale di un’opposizione che contava. Le riunioni della commissione urbanistica, della quale facevo parte con Natoli e Della Seta, avvenivano due o tre volte alla settimana, quelle del consiglio comunale una o due. E poi c’erano le riunioni del partito, quelle del gruppo consiliare, il lavoro con le sezioni. In quegli anni cominciai anche a collaborare, come urbanista, al lavoro del piccolo ufficio della direzione nazionale del Pci, in via delle Botteghe Oscure, che di quegli argomenti si occupava. Mi iscrissi al Pci solo nel 1971, al termine del mandato amministrativo: ero stato eletto come “indipendente” e tale volevo restare, per rispetto dei miei elettori. 64 esperienze di vita pubblica 2. Il lavoro sull’attuazione del piano regolatore generale di Roma del 1962 Il grosso del lavoro di consigliere comunale si svolgeva nella commissione. Noi eravamo certamente i più agguerriti e presenti. Il confronto era tra Piero Della Seta e me da un lato, e l’assessore all’urbanistica democristiano, che per molti anni fu Maria Muu Cautela e il funzionario, l’ingegnere Piero Samperi, abile strumento tecnico della politica democristiana, dall’altro. Nel 1962 era stato adottato un nuovo prg, dopo un lunghissimo dibattito e diversi progetti e atti amministrativi50. C’erano, nel piano, alcune idee positive. La scelta fondamentale, che caratterizzava la sua struttura, così come era stato concepito dai cinque consulenti incaricati51, era quella di combattere lo sviluppo della città in tutte le direzioni (“a macchia d’olio”), determinato dal gioco esclusivo della rendita fondiaria, causa principale della congestione dell’area centrale e in particolare dei quartieri più antichi. L’intenzione era di privilegiare lo sviluppo a est, verso i Castelli romani, promuovendolo con un deciso spostamento dal centro di tutte le attività direzionali, sia pubbliche sia private. La previsione più forte fu quindi il nuovo Sistema direzionale orientale (Sdo): una struttura costituita da tre grandi nuclei di uffici, attività commerciali e residenze, collegati tra loro e al resto della viabilità urbana e metropolitana da un “asse attrezzato”: un grande asse infrastrutturale costituito da arterie stradali e vettori su rotaia. Altro elemento positivo del piano era la tutela delle aree verdi della città, in particolare dei grandi parchi esistenti (villa Ada, villa Chigi, villa Doria Pamphili, Castel Fusano, Castel Porziano) e il comprensorio dell’Appia Antica52. Ma il piano si segnalava anche per due contributi importanti di carattere generale, l’introduzione di due criteri che solo successivamente furono resi norma generale nella legislazione nazionale (per essere prima o poi disattesi): gli standard urbanistici, che furono resi obbligatori per tutti i Comuni, come abbiamo visto, con la “legge ponte” del 1967 e il decreto del 1968; e l’attuazione programmata nel tempo del piano, introdotta come norma generale con la “legge Bucalossi” del 1977, che prescrisse la formazione del “programma pluriennale d’attuazione”. Con questo 50 Insolera, Roma moderna, p. 251-282. 51 Erano Luigi Piccinato, Michele Valori, Lucio Passarelli, Mario Fiorentino, Piero Maria Lugli. 52 Questo fu introdotto d’ufficio con il decreto d’approvazione del piano dal ministro Giacomo Mancini, in considerazione dei “preminenti interessi dello Stato” che ne chiedevano la tutela. 65 capitolo quinto strumento si stabiliva che le diverse previsioni del prg, in particolare la realizzazione di nuove zone d’espansione, di nuove infrastrutture, di nuove attrezzature pubbliche, non avvenissero casualmente nel tempo, rispettando cioè il solo disegno spaziale del piano, ma secondo un preciso programma, valido non a tempo indeterminato come le previsioni del prg, ma per un periodo breve (3-4 anni), e stabilendo quali erano gli interventi da attuarsi nel prossimo periodo, talché la realizzazione di infrastrutture, servizi ed edilizia avvenisse contemporaneamente. Gli elementi negativi del piano erano soprattutto tre. Innanzitutto l’eccessiva dimensione delle previsioni edilizie, dovuta in particolare all’inserimento di numerosissime zone d’espansione: grandissime aree, ciascuna destinata ad accogliere edilizia per migliaia, e a volte decine di migliaia di abitanti. In secondo luogo, l’insufficienza regolativa delle norme previste per la parte già costruita della città, dove erano consentiti pesanti interventi di sostituzione che avrebbero accresciuto ulteriormente la congestione delle zone centrali. Infine, l’assoluta mancanza di volontà politica di rendere davvero concreti gli elementi positivi del piano, a partire dalla sua attuazione programmata nel tempo e dalla realizzazione dello Sdo. Una prima fase del lavoro che svolgemmo in commissione consiliare consistette nell’esame delle numerosissime osservazioni al prg e alla stesura delle relative controdeduzioni, con le modifiche conseguenti a quelle accolte. Prima di prendere in considerazione le osservazioni discutemmo i criteri sulla base dei quali le avremmo esaminate e avremmo deciso, e preparammo una serie di formule per le varie tipologie di accettazione o di rigetto delle proposte presentate. Senza grande fatica riuscimmo a ottenere l’inserimento di una formula che ci permetteva di escludere sistematicamente molte delle osservazioni palesemente volte solo a privilegiare interessi privati. La formula era, grosso modo, la seguente: «L’osservazione appare volta alla tutela d’un interesse privato in contrasto con gli indirizzi del piano». Mentre scrivo, devo osservare che in questi anni la prassi, che si vuole rafforzare con leggi di “riforma”, è esattamente quella opposta: si tende a privilegiare gli interessi immobiliari privati sugli interessi pubblici53. 53 Il disegno di legge dell’onorevole Lupi, presentato nella xiv legislatura e ripresentato nella successiva, prevede esplicitamente che la pianificazione avvenga «mediante l’adozione di atti negoziali in luogo di atti autoritativi»: in parole povere, mediante la contrattazione con gli interessi immobiliari anziché mediante autonome scelte del potere pubblico. E gli interessi dei proprietari sono privilegiati, nelle proposte legislative e nella prassi di quasi tutte le istituzioni, nei confronti di quelli dei cittadini. Vedi capitolo 14, paragrafo 2 e seg. 66 esperienze di vita pubblica Conclusa questa parte del lavoro e approvato definitivamente il piano, si passò alla fase dell’attuazione. Per un primo periodo il nostro gruppo si oppose recisamente a prendere in esame l’attuazione dei grandi comprensori d’espansione privati: sembravano invece essere l’unica previsione alla quale la giunta democristiana tenesse. Dal punto di vista dei concreti interessi, erano la polpa del piano, e la parte più facile da attuare. Il nostro peso politico era notevole: benché fossimo all’opposizione, riuscivamo a incidere sulle scelte. O, almeno, a far sì che non passassero quelle a cui eravamo più nettamente contrari, esercitando forme di ostruzionismo e appellandoci all’opinione pubblica. Poi, a un certo punto, l’opposizione del Pci si ammorbidì. Non ne compresi subito il perché. Allora seguivo poco le vicende politiche della federazione romana e della direzione nazionale: del resto, non ero iscritto al partito ed ero eletto come indipendente. Il leader del gruppo consiliare non era più Aldo Natoli, che era su posizioni molto rigorose. Erano gli anni nei quali maturava la formazione del gruppo del «manifesto», che condusse poi alla radiazione dei suoi promotori dal Pci; a quel gruppo Natoli era molto vicino. Ma era l’insieme dell’atteggiamento del Pci che stava cambiando. L’urbanistica, almeno a Roma, non era più argomento centrale: le sue scelte potevano essere adoperate come merce di scambio per ottenere altri vantaggi, vantaggi politici devo aggiungere e sottolineare, non di mero potere o, peggio, di gratificazione personale, come avviene adesso. Così, in cambio d’un atteggiamento della Dc più vicino alle posizioni della sinistra sui grandi temi simbolici (come l’approvazione unanime da parte del consiglio di un ordine del giorno contro la guerra del Vietnam), assumemmo un atteggiamento più disponibile sulla politica urbanistica. Fino ad allora avevamo impedito che i piani di lottizzazione convenzionata delle grandi zone d’espansione fossero presentati in commissione per l’esame: adesso accettammo di entrare nel merito in commissione, e poi in consiglio per la decisione. Avremmo espresso la nostra posizione, argomentatamente, per ciascuno dei piani, poi si sarebbe passati ai voti. 3. La battaglia per Capocotta All’inizio degli anni Settanta, gran parte della nostra attività in Campidoglio fu dunque dedicata all’esame dei vari progetti attuativi del prg. Votammo a favore pochissime volte, contro quasi sempre, ma il risultato fu scarso: la giunta aveva la forza dei numeri. Compresi lì la differenza 67 capitolo quinto tra le varie forme di fare opposizione. Anche se si è in minoranza si possono bloccare le scelte della maggioranza. Poche cose dividono quegli anni da quelli presenti, ma sono fondamentali. In primo luogo, i consigli (cioè gli organismi larghi delle istituzioni elettive, quelli rappresentativi di tutte le posizioni politiche) contavano molto più di oggi. Poi c’era in tutti il rispetto per la legalità: c’erano tra noi alcuni bravissimi consiglieri che studiavano, prima delle riunioni, tutte le deliberazioni su cui avremmo votato, e scoprivano ogni imperfezione che le rendesse suscettibili di critica sotto l’aspetto giuridico e amministrativo. Infine c’era una maggiore attenzione, da parte di tutti, al merito delle cose; e così si riusciva a convincere anche l’avversario politico. La democrazia rappresentativa funzionava molto meglio di adesso. Allora i consigli dei diversi livelli di governo, come il parlamento nazionale, erano davvero “lo specchio del paese”: in essi avevano rappresentanza e voce, e partecipavano alle decisioni almeno con l’espressione forte della loro argomentata opinione, i rappresentanti di tutte le posizioni politiche e culturali che avevano sufficiente seguito. Le grandi decisioni – nell’ambito del Comune, come degli altri livelli di governo – le assumeva il consiglio, non la giunta o il sindaco. I diritti d’informazione, di argomentazione, di proposta erano riconosciuti a tutti. A partire dagli anni Novanta, le cose sono radicalmente cambiate. Prima con il passaggio dal voto proporzionale a quello uninominale, che ha ridotto la rappresentatività; poi con il trasferimento di poteri dai consigli alle giunte (espressione della maggioranza) e da queste al sindaco. Oggi i consigli non decidono più nulla: si limitano a ratificare le decisioni già prese. La scelta compiuta dalle forze politiche maggiori, in modo completamente bipartisan, è stata quella di privilegiare la governabilità sulla democrazia, il decisionismo sulla partecipazione. Il Consiglio contava ancora, e in esso i comunisti, quando la giunta ci presentò per l’esame una lottizzazione minore, denominata “Marina reale”: si trattava di una zona d’espansione sul litorale, che avrebbe reso possibile la costruzione di cinquemila ville. Nessuno di noi conosceva l’area, ma la cosa ci insospettì. Della Seta e io chiedemmo di fare un sopralluogo. Una richiesta abbastanza inconsueta per quei tempi; in genere, l’organizzazione capillare del partito ci consentiva di avere, attraverso le sezioni, informazioni precise delle varie realtà, ma per quella zona non avevamo raccolto nessuna informazione. Un pullmino ci portò sul posto; c’erano anche l’assessore e altri membri della commissione. Arrivammo, dalla campagna romana, in una grandissima pineta: alti pini marittimi ombreggiavano un verde prato. Camminando in direzione del mare, ci addentrammo in una 68 esperienze di vita pubblica selva più intricata: si trattava di uno splendido bosco mediterraneo, il terreno disseminato di ciclamini e grandissime ghiande cascate dalle querce. Una foresta meravigliosa, che terminava sul mare con una serie di dune intatte. Tornando in città, decidemmo con Piero che quella lottizzazione non si sarebbe fatta. Buttai giù frettolosamente un breve comunicato. Lo spedii a qualche decina di indirizzi, principalmente alla stampa. La cosa colpì. Il giorno dopo «il Messaggero» pubblicò un ampio servizio. L’opinione pubblica si mosse. Il ministro dei Lavori pubblici, Giacomo Mancini, intervenne. L’operazione fu bloccata, il bosco di Capocotta fu salvo. Eppure, gli interessi della proprietà erano potenti. Vi erano tre gruppi di proprietari: gli eredi della famiglia Savoia (sì, proprio la ex famiglia reale), un gruppo di costruttori romani e il potente sindacato dei lavoratori israeliani, l’Histadrut. Una giovane, bella ed elegante emissaria di quest’ultimo (rappresentato da uno studio svizzero) mi chiese un appuntamento; la incontrai, mi fece balenare proposte maliziose che, ovviamente, lasciai cadere. Fu la prima e unica volta, in tutta la mia carriera di amministratore, che subii un tentativo di corruzione. 4. Le borgate abusive Non solo di piani si nutriva il lavoro del consigliere comunale comunista in Campidoglio. Si trattava anche di aiutare i compagni delle sezioni a comprendere e a intervenire sulle situazioni delle realtà locali in cui operavano e di cui rappresentavano gli interessi. Ebbi l’occasione di conoscere moltissimi compagni di grande valore; il disinteresse personale, la disponibilità a farsi carico degli altri, la volontà di comprendere e di far comprendere, di imparare e di insegnare: queste erano le caratteristiche comuni a tanti giovani architetti o studenti, o semplici militanti di base, che conobbi allora. Con Piercamillo Beccaria mi interessai della situazione del quartiere di Primavalle, sottoposto a un progetto di trasformazione che noi volevamo riqualificare nell’interesse dei cittadini. In seguito, Beccaria vinse un concorso e andò a lavorare come urbanista nel Comune di Modena, dove divenne consigliere comunale, assessore, e poi bravissimo sindaco54. Con Vittorio Caporioni e un gruppo di giovani studenti di 54 Piero Beccaria diede anche un altissimo insegnamento di vita. Colpito dal cancro, scrisse una lettera ai cittadini nella quale li informava della sua malattia e annunciava che avrebbe 69 capitolo quinto architettura lavorammo per spiegare ai cittadini del popoloso quartiere di San Lorenzo i “misteri” dell’urbanistica. Con Giuliano Prasca indirizzammo verso la conquista di spazi pubblici le numerose compagini e associazioni di sportivi che lui, dirigente dell’Uisp (Unione italiana spor popolare), allenava per la ricreazione e mobilitava per la civiltà (mi fece un complimento tra i più belli che abbia mai ricevuto: «Salzano mi ha insegnato a dare del tu al territorio»). Un problema che si ripresentava spesso, e nel quale il Pci era fortemente impegnato, era quello delle borgate abusive. Erano insediamenti spontanei, nati nell’agro romano: ammassi di casupole in foratini, lamiere e materiali raccogliticci, e tuguri ricavati sotto gli archi delle rovine degli acquedotti romani. Prima della guerra ospitavano una parte degli abitanti cacciati dal centro storico dalle demolizioni del periodo fascista55; nel dopoguerra, le famiglie povere che la crisi dell’agricoltura aveva cacciato dai paeselli d’origine e il gigantesco boom dell’edilizia aveva richiamato nella capitale, ancor prima che il parlamento, nel 1960, abrogasse le leggi fasciste contro l’urbanesimo, che avevano reso praticamente impossibile spostarsi dalla campagna alla città in cerca di un lavoro. Via via le borgate si erano trasformate. Negli anni Cinquanta e Sessanta erano sorte su lottizzazioni abusive di terreni: un proprietario fondiario faceva disegnare una mappa che suddivideva il suo terreno in lotti di poche centinaia di mq; tramite abili intermediari vendeva i lotti agli immigrati; questi, in prevalenza muratori o manovali, con la solidarietà degli amici mettevano su in fretta e furia una casetta. Si costituivano così insediamenti di qualche consistenza, ma lontani dalla città, privi di acqua, elettricità, fognature e, naturalmente, servizi collettivi. Una massa di piccoli slums accerchiava la capitale, che intanto si estendeva con i palazzoni nei quartieri legali. Il prg del 1962 aveva del tutto trascurato le periferie. Scrive Insolera: Non si parla invero delle borgate: se le cerchiamo sui grafici del piano constatiamo che per la maggior parte di esse è prescritta la conservazione dei volumi attuali, né sono previste intorno ad esse sufficienti aree per l’insediamento di quei servizi di cui le borgate sono notoriamente prive. Non è dato vedere nel “progetto di piano” una politica della periferia, intesa come rottura della tradizionale indifferenza dei piani regolatori romani continuato a fare il sindaco finché ne avesse avuto la forza. Rendeva pubblica la sua condizione per testimoniare che la malattia non è una vergogna da tenere nascosta. 55 A. Cederna, Mussolini urbanista, Venezia, Corte del Fontego, 2006. 70 esperienze di vita pubblica verso quelle zone della città dove, nelle baracche, nelle borgate, negli alveari di cemento armato, si accumulano da cento anni energie umiliate e frustrate, vane speranze di uomini a cui non è stato dato di partecipare all’evoluzione di quella civile comunità di persone che dovrebbe essere una città56. Il popolo delle borgate protestava. Il lottizzatore abusivo era scomparso, restavano ormai le famiglie dei disperati costruttori della città illegale. Il Pci raccoglieva ed esprimeva la protesta, la trasformava in richiesta di condizioni civili di cittadinanza. Mano a mano si riuscì a ottenere che venissero realizzate le fogne e l’acquedotto, che fossero servite da un autobus, che le più popolose venissero dotate di qualche essenziale attrezzatura pubblica. Ma questo percorso di doveroso riconoscimento di diritti di cittadinanza finiva per consolidare l’abusivismo. Nuovi insediamenti abusivi nascevano, quelli esistenti mutavano le loro caratteristiche: da tuguri a casette, da casette a ville e villette, addirittura piccoli condomini. Negli anni in cui ero consigliere comunale il fenomeno era in una fase avanzata di transizione. Ne eravamo consapevoli, cercavamo senza riuscirci di risolvere la contraddizione tra riconoscimento di diritti elementari e corretta gestione del territorio. 5. Il Sessantotto Quando scoppiò quel grande evento che fu il Sessantotto non ero del tutto impreparato. Attraverso il gruppo del «Dibattito politico» avevo conosciuto e condiviso la critica alla società opulenta di J. K. Galbraith57. Ricordo un articolo che scrissi nel 1959, una sorta di recensione al libro. Il titolo era L’inutile opulenza58. Nell’articolo concordavo con l’analisi di Gailbraith, ma ritenevo, d’accordo col gruppo, che la soluzione non potesse essere quella da lui proposta, «di estendere il campo d’azione dello Stato nell’economia, al fine di riequilibrare la bilancia sociale e di dare più largo respiro alla produzione di ‘merci utili’: scuole, ospedali, servizi pubblici in genere e così via». Noi sostenevamo che «all’interno di una concezione dell’economia che a sè stessa subordina ogni altro valore, ogni altra attività, ogni altra 56 Insolera, Roma moderna, p. 268. 57 J. K. Galbraith, La società opulenta, Milano, Edizioni di Comunità, 1965. 58 E. Salzano, L’inutile opulenza, «il Dibattito politico», 133-34 (10 mag. 1959), 71 p. 25. capitolo quinto dimensione dell’umano operare», si dovesse porre il problema «sul piano del superamento di una civiltà, di una cultura, di un sistema sociale basati sul secco prevalere della dimensione economica, e quindi sulla priorità assoluta dei valori quantitativi e materiali». Vivevamo ormai nel pieno della società opulenta, i cui connotati «La Rivista trimestrale» aveva ampiamente indagato; io stesso avevo già pubblicato il saggio Ambiguità della città opulenta59. E consideravamo i grandi moti degli studenti come l’espressione del malcontento dei “figli dell’opulenza”, che non trovando sbocchi politici distruggevano tutti i costrutti dei loro genitori. Mentre io militavo “diligentemente” nel Pci e in consiglio comunale, alcuni miei amici e conoscenti occupavano facoltà universitarie e si prendevano a botte con la polizia. Non eravamo in due mondi del tutto diversi, ma certo facevamo fatica a capirci. A me irritava particolarmente l’atteggiamento aggressivo nei confronti del partito nel quale militavo e dei suoi aderenti, il rifiuto del confronto pacato. Ricordo che una volta gli studenti che occupavano la facoltà di architettura di Roma chiesero al Pci di mandare un suo esponente a illustrare la “politica della casa” del Pci. Andammo in due, Bruno Roscani e io: ci fu molto difficile parlare di cose concrete, venivamo continuamente interrotti e insultati come «riformisti», «servi dei padroni» e così via60. Gli studenti di architettura erano dotati, in quella fase, di grande energia creativa. Avevano affrescato con fiori, alberi e uccelli i locali della facoltà, alcuni si erano incatenati in cima a un campanile (a Sant’Ivo alla Sapienza) per protestare pubblicamente, altri chiedevano colloqui col professore: nel suo studio, poi, restavano seduti silenziosi a guardarlo, gettando a terra, uno per uno, i fogli bianchi di una risma di carta, per significare che la cultura non aveva niente da dire. I rapporti tra la sinistra “ufficiale” e gli studenti del Sessantotto non furono mai facili, sebbene migliorarono nettamente quando il segretario nazionale del Pci, Luigi Longo, aprì con loro un dialogo e, sulle riviste del partito, cominciò una riflessione sul significato di quel movimento. Anche nel nostro gruppo non ricordo entusiasmi nei confronti del movimento sessantottino. Secondo molti, il Sessantotto ha rappresentato anche un forte spostamento dell’attenzione sociale dal pubblico al privato, dal common all’individual. Comunque, a quel movimento mi sentivo 59 60 Vedi p. 59. Solo molto più tardi seppi che il leader degli studenti che affollavano quell’incontro era Antonello Sotgia, che oggi collabora con eddyburg con articoli sulle iniziative romane sulla questione delle abitazioni. 72 esperienze di vita pubblica estraneo, sebbene probabilmente il clima generale che il Sessantotto aveva provocato nei rapporti personali contribuì a modifiche sostanziali nella mia vita privata. Riflettendoci a posteriori mi sembra che di quel generale sommovimento occorra valutare due aspetti, che David Harvey pone chiaramente in luce. Lo studioso statunitense sottolinea come «gli sconvolgimenti politici avvenuti in tutto il mondo nel 1968» fossero «fortemente segnati dal desiderio di maggiori libertà personali»; ciò era certamente vero per gli studenti: Chiedevano libertà dalle costrizioni esercitate dalle famiglie, dalle strutture educative, aziendali, burocratiche e dallo Stato. Ma il movimento del ’68 aveva anche come obiettivo politico primario la giustizia sociale. I valori della libertà individuale e della giustizia sociale non sono, però, necessariamente compatibili. Il perseguimento della giustizia sociale presuppone solidarietà sociali e una propensione a sublimare le esigenze, i bisogni e i desideri individuali nell’ambito di una lotta più generale, per esempio per l’uguaglianza sociale o la giustizia ambientale. Nel movimento del ’68 gli obiettivi che riguardavano la giustizia sociale e quelli relativi alla libertà individuale si fondevano con qualche difficoltà. L’attrito divenne più che mai evidente nella tensione che caratterizzò i rapporti tra la sinistra tradizionale (organizzazioni dei lavoratori e partiti politici) a favore delle solidarietà sociali e il movimento studentesco desideroso di libertà individuali61. In effetti, il movimento del ’68, mentre da un lato, infrangendo i tabù dell’autoritarismo e del controllo sociale, liberava le energie derivanti dalla piena esplicazione dei diritti individuali, dava spazio all’affermazione delle differenze (a cominciare da quelle di genere) e promuoveva la piena espressione delle pulsioni personali, dall’altro vedeva smarrire il senso della dimensione sociale, essenziale per l’equilibrio stesso della persona. In Italia, probabilmente, questo ripiegamento sull’«individualismo neoreomantico»62 incise meno che altrove, anche perché incontrò rapidamente un altro movimento, rappresentato dal mondo del lavoro e dalle sue organizzazioni economiche e politiche. 61 62 D. Harvey, Breve storia del neoliberismo, Milano, Il Saggiatore, 2007, p. 53. La storia dell’individualismo, a partire dal 1968, evidenzia questa tendenza; o, per dirla con Luc Boltanski, «il capitalismo moderno ha integrato con successo la “critica creativa” del movimento del ’68, trasformando il suo idealismo in un individualismo neoromantico espresso principalmente attraverso il mondo delle merci», in P. Ginsborg, Il tempo di cambiare. Politica e potere della vita quotidiana, Torino, Einaudi, 2004, p. 83. 73 capitolo quinto In Italia, quegli anni ebbero un carattere abbastanza diverso dal Sessantotto nelle altre regioni del mondo. Come scrive quarant’anni più tardi Alberto Asor Rosa, «solo in Italia – solo in Italia, in tutto il mondo – movimento studentesco e movimento operaio crebbero solidalmente, tendendosi la mano». E prosegue: Dov’altro mai, e quando mai, è accaduta una cosa del genere? Il deprezzamento del 1968-69 fa parte integrante del clima degradato di questi nostri giorni, si dimentica che questo è stato un punto alto della storia d’Italia, un momento europeo e internazionale, come in Italia ne capitano pochi. Cambiò il modo di considerare la politica. Si fece politica di massa anche fuori dei partiti. Le donne conquistarono un posto che prima non avevano. Partiti e sindacati furono costretti a prenderne atto, a registrare i loro obiettivi e le loro metodologie organizzative. Insomma, l’Italia diventò più libera rispetto al proprio passato. E gli intellettuali, piccoli e grandi (che altro sono gli studenti se non intellettuali in formazione?), vi recitarono una parte non certo minore, e sicuramente positiva63. 6. Verso l’autunno caldo In Italia il movimento degli studenti incontrò, e contribuì a preparare e a sostenere, l’altro grande evento di quegli anni. Tra la primavera del 1968 e l’autunno del 1969 si aprì infatti in Italia una grande vertenza sindacale. Due filoni di problemi la animarono. Da una parte le rivendicazioni in qualche modo tradizionali, legate al rinnovo dei contratti e alle condizioni di lavoro nelle fabbriche. Il primo episodio rilevante fu lo sciopero degli operai del lanificio Marzotto a Valdagno, nel Vicentino. Una vertenza molto aspra che, a partire dall’aprile 1968, vide l’occupazione della fabbrica, l’abbattimento della statua del suo fondatore (che campeggiava nella piazza principale del paese, quasi a simboleggiare il ruolo servile della città rispetto al padrone della fabbrica), la repressione, in quel caso incruenta, della polizia, il coinvolgimento solidale di tutta la cittadina, compreso il Comune a prevalenza democristiana64. Dall’altra parte, la protesta sindacale era nutrita da altri temi: quelli legati alle condizioni di vita nella città e nel territorio. Per la prima volta 63 A. Asor Rosa, Il grande silenzio. Intervista sugli intellettuali, a cura di S. Fiori, Roma-Bari, Laterza, 2009, p. 63. 64 La statua nella polvere: 1968. Le lotte alla Marzotto, a cura di O. Mancini, Roma, Ediesse, 2008. 74 esperienze di vita pubblica le rivendicazioni dei lavoratori e della loro organizzazione non riguardavano solo le questioni dei salari e dei contratti nelle fabbriche o le condizioni di lavoro nelle campagne, ma affrontavano i temi della città: il problema dei trasporti, della casa, dei servizi sociali furono al centro di una vertenza che sfociò in un grande sciopero generale nazionale. Ed era una rivendicazione unitaria, nel senso che vedeva la partecipazione convinta delle tre grandi centrali nelle quali il movimento sindacale si era scisso negli anni della guerra fredda: la Cgil, orientata a sinistra, la Cisl, vicina al partito cattolico, la Uil, di ispirazione laica. La storia era cominciata a Torino, nella primavera del 1969. Vi avevo dedicato un ampio articolo su una piccola rivista di cui Vezio, alcuni amici napoletani e io avevamo avviato, molto artigianalmente, la pubblicazione. La rivista si chiamava «Polis»; ne uscirono due numeri65. La vicenda che raccontavo era la seguente. Nel marzo 1969 la Fiat aveva pubblicato un bando per assumere negli stabilimenti di Torino quindicimila nuovi addetti, reclutandoli nel Mezzogiorno: il loro trasferimento assieme alle famiglie avrebbe significato almeno sessantamila nuovi immigrati a Torino. Le organizzazioni sindacali rilevarono subito che i programmi di espansione degli impianti e dell’occupazione della Fiat avrebbero ulteriormente aggravato l’emarginazione delle regioni meridionali e gli squilibri territoriali. Sia la stampa locale e nazionale sia i parlamentari della sinistra criticarono l’iniziativa della Fiat, sottolineando l’insufficienza grave della programmazione economica. Noi condividevamo queste critiche, ma alzavamo il tiro e ci riferivamo al modello di sviluppo: se non si critica e supera questo modello di sviluppo, «chi potrà mai ragionevolmente impedire alla Fiat di ampliare i suoi impianti a Torino, finché la Fiat produrrà per la motorizzazione privata? Che senso avrebbe produrre a Cosenza o a Trapani o a Nuoro automobili, se il mercato è essenzialmente nel triangolo industriale e nei “poli” maggiori?»66. Nell’area torinese si manifestava una decisa opposizione all’iniziativa della Fiat, soprattutto nei confronti di ogni indiscriminato aumento della popolazione che avrebbe fatto saltare le già precarie strutture residenziali, e quel po’ di attrezzature sociali funzionanti nei comuni della “cintura”. La protesta sfociava nello sciopero generale provinciale del 3 luglio 1969 «contro il carocasa e per un massiccio e tempestivo 65 La redazione di «Polis»: Giuseppe Basile, Alessandro Dal Piaz, Edoardo Delgado, Vezio De Lucia, Raffaele Molino, Antonio Oliva, Edoardo Salzano (responsabile), Lucio Scandizzo. Grafico: Gianni Gennaro. 66 E. Salzano, I quindicimila della Fiat: un episodio della programmazione, «Polis», 1 (ago. 1969). 75 capitolo quinto intervento dello Stato nell’edilizia». I fatti di Torino, gli altri scioperi generali in numerose province nei mesi successivi, le proteste degli abitanti delle baracche e negli altri insediamenti impropri, il ripetersi delle occupazioni di alloggi (e, dall’altra parte, l’esistenza di numerosi alloggi con canoni d’affitto bloccati ai valori di prima della guerra) ponevano in primo piano la necessità di una nuova politica della casa. 7. Lo sciopero generale del 1969 L’autunno del 1969 fu probabilmente il momento più alto dello scontro sui problemi del territorio e della sua organizzazione: si trattava di affermare il diritto alla città come elemento essenziale di una società riformata. Quei temi non erano agitati solo da èlite intellettuali e dalle componenti più radicali della sinistra (allora espresse dall’ala della sinistra del Psi che faceva capo a Riccardo Lombardi). Era l’insieme dei sindacati dei lavoratori che scendeva in campo, con l’appoggio del maggior partito della sinistra, il Pci, che si avviava a essere quello col più ampio consenso elettorale. Ricordo, poche settimane prima dello sciopero nazionale, un convegno del Pci dedicato proprio a questi temi. Il titolo era «Il diritto alla casa e a una città per gli uomini». La relazione introduttiva fu di Alarico Carrassi, responsabile del settore presso la direzione del partito; comunicazioni furono svolte dai parlamentari Alberto Todros, Franco Busetto, dall’assessore bolognese Armando Sarti, dal giurista Salvatore D’Albergo, dall’urbanista milanese Alessandro Tutino, dal sindacalista Bruno Roscani, da me e da molti altri. Il titolo del mio intervento era «Dalla rivendicazione per la casa alla lotta per un nuovo assetto della residenza»; mi proponevo di intrecciare attorno al tema principale, la casa, quello degli spazi pubblici e delle attrezzature, e gli altri elementi della complessiva questione urbana. Non mi rendevo conto pienamente che era proprio nell’intreccio tra questi due elementi, la casa e gli spazi pubblici, che si stava delineando uno dei percorsi di quello che Henri Lefebvre aveva già definito diritto alla città67. Le conclusioni del convegno furono tratte da Pietro Ingrao. La discussione fu pienamente di merito, sulle questioni in sé, senza accademismi né politicismi. Ricordo Ingrao che, attentissimo, prendeva 67 H. Lefebvre, Il diritto alla città, Padova, Marsilio, 1970I (ed. orig.: Le droit à la ville, Paris, Edition Anthropos, 1968). 76 esperienze di vita pubblica diligentemente appunti su un grande quaderno formato protocollo e poi, nelle conclusioni – che diventavano la linea politica del Pci – inseriva in un quadro organico ciascuna delle valutazioni e proposte che erano emerse. Oltre alla sostanza, ammirai il metodo di lavoro, che a quei tempi era comune ai dirigenti politici, almeno nella sinistra68. Da quel momento cominciò uno scontro politico di inusitata asprezza e, contemporaneamente, un percorso di innovazioni legislative che, sebbene non raggiunse gli obiettivi di una vera riforma dell’urbanistica a partire dalla questione dei suoli urbani, definì un quadro di strumenti di grande positività. Come ha scritto Paul Ginsborg, in quegli anni «le forze che premevano per una riforma del settore abitativo e della pianificazione urbana erano ben più forti che all’epoca di Sullo e dell’inizio del centrosinistra. La principale differenza consisteva nella presenza attiva del movimento operaio»69. Molti anni dopo, nel concludere la mia relazione a un convegno organizzato assieme alle Camere del lavoro della Cgil, sostenevo di nutrire un sogno, «che il movimento dei lavoratori riprendesse nelle sue mani la vertenza per una città più giusta e perciò più bella, per un territorio tutelato nelle sue qualità e sottratto ai rischi, che incontrasse le altre componenti della società che si battono per gli stessi obiettivi»70. 68 Il convegno si tenne a Roma, al Teatro centrale, e si svolse il 30 e il 31 ott. 1969. Esistono gli atti, ciclostilati; ne farò presto la scansione per metterli a disposizione in eddyburg. 69 Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, p. 445 70 E. Salzano, La città come bene comune, in E. Salzano, Città e lavoro, Roma, Ediesse, 2009, p. 30. 77 Capitolo sesto Organizzazione della cultura 1. Nascita e crisi dell’Inu Il movimento studentesco del ’68 aveva travolto l’Inu, il prestigioso Istituto di alta cultura urbanistica, promotore dell’introduzione in Italia dei principi e delle pratiche della buona urbanistica europea. Il ruolo dell’Inu era stato rilevante già nell’Italia degli anni fascisti (l’istituto era nato nel 1930, come me), poi nell’Italia democratica, attivo soprattutto dalla fine degli anni Cinquanta alla fine dei Sessanta, quando si era avviata – con il centro-sinistra di Aldo Moro, Ugo La Malfa e Pietro Nenni – la fase riformatrice della società italiana. Delle grandi riforme di struttura (nazionalizzazione dell’energia elettrica, riforma agraria, riforma della scuola media, istituzione delle Regioni, programmazione economica) faceva parte organicamente la riforma dell’urbanistica. E l’Inu lavorava alacremente, sia per diffondere la buona urbanistica nei Comuni e nelle università, sia per mutare il quadro legislativo. Con il declino dello spirito riformatore del centro-sinistra e, soprattutto, sotto la spinta contestatrice del movimento studentesco, la carica innovativa e critica dell’Inu si era stemperata. Ciò apparve evidente al rituale congresso, che si tenne a Napoli, nel 1969, nel grande teatro della Mostra d’Oltremare. Sul palco, accanto ai dirigenti dell’Inu sedevano sindaco, prefetto, vescovo: tutta l’autorità costituita, in una città che non era certamente all’avanguardia della politica progressista. Con un ingresso teatrale di grande efficacia, gli studenti della facoltà di architettura interruppero il congresso. Cominciarono dal fondo della sala ad affiggere alle pareti manifesti irridenti e provocatori; poi si avvicinarono e mano a mano li appesero ai tendaggi dietro il palco e allo stesso tavolo della presidenza. Mentre i volponi del potere 79 capitolo sesto sgusciavano via dietro le quinte, gli studenti conclusero la performance con un grande lancio di rotoli di carta igienica, sciorinati a mo’ di carnevalizie stelle filanti. Qualcuno aveva chiamato la polizia. La Celere, con gli scudi e le visiere dei caschi abbassate, irruppe dal fondo della sala. Uno dei dirigenti dell’Inu, l’irruento Giuseppe Campos Venuti, saltò sul palco, afferrò il microfono dalle mani di Bruno Zevi, segretario generale dell’Inu e urlò, rivolto ai poliziotti, «Questi sono i nostri figli, non intervenite, non li toccate!». La polizia si allontanò, le acque si placarono, la sala si svuotò. Ma l’Inu era in rotta. 2. La ricostruzione Gorio mi aveva portato a Napoli per il congresso. Con lui, dopo il colpo di scena degli studenti, andai nella hall dell’Hotel Excelsior, dove i membri del gruppo dirigente dell’Inu si erano riuniti. C’erano Edoardo Detti, Bruno Zevi, Giuseppe Samonà, Giuseppe Campos Venuti, Luigi Piccinato, Cesare Valle, Mario Fiorentino. C’era anche un simpatico giornalista dell’«Unità», un giovane alto e riccioluto, giunto per fare diligentemente la cronaca del congresso degli urbanisti (allora si usava così): era Diego Novelli, che poi diventò amatissimo sindaco di Torino. L’atmosfera era di disperazione. Sembrava che l’Inu fosse finito. In realtà era morto il vecchio Inu, ormai legato al potere, e si erano gettate le basi di un nuovo Inu. L’attività riprese in sordina. Nel 1969 ad Arezzo, nel 1970 a Bologna e l’anno successivo a Roma si riunirono i soci dell’istituto. A Bologna l’assemblea elesse presidente Edoardo Detti, urbanista fiorentino, assessore nella giunta di Giorgio La Pira. Attorno a lui si strinse un gruppetto di soci che avviò la ricostruzione dell’Inu: tra i vecchi leader, solo Luigi Piccinato, Vincenzo Cabianca e Alessandro Tutino affiancarono il nuovo presidente. Nei convegni di Bologna e Roma, ricorda Franco Girardi, tema comune era la politica della casa e del territorio: «Confluivano in questo tema le due grosse questioni, che si andavano dibattendo nella sfera politica: il diritto alla casa, postulato dalla sinistra, e la riforma del regime immobiliare, imposta dalla sentenza della Corte costituzionale». Sulla seconda questione, una relazione di Alessandro Tutino chiariva quali ne erano i termini e illuminava sui concreti interessi economici che stavano dietro: «Questi interessi, di antica data, incrostati sulla cosiddetta rendita parassitaria, andavano preparando la rivincita dopo gli anni delle riforme di centro-sinistra e delle sottili [sic] distinzioni tra 80 organizzazione della cultura rendita e profitto. Con questa materia dura avrebbe dovuto confrontarsi l’azione dell’Inu negli anni seguenti»71. Dopo anni caratterizzati da un impegno prevalentemente nella cultura tecnica e nella collaborazione con le istituzioni, l’istituto decide di privilegiare ciò che avviene nella società. Gli interlocutori principali non sono più le autorità accademiche o governative. Essi vengono scelti nelle “forze di base” e nei poteri locali, i comitati di quartiere, i Comuni, le neonate Regioni, i sindacati dei lavoratori e le associazioni più combattive che lottano per la casa, i servizi, il verde. Se le ragioni dell’urbanistica vogliono affermarsi, esse devono diventare patrimonio delle parti più attive e combattive della società: soltanto così si potranno compiere progressi anche sul terreno delle istituzioni. Parallelamente, l’Inu aumentò lo sforzo culturale per comprendere meglio le regole che di fatto determinano i processi di trasformazione urbana e territoriale. La critica alla speculazione fondiaria ed edilizia diventò più ferma, ma soprattutto più precisa. Si pose attenzione particolare agli esiti sociali delle operazioni e delle politiche urbanistiche. Si scoprirono e si indagarono le leggi dello «sfruttamento capitalistico del territorio». Nell’assemblea dei soci del 1970, a Bologna, in rappresentanza del Ministero dei lavori pubblici (“ente associato”) partecipò anche Vezio De Lucia. Vezio era del tutto sconosciuto, giovane com’era ed estraneo (come è rimasto) agli ambienti accademici, dai quali proveniva la grande maggioranza dei membri. Fece un intervento che piacque molto, l’assemblea dei soci lo elesse nel nuovo Consiglio direttivo nazionale. 3. Da che parte sta l’Inu? Con Vezio dividevamo la stanza al Ministero. Un giorno, reduce da una riunione del direttivo dell’Inu, mi raccontò un fatto. La sezione campana dell’istituto aveva rinnovato l’incarico di presidente a un signore, tale avvocato D’Angelo, il quale aveva difeso, in una causa civile, un gruppo di immobiliaristi napoletani contro il Comune! Questo signore era noto per la sua compiacenza nei confronti degli interessi della speculazione: che un dirigente dell’Inu, impegnato in un profondo rinnovamento culturale e morale, difendesse l’ala estrema della speculazione urbanistica sembrava davvero intollerabile. 71 F. Girardi, Storia dell’Inu. Settant’anni di urbanistica italiana. 1930-2000, Roma, Ediesse, 2008, p. 71. 81 capitolo sesto «Tu che hai credito all’Unità – mi disse Vezio – perché non fai un articolo che denunci lo scandalo e la contraddizione?». Telefonai al giornale, con il quale collaboravo abbastanza spesso; scrissi un breve e tagliente articolo, dal titolo Da che parte sta l’Inu? Fu tempestivamente pubblicato, al piede della terza pagina72. L’articolo ebbe due effetti: nella sezione di Napoli si aprì una crisi, al termine della quale la presidenza della sezione fu cambiata. Il secondo: nella successiva riunione del direttivo dell’Inu il presidente Detti chiese se qualcuno conoscesse questo Salzano. Vezio disse che ero suo amico, che lavoravo con lui al Ministero. «Perché non gli chiedi se ci aiuta occupandosi del servizio stampa?». Vezio me lo raccontò. Accettai. Feci una chiacchierata con il direttivo. Cominciai un lavoro divertente, che diventò parte importante della mia giornata e della mia vita. L’Inu aveva già una rivista, «Urbanistica», che aveva portato l’urbanistica del mondo in Italia. Diretta con grande sapienza da Giovanni Astengo, per molti anni era stata finanziata da Adriano Olivetti. Ma in quegli anni la rivista era in crisi. Olivetti non c’era più, Astengo continuava a fare bellissimi numeri che uscivano a grande distanza di tempo, indebitandosi personalmente fino al collo. Al nuovo Inu serviva uno strumento di comunicazione più diretto. Decidemmo di tentare un’iniziativa con le “forze di base”. Ripresi i contatti con le strutture con cui avevo organizzato, quasi dieci anni prima, l’intervento al convegno InArch-Gescal, e con le quali avevo avuto rapporti grazie al mio lavoro di consigliere comunale e di esperto della direzione del Pci. Preparai e discussi documenti e promemoria. L’unico che mi seguì con costanza e intelligenza fu Bruno Roscani, del Centro studi della Cgil. Proposi al direttivo dell’Inu di muoverci da soli, di fare una rivistina fatta in casa, modesta, per raccogliere informazioni e informare a nostra volta. L’informazione doveva essere la missione dell’agile strumento, per il quale infatti proposi la testata «Urbanistica informazioni». Il mio piccolo progetto editoriale fu approvato. Partimmo. 4. «Urbanistica informazioni» Nell’editoriale del primo numero (gennaio 1972) sintetizzavo in quattro punti il carattere del nuovo Inu, di cui la rivista voleva essere strumento: 72 E. Salzano, Da che parte sta l’Inu?, «l’Unità», 17 mar. 1971. 82 organizzazione della cultura In primo luogo, il rifiuto di un collegamento con le forze dirigenti del Paese che si riduca alla ricerca di accordi ai vertici governativi e ministeriali, e l’impegno invece a porsi come strumento di stimolo e di servizio nei confronti delle classi lavoratrici, delle forze popolari, delle organizzazioni che le esprimono e le rappresentano, delle istanze sociali di base. In secondo luogo, il rifiuto di ogni collegamento – che non sia quello della critica e dello scontro aperto – con le forze, i gruppi e le persone che tendono a utilizzare il territorio come luogo sul quale operare, in forme vecchie o nuove, per lo sfruttamento sull’uomo, per l’appropriazione individualistica o aziendalistica, o per la dilapidazione, delle risorse della collettività. In terzo luogo, il superamento della tradizionale concezione “liberal-professionistica” del ruolo dell’urbanista, e quindi la sollecitazione e il sostegno al formarsi di strutture tecniche pubbliche e democraticamente controllate per la gestione del territorio, a livello dei comuni, dei comprensori, delle regioni e degli organi centrali dello Stato. In quarto luogo, infine, l’impegno all’approfondimento dell’analisi scientifica dei fenomeni che si manifestano sul territorio, delle forze che li determinano, delle alternative proponibili73. Inizialmente la rivista (il “bollettino”, continuava a chiamarlo Detti) era stampata a Torino, nella stessa tipografia dove si stampava «Urbanistica». L’artigianalità era massima. Io stesso feci il progetto grafico, ispirandomi al sobrio «Economist». Con Vezio preparavo l’impaginazione incollando le bozze dei pezzi, che in grandissima parte scrivevamo noi stessi. Giulio Tamburini, Valeria Erba, Sandro Dal Piaz, Laura Falconi Ferrari, Felicia Bottino, Giusa Marcialis, Luigi Falco, Antonino Trupiano erano, nella fase iniziale, i collaboratori più assidui. Gli articoli non erano firmati se non dalle iniziali dell’autore: minuscole e tra parentesi. Volevamo evitare ogni personalizzazione; contava la testata, non i singoli collaboratori. Non v’era personale retribuito. Le spese (poche) erano direttamente a carico dell’istituto, i cui soci erano duecento: la rivista serviva anche per far conoscere l’Inu, accrescerne la base associativa. La rivista era semplice, povera, severa; ma tentava di non essere, né apparire, sciatta. Tutto era affidato alla ricchezza informativa, al contenuto, alla scrittura (tagliavamo e correggevamo senza pietà, a volte riscrivendo da capo). Non ricordo la tiratura, che era comunque tra le due e le tremila copie, né il costo. La contabilità dell’Inu, e conseguentemente quella della rivista, era tenuta alla buona. Neppure c’erano archivi organizzati. 73 In «Urbanistica informazioni», 1° (gen. 1972). 83 A quei tempi, e per molti anni ancora, erano lussi che non ci potevamo permettere: ci rimettevamo del nostro, a volte non solo il tempo. Se penso a quel periodo, mi sembra che la rivista mi occupasse a tempo pieno. Ricordo giornate intere trascorse in “redazione”, nella sede dell’Inu di piazza Santa Caterina da Siena. (Al piano di sopra abitava un giornalista vero, Eugenio Scalfari). In realtà continuavo a lavorare al Ministero, a svolgere il mio ruolo di consigliere comunale, a dare il mio apporto al lavoro della direzione del Pci nel settore. Nella mia vita è sempre stato così: c’era un’attività che assorbiva il cento per cento dei miei interessi (o almeno così mi sembra a distanza di tempo), sebbene in realtà il tempo fosse condiviso con altri impegni. Un ruolo sempre più decentrato occupava la mia famiglia. I miei genitori erano morti, entrambi dello stesso male, a un anno di distanza l’uno dall’altro. Così le mie due sorelle. Con Barbara le cose andavano male, verso la rottura. Nel frattempo maturavano eventi che mi sospingevano verso altri orizzonti. Già da un paio d’anni, l’attività universitaria (Giovanni Astengo mi aveva dato un incarico d’insegnamento nel nuovo corso di laurea in urbanistica dell’Istituto universitario di architettura) mi portava a Venezia ogni due settimane. Mi venne proposto, nel quadro del nuovo clima politico, un rilevante impegno amministrativo in quella città, che accettai. Si concluse così, bruscamente, il mio periodo romano, e si manifestò un’altra svolta traumatica. Abbandonai famiglia, ministero, consiglio comunale e mi trasferii nella città lagunare. Cominciò un’altra storia, un altro amore, un altro impegno civile. Unico elemento di continuità, oltre l’affetto per le persone che avevo lasciato a Roma, il lavoro per l’Inu e la sua rivista. Il nuovo impegno politico e amministrativo ebbe un peso rilevantissimo nella mia vita. È necessario inquadrarlo nei mutamenti che avvennero nell’Italia di quegli anni. 84 Capitolo settimo La fase gloriosa della sinistra 1. Il compromesso storico All’inizio degli anni Settanta, l’alleanza di centro-sinistra dava pesanti segni di crisi, data la limitatezza dei risultati raggiunti e le ricorrenti tensioni verso soluzioni conservatrici da parte della Dc. Dopo il 1969, in soli due anni si succedevano cinque governi, sostenuti dai partiti centristi e dal Psi, oppure dalla sola Dc. Nel 1972 una sterzata a destra: nel governo Andreotti c’erano i liberali, non c’erano i socialisti. Proseguivano intanto a destra le attività delittuose ed eversive iniziate con le bombe esplose alla fine del 1969; si coniò l’espressione “strategia della tensione”, per indicare un’azione sistematicamente volta a impedire che la spinta progressista, democratica e antifascista, avviata negli anni Sessanta, facesse passi ulteriori. Parallelamente, non si placava nel Paese l’effervescenza sociale prodotta dal Sessantotto operaio e da quello studentesco. Da quel movimento era nata la spinta (e la speranza) di una trasformazione integrale e immediata della società: la critica, a volte un po’ infantile, al capitalismo sembrava potersi tradurre subito nell’azione rivoluzionaria. La proposta dei partiti di sinistra non sembrava credibile. Spuntavano numerose formazioni politiche fuori dell’arena parlamentare. Nasceva il “terrorismo rosso”: nel 1970 si costituivano le Brigate Rosse. In questo quadro esplosero i fatti cileni. Il libro di David Harvey, Breve storia del neoliberismo, che ho già chiamato in causa, racconta la storia e i misfatti del neoliberalismo mondiale. La copertina è illustrata con i ritratti di quattro personaggi: oltre a Reagan, Deng Xiaoping e Margaret Thatcher, campeggia quella di Augusto Pinochet, il generale che aveva preso il potere in Cile con la 85 capitolo settimo violenza. Dietro la distruzione della democrazia e del progresso sociale del Cile c’erano palesemente gli interessi economici, politici e istituzionali degli Usa. Il colpo di stato che abbatté (e uccise) il premier socialista Salvator Allende, e interruppe l’esperienza di governo da lui guidata, fu il primo episodio che fece comprendere il carattere violentemente antidemocratico del percorso avviato dai poteri globali. Gli avvenimenti cileni fornirono l’occasione a Enrico Berlinguer, leader del Pci, per rilanciare una riflessione e una proposta che ponevano prospettive del tutto nuove alla politica italiana. Egli sosteneva che l’espandersi della democrazia e l’affermarsi delle forze progressiste provocavano reazioni via via più feroci. Le riforme serie, le riforme che incidono sulla struttura economico-sociale dei paesi minacciano interessi cospicui. Per batterli non basta la maggioranza assoluta dei voti: occorre uno schieramento molto più vasto che, per la sua stessa dimensione, possa resistere alle reazioni dei “poteri forti”. Dove trovare in Italia le basi per un simile schieramento? Scriveva Berlinguer: se l’obiettivo «è una trasformazione progressiva – che in Italia si può realizzare nell’ambito della Costituzione antifascista – dell’intera struttura economica e sociale, dei valori e delle idee guida della nazione, del sistema di potere e del blocco di forze sociali in cui esso si esprime» questo è possibile solo con l’alleanza strategica «della prospettiva politica di una collaborazione e di una intesa delle forze popolari di ispirazione comunista e socialista con le forze popolari di ispirazione cattolica, oltre che con formazioni di altro orientamento democratico»74. Come costruire questa alleanza? Due percorsi erano possibili, anzi, due modi d’intendere e di praticare quella proposta: «puntare, prioritariamente, su quei movimenti che, all’interno del mondo cattolico, esprimevano una domanda di un più sostanziale rinnovamento, domanda che era frutto sia della svolta conciliare sia della nuova stagione sociale e culturale aperta col ’68 e che investiva anche la base cattolica», oppure dare alla ricerca di un nuovo rapporto col mondo cattolico un significato meramente politicistico75. È quest’ultima la scelta che il gruppo dirigente del Pci fece. L’obiettivo “rivoluzionario”, teso alla costruzione di una società nuova e di una nuova economia, basata sul superamento 74 Berlinguer commentò il colpo di stato del generale Pinochet in un saggio, pubblicato sulla rivista settimanale del Pci, «Rinascita», il 28 set., il 5 e il 12 ott. 1973. È pubblicato anche in eddyburg, nella cartella «Enrico Berlinguer». 