MUSICHE dal MONDO
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MUSICHE dal MONDO
MUSICHE dal MONDO 2 Da Capo Verde al Brasile dei Dolci Barbari 3 Da Capo Verde al Brasile dei Dolci Barbari Premessa Con questo ciclo di video-incontri cercheremo di contestualizzare quel processo di globalizzazione che da anni riguarda tutte le ‘Musiche dal Mondo’, come abbiamo titolato, anche perché – come ci manda a dire uno dei dolci barbari – senza incroci non ci sono fertilizzazioni. Partiremo dall’Africa, il Continente da cui tutto nasce, anche se la sua influenza nella storia della musica globale è ancora tutta da raccontare, riguardo innanzitutto al capitolo dell’interazione con l’Europa, il più trascurato. Ad esempio, danze coma la sarabanda, la ciaccona, la folia, la passacaglia, che hanno lasciato un marchio indelebile nella musica colta, sono di origine africana. E questo vale anche per il samba, il tango, il jazz, di cui ci occuperemo più approfonditamente. Ho parlato di Africa come fosse un’entità unitaria. In realtà bisognerebbe usare il plurale per contrassegnare un grogiolo in continua ebollizione dove sono visibili, meglio udibili, lontane radici da cui tutti discendiamo, poi tracce vistose di un più recente passato coloniale e le attuali misture prodotte nel processo di globalizzazione che ha dato vita ai più diversi meticciati. Paraiso de Atlantico / Mar Azul Rispetto a questo universo variegato e variopinto, le isole di Capo Verde rappresentano un caso sui generis, un mondo a parte. Innanzitutto perché, Capo Verde, non è come suggerirebbe il nome, un capo allungato sul mare, e non è nemmeno verde come costateremo tra un attimo. E allora, immagino vi sarete chiesti: che rapporto ci può essere tra un piccolo arcipelago collocato di fronte al Senegal e un 4 Musiche dal Mondo immenso paese come il Brasile, che occupa un’inconsueta posizione di centralità, “nel culo del mondo” dice una folgorante canzone di Caetano Veloso? Una quantità di ragioni. Oltre ad essere collocati alla stessa latitudine, al primo posto metterei la dominazione portoghese. Il nesso si concretizza all’inizio del Seicento, quando i conquistadores del Brasile si rendono conto che avere tra i piedi come schiavi i nativi indios è molto meno conveniente che avere solo ed unicamente negri (per usare la terminologia storica). Prende così avvio la tratta dalle coste africane e come scalo per depositare la “merce” viene scelto proprio Capo Verde. Perché per quel suo territorio impervio, arido, vessato dalla sabbia che arriva dal deserto e dalla siccità e, per di più circondato dal mare, rende impossibile la fuga. Come è facile immaginare, per coloro che vi rimarranno dopo che i colonizzatori portoghesi lo abbandoneranno a se stesso, quell’arcipelago ha una lunga storia di sofferenze e patimenti che la musica riproduce e, spesso, amplifica. Insomma, prima ancora che una macchiolina infinitesimale sulla carta geografica, Capo Verde è un luogo dell’anima, è un sentimento di lontananza estrema per tutti coloro che sono stati violentamente allontanati dai loro cari. Ogni foglia è un figlio amato che è andato lontano in cerca di un futuro migliore e più dignitoso dicono i versi di Paraiso de Atlantico, con cui mi è parso logico aprire la straordinaria sequenza di video e per darvi, assieme al successivo Mar Azul, una prima panoramica di terra e di mare di quei luoghi aspri, che la voce struggente di Cesaria Evora rende più suggestivi. Sodade Ho pensato di dedicare a Cesaria Evora, uno spazio più ampio rispetto allo straripante oceano di musicisti sfornati dal Brasile, innanzitutto perché è meno nota di Tom Jobin, Vinicius De Moraes o Gilberto Gil, poi per rendergli omaggio a poco più di tre anni dalla sua scomparsa e, infine, perché in lei si riassumono gli estremi della condizione della donna capoverdiana, un andirivieni di morte e resurrezione: la fatica Da Capo Verde al Brasile dei Dolci Barbari 5 logorante di sopravvivere alla sua amata isola e il fulgore del successo che fa spazio alle sue doti creative, traghettandola nell’universo mondo. La fatica logorante deriva non solo dalla memoria della schiavitù che ha marchiato a fuoco quella popolazione, ma da un presente caratterizzato da condizioni estreme di sottosviluppo che, unite al problematico contesto ambientale, culmina con la desicione di partire verso terre più ospitali, alimentando quella folla di capoverdiani sparsi per il Pianeta che è tre volte la popolazione residente. Anche quando la vita scorre senza traumi, appare quella linea d’ombra ad avvertire che bisogna dire addio al paese della gioventù ed a chi parte per altri lidi. Si sono portati via la mia famiglia e mi hanno lasciato sola con la mia tristezza e la mia nostalgia dicono i versi di un altro classico. È la nostalgia per ciò che era e non può più essere, per la persona che ti era accanto e che ha imboccato una via lontana. Il contrario di quello che accade nel tango come verificheremo nel prossimo incontro. È, per fare un altro paragone, come la proverbiale saudade brasiliana che a Capo Verde si chiama sodade, il titolo di una delle più commoventi e celebri canzoni di Cesaria. Sul finale, dopo forti dosi di nostalgia balena un barlume di speranza. Se mi scrivi ti scriverò Se mi dimentichi ti dimenticherò fino al giorno in cui ci reincontreremo. Petit Pays La diversità linguistica tra Saudade e Sodade evidenzia un elemento molto significativo: i lirici testi che abbiamo ascoltato appartengono ad una lingua diversa dal portoghese, una sorta di dialetto che fonde assieme la tradizione lusitana e gli idiomi dell’Africa occidentale. È quello che in gergo viene chiamato creolo o criollo. E lo stesso processo di creolizzazione – chiamiamolo così – riguarda anche la musica, o meglio il rapporto tra il fado, cioè l’espressione più autentica dello 6 Musiche dal Mondo spirito e della tradizione portoghese, e la morna, cioè quella forma di espressione tipicamente capoverdiana: il lamento di una nazione in fuga, così la potremmo definire. Quando chiedono a Cesaria Evora la propria opinione sull’accostamento che spesso si fa tra morna e fado, lei risponde: “Sì, in effetti le similitudini sono tante: un grande feeling nell’interpretazione, argomenti che spesso trattano la perdita d’amore o la nostalgia della propria terra. Rispetto però a quelle musiche, nella morna, oltre ai frutti amari della colonizzazione, resta la priorità dell’idioma locale, quello creolo”. Ed aggiunge: “Ho collaborato con molte persone da ogni parte del mondo, ma resto fedele alle mie radici, la cosa più importante che ho”. Vecchia di più di 150 anni, diffusa in modo capillare in tutte le isole capoverdiane, la morna è un po’ come il blues, è memoria tormentata e ricerca affannosa, cuore infranto e riso amaro, anime che si lasciano e guai che ti seguono come un’ombra. È il gesto di prendere la propria ferita in mano, mettersela davanti agli occhi, contemplarla e dichiararle il proprio amore. Come fa Cesaria in Petit Pays: Nel cielo sei una stella che non brilli Nel mare sei la sabbia che non si bagna - eppure Petit Pays Je t’ame beaucop. Angola I temi legati all’esodo biblico, a quella che potremmo chiamare la capoverdianità, prevalgono decisamente, con un’attenzione particolare alla condizione femminile. Ma ogni tanto la dieta a base di sodade si può spezzare per far prevalere altre tematiche ed altre forme musicali. Non bisogna mai dimenticare che quel gruppo di isole à stato un luogo di continui passaggi, dall’Africa alle Americhe e viceversa. E dunque la musica ha assunto tanti sapori diversi, dove fanno capolino i ritmi caraibici e brasiliani e, naturalmente, quelli di provenienza africana. E bisogna aggiungere che Cesaria non eccelle solo nelle canzoni nostalgiche e sentimentali ma padroneggia anche altri idiomi come la più leggera e ballabile coladeira. Ne è un esempio Angola che ora Da Capo Verde al Brasile dei Dolci Barbari 7 ascolteremo e vedremo. Qui la musica assume quei tratti di fisicità e di coinvolgimento corale, tipici di tante aree del continente africano. In particolare quando si fanno feste giorno e notte senza niente ma con anima e saggezza. Miss Perfumado Dopo quanto visto ed ascoltato non ci sarebbe bisogno di aggiungere che in lei (pur essendogli stato affibbiato il soprannome di Diva dai piedi scalzi, abituata com’era a girare così per le strade di Mandelo ed anche sul palcoscenico nei concerti dal vivo), non c’è alcuna posa divistica o l’artificio della star e dell’attrice. Ed anche dalla sua voce non traspare alcuna enfasi o teatralità. Al pari di Billie Holiday, a cui è stata spesso paragonata, Cesaria è un esempio illuminante di discrezione, di capacità di volgere in pregio i propri limiti e le proprie peculiarità timbriche. Quelle di una voce di grande intensità solcata da impurità che la rendono ombreggiata, ma anche aperta al candore fragile che ha la consistenza del miele. È un variare privo di retorica che rivela continuamente palpiti e tensioni emotive oltre all’irrequietezza di una naturale, spontanea, intelligenza musicale. Anche i testi solo in qualche caso veicolano la protesta che vale comunquue la pena citare perché ci tocca direttamente quando afferma che “Lui che può spesso può troppo / senza alcun riguardo per chi soffre. / Per gli umili ci sono briciole per sopravvivere / o forse un po’ di carità per alleggerire le coscienze di chi vive di lusso”. Più spesso però il tema della propria condizione echeggia attraverso un dolore composto ed intimo come nella celebre Miss perfumado che Evora afferma essere la sua canzone preferita. “Lasciami distesa a sognare / a sognare di una donna gentile / nell’ombra del suo triste sguardo e del suo corpo dolcemente profumato. Lasciami morire nell’ombra dei tuoi piccoli occhi / Lasciami morire sognando come una colomba nel suo nido”. 