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Jean-Noël Kapferer
Rumors
I più antichi media del mondo
Traduzione e cura di Laura Minestroni
ARMANDO
EDITORE
Sommario
Presentazione alla seconda edizione italiana
di Laura Minestroni
Rumors. I più antichi media del mondo
di Jean-Noël Kapferer
Introduzione
1. Un fenomeno sfuggente
2. Come nascono i rumors?
3. Corrono, le voci corrono…
4. Perché crediamo alle voci?
Nota bio-bibliografica
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Presentazione
di Laura Minestroni
Opera fondamentale per tutti coloro che si occupano
o si interessano di comunicazione – sia essa pubblica o
economico-finanziaria, d’impresa (interna ed esterna) e
di marca, politica e culturale – Rumeurs: le plus vieux
média du monde pone le basi essenziali e, a distanza di
oltre vent’anni, pressoché immutate, per comprendere il
fenomeno de “le voci che corrono”. Con questa espressione è stato tradotto per la prima volta in italiano da
Laura Guarino il testo di Jean-Noël Kapferer, pubblicato in Francia nel 1987 dalle Éditions du Seuil e dedicato al fenomeno dei “rumors”, termine che non ha un
sostanziale corrispondente nella lingua italiana, a meno
che non si faccia ricorso a un corteo di sinonimi, tanto
suggestivi quanto imperfetti: dicerie, leggende metropolitane, chiacchiere, indiscrezioni, pettegolezzi. Nessuna
di queste espressioni, infatti, restituisce a tutto tondo il
significato dall’originale rumeurs, che deriva poi dal latino rumor (pl. rumores), cioè voce (voci) ormai internazionalizzata in rumor (col plurale anglosassone rumors1).
Si capisce perché Guarino, nella traduzione per Longanesi del 1988, abbia optato per “le voci che corrono”,
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Presentazione
espressione che meglio e più pienamente restituisce il
senso corale e dinamico del termine. Ma che tuttavia, a
nostro avviso, è priva di quell’immediatezza di comprensione di cui gode invece l’anglosassone rumors, vocabolo
ormai (e nel frattempo) ampiamente acquisito dai media
e dal pubblico italiani. Esso indica, nel linguaggio corrente, una informazione non verificata che riguarda un
tema d’interesse pubblico e che si diffonde da persona a
persona: di fatto, “ciò che si dice in giro” a proposito di
qualcuno o qualcosa.
La rilevanza e la pervasività sociale del fenomeno si
sono accentuate in maniera significativa proprio negli
ultimi vent’anni, parallelamente alla rivoluzione tecnologica dell’era digitale, alla globalizzazione dei mercati
e dell’informazione, oltre che all’internazionalizzazione
delle culture, delle “conversazioni”, della paura e persino del terrore.
Così, in questa seconda traduzione italiana, abbiamo
preferito il più globale rumors, senza rinunciare, peraltro, all’uso del termine “voci”, che in questo contesto
ben restituisce una forma e una sostanza al “si dice”.
È quanto mai attuale la disamina che Jean-Noël Kapferer compie delle “voci che corrono”: si pensi ai rumors,
spesso smentiti, di imminenti crack finanziari di questa
o quell’altra società quotata, capaci di far crollare le borse, oppure di acquisizioni e joint-venture, in grado, al
contrario, di far innalzare i titoli. Si pensi a quelli, ancor
più planetari e tragici, sulla fine del mondo, su catastrofi
naturali, su intere città rase al suolo dal terremoto. Come
Roma, che un sisma – stando alla voce, appunto – avrebbe dovuto cancellare dalla carta geografica l’11 maggio
2011. A nulla sono valse le ennesime smentite dei sismologhi accompagnate dalla spiegazione che “prevedere i
terremoti, allo stato attuale, è impossibile”2. La capitale
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Laura Minestroni
si è letteralmente svuotata in vista del sisma. In particolare il quartiere Esquilino, la Chinatown romana, ha
assunto un aspetto inquietante: serrande abbassate e negozianti in fuga e in preda al terrore. Non è un caso: fra
le informazioni in grado di generare un rumor si trova
principalmente tutto ciò che disturba l’ordine delle cose
e provoca una reazione, vale a dire notizie che presentano un interesse pragmatico diretto come avvisaglie di
pericolo, questioni morali, mutamenti di ordine sociale,
cambiamenti dell’ambiente naturale.
La contemporaneità dei rumors è quella che li vede
“scendere” nel privato dei personaggi pubblici o che li
usa, in maniera strumentale, in prossimità delle elezioni,
ad esempio per screditare un avversario3 (forse non sarà
inutile ricordare che lo scandalo Watergate del 1972,
che negli Stati Uniti avrebbe determinato la caduta del
presidente Nixon, esplose proprio a seguito di una fuga
di notizie, a opera di un informatore segreto chiamato
“Deep Throat” cioè “gola profonda”).
