Le lettere e la morte

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Le lettere e la morte
Le lettere e la morte
EPIGRAFIA FUNERARIA NELLA ROMA BAROCCA
MAURO ZENNARO
La scrittura rappresenta il più formidabile metodo di memorizzazione; anche le tecniche di scrittura più avanzate, come la digitalizzazione, hanno lo
stesso fine. Il rapporto degli esseri umani con la memoria e con l’oblio è sempre stato problematico, nel senso
che il secondo ha molto spesso avuto la meglio sulla prima. Oggi, però, l’evoluzione dei sistemi di archiviazione e di compressione dei dati sta portando alla memorizzazione totale e al capovolgimento di un sistema plurimillenario: se un tempo ricordare, registrare e ritrovare con esattezza dati archiviati rappresentava una difficoltà quasi insormontabile, ora l’evoluzione del digitale rende quasi impossibile il contrario. “Per millenni gli
uomini hanno vissuto in un mondo caratterizzato
dall’oblio, che ha impregnato i comportamenti individuali, i meccanismi e i processi collettivi, i valori umani. È da ingenui pensare che lasciarsi alle spalle un aspetto così fondamentale della natura umana con l’aiuto
della digitalizzazione e della tecnologia sia un processo
indolore” [nota 1 a pagina 46]. La mole crescente di dati conservati e consultabili sembra però essere divenuta una
condanna, e solo una classificazione implacabilmente
esatta permette di rendere rintracciabile la quantità accumulata. La tassonomia è divenuta di colpo una scienza indispensabile. L’angoscia dell’oblio è stata sostituita da quella della memoria.
La morte è sempre stata la massima forma di oblio,
cioè di angoscia, e la scrittura il suo antidoto. La scrittura è la lotta alla morte. È ancora così?
Il culto dei morti era praticato già in epoca neanderthaliana, all’incirca fra 50.000 e 200.000 anni fa [2].
A prescindere dalle forme che esso assumeva (cioè se
i morti fossero – e siano – mummificati, sepolti, bruciati, gettati in mare, eccetera), tale culto significa sostanzialmente il riconoscimento ai defunti di un loro
spazio – terra, tombe, urne, mare aperto – distinto da
quello di chi resta in vita. I motivi sono molti: allontanare sgradevoli processi di decomposizione; consentire al defunto una seconda ‘vita’, come la maggior parte delle religioni riconosce; ma soprattutto tenerli separati e alla larga da quel mondo vivo e reale al quale
non devono tornare. Tale infatti sembra essere la paura più angosciante che i viventi hanno esplicitato attraverso l’invenzione di miti come i vampiri e gli zombi: che a volte ritornino.
1. Tomba di Robert
Kennedy presso
il cimitero di Arlington.
Le scritture funerarie sono sempre fatte a uso e consumo dei vivi, e la loro tipologia è spesso trasversale alle
varie epoche. I testi più elementari (nome e data) non sono affatto limitati all’antichità – come si può notare visitando uno dei tanti cimiteri militari moderni – ed epigrafi lunghe e discorsive esistevano in epoca romana co38
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me in quella barocca. Ad Arlington migliaia di lapidi
bianche recano pochi dati e perfino le tombe dei Kennedy non dicono che l’indispensabile [1]. Nelle necropoli romane, invece, le scritture esposte riportano perfino la dimensione esatta del perimetro tombale, non sia
mai che qualcuno se ne rubacchiasse un mezzo metro
quadrato. A seconda del costume e delle politiche della
morte, o perfino delle mode, i testi funerari sono essenziali oppure ricercati e teatrali, formano un genere letterario spesso oggetto di dibattito, di trattatistica e addirittura di polemica. L’esibizione della morte arriva, fra
Sei e Settecento, a comprendere raccolte di epitaffi e di
epigrafi, e vere e proprie rappresentazioni e cronache di
sepolture solenni (pompe funebri).
Laddove la collocazione dei morti ha prodotto un vero processo di ‘cura’, ovvero l’adempimento di rituali
finalizzati – secondo le convenzioni correnti – al loro
‘benessere’ e all’edificazione spirituale dei viventi, la
scrittura non ha tardato ad apparire in varie forme: la
manualistica (testi e formulari d’istruzione sul comportamento da tenere durante il viaggio verso l’aldilà
o l’incontro col Giudice Ultimo); le invocazioni alle
divinità; i memento alle generazioni future.
La pericolosità dei morti sta nel loro potere di influire
sulle vicende umane. Essi ‘vivono’ gomito a gomito con
le divinità dell’oltretomba: tutta gente, si sa, priva di senso dell’umorismo e dalle decisioni irrevocabili.
Occorre tenersi buoni i defunti perché potrebbero darci un sacco di guai, ma anche – e qui la cosa si fa interessante – darne ai nostri nemici. A questo punto la
scrittura diventa utilissima come nel caso, nel mondo
antico, delle tabellae defixionum [2], lamine di piombo incise con insulti e invettive che venivano arrotolate e gettate nelle tombe di qualcuno, morto ‘di fresco’,
per essere portate nell’oltretomba, in modo che la maledizione arrivasse a chi di dovere. Erano molto temute, quindi forse efficacissime.
Una storia universale ed esauriente della scrittura funeraria, delle sue tecniche e del suo ruolo sociale –
dunque della ‘grafica’ funeraria – è compito troppo
ambizioso per chi scrive, e forse per chiunque altro
[3]. Ciò che queste note desiderano illustrare è piuttosto il complesso panorama delle scritture pubbliche,
ovvero non confinate entro spazi dedicati (necropoli
o cimiteri) ma collocate in luoghi di frequentazione
più ‘normale’. Per limitare ulteriormente un campo
d’indagine altrimenti sterminato, l’ambito di osservazione è circoscritto alle chiese romane della Controriforma e del Barocco. Tale scelta è motivata da alcune considerazioni.
Progetto grafico 18, settembre 2010
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2. Tabellae defixionum,
IV secolo d.C., Museo
Nazionale Romano.
Si tratta di lamine in
piombo con maledizioni
incise – in questo caso
contro l’opposta
fazione delle corse
di carri nel circo –
e quindi arrotolate
e gettate in una tomba,
rinvenute presso la via
Appia.
4. Stele cristiana, inizio
del III secolo d.C.,
Museo Nazionale
Romano. Nonostante
sia per una donna
cristiana, contiene
ancora la dedica DM,
che rappresentava uno
standard tipico del
sincretismo religioso
romano. Le parole
greche ΙΧΘΥC
ΖΩΝΤΩΝ significano
‘pesce della vita’,
ma ΙΧΘΥC (‘pesce’)
è un simbolo di Cristo
in quanto acronimo di
Ιησουσ Χριστοσ Θεου
Υιοσ Σωτηρ, ovvero
‘Gesù Cristo figlio di
Dio, Salvatore’. Le
immagini dei pesci sono
dunque, in ambito
protocristiano, una
scrittura figurata.
L’ancora è un simbolo
di salvezza. Il testo
latino dice: “A Licinia
Amias. Visse
meritevolmente”.
7.
senza: talvolta si cammina su un pavimento che non
sembra nemmeno più un sepolcreto, poiché secoli di
passi su passi hanno consumato effigi ed epigrafi e le
pietre tombali sono state levigate e lucidate come il resto dell’impiantito. L’ostentazione e l’occultamento –
e soprattutto la scrittura che li accompagna – sono la
manifestazione di quella “politica della morte che ogni
gruppo sociale” stabilisce “per affermarsi coi suoi tratti specifici” e “per durare nel tempo nelle sue strutture
e nei suoi orientamenti” [4].
2.
3.
6. Tomba dello scultore
e architetto Andrea
Bregno, opera di Luigi
Capponi, 1506, Santa
Maria sopra Minerva.
Stile classico, con
ritratto del defunto,
lesene e capitelli. Gli
elementi architettonici
e i bassorilievi con
scalpelli, squadre
e compassi raffigurano
gli strumenti dell’artista.
Le decorazioni
ricordano le grottesche
della Domus Aurea
neroniana, scoperta nel
1480 e divenuta subito
di moda fra gli artisti.
Come nelle iscrizioni
funerarie romane, la
stele riporta la durata
esatta della vita di
Bregno (anni 85, mesi 5,
giorni 6). Le lettere
sono classiche con
iniziali più grandi.
8.
Fra i e iv secolo d.C., le lettere che rivelano la natura
funeraria delle iscrizioni sono l’adprecatio abbreviata
dm, più di rado scritte per esteso, dis manibvs: la dedica agli dèi Mani, le divinità dell’oltretomba. A essi
sono raccomandate non solo le anime ma anche gli oggetti e i luoghi: epigrafe e tomba appartengono a loro,
e non è raro imbattersi in maledizioni e minacce a
chiunque osi profanarle.
Le iscrizioni funerarie romane giunte fino a noi sono
un’infinità. Molte sono incise in un’accurata capitale,
anche se non mancano esempi di esecuzione più rapida
e meno regolare, probabilmente di costo inferiore. Spesso, oltre ai dati essenziali – nome, titolo, età al momento della morte – sono riportate descrizioni patetiche [3].
4.
5.
Accanto alle lettere appaiono i simboli, talvolta – specie in ambito paleocristiano – in funzione di testi camuffati [4].
9.
6.
In primo luogo, Roma e le sue chiese sono fonti pressoché inesauribili di scrittura e un continuo stimolo grafico. La disponibilità di materiale è enorme: praticamente qualunque chiesa del centro è una stratigrafia di opere pittoriche, scultoree, architettoniche e grafiche, spesso interconnesse. La relazione reciproca fra le varie tecniche artistiche e scrittorie – calligrafia, epigrafia, tipografia – è evidente nelle scritture pubbliche: ognuna di
esse influenza le altre e presta loro le proprie forme.
In secondo luogo, la Riforma protestante e la successiva Controriforma cattolica dimostrarono che non era più
possibile, dal xvi secolo in poi, credere in una verità religiosa unica, certa e inoppugnabile. Il dubbio aveva causato una separazione irreparabile. La consolante certezza di un’unica fede era perduta e, insieme a questa, anche la certezza sul ‘dopo’: esiste ancora una possibilità
di salvezza? E come? Chi si salverà? E chi sarà dannato
in eterno? La chiesa (non solo cattolica) rese più terribile la prospettiva delle punizioni divine, e non c’è da stupirsi che il mondo cattolico controriformista, anche più
di quello medievale, fosse angosciato dalla morte.
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La risposta del Concilio di Trento allo scisma fu di durissima condanna e si concretizzò, come è noto, in una
strage che aggravò il senso di morte imperante. Gli appelli alla fermezza della fede si alternavano alle minacce di terribili sanzioni qualora la si tradisse. Non c’è
dunque da meravigliarsi se tombe e scrittura abbiano
assunto, dopo tali fatti, connotazioni estreme.
Le forme di tombe e relativi corredi scrittori appaiono
quindi spesso bizzarre, dominate da un gusto talvolta esasperato che rasenta il compiacimento della distruzione e del dolore. Negli esempi seguenti si cercherà di descriverne le tipologie più consuete, con l’avvertenza
che per apprezzarle è indispensabile un pizzico di gusto dell’horror.
Visitando una qualunque chiesa di Roma si resta colpiti dalla quantità di tombe. Spesso si tratta di inumazioni vistose di personaggi importanti: sarcofagi, monumenti, busti, drappi marmorei che celebrano, con
dovizia di testi latini, i meriti di nobili ed ecclesiastici.
Ma è anche possibile non rendersi conto della loro preProgetto grafico 18, settembre 2010
Nell’epigrafia rinascimentale l’imitazione della classicità è tale che le iscrizioni funerarie si adeguano a
quelle pagane, oltre che nella forma delle lettere anche
nella dedica, con solo una piccola (ma necessaria) differenza: dm diventa dom, Deo Optimo Maximo (‘a
Dio, il migliore e il più grande’, che presso i Romani
era Giove) [5]. Alla tomba non mancano talvolta altri
elementi classici – decorazioni a grottesca, simboli del
lavoro, ritratto del defunto [6] – ma impaginazione e testo sono rigorosamente classici. L’imitazione della
classicità perfetta è raggiunta con quasi nulla: solo
l’aggiunta di una semplice lettera ‘O’.
Ma dalla fine del Cinquecento altri elementi appaiono,
se non a diversificare l’impostazione classica, a rafforzare il senso del lutto, come il ricorso al colore. Mentre dell’epigrafia romana si aveva, nel Rinascimento,
un’idea di candore assoluto (falsa, come è noto: anticamente le lettere erano dipinte, solitamente di rosso,
ma i colori in uso erano labili e non sono sopravvissuti), la drammatizzazione della morte porta all’adozione
di toni cupi e teatrali: marmi neri e colorati, dorature,
testi alternativamente in maiuscolo e maiuscoletto.
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7. Giulio Frontini,
De aquaeductibus urbis
Romae commentarius,
Padova, 1722,
particolare del
frontespizio. La data
è in numerali romani
antichi, derivati dai greci.
8. Tomba di Emilio
Puccio Pandolfi, 1595,
Santa Maria sopra
Minerva. Pietra nera
con lettere dorate.
La data è composta
con lettere che
imitano il numerale
antico tipografico:
CIC IC XC V,
cioè Φ D XC V
(MDXCV, 1595).
10.
C C
3. Cippo romano,
trovato nel cortile
di una tipografia
durante dei lavori
di ristrutturazione,
per Sutoria Ianuaria
da parte del marito
e della figlia. La dedica
DIS MANIBVS (‘Agli dèi
Mani’, le divinità
dell’oltretomba) ne
qualifica la funzione
funeraria. Il testo dice:
“Agli dèi Mani. Sutorio
Narciso, con sua figlia
Sutoria Pia, fece per sé
e per la sua carissima
Sutoria Ianuaria, con la
quale visse sessant’anni
senza mai litigare”.
5. Tomba di Lattanzio
Ronzoni, XVI secolo,
Santa Maria sopra
Minerva. L’epigrafe
è in stile classico;
la dedica DOM (Deo
Optimo Maximo,
“A Dio, il migliore, il
più grande”) è posta a
sostituzione del pagano
DM, ma l’impianto
grafico è il medesimo.
Le lettere sono sottili,
l’impaginazione
imprecisa, la spaziatura
non rigorosa. Le due
decorazioni nell’ultima
riga sono una citazione
tipografica.
9, 10, 11. Iscrizioni in
Campidoglio con date
in finto numerale antico
(la 11 è un particolare
della 10).
11.
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12, 13. Iscrizione
in italiano con cui papa
Paolo III concede ai
sacerdoti di celebrare
messe per indulgenze,
1544, Santa Maria in
Aracoeli. Le lettere
hanno grazie
fortemente arcuate.
12.
13.
16.
16, 17. Pietra tombale
del Beato Angelico
(frate Francesco da
Fiesole), 1455, Santa
Maria sopra Minerva.
L’iscrizione dice: “HICIACET-VENE(rabilis)PICTO(r)-FR(ater)IO(hannes)-DEFLO(rentia)-ORDISP(re)dicato(rum)-14LV”
(“Qui giace il
venerabile pittore frate
Giovanni da Firenze
dell’ordine dei
Predicatori – 1455”).
Tra parentesi le
abbreviazioni.
La data è scritta metà
in numeri arabi e metà
in numeri romani.
17.
14. Base dell’obelisco
in piazza del Popolo
con lettere di Luca
Orfei.
15. Tombe pavimentali
nella Chiesa del Gesù.
18. Iscrizione su una
porta di Santa Maria
del Popolo, 1477.
Il testo commemora
la fondazione della
chiesa da parte di papa
Sisto IV.
15.
14.
18.
Frequenti le imitazioni della tipografia [7], come
l’apposizione della data in numerali antichi (romani di
derivazione greca) ottenuti con l’accostamento di capitali diritte e rovesciate [ 8, 9, 10, 11] [5].
di calligrafi cinquecenteschi, appaiono nei loro trattati e vengono fuse nei caratteri tipografici italiani, accoppiate alle minuscole tonde e corsive di incunaboli
e cinquecentine.
La reinvenzione delle capitali non è certo un fatto limitato al Rinascimento e al Barocco. Le lettere romane,
benché deformate e influenzate da forme locali (il cosiddetto “particolarismo grafico”, ovvero le mille scritture che si svilupparono nell’ex Impero romano dopo
la sua caduta e durante il Medioevo), non scomparvero
mai del tutto. Esse furono riutilizzate in grande stile da
Carlo Magno per primo, che ne fece, come i Romani del
resto, il segno distintivo dell’Impero (oggi lo chiameremmo “immagine coordinata”), insieme all’onciale librario e alla splendida minuscola carolina, appositamente disegnata per comporre testi in ‘stile antico’.
Divenuta carattere in piombo, la forma della scrittura
manuale si blocca e non cambia più, o lo fa con estrema lentezza. Il nuovo stile tipografico ‘romano’ impone le capitali e le recupera in edizioni raffinate e classicheggianti, sia per i testi che per titoli ed epigrafi,
quale omaggio agli autori antichi e ai loro colti commentatori e traduttori moderni. Gli scultori, i pittori e
gli architetti si adeguano con entusiasmo e a loro si dedicano altri trattati: quelli sulle maiuscole romane, appunto, costruite con sfoggio di geometrie e di proporzioni ragionate. Le lettere epigrafiche prendono spunto, a loro volta, da quelle tipografiche e le grazie, come nei caratteri di corpo piccolo, si fanno più pronunciate e arcuate [12, 13].
Dopo la lenta trasformazione della grafica carolingia
in gotica [6] e il successivo rigetto di questa da parte degli umanisti, la capitale riemerge – insieme al recupero filologico dei testi antichi e al rinnovato interesse architettonico per la classicità – e viene sottoposta a un
redesign che ne modifica in parte i tratti, ma soprattutto il rapporto fra pieni e vuoti. Le maiuscole antiche diventano indispensabile corredo delle scritture dei gran42
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Autori della capitale nuova sono soprattutto Giovan
Francesco Cresci, scriptor della Biblioteca Vaticana,
che nel 1560 pubblica un rivoluzionario trattato di scrittura, l’Essemplare di più sorti lettere [7], e Luca Orfei,
suo allievo, portato a Roma dalla natia Fano da Sisto v
con tutti gli altri marchigiani della corte papale. Le tracProgetto grafico 18, settembre 2010
ce più evidenti di Orfei sono proprio nell’opera urbanistica sistina: gli obelischi egiziani trafugati secoli addietro dai Romani e disposti a ornare i circhi vengono
risistemati, come punti focali, nei nuovi allineamenti
stradali progettati da Domenico Fontana e collocati su
basamenti incisi da Orfei con lettere snelle, spazi ampi e tratti – q, y, i – allungati [14]. Benché in apparenza
simile all’antico, lo stile epigrafico della Roma barocca è un’operazione di grande modernità, nel senso del
controllo totale della comunicazione: architettura, urbanistica, scrittura.
I teorici della Controriforma – il cardinale Carlo Borromeo per primo – prendono molto sul serio le critiche
luterane, in sintonia con una corrente pauperistica sempre presente nella chiesa accanto a quella, ben più imponente, del lusso e dello sfarzo, volti a stupire i fedeli e a convincerli dell’insuperabile grandezza della
chiesa di Roma. Le due tendenze coesistono nelle sepolture.
Borromeo prescrive che le tombe debbano essere interrate al di sotto del pavimento delle chiese (non excedens pavimentum): in questo modo i defunti, calpestati, compiranno atto di umiltà; inoltre, le testimonianze della loro esistenza saranno prima o poi canProgetto grafico 18, settembre 2010
cellate e, com’è giusto, essi rientreranno nell’oblio. Per
questo nella Chiesa del Gesù, la prima e più tipica chiesa della Controriforma, il pavimento è costituito in
gran parte da lastre tombali [15].
Ma tombe in terra, sia pure di personaggi eminenti (la
gente normale viene seppellita alla meno peggio in fosse comuni e dimenticata in fretta), ce n’è un sacco, e di
molte epoche. Anche la tomba del Beato Angelico, al
secolo frate Francesco da Fiesole, è orizzontale e la sua
pietra di copertura si trova in Santa Maria sopra Minerva, quella dietro il maleducato elefantino berniniano [8].
La pietra sepolcrale riproduce il pittore, ai cui piedi una capitale quattrocentesca ne recita il nome e ne ricorda la data di morte: 1455, data curiosamente scritta metà
in numeri arabi e metà in romani: 14lv. Perché? Mancanza di spazio per un tutto-romano? Svista? Ignoranza del lapicida ? [16, 17] Non credo esista una risposta
soddisfacente. Ma numeri e lettere ricordano da vicino
quelle sulle porte di Santa Maria del Popolo, caratterizzate da un profilo concavo e dall’assenza di grazie,
più tipiche di Firenze che di Roma. In epoca moderna
sono diventate famose per il carattere Optima, progettato da Hermann Zapf proprio a partire da esse. Su questa chiesa la dedica a papa Sisto iv porta, per la prima
volta a Roma, la data in numeri arabi: 1477 [18].
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19. Epigrafe funeraria
di Alessandro Valtrino,
1637, Santa Maria
sopra Minerva.
20.
20, 21. Pergamene
in pietra di Agostino
Chigi, nipote di papa
Alessandro VII, 1658.
24, 25.
22. Epigrafe funeraria
di Maria Raggi Chia,
1643, Santa Maria
sopra Minerva.
23. Monumento
funebre di Maria
Flaminia Odescalchi,
1771, Santa Maria del
Popolo. Maria Flaminia
Odescalchi morì a
vent’anni e nove mesi,
incinta del suo terzo
figlio. Il dolore del
marito, il potere e la
visibilità sociale sono
espresse da nastri,
nappe, decorazioni
ricamate. Le lettere
dorate sono applicate
sulla pietra in una
miscela di tecniche
e materiali diversi.
19.
21.
24, 25, 26. Tomba
del marchese De
Raymondi, 1642, San
Pietro in Montorio.
La resurrezione dei
morti nel giorno del
Giudizio Universale.
22, 23.
26.
I testi sulle tombe terragne possono essere lunghi o brevi, pomposi o telegrafici. Sulle tombe comuni delle confraternite e delle comunità religiose sono di una concisione disarmante. Le lettere sono sempre coerenti con le
loro consorelle tipografiche, dunque non sarebbe difficile datarle anche in mancanza di data esplicita.
La tipologia funeraria è trasversale ai secoli; sotto il pavimento ci si fa seppellire nel Trecento come nel Settecento, solo che, in epoca più moderna, la scelta diviene
meno umile: appaiono tarsie marmoree rococò, decorazioni colorate, stemmi nobiliari, immagini macabre.
Spariranno anche quelle, è logico, consumate dal tempo
e dal calpestio, ma nel frattempo fanno la loro figura.
L’altra tendenza, quella barocca davvero e contro la
quale si opponevano i censori più severi, è però la più
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vistosa e ha segnato un’epoca. La drammatizzazione
della fede e della morte, dalla fine del Cinquecento in
poi, è la vera protagonista della scena artistica. Non è
un caso se il teatro assume maggiore importanza, se
tante opere vengono scritte e messe in scena, se si assiste alla nascita del melodramma: il barocco è essenzialmente rappresentazione. La scenografia, le
macchine teatrali e gli effetti speciali diffondono il
gusto della simulazione della realtà e del suo superamento; allo stesso modo, la musica trova nuova linfa
dall’imitazione della natura, dalla ricerca di sonorità
inconsuete, dall’aderenza al testo.
Come sul palcoscenico, tutto deve sembrare qualcos’altro. Gli artisti giocano con la luce e con la materia producendo perfette illusioni. Anche la pietra
delle iscrizioni si piega e sembra carta adagiata su
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supporti non più piani: le epigrafi si curvano e si adattano alle colonne [19], si fanno carta, stoffa, pergamena [20, 21]. La pietra diventa addirittura drappo
funebre sbattuto dal vento e unisce, alla maestria scultorea, l’intarsio marmoreo, la doratura, l’inserimento
di metalli, il rilievo. Le lettere seguono docilmente
l’andamento imprevedibile della stoffa e sono sbattute a loro volta [22, 23].
Il dolore dell’abbandono e la paura della morte, ma soprattutto gli avvertimenti e le condanne del papa e della chiesa, producono inevitabilmente il fiorire di una
simbologia macabra che va ben al di là dei testi [24, 25,
26]: le sole parole non bastano più a colpire un pubblico in larga parte analfabeta. Come era avvenuto con la
nascita dei grandi cicli di mosaici e di affreschi medievali, né il libro né le iscrizioni sono più sufficienti
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e bisogna ricorrere alle icone. Accanto, sopra, sotto le
iscrizioni che parlano di grandezza e di pietas appaiono i simboli classici: teschi e tibie.
Talvolta la figura della morte – lo scheletro alato, cioè
veloce e onnipresente, a cui non si può sfuggire – viene posto come un’insegna, come sulla facciata di Santa Maria dell’Orazione e della Morte, a ornare le buche
per l’elemosina con testo bilingue che indica sia lo scopo (“Elemosina per i poveri morti che si pigliano in
campagna” e “Elemosina per la lampada perpetua del
cimitero”) che la morale sottintesa (Hodie mihi cras tibi, ovvero ‘Oggi a me, domani a te’). La morte alata
regge in mano, o domina tenendolo sotto il piede, il
tempo inarrestabile rappresentato dalla clessidra, alata anch’essa: non solo non la si può fermare, ma nemmeno afferrare [27, 28, 29].
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27, 28.
27, 28. Cassette
per le elemosine sulla
facciata di Santa Maria
dell’Orazione e della
Morte. La morte alata
regge in mano
il Tempo.
Così le tecniche e le raffigurazioni si mischiano e si
sommano: lettere e dediche classiche, testi declamatori, simulazione materica, policromia, movimento, simboli, umiltà e lusso, sia in verticale che in orizzontale
[30]. Le lettere diventano appannaggio della morte che,
infine, ne diventa autrice. La grafica estrema scrive il
nome e la sorte di uomini e donne con lettere accurate
e sontuose [31]. Ben prima del digitale, la morte ha trovato l’antidoto al suo stesso oblio.
NOTE
Una bibliografia, seppure succinta, sulle scritture funerarie deve
necessariamente partire dai libri di Armando Petrucci:
La scrittura. Ideologia e rappresentazione, Einaudi, Torino
1986; Le scritture ultime. Ideologia della morte e strategie dello
scrivere nella tradizione occidentale, Einaudi, Torino 1995;
Scrittura e popolo nella Roma barocca 1585-1721, catalogo
della mostra, Quasar, Roma 1982. E da: Philippe Ariès, Storia
della morte in Occidente dal Medioevo ai giorni nostri, Rizzoli,
Milano 1978 (in originale: Essais sur l’histoire de la mort en
Occidente du Moyen Âge à nos jours, Éditions du Seuil, Paris
1975). Per vedere gli esempi citati è opportuna una serie di
passeggiate romane guidate da: Silvano Fassina, Maiuscole
romane. Cinque itinerari per le strade di Roma, “Calligrafia”,
numero 7/8, 1994, ripubblicato in Calligrafia 1991-1995, a cura
di Lucia Cesarone, Stampa alternativa-Nuovi equilibri, Viterbo
2007 (a Silvano, amico e artefice instancabile di una bellissima
avventura editoriale, va il mio grato e affettuoso ricordo). Nello
stesso numero un’importante introduzione di James Mosley:
Memoria delle lettere romane. Di Mosley pure il fondamentale
Radici della scrittura moderna, Nuovi Equilibri, Viterbo 2001.
1. Viktor Mayer-Schönberger, Delete. Il diritto all’oblio nell’era
digitale, Egea, Milano 2010 (edizione originale: Delete:
The Virtue of Forgetting in the Digital Age, Princeton University
Press, 2009).
29.
30.
4. Gherardo Gnoli, Jean-Pierre Vernant, La mort, les morts dans
le sociétés anciennes, Cambridge-Paris, 1982, cit. in Armando
Petrucci, Le scritture ultime.
29. Tomba di Olaus
Magnus (forma
latinizzata di Johan
Månsson), 1557,
Santa Maria dell’Anima.
Arcivescovo di Uppsala
e quindi cardinale
primate di Svezia,
protagonista del
Concilio di Trento,
Magnus visse a lungo
a Roma, dove impiantò
una tipografia nel
convento di Santa
Brigida. Lo scheletro
alato che regge
il ritratto di Magnus
tiene il piede sopra
la clessidra, anch’essa
alata: la morte domina
il tempo.
5. La data è ottenuta con l’accostamento di caratteri dritti
e capovolti secondo una consuetudine grafica classica romana,
che adottò quella cosiddetta ‘alfabetica’ greca, in cui i numeri
erano indicati da lettere. Così il numero dieci era scritto con X
(‘chi’ greco, non ‘ics’), la cui metà, cinque, era giustamente
espressa con la sua metà, quella superiore: V. Questa, dunque,
non va intesa come la lettera ‘v’ dell’alfabeto, ma come mezza
X. Così, il numero mille era scritto con Φ (‘phi’), la cui metà
grafica era D, che rimase anche quando la Φ venne sostituita
dalla M, iniziale di ‘mille’. La Φ rimase in auge per numeri
superiori al mille; già in epoca tardorepubblicana era
consuetudine scriverla con una C, una I e una C rovesciata,
e la D con una I e una C rovesciata. In ambito tipografico
sarebbe stato oneroso disporre di caratteri greci per la sola
composizione dei numeri delle date che però, composte
‘all’antica’, conferivano eleganza e solennità al frontespizio;
per farlo, si ricorreva a caratteri rovesciati. Gli epigrafisti, come
spesso accade, ripresero l’uso tipografico, divenuto ormai
canone. Questo sistema numerico ha avuto vita lunghissima:
benché non frequente, è scomparso solo nel xx secolo.
30. Tomba di Lucas
Holstein, 1661, Santa
Maria dell’Anima.
6. Cfr. Petrucci, La scrittura, cit., e anche il mio Calligrafia.
Fondamenti e procedure, Nuovi Equilibri, Viterbo 1997.
31. Gian Lorenzo
Bernini, tomba di
Urbano VIII, 1644,
Basilica di San Pietro.
7. Giovan Francesco Cresci, Essemplare di piu sorti lettere
di M. Gio Francesco Cresci Milanese, Scrittore della Libraria
Apostolica, Antonio Blado, Roma 1560.
8. L’elefante berniniano, che sorregge l’obelisco alessandrino,
è noto ai romani per la sua postura irriverente: porgerebbe infatti
le terga al convento attiguo in segno di disprezzo per la polemica
insorta tra i frati e Bernini. A parte i pettegolezzi, sull’obelisco
si può leggere Caterina Marrone, I geroglifici fantastici di
Athanasius Kircher, Nuovi Equilibri, Viterbo 2002. Il disegno
dell’elefante è molto simile a quello che appare
nell’Hypnerotomachia Polyphili di Francesco Colonna (Aldo
Manuzio, Venezia 1499).
2. Interessanti i dati riportati nel sito dello Smithsonian Museum
of Natural History,
<http://humanorigins.si.edu/evidence/behavior/oldest-intentionalburial>.
31.
3. Perfino lo splendido studio di Armando Petrucci Le scritture
ultime, cui queste righe debbono moltissimo, è circoscritto
al panorama europeo e nordamericano.
46
2788
Progetto grafico 18, settembre 2010
Progetto grafico 18, settembre 2010
2789
47
Carte situazioniste
PSICOGEOGRAFIA DELLA CITTA
VALTER FOLLO
La beauté est dans la rue
Raggiunti da una indesiderata notorietà in seguito al
coinvolgimento negli avvenimenti del Sessantotto parigino, i situazionisti di Guy Debord fanno una fugace
apparizione in qualche storia della grafica quali ispiratori dell’epigrafia del maggio francese: slogan, parole d’ordine, manifesti e graffiti stampati, che insieme ai fumetti ‘manipolati’ assursero a una vera e propria forma di poesia diffusa e di comunicazione collettiva. L’aspirazione delle avanguardie d’inizio secolo di portare la poesia nelle strade sembrò così risorgere nel corso delle giornate della rivolta parigina [nota 1
a pagina 57].
In questo contesto al gruppo si riconosce la paternità
della serie di manifesti prodotti sotto l’egida del Conseil pour le maintien des occupations (cmdo). Stampati in migliaia di copie, sulle affiches campeggiano
invettive quali Abolition de la société de classe, A bas
la société spectaculaire-marchande, Fin de
l’université, come tracce della teoria critica globale
praticata sui muri delle strade parigine [1, 2, 3]. Riconoscibili per il piccolo formato e l’impostazione grafica, i manifesti si diversificano però dal ricco materiale iconografico prodotto nel corso delle giornate di
maggio. L’eliminazione di qualsiasi tratto raffigurativo o l’utilizzo di mezzi grafici e tecniche manuali –
presenti anche nei quattro manifesti in celebrazione
dei movimenti studenteschi dell’ormai fuoriuscito Asger Jorn [4, 5], uno dei membri fondatori dell’is – fa
pensare a una scelta deliberata e radicale. Senza nutrire propositi di autenticità, i situazionisti utilizzano
gli stessi mezzi di produzione di massa delle immagini contro cui rivolgono la propria critica, adottando la
tipica strategia situazionista del détournement, ovvero, l’appropriazione indebita o sviamento di “elementi estetici prefabbricati”. I manifesti sono prodotti in
migliaia di copie presso una moderna stamperia – occupata – impiegando un carattere tipografico frutto
della diffusione degli strumenti della comunicazione
visiva – una variante condensed di una delle numerose versioni del Grotesk. Invertendo, infine, la norma
che vuole i testi nei manifesti ufficiali della Francia
stampati in nero su fondo bianco, il cmdo stampa i
propri in bianco su fondo nero.
I manifesti costituiscono gli estremi della produzione
grafica e visuale dopo più di un decennio di interventi e attività dell’Internazionale Situazionista (is); un
punto di arrivo di un atteggiamento sempre problematico e critico nei confronti delle pratiche e degli
strumenti di comunicazione, e indice di un radicale
impulso iconoclasta [2]. Saranno infatti due ‘testi’ di
42
2036
critica della cultura capitalistica, La società dello spettacolo e Trattato del saper vivere, prodotti in seno al
movimento prima del suo scioglimento nel 1972, ad
allungare l’influenza dell’is oltre gli avvenimenti del
maggio francese.
1.
2.
Risaliva al retroterra lettrista l’interesse dei situazionisti verso i prodotti della comunicazione di massa.
L’attenzione dei lettristi di Isidore Isou era diretta verso i significanti materiali dei linguaggi, nel tentativo di
espandere il sistema di segni disponibili: una tecnica
dell’accrescimento che associava lettere e immagini –
la totalità dei segni alfabetici, matematici, tecnici e
d’invenzione – col proposito di minare la trasparenza
semantica della parola e costruire un quadro di ordine
superiore senza più confini tra discipline letterarie e figurative. I risultati furono le produzioni ‘metagrafiche’
o ‘ipergrafiche’, e l’effetto una generale devalorizzazione ed esaltazione del rumore visivo dei segni [3]. I
situazionisti avrebbero, con più sistematici e radicali
propositi, esteso la tecnica a tutti gli aspetti della cultura visiva di massa, dai fumetti ai manifesti, dalla cartellonistica alla pornografia, dal cinema ai graffiti [6, 7,
8]. Il détournement situazionista portava alle estreme
conseguenze la critica dirompente e l’effetto straniante del collage dadaista e surrealista, proponendosi come pratica di elaborazione a partire da, e attraverso, le
“rovine dello spettacolo”.
Le cinque parole d’ordine tracciate su tela da Debord,
in occasione di una mostra in Danimarca nel 1963, precorrono i manifesti del cmdo. Scrive Debord:
1. Conseil pour le maintien des
occupations, Abolition de la société
de classe, manifesto 1968
(foto da Michel Wlassikoff,
The story of Graphic Design in France,
Ginko Press, Corte Madera 2005).
“Le ‘direttive’ esposte su quadri vuoti o su una pittura astratta détourné sono da considerare come
slogan che si potranno vedere scritti sui muri. I titoli in forma di proclami politici di certi quadri
hanno certamente lo stesso senso di derisione e di
ribaltamento del pompierismo in voga, che cerca
di affermarsi come pittura di ‘segni puri’, incomunicabili” [4].
2. Conseil pour le maintien
des occupations, A bas la société
spectaculaire-marchande, manifesto
1968 (foto da Guy Debord, Œuvres,
Editions Gallimard, Paris 2006).
3. Conseil pour le maintien
des occupations, Fin de l’université,
manifesto 1968 (da Roberto Ohrt,
Phantom Avant-Garde: A History of the
Situationist International and Modern
Art, Lukas & Sternberg, New York
2006).
Dépassement de l’art, Réalisation de la philosophie,
Tous contre le spectacle, Non a tous les spécialistes
du pouvoir, Le conseils ouvriers partout si leggono
come altrettanti manifesti teorici e momenti della “critica della separazione” coltivata dall’is [9, 10]. Soprattutto Abolition du travail aliéné tracciato sopra una
porzione di ‘pittura industriale’ di Pinot Gallizio – un
tempo membro del gruppo – mette in tensione il frutto del lavoro artistico sottostante con l’esortazione per
il suo superamento, rappresentando la soppressione
del lavoro alienato nella forma dell’immagine sovvertita dalle parole.
Progetto grafico 12/13, settembre 2008
3.
Progetto grafico 12/13, settembre 2008
2037
43
6. Gil Joseph Wolman,
En amour
aussi/Massacrés,
metagrafia 33,2x50,8
cm, 1954 (da “In girum
imus nocte et
consumimur igni”: The
Situationist International
(1957-1972), JRP
Ringier, Zürich 2007).
7. Ivan Chtcheglov,
messaggio metagrafico,
1953 (da Ivan
Chtcheglov, Écrites
retrouvès, Editions Alia,
Paris 2006).
8. Guy Debord,
Ne travaillez jamais,
graffiti murale in rue
de Seine, 1953.
4.
4. Asger Jorn, Vive
la révolution passioné,
manifesto 33x50 cm,
1968 (da Situationists:
Art, Politics, Urbanism,
ACTAR, Barcelona
1996).
5. Asger Jorn, Aid.os
etudiants, manifesto
33x50 cm, 1968 (da
Situationists: Art, Politics,
Urbanism, ACTAR,
Barcelona 1996).
5.
“Le nostre uniche manifestazioni... volevano essere
completamente inaccettabili, da principio soprattutto per
la forma e più tardi, approfondendosi, soprattutto per il
contenuto”. Letta in una ottica di contrapposizione tra
immagine e scrittura – forma e contenuto – l’inizio del
secondo volume di Panégyerique di Debord getta luce
sulla parabola artistica del gruppo. Essa si chiarisce per
mezzo di una frase di Huizinga, citata nella pagina successiva: “In effetti, l’immagine che ci siamo fatti di tutte le civiltà anteriori alla nostra è diventata più serena da
quando... abbiamo preso l’abitudine di guardare invece
di leggere. Le arti figurative non si lamentano” [5].
Nel 1967, con la pubblicazione della Società dello
spettacolo, Debord formulava la sua radicale critica
della separatezza delle forme di rappresentazione dal
mondo dell’esperienza vissuta. La critica era rivolta alla funzione del regime scopico – la visione – nella società occidentale: attività di contemplazione passiva di
una costellazione di immagini/merci – lo spettacolo –
costituitesi come mondo separato dall’esperienza vissuta. Per quanto Debord non faccia coincidere lo spettacolo con le immagini – “lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra individui,
mediato dalle immagini”, recita il paragrafo 4 – questo
44
2038
6.
“Nel frattempo, nel
1953, io stesso, con
un gessetto, avevo
scritto su un muro
di rue de Seine
annerito dalla patina
degli anni il temibile
slogan ‘Non lavorate
mai’. Dapprincipio
si è creduto che
scherzassi (il passante
che ha salvato
il documento per
la storia aveva pensato
di fotografare la scritta
per destinarla a una
serie di cartoline
postali umoristiche)”.
Guy Debord,
Attestations,
in Mémoires,
Jean-Jacques Pauvert
aux Belles Lettres,
Parigi 1993, trad. it.
Guy Debord (contro)
il cinema, Editrice
Il Castoro/la Biennale
di Venezia, 2001,
pagina 13.
7.
si appoggia inevitabilmente al privilegio accordato
all’occhio nel pensiero occidentale. “Lo spettacolo, come tendenza a far vedere per il tramite di diverse mediazioni specializzate il mondo che non è più direttamente coglibile, trova naturalmente nella vista il senso umano privilegiato...”
L’obiettivo, in termini culturali, era porre fine alla distinzione tra arte e vita quotidiana sovvertendo il mondo indipendente dell’arte, ovvero realizzando nella vita il contenuto rivoluzionario dell’arte. In questo Debord era pronto a riconoscere alle avanguardie di inizio secolo – dadaismo e surrealismo – una anticipazione del suo progetto.
