Paragone dei geografi moderni e postmoderni

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Paragone dei geografi moderni e postmoderni
BOLLETTINO DELLA SOCIETÀ GEOGRAFICA ITALIANA
ROMA - Serie XIII, vol. VIII (2015), pp. 639-642
MARCELLO TANCA
PARAGONE DEI GEOGRAFI MODERNI
E POSTMODERNI
Citando nel suo articolo il mio Geografia e filosofia accanto al Manuale di
geografia culturale di Alessandra Bonazzi, Matteo Marconi mi onora per ben
due volte. Lo ringrazio per l’accostamento e condivido senz’altro il richiamo all’opportunità di usare anche in geografia strumenti critici di matrice filosofica
per sbrogliare alcuni nodi teorici di difficile soluzione. Sono intimamente persuaso che la geografia non solo non abbia nulla da invidiare alle altre scienze
sociali, e possa tranquillamente porsi su un piano di parità con esse e con la filosofia; ma che, lungi dal rivestire un ruolo passivo nei confronti della produzione di sapere a causa dall’improduttività riflessiva che in passato l’ha costretta a
importare idee e concetti da altri campi di ricerca (Warf e Arias, 2008), oggi essa
sia nella condizione di rivendicare un ruolo strategico di esportatrice di modelli
e metafore utili per venire a capo dell’infinita varietà del mondo..
Fatta questa doverosa premessa, devo ammettere che non sono tuttavia del
tutto convinto che l’inclusione di nozioni e richiami filosofici nella nostra «cassetta degli attrezzi» costituisca di per sé garanzia sufficiente per la fattura di «buone geografie»; d’accordo in questo con Giuseppe Dematteis il quale, riprendendo alcuni spunti di Gilles Deleuze e Félix Guattari, ha scritto una volta che «c’è
da credere che una geografia soltanto fisica e umana, separata dalla “geografia
mentale”, non solo sia scarsamente utile, ma sia dannosa» e che specularmente
anche una geografia solo mentale risulti di fatto impraticabile perché povera di
mondo, ossia sprovvista proprio di ciò che rende la geografia interessante agli
occhi degli uomini «che hanno bisogno di un pezzo di Terra per conoscere l’invisibile» (Dematteis, 2003, pp. 66 e 70).
Proprio per questo, dal momento che potrebbero ingenerare un fraintendimento circa le finalità del mio lavoro, desidero chiarire alcuni equivoci pericolosi che mi paiono potenzialmente in agguato nel contributo di Marconi. Il primo:
come credo si sarà capito, quando in Geografia e filosofia parlo di «tesi eccentrica» mi riferisco precisamente al desiderio di costruire un primo, imperfetto ponte tra geografia e filosofia, viste ancora oggi come campi semantici reciproca-
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mente estranei. L’eccentricità di questo progetto deriva dall’intento che lo ha
mosso: porre rimedio al ritardo con cui la «profound conceptual and methodological renaissance that has transformed it [i.e. human geography] into one of the
most dynamic, innovative and influential of the social sciences» (Warf e Arias,
2008, p. 1) è stata recepita dal mondo accademico italiano. Lungi da me, dunque, fare professione di fede postmodernista. La stessa querelle tra moderni e
postmoderni mi pare invecchiata precocemente (ormai in filosofia si parla di
nouveau réalisme: Ferraris, 2012), e come tale andrebbe liquidata. Poiché però
sono stato chiamato in causa, e mi sento un po’ come quel personaggio citato in
esergo da José Saramago in Memoriale del convento che, condotto alla forca, a
chi gli domandava «è così che ve ne andate?» rispondeva «non sono io che vado,
sono loro che mi portano», provo anch’io a dir la mia.