L’ambito di studio del rumor è interdisciplinare:
siamo all’intersezione della sociologia, della psicologia
e delle dottrine dei processi comunicativi. Si tratta di
un’informazione “mediata” dal gruppo e, al tempo stesso, di un potente mezzo di comunicazione.
Da un punto di vista strettamente sociologico, non
è azzardato parlare di comportamento collettivo, vale a
dire un comportamento sociale più o meno spontaneo
che numerosi individui manifestano allo stesso tempo, in
presenza di un medesimo stimolo o di situazioni affini,
siano essi riuniti in un luogo, oppure fisicamente separati
e dispersi.
Luciano Gallino, nel Dizionario di Sociologia, assegna
al rumor “un posto speciale tra i comportamenti collettivi”. «La diceria – susseguirsi di voci incontrollate, in
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Presentazione
parte vere in parte false, ma senza la possibilità di distinguere tra il falso e il vero – può costituire da sola un comportamento collettivo, ed esaurirsi senza accompagnarsi
ad altre forme di comportamento manifesto. Altre volte,
la diceria costituisce invece il principale sistema di informazione tra individui coinvolti in un comportamento
collettivo, come avviene caratteristicamente nel panico
di origine economica o bellica o catastrofica»4.
Eppure, tra tutte le forme di comportamento collettivo, il rumor è forse la meno esplorata e dunque meno
compresa. Già Edgar Morin si era interessato del fenomeno: nel Medioevo moderno a Orléans analizzava, da
un punto di vista sociologico, la “voce” diffusasi in Francia sul finire degli anni Sessanta secondo cui nei camerini
di alcuni negozi di abbigliamento scomparivano ignare
ragazze per essere avviate alla “tratta delle bianche”5. Un
rumor, questo, di straordinaria longevità e persistenza
che circola ancor oggi in tutta Europa, attualizzato, riveduto e corretto: i negozi di abbigliamento che a Orléans
erano gestiti da commercianti musulmani, sono adesso
diventati negozi di abbigliamento gestiti da negozianti
cinesi, la tratta delle bianche è ora divenuta il commercio
di organi. Ma la dinamica del racconto, la sua struttura
narrativa, le angosce e i timori che esso esprime, sono
chiaramente i medesimi.
Morin colloca i luoghi d’incubazione dei rumors
nelle classi femminili di collegi religiosi o licei dove la
popolazione adolescente, isolata dalle realtà sociali, è
portata a produrre fantasie sessuali, a inventare storie
fantastiche frutto di desideri repressi e raccontate come
fatti realmente vissuti in prima persona. Ma i territori in
cui nascono i rumors, vere e proprie casse di risonanza, sono innumerevoli: la scuola, ad esempio, è uno di
questi. Per i bambini, l’ora di ricreazione è il momento
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Laura Minestroni
topico di divulgazione delle voci. Nelle aziende e nelle
organizzazioni in generale, poi, accanto ai circuiti e alle
procedure istituzionali della comunicazione, il rumor instaura circuiti paralleli e invisibili, che sfuggono a ogni
gerarchia e a ogni controllo. E nel Medioevo la Chiesa ha
rappresentato il medium per eccellenza del rumor, il suo
mezzo di trasmissione.
Le origini dei rumors come mezzi di comunicazione
si possono far risalire alla fase che Walter Ong indicherà
dell’“oralità primaria”, quella che precede la scrittura e
in cui il pensiero e l’espressione tendono ad essere strutturati per favorire una facile memorizzazione della parola6. La voce che corre “rientra in quei canali naturali di
comunicazione in microgruppi”7 che appartengono alla
forma più elementare di trasmissione delle informazioni, quella personale e diretta che interviene tra individui
faccia a faccia. Un tipo di comunicazione, cioè, sottoposto alle regole più generali della comunicazione e ai
modelli del comportamento umano. Prima che esistesse
scrittura, infatti, il passaparola era l’unico canale di trasmissione delle informazioni all’interno delle società. La
voce, in questo caso, sia in senso astratto che figurato,
veicolava le notizie, faceva e disfaceva le reputazioni, degenerava in sommosse o conflitti.
Ma il rumor è anche (e soprattutto) il frutto di un
processo cognitivo di elaborazione dell’informazione.