“Il dadaismo voleva sopprimere l’arte senza realizzarla; e il surrealismo voleva realizzare l’arte
senza sopprimerla. La posizione critica elaborata in
seguito dai situazionisti ha mostrato che la soppressione e la realizzazione dell’arte sono gli aspetti
inseparabili di un unico superamento dell’arte” [6].
Tra il 1961 e 1962 si era radicalizzato il contrasto tra
le diverse anime del gruppo, già emerso in precedenza
con la fuoriuscita di alcuni membri del nucleo fondaProgetto grafico 12/13, settembre 2008
8.
Progetto grafico 12/13, settembre 2008
2039
45
tivo (Constant, Pinot Gallizio, Asger Jorn). La scissione si era consumata, infatti, attorno alla nozione o possibilità di esistenza di un’arte situazionista.
9.
“Non si tratta di elaborare lo spettacolo del rifiuto
ma di rifiutare lo spettacolo. Gli elementi di distruzione dello spettacolo devono per l’appunto
cessare di essere opere d’arte perché la loro elaborazione sia artistica, nel senso nuovo e autentico definito dall’is. Non esiste situazionismo, né opera d’arte situazionista, né tanto meno situazionista spettacolare”.
“Il ruolo di situazionista, di dilettante-professionista, di anti-specialista è ancora una specializzazione fino a quel momento di abbondanza economica e mentale in cui tutti diventeranno ‘artisti’,
in un senso che gli artisti non hanno raggiunto: la
costruzione della loro vita” [7].
Consci di trovarsi sospesi tra due mondi – uno che non
riconoscevano e l’altro non ancora esistente – i situazionisti si adoperavano per far precipitare il loro scontro. Gli avvenimenti del Sessantotto erano insieme la
negazione e il preludio di un mondo.
Psicogeografia
10.
11.
9. Guy Debord, Réalisation
de la philosophie, direttiva n.2
su tela 59,8x45,4 cm, 1963
(da “In girum imus nocte et
consumimur igni”: The Situationist
International (1957-1972),
JRP Ringier, Zürich 2007).
10. Guy Debord, Abolition du travail
aliéné, direttiva n.4 su porzione
di “pittura industriale” di Pinot
Gallizio, 105x73 cm, 1963
(da Mirella Bandini, L’estetico il politico:
Da Cobra all’Internazionale
Situazionista 1948/1957, Costa
& Nolan, Milano 1999).
11. Nouveau thèatre d’operations dans
la culture, manifesto 21x40 cm, 1958
(da Mirella Bandini, L’estetico
il politico: Da Cobra all’Internazionale
Situazionista 1948/1957,
Costa & Nolan, Milano 1999).
46
Costituitasi ufficialmente nel luglio del 1957, riunendo
gli esponenti di alcune correnti artistiche europee – con
radici nel Lettrismo e nel gruppo Cobra –
l’Internazionale Situazionista lanciava la propria sfida
alle pratiche artistiche sul terreno della costruzione della vita quotidiana distinguendosi come un laboratorio
sperimentale, e fronte rivoluzionario nella cultura, alla
ricerca delle “componenti iniziali di una costruzione superiore dell’ambiente e di nuove condizioni del comportamento”. Sulla dissoluzione delle barriere tra discipline e generi artistici l’is costruì un organigramma di
nuovi nessi e àmbiti di azione [11]. Tra questi, la pratica
della deriva e l’abbozzo di una analisi psicogeografica
del contesto urbano avrebbero costituito, nel primo periodo l’apporto del gruppo alla critica dell’urbanismo
nella direzione della costruzione della città come “ambiente favorevole all’illimitato dispiegarsi di nuove passioni”.
Sebbene al proprio interno verrà sviluppato un progetto di città – New Babylon – a opera di Constant
Nieuwenhuis, prefigurando nuovi spazi per la civiltà
situazionista, sono le avventure estetiche dentro la città
esistente – Parigi anzitutto – ad appassionare gli esponenti dell’Internazionale Lettrista e di quella Situa-
2040
Progetto grafico 12/13, settembre 2008
zionista in seguito.
Il Formulario per un nuovo urbanismo, scritto nel 1953
da Ivan Chtcheglov con lo pseudonimo Gilles Ivain, è
una bozza di manifesto dei giovani lettristi, significativamente riproposto e pubblicato nel 1958 sul primo
numero della rivista “Internationale situationniste”, a
testimonianza della continuità delle ricerche e azioni
che confluiranno nel nuovo gruppo.
“Tutte le città sono geologiche e non si possono
fare quattro passi senza incontrare dei fantasmi, armati di tutto il prestigio delle loro leggende. Noi
ci evolviamo in un paesaggio chiuso i cui punti di
riferimento ci riportano irrimediabilmente verso il
passato. Alcuni angoli mobili, certe prospettive
fuggevoli ci permettono di intravedere concezioni
originali dello spazio, ma questa visione resta
frammentaria. Bisogna cercarla nei luoghi magici
dei racconti popolari e negli scritti surrealisti: castelli, mura interminabili, piccoli bar dimenticati,
caverna del mammut, specchi di casinò” [8].
È l’architettura “il mezzo più semplice per articolare
il tempo e lo spazio, per modellare la realtà, per far sognare”. Riconoscendo il debito alle esperienze urbane surrealiste descritte in Nadja di André Breton e in
Le paysan de Paris di Louis Aragon, l’autore del Formulario tratteggia il volto di una città in cui sperimentare gli effetti sui comportamenti di un ambiente
investito di personalità; quartieri che potrebbero “corrispondere ai diversi sentimenti catalogati che si incontrano per caso nella vita corrente”: Quartiere Bizzarro, Quartiere Felice, Quartiere Nobile e Tragico,
Quartiere Storico, Quartiere Utile, Quartiere Sinistro,
attraversando i quali – con la pratica della deriva continua – gli abitanti possono sperimentare, in forma ludica, lo spaesamento totale.
In modo più sistematico Debord, nella sua Introduzione a una critica della geografia urbana, riprenderà
l’istanza soggettiva e la dimensione temporale del vissuto, nel tentativo di riconfigurare l’esperienza della
città esistente.
“Il brusco cambiamento d’ambiente in una strada,
a circa qualche metro; la divisione patente di una
città in zone di climi psichici troncati; la linea di
maggiore pendenza – senza alcun rapporto con il
dislivello – che le passeggiate senza meta devono
seguire; il carattere avvincente o ripugnante di
certi luoghi; tutto questo sembra venire trascurato. In ogni caso, non è mai considerato come dipendente da cause che si possono chiarire attraverso un’analisi approfondita, e da cui si possa
Progetto grafico 12/13, settembre 2008
trarre vantaggio” [9].
Sono queste le analisi che i situazionisti si propongono di condurre nella città e con il termine ‘psicogeografia’ indicano lo “studio delle leggi esatte e degli effetti precisi dell’ambiente geografico, più o meno pianificato coscientemente o no, che agisce direttamente
sul comportamento affettivo degli individui”. A registrare i rilievi psicogeografici della città era la tecnica
della deriva – una originale versione della deambulazione surrealista. Nella deriva si sperimentava il passaggio veloce attraverso svariati ambienti “per lasciarsi
andare alle sollecitazioni del terreno e degli incontri
che vi corrispondono”. Atteggiamento insieme ludico
e costruttivo, essa cercava le “scissure del tessuto urbano” con la localizzazione delle unità d’ambiente, i
loro assi principali, le vie d’uscita e le linee di difesa,
misurando le distanze che separano le zone della città.
Scardinando le consuetudini e la falsa coerenza del
quotidiano, con la pratica della deriva si potevano
“sentire i poteri futuri di un’architettura che si sarebbe
dovuta creare”, e intravedere così le possibilità di una
liberazione della vita quotidiana.
Ma non era unicamente la deriva a trasfigurare
l’architettura e la città. Debord riconosce ad alcune immagini la capacità di trasformare la rappresentazione
dei luoghi urbani, e nomina alcuni quadri di Giorgio
De Chirico e due tele di Claude Lorrain – “quei due
porti al tramonto... che presentano la frontiera stessa di
due ambienti urbani agli antipodi” – come esempi, al
pari delle piante del metrò affisse a Parigi, di una nuova forma di bellezza – la bellezza di situazione – che si
mostra come una “somma di possibilità”.
Più che all’arte pittorica i situazionisti si sarebbero rivolti alla pratica cartografica per esaudire quel senso
di necessità, impiego immediato ed esistenza provvisoria, richiesto alla produzione visiva in tale compito.
“Con l’aiuto di vecchie mappe, di vedute fotografiche aeree e di derive sperimentali, si può costruire una cartografia influenziale che sino a oggi è mancata e la cui attuale incertezza, inevitabile fino a quando non verrà portata a termine una
mole immensa di lavoro, non è peggiore di quella
dei primi portolani, con questa differenza: che qui
non si tratta più di delimitare con esattezza dei
continenti stabili, ma di cambiare l’architettura e
l’urbanistica” [10].
Senza più il compito di registrare una conformazione
data, la carta – spinta fino a usare “trucchi come
l’equazione, con qualche sia pur minimo fondamento
o completamente arbitraria, posta fra due rappresenta2041
47
13. Guy Debord, Guide psychogéographique de Paris.
Discours sur les passions de l’amour. Pentes
psychogéographiques de la dérive et localisation
d’unités d’ambriance, 74x60 cm, 1957
(da Roberto Ohrt, Phantom Avant-Garde: A History
of the Situationist International and Modern Art,
Lukas & Sternberg, New York 2006).
zioni topografiche” [12] – avrebbe nelle intenzioni
dell’autore fornito una lettura alternativa dell’esistente
fino a contribuire a una “presa di coscienza, da parte
delle masse che agiscono, delle condizioni di vita che
gli sono imposte in tutti gli ambiti, e dei mezzi pratici
per cambiarle”. Una potenzialità, questa, attribuita alle raffigurazioni diagrammatiche, che sembrano così
sfuggire al destino delle immagini nella società dello
spettacolo descritte più tardi da Debord e portate a “esempio di una poesia moderna suscettibile di comportare vivaci reazioni affettive”.
Debord, assistito da Jorn, elaborerà alcuni esempi di
carte psicogeografiche per esteriorizzare le mappe
mentali che i situazionisti sperimentavano sul corpo
della città [13, 14]. L’ordine visivo risultante non poteva ricalcare il modello della norma cartografica. La
conoscenza psicogeografica della città sulla carta si
dava nella stessa forma in cui era sperimentata sulla
città: attivando – per analogia – una deriva visiva, solcando in mezzo ai vuoti d’inchiostro le distanze tra le
parti della città. Era nuovamente la tecnica del détournement a fornire un criterio per l’elaborazione
delle carte, con l’utilizzo di materiale preesistente
nella forma di raffigurazioni assonometriche e planimetriche di Parigi – usate come referenti topografici.
Ritagliate e riassemblate, scardinato l’orientamento
geografico, sulla carta risultavano evidenziate le unità d’ambiente sperimentate direttamente nelle derive: “rotonde psicogeografiche” connesse da frecce
rosse come “pendii che legano in modo naturale le
differenti unità”. Il risultato fu così una carta che non
offriva la città interamente allo sguardo, preferendo
situare l’osservatore dentro i percorsi con cui ne avrebbe ricostruito la spazialità.
L’appellativo “cognitive mapping”, dato da alcuni
studiosi alle esperienze situazioniste, permette di situare le loro ricerche in parallelo agli sviluppi, più
propriamente disciplinari, delle pratiche urbane [15] e
seguire parzialmente lo sbocco successivo delle tesi
del gruppo. L’espressione “cognitive mapping” – che
conserva gli echi di ricerche in campo psicologico –
è stata avanzata da Fredric Jameson nel suo Il postmoderno, o la logica culturale del tardo capitalismo
come formula per descrivere la nuova e ipotetica forma culturale per trattare la concezione contemporanea dello spazio [11]. Nell’esporre le sue tesi l’autore
richiama il testo di Kevin Lynch – L’immagine della
città – rendendo maggiormente percorribile
l’accostamento con l’is. Lynch si proponeva di estrapolare dalla forma fisica della città una struttura, un
sistema di riferimento per poter orientare l’insieme
delle percezioni individuali. La leggibilità, e dunque
12. Ivan Chtcheglov,
metagrafia (particolare),
1953 (da Ivan
Chtcheglov, Écrites
retrouvès, Editions Alia,
Paris 2006).
48
2042
Progetto grafico 12/13, settembre 2008
14. Guy Debord, The Naked City. Guide
psychogéographique de Paris, 48x33 cm, 1957
(da Situationists: Art, Politics, Urbanism, ACTAR,
Barcelona 1996).
13.
“La ricerca psicogeografica affronta l’interazione
fra l’urbanismo e il comportamento e la
prospettivaa dei cambiamenti rivoluzionari
di questo sistema. Sulla carta di Parigi stampata
nel maggio 1957 per il MIBI (Movimento
internazionale per un Bauhaus immaginista)
le frecce rappresentano i pendii che legano
in modo naturale le differenti unità d’ambiente,
vale a dire le tendenze spontanee d’orientamento
di un soggetto che attraversa questo ambiente
senza tener conto degli incatenamenti pratici
– ai fini del lavoro o della distrazione – che
condizionano abitualmente la sua condotta”.
Asger Jorn, Pour la forme, Editions Allia, Paris 2001
(orig. 1957), trad. it. Leonardo Lippolis, Urbanismo
unitario. Antologia situazionista, Testo&Immagine,
Torino 2002, pagine 56-57.
14.
Progetto grafico 12/13, settembre 2008
2043
49
15. Charles Jenks,
Evolutionary Tree 19201970, diagramma da
Modern Movements in
Architecture, Penguin
Books,
Harmondsworth 1973.
Uno dei pochissimi
resoconti sullo sviluppo
dell’architettura
moderna in cui è
discussa l’Internazionale
Situazionista.
Il diagramma – che,
insieme a quello
di Alfred H. Barr Jr.
che campeggiava sulla
copertina del libro
Cubism and Abstract Art
(New York 1936)
e alla serie dei Fluxus
Diagram di George
Maciunas, meriterebbe
una trattazione a sé –
posiziona i situazionisti
nella ‘specie’ activist,
tra il gruppo
Archigram, il gruppo
Utopie, Cedric Price
e la studiosa Jane
Jacobs, autrice del
classico della sociologia
urbana Vita e morte
delle grandi città.
16. Kevin Lynch,
Gli elementi distintivi
di Boston, schema
da L’immagine della
città, 1960.
17. Hans Peter
Zimmer, diagramma
per la mostra del
Gruppo SPUR, Essen
1960, 42x29,5 cm.
18. Diagramma
esplicativo per il Gioco
della Guerra, brevettato
da Guy Debord nel
1965, da Alice BeckerHo e Guy Debord,
A Game of War, Atlas
Press, London 2007.
19. Guy Debord con
il Gioco della Guerra
in una foto di Jeanne
Cornet, 1987.
(foto da Guy Debord,
Œuvres, Editions
Gallimard, Paris 2006).
16.
la potenziale mappatura (mentale) dell’esperienza urbana, si appoggia agli elementi morfologici fissi e identificabili di questo schema, rendendo “possibile
al soggetto individuale una rappresentazione situazionale di quella più vasta totalità, propriamente irrappresentabile, che è l’insieme della struttura della
città nel suo complesso”. Per analogia la cartografia
cognitiva della totalità sociale, per Jameson, deve mediare tra l’esperienza soggettiva della vita quotidiana
e la totalità che trascende l’esperienza individuale.
Nel tentativo di superare questo iato, l’estetica della
cartografia cognitiva per Jameson è chiamata a un ripensamento dei codici e dei linguaggi e a mappare
queste due dimensioni distinte “per mezzo di rappresentazioni conscie e inconscie”.
Il concetto di “cognitive mapping” – ma Jameson non
limita l’espressione al campo delle carte in senso stretto – coglie alcuni aspetti dell’esperienza situazionista:
la produzione di carte psicogeografiche con il loro compito di favorire una “presa di coscienza delle condizioni di vita” e la pratica della deriva – atteggiamento insieme ludico e costruttivo – possono essere lette come
una rappresentazione nuova della dualità tra esperienza vissuta e totalità assente, ma difficilmente possono
collocare queste tecniche all’interno del progetto situazionista di opposizione alla separazione tra lo spazio direttamente vissuto e lo spazio astratto.
È lungo la nozione di totalità che si svilupperà la riflessione e l’azione successiva dell’is e dove infine si stem50
2044
pereranno le ricerche psicogeografiche. Parte del più
ampio “urbanismo unitario”, che mirava alla costruzione integrale di un ambiente in legame dinamico con
esperienze di comportamento, nonché critica
dell’urbanistica in quanto disciplina separata e specialistica, la deriva e la psicogeografia lasceranno il posto
alla critica e alla trasformazione della totalità delle condizioni esistenti verso la creazione globale
dell’esistenza.
Nella individuazione dei contenuti e dei ruoli – percorsi, margini, quartieri, nodi, riferimenti – degli elementi formali e fisici della città, sviluppati da Lynch,
sono riconoscibili analogie con la lettura psicogeografica della città. Ma a interessare maggiormente i situazionisti sono proprio quelle “influenze sulla figurabilità, come il significato sociale di un’area, la sua funzione, la sua storia, e il suo nome persino”, riconosciuti
da Lynch ma esclusi dalla sua analisi [12].
Le mappe e gli schemi nell’Immagine della città, con
cui vengono tradotti visivamente le esperienze del
soggetto nella città, sono definiti da Jameson operazioni pre-cartografiche simili ai portolani; notazioni
grafiche degli elementi incompleti delle mappe mentali degli abitanti, precedenti perciò a una nozione astratta della totalità geografica [16]. La resistenza opposta dai situazionisti, con le loro carte psicogeografiche, alla riduzione delle pratiche spaziali allo “stato indifferenziato del dominio del visibile e leggibile” – ovvero alle rappresentazioni dello spazio – si
Progetto grafico 12/13, settembre 2008
19.
18.
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2045
51
20.
21.
23.
22.
presenta qui come l’embrione di quella critica, formulata più tardi, della società dello spettacolo dove
“tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione”.
Questo non impediva ai situazionisti e a Debord di nutrire una passione per le mappe, di usarle come oggetto
di memoria – come mostrano gli innumerevoli esempi
cartografici che costellano il secondo volume di
Panégyerique – di riflessione e di disegno strategico [17].
Presentando nel 1987 il libro con le mosse di una partita del suo Gioco della Guerra, Debord si sofferma sui
diagrammi e sugli schemi che esemplificano il gioco
[18, 19] e non può fare a meno di riflettere come essi senza le note di spiegazione “sembrano veramente un
puzzle scoraggiante in attesa di soluzione, come i tempi in cui viviamo” [13].
Le mappe psicogeografiche di Parigi, in cui i situazionisti registravano la memoria delle loro derive e dove
progettavano le mosse strategiche del futuro, appaio52
2046
no oggi come il tavoliere di un gioco di cui ci è difficile seguire le regole.
Mémoires
Sarà con il libro Mémoires, in un certo senso, che Debord porterà agli estremi l’approccio psicogeografico
alla città. Se la poesia era nella forma della città, come
scrivono i situazionisti, allora per converso si poteva
usare l’esperienza del linguaggio per sovvertire la concezione della città [14].
“Una nuova corrente ci sta portando leggermente
verso sinistra”; “occorre del tempo per abituarsi a
queste passeggiate notturne”; “un luogo singolare! È
qui che passa il groviglio di strade”; “la posizione di
questo castello è incantevole”. A collegare quegli
stessi frammenti di carte topografiche usati in The
Naked City troviamo ora, in una pagina del libro, queste citazioni incompiute prese da fonti disparate, come parole percepite per strada. Mémoires è costruito
con elementi preesistenti, frasi e immagini ritagliati,
assemblati nel perimetro della pagina e tenuti insieProgetto grafico 12/13, settembre 2008
me dalle “strutture portanti” di cui è artefice Asger
Jorn [20, 21]. Pagine in cui smarrire il lettore, costretto a ripercorrere le tracce di Debord e compagni nella Parigi del periodo lettrista di cui vorrebbero raccontare la storia.
“Città per l’uso di quelli che vi abitano”; “era nelle
strade di Parigi che un nuovo potere si formò, che non
esisteva nel secolo precedente”; “la sistematica esplorazione di vecchie mappe”: frasi dal carattere autoreferenziale che rivelano il contenuto e la struttura del libro. Mémoires è una deriva lungo la frontiera tra scrittura e città. Un gioco nello spazio. Un progetto di esplorazione del linguaggio a partire da spezzoni quotidiani e prosaici; lo stesso del progetto psicogeografico che attribuiva significati nuovi a passaggi, ambienti ed edifici della città come elementi di una dimensione nuova della vita. Un rifiuto di omologarsi ai meccanismi della città regolata e normata, alla falsa coesione del quotidiano – che le esplorazioni psicogeografiche dovevano smantellare – il libro presenta una
“incoerenza che, nella sua densità impenetrabile, conProgetto grafico 12/13, settembre 2008
24.
serva la possibilità di un significato alternativo anche
se non ancora accessibile”. Un libro le cui pagine danno spesso l’idea di una mappa, una rete di possibili itinerari. Le campiture di colore di Jorn si trasformano in
strade; le colate di colore nella griglia di un diagramma. Smarrirsi seguendo i contorni delle macchie di colore è sempre possibile [22, 23, 24].
Come commenterà Debord nel suo film Sur le passage, ricordando le avventure del gruppo lettrista: “Era
una realtà illusoria [tromp-l’œil], a partire dalla quale
bisognava scoprire la ricchezza possibile della realtà”;
o ancora, dal commento fuori campo del film Critica
della separazione: “I settori di una città sono leggibili
a un certo livello. Ma il senso che hanno avuto per noi,
personalmente, è intrasmissibile, come tutta questa
clandestinità della vita privata, su cui si possiedono
sempre solo dei documenti irrisori”.
2047
53
22 Guy Debord e
Asger Jorn, Mémoires,
Permild & Rosengreen,
Copenhague 1959, 21x28
cm, pagina interna
(dal facsimile di
Mémoires, Editions Allia,
Paris 2004).
23. Guy Debord e
Asger Jorn, Mémoires,
Permild & Rosengreen,
Copenhague 1959, 21x28
cm, pagina interna
(dal facsimile di
Mémoires, Editions Allia,
Paris 2004).
24. Guy Debord e
Asger Jorn, Mémoires,
Permild & Rosengreen,
Copenhague 1959, 21x28
cm, pagina interna
(dal facsimile di
Mémoires, Editions Allia,
Paris 2004).
Riferimenti bibliografici
La mostra riepilogativa On the Passage of a Few People through a Rather Brief Moment of Time: The Situationist International, 1957-1972, ospitata a Parigi,
Londra e Boston nel 1989, ha inaugurato una nuova
fase di interesse verso l’Internazionale Situazionista
dopo un periodo di influenza sotterranea. Nel catalogo, a cura di Elisabeth Sussmann, pubblicato congiuntamente da The Institute of Contemporary Art di
Boston e dalla mit Press [1], si trovano interventi, tra
l’altro, di Peter Wollen su arte e politica dell’is, di Mirella Bandini sul laboratorio sperimentale di Alba e il
lungo saggio di Thomas Y. Levin sul cinema di Debord. La recente inclusione, invece, delle vicende
dell’is nel manuale di Hal Foster, Rosalind Krauss, Yve-Alain Bois, Benjamin H.D. Buchloch, Arte dal
1900. Modernismo, Antimodernismo, Postmodernismo, Zanichelli, Bologna 2006 (orig. inglese Thames
& Hudson, London 2004) è un significativo esempio
dell’ormai consolidato interesse attorno alle formulazioni del gruppo.
In Italia il testo del 1977 di Mirella Bandini L’estetico
il politico: Da Cobra all’Internazionale Situazionista 1948/1957 (Costa & Nolan, Milano 1999) è stato
forse il primo riesame approfondito delle vicende e
origini dell’is [2]. Non va dimenticato lo studio di Mario Perniola I Situazionisti, apparso nel 1972 –
nell’immediatezza della fine dell’esperienza situazionista – su “Agaragar”, e ripubblicato in forma autonoma nel 1998 (ultima edizione da Castelvecchi,
Roma 2005). Un pamphlet sintetico è stato scritto da
Gianfranco Marelli, L’ultima Internazionale: i situazionisti oltre l’arte e la politica, Bollati Boringhieri,
Torino 2002; versione più agile di un precedente studio dell’autore, L’amara vittoria del situazionismo,
bfs Edizioni, Pisa 1996.
Una monografia sul movimento – scritta come introduzione – è costituita dal volume di Simon Ford, The
Situationist International: A User’s Guide, Black Dog
Publishing, London 2005 [3]. Un volume denso – e ben
illustrato – con uno sguardo anche alle sezioni interne
al movimento, soprattutto al gruppo tedesco spur, è
quello proposto da Roberto Ohrt, Phantom Avant-Garde: A History of the Situationist International and Modern Art, Lukas & Sternberg, New York 2006 (orig. tedesco Edition Nautilus, Hamburg 1990).
Sadie Plant, The Most Radical Gesture: The Situationist International in a Postmodern Age, Routledge,
London 1992, è invece una lettura delle idee situazioniste su arte, rivoluzione, vita quotidiana e spettacolo
alla luce dell’odierno dibattito intellettuale e politico.
Il volume a cura di Tom McDonough, Guy Debord
and the Situationist International, mit Press, Cambridge Mass. 2002, contiene la traduzione inglese di
alcuni importanti documenti dell’is e innumerevoli
saggi critici – oltre che del curatore – di Greil Marcus, Libero Andreotti, Vincent Kaufmann e altri. Alcuni hanno dato alle stampe contributi autonomi nel54
2048
1. Copertina del catalogo On the
Passage of a Few People through
a Rather Brief Moment of Time:
The Situationist International,
1957-1972, a cura di Elisabeth
Sussmann, MIT Press, Cambridge
Mass. 1989, 20x25,5 cm.
la delucidazione delle vicende e idee del gruppo.
Greil Marcus ha pubblicato nel 1989 l’appassionante
volume Lipstick Traces. A Secret History of Twentieth Century, Faber and Faber, London 2001 (trad.
it. Tracce di rossetto, Leonardo, Milano 1991). Vincent Kaufmann con il libro Guy Debord. Revolution
in the Service of Poetry, University of Minnesota
Press, Minneapolis 2006 (orig. francese Librairie
Arthème Fayard, Paris 2001) ha fornito una fondamentale biografia intellettuale del molto discusso
protagonista del movimento. Tom McDonough è tornato sulle vicende del gruppo – seguendo gli sbocchi
della pratica del détournement – nel testo “The Beautiful Language of My Century”: Reinventing the Language of Contestation in Postwar France, 19451968, mit Press, Cambridge Mass. 2007.
7. Asger Jorn e Guy Debord, Fin de
Copenhague, Permild & Rosengreen,
Copenhague 1957, 17,5x26,5 cm,
doppia pagina (da Christian Nolle,
Books of Warfare: The Collaboration
between Guy Debord & Asger Jorn
from 1957-1959, <http://virose.pt/
vector/b_13/nolle.html>, 2002).
2. Copertina del libro di Mirella
Bandini, L’estetico il politico: Da Cobra
all’Internazionale Situazionista
1948/1957, Costa & Nolan,
Milano 1999, 13x21,5 cm.
Libero Andreotti e Xavier Costa sono stati i curatori
della seconda importante mostra sul movimento, nel
1996, presso il Museu d’art contemporani di Barcelona e del catalogo bilingue Situationists: Art, Politics,
Urbanism, actar, Barcelona 1996.
Nel 2007, in occasione del 50° di fondazione, si è svolta presso il Centraal Museum di Utrecht e il Museum
Tinguely di Basilea la mostra celebrativa sull’is e in
contemporanea è stato pubblicato il catalogo “In girum imus nocte et consumimur igni”: The Situationist
International (1957-1972), JRP Ringier, Zürich 2007,
contenente testimonianze, tra l’altro, di Giorgio Agamben, Jean Beaudrillard, Hans Magnus Enzensberger, Thomas Hirschhorn [4].
8. Copertina dell’edizione Champ
Libre di La Société du Spectacle
del 1971.
Dovendo scegliere un’illustrazione
per la riedizione del suo libro presso
la nuova casa editrice, Debord
non desidera altro che una carta
geografica del pianeta; una carta
tratta da un atlante d’inizio secolo in
cui i colori rappresentavano lo
sviluppo mondiale delle relazioni
commerciali.
L’attuale edizione Gallimard del testo
conserva ancora l’idea originale
di Debord.
3. Copertina del libro di Simon Ford,
The Situationist International: A User’s
Guide, Black Dog Publishing,
London 2005, 19x25 cm.
Simon Sadler, The Situationist City, mit Press, Cambridge Mass. 1998, si concentra sulle formulazioni del
gruppo nell’ambito della critica delle pratiche di produzione dello spazio urbano. Nella stessa ottica, ma
con un arco cronologico che abbraccia tutto il secolo,
il testo di David Pinder, Visions of the City: Utopianism, Power and Politics in Twentieth-Century Urbanism, Edinburgh University Press, Edinburgh 2005.
Leonardo Lippolis, La nuova Babilonia: Il progetto architettonico di una civiltà situazionista, Costa & Nolan, Milano 2007, ripercorre il costante interesse del
gruppo verso le pratiche alternative del progetto architettonico e della vita urbana.
9. Copertina e quarta di copertina
del primo numero della rivista
“Internationale Situationniste”,
Paris 1958, 16x24,5 cm
(foto da Guy Debord, Œuvres,
Editions Gallimard, Paris 2006).
4. Copertina del catalogo “In girum
imus nocte et consumimur igni”: The
Situationist International (1957-1972),
JRP Ringier, Zürich 2007, 21,5x29 cm.
Una lettura suggestiva – che connette la deambulazione surrealista, la deriva situazionista, alcune esperienze del gruppo Fluxus, Robert Smithson e altri esponenti dell’arte concettuale – è offerta da Francesco Careri in Walkscapes: Camminare come pratica estetica,
Einaudi, Torino 2006 (orig. spagnolo/inglese Editorial
Gustavo Gili, Barcelona 2002).
In una ottica analoga Christel Hollevoet, Wandering in
the City, Flânerie to Dérive and After. The Cognitive
Mapping of Urban Space in The Power of the City/The
City of Power, Whitney Museum of American Art,
New York 1992, pagine 25-55.
Non sorprende l’accenno alla pratica della deriva nel
volume di Rebecca Solnit, Storia del camminare, Bruno Mondadori, Milano 2002. Sullo stesso versante –
cercando sinteticamente nella letteratura una preistoProgetto grafico 12/13, settembre 2008
6. Asger Jorn e Guy Debord, Fin de
Copenhague, Permild & Rosengreen,
Copenhague 1957, 17,5x26,5 cm,
copertina in flano tipografico
(da Christian Nolle, Books of Warfare:
The Collaboration between Guy Debord
& Asger Jorn from 1957-1959, <http://
virose.pt/vector/b_13/nolle.html>,
2002).
10. Copertina del numero 12 della
rivista “Internationale Situationniste”,
Paris 1969, 16x24,5 cm.
5. Copertina del libro Guy Debord
(contro) il cinema, a cura di Enrico
Ghezzi e Roberto Turigliatto,
Editrice Il Castoro/la Biennale
di Venezia, 2001, 16x23,5 cm.
Progetto grafico 12/13, settembre 2008
2049
55
ria, nonché un seguito, della deriva situazionista da
Thomas De Quincey a Charles Baudelaire, da André
Breton a Walter Benjamin – il breve testo di Merlin
Coverley, Psychogeography, Pocket Essentials, Harpenden 2006.
In particolare sulle “mappe psicogeografiche” – già
presenti nel catalogo della mostra Cartes et Figures
de la Terre, pubblicato dal Centre Georges Pompidou
nel 1980, con il contributo di Jean-Hubert Martin,
Derives: Itinéraires surréalistes, dérive et autres parcours, alle pagine 197-202 – si possono vedere le letture fornite da Tom McDonough con “Situationist
Space” in Guy Debord and the Situationist International, cit. pagine 241-265 e Delirious Paris: Mapping as a Paranoiac-Critical Activity in “Grey
Room”, numero 19, 2005, pagine 6-21. Anthony Vidler – con Terres Inconnues: Cartographies of a Landscape to Be Invented in “October”, numero115, 2006,
pagine 13-30 – è ritornato sul tema dopo il suo contributo Diagrams of Utopia in M. Wigley e C. De Zegher (a cura di), The Activist Drawing: Retracing Situationist Architectures from Constant’s New Babylon to Beyond, mit Press, Cambridge Mass. 2001, pagine 83-91.
Le mappe, nell’ambito di una riflessione più propriamente geografica, hanno attratto l’attenzione di David
Pinder, Subverting cartography: the situationists and
maps of the city in “Environment and Planning A”, numero 28, 1996, pagine 405-427.
Andy Merrifield, Guy Debord, Reaktion Books, London 2005, è una introduzione alla vita e all’opera del
“dottore in niente” e protagonista dell’is. Ansel Jappe,
Guy Debord, Manifestolibri, Roma 1999 (orig. edizioni Tracce, Pescara 1993) ripercorre con puntualità
l’elaborazione teorica di Debord e le fonti – da Marx a
Lukács a Lefebvre – nell’ambito del pensiero moderno.
Guy Debord (contro) il cinema, a cura di Enrico Ghezzi e Roberto Turigliatto, Editrice Il Castoro/la Biennale di Venezia 2001, è un piccolo ma denso documento
– con la traduzione puntuale di alcuni testi fondamentali dell’is – uscito in occasione della retrospettiva
dell’opera cinematografica di Debord alla Mostra del
Cinema di Venezia nel 2001 [5]. Guy Debord, Opere
cinematografiche, Bompiani, Milano 2004, raccoglie
le “sceneggiature” dei sei film realizzati da Debord dal
1952 al 1978. I film – per decenni assenti dai circuiti
cinematografici per esplicita volontà dell’autore – sono stati trasferiti e pubblicati in tre dvd nel 2005 dalla
Gaumont Vidéo.
uscita nel 2001 la ristampa dell’altra collaborazione tra
Debord – consigliere tecnico per il détournement – e
Asger Jorn, Fin de Copenhague. Irriproducibile anche
qui l’effetto materico/tattile della copertina originale
in flano tipografico [6, 7].
Guy Debord, Panegirico: Tomo primo e Tomo secondo, Castelvecchi, Roma 2005, è la riproposizione in un
unico volume della breve autobiografia uscita in Francia in due volumi, rispettivamente nel 1993 e, postumo, nel 1997.
Guy Debord, La società dello spettacolo, Baldini &
Castoldi, Milano 2002, è la traduzione di Paolo Salvadori del suo testo capitale [8]. Raoul Vaneigem, Trattato del saper vivere ad uso delle giovani generazioni,
Castelvecchi, Roma 2006, è l’altro testo di riferimento situazionista.
La raccolta dei 12 numeri della rivista “Internationale
Situationniste” [9, 10] dal 1958 al 1969 è stata tradotta
e pubblicata – conservando l’impaginazione originale
interna (ma non i caratteri tipografici) e con
l’immancabile copertina metalizzata – nel 1994 da
Nautilus di Torino (la raccolta originale è stata riproposta da Librairie Arthème Fayard, Paris 1997). Lo
stesso editore nel 1999 ha fatto uscire la traduzione italiana di Potlatch. Bollettino dell’Internazionale lettrista 1954-1957. Infine, sempre presso Nautils, il libello con la traduzione della limpida esposizione e tipico titolo détourné – scritta nel 1967 da Timothy J.
Clark e Donald Nicholson-Smith per la sezione inglese dell’is – La rivoluzione dell’arte moderna e l’arte
moderna della rivoluzione.
2050
1. Michel Wlassikoff, The story of Graphic Design in France, Ginko
Press, Corte Madera 2005 (orig. Histoire du graphisme en France,
Dominique Carré éditeur, Paris 2005).
Harold Rosenberg, nel capitolo Surrealismo nelle strade, in La s-definizione dell’arte, Feltrinelli, Milano 1975, pagine 45-50, ha colto
gli echi della concezione dada e surrealista nei poster e nelle scritte
murali del maggio francese.
2. Su questo aspetto cfr. Martin Jay, Downcast Eyes: the Denigration of Vision in Twentieth-Century French Thought, University of
California Press, Berkeley 1993, in particolare le pagine 416-434 dedicate a Debord.
3. Per un inquadramento della métagraphie o hypergraphie cfr. Carlo Romano, Sandro Ricaldone, A proposito di Isidore Isou e del Lettrismo, in Sentieri interrotti. Crisi della rappresentazione e iconoclastia nelle arti dagli anni Cinquanta alla fine del secolo, Charta,
Milano 2000, pagine 130-161, e Mirella Bandini, Per una storia del
lettrismo, TraccEdizioni, Gavorrano 2005.
4. Guy Debord, I situazionisti e le nuove forme d’azione nella politica e nell’arte, in Guy Debord (contro) il cinema, a cura di Enrico
Ghezzi e Roberto Turigliatto, Editrice Il Castoro/la Biennale di Venezia, 2001, pagina 57.
5. La frase di Johan Huizinga è tratta dal capitolo L’arte nella vita
del suo Autunno del Medioevo, Rizzoli, Milano 2002, 5a edizione,
pagina 350: “...Dobbiamo credere che l’arte figurativa lasci sempre,
di un’epoca, un’immagine più luminosa che non la parola dei poeti
e degli storici? A quest’ultima domanda si deve senz’altro rispondere in senso affermativo. Infatti l’immagine che ci siamo fatta di
tutte le civiltà anteriori alla nostra è diventata più serena da quando
abbiamo preso l’abitudine di guardare invece di leggere, da quando
l’organo della conoscenza storica si è fatto più visivo. Le arti figurative, dalle quali ricaviamo soprattutto la nostra visione del passato, non si lamentano”.
Significativi i titoli dei capitoli successivi del volume: Immagine e
parola e Parola ed immagine.
6. Guy Debord, La società dello spettacolo, Baldini & Castoldi, Milano 2002, 3a edizione, pagina 166.
7. Citazioni da due articoli non firmati della rivista dell’is rispettivamente: La Quinta conferenza dell’IS a Göteborg, in “Internationale Situationniste”, numero 7, 1962, pagina 26, e Manifesto, in “Internationale Situationniste”, numero 4, 1960, pagina 38, trad. it. in
Internazionale Situazionista, Nautilus, Torino 1994.
8. Ivan Chtcheglov, Formulario per un nuovo urbanismo, in “Internationale Situationniste”, numero 1, 1958, pagine 15-20, trad. it. Internazionale Situazionista, op. cit.
Quale aspetto avrebbe potuto assumere – oltre agli esempi conosciuti
– questa nuova cartografia, se il gruppo non avesse abbandonato questa linea di ricerca, non ci è dato sapere. Le indagini odierne, nella
direzione di elaborazione di micro-analisi e strategie di registrazione di usi, flussi, eccetera, sembrano ripercorrere gli spunti offerti dal
gruppo: le carte situazioniste vengono lette come schemi per la creazione di nuove forme cartografiche, basate sullo smantellamento delle coordinate topografiche, per una messa in rete di sistemi di percezione e relazione. Cfr. Alison Sant, Redefining the Basemap,
<www.intelligentagent.com/archive/Vol6_No2_interactive_city
_sant.htm>. In generale, sulle potenzialità delle nuove tecnologie in
questo ambito, Else/Where. Mapping New Cartographies of
Networks and Territories, a cura di Janet Abrams e Peter Hall, University of Minnesota Press, Mineapolis 2006.
In ambito storico è in corso un ripensamento e una reinterpretazione della mappa quale strumento di comunicazione, persuasione e potere. Su questo aspetto, cfr. Denis Wood, The Power of Maps, The
Guilford Press, New York 1992, e sinteticamente Alessandra Spada, Che cos’è una carta geografica, Carocci, Roma 2007.
Alan M. MacEachren, How Maps Work: Representation, Visualization, and Design, The Guilford Press, New York 1995, offre un
quadro semiotico e cognitivo generale dei meccanismi alla base della comprensione e progettazione della carta.
11. Fredric Jameson, Il postmoderno, o la logica culturale del tardocapitalismo, Garzanti, Milano 1989 (orig. in “New Left Review”,
numero 146, 1984, pagine 59-92).
12. Kevin Lynch, L’immagine della città, Marsilio, Venezia 2004,
11a edizione, pagina 32 (orig. Massachusetts Institute of Technology, Cambridge Mass. 1960).
13. Alice Becker-Ho e Guy Debord, A Game of War, Atlas Press,
London 2007, pagina 9 (orig. Gérard Lebovici, Paris 1987). Rispetto alla ristampa Gallimard del 2006, la traduzione inglese è corredata da un tavoliere e da pedine, nella forma di semplici gettoni, per
poter eseguire il gioco.
