Liberta di comunicare nei Paesi del Mediterraneo

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Liberta di comunicare nei Paesi del Mediterraneo
La libertà di comunicare nei paesi del mediterraneo
La Primavera Tecnologica
Relazione di Silvio Luise
Oggi sovrapposto al Mediterraneo reale, con le sue sedimentazioni millenarie, c’è un nuovo
Mediterraneo virtuale. Internet e le nuove tecnologie infatti offrono la possibilità di mettersi
in relazione ed interagire con persone e culture molto distanti e non solo in senso fisico.
Non a caso quando si parla del Web si usa la metafora della navigazione, dove un singolo
individuo può mettersi in relazione con una persona sconosciuta, con una realtà , con la
quale, fino a pochi anni fa, avrebbe avuto ben poche opportunità di interagire. Il locale
diventa globale o se preferite glocal , la tradizione diventa tipicità, specificità, che può
essere scambiata e perfino commercializzata in un nuovo mercato immateriale.
Potenzialità e non possibilità, perché se è vero, che oggi la rivoluzione tecnologica ha
fornito nuovi contenuti e nuovi strumenti alla libertà di espressione ha anche creato nuove
barriere. In tutto il mondo gli utenti di internet superano il miliardo e tuttavia quasi il 90 per
cento delle 6000 lingue parlate nel mondo non sono rappresentate sul web. Non è
possibile creare nomi di dominio in molte varianti linguistiche e molti gruppi etnici non
possono
accedere
col
loro
linguaggio
alla
rete.
Sono nate nuove forme di discriminazione: il digital divide. Una "barriera" che rende
impossibile alla stragrande maggioranza della popolazione mondiale di varcare la frontiera
digitale. Per non parlare delle nazioni dove regimi totalitari impongono pesanti limitazioni
alla libertà di comunicare e dove i cyber dissedenti vegono perseguitati ed incarcerati.
E tuttavia, proprio nel mediterraneo virtuale, tra molte contraddizioni ci sono alcuni
importanti segnali che meritano di essere oggetto di riflessione.
A cominciare dalla Palestina uno stato che non esiste ancora nella realtà ma che è già
riconosciuto in rete.
Tra il 1999 e il 2005, la diffusione di Internet in Palestina è salita dal 2 all’12%, e i
navigatori sono passati da 50.000 a 250.000. Un incremento formidabile del 2% all’anno
tenuto conto che il paese è in condizioni socio-economiche terribili, soffre di una
drammatica instabilità politica, e che quasi l’80% dei palestinesi nei territori occupati vive
sotto la soglia di povertà, con meno di 2 dollari al giorno.
Gli Internet cafè si diffondono nei territori, compresi i campi profughi, e si moltiplicano i
weblog, i warblog, i siti d’informazione indipendenti.
Un vero boom, dunque, che può essere spiegato con la capacità del Web di trascendere i
confini, la distanza e la censura, facendone il mezzo per comunicare preferito da coloro
che vivono nei territori occupati, da quelli della diaspora e da migliaia di pacifisti di tutto il
mondo.
L’innovazione sta dunque modificando una terra investita da un conflitto che dura da più di
mezzo secolo, uno di quegli angoli del globo in cui da decenni niente sembra poter
cambiare. Oggi le aree governate dalle autorità di Ramallah hanno propri ISP (Internet
Service Provider) e una compagnia, la PalTel (Palestine Telecommunications Co.) che dal
1996, su licenza esclusiva dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), lavora per sviluppare
le infrastrutture di base necessarie alla costruzione e al funzionamento delle reti
telematiche.
E, dal 2003, i siti palestinesi hanno un loro suffisso, .ps, il primo nella storia della Rete ad
indicare uno stato che ancora non esiste. Internet consente alle persone divise dalla
distanza, dai confini o dai muri, di parlare, e sta restituendo, ai palestinesi il “permesso di
narrare”, secondo le parole dell’intellettuale palestinese Edward Said. Il permesso di
mantenere viva la memoria delle terre lasciate da decenni, dei parenti e degli amici
perduti, di raccontare la vita di tutti i giorni, dall’estero o dai territori occupati. Per fare in
modo che chi sta fuori, lontano e magari assuefatto alle notizie di guerra, possa riscoprire
la dimensione umana della loro esistenza, al di là delle ragioni e dei numeri del conflitto.