D’altro canto, l’approccio di Jean-Noël Kapferer è
mutuato dalla psicologia sociale: da sempre attratto dalle modalità con cui si formano l’immaginario collettivo,
le percezioni, le convinzioni e le opinioni delle persone,
quando scrive Rumeurs si è già occupato dell’impatto
della divulgazione scientifica sul pubblico8, ha studiato a
lungo i processi di persuasione dei media e della pubblicità9, ha osservato l’immagine dello spazio nella mente
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Presentazione
della gente10. È profondamente convinto che l’immaginazione, sotto forma di “schemi-tipo”, possa deformare
la percezione degli eventi cui assistiamo. A partire dagli
anni Ottanta, sposterà l’attenzione sul consumatore e in
particolare sul coinvolgimento di questo (l’implication)11
nei confronti della marca: dunque percezione, immagine
e sensibilità. È in particolare dal 1983 che conduce, con
Gilles Laurent, le prime sistematiche riflessioni proprio
sul tema della sensibilità alla marca: cosa la determina,
da che cosa è influenzata, come e perché esprime l’atteggiamento del consumatore. Si tratta di studi che rimangono a oggi fondamentali12 per chiunque voglia analizzare i processi di formazione della brand image, il vissuto
della marca all’interno di una categoria merceologica e
i comportamenti d’acquisto degli individui. Dagli anni
Novanta, si dedicherà alle dimensioni dell’immagine e
dell’identità del brand13. Ormai arcinoto è il suo “prisma dell’identità”. Non c’è studente che non perda
occasione di citarlo in tesi di laurea, sempre che tratti
i temi della comunicazione e dell’impresa. Fino al 2008
la marca sarà il filo conduttore e il tema chiave di gran
parte dei suoi lavori14, per giungere agli studi più recenti
sul lusso15, tema peraltro dall’autore già magistralmente
trattato tra il 1997 e il 199816.
In Rumeurs, Kapferer getta le fondamenta teoriche
per chiarire e “smontare” il processo di formazione delle
“voci che corrono”.
Il suo lavoro si basa direttamente sulle sue ricerche
empiriche. Questo rende l’analisi molto pratica e, soprattutto, di facile comprensione.
Il processo prende avvio da una diceria, nata non si
sa come, venuta non si sa da dove, che inizia a diffondersi, a circolare liberamente. Il movimento si amplifica,
raggiunge il culmine per poi ricadere, affievolirsi e mo12
Laura Minestroni
rire, in genere nel silenzio: un vero e proprio ciclo di vita
del rumor.
L’autore sospende qui ogni giudizio: non esistono, in
assoluto, rumors buoni o cattivi e, soprattutto, essi non
sono, a priori, informazioni infondate, prive di riscontri
oggettivi, come il paradigma teorico dominante, sorretto
dalle considerazioni di Edgar Morin, ha sempre affermato. Introdurre la nozione di vero e di falso nella definizione scientifica di rumor, significa introdurre un parametro non necessario, addirittura fuorviante. Un diffuso
approccio “pregiudiziale” alle voci ha sempre cercato di
condannarle, di moralizzarle, trattandole come fenomeni irrazionali e figli della superstizione o dell’ignoranza,
associandole alla malattia mentale, se non alla follia: una
sorta di equivalente sociologico dell’allucinazione.
Convinto che i rumors obbediscano a una logica ferrea di cui è possibile smontare i meccanismi soltanto
attraverso il rigore metodologico, Kapferer isola il campo semantico del rumor e chiarisce le condizioni che
ne determinano l’insorgenza e la diffusione. Nel farlo,
nell’intraprendere questo cammino che egli stesso definisce “un compito difficile”, si interroga sulla scarsità di
lavori teorici al proposito. È la reperibilità dei messaggi,
la loro conservazione su supporto, che manca. Non c’è
registrazione né documento che testimoni o che conservi
un rumor. In genere, il ricercatore è in grado di analizzarlo solo quando s’è già estinto o, al massimo, è nella
sua fase terminale.
In effetti, non si sa granché sui rumors. Questa mancanza è ancor più evidente in un’epoca come la nostra in
cui la frammentazione dei media e la socialità discorsiva introdotta dalle nuove tecnologie hanno generato un
inedito protagonismo della comunicazione orizzontale e
delle “conversazioni tra utenti”.
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Presentazione
Comportamento collettivo, mezzo di comunicazione
o sistema di informazione tra individui coinvolti in un
comportamento collettivo, il rumor è dunque un oggetto di indagine che tende a sfuggire all’osservazione
del ricercatore. Salvo eccezioni, è difficile esaminarlo in divenire. Se ne apprende, in genere, troppo tardi
l’esistenza. Si ricorrerà, allora, a interviste sul ricordo.
Tuttavia, chiedere alla gente di raccontare ciò che torna
alla mente a proposito di questa o quella diceria significa dover considerare le variabili della dimenticanza,
della razionalizzazione a posteriori e della distorsione
che necessariamente interverranno. Così, però, come lo
stesso Kapferer è costretto ad ammettere, il ricercatore
non studia il rumor, ma il ricordo che questo ha lasciato
negli uni e negli altri. Dopotutto, il rumor non trae origine da un fatto ma dalla sua percezione; non precede la
persuasione, ne è la manifestazione visibile. Alla sua genesi e al suo dinamismo contribuiscono il grado di probabilità che assegniamo a certi eventi, i nostri stereotipi
mentali e le nostre convinzioni, il nostro stato d’animo
e la nostra immaginazione, il gruppo di riferimento o il
contesto.