14. Seguo alcuni spunti su Mémoires offerti da Simon Sadler, in The
Situationist City, mit Press, Cambridge Mass. 1998, pagina 91 e seguenti, Greil Marcus, Guy Debord’s Mémoires: A Situationist Primer, in On the Passage of a Few People through a Rather Brief Moment of Time: The Situationist International, 1957-1972, mit Press,
Cambridge Mass. 1989, pagine 124-131, e le pagine di Vincent
Kaufmann dedicate al libro nel suo Guy Debord. Revolution in the
Service of Poetry, University of Minnesota Press, Minneapolis 2006.
Boris Donné, (Pour Mémoires) Un essai d’elucidation des Mémoires de Guy Debord, Editions Allia, Paris 2004, è uno studio meticoloso sulle origini e il contesto di provenienza dei frammenti di testo
usati da Debord per il suo libro-collage.
Su alcuni aspetti tecnici della fabbricazione del libro cfr. Christian
Nolle, Books of Warfare: The Collaboration between Guy Debord
&
Asger
Jorn
from
1957-1959,
<http://virose.pt/vector/b_13/nolle.html>, 2002.
9. Guy Debord, Introduzione a una critica della geografia urbana,
in “Les Lèvres nues”, numero 6, 1955, trad. it. in Guy Debord (contro) il cinema, op. cit., pagine 23-28.
10. Guy Debord, Teoria della deriva, in “Les Lèvres nues”, numero
9, 1956, ripubblicato in “Internationale Situationniste”, numero 2,
1958, pagine 19-23, trad. it. Internazionale Situazionista, op. cit.
Nel 1953 Debord scriveva: “Bisogna stabilire una cartografia speciale fondata sui nuovi dati psicogeografici, e non sulla osservazione topografica di una città. Le mappe di Parigi affisse nel metrò, che
mi hanno sempre attratto molto di più dei quadri del Louvre, devono essere ritoccate tenendo conto delle realtà mentali stabilite a poco a poco. Una nuova mappa di Parigi comincerà come i vecchissimi portolani, con alcuni punti di partenza ammessi, corrispondenze
incerte e grandi terre sconosciute. L’inizio di questa cartografia sarà
probabilmente soggettivo. Ciascuno avrebbe la sua mappa di una
città. Ma non dubito che una nuova oggettività si imporrebbe molto
presto, percepibile da tutti” (in Leonardo Lippolis, La nuova Babilonia. Il progetto architettonico di una civiltà situazionista, Costa &
Nolan, Milano 2007, pagina 130).
Guy Debord, Œuvres, Editions Gallimard, Paris 2006,
raccoglie in un unico volume di 1.900 pagine la sua
multiforme produzione. Molto sacrificati, nel contesto
di un volume 14x20,5 cm in bianco e nero, i lavori più
propriamente ‘metagrafici’ di Debord. Ma neppure la
ristampa a colori di Mémoires, uscita presso Editions
Allia nel 2004, può reggere il paragone con le pagine
stampate con la tecnica zincografica raccolte dentro la
copertina in carta vetrata dell’edizione originale tirata
in 200 copie nel 1958. Sempre presso Editions Allia è
56
NOTE
Progetto grafico 12/13, settembre 2008
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2051
57
Eugenio Carmi e lo stile Cornigliano/Italsider
UN’IMMAGINE AZIENDALE NELL’ITALIA DEL MIRACOLO ECONOMICO
CARLO VINTI
Nel resoconto che la critica ha dato dell’opera
di Eugenio Carmi solitamente è riservato un
posto di rilievo agli anni in cui egli divenne ‘direttore artistico’ dell’industria siderurgica di stato (19561965). Ma in genere dell’incontro di Carmi con
quell’ambiente aziendale si tendono a privilegiare le
esperienze che rientrano più agevolmente nel dominio artistico: le sculture in acciaio e tutte le opere che
impiegavano i materiali siderurgici, le importantissime mostre che l’artista genovese ha organizzato negli anni Sessanta in collaborazione con l’Ufficio relazioni pubbliche Italsider e l’opera di promozione
degli artisti contemporanei che egli ha portato avanti con convinzione e coerenza nella rivista aziendale
[nota 1 a pagina 120].
Solo recentemente al lavoro di progettazione grafica
che Carmi svolse assiduamente fino alla metà degli
anni Sessanta si è cominciato a restituire il posto che
gli spetta nella storia del graphic design italiano [2].
Carmi è stato infatti, in quegli anni, uno dei maggiori
protagonisti di quella generazione di operatori che –
tra gli anni della ricostruzione e il ‘miracolo economico’ – riuscì a stabilire un rapporto privilegiato con
la grande committenza industriale, dando vita a esperienze di estremo interesse nel campo dell’immagine
d’impresa.
All’inizio degli anni Cinquanta, parallelamente alla
sua ricerca pittorica, Carmi aveva intrapreso a Genova un’attività professionale di grafico e lavorava per
diversi committenti locali [3]. Quando, nel 1956, arrivò
l’ingaggio da parte della Cornigliano, egli si divideva
tra un intenso lavoro di designer, già riconosciuto internazionalmente (nel 1954 divenne membro
dell’Alliance Graphique Internationale), e una carriera artistica che si muoveva nell’ambito dell’informale.
A chiamarlo fu Gian Lupo Osti, dirigente di spicco
del gruppo Finsider e sostenitore di un’idea
dell’industria pubblica con una forte apertura verso i
problemi sociali e culturali, ma allo stesso tempo autenticamente imprenditoriale [4]. Dopo l’incontro con
Osti, che avvenne nella seconda metà del 1956, nel
giro di pochi mesi, Carmi fu investito del compito di
vigilare “su tutte le manifestazioni ‘visuali’
dell’azienda” e di curarne le “multiformi attività grafico-estetiche” [5].
La sua collaborazione con la siderurgia pubblica, a partire dal 1961, proseguì in assoluta continuità alla direzione genovese dell’Italsider, la nuova società sorta in
seguito alla fusione della Cornigliano con il grande
complesso industriale dell’Ilva.
108
1254
Ma per comprendere bene il ruolo che Carmi fu chiamato a svolgere nell’industria occorre innanzitutto
guardare alla realtà aziendale della Cornigliano e evidenziare la centralità che vi assunsero negli anni Cinquanta le politiche di comunicazione con il pubblico esterno e con i dipendenti.
Acciaio per il progresso
I modernissimi impianti della Cornigliano di Genova,
società che rappresentava la parte tecnologicamente e
organizzativamente più avanzata del gruppo Finsider,
erano sorti grazie a un investimento forte di fondi e cultura industriale statunitense nella prima metà degli anni Cinquanta [6]. Il nuovo insediamento, in funzione
dal 1953 ma entrato a pieno regime solo nel 1955, fu
accompagnato molto presto da un’intensa attività di
comunicazione istituzionale a opera dell’Ufficio stampa e pubblicità dell’impresa, che nel 1959 assunse la
denominazione di Ufficio relazioni pubbliche.
Fin dall’inizio, nell’organizzazione della Cornigliano
il problema delle relazioni con l’opinione pubblica occupò un posto strategico di primo piano. Nel “Numero unico di informazione aziendale” con il quale, alla
fine del 1956, esordì la rivista aziendale, si legge: “Alla pubblicità commerciale, quella diretta, cioè, a provocare un immediato aumento delle vendite, si è andato oggi sostituendo un concetto molto più aperto e –
a lunga scadenza – anche più proficuo. L’azienda non
deve limitarsi a produrre e vendere badando solo a ricavare il massimo profitto. Essa deve anche farsi conoscere dal paese, dalla comunità nella quale opera, dai
clienti effettivi come da quelli potenziali ”. La scelta
compiuta dalla dirigenza della Cornigliano si poneva
dunque chiaramente nel solco della tradizione statunitense delle public relations – vale a dire di quella disciplina di comunicazione che svolge “in una azienda
la stessa funzione che esercita il Ministero degli Esteri in una nazione” [7].
Era un indirizzo che si addiceva perfettamente a
un’impresa che non raggiungeva con i suoi prodotti semilavorati il consumatore finale. La Cornigliano, infatti, produceva principalmente lamierini, coils e rivestiti destinati alla realizzazione, da parte di altre industrie, di carrozzerie automobilistiche, elettrodomestici, imballaggi, mobili e costruzioni prefabbricate. Sebbene il settore della commercializzazione non fosse affatto marginale nell’azienda genovese, trattandosi di
un’industria di base e di proprietà pubblica,
l’approccio istituzionale delle pr si prospettò certamente come quello più adeguato.
Progetto grafico 8, giugno 2006
Occorre aggiungere che a Genova erano presenti multinazionali petrolifere come la Shell, la Mobil e la Esso, che contribuirono massicciamente nel dopoguerra
all’importazione in Italia delle teorie di public e human
relations provenienti dagli Stati Uniti. In particolare
l’azione della Esso Standard Italiana – con la quale
Carmi aveva collaborato nella prima metà degli anni
Cinquanta – probabilmente ha rappresentato un modello importante per la Cornigliano [8]. Di certo il complesso siderurgico genovese adottò in pieno la cosiddetta filosofia della ‘trasparenza’: l’idea dell’azienda
come una “casa di vetro”, dentro la quale il pubblico era continuamente invitato a “spingere lo sguardo” [9].
Come Osti stesso ricorda, il suo compito iniziale, una
volta giunto a Genova, fu quello di ricucire i rapporti
con la comunità cittadina, che mostrava un atteggiamento di diffidenza nei confronti del nuovo e gigantesco insediamento industriale nell’area di Cornigliano
[10]. La prima iniziativa cui pensò, fu quindi una campagna istituzionale del genere di quelle che periodicamente lanciavano sui maggiori quotidiani nazionali industrie come Olivetti, Finmeccanica, Montecatini e Pirelli. Ma poiché il problema immediato che egli era
chiamato a risolvere aveva soprattutto una dimensione locale, alla campagna nazionale si affiancarono una serie di annunci pubblicati sulle più importanti testate genovesi.
Fu questa la circostanza particolare nella quale Osti
pensò di rivolgersi a Carmi. Tali campagne costituirono la prima apparizione pubblica della Cornigliano e,
insieme, il primissimo incarico affidato all’artista genovese [11].
In questi annunci, il tema centrale è la posizione di punta dell’azienda, presentata come un motore decisivo
del processo di modernizzazione del paese. Ciò è evidente sia nella serie a destinazione locale, in cui la modernità della Cornigliano viene ricollegata allo spirito
d’iniziativa tipicamente genovese e al glorioso passato nautico del capoluogo ligure [1], sia negli annunci
per i quotidiani nazionali, dove il messaggio è ancora
più esplicito. Qui, ora si punta sull’acciaio come “chiave per il progresso”, ora è il progresso stesso a costituire il tema principale, condensato in una sequenza
grafica che parte dai profili sbozzati degli strumenti litici primitivi e giunge alle forme geometriche pure che
sempre più andranno a costituire la grammatica di base del linguaggio impiegato da Carmi [2]. Nella campagna dell’anno successivo [3], “Acciaio per il progresso” era ormai diventato il motto di chiusura di ogni annuncio, mentre Carmi ricorreva alla sovrapposizione di negativi fotografici ottenendo risultati molto
simili alle sperimentazioni dall’avanguardia storica
con la tecnica del fotogramma.
Tale corrispondenza tra i contenuti incentrati
sull’esaltazione della modernità e un repertorio tecnico-formale decisamente nella linea modernista costituì fin dall’inizio la cifra più riconoscibile dello ‘stile
Cornigliano’. Essa continuò a esprimersi poi
nell’equazione “industria di avanguardia = arte di avanguardia” [12], che rappresentò il principio ispiratore di Carmi e del gruppo di giornalisti e intellettuali che
ruotava intorno all’Ufficio relazioni pubbliche Italsider. Tale gruppo – di cui facevano parte, tra gli altri,
Carlo Fedeli, Claudio Bertieri, Lucio Savarese e Guglielmo Trillo – fu particolarmente attivo anche nel set-
1, 2. Annunci
della prima campagna
istituzionale
per la Cornigliano,
1956.
3. Annuncio
istituzionale, 1957.
1.
Progetto grafico 8, giugno 2006
2.
3.
1255
109
tore del film industriale e si distinse in particolare per
l’organizzazione di importanti mostre come Forme e
tecniche dell’architettura contemporanea, alla Galleria d’arte moderna di Roma nel 1959, e la celebre rassegna Sculture nella città, che si svolse a Spoleto nel
1962 [13].
4.
4. Pagine del volume Immagine di una fabbrica, pubblicato dalla Cornigliano nel 1959.
In questa occasione Carmi si affidò alle fotografie di Kurt Blum che puntò l’obiettivo
sulla realtà dello stabilimento Oscar Sinigaglia. Seguirono altri libri-strenna come
Immagine di una città (1960) e I colori del ferro (con un’introduzione di Umberto Eco, 1963),
in cui protagoniste erano ancora le immagini fotografiche. In altri casi, era invece
la letteratura ad assumere centralità e la proposta dell’Italsider si configurava come invito
alla lettura rivolto ai propri dipendenti.
La ricchezza e la qualità di questo intervento nel campo dell’arte e della cultura – di cui in questa sede non
si riesce a dare conto – trovava in parte corrispondenza nel clima che si respirava in un’impresa come
la Cornigliano. L’ottimismo e la fiducia incondizionata nel futuro che si percepiscono in molti testi promozionali dell’azienda era spesso in sintonia con
l’ideologia estetica modernista. Un esempio chiaro è
il modo in cui alla Cornigliano e all’Italsider si sostenne l’uso dell’acciaio nell’architettura moderna,
coinvolgendo personaggi come Konrad Wachsmann,
cui alla metà degli anni Sessanta fu affidato anche il
progetto della nuova sede genovese dell’Italsider, non
realizzato [14] . Il tono profetico con il quale
l’architetto tedesco predicava la meccanizzazione dei
processi costruttivi trovava eco, nella rivista “Cornigliano”, in affermazioni di questo genere: “L’acciaio
è oggi il progresso, e il progresso e la poesia non possono essere nemici” [15].
Lo spirito che animava le manifestazioni culturali –
accompagnate anche dall’intensa attività dei circoli aziendali e dal varo di importanti iniziative editoriali
[4] – non era diverso dall’atmosfera che pervadeva tutti gli stampati e le pubblicazioni progettati da Carmi.
5.
6.
5, 6. Pagine di apertura della rivista “Cornigliano”, 1957.
110
1256
Il compito che si assunsero Osti, Carmi e i giovanissimi componenti dell’ufficio pr fu quello di portare la
Cornigliano (e poi l’Italsider) fuori dalla cerchia “degli addetti ai lavori” e “offrirla allo sguardo” del pubblico, proprio come avveniva nelle frequenti visite in
fabbrica [16]. Nello stesso tempo, in un’impresa in cui
le ‘relazioni umane’ erano al centro della strategia industriale, si moltiplicarono gli sforzi finalizzati a mettere in contatto i lavoratori e tutta la comunità della
Cornigliano con il mondo esterno.
In tal senso, quella che si mise in piedi, oltre che una
campagna di promozione dell’immagine aziendale, fu
una complessa e impegnativa opera di mediazione culturale. L’intuizione più felice di Osti fu quella di associare alle capacità giornalistiche del gruppo delle pr,
la regia visiva di un artista/designer come Eugenio
Carmi. Fu grazie al suo intervento che il lamierino e gli
altri prodotti semilavorati, gli altiforni e i treni continui, gli operai e la vita dell’intera comunità aziendale,
fino a dati più astratti come i risultati economici
Progetto grafico 8, giugno 2006
7.
dell’azienda furono reinterpretati all’interno di una dimensione ‘stilistica’, resi parte di una immagine fortemente estetizzata, e offerti così ‘allo sguardo’ sia del
pubblico esterno sia dei dipendenti dell’azienda [5, 6,
7].
dagli opuscoli fino al disegno dei “pacchetti azionari”
[19] – si trovava ad acquisire una centralità assoluta.
Se dopo solo un anno di collaborazione di Carmi con
la Cornigliano, Dorfles poteva constatare la presenza
di “uno schema stilistico” applicato ai prodotti grafici
più diversi, successivamente – dopo la fusione della
Cornigliano con l’Ilva e la creazione dell’Italsider –
l’intervento dell’artista genovese raggiunse un grado
di capillarità davvero sorprendente. Leggendo uno dei
fogli di comunicazione interna attraverso cui l’Ufficio
pur (Pubbliche relazioni) commissionava il lavoro da
svolgere a Carmi e alla sua assistente Bruna Artisi, non
si può non restare colpiti dall’ampissima gamma di articoli per i quali veniva richiesta la “procedura di stilizzazione” [8]. Si va dall’impaginazione degli opuscoli
alle insegne al neon degli stabilimenti, dai distintivi per
il personale di vigilanza alle cartelline per
l’archiviazione delle pratiche, dagli annunci di pubblicità istituzionale ai calendari, dalle agende alla carta
per i doni natalizi, eccetera [20].
Stile e ‘stilizzazione’ dell’industria
Nella collaborazione di Carmi con la Cornigliano/Italsider gli intenti promozionali e le ambizioni di
politica culturale dell’industria si intrecciavano in modo quasi indistricabile. Tale esperienza, più che all’idea
attuale di ‘immagine coordinata’, è accostabile a quella declinazione tutta italiana del concetto di house style che negli anni Cinquanta aveva già reso celebre nel
mondo lo stile Olivetti. Al di là delle differenze in termini d’impostazione ideologica, non c’è dubbio che la
Cornigliano e l’Italsider condivisero con l’azienda di Ivrea almeno lo sforzo di elaborazione di un’identità estetica e culturale forte: il tentativo di costruire uno ‘stile’ aziendale nel senso più ampio del termine [17].
A questo proposito, è importante segnalare che prima
del 1967-68, nelle riviste e nelle varie pubblicazioni di
settore italiane, non compariva nessun accenno all’idea
di ‘immagine coordinata’ né a uno strumento come il
manual. Gli addetti ai lavori preferivano adottare il termine ‘stile’ o parlare di ‘stilizzazione’ delle diverse manifestazioni industriali. È in questi termini, infatti, che
Gillo Dorfles interpretò nel 1957 il lavoro di Carmi alla
Cornigliano, in un articolo intitolato significativamente
Impostazione estetica di una grande industria [18].
In tale testo, Dorfles introduceva una puntualizzazione importante, affermando che in un’azienda produttrice di semi-lavorati si avvertiva la mancanza di un
“temine estetico”. La Cornigliano, in altre parole, non
poteva puntare, come aveva fatto l’Olivetti, sul design
dei propri prodotti. Per questo motivo, la grafica – dagli annunci pubblicitari alle pubblicazioni periodiche,
Progetto grafico 8, giugno 2006
8.
7. Flavio Costantini, illustrazione per “Rivista Italsider”, 1965.
8. Documento dell’Ufficio relazioni pubbliche con la “richiesta stilizzazioni”
per Carmi, 1961.
1257
111
14. Relazione di bilancio Esso 1952-53. La sperimentazione
di Carmi nell’area della rappresentazione dei dati statistici
era cominciata già all’epoca della sua collaborazione con la Esso
Standard Italiana. Queste prime prove, che appaiono ancora
incerte, testimoniano le tappe iniziali di un percorso giunto
a maturazione nel periodo della Cornigliano e dell’Italsider,
quando i grafici creati da Carmi raggiunsero un notevole grado
di efficacia sinottica, allontanandosi quasi sempre dagli schemi
convenzionali più comuni.
9.
10.
9. Elemento di segnaletica esterna per la Cornigliano, 1957.
10. Pagina di “Cornigliano notizie” in cui viene presentata la tessera sanitaria Italsider
progettata da Carmi, gennaio 1963.
11.
12.
11. Carta da regalo per
Ilva/Cornigliano, 1960.
È imminente la fusione
delle due società.
I motivi decorativi,
formati da
circonferenze, sono
sezioni di cavi d’acciaio.
12. La carta da regalo
progettata da Carmi
utilizzata per la befana
aziendale del 1961.
13. L’ingegner Redaelli
riceve il premio
per gli anziani Italsider,
1961.
13.
112
1258
Spicca in questo elenco, la prevalenza di stampati con
destinazione interna e con una funzione non direttamente promozionale. Basti pensare agli elementi di segnaletica [9] o alla tessera sanitaria per i dipendenti, che
veniva presentata alla comunità aziendale nel gennaio
del 1963 all’interno del bollettino “Cornigliano Notizie” [10]. È interessante osservare nelle foto dell’epoca
alcuni di questi articoli ritratti in corso d’uso. Tali immagini fotografiche forniscono la misura di quanto
l’intervento di Carmi pervadesse la vita quotidiana del
complesso siderurgico genovese [11, 12, 13].
All’interno dell’estrema varietà di temi progettuali affrontati da Carmi, uno dei settori più interessanti fu
l’ideazione di sistemi di visualizzazione dei dati statistici, un’operazione che oggi si potrebbe classificare
senza esitazione nell’ambito dell’information design.
Si tratta di un tipo d’intervento che l’artista genovese
portò avanti fin dai primi tempi della sua collaborazione con la Cornigliano, sviluppandolo su supporti diversi: dagli opuscoli di presentazione della società alle riviste aziendali, fino a un originale esperimento di
‘bilancio filmato’ prodotto dall’Italsider nel 1961 [21].
Le collezioni dei periodici “Cornigliano” e “Rivista Italsider” sono piene di queste affascinanti invenzioni
grafiche, che traducevano visivamente non soltanto
l’andamento economico dell’azienda o la situazione di
mercato della siderurgia, ma anche i risultati dei frequenti sondaggi di opinione somministrati ai dipendenti e ai lettori della stampa aziendale [14, 15, 16, 17, 18].
Sorprende soprattutto la grande varietà di soluzioni adottate, raggiunta attraverso la declinazione sempre diversa di alcuni elementi costanti fondati sulla geometria elementare. Impiegando pochi dati formali, Carmi
escogitava nuovi sistemi di visualizzazione delle informazioni quantitative, che avvicinavano gli utenti a
contenuti difficilmente veicolabili verbalmente.
15, 16. Visualizzazione grafica di dati statistici,
da “Cornigliano”, 1959.
14.
18. Grafici per “Cornigliano”, 1958.
15.
16.
17.
18.
Il raggio d’azione particolarmente esteso della grafica di Carmi, appare a prima vista in piena sintonia con
le pratiche che proprio in quegli anni si andavano affermando internazionalmente nell’ambito della corporate image. Ma qual era il peso che avevano nella
costruzione dello stile Cornigliano/Italsider elementi
come il marchio, il carattere tipografico o i colori di
bandiera?
sorgere, dopo aver studiato attentamente il problema,
ha preferito affidare la funzione che ha il marchio, a
una ‘unità di stile’ che, abbracciando tutte le sue manifestazioni, la rendesse ovunque facilmente riconoscibile”[22].
Nel 1959 la lettera di un dipendente alla rivista aziendale forniva l’occasione alla redazione di chiarire la
posizione della società su questo tema: “Perché affidare la funzione di segno di riconoscimento e di rappresentanza a un simbolo immutabile che con il passare degli anni non rappresenterebbe più la vera fisionomia dell’azienda […] ? […] La Cornigliano, al suo
Per la verità Carmi alla Cornigliano aveva ideato un
segno grafico che compariva spesso negli stampati aziendali. Esso consisteva in una rappresentazione
schematica del principale prodotto siderurgico
dell’azienda: il lamierino. Tuttavia, tale simbolo conobbe applicazioni discontinue e soprattutto scarsamente codificate, con una grande varietà di soluzioni
Progetto grafico 8, giugno 2006
17. Grafici per “Cornigliano”, 1957.
Progetto grafico 8, giugno 2006
compositive e di disegno [3, 5, 9, 15, 24, 26, 33, 34]. Successivamente l’unica costante identificativa fu di natura tipografica e si ridusse all’adozione del carattere
Cairoli, un sansserif dei primi del Novecento, che
Carmi adottò anche perché facilmente disponibile
nelle varie tipografie di cui si serviva l’Italsider [23].
Questo tipo – che per le sue caratteristiche di neutralità e impersonalità rientrava nella logica della tipografia modernista – venne largamente utilizzato per
gli stampati della Cornigliano e andò poi a formare
quello che rappresentò a lungo il logo dell’Italsider
[19, 20].
1259
113
19.
19. Copertina
di un opuscolo
Italsider.
20.
20. Il logo dell’Italsider
in un’insegna luminosa
di stabilimento.
21. Copertina
di “Cornigliano
Notizie”, 1961.
21.
Al di là di questi semplici accorgimenti, l’intervento
grafico di Carmi si distingue per l’applicazione di un
repertorio di forme che, pur avendo come obiettivo
primario il raggiungimento dell’“unità stilistica”, non
si irrigidisce all’interno di un sistema di prescrizioni
e di regole. A partire dal 1961, la complessa articolazione interna di una società come l’Italsider, presente su gran parte del territorio nazionale, impose
l’adozione di alcuni criteri di differenziazione come
l’uso di un colore di stabilimento nei vari stampati di
cancelleria e, più tardi, anche nei notiziari per i dipendenti. Tuttavia, non c’è traccia di una codificazione rigorosa assimilabile a quella di immagini aziendali fondate sulla creazione di uno strumento normativo come il manuale. Sebbene fosse chiaramente
funzionale alla risoluzione di problemi di comunicazione interna e esterna, il vocabolario formale prediletto da Carmi fu sempre impiegato con grandissima
libertà dall’artista.
Ciò non impedì, certo, all’imponente lavoro di costruzione dell’immagine Cornigliano/Italsider di essere
ampiamente riconosciuto internazionalmente, persino
nel celebre libro di Henrion e Parkin sulla Corporate
Image [24]. Da questo punto di vista, l’approccio di
Carmi costituisce una chiara conferma di quella che
Anceschi ha definito la “via italiana all’immagine
coordinata”: un approccio che, proprio come
all’Olivetti negli anni di Pintori, anteponeva la nozione di metodo a quella di sistema, e – per dirla con le parole di Renzo Zorzi – puntava tutto sull’identità, più
che sull’identificazione [25].
Ma, più di ogni altra cosa, il lavoro di Carmi per
l’industria siderurgica, si ricollegava al generoso tentativo di raccordo tra le cosiddette ‘due culture’ che
Leonardo Sinisgalli lanciava in quegli anni dalla sua
rivista “Civiltà delle macchine”. Basti pensare a una
pubblicazione come “Rivista Italsider”, senza dubbio
uno degli esempi più significativi di quella straordinaria fioritura di stampa aziendale che si verificò in
Italia durante gli anni Cinquanta e Sessanta. Grazie
alla presenza di un sistema di notiziari interni [21],
concentrati maggiormente sulla vita degli stabilimenti, il periodico diretto da Carlo Fedeli poteva
compiere frequenti incursioni nei più diversi settori
della cultura contemporanea. La direzione artistica di
Carmi, che ricorreva a fotografi come Kurt Blum e a
illustratori come Riccardo Manzi o Flavio Costantini, era in piena sintonia con i contenuti, optando per
immagini che rimandavano all’universo della siderurgia solo in modo mediato. La rivista fu soprattutto lo strumento privilegiato per realizzare, attraverso
le copertine dedicate ogni volta a un artista diverso,
114
1260
Progetto grafico 8, giugno 2006
quell’aggancio con la ricerca artistica contemporanea
che contraddistinse in modo inconfondibile lo stile Italsider [22, 23].
L’aspirazione a una nuova sintesi tecnico-umanistica
– che circolava anche in altri ambienti della grande industria italiana nel dopoguerra – contraddistinse fortemente l’attività di Carmi. È all’interno di tale prospettiva che il suo impegno per la Cornigliano/Italsider –
sia in qualità di artista che di designer – appare riconducibile a un’unica matrice.
22.
23.
22. Copertina di “Rivista Italsider” con due opere senza titolo
di Jannis Kounellis, 1963.
Carmi graphic designer e artista di fabbrica
Eugenio Carmi ha trascorso alcuni anni giovanili, durante la guerra, in Svizzera, dove nel 1944 ha conseguito il diploma in chimica presso il Politecnico Federale di Zurigo. Questa parentesi scientifica si inserisce
all’interno di un percorso di formazione di tipo artistico, segnato dalla frequentazione di studi di pittori come quello di Felice Casorati. Di certo non fu senza conseguenze per Carmi entrare in contatto con la cultura
svizzera di area concretista, rappresentata da figure come Max Bill e Richard Lohse. Probabilmente Carmi
stabilì dei legami con questo ambiente zurighese non
durante i suoi studi ma successivamente, negli anni
Cinquanta, quando continuò a recarsi frequentemente
in Svizzera [26]. Tuttavia, è difficile credere che quel
primo soggiorno, durante il conflitto bellico, sia stato
privo di stimoli e suggerimenti visivi.
Se si osserva la qualità specifica del linguaggio grafico di Carmi, non si può negare che egli mostri, fin
dall’inizio, un rigore, un gusto per la riduzione e una
tendenza all’utilizzo della geometria pura che denunciano una forte consapevolezza della tradizione
modernista nel campo della tipografia. Si prendano a
esempio i vari opuscoli pubblicati dalla Cornigliano
tra il ’56 e il ’58 o le prime copertine delle relazioni
di bilancio [24, 25, 26]. L’uso di caratteri senza grazie,
l’adozione del ‘tutto minuscolo’ nella composizione
di alcuni titoli, i rapporti spaziali tra le forme, fondati sempre su equilibri asimmetrici, sono tutti elementi che confermano chiaramente la posizione di Carmi
rispetto alle tendenze della grafica europea. Sarebbe
arduo rintracciare riferimenti precisi alla produzione
degli autori svizzeri, ma non c’è dubbio che egli sia
dentro i canoni di quella tipografia moderna che proprio in Svizzera veniva allora sottoposta a un processo di rifondazione e che aveva alle spalle, storicamente, le sperimentazioni pittoriche dell’astrattismo
geometrico.
23. Copertina di “Rivista Italsider” con una scultura spazio-dinamica
di Nicolas Schöffer, 1965.
25.
24.
26.
24. Copertina di Introduzione alla Cornigliano, 1956.
25. Copertina del Bilancio Cornigliano 1958.
26. Copertina dell’opuscolo La lamiera zincata nell’architettura, 1958.
È importante ricordare che in questi stessi anni la pitProgetto grafico 8, giugno 2006
1261
115
27.
28.
tura di Carmi privilegiava invece l’urgenza espressiva
del segno, “l’immediatezza spontanea e spesso quasi
automatica del gesto” [27].
Di questo linguaggio pittorico si trova traccia anche
in alcuni stampati realizzati per l’industria siderurgica. In una serie d’illustrazioni del 1956, Carmi reinterpretava con un segno rapido e gestuale i luoghi e i
macchinari di quella che Luciano Rebuffo definiva la
“fabbrica del futuro” [28] . La stessa operazione
l’artista genovese aveva cominciato a compierla
all’interno dell’house organ e nel primo opuscolo di
presentazione dell’azienda, dal titolo Introduzione alla Cornigliano [27] [29]. Ma fin dall’inizio Carmi affiancava a questa personale immersione nel paesaggio industriale, restituito con i mezzi della pittura, un
lavoro rigoroso d’impaginazione, in cui mostrava una
grande sensibilità per lo spazio tipografico e per i tagli fotografici [28]. Interferenze e contaminazioni tra
pittura e grafica proseguirono anche negli anni successivi: alla fine del 1957, a esempio, nella pagina di
apertura della rivista “Cornigliano” compariva un motivo grafico-pittorico, accompagnato dalla firma
dell’autore, che riproponeva, in un’interpretazione decisamente più vicina al segno del Carmi pittore, gli elementi geometrici ormai familiari ai lettori del periodico aziendale [29, 30].
In seguito, gli interventi di Carmi in prima persona,
quelli firmati in qualità di artista, si fecero sempre più
rari. Le interpretazioni pittoriche della fabbrica sparirono dalle copertine della rivista aziendale per lasciare il posto prima a fotografie di tema siderurgico e poi
a riproduzioni di opere di artisti contemporanei come
Mathieu, Consagra, Kounellis e molti altri [30].
29.
27, 28. Pagine interne
di Introduzione
alla Cornigliano, 1956.
29. Pagine di apertura
della rivista
“Cornigliano”,
dicembre, 1957.
30. Pagina di apertura
della rivista
“Cornigliano”,
maggio-giugno, 1957.
30.
116
1262
Come hanno segnalato alcuni interpreti dell’opera artistica di Carmi, a partire dalla fine degli anni Cinquanta, nella sua pittura cominciava a manifestarsi una tensione tra la ricerca di forme indefinite, di tessiture irregolari, e un orientamento costruttivo-geometrico. Nei collages del 1963, accanto a una generale
semplificazione delle forme, entravano in scena significativamente dei nuovi elementi: i caratteri tipografici [31]. A questo proposito, Umberto Eco osservava nel 1973: “l’influsso geometrico delle lettere alfabetiche mette in crisi gli estetismi informali delle
prime opere” [31]. Ma le analogie con il dominio della grafica non si fermavano a questo livello più immediato. Ciò che stava accadendo non era sfuggito a
Eugenio Battisti, che sottolineava come “lo spirito
della pagina stampata” si riflettesse nelle tele di Carmi con una esigenza di maggiore rigore e economia
espressiva [32].
Progetto grafico 8, giugno 2006
L’abbandono definitivo dell’estetica informale si verificherà poco più tardi nell’arte di Carmi. Ma solitamente come momento iniziale di questa svolta si cita
la celebre serie di cartelli antinfortunistici realizzata
nel 1965. Qui il messaggio rivolto agli operai
dell’Italsider si concentrava esclusivamente
sull’organo in pericolo (gli occhi, le mani, la testa), affidandosi a una estrema riduzione dei segni e
all’eliminazione di tutti gli elementi descrittivi o aneddotici che dominavano molte delle campagne in
circolazione sullo stesso tema [32, 33].
Tuttavia se, come ha affermato Eco, tali pannelli litografati “aprono in modo ufficiale il periodo del ‘secondo Carmi’” [33] – non si può fare a meno di notare
che l’estrema pulizia “gestaltica” e le “costanti geometriche di immediata percettibilità” [34], erano caratteristiche già presenti nella grafica di Carmi da molto
tempo. Basti ricordare uno dei suoi interventi più originali per l’industria siderurgica: la serie di cartelline
disegnate per il personale impiegatizio [33, 34, 35, 36, 37,
38, 39], la cui prima versione, per la Cornigliano, presumibilmente risale agli anni 1959-60. Non c’è la minima traccia, qui, del linguaggio pittorico informale.
Regna incontrastata l’astrazione geometrica più rigorosa, regolata da sottili rapporti di proporzione, da relazioni tra superfici cromatiche assolute in un equilibrio sempre diverso tra forme pure disposte con grande sensibilità nello spazio.
31. Alfabeto, olio e
collage su cartone,
1963.
32. Cartelli
antinfortunistici
per l’Italsider, 1965.
31.
32.
Una descrizione efficace di questa particolarissima
sperimentazione grafica la fornì all’epoca Agnoldomenico Pica, che interpretava quella ricca serie di
“variazioni compositive e cromatiche” come un tentativo di “costituire una sorta di alfabeto o numerario
per immagini, una specie di nuovissimo linguaggio
pittografico, accuratamente predisposto allo scopo di
stimolare e facilitare l’esercizio mnemonico e di alleviare, con l’immediato richiamo al colore, l’eterna
e snervante fatica archivistica della ‘ricerca della pratica’ ” [35].
Lo scopo iniziale che si prefisse Carmi era
l’identificazione dei documenti da parte degli utenti,
nonostante la riduzione al minimo o la completa eliminazione dell’informazione tipografica. Tuttavia, i
diversi disegni e accostamenti cromatici, che dalle cartelline passano sui dorsi dei raccoglitori [40, 41], manifestavano chiaramente anche la volontà di far entrare
nell’ambiente industriale una ricerca estetica di qualità
squisitamente pittorica. I commentatori dell’epoca –
oltre a evidenziare il tentativo di razionalizzazione percettiva o di “visualizzazione programmata” [36] – parlavano di una funzione di “stimolo psicologico” per i
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117
33.
lavoratori e dell’introduzione di colore e luce in un ambiente tradizionalmente connotato come grigio e monocorde [37].
Se l’analisi dell’attività grafica di Carmi può suggerire importanti ipotesi di lettura della sua opera pittorica è perché le due attività furono sempre sostenute da
una sostanziale unità di poetica, al di là delle differenze di linguaggio che si sono appena riscontrate.
34.
Allo stesso modo, per cogliere la peculiarità
dell’apporto che Carmi diede allo stile aziendale della
Cornigliano e dell’Italsider, sarebbe del tutto fuorviante non tenere conto del versante propriamente artistico. L’originalità dell’intervento di Carmi, nei quasi dieci anni di collaborazione con la siderurgia pubblica, sta tutta nell’equilibrio particolare che egli seppe trovare tra queste due dimensioni, quella del progettista e quella dell’artista.
35.
Non c’è dubbio che, all’interno della comunità aziendale dove si trovò a operare, Carmi fosse considerato
nella sua veste di artista o addirittura di “pittore ufficiale di fabbrica”, come lo definì con bonaria ironia un
lettore del bollettino “Cornigliano Notizie” [38].
36.
I documenti dell’Ufficio relazioni pubbliche con i
quali gli venivano commissionati i lavori di grafica,
erano indirizzati al “pittore Eugenio Carmi”. Certo,
molti designer italiani continuarono a lungo a essere
definiti nelle corrispondenze ufficiali architetti o pittori, a causa dello scarso riconoscimento attribuito al
loro specifico profilo professionale. Ma il caso di Carmi appare diverso.
37.
38.
39.
40.
41.
Se l’intento iniziale di Osti fu quello di cercare un grafico che curasse l’aspetto visivo delle iniziative di relazioni pubbliche, le responsabilità di Carmi finirono
per estendersi ai campi più diversi. Egli assunse sempre più la posizione di un vero e proprio ‘art director’,
commissionando interventi ad altri artisti, fotografi, illustratori e designer. Ma, soprattutto, l’intesa con Osti
e con personaggi come Carlo Fedeli, consentì a Carmi
di avere un posto da protagonista nella programmazione di eventi culturali e nell’impostazione editoriale
del periodico aziendale, mettendo in piedi così uno
straordinario programma di promozione dell’arte contemporanea, assolutamente inedito per l’epoca.
33, 34. Cartelle per l’archiviazione delle pratiche di ufficio, 1959-60.
35, 36, 37, 38, 39, 40, 41. Il sistema di cartelle e raccoglitori
per l’archiviazione delle pratiche di ufficio, 1961.
118
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Progetto grafico 8, giugno 2006
to per l’industria, un intervento che si fece carico sempre più di un progetto ambizioso: far entrare l’arte nel
mondo aziendale; l’arte di avanguardia ovviamente,
che egli cercò in tutti i modi di sposare al programma
progressista della siderurgia pubblica.
Che tale matrimonio arte-industria in quegli anni potesse rappresentare una strada praticabile, lo si capisce
molto bene da queste parole che la rivista “Cornigliano” dedicò all’artista genovese nel 1958: “Eugenio
Carmi, un pittore molto intelligente, molto sensibile e
perciò molto ‘moderno’, cioè teso con tutte le sue forze alla ricerca di nuovi mezzi di espressione, aderenti
allo spirito del tempo. È proprio per questo che ci siamo affidati a lui (cioè, a dirla in soldoni, per la stessa
ragione per cui non lavoriamo l’acciaio con i laminatoi a mano in auge cent’anni fa, ma con treni continui).
E a chi ci obiettasse che ‘questo non c’entra’ e che
‘l’arte è un’altra cosa’ dovremmo rispondere che fare
dell’arte non è mai stato un modo di esiliarsi dal proprio tempo, ma, al contrario, il mezzo più valido e sicuro per inserirvisi” [40].
Questa visione dell’arte come elemento attivo, partecipe della modernità, fu probabilmente ciò che Gian
Lupo Osti e Eugenio Carmi condivisero fin dal primo
momento: l’idea di un’arte che non solo si facesse interprete del tempo moderno, ma prevedesse anche il
coinvolgimento diretto dell’attività estetica nella vita
sociale e produttiva [41]. Su questo piano, non vi è davvero nessuna differenza tra il Carmi grafico e il Carmi
“pittore di fabbrica”, tra le esperienze che l’artista genovese preferisce considerare ‘arte applicata’ e le opere d’arte che egli produsse e fece produrre sotto il patrocinio dell’industria siderurgica.
Per questa complessità e ampiezza del ruolo rivestito
nell’industria, lo stesso Carmi ha sempre rifiutato ogni
identificazione del suo lavoro con quello di un designer
e ha insistito nel dare una lettura tutta in chiave pittorica del suo decennio ‘siderurgico’ [39]. Ciò è dovuto
alla visione particolare che egli ebbe del suo intervenProgetto grafico 8, giugno 2006
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119
NOTE
1. All’interno dell’ampia letteratura critica sull’arte di Carmi, sono
incentrati specificamente sulla sua collaborazione con l’industria siderurgica i contributi di Pierre Restany (Eugenio Carmi e la civiltà
delle macchine, in “Rivista Finsider”, numero 4, ottobre-novembre
1987) e di Mariagrazia Schinetti (All’Italsider un artista, in Luciano Caramel, Eugenio Carmi, Milano 1990, pagine 199-204).