75 G. Chiarante, Con Togliatti e con Berlinguer. Dal tramonto del centrismo al compromesso storico (1958-1975), Roma, Carocci, 2007, p. 184. 86 la fase gloriosa della sinistra dell’alienazione del lavoro, venne abbandonato a favore di una pratica “riformistica”, nella quale le riforme cessavano di essere passi graduali verso l’obiettivo finendo per essere fine a se stesse, e soprattutto correzioni parziali dei danni provocati dal sistema capitalistico-borghese, finalizzate quindi alla sua sopravvivenza. 2. Le elezioni del 1975-76 Da molti anni, spostamenti infinitesimali di voti da un partito all’altro caratterizzavano le elezioni italiane. Le elezioni amministrative del 15 giugno 1975 (cui fece seguito, l’anno successivo, una nuova tornata elettorale) mutarono drasticamente il quadro. Un vento di rinnovamento e di speranza era scaturito dalle vicende degli anni precedenti. In quelle elezioni (le prime nelle quali votarono anche i diciottenni) l’affluenza elettorale fu la più alta: raggiunse il 92,8%, mentre l’insieme delle schede bianche, nulle e delle astensioni toccò il minimo storico, il 10,9 %. Sul risultato elettorale influì certamente un evento che commosse strati vastissimi della popolazione: la sconfitta Usa a Saigon. La potenza militare più grande del mondo dovette arrendersi ai nord vietnamiti; la feroce guerra contro il regime socialista nel Vietnam, ingaggiata nel 1965 dagli Usa (successori della Francia, antica potenza colonialista), aveva visto il gigante industriale sconfitto da un popolo di contadini, sostenuto dall’Urss e da una vasta solidarietà internazionale. Un movimento contro la guerra in Vietnam si era via via costituito in tutto il mondo, a partire proprio dagli Usa: nell’ottobre 1965 l’organizzazione studentesca statunitense «Comitato di coordinamento nazionale per la fine della guerra in Vietnam» inscenò la prima manifestazione pubblica negli Usa. Il movimento divampò poi nei campus universitari e nelle città. La protesta contro la guerra in Vietnam fu la miccia che innescò quel Sessantotto che sarebbe esploso in tutto il mondo. In Italia migliaia di manifestazioni chiedevano nei loro slogan la fine della guerra in Vietnam. Documenti contro la guerra in Vietnam venivano approvati in tutti i consigli comunali e provinciali dove le sinistre erano maggioranza, oppure trovavano il consenso della Dc. Accordi con gli avversari politici nei consigli comunali per ottenere l’approvazione all’unanimità di documenti per la pace in Vietnam erano stati a volte il prezzo che il Pci aveva pagato per cedere su qualche altro terreno. Il dato elettorale più significativo delle elezioni amministrative fu la crescita del Pci, che passò dal 27,9 % delle precedenti elezioni regionali al 33,4 %, guadagnando 5,5 punti in percentuale, mentre anche il Psi 87 capitolo settimo cresceva dell’1,6 % e la Dc perdeva il 2,5 %. Giunte regionali di sinistra si formarono, oltre che in Emilia Romagna, Liguria e Umbria, tradizionalmente “rosse”, anche in Piemonte e nel Lazio. Giunte comunali di sinistra si costituirono in tutte le maggiori città (Milano, Torino, Genova, Venezia, Napoli, Perugia, Cagliari, Ancona, l’anno successivo Roma), e in moltissime altre città. Le sinistre conquistarono il 45 % delle province. Inoltre, il clima tra Pci e Dc era mutato, e in molti consigli i due partiti assumevano un atteggiamento benevolo nei confronti di maggioranze cui non partecipavano. La vittoria della sinistra in Italia ebbe grande risonanza anche all’estero. Anch’io ne fui coinvolto: ero appena stato eletto assessore all’urbanistica a Venezia, quando la segreteria nazionale del partito mi inviò a Londra su invito del partito comunista dell’Uk, per illustrare la nuova situazione in Italia. A me fu chiesto di raccontare agli studenti della Communist University of London che cosa era successo in Italia nelle amministrazioni locali. Partecipai al “rito” della fotografia con i massimi dirigenti del partito nella loro sede; fui portato a pranzo in un ristorante, naturalmente italiano; tenni l’intervento nella sede del potente sindacato degli studenti. Ogni anno gli studenti di sinistra vi organizzavano una sorta di scuola estiva. Erano molto simpatici e svegli: più vicini ai nostri comunisti di sinistra che ai loro compagni dell’establishment, vecchi operai stalinisti. Cenammo in un simpatico ristorante cinese a Soho; la mattina dopo, prima della partenza, mi condussero alla tomba di Karl Marx, all’Highgate Cemetery. 3. Venezia rossa Tra le città conquistate c’era Venezia. La città lagunare era stata spesso anticipatrice di processi politici e amministrativi di carattere più generale. Era stata la prima in Italia a introdurre il decentramento amministrativo e la formazione dei consigli di quartiere (1964); più tardi, era stata la prima a costituire una maggioranza di centro-sinistra (1970). La conquista, nel 1975, della maggioranza degli elettori da parte di una coalizione di sinistra era stata preceduta da un avvenimento nel cui ambito era maturata la formazione della nuova alleanza. In qualche modo vi fui coinvolto. Nel 1974, la maggioranza nel consiglio comunale era formata da Dc, Psi e Pri. I socialisti, seguendo la tendenza che si stava manifestando in tutta Italia, avevano deciso di cambiare schieramento, e si erano alleati con il Pci. Per costruire un accordo di sinistra essi posero la condizione che il nuovo alleato condividesse uno strumento 88 la fase gloriosa della sinistra urbanistico al quale assegnavano grande importanza, e i diversi aspetti dell’applicazione della “legge speciale” per Venezia. Il nodo era costituito da un complicato intreccio tra la legge speciale76, emanata nel 1973 per sanare i danni della città e del suo territorio emersi clamorosamente dopo l’alluvione del 1966, e gli strumenti di pianificazione in via di predisposizione. La legge subordinava l’erogazione delle provvidenze e dei meccanismi da essa previsti all’esistenza, nella città, di piani particolareggiati77, naturalmente estesi all’intera città storica. Il Comune aveva in avanzata fase di completamento una serie di piani che si chiamavano formalmente “particolareggiati”, ma che tali non erano. Ciò era possibile grazie alla sopravvivenza, a Venezia, delle norme di una vecchia legge, emanata per accelerare la ricostruzione dopo la guerra, che consentiva che fosse chiamato “piano particolareggiato” uno strumento urbanistico avente un contenuto molto meno dettagliato di quello previsto dal piano particolareggiato ordinario. C’era quindi una contraddizione tra l’esigenza di garantire l’immediata entrata in vigore della legge speciale, che avrebbe consentito di interrompere il degrado fisico e sociale della città e del territorio lagunare, e quella di assicurare che gli interventi non fossero distruttivi delle caratteristiche architettoniche e urbanistiche della città storica. La prima esigenza era prevalente nelle valutazioni degli amministratori locali (con l’eccezione di quelli del Pri, che a Venezia hanno sempre assunto un atteggiamento di rigorosa difesa delle qualità storiche e ambientali), mentre la seconda prevaleva nei rappresentanti delle istituzioni statali, che esercitavano su Venezia un’attenta vigilanza. 76 Legge 16 apr. 1973, n. 171, «Interventi per la salvaguardia di Venezia». La legge prevedeva sia finanziamenti (per l’edilizia monumentale e per quella minore, per le residenze temporanee per le famiglie la cui unità edilizia era in corso di restauro, per il riequilibrio della Laguna e la riduzione delle “acque alte”, per le attività produttive), sia un sistema di regole (indirizzi) e strumenti innovativi; tra gli altri, la formazione di un “piano comprensoriale” di tutto il territorio nel quale ricadevano il bacino lagunare e i centri urbani aventi gravitazioni quotidiane con Venezia, una speciale struttura tecnico imprenditoriale per le attività di restauro (Edilvenezia), una commissione di salvaguardia per vigilare sulla qualità degli interventi e la loro coerenza con gli indirizzi stabiliti dal parlamento. Tutte queste strutture erano governate da complessi sistemi di equilibrio tra i diversi poteri istituzionali concorrenti: lo Stato, la Regione, la Provincia, il Comune di Venezia e i “comuni minori”. Tra gli interventi, la legge prescriveva la cessazione degli emungimenti di acqua dal sottosuolo (che era uno dei fenomeni che avevano provocato l’eccezionale “acqua alta” del 1966) e quella dei traffici petroliferi (causa dell’aumento della sezione dei canali di accesso alla Laguna e fonte di potenziali gravissimi rischi. L’emungimento di acqua fu bloccato, il traffico petrolifero continua ancora oggi. 77 Dal 1968 era prescritto che gli interventi nei centri storici fossero subordinati alla formazione di strumenti di pianificazione aventi un dettaglio sufficiente a evitare manomissioni dell’impianto urbano e dell’edilizia storici. 89 capitolo settimo Da qualche tempo frequentavo Venezia, poiché Giovanni Astengo, fondatore del corso di laurea in urbanistica, mi aveva assegnato un incarico d’insegnamento universitario. Conobbi colleghi, iscritti al Pci, che mi coinvolsero nelle discussioni e nella ricerca di una soluzione soddisfacente. La trovammo: introducemmo un ulteriore livello di pianificazione, a sua volta attuativo di quegli anomali “piani particolareggiati” che stavamo per adottare, emendando le norme. Li definimmo “piani di coordinamento”: essi avevano con gli anomali “piani particolareggiati” veneziani lo stesso rapporto che i normali piani particolareggiati avevano con il normale piano regolatore generale. Essi avrebbero fornito le garanzie tecniche adeguate a un intervento su tessuti urbani così delicati e ricchi di qualità. I partiti della vecchia e della nuova alleanza (Dc, Psi e Pci) condivisero quella soluzione e concordarono altre modifiche ai piani che i comunisti richiedevano, come la destinazione di tutti gli edifici inutilizzati alla costituzione di “case parcheggio” per gli abitanti che avrebbero dovuto abbandonare le loro case nel corso delle operazioni di risanamento degli edifici degradati. I piani particolareggiati furono adottati dal consiglio comunale alla vigilia delle elezioni. 4. Venezia e il degrado Prima di questi eventi, nell’estate del 1973 si era svolto a Venezia un avvenimento memorabile, che mi fece innamorare della città: il festival nazionale dell’Unità. La scelta di Venezia era stata motivata dall’esigenza di affrontare il problema sociale, culturale e politico della condizione dei centri storici in Italia: nella città lagunare il contrasto tra qualità del centro storico e degrado urbano era particolarmente accentuato. Venezia era da tempo una città in pessime condizioni dal punto di vista sociale e del patrimonio edilizio. Non era un problema recente. Già alla fine dell’Ottocento, nei periodi in cui la città era stata governata da forze laiche e progressiste, era stata studiata la condizione dell’habitat e si erano discussi, e in parte attuati, provvedimenti amministrativi. Agli inizi del Novecento un’indagine sanitaria aveva rivelato una situazione drammatica, «percentuali ingenti della popolazione abitano, pagando alti fitti, in alloggi inabitabili, antigienici, in condizioni di sovraffollamento»78. Il problema era stato affrontato con la costruzione 78 Negli anni 1908-09 il dottor Raffaele Vivante, ufficiale sanitario del Comune, svolse 90 la fase gloriosa della sinistra di numerosi alloggi di edilizia pubblica e la costituzione dell’Istituto delle case popolari. Non fu sufficiente a risolverlo. Nel 1931, una successiva indagine censì la presenza di 131.000 abitanti veneziani in poco più di 28.000 alloggi, di cui il 12% era al piano terra spesso invaso dall’acqua alta; 50.000 persone vivevano in condizioni di sovraffollamento. Nel dopoguerra risiedevano a Venezia: 178.000 abitanti nella città storica, 38.000 nelle altre isole della Laguna, 83.000 in Terraferma. L’affollamento e le condizioni igieniche erano peggiorate rispetto ai primi anni del secolo. Si osservi che «la potenzialità abitativa della città storica, a un livello accettabile di standard residenziale (e trascurando le dinamiche modificative di tali valutazioni), è vicina alla cifra di circa 100.000 unità»79. Nel 1955 risiedono nella città storica 167.000 abitanti, 11.000 meno del decennio precedente. Dieci anni dopo sono ridotti di ulteriori 43.000. Nel 1975 gli abitanti sono 104.000: 74.000 meno dell’immediato dopoguerra. Se peraltro i fattori oggettivi della fuoriuscita di abitanti dalla città storica vanno individuati nelle condizioni di sovraffollamento e di coabitazione e nel livello accentuato e diffuso di degrado del patrimonio edilizio presenti – anche se in misure decrescenti – per tutto l’arco degli anni ’50 e ’60, i modi concreti in cui tale fuoriuscita si è realizzata sono stati condizionati dalle pressioni del mercato immobiliare e dalle politiche poste in essere dalle forze dominanti a livello centrale e locale. L’esodo aveva interessato soprattutto i nuclei familiari di età e reddito medi, in grado di accedere all’offerta di abitazioni, prevalentemente nuove e in affitto, in Terraferma, ma non di acquistare e riqualificare abitazioni della città storica. I flussi in uscita sono stati maggiori da quanto appaia dal semplice saldo: si calcola infatti che, dal 1952 al 1972, sono usciti 130.000 abitanti e ne sono entrati 70.000. All’esodo aveva quindi corrisposto un sensibile mutamento della composizione della popolazione. L’alluvione del 1966 aveva messo allo scoperto i problemi della città. Quelli della Laguna in primo luogo. Era esplosa la denuncia delle condizioni di degrado, inquinamento, abbandono dell’accorta gestione delle regole della natura e dell’idraulica sistematicamente applicate dalla Repubblica Serenissima, e del tutto abbandonate e contraddette dall’anno un’Indagine sul problema delle abitazioni a Venezia. Vedi L. Scano, Venezia: terra e acqua, Venezia, Corte del Fontego, 2009, p. 43. 79 Questa e la citazione seguente in Scano, Venezia: terra e acqua, p. 64. 91 capitolo settimo della sua caduta (1797), e soprattutto negli anni della costituzione dello Stato unitario e dello sviluppo del sistema capitalistico-borghese80. Ma nell’ottica delle forze di sinistra, compreso il Pci, la Laguna e, in generale, l’ambiente, non occupavano un posto di rilevo. I problemi più sentiti erano quelli immediati delle condizioni di vita degli abitanti, del lavoro e dell’occupazione, della condizione operaia. Soprattutto in vista di questi temi fu promosso il festival. Affrontarli nell’ambito di un’iniziativa fortemente caratterizzata da attività culturali significava dare maggiore evidenza alle proposte del Pci sulla questione dei centri storici, e in particolare su Venezia. 5. Il festival nazionale dell’Unità Su richiesta della federazione di Venezia la direzione del Pci decise di realizzare a Venezia il festival nazionale dell’Unità. Normalmente questa manifestazione si svolgeva in un luogo aperto della periferia di una città (un parco o uno stadio o un piazzale) che veniva trasformato e invaso dalle mille strutture destinate a ospitare incontri, conferenze, dibattiti, ristoranti d’ogni tipo. Tutto realizzato con il lavoro volontario dei comunisti e delle loro famiglie e delle organizzazioni del partito. Decine di migliaia di persone accorrevano, partecipavano ai dibattiti, mangiavano e bevevano, imparavano e si divertivano. Il giornale dei comunisti integrava così il suo bilancio. Gli organizzatori della festa a Venezia fecero una scommessa. Rompendo radicalmente con la tradizione, decisero di utilizzare gli spazi aperti del centro storico, i campi, e di coinvolgere tutta la città nell’evento. I compagni veneziani, con l’aiuto della direzione nazionale e di alcune federazioni di altre città, organizzarono un evento irripetibile. Ognuna delle sezioni della città aveva la responsabilità di una delle sei parti in cui era stata articolata la città per l’occasione. In ciascuna si individuarono alcuni campi dove sistemare i diversi spazi per i dibattiti, le rappresentazioni teatrali, i concerti e le danze, i ristoranti, i servizi igienici e gli altri servizi. Un gruppo di architetti veneziani si occupò dell’organizzazione e della logistica e progettò un modello di padiglione modulare, smontabile in brevissimo tempo. Altri progettarono 80 Anche per questo aspetto si veda il citato libro di Scano, nonché, per gli eventi più recenti, il volume di F. Mancuso, Venezia è una città. Come è stata costruita e come vive, Venezia, Corte del Fontego, 2009. 92 la fase gloriosa della sinistra le cucine, ingegnosamente realizzando l’attrezzatura con elementi poveri facilmente reperibili. Il rosso, l’azzurro e il giallo furono i colori che caratterizzarono i padiglioni, montati in una ventina di campi in poche ore. Venezia era completamente trasformata. Il clou culturale della festa fu una serie di rappresentazioni del Berliner Ensemble, la prestigiosa compagnia teatrale fondata da Bertold Brecht, che per tre giorni replicò in campo dell’Angelo Raffaele, tra gli applausi di migliaia di partecipanti. Il massimo della partecipazione fu raggiunto l’ultimo giorno, per il comizio di Enrico Berlinguer cui affluirono, secondo «l’Unità» del giorno dopo, 200.000 persone. Un popolo quantitativamente paragonabile a quello richiamato dai Pink Floyd in Piazza San Marco nel 1989, che devastò la città. La differenza fu nell’aver scelto, per il comizio, il più vasto spazio aperto veneziano, il parco di Sant’Elena, alla periferia orientale della città, e nell’aver organizzato, per tutta la durata della festa, e in particolare durante l’ultimo giorno, un’efficiente servizio di trasporti, motonavi, vaporetti e altre imbarcazioni. 6. Dieci anni nel bunker Gianni Pellicani era l’intelligente e abile dirigente del Pci veneziano. Consigliere comunale, aveva seguito l’iter della legge speciale, aveva tessuto con maestria l’intesa con Dc e Psi per i piani particolareggiati ed era destinato a diventare il leader della nuova giunta se nelle elezioni del 1975 le sinistre avessero ottenuto la maggioranza. Il mio contributo alla soluzione dell’intricata vicenda dei piani particolareggiati lo indusse a chiedere di presentarmi alle elezioni con la prospettiva di diventare assessore all’urbanistica. Accettai. Nella mia decisione giocò anche una punta di vigliaccheria: temevo di dover diventare assessore a Roma se le sinistre avessero anche lì vinto le elezioni (che si sarebbero tenute l’anno successivo), e mi sentivo inadeguato a gestire una situazione così complessa come quella della capitale. Mi trasferii a Venezia, dove mi illudevo di trovare una situazione più semplice. A posteriori devo dire che conoscevo poco quella realtà. Vincemmo le elezioni. Entrai in giunta. Pellicani non divenne sindaco, poiché l’attribuzione delle varie città conquistate all’uno o all’altro dei due partiti alleati si giocò a Roma, tra le direzioni. Sindaco di Venezia fu designato il socialista Mario Rigo, Gianni Pellicani fu vicesindaco. Nei fatti, grazie alle sue capacità, alla squadra di collaboratori che aveva formato, e anche alla buona collaborazione con Mario Rigo, il governo reale della giunta lo esercitò lui. Più che col sindaco, l’intesa doveva 93 capitolo settimo essere raggiunta con il leader indiscusso e potentissimo dei socialisti veneziani, Gianni De Michelis. L’esperienza di quella maggioranza durò per due legislature: dal 1975 al 1985. Dieci anni nei quali rimasi chiuso nel “bunker” dell’assessorato, con qualche fuga, anche consistente, nella politica urbanistica della direzione del Pci e nelle attività dell’Inu. Parlo di “bunker” perché vivevo di fatto tutto il giorno dentro l’assessorato, dove mi ero attrezzato anche per fare la siesta dopo pranzo, e perché avevo pochissimi rapporti con l’esterno, prevalentemente mediati da Gianni Pellicani, sia con il partito, sia con gli alleati. Non uscii neppure per raggiungere Cristina in ospedale quando nacque Giulia, la mia sesta figlia. Era una condizione in gran parte obbligata. A quei tempi gli assessori erano, di fatto, anche dirigenti dell’ufficio loro affidato. Il mio era molto grande e composito, formatosi in seguito a varie stratificazioni. Il personale era eterogeneo, diverso per formazione culturale, capacità di lavoro, motivazioni. La dirigenza non era all’altezza delle nostre aspettative. Queste, peraltro, erano abbastanza confuse. Il programma di legislatura che mi ero impegnato a seguire fedelmente (così si usava allora) si rivelò molto difficilmente praticabile. Il suo centro era l’attuazione dei “piani particolareggiati” atipici adottati all’inizio del 1975. Si trattava, in primo luogo, di compiere il percorso dall’adozione all’approvazione, quindi di esaminare le centinaia di osservazioni presentate e controdedurre a ciascuna (decidere cioè in che modo se ne sarebbe tenuto conto, modificando o meno i piani adottati). Nel compiere questa prima parte del lavoro un ruolo importante lo svolse la commissione consiliare, che si riuniva un paio di volte alla settimana e con cui esaminavamo attentamente le osservazioni, cercando, attraverso di esse, di introdurre nel piano le correzioni possibili. Molto efficace fu la collaborazione di Gigi Scano e del presidente della commissione, il democristiano Gianni Rivi. Con entrambi si raggiungevano (in quelle e in molte altre occasioni) ragionevoli soluzioni concordate. Solo che poi, alla resa dei conti, cioè al momento del voto in consiglio comunale, Gigi generalmente votava a favore delle soluzioni cui eravamo approdati, mentre Rivi votava contro, facendomi canzonare da Pellicani, al quale avevo preannunciato il voto favorevole dell’opposizione. La tappa successiva fu la formazione dei “piani di coordinamento”, cioè i veri piani di dettaglio. Si trattava, come ho accennato, di piani non previsti dalla legislazione vigente, che furono introdotti dalle norme dei piani particolareggiati adottati. Parallelamente, si doveva completare la pianificazione delle aree non coperte da quei piani (gli insediamenti lagunari di Murano, Burano, Lido, Pellestrina, Sant’Erasmo). Infine, bi- 94 la fase gloriosa della sinistra sognava attuare i piani predisposti per la terraferma mestrina, in attesa che il piano comprensoriale dell’intera area gravitante sulla Laguna, prescritto dalla legge speciale del 1971, venisse formato. Ha descritto gli eventi di quella fase, con un’impostazione giustamente critica, Gigi Scano, nel suo prezioso Venezia: terra e acqua. Luigi Scano, per gli amici Gigi, seguì sempre con grandissima attenzione e partecipazione tutte le vicende dell’urbanistica veneziana, dall’alluvione del 1966 fino al 2007, anno della sua morte prematura. La sua amicizia è certamente uno dei beni più preziosi che ho ricevuto nel periodo veneziano della mia vita. Senza il contributo di Gigi e di Edgarda Feletti (uno degli architetti dell’assessorato, eccezionale per intelligenza, cultura, determinazione, nel tempo divenuta dirigente del settore “centro storico”) centrare la strategia per affrontare le questioni urbanistiche veneziane avrebbe comportato tempi ben più lunghi di quelli occorsi. Solo verso la fine del primo mandato amministrativo cominciai a comprendere l’impraticabilità del farraginoso meccanismo della pianificazione veneziana. Lo raccontai in un lungo articolo sulla rivista «Casabella» con il titolo significativo Produzione di piani a mezzo di piani81. Nel secondo mandato imboccammo la strada giusta e avviammo la pianificazione della città storica in modo culturalmente soddisfacente, anche sulla base di alcune esperienze fatte nel primo quinquennio. Ma politicamente il secondo fu un disastro: a partire dal 1980 si avviò quella svolta radicale della politica italiana, che vide prima in Bettino Craxi, poi in Silvio Berlusconi i suoi protagonisti. 7. Verso un nuovo piano regolatore Imparai che cos’è l’analisi tipologica dell’edilizia storica. Molto mi insegnò Edgarda, che mi indusse a leggere testi di studiosi che avevo snobbato, come Saverio Muratori, Paolo Maretto, e soprattutto Gianfranco Caniggia. Scoprii che Gigi, pur essendosi nutrito di studi giuridici e politologici, li conosceva bene e scoprii che molti applicavano il loro metodo in modo superficiale. L’analisi tipologica parte dal presupposto che l’edilizia, prima dell’irruzione del cemento armato e della rottura con le tradizioni costruttive del passato, non era costituita da edifici (unità edilizie) progettati e costruiti 81 E. Salzano, Produzione di piani a mezzo di piani, «Casabella», 436 (1978). 95 capitolo settimo a capriccio. Esistevano in ogni area geografica e culturale un numero limitato di modelli (tipi edilizi), le cui caratteristiche erano la combinazione delle esigenze umane (abitare, lavorare, conservare, celebrare ecc.) con le tipologie e le tecnologie dei materiali adoperati e delle loro caratteristiche, con i modi dell’approvvigionamento, con la natura e stabilità dei terreni, con le regole (fossero o meno disegnate su mappe o scritte in codici, o semplicemente tramandate dall’uso) che definivano il rapporto delle costruzioni con il contesto (gli spazi liberi, le strade, i lotti vicini, ecc.). Ogni tipo edilizio era definito da specifici elementi urbanistici (il rapporto con il lotto e gli altri spazi, le modalità di aggregazione delle unità edilizie ecc.), strutturali (le murature portanti, i solai, i collegamenti verticali, le coperture, le modalità di accrescimento ecc.), funzionali (gli usi cui erano originariamente adibiti i diversi spazi e le loro relazioni). L’obiettivo culturale che si voleva raggiungere con il risanamento della città storica (e in generale con l’intervento sull’edilizia storica) era quello di conservare le caratteristiche urbanistiche e strutturali originarie, e assicurare che le nuove funzioni assegnate a ciascun tipo, pur necessariamente diverse da quelle originarie, avessero con esse coerenza e non fossero tali da richiedere modifiche della sua struttura. Poiché le utilizzazioni compatibili con ogni tipo edilizio assegnate dal piano non erano univocamente determinate, ma offrivano una gamma di alternative, restava un’ampia possibilità di calibrare le destinazioni d’uso in relazione alle scelte politiche e sociali82. Edgarda iniziò a sperimentare l’analisi tipologica dell’edilizia storica veneziana, e soprattutto a guidare in questo senso piccoli gruppi di tecnici dell’assessorato: comprendemmo che redigere i numerosi piani di coordinamento in tempi accettabili sarebbe stata un’impresa impossibile. Decidemmo allora di cambiare orientamento ai nostri programmi e di affrontare la possibilità di un piano regolatore della città storica del tutto nuovo, basato su un’analisi tipologica a tappeto. Era ciò che, fin dall’inizio i repubblicani di Gigi Scano avrebbero voluto. Ma nel quinquennio ’75-’80 questo era impedito dagli accordi politici che non si potevano rinnegare. Il primo quinquennio, comunque, non era stato inutile. Era servito, “in negativo”, a verificare l’impossibilità di attuare quei piani particolareggiati 82 Per esempio, una struttura conventuale è caratterizzata dall’associazione di alcuni grandi spazi edificati e coperti (la chiesa, le cappelle, la mensa ecc.) e da piccoli elementi seriali tra loro aggregati (le celle), spesso disposti attorno a spazi aperti (i chiostri). Una struttura del genere può essere utilmente impiegata oggi per una ricettività collettiva (alberghi, foresterie ecc.), o per un ospedale, o un museo, o per un’aggregazione di piccole strutture artigianali ecc. Nel passato sono state spesso utilizzate come caserme o come carceri. 96 la fase gloriosa della sinistra e i meccanismi da essi previsti. Era servito anche ad avviare una serie di iniziative di risanamento e di riqualificazione urbana, con molti interventi di recupero e alcuni qualificati interventi di completamento urbano. Ed era servito soprattutto a sperimentare un nuovo metodo di pianificazione. Cogliemmo le diverse occasioni di pianificazione estese agli ambiti limitati che i programmi comunali indicavano (specialmente i primi sette piani di coordinamento e il piano particolareggiato di Burano) per elaborare via via nuovi criteri. E utilizzammo i progetti edilizi che l’amministrazione redigeva o seguiva o controllava per verificare l’impatto delle norme nel concreto degli interventi. Fu un lavoro molto faticoso e, nel breve periodo, poco gratificante, ma molto utile, perché ci permise di comprendere che cosa precisamente andava analizzato e come, per poter costruire regole che consentissero agli operatori di intervenire in modo diffuso sullo stock edilizio. 8. Il piano comprensoriale La mia attenzione era rivolta soprattutto alla città storica: era qui che volevamo sperimentare nuovi metodi di pianificazione, per poi estenderli all’intero territorio comunale. Del resto, per la Terraferma c’era una strumentazione urbanistica abbastanza aggiornata e decente (l’ultimo atto era stata una variante del prg che aveva aumentato le aree destinate al verde e ai servizi, adeguandole al decreto sugli standard, e risolto alcuni problemi di viabilità) e comunque, prima di aggiornare il prg, si aspettava l’inquadramento che il piano comprensoriale avrebbe dovuto fornire. Quest’ultimo era un istituto decisivo previsto dalla legge speciale del 1973. Le esigenze che erano alla base della politica locale, nazionale e internazionale per Venezia erano orientate, come ho accennato, al raggiungimento di due obiettivi. Il primo era la salvaguardia fisica dell’immenso patrimonio costituito dagli insediamenti storici (principale ma non unico la città di Venezia) e dalla Laguna (un ambiente assolutamente unico al mondo, garantito nel suo equilibrio da un’azione millenaria di saggia collaborazione tra uomo e natura83). Il secondo obiettivo era la vitalità economica e sociale della città e del suo 83 Sulla Laguna di Venezia, oltre ai testi di Scano e Mancuso, vedi anche il ricco materiale contenuto in eddyburg, nella cartella «Venezia e la laguna». 97 capitolo settimo territorio, che ruotava attorno a tre grandi questioni: la zona industriale di Porto Marghera, il più grande polo chimico italiano, che aveva attirato gran parte dell’occupazione dall’agricoltura dei paesi del Veneto centrale e provocato gravi fenomeni di inquinamento e di degrado idraulico nella Laguna; la portualità, che era stata l’elemento di vitalità e di grandezza della Repubblica ed era tra le ragioni e le risorse principali della città; il turismo, che cominciava ad apparire come rischioso per la sua invasività e per il contributo che forniva all’espulsione delle residenze e delle attività quotidiane. Dei due obiettivi il primo, quello della salvaguardia, stava più a cuore a livello internazionale e nazionale, il secondo a quello locale. Al piano comprensoriale era affidato il compito di trovare un adeguato equilibrio tra salvaguardia e vitalità. Entrambi infatti richiedevano, per essere raggiunti, che la pianificazione si estendesse a un ambito territoriale più ampio del solo comune capoluogo. Parte della Laguna ricade infatti nei confini amministrativi di altri comuni; inoltre, anche le gravitazioni quotidiane degli spostamenti casa/lavoro e casa/servizi formano un bacino che comprende un numero elevato di comuni. L’area alla quale il piano comprensoriale si estendeva ne comprendeva in definitiva sedici. Gianni Pellicani chiese a Vezio De Lucia, che tra l’altro aveva collaborato alla redazione della legge speciale e al documento «Indirizzi governativi»84 cui il piano comprensoriale doveva adeguarsi, di guidare la redazione del piano assumendo la carica di segretario generale. Vezio accettò e così, ottenuto il consenso degli altri poteri locali coinvolti (soprattutto dei repubblicani e dei socialisti, che costituivano la maggioranza del consiglio di comprensorio) iniziò la sua avventura veneziana. In tempi molto rapidi Vezio costituì un autorevole comitato scientifico, commissionò una serie di ricerche sugli aspetti nodali della questione, portò il piano al suo completamento. Il contenuto essenziale del piano è ampiamente descritto nel libro di Gigi Scano, collaboratore fondamentale anche di De Lucia, sia nella stesura dell’apparato normativo sia nella gestione del difficile percorso politico85. Dal punto di vista dei contenuti, il piano affrontava efficacemente i temi: la salvaguardia su gran parte della Laguna, secondo regimi di tutela differenziati; una soluzione del problema della mobilità e degli accessi a Venezia, una ragionevole localizzazione delle nuove residenze. 84 La legge 171 del 1973 prevedeva che il piano comprensoriale fosse formato sulla base di un documento di indirizzi redatto da una apposita commissione di rappresentanti dei ministeri e degli enti locali. La regia era del Ministero dei lavori pubblici. 85 Scano, Venezia; terra e acqua, p. 296-319. 98 la fase gloriosa della sinistra Il piano, iniziato alla fine del 1977 e tecnicamente completato nel 1980, non fu mai approvato. La ragione sostanziale, oltre il disaccordo tra le forze politiche sui contenuti, sta nella struttura istituzionale dell’autorità che doveva redigerlo. Il consiglio di comprensorio era formato infatti dai rappresentanti dei Comuni coinvolti, della Provincia e della Regione: una composizione ibrida, in cui ciascun membro esprimeva gli interessi dell’amministrazione che rappresentava. Per di più, alla Regione, che pur era uno dei membri istituzionali del consiglio, era assegnato il compito di approvare il piano alla fine del suo iter. Il piano fu adottato dal consiglio di comprensorio nel 1980. Fu pubblicato e vennero formulate osservazioni da parte degli enti pubblici: di particolare peso quelle provenienti dal Comune di Venezia, basate su approfondimenti soprattutto sulla questione della Laguna86. Apportate le correzioni e integrazioni conseguenti alle osservazioni accolte, il piano era all’ordine del giorno per l’approvazione definitiva al consiglio di comprensorio nel 1983. Ma nel frattempo erano decaduti i rappresentanti della Regione. Questa, a maggioranza democristiana, non provvide a rinominarli e così, nel generale disinteresse, il piano fu definitivamente insabbiato. 9. Cambiano le alleanze I primi anni Ottanta sono quelli dell’ascesa al potere, nel Psi, di Bettino Craxi. Le persone che, nella Storia, determinano i grandi mutamenti negli assetti del potere esprimono più efficacemente il mutato spirito dei tempi, così come questo viene formato dall’ideologia prevalente. Craxi fu uno di questi. Espresse la fase di una “modernizzazione” che faceva strame dei princìpi, dei metodi, delle priorità del passato. Scrive Paul Ginsborg: Negli anni ’50 e ’60, attratti dalle luci splendenti del consumismo e dalla possibilità di avanzamento individuale, i ceti medi erano diventati gli stabili fautori di un moderato e democratico status quo. È possibile suggerire che negli anni ’80 questo 86 Un contributo rilevante all’approfondimento delle scelte del piano comprensoriale fu costituito da uno studio del Comune di Venezia, «Ripristino, conservazione e uso dell’ecosistema lagunare veneziano», che è la base delle successive valutazioni critiche al progetto MoSE e alla gestione delle trasformazioni nella Laguna operate dal Consorzio Venezia Nuova (associazione di imprese cui il governo ha affidato gli studi, le sperimentazioni, i progetti e l’esecuzione delle opere necessarie alla salvaguardia della Laguna). 99 capitolo settimo consenso, insediatosi dapprima tra i ceti medi, si sia generalizzato alla società intera. In altre parole, i valori tradizionali della famiglia si sono sposati a quelli della democrazia parlamentare e del consumismo capitalista. Questi valori, con poche eccezioni, sono divenuti dominanti in ogni settore della società. La grande trasformazione dell’Italia, allora, è stata quella di adattarsi al modello di modernità che era emerso per la prima volta all’epoca del “miracolo economico”; un modello dalle forti influenze americane, intensamente contestato tra il 1968 e il 1973, ma che sembra aver trovato negli anni ’80 la sua età dell’oro. In una recente intervista il vicepresidente del Consiglio, il socialista Gianni De Michelis, ha parlato del 1968 come del “crepuscolo degli dei”, dell’ultimo grande momento collettivo della storia italiana, della fine di ogni sogno di nuova era87. In quegli anni la politica della “solidarietà nazionale” (che potremmo definire come la fase della riduzione a tattica della strategia88 del “compromesso storico”), basata sull’alleanza tra Dc, Psi e Pci si stava concludendo, insieme all’emergenza del terrorismo che, almeno in parte, l’aveva motivata. L’assassinio di Aldo Moro, il mutamento degli equilibri interni nella Dc, la grinta con la quale Craxi proponeva il suo disegno, tutto ciò concorreva a trasformare completamente il quadro politico italiano. Un Pci che non rinnegava le sue matrici culturali e che, con Enrico Berlinguer, rifiutava quella “modernizzazione”, era un ingombro del progetto politico Dc-Psi. Il leader del Pci era molto lontano dall’ideologia di cui il socialista era portatore. Basta rileggere le parole di Berlinguer sul tema dell’austerità: Una trasformazione rivoluzionaria può essere avviata nelle condizioni attuali solo se sa affrontare i problemi nuovi posti all’Occidente dal moto di liberazione dei popoli del Terzo mondo. E ciò, secondo noi comunisti, comporta per l’Occidente, e soprattutto per il nostro Paese, due conseguenze fondamentali: aprirsi ad una piena comprensione delle ragioni di sviluppo e di giustizia di questi paesi e instaurare con essi una politica di cooperazione su basi di uguaglianza; abbandonare l’illusione che 87 Ginsborg, 88 Il termine Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, p. 575. strategia è spesso adoperato in modo fortemente improprio. È un termine che nasce dal linguaggio militare, opposto a tattica: la strategia è finalizzata al lungo periodo, all’intera condotta della guerra, la sua missione è raggiungere il fine ultimo; la tattica è limitata al breve periodo, a quel determinato e specifico episodio che è una parte, un segmento di quell’evento più vasto che è il campo della strategia. La strategia ha allora a che fare in primo luogo con il concetto di lunga durata, di prospettiva, di ampio respiro, di futuro, ha a che fare con la storia, non con la cronaca. 100 la fase gloriosa della sinistra sia possibile perpetuare un tipo di sviluppo fondato su quella artificiosa espansione dei consumi individuali che è fonte di sprechi, di parassitismi, di privilegi, di dissipazione delle risorse, di dissesto finanziario89. Il nesso tra le politiche globali e la critica del modello di sviluppo del capitalismo nella sua fase attuale era chiarissimo: altrettanto chiara era la necessità di respingerlo da parte di chi, come Craxi, voleva invece galoppare in sella al capitalismo esistente e vedeva il Sud del mondo come un insieme di potenziali mercati cui imporre le proprie mercanzie materiali e ideologiche. L’ampiezza della distanza tra i due personaggi si comprese pienamente nell’intervista sulla “questione morale” che Berlinguer rilasciò a Eugenio Scalfari: I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai tv, alcuni grandi giornali. (…) E il risultato è drammatico. Tutte le “operazioni” che le diverse istituzioni e i loro attuali dirigenti sono chiamati a compiere vengono viste prevalentemente in funzione dell’interesse del partito o della corrente o del clan cui si deve la carica. Un credito bancario viene concesso se è utile a questo fine, se procura vantaggi e rapporti di clientela; un’autorizzazione amministrativa viene data, un appalto viene aggiudicato, una cattedra viene assegnata, un’attrezzatura di laboratorio viene finanziata, se i beneficiari fanno atto di fedeltà al partito che procura quei vantaggi, anche quando si tratta soltanto di riconoscimenti dovuti90. Craxi vinse. Consolidò la sua alleanza con la Dc e tolse credibilità alle ipotesi di governi di sinistra. Il Pci oscillò tra proposte politiche contraddittorie, e, al suo interno, si indebolì la linea di Berlinguer; la sua rivendicazione di moralità nella politica condusse molti, nel suo stesso partito, ad accusarlo di moralismo. Tutto questo avvenne in Italia, nel corso degli anni Ottanta. A Venezia ne avevamo visto i segni fin dall’inizio dell’alleanza con il Psi. Il merito (se tale vogliamo chiamarlo) fu di Gianni De Michelis, divenuto, da giovane esponente della sinistra arrabbiata del Psi, uno dei più attivi luogotenenti di Bettino Craxi. 89 Dal discorso di Enrico Berlinguer al Teatro Eliseo di Roma, 1977, in eddyburg, cartella «L’austerità come leva di sviluppo». 90 E. Scalfari, I partiti sono diventati macchine di potere, intervista a Enrico Berlinguer, «la Repubblica», 28 lug. 1981. Anche in eddyburg. 101 capitolo settimo Uomo di grande intelligenza e di grande prepotenza, vero padre padrone della sua compagine veneziana, velocissimo lettore di qualunque tipo di testo, conoscitore profondo della situazione economica, sociale, culturale, politica e urbanistica della sua città, De Michelis esercitava una larga egemonia che andava al di là del suo stesso partito. Alcune delle intuizioni più felici sull’assetto del territorio veneziano hanno la sua firma, come il sistema di accesso alla città storica via acqua a partire dai terminal in Terraferma (1971), e gran parte dell’impostazione della politica di risanamento della città storica, che avevo trovato, giungendo a Venezia, nel 1975. Ma anche alcune delle pratiche più devastanti, come la preferenza per le “grandi opere” rispetto alla ordinaria amministrazione, la tendenza alla mercificazione della città, la promozione del sistema tangentizio, di cui giustificava l’esistenza in nome dell’autonomia della politica e del ruolo d’interesse generale che essa (e soprattutto quella del suo partito) esercitava. Non ebbi mai prove o testimonianze sulle tangenti percepite da esponenti socialisti, tali da poterle portare alla magistratura, ma è certo che a Venezia l’uso di quella prassi era voce corrente in tutti gli ambienti. Pellicani, suo alleato e antagonista, raccontava spesso un suo colloquio con De Michelis. Quest’ultimo si lamentava, - Ma possibile che tutti se la prendano con noi, e voi, nessuno vi accusa di prendere i soldi? - È vero, rispose Pellicani, ma vedi, se a Venezia qualcuno racconta “ho visto De Michelis che prendeva un assegno da un americano cui aveva venduto Palazzo ducale”, la gente dice “A che punto sono arrivati questi socialisti!”. Se invece qualcuno giura di aver visto Titta Gianquinto (ex sindaco comunista di Venezia, amatissimo dai veneziani) uscire dal Casinò con una mazzetta di bigliettoni in bocca la gente dice “Ma guarda il povero Titta, hanno tentato di soffocarlo!”. Tangenti o non tangenti, la pressione dei socialisti nella gestione dell’urbanistica era volta a realizzare al più presto grandi opere e interventi cui tenevano molto. In ognuna delle frequentissime riunioni di verifica (convocate nel tardo pomeriggio, iniziavano la sera e proseguivano spesso fino al mattino) sapevamo che ci avrebbero chiesto ragione di un elenco così formulato: Area Saffa, Area Trevisan, Stucky, Tronchetto; si trattava degli interventi più rilevanti, ristrutturazioni urbanistiche o nuove edificazioni. La nostra preoccupazione era realizzare gli interventi previsti nel modo più corretto possibile, da ogni punto di vista, correggendo ciò che non ci sembrava coerente con la strategia che avevamo definito; la cosa ci riusciva particolarmente difficile quando dovevamo contrattare l’attuazione con la proprietà, come nel caso dello Stucky e dell’isola di Tronchetto. In particolare, poi, la mia preoccupazione era 102 la fase gloriosa della sinistra di costituire un quadro di conoscenze e di decisioni che garantisse che ogni singola scelta fosse il tassello di un mosaico finalizzato ad assicurare i risultati culturali e sociali che ci eravamo proposti. Riuscimmo ad anticipare l’applicazione dei princìpi della pianificazione della città storica che avevamo cominciato a costruire, ma il nuovo piano fu approvato solo anni dopo. 10. La politica della casa All’inizio degli anni Sessanta, la questione della residenza era gravissima. Degrado, esodo, assenza di case offerte in affitto a prezzi ragionevoli, pressione del turismo. Centinaia di famiglie abitavano nei piani terra sistematicamente allagati dalle acque alte. Il sovraffollamento dei decenni precedenti aveva indotto ad abitare locali originariamente adibiti a magazzini. I pozzi artesiani scavati per alimentare le industrie di Porto Marghera avevano ridotto notevolmente la falda acquifera sottostante agli strati di argilla compressa (il caranto) su cui poggia la città, determinando un abbassamento del suolo. Il problema della casa era diventato drammatico. Me ne accorsi pienamente quando, nel 1979, si manifestò un’acqua alta eccezionale: raggiunse l’altezza di 166 cm sul medio mare, di poco inferiore ai 194 cm raggiunti nell’anno terribile 196691. A partire da quell’evento, la sala del consiglio comunale fu continuamente assediata da molte decine di persone che protestavano per le loro condizioni. Per un breve periodo (mi sembrò lunghissimo, ma furono solo sei mesi) fui l’assessore incaricato del problema. Grazie soprattutto all’abilità e all’impegno di Gianni Pellicani, in pochissimi anni riuscimmo a risolvere il problema, e a sistemare in alloggi al riparo dall’acqua alta tutte le famiglie che ne avevano bisogno. Impresa che divenne tanto più difficile quando si aggiunse la necessità di trovare alloggio alle famiglie colpite dagli sfratti. Seguimmo tutte le strade possibili, cominciando dalle case sfitte e da quelle destinate a case parcheggio dal piano. Intervenimmo con l’esproprio, ma prevalentemente con l’acquisizione bonaria, assumendo l’indennità d’esproprio come valore di riferimento. Naturalmente ricorremmo anche (ma la cosa richiese complesse trattative) alla disponibilità 91 È utile ricordare che l’altezza delle acque alte è riferita al livello medio del mare. Il punto più basso di Venezia, Piazza San Marco, è di circa +60 cm. Il livello di riferimento per le pavimentazioni stradali che assumemmo nel nuovo piano del centro storico, e nelle anticipazioni, fu di +130 cm. 103 capitolo settimo del patrimonio dello Iacp e degli istituti di assistenza pubblici, che a Venezia avevano beni consistenti. E avviammo anche programmi di edificazione di case nuove, nelle aree a ciò destinate dai piani vigenti. Erano gli anni in cui, in tutta Italia, la cultura urbanistica aveva maturato la convinzione che la fortissima produzione edilizia che aveva contrassegnato i decenni precedenti dovesse finire. La fase dell’espansione delle città era terminata, e si doveva affrontare con energia il tema del recupero del patrimonio edilizio esistente. Del resto, la giustificazione sociale della necessità della costruzione di nuove abitazioni era diventata un alibi: più case si costruiscono, più ne sono necessarie, dimostravano tutte le statistiche disponibili. Si era costituito un enorme patrimonio abitativo che non era disponibile né nei luoghi in cui serviva né per i ceti che ne avevano bisogno, mentre esisteva un gigantesco patrimonio sottoutilizzato e degradato. Ciò era vero soprattutto nei centri storici e nei quartieri più antichi delle città. Era lì che si doveva intervenire prioritariamente. Questa tesi, assunta a livello nazionale dai partiti di sinistra, era particolarmente sentita a Venezia dall’intero schieramento politico. Oltretutto, si temeva che investire nella nuova edificazione avrebbe distratto risorse e impegno al risanamento dell’edilizia storica, che era assolutamente prioritario. La necessità di una forte regia pubblica nella politica della casa era stata provocata da un particolare episodio. Una grande società immobiliare romana, la Beni Stabili, aveva realizzato un cospicuo intervento edilizio alla Giudecca. Ne era nato un quartiere di lusso, completamente recintato, contro il quale si era levato il fiero malcontento dei giudecchini e dei veneziani in generale. Da allora si era deciso, con un accordo unanime, dai comunisti fino ai liberali di destra, che ogni nuova costruzione residenziale sarebbe stata destinata ai cittadini veneziani con rigorosi vincoli di permanenza. Questo accordo rimase attivo fino alla fine del secolo scorso, e fu violato nella pratica dalle giunte successive, a partire dalla prima giunta Cacciari. Tra la fine degli anni Settanta e il quinquennio successivo, con i finanziamenti della legge speciale del 1973 e con quelli forniti da alcune leggi nazionali, si progettarono e realizzarono nuovi complessi di edilizia residenziale, i principali nell’area degli ex cantieri Trevisan alla Giudecca e nell’area abbandonata da una fabbrica di fiammiferi (la Saffa) a Cannaregio. Questi programmi si affiancavano ad alcuni rilevanti interventi di riconversione funzionale e utilizzazione per la residenza di alcuni complessi edilizi industriali (come la ex birreria Dreher e gli ex magazzini della Repubblica alla Giudecca) e a un vasto programma di risanamento e restauro dell’edilizia residenziale storica. L’insieme di 104 la fase gloriosa della sinistra questi interventi permise di risolvere nel giro di pochi anni due emergenze, determinate dagli sfratti per finita locazione e dal fatto che molti veneziani vivevano ancora nei piani terra, soggetti ad allagamento. Due grandi questioni rimasero aperte: l’avvio di una iniziativa per offrire edilizia a canoni ragionevoli alle famiglie che non disponevano dei requisiti necessari per concorrere all’assegnazione di edilizia pubblica, e l’utilizzazione del grande complesso degli ex Mulini Stucky. Per lo Stucky le destinazioni previste dai piani rendevano necessaria un’iniziativa concordata con la proprietà. Si prevedeva – tenendo conto anche delle caratteristiche strutturali degli edifici – la realizzazione di un centro congressi, di un albergo, di un luogo ove sistemare i numerosi archivi comunali, ancora oggi collocati in spazi meglio utilizzabili per altre funzioni urbane (a questo scopo si prevedeva di utilizzare i giganteschi silos di cereali), e infine di edilizia residenziale. Ciò che si chiedeva alla proprietà era la cessione gratuita dei silos, a titolo di oneri di urbanizzazione e costruzione, e il rigoroso convenzionamento dell’edilizia residenziale per i veneziani. La proprietà non accettò queste condizioni e il complesso rimase abbandonato finché l’amministrazione, all’inizio di questo secolo, accettò le pretese della proprietà. Adesso lo Stucky è una esclusiva enclave di lusso. I silos, le cui facciate erano del tutto prive di aperture, sono stati distrutti da un incendio che ha lasciato “miracolosamente” indenni gli edifici adiacenti92. Dopo l’incendio, improvvisamente saltano fuori i disegni “originali” di Ernest Wullekopf che prevedevano le finestre sulle facciate: su questa base anche quella parte del complesso è stata trasformata in albergo. Lucrosamente: per la proprietà, s’intende. 92 «È stato un incendio doloso per il pm di Venezia, Michele Maturi, quello che ha semidistrutto il mulino Stucky sull’isola della Giudecca nella città lagunare. Il pubblico ministero ha infatti parlato di una “mano umana” e ipotizzato “il gesto di un folle o l’imprudenza di un barbone o, più probabilmente, l’iniziativa dolosa di qualcuno”. Al momento non ci sono gli elementi per confermare questa pista, ma la strada sembra essere quella giusta. Il mulino Stucky, importante esempio di architettura industriale ottocentesca, era in fase di restauro e pronto a essere trasformato in un grande albergo e centro congressi» (da «Edilportale», 18 apr. 2003). 