demo ripeoduzione vietata

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Sintesi
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È un’isola di cui non conosce neanche il nome quella su
cui sbarca il protagonista, in una fredda mattina d’inverno,
per sfuggire allo stress e alle complicazioni della vita.
Dopo essersi sistemato presso la pensione della misteriosa Virginia avrà, invece, una lunga serie d’incontri con
personaggi strani ed eccentrici. Tra poliziotti che indagano
su un’inspiegabile sequenza di suicidi, un’affollata e rumorosa Fiera del Silenzio, loschi faccendieri pronti a tutto pur
di realizzare i propri intenti criminali, nuvole parlanti, boschi fosforescenti, organetti a manovella, bolle di sapone,
mimi, carillon, giochi di prestigio e pillole “magiche”, gli
avvenimenti si succederanno velocemente, trascinando il
lettore in una folle storia piena di imprevisti e colpi di scena
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Autore
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Paolo Gallesi è nato a Roma nel 1961. Dopo una breve
esperienza nel “teatro dell’assenza” si è avvicinato alla
meditazione attraverso un lungo percorso autodidattico.
Attualmente sta approfondendo esperienze legate al silenzio e al cammino solitario. “Il linguaggio delle nuvole” è il
suo primo romanzo.
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Rogiosi editore
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prima edizione stampa: giugno 2015
ISBN 978-88-6950-031-2
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prima edizione ebook: settembre 2015
ISBN 978-88-6950-058-9
stampato in italia
© copyright 2015
rogiosi editore
www.rogiosi.it
tutti i diritti riservati
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Paolo Gallesi
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romanzo
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IL LINGUAGGIO DELLE
NUVOLE
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“A Carla e Susanna
e a tutte le nuvole erranti”
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Quando, alle prime luci dell’alba, venni svegliato
dalla sirena del traghetto, l’isola era completamente
immersa nella nebbia e l’unica cosa che riuscivo a
vedere, dal ponte riservato ai passeggeri di seconda
classe, era un gigantesco cartellone lampeggiante che
pubblicizzava una marca di torce elettriche, proprio
davanti alla banchina d’attracco del porto. L’aria gelida del mattino e un senso di stanchezza, per la nottata trascorsa con gli occhi chiusi ma senza riuscire
a prendere sonno, mi convinsero a tirare fuori dallo
zainetto la mia giacca a vento, poi, dopo una breve
attesa, necessaria per la manovra di ormeggio, sbarcai
lentamente dal traghetto assieme agli altri passeggeri. Una volta a terra, mi resi subito conto che non
sarebbe stato facile trovare un posto dove andare a
dormire. La visibilità era prossima allo zero e le poche persone che riuscii a localizzare sparirono rapidamente, come se fossero state risucchiate da quel
paesaggio irreale. Potevo ancora sentire il rumore dei
loro passi allontanarsi velocemente, quando udii, di
nuovo, la sirena del traghetto che questa volta annunciava la sua uscita dal porto. Nel giro di pochi minuti
mi ritrovai completamente solo e circondato da una
nebbia così fitta come mai mi era capitato di vedere.
Decisi allora di camminare stando molto attento a
non inciampare contro eventuali ostacoli ma, dopo
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aver urtato un lampione, arrivai alla conclusione che
la cosa migliore da fare era fermarsi e aspettare. Rimasi lì per non so quanto tempo, le gambe deboli
e la schiena a pezzi, cercando di ricordare il motivo
per cui avevo dovuto raggiungere quell’isola sperduta
di cui non conoscevo neanche il nome. Mi capitava
spesso, infatti, di avere delle improvvise amnesie, dei
vuoti di memoria che avevano su di me un effetto
paralizzante. In quei momenti non ero in grado di
prendere alcun tipo di decisione, rimanevo immobile
e privo di punti di riferimento, come uno spaventapasseri piantato in mezzo ad una strada e solo dopo
qualche minuto di buio totale riuscivo a riprendere il
controllo della situazione.
Quando la nebbia cominciò finalmente a diradarsi
affiorarono lentamente i contorni delle abitazioni di
quel paese che dal porto si estendeva in alto, verso le
colline circostanti.
Erano case di gesso, alte e strette ed erano state costruite così vicine, che sembrava cercassero di proteggersi l’una con l’altra, come se la forza del vento e del
mare le costringesse a una interminabile lotta per la
sopravvivenza. Mi addentrai in quel labirinto di stradine accompagnato dai rintocchi di una campana e
dal verso stridulo dei gabbiani ma, poco dopo, l’unico
suono udibile, amplificato dal silenzio in cui il paese era immerso, era quello dei miei passi sul selciato
ghiaioso, davanti a una chiesa diroccata. Mi fermai di
nuovo, con la sensazione di essere finito veramente su
di un’isola disabitata quando, in fondo a una stradina,
notai l’insegna al neon di un bar.