2. Ci si riferisce in particolare alla recente mostra milanese Anni Cinquanta. La nascita della creatività italiana (Palazzo Reale, marzoluglio 2005; catalogo, ArtificioSchira, Milano 2005). In questa occasione, Mario Piazza ha inserito Carmi tra i quattro autori più rappresentativi delle diverse tendenze riscontrabili agli esordi della
scuola grafica italiana. Piazza, anche in altre occasioni, ha dedicato
attenzione al lavoro di Carmi e a tutta l’importantissima scena genovese degli anni Cinquanta e Sessanta, vedi: Studio Firma, Una firma per sei, a cura di Mario Piazza, Edizioni Corigraf, Genova 2002.
3. Tra le varie committenze per le quali Carmi lavorò negli anni
Cinquanta (come Berio o i Monopoli di Stato), la più importante
fu certamente la Esso Standard Italiana, per la quale egli creò numerosi annunci di pubblicità istituzionale, opuscoli e relazioni di
bilancio.
4. Osti era all’epoca segretario generale della Cornigliano, carica che
gli consentiva di agire su più fronti in quanto egli reggeva tutti gli
uffici che non fossero strettamente tecnici o legati alla produzione,
da quelli amministrativi alle vendite e in seguito anche il personale.
Sulla vicenda di Osti all’interno dell’impresa pubblica, vedi: Ruggero Ranieri, Gian Lupo Osti, L’industria di stato dall’ascesa al degrado: trent’anni nel gruppo Finsider, conversazioni con Ruggero
Ranieri, Il Mulino, Bologna 1993.
Le circostanze dell’incontro con Carmi sono state chiarite nei dettagli da Gian Lupo Osti in una intervista con chi scrive svoltasi a Roma il 6 aprile 2005.
5. Gillo Dorfles, Impostazione estetica di una grande industria, in
“Stile industria”, numero 12, luglio 1957, pagina 36.
6. Gli stabilimenti di Cornigliano rappresentarono il maggiore successo del piano di Oscar Sinigaglia per il rilancio della siderurgia nazionale e furono realizzati con un ingente finanziamento nell’ambito
dell’erp (European Recovery Program).
La società Cornigliano era tra le aziende italiane più americanizzate sul piano delle strategie produttive e dell’organizzazione aziendale. Non stupisce quindi che anche sul piano della comunicazione
risentisse di una forte influenza del modello statunitense.
7. Senza autore, La pubblicità, in “Cornigliano. Numero unico di
informazione aziendale”, dicembre 1956, pagina 19. Si tratta del numero zero con cui partì la rivista “Cornigliano”.
8. Se si prendono in esame le pubblicazioni istituzionali della Esso
dei primi anni Cinquanta, si trovano tutta una serie di temi che poi
saranno presenti anche nella comunicazione della Cornigliano e
dell’Italsider: in particolare, vi assume rilievo la promozione di iniziative culturali e artistiche come i Concerti sinfonici Esso e il celebre Premio di pittura lanciato dall’azienda petrolifera nel 1951.
9. Senza autore, Azienda e pubblica opinione, in “Cornigliano”, numero 2, marzo-aprile 1957, pagina 1.
La teoria (e spesso la retorica) della ‘casa di vetro’, fu uno dei principi-chiave delle pr, che i primi professionisti italiani del settore
tentarono faticosamente di far passare negli ambienti aziendali italiani.
Nelle pubblicazioni della Cornigliano e dell’Italsider il concetto ricorreva continuamente e fu poi ripreso dalla redazione de “L’Ufficio
Moderno” in un articolo sull’attività di comunicazione dell’Italsider.
Confronta Sandro Dini, Acciaio dalla casa di vetro, in “L’Ufficio
Moderno”, numero 2, febbraio 1963.
10. Tra i motivi che stavano dietro l’ostilità manifestata dai cittadini genovesi c’era anche un incidente avvenuto durante la costru120
1266
zione degli impianti nel dicembre del 1949, incidente che provocò
alcune morti tra i lavoratori. Confronta Ruggero Ranieri, Gian Lupo Osti, L’industria di stato dall’ascesa al degrado, già citato, pagina 185.
11. Lo ha affermato lo stesso Osti nell’intervista del 6 aprile 2005.
Che si tratti di una delle primissime iniziative lo conferma anche il
“Cornigliano. Numero unico di informazione aziendale” del dicembre 1956, che presenta le campagne istituzionali della Cornigliano
come l’esordio dell’industria genovese nel campo della comunicazione (La pubblicità, articolo già citato, pagina 29).
12. Pierre Restany, Eugenio Carmi e la civiltà delle macchine, già
citato, pagina 62.
13. Le iniziative artistico-culturali furono molteplici e qui si sono citate solo le due più importanti.
L’esposizione romana – nel cui comitato esecutivo figuravano, oltre a Carmi, Luigi Moretti, Bruno Zevi, Palma Bucarelli e Giulio
Carlo Argan – conteneva una rassegna su Le Corbusier e proponeva una sezione, affidata a Konrad Wachsmann, sul tema Lamiere
d’acciaio nell’architettura. Costruire nel nostro tempo. Confronta
il catalogo Forme e tecniche dell’architettura contemporanea, Editalia, Roma 1959.
Sull’evento di Spoleto la letteratura è vasta. Appoggiata da Giovanni Carendente, la rassegna Sculture nella città fu organizzata
nell’ambito del V Festival dei due Mondi. 10 dei 50 scultori di fama
internazionale invitati a partecipare (tra cui Calder, Smith e Pomodoro) furono ospitati nei vari stabilimenti dell’Italsider e messi in
condizioni di costruire, con la collaborazione di tecnici e operai,
sculture monumentali in acciaio destinate a essere collocate nello
spazio urbano della cittadina umbra.
Spoleto rappresentò sia per l’entità dello sforzo economico sia per
la risonanza internazionale ottenuta, il momento più alto della politica culturale targata Italsider e del suo programma d’incontro tra
l’arte e l’industria.
14. Wachsmann aveva pensato a un grattacielo e a un intervento che
ridefiniva tutta una grande area del porto di Genova. Di questo ambizioso progetto – che si arenò di fronte all’opposizione delle autorità cittadine e ai primi segnali di crisi economica dell’azienda – restano solo alcune foto che ritraggono il plastico e il ricordo pieno di
rimpianto che ne ha lasciato Carmi (in “Il Secolo XIX”, 14 gennaio
1981, ora in Duncan Mcmillan, Umberto Eco, Carmi, Edizioni
L’Agrifoglio, Milano 1996, pagine 164-165.)
15. Senza autore, Forme e tecniche dell’architettura contemporanea, in “Cornigliano”, numero 1, gennaio-febbraio 1959, pagina 17.
16. Senza autore, Azienda e pubblica opinione, citazione.
La visita in fabbrica era una tradizione ormai consolidata nel mondo aziendale, anch’essa proveniente dagli Stati Uniti.
Confronta Roland Marchand, Creating the Corporate Soul: The Rise
of Public Relations and Corporate Imagery in American Big Business,
University of California Press, Berkeley 1998, pagine 249-311.
Nel caso della Cornigliano, far entrare il pubblico esterno nello spazio quasi fantascientifico della più moderna azienda siderurgica del
paese assumeva sempre una connotazione spettacolare ed estetica,
come dimostrano anche le numerose descrizioni letterarie degli stabilimenti all’interno della stampa aziendale.
17. Questo articolo, dedicato esclusivamente alla grafica di Carmi,
è frutto di un lavoro di ricerca più ampio condotto sull’immagine aziendale in Italia per la tesi di dottorato dal titolo Gli anni dello stile industriale (1948-1965). Design, grafica e politica culturale alla
Pirelli e all’Italsider, discussa presso la Scuola Studi Avanzati di
Venezia nel marzo 2006.
18. Gillo Dorfles, articolo già citato, pagina 36.
19. Ivi.
Non mancarono tentativi della Cornigliano di ovviare a questa impossibilità di intervenire nella progettazione del prodotto finale con
iniziative di promozione del disegno industriale. In questa logica
Progetto grafico 8, giugno 2006
rientrava il lancio del Premio Cornigliano nel 1957, che era mirato a incentivare l’uso del lamierino presso “architetti, ingegneri,
disegnatori industriali, tecnici e artisti residenti in Italia”. Un’altra
iniziativa del genere fu, nel 1965, l’assegnazione della Targa d’oro
Italsider per gli imballaggi progettati con la banda stagnata elettrolitica.
20. Il documento è conservato da Bruna Artisi (all’epoca assistente
di Carmi) che ne ha gentilmente concesso la pubblicazione.
21. Si tratta di Film Relazione, un filmato a metà tra il genere ‘industriale’ e l’inchiesta sociale. Nella parte iniziale, compaiono varie animazioni grafiche in cui gli elementi di geometria elementare utilizzati da Carmi per la rappresentazione dei dati statistici vengono
impiegati dinamicamente, ricollegandosi a tutta una serie di ricerche grafiche di quegli anni. La parte documentaristica era affidata al
regista Valentino Orsini. Qui “le fredde cifre cessano di essere delle entità astratte e acquistano l’evidenza della realtà” (Senza autore,
Film Relazione 1961, in “Rivista Italsider”, numero 5, ottobre-novembre 1962, pagina 32).
anni Cinquanta del luglio del 1961 e Il centro siderurgico di Taranto, senza data (ma di certo negli anni Sessanta). In genere, però,
nel periodo dell’Italsider, quando compare la pittura di Carmi si tratta della riproduzione di una sua opera non necessariamente legata
all’industria, proprio come avveniva per gli altri artisti.
31. Umberto Eco, Eugenio Carmi, una pittura di paesaggio?, Prearo Editore, Milano 1973. Ora in Mcmillan, Eco, opera già citata, pagina 30.
Confronta anche Luciano Caramel, Umberto Eco, Eugenio Carmi,
Electa, Milano 2000.
32. Eugenio Battisti, Eugenio Carmi, catalogo della mostra, Galleria del Naviglio, Milano 1963, citazione in Eco, Eugenio Carmi, una pittura di paesaggio?, opera già citata, pagina 34.
33. Umberto Eco, Eugenio Carmi, una pittura di paesaggio?, opera già citata, pagina 62.
34. Ivi.
22. Senza autore, Marchi e stile, in “Rivista Cornigliano”, numero
4, luglio-agosto 1959, pagina 27.
35. A. Pica, Arte al servizio dell’industria, in “Le Arti”, numero 1112, dicembre 1961, pagina 136.
23. Prodotto nel 1914 dalla fonderia tedesca Wagner & Schmidt, tale carattere, ascrivibile al genere dei grotesque, ha acquisito in varie
epoche e contesti geografici denominazioni diverse. In Italia era distribuito dalla fonderia Nebiolo, che lo chiamò, appunto, Cairoli
(Confronta W. Pincus Jaspert, W. Turner Berry, A. F. Johnson, The
Encyclopedia of typefaces Blandford, London 1977, pagina 247).
Sulle motivazioni pratiche della scelta di questo carattere da parte
di Carmi, le informazioni sono state fornite da Carlo Fedeli (intervista del 12 gennaio 2005) e da Bruna Artisi (intervista del 4 maggio 2005).
36. Senza autore, Eugenio Carmi. Un esperimento di visualizzazione programmata all’Italsider, in “Pagina”, ottobre 1963, pagine
110-111.
24. FHK Henrion, Alan Parkin, Design coordination and Corporate image, Studio Vista, London 1967. Oltre al caso dell’Italsider erano presentati quelli delle aziende italiane Pirelli, Barilla e naturalmente Olivetti.
Significativa, tra le varie manifestazioni di interesse, anche
l’attenzione dedicata al lavoro di Carmi da Germano Facetti nel suo
contributo Italian graphic design per “The Penrose Annual”, volume 55, 1961, pagine 6-10.
25. Confronta Giovanni Anceschi, Il campo della grafica italiana,
in “Rassegna”, numero 6, aprile 1981 e Renzo Zorzi, Design Process, in Design Process Olivetti, 1908-1978, (a cura di Nathan H
Shapira), Olivetti, Ivrea 1979, pagina 28.
26. È ciò che si può desumere da questa dichiarazione di Carmi:
“Max Bill l’ho incontrato per la prima volta in Svizzera. Ero spesso
in Svizzera e lo conobbi negli anni Cinquanta.” In Duncan Macmillan, Eugenio Carmi e la necessità dell’astrazione, in Macmillan, Eco, opera già citata, pagina 186.
Di sicuro sia Bill che Lohse, si ritrovano poi legati a Carmi verso il
1963, anno in cui l’artista genovese diede vita all’iniziativa della
cooperativa di Boccadasse e della Galleria del Deposito.
Confronta Sandra Solimano, La Galleria del Deposito.
Un’esperienza di avanguardia nella Genova degli anni Sessanta,
catalogo della mostra (Genova, Museo di Arte Contemporanea di
Villa Croce, aprile-giugno 2003), Neos Edizioni, Genova 2003.
27. Gillo Dorfles, Carmi, in “Arte oggi”, numero 8, pagine 18-19.
28. Luciano Rebuffo, Una passeggiata siderurgica, in “Civiltà delle macchine”, numero 6, novembre-dicembre 1956, pagina 27.
37. Confronta Henrion, Parkin, opera già citata, pagina 148 e Willy
Rotzler, Italsider. The graphic profile of a group of Italian Steelworks,
in “Graphis”, numero 101, maggio-giugno 1962, pagina 289.
Non a caso Pica associava l’originale sistema di archiviazione ideato da Carmi agli esperimenti che furono condotti all’Italsider sulla
colorazione degli spazi di lavoro. Sull’ “intento artistico” della grafica di Carmi nel 1958 scrisse lucidamente Franco Russoli (Eugenio
Carmi, in “Gaphis”, numero 76, marzo-aprile, pagina 134).
38. Il lettore che si firmava Athos Rolando faceva riferimento in particolare al volume Immagine di una fabbrica, sulla cui copertina
compariva un segno che ricorda molto da vicino gli “ideogrammi aconcettuali” impiegati da Carmi nei coevi esperimenti di pittura su
acciaio smaltato. Rolando definiva tale intervento dell’artista “il prezioso geroglifico dell’immancabile Pittore Ufficiale di Fabbrica.”
A proposito di “Immagine di una fabbrica”, in “Cornigliano Notizie”, numero 3, primo febbraio 1960, pagina 3.
39. Lo si legge chiaramente in questa sua dichiarazione: “Il mio lavoro all’Italsider era molto diverso da quello che ci si aspetterebbe
in una situazione del genere. Tutto ciò che facevo per loro derivava
dalla mia pittura. Di solito quando un’azienda cerca un’immagine,
si rivolge a un designer. La mia collaborazione fu di tutt’altro genere. Personalmente ho offerto la mia esperienza di pittura e arte applicata, e inoltre ho chiesto la collaborazione di molti altri artisti per
creare un’immagine dell’azienda […]”.
Testimonianza in Duncan Macmilian, Eugenio Carmi e la necessità
dell’astrazione, in Macmilian, Eco, opera già citata, pagina 145.
40. Senza autore, I risultati della nostra inchiesta, in “Rivista Cornigliano”, numero 2, marzo-aprile 1958, pagina 5.
41. La collaborazione di Carmi con l’Italsider si interrompe nel 1965,
poco dopo il trasferimento a Terni dello stesso Osti. Con i primi segnali di crisi economica dell’azienda e il sopraggiungere di logiche
di gestione politica, vennero a mancare non soltanto i mezzi, ma anche il clima di fiducia nel futuro che aveva contraddistinto in modo
inequivocabile l’esperienza partita negli anni della Cornigliano.
Confronta Ranieri, Osti, opera già citata.
29. In particolare, la prima serie di copertine per la rivista “Cornigliano” (fino alla fine del 1958) vide Carmi alle prese con la rappresentazione di diversi momenti della vita dello stabilimento o di temi
comunque correlati alla siderurgia (Colata, Particolare di un altoforno, Il blooming, I gasometri eccetera).
30. Dipinti di Carmi si trovano ancora nelle pubblicazioni Bagnoli
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Lo stile milanese: Bob Noorda
UN INCONTRO CON SORPRESE
MARIO PIAZZA
Eccoci da Bob Noorda, limpido testimone di una stagione – gli anni Cinquanta e Sessanta – che
ha visto molti grafici e fotografi stranieri approdare a
Milano, polo attrattivo di una cultura unica del design.
Una cultura sorgiva, che si stava generando, affiancando alle teorie del disegno industriale di matrice funzionalista, una propensione soggettiva, tipicamente italiana, libera e immaginativa. Quello “stile milanese”, come lo ha definito ad esempio Hollis [nota 1 a pagina 105],
che ha saputo dare un volto alla grande industria italiana. Pur non essendoci scuole, disciplinariamente orientate, Milano, con la Triennale come incubatore e cassa
di risonanza della scena mondiale della ricerca, con il
Compasso d’Oro de la Rinascente, le riviste da “Stile Industria” a “Pagina” era una meta, un luogo di approdo
per possibili incontri e scoperte. È stato così per Max Huber e per tutta la filiera migratoria della scuola elvetica
– funzionale e costruttiva – ed è stato così anche per
l’olandese Bob Noorda.
Noorda: “Sono arrivato nel 1955. Dovevo scegliere se
andare in America o restare in Europa, e Milano con le
esposizioni della Triennale avveva un forte richiamo.
Alla fine ho scelto Milano e da allora lavoro qui. Ricordo che quando arrivai ebbi la fortuna di incontrare un
grafico di origine tedesca/cecoslovacca. Si chiamava Pavel Michael Engelmann [2] e lavorava per la Pirelli. Abitava a Milano in via dei Transiti, a due passi da viale
Monza dove aveva sede la Pirelli. Lavorava per Arrigo
Castellani, il responsabile della comunicazione e aveva
fatto un manifesto, Il pneumatico che morde la strada,
usando dei veri copertoni per lasciare le impronte tipiche del battistrada. Così, tramite Engelmann, che quando partì mi lasciò la casa, il contatto con la Pirelli.
Avevo studiato ad Amsterdam: prima all’Accademia
d’arte e poi all’IvKNO, una scuola che trasmetteva e
continuava la lezione del Bauhaus e di De Stijl [3].
A Milano, sono stato fortunato. Ho iniziato subito una
proficua collaborazione con la Pirelli. Nel 1961 ne sono
diventato anche art director. Castellani era un tipo molto energico, chiedeva una vicinanza assoluta. Dovevi essere facilmente reperibile e disponibile per risolvere i
problemi: fare un manifesto, un opuscolo. Allora la Pirelli faceva molte cose non solo per il mondo automobilistico, produceva anche per la casa, per
l’arredamento. E l’obiettivo non era una pubblicità come si intende oggi, anzi c’era una sorta di contesa ‘culturale’ con l’Olivetti. Pintori faceva una grafica di qua-
1. Copertine e retri
per la collana
Economica Vallecchi:
B. Cicognani, La velia,
1966; A. Soffici, Kobilek,
1966; F. Tozzi, Tre
croci, 1966.
Le copertine sono
composte in Helvetica
Ultra compressed, (Max
Miedinger & Edouard
Hoffmann, 1957)
e in Garamond 3,
(Jean Jannon, 1615,
Linotype, 1922).
1.
Per questa serie Bob
Noorda ha disegnato
anche il monogramma
EV, dove le due iniziali
si fondono in un unico
disegno, racchiuso in
un quadrato che viene
stampato nello stesso
colore dell’autore
e del dorso.
lità, con annunci molto originali e allo stesso tempo molto identificativi, una sorta di stile aziendale. La Pirelli di
Castellani aveva una visione più corale, un approccio un
po’ come quello dello studio Boggieri. Si offriva la possibilità a molti grafici di dare la propria interpretazione
e i nomi di allora sono diventati tutti noti: da Tovaglia a
Vignelli, da Grignani a Fletcher. Credo che Castellani
cercasse una grafica moderna, con molta libertà di ricerca espressiva ma anche contemporaneità da spendere nella comunicazione Pirelli” [4].
In effetti in un numero di “L’Ufficio moderno. La pubblicità”, Arrigo Castellani in un servizio Il grafico del
mese: Bob Noorda scrive a proposito dell’esistenza di
uno stile, un linguaggio Noorda “attraverso il quale
s’esprimono certe persuasioni occulte, certi fatti della
vita collettiva come il libro o il metrò. Si tratta di un linguaggio che ha superato l’epoca del pittore-pubblicitario e che corrisponde a quella del graphic design (‘servire la tecnica’) e stimolato dalla famosa ‘filosofia della comunicazione’” [5].
2.
2. Copertine per le opere complete: R. Ridolfi, I Ghiribizzi, 1968;
R. Ridolfi, I palinfraschi, 1970; G. Papini, Schegge, 1971.
Le copertine sono composte in Times New Roman, tondo e corsivo (Stanley
Morrison-Victor Lardent, 1932).
3. Copertine per la collana La cultura e il tempo: G.C. Buzzi, La tigre
domestica, 1964 e R. Quadrelli, Il linguaggio della poesia, 1969.
Gli autori e i titoli sono composti in Fry’s Baskerville (John Baskerville, 1757,
Isaac Moore, 1764) e l’abstract in Garamond 3.
4. Copertine per la collana Narratori Vallecchi: M. Pomilio, La compromissione,
1965, in copertina: Saul Steimberg All in live; C. Marghieri, Il segno sul braccio,
1970, in copertina: H. Matisse, disegno.
La composizione è in Fry’s Baskerville.
L’esperienza di Noorda muove proprio in questa direzione, l’approccio razionale della formazione olandese,
si esprime in una grafica molto controllata, costruita su
temi visivi se vogliamo semplici, ma chiari e capaci di
tenere il campo, lo spazio dell’artefatto. È una grafica
sintetica, basata sul ragionamento, sulla necessità di un
equilibrio da raggiungere. Ricerca un ordine formale che
non è mai banale, risolto con un approccio iconico prevalentemente astratto (forme geometriche e forme tipografiche) ma anche facile da decodificare. L’orizzonte
visivo di Noorda è davvero lontano dall’approccio figurale e pittoricistico, è una tradizione nuova che sorprendentemente è capace di misurarsi anche con la nascente
cultura dei consumi di massa. Noorda ha fatto annunci
anche per i Pavesini e per i biscotti Plasmon. Usa la fotografia, il documento visivo, ma l’impianto costruttivo
è astratto. E un ordine nascosto e raziocinante che sovraintende e spiega la chiarezza grafica di Noorda, la sua
necessità di lavorare per sistemi e per funzioni.
3.
4.
La Vallecchi: un sistema editoriale
Gli anni Sessanta vedono un profondo rinnovamento
della grafica editoriale. Molti editori, piccoli e grandi,
storici e nuovi vedono nell’apporto professionale del
grafico una maggiore completezza del prodotto, ma anche un efficace modalità per farsi riconoscere, per affermare le proprie diversità, i propri gusti.
Molti grafici sono impegnati in questa opera di progettazione globale del sistema editoriale, che lascerà
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Progetto grafico 8, giugno 2007
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Noorda a Milano
Amsterdam
5.
via dei Transiti
Pirelli
viale Monza
Pirelli
piazza Duca d’Aosta
(Grattacielo Pirelli,
25° piano)
profonde radici nella grafica e nell’editoria italiana.
Senza tralasciare la lezione di Steiner per Feltrinelli, già
felicemente impostata dagli anni Cinquanta, vediamo
all’opera Bruno Munari con Einaudi, Mimmo Castellano con Laterza, Anita Klinz con Il saggiatore, Massimo
Vignelli con la Sansoni e le edizioni Schwarz, Giulio
Confalonieri e Ilio Negri con le edizioni Lerici.
1955
Anche Noorda, ne è uno degli artefici, con un progetto molto limpido e originale. Il progetto per le Edizioni Vallecchi si dipana infatti per una decina d’anni a
cominciare dai primi anni Sessanta e comprende una
consistente gamma di linee editoriali. Letteratura, saggistica, storia, attualità, tascabili e perfino delle edizioni per ragazzi.
via Melchiorre Gioia
1961
Biglietto augurale
di Bob Noorda e Leen Averink, 1957
6.
7.
5. Il marchio per la Vallecchi.
6. Foto di una carbonaia.
Biglietto per cambio di indirizzo in via Melchiorre
Gioia, 137 e biglietto augurale
Foro Buonaparte
La casa editrice era stata fondata dal tipografo Attilio
Vallecchi agli albori del Novecento e diviene molto
nota negli anni Venti grazie alle riviste il “Leonardo”,
la “Voce”, “Lacerba”, “Il Selvaggio”. Il suo catalogo
autori (Soffici, Papini, Palazzeschi, Campana, Tozzi,
Slataper, Marinetti, Ungaretti, Prezzolini, Viviani, Malaparte...) rappresentava un inesauribile giacimento
culturale di rilevanza europea che nel secondo dopoguerra viene gestito grazie alla direzione di nomi illustri della cultura, quali Carlo Bo e Geno Pampaloni.
7. Pagina sulle carbonaie e la produzione del carbone di legna,
da Denis Diderot, Jean le Rond d’Alambert, Encyclopedie, ou Dictionnaire
raisonne des sciences, des arts et des metiers, par une societe de gens de lettres.
“È stato il contatto con Pampaloni, che avevo conosciuto per il progetto della rivista “Questo e altro”. È
sua l’idea del marchio per la Vallecchi” [6].
Infatti è un marchio strano nella serie di quelli che hai
disegnato, è un segno che incuriosisce, ma insolito.
Cos’è?
via S. M. Fulcorina
1965
“Ricordo che Pampaloni mi diede una foto di una sorta
di catasta di legna, una specie di costruzione e mi disse
che gli sarebbe piaciuto molto se fossi riuscito a tradurlo in un segno grafico. Ci ho provato, è forse l’unico marchio che non viene da una mia idea. Però resiste. La durata è sempre stata una mia fissazione. Mi piace progettare cose che restano, che possano navigare nel tempo.
Per questo penso che il segno che si ottiene deve essere
ragionato, non basta l’intuizione, l’emozione del momento. La mano è uno strumento, come oggi il mouse,
che deve accompagnare e rendere visibile un processo,
un’elaborazione meditata. Senza verifiche e ponderazione è difficile disegnare marchi che possano durare”.
Biglietto (esterno e interno) per cambio di indirizzo
in Foro Buonaparte, 48
via Revere
Biglietti augurali di Bob e Ornella Noorda,
1961 e di Bob Noorda, 1962
Busta della Unimark International,
via Revere 9
via Leopardi
Bob Noorda
Unimark International
Noorda Design
Pirelli
8.
8. Due copertine e un retro per i volumi della collana Il Vitruvio. Fonti
e documenti d’architettura moderna. Collana a cura di Alfredo Righi
e Pier Carlo Santini: A. Behne, L’architettura funzionale, 1968; E. Persico,
Scritti di architettura (1927/1935), 1968.
Anche la ‘traduzione’ per il marchio Vallecchi, risponde a queste regole. L’impianto è geometrico, ma non esatto. Mantiene il senso dell’ordine apparente dato
dall’accatastamento di segmenti irregolari. La fonte di
ispirazione era quasi certamente la foto di una carbonaia,
Progetto grafico 8, giugno 2007
1247
101
9.
9. Fronte e retro per la collana Tra guerra e pace,
F. Richards, I vecchi soldati non muoiono mai, 1966;
J.M. De Foville, I tedeschi a Parigi, 1967.
10. Copertine per la collana Cultura libera:
F.A. Hayek, L’abuso della ragione, 1967;
N.J. Smelser, Il comportamento collettivo, 1968;
M. Friedman, Efiicienza economica e libertà, 1967.
Copertine composte in Helvetica.
la fornace rustica con cui, dalla legna, si ottiene il carbone. La sua caratteristica costruttiva è appunto la struttura simmetrica ottenuta disponendo il legname attorno
ad un foro centrale. Noorda costruisce un segno molto
ordinato anche se a libera tracciatura. Lavora sul senso
prospettico, una visione zenithale della catasta (come
quella dell’incisione dall’Encyclopedie) ma senza compasso e squadra, anzi lavorando sull’informalità delle linee, che montano il segno finale. Gli anelli concentrici
e gli inspessimenti dei tratti radiali vengono gestiti con
sapienza e calibrati per ottenere un effetto percettivo
chiaroscurale e controllare la ‘dimensione’ tecnica del
marchio. Stampato in nero tipografico sulla porosa carta delle copertine, il marchio sigilla in maniera magistrale le edizioni Vallecchi.
“Con la direzione editoriale di Pampaloni ho potuto
realizzare una grande quantità di copertine. Ho disegnato molte collane. Uno dei miei primi sistemi per
l’editoria. La Vallecchi aveva già una storia nobile, ho
cercato di mantenere questo status, di valorizzare il catalogo con sobrietà ma anche molta personalità”.
11. Copertina del libro Sul Confine, a cura
di G. Magherini e G. Zeloni, 1964.
12. Copertine per la collana 14x21 Problemi
del nostro tempo: U. Krige, Libertà sulla Maiella,
1965; I. Origo, Guerra in Val d’Orcia, 1968;
R. Teani, L’automazione, 1964.
Copertine composte in Helvetica Ultra compressed.
In effetti il lavoro di Noorda è fortemente orientato verso una soluzione tipografica con grande attenzione ai
formati e ai materiali con cui sono fatti i libri.
10.
11.
I libri sono manufatti, si devono sentire tra le mani. Si
devono riconoscere al tatto. La collana storica è in un
allestimento cartonato, ma senza sovracoperta, con immagni fotografiche rese grafiche dalla soppressione dei
toni intermedi. Molto bianco e nero opaco. La collana
di documenti di architettura ha una carta porosa, da disegno, e una sottile pellicola di acetato come sovracoperta e protezione. I tascabili economici sono davvero
piccoli, quasi come i vecchi Manuali dell’Hoepli.
L’attezione all’oggetto è il primo livello del progetto. La
soluzione visiva è riconducibile a due grandi approcci,
quasi una divisione nel catalogo: da una parte la saggistica dall’altra la letteratura. Per la prima prevale una
scelta marcatamente tipografica. La copertina è scritta.
La copertina è composta. La copertina è l’annuncio del
contenuto, della missione del testo. Il lettering si impone, modula la pagina, si fa immagine come nella collana di attualità Problemi del nostro tempo. Prevale l’uso
di un Helvetica molto condensato che compone titoli e
autori, colorati con forti toni brillanti sul fondo bianco.
Cambiano i corpi tipografici, emerge una sensazione di
eleganza strillata, da titolazione giornalistica. Per la serie Cultura libera, in formato tascabile l’Helvetica delle
titolazioni organizza la pagina con una composizione a
bandiera che parte dalla mezzeria del fronte, mentre il
nome della collana in un corpo più piccolo è posiziona-
12.
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Progetto grafico 8, giugno 2007
Progetto grafico 8, giugno 2007
to sulla sommità. I caratteri mantengono le stesse dimensioni di libro in libro, la variante è il colore del fondo, delle scritte e del marchio. Per la letteratura, la narrativa usa una tipografia più classica un Fry’s Baskerville settecentesco, sontuoso e nobile. Le copertine sono accompagnate dalla scelta di un motivo grafico,
un’immagine pertinente con l’atmosfera del romanzo.
Ma questa è l’unica concessione all’immagine. Per la
saggistica letteraria, la scelta è di una copertina-racconto, che sotto il titolo in Fry’s Baskerville, dispone un corposo abstrac del testo. Mentre nelle opere complete (Papini, Ridolfi) sono la brillantezza a tutto campo dei fondi colorati e una perentoria titolazione in Times che fanno la copertina. Variante nella letteratura sono la Economica Valecchi dove viene ripreso l’Helvetica condensato che strilla il titolo in nero lucente, a cui fa sponda l’autore in un colore brillante. Anche qui una nota sul
contenuto, composta in corsivo, del volume completa
visivamente la copertina. Come annota acutamente Castellani, Noorda lavora per “una sottile, continua, insistenza sull’armonia del razionale; è il nuovo che si ritrova immediatamente classico” [7].
L’auto di Noorda
Durante l’incontro con Noorda, a un certo punto emerge e plana sul tavolo una grossa scatola. Rettangolare, bassa, quasi un grande astuccio dove coperchio e
fondo hanno le stesse dimensioni. È foderata con una
vecchia carta da legatoria, su un fondo grigio verde è
stampata la trama irregolare di un lino, ormai reso giallognolo e chiazzato dal tempo. Ha un angolo rovinato,
si vedono con evidenza le anime in cartone kraft vegetale e i rinforzi in metallo.
A fianco un lembo di carta strappata contiene una scritta molto
informale tracciata in blu con una penna a sfera: “Archivio Vecchio Materiali”. È ricomparso da
una cantina, ha girato e accompagnato tutti i traslochi, e come
tutte le cose che non vengono aperte da tempo, contiene delle
sorprese. Sono sorprese anche per Bob. Riaffiorano tra
le sue mani aguzze e magre i lavori dei primi anni milanesi: gli stamponi (le prove che venivano tirate al torchio
per il controllo degli esecutivi) degli annunci per la Pirelli, le copie di opuscoli per il settore farmaceutico, le
prove per le copertine di “Valori”, una rivista di economia, un esecutivo a tempera – rosso vermiglio, bianco
latte e nero opaco – per il marchio, che non venne utilizzato, per la metropolitana milanese. La doppia emme
1249
103
13. La scatola
contenente l’“Archivio
del vecchio materiale”.
maiuscola contrapposta, una M(ilano) sopra e una
M(ilano) sotto capovolta, tracciata con linee regolari e
bordi morbidi, una stretta continuità formale con uno degli elementi di maggior riconoscibilità dell’arredo delle
stazioni disegnate da Albini ed Helg: quel corrimano che
ne è diventato un simbolo involontario. (La mostra storica del Compasso d’Oro se lo porta in giro per il mondo come una reliquia auto-esplicativa del sistema architettonico e di arredo della metropolitana milanese).
14.
E poi sorpresa nella sorpresa un corposo fascio di disegni su carta da lucido, accompagnati da eliografie e
da un opuscolo della carrozzeria Ghia di Torino. Che
cos’è tutto questo, Bob?
“È il progetto per la carrozzeria di un’automobile. Un
divertimento, un gioco ma forse neanche tanto. Ha
coinvolto me e Massimo Vignelli. Questi sono i miei
disegni, i miei schizzi. Le mie prove. Dovevo disegnare le linee per una Ford carrozzata da Ghia. Era il
1963, la Ghia era un mio cliente. Ci mandò dei disegni
tecnici degli autotelai, con le misure e tutti i vincoli. E
noi ci mettemmo alla prova. Dovevamo disegnare un
coupé, ma c’era l’altezza del radiatore da rispettare,
quella per l’abitacolo, l’inclinazione dei vetri del parabrezza. Insomma tutti i vincoli costruttivi del modello. Rispettati questi parametri, potevo disegnare
quello che volevo. E così feci.”
15.
14. Un magnifico figurino dell’auto
progettata da Noorda.
15. Noorda sfoglia i disegni per l’auto
durante l’intervista.
16. Depliant della Fiat Club 2300 S
Ghia (a fianco).
Nelle altre immagini i numerosi studi
del profilo e del fronte per la
carazzeria.
16.
I disegni ci mostrano la maestria del segno di Noorda.
Quel segno meditato che è sempre sottotraccia nei suoi
marchi. In questo piccolo campione, possiamo leggere la processualità, il metodo, l’indagine. Noorda procede con grande autocontrollo, una volta interiorizzati i vincoli, il disegno rincorre l’idea. Il carattere di
un’auto, la sua personalità, l’aereodinamica: questa è
un’auto veloce. Certi disegni di Bob ci ricordano i tratti dinamici di una Jaguar, l’auto di James Bond, sono
molto diversi dal depliant della Ghia che accompagna
queste prove nella scatola. Forse un modello cui fare
riferimento. È una brochure del 1962 per una Fiat Club
2300 S (ironia della sorte, rappresentata in una fotografia sullo sfondo di un disegno al tratto di una Typographical Station) carrozzata Ghia, un coupé con profilature segnate e una marcata linearità.
Il cartiglio dello schema autotelaio n. 748-8778 in scala 1:8, ci descrive il tipo: una f.(ord) Fast Beach. La data è il 31/01/63. Il disegno scarno dell’eliocopia sbiadita dal tempo riporta con esattezza le dimensioni e i
fili fissi da rispettare. Con questi unici strumenti la mano di Noorda si abbandona a un’interpretazione futuribile, ma che consente di leggere due possibile linee
stilistiche.
104
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Progetto grafico 8, giugno 2007
Una in cui gli elementi caratterizzanti le parti
dell’autovettura vengono come smontati, diventano
quasi dei moduli da assemblare in un insieme. Così abbiamo un frontale, un modulo di coda, una fasciatura
laterale e una scocca per l’abitacolo e le parti finestrate. L’esito ricorda delle tipologie coeve di Ford. L’altro
approccio più fantasioso sembra davvero ispirato
all’auto di 007. Le linee sono più morbide, avvolgenti, i volumi raccordati a sottolineare il senso aerodinamico. Il disegno è molto disinvolto, ma anche raziocinante, come là dove, ad esempio, annota le curve di livello delle calandrature per l’alloggiatura dei fari anteriori. Il frontale del resto in questi disegni appare più
studiato, è la cosa che dà carattere e riconoscibilità al
modello.
Certo, è questo un episodio laterale e non c’è la sapienza scultorea di un Pinin Farina o il genio di un
Marcello Grandini, ma è un sensore, un’evidente indicazione della mano progettante di Noorda, di quel ferreo ancoraggio fra disegno e progetto [8]. È il talento
costruito.
NOTE
1. Richard Hollis, Graphic Design A concise History, Thames and
Hudson, 1964, pagine 138-146.
2. Ne ha parlato Marianna Rossi in: Progetto grafico 6, giugno
2005, pagine 158-159.
3. Instituut voor Kunstnijver-heids Onderwijs (Istituto per
l’educazione alle arti industriali, meglio noto, in seguito, come Accademia Gerrit Rietveld)
4. Per ripercorrere l’esperienza di comunicazione e immagine della
Pirelli si vedano: A.W.M. Johnston, Pirelli, in: “Graphis”, numero
96, July/August 1961, Amstutz & Herdeg Graphis Press, pagine
284-299 e 1872-1972 Cento anni di comunicazione visiva Pirelli, a
cura di Bob Noorda e Vanni Scheiwiller, Libri Scheiwiller, 1990.
5. Estratto senza indicazone di data (presumibilmente 1964-65) di
“L’ufficio moderno. La pubblicità”, con un testo di Arrigo Castellani su Bob Noorda, pagine totali 10.
6. Geno Pampaloni, critico e scrittore, aveva lavorato per le Edizioni di Comunità e aveva diretto con N. Gallo, D. Isella e V. Sereni la
rivista “Questo e altro”, pubblicata a Milano tra 1962 e il 1964 presso l’editore Lampugnani Nigri. Per le stesse edizioni Noorda aveva
progettato la grafica per la rivista di filosofia e di cultura “aut aut”,
diretta da Enzo Paci.
7. Arrigo Castellani, opera citata.
8. Si veda sulla dimensione conoscitiva e progettante della mano,
dell’occhio e del segno il bel volume di Giuseppe Di Napoli, Disegnare e conoscere, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 2004.
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105
Le pene della metropolitana
È in corso da qualche anno un lavoro di
“manutenzione straordinaria” della linea 1
della Metropolitana Milanese. Non si tratta solo di adeguamenti a norme e necessità
tecniche. In alcune stazioni (Duomo, Cadorna) è stato avviato un vero e proprio restyling, un progetto di ristrutturazione che
interessa tutti gli elementi di architettura
degli interni, gli arredi, i supporti di servizio e il sistema segnaletico.
Muove da intenzionalità diametralmente
opposte al progetto di Albini, Helg, Noorda. È il segno dei tempi, dove i luoghi pubblici di attesa e gestione dei flussi (aeroporti, grandi stazioni) oltre a rispondere agli obiettivi funzionali, diventano luogo di
incontro, intrattenimento e consumo. C’è
un grande desiderio di adeguamento ai
nuovi standard, che vedono nel modello da
‘centro commerciale’, e non di funzionalità
al movimento individuale, la ragione dei
progetti di trasporto urbano metropolitano.
E allora bisogna rifuggire dalla spirituale
ombrosità delle sotteranee e ci si deve affrancare alla luce ‘eterna’, anche se totalmente artificiale. Ma tutto ciò è un processo complesso, che il muro di una austera e
ferma ‘resistenza’ alle ragioni del progetto
originale non riuscirà mai a fermare, o almeno a sospendere e riportare su un binario di contrattazione. La difesa del moderno è già un problema lontano, in una società dove i valori dell’antico sono sotto le
scarpe di un marketing ‘schiacciasassi’ e di
un pulviscolo commerciale interstiziale e
a-culturale.