105 106 Capitolo ottavo Venezia forma urbis 1. Le basi per il nuovo piano della città storica Le elezioni del 1980 videro, a Venezia, vincere di nuovo le liste di sinistra. Questa volta c’era anche il Pri. Con Gigi Scano avevo concordato un percorso che ci avrebbe consentito di sostituire quegli anomali e inadeguati “piani particolareggiati”, adottati nel 1975, con una pianificazione del tutto nuova, che Edgarda Feletti e l’ufficio avevano cominciato ad approntare, con la costante e discreta consulenza di Gigi e il mio pieno impegno. All’inizio del 1981 avevo presentato in giunta un corposo documento d’indirizzi, «Programma di lavoro 1981-1985»93. La giunta non approvò mai formalmente il mio programma di lavoro. Non credo che fosse un documento troppo complesso: in quegli anni il personale politico era capace di entrare nel merito delle questioni di governo. Influì certamente il fatto che in quel periodo la pianificazione urbanistica e la logica della programmazione non godevano più di molto credito, in Italia e anche a Venezia. Si preferiva rincorrere l’emergenza, praticare la deroga, godere dei vantaggi della discrezionalità. Nel programma, sottolineavo la necessità di lavorare secondo due contemporanee direttrici: avviare la formazione di un sistema di pianificazione completamente nuovo, basato su quello che definivo «bilancio sociale tra offerta di spazi e domanda di spazi», fondato su un complesso di conoscenze rigorosamente raccolte e sistematicamente aggiornate, e contemporaneamente affrontare, con specifici atti di pianificazione, una serie di esigenze relative a diversi aspetti e luoghi del complesso 93 I punti principali sono ampiamente raccontati nel xv capitolo del libro di Luigi Scano, Venezia: terra e acqua, p. 324-328. 107 capitolo ottavo territorio comunale94. Per il nuovo piano ci proponevamo di costruire la base materiale di conoscenze e, naturalmente, il modello di pianificazione, che nel successivo mandato amministrativo (’85-’90) si sarebbe completato. Gli strumenti fondamentali erano tre: - il montaggio critico dei mappini catastali di tutte le unità immobiliari della città storica, per ricostruire i piani tipo delle diverse unità edilizie e avere così una base su cui, integrando con altri elementi di conoscenza e l’esame de visu, individuare la categoria tipologica d’appartenenza di ciascuna unità; - la costruzione di un sistema informativo territorializzato, capace di costituire l’insieme delle basi conoscitive per la costruzione e la gestione del piano, e in primo luogo per la formazione di una nuova cartografia; - l’inserimento nel sistema informativo dei dati disaggregati del censimento del 1981, per accompagnare i dati fisici con le necessarie informazioni disaggregate dei dati sociali ed economici. Con grandi sforzi per convincere le persone interessate, con l’invenzione di passaggi amministrativi bizzarri, con molta pazienza e determinazione riuscimmo a stabilire un accordo con il catasto, che permise all’ufficio di eseguire la fotocopiatura di tutte le piccole mappe, in scala 1:50 o 1:100, delle 40.000 unità immobiliari, e di ridisegnarle unificandole per costruire (integrandole con le mappe di edifici pubblici o restaurati di recente che contemporaneamente si acquisirono) una mappa in scala 1:200, poi ridotta a 1:500, dell’intera città storica. Naturalmente veniva continuamente consultata la cartografia storica, soprattutto la mappa del De’ Barbari, i catasti napoleonico e austro-italiano, il Combatti95. Quando arrivò l’atteso fotopiano a colori della città storica, in scala 1:500, che nel frattempo avevamo commissionato, potemmo mettere a punto la classificazione tipologica. 94 L’ambito amministrativo del Comune di Venezia è costituito da differenti tipi di elementi territoriali: la città storica di Venezia, a sua volta formata da 118 isole congiunte da oltre 400 ponti, e dalla Giudecca; gli insediamenti storici minori delle isole di Murano, quasi un quartiere di Venezia, e Burano, un paesone nella parte più interna della Laguna; le isole del Lido e di Pellestrina, e gli insediamenti nella penisola del Cavallino, che formano il cordone che separa la Laguna dall’Adriatico; le isole minori, ove nei secoli passati furono ubicati lazzaretti e conventi, poi fortificazioni e ospedali; la Terraferma, in origine costituita dal centro urbano di Mestre, cui negli anni Venti del Novecento furono aggregati amministrativamente una serie di altri piccoli centri. 95 Venezia, Biblioteca Museo Correr, Jacopo de’ Barbari, Pianta prospettica di Venezia, 1500; Venezia, Archivio di Stato, Censo stabile, Catasto napoleonico, Catasto austriaco, Catasto austro-italiano, 1807-1852; Bernardo e Gaetano Combatti, Nuova planimetria della città di Venezia divisa in venti tavole ecc., Venezia, 1847-1855. 108 venezia forma urbis 2. La nuova cartografia e il fotopiano della città storica La nuova cartografia, come base per il sistema informativo territorializzato, fu il secondo grande tassello per la costruzione del nuovo piano. Fu un lavoro nel quale ci impegnammo molto. Il nostro programma prevedeva la realizzazione di un fotopiano a colori degli insediamenti storici del comune e di una cartografia geometrica. Feletti trovò, non senza fatica, l’esperto cui chiedere di studiare la soluzione tecnica migliore. La scelta cadde sull’eccellente Mario Fondelli, professore di fotogrammetria a Firenze, che aveva maturato numerose esperienze con l’Istituto geografico militare (Igm) e altre strutture. Fondelli ci guidò magistralmente nella gara d’appalto e in tutte le successive vicende. Indicemmo due gare d’appalto: una per il fotopiano a colori, l’altra per la cartografia geometrica. Dopo varie vicissitudini, per quest’ultima scegliemmo la soluzione informatica (si era allora ai primi passi nel settore), più coerente con il nostro progetto di sistema informativo territorializzato. Ci fu qualche contrasto, nella commissione giudicatrice che ci seguiva anche tecnicamente, con i fautori della cartografia tradizionale, manuale: la resa era certamente più bella, ma a noi interessava il sistema e la sua adattabilità. Fummo fortunati anche nella selezione delle ditte. Le due migliori (una per ciascuna cartografia) avevano già lavorato in collaborazione tra loro: esperienza che tornò molto utile. Grande fu la passione che Licinio Ferretti, il proprietario della società prescelta per il fotopiano, la Compagnia generale Ripreseaeree (Cgr), infuse nel lavoro. Collaborare a una eccezionale esperienza quale fu la realizzazione del fotopiano di Venezia (esperienza pioniera, trattandosi del primo realizzato in Italia per un’area di quelle dimensioni) fu per lui un’occasione di grande soddisfazione. Un giorno – avevamo già aggiudicato la gara, ma ancora non c’era né deliberazione né impegno di spesa – mi telefonò: – Assessore, sono giornate troppo belle per non approfittarne, non c’è un’ombra di nebbia –. Era il 20 maggio. Il giorno dopo volò, a suo rischio. Non era stato facile ottenere le autorizzazioni necessarie per effettuare le riprese aeree. Lo avevo compreso partecipando alla seconda conferenza nazionale di cartografia e aerofotogrammetria, indetta dal «Centro interregionale di coordinamento e documentazione per i problemi inerenti alle informazioni territoriali». Fondelli mi chiese di preparare una delle relazioni di base, sull’impiego della cartografia a grande scala. Là compresi come l’arcaismo militare ostacolasse Comuni, Province e Regioni che volessero restituire l’esatta natura dei loro 109 capitolo ottavo territori. Per sbloccare la stampa del nostro fotopiano dovetti chiedere al parlamentarista Andrea Manzella, che avevo conosciuto in un lavoro di collaudo per il Comune di Napoli, di intervenire presso il ministro della Difesa Spadolini, di cui era stato capo di gabinetto affinché a sua volta intervenisse sull’Igm. Dovemmo poi organizzare una visita in pompa magna al comandante dell’Igm a Firenze: persona squisita e intelligente, comprese che non si potevano oscurare, spacciandoli per presunti bersagli militari, luoghi come l’Arsenale e l’ospedale Santi Giovanni e Paolo, deturpando un “gioiello” quale era il fotopiano della città storica di Venezia. 3. Forma urbis Un’altra iniziativa a proposito del fotopiano dovemmo avviarla, e faticosamente condurla a termine, quando ci rendemmo conto della sua bellezza. Per contratto, ne dovevamo ricevere tre copie: una per lavoro, una per il pubblico e una per l’archivio. Ma quando vedemmo le tavole, comprendemmo che non potevano rimanere nascoste. Scrissi una lunga lettera, che inviammo a una ventina di editori proponendo loro l’utilizzazione commerciale del fotopiano alla condizione che, come primo prodotto, stampassero e mettessero in commercio un’edizione perfettamente uguale all’originale; la grandezza delle tavole (ogni foglio era di 50 x 50 cm) e la perfezione del segno e dei colori rendeva il lavoro particolarmente delicato. Avevamo allegato dei campioni, ma l’unico editore che si presentò fu Marsilio. Emanuela Bassetti, amministratore delegato, venne a vedere le tavole. Ne rimase impressionata. Cominciò da parte sua un lungo lavoro di ricerca degli sponsor che consentissero di assorbire una parte delle spese e, parallelamente, il lavoro di assicurare una resa grafica identica all’originale. Anche in questa impresa fu di grande aiuto Mario Fondelli. La tenace ricerca di Edgarda e degli altri della perfezione era motivata anche dalla consapevolezza della grande tradizione cartografica veneziana. Uno dei tanti segni della grandezza e lungimiranza dei reggitori della Serenissima Repubblica è riconoscibile in questo testo: Quando si deve decidere qualcosa circa le città e i castelli e le province che, per grazia di Dio, sono sottoposti al nostro governo, non c’è nessuno nella nostra amministrazione che sappia dare informazioni precise sui siti nei quali essi si trovano, sulla loro latitudine e longitudine, sui confini e sui domini limitrofi e così via; e se a qualcuno si chiedono informazioni queste sono 110 venezia forma urbis spesso diverse a seconda dell’interlocutore, perché ciascuno risponde come crede. Si provveda perciò perché nella nostra cancelleria e nella sede del nostro Consiglio dei dieci vi sia, veridicamente disegnata, l’immagine di tutte le nostre città, terre, castelli, province e luoghi, talché chiunque voglia decidere e provvedere in merito ad essi ne abbia davanti agli occhi reale e precisa cognizione, e non debba affidarsi all’opinione di chicchessia. È il testo di una deliberazione del 27 febbraio 1460, presa da Pietro Mocenigo, Bernardo Giustinian e Marco Donato, i tre capi del Consiglio di dieci96. Non ci sono parole più efficaci per esprimere quanto la cartografia sia un essenziale strumento di conoscenza, quindi di governo. Il montaggio di tutte le tavole del fotopiano componeva un grande pannello di 7 x 10 m. Lo esponemmo per qualche mese sulla parete dello scalone dell’Ala napoleonica del Museo Correr. Il regista della Rai Giulio Macchi, cui il governo aveva dato l’incarico di progettare il contenuto del padiglione italiano all’esposizione internazionale di Tsukuba, in Giappone, nel 1985, scelse due oggetti per sintetizzare il meglio della produzione nazionale: la Ferrari testarossa, e il fotopiano di Venezia. Dopo l’edizione integrale e fedelissima (confezionata in una grande custodia rigida cui demmo il titolo Venezia Forma Urbis), il fotopiano e la cartografia numerica furono l’oggetto di un volume, in cui le tavole erano ridotte alla scala 1:1000, un quarto dell’originale. Il titolo in italiano era Atlante di Venezia, e fu poi tradotto e pubblicato in Gran Bretagna, negli Usa e in Francia. Non potemmo ottenere nei tempi necessari i dati del censimento del 1981, che costituivano la terza componente del nostro programma. Li sostituimmo con un lavoro empirico e un ampio ricorso alle analisi dirette da parte dell’ufficio. Portammo a termine il lavoro programmato, con molta fatica. Più dell’abbandono da parte di Gianni Pellicani (fu chiamato a lavorare alla direzione nazionale del Pci), ci danneggiò l’incertezza politica. L’alleanza Pci-Psi era ormai logora, i socialisti si preparavano a mutare di spalla al loro fucile, e a riprendere l’accordo con la Dc senza gli ingombranti comunisti. Comunque, come ci eravamo proposti, avevamo costruito le basi del piano: quelle materiali e quelle concettuali. Dopo una sospensione potemmo continuare e concludere il lavoro. 96 G. B. Lorenzi, Monumenti per servire alla storia del Palazzo Ducale di Venezia, Venezia 1868. 111 capitolo ottavo 4. Interruzioni, ripresa e prima conclusione L’esito politico delle elezioni del 1985 fu cattivo. Il Psi costituì una giunta con la Dc: sindaco il socialista Nereo Laroni. Poi crisi della maggioranza, ricostituzione, nuovo sindaco il democristiano Costante Degan. Il lavoro di costruzione del piano fu ufficialmente interrotto; continuò sottotraccia il completamento delle sue basi materiali. Nel 1987 si costituì una giunta in cui era sindaco il repubblicano Antonio Casellati e assessore all’urbanistica il verde Stefano Boato. Con loro il lavoro del piano proseguì e giunse alla conclusione. Gigi partecipava al lavoro come consulente, io in modo informale: con Casellati e Boato eravamo in ottimi rapporti e in piena condivisione culturale. Concludemmo la redazione del piano e l’assessore lo trasmise alla giunta. Nell’aprile 1990, con Edgarda e Gigi presentai il nuovo piano allo Iuav. Dopo aver ricordato l’anomalia degli strumenti di pianificazione che avevamo gestito nel quinquennio ’75-’80, illustrai sinteticamente il piano riferendomi a due aspetti: il rapporto tra piano e spazio, e il rapporto tra piano e tempo. Per la parte del territorio in cui si prescrive la conservazione del disegno urbano preesistente, il piano classifica tutte le unità elementari di spazio in funzione operativa. In particolare, le “unità edilizie” (e cioè gli edifici caratterizzati da unità di volume e di prospetto) sono classificate in una quarantina di classi sulla base di un’analisi delle tipologie strutturali97. Per ogni classe, sono definite sia le regole delle trasformazioni fisiche consentite o prescritte (quali elementi strutturali e funzionali devono essere conservati o ripristinati, e come; quali possono essere modificati, e come, o eliminati), sia la gamma delle utilizzazioni compatibili. Per questa parte, il piano è interamente attuabile mediante semplice concessione o autorizzazione edilizia, sulla base di singoli progetti edilizi. Il che, per un piano regolatore generale di un centro storico che comprende 13.000 unità edilizie, non è davvero poco. Fanno eccezione all’intervento diretto solo quelle parti del centro storico (si tratta di 50 ambiti) nelle quali sono ritenute necessarie, e quindi sono prescritte o ammesse, trasformazioni consistenti o dell’assetto fisico, o dell’assetto funzionale, o dell’uno e dell’altro insieme. Per questi ambiti il piano prevedeva la formazione di piani particolareggiati e prescriveva per ciascuno di essi quantità, utilizzazioni e direttive per l’organizzazione fisica e morfologica. 97 Per il metodo dell’analisi tipologica dell’edilizia storica, vedi capitolo 7, paragrafo 7. 112 venezia forma urbis Per quanto riguarda il rapporto tra il piano e il tempo, il piano era organizzato come la somma di due parti: una parte fissa, e quindi valida a tempo indeterminato, e una parte invece valida per un arco temporale breve (per esempio, cinque anni, corrispondenti alla durata del mandato amministrativo). In realtà, nella pianificazione una serie di indicazione e prescrizioni sono fisse, valgono sempre, costituiscono delle invarianti rispetto a tutte le modifiche della realtà immaginabili, altre invece hanno una validità legata a previsioni, a esigenze, a impostazioni politiche, a programmi che hanno una limitata validità nel tempo. Questa differenza vale in particolare, e soprattutto, per le cosiddette “destinazioni d’uso”, cioè per le funzioni, gli usi cui possono essere adibite le diverse unità di spazio. Per tutta la parte della città storica dove non avevamo ritenuto necessaria una trasformazione urbanistica (quindi con l’esclusione dei 50 ambiti di cui sopra), ma per la quale l’obiettivo era la conservazione, avevamo distinto due aspetti. Innanzitutto, in una prima serie di elaborati, il piano definisce le regole valide a tempo indeterminato, che specificano, per ciascuna categoria di “unità edilizie”, le “trasformazioni fisiche ammissibili” e le “utilizzazioni compatibili” con l’esigenza di conservare le particolari caratteristiche di quel tipo. Questa parte del piano stabilisce insomma quali sono le regole da rispettare per non stravolgere, ma anzi utilizzare al meglio le unità edilizie appartenenti a ciascuna categoria. Per quanto riguarda le utilizzazioni si tratta normalmente di una rosa ampia, che nella normativa abbiamo dettagliato per evitare genericità e discrezionalità. Questo ventaglio di “utilizzazioni compatibili” è valido, come ho detto, a tempo indeterminato, e apre molte possibilità. Con una seconda serie di elaborati, il piano stabilisce – non una volta per tutte ma per un quinquennio – quali sono le utilizzazioni (le “destinazioni d’uso”) che sono obbligatoriamente prescritte. Ogni quinquennio insomma, tenendo conto delle condizioni sociali, delle possibilità economiche, degli indirizzi politici, delle disponibilità degli operatori, il consiglio comunale (mentre verifica e aggiorna la parte “fissa” del piano), rielabora integralmente la parte “programmatica” del piano: stabilisce di nuovo quali sono, nell’ambito della gamma ampia di utilizzazioni compatibili con i vari tipi edilizi, le destinazioni d’uso che devono, o possono, essere attivate nel periodo successivo. E stabilisce anche quali sono gli ambiti per i quali si procederà alla formazione dei piani particolareggiati, e approva quelli nel frattempo redatti. Il piano era pronto per l’adozione. Ma subentrarono le elezioni amministrative. Si formò una maggioranza centrista, questa volta il sindaco era il democristiano Ugo Bergamo e l’assessore all’urbanistica il 113 socialista Vittorio Salvagno. Quest’ultimo apprezzò e condivise il lavoro fatto, consentì che venisse aggiornato e portò il piano all’adozione, che avvenne nel 1992. Poi cominciò un’altra storia. 5. La proposta dell’articolazione dei piani in due componenti Se la mia base era a Venezia, anche negli anni in cui ero assessore non avevo abbandonato le mie attività a livello nazionale. Continuavo a essere consultato dalla direzione nazionale del Pci sulle questioni urbanistiche, ed ero impegnato nell’Inu, sia come direttore della rivista «Urbanistica informazioni» sia, a partire dal 1983, come presidente nazionale. Inoltre, concluso il mio impegno di assessore avevo ripreso a collaborare con Regioni, Province e Comuni alla formazione di piani o di testi normativi. Sia all’Inu che nella pratica professionale, sempre in stretta collaborazione con Gigi Scano, avevo proseguito la riflessione e la sperimentazione dell’articolazione della pianificazione in due componenti. Una prima componente, che definivamo strutturale e strategica, conteneva essenzialmente tutte le indicazioni, prescrittive o direttive, concernenti le tutele dell’integrità fisica e dell’identità culturale del territorio, e quelle che delineavano le grandi scelte strategiche. L’altra componente, che definivamo programmatica e operativa, definiva tutte le decisioni che concernevano scelte di breve o di medio periodo, comunque conformi a quelle definite nella componente strutturale. Nella nostra proposta la componente strutturale della pianificazione, coinvolgendo interessi di diversi livelli di governo, doveva prevedere una procedura di formazione più complessa e più rigida. La seconda, esaurendo essenzialmente la propria portata nell’ambito di decisioni che non incidevano su interessi ampi, poteva essere di esclusiva competenza dei Comuni. Precisammo questo modello di pianificazione in molte occasioni: nei prg di Carpi, Imola, Duino Aurisina; nei progetti di legge urbanistica cui Gigi e io collaborammo per l’Emilia Romagna e per il Lazio; in una proposta di legge urbanistica nazionale che Gigi elaborò in sede Inu e in un più maturo progetto che presentammo a un convegno che organizzammo a Venezia nel sessantesimo anniversario della legge urbanistica del 194298. 98 L. Scano, Le ragioni e i contenuti di una proposta di legge, in Cinquant’anni dopo la legge urbanistica italiana. 1942-1992, a cura di E. Salzano, Roma, Editori Riuniti, 1993, p. 137-153. E. Salzano, Sull’articolazione dei piani urbanistici in due componenti, «Notiziario dell’Archivio Osvaldo Piacentini», 11-12 (apr. 2008), II. 114 Capitolo nono Verso il buio: Tangentopoli e Mani pulite 1. Gli anni della svolta Nel 1992 scoppia lo scandalo che viene battezzato “Tangentopoli”: si scopre una città (polis) che vive sulle tangenti raccolte dal personale politico di governo sugli affari derivanti da decisioni pubbliche99. I fatti che sono alla base dello scandalo, e della successiva benemerita azione della magistratura (la campagna di pulizia giudiziaria che fu chiamata “Mani pulite”) erano già da tempo all’attenzione di molti di noi. Così, con Piero Della Seta decisi di scrivere in poche settimane un libro a quattro mani su Tangentopoli. Tentammo di ricostruire il cambiamento profondo, nella società e nella politica, che aveva prodotto quel terribile fenomeno. Nella nostra analisi Tangentopoli non era semplicemente un moltiplicarsi di “normali” episodi di corruzione, ma la corruzione divenuta sistema ordinario di governo: la sua liceità veniva teorizzata e riconosciuta dai suoi promotori, e aveva permeato l’intero sistema delle decisioni pubbliche in cui fossero coinvolti come protagonisti i membri di quel mondo. Individuammo nella metà degli anni Ottanta il momento principale della svolta. In effetti, erano stati gli anni di un cambiamento profondo in Italia, perfettamente correlato alla più ampia trasformazione a livello internazionale. Nel 1983 era nato il governo Craxi, il quale mantenne 99 Da allora, con un processo di corruzione del linguaggio tipico dell’ignoranza dei mass media, si è attribuito il suffisso poli a ciascuno dei numerosi altri scandali esplosi: calciopoli, ospedalopoli, sanitopoli, parentopoli, affittopoli, ecc. 115 capitolo nono il suo ruolo fino all’aprile del 1987. Negli stessi anni i poteri di Ronald Reagan e Margaret Thatcher erano stati pienamente confermati nei rispettivi paesi. In Italia, un decreto del governo Craxi (14 febbraio 1984) aveva aperto l’attacco alla scala mobile: a quel meccanismo cioè, conquistato nel 1975 a favore di tutti i lavoratori, che legava le variazioni del salario a quelle del potere d’acquisto. Il Pci promosse, nel 1985, un referendum per difenderlo, ma raggiunse solo il 46% dei consensi100. Nello stesso anno si svolsero in Italia le elezioni amministrative: caddero quasi tutte le maggioranze di sinistra che erano al governo nelle grandi città. Sono gli anni del trionfo della visione craxiana della società: nuovi valori divengono vincenti nel pensiero comune. Tutto viene declamato in termini di efficienza, di conquista della “modernità”, di celebrazione del made in Italy, di enfatizzazione della grande rincorsa dello sviluppo che appare ormai inarrestabile e che fa sentire proiettati verso i vertici massimi della scala mondiale. A Tokio, il 4 maggio 1986, Craxi riesce a ottenere l’ammissione dell’Italia in quello che era allora il Club dei Cinque, organismo di concertazione della politica economica formato dalle maggiori potenze industriali del pianeta101. Benessere e crescita economica erano traguardi raggiunti. Eppure, osserva Paul Ginsborg: crescita economica e sviluppo umano non sono affatto la stessa cosa, e con l’avvicinarsi della fine del secolo la prima giunse a costituire sempre più una minaccia per il secondo. Gli italiani tacevano parte di quel quarto della popolazione mondiale che consumava ogni anno i tre quarti delle risorse e che produceva la maggior parte dell’inquinamento e dei rifiuti102. La ricchezza aumenta, ma le diseguaglianze aumentano al pari dei privilegi. I principi morali si affievoliscono, il successo individuale è l’obiettivo primario al quale tutto il resto può essere sacrificato. Tangentopoli non avrebbe potuto dilagare, e non sarebbe stato così difficile combatterla, se non avesse trovato nel clima sociale l’humus in cui svilupparsi. 100 A favore dell’abrogazione del decreto Craxi il Pci, il Psiup e i Verdi; contro l’abrogazione il Psi, la Dc, il Pri, il Psdi e i liberali. Si scoprirà più tardi che la campagna referendaria era stata pagata da Craxi con i soldi delle tangenti. Pochi anni dopo, la scala mobile verrà del tutto abrogata. 101 P. Della Seta, E. Salzano, L’Italia a sacco. Come, negli incredibili anni ’80, nacque e si diffuse Tangentopoli, Roma, Editori riuniti, 1993I, p. 26. 102 P. Ginsborg, L’Italia del tempo presente. Famiglia, società civile, Stato. 1980-1996, Torino, Einaudi, 2007II, p. 57. 116 verso il buio: tangentopoli e mani pulite Vissi questo clima nelle esperienze di quegli anni. Non solo al Comune di Venezia, ma anche nella mia collaborazione alla direzione nazionale del Pci e al mio lavoro nell’Inu. 2. Si affaccia l’urbanistica contrattata Il nuovo tema che si affacciava nei dibattiti sull’urbanistica era quello dell’«urbanistica contrattata». Il primo episodio rilevante fu una polemica sull’«Unità», nell’estate del 1982, tra due assessori, entrambi comunisti, entrambi eletti in due grandi città: Maurizio Mottini, a Milano e Raffaele Radicioni, a Torino. Mottini partiva dalla considerazione che «era emersa negli anni più recenti una critica diffusa, talvolta una insofferenza, nei confronti del concetto stesso di piano come strumento del potere pubblico per affrontare e risolvere problemi di interesse generale»; osservava correttamente come questo atteggiamento critico fosse un sintomo della più generale tendenza «al riflusso nel ‘privato’, alla riscoperta dei valori e dei problemi dell’individuo», e come fosse collegato al fatto che «sul versante politico e ideologico si assisteva al rilancio di un neoliberismo, che non di rado si tingeva dei colori di una volontà di rivincita dei valori della conservazione o meglio della restaurazione»103. Indubbiamente, le prime avvisaglie dei tentativi di “liberare” le decisioni sul territorio dai vincoli di regole dettate dall’interesse comune avevano radici nel più vasto processo di riflusso verso l’individualismo e il privatismo, nelle nuove ideologie che si affermavano e nella ripresa di potere degli interessi economici di nuovo dominanti. Mottini individuava però anche a sinistra segnali che andavano nella stessa direzione: è significativo, afferma, che «nell’ambito stesso della cultura di sinistra il tema delle libertà individuali, come presupposto di una società dinamica, venga additato come via d’uscita ai fenomeni di sclerosi delle forme realizzate partendo da una lettura consolidata e ortodossa della lezione marxista». Da queste premesse, Mottini partiva per esprimere una critica all’urbanistica: «Il piano urbanistico, come normativa che regola il comportamento dei soggetti che decidono, ha prodotto troppo spesso disegni mai realizzati o realizzati in piccola parte»; «ciò che è in crisi – aggiungeva – non è il concetto di piano urbanistico, ma il concetto di 103 M. Mottini, Urbanista, cambia piano, «l’Unità», 18 ago. 1982. 117 capitolo nono gestione pubblica del piano urbanistico». La ricetta che proponeva era di sostituire la gestione pubblica col governo pubblico, dove governare significa «utilizzare i meccanismi di mercato, indirizzandoli con una serie di incentivi e disincentivi alla soluzione dei problemi di interesse generale. Alla politica del vincolo occorre sostituire la politica dell’uso pubblico dell’interesse privato»104. Pianificazione territoriale e programmazione concertata tra pubblico e privato divengono momenti di un solo discorso, «non più un prius definito e immobile cui seguirà una sia pur complessa gestione di attuazione». In altre parole, il piano non è autonomo rispetto agli interessi economici, non delinea a priori le scelte necessarie per risolvere i problemi dal punto di vista dell’interesse collettivo, ma è un insieme di scelte che si concertano (contrattano) con gli interessi economici. Stupisce nel ragionamento di Mottini il fatto che trascuri completamente di domandarsi quali siano gli “interessi economici” con i quali il pubblico dovrebbe “contrattare” il destino della città. Sembra ignorare che questi interessi non sono quelli legati al salario e al profitto, al lavoro e all’impresa, all’attività economica volta alla produzione di ricchezza da immettere sul mercato, ma semplicemente quelli, parassitari da ogni punto di vista, della rendita immobiliare. Il contrasto all’appropriazione privata della rendita immobiliare è invece al centro dell’intervento critico dell’altro assessore all’urbanistica, Raffaele Radicioni105. Dopo un’ampia illustrazione dei difetti costituzionali rilevati nella legislazione urbanistica e dei tentativi fallimentari dei parlamenti di sanarli compiutamente (dalle sentenze costituzionali del 1968 alla proposta governativa di riconoscere pienamente la rendita immobiliare a valori di mercato106), afferma che riconoscere, in caso d’esproprio o di vincolo, il valore di mercato dei suoli significherebbe optare «definitivamente a favore del potere di edificare congiunto inscindibilmente con il diritto di proprietà e per questa via [riconsegnare] alla proprietà privata, attraverso una leva economica irrefrenabile (il valore dei suoli), il potere e il diritto di decidere come, quanto, in che modo, trasformare la città». «Ma ciò che più preoccupa – prosegue l’assessore torinese – è constatare la distrazione con la quale negli ultimi anni questa vicenda viene seguita dalle forze riformatrici, fra cui determinante è il ruolo esercitato dal nostro partito». L’argomento «non 104 105 106 Ibidem. R. Radicioni, Anche per l’urbanista il ’68 è lontano, «l’Unità», 3 set. 1982. Proposta del ministro Franco Nicolazzi del mag. 1962. 118 verso il buio: tangentopoli e mani pulite è stato oggetto di agitazione, e scarsi sforzi sono stati compiuti per suscitare sia il confronto politico che l’approfondimento culturale, assolutamente necessari nel momento in cui leggi troppo sommarie o affrettate rivelano di non reggere al vaglio della Corte costituzionale». Per altro non passa occasione che nel nostro partito autorevoli e valenti compagni ci ricordino giustamente come ritardi e sconfitte, registrati dal movimento riformatore sui temi della casa, del governo della città sarebbero imputabili in ampia misura ad una frattura manifestatasi in alcuni periodi fra idee di riforme illuministe, patrimonio di intellettuali, ed esigenze, aspirazioni, di larghe masse popolari. Bene, io mi domando se dalla vicenda che ho richiamato si debba concludere che il tema del controllo sulla acquisizione della rendita (che penso costituisca uno degli strumenti principali del governo della città, se non il principale) sia da considerare ideologico o comunque fuori dalle possibilità di unità fra esigenze popolari per la casa, per la città, per l’equilibrio del territorio e gli orientamenti, le denunce, le esperienze di intellettuali ed amministratori107. C’è una sola strada per uscire dalla crisi della città, conclude Radicioni, «rilanciare nel Paese, fra le masse popolari, nei luoghi di cultura, negli enti locali e ovviamente in parlamento una convinta battaglia con al centro il nodo della acquisizione alla collettività della rendita, come strumento fondamentale per il governo delle città». Ma le orecchie del Pci erano aperte ad altre musiche. Lo comprendemmo molto presto. 3. Intanto, sull’abusivismo All’inizio del 1984 il parlamento inizia la discussione della conversione in legge di un decreto del governo che, nel dichiarato intento di raggranellare un po’ di entrate, condona a pagamento l’abusivismo edilizio. Si apre un lungo dibattito, in cui emerge con chiarezza che il Pci (la cui politica del territorio è guidata dal nuovo responsabile del “settore infrastrutture”, casa e trasporti, Lucio Libertini) è favorevole al condono, motivando il fenomeno del mancato rispetto delle regole urbanistiche con la loro rigidezza, astrattezza, incuranza delle esigenze della gente. Le vicende parlamentari sono attentamente seguite dall’Inu e dalla sua rivista. Gli organi dell’istituto esprimono sistematicamente le loro 107 Radicioni, Anche per l’urbanista il ’68 è lontano. 119 capitolo nono critiche. Un articolo di Luigi Scano su «Urbanistica informazioni»108 critica in particolare un emendamento, proposto da Franco Bassanini e altri deputati indipendenti di sinistra e pienamente appoggiato dal Pci, che prende pretesto dal condono per liberalizzare, rispetto alle previsioni dei piani urbanistici, i cambiamenti di destinazioni d’uso e allargare il campo del silenzio assenso. La tesi del gruppo dirigente dell’Inu era che, se le regole dell’azione pubblica non vanno bene, allora si cambiano con altre regole, non si cancellano. Lo ribadivo nell’editoriale del numero 75 di «Urbanistica informazioni»: Il problema non è quello della deregulation, ma è quello delle nuove regole da costruire. Il problema non è quello di smantellare gli strumenti attraverso i quali oggi si attua il governo pubblico delle trasformazioni urbane e territoriali, ma è quello di rinnovarli, di adeguarli alle nuove esigenze, ai nuovi problemi, alle nuove possibilità tecniche. Iniziai un carteggio (ero allora presidente nazionale dell’Inu) con Lucio Libertini e altri esponenti della direzione del Pci, che proseguì per qualche anno. La critica principale che gli urbanisti, pienamente rappresentati allora dall’Inu, facevano alla legge e all’atteggiamento del Pci era di avere completamente invertito il processo logico che si sarebbe dovuto seguire. Secondo noi si sarebbe prima dovuto rafforzare le norme capaci di arrestare l’abusivismo, poi provvedere a redigere piani urbanistici volti a recuperare gli insediamenti abusivi conferendo loro la necessaria dignità umana, e solo più tardi provvedere al condono delle diverse situazioni soggettive, senza però accrescere l’iniquità tra chi aveva costruito abusivamente e chi, pur avendo la stessa necessità, aveva rispettato la legge. La legge, secondo il percorso tollerato dal Pci, partiva invece dalla coda: ciò che interessava era il condono, per ragioni di cassa (il governo) o per ragioni di demagogia (Libertini). Lo scontro raggiunse livelli acuti, sia dentro sia fuori il Pci. Libertini scriveva che «si è manifestata nell’opinione pubblica, anche di sinistra, una reazione di rigetto verso la pianificazione urbanistica, identificata in forme perverse di oppressione burocratica»109; noi rivendicammo la necessità di fondare in Italia una «nuova cultura della pianificazione» e di affrontare con coerenza l’insieme delle questioni del governo del territorio. 108 L. Scano, L’emendamento Bassanini. Deregulation ovvero sregolatezza, «Urbanistica informazioni», 73-74 (1984). 109 L. Libertini, Nicolazzi non passerà, «Urbanistica informazioni», 75 (1984). 120 verso il buio: tangentopoli e mani pulite Le elezioni amministrative segnano un notevole arretramento del Pci. In una lettera al segretario generale del partito, Alessandro Natta, e ai capigruppo della Camera (Giorgio Napolitano) e del Senato (Gerardo Chiaromonte) quaranta urbanisti esprimono le loro critiche110: Dobbiamo dire innanzitutto che – come urbanisti – fin dalle prime battute dello scontro elettorale ci ha preoccupati la debolezza delle posizioni, e della propaganda, del Partito sui temi della qualità urbana e dell’ambiente. E i risultati hanno non solo confermato, ma accentuato le nostre preoccupazioni. Infatti, sebbene nella propaganda elettorale abbiano giocato un peso rilevante i temi della politica nazionale, ci sembra indubbio che un ruolo non marginale abbiano svolto i temi dell’assetto territoriale e urbano. E allora non si può non sottolineare che siamo stati sconfitti anche per i colpi (severi, nel giudizio dell’elettorato) di una determinata propaganda delle forze politiche avversarie e concorrenti: a destra, dove la Dc ha impostato la sua campagna elettorale, sia pure con toni da crociata, sul tema della inefficienza delle giunte rosse; e a sinistra, dove i Verdi hanno esplicitamente dichiarato che il voto per le loro liste sarebbe stato l’espressione di una critica all’insufficienza, all’ambiguità e ai ritardi dei partiti di sinistra (ma in primo luogo del Pci) sui temi dell’ambiente. Chiedevamo «una riflessione profonda, e un dibattito aperto e impietoso» poiché eravamo stati colpiti proprio «sul punto su cui avremmo potuto essere più forti: sui temi che ci hanno storicamente visto come protagonisti, e per i quali Regioni e Comuni amministrati da noi sono stati proposti e riconosciuti come modelli, all’Italia e all’estero». A nostro parere, avevamo perso perché non vi era stata un’adeguata direzione nazionale, o quanto meno un efficace coordinamento, del partito sulle questioni urbanistiche e territoriali. Di queste ci si è occupati a pezzi, a spezzoni, a settori, dimenticando, o ignorando, che ciò che è essenziale è una visione unitaria dei problemi del territorio, che un governo pubblico 110 La lettera fu firmata da Luigi Airaldi, Carlo Alberto Barbieri, Massimo Bilò, Piero Beccaria, Giuseppe Boatti, Felicia Bottino, Vittoria Calzolari Ghio, Giuseppe Campos Venuti, Massimo Carmassi, Pier Luigi Cervellati, Elena Camerlingo, Filippo Ciccone, Alessandro Dal Piaz, Maria Franca De Forgellinis, Sandro Del Fattore, Piero Della Seta, Vezio De Lucia, Giorgio De Rosa, Valeria Erba, Stefano Garano, Mario Ghio, Ugo Girardi, Tommaso Giuralongo, Francesco Malfatti, Laura Mancuso, Giorgio Morpurgo, Carlo Melograni, Roberto Matulli, Federico Oliva, Stefano Pompei, Giuseppe Pulli, Raffaele Radicioni, Anna Renzini, Amerigo Restucci, Ezio Righi, Edoardo Salzano, Stefano Stanghellini, Giancarlo Storto, Lino Tirelli, Alberto Todros. 121 capitolo nono delle trasformazioni urbane e territoriali ha il suo metodo e strumento irrinunciabile nella pianificazione urbanistica e territoriale, e che infine consolidare nel Paese una cultura e una prassi della pianificazione esige uno sforzo determinato, tenace, continuo, di lunga durata. Alla lettera non ricevemmo risposta da parte dei destinatari; ci rispose invece, su loro mandato, Libertini, dichiarando che il Pci voleva superare il “giacobinismo illuminista”, colpevole del distacco tra movimento riformatore e masse popolari. La risposta ai quaranta urbanisti era stata preceduta da una lettera dello stesso Libertini a tutti i segretari regionali e provinciali e alla Commissione casa e infrastrutture del Pci, in cui, difendendo il comportamento del partito sull’abusivismo, respingeva le critiche delle «associazioni che difendono l’ambiente e il territorio» attribuendole «ai legami intensi che tutte queste associazioni hanno con i partiti di governo».111 4. Il Pci alla testa del movimento degli abusivisti Un ulteriore picco del dissenso si ebbe quando, il 17 febbraio 1987, il Pci appoggiò platealmente una manifestazione di piccoli costruttori abusivi accompagnati da numerosi sindaci: 40.000 persone erano venute a Roma, in larghissima prevalenza dal Mezzogiorno, guidate da Paolo Monello, sindaco comunista del comune di Vittoria (Ragusa), per chiedere un’ampia estensione dell’abusivismo e l’abolizione della tassa per il condono. Case abusive, tasse esose. Rabbia e protesta dal Sud, era il titolo sparato in apertura della prima pagina dell’«Unità» su cinque colonne. Nelle pagine interne altri articoli commentavano la manifestazione e raccontavano del fruttuoso incontro dei sindaci leader del movimento con un’autorevole delegazione di senatori comunisti. Il giorno dopo continuano le cronache del movimento degli abusivisti, e un corsivo di Emanuele Macaluso giustifica gli abusi commessi: «Si vuole che chi doveva finalmente costruire una casa (…) avrebbe dovuto farlo con i bolli. E dove erano i bolli? E chi li metteva questi bolli? E in quali aree fabbricabili si sarebbe potuto costruire?»112. 111 112 Lettera del 24 giu. 1985, firmata Lucio Libertini (Archivio Edoardo Salzano). E. Macaluso, Dove stanno i veri eroi dello scempio edilizio, «l’Unità», 19 feb. 1986. 122 verso il buio: tangentopoli e mani pulite Naturalmente la polemica divampò. Su «Urbanistica informazioni» raccogliemmo gli articoli fortemente critici di Antonio Cederna («la Repubblica», 19 febbraio), Giovanni Russo e Cesare De Seta («Corriere della sera», 19 febbraio), Filippo Ciccone ed Enrico Testa («il manifesto», 20 febbraio), Fabrizio Giovenale («Paese sera», 22 febbraio), Vezio De Lucia («l’Unità», 23 febbraio), Giulio Di Donato («Avanti!», 6 marzo), Edoardo Salzano («Rinascita», 24 febbraio), Pierluigi Cervellati («La Nazione», 28 febbraio), Carlo Melograni («l’Unità», 6 marzo). Le posizioni del Pci erano difese da Emanuele Macaluso («l’Unità», 20 febbraio) e Lucio Libertini («la Repubblica», 21 febbraio), mentre Guido Alborghetti, parlamentare del Pci, aveva preso le distanze dal movimento degli abusivi pur tentando di mediare tra le opposte posizioni («Rinascita», 24 febbraio). Nei mesi successivi, ulteriori tentativi furono compiuti dagli urbanisti vicini all’Inu per convincere i dirigenti del Pci a mutare registro. La risposta del partito venne sempre da Libertini, e non cambiò di tono. Finalmente, il 22 ottobre 1988 diedi le dimissioni dalla Commissione casa, infrastrutture e trasporti. La mia battaglia proseguiva all’interno dell’Inu, dove le cose non andavano bene. La svolta era arrivata anche lì. 5. La legge Galasso Gli anni Ottanta hanno, nel loro complesso, un segno negativo. Sono gli anni nei quali è maturato, e ha cominciato a realizzarsi, il disastro nel quale viviamo. Ma in quel decennio ci sono state anche azioni di segno opposto; e il positivo non va mai dimenticato perché è a esso che bisogna riallacciarsi più tardi, quando si può riprendere il cammino. Nel mio ricordo, al positivo di quegli anni appartiene soprattutto il risultato di un’iniziativa legislativa di un vecchio amico di mio padre, Giuseppe Galasso113. Lo storico napoletano era diventato sottosegretario al Ministero dei beni culturali. Aveva avviato, con un decreto, poi giudicato illegittimo dal tribunale amministrativo, il procedimento parlamentare per la formazione di una legge per la tutela del paesaggio che superava decisamente la vecchia impostazione delle leggi di tutela del 1939. La legge fu approvata nel 1985. Gli elementi essenziali, particolarmente positivi, erano tre. 113 Vedi Salzano, Fondamenti di urbanistica, p. 220 e seg. 123 capitolo nono Erano riconosciuti come beni paesaggistici d’interesse nazionale, da tutelare ope legis, intere e ampie “categorie di beni”, che costituiscono la grande orditura del paesaggio italiano: i monti e le coste, i corsi d’acqua e i vulcani, i boschi e i ghiacciai. ecc. In tal modo si rispettava il criterio stabilito dalla Corte costituzionale, in relazione ai vincoli sul territorio. La Corte, infatti, con una sentenza del 1968, contemporanea a quella che aveva invalidato i vincoli urbanistici, aveva stabilito un principio molto importante114: in linea generale, non si possono vincolare con un atto amministrativo determinate proprietà senza che vi sia un indennizzo sicuro nel tempo e definito in relazione al valore del bene che viene riconosciuto al proprietario secondo la legislazione vigente; ma il legislatore può dichiarare che tutti i beni appartenenti a determinate “categorie a confine certo” possono, per ragioni d’interesse generale, essere soggetti a particolari limitazioni alla proprietà, senza che in questo caso sia necessario indennizzare il proprietario; la successiva individuazione sul territorio dei beni appartenenti a quelle categorie non è un atto discrezionale, ma semplicemente la traduzione di quel criterio a una specifica fattispecie. La seconda novità rilevante era costituita da una soluzione soddisfacente della questione della tutela: lo definimmo come il passaggio dal vincolo alla pianificazione. Fino ad allora la tutela si esercitava mediante l’apposizione di un vincolo su un determinato bene: un vincolo diretto, che cioè impediva di modificarlo, o un vincolo procedimentale, che sottoponeva ogni progetto di trasformazione di quel bene a una procedura di esame da parte delle soprintendenze. Da allora, secondo la legge e le successive interpretazioni della giurisprudenza, la tutela doveva manifestarsi attraverso un atto di pianificazione. Ciò significava che in ogni piano territoriale o urbanistico, a partire da quelli di livello regionale (e poi in quelli di livello provinciale o comunale) si dovevano individuare i beni appartenenti alle “categorie” definite dalla legislazione nazionale che erano individuabili a quella scala, attribuendo a ciascun bene non un vincolo generico, ma le regole da rispettare in ogni progetto di conservazione o trasformazione. In modo del tutto analogo a quanto avevamo elaborato per il nostro piano della città storica di Venezia. La legge consentiva infine (terzo elemento positivo di novità) di risolvere correttamente il rapporto tra pianificazione specialistica, cioè riferita a uno solo degli aspetti del territorio, e la pianificazione territoriale 114 Vedi capitolo 4, paragrafo 5. 124 verso il buio: tangentopoli e mani pulite e urbanistica, che dovrebbe regolarne tutti gli aspetti. Si trattava del superamento di un lascito della legislazione prebellica, nella quale non si era riusciti a comporre in un unico disegno la questione della tutela del paesaggio, obiettivo della legge Bottai del 1939115, e della pianificazione urbanistica, regolata dalla legge urbanistica del 1942116. La legge Galasso dava mandato alle Regioni, che oramai erano state costituite e avevano competenza propria in materia di legislazione urbanistica e competenza delegata dallo Stato in materia di beni culturali e paesaggio, di proseguire nella tutela avviata con l’individuazione per legge delle “categorie di beni”, adoperando a propria scelta due possibili strumenti: un piano esclusivamente dedicato alla tutela del paesaggio, oppure uno strumento, o una serie di strumenti a diverse scale, della pianificazione ordinaria cui attribuire contenuti e validità di tutela paesaggistica117. L’applicazione regionale della legge fu molto deludente. Dopo una prima strettissima serie di piani redatti in attuazione e conformità della legge (dall’Emilia Romagna e dalla Liguria), e alcuni altri piani per molti aspetti discutibili, l’attuazione della legge praticamente si fermò, né il Ministero dei beni culturali aveva le forze, o la volontà di ricorrere al potere sostitutivo previsto dalla legge. Seguivo, all’epoca, la formazione del piano paesistico dell’Emilia Romagna, gestito dall’assessore Felicia Bottino. In quella sede si fece una scelta secondo me molto feconda. Ragioni di tempo spingevano a redigere un piano limitato agli aspetti paesaggistici. Si formulò però la scelta di considerare il piano paesaggistico come la prima tappa di un percorso che sarebbe proseguito con il piano territoriale regionale. Questa scelta ci condusse a teorizzare una precisa scelta culturale: considerare l’individuazione delle qualità, naturali e storiche, del territorio e la definizione delle regole per la loro conservazione o ricostituzione come la fase preliminare e prioritaria d’ogni processo di pianificazione, sia nell’ambito dello stesso piano sia nella successione di piani. Era sostanzialmente lo stesso metodo che avevamo elaborato e sperimentato a Venezia, con Gigi Scano ed Edgarda Feletti, per la pianificazione della città storica. 115 Legge 29 giu. 1939, n. 1497, «Protezione delle bellezze naturali». 116 Legge 17 ago. 1942, n. 1150, «Legge urbanistica». 117 Legge 8 ago. 1985, n. 431, «Disposizioni urgenti per la tutela delle zone di particolare interesse ambientale». Sull’argomento vedi Salzano, Fondamenti di urbanistica, capitolo ix. 125 capitolo nono 6. L’Inu: la fase del consolidamento Nel 1984 ero stato eletto presidente nazionale dell’Inu. L’istituto era stato ricostituito e si era formato un gruppo dirigente abbastanza affiatato e coeso, ma percorso da tensioni. Ero stato eletto anche perché si pensava che fossi capace di mediare. Proseguimmo nello sforzo di consolidare l’Inu e ampliarne le basi. In realtà, la platea potenziale era molto larga. Lo sforzo fatto soprattutto da Astengo di far diventare l’urbanistica una disciplina importante per la società e le istituzioni aveva avuto negli anni Settanta il successo meritato. Erano ormai molti gli urbanisti che lavoravano nei Comuni, nelle Province, nelle neonate Regioni. Anche l’Inu e le sue riviste avevano svolto egregiamente il loro ruolo. Le nostre sezioni erano presenti dappertutto; ricordo i numerosi viaggi fatti con la bravissima segretaria Daniela Betti, per ricostituire sezioni scomparse e formarne di nuove. La nostra presenza critica nei confronti delle istituzioni era continua: a livello nazionale soprattutto nei confronti del parlamento e dei partiti, e a livello locale, mano a mano che le sezioni si consolidavano, con le istituzioni regionali e comunali. Se «Urbanistica», la rivista tradizionale dell’Inu, versava sempre in gravissime difficoltà economiche (che, nei momenti più difficili, richiesero l’impegno straordinario del nostro tesoriere Marco Romano), «Urbanistica informazioni», la testata che dirigevo, diventava sempre più diffusa e ricca. Dopo Vezio De Lucia, uno dei rifondatori dell’Inu, attivo segretario generale e diuturno collaboratore della rivista, la responsabilità di «Urbanistica informazioni» ricadde sempre più largamente sulle spalle di Filippo Ciccone. A rivedere oggi le annate della rivista, essa si rivela come un poderoso archivio di tutto ciò che, attinente al governo delle città e del territorio, accadde in quegli anni. 7. Complicità oggettive Ci eravamo accorti abbastanza presto del cambiamento del clima culturale, prima che politico. Franco Nicolazzi, ministro dei Lavori pubblici dal 1979 al 1987, era stato l’iniziatore e il costante tessitore della deregulation urbanistica; le forme più perverse del condono edilizio erano partite, come abbiamo visto, da sue iniziative. Ma noi addebitavamo una responsabilità non trascurabile anche ad alcuni vizi della cultura urbanistica. Scrissi un editoriale che provocò discussioni e polemiche. Sostenevo che se Nicolazzi aveva potuto trovare credito non era 126 verso il buio: tangentopoli e mani pulite dovuto solo alle “manovre dell’avversario” o al qualunquismo imperante ma derivava anche dall’esistenza di complicità oggettive «nel campo di quanti sono legati, professionalmente, culturalmente o politicamente, al tema della riforma urbanistica». Esistono, insomma, assenze, silenzi, cedimenti immotivati, fuorvianti fughe in avanti, comportamenti di riflusso nel professional-privato, di ripiegamento sul quotidiano, di perdita di rigore, che da tempo hanno frantumato, e quasi dissolto, il fronte di quanti potevano e potrebbero battersi, ciascuno con i propri specifici strumenti, per un avanzamento del processo di riforma urbanistica. Oggi, nel 1982, alcuni sorridono degli sforzi di sistemazione tecnico-disciplinare dell’Inu anni ’50, dei metodi “ingegneristici” di un Astengo o delle empiriche capacità di interpretazione e ridisegno di organismi urbani di un Piccinato, delle battaglie di un Detti per la salvaguardia delle colline fiorentine o di un Insolera per disvelare le malefatte dei reggitori della Roma di Cioccetti e Petrucci, delle aspre denunce di un Cederna e delle tenaci elaborazioni di un Ghio per dare verde alla città e servizi ai cittadini o di un Cervellati per restituire alla civiltà un centro storico. E altri, ugualmente, sorridono delle generose intemperanze e approssimazioni dell’Inu post sessantottesco, del tumultuoso ingresso del problema della casa nei contenuti della gestione urbanistica, della scoperta dell’insufficienza di una politica solo “quantitativa” per la fuoriuscita dalla crisi abitativa, del defatigante impegno nell’elaborazione e nella critica propositiva delle piattaforme legislative. Sono motivati quei sorrisi? Quanto meno, non sono sufficienti e proprio per ciò, stimolano a capir meglio118. Non mi arroccavo nella difesa del modo tradizionale di fare urbanistica. Proseguivo infatti affermando che il patrimonio di elaborazioni e iniziative dell’urbanistica italiana doveva essere assunto criticamente: «in ogni momento, come ogni analogo patrimonio ideale e politico, pretende d’essere superato». Superato, però, non liquidato. Da più d’un segno, ci sembra invece di sentir aria di liquidazione. È un caso se l’impegno degli urbanisti, di molti urbanisti, abbandona la ricerca e la sperimentazione delle regole e dei metodi generali per il controllo e il governo delle trasformazioni urbane e territoriali, ed 118 E. Salzano, Complicità oggettive, «Urbanistica informazioni», 60 (1981). Ppa: programma pluriennale di attuazione; peep: piano per l’edilizia economica e popolare; pip: piano per gli insediamenti produttivi. 