N. 5 - gianobifronte

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N. 5 - gianobifronte
EPISTEME
Physis e Sophia nel III millennio
An International Journal
of Science, History and Philosophy
N. 5 - 21 marzo 2002
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Redazione ([email protected])
"Episteme"
c/o Dipartimento di Matematica e Informatica
Università degli Studi
Via Vanvitelli - 06100 Perugia
Direttore Responsabile Euro Roscini (Supplemento semestrale ad: Arte in Foglio,
Pubblicazione registrata presso il Tribunale di Perugia, N. 36/1991)
http://www.robotics.it/episteme
http://www.dipmat.unipg.it/~bartocci
(per ottenere ~ tenere premuto Alt mentre si compone il numero 126 con i simboli numerici
nella parte destra della tastiera)
Numeri arretrati on line: http://itis.volta.alessandria.it/episteme
ISSN 1593-3482
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EPISTEME
Physis e Sophia nel III millennio/Physis and Sophia in the III millennium
An International Journal of Science, History and Philosophy
N. 5 - 21 marzo 2002 / 21st Mar. 2002
[La diffusione via Internet di sezioni della rivista avviene prima della data indicata - Sections
of Episteme are available in Internet even before the previous date]
Informazioni editoriali/Editorial Policy
Pubblicazioni ricevute/Received books and journals
Annunci/Announcements
1 - Flavio Barbiero: La famiglia di Mosè - Un potere occulto nella storia
dell'Occidente?
2 - Franco Baldini: ET IN ARCADIA EGO - Semantiche mito-ermetiche in
alcuni quadri di Guercino e Poussin (Parte II)
3 - Francesco Vitale: La fine del mondo secondo la Bibbia e secondo la scienza
4 - Giorgio Taboga: Faustino Perisauli, poeta romagnolo, precursore di Erasmo
da Rotterdam
5 - Umberto Bartocci: Leonardo Sciascia e il caso Majorana - Siciliani
scompaiono nel nulla, ma un'ipotesi tarda ad apparire...
6 - Alberto Lombardo: La fauna dell'Urheimat
7 - Bruno d'Ausser Berrau: De Verbo Mirifico - Il nome e la storia
8 - Sabina Kruszyñska: DE LA RELIGION... de Benjamin Constant - Le
fondement épistémologique et métaphysique
(con una recensione di Alberto Mingardi, "La libertà come orizzonte morale",
apparsa su Liberalia)
9 - Umberto Bartocci, Rocco Vittorio Macrì: Il linguaggio della matematica
10 - Carlo Cirotto: La comunicazione cellulare
11 - Francesco Sacchetti: La comunicazione nel mondo fisico
12 - Umberto Lucia: Irreversible entropy in biological systems
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-
"
" : An algorithm for the cybernetic model of tumour evolution
"
"
: A cybernetic model for the thorax potential in ECG maps A recent history of mathematical applications
Reprints
Emilio Spedicato: Galactic encounters, Apollo objects and Atlantis - A
catastrophical scenario for discontinuities in human history
Commenti ricevuti/Received Comments
Giuseppe Antoni: La questione del tempo nelle Confessioni di S. Agostino
Paolo Bocchio: Quattro ipotesi sulla natura del tempo
Alberto Bolognesi: Una conferma sperimentale delle obiezioni di Halton Arp
al paradigma cosmologico corrente
Massimo Cardellini: La "fuga" di Amleto, ovvero alla ricerca dell'Introduzione
originaria di Hamlet's Mill (Il non detto in rapporto alla tematica centrale)
Alessandro Moretti (a cura di): Quattro lettere di sir Isaac Newton al Dottor
Bentley, contenenti alcuni argomenti sulla dimostrazione dell'esistenza di una
Divinità
Sabato Scala: Il mosaico pavimentale della cattedrale di Otranto - L'ultimo
oltraggio di un monaco gnostico? // La leggenda dei Merovingi nella Corona del
Mosaico di Otranto?
Recensioni/Reviews
Alberto Arecchi: Atlantide - un mondo scomparso, un'ipotesi per ritrovarlo
(Flavio Barbiero - Emilio Spedicato)
(Rosario Vieni: 11500 anni fa... - Atlantide nel mito platonico)
Maurizio Blondet: Gli "Adelphi" della Dissoluzione - Strategie culturali del
potere iniziatico (Arcangelo Papi - Bruno d'Ausser Berrau)
Giorgio Taboga: L'assassinio di Mozart
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INFORMAZIONI EDITORIALI
Episteme è soprattutto una rivista "non convenzionale" on-line, reperibile presso
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per la pubblicazione da parte di ciascuna persona interessata. La spedizione può
essere effettuata vuoi a mezzo Internet, a:
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usare tex! - ed eventuali figure, tabelle, etc. in formato jpg),
vuoi facendo pervenire un dischetto tramite posta ordinaria, all'indirizzo:
"Episteme"
Dipartimento di Matematica, Università
06100 Perugia - Italy.
Respingendo ogni forma di "monopolio linguistico", Episteme intende
mantenersi plurilingue, pertanto i lavori potranno essere redatti in qualsiasi
(quasi!) lingua, vale a dire Francese, Inglese, Italiano, Spagnolo, Tedesco
(etc.?!).
L'accettazione degli articoli è decisa dagli organizzatori - in base alla conformità
con la linea della rivista - che ne informeranno in modo tempestivo i proponenti,
riservandosi eventualmente di acquisire pareri di esperti (le opinioni ricevute
saranno eventualmente rese note agli interessati), e/o di chiedere agli autori
chiarimenti o modifiche.
Il materiale ricevuto anche se non utilizzato non si restituisce.
- La diffusione via Internet di parti della rivista avviene in qualche caso prima
della data prevista per la pubblicazione ordinaria, dopo la quale però ogni
correzione ai lavori messi a disposizione in rete viene segnalata in un apposito
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non è finanziato da alcun ente, pubblico o privato. Gli organizzatori se ne
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possono essere inviate via vaglia postale o assegno (intestati ad Episteme) al
sopra citato indirizzo.
Oltre alla diffusione on-line, si produce anche un certo numero di copie cartacee
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rivolgendone specifica richiesta agli indirizzi sopra menzionati, al prezzo di 15
Euro cadauna. Detta somma va intesa esclusivamente quale rimborso (assai
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ringraziano pertanto in anticipo coloro che vorranno richiedere la versione a
stampa della rivista.
EDITORIAL POLICY
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the editor, at one of the addresses indicated below.
Episteme is interested in publishing papers which illustrate unconventional
points of view - that is to say, which do not usually appear in other academic
journals - in Science, History and Philosophy.
Since Episteme is thought of as a multi-linguistic journal, papers are accepted
and possibly published in Deutsch, French, English, Italian, Spanish (etc.?!).
Episteme will communicate to contributors as soon as possible whether
submitted papers are in agreement with the journal's criteria, or not.
Files of the papers, in doc or txt format (please avoid tex!), together with
possible illustrations in jpg format, should be sent either by attachment, to:
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or by diskette, through ordinary mail, to:
"Episteme"
Dipartimento di Matematica
Università, 06100 Perugia - Italy.
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the printed version; afterwards, any modification of the material made available
in the web is registered in a suitable Errata Corrige.
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various articles (or of the journal's whole issue) will be sent free (as an
attachment) from the editorial office to every people asking for it.
Pubblicazioni ricevute/Received books and journals
1 - Autori Vari, Il tamburo e l'estasi - Sciamanesimo d'oriente e d'occidente
(Avallon - L'uomo e il sacro, N. 49, 2001)
Il Cerchio Iniziative Editoriali, Rimini - [email protected]
Viaggiatore alla ricerca di anime che vola magicamente sull'arcobaleno e sull'albero del
mondo al suono dei sonagli e del tamburo. Terapeuta dello spirito ai margini della vita sociale
e civile, maestro di purificazioni che sfida i demoni, lo sciamano è chiamato alla sua
vocazione da visioni e sogni iniziatici terribili in cui contempla il proprio scheletro e il suo
corpo smembrato e ricomposto miracolosamente...
2 - Flavio Barbiero, La Bibbia senza segreti
Ed. Andromeda, Bologna, 2001
via Salvador Allende 1 - 40139 Bologna
Tel. ø 051.548721 - 051.490439 - Fax 051.491356
[email protected] , www.alinet.it/andromeda
Nuova edizione dell'opera ampiamente presentata e discussa in Episteme N. 2.
3 - Flavio Barbiero, Una civiltà sotto ghiaccio
Editrice Nord, Milano, 2000 - [email protected]
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Alle soglie della più importante scoperta archeologica di tutti i tempi ... Un'opera che ha
suscitato un grande interesse tra gli studiosi a seguito della quale sono state organizzate alcune
spedizioni scientifiche in Antartide ... Un libro che oltre a presentare un'affascinante teoria è
anche un appassionante romanzo di storia dell'archeologia.
4 - Edoardo Mirri e Furia Valori (a cura di), Volontà e autodeterminazione del
soggetto
Quaderni del Dipartimento di Filosofofia, N. 15 - Università degli Studi di
Perugia Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2001
I contributi di questo volume ... cercano di delineare l'idea di libertà, che non consiste
nell'arbitrio della volontà nella sua particolarità, ma nel determinarsi ad una razionalità
superiore...
5 - Giovanni Stelli, Filosofia II - Filosofia moderna dall'Umanesimo a Kant
Ed. Armando Scuola, Roma, 2001
(con supporto informatico "Tutor di Filosofia" ideato e progettato da David
Lanari)
L'autore presenta una trattazione essenziale, ma non superficiale, dei problemi, delle tesi e
delle argomentazioni fondamentali dei filosofi moderni ... nella convinzione che non tutto si
può e si deve dire, ma che tutto ciò che si dice va esposto con la massima semplicità e
chiarezza di linguaggio. Nel Cd-Rom allegato al volume vengono proposti una serie di
esercizi suddivisi per temi in corrispondenza delle unità didattiche del libro...
*****
Tra i nuovi titoli di riviste pervenute alla Redazione di Episteme, per le quali
tutte ringraziamo ancora una volta sentitamente i curatori, si segnalano:
- DIORAMA LETTERARIO, Mensile di attualità culturali e metapolitiche, N.
248, Ottobre-Novembre 2001, Direttore Responsabile: Marco Tarchi
Via Laura, 10r - 50121 Firenze
www.diorama.it , [email protected] , [email protected] .
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- New Energy Technologies, Research on advanced propulsion systems and new
energy sources, Published by Faraday Lab Ltd. Russia, September-October
2001. Editor-in-Chief Alexander V. Frolov.
P.O. Box 37, St Petersburg, 193024 Russia
http://www.faraday.ru , [email protected] .
- Riportiamo qui di seguito un'immagine della copertina dell'interessante N. 15
di ALGIZA, Novembre 2001, Bollettino interno del Centro Studi La Runa, già
presentato nel N. 2 di Episteme:
*°*°*
Annunci/Announcements
[Episteme receives, and publishes]
*******
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Dear Madam/Sir
Should you consider it appropriate, and if there is still time, we would appreciate it if you
could mention the announcement below in your publication and/or circulate the
announcement among your colleagues.
Kind regards
Helen Terre Blanche (Conference Alerts)
[email protected]
Prague Humanities Summer School 2002: Courses on Theology, Good and Evil
5 to 9 August 2002, Prague, Czech Republic
The Prague Humanities Summer School will take place at the Anglo-American College in
Prague, Czech Republic, from 5th - 9th August 2002. All courses are certificate and credit
bearing; to obtain both a course certificate and/or credit points towards existing studies, an
end of course assessment will have to be undertaken.
Courses offered deal with several themes, one of which is Theology, Good and Evil. The
courses offered under this theme are:
* Teaching about Atrocity: Holocaust Education (Dr Deirdre Burke)
* Belief in God After Auschwitz (Dr Deirdre Burke)
* The Nature of Evil: Philosophical and Theological Issues (Dr Rob Fisher)
* Literature and Persons at the Extremes of Life (Dr Rob Fisher).
Several other courses are also being conducted at the summer school:
* Getting to Know Gandhi
* Violence & Non-Violence in Contemporary Society
* History of Psychology
* Introduction to Psychodrama
* Punishing Violent Crime
* Restorative Justice
* Medieval Art & Iconography
* Golem and Goblin: Enchantment in Literature
* The Ethics of Globalization
* International Business Ethics
For more details about any of the above courses, please visit our website or contact Dr Rob
Fisher at the e-mail address below.
E-mail enquiries: [email protected]
Website: http://www.learning-solutions.org/pss.htm
Organized by: Learning Solutions
----------------------------------------------------------------This announcement distributed via http://www.ConferenceAlerts.com
*******
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BALTIC STATE TECHNICAL UNIVERSITY
INSTITUTE FOR HISTORY OF SCIENCE AND TECHNOLOGY
OF RUSSIAN ACADEMY OF SCIENCES
INTERNATIONAL SLAVIC ACADEMY OF EDUCATION SCIENCES AND ARTS
FIRST ANNOUNCEMENT
Dear colleague,
We have the honor to invite you to take part in VII International Scientific Conference
"Space, Time, Gravitation", which will take place in August 19-23, 2002, in St.-Petersburg,
Russia.
The biennially held International Conference in St.-Petersburg welcomes open discussion of
the conflicts in official theoretical physics and cosmology, possible alternative solution of
Natural philosophy problems, experimental results and nontraditional sources of energy.
The topic of a round-table talk during the Conference is: "Seven conferences passed, what is
to be done further?".
Simultaneously a Symposium "Coordinate problem in astrometry and geodesy" is organized
in order to consider rather narrow field of problems common to astrometry geodesy and
geodynamics:
Reduction of high precision observations (on microsecond level), pulsar timing, aberration of
light and so on.
Orientation of Coordinate Systems; GPS satellite systems.
Unsolved questions in metrology: historical aspects and contemporareity.
Conference and Symposium are hosted by Baltic State Technical University.
If you intend to participate in the Conference or Symposium, please, fill out the enclosed
Registration form and send it together with the summary of your paper (not more then 10
lines) to Local Organizing Committee (LOC) before February 1, 2002.
After getting Registration form Second Announcement with detailed information will be send
to you.
Address of the chairman of LOC, Varin Michael Pavlovich is:
65-9-1, Pulkovskoe shosse,
196140 St.-Petersburg, Russia.
E-mail: [email protected]
From the Program Organizing Committee (POC):
G.T. Aldoshin - Honored leader of sciences of Russian Federation, Prof., Ph.D., Baltic State
University, chairman of POC.
N.I. Nevskaja - Ph.D. in Philosophy, St.-Petersburg brunch of Institute for History of Science
and Technology, member of POC.
S.A. Tolchelnikova-Murri - Ph.D., Pulkovo Observatory, member of POC,
tel.123-4226 home, 123-4324 office.
From the LOC: M.P. Varin - Ph.D., chairman of LOC.
November 5, 2001
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La famiglia di Mosè
Un potere occulto nella storia dell'Occidente?
(Flavio Barbiero)
Prima parte
In tutte le opere che trattano di Mosè ci sono interminabili dissertazioni sui suoi genitori
naturali e soprattutto su quelli adottivi, che secondo alcune tradizioni sarebbero da ricercarsi
addirittura nella famiglia del faraone. Nessuno, però, parla mai della famiglia formata dallo
stesso Mosè, dei suoi figli e dei suoi discendenti. E' un argomento che sembra oggetto di un
rigoroso tabù: invano se ne cercano notizie nelle innumerevoli opere che trattano del profeta.
I discendenti dei grandi fondatori di religioni, di solito, occupano posizioni di tutto rilievo
nelle società che hanno adottato quelle religioni. I discendenti di Confucio, per esempio, sono
tuttora venerati nell'estremo oriente e quelli di Maometto (per la precisione di sua figlia
Fatima) hanno regnato e regnano tuttora su tutte le monarchie arabe. E i discendenti di Mosè
che fine hanno fatto? Logica vorrebbe che fossero tenuti in grande considerazione in seno ad
Israele e che occupassero una posizione di rilievo per lo meno nella sua organizzazione
religiosa. Invece nella bibbia, la quale, si voglia o no, è l'unica fonte di informazioni storiche
su Israele, non esiste il minimo cenno esplicito a questo proposito. A giudicare dal silenzio
che li circonda, sembrerebbero svaniti nel nulla, come se non fossero mai esistiti. Eppure non
c'è dubbio che Mosè abbia avuto dei discendenti.
Quando Mosè fuggì dall'Egitto, si rifugiò nel paese dei madianiti e trovò ospitalità presso il
sacerdote Ietro, "che gli diede in moglie la propria figlia Zippora. Ella gli partorì un figlio ed
egli lo chiamò Ghersom" (Es. 2,22). Più tardi Zippora gli diede un secondo figlio maschio,
Eliezer. Quando tornò in Egitto per organizzare l'esodo, Mosè lasciò moglie e figli presso il
suocero Ietro, che glieli riportò in seguito, a Refidim, nei pressi del monte sacro. Il capitolo 18
di Esodo è interamente dedicato a questo episodio:
"Ietro, suocero di Mosè, venne da Mosè con la sua moglie e i suoi figli, nel deserto dove era
accampato, al monte di Dio. E disse a Mosè: "Sono io Ietro, tuo suocero, che vengo da te, con tua
moglie, e con lei ci sono i suoi due figli."
Questa è l'ultima volta in cui Zippora e i due figli di Mosè vengono nominati nel
Pentateuco. Da questo momento in poi non si dice più una sola parola su di loro. E' un
silenzio che appare incredibile, enorme. Può essere attribuito soltanto a due cose: o c'è stata
una censura che ha tagliato o mascherato, a seconda dei casi, tutte le notizie relative alla
famiglia di Mosè; oppure questa famiglia è sparita, per un qualche motivo, prima
dell'invasione della Palestina. Ma se così fosse stato, il racconto avrebbe dovuto riportarlo. La
cronaca dell'Esodo è precisa e dettagliata e registra un gran numero di fatti apparentemente
banali; un fatto così enorme come l'eventuale annientamento della famiglia del protagonista
assoluto dell'opera dovrebbe necessariamente essere riportato. In ogni caso, quindi, si deve
ammettere che una qualche forma di censura c'è stata, o da parte dell'autore stesso del
Pentateuco, oppure successivamente. L'idea che qualcuno abbia voluto cancellare la famiglia
di Mosè dalla storia di Israele, sembra incomprensibile. Eppure è un dato di fatto innegabile.
Alcune notizie frammentarie e liste genealogiche, sfuggite evidentemente alla censura, nei
libri successivi (Giudici, Samuele e Cronache), infatti, ci danno la certezza che i figli di Mosè
gli sono sopravvissuti e sono entrati in Palestina al momento della conquista, ed hanno avuto a
loro volta dei figli e dei discendenti, che arrivano per lo meno fino ai tempi di re Davide. Ma
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delle loro vicende, delle cariche ricoperte e del ruolo svolto negli avvenimenti successivi alla
conquista non viene detto nulla di esplicito. Questo non è certamente dovuto al fatto che i
discendenti del più grande dei profeti fossero personaggi di secondo piano, che potessero
venire ignorati dai cronisti dell'epoca. Non è pensabile.
Vista l'importanza della famiglia, il ruolo preminente che ricopriva e la lunghezza del
periodo durante il quale è certificata la sua esistenza in seno ad Israele, è da escludersi che la
sua assenza dalle cronache bibliche sia dovuta ad una perdita accidentale di informazioni. Non
c'è dubbio che debba esserci stata una censura deliberata, volta specificamente a rimuovere
dalle cronache ogni accenno ai discendenti di Mosè. Dovrebbe essere relativamente facile
trovarne le prove. Appare inverosimile, infatti, che tale operazione abbia potuto effettuarsi
senza lasciare tracce piuttosto evidenti. Nel testo devono necessariamente essere sopravvissuti
indizi, incongruenze, fatti, nomi e soprattutto omissioni che denunciano in modo evidente
l'operazione di censura e dai quali è possibile ricostruire la vera storia di questa famiglia.
Deuteronomio
Incongruenze ed omissioni ingiustificabili e molto significative a questo proposito si notano
già nell'ultimo libro del pentateuco, Deuteronomio. Questo libro narra i fatti dell'ultima
giornata terrena di Mosè, quando egli convoca l'assemblea del popolo ebraico e tiene un
grande discorso di commiato, passando pubblicamente le consegne ed il potere ai suoi
successori. Ci sono cose che dovevano necessariamente essere riportate nella cronaca di
quella giornata, perché ne costituiscono una parte importante, se non addirittura il motivo
principale per cui era stata convocata l'assemblea. In particolare manca ogni accenno al
sommo sacerdote che era o dovette entrare in carica in quell'occasione.
In mancanza di indicazioni specifiche viene correntemente dato per scontato che il sommo
sacerdote fosse allora Eleazaro, figlio di Aronne, che avrebbe ereditato la carica dal padre; ma
è falso. Aronne e suo figlio non sono mai stati sommi sacerdoti: questa è una leggenda messa
in circolazione successivamente, quasi mille anni dopo, ai tempi di Esdra, che non ha alcun
fondamento nei primi libri della Bibbia. Fino a che rimase in vita il sommo sacerdote fu
sempre e soltanto Mosè. Lui e solo lui fu l'interlocutore con Dio; fu lui che consacrò il
tempio-tenda, lui che consacrò Aronne e successivamente Eleazaro; lui che convocava le
assemblee e presiedeva le cerimonie. Aronne fu sempre e soltanto una comparsa. Non ci può
essere il minimo dubbio che Mosè assommasse nella sua persona il potere sia civile che
religioso.
Nella sua ultima giornata, narrata in Deuteronomio, egli passa pubblicamente il potere civile
a Giosuè, ma non quello religioso. A chi andò quest'ultimo? Chi fu designato sommo
sacerdote da Mosè al momento del suo commiato dal popolo ebraico? Se il sommo sacerdote
fosse stato in quel momento Eleazaro, dovremmo aspettarci che egli comparisse a fianco del
profeta come, giustamente, compare il suo erede militare, Giosuè. O quanto meno che il suo
nome comparisse nei passi più significativi di un libro quasi interamente dedicato a questioni
di carattere religioso e sacerdotale.
Invece il nome di Eleazaro non compare mai nel libro di Deuteronomio, se non una volta,
incidentalmente, in relazione alla morte del padre. In nessuna parte di Deutoronomio viene
mai precisato chi fosse il sommo sacerdote, né chi avesse diritto al sacerdozio. Il che, in un
libro che doveva costituire il fondamento della legittimità delle cariche religiose in Israele, è
inammissibile. E' fin troppo evidente che vi è stata esercitata una censura a questo proposito.
Secondo la consuetudine ed il diritto in vigore presso il popolo di Israele, i figli primogeniti
ereditavano sempre la posizione ed i privilegi del padre; per questo la condizione di
"primogenito", che viene sempre specificata nella Bibbia, era ed è tutt'oggi così importante in
quella società. Non ci sono indicazioni che Mosè facesse eccezione alla norma su questo
punto; anzi, il fatto che il racconto evidenzi che Ghersom era il suo "primogenito", sottintende
che veniva considerato quale suo erede e successore. In base alle consuetudini, quindi, e alla
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logica, dovremmo aspettarci che Mosè abbia presentato come proprio successore alla carica di
sommo sacerdote il proprio figlio primogenito. Come pure dobbiamo ritenere che i
discendenti del primo e più grande sacerdote di Israele, Mosè, debbano aver ereditato quanto
meno lo stato di sacerdoti. Ma nel libro di Deuteronomio i figli di Mosè non sono mai
nominati; neppure in occasione della sua morte e sepoltura, il che è decisamente contrario ad
una norma perfettamente documentata nel Pentateuco: tutti i patriarchi sono stati sepolti dai
propri figli.
Il testo di Deuteronomio, quindi, risulta lacunoso su due punti di assoluto rilievo nell'ambito
dei fatti narrati e di importanza capitale nella storia di Israele: i figli di Mosè e l'identità del
suo successore alla carica di sommo sacerdote. E' legittimo ritenere che su questi due
argomenti sia stata esercitata una sorta di censura e che fra di essi ci sia una stretta
connessione.
L'eredità della famiglia di Mosè
Proseguendo con il libro di Giosuè, le omissioni ingiustificate sono assai più evidenti e
clamorose e quindi la prova della censura risulta ancora più eclatante. Il libro narra la
conquista e la spartizione della Palestina. Terminata la conquista "si riunì tutta la comunità
dei figli di Israele in Siloh, (Gs.18,1) … e Giosuè tirò per essi le sorti in Siloh davanti a
Jahweh ed ivi distribuì la terra ai figli di Israele."
Dei 24 capitoli del libro, ben dieci sono interamente dedicati alla spartizione del territorio
conquistato fra le varie tribù. In essi vengono elencate una per una tutte le famiglie di Israele,
con i territori loro assegnati. La famiglia di Mosè, il personaggio in assoluto più importante,
non poteva essere ignorata in questo contesto. Incredibilmente, invece, non vi si trova neppure
un singolo cenno in proposito. E' un fatto sbalorditivo.
Tutti gli ebrei hanno avuto un pezzetto di territorio, anche i personaggi più insignificanti;
persino qualcuno dei parenti madianiti di Mosè ha ricevuto la sua parte di eredità in Palestina.
Infatti Obab il chenita e i suoi discendenti ebbero un territorio in mezzo a Israele, nella valle
del Giordano, vicino a Gerico. Obab era fratello di Zippora e quindi cognato di Mosè; è
importante il fatto che egli abbia avuto assegnata una parte di eredità in Israele. A maggior
ragione, quindi, i figli veri e propri di Mosè devono aver avuto, all'atto della spartizione, una
parte adeguata ai meriti e alla posizione del padre.
Invece nulla: essi non vengono mai nominati, neppure di sfuggita. Quella famiglia sembra
sparita, volatilizzata. Sappiamo invece con certezza, dai libri successivi, che al momento della
spartizione essa si trovava in Palestina. E' fin troppo evidente, quindi, che ci deve essere stata
una censura nel libro a questo proposito. Non è possibile, infatti, che si tratti di una semplice
"dimenticanza" del redattore.
Silo
Ma non è l'unica. Dal momento che si cercano nel libro di Giosuè informazioni che
dovrebbero esserci e invece non ci sono, non si può fare a meno di rilevare un'altra clamorosa
omissione di questo libro.
Fin dalla spartizione, la città di Silo, situata nel territorio montagnoso di Efraim, più o meno
al centro del territorio conquistato, si era imposta come la località più importante della
Palestina. Una rapida indagine attraverso il testo biblico, infatti, è sufficiente a stabilire che
era assurta a città guida di Israele fin immediatamente dopo la conquista della Palestina ed era
rimasta tale fino alla sua distruzione, operata dai Filistei ai tempi di Samuele.
Le conferme sono numerose, come per esempio in Geremia 7,12-16, dove il profeta,
preannunciando la distruzione di Gerusalemme e del suo tempio, mette in bocca a Jahweh le
seguenti parole: "… nella mia dimora che era in Silo avevo da principio posto il mio nome …
io tratterò questo tempio (di Gerusalemme) che porta il mio nome e nel quale confidate e
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questo luogo che ho concesso a voi e ai vostri padri, come ho trattato Silo". In Giudici 18,31
è detto chiaramente che a quei tempi "la casa di Dio era a Silo". A Silo, infatti, era stato
eretto il tempio a Jahweh dove veniva conservata l'arca dell'alleanza (1 Sam. 4,3). A Silo
risiedeva il sommo sacerdote. A Silo tutta Israele portava le proprie offerte per il Signore (1
Sam. 2,13 seg). A Silo tutti gli anni convenivano gli israeliti da ogni parte della Palestina,
"per prostrarsi e sacrificare a Jahweh degli eserciti" (Gdc, 21,19; 1 Sam. 1,3). Sulla base di
tutte queste indicazioni, così chiare e precise, non è possibile nutrire dubbi sul fatto che,
durante tutto questo intervallo di tempo, Silo era stata per Israele quello che più tardi sarebbe
stata Gerusalemme.
Ai tempi della spartizione del territorio fra le tribù di Israele, quindi, Silo era in assoluto la
città più importante di tutta la Palestina. E il titolare del santuario, in quanto sommo sacerdote,
era la massima autorità di Israele. L'autore del libro di Giosuè non poteva ignorare quella che
era in effetti l'informazione più importante e significativa di tutto il libro e cioè a chi fosse
stata assegnata la città ed il suo santuario. Quindi, delle due l'una: o egli ha omesso
deliberatamente di riportare la notizia, per una qualche sua ragione che al momento ci sfugge,
oppure essa è stata cancellata successivamente. Se all'epoca della conquista il sommo
sacerdote di Israele fosse stato Eleazaro, come vuole la tradizione consolidata ai tempi di
Esdra, è logico aspettarsi che la città sarebbe stata assegnata a lui stesso. Ma il libro di Giosuè
non lo dice. Anzi, un controllo accurato del testo permette di stabilire con certezza che la città
non fu assegnata a nessuno dei leviti, e tantomeno ai discendenti di Aronne. I leviti ebbero in
tutto 48 città, distribuite fra le varie tribù, che sono nominate una ad una, comprese le quattro
nella regione di Efraim, dove si trovava Silo: Sichem, Ghezer, Qibsajim e Bet-Horon. Tredici
città, anch'esse elencate una ad una, vengono assegnate specificamente alla famiglia di
Aronne, vale a dire a Eleazaro, Itamar e ai loro figli. Di Silo neanche l'ombra! Ulteriore
conferma è il fatto che Eleazaro fu sepolto a Ghibeat, chiara indicazione che questa era la sua
città, passata poi in eredità a suo figlio Fineas.
Silo, quindi, non era stata assegnata ad un levita e tanto meno ad un discendente di Aronne,
Eleazaro o suo figlio Fineas. Nondimeno era sede del tempio a Jahweh e vi risiedeva la più
alta autorità religiosa di Israele, il sommo sacerdote. Il fatto che nel libro di Giosuè non venga
detta una singola parola da cui si possa arguire a chi fosse stata assegnata la città costituisce
una omissione altrettanto clamorosa di quella relativa alla mancata menzione della famiglia di
Mosè. Non è possibile che il narratore ignorasse proprio quelle che erano le notizie più
importanti di quella spartizione, e cioè a chi era stata assegnata Silo e quale fosse la parte di
eredità toccata ai figli di Mosè.
L'ipotesi della censura diventa quindi una certezza. Anche qui, come in Deuteronomio, essa
riguarda due punti essenziali: la famiglia di Mosè e l'identità del sommo sacerdote, titolare di
Silo. Prende consistenza, quindi, l'ipotesi che tra il sommo sacerdozio e la famiglia di Mosè ci
fosse una relazione ben precisa e che Silo con il suo santuario fosse stata assegnata in eredità
proprio a questa famiglia. Ipotesi che diviene certezza, in base alle informazioni sui
discendenti di Mosè contenute nei libri successivi.
Seconda Parte
In Deuteronomio e Giosuè si hanno numerose indicazioni dalle quali si desume che la
famiglia di Mosè è sopravvissuta al profeta, è entrata in Palestina al tempo della conquista ed
era titolare della carica di sommo sacerdote a Silo. Si tratta per lo più di prove indirette,
consistenti in omissioni importanti che nessuno poteva ignorare a quell'epoca e che dovevano
necessariamente essere riportate nel testo. In Giudici, invece, si cominciano a trovare le prime
prove dirette ed esplicite.
Ben due capitoli di Giudici, il 17.mo e 18.mo, vengono dedicati a una storia apparentemente
strana e avulsa dal contesto narrativo del libro stesso. Si parla infatti di un "certo" levita, figlio
cadetto di un personaggio ignoto, che parte da Betlemme in cerca di fortuna e viene accolto in
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casa di un non meglio identificato Mica, che abitava sulla "montagna di Efraim" e che lo
assume come suo "sacerdote" personale. Dopo varie vicende, il nostro sacerdote approda a
Dan, dove fonda un santuario. Alla fine dei capitoli si scopre che questo levita "innominato"
aveva un nome ben preciso, Gionatan, ed era figlio nientemeno che di Ghersom, primogenito
di Mosè.
Questo versetto è importante perché conserva l'evidenza di una censura e mostra come essa
sia stata operata con interventi davvero minimi sul testo. Nella versione della Bibbia tratta dal
testo masoretico, infatti, il nome di Mosè è stato cambiato in quello di "Manasse",
semplicemente inserendovi una "n". In tal modo il genitore di Gionatan diventa "Ghersom
figlio di Manasse", personaggio che non esiste nella Bibbia. Manasse era il figlio primogenito
di Giuseppe, morto in Egitto almeno mezzo secolo prima, e non ebbe alcun figlio di nome
Ghersom. Che si tratti di interpolazione voluta, per sviare l'attenzione da Mosè, appare più che
evidente.
Nella versione greca detta dei LXX, (tratta a sua volta da un testo ebraico più antico di
quello masoretico), questa corruzione, invece, non è avvenuta. Qui c'è scritto chiaramente che
si tratta proprio del figlio di Mosè. Questi due capitoli di Giudici, quindi, confermano in
maniera puntuale che la famiglia di Mosè si trovava in Palestina. Forniscono inoltre una
informazione molto importante e cioè che i figli di Ghersom erano sacerdoti per diritto di
nascita; vale a dire che il sacerdozio era una condizione ereditaria, legata alla famiglia di
Mosè.
C'è infine un ultimo particolare di estremo interesse, e cioè il fatto che "Gionatan, figlio di
Ghersom, figlio di Mosè, e quindi i suoi discendenti furono sacerdoti della tribù di Dan fino
al giorno della deportazione dalla terra. Essi si eressero l'idolo che si era fatto Mica, che
rimase in quel luogo per tutto il tempo in cui la casa di Dio fu in Silo" (Gdc. 18,31). E'
evidente da questo cenno che fra Gionatan e il santuario di Silo doveva esistere un legame
diretto. La spiegazione più logica e immediata che balza alla mente è che il titolare del
santuario di Silo fosse suo padre Ghersom.
Sulla base di queste indicazioni è possibile ricostruire le vicende della famiglia di Mosè con
buon grado di affidabilità. Prima della sua morte, in Transgiordania, Mosè deve aver affidato
il potere religioso al suo primogenito Ghersom, trasmettendogli la carica di sommo sacerdote.
Il potere civile fu invece assegnato "ad interim" a Giosuè, che per le sue capacità militari era
l'unico in grado di guidare la conquista della Palestina. Il resto della famiglia di Mosè ebbe
come prerogativa la condizione del sacerdozio.
All'atto della spartizione del territorio conquistato, Ghersom ebbe in eredità Silo, dove
venne subito edificato il tempio a cui affluivano le offerte da tutta la Palestina. Il titolare del
tempio di Silo, in quanto sommo sacerdote, era la massima autorità di Israele. Alla morte di
Giosuè, nessuno subentrò al suo posto, per cui la guida del popolo ebraico dovette ricadere
interamente nelle mani del sommo sacerdote.
Sappiamo per certo, proprio da numerosi passi del libro di Giudici, che a quell'epoca Silo
era il centro politico e religioso di Israele, dove il popolo ebraico conveniva tutti gli anni per
portare le proprie offerte al tempio di Jahweh e dove veniva convocato nelle situazioni di
emergenza. Ma il nome del sommo sacerdote non compare mai nel testo, né viene mai
evidenziato il ruolo della famiglia sacerdotale negli avvenimenti del periodo. Il testo è
popolato soltanto di "leviti" senza nome e senza una provenienza precisa, che appaiono dotati
di autorità enorme, senza però che ne venga specificata la fonte.
L'opera del censore a questo riguardo è più evidente che mai nel testo di Giudici, perché la
mancata menzione di nomi, luoghi e fatti si avverte in modo immediato e diretto ed è tale da
rendere incomprensibile buona parte degli episodi narrati e soprattutto da rendere impossibile
inquadrare gli avvenimenti in una cornice storica che abbia un minimo di senso. E' un libro
confuso che da un lato, a causa delle sue reticenze, lascia emergere il quadro di un periodo
apparentemente in preda all'anarchia ed al disordine sia politico che religioso, mentre
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dall'altro testimonia in maniera inequivocabile l'esistenza a Silo di una forte autorità centrale
riconosciuta da tutto il popolo.
Da notare che anche qui la censura è rivolta essenzialmente alla famiglia di Mosè e
all'identità del titolare del santuario di Silo, che sulla base dell'analisi precedente doveva
essere appunto Ghersom, primogenito di Mosè. Ma perché mai qualcuno si è preso la briga di
cancellare dai primi libri della Bibbia proprio i discendenti di quello che è in assoluto il
personaggio più grande e importante di tutta la storia di Israele? La risposta a questa domanda
scaturisce con evidenza dall'analisi del testo biblico: i discendenti immediati di Mosè erano
personaggi indegni e profondamente invisi alla popolazione ebraica, che mal tollerava il loro
primato.
La ragione principale va ricercata nel fatto che i figli di Mosè non erano ebrei, o comunque
non potevano essere considerati tali a pieno titolo. Erano nati da madre madianita e cresciuti
fra i madianiti, quindi decisamente di cultura madianita. E gli israeliti mal tolleravano di
sottostare ad uno che non fosse ebreo al 100%. Questo da solo sarebbe sufficiente a
giustificare il desiderio di cancellarli dalle cronache di Israele ed evitare un loro abbinamento
alla casta sacerdotale. Si aggiunga il fatto che Ghersom era un personaggio dispotico e
sanguinario, autore di azioni raccapriccianti. Ciò si deduce dal testo stesso.
Kusan il terribile
Da un passo di Giudici, molto controverso e sicuramente manipolato, apprendiamo che dopo
la morte di Giosuè il potere passò ad un certo "Kusan Risataim, re di Aram. Gli Israeliti
stettero sottomessi a Kusan Risataim per otto anni. Allora gli Israeliti alzarono il loro grido a
Jahweh, il quale suscitò un salvatore che li liberò: fu Othoniel, figlio di Qenaz…". Gli esegeti
si sono sempre chiesti chi mai potesse essere questo personaggio, che sicuramente non era un
re Arameo, né risulta avesse un esercito, una sede, o che avesse invaso la Palestina o
compiuto azioni militari di alcuna sorta. La cosa più strana è il nome: "Kusan", infatti, non è
un nome di persona, ma il nome di una località del paese di Madian, da cui venivano Zippora
e i figli di Mosè (vedi Abacuc 3,7).
Si tratta senza dubbio di un soprannome, applicato sprezzantemente a qualcuno originario di
quella località. Ci vuol poco a capire che si tratta proprio di Ghersom, succeduto a Giosuè
nella guida del paese. La conferma ci viene data da uno scritto apocrifo del II secolo a.C.
(L'Apocalisse di Mosè) che fornisce una versione di quei versetti leggermente, ma
significativamente, diversa da quella fornita dal libro dei Giudici. Infatti egli dice
testualmente: "Dopo la morte di Giosuè si pose a capo dei figli di Israele, per ottanta anni,
Kusan il terribile. Quindi guidò Israele per venti anni Othaniel, figlio di Kena…".
"Kusan" è con tutta evidenza il capo israelita che subentra immediatamente a Giosuè nella
guida del popolo ebraico. Non un re straniero invasore, quindi, ma sicuramente il titolare del
tempio di Silo. E non viene sconfitto da Othaniel, come è detto in Giudici. Kusan, quindi, era
il soprannome con cui veniva indicato il titolare di Silo, massima autorità della Palestina.
Trasparente indicazione che si trattava proprio del figlio di Mosè, Ghersom, madianita
cresciuto a Kusan. E' un soprannome sprezzante, a cui si aggiunge un appellativo che rivela
chiaramente la natura maligna del personaggio. "Risataim", infatti, significa "dalla doppia
malizia", tradotto dall'apocrifo in "terribile".
L'appellativo "terribile" lascia presumere che Ghersom governasse con il terrore, e fosse
stato protagonista di fatti di sangue che hanno gettato Israele nella costernazione. In effetti gli
ultimi tre capitoli del libro sono dedicati ad un episodio raccapricciante, in cui un "anonimo"
"levita, che abitava all'interno delle montagne di Efraim" (Gdc. 19,1), squarta la moglie morta
in seguito alle violenze subite da alcuni beniaminiti, a cui lui stesso l'aveva abbandonata, e ne
manda un pezzo a ciascuna delle tribù di Israele, convocandole a Silo. Qui egli esige che la
tribù di Beniamino venga completamente sterminata, donne e bambini inclusi (soltanto alcuni
giovani vengono in seguito risparmiati per perpetuare la tribù). Più tardi fa sterminare anche
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gli abitanti di Jabes del Galaad, perché non si erano presentati all'appello a Silo - Gdc. 21,812.
Non c'è dubbio dal contesto che l'anonimo levita protagonista di questo truculento episodio
era il titolare del tempio di Silo, tutt'altro che "anonimo", quindi; ma il suo nome è stato
evidentemente cancellato per non coinvolgere la figura di Mosè nel discredito che questi fatti
gettavano sulla sua famiglia. Azioni così sproporzionate dimostrano un carattere dispotico e
feroce, che certamente non valse ad aumentare la popolarità di Ghersom, già malvisto per il
fatto di essere madianita. Era senz'altro il personaggio più odiato e disprezzato dell'epoca. Ed i
suoi successori non dovevano essere molto più popolari.
Il disprezzo verso la famiglia sacerdotale di Silo traspare con tutta evidenza anche nel libro
successivo, quello di Samuele. Il sommo sacerdote Eli e i suoi due figli Ofni e Fineas
risultano impopolari e invisi a tutti, descritti come lestofanti avidi e arroganti, interessati
soltanto a depredare il popolo. In 1 Sam.2,12, si legge:
"I figli di Eli erano uomini perversi: essi non conoscevano Jahweh né il diritto dei sacerdoti presso il
popolo. Ogni volta che uno offriva un sacrificio, veniva il servo del sacerdote, mentre si cuoceva la
carne, con un tridente in mano, e lo ficcava nel caldaio: il sacerdote si prendeva tutto quello che il
tridente tirava su. … Il peccato dei giovani era molto grande davanti a Jahweh, poiché quegli uomini
disonoravano le offerte di Jahweh."
Se si considera che queste parole sono rivolte ai figli del sommo sacerdote, eredi essi stessi
al sommo sacerdozio, si capisce bene di quale profonda impopolarità soffrisse la famiglia
sacerdotale in quel periodo. Si capisce anche come nessuno fosse desideroso di sottolineare la
discendenza di tale famiglia dal sommo profeta Mosè e come il redattore, o un qualche copista
del testo biblico, abbiano omesso deliberatamente ogni accenno che potesse stabilire in
maniera evidente un legame fra Mosè ed i suoi discendenti. Mosè era il fondatore della
religione ebraica, il garante supremo della legge: non poteva essere travolto, o anche soltanto
toccato, dalla impopolarità e dalle malefatte dei suoi indegni discendenti. Occorreva creare un
disaccoppiamento. Questo venne a rispondere in seguito anche ad una esigenza di legittimità
della famiglia sacerdotale, che non aveva alcun interesse a sottolineare la sua discendenza
madianita.
In un primo momento, quindi, si tentò di far sparire dal libro sacro le prove che legavano i
discendenti di Mosè al profeta, e questo nell'unico modo possibile: facendo sparire i
discendenti stessi. La censura dei testi dovette esercitarsi nel modo più discreto e leggero
possibile, limitandosi a cancellare qualche riga qua e là e a sopprimere o modificare qualche
nome. Ne risultarono incongruenze vistose e rivelatrici, per cui in un secondo tempo si
dovette cercare di mascherarle, trovando un sostituto che potesse assumersi la paternità della
famiglia sacerdotale con un minimo di credibilità.
Aronne venne a trovarsi in posizione ideale per questa operazione. Al tempo di Esdra venne
indicato di punto in bianco, e senza alcuna giustificazione di tipo genealogico (lo vedremo in
seguito), quale antenato dei sacerdoti rientrati a Gerusalemme dall'esilio babilonese e da allora
in poi questa è diventata la versione accettata in tutto il mondo ebraico. La famiglia di Mosè è
scomparsa, sepolta nell'oblio, nonostante le numerose indicazioni della Bibbia che ne
testimoniano l'esistenza. Per una qualche ragione che sfugge alla comprensione, nessuno ha
mai osato indagare questo argomento.
Il sommo sacerdote Eli
Nel libro di Giudici si trova l'evidenza che la famiglia di Mosè è sopravvissuta alla morte del
profeta ed è entrata in Palestina e anche la prova che questa famiglia era titolare del santuario
di Silo e che ai suoi membri competeva il sacerdozio per diritto di nascita. Nei libri successivi
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si trovano numerose citazioni dei discendenti di Mosè che confermano tutto ciò in maniera
definitiva.
C'è un modo per sapere con certezza chi ha avuto Silo in eredità all'atto della spartizione. Le
cariche in Israele, come pure il possesso di beni e città, erano sempre ereditari. Basta quindi
controllare chi fossero gli antenati del titolare del santuario di Silo ai tempi di Samuele, per
scoprire chi l'ha avuta in sorte all'atto della spartizione. Nei libri di Samuele tutti i personaggi
vengono identificati con le loro genealogie, di norma quelli importanti fino a Giacobbe. Il
primo libro, infatti, si apre con la genealogia completa di Samuele, che risale fino ad Efraim,
figlio di Giuseppe. A maggior ragione, quindi, dobbiamo aspettarci che siano citati gli
antenati del gran sacerdote Eli, titolare del tempio di Silo, il personaggio più importante di
Israele a quell'epoca. Ma sorprendentemente gli antenati di Eli non vengono citati da nessuna
parte. Neppure il nome di suo padre. E' assolutamente incredibile. Il solito censore all'opera?