La tesi di base di Marconi mi sembra essere la seguente: la geografia che intercetta il postmoderno si presenta come «eccentrica» ed «eretica», ma questa sua
eccentricità ed ereticità sono però soltanto apparenti, e tutt’al più riconducibili a
un’operazione di facciata. Sotto sotto il geografo postmoderno che cita Foucault,
Harvey e la New Cultural Geography, e che magari fa pure professione di «decostruzionismo», non è alieno da compromessi con il regime di verità della modernità, e questo rende quella carica eversiva e/o critica che dice di voler esercitare
nei confronti dell’esistente (delle relazioni di potere, dei discorsi dominanti ecc.)
un innocuo fuoco di paglia. Egli inietta infatti nel proprio lavoro un virus la cui
pericolosità è talmente elevata da risultare letale: ridotta la realtà a mero «punto
di vista» soggettivo (per cui «ogni ente viene misurato in base alla posizione dell’osservatore»), privo di un paradigma di verità, il geografo postmoderno non fa
che replicare, certo inconsapevolmente ma non per questo in maniera meno
colpevole, proprio quei difetti da cui voleva prendere le distanze: la sete di dominio, la volontà di potenza, il pensare «egemonico ed omogeneizzante» e via di
questo passo, tutti tratti tipici della modernità. Vi è dunque, anche in geografia,
piena continuità tra moderno e postmoderno; quest’ultimo non essendo altro
che la prosecuzione con altri mezzi di quella logica perversa tesa storicamente
ad assoggettare tutti gli enti all’ente-uomo. La conclusione è solo una: colui che
mira all’eccentricità è in realtà il più conformista di tutti; la sua critica mira a
mantenere lo status quo inalterato, a «normalizzare» la realtà mediante quell’ordine e quella potenza che (apparentemente) voleva combattere.
Ora, è Umberto Eco ad aver scritto nelle Postille al Nome della rosa che «se,
col moderno, chi non capisce il gioco non può che rifiutarlo, col post-moderno
è anche possibile non capire il gioco e prendere le cose sul serio», e mi pare che
Marconi sia caduto proprio in quest’equivoco e abbia preso le cose troppo sul
serio, esercitandosi in un saggio di quella geografia «solo mentale» a cui si accennava all’inizio. La mia impressione è infatti che diatribe come queste, se hanno un senso finché rimangono sul piano dei principi, dei conflitti teorici, delle
metafore concettuali e delle strategie retoriche e persuasive, lo perdono – o ne
assumono un altro – nel momento stesso in cui le caliamo nel concreto della
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geografia che, oltre che mentale, è anche fisica e umana. Come si suol dire, il difetto sta nel manico e a me questo pare evidente nella soluzione invocata da
Marconi (che più che una soluzione sta a monte e non a valle del ragionamento): innestare massicce dosi di Heidegger nella riflessione geografica. Ma Heidegger qui è la classica malattia di cui vuole essere la cura, dal momento che
costituisce una di quelle fonti da cui proprio i postmoderni hanno attinto per costruire parte della loro fortuna. Tipicamente heideggeriana, ancora prima che
postmoderna, è ad esempio l’interpretazione della modernità come un percorso
compatto, lineare e omogeneo, dunque privo di incrinature, nel quale è possibile individuare una direzione comune. Ma, mi duole dirlo, per quanto affascinante, questa lettura appare debole sul piano storiografico: se c’è un tratto che caratterizza la modernità è precisamente il senso di incertezza provocato dalle scoperte scientifiche e geografiche che abbatterono, uno dopo l’altro, i capisaldi su
cui si era fondata per due millenni l’immagine del mondo conosciuto e dell’universo: la scoperta di terre sconosciute, la sconfessione dell’immobilità della Terra e della sua centralità nel sistema solare, come del carattere finito dell’universo. Le conseguenze furono devastanti: ciò di più saldo in cui gli uomini avevano
creduto, e che ne aveva alimentato l’antropocentrismo, venne meno: «the new
philosophy calls all in doubt […] tis all in pieces, all coherence gone»; l’autore di
queste espressioni di sgomento non è un postmoderno, ma John Donne, un
contemporaneo di Shakespeare; gli fa eco Pierre Borel, l’autore del Discours
nouveau prouvant la pluralité des mondes (1657): «siamo costretti ad ammettere
che ciò che sappiamo è molto meno di quanto ignoriamo». Altro che trionfo del
«potere decisorio» dell’uomo-ente, come voleva il buon Heidegger! Insomma,
lungi dall’essere l’età delle certezze e della metafisica del soggetto, la modernità
è al contrario l’età della precarietà, dell’insicurezza e della sfasatura.