Per Kapferer il rumor è, essenzialmente, una notizia17. Una notizia che riguarda temi legati all’attualità,
ritenuta vera ma non confermata, che si diffonde nel corpo sociale e si propaga attraverso quello che, nel poeticissimo idioma francese, è definito bouche à l’oreille, (di
nuovo intraducibile in italiano se non con l’espressione
assai meno elegante “bocca all’orecchio” o più semplicemente “passaparola”). Affinché la notizia possa dar
luogo a quella dinamica di ripetizione-discussione che è
tipica del rumor, è necessario che l’informazione sia attesa o temuta, che risponda cioè alle speranze e alle paure,
più o meno consapevoli, degli individui. Occorre inoltre
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Laura Minestroni
che sia inaspettata e che abbia conseguenze immediate e
importanti per il gruppo.
Abbandonando la concezione corrente, Kapferer introduce un nuovo punto di vista: tre sono gli elementi
necessari e sufficienti a definire un rumor, vale a dire la
fonte (non ufficiale), il processo (diffusione a catena) e il
contenuto (si tratta di una notizia che verte su un fatto
di attualità).
È chiaro, lo abbiamo detto, che la veridicità non rientra nella definizione scientifica del rumor, tanto che
l’autore osserva diverse tipologie di rumors: fondati, infondati e incerti, cioè dalla dubbia attendibilità.
D’altra parte, criminologi e giuristi hanno da tempo
ampiamente dimostrato come, in genere, gli individui
sopravvalutino le proprie facoltà percettive: la testimonianza di chi ha visto o sentito qualcosa, raramente corrisponde alla realtà degli avvenimenti. E non è affatto
casuale se il campo d’indagine del rumor inizi ad affiorare già all’inizio del Novecento, proprio nell’ambito della psicologia giuridica e, in particolare, della psicologia
della testimonianza.
Lo psicologo tedesco William Stern, nel 1902, mise
a punto un “protocollo sperimentale” per osservare il
processo di trasformazione dei racconti riportati dai testimoni oculari di un crimine attraverso il passaparola18.
La sua è una metodologia elementare che probabilmente
molti conosceranno, se non altro per gli effetti comici
che produce. Si tratta di creare una sorta di “catena”
tra individui che “si passano” una storia o una frase riferendola gli uni agli altri, senza diritto alla ripetizione
o a spiegazioni: alla fine, se si confrontano le storie riferite dal primo soggetto e dall’ultimo, emergeranno importanti differenze. Il racconto iniziale, infatti, giungerà
mutilato (alcuni dettagli si perderanno inevitabilmente
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Presentazione
attraverso il passaparola) oppure, nella peggiore delle
ipotesi, deformato.
Qualche anno più tardi, Édouard Claparède approderà alle stesse conclusioni19, confutando per la prima
volta – attraverso numerosi esperimenti condotti con gli
studenti del suo corso di Psicologia giudiziaria all’Università di Ginevra (veri e propri happening) – il concetto
secondo il quale la moralità e la buona fede dei testimoni bastano per convalidarne le dichiarazioni20, e dimostrando l’esistenza di una deformazione percettiva della
realtà.
In verità, i primi studi sistematici condotti in maniera
specifica sui rumors sono di taglio psicologico, americani, e risalgono alla Seconda guerra mondiale: gli effetti
negativi sul morale di truppe e popolazione prodotti dal
susseguirsi di voci e dicerie sullo stato del conflitto, indussero numerosi ricercatori a interessarsi al fenomeno.
È ad Allport e Postman (1947) che si deve il principale modello teorico di riferimento in tal senso. Secondo
gli autori, il rumor è una proposizione legata ai fatti del
giorno, non verificata e però destinata a essere creduta,
che si propaga da individuo a individuo e si trasmette
in genere attraverso il passaparola21. Esiste una logica
ben precisa che governa i meccanismi di formazione e
trasmissione dei rumors: essa risponde ai processi cognitivi di elaborazione dell’informazione (riduzione: gli
effetti dell’oblio e della memoria selettiva semplificano
il messaggio; accentuazione: gli individui ricordano in
maniera distinta solo certi particolari, valorizzandoli,
oppure aggiungono dettagli e spiegazioni al racconto al
fine di rafforzarne la coerenza o l’impatto; assimilazione:
gli individui si appropriano del messaggio in funzione di
valori, convinzioni o emozioni preesistenti). Così, per Allport e Postman, il rumor è, di fatto, una forma di comu16
Laura Minestroni
nicazione non rigidamente vincolata ai criteri oggettivi
della verità perché è espressione della naturale tendenza
degli individui a livellare, affinare e assimilare il messaggio e i suoi contenuti al contesto personale e culturale. I
rumors nascono spesso proprio da un errore nell’interpretazione di un messaggio. Il malinteso va fatto risalire
a una “testimonianza di testimonianza” e alla differenza
fra il messaggio che è stato emesso e quello che è stato
decodificato.