E purtroppo poco servono le anticipatorie
osservazioni di Pier Carlo Santini sul numero quattro della rivista di grafica “Pagina”, [nota 1] vero baluardo di una centralità
del progetto comunicativo degli anni Sessanta, ma anche algida epifania di questo
atteso protagonismo. Le ragioni per la presentazione sulla rivista del progetto di sistema segnaletico di Noorda sono
“l’eccezionalità, almeno per l’Italia,
dell’intervento di uno specialista in una
materia che poteva essere affidata alle responsabilità di un qualsiasi ufficio tecnico,
con conseguenze per il risultato estetico e
funzionale facilmente prevedibili”. E in effetti, gli ultimi sostanziosi interventi, non
sono altro che il virulento assalto a quel
modello autorevole, molto lombardo, laico
e coinvolgente (i milanesi hanno partecipato direttamente al sostegno economico
dell’opera), austero e pragmatico. Gli architetti Albini e Helg, con Noorda hanno
solo dato un volto perfetto a questa razionalità collettiva, una delle poche figurazioni positive del progresso, della maturità capitalistica.
L’efficienza per una mobilità di massa governata da una austerità benedettina. È questa la forza del progetto sistematico di ar-
redo e segnaletica della metropolitana milanese. Oggi tutto ciò è lontano mille miglia, e anche in tutti questi anni di crescita
e di gestione del sistema di mobilità metropolitana le contaminazioni, le ma-nomissioni, le mortificazioni di questo modello
sono state all’ordine del giorno. Ma la forza di un progetto profondo ha preservato in
parte gli statuti originari. Certo Santini vedeva con lungimiranza le debolezze del sistema del progetto italico e allertava: “C’è
da augurarsi solo che la realizzazione rispetti fedelmente il progetto originario,
senza che considerazioni estrinseche intervengano a consigliare varianti e modifiche”. È questa miopia delle pratiche di tutti i giorni, la fedele compagna degli attuali
progetti di restyling, dell’alterazione della
‘notte col giorno’, delle patinature e delle
bianche pavimentazioni, dell’indistinto dei
consumi contro la riservatezza del progetto, tutta fede funzionale e raziocinante. E
quanto sono piccole, ma devastanti, queste
nuove procedure. In esse c’è solo la preoccupazione del momento, il sollievo per le
finte garanzie della sicurezza, la luce che
allontana i ladri, le terre di mezzo
dell’indistinto. No, non c’è l’utopia alternativa e folgorante che prefigura Enrico Filippini, letterato e mitico redattore della
Feltrinelli, in uno scritto di presentazione
della nuova metropolitana su “Domus”, nel
1966, che di seguito pubblichiamo integralmente. Si, perché solo il bianco lucido
e riflettente e non tutta d’oro o tutta mare,
o tutta parco?
Ecco giustificato l’imbarazzante ‘burocratismo’ nelle risposte dell’atm, azienda municipalizzata dei trasporti di Milano, e della
mm, la Metropolitana Milanese, alle sollecitazioni preoccupate di Italia Nostra e della
cultura milanese. Queste preoccupazioni sono state stigmatizzate in una proficua riunione con Bob Noorda organizzata dal Centro di Studi Grafici, nella figura del presidente, Massimo Dradi, che si è fatto artefice
di un utile coinvolgimento di Italia Nostra,
rappresentata dalla storica del design Anty
Pansera, dell’università, rappresentata da
Giovanni Baule, direttore del corso di laurea
in comunicazione della Facoltà del Design,
e dell’Aiap, rappresentata da chi scrive. Certo il baluardo di una difesa tout court delle
ragioni del progetto originario sono forse una lotta donchisciottesca, ma la concreta
mobilitazione verso il riappropriarsi di una
qualità estetica nella gestione della cosa
pubblica, in anni in cui si parla estesamente
di capitale umano e culturale, è un atto dovuto in una società dove la coscia di un calciatore conta di più del made in Italy, che andiamo da anni sbandierando come valore del
‘sistema paese’. M.P.
NOTE
1. Studi per la segnaletica della Metropolitana Milanese, a cura di P.C.S. (Pier Carlo Santini), in “Pagina”, numero 4, gennaio 1964, Editoriale Metro SpA,
Milano, pagine 4-13.
1. Bozzetto originale a tempera per il marchio
della Metropolitana Milanese, fronte e verso, che
reca i segni di una precedente incollatura e il
timbro dello studio in Foro Bonaparte.
2. Foto dell’attuale uso scoordinato degli elementi
per la segnaletica della Metropolitana Milanese.
La commistione di segnali è solo il dato più
evidente della manomissione del sistema.
Sotto, il disegno originale delle frecce che sono
inscritte in cerchi, una forma geometrica che
permette di far ruotare la figura interna
garantendone sempre la leggibilità. Questa
soluzione aveva una precedente esemplificazione
nella segnaletica dell’aeroporto di Londra.
1.
Perché non le belve?
ENRICO FILIPPINI
Questa proposizione semplice: “La metropolitana è bella” dice incontestabilmente la verità? Certo, vero è
che la proposizione che asserisce il contrario, “La metropolitana è brutta”, dice il falso (nell’orizzonte del
gusto attuale). La descrizione della metropolitana equivale dunque a una precisazione del significato
dell’aggettivo “bella”, che potrà essere fatta dal punto di vista della fruizione quotidiana (da parte di coloro
che, come il mio amico Balestrini, la usano ogni mattina per andare a lavorare), e dal punto di vista del mero
apprezzamento estetico, con le implicazioni che comporta. Dal primo punto di vista, ho un’esperienza
ridottissima: ieri pomeriggio sono sceso alla stazione Duomo dalla scaletta della Galleria, ho percorso il
passaggio che porta alla biglietteria (singolarmente sistemata in un’edicola), ho indugiato a guardare la cartina
del percorso, ho consumato un whisky nel bar disposto sulla destra (pochi signori seduti ai tavolini, intenti a
conversare, chissà come finiti lì) e poi, per una singolare distrazione, ho risalito la scaletta che porta al
marciapiede dal lato della piazza parallelo al Duomo. Duplice stupore: per aver così perfettamente rimosso le
mie intenzioni e per il fatto che la stazione della metropolitana è mirabilmente utilizzabile come
sottopassaggio, pavimentato di una morbida, silenziosa gomma, quando piove, tanto più che l’ingombro è
minimo. Allora sono ridisceso. Dunque: l’accesso è sottilmente antimonumentale; per esempio, quasi non si
vede; le targhe arancione propongono il nome della fermata in un grottesco di cui non saprei precisare la
natura ma che certo è uno dei più regolari che esistano; i passamano sono pure arancione, tracciano un
disegno molto esatto o finiscono con un’incurvatura da cui poi toccano terra, finiscono cioè dove devono
finire; lo zoccolo è di un marmo ruggine a chiazze cilestrine, su cui s’intona il caffé marcio dell’intonaco; la
distribuzione è perfettamente omogenea ai suoi scopi; ci sono pilastri e ci sono architravi; le scritte, sempre
su fondo arancio, sono in negativo e nello stesso carattere, e orientarsi è molto facile, anche perché ci sono
soltanto due possibilità; la cabina di controllo non si vede; il design dei cancelletti e delle barriere è
sommessamente elegante; il bar non ricordo di averlo visto… Dunque: ho acquistato un biglietto da 100 lire
per S. Babila, l’ho infilato nella macchinetta dal lato da convalidare, ho indugiato un istante sulla scala da
scegliere, ho deciso per quella di destra; sul marciapiede ho visto con un certo stupore che nella fossa
c’erano vere rotaie, una vera massicciata; è arrivato un convoglio arancione, carico di ragazze in piedi ma
senza contatti, ciascuna occupando proprio solo la sua dimensione d’ingombro; le porte si sono aperte, poi si
sono chiuse; il convoglio corre molto morbido; lungo la parete della galleria scavata dallo Scudo Milano, c’è
uno striscione giallo spento che sembra tracciato da un pittore americano… La stazione di S. Babila ha uno
zoccolo alto esattamente come quello della stazione Duomo, di un marmo di colore diverso, ma non molto,
l’intonaco del muro e del soffitto è verde marcio, il pavimento è di gomma, ci sono pilastri e ci sono
architravi… Il treno se ne va, si infila nella galleria, la stazione è grande e quasi vuota… Ho salito la scaletta
che porta in Corso Matteotti. Della stazione S. Babila si può dire pressappoco lo stesso di quello che si può
dire della stazione Duomo: la metropolitana è brutta? No, non è brutta. La metropolitana è bella? La
metropolitana è un servizio pubblico impaginato bene, con perfetta pulizia e con raffinato decoro. O è
un’isola, visto che è così silenziosa? O una chiesa, visto che l’atmosfera, forse per il silenzio, tira al sacro?
Oppure: la metropolitana è uno spazio sotterraneo organizzato; organizzato in modo da farsi dimenticare; la
mia esperienza con la metropolitana è una non-esperienza. Evidentemente l’organizzazione e il rivestimento
di questo spazio, l’intervento formativo, l’opzione grafica e cromatica, corrispondono a una concezione di
servizio pubblico: questo dev’essere non-traumatizzante, non-eccitante, non-galvanizzante, non-deprimente.
Un utente che vive al sesto piano, che alla mattina scende al piano terra, percorre il tragitto che lo separa
dalla stazione, scende a otto metri sotto terra, risale, va tetramente a lavorare a un ventesimo piano, rischia
comunque complessi conflitti tra il super-io e l’inconscio; il meglio è attenuare la coscienza dei dislivelli…
Evidentemente, una simile nozione del servizio pubblico riduce al minimo lo spazio espressivo; la riduzione
all’organizzazione comporta la rinuncia a un’effettiva formazione plastica e spaziale, la mortificazione della
frenesia costruttiva. La proposizione che dice: “La metropolitana è bella” è vera nella misura in cui questa
mortificazione è in grado di produrre qualche cosa che possa dirsi “attivamente bello”. Questo
atteggiamento, che, certo, non è entusiasmante, ha un vantaggio: ha dato i suoi frutti a Milano; a Milano, la
metropolitana è esotica perchè è sistemata sotto una città che della non-mortificazione presenta un
campionario orrendo e delirante; soltanto che in questo caso non si tratta tanto di consapevole
prevaricazione espressiva, quanto di inconscia e volgare proliferazione di mostri. Ma ciò contesta l’ideologia,
diciamo, filo-sociale, della metropolitana: poiché la metropolitana è esotica, sia pure nel suo tono di
sottoterra sommesso, è traumatizzante e forse nociva alla salute psico-somatica degli utenti… Trauma per
trauma: in una città così priva di sole, perché non fare una stazione tutta d’oro? in una città così remota dal
mare, perché non pareti-acquario? in una città così povera di alberi, perché non una stazione-foresta, perché
non le belve?...
Questo articolo di Filippini è tratto da “Domus” numero 438, 1966.
Ringraziamo l’Editoriale Domus per l’autorizzazione alla pubblicazione.
2.
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Progetto grafico 8, giugno 2007
Progetto grafico 8, giugno 2007
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Explanation graphics
NIGEL HOLMES E WORDLESS DIAGRAMS
LUIGI FARRAUTO intervista NIGEL HOLMES
Nigel Holmes ha esplorato un mondo. Un universo di immagini, parole e connessioni: c’è
chi lo definisce un pioniere, un maestro, un illuminato. Perché ha introdotto un linguaggio, perché ha portato innovazione: una nuova prospettiva attraverso la
quale osservare la realtà. Ha dato voce ai dati, occhi
ai numeri, ha reso le sfumature delle informazioni più
sfavillanti, con l’intento di renderle davvero comprensibili a tutti. Forse di questo mondo Nigel è un
demiurgo disincantato, che plasma la realtà per farla
più chiara ed esplicita: fatto sta che la maggior parte
dei lavori di information design che ci sono passati
sotto gli occhi negli ultimi anni sono opera sua. O
quantomeno gli devono qualcosa.
Da più di vent’anni Nigel Holmes ha fatto della ‘spiegazione’ un’arte. Un mestiere. Explanation graphic,
la chiama, da quando ha lasciato l’Inghilterra negli
anni Settanta per raggiungere la redazione del “Time”, negli Stati Uniti, e occuparsi attivamente di
mappe, diagrammi, tabelle.
Quel viaggio nel Nuovo Continente ha segnato la sua
storia, e un po’ quella di tutti. La complessità del sistema americano, le intricate vicende finanziarie, ambientali o sportive: Nigel Holmes iniziò a vederle in
chiave ironica e pittografica, con il chiaro intento di
aiutare i lettori a comprendere meglio questioni astratte come i numeri, spinose come le tematiche sociali, o complicate come le teorie scientifiche. Attraverso le immagini, con il confronto tra i dati, e con un
fine senso dell’umorismo che lo differenzia da qualunque altro designer prima di lui.
Dopo quel viaggio americano, niente più parve come
prima. Si iniziò a comprendere quanto fosse importante collegare sintatticamente testi e immagini. Le
testate giornalistiche e le redazioni si riempirono così delle forme degli eredi di Otto Neurath e Gerd
Arntz. Sulle pagine del “Time” fiorirono inediti diagrammi, illustrazioni, mappe: le informazioni ora avevano un peso e un colore, niente a che vedere con i
grigiori pallidi di prima. Fu la rivoluzione.
Qualcuno gridò allo scandalo, altri si scandalizzarono davvero, temendo che questa svolta pittografica
potesse segnare l’inizio della fine, tanto erano abituati
alle interpretazioni asettiche dei fatti. “Roba da fumettisti” commentarono i duri e puri; “roba da schierati” gridarono i più conservatori; “disegni poco seri”borbottarono i più invidiosi.
Nel giro di trent’anni niente è sfuggito all’ironia di Nigel Holmes. Dalle Alpi alle Piramidi, dalla Apple alla
46
2312
Sony, col tempo il suo linguaggio si è imposto, divenendo un paradigma. Un classico. Un punto di riferimento per i posteri, per niente indifferenti all’ardua
sentenza: cos’è? come funziona? perché? La risposta
di Nigel è sempre un qualcosa su cui chinare la fronte
e lo sguardo, un qualcosa che si ‘vede’, il cui senso salta all’occhio come in un disegno di Steinberg. Perché
“un’informazione è come l’aria, le persone devono assumerla senza rendersene conto”. Questa è la filosofia
del designer britannico. Dillo con le immagini, raccontami una storia, fammi capire il tuo punto di vista:
pane per i suoi denti.
Nigel Holmes, Wordless
Diagrams, Bloomsbury
Publishing, New
York/Londra 2005,
160 pagine,
10,5x16,0 cm,
euro 10,00.
<http://www.amazon.
com/WordlessDiagrams-NigelHolmes/dp/
B000MTEWO4>.
In questa pagina il libro
aperto: solo figure.
Oggi Nigel Holmes lavora per conto proprio, come designer free lance in un piccolo studio poco distante da
New York: la sua matita è a disposizione dei più svariati clienti, tutti accomunati dalla sola esigenza di sbrogliare la matassa dell’incomprensione, e sempre ‘alla
maniera di Holmes’. Ed è evidente come Nigel si diverta nello spiegare il funzionamento delle cose. Il suo
libro Wordless Diagrams racchiude un centinaio di tavole: sotto il vessillo dell’how to... sono svelati i meccanismi dei più bizzarri oggetti, movimenti, concetti.
Mettendoli a nudo in sequenza e con un ritmo, ecco che
il libro ci illustra esattamente come piegare una camicia, come effettuare un parcheggio, come dirigere
un’orchestra... e persino come fare un palloncino con i
chewing gum! Tutto senza usare parole, ma solo combinazioni visive, accostamenti di forme e colori, con la
narratività degna di un cantastorie.
Negli ultimi anni Nigel Holmes ha prodotto numerosi
libri, saggi, articoli; è intervenuto alle conferenze di
mezzo mondo, contribuendo col suo stile teatrale, fatto di esempi in presa diretta, performance live e quanto di più curioso si possa concepire per coinvolgere la
platea. Il design è anche questo: interazione. Il progettista deve muovere le sue pedine sul tavolo da gioco
per fare scacco matto su chi osserva, quantomeno sulla sua curiosità. Con la suspense, utilizzando anche per
la grafica le tecniche retoriche dei sofisti. Perché no.
Paul Mijksenaar, vecchio amico di Nigel, afferma che
un ottimo modo per creare aspettativa è il combinare
‘il tempo’ con ‘lo spazio’. “Sono in grado di affermare che i graphic designer non possiedono il senso del
dramma, difficilmente li potrai vedere in un teatro” ha
scritto il designer olandese in “Visual Functions”, sperando che questa narratività e drammaticità non siano solo un pregio della scrittura ma anche della grafica, come insegnatoci da El Lissitzky quasi cent’anni
fa. “Il libro nuovo esige uno scrittore nuovo”: il libro
bioscopico, l’elettrobiblioteca, sono sempre più attuali, contemporanei, consoni alla complessità dei nostri giorni.
Progetto grafico 14/15, giugno 2009
Nigel Holmes.
Progetto grafico 14/15, giugno 2009
2313
47
A New York da Nigel
Dopo aver comprato Wordless Diagrams, illuminato
come Saul sulla via di Damasco, ho scritto una mail a
Nigel, chiedendogli sfacciatamente: “How to... work
with you?” La risposta è arrivata col suo solito stile:
“Non posso offrirti un posto perché lavoro da solo, ma
se passi di qui di offro un pranzo!” Una magra consolazione, ma di certo l’occasione era ghiotta: un pranzo con un pioniere può valere come l’oro del Klondike. Dunque alla prima occasione ho tagliato in due
l’Atlantico con un volo di linea Klm, e unendo l’utile
al dilettevole mi sono presentato all’appuntamento
newyorkese assieme ad Andrea Novali. Due giovani
‘contadini nell’orto del graphic design’ pronti a incontrare un colosso.
New York, febbraio: nevicava sulla Fifth Avenue, il
freddo stringeva la pelle ma nell’aria c’era un’atmosfera
calda, quasi estiva. L’incontro era previsto per mezzogiorno, eravamo emozionati e sapevamo come riconoscere Nigel da un solo indizio: adora il blu. Visto il tempo era arduo affidarsi a un riconoscimento fisiognomico: eravamo tutti imbacuccati come spaventapasseri. Ma
tra il marasma della Central Station a un certo punto è emersa una figura buffa, per tre quarti vestita di blu: dagli occhiali alla giacca, alla borsa. Il suo abbigliamento
già comunicava qualcosa: “Sono io”.
Il pranzo si è consumato tra aragoste, vino bianco e
infiniti discorsi sulla politica, su progetti vecchi e
nuovi, su viaggi fatti e da fare, mentre Nigel improvvisava diagrammi sulla tovaglia di carta del ristorante lasciandoci divertiti: ci spiegava come l’anno solare fosse un susseguirsi ininterrotto di feste e ricorrenze e consumismo, da San Valentino passando per
Carnevale, San Patrick, Pasqua, l’Indipendence Day,
Ferragosto, Natale, e via dicendo.
Prima di salutarci ci siamo dati appuntamento in Italia, in un futuro che spero diventi presto presente.
E io, prima di lasciare il ristorante, da buon italiano
mi sono portato a casa un pezzo di tovaglia. Dopo
questo epico incontro, è nata un’intervista.
LUIGI FARRAUTO Peter Turchi afferma in un suo libro, Maps of the imagination, che chiedere di progettare una mappa sia come dire “raccontami una storia”. Grosso modo vale lo stesso per ogni diagramma,
mappa, o istruzione per l’uso. Sei d’accordo?
Sì, questo è il modo migliore per coinvolgere il lettore, e trattenere il suo interesse. C’è
NIGEL HOLMES
48
2314
sempre una storia da raccontare, il designer deve solo trovarla.
1
1. La creazione del pittogramma
raffigurante Michael Jackson
realizzato da Nigel Holmes per
l’articolo del “Time” intitolato
Michael Jackson: Pop Phenomenon,
del 19 marzo 1984.
Come tutte le storie, le mappe e le istruzioni sono tentativi di dare un senso al mondo. Ma ce n’è davvero bisogno?
L.F.
2. Illustrazioni per l’articolo del
“Time” intitolato A week at war
del 28 giugno 1982. Ispirandosi
all’illustrazione di Eugene Mihaesco
(a sinistra), Nigel Holmes ha
realizzato il pittogramma
(in basso a destra).
Il riferimento è alla guerra delle isole
Falkland, a cui il “Time” dedicò
ampio spazio.
Nel libro Designing pictorial symbols di
Nigel Holmes e Rose DeNeve
(Watson-Guptill Pubblications, New
York 1985), Nigel Holmes spiega che
l’ispirazione gli venne pensando
all’“immortalità di tutte le guerre”.
Dal quel libro sono tratte
le immagini di questa pagina.
N.H. Sì, nessuno comprende davvero il mondo (nonostante tutti dicano il contrario semplicemente perché
non vogliono ammetterlo). Dunque c’è molto da spiegare!
L.F. Il tuo lavoro consiste principalmente nel mostrare alle persone come funziona un sistema o come far
funzionare un oggetto. Dunque a volte la cosa più
complicata è... comprenderli tu stesso?
N.H. Sì, molti designer dicono che la ricerca e la com-
prensione di un meccanismo siano metà del lavoro.
Secondo me è più o meno il 90%. Questo è il motivo
per cui i miei disegni sono così semplici: non ho molto tempo! Di fatto per me disegnare è un po’ come
scrivere: piccoli moduli grafici che sono come lettere di un alfabeto, mescolate tra loro finché il significato di ciò che sto spiegando non è chiaro.
2.
L.F. Nella tua carriera hai probabilmente imparato a
usare qualunque cosa!
N.H. Se l’ho fatto, di sicuro ho già dimenticato tutto!
Mi ritengo una sorta di giornalista che riporta e spiega molte cose, piuttosto che un esperto in ognuna di
loro. La maggior parte delle volte, non appena finisco un lavoro, mi dimentico completamente i dettagli. Durante delle conversazioni sul debito pubblico
americano, a volte la gente si è rivolta a me pensando che io abbia competenze precise a riguardo, solo
perché ho disegnato un diagramma. Ma non ne ho.
Loro restano delusi. Anche io.
L.F. Secondo te qual è l’oggetto più difficile da usare? In base al suo manuale d’istruzione, intendo...
Senza dubbio programmare un vecchio videregistratore o qualunque altro apparecchio collegato al
televisore. Ho scherzato sopra i videoregistratori nel
mio libro, Wordless Diagrams. Grazie al cielo oggigiorno gli apparecchi simili sono molto più intuitivi da
usare, ma io li trovo, personalmente, ancora difficili.
Alcune cose che ho pensato di visualizzare senza parole si sono rivelate impossibili.
N.H.
Si può dire che ogni progetto di information design adotti un punto di vista parziale: il designer crea un
L.F.
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2315
49
1.
mondo e decide cosa inserirci, cosa lasciare fuori, quali idee trasmettere... sei d’accordo? Pensi che un diagramma possa essere imparziale?
L.F. I numeri: una sfida interessante per ogni designer
è dare loro una visualizzazione adeguata. Un valido
strumento per rappresentarli è il confronto, l’analogia.
Nel giornalismo la regola imporrebbe di essere
imparziale, senza lasciar filtrare il proprio parere. Secondo me è un concetto superato, ora la gente vuole le
opinioni. A parte questo, la maggioranza dei processi
di editing impongono che solo un frammento di una
storia possa essere raccontata nello spazio assegnato
(e rispettando le scadenze). Nel mio caso, la maggior
parte dei miei lavori porta con sé anche le mie idee
sull’argomento. A volte in maniera molto sottile, altre
più ovvia, ma c’è sempre. Quando lavoravo alla redazione del “Time” i lettori adoravano questo mio approccio, ma nell’ambiente accademico mi si guardava male. Fortunatamente gli editori mi hanno sempre
appoggiato. Ho fatto dei lavori, in un periodo specifico della mia carriera al “Time” (’77-’90), che sarebbero impossibili da pubblicare oggigiorno. Il mondo è
diventato politicamente corretto, la gente ha paura di
affermare e sostenere un’idea troppo esplicitamente.
Credo che a fare innervosire la gente sia stata la mia
assunzione al “Time” come information designer: si
pensò che volessi aprire la strada delle vignette per la
statistica. Non ho mai capito perché le due cose non
potessero essere combinate. Le informazioni interpretate con anche l’aggiunta di immagini si presentano in
maniera più chiara, si aiutano i lettori a capire il significato dei numeri. È un percorso pericoloso da battere, ma ne vale la pena. Essere mite è noioso, e non
coinvolge il lettore indaffarato.
N.H. Il contesto è tutto. Mostrare un set di informazioni
sulle cifre di un anno racconta di quell’anno e di nessun altro. Sono cifre superiori o inferiori a quelle
dell’anno precedente? E rispetto a dieci anni prima?
Confrontando i numeri (o qualunque cosa) con un’idea
che il lettore possa già conoscere aiuta parecchio a capire. Quanto è grande la luna? Be’, posizionala
all’interno di una mappa dell’America e capirai chiaramente le sue dimensioni. Se il tuo lettore vivesse in
Oceania, mostragli la luna accanto all’Australia e il
gioco è fatto (e comunque gli Stati Uniti sono grosso
modo grandi quanto l’Australia, ma raramente li vediamo affiancati dato che sono opposti tra loro nel globo).
N.H.
Forse il problema della maggior parte dei grafi che
si vedono in giro è che non sono attraenti. Non chiedono di essere letti...
Quando ti ho incontrato a New York mi hai affascinato spiegandomi l’idea di un trilione...
L.F.
Qualche anno fa ho messo in piedi una sorta di
rappresentazione teatrale per spiegare, durante gli
spettacoli, la differenza tra un milione, un miliardo e
un trilione. Erano anche coinvolti attori che formavano diagrammi umani; il risultato finale ha mostrato la
differenza tra numeri molto grandi, ma in particolare
quella tra il miliardo e il trilione. Un miliardo di secondi fa, ad esempio, è circa 32 anni fa: il 1977. Ma
un trilione di secondi fa corrisponde a 32mila anni fa:
i tempi dell’uomo di Cromagnon, in cui dipingevamo
sulle pareti delle grotte di Chauvet.
N.H.
L.F.
N.H. Sono d’accordo sul fatto che molti grafi non siano disegnati in maniera attraente. Finché i designer
ricorderanno il loro ruolo principale – trasmettere
chiaramente un’idea – una grafica accattivante e ben
fatta può solo aiutare. Quando i software hanno permesso a chiunque di poter disegnare delle tabelle, ad
esempio, alcune testate ne hanno approfittato, e hanno smesso di coinvolgere nella loro progettazione specialisti in information design (soprattutto per i diagrammi di statistica). Era un po’ come dare un processore di testo in mano a una persona e aspettarsi che
scrivesse un romanzo. Gli strumenti di cui disponiamo
non scrivono romanzi, tanto quanto non producono
automaticamente diagrammi utili, attraenti o via dicendo. Chi usa uno strumento deve innanzitutto analizzare l’informazione e pensare a come mostrarla al
lettore.
50
2316
2.
L.F. Questo è ciò su cui hai lavorato nel Circo della Conoscenza. Che cosa è stato?
1. Illustrazione della teoria del
professor Dweck, contenuta nel
libro La nuova psicologia del successo,
basata sul presupposto che alcune
persone ritengono che il talento sia
la sola causa del loro successo, senza
alcuno sforzo.
Il grafico di Nigel Holmes
riassume questa teoria.
3. Questi disegni di Nigel Holmes
sono stati concepiti per essere
utilizzati in dimensioni ridotte.
I primi tre illustrano tecniche di
autoesame del seno, gli altri due
mastectomia e ricostruzione.
4. Illustrazione sportiva per la rivista
“Scorecard”. Il Tour de France:
tappe, altitudini, spostamenti.
2. Illustrazione di Nigel Holmes
per “Stanford Magazine”,
che mostra come funziona il sistema
‘rent-by-mail’ NetFlix.
James Truman, il direttore editoriale della Conde Nast, vide la mia performance teatrale negli anni
Novanta, e mi ha chiesto di riproporla per un suo simpatico progetto: un circo della conoscenza a New
York, alla maniera dei chataquas dei primi del XX secolo, che erano degli eventi radiofonico-cinematografici ante litteram, nei quali il pubblico poteva ascoltare poesia o musica, assistere a dimostrazioni
scientifiche, o a lezioni di qualunque tipo. L’evento pilota è andato molto bene, e il progetto di James sta per
essere implementato.
N.H.
3.
4.
Forse spostare l’information design sulla terza dimensione, con persone in carne e ossa, è la nuova strada
(assieme al web naturalmente) ora che la stampa pare
in declino.
Progetto grafico 14/15, giugno 2009
Progetto grafico 14/15, giugno 2009
2317
51
1.
2.
1. Illustrazione di Nigel Holmes
intitolata Come indossare un foulard
in stile europeo.
2. Grafico di Nigel Holmes
per l’Independent Budget Office,
raffigurante le previsioni della perdita
dei posti di lavoro a New York
nel 2009 a partire dalle cifre
del 2007-2008.
3. Grafico di Nigel Holmes che
riporta le statistiche sui cambiamenti
socio-economici della popolazione.
3.
52
2318
Progetto grafico 14/15, giugno 2009
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2319
53
Inversione di percezione
LA TIPOGRAFIA SUGGESTIVA DI MARIAN BANTJES
MARIANNA ROSSI intervista MARIAN BANTJES
La costa occidentale canadese è
verde e lussureggiante. Al largo
della Vancouver appartenente alla Columbia britannica c’è un’isola altrettanto verde
e altrettanto canadese dove spiagge e montagne convivono con palme e raramente vedono la neve. È qui che vive e lavora Marian Bantjes.
La sua arte viene troppo facilmente liquidata come decorativista. Del nuovo decorativismo Bantjes abbraccia certo alcune forme,
ma larga parte del suo lavoro nasce dalla
soddisfazione che si prova nel correre rischi,
nel costruire e nel decostruire. Un certo contemporaneo minimalismo e le linee pulite
del vettoriale incontrano lettere realizzate a
mano dalle forme e dalla sostanza organica,
fatte di zucchero, petali di fiori, materia che
si piega ai desideri del creatore che a sua volta riproduce, imponendo i propri dettami, le
regole e le matematiche intrinseche alla natura definendo un pattern sempre diverso.
Bantjes parla molto, impone il suo piglio
critico facendo trapelare che nel suo lavoro davvero poco è lasciato al caso ma molto è frutto di pazienza e attenzione certosina. Descrive il proprio lavoro come se stesse parlando di sé e del suo corpo. Il suo design è il suo body language.
Gli art director si rivolgono a lei consapevoli che nessun lavoro sarà mai uguale al precedente, che l’asse verrà spostato sempre un
po’ oltre e che le carte relative a quanto è comunemente percepito come ossessivo o armonico verranno di nuovo mischiate.
Bantjes va a spezzare il trait d’union tra decorativo e ornamentale nella ricerca della
congiunzione tra l’ornamentale e il modernismo. Senza temere di risultare blasfemi,
parte dello spirito di William Morris vive nel
suo lavoro, caricandosi di una certa suggestione estetica di carattere religioso rintracciabile nel modo in cui l’elemento tipografico (e di conseguenza il messaggio) incontra l’elemento decorativo e in cui vengono
triturati, e combinati tra loro, manoscritti illuministi, eccessi gotici, calligrafia islamica, codici e capolettera medievali.
Incontriamo e intervistiamo Marian Bantjes
in occasione della sei giorni di conferenze
144
1946
tipografiche TypeCon Letter Space svoltasi
a Seattle nello scorso agosto, conferenza
della quale ha curato immagine coordinata
e creato la mascotte, The Thing.
MARIANNA ROSSI Ero presente alla TypeCon di quest’anno e devo ammettere che è
stato molto interessante vedere come i partecipanti hanno risposto e amato il lavoro da
te realizzato per l’occasione. Il programma
stampato, le shopping bags e tutti gli altri
materiali cartacei e no. Tutti completamente concquistati dal fascino scintillante della
guida stampata per l’evento. Sembra proprio
che ti sia divertita a seguire questo progetto
che a te piace chiamare “The Thing” (La Cosa). Potresti dirci di più sul processo di realizzazione e cosa ti ha portato ad andare verso questa direzione?
MARIAN BANTJES Credo che al momento io
stia subendo molto il fascino della tipografia finto-tridimensionale.
L’idea originaria era quella di usare
qualsiasi font estrusa sulla quale sarei
riuscita a mettere le mani e usarle tutte insieme senza rispettare alcuna regola prospettica. Ne sarei uscita matta. Sapevo già
di voler creare qualcosa di simile a un
‘paesaggio isometrico’ anche se l’idea di
partenza non includeva nessuno dei loop
e degli elementi devorativi e curvilinei che
caratterizzano il mio stile e i lavori ai quali devo la mia fama. Gli organizzatori di
TypeCon erano un po’ nervosi riguardo
all’intero mio piano, così ho cercato una
sorta di compromesso inserendo i vecchi
elementi (loop, curve, volute e spirali)
nell’ambiente isometrico di mia nuova
creazione. Il risultato è bizzarro ma non
di difficile approccio. Credo si sia raggiunto un compromesso felice e interessante.
M. R. Il tuo lavoro ha chiare e forti componenti decorative ma ho l’impressione che
ad affascinare gli addetti al settore non sia
tanto l’elemento decorativo in sé, quanto
piuttosto la matematica (palese o nascosta)
che vi è dietro, l’aspetto più propriamente
lucido e concettuale. Mi verrebbe da dire
che tu stia cercando di spingere il recente
trend organico e decorativo verso nuovi lidi lontani.
Sì, ci sto provando. Sono molto interessata al modernismo anche se ad alcune
persone risulta difficile crederlo. Mi piace
mischiare diversi elementi tra loro. Sono
quasi del tutto disinteressata alla riproduzione pressoché pedissequa di forme appartenenti al passato.
M. B.
Leggo dalle tue note biografiche che
vivi su una piccola isola al largo di Vancouver (Columbia britannica). Molti designer di
successo solitamente vivono in grandi metropoli, circondati dal caos e da eventi che
scorrono veloci. Mi incuriosisce sapere come l’ambiente in cui vivi possa influenzare
i tuoi risulati, le tue dinamiche lavorative, il
tuo stile di vita e il modo in cui lavori.
M. R.
Stranamente non credo che lo influenzi, ma potrei anche sbagliarmi.
Il mio interesse per pattern e ornamenti è
precedente al mio trasferimento su quest’isola di almeno quindici anni. Ma
l’ambiente in cui vivo certo mi dà la possibilità di essere molto concentrata e di spendere gran parte del tempo sul mio lavoro.
Poche interruzioni, poche telefonate, nessuna riunione o scocciature varie. Lavoro
molto, sette giorni su sette, parecchie ore
al giorno, molte pause, parecchie concessioni. Vivo una vita relativamente libera
dallo stress. Occasionalmente visito grandi città come per ricaricare le pile e fare il
pieno di cultura, arte e vita movimentata.
Ma non potrei viverci. Troppo stress. Troppe distrazioni.
M. B.
Come è avvenuto il passaggio dal tuo
passato di tipografa tradizionale allo sviluppo di uno stile illustrativo così innovativo e dal sapore così fortemente contemporaneo?
M. R.
Sto ancora cercando di capirlo. Sinceramente non credo che le mie conoscenze, le capacità tipografiche e le rigide strutture imparate durante gli anni spesi a settare lettere per la stampa influenzino positivamente il mio lavoro, né che la gente riesca a notarle. Cerco sempre di liberarmene e di contrastare passate abitudini. Ritengo di avere un lungo cammino davanti
prima che la mia tipografia sia pari alle
mie aspettative. Ho degli standard alti.
M. B.
Uno degli aspetti del tuo lavoro che
viene davvero apprezzato dai tuoi estima-
M. R.
Nella pagina accanto vector art per il poster
augurale per la festa di Halloween (2005)
stampato su carta trasparente e inviato
per posta all’interno di buste traslucide.
Progetto grafico 11, novembre 2007
Progetto grafico 11, novembre 2007
1947
145
In basso Douglas Gordon’s The Vanity of Allegory per Stefan Sagmeister.
Vector art e packaging per cartoline promozionali, 2005.
A sinistra cartolina per San Valentino (2006).
Penna a sfera e inchiostro rosso.
A destra vector art per uno dei sei tabelloni d’affissione (3,35x3,35 m)
realizzati in collaborazione con Stefan Sagmeister e che compongono
l’installazione 20 things in my life I have learned so far (Le venti cose
che ho imparato finora nella mia vita) in prossimità del Kunsthaus Bregenz
Museum di Bregenz (Austria).
I sei pannelli compongono la frase “Jömmara isch blöd. I söt eappas tua
odr’s vergessa” (Lamentarsi è da sciocchi. Agisci o altrimenti dimentica).
In basso ricamo su denim per lo stilista Alessandro
Tomassetti per una linea maschile a edizione
limitata ispirata a James Dean. Riprodotta è la frase
“Will You / Miss Me” (Ti mancherò) in diverse
combinazioni.
<http://www.shopallpurpose.com/>.
tori è il fatto che hai provato con successo
a spezzare alcune delle barriere che il computer – strumento che avrebbe dovuto rendere la progettazione grafica meno elitaria
e libera – ha creato generando noiose grafiche chiaramente condizionate dal digitale. Nel tuo lavoro sembra che il computer
sia davvero considerato uno strumento fra
i tanti (specialmente quando si tratta di
composizioni vettoriali), come una penna,
una matita o – nel tuo caso – petali di fiori
o granelli di zucchero. Cosa puoi dire ai nostri lettori relativamente al modo in cui per
ogni progetto arrivi a usare sempre uno
strumento o un materiale diverso? E quale
credi sia, alla fine, la principale differenza
tra l’approccio digitale o l’utilizzo di altri
materiali?
Come hai detto, per me il computer è
semplicemente uno strumento come gli altri. Non compongo al computer e non lascio che il computer influenzi le mie composizioni. Ogni concetto nasce a matita e
quando arriva il momento di mettersi di
fronte al computer ho, più o meno, l’intero
progetto sviluppato in mente.
Uso il vettoriale per qualsiasi cosa che dovrà essere riprodotta a grandi dimensioni,
che richiede curve pulite e perfette o che ricorre a forme ripetitive. Non essendo
un’amante delle sfumature digitali, utiliz-
M. B.
146
1948
zo matite e penne a sfera per ciò che richiede sfumature o per concept complessi
che non prevedono alcuna ripetizione. Ovviamente i lavori eseguiti al computer veicolano un’estetica del tutto diversa da
quella alla quale riconducono quelli eseguiti a mano. Al vettoriale, freddo e nitido,
si oppone il calore e l’irregolare del manuale.
M. R. Sono arrivata a conoscere il tuo nome
e quindi il tuo lavoro attraverso uno dei
progetti da te realizzati sotto la direzione
artistica di Sagmeister, ovvero la Douglas
Gordon Box per il Guggenheim Museum a
Berlino. Un packaging sensuale e decisamente contemporaneo. La visione che Sagmeister è riuscito ad affermare negli ultimi
anni sembra davvero compensarsi e armonizzarsi con il tuo stile. Come è stato lavorare con lui e cosa hai potuto imparare? C’è
stata una qualsiasi altra esperienza fatta con
clienti esterni che in qualche modo ha influenzato i tuoi progetti a venire?
Amo lavorare con Stefan (Sagmeister), amo la sua attitudine e la sua intelligenza. Mi piacerebbe collaborare in maniera più stretta a qualche altra cosa con
lui. Per i precedenti tre progetti è stato lui
ad assumere me e, al di fuori delle occasionali necessarie revisioni, non ha affatto
M. B.
messo mano al mio lavoro. Mi piacerebbe
poter lavorare a qualcosa di più profondamente collaborativo. Ciò che apprezzo di
lui è che sa bene come e quando dirigere un
progetto e ha molto rispetto del mio apporto al progetto stesso. Sarebbe interessante vedere cosa accadrebbe se entrambi
fossimo messi sullo stesso piano.
Da questo punto di vista ho fiducia in lui .
Non riesco a pensare ad alcun lavoro per
un cliente esterno che in qualche modo abbia influenzato i progetti successivi, eccezion fatta per una serie di cose che non rifarei. Stefan una volta mi confidò di aver
deciso di non voler più eseguire alcun progetto caratterizzato da lettere disegnate a
mano, proprio perché stanco di essere associato a questo suo elemento così fortemente distintivo. Così come per lui, ci sono
fasi del mio lavoro che ritengo ormai appartengano al passato e non credo di volervi tornare.
Nell’era della tipografia asettica e digitale, l’elemento lettera realizzato a mano
e suggestivo (e la relativa combinazione di
immagine e forma lettera) sembra essere
l’ultimo nuovo trend tipografico. Non che si
stia parlando di qualcosa di nuovo ma certo
apporta più anima, informalità e anticonvenzionalità al progetto, e pare essere proprio questo ciò di cui si ha maggiormente bi-
M. R.
Progetto grafico 11, novembre 2007
sogno a tutt’oggi. Specialmente perché le
possibilità e le combinazioni sono infinite.