127 capitolo nono enfatizza invece il momento del progetto, dell’intervento singolare, dell’opera unica e conclusa? se l’urbanistica tende a rientrare nel ventre di una delle sue matrici, l’Architettura? (…) È un caso se uno strumento decisivo per il governo del territorio, preconizzato e proposto dagli urbanisti old style dal 1959, tentato a Roma agli albori del centrosinistra e in Lombardia nella fase nascente del regionalismo (parliamo del ppa), viene lasciato cadere come un ingombrante ferrovecchio appena può cominciarne una generalizzata sperimentazione? se la stessa problematica dei peep e dei pip viene considerata obsoleta, o meramente strumentale rispetto alle nuove frontiere della grande progettazione post modernista? Come si vede, sono questioni che ancora oggi hanno validità. Segno del fatto che allora era cominciato un processo molto lungo, che si è aggravato negli anni e che oggi sta raggiungendo approdi nefasti. 8. Il tentativo del confronto aperto L’Inu si rafforzava, il suo credito nella società restava alto, ma le tensioni interne non si scioglievano. Maturai una convinzione. Avevamo lavorato fino ad allora nell’ipotesi che l’Inu formasse nel suo insieme un gruppo compatto di persone, legato da una forte comunanza d’interessi e di motivazioni. Questo forse era vero quando gli urbanisti erano pochi ed esprimevano un’omogeneità culturale e politica. Ma non era più così: l’Inu non era più un “partito”, era diventato un “parlamento”, un luogo nel quale molte posizioni convivevano. Lo sforzo che bisognava fare (e che mi accinsi a fare) era quello di far emergere i diversi punti di vista nella loro autenticità, in modo che fosse possibile confrontarsi sulla base di una sufficiente chiarezza. Proposi di organizzare la nostra prossima assise sociale nella forma di un congresso a tesi. Avremmo dovuto individuare una serie di temi in relazione ai quali far emergere le diverse posizioni. Tra i tre gruppi di temi che proposi, assunse un’importanza notevole quello del rapporto pubblico-privato. Nel documento che presentai lo enunciai così: Da un lato, si dovranno affrontare le questioni in qualche modo tradizionali, ma sempre rinnovate nel modo di porsi: a partire da quella del regime degli immobili (…), a quelle dell’urbanistica contrattata, degli interventi in concessione, dei canali finanziari ordinari e straordinari. Da un altro lato, c’è da affrontare un complesso di questioni che ruotano attorno 128 verso il buio: tangentopoli e mani pulite al rapporto tra etica, politica e cultura. Non si tratta di affrontare tanto né solo la pratica della lottizzazione partitica, ma di impegnarsi in una riflessione collettiva (e nell’affermazione di alcuni principi) relativa al più nobile e complessivo problema del rapporto tra momento politico-istituzionale e momento tecnicoculturale nella formazione degli atti della pianificazione119. Il consiglio direttivo (costituito da due rappresentanti per ogni sezione regionale più alcuni membri eletti direttamente dal congresso) concordò. Cominciò un lungo lavoro di seminari, spesso allargati ad altri membri dell’istituto. Alcuni proposero mediazioni, senza comprendere che il tentativo era invece mettere in luce le differenze, talché i soci potessero, in occasione dell’assemblea, scegliere tra posizioni chiaramente espresse. Ciò fu certamente un ostacolo al raggiungimento del mio obiettivo. Ma in una delle riunioni allargate del consiglio direttivo (si svolgeva a Venezia, nella sala della Fondazione Levi) emerse il punto reale del conflitto. Si discuteva una mia tesi in cui sostenevo che, mentre sul principio della titolarità pubblica della pianificazione territoriale e urbana tutti, in teoria, si dichiarano d’accordo, esso di fatto «è pesantemente contraddetto nella prassi corrente, a opera sia dei maggiori gruppi del potere economico, sia di parti e spezzoni dello stesso potere pubblico». Affermavo che si contraddice il principio della titolarità pubblica della pianificazione quando si delega, o si propone di delegare, ad aggregazioni di interessi economici privati la formulazione di scelte che incidono sull’organizzazione territoriale e urbana, riducendo il ruolo dell’ente pubblico elettivo alla mera copertura formale mediante atti di pianificazione redatti e adottati ex post di scelte compiute da altri poteri. Oltre alle affermazioni generali, la proposta di tesi enunciava casi concreti, che erano ormai a conoscenza di tutti: il caso di Firenze, «dove il piano per l’urbanizzazione della piana a nord ovest della città è stato redatto in funzione degli interessi delle società già proprietarie (Fiat) o divenute proprietarie (Fondiaria) delle aree coinvolte»; quello di Napoli, «dove grandi interessi economici raggruppati sotto la sigla del ‘Regno del possibile’ propongono al Comune di delegare a una società per azioni privata, appositamente costituita, la progettazione e la gestione del recupero di quasi 70.000 alloggi nel centro storico»; quello di Roma, 119 E. Salzano, Consiglio direttivo nazionale dell’Inu. Proposte per la formazione delle tesi per il xix congresso, 1989, dattiloscritto (Archivio Edoardo Salzano). 129 capitolo nono dove «l’Italstat, sulla base del possesso di una parte consistente delle aree su cui dovrebbe sorgere il nuovo Sistema direzionale orientale, si è proposta come capofila di un pool di imprese che vorrebbe pianificare, progettare e realizzare un sistema strategico per la trasformazione della città»; quello di Milano, «dove la subordinazione agli interessi dei proprietari di aree è divenuta, a partire dagli inizi degli anni ’80, prassi corrente, attraverso un intenso processo di sostituzione funzionale di cui si rinuncia programmaticamente a verificare gli effetti sul contesto urbano e metropolitano»; quelli, infine «in numerose altre città italiane, dove la prassi della cosiddetta ‘urbanistica contrattata’ nasconde la sostanziale abdicazione del potere pubblico elettivo di fronte a nuovi intrecci di interessi economici, dove sono presenti, insieme, il capitale privato, pubblico e cooperativo, interessi industriali, finanziari, assicurativi e fondiari, complessi multinazionali e aziende locali»120. Il consiglio direttivo, a larga maggioranza, respinse la mia tesi, sostenendo che su quegli argomenti bisognava studiare e approfondire. Meno di due anni dopo esplose lo scandalo di Tangentopoli: l’indagine dei giudici milanesi, Mani pulite, squadernò la perversione dell’intreccio tra poteri pubblici e poteri privati che era dietro lo scandalo e svelò i reali obiettivi dell’urbanistica contrattata. Tra i casi incriminati apparvero proprio quelli che il nostro gruppo, ormai diventato minoranza, voleva che l’Inu denunciasse. 9. La sconfitta: usciamo dall’Inu Nel 1990, si svolse a Milano il xix congresso dell’Inu. Proposi in quella occasione di attribuire a un valoroso urbanista, Giuseppe Campos Venuti, maestro di molti di noi, un riconoscimento, la carica di presidente onorario dell’istituto. La proposta fu accolta per acclamazione. Campos Venuti assunse anche la presidenza del congresso. Non riuscimmo a ottenere un confronto aperto sulle tesi. Una cronaca onesta del congresso, della successiva assemblea dei soci e dell’esito l’ha scritta Franco Girardi, per molti anni partecipe delle vicende dell’Inu come proboviro: La chiarezza che mancò al congresso, sui temi di fondo della dottrina urbanistica, e sugli indirizzi culturali e politici dell’Istituto, 120 [E. Salzano], Istituto nazionale di urbanistica, 19° Congresso. Proposta di tesi sul rapporto pubblico-privato, giu. 1990, dattiloscritto (Archivio Edoardo Salzano). 130 verso il buio: tangentopoli e mani pulite si ritrovò invece nell’assemblea, tenuta nelle ultime due giornate; ma, ahimè, su questioni di ben più basso tono. Liquidata già in sede congressuale la discussione sulle tesi, l’attenzione e il lavoro dell’assemblea furono consumati nella composizione del nuovo Cdn [Consiglio direttivo nazionale], che si sarebbe formato sulla base dei candidati proposti da quello uscente ed eletti dall’assemblea, in aggiunta a quelli designati dalle sezioni regionali. La questione elettorale diventava, purtroppo, quella centrale. (…) Questioni di schieramenti e di potere, come si è visto, non erano mancate prima di allora all’interno dell’Istituto. E avevano accompagnato, e inquinato, il dibattito sui temi e sui problemi culturali e politici. Ora, però, queste questioni si manifestavano in assenza, quasi assoluta, di temi di più alta consistenza, sui quali il congresso non era riuscito, o non aveva voluto esprimersi, contrariamente a quanto ci si poteva e doveva attendere. Si chiudeva, così, in tono minore, e forse si dovrebbe dire ambiguo, un lungo periodo della vicenda Inu, di oltre vent’anni, pieno di difficoltà interne ed esterne, ma comunque ricco di impegno alto, e di spunti critici, aperti su nuove e più avanzate prospettive. Il calo di tonalità, che in tal modo si veniva determinando, avrebbe condizionato pesantemente le vicende successive dell’Istituto121. Praticamente tutto il gruppo cui appartenevo fu spazzato via dal nuovo consiglio direttivo. Questo stentò a trovare un accordo sulla gestione dell’istituto e si trascinò da una crisi all’altra finché, nel 1992, Campos Venuti divenne anche presidente ordinario. Tra i primi atti, con un blitz che ancora mi turba, sciolse la redazione di «Urbanistica informazioni». Per conto mio, avevo rimesso il mandato accompagnandolo con una proposta, lungamente meditata, sull’assetto da dare alle attività di comunicazione dell’Inu. Né le mie dimissioni né le proposte furono messe in discussione e fui, semplicemente, licenziato. Con un lungo editoriale in «Urbanistica informazioni» esposi un bilancio dell’attività ventennale della rivista che avevo fondato e diretto ed espressi quelle che, a mio parere, erano le ragioni del mutamento di prospettive. Informavo i lettori che la rottura era stata precipitosa: Senza che gli organi dell’Inu potessero discutere il progetto editoriale e dargli corpo, il consiglio direttivo ha deciso, a maggioranza, di annullare «tutti gli incarichi di direzione e redazionali, centrali e regionali». Perché questo è avvenuto? Credo che la ragione sia, in qualche misura, legata alla stessa storia della 121 Girardi, Storia dell’Inu, p. 114-115. 131 capitolo nono rivista. Alla storia della rivista, e alla storia dell’Inu. Più precisamente, al fatto che nell’Inu ha prevalso una posizione culturale che, per semplicità, definirò “di destra”. Una posizione che non sopportava il fatto che su questa rivista ci si fosse sempre nettamente, recisamente schierati contro alcune cose, e a favore di altre. Contro l’urbanistica contrattata, contro il riconoscimento e il consolidamento dell’appartenenza privata dell’edificabilità, contro la decadenza degli istituti del potere pubblico e la sostituzione a essi di tecnostrutture private, piccole o grandi. E a favore di un regime degli immobili basato sul primato degli interessi collettivi, a favore d’una visione dell’urbanista come figura che esplica una funzione d’interesse pubblico, a favore d’una pianificazione che affermi la priorità della coerenza sulla flessibilità, del piano sul progetto, del duraturo sull’effimero122. Campos Venuti replicò al mio editoriale con una nota, che compare sullo stesso numero della rivista, nella quale acclamava i meriti della rivista e miei, ma respingeva con fermezza «l’accusa di aver fatto una scelta di destra nell’assumere la presidenza dell’Inu». Per la verità, la scelta non era del nuovo presidente, ma delle cose; l’Inu si limitava a seguire il mainstream, iniziando un nuovo percorso che lo avrebbe portato alla fine a trovare coincidenze con le proposte urbanistiche della compagine di Silvio Berlusconi. Passarono pochi anni, e l’Inu giunse al punto di esprimere una valutazione positiva sulla più nefanda delle proposte legislative per la riforma dell’urbanistica che l’Italia abbia conosciuto: la cosidetta “legge Lupi”, dal nome del suo presentatore, l’onorevole Maurizio Lupi di Forza Italia. Nell’editoriale n. 65 del mio sito123, del 12 febbraio 2005, in una lettera aperta ai soci dell’istituto denunciavo «l’atteggiamento sostanzialmente favorevole dell’Inu nei confronti dell’impostazione di fondo della legge per il governo del territorio, approdata il 7 febbraio all’aula di Montecitorio», atteggiamento che era stato «determinante nell’ostacolare la minoranza nella sua opposizione». E proseguivo: Così mi è stato testimoniato da autorevoli parlamentari dei Ds, ed era del resto evidente dalla lettura degli atti sia di fonte parlamentare che di fonte Inu. L’Istituto nazionale di urbanistica, di cui mi onoravo di essere stato presidente per dieci anni, si è macchiato in tal modo di una colpa a mio parere molto grave. Ha avallato una legge che cancella oltre 60 anni di faticosa 122 E. Salzano, Vent’anni di Urbanistica informazioni. Commiato, «Urbanistica informazioni», 125-126 (1992). 123 Di eddyburg, sito web che curo quotidianamente dal 2003, parlerò diffusamente oltre. 132 verso il buio: tangentopoli e mani pulite affermazione di un’urbanistica moderna ed europea, quindi basata sul ruolo delle amministrazioni pubbliche, sulla prevalenza degli interessi generali, e via via sulla stretta connessione tra pianificazione del territorio e tutela del paesaggio, sul riconoscimento dei diritti ai servizi e al verde di tutti i cittadini della Repubblica. Princìpi che l’Inu ha per decenni promosso, proponendo strumenti adeguati a renderli concreti e ottenendo consistenti successi. 10. L’associazione Polis Dopo l’estromissione del nostro gruppo dagli organi dirigenti dell’Inu cercammo un altro strumento per essere presenti nel dibattito sulla politica urbanistica. Decidemmo di fondare un’associazione culturale, che battezzammo Polis. La costituimmo formalmente124 nel marzo 1992. Segretario e factotum fu Gigi Scano, che promosse l’organizzazione di molte iniziative. Svolgemmo numerosi seminari interni, nei quali discutemmo e mettemmo a punto un disegno di legge urbanistica nazionale, molto ampio e completo, dovuto prevalentemente alla competenza di Gigi. Lo illustrammo, nell’ottobre dello stesso anno, in un convegno organizzato a Venezia, in collaborazione con la Fondazione EuroNordEst, costituita dal parlamentare europeo (e veneziano) Cesare De Piccoli; con la sezione “ambiente” della direzione del partito dei Democratici di sinistra; e con il gruppo parlamentare di sinistra di Strasburgo. La prima giornata fu dedicata a una riflessione sulla legge urbanistica del 1942, di cui celebravamo il sessantesimo anniversario; il centro della seconda fu sostanzialmente costituito dalla presentazione della proposta di legge di Polis125. Nel 1993, più o meno con gli stessi partner, organizzammo un convegno dal titolo «Alternative alla crisi urbana», articolato in due giornate dedicate l’una a otto città di cui si esaminava «lo stato delle cose e dei piani, gli interessi e le forze in campo, le tendenze, le proposte alternative»; 124 Membri fondatori furono Roberto Badas, Silvano Bassetti, Paolo Berdini, Felicia Bottino, Teresa Cannarozzo, Antonio Casellati, Antonio Cederna, Filippo Ciccone, Vezio De Lucia, Antonio Iannello, Edoardo Salzano, Luigi Scano, Walter Tocci, Mariarosa Vittadini. 125 Il convegno «1942-1992. Cinquant’anni dopo la legge urbanistica italiana» si svolse a Venezia nei giorni 8 e 9 ott. 1992. Nella prima giornata le relazioni furono svolte da Vezio De Lucia, Giulio Ernesti, Nicola Tranfaglia, Gianni Lanzinger, Giuseppe Campos Venuti, Maurizio Marcelloni, Marco Venturi; nella seconda da Edoardo Salzano, Fulvia Bandoli, Luigi Scano, Franco Bassanini, Chicco Testa, Roberto Barzanti. Era previsto l’intervento conclusivo di Achille Occhetto, che non potè raggiungerci e inviò un messaggio. 133 capitolo nono l’altra alle «tendenze ed esperienze delle politiche urbane in Germania, Francia e Spagna»126. Un altro convegno lo organizzammo a Follonica, nel febbraio 2000, dal titolo «Il clamore del silenzio. Il riconoscimento dell’identità del territorio nella pianificazione per lo sviluppo autocentrato e sostenibile». E un’altro ancora a Eboli, nell’ottobre dello stesso anno, dal titolo «Crisi della pianificazione o crisi dei pubblici poteri?», con una magistrale relazione di Gigi, «Il governo pubblico del territorio e la qualità sociale»127, che esprimeva il pensiero comune a molti di noi. Grazie a Polis e al lavoro di Gigi riuscimmo in molte occasioni a intervenire nei dibattiti sulla politica urbanistica, esponendo un punto di vista che era sempre più diverso dal coro, sia nel lavoro di critica e di proposta sulle leggi nazionali e regionali, sia nella formulazione di osservazioni agli strumenti urbanistici, sia infine nelle polemiche sulla stampa quotidiana. 11. La città sostenibile Prima ancora di costituire Polis, il nostro gruppo aveva organizzato (nel 1991) con la stessa Fondazione EuroNordEst un altro convegno. L’occasione era stata costituita dall’approvazione, da parte del parlamento europeo, del Libro verde per l’ambiente urbano, proposto dal commissario per l’ambiente della Commissione economica europea (la struttura che successivamente divenne l’Unione europea), all’epoca Carlo Ripa di Meana. Titolo del convegno fu «Ambiente urbano delle città d’Europa». Io vi svolsi la relazione introduttiva, dal titolo «La città sostenibile»128. 126 Il convegno si svolse nei giorni 29 e 30 ott. 1993. Le relazioni furono svolte da Luigi Scano (Venezia), Raffaele Radicioni (Torino), Mariarosa Vittadini (Milano), Lino Tirelli (Genova), Simone Siliani (Firenze), Walter Tocci (Roma), Alessandro Dal Piaz (Napoli); nella seconda giornata da Cesare De Piccoli, Marco Venturi, Maurizio Marcelloni, Thomas Kraemer Badioni, Guy Henry, Jesus Gago Davila. Si concluse con una tavola rotonda cui parteciparono, oltre a me, Vittorio Emiliani, Giuseppe Arnone, Fulvia Bandoli, Franco Bassanini, Sauro Turroni. 127 L. Scano, Relazione al convegno «Crisi della pianificazione o crisi dei pubblici poteri?», Eboli 14 ott. 2000, in eddyburg. 128 Il convegno si svolse nei giorni 4 e 5 ott. 1991, a Venezia, alla Scuola di San Giovanni evangelista. Oltre al saluto di De Piccoli e alla mia relazione, intervennero Luigi Scano (Mercato, pianificazione urbanistica e progetto politico), Franco Girardi, Gastone Ave, Fortunato Pagano, Felicia Bottino, Stefano Storchi, Donatella Venti, Claudio Malacrino, Roberto Gambino, Tommaso Giuralongo, Marta Cecchini, Filippo Ciccone, Silvano Bassetti, Luisa De Biasio Calimani, Francesco Indovina (Il consumo della qualità urbana), Giandomenico Romanelli, Gianni Beltrame (Una critica al Libro verde), Fabrizio Giovenale (Riflessioni ambientaliste), Andrea Ruffolo, Maria Rosa Vittadini (Muoversi in città), Guglielmo Zambrini (L’alta velocità e i problemi dell’ambiente), 134 verso il buio: tangentopoli e mani pulite Affermavo che la centralità del ruolo delle città (…) non è solo un retaggio della storia, su cui si possa vivere di rendita: è una scommessa per il futuro. Sconfiggere i rischi (e la realtà) del degrado ambientale, e con essi quelli del regresso economico sociale, non è una certezza. È una possibilità: anzi, una speranza. Il realizzarsi di questa speranza è legato alla possibilità di raggiungere, mediante gli strumenti di una pianificazione urbanistica rinnovata, livelli sufficienti di qualità urbana. Ma questo significa, con ogni evidenza, saper guardare al futuro: sapersi “contentare” di creare oggi le premesse per uno sviluppo i cui frutti si vedranno solo nel tempo. Significa insomma preferire la gallina domani all’uovo oggi. Significa tutelare le qualità esistenti, e quindi applicare una rigorosa politica di salvaguardia come primo passo (e prima garanzia) per una politica di sviluppo. Significa selezionare, scegliere: anteporre ciò che va nella direzione di quel determinato sviluppo che si è scelto, a ciò che può apparire più utile nell’immediato ma che è contraddittorio con l’obiettivo.129 Ma è davvero fondata quella speranza, mi domandavo: È capace la nostra società, nei ceti dirigenti che essa esprime e che comunque la rappresentano, di pensare e progettare in modo siffatto? Oppure è inevitabile, oppure è ormai un dato permanente cui tutti volenti o nolenti siamo condannati, l’attuale prassi del giorno per giorno, dell’affannosa rincorsa dell’emergenza (o addirittura della creazione di false emergenze)? E noi urbanisti, che così spesso protestiamo per le sordità, la mediocrità, l’affarismo della politica, in quanta misura esercitiamo la nostra responsabilità, siamo davvero all’altezza del nostro compito? Una volta gli urbanisti erano accusati – non senza ragioni – di voler essere dei demiurghi: di voler foggiare la società, attraverso i piani, secondo un loro modello. Credo che oggi la critica che dobbiamo farci sia di segno opposto: dobbiamo domandarci se davvero sappiamo riconoscere i limiti della nostra competenza. E dobbiamo poi domandarci se entro questi limiti sappiamo considerare non negoziabili le nostre certezze tecniche quando queste sono fondate. Se sappiamo resistere, forti del diritto del nostro mestiere, quando per ragioni non condivisibili, o non Franco De Grandis, Alessandro Dal Piaz, Teresa Cannarozzo, Piergiorgio Bellagamba, Roberto Badas, Vittorio Parola, Margherita Pia, Manlio Marchetta, Paola Somma, Giorgio De Rosa, Giorgio Morpurgo, Carlo Alberto Barbieri, Piero Salvagni, Luigi Colaianni, Vezio De Lucia, Walter Tocci, Fulvia Bandoli, Sandro Giulianelli, Carlo Ripa di Meana. 129 E. Salzano, La città sostenibile, in La città sostenibile, atti del convegno, a cura di E. Salzano, Roma, Edizioni delle Autonomie, 1992, p. 20. 135 accettabili, qualcuno ci induce a mettere un depuratore dov’è sbagliato, o a far correre una strada dove non serve, o a rivestire d’un retino tecnico una sanatoria che non va concessa. Concludevo con un’ultima domanda, che ancora oggi resta senza risposta: È davvero fatale che la democrazia coincida, senza residui, con la tutela esclusiva degli interessi immediati espressi dai gruppi sociali esistenti, oppure essa è capace di farsi carico anche degli interessi dei soggetti che non pesano ancora, né elettoralmente né socialmente, perché ancora non esistono? È capace insomma la democrazia, o può divenir capace, di farsi carico degli interessi delle generazioni che verranno? Dobbiamo sperarlo, ma soprattutto dobbiamo lavorare perché sia così. Il convegno ebbe una risonanza molto ampia. Sia perché era la prima volta che in Italia si rendeva pubblico il Libro verde europeo, sia per la presenza di moltissimi esponenti autorevoli dei mondi della cultura e della politica. Ma anche perché riuscimmo a pubblicarne tempestivamente gli atti. 136 Capitolo decimo Attese, tentativi, speranze, delusioni 1. Dodici parchi per il Veneto Nel 1987 divenni consigliere regionale del Veneto: ero il primo dei non eletti nelle elezioni del 1985, e subentrai a Gianni Pellicani che si era dimesso perché chiamato a Roma nella direzione nazionale del Pci. Il lavoro per la minoranza, in una regione a grande prevalenza democristiana, non era facile. Ci impegnavamo molto nel lavoro di commissione consiliare, e utilizzavamo le risorse cui potevamo attingere per organizzare iniziative che dessero respiro al mondo delle associazioni e della cultura che manifestava aspirazioni che condividevamo. Mi impegnai soprattutto in due iniziative: per l’istituzione di parchi regionali nel Veneto, e per contrastare la proposta di realizzare a Venezia l’Esposizione universale del 2000. Vi erano nel Veneto una dozzina di luoghi nei quali, per iniziativa di associazioni e gruppi ambientalisti, o per consolidate convinzioni, si riteneva opportuna quella particolare tutela costituita dall’istituzione di un parco naturale: un’area protetta sia da uno specifico piano, finalizzato all’individuazione delle regole necessarie per garantire la conservazione di quel determinato ecosistema, sia da una “gestione” delle attività necessarie per la custodia, la manutenzione naturalistica, la ricerca e la controllata fruizione di quei beni. Era in discussione una legge nazionale, ma nel frattempo molte Regioni, tra cui il Veneto, avevano approvato degli specifici provvedimenti legislativi. Individuammo dodici aree, in ciascuna delle quali promuovemmo la costituzione di un gruppo di lavoro, formato prevalentemente da 137 capitolo decimo ambientalisti e altri esperti locali130. Definimmo un’impostazione unitaria (nella cui formulazione mi aiutò molto Gigi Scano) e giungemmo alla redazione di dodici testi legislativi. Le proposte furono illustrate e discusse in un convegno: alle relazioni dei diversi gruppi di lavoro si affiancarono una serie di interventi sulle problematiche d’interesse nazionale131. In poche settimane riuscimmo a dare alle stampe gli atti completi del convegno132. Non ricordo quanto le elaborazioni di merito cui eravamo approdati abbiano poi influito sulle leggi che la maggioranza del consiglio regionale approvò, spesso col nostro voto favorevole. Certo è che l’istituzione di parchi regionali avvenne nel Veneto solo dopo quella nostra iniziativa. Dei dodici che avevamo proposto ne furono istituiti negli anni successivi solo cinque: Colli Euganei (1989), Monti Lessini (1990), Sile (1991), Dolomiti bellunesi (1993) e Delta del Po (1997). Per quest’ultimo noi avremmo voluto l’istituzione di un parco interregionale, che ci dava maggiori garanzie di serietà e che era del resto nei progetti nazionali. Ma si oppose alla nostra volontà (e a quella del Ministero dell’ambiente, in quegli anni guidato da Giorgio Ruffolo) la decisione della maggioranza democristiana del Veneto di favorire gli interessi dei cacciatori. I restanti nel nostro elenco sono ancor oggi l’obiettivo di vertenze dei movimenti ambientalisti e di comitati di cittadini. 2. La minaccia dell’Expo 2000 a Venezia Il potentissimo ministro dei governi Craxi e protagonista della politica veneziana, Gianni De Michelis, aveva lanciato con grande enfasi, in preparazione delle elezioni amministrative del 1985, la proposta di presentare la candidatura di Venezia per l’esposizione mondiale del 2000. Molti si opposero subito. Da tempo – sia nel Pci veneziano sia nel consiglio comunale – avevamo individuato nello sviluppo abnorme e sregolato del turismo una delle ragioni principali del degrado sociale e fisico di Venezia. Attirare a Venezia masse di visitatori ci sembrava assolutamente 130 Le aree sulle quali lavorammo erano: Colli Euganei, Sile, Laguna di Venezia e Chioggia, Valli di Caorle e Bibione, Dolomiti Bellunesi, Altopiano dei Sette Comuni, Monte Pasubio, Monte Baldo, Monti Lessini, Cansiglio, Piave, Delta del Po. 131 Tra queste ricordo le relazioni di Roberto Gambino, di Paolo Leon e di Alberto Lacava. 132 Dodici parchi nel Veneto per il 1987. Governo democratico e gestione efficiente del patrimonio ambientale, a cura del Comitato Regionale Veneto Pci, Venezia 1986. Il convegno si svolse a Venezia, nei giorni 26-27 set. 1986. 138 attese, tentativi, speranze, delusioni da evitare. Non fummo i soli: parti consistenti del mondo della cultura e della società veneziana compresero l’entità della minaccia. Molto pesanti furono peraltro gli interessi che De Michelis riuscì a mobilitare. Avviò una poderosa e ben oliata macchina di conquista del consenso. Costituì un consorzio per la promozione dell’Expo di cui facevano parte le maggiori firme dell’industria e della finanza133. Si assicurò l’appoggio di prestigiosi esponenti della cultura: ricordo tra gli altri Giuseppe De Rita, il creatore del Censis, e un nutrito gruppo di architetti veneziani, passati dal Pci al partito di De Michelis. In una prospettiva più ampia di cambiamento delle alleanze (dieci anni dopo la svolta del 1975 stava ricostituendo l’alleanza con la Dc), costruì una solida piattaforma d’intesa con i democristiani veneti, fingendo d’allargare l’impatto dell’Expo all’intera regione. Con procedure discutibili, la candidatura per l’Expo del 2000 approdò al Bureau international des expositions (Bie), che svolse l’istruttoria preliminare. Grandi e meno grandi architetti già progettavano alacremente visioni capaci di suggestionare il pubblico. Scriveva Roberto Bianchin sulla «Repubblica» del 12 febbraio 1989: Tra i progetti più discussi, quello del magnete che secondo gli architetti Renzo Piano, Ugo Camerino e Giampaolo Mar, dovrebbe essere il centro di attrazione dell’Expo, in grado di calamitare i milioni di persone che arriveranno a Venezia. Dovrebbe sorgere ai bordi della Laguna, vicino all’aeroporto di Tessera, intorno ad una collina artificiale e ad una finta laguna ottenuta allagando 700 ettari di campagna. Sarà capace di ospitare 70 mila persone. Calamitati a Tessera, i visitatori verranno poi portati in battello fino al grande complesso dell’Arsenale, oggi abbandonato, che verrà recuperato. Gli architetti Carlo Aymonino e Giorgio Lombardi hanno previsto per loro l’apertura di centri espositivi e di laboratori tecnologici. Per divertirsi e passare il tempo invece, si galleggerà sulle acque: gli architetti Emilio Ambasz e Antonio Foscari hanno ipotizzato l’installazione di alcune piattaforme galleggianti sulla Laguna, con sopra cinema, teatri, musei e ristoranti. Sembrava che i giochi fossero fatti. Mentre lavoravano i promotori dell’Expo, lavoravano però anche quanti erano convinti che la proposta 133 Del Consorzio Venezia Expo facevano parte, tra gli altri: Assicurazioni Generali, Banca cattolica del Veneto, Banca nazionale del lavoro, Cassa di risparmio di Venezia, Benetton, Bastogi, Ciga, Coca Cola, Consorzio Venezia Nuova, Eni, Fiat, Ferruzzi, Fidia, Fininvest, Ibm Italia, Intermetro, Luxottica, Montedison, Olivetti, Sip, Zanussi, Semenzato, gli editori Marsilio e Mondadori. 139 capitolo decimo sarebbe stata una rovina per Venezia. Qui riuscimmo a svolgere un ruolo rilevante utilizzando il consiglio regionale. Ottenemmo la costituzione di una commissione speciale e di un ampio e attrezzato gruppo di lavoro operativo, incaricati di approfondire l’argomento. Ci demmo molto da fare. Promuovemmo e raccogliemmo studi, opinioni, argomenti. Costituimmo un punto di riferimento per quanti, come noi, erano contrari alla proposta. Ricordo il ruolo molto attivo che svolsero Margherita Asso, rigorosa soprintendente ai beni culturali, Maria Teresa Rubin de Cervin, responsabile dell’ufficio Unesco di Venezia (costituito dopo l’alluvione del 1966), l’ex ambasciatore del Regno Unito a Roma sir Henry Ashley Clarke, da tempo cittadino veneziano e presidente del Venice in Peril Fund, e lo stesso Antonio Casellati, allora sindaco di Venezia. Ricordo il lavoro positivo e utile che svolse il docente di Ca’ Foscari Paolo Costa134 il quale, con Jan van der Borg, esperto di economia turistica, presentò uno studio in cui dimostrava per tabulas che la città poteva ospitare contemporaneamente non più di ventimila visitatori, quando le stime dell’Expo facevano prevedere un afflusso stimato tra i 15 e i 28 milioni di persone, concentrate in poche settimane. Il movimento anti Expo divampò in tutta la città e raggiunse l’opinione pubblica internazionale. Tra gli altri, s’impegnarono moltissimo l’autorevole ministro e “grande vecchio” della finanza italiana, il repubblicano Bruno Visentini, e il parlamentare europeo del Pci Cesare De Piccoli. Le iniziative fioccarono. Ne ricordo una avviata da 21 fotografi professionisti veneziani, mobilitati da Graziano Arici: scrissi per loro le didascalie per una grande mostra fotografica, con cui volevano divulgare nel mondo le ragioni della nostra opposizione. Si accumularono studi e analisi che consentirono di comprendere (e far comprendere) in che modo l’Expo avrebbe influito sui problemi di Venezia. Divenne chiarissimo che gli effetti sarebbero stati dirompenti: non solo sulle “pietre” della città, ma anche sul delicato equilibrio tra struttura fisica e struttura sociale, tra le preziose forme della città e la società che le abita. Questo equilibrio era già minacciato da un turismo di massa non governato, che modifica giorno per giorno 134 Paolo Costa divenne poi rettore di Ca’ Foscari e, alternandosi solidalmente con Massimo Cacciari, sindaco di Venezia. In questa veste contribuì invece all’affermazione di devastanti interventi a Venezia quali il MoSE, il progetto della metropolitana sublagunare, lo sviluppo del marketing commerciale sulla città, nonché, a Vicenza, dove è stato nominato commissario dal presidente del Consiglio Prodi e confermato da Berlusconi per vincere le resistenze alla costruzione della base militare Usa Dal Molin. 140 attese, tentativi, speranze, delusioni l’assetto sociale ed economico della città: influisce sul mercato immobiliare, sulla qualità del commercio, sui prezzi delle merci, sui servizi e sui modi di fruizione. Un poderoso aiuto alle nostre ragioni lo diede un evento cittadino: il concerto dei Pink Floyd. Nell’estate del 1989 il celebre gruppo organizzò a Venezia un grande concerto: da una gigantesca isola galleggiante, che “chiudeva” la meravigliosa scenografia del bacino di San Marco (Piazza San Marco, Palazzo ducale, la Zecca, Riva degli Schiavoni, Punta della Dogana, l’isola di San Giorgio), spararono le loro fragorose musiche. L’atteso concerto (si diceva che sarebbe stato l’ultimo del prestigioso gruppo) attirò a Venezia una folla sterminata: comunque inferiore a quella che avrebbe attirato l’Expo, secondo le stime ufficiali. L’effetto sulla città fu devastante. Il giorno dopo un cronista scriveva: «La Laguna ha vissuto dieci ore almeno nella più totale confusione, sommersa da un popolo troppo numeroso, da maledizioni nemmeno tanto velate, da vere e proprie proteste. La cronaca della giornata è un susseguirsi di immagini apocalittiche, che culminano nella implorazione delle prime ore del pomeriggio: “rinunciate, tornate indietro”». La colpa non è nel comportamento degli invasori: «Non fanno nulla di male, i temuti ‘barbari’ del rock, ma sono troppi per una città-cartolina che sembra soffocare sotto il loro peso». Sono troppi, la città non sopporta queste dimensioni di affollamento. I veneziani lo sanno. I commercianti, ad esempio, avevano proclamato la serrata. Non tutti hanno chiuso il negozio, una parte ha preferito tener aperto e fare affari. Ma, prosegue il cronista, «chi ha chiuso non lo ha fatto in silenzio. grazie giunta, si legge in un cartello; e più avanti: questo redentore ce lo ricorderemo, e ancora: una volta per queste cose cadevano le teste. Rabbia e intolleranza, insomma, che si capiscono solo se ci si immerge un attimo nella marea umana che naviga al rallentatore verso Palazzo ducale»135. Per settimane le diverse autorità cittadine si rimpallarono le responsabilità, per scoprire chi era il più colpevole tra coloro che non avevano impedito l’evento, rivelatosi drammatico. Per noi era solo una conferma. Come dissi nel mio intervento in consiglio regionale, non abbiamo avuto bisogno del “sabato nero” dei Pink Floyd per esprimere la nostra contrarietà all’Expo. Ricordo che furono alcuni di noi, alcuni comunisti, tra i primi a esprimersi pubblicamente contro la proposta dell’Expo a Venezia, non appena 135 R. Giallo, Venezia ‘occupata’ dal popolo rock, «l’Unità», 17 lug. 1989. 141 capitolo decimo questa venne clamorosamente lanciata da Gianni De Michelis, nell’intervista al «Gazzettino». L’argomento sintetico e di fondo che sollevammo allora era lo stesso che solleviamo adesso: una Esposizione universale non è compatibile con la struttura fisica e sociale della città storica di Venezia, né come essa è adesso, e neppure come noi vorremmo che fosse. Se mi è consentito citarmi, ricorderò che il mio primo commento alla proposta di De Michelis è stato il richiamo alla metafora dell’elefante nella cristalleria. I risultati delle ricerche svolte da allora, e la stessa sciagurata esperienza del sabato 15 luglio, confermano come questa metafora fosse allora, e sia oggi, del tutto calzante. Così, l’episodio avvilente del concerto dei Pink Floyd ha costituito per noi solo una pesante sottolineatura di ciò che già sapevamo, una conferma di qualcosa che già avevamo in più occasioni ribadito: Venezia corre il rischio di morire per eccesso, non per carenza, di flussi di visitatori e d’interessi136. Nel maggio 1990 gli eurodeputati veneziani Visentini e De Piccoli ottennero l’adesione della maggioranza del parlamento europeo a una mozione contraria all’Expo a Venezia. Nel frattempo a Roma si raccoglievano firme di senatori e deputati in calce a due mozioni nelle quali si chiedeva al governo (allora presieduto da Andreotti) di ritirare formalmente la candidatura dell’Italia all’Expo: sottoscrissero 168 senatori, tra opposizione e maggioranza, e 347 deputati, più della metà. Il governo non attese di essere messo in minoranza, e prima della discussione della mozione al Senato dichiarò che avrebbe ritirato la candidatura di Venezia. Ciò che avvenne. «L’Unità» mi chiese di dettare l’editoriale in cui si commentava la notizia. Lo conclusi così: Ciò che si è finalmente compreso è che realizzare una Expo nell’area di gravitazione di Venezia avrebbe comportato una poderosa accelerazione dei nefasti processi già in atto. Questa accelerazione è stata scongiurata. Adesso, dopo aver perso cinque anni a contrastare una proposta sbagliata, si può ricominciare a lavorare per risolvere i problemi, ma nella direzione opposta: per governare il turismo, anziché per esaltarlo, per difendere le attività ordinarie della città, per costruire le ragioni, e le occasioni, di uno sviluppo economico e sociale non effimero137. Nonostante la potenza degli avversari e la spregiudicatezza della 136 137 Intervento al consiglio regionale, dattiloscritto (Archivio Edoardo Salzano). E. Salzano, Scongiurato il disastro, «l’Unità», 13 giu. 1990, editoriale. 142 attese, tentativi, speranze, delusioni loro azione, in quegli anni anche dall’opposizione si riusciva a vincere buone battaglie. Naturalmente, pagando qualche prezzo. Gianni De Michelis era passato dal Ministero delle partecipazioni statali (che gli era stato utile per formare un fronte di promotori dell’Expo) a quello degli Affari esteri. L’ufficio veneziano dell’Unesco fu chiuso e Maria Teresa Rubin de Cervin punita per l’aiuto, sia pure discretissimo, che aveva dato agli oppositori dell’Expo. 3. Il MoSE Ciò che ci era riuscito con l’Expo non ci riuscì con il MoSE (Modulo sperimentale elettromeccanico), il sistema per la difesa di Venezia dalle alte maree. Se avevamo potuto sconfiggere i poteri forti che, mobilitati da Gianni De Michelis, avevano promosso quella manifestazione, non riuscimmo a fare lo stesso quando arrivò in Laguna il possente Consorzio Venezia Nuova, incaricato dal ministro socialdemocratico Franco Nicolazzi, con una serie di atti dal 1981 al 1984 di provvedere quale “concessionario unico”, e per conto dello Stato, agli studi, alle ricerche, alle sperimentazioni, alla progettazione degli interventi, alla realizzazione delle opere riguardanti il riequilibrio idrogeologico della Laguna di Venezia, all’arresto e all’inversione dei processi di degrado del bacino lagunare, alla difesa degli insediamenti urbani lagunari dalle “acque alte” eccezionali. Eravamo contrari a quella concessione (parlo in particolare del Pci e del Pri, ma in quegli anni le critiche erano condivise dalla grande maggioranza del consiglio comunale), per molte ragioni. Due erano quelle principali. In primo luogo – e questo fu il punto che fin dall’inizio contrastammo – l’inammissibile sottrazione di poteri alle istituzioni democratiche: ogni scelta di merito, relativamente all’assetto fisico della Laguna, veniva affidato dallo Stato a un consorzio di imprese private. In secondo luogo – e questo tema divenne via via più chiaro nel tempo – la scelta di privilegiare, tra tutti gli interventi necessari per il riequilibrio idrogeologico del bacino lagunare, le opere hard del progetto MoSE. Raccontare in poche righe questioni così complesse e singolari è impresa impossibile. Mi limiterò a indicare alcuni elementi del problema138. 138 La questione è ampiamente trattata in eddyburg, cartella «Venezia e la Laguna»; ma vedi anche E. Salzano, La Laguna di Venezia e gli interventi proposti, «Areavasta», 6 (2003). 143 capitolo decimo Nonostante ciò che pensano molti una laguna non è assimilabile a un qualsiasi altro specchio d’acqua. È invece un ecosistema particolarmente complesso, dalle caratteristiche morfologiche, vegetazionali e faunistiche del tutto singolari, in equilibrio instabile, sollecitato da due forze alternative: i fiumi, che vi portano le acque dolci e i detriti solidi, e il mare che, con la forza delle maree, irrompe con l’acqua salata e asporta la terra. Se vincono i fiumi la laguna si trasforma in una palude e poi in terraferma, se vince il mare diventa una baia. La Laguna di Venezia è l’unica rimasta tale per oltre un millennio, grazie all’opera accorta della Repubblica Serenissima. Avevamo imparato molto, soprattutto approfondendo gli studi del piano comprensoriale139. La Laguna di Venezia poteva essere salvata solo se si ripristinava l’equilibrio idraulico, morfologico ed ecologico compromesso dagli interventi otto-novecenteschi (l’approfondimento dei canali che immettono l’acqua di mare, il restringimento del bacino acqueo mediante l’interramento di sue vaste porzioni e l’arginatura di altre parti utilizzate per l’itticultura, l’emungimento dell’acqua dalla falda sotterranea). Occorreva provvedere con un insieme di opere ispirate alla regola aurea della Repubblica Serenissima, per cui ogni intervento in Laguna doveva essere caratterizzato da tre requisiti: gradualità, sperimentalità, reversibilità. Ben altra cosa era (e malauguratamente è) il progetto MoSE. Consiste infatti sostanzialmente in tre grandi strutture sommerse di calcestruzzo armato, dell’altezza corrispondente a un edificio di nove piani, collocate ai varchi tra la Laguna e l’Adriatico, nelle quali sono incernierati 78 giganteschi portelloni d’acciaio, altri tra venti e trenta metri, lunghi circa venti, spessi tra 3,5 e 4,5 metri, che dovrebbero sollevarsi contrastando le onde marine quando l’altezza della marea superasse un limite stabilito. L’affidamento di poteri estesissimi a un consorzio di imprese, prevalentemente del settore delle costruzioni, e la concentrazione di tutti gli sforzi non sull’impegno difficile del riequilibrio idraulico, morfologico ed ecologico, ma nelle grandi opere cementizie e acciaiose (per di più in contrasto con i tre requisiti citati, e in particolare con quello della reversibilità): furono queste le maggiori ragioni di critica. Ma contro il MoSE non si riuscì a costruire un insieme di alleanze (a Venezia, in Italia, nel mondo) analogo a quello che ci consentì di sconfiggere l’Expo. Così il progetto MoSE è ancora oggi materia di un conflitto nel quale l’opposizione al progetto è rappresentata quasi esclusivamente 139 Vedi capitolo 7, paragrafo 8. 144 attese, tentativi, speranze, delusioni dal mondo ambientalista (in prima linea, da decenni, la sezione veneziana di Italia Nostra). Intanto, sempre più forte è diventato (grazie ai cospicui finanziamenti statali) il potere del Consorzio Venezia Nuova, sempre più chiara l’inefficacia del MoSE rispetto agli stessi fini dichiarati, sempre più devastanti gli interventi realizzati. 4. Rendiamo vivibili le città imparando dai campi A volte il sindaco, il socialista Mario Rigo, mi chiedeva di sostituirlo in qualche occasione “culturale” che aveva a che fare col mio mestiere di urbanista. Portai il saluto della città a un convegno organizzato a Venezia da un’associazione statunitense, l’International Making Cities Livable Conferences, creata e gestita da una coppia di cui divenni amico. Henry Lennard, di origine mitteleuropea, era uno psichiatra che si era innamorato dei problemi della condizione urbana; Suzanne Crawford Lennard, la moglie, era un architetto inglese. Vivevano da tempo negli Stati uniti e organizzavano due volte all’anno degli incontri ai quali invitavano esperti che, a vario titolo, si occupavano di problemi urbani: architetti e planners, amministratori, filosofi, giornalisti, medici. In genere, una delle conferences era negli Stati Uniti (e vi assisteva qualche centinaio di persone), e una, a partecipazione più ridotta, in Europa, prevalentemente a Venezia, città che i Lennard amavano moltissimo. Non mi limitai a una presenza formale e a un saluto ufficiale. Optai invece per una chiacchierata sui problemi della città, che li interessò molto. A mia volta partecipai per tutta la giornata alle loro discussioni. Da allora mi invitarono sempre – e spesso partecipai – ai loro incontri. Divenni membro del board, l’organo direttivo (meramente onorario, visto che decidevano tutto da soli). Il loro lavoro consisteva nell’organizzazione delle conferences, e nella pubblicazione di qualche interessante libro, collegato ai temi affrontati negli incontri. Fu grazie a loro che in quegli anni, benché assorbito dai ruoli che ricoprivo, continuai a occuparmi degli spazi pubblici. Questi, e l’attenzione ai gruppi sociali più deboli, costituivano il centro del loro interesse. La loro attenzione alla città era fortemente declinata sul versante sociale. Utilizzavano molto la fotografia per commentare e illustrare i temi delle loro relazioni ma si indignavano (soprattutto Henry) se qualcuno presentava immagini in cui si vedevano solo architetture senza persone. Erano entusiasti di quella vera e propria meraviglia che sono i campi veneziani. A Venezia tornavano spesso, ogni volta che avevano l’occa- 145 capitolo decimo sione di venire in Europa. Henry sosteneva che trascorrere una giornata in campo Santa Margherita equivaleva alla frequentazione di un intero corso di urbanistica. E devo dire che ho imparato sugli spazi pubblici veneziani più da loro (dalle osservazioni di Henry e dalle splendide lezioni di Suzanne) che da tutta l’urbanistica studiata e praticata. Ricordavo il loro insegnamento quando, qualche anno dopo la morte di Henry140, inviai al Word Social Forum di Nairobi una relazione141 su La città come bene comune, nella quale decantavo i campi veneziani. Raccontavo che «ho la fortuna di abitare in una città in cui gli spazi pubblici si sono conservati intatti come secoli fa; si sono conservati nelle forme, nelle architetture, e si sono conservati nel rapporto che lega spazi e persone». Mettevo in evidenza gli aspetti che mi sembravano più significativi: la varietà e l’armonia delle diverse dimensioni e forme degli edifici che racchiudono l’articolato spazio aperto; la dimensione degli spazi, appropriata alla scala dell’uomo e alle opportunità di incontri tra diversi gruppi di persone; l’integrazione tra funzioni private (le abitazioni che affacciano sul campo) e funzioni comuni (la chiesa, il palazzo con la scuola o l’ufficio, la bottega e il laboratorio artigiano); l’assenza di barriere nei rapporti tra le persone (a Venezia non ci sono auto, gli spostamenti pedonali favoriscono i contatti e le relazioni); la presenza costante di piccole utilità, come l’acqua che sgorga dalle numerosissime fontanelle e le “pietre” presso cui sostare o riposarsi (gradini, muretti, balaustre, sedili, vere da pozzo); l’apertura, lungo i bordi dei campi, di numerosi piccoli passaggi coperti (i sottoporteghi) attraverso i quali le persone attraversano il campo, creando libere e innumerevoli direttrici, non percorrendo vie obbligate e trafficate. E sottolineavo soprattutto l’animazione sociale dei campi, costituita dalla compresenza di persone appartenenti a ceti, mestieri, età, condizioni personali diversi. Osservare la vita in un campo veneziano, diceva Henry, significa comprendere come nello spazio pubblico si rifletta e viva la società nelle sue diversità e nei suoi incontri: il bambino con l’adulto, il ricco col povero, il residente con lo straniero; come si possa stare con gli altri e contemporaneamente isolarsi leggendo un libro o nutrendo il neonato, come si possa osservare ed essere osservati. Per quanto il concetto di spazio pubblico si sia molto ampliato nelle mie successive ricerche 140 Henry Lennard morì a Venezia il 23 giu. 2005, durante una conference. Volle che le sue ceneri fossero disperse nella Laguna. 141 La mia relazione fu presentata al convegno, organizzato a Nairobi il 22 gen. 2007 dall’associazione Zone onlus, sul tema «La città come bene comune. Quale futuro per i quartieri informali?». 146 attese, tentativi, speranze, delusioni ed esperienze, credo che il campo veneziano ne esprima le qualità e i principi: appartenenza pubblica, permeabilità tra spazio privato e spazio comune, libertà di accesso e di soggiorno, apertura al rapporto di conoscenza e collaborazione con gli altri, simili o diversi che siano, sintesi di utilità e piacevolezza. 5. Ritorno all’università Il lungo periodo in consiglio comunale, poi in quello regionale, mi avevano costretto a essere poco presente all’università; il corso che i miei colleghi mi assegnavano teneva conto della priorità del mio lavoro politico142. Giunti a termine nel 1990 i mandati elettivi, i colleghi mi chiesero di impegnarmi in modo più intenso, anche assumendomi responsabilità di gestione direttiva. Ero docente nel corso di laurea in pianificazione urbanistica, attivato nel 1971 nell’ambito dell’Istituto universitario di architettura di Venezia (Iuav)143. I colleghi mi proposero il ruolo di presidente del corso di laurea. Accettai. Si trattava di un lavoro di gestione più che di carattere scientifico. Oltre alla routine amministrativa bisognava coordinare i numerosi docenti alla cui assemblea spettava decidere su tutto ciò che riguardava la didattica. A volte la tensione era alta tra le diverse componenti culturali. Si erano costituiti due raggruppamenti, l’uno più orientato verso la progettazione dei piani di livello urbano e territoriale, l’altro verso le politiche urbane e territoriali. Facevano capo a due dipartimenti, quello di urbanistica e quello di analisi economica e sociale del territorio (Daest). Benché formalmente io appartenessi al “settore scientifico disciplinare” della progettazione, ero considerato capace di mediare tra le due posizioni. In realtà, se parte della mia attività era stata fino ad allora 142 Da quando, con la Repubblica post fascista e post liberale, l’elettorato passivo venne aperto a tutti i cittadini e non riservato ai ricchi possidenti, la legislazione consentì a chi lavorava di mantenere il posto di lavoro e i relativi diritti economici, pur assentandosi per svolgere prioritariamente gli impegni di eletto. Era la traduzione in termini contemporanei della regola dell’Atene ai tempi di Pericle, quando «si decise di retribuire con soldi pubblici l’equivalente di una giornata lavorativa a coloro che si recavano in città per sedere in assemblea o nelle giurie popolari», N. Urbinati, Lo scettro senza il Re. Partecipazione e rappresentanza nelle democrazie moderne, Roma, Donzelli, 2009, p. 7. 143 Lo Iuav era un ateneo costituito, a differenza degli altri atenei italiani, da una sola facoltà, quella di architettura. Nell’ambito dello Iuav era stato istituito un corso di laurea in urbanistica (poi pianificazione urbanistica e territoriale, poi pianificazione territoriale, urbanistica e ambientale). Nel 2001 lo Iuav si articolò in più facoltà: architettura, pianificazione, conservazione, design. 