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All’interno del locale non c’era nessuno ma, dopo
pochi istanti, sentii un rumore di sportelli sbattuti provenire dal retro. Era uno di quei vecchi bar con il bancone di legno e l’odore di latte bollito, alle pareti erano
appese alcune fotografie in bianco e nero risalenti agli
anni del dopoguerra e una radio, sistemata accanto alla
cassa, trasmetteva il bollettino del mare. Mi sedetti su
uno sgabello aspettando che qualcuno si facesse vivo,
ma solo dopo aver tossito ripetutamente, comparve un
uomo alto, calvo e con due grossi baffi bianchi, che mi
salutò con un timbro di voce particolarmente squillante, asciugandosi le mani sul grembiule. Gli domandai
se era troppo presto per fare colazione e l’uomo, sorridendo, mi disse di avere ancora un attimo di pazienza.
Sparì di nuovo sul retro del locale ritornando dopo pochi secondi con un magnifico vassoio ricolmo di caldi
cornetti alla crema appena sfornati e io ne afferrai subito un paio, mangiandoli con voracità. Leccandomi
le dita appiccicose e con la bocca ancora piena, cercai
di giustificarmi spiegandogli che ero appena sbarcato
dal traghetto e che durante il viaggio non ero riuscito a trovare niente da mangiare. Il barista mi ascoltava
con la schiena appoggiata al muro, le braccia conserte e
un’espressione divertita. Mi disse che di solito, in quel
periodo dell’anno, l’isola si svuotava. “Qui d’inverno
non c’è niente, solo nebbia, pioggia e vento.”
“È proprio quello che cerco, un posto tranquillo
dove poter riposare per qualche giorno. Ho bisogno di
dormire, soprattutto dormire” gli dissi fissandolo negli
occhi e l’uomo si mise a ridere, come se avessi fatto la
più divertente delle battute. Secondo lui, avevo tro9
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vato il posto giusto. Il cielo grigio, il fischio continuo
del vento e la pioggerellina incessante erano un vero e
proprio invito a rimanere a letto.
“O pioggia o vento, non ci si può sbagliare” ripeteva ridacchiando mentre sciacquava le tazze nel lavello
e io, che non vedevo l’ora di farmi una bella dormita,
gli chiesi se poteva indicarmi una pensione per il mio
breve soggiorno. “Una pensioncina economica, senza
pretese, non mi piacciono gli alberghi, preferisco gli
ambienti piccoli e familiari.”
Spalancò gli occhi, come se fosse rimasto sconcertato da quella che reputavo una domanda banalissima poi, concentratissimo, fissando un angolo del
soffitto, iniziò un lungo elenco di pensioni dai nomi
stravaganti: “Il fiato sul collo”, “La teoria degli opposti”, “Fischiettando”. Da un cassetto pieno di matite
estrasse una mappa dell’isola e aiutandosi con un grosso pennarello giallo, mi indicò quelle che, secondo lui,
dovevano essere le pensioni aperte. “Non più di tre o
quattro, in questa stagione chiudono quasi tutti” mi
disse, porgendomi la piantina. Lo ringraziai per tutte quelle informazioni e nel tornare a sedermi notai
che fuori, intanto, incominciava a esserci un po’ più di
movimento, qualche passante, un garzone in bicicletta, un vecchietto con un cane al guinzaglio. Alla radio
due tipi parlavano cercando di apparire allegri e divertenti ma in un modo innaturale e piuttosto forzato.
Subito dopo venne trasmessa una canzone orrenda,
con tutti i luoghi comuni sull’amore e i suoi dolori. Il
cantante era particolarmente angosciato e riuscì con i
suoi lamenti strazianti a trasmettermi tutta la sua di10
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sperazione. I conduttori lo definirono “grande e mitico” mentre, proprio grazie a quella canzone oscena,
mi ricordai che era giunta l’ora di prendere la pillola.
Tornai di nuovo al bancone e chiesi al barista un bicchiere d’acqua. Quelle che prendevo erano medicine
che avrebbero dovuto farmi sentire meglio, il medico
mi aveva detto che la cosa più importante era prenderle tutti i giorni, puntualmente, sempre alla stessa
ora e io, che non volevo assolutamente deludere le sue
aspettative, intendevo rispettare scrupolosamente le
sue indicazioni. Le tenevo custodite dentro la tasca laterale dello zainetto, erano inserite in una confezione
argentata sul cui retro erano indicati, a caratteri microscopici, il nome del farmaco, la data di scadenza e
l’indirizzo della casa farmaceutica che le distribuiva.