8 Musiche dal Mondo Cesaria & Gaetano Nonostante le sue straordinarie qualità, a Cesaria per sbarcare a Parigi e diventare ambasciatrice della morna c’è voluto un tempo lunghissimo, impensabile per un artista europeo. Per fortuna nella sua vita si affaccia alla fine degli anni Ottanta il produttore José De Silva, anch’egli originario di Capoverde, poi trasferitosi in Francia. “Fino a quel momento ero sempre stata imbrogliata dalla gente con cui lavoravo” - ricorda Cesaria - “fu solo a partire dal 1987 che la mia carriera diventò una cosa seria”. Ed è un trionfo quasi inatteso che la porterà in tutte le capitali mondiali, dagli Stati all’Ucraina e poi, come vedremo nel prossimo video, in Brasile, a Rio De Janeiro dove incontra uno dei maggiori protagonisti della tappa successiva della nostra rotta: Caetano Veloso. Quarto Mundo Ed eccoci sbarcati in Brasile, un paese che ha conquistato un ruolo di primo piano nel processo di globalizzazione e dove la musica e i musicisti hanno la stessa popolarità e suscitano l’identica travolgente passione che ha reso leggendari – lo sappiamo bene – il calcio e i calciatori. Merito soprattutto, ecco il paradosso, della presenza africana, a partire dagli schiavi depositati a Capoverde. Nel giro di tre secoli – fine ’500 seconda metà dell’ottocento – ne vennero traghettati tra i 4 e i 5 milioni, molto più che nel Nord America nello stesso periodo. Provenivano anch’essi da luoghi molto diversi con un ruolo predominante dell’etnia Bantù, originaria dell’Angola. Diffondono le loro pratiche religiose, i loro strumenti, le loro tradizioni musicali in un ambiente che consente di preservarle meglio ed anche più disponibile al mescolamento ed alla fusione, senza che vengano cancellati pregiudizi, discriminazioni, forme di razzismo che si ritrovano in maniera più strisciante nella stratificazione sociale. A chiunque avesse messo piede in Brasile nel secolo scorso, sarebbe parso immediatamente evidente che al livello più alto c’è una aristocrazia di bianchi. Gli stessi che per anni disdegnarono ed ostacolarono il “fracasso” del samba preoccupati della loro rispettabilità. Da Capo Verde al Brasile dei Dolci Barbari 9 Scendendo nella scala gerarchica, troviamo un secondo mondo estremamente vario e frastagliato di media borghesia, come viene chiamata, spesso simboleggiata nelle favolose spiagge di Rio. La ricchezza e il benessere convivono però con una realtà caotica, caratterizzata da uno sviluppo urbano folle e incontrollato dove trovano posto le favelas. La maggioranza che le abita è meticcia perché anche in questo terzo mondo i matrimoni misti sono una regola, tant’è che le sfumature della pelle in Brasile sono praticamente infinite. C’è poi un quarto mondo confinato più che altro nel Nord-est, dove si sono rifiugiati, fin nelle foresta amazzonica, indios e schiavi neri. Adesso vi sarà chiaro perché ho scelto di concentrare l’attenzione sul movimento tropicalista. Altrettanto interessante sarebbe stato affrontare, tempo permettendo, decine di altri soggetti. Ad esempio la musica di tradizione nordestina a cui appartiene il brano emblematico che ora ascolteremo corredato da una sequenza di immagini che vi darà un’idea di quanto sia caparbia e tenace la volontà di libertà che anima i suoi coloratissimi abitanti. Si intitola proprio Quarto Mundo, un misto di arcaicità e raffinatezza realizzato da Egberto Gismonti. Carnevale Come è facile immaginare, il processo che vede mescolarsi diverse tradizioni musicali è particolarmente complesso e frammentato anche se, ad un certo punto della storia – parafrasando il simpatico frate di Robin Hood – Dio creò il Samba e tutto cambiò. E, infatti, il samba è molto più di un genere musicale, è una vera e propria cultura, un linguaggio alimentato da un arcipelago ritmico nel quale è sedimentata tutta la storia della musica popolare brasiliana. Per avere dimestichezza di questo armementario ritmico, dove i movimenti del corpo, dal dondolio all’ancheggiamento, hanno un ruolo fondamentale, basta frequentare una Escola de Samba che, in primis, è un luogo di aggregazione, un incrocio tra centro sociale, club sportivo, scuola di arti e mestieri, giardino di infanzia, dopolavoro, atelier di scenografia, cantiere meccanico, centro anziani. E, punto da sottolineare, nel suo quartier generale sono presenti e rappresentate tutte le generazioni. 10 Musiche dal Mondo Il risultato del lavoro di tutto l’anno svolto nella Escola diviene visibile come per incanto durante la sfilata carnescialesca: una sorta di meteora sfavillante e roboante la potremmo definire che lascia dietro di sé un misto di euforia e di tristezza, di gioia e nostalgia. In queste occasioni i poderosi percussionisti che martellano agogos, cuicas, tamborin, pandeiros, surdos e così via sono letteralmente migliaia, che coordinandosi tra di loro producono un effetto collettivo straordinario, inaudito in primo luogo per la irresistibile qualità del ritmo. Per questo conserva una forza che a noi sembra eccessivamente frenetica, delirante. “Filmare un carnevale – ha scritto uno che se ne intende, il grande regista Orson Welles che oggi avrebbe già compiuto cento anni – è come filmare un uragano. Impossibile riuscire a coglierne l’essenza, la forza e l’emozione”. Lui, infatti, da genio audace qual era, ci aveva provato nel 1942, quando Roosvelt l’aveva spedito ambasciatore in Brasile, ricostruendo addirittura l’antica Praça Onze. L’aveva dovuto fare perché la storica sede del Samba e del Carnevale era stata spazzata via, qualche anno prima, assieme a tante abitazioni popolari del quartiere per far fronte ad un trionfale stradone che prese il nome del capo del governo in carica Getulio Vargas. In quell’occasione il poeta Herivelto Martins consegnò alla storia questi versi: Addio, mia piazza, addio Sappiamo già che scomparirai porta con te il nostro ricordo Ma resterai eternamente nel nostro cuore e un giorno avremo una nuova piazza e racconteremo il tuo passato. Come voleva, appunto, fare Wells con il suo film che non riuscì mai a portare a termine per le difficoltà frapposte dalla produzione. Si sarebbe dovuto intitolare emblematicamente È tutto vero. Rimangono però una quantità di sequenze veramente di culto da cui sono state estrapolate e montate alcune scene per mostrarvele, inclusi due simpatici personaggi che inscenano un samba alla scatola di fiammiferi, a dimostrazione che il samba può letteralmente prescindere dallo strumento musicale. Basta un battito cadenzato delle mani, magari con un sottofondo di berimbau, o anche una scatola di Da Capo Verde al Brasile dei Dolci Barbari 11 fiammiferi per inscenare la musica e la danza. Tanto per dimostrare l’abilità raggiunta anche da chi non può permettersi altro. Agua de Beber “La musica serve a molte cose. Ad ascoltare, ad innamorarsi, a ballare, a marciare, ad aggredire, persino ad uccidere. Il Problema è l’equilibrio”. Parola di Antonio Carlos Jobim, per gli amici Tom che non è il diminutivo di Antonio, ma il sinonimo di suono, o meglio dell’equilibrio tra suono e parola. È lui il maggior protagonista, il grande genio lo potremmo definire senza enfasi alcuna, che innova, all’inizio degli anni Sessanta con quella che verrà chiamata bossa nova. Quando un musicista faceva qualcosa di diverso, di originale e lo comunicava in modo semplice, si diceva che aveva bossa. E quindi la bossa nova nasceva in opposizione a tutto ciò che un gruppo di intellettuali considerava superato, vecchio, arcaico, fuori tempo, a partire proprio dalla musica. L’altro genio che affianca Tom in questa vera e propria rivoluzione si chiama Vinicius De Moraes, che aveva due spiccate qualità: scegliere collaborazioni perfette – la prima – intuire i mutamenti in corso, avvertendo anzitempo che quella stagione felice e creativa stava volgendo al termine come ci spiega Corlos Lyra, all’inizio del prossimo video. E con essa il sogno democratico del Brasile. Con il golpe militare dell’aprile 1964 le aspirazioni, le effervescenze, le speranze alimentate e accompagnate dai movimenti culturali di quel periodo, verranno infatti represse e soffocate. Per nostra fortuna, la bossa nova, dopo aver cambiato la cultura musicale del Brasile, era stabilmente entrata nel Dna dell’intero Pianeta Musica. Come ci testimonia il prossimo video, una serata per la Tv svizzera di Lugano con in primo piano i nostri protagonisti, Tom e Vinicius. Tropicalia Le intuizioni di Vinicius non tardano a diventare realtà e, infatti, con il golpe del 1964 il Brasile si trova a vivere in un clima sempre più 12 Musiche dal Mondo soffocante. È questo il periodo in cui inizia a svilupparsi, a prendere corpo, un movimento che segnerà una nuova svolta storica nella vita culturale e musicale: il tropicalismo. Abbiamo appena il tempo di ascoltare due brani emblematici, ma l’argomento meriterebbe un intero ciclo. Perché il tropicalismo è molto più di una connotazione geografica. Per intenderne il significato e delinearne i caratteri dobbiamo innanzitutto fare riferimento ai nuovi scenari della musica e non solo. “La nostra generazione (potrei aggiungere la mia generazione) è cresciuta – ricorda Gilberto Gil, uno dei leader del movimento – sotto il segno di Hollywood, della Coca Cola, della società dei consumi, della musica pop, del Chewing gum e ha sempre avuto un sogno. Il sogno del mondo”. Il sogno del mondo, musicalmente parlando, significa conoscere, assimilare o, meglio, divorare Beatles, Rolling Stone, Bob Dylan, Jimy Hendricks, tanto per fare qualche esempio illustre. Ma non si tratta di pura e semplice americanizzazione. Al contrario è una chiave per definire la loro identità di brasiliani, secondo un concetto, una metafora che aveva esplicitato anni prima lo studioso José Osvaldo de Souza Andrade, riguardante la modalità di apprendimento culturale in Brasile. L’aveva denominata antropofagismo. Riprendendo la storia di un sacerdote colonizzatore divorato secoli prima dagli indios, De Andrade aveva teorizzato che per i brasiliani moderni era necessario divorare la cultura moderna, digerirla e farla propria. In questo modo si poteva essere veramente brasiliani, acquistando dal nemico colonizzatore, come avevano fatto gli indios, la forza e la virtù. Anziché limitarsi a coltivare la tradizione, l’artista doveva aprirsi a 360 gradi assimilando gli elementi stranieri usandoli come armi della riscossa ideologica e musicale del Brasile e più in generale del Terzo mondo. Questo è il Tropicalismo: un modo nuovo di ridefinire la propria identità. Un movimento musicale, ma anche culturale e politico. Perché quella che può sembrare una battaglia fra conservatorismo e voglia di novità in campo musicale, in realtà nasconde il disagio e le