147 capitolo decimo di tipo professionale, una parte abbastanza consistente era sulla riflessione teorica e sulla pratica politica. La mediazione non fu facile, sia per le caratteristiche e i caratteri delle persone (che incidono molto fortemente nella comunità accademica, forse più che altrove), sia per il forte squilibrio tra la sostanziale compattezza dei docenti afferenti al Daest e la fragilità dell’altro dipartimento. Il primo aveva una sua forte individualità e una storia ricca di produzione scientifica collegiale di buon livello, mentre nel dipartimento di urbanistica, cui facevano capo anche docenti del corso di laurea in architettura, la figura prevalente era quella del professionista. 6. La riforma del tre+due La discussione della riforma denominata nel linguaggio corrente (malauguratamente) tre+due mi impegnò molto. Facemmo numerosissime e utili riunioni collegiali, sia a Venezia, sia in altre sedi (a Genova, in Calabria, a Roma) tra docenti di tutte le facoltà di architettura. Prima ancora che la riforma fosse formalizzata, discutemmo sulla base di un documento che ci parve molto interessante e il cui spirito sostanzialmente condividevamo, redatto da una commissione coordinata dal sociologo Guido Martinotti. Della sua proposta mi piacevano molte cose. La concezione dell’apprendimento come attività che prosegue tutta la vita, alternandosi con fasi di lavoro (il long life learning); l’introduzione dei “crediti formativi” misurati sull’impegno complessivo degli studenti, anziché limitato al solo tempo delle lezioni; la calibratura della durata degli studi sulla capacità di apprendimento degli studenti, e non su un tempo misurato sugli impegni didattici dei docenti. E ancora: la possibilità per gli studenti di passare facilmente da una università all’altra in relazione ai programmi di studio; la formazione di strutture per l’orientamento degli studenti in tutto il ciclo formativo; il monitoraggio dell’efficacia della didattica; la disponibilità di un numero adeguato di tutores. In realtà ci rendevamo conto che organizzare secondo i nuovi princìpi l’università italiana significava introdurre molte novità: cambiare le modalità di lavoro dei docenti, dare agli studenti la possibilità di lavorare comodamente all’università e di abitare nelle sue vicinanze, reclutare un numero maggiore di personale didattico, formare coordinamenti efficaci tra le diverse unità didattiche (tra le università e tra le varie componenti di una stessa università), rendere trasparenti i risultati della didattica. In un documento discusso nel nostro ateneo scrivevo: 148 attese, tentativi, speranze, delusioni Il quadro delineato dal documento [di Martinotti] è così distante dall’attuale assetto (puntualmente, sinteticamente e impietosamente descritto nel documento stesso) che è lecito dubitare sull’effettiva applicazione dei proposti indirizzi da parte della generalità degli atenei italiani. Ciò non dipende solo dalla distanza tra modello proposto e realtà attuale, ma anche dal fatto che il documento si occupa solo dell’ordinamento didattico e non affronta i temi al primo strettamente connessi, quali quelli del finanziamento statale ai servizi per gli studenti, dello stato giuridico della docenza, della struttura complessiva dell’università, della programmazione degli accessi144. Ma parlamento e governo non provvidero a fornire gli strumenti normativi e finanziari necessari per affrontare l’insieme dei problemi che la riforma poneva. Fu invece attuato un’altro aspetto della riforma che a me, al momento, era sfuggita. Il nuovo ordinamento universitario (come fu realizzato, ma forse già come venne concepito) spingeva verso una “aziendalizzazione” della formazione universitaria, operata su due piani. Da una parte, si voleva organizzare l’università secondo un modello aziendale, preoccupato soprattutto di massimizzare i risultati quantitativi (la stessa scelta delle parole usate nei documenti della riforma tradiva questa impostazione). Dall’altra parte, si voleva spingere su una università fortemente modellata sulle esigenze della domanda di operatori avanzata dalle aziende. Su entrambi i piani si tendeva insomma a tagliare l’essenziale missione dell’università: sviluppare la capacità critica, creativa, inventiva degli studenti (cioè delle fasce più acculturate della popolazione, i futuri membri delle sue classi dirigenti), renderli capaci di guardare oltre il presente, oltre i modi in cui sono oggi organizzati l’economia, il territorio, i rapporti tra gli uomini, i saperi. 7. Le parole Per parte nostra, cercammo di applicare al meglio le nuove regole. Programmammo la didattica secondo i due cicli: un ciclo triennale, finalizzato a fornire le conoscenze ed esperienze necessarie per collaborare alla formazione di atti di pianificazione e, contemporaneamente, 144 E. Salzano, Valutazione sul Rapporto conclusivo del gruppo di lavoro del Murst coordinato da G. Martinotti, dattiloscritto, 12 mar. 1998, Iuav, Corso di laurea in pianificazione territoriale, urbanistica e ambientale (Archivio Edoardo Salzano). 149 capitolo decimo a porre le basi teoriche per un successivo apprendimento; un secondo ciclo, finalizzato a completare l’apprendimento con quelle capacità e conoscenze necessarie a svolgere, in piena autonomia, uno dei mestieri dell’urbanista. Sollecitavamo gli studenti a svolgere una concreta esperienza di lavoro (un tirocinio) tra il primo e il secondo ciclo, e costruimmo una rete di contatti con una serie di uffici, soprattutto pubblici, (Comuni, Province, Regioni e altri analoghi organismi) disposti a ospitare i nostri studenti per attività utili all’apprendimento. Modificai anche il mio apporto alla didattica. Prima svolgevo un corso di «Fondamenti di urbanistica» che occupava una intera annualità. Nel nuovo ordinamento introducemmo un corso, di durata più limitata, che chiamammo «Glossario». Si trattava di trasmettere agli studenti, in modo semplice ma rigoroso, il significato di parole che avrebbero subito cominciato ad adoperare negli altri corsi e laboratori del triennio, e che avrebbero sviluppato nel ciclo successivo. Davo molta importanza alle parole, al loro carattere spesso ambiguo, alla pluralità di significati ad esse attribuita, alla loro origine ed evoluzione, al loro impiego corrente nel nostro campo, agli strumenti cui servivano o si riferivano. Il contributo che chiedevo agli studenti era la costruzione, da parte di ciascuno, di un glossario, nel quale inserire i vocaboli nuovi incontrati nelle frequentazioni universitarie e nelle letture. Di alcune parole chiave li stimolavo a cogliere le differenze tra le varie accezioni e interpretazioni adoperate, per esempio, dai loro docenti. Suggerivo a chi conosceva bene una lingua straniera di cercare e di annotare le corrispondenze con le espressioni italiane. Mi sarebbe piaciuto che adottassero il loro glossario come uno strumento permanente di lavoro, un attrezzo da usare nel tempo. Anche per questo li invitavo a costruire il glossario con strumenti semplici e facilmente aggiornabili: per esempio una tabella word o un database excell, anziché un elegante ma poco funzionale power point. Già, perché nel frattempo svolgevo anche un piccolo corso per aiutarli ad adoperare gli strumenti digitali più semplici. La mia esperienza universitaria a Venezia si concluse con la trasformazione del corso di laurea in facoltà: costituimmo la prima, e finora unica, facoltà di pianificazione del territorio italiana. Un anno dopo la sua formazione, raggiunsi i limiti d’età e andai en repos, come dicono i francesi; in pensione, come si dice da noi. 150 attese, tentativi, speranze, delusioni 8. Il Pci nella bufera Come tutti i simboli che cambiano la Storia, anche la caduta del Muro di Berlino, il 9 novembre 1989, fu un episodio che riassunse il passaggio da un’epoca a un’altra: un passaggio che era già cominciato, e che proseguì negli anni successivi. Nel 1917 era iniziata una vicenda che voleva tracciare un percorso nuovo all’umanità: costruire un sistema economico sociale che superasse definitivamente quello capitalistico-borghese. Contraddicendo le ipotesi che derivavano dall’analisi marxiana, quel processo non iniziò nel punto più alto dello sviluppo, ma nel più basso: la catena si spezzò là dove era più debole. Ciò non poteva non determinare le forme del nuovo assetto e segnare limiti invalicabili al suo stesso sviluppo. Dopo la prima affermazione di uno Stato non più a egemonia borghese, il percorso avrebbe dovuto proseguire in altre regioni, incrociarsi con altre culture e altre storie, mirando a superare non solo il capitalismo borghese, ma anche quello dello “stato proletario”. Ciò non era accaduto: il cammino della rivoluzione (cioè della trasformazione radicale dell’assetto economico sociale) si era arrestato ai confini segnati da quella “cortina di ferro” entro la quale essa era stata racchiusa. Enrico Berlinguer espresse pubblicamente questo concetto quando, nel 1981, commentando alla televisione il brusco cambiamento di regime avvenuto in Polonia, disse che la capacità propulsiva di rinnovamento delle società, o almeno di alcune società, che si sono create nell’est europeo, è venuta esaurendosi. Parlo di una spinta propulsiva che si è manifestata per lunghi periodi, che ha la sua data d’inizio nella rivoluzione socialista d’ottobre, il più grande evento. Oggi siamo giunti a un punto in cui quella fase si chiude, e per ottenere che anche il socialismo che si è realizzato nei paesi dell’est possa conoscere una nuova era di rinnovamento e di sviluppo democratico, sono necessarie due cose fondamentali: prima di tutto è necessario che prosegua il processo della distensione (…); inoltre, è necessario che avanzi un nuovo socialismo nell’ovest dell’Europa, nell’Europa occidentale, il quale sia inscindibilmente legato e fondato sui valori e sui principi di libertà e di democrazia145. Prima della caduta del Muro, era iniziato nel Pci un ampio dibattito sulla necessità di cambiamento. Era divenuto segretario generale Achille 145 La spinta propulsiva non c’è più, in eddyburg. 151 capitolo decimo Occhetto, il cui arrivo «segnò un vero e proprio ricambio generazionale ai vertici del Pci»146. Il partito era in piena crisi, lacerato dal contrasto tra le spinte verso una “modernizzazione” vicina a quella in cui Craxi era l’alfiere e la resistenza in nome della tradizionale identità. La caduta del Muro (9 novembre 1989) spinse Occhetto a rompere precipitosamente gli indugi: nella cosidetta “svolta della Bolognina” (dal nome della sezione del partito in cui la annunciò) aprì la strada a una trasformazione profonda, che giunse alla sua conclusione nel congresso di Rimini (febbraio 1991). Della fine del Pci parlerò in seguito. Qui mi limito ad annotare che la discussione fu molto aspra, condusse allo scioglimento del Pci e alla formazione di due nuovi partiti: il Pds (Partito democratico della sinistra), in cui confluì la maggior parte degli iscritti, e il Prc (Partito di rifondazione comunista). Condivisi la scelta della maggioranza del Pci. Tra gli altri elementi di novità mi piaceva il ruolo assegnato da Occhetto alla questione dell’ambiente. Il simbolo del nuovo partito lo esprimeva chiaramente: una quercia dalla verdissima chioma aveva al suo piede l’icona tradizionale del Pci, con la falce e il martello emblemi del lavoro operaio e contadino. La frase che lo commentava, tratta dal documento maggioritario della svolta, era la seguente: Il nuovo simbolo vuole raffigurare, accanto agli antichi strumenti del lavoro, che rappresentano la funzione storica del movimento operaio, la dimensione che assume, nell’impegno del nuovo partito, il rapporto con la natura e l’obiettivo di un’umanità pacificata con sé e con l’insieme del mondo naturale. Il verde che si unisce al rosso vuole trasmettere un messaggio di vita, di speranza e di lotta per il futuro. 9. Nel Pds veneziano Anche a Venezia, nel Pci, le spinte al cambiamento erano state forti. Ero membro del comitato regionale, e fui chiamato in più occasioni a discutere le nuove scelte. A un certo punto mi fu chiesto di assumere un ruolo dirigente. Nel giugno del 1992 il segretario della federazione fu chiamato a Roma, dove era stato eletto deputato. Contemporaneamente accadde un avvenimento che mi lasciò di stucco: due dirigenti della federazione erano stati accusati di aver ricevuto un finanziamento 146 Ginsborg, L’Italia del tempo presente, p. 298-299. 152 attese, tentativi, speranze, delusioni personale da una società della Fiat in cambio di favori. L’emozione fu vivissima. Il gruppo dirigente decise di azzerare le cariche e di proporre per quelle più rilevanti persone di indiscutibile onestà. Il nuovo segretario fu Angelo Zennaro: docente al liceo artistico, aveva lavorato molto nelle associazioni della “società civile”147. Un uomo, insomma, che veniva dal movimento e non dall’apparato. Per analoghe ragioni chiesero a me di divenire il presidente del comitato federale148. Non me ne rendevo conto compiutamente, ma le lotte tra le diverse correnti erano violentissime: per finanziare le correnti in campagna elettorale (il cui esito avrebbe determinato il peso delle diverse posizioni) non si aveva esitato a procurarsi risorse in modi illegittimi; l’ombra di Tangentopoli si allungò fino al partito veneziano, anche se non ci furono mai prove che testimoniassero che, per i contributi ottenuti, si fossero forniti aiuti illegittimi. Ma certo è – come risulta dalle dichiarazioni di uno degli imputati – che i finanziamenti erano serviti per a campagna elettorale interna della corrente che faceva capo a D’Alema. Angelo e io avviammo un buon lavoro. Il nostro obiettivo era favorire al massimo la discussione nel partito, più aspra che vivace, senza assumere pregiudizialmente posizione per nessuna delle fazioni in campo. Accanto a questo, ci impegnammo molto a riscrivere le regole in alcuni settori chiave. Ma invece di discutere le nostre proposte con il gruppetto di persone che contava (“la cupola”, diceva Angelo), come forse ci si aspettava, le presentavamo subito agli organismi collegiali che presiedevamo. Angelo scrisse un documento sulle norme finanziarie relative alla ricerca di fondi e la loro spesa. Io stesi un regolamento del funzionamento del comitato federale. Introdussi tre innovazioni che, per quei tempi, erano piuttosto audaci. Le riunioni del comitato dovevano essere aperte: il dibattito doveva essere trasparente, aperto anche ai giornalisti. Tutti dovevano poter partecipare alle riunioni, anche le donne, anche i lavoratori che si svegliavano presto il mattino: nelle lettere di convocazione era indicato perciò anche l’orario di conclusione della seduta, e riuscivo sempre a farlo rispettare. Infine, il nuovo statuto del partito proibiva di fumare nelle riunioni, e io feci rigorosamente rispettare il divieto, 147 Si usava e si usa ancora questa espressione per esprimere il mondo che nasce dalla società distinguendosi dalle organizzazioni politiche o istituzionali standardizzate; sostanzialmente, l’insieme delle associazioni poco formalizzate. 148 Gli organi di direzione del partito, dal più largo al più ristretto, erano: il comitato federale, la direzione, la segreteria, il segretario. Il primo era costituito da un centinaio di membri. 153 capitolo decimo non solo ammonendo i fumatori renitenti ma anche alzandomi dalla presidenza e accompagnandoli materialmente fuori dell’aula. L’operazione più complessa in cui mi cimentai in quella fase fu la costituzione di una nuova maggioranza nel consiglio comunale di Venezia, per le elezioni del 1993. Nel 1985 si era dissolta quella che aveva governato nel decennio precedente (Pci, Psi, Pri). L’alleanza che i socialisti avevano costruito con la Dc non si era rivelata stabile: le crisi si erano succedute, le maggioranze si erano alternate, scomposte e ricomposte. I sindaci erano cambiati più volte. Mentre Mario Rigo, sindaco della “giunta rossa”, era rimasto in carica dal 1975 al 1985, dal 1985 al 1990 si erano alternati Laroni (Psi, Dc, Psdi), Casellati (che conferma gli assessori della giunta precedente), Degan (stessa giunta), di nuovo Casellati (Pri, Pci, Psi, Psdi, Verdi). Nuove elezioni nel 1990, sindaco Bergamo (Dc, Psi, Psdi), poi una serie di crisi e di rimpasti finché, nel 1993, sindaco e giunta si dimisero e, dopo un periodo di commissariamento, si elesse un nuovo consiglio. Nel frattempo, l’indagine dei magistrati milanesi aveva scoperchiato il pentolone di Tangentopoli e i partiti più direttamente coinvolti erano entrati in crisi profonda, mentre il Pci, divenuto Pds, benché travagliato dagli eventi internazionali e con ombre evidenti in alcune situazioni locali (come a Venezia) aveva retto meglio. In quella fase riuscimmo a compiere un’operazione che ci sembrò molto promettente. Partendo dalla definizione di un programma di governo comune (alla cui stesura lavorammo soprattutto Gigi Scano e io) riuscimmo a stabilire un accordo molto ampio, che coinvolgeva tutti i gruppi politici in vario modo collocati su posizioni di centro e di sinistra, nonché le aggregazioni che emergevano dalla società civile. Come presidente del comitato federale del Pds, quindi del partito più rilevante nell’operazione, mi spettò il compito di presentare anche la proposta dei nomi da indicare all’alleanza come candidato sindaco: proposi una terna composta da Gianni Pellicani, Cesare De Piccoli e Massimo Cacciari. Quest’ultimo aveva già preso da qualche anno una serie di iniziative per riflettere sulla città e formulare proposte per il suo governo, coinvolgendo soprattutto ambienti della cultura e della politica (ma anche dell’imprenditoria meno ottusa), che avevano accresciuto il suo credito di uomo intelligente e aperto. Il suo nome come futuro sindaco circolava ampiamente anche fuori dal partito. Alcuni di noi avevano qualche perplessità, ma fummo indotti a superarle sia dall’ampio consenso che sul suo nome si era formato nell’ambito dell’alleanza, sia dal fatto che le norme allora vigenti impegnavano fortemente sindaco e giunta a rispettare il programma col quale si presentavano all’elettora- 154 attese, tentativi, speranze, delusioni to. Ritenevamo che il programma che avevamo stilato, e che l’alleanza approvò all’unanimità, fosse abbastanza dettagliato e chiaro, e tale da vincolare alle scelte definite qualsiasi sindaco che l’avesse sottoscritto. Bastarono pochi mesi per convincerci che avevamo sbagliato. 10. Città storica di Venezia: il piano distrutto Il nuovo sindaco di Venezia, Massimo Cacciari, era stato molto incerto sulla persona da scegliere come responsabile politico dell’urbanistica. Chiese il mio parere su una rosa di nomi vasta e contraddittoria; ebbi l’impressione che non avesse le idee molto chiare sulle diverse posizioni culturali. Scelse un architetto operante a Venezia, Roberto D’Agostino, molto legato a Leonardo Benevolo (con cui aveva redatto una proposta urbanistica negli anni della discussione della legge speciale del 1973). Era iscritto al Pds e apparteneva alla corrente di sinistra. Molto rapidamente, iniziò una violenta campagna di denigrazione della politica urbanistica seguita fino ad allora e dei suoi documenti conclusivi. Appoggiato dal sindaco, tuonava contro i «lacci e lacciuoli» del piano per la città storica, criticava la «imbalsamazione della città» che la politica urbanistica degli anni precedenti (tutti gli anni, compresi quelli delle giunte rosse) aveva provocato. Troppe regole, troppa burocrazia, troppo poco mercato e scarsa attenzione agli investitori. Erano gli slogan dell’epoca, praticati anche dalla sinistra, che la portarono via via nel baratro delle sconfitte di questi anni. In effetti, il primo atto che la giunta Cacciari fece approvare al consiglio fu la revoca di una deliberazione della giunta Casellati, nella quale, in applicazione di una legge nazionale, si ponevano alcuni vincoli alla trasformazione di esercizi commerciali tradizionali a quelli in contrasto con le caratteristiche della città storica. Sulla base di quella deliberazione si era riusciti a impedire l’invasione di Venezia da parte dei fast food, che subito esplosero dappertutto. Ma era stato solo il primo di una catena di atti, tutti nella stessa direzione. Il piano della città storica era stato adottato nel 1992 ed era stato pubblicato. Era stato presentato un numero modesto di osservazioni, per ciascuna delle quali erano state formulate le controdeduzioni. Tutto insomma era pronto per l’approvazione. Ma invece di completare l’iter del piano, si avviò subito il suo smantellamento. Gigi Scano ne ha raccontato con precisione i vari passaggi in uno scritto del 1997149. 149 L. Scano, Quale piano per la città storica di Venezia?, in Venezia: terra e acqua, p. 381-408. 155 capitolo decimo I punti sostanziali delle modifiche apportate al piano dalla giunta Cacciari-D’Agostino consistono nella sostituzione a «un complesso di regole, certe ed uguali per tutti», stabilite secondo le procedure trasparenti della pianificazione urbanistica, di «un procedimento discrezionale, nel quale deciderebbero, caso per caso, un organo tecnico ed un organo politico» legittimati a decidere, «di volta in volta, sui singoli casi concreti, senza predefiniti criteri di valutazione». Lo spostamento dalle regole alla decisione discrezionale vale sia per la tutela della struttura fisica degli edifici (dove il promotore della “liberazione” dalle regole è il proprietario interessato), sia per quella delle utilizzazioni. Il controllo della modifica delle utilizzazioni – decisivo per contrastare la trasformazione della città da luogo della residenza dei suoi abitanti e delle connesse attività, a luogo di un turismo e di una speculazione forsennata – era raggiunto, nel piano del 1992, mediante una procedura trasparente, rigorosa ma flessibile: era il consiglio comunale che, ogni quinquennio, decideva quali, delle utilizzazioni teoricamente compatibili con le caratteristiche strutturali degli edifici, potevano essere attivate o meno. E, naturalmente, nel primo quinquennio il piano tutelava la residenza ordinaria e alcune specifiche attività economiche. Tutto questo è saltato. I documenti del piano sono stati rimaneggiati e stravolti. La città storica è diventata un fecondo pascolo per tutte le speculazioni in vario modo legate all’appropriazione vorace di ogni rendita consentita dalla storia della città e dalla qualità che i saggi amministratori del passato avevano saputo creare. Ogni tanto dai governanti si levano alti lamenti per i danni che il turismo provoca, ma nessuno ha il coraggio di domandarsi per colpa di chi e di che cosa ciò è avvenuto. 156 10. Con Barbara e nonna Carmela Salzano, 1960. 11. Con Peppe Loy e Tommaso Boccardi, sulla spiaggia di Fregene, 1954. 157 12-15. Alcune delle riviste che mi hanno impegnato. 16. Franco Rodano con la figlia Giulia. 158 17. Con Henry Lennard, alla International Making Cities Livable Conference di Salisburgo, settembre 2002. 159 18. I miei figli: Mauro, Francesco, Anna, Maria, Giulia e Giovanni, Venezia, 1980. 19. Visita a campo Ruga, nell’area interessata dal primo piano di coordinamento, 1977. 160 Capitolo undicesimo Il mestiere dell’urbanista 1. Un pensionato, libero di pensare Nei primi anni del nuovo secolo continuai a insegnare e a lavorare allo Iuav: ero il rappresentante dello Iuav in Urbandata, la struttura europea che raggruppava in un unico progetto le strutture pubbliche di documentazione urbanistica150; e per un breve periodo feci il delegato del rettore per l’informatica. Lavorai, come ho detto, alla trasformazione del corso di laurea in facoltà: costituimmo la prima, e ancora oggi unica in Italia, facoltà di pianificazione del territorio, di cui fui preside per un anno. Mi avvicinavo al momento della pensione, che avvenne senza particolari cerimonie o traumi. Nel frattempo, avevo costruito, inconsapevolmente, le basi di quello che sarebbe diventato il mio principale, se non addirittura esclusivo, impegno degli anni successivi: il mio sito web, eddyburg. Di questo parlerò diffusamente più avanti. Esso fu lo sviluppo dell’esperienza che avevo avviato curando poche pagine del sito ufficiale dello Iuav nel quale inserivo materiali didattici e di ricerca, nonché altri documenti interessanti. Avevo cominciato a praticare un modo nuovo di comunicare, di insegnare e imparare, di lavorare nella società. Con il pensionamento si completò la mia nuova condizione. Non ero più assessore, né avevo altri incarichi elettivi. Non avevo più vincoli o doveri di orario, di presenza, di rappresentanza. Non svolgevo più funzioni dirigenti in nessuna formazione politica. Non avevo obblighi 150 L’associazione Urbandata è un consorzio fra produttori di informazioni sull’«abitare» nella Comunità europea. Mira a favorire lo scambio internazionale e la diffusione delle informazioni in materia di urbanistica e pianificazione, architettura ed edilizia. 161 capitolo undicesimo né remore, non esprimevo né rappresentavo più nulla e nessuno, se non me stesso. La mia stessa militanza politica si era dissolta. Quando il Pci, dopo essersi trasformato nel Pds, aveva ulteriormente modificato composizione e denominazione diventando Ds (1998), non rinnovai la tessera. Mi guardavo in giro. Urbandata mi aveva fatto conoscere ambienti diversi: le riunioni si tenevano, di volta in volta, presso una delle strutture associate: Londra, Parigi, Berlino, Madrid, Budapest. Mi avevano invitato a Lione, per un mese di incontri e lezioni ospite di una singolare struttura associativa, il Pôle de competences en urbanisme151, poi come membro del Comité d’orientation d’un importante ente statale di ricerca, il Certu (Centre d’études sur les reseaux, les transports, l’urbanisme et les bâtiments publics). Avevo più tempo per impegnarmi nel lavoro professionale, ciò che avvenne soprattutto a Foggia e in Sardegna. Continuavo a tenere qualche corso universitario, prima alla facoltà d’ingegneria a Trento e poi di nuovo allo Iuav, dove fui professore a contratto per un modulo di “legislazione urbanistica” e uno dal titolo “Il mestiere dell’urbanista”. Quest’ultimo tema mi interessava molto. La libertà dagli incarichi istituzionali – l’uscita dal bunker – mi spingeva a riflettere sul mestiere che avevo abbracciato e via via praticato nelle sue diverse applicazioni. La tesi che condividevo con Vezio da molti anni era che il ruolo dell’urbanista ha uno spiccato carattere pubblico: secondo noi, la figura dell’urbanista è simile a quella del diplomatico, nel senso che per nessuno dei due è pensabile un lavoro a servizio del privato. 2. «Micromega» e l’altra Italia possibile Eravamo entrati in una fase difficile per l’urbanistica. Era giunto a piena maturazione quel mutamento iniziato con la svolta del craxismo vent’anni prima e, poco più tardi, con l’abbandono da parte della sinistra d’ogni rigore sui temi del territorio. Mi colpì molto un numero monografico della rivista progressista «Micromega» del 2002, dal titolo Un’altra Italia è possibile. Una ventina di saggi delineavano un programma 151 Il Pôle è una interessante struttura che raggruppa tutti i soggetti, prevalentemente pubblici ma anche privati, che hanno competenze in relazione alla concezione e attuazione dei programmi urbanistici di trasformazione, allo studio, alla ricerca e alla formazione nelle materie coinvolte; esso ha come fine lo sviluppo degli scambi, la conduzione di progetti in comune, l’offerta di una capacità di consulenza interdisciplinare. 162 il mestiere dell’urbanista alternativo a quello della destra, che da un anno dirigeva il paese col secondo governo Berlusconi. L’urbanistica, la pianificazione del territorio, le politiche urbane erano del tutto assenti. Scrivemmo una lettera aperta al direttore della rivista, Paolo Flores d’Arcais, nella quale raccogliemmo l’adesione di 75 urbanisti152. Dichiaravamo di essere «fortemente preoccupati per un’assenza che francamente ci sembra clamorosa». E proseguivamo: Se nei capitoli del programma di Micromega non mancano (e giustamente) la sanità e la giustizia, l’immigrazione e il lavoro, l’università e le carceri, l’ambiente e i beni culturali (e altri numerosi temi), manca completamente il territorio. Questo, infatti, non si riduce all’ambiente (nell’accezione che questo termine ha assunto negli ultimi decenni, e che è ben rappresentato nel testo di Ermete Realacci) né ai beni culturali (nonostante l’accezione giustamente ampia che Salvatore Settis attribuisce a questa espressione). Ragionare e proporre un capitolo del programma per un’altra Italia che riguardi il territorio e la città significherebbe infatti farsi carico insieme delle ragioni dell’ecologia e di quelle dell’armatura urbana del nostro territorio, della tutela della natura e della dotazione delle infrastrutture, della difesa del paesaggio e del miglioramento delle condizioni di vita nelle città. Concludevamo scrivendo: «Ci sembra che l’assenza del territorio e della città, dell’urbanistica, della pianificazione tra i 24 capitoli del programma proposto da Micromega sia un’assenza grave. Sarebbe utile, sulla sua Rivista, aprire una discussione sulle ragioni di questa assenza. Che non sono certamente né la distrazione né la fretta ma – forse – qualcosa di più profondo, su cui tutti dovremmo interrogarci». Non ricevemmo alcuna risposta, nonostante le molte firme “pesanti” tra i firmatari. Avevamo in mente anche questo episodio quando, alla fine del 2002, discutendo con alcuni amici urbanisti impegnati nella pianificazione territoriale e urbana, convenimmo sul fatto che, in Italia, il ruolo dell’urbanista pubblico (dell’urbanista che ha scelto come centro della sua attività il ruolo di funzionario nell’amministrazione pubblica) non è sufficientemente considerato, a differenza di quanto avviene in altri paesi europei. Ci sembrava che l’urbanista pubblico avesse un ruolo particolarmente rilevante in un momento – quello attuale – nel quale la funzione di strumento dell’interesse collettivo che caratterizza l’urbanistica viene negata, o dimenticata, o considerata marginale. Decidemmo di costituire un’as- 152 Dov’è il territorio. Lettera a Paolo Flores d’Arcais, in eddyburg. 163 capitolo undicesimo sociazione che assumesse questo ruolo come fondativo, e si proponesse di rappresentare ed esprimere gli interessi culturali e professionali degli urbanisti impegnati sul fronte, oggi particolarmente difficile, dell’amministrazione pubblica. Marco Guerzoni scrisse un nota, che pubblicai su eddyburg153. Organizzammo una riunione a Bologna154, dove decidemmo di avviare l’associazione. Purtroppo gli urbanisti pubblici sono molto impegnati: nessuno ebbe il tempo di occuparsi seriamente della cosa e l’iniziativa si impantanò. 3. Chi è l’urbanista Nel settembre 2005, l’amico e collega Bibo Cecchini, che dallo Iuav era passato alla nuova facoltà di architettura di Sassari-Alghero, mi invitò a tenere una lezione sul “mestiere dell’urbanista”155. Nella mia interpretazione, il mestiere dell’urbanista è nato per rispondere alla necessità di tutelare, nell’organizzazione della città, alcuni interessi collettivi di cui la logica del mercato era incapace di tenere conto. Le contraddizioni, e i relativi problemi pratici, si sono spostati nel tempo dalla città ad ambiti più vasti: dalla città al territorio. Agli interessi comuni della funzionalità e della bellezza altri se ne sono aggiunti: anche la tutela dei valori dei beni storici e culturali, anche l’impiego razionale e parsimonioso delle risorse naturali e dell’ambiente si rivelarono via via come beni e interessi non tutelabili dalle leggi dell’economia, e richiedevano quindi un intervento regolatore esterno. Di questo intervento regolatore si fece carico – sul piano sostanziale della decisione – l’autorità politica: cioè, nel sistema democratico, il sistema dei poteri rappresentativi eletti direttamente dalla popolazione. 153 154 M. Guerzoni, Ragionando di utilità pubblica dell’urbanistica, in eddyburg. La riunione si svolse nell’aprile 2004 a Bologna. C’erano gli urbanisti Piero Cavalcoli, Mariangiola Gallingani, Marco Guerzoni, Elettra Malossi, Alessandro Delpiano (Provincia di Bologna), Maurizio Sani (Regione Emilia Romagna), Elena Camerlingo (Comune di Napoli), Stefano Fatarella (Regione Friuli-Venezia Giulia), Elisa Spilotros (Comune di Pontassieve). E ricordo adesioni, oltre che di altri bolognesi e napoletani, da Eboli, Foggia, Lecce, Sesto Fiorentino, Cesena, Lastra a Signa. 155 Intitolai la lezione «Il mestiere dell’urbanista in una società di lupi» (con questo titolo anche in eddyburg). Il riferimento esplicito era al disegno di legge urbanistica presentata dall’onorevole Lupi di Forza Italia, che distruggeva l’urbanistica pubblica in Italia; quello implicito era il ricordo del tema che, al suo primo anno d’università, aveva svolto il mio allievo e amico Ivan Blecic, anche lui docente ad Alghero: per descrivere l’urbanistica, partiva dalla condizione hobbesiana dell’uomo “homini lupus” nella società. 164 il mestiere dell’urbanista Nacque, e via via si sviluppò, la figura professionale destinata alla formulazione tecnica degli strumenti per il governo delle trasformazioni territoriali, l’urbanista, depositario dei saperi e mestieri tecnici necessari per fornire le basi alle decisioni dell’autorità politica riguardanti il territorio. Il metodo e gli strumenti che egli adopera sono quelli della pianificazione urbanistica, che costituisce – secondo la felice definizione di Francesco Indovina – il prodotto di «una volontà politica tecnicamente assistita». Poiché i saperi e i mestieri dell’urbanista sono un ventaglio molto ampio, il terreno di lavoro è essenzialmente interdisciplinare. Dai contributi degli esperti nelle altre discipline (storici, giuristi, economisti, sociologi, naturalisti, geologi, ecc.), l’urbanista deve trarre ciò che serve a sorreggere le decisioni che spettano al politico. Egli è perciò in qualche modo la cerniera tra le varie competenze e il governo. Non ha autonomia rispetto alle decisioni, poiché queste, in un regime democratico, spettano a chi rappresenta la collettività, all’eletto (il politico). Ma il politico può guidarla, indirizzarla, orientarne i comportamenti, oppure può subirne le pulsioni, trasformarsi da timoniere a mosca cocchiera. Può succedere (ed è quello che accade nei nostri anni) che il politico assuma come valori da privilegiare non quelli dell’interesse collettivo e dell’equilibrio tra persona e società, ma quelli dell’individualismo liberato da ogni regola volta a garantire il perseguimento di interessi generali (come quello della giustizia sociale, della libertà per tutti, dell’espressione di ogni pensiero). In una simile situazione all’urbanista si aprono due strade: rimanere fedele ai princìpi propri del suo ruolo sociale, e allora entra in conflitto con quella politica che si è piegata ai venti dominanti; oppure piegarsi anche lui. È quello che è largamente accaduto in Italia. Lo testimonia la svolta dell’Inu negli anni Novanta, che aveva visto la sconfitta delle nostre posizioni, e che si è consolidata e ampliata. I nostri maestri sono diventati dei cattivi maestri. Il significato del ruolo pubblico dell’urbanista si è affievolito. Il rapporto tra pubblico e privato, decisivo per le decisioni sull’uso del suolo, ha visto prevalere nettamente il secondo; ha modificato la stessa tecnica di pianificazione urbanistica, con l’applicazione di strumenti (come la perequazione urbanistica generalizzata) che attribuiscono «prioritaria considerazione» non ai valori paesaggistici e ambientali come noi predicavamo e tentavamo di praticare, ma a quelli immobiliari. Questa fu, grosso modo, la posizione che espressi nella lezione ad Alghero. Poco tempo dopo, i colleghi che dirigevano la facoltà di pianificazione del territorio e il corso di laurea triennale, Domenico Patassini 165 capitolo undicesimo e Luciano Vettoretto, mi chiesero di aprire l’anno accademico con una lezione sullo stesso tema, di tenere un breve corso sull’argomento e di promuovere un’iniziativa rivolta agli ex studenti. Feci la lezione, tenni il corso per un paio d’anni, tentai di recuperare il contatto con i laureati con una serie di iniziative che ebbero un certo successo. Poi anche questo si spense: i giovani laureati erano troppo impegnati a cercare lavoro e a mantenersi nella società del “terzo millennio”156. Del resto, di fronte alle mutazioni in corso nella società e nella politica, l’università rimaneva assente. Il dibattito era debolissimo, rispecchiava più gli interessi dell’università come azienda (il suo funzionamento interno, il ruolo dei docenti e le loro carriere, le articolazioni organizzative dal punto di vista dei poteri più che dei contenuti), ed era molto debole il collegamento con la società, con le tensioni che la percorrevano, con il degrado che si manifestava su vari fronti. 4. L’urbanistica neoliberista Nell’ambito delle facoltà di architettura ebbe un certo successo la tesi espressa e argomentata da un giovane e intelligente studioso di urbanistica, Stefano Moroni. È l’autore di un libro157, che a mio parere esprime molto chiaramente l’urbanistica dell’ideologia neoliberista. Avevo criticato un’intervista rilasciata da Moroni a un giornale dell’area berlusconiana. L’avevo pubblicata su eddyburg con una presentazione in cui affermavo che «la destra berlusconiana sembra aver trovato il teorico di riferimento per la sua urbanistica neoliberista: un tuffo verso il passato più lontano, quello antecedente alla rivoluzione liberale». La lettura del libro ha pienamente confermato quel mio iniziale giudizio: la perfetta coincidenza delle tesi espresse da Moroni con quelle del neoliberalismo e del liberismo. Ho argomentato la mia critica in un libro158. Sottolineavo che l’elemento più significativo della proposta dell’autore è elevare a protagonista della sua costruzione l’individuo: la tutela della “libertà” dell’individuo deve essere il compito preminente, e quasi esclusivo, delle istituzioni. Questo “individuo” non è un qualsiasi 156 Anche il materiale su questa esperienza è inserito in eddyburg, cartella «Il mondo di Ca’ Tron». 157 S. Moroni, La città del liberalismo attivo. Diritto, piano, mercato, Milano, Città Studi, 2007, p. 200. 158 Discutendo intorno alla città del liberalismo attivo. Con un saggio finale di Stefano Moroni, a cura di G. De Luca, Firenze, Alinea, 2008, p. 95-99. 166 il mestiere dell’urbanista cittadino del mondo. Non è neppure un qualsiasi cittadino della città occidentale, suo esclusivo ambito di riferimento: è il proprietario immobiliare. Quando Moroni esemplifica la sua nozione di «libertà negativa» afferma che essa, «interpretata soprattutto in termini di non impedimento e non interferenza, […] ricomprende le libertà di esprimersi, associarsi, detenere proprietà privata, intraprendere, contrattare, ecc.». Delle cinque azioni cui esemplificativamente riferisce la libertà individuale dominano quelle connesse alle attività immobiliari, detenere proprietà privata, intraprendere, contrattare, mentre sono del tutto assenti altre, forse più fondamentali, quali lavorare, apprendere, comunicare ecc.159 E quando si impegna a chiarire la distinzione tra il suo liberalismo e il liberismo, precisa che «il liberalismo non è certo mero liberismo, ma è anche liberismo»160. Del liberismo, delle «libertà cosiddette economiche», gli interessano soprattutto quelle che hanno a che fare con gli interessi immobiliari: «la libertà di acquisire, detenere e vendere proprietà privata, la libertà di intrapresa e contratto, ecc.». Queste non sono altro, aggiunge, «che una delle specificazioni dell’idea più generale di libertà negativa come spazio protetto d’azione; e, tuttavia, ne sono una componente incancellabile, tanto che, eliminarle, comprometterebbe seriamente il significato stesso della libertà individuale». Coerente con questa impostazione è ovviamente l’apologia del mercato. Moroni non intende quest’ultimo come mero strumento adatto, più di altri, a misurare il costo delle merci e a determinare la configurazione più efficiente dell’allocazione delle risorse riducibili a merci, ma «come ordine spontaneo dinamico», condizione indispensabile perché la libertà di ciascuno possa esplicarsi al massimo grado161. Individualismo (proprietario) e mercato sono le due divinità cui tutto è subordinato. Al dominio di queste divinità sono ordinate le istituzioni: le regole e lo Stato. Per la società e per la città bisogna stabilire «poche regole, le più astratte e generali possibili, che stabiliscano soprattutto che cosa non si deve fare, affinché non siano lesi i diritti di alcuno», mentre il resto deve essere «lasciato alla libera iniziativa dei cittadini e alla benefica, provvidenziale azione del mercato»162. Compito dello Stato è esclusivamente quello di impedire che alcunché turbi il pieno dispiegamento del mercato. Questo compito 159 160 161 162 Moroni, La città del liberalismo attivo, p. 15-16. Questa e la citazione seguente in Moroni, La città del liberalismo attivo, p. 26. Moroni, La città del liberalismo attivo, p. 9. D. Carafoli, Liberiamo la città dai piani regolatori, intervista a S. Moroni rilasciata al «Giornale», 24 apr. 2007. 167 capitolo undicesimo comprende anche la possibilità che lo Stato si faccia carico, in qualche modo, di esigenze nei «limitati casi» in cui il mercato non riesca a soddisfarle. Moroni ammette che debba essere garantita a tutti i cittadini non solo la libertà negativa, ma, anche, la possibilità di condurre una vita almeno decente. In altri termini – sostiene – a tutti i cittadini va garantita una giusta condizione di base: questo può avvenire fornendo a essi buoni e risorse spendibili sul mercato per accedere a beni e servizi primari (certi buoni potrebbero essere assicurati a tutti, mentre determinate risorse monetarie aggiuntive solo a chi è in una situazione di deprivazione grave) e, nei limitati casi in cui il mercato non è in grado di operare, garantendo direttamente la disponibilità per tutti di alcuni servizi e infrastrutture163. A Moroni non viene in mente che certi prezzi possono, nella concretezza delle realtà economiche date, essere viziati da posizioni di monopolio o di oligopolio collusivo. Se c’è qualcuno che non è in grado di pagare l’affitto di una casa perché la speculazione porta i prezzi al di sopra della capacità di spesa degli individui allora intervenga lo Stato per assicurare l’utile allo speculatore. In che modo si interviene, e chi interviene, per stabilire quale sostegno debbano avere i cittadini non proprietari per accedere al mercato? Qui l’ideologia di Moroni rivela aspetti inquietanti. È ovviamente lo Stato che deve definire la «soglia di decenza» di ogni vita. Ma, precisa l’autore, «l’idea di garantire a tutti una vita decente deve avere di mira unicamente la lotta alla povertà assoluta, e non la riduzione della disuguaglianza materiale relativa; in altre parole l’obiettivo è di impedire che ci siano individui che si trovano al di sotto di una determinata soglia di decenza e non diminuire le differenze contingenti tra individui»164. Insomma, se si accetta che della «soglia di decenza» faccia parte il tetto sotto cui ripararsi, ciascuno deve poter godere di un tetto, ma non pretenda di averlo a cento metri o a cento chilometri da dove lavora e dove stanno gli amici! L’ideologia che Moroni mostra di condividere dimentica che esiste anche la libertà del cittadino in quanto tale: in quanto fruitore (non necessariamente proprietario) di un bene pubblico, quale la città (il territorio urbanizzato) indubbiamente è. Dimentica che ci sono diritti comuni, e non solo diritti individuali. Dimentica che tra questi diritti c’è anche 163 164 Moroni, La città del liberalismo attivo, p. 17-18. Ibidem. 168 il mestiere dell’urbanista quello di poter godere di una città ordinata, funzionale, bella, resa tale indipendentemente dagli interessi materiali di un gruppo di cittadini (i proprietari immobiliari). Dimentica che questo diritto deve essere riconosciuto a tutti, quale che sia il patrimonio di cui dispone (e quali che siano il genere, l’occupazione, il reddito, il colore della pelle, l’orientamento religioso o spirituale, la lingua, l’etnia, l’età, la condizione sociale). Poiché Moroni non si rivolge al cittadino ma, lo ripeto ancora una volta, al proprietario immobiliare, ecco che la pianificazione della città e del territorio non gli interessa. Poco importa che essa sia l’unico strumento capace, ove correttamente impiegato da chi governa, di raggiungere quegli obiettivi d’interesse comune di cui si è detto. Per il proprietario immobiliare essa è un intralcio, uno dei “lacci e lacciuoli” di cui occorre liberarsi. Come la pianificazione, così dal ragionamento dell’apostolo dell’urbanistica neoliberista sono assenti il potere e la politica, sono assenti i diversi interessi che oppongono certi gruppi sociali ad altri, certe figure e certi soggetti ad altri: i più forti e i più deboli, quelli destinati a vincere, quelli destinati a perdere. Tutti sono uguali, nell’empireo luminoso disegnato da Moroni. Basta far finta che siano tutti proprietari. Oppure, basta convincerli che gli altri non contano: non hanno diritti, ma solo la legittima aspettativa a una «soglia di decenza» che un buon Leviatano gli accorderà, forse, se vorrà. Una buona descrizione, mi sembra, dell’urbanistica omogenea al neoliberismo. Per combatterla e tener viva la possibilità di costruire di nuovo un’urbanistica per i cittadini, per continuare il mio lavoro, per continuare a ragionare soprattutto con i giovani, dovevo impiegare i nuovi strumenti di cui disponevo, che assorbirono quote crescenti del mio tempo e delle mie risorse. Primo fra tutti, il web. Nacque così il sito eddyburg. 169 170 Capitolo dodicesimo Il mondo di eddyburg 1. Come nasce eddyburg Lo Iuav gestiva un sito web. Alcuni docenti ne utilizzavano delle pagine per inserire avvisi agli studenti e materiali didattici. Sotto la guida del responsabile dell’informatica dello Iuav, Ciro Palermo, organizzai il mio spazio articolandolo in quattro sezioni, tre strettamente legate all’attività didattica e di ricerca e una, chiamata «Pagine personali», in cui inserivo articoli e altri documenti che reputavo interessanti, per me ma anche per gli studenti. Questa ultima sezione si ampliò velocemente, ed ebbe un certo successo. Divenne a tal punto prevalente sul resto che Ciro mi suggerì di costruire un sito autonomo per contenerla, gestito da me: sarebbe stata la parte universitaria quella marginale. Ormai avevo acquisito una certa abilità nel lavorare al sito, potevo proseguire da solo. Ne parlai con Bibo Cecchini, prorettore per l’informatica. Ne parlai con Ivan Blecic, mio allievo, la cui intelligenza e cultura si accompagnano a una grandissima capacità di adoperare tutte le potenzialità dell’informatica. Ne parlai infine con Pierre Piccotti, che aveva costruito l’eccezionale sistema bibliografico documentario dello Iuav e unificato tutti i centri bibliografici dell’area veneziana, e mi aveva assistito nei primi passi di utilizzazione del computer. Partimmo nell’autunno del 2002. Ivan mi aveva proposto un programma di gestione più semplice, in relazione alle mie necessità, di quello che fino ad allora avevo adoperato. Alessandra Poggiani, che lavorava a contratto per lo Iuav, si dedicò con pazienza a costruire con me la struttura e la grafica del sito. Restava da decidere il nome. Feci un piccolo sondaggio tra amici e frequentatori. Salzanocity fu una delle prime proposte. Un po’ pesante, però, e ovvia. Il mio nomignolo (Eddy) era abbastanza breve per diventare parte di un titolo non troppo lungo. Eddycity? 171 capitolo dodicesimo Fabrizio Bottini propose la desinenza burg, che designa la città nelle lingue di antica matrice sassone, in alternativa a city. Si decise così per eddyburg, logo che soddisfa sia il carattere personale del sito sia il suo oggetto di principale interesse: la città, come scienza e tecnica della sua organizzazione funzionale e formale, come società che in essa vive e di essa è padrona, come scienza e pratica del governo, e quindi come politica. Non è stato facile articolare il contenuto del sito, tra quello che già c’era (e che raccoglievo dal lontano 2002), e quello che avrei potuto raccogliere negli anni. Sette anni dopo devo dire che la struttura impostata all’inizio ha retto, e funziona ancora adesso che i documenti archiviati si avvicinano ai 15.000. Oggi il sito è, al tempo stesso, un quotidiano e un archivio. La homepage, aggiornata quotidianamente, informa su ciò che di interessante succede e ha a che fare con le tre facce dell’urbano (urbs, civitas, polis); l’organizzazione in sezioni e vari livelli di cartelle consente abbastanza facilmente il recupero dei documenti, non meno del piccolo motore di ricerca interno. 2. Tanti cerchi La gestione quotidiana del sito è diventata il mio vero lavoro, al quale dedico raramente meno di quattro o cinque ore al giorno, e spesso una dozzina. Iniziato per un bisogno di condividere ciò che mi sembrava utile, bello o interessante, il sito è diventato il centro di una serie di cerchi via via più larghi. Il primo è costituito dalle persone che hanno la capacità, il tempo e il desiderio di svolgere tutte le mansioni necessarie alla sua gestione: cercare il materiale da inserire, scaricarlo dalla rete, curarlo redazionalmente, scrivere la breve presentazione, scegliere la cartella giusta in cui inserirlo, aggiungere gli eventuali link ad altri documenti o redigere la postilla di commento; inserirlo infine adoperando correttamente il programma di gestione, e fare le opportune verifiche. Esse sono: Maria Pia Guermandi, archeologa e organizzatrice culturale, diventata esperta di urbanistica sul campo, e Fabrizio Bottini, eccezionale ricercatore universitario, che collabora a eddyburg fin dall’inizio. Maria Pia ha passioni, interessi, gusti così vicini ai miei che mi sostituisce interamente nella direzione quando io non sono disponibile. Fabrizio, cui il sito è debitore di alcune cartelle tra le più interessanti e complete165, affascinato dal- 165 Soprattutto le cartelle «Testi per un glossario» e «Pagine di storia». 172 il mondo di eddyburg le possibilità della rete e dalla realtà di eddyburg (e dal suo programma di gestione, eZpublisher), ha costruito un sito tutto suo (Mall) che pubblica materiali sui problemi della distribuzione commerciale ma anche sulle questioni della città contemporanea e della cultura urbanistica viste in un quadro internazionale. I contributi di Maria Pia e di Fabrizio, come quelli degli altri collaboratori, sono firmati (con iniziali tra parentesi). Solo la pigrizia tiene Vezio esterno al primo cerchio. Ma mi aiuta considerevolmente, sia fornendomi indicazioni e suggerimenti, sia confortandomi ogni volta che ho bisogno di una verifica di merito, che riguardi la linea del sito oppure questioni di carattere più disciplinare. In qualche modo Vezio è il primo dei numerosi appartenenti al secondo cerchio, costituito da persone, amici di vecchia data o diventati tali grazie a eddyburg, che mi inviano materiali da pubblicare, oppure collaborano su mia richiesta a specifici argomenti166. Un terzo cerchio è costituito dai circa duemila frequentatori di eddyburg che si sono iscritti per ricevere periodicamente la newsletter. Un quarto cerchio, il più largo di tutti, lo formano le persone che frequentano il sito. Ogni giorno i visitatori sono ormai oltre duemila, calando un po’ il sabato e la domenica. Suppongo che molti siano visitatori casuali, che arrivano a eddyburg perché cercano in un motore di ricerca “goulash” oppure “outlet”, e sono certamente meno quelli che utilizzano eddyburg come pagina preferita. Comunque direi che il sito è diventato, in Italia, il più frequentato tra quelli che si occupano di urbanistica, città, territorio. 3. La Scuola di eddyburg Eddyburg non ha sponsor né ospita banner a pagamento: è autofinanziato. Questo pone qualche problema, perché molti sono i progetti (dalla semplice “manutenzione ordinaria” all’edizione internazionale) che richiederebbero un po’ di soldi. Qualche anno fa uno degli amici propose: perché non organizziamo un piccolo corso estivo, impegnandoci 166 Tra questi voglio ricordare Dusana Valecic e Giorgia Boca, che sanno anche utilizzare il programma di gestione del sito, Mauro Baioni, Paolo Berdini, Ilaria Boniburini, Giovanni Caudo, Antonio di Gennaro, Stefano Fatarella, Georg Frisch, Maria Cristina Gibelli, Giuseppe Palermo, Sandro Roggio, giancarlo Consonni e gli “opinionisti” Paolo Baldeschi, Lodo Meneghetti, Carla Ravaioli e Giorgio Todde che – assieme a Maria Pia e Vezio – hanno il diritto di inviare articoli con la massima autonomia, sicuri di vederli pubblicati e di restare sulla prima pagina per un intero mese (gli altri scorrono, via via che la prima pagina si riempie, e slittano in quelle successive e, naturalmente, nell’archivio ove tutto viene raccolto). 