Senza dubbio; ma c'è un passo, 1 Sam.2,27, in cui il censore lascia filtrare qualche
informazione in merito ad un grande antenato di Eli, ovviamente senza riportarne il nome:
"Un giorno venne un uomo di Dio a Eli e gli disse: 'Così dice il Signore: Non mi sono forse rivelato al
tuo antenato mentre gli ebrei si trovavano in Egitto come schiavi nella casa del faraone? Ed egli fu
scelto fra tutte le tribù di Israele per me, perché facesse il sacerdote e salisse sul mio altare per far
ascendere il fumo dei sacrifici, per portare dinanzi a me l'efod, affinché io dessi alla casa del tuo
antenato tutte le offerte fatte mediante il fuoco dai figli di Israele?' "
Sulla base di queste parole, sembrerebbe non possano esserci dubbi che il "grande antenato"
di Eli debba identificarsi con lo stesso Mosè: fu a lui e a lui solo che Dio si rivelò mentre gli
ebrei erano in Egitto; lui fu sempre l'unico interlocutore diretto con Dio. E fu Mosè a
consacrare il tabernacolo e ad offrire i primi sacrifici; fu lui a ungere Aronne ed i suoi figli
(Es.29). Tutti i moderni commenti esegetici, invece, sono concordi nel dire che si dovesse
trattare di Aronne; come voleva il nostro censore, del resto. Ma la cosa ha poco senso e non
trova conferma nel testo. Di Aronne si conoscono tutte le città, e Silo non è fra queste. Mentre
Ghersom, figlio di Mosè, e suo figlio Gionatan sono associati a Silo. Dovendo scegliere fra i
due, appare praticamente obbligato ritenere che il grande antenato di Eli, cui fa riferimento
l'autore del libro di Samuele, fosse lo stesso Mosè.
Se la famiglia di Mosè è realmente sopravvissuta, infatti, non ci può essere il minimo
dubbio che deve aver avuto in possesso proprio il santuario di Silo ed ovviamente la carica del
sommo sacerdozio, ad esso collegata. E che sia sopravvissuta è dimostrato non soltanto dai
cenni che abbiamo visto, ma anche da precise liste genealogiche sfuggite alla forbice del
censore nei libri successivi, le quali fra l'altro forniscono indicazioni su quale fosse il ruolo
assegnato ai discendenti di Mosè.
Le liste genealogiche di Cronache
Nei libri di Samuele si possono seguire le vicende della famiglia di Eli, da cui discendono tutti
i sacerdoti di Israele, dalla distruzione del tempio di Silo fino al termine del regno di Davide,
quando Gerusalemme diviene la capitale dei regni riuniti di Israele e di Giuda. I due libri
seguenti, 1 Re e 2 Re, consentono di seguire la famiglia sacerdotale lungo i successivi quattro
secoli generazione dopo generazione. Abbiamo la certezza che l'ultimo gran sacerdote della
serie, Giosedec, figlio del gran sacerdote Seraja ucciso a Ribla da Nabuccodonor, che viene
deportato ancora fanciullo a Babilonia, discende in linea diretta da Zadoc, e quindi in
definitiva da Eli. Zadoc, infatti, era figlio di Achitub, a sua volta figlio di Fineas, figlio di Eli.
A questo punto cominciano a riemergere nuove prove a favore della famiglia di Mosè. In 1
Cronache 23,14 c'è scritto che "riguardo a Mosè, uomo di Dio, i suoi figli furono contati nella
tribù di Levi. Figli di Mosè: Ghersom ed Eliezer. Figli di Gherson: Sebuel il primo. Figli di
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Eliezer furono Recabia il primo. Eliezer non ebbe altri figli, mentre i figli di Recabia furono
moltissimi."
Di Gherson viene citato soltanto il primogenito, Sebuel, mentre sappiamo da Gdc. 18,31 che
aveva avuto per lo meno un altro figlio maschio, Gionatan. Di Eliezer viene citato il primo ed
unico figlio, Recabia, ma specificando che quest'ultimo ebbe molti figli. Questo passo
fornisce la certezza su un certo numero di punti importanti. Innanzitutto, ancora una volta, che
la famiglia di Mosè gli è sopravvissuta ed ha avuto discendenti. In secondo luogo che questo
fatto era ben noto in Israele e che non poteva non essere riportato nelle cronache di Giosuè,
Giudici e Samuele; pertanto l'ipotesi della censura esercitata sul testo, vuoi dal redattore stesso
o da qualcuno successivamente, si conferma come certezza. In terzo luogo ci fornisce
l'evidenza che la famiglia di Mosè ha svolto un ruolo di primo piano nella vita religiosa e
politica di Israele.
Ulteriore conferma si trova sempre in Cronache, due capitoli più avanti; al versetto 24, si
legge:
"Sebuel, figlio di Ghersom, figlio di Mosè, era sovrintendente dei tesori. Tra i suoi fratelli, nella linea
di Eliezer: suo figlio Recabia, di cui fu figlio Isaia, di cui fu figlio Ioram, di cui fu figlio Zicri, di cui fu
figlio Selomit. Questo Selomit con i fratelli era addetto ai tesori delle cose consacrate, che il re
Davide, i capi dei casati, i capi di migliaia e di centinaia e i capi dell'esercito avevano consacrate,
prendendole dal bottino di guerra e da altre prede, per la manutenzione del tempio. Inoltre c'erano
tutte le cose consacrate dal veggente Samuele, da Saul figlio di Kis, da Abner figlio di Ner e da Ioab
figlio di Zeruià; tutti questi oggetti consacrati dipendevano da Selomit e dai suoi fratelli. "
Stando a questo passo ci sono sei generazioni fra Eliezer, secondogenito di Mosè, e Selomit,
vissuto ai tempi di David: il conto torna. Torna anche il fatto che i discendenti di Mosè si
trovassero a Gerusalemme, al tempo di Davide e soprattutto che fossero in qualche modo
collegati al costruendo nuovo tempio. Ad ogni modo, questi versetti ci danno ancora una volta
la certezza che la famiglia di Mosè non è svanita nel deserto del Sinai, ma ha seguito (o
piuttosto guidato?) gli ebrei in Palestina ed ha continuato a svolgere un ruolo di primo piano
nella storia di Israele. Ma quale? Il passo elenca per intero soltanto i discendenti del ramo
cadetto, facenti capo al secondogenito Eliezer, che avevano l'incarico di custodi dei tesori
consacrati. Un incarico di tutto rilievo.
La linea principale della discendenza di Mosè, invece, si arresta, come al solito a Sebuel,
primogenito di Ghersom, e quindi nipote di Mosè. Ma è evidente che deve aver avuto dei
discendenti; ad essi doveva essere riservato un incarico ancora più importante e certamente al
di sopra di quello dei discendenti Eliezer: evidentemente il sommo sacerdozio. Sebuel, in
quanto primogenito di Ghersom, gli era certamente succeduto nella carica di sommo sacerdote
a Silo e certamente l'aveva trasmessa al suo primogenito. E' proprio qui che la forbice del
censore ha spezzato la linea di discendenza di Mosè. Nessuno viene mai indicato come figlio
di Sebuel, come d'altra parte nessuno viene indicato quale padre di Eli. Basta ristabilire il
rapporto di parentela fra i due perché tutta la vicenda della famiglia di Mosè risulti chiarita.
Non c'è dubbio che Eli era un discendente di Mosè anziché di Aronne. Di fronte ai pochi
passi (due o tre al massimo) in cui si afferma che i sacerdoti discendono da Aronne, ci sono
nella Bibbia innumerevoli prove esplicite e dirette che la famiglia di Eli, e dei sacerdoti suoi
discendenti, non aveva niente a che spartire con Aronne. Al tempo di Davide, per esempio, i
discendenti di Aronne costituivano una famiglia a parte, ben distinta da quella dei sacerdoti.
Alla morte del figlio di Saul, Is-Baal, tutti i capi di Israele trattarono con Davide per passare al
suo servizio. Di essi esiste una lista dettagliata in 1 Cronache 12, 23-40. Quando si arriva ai
leviti vengono citati espressamente "Ioiadà, capo della famiglia di Aronne, e con lui
tremilasettecento; e Zadok, potente giovane di valore, e il casato dei suoi antenati con
ventidue capi".
Un'altra notevole "svista" da parte del nostro censore! Fotografa la situazione dei leviti e dei
sacerdoti al momento della riunificazione dei regni di Giuda e Israele. Da un lato c'erano i
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sacerdoti, con Zadok a capo; dall'altro i leviti discendenti da Aronne, che non erano sacerdoti,
con a capo Ioiadà. Questo fatto è confermato anche in versetti successivi (2 Sam. 8,15-18).
Controllando tutti i passi di Re, Cronache, Esdra e Neemia, si trova che sacerdoti e leviti
vengono sempre nominati assieme, ma sempre ben distinti gli uni dagli altri, a sottolineare il
fatto che si tratta di due diverse famiglie.
Ci sono prove sufficienti, quindi, per affermare con certezza che il "grande antenato" di Eli
era lo stesso Mosè, non Aronne. Ora, finalmente, il mistero della "scomparsa" della famiglia
di Mosè sembra risolto. In realtà quella famiglia non è mai scomparsa, ma ha continuato a
svolgere un ruolo di primissimo piano nella storia di Israele e non soltanto in quella. La
famiglia dei sacerdoti di Israele era costituita dai discendenti di Mosè e solo da loro, per
diritto di nascita. Aronne non ha avuto alcun ruolo nella sua genesi.
Una conclusione clamorosa, che va contro la tradizione consolidata oggigiorno, ma che
appare inoppugnabile, sulla base dei dati forniti dalla Bibbia.
Terza Parte - La riforma di Esdra
Il Libro della Legge censurato
La Bibbia fornisce elementi sufficienti stabilire con certezza che la famiglia sacerdotale di
Israele discendeva da Mosè. Aronne non c'entra per niente. C'è stata censura nei primi libri e
ad un certo punto una scelta deliberata, per motivi che non sappiamo, da parte della famiglia
stessa di "nascondere" la propria origine mosaica. I libri maggiormente colpiti dalla censura
sono quelli di Giosuè e Giudici, dove erano riportate in dettaglio tutte le informazioni relative
a Silo, primo centro religioso del popolo ebraico, ed alla famiglia mosaica che l'aveva avuto in
eredità. Chi ne fu l'autore? Quasi certamente non una sola persona; sulla base del testo, infatti,
è possibile individuare i principali responsabili.
I primi sette libri della Bibbia erano già completi ai tempi di Davide, che li pose nell'arca:
erano chiamati "Il libro della legge", perché contengono le prescrizioni e le leggi mosaiche.
Da allora il libro era rimasto conservato nel Tempio di Gerusalemme come un libro sacro e
inviolabile. Senonché intorno all'870 a.C. il re di Giuda, Giosafat, decise di divulgare il
contenuto del "Libro della Legge" direttamente al popolo, cosa che non era mai stata fatta in
precedenza, e perciò "mandò i suoi ufficiali nelle città di Giuda: avevano con sé il libro della
legge del Signore e percorsero tutte le città di Giuda, istruendo il popolo" (2 Cr.17,7). Si
trattava certamente di copie del "libro della legge", non dell'originale, che rimaneva custodito
gelosamente nel tempio. Ma c'era qualcosa che Giosafat non poteva permettersi di insegnare
al popolo di Giuda e quindi di trascrivere in quelle copie prodotte ad "uso didattico".
A quel tempo il regno di Giuda era in guerra aperta contro quello di Israele e fra i due regni
esisteva una fortissima rivalità religiosa. Giosafat non poteva in alcun modo propagandare
scritti che potessero mettere in discussione il primato di Gerusalemme rispetto a Silo. Nel
"libro della legge" originale, conservato nel tempio, era certamente scritta in dettaglio al storia
della città di Silo, il primo centro religioso del popolo ebraico, assegnato in eredità alla
famiglia di Mosè. Silo, purtroppo, era in territorio di Israele. Nelle copie ad uso didattico
prodotte da Giosafat, tutta la parte relativa a Silo dovette essere emendata e con essa anche le
notizie intimamente collegate, come quelle relative ai suoi titolari, la famiglia di Mosè.
Si trattava comunque di una censura tutt'altro che accurata, perché l'intenzione non era di
produrre un falso, ma soltanto di evitare di propagandare notizie politicamente inopportune in
quel momento. Sennonché qualche tempo dopo la Palestina fu invasa dagli assiri. Il regno di
Israele fu distrutto e scomparve definitivamente dalla scena della storia. Il regno di Giuda
sopravvisse in condizioni di vassallaggio. Manasse, il più empio dei re di Giuda, abolì il culto
di Jahweh, massacrò i sacerdoti e dedicò il tempio di Gerusalemme al culto di divinità assire.
Il "libro della legge" scomparve. Fu ritrovato soltanto alcuni decenni dopo dal gran sacerdote
Elchia (2 Re 22.8; 23,2), quando il re Giosia decise di restaurare il tempio e ripristinare il
culto di Jahweh.
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Quel che deve essere accaduto è che fu ritrovato non il libro originale, che era in esemplare
unico, ma una delle copie didattiche prodotte dal re Giosafat, grossolanamente censurata.
Pochi anni dopo essa veniva portata a Babilonia, al seguito dei deportati da Nabuccodonosor,
e fu su questa copia che si trovò a lavorare Esdra, a cui dobbiamo materialmente la versione
attuale della Bibbia.
Grazie a re Giosafat, quindi, sono scomparsi dal testo biblico tutti i passi che sancivano il
primato di Silo rispetto a Gerusalemme, e con essi buona parte delle informazioni sui
discendenti di Mosè, intimamente collegati a quella città. Ma non fu certamente Giosafat a
cancellare la discendenza di Mosè e trasformare i sacerdoti di Gerusalemme in discendenti di
Aronne. Esistono indicazioni sufficienti per affermare che questa operazione fu effettuata
soltanto dopo il rientro dall'esilio Babilonese e per individuarne l'autore nel sacerdote Esdra.
Non doveva essergli rimasto molto da fare per completare l'opera di occultamento della
famiglia di Mosè e trasformare ufficialmente i sacerdoti di Gerusalemme in discendenti di
Aronne. Furono sufficienti pochi ritocchi, come la sostituzione o soppressione di qualche
nome qua e là e il suggerire che i sacerdoti fossero figli di Aronne.
La discendenza "aronnide" della famiglia dei sacerdoti viene sancita per la prima, ed unica
volta in tutta la Bibbia, da un passo di 1 Cronache 24, 1-6:
"Figli di Aronne: Nadab, Abiu, Ebiatar, Eleazaro e Itamar. Nadab e Abiu morirono prima del padre e
non lasciarono discendenti. Esercitarono il sacerdozio Eleazaro e Itamar. David, insieme con Zadok
dei figli di Eleazaro e con Achimelech dei figli di Itamar divise (i sacerdoti) in classi secondo il loro
servizio. Poiché risultò che i figli di Eleazaro, relativamente alla somma dei maschi, erano più
numerosi dei figli di Itamar, furono così classificati: sedici capi di casati per i figli di Eleazaro, otto
per i figli di Itamar."
E' immediato rendersi conto che queste genealogie sono un falso patente e deliberato.
Itamar, ultimo dei figli di Aronne, era stato ordinato sacerdote da Mosè in Esodo 29. Ma da
allora era scomparso completamente dalle cronache bibliche, se si eccettua un cenno in
Numeri 3, dove viene citato fra i figli di Aronne e in Num.7,8, quando gli vengono affidate
responsabilità nella cura e trasporto del tempio-tenda. Nessun suo discendente viene mai
citato nella Bibbia. Di Eleazaro, invece, viene riportata una lista di discendenti in 1 Cronache
5,30 e 6,35 in cui compaiono anche un paio di Achitub e Zadok; ma chiaramente non hanno
niente a che spartire con il Zadok gran sacerdote ai tempi di Saul, Davide e Salomone. La
genealogia di quest'ultimo è perfettamente nota dai libri di Samuele: era fratello di Achimelek,
entrambi figli di Achitub, figlio di Fineas, figlio di Eli, gran sacerdote a Silo ai tempi di
Samuele. Fra i discendenti di Eleazaro Eli non figura da nessuna parte, segno certo che
Eleazaro non aveva niente a che vedere con Silo e con la sua famiglia sacerdotale; e d'altra
parte nessuno dei personaggi che figurano nella lista viene mai citato nei primi libri della
Bibbia, fatta eccezione per suo figlio Fineas (omonimo del figlio di Eli), che compare in
relazione a fatti accaduti durante l'esodo. Non ha il benché minimo fondamento, quindi, legare
Eleazaro ed Itamar a Zadok ed Achimelek.
Un'operazione di falsificazione storica di questo genere poteva avvenire soltanto in un
periodo di bassissimo profilo per il popolo ebraico, come quello subito dopo il rientro
dall'esilio babilonese; e comunque certamente con il consenso e l'attiva partecipazione della
famiglia sacerdotale stessa. Esdra, infatti ha il grande merito di aver riorganizzato la famiglia
sacerdotale di Gerusalemme e di averne rilanciato i destini.
Una prima ondata di ebrei era rientrata a Gerusalemme poco dopo il 538, guidati da
Zorobabele e dal sommo sacerdote Giosuè, figlio di Giosedec, deportato a babilonia ancora
fanciullo dopo che suo padre Seraià, ultimo sommo sacerdote di Gerusalemme, era stato
ucciso a Ribla da Nabuccodonosor. Qui avevano vivacchiato alla meno peggio, in una città
semispopolata e priva di difese, tra l'opposizione dei samaritani e delle popolazioni
circostanti. Lo stato della comunità giudaica di Gerusalemme e della famiglia sacerdotale era
23
così miserando, che uno dei favoriti del re Artaserse, alla corte babilonese, il dotto sacerdote
Esdra, chiese ed ottenne di essere inviato in Palestina per risollevarne le sorti.
Era intorno al 428 a.C. quando Esdra arrivò a Gerusalemme, con l'incarico di ripristinare la
religione ebraica nella Giudea. Egli portò con sé migliaia di deportati, tra cui centinaia di
sacerdoti, che furono immessi al servizio del tempio, la cui ricostruzione era iniziata il secolo
prima ad opera della prima ondata di ritorno. Per prima cosa egli si dedicò alla
riorganizzazione della famiglia sacerdotale.
I versetti citati rispecchiano l'accordo da lui imposto fra i due rami della famiglia sacerdotale
che si erano separati al tempo di re Salomone: il primo facente capo a Zadok, che era stato
nominato sommo sacerdote, carica che rimase alla sua famiglia fino alla distruzione di
Gerusalemme da parte di Nabuccodonosor; l'altro facente capo al figlio di suo fratello
Achimelek, Ebiatar, che era stato esiliato da Salomone ad Anatot (di questo ramo della
famiglia sappiamo poco, ma tra i suoi componenti di spicco ci fu lo stesso profeta Geremia).
24 famiglie entrarono nell'accordo, che da allora in poi si divisero gli incarichi del tempio e
le sue entrate e soprattutto si arrogarono il diritto esclusivo al sacerdozio. Tutte le altre
famiglie di origine mosaica, che in quel momento si trovavano fuori di Gerusalemme, come a
Babilonia, in Samaria e in Egitto, rimasero escluse. Fu allora, come risulta dai versetti in
questione, che le 24 famiglie si diedero ufficialmente, come antenati, i due figli di Aronne: 16
famiglie discendenti da Zadok si ricollegarono ad Eleazaro, per ribadire il loro primato nel
sacerdozio; 8 famiglie discendenti da Achimelek, padre di Ebiatar, si ricollegarono al
secondogenito di Aronne, Itamar. Tutti i sacerdoti diventarono così "figli di Aronne", ma non
si curarono di rendere credibile quella discendenza, inventando delle genealogie ad hoc.
La cosa incredibile non è tanto quella che la famiglia sacerdotale di Gerusalemme abbia
voluto sostituire il proprio capostipite Mosè con Aronne (aveva evidentemente i suoi buoni
motivi per farlo), quanto piuttosto che nessuno degli studiosi successivi abbia voluto rilevare
un falso così evidente e spudorato, privo com'è di qualsiasi pezza d'appoggio nella Bibbia.
La testimonianza di Binyamin da Tudela
Se la discendenza aronnide della famiglia sacerdotale era stata inaugurata ufficialmente
soltanto dopo il rientro a Gerusalemme, come appare dalla Bibbia, i sacerdoti rimasti a
Babilonia dovevano aver continuato a proclamarsi discendenti di Mosè. La conferma ci viene
da un dotto rabbino del medio evo, Binyamin da Tudela che intorno al 1160 d.C. effettuò un
viaggio, che lo condusse attraverso le comunità ebraiche di tutto il mondo di allora. Nella sua
relazione di viaggio, egli si sofferma a lungo nella descrizione della più grande comunità
ebraica dell'epoca, quella residente a Bagdad, l'antica Babilonia, formata in gran parte da
discendenti di deportati ebrei che non seguirono Esdra e Zedechia nel loro viaggio di ritorno a
Gerusalemme. Fra le altre cose ci informa che:
"La comunità di Bagdad, conta grandi dotti e capi di accademie, assai versati nello studio della
Torah. Le accademie rabbiniche sono dieci: a capo della maggiore, intitolata al Ga'on Ya'aqov, è il
rabbino capo Semu'el ben 'Ali, levita, la cui famiglia discende da Mosè, nostro maestro - sia su di lui
la pace."
Di tutti i rabbini citati da Binyamin di Tudela nel suo Itinerario, quello di Babilonia è l'unico
che si dichiara discendente di Mosè; l'unico in tutta la letteratura ebraica. (La grande comunità
israelita babilonese venne cancellata di colpo, insieme ai suoi sacerdoti discendenti di Mosè,
appena 60 anni dopo, quando Gengis Kan travolse Bagdad, massacrandone tutti gli abitanti).
24
La riforma di Esdra
Sulle ragioni di questa deliberata falsificazione storica si possono pensare almeno una mezza
dozzina di validi motivi, ma rimane comunque un esercizio sterile. Il motivo vero lo sapeva
Esdra e non lo dichiarò per iscritto. O meglio, non lo scrisse in un libro destinato al pubblico.
Esdra è una figura fondamentale nella storia del popolo ebraico e della famiglia sacerdotale in
particolare. Egli fu autore di una profonda riforma religiosa, che passò essenzialmente
attraverso la riorganizzazione della famiglia sacerdotale di Gerusalemme, a cui venne imposta
una struttura perfettamente regolamentata e rigide norme matrimoniali e di comportamento,
miranti a prevenire per il futuro ogni degenerazione del sacerdozio e della religione di cui essi
erano i ministri unici. Per assicurare i mezzi di sopravvivenza della famiglia e per la condotta
del tempio, Esdra aveva stabilito (o meglio ripristinato) un sistema di tasse, le famose decime,
che provvedevano entrate abbondanti e regolari, a cui si aggiungevano offerte personali e
donazioni. Le fortune della famiglia vennero a basarsi più che mai sul possesso e la gestione
del tempio e della religione ad esso collegata.
Esdra, infine, sistemò da un punto di vista strutturale e tradusse anche in aramaico il testo
della Bibbia, imponendolo come unico testo sacro, cui doveva ispirarsi la religione ebraica.
Una corrente di studiosi ritiene anche che fosse proprio lui il famoso "redattore", quello che
scrisse materialmente i primi libri della Bibbia, mettendo assieme tradizioni orali di varia
provenienza. Ipotesi che viene contraddetta dalla Bibbia stessa che dimostra l'esistenza del
"libro della legge" fin dai tempi di Davide, e lo ribadisce innumerevoli volte nei secoli
successivi. Sottolinea però un fatto importante e cioè che fu in ogni caso dalla penna di Esdra
che uscì la versione della Bibbia che leggiamo oggi, con pochissime varianti.
Esdra, tuttavia, non si limitò a ricopiare il "libro della legge". Da fonti esterne alla Bibbia,
come gli apocrifi del vecchio Testamento, sappiamo per certo che produsse opere non
destinate al pubblico. Nel Quarto Libro di Esdra, nel 14.mo ed ultimo capitolo, il Signore
decide di dettargli in sogno la riedizione delle Sacre Scritture e gli ordina: "Quando avrai
terminato quest'opera, alcune cose le dovrai rendere pubbliche, altre invece, le affiderai in
segreto ai saggi."
Esdra, dunque, produsse un testo ufficiale della Bibbia, opportunamente emendato,
destinato al pubblico, e contemporaneamente un secondo testo destinato ai "saggi del popolo
ebraico", e cioè alle alte gerarchie sacerdotali, che non doveva essere divulgato e che
evidentemente conteneva i segreti che riguardavano la famiglia stessa, la sua vera storia, i
particolari della sua organizzazione, regole e rituali e le ragioni della riforma da lui imposta,
ivi compreso il cambio di genealogia.
Fu in ogni caso la riforma di Esdra a gettare le basi per la rinascita e grandezza futura della
famiglia sacerdotale e del popolo ebraico intorno ad essa. Sotto la guida della famiglia
sacerdotale riformata, Gerusalemme rifiorì, la ricostruzione del tempio venne completata e le
mura riedificate. La città crebbe rapidamente in popolazione e prosperità e la Giudea
ridivenne totalmente ebraica; di pari passo cresceva l'influenza e la ricchezza della famiglia
sacerdotale, o meglio delle 24 famiglie sacerdotali, che insieme controllavano l'intero paese.
A capo di Israele non c'era più un re, ma il sommo sacerdote, che governava per conto del
sovrano persiano (proprio come ai primi tempi di Silo, quando il sommo sacerdote governava
su Israele per conto dell'Egitto, di cui la Palestina era una provincia). Per tutto questo tempo la
carica del sommo sacerdozio continuò ad essere attribuita su base ereditaria, ai discendenti in
linea diretta di Zadok, vale a dire ai discendenti diretti di Mosè.
Nel 333 a.C. Alessandro Magno sconfisse l'impero persiano e conquistò la Palestina; la
famiglia sacerdotale si sottomise e continuò a governare sul popolo ebraico, questa volta per
conto del sovrano macedone. Alla morte di Alessandro la Giudea passò poi sotto il dominio
dell'Egitto, retto dai Tolomei, che attuarono una politica di ellenizzazione del paese, senza
però intaccare i privilegi e le prerogative della famiglia sacerdotale di Gerusalemme. In questo
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periodo cominciò ad instaurarsi la consuetudine che il sommo sacerdote fosse nominato, o
comunque confermato, dal sovrano, per cui il principio ereditario venne spesso ignorato e la
carica cominciò a passare da una famiglia sacerdotale all'altra, creando fra le 24 famiglie
rivalità e divisioni. Le varie famiglie si ritrovarono a volte in lotta le une contro le altre per la
conquista della carica di sommo sacerdote, che veniva assegnata spesso dietro pagamento di
forti somme.
Nel 199 a.C. la Giudea venne occupata dalla Siria. Per la famiglia sacerdotale mosaica
(divenuta aronnide) cominciarono tempi duri, perché i Seleucidi inasprirono fortemente la
politica di ellenizzazione del paese, tentando di trasformare Gerusalemme in una polis greca.
Questa politica culminò nel 168 con il saccheggio del tempio da parte di Antioco IV ed il
massacro di un gran numero di sacerdoti. La religione ebraica venne messa fuori legge, il
tempio ridedicato a Zeus ed a supremo oltraggio vi si sacrificò un maiale.
La rivolta non si fece attendere, guidata dalla famiglia sacerdotale degli Asmonei. Nel 165
Giuda Maccabeo riprese Gerusalemme e ridedicò il tempio a Jahweh, dopo averlo purificato
(la ridedicazione è celebrata nella festa ebraica di Hannukah). Infine nel 142 a.C. Simone
Maccabeo cacciò definitivamente i Siriani. Per i successivi 80 anni la Palestina fu uno stato
indipendente, sotto la guida degli Asmonei, che governavano in qualità di sommi sacerdoti,
carica a cui ben presto aggiunsero il titolo di re, inaugurando così una dinastia sacerdotale di
sangue reale (o viceversa, una dinastia reale di sangue sacerdotale).
La monarchia sacerdotale regnò su Giuda, fino a quando si affacciarono sulla scena
mediorientale i romani. Nel 63 Pompeo Magno conquistò Gerusalemme e profanò il tempio.
La famiglia sacerdotale, pur privata dell'indipendenza, continuò a regnare sulla Palestina sotto
i nuovi padroni. Tenta però di scrollarsi di dosso la dominazione romana alleandosi ai nemici
giurati di Roma, i Parti, sotto il cui dominio si trovava l'altra grande comunità ebraica di quel
periodo, Babilonia. Mal gliene incolse. Erode, di origine edomita, ne approfittò per ottenere il
favore dell'imperatore romano e farsi nominare re della Giudea. Per farsi accettare dagli ebrei,
però, dovette sposare Mariamme, figlia dell'ultimo re-sacerdote, Ircano.
Con Erode la famiglia sacerdotale perdette il trono, ma acquistò un nuovo Tempio,
incomparabilmente più grandioso del precedente, aumentando così il proprio prestigio e le
proprie entrate. Particolare interessante, per la costruzione del nuovo tempio venne istituito un
corpo di "sacerdoti muratori" (i sacerdoti erano gli unici autorizzati ad entrare nel Sancta
Sanctorum), che rimase poi sempre in servizio per le ordinarie manutenzioni.
Con la morte di Erode, Roma divise il regno della Palestina fra i suoi tre figli ed un legato
romano. La famiglia sacerdotale di Gerusalemme rimase come unico elemento di unità del
popolo ebraico e raggiunse il culmine della potenza e della ricchezza. Fu allora che si lasciò
trascinare in moti antiromani e alla fine in una vera e propria rivolta, che provocò la sua
rovinosa caduta. Si avvicinava il giorno del giudizio.
Quarta Parte
Giuseppe Flavio
All'appuntamento del 70 d.C. la famiglia mosaica, ormai autodefinitasi aronnide, era al
culmine della potenza. Le 24 famiglie sacerdotali che ai tempi di Esdra si erano spartite il
potere, fondato sul possesso esclusivo del tempio e sul possesso esclusivo del sacerdozio,
erano ancora tutte là, più numerose e ricche che mai, e saldamente insediate alla direzione del
Tempio e del paese. I loro discendenti si contavano a migliaia e molti di loro avevano sangue
reale nelle vene. Il dominio romano aveva portato pace e prosperità, ma era stato segnato da
forti attriti su base religiosa, che avevano provocato una serie di rivolte, l'ultima delle quali,
nel 66 d.C. fu fatale per la nazione ebraica e per la famiglia stessa. Con la distruzione di
Gerusalemme nel 70 d.C., ad opera di Tito, figlio dell'imperatore Tito Flavio Vespasiano, la
famiglia sacerdotale fu virtualmente sterminata.
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Il Tempio, strumento di potere della famiglia venne raso al suolo e mai più ricostruito. Da
quel momento in poi la famiglia sacerdotale di Gerusalemme scompare dalla scena storica,
perché non svolgerà mai più un ruolo evidente. Fine di una grande famiglia millenaria?
Le apparenze storiche sembrano dire di si; ma non sempre le cose vanno proprio come
sembra dall'apparenza storica. E' certo, infatti, che la famiglia non scomparve materialmente.
Ci furono dei sopravvissuti, numerosi e di altissimo rango, dotati di ricchezze e della
protezione dei romani. Ce ne dà notizia lo storico ebreo Giuseppe Flavio, che li elenca uno per
uno, a cominciare da se stesso.
Giuseppe Flavio era lui stesso sacerdote, appartenente alla prima delle 24 famiglie
sacerdotali e con sangue reale nelle vene, perché imparentato per parte di madre con gli
Asmonei. Al tempo della rivolta contro Roma, aveva ricoperto un ruolo di primo piano negli
avvenimenti dell'epoca. Inviato come governatore della Galilea da parte del Sinedrio di
Gerusalemme, egli era stato il primo a combattere contro le legioni del generale Vespasiano,
che era stato incaricato da Nerone di domare la rivolta in Giudea.
Giuseppe venne sconfitto e si chiuse a Iotpata. Quando la città cadde, si consegnò ai romani
e chiese di parlare con Vespasiano. Da quel colloquio nacque la fortuna di Vespasiano e
quella di Giuseppe: il primo sarebbe diventato di lì a poco imperatore di Roma, il secondo
ebbe salva la vita, non solo, ma dopo qualche tempo fu cooptato nella famiglia imperiale
stessa, di cui assunse il nome "Flavio", ottenne la cittadinanza romana, una villa patrizia a
Roma (la villa di famiglia dello stesso Vespasiano), un vitalizio annuo a spese dell'erario e
vaste proprietà in Italia e Palestina.
Giuseppe Flavio giustifica questi incredibili favori con il fatto che, nel loro incontro dopo la
caduta di Iotpata, aveva predetto a Vespasiano che sarebbe divenuto imperatore.
Giustificazione ridicola! Lo storico romano Svetonio testimonia che quella di Giuseppe fu
soltanto l'ultima di una lunga serie di profezie analoghe, cominciate il giorno stesso della
nascita di Vespasiano. Tutti sapevano dell'esistenza di queste profezie; è quindi
semplicemente assurdo pensare che egli abbia colmato di favori inauditi un ribelle vinto,
soltanto perché gli aveva ripetuto una notizia che era ormai di pubblico dominio. C'era ben
altro! Il generale romano aveva un handicap terribile nella sua corsa alla porpora imperiale:
era squattrinato (è sempre Svetonio che lo conferma), mentre per diventare imperatore aveva
bisogno di larghissimi mezzi finanziari. Giuseppe glieli fornì.
Durante il suo governatorato in Galilea, aveva messo da parte un discreto gruzzolo, sia con
la raccolta delle decime dovute al Tempio e le ruberie di cui egli stesso dà notizia, sia
soprattutto per aver requisito l'oro, l'argento e gli oggetti preziosi provenienti dal saccheggio
del palazzo di Erode Tetrarca, operato dagli abitanti di Tiberiade (Guerra Giudaica, II,21,3 Vita, 66).
Consegnò subito a Vespasiano il gruzzolo personale, ottenendo salva la vita, e promise un
patrimonio enormemente superiore, in cambio dei benefici che poi ottenne: il tesoro del
Tempio di Gerusalemme. Ci sono nelle sue opere stesse indicazioni sufficienti per accusarlo
con elementi di fatto.
Che Vespasiano sia entrato in possesso del tesoro del Tempio non c'è alcun dubbio: parte di
esso, infatti, in particolare il candelabro a sette braccia, venne fatto sfilare a Roma nel 71, in
occasione del trionfo, come viene mostrato sull'arco di trionfo di Tito. Ma come e quando ne
entrò in possesso? Leggendo le circostanze in cui si svolsero l'assedio di Gerusalemme e
l'attacco finale al Tempio, dobbiamo aspettarci che quando i romani riuscirono a
impadronirsene ben poco del tesoro originale fosse rimasto a loro disposizione. Il Tempio,
infatti, era stato occupato per mesi dagli zeloti, che non avevano esitato a spogliarlo di tutto.
Quando, alla fine, si resero conto che ogni difesa era impossibile, vi appiccarono il fuoco e
distrussero tutto ciò che era rimasto di valore, per evitare che cadesse in mano romana. I
romani si trovarono padroni di un edificio distrutto dalle fiamme e saccheggiato dai suoi stessi
difensori.
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Il fatto certo che emerge dal resoconto di Giuseppe Flavio, è che il tesoro del Tempio fu
consegnato a Tito da esponenti della famiglia sacerdotale, in cambio di un salvacondotto e di
benefici economici. Da esso risulta anche in modo certo che il tesoro era nascosto in diversi
ripostigli segreti, anche se ovviamente non dice dove si trovassero, ed è alquanto confuso e
contraddittorio per quanto attiene tempi e modalità di consegna. Soprattutto si guarda bene dal
mettere in luce il ruolo svolto nella faccenda dallo stesso Giuseppe Flavio.
Il Rotolo di Rame
Possiamo ricostruire i fatti con l'aiuto di uno straordinario documento che doveva venire alla
luce soltanto 2 millenni dopo: il Rotolo di Rame. Fu scoperto nel 1952 nella grotta 3Q di
Qumran. Si trattava di tre fogli di rame, ricuciti fra loro, arrotolati come un foglio di carta,
sulla cui faccia interna era inciso un testo in ebraico. Data l'età, non era possibile svolgere il
rotolo senza rovinare il testo. Esso fu quindi portato a Manchester, dove fu tagliato in strisce
verticali, corrispondenti alle colonne del testo. Mano a mano che le strisce venivano tagliate e
ripulite, venivano tradotte dal celebre qumranista J.M. Allegro.
Il testo è in sostanza un elenco di località in cui erano stati nascosti dei tesori. In un primo
momento si pensava si riferisse a tesori della comunità essenica di Qumran ed il testo veniva
guardato con profondo scetticismo, perché sembrava impossibile che quella piccola comunità
possedesse ricchezze tanto grandi. Fra l'altro, la maggioranza delle località citate nel testo si
trova nei dintorni di Gerusalemme. Oggi è opinione pressoché unanime fra gli studiosi che il
rotolo di rame si riferisca al tesoro del tempio di Gerusalemme (anche perché buona parte di
esso è costituito proprio dalle decime), nascosto in previsione dell'assedio.
Il rotolo comincia direttamente con la lista dei nascondigli:
"A Horebbeh, nella valle di Acor, sotto i gradini che vanno verso oriente, a quaranta cubiti di
profondità: cofano d'argento, il cui peso totale è di 17 talenti. Nel monumento funebre di Ben-Rabbah
da Shalisha: cento lingotti d'oro. Nella grande cisterna del recinto del piccolo peristilio, turata da
una pietra bucata, in un angolo del fondo, di fronte all'apertura superiore: novecento talenti. Sulla
collina di Kohlit: vasi di offerte di prelevamento, di mezza misura e di riscatto, tutte offerte di
prelevamento del tesoro del settimo anno e della decima… "
E continua su questo tono per tutta la sua lunghezza, elencando ben 74 nascondigli diversi,
ognuno con il suo contenuto. Inutile dire che nessuno di questi tesori si trova nel nascondiglio
indicato. (J. Allegro aveva effettuato ricerche in tutte le località che era riuscito ad individuare
sulla base della descrizione, senza trovare nulla). Cosa scontata, del resto. L'ultima frase del
rotolo di rame, infatti, dice che: "Nella caverna di Kohlit, … c'è una copia di questo scritto,
con la spiegazione, le misure e un inventario completo, oggetto per oggetto." Il rotolo
ritrovato a Qumran, quindi era soltanto una copia di riserva di un originale che era stato
nascosto nella caverna di Kohlit, che si trova nei pressi di Gerusalemme.
Possiamo quindi essere certi che durante o dopo la distruzione di Gerusalemme, un
drappello di soldati fedelissimi a Tito, accompagnati da Giuseppe e da altri sacerdoti, se ne
andarono in gran segreto per il deserto di Giuda (Giuseppe lo conosceva benissimo, per avervi
trascorso tre anni in gioventù), dissotterrando uno dopo l'altro i tesori elencati nella copia
originale del rotolo di rame, prelevata a Kohlit. La copia di riserva, ormai inutile, venne
lasciata dov'era, a Qumran.
Questa caccia al tesoro segreta aveva per Vespasiano un grande vantaggio: non doveva
rendere conto a nessuno dei tesori recuperati, di cui poteva disporre a suo piacimento. Il fatto
di aver ritrovato la copia di riserva dell'elenco, ci consente di conoscere con precisione
l'enormità della somma di cui Vespasiano si trovò improvvisamente a disporre a titolo
personale, largamente sufficiente a comprare la porpora imperiale. Sotto questa luce, i favori
elargiti in cambio a Giuseppe ed ai suoi compagni appaiono ampiamente giustificati.
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Gli oggetti di culto più appariscenti, come la menorah ed il vasellame sacro, vennero messi
da parte per il trionfo e l'erario pubblico, probabilmente su richiesta dello stesso Giuseppe, che
era pur sempre un sacerdote e che non poteva vedere di buon occhio la loro distruzione. Dopo
il trionfo essi furono depositati nel tesoro del Senato. Nel 455 vennero presi dai Vandali di
Genserico, quando saccheggiarono Roma, e furono portati a Tunisi. Qui vennero presi, nel
secolo successivo, dal generale bizantino Belisario che li portò a Costantinopoli, dove se ne
perdono le tracce.
Il denaro delle decime, i gioielli, l'oro e l'argento sfusi, invece, vennero incamerati
dall'imperatore, che fu così in grado di risanare le proprie finanze e di costruirsi una villa
imperiale sfarzosa (regalando la sua casa di famiglia a Giuseppe).
Giuseppe si ritirò a Roma, dove mise su famiglia e dopo qualche anno cominciò a scrivere
le opere per le quali è passato alla storia. Ma quanti altri membri della famiglia sacerdotale
sopravvissero al massacro e che ne fu di loro in seguito? Sappiamo per certo che vi furono
parecchi scampati, perché Giuseppe Flavio li elenca uno per uno.
Fin dalle prime fasi dell'assedio di Gerusalemme molti ebrei disertarono, passando dalla
parte dei romani. "Fra essi", dice Giuseppe Flavio (VI, 2, 114), "c'erano due dei capi della
famiglia sacerdotale, Giuseppe e Gesù, ed alcuni figli di capi di questa famiglia, come i tre
figli di Ismaele, che era stato decapitato a Cirene, i quattro figli di Mattia ed il figlio di un
altro Mattia, che era fuggito dopo la morte di suo padre, che Simone, figlio di Gioras, aveva
fatto uccidere insieme a tre dei suoi figli, come si è detto dianzi. Cesare li accolse con
benevolenza e … si impegnò a restituire a ciascuno i propri beni non appena ne avesse avuto
la possibilità al termine della guerra."
Si tratta quindi di dieci membri della famiglia sacerdotale, fra cui due di alto rango, che
dobbiamo ritenere siano stati successivamente reintegrati nei loro beni.
Dopo la cattura del Tempio, o meglio di quel che ne restava, un gruppo di sacerdoti che lo
avevano difeso fino all'ultimo momento si arresero ai romani, chiedendo salva la vita. Nei
loro confronti l'atteggiamento di Tito fu ben diverso che in precedenza. "Egli rispose che il
tempo del perdono era passato per loro; l'unica cosa per la quale egli avrebbe avuto qualche
motivo di risparmiare loro la vita, il Tempio, stava riducendosi in cenere ed era dunque
giusto, per dei sacerdoti, essere annientati insieme al loro santuario. E li fece condurre al
supplizio." (VI, 6, 1, 321 e seg.).
Ciò non gli impedì, soltanto pochi giorni dopo, di garantire salva la vita a due alti esponenti
della famiglia sacerdotale (VI, 8, 3):
"In quelli stessi giorni, un sacerdote di nome Gesù, figlio di Thebuthi, dopo aver ottenuto da Cesare
una garanzia sotto giuramento per la propria vita, a condizione di consegnare certi oggetti preziosi
del culto, uscì e fece passare… due candelabri simili a quelli che erano depositati nel tempio, dei
tavoli, dei crateri e delle coppe, tutto in oro massiccio. Egli fece passare anche i veli, le vesti del gran
sacerdote, con le pietre preziose, e molti altri oggetti utilizzati per i sacrifici. Ed il guardiano del
tesoro del tempio, un certo Fineas, anche lui fatto prigioniero, consegnò le tuniche e le cinture dei
sacerdoti, una grande quantità di porpora e di scarlatto,… ed anche molta cannella e una gran
quantità di altri aromi che essi mescolavano e bruciavano ogni giorno come incenso per Dio. Egli
consegnò anche ai romani molti altri tesori del tempio, ed anche una buona parte degli ornamenti
sacri, grazie a cui, anche se prigioniero di guerra, ottenne l'amnistia riservata ai disertori. "
Giuseppe Flavio scarica tutta la responsabilità della consegna ai romani del tesoro del
Tempio su due sacerdoti, Gesù e Fineas, anch'essi evidentemente di altissimo rango (tanto da
essere depositari del tesoro), che tradiscono in cambio della vita e di benefici economici. Ma è
fuori dubbio che in questa faccenda egli deve aver svolto un ruolo primario, altrimenti non si
spiegano gli incredibili favori di cui fu oggetto. Oltre a quelli menzionati, infatti, egli ottenne
anche quello di poter liberare chiunque gli piacesse. Nella sua Autobiografia (417-419) egli
dice:
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"Feci richiesta a Tito di liberare alcuni prigionieri e ottenni … la liberazione di mio fratello e di
cinquanta amici. Recatomi poi, dietro autorizzazione di Tito, nel Tempio dove erano rinchiusi
moltissimi prigionieri, con donne e bambini, liberai tutti gli amici ed i conoscenti che vi riconobbi, in
numero di circa 190 e li feci rilasciare senza che pagassero alcun riscatto, restituendoli alla loro
precedente condizione."
In totale, quindi, Giuseppe elenca dodici alti sacerdoti, a cui va aggiunto lui stesso e suo
fratello, che hanno avuto salva la vita grazie al loro tradimento, e sono stati reintegrati nei loro
beni. Oltre a questi egli cita ben 240 altre persone, tutti suoi amici e conoscenti, che sono stati
liberati grazie al suo intervento e "restituiti alla loro precedente condizione", vale a dire
reintegrati anch'essi nei propri beni. Visto il personaggio, possiamo essere certi che, se non
proprio tutti, per lo meno la maggioranza di essi apparteneva a famiglie sacerdotali.