difficoltà di chi vive in quegli anni difficili freschi di golpe. Nel brano che ora ascolteremo, introdotto dallo stridio del violoncel- Da Capo Verde al Brasile dei Dolci Barbari 13 lo e accompagnato dalle percussioni suonate da un gruppo di ragazzi energici e vigorosi, Caetano Veloso la dice lunga sulla risposta da dare. E infatti alla seconda strofa esclama: Io organizzo il movimento io oriento il Carnevale Io inauguro il monumento Nell’altopiano centrale del Paese. Si tratta di un brano emblematico già nel titolo oltre che nelle parole: Tropicalia, denominazione ripresa da un quadro dell’artista e grafico Helio Oiticica e divenuto in seguito, quando il movimento ha bisogno di un’etichetta, tropicalismo. Douces Barbaros La versione originaria di Tropicalia è del 1967, ma la distanza dalla bossa nova è veramente epocale. Niente più atmosfere dolci e solari o belle ragazze che frequentano le spiagge di Ipanema, ma una musica spesso spigolosa con chitarre che stridono, testi sprizzanti ironia quasi surreale, una presenza scenica a dir poco devastante: capelli lunghi, vestiti strampalati, movimenti ai limiti della provocazione. È quanto avviene, ad esempio, con la tournée del 1977 dei Doces Barbaros – i dolci barbari – che ricompatta il clan baiano composto da Veloso, Gil, Maria Bethania e Gal Costa, i quali sono particolarmente stimolati dal piacere di ritrovarsi tutti assieme sul palco che da sempre considerano il più coerente al loro messaggio, in alternativa alle seduzioni televisive. I dolci barbari altro non sono, nelle fervide menti dei quattro amici, che i Barbari che invasero Roma, traslati in un gruppo di baiani pronto ad invadere tutte le città del Brasile. Un’invasione indolore, dolce appunto, che ambisce solo alla creazione di una sorta di paradiso dionisiaco. Spinti dall’amore universale tipico degli hippie, i dolci barbari, invocano le divinità Yoruba. Per l’occasione Gil si presenta – come ora vedremo nelle immagini storiche che si alternano a quelle recenti in questo straordinario video – con completo bianco e panno in testa come un super Xango, famoso per essere il Dio del tuono e della 14 Musiche dal Mondo giustizia. Ad aprire lo spettacolo è una sorta di Ouverture a tempo di marcia scritta da Caetano: Tutto è ancora tale e quale E intanto nulla è uguale Noi cantiamo la verità Ed è sempre l’altra città vecchia. 15 * BUENA VISTA SOCIAL CLUB * 16 17 Buena Vista Social Club Premessa e Guantanamera Quando abbiamo proiettato il film di Win Wenders, nell’ultima puntata del primo Videoforum, durando più di un’ora e mezzo, l’introduzione è stata molto sintetica anche se, come dicevamo, Cuba avrebbe meritato un’ampia approfondita analisi trattandosi del luogo in cui sono maturati tutti quei sincretismi musicali ramificatisi in ogni angolo del Pianeta. Abbiamo cercato di rimediare ampliando l’analisi storica e culturale così da avere un quadro più organico di quest’isola che oltre ad essere un luogo isolato, dai confini netti e non modificabili, è anche un luogo esposto a tutte le rotte, grandi stazioni simboliche di percorsi attraverso i mari, e dunque abituato ad accogliere l’elemento straniero, ad assorbirlo, a metabolizzarlo, a trasformarlo. Cuba anche da questo punto di vista è un caso esemplare perché vi si è sviluppata un’originale dialettica tra l’invasione esterna che ha alimentato sempre nuovi idiomi e la ricerca costante, indomabile di una identità. Tutto ciò ha creato le condizioni che hanno fatto di Cuba una sorta di laboratorio all’aria aperta dove la musica – come vedremo – è dappertutto: strade, cortili, scuole, locali da ballo. È una musica strutturata per raccogliere energia e per comunicarla, per dividerla e restituirla attraverso il corpo e la danza, non separando mai il divertimento dall’impegno. E proprio perché legata alla vita di tutti i giorni è musica che si rinnova. Di più. Possiamo dire che Cuba riesce da sola a rappresentare l’intero universo latino-americano proprio perché all’interno delle sue contraddizioni, delle sue passioni, dei suoi sogni, della sua ricerca di identità, si sono incontrati, scontrati e mescolati quei tratti peculiari che hanno invaso nel tempo l’intero Pianeta. Si potrebbe scegliere 18 Musiche dal Mondo addirittura una sola canzone come Guantanamera, per mettere assieme questa realtà continentale. Perché anche se la canzone di Joselito Fernandez è cubana, è diventata anch’essa una sorta di inno internazionale. Nel fatidico ritornello, guajra è da intendersi non come il genere di appartenenza ma come femminile di guajro, un termine con cui si chiamano i contadini cubani. Guajra Guantanamera celebra, dunque, le contadine di Guantanamo e per estensione le donne, come suggeriscono anche le immagine riprese in diretta nell’isola dalla nostra esperta. Sarà allora il caso dedicare a loro, alle donne, questo classico che non ha concorrenti come ambasciatrice di Cuba. Santeria: Babalù Aye Immagino che a molti sarà capitato e continua a capitare, magari appena pranzato, di sorseggiare un caffè ben zuccherato e poi di accendere una sigaretta o un sigaro. Bene, d’ora in poi sappiate che così facendo vi state relazionando con i personaggi più importanti della storia di Cuba, che sono essenzialmente due: lo zucchero e il tabacco. Tabacco e zucchero che, come ha argutamente annotato lo storico e scrittore Fernando Ortiz, domandando una quantità opposta di manodopera, bassa il tabacco, elevata lo zucchero, dando poi vita ad una serie di paradossi cromatici. Scuro, da nero a mulatto – come scrive Ortiz – il tabacco richiama a Cuba coltivatori bianchi, molti dei quali provenienti dalla Canarie; chiaro “da mulatto a bianco”, lo zucchero mette in moto l’immane razzia di uomini neri che dall’Africa vengono massicciamente deportati nell’isola. Per l’isola è una svolta epocale. Gli schiavi che arrivano a partire dal 1762 l’anno in cui si conclude una lunga fase di scontri tra conquistadores spagnoli e colonizzatori inglesi con la restituzione dell’isola alla Spagna, presentano una grande varietà etnica. Ma la stessa immigrazione bianca è tutt’altro che omogenea: andalusi, canari, galiziani e così via. Ma il processo di mescolamento di questi mondi lontani e così sfaccettati non obbedisce affatto ad uno standard culturale già definito, ad una progressiva integrazione nell’ideologia dominante, com’è nella nostra concezione di integrazione. Produce cambiamenti sia Buena Vista Social Club 19 nella cultura originaria che in quella ricevente: è un dare e un avere o per dirla con un neologismo coniato da Bronislaw Malinowsky è una transculturazione. Una dimostrazione esemplare la fornisce la Santeria, cioè la principale corrente di culto che si afferma a Cuba come risultato del fondersi della tradizione africana, in particolare quella dell’etnia Yoruba, con la religione cattolica. Diversamente da quanto accade nel Nord America, il sistema cubano, consente agli schiavi di avere proprie istituzioni di riferimento. Sono i Cabildos de nacion, specie di società gerarchizzate che si sforzano di conservare la memoria e praticare i loro riti, di partecipare a quelli dei bianchi come il carnevale, di dedicarsi alla musica. È una transculturazione facilitata dall’associazione dei santi cattolici alle divinità del Pantheon yoruba. E allora Changò, emblema della forza incontrollata, si identifica con la guerriera Santa Barbara, dalla fede incendiaria. Ma assieme a tale sovrapposizione ecco comparire l’ascia, il sigaro e i tamburi di cui Changò è signore e padrone. Babalù Ayè è invece San Lazzaro. Le leggende lo descrivono come un esule, costretto ad abbandonare la terra d’origine, il Dahomey, perché responsabile di aver offeso le divinità più anziane che lo puniranno con il vaiolo. La sua salivazione può produrre terribili epidemie ma anche guarigioni e prosperità. Egli è, in sostanza, il riflesso della bontà e della malvagità di noi uomini. Che il riferimento ai santi cattolici non cancelli il proprio credo religioso trova conferma nel ruolo che svolgono la possessione e la trance e una quantità di formule rituali che assolvono a precise funzioni terapeutiche o a risolvere una quantità di problemi quotidiani. Facciamo un esempio concreto: volete attrarre una persona? Ecco la ricetta: anice stellato, melissa, menta, basilico fine. Bollire il tutto a lungo e utilizzare il decotto per sette bagni, durante i quali è consigliabile ascoltare musica di grande impatto rtmico e percussivo. Percussioni Immagino che vi avrà colpito di questa autentica rappresentazione di un rito tipico della Santeria, oltre alla lingua africana, lo yoruba, la presenza determinante della percussione. Bene, se volessimo indivi- 20 Musiche dal Mondo duare un simbolo unificatore dell’identità culturale cubana (e caraibica più in generale), un simbolo tale da rappresentare secoli di resistenza allo sradicamento e base dei successivi sincretismi culturali, questo è il tamburo. La parola tamburo, per uno yoruba, non designa solo uno strumento musicale, ma anche un rituale, una festa, una riunione tra i membri di una comunità che, come nel nostro caso, si aggrappa ai propri valori per sopravvivere. Nella Santeria il veicolo fondamentale di comunicazione con le divinità è costituito proprio dalle percussioni, dai tamburi che suonati in combinazione fra loro, si rivolgono a tutti i santi dell’olimpo yoruba, gli Horishas. Sono cruciali perché non si limitano ad assolvere ad una mera funzione ritmica, ma guidano essi stessi il canto e la preghiera. Scrive Ortiz: “La musica di questi tamburi negri è un linguaggio che sfruttano i valori tonali caratteristici delle lingue parlate delle popolazioni africane che furono portate a Cuba. La loro combinazione molto complessa costituisce una vera e propria conversazione a più mani”. Ora ampliate questo discorso ad una quantità di altre etnie come quelle provenienti dal Benin, dal Dahomey, dall’Angola, dal Congo, dallo Zaire che hanno altre tipologie di tamburi. Considerate poi che nella tradizione africana non esiste il tamburo in astratto, ma il tamburo che ciascuno personalizza in base alle proprie esigenze espressive. Immaginate infine le combinazione, gli incroci, gli adattamenti ai contesti più vari prodottisi in seguito: avrete così un’idea di quanto vasto e