Mai come in questo caso è giusto definire la rete un’arma di attrazione di massa.
Dal Marocco, attraverso la voce e gli scritti di Fatema Mernissi, giunge una ulteriore
conferma di quanto l’ICT, l’information and communication technology, possa contribuire
all’evoluzione di quella parte del mondo arabo -- ed in particolare le donne -- che pur
legato alla tradizione è aperto alle innovazioni hi-tech. E' quanto sostiene la sociologa e
scrittrice marocchina, nota esponente femminile della cultura araba, famosa per
un'interpretazione non convenzionale dell'Islam, e per i rimproveri mossi all’ Occidente di
non fare abbastanza per conoscere e capire il mondo islamico. "Gli abitanti di Marrakech
sembrano essere completamente ammaliati dalla magica idea di comunicare con il mondo
intero e si precipitano negli Internet Café....In una città dove le ragazze stanno acquattate
per ore negli Internet Café, bisogna rassegnarsi a vedere che il fatto di portare il velo ha
più a che fare con la rappresentazione sociale che con la devozione", scrive in "Karawan,
dal deserto al web". Per la sociologa, l'Islam non è rappresentato dall'integralismo e
oscurantismo musulmano, è invece, soprattutto, una tradizione proiettata verso il futuro
tecnologico grazie alle nuove generazioni, con le parabole satellitari a fianco dei minareti.
La scrittrice vede nei satelliti, in Internet e nella loro crescente diffusione nel mondo arabo
uno strumento di democratizzazione e emancipazione intellettuale. "Dal deserto al web" è
una esplorazione, che la Mernissi ha compiuto anche fisicamente, del mondo arabo, in
particolare del Marocco, tra passato e futuro, dal suq materiale delle città al suq online, dal
grido del muezzin alle sigle dei notiziari e dei talk show televisivi del mondo arabo e non,
ricevuti tramite le antenne satellitari, con la convinzione che, di fronte alla minaccia del
terrorismo internazionale, comunicare e quindi conoscere sia essenziale per abbattere le
barriere culturali, per scongiurare lo scontro di civiltà, in nome di un'osmosi tra culture.
In realtà qualche timido passo in questa direzione si sta facendo, come si sta cercando di
far conoscere al mondo arabo le basi della cultura occidentale.
Secondo il “Rapporto ONU sullo sviluppo umano nel mondo arabo” del 2003, il numero di
libri tradotti annualmente in greco, una lingua parlata da appena 11 milioni di persone, è
di oltre cinque volte superiore a quello dei libri tradotti in arabo. «Nell’intero millennio
trascorso sono stati tradotti in arabo non più di diecimila libri,» dice il rapporto, «numero
equivalente a quello tradotto ogni anno in spagnolo.»
Autori e editori devono fare fronte ai capricci di 22 apparati arabi di censura. «Di
conseguenza,» scrive uno degli estensori del rapporto, «i libri non si muovono facilmente
attraverso i loro mercati naturali.»
Degna di nota è una iniziativa del Cato Institute di Washington: l’offerta online, su un
nuovo sito Internet, di testi classici del pensiero liberale e dell’illuminismo tradotti (nella
maggioranza dei casi, per la prima volta) in lingua araba. In gennaio,
MisbahAlHurriyya.org ha debuttato in Internet. Oggi ospita circa 40 testi; punta a superare
i 400, con un catalogo che spazia da Stuart Mill ad Adam Smith. Il sito promosso dal Cato
Institute va a raggiungere la piccola ma crescente pattuglia di blog e siti web in lingua
araba che diffondono idee liberali.
Secondo alcuni osservatori nel mondo arabo, molto più che in Occidente, si può
genuinamente parlare di una “rivoluzione dei blog”». Internet fornisce ai liberali arabi la
piattaforma e l’anonimato di cui hanno bisogno.
Durante la polemica riguardante la pubblicazione in un giornale danese di vignette su
Maometto, un blogger egiziano ha fatto notizia evidenziando che nessuno aveva
protestato quando, in precedenza, gli stessi fumetti erano stati pubblicati sulla prima
pagina di un giornale egiziano – e proponendo, ironicamente, il boicottaggio dell’Egitto da
parte dei musulmani.