Il gruppo di sacerdoti sopravvissuti al massacro di Gerusalemme, in conclusione, era
certamente molto numeroso. Di gran lunga più numeroso che in varie altre occasioni del
passato in cui la famiglia sacerdotale era stata ridotta al lumicino, come per esempio dopo la
disfatta e la distruzione del tempio di Silo da parte dei filistei, ai tempi di Samuele; o dopo il
massacro di Nob perpetrato da re Saul, che cercò di annientare la famiglia sacerdotale; o dopo
quello di Manasse, che inondò Gerusalemme di sangue sacerdotale; e da ultimo dopo
Nabuccodonosor, che fece massacrare tutti i "grandi del Tempio". Sono tutte circostanze dalle
quali la famiglia era risorta dalle proprie ceneri più forte e influente che mai.
Questa volta, però, essa sembra uscire definitivamente dalla scena. Di essa non se ne parlerà
mai più, almeno nelle cronache storiche ufficiali. Essa sembra svanire nel nulla, come per
incanto. Che fine ha fatto?
Quinta Parte
La famiglia sacerdotale ebraica e la Chiesa di Roma
Con la distruzione di Gerusalemme la famiglia sacerdotale di origine mosaica, o meglio, le 24
famiglie che dai tempi di Esdra si erano arrogate l'esclusività del sacerdozio, sono uscite
fortemente decimate e soprattutto private di quello che per secoli era stato il centro e
strumento del loro potere: il Tempio. Ma non sono scomparse fisicamente. Dal resoconto di
Giuseppe Flavio sappiamo per certo che i sopravvissuti si contavano a centinaia. Di questi
almeno una quindicina costituivano un gruppo omogeneo e dobbiamo ritenere anche
compatto, perché erano legati da circostanze che li accomunavano nella stessa sorte. Tutti,
infatti, appartenevano alle prime famiglie sacerdotali; tutti erano stati risparmiati perché più o
meno coinvolti nella consegna del tesoro del Tempio a Vespasiano; tutti erano considerati
dagli altri ebrei come traditori della propria patria; tutti, quindi, avevano interesse a
scomparire, ritirandosi nell'anonimato, almeno per quel che riguardava il mondo ebraico.
Ma non è realistico pensare che abbiano compiuto una sorta di suicidio collettivo,
rinnegando le proprie origini, il proprio passato e le proprie tradizioni e chiudendo
definitivamente il capitolo più significativo e glorioso della storia ebraica.
Erano legati fra loro da vincoli di parentela, da un millenario passato e da potenti tradizioni.
Erano tutti dotati anche di larghi mezzi finanziari, perché, come riferisce Giuseppe Flavio,
furono reintegrati nei loro beni da Vespasiano e fatti oggetto di generose donazioni. Il che
significa che individualmente ciascuno di loro era assai più ricco di quanto i singoli membri
della famiglia lo fossero mai stati, neppure al culmine della potenza e prosperità. Godevano
inoltre del favore e della protezione del potere politico, perché il loro esponente di maggiore
spicco, Giuseppe, era stato addirittura cooptato quale membro della famiglia imperiale stessa.
Facevano, infine, parte di una organizzazione familiare salda e ben collaudata, quella creata
da Esdra, che non era stata smantellata insieme al Tempio, ma che dovette continuare a
mantenere intatta la sua struttura, i suoi contenuti e tutto il suo potenziale.
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Non è possibile che una tale famiglia sia scomparsa nel nulla. Semplicemente non poteva.
Se non ne abbiamo più alcuna notizia, ciò è dovuto certamente al fatto che essa stessa aveva
deciso di scomparire dalla scena del mondo, ritirandosi nella clandestinità. Fu un cambio di
strategia, del resto nell'alveo di una tradizione ben consolidata che aveva già fatto scomparire
l'origine mosaica, volto non al suicidio collettivo, ma alla perpetuazione delle fortune della
famiglia.
Di nessuno dei sacerdoti superstiti sappiamo che fine abbia fatto dopo la distruzione di
Gerusalemme, tranne che di colui che da quel momento in poi dobbiamo considerare quale
rappresentante della famiglia: Giuseppe Flavio. Di lui sappiamo che seguì Tito a Roma, sulla
sua stessa nave, e passò il resto della propria vita nella lussuosa villa romana che gli era stata
regalata da Vespasiano. Degli altri non abbiamo notizie da fonte storica, ma è certo che
lasciarono la Giudea per lidi più ospitali. Né loro, né alcun loro discendente compare mai più
nella storia di quel paese o di una qualunque comunità ebraica, dentro o fuori l'impero
romano. Cosa del resto ben comprensibile: erano considerati tutti dei traditori e la loro
presenza era certamente non gradita fra gli ebrei. D'altra parte erano personaggi troppo
cospicui perché la loro presenza potesse passare inosservata in un qualunque paese di
provincia. Dobbiamo ritenere, quindi, che almeno in un primo momento abbiano seguito
Giuseppe a Roma, una megalopoli con gente proveniente da tutto l'impero e da tutte le
religioni, dove potevano facilmente scomparire nell'anonimato.
Cosa fecero a Roma? Non ne sappiamo nulla. Conosciamo soltanto l'attività di Giuseppe
Flavio in quanto scrittore, perché qualche anno dopo iniziò a scrivere la sua opera
monumentale, per la quale è noto alla storia. Ma è proprio da questa sua opera che possiamo
valutare appieno la sua personalità, la sua incredibile abilità nel volgere a proprio vantaggio le
situazioni più disperate e l'enorme ambizione che lo muoveva. Un personaggio del genere,
giunto al culmine del suo vigore fisico e mentale e del suo potere personale, non poteva
esaurire la propria attività semplicemente nello stendere le proprie memorie.
Da semplice governatore di una provincia della terra di Israele si trovava ad essere cooptato
nella famiglia imperiale romana. I suoi orizzonti si erano allargati dalla Giudea e dal popolo
ebraico al mondo intero. Ed è in questa condizione che si trovò ad essere responsabile dei
destini futuri della famiglia sacerdotale, la più nobile delle famiglie esistenti sulla faccia della
Terra, perché discendente dallo stesso Mosè. Il primo grande sforzo cui dedicò ogni energia,
come traspare nettamente dalle sue opere, fu quello di trovare una giustificazione al
tradimento perpetrato e di gettare nuove basi su cui ricostruire il ruolo e le fortune della
propria famiglia.
Come al solito in questi casi, la giustificazione è fornita dalla Divinità stessa. Giuseppe si
era deciso al tradimento dopo la caduta della città di Iotpata. Si era rifugiato con 40 compagni
in una cisterna e tutti d'accordo avevano deciso di suicidarsi, anziché consegnarsi ai romani,
secondo un costume ben consolidato fra gli ebrei dell'epoca. Rimasto ultimo, Giuseppe
anziché uccidersi si consegnò ai romani, dicendo che Dio stesso gli aveva imposto di salvarsi,
per annunciare a Vespasiano la notizia che sarebbe diventato imperatore e per assolvere
successivamente la missione per la quale era stato prescelto.
Dio aveva ormai abbandonato Israele ed aveva irreversibilmente accordato il suo favore ai
romani. Giuseppe non poteva opporsi al volere di Dio, ma dovette farsene strumento suo
malgrado. Così egli giustifica il proprio tradimento. E questa fu la giustificazione che
dovettero adottare anche gli altri sacerdoti. Hanno abbandonato Israele, consegnato il Tempio
ed il suo tesoro al nuovo padrone del mondo, prescelto da Dio, e lo hanno seguito a Roma, per
adempiere la missione cui erano stati chiamati. E' così che la famiglia mosaica ha legato il
proprio destino ai destini imperiali di Roma. Il suo palcoscenico non era più la "terra
promessa", ma il mondo intero.
Non ci sono informazioni storiche sul come Giuseppe Flavio portò avanti la sua missione,
come riorganizzò la famiglia sacerdotale e quale fu il nuovo ruolo che le attribuì. C'è però una
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fonte non storica, sulla cui natura e attendibilità discuteremo in seguito (i rituali massonici),
che ci fornisce informazioni di prima mano sulle attività del gruppo.
Da questa fonte apprendiamo che subito dopo la distruzione del Tempio, il gruppo di
sacerdoti superstiti si riunì tra le rovine fumanti, per decidere dei propri destini futuri. Gli
argomenti discussi sono gli stessi che costituiscono il leitmotiv delle opere di Giuseppe
Flavio: Dio ha abbandonato Israele e si è schierato definitivamente dalla parte di Roma; non è
saggio opporsi alla sua volontà. La potenza dell'impero romano era al suo apogeo: era assurdo
sperare in un capovolgimento di fortuna tale da consentire la ricostruzione del tempio a
Gerusalemme in un prevedibile futuro.
I sacerdoti quindi decidono di continuare le tradizioni della famiglia, ma a Roma e nella
clandestinità, e di non affidare mai più, come in passato, le proprie sorti ad un tempio
materiale, troppo soggetto a profanazioni e distruzioni, ma di dedicarsi alla costruzione di un
"tempio spirituale".
Secondo questa fonte di informazione, quindi, la famiglia sacerdotale mosaica all'indomani
della catastrofe ha mantenuto la propria identità ed organizzazione, ma ha cambiato strategia,
scomparendo nella clandestinità e affidando la propria sopravvivenza e le proprie fortune ad
una istituzione immateriale, che doveva garantire il potere e la prosperità della famiglia,
nell'alveo delle passate tradizioni. Il tempio di Gerusalemme aveva consentito alla famiglia di
Mosè di sopravvivere e prosperare per oltre un millennio. Il "tempio spirituale" doveva servire
lo stesso scopo per il futuro. Futuro nel quale l'esistenza stessa della famiglia non doveva mai
più essere rivelata pubblicamente, per non essere vulnerabile come per il passato, quando fin
troppe volte era stata oggetto di campagne di sterminio.
Anche questo rientrava nelle tradizioni di famiglia. Al ritorno dall'esilio babilonese i
sacerdoti avevano scelto di non far più apparire pubblicamente la loro discendenza da Mosè,
precostituendosi antenati aronnidi. I membri della famiglia scampati alla definitiva distruzione
del Tempio dovettero giudicare che la loro sopravvivenza era meglio assicurata se non
soltanto la loro origine mosaica, ma anche la loro stessa esistenza rimaneva segreta.
L'organizzazione familiare rimase da allora in poi occulta, invisibile e quindi non più
vulnerabile in quanto tale. Se pertanto i loro discendenti sono riemersi in seguito alla ribalta
della storia, come certamente è avvenuto, lo hanno fatto sotto altro nome e con genealogie di
comodo. Ma sapendo della sua esistenza, non dovrebbe essere un'impresa impossibile scoprire
le tracce lasciate da questa famiglia e individuare almeno alcuni dei personaggi storici
appartenenti ad essa.
La famiglia sacerdotale mosaica e la Chiesa romana
In ogni caso tracce e personaggi vanno ricercati nel mondo cristiano, non in quello ebraico. Ci
sono vari elementi che legano Giuseppe Flavio (ed il gruppo di sacerdoti che era con lui) al
mondo cristiano.
Le argomentazioni addotte da Giuseppe Flavio per giustificare il proprio tradimento e quello
dei suoi confratelli, sembrano riecheggiare le parole di San Paolo, considerato da tutti come
colui che gettò le basi ideologiche per la costruzione della chiesa romana. I due sembrano
perfettamente in sintonia per quanto attiene l'atteggiamento nei confronti del mondo romano.
Paolo, per esempio, stimava suo compito svincolare la Chiesa di Cristo dalle strettoie del
giudaismo e dalla terra di Israele e di renderla universale, legandola a Roma. I due sono in
sintonia anche su altri punti significativi: per esempio entrambi si dichiarano aderenti
dell'ideologia farisaica, che era quella poi su cui si basò la chiesa romana. Caso fortuito o c'è
invece un collegamento preciso?
Quasi certamente i due si sono conosciuti e frequentati per un certo tempo. Nel 63-64 d.C.,
infatti, Giuseppe Flavio, giovane di 27 anni, era a Roma quale membro di un'ambasceria del
Sinedrio presso Nerone. Erano gli anni dell'incendio della capitale e della successiva prima
persecuzione anticristiana, durante la quale Paolo fu giustiziato. Non è verosimile che due
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membri così eminenti della comunità giudaica abbiano convissuto nella stessa città per tanto
tempo senza conoscersi e frequentarsi. Giuseppe Flavio, nelle sue varie opere, non dice una
sola parola in merito a quegli avvenimenti di cui pure fu testimonio oculare. Un silenzio che
per uno storico come lui è anche più fragoroso di una confessione. In qualche modo quei fatti
dovettero toccarlo assai più profondamente di quanto egli fosse disposto ad ammettere in
pubblico. Fu allora, forse, che furono insinuati i primi dubbi nella mente del giovane ed
ambizioso sacerdote e vennero gettati i semi che dovevano dare frutto di lì a pochi anni.
Dalle informazioni storiche che possediamo è legittimo supporre che Giuseppe Flavio e gli
altri sacerdoti che erano con lui abbiano svolto un ruolo decisivo nella nascita ed affermazione
della Chiesa cristiana. Dei 30 anni che vanno dal 70 al 100 d.C., e cioè dall'arrivo di Giuseppe
Flavio a Roma in poi, non sappiamo praticamente nulla di quel che successe nella Chiesa
romana. E' un black-out pressoché totale che lascia sconcertati, perché si tratta di un periodo
cruciale nella storia della formazione della Chiesa, che ne uscì completamente trasformata,
soprattutto nella sua struttura gerarchica. Da quel momento iniziò una prodigiosa espansione
che la portò nel giro di due secoli a divenire religione di stato dell'impero. Mentre nel periodo
apostolico non esisteva "una" Chiesa cristiana, ma un agglomerato di chiese indipendenti,
rette ciascuna da un consiglio di presbiteri, dalla fine del primo secolo la direzione delle
chiese assunse una forma monarchica, ciascuna retta da un vescovo con poteri assoluti e
questi ultimi tutti soggetti all'autorità del vescovo di Roma, figura equivalente al sommo
sacerdote di Gerusalemme.
La conferma di una stretta relazione fra i sacerdoti superstiti e la chiesa di Roma ci viene
ancora una volta dalla fonte di informazione "non storica" cui si è accennato in precedenza. In
un rituale massonico ritroviamo i sacerdoti superstiti riuniti a Roma quali seguaci di Gesù
Cristo e soggetti a persecuzione da parte di Tito Flavio Domiziano, succeduto alla morte del
grande protettore di Giuseppe, Tito. Persecuzione attraverso cui, peraltro, passano quasi
indenni.
L'informazione è di estremo interesse e coerente con le informazioni di carattere storico che
possediamo. I punti di maggiore importanza di questa fonte sono innanzitutto che i sacerdoti
superstiti hanno ricostituito, o meglio continuato, l'organizzazione sacerdotale creata a suo
tempo da Esdra, mantenendone la struttura, i contenuti ed i rituali, ma in segreto, rendendola
invisibile al mondo profano. In secondo luogo che si sono "convertiti" al cristianesimo.
Che Giuseppe Flavio si fosse "convertito" al cristianesimo è praticamente certo sulla base
dei suoi scritti e delle circostanze storiche note. La parola "convertito" è fra virgolette, perché
in realtà non si trattava di un grande passo per Giuseppe Flavio e i suoi confratelli. Gesù era
ebreo e non aveva mai rinnegato la "legge mosaica" (anzi la insegnava agli stessi sacerdoti nel
Tempio). La sua era una predicazione da ebreo ad altri ebrei, il cui contenuto era in sintonia
con il modo di vivere e pensare della setta ebraica degli esseni, che vengono normalmente
considerati molto vicini, se non addirittura precursori, dei cristiani. Ma i contenuti dottrinari
del cristianesimo, quale emerge da questo periodo di black-out, sono straordinariamente vicini
a quelli della setta dei farisei (lo stesso S. Paolo, durante il processo subito nel Tempio,
dichiara di aderire alla setta dei farisei).
Giuseppe Flavio, nelle sue opere dedica molto spazio agli esseni e non nasconde la sua
simpatia per essi. Da giovane aveva trascorso tre anni nel deserto di Giuda, con un sant'uomo
di nome Banno (Vita 7-12), vivendo come un eremita. Al termine di questa esperienza
"essena", però, tornato a Gerusalemme e prese a vivere "seguendo i precetti della scuola
farisaica", la stessa di San Paolo.
Non è il caso, quindi, di parlare di "conversione" se egli ha abbracciato le idee di Gesù,
perché non ha dovuto rinnegare nulla della religione professata fino a quel momento. Il vero
salto di qualità, quello che distingueva un ebreo da un ebreo-cristiano, era il fatto di accettare
Gesù come l'atteso Messia. La grande maggioranza degli ebrei pensava al Messia come ad un
sovrano (non per niente doveva essere della stirpe di Davide) che avrebbe ristabilito
materialmente il regno e la potenza di Israele. Gesù, invece, proponendosi come Messia,
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specificò chiaramente che "il mio regno non è di questo mondo". Dunque, quel che proponeva
era un "regno spirituale". Un concetto che noi oggi accettiamo come normale, quasi banale.
Allora era una novità straordinaria, che però era stato abbracciato in pieno da Paolo, ma anche
da Giuseppe Flavio e dai sacerdoti che erano con lui, i quali avevano deciso di non riedificare
mai più un tempio materiale, ma di dedicarsi alla costruzione in sua vece di un "tempio
spirituale".
Un tempio spirituale per un regno spirituale. Semplice coincidenza casuale? Una relazione
fra i due concetti appare più che verosimile e presuppone che gli "edificatori" del tempio
spirituale avessero riconosciuto Cristo come il Messia e fossero diventati i fautori e promotori
del suo regno spirituale (avevano mille valide ragioni per farlo).
Esistono riscontri precisi in proposito. Giuseppe Flavio, in un famoso passo delle Antichità
Giudaiche (il cosiddetto Testimonium Flavianum, libro XVIII, III, 3) scrive testualmente:
"Allo stesso tempo visse Gesù, uomo saggio, se pure lo si può chiamare uomo; poiché egli compì
opere sorprendenti e fu maestro di persone che accoglievano con piacere la verità. Egli era il Cristo.
Quando Pilato udì che dai principali nostri uomini era accusato, lo condannò alla croce. Coloro che
fin dal principio lo avevano amato non cessarono di aderire a lui. Nel terzo giorno apparve loro
nuovamente vivo: perché i profeti di Dio avevano profetato queste e innumerevoli altre cose
meravigliose su di lui."
Parole del genere possono venire soltanto da un cristiano, perché testimoniano l'accettazione
di due punti essenziali: la risurrezione di Cristo e la sua identificazione con il Messia delle
profezie. Le simpatie cristiane di Giuseppe Flavio traspaiono chiaramente anche da altri brani
della stessa opera. In XVIII, V,2 egli parla con grande ammirazione di Giovanni Battista e
della sue azioni e predicazione, esaltando la validità del battesimo e condannando Erode per il
suo assassinio. In XX, IX, 1 esprime uguale simpatia per Giacomo, fratello di Gesù.
Un ulteriore indizio è costituito dal fatto che la persecuzione anticristiana di Domiziano, di
cui parlano le fonti cristiane e la fonte "non storica" menzionata, non c'è mai stata in realtà.
L'unico martire romano del periodo, annoverato come cristiano, è il senatore ed ex-console
Tito Flavio Clemente, giustiziato da Domiziano, secondo Svetonio, non per essere cristiano,
ma sotto l'accusa pretestuosa di "ateismo" e di "deviazione verso costumi giudaici"; in realtà
per ragioni sue personali (l'imperatore era estremamente lunatico e feroce, tanto da far
giustiziare persone del suo entourage per motivi del tutto banali). Clemente era della casa dei
Flavi, cugino dello stesso imperatore, ed è certo quindi che aveva stretti rapporti con il parente
acquisito Giuseppe Flavio (la prova più evidente di questi rapporti è proprio l'accusa mossagli
da Domiziano). Quale altro "cristiano", in quegli anni, poteva essere in una posizione tale da
avvicinare un personaggio così altolocato?
E chi altri, se non una Chiesa legata al gruppo di Giuseppe Flavio, poteva rivendicare Flavio
Clemente come un proprio martire? Il "martire cristiano" Flavio Clemente costituisce quindi
un preciso legame con Giuseppe Flavio, ed un indizio consistente che quest'ultimo rivestiva
un ruolo importante nella Chiesa di allora.
D'altra parte l'inserimento nella comunità cristiana di allora, costituita per la maggior parte
da ebrei, di un gruppo così cospicuo e numeroso di sacerdoti superstiti, non poteva non avere
conseguenze profonde sull'organizzazione della comunità. Invisi agli altri ebrei, perché
considerati traditori, i sacerdoti dovevano essere invece ben visti soltanto fra i cristiani, che
accettavano la loro giustificazione di essere stati prescelti da Dio per l'edificazione del regno
spirituale.
C'è da osservare, però, che la famiglia sacerdotale, che per oltre un millennio aveva guidato
i destini del popolo ebraico e nelle cui vene scorreva sangue reale, non poteva accettare ruoli
subalterni in seno alla comunità in cui si era inserita. Certamente si mise alla sua guida e prese
saldamente in mano le redini della nascente Chiesa Romana. Non a caso proprio da quel
momento iniziò la irresistibile ascesa del cristianesimo, che nel tempo incredibilmente breve
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di due secoli divenne "religione di stato" dell'impero romano. Si realizzava così il sogno di
Giuseppe Flavio, la missione per cui era stato predestinato da Dio: la famiglia sacerdotale
mosaica era divenuta per Roma e il suo impero quello che era stata a suo tempo per
Gerusalemme e la Palestina; il suo potere, però, non era più fondato sulla gestione di un
tempio materiale, come per il passato, ma su un "tempio spirituale": la Chiesa di Roma.
Questa incredibile ascesa, che ha stupito per primi gli stessi storici cristiani successivi, non
desta meraviglia se si considera chi furono i loro protagonisti. Sappiamo con certezza qual era
la loro specializzazione, il loro know-how, frutto di una esperienza più che millenaria:
sapevano meglio di chiunque altro al mondo come si organizza e si gestisce una religione,
indipendentemente dal suo contenuto dottrinario. Dovettero mettere la loro competenza, le
loro conoscenze e se stessi al servizio della nascente religione cristiana, impostandola secondo
gli schemi ormai collaudati da oltre un millennio, ma con una novità essenziale: l'apertura al
mondo pagano. Aveva cominciato lo stesso Pietro ad accogliere pagani nella comunità, tra le
proteste degli altri ebrei, che pretendevano dai neoconvertiti il rispetto totale della legge
mosaica. S. Paolo rese sistematico l'ingresso dei non-ebrei, creando le opportune
giustificazioni dottrinarie. Ai tempi di Giuseppe Flavio ben pochi ebrei dovettero entrare nella
comunità cristiana, vista la fama che godevano i loro capi; ma il mondo pagano dovette
accorrere in massa, dal momento che il proselitismo veniva fatto da un membro stesso della
famiglia imperiale.
Pura speculazione? L'argomento è delicato e urta suscettibilità profonde, per cui molti
certamente insorgeranno all'idea, affermando che non esistono prove in proposito. Prove
assolute in senso storico, come testimonianze e documenti scritti, forse, no, per lo meno al
momento. Ma è indubbio che le coincidenze sono tante e tali da rendere questa ipotesi, se non
proprio una certezza, qualcosa di assai più concreto e verosimile di una semplice
speculazione. Non è quindi semplice speculazione gratuita l'ipotizzare che proprio allora la
famiglia sacerdotale mosaica abbai preso saldamente il controllo della nascente religione
cristiana, tramite la propria organizzazione occulta, e ne abbia da allora in poi guidato i
destini.
Sesta Parte
Un potere occulto nella storia dell'Occidente?
La famiglia sacerdotale mosaica, dopo la distruzione del tempio di Gerusalemme, inaugurò
una nuova strategia di sopravvivenza, scomparendo nella clandestinità, ma continuando a
mantenere in vita l'Organizzazione familiare occulta, creata a suo tempo da Esdra, e
sostituendo il Tempio materiale, quale mezzo di sussistenza e di potere, con un "tempio
spirituale", costituito dalla Chiesa di Roma. L'organizzazione occulta controllava l'istituzione
visibile, la Chiesa, che a sua volta controllava il popolo dei fedeli. Un sistema perfetto, che
faceva scomparire la famiglia in quanto bersaglio ben individuabile da parte dei nemici e la
metteva al riparo da campagne di sterminio. Eventuali persecuzioni, come in effetti ci furono,
si sarebbero rivolte contro il bersaglio visibile, la Chiesa, lasciando indenne, o quasi,
l'organizzazione occulta da cui essa emanava.
Ci sono numerosi e precisi indizi storici che confermano questo scenario, ma l'unica prova
esplicita e diretta, almeno al momento, è costituita da quella che abbiamo definito una fonte di
informazioni "non storica", perché costituita da materiale che solitamente non viene preso in
considerazione dagli storici. Si tratta dei rituali e delle tradizioni massoniche. Il loro contenuto
è tale da dimostrare in modo certo una connessione tra l'organizzazione sacerdotale mosaica e
la massoneria moderna.
Le origini della massoneria sono uno dei problemi più discussi e discutibili in tutto il campo
della ricerca storica. La tesi più accreditata in campo accademico, quella di un'origine da
corporazioni di scalpellini e muratori, ad un'analisi approfondita appare, oltre che inverosimile
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e per certi aspetti ridicola, del tutto priva di basi storiche e riscontri reali. Quanto alle altre
"teorie", innumerevoli, non mette neppure conto di parlarne. Più si cerca di approfondire il
problema delle origini e più la soluzione si allontana, avvolta nel mistero.
Nessuno, però, fino ad oggi ha pensato di risolvere il problema tramite un approccio che
appare il più immediato e plausibile per un'organizzazione la quale per tempi immemorabili
ha trasmesso le proprie tradizioni e rituali soltanto per via orale, vale a dire esaminando
proprio i suoi contenuti tradizionali.
E' opinione comune che i rituali siano cerimonie di carattere essenzialmente simbolico,
ideati ad hoc per trasmettere determinati messaggi. Ma questo non è vero. Quando ci è dato
conoscere l'origine di un rituale, infatti, ci si rende conto che esso è sempre ispirato ad un fatto
realmente accaduto o presunto tale, che viene "rivissuto" dai partecipanti. I rituali cattolici,
per esempio, ripercorrono a distanza di due millenni la storia di Gesù Cristo. Lo stesso dicasi
per i rituali delle feste ebraiche, che rivivono gli episodi più salienti della storia di quel
popolo, a partire dal passaggio del Mar Rosso.
Ovviamente il rituale rivive sempre un episodio singolo isolato, non inserito nel contesto
storico ed ambientale in cui è accaduto, per cui sarebbe illusorio sperare di ricostruire una
storia in modo attendibile, partendo soltanto dai rituali che la rappresenta. Ad esempio, non
saremmo certo in grado di ricostruire la storia del popolo ebraico o quella di Gesù Cristo
partendo soltanto dai rituali che vengono recitati nelle varie ricorrenze dell'anno liturgico
ebraico o cristiano. Siamo, però, in grado di riconoscere con certezza a quali vicende i rituali
si riferiscono, proprio grazie al loro contenuto informativo di carattere storico. Questa
caratteristica dei rituali può risultare utile per orientare l'indagine storica vera e propria là
dove mancano gli strumenti tradizionali, come nel caso, appunto, della massoneria, per la
quale mancano fonti scritte.
Ebbene, è immediato rendersi conto che i rituali massonici si riferiscono sempre ed
esclusivamente ad una storia ben precisa e delimitata: quella della famiglia sacerdotale di
Gerusalemme. Fatti e personaggi sono quelli biblici, da Salomone a Geremia, Esdra e così via,
ma con il contorno e la costante presenza dei sacerdoti del tempio di Gerusalemme, che
vengono sempre identificati come fratelli massoni. L'identificazione della massoneria con la
famiglia sacerdotale giudaica è sempre esplicita e diretta. Anche la cornice è quella giusta. Le
riunioni avvengono sempre nel "tempio", che la presenza di particolari illuminanti, come le
colonne Boaz e Joachim, identifica come quello di Salomone, e i partecipanti si caratterizzano
come una vera e propria casta sacerdotale, che ricalca il modello della famiglia sacerdotale di
Gerusalemme.
I rituali massonici ripercorrono uno ad uno tutti i fatti più salienti della storia della famiglia
sacerdotale, che ci sono noti attraverso la Bibbia e sono perciò riconoscibili in modo
immediato e certo. Ad esempio, ciascuno dei 33 gradi del cosiddetto "rito scozzese" (il
risultato non varia sostanzialmente se ci si riferisce ad altri "riti" massonici, con diverso
numero di gradi) è caratterizzato da un ben preciso rituale, a cui sono legate leggende e
tradizioni specifiche. I rituali dei primi gradi, fino al tredicesimo, si svolgono tutti nella
Gerusalemme dei tempi di Salomone e riguardano vicende collegate ad un momento
fondamentale della storia della famiglia sacerdotale: la costruzione del primo tempio.
Esecuzione dei lavori, nomine dei sovrintendenti ai lavori, pagamenti, il conferimento di
cariche e incarichi ai membri della famiglia sacerdotale, nascondigli segreti, vicende di
tradimenti e di sangue e così via, fra cui l'istituzione dei rituali stessi.
Il rituale del 14.mo grado riguarda avvenimenti accaduti quattrocento anni dopo: la
distruzione del tempio di Gerusalemme da parte di Nabuccodonosor e la deportazione dei
sacerdoti (indicati come fratelli massoni) a Babilonia. Il ritorno a Gerusalemme, 70 anni dopo,
e la ricostruzione del tempio sono raccontati con una quantità di particolari inediti nella
Bibbia, dai rituali del 15.mo e 16.mo grado. I rituali del 17.mo e 18.mo grado sono di
contenuto filosofico ed esoterico, ma riguardano sempre la stessa storia. Col 19.mo grado si
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ha un nuovo salto di alcuni secoli: descrive, infatti, la distruzione del tempio di Gerusalemme
ad opera dei romani, nel 70 d.C..
Fin qui i rituali si muovono in una cornice storica nota dalla Bibbia ed è facile verificare che
si riferiscono sempre a vicende della famiglia sacerdotale mosaica. Da questo momento in poi
essi rivivono episodi che ci sono noti da fonti storiche, senza però che sia evidenziata una
relazione con questa famiglia. Ma è indubbio che si tratta sempre della stessa storia.
Il rituale del 20.mo grado, lo abbiamo già visto, si svolge tra le rovine fumanti di
Gerusalemme, dove i fratelli massoni superstiti abbandonano definitivamente ogni velleità di
ricostruire materialmente il tempio e decidono di affidare le proprie sorti ad un "tempio
spirituale".
L'episodio successivo, narrato dal rituale del grado 26.mo, si svolge a Roma soltanto pochi
anni dopo, all'epoca dell'imperatore Domiziano. Ritroviamo la famiglia massonica nelle
catacombe, dove riesce a sopravvivere alle persecuzioni anticristiane scatenate
dall'imperatore. Anche per questo episodio abbiamo riscontri storici nell'opera di Giuseppe
Flavio, che dimostrano una stretta relazione con i sacerdoti superstiti di Gerusalemme.
Segue un lunghissimo periodo di black-out, di quasi mille anni, al termine dei quali
ritroviamo i fratelli massoni, nei rituali dal 27.mo al 32 grado, a Gerusalemme, con lo stemma
dei crociati sul petto, esattamente dove ci aspetteremmo di ritrovare una famiglia che di quella
città era stata proprietaria per oltre un millennio e che certamente non poteva rimanere
insensibile ed estranea ad una sua riconquista. Vengono in particolare rivissute le vicende dei
Templari, fino al loro scioglimento nel 1307.
Come si vede, quella raccontata dai rituali massonici, con il loro contorno di leggende e
tradizioni tramandate oralmente, è una storia completa e talmente circoscritta e coerente da far
apparire inverosimile l'ipotesi, sostenuta da alcuni, che siano stati "inventati" in epoca
moderna. Essi provengono direttamente dalla famiglia mosaica. C'è indubbiamente un legame
diretto e continuo fra le l'organizzazione creata da Esdra e ricostituita da Giuseppe Flavio a
Roma e la massoneria moderna. A quanto pare la massoneria riproduce l'organizzazione di
Giuseppe Flavio, esattamente come un fossile riproduce le forme di un essere vivente ormai
estinto da epoche immemorabili, consentendoci di avere informazioni molto precise su di lui,
anche se la materia vivente è stata interamente sostituita dalla pietra.
La sua struttura, i contenuti, i rituali dovrebbero essere l'immagine essenzialmente fedele
della primitiva organizzazione sacerdotale. Cambia ovviamente la sostanza: sacerdoti
discendenti da Mosè da un lato, con un'organizzazione viva, in cui ogni rituale, ogni
istituzione, come la solidarietà fra fratelli, il mantenimento del segreto e tutta la parafernalia
della massoneria, dai segnali di riconoscimento reciproco alle parole di passo ecc., avevano
una funzione ed uno scopo vitali per la sopravvivenza della famiglia stessa. Dall'altra parte
perfetti estranei senza alcun legame fra loro, che recitano parti di cui non conoscono l'origine
ed il significato e continuano ad usare simboli e comportamenti che sono divenuti ormai puro
folclore nell'organizzazione odierna.
Il processo di "fossilizzazione" dell'organizzazione sacerdotale mosaica è cominciato,
secondo le informazioni che possediamo, in Inghilterra. Da alcuni manoscritti apprendiamo
che individui non appartenenti all'arte massonica (vale a dire non appartenenti alla famiglia
mosaica), i cosiddetti "accettati", re, principi, ministri cominciarono ad essere ammessi a far
parte dell'organizzazione fin dal decimo secolo. Nel 1600 esistevano logge formate da soli
"Accettati" che annoveravano i più cospicui personaggi dell'epoca, fra cui Newton. Quando
nel 1717 quattro logge londinesi decisero di riunirsi e formare la Gran Loggia d'Inghilterra,
atto di nascita ufficiale della moderna massoneria, forse fra le loro file non esisteva più un
solo discendente di Mosè. Erano infatti tutte logge di "Accettati", un'organizzazione in cui il
significato e gli scopi originari erano andati smarriti, ma che ebbe un enorme, immediato
successo, grazie al fatto di essere aperta a tutti (o quasi).
La storia dell'organizzazione sacerdotale mosaica, quindi, è come un fiume che si immerge
nel sottosuolo per riapparire più a valle. Sappiamo quando e dove scompare, a Roma nel 70
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d.C., e quando e dove riemerge in superficie, a Londra nel 1717, ormai completamente
snaturata nella sua sostanza. Del percorso "sotterraneo" che sta nel mezzo conosciamo
soltanto alcuni punti salienti attraverso i rituali, che ci consentono di attribuire alla famiglia
sacerdotale fatti e personaggi, come le crociate, i templari e gli altri ordini cavallereschi e così
via. Un'analisi storica che cerchi di unire i punti estremi, passando attraverso gli episodi noti
dai rituali massonici, dovrebbe consentire di tracciare il percorso di questo fiume sotterraneo,
almeno a grandi linee, con buona attendibilità.
L'organizzazione sacerdotale rivitalizzata da Giuseppe Flavio doveva essere del tutto
analoga a quella odierna della sua immagine "fossile", la massoneria, con la differenza che i
suoi membri erano tutti e soltanto discendenti di Mosè e gli obblighi di solidarietà, reciproca
assistenza e così via erano assoluti. Come pure quello del segreto; la morte era la pena per chi
lo avesse trasgredito.
L'attività principale della famiglia, come si è detto, era e rimase nel campo della religione e
fu dedicata alla edificazione e diffusione della religione cristiana, con energia e successo
travolgenti. Il "tempio spirituale", vale a dire la Chiesa di Roma, venne a costituire la base del
potere della famiglia a partire dalla fine del primo secolo. Papi e vescovi venivano insediati
dalla associazione mosaica occulta, con meccanismi che via via si modificavano e affinavano
mano a mano che la base della famiglia si allargava (certamente dovevano venire eletti anche
membri non appartenenti alla famiglia, purché controllabili). Chi era insediato in posizione di
potere era tenuto ad insediare in posizioni di potere sotto il suo controllo altri confratelli (ma
soltanto lui li conosceva in quanto tali; per il mondo profano si trattava di estranei).
Per poter assicurare il controllo delle cariche ecclesiastiche fu istituito per i prelati l'obbligo
del celibato, comparso allora per la prima volta. Fino ad allora nessun sacerdote del mondo
antico aveva avuto tale obbligo, neppure nella primitiva Chiesa apostolica. Dalla fine del
primo secolo, invece, invalse la consuetudine che papi e vescovi non potessero sposarsi. A
partire dal 306, col sinodo di Elvira, in Spagna, l'obbligo del celibato fu esteso a tutti gli
ecclesiastici. E' una fatto significativo e indicativo, che non trova giustificazione nella
predicazione di Cristo o nelle consuetudini. Esso rispondeva ad una precisa esigenza della
organizzazione sacerdotale occulta. Il celibato di coloro che assumevano cariche di rilievo nel
tempio spirituale, cioè papi e vescovi, aveva una ragione specifica: evitare il sorgere di
dinastie familiari, che avrebbero potuto sottrarsi al controllo della famiglia sacerdotale.
Diversi altri fatti storici si spiegano soltanto con l'esistenza di questa organizzazione occulta,
o comunque acquistano un significato chiaro e soddisfacente se esaminati alla luce di essa. Si
è già detto del black-out di informazioni sulla Chiesa romana alla fine del primo secolo,
quando la famiglia sacerdotale mosaica si insediò ai suoi vertici, e del fulmineo, inspiegabile
successo della nuova religione. Si spiega anche il fatto, indubbiamente anomalo e strano, che
la Chiesa abbia esercitato sempre una sorta di tutela sul popolo ebraico. La famiglia mosaica
non rinnegò le proprie origini ebraiche; la religione ebraica era una creazione di Mosè e si è
sempre identificata con la sua famiglia. E' più che ovvio pensare che anche dopo il cambio di
strategia imposto dalle circostanze e messo a punto da Giuseppe Flavio, la famiglia
sacerdotale continuasse a considerarsi ebraica e comunque in carica del popolo ebraico. E'
legittimo pensare che alcune delle famiglie confluite nell'organizzazione di Giuseppe Flavio
(non dimentichiamo che si furono ben 250 sopravvissuti) si siano prima o poi "cristianizzate"
interamente, abbandonando la legge mosaica. Altre, però, dovettero rimanere in tutto e per
tutto "ebree". Altre ancora scelsero una via di mezzo, continuando a seguire la legge mosaica,
pur accettando i principi cristiani (questa setta particolare era detta "ebionita" e la sua
presenza è accertata fino al sesto secolo).
L'organizzazione mosaica occulta, quindi accoglieva certamente nel suo seno membri di
entrambi le religioni (la sua immagine "fossile", la massoneria, è infatti estremamente
tollerante in fatto di religione); essa doveva quindi esercitare una sorta di protezione nei
confronti degli ebrei. E' da notare infatti che gli ebrei furono sempre tollerati, e spesso
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apertamente protetti dalle gerarchie ecclesiastiche, a differenza di tutte le altre religioni e delle
eresie cristiane. Quando gli imperatori romani, da Costanzo a Giustiniano, cominciarono ad
imporre il Cristianesimo come religione di stato, vietando tutte le altre religioni, fecero
eccezione per quella ebraica, che era soggetta a restrizioni, ma non vietata.
E c'è un continuo travaso, nella storia dell'Occidente, di personalità dal mondo ebraico a
quello cristiano (ad esempio, papa Innocenzo VIII, promotore dell'impresa di Colombo, era
figlio di Aharon Cybo, di famiglia ebraica. E lo stesso Colombo era figlio di madre ebrea).
Non è dato sapere fino a quando la famiglia abbia mantenuto il controllo sul papato e se lo
abbia fatto continuativamente. Problemi dovettero sorgere già verso la fine del primo
millennio, che portarono alla riforma del sistema elettivo intorno al 1050, quando fu
introdotto il sistema attuale, che prevede l'elezione del papa da parte di un collegio di principi
della Chiesa (in precedenza l'elezione era decisa dalle grandi famiglie romane). In un primo
tempo i cardinali dovevano essere designati dalle famiglie sacerdotali mosaiche (che a
quell'epoca dovevano essersi moltiplicate e ramificate a dismisura), che in tal modo
continuavano a mantenere il controllo del papato, ma poi anche questo sistema perdette
efficacia, quando re e imperatori cominciarono a imporre l'elezione di cardinali a loro fedeli,
non appartenenti alla famiglia mosaica, scompaginando così il sistema di controllo
dell'organizzazione occulta.
Naturalmente, accanto agli interessi di carattere religioso ed ai membri celibi inseriti nelle
gerarchie della Chiesa, l'organizzazione sacerdotale aveva anche una dimensione diciamo
così, "civile", costituita dalle famiglie vere e proprie dei sacerdoti. Famiglie che già in
partenza erano dotate di larghi mezzi finanziari e che indubbiamente, grazie non solo alla
naturale inclinazione della razza, ma anche e soprattutto alla solidarietà reciproca, continuata
nel corso dei secoli, dovettero migliorare enormemente la loro posizione economica e sociale.
Non va dimenticato che i sacerdoti costituivano la "classe nobiliare" del popolo di Israele (è
sempre Giuseppe Flavio ad affermarlo con orgoglio) e che alcune delle famiglie superstiti
avevano sangue reale nelle vene.
Fino a che la struttura imperiale dell'impero romano rimase in auge, era difficile far valere
questa condizione, ma la rivendicazione rimaneva e non c'era alcuna remora ad impadronirsi
di posizioni di potere, facendo valere i propri titoli nobiliari, fino a quello più elevato,
ovunque se ne presentasse l'opportunità. La famiglia dilagò in tutto l'occidente, al seguito dei
suoi missionari e un poco alla volta assunse posizioni di potere nei popoli evangelizzati,
sfruttando l'appoggio della Chiesa (e viceversa, naturalmente). Un numero notevole di grandi
famiglie, infatti, a cominciare dai Merovingi per finire coi Medici, hanno origini avvolte nella
leggenda, che quasi sempre riconducono al mondo ebraico.
Intorno al mille la famiglia mosaica aveva colonizzato l'intera Europa e conquistato
posizioni di predominio, soprattutto in Italia, Francia ed Inghilterra. Una parte notevole della
classe nobiliare di questi paesi doveva essere costituita da discendenti di Mosè. Molti di essi
escono allo scoperto al tempo delle crociate. E' indubbio che le crociate sono state promosse
dalla famiglia mosaica, che in tal modo ambiva a rientrare in possesso dei suoi antichi domini
palestinesi. E per poco più di un secolo vi riuscì. Fu una membro della famiglia, discendente
di Mosè, quello che assunse il trono di Gerusalemme, re-sacerdote che tornava dopo più di
mille anni a ricoprire quel ruolo che era stato dei suoi antenati Asmonei. E membri della
famiglia erano quei nove cavalieri, i futuri templari, a cui il re concesse la moschea di Al
Aqsa, nella spianata del tempio, vicino alla reggia, con il permesso di scavare nelle viscere del
monte Moriah. In una singolare commistione di poteri, i Templari prestavano il loro servizio
al re di Gerusalemme, ma professavano obbedienza assoluta al papa, anch'esso un discendente
di Mosè in incognito. E, fatto mai spiegato storicamente, fu il papa stesso che decretò la fine
dell'ordine, senza che ci fosse mai alcun atto formale di disobbedienza. L'ordine dei Templari
era assurto a grande potenza e ricchezza nella Palestina crociata. Dopo la caduta di
Gerusalemme aveva stabilito il suo quartier generale in Francia, ma con ramificazioni in tutta
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Europa; in Portogallo aveva addirittura creato un proprio regno. Esso fu sciolto nel 1307,
apparentemente per volere del re di Francia Filippo IV, detto il Bello. L'ultimo gran maestro,
Jacques De Molay, salì sul rogo qualche anno dopo a Parigi, con i suoi due luogotenenti.
Quali furono i motivi veri che portarono alla distruzione dell'ordine? Evidentemente era
diventato troppo potente, tanto da sfuggire al controllo. Ma al controllo di chi? Non certo di
Filippo il Bello, che non lo aveva mai avuto: i Templari rispondevano unicamente al papa. Fu
il papa stesso a decretarne lo scioglimento e non soltanto nei domini di Filippo il Bello, ma in
tutto il mondo cristiano. Per quali ragioni dovette disfarsi (suo malgrado) di un ordine fedele a
tutta prova, che gli procurava ricchezze e potere? Egli agiva evidentemente su istruzioni di un
potere occulto che vedeva nella potenza economica e militare dei Templari una minaccia al
proprio potere. Fu una lotta intestina tra fratelli. Lo prova il fatto che soltanto i tre capi in testa
furono giustiziati, mentre la stragrande maggioranza dei Templari fu risparmiata e aggregata
ad altre organizzazioni cavalleresche, come pure i loro beni, o semplicemente cambiarono
nome, riprendendo quello originario, come in Portogallo. In tal modo rientrarono
all'obbedienza di chi li controllava, cessando di dare ombra. L'ordine scomparve in quanto tale
senza alcuna resistenza, ma è accertato che alcune centinaia di suoi membri rifiutarono di
sottomettersi, riparando fuori dalla Francia, in particolare in Inghilterra e in Scozia. E'
possibile che proprio questi transfughi templari, i quali, anche se sconfessati dalla "loggia"
madre, erano pur sempre membri della famiglia mosaica, in possesso di tutti i suoi segreti e
rituali, abbiano dato vita a logge separate da cui avrebbe poi avuto origine l'organizzazione
"fossile", aperta a tutti, che va sotto il nome di massoneria.