caratterizzante sia questo universo percussivo. A me fa venire in mente le parole di un classico del jazz che si intitola All Africa. Il colpo di tamburo ha una storia ricca e magnifica, piena di avventura, eccitante e misteriosa in parte amara, in parte dolce. Ma tutto è in questo colpo di tamburo. Dicono che iniziò da un canto e da un pianto e una mano nera si posò su un tamburo africano. Buena Vista Social Club 21 Carnevale Il gruppo che nel precedente video inscenava la Santeria è uno dei tanti che popolano il carnevale, cioè l’altra istituzione che segna la storia di Cuba in quanto è vera e propria ragione di vita e non saltuaria occupazione o passatempo ludico. Lo si evince dalla stessa articolazione cittadina. Il quartiere, o meglio il Barrio, non è per la gente di Cuba una pura e semplice ripartizione amministrativa, ma un territorio mobile, variabile, che coincide appunto con lo spirito del carnevale. Ogni barrio si dà una variegata strumentazione associativa che, assieme ad una quantità di funzioni di carattere religioso o assistenziale, ha il compito di organizzare il Carnevale. Sono le Congas e le Comparsas, dirette discendenti dei Cabildos. Le prime sono costituite essenzialmente da un gruppo di percussionisti e da gente che segue liberamente il ritmo, il tutto guidato dal suonatore della corneta, strumento a cinque note di tono stridulo e festoso; le seconde sfilano improvvisando coreografie senza un rigido canovaccio, ma solo seguendo i ritmi della prima. Questo tessuto di cabildos, congas e comparsas, in cui si ritrovano tutte le componenti etniche dell’isola, è lo specchio di quel vitalismo che rimescola continuamente tradizioni e innovazioni e che ha come cemento unificante proprio la musica. Non è un caso che le sedi delle comparsas vengono chiamati focos culturales. Perché un foco cultural non è un semplice punto di appoggio della comparsa, ma un centro vivo di animazione culturale, di conservazione dell’identità, è una scuola che trasmette ai più giovani il senso di un’appartenenza, oltre alla musica ed alla danza. Ecco spiegato perché quei quartieri, all’apparenza assopiti nella calura con persone indolenti e svogliate, sono invece una sorta di vulcano in sonno, ma sempre attivo, che si risveglia con una forza incontenibile nell’eruzione del carnevale che rispetto alle sfilate di Rio, è più spoglio, meno sontuoso. Un ritrovarsi tra amici del quartiere pronti a rovesciare nelle strade fiumi di lava agitandosi, ballando, riempendo per tutto il giorno le vie del barrio. 22 Musiche dal Mondo Chan Chan Fino ad ora abbiamo girovagato, con un’ottica antropologica, per le aree urbane. Se ci spostiamo in campagna verso le montagne di Cuba, possiamo scoprire altri elementi vitali il cui emblema è il Son, l’equivalente del blues nella cultura afro-americana. Il Son viene spesso chiamato Son Montuno, perché arriva dalle montagne, come quei musicisti di cui ci informa una famosa canzone del Trio Matamoros, vero pioniere del Son che lo ha diffuso non solo in tutta l’isola ma in tutto il continente americano. Si intitola Son de la loma e ci si chiede da dove vengono, di dove saranno quei cantanti e quei musicisti: De donde serán? Seran de la Habana? Seran de Santiago, tierra soberana? La risposta è: No, Son de la loma, cioè delle colline e come la musica sono scesi nella capitale e nelle regioni occidentali. Adesso Cantano en lano, cioè in pianura. Il brodo di coltura del Son sono proprio le zone montagnose, le stesse in cui erano venuti rifugiandosi i cimarrones, in fuga dalla schiavitù. A differenza che in altri punti dell’isola, la nuova forza lavoro nera si inserisce anche nella piccola agricoltura dei bianchi arrivati dall’Andalusia e dalle Canarie: le condizioni di forte isolamento in cui vivono queste piccole comunità rurali, isole nell’isola, favoriscono la mescolanza. Alla base del Son c’è, da un lato, il patrimonio spagnolo della chitarra e della strofa, un patrimonio già ampiamente influenzato, non bisogna dimenticarlo, dalla cultura musicale e poetica araba. Questo patrimonio si fonde con altri elementi di origine africana, dando origine a qualcosa di sostanzialmente nuovo. Due in particolare: lo spazio riservato all’improvvisazione, sia vocale che strumentale; l’assortimento strumentale e le percussioni segnatamente: clave, maracas, bongos per ricordare le principali. “Grazie al Son – scrive lo storico Alejo Carpentier – la percussione afrocubana, confinata nelle baracche degli schiavi e nei barrio popolari, rivelò le sue meravigliose risorse espressive, innalzandosi ad una condizione di valore universale”. Buena Vista Social Club 23 “Il Son – spiega ancora Carpentier – diede il senso della poliritmia nell’ambito di una unità di tempo. Si era detto, fino ad allora, il ritmo della contradanza, della guaracha, il ritmo del danzón, ammettendosi la pluralità della successione. Il Son, invece, inaugurava categorie nuove. Dentro un tempo generale, ogni elemento percussivo conduceva una vita autonoma”. È anche per questo che il Son ha dato vita ad una quantità di nuovi intrecci imparentandosi e fondendosi con altri generi. Ad esempio dalla Contradanza, portata a Cuba dai francesi fuggiti da Haiti, nasce il Danzon che a contatto con il Son darà vita al Mambo, al Cha Cha Cha e poi alla Salsa. Questo per darvi un’idea approssimativa e semplificata del policromo intrico cubano. E allora soffermiamoci un attimo sul Son, o meglio sul brano più famoso e popolare (con Guantanamera) di tutta la musica cubana da quando l’hanno rilanciato Compay Secundo e gli altri compari ottuagenari del Buena Vista Social Club: una tradizione che non da segni di cedimento. Da Alto Cedro vado a Marcané Fino a Cueto e poi a Mayarì L’amore che provo per te non posso negarlo Se mi viene la voglia non posso evitarlo. Sono i primi versi di una storia che viene sempre dalle campagne della regione orientale: Juanica e Chan Chan, i due personaggi del brano, erano protagonisti di favole già nell’Ottocento. L’amore di Chan Chan per Juanita doveva essere veramente grande se per andarla a trovare doveva fare una trentina di chilometri dalla montagna al mare. Quando Juanita e Chan Chan / si strofinavano sulla spiaggia i loro fianchi ondeggiavano /e Chan Chan si eccitava Ma il duro veniva dopo, quando bisognava tornare indietro e Chan Chan era costretto a procedere in salita su un sentiero coperto di foglie secche. Mi voglio sedere su quel tronco laggiù Altrimenti non potrei farcela dice lo spossato Chan Chan. 24 Musiche dal Mondo Dizzy Gli arzilli vecchietti del Buena Vista – alcuni di loro scomparsi di recente oltre i novanta – sono una dimostrazione, un caso esemplare di come si possa riuscire a preservare – in un contesto molto problematico – un patrimonio ormai secolare che si tramanda di generazione in generazione. Nel finale ci ritorneremo Altrettanto sbalorditivo è come la musica cubana riesca a conquistare il mondo, come risultato di quella comunicazione multidirezionale che è nel Dna dell’isola. Nell’immediato dopoguerra, ad esempio, la vita notturna dell’Avana è al culmine, favorita dallo sviluppo rapidissimo del turismo statunitense con molti americani che stabiliscono a Cuba la propria residenza nelle strutture ricettive, e gestiscono night e casinò, con l’accento e senza accento. Ma proprio in quegli anni non tutta la musica cubana ha per cornice l’isola: moltissimi musicisti la lasciano per altri lidi, in un fenomeno migratorio, dall’andamento incostante ma complessivamente di proporzioni decisamente massicce, una vera e propria diaspora. Può succedere così che uno straordinario suonatore di Conga incontri nella New York del tempo, nel 1947 per la precisione uno dei grandi protagonisti del nascente bebop, il trombettista Dizzy Gillespie che ne rimane impressionato al primo ascolto. Chano Pozo Gonzales, questo il suo nome, si era fatto da sé frequentando assiduamente la Santeria, la manifestazioni del carnevale avanero ed anche luoghi ed amicizie poco raccomandabili che gli sarebbero costate la vita. In fondo egli non faceva che proseguire, rivitalizzandola, quella tradizione percussiva che affondava le radici nella notte dei tempi. Ora, per merito della geniale creatività gillespiana, questo fossile musicale vivente si fondeva con l’avanguardia più spregiudicata del jazz, dando vita ad un corto circuito che produrrà eccellenti risultati fino ad oggi con il talentoso concorso di musicisti dislocati in tutto il Pianeta. Tant’è che la straordinaria formazione (ora la vedremo in azione) ha la denominazione di Orchestra delle Nazioni Unite. Ciò non impedisce a Dizzy di fare il burlone, salvo quando viene per lui il turno di soffiare in quella sua tromba periscopica, con la campana rivolta verso il cielo: allora si concentra intensamente, gonfia in modo Buena Vista Social Club 25 smisurato le gote e il collo e distilla quella sua musica inimitabile su un tappeto ritmico inequivocabilmente afro-cubano. Le culture volenti o nolenti si incontrano. Conga / Mambo / Rumba La scena dell’Afro-Cuban-Jazz è particolarmente nutrita con presenze di prim’ordine da Machito a Tito Puente, da Mongo Santamaria a Chico O’Farrill per citare i più conosciuti. Ma è indubbio che a conquistare l’Europa e l’America, a partire dai Cinquanta fino ad oggi, è quella straordinaria varietà di danze che hanno incontrato i gusti del pubblico mondiale ed anche quelli delle nostre sale da ballo. È un mondo intero che si svela, aprendo il campo ad una dimensione liberatoria che affranca le gambe di stampo europeo dall’ordine compunto di giri e passi scivolati. Irrompe la seduzione collettiva come nella conga in cui i partecipanti, ciascuno agganciato ai fianchi di chi lo precede, si snodano in file a serpentina: una sorta di conquista e delimitazione del territorio che rivela esplicite origini tribali. Anche la rumba, nata nel contesto del carnevale con una forte connotazione africana, partecipa dei ritmi originari di Cuba che intraprendono l’avventura migratoria. Mambo e Cha Cha Cha, sicuramente i più popolari, seguono qualche anno dopo. Se volessimo indicare il massimo artefice della loro diffusione nel mondo, fra i tanti si potrebbe fare il nome di Perez Prado che per assicurarsi il successo internazionale riveste i ritmi cubani in voluttuosi arrangiamenti e orchestrazioni. Si racconta che Perez Prado abbia derivato il ritmo del mambo dai tagliatori di canna da zucchero, poi traducendolo in una versione sincopata. Il Cha Cha Cha, più lento e più delicatamente sexy del mambo, deriva, invece, il suo nome dal suono strisciante provocato dalle ciabatte delle donne cubane. Tanto per dire come musica e vita siano sempre strettamente intrecciati. 