173 capitolo dodicesimo volontariamente come docenti e destinando i proventi a eddyburg? Ottima idea. Qualcun altro propose: perché non costituiamo un’associazione, per gestire la scuola e altre cose? Ottima idea anche questa. Organizzammo subito l’uno e l’altra. La scuola funzionò, l’associazione no. Mauro Baioni, mio allievo e amico, si assunse il compito di organizzare la scuola, e ne divenne il direttore. Nessuno si occupò dell’associazione, che poco dopo fallì. Morale: le cose funzionano se c’è qualcuno che se ne occupa con continuità e responsabilità. La Scuola di eddyburg è un’esperienza che – mi auguro – andrà avanti per molti anni. Nata per finanziare il sito, come dicevo, ha invece assunto, fin dalle prime edizioni, una finalità diversa: fornire ai partecipanti chiavi di lettura critica delle trasformazioni territoriali e degli strumenti di pianificazione. Le lezioni e le comunicazioni sono svolte da docenti universitari e da altri esperti, che condividono le finalità di eddyburg; molti di loro collaborano al sito; altri ne approfondiscono la conoscenza partecipando alla Scuola. Aumenta così il numero delle persone che alimenta eddyburg con suggerimenti, scritti e diffusione delle idee. Ogni anno individuiamo un tema e un programma, li divulghiamo tramite il sito e raccogliamo le adesioni167. Gli iscritti pagano le spese vive e le quote per l’ospitalità dei docenti. Riuniamo ogni anno 30-40 studenti, in un luogo piacevole ma non distraente, in modo che si possa stare insieme nei quattro giorni del corso. Alterniamo le lezioni con discussioni e lavori di gruppo. Gli studenti sono eterogenei, in prevalenza giovani laureati, dottorandi e funzionari pubblici, qualche libero professionista e altre persone interessate alla materia. Alcuni studenti hanno partecipato a più sessioni della scuola. Con molti dei partecipanti restiamo in contatto; si arricchisce così la “rete” di eddyburg, presente in tutte le regioni d’Italia. Eddyburg e la sua scuola hanno avuto un ruolo di qualche rilievo nel dibattito generale sull’urbanistica e il governo del territorio in Italia. Parlare dei temi trattati in eddyburg e nella sua scuola significa perciò riprendere gli argomenti principali del dibattito sull’urbanistica e sulla politica dei nostri anni. 167 Nei primi cinque anni i temi affrontati sono stati: «Il consumo di suolo» (2005), «La costruzione pubblica della città» (2006), «Il paesaggio e i cittadini» (2007), «Che fare per rendere la città più vivibile» (2008), «Spazi pubblici: declino, difesa, riconquista» (2009). 174 il mondo di eddyburg 4. Sul terreno della società Eddyburg è diventato un punto di riferimento. Non solo per gli urbanisti e gli studiosi della città ma anche per le persone e i gruppi che si impegnano a cambiare le cose che non funzionano nel modo di organizzare città e territorio. La domanda di aiuto, di collaborazione critica, di sostegno alla formulazione di proposte alternative è forte. Sono molto soddisfatto di questa crescente richiesta di consigli, di solidarietà, di presenza, sebbene mi sconforti non poterle soddisfare che in minima parte. Del resto, avevo scritto un libro che si propone di spiegare con parole semplici la città e l’urbanistica a chi non ne sa nulla, proprio per stimolare una domanda in questo settore168. Sono convinto che ci sia molta ignoranza da parte della stragrande maggioranza dei cittadini sulle ragioni che non rendono soddisfacenti il loro habitat; una ignoranza che potrà essere superata solo quando la città, le sue regole e gli strumenti a disposizione per governarla saranno conosciuti fin dalla scuola di base. Il mio libro, il sito e le attività ad esso collegate lavorano in questa direzione. Eddyburg è stato coinvolto in varie circostanze e situazioni: con molto interesse ha seguito la formazione della «Rete toscana dei comitati per la difesa del territorio», e ha partecipato ad alcune riunione per la costituzione di un’analoga rete lombarda. Assieme all’associazione «Cantieri sociali-Carta Estnord», animata da Paolo Cacciari, e ad alcune strutture della Cgil, rappresentate da Oscar Mancini, ha contribuito a una iniziativa di critica al piano territoriale regionale di coordinamento (ptrc) del Veneto, coinvolgendo numerose associazioni e comitati, e avviando la costituzione di un’analoga rete anche in Veneto169. L’appello che su eddyburg Fabrizio Bottini e Maria Cristina Gibelli avevano lanciato e gestito per la difesa del Parco Milano Sud, minacciato dalle improvvide iniziative regionali, ha avuto un successo straordinario. Grazie a questa esperienza, altre organizzazioni impegnate contro il consumo di suolo ci avevano cercato perché sostenessimo una iniziativa interessante, la costituzione di una rete di associazioni e gruppi di cittadinanza attiva per combattere il consumo di territorio. È nato così un 168 Salzano, Ma dove vivi? La città raccontata. 169 L’iniziativa ha avuto come oggetto un piano della giunta di centrodestra del Veneto, che abbiamo definito «piano di cementificazione regionale», che prevedeva pesanti ulteriori manomissioni del territorio, del paesaggio e dell’ambiente regionale. Nella critica, ampiamente argomentata, siamo riusciti a coinvolgere migliaia di cittadini in decine di riunioni in moltissime città e paesi. Abbiamo raccolto più di 14.000 osservazioni, firmate da altrettanti cittadini, e coinvolto oltre un centinaio di associazioni, comitati e gruppi. 175 capitolo dodicesimo movimento, che fa capo a un gruppo di bravissime persone dell’Astigiano e a Domenico Finiguerra, sindaco di Cassinetta di Lugagnano. Finiguerra, con il suo comune, è diventato famoso perché è il primo, in Italia, che ha formato un piano urbanistico “a crescita zero”, cioè che non prevede nessuna espansione del paese. Significativo il fatto che il piano sia stato preceduto da un lavoro con i cittadini sul bilancio comunale, e che i cittadini abbiano accettato che le nuove attrezzature pubbliche venissero finanziate sia con intelligenti risparmi dell’amministrazione su altri fronti, sia con un leggero aumento delle imposte comunali. Col sostegno di eddyburg, Vezio De Lucia, Georg Frisch, Roberto De Marco e altri hanno fatto uno splendido lavoro di analisi critica delle devastazioni al territorio e alla democrazia promosse dal governo Berlusconi e dal suo braccio armato, il commissario Bertolaso. Vezio e Paolo Berdini sono il riferimento di moltissimi gruppi, comitati e associazioni che lavorano, a Roma, per la difesa dell’Agro romano e per la critica agli effetti delle speculazioni immobiliari sulle condizioni di vita degli abitanti. Antonio di Gennaro è sempre in prima fila ogni volta che, in Campania, bisogna sventare qualche minaccia di stravolgimento del territorio e di devastazione dei patrimoni che esso contiene. A Giulianova si era costituita, come ho già raccontato, un’ottima associazione, “Il cittadino governante”, promossa da un ex sindaco che voleva difendere gli spazi e gli interessi pubblici a partire dalla difesa del prg170: naturalmente siamo entrati in contatto con loro e li seguiamo, come loro seguono eddyburg. Piero Bevilacqua e Paolo Berdini sono stati tra i primi ospiti delle loro attività culturali. Per conto mio, un’affollata presentazione del mio Ma dove vivi?, e di un libro curato da Mauro Baioni171, mi ha rivelato che le scelte urbanistiche dei vecchi piani cui avevo collaborato negli anni Sessanta e Ottanta del secolo scorso erano diventate le bandiere che il Cittadino governante difendeva, contro le pesanti manomissioni (la svendita della città al migliore offerente) dell’attuale giunta, ahimè di centrosinistra. Il nostro lavoro consiste sempre di più nel mettere a disposizione di chi si batte per una città più giusta, e vuole comprendere come farlo in modo efficace, ciò che i nostri studi e le nostre esperienze ci hanno insegnato. Anche noi, portatori di saperi specialistici, impariamo dai “saperi diffusi sul territorio”, con i quali collaboriamo. 170 171 Vedi capitolo 3, paragrafo 3. La costruzione della città pubblica, a cura di M. Baioni, Firenze, Alinea, 2008. 176 il mondo di eddyburg 5. L’ideologia di eddyburg Ideologia è un termine screditato: uno dei tanti di questi anni carichi di “revisioni” tese a cancellare la memoria del passato. Come ha scritto Alberto Asor Rosa, se si intende per ‘ideologia’ un credo cieco e catechistico sarebbe stato bene lasciar estinguere quella parola. Ma se l’ideologia è un sistema di deali e di valori grazie ai quali la politica si è mossa per diversi decenni in vista di interessi generali e di obiettivi di largo respiro, allora la sua estinzione non è stata positiva. Quando le grandi ideologie entrano in crisi, la politica si riduce a pura amministrazione. E quando si riduce a pura amministrazione, la gestione della macchina prevale sugli obiettivi che la stessa macchina dovrebbe proporsi. Insomma, l’esercizio del potere per il potere, senza alcuna motivazione ideale172. Concordo con Asor Rosa, e intendo per ideologia quell’insieme di credenze condivise da un gruppo e dai suoi membri che guidano l’interpretazione degli eventi e che quindi condizionano le pratiche sociali173. Penso che sia opportuno esporne i princìpi, come sono enunciati in un documento ufficiale del sito: la consapevolezza del carattere eminentemente comune, collettivo, pubblico della città (e dell’intero territorio urbanizzato) nel suo insieme e nelle sue componenti più significative, riassumibile nell’espressione città come bene comune, e del diritto di tutti gli abitanti presenti e futuri di goderne l’uso e di condividerne la responsabilità, riassumibile nell’espressione diritto alla città. Di conseguenza si sostiene la prevalenza, nelle questioni attinenti il governo della città e del territorio, dell’interesse comune e generale su quello individuale, in un equilibrato rapporto tra dimensione pubblica e dimensione privata della vita di ciascuno”. Un ulteriore principio riguarda l’applicazione della giustizia sociale al territorio: “la ricerca dell’equità per tutti gli uomini (indipendentemente dalle condizioni sociali, dal reddito, dal credo religioso, dall’appartenenza politica, dall’etnia, lingua, cultura) nell’accesso ai beni comuni territoriali e alla responsabilità del loro governo, con particolare e prioritaria attenzione per i soggetti più fragili”. 172 A. Asor Rosa, Il grande silenzio. Intervista sugli intellettuali, a cura di S. Fiori, Roma-Bari, Laterza, 2009, p. 82. 173 T. A. van dijk, Ideologie. Discorso e costruzione sociale del pregiudizio, Roma, Carocci, 2004 (tit. orig. Ideology: A Multidisciplinary Approach, London, Sage, 1998). 177 Assieme alle affermazioni positive quelle critiche: eddyburg promuove «la critica all’appiattimento di ogni dimensione dell’uomo e della società alle pratiche, agli interessi e ai meccanismi di dominio dell’economia data, che caratterizza il mainstream dell’attuale processo di globalizzazione e di insostenibile sfruttamento di tutte le risorse, e la rivendicazione della necessità e possibilità di ricerca di alternative credibili e praticabili» e, ugualmente, «la critica della concezione di uno sviluppo basato sulla crescente e indefinita produzione di merci, indipendentemente della loro effettiva utilità ai fini del miglioramento del patrimonio individuale e sociale di cui sopra». Eddyburg, infine, assume come proprio principio: la condivisione dell’impegno a contribuire alla crescita della capacità degli uomini di aumentare il proprio patrimonio, individuale e sociale, di responsabilità, consapevolezza, conoscenza, sapienza, convivialità, capacità di comunicazione e interazione con i propri simili. 178 Capitolo tredicesimo Chi difende il paesaggio? 1. L’avventura della Sardegna Nonostante il declino generale, ci sono anche in Italia amministrazioni pubbliche che non hanno dimenticato le loro responsabilità né delegato i poteri ai portatori di interessi economici, e fanno pulitamente il loro mestiere. Essi applicano il metodo e gli strumenti della pianificazione per governare il territorio nell’interesse generale. Con due amministrazioni di questo tipo mi capitò di lavorare: la Regione autonoma Sardegna e la Provincia di Foggia. In Sardegna era stata approvata una serie di piani territoriali provinciali «con specifica considerazione dei valori paesistici e ambientali», validi quindi agli effetti della legge Galasso del 1985. I piani erano stati poi invalidati dal tribunale amministrativo regionale. Nel giugno 2004 vince le elezioni per il consiglio regionale Renato Soru, imprenditore e creatore di Tiscali, con una lista che raggruppa le nove formazioni della sinistra e del centro, fortemente caratterizzata dalla sua personalità e dal suo programma. In novembre, il presidente Soru fa approvare dal consiglio regionale una legge che assoggetta temporaneamente all’inedificabilità tutte le coste sarde per una profondità di 2000 metri: è un vincolo di salvaguardia, in attesa di formare un piano paesaggistico ai sensi del nuovo «Codice dei beni culturali e del paesaggio», entrato in vigore da qualche mese174. 174 Decreto legislativo 22 gen. 2004, n. 42. Il Codice è il testo legislativo che riassume e sviluppa tutta la precedente legislazione in materia di beni culturali e di paesaggio. Per quest’ultimo, il Codice riprende la normativa della legge Galasso. 179 capitolo tredicesimo Immediatamente si alzano vivissime le proteste del mondo legato alle lottizzazioni turistiche già approvate dai Comuni e ora bloccate dalla legge: si tratta di decine di milioni di metri cubi, previsti in operazioni in cui sono interessati potentati regionali, nazionali, internazionali, dai patron della stampa locale a Berlusconi. Soru non perde tempo. Elabora e fa approvare dalla giunta un documento, «Linee guida per il piano paesaggistico regionale», che delinea i contenuti e il percorso del piano paesaggistico. Costituisce un ufficio per la redazione del piano, composto da alcune decine di tecnici trasferiti da altri uffici della Regione e da un pugno di tecnici a contratto. Istituisce un coordinamento tra gli uffici interessati e un comitato scientifico, del quale mi invita a far parte175. Il comitato viene insediato nell’aprile 2005. Soru illustra, in un breve intervento a braccio, la sue intenzioni. A differenza di quanto faccio di solito, prendo appunti. Ecco che cosa ci disse, dopo aver spiegato perché aveva scelto di redigere il piano all’interno della Regione: Che cosa vorremmo ottenere con il piano paesaggistico regionale? Innanzitutto vorremmo difendere la natura, il territorio e le sue risorse, la Sardegna; la “valorizzazione” non ci interessa affatto. Vorremmo partire dalle coste, perché sono le più a rischio. Vorremmo che le coste della Sardegna esistessero ancora fra cento anni. Vorremmo che pezzi di territorio vergine ci sopravvivano. Vorremmo che fosse mantenuta la diversità, perché è un valore. Vorremmo che tutto quello che è proprio della nostra isola, tutto quello che costituisce la sua identità sia conservato. Non siamo interessati a standard europei. Siamo interessati invece alla conservazione di tutti i segni, anche quelli deboli, che testimoniano la nostra storia e la nostra natura: i muretti a secco, i terrazzamenti, gli alberi, i percorsi, tutto quello che rappresenta il nostro paesaggio. Così come siamo interessati a esaltare la flora e la fauna della nostra isola. Siamo interessati a un turismo che sappia utilizzare un paesaggio di questo tipo: non siamo interessati al turismo come elemento del mercato mondiale176. Espresso in questi termini lo spirito che lo muoveva, il presidente proseguì illustrando le altre ragioni, anche di ordine economico, che lo 175 Del comitato scientifico facevano parte alcuni urbanisti (Filippo Ciccone, Enrico Corti, Roberto Gambino, Vanni Macciocco, Edoardo Salzano, Antonello Sanna), un antropologo (Giulio Angioni), un archeologo (Raimondo Zucca), un botanico (Ignazio Camarda), un ecologo (Helmar Schenk), un giurista (Paolo Urbani), uno scrittore (Giorgio Todde). L’ufficio era diretto dall’ingegner Paola Cannas. 176 L’intervento è in eddyburg, con il titolo L’Italia che vorremmo. 180 chi difende il paesaggio? spingevano alla tutela, e il tipo di turismo al quale era interessato: Perché vogliamo questo? Intanto perché pensiamo che vada fatto, ma anche perché pensiamo che sia giusto dal punto di vista economico. La Sardegna non vuole competere con quel turismo che è uguale in ogni parte del mondo (in Indonesia come alle Maldive, ai Carabi come nelle isole del Pacifico), ma vede la sua particolare specifica natura come una risorsa unica al mondo perché diversa da tutte la altre. Dopo gli interventi dei membri della giunta regionale e di quelli del comitato scientifico, Soru intervenne nuovamente: Bisogna che siano chiari i princìpi che sono alla base delle “linee guida”. Il primo principio è: non tocchiamo nulla di ciò che è venuto bene. Poi ripuliamo e correggiamo quello che non va bene. Rendiamoci conto degli effetti degli interventi sbagliati: abbiamo costruito nuovi villaggi e abbiamo svuotato i paesi che c’erano: abbiamo costruito villaggi fantasmi, e abbiamo reso fantasmi i villaggi che c’erano. Dobbiamo sapere che facciamo un investimento per il futuro. Dovremo calcolare gli effetti economici della conservazione e della ripulitura. Oggi si costruisce importando da fuori componenti ed elementi, il moltiplicatore dell’attività edilizia si è drasticamente abbassato. Lo aumenteremo di nuovo se sapremo riutilizzare le tecniche tradizionali, i materiali tradizionali, i saperi tradizionali per conservare e ripulire. Dobbiamo essere capaci di far comprendere che tipo di Sardegna abbiamo in mente. Il comitato si riuniva un paio di volte al mese. Il personale dell’ufficio era molto motivato e capace e, nel frattempo, aveva svolto un importante lavoro di base, utilizzando anche il materiale prodotto dai piani provinciali. Renato Soru era stato il creatore di Tiscali (il noto provider informatico): era naturale poter contare su un alto livello di digitalizzazione delle basi informative. Ciononostante, il lavoro non fu facile. Difficoltà si manifestarono su numerosi aspetti relativi all’applicazione del «Codice dei beni culturali e del paesaggio» e alla necessità di rispettare il termine di dodici mesi per il primo stralcio del piano, relativo alle coste. Le questioni che ci occuparono di più erano: la necessità di concludere il primo stralcio del piano rinviando la pianificazione della restante parte del territorio, ma prevedere al tempo stesso una struttura del piano che consentisse il suo facile completamento; l’esigenza di definire una normativa particolarmente stringente per il bene “fascia costiera”, sovrapposta a quella delle “categorie di beni” e a quella degli “ambiti di paesaggio” (comprendenti più comuni limitrofi caratterizzati 181 capitolo tredicesimo da unitarietà di paesaggio); l’intreccio tra i diversi criteri indicati dalla legislazione, in particolare il rapporto tra la definizione di regole per le diverse “categorie di beni”, analoghi in ogni parte del territorio, e quelle relative ai diversi “ambiti di paesaggio” nei quali il territorio andava articolato 177. Sul rapporto tra “categorie di beni” e “ambiti di paesaggio” è opportuno soffermarsi, poiché si tratta di una questione sottesa al dibattito in corso tra quanti si occupano di pianificazione del paesaggio. 2. La pianificazione del paesaggio tra top down e bottom up Per tutelare il paesaggio con la pianificazione si tende solitamente a seguire due criteri che, come spesso accade in Italia, vengono considerati come alternativi anziché come punti di vista differenti che possono convivere, integrandosi in un procedimento complesso, che la natura stessa del territorio richiede. In altri termini potremmo dire che l’uno prevede un andamento top down delle decisioni, partendo dal generale e dal tipico, mentre l’altro segue l’andamento opposto, dal locale e dallo specifico. Il primo si concentra soprattutto nella individuazione di tipi di elementi territoriali da sottoporre a tutela, l’altro invece cerca di definire la singolarità dei differenti paesaggi. La prima tendenza, se così vogliamo chiamarla, ha il suo riferimento giuridico nelle sentenze costituzionali 55 e 56 del 1968. Come il lettore ricorderà178, da quelle sentenze era emersa la legittimità costituzionale di una procedura di vincolo che avesse quale suo punto di partenza l’individuazione, da parte del legislatore, di determinate “categorie di beni a confine certo”, ciascuna dotata di caratteristiche tali da giustificare particolari limitazioni alle trasformazioni e utilizzazioni possibili. Il compito successivo consisteva nella concreta individuazione sul territorio dei beni appartenenti alle “categorie”, dei caratteri di ciascuna di esse che dovevano essere conservati, di ciò che eventualmente poteva essere trasformato e delle regole della trasformazione. Questo era, ed è, il compito della pianificazione paesaggistica. 177 Questi temi sono sviluppati e chiariti nei materiali sul piano paesaggistico regionale nel sito della Regione, nonché nel mio documento La filosofia del piano, in eddyburg. 178 Vedi capitolo 4, paragrafo 5. 182 chi difende il paesaggio? La legge 431 del 1985 (la legge Galasso) era intervenuta in armonia con questo criterio, e aveva definito un elenco di “categorie di beni” da tutelare nell’interesse nazionale, perché costitutivi della grande orditura del paesaggio della Penisola: i monti, le coste, i corsi d’acqua, i boschi, i ghiacciai, i vulcani, le aree archeologiche ecc. La legge, oltre a elencare le categorie di beni e porre un vincolo provvisorio su fasce di territorio geometricamente definite179, stabiliva che la vera tutela intervenisse mediante la pianificazione, alla quale veniva assegnato il compito di precisare l’individuazione e articolare la tutela in relazione alle caratteristiche specifiche d’ogni categoria di beni. La Corte costituzionale aveva riconosciuto la piena legittimità di quel dispositivo. Non solo. In più occasioni aveva dichiarato necessario che l’individuazione dei beni e la definizione delle regole per la loro tutela proseguisse sistematicamente: la legge, ha affermato la Corte, «introduce una tutela del paesaggio improntata a integralità e globalità, vale a dire implicante una riconsiderazione assidua dell’intero territorio nazionale»180. Essa non si esaurisce nelle grandi componenti del paesaggio nazionale, ma deve prolungarsi nell’azione assidua di tutte le istituzioni della Repubblica: quindi anche le Regioni, le Province, i Comuni. Nelle stesse occasioni la corte aveva riconosciuto come, in conformità con l’articolo 9 della Costituzione, le scelte relative alla tutela del paesaggio avessero assoluta prevalenza rispetto a quelle concernenti altri interessi, esigenze, motivazioni: esse sono un prius rispetto alle decisioni di trasformazione. La pianificazione paesaggistica (o la componente paesaggistica della pianificazione territoriale e urbanistica) deve precedere le componenti che attribuiscono al territorio capacità di “sviluppo urbanistico”, che prevedono cioè la realizzazione di infrastrutture, urbanizzazioni, edificazioni. Il «Codice dei beni culturali e del paesaggio» aveva ripreso integralmente la disciplina della legge Galasso, introducendo un ulteriore elemento: l’individuazione degli ambiti di paesaggio. Questi non sono precisamente definiti dalla legge, e anzi il loro ruolo si è ridotto nelle successive versioni del Codice. Nella sostanza essi fanno tuttavia riferimento a quell’altro criterio di analisi e trattamento del paesaggio cui ho 179 Il vincolo provvisorio, consistente nell’obbligo di acquisire il parere delle soprintendenze ai beni culturali per ogni progetto di trasformazione, era stabilito, ad esempio, per una fascia di 300 metri per le coste marine e lacustri, 150 metri per i corsi d’acqua, per le aree di montagna superiori a una certa quota. Si trattava, come si disse allora, di “sciabolate”, di indicazioni rozze, in attesa degli approfondimenti della pianificazione paesaggistica. 180 Sentenza costituzionale n. 151 del 1885. Si veda anche la sentenza 327 del 1990. 183 capitolo tredicesimo sopra accennato: un criterio che pone l’accento sulla specificità di ogni contesto territoriale, e sullo stretto intreccio tra le varie componenti del paesaggio e tra queste e la società che li ha prodotti e che li utilizza. Assumere questo criterio significa avere un atteggiamento più progettuale, più orientato alla definizione di regole che tengano conto delle concrete esigenze della società che usa i territori, alle declinazioni locali degli elementi di territorio riconducibili alle diverse “categorie” tipizzate. Non a caso, il Codice attribuisce al piano paesaggistico, proprio in relazione degli “ambiti di paesaggio”, il compito di individuare «le linee di sviluppo urbanistico ed edilizio, in funzione della loro compatibilità con i valori paesaggistici riconosciuti e tutelati» (articolo 135). Il criterio degli “ambiti di paesaggio” è riconducibile a un altro tema, che anima molte discussioni nel mondo dei cultori della pianificazione del paesaggio. È il tema introdotto dalla Convenzione europea del paesaggio181, la quale, nella definizione stessa di paesaggio, attribuisce particolare rilevanza alla nozione di territorio «come percepito dalle popolazioni». È un tema delicato, sul quale tornerò tra poco. Per ora mi limiterò ad affermare che in Sardegna eravamo terrorizzati al pensiero di quale fosse la “percezione del paesaggio” nei comuni le cui amministrazioni, col consenso dei cittadini, avevano devastato le coste della Gallura. Trovammo comunque un corretto equilibrio applicando entrambi i criteri. Individuammo puntualmente gli elementi del paesaggio che costituivano “categorie di beni” meritevoli d’essere tutelati per le loro caratteristiche tipiche, e per ciascuna di esse stabilimmo precise regole di conservazione e trasformazione. E individuammo, con altrettanta attenzione alle relazioni tra le diverse componenti del paesaggio e la loro matrice storica, gli “ambiti di paesaggio”, cui attribuimmo un insieme di prescrizioni, direttive e indirizzi che dovevano guidare le successive fasi della pianificazione, alle quali procedere in collaborazione tra Regione e Comuni, naturalmente rispettando le regole dettate dal primo criterio. Il primo stralcio del piano, quello relativo agli ambiti costieri182, fu adottato dalla giunta regionale nei tempi stabiliti. Seguirono le fasi della pubblicazione, delle numerose riunioni con i Comuni per illustrare il piano e chiarirne gli aspetti più nuovi, e infine delle controdeduzioni. Il piano fu approvato definitivamente il 6 settembre 2006. Tentativi dell’opposizione di destra di invalidarne i risultati non ebbero successo, 181 La Convenzione europea sul paesaggio, sottoscritta a Firenze nel 2000, è stata ratificata dallo Stato italiano con la legge 9 gen. 2006, n. 14. 182 Essi comprendevano circa 140 Comuni, raggruppati in 27 ambiti. Alcune delle norme erano estese anche alle parti di territorio ricadenti negli ambiti interni. 184 chi difende il paesaggio? poiché la giustizia amministrativa, cui gli avversari s’erano appellati, diede ragione ai difensori del piano. Il Tar affermò, nella sua sentenza, che nella regione non si era visto, fino ad allora, uno studio così articolato, vasto e dettagliato, capace di mettere insieme e correlare una molteplicità di discipline che concorrono alla conoscenza e gestione del territorio, geografia, storia, archeologia, architettura, demo-antropologia, beni culturali e ambientali etc.183. Parallelamente alle ultime fasi dell’iter procedurale del primo stralcio del piano (relativa agli ambiti costieri), proseguiva il lavoro di completamento relativo agli ambiti interni. Ma alla fine, i reiterati tentativi da parte di alcune componenti della maggioranza di ritardare l’approvazione del secondo stralcio del piano indussero Soru a dare le dimissioni. Si giunse allo scioglimento del consiglio e a nuove elezioni. Soru fu sconfitto. La discussione sulle ragioni della vittoria della destra berlusconiana è ancora aperta. Una parte di errori li ha certamente fatti il presidente uscente, il quale si è preoccupato più della sostanza delle decisioni che del consenso; ma in misura determinante ha influito la pervasiva ideologia dominante nell’età berlusconiana, che ha contaminato – in Sardegna come nel resto d’Italia – un’estensione più larga di quella elettorale. 3. Il paesaggio percepito Al paesaggio dedicammo la terza edizione della Scuola di eddyburg (nel 2007). Guardammo al tema secondo un approccio diverso, non tanto sugli strumenti, quanto sugli attori. Ci domandammo: chi difende il paesaggio, a chi spetta la sua difesa? Il lavoro fu articolato in tre sessioni: la prima dedicata, come di consueto, al «Glossario» (al significato e all’utilizzo di parole chiave della pianificazione paesaggistica, che nel corso di questi ultimi anni hanno subìto uno slittamento e talvolta uno svuotamento semantico; la seconda sessione all’illustrazione delle iniziative promosse dalle amministrazioni regionali della Sardegna e della Puglia; la terza infine approfondiva il tema delle relazioni tra istituzioni, cittadini, associazioni e movimenti per la tutela del paesaggio. Il punto sul quale il dibattito mi sembrò particolarmente interessante fu l’interpretazione di quella definizione della Convenzione europea cui ho accennato: la concezione del paesaggio come ciò che viene percepito 183 Sentenza 11 giu. 2009, n. 979, Tar Regione Sardegna. 185 capitolo tredicesimo dalle popolazioni locali. È una definizione che, letta nel contesto italiano, è molto ambigua e tendenzialmente pericolosa. Per un verso, essa pone l’accento su due verità difficilmente controvertibili: la prima è che il paesaggio è certamente il risultato della plurisecolare azione del lavoro e della cultura dell’uomo (della società) sulla natura, nel corso della quale essa è stata foggiata acquisendo le forme che ne determinano la qualità; la seconda, che una tutela efficace del paesaggio si potrà avere solo quando le articolazioni della società saranno capaci di far prevalere l’esigenza della conservazione dei propri paesaggi sulle trasformazioni finalizzate al soddisfacimento di interessi individuali, prevalentemente economici. Ma a fronte di queste verità ve ne sono altrettante di segno opposto. Nella civiltà contemporanea il rapporto tra l’uomo e la natura si è radicalmente modificato. Da qualche secolo, la società adopera il territorio e l’ambiente naturale non come qualcosa che ha valore in sé, per le sue qualità intrinseche, per il patrimonio che costituisce, ma solo per le risorse che può trarne, estraendo le ricchezze nascoste nelle sue profondità fino al loro esaurimento, cancellando la naturalità con l’edificazione di manufatti utili all’incremento della ricchezza del proprietario, trascurandone la cura e la manutenzione. La spinta della “valorizzazione economica”, intesa come utilizzazione privatistica dell’enorme differenziale economico che esiste tra terreno rurale e terreno edificabile, orienta la “percezione delle popolazioni” verso prospettive radicalmente diverse da quelle che hanno caratterizzato le civiltà che, in Italia e altrove, hanno costruito e mantenuto nei secoli “bei paesaggi”. Il mio punto di partenza era l’affermazione dell’interesse generale alla tutela del paesaggio, che vedevo espressa limpidamente nell’articolo 9 della Costituzione. Mi spingeva in questo senso anche la mia esperienza di amministratore, durante la quale avevo trovato nella Soprintendenza ai beni culturali e nella Regione sponde cui ricorrere ogni volta che gli interessi locali spingevano in direzione opposta a quella della tutela di patrimoni comuni. Mi interessava quindi il punto di vista di chi aveva un approccio diverso, come Paolo Baldeschi184. Nel suo intervento, Baldeschi partì dalla constatazione che le politiche sul paesaggio sono sempre più rivolte ai cittadini come attori, come testimoniano sia la Convenzione europea sul paesaggio, sia «i comitati 184 Paolo Baldeschi opera presso l’università di Firenze, nell’ambito del Laboratorio di progettazione ecologica degli insediamenti (Lapei) diretto da Alberto Magnaghi. A Magnaghi e al Lapei fa capo la più interessante esperienza italiana di progettazione del paesaggio bottom up, che parte da una lettura diretta del territorio e partecipata con gli abitanti dell’«area di studio». 186 chi difende il paesaggio? che si mobilitano per difendere il loro paesaggio» (Baldeschi è attivo anche nella Rete toscana dei comitati per la difesa del territorio). Sottolineò che la Convenzione europea è indubbiamente importante da un punto di vista politico perché pone le “popolazioni” al centro della nozione di paesaggio, ma apre problemi spinosi dal punto di vista della pianificazione. In particolare occorre rispondere a tre domande: a) come articolare il territorio in “determinate parti”?; b) cosa significa percepire un territorio (o, se si preferisce, un territorio percepito)?; c) quali popolazioni?185. Non esiste più un legame biunivoco e quasi esclusivo tra una popolazione e una parte del territorio. Le articolazioni del territorio significative dal punto di vista dei caratteri paesaggistici e ambientali «non hanno alcuna relazione con specifiche società locali», e del resto «lo stesso concetto di società locale, intesa in senso comunitario, è contraddetto da stili di vita e comportamenti in cui il territorio viene vissuto come una rete fatta di relazioni e di nodi, piuttosto che di aree compatte». Il ragionamento avviato da Baldeschi rinviava a due questioni. Da un lato, il fatto che l’interesse per un determinato paesaggio (e in primo luogo la sua percezione) non può essere considerato appannaggio solo della popolazione che lo abita. Si apre qui il tema della interscalarità, del rapporto necessario cioè tra le varie scale e livelli: come spesso ripeto, ciascuno di noi appartiene a più patrie, al suo paese o città, alla nazione, all’Europa, al pianeta. Dall’altro lato, troppo spesso si sono completamente dissolti i legami tra la popolazione di oggi e quella che ha costruito quel paesaggio; in particolare, la vita sociale e la cultura dominante fanno oggi prevalere nettamente gli interessi dello sfruttamento economico, generalmente distruttivi del paesaggio, su quelli della bellezza e della conoscenza, e hanno fatto scomparire la virtù della parsimonia. Come ha scritto Vezio De Lucia, «fra lo sviluppo e il paesaggio è in corso una guerra mondiale che non finisce mai, e che il paesaggio continua a perdere. (…) Anche nella più limpida delle circostanze, il paesaggio è quasi sempre costretto alla resa se sono in gioco nuovi posti di lavoro, incremento del reddito, prospettive turistiche»186. Lo hanno testimoniato del resto, nelle stesse giornate della scuola, molti interventi: Dario Predonzan descrisse le devastazioni in corso in una regione dal 185 Vedi in eddyburg il testo di Baldeschi, Territorio e paesaggio nella disciplina paesaggistica, nei materiali sull’edizione 2007 della Scuola. 186 V. De Lucia, A proposito di paesaggio, in eddyburg. 187 capitolo tredicesimo passato virtuoso come il Friuli Venezia Giulia, Sandro Roggio descrisse la Sardegna prima di Soru. Aiuta a maneggiare quella controversa definizione l’interpretazione che ne dà Alberto Magnaghi in uno scritto presentato alla Scuola187: la Convenzione europea del paesaggio apre la strada allo sviluppo della coscienza di luogo: dar voce alla percezione sociale del paesaggio e dei suoi valori da parte delle popolazioni attraverso processi partecipativi. (...) I processi partecipativi tuttavia devono tener conto del fatto che: - la designazione di paesaggio come «determinata parte del territorio così come è percepita dalle popolazioni» (Convenzione europea), è un processo e non un dato, un processo di presa di coscienza che il paesaggio è stato costruito dalle generazioni passate ed è trasformato da quelle presenti anche per quelle future; - non si dà nei territori locali una identificazione stretta fra popolazioni e luoghi: si dà una molteplicità socio-culturale dei luoghi dell’abitare; “abitanti” significa abitanti “locali” ma anche nuovi, residenti stabili, ma anche temporanei, ospiti, city users, presenze multietniche, giovani, anziani, ecc., con percezioni differenziate e a volte conflittuali dei valori del paesaggio. La pianificazione non può quindi ridursi, prosegue Magnaghi, alla semplice registrazione di una “percezione” data, ma un processo euristico di decodificazione e ricostruzione di significati, attraverso l’apprendimento collettivo del paesaggio come bene comune, facendo interagire saperi esperti e saperi contestuali per il riconoscimento da parte dei diversi attori dei valori patrimoniali e per innescare patti per la cura e la valorizzazione del patrimonio. Non si dà infatti la gestione di un paesaggio come bene comune se è il risultato di una somma di azioni individuali dettate da interessi particolari. È necessario un processo partecipativo che avvii una trasformazione culturale di riconoscimento condiviso dei beni comuni per agire le trasformazioni del paesaggio e la fruibilità collettiva di beni in via di privatizzazione: il paesaggio agrario, le coste, gli spazi pubblici delle città, i fiumi, le foreste. E se la percezione del paesaggio non è il punto di partenza, ma l’obiettivo di un «processo euristico», di un percorso aperto da costruire per ipotesi e tentativi modificati e aggiustati, allora è evidente che occorre operare sui versanti sia della consapevolezza di chi vive il paesaggio 187 Il testo è poi ripreso nella relazione generale dello «Schema del piano paesaggistico territoriale della Regione Puglia» adottato dal consiglio regionale nell’ottobre 2009. 188 chi difende il paesaggio? a distanza più ravvicinata, sia della salvaguardia “dall’alto” della permanenza nel tempo delle componenti essenziali del patrimonio paesaggistico. Del resto, anche le esperienze positive come il piano paesaggistico regionale della Campania, illustrato da Stefano De Caro e Antonio di Gennaro, e le iniziative in corso da parte della Regione Puglia, raccontate da Angela Barbanente, confermavano in me la linea d’azione che stavamo praticando in Sardegna. È indispensabile procedere in entrambe le direzioni: dall’alto, Stato e Regioni, perché a essi spetta tutelare gli interessi delle comunità più vaste e perché costituiscono i poteri – almeno in teoria – meno sensibili agli interessi più miopi; contemporaneamente, dal basso occorre promuovere la crescita della consapevolezza, che trasformi le popolazioni in attori responsabili della tutela del territorio, che è “loro” quanto “nostro”. 4. La sorpresa di Foggia Due ragioni ci avevano spinto a svolgere in Puglia l’edizione 2007 della Scuola. In quella regione si era costituita una giunta regionale che – come ho accennato – aveva preso molto sul serio la pianificazione del territorio e del paesaggio. L’assessore Barbanente era stata scelta dal presidente della Regione, Nichi Vendola, proprio perché esperta di quel mestiere; a sua volta, Barbanente aveva costituito una buona squadra per la pianificazione del paesaggio, coordinata da Alberto Magnaghi, e aveva chiamato a dirigere l’ufficio del piano Piero Cavalcoli, organizzatore dell’efficientissimo ufficio bolognese che aveva condotto la migliore operazione di pianificazione provinciale d’Italia. In quella stessa regione, per la Provincia di Foggia, stavo lavorando da qualche anno per una pianificazione territoriale largamente orientata alla tutela del paesaggio. L’esperienza fu interessante, per ragioni diverse da quella della Sardegna. Foggia suscitava echi lontani nella mia memoria. L’impresa della mia famiglia aveva lavorato a lungo nelle bonifiche del Tavoliere e di Manfredonia, a partire dai primi decenni del Novecento. Ricordo che una volta – avevo sei o sette anni – mio padre mi portò con sé a pranzo nel ristorante del famoso Albergo Cicolella. Più tardi, ero stato a Foggia, e nella vicina Cerignola, col mio amico Peppe Pavoncelli, della famiglia di industriali agrari188. Quando il capo di gabinetto del presidente della 188 Vi ho accennato nel Prologo, paragrafo Villa Pavoncelli. 189 capitolo tredicesimo Provincia (Franco Mercurio, allievo dello storico Piero Bevilacqua) mi chiese di coordinare il lavoro per il piano, accettai: naturalmente alla solita condizione, di poter cioè costituire un forte e motivato ufficio che fosse protagonista della progettazione e della gestione. La mia proposta fu accolta, e così l’elenco di consulenti che avrebbero affiancato l’ufficio189. Il dirigente dell’ufficio, l’architetto Stefano Biscotti, impiegò tutta la generosità, l’impegno, la conoscenza degli uffici e la capacità di rapportarsi con gli assessori per cercare di costituire un ufficio adeguato, e opportunamente attrezzato. Furono assunti con contratti precari tre giovani laureati che si rivelarono una vera risorsa190. Ma dovettero passare molti anni prima che Biscotti riuscisse a ottenere per loro una stabilità di ruolo e un compenso non troppo incongruo rispetto alle mansioni che avevano imparato a svolgere. In poco tempo riuscimmo a costruire un sistema informativo territoriale, nel quale furono sistematicamente versati i dati noti o appositamente prodotti: un sistema ovviamente aperto anche ad altri potenziali utilizzatori. Una buona e utile sinergia si realizzò anche con l’ottimo ufficio di pianificazione territoriale della Provincia di Bologna. Consegnammo una bozza di piano nel luglio 2003. Passate le elezioni, la maggioranza non cambiò, la nuova giunta provinciale approvò la bozza (senza peraltro mai discuterla nel merito) e andammo avanti. Concludemmo la redazione del piano (con un faticoso lavoro di adeguamento alla nuova legislazione nazionale e regionale che era intervenuta nel frattempo) nel 2007. Ma il consiglio provinciale giunse alla scadenza del suo mandato senza approvarlo. Evidentemente, al di là dell’adempimento a un obbligo di legge esso non interessava a nessuno. Nel 2008 ci furono le elezioni per il rinnovo del consiglio. Vinse un’alleanza di centrodestra: assessore all’urbanistica un giovane ricercatore universitario di economia, dell’area di Alleanza nazionale, Leonardo di Gioia. Studiò il piano, lo considerò uno strumento utile per evitare di rincorrere i progetti e i finanziamenti estemporanei derivanti dalle diverse iniziative amministrative settoriali, ne condivise gli orientamenti e le scelte. Nel giro di pochi mesi l’iter del piano fu concluso e approvato 189 Collaboravano sistematicamente con me Luigi Scano, per gli aspetti normativi, e Mauro Baioni, soprattutto come trainer dei collaboratori interni e collegamento con l’ufficio. Gli esperti erano: Antonio di Gennaro, agronomo e appassionato cultore del paesaggio; Saverio Russo, storico; Stefano Ciurnelli, esperto di infrastrutture e trasporti; Gianfranco Viesti, economista; Luigi Pennetta, geologo. A questi si aggiungevano altri esperti locali per consulenze più specifiche. Più tardi, dopo la scomparsa di Gigi Scano, subentrarono Luca De Lucia e Maurizio Sani. 190 Erano Giovanna Caratù, Cosma Lovascio, Mirella Vitale. 190 chi difende il paesaggio? all’unanimità dal consiglio provinciale. Ancora qualche mese e vedemmo il nostro piano provinciale perfettamente composto (e accolto) nel piano regionale, e potemmo verificare che il piano strategico era costruito come precisa attuazione delle scelte nel piano provinciale191. Un successo, quindi, per quanti avevano lavorato, ma per chi aveva alle spalle una storia come la mia, un successo amaro: era stata una maggioranza di destra a completare con determinazione una vicenda che la giunta di centrosinistra aveva considerato marginale e sostanzialmente inutile. E un insegnamento. Le carte si sono rimescolate: quando la sinistra e il centro abbandonano il buon governo del territorio non è detto che non ci sia qualcuno, sul fronte opposto, che si impadronisca del buonsenso e dei suoi strumenti. Foggia e la Sardegna sono state (per ora) le mie ultime esperienze professionali impegnative. Già da qualche tempo la maggior parte delle mie energie era indirizzata allo strumento che mi consentiva di allargare, contemporaneamente, la rete della mia attività didattica e quella delle persone che condividevano i miei interessi, le mie paure e le mie speranze: il sito web eddyburg. È attorno a eddyburg che si intrecciavano sempre più strettamente gli eventi della politica urbanistica italiana ed è con eddyburg che cercavamo di intervenire su di essa. 191 In Italia, molto spesso, i piani strategici non sono meramente tattici (non consistono cioè in un semplice elenco di opere), ma sono in contraddizione rispetto agli atti di vera e propria pianificazione comunale, provinciale e regionale. 191 192 Capitolo quattordicesimo Urbanizzazione a go go 1. La mistificazione dei “diritti edificatori” All’inizio di questo secolo venne presentato il nuovo prg di Roma, in gestazione da oltre un decennio. Il gruppo di amici romani, che fa capo a Vezio De Lucia e a Paolo Berdini, aveva seguito da tempo la politica urbanistica romana. Questa era stata caratterizzata, a partire dalla metà degli anni Novanta, dagli accordi definiti volta per volta con gli interessi immobiliari, assumendo lo slogan del “pianificar facendo”: in sostanza, adottando la prassi di definire le scelte sull’uso del suolo con singoli atti slegati da ogni coerenza complessiva. In questo modo, approfittando delle smagliature introdotte nella legislazione urbanistica per consentire deroghe alle regole garantiste della pianificazione, era stata autorizzata l’edificazione di 44 milioni di metri cubi, in aggiunta alle gigantesche previsioni edificatorie del vecchio piano del 1962 e delle successive varianti192. I miei amici avevano dedicato un’intera estate ad analizzare il nuovo piano, adottato dalla giunta e in corso di pubblicazione. I dati emersi erano impressionanti. In una città nella quale la popolazione tende a decrescere, i volumi aggiuntivi realizzabili previsti dal piano ammontavano a quasi 67 milioni di metri cubi, mentre i nuovi spazi “urbanizzabili” misuravano quasi 15.000 ettari (una superficie superiore all’intero comune 192 I difensori del nuovo prg sostengono che nel complesso i volumi edilizi del piano non sono aumentati rispetto a quelli del 1962-65. Essi però computano, tra le cubature pregresse cui fanno riferimento, anche le vastissime zone destinate dal vecchio piano a servizi pubblici generali (le zone M1). Quindi ammettono almeno un poderoso trasferimento da edificabilità pubblica a edificabilità privata. 193 capitolo quattordicesimo di Napoli), con un incremento del 45%193: un immenso consumo di suolo, la devastazione delle ampie porzioni residue del mitico Agro romano, celebrato dalla cultura mondiale. E un vistoso regalo agli interessi immobiliari, che riprendevano saldamente nelle loro mani il bastone del comando. Ciò che soprattutto indignava era la formulazione, che Campos Venuti aveva sviluppato e ampiamente propagandato, di una tesi del tutto infondata: che una volta cioè che un piano urbanistico avesse assegnato l’edificabilità a un’area, questo attributo diventava un titolo che non poteva esser tolto al proprietario senza indennizzo adeguato. Era stata coniata l’espressione diritti edificatori, mai adoperata prima nel diritto italiano. Mi misi a studiare, con i suggerimenti e i testi che mi forniva Gigi Scano, per comprendere come la giurisprudenza avesse trattato la questione. Scoprii che le cose erano radicalmente diverse da quanto gli autori del prg di Roma sostenevano. È giurisprudenza costante che il Comune possa, con un nuovo piano, modificare ampiamente le previsioni di un piano precedente, non soltanto nel caso di un piano generale (come il prg) ma anche di un piano di lottizzazione privata per il quale sia già stata stipulata con i proprietari una convenzione a norma di legge. In quest’ultimo caso, ovviamente, è necessario indennizzare il proprietario per le spese che ha legittimamente sostenuto (e che è in grado di documentare), relative all’attivazione del piano. Esposi le mie conclusioni in una relazione, sulla quale concordò, esprimendo un parere pro veritate, il professor Vincenzo Cerulli Irelli, esperto di diritto amministrativo. La illustrai in un convegno di Italia Nostra. Naturalmente le nostre convinzioni furono comunicate al sindaco Walter Veltroni il quale, dopo qualche cortese ringraziamento, andò avanti per la sua strada. I miei amici, con l’appoggio delle associazioni ambientaliste (soprattutto Italia Nostra), di decine e decine di comitati cittadini sorti un po’ ovunque nelle periferie romane, e di eddyburg riuscirono a far divampare un’accesa polemica e una forte reazione popolare. Ma la marcia trionfale del piano non era terminata. Sorgevano ovunque palazzoni in aree prive di servizi, di spazi pubblici, di efficaci collegamenti, mentre il problema della casa per chi non aveva reddito sufficiente per accedere al mercato privato continuava a non essere 193 I dati sono tratti dalla relazione Troppo consumo di suolo nel nuovo prg di Vezio De Lucia, Alessandro Abbaterusso, Georg J. Frisch e Andrea Giuralongo, presentata alla stampa il 16 set. 2002 e condivisa con l’associazione Polis, Italia Nostra, Comitato per la bellezza,Vas e Wwf. In eddyburg. 194 urbanizzazione a go go risolto. Tutto ciò è stato raccontato da Paolo Berdini194 e nell’ottimo servizio realizzato da Paolo Mondini per il programma Report di Rai3 curato da Milena Gabanelli195. La presunta impossibilità di cambiare le decisioni del passato aveva fornito un ulteriore decisivo sostegno a un modo tutto nuovo di pianificare, basato esclusivamente, o quasi, sulla contrattazione con la proprietà privata. In un’occasione pubblica, riferendomi alla molteplicità di piani “anomali”, derogatori della classica pianificazione urbanistica, elaborati e messi a punto negli anni di Tangentopoli e approvati a getto continuo in quelli immediatamente successivi, osservavo che ciò che accomuna la quasi totalità di questi piani anomali è che enfatizzano il circoscritto e trascurano il complessivo, celebrano il contingente e sacrificano il permanente, assumono come motore l’interesse particolare e subordinano ad esso l’interesse generale, scelgono il salotto discreto della contrattazione e disertano la piazza della valutazione corale. Abbandonando le metafore, caratteristica comune di (quasi) tutti gli strumenti di pianificazione “anomali” è quello di consentire a qualunque intervento promosso da attori privati di derogare dalle regole comuni della pianificazione “ordinaria”. Di derogare cioè dalle regole della coerenza (ossia della subordinazione del progetto al quadro complessivo determinato dal piano) e della trasparenza (ossia della pubblicità delle decisioni prima che divengano efficaci e della possibilità del contraddittorio con i cittadini)196. Su questa linea si era proceduto. Il prg di Roma era un buon passo avanti in direzione del passato più oscuro. Era stato preceduto da una iniziativa del Comune di Milano, tesa a superare in modo ancora più esplicito i principi e il metodo della pianificazione pubblica, mediante l’accordo preliminare con la proprietà immobiliare, teorizzandolo con chiarezza. Ecco cosa era successo. Un colto e intelligente urbanista, Luigi Mazza, consulente del Comune 194 195 P. Berdini, Roma tra pianificazione e contrattazione, «Contesti», 2 (2008), p. 79-88. Il servizio si chiamava «I re di Roma» e fu trasmesso il 25 mag. 2008; è visibile nel sito di Report. 196 E. Salzano, Il paesaggio, la storia, l’uomo, relazione alla 1° Conferenza nazionale per il paesaggio, Roma, 14-16 ott. 1999, in eddyburg. Mi riferivo ai «Programmi integrati», ai «Programmi di recupero urbano», ai «Programmi di riqualificazione urbana» (pru), ai «Contratti di quartiere», agli «Accordi di programma quadro», ai «Contratti di programma», ai «Patti territoriali», ai «Contratti d’area», ai «Programmi straordinari di edilizia residenziale» e ai «Programmi di riqualificazione urbana e sviluppo sostenibile del territorio» (prusst), le cui anticipazioni erano avvenute negli anni del craxismo ma che erano diventati prevalenti sulla pianificazione ordinaria a partire dal 1992. 