Ma a parte questo, il fatto è che – e arriviamo al punto decisivo – il massimo
a cui possa aspirare una geografia heideggeriana è di configurarsi come una geofilosofia, il che è come dire una geografia «solo mentale». Questo avviene perché,
come ho scritto in Geografia e filosofia, nel momento stesso in cui abbracciamo
un’impostazione di questo tipo – di indubbio fascino, chi lo nega? – per dare una
forma alle nostre descrizioni del mondo, ci ritroviamo con un pugno di mosche.
Un esempio? Prendiamo il tema dell’abitare, un pezzo forte di questo tipo di analisi che trova in saggi come Costruire abitare pensare una possente fonte di ispirazione; ebbene, l’abitare cui si riferisce Heidegger è una categoria esistenziale e
ontologica, e pertanto (come segnala tra gli altri Michel Lussault) non ha niente
in comune con le «condizioni effettive dell’abitare odierno», ossia con ciò che i
francesi chiamerebbero situations d’habiter; ma se abitare non significa possedere un’abitazione (Heidegger, 1976a, p. 126), la stessa crisi dell’abitare non ha
niente a che fare con i modi in cui concretamente si abita: «l’autentica crisi dell’abitare non consiste nella mancanza di alloggi. La vera crisi dell’abitare consiste
nel fatto che i mortali sono sempre in cerca dell’essenza dell’abitare, che essi devono anzitutto imparare ad abitare» (Heidegger, 1976b, p. 108). Il problema è che
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mentre il filosofo ha tutto il diritto di lavorare su geografie che sono soltanto
mentali, trascurando le loro implicazioni territoriali e ambientali, noi geografi – se
crediamo veramente che ciò che facciamo abbia una qualche utilità sociale – abbiamo il dovere di mettere a punto geografie che siano attente prima di tutto alle
ricadute che le «condizioni effettive dell’abitare odierno» hanno sulla vita delle
persone. Come diceva Gilles Deleuze: «un po’ di possibile, sennò soffoco»!
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
DEMATTEIS G., Una geografia mentale, come il paesaggio, in G. CUSIMANO (a cura di),
Scritture di paesaggio, Bologna, Pàtron, 2003, pp. 65-74.
FERRARIS M., Manifesto del nuovo realismo, Roma-Bari, Laterza, 2012.
HEIDEGGER M., «…Poeticamente abita l’uomo...», in M. HEIDEGGER, Saggi e discorsi,
Milano, Mursia, 1976 (a), pp. 125-138.
HEIDEGGER M., Costruire abitare pensare, in M. HEIDEGGER, Saggi e discorsi, Milano,
Mursia, 1976 (b), pp. 96-108.
WARF B. e S. ARIAS (a cura di), The Spatial Turn: Interdisciplinary Perspectives, Londra e
New York, Routledge, 2008.
CONTROVERSY OF MODERN AND POST-MODERN GEOGRAPHERS. – Giuseppe
Dematteis, commenting on some excerpts from Gilles Deleuze and Félix Guattari, wrote
that «the belief of a solely physical and human geography, separated from “mental geography”, is not only scarcely useful, but detrimental» and so, conversely, a mental-only Geography is also impracticable, because it lacks all those qualities that make geography interesting to humans, «who need a piece of Land to know the invisible». In response to article by Marconi, my impression is that controversies like these, if they have a sense as
long as they are developed on the plan of principles, of theoretical conflicts, of conceptual metaphors and rhetorical and persuasive strategies, lose it – or assume another –
precisely when we put them in the context of a concrete Geography, which is also, apart
from mental, physical, and human. I do no intend, therefore, to profess my faith as a
post-modern. The same controversy between moderns and post-moderns has grown old
precociously (in philosophy we are already talking about nouveau réalisme: Ferraris,
2012) and as such it should be dismissed. Also in Geography.
Università degli Studi di Cagliari, Dipartimento di Storia, Beni culturali e Territorio
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