Ma che fine hanno fatto i veri discendenti di Mosè? L'unica cosa di cui possiamo essere
certi è che esistono ancora. Ma sono sempre associati in un'organizzazione occulta, riservata
solo a loro, com'era alle origini? Come ha reagito la famiglia nel corso dell'evoluzione della
storia degli ultimi secoli? Ha sostituito il tempio spirituale con qualcosa di altrettanto valido?
Una nuova istituzione, come ad esempio un "tempio finanziario", o che altro? Il fatto che
alcune logge inglesi siano degenerate, accogliendo elementi estranei alla famiglia, non
preclude l'esistenza di logge riservate esclusivamente alla famiglia e del tutto segrete. Ma qui
siamo veramente nel campo della pura illazione…
----[Una presentazione dell'autore si trova nel numero 1 di Episteme]
[email protected]
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ET IN ARCADIA EGO
Semantiche mito-ermetiche in alcuni quadri
di Guercino e Poussin
Parte Seconda - Poussin
3. I pastori d'Arcadia I
Il primo dipinto che Nicolas Poussin dedicò alla scritta epigrafica in questione è un olio su
tela di cm. 101 x 82, eseguito pare intorno al 1629-30, ora alla Devonshire Collection a
Chatsworth.
Stando agli storici dell'arte, l'ispirazione gli sarebbe venuta dall'aver visto il quadro di
Guercino, quadro che all'epoca si trovava già a Roma. A nostro avviso il fatto che egli abbia
ripreso l'enigmatica epigrafe può voler dire una sola cosa: egli ne aveva compreso - o creduto
di comprendere - il significato. Se è così, il suo quadro deve in qualche modo esprimere
questa comprensione, esibendo un significato almeno contiguo a quello del quadro di
Guercino. E tuttavia la scena che presenta è quasi totalmente diversa.
Il cranio è ancora visibile, posato però sopra un sepolcro scolpito nella parete stessa di un
monte, dimodoché l'epigrafe incisa su uno dei suoi lati si offre, questa volta, non solo allo
sguardo dello spettatore ma anche a quello di tre personaggi, una donna e due uomini, uno dei
quali - con espressione tra il sorpreso e l'attento - ne sta accompagnando la lettura con l'indice
della destra, fermo per sempre alla lettera D.
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Sembra abbastanza certo che il vecchio seduto, intento a versare da un orcio acqua che forma
un ruscello, rappresenti il fiume Alfeo: ma chi sono gli altri tre personaggi? Noi dubitiamo
fortemente che si tratti - come vorrebbe la tradizione - di pastori, quando questo appellativo
venga preso in senso letterale. Che la tomba sia incastonata nella parete di una montagna, è a
nostro avviso la traduzione in immagini del nome Oreste: in Greco Oréstes vale appunto
"montanaro", cioè "che abita in un luogo alto". Ora, se la tomba è quella di Oreste, il fatto che
essa sia ancora perfettamente conservata, allo scoperto, ci suggerisce che la scena raffigurata
nel quadro si svolge in un periodo storico anteriore a quello in cui ha luogo la vicenda narrata
da Erodoto, un periodo probabilmente non molto lontano dalla data di morte dell'eroe.
Un'altra cosa che ci colpisce è l'atteggiamento artificioso della donna che, oltre ad esibire una
scollatura che le lascia scoperto un seno, tiene il leggero chitone di cui è vestita
ostentatamente sollevato a scoprire la coscia destra. Non possiamo non constatare che questa
figura femminile rispecchia esattamente i caratteri che la letteratura classica attribuisce ad
Ermione, moglie di Oreste: le spartane erano note per indossare abiti assai succinti. Plutarco,
parlando della "legislazione di Licurgo, che lasciava una libertà totale e sconveniente per le
donne", cita Ibico che chiama le spartane "mostracosce". Euripide le descrive "discinte, con le
cosce nude" e Sofocle parla proprio di "Ermione la giovane, la cui veste non ricopre, e si apre
sulla coscia nuda". Ora, se la donna è la moglie - o meglio, la vedova di Oreste - perché i due
personaggi maschili non potrebbero essere gli altri due protagonisti di questo mito, ossia il
figlio dell'eroe, Tisameno, e l'inseparabile compagno di tutte le sue avventure, Pilade? In
effetti, la figura maschile vicina ad Ermione, più pingue e dalla muscolatura meno tonica
dell'altra, sembra denunciare un'età più avanzata. Così, da sinistra verso destra, identifichiamo
i personaggi come Ermione, Pilade, Tisameno ed Alfeo.
Di conseguenza, la scena comincia ad assumere un significato preciso: la famiglia dell'illustre
defunto, in visita alla sua sepoltura, si accorge con sorpresa che qualcun altro è passato di là,
lasciando dietro di sé - quale testimonianza del suo passaggio - l'enigmatica epigrafe. Questa è
secondo noi la ragione per cui, nel quadro di Poussin, essa non è più riservata ai soli
spettatori, ma è esplicitamente e innanzitutto offerta all'attenzione dei personaggi raffigurati.
Occorre qui sottolineare il ruolo che svolge Alfeo, figura a sé stante nella composizione:
fiume d'Arcadia carsico, che per lunghi tratti svanisce sottoterra per poi riapparire alla luce del
sole in luoghi assai distanti dal suo inabissamento, ai tempi di Poussin era spesso impiegato
per rappresentare la permanenza della trasmissione di una tradizione segreta. In accordo con
questo significato, Alfeo volge il dorso agli spettatori, non si fa vedere in faccia. Inoltre, esso
porta l'alloro dell'immortalità accordata a una tradizione che sempre scompare e sempre
riaffiora.
Si può così cominciare a gustare la sottigliezza dell'inventio poussiniana: avevamo detto che,
riprendendo l'epigrafe, nel suo dipinto Poussin avrebbe dovuto cifrare la propria decifrazione
dell'enigma guerciniano, in quanto doveva far sapere - a chi già sapeva - che sapeva anch'egli,
pur senza che chi non sapeva capisse.
Ora, ci pare che egli abbia conseguito il suo scopo in modo splendido: ben lungi dal plagiare il
soggetto di Guercino, egli ne riprende solo la misteriosa epigrafe situandola in un contesto
temporale affatto diverso ma assolutamente congruente: conformemente al classicismo del
pittore, la scena si sposta da quella della storia erodotea a quella del mito, talché, con
l'epigrafe, è ora Poussin stesso che si rivolge non solo agli spettatori, ma ai protagonisti stessi
del mito, informandoli che anche lui - Poussin - è in Arcadia, anche lui è a conoscenza della
tradizione segreta che il quadro di Guercino cifrava. Un po' - diremmo - alla maniera del
turista che lascia sul monumento archeologico la traccia graffita del proprio passaggio.
Abbiamo dunque visto che il significato letterale del quadro è relativo al mito di Oreste, in cui
al contempo si cifra nuovamente una decifrazione. Il quesito che ora ci si presenta è il
seguente: è possibile che ciò si estenda anche al significato allegorico del quadro di Guercino,
ossia all'alchimia? Occorre ora che menzioniamo una lettera - considerata inspiegabile - che
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l'abate Louis Fouquet scrisse dall'Italia, il 17 aprile 1656, a suo fratello Nicolas, il famoso e
fastoso sovrintendente alle finanze di Luigi XIV, dopo aver reso visita a Poussin a Roma
(Archives de l'art français, 2e série, 1862, p.266s):
"Non potreste credere, Signore, né le fatiche che si sobbarca per il vostro servizio, né l'affetto con cui
lo fa, né il merito e la probità che mette in ogni cosa. Lui e io abbiamo progettato certe cose nel merito
delle quali potrei intrattenervi a fondo tra poco tempo, che vi daranno - attraverso il Signor Poussin dei vantaggi (se voi non vorrete disprezzarli) che i re durerebbero molta fatica ad ottenere da lui e che,
dopo di lui, nessuno al mondo scoprirà mai nei secoli a venire; e quel che più conta, ciò sarebbe senza
molte spese e potrebbe perfino tornare a profitto, e si tratta di cose da ricercare così fortemente che
nessuno oggi sulla terra può avere una fortuna migliore e forse neppure eguale".
Qualcuno ha creduto che il grande e raro segreto a conoscenza di Poussin riguardasse
l'ubicazione di un sito archeologico all'epoca ancora sconosciuto: tuttavia questa ipotesi, per
quanto plausibile, non ci pare affatto adeguata all'enfasi delle parole di Fouquet. Riteniamo
improbabile che, nel fervore di scavi caratteristico dell'epoca, si potesse pensare che la sua
ubicazione non sarebbe mai più stata scoperta nei secoli a venire. Al contrario, la descrizione
di Fouquet si attaglierebbe benissimo a quello che, all'epoca, era indicato come "il massimo
segreto ermetico". Infatti un'opera del suo carissimo amico Félibien, ossia Entretiens sur les
vies et sur les ouvrages des plus excellents peintres anciens et modernes avec la vie des
architectes, nel dialogo che verte su Poussin, introduce un personaggio che un libello d'arte interamente curato da uno dei massimi specialisti mondiali dell'opera poussiniana, che non
menziono per pudore - definisce, in modo assai simile a certe informative dei carabinieri, "un
amico, tale <<Pymandre>>". Poiché non bisogna mai lasciarsi scappare l'occasione di ridere,
vale la pena riportare il brano per intero.
"Come è noto, il testo dal quale è tratto il presente brano è un dialogo fra l'autore, André Felibien, e un
amico, tale <<Pymandre>>".
Un amico, tale <<Pymandre>>! Non capiremo mai come sia possibile che qualcuno possa
considerarsi o esser considerato specialista di qualsivoglia autore del passato, sia esso uomo di
lettere, pittore, scienziato o filosofo, senza minimamente conoscere la cultura di cui quegli si è
nutrito e in cui ha operato. Ma noi, naturalmente, siamo solo poveri amateurs, e non possiamo
avere idea di tutti i sottili sentieri che portano al conseguimento di una vera competenza.
Tuttavia ci sia concesso di segnalare che, nel nostro povero, rozzo e approssimativo mondo
amatoriale, "Pymandre" è la francesizzazione del titolo - e del nome del protagonista - di uno
dei dialoghi attribuiti a Ermete Trismegisto e contenuti nel famosissimo - ma solo nel nostro
mondo, si capisce! - Corpus Hermeticum, portato in Italia da un monaco macedone e tradotto,
nel 1460, da Marsilio Ficino. Ora, riteniamo abbastanza difficile che Félibien potesse
considerare Pimandro un amico in senso letterale, visto che sapeva bene - al contrario del
nostro specialista - trattarsi della manifestazione sensibile del Nous supremo.
Più probabile è che si riferisse al fatto che Poussin, uomo straordinariamente erudito, aveva
strettissime frequentazioni con personaggi quali Lorenzo Pignoria, Gerolamo Aleandro e soprattutto - Athanasius Kircher, tutti gesuiti. Sentiamo ora cosa ci dice a loro proposito Paola
Santucci, nel suo ottimo Poussin: tradizione ermetica e classicismo gesuita (Cooperativa
Editrice 10/17, Salerno, 1985, p. 23):
"Costoro si erano resi divulgatori di quella particolare tradizione, già accolta e tramandata da Marsilio
Ficino e dai dotti umanisti della fine del '400, che faceva capo allo studio degli Hermetica, cioè di quei
testi attribuiti al mitico filosofo egiziano Ermete Trismegisto e che venivano considerati espressione
della prisca theologia, di una conoscenza divina più antica dello stesso Mosè".
E aggiunge (p. 32):
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"Poussin dunque aderì alla teosofia ermetica e di questa egli colse soprattutto l'aspetto relativo
all'identità di tutti gli dei in un'unica divinità. Era la stessa tesi propugnata dai gesuiti contemporanei
per i quali la diffusione del sincretismo in chiave cristiana fu compito primario poiché il momento
storico richiedeva uno strumento valido per la evangelizzazione dei popoli extra-auropei. Fu forse su
questa base di affinità ideologica ed intellettuale che Poussin strinse i suoi rapporti con i rappresentanti
della Società".
Félibien stesso - suo contemporaneo e grande amico - mette dunque Poussin sotto il segno di
Ermete Trismegisto, con buona pace di interpreti prestigiosi come il curatore dell'edizione
italiana delle sue lettere, docente di filosofia presso la Carnegie Mellon University e autore davvero non si capisce perché - di diversi libri sulla storia dell'arte moderna e contemporanea,
che invece tratta il problema nel modo seguente:
"Soltanto un lettore che creda a priori che Poussin dipingesse soggetti esoterici seguirà Blunt
concludendo che quando Poussin usa il vocabolo francese <<délectation>> si riferisca all'affermazione
di S. Agostino secondo il quale la <<delectatio>>, nel suo senso corretto di delectatio boni, conduce
alla beatitudine ed è perciò uno dei mezzi che portano all'unione con il divino. Qui si entra nel famoso
circolo ermeneutico. Il lettore che consideri Poussin un pittore-filosofo ermetico estremamente erudito,
leggerà queste lettere preparato a trovarvi alllusioni a sottili dottrine; coloro che invece considerano in
modo più semplice la sua personalità artistica, riterranno esagerata una tale lettura dei suoi testi. E'
stato osservato che l'allegorista può diventare simile al nevrotico affetto da ossessioni maniacali,
portato a leggere ogni cosa in termini personali. Ma non spingiamoci troppo oltre".
Infatti, di fronte a tale sfoggio di equilibrata saggezza empirico-nordamericana, cosa conta la
testimonianza diretta ed esplicita di uno dei più intimi sodali del pittore? Tuttavia, noi non
pensiamo che l'iniziazione di Poussin all'ermetismo risalga ai suoi contatti con l'ambiente
gesuita, quanto piuttosto al suo incontro - giovanile e parigino - con uno dei massimi poeti
dell'epoca, ossia il cavalier Marino. I possibili aspetti esoterici dell'opera di Marino non sono
affatto studiati, tuttavia si è recentemente affacciato almeno un sospetto, segnatamente ad
opera di Cesare Vasoli nel suo L'ermetismo a Venezia (in AA. VV., L'ermetismo
nell'antichità e nel rinascimento, Nuovi Orizzonti, Milano, 1998, p. 132-133):
"E, senza dubbio, se si affrontassero le ricerche, del resto, già affrontate, con ottimi risultati, nei
confronti di personalità artistiche, come Jacopo Sansovino e Sebastiano Serlio, letterarie, come il
Marino, o musicali, come Fabio Paolini o Gioseppo Zarlino, già studiati dal Walker, o gli autori delle
grandi compilazioni enciclopediche della fine del Cinquecento o della prima metà del Seicento, si
potrebbero scoprire indicazioni non meno utili sul ruolo svolto dallo Zorzi nell'assicurare la continuità
di un "topos", appunto, l'"armonia del mondo", che affascinò il giovane Descartes degli Olympica, e
che può condurre addirittura a talune celeberrime pagine di Leibniz".
Secondo noi è proprio attraverso il suo primo mentore, Giambattista Marino, che la tradizione
ermetica preservata e rilanciata dallo Zorzi - come abbiamo visto già influente nella
precedente parte relativa al Guercino - giunge fino a Poussin, prima ancora che egli la ritrovi
nel circolo gesuitico della capitale. E' difficile avere una nozione esatta delle conoscenze di
Poussin in materia di ermetismo, a causa dell'estrema riservatezza da lui sempre dimostrata
persino nella corrispondenza personale. Le sue lettere sono tuttavia piene di riferimenti a
conoscenze segrete, come il brano seguente che varrà da unico esempio (a Chanteloup, 7
aprile 1647):
"Vi potrei dire cose su quest'argomento, che sono molto vere ma sconosciute a tutti. Bisogna dunque
passarle sotto silenzio".
E tuttavia almeno una sua lettera - quella del 25 novembre 1658 a Chanteloup - contiene un
riferimento, laconico ma preciso, a un aspetto operativo dell'alchimia a noi già ben noto:
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"Vi ho promesso di spiegare i parerga che sono in fondo all'ultimo quadro che vi ho fatto. Ecco quel
che è. Una processione di sacerdoti, dalle teste rasate e coronate d'alloro, vestiti nel loro modo con
tamburini, flauti e trombe, e sparvieri sui bastoni. Quelli che sono sotto il portico portano la cassa,
contrassegnata Sero Apin, in cui erano racchiuse le reliquie e le ossa di Serapide loro dio, al tempio
del quale si incamminano. Il restante che appare dietro quella donna vestita di giallo, non è altro che
un edificio costituito per il riposo dell'uccello ibis, che là è rappresentato, e quella torre, che ha il tetto
concavo, con quel gran vaso per raccogliere la rugiada...".
Se si ha presente quanto abbiamo documentato nella prima parte rispetto al ruolo svolto dalla
rugiada nell'Opera alchemica, il riferimento poussiniano non può non risultare assai
significativo.
Non dimentichiamo che il seicento è il secolo di maggior fulgore dell'alchimia tradizionale,
quello che vedrà esplodere il fenomeno dei Rosacroce, del cui bagaglio culturale questa
disciplina faceva necessariamente parte. Ora, nonostante le palesi e notevoli differenze
rispetto al dipinto di Guercino - la moltiplicazione dei personaggi e dei colori degli abiti,
nonché la profonda diversità nell'architettura - è possibile mostrare che esso allegorizza i
medesimi aspetti dell'operatività alchemica.
Come abbiamo scritto, Poussin deve trovare un modo diverso da Guercino per riferirsi alla
medesima fase del lavoro alchemico. Per comprendere quale sia, dobbiamo ora ricordare che
le varie fasi dell'Opera alchemica erano spesso anche presentate come episodi di un dramma
in cui i materiali canonici interpretavano il ruoli dei princìpi - mercurio, solfo e sale - o degli
elementi - aria, acqua, terra, fuoco - della fisica teorica del tempo. Così, dai colori dei loro
abiti possiamo dedurre che in questo caso i personaggi del dipinto - tranne Alfeo che gioca un
ruolo a sé, come dimostra anche la sua posizione appartata - impersonano proprio gli
elementi: l'abito bianco di Ermione ne fa una rappresentazione dell'aria, come quello blu di
Pilade e quello arancione di Tisameno ci rinviano rispettivamente all'acqua e al fuoco. La
terra, cioè Oreste, giace nel sepolcro: Poussin esprime dunque in altri termini la stessa fase
operativa che era oggetto del precedente quadro del Guercino. Infatti, seguendo la diversa
terminologia simbolica adottata da Poussin, si può dire che l'esito della Prima Opera consiste
nel fatto che l'aria si unisce all'acqua, mentre il fuoco alla terra. In particolare, terra e fuoco
vengono chiusi insieme nel sepolcro, come non manca di segnalarci Janus Lacinus nel suo
Margarita pretiosa pubblicato a Venezia nel 1546:
"Nella quinta casa il figlio pensava di gettare suo padre nella tomba e di lasciarvelo ma (per mezzo
della nostra arte) vi sono posti entrambi".
Questa idea è espressa da Poussin nella sequenza spaziale delle figure: aria e acqua sono
contigui, così come fuoco e terra che - proprio come nel brano di Lacinus - sono figlio e
padre. Quindi - come abbiamo detto nella parte relativa a Guercino - occorre che il fuoco
venga recuperato dalla massa del caput mortuum con un'operazione apposita e che poi anche
la terra venga "rigenerata" o "resuscitata" con un'altra operazione particolare.
Il cranio posto sopra il sepolcro ci dice poi che la prima delle due operazioni è già stata
compiuta, ossia che il fuoco salino - il "sale mirabile" di Sabine Stuart de Chevalier - è già
stato estratto dal caput, ed è per questa ragione che Tisameno, che lo impersona, è visibile
all'esterno della tomba e porta la corona della rigenerazione. Questo cranio appoggiato sul
sepolcro ha lo stesso significato dello scheletro ritto in piedi sulla bara nell'illustrazione delle
Dodici chiavi della filosofia di Basilio Valentino, riprodotta nella prima parte, come pure
dell'immagine della Pretiosa margarita di Lacinus, che riproduciamo qui sotto con il suo
commento:
45
"Nella nona casa le ossa sono tolte dalla tomba.
Ciò si produce quando tutto il corpo è stato
dissolto con soluzioni successive:
fatto questo, conservatele accuratamente".
Nel secolo seguente, che vedrà esplodere il fenomeno Massoneria, lo stesso concetto sarà
espresso dal "mak benak" del magistero massonico: "La carne si stacca dalle ossa".
Con quale mezzo ciò si sia potuto ottenere è Tisameno stesso a mostrarcelo, per il fatto che il
suo dito indica senza possibilità di equivoco la lettera D. Questo gesto ci dà la certezza che
Poussin conosceva la tecnica operativa dell'alchimia altrettanto bene che Guercino.
Conformemente al sincretismo allora vigente in ambito ermetico - consolidato dai kabbalisti
cristiani fin dai tempi di Pico della Mirandola e di cui si può vedere un esempio nel De
occulta philosophia di Enrico Cornelio Agrippa - la lettera latina D era considerata
strettamente equivalente alla greca ∆ (delta) nonché all'ebraica  (daleth), sicché
l'interpretazione mistica delle lettere ebraiche, come è per esempio contenuta nel Sephèr
Jetziràh, veniva comunemente estesa anche agli altri alfabeti. In particolare, la daleth era
collegata kabbalisticamente tanto con il numero 4 quanto con il pianeta Giove. Erano tempi in
cui ci si compiaceva di trovare significati supplementari e segreti nel fatto che la greca delta
aveva la forma di un triangolo rivolto verso l'alto, che era anche il simbolo spagirico del
fuoco, e che il numero 4 aveva la medesima forma del simbolo astrologico di Giove:
. Ora,
Paola Santucci, nel libro già citato (p. 77-78), ci ricorda in modo assai pertinente quanto
segue:
"Nel dipinto di Poussin Apollo, cioè il Sole, simboleggia l'anima del mondo; Giove, cioè il cielo, il suo
spiritus e le ninfe, cioè la terra, il suo corpo, analogie che si ritrovano anche in Campanella. Ma a
questo punto va ricordato che anche Ermete Trismegisto nell'Asclepius aveva affermato che il
reggitore del cielo è Giove e, tramite il cielo, egli dispensava la vita a tutti gli esseri. Giove affermava il filosofo egiziano - è dio dell'aria o spiritus mundi ed occupa un luogo intermedio tra la
terra e il cielo".
Se ora ricordiamo la frase - citata nella prima parte - di Limojon de Saint Didier sulle virtù
dell'"acqua celeste", così come quella di Sabine Stuart de Chevalier sul fatto che "la vita e la
salute sono contenute nello spirito universale" e che "l'unica fomentazione è contenuta nel
mare universale", riusciamo anche a cogliere tutta la pertinenza del riferimento poussiniano
alla lettera D: la sfera di Giove è questo stesso "mare universale", cioè l'aria, allora
considerata piena degli influssi del sole, della luna e degli astri, la cui azione si riteneva
necessaria per recuperare il "fuoco salino" dal caput mortuum.
46
Abbiamo dunque visto come il significato letterale del quadro si discosti da quello del
Guercino pur interagendovi strettamente, e come tuttavia quello allegorico si riferisca alla
medesima fase dell'Opera Ermetica da lui cifrata.
A proposito del significato morale, dobbiamo dire che anch'esso - come quello letterale - si
discosta sensibilmente da quello dell'opera guerciniana: qui non si tratta affatto della carità ma
di tutt'altro. Un uomo come Poussin, ossessionato dall'idea di risalire all'origine della prisca
theologia, doveva aver letto con particolare emozione la seguente frase tratta dal Crater
hermetis, quarto trattato del Corpus hermeticum:
"A partire da questo principio, vediamo dunque di chiarire brevemente la strada del bene. Si tratta di
una via tortuosa, che consiste nell'abbandonare le cose familiari e presenti, per risalire verso le antiche
e primordiali".
Questa coincidenza del bene con l'origine fornisce a nostro avviso la chiave morale del
quadro, conformemente tanto al fatto che la scena si svolge alle fonti dell'Alfeo, all'origine
della tradizione segreta.
Per quanto riguarda infine il senso anagogico esso è palesemente lo stesso del quadro di
Guercino, per cui rinviamo a quanto ne abbiamo scritto nella prima parte.
4. I pastori d'Arcadia II
Circa dieci anni dopo, pare intorno al 1638-39, forse anche più tardi, Poussin sente il bisogno
di tornare sul soggetto. Da quella prova giovanile è passato parecchio tempo: nella sua
frequentazione dell'ambiente libertino come di quello gesuita il pittore ha acquisito
competenza e cultura: il suo lavoro di ritorno alle fonti se è ancora lungi dall'esser compiuto, è
senz'altro assai più avanzato.
Infatti, rispetto all'opera precedente, i cambiamenti sono rilevanti. Intanto, il sepolcro non è
più iscritto nella parete di un monte ma posto in un luogo pianeggiante. Il cranio è scomparso.
Ci sono ancora tre figure maschili e una femminile, ma questa volta tutti i personaggi sono
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coinvolti nella medesima azione: non c'è qui nessun Alfeo che se ne sta appartato. Ritroviamo
ancora i colori simbolici degli elementi: bianco per l'aria, blu per l'acqua e rosso - in luogo
dell'arancione del quadro precedente - per il fuoco; tuttavia uno dei personaggi, ossia
l'imponente signora che domina la composizione, nel suo ricco abbigliamento li riveste tutti.
Le uniche cose rimaste immutate sono il sepolcro e l'iscrizione epigrafica, entrambe cose che
testimoniano del fatto che tra il quadro presente e quello precedente vi è senz'altro un legame.
Poussin dunque ha qualcosa da aggiungere al discorso svolto nel suo primo lavoro, ma che
cosa?
Secondo noi, egli doveva aver avuto modo di considerare che la tradizione cui si riferiva non
era nata in Arcadia, e che dunque nel suo primo quadro egli aveva solo creduto di indicarne
l'origine. Infatti, crediamo poco probabile che abbia ignorato il seguente brano, anch'esso
tratto dalle Storie di Erodoto:
"170. Anche la tomba di colui che non considero pio nominare in tale circostanza si trova a Sais, nel
santuario di Atena, alle spalle del tempio, contiguo a tutta la parete del tempio di Atena. [2] E nel
recinto sacro ci sono grandi obelischi di pietra, e vicino c'è un lago ornato da un margine di pietra ben
costruito di forma circolare, e per dimensioni, a quanto mi parve, grande quanto il lago chiamato
Trocoide a Delo.
171. Su questo lago celebrano di notte le rappresentazioni della passione di lui, che gli Egiziani
chiamano Misteri. Ma intorno ad essi, pur conoscendo io con più esattezza come ciascun rito si svolge,
conserverò un religioso silenzio. [2] Ed anche riguardo all'iniziazione ai misteri di Demetra, che i
Greci chiamano Tesmoforie, anche riguardo a questo ch'io mantenga il silenzio, tranne per quanto di
essa è lecito dire. [3] Le figlie di Danao furono quelle che portarono questa cerimonia sacra dall'Egitto
e la insegnarono alle donne pelasgiche; più tardi poi, essendo stata tutta la popolazione del
Peloponneso scacciata dai Dori, il rito andò perduto, e solo quelli dei Peloponnesiaci che rimasero
superstiti e che non si trasferirono, gli Arcadi, lo conservarono".
Dunque, dopotutto, c'è un capitolo preliminare alla tradizione arcadica, e questo capitolo è
egizio. Siamo in un'epoca in cui il sincretismo alessandrino viene pienamente ripreso e - se
possibile - ulteriormente sviluppato: Oreste che muore per il morso di un serpente è Dioniso
sbranato dai Titani ed è Osiride ucciso da Set. Nel secolo seguente - come abbiamo detto,
secolo massonico - tutti questi diversi eroi e dei lasceranno il posto ad Hiram il cui nome,
curiosamente, in ebraico ha lo stesso significato che quello di Oreste in greco: "colui che
risiede in alto".
Infatti non comprendiamo come generazioni di studiosi abbiano potuto continuare a
considerare la dama del dipinto come una "pastora" quando tutto, dalla sua aria ieratica ai
colori del suo abbigliamento ce la presenta come la consorte vedova di Osiride, ossia Iside,
secondo la classica descrizione di Apuleio nel suo Asino d'oro [XI, 3]:
"La tunica era di colore cangiante: intessuta di bisso finissimo, ora brillava d'un bianco luminoso, ora
appariva d'un giallo oro, ora rosseggiava d'un colore di viva fiamma. Quello che poi mi abbagliava
completamente la vista era il mantello: nerissimo, tutto lucente d'un fosco splendore".
Per sapere che il Seicento è stato il secolo di Iside non è necessario leggere il libro che le ha
consacrato Baltrusaitis. Ora, uno dei fulcri del rinnovato culto di Iside era proprio l'ambiente
gesuitico della capitale, soprattutto per opera dell'amico di Poussin, il padre Kircher.
La grande dea, dallo sguardo al contempo assorto, addolorato e colmo di bontà, con un gesto
di affetto materno, tiene la mano appoggiata sulla spalla del suo primogenito Orapollo (Horus
- Apollo), naturalmente vestito del colore del fuoco. E' facile arguire che la figura vestita di
bianco all'altro capo del sepolcro è il suo figlio adottivo Ermanubi (Ermes - Anubi, figlio
illegittimo di Osiride e di Neftis), figura eminentemente aerea. E chi può essere il personaggio
accosciato, intento a leggere l'iscrizione, se non il terzo e ultimo dei suoi figli, ossia
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Arpocrate, dio del silenzio e della riservatezza iniziatica? E in effetti, egli proietta sul sepolcro
un'ombra che restituisce proprio la figura di un uomo accosciato intento a portarsi un dito alla
bocca come per intimare il silenzio: era proprio questa la rappresentazione tipica del dio,
come si può vedere nella rappresentazione seicentesca seguente, tratta proprio da un libro di
Pignoria:
Alfeo lascia dunque il posto ad Arpocrate, senza che nulla muti quanto a significazione. Allo
stesso modo il cranio, ora assente, è sostituito dal gesto di Orapollo, il fuoco, che indica alla
madre il luogo della propria provenienza. Tuttavia, l'aspetto più delizioso dell'inventio
poussiniana è secondo noi fornito dal fatto che il dito di Arpocrate non indica più la lettera D
come nel quadro precedente, bensì la R.
Che ora la lettera latina che viene indicata sia proprio la R, ermeticamente equivalente alla Ρ
(rho) greca e alla  (resh) ebraica, ci mostra in modo lampante quanto il Poussin della
maturità fosse progredito, rispetto a quello giovanile, nella sua capacità di sintesi semantica.
Kabbalisticamente, la  corrisponde a Saturno. Simbolizza la testa dell'uomo. Secondo
Boehme, la  trae la sua origine dalla facoltà ignea della natura e a causa di ciò è l'emblema
del fuoco. Basterebbe questo a mostrare che la R, per la sua maggiore estensione semantica,
esprime il segreto del caput mortuum o saturno dei filosofi in modo più pregnante che non la
D. Tuttavia, questa lettera presentava il vantaggio di dire qualcosa di preciso intorno alla
soluzione del problema, cioè a quell'aria che era lo strumento necessario per estrarre le ossa
saline dalla carne metallica di Osiride. A uno sguardo superficiale sembrerebbe dunque che la
sostituzione implichi la perdita di un'informazione a vantaggio di un'altra ma se si considerano
le cose più attentamente ci si rende conto che non è affatto così: il riferimento all'aria non
sparisce affatto ma rimane pienamente evocato da la erre, l'aere. Non si può non rimanere
incantati dal genio enigmistico di Poussin: sostituendo la R alla D riesce a darci addirittura - e
in un modo estremamente elegante - un supplemento di informazione rispetto a quanto era
contenuto nel quadro precedente.
Il quadro esprime dunque soltanto una retrodatazione della tradizione arcadica, e formula un
differente giudizio quanto alla sua origine. Conformemente a ciò, la frase Et in Arcadia ego
cambia ancora quanto all'enunciatore e al suo senso: è ora Iside stessa a pronunciarla,
esprimendovi il fatto che la tradizione che la concerne è stata importata in Arcadia dall'Egitto.
Io, Iside, sono venuta anche in Arcadia.
Ma - domandiamoci - se i due quadri parlano veramente di tutto ciò perché un titolo così
fuorviante come "I pastori d'Arcadia"? Secondo noi la soluzione è come sempre semplice,
49
lineare, e risiede ancora nella tradizione ermetica. Abbiamo visto che quando Félibien, nel suo
libro, vuol parlare dell'amico Poussin, sceglie come interlocutore quel "tale Pymandre" di cui
abbiam discusso più sopra. Ora, Pimandro in greco vuol dire esattamente pastore. Ecco cosa
ci dice in proposito Françoise Bonardel, docente di filosofia della religione alla Sorbona, nel
suo La via ermetica (Atanòr, Roma, 1998):
"Uno dei primi commentatori moderni dell'ermetismo, Louis Ménard, ha evocato <<quella
sorprendente chimca intellettuale il cui laboratorio principale si trovava ad Alessandria>>. I libri
ermetici avrebbero rappresentato l'elemento unificatore tra gli gnostici (sia le sette conosciute con
questo nome sia la scuola ebraica di Filone l'Alessandria) e i neoplatonici Plotino e Ammonio Sacca.
Ménard pone anche l'accento su quella sorta di tradizione "pastorale" - il Pimandro è in effetti un
pastore - derivata dalle scuole dei terapeuti egiziani (Ménard rinvia al De agricultura di Filone, al
Pastore di Erma e al Timeo di Platone). L'insegnamento di questa tradizione si sarebbe tramandato
proprio attraverso la rivelazione ermetica, per la quale il trismegisto diviene l'iniziato e l'iniziatore
supremo della Gnosi".
E poco oltre:
"Il Corpus Hermeticum offre quindi da un trattato all'altro, da un discorso all'altro, da un incantesimo
all'altro, degli esempi di questa catena di iniziati destinata a perpetuare la tradizione ermetica: dal
Nous a Pimandro, da Pimandro ad Ermete, da Ermete a Tat, da Iside a Horus ... è sempre il solo e
unico Verbo divino che pneumatizza la Creazione attraverso coloro che ne sono i <<pastori>>".
Non crediamo che le due citazioni necessitino di commento: il titolo dei quadri non si riferisce
affatto a individui dediti alla pastorizia bensì ai custodi di una tradizione.
E con questo il mio compito è terminato: anche se inusuale l'ipotesi è chiara, coerente,
documentata ed esposta nel dettaglio. Ai lettori il compito di giudicarla. Tuttavia resta solo
un'ipotesi che - come ho detto - non perderò tempo a difendere. Dopotutto potrebbe darsi
benissimo che Guercino sia stato solo un autodidatta ignorante nonché marcatamente bigotto,
Poussin un classicista interessato solo alla mitologia letteraria e Pimandro un amico personale
di Félibien: al mondo può succedere di tutto!
----[Una presentazione dell'autore si trova nel numero 3 di Episteme]
[email protected]
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La fine del mondo
secondo la Bibbia e secondo la scienza
(Francesco Vitale)
Sommario: L'Autore, dopo una disamina puntuale di alcuni passi escatologici di contenuto
astronomico del Vecchio e del Nuovo Testamento, conclude che le spaventose catastrofi, in essi
descritte in modo sintetico ma efficace e riguardanti l'intero pianeta, sono proprio quelle che secondo
la moderna astronomia rientrano tra quelle possibili per la Terra e per il Sistema Solare, tenendo anche
conto delle recentissime scoperte di nuovi corpi celesti al di là di Plutone. Se si accettano queste
conclusioni, allora si pone lo scabroso problema epistemologico riguardante la fonte delle conoscenze
alla quale i profeti avrebbero dovuto attingere - in un passato in cui la scienza e la tecnica erano ancora
rudimentali - per prevedere per il nostro pianeta lo stesso terribile futuro che soltanto oggi, con una
certa sicurezza, siamo in grado di delineare e che in tutti noi può destare non soltanto curiosità, ma
anche apprensione e angoscia. L'Autore infine discute le possibili soluzioni di questo problema, che fa
parte di quello più generale del rapporto tra scienza e fede.
*******
La Bibbia costituisce la raccolta dei testi sacri di due religioni: la religione cristiana (con tutte
le sue confessioni, delle quali le più seguite sono quella cattolica e quella protestante) e la
religione ebraica. Quest'ultima, molto più antica della prima, adotta come testo sacro quasi
tutti gli scritti che i cristiani inseriscono nel cosiddetto Vecchio Testamento. In ogni caso, tutti
i veri credenti appartenenti a queste religioni devono prendere atto che la Bibbia non ha
soltanto un contenuto storico e morale: diversi scritti che la compongono sono infatti costituiti
da opere profetiche, anche se varie profezie si trovano in altre parti della raccolta aventi però
un contenuto diverso.
Ebbene, le profezie non si riferiscono soltanto alla vita futura dopo il Giudizio Universale,
cioè al Regno dei Cieli del quale faranno parte soltanto coloro che Dio avrà scelto; in esse
sono contenute descrizioni sia di fatti storici non ancora accaduti, sia di sconvolgimenti che
avranno enorme portata per il pianeta Terra. Queste descrizioni, contenute sia nel Vecchio che
nel Nuovo Testamento, come ora vedremo, non sono in contraddizione tra loro, ma
mirabilmente si completano e si confermano reciprocamente: ciò significa che, almeno per
quanto riguarda il mondo fisico, in tutta la Bibbia c'è un'identità di contenuto. Allora diventa
possibile procedere ad un esame dei fenomeni celesti preannunciati, utilizzando le conoscenze
scientifiche di cui disponiamo: senza uno studio condotto con il dovuto rigore, ci si troverebbe
infatti di fronte alla profonda e deleteria dicotomia tra ciò che deve essere oggetto di fede e
ciò che è la realtà fisica nella quale siamo immersi e dalla quale non dobbiamo allontanarci.
La necessità di questo esame dovrebbe essere sentita dallo studioso credente; ma anche
l'ateo dovrebbe esserne interessato, se veramente vuole restare nella convinzione che la Bibbia
non ha alcun fondato legame con la realtà fisica. Chi invece oggi, per convincere gli altri che
le Sacre Scritture sono l'unica fonte di verità, tenta di spiegare le terribili catastrofi descritte
dai profeti semplicemente facendoli passare per fenomeni soprannaturali prodotti da Dio e da
accettare per fede giacché mai sono stati osservati in natura o perché non sono verificabili
dalla scienza, non soltanto fa il gioco degli atei, ma mette a dura prova la fede dello scienziato
credente, che potrebbe perciò essere indotto a non considerare più gli scritti sacri come fonte
di certezza e, soprattutto, di speranza. Ancora più grave ci sembra poi la posizione del
credente che considera le profezie soltanto paterne minacce espresse da Dio per spingerci a
tornare a lui con il terrore dei suoi castighi.
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Il contenuto di questo articolo rappresenta non soltanto un tentativo di spiegare col metodo
scientifico le catastrofi finali descritte dalla Bibbia e riguardanti la Terra e il Sistema Solare,
ma anche il punto di partenza e lo stimolo per studi più approfonditi che potranno essere
intrapresi dai lettori preparati.
L'Apocalisse di Giovanni, l'ultimo degli scritti del Nuovo Testamento, è indubbiamente il
testo escatologico più conosciuto; tuttavia non è l'unico a trattare gli avvenimenti finali
riguardanti l'umanità e il pianeta Terra e nemmeno è il più ricco di particolari; ha però il
vantaggio di lasciare intravedere una ben definita linea storica, anche se volutamente
presentata in modo oscuro e confuso. La complessità del testo e le conseguenti difficoltà
interpretative richiedono uno studio molto attento di questo testo, che sembra in gran parte
dedicato alle tribolazioni, provocate da Satana, che affliggeranno tutta l'umanità e soprattutto
gli Ebrei.
Di questo scritto la figura centrale, sulla quale Giovanni si sofferma di più, è quella
dell'Anticristo, che riceverà da Satana tutto il suo potere quando sarà giunto il tempo in cui gli
sarà concesso di agire. Immane flagello per il mondo intero, riuscirà a tenere in suo potere
tutte le nazioni della Terra, perpetrando un nuovo olocausto di tutti coloro che non lo
adoreranno come Cristo per il quale si spaccerà.
Una volta terminata l'anticristiana tirannide, seguirà una pace universale della durata di
mille anni. Dopo questo periodo, paragonabile ad una nuova Età dell'Oro e che porterà grande
prosperità a Gerusalemme e alla sua terra, Satana avrà di nuovo il potere di agire contro
l'umanità, ma soprattutto contro il popolo eletto. Egli riuscirà a mettere a punto un attacco
proprio contro la "città diletta", istigando le orde barbariche e sanguinarie provenienti dalle
terre del nord e guidate dall'ultimo Anticristo: Gog, re di Magog. Contro gli abitanti di
Gerusalemme sarà allora perpetrato un altro e più terribile olocausto, chiamato in tutti gli
scritti profetici "grande tribolazione". Ma la vendetta di Dio sarà immediata e i bellicosi
popoli invasori subiranno una disfatta spaventosa.
Subito dopo questa tribolazione (come è precisato nel Vangelo secondo Matteo - Cap.
XXIV) leggiamo nell'Apocalisse (Cap. VI, v. 12 e segg.): "Si udì un gran terremoto; il sole si
offuscò in modo da apparire nero come un sacco di crine; l'intera luna prese il colore del
sangue; le stelle del cielo precipitarono sulla terra come i frutti tardivi di un fico scosso da un
vento gagliardo; il cielo si accartocciò come un rotolo che si ravvolge e tutti i monti e le isole
scomparvero dai loro posti. Allora i re della terra, i maggiorenti, i comandanti militari, i ricchi
e i potenti e tutti gli schiavi e le persone libere si rifugiarono nelle spelonche e tra le rocce dei
monti e dissero: <<Cadeteci addosso e nascondeteci dalla presenza di Colui che siede sul
trono e dall'ira dell'Agnello, poiché è giunto il gran giorno della loro ira e chi potrà resistere?
>>". E più avanti (Cap. XXI): "Poi vidi nuovi cieli e una nuova terra: infatti il cielo e la terra
di prima erano scomparsi e il mare non c'era più". Segue la descrizione della Gerusalemme
Celeste che scende dal cielo e che sarà la dimora di Dio e di tutti coloro che, dopo il Giudizio
Universale, saranno ammessi a farne parte.
Per la nostra ricerca è risultato molto importante questo passo di Isaia (Cap. XIII - v. 9 e
segg.): "Ecco il giorno del Signore giunge: giorno crudele, d'indignazione e di sdegno, che
farà della terra un deserto e ne distruggerà i peccatori. Infatti le stelle del cielo e le
costellazioni non faranno brillare la loro luce; il sole si oscurerà fin dalla sua levata e la luna
non farà più risplendere il suo chiarore. Punirò il male sulla terra e i malvagi per la loro
iniquità".
La traduzione di questo passo che abbiamo ora riportato è la più diffusa; tuttavia, per quanto
riguarda le parole che abbiamo evidenziato in corsivo, essa non è corretta. Risulta infatti
evidente che, se le stelle del cielo perdono la loro luce, la perdono anche le costellazioni,
perché queste ultime sono semplicemente dei collegamenti ideali tra determinate stelle e
variabili da una civiltà all'altra, che consentono di ottenere figure - legate ai miti o alla realtà
quotidiana - semplici da ricordare e quindi facilmente riconoscibili sulla volta celeste.
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Soltanto nella Traduzione del Nuovo Mondo delle Sacre Scritture (cioè quella dei Testimoni
di Geova) leggiamo: "... poiché le medesime stelle dei cieli e le loro costellazioni di Chesìl
non irradieranno la loro luce"; ma ancora il significato non è chiaro. L'inserimento della
parola "Chesìl" in questa traduzione ci ha però costretti alla lettura diretta del testo ebraico.
Qui leggiamo "E le stelle dei cieli (in ebraico "cielo" è plurale) e i loro Chesìl (
 
) non
daranno la loro luce". Ebbene, Chesìl (
  ) è propriamente la costellazione di Orione, come
vedremo tra poco: perché dunque è usato il plurale? La sola spiegazione plausibile ci sembra
quella di un riferimento ad altre costellazioni di forma simile a quella di Orione. Questa
bellissima e grande costellazione, visibile verso mezzanotte a sud sul finire dell'anno, è
riconoscibile immediatamente perché ha la forma di un enorme quadrilatero.
(Figura 1)
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La figura 1 mostra appunto l'aspetto del cielo come appare ad un osservatore posto alla
latitudine di Gerusalemme quando Orione culmina. Ebbene, nei suoi pressi si trovano due
costellazioni, quella dei Gemelli e quella dell'Auriga, che presentano la stessa forma
quadrangolare propria della costellazione di Orione e quasi le stesse dimensioni. Nella figura,
i quadrilateri determinati dalle principali stelle delle costellazioni interessate sono
rappresentati con linee tratteggiate.