Tutto sommato, per Kapferer il problema della fonte
è irrilevante. Ciò che invece è significativo, nella genesi
di un rumor, è l’adesione del gruppo, la mobilitazione
collettiva. Il pubblico non è lettore, spettatore, audience:
esso funge da attore principale, da protagonista. Viene
da chiedersi, però, quand’è che una fonte può davvero dirsi ufficiale o non ufficiale? Kapferer sostiene che
le fonti possano ritenersi “ufficiali” quando attorno alla
loro autorevolezza c’è consenso. Quando cioè la maggioranza dei membri di una determinata collettività condivide l’idea che esse siano “abilitate a parlare”, che abbiano
l’autorità giuridica per farlo, anche se si nega loro ogni
credibilità e ogni autorità morale. Di converso, la fonte
non ufficiale è quella che giunge da canali informali e
può risultare estremamente credibile. Si capisce come
il fenomeno dei rumors sia tanto politico quanto sociologico. “Parola che disturba”, “mercato nero dell’informazione”, “contropotere”, il rumor mette in discussione
le fonti ufficiali. Non è la fonte che genera una voce, è
il gruppo. D’altra parte, che il rumor possa essere letto
come un “ritorno compensatorio ai canali naturali” di
fronte all’inattendibilità di certi mezzi di comunicazione
di massa non è cosa nuova. Secondo il filosofo spagnolo
Aranguren: «l’inattendibilità evidente che a volte presentano i mezzi artificiali di comunicazione di massa, quan17
Presentazione
do sono soggetti a un determinato orientamento politico, spesso dà luogo a un ritorno compensatorio ai canali
naturali: […] viene data estrema attenzione a quel che si
dice, alle voci, alle notizie che corrono le quali, benché
non confermabili, ispirano maggior fiducia dell’informazione ufficiale […]»22.
Già Katz e Lazarsfeld hanno ampiamente dimostrato
come i mass media siano potenti canali d’informazione
ma come spesso i veri “canali d’influenza” siano altrove,
specie nella rete di comunicazioni interpersonali23. Così,
in generale, prestiamo molta attenzione all’esperienza,
all’opinione e al parere di amici e parenti, oppure vicini, colleghi e conoscenti. Lo stesso Kapferer, sul finire
degli anni Settanta, nel chiarire l’influenza dei media e
della pubblicità sul comportamento degli individui, aveva evidenziato che «il meccanismo chiave dell’influenza
sta nella comunicazione verbale tra le persone, e non
nei mezzi di comunicazione di massa impersonali, almeno per quanto riguarda i problemi in cui siamo molto
coinvolti»24. Nondimeno, il fenomeno dei rumors dimostra quanto, in generale, sia poco spontaneo il processo
di verifica dell’informazione. Molte voci nascono come
notizie false, non verificate e pubblicate su quotidiani
autorevoli che si diffondono poi nella realtà sociale. Da
questo punto di vista, si può parlare di mediatizzazione
del rumor o di sua copertura mediatica. Kapferer usa,
a tal proposito, l’espressione “rumorer l’information”
che non è un semplice riportare la voce, ma pubblicare
una notizia non verificata e dunque pubblicare una voce
sotto forma di notizia facendo ricorso ai “si dice”, alle
insinuazioni, ai sottintesi, e favorendone così una sua più
ampia diffusione.
Va detto, però, che i rumors non possono essere considerati esclusivamente come il risultato di una infor18
Laura Minestroni
mazione distorta, di una comunicazione “difettosa”. Le
persone, in situazioni ambigue o in contesti caratterizzati
dall’incertezza, tendono a comportarsi come pragmatici
problem-solvers: mettono in comune risorse intellettuali – che includono dati precisi, congetture, convinzioni,
opinioni correnti – da ogni fonte disponibile, per dare
senso a ciò che accade25. Così, ogni volta che il pubblico
vorrebbe comprendere ma non riceve risposte, nasce un
rumor. Esso è anche un efficace veicolo di coesione sociale: tutte le discussioni che ne derivano sono il frutto
di un processo di elaborazione e discussione collettiva
dell’informazione ed esprimono l’opinione del gruppo
di riferimento. Come ha osservato Kapferer, prendere
parte alla voce equivale a un atto di partecipazione al
gruppo.
Ma il rumor, a volte, può uccidere, o quasi. I ministri
francesi Roger Salengro e Robert Boulin si suicidarono,
uno nel 1936 e l’altro nel 1979, a seguito di una campagna diffamatoria. In Italia, la carriera e la vita privata
della cantante Mia Martini sono state drammaticamente
segnate da una serie di rumors a sfondo superstizioso
diffusisi in seno allo stesso mondo dello spettacolo e che
finirono per emarginarla. Nei primi anni Ottanta, decise
di ritirarsi dalle scene, proprio a causa di quelle dicerie
che legavano la sua fama a eventi negativi. E sulla sua
morte, avvenuta nel 1995 e le cui cause sono ancora incerte, pesa l’ombra di quei rumors. È difficile, allora, non
accostare il rumor al “venticello” di rossiniana memoria.