195 capitolo quattordicesimo di Milano, aveva proposto agli amministratori un modello alternativo alla pianificazione “tradizionale”, consistente nel decidere le trasformazioni urbane accogliendo le proposte dei promotori immobiliari, inquadrate in un documento “strategico” a maglie larghissime, poco più di un ideogramma. Il Comune aveva accolto il suggerimento e approvato un documento, «Costruire la grande Milano», sul quale si aprì subito una vivace polemica. Io svolsi una relazione sull’argomento in un convegno dell’associazione Polis tenuto a Salerno (2001); intervenni poi, in giugno in un seminario presso la facoltà di architettura di Roma Tre, nel corso del quale Mazza illustrò il suo documento. Lo criticai, sostenendo che il nuovo modello di pianificazione si proponeva «di rendere il regime delle trasformazioni urbane certo per il privato, e flessibile per il pubblico, a vantaggio degli interessi del privato» e che ciò avrebbe provocato una giungla nella quale solo gli interessi forti sarebbero stati premiati a danno dell’interesse generale. Precisai il mio punto di vista in un ampio articolo sulla rivista «Urbanistica», in contraddittorio con Mazza197. Pochi intervennero criticamente: l’innovazione milanese incontrava lo spirito dei tempi, cui l’urbanistica ufficiale era sensibile. Il coronamento della linea di privatizzazione e mercificazione delle scelte sulla città e il territorio fu costituito dalla proposta di legge per il governo del territorio dell’onorevole Maurizio Lupi, di Forza Italia. 2. La legge Lupi e il consumo di suolo Le antiche proposte e le animate battaglie per la riforma urbanistica erano ormai lontane. Non erano più Fiorentino Sullo e Giacomo Mancini i protagonisti, non erano più il Pci e il Psi gli interlocutori delle nostre proposte di legge urbanistica. Il terreno era molto diverso. Si discuteva ormai sulle proposte di una destra che vent’anni prima era inimmaginabile. Al centro dell’attenzione, all’inizio degli anni 2000, la legge Lupi. Nomen omen. La proposta di riforma del governo del territorio del centrodestra fu presentata da Maurizio Lupi nel 2003. L’esponente di Forza Italia veniva dalla Lombardia, dove era stato assessore “allo sviluppo del territorio” a Milano. Era facile comprendere la legge conoscendo il “modello lombardo”, elegantemente presentato da Luigi Mazza pochi 197 E. Salzano, Il modello flessibile a Milano, «Urbanistica», 118 (2002), p. 140-148. 196 urbanizzazione a go go anni prima. La criticammo subito, sottolineando i suoi aspetti peggiori: l’assunzione della contrattazione tra pubblico e interessi immobiliari come motore della pianificazione, l’introduzione del concetto di “diritti edificatori” nella formulazione che avevamo già contestato, la tendenziale privatizzazione degli spazi pubblici. Rilevammo più tardi le forti similitudini tra quella proposta e il progetto presentato dall’onorevole Mantini per il centrosinistra, e la sostanziale adesione dell’Inu a quella linea culturale198. Riuscimmo a sollevare una vasta campagna contro la proposta Lupi, cui aderirono soprattutto Italia Nostra, il Wwf nel campo dell’ambientalismo (Legambiente ebbe una posizione più defilata), parlamentari nell’area della sinistra (non solo “radicale”) e dei Verdi. Nell’ambito di questa campagna avevamo raccolto, prima su eddyburg e poi anche in un libro, una serie di articoli di critica alla legge199. Alcuni amici del sito si cimentarono nella stesura di un testo legislativo alternativo: una nostra proposta di legge urbanistica, più snella ed essenziale di quella che a suo tempo avevamo predisposto nell’ambito dell’Inu e, più tardi, dell’associazione Polis200. La proposta ebbe un notevole successo. Un gruppo di parlamentari di sinistra la fece propria e la presentò alla Camera dei deputati, altre forze politiche vi si ispirarono, più o meno largamente, al momento di formulare le proprie iniziative legislative. La legge Lupi fu approvata alla Camera dei deputati, ma al Senato la nostra critica, tradotta in pratiche parlamentari da Sauro Turroni, senatore dei Verdi, riuscì ad impedirne l’approvazione definitiva. La polemica contro la legge Lupi si intrecciò strettamente alla preparazione della prima edizione della Scuola di eddyburg, che si svolse nel 2005. Il programma era dedicato al consumo di suolo: un argomento che ci sembrava assolutamente centrale nell’Italia di quegli anni (De Lucia ci tornava sopra sistematicamente nei suoi interventi pubblici, Antonio di Gennaro ne aveva rivelato i pesanti risvolti sull’assetto della 198 Vedi in eddyburg gli editoriali (i cosidetti eddytoriali) 15 (mag. 2003), 20 (lug. 2003) e 36 (gen. 2004). 199 La controriforma urbanistica. Critica al disegno di legge «Principi in materia di governo del territorio» (approvato dalla Camera dei deputati il 28 giugno 2005), a cura di M. C. Gibelli, Firenze, Alinea, 2005. 200 L’iniziativa e i contributi maggiori furono di Paolo Berdini, Giancarlo Storto e Giulio Tamburini. Vi collaborarono Mauro Baioni, Vezio De Lucia, Luca De Lucia, Edoardo Salzano, Luigi Scano. Il testo fu poi inviato ad alcuni autori di testi critici rispetto alla proposta Lupi, che avevano espresso convinzioni analoghe alle nostre e di cui cercammo di inserire le proposte di modifica o integrazione (Luisa Calimani, Roberto Camagni, Pierluigi Cervellati, Antonio di Gennaro, Maria Cristina Gibelli, Francesco Indovina). Il testo è pubblicato in appendice al volume La controriforma urbanistica. 197 capitolo quattordicesimo natura e dei paesaggi agrari, Maria Cristina Gibelli, con Roberto Camagni e Paolo Rigamonti, ne aveva dimostrato i pesanti costi), ma era del tutto trascurato sia dalla pubblicistica corrente sia – cosa ben più grave – dall’urbanistica ufficiale. Era da vent’anni, dai tempi di un ricerca campionaria diretta da Giovanni Astengo, che nessuno si occupava del fenomeno. Raccogliemmo in volume le lezioni e i documenti preparatori, da cui emergevano chiaramente sia l’entità e i danni provocati dal dissennato consumo di suolo, sia l’attenzione che al problema e al suo controllo si manifestava da tempo in altri paesi dell’Europa e financo negli Usa (come ci raccontarono Maria Cristina Gibelli e Georg Frisch): al confronto, l’arretratezza dell’Italia appariva in tutta la sua drammaticità, a partire dalla mancanza di dati nazionali e regionali attendibili sull’entità e sugli effetti del fenomeno. Il punto di partenza per ogni ragionamento dovrebbe essere questo: la terra, il territorio dominato dalla natura, il suolo non urbanizzato, non coperto da cemento e asfalto, lasciato libero allo svolgimento del ciclo naturale, è una ricchezza collettiva, un patrimonio. La sua struttura fisica è una risorsa essenziale, ed essenziali sono le azioni che su di essa compiono la fauna e la flora, anche nelle forme più semplice. Le esigenze della società possono richiedere che qualche ulteriore porzione di terreno venga consumata dalla città: ma occorre dimostrare inoppugnabilmente che quella esigenza non possa essere soddisfatta altrimenti; e bisogna percepire comunque questa scelta come una perdita, che è stato necessario subire ma che si vuole risarcire, restituendo alla natura un frammento del pianeta non più necessario all’urbanizzazione. Il consumo di suolo non giustificato da un reale e dimostrato fabbisogno sociale è un danno per l’umanità. A differenza di quanto accadeva fino a pochi anni fa, oggi tutti, a parole, considerano il consumo di suolo come qualcosa contro cui combattere: una calamità da frenare, se non arrestare del tutto. La cosa scandalosa è che nessuno sa quanto realmente lo sprawl (lo sguaiato espandersi di un’urbanizzazione rada e disordinata sui terreni rurali) incida in termini quantitativi sul nostro territorio. Vezio De Lucia enuncia spesso un dato, che è grossolano ma esprime l’entità del fenomeno visto nella sua tendenza recente. Solo un decimo di tutte le aree oggi urbanizzate lo erano prima della seconda guerra: il novanta per cento di tutto ciò che oggi è sottratto alla natura, coperto da asfalto, cemento, mattoni, è stato prodotto negli ultimi settant’anni. E il disastro prosegue, indisturbato e addirittura ignorato nella sua reale consistenza. Ma i numeri non ci sono: vengono sparati a caso; c’è chi si basa sulle statistiche agrarie dell’Istat, chi invece spara numeri derivati dal satellite del 198 urbanizzazione a go go programma Corine201. Gli esperti di eddyburg sostengono invece che tutte le fonti disponibili sono inefficaci al fine di misurare davvero, con una qualche attendibile certezza, le dimensioni e la dinamica del fenomeno. Le statistiche dell’Istat misurano la riduzione dei terreni agrari, la quale però non è dovuta solo all’espansione urbana ma in larga misura anche all’abbandono colturale, alla progressiva sparizione delle aziende agricole marginali. E il Corine non è in grado di misurare aree urbanizzate inferiori ai 25 ettari: trascura quindi grandissima parte degli insediamenti più sparpagliati (il vero e proprio sprawl), come i capannoni isolati, le strade e le altre infrastrutture. Eppure, il fenomeno ha una dinamica sempre più preoccupante. Gli ultimi tre rapporti dell’Agenzia europea per l’ambiente, che riguardano il land cover change (consumo di suolo), lo sprawl e l’evoluzione delle aree costiere, sottolineano come la crescita dei sistemi urbani in Europa stia avvenendo a un tasso non sostenibile, che comporterebbe il raddoppio delle città nell’arco di poco più di un secolo. È solo dopo la prima edizione della Scuola di eddyburg che i temi del consumo di suolo e dello sprawl sono venuti all’attenzione dell’urbanistica ufficiale e della politica, sebbene più nella retorica delle parole che nei fatti. Gli urbanisti più sensibili al tema e qualche amministrazione hanno provveduto a proprie rilevazioni; l’Inu e Legambiente hanno dato vita a un osservatorio, e poco altro è accaduto. Al momento, i dati disponibili sono parziali, limitati a singole zone, oppure sono desunti dalle solite fonti insufficienti, oppure ancora derivanti da stime approssimative. Non c’è oggi proposta legislativa né atto di pianificazione regionale, provinciale o comunale che non deprechi l’invasione del cemento o lo “svillettamento” del territorio, ma rarissimi sono quelli che realmente ne dispongono la fine. Molto ampio è invece nella società il movimento che spinge a contrastarli. Voglio citare il numero crescente di persone, comitati, gruppi di cittadini che aderiscono alla rete Stop al consumo di territorio, nata nel 2007 nell’Astigiano, subito sostenuta da Luca Mercalli, popolare meteorologo, e critico della devastazione del territorio dai canali televisivi; da Carlo Petrini, l’inventore di Slow Food e di una sana alimentazione; da Domenico Finiguerra, il sindaco del comune di Cassinetta di Lugagnano che ha fatto il primo prg “a consumo zero” di territorio, e naturalmente da eddyburg. 201 Il Corine (Coordination of Information on Environment) è un programma europeo di rilevazione satellitare del territorio. 199 capitolo quattordicesimo 3. Pubblico e privato nella costruzione della città Sprawl non significa solo devastazione del territorio e riduzione ingiustificata della naturalità; significa anche disgregazione della città. Il consumo di suolo è un aspetto di una tendenza più generale, che vede dissolversi i legami sociali che costituiscono la città, anche perché questa viene perdendo via via, sotto la forte pressione ideologica e politica del neoliberismo straccione all’italiana, il suo carattere comune, collettivo, pubblico. Fu quindi naturale, dopo un’edizione della Scuola dedicata al «Consumo di suolo», organizzarne un’altra, nel 2006, intitolata alla «Costruzione della città pubblica». «Piazze, edifici, strutture di servizio, e la struttura stessa dei centri urbani sono stati ideati, nel corso della Storia, per favorire l’incontro e le relazioni sociali degli abitanti», ricordava Mauro Baioni nell’introdurre le lezioni ed enunciare i temi. Se i beni collettivi non sono presenti oppure non vengono costantemente mantenuti, le città degradano, accentuando le divaricazioni sociali, favorendo ulteriormente la privatizzazione dei benefici a vantaggio di pochi benestanti e la socializzazione dei costi per il resto della collettività, incoraggiando le persone a rinchiudersi nel proprio particolare, individuale, familiare o gruppo. Nelle aree urbane destrutturate chi è svantaggiato resta indietro. I primi a subire le conseguenze sono i più deboli: non solo i poveri, gli immigrati o gli emarginati, ma anche le donne, gli anziani e persino i bambini202. Il nostro intento – nelle edizioni della Scuola come nella redazione del sito – era quello di accompagnare l’analisi critica del trend generale, volta prevalentemente alla denuncia, con l’esposizione di strumenti capaci di costruire alternative e applicazioni positive. Facemmo riferimento ad alcune esperienze di pianificazione (Napoli, Sesto Fiorentino, Val di Cornia), purtroppo isolate e in controtendenza, ma soprattutto guardammo oltre i confini, aiutati dallo sguardo europeo di Maria Cristina Gibelli. Quella edizione si svolse nell’ambiente incantato del Parco archeo-minerario di San Silvestro in Toscana203, particolarmente propizio allo svolgimento di un lavoro di gruppo. 202 M. Baioni, Le ragioni della costruzione della città pubblica, in La costruzione della città pubblica, a cura di M. Baioni, Firenze, Alinea, 2008, p. 12. 203 È uno dei dodici parchi che fanno parte della società Parchi Val di Cornia spa, a sud della provincia di Livorno, a prevalente partecipazione dei Comuni; è stata splendidamente gestita – dalla sua costituzione al 2007 – da Massimo Zucconi. All’esperienza del Parco è dedicato un capitolo in La costruzione della città pubblica. 200 urbanizzazione a go go Porre nell’Italia di oggi l’argomento della città pubblica significa in primo luogo interrogarsi sul rapporto tra pubblico e privato, in particolare sul terreno dell’economia. L’economista urbano Roberto Camagni illustrò il caso virtuoso di Monaco di Baviera messo a confronto con Milano. In Germania, il rapporto corretto tra amministrazione pubblica e promotori immobiliari aveva consentito di trasferire dal privato al pubblico una quota consistente dell’incremento della rendita fondiaria: una situazione ben diversa da quella italiana, dove gli strumenti dell’«urbanistica contrattata» e della «perequazione urbanistica» (espressione entrata da poco nel lessico specialistico) avevano avallato la piena soggiacenza degli interessi pubblici a quelli privati. 4. La perequazione urbanistica Contro la “perequazione urbanistica” avevamo condotto su eddyburg continue campagne di critica e informazione, nel tentativo, ahimè non riuscito, di contrastare una pratica pericolosissima. Si trattava di una battaglia iniziata anni prima, quando, dopo la sconfitta del nostro gruppo all’interno dell’Inu, l’istituto aveva posto la ricerca dell’accordo con la proprietà immobiliare come lo strumento per raggiungere, finalmente, l’efficacia della pianificazione. La perequazione era uno dei meccanismi da adoperare. Di che si trattava? L’esigenza di una equità nelle scelte della pianificazione del territorio è da tempo presente. Ma equità tra chi e per che cosa? Nella versione nobile essa voleva significare «indifferenza dei proprietari alle destinazioni dei piani», che fu la formula adoperata da Aldo Moro, leader della Dc, negli accordi per la formazione del governo nel 1963204. Si approdò a una perequazione parziale dei valori immobiliari quando, nel 1968, si decise che negli strumenti urbanistici attuativi, a partire dai piani di lottizzazione, tutti i proprietari dovessero ripartire tra loro, equamente, oneri e vantaggi dell’urbanizzazione ed edificazione. Già allora, si trattava di una sola, particolare “equità”: quella tra i diversi proprietari di suolo. Nell’ambito di questa, pur parziale, equità si voleva comunque ridurre al massimo il peso della rendita sul costo della casa e delle aree necessarie per gli spazi pubblici. Dovettero trascorrere alcuni anni perché fosse posto un obiettivo di più generale equità: quella tra tutti i cittadini (anzi, tra tutti gli abitanti della città) relativamente 204 De Lucia, Se questa è una città, p. 31. 201 capitolo quattordicesimo a tutti i bisogni e a tutte le esigenze che la città è chiamata a soddisfare: ottenere l’accesso a un’abitazione commisurata, per prezzo e localizzazione, alla capacità di spesa e alle convenienze degli abitanti; disporre delle attrezzature e dei servizi necessari alla vita individuale e sociale; fruire di una mobilità sul territorio con un impiego di tempo e di risorse ragionevole; godere della salubrità e bellezza dei luoghi. Era l’equità implicita nella rivendicazione del “diritto alla città”, emersa nelle lotte sociali e politiche degli anni 1968-69. Poi, la svolta. Nel corso degli anni Ottanta alcuni nodi oggettivi furono accettati come insolubili. La disciplina del diritto sui suoli urbani non era stata riformata come la Corte costituzionale avrebbe preteso, e la situazione normativa era molto pasticciata. Le amministrazioni pubbliche, salvo eccezioni, non erano attrezzate per pianificare con la tempestività che la velocità delle trasformazioni richiedeva. Una “corrente di pensiero”, che era diventata maggioranza nell’Inu, propose una nuova prassi per raggiungere l’«indifferenza dei proprietari alle previsioni dei piani» e soprattutto per evitare di espropriare le aree necessarie per gli spazi pubblici. Ecco la proposta dell’Inu. Spalmiamo una cubatura (tot metri cubi di edifici per ogni metro quadro di terreno) su tutta l’area che vogliamo urbanizzare: volumi teorici ugualmente assegnati alle aree sulle quali sorgeranno quartieri e lottizzazioni, fabbriche, servizi e spazi pubblici urbani e territoriali. Se ci serve un’area per fare un parco o una scuola consentiamo al proprietario di tenersi stretti i suoi volumi teorici (i suoi “crediti volumetrici”), spostandoli su un altro suolo, e ci facciamo dare gratis l’area che ci serve per gli usi pubblici. Naturalmente, più estendiamo le aree urbanizzabili, più aree per servizi riusciamo a ottenere. Dimensioniamo quindi il piano non sulla base dei fabbisogni effettivi, ma inseguendo le spinte della proprietà immobiliare: in quel mercato in cui (come gli economisti liberali seri hanno dimostrato) la concorrenza non c’è205. In una società nella quale la contrattazione con i privati e la considerazione per gli interessi immobiliari sono al primo posto nell’attenzione degli amministratori, e dove la cultura urbanistica ufficiale propone il riconoscimento di presunti “diritti edificatori” e la generalizzazione della pratica della “perequazione urbanistica”, la ricerca di esperienze positive non è facile. Nell’edizione 2007 della Scuola ne trovammo. 205 La questione è strettamente legata a quella dei cosiddetti “diritti edificatori”, di cui ho scritto sopra: la bizzarra teoria secondo la quale se un prg ha attribuito una capacità edificatoria a un’area, questo “regalo” non può essere tolto al proprietario senza indennizzo adeguato. 202 urbanizzazione a go go Giovanni Lanzuise espose l’immane sforzo in corso a Napoli per costruire una rete di trasporto pubblico su ferro impiegando tutti i segmenti di ferrovie statali, locali, metropolitane, funicolari esistenti (ciascuno dei quali gestito da un ente diverso con finalità e prezzi differenti), in stretto collegamento con la pianificazione urbanistica e i suoi strumenti. Mauro Baioni illustrò una proposta di riorganizzazione di Sesto Fiorentino attorno a una rete di spazi e percorsi pubblici. Massimo Zucconi raccontò successi e difficoltà nella gestione del sistema di Parchi della Val di Cornia, esempio di quanto possa essere virtuosa la gestione della cosa pubblica. Il ricorso alla perequazione e agli strumenti anomali era avvenuto in un periodo nel quale le spinte alla valorizzazione immobiliare avevano ripreso vigore come non accadeva da anni e prodotto quella bolla immobiliare da cui ha avuto origine l’attuale crisi economica mondiale. Una produzione di ricchezza finanziaria (le “case di carta” di cui ha parlato, alla Scuola, Giovanni Caudo) a cui non hanno corrisposto benefici tangibili per le persone, né in termini di risposta ai bisogni (le case costano sempre di più), né in termini di vivibilità. Su quest’ultimo tema organizzammo la quarta edizione (2008) della Scuola di eddyburg. 5. La città vivibile: per chi, e come? Già dalle parole con le quali Baioni aveva introdotto la seconda edizione della Scuola si comprende come il nostro interesse fosse rivolto a vedere la città non solo in termini di spazio e sua organizzazione, ma anche come società che in essa vive: in che modo la società e le persone che la compongono vivono la città? Come è raggiunto, o come è raggiungibile, l’obiettivo della vivibilità? Inquadrando la quarta edizione della Scuola, Mauro Baioni, Ilaria Boniburini ed io scrivevamo che l’obiettivo era comprendere perché, nonostante i programmi e i piani concepiti a partire dagli anni Novanta del secolo scorso abbiano fatto sovente ricorso a parole come ‘riqualificazione’ e ‘qualità urbana’, ‘rigenerazione’ e ‘vivibilità’, gli effetti prodotti non sono corrispondenti agli obiettivi dichiarati. Come nelle passate edizioni, per comprendere le ragioni che hanno determinato questo scarto ci siamo proposti di capire i presupposti e leggere criticamente i fenomeni in atto, di ragionare su concetti e strumenti troppo 203 capitolo quattordicesimo frettolosamente abbandonati, di sperimentare percorsi di riflessione e di iniziative controcorrente206. Il tema stesso ci indusse ad allargare ulteriormente i contributi per la Scuola a esperti di altre discipline, e a urbanisti che avevano percorso itinerari culturali diversi dai nostri. Nella prima giornata, coordinata da Giovanni Caudo, intervennero Elisabetta Forni, sociologa; Fernando Fava, antropologo; Paola Somma, urbanista attenta ai fenomeni di segregazione ed emarginazione di gruppi sociali nella città; e infine Giancarlo Paba, esperto di “progettazione partecipata”. La sessione era stata preparata e preceduta da un lavoro di Ilaria Boniburini di “analisi del discorso” riferita a un certo numero di parole chiave sull’argomento vivibilità (sviluppando l’esperienza dei «Glossari» delle precedenti edizioni). I diversi contributi rilevavano tutti l’esistenza di forti disuguaglianze, segregazioni, iniquità che la condizione urbana sempre più manifesta: viviamo in una città caratterizzata da recinti (parola su cui si è efficacemente soffermata Paola Somma, e ripresa in numerosi interventi), determinati dai differenti valori fondiari (dalla diversa incidenza della rendita) che la pianificazione e le opere pubbliche attribuiscono alle varie parti della città e che sono rafforzati dalle diverse forme del condizionamento sociale e dalle “politiche della sicurezza”. E sempre più emergeva la necessità di assumere, nella pianificazione e nelle politiche urbane, l’obiettivo di una equità reale sia tra le diverse categorie di cittadini, sia tra questi ultimi e gli abitanti che, come i migranti, non hanno ancora raggiunto il diritto di cittadinanza. Anche a proposito della vivibilità, emergeva il carattere meramente retorico della sua proclamazione come obiettivo delle politiche urbane: un obiettivo contraddetto dalle pratiche. Per affiancare, alla riflessione teorica, la verifica degli effettivi risultati conseguiti, demmo ampio spazio al resoconto critico delle vicende urbanistiche recenti di alcune importanti città italiane, affidandolo a urbanisti che in quei contesti operano. I quattro esempi illustrati, pur costituendo un campione assai limitato, ci hanno consentito di sviluppare un ragionamento articolato: a Torino, è un piano regolatore sovradimensionato a condizionare negativamente la riqualificazione urbana, innescando politiche di trasformazione che fanno leva sullo sviluppo immobiliare; a Bologna, le ragioni del mattone portano dapprima a deformare i contenuti del prg e poi a sostenere i cosiddetti “programmi complessi”, contribuendo al definitivo 206 No Sprawl, a cura di M. C. Gibelli e E. Salzano, Firenze, Alinea, 2006, p. 8. 204 urbanizzazione a go go smantellamento del piano. A Cosenza, i programmi complessi alimentano la costruzione della città pubblica e svolgono un’indispensabile funzione complementare alla variante generale al prg, per poi esaurirsi non appena cessano i finanziamenti comunitari. A Napoli, infine, un piano regolatore, tradizionale nella forma, contiene un disegno strategico di grande respiro e, alla prova dei fatti, si dimostra uno strumento particolarmente efficace nel governo delle trasformazioni della città, a dispetto di alcuni luoghi comuni del dibattito urbanistico di questi anni. Alcuni dei casi illustrati (Torino, Bologna, Napoli) avevano suscitato un particolare interesse tra gli studenti e il desiderio di averne una conoscenza più ampia. Nell’ambito della Scuola, l’illustrazione di casi specifici era solo funzionale per argomentare una determinata tesi; gli studenti invece avrebbero voluto un approfondimento dei casi, una presentazione più ampia degli esempi sviluppati nel loro contesto. Proponemmo allora di organizzare una serie di iniziative sotto il titolo «Una città, un piano», dedicata all’analisi ampia delle pratiche (buone o criticabili che fossero), a condizione che qualcuno se ne assumesse di volta in volta l’organizzazione. La prima volta (e unica, per ora) accettò la sfida Roberto Giannì, dirigente del “dipartimento urbanistica” del Comune di Napoli, che nelle giornate della Scuola aveva illustrato brillantemente il piano regolatore di Napoli. Con l’aiuto di una volenterosa frequentatrice della scuola, Cinzia Langella, l’incontro napoletano fu organizzato pochi mesi dopo ed ebbe molto successo. Confermando la tesi che le cose funzionano quando qualcuno se ne assume pienamente la responsabilità e l’esecuzione. Avemmo l’opportunità di studiare una vicenda eccezionale: Napoli si rivelò come la città che ha conosciuto negli ultimi anni sia l’avvio di una stagione di pianificazione di ampio respiro e di straordinario successo, sia il più desolante abbandono del governo del territorio. In quella stessa città che da tempo è divenuta «un paradigma della disfatta di ogni prospettiva urbana», come ha scritto Francesco Erbani, si sta attuando – tra mille difficoltà – il piano regolatore impostato da Vezio De Lucia e tenacemente proseguito dai suoi collaboratori di allora207. 207 La storia del gruppo di persone che seguì, con continuità e rigore, gli eventi migliori della storia urbanistica di Napoli (dal “piano dei servizi” del 1975 a quello delle periferie del 1979, e poi, sotto la guida di Vezio De Lucia, dalla ricostruzione dopo il terremoto del 1980 al prg del 2004) è una delle testimonianze più felici delle risorse intellettuali e morali del Mezzogiorno, circondate da cumuli di munnezza e tuttavia sempre vive. La storia è raccontata nel libro di G. Corona, I ragazzi del piano. Napoli e le ragioni dell’ambientalismo urbano, Roma, Donzelli, 2007. 205 capitolo quattordicesimo Vezio ha raccontato più volte la storia di quel piano, soprattutto la fase iniziale dell’impostazione, i primi atti e i loro risultati208. A me colpì molto la testimonianza del fatto che la pianificazione urbanistica può incidere sulla rendita immobiliare non solo nel senso di incrementarla, ma anche nel senso di deprimerla. Questo è quanto successe, ad esempio, a Bagnoli, nelle aree dell’Italsider (Iri). Il piano per Bagnoli aveva deciso di non consentire l’attesa ristrutturazione dell’area, basata sulla sua utilizzazione edilizia, ma di destinarla in grandissima prevalenza a parco pubblico, con una limitatissima cubatura. Di conseguenza, l’Iri aveva dovuto ridurre il valore dell’area nel proprio bilancio. Ed è accaduto analogamente sulle pendici del Vomero, sotto San Martino, dove le aree libere in attesa di edificazione sono state destinate a verde agricolo e a standard urbanistici (come tutte le aree ancora libere nell’amplissimo centro storico): lì sono ricomparse le vigne. È estremamente raro, in Italia, che un atto di pianificazione urbanistica vada nella direzione di una riduzione del peso della rendita; eppure, è possibile. Dopo il primo mandato della giunta Bassolino, il quadro politico locale mutò decisamente. Non cambiarono né il sindaco né la composizione, ma l’attenzione politica si diresse decisamente verso gli affari. L’involuzione della guida politica non ha impedito però al piano regolatore e al piano dei trasporti, tra loro integrati, di imprimere significativi orientamenti allo sviluppo della città: l’arresto dell’espansione e la difesa del verde agricolo, il recupero del centro storico, il reperimento pieno degli standard urbanistici, la regìa pubblica delle operazioni di riqualificazione urbana (a Bagnoli, così come nelle periferie a occidente e a oriente del centro storico), l’accessibilità per mezzo del trasporto pubblico a tutti gli spazi pubblici – nel centro storico e nella periferia – vitali e liberati dal degrado. Una grande lezioni di urbanistica, ignorata e anzi spesso dileggiata dalla cultura accademica. 6. La città come bene comune Da qualche tempo avevo ripreso la riflessione sul tema degli spazi pubblici e sul loro ruolo nella città. L’avevo collegata ad altri argomenti, emersi negli stessi anni in cui la questione degli spazi pubblici era divenuta rilevante in Italia: il “diritto alla città” e “la casa come servizio sociale”. 208 V. De Lucia, Napoli, cronache urbanistiche. 1994-1997, Milano, Baldini & Castoldi, 1998I; ma anche, di De Lucia, le memorie, in corso di stampa (vedi nota 34). 206 urbanizzazione a go go Sollecitato da pensieri di colleghi di diverso orientamento209 avevo cominciato a ragionare sul concetto di bene comune applicato alla città. Nella relazione preparata per il World social forum 2007 di Nairobi avevo tentato di definire il significato dell’espressione città come bene comune, ragionando sulle tre parole che la compongono. Nel definire la città, ponevo l’accento sulla connessione tra l’idea stessa di città e gli spazi comuni. Affermavo che «nell’esperienza europea, la città non è semplicemente un aggregato di case». La città, proseguivo, è un sistema nel quale le abitazioni, i luoghi destinati alla vita e alle attività comuni (le scuole e le chiese, le piazze e i parchi, gli ospedali e i mercati, ecc.) e le altre sedi delle attività lavorative (le fabbriche, gli uffici) sono strettamente integrate tra loro e servite nel loro insieme da una rete di infrastrutture che mettono in comunicazione le diverse parti tra loro e le alimentano di acqua, energia, gas. La città è la casa di una comunità. Essenziale perché un insediamento sia una città è che esso sia l’espressione fisica e l’organizzazione spaziale di una società, cioè di un insieme di famiglie legate tra loro da vincoli di comune identità, reciproca solidarietà, regole condivise210. Nell’aprile del 2007 si era tenuto a Ferrara il primo Festival della città e del territorio, organizzato da Giuseppe Laterza e Francesco Erbani: vi feci una lezione sul tema degli spazi pubblici. Con Oscar Mancini, sindacalista e allievo della Scuola di eddyburg fin dalla prima edizione, e Ilaria decidemmo di organizzare un’iniziativa all’European Social Forum, che si sarebbe tenuto di lì a poco a Malmö, in Svezia. Preparammo un convegno e un workshop, in collaborazione con associazioni e strutture di altri paesi europei211: il tema, con quel tanto di retorica che viene 209 Mi riferisco in particolare alla definizione di Alberto Magnaghi, territorio come bene comune (cfr. Il territorio come bene comune, intervento al convegno dell’Anci Toscana «Comuni, comunità e usi civici per lo sviluppo dei territori rurali», Grosseto 15 set. 2006) e al breve testo di Francesco Indovina Città bella PERCHÈ buona, pubblicato in eddyburg, nella cartella «La città: quale futuro?». 210 La relazione è stata pubblicata da «Carta», 3 (27 gen. 2007). 211 Il gruppo italiano era costituito dalla Cgil di Vicenza, Venezia e Padova, da eddyburg, da Lavoro in movimento (associazione internazionale che fa capo al sindacato dei lavoratori), e da Zone onlus (associazione che si occupa di programmi di cooperazione allo sviluppo e dei problemi dei paesi dei sud del mondo). Secondo il documento conclusivo del convegno, “diritto alla città” e “città come bene comune” erano le due espressioni che sintetizzavano gli obiettivi cui finalizzare il lavoro comune. Gli impegni di lotta più immediati che i partecipanti assunsero furono: eviction zero (zero sfratti) degli abitanti dalle case, dagli spazi pubblici, dai quartieri e dalla città; difesa del ruolo del lavoro e dei suoi diritti; contrasto alle iniziative di privatizzazione degli spazi e dei beni pubblici. 207 capitolo quattordicesimo impiegata in simili eventi, era «Quale futuro scegliamo: la metropoli neoliberista o una città comune e solidale?». La mia relazione era appunto su «La città come bene comune»212: sostenni che realizzare nel concreto l’immaginario implicito nell’espressione “città come bene comune” significava soddisfare il “diritto alla città”. Quel diritto, evocato alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso da Henri Lefebvre, ripreso da David Harvey e solo recentemente riapparso nelle parole d’ordine e nel lavoro dei ricercatori, che spetta agli uomini e alle donne non in quanto singoli individui (anche se ciascuno ne è beneficiario) ma in quanto membri della società: in quanto cittadini, o in quanto abitanti benché ancora privi del diritto di cittadinanza213. Secondo Lefebvre, il “diritto alla città” si concreta in due aspetti principali: il diritto a fruire di tutto ciò che la città può dare; il diritto a partecipare al governo della città, a esprimere, orientare, verificare, correggere, momento per momento, le azioni di chi è preposto all’amministrazione e i loro risultati. Harvey aggiunge a questi il diritto di trasformare la città, cioè di esprimere il proprio dissenso sull’assetto attuale e lottare per uno diverso. Sostenni che il tema della “città come bene comune” deve essere proposto come il centro di una concezione giusta e positiva di una nuova urbanistica e di una nuova coesione sociale, e come obiettivo dei conflitti urbani. Tentai di definirne il contenuto. È una città che si fa carico delle esigenze e dei bisogni di tutti i cittadini, a partire dai più deboli, che assicura a tutti un alloggio a un prezzo commisurato alla capacità di spesa di ciascuno, che garantisce a tutti l’accessibilità facile e piacevole ai luoghi di lavoro e ai servizi collettivi. È una città nella quale i servizi necessari (l’asilo nido, la scuola, l’ambulatorio, la biblioteca, gli impianti per lo sport e il verde pubblico, il mercato comunale e il luogo di culto) sono previsti in quantità e in localizzazioni adeguate, aperti a tutti i cittadini indipendentemente dal loro reddito, etnia, cultura, età, condizione sociale, religione, appartenenza politica, e nella quale le piazze sono luogo d’incontro aperto a tutti i cittadini e ai forestieri, libere dal traffico e vive in tutte le ore del giorno, sicure per i bambini, gli anziani, i malati, i deboli. Ed è una città nella quale le scelte di governo sono condivise dai cittadini: essi partecipano alla gestione del potere non solo in occasione dell’elezione ma in ogni momento significativo delle scelte. In essa perciò devono essere 212 Il testo fu pubblicato in un libriccino di poche pagine dall’editore “Ogni uomo è tutti gli uomini”, Bologna 2009. 213 H. Lefebvre, Il diritto alla città, Padova, Marsilio, 1970 (tit. orig. Le droit à la ville, Paris, Anthropos, 1968). D. Harvey, The Right to the City, «New Left Review», 53 (2008). 208 urbanizzazione a go go garantiti la trasparenza del processo delle decisioni che la riguardano, e la possibilità dei cittadini di esprimersi e ottenere risposte. Tutto ciò richiede ai cittadini stessi di imparare a conoscere gli obiettivi, gli strumenti, le procedure, le risorse mediante cui si agisce nella città: quelli che sanno (i tecnici, i sapienti) devono impegnarsi a fornire le loro conoscenze liberamente. Realizzare e far funzionare una simile città è l’unico modo per ottenere, in futuro e per tutti, il diritto alla città, nei due aspetti dell’appropriazione del suo uso (valore d’uso e non valore di scambio), e di partecipazione piena al suo governo. 7. Lo spazio pubblico della città Quando si svolse la quarta edizione della Scuola eravamo da poco tornati da Malmö. Nel concludere la sessione, avevamo proposto, come di consueto, l’argomento dell’edizione successiva. Ci era sembrato che il tema degli spazi pubblici costituisse un campo d’azione nel quale la professionalità dell’urbanista potesse dispiegarsi in pieno in rapporto con la coscienza civile. Raccontai che al forum di Malmö un ragazzo greco aveva chiesto: – ma come facciamo a riunirci, a discutere, a convincere gli altri abitanti che così non va, che quelle scelte sono sbagliate, che queste esigenze non vengono soddisfatte, se non abbiamo spazi pubblici dove riunirci? –. Mi sembrava la testimonianza di un carenza che avvilisce la stragrande maggioranza dei nostri insediamenti. Siamo pieni di parcheggi, rotatorie e svincoli, ma mancano le piazze. Ci lamentiamo dei “recinti” che segregano le città dei ricchi, quelle dei benestanti, quelle delle varie categorie dei poveri, vogliamo la mixitè, ma non ci impegniamo a sufficienza a progettare gli spazi pubblici (utilizzando magari quelli che gli stessi abitanti hanno scelto come luoghi in cui stare insieme) come nodi di una ricomposizione sociale della città. Con questo spirito e queste intenzioni definimmo il tema sul quale avremmo svolto la quinta edizione della Scuola: «Spazi pubblici, declino, difesa, riconquista». Nella preparazione dell’argomento (le bozze del programma che facevamo girare, la raccolta dei materiali preliminari, gli articoli che nel frattempo scrivevo) enunciavamo una visione ampia dello spazio pubblico nella città, ed esprimevamo una posizione preoccupata dei rischi che esso corre. Nel presentare il programma su eddyburg, sottolineavamo come la lotta per una quantità e qualità adeguata degli spazi pubblici abbia avuto un momento significativo, in Italia, nella faticosa conquista degli standard urbanistici: era necessario e possibile 209 capitolo quattordicesimo estendere la rivendicazione ad altri obiettivi: già nella lotta per gli standard urbanistici, la vertenza per i servizi e gli spazi pubblici si era saldata a suo tempo con quella per “la casa come servizio sociale” e a quella per il “diritto alla città”. Con eddyburg e la Scuola volevamo allargare l’attenzione: dalla conquista e dalla difesa delle attrezzature e dei servizi di prossimità (asilo e scuola, verde di quartiere e parco urbano, l’ambulatorio e la biblioteca ecc.) all’intero ventaglio delle esigenze dell’uomo: la ricreazione psicofisica nei grandi spazi naturali, i monti, le colline, le coste, il godimento degli immensi patrimoni archeologici, storici e culturali disseminati sul territorio, le attrezzature e i servizi utilizzabili solo in una dimensione di area vasta (la scuola superiore e l’università, l’ospedale e lo sport spettacolo, i servizi di smaltimento dei rifiuti e quelli per l’approvvigionamento idrico). Eravamo consapevoli del declino degli spazi pubblici, sia come spazi fisici sia come luoghi del dibattito, della partecipazione, della decisione. Sapevamo che il rischio che corre lo spazio pubblico della città, e il suo indebolimento nella vita della società urbana, non nascono oggi. Da decenni nelle periferie non si realizzano più piazze. Sempre più pesantemente si pretende di sostituire agli spazi pubblici i “non luoghi”, come l’antropologo Marc Augé214 definito i grandi complessi nati per determinate esigenze e funzioni (gli aeroporti e le stazioni ferroviarie, gli stadi e i grandi alberghi), e via via trasformati in sedi dedicate alla vendita di merci. Questi si aggiungono alle grandi cattedrali del commercio (i Mall, le Plaza, i Factory outlet, e le altre forme dei centri commerciali) e costituiscono tendenzialmente i cardini di un’organizzazione del territorio finalizzata al consumismo. I “non luoghi”, che vengono spacciati come “nuove piazze”, sono caratterizzati dai requisiti opposti a quelli che rendono pubblica una piazza (lo spazio pubblico per antonomasia): sono recinzione mentre la piazza è apertura; sono sicurezza mentre la piazza è avventura; sono omologazione mentre la piazza è differenza e identità; sono infine distanza dalla vita quotidiana anziché la sua prossimità. Cambia la stessa natura delle persone che li frequentano, clienti anziché cittadini. I rischi che oggi gli spazi pubblici corrono hanno la loro matrice ideologica in quel declino dell’uomo pubblico che molti pensatori denunciano da tempo. Osserva Richard Sennett: 214 1993. M. Augé, Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Milano, Elèuthera, 210 urbanizzazione a go go I traumi del capitalismo ottocentesco spinsero chi ne aveva i mezzi a tutelarsi in qualche modo dagli sconvolgimenti di un sistema economico incomprensibile (…). La volontà di controllare e modellare la sfera pubblica andò progressivamente scemando, e la gente badò sempre più a difendersene. La famiglia divenne uno di questi ‘scudi’. Nel corso del xix secolo, la famiglia finì per apparire sempre meno il centro di una sfera particolare, privata, e sempre più un rifugio idealizzato, un mondo a sé, con un valore etico superiore rispetto alla sfera pubblica215. È un declino che ha forse la sua radice in quell’alienazione del lavoro, ossia nella finalizzazione dell’attività primaria dell’uomo sociale ad “altro da sé”, che costituisce l’essenza del sistema capitalistico. E ha la sua matrice strutturale nel dominio del diritto alla proprietà privata e individuale sopra ogni altro diritto, che costituisce il fondamento dei sistemi giuridici vigenti, in Italia e altrove. Aiutati dal clima generale determinato, nel mondo nord occidentale, dal crollo delle Twin Towers e dalla reazione di George W. Bush, i governi hanno cercato di mietere facili consensi e di distrarre dai conflitti reali utilizzando strumentalmente il sentimento di paura per il diverso: un sentimento che giace al fondo di ogni essere umano, e che in questi ultimi anni è stato fomentato con il potere pervasivo dei mass media e delle politiche securitarie. Queste, giustificate dall’accresciuto sentimento di paura, lo hanno a loro volta enfatizzato: sono diventate in questi anni il nucleo centrale di pratiche largamente condivise. In vaste regioni d’Italia, soprattutto in quelle del Nord, considerate più “evolute” e “moderne”, il sospetto nei confronti del diverso, la paura per la presenza del povero o dello straniero – addirittura la caccia all’extracomunitario! – sono diventati atteggiamenti cui tutti i benpensanti si sono assuefatti. La chiusura di porzioni intere di città con barriere fisse, le iniziative per l’ulteriore emarginazione di Rom e Sinti, l’impedimento all’uso politico degli spazi pubblici, addirittura la legittimazione del razzismo: tutto ciò caratterizza le politiche urbane quasi indipendentemente dal colore politico dei governi e incide pesantemente sulla città. Prime vittime: gli spazi pubblici. Nel riflettere sui temi affrontati nelle ultime edizioni della Scuola sempre più mi rendevo conto che per ottenere una vivibilità diffusa, dalla quale i deboli non siano esclusi, per ottenere una città che sia 215 R. Sennett, Il declino dell’uomo pubblico, Milano, Bruno Mondatori, 2006, p. 23. 211 a un tempo il luogo della libertà (“l’aria della città rende liberi”) e il luogo dell’equità (per tutti, non solo per i proprietari immobiliari), lo spazio pubblico della città deve essere anche il luogo del conflitto. Conflitto tra i diversi interessi in contrasto tra loro, di chi vede e utilizza la città come strumento per arricchirsi e di chi vuole la città come strumento per abitare, lavorare, incontrarsi, partecipare al governo. Dall’urbanistica, insomma, occorre guardare alla politica. 212 Capitolo quindicesimo Scomparsa la politica? 1. Dove siamo: il “pensiero unico” Peggiorata e in via di ulteriore peggioramento era dunque la condizione urbana, che gravava sulla popolazione, soprattutto sulle fasce più deboli. Il nodo stava, con ogni evidenza, all’interno di quella triade alla quale continuavo a riferirmi: urbs, civitas, polis. Il guasto stava nella società e nella politica. Era sul rapporto tra urbanistica e società, tra urbanistica e politica che occorreva ragionare. Tornavo insomma alla riflessione che avevo avviato negli anni della «Rivista Trimestrale». Ma quanto erano cambiate società e politica da allora! Fu Ilaria, la mia compagna, che mi aiutò a comprendere. Di formazione è architetto, ma la passione per i problemi del Sud del mondo e la volontà di comprenderli l’hanno spinta a coltivare letture che avevo trascurato, immerso com’ero nelle mie attività. Condividevo con lei l’analisi che geografi, sociologi, antropologi avevano fatto sul mondo di oggi (Harvey, Sennett, Baumann, Sassen, Latouche, Escobar, Sachs); tornavo ad antiche letture di economisti e politologi che mi avevano nutrito, ai tempi in cui collaboravo con la «Rivista trimestrale» (Gramsci e Marx, Rodano e Napoleoni, Galbraith e Packard). Ciò dava spessore a quanto ogni giorno leggevo sui giornali per aggiornare eddyburg, e integrava quanto imparavo dai docenti che collaboravano con la Scuola di eddyburg e con il sito. La svolta italiana degli anni Ottanta, che avevo registrato e studiato (e vissuto) negli avvenimenti dell’urbanistica italiana e in quelli della politica, era il riflesso di una svolta molto più ampia, che aveva trasformato 213 capitolo quindicesimo l’intera società nordatlantica216. Erano cambiate le cose, le gerarchie di potere, le forme stesse del potere. La nazione e lo Stato non registravano più i conflitti tra le classi sociali e le posizioni di equilibrio via via raggiunte. Erano sempre più subordinate a un potere sovranazionale. Quest’ultimo non era l’espressione di un accordo tra gli stati nazione (come nell’Ottocento, con le conferenze internazionali, e nel Novecento con la Società delle Nazioni e l’Onu), ma della consonanza tra i grandi potentati economici. I nuovi strumenti di comunicazione, messi a punto con le invenzioni militari della seconda guerra mondiale, non erano finalizzati a migliorare la comprensione tra gli uomini e la loro crescita spirituale e morale, ma a due funzioni pressoché esclusive: da un lato, consentire al mondo della finanza di sfruttare tutte le occasioni di arricchimento; dall’altro, trasformare l’uomo in consumatore di merci sempre più distanti dal bisogno reale, ma sempre più necessarie alla produzione, trasformare insomma il cittadino in cliente. Entrambe le funzioni erano necessarie per la sopravvivenza di un sistema economico-sociale nato qualche secolo prima, e di cui ci si vergognava di pronunciare il nome: il sistema capitalistico-borghese. Aveva mutato aspetto e regole ma era sempre quel sistema, fondato sulla riduzione del bisogno dell’uomo a un set storicamente dato, sull’alienazione del lavoro, sulla riduzione d’ogni valore a quello di scambio e d’ogni bene a merce, e finalizzato alla massimizzazione del guadagno e del potere dei proprietari e, sempre più decisivamente, dei gestori del capitale. Per raggiungere i suoi obiettivi, il sistema (la nuova forma del proteiforme sistema, analizzato, in differenti contesti e con differenti obiettivi, da Adam Smith, David Ricardo, Karl Marx) aveva dovuto cambiare la testa delle persone. L’induzione del consumo da parte della produzione era stata analizzata già negli anni Sessanta, così come le caratteristiche di un consumo divenuto ormai (nel mondo atlantico) «opulento»217. Riemergevano gli argomenti, i problemi, le parole su cui avevo cominciato a lavorare quasi mezzo secolo prima. Allora il cambiamento era al suo inizio, adesso si manifestava in tutte le sue conseguenze. 216 Gigi Scano mi suggerì di preferire questa dizione a quella di occidentale. Occidente è un concetto relativo, essendo a sua volta oriente rispetto a un altro luogo; poteva avere senso quando l’unico confine rilevante era quello della “cortina di ferro”. Il mondo cui mi riferisco è quello di cui fanno parte sostanzialmente l’Europa, gli Usa e il Canada. 217 Si vedano Galbraith, La società opulenta; V. Packard, I persuasori occulti, Torino, Einaudi, 1967. 214 scomparsa la politica? Profondamente mutata era l’ideologia prevalente. Dopo la caduta del Muro di Berlino e la crisi dei grandi partiti di massa, la parola ideologia era stata cancellata dall’elenco delle parole neutrali, utilizzabili senza conferire loro una valenza aprioristicamente positiva o negativa. Era considerato un bene essersi liberati dell’ideologia. Non ci rendeva conto che, in realtà, l’ideologia alla quale ci si riferiva era quella della sinistra; quella che, con differenti accentuazioni, copriva un arco che andava dalle posizioni comuniste a quelle socialdemocratiche. Per semplificare, l’ideologia che aveva come riferimento sociale primario il mondo del lavoro, come assetto dello Stato quello del welfare, come quadro geopolitico quello internazionale. Si divideva nelle sue due componenti classiche: la “riformista”, che puntava a un capitalismo emendato dai suoi vizi più appariscenti, e la “rivoluzionaria”, che riteneva necessaria una critica radicale del sistema economico-sociale vigente e un suo totale superamento. L’una e l’altra assumevano la differenza di interessi della classe dei capitalisti e quella dei proletari come un dato di fatto, che si esprimeva nel continuo confronto tra l’una e l’altra classe, la cosiddetta “lotta di classe”. Esistevano, in Italia come nel resto dell’Europa occidentale, altre ideologie, variamente contrapposte a quella di sinistra. Ma tutte condividevano, negli anni della Resistenza ai nazifascismi e nei successivi, un insieme di princìpi e di interessi comuni: la libertà d’espressione e d’azione politica, la tensione verso l’uguaglianza, il primato della democrazia parlamentare rispetto ad altre forme di governo, la distinzione tra interesse generale e interesse di singole parti della società, la laicità e autonomia dello Stato rispetto ad altri poteri, la garanzia per tutti i cittadini della sicurezza del lavoro, di un dignitoso tenore di vita, dell’istruzione e dell’assistenza sociale e sanitaria218. Con la “caduta delle ideologie” tutto questo è venuto meno. Dietro a quella caduta c’è una ideologia dissimulata ma dominante: il neoliberismo. Giorgio Ruffolo la descrive così: «La controffensiva capitalistica cavalca la riscossa del pensiero neoliberista, “monetarista” (…) che respinge nettamente l’interferenza dello Stato nel mercato e riporta in auge un idolo che sembrava distrutto: la fede inconcussa nella 218 Questi diritti sono espressi nella Carta dei diritti dell’uomo, approvata nel 1948 dall’Onu e accolta come base delle legislazioni nel diritto di tutti i paesi democratici. Un’analisi anche sommaria della traduzione in pratica di quei diritti consentirebbe di misurare l’enorme distanza tra gli impegni assunti e la realtà. Così come misurare l’entità di quella distanza nel tempo ci aiuterebbe a comprendere quanto siamo caduti in basso. 215 capitolo quindicesimo sua capacità di autoregolazione»219. E David Harvey: «Il neoliberismo è in primo luogo una teoria delle pratiche di politica economica secondo la quale il benessere dell’uomo può essere perseguito al meglio liberando le risorse e le capacità imprenditoriali dell’individuo all’interno di una struttura istituzionale caratterizzata da forti diritti di proprietà privata, liberi mercati e libero scambio»220. Harvey vede nel «neoliberismo» (neoliberalism) non un nuovo liberalismo (liberalism), ma una teoria economica che ha sostituito l’embedded liberalism, cioè quella forma di organizzazione economico-politica nella quale esisteva, accanto al mercato, una trama di restrizioni sociali e politiche e l’utilizzo di politiche fiscali e monetarie keynesiane che limitavano e orientavano la strategia economica e industriale, al fine di raggiungere la piena occupazione, la crescita economica e il benessere dei cittadini. Per Harvey il neoliberismo è una teoria di pratiche di politica economica piuttosto che una completa ideologia politica: più precisamente, è «un progetto di lotta di classe». La mancanza di una dottrina apertamente dichiarata, di una ideologia (come erano anche il comunismo e il socialismo) lo rende più idoneo ad essere accettato e condiviso, perché apparentemente non schierato, neutrale. Come si direbbe a Napoli, traseticcio 221. 