Questa nostra interpretazione trova due importanti conferme. La prima viene dal significato
di Chesìl, che in ebraico significa "matto", "folle". Ebbene, gli studiosi di esoterismo
considerano i tarocchi un retaggio delle antiche e segrete conoscenze ebraiche. Uno degli
"arcani maggiori" è "Il Matto", raffigurato da un uomo che trasporta un fardello e che, mentre
cammina, viene azzannato alla coscia da un cane. Nella figura si può infatti vedere che, al di
sotto della costellazione di Orione, che quasi tutte le antiche civiltà hanno associato ad una
figura umana, c'è la costellazione chiamata Cane Maggiore - nella quale brilla fulgidissima la
stella Sirio - che ha veramente l'aspetto di un cane che sembra spiccare un salto verso Orione.
Anche i Greci collegavano il gigante Orione alla costellazione del Cane. Ma al di sopra di
questa costellazione c'è quella del Cane Minore e, ancora più su, quella dei Gemelli, che pure
ha la stessa forma quadrangolare di Orione: perciò si può ben dire che queste due ultime
costellazioni ricordino le precedenti.
La seconda conferma alla nostra interpretazione viene dal seguente passo delle profezie di
Amos (Cap. V - v. 8); "Egli (il Signore) ha fatto le costellazioni di Chimà e di Chesìl, muta
l'ombra di morte in aurora e fa del giorno una notte oscura; chiama le acque del mare e le
riversa sulla faccia della terra.", passo che questa volta tutti i traduttori rendono correttamente
traducendo Chimà e Chesìl con "(le) Pleiadi e Orione". Facciamo notare che Amos ha scritto
le sue profezie intorno all'anno 800 a.C., quasi un secolo prima dell'epoca di Isaia.
Anche Giobbe (Cap. IX) cita le costellazioni di Ash (l'Orsa Maggiore), di Chimà e di
Chesìl: "Egli (il Signore) trasporta le montagne senza che se ne accorgano; nel suo furore le
sconvolge. Egli scuote la terra dalle sue fondamenta e le sue colonne tremano. Comanda al
sole ed esso non si leva; mette un sigillo alle stelle. Da solo spiega i cieli e cammina sulle più
alte onde del mare. E' il creatore dell'Orsa, delle Pleiadi, di Orione e delle misteriose regioni
del cielo australe". Anche questo passo, come il precedente, è tradotto correttamente in tutte le
versioni della Bibbia.
Le cause di questi fenomeni sconvolgenti devono essere ricercate in altri scritti biblici non
propriamente profetici. Il più importante è la Seconda Epistola di Pietro. Nell'ultimo capitolo
si legge tra l'altro: "Negli ultimi giorni verranno schernitori sarcastici, i quali (a proposito del
ritorno di Gesù) diranno: << Dov'è andata a finire la promessa del suo ritorno? Da quando i
padri si addormentarono (nella morte) tutto è rimasto come all'inizio della creazione>>. A
coloro che fanno tali affermazioni arbitrarie sfugge che i cieli, in principio, esistevano e che la
terra prese consistenza dall'acqua e per mezzo dell'acqua in forza della parola di Dio. Perciò il
mondo di allora andò in rovina, sommerso dall'acqua, mentre i cieli di adesso e la terra sono
tenuti in serbo per il fuoco, secondo questa stessa parola, e mantenuti per il giorno del
giudizio e della condanna degli uomini empi". E più avanti: "Il giorno del Signore
sopraggiungerà come un ladro: allora i cieli scompariranno in un sibilo e gli elementi si
scioglieranno nel fuoco assieme alla terra e a tutte le opere che in essa saranno trovate. Così,
dato che tutto questo dovrà dissolversi, come dovete voi vivere una condotta di santità e di
pietà, mentre aspettate e affrettate la venuta del giorno di Dio, quando i cieli, incendiandosi, si
scioglieranno e gli elementi si fonderanno nel calore! Secondo la sua promessa, aspettiamo un
cielo nuovo e una terra nuova, in cui soggiorni la giustizia.". Facciamo notare che l'apostolo
ritenne molto importanti queste informazioni per ripeterle tre volte nella sua lettera.
Nel discorso profetico di Gesù la descrizione degli ultimi avvenimenti contiene alcune
importanti precisazioni. Nel Vangelo secondo Matteo (Cap. XXIV) si legge: "Subito dopo la
tribolazione di quei giorni, il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle
cadranno dal cielo e le potenze celesti saranno sconvolte. Allora apparirà nel cielo il segno del
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Figlio dell'uomo e allora si batteranno il petto tutte le tribù della terra e vedranno il Figlio
dell'uomo venire sulle nubi del cielo con grande potenza e splendore". E più avanti:
"Comprendete la parabola del fico: quando il suo ramo diventa tenero e produce le foglie,
sapete che l'estate è prossima. Così anche voi, quando vedrete tutte queste cose, sappiate che
egli è vicino, è alle porte. In verità vi dico: non passerà questa generazione prima che tutte
queste cose accadano. Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno. Quanto
al giorno e all'ora, nessuno lo sa, neppure gli angeli del cielo e neppure il Figlio, ma solo il
Padre. Vigilate, poiché non sapete in che giorno verrà il vostro Signore". Nel vangelo di
Marco (Cap. XIII), si trovano quasi le stesse parole.
Questi sono dunque i passi che ci accingiamo a commentare, partendo dal presupposto che
essi costituiscano una descrizione precisa di eventi naturali che ancora non si sono verificati.
Crediamo che siano chiaramente indicati i seguenti fenomeni:
- l'improvviso oscuramento del disco solare, la cui durata non è precisata, e il contemporaneo
arrossamento del disco lunare al plenilunio (nell'Apocalisse è scritto: "l'intera (‘όλη) luna"); il
tutto accompagnato da fenomeni sismici di eccezionale intensità;
- l'oscuramento progressivo delle stelle - diventate visibili per la mancanza della luce solare che si estenderà gradatamente fino a ricoprire le costellazioni dei Gemelli, dell'Auriga, di
Orione e delle Pleiadi (queste oggi fanno parte della costellazione del Toro);
- un bombardamento meteorico (la "caduta di stelle"), dopo la fase precedente, e la
conseguente mutazione dell'orografia terrestre e della distribuzione delle distese marine
(probabilmente destinate in gran parte a scomparire o a subire enormi spostamenti) in seguito
a spaventosi maremoti.
La descrizione di questi fenomeni, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, consente
subito di effettuare alcuni calcoli che potrebbero far luce sulle cause degli eventi profetizzati.
Innanzi tutto appare chiaro che l'eclisse di Sole descritta non è causata dalla Luna: questa
infatti al plenilunio, trovandosi rispetto alla Terra dalla parte opposta a quella del Sole, non
soltanto non potrebbe oscurarlo, ma essa stessa, come leggiamo, sarà parzialmente oscurata.
La causa di questi fenomeni si deve dunque attribuire al passaggio di un corpo celeste opaco,
che si frapporrà tra il Sole e la Terra. Allora il cono d'ombra da esso prodotto e nel quale verrà
a trovarsi la Terra al momento del suo passaggio sarà tale da avvolgere completamente il
nostro pianeta, ma parzialmente la Luna. Infatti durante un'eclisse lunare, una parte del disco
del nostro satellite, prima della fase della totalità, acquista un bel colore rosso vivo appena
comincia a entrare nel cono d'ombra prodotto dalla Terra; ciò avviene perché i raggi solari
che, passando attraverso l'atmosfera terrestre e rifratti, riescono ancora a illuminare
parzialmente la Luna sono quelli rossi, dal momento che le radiazioni azzurre vengono diffuse
(e quindi disperse) dai gas in misura maggiore (effetto Rayleigh). La condizione che la Luna
sia interna al cono d'ombra prodotto da questo corpo sconosciuto, ma sia vicinissima alla
superficie laterale del cono stesso, consente allora di ricavare, attraverso semplici
considerazioni geometriche, importanti informazioni riguardanti la distanza minima dalla
Terra e il diametro del corpo, nell'ipotesi che esso abbia forma sferica. Per semplicità
supporremo che la Luna si trovi proprio sulla superficie laterale del cono.
Prima di passare ai calcoli, facciamo notare che le Pleiadi e le costellazioni di Orione, dei
Gemelli e dell'Auriga sono tutte comprese in un cerchio avente il centro proprio su quella
linea ideale (che è un cerchio massimo della sfera celeste) chiamata "eclittica". Quest'ultima
rappresenta l'insieme delle posizioni assunte dal Sole durante il suo percorso apparente nel
cielo e non è altro che l'intersezione del piano dell'orbita terrestre con la sfera celeste, piano
che è perciò chiamato "piano dell'eclittica". Il termine "eclittica" deriva dal fatto che proprio
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quando il Sole è su questa linea si verificano le eclissi. Nella figura 1 è rappresentato il
cerchio anzidetto, che ha un raggio di circa 30°. Allora è chiaro che il passo di Isaia consente
di stabilire il diametro del campo stellare occultato, mentre il passo di Amos precisa e
conferma che il limite della zona oscurata passa per Orione e per le Pleiadi.
Un altro elemento che si può stabilire è la durata massima dell'eclisse. Ebbene, l'indicazione
che la Luna apparirà durante il fenomeno in tutta la sua interezza consente di stabilire che la
durata complessiva non dovrebbe superare i sette giorni: infatti la frazione illuminata del
disco lunare si mantiene superiore all'85% tre giorni e mezzo prima e dopo l'istante del
plenilunio. Bisogna ancora tenere presente che il piano dell'orbita lunare è inclinato di 5° 9'
(5°,15) rispetto al piano dell'eclittica: occorre perciò considerare due situazioni estreme e cioè
quella in cui la linea dei nodi di questo piano (ovvero la sua retta di intersezione col piano
dell'eclittica) sia ortogonale alla retta congiungente la Terra col Sole e l'altra situazione in cui
invece sia quasi coincidente con quest'ultima.
S3S = LpL'
(Figura 2)
La figura 2, che mostra il Sole, la Terra, il corpo e la Luna sul piano ortogonale sia al piano
dell'eclittica (Π) che al piano dell'orbita lunare (Σ) e passante per i centri di tutti questi corpi
celesti allineati, illustra la prima situazione che è quella in cui il nostro satellite al plenilunio si
trova alla massima distanza rispetto al piano dell'eclittica. Per chiarezza, in questa figura e
nella successiva non sono stati rispettati i rapporti effettivi tra le distanze dei corpi celesti. La
retta congiungente la Terra con la Luna, tre giorni e mezzo prima o dopo il plenilunio, forma
un angolo di circa 45° con quella che congiunge la Terra con la Luna al plenilunio.
Indicheremo con L1 e L2 queste due posizioni del nostro satellite e con Lp quella relativa al
plenilunio. Si vede subito che è sufficiente che il raggio della sezione del cono d'ombra nel
punto in cui esso avvolge la Luna, sia uguale alla distanza del nostro satellite da Π (segmento
LpL') affinché esso si trovi proprio sulla superficie del cono d'ombra, diventando perciò
rossastro. Le distanze di L1 e di L2 da Π sono invece pari al 70% circa di LpL'. Per semplicità
trascureremo nei nostri calcoli il raggio lunare rispetto a tutte le distanze in gioco.
In figura, S è il centro del Sole e T il centro della Terra. Il segmento ST è la di stanza della
Terra dal Sole. Utilizzeremo nei calcoli il suo valore medio, che è l'unità astronomica delle
distanze planetarie. E' noto che 1 UA (Unità Astronomica) è pari a 149.600.000 km. Il
segmento S1S, ortogonale al segmento ST e che costituisce il raggio della base del cono
d'ombra su cui si trova il Sole, si può ritenere con buona approssimazione coincidente col
raggio di quest'ultimo (segmento S2S), il cui valore è di 696.000 km: ciò perché la
semiapertura del predetto cono, con i valori delle distanze in gioco, è sempre inferiore a 1°.
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Nell'ipotesi semplificativa che l'orbita ellittica della Luna sia circolare (l'eccentricità è
0,055) e tenendo presente la figura, si ha:
LpL' = DTL sin(5°,15) ;
TL' = DTL cos(5°,15) .
DTL è la distanza media Terra-Luna, che è di 384.000 km. Si ottiene così:
LpL' = 34.000 km ; TL' = 382.000 km.
Si può quindi ricavare, tenendo ancora presente la stessa figura:
tg(α) =
S1S - LpL'
.
ST + TL'
Se si ricava α da questa formula, si ottiene un valore di 0°,253 , inferiore a 1°. Se si indica
con V il vertice del cono d'ombra, si ricava allora:
L'V = LpL'/tg(α) = 7.703.000 km .
Se si indica con R c il raggio del corpo oscurante (che, come abbiamo potuto stabilire,
sottende un angolo di 30° e in figura è dato dal segmento CC 1) e con x la distanza incognita
del corpo da T, risulta:
Rc = x tg(30°) .
Ma si ha pure:
Rc = (x + TL' + L'V) tg(α)
quindi:
x tg(30°) = (x + TV) tg(α) ,
essendo:
TL' + L'V = TV.
Risolvendo quest'equazione nell'incognita x, si ottiene:
x = TV
tg(α )
tg(α )
≅ TV
.
tg (30° ) - tg(α )
tg (30° )
Eseguendo i calcoli, si determina x = 62.000 km e da questo valore si ricava subito
Rc = x tg(30°) = 36.000 km .
Nel caso in cui la Luna dovesse trovarsi nelle posizioni L 1 o L2, i valori di x e di R c sono
pari al 70% di questi.
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Occorre ora esaminare il caso in cui la Luna, al plenilunio, si trovi sulla retta passante per
ST: in questo caso il cono d'ombra prodotto dal corpo ha le stesse dimensioni del cono
d'ombra prodotto della Terra (figura 3).
(Figura 3)
Se si indica con RT il raggio medio terrestre, che è di 6370 km, e con V il vertice del cono
d'ombra, si ottiene:
tg(α) =
S1S - R T
.
ST
Anche in questo caso α è inferiore a 1° (0°,264). Quindi:
TV = RT/tg(α) = 1.382.000 km .
Indicando ancora con x la distanza del corpo dal centro della Terra, si ha:
Rc = x tg(30°) e Rc = (x + ST + TV) tg(α) .
Operando come in precedenza, si ricava:
x = 11.000 km , e quindi: Rc = 6.400 km .
Questi risultati consentono subito di stabilire le caratteristiche fisiche di questo corpo.
Nell'ipotesi che questo abbia forma sferica, anche attribuendogli una densità quasi uguale a
quella dell'acqua (come quella di Saturno), un diametro che può variare da un valore che è
uguale a quello della Terra a un valore che è la metà di quello di Giove comporterebbe una
massa in grado di provocare, con la sua attrazione gravitazionale, lo sbriciolamento del globo
terrestre addirittura a distanza, anche in assenza di collisione.
Queste semplici considerazioni sembrerebbero privare di ogni attendibilità le profezie
bibliche, ma non è così. Nulla infatti vieta di supporre che il corpo non sia massiccio, ma sia
costituito da una ammasso di piccoli corpi, distribuiti lungo la sua orbita, che dovrebbero
conferire a questo oggetto celeste un aspetto simile a quello che presentano le comete, ma una
struttura come quella degli anelli di Saturno, costituiti, come sembra, dai frammenti di un
satellite sbriciolato dall'attrazione gravitazionale del pianeta. Questi piccoli corpi potrebbero
quindi essere i frammenti di un corpo inizialmente compatto e andato in pezzi dopo una
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collisione con un altro corpo, come spiegheremo meglio più avanti. Allora la massa effettiva
di questo corpo potrebbe essere molto contenuta e tale da non produrre a distanza la
distruzione della Terra. Questa nostra ipotesi sembra rafforzata sia dal paragone calzante col
"sacco di crine" (che lascia sempre passare dai suoi interstizi un po' di luce quando lo si tiene
disteso in direzione del Sole), sia dalla descrizione del bombardamento meteorico che
dovrebbe aver luogo dopo l'avvicinamento massimo di questo oggetto, quando la Terra
intercetterà una parte dei frammenti del corpo. Quindi, per quanto devastanti, queste
numerose collisioni non porterebbero alla distruzione completa del nostro pianeta, come le
stesse profezie lasciano intendere.
I limiti ricavati poc'anzi entro cui può variare il diametro del corpo e la sua distanza dalla
Terra sono piuttosto ampi. Per eliminare queste incertezze e per determinare un valore
possibile per la distanza minima effettiva del nostro corpo, nel rispetto delle condizioni
imposte dalle dimensioni del suo cono d'ombra, bisogna ricorrere alla meccanica celeste.
Allora è necessario fare delle ipotesi sull'orbita di questo corpo. Le profezie sono molto
esplicite sul fatto che esso non sarà visibile prima dell'eclisse prodotta dal suo passaggio,
perché giungerà di sorpresa. Se dunque apparirà per la prima volta vuol dire che esso proverrà
da regioni remote dello spazio interplanetario: la sua orbita dovrà dunque presentare un
semiasse maggiore lungo parecchie unità astronomiche, ma dovrà consentire al corpo di
avvicinarsi abbastanza al Sole in modo da tagliare l'orbita della Terra. Queste condizioni
comportano un'eccentricità molto elevata per l'orbita che può allora essere studiata come se
fosse parabolica, perché alla distanza Terra-Sole la differenza con un'orbita ellittica molto
allungata è assolutamente trascurabile. Il fatto che un corpo così grosso non sarà avvistato nel
cielo durante la fase di avvicinamento alla Terra non deve stupirci: ciò infatti accade per tutti
quei corpi celesti (come le comete e gli asteroidi) che, durante questa fase, si spostano in
modo da apparire dalla Terra sempre vicini alla posizione del Sole, che, abbagliandoci, ci
impedisce di avvistarli. Si può dimostrare che, per località aventi latitudini comprese tra i 32°
e i 50° (come quelle dei più popolati paesi dell'Europa e dell'Asia), questa condizione
comporta che la direzione di provenienza del corpo dovrà formare con la direzione del Sole
un angolo non superiore a 30°. Questa condizione si traduce nel fatto che l'orbita non dovrà
avere una distanza del perielio (dal Sole) - che si indica con "q" in meccanica celeste superiore a 0,5 UA. Il corpo dovrà inoltre spostarsi con moto diretto (come è quello della
Terra e dei pianeti) in modo da affiancarsi alla Terra durante l'eclisse per un certo tempo,
prima di collidere con essa; il piano della sua orbita dovrà perciò coincidere col piano
dell'eclittica.
Intanto possiamo cercare di stabilire quando dovrebbe verificarsi questa serie di eventi così
spaventosi. Gesù ha chiaramente precisato che "questa generazione (γενεά) non passerà prima
che tutte queste cose siano avvenute". La traduzione di γενεά con "generazione" è, a nostro
avviso, poco felice, perché può allontanare dal significato di "stirpe", "discendenza", che la
stessa parola greca può avere. Gesù voleva dunque precisare che gli ultimi avvenimenti si
dovranno verificare quando sarà trascorso, a partire dal momento in cui egli faceva questa
profezia, un periodo di tempo inferiore a quello trascorso dall'inizio della generazione
adamitica, cioè dal momento in cui fu creato Adamo. Peraltro, il vangelo secondo Matteo e
quello secondo Luca riportano dettagliatamente la genealogia di Gesù, che risale fino ad
Adamo. Con questa nostra interpretazione, la figura di Cristo si troverebbe temporalmente
proprio a metà tra la creazione e la fine del mondo.
Per stabilire l'anno in cui ebbe inizio la generazione adamitica sono stati fatti, anche in
passato, diversi studi. Il più noto è quello dell'arcivescovo irlandese James Ussher (15801656), che faceva risalire al 4004 a.C. l'anno della creazione di Adamo. Più recente è quello
dei Testimoni di Geova, che spostano questa data al 4024 a.C. Infine, il calendario ebraico
ortodosso inizia dal 3761 a.C., anno della fondazione del mondo. Il divario tra queste date è
scoraggiante, perché si può soltanto presumere che gli avvenimenti finali dovranno verificarsi
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prima della fine del prossimo millennio, sempreché questa nostra interpretazione sia giusta.
Comunque bisogna tenere presente che ci sono due buone ragioni che impedirono la
rivelazione di questa data, come si evince dalla lettura dei passi biblici che riportano il
discorso escatologico di Gesù. La prima è che le ultime catastrofi giungeranno di sorpresa per
mettere alla prova coloro che avranno conservato la fede e che dovranno perciò restare sempre
vigili; la seconda è che queste stesse catastrofi porteranno alla distruzione dei malvagi, i quali
non dovranno avere la possibilità di prevederle e di mettersi quindi in salvo. Tuttavia, per
coloro che, come noi, non dovrebbero prendere parte agli ultimi avvenimenti (se questo nostro
studio corrisponde a verità), resta, anche se vaga, un'indicazione che, se da una parte può
appagare in qualche modo la curiosità, dall'altra costituisce un monito per noi e per le future
generazioni che dopotutto non manca molto al compimento dei disegni divini. Poi, se si tiene
presente che il regno dell'Anticristo si concretizzerà con la conquista del potere politico
mondiale da parte di un unico dittatore, è possibile che, con la presenza attuale di poche
superpotenze, si assista all'avvento dell'anticristiana tirannide prima della fine del presente
millennio. Dopo il periodo di "pace universale" di mille anni, tenendo conto che un certo
tempo sarà necessario all'ultimo Anticristo per organizzare un attacco contro Gerusalemme,
l'ipotesi che gli ultimi tempi arriveranno alla fine del prossimo millennio potrebbe essere
fondata. In ogni caso queste considerazioni portano a giudicare false, allarmistiche e
tendenziose tutte le voci che oggi ancora annunciano con ridicola sicurezza che la storia
umana finirà tra qualche anno e che si avvalgono delle stesse superficiali argomentazioni
utilizzate anni fa da altri ciarlatani per stabilire per l'anno 2000 la fine di un mondo che
continua ancora ad esistere, tranquillo, a dispetto delle loro asserzioni. Fortunatamente il
numero dei "falsi profeti" sembra diminuito dopo il mancato avverarsi delle loro predizioni;
ma il loro insuccesso ha anche screditato le stesse profezie che hanno voluto interpretare. Ma
torniamo al nostro corpo celeste.
Adottando una distanza q = 0,5 UA, si ottiene per il corpo l'orbita riportata nella figura 4
insieme con l'orbita della Terra.
(Figura 4)
Da questa figura il lettore può facilmente verificare che la direzione secondo la quale il
corpo è visto dalla Terra, andando indietro nel tempo rispetto all'istante del massimo
60
avvicinamento, non forma mai con la direzione del Sole un angolo maggiore di 30°, tenendo
presente che un mese prima dell'impatto il corpo si trova al perielio P e la Terra nel punto T 0 .
La figura 5 è stata ricavata con l'ausilio del computer (da noi programmato per risolvere vari
problemi di meccanica celeste) e mostra le posizioni della Terra e del corpo a distanza di 24
ore.
(Figura 5)
Si vede che quando la Terra è in T 1, T2, ... , T6 il corpo è in C1, C2, ... , C6 . Ebbene, prima
dell'impatto, la velocità del corpo è tale da farlo spostare troppo rapidamente rispetto alla
congiungente Terra-Sole ed occorre perciò attribuire al corpo una coda di considerevole
lunghezza perché si possa avere un'eclisse della durata di qualche giorno. Ciò avviene perché
la velocità del corpo sull'orbita è continuamente variabile e diminuisce via via che aumenta la
sua distanza dal Sole. La velocità della Terra sull'orbita è invece pressoché costante perché
varia pochissimo la sua distanza dal Sole. Con una distanza q = 0,4 UA si ha invece, qualche
giorno prima dell'impatto, uno spostamento del corpo troppo lento rispetto alla congiungente
Terra-Sole e l'eclisse non potrebbe verificarsi (figura 6).
61
(Figura 6)
Invece una distanza q = 0,45 UA soddisfa pienamente la condizione richiesta per l'eclisse.
Come si evince dalla figura 7, l'eclisse può iniziare tre giorni prima dell'impatto; poi il corpo e
la Terra si spostano in modo da restare allineati col Sole durante questo tempo. In questo caso
lo sviluppo del corpo lungo la sua orbita può essere modesto.
(Figura 7)
Intanto possiamo subito stabilire a quale distanza dalla Terra il corpo comincerà a eclissare
il Sole. Supponiamo che il raggio apparente del corpo abbia il valore massimo che avevamo
62
trovato attraverso le condizioni imposte dalle dimensioni del suo cono d'ombra (cioè R c =
36.000 km); se indichiamo con γ l'angolo sotteso dal raggio del disco solare, che ammonta a
0°,25, si ottiene subito che la distanza D del nostro corpo dalla Terra affinché esso oscuri
completamente il Sole è dato da: D = R c ∕ tg(γ) . Con il valore di R c ipotizzato, si ottiene D =
8.250.000 km. Questa è quasi esattamente la lunghezza del tratto percorso intorno al Sole
dalla Terra in tre giorni, come si può facilmente verificare tenendo conto che la sua velocità
media sull'orbita è di 29,9 km/s; tre giorni è anche, come abbiamo trovato poc'anzi, il tempo
richiesto dall'orbita del corpo! Allora il valore effettivo del raggio di quest'ultimo deve essere
vicino a quello massimo che avevamo determinato.
Esaminiamo ora l'ultima figura (8), che riporta le posizioni del corpo e della Terra poco
prima dell'impatto.
(Figura 8)
Le loro orbite si possono assimilare, per un breve tratto, a segmenti rettilinei. L'angolo
secondo cui l'orbita del corpo taglia quella della Terra è di circa 45°; ma la velocità dal corpo
su un'orbita parabolica alla distanza di 1 U.A. è esattamente uguale a √2 volte la velocità della
Terra: pertanto, di quanto si sposta il corpo sulla sua orbita, di tanto si sposta la Terra sulla
sua: entrambi vengono perciò a trovarsi sempre allineati col Sole.
Quando il centro del corpo si trova in C 1 e quello della Terra in T 1, il corpo sottende un
angolo di circa 30°. Successivamente, quando il corpo e la Terra sono rispettivamente in C 2 e
in T2, l'angolo sotto cui è visto il corpo diventa di 50°; la macchia scura circolare che appare
sul cielo, oltre a dilatarsi, comincia a spostarsi lentamente verso destra, mantenendo sempre il
suo centro sull'eclittica. Con il corpo in C 3 e la Terra in T3 siamo al massimo avvicinamento e
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l'angolo sotto cui è visto il corpo è di 60°. Poi la macchia scura appare spostarsi velocemente,
sicché le stelle sembreranno come segnate su un rotolo di pergamena che via via si avvolge
facendole sparire. Con la Terra in T 4 e il corpo in C4 siamo nella fase in cui il nostro pianeta
collide con i frammenti che costituiscono la "coda" del corpo, attraversandone il tratto AB.
Tutte queste considerazioni restano valide se la massa complessiva dei frammenti che
costituiscono il corpo è dello stesso ordine di grandezza della massa lunare: infatti, essendo il
campo gravitazionale terrestre preponderante rispetto a quello solare fino a una distanza dal
centro della Terra di poco inferiore a tre volte la distanza Terra-Luna, l'ultimo tratto
effettivamente percorso dal corpo prima della collisione cambierebbe poco rispetto a quello
rettilineo ipotizzato. In ogni caso, a causa dell'avvicinamento molto stretto con la Terra, il
corpo, nell'allontanarsi da questa, seguirà un'orbita diversa da quella ipotizzata e forse tale da
non intersecare più quella terrestre.
I frammenti del corpo principale che lo seguono a ridosso, collideranno con la Terra
liberando energie enormi; le rocce terrestri colpite da questi corpi e i corpi stessi fonderanno
quasi istantaneamente e il materiale fuso sarà scagliato lontano dai punti di impatto. Le
collisioni provocheranno la formazione di crateri che potranno anche avere dimensioni tali da
alterare l'orografia delle zone colpite, mentre le distese marine saranno violentemente spinte
verso la terraferma, dando origine a spaventosi maremoti, se non spariranno addirittura. I
corpi di dimensioni più contenute produrranno un numero elevatissimo di meteore (le
cosiddette "stelle cadenti"). Ebbene, non è forse questo lo scenario descritto dalla Bibbia?
Tuttavia questo nostro studio potrebbe apparire a qualcuno una costruzione imbastita da noi
abilmente per fare tornare i conti a favore di un modello prestabilito. Anche se ciò sarebbe a
tutto vantaggio dei nostri meriti, teniamo a fare presente che il modello che abbiamo utilizzato
per spiegare i fenomeni descritti nella Bibbia e che è scaturito da considerazioni semplici ma
rigorosamente concatenate e suffragate da conferme indipendenti, richiede, per il rispetto
delle leggi fisiche, certe condizioni così severe e concomitanti, da escludere ragionevolmente
un suo successo per circostanze da noi volute oppure casuali. In altre parole, soltanto una
descrizione di eventi che realmente si potranno verificare può reggere di fronte a tante
condizioni limitative imposte dalle leggi fisiche.
Passiamo ora alla descrizione degli eventi che la scienza oggi annovera tra le possibili cause
di una distruzione su vasta scala della superficie terrestre. Non prenderemo in esame la
distruzione, tra cinque miliardi di anni, causata da un'espansione del Sole che, trasformandosi
in una gigante rossa, avrà un raggio che si estenderà fino all'orbita di Marte. Resta il pericolo
di un impatto con un asteroide. Impatti si sono effettivamente verificati in passato, come è
testimoniato da numerosi crateri che, nonostante i fenomeni di erosione, ancora sono
chiaramente visibili e sono stati accuratamente studiati. Le varie estinzioni di massa,
riguardanti cioè la scomparsa di molte specie viventi (come i dinosauri) sono state infatti
attribuite a periodiche cadute di comete, provocate da un'ipotetica stella legata
gravitazionalmente al Sole e chiamata Nemesis; questa, avvicinandosi periodicamente a
quell'enorme serbatoio di comete chiamato "Nube di Oort" - che circonda il Sole come un
guscio e che si estende fino a 80.000 UA - potrebbe aver provocato la caduta di questi corpi
verso la parte più interna del Sistema Solare e quindi verso la Terra. Fino ad oggi Nemesis
non è stata trovata e ormai gli astrofisici ritengono improbabile questa ipotesi.
Nel secolo scorso due impatti spettacolari relativi a oggetti celesti appartenenti al Sistema
Solare sono stati visti e documentati. Il primo è quello del cosiddetto "Meteorite della
Tunguska", che nel 1907 causò in Siberia un'estesa distruzione di taiga, essendosi liberata con
la collisione un'energia di parecchi megaton. Il secondo è quello della cometa ShoemakerLevy su Giove, avvenuto nel luglio del 1994. Questa cometa, prima di sprofondare
nell'atmosfera del pianeta gigante, si era divisa in 25 frammenti; questi, con la loro caduta,
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produssero nel sistema nuvoloso gioviano squarci di tali dimensioni da risultare visibili con
strumenti modesti.
Tuttavia qualcosa di più inquietante sembra esserci al di là di Plutone. Questo piccolo
pianeta fu scoperto perché il moto di Urano, anche dopo la scoperta di Nettuno, presentava un
moto perturbato che con la sola presenza di quest'ultimo pianeta non si poteva spiegare. La
caccia ad un possibile pianeta transnettuniano portò, nel 1930, alla scoperta di Plutone. Ma si
comprese subito che un pianeta così lontano e più piccolo della Luna non avrebbe mai potuto
perturbare il moto di Urano in modo apprezzabile. Ebbene, negli anni Settanta ci fu l'annuncio
della scoperta della presenza di un pianeta transnettuniano attraverso le perturbazioni che
questo avrebbe prodotto sulla cometa di Halley; ma le ricerche per rintracciarlo nella zona
dove si sarebbe dovuto trovare risultarono infruttuose, forse perché i corpi perturbatori
potevano essere più di uno.
Intanto già da alcuni anni è stata scoperta una serie di oggetti di tipo asteroidale nella fascia
che si estende fino a una distanza pari a circa il doppio della distanza media di Nettuno dal
Sole e che è stata chiamata "Cintura di Kuiper", nella quale dovevano trovarsi soltanto comete
a corto periodo. Questi oggetti sono indicati con la sigla TNO (Transnettunian Object). Ad
eccezione delle comete, le cui orbite possono estendersi fino alla nube di Oort, non si pensava
alla presenza di altri oggetti di dimensioni cospicue al di là di questa cintura. Recentemente
sono stati invece scoperti asteroidi aventi gli afeli che andavano ben oltre; le loro orbite erano
tutte comprese in una superficie cilindrica molto schiacciata, che è stata perciò chiamata
"disco diffuso". Ma ancora una volta recentissime scoperte hanno costretto gli astronomi a
rivedere questo quadro. Un nuovo oggetto, avvistato nel febbraio del 2000 e chiamato 2000
CR105 , presenta un'orbita avente un semiasse di ben 216 UA, un periodo di 3174 anni e un
diametro di circa 400 km. Una delle ipotesi più probabili avanzate dagli esperti di meccanica
celeste è che un'orbita così stabile - perché esente dalle perturbazioni del lontano Nettuno - sia
dovuta all'influenza di uno o più "embrioni planetari", o "protopianeti", aventi una massa
paragonabile a quella di Marte o a quella della Luna; questi, costituiti da materia della
nebulosa primitiva che ha dato origine al Sistema Solare, non sarebbero stati in grado di
catturare altra materia e formare, per accrezione, pianeti grandi come Urano e Nettuno.
L'ipotesi della presenza di un Decimo Pianeta, avente una distanza del perielio quasi uguale
all'afelio di 2000 CR105, torna dunque a riaffacciarsi. Poiché si suppone che alcuni oggetti
della fascia di Kuiper vengano scagliati da Nettuno sia verso il Sole che lontano da questo, noi
pensiamo che possa essere avvenuta una collisione di uno di questi corpi con un protopianeta,
andato perciò in frantumi e frenato nel suo moto di rivoluzione al punto da "cadere" quasi
verso il Sole secondo un'orbita molto allungata; protopianeta (o ciò che resta di esso) che
potrebbe essere proprio il corpo che abbiamo ipotizzato in questo nostro studio.
Da queste considerazioni si evince che gli eventi catastrofici annunciati dagli scritti biblici
confermerebbero anche i modelli più recenti della configurazione del Sistema Solare! Ci
sembra perciò improbabile che tutto ciò possa essere frutto del caso; ma allora dobbiamo
trovare una risposta alla domanda: come potevano i profeti, quasi 3000 anni fa, avere
conoscenze astronomiche e matematiche tali da annunciare fenomeni che soltanto oggi
riconosciamo come possibili? Non ci sono che queste due spiegazioni.
La prima, la più ovvia per il credente, è che "Dio sa tutto e i profeti, suoi messaggeri, non
potevano che descrivere la realtà". Indubbiamente questa spiegazione soddisfa pienamente le
esigenze di chi ha fede, scienziato o no che sia, e non richiede ovviamente ulteriori
precisazioni.
La seconda deve invece valere per coloro che non ritengono Dio una necessità. Questa
concezione si è diffusa da quando la moderna cosmologia ha dimostrato che quella
dimensione fisica che chiamiamo tempo ha cominciato a esistere da quando si è formata la
materia, ossia un istante dopo il Big Bang, la Grande Esplosione con la quale è nato l'universo
circa 15 miliardi di anni fa. Poiché non è possibile spingerci indietro nel tempo prima di
questo periodo, il problema della presenza di un essere che, esistendo prima di questo evento,
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avrebbe creato l'universo per farlo poi apparire dopo il Big Bang, non si pone nemmeno:
difatti tutto ciò che c'era prima di questo evento non ha significato nel mondo fisico. Inoltre
gli atei affermano che un essere infinito è pur sempre indefinito e quindi inconoscibile, tant'è
che la sua concezione non è unica per ogni credente, ma resta del tutto dipendente da colui
che la formula e dalla civiltà alla quale egli appartiene. Ma allora l'ateo dovrà ammettere che,
se la conoscenza e quindi la previsione di certi fenomeni naturali è impossibile se non si
hanno a disposizione i necessari strumenti scientifici, una civiltà tecnologicamente più
avanzata della nostra (che qui chiameremo superciviltà e che costituisce la spiegazione
alternativa a quella che si collega a Dio) deve avere istruito i profeti senza lasciare altre tracce
della sua presenza. Difatti i pochissimi e misteriosi reperti archeologici, che alcuni ritengono
oggetti in grado di svolgere le stesse funzioni di quelli inventati nell'era moderna, hanno
generato fino ad oggi incredulità e diffidenza.
Ma ora ci sembra di sentire un coro di voci che grida "E' la prova dell'esistenza di
Atlantide!". Già! Ma gli "atlantologi" dimenticano che l'unica cosa meravigliosa descritta da
Platone erano gli edifici di Atlantide, rivestiti di oro, bronzo e oricalco (lega simile all'ottone);
le navi più grandi che potevano accedere al porto erano le triremi, che però già esistevano tre
secoli prima di Platone! Nulla lascia pensare a invenzioni straordinarie descritte da qualche
visionario. Ma gli atlantologi non prendono in considerazione il fatto più importante: che
Atene, come riferisce ancora Platone, intorno al 10.000 a.C. sarebbe esistita
contemporaneamente ad Atlantide e avrebbe sconfitto col suo eroismo quest'ultima, che si
preparava a invadere il Mediterraneo. Ebbene, abbiamo forse delle prove archeologiche che
indicano una tale antichità per Atene? Non si può pensare ad Atlantide senza considerare
anche Atene, come non si può scrivere la storia di Cartagine ignorando Roma!
Per l'ipotesi di una superciviltà del passato non resta che il regno sotterraneo di Agarthi e la
sua capitale: Shamballà. Retaggio di una civiltà, forse sviluppatasi nelle regioni artiche, alla
quale, secondo la tradizione, sarebbero appartenuti gli scritti vedici, questo regno è sempre
stato oggetto di affannose ricerche e di ipotesi sconcertanti. Ci sono soltanto alcune
testimonianze che lascerebbero pensare che l'attuale sede di questo regno si trovi in caverne
sotterranee, ubicate in certe zone del Tibet o dell'Himalaia e collegate da gallerie che
avvolgerebbero tutto il globo. Purtroppo lo spesso velo disteso dall'esoterismo da sempre ha
impedito a quasi tutti di saperne di più.
Facciamo presente al lettore che è in corso di pubblicazione un nostro libro, avente lo stesso
titolo di questo articolo, nel quale abbiamo trattato diffusamente tutti gli argomenti che qui
abbiamo dovuto esporre sommariamente. Nel libro abbiamo indicato la nostra soluzione di
altri problemi, come quello riguardante il periodo dell'anno in cui avverrà la catastrofe finale e
quello della localizzazione delle zone della Terra dove cadranno i frammenti maggiori. C'è
anche uno studio sulle cause che provocarono le tenebre al momento della crocifissione di
Gesù e una rassegna delle ricerche del mondo sotterraneo di Agarthi che sono state intraprese
anche in passato.
Concludiamo facendo presente che questa nostra interpretazione del testo biblico è partita
dal presupposto che esso potesse contenere una verità scientifica e ha portato alla conclusione
sconcertante che questo presupposto era vero. Ma se qualcuno volesse giudicare
superficialmente e senza un metodo di studio rigoroso questo libro sacro, considerandolo per
partito preso soltanto l'opera di visionari, rischierebbe di commettere lo stesso errore che la
Chiesa commise - a causa della scarsa conoscenza che allora si aveva del mondo fisico quando condannò Galileo: in questo caso sarebbe la Bibbia a essere condannata; ma è bene
meditare sul fatto che all'origine di questi errori c'è sempre l'incompetenza di chi condanna.
66
----Francesco Vitale è nato a Torre Annunziata (NA) nel 1944. Si è laureato a
Napoli in Ingegneria Elettronica nel 1969. Nel tempo libero si occupa, da
diversi anni, di archeologia e di astronomia, dedicandosi allo studio e alle
osservazioni delle meteore e dei corpi del Sistema Solare. E' anche
collaboratore scientifico di varie riviste - tra le quali l'astronomia diretta da
Margherita Hack - ed è attivo, come conferenziere, nella divulgazione delle
varie discipline che sono oggetto delle sue ricerche. Recentissimo è il suo libro
Astronomia ed esoterismo nell'antica Pompei e ricerche archeoastronomiche a
Paestum, Cuma, Velia, Metaponto, Crotone, Locri e Vibo Valentia (CLEUP,
Padova, 2001), in cui egli propone, tra l'altro, una nuova chiave di lettura dei
misteriosi "quadrati magici".
Via Nazionale, 144
89060 Saline Joniche (Reggio Calabria)
Telefono e fax: 0965-782184
*/*/*/*
La collisione di un oggetto celeste con la Terra
come immaginata in http://www.ciai-s.net/Apocalisse.htm
67
Faustino Perisauli, poeta romagnolo,
precursore di Erasmo da Rotterdam
(Tredozio - Forlì, 1450 c.a - Rimini, 2 dicembre 1523)
(Giorgio Taboga)
La prima volta che intesi il nome di Faustino Perisauli fu alla fine di settembre 1995. Passavo
allora per le dolci colline tosco-romagnole rientrando da Firenze, dove mi ero recato per delle
ricerche sull'ignorato musicista veneto Andrea Luchesi (Motta di Livenza 1741 - Bonn 1801),
maestro a Bonn di Ludwig van Beethoven ed autore di musica oggi circolante sotto i nomi di
Joseph Haydn e Wolfgang Mozart. Avevo dato una copia del mio libro Andrea Luchesi. L'ora
della verità, più un'indagine biografica che una ricerca musicale sul Luchesi, all'avvocato
Luigi Bonfante di Tredozio, al quale mi lega un'amicizia nata oltre trent'anni orsono, e quel
giorno - ricordo ancora la calorosa accoglienza di sua moglie Lina che vidi per l'ultima volta Bonfante mi parlò di Faustino e mi procurò in Comune una copia del De triumpho stultitiae.
Pochi giorni dopo, mi giunse a Silea anche il testo della conversazione tenuta da mons.
Giannino Fabbri presso il Rotary Club di Forlì il 17 marzo 1964. Allegato un biglietto
dell'amico Luigi:
"Caro Giorgio, il testo della conferenza di Mons. Fabbri è saltato fuori poco dopo la tua
partenza. E' estremamente interessante. Tu con il tuo fiuto poliziesco non mancherai di tirare
fuori altri validi argomenti. Attendo tue notizie".
L'esame accurato che dedicai alla documentazione di cui ero venuto in possesso mi convinse
che, per un giudizio preciso sul ruolo svolto dal poeta tredoziese nella vita letteraria europea,
era necessario dare risposta definitiva al quesito posto da Giovanni Papini ancora nel 1936 e
da mons.Fabbri nel 1964: il De triumpho stultitiae di Faustino da Tredozio precede la Laus
stultitiae di Erasmo da Rotterdam? Dopo aver controllato gli elementi forniti da Alberto
Viviani nell'introduzione al Triumpho (ed. 1964) e valutato la serie impressionante di passi
quasi identici esibiti da mons. Fabbri a dimostrazione della dipendenza di un testo dall'altro e quindi della priorità del Triumpho - consultai diversi trattati1 e, pur condividendo la visione
di mons.Fabbri, conclusi allora che la soluzione definitiva era al di fuori della mia portata.
Certamente più competente di me in materia, e perciò maggiormente in grado di reperire
eventuali prove della precedenza di Faustino (un manoscritto o un incunabolo) era il dr.Emilio
Lippi, direttore della Biblioteca civica di Treviso, interessato anche ai rapporti intercorsi tra
Faustino e l'ambiente veneto, in particolare, come allora pareva, con il domenicano di Treviso
Francesco Colonna, autore della Hypnerotomachia Poliphili apparsa a Venezia presso Aldo
Manuzio nel 1499 ma scritta molto prima.2 Sopravvenute difficoltà hanno impedito al dr.
Lippi di dedicarsi alla ricerca su Faustino ed allora il Comitato ha chiamato me a contribuire
alla riscoperta del poeta tredoziese per quanto scrissi nel mio libro L'assassinio di Mozart del
giugno 19973:
"(…) la prosaica verità non è commerciabile come la leggenda. Lo sapeva già Erasmo da
Rotterdam quando, sullo spunto fornito dal modesto Faustino Perisauli da Tredozio, scriveva
nel suo "Elogio della follia": "E' più facile catturare l'interesse di un uomo con l'inganno che
farlo diventare accanito sostenitore della verità".
Affidavo ad una nota le mie convinzioni:
68
"Erasmo da Rotterdam potè conoscere il "De triumpho stultitiae" del prete romangolo
nell'anno in cui fu correttore di bozze per Aldo Manuzio, a Venezia, tra il 1508 ed il 1509. Il
silenzio conservato da Erasmo sul lavoro del Perisauli trova la sua giustificazione nel fatto
che gli artisti ed i giornalisti sono particolarmente restii a far conoscere le loro fonti, consci
dell'aureo adagio "Facile inventis addere"."4
L'accenno alla dipendenza del "grande" Erasmo da Faustino mi procurava l'immeritata nomea
di "studioso toscano". Su "Il Resto del Carlino" del 23 ottobre 1997 si può leggere:
"Tutto ciò, per quanto appaia clamoroso, non è altro che una "riscoperta". Infatti attorno
agli anni '60, Don Giannino Fabbri, ecclesiastico ed uomo di cultura tredoziese, traducendo
il "De triumpho stultitiae", rilevò l'affinità tra quest'opera e l'"Elogio" di Erasmo. Il parere di
Don Fabbri fu confermato dallo studioso fiorentino Alberto Viviani, il quale girò la questione
ad un suo illustre concittadino: lo scrittore Giovanni Papini. E pare che lo stesso Papini si
convincesse della fondatezza di quest'idea, tanto che avrebbe fatto presente la questione in un
suo viaggio in Francia5. Su Perisauli si tenne anche, negli anni '60, un convegno a Forlì. Poi
la vicenda venne dimenticata, complice anche il disinteresse dimostrato a Tredozio".