Nel Barbiere di Siviglia, infatti, è una calunnia creata ad
hoc per metter fuori gioco un avversario in amore. Una
calunnia che, al pari del rumor, nasce come “un venticello, un’auretta assai gentile” e che progressivamente
si propaga e si amplifica (“prende forza a poco a poco,
scorre già di loco in loco”) fino a diventare di pubblico
19
Presentazione
dominio con conseguenze nefaste («… e il meschino calunniato avvilito, calpestato sotto il pubblico flagello per
gran sorte va a crepar»).
La leggenda metropolitana non è che una variante del
rumor. Essa si colloca nella fase terminale del suo ciclo di
vita: una volta cessata, infatti, la “voce” non si spegne del
tutto ma può riaffiorare sotto forma di racconto mitico
e “fluttuante” che vive un’esistenza quasi nascosta, per
certi versi sotterranea, e riapparire in maniera imprevedibile. La leggenda, così, circola di città in città, senza
riferimenti di tempo o di luogo. Può essere attualizzata
(“è accaduto proprio ieri”), ma costituisce sempre l’eco
deformata di un lontano fatto reale che la memoria collettiva conserva e ripropone attraverso un processo di
ancoraggio del mito alla realtà.
È solo a partire dagli anni Settanta che si inizia a parlare di urban legend o contemporary legend, storie ben note
agli studiosi del folklore (si deve a Jan Harold Brunvand
il più imponente lavoro divulgativo in tal senso26) come
quella dell’autostoppista fantasma, della baby sitter cannibale, o degli alligatori nelle fognature di New York;
storie fantasiose, caratterizzate dal “fascino del perturbante” e da contenuti che riflettono angosce profonde
e diffuse a livello sociale. Questi studi, così come quelli
di carattere etnografico, pur avendo il merito di “mettere insieme” poderose raccolte di dati, testimonianze e
racconti sulle voci e sulle leggende urbane, e di riuscire
a ricostruire la catena dell’informazione, sia quella temporale sia quella geografica, spesso privilegiano la classificazione alla comprensione, la catalogazione allo studio
del processo e della struttura.
Come ha sottolineato Aldo Grasso, la leggenda metropolitana ha “una struttura narrativa comunque ben
architettata, quasi un genere letterario”27. In realtà essa
20
Laura Minestroni
presenta diversi sottogeneri o categorie: Animali e piante, Automobili, Orrori, Rapimenti, Espianti e Commercio d’organi, Contaminazioni, Prodotti, eccetera. D’altra
parte, questa forma di rumor riflette i tratti dominanti
delle società contemporanee di cui incarna paure e speranze legate alla modernità. L’ossimoro “leggenda metropolitana” ben esprime l’incidenza dei mondi mitici
e della tradizione sulla realtà odierna. Spesso si tratta
di storie arcaiche ma dai contenuti “universali” e dalla
forte valenza simbolica. Dimostrano la vitalità e la “capacità mitopoietica” propria, anche, dell’individuo moderno28.
Il mondo dell’impresa, le grandi Corporation globali
in testa, è oggi un formidabile attrattore di rumors. Le
infinite leggende metropolitane attorno al soft drink per
eccellenza, Coca-Cola, non cessano di circolare da oltre
cent’anni. E quelle che riguardano il logo della Procter
& Gamble, accusandolo di satanismo, hanno costretto
la multinazionale di Cincinnati ad abbandonare lo storico marchio dell’uomo barbuto a forma di mezzaluna
su uno sfondo di stelle perché, stando alla voce, avrebbe
lasciato intravedere il numero 666, vale a dire la cifra di
Satana. E poi: rumors sul presunto contenuto di oppio
delle sigarette Camel, sulle tre K (Ku-Klux-Klan) visibili
nella fascia rossa del pacchetto di Marlboro; sui presunti
effetti cancerogeni di determinati beni di largo consumo.
Tutti i simboli, dice Kapferer – e le marche, aggiungiamo noi, sono super-simboli –, costituiscono, almeno
potenzialmente, “il trampolino di lancio” dei rumors.
Naturalmente, è possibile “mettere in giro” una voce a
proprio vantaggio, o a beneficio della notorietà e dell’appeal di una marca: la confidenza, secondo Kapferer, può
essere involontaria o pianificata.
21
Presentazione
Indotti o spontanei che siano, la funzione di certi
rumors, in questo ambito, è quella di conferire fascino
e mistero a prodotti altrimenti poco interessanti e banalizzati. Vengono in mente, a tal proposito, i rumors
sull’energy drink Red Bull, che sarebbe ottenuto dai genitali del toro o quelli sulla Coca-Cola, con il fantomatico
seven x, l’ingrediente ombra mai rivelato (cocaina?). Voci
che, a ben vedere, hanno contribuito al successo delle
famose bevande. «Non a caso è necessaria la pubblicità
nel campo dei consumi – osserva Kapferer – i prodotti
sono poco importanti, e la gente non ha molta voglia di
parlarne» (infra, p. 45).