26 Musiche dal Mondo Guaguancò A fare da contraltare ai successi mondiali di Las Vegas, New York, Parigi, Londra, per quel virtuoso dualismo a cui accennavo, rimane la realtà popolare di Cuba che custodisce, fuori da logiche commerciali, un vasto patrimonio culturale: senza la sua creatività, sia detto per inciso, non ci sarebbero neppure esportazioni. Le ragioni di questo rilassato fervore creativo sono esplicitate e sintetizzate nel manifesto della Cubanìa. Com’è noto per citarne anche solo pochi passi occorre ci si attrezzi e si degusti El Oro de Cuba: un sigaro cubano. Solo allora possiamo dire senza equivoci di sorta: SIAMO CUBANI! Siamo calorosamente ospitali. Amiamo le parole solidarietà, garanzia, mulatta, ciboney, berbecue, solare, bicicletta. Siamo bravi nelle nostre professioni e nei mestieri, e anche nell’arte dell’amore che viviamo con passionalità concedendo però tempo all’incanto. SIAMO CUBANI! Apprezziamo la vita comoda. Viviamo sotto un cielo azzurro. SIAMO CUBANI! Torniamo spesso con la memoria al colore della pelle per discutere le cause che hanno determinato tale mosaico. Siamo spagnoli, africani, francesi. Ogni occasione è buona per fare musica, quella con cui balla l’intero Pianeta. Ce lo dimostra il prossimo video, girato nei quartieri popolari dell’Avana, e che prende avvio con un parente prossimo della rumba, il meno occidentalizzato guaguancò. Come spiega la voce fuori campo, l’uomo tenta di possedere la donna che si difende, ma lo fa con movimenti sinuosi che coinvolgono il tronco, le spalle e soprattutto le anche, provocando una maggiore intensità erotica. Si tratta di interpreti di strada incredibilmente fantasiosi, aperti ad un alto contenuto di improvvisazione, intrecciando variazioni continue su un ritmo di base. È la conferma di una “tradizione in movimento” che vive nel gioco, nel flusso dei suoni, nel tatto, nella gestualità. Insomma, se la musica è la forma principale di comunicazione, il ballo le respira accanto. “Chi nasce a Cuba nasce ballando per la strada”. Buena Vista Social Club 27 Los Van Van La rivoluzione cubana – non si può non farne cenno – ha prodotto effetti storici e politici profondi su cui è ancora aperto il giudizio e la discussione. Con un certo distacco, possiamo dire che ha fatto nascere passioni e avversioni di segno contrario, generando di volta in volta unità ed odi inestinguibili, riuscendo contemporaneamente a dividere e rinsaldare il senso di collettività del popolo cubano forzatamente isolato dal resto del mondo da ormai mezzo secolo. Ha dato un’ulteriore accelerazione al processo di definizione di una propria autonoma identità, elevando e potenziando la battaglia per l’indipendenza culturale e al tempo stesso ha ampliato l’esodo di musicisti che a vario titolo e per ragioni molto diverse hanno lasciato l’isola, con il risultato di una sempre più vasta diffusione della musica cubana e di sempre nuove contaminazioni. La salsa, ad esempio, pur manifestando in modo evidente la propria discendenza dal Son e dal Guaguancò, non disdegna affatto di fiorire in tutta l’area caraibica qualificandosi come genere panamericano per eccellenza. Il gruppo Los Van Van, fondato da Juan Formell, uno dei musicisti cubani più influenti a partire dai primi anni Settanta, è un esempio concreto di questa duplice valenza della Salsa. Perché la Salsa, secondo Formell, è tanto una questione di sangue, di radici, quanto un linguaggio comune, un prodigioso esperanto musicale. In un classico testo Formel lo dice esplicitamente: Questa musica che abbiamo ereditato figli e nipoti degli africani la amalgamiamo con la spagnola la francese e la portoghese, la misceliamo con quella inglese etc. etc./ ecco perché diciamo che è una sola” (nel senso di universale). Proprio per il loro carattere improntato all’amicizia ed alla solidarietà, Jean Formell e il suo gruppo, quando hanno saputo della nostra iniziativa volevano venire a darci una mano. Purtroppo hanno perso la coincidenza e sono stati costretti a far tappa a Rimini dove si sono esibiti al Bandiera Gialla. 28 Musiche dal Mondo Buena Vista Social Club In questo contesto così fecondo sinteticamente delineato, si situa a partire dal 1997 un manipolo di ottuagenari musicisti che guidato da un leggendario chitarrista americano, Ry Cooder, e poi da un grande regista tedesco, Wim Wenders, compie – secondo le regole della Santeria – un vero e proprio miracolo: riporta la musica di Cuba in vetta alle classifiche internazionali. Così più di trent’anni dopo, il cha cha cha di Xavier Cugat, il mambo di Perez Prado e la salsa di Celia Cruz, il mondo occidentale, come verificheremo nel film, riscopre il fascino della vecchia Avana. Tutto ciò avviene attraverso l’esuberante armonico di Cumpay Secundo, il pianismo sofisticato di Rubén Gonzales, la voce vellutata di Ibrahim Ferrer, le dolci melodie di Eliades Ochoa, per citare i più famosi. La loro musica – il Son – è una suadente miscela di chitarre acustiche, piccole percussioni e splendide armonie vocali che, di volta in volta, può dar vita ad una canzone d’amore appassionata, ad una ballata intrigante, ad una danza travolgente. Di fatto, il Buena Vista Social Club diventa un marchio di qualità che garantisce successo di pubblico e di critica: il disco ideato da Ry Cooder vince un Grammy, il film diretto da Win Wenders viene incensato dalla stampa e dai media: e i Concerti di questi arzilli vecchietti, si trasformano in eventi di culto contribuendo a diffondere il verbo del Son e il fascino discreto della tradizione musicale cubana in tutto il mondo, compresa la mitica Carnegie Hall newyorkese dove si conclude la tournée e il film. 29 un pensiero triste tra musica, danza e poesia 30 31 Tango un pensiero triste tra musica, danza e poesia Da Tango di Saura - Gelosia L’argomento che affrontiamo è certamente molto più noto della morna capoverdiana o del son cubano, ma ha anch’esso una storia intricata e particolarmente impegnativa da dipanare: il tango, appunto, un pensiero triste tra musica, danza e poesia: così abbiamo titolato. Ho pensato di svolgere quell’impegnativo compito con l’ausilio di alcune scene emblematiche, per il loro significato metaforico, tratte da due apprezzati film sull’argomento: Tango di Carlos Saura e Lezioni di Tango di Sally Potter; e, poi, dall’ascolto di celebri classici che ho corredato con immagini che hanno più che altro un valore informativo così da avere una sequenza di video che ci faciliterà anche il compito tecnico. Il chiarimento visivo – chiamiamolo così – è sicuramente utile, direi necessario, proprio perché il tango è particolarmente generoso di combinazioni ardite e si avvale di una gestualità complessa, spigolosa, tagliente, appassionante con fermate improvvise e riprese inaspettate. Un esercizio, insomma, di concentrazione, di virtuosismo, a volte di vera e propria acrobazia. Direi allora di cominciare con una scena del film di Carlos Saura. Com’è evidente fin dalle prime immagini con in primo piano la strumentazione per girare la pellicola, si tratta di un lavoro che mescola continuamente finzione e realtà, rappresentazione e ricostruzione scenica, memoria storica e memoria soggettiva, traducendo la danza, il ballo, in immagini superbe come mai il cinema aveva fatto prima. L’ho scelta anche perché mi è parsa una buona esemplificazione del gettonatissimo aforisma attribuito a Enrique Santos Discépolo, che definisce il tango come un pensiero triste che si balla. 32 Musiche dal Mondo Il protagonista Mario Soares, mentre sta lavorando alla sceneggiatura del suo musical è attraversato, appunto, dal pensiero doloroso della moglie ballerina che lo ha lasciato: un pensiero che si materializza nella danza appassionata della donna e del suo nuovo compagno e che si conclude tragicamente. Ma è solo di un sogno. Da Tango di Saura - Scena emigrati L’aforisma di Discépolo: il tango, un pensiero triste che si balla, coglie solo un aspetto, perché il tango non è stato e non è solo un pensiero triste, ma un aspetto particolarmente caratterizzante che differenzia questo originale sincretismo, il tango, da altri generi maturati nel Continente americano, con i quali condivide comuni matrici. Ci serviremo proprio di analogie e differenze perché sono polarità analitiche efficaci per intendere un processo molto complesso che, com’è avvenuto in sostanza nelle Americhe, ha per protagonisti popoli, etnie, culture di tutto il Pianeta. Potendo fare solo qualche rapido cenno a questa storia affascinante, si potrebbe partire con il dire che nel mix che già si andava producendo tra eredità dei nativi, e le concezioni imposte dai conquistadores di diverse sponde europee, un ruolo significativo, in certi casi determinante, viene svolto dalla crescente presenza della componente africana. Al sottoscritto, appassionato di jazz fin dall’infanzia, viene spontaneo sottolineare le sorprendenti analogie tra tango e jazz perché entrambe queste musiche, pur così diverse, condividono due aspetti decisivi: la gestazione in città portuali e la componente nera. Sul primo non occorre insistere più di tanto: Montevideo e Buenos Aires, come New Orleans, si affacciano sull’estuario di un fiume importante dove la comunicazione via mare con l’esterno ha giocato un ruolo decisivo nell’alimentare quel mix di culture a cui accennavo. La componente africana, davvero pervasiva nel jazz, può apparire meno rilevante nel tango. E invece si manifesta fin dal nome. L’etimologia della parola Tango, come sappiamo, è molto controversa, ma l’opinione prevalente, come ad esempio quella del sociologo uruguayano Daniel Vidart, è che si tratti proprio di una parola africana (lo Tango, un pensiero triste tra musica, danza e poesia 33 dicevamo sin dalla prima iniziativa dell’Audioteca) attestata a Cuba – che è un po’ lo snodo del processo, il cardine della storia – fin dal XVII secolo, dove