Ti senti almeno un po’ parte di questo trend?
M. B. Sì, ovviamente ne faccio parte, ma non
coscientemente.
Come dichiarato dal titolo della tua
conferenza, Beautiful Ugliness (Bella bruttezza), sembra che il tuo design viva in e di
questo ossimoro. Grazioso ed elegante ma
al contempo raccapricciante e inquietante.
Hai mai l’impressione che uno di questi aspetti voglia prendere il sopravvento
sull’altro? Provi a esercitare un qualche
controllo o lasci che le cose seguano il loro
corso?
M. R.
M. B. Sì, c’è decisamente una tensione tra
questi due aspetti. Il bello è dominante, per
cui devo alzare il livello di bruttezza in modo tale che sia anch’esso in luce. Se è solo
piacevole mi annoio, se è solo sgraziato
nessuno lo apprezzerà.
I designer sono soliti parlare soprattutto dei propri successi ma credo altrettanto interessante analizzare i loro insuccessi. Pensi che ci sia un qualche progetto
troppo difficile per te, o che sia stato una
vera sfida, o del quale non sei soddisfatta,
o che avresti voluto si fosse evoluto in ma-
M. R.
Progetto grafico 11, novembre 2007
niera diversa?
La maggior parte dei designer diventano insofferenti verso quanto progettano
subito dopo averlo terminato. Ho provato
molta soddisfazione per alcuni anni ma sta
scemando. A mano a mano che divento più
impegnata, ho meno tempo per concentrarmi e ne risulta un lavoro stanco o poco originale. Quindi sì, anche io ho i miei limiti e
i miei difetti, ma dal momento che so da dove e quando vengono cerco di arginarli rifiutando in anticipo un certo tipo di lavoro.
I progetti che mi soddisfano di meno solitamente arrivano da clienti che richiedono da
parte mia cose specifiche. Raramente mi offrono – non volendo correre dei rischi – un
lavoro dal brief davvero aperto. Ma, quando accade, vengono ovviamente ricompensati con il meglio di cui sono capace.
M. B.
C’è un qualche settore del design (o
no) verso il quale vorresti spargere il tuo
verbo? Leggo che hai collaborato, ad esempio, con lo stilista Alessandro Tomassetti per alcune decorazioni della sua linea
denim.
segnano che arte e design sono due discipline distinte e differenti. Ciò nonostante,
ai designer di maggior fama e creatività
vanno riconosciute indubbie doti artistiche.
Come pensi di collocarti tra queste due
realtà?
Credo che a far di me un’artista sia il
fatto che – tutto sommato – mi dedico a ciò
che mi rende felice, ma fa di me una designer la tendenza a risolvere problemi progettuali concreti. Credo di tenermi in equilibrio sulla linea intermedia tra le due
realtà da te rimarcate.
M. B.
Parlando di educazione, hai raccolto
alcune esperienze come docente di design
e tipografia. Qual è la cosa principale che
ogni studente dovrebbe imparare? Nozioni, abilità, pensiero laterale?
M. R.
M. R.
Sì, ce ne sono molti. Moda, product
design, soprattutto architettura e, che tu ci
creda o no, scienza.
M. B.
M. R.
Nelle scuole di design solitamente in-
Circolano varie opinioni in merito e
designer diversi vengono da diverse esperienze educative, alcuni di loro sono anche
autodidatti, quindi è difficile dire cosa funzioni e cosa no, perché ci sono sempre casi
che confermano il contrario. Comunque sia,
dopo aver raccolto alcune esperienze al riguardo, dopo essermi confrontata con designer, insegnanti e studenti un po’ ovunque
nel Nord America, devo dire che
l’immagine che mi si è delineata è quella di
M. B.
1949
147
una generazione di studenti dal piglio troppo concettuale e dalle limitate capacità pratiche. Sono abbastanza tradizionalista e
credo sia necessario insegnare ai propri
studenti le regole e ‘la giusta maniera di fare le cose’ prima di sbrigliarli completamente.
Ho varie teorie al riguardo ma avremmo
bisogno di un libro!
Da designer donna, credi sia importante discutere il ruolo delle donne nel
campo del design dal momento che si tratta di un ambito ancora essenzialmente a
predominanza maschile? Credi che oggi le
donne abbiamo abbastanza visibilità in
questo campo?
M. R.
È una domanda difficile. Mia madre
negli anni Settanta era una vera femminista
e, come risposta a questo, pensavo che
l’uguaglianza fosse stata imposta e le donne non dovevano essere considerate casi a
sé stanti. Sfortunatamente, credo che la situazione negli ultimi vent’anni sia peggiorata e che le donne, se da una parte hanno
fatto delle conquiste grazie anche al contributo di persone come mia madre, dall’altra
sono diventate compiacenti e compiaciute.
La maggior parte degli studenti di design
sono ragazze, così come molti professionisti
del settore sono donne. Detto questo, non
c’è dubbio che le donne non abbiano sufficiente visibilità nei piani alti dell’élite del
design e agli occhi del pubblico della progettazione grafica. La maggior parte delle
donne ha un doppio ruolo da ricoprire: la
carriera e le esigenze della famiglia, ed è un
grande fardello da portare. Non ho una famiglia a cui dedicarmi, ma sono una delle
poche, raramente questo succede. Credo
che il mondo femminile abbia quindi bisogno di una spinta in più e che ci sia una certa tendenza a dimenticare le designer donne più importanti, ad esempio quando si è in
procinto di definire il programma di una
conferenza, eccetera. D’altra parte però mi
infastidirebbe pensare di aver concentrato
le attenzioni su di me più per il mio essere una donna che per la qualità e la natura del
mio lavoro, tanto meno mi sento un’icona
del design femminile.
M. B.
Ho avuto uno scambio di opinioni con
alcuni miei colleghi riguardo al ruolo che il
designer gioca nella società e su come a
volte, prima o poi, ognuno di noi abbia la
sensazione che il proprio lavoro possa essere ‘eticamente inutile’. Come soggetti
creativi, potremmo veramente usare i nostri strumenti per fare del mondo un posto
migliore ma, per qualche motivo, risulta
M. R.
148
1950
difficile rendere questo cambiamento effettivo. Hai mai provato questa sensazione?
Di aver l’effettivo bisogno nonché il desiderio di fare qualcosa in più per gli uomini
e il pianeta?
M. B. Sì, ho provato questa sensazione ma
credo si debba guardare al problema in maniera più ampia per capire cosa sia utile alla comunità. Ho l’impressione che la gente
sia convinta che, per essere effettivamente
utili alla collettività, debbano necessariamente salvare l’ambiente o i bambini che
soffrono la fame. Non voglio essere fraintesa al riguardo, ma penso che contribuire alla ‘fattura artistica’ dell’esistenza sia ugualmente utile. Così come vale altrettanto
la pena contribuire al progresso scientifico,
alla politica o a ogni altro settore che possa
rendere tutti noi esseri umani più consapevoli, empatici, completi. Le arti, nella cultura occidentale, vengono decisamente sottovalutate e sono felice che col mio lavoro io
riesca a far sì che le persone vedano le cose
con occhi nuovi, in maniera diversa, a influenzare il modo in cui pensano e creano
altre cose. Mi piace pensare che, in un futuro prossimo, il mio progetto migliore diventi un piccolo pezzo di storia che verrà osservato e – se sarò fortunata – analizzato
dalle generazioni a venire. Credo che questo sia tutto fuorché inutile o effimero.
Molte persone dovrebbero preoccuparsi
più della sporcizia (nell’accezione letterale e concettuale del termine) che producono e per cosa e per chi la stanno producendo. È necessario espandere e portare
l’antidoto a questo senso di colpa oltre ciò
che, tradizionalmente, viene pensato come
‘opera buona’.
Copertina a edizione limitata stampata in argento
e oro per la rivista inglese “Wallpaper” (2007).
Il tema è il futuro e, oltre a essere una
rielaborazione dell’iconografia della navicella
spaziale liberamente ispirata ai manoscritti del
passato, riproduce 18 buoni auspici per il futuro
da rintracciare nel groviglio di forme.
Disponibile su <http://www.wallpaper.com/news/
Limited_edition_cover/1339/>.
Nella pagina accanto vector art per il poster per
TypeCon, Seattle. Stampato in serigrafia su carta
brillante Shine Midnight Blue (Reich Papers), 2007.
Progetto grafico 11, novembre 2007
Progetto grafico 11, novembre 2007
1951
149
Dichiarazione di indipendenza
WERKPLAATS TYPOGRAFIE: UN’‘ALTRA’ SCUOLA
SILVIA SFLIGIOTTI
“Il WT [...] non è solo una scuola, è un sistema di convinzioni,
ma non troppo dogmatico, una famiglia, ma senza troppo amore, un corso master, ma senza troppa burocrazia, un laboratorio, ma senza troppo...
no, non direi lavoro, perché ce n’è in
abbondanza, ma... non so, rigidità autoritaria”.
maxine kopsa, Dutch Resource, 2006
Arrivo al Werkplaats Typografie di Arnhem
in una mattina ai primi di aprile. La visita
nasce dall’incontro, un anno fa, con Karel
Martens, il suo fondatore. Martens è un designer molto stimato e influente, ma ha
sempre mantenuto una posizione marginale rispetto al gòtha della grafica olandese.
Ci viene incontro alla stazione del treno e,
sotto una pioggia sottile, ci porta verso la
sede del WT, come viene spesso chiamato
per semplicità: un piccolo edificio degli anni Trenta, un tempo sede di una stazione radio, in quello che sembra un tranquillo
quartiere residenziale.
Nel corso dei suoi dieci anni scarsi di attività il WT si è costruito una reputazione di
nicchia: i primi segnali di notorietà sono
dovuti a un articolo pubblicato su “Emigre” nel 1998 da Stuart Bailey, il primo e
forse il più conosciuto allievo di questo laboratorio. In quel pezzo Bailey, lucido e
intelligente osservatore del graphic design e delle sue intersezioni con altre discipline, raccontava con entusiasmo il perio-
do durante il quale ha partecipato alla nascita del progetto.
Il testo che presenta ufficialmente la scuola nel 1997 afferma:
“Il Laboratorio di Tipografia è un luogo di ricerca e dialogo in cui i designer
tipografici si incontrano. Nel Laboratorio sono coinvolte anche persone che
possono contribuire al lavoro (e alla
sua discussione) da un’altra prospettiva. Nel Laboratorio gli incarichi concreti costituiscono il centro
dell’attività. Questi incarichi possono
dare vita a riflessioni sul significato
della tipografia nel contesto della pratica (tipo)grafica contemporanea”.
Non è che un punto di partenza: nel corso
degli anni, l’approccio critico e di ricerca
proclamato in queste righe è stato applicato anche alla scuola e al suo modello educativo, che è stato cambiato più volte. Qui
cercherò di raccontarlo come è ora, con
l’attuale gruppo di studenti e i quattro docenti fissi: Karel Martens e Armand Mevis,
che sono presenti un giorno alla settimana
per la supervisione dei progetti, Paul Elliman e Maxine Kopsa, a cui è affidato il ruolo di orientamento teorico della ricerca.
Entrando al WT non si ha l’impressione di
essere in una scuola: ogni studente – ma qui
si preferisce chiamarli partecipanti – ha un
suo spazio di lavoro: poco più di un tavolo,
una libreria, un pezzo di muro su cui fissa-
re appunti e idee. Non c’è un ambiente che
assomigli a un’aula dove si possa tenere una lezione tradizionale. C’è una biblioteca,
usata anche come sala da pranzo, e un paio
di piccoli uffici. La cucina, in fondo al corridoio, reca le tracce di un’intensa attività;
sul muro sono appesi i turni per la preparazione dei pranzi, la pulizia, la manutenzione della macchina del caffè.
ditoriale. A questo scopo, il programma
teorico è stato intensificato negli ultimi
cinque anni: mostre, convegni, visite alle
principali esposizioni di arte contemporanea fanno parte del piano di studio. Ogni
anno, in base ai fondi disponibili, sono invitati designer esterni a condurre seminari
di progettazione, o a fare da supervisori a
singoli progetti.
L’atmosfera è di grande concentrazione: i
più sono di fronte al computer, occupati su
un progetto. Qualcuno è in biblioteca, a discutere della propria tesi con Paul Elliman.
In cucina, Martens prepara il caffè e comincia a raccontare.
SILVIA SFLIGIOTTI Il WT ha un preciso tipo
di cliente: editori, gallerie d’arte, artisti, architetti, istituzioni culturali. È il risultato di
una scelta? Avete mai avuto incarichi da
clienti nel settore commerciale? Come si
crea il contatto tra scuola e clienti?
Il WT nasce nel 1997, quando l’Accademia
d’Arte di Arnhem chiede a Karel Martens
di creare un nuovo corso postlaurea di
graphic design. Martens aveva da poco abbandonato il suo incarico alla Jan van Eyck
Akademie di Maastricht, nella quale non aveva trovato lo spazio adeguato per mettere in pratica le sue idee sulla formazione nel
campo della grafica. Di queste idee Martens discuteva da tempo con Wigger Bierma e altri colleghi; la proposta
dell’Accademia di Arnhem è l’occasione
per realizzare concretamente, insieme a
Bierma, quanto era nato da queste riflessioni.
KAREL MARTENS Gli
La prima e più importante di esse è che tra
l’accademia e la professione sia necessario un momento di approfondimento durante il quale il designer possa lavorare su
progetti concreti con committenti reali: è
proprio da qui che viene il nome di Laboratorio di Tipografia. Allo stesso tempo, al
WT si ritiene indispensabile che un progettista sia in grado di elaborare contributi provenienti da altre discipline, e di adottare quando necessario un punto di vista e-
S. S. Dicevi che inizialmente i compensi ricevuti per questi lavori andavano in parte
alla scuola e in parte agli studenti. È ancora così?
incarichi che il WT riceve
arrivano
prevalentemente
dall’ambito culturale, perché anche noi ne
facciamo parte. Inoltre, molti di questi incarichi arrivano attraverso i contatti dei
docenti, che lavorano in gran parte per una committenza culturale. Abbiamo lavorato anche per il Governo, per la città di
Arnhem e per il quotidiano “Staatscourant”. Ma anche se i clienti appartengono
a un ambito culturale, questo non significa che i progetti siano assolutamente non
commerciali. “Oase”, la rivista che curiamo per il NAi, è in vendita e deve sopravvivere sul mercato.
3.
Non più: è diventato impossibile perché se gli studenti ricevessero un compenso ai fini fiscali sarebbero considerati dei
dipendenti. Quindi gli introiti dei lavori
commissionati vanno interamente alla
scuola e sono usati per finanziare viaggi e
K. M.
1. Alcuni degli ambienti di lavoro della scuola.
2. Nel corridoio uno spazio delimitato
accoglie i poster che annunciano le proiezioni
cinematografiche che si svolgono periodicamente
al WT. (Foto Mauro Carichini).
3. In Alphabetical Order è una pubblicazione sui
primi anni di attività del WT, curata e progettata
da Stuart Bailey. In copertina, una lavagna che
riporta una lista di parole usate durante la
discussione dei progetti al WT.
4. Play Play Play, opuscolo curato e progettato
da Toshimasa Kimura, presenta il WT attraverso
un piccolo dizionario dei termini e dei nomi
ricorrenti. 120x180 mm, 2006.
1.
150
1952
4.
2.
Progetto grafico 11, novembre 2007
Progetto grafico 11, novembre 2007
1953
151
per organizzare seminari e workshop.
Ogni anno il WT accetta un massimo di sette studenti, selezionati tra una cinquantina
di richieste dopo l’esame del portfolio e un
colloquio; il periodo di studio è di due anni, durante i quali i partecipanti hanno
l’opportunità di completare la formazione
e consolidare il proprio punto di vista. Il
gruppo che risulta dalle selezioni è internazionale, con una prevalenza di europei, ma
anche asiatici e nordamericani.
S. S. Come
5. In Dutch Resource
10 partecipanti al WT
presentano altrettanti
designer olandesi.
Il libro è composto
di 10 sezioni
autonome, in cui ogni
partecipante è autore
non solo del design
ma anche delle
immagini e dei testi.
2005.
7. Le prime quattro
copertine del “WT
Magazine”, progettate
da Karel Martens, Paul
Elliman, Armand Mevis
e David Bennewith.
2006-2007.
selezioni i nuovi studenti?
K. M. In accordo con gli altri docenti: Armand, Paul e Maxine.
S. S. Quali sono le qualità che cerchi nei par-
tecipanti?
K. M.
tato a partecipare al Festival di Chaumont
con una esposizione, ha risposto con una
controproposta: trasferire l’intera scuola a
Chaumont per sette settimane, e mettere in
mostra – a nudo – il laboratorio stesso, aprendo ai visitatori il capannone trasformato in sede provvisoria (da questa esperienza è nato il libro Dutch Resource).
L’anno precedente, quando sono stati chiamati a progettare una segnaletica per Venezia, hanno prodotto un’ipotesi di segnali audio e un film.
I partecipanti sono invitati a prendere un
ruolo attivo e consapevole, e molto spesso
si trovano ad andare oltre il ruolo di progettista, diventando curatori, autori, produttori dei contenuti. È chiaro che qui si
vuole formare un tipo specifico di designer:
propositivo, indipendente, sicuramente non
neutrale.
L’autenticità.
Da qualche anno il WT ha anche
un’attività editoriale. Come scegliete i progetti da pubblicare? Sono tutti iniziative degli studenti?
S. S.
S. S. Cerchi
persone che condividano i tuoi
interessi e punti di vista?
K. M.
Non in particolare.
Alcune delle pubblicazioni sono il risultato di un workshop. Due volte l’anno
pubblichiamo il “WT Reader”, che fa parte del programma di teoria. Invitiamo gli
studenti a realizzare libri a loro volta:
l’anno scorso uno studente (David Bennewith, n.d.r.) ha dato vita al “WT Magazine”, una pubblicazione saltuaria nella
quale i contenuti sono prodotti da studenti
e docenti, e che viene tirata in un numero
molto basso di copie.
K. M.
A distanza di dieci anni dal primo testo di
presentazione, ora al WT sottolineano
l’importanza della definizione di
un’identità:
“Il designer lavora in base a committenze e deve essere in sintonia con la
natura di un incarico. Deve avere un
rapporto solido non solo con l’incarico
ma anche con il cliente e il suo pubblico. La sfida è tradurre queste richieste
esterne in termini di identità artistica
personale. Questa identità è determinata dalla posizione che il designer adotta nei confronti del mondo – degli
sviluppi sociali, politici e tecnologici
che avvengono nella società contemporanea. Il WT consente ai partecipanti di sviluppare la propria identità e
di acquisire le conoscenze, abilità ed esperienze per realizzare le proprie ambizioni personali.
Lo scopo del WT è di educare studenti di talento perché divengano designer
competenti e altamente qualificati con
un’attività indipendente. Studiare al
WT significa imparare tramite
l’esperienza e richiede un alto livello
di motivazione personale e di responsabilità da parte di ogni partecipante”.
8. Invito per la mostra
conclusiva del WT
per l’anno 2005/2006.
I nomi dei partecipanti
sono realizzati tramite
un’unica lunga striscia
di carta piegata. Design
Sandra Kassenaar.
K. M. Certo, gli studenti copiano: ti scelgono come docente, e hai una grande influenza su di loro. Ma anch’io copiavo i miei insegnanti! Mi sembra naturale all’inizio,
purché a un certo punto si vada oltre. Cerco sempre di spingere gli studenti a trovare la loro strada.
6. Serie di francobolli
commissionati dalle
Poste olandesi,
realizzati utilizzando
opere di artisti
contemporanei,
locali e internazionali,
che dessero una
rappresentazione
inconsueta dei
Paesi Bassi. 2005.
Se si deve trovare un’impronta comune ai
progetti realizzati al Werkplaats, essa non
si limita all’influenza di Karel Martens e
di Armand Mevis. C’è grande attenzione
alla produzione, una preferenza per formati piccoli, poco invadenti, che sfruttano
al massimo il foglio di stampa: l’esempio
è il 17x24 cm scelto per “Oase”. La quadricromia è rara: prevale la stampa a uno o
due colori, e la tipografia, per non tradire
il nome della scuola, è sempre centrale, e
oscilla tra l’uso di una tavolozza misurata
È un programma molto ambizioso e severo, e difficile da mantenere. Ma le intenzioni, le energie, l’intensità sembrano esserci. I progetti vengono presi spesso come
sfide; quando nel 2005 il WT è stato invi152
1954
Progetto grafico 11, novembre 2007
S. S. Come fondatore di questa scuola, senti di avere una forte influenza sul lavoro dei
partecipanti?
Progetto grafico 11, novembre 2007
1955
153
9, 10. Dal 2004 ogni anno gli studenti
del WT progettano opuscoli per
presentare i laureati del Dutch Art
Institute, uno dei master dell’ArtEZ,
l’Accademia d’Arte di Arnhem. Locus
Sentio è una collaborazione tra
l’artista Julian Scaff e Sandra
Kassenaar del WT. Out of Mind and
Body è stato progettato da Velina
Stoykova per Jolanda Jansen.
2006-2007.
13. Poster di Velina Stoykova per la
proiezione di The Unbelievable Truth
di Hal Hartley.
14. Aya Nakata, due pagine dal progetto
di tesi, 2007.
11, 12. Copertina e pagine interne di
The Book and Other Books, realizzato
nella primavera del 2007. Copertina
di Guillaume Mojon e Karl Nawrot
e doppia pagina interna realizzata da
Aya Nakata.
9.
13.
(alla Martens) e alcune ben calcolate trasgressioni. Necessità è una parola chiave:
Wigger Bierma, co-fondatore del WT, amava apostrofare come “handbags” (borsette) i progetti che si perdono in dettagli
non necessari, che sfiorano il decorativo.
S. S. Vedi differenze tra il lavoro realizzato
dai partecipanti al WT – in termini di qualità e metodo – rispetto alle altre scuole? E
queste differenze, se ci sono, vengono dal
lavorare su progetti reali o hanno un’altra
origine?
Al WT c’è un certo approccio al design, che è sicuramente diverso da
quello di molte altre scuole. È difficile identificarne la ragione, ce ne sono diverse.
Alcune meno specifiche, come l’edificio in
cui lavoriamo o la cultura olandese del design, e altre più specifiche, come gli studenti e i docenti. Probabilmente comincia
tutto dai docenti, Karel Martens, io, Paul
Elliman e Maxine Kopsa (che non è una designer). Ognuno porta le proprie conoscenze e i propri interessi all’interno della
scuola, e siamo noi che selezioniamo gli
studenti. Gli studenti si ispirano a vicenda,
e ogni anno ne arriva un nuovo gruppo. Una buona miscela di studenti diversi, giovani o ‘vecchi’, professionisti e dilettanti,
tutto ha importanza per il lavoro che viene
fatto. Quindi molto dipende da chi ammettiamo ogni anno e dall’equilibrio che si
10.
11.
154
1956
ARMAND MEVIS
12.
Progetto grafico 11, novembre 2007
Progetto grafico 11, novembre 2007
14.
creerà alla fine. Credo che i progetti reali
abbiano un’importanza secondaria sul tipo di lavoro che realizzano. Certo, esercitano una maggiore pressione, perché sanno che alla fine verranno realizzati, e la
pressione è molto salutare, li stimola ad
andare un po’ oltre.
caratteristiche che identificano il proprio
modo di progettare e anche ai propri limiti.
Viene ulteriormente sottolineata la necessità di un alto livello di consapevolezza, e
gli studenti sono invitati a esaminare la professione come parte di un ambito culturale
e sociale più vasto.
Scott Ponik e Young-na Kim, due studenti
del primo anno, raccontano il progetto sul
quale lavorano al momento, nato da un seminario con i designer svizzeri Julia Born
e Lex Trüb: una riflessione partita
dall’analisi dei numerosi “libri sui libri”
che abbondano in Olanda, Svizzera e Germania, e sfociata nella realizzazione di The
Book and Other Books. È uno spartano tabloid stampato a un colore – lontanissimo
dai lussuosi cataloghi dei best books – in
cui ogni partecipante ha selezionato il suo
miglior libro del 2006 e ha trovato un modo per raccontarlo: quasi mai mostrandolo,
più spesso ripercorrendone la storia, analizzandone la forma, mettendolo in relazione con altri libri.
“[Questo] suggerisce uno spazio di indagine più rilassato – in cui teoria e
pratica, nello studio o nella classe, coesistono senza temere errori, irregolarità, esperimenti o piacere”.
La ricerca è quindi un motore importante
dello studio e del progetto qui al WT. Dal
2003 nel programma di studi è stata inserita la tesi, intesa non come dissertazione o
singolo progetto, ma come un insieme di
lavori di design e di testi che ruotano intorno all’area di ricerca che ogni studente ha
individuato, in base ai propri interessi, alle
paul elliman, Otherschools
Guardando i lavori prodotti al WT, non si è
sorpresi da una ricerca formale estrema; alcuni di essi sembrano molto semplici, quasi sottotono, altri rudi, grezzi, privi della
volontà di compiacere. Dedicandovi un po’
di attenzione, si può trovare consapevolezza, profondità di sguardo, qualche volta ironia o semplicemente leggerezza, e una
forma di tranquilla sicurezza che sembra
costituire un marchio di fabbrica. Non tutti incontreranno l’interesse generale, e potranno a volte sembrare autoreferenziali,
perché frutto di ricerche molto personali.
Nella loro semplicità, invitano a riflettere:
sappiamo sempre come e perché facciamo
questo mestiere?
1957
155
Georges Perec istruzioni per l’uso
“Letture” a cura di ALBERTO LECALDANO e GIANNI TROZZI
Georges Perec: come si legge un libro
Posizioni
... Gli occhi
La voce, le labbra
Si legge con gli occhi. Ciò che fanno gli occhi durante la lettura è di una tale complessità che supera, nello stesso tempo, e la mia competenza e il quadro di
questo articolo. Dalla vasta letteratura dedicata
all’argomento a partire dell’inizio del secolo (Yarbus,
Stark, ecc.), si può nondimeno trarre questa certezza
elementare, eppure fondamentale: gli occhi non leggono le lettere una dopo l’altra, né le righe una di seguito all’altra, ma procedono a scatti e poi si fermano, fissando ed esplorando nel medesimo istante
l’insieme del campo di lettura con caparbia intensità:
percorsi senza sosta punteggiati da fermate impercettibili, come se, per scoprire ciò che cerca, l’occhio
dovesse esplorare la pagina con un’agitazione intensa, non già regolarmente, alla maniera di un televisore (come questo termine: esplorazione, potrebbe lasciare intendere), bensì in una maniera aleatoria, disordinata, ripetitiva, o se lo si preferisce, poiché siamo in piena metafora, come un piccione becchettante per terra alla ricerca di briciole di pane. Si tratta di
un’immagine evidentemente
Il testo che vi proponiamo è tratto da: Georges
un pò sospetta, tuttavia mi
Perec, Pensare/classificare, traduzione di Sergio
Pautasso, Rizzoli, Milano 1989.
sembra caratteristica, e non eÈ una raccolta di articoli e il brano che noi
sito a trarne qualcosa che poabbiamo intitolato Georges Perec: come si legge un
trebbe servire da punto di parlibro è estratto da Leggere: schizzo socio-psicologico,
tenza per una teoria del testo:
apparso su “Esprit”, n. 453, gennaio 1976.
leggere è, innanzi tutto, estrarPensare/classificare è il titolo dell’ultimo testo
contenuto in questa raccolta in ordine sparso: il
re da un testo certi elementi siprimo paragrafo è D) Sommario, poi A) Metodi e N)
gnificativi, alcuni lacerti di
Domande dove Georges Perec scrive:
senso, qualche cosa come pa“Pensare/classificare
role chiave che si individuano,
Che cosa significa la barra di divisione?
che si confrontano, che si riChe cosa mi si domanda alla fine?
Se penso prima di classificare?
trovano. Prendendo coscienza
Se classifico prima di pensare?
che ci sono, sappiamo che siaCome classifico ciò che penso? Come penso
mo nel testo, che lo identifiquando voglio classificare?”
chiamo, che lo autentichiamo;
la parole chiave possono esseDi Georges Perec sono stati pubblicati in Italia:
– Le cose: una storia degli anni sessanta, Mondadori,
re solo parole (nei romanzi
Milano 1966;
gialli, per esempio; e più anco– Un uomo che dorme, Guanda, Milano 1980;
ra nelle produzioni erotiche o
– La vita istruzioni per l’uso , Rizzoli, Milano 1984;
presunte tali), ma possono an– Pensare/classificare, Rizzoli, Milano 1989;
che essere sonorità (rime), mo– Specie di spazi, Bollati Boringhieri, Torino 1989;
– Storia di un quadro, Rizzoli, Milano 1990;
di di impaginazione, giri di fra– Teatro, Bollati Boringhieri, Torino 1991;
se, particolarità tipografiche
– W. o il ricordo d’infanzia, Rizzoli, Milano 1991;
(poniamo, l’uso in corsivo de
– Sono nato, Bollati Boringhieri, Torino 1992;
certe parole nei troppi testi
– L’infra ordinario, Bollati Boringhieri, Torino 1994;
contemporanei di narrativa, di
– 53 giorni, Rizzoli, Milano 1996;
– Cantatrix soprana L. e altri scritti scientifici, Bollati
critica, o di critica- narrativa),
Boringhieri, Torino 1996;
addirittura intere sequenze
– Ellis Island: storie di erranza e di speranza,
narrative
Archinto, Milano 1996;
– Mi ricordo, Bollati Boringhieri, Torino 1998;
– Viaggio d’inverno, Robin, Roma 2001.
Muovere le labbra leggendo è considerato atto grossolano. Ci hanno insegnato a leggere facendoci leggere
ad alta voce; in seguito è stato necessario disimparare
quanto ci viene ora presentato come una cattiva abitudine, senza dubbio perché rivela troppo l’applicazione,
lo sforzo.
Ciò non impedisce tuttavia che i muscoli crico-aritenoidei e crico-tiroidei, tensori e costrittori delle corde
vocali e della glottide siano attivi mentre leggiamo.
La lettura è inseparabile dalle sue mimiche labiali e
dalle attività vocali (ci sono dei testi che dovrebbero
essere soltanto mormorati o sussurrati, altri invece bisognerebbe poterli urlare o scandire).
Le mani
Non solo i ciechi hanno difficoltà a leggere, anche i
monchi: non possono voltare le pagine.
Oggi le mani servono solo a voltare le pagine.
L’uniformità dei libri moderni, tutti rifilati, priva il lettore di due grandi piaceri: quello di tagliare le pagine
(se fossi Sterne, qui dovrei inserire tutto un capitolo dedicato alla gloria del tagliacarte: dal tagliacarte in cartone, dato in omaggio dai librai ogni volta che si comprava un libro, fino al tagliacarte in bambù, in pietra levigata, in acciaio, passando attraverso il tagliacarte a
forma di scimitarra [Tunisia, Algeria, Marocco], di
spada da torero [Spagna], di sciabola da samurai [Giappone], e a tutte quelle orribili cose rivestite di falso
cuoio che costituiscono con diversi oggetti dello stesso genere [forbici, portapenne, scatola per matite, calendario universale, promemoria, sottomano con carta asciugante incorporata, ecc.], insomma tutto ciò che
oggi si chiama un “completo da ufficio”); e l’altro, ancor più grande, di cominciare a leggere un libro senza
averne tagliato le pagine. Oggi ci ricordiamo (eppure
non è così lontano nel tempo) quando i volumi erano
piegati in modo che le pagine da tagliare si alternassero così: otto pagine di cui bisognava tagliare prima il
bordo superiore e poi, a due riprese, quello laterale. Le
prime otto potevano essere lette quasi per intero senza
tagliarle; delle altre otto era evidentemente possibile
leggere solo la prima e l’ultima e, sollevandole, la
quarta e la quinta. Ma niente di più. Nel testo permanevano delle lacune che riservavano sorprese e suscitavano attese.
La “posizionologia” della lettura è evidentemente troppo legata alle condizioni ambientali (che esaminerò fra
un momento) perché possa essere considerata da sola.
Eppure sarebbe una ricerca affascinante, legata in modo intrinseco a una sociologia del corpo, e c’è da stupirsi che nessun sociologo o antropologo si sia curato
di intraprenderla (a dispetto del progetto proposto da
Marcel Mauss che ho ricordato all’inizio dell’articolo).
In assenza di qualsiasi studio sistematico, non si può
che tentare un’elencazione sommaria:
leggere in piedi (è il modo migliore per consultare un
dizionario);
leggere seduto, ma ci sono tanti di quei modi di stare
seduto: con i piedi che toccano per terra o tenuti più in
alto della sedia, il corpo rovesciato all’indietro (poltrona, divano), con i gomiti appoggiati su un tavolo,
ecc.;
leggere sdraiato: supino, a pancia sotto, di lato, ecc.;
leggere in ginocchio (bambini che sfogliano un libro
di immagini; i giapponesi?);
leggere accosciato (Marcel Mauss: “La posizione accosciata è, a mio avviso, una posizione interessante
che può essere consentita a un bambino. Il più grosso
errore è di togliergliela. L’umanità intera, eccetto le
nostre società, l’ha conservata”);
leggere camminando. Si pensa subito al curato che
prende il fresco leggendo il breviario. Ma c’è anche il
turista a spasso per una città straniera con la pianta in
mano o che passa davanti ai quadri del museo leggendo la descrizione che forniscono le guide. Oppure
camminare per la campagna con un libro in mano leggendo ad alta voce. Ma mi sembra che sia sempre più
raro.
98
E d’altra parte non era forse il più oulipista tra quanti facevano parte di
quel gruppo: l’Oulipo appunto, Ouvroir de littérature potentielle?
Ma che cos’é l’Oulipo? Raymond Queneau che ne fu membro autorevole
ce lo descrive così: “Qual’é lo scopo dei nostri lavori? Proporre agli
scrittori nuove ‘strutture’, di natura matematica oppure inventare nuovi
procedimenti artificiali o meccanici, contribuendo all’attività letteraria:
supporti dell’ispirazione, per così dire, oppure, in un certo senso, un aiuto
alla creatività”.
L’Oulipo fu fondato a Parigi nel 1960 da François Le Lionnais
(matematico appassionato di letteratura) e Raymond Queneau (scrittore
appassionato di matematiche) e tra i dieci membri che lo componevano
annoverava Marcel Duchamp. Perec ne fece parte dal 1966, e ha
realizzato uno dei più complessi e difficili intenti del gruppo: quello della
lipogrammatica, ovvero l’arte di scrivere in prosa o in versi imponendosi
la regola di sopprimere una lettera dell’alfabeto; nel romanzo La
disparition (1967) è riuscito ad abolire la vocale e – ancora di maggiore
difficoltà nel francese – per tutte le 319 pagine che lo compongono. Nel
1972 con il romanzo Les revenentes è riuscito in una impresa ben più
difficile, quella di scrivere 127 pagine senza usare le vocali a, i, o, u,
dunque con la sola e.
Georges Perec é nato a Parigi nel 1936 ed é prematuramente scomparso
nel 1982 Cominciò la sua attività letteraria collaborando alle riviste “Les
Lettres Nouvelles”, “N.R.F.”, “Partisans”, “Cause commune”. Si dedicò
poi alla narrativa e alla scrittura di soggetti cinematografici. Saggista,
drammaturgo, poeta, traduttore fu anche un esperto – e non è certo un
caso – di enigmistica e cruciverba. G.T.
...
Momenti
Le letture possono essere classificate secondo il tempo che occupano. In questo caso i momenti della lettura sarebbero al primo posto. Si legge aspettando, dal
barbiere, dal dentista (lettura però distratta
dall’apprensione); facendo la coda davanti a un cinema; negli uffici (previdenza sociale, vaglia postali, oggetti smarriti, ecc.) aspettando che venga il vostro turno.
Quando presumono che l’attesa all’ingresso dello stadio o dell’Opera sarà lunga, i previdenti si portano una sedia a sdraio e un libro.
...
Progetto grafico 1, luglio 2003
Mi piace immaginare Georges Perec come un operaio affabile che si
aggira nel suo studio-officina vestito di una tuta da meccanico cosparsa
di caratteri tipografici, come un arlecchino costruttivista. Questa
immagine leggera corrisponde all’idea di un Perec scrittore-costruttore o
anche scrittore-attore-parodista più che a quella di uno scrittore-letterato
sia pure sperimentale e d’avanguardia. Il testo, dove Perec si serve
spesso di artifici tipografico-visuali, appare come il risultato di una
progettazione di ingegneria fantastica, una letteratura fattuale dove
l’evento è causato da una meccanica chapliniana che emana quelle
sensazioni di leggerezza sganciata da ogni referente di sapore letterario,
ad esempio quelle atmosfere malinconiche da suburbio parigino che si
respirano in alcune opere di Queneau.
99
A sinistra, il cruciverba che appare all’inizio del capitolo XXV, Altamont 2, del romanzo La
vita istruzioni per l’uso, Rizzoli, Milano 1989.
A destra, un gioco creato da Perec che ha alimentato con Jacques Bens la pagina dei giochi
di “Jeune Afrique” e “Jeune Afrique Économie” dal settembre 1981 al febbraio 1982.
I quadrati: 24 fiammiferi sono disposti come si vede. Dovete togliere sei fiammiferi e senza
modificare la posizione degli altri ottenere solo tre quadrati (la soluzione a pagina 184).
Progetto grafico 1, luglio 2003
Il corpo
Le letture possono essere classificate secondo le funzioni corporali:
Il nutrimento: Leggere mangiando (vedi più sopra). Aprire la posta, sfogliare il giornale durante la colazione.
La toilette: Leggere durante il bagno è considerato da
molti un piacere supremo. Tuttavia l’idea è spesso più
piacevole della realizzazione; la maggior parte delle
vasche da bagno si rivelano scomode e, a meno di essere dotati di un equipaggiamento speciale – porta-libro, cuscino mobile, asciugamano e rubinetti facilmente accessibili – e di far ricorso a precauzioni particolari, leggere in bagno non è più agevole, per esempio, che fumarvi una sigaretta: ecco un piccolo problema della vita quotidiana che i designers farebbero
bene a considerare.
I bisogni naturali: Luigi XIV dava udienza mentre era
sulla seggetta. A quell’epoca era normale. Le nostre società sono diventate molto più discrete (cfr. Le Fantôme
de la liberté [Il fantasma della libertà, L. Buñuel,
1974]). Il cesso rimane comunque un luogo privilegiato di lettura. Tra la pancia che si libera e il testo si instaura una relazione profonda, qualcosa come
un’intensa disponibilità, una ricettività amplificata, una
felicità di lettura: un incontro del viscerale e del sensibile...
Il sonno. Si legge molto prima di addormentarsi, spesso per addormentarsi e più ancora quando non si riesce
a prendere sonno. È un gran piacere, mentre vi trovate
in una casa dove siete stati invitati per un week-end,
scoprire dei libri che non avete ancora letto ma che avevate voglia di leggere, o libri conosciuti che però non
avevate riletto da tempo. Ne prendete una decina e ve
li portate in camera, poi leggete e rileggete fin quasi al
Perché Perec
Al di là del contenuto del testo scelto – Leggere schizzo socio-psicologico – che ci descrive la fruizione di un oggetto grafico per
eccellenza come il libro, l’opera di Georges Perec suscita un interesse più vivo per il metodo della sua scrittura, perché segue un
percorso progettuale molto prossimo a quello di un grafico. Ne La vita istruzioni per l’uso dall’organizzazione dei dati: testi,
immagini, tabelle, segni, elenchi che Perec fa nel cahier des charges – letteralmente quaderno di carico, ma nel senso di obblighi
da rispettare – si passa poi attraverso l’analisi, la comparazione sistematica delle varianti e la selezione ad una prima stesura nei
brouillons (brutte copie) fino alla stesura finale, mise au net; ogni capitolo del romanzo deriva così da un triplo avant-texte (pretesto) tra cui il foglio corrispondente del cahier des charges dove sono elencati i 42 elementi che devono figurare nel capitolo.
Ma Perec ci interessa anche per l’uso che fa nel suo progetto testuale di una varietà di materiali visivi; supporti e formati: carte
millimetrate, taccuini, quaderni, registri e fogli volanti; strumenti di scrittura: penne stilografiche, penne a sfera, matite, pastelli,
pennarelli, caratteri trasferibili, macchina da scrivere; colori: inchiostro nero, blu, rosso, verde, violetto, ocra; manipolazioni:
cancellature, ritagli,...
Scrive Georges Perec in Espèces d’espaces “... scrivere [...] delineare un piano, mettere delle grandi I e delle piccole a, fare degli
abbozzi, mettere una parola accanto all’altra [...] rileggere, cancellare, buttare, riscrivere [...] tentare di strappare a qualcosa che
avrà sempre l’aria di essere uno scarabocchiare inconsistente qualcosa che rassomiglierà ad un testo e arrivare, non arrivare,
sorridere (talvolta)”. G.T.