Alcuni rumors sono capaci di orientare persino le
scelte d’acquisto degli individui. Si pensi, ad esempio,
alla relazione tra boicottaggio di prodotti di largo consumo e voci sui presunti misfatti di certe multinazionali; oppure al peso del “si dice” a proposito dei prodotti
Apple. Diverse, infatti, sono oggi le comunità virtuali
on-line accomunate dall’interesse per l’azienda e suoi
marchi di punta, in particolare Macintosh, iPhone, iPod,
iPad. Nell’ultima decade, in prossimità del lancio sul
mercato di nuovi prodotti e servizi da parte di Apple,
s’è assistito al fiorire di indiscrezioni e voci veicolate da
microgruppi di consumatori appassionati e fedelissimi
al brand. Da qui la nascita di vere e proprie subculture
o tribù (la cosiddetta “Apple rumor community”) che
trovano nel web lo spazio e il territorio elettivo di socializzazione. L’azienda ha sempre cavalcato il fenomeno,
con una corporate policy di “bocche cucite”, lasciando
che, attraverso i social media digitali, le riviste di settore
e il passaparola, le voci proliferassero e circolassero liberamente. Una prova, questa, che importanza (player globale del mercato) e ambiguità (voci non confermate né
smentite), in una relazione moltiplicativa, costituiscono,
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Laura Minestroni
come il sociologo Tamotsu Shibutani ha teorizzato29, gli
ingredienti fondamentali per l’insorgenza e la diffusione
di un rumor.
Originariamente una forma di comunicazione di tipo
face-to-face, il rumor trova la sua naturale evoluzione
contemporanea nel “buzz”: in ambito digitale l’insieme
delle “conversazioni” attorno a un tema. Nel mondo del
marketing indica quell’aggregato di commenti e opinioni riguardo un prodotto, un servizio, oppure una marca
o un’azienda (buzz marketing)30.
Tema particolarmente caldo e contemporaneo dicevamo, quello dei rumors, anche perché confina con quello della reputazione, mai tanto richiamato come in questa
epoca. Se la reputazione è ciò che gli altri dicono su una
persona, un’impresa o un personaggio politico, allora
sono (anche) i rumors che la determinano. E così non è
affatto casuale se oggi il reputation management (sia esso
on-line o off-line) faccia leva su tecniche che consentono a un’azienda o a un’organizzazione il “governo del
passaparola”, ovvero il controllo di ciò che si dice su un
certo argomento o un determinato soggetto (la marca,
l’azienda, i suoi prodotti e servizi), in altre parole il controllo dei rumors. Ma il rumor, come insegna Kapferer,
è – per sua natura – incontrollabile.
Il rumor giustifica e al tempo stesso rivela il pensiero
del gruppo di riferimento che vi partecipa. Crea consenso attorno a un tema e dunque contribuisce a formare
l’opinione pubblica. Ma propone una verità spesso scomoda. Per questo, può far vacillare le convinzioni più
profonde. L’individuo che vi aderisce ne trae una serie di
benefici psicologici: la conferma di sentimenti radicati, la
soddisfazione di desideri repressi, la risposta a preoccupazioni latenti, lo sfogo a conflitti psicologici. Il rumor,
questa voce potente e silenziosa che Kapferer assimila a
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Presentazione
“una lettera anonima” che ciascuno può scrivere impunemente, comunica e giustifica in maniera palese ciò di
cui siamo intimamente convinti ma che non possiamo (o
non vogliamo) dire o non osiamo sperare.
Da un certo punto di vista, l’interpretazione di Kapferer pone il rumor alla stregua di un moto dell’inconscio
collettivo: esso esprime l’indicibile, il temuto, il desiderato. Lo esprime in maniera informale e non ufficiale. Il
“si dice”, scrive l’autore, “è un ‘non detto’”. Cioè non
detto ufficialmente.
E per tornare alla radice classica del termine, rumor,
va ricordato che un “rumore collettivo”, se così si potesse dire, è la vox populi, ovvero la vox Dei, la voce di Dio.
Confermando, con questo, i nostri antenati, che quando
un rumor è ricorrente e “collettivo”, appunto, comincia
a essere percepito come “verità”.
NOTE
1
Che diviene, nell’inglese britannico, rumours.
Il giorno del terremoto. «Basta con la psicosi», in “Corriere
della Sera”, 11 maggio 2011.
3 Secondo Philippe Aldrin, l’“agir rumoral” – il rumor
come atto di parola – costituisce oggi una disposizione ampiamente acquisita dai protagonisti della politica. Far circolare un
rumor (creandolo o semplicemente ritrasmettendolo) consente agli attori coinvolti di sferrare un colpo (basso, aggiungiamo noi) nell’arena della politica, minimizzando i rischi delle
dichiarazioni attraverso il carattere anonimo e officioso della
notizia. Per un approfondimento si veda: P. Aldrin, Sociologie
politique des rumeurs, PUF, Paris, 2005.