il ritmo sincopato poi noto come habanera era chiamato dagli schiavi tango-congo. Questa parola/ritmo giunge nei paesi del Plata nella prima metà dell’Ottocento. Certo, la presenza nera in quest’area, caratterizzata da coltivazioni estensive, è stata sempre limitata rispetto alle grandi piantagioni di cotone o di zucchero che richiedevano un’elevata presenza di manodopera. Ma ancora nel 1836, i neri di origine africana contavano quasi un quarto della popolazione totale, e i loro riti festivi facilitavano la diffusione di complicati poliritmi nella cultura musicale rioplatense, esercitando un’influenza decisiva nella nascita del tango. A questo punto viene spontaneo chiedersi: perché, mentre quei riti e quelle figurazioni ritmiche non rinunciano, in altre aree del Continente latino-americano – pensate ai Caraibi o al Brasile – al loro vitalismo, in certi casi persino sfrenato, il tango sembra preferire le atmosfere tristi, elegiache, malinconiche, nostalgiche? La ragione fondamentale di questa diversità sta nel fatto che in un determinata fase storica, nell’intreccio che ha generato la formazione di questo mondo espressivo, hanno avuto un ruolo determinante gli emigrati, emigrati interni ed esterni. Sono loro ad imprimere al tango quel senso di invincibile nostalgia, di dolente malinconia conseguente allo sradicamento e al tentativo sempre problematico di ricostruire una propria identità nell’incontro-scontro con altri modi di intendere l’esistenza. Ebbene, in quella che sul finire dell’Ottocento verrà chiamata ‘alluvione migratoria’ un ruolo di primo piano, quantitativo e qualitativo, spetterà proprio agli italiani. Come viene esemplificato magnificamente nella prossima scena del film di Saura, la popolazione alluvionale si aggiunge a quella coloniale: un popolo carico di valigie avanza all’orizzonte tra il sole e la luna, sulle note di Va pensiero dal Nabucco di Verdi, fino a sciogliersi nel tango. 34 Musiche dal Mondo Carlos Gardel: Volver Cerchiamo di precisare ulteriormente. Come raccontano le storie, il tango nasce e diventa una pratica sociale, durante uno sconvolgente fenomeno di inurbamento che si compie attorno al 1880 e che interesserà soprattutto le due capitali del Plata: Buenos Aires e Montevideo. Come sempre accade in casi analoghi sono le periferie a crescere rapidamente e disordinatamente. È qui che confluiscono gli ‘uomini limitrofi’ come li chiamerà Catulo Castillo, uno dei grandi poeti del tango. Quelli che provengono da correnti migratorie interne sono i gauchos decaduti. Decaduti perché hanno perso la cultura legata alla terra, hanno perduto l’uso delle Baleadores, hanno perduto l’uso del cavallo. Gli altri, gli emigrati europei, invece di trovare la terra agognata, ecco il paradosso, finiscono nei conventillos, in abitazioni povere a budello a far compagnia ai discendenti degli schiavi, e non riescono, com’è facile immaginare, ad andare a tempo con la città che cresce vertiginosamente. Insomma, in uno spazio labile, mutevole, degradato, si insedia un mondo incredibilmente vario, un crogiuolo di gente ed etnie, portatrici di tensioni irrisolte, di identità claudicanti e compenetrabili. L’uomo sceso da cavallo, il gaucho, già un misto di indio e spagnolo, a contatto con la città prova un acuto senso di estraneità, non ha più lo spazio, come nella pampa, per praticare i suoi ritmi. Spesso per reazione diventa un guappo o un bulletto di periferia. In questo spazio mobile che sta prendendo forma, il gaucho incontra l’altro, quello appena sceso dalla nave, il quale vive la nuova realtà nel ricordo del paese lontano e con l’idea ossessiva di tornare. Nasce un nuovo io. La nostalgia ramifica all’interno, incrina la gioia di vivere. È una nostalgia moderna, che si compiace un poco di sé, un sentimento di poveri e soli. Per renderla sopportabile, non rimane che inscenare la propria vita, ricostruire la propria identità, esorcizzarla, nutrirsi di essa. Voglio essere dove non sono, voglio trovare ora, intatto, ciò che ho perduto. Tango, un pensiero triste tra musica, danza e poesia 35 È una delle corde estenuate del tango, il Volver, il tornare, lo stesso verbo degli emigrati. Tornare con la fronte appassita: le nevi del tempo hanno segnato le mie tempie. Sentire che è un soffio la vita, che vent’anni non è niente che febbrile lo sguardo errante nelle ombre ti cerca e ti chiama Vivere con l’anima aggrappata a un dolce ricordo che piango ancora. Sono alcuni versi dell’omonima canzone (che ora ascolteremo corredata da immagini del protagonista) interpretata dal grande Carlos Gardel, il primo mito del tango e anche il primo grande cantante, la cui voce riesce a comunicare un testo con totale aderenza ai suoi contenuti. La cumparsita Vorrei tornare ancora sull’“italianità” del tango – se così la possiamo chiamare. Nulla a che vedere ovviamente con Laggiù nell’Arizona, il madornale abbaglio geografico con cui prende avvio il tango più famoso della canzone italiana, quello delle Capinere. Vorrei piuttosto porre l’accento sul concomitante formarsi di nuovi gerghi che andranno ad alimentare testi e titoli famosi e dove l’apporto italiano, degli emigrati italiani è veramente determinante. Il lunfardo, ad esempio, gergo caratteristico delle città rioplatensi contiene termini provenienti dal gitano andaluso, dal francese, dall’inglese ma, per oltre l’ottanta per cento, è di derivazione italiana, soprattutto dei dialetti della penisola. Ebbene, questo nuovo sincretismo linguistico viene accolto in quell’altra opera di sintesi che è il tango. È un po’ lo scrigno del tango dove è custodita ogni sfumatura dell’emozione, del sentimento, dell’umorismo, dell’ironia, della rabbia. Vengono fatti al proposito una quantità di esempi. Qui mi limito a riproporre uno tra i più famosi. Come scrive l’esperta Meri Lao, “nel dialetto siciliano è frequente che la o si pronunci u: furca al posto di forca, cunto al posto di conto, cumparsa al posto di comparsa. Anche i 36 Musiche dal Mondo neri, per fare il verso al “gringo” adottavano quella pronuncia quando andavano in giro a fare la colletta per la preparazione del Carnevale: “una monedina pa’ la cumparsa”. Ecco spiegato il termine cumparsita che è vano cercare in un dizionario spagnolo e che, guarda caso, quasi a simboleggiare il miscuglio di culture ed idiomi, diventa il re dei tanghi, un vero archetipo insediatosi stabilmente nella memoria collettiva di tutto il Pianeta. Lo scrive, in due parti, per il carnevale di Montevideo del 1916, lo studente Gerardo Matos Rodriguez. Ve la propongo eseguita dall’orchestra di Lalo Schifrin, l’autore della colonna sonora di Tango, corredata da alcune splendide immagini di Montevideo che un maestro del tango e del bandoneon, Héctor Ulises Passarella mi aveva fatto avere quando veniva nella nostra regione per dirigere il Festival Internazionale Tango Y Mas. Da Tango di Saura - Passi di danza Astor Piazzolla, uno che se ne intende, ha definito la Cumparsita ‘la cosa più spaventosamente misera del mondo. Anche se, vestita bene, cioè armonizzata e orchestrata a dovere, la Cumparsita, sempre secondo Piazzolla, può migliorare il suo aspetto”. Ma allora perché La Cumparsita è diventato il tango di maggior successo, quasi un inno nazionale del popolo dei tangueros? Probabilmente per il rapporto stretto che intrattiene con la danza. Infatti La Cumparsita, come abbiamo ascoltato, possiede una linea melodica dotata di una forte gestualità: già le sue prime quattro note hanno la prerogativa di alludere al passo felino del Tango e ne suggeriscono il movimento evocando la camminata del compadrito, del bulletto di periferia. Visto, allora, che siamo in argomento, che il corpo, diciamo così, è entrato in scena, sarà bene approfondire velocemente le caratteristiche del ballo, evitando possibilmente i luoghi comuni che lo circondano – il tango danza sensuale, tanto per intenderci – concentrando brevemente l’attenzione sulla sua diversità. Il primo elemento che merita di essere evidenziato è che il tango è Tango, un pensiero triste tra musica, danza e poesia 37 una danza libera, non risponde ad una coreografia fissa. Gli manca un “passo base”, regolare ed uniforme, gli manca il “passo di cambio” che serva a rilassarsi in attesa di passare a prestazioni più impegnative: nel tango la concentrazione e l’impegno sono costanti anche da fermi. Secondo elemento importante che rende il tango diverso dalle altre danze: i ballerini nel tango invadono lo spazio del proprio patner, gli bloccano e gli spingono un piede, lo sgambettano, lo costringono a intrecciare le gambe o ad aprirle. Inoltre, senza sciogliersi del tutto dall’abbraccio, possono trovarsi ad eseguire isolatamente delle figure spaiati, in un continuo attirarsi e respingersi. Oppure restare fermi mentre l’altro è al massimo della mobilità. E ancora, le coppie del tango, indipendentemente da ciò che le circonda, ballano concentrate sulla propria esecuzione secondo un percorso originale fatto di accelerazioni che di colpo si arrestano, di pause e mutamenti di direzione, di fermate improvvise e riprese inaspettate. Insomma nel tango non si tratta tanto di riprodurre un testo musicale ma di improvvisarlo. Come afferma Tulio Carella “nel tango non c’è che una regola fissa: l’improvvisazione permanente”. Per chi balla un valzer non fa molta differenza che si suoni Nel bel Danubio blu o Sangue viennese. Invece chi balla il tango vuole rappresentare, muovendosi nello spazio, quella data musica, come se dovesse ogni volta inventare una coreografia diversa. Il che, sia chiaro, non vuol dire casualità: improvvisazione non è pressappochismo ma rigore, inventiva, creatività, preparazione. E questo spiega la necessità di creare una tecnica. Non foss’altro che per evitare di scontrarsi con gli altri ballerini, la coppia deve aver imparato ad eseguire una quantità di figure, di passi: il voleo, il gancio, il doppio gancio, la fermata, etc. etc. etc. che nel prossimo video verranno esemplificate durante le esercitazioni della scuola di ballo che è uno degli elementi portanti del film di Saura. Da Lezioni di Tango di Potter: La Yumba di O. Pugliese Il tango non è solo un ballo affermano perentoriamente tutti gli studiosi. 