Dopo averne estratta una, tenendola tra il pollice e
l’indice, mi misi a osservarla attentamente. Non sarà
stata più lunga di due centimetri, la forma cilindrica
e il suo colore giallo ocra estremamente seducente, mi
spinsero a bisbigliarle parole affettuose, come quelle
che si sussurrano nei momenti d’intimità a una persona cui ci si sente profondamente legati. Non era la
prima volta che iniziavo quella cura e mi sentivo come
quando si rivede, dopo tanto tempo, qualcuno con
cui abbiamo condiviso momenti importanti della nostra vita. Grazie a quelle pillole ero riuscito ad andare
avanti, limitando i danni di quella “malattia” da cui
non riuscivo mai a guarire definitivamente.
Mentre ero lì, con quel gioiellino della chimica
tra le dita, il mio sguardo s’incrociò casualmente con
quello del baffuto barista, che mi stava fissando con
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una strana espressione, come se quella fosse stata la
prima volta che avesse visto qualcuno parlare con una
pillola. Inghiottii la compressa velocemente e bevetti
con un unico sorso il bicchiere d’acqua, poi presi lo
zainetto e andai a pagare la consumazione.
“Grazie ancora per la piantina” dissi all’uomo dietro al bancone.
“Spero che le sia utile, da queste parti è facile perdere il senso dell’orientamento. A volte capita anche
a me che ci sono nato, sei convinto di trovarti in un
determinato punto del paese e poi ti accorgi di essere
esattamente dalla parte opposta.”
“Se uno avesse tempo da perdere potrebbe essere
una cosa divertente, o no?”
“Dipende dai punti di vista, a volte è un po’ snervante. Quelli che si divertono di più sono i bambini,
è il posto ideale per giocare a Guardie e Ladri o a Nascondino” mi disse, strofinando il panno sul bancone.
In quello stesso istante la porta si aprì e il locale si
riempì di uomini in giacca e cravatta che entrarono
rumorosamente, schiamazzando a voce alta. Era un
gruppo di medici che il barista sembrava conoscere
molto bene, come se quello fosse il loro punto di ritrovo abituale prima che avesse inizio la giornata lavorativa. Una serie di battute, seguite da risate e da
parole come “epitelio pavimentoso pluristratificato”
mi fecero desiderare di uscire al più presto all’aria
aperta. Cercai di salutare il gestore del bar ma vidi
che era troppo indaffarato a preparare caffè e cappuccini perché potesse notarmi, così aprii la porta e uscii
dal locale proprio mentre alcuni medici iniziavano a
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intonare solennemente un coro sulle virtù della caffeina.
La nebbia era ormai scomparsa del tutto e io mi
sentivo finalmente pronto ad affrontare la giornata
con lo spirito giusto. Tirai fuori la piantina cercando
di localizzare il punto in cui mi trovavo, poi, dopo essermi guardato intorno, m’incamminai per quella che
doveva essere la strada principale del paese.
Alcune case sembravano abbandonate, i muri erano scrostati con delle crepe simili a ferite non curate.
Altre, invece, erano chiaramente state riverniciate da
poco e si notava subito questo profondo contrasto tra
il vecchio e il nuovo.
Dopo aver superato uno strano edificio in legno
dalla forma circolare e privo di finestre, mi trovai davanti all’ingresso della pensione “Le risate”. Un cagnetto, dietro una grande vetrata, si mise ad abbaiarmi istericamente mentre una donna gli urlava di
smetterla. Suonai il campanello e comparve una signora molto anziana, con il volto segnato da profonde
rughe. Si affacciò alla porta dicendo che la pensione
era chiusa e che avrebbe riaperto solo verso i primi di
maggio “Mi dispiace. Non posso proprio esserle d’aiuto.” Sembrava veramente dispiaciuta ma mi chiuse la
porta in faccia, senza darmi neanche il tempo di aprire
bocca. Ripresi a camminare, con le mani infreddolite affondate nelle tasche dei calzoni, perdendomi tra
quelle stradine prive di nome che sembravano tutte
irrimediabilmente uguali mentre, dai cortili interni
delle case, che riuscivo solo a intravvedere, si sentivano provenire fruscii di tende, chiacchiericci lontani e
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