4 L. Gallino, Dizionario di Sociologia, Seconda edizione riveduta e aggiornata, UTET, Torino, 2004, p. 124.
5 E. Morin, La Rumeur d’Orléans, Éditions du Seuil, Paris,
1969 (trad. it., Medioevo moderno a Orléans, ERI, Torino, 1979).
2
24
Laura Minestroni
6
Si vedano, in particolare: W. Ong, Oralità e scrittura: le
tecnologie della parola, il Mulino, Bologna, 1987 e La presenza
della parola, il Mulino, Bologna, 1970.
7 Cfr: J.L. Aranguren, Sociologia della comunicazione, Il
Saggiatore, Milano, 1967.
8 J.F. Boss, J.-N. Kapferer, Les Français, la science et les
média: une évaluation de l’impact de la vulgarisation scientifique sur le public, La Documentation Française, Paris, 1978.
9 J.-N. Kapferer, Les Chemins de la persuasion: le mode
d’influence des média et de la publicité sur les comportaments,
Bordas, Paris, 1978.
10 J.-N. Kapferer, B. Dubois, Echec à la Science: l’image de
l’espace dans le public, Éditions Rationalistes, Paris, 1981.
11 Per un approfondimento si veda: J.-N. Kapferer, G. Laurent, Comment mesurer le degré d’implication des consommateurs, IREP, Paris, 1983.
12 J.-N. Kapferer, G. Laurent, La sensibilité aux marques:
nouveau concept pour la gestion des marques, Fondation Jours
de France pour la Recherche en Publicité, Paris, 1983.
13 J.-N. Kapferer, Les marques, capital de l’entreprise, Éditions d’Organisation, Paris, 1991; J.-N. Kapferer, J.-C. Thoenig, La marca. Motore della competitività delle imprese e della
crescita dell’economia, Guerini e Associati, Milano, 1991.
14 In particolare si veda: J.-N. Kapferer, Re-inventare la
marca. Potranno le grandi marche sopravvivere al nuovo mercato?, FrancoAngeli, Milano, 2002.
15 V. Bastien, J.-N. Kapferer, Luxe Oblige, Éditions Eyrolles, Paris, 2008.
16 J.-N. Kapferer, Managing luxury brands, in «Journal of
Brand Management», vol. 4, n. 4, 1996, pp. 251-260 e J.-N.
Kapferer, Why are we seduced by luxury brands?, in «Journal
of Brand Management», vol. 6, n. 1, 1998, pp. 44-49.
17 Già Shibutani aveva posto i rumors alla stregua di notizie
improvvisate risultanti da un processo di discussione collettiva. Per un approfondimento si veda: T. Shibutani, Improvised
News: A Sociological Study of Rumor, Bobbs Merrill, Indianapolis, 1966.
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Presentazione
18
L.W. Stern, Zur Psychologie der Aussage. Experimentelle
Untersuchungen über Erinnerungstreue, in «Zeitschrift für die
gesamte Strafrechtswissenschaft», vol. XXII, n. 2/3, 1902.
19 Per un approfondimento si vedano in particolare: E.
Claparède, L’association des idées, Doin, Paris, 1903 e E. Claparède, Inediti psicologici (a cura di Carlo Trombetta), Bulzoni,
Roma, 1982 (voll. 1 e 2).
20 Gli esperimenti di Claparède hanno “fatto scuola” e
sono stati ripresi negli anni successivi da numerosi psicologi.
Tra questi, in Italia, Cesare Musatti. Per un approfondimento
si veda il classico C.L. Musatti, Elementi di psicologia della testimonianza, Cedam, Padova, 1931.
21 G.W. Allport, L. Postman, The Psychology of Rumor,
Henry Holt, New York, 1947.
22 J.L. Aranguren, op. cit., p. 126.
23 E. Katz, P.F. Lazarsfeld, Personal Influence, The Free
Press, New York, 1955 (trad. it. L’influenza personale nelle comunicazioni di massa, ERI, Torino, 1968).
24 J.-N. Kapferer, Les Chemins de la persuasion: le mode
d’influence des média et de la publicité sur les comportaments,
cit. (trad. it. di Enzo Campelli, Le vie della persuasione: l’influenza dei media e della pubblicità sul comportamento, ERI,
Torino, 1982, pp. 126-127).
25 Cfr: T. Shibutani, op. cit.
26 Per un approfondimento si vedano: J.H. Brunvand, The
Vanishing Hitch hiker. American Urban Legends and Their Meanings, Norton, New York, 1981 e J.H. Brunvand, Sarà vero?
Leggende metropolitane di tutto il mondo, Pan Libri, Milano,
2001.
27 A. Grasso, Se una leggenda urbana fa chiudere i negozi, in
“Corriere della Sera”, 11 maggio 2011.
28 C. Bermani, Il bambino è servito. Leggende metropolitane
in Italia, Dedalo, Bari, 1991, p. 21.
29 T. Shibutani, op. cit.
30 E. Rosen, The Anatomy of Buzz, Currency, New York,
2000, p. 7.
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