2. La politica dei partiti non c’è più Il trionfo di quella ideologia, che ha distrutto tutte le altre per presentarsi come il tendenziale “pensiero unico”, ha contribuito a determinare lo svuotamento della politica quale l’avevamo conosciuta: la politica dei partiti. La politica è conflitto, gara, competizione. Tale è sempre stata e sempre sarà, finché gli interessi dei diversi gruppi sociali saranno alternativi nell’uso delle risorse. Ma quando io aderivo al partito lo scontro politico era competizione tra progetti alternativi di società, riferiti agli interessi di determinate classi sociali, ciascuna delle quali però mirava 219 G. Ruffolo, Lo specchio del diavolo. La storia dell’economia dal paradiso terrestre all’inferno della finanza, Torino, Einaudi, 2006, p. 110. 220 Harvey, Breve storia del neoliberismo. In Europa i termini liberalismo e liberismo sono distinti e collegati. Entrambi si riferiscono a una concezione sostanzialmente conservatrice (di cui il primo esprime l’ideologia e la dottrina politica, il secondo la teoria e la pratica economiche), mentre negli Usa una posizione liberal è progressista. Come risulta invece dalla definizione di Harvey, il neoliberalism esprime un pensiero conservatore: da ciò probabilmente la traduzione dell’americano neoliberalism nell’italiano neoliberismo. 221 Traseticcio: insinuante, che sa entrare nell’animo e nei fatti altrui senza farsene accorgere. 216 scomparsa la politica? a soddisfare l’interesse generale: più precisamente, l’interesse di quell’insieme di gruppi sociali che si riteneva rappresentassero meglio l’aspirazione a una società libera e giusta per tutti. A seconda di chi conquistava il potere, il compromesso che via via si raggiungeva nell’attività di governo era più vicino all’uno o all’altro progetto di società. L’obiettivo che le formazioni politiche perseguivano (e che era assunto dagli appartenenti alle diverse formazioni) era di ampio respiro. Si realizzava con piccole azioni e piccole trasformazioni, passaggi di una costruzione complessiva, che si sarebbe concretata interamente solo in un futuro lontano. Si lavorava oggi per domani, e magari per dopodomani. E, poiché per realizzare il proprio progetto di società era necessario il consenso, l’azione politica si arricchiva di una forte componente didattica: occorreva spiegarlo, illustrarne le ragioni, le possibilità, le conseguenze. Per conquistare i voti occorreva prima formare le coscienze, partendo dagli interessi specifici delle diverse categorie di soggetti, ma cercando di farli convergere verso un interesse più ampio: tendenzialmente, verso un interesse generale. Oggi l’attenzione è tutta schiacciata sul breve periodo, addirittura sull’immediato, su ciò che si può raggiungere oggi, prima che inizi la prossima campagna elettorale. E poiché ciò che conta è conservare (o conquistare) il potere, ecco che lo sforzo non è rivolto a formare le coscienze e a costruire il futuro, ma a guadagnare l’egemonia, con una doppia operazione: calibrando, da una parte, la propria proposta politica sul consenso che si può guadagnare nell’immediato, sugli interessi già presenti oggi e in grado oggi di essere soddisfatti; dall’altra, impiegando tutte le tecniche capaci di manipolare la coscienza di strati vasti di popolazione222. C’è un nesso evidente tra questa mutazione della politica e quella mutazione culturale cui mi sono diffusamente riferito. Dissolto l’indispensabile equilibrio tra la dimensione pubblica e la dimensione privata dell’uomo moderno, questo si è completamente ripiegato sull’intimismo. L’individualismo caratterizza sempre di più i pensieri, le emozioni, i comportamenti dell’uomo di oggi, la sua cultura, mentre si è impoverita progressivamente la vita pubblica. La condivisione di obiettivi collettivi, la ricerca comune della soluzione dei problemi di tutti non sono più di moda. La solidarietà si è ridotta a pratiche vicine all’elemosina. 222 «Quando la politica non è più lo strumento attraverso cui si dirige un paese in base a un’idea forte delle sue prospettive future, ma un navigare sulle sue debolezze, lusingandole e cercando di volgerle a proprio vantaggio, rispecchiandole e accentuandole, un paese va incontro al suo declino»: F. Cassano, Homo civicus, Edizioni Dedalo, Roma 2004, p. 33-34 217 capitolo quindicesimo I nuovi “valori” sono tutti riconducibili all’affermazione individuale. Parole (e concetti) come Stato, pubblico, collettivo, comune sono diventati sinonimi di peso, obbligazione, vincolo, impaccio. Il ”mercato”, istituzione inventata dalla storia dello sviluppo economico per determinare il prezzo delle merci, è diventato perno di una “ideologia” che appiattisce ogni qualità, ogni differenza, ogni dimensione. 3. La fine del Pci La scomparsa della politica dei partiti tende a identificarsi, nella mia memoria e nella mia vita, con la scomparsa del Pci. Più volte mi sono domandato il perché di quella scomparsa, e perché sia stato così rapido e quasi naturale per tanti militanti e dirigenti di quel partito approdare a posizioni radicalmente alternative rispetto a quelle fino ad allora difese. Un tradimento morale, prima che politico, un cambiamento di costume, prima che di convinzioni. Forse aderire al Pci (al più forte e prestigioso partito d’opposizione, concretamente candidato alla successione dell’egemonia democristiana e già prevalente in importanti settori e regioni) era una forma di promozione sociale. Molti, una volta crollato il Pci, facilmente trasmigrarono dove la promozione sociale era più facile. Questa può essere una ragione, ma certo vi furono cause più profonde. Condivido l’analisi di Giuseppe Chiarante, nel terzo dei suoi libri, limpidi e maneggevoli, dedicati alla storia del Pci, vissuta dall’interno con passione e con rigore. Il capitolo cui mi riferisco ha il titolo significativo «L’offensiva del pensiero unico». E Chiarante individua infatti la matrice del crollo nel cedimento, in settori rilevanti del Pci, alla «grande offensiva ideale e politica neoconservatrice che negli anni Ottanta – favorita sia dal precipitare della crisi del sistema comunista in tutto l’Est europeo, sia dal logoramento e dall’esaurimento anche delle migliori esperienze socialdemocratiche dell’Europa occidentale – si sviluppò con tanto impeto in Europa come in America, nei paesi dell’Est come in quelli dell’Ovest». La sconfitta della sinistra che in tal modo maturò è stata «culturale e ideale ancor prima che politica». Chiarante sottolinea tre questioni che rivelano «come in pochi anni, anche in un paese come l’Italia, questa offensiva abbia modificato in modo radicale idee e convinzioni diffuse nell’area dell’opinione democratica, compresa buona parte della sinistra di opposizione»223. 223 G. Chiarante, La fine del Pci. Dall’alternativa democratica di Berlinguer all’ultimo Congresso 218 scomparsa la politica? La prima riguarda la perdita di fiducia nella programmazione. Scrive Chiarante: Raccoglieva crescenti consensi, e trovava ascolto anche in settori assai estesi della sinistra politica e sindacale, la tesi che la crisi delle politiche di pianificazione o programmazione (sia nelle forme della pianificazione centralizzata dei paesi comunisti dell’Est europeo, sia nelle forme programmatorie delle politiche keynesiane e delle esperienze dello Stato sociale) non solo poneva alle forze riformatrici seri problemi di ripensamento, ma costituiva una prova quasi definitiva dell’impraticabilità di serie alternative alle regole del liberismo, del privatismo, del libero mercato. Il fatto che questa tesi si sia estesa fino all’abbandono delle pratiche di programmazione delle trasformazioni della città e del territorio (la pianificazione urbanistica), introdotte dalla borghesia liberale prima ancora dell’affacciarsi del pensiero marxista e delle pratiche dei socialismi, mi sembra una significativa testimonianza della profondità della crisi culturale e ideale della sinistra. E questa tesi ha comportato anche, prosegue Chiarante, «il risultato pratico di contribuire a indebolire la tutela della classe operaia e di modificare a suo svantaggio i rapporti di forza nella struttura produttiva e sociale». Il secondo aspetto che si deve sottolineare, se si vuol comprendere che cosa ha provocato la fine del Pci, e la crisi di tutta la sinistra, è secondo Chiarante, il peso che ebbe, nel modificare negli anni Ottanta gli orientamenti di larga parte dell’opinione pubblica, l’insistente campagna sulla ‘crisi’ e anzi sulla ‘morte’ delle ideologie. È quasi inutile ricordare quanto di ideologico vi fosse e vi sia alla base di una simile tesi. Ma è un fatto che essa finì con l’essere largamente accettata, anche a sinistra, non solo come critica dei “partiti ideologici” (e partiti ideologici per eccellenza erano ovviamente considerati, in Italia, la Democrazia cristiana e il partito comunista), ma anche e soprattutto come negazione dell’idea stessa di una finalizzazione ideale e morale dell’azione politica. «Negazione dell’idea stessa di una finalizzazione ideale e morale dell’azione politica»: non è questo il male che soffriamo e denunciamo (1979-1991), Roma, Carocci, 2009, p. 101-102. Il libro fa seguito ai due volumi Tra De Gasperi e Togliatti. Memorie degli anni Cinquanta, (2006) e Con Togliatti e con Berlinguer. Dal tramonto del centrismo al compromesso storico, (2007), pubblicati con lo stesso editore. 219 capitolo quindicesimo oggi? Questa è la ragione per cui insisto nel parlare di ideologia, parola quasi impronunciabile oggi, poiché non si sa più che essa significa, come più volte ho ricordato in questo stesso libro, «quell’insieme di credenze condivise da un gruppo e dai suoi membri che guidano l’interpretazione degli eventi e che quindi condizionano le pratiche sociali». Forse è proprio dalla rinuncia all’ideologia, a un sistema di convinzioni e di principi coerentemente praticati, che deriva il ridursi del lavoro dell’esperto (e in particolare dell’urbanista) alla mera applicazione di tecniche neutrali come strumenti di qualsiasi interesse costituito, dotato del potere di presentarsi come “committenza”. Se non ho – e non condivido con altri – un insieme di convinzioni e di princìpi, in base a che cosa decido se privilegiare gli interessi dello speculatore o quelli degli abitanti del quartiere in cui sono chiamato a operare? Il terzo aspetto della crisi della sinistra è, nell’analisi di Chiarante, il fatto che la critica alla degenerazione del sistema dei partiti abbia subito nel corso di quel decennio, anche in settori via via più estesi del gruppo dirigente comunista, un cambiamento di segno: sino a porre capo non più a una domanda di “rinnovamento della politica” – così come era stata formulata da Berlinguer – ma a una proposta di mutamento del solo “sistema politico” (inteso in senso stretto), ossia come cambiamento delle regole istituzionali o elettorali. Veniva in tal modo spalancata la strada alla deriva decisionista. In particolare, all’idea che bastasse “sbloccare” il sistema politico per realizzare l’alternanza e mettere così fine alla spartizione dello Stato, alla corruzione, al malgoverno. E per sbloccare il sistema politico, chi doveva compiere il primo passo era naturalmente il Pci, mettendo in discussione se stesso, ponendo fine al “partito diverso”, omogeneizzandosi agli altri partiti. Erano dunque mature le condizioni per portare a compimento la storia del partito comunista italiano. La deriva decisionista, la ricerca della governabilità attraverso la “riduzione” della democrazia costituiscono di fatto una difficoltà crescente per chi persegua un governo del territorio del quale i cittadini in quanto tali siano i responsabili e i primi beneficiari. La decadenza dei consigli (delle componenti larghe e rappresentative della pluralità delle posizioni nelle istituzioni della democrazia) e il maggior potere attribuito ai sindaci e ai “governatori”, la trasformazione in aziende di tipo privatistico degli altri strumenti dell’azione pubblica (come le università e gli ospedali), l’introduzione sempre più larga del “commissario” dotato di pieni poteri derogatori, rispetto alle regole comuni, per un numero crescente 220 scomparsa la politica? di settori di decisioni: tutto ciò caratterizza sempre di più il governo del territorio. Con un largo consenso in entrambi gli schieramenti. Una prova dei successi dell’«offensiva del pensiero unico». 4. Qualcosa si muove sul territorio: i movimenti… Da dove partire per ricostruire una politica capace di avviare un cambiamento profondo della società, di salvarla dal baratro di distruzione di risorse e patrimoni d’ogni genere, e dal crescere di ingiustizie, disagi, sofferenze che questo sistema non cessa di produrre? Intanto occorre ricordare che la politica non è solo quella dei partiti, ma è una dimensione essenziale dell’uomo. Non è un’attività riservata a pochi, ma significa partecipazione del cittadino al governo della propria polis. Deve essere quindi responsabilità di tutti. Afferma uno dei ragazzi della Scuola di Barbiana: «Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Uscirne insieme è la politica. Uscirne da soli è l’avarizia»224. Se è così, se la politica è la dimensione necessaria d’ogni uomo che non sia chiuso nel proprio individualismo, se è sull’homo socialis che occorre far leva, allora bisogna partire da quei punti della società di oggi dove si manifesta, con maggiore o con minore maturità e consapevolezza, l’esigenza di farsi carico di interessi che non sono solo del singolo o del gruppo ristretto, ma di comunità più larghe: tendenzialmente dell’intera società. Si tratta di affidarsi oggi a una fiammella molto tenue. È alimentata da una miriade di episodi che nascono spontaneamente nella società e rivelano il trasformarsi di insofferenze individuali in tentativi di aggregazioni, associazioni, iniziative comuni di protesta, e talvolta anche di proposta. Movimenti che affiorano nella società, e che aspirano a un superamento delle condizioni date. Gruppi di cittadini che si oppongono alla distruzione o privatizzazione di parti del territorio considerate essenziali, come il verde, l’ambiente, il paesaggio, gli spazi pubblici, o che rivendicano l’uso di spazi inutilizzati come luoghi da adibire a funzioni d’interesse comune, o che resistono per difendere la propria abitazione dallo sfratto da edifici e quartieri minacciati dalla speculazione, o che si mobilitano per la difesa di gruppi sociali minacciati dalle pratiche di segregazione e d’emarginazione 224 Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, p. 14. 221 capitolo quindicesimo e per la rivendicazione dei diritti delle minoranze (etniche, di genere, di reddito). Si tratta di gruppi di “cittadinanza attiva” che si aggregano a volte in comitati, a volte in coordinamenti più ampi (come la Rete toscana dei comitati per la difesa del territorio) o sull’assunzione di un determinato problema (come il movimento Stop al consumo del territorio, o le numerose associazioni nazionali e internazionali per la difesa dagli sfratti). A questi gruppi di “cittadinanza attiva” fa riferimento il libro di un uomo che ha attraversato molte esperienze, non solo nel campo che più gli è proprio (la storia della letteratura), ma anche in quello della politica e della cultura, Alberto Asor Rosa. Egli scrive: Da qualche anno mi sono impegnato in un nuovo lavoro ambientalista, in difesa del territorio e del paesaggio. Quest’attività si fonda sulla spontanea associazione dei Comitati di base, che stanno fuori dal meccanismo politico istituzionale. Dentro queste nuove esperienze circola una gran quantità di energie nuove, diverse, provviste di un pensiero forte. Lo stesso potrebbe dirsi delle associazioni nel campo dei diritti civili. Naturalmente non penso che si tratti di esperienze in sé risolutive: penso però che si tratti di esperienze che si muovono nella direzione giusta. Il problema è come farle emergere, le nuove forze, sottraendole agli ingranaggi attualmente mortiferi della politica225. I movimenti cui si riferisce Asor Rosa (che è anche portavoce della Rete toscana dei comitati per la difesa del territorio) crescono di mese in mese. Sono fragili, discontinui, spesso aggrappati al problema “locale” da cui sono nati. Ma nonostante la loro attuale debolezza, essi testimoniano una volontà di impegnarsi in prima persona per cambiare le cose, e sempre più spesso riescono ad aggregarsi in reti più ampie, a inventare strumenti per consolidarsi e dare durata alla loro azione, a comprendere meglio le cause da cui nascono i guasti contro i quali si ribellano. E tentano a volte di accompagnare la loro critica con la formulazione di proposte positive (come l’associazione dei Comuni virtuosi), seguendo in questo le associazioni tradizionali (come Italia Nostra). Un segnale molto positivo della forza e dell’intelligenza critica, latenti nella società, che esprime principi di solidarietà e di consapevolezza del ruolo insostituibile della presenza pubblica, è rappresentato dall’«Onda» che si è sollevata dal mondo della scuola, in quasi tutti i 225 A. Asor Rosa, Il grande silenzio. Intervista sugli intellettuali, a cura di S. Fiori, Roma-Bari, Laterza, 2009, p. 167. 222 scomparsa la politica? suoi percorsi: dalle primarie alle università, dagli studenti ai docenti al personale ausiliario, ma soprattutto dal personale di elementari, medie e superiori. Testimonianza del fatto che – sostiene Asor Rosa – nella scuola c’è un bastione di resistenza all’ideologia montante. Anche un insigne costituzionalista, ex presidente della Corte costituzionale, sottolinea il ruolo dei movimenti che scaturiscono dalla società civile. Scrive Gustavo Zagrebelsky, a proposito della crisi della democrazia e della politica: Noi non contrasteremo le deviazioni dall’idea costituzionale di democrazia soltanto denunciandone l’insidia e i pericoli, cioè parlandone male. In carenza di una sostanza – cioè di istanze politiche venienti da una società civile non disposta a soggiacere a un potere che cala dall’alto – perché mai si dovrebbero difendere istituzioni svuotate di significato? Le istituzioni politiche vitali sono quelle che corrispondono a bisogni sociali vivi. Se no, risultano un peso e sono destinate a essere messe a margine. Qui si innesta il compito della società civile, nei numerosissimi campi d’azione che le sono propri, e delle sue tante organizzazioni che operano spesso ignorate e sconosciute, le une alle altre. La formula di democrazia politica che la Costituzione disegna è per loro. La sua difesa è nell’interesse comune. Non c’è differenza, in questo, tra le associazioni che operano per la promozione della cultura politica e quelle che lavorano nei più diversi campi della vita sociale. C’è molto da fare per unire le forze. E c’è molto da chiedere a partiti politici che vogliano ridefinire i loro rapporti con la società civile: innanzitutto che ne riconoscano quell’esistenza che troppo spesso è stata negata con sufficienza, e poi si pongano, nei suoi confronti, in quella posizione di servizio politico che, secondo la Costituzione, è la loro226. Un altro bastione di resistenza, e quindi di possibile speranza per il futuro, è certamente presente nel mondo del lavoro dipendente. La classe operaia (l’abbiamo visto nei precedenti capitoli) ha avuto un ruolo decisivo nelle trasformazioni della città e della società negli ultimi due secoli. È in gran parte grazie alle lotte delle organizzazioni sociali e politiche della classe operaia che è nato il welfare urbano: quell’insieme di politiche, servizi, attrezzature e spazi che determina la vivibilità diffusa nelle città dove il ruolo di quelle organizzazioni ha inciso di più, arricchendo gli elementi di vita sociale prodotti dalla città antica: alle piazze e ai mercati, alla cattedrale e al palazzo del governo si sono aggiunti gli 226 G. Zagrebelsky, Democrazia in crisi, società civile, «La Repubblica», 7 nov. 2009, anche in eddyburg. 223 capitolo quindicesimo asili e le scuole, le biblioteche e le palestre, i parchi e l’edilizia abitativa pubblica. Il welfare urbano ha costituito, in qualche modo, il trasferimento all’insieme della società urbana della solidarietà di fabbrica. Oggi questa solidarietà tende a scomparire: il lavoro è, insieme all’ambiente, vittima del neoliberalismo227. Ridotta la sua rilevanza sociale, indebolita la sua consistenza economica (la sua mercede), frantumato nei suoi luoghi e nei suoi tempi dalle pratiche sempre più diffuse di esternalizzazione, di precarizzazione, di trasferimento della produzione in aree dove i diritti del lavoro sono meno garantiti, il lavoro subisce un ulteriore passaggio dopo quello dell’alienazione: diventa irrilevante ai fini del valore dell’uomo. Questo infatti interessa sempre meno come lavoratore, come artefice della produzione, e sempre più come mero consumatore. È anche per questo che – accanto ai movimenti per la difesa del territorio e per l’ambiente, a quelli per i diritti civili e il carattere pubblico e libero della scuola, a quello per la liberazione della donna – scendono di nuovo in campo anche forze legate direttamente al mondo del lavoro. È il caso, in Italia, della rete delle camere del lavoro della Cgil che hanno aperto vertenze per la “contrattazione sociale territoriale”. Non è più solo nella fabbrica che avviene lo sfruttamento del lavoro. Esso si manifesta sempre più ampiamente nell’organizzazione della città e del territorio: nelle difficoltà sempre maggiori di trovare un’abitazione a prezzi ragionevoli, un funzionamento decente della mobilità, una rete di servizi sociali diffusa; e si manifesta nella sempre più diffusa utilizzazione, da parte del capitale, di politiche urbanistiche che consentano di arricchirsi ulteriormente, lucrando sulla rendita e smantellando la fabbrica per trasformarla in terreno edificabile228. Ha scritto un dirigente sindacale, da tempo partecipe alle vertenze per il territorio e l’ambiente, Oscar Mancini: È necessario un incontro tra il movimento sindacale e i comitati, le associazioni, i gruppi, spesso nati spontaneamente 227 O. Mancini, Il lavoro e il territorio. Le due vittime del neoliberismo, in Città e lavoro. La città come diritto e come bene comune, a cura di E. Salzano, O. Mancini, S. Chiloiro, Roma, Ediesse, 2009. 228 Esemplari due casi recenti. A Scandicci (Fi) la proprietà del complesso industriale Electrolux (ex Zanussi) voleva chiudere l’attività produttiva e ottenere una valorizzazione edilizia dell’area; la resistenza operaia, appoggiata da un’intelligente decisione urbanistica del Comune, di non consentire alcuna modifica della destinazione d’uso dell’area e dal sostegno della Regione, ha consentito di conservare la funzione produttiva, modificando la tipologia del processo e del prodotto. A Milano, dove era in corso il tentativo di smantellare l’antica fabbrica Innse (ex Innocenti), la continuità dell’attività produttiva è stata ottenuta grazie alle inedite forme di lotta e al sostegno dell’opinione pubblica. Vedi l’articolo di M. Baioni, Riconversione produttiva, valorizzazione immobiliare, in eddyburg. 224 scomparsa la politica? attorno a un evento, una minaccia, un progetto. Una nuova coscienza collettiva che nasca da questo incontro non può che essere fondata sulla consapevolezza dell’impossibilità del mercato di risolvere i problemi derivanti dal carattere intrinsecamente sociale e collettivo della città e del territorio, in contrasto con il carattere individualista proprio dell’ideologia che sta alla base del sistema capitalistico, ovvero dell’attuale sistema economico sociale229. Incontro non certo facile: diverse sono infatti le origini delle rivendicazioni dei movimenti ambientalisti e quelle del mondo del lavoro. Queste ultime tendono spesso a vedere nella difesa dell’occupazione in atto, nelle sue forme determinate, il valore principale cui tutto subordinare. Le componenti dell’ambientalismo tendono simmetricamente a restar legati alla loro specifica e localistica vertenza, a vedere l’albero e non la foresta di cui è parte. Ciò non sfugge a chi propone una prospettiva “rosso-verde”. Mancini cita in proposito una frase di Asor Rosa: La cosa, se si entra nel merito, è tutt’altro che semplice: una classe operaia ecologista ancora non s’è vista ma neanche s’è visto un militante ecologista capace di «pensare» la questione sociale contemporanea. E pure sempre più avanza la consapevolezza che il destino umano risulta dalla composizione, meditata e razionale, delle due prospettive e cioè, per parlarne in termini politici, dalla sovrapposizione e dall’intreccio del «rosso» e del «verde»230. 5. Il sestante e le solide scarpe Frammenti di resistenza e segmenti di un potenziale fronte alternativo a quello espresso dal pensiero dominante e tradotto in concrete politiche. Come metterli insieme però? Come ottenere dalla loro unione una forza che sia più della somma delle parti? Il cammino non è facile, per molte ragioni. Ogni segmento è figlio di una vicenda che ha radici diverse da quelle d’ogni altro, ha le sue ragioni (soggetti, obiettivo, controparti) che sono simili forse a quelle di molti, ma non di tutti. L’autonomia di ciascuno deve essere rispettata al massimo, ma questo non può impedire che un coordinamento esista, che una rete si costituisca. Ogni segmento ha risorse scarse, la sua attività è basata sul volontariato e su 229 230 Mancini, Il lavoro è il territorio, p. 48. A. Asor Rosa, Più del fascismo, «il manifesto», 6 ago. 2008. 225 capitolo quindicesimo contribuzioni limitate; eppure, se si vuole un’attività di coordinamento e di servizio utilizzabili per tutti – una rete – occorre rinunciare a una parte delle risorse di ciascuno. Ciò vale anche per i poteri: se la rete ha un potere (di rappresentanza, di comunicazione, di distribuzione delle risorse tra obiettivi alternativi), in che modo i diversi segmenti concorrono alla sua formazione? E i rapporti con i partiti e con le istituzioni, occorre cercare il confronto e praticare il conflitto, oppure accettare anche la collaborazione? E a quali condizioni? Problemi aperti. Il cammino da percorrere per trasformare in una nuova politica ciò che si muove oggi sul territorio è certamente lungo, a meno di improvvisi e imprevisti mutamenti del quadro della società, quale oggi ci si presenta: spesso la Storia improvvisa. Del resto i grandi cambiamenti hanno sempre avuto un percorso lungo e un inizio, per così dire, “dal basso”. La grande forza che ha cambiato il capitalismo nel corso dei due secoli che precedono il nostro, il movimento operaio, ha cominciato a costruire i propri strumenti economici e politici a partire dalle esperienze di lotta di piccoli gruppi di uomini, mossi dalle contraddizioni che vivevano insieme. Certo, la classe operaia ha avuto due possenti strumenti per diventare potere: la solidarietà di fabbrica e l’analisi marxiana della società. Non so riconoscere strumenti analoghi nel mondo di oggi. Per il momento. Se così stanno le cose, allora ci aspetta un lavoro di lunga lena. Dobbiamo attrezzarci per un faticoso viaggio. Non basta avere un paio di scarpe solide, che aiutino a non perdere il contatto con la terra, con la società di cui siamo parte e con ciò che in essa si muove verso una società diversa. Ci serve anche un sestante per orientarci con le stelle. Le radici del malessere che viviamo sono profonde. Ho tentato di spiegarne le ragioni231, rifacendomi a ciò che appresi negli anni della «Rivista trimestrale». Occorre liberare il lavoro dalla condizione di alienazione (di ordinamento ad altro da sé) e ricondurlo alla sua funzione di strumento mediante il quale l’uomo conosce il mondo e può contribuire a trasformarlo232. Ciò comporta la formazione di una nuova economia, radicalmente diversa da quella capitalistica, nelle sue varie incarnazioni tutte basate sulla riduzione d’ogni cosa (a cominciare dal lavoro) a merce. 231 Vedi capitolo 2, paragrafo cinque. 232 Secondo Marx, la forza lavoro è «l’insieme delle attitudini fisiche e intellettuali che esistono nella corporeità, ossia nella personalità vivente d’un uomo, e che egli mette in movimento ogni volta che produce valori d’uso di qualsiasi genere», K. Marx, Capitale, i, iii, Roma, Edizioni Rinascita, 1985. Valori d’uso, scrive, non valori di scambio. Non solo merci quindi, ma anche beni, quali la conoscenza, la comunicazione tra i soggetti, l’espressione artistica, ecc. 226 scomparsa la politica? Del resto, vanno nella stessa direzione le valutazioni critiche del sistema capitalistico che nascono dal pensiero ambientalista. Le ha espresse con grande chiarezza Piero Bevilacqua, tirando le conseguenze del predominio dell’economia su ogni altra scienza, sapere, dimensione della vita dell’uomo e della società: L’apparato di razionalità che ha guidato le società postindustriali non è stato quello della fisica o della biologia o del pensiero filosofico, ma quello dell’economia. E nella seconda metà del Novecento la scienza economica si è messa al servizio di una gigantesca opera di saccheggio delle risorse naturali. E soprattutto ha finito coll’imporre una visione del mondo che ha separato la realtà sociale dalla biosfera, l’opera dell’uomo dal mondo vivente, la storia dalla natura. Il pensiero economico contemporaneo, nel suo progetto di crescita illimitata della produzione di ricchezza, si è di fatto fondato sulla completa rimozione del mondo fisico. E ha piegato a tale fine tutti gli altri saperi. A questi ultimi – anche quando essi erano portatori di una visione sistemica e complessa della realtà naturale – ha lasciato un compito ancillare di mera riparazione delle distruzioni che esso promuoveva e ispirava233. La costruzione di un pensiero e di un meccanismo economico capaci di sostituire, superandolo, il capitalismo non è un’operazione semplice. Vaste programme, direbbe Charles De Gaulle. Non so, non sappiamo, se il capitalismo ha i secoli – e non gli anni o i decenni – contati, come recita l’accattivante titolo del libro di Giorgio Ruffolo, che conclude sostenendo il problema non è di sottrarsi alla tecnica, ma di sottrarre la tecnica alle leggi del mercato ponendola al servizio della conoscenza. In questo senso l’equilibrio ecologico, l’arresto della crescita economica dell’avere, sterile e autodistruttiva, è la premessa necessaria di un umanesimo trascendente inteso allo sviluppo esistenziale della specie umana234. Ci vorranno secoli, decenni? Nessuno può dirlo, la Storia inventa. La direzione di marcia comunque deve essere questa: pensare e costruire una nuova società e una nuova economia. Utopia? A chi gli imputava d’essere utopico Claudio Napoleoni rispondeva che «posti a un livello 233 P. Bevilacqua, L’ambiente e le scienze. Quel che spetta al Novecento, lectio tenuta al Festival delle scienze, Roma 15 gen. 2008, pubblicata in eddyburg col titolo L’economia e il resto del pianeta. 234 G. Ruffolo, Il capitalismo ha i secoli contati, Torino, Einaudi, 2008, p. 284. 227 capitolo quindicesimo minore i problemi non hanno risposta»235. Non bisogna abbandonare le scarpe ma occorre anche afferrare il sestante, e mirare lontano. Fare, e pensare. Lavorare nel concreto, e studiare. 6. Urbanista oggi Cosa può e deve fare oggi, in questo quadro, chi pratica il mestiere dell’urbanista e condivide le riflessioni svolte in questo libro? Questa è la domanda che mi pongo, congedandomi dal lettore. Non siamo mestieranti, non siamo “tecnici”, ma intellettuali, nel senso più alto del termine. Siamo portatori d’un sapere specialistico che dobbiamo proiettare «su uno sfondo più vasto, ricavandone un senso di carattere generale», poiché «l’intellettuale è quello specialista che traduce le proprie competenze in un discorso di carattere generale, e usa quest’ultimo per cambiare le istituzioni, la politica, la società, talvolta l’antropologia circostante»236. Come farlo però, oggi? Dobbiamo innanzitutto studiare. Non si può operare sensatamente nella città se non la si conosce in tutti i suoi aspetti (urbs, civitas, polis), e non se ne sanno seguire e comprendere le trasformazioni. Dobbiamo perciò avere l’umiltà e la curiosità di intrecciare il nostro sapere con altri saperi, con le discipline che studiano la condizione urbana in altri aspetti. La multidisciplinarietà deve tornare ad essere la nostra bandiera. Naturalmente dobbiamo comprendere anche come adoperare gli strumenti del nostro mestiere. Penso che da quanto ho scritto finora emergano alcune indicazioni che delineano possibili percorsi. Provo a riassumerle. La nostra azione di urbanisti deve essere ispirata a principi dai quali non possiamo deflettere. Ho indicato quelli che gli amici di eddyburg condividono. Alcuni mi sembrano fondamentali: la titolarità pubblica delle scelte sul territorio, il carattere sistemico di quest’ultimo e quindi della sua pianificazione, intesa come sistema di regole certe e valide erga omnes e di procedure democratiche; la capacità di orientare le scelte al lungo periodo, che è l’unico conforme alla durata delle trasformazioni territoriali; la priorità degli interessi dei cittadini in quanto tali: cittadini 235 Cfr. C. Ravaioli, Napoleoni e la “produzione di uomini”, relazione svolta in un seminario sul pensiero di Claudio Napoleoni organizzato dalla Fondazione della Camera dei deputati, Roma 27 ott. 2009, anche in eddyburg. 236 Asor Rosa, Il grande silenzio, p. 25. 228 scomparsa la politica? di oggi e di domani) rispetto a quelli della proprietà immobiliare; il perseguimento dell’equità nell’uso della città da parte dei diversi gruppi sociali, e quindi la ricerca della riduzione delle differenze e la difesa delle fasce e dei ceti sociali più deboli; la priorità, nella definizione delle scelte, della tutela delle qualità del territorio e della sua integrità fisica, e la consapevolezza che ogni sottrazione di terra alla natura deve essere strettamente commisurata a fabbisogni sociali accertati e condivisi; il carattere pubblico, collettivo, comune dello spazio pubblico della città, nel senso ampio in cui l’ho definito. Sulla base di questi princìpi, credo che la pratica dell’urbanista debba oggi orientarsi verso specifiche direzioni. In primo luogo, salvaguardare con la pianificazione l’ambiente, il paesaggio, la naturalità. Il consumo di suolo determina oggi in Italia condizioni preoccupanti e procura danni più gravi che in ogni altro paese d’Europa, per almeno tre ragioni: per la fragilità morfologica e idrogeologica del territorio, sul quale la sregolata disseminazione di casette e infrastrutture provoca conseguenze ben diverse che nelle ampie pianure della Francia e della Germania o dei paesi dell’Est; per la densità di testimonianze della Storia, presenti in ogni frammento della Penisola; per l’incuria dei governi che non hanno fatto nulla per contrastarlo, e neppure per conoscerlo nei suoi dati reali. In secondo luogo, accentuare, consolidare ed espandere la centralità spaziale e funzionale degli spazi pubblici affinché possano svolgere appieno il loro ruolo sociale, politico ed economico: come luoghi del consumo comune e del welfare urbano, come luoghi nei quali liberamente ci si incontra come abitanti della città (cittadini attuali e potenziali) e non come clienti, come luoghi destinati al dibattito, all’esposizione e al confronto delle idee e delle proposte: in una parola, della politica. In terzo luogo, compiere tutte le scelte che consentano di ridurre le diseguaglianze nell’uso della città e delle sue componenti (abitazione, servizi, luoghi del lavoro) mediante la buona organizzazione funzionale, l’efficacia della mobilità collettiva, la previsione di quote di edilizia in affitto a basso prezzo in tutte le aree di trasformazione urbanistica. Infine, è utile ricordare che la pianificazione urbanistica agisce sull’economia della città. Incide sulla rendita immobiliare: può incrementarla, e può ridurla, come è successo a Napoli, col prg di Vezio De Lucia e del suo gruppo. E può evitare che le fabbriche vengano chiuse per realizzare, sulle loro aree, più convenienti quartieri residenziali e centri commerciali, come testimonia l’esperienza della ex Electrolux a Scandicci. Referenti naturali dell’attività professionale dell’urbanista sono le istituzioni. Benché siano oggi in gran parte deteriorate dalla pervasività dell’ideologia dominante e dalla crisi della politica, restano il luogo 229 capitolo quindicesimo della democrazia. Vanno riformate, a partire dal rapporto dialettico (dal conflitto) con la società, ma comunque esistono, sono guidate da uomini a volte sensibili alle “buone ragioni” dell’urbanista competente e consapevole del suo ruolo. Non sono però gli unici interlocutori. Dobbiamo cercarne anche altri, in quelle realtà controcorrente che operano nel territorio e che ho indicato, i movimenti ambientalisti, quelli dei diritti civili, della scuola, del movimento femminile, del mondo del lavoro, ecc. Certamente anche altri vanno individuati, in ambiti più vasti, guardando a ciò che sta succedendo nel mondo, in particolare nella realtà sociale dei paesi del Sud del mondo e nei luoghi della povertà e dell’emarginazione nei paesi “sviluppati”, e negli ambiti culturali nei quali l’analisi sociale e la ricerca di nuove strade per la civiltà non si sono inaridite. Dobbiamo ammettere, con Italo Calvino, che «l’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, è l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme». Da esso, la nostra società può uscire in due modi. Il primo «riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più»; questo modo noi lo rifiutiamo. Non possiamo allora che scegliere il secondo, con la consapevolezza che «è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio»237. 237 I. Calvino, Le città invisibili, Torino, Einaudi, 1972, p. 170. 230 20. La pagina di eddyburg con la cartella dedicata a Luigi Scano. 21. Pagina di eddyburg, con una delle cartelle dedicate a Venezia. 231 22. Studenti e docenti della iv edizione della Scuola di eddyburg, Asolo, settembre 2008. 23. Seminario alla Queen Ann University di Belfast, docente Todd Weir, novembre 2007. 232 24. Alla manifestazione contro la base Usa nell’area Dal Molin, con Anna Marson, Alberto Magnaghi e, dietro, Walter Bonan, Vicenza, febbraio 2008. 25. Con Vezio De Lucia, settembre 2008. 233 234 Indice dei nomi di persona Il Prologo non è indicizzato Abbaterusso Alessandro, 194n Agati Mario, 12n Airaldi Luigi, 121n Alborghetti Guido, 123 Allende Salvador, 86 Ambasz Emilio, 139 Amendola Giorgio, 19, 64 Andreotti Giulio, 142 Angioni Giulio, 180n Aprile Nello, 7n Arboretti Franco, 38 Ardy Silvio, 41 Arici Graziano, 140 Arnone Giuseppe, 134n Ashley Clarke Henry, 140 Asor Rosa Alberto, 74 e n, 177 e n, 222, 225 e n, 228n Asso Margherita, 140 Astengo Giovanni, 9, 47, 51, 52 e n, 54n, 82, 84, 90, 126, 127, 198 Augé Marc, 210 e n Ave Gastone, 134n Aymonino Carlo, 139 Badas Roberto, 133n, 135n Baduel Ugo, 21, 24, 58 Baioni Mauro, xiv, 173n, 174, 176 e n, 190n, 197n, 200 e n, 203, 224n Baldeschi Paolo, 173n, 186 e n, 187 Baldo Mariano, xiii Bandoli Fulvia, 133n, 134n, 135n Barbanente Angela, 189 Barbieri Carlo Alberto, 121n, 135n Barca Luciano, 54 Bartesaghi Ugo, 21, 22 Barzanti Roberto, 133n Basaldella Mirko, 7n Basile Giuseppe, 75n Bassanini Franco, 120, 133n, 134n Bassetti Emanuela, 110 Bassetti Silvano, 133n, 134n Battaglia Roberto, 6 e n Baumann Zygmunt, 213 Beccaria Piercamillo, 69 e n, 121n Bellagamba Piergiorgio, 135n Beltrame Gianni, 134n Benevolo Leonardo, 62, 155 Berdini Paolo, 133n, 173n, 176, 193, 195, 197n Bergamo Ugo, 113, 154 Berlinguer Enrico, 86 e n, 93, 100, 101 e n, 151, 220 Berlusconi Silvio, 95, 132, 140n, 180 Bernoulli Hans, 25 e n Bertolaso Guido, 176 Betti Daniela, 126 Bevilacqua Piero, xiv, 176, 190, 227 e n Bianchetto Giuseppe, 37, 38 Bianchin Roberto, 139 Bilò Massimo, 121n Biscotti Stefano, 190 Blecic Ivan, 164n, 171 Boato Stefano, 112 Boatti Giuseppe, 121n Boca Giorgia, 173n Boccardi Tommaso, 157f Boltanski Luc, 73n Bonan Walter, 233f Boniburini Ilaria, xiv, 173n, 203, 204, 207, 213 Boringhieri Paolo, 59 Bottini Fabrizio, 41 e n, 172, 173, 175 Bottino Felicia, 83, 121n, 125, 133n, 134n Brecht Bertold, 93 235 indice dei nomi di persona Bucalossi Pietro, 56 Busetto Franco, 76 Bush W. George, 211 Busiri Vici Andrea, 4 Busiri Vici Salzano Barbara, 4, 13, 14, 24, 84, 157f Cabianca Vincenzo, 80 Cacciari Massimo, 140n, 154, 155 Cacciari Paolo, 175 Cacòpardo Rocco (Chicco), 14n, 22-24 Calcaprina Cino, 7n Calimani De Biasio Luisa, 134n, 197n Calza Bini Alberto, 41 Calzolari Ghio Vittoria, 39 e n, 121n Camagni Roberto, 197n, 198, 201 Camarda Ignazio, 180n Camerino Ugo, 139 Camerlingo Elena, 121n, 164n Campos Venuti Giuseppe (Bubi), 57 e n, 80, 121n, 130-133n, 194 Cancogni Manlio, 25 Caniggia Gianfranco, 95 Cannarozzo Teresa, 133n, 135n Cannas Paola, 180n Capocelatro Ennio, 55n Caporioni Vittorio, 69 Carafoli Domizia, 167n Caratù Giovanna, 190n Cardelli Aldo, 7n Carignani Luigi, 6 Carmassi Massimo, 121n Carrassi Alarico, 76 Casellati Antonio, 112, 133n, 140, 154 Cassano Franco, 217n Caudo Giovanni, 173n, 203, 204 Cavalcoli Piero, 164n, 189 Cecchini Arnaldo (Bibo), 164, 171 Cecchini Marta, 134n Cederna Antonio, 25, 47, 53, 70n, 123, 127, 133n Cerulli Irelli Vincenzo, 194 Cervellati Pier Luigi, 121n, 123, 197n Chiarante Giuseppe, 21, 24, 58, 86n, 218-220 Chiaromonte Gerardo, 121 Chiesa Giobatta, 21 Chiloiro Sergio, 224n Chiodi Cesare, 41 Churchill Winston, 19 Ciccone Filippo, 121n, 123, 126, 133n, 134n, 180n Cioccetti Urbano, 127 Ciucci Giorgio, 36 Ciurnelli Stefano, 190n Cobianchi Cristina, 94 Coccia Francesco, 7n Colaianni Luigi, 135n Combatti Bernardo, 108n Combatti Gaetano, 108n Compagna Francesco (Chinchino), xlviif Consonni Giancarlo, 173 Corona Gabriella, 205n Corti Enrico, 180n Costa Paolo, 140 e n Crawford Lennard Suzanne, 145, 146 Craxi Bettino, 8, 95, 99-101, 152 Croce Benedetto, 5 Croce Elena, 22 D’Agostino Roberto, 155 D’Albergo Salvatore, 76 D’Alema Massimo, 153 D’Alessandro Massimo, 36 D’Angelo Guido, 81 Dal Piaz Alessandro, 75n, 83, 121n, 134n, 135n De Caro Stefano, 189 De Forgellinis Maria Franca, 121n De Gasperi Alcide, 29 De Gaulle Charles, 227 De Grandis Franco, 135n De Luca Giuseppe, don, 19 De Lucia Luca, 190n, 197n De Lucia Vezio, xiv, 12n, 47, 48 e n, 49-51, 53n, 57, 58, 75 e n, 81-83, 98, 121n, 123, 126, 133n, 135n, 162, 166n, 197n, 173 e n, 176, 187 e n, 193, 194n, 197, 198, 201, 205 e n, 206 e n, 229, 233f De Marco Roberto, 176 De Martino Umberto, 35n, 36 De Michelis Gianni, 94, 100-102, 138, 139, 142, 143 De Piccoli Cesare, 133, 134n, 139, 140, 142, 154 De Rosa Giorgio, 121n, 135n De Seta Cesare, 123 De Sica Vittorio, 5 De’ Barbari Iacopo, 108 e n Degan Costante, 112, 154 Del Fattore Sandro, 121n Del Vecchio Domenico (Mimì), 10, 23 Delgado Edoardo, 75n Della Seta Piero, 63-65, 68, 69, 115, 116n, 121n Delpiano Alessandro, 164n Deng Xiaoping, 85 Detti Edoardo, 54n, 80, 82, 83, 127 Di Donato Giulio, 123 di Gennaro Antonio, 173n, 176, 189, 190n, 197 e n di Gioia Leonardo, 190 236 indice dei nomi di persona Di Gioia Vincenzo, 25, 49 Diaz Armando, xlvf Diaz Marcello, xlvf Diaz Salzano Anna, xlviiif Diaz Sara, xlvf Dolleans Edouard, 8 Donato Marco, 111 Drummond Dereck, xiii Durante Alberto, 8, 9, 22, 25 Einaudi Giulio, 61, 62 Einaudi Luigi, 29 Emiliani Vittorio, 134n Erba Valeria, 57 e n, 58, 83, 121n Erbani Francesco, 205, 207 Ernesti Giulio, 133n Escobar Arturo, 213 Falco Luigi, 58, 83 Falconi Ferrari Laura, 83 Fatarella Stefano, 164n, 173n Fava Fernando, 204 Feletti Edgarda, 95, 107, 109, 110, 112, 125 Feltrinelli Giangiacomo, 50 Ferretti Licinio, 109 Fersuoch Lidia, xiv Finiguerra Domenico, 176, 199 Fiorentino Fabio, 14n, 15 e n, 16-18 Fiorentino Mario, 7n, 65n, 80 Fiori Simonetta, 74n Flores D’Arcais Paolo, 163 Fondelli Mario, 109, 110 Forni Elisabetta, 204 Foscari Antonio, 139 Franchi Tonino, 37 Frisch Georg, 173n, 176, 194n, 198 Gabanelli Milena, 195 Gago Davila Jesus, 134n Galasso Giuseppe, 123 Galbraith J. K., 71 e n, 213, 214n Gallingani Mariangiola, 164n Gambino Roberto, 134n, 138n, 180n Garano Stefano, 121n Garau Pietro, 38 Garcia Lorca Federico, 5 Gennaro Gianni, 75n Gerratana Valentino, 15 e n Ghio Mario, 39 e n, 53, 121n, 127 Giallo R., 141n Giannì Roberto, 205 Gianquinto Titta, 102 Gibelli Maria Cristina, 173n, 175, 197n, 198, 200, 204n Gigliotti Antonio, 63 Ginsborg Paul, 43 e n, 44n, 73n, 77 e n, 99, 100, 116 e n, 152n Gioggi Giuliana, 22 Giovanni xxiii, papa, 19, 43 Giovenale Fabrizio, 47, 123, 134n Girardi Franco, 80, 81n, 130, 131n, 134n Girardi Ugo, 121n Giulianelli Sandro, 135n Giuralongo Andrea, 194n Giuralongo Tommaso, 121n, 134n Giustinian Bernardo, 111 Gorio Federico, 10-13, 25, 35, 36, 39, 47, 80 Gramsci Antonio, 32, 213 Grasso Carmelo, 47 Guareschi Giovanni, 7 Guermandi Maria Pia, xiv, 172, 173 e n Guerzoni Marco, 164 e n Harvey David, 73 e n, 85, 208 e n, 213, 216 e n Henry Guy, 134n Hilter Adolf, 8, 19 Iannello Antonio, 133n Imbesi Pino, 35 Indovina Francesco, 134n, 165, 197n, 207n Ingrao Pietro, 64, 76 Insolera Italo, 36, 37, 61, 62 e n, 65n, 70, 71n, 127 Jacobelli Paolo, 35 Kraemer Badioni Thomas, 134n La Malfa Ugo, 19, 79 La Pira Giorgio, 80 Lacava Alberto, 47, 138n Langella Cinzia, 205 Lanzinger Gianni, 133n Lanzuise Giovanni, 203 Laroni Nereo, 112, 154 Laterza Giuseppe, 207 Laterza Vito, 62 Latouche Serge, 213 Le Corbusier, 24 Lefebvre Henri, 76 e n, 208 e n Lennard Henry, 145, 146 e n, 159f Leon Paolo, 138n Leopardi Giacomo, 5 Levi Carlo, 11 Libera Adalberto, 39 Libertini Lucio, 119, 120 e n, 122 e n, 123 Lombardi Giorgio, 139 Lombardi Riccardo, 47, 76 Lonergan Bernard, 23 Longo Luigi, 64, 72 237 indice dei nomi di persona Lorenzi Giambattista, 111 Lovascio Cosma, 190n Loy Nanni, 4 Loy Peppe, 4, 10, 157f Lugli Pietro Maria, 12n, 65n Lupi Maurizio, 66n, 132, 164n, 196 Macaluso Emanuele, 122 e n, 123 Macchi Giulio, 111 Macciocco Vanni, 180n Machiavelli Nicolò, 32 Magnaghi Alberto, 186, 188, 189, 207n, 233f Magri Lucio, 21, 24, 58 Malacrino Claudio, 134n Malfatti Francesco, 121n Malossi Elettra, 164n Malvezzi Piero, 6n Mancini Giacomo, 47, 65n, 69, 196 Mancini Oscar, 74n, 175, 207, 224 e n, 225 e n Mancuso Franco, 92n, 97n, 121n Manieri Elia Mario, 36, 37 Mantini Pierluigi, 197 Manzella Andrea, 110 Mar Giampaolo, 139 Marcelloni Maurizio, 133n, 134n Marchetta Manlio, 135n Marcialis Giuseppina (Giusa), 36, 48, 83 Marco Romano, 126 Maretto Paolo, 95 Maritan Jacques, 14 Marson Anna, 233f Martinotti Guido, 148, 149 Martuscelli Michele, 47, 49, 51, 52 e n Marx Karl, 8, 32, 88, 213, 214, 226n Mattioli Raffaele, 19, 59 Mattucci Emilio, 37 Matulli Roberto, 121n Maturi Michele, 105 Mazza Luigi, 195, 196 Mazzolari Primo, don, 20 Melloni Mario (Fortebraccio), 21, 22, 58 Melograni Carlo, 121n, 123 Meneghetti Lodo, 173n Mercalli Luca, 199 Mercurio Franco, 190 Milani Lorenzo, don, 20, 21n Minelli Stelvio, 57 Mocenigo Pietro, 111 Molino Raffaele, 75n Mondini Paolo, 195 e n Monello Paolo, 122 Morandi Bruno (Dado), 6, 63 Morandi Maurizio, 36 Moretti Luigi, 3 Moro Aldo, 79, 100, 201 Moroni Piero, 47 Moroni Stefano, 166 e n, 167 e n, 168 e n, 169 Morpurgo Giorgio, 121n, 135n Mostacci Roberto, 58 Mottini Maurizio, 117 e n, 118 Mounier Emmanuel, 14 Muratori Saverio, 95 Musil Robert, 5n Muu Cautela Maria, 65 Napoleoni Claudio, 26, 27 e n, 28 e n, 59, 213, 228 e n Napolitano Giorgio, 121 Natali Lorenzo, 50 Natoli Aldo, 63, 64, 67 Natta Alessandro, 121 Nenni Pietro, 79 Nicolazzi Franco, 118, 126, 143 Nigro Gianluigi, 48 Novelli Diego, 80 Occhetto Achille, 133n, 152 Odorisio Carlo, 54 Oliva Antonio, 75n Oliva Federico, 121n Olivetti Adriano, 23, 82 Paba Giancarlo, 204 Packard Vance, 213, 214n Pagano Fortunato, 134n Pajetta Giancarlo, 64 Palermo Ciro, 171 Palermo Giuseppe, 173n Parola Vittorio, 135n Parrelli Ennio, 21 Pasolini Pier Paolo, 13 Passarelli Lucio, 65n Patassini Domenico, 165 Pavese Cesare, 62 Pavoncelli Giuseppe, 189 Pedace Donatella, 14n Peguy Charles, 14 Pellicani Gianni, 93, 94, 98, 102, 103, 111, 137, 154 Pennetta Luigi, 190n Perna Massimo, 48 Perugini Giuseppe, 7n Petrini Carlo, 199 Petrucci Amerigo, 127 Pia Margherita, 135n Piano Renzo, 139 Piccinato Luigi, 47, 53, 65n, 80, 127 Piccotti Pierre, 171 Pinochet Augusto, 85 e n Pio xii, papa, 20, 43 238 indice dei nomi di persona Radicioni Raffaele, 117, 118 e n, 119 e n, 121n, 134n Ravaioli Carla, 173n, 228n Reagan Ronald, 85, 116 Realacci Ermete, 163 Renzini Anna, 121n Restucci Amerigo, 121n Ricardo David, 214 Ridolfi Mario, 13 Rigamonti Paolo, 198 Righi Ezio, 121n Rigo Mario, 93, 145, 154 Rinaldini Franco, 21 Ripa di Meana Carlo, 134, 135n Ripa di Meana Daria, 48 Rivi Gianni, 94 Rodano Franco, 17-19, 21-24, 26, 28, 30, 32, 54, 59, 63, 158f, 213 Rodano Marisa, 18 e n, 19, 28, 59 Roggio Sandro, 173n, 188 Romanelli Giandomenico, 134n Roscani Bruno, 72, 76 Rossellini Roberto, 5 Rossi Aldo, 61 Rubin de Cervin Maria Teresa, 140, 143 Ruffolo Andrea, 134n Ruffolo Giorgio, 138, 215, 216n, 227 e n Russo Giovanni, 123 Russo Saverio, 190n Salzano Francesco, 160f Salzano Germana, xlviif, 33 Salzano Giovanni, 160f Salzano Giulia, 94, 160f Salzano Maria, xlviiif, 160f Salzano Mauro, 160f Salzano Mauro, xlviiif Samonà Giuseppe, 56, 80 Samperi Piero, 65 Sandulli Aldo, 55 Sani Maurizio, 164n, 190n Sanna Antonello, 180n Sarti Armando, 76 Sartre Jean-Paul, 23 Sassen Saskia, 213 Savoia, fam., 69 Scalfari Eugenio, 84, 101 e n Scandizzo Lucio, 75n Scano Luigi, 14n, 91n, 92n, 95-97n, 98 e n, 94, 107 e n, 112, 114 e n, 120 e n, 125, 133 e n, 134 e n, 138, 154, 155 e n, 190n, 194, 197n, 214n, 231f Schenk Helmar, 180n Sebasti Rinaldo, 48 Sennett Richard, 210, 211n, 213 Settis Salvatore, 163 Siliani Simone, 134n Sinisgalli Leonardo, 6 Smith Adam, 214 Somma Paola, 135n, 204 Soru Renato, 179-181, 185, 188 Sotgia Antonello, 72n Spilotros Elisa, 164n Spriano Paolo, 15 e n Stalin Iosif, 8, 19n Stanghellini Stefano, 121n Storchi Stefano, 134n Storto Giancarlo, 121n, 197n Strobbe Francesco, 38 Sullo Fiorentino, 44, 48, 50, 57, 77, 196 Sacconi Filippo, 21, 22 Sachs Wolfgang, 213 Salinari Carlo, 15 Salvagni Piero, 135n Salvagno Vittorio, 114 Salzano Anna, 160f Salzano Carmela, 157f Salzano Carmen (Litta), xlviif Salzano Edoardo, 15n, 24n, 30n, 38n, 56n, 57n, 60n, 61n, 71n, 75n, 77n, 82 e n, 95n, 114n, 116n, 121n, 123 e n, 125n, 127n, 129n, 130n, 132n, 133n, 135n, 142n, 143n, 149n, 175n, 180n, 195n, 196n, 197n, 204n, 224n Salzano Eduardo, xlvif, 19 Tamburini Giulio, 35n, 36, 37, 48, 83, 197n Tatò Tonino, 21, 22 Teilhard du Chardin Pierre, 14 Testa Enrico (Chicco), 123, 133n Thatcher Margaret, 85, 116 Tirelli Lino, 121n, 134n Tito Josip Broz, 20 Tocci Walter, 133n, 134n, 135n Todde Giorgio, 173n, 180n Todros Alberto, 54 e n, 76, 121n Togliatti Palmiro, 19, 22, 32 Tranfaglia Nicola, 133n Tranquilli Vittorio, 21, 22 Trifoni Romolo, 37 Pirelli Giovanni, 6n Poggiani Alessandra, 171 Pompei Stefano, 121n Prasca Giuliano, 70 Predonzan Dario, 187 Prodi Romano, 140n Proudhon Henri, 8 Pulli Giuseppe, 121n Quaroni Ludovico, 12n, 25 239 Trivelli Renzo, 63 Trupiano Antonino, 83 Turroni Sauro, 134n, 197 Tutino Alessandro, 76, 80 Vettoretto Luciano, 166 Viesti Gianfranco, 190n Visentini Bruno, 140, 142 Vitale Mirella, 190n Vittadini Maria Rosa, 133n, 134n Vittorini Marcello, 25, 41, 47-50 Vivante Raffaele, 90n Urbani Paolo, 180n Urbinati Nadia, 147n Valecic Dusana, 173n Valente Erasmo, 21 Valle Cesare, 10, 25, 35, 80 Valori Michele, 12n, 65n van der Borg Jan, 140 van Dijk Teun A., 177n Veltroni Walter, 194 Vendola Nichi, 189 Venti Donatella, 134n Venturi Marco, 133n, 134n Weir Todd, 232f Zagrebelsky Gustavo, 223 e n Zambrini Guglielmo, 134n Zanazzo Marina, xiv Zappulli Umberto, 21 Zennaro Angelo, 153 Zevi Bruno, 40, 62, 80 Zucca Raimondo, 180n Zucconi Massimo, 200n, 203 Finito di stampare nel mese di gennaio 2010 da Cierre Grafica, Sommacampagna (VR) per Corte del Fontego editore 240