A questo punto pare possano essere parzialmente iscritti a mio merito il rinato interesse per
Faustino del Comitato per la valorizzazione culturale di Tredozio e la decisione di dare
soluzione ai quesiti posti da Don Giannino Fabbri. E' questa la sola ragione per la quale mi
sono ritrovato qui oggi, 23 maggio 1998 - cornacchia tra le muse direbbe Erasmo - a parlare
del poeta latino Perisauli, recte Pier Paolo Fantini dal Casone di Tredozio, avvocato d'ufficio
in una causa che meriterebbe un patrocinio di ben altra levatura. Fortunatamente,
dall'apparizione dell'Assassinio del giugno 1997, la situazione si è evoluta in senso positivo, e
questo mi consente di contribuire alla riscoperta di Faustino con notizie certe e definitive.
L'amico Bonfante ha segnalato il passo relativo a Faustino del mio libro sulla morte di Mozart
al collega Gianfranco Fontaine di Bologna, proprio colui che ospita questo convegno nello
storico palazzo Fantini in Tredozio. L'avvocato Fontaine non solo ha riscoperto tra le carte di
famiglia la "Genealogia dei Fantini del Casone di Tredozio", scritta dal canonico Giovanni
Mini a Castrocaro nel 1902, ma ha anche localizzato altri tre esemplari (di tre diverse
edizioni) del Trastullo, che si aggiungono alla due già note al Mini. Uno si trova in Bologna
(datato 1504), il secondo fu battuto da Christie's in un'asta del 1996 ed il terzo si trova alla
Biblioteca Trivulziana di Milano. Quest'ultimo, datato 1492, ci fornisce un preciso riferimento
per la datazione del Triumpho, che lo stesso Faustino definisce come il suo primo lavoro
poetico6. Grazie ad esso ed alla "Genealogia dei Fantini" del canonico Mini disponiamo oggi
di un preciso riferimento temporale che ci ha consentito di chiarire in via definitiva i dubbi di
Papini, Viviani e mons. Fabbri: il Triumpho precede sicuramente - e non di poco - la Laus
stultitiae di Erasmo da Rotterdam.7
Anche lo scambio Faustino-Fantino non è necessariamente un errore. Tutto fa ritenere che sia
stato lo stesso Pier Paolo Fantini, allora forse non ancora prete, a celarsi sotto il nom de plume
di Faustino in modo particolare per il Triumpho, il cui contenuto si prestava a critiche dal
punto di vista dell'ortodossia. Possediamo poche notizie certe sul poeta; si sa che prima di
divenire prete fu precettore presso una famiglia nobile - forse quella dei principi Colonna
signori di Preneste. Il mestiere di carpentiere, che si sa esercitato dal padre, fa ritenere che
Faustino non discendesse dal ramo principale della nobile famiglia Fantini del Casone di
Tredozio, ma il fatto che anche suo fratello fosse sacerdote ci autorizza a ritenerlo di famiglia
agiata e di buona cultura. Forse si trattava di famigli che avevano assunto il nome dei nobili
padroni, come succedeva allora anche nel Veneto, dove un cognome nobile non comporta
necessariamente l'appartenenza alla nobiltà8. Molto rimane ancora da chiarire delle vicende
umane e letterarie di Faustino, specialmente i suoi rapporti con l'umanista tedesco Francesco
Rufo Muziano, della cerchia dell'Hutten, che nel 1524 dettò l'epitaffio di Faustino e curò
69
l'edizione postuma del Triumpho, ma uno dei grandi interrogativi che condizionavano gli studi
sul poeta è stato risolto: il De triumpho stultitiae precede la Stultitiae laus di Erasmo, a
conferma delle intuizioni del "cieco veggente" Papini (1936) e delle deduzioni di Alberto
Viviani e di mons. Giannino Fabbri (1964). Scrive infatti il canonico Mini:
"Il primo ad apparire di queste omonime famiglie è un Pier Paolo Fantini il quale, verso la
fine del '400 9, contrapponendo al "Sonaglio delle donne" di Giovanni Battista Giambullari
un suo "Trastullo intorno le donne da far ridere" si rese non solo favorevole al bel sesso ma
si acquistò fama presso i posteri anche di letterato e di poeta popolare, come lo furono il
Pistoia e Belisario da Cingoli. Quest'operetta, senza indicazioni tipografiche di luogo né di
tempo al principio ha: "Trastullo delle Donne da far ridere" compilato per il culto giovane
Pier Paolo Phantino da Tredozio, castello di Romagna. Comincia: "Ad libellum suum. Non fò
rime dantesche o verso alchayco". Se ne conserva un esemplare nella Regia Biblioteca di
Monaco di Baviera (…) e ne fu acquistato un altro dalla Regia Biblioteca Riccardiana di
Firenze. Accrebbe poi in sé questa fama per diverse altre composizioni di argomento
consimile, specie per le due operette latine che hanno per titolo "De triumpho stultitiae" e
"De honesto appetitu", le quali riscossero gli elogi dei letterati suoi contemporanei e della
pubblica stampa e procurò a Tredozio sua patria il merito di avere un posto nella nostra
letteratura".10 Queste operette sono oggigiorno rarissime sotto il nome di Pier Paolo Fantino
da Tredozio: or di Pier Saulo Fantino da Terdocio o Tradocio, or di Fantino, Pier-Sauli ed
or di Peri-Sauli, ma nelle stampe più antiche apparisce certamente genuino 11. Il
can.Girolamo Tassinari di Faenza nelle sue "Dissertazioni sopra Tredozio" pubblicate ne
"L'industriale della Romagna Toscana" (Rocca S.Casciano presso Federico Cappelli 1858)
tessendo le biografie di alcuni uomini illustri di Tredozio, offre un piccolo cenno biografico
di questo illustre Tredoziese, ma lo dice della famiglia Perisauli e non già dei Fantini
scrivendo: Faustino Perisauli. Faustino fiorì al cominciare del secolo XVI. Fu gentilissimo
poeta latino, e le sue opere sono addivenute rarissime. In Rimini nel 1524 uscì alla luce un
suo lavoro intitolato "Petri Sauli Faustini Terdocii de honesto appetitu". Nel qual libretto è
pure un altro suo opuscolo che ha per titolo "De triumpho stultitiae, Faustinus de Terdocio" e
in una pagina dello stesso periodico aggiunge: Lettera ad un amico in cui si parla
dell'opuscolo "De leteratura faventinorum" ecc. Faenza per il Benedetti 1775 p.12. L'autore è
D. Andrea Zannoni, Biblioteca volante di Gio. Cinelli-Cavoli continuata dal dr. Dionigi
Andrea Sancassani ed. seconda I 4, p.212. In fine del "Trastullo" leggesi:
Una sol gratia donne ve dimando
Quando mi coprirà la morte obscura
Che voi veniate insieme tutte ballando
A tomularmi nella sepoltura
(…)
Et in quel sasso che 'l mio corpo copra,
Questo epitaphio sia scolpito sopra;
Qui sotto giace Phantin da Tredotio
Trastullo delle donne e riso e canto
Per cui l'hor stette sempre in festa et ocio (…).
Dove e quando morisse non è detto."12
L'attendibilità di questa relazione è comprovata dalle giacenze del Trastullo a Monaco di
Baviera ed alla Riccardiana di Firenze, dalla data del 1492 della copia trivulziana e
dall'esistenza di diverse edizioni del Trastullo senza indicazioni di luogo e data. Rimane da
chiederci se siano stati esperiti tutti i tentativi di rintracciare le fonti di cui disponeva nel 1902
il canonico Mini per stendere la sua "Genealogia". Tutto in realtà fa ritenere che, dopo
l'apparizione nel 1964 del lavoro di mons. Fabbri, la questione Faustino sia passata in
dimenticatoio, forse per la "demolizione" delle ipotesi del Fabbri da parte di certo Angelo
70
Scarpellini, l'unico ad essersi interessato al problema, di cui si dirà in appresso. Oggi si ritiene
che Faustino sia nato attorno al 1450 mentre è noto che morì il 2 dicembre 1523. Visse
dunque la maggior parte della sua vita nel secolo XV, anche se la sua fama poetica "fiorì" nel
secolo XVI. La copia trivulziana, datata 1492, conferma che il Trastullo circolava "prima
della fine del '400" (e non è certo che si tratti della prima edizione). Sicuramente il Trastullo
non è la prima opera di Faustino, che debuttò come poeta latino con il Triumpho, da lui
definito "tyrocinia et primitiolas". La certa nascita del Triumpho prima del 1492 assicura che
il lavoro di Faustino apparve con un anticipo di circa vent'anni rispetto alla Stultitiae Laus di
Erasmo, stampata a Parigi soltanto nel 1511. Vi sono inoltre elementi suffcienti a rendere
plausibile la nascita del Triumpho tra il 1485 ed il 1490, in ogni caso prima del 1493.
Confermano la precoce nascita l'assenza nel poema di Faustino di ogni riferimento ai viaggi di
Colombo (del 1492 e posteriori), alla calata in Italia di Carlo VIII (1494) ed alle eclatanti e
burrascose vicende del ferrarese Frà Girolamo Savonarola, finito sul rogo a Firenze nel
1498.13 L'espressione "e poco fa il Poliziano" 14, riferita ai neologismi da lui inventati, è
ulteriore prova che il Triumpho nasce prima o al massimo subito dopo la morte
dell'Ambrogini, avvenuta nel 1494.
Proprio questo riferimento al Poliziano mi obbliga qui a denunziare un comportamento molto
comune alla critica italiana - potrei definirlo chauvinisme à rebours -che si sostanzia nella
negazione di prove od indizi per giungere alla sistematica svalutazione dei contributi italiani e
privilegiare i "mostri sacri" stranieri, un atteggiamento non limitato alla letteratura ma esteso
alla musica, alla pittura ed alle scienze.
Esemplare per il caso qui trattato lo studio del già nominato Angelo Scarpellini Erasmo ed i
letterati romagnoli del Cinquecento. Il merito di essersi interessato alla questione Perisauli,
ignorata dalla ricerca mondiale, non compensa il demerito di Scarpellini di aver tentato di
affossare gli studi di mons.Fabbri e di Viviani usando argomenti del tutto infondati. A lui va
addebitata gran parte della colpa per il ritardo con cui viene finalmente affrontato il problema
Perisauli-Erasmo, perché fu lui ad includere Faustino tra "la decina di romagnoli di qualche
nome nel campo delle lettere" che avrebbero "echeggiato, imitato e criticato Erasmo nel
secolo suo". Declassato ad epigono di Erasmo, Faustino venne schedato come "poeta un po'
imitatore ed un po' critico della Laus" erasmiana, togliendo agli studiosi ogni incentivo alla
ricerca. Scarpellini non si degna nemmeno di prendere in considerazione le ragioni che hanno
indotto Fabbri e Viviani ad ipotizzare la precedenza di Faustino ed afferma che il Triumpho
non è la prima opera del poeta tredoziese ma l'ultima. 15 Per smerciare la sua verità, Scarpellini
tace quanto non collima con la sua ipotesi, ad iniziare da quel "nuper Politianus" che, a lume
di logica, indica una nascita del Triumpho vivente il Poliziano o immediatamente a ridosso
della sua morte (1494) e stravolge il significato di un passo-chiave del poema di Faustino. Il
tutto aggravato dal fatto che Scarpellini si permette di offendere mons.Fabbri e Viviani, che
taccia di falsari, glissando sul più impegnativo Giovanni Papini, che cita solo en passant:
"Secondo alcuni, la Romagna avrebbe avuto anzi un precursore ed un ispiratore di Erasmo
circa la "Stultitiae Laus". Un primo accenno in proposito si deve a Papini che, nel VI
anniversario della morte del Rotterodamo16, scriveva un articolo "La pazzia di Erasmo",
ricordando un poeta romagnolo di Tredozio, in quel di Forlì, ed il suo "De triumpho
stultitiae", poemetto latino che, oltre la somiglianza del titolo, ha espressioni e frasi che si
trovano anche nell'opera erasmiana. Il moderno editore e traduttore del poemetto
Mons.Giannino Fabbri, parroco della zona tredoziese e studioso di cose locali - è mancato ai
vivi poco dopo la pubblicazione da lui dedicata al poeta conterraneo e noi porgiamo devoto
omaggio alla sua memoria17 - ha ritenuto fondata l'ipotesi che il "De triumpho stultitiae" sia
stato composto prima della "Stultitiae Laus" che, come è noto, usciva a Parigi nell'anno
1511; fissava anche un termine "prima del 1500" e trovava pieno consenso da parte
dell'introduttore del suo volume (Viviani). Non è il caso qui di rievocare le considerazioni che
hanno indotto il Fabbri ed i suoi amici alle loro conclusioni, compreso il categorico aut-aut:
71
o la"Stultitiae Laus" dipende dal "Triumpho" o viceversa. Infatti il Fabbri ha elencato diecine
e diecine di passi dell'una e dell'altra opera ponendoli di fronte; ed in confronto esclude che
si possa trattare di coincidenze ed affinità casuali: uno dei due autori "ha fatto proprie molte
espressioni dell'altro".18 In conclusione, chi avrebbe fatte proprie le espressioni altrui
sarebbe stato Erasmo - abbia egli attinto da una perduta edizione del "De triumpho
stultitiae"- l'unica conosciuta e giunta fino a noi è quella che apparentemente usciva a
Rimini, in realtà a Venezia nel 152419 - o che, durante la sua permanenza in Italia, tra il 1506
ed il 1509, abbia avuto modo d'avere per le mani il manoscritto del poemetto ancora
inedito.20 A legittimare la supposizione potrebbe contribuire il fatto notorio che Erasmo,
conforme le usanze del tempo circa i diritti di proprietà letteraria, in altre pubblicazioni non
si è fatto riguardo di appropriarsi di qualche cosa del lavoro altrui senza ricordarne l'autore
(…). Altro però è far propria un'idea altrui, o una serie di adagi da altri raccolti, altro
inserire nell'opera propria espressioni o frasi intere tolte di peso da un'altrui opera: in
questo caso quella in esametri latini del tredoziese".21
Costretto ad ammettere le ripetute "appropriazioni indebite" di Erasmo (ma lo facevano tutti!),
non potendo attribuire al caso le similarità dei due testi e mancando di seri elementi a
sostegno della precedenza di Erasmo, è veramente difficile capire il percorso logico che ha
portato Scarpellini a capovolgere le conclusioni di Fabbri-Viviani, permettendosi l'incivile
ricorso ad un'ipotetica del terzo tipo ai danni di mons.Fabbri, che si sarà rivoltato nella tomba
nel sentire così malamente distorto il significato di uno dei passi del Triumpho che
confermano la precedenza di Faustino. Scrive infatti lo Scarpellini:
"Nessuno arriverebbe a spiegare perché mai Erasmo che, a quanto scrivono i biografi, dettò
la "Stultitiae Laus" in otto giorni, abbia voluto echeggiare il volumetto dell'oscuro autore e
fargli tale onore22. Invece si trova logico e naturale che il poeta, volendo echeggiare e (…)
criticare la beffarda prosa erasmiana, ne abbia tolto ostentatamente espressioni e passi
interi. I suoi echeggiamenti, nel titolo come nel contesto del poemetto, erano necessari, in
quanto non credeva opportuno fare il nome di Erasmo, né citare scopertamente l'opera sua.
Lo stesso mons.Fabbri, se avesse avuto il tempo per tornare sull'argomento, avrebbe trovato
inevitabile ammettere che il "De triumpho stultitiae" non è stato composto "prima del 1500",
ma nei primi decenni del '500, presumibilmente poco prima della morte del suo autore
avvenuta a Rimini nel 1523. Nel II libro (…) s'accenna ai viaggi che per sete di guadagno si
affrontavano già attraverso l'Atlantico, per raggiungere l'America: "ora vai sul Gange, or nel
paese dei neri Etiopi, or torni in Occidente alle sponde dell'Irlanda; poi non ancora contenta,
di qui riparti per gli antipodi, madidi di pioggie australi <per ritornare di là con navi cariche
d'oro>23. Ciò non poteva certo avvenire immediatamente dopo la scoperta del continente
nuovo, ma solo dopo i viaggi di Vespucci, di Caboto e degli altri seguaci di Colombo, italiani
e stranieri, cioè solo agli inizi del secolo XVI".
Questo è l'argomento principale con il quale Scarpellini giunge a stabilire la precedenza della
Laus stultitiae. Dal che appare chiaro che il critico, oltre a condividere con molti agiografi
erasmiani una grossa dose di credulità che lo porta ad accettare la stesura della Laus in soli
otto giorni, evidenzia gravi carenze logiche quando accusa Faustino di aver plagiato, criticato
ma taciuto Erasmo senza indicare una plausibile ragione. Non basta infatti definire "logico e
naturale" l'ipotetico atteggiamento di Faustino nei confronti della Laus per superare l'illogicità
di fondo della situazione. L'immediata ed imponente diffusione della Laus esclude che
Faustino potesse gabellare per originale il Triumpho se scritto dopo, mentre avrebbe avuto la
massima risonanza un'aperta contestazione alla Laus, ed in questo caso sarebbe stato illogico
polemizzare tacendo il nome di Erasmo. "Logico e naturale" risulta invece il silenzio di
Erasmo sul Triumpho: sperava che il molto tempo trascorso dall'apparizione del poema di
Faustino e la sua limitata diffusione ne avessero cancellato il ricordo. 24 Scarpellini stravolge la
72
realtà: Faustino avrebbe arcaicizzato di proposito indicando il Triumpho come suo primo
lavoro (tyrocinia et primitiolas) ed aggiungendo il nuper Politianus per apparire non come
critico ma come anticipatore di Erasmo. Un falso perseguito con protervia, non tanto scaltro
da ingannare Scarpellini ma sufficiente a far "inciampare" Giovanni Papini, Alberto Viviani e
mons. Fabbri; pronto quest'ultimo a fare onorevole ammenda dell'errore se solo fosse vissuto
fino ad apprendere la verità dall'avveduto Scarpellini. Il quale dimostra tutta la sua impotentia
ratiocinandi proprio nell'interpretazione del passo del Triumpho relativo ai viaggi marittimi
che, a suo dire, dimostrerebbe oltre ogni ragionevole dubbio la precedenza di Erasmo ed è
divenuto il caposaldo della sua verità. Ma citare il Gange, i neri Etiopi (nigri Memnonis oras)
e l'Irlanda non dimostra in via assoluta che Faustino conosceva l'America posteriore ai viaggi
di Caboto ed alla lettera di Vespucci del 1504. Quelli che Faustino ha in mente sono i viaggi
africani dei portoghesi, non le traversate atlantiche di Colombo. Le navi cariche d'oro 25 che
Scarpellini, chissà perché, non cita, non sono i galeoni spagnoli al rientro dal "Nuovo Mondo"
ma le caravelle portoghesi che, dagli inizi del secolo commerciano in oro giallo e nero
(schiavi) lungo le coste africane, alla ricerca del passaggio per l'India. E' probabile che
Faustino avesse in mente uno dei tanti precursori di Bartolomè Diaz, che nel 1487 doppiò il
Capo di Buona Speranza aprendo la via a Vasco de Gama, che giungerà in India soltanto nel
1498. E' logico e naturale ritrovare nell'operetta latina del debutto la descrizione dei confini
del mondo di Faustino, e che questo mondo ancora quattrocentesco sia limitato all'Asia
(Gange), all'Africa (neri Etiopi) ed all'Europa (Irlanda). Un mondo che però conosce il
significato di termini quali "emisfero australe" e "stagione delle piogge" perché le
esplorazioni lungo le coste africane hanno familiarizzato gli studiosi europei con questi
fenomeni atmosferici esotici. In Italia, come in tutta Europa, è nota l'attività di incentivazione
alla scoperta che fin dal 1430 è perseguita da Don Enrico il Navigatore, allo scopo di
circumnavigare l'Africa sulle orme del mitico ammiraglio Annone cartaginese. Dapprima
venne doppiato il Capo No (Capo Boiador), nel 1460 si era giunti a Sud dell'attuale Dakar e
nel 1484 Diego Cao arrivò alle foci del Congo. Da decenni le navi di Dom Enrique
bordeggiavano lungo la costa occidentale dell'Africa per far commercio di schiavi negri e di
polvere d'oro. Andavano nelle ricche regioni dell'Africa occidentale: la Costa d'Oro, la Costa
d'Avorio e Malagueta, dove nasceva una qualità di pepe piccante quasi come quello dell'India
orientale. Furono i viaggi africani a consentire la traversata di Colombo grazie alla messa a
punto della caravella, una piccola imbarcazione dalle caratteristiche eccezionali. La perfetta
combinazione tra la linea dello scafo ed il piano della vela latina le consentiva di navigare più
sottovento e più veloce di qualsiasi altra nave a velatura quadra. La manovrabilità le
consentiva di raggiungere qualsiasi punto della costa africana con la certezza di ritornare
indietro. Venne così sfatata l'antica duplice superstizione che le navi non sarebbero mai
ritornate contro i venti predominanti che spiravano da Nord (alisei) e che continuando a
navigare verso Sud si sarebbe finiti nelle acque bollenti dell'Equatore. A Dom Enrique
interessa raggiungere le Indie per via marittima perché la carovaniera delle spezie è in mano
agli Arabi. Lo stesso viaggio di Colombo del 1492 mirava ad aprire alla Spagna una via delle
spezie più breve ed agevole del periplo dell'Africa. Fu per questo che Colombo, partito per
raggiungere il Cipango (Giappone) e non per scoprire un nuovo mondo, una volta giunto a
Cuba credette di essere sulle tracce del mitico Prete Gianni.
A conferma del fatto che l'esplorazione dell'Africa per giungere in India era considerata
prioritaria e che il viaggio di Colombo fu un'avventura anomala ed estemporanea, scrive
l'ammiraglio Morison:26
"Se l'intera flotta (di Colombo) avesse fatto naufragio, nessuno ne avrebbe più saputo nulla e
probabilmente l'America non sarebbe stata scoperta fino al 22 aprile 1500, quando Pedro
Alvarez, in navigazione verso la vera India, avvistò un monte della costa del Brasile".
73
Di tutto ciò Scarpellini dimostra ampiamente di non avere la minima cognizione. Se
veramente Faustino avesse inteso riferirsi alle navi che tornavano dall'America cariche d'oro,
sarebbe da accreditare la precedenza alla Laus di Erasmo, ma non vi è nulla nel testo di
Faustino che possa minimamente supportare le interpretazioni di Scarpellini. Che il Triumpho
sia anteriore al 1493, oltre che dalla data (1492) della prima edizione nota del "Trastullo",
viene confermato dall'assenza di riferimenti alla lettera del 1493 di Colombo ed alle questioni
relative alle terre scoperte, che nascono ben prima della lettera di Vespucci del 1504. E'
impensabile che nella cerchia di umanisti in cui operava Faustino fosse ignoto il viaggio di
Colombo nel 1493. Scrive sempre S. Morison:27
"Durante i tre mesi della permanenza di Colombo a Barcellona (tra il primo ed il secondo
viaggio), la notizia della sua scoperta si diffuse in Italia, specialmente per mezzo di lettere di
italiani residenti in Ispagna e attraverso la "Lettera" (…). Risulta dalle lettere e dalle
cronache dei contemporanei che le informazioni che suscitarono maggior curiosità ed
interesse riguardavano la scoperta dell'oro, gli indigeni nudi e la possibilità di convertirli.
Colombo aveva messo in evidenza questi tre particolari nella sua "Lettera" ma aveva anche
indicato una nuova rotta commerciale verso la Cina. (…) I sovrani di Spagna ed il papa
avevano accettato senza obiezioni la dichiarazione che Colombo avesse realmente raggiunto
le Indie, ma Pietro Martire d'Anghiera, un umanista italiano che si trovava alla corte
spagnola, era assai più scettico in proposito, tanto che scrisse ad un suo conoscente
sostenendo che Colombo non poteva essere arrivato in Asia, date le dimensioni del globo
terraqueo; infatti egli definisce l'Ammiraglio "Novi Orbis Repertor" nella lettera del
novembre 1493 indirizzata al cardinale Sforza. La denominanzione di Nuovo Mondo non
significava, per Pietro Martire e per altri suoi contemporanei, un continente separato e non
ancora scoperto, ma una terra sconosciuta e non descritta da Tolomeo, un gruppo di isole
adiacenti alla penisola di Malacca sarebbe stato il Nuovo Mondo. Nel 1498, Colombo giunse
alla medesima conclusione e qualche mese più tardi anche Amerigo Vespucci, al quale toccò
tutto il merito della scoperta, convinse i geografi del tempo che la terra scoperta non era
l'Asia ma un nuovo continente".
In realtà solo dopo la conquista da parte di Hernan Cortez del ricco impero azteco (1519), gli
europei appresero che il nuovo continente poteva rivaleggiare con l'Africa in quantità di oro e
di altri metalli preziosi, ma a quella data il Triumpho era stato scritto da circa trent'anni. E'
naturale che Faustino l'abbia radicato nella realtà geografica nota alla sua generazione ed è
scorretto da parte di Scarpellini parlare di America ed attribuire al tredoziese intenti
mistificatori senza alcuna prova. Ignoro se qualche altro critico sia giunto ad attribuire la
precedenza ad Erasmo sulla base di prove diverse; posso però affermare con certezza che
quelle esibite da Scarpellini sono totalmente da rigettare.
Illusosi di avere dimostrato la precedenza di Erasmo, Scarpellini si mostra generoso nei
confronti di Faustino tanto da riconoscergli un merito addirittura superiore a quello che gli
sarebbe spettato se avesse ispirato la Laus: solo il poeta di Tredozio in Italia avrebbe rilevato
le "stonature" di Erasmo in merito alla pazzia dei santi. 28 Una "permuta" lusinghiera ma
inaccettabile perché la precedenza del poema di Faustino esclude che il Triumpho possa
essere interpretato come una critica alla Laus di Erasmo29. Del tutto giustificata è anche la
mancata rivendicazione di priorità del prete Faustino nei confronti di Erasmo, il cui libello fu
in odore di eresia fin dal primo apparire. Erasmo fornisce per la nascita della Laus la falsa
data del 10 giugno 1508, quando era ancora in Italia, anticipando di circa tre anni la vera data
di stesura; un falso gratuito ed ininfluente visto che il Triumpho circolava allora da circa
vent'anni. Nella lettera che scrisse nel 1515 a Martin van Dorp, professore di teologia di
Lovanio, Erasmo ricama sulla stesura della Laus ma evita con cura ogni accenno al De
triumpho stultitiae, dal quale ha attinto a piene mani:
74
"Ero allora arrivato dall'Italia in Inghilterra ed ero ospite del mio Moro. 30 Un mal di reni mi
tratteneva da giorni in casa. I miei libri non erano ancora arrivati, e anche se li avessi avuti,
la malattia mi impediva studi troppo seri. L'ozio forzato mi indusse ad uno scherzoso elogio
della follia, e non per pubblicarlo ma solo per distrarmi dai miei mali.
Cominciata l'opera, ne offrii qualche assaggio agli amici, perché maggiore allegria ne
venisse dal ridere in compagnia. Ne rimasero entusiasti ed insistettero perché continuassi.
Obbedii, e la stesura mi prese all'incirca una settimana, un tempo che, data la leggerezza
dell'argomento, mi parve anche troppo. Gli stessi amici che mi avevano spinto a scriverlo
portarono l'opuscolo in Francia, dove fu stampato, purtroppo da una copia non solo piena di
errori ma anche mutila. La cosa mi dispiacque anche di più perché in pochi mesi se ne
diffusero sette edizioni, e in vari paesi. Di questa generale fortuna sono stato io il primo a
meravigliarmi."
Erasmo avrebbe scritto l'operetta in sette giorni e per puro diletto. La stesura può anche essere
stata rapida, ma la gestazione della Laus era iniziata in Italia almeno tre anni prima del 1511,
da quando cioè aveva avuto modo di conoscere il Triumpho di Faustino. Totalmente da
rifiutare è anche l'affermazione di Erasmo di aver scritto la Laus per puro diletto, proprio o
degli amici, perché questa pratica non rientra assolutamente nelle note e sempre molto
interessate abitudini di Erasmo:
"Fino alla metà del '700 lo scrivere per lucro invece che per la fama era considerato indice
di cattiva educazione. Solo pochi scrittori avevano ricevuto un compenso dai loro editori e se
lo avevano ricevuto, erano ansiosi di nasconderlo: Erasmo ad esempio rimase
profondamente offeso dagli accenni di alcuni colleghi italiani al fatto che Aldo Manuzio gli
aveva pagato un libro e si difese violentemente da alcune analoghe insinuazioni provenienti
da Hutten e altri. Il fatto è che egli non si vergognava davvero a spillar quattrini ai ricchi
padroni; i suoi tre viaggi in Inghilterra furono suggeriti ogni volta, come egli stesso affermò
freddamente, dalla speranza di ricevere "montagne d'oro". Ed egli ricevette dal re,
dall'arcivescovo, dai vescovi, dai lord e dai professori doni e pensioni annuali per un
ammontare di parecchie migliaia di sterline d'oggi; benefici superati soltanto dalla sua
presunzione ed ingratitudine."31
Anche Febvre e Martin ci ragguagliano sugli usi del tempo e su quelli particolari di Erasmo:
"Quando un'opera esce dai torchi, gli autori ne richiedono alcune copie, cosa più che
naturale, ed ai tempi di Erasmo prendono l'abitudine di inviarli a qualche ricco signore,
amico delle lettere, accompagnati da lusinghiere epistole dedicatorie; omaggio che il signore
saprà apprezzare e ricompensare con un regalo in denaro. Nel secolo XVI la cosa appare
lecita ed onorevolissima, come l'abitudine, ben presto acquisita, di far stampare all'inizio o
alla fine dell'opera, epistole o versi encomiastici rivolti ai potenti protettori, che non
mancano anche loro di pagare, salvo far sapere a tutti, se la somma non è abbastanza alta, la
tirchieria del personaggio in questione. (…) Il sistema che oggi ci urta, appariva allora
naturalissimo, molto più onorevole (…) che vendere il manoscritto ad un editore. Erasmo,
accusato da un avversario di esigere denaro dai suoi editori, rispose con indignazione che
non riceveva altro denaro fuorché quello che non mancavano di offrirgli gli amici cui
mandava in dono un esemplare. Ma non lasciamoci ingannare: Erasmo viveva della sua
penna. Moltiplicava le dediche, la sua fama gli permetteva di richiedere agli editori un
numero abbastanza rilevante di esemplari, ed aveva organizzato in tutta Europa una vera e
propria rete di agenti che li distribuivano e raccoglievano le ricompense."
E' abbastanza naturale ipotizzare che Erasmo, intravvista la possibilità di ricavare un best
seller dall'ignorato Triumpho di Faustino, abbia prontamente colto l'occasione confermando
75
anche in questo caso il suo proverbiale fiuto affaristico. Faustino affronta nel Triumpho, da
uomo del '400, una serie di problematiche che Erasmo per una parte trascura perché già
superate32 e per l'altra affronta e risolve in tutt'altro modo. Il prete romagnolo giudica la follia
dal di fuori, sforzandosi di non esserne partecipe e schiavo; Erasmo la indaga dal di dentro, la
giudica condizione umana inevitabile e ne tesse le lodi identificandola con il motore
dell'universo. Si tratta evidentemente di due concezioni diverse, due modi antitetici di
affrontare lo stesso problema, ma le identità riscontrate nei due testi assicurano che esiste tra il
Triumpho e la Laus un rapporto di filiazione che mons. Fabbri, forse impropriamente definì
"plagio", mancando di un termine più appropriato. Con il prof. Aldo Sacco, che difendeva
Erasmo dalle sue non tanto velate accuse, mons. Fabbri fu esplicito:33
"Non sono apoditticamente certo che la composizione del "De triumpho" preceda quella della
"Laus"; ma lo sono invece del fatto che testi di quel libro sono passati in questo o viceversa.
Il valore e l'estensione del plagio sarà argomento di uno studio ulteriore. Per ora, per quanto
le mie convinzioni siano altre, sostengo - se così posso dire - il "plagio materiale", non il
"reato" di plagio."34
Una distinzione sottile, quella di mons. Fabbri, che conserva la sua validità anche ora che la
precedenza di Faustino è accertata. Se l'inglobamento nella Laus di passi del Triumpho sia
sufficiente a configurare il "reato" di plagio, considerate le molte novità presenti
nell'impostazione erasmiana, non sta a me giudicare. Affermo però senza tema di smentita che
la Laus stultitiae non sarebbe nata - quanto meno non nella forma oggi nota - senza il
precedente Triumpho; nella Laus, figlia del Triumpho, è perciò naturale ritrovare il comune
bagaglio genetico e le diversità che accomunano e distinguono i figli dai padri. Conosciuto in
Italia il Triumpho - se a Rimini o a Venezia, manoscritto o stampato non ha importanza Erasmo inizia subito ad elaborare una sua personale risposta ai problemi affrontati da Faustino
(forse la data di nascita del 10 giugno 1508 è un lapsus freudiano!) per concludere
paradossalmente tre anni più tardi, nel 1511, che la pazzia è il vero ed insostituibile motore
dell'universo. Dobbiamo allora vedere la Laus come la risposta di Erasmo alla domanda che
gli è stata posta dal Triumpho di Faustino e risulterà naturale ritrovare nella risposta elementi
comuni alla domanda, consentendo forse di escludere il reato di plagio cosciente. Contrastano
però con l'"assoluzione" di Erasmo, che mons. Fabbri pare fosse orientato a negare dopo i
doverosi accertamenti, due fatti, il primo avvenuto in tempi recentissimi ed il secondo
risalente ai tempi della seconda edizione del De triumpho stultitiae del 1524.
In merito al primo, a dimostrazione che nulla di nuovo accade sotto il sole e che il plagio è un
vizio difficile da guarire, mi è capitato di leggere sul "Corriere della sera" di giovedì 25
giugno 1998, un articolo di Cesare Medail dal titolo: "Siciliano, un pastiche troppo simile a
Isherwood". In esso, rifacendosi ad un articolo di Stelio Solinas apparso sul "Giornale",
Medail accusa Enzo Siciliano di aver plagiato ne "I bei momenti" il libro di Piero Buscaroli
La morte di Mozart. Siciliano non avrebbe perduto il vizio di copiare benché fosse già stato
scoperto nel 1975 che ne La notte matrigna aveva ripreso pari pari dei passi da Mister Norris
se ne va di Christopher Isherwood. Lo segnalo perché l'argomento di A.Scarpellini che
Erasmo può aver ripreso da altri qualche adagio ma non aver riprodotto intere frasi da
Faustino è privo di valore allora come oggi. In entrambi i casi siamo di fronte a persone
affette da animus plagiandi. La distinzione di Scarpellini concettualmente non ha senso; in
entrambi i casi siamo davanti al plagio e chi plagia perde il senso della misura. Scrive Maria
Corti che le "citazioni occulte" sono pienamente legittime se sono poche (e questo non è il
caso di Erasmo), oppure si deve dichiarare in anticipo che s'intende scrivere un pastiche, una
specie di "plagio autorizzato" (ed anche questo Erasmo si guardò bene dal fare). E' doveroso
che il giudizio su Erasmo tenga conto delle leggi e delle abitudini degli inizi del 1500, ma
nessuno potrà assolverlo per il suo totale silenzio sul De triumpho stultitiae di Faustino di cui
si è servito a piene mani.
76
Il secondo fatto, come già anticipato, risale al 1524 e, vista la diffusione abbastanza massiccia
del De triumpho stultitiae, pone dei grossi interrogativi sul perché solo nel 1936 sia ritornata
sul tappeto la questione Faustino Perisauli grazie a Giovanni Papini, per poi ricadere nel
dimenticatoio fino al 1964. Abbiamo già detto della nota relativa alle affinità colla Laus
sull'esemplare del Triumpho proveniente dal poeta veneziano Apostolo Zeno; dobbiamo
aggiungere ora che l'originalità di Faustino rispetto al lavoro di Erasmo era stata difesa ancora
nel 1524 dal suo editore Girolamo Soncino, forse su esortazione di Francesco Rufo da
Monteiano che stese l'epitaffio del poeta tredoziese. In base al principio che nessuno difende
chi non è attaccato, si deve ritenere che Soncino avesse sentito qualcuno definire il Triumpho
un lavoro plagiato da Erasmo ed abbia deciso di ristabilire la verità. La sua edizione - datata 7
dicembre 1524 ed in realtà uscita a Venezia dai fratelli Rusconi con una parte dei lavori che
appare stampata da Girolamo Soncino di Rimini - comprende anche l'altro posteriore
poemetto De honesto appetitu, ed è preceduta da una lettera del Soncino al vescovo di Fano
Gerio Goro, vice-legato bolognese, al quale il Soncino dedica e raccomanda l'opera. Questa la
prima parte:
"Al Reverendissimo D.D. Goro Gerio vicelegato bolognese.
Reverendissimo D.D. Goro Gerio da Pistoia, vescovo di Fano e vicelegato di Bologna,
Gerolamo Soncino S.D.
Sogliono molti, Reverendissimo Signore, nell' esaminare quanto è stato fatto dai loro
predecessori, darsi molto da fare perché, se capita l'occasione, possano essere annoverati
celebri tra gli uomini illustri e celebri, e se non per propria virtù, almeno per affinità. In
verità è ingiusto che vi sia chi osa (se è onesto) mettere la mano sulla messe altrui, ed
usurpare la gloria per se stesso. Perciò, avendo esaminato i molti poemi del nostro Pietro
Paolo Faustino di Tredozio ed avendoli trovati dotati di varie dottrine e virtù che giudico non
frutto di rapina, e spinto dall'amore e dalla bontà di queste virtù, mi proposi nell'animo che
in tempo adatto quelli stessi poemi avrei portato alla luce a nome del loro autore ed a sua
lode immortale."35
I due lavori di Faustino apparvero entrambi sotto l'unico titolo "Perisauli Faustini Tradocii
Sil/va Tota moralis/ cui Titu/lus Votum Faustini/ Argomentum De Honesto Appetitu". Alla
fine del De Honesto Appetitu si trova: Faustinus de Terdoceo. Ad libellum suum. De
Triumpho Stultitiae et ad Lectores. Già il nome dell'autore indicato in due diversi modi dice
che Soncino riunisce lavori in precedenza usciti in date diverse sotto nomi diversi. Non tutti, a
differenza di quanto afferma Scarpellini, erano disposti a giustificare i plagi: nel 1524 Soncino
denunciava l'appropriazione dei meriti di Faustino da parte di chi non aveva alcun ritegno a
"immettere la sua mano nella messe altrui", (chi se non il "grande" Erasmo da Rotterdam, la
cui Laus stultitiae circolava allora in tutta Europa ? ) e tentava di ristabilire la verità in merito
all'originalità delle opere.36 Soncino aveva esaminato i lavori di Faustino (cum ...
conspexissem), allora disponibili in una precedente edizione o in manoscritto e quindi
consultabili anche da Erasmo che poi provvide a saccheggiarli a suo personale uso e merito.
Tenendo presente che Soncino dichiara di aver " iterum omni diligentia excussa" la nuova
edizione, anche per questa via rimangono confermati il "plagio" di Erasmo e la precedenza di
Faustino.
Ma qui la questione diviene ancora più stimolante. Nel 1936 Giovanni Papini scriveva sul
"Frontespizio", edito da P. Bargellini:
"Il Rinascimento sorge e finisce sotto il segno della pazzia. In Italia comincia col Poliziano,
che muore in un accesso di frenesia (1494) e termina col delirante Tasso. Nella letteratura
europea si apre con "La nave dei folli" di Sebastian Brant (1494) e con l'"Orlando furioso"
dell'Ariosto (1516) e si chiude con i massimi eroi della pazzia consapevole e volontaria;
Amleto (…) Don Chisciotte. Erasmo che butta giù il suo "Elogio" tra il 1508 ed il 1509 37,
77
viene dopo Brant ed anche dopo l'Ariosto, che fin dal 1502 aveva intrapresa l'epopea rimata
della pazzia d'Orlando. Forse negli stessi anni Faustino Perisauli di Tredozio componeva
un poemetto : "De Triumpho stultitiae", che ricorda nella generale intelaiatura l'operetta
erasmiana, ma è ignoto, credo, a tutti gli studiosi di Erasmo."
A distanza di quasi trent'anni, nel 1963, scriveva Michel Foucault:38
"(…) a partire dal XV secolo, il volto della follia (ha) ossessionato l'immaginazione dell'uomo
occidentale. Un succedersi di date parla da solo: la Danza dei Morti del cimitero degli
Innocenti data senza dubbio dai primi del XV secolo, quella della Chaise-Dieu sarebbe stata
composta attorno al 1460; e nel 1485 Guyot Marchand pubblica la sua "Danse macabre".
Quei sessant'anni furono certamente dominati da questa serie di immagini sghignazzanti
della morte. Nel 1492 Brant scrive il Narreschiff; cinque anni dopo viene tradotto in latino. 39
Negli ultimissimi anni del secolo (il pittore) Jeronimus Bosch compone la sua "Nef des Fous".
L'elogio della follia è del 1509. L'ordine di successione è chiaro".
Risulta evidente da quanto scrive M.Foucault, che la pittura della pazzia anticipò di diversi
decenni la letteratura della pazzia. Un anno dopo Foucault, nel 1964, a quasi trent'anni
dall'incontro di Papini con Perisauli, parlando al Rotary Club di Forlì mons. G. Fabbri
ricordava come l'improvvisa ricomparsa di Faustino tra gli autori della cosiddetta "foolliterature" avesse creato sconcerto e scandalo specialmente in Francia. A partire dal 1936/37
Faustino Perisauli - o meglio Pier Paolo Fantini - non doveva essere più un illustre
sconosciuto per la ricerca erasmiana e rimane da spiegare perché non lo si trovi citato nelle
edizioni moderne della Laus, se non tra i precursori, almeno tra gli epigoni di Erasmo.
Renaudet ci informa che la fama europea di Erasmo inizia con la stampa a Venezia degli
"Adagia", e che poi, nell'"Elogio della pazzia", trasformerà in stile evangelico e moderno
l'ironia di Luciano di Samosata, "per avviare la più ampia critica dello stato, della società,
della chiesa, della vita religiosa".40 Oggi però sappiamo con certezza che la cronologia di
Foucault e di Renaudet è errata perché Faustino aveva preceduto Erasmo di circa vent'anni e
chi conosce il Triumpho ne può facilmente trovare vistose tracce nella Laus di Erasmo. Non è
quindi necessario risalire fino a Luciano di Samosata, ad Apuleio od al Sinesio della "Lode
della calvizie" (V secolo) per trovare i precursori di Erasmo. Essi sono temporalmente molto
più vicini di quanto finora noto e la "fool-literature" dei secoli XV e XVI non inizia con il
"Narrenschiff" di Brant.
Qui veramente comincia a definirsi l'ordine di successione: quale causa prossima della Laus
erasmiana ed all'origine della letteratura della pazzia è cronologicamente sufficiente e
plausibile il Triumpho di Faustino, apparso tra il 1780 ed il 1790. Per fare doverosa chiarezza
su questa importante questione si impone un raffronto del Triumpho con i diversi lavori pre e
post-erasmiani che abbiano attinenza con la pazzia quali la già citata Nef des Fous di Brant
(1494), la Contentione tra Pluto e Iro di Antonio Phileremo Fregoso (Milano 1507), il De
sapiente di Charles de Bovelles - concepito nel 1509, apparso nel 1511, l'Opera nova che il
Fregoso dette alle stampe a Venezia nel 1534 e la Laus podagrae di Willibald Pirckmeyer
(1521). E proprio per ristabilire l'ordine di precedenza appare plausibile che l'umanista
tedesco Francesco Rufo Muziano (Montano, de Monteiano) abbia curato col Soncino
l'edizione postuma dei due lavori di Faustino apparsa nel 1524.41
Se lo scopo di Rufo era quello di rendere di publico dominio le fonti del "plagiario" Erasmo
ed evidenziarne l'ennesima scorrettezza, non riuscì a conseguirlo. La reputazione di Erasmo
come critico si conserva pressoché immacolata; gli studiosi moderni lo onorano senza riserve
e lo considerano uno dei maggiori smascheratori di errori e di falsità. Tutti sembrano ignorare
gli imprestiti dal Triumpho42, la sua slealtà nei confronti di molti colleghi, tra cui l'umanista
forlivese Publio Fausto Andrelini43 ed il falso perpetrato nel 1530 col De duplici martyrio
78
sulla vita di S.Cipriano, che sostenne di aver scoperto in un'antica biblioteca, sufficiente da
solo a ridimensionare la sua figura morale:
"Il suo disprezzo per la cultura basata sulla frode letteraria risalta con forza dalla sua vita di
S.Girolamo, in cui attacca con veemenza le leggende medievali di guarigioni ed interventi
soprannaturali che avevano distorto e mistificato la realtà dei fatti (...) Erasmo espresse
chiaramente il proprio rifiuto verso ogni genere di mistificazione, anche quelle realizzate per
fini desiderabili: A quel tempo anche gli uomini pii ritenevano che il ricorso a tale artificio
per istillare nella gente il desiderio di leggere fosse cosa gradita a Dio". Nel 1530 Erasmo
pubblicò la IV edizione delle opere di S.Cipriano, cui era stato incluso all'ultimo momento un
ulteriore trattato "De duplici martyrio", uno scritto, spiegava l'indice, scoperto in un'antica
biblioteca; "Speriamo sia possibile ritrovare altre preziose opere". (…) E' scritta in un latino
meraviglioso ma molto particolare, appesantito da citazioni bibliche e caratterizzato dalla
ricorrente presenza di diminutivi, lo stesso genere di latino, insomma, in cui Erasmo scrisse
le grandi opere letterarie di cui riconobbe la paternità quali "L'elogio della follia", e quella
più divertente che invece non riconobbe, il "Giulio escluso dal Paradiso". 44 Il "De duplici
martyrio" non è stato scoperto da Erasmo: è stato scritto di suo pugno. (…) Fu così che il più
eminente studioso patristico del sedicesimo secolo falsificè una grande opera patristica."45
Erasmo, che predicava bene e razzolava male, non può in ogni caso rivendicare il merito di
aver iniziato la "fool-literature" dei secoli XV e XVI; che il merito possa esserne attribuito al
Triumpho di Faustino è invece ipotesi cronologicamente fondata, la cui validità potrà essere
valutata dopo ricerche ormai non più rinviabili.