38 Musiche dal Mondo È anche e soprattutto musica. O forse meglio, tra musica e danza, tra l’espressione corporea e quella sonora c’è un legame indissolubile, un dialogo continuo dove i passi di danza servono ad allargare ed arricchire il discorso musicale che tuttavia conquisterà nel tempo una sua autonomia. Per rispondere alla primigenia finalità di una musica funzionale al ballo, un agile trio di strumenti portatili era sufficiente. E in origine era questa la formazione del tango: flauto, chitarra, violino od anche clarinetto, arpa, violino. È all’inizio del secolo scorso che il trio diventa più sedentario, come le band di New Orleans che da marcianti si trasformano in gruppi stabili per i locali notturni. Ed è proprio allora che fa la comparsa (la cumparsa) uno strumento sbarcato dalla lontana Germania, portato da un marinaio che lo avrebbe usato per pagare il conto in un’osteria di Buenos Aires: il bandoneón. La prima notizia della sua presenza al posto del flauto in un’orchestra tanguera è del 1908. È la data simbolica di una svolta epocale che porterà il bandoneon a dare al tango la sua inconfondibile voce lamentosa e sentimentale. “Il bandoneón frigna, geme, piange, graffia, ruggisce, minaccia, morde e prega” ha scritto Horacio Salas nel libro Il Tango. La seconda svolta nell’evoluzione del genere (procedo ovviamente per sintesi estreme) la potremmo collocare attorno alla seconda metà degli anni venti, quando il positivo andamento dell’economia favorisce il proliferare di cabaret, cinema, teatri, e nelle città rioplatensi si gode di un clima più liberale. Dopo aver trionfato anche all’estero, a Parigi innanzitutto, conquistando il mondo intero, il tango, potremmo dire si affina e si trasforma in una musica a vocazione artistica, con tocchi lirici, arrangiamenti ricercati, una coreografia più complessa, più sontuosa. Se dovessimo indicare un musicista chiave di questa svolta si potrebbe fare il nome di Julio De Caro, il quale traccia – diciamo così – una linea di demarcazione tra una tradizione legata a schemi di notevole semplicità di concezione musicale ed esecutiva, ad una linea evolutiva carica di innovazioni destinata a produrre negli anni Tango, un pensiero triste tra musica, danza e poesia 39 successivi – come ora vedremo sempre sinteticamente – alcune delle esperienze più importanti e significative della storia del tango. Come formazione strumentale si impone il sexteto, detto anche orchestra tipica: due violini, due bandoneón, pianoforte e contrabbasso. È questo il periodo in cui si afferma il tango-canzone e Carlos Gardel sarà consacrato re del tango in tutto il mondo ed anche nella sua Argentina. La morte di Gardel, nel giugno 1935 coinciderà con la presa del potere da parte dei militari e l’avvio del cosiddetto “decennio infame”, periodo in cui il tango, soppresso al pari di ogni altra vera o presunta voce popolare, diventerà una musica da carbonari. Bisognerà attendere la seconda metà degli anni ’40 perché il tango accenni una ripresa assumendo nuovi significati. Tra i molti artisti che contribuirono al rilancio, ne ricordo in particolare due. Il primo è Anibal Troilo, grande virtuoso del bandoneon. Con lui il tango da spazio agli umori del solista, alle sue capacità improvvisative, potremmo dire. L’altro maestro dal nome inconfondibilmente italiano, che contende a Troilo il primato delle orchestre più famose ed imitate è Osvaldo Pugliese. Con lui la fuoriuscita, il riscatto dal “carattere plebeo” – se così possiamo definire il tango delle origini – fa un ulteriore passo avanti. Un passaggio che nel suo caso, sia nel ruolo di pianista che come orchestratore, riguarda in particolare il ritmo, che diviene un vero e proprio elemento strutturale. Un brano emblematico, da questo punto di vista, è la Yumba. Yumba è una parola onomatopeica che sta ad indicare la particolare articolazione e frammentazione ritmica, una vera e propria poliritmia tra i diversi strumenti dell’orchestra. Un ritmo che a volte sembra affievolirsi, inabissarsi, per riemergere con la forza di un’energia tellurica. La Yumba, orchestra di Osvaldo Pugliese: la interpretano, nel film di Sally Potter, Lezioni di Tango, Pablo Veron, grande ballerino rioplatense e la regista. Da Lezioni di Tango di Potter: Libertango di A. Piazzolla Possiamo tirare una sintesi, relativamente a questa prima parte del 40 Musiche dal Mondo discorso? In che cosa consiste l’originalità del tango? Certamente in quella propensione a raccontare la nostra condizione di spaesamento, di abbandono, di nostalgia, di senso di estraneità: gli argomenti su cui ritornerò tra un attimo. Dal punto di vista più squisitamente musicale, non c’è dubbio che un fondamentale elemento che lo differenzia da altri generi legati all’humus popolare, sta nella straordinaria capacità del tango di mantenere un forte legame con il passato, con le proprie radici, raccontando al tempo stesso la contemporaneità. Per questo il tango è una musica moderna, e non antica come lo sono rimaste tante espressioni del folclore. Il tango si è emancipato dalle sue origini folcloriche e quindi ha potuto attraversare epoche e stagioni, anche quelle più drammatiche a cui accennavo prima. Pensate che nella sola Argentina, dal 1955 con la caduta di Peron al 1976 le orchestre di tango si riducono da 600 a 10. Nonostante ciò il tango ha potuto risorgere conservando la capacità di rinnovarsi senza che l’impianto di fondo ne risentisse minimamente. Viene subito in mente l’altro grande mito, una sorta di antitesi rispetto a Carlos Gardel. Sto parlando di Astor Piazzolla. La musica per lui non è in funzione delle parole e neppure della danza. Il tango è un pensiero triste che si suona e come tale va giudicato, per il suo valore intrinseco e universale. In questo modo Piazzolla ha demolito molti pregiudizi e molti stereotipi come quello appunto che se il tango non è fatto per ballare no es tango, attirandosi anche molte critiche dei tradizionalisti. La sua, in effetti, è stata una vera e propria rivoluzione che ha dato nuova dignità al tango e favorito un’ennesima rinascita. Insomma, c’è un tango prima di Piazzolla e un tango dopo Piazzolla. Con Piazzolla, in definitiva, crollano le barriere tra i generi. E infatti la nuova svolta è gestita all’insegna della contaminazione con altri idiomi, con la musica colta europea e soprattutto con il jazz, che ha portato musicologi e giornalisti a coniare la definizione di new tango, sottolineando in questo modo la discontinuità generazionale e stilistica che separa vecchio e nuovo. La musica di Piazzolla è ricca di dissonanze; è una musica condotta con un gusto particolare per la torsione melodica che ricorda quello Tango, un pensiero triste tra musica, danza e poesia 41 degli improvvisatori jazz; è una musica la cui colonna portante sono quei poliritmi di cui abbiamo detto, provenienti, in definitiva, dall’eredità africana. Insomma il discorso su Piazzolla potrebbe occupare un intero ciclo di conferenze, che sarebbe bene dedicargli anche perché ricorre il 20mo anniversario della sua scomparsa. Adesso abbiamo appena il tempo di ascoltare un suo classico liberamente coreografato dai protagonisti di Lezioni di Tango: un classico che, già nel titolo, esemplifica la sua grande apertura: Libertango. Carlos Gardel: Mi Buenos Aires Querido Dunque il tango, in special modo dopo l’avvento di Piazzolla, diviene un genere capace di rinnovarsi nel confronto con le avanguardie musicali del XX secolo, rimanendo però – ecco il punto – la forma di espressione con cui le città rioplatensi si identificano Conseguentemente, dovendo ora soffermarmi, sempre molto succintamente, sui suoi contenuti poetici, il primo tema che tratterò è proprio quello della città con tutte le sue contraddizioni: gioie, speranze, ricordi, drammi, tragedie, che animano da sempre i testi del tango. Mentre una quantità di soggetti sono scomparsi assieme alla realtà che li aveva prodotti, la città – costruzione di Caino, secondo la narrazione biblica e sede della sua discendenza – è uno dei grandi temi rimasti. Marciapiedi, strade, toponomastica in genere sono gli spazi, gli oggetti di cui si nutrono i testi del tango. Vecchio muro di periferia la tua ombra è stata la mia compagna. Della mia infanzia senza splendore l’amico è stato il tuo caprifoglio. dicono i versi di Caprifoglio scritti da Luis César Amadori. E ancora: Il timido lampione della via in cui nacqui fu la sentinella delle mie promesse d’amore e alla sua luce serena io la vidi la mia pupa luminosa come il sole. 42 Musiche dal Mondo Secondo Jorge Luis Borges, assomiglia all’idea platonica della città moderna, ma è Buenos Aires. E infatti così prosegue: Mia Buenos Aires terra in fiore che vedrà la mia fine Al tuo riparo non ci sono delusioni, volano gli anni, si dimentica il dolore. Come una carovana i ricordi passano, con una scia dolce di emozione. Voglio che tu sappia che già solo evocandoti, scompaiono i dolori del cuore. Mi Buenos Aires Querido, canta Carlos Gardel, accompagnato, in questo caso, da immagini sue e della città, che danno conto della sua enorme popolarità. Da Tango di Saura: Desaparesidos Contenitrice di ogni cosa, spesso magnanime e positiva, come nei versi della canzone di Gardel, la città provoca al tempo stesso, come ben sappiamo, sconvolgenti metamorfosi, spesso ti confina nell’anonimato, o confonde i tuoi ricordi distruggendo irrimediabilmente il fiorito quartiere dell’infanzia. Vicolo che il tempo ha cancellato che un giorno ci ha visti passare assieme, son venuto per l’ultima volta, son venuto a raccontarti il mio dolore. Vicolo, un tempo bordato di trifoglio e di giuncaglie in fiore, un’ombra ben presto sarai, un’ombra come me. Nei periodi bui, poi, la città conosce, in maniera ricorrente purtroppo, la vergogna della tortura e l’immane tragedia dei desaparesidos, un vero e proprio olocausto. Il film di Saura, finzione e realtà che si mescolano, lo denuncia con forza in una scena di grande espressività che merita di essere vista. Non solo perché, come accennavo, la storia del tango si dipana in un contesto caratterizzato da un alternarsi di collassi, rapine, saccheggi, crudeltà e speranze di rinascita, ma anche Tango, un pensiero triste tra musica, danza e poesia 43 perché da simili barbarie l’America Latina e l’umanità più in generale son ben lungi dall’essersi liberate. Adriana