Ed ancora l’Egitto, nei mesi scorsi, ci ha offerto un primo limitato esempio concreto di
contaminazione culturale tra Occidente e mondo arabo. Si è trattato di un fotomontaggio
dal titolo di Egyptian Gandhuevara. Faccia di Che Guevara, capigliatura araba, e
l’atteggiamento non violento di Gandhi, ma con due righe di didascalia assolutamente
originali “Il cittadino è come una mosca che continua eternamente a spiaccicarsi sul
finestrino di una macchina in movimento”. Dunque non solo rivoluzione e pacifismo, ma
anche una difesa dei diritti del cittadino in uno stato di diritto, simbolo di una “primavera
araba” oggetto in questi mesi di una dura repressione da parte dei regimi che governano
la sponda africana del mediterraneo da Casablanca al Mar Rosso e che ben rappresenta
i fermenti che attraversano la blogosfera araba.
Ma sul fronte della libertà di comunicare le cose non vanno benissimo nemmeno sulla
sponda settentrionale.
La Grecia culla della democrazia, patria di filosofi e liberi pensatori, ha recentemente
ospitato l'Internet Governance Forum. Ad Atene si è parlato di libertà di espressione sul
Web, sono stati rivolti appelli per contrastare le regolamentazioni restrittive che portano
alla chiusura di blog in molti paesi. Nel frattempo, il gestore di Blogme.gr, un sito che
aggrega, mediante feed RSS, notizie provenienti da tutto il mondo è stato arrestato, ha
trascorso una notte in prigione, per aver linkato un blog satirico in cui viene deriso un
personaggio pubblico.
Da noi , in Italia, una brutta storia di violenza e soprusi su un diversamente abile ha
innescato un dibattito per molti versi sconcertante. La vicenda è arcinota. Alcuni studenti di
un liceo di Torino si sono ripresi mentre in aula vessavano un “compagno meno fortunato”
e poi hanno pubblicato il filmato della vicenda su Youtube (il servizio, appena acquistato
da Google, che consente agli utenti di pubblicare in autonomia i propri video).
Per tutti quelli che conoscono il mondo degli adolescenti, non si tratta di un caso isolato. Il
clamore mediatico suscitato da questo particolare episodio, da un lato ha portato in primo
piano un grave e diffuso problema di violenza e di malcostume (la responsabilita’ delle
famiglie e degli educatori, la crisi dei valori, la diseducazione sociale che non riguarda solo
i più giovani) ma dall’altro ha rappresentato il pretesto per invocare repressione e censura.
La rete è stata colpevolizzata, si è tornati a proporre di stabilire la responsabilita’ oggettiva
dell’internet provider (renderlo, cioe’, automaticamente responsabile delle azioni di chi
utilizza i suoi servizi), mentre appare assolutamente evidente che l’abberrante esibizione
online del filmato ha portato all’identificazione dei fatti e dei colpevoli (altrimenti ignoti e
impuniti).
Ministri ed esponenti politici di maggioranza e opposizione hanno annunciato l’ennesimo
disegno di legge, con l’aggravante che, e’ stato addirittura avviato un procedimento
penale nei confronti dei rappresentanti italiani di Google.
Si ignora o si fa finta di non sapere che l’Unione Europea e l’Italia hanno gia’ affrontato e
risolto il problema della responsabilita’ del fornitore di servizi internet. La direttiva 31/00
recepita in Italia dal decreto legislativo 70/2003 riconosce che non esiste un obbligo
generale di sorveglianza preventivo a carico del fornitore di servizi. Per non parlare dei
precisi obblighi di legge che impongono, invece, a genitori e dirigenti scolastici il controllo
sull’operato dei minori e stabiliscono la loro responsabilita’ giuridica sul loro
comportamento.
In conclusione, nel nostro paese, come nel resto del mondo internet ormai non è più una
cosa “per pochi”. La usano, anche in Italia, milioni di persone. Ma probabilmente non sarà
mai “per tutti”. Perché la parte più viva e stimolante della rete è quella che interessa solo a
chi ha una buona dose di curiosità, il desiderio di confrontarsi e cercare somiglianze
inaspettate.