Un'ultima cosa: Eugenio Garin contesta l'opinione di Johan Huizinga che solo l'"Elogio" di
tutta la copiosa produzione di Erasmo, abbia meritatamente vinto la battaglia contro il tempo.
Contro l'opinione corrente, malgrado il carattere volutamente paradossale, la Laus non
sarebbe separabile dal resto della prosa erasmiana. A sostegno della sua tesi Garin può citare
solo un passo abbastanza ambiguo della lettera scritta nel maggio 1515 all'amico Martin van
Dorp, dal quale traspare però chiaramente che lo stesso Erasmo considerava anomala la sua
Laus:
"Ti dirò con franchezza che quasi mi pento di aver pubblicato la "Follia" (…) il suo scopo è
esattamente il medesimo delle altre mie opere, anche se perseguito per via diversa."
Secondo Eugenio Garin, Huizinga ed altri critici avrebbero contribuito a consolidare
un'immagine del tutto falsa di Erasmo perché:
"in mezzo ad un oceano di erudizione emergerebbe un solo testo, un libello satirico scritto in
pochi giorni46, l'unico scritto erasmiano accessibile ad un lettore moderno. In questa
prospettiva, che purtroppo traduce tutta una lunga serie di letture celebri dell'"Elogio" anche
di studiosi eminenti, si collocano interpretazioni che dell'opera hanno fatto, volta a volta, il
"passatempo di un letterato in viaggio", una "lunga facezia per divertire gli ozi di intellettuali
e di professori", un "Capriccio", una "Fantasia", un "Impromptu" e perfino una "teoria
dell'irrazionale". Giustamente (…) Delio Cantimori (…) lamentava che a furia di cercare in
questa famosa operetta quello che non c'è, (…) si finisce col "non vedere quello che c'è, o per
lo meno l'autore si era proposto di metterci:un appello di carattere etico-religioso ben
definito ed una critica al malcostume universitario ed ecclesiastico."47
Qui mi ricollego a quanto scrissi ne L'assassinio di Mozart sulla reticenza di artisti e
giornalisti ad indicare le loro fonti. Giustamente Garin si sforza di non vedere quello che non
c'è ma, come i critici che contesta, non riesce nemmeno a vedere quello che c'è. Perché
79
Erasmo ha voluto nascondere il suo pesante debito verso Faustino cercando di mimetizzare la
Laus tra le altre sue opere. La sua ammissione di aver percorso con la Laus una via diversa
per raggiungere il medesimo scopo trova riscontro in una diversità di esporre, di stile, che
oggi possiamo spiegarci grazie alla conoscenza del Triumpho. Fatta propria l'idea di Sebastian
Brant di far parlare la follia in prima persona,48 Erasmo rielabora il materiale poetico messogli
a disposizione da Faustino con risultati che diversificano l'"Elogio" da ogni altro suo libro, ad
eccezione dello spurio "Giulio escluso", e che gli hanno consentito di resistere al tempo. Nella
Laus si fondono, a livelli di eccellenza, la vena poetica di Faustino e l'anima razionale di
Erasmo e questo spiega un risultato superiore alla somma degli addendi. Ha ragione
D.Cantimori a lamentare che si sia voluto trovare nella Laus quello che non c'è, ma non lui, e
nemmeno E.Garin, hanno saputo trovare in essa quello che Erasmo ha voluto nascondere e
che deve essere riscoperto: Faustino Perisauli e la sua poesia. Perché colui che fornisce la
materia prima per una grande opera d'arte non è certo inferiore a chi, rielaborandola, la porta a
perfezione, e gli è sicuramente superiore in originalità. Erasmo, anche se lo tacque, pagò ad
usura il suo debito verso Faustino trascinandolo all'immortalità e noi, oggi, godiamo
attraverso la Laus di Erasmo, la produzione intellettuale dell'umanista tredoziese.
Così, ogni volta che un editore ripresenta l'"Elogio", onora nel famoso Erasmo anche
l'ignorato poeta Pier Paolo Fantini di Tredozio. Giustizia vuole che questo inconscio omaggio
si trasformi nell'apprezzamento cosciente di una platea non più limitata al paese natale:
Faustino fa parte del patrimonio europeo e come tale deve essere riscoperto. Un compito che
il Comitato per la valorizzazione culturale di Tredozio ha affrontato con decisione e saprà
condurre sicuramente a buon fine.
Tredozio 23 maggio 1998
Silea (Tv) 26 febbraio 2001
Note
1
Tra gli elementi che apparentemente deponevano per una nascita del Triumpho posteriore alla
scoperta dell'America, vi erano due passi del Cap.XVIII (Aulici quam sint fatui) non citati da
Mons.Fabbri: al verso 69 dove si parla di "pingue polentum", ed al verso 70 dove compaiono i "picti
faseli". Benché la polenta oggi sia quella di mais, pervenuto dall'America, come anche i fagioli, fin dai
tempi antichi erano noti la polenta di miglio e di grano saraceno e nel contempo, come cibo per poveri,
dei piccoli fagioli di origine afro-asiatica, detti ancor oggi "fagioli dall'occhio" per la macchia nera
simile ad un occhio presente in corrispondenza all'attaccatura al bacello (da ciò il nome di "faseli
picti").
2
In realtà pare assodato che il frate Francesco Colonna che fu anche a Treviso sia persona totalmente
diversa da quella della quale il poeta romagnolo parla nel suo altro poema latino De honesto appetitu.
Il Colonna che ebbe rapporti con Faustino andrebbe individuato con il principe Francesco Colonna,
signore di Preneste. Scrive Maurizio Calvesi che il Perisauli fece parte dell'entourage del principe
Francesco Colonna, che cita nel De honesto appetitu, sicché non è da escludere un contributo del poeta
tredoziese alla stesura dell' Hypnerotomachia Poliphili. Vedi Hypnerotomachia Poliphili. Nuovi
riscontri e nuove evidenze documentarie per Francesco Colonna signore di Preneste in "Storia
dell'Arte" n.60 maggio-agosto 1987 pp.95 e 135.
3
G.Taboga. L'assassinio di Mozart. L.I.M.editrice Lucca 1997 p.131.
4
Mi riferivo al silenzio mantenuto da Ludwig van Beethoven sul suo maestro Andrea Luchesi
5
In realtà fu Papini a richiamare l'attenzione di Viviani sul Perisauli al rientro da un viaggio in Francia
nel 1936. L'interesse di mons.Fabbri per il poeta tredoziese è molto posteriore.
80
6
"nostra haec tyrocinia et primitiolas". Vedi Atti del convegno. Modigliana 1999 p.144.
7
Lo stesso dubbio assillava ancora nel '700 il letterato veneziano Apostolo Zeno. Nella sua copia del
Triumpho oggi presso il Museo Correr di Venezia vi è infatti una nota autografa che indica la
somiglianza tra il lavoro del Perisauli e la Stultitiae Laus del Rotterodamo.
8
Anche gli ebrei convertiti assumevano il nome di coloro che li tenevano a battesimo. L'esempio più
noto è quello di Emanuele Conegliano, che ebbe a padrino di battesimo il nobile vescovo di Ceneda,
ne assunse il nome e divenne noto come Lorenzo da Ponte, il librettista di Mozart.
9
Vedi la corrispondenza della data 1492 della copia trivulziana del "Trastullo".
10
Se quanto afferma il Mini è corretto, rimangono ancora delle fonti da riscoprire in merito alla fama
acquisita da Faustino ancora durante la sua vita. Le informazioni del Mini sul contenuto non sono del
tutto esatte: il "De triumpho" ha poco a che vedere con il "Trastullo" e lo precede.
11
Una delle maggiori difficoltà incontrate nella ricostruzione dei lavori del Perisauli è dovuta alle
troppe forme in cui il suo nome è stato sbattezzato. Lo scrivente ha ritrovato due copie del Triumpho
presso la Biblioteca A.Maj di Bergamo rubricate sotto "Tradocio" (Faustino) con due altre indicazioni:
Faustinus Tradocius Perisaulus e Perisaulus Faustinus Tradocius entrambe con rinvio a Tradocio
Faustinus. Presso la Biblioteca casanatense di Roma si trova un'altra copia rubricata sotto Sauli.
12
La riscoperta del testamento di Faustino ci dice che morì a Rimini il 2 dicembre 1523.
13
Uno dei rami della famiglia Fantini , come si legge nella relazione del can. Mini, era stabilito a
Ferrara ed era quindi al corrente delle vicende di Frà Girolamo in Firenze.
14
"Nuperque Politianus" del Proemio a p.143 degli Atti del Convegno.
15
A.Scarpellini in "Studi romagnoli" vol.XVII Anno 1967 pp. 369 ss. Per Scarpellini Faustino sarebbe
quindi un falsario cosciente ed un plagiario.
16
Imprecisione evidente di Scarpellini. Si trattava non del VI anniversario ma del IV centenario della
morte di Erasmo, avvenuta nella notte tra l'11 ed il 12 luglio 1536 a Basilea.
17
Scarpellini onora la memoria di mons. Fabbri in modo quanto meno inusuale: gli dà dell'ignorante,
del campanilista e dell'intellettualmente disonesto sapendo che non può difendersi. Va quindi
annoverato tra i molti "erasmiani di ferro", impermeabili ai dubbi ed alle evidenze contrarie,
integralisti che troppo spesso fanno opinione ma raramente della vera cultura. Lo scorretto intervento
di Scarpellini ha contribuito a ritardare la ricerca della verità.
18
A.Scarpellini ammette dunque che le deduzioni di mons.Fabbri sono logiche e veritiere.
19
Scarpellini sembra ignorare che l'edizione 1524 reca nel Colophon una precisa indicazione al fatto
che è stata "excussa" da una precedente stampa.
20
Scarpellini riconosce quindi che Erasmo avrebbe avuto l'opportunità di conoscere il lavoro di
Faustino qualora fosse stato precedente al suo.
21
Il ragionamento di Scarpellini è chiaro! Erasmo è troppo grande per abbassarsi a plagiare un
Faustino qualsiasi. Sono cose che fanno solo gli italiani !
22
L'impossibilità di rendere plausibile simile ipotesi dipende proprio dal fatto che non può in alcun
modo corrispondere alla realtà. Erasmo rendeva onore solo a se stesso e si serviva degli altri senza
alcuno scrupolo.
23
Il passo in parentesi graffa non è citato da Scarpellini.
81
24
Calcolo dimostratosi "non manifestamente errato" se solo oggi si pone la questione della precedenza,
malgrado l'apparizione delle edizioni del 1524 e del 1964. Erasmo si permise non solo di "echeggiare"
ma anche di "saccheggiare" il lavoro di Faustino.
25
P.96 testo Fabbri, versi 33/38.
26
Samuel Morison. Storia della scoperta dell'America. Milano 1978 II p.17. La traversata di Colombo
nacque dall'errore di Paolo Toscanelli nel calcolare la dimensione della terra. L'errore rese possibile
l'allestimento della spedizione di Colombo per conto della Spagna nella convinzione che il percorso
circolare fosse più breve del periplo dell'Africa, al quale si dedicavano i portoghesi.
27
Morison cit. pp.92 ss.
28
Ciò sta a significare che per Scarpellini Faustino è più "profondo" di Erasmo, almeno in questa
particolare questione.
29
Non entro nel merito del valore letterario di Faustino, dal canonico Mini definito "gentile poeta
latino", da G.Manzoni "insulso" e dal Tiraboschi "non buon poeta in lingua latina". Sospetto però che
gli ultimi due siano anch'essi degli "erasmiani di ferro" decisi a castigare Faustino per il presunto
plagio ai danni del grande Rotterodamo.
30
Sappiamo che Erasmo non giunse in Inghilterra prima del 1509 e che fu ospite di Thomas Moore. La
data del 10 giugno 1508 da lui fornita per la stesura della Laus è quindi sicuramente falsa.
31
S.M.Steinberg. Cinque secoli di stampa. Torino 1982 p.162. Erasmo fu il primo a stipulare contratti
che prevedevano uno stipendio per l'autore, innovazione che per circa 200 anni non venne ripresa da
altri autori o editori. Ibidem p.105.
32
Vedi le questioni relative alla terra e dell'esistenza degli antipodi, che Faustino tratta ne "Il delirio
del geometra" a p.77 ed. Fabbri. Erasmo le ignora perché nel 1511 sono in gran parte superate e
risolte..
33
Vedi Conversazione cit. p.25.
34
la fine prematura di mons.Fabbri ci ha privato di questo importante studio.
35
Questo il testo completo della lettera di G. Soncino: "Ad Reverendissimum D.D. Gorum Gerium
Vicelegatum Bononiense./ Reverendissimo D.D. Goro Gerio Pistogliensi, Phanensis Civitatis
Episcopo ac Bononiensi Vicelegato, Hieronymus Soncinus S.D. Solent plerique, Reverendisssime
Domine/ in maiorum suorum factis recenscendis plurimum insudare/ ut hac occasione habita inter
illustres/ hominesque celebres/ et si non in virtute propria/ saltem affinitate celebri/ videantur
commemorari. Enivero/ infandum est/ ut unquam quis praesumere audeat (si probus est) in alienam
messem manus iniicendo/ sibimetipsi gloriam usurpare. Quadere cum nostri Peri Sauli Faustini
Terdocii Poemata plurima conspexissem/ et illa variis doctrinis ac virtutibus adornata/ non rapina
arbitratus/ et ipsarum virtutum amore ac bonitate excitus/ animo meo praeposui/ ut nacto tempore in
inspius Authoris nomine immortalique laude/ ea ipsa Poemata in lucem prodire. At/ cum hmoi (?)
preciosa quaeque/ non nisi celeberrimorum virorum manibus sint contractacta in eorumque
tantummodo gloriam et laudem excutienda/ fautius quoque/ penes me inditum est/ ut clariori minime/
his labor et honos/ praeclarissimorum virorum in/ aciem connumerandus/ tuo munimine insignitus
prosilire. Qui enim scientiarum virtutumque omnium decore perfulges/ ac veluti iubar excelsum/ tua
irradiatione ubique dinosceris/ non immerito tui nominis obumbratione gratiam excipietur. Velit
autem tua Reverendissima Dominatio/ munusculum hoc/ paupercula quidem manu/ animo autem ac
voluntate ditissima transmissum/ letius amplexari: et quod ipsa inexpletum conspicit sua benignitate
suffragari. Vale/ viveque diu perpetuo felix."
82
36
La diffusione del Triumpho ed.1524 deve essere stata più vasta di quanto oggi noto. Mini parla di
diverse edizioni e sappiamo che alcuni lavori di Faustino apparvero senza indicazioni tipografiche di
tempo e luogo. Gerolamo Soncino (dal paese di Soncino presso Cremona) poteva contare, per la
diffusione della sua edizione, su altri parenti e colleghi ebrei omonimi, oriundi di Spira o Firth,
disseminati in Europa. Oltre che a Mantova, Ferrara, Bologna, Brescia, Barco, Fano, Pesaro e Rimini,
dei Soncino erano in Francia ed addirittura in Turchia.
37
La data è sicuramente errata; potrebbe corrispondere al momento in cui Erasmo ebbe tra le mani il
Triumpho di Faustino. La data di stampa è invece giugno 1511.
38
M.Foucault. Storia della follia nell'età clasica. BUR Milano 1997 p.22.
39
Il Narrenschiff o Nef des Fous o Nave dei folli di Brant appare in latino nel 1494, non nel 1497.
40
A Renaudet. Humanisme et Renaissance. Ginevra 1958 p.162.
41
L'umanista Francesco Rufo Montano (Muziano) "eterodosso ed incredulo", erroneamente indicato
da mons.Fabbri come romagnolo (da Montiano), è nemico di Erasmo, di cui scrisse nel suo epistolario:
"Erasmo è divino e conviene venerarlo con pio fervore quale essere celeste". Vedi Elogio della pazzia
a cura di R.H.Bainton BUR 1994 p.302 nota 232. Scrisse un altro rivale di Erasmo, il tedesco
Camerarius: "Chiunque non voglia passare per ignorante nel regno delle Muse lo ammira, lo
magnifica, lo esalta. Se uno riesce a strappargli una lettera, la sua gloria è grandissima e può
festeggiare un mirabile trionfo." S.Zweig. Erasmo. Milano 1981 p. 73.
42
C'è anche chi, come Scarpellini, li conosce ma non vi presta fede, dimostrando ancora una volta che
l'impotentia ratiocinandi coglie anche i critici più agguerriti davanti al "mostro sacro".
43
Vedi Conversazione cit. p.3.
44
Magrado la sicumera con cui viene qui attribuito ad Erasmo il Giulio escluso dal Paradiso, manca
del tutto la certezza che il libello sulla morte di papa Giulio II, morto il 21 febbraio 1513, sia dovuto
alla penna del Rotterodamo. La prima edizione datata apparve nel settembre del 1518 a Lovanio e nel
corso dei secoli fu attribuito a Ulrich von Hutten, a Girolamo Balbi, a Battista Carmelita detto
"Spagnolo", a Girolamo Riario ed a Publio Fausto Andrelini, al quale fu anche intestata una delle
prime edizioni del pamphlet. Proprio quest'ultima attribuzione ad un umanista della medesima
formazione di Faustino (nasce a Forlì, si forma a Bologna , soggiorna a Roma dove fa parte
dell'Accademia di Pomponio Leto - Faustino a Preneste preso i principi Colonna - prima di trasferirsi
in Francia come poeta regio di Carlo VIII) ci consente di avanzare una nuova candidatura per la
paternità del Julius exclusus: quella di Faustino Perisauli da Tredozio. L'uso del diminutivo che
caratterizza il latino del Julius, "categoria morfologica dell'affettività, è del resto caro a Faustino, che
spesso vi ricorre" (L.Chines in Atti del convengo cit. p.30) e non vi è alcuna dotta citazione del libello
che non sia nota a Faustino. Questi era più di Erasmo in grado di conoscere fin dal suo primo apparire
in Roma, nel settembre 1513, l'Apolococyntosis di Seneca che è indubbiamente il modello classico a
cui s'ispira il Julius. Del resto, lo stesso Erasmo rifiutò sempre di riconoscere la paternità del libello
che Faustino può aver invece volutamente licenziato anonimo. Vedi Papa Giulio escluso dai cieli, a
cura di Paola Casciano Ed. ARGO, Lecce 1998 pp.9-49.
45
Antony Grafton. Critici e falsari. Torino 1996 p.47.
46
Ha il sapore di scherzo questa affermazione di Erasmo alla luce di quanto scrisse nel cap. I 4 sulla
follia dei retori: "Costoro (…) di un'orazione su cui hanno sudato trenta lunghi anni – e qualche volta
è fatta da un altro – giurano che l'hanno buttata giù e magari dettata in tre giorni, quasi per svago" .
Forse il grande Erasmo si divertiva a prendere in giro i suoi lettori.
47
E.Garin. Prefazione all'Elogio per gli Oscar Mondadori Milano 1992 p.VIII ss.
83
48
Da Brant Erasmo non prese altro. Il Narrenschiff si riferisce alla pratica, allora molto nota, di
imbarcare verso una destinazione ignota i pazzi giudicati in soprannumero rispetto alle possibilità della
città, che rifiutava di mantenerli ulteriormente. M.Foucault. Storia della pazzia cit. p.77.
----Il presente studio condensa e completa il mio intervento al convegno su Faustino Perisauli
organizzato dal "Comitato per la valorizzazione culturale di Tredozio" tenutosi nel palazzo
Fantini di Tredozio il 23 maggio 1998. Intervennero i relatori: prof. Augusto Vasina Ordinario di Storia medievale presso l'Università di Bologna - (Politica e cultura
sull'Appennino tosco-romagnolo nel tardo Medioevo), dr.Loredana Chines – Dipartimento di
italianistica presso l'Università di Bologna - (Il De triumpho stultitiae tra fonti classiche e
tradizione umanistica), prof. Gian Mario Anselmi – Docente di Letteratura italiana presso
l'Università di Bologna - (Codro, Faustino, il De triumpho stultitiae e la cultura umanistica tra
Bologna e la Romagna), dr. Giorgio Taboga (La valenza europea di Faustino nel rapporto con
Erasmo da Rotterdam), prof. Emilio Pasquini – Ordinario di Letteratura italiana presso
l'Università di Bologna - (Fantino –Faustino- da Tredozio ed il cantare "Trastullo delle
donne"). I professori Bruno Gurioli e Silvia Tagliaferri, paleografi, hanno presentato
l'edizione moderna del "Trastullo". Tra gli atti del convegno, pubblicati in Modigliana (Forlì)
nel marzo 1999, compare anche la traduzione del De triumpho stultitiae a cura di mons.
Giannino Fabbri, per gentile concessione della casa editrice "Il fauno" di Firenze, che la
stampò nel 1964.
Brescia 5 dicembre 2000
Silea (Tv) 4 marzo 2001
----[Una presentazione dell'autore si trova nel numero 4 di Episteme]
[email protected]
84
Leonardo Sciascia e il caso Majorana:
siciliani scompaiono nel nulla,
ma un'ipotesi tarda ad apparire...
(Umberto Bartocci)
1 - Preambolo
"Nel momento in cui Nisticò ci diceva della inaspettata, insospettata, incredibile notizia che la
lontana voce dell'amico gli aveva rivelata, noi abbiamo vissuto un'esperienza di rivelazione, una
esperienza metafisica, una esperienza mistica: abbiamo avuto, al di là della ragione, la razionale
certezza che, rispondenti o no a fatti reali e verificabili, quei due fantasmi di fatti che convergevano su
uno stesso luogo non potevano non avere un significato."
Il lettore devoto di Leonardo Sciascia avrà certamente riconosciuto nelle righe precedenti
uno dei passaggi conclusivi del pamphlet che quest'autore dedicò, nel 1975, alla scomparsa
dello scienziato catanese Ettore Majorana, verificatasi nel 1938, un anno prima della più
terribile guerra che l'umanità finora ricordi1. Esse descrivono l'esperienza, appunto quasi
mistica, dell'illuminazione "immediata", che permette all'improvviso alla mente di
comprendere quanto era rimasto ostinatamente celato ad ogni precedente sforzo concettuale.
Allo storico della scienza esse riecheggiano le parole con le quali Sir William Rowan
Hamilton illustrò, nel 1858, la sua scoperta dei quaternioni:
"Essi videro la luce, già completamente cresciuti, il 16 ottobre 1843 [H. aveva allora 38 anni],
mentre stavo passeggiando a Dublino con la signora Hamilton risalendo verso il Brougham Bridge. In
altre parole, là e allora sentii chiudersi il circuito galvanico del pensiero e le scintille che si
sprigionarono da esso furono le equazioni fondamentali tra I, J e K, esattamente tali e quali le ho
sempre usate da allora in poi. Tirai fuori sul posto un notes, che esiste ancora, e vi scrissi sopra
un'annotazione, sulla quale, in quello stesso istante, mi accorsi che avrebbe potuto valere la pena di
spendere la fatica dei prossimi dieci (o forse quindici) anni della mia vita ... mi accorsi che era stato
risolto in quel momento un problema, era stato alleviato un bisogno intellettuale, che mi aveva
ossessionato per almeno quindici anni"2.
Bene, se il valore di un'intuizione di tipo scientifico è abbastanza presto verificabile e
oggettivo (avremmo potuto parlare in modo analogo della mela di Newton, che suggerì la
legge di gravitazione universale, o dell'ascensore di Einstein, ispiratore del principio di
equivalenza della relatività generale), e le equazioni di Hamilton sono ancora lì, materia di
studio per ogni allievo d'algebra del globo, per quelle di tipo storico la questione appare
alquanto diversa, e la certezza che proviene da siffatte "illuminazioni" rischia di avere spesso
una valenza poco più che personale. Se Sciascia era davvero convinto che Majorana aveva
deciso di finire i suoi giorni nella pace di un convento, del pari sicuri di avere trovato la
soluzione del dilemma della celebre scomparsa sono Erasmo Recami3, con la sua ipotesi della
fuga in Argentina, o Bruno Russo4, che propende nettamente per il suicidio, etc..
Mi permetterò di esporre nelle pagine seguenti qualche riserva logica su tutte queste
"soluzioni", sperando che gli "Amici di Leonardo Sciascia" mi vorranno perdonare se il primo
dubbio che cartesianamente5 avanzerò riguarda proprio la sincerità dell'ipotesi proposta dal
loro beniamino: era questi realmente convinto di avere fornito la vera spiegazione del caso?
85
E, comunque, quello da lui illustrato, può ritenersi un esito plausibile della faccenda, coerente
con i (pochi) dati che abbiamo a disposizione?
Alla prima domanda si potrebbe rispondere che sì, perché dubitare del contrario?!, ma in
effetti ho minori perplessità sulla completa "buona fede" degli altri due autori citati. Invece,
per ciò che riguarda Sciascia (un siciliano, bene al corrente quindi di costumi e "situazioni"
del luogo), resto con qualche incertezza, poiché non posso dimenticare l'intelligenza acuta, e
quindi scomoda, che egli esercitò in altri analoghi contesti, mentre la "soluzione" intimisticospiritualistica da lui escogitata appare abbastanza incolore, non all'altezza insomma del suo
talento investigativo, e di un affare che, a mio modo di intuire, potrebbe avere probabilmente
dei risvolti assai più "oscuri" di quanto l'opinione pubblica non sia stata mai indotta a credere
(e con queste parole rispondo anche alla seconda domanda). Ma procediamo con ordine...
2 - "Malizia" interpretativa all'opera
Partiamo dall'episodio del concorso che condusse Majorana alla cattedra universitaria,
appena pochi mesi prima della sua morte (e già, è bene cominciare a introdurre subito
l'avvenimento che farà da cornice alle presenti riflessioni). Sciascia, usando soltanto la propria
esperienza, da profondo conoscitore di uomini ed ambienti, ne offre una spiegazione
assolutamente realistica e credibile, che val la pena rileggere insieme tutta intera.
"Majorana dimostra invece di poter rientrare quando vuole in quella che Amaldi chiama la vita
normale. E ci rientra, crediamo, per un 'normale' ripicco, per un risveglio di quel latente antagonismo
nei riguardi di Fermi e dei 'ragazzi di via Panisperna', che non erano più ragazzi, ma professori ordinarî
o incaricati - con tutto quel che comporta, sul piano delle strategie e tattiche interne, sul piano del
costume, l'esser professori in Italia, il far parte in Italia della vita accademica (ma non soltanto in
Italia). E dispiace dover dire che è un po' una mistificazione la versione che da parte accademica si dà
del rientro di Ettore Majorana nella 'normalità': che cioè furono Fermi e gli altri amici a convincerlo di
partecipare al concorso per la cattedra di Fisica Teorica. In realtà i conti per l'attribuzione delle tre
cattedre messe a concorso erano stati fatti sull'assenza e non sulla partecipazione di Majorana; e la
decisione di concorrere crediamo sia scattata in Majorana dal gusto di guastare un giuoco preparato a
sua insaputa ed a sua esclusione. Candidamente, Laura Fermi rompe quella specie di omertà che si è
stabilita sull'episodio e racconta le cose per come effettivamente sono andate. La terna dei vincitori era
stata già tranquillamente decisa, come d'uso, prima della espletazione del concorso; e in quest'ordine:
Giancarlo Wick primo, Giulio Racah secondo, Giovanni Gentile junior terzo. 'La commissione, di cui
faceva parte anche Fermi, si riunì a esaminare i titoli dei candidati. A questo punto un avvenimento
imprevisto rese vane le previsioni: Majorana decise improvvisamente di concorrere, senza consultarsi
con nessuno. Le conseguenze della sua decisione erano evidenti: egli sarebbe riuscito primo e
Giovannino Gentile non sarebbe entrato in terna'. Di fronte a questo pericolo, il filosofo Giovanni
Gentile svegliò in sé le energie e gli accorgimenti del buon padre di famiglia dell'agro di
Castelvetrano: dal ministro dell'Educazione Nazionale fece ordinare la sospensione del concorso; e fu
ripreso dopo la graziosa eliminazione da concorrente di Ettore Majorana, nominato alla cattedra di
Fisica Teorica dell'Università di Napoli per 'chiara fama', in base a una vecchia legge del ministro
Casati rinvigorita dal fascismo nel 1935. Tutto tornò dunque nell'ordine. E a Majorana toccò di
rientrare sul serio nella 'normalità': ché aveva partecipato al concorso soltanto per fare acre scherzo ai
colleghi. Tra i quali più tardi, dopo la scomparsa, prese piede la convinzione che fosse fuggito per il
panico, il trauma, di dover comunicare, di dover insegnare. Come a dire che ben gli stava. " (p. 51; i
numeri di pagina sono relativi alla prima edizione del libro).
Naturalmente queste parole (e il complessivo impianto della ricostruzione sciasciana, che
faceva riferimento alle scoperte di fisica che sarebbero sfociate di lì a poco nelle applicazioni
dell'energia atomica a fini bellici, e alla sopravvenuta estraneità tra Majorana e gli altri
"ragazzi di via Panisperna") non fecero piacere ai diretti interessati, e puntualmente Edoardo
Amaldi replicò a Sciascia dalle pagine de L'Espresso6. "Fantasioso ed infondato" il ritenere
che il fisico siciliano possa aver "previsto specificamente il pericolo delle armi atomiche
86
incombente sull'umanità", in quel tempo non ci pensava nessuno 7; ma soprattutto falso
supporre che esistesse "una forma di contrapposizione fra Ettore Majorana ed Enrico Fermi 8. I
rapporti fra i due sono stati sempre più che buoni".
Soffermiamoci su quest'ultima affermazione: proviene da un testimone oculare, ed è in
teoria9 degna di essere presa in maggiore considerazione delle deduzioni di chicchessia.
Elemento fondante del ragionamento di Sciascia è la constatazione che, dopo la cessata
frequentazione da parte di Majorana dell'Istituto di via Panisperna (ma non degli studi di
fisica!10), Fermi non andasse mai a trovarlo, segno che "i loro rapporti non erano mai stati
amichevoli o non lo erano più" (p. 48 - enfasi del presente autore). Ma senza pretendere di
dirimere la questione teorica di quale delle due categorie di indizi sia più rilevante, ed
invitando il lettore ad agire nella veste di vero e proprio giudice11, portiamo in scena un'altra
testimonianza diretta, di solito ignorata da chi si è occupato finora del "mistero" in parola. Si
tratta di quella che viene offerta da Oscar D'Agostino, uno dei primi attori delle ricerche che
condussero infine alla bomba atomica12:
"[Majorana] Tornò più volte in via Panisperna per discutere con Fermi su tutte le questioni teoriche
che erano state, per così dire, messe sul tappeto dalle stesse scoperte di Fermi e da quelle
immediatamente precedenti dei coniugi Joliot-Curie. Un pomeriggio Amaldi ed io arrivammo
all'Istituto di Fisica verso le due. Fatti pochi passi cominciammo a percepire grida ed esclamazioni
assai vivaci. Riconoscemmo la voce di Fermi e ci stupimmo non poco. Non avevamo mai udito Fermi
urlare. La porta dello studio era aperta: Fermi e Majorana, davanti a grosse lavagne piene di numeri e
di strani segni più o meno cabalistici, si davano reciprocamente del cretino e dell'asino. La disputa era
incominciata verso mezzogiorno. Nel calore della discussione nessuno dei due fisici aveva pensato di
andare a pranzo. Fu quella l'ultima volta che vidi Majorana. "
Non ce ne sarebbe ovviamente bisogno, ma sottolineiamo pure, per i "distratti", che,
secondo le dichiarazioni di quest'altro testimone oculare, come già detto da tutti solitamente
trascurato, Amaldi stesso fu presente all'episodio, e che quella sopra riferita non può essere
considerata una naturale comune sfuriata, con successiva rappacificazione, perché dopo di
allora D'Agostino non vide mai più Majorana in via Panisperna! (l'accaduto si riferisce alla
tarda primavera del 1934, quindi a ben 4 anni prima della scomparsa del povero Ettore).
3 - Altre scomparse
Amaldi dunque rimprovera Sciascia per aver esercitato troppa fantasia, essersi preso delle
discutibili eccessive libertà, nella costruzione del suo "giallo", "in una prospettiva che spesso
caratterizza più l'autore che la vicenda trattata". Un lavoro da letterato, da artista, il suo, di
nessun valore dal punto di vista storico. Muoverò invece qui di seguito all'autore di
Racalmuto la critica di aver messo in campo troppo poca fantasia, e che di questa sua
deficienza era forse ben consapevole.
E' chiaro che sarà necessario preliminarmente delineare un plausibile scenario alternativo, a
quello che in fondo accomunava tanto Amaldi quanto Sciascia. Per usare ancora le parole del
primo, il problema sarebbe "di comprendere le ragioni per cui Ettore Majorana abbia deciso di
scomparire (e sia scomparso)", prefigurando già così l'unica possibile soluzione del caso della
quale sarebbe legittimo discutere13. Ma se Majorana NON avesse optato per una "fuga dal
mondo", e il senso di tutto l'accaduto fosse viceversa l'aver quegli SUBÌTO, e non SCELTO,
la sua sorte? E una simile eventualità, trattandosi a fortiori di un siciliano che scompare nella
sua terra d'origine, non sarebbe dovuta venire in mente proprio a Sciascia, che di altrettanto
analoghe luttuose sparizioni ben sapeva, e sulle quali aveva anzi basato diverse sue storie?
Nel primo racconto di Sciascia dedicato alla conquista (o riconquista) della Sicilia da parte
della mafia (Il giorno della civetta, 1961) "scompare" un certo Nicolosi, che aveva avuto
l'unica colpa di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato 14. Nella successiva storia,
affine alla precedente per tema ed ambientazione (A ciascuno il suo, 1966), "scompare" il
87
Prof. Laurana, che si spera possa risaltare fuori un momento o l'altro, "come un gatto che è
andato a passare qualche giorno sui tetti", laddove in verità già "giaceva sotto grave mora di
rosticci, in una zolfara abbandonata, a metà strada, in linea d'aria, tra il suo paese e il
capoluogo" (enfasi del presente autore).
Fin qui la "fantasia" letteraria - anche se, si sa bene, il confine con verità ispiratrici è assai
labile - ma certamente Sciascia non poteva ignorare, nel mentre poneva attenzione alla
vicenda Majorana, l'effettiva scomparsa del giornalista Mauro De Mauro, avvenuta nel
settembre del 1970 in piena Palermo (e a maggior ragione dappoiché lo sventurato aveva
scritto, solo qualche anno prima, un'inchiesta in tre puntate proprio sulla storia del fisico
catanese15).
Tre "persone", tra realtà e immaginazione, che non si rintracciano più, in circostanze dietro
le quali si profila minacciosa l'ombra della mafia, e non il desiderio di rifarsi una vita altrove,
o dedicarsi pacificamente alla meditazione spirituale e alla preghiera: parlando sotto il profilo
delle pure ipotesi logiche, si può davvero scartare a priori tale "pista" nel caso di cui ci stiamo
occupando, e confinarla nel novero delle ricostruzioni "fantasiose", che andrebbero
"tralasciate per ovvi motivi"16?
Non è questo breve articolo naturalmente la sede adatta per discutere i pro e i contro di
un'ipotesi di soluzione conforme a siffatte premesse17, ma la si può comunque cercare di
riassumere così. Majorana potrebbe essere scomparso perché, nei preparativi del conflitto
mondiale che appariva sempre più ineluttabile, le applicazioni di alcune recenti scoperte
scientifiche sembravano poter assumere presto un importante rilievo, tanto che la corsa
all'accaparramento dei principali esperti di talune questioni era già cominciata 18. Il timore che
lo scienziato siciliano potesse restare in un certo campo, anziché nell'altro, può aver fatto
precipitare una tragica decisione, alla cui esecuzione la famigerata organizzazione criminale,
evidentemente già allora collusa con i servizi segreti americani, si sarebbe prestata. La tesi
della fuga, o del suicidio, sarebbero state volutamente accreditate (in qualche modo facilitate
dagli ultimi inconsulti tentativi di Majorana stesso di sottrarsi ai presumibili rischi che
correva, o a eventuali pressioni indesiderate), per non attirare l'attenzione del governo fascista
su un ambiente che desiderava al tempo su di sé molte più ombre che non luci19.
Se ne trarrebbe che gli "ovvi motivi" di cui sopra, piuttosto che nella manifesta infondatezza
di considerazioni dietrologiche (una "parola magica" che, una volta pronunciata, sembra oggi
mettere a posto ogni coscienza), consisterebbero allora soprattutto:
i - nella scarsa volontà di tutti (compresa la stessa famiglia Majorana, naturalmente ad eventi
bellici conclusi) di chiarire la posizione dello scienziato in ordine al suo possibile
schieramento dalla parte dei "cattivi", e non da quella dei "buoni"20;
ii - nell'ovvio desiderio di non approfondire i particolari della vicenda da parte di coloro che
vi furono personalmente (e forse drammaticamente) coinvolti, in modo più o meno diretto;
iii - nell'intento politico di non riproporre, attraverso la discussione di un caso tutto sommato
"marginale", la questione dei rapporti della mafia con il fascismo, a seguito della nota
campagna del prefetto Mori, e la successiva collaborazione di questa dalla parte degli alleati
(o dei futuri alleati) contro il governo persecutore21;
iv - il rifiuto di dibattere il precedente punto consente altresì di non indagare in determinate
direzioni - "pericolose" per chi le segue, come il povero De Mauro sperimentò di persona - le
possibili ulteriori connessioni tra mafia ed interessi americani in Italia, caso Mattei docet22.
88
E' il complesso di tali motivazioni che potrebbe forse spiegare come mai una particolare
ipotesi investigativa sia rimasta sempre sciaguratamente assente dal campo, quasi un tabù
ideologico impedisse addirittura di pensarla (e se ciò può essere scusabile per quanto si
riferisce alle indagini del 1938, lo diventa assai meno per chi dovrebbe avere a suo favore
almeno il senno di poi). Perché anche solo pronunciare nel presente contesto la terribile
parola: "omicidio" - sebbene è probabile che si sia trattato di un "delitto di stato" rimanderebbe alla ricerca del possibile "omicida", e dei suoi mandanti, ma guai a cominciare a
gettare sia pure ragionevoli dubbi sugli intimi, tutti assolutamente al di sopra di ogni
sospetto, proprio come nelle migliori storie di Sciascia, per l'appunto, che la sapeva assai
lunga in proposito...
4 - Conclusioni
Per proseguire nella metafora di tipo giudiziario, dopo l'accusa, un po' di "difesa". Si
potrebbe per esempio sostenere che il lavoro di Sciascia non dovrebbe essere inquadrato nella
categoria della "cronaca", o del resoconto storico, come abbiamo finora fatto, ma in quella del
mero espediente letterario. Ovvero, una semplice finzione, la vicenda terrena di Majorana
offrendosi opportuna a simbolizzare - secondo la personale prospettiva ideologica dell'autore,
e la "soluzione" da questi prescelta - la figura dello scienziato pentito, il quale, presago degli
orrori che sarebbero usciti dal vaso di Pandora incautamente aperto dai suoi colleghi, compie
una scelta spirituale, e si ritira dalle brame del mondo 23. Anche la tesi del suicidio si sarebbe
prestata altrettanto bene, del resto, per un siffatto utilizzo della vicenda in chiave allegoricomorale, né è mancato infatti chi (soprattutto in occasioni di tipo popolare-divulgativo) ha
proposto a tale scopo questa "spiegazione", indicando negli scrupoli dello scienziato, più
sensibile degli altri apprendisti stregoni manipolatori della materia, il principale movente per
l'eventuale atto estremo24.
Sinceramente, ritengo che la detta linea di difesa sia decisamente debole, e che, affrontando
gli avvenimenti in parola, il nostro autore avesse l'intenzione di restare sul versante della
realtà, e non su quello dell'immaginazione. E allora, quali conclusioni trarre in definitiva? Se
fosse vera, anche solo in qualcuna delle sue linee generali, la ricostruzione sopra accennata,
Sciascia non avrebbe saputo (o voluto) "intuire" nulla di ciò che potrebbe essere veramente
accaduto25? (escludendo naturalmente l'eventualità che abbia compiuto opera di volontario
"depistaggio").
C'è un'altra possibile più convincente difesa, che passa attraverso un tentativo di autentica
comprensione del "metodo" dello scrittore, della sua personalità, e l'unico modo per
individuarli è, al solito, quello di far parlare egli stesso.
"Ho impiegato addirittura un anno ... per far più corto questo racconto ... Ma il risultato cui questo
mio lavoro di cavare [corsivo nel testo] voleva giungere era rivolto più che a dare misura, essenzialità
e ritmo, al racconto, a parare le eventuali e possibili intolleranze [corsivi del presente autore!] di
coloro che dalla mia rappresentazione potessero ritenersi, più o meno direttamente, colpiti. Perché in
Italia, si sa, non si può scherzare né coi santi né coi fanti: e figuriamoci se, invece che scherzare, si
vuol fare sul serio ... Non mi sento eroico al punto da sfidare imputazioni di oltraggio e vilipendio; non
mi sento di farlo deliberatamente. Perciò, quando mi sono accorto che la mia immaginazione non
aveva tenuto nel dovuto conto i limiti che le leggi dello Stato e, più che le leggi, la suscettibilità di
coloro che le fanno rispettare, impongono, mi sono dato a cavare, a cavare ... Può darsi che il racconto
ne abbia guadagnato. Ma è certo, comunque, che non l'ho scritto con quella piena libertà di cui uno
scrittore (e mi dico scrittore soltanto per il fatto che mi trovo a scrivere) dovrebbe sempre godere
[ancora una volta, il corsivo è aggiunto]. Inutile dire che non c'è nel racconto personaggio o fatto che
abbia rispondenza, se non fortuita, con persone esistenti e fatti accaduti ".
89
Queste parole, quasi una straordinaria "confessione", sono contenute in una nota finale
apposta a Il giorno della civetta, e si può dire che esse non richiedano ulteriori commenti, ad
illustrazione dell'ipotesi interpretativa cui abbiamo accennato. Del resto, se quella del capitano
Bellodi era dichiaratamente un'opera di fantasia, quanto più allora certe cautele, certa
profonda amarezza e disistima per l'ambiente in cui si trovava a vivere, debbono avere
condizionato la "libertà" dello scrittore nel trattare un caso fin troppo concreto? E, ancora, se
questi ricevette critiche per aver solo osato pensare a un concorso pilotato (e quando mai
nell'ambiente universitario?!), e a possibili "rancori" all'interno di un gruppo di scienziatiprofessori (in Italia siamo sempre tutti "amici", o almeno così bisogna dire, e scrivere,
nonostante ogni evidenza contraria - anche se, per fortuna, non necessariamente "amici degli
amici"), figurarsi se avrebbe potuto lasciarsi andare ad esprimere alcuni dubbi, oppure ad
accennare soltanto, così per puro esercizio di logica e libertà, a piste che andrebbero
(avrebbero dovuto essere sin dall'inizio) perseguite con maggiore rigore, e soprattutto totale
assenza di pregiudizi. L'infondatezza di certe supposizioni potrebbe essere provata solamente
dopo indagini davvero degne di questo nome, e non per via di anatemi (pur sempre efficaci,
specialmente sugli "uomini di cultura" che, da sempre bramosi di servire il potere del
momento per ricavarne benefici, evitano di contrastarlo, o di fungere pubblicamente da sua
"coscienza critica" - il pessimismo civile di Sciascia, con ciò che ne consegue in ordine
all'inutilità dell'agire, riguarderebbe una tipologia diversa di intellettuale26).