In questa foto: a
sinistra il volume
Portrait(s) de Georges
Perec, Bibliothèque
Nationale de France,
Parigi 2001; a destra
Cahiers des charges de
La Vie mode d’emploi,
Cnrs Editions - Zulma ,
Parigi - Cadeilhan 1993.
Nelle pagine, da sinistra
a destra, immagini del
lavoro preparatorio di
Perec per il romanzo
La Vie mode d’emploi:
cahier de charge del
capitolo LXVIII ; una
pagina del brouillon del
capitolo LI; trascrizione
e manoscritto originale
del cahier de charge del
capitolo LI.
Progetto grafico 1, luglio 2003
100
101
Progetto grafico 1, luglio 2003
LETTURE
La grafica tra le nuvole
LE LOCANDINE/PAGINE DI POESIAFESTIVAL DELL’UNIONE TERRE DI CASTELLI
PAOLO DONINI
Poesiafestival ’06
Si è svolto dal 28
settembre all’1 ottobre
2006. Era la seconda
edizione della
manifestazione
promossa dall’Unione
Terre di Castelli in
provincia di Modena:
Castelnuovo Rangone,
Castelvetro di Modena,
Savignano sul Panaro,
Spilamberto, Vignola.
Co-promotori:
il Comune di Maranello
e il Comune di Marano
sul Panaro.
Il progetto del Festival
è di Roberto Alperoli,
sindaco di Castelnuovo
Rangone.
La direzione è di Paola
Nava con la consulenza
di Alberto Bertoni.
Il progetto grafico e la
comunicazione sono di
Ada, Fabio Boni, con
Roberto Serio.
Tutti gli incontri di
Poesiafestival erano
gratuiti.
Poesiafestival ’07
La terza edizione
si svolgerà dal 27 al 30
settembre 2007.
Under 29 ’07
Anche quest’anno il
Festival organizza un
concorso di poesia per i
giovani dai 15 ai 29 anni.
Il bando si può scaricare
dal sito del Festival; le
poesie vanno
consegnate entro il 4
settembre 2007.
<www.poesiafestival.it>
[email protected]
Dal Programma ’06
“Ci siamo ritrovati in
diecimila, lo scorso
anno... ad ascoltare i
poeti e la poesia.
Ci siamo ritrovati nelle
piazze, lungo le ciclabili,
sui treni, nei teatri,
attorno a tavole
imbandite. Di giorno,
di sera, di notte.
Sotto un sole fraterno,
con un freddo cane...”
L’attenzione alla ‘comunicazione dell’evento’ è una
delle occupazioni preparatorie che ogni buon organizzatore culturale (e non solo) si trova ad affrontare
all’avvio di qualsiasi progetto. In questa fase, solitamente si lancia una ricerca di suggestioni, si confida in
varie infatuazioni che puntualmente dileguano rivelandosi deboli o sfasate circa titolo e immagine-guida,
più in generale riguardo a quel complesso coacervo di
emissioni segniche, semantiche ed estetiche, che costituiscono il visual della mostra, della rassegna o della
manifestazione e che, in un progetto riuscito, debbono
sintetizzare in un’‘immagine coerente e coordinata’
contenuti, informazioni, stile e senso proprio
dell’iniziativa. Può però accadere che le scelte comunicative e i materiali prodotti siano sin dall’inizio coinvolti nella sostanza stessa e nell’esito finale dell’azione
culturale. Vi è pertanto un momento in cui tutto è nelle mani di quella complessa figura professionale, allocata tra riflessione intellettuale e prassi creativa, tra sociologia, psicologia sociale e storia del visivo, tra visualità e linguaggio, tra comunicazione informativa e
trasmissione di saperi, che è il grafico. Tanto più il suo
ruolo risulterà determinante quanto più l’evento, la manifestazione, la rassegna sia di natura di per sé complessa, tendenzialmente ‘elitaria’, potenzialmente
confondibile in una marea di cloni e di analoghi in circolazione, alle sue prime edizioni e pertanto in cerca di
una identità immediata, riconoscibile, semplice e diretta, senza rinunciare a una qualche eleganza di stile,
quando ad esempio il suo oggetto sia tra i più intransigenti e recalcitranti a ogni riduzione o spettacolarizzazione, quando sia – per venire al nostro caso – la poesia.
All’Agenzia Ada di Modena, più in particolare al grafico Fabio Boni, con la collaborazione di Roberto Serio
per i testi, l’Unione Terre di Castelli in provincia di Modena (gloriosa unione tra i Comuni di Castelnuovo Rangone, Castelvetro, Maranello, Marano sul Panaro, Savignano, Spilamberto, Vignola) ha commissionato la
realizzazione del visual, logo e pacchetto grafico, da
porre a corredo di una apparentemente disperata impresa: quella di realizzare nei piccoli paesi della provincia
modenese – ben più noti per i salumi, i tortellini o cappelletti, lo zampone e il lambrusco – una grande kermesse di poesia portata dalla viva voce dei poeti nei teatri e nelle piazze, sfatando il luogo comune che vorrebbe la poesia trincerata nelle torri d’avorio del vezzo per
pochi, delle delibazioni per anacronisti, delle fisime per
spiriti labirintici. Impresa del resto riuscita, come dichiarano gli organizzatori entusiasti delle oltre 15.000
presenze nella seconda edizione (autunno 2006).
Dunque si trattava di ideare un’immagine diretta per
136
1698
un oggetto quanto mai sfaccettato e rifrangente, un logo e un coordinato chiaro e tuttavia capace di dare atto della complessità e della coralità di voci in campo;
si trattava poi di informare su luoghi, orari, eventi di una rassegna fitta d’appuntamenti, dislocati per di più
in cittadine geograficamente limitrofe ma pur sempre
gelosamente distinte l’una dall’altra e attente ciascuna
alla propria identità; e si trattava inoltre di corredare
l’ospite, il pubblico, di una minima documentazione a
memoria della rassegna, non essendo previsto un vero
e proprio catalogo della manifestazione. Si trattava
cioè di connotare abilmente l’evento, di comunicarne
l’informazione quanto più chiara e dettagliata, e a un
tempo di traghettare i valori ‘alti’ e fortemente interlocutori del suo oggetto, la poesia, così gravata
dall’obolo dell’impopolarità, creando attorno a essa
per alcuni intensi giorni un certo movimento
d’interesse.
Motore e mente del Festival il sindaco (e poeta egli
stesso) Roberto Alperoli, che da anni è andato trasformando la sua cittadina, Castelnuovo Rangone, in una
installazione a cielo aperto, con tabellazioni che recano poesie invece di divieti, e parchi letterari tra cui il
Parco Giovane Holden dove ci si imbatte nelle pagine
del capolavoro di Salinger realizzate ad altezza
d’uomo. Lo ‘stile Alperoli’ e il gusto del sindaco-poeta per la letterarizzazione dei luoghi urbani, deve avere largamente coinvolto il lavoro del grafico, e le scelte saranno certamente state esito di uno storming
d’équipe se, come vedremo, proprio la trasmutazione
dei borghi in luoghi letterari sarà l’esito finale
dell’operazione, in gran parte conseguito grazie ai materiali e alla grafica prodotti.
Diciamo subito che il grafico ha agito con grande intuizione e ha centrato numerosi obiettivi. Per primo la
felice riuscita della linea scelta, organizzata a partire
da una riduzione drastica della gamma cromatica, risolta nel bianco, blu e nero, e della morfologia formale, assegnata alla sola scrittura. Per arrivare poi al logo
del Poesiafestival che, anch’esso ritagliato con la stessa efficace sobrietà, è infatti il Poesiafestival, nel senso che è propriamente il costrutto Poesiafestival che
viene trattato graficamente in un gioco di ‘a capo’ che
trasforma la parola in logo.
Questo procedimento, tutt’altro che inedito, è in questo
caso assai colto e coerente. È colto perché agisce
dall’interno dell’oggetto da rappresentare graficamente, agganciandone le matrici culturali. L’oggetto è la
poesia, e il grafico ne coglie la visualità, opera in grafica rifacendosi all’intuizione forte, determinante, della
poesia visiva, cioè quella della visualità della scrittura,
Progetto grafico 10, giugno 2007
Progetto grafico 10, giugno 2007
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del carattere estetico del segno, e della possibilità di
continuo rilancio semantico insita nella combinazione
di lettere che formano una parola, la quale ne contiene
altre e via dicendo. È coerente perché coglie e incorpora nel logo quello che della poesia è il modo proprio di
procedere, vale a dire l’‘andare a capo’, tanto che la forma stessa del logo di Poesiafestival mima la forma-tipo, il profilo dentellato del componimento poetico,
quella che Magrelli definisce “la forma delle chiavi”.
In questa pagina alcune
immagini del Parco
che il Comune di
Castelnuovo Rangone
ha dedicato nel 1999
al romanzo Il giovane
Holden di J.D. Salinger.
Un piccolo spazio
verde di ritrovo
e di lettura, rivolto
agli adolescenti,
attrezzato con
panchine, tavoli
e con le riproduzioni
della copertina, della
prima e dell’ultima
pagina del volume.
È poco lontano dal
Parco John Lennon che,
realizzato nel 1985,
è stato il primo spazio
pubblico dedicato
in Italia al “poeta,
musicista, pacifista”
ex Beatles.
Ed ecco che la dizione Poesiafestival, pur rimanendo se
stessa grazie a una ben augurale polisemia ottenuta con
i dovuti ‘a capo’, contiene ed evidenzia sia la forma della poesia (a una lettura visiva) che quel sia festi val (a
una lettura semantica) che si può leggere anche come un
subliminale avvio all’insegna dell’essere (sia) della festa (festi) e del valore (val), con tutte le sinapsi avvaloranti che conseguono nel fulmineo cortocircuito
sguardo-mente. E qui la scelta grafica si ricollega a uno
dei tanti cuori di questa bella rassegna che prevede un evento espositivo legato appunto alla visualità della scrittura (dedicato quest’anno a uno dei cursori traccianti
della poesia e della sua promozione in festival nel nostro paese, vale a dire all’opera e alla figura di Gianni
Sassi). Da lì in poi, in piena coerenza, con la giusta semplicità di chi ha trovato la strada buona, il nostro grafico applica questa direttrice a 360 gradi all’interno
dell’immagine della rassegna, andando a costruire un logo che è elaborazione visiva del composto Poesiafestival e una serie indovinata di materiali derivanti da questo ragionamento: “Il tema del festival è la poesia,
l’oggetto della poesia è la parola, l’immagine della rassegna sia dunque la parola immessa in un circuito di piena, agiata visualità”. Tutto qui, si dirà, ma non è poco.
Ancora due inviti alla
lettura nelle iniziative
di Castelnuovo
Rangone. La prima è la
Collina delle Fiabe
arredata con sagome
disegnate da Emanuele
Luzzati di alcuni celebri
personaggi della
letteratura dell’infanzia:
Pinocchio, Cappuccetto
Rosso, Alice nel Paese
delle Meraviglie…
La seconda è la Strada
Jack Kerouac: un tratto
della pista ciclabile
Modena-Vignola
immersa nel verde.
Realizzata sul vecchio
percorso della ferrovia,
inaugurata nel 2000,
sulla Ciclabile Kerouac
il Comune ha collocato
alcune targhe che
riproducono testi tratti
dai romanzi dello
scrittore americano.
Dunque il primo obiettivo, che è quello di rappresentare l’oggetto da promuovere in base a quello che
l’oggetto ‘è’ nella sua essenza epistemologica, ci pare
centrato. Si trattava poi di rappresentare con massima
semplicità un evento complesso e corale. E il grafico,
proseguendo nella suggestione visuale della parola,
non ha fatto che utilizzare i cognomi dei poeti come intestazioni della locandina, ma attenzione, non di una
sola locandina. Infatti, il manifesto riepilogativo del festival promuove il logo e le date dell’evento, in un vasto e arioso campo bianco sgravato serenamente delle
informazioni minute, facendolo funzionare come sirena o faro che spinga il pubblico a dirigersi senza dettagli soverchi verso l’iniziativa e semmai ad approfondirla in un secondo momento, andando a leggersi la
brochure del programma (distribuita capillarmente nel
territorio) o a visitare il sito della rassegna. Ma accanto al manifesto-faro ecco che il grafico va a ideare una locandina in versione personalizzata per ogni poe138
1700
Progetto grafico 10, giugno 2007
Progetto grafico 10, giugno 2007
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ta ‘maggiore’ presente in rassegna. In ciascuna locandina viene inserito in testata il cognome del poeta,
scritto in blu, sospinto a tutta destra, a bandiera, e spezzato su due righe dall’‘a capo’ a toglierne ogni magniloquenza, per poi lasciare a centro campo, nel bianco,
una poesia in rigoroso nero tipografico, e nell’angolo
in basso a sinistra il logo del Festival.
Ora, questa locandina è il materiale più interessante del
corredo, pur completo di manifesto e brochure, materiali tuttavia convenzionali e standard. La locandina
personalizzata è invece un’intuizione di tutto rilievo, e
segue anch’essa la linea guida di produzione: sceglie
cioè di estrarre e di reimpiegare graficamente un elemento implicito all’oggetto da rappresentare, un suo
‘relata’, vale a dire, per la poesia, il concetto stesso di
‘pagina’.
Ed ecco che la specifica dei contenuti della rassegna,
l’indicazione dei singoli poeti e delle loro singole voci,
vengono traslate su un materiale fraterno e non casuale,
bensì proprio e consustanziale a quell’oggetto fragilissimo e intransigente che è la poesia, vengono cioè ospitati nella rappresentazione grafico-visiva di una ‘pagina’, a sua volta moltiplicata nella risultante visiva di una coralità di voci ben distinte. E lì i nomi dei poeti e i
loro versi si trovano ancora come a casa, a proprio agio,
in coerenza con la forma-tipo che li accoglie. La poesia,
offerta nella sua semplice ostensione tipografica, e il nome del poeta, a un tempo trasmesso e trasformato dall’‘a
capo’ in una accumulazione alfabetica che acconsente
al riconoscimento (maja-kovskij, anne-dda) ma anche a una fruizione gustosamente ottica, visiva.
Tra gli alberi, tra le
nuvole e nei portici
le locandine-pagine
di Poesiafestival ’06.
Chiediamoci dunque cosa sia esattamente questo supporto che non possiamo considerare una mera locandina informativa, essendo come si è detto la rappresentazione grafico-visiva di una pagina. Ebbene, questo oggetto a noi pare non sia classificabile in altro modo se non come un documento verbo-visuale che incorpora un microprogetto editoriale: il grafico si è trasformato nel produttore di un documento divulgativo
che non contiene una informazione, bensì ospita un nome – quello del poeta – liberandone la forza di irradiazione, il carisma onomastico, e accoglie un’opera, una
poesia, offrendola nella nudità funzionale dei caratteri neri, porgendo entrambi alla fruizione pubblica. Ci
troviamo cioè di fronte a un oggetto editoriale, inserito in un progetto correlato di micro pubblicazioni, ciascuna costituita da una sola pagina con una determinata tiratura, che prese però nell’insieme fanno
un’antologia come smembrata e sparsa in aria. Il grafico ha ideato una sorta di libro diffuso, un volume a
fogli mobili, fornendo alla poesia un modo di appari140
1702
Progetto grafico 10, giugno 2007
Progetto grafico 10, giugno 2007
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zione pubblica in cui la forma prescelta – la rappresentazione di una pagina – gioca un ruolo di ridefinizione sia del materiale comunicativo in materiale avvalorato dall’arte, sia dell’atto del leggere che, da reclino e appartato, si erige e si fa collettivo.
La traiettoria coerente di questo processo si è sviluppata nell’utilizzo e nella modalità di diffusione delle
locandine-pagine che ha finito col produrre una sorta
di ‘evento performativo’ in interazione con il pubblico. Infatti, oltre a essere distribuite attraverso i normali canali di affissione, dai muri alle vetrine, le locandine-pagine sono state letteralmente appese in faldoni
di una ventina d’esemplari ciascuno, sotto i portici –
caratteristici dell’architettura dei paesi emiliani – e il
pubblico e i passanti occasionali si sono trovati a passeggiare sotto questa sorta di filari gremiti di grappoli
poetici, sotto questa antologia pensile, alzando la testa
a leggere. La gente è stata spinta ad alzare lo sguardo
liberamente, a leggere guardando in aria, verso l’alto,
l’ossigeno, il cielo bianco, nero e blu della poesia, potendo poi staccare come un frutto le strofe predilette
per portarsene a casa un bel fascio, la dose nutriente di
confronto, di conforto e valore.
Tra le iniziative collaterali di Poesiafestival ’06 quelle dedicate a Gianni Sassi protagonista
della vita culturale italiana negli anni Settanta e Ottanta. Gianni Sassi è stato grafico, art
director, imprenditore culturale, editore e discografico. Ha creato le riviste “Alfabeta” e
“La gola”. Ha creato e diretto Milanopoesia (1983-1992), festival internazionale di poesia,
musica, video, performance, danza e teatro nato nel 1983 con il titolo Guerra alla Guerra.
Nei giorni di Poesiafestival ’06 è stata inaugurata a Castelvetro di Modena la mostra
“Omaggio a Gianni Sassi” e nel teatro di via Tasso è stato presentato Gianni Sassi nelle
immagini dello studio Azzurro.
Il sito <www.giannisassi.it> dal 2004 ne raccoglie le testimonianze e ne cura l’archivio
digitale. Da un’intervista a Jean-Jacques Lebel (agosto 2005, Parigi) pubblicata in quel sito:
“Ciao, Gianni! Il mio intervento si dovrebbe intitolare Elogio di Gianni Sassi perché era un
personaggio davvero unico. Ognuno di noi, almeno così spero, incontra nel corso della sua
esistenza, due o tre personaggi – non di più – fuori dal comune, fuori dimensioni, fuori
limite, fuori norma, fuori epoca, che ci obbligano a cambiare e a ridefinire il senso
dell’esistenza. Gianni Sassi, per me, fu uno di quelli. Per primo, mi ha fatto capire quanto
l’amicizia – così come l’amore – sia una fonte di energia fondamentale, e un motore
assolutamente necessario a quelli per cui vivere significa non solo sopravvivere, ma lottare
collettivamente per inventare modi alternativi di innovazione culturale e di trasformazione
sociale.
Sul numero 3, aprile 2006, di “Sugo” è stato pubblicato un bell’articolo su Gianni Sassi
scritto da Silvia Veroli, intitolato: In principio era la carne. Gianni Sassi o della cultura materiale.
Nella pagina accanto Poesia da mangiare 2006, di Giuliano Della Casa, riprodotta sulle
tovagliette diffuse nei ristoranti dell’Unione Terre di Castelli nel periodo del Festival.
142
1704
Questa modalità così libera e cordiale, che associa la
lettura alla ‘coltura’, sposta l’oggetto grafico da sotto
gli occhi, dove di solito si trova, a sopra la testa, nella
direzione di una elevazione dello sguardo, e sospinge
la frequentazione culturale a una vera e propria pratica di raccolta o di incetta di valori, di appropriazione
affettuosa e soddisfacente, offerta gratis a sazietà; ebbene questo esito indotto è un altro dei portati più che
riusciti del progetto comunicativo dell’evento che a
pieno titolo ne va conformando la sintassi e l’avventura
festosa. Qui l’intervento grafico ha saputo valicare il
limite dell’informazione e del marketing, pur garantendo ai messaggi la chiarezza, la completezza, la gradibilità e l’efficacia, per raggiungere il traguardo della consegna di senso, in una modalità di lettura libera
e – potremmo dire – in una macroinstallazione con esiti performativi coinvolgenti il pubblico, felicemente
istigato ad andarsene in giro letteralmente ‘con la testa
fra le nuvole’ (o meglio ‘fra le pagine’) come da sempre fanno i poeti che non a caso cadono nelle buche, in
profonde crepe terrestri, talvolta ci si ammazzano, ma
continuano a leggere e trascrivere lucidamente i segni
celati nelle cose.
Una modalità che ha coinvolto i portici, le strade e le
piazze dei borghi in una offerta di lettura della poesia
en plein air e di libera vendemmia e man bassa letteraria, laddove, se le locandine appese non sono che metafore di pagine, ebbene i portici non sono che brossuProgetto grafico 10, giugno 2007
Progetto grafico 10, giugno 2007
1705
143
Le edizioni Pulcinoelefante
UNA GIORNATA LUNGO LE RIVE DELL’ADDA
FABRIZIO M. ROSSI
“Un bel matto di editore il ‘Pulcinoelefante’. Da invidiare con
simpatia perché in fondo, sono parole
sue, è il panettiere degli editori: l’unico
che stampi in giornata”.
vanni scheiwiller, Edizioni Pulcinoelefante.
Catalogo generale 1982-2004, 2005
Dei luoghi e del limite
1.
2.
3.
168
1970
4.
Progetto grafico 11, novembre 2007
rosa, quasi religione dell’ospitalità; Alberto ha gli occhi di quell’azzurro lombardo. Il
limite, lo scoprirò nel corso di questa giornata, sta fra il sublimine (dei richiami, delle suggestioni, dei segni e degli aforismi sospesi) e il sublime (della materia, delle opere e dei gesti).
Delle opere e dei giorni, delle acque
e delle arie
Il limite (lìmen) è quello fisico tra la cintura posturbana (postumana) che stringe (che
è) Milano e una campagna insospettabile,
tra colline e vista Prealpi. Il luogo è Osnago, Brianza. Il treno che mi porta lì è uno di
quelli seri e utili – un milanoportagaribaldilecco – carico di pendolari e studenti: un treno debitamente torrido, con i cessi debitamente sbarrati, come si conviene in un paese di forzati dell’automobile e delle alte velocità. Ma Osnago è sul limite, come dicevo, e conserva prospettive di piccolo borgo
ottocentesco, già luogo di agricoltura e artigianato prima che di villeggiatura. Anche
il cielo è al limite dell’azzurro di Lombardia. Su questo limite sta – solido e leggero,
sognante e materico – il Pulcinoelefante [1],
la casa editrice di Alberto Casiraghy [2]: lo
incontro per la prima volta, ma la sensazione è subito quella di un’accoglienza gene-
Un libro in un giorno, quasi un libro al giorno da venticinque anni a oggi, per un totale
di circa settemila titoli; il ritmo editoriale
circadiano del Pulcinoelefante ha qualcosa
di Esiodo: il giorno e (è) la sua opera. Un
ritmo tranquillo e infaticabile, essenziale e
ampio come un fiume. A questo penso
mentre Alberto, l’editore ‘fornaio’ che offre libri come pane fresco di giornata, mi
accompagna a passeggiare lungo le rive
dell’Adda [3]. Abbiamo attraversato il fiume sul traghetto progettato da Leonardo da
Vinci più di cinque secoli fa, mosso soltanto dalla corrente dell’acqua e da una fune tirata tra le due rive [4]. E mi succede persino, in questi luoghi, di percepire una qualità dell’aria tutta leonardesca, una vaghezza atmosferica che dà adito ai sogni. Il fiume, il traghetto: metafore di un editore che
5.
6.
Progetto grafico 11, novembre 2007
procede in direzione ostinata (e contraria ai
flussi dell’editoria di mercato) per trasportarci (metaforèin) giorno per giorno verso
la libera felicità dell’invenzione continua e
del dono incondizionato: la felicità insensata e irrinunciabile degli atti d’amore.
Degli oggetti e delle idee
La casa editrice Pulcinoelefante è una vera
casa; il suo editore la abita. Ogni cosa – la
luce, gli oggetti, gli odori, i rumori del silenzio, le aperture prospettiche sull’orto e
la pergola, su capre e conigli – e l’insieme
definiscono la sua irripetibile poetica, la
sua arte del fare e dell’essere: le maschere
africane [5] e l’asino di un presepe napoletano, quasi a grandezza naturale [6]; gli
strumenti musicali (Alberto è stato un tempo liutaio e violinista, ma vive tuttora immerso nella musica) e gli oggetti trovati (e
riusati, reinterpretati); ovunque tracce evidenti di patafisica, la scienza delle soluzioni immaginarie immaginata da Jarry; cassetti ricolmi di piccoli legni xilografici, microsculture incise da Adriano Porazzi – un
migliaio di capolavori che arricchiscono
miriadi di titoli del Pulcinoelefante: un vascello con le vele spiegate è l’ultima opera
scolpita un anno fa dal maestro prima della sua morte, a novantacinque anni [7].
Del metallo prezioso, della carta
e delle parole
In mezzo a questo vortice silenzioso, nella
stanza appena prima della cucina-fucina, è
7.
1971
169
8.
9.
10.
la macchina tipografica [8]: una Nebiolo in
gran forma, sorvegliata dall’alto da Biancaneve [9]. Poi l’archivio di cassettiere piene di tipi in piombo (il Bodoni prediletto, il
Garamond e molti altri), il compositoio:
Alberto ha imparato l’arte tipografica da ragazzo e ora è compositore, stampatore e rilegatore, in perfetta solitudine. La carta dei
pulcinielefanti – perlopiù due fogli piegati, tagliati e cuciti a mano – è un tessuto di
cotone spesso e denso, di un chiarore naturale [10] come lo “stralusc” di cui parla
Mimmo Grasso (Grilli per la testa. Dalle
incisioni rupestri alle edizioni del Pulcinoelefante,
in
<http://www.archimagazine.com/rgrilli.ht
m>):
rismi, sono stralusc i segni [11], le sculture
o gli oggetti, suoi o di altri artisti, che la mano di Alberto dissemina nei pulcinielefanti, copia per copia per ognuno dei circa
trenta esemplari di cui si compone la tiratura dei suoi libri: anche questo è un limite
denso di significato.
nari, di Orengo.
Del ritorno
“In italiano sarebbe, bellissimo, straluscio. Stralusc è lo strascico del lampo, cioè ciò che rimane dopo la luce del
lampo, cioè uno strascinare, uno strusciare, strappare, graffiare con le unghie. Non è l’illuminare ma
l’apparenza luminosa […]. I testi poetici di Casiraghy sono stralusc: brevi
aforismi annotati su un quaderno…”
Annotati ovunque, sparsi ovunque per tutta casa, e pubblicati non soltanto fra i titoli
del Pulcinoelefante ma anche in raccolte
come Dico molte bugie. Quando la verità
confonde (Cabila edizioni, 2007) o Quando. Novantanove aforismi quieti e inquieti
(Book editore, 2006): aforismi di cui Giuseppe Pontiggia ha detto che “paiono una
intersezione tra la leggerezza degli haiku, i
frammenti moderni degli antichi e le invenzioni dei surrealisti”. Ma, oltre agli afo170
1972
Della danza memoriale
L’Elefante ha una memoria formidabile,
il Pulcino è lieve. L’archivio dei settemila titoli è contenuto in una sola wunderkammer (per usare la definizione di
Giorgio Matticchio, nel catalogo citato),
la stanza da letto e dell’asinello napoletano: ‘metastanza’, perché basta avvicinarsi alle scansie dei libri per capire che ogni
titolo è una storia da raccontare che va oltre l’oggetto-libro, il dato testuale, i segni.
Alberto racconta, seguendo un suo filo
che lo porta a prendere questo o quel libro
fra le mani e a mostrarmelo [12] . È una
specie di danza della memoria che improvvisa, seguendo un’ispirazione segreta. Così percorriamo l’incontro con la poetessa Alda Merini, fonte di migliaia di
pubblicazioni, e poi presenze caleidoscopiche di pulcini esordienti e celebri elefanti: impossibile nominarli tutti, impossibile raccontarne tutte le storie. Una su
tutte, il pretesto di questo incontro (ma il
testo, cioè a dire il tessuto dell’incontro,
ha sopravanzato come sempre il pretesto):
la serie di ‘omaggi a Bodoni’, realizzata
da Casiraghy e presentata nel 2006 a Saluzzo, che comprende fra l’altro un inedito di Stendhal e testi della Merini, di Mu-
11.
12.
13.
Il ritorno è un distacco soltanto fisico da un
luogo dell’anima. A sera, dopo aver salutato il mio ospite sulla banchina ferroviaria,
penso a questa giornata e mi salta in mente,
da chissà quale nascondiglio della memoria,
il titolo di un’opera di Ippocrate, il fondatore greco dell’arte al cui giuramento sono tenuti tutti i medici: Le arie, le acque, i luoghi;
forse perché mi sento ‘curato’ da quest’incontro con la leggerezza del Pulcino e
con la memoria dell’Elefante (“Nei libri del
Pulcino e dell’Elefante non va cercato un
senso; tutto è racchiuso nel subliminare perché la leggerezza è dono di pochi”. R.C., catalogo citato), perché a cosa servono i libri
del Pulcinoelefante se non a guarire un po’?
O forse perché fortissimo è il sentire di essermi imbattuto in un autentico luogo, dove
acqua e aria – come ho cercato di raccontarvi – hanno una parte essenziale. E ora, lavorando a questa che non è una recensione né
un’intervista ma la descrizione sommaria di
un incontro fuori dall’ordinario, scopro queste parole di Alberto Casiraghy stampate
sempre nel bel catalogo del Pulcinoelefante
pubblicato da Scheiwiller:
“Le edizioni del Pulcinoelefante sono
nate nel 1982 in un pomeriggio ventoso. È proprio da questi refoli d’aria che
nasce la sua libertà d’intenti: gioco, ironia, poesia e soprattutto la gioia della manualità…”
Questa stampa è stata realizzata per la nostra rivista da Alberto Casiraghy. È una riproduzione
xilografica, incisa dal maestro Adriano Porazzi, del celebre rinoceronte di Albrecht Dürer [a pagina 177],
impressa da Casiraghy con un suo intervento pittorico. Ci sembra un buon augurio e un bell’emblema
per Progetto grafico. Grazie ad Alberto Casiraghy e alle edizioni Pulcinoelefante.
Le foto delle pagine 168-171 sono di Fabrizio M. Rossi.
È vero quel che scriveva Barthes: non la si
fa finita così facilmente con la civiltà della
Progetto grafico 11, novembre 2007
Progetto grafico 11, novembre 2007
1973
171
25 anni di Pulcinoelefante
Una scheda di Mirella Appiotti sulla “Stampa”, inserto “TTL” del 16 dicembre
’06, segnalava l’omaggio di Alberto Casiraghy, l’editore Pulcinoelefante,
al più grande tipografo editore italiano (Bodoni): una serie dei suoi celebri
libriccini composti con i caratteri bodoniani. In quei giorni chiudevamo il n. 9
(di questa rivista) con l’ampia sezione su Bodoni. Pensavamo da tempo
di dedicare qualche pagina di Pg al mitico editore del Pulcinoelefante per
ricordarlo ai nostri lettori. Ecco finalmente l’occasione.
La serie Omaggio a Bodoni è stata presentata a Saluzzo il 15 dicembre 2006.
Alcuni tra gli autori: Alda Merini [1], un inedito Stendhal [2],
Nico Orengo [3]. Acquerelli o disegni di Griotti, Mondino, Giletta.
1. Omaggio a G.B.
Bodoni. Aforisma
di Alda Merini.
4. La reincisione
di Adriano Porazzi
in Hommage a Gutenberg
(2006). Ad Adriano
Porazzi “re degli
xilografici” è dedicato
il volume Opere incise
per Pulcinoelefante, 1995.
5. Contiene 7 sogni,
omaggio a Pietro
Manzoni, gennaio 1995.
5. Due immagini da
Dove è nato il Pulcino,
disegni di Alberto
Casiraghy, gennaio 2002.
L’editore in una
intervista racconta:
“Il nome e il logo che
ne deriva nascono
dalla mia passione per
gli aforismi: ne ho scritti
tanti... quasi sempre
i miei aforismi sono
dedicati a piccoli animali
indifesi. Il pulcinoelefante
era un personaggio
di una raccolta per
bambini, e ho deciso
di farne il simbolo della
mia singolare attività
editoriale. È stata
una scelta dettata
dall’ispirazione, come
tutto ciò che faccio,
in modo leggero, senza
forzature”.
<http://www.monza
lacitta.it/culture/libri/
il-pulcinoelefante-dicasiraghy-piccoli-grandilibri-1934-122.html>.
Forti sono le emozioni guardando, sfogliando e leggendo i libri di
Pulcinoelefante.
La carta, il segno della pressione della stampa tipografica, gli inserimenti, in
ogni copia, di acquerelli, fotografie e sculture, il filo di cotone della cucitura,
cose curiose come una paillette argentata (proprio nell’omaggio di Alda Merini
a G.B. Bodoni) oppure un cordoncino rosso che lega, chiude e nasconde
le pagine di Alchimie (2004) con bellissimi disegni incisi su legno di Adriano
Porazzi. Lo stesso autore della reincisione su legno di bosso in Hommage
a Gutenberg (2006) [4].
I libri di Casiraghy sono ‘leggeri’ sembrano non prendersi sul serio.
“Nei libri del Pulcino e l’Elefante
non va cercato un senso;
tutto è racchiuso nel sublimare
perché la leggerezza è dono di pochi”.
R.C.
Ma a parte le sinestesie e le emozioni (che di emozione in emozione chissà
dove si va a finire), anche se in poche righe cerco di svolgere il ruolo che
a questa scheda è assegnato.
“Le edizioni Pulcinoelefante sono nate nel 1982 in un pomeriggio ventoso”.
Da allora 25 anni e settemila titoli che sono stati festeggiati a Osnago a metà
novembre ’07 con una mostra e un incontro con l’editore.
I libri sono tutti diversi, in tiratura limitata (poco più di 30 esemplari), stampati
su carta Hahnemuhle prodotta in Germania fin dal 1584, cuciti a mano; i testi
sono composti con caratteri Bodoni, più raramente Garamond. In tutti il
colophon con la tiratura e la data di edizione. Sono in formato 13,7x19,7 cm,
8 pagine compresa la copertina, ma scorrendo il catalogo si vedono anche altri
formati, manifesti e oggetti come l’omaggio a Pietro Manzoni Contiene sette
sogni, un barattolo del gennaio 1995 [5].
Centinaia di autori; tra gli altri Munari e Sottsas. Spicca per rilievo e per la
grande quantità di titoli Alda Merini. “Ad un certo punto – racconta Casiraghy –
nelle edizioni si affaccia Alda Merini, con la quale, negli ultimi quindici anni di
stretta conoscenza, di innumerevoli telefonate e di puntuali visite, nella sua casa
sui navigli milanesi ogni sabato mattina, sono nati novecento titoli illustrati da
oltre trecento artisti. Un mare di Merini come diceva l’indimenticabile Vanni
Scheiwiller, maestro di buoni consigli”. Vanni Scheiwiller (Milano 1934-1999),
l’erede delle edizioni All’insegna del Pesce d’oro e fondatore di Libri Scheiwiller.
Altro personaggio e altre mitiche edizioni di pregio delle quali sarebbe bello
presto occuparci in questa rivista: gli anni splendenti dell’editoria milanese.
Edizioni Pulcinoelefante. Catalogo generale 1982-2004 è stato pubblicato proprio
da Libri Scheiwiller, Milano 2005 [6]. A fine 2006 la Libri Scheiwiller è stata
rilevata dal gruppo editoriale Federico Motta editore – Sole 24 Ore.
2. Stendhal,
Chez M. Bodoni.
Nella stampa a secco
delle pagine interne si
legge: “Per fare il mio
dovere di viaggiatore
sono andato a trovare
Monsieur Bodoni, il
celebre tipografo. Sono
rimasto piacevolmente
stupito”.
Fine dello spazio. Chiuderei con tre citazioni pertinenti:
Marco Belpoliti: “...l’editore-artista Alberto Casiraghy è una contraddizione.
Ma a noi lettori piace così. Ci piace pensare che mentre dormiamo, nel cuore
della Brianza, c’è un mago che stampa con generosità libri inimitabili: li fa con
gesti che sono insieme di grande concentrazione e grande dissipazione. I suoi
libri vanno in giro per il mondo con parole e segni che una volta stampati
diventano unici. Nessuno potrà mai averli tutti. Non è favoloso?”
Alda Merini: “Nottetempo / il vecchio portò suo figlio / sul monte dell’elefante, /
ma lo salvò il Pulcino / perché dovevano nascere / i librini di Alberto”.
Eugenio Montale: “Ogni buon libro deve avere almeno un errore di stampa” [1].
A.L.
1. Non conoscevo questa massima rassicurante. Penso possa essere molto utile
a tutti i grafici lettori di Pg.
172
1974
Progetto grafico 11, novembre 2007
3. In alto la poesia di Nico Orengo
per Omaggio a Bodoni e l’acquerello
di Ugo Giletta che l’accompagna.
6. In alto due tavole di
Edizioni Pulcinoelefante.
Catalogo generale
1982-2004,
Libri Scheiwiller, Milano
2005. Formato 14,5x22
cm, 280 pagine con
tavole a colori.
In basso la copertina
e un particolare che
sottolinea l’accuratezza
nella complessa
redazione del catalogo:
più di venti anni di
edizioni e 5907 titoli.
Il catalogo è preceduto
da un’introduzione
di Alberto Casiraghy
e dalla nota
Cinquemilatrecento
quarantotto Pulcini di
Giorgio Manticchio che
ha curato la difficile
edizione.
Qualche anno fa era
stato pubblicato Edizioni
Pulcinoelefante. Catalogo
generale 1982-1996,
All’insegna del Pesce
d’oro, Milano 1997, a
cura di Vanni Scheiwiller.
Dal blog di Alberto Cane, grafico
ligure, <http://albertocane.blogspot.
com>, riportiamo un breve testo di
Ugo Gilletta, sulle tecniche utilizzate
nel fare l’acquerello: “...è stato
realizzato su carta e poi incollato sulla
pagina. I libri d’arte di Pulcinoelefante,
per chi non li conosce, sono
veramente delle edizioni di pregio
anche se la filosofia dell’editore
Alberto Casiraghy è quella di metterli
sul mercato a prezzi veramente
accessibili a tutti. In questo caso, io
ho utilizzato una carta per acquerello,
un buona carta di cotone sulla quale
ho stampato a getto di inchiostro
l’immagine di base e poi ogni
soggetto, 44 esemplari, è stato
personalizzato singolarmente con
i colori ad acquerello.
Non sempre a me succede così,
cioè di utilizzare la tecnica della
stampa digitale, qui l’ho ritenuto
opportuno per incidere i caratteri
bodoniani. In altre occasioni ho
sempre realizzato pezzi unici in
tirature di 33 o 44 esemplari da
incollare sulla pagina...”
Progetto grafico 11, novembre 2007
1975
173
Altrove3
Cartoneros no hay dineros
FRANCESCA LAZZARATO
Li chiamano cartoneros e, nell’Argentina
che a fatica va risollevandosi dalla
catastrofe economica, rappresentano
ormai un gruppo sociale vasto e ben
individuato, la cui esistenza ha
cominciato a diventare visibile verso la
fine degli anni ’90, quando la crisi era
ormai percettibile e il paese, come
cantava il leggendario rockero Andrés
Calamaro, da bizcochuelo andava
trasformandosi in gelatina.
Definiti recuperadores urbanos nel
linguaggio politicamente corretto delle
istituzioni, escono ogni notte a fare
incetta di cartoni e vecchi giornali
abbandonati per strada o nei cassonetti
della spazzatura, e poi li vendono a
intermediari (i cosiddetti galponeros) che
a loro volta li cedono a un ristretto
numero di imprese. Il giro d’affari è di
almeno 500 milioni di pesos argentini,
dei quali ai 430.000 cartoneros tocca ben
poco. I più fortunati sono quelli che
riescono ad associarsi in cooperative con
nomi come El Ceibo o Del Bajo Flores,
i più miseri, invece, sono i raccoglitori
solitari, che a volte i cartoni li usano
addirittura come casa.
Il fenomeno è così imponente che le
autorità della Grande Buenos Aires (dove
i cartoneros sono almeno quarantamila)
hanno creato un Programa de
Recuperadores Urbanos con un apposito
“registro professionale”, riservando ai
raccoglitori e alla loro merce un
convoglio ferroviario speciale, detto Tren
Blanco. E la presenza dei cartoneros è
ormai così significativa che nel maggio
scorso l’insopportabile Mirtha Legrand
(un’autentica icona della tv argentina),
ha dedicato loro un’intera trasmissione.
È su questo sfondo in cui si intrecciano
miseria, sfruttamento, burocrazia urbana
e perfino un’occasionale esposizione
mediatica, che nasce la partecipazione di
alcuni cartoneros in carne e ossa a un
progetto editoriale originalissimo e
provocatorio, capace di ricavare libri
dalla spazzatura.