Varela: Malena Il violento blocco sinfonico-corale, composto da Lalo Schifrin per questa scena, corrisponde più alla forma tradizionale della musica per il cinema che al tango. E non potrebbe essere diversamente: il tango in quelle tragiche situazioni, se c’era, era suonato a tutto volume per impedire che si sentissero le grida dei torturati. Ma più in generale, bisogna dire che il tango solo raramente assume i caratteri di esplicita denuncia politica. Può essere invettiva sociale ma solo quando è “ribellione triste di uomini duri” – sentenzia il filosofo del tango Enrique Santos Discépolo. Il tango è altra cosa: è soprattutto un modo di sentire la vita, dove la protesta, la ribellione, l’invettiva – anche quando sono assenti – sono impliciti nelle pene, nelle sofferenze, nei ricordi, negli amori tragicamente falliti che la singola persona – uomo o donna – confessa nei testi del tango. “Un romanzo in tre minuti che riesce a raccontare il problema di uno sofferto da tutti”. È un’altra efficace definizione di Discépolo. Un ruolo da protagonista nelle pagine di questi romanzi brevi spetta alla donna, che possiamo considerare l’altra regina del tango assieme a quello stato di spaesamento, di mancanza, di lontananza che abbiamo chiamato nostalgia. Anche la donna è lontana e distante, ma, paradossalmente, non perché irraggiungibile, ma proprio perché già raggiunta. I corpi possono stare l’uno dentro l’altro ed essere a distanze siderali. Comunque sia, dentro ogni tango c’è una donna, il ricordo di una donna o la rabbiosa parodia di una donna. Può essere la Mora, la più graziosa, la più famosa del quartiere, o la Margherita alla quale è cambiato il nome oltre che il destino e infatti si fa chiamare Margot, o una Mina, la donna per antonomasia che fu in altri tempi la regina della notte. E poi bacana, percanta, paica, grela, papirosa, milonguita, pebeta, e molte altre ancora. 44 Musiche dal Mondo A volte la donna ha un comportamento ambivalente, è pronta al tradimento, disponibile a nuove avventure. Ma anche in questi casi a prevalere, in molte storie di tango, è la meraviglia di non essersi capiti anche quando si parlava fitto, lo stupore di essere stati soli anche quando si era ininterrottamente in due. Sono quelle situazioni ricorrenti in cui la donna soffre metaforicamente la pena del bandoneon. Come Malena per via di quella storia che ha il coraggio di nominare solo quando diventa triste con l’alcool. I tuoi occhi sono scuri come l’oblio le tue labbra, serrate come il rancore le tue mani, due colombe infreddolite, nelle tue vene scorre sangue di bandoneon. I tuoi tanghi sono creature abbandonate che si trascinano nel fango del vicolo, quando tutte le porte sono chiuse e latrano i fantasmi della canzone. Malena canta il tango con voce rotta Malena soffre la pena del bandoneon. Sono gli stupendi versi di Homero Manzi, il primo grande poeta del tango, che proprio per questo accompagneranno l’ascolto del brano. Da Lezioni di tango di Potter: Sotto la pioggia Se la donna è l’altra regina del tango, assieme alla nostalgia, tutta una consolidata tradizione vuole che sia l’uomo a dominare nel rapporto di coppia, e, sia chiaro, non solo nelle terre del Plata. In effetti è lui a guidare nel ballo come nella vita; è lui a proporre una successione di movimenti e di figure; è lui ad avere, sin dal principio, una coscienza progettuale del tempo. È qui ci si potrebbe diffondere, tempo permettendo, su quel ricco campionario di luoghi comuni, di veri e propri stereotipi che forzando questa impronta maschile, e confondendo origini postribolari ed evoluzione cittadina e planetaria del tango, hanno cercato di far passare l’idea del tango come genere peccaminoso, sensuale, trasgressivo, lascivo, scandaloso, persino ruffiano e chi più ne ha più ne metta. Tango, un pensiero triste tra musica, danza e poesia 45 Certo, essendo rito di corteggiamenti e lotte, di sfide ed abbandoni, il tango è una celebrazione senza confronti del congiungimento dei corpi. E la ballerina che spinge la gamba fra quelle dell’uomo e gli resiste inarcandosi, contiene un’allusività potente, che può provocare un’eccitazione percettiva senza precedenti in chi assiste allo spettacolo. È li che forse si trova l’erotismo del tango. I ballerini hanno altre preoccupazioni, dice Vega. Diciamo piuttosto che il tango è una metafora suggestiva della vita di coppia, dell’amore in particolare. Con questa specificazione, se il tango racconta l’amore, nel tango la felicità amorosa è il più delle volte un’insostenibile miraggio. Anche quando la storia – o il romanzo breve – si conclude positivamente come nel film di Sally Potter, Lezioni di Tango, da cui ho estratto la prossima breve scena; anche quando si torna a stare felicemente insieme, ciò è sempre il risultato di una continua conflittualità che a volte sfiora il fallimento e il dramma.Al contrario di tanti idiomi popolari, il tango scansa ogni euforia, ogni vitalistica esuberanza, racconta piuttosto delusioni, ferite, tradimenti. È la canzone degli amori fragili. Più fragili del cristallo, cristallo del mio amore accanto a te cristallo il tuo cuore, il tuo sguardo il tuo riso... Amori sempre in ritardo, sempre sfasati, sempre incoincidenti. Dio ti ha portato al mio destino senza pensare che ormai è molto tardi e non saprò come amarti si conclude Uno! che è il titolo di un tango famoso. L’uomo rimprovera spesso la donna di essere cambiata, di non essere fedele al suo stesso passato. Ha sempre in mente le trecce paesane, il percalle, la cotonina a buon mercato dei suoi vestiti, simboli di tempi incorrotti, di una ricerca spesso fallimentare, della purezza. Anche in Lezioni di tango, che riflette un’esperienza reale, autobiografica, l’amore implica una menomazione, un cedimento nei confronti di se stessi e degli altri, come quando Pablo Veron, nell’impartire lezioni alla regista, abituata in questo ruolo ad esse padrona del destino altrui, le rammenta perentorio: tu non devi pensare, non devi fare niente, solo lasciarti guidare. 46 Musiche dal Mondo È dalla difficoltà di dare risposta a questo conflitto di ruoli che nascono crisi a ripetizione. Quando entrambi capiscono che amarsi è infierire uno sull’altro, la via d’uscita sta nel lasciarsi, nell’accantonare il passato, almeno per un po’. È il solo modo per reincontrarsi ancora una volta. Magari in uno scenario di strade di periferia, sotto la pioggia. Vi domina il grigio, un colore spesso associato al tango: perché è un colore di frontiera, impegnativo non più di tanto, il colore dei capelli nell’età in cui si comincia ad essere propensi a voltarsi indietro, come vedremo subito dopo. Astor Piazzolla: Balada para mi muerte In conclusione penso si possa dire che il tema che nel tango riassume le problematiche di cui abbiamo sinteticamente parlato: la nostalgia, la città, la donna, l’uomo, l’amore, è quello del tempo. Il tempo concepito come traiettoria irreversibile, il tempo che fugge, il tempo che distrugge ogni cosa, il tempo scandito dalle partenze, dalle separazioni, dalle ricongiunzioni, dalle perdite. Ricordate le parole di Gardel: “un soffio la vita, vent’anni non è niente”. Consapevoli della fine di ogni cosa si vive convalescenti del proprio passato. Ci si rifugia in una sorta di tempo assoluto dove l’oggi coincide con l’ieri. Oggi diventerai parte del mio passato, del passato della mia vita, e porta con sé tre cose l’anima mia ferita: amore, dispiacere, dolore. Tra i fatti che cambiano, deludono, tradiscono, uno dei peggiori è il proprio decadimento biologico. Molti sono i tanghi che ci parlano della vecchiaia improvvisa che piomba sulla donna riflessa negli occhi dell’uomo, in contrasto con l’immagine di incontaminata freschezza fissata nel ricordo. Dura vendetta del tempo che ti distrugge ciò che hai amato e te lo mostra dicono i versi di Questa volta mi ubriaco. Tango, un pensiero triste tra musica, danza e poesia 47 Non resta che rinchiudersi nel bozzolo protettivo dei ricordi, anche se il tempo arriva a chiudere il conto. Morirò a Buenos Aires sarà sul far dell’alba le cose della vita con calma riporrò l’umile mia poesia di addio e di spari il mio tabacco, il mio tango, la mia manciata di spleen... È la prima strofa della celebre Balada para mi muerte, scritta dall’amico Horacio Ferrer per Astor Piazzolla che ha composto la musica. Cinque minuti di grande poesia e di grande musica. Da Tango di Saura: Finale Qualcuno ha detto che l’uomo è l’unico animale capace di rendere presenti le assenze. E il tango, in effetti, rito rimuginante, tenta di riscattare dall’oblio le morte stagioni. Si domanda non solo chi sono, ma dove sono? In quali regioni? Dov’è il mio rione, culla mia cara? E i vecchi amici dell’infanzia, che ne è di loro? Dove saranno? Dove sarà il mio sobborgo? E le voci che ieri arrivarono e passarono dove sono? Per quali strade torneranno? In tutti questi versi emerge chiaramente la vena dolente di chi aspira a coniugare tempo e lontananza. Vena dolente, che non rinuncia però a guardare al futuro, addirittura al 3001, quando Rinasceremo e una grande voce extraterrestre mi darà la forza antica della fede per tornare, per creare, per lottare. dice Piazzolla in uno dei suoi ultimi tanghi. Vena dolente e al tempo stesso antidoto nei confronti di una società che piuttosto fa l’apologia del presente, che considera il tempo come una categoria soprattutto economica. Il tango va invece consumato tra la mancanza e la pienezza, essendo 48 Musiche dal Mondo una forma di sopravvivenza, una maniera di riconoscersi e rappresentarsi, una maniera di esorcizzare la nostalgia, l’abbandono, il senso di estraneità. Questo è il tango: una delle espressioni più stralunate e poetiche della cultura latinoamericana, della cultura dell’oblio in genere, della cultura pronta a mille ibridazioni e innovazioni, che continua a compiere una sorte di resistenza umana, installandosi in chissà quali sobborghi, vicoli, anfratti dell’anima. Insomma, tangare humanum est. Proprio per questo mai dire ultimo tango, semmai di nuovo tango. Siccome con noi c’è il maestro Carlos Nebbia – lo stesso che dava lezioni ai giovani tangheri nel film di Saura – approfittiamo della sua presenza per chiedergli di regalarci un tango per chiudere in bellezza il nostro incontro.