Minuscola casa editrice che dispone di un
sito internet quanto mai vivace
(www.eloisacartonera.com.ar) e di una
sede che un tempo ospitava un negozio di
frutta e verdura, Eloisa Cartonera
pubblica piccoli volumi con le pagine
fotocopiate e le copertine realizzate con il
cartone acquistato direttamente dai
raccoglitori (il prezzo è di un dollaro e
90
cinquanta al chilo, contro gli abituali
trenta centesimi). E a confezionare le
tapas con taglierini, mascherine e colori
a tempera sono cinque
cartoneros, ovvero David,
Daniel, Alberto, Gastón e
Augusto che, si legge nel sito,
“dipingono e rilegano i libri,
tagliano cartone, fanno
complimenti alle ragazze e
mettono la cumbia a tutto
volume”.
Nulla di più lontano dalle
multinazionali del libro che
spadroneggiano anche in
Argentina, o dalle lussuose
librerie bonaerensi sopravvissute
alla crisi che per alcuni anni ha
decimato e messo in ginocchio il
mondo editoriale, oggi in lenta
ripresa. Eloisa Cartonera è
infatti il risultato della somma di
due fattori: il cosidetto nuevo
boom culturale, eccentrico ed
autarchico, fiorito sulle macerie
di una crisi che ha obbligato la
cultura argentina a dar fondo a
tutte le proprie energie creative,
sollecitate da una povertà di
mezzi senza precedenti,
e poi la capacità progettuale
e l’intelligenza sovvertitrice di
Javier Barilaro, artista e grafico,
e di Washington Cucurto (alias
Santiago Vega), scrittore e poeta
brillante e piuttosto noto che si
inscrive nella linea della più
audace avanguardia locale,
e racconta storie di immigrazione
e marginalità con un linguaggio
nuovo ed esplosivo, segnato
dalle voci della strada e dal suono della
cumbia.
3.
1.
4.
2.
5.
All’inizio del 2003 Cucurto e Barilaro
hanno cominciato a produrre volumi
confezionati da loro stessi a costo quasi
zero, con evidente preferenza per la
poesia, testi di autori latinoamericani e
tirature ovviamente basse. L’idea di
acquistare dai raccoglitori il cartone di
recupero e di usarlo per le copertine è
stata di Cucurto, e in questo modo la
nascente casa editrice ha acquisito una
fisionomia definitiva, per installarsi poi,
grazie al contributo di una terza socia
(Fernanda Laguna, artista e scrittrice)
nei trenta metri quadrati del negozio di
Guardia Vieja, dove a poco a poco il
‘montaggio’ dei libri è passato nelle mani
di alcuni ragazzi che hanno smesso di
Progetto grafico 4/5, febbraio 2005
1. Marcelo Cohen, Fossey, 2004.
2. Rubén H. Ríos, Restos del Cadillac,
2004.
3. Marcos Cesarsky, Mecelmar,
2004.
4. Haroldo de Campos, El ángel
izquierdo de la poesia, 2003.
5. Francisco Garamona, Una escuela
de la mente, 2004.
6. Gonzalo Millán, 5 poemas eróticos,
2003.
7. Mil Gotas, César Aira, 2003.
7.
6.
Progetto grafico 4/5, febbraio 2005
91
cartonear e che adesso ricevono un
salario per il loro lavoro.
8. Wáshington Elphidio Cucurto, La máquina de hacer paraguayitos, 2003.
9. Alejandro López, La asesina de lady di, 2003.
10. Arturo Carrera, Pizarrón, 2004.
11. Óscar Hahn, Imágenes nucleares, 2004.
12. Alfredo Villar, Dos Cuentos, 2004.
13. Ricardo Piglia, El pianista, 2003.
10.
11.
8.
In questo modo il progetto culturale di
Eloisa Cartonera ha assunto anche una
coloritura sociale: l’idea è quella di
trasformare il cartone, cioè qualcosa che
non vale niente, dandogli valore e
dandone anche a chi lo manipola,
un gruppo sociale ‘fantasma’, vasto
quanto silenzioso. “I cartoneros sono gli
attori simbolici dell’epoca” dice Javier
Barilaro. “Se durante il peronismo il
proletario è stato operaio industriale e nei
primi anni ’90 uomo di fatica del
supermercato, in seguito il
postmenemismo lo ha trasformato in
cartonero”. Eloisa, dunque, si propone
non solo di riciclare cartoni usati, ma
anche esseri umani.
nuovissime sollecitate anche
dall’istituzione di un premio
ironicamente chiamato Nuevo Sudaca
Border (sudaca è un termine
dispregiativo che sta per
“latinoamericano”).
L’ironia – come la brevità – è del resto la
linfa di una casa editrice dove si lavora
tra un via vai di gente, ascoltando
Il cartone viene selezionato con cura: si
sceglie quello pulito e integro, con le
scritte e i disegni più vivaci e colorati.
Poi si taglia la copertina e i ragazzi la
dipingono: “Il concetto artistico è che lo
facciano come piace a loro, non sono io a
decidere cosa è brutto o bello. Non sono
libri di cartone, sono libri cartoneros”
precisa Barilaro.
La casa editrice ha pubblicato oltre
sessanta titoli con tirature che vanno
dalle 20 alle cento copie, e il ricavato
delle vendite copre appena le spese
(acquisto del materiale, i 3 pesos all’ora
pagati ai lavoranti, l’elettricità).
In compenso Eloisa può contare su un
numero sempre crescente di ammiratori,
tanto da aver già due ‘gemelle’, una a
Rosario e un’altra che a Lima porta
avanti un progetto analogo chiamato
Sarita Cartonera, e da aver conquistato il
titolo di “evento culturale dell’anno”.
musica, bevendo birra e ostentando di
non prendersi sul serio: aperte parodie
del linguaggio usato dal marketing dei
grandi editori, un umorismo callejero e
un’allegra marginalità ribadita con un
pizzico di orgoglio sono l’ingrediente
principale del sito, del catalogo e delle
‘quarte’, e alla recente pubblicazione on
line di un romanzo a puntate di Cucurto
si accompagna l’invito a incontrarsi con
l’autore nella balera Samber Disco ogni
venerdì sera…
12.
9.
13.
92
Progetto grafico 4/5, febbraio 2005
Un titolo meritatissimo, bisogna dirlo,
perché Cucurto e Barilaro sono in realtà
due editori di genio e hanno costruito un
catalogo di notevole spessore in cui sono
raccolti testi spesso rari e introvabili,
poeti leggendari come Nestor Perlongher
(fondatore negli anni’70 del Frente de
Liberación Homosexual, del quale Eloisa
ha pubblicato il magnifico Evita vive),
grandi nomi della poesia latinoamericana
come Leonidas Lamborghini, Enrique
Lhin e Haroldo de Campos, alcuni
importantissimi scrittori argentini
contemporanei tradotti in tutto il mondo,
come César Aira e Ricardo Piglia
– quest’ultimo noto perfino ai lettori
italiani –, nonché voci nuove e
Progetto grafico 4/5, febbraio 2005
93
Di pagare diritti e di dare anticipi
naturalmente non se ne parla – nemmeno
Cucurto e Barilaro, del resto, ricevono un
compenso per il loro lavoro – ma gli
autori regalano volentieri a una casa
editrice senza fini di lucro il permesso di
pubblicare i loro testi, in barba agli agenti
e agli editori più ricchi. Perché Eloisa
Cartonera è anche questo: un gigantesco
sberleffo alle multinazionali del libro,
alle concentrazioni editoriali e ai loro
manager, al sistema dei best sellers,
insomma a un’industria che produce e
vende cultura esattamente come se si
trattasse di “sughi pronti” o pietanze
surgelate.
Nelle immagini in questa pagina la raccolta dei
cartoni e la produzione dei libri di Eloisa Cartonera.
Sono fotogrammi tratti dal film in lavorazione
“Paloma”. Scene di vita a Buenos Aires tra il 1999 e il
2004. La regia è di Pulika Calzini e Fluid Video
Crew.
Ringraziamo Francesca Lazzarato e Pulika Calzini
per averci fatto conoscere Eloisa Cartonera.
Il fumetto nelle strade di Bruxelles:
tre approcci e una descrizione
JOSE OVEJERO
Une ville entière qui serait un trompel’œil!... Le trompe -l’oeil n’était
habituellement qu’une manière de prolonger les
dimensions du réel, de doter un mur, un couloir, un
plafond d’une profondeur fantôme, ouvrant sur un
espace imaginaire.
w. h. auden, Brussels in winter
Dice un annuncio televisivo: ci sono altri mondi, ma si
trovano in questo. Lo sguardo, stanco di girare per universi, è tornato a quello che aveva davanti agli occhi
prima di immergersi nella lettura. La città in cui si vive, i luoghi percorsi sin dall’infanzia, diventano affascinanti e ignoti. Ai disegnatori di fumetti è capitato lo
stesso e hanno deciso di reinventare la città che hanno
davanti agli occhi.
Primo approccio: i viaggi sedentari
Secondo approccio: Bruxelles di carta
I fumetti, come la letteratura d’avventura, erano in passato soprattutto un modo economico di viaggiare. I personaggi dei fumetti percorrevano il mondo in transatlantico, viaggiavano in aereo, attraversavano il continente americano in treno. Le vignette trasportavano i
lettori in mondi che non avrebbero mai conosciuto, ma
di cui avevano sentito parlare. Il viaggio non era ancora democratizzato – altri direbbero massificato – ma la
lettura cominciava a farlo. Tintin non sarebbe stato lo
stesso se fosse rimasto a Bruxelles per risolvere i suoi
casi – infaticabili eroi mascherati percorrevano le selve tropicali e affrontavano i selvaggi, l’esotismo permeava storie che ricordavano le atmosfere salgariane.
È relativamente da poco – direi a partire dagli anni Ottanta – che la città si è convertita, se non in protagonista – a volte però sì – in un fondamentale riferimento
del fumetto. In alcuni casi non si tratta della città dove
il disegnatore pubblica, ma città di prestigio, New
York, Parigi, Londra e altre città che dettano le mode
culturali: l’esotismo è stato senza dubbio, poco per volta sostituito dal cosmopolitismo. Hergé, il creatore di
Tintin, disegnava regioni del mondo che non conosceva e non aveva bisogno di essere verosimile perché
nemmeno i suoi lettori vi erano mai stati. I personaggi
dei nuovi fumetti non viaggiano però in luoghi remoti
e sconosciuti, ma in città note tanto al disegnatore che
ai lettori. Non esiste shock culturale, poiché sono tutti
uomini e donne di mondo, sono abituati a svegliarsi nei
vari continenti.
benoît peeters, Retour à Samario, epilogo a Les murailles de Samaris
Wandering through cold streets tangled like old
strings, coming on fountains rigid in the frost, its
formula escapes you, it has lost the certainty that
constitutes a thing.
Nella pagina accanto:
1. Frank Pé, Broussaille,
luglio 1991. È il primo
affresco realizzato della
serie “Parcours BD”.
La superficie è di 35
mq. circa.
2. Decorazione della
facciata del negozio di
tessuti “Les tissus du
chien vert”
corse tutte le galassie, tutte le dimensioni della materia e dell’antimateria, dove si poteva andare? Tenendo
presente che le cineprese e le telecamere cominciavano a teletrasportarci fino ai confini del Sistema Solare.
Ma all’improvviso nelle nostre abitazioni è entrata la
televisione, concedendoci il dono dell’ubiquità: ci ha
trasportato in tutto il pianeta senza bisogno di uscire di
casa; hanno cominciato così a perdere attrattiva quei
luoghi cartacei esotici, fragili succedanei
dell’immagine in apparenza realista che la televisione
ci offriva: gli autori di fumetti hanno cominciato a cercare scenari cui non fosse tanto facile arrivare, le selve sono state sostituite dagli anelli di Giove, i deserti
dalla spopolata superficie di Marte. E i superpoteri erano il combustibile che permetteva alla nostra immaginazione di volare in luoghi dove non arrivava la telecamera. Poco dopo ha cominciato a saper di stantio
anche l’esotismo del cinema d’azione. Da quando
(quasi) tutti possiamo viaggiare, ci sono parse antiquate le vignette che mostravano deserti non lunari,
mezzi di trasporto non intergalattici, scene esotico-turistiche rimaste solo nelle collane più conservatrici –
nel cinema è successo lo stesso, per esempio a James
Bond, che ha continuato a ricorrere allo scenario esotico come se non si fosse accorto che erano cose passate di moda.
Nemmeno l’universo, però, è infinito. Una volta per44
Altri autori, quando decidono di non muoversi, si guardano intorno, riconoscono nella propria città un luogo
degno di essere studiato e fanno di monumenti e strade la cornice dell’azione.
Di Bruxelles non si può dire che sia una capitale prestigiosa. Centro burocratico, città priva di grazia, paradiso della speculazione edilizia, città dalle brume prive di
mistero. Vista la sua scarsa fama, non c’è da stupirsi se
solo pochi disegnatori stranieri l’hanno scelta per ambientarvi le loro avventure di fantasia. Ovviamente in
alcuni fumetti belgi alcune immagini di Bruxelles erano apparse sin dai primordi del fumetto. Tintin, che vi
risiede, qualche volta fa la sua comparsa al Vieux Marché o all’Osservatorio Astronomico, ma la città resta uno scenario di secondo piano, intercambiabile come la
carta da parati delle case dei protagonisti. È quello che
fa, per esempio, Bob de Moor in Barelli dans Bruxelles bouillonne, mostrando una Bruxelles da guida turistica, come se fosse disegnata per stranieri. Ampio spaProgetto grafico 3, settembre 2004
Progetto grafico 3, settembre 2004
45
A.
B.
zio a Bruxelles concede invece nelle sue opere un francese che vi si è stabilito, Yves Chaland, che vi ha ambientato le avventure del detective Bob Fish [A] e ha adoperato la città anche per la collana Le jeune Albert;
Goffin, da parte sua, ci fa scoprire – in Veel Liefs uit
Brüssel e in Plagïat! – una città assai meno topica di
quella di De Moor e più moderna di quella di Chaland.
Ma il grande disegnatore di Bruxelles è senz’altro
François Schuiten, che però ritrae una Bruxelles non
realista. Tra le sue mani la città si trasforma in mille altre città che sono sempre Bruxelles, esagerata, impossibile, forse sognata, ma pur sempre Bruxelles anche se
per riconoscerla bisogna spogliarla dalle sovrastrutture che la trasformano in invenzione: nelle pagine dei
suoi albi si vede il Palazzo di Giustizia – qui detto dei
Tre Poteri – la casa de Cauchi che emerge da una rupe,
le serre reali dilatate fino a convertirsi a loro volta in
città, i magazzini Waucquez, gli interni Art Nouveau, i
grattacieli del quartiere nord… Inoltre nel suo albo Brüsel [B] uno dei temi è la speculazione sfrenata e la distruzione del tessuto urbano in una città che potrebbe
essere una distorsione onirica di Bruxelles, ma che è anche qualcos’altro.
a un muro, a un corridoio, a un tetto una profondità fantasma, aperta su uno spazio immaginario”. Schuiten,
con i suoi disegni, fa esattamente il contrario: racchiude tra pareti immaginarie i suoi personaggi, i quali –
come il protagonista di L’invenzione di Morel – rimangono reclusi in un mondo creato per ingannarli, tra
pareti decorate o proiezioni, su un pavimento che devono calpestare con cautela perché non sanno se sopporterà il peso.
Le vignette di Schuiten ritraggono una città che è a sua
volta un disegno della città. Alcune sue città non sono
reali a due diversi livelli: non sono reali perché sono di
carta, ma non lo sono nemmeno per i personaggi che
le abitano; sono illusioni ottiche, inganni dei sensi: fumetto come trompe l’œil. Peeters, l’abituale sceneggiatore di Schuiten, definisce il trompe l’œil “un modo di prolungare le dimensioni del reale, di assegnare
Terzo approccio: L’edificio come albo
46
5.
4.
3.
Logico che questo gioco tra realtà e disegno, tra quello che vede il lettore e quello che può vedere il personaggio, tra la carta e i materiali di costruzione, finisce
col dare vita a un nuovo dialogo tra disegno e architettura. Un dialogo che può continuare per strada: invece
di città di carta che mostrano città di pietra, possono
esserci città di pietra che mostrano città di carta, con le
facciate che riproducono vignette, immagini dipinte e,
in extremis, una città che mostra fumetti che a loro volta mostrano strade ed edifici, in modo da confondere
strade, lampioni, facciate dipinte e reali. Città come
trompe l’œil.
Al principio, il fumetto godeva di spazio limitato sulle pagine dei giornali; le strisce non si distinguevano
dai cruciverba o dagli oroscopi. Fino a quando alcuni
personaggi non divennero così famosi da fare aumentare la vendita dei periodici che li ospitavano. La striscia cresce fino a occupare mezza o un’intera pagina e
Progetto grafico 3, settembre 2004
ben presto si trasforma in una serie da leggere di settimana in settimana: continua. Logica, quindi, la creazione di riviste destinate esclusivamente agli adepti del
fumetto. Inoltre le strisce non sono più un intrattenimento per bambini, ma cominciano a rivolgersi agli adulti: i disegni si fanno più precisi, le trame si complicano, la superficie acquista profondità, le strisce perdono quell’aria di famiglia con le righe da leggersi da
sinistra a destra e si scompongono in vignette distribuite nella pagina in modo apparentemente disordinato. I creatori di fumetti cominciano a conquistarsi
l’aureola di artisti, la cui opera è imparentata con cinema, pittura e letteratura. Hugo Pratt, Manara, i collaboratori di Moebius sono persone serie, mica imbrattatele. Il passo successivo è logico: la rivista diventa un laboratorio sperimentale, il cui obiettivo è
l’albo indipendente. Finite le opere collettive: l’ego
dell’artista esige che ci si occupi di lui ed esclusivamente di lui, opera chiusa, circolare, completa. Ma se
l’albo nel suo insieme è arte, lo è anche ogni singola
vignetta? Convinto del proprio valore, il disegnatore si
rende indipendente dallo sceneggiatore, si scuote dal
giogo e risponde di sì: ogni vignetta, ogni disegno, può
essere un’opera d’arte. Lo spazio offertogli dall’album
– variopinto e contaminato dalla parola – gli sembra
insufficiente per dare risalto al valore dell’immagine
individuale e comincia a creare, col pensiero rivolto a
una mostra in cui si amplieranno i disegni, trasformando ognuno di essi in un oggetto artistico, indipendente dal testo. Il passo seguente – che risulterebbe megalomane se non sottindentesse un ghigno ironico, se
i temi non fossero così modesti, talvolta infantili – è abProgetto grafico 3, settembre 2004
6.
3. Bob de Moor,
Cori le Mousaillon, 1998,
35 mq.
4. Willy Vandersteen,
Bob et Bobette, 1995,
25 mq.
5. Mitaq, La patrouille
des Castors
6. Dany, Olivier Rameau,
1997, 60 mq.
7. Stephen Desberg /
Enrico Marini, Le Schorpion
7.
47
percorsi fumettistici per Bruxelles, quasi nessuno si è
accorto se non di tre o quattro affreschi con personaggi dei giornalini. Eppure ce ne sono una trentina, grazie all’iniziativa promossa nel 1991 dal Consiglio degli Spazi Pubblici e dell’Ambiente della Città di
Bruxelles – a Cesare quel che è di Cesare – con la collaborazione del Centre Belge de la Bande Dessinée [nota 1] .
Bruxelles ha fama di essere grigia: il cielo, le strade,
inclusa – ingiustamente – la sua cultura. “Per affrontare il grigio di questo cielo, ho dipinto di giallo…”, comincia così una mia poesia e avranno pensato lo stesso coloro che hanno incoraggiato il progetto di abbellire con fumetti alcuni edifici di Bruxelles. Infrangere
il grigio con il colore e con la sorpresa, con l’umorismo
e con ricordi di pagine variopinte. “Trasformare il brutto in bello”, è questo il desiderio espresso da uno dei
membri di Art Mural, la società che si occupa della realizzazione degli affreschi.
8. Hermann, Les rêves de Nic, 1999, 35 mq.
bandonare l’interno del museo per farsi monumento.
Non c’è più bisogno di andare in una galleria per ammirare le opere d’arte portatili che si possono comprare e portare a casa: il fumetto si adegua, diventa parte
della città in cui abitiamo, acquisisce un’aura di permanenza come le chiese, i palazzi, le statue… ma
quando viene dipinto su edifici privi di qualunque valore architettonico non ottiene l’immortalità dei grandi monumenti: in qualunque momento è in agguato il
martello pneumatico per distruggere la facciata sulla
quale è dipinto, come è già accaduto.
La maggior parte dei fumetti urbani di Bruxelles si trova in zone degradate: una facciata colorata su cento grigie, un’opera d’arte contro intere strade senza spazi per
la creazione e dove sono stati distrutti edifici antichi
per tirar su alveari di cemento e mattoni o altre in cui
stanno in piedi casupole poco salubri cui fanno più difetto le tubature che le opere d’arte. “Trasformare il
brutto in bello” è un grande obiettivo, che non sarà raggiunto modificando soltanto le apparenze, né distraendo lo sguardo dalla realtà. Ma non è il momento di dilungarmi su urbanismo e politica sociale. Torniamo a
noi, cioè alle opere.
Non è un caso che proprio Bruxelles sia la città dove il
fumetto appare e si diffonde sulle facciate degli edifici. In Belgio, la passione per il fumetto viene da lontano – ma non è questo il luogo per raccontarne la storia
– e fa sì che non solo abbondino librerie specializzate,
ma anche che ci siano un museo e una biblioteca dedicati al fumetto, una famosa scuola di disegno, riviste…
e che personaggi dei giornalini arredino interni di ristoranti, hotel e stazioni della metropolitana.
In alcuni casi la facciata non è altro che l’ampliamento
di una pagina; come su questa, lo spazio si divide in diverse vignette, cioè in una successione di spazi e prospettive multiple; non viene rappresentato un luogo,
ma diversi. A rue des Fabriques [3] , per esempio, Bob
de Moor approfitta della sporgenza di un edificio più
avanzato rispetto a quello contiguo e lo apre al mare.
E qui scopriamo un veliero, un giovane marinaio,
l’acqua azzurra, a creare uno spazio frammentato, non
solo per le vignette ma anche perché è chiaro che quanto vediamo è il frammento di una storia – alcune vignette sono incomplete perché non entrano nella superficie a disposizione – ci sono cioè altre pagine, altre azioni, altre storie che bisognerà seguire, leggendole altrove. La realtà può essere limitata, ma il mondo immaginario è infinito.
In questa città modesta o forselenta
nell’autopromuoversi, capita spesso che sia difficile
trovare informazioni nelle guide: non si annunciano
Benché non faccia parte del progetto e non si tratti neppure dell’opera di un autore di fumetti, vale la pena
contrapporre l’opera appena descritta a quella che tro-
Una descrizione: fantasia e realtà
48
Progetto grafico 3, settembre 2004
9. Morris, Lucky Luke, 1992, 80 mq.
viamo a Quai des Charbonnages [2], un grande veliero
che solca un mare di acqua verdognola, che copre due
facciate di un edificio ad angolo. Qui il tema marino è
trattato in modo diverso: non c’è separazione in vignette né riferimenti a una storia che continui altrove:
l’edificio dipinto diventa oggetto chiuso su se stesso,
limitato, come un monumento, separato dal paesaggio
urbano che lo circonda: nella fattispecie, un quartiere
degradato, a forte immigrazione nordafricana. Un unico contatto con la realtà circostante: a pochi metri dal
mare dipinto e dal veliero si trova il canale che in passato era stato la via di accesso del commercio marittimo alla città.
Ci sono altre opere la cui superficie viene utilizzata come fosse carta e, allo stesso modo, non si integra
nell’ambiente. Noi possiamo leggere un albo in luoghi
diversi e l’albo resta sempre lo stesso, così pure tra il
disegno scelto per una nuova facciata e le case e le strade che lo circondano non c’è un rapporto imprescindibile. Sono mere coperte decorative, riferimenti
all’opera dell’autore, come la pubblicità muraria si riferisce a prodotti che possiamo comprare e usare altrove. In questo caso si tratta però di un’aggiunta permanente a un luogo. Si veda per esempio Les rêves de
Nic a rue de la Senne [8], dove bambini, elefanti, animali di peluche volano in uno spazio irreale e senza
continuità rispetto alla strada in cui l’opera si trova, o
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10. Roba, Boule et Bill, 1991, 25 mq.
ai fratelli Dalton che escono da una banca dopo averla
rapinata, ignorando che Lucky Luke [9] li sorveglia,
tutti su un’insignificante facciata – sarebbe stato più
interessante se fossero stati dipinti sulla parete di una
vera banca –; anche lo spadaccino di rue Treurenberg
[7], appostato in guardia e a fioretto sguainato, potrebbe trovarsi in un’altra strada, in un’altra città.
Taymans [11] presenta una relazione più ambigua tra opera e supporto con un dipinto che si sviluppa su
un’intera facciata che ha varie file di finestre cieche;
nel vano di ognuna di esse vediamo diversi personaggi come se si affacciassero dall’interno di un edificio,
donne che ballano, un trombettista, ecc., ma prospettiva e proporzioni non sono reali: mai potremmo pensare che stiamo guardando una festa all’interno
dell’abitazione; anche perché le finestre sono circondate di azzurro con stelline e da una delle finestre vediamo la luna, cosicché non sappiamo più se ci stiamo
affacciando su un interno o su diversi frammenti di una festa notturna all’aria aperta.
In questo gioco in bilico tra realtà e apparenza, in questa contrapposizione tra supporto e contesto da una
parte, e pittura dall’altra, possono esserci situazioni inattese: per esempio, non è chiaro se il rapporto con il
circondario sia deliberato o casuale nel disegno di Vandersteen [4] in cui alcuni personaggi si arrampicano su
49
11. André Taymans, Caroline Baldwin
50
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12. Yves Chaland, Le Jeune Albert, 2000, 109 mq.
13. Dupuy & Berberian, Monsieur Jean
14. André Geerts, Le petit Jojo, 1996, 56 mq.
15. Hergé, Quick et Flupke, 1995, 150 mq.
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51
una facciata: quello di sotto sostiene il successivo e così via, una colonna umana con un suo equilibrio; ma da
una determinata prospettiva non si sa più bene se si sostengano l’uno l’altro o se si stanno arrampicando su
un lampione, che è di fronte all’immagine: il lampione era già lì quando l’autore ha disposto verticalmente
i suoi personaggi? E se sì, si è reso conto dell’eventuale
inganno visivo?
Altri autori, forse i più interessanti, legano deliberatamente la loro opera al circondario, aggiungendovi
un’ulteriore lettura, talvolta imprescindibile. Roba [10],
per esempio, gioca con la prospettiva, continuando sulla facciata di una casa la strada
José Ovejero
su cui questa si trova e i persoL’autore di questo articolo è nato a
naggi la discendono esattamenMadrid nel 1958, è vissuto in Germania
te come coloro che, la domenie poi a Bruxelles, dove attualmente
ca mattina, tornano dopo aver
risiede, conciliando il lavoro di
fatto compere al mercato delle
interprete con quello di scrittore.
pulci della vicina Place du Jeu
La sua produzione letteraria include
de Balle. Non c’è intenzione di
generi diversi, dal racconto breve alla
realismo, di autentico artificio;
narrativa di viaggio. In Italia ha
quanto piuttosto un parallelipubblicato La Cina per ipocondriaci,
smo ludico: far convivere perFeltrinelli 2001, e Come sono strani gli
sonaggi di fumetto con persouomini, Voland 2003.
naggi reali, come nel cinema
http://www.joseovejero.com/
hanno finito per mescolarsi disegni animati e attori in carne e
ossa, giocando sul fatto che
l’immaginazione del lettore o
dello spettatore è in grado di
infondere spirito a una manciata di tratti antropomorfi su carta… o su cemento.
Altrettanto divertente, anche se
più realistico, è il disegno della
collana di Ric Hochet [17] che
troviamo in una tranquilla stradina a due passi dal Boulevard
Anspach. Vediamo un personaggio che ovviamente è appena uscito di casa, sulla cui testa
si svolge una scena che lo sorprende al punto da obbligarlo a
lasciar cadere la pipa: il personaggio ha un’ombra, la facciata dipinta della casa sembra
perfettamente continuare quella contigua in un angolo a novanta gradi e, per lo meno in fotografia, è necessario guardare
due volte per rendersi conto
quali parti della facciata siano
dipinte e quali siano in rilievo.
16. In alto e nella pagina accanto: François Schuiten, Le Passage, 1995, 20 mq.
teressante dialogo con quanto lo circonda:
l’architettura tra il classico e l’utopico della parte superiore dell’affresco si contrappone al gotico e al barocco circostanti e i viandanti che l’autore dipinge
sulla parte inferiore sembrano appartenere allo stesso mondo – o a quello delle sue ombre – dei cittadini
che passeggiano per strada [16].
E ora che sto per giungere alla fine del percorso, mi
sento come se fossi io colui che deve dipingere un affresco, mi manca però lo spazio, tutte le figure non entrano, devo limitarmi a dare una visione frammentaria
dell’azione. Non ho, per esempio, parlato del dialogo
– talvolta confronto – tra graffiti e affreschi ufficiali,
tra l’espressione artistica anarchica e illegale e
l’abbellimento programmato delle pareti della città.
Ma è normale che manchi qualcosa, dato che – volendo – si tratta di un progetto interminabile: ci saranno
sempre facciate da decorare e autori disposti a prestarvisi con le loro opere. In effetti, ogni anno se ne aggiunge qualcuna alla collezione. Concludiamo, quindi, come si fa nei fumetti. Continua.
[Traduzione di Guia Boni]
Ancora più interessante è
l’opera di Schuiten nei pressi
della Grande Place. Questo inventore di città immaginarie
che sorgono tra città reali crea
in una stretta sporgenza un in52
NOTE
1.
[Ndr] Informazioni sul sito: www.brusselsbdtour.com
17. Tibet et Duchâteau, Ric Hochet, 1992, 30 mq.
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Progetto grafico 3, settembre 2004
53
La bandiera europea: facciamone un’altra
ALBERTO LECALDANO
Erano gli anni in cui in Italia circolavano ‘santini’ con preghiere e suppliche dagli evidenti
contenuti politici che senza scrupoli hanno influenzato la nostra storia.
I colori della bandiera
europea sono: Pantone
reflex blu per lo sfondo
rettangolare e Pantone
giallo per le stelle.
In caso di stampa in
quadricromia le stelle
sono in yellow 100%;
il fondo è composto da
100% Cyan e 80%
Magenta.
Su Internet, il Pantone
reflex blue corrisponde
al colore rgb: 0/0/153
(esadecimale: 000099)
e il Pantone yellow al
colore rgb: 255/204/0
(esadecimale: FFCC00).
Altre norme su:
http://europa.eu.int/abc/
symbols/emblem/
graphics1_it.htm
La medaglia
“miracolosa” della
Cappella di Rue de Bac
a Parigi.
Da uno del febbraio 1946 [1], ad esempio,
evidentemente diffuso poco prima
dell’elezione
dei
componenti
dell’Assemblea costituente, ecco qualche
brano della preghiera alla Madonna: “Voi
che comparendo a Fatima, avete promesso
agli uomini il trionfo del Vostro cuore Immacolato, trionfate specialmente nell’Italia
attraverso una Costituzione cristiana”. L’Imprimatur è
del 7 febbraio 1946.
A Costituzione fatta ecco un altro ‘santino’ [2] con imprimatur 6 febbraio 1948 diffuso, questa volta, in preparazione delle elezioni politiche. Su un verso si ricorda l’obbligo del voto “in considerazione dei pericoli ai quali sono esposti la religione e il bene pubblico... tutti coloro che hanno diritto di voto... anche se
professano un particolare religioso tenor di vita, sono
in coscienza strettamente e gravemente obbligati di far
uso di quel diritto”. Forse si temeva che preti, frati e
suore pensassero di non avere diritto al voto.
E più avanti sempre sul lato del ‘santino’ dedicato
all’obbligo del voto: “I cattolici possono dare il loro
voto soltanto a quei candidati o a quelle liste di candidati di cui si ha la certezza che rispetteranno e difenderanno l’osservanza della legge divina e i diritti della religione e della Chiesa nella vita privata e pubblica”. Quanto sopra a firma della Sacra Congregazione
Concistoriale. Se non bastasse sul retro nel testo della
“Preghiera per le prossime elezioni politiche” dopo
qualche supplica generica (“concedi alla nostra Patria
la grazia di avere dei rappresentanti veramente cristiani”) l’indicazione di voto diventa esplicita: “Fa che tutti uniti e concordi ci stringiamo intorno al vessillo del-
108
la Croce per vincere la santa battaglia per il trionfo del
Tuo Nome ecc.”.
1.
E non c’è bisogno di una immagine per ricordare che
in quella prima elezione politica della Repubblica italiana il partito con la croce, la Democrazia cristiana,
raccolse il 48,5 per cento dei voti.
Vorrei evitare di affrontare cose ancora più grandi e
tragiche ma, in questi giorni in cui tutti negano sia in
atto una battaglia tra culture, non posso fare a meno di
citare ancora un brano dal ‘santino’ del ’46, quello per
la Costituente: “...Voi [la Madonna] che nelle acque di
Lepanto avete aiutato i Cristiani a vincere la barbarie
mussulmana, siate ancora una volta il nostro valido
aiuto in questa grande battaglia cristiana, per il trionfo
di Cristo Re”. Non sono passati neanche 60 anni. E
quattro pontificati.
Solo qualche anno dopo, nel 1950, il primo “Consiglio
d’Europa” istituito nel 1949 bandì un concorso aperto
a tutti per una bandiera che potesse rappresentare la
confederazione degli stati europei.
2.
Partecipò tra gli altri Arsène Heitz, un giovane artista
di Strasburgo che per la sua proposta si ispirò alla medaglia miracolosa di Notre-Dame, emblema della cappella del Sacro Cuore di Gesù costruita a Parigi in rue
de Bac. Qui, al numero 140, Catherine Labotré, una giovane suora, aveva visto per tre volte nel 1830 la Santa
Vergine che le aveva chiesto di far realizzare una medaglia che la rappresentasse circondata dalle dodici stelle così come è scritto nell’Apocalisse di Giovanni [12.
Visione della donna e del drago. 1 Nel cielo apparve poi
un segno grandioso: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle]. Secondo varie interpretazioni la donna è la
Chiesa personificata o Maria Madre di Gesù Messia, e
le dodici stelle sono i dodici Apostoli.
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109
3.
La cappella è tuttora meta di pellegrinaggi e la medaglietta con le dodici stelle è ancora oggi il souvenir più
prezioso della visita. Ne sono stati diffusi centinaia di
milioni e ci dice Vittorio Messori in un suo articolo apparso sul Corriere della sera del 14 luglio 2003 “Arsène Heitz non era soltanto uno degli innumerevoli cattolici ad avere su di sé quella Medaglia nata da
un’apparizione, ma nutriva una speciale venerazione
per l’Immacolata”.
★ ★ ★
★
★
★
★
★
★
★★★
4.
5.
Per esplicita ammissione del designer, intervistato da
Messori nel 1995, il simbolo dell’Europa è fortemente ispirato, e senza retorica tecnicamente diciamo ‘copiato’, da un riferimento profondamente cristiano. Arsène Heitz ha fatto la stessa confessione all’abate Pierre Caillon nel 1987: è pubblicata ora nel sito del Santuario polacco di Jasna Gora. Saltellando qui e là in internet, leggendo questo e altri commenti sembra trapeli una certa soddisfazione del mondo cattolico per il
tiro giocato nel 1955 al Consiglio d’Europa.
La Cappella di Rue de Bac a Parigi dove, il 27 novembre del 1830, la Madonna
appare a suor Caterina Labouré, Figlia della Carità di San Vincenzo de Paoli e
le chiede: “Fai coniare una medaglia su questo modello, le persone che la
porteranno con fiducia, riceveranno grandi grazie”.
Sul rovescio della medaglia la M di Maria è circondata da dodici stelle.
A quella medaglia è ispirata la bandiera dell’Unione europea.
Ringrazio Piergiorgio Zotti, studioso di tradizioni popolari, per avermi messo
a disposizione il suo archivio di ‘santini’ dal quale ho tratto quelli riprodotti
a pagina 109.
Ringrazio inoltre Giovanni Lussu e Gianni Trozzi per i suggerimenti relativi
alla prima bandiera americana e per avermi messo a disposizione il numero
citato della rivista “Le scienze”.
110
La commissione presieduta da Paul M.G. Levy era inconsapevole del riferimento religioso del bozzetto
scelto e alla questione sollevata “perché dodici stelle
se gli stati che facevano parte della Confederazione
all’epoca erano sei” il designer rispose che “il numero
invariabile di dodici è simbolo della perfezione e della pienezza”. Così infatti recita e dispone la risoluzione del 1955 con la quale quel segno divenne la bandiera dei cittadini europei. Una bandiera che nasce da
un falso e qualche bugia, frutto della fervente intraprendenza di un artista, della inconsapevolezza di una
giuria ma anche dello spirito di crociata e integralismo
fanatico che in quegli anni (in quegli anni?) come abbiamo visto consentiva alla Chiesa di influenzare senza scrupoli lo sviluppo della vita civile, e per raggiungere il suo scopo, giustificava o addirittura sollecitava
bugie, falsi e arroganze. Immagino che per Heitz contasse solo che nel simbolo dell’Europa ci fosse un chiaro riferimento al cristianesimo e pazienza se per raggiungere lo scopo fosse necessario celare una parte importante della verità.
Secondo le dichiarazioni di Heitz, autorevolmente avvalorate da Vittorio Messori, così nasce la nostra bandiera europea e, a mio avviso, ce ne sarebbe abbastanza per considerare la possibilità di proporre un nuovo
e limpido concorso per un nuovo vessillo per l’Europa
e se la proposta può sembrare assurda almeno si sia
consapevoli su quali sono le origini iconografiche della immagine con la quale ci presentiamo al mondo.
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6. The Birth of our
Nations Flag, Charles H
Weisgerber, 1893.
In questo dipinto,
molto noto negli Stati
Uniti, Betsy Ross
mostra la bandiera da
lei cucita al generale
Washington
(il primo a sinistra).
Molti pensano che le
dodici stelle [3] della
bandiera europea
indichino il numero
degli stati che fanno
parte della Unione
europea o almeno che
al momento della scelta
del vessillo ci sia stata
una corrispondenza tra
stati membri e stelle.
Ma non è così.
Nel 1952 gli stati erano
6 (Belgio, Germania
occidentale,
Lussemburgo, Francia,
Italia e Paesi Bassi) e
oggi sono 25. Dal 1973,
in fasi successive, si
sono aggiunti:
Danimarca, Irlanda e
Regno Unito, Grecia,
Spagna e Portogallo,
Austria, Finlandia e
Svezia, e nel 2004
l’Unione europea ha
accolto dieci nuovi
paesi: Cipro,
Repubblica ceca,
Estonia, Ungheria,
Lettonia, Lituania,
Malta, Polonia,
Slovacchia e Slovenia.
Sono candidati:
Bulgaria, Croazia,
Romania e Turchia,
stato laico già dalla
Costituzione del 1937
e nel quale la religione
islamica è professata
dal 92% della
popolazione.
Il motivo principale
dell’equivoco (numero
delle stelle=numero
degli stati) sicuramente
deriva dal fatto che la
maggioranza pensa che
anche per la bandiera
europea valga la regola,
da tutti conosciuta, in
uso per la bandiera
degli Stati Uniti dove
per ogni nuovo stato
che entra a far parte
della confederazione
una nuova stella viene
aggiunta nel campo blu
in alto a sinistra. Erano
tredici nel 1776 [4],
sono 50 oggi [5].
Il 1776 fu l’anno della
Dichiarazione
d’Indipendenza delle
colonie americane dalla
madre patria
Inghilterra. È l’anno
della nascita degli Stati
Uniti d’America ed
erano 13 i primi stati
federati.
Le 13 stelle della prima
bandiera americana [6]
cucita da una sarta di
Filadelfia su bozzetto di
George Washinton,
erano disposte in
cerchio e questa mitica
bandiera è venerata e
ricordata negli Usa
come Betsy Ross Flag
(potete acquistarla per
35,10 $ nel sito
http://www.usflag.org/b
etsy.ross.flag.html
e un ampio
merchandising con
questo soggetto è
disponibile al sito
http://www.cafepress.
com/13star).
Dopo alcuni anni di
disordine grafico [7] il
Congresso Usa decise
nel 1817 di aggiungere
una stella per ogni
stato che si univa alla
federazione lasciando
invariato il numero
delle 13 strisce.
I problemi relativi alla
disposizione simmetrica
delle stelle nella
bandiera americana
non sono stati pochi.
Cambiando il numero
delle stelle non doveva
cambiare la percezione
generale. In un articolo
del numero 100 della
rivista “Le scienze”,
dicembre 1976, sono
stati affrontati sotto
forma di gioco
matematico.
7. Il disordine grafico delle prime bandiere con 13 stelle degli Stati Uniti.
Le stelle avevano cinque, sei, sette o otto punte.
Un riferimento alle
tredici stelle della
prima bandiera degli
Stati Uniti è presente
tuttora sul retro del
biglietto da 1 dollaro.
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111