Potremmo interrompere qui la nostra analisi, ma desiderio di completezza, e forse di
"provocazione", ci spinge a chiederci se, una persona intelligente come Sciascia, non abbia
lasciato forse, confuse nella sua opera complessiva, delle "tracce" del suo reale pensiero. E
allora non resisto a dire che la mia fantasia maliziosa avverte una sorta di parallelismo tra la
fine di Majorana e quella del povero professor Laurana (eh sì, professori entrambi, legati
inoltre dalla funzione, oltre che dall'assonanza botanica dei cognomi), che capisce troppo e
scompare, di quell'improvvisato detective della cui ingenua onestà e curiosità non ci si poteva
"fidare" (addirittura: "cretino", è l'ultimo appellativo che si usa per lui nel libro), ma che al
contrario si fida di chi, malgrado fosse abbastanza sconosciuto, gli offre un passaggio in auto
per tornare a casa. Quasi che Sciascia avesse voluto dire che, a cercar bene, il corpo di
Majorana - come quello dell'altro sfortunato De Mauro27, e di chissà quanti altri - avrebbe
potuto essere ritrovato poco distante da Palermo (quante volte non sarebbe meglio appunto, in
simili casi, scavare vicino, che non cercare lontano?!), in una zolfara, o in un chiarchiaro,
piuttosto che all'ombra del silenzioso chiostro di un convento, o addirittura in un'altra parte
del mondo, alla stregua di un banchiere fuggito con i risparmi dei suoi clienti...
Un'ipotesi troppo "scottante" questa per poter essere sia pure solo sussurrata ancora oggi?
Bene, aspettiamo allora che più acqua passi sotto i ponti, ma cominciamo ad alimentare di
nascosto, nell'ombra delle nostre menti, un piccolo dubbio, anche se sono persuaso che,
proprio come nel "caso Laurana", soltanto quel "cretino" (e tale pure è forse il sottoscritto!)
non aveva piena consapevolezza di fatti che viceversa tutti conoscevano assai bene...
Note
1 - La pubblicazione in volume era stata preceduta da 7 articoli apparsi su La Stampa tra il 31 agosto e
il 7 settembre 1975, presentati come un "giallo filosofico". C'è perfetta corrispondenza tra questi e il
successivo libro (che era peraltro annunciato con un titolo diverso: E possibilmente anche dopo), a
parte l'aggiunta di numerose note a pie' di pagina, che non appaiono nel quotidiano.
2 - Morris Kline, Storia del pensiero matematico, Ed. Einaudi, Torino, 1991, vol. II, p. 908.
90
3 - Erasmo Recami, Il caso Majorana, Ed. Mondadori, Milano, 1987. In quest'opera, assolutamente
fondamentale per chiunque voglia conoscere ogni elemento documentario sulla vicenda, sono riportate
tutte le lettere dello scienziato scomparso, alcuni brani delle quali nel seguito citeremo senza
ulteriore esplicita indicazione.
4 - Bruno Russo, Ettore Majorana - un giorno di marzo, Ed. Flaccovio, Palermo, 1997.
5 - Il primo dei principi della filosofia di Cartesio recita appunto: "Che per esaminare la verità si deve,
una volta nella vita, porre tutto in dubbio, quanto è possibile".
6 - 5 ottobre 1975. Amaldi replicava alla serie di articoli apparsi sul quotidiano torinese (vedi nota 1).
Nel sottotitolo del pezzo in oggetto compaiono le parole: "Secondo Leonardo Sciascia il fisico
Majorana 'non morì suicida nel 1936 [sic], ma si rifugiò in un convento'. Perché? 'Per orrore
dell'atomica e rancore verso i suoi colleghi'. Ma Edoardo Amaldi, che fu suo amico e collega di Fermi,
sostiene che non è vero...". L'espressione "Per orrore dell'atomica etc.", pur riportata tra virgolette, non
sembra comparire in effetti nel lavoro di Sciascia, il quale, anziché "rancore", si limita ad utilizzare
termini quali: antagonismo, diffidenza, estraneità, ripicco, puntiglio.
7 - C'è assai da dubitare di questa affermazione, e in effetti una sua smentita è essenziale per lo
scenario alternativo che qui si proporrà. Si veda allora al riguardo quanto viene riportato nello studio
del presente autore, La scomparsa di Ettore Majorana: un affare di stato?, Ed. Andromeda, Bologna,
1999, pp. 57 e segg.. Amaldi entra in particolari scientifici in effetti sconosciuti all'epoca di Majorana,
necessari però per la costruzione della bomba, ma ovviamente la convinzione che qualcosa possa
essere conseguito percorrendo una certa strada è cosa ben diversa dalla conoscenza completa di tutti i
dettagli e le difficoltà dell'operazione, che si è rivelata certamente più complessa di quanto
l'immaginazione delle persone coinvolte nella vicenda, negli anni dal '34 al '38, poteva
ragionevolmente prevedere. Nell'analizzare i problemi teorici e sperimentali che bisognava ancora
superare, Amaldi ci rivela comunque un particolare significativo, e cioè che Majorana era molto
interessato a fare previsioni "per vedere quale dei due gruppi di potenze che entro qualche anno si
sarebbero con ogni probabilità affrontati, aveva maggiori probabilità di prevalere"! Come dire che
almeno la consapevolezza dell'imminente conflitto era ben presente tra i fisici di via Panisperna.
8 - Amaldi si affanna anche a sottolineare come i prevedibili vincitori del concorso "secondo giustizia"
fossero tutti assolutamente meritevoli, ma il giudizio di Majorana su almeno uno di questi non è
propriamente positivo. Citiamo da una lettera al sincero amico Giovanni Gentile jr.: "Ho visto il lavoro
di Racah, ma solo nelle bozze. Nella seconda parte vi è qualcosa di reale: cioè l'effettiva applicazione
alla teoria β e le critiche che mi rivolge. La prima parte non è originale e anche come matematica è
traballante: Racah non sa, o non crede, che gli spinori hanno due valori e ne trascura le conseguenze.
Cose che succedono sempre quando si impara da altri (Pauli) piuttosto che da se stessi". Si tratta di
uno scritto del 21.11.37, dei tempi cioè del famoso concorso, a proposito della quanto meno anomala e
rara conduzione del quale, Majorana ebbe a dire: "Ho riso alquanto per le stranezze procedurali del
mio concorso, delle quali non avevo alcun sospetto"; "se al prossimo conclave mi fanno papa per
meriti eccezionali accetto senz'altro" (da lettere allo zio Quirino Majorana, noto fisico, oppositore
della teoria della relatività di Einstein, 16.11.37, e a Gentile, 21.11.37). Né del resto si può fare a meno
di sentire acre ironia in queste altre parole, sempre indirizzate a Gentile (e qui siamo al 12.3.1933,
l'anno che segnò l'inizio del definitivo distacco dai colleghi romani): "Ho avuto da Roma una copia
della grande opera di Fermi e Segrè che apparirà presto fra le memorie dell'Accademia. A questa dovrà
seguire un'altra grande opera di Fermi e Amaldi sui calcoli statistici". Sarebbe interessante
naturalmente discutere se esistessero anche altre e più importanti ragioni di contrapposizione
all'interno del gruppo di via Panisperna, e quale ne fosse l'origine profonda, ma sono tutti argomenti
sui quali si preferisce sempre sorvolare...
9 - Ci sarebbe da interrogarsi se ciò sia proprio vero. Una testimonianza, che può essere sempre
interessata, vale davvero più di una sensata deduzione? Per trovare una risposta a questo interrogativo
restando all'interno dell'universo sciasciano, citiamo da Il giorno della civetta (opera su cui presto
ritorneremo): "- Lasciate che tutto arrivi al giudice istruttore: e intanto preparate per Diego un alibi di
quelli che, a tentare di morderli, ci si rimettono i denti... - E che vuol dire? - Vuol dire che Diego, il
91
giorno che Colasberna è stato ammazzato, alla stessa ora, stava mille miglia lontano dal luogo del
delitto, e in compagnia di degnissime persone, mai censurate dalla legge, galantuomini della cui parola
nessun giudice ha il diritto di dubitare...".
10 - Questo è un altro importante particolare sul quale giustamente insiste Sciascia, accennando per
esempio alla corrispondenza scientifica tra Ettore e lo zio Quirino, già citato. Delle ultime eventuali
ricerche di Majorana lo stesso Amaldi ammette: "Nessuno di noi riuscì però mai a sapere se facesse
ancora della ricerca in fisica teorica; penso di sì, ma non ne ho alcuna prova" (l'affermazione è
riportata da Sciascia, alla p. 48), pure: "[Majorana] Lavorava molto, per un numero di ore del tutto
eccezionale" (ibidem), alla fine forse anche per "tenersi a quel livello di 'chiara fama' per cui era stato
chiamato alla cattedra ... Non poteva ormai non stare alla pari di un Fermi" (p. 53). A tale proposito,
un importante elemento da non sottovalutare, nella sua incongruità rispetto a versioni "buoniste" della
vicenda, è il caso degli appunti scomparsi dello scienziato. Questi aveva consegnato infatti a una
studentessa, proprio il giorno della sua ultima lezione a Napoli (sede dove Majorana era da poco
venuto ad insegnare, in seguito al famoso concorso), certe carte, dalla ragazza date poi al fidanzato,
assistente presso l'Istituto di Fisica della città partenopea, il quale le fece finire successivamente nelle
mani del Prof. Carrelli, direttore del detto Istituto. Da allora di questi fogli si perde ogni notizia,
avendoli Carrelli, a quel che pare, definitivamente perduti (perché non consegnati subito ai familiari
dello scomparso?!). Si tratta di storia risaputa, che il libro di B. Russo, citato nella nota 4, riferisce
invero molto bene (Cap. VI), aggiungendo anzi, rispetto ad altre fonti, un interessante dettaglio, ancora
frutto di una testimonianza diretta: e cioè che lo stesso Carrelli aveva cercato di ottenere dagli
studenti le annotazioni prese durante le lezioni del neo-professore!
11 - Sia pure soltanto di un ideale tribunale della storia, che non ha la responsabilità di stabilire colpe,
e comminare pene, ma unicamente di pervenire ad interpretazioni credibili di eventi passati,
possibilmente diverse e in alternativa - comunque, si potrebbe scommettere che funzionerebbe sempre
meglio di tanti, troppi, dei nostri tribunali veri.
12 - I ricordi di D'Agostino (che era il chimico del gruppo di via Panisperna, sempre rimasto piuttosto
in disparte nelle numerose "storie" ad esso dedicate) furono pubblicati in più puntate nel 1958 sul
Candido, il "settimanale d'attualità e politica fondato da Giovannino Guareschi nel 1945" (si tratta qui
in particolare del N. 24 del 15 giugno). Questa fonte, che appare diretta e sincera (in quanto
evidentemente disinteressata), oltre che di prima mano, è ignorata dagli altri lavori sul caso Majorana
che conosco, e che qui ho citato, ma forse, più che per volontà di non prendere in considerazione indizi
che porterebbero su strade "rischiose", perché il Candido era un settimanale di destra, in un momento
in cui la "cultura" italiana era principalmente di sinistra.
13 - Non è questo del resto l'unico punto nel quale Amaldi tende cripticamente ad orientare le ipotesi
sulla scomparsa di Majorana solo in certe direzioni: "Quest'estate ... 'La Stampa' di Torino pubblicò un
manipolo di 'rivelazioni' sulla scomparsa di Majorana ... [che] non giovavano a risolvere il 'mistero'
Majorana, (se cioè si fosse veramente suicidato o se invece, tentato il suicidio, si fosse rinchiuso in un
convento senza più dar notizie)" (tertium non datur?!).
14 - In questo caso, però, il cadavere dello sventurato viene successivamente rinvenuto in un
chiarchiaro, ovvero "una zona pietrosa, un insieme di grotte, di buchi, di anfratti".
15 - L'Ora, Palermo, ottobre 1965.
16 - Utilizziamo qui espressioni contenute nel libro di Bruno Russo citato nella nota 4, p. 85. Questo
lavoro, di dimensioni modeste come il suo contenuto generale, propende per l'ipotesi del suicidio,
senza prendere minimamente in considerazione gli argomenti con i quali proprio Sciascia confutò
brillantemente tale possibilità: "Esaurimento nervoso, dicono concordemente i testimoni (e lo dissero
anche i medici di famiglia); e alcuni sarebbero costretti a parlare di follia, se non disponessero di
questo delicato, 'moderno' eufemismo. Ma l'esaurimento nervoso o la follia non sono porte aperte da
cui si entra e si esce quando si vuole.", p. 50; "altro elemento da tener presente contro la tesi del
suicidio, Ettore Majorana portò con sé passaporto e denaro", p. 64. Ulteriori considerazioni contro
questa soluzione sono contenute nello studio del presente autore, già citato nella nota 7.
92
17 - Rimandiamo allo studio indicato nella nota 7 il lettore interessato all'esame di questo tipo di
ipotesi, oppure all'assai poco noto, dal momento che è pur esso ignorato dai lavori di maggiore
diffusione dedicati alla vicenda: Salvo Bella, Rivelazioni sulla scomparsa di uno scienziato: Ettore
Majorana, Ed. Italia Letteraria, Milano, 1975. Tale studio individua correttamente l'esistenza di una
"macchinazione politica internazionale" (p. 142) dietro la sparizione dello scienziato, e il ruolo della
mafia quale intermediario: "Grande rappresentante occulto degli americani era a quell'epoca il
capomafia don Calò Vizzini, che nel 1943 ne organizzò lo sbarco in Sicilia", ma sembra poi "perdersi"
nelle conclusioni, visto che Majorana sarebbe stato soltanto premurosamente aiutato a cambiare ...
identità, e a nascondersi nelle vesti di un sacerdote. Del resto, anche questo autore appare vittima di un
antifascismo di maniera, visto che ci tiene a sottolineare che Majorana "era antifascista e ogni
capodanno scommetteva con gli amici che il regime sarebbe entro i dodici mesi caduto" (p. 156). Ma
se Majorana fosse stato davvero antifascista, come gli altri fisici che lasciarono l'Italia per andare a
costruire la bomba atomica negli Stati Uniti, sarebbe partito con loro, e se non avesse davvero voluto
impegnarsi concretamente nell'impresa, lo avrebbero lasciato in pace a portare avanti le sue ricerche
"astratte" in qualche istituto scientifico prestigioso. Sulla questione vedi la successiva nota 20.
18 - Anche se talune ipotesi resteranno probabilmente sempre confinate nel rango di illazioni, un fatto
è sicuro, e consiste nella quasi sincrona fuga della maggior parte del gruppo dei fisici romani centro di
questa storia nei mesi successivi alla scomparsa di Majorana, così come è certo che la gran parte di
queste persone si troveranno poi in posizioni di rilievo nel famoso "progetto Manhattan". Pontecorvo
era già all'estero dal 1936, e passò a lavorare negli Stati Uniti nel 1940 (da dove poi, nel 1950, operò il
noto radicale cambiamento di campo, fuggendo con tutta la famiglia al di là della "cortina di ferro", a
seguito di alcuni misteriosi episodi di spionaggio, i cui più autentici retroscena aspettano ancora di
essere chiariti). Emilio Segrè si recò negli Stati Uniti già nel mese di luglio del 1938. Fermi lo
raggiunse poco dopo, nel mese di dicembre dello stesso anno, assumendo il conferimento del premio
Nobel a Stoccolma come pretesto per allontanarsi dall'Italia, dove non farà mai più se non saltuario
ritorno (morirà a Chicago, nel 1954; a proposito di fascismo e di anti-fascismo nel gruppo dei fisici
romani, Sciascia sottolinea opportunamente che fece scandalo al tempo la circostanza che, nel
momento del ricevimento del Nobel, non effettuasse il prescritto saluto romano - p. 14). Amaldi andò
oltreoceano nel luglio del 1939, e il giorno della dichiarazione ufficiale dello stato di guerra tra le
potenze alleate e la Germania (3 settembre 1939) fu raggiunto dalla notizia che la Questura di Roma
aveva impedito che la sua famiglia potesse seguirlo in America, sicché fu costretto a rientrare in Italia
nel mese di ottobre, prima che il nostro paese entrasse a sua volta nel conflitto (10 giugno 1940). Il
caso di Rasetti, assistente di Fermi, e l'unico dei protagonisti tuttora viventi di questa storia, fu del
tutto diverso, e degno di particolare attenzione. Questi abbandonò definitivamente l'Italia nell'estate
del 1939, ma la sua meta fu il Canada, dove lasciò, in maniera definitiva, gli studi di fisica,
dedicandosi da allora in poi a quelli di scienze naturali (geologia e paleontologia), rifiutando
sostanzialmente ogni contatto con gli ex-amici. Perché? Anche le possibili connotazioni psicologiche
di tale peculiare comportamento potrebbero avere grande importanza sullo sfondo dello scenario
alternativo qui proposto. Naturalmente, non furono soltanto i fisici romani a essere coinvolti in questa
sorta di grandioso esodo scientifico; l'evento assunse dimensioni nazionali e internazionali. Tra gli altri
fisici ebrei italiani inclusi nel progetto Manhattan, Bruno Rossi lasciò anch'egli l'Italia nel 1938,
raggiungendo gli Stati Uniti dopo aver fatto tappa a Copenaghen; e come lui emigrarono, poco dopo,
Giulio Racah (uno dei vincitori del "concorso" di cui al secondo paragrafo), che si recò però
nell'attuale Israele, e il cugino Ugo Fano (che, già laureato, aveva studiato a Roma con Fermi). Per
quel che riguarda ciò che accadde al di fuori dei nostri confini, a prescindere da Albert Einstein, che
aveva già detto addio alla Germania per gli Stati Uniti nel 1933 (dove divenne professore presso l'oggi
celeberrimo Istituto di Studi Avanzati di Princeton, allora appena istituito), e da Johann von Neumann,
che si trovava negli USA dal 1930, lasciarono o avevano da poco lasciato l'Europa in quegli anni, per
raggiungere i fisici americani Julius Robert Oppenheimer (il cosiddetto padre della bomba atomica) e
Isidor Rabi (premio Nobel 1944), entrambi di origine ebraica: Niels Bohr, Max Born, Edward Teller
(il futuro ideatore della bomba H), James Chadwick (lo scopritore del neutrone), Eugene Wigner
(premio Nobel 1963), Leo Szilard, Hans Bethe, Klaus Fuchs (che fu poi accusato, nel 1949, di avere
fatto la spia al servizio dei sovietici sin dal 1942; arrestato, a differenza di Pontecorvo - riuscito a
fuggire prima, evitando simili accuse e conseguente reclusione - Fuchs poté riparare anche lui in
URSS soltanto dopo uno scambio di prigionieri), Rudolf Peierls (leader del progetto atomico inglese, e
93
"maestro" di Fuchs), George Placzek, Samuel Goudsmit, Otto Frisch, etc. (citando un po' alla rinfusa);
tutti futuri membri, seppure a diverso titolo, dell'esclusivo club atomico. Si può aggiungere che
numerosi di questi scienziati avevano trascorso qualche tempo presso l'Istituto di Fisica di Roma, nel
momento di massimo splendore della "scuola" di Fermi.
19 - A dire il vero, nel corso delle mie personali "indagini", mi è pure venuta all'orecchio, in via
riservata, una nuova "possibile verità", della stessa "tipologia" però di quella qui illustrata, anche se ad
essa in qualche senso "antipodale". Majorana sarebbe fuggito volontariamente in Germania (lasciando
credere di essersi tolto la vita), allo scopo di collaborare con alcuni scienziati del III Reich addetti al
progetto della fantomatica "bomba atomica" tedesca, che aveva avuto modo di conoscere e stimare
durante il suo soggiorno in Germania nel 1933; successivamente, alla conclusione delle ostilità,
avrebbe trovato rifugio in Sud America, assieme ad altri gerarchi nazisti. L'ipotesi così sintetizzata,
alla quale mi piace riferirmi come all'ipotesi Klingsor (ricollegandola al romanzo di Jorge Volpi, In
cerca di Klingsor, Mondadori, 2000, dove peraltro non si nomina mai Majorana), ha diversi "meriti":
per esempio è capace di spiegare talune voci di avvistamento dello scienziato in quella parte del
mondo (a cui si dà molto credito, come si è ricordato, nel libro di Recami - ma, appunto, la vera fuga
dall'Europa sarebbe avvenuta nel '45, e non nel '38!), oppure le chiacchiere relative a un suo ritiro, per
ovvie ragioni del tutto occultato, in qualche convento italiano, a seguito di un ritorno nel nostro paese
un numero imprecisato di anni dopo i drammatici eventi della guerra (vedi per esempio Sharo
Gambino, L'atomica e il chiostro, Jaca Book, 2001). La famiglia - o almeno parte di essa, e da un certo
punto in poi - sarebbe stata al corrente dei fatti, ma per comprensibili motivi avrebbe preferito
continuare ad accreditare l'ipotesi del suicidio, tenuto conto che il collaborazionismo sarebbe stato
ritenuto peccato ben peggiore da addebitare al congiunto. Si tratta di una ricostruzione logicamente
decente (e coerente, al pari del resto di quella che ho deciso finora di privilegiare, con uno dei
"dettagli" più inquietanti di tutto questo mistero, cioè la testimonianza, ingiustamente sottovalutata,
della signora Fiorenza Tebalducci - cfr. lo studio citato nella nota 7, pp. 75 e segg.), se non fosse per
due grosse obiezioni alle quali non riesco a trovare adeguata risposta. Perché tale specifico episodio
sarebbe passato completamente sotto silenzio, quando numerosi particolari, riguardanti il ruolo di altri
scienziati collaboratori dei nazionalsocialisti, sono stati divulgati? (vedi per esempio Operation
Epsilon: The Farm Hall Transcripts, Inst. of Phys. Publ., Bristol, 1993, attualmente distribuito dalla
Univ. of California Press). Perché soltanto alla memoria di Majorana sarebbe stato riservato un
trattamento di favore, specialmente da parte di persone che - come Emilio Segrè, tanto per citare uno
dei "ragazzi di via Panisperna" - non lo "amavano" di certo? Inoltre, se Majorana intendeva davvero
fuggire in Germania simulando un suicidio, quale sarebbe il senso delle note "complicazioni": una
prima lettera annunciante il suo proposito, poi una seconda in cui lo rinnegava, un viaggio a Palermo
apparentemente inutile, il ritorno a Napoli, seppure realmente avvenuto, etc.?! Comunque sia, si è
ahimé costretti a riconoscere che la completezza logica è il grande assente da tutte queste indagini, sia
da quelle poliziesche veramente effettuate al tempo, che definire mediocri è un eufemismo [Sciascia,
nel suo solito modo brillantemente pungente, così si esprime sul tema: "la sicurezza pubblica, per quel
tanto che se ne gode, più poggia sulla poca e sporadica tendenza a delinquere degli uomini che
sull'impegno, l'efficienza e l'acume di essa polizia [...] più o meno secondo i tempi, più o meno
secondo i paesi ... E senz'altro riconosciamo di essere anche noi ingiusti nei riguardi della polizia
italiana, del modo - che ci appare svogliato e senza acutezza - in cui la polizia italiana condusse le
indagini per la scomparsa di Ettore Majorana. Non le condusse affatto, anzi: lasciò che le
conducessero i familiari, limitandosi ... a 'collaborare' (e ad un certo punto, è facile immaginarlo, a
fingere di collaborare).", p. 10], sia da quelle successive "letterarie", che è difficile non qualificare
"deboli", e "conformiste"...
20 - Abbiamo già cominciato ad accennare alla spinosa questione delle eventuali "simpatie fasciste" di
Ettore Majorana, altro elemento che curiosamente lo accomuna a Mauro De Mauro, che fu, con grave
imbarazzo dei suoi successivi numerosi estimatori "democratici", combattente della R.S.I., e devoto
del comandante della X MAS Junio Valerio Borghese (tanto da battezzare una propria figlia con il
nome di Junia). Nel tentativo di "dimostrare" l'antifascismo di Majorana si affannano un po' tutti, dal
Bella già citato (vedi nota 17), al Recami, al Russo, etc. (fino al punto che qualcuna delle ipotesi
davvero più fantasiose contempla un intervento dei nostri servizi segreti contro Majorana: come è
possibile però concepire questi intervenire contro il fisico siciliano, dubbiosi della sua "lealtà", e
inattivi invece nei confronti dei ben più sospettabili di "collusione con il nemico" Fermi, o Segrè, tanto
94
da consentirne addirittura qualche mese dopo i fatti che stiamo esaminando la partenza dall'Italia?!),
ma non Sciascia, che anzi scrive molto onestamente: "Siamo nel 1933. E in Italia gli antifascisti è
possibile incontrarli soltanto in carcere. Quattro anni prima c'era stata la 'conciliazione' tra Stato e
Chiesa: i cattolici avevano sciolto le loro riserve nei riguardi del fascismo, i vescovi benedivano i
gagliardetti e proclamavano Mussolini 'uomo della Provvidenza'. L'anno prima anche Pirandello aveva
montato la guardia alla mostra del decennale della 'rivoluzione fascista'. Marconi presiedeva la reale
Accademia d'Italia voluta da Mussolini. Fermi, accademico, era Sua Eccellenza Fermi. D'Annunzio ...
continuava a mandare a Mussolini fraterni messaggi ... Del primato italiano negli armamenti, nel
giuoco del calcio e nella fisica, nessuno dubitava. Tutto il mondo ammirava le imprese dell'aviazione
italiana. Critici accademici e militanti esaltavano la prosa di Mussolini. Ad ogni discorso di Mussolini,
piazza Venezia rombava di un consenso che trovava eco nei palazzi e nei tugurî ... E dovremmo
proprio a Ettore Majorana, disimpegnato dalla politica al limite di quanto allora si poteva essere
disimpegnati, distante, chiuso nei suoi pensieri, chiedere una netta ripulsa del fascismo, un duro
giudizio sul nascente nazismo?" (pp. 42-43). A me sembra che basti, a risolvere la vexata quaestio,
citare un passo di una delle prime lettere di Majorana scritte alla madre da Napoli (23.2.38): "Ho una
stanza discreta; oggi me ne daranno una migliore su via Depretis, da cui potrò vedere fra tre mesi il
passaggio di Hitler", ma naturalmente il problema è affrontato con maggiore ampiezza nello studio già
citato nella nota 7.
21 - Su questo argomento lasciamo parlare ancora Sciascia, attraverso uno dei suoi più indimenticabili
personaggi: "Una eccezionale sospensione delle garanzie costituzionali, in Sicilia e per qualche mese:
e il male sarebbe stato estirpato per sempre. Ma gli vennero alla memoria le repressioni di Mori, il
fascismo: e ritrovò la misura delle proprie idee, dei propri sentimenti. Ma durava la collera, la sua
collera di uomo del nord che investiva la Sicilia intera: questa regione che, sola in Italia, dalla dittatura
fascista aveva avuto in effetti libertà, la libertà che è nella sicurezza della vita e dei beni ... Per il
contadino, per il piccolo proprietario, per il pastore, per lo zolfataro, la dittatura parlava questo
linguaggio di libertà. 'E questa è forse la ragione per cui in Sicilia ... ci sono tanti fascisti...'" (da Il
giorno della civetta). Mi piace integrare queste considerazioni con un'ammissione di uno dei tanti
pentiti (o, meglio, "collaboratori della giustizia") di oggi: "Cosa Nostra era stata debellata da
Mussolini" (deposizione di Antonino Calderone, Verbale della Commissione Parlamentare di inchiesta
sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminali similari, N. 11, 1992, XI Legislatura,
Presidenza Luciano Violante).
22 - La probabile connessione della scomparsa di Mauro De Mauro con le sue indagini relative
all'assassinio di Enrico Mattei (avvenuto nel 1962, ma ufficialmente negato per ben 33 anni, visto che
la "versione di Stato" ha sempre parlato di un incidente casuale; solo una perizia del 1995 ha
finalmente rinvenuto "tracce di esplosivo nei resti dell'aereo e dei corpi") è brillantemente illustrata in:
Luciano Mirone, Gli insabbiati - Storie di giornalisti uccisi dalla Mafia e sepolti dall'Indifferenza, Ed.
Castelvecchi, Roma, 1999. In questo lavoro si riprende anche la questione dei rapporti tra mafia e
governo degli Stati Uniti: "Vito Guarrasi, potentissimo ed enigmatico avvocato palermitano, è colui
che dal dopoguerra è considerato la vera eminenza grigia nell'isola, l'anello di congiunzione dei poteri
occulti fra la Sicilia e gli Stati Uniti"; "Esperto di finanza, schivo, colto, Vito Guarrasi ha sempre
comandato da dietro le quinte ... l'8 settembre del '43, ad appena ventinove anni, è aiutante di campo
del generale Castellano al momento della firma dell'armistizio di Cassibile, un atto segreto che fa da
premessa allo sbarco dell'esercito anglo-americano in Sicilia. Guarrasi è una delle pochissime persone
ammesse a partecipare allo storico avvenimento"; "Dice l'ex-senatore Carmine Mancuso: 'Il patto
scellerato fra politica, massoneria e mafia avviene nel momento in cui gli alleati sbarcano in Sicilia:
l'artefice di questo legame è il colonnello Charles Poletti'." [secondo le ipotesi avanzate nel presente
articolo, il "patto" cui si fa cenno potrebbe risalire in verità anche a qualche anno prima, senza
dimenticare peraltro che sia mafia che massoneria avevano motivi di risentimento diretto nei confronti
del fascismo - mi sembra di fare cosa utile al lettore, interessato alla questione dell'esistenza di un
eventuale "fronte interno" occulto in azione durante la guerra, citando il libro di Piero Baroni, Una
patria venduta - Come tradimenti e congiure hanno portato alla disfatta dell'8 Settembre, Ed. Settimo
Sigillo, Roma, 1999]; "Michele Pantaleone afferma: 'Guarrasi è determinante per l'occupazione della
Sicilia ... dove la situazione era più tranquilla e la mafia si era messa a disposizione per dare il suo
apporto logistico. Molti boss vennero nominati sindaci. Calogero Vizzini e Genco Russo divennero
rispettivamente primi cittadini di Villalba e di Mussomeli ... Io sono convinto che fu Guarrasi ad
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indicare agli americani il nome di don Calò come una delle persone in grado di agevolare lo sbarco
alleato'."; "Il magistrato Aldo Rizzo, ex-componente della commissione parlamentare sulla P2,
aggiunge: 'Io escludo nella maniera più categorica che i delitti eccellenti palermitani abbiano soltanto
una matrice mafiosa, cioè credo che la mafia sia stata soltanto il braccio armato di un disegno molto
più complesso e molto più vasto. Il caso De Mauro bisogna inquadrarlo in una dimensione nazionale
ed internazionale'." (pp. 66-68, e 77). Il presidente dell'ENI, che non può essere ovviamente
considerato sospetto di alcun servilismo nei confronti delle "compagnie petrolifere americane e inglesi
che dal 1928 detengono il monopolio mondiale sulla produzione e distribuzione del petrolio" (p. 62),
era fautore di una strategia "terzomondista", che sosteneva la necessaria neutralità dell'Italia nella
contrapposizione (a voler dubitare di tutto, quanto autentica?!) tra i due "blocchi" USA ed URSS, e si
schierava, in tema di politiche energetiche, a favore di paesi quali Marocco, Libia, Sudan, etc..
23 - Tanto per dire, qualcosa del tipo I fisici, di Friedrich Dürrenmatt (1961), che però non ebbe
bisogno di riferirsi a persone realmente vissute per esprimere le angosce di una generazione
ossessionata dal timore di un possibile conflitto nucleare, e della probabile conseguente estinzione
della specie umana.
24 - Citiamo alcuni eloquenti titoli di vari articoli scritti sul caso in discussione: "Rivive il dramma del
primo suicidio atomico" (Sorrisi e Canzoni TV, 17.10.1971); "L'atomica a Mussolini? Meglio sparire"
(Tempo Illustrato, 28.11.1971); "Il giovane fisico siciliano che morì per non vedere l'atomica" (Gente,
6.5.1972); "Si uccise per non vedere esplodere la sua bomba atomica" (Oggi, 6.5.1972) [queste
informazioni bibliografiche vengono riprese da Leandro Castellani, Dossier Majorana, Ed. Fabbri,
Milano, 1974].
25 - Poiché intendiamo procedere senza riguardi pregiudiziali nei confronti di alcuno, c'è da dire che
questa possibilità non è del tutto destituita di fondamento, visto il modo con cui Sciascia tratta una
informativa anonima del 1938, che ci sembra viceversa assai degna di attenzione: "Sempre a proposito
di movimenti contro gli interessi italiani si prospetta in qualche ambiente, che la scomparsa del
Majorana, uomo di grandissimo valore nel campo fisico e specialmente radio, l'unico che poteva
seguitare gli studi di Marconi, nell'interesse della difesa nazionale, sia vittima di qualche oscuro
complotto, per levarlo dalla circolazione". Sciascia si limita a commentarla dicendo che: "Questa
breve comunicazione eloquentemente dice della estrazione e livello della generalità dei 'confidenti'.
Gli 'ambienti' in cui allora poteva nascere il sospetto che nella scomparsa di Majorana ci fosse un
intrigo spionistico 'contro gli interessi italiani', altri non potevano essere che quelli della burocrazia
infima, dei portieri (categoria alla quale molto probabilmente l'anonimo 'confidente' apparteneva), dei
bottegai; non certo quelli dei fisici, dei diplomatici, delle alte gerarchie militari o ministeriali. Ed è
facile pensare che il sospetto sia nato dopo che La Domenica del Corriere pubblicò l'annuncio della
scomparsa: e tra i lettori di quel settimanale" (p. 8). E ancora, altrove (p. 61): "Su questa strada si può
anche arrivare all'amenità della mafia che si dedicasse alla tratta dei fisici come a quella delle
bianche".
26 - Tra tante esperienze dolorose, si può ricordare la nota polemica con Renato Guttuso (1979).
27 - Per parlare ancora di informazioni anonime che, nonostante il generale disprezzo con cui vengono
accolte, vanno talora assai vicino alla verità, nel Giornale di Sicilia del 4 novembre 1970 è riportata la
notizia di una "lettera dattiloscritta anonima, spedita da Palermo alla sede centrale dell'agenzia
ANSA", a Roma, da parte di una persona che si firma "Uno che sa e che ha paura", nella quale si dice
testualmente: "Prego informare tutti i giornali d'Italia che il giornalista Mauro De Mauro (foggiano) è
morto ed il suo corpo si trova a pochissimi km. da Trapani. Ritengo opportuno far sapere questa
notizia alla opinione pubblica. Badate che dico la verità, e ve lo giuro sull'onor mio e su Dio. Non
posso darvi il mio cognome, ho paura della mia [sic]: se non ritenete opportuno di diffondere codesta
notizia è affar vostro, io me ne lavo le mani".
Ringraziamenti - Desidero esprimere la più viva gratitudine alle Ed. Castelvecchi; alla
Biblioteca Comunale di San Giustino (Pg), nelle persone dei responsabili Gustavo Perugini e
Giovanna Pucci; a Francesco Izzo, dell'Associazione "Amici di Leonardo Sciascia"; Roberto
96
Lanfaloni; Marco Negri; Consolato (Tito) Pellegrino; Francesca Salvati; che mi hanno tutti, a
vario titolo e modo, cortesemente aiutato durante la stesura del presente articolo.
Postilla - Ritengo opportune (istruttive) alcune parole di chiarimento su una non proprio
piacevole vicenda che è all'origine del precedente lavoro. Come il lettore avrà notato, esso è
idealmente rivolto agli "Amici di Leonardo Sciascia", e in effetti fu terminato nell'estate
dell'anno 2000 (la versione qui presentata è sostanzialmente immutata rispetto a quella, salvo
un'estensione della Nota 19, relativamente all'ipotesi Klingsor), a seguito di un esplicito invito
a redigere un articolo su Sciascia e Majorana rivoltomi da parte di un esponente di detta
Associazione. Una sorta di aggiornamento, di messa a punto, delle considerazioni contenute
nel libro sulla scomparsa dello scienziato siciliano che avevo scritto nel 1999, che potesse
anche essere l'occasione per suscitare un eventuale dibattito per esempio con il Prof. Recami,
sostenitore di tutt'altro parere, etc.. Esso "avrebbe potuto" essere inserito abbastanza
sollecitamente (si parlava del successivo autunno) su una loro pubblicazione (non so/sapevo
bene quale), e quindi elaborai con rapidità il pezzo che mi si richiedeva. Il conseguente
dispendio di tempo e di energie fu compensato dal fatto che ritenni, senza falsa modestia, il
risultato finale alquanto soddisfacente (nel senso di conforme alle intenzioni).
Dopo averlo spedito però al committente, per diverso tempo non ne seppi nulla, e allora
qualche mese dopo chiesi sommessamente delle notizie in merito, ricevendo la risposta che
sarebbe stato sottoposto, secondo una procedura del resto usuale a certi livelli, al giudizio di
referee, e che entro la fine dell'anno mi sarebbe stato comunicato il responso. Passarono
numerose settimane in assoluto silenzio, e tornai a chiedere, in primavera, delle nuove
informazioni. Come probabile conseguenza della mia insistenza, finalmente ricevetti la
seguente sintetica comunicazione:
"Subject:
quaderni leonardo sciascia
Date:
Tue, 15 May 2001 19:49:12 +0200
Egregio prof. Bartocci,
Le scrivo a nome del comitato di redazione dei "Quaderni Leonardo Sciascia", i cui lavori
coordino da qualche mese. Già da tempo [...] mi inoltrò il Suo testo dedicato alla Scomparsa
di Majorana e mi scuso per l'imperdonabile ritardo con il quale Le rispondo. Come Lei saprà,
ogni testo sottoposto alla rivista viene vagliato da diverse persone per avere una pluralità di
pareri, e questo lavoro di smistamento, per mia colpa esclusiva, è avvenuto in tempi
lentissimi; solo adesso stiamo riuscendo a venire a capo della faccenda, potendo disporre di
tutti i risultati dei "pareri incrociati". Mi spiace comunicarLe che il Suo testo non è stato
ritenuto - nella versione che Lei ci inoltrò - convincente ai fini della pubblicazione.
Naturalmente, rimaniamo a Sua disposizione qualora Lei, eventualmente ritornando sulla sua
ricerca con un "supplemento d'indagine" e con diverse argomentazioni, volesse ancora
sottoporci i frutti del Suo lavoro.
Scusandomi ancora per il ritardo, La prego di gradire i miei più cordiali saluti
[...] [la comunicazione era firmata]"
Replicai al tempo con il seguente messaggio, che "ovviamente" non ebbe alcun riscontro:
" Caro [...],
ringrazio comunque per l'attenzione, e la comunicazione della vostra decisione che mi
consente di proporre la pubblicazione dell'articolo in altre sedi [...] Per "migliorare"
eventualmente l'articolo (problemi di contenuto? di forma? incompletezze? veri e propri errori
relativi a dati di fatto?), mi sarebbero state utili vostre esplicite osservazioni..."
Ho detto "ovviamente" non alla leggera, perché, come si sarà ben capito, sono viceversa
persuaso che lo scritto in parola sia degno di attenzione, almeno superiore alle usuali comuni,
ritrite, scontate considerazioni sulla questione (comprese quelle di chi mi indirizzò il
precedente mail, autore di un breve commento al libro di Sciascia dedicato a Majorana), e che
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le motivazioni del detto rifiuto siano da ricercarsi altrove (ciò che sempre accade con
contributi "scomodi" - si veda per esempio il caso integralmente documentato in
http://www.dipmat.unipg.it/~bartocci/LINCPOL.htm), piuttosto che nel fatto che le
argomentazioni addotte a favore della mia ipotesi generale siano "non convincenti"*. Non ho
mai sostenuto del resto di aver descritto una "verità", tanto meno definitiva, ma che le
congetture avanzate sono del tutto "naturali", e che e' bene cominciare a prenderle in seria
considerazione. Un investigatore che le escludesse "per principio" (non si debbono mai
imbarazzare con sconvenienti domande persone "al di sopra di ogni sospetto"!),
assomiglierebbe molto ai due sfortunati rappresentanti della legge immaginati dalla fervida
fantasia di Andrea Camilleri nel delizioso La scomparsa di Patò (Mondadori, 2000), i quali
furono appunto chiamati dal destino (e dai loro superiori, adamantini "servitori della Verità" loc. cit., p. 228) a dover indagare sulla scomparsa dell'inappuntabile ragioniere (che
"scomparve, o venne fatto scomparire" - loc. cit., p. 49), con esiti che non riveliamo per non
togliere sorpresa, e divertimento, ai lettori. Mi piace soltanto citare a conclusione della
presente postilla un commento inviatomi da una delle persone che a suo tempo ricevettero il
preprint:
- "La morale del libro mi sembra chiara. Non cercate la verità sui rapporti ufficiali. Quelli se
mai escludono, categoricamente, il vero e, in questo modo per me Camilleri dice (come lei
ormai fa da tempo): Per certe questioni (tipo scomparse inspiegate), se volete aumentare le
probabilità di incontrare la verità, dovete andare a cercarla non nella direzione in cui spingono
i rapporti ufficiali, ma nelle direzioni da cui quei rapporti allontanano",
assieme ad un'altra frase tratta dall'opera in parola (p. 147):
- "Troppe sono state, sono e saranno le scomparse misteriose in Sicilia",
soltanto i cauti studiosi del "caso Majorana" non sono al corrente dei probabili retroscena di
molte di esse, o rifiutano "analogie"!
* Amor di verità, e di completezza, vuole che accenni anche alla possibilità che, alle radici del
comportamento quanto meno discutibile dianzi lamentato (sia pure soltanto sotto il profilo di
una corretta procedura editoriale: tempo impiegato nel disbrigo della "pratica", accuratezza
del giudizio dei referee, disponibilità al dialogo con un potenziale contributore, ... ), possa
esserci stata una "suscettibilità ferita" (difficile peraltro da comprendere per chi scrive), a
causa di indiscrezioni apparse sulla stampa successivamente ad aperte, franche risposte date
dallo scrivente a giornalisti che lo avevano intervistato - per mera casualità proprio nel corso
della menzionata estate - sulla misteriosa vicenda in generale (a taluni di essi fu pure inviato
un preprint dell'articolo incriminato). Ecco quanto comparve per esempio sul quotidiano La
Stampa di Torino (30 agosto 2000, p. 13): "A riaprire il capitolo dell'oscura scomparsa di
Majorana è il professor Umberto Bartocci, docente [...], autore del saggio "La scomparsa di
Ettore Majorana: un affare di stato?" pubblicato [...] e di un articolo per il periodico "A futura
memoria" dell'Associazione "Amici di Sciascia". Si tratta dei due studi più ampi e riassuntivi
su tutte le ipotesi circolate sul caso." [enfasi del presente autore - il riferimento a quella in
particolare tra le pubblicazioni dell'Associazione è in effetti errato, visto che le dimensioni
dell'articolo non ne avrebbero consentito comunque l'inclusione nella citata rivista...]
(UB, dicembre 2001)
----[Una presentazione dell'autore si trova nel numero 1 di Episteme]
[email protected]
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La fauna dell'Urheimat
(Alberto Lombardo)
Il problema della localizzazione dell'Urheimat, la protopatria originaria degli antichi
Indoeuropei, è uno di quelli che più hanno fatto dibattere gli studiosi nell'ultimo secolo.
Ormai le tesi contrastanti che si sono venute successivamente a stratificare sono talmente
tante (sino alle più stravaganti) che è difficile darne brevemente conto. Sostanzialmente, il
problema è stato spesso viziato da alcuni problemi di prospettiva cronologica, vale a dire si è
usualmente pensato all'Urheimat come a una zona temporalmente e geograficamente statica
nella quale le nazionalità indoeuropee sorsero, si svilupparono per un periodo indeterminato o
variabile e dalla quale successivamente, in ondate differenziate nel tempo, si dispersero in
molti luoghi dell'orbe terracqueo. La lacuna di una simile prospettiva sta nella sua visione
statica, cioè nella non considerazione della possibilità che gli Indoeuropei abbiano avuto
invece fasi di sviluppo comune in zone differenziate, e che il parlare di Urheimat sia dunque
possibile solo riferendosi alla vera e propria patria originaria, e non a una sede intermedia o
finale della storia comune. Tale nuova, più elaborata visuale sta imponendosi più
recentemente, tanto che - relativizzando la vexata quaestio - si fa un parlare sempre maggiore,
per esempio, di Urheimat dei Germani, dei Balti, degli Slavi etc. Il problema vero e proprio
dell'Urheimat, nella sua accezione fondamentale, resta quello della determinazione della terra
originaria. Per una simile localizzazione, è necessario lo sforzo congiunto di diverse e
numerose discipline: dalla linguistica comparata alla paleontologia, alla climatologia, alla
nuova mitologia comparata, dall'archeologia allo studio della poetica e via dicendo. In
particolare all'interno della paleontologia linguistica, vale a dire quella branca della linguistica
che, sulla base dello studio comparativo, individua nei termini più largamente attestati del
vocabolario compatto indoeuropeo il nucleo lessicale dei parlanti indoeuropeo, e deduce
dunque per vie mediate le caratteristiche fisiche e geografiche di luoghi e costumi, si sono
ottenuti e tuttora si ottengono risultati interessanti. Lo studio della fauna ha un valore
esemplare: questo breve saggio si propone di analizzare sommariamente - e senza pretesa di
completezza - i nomi dei fondamentali animali presenti nel vocabolario compatto, per tentare
di dare una descrizione del mondo in cui i parlanti l'indoeuropeo compatto vissero. L'insieme
dei dati qui raccolti conduce verso una regione nordica nella ricerca delle più remote origini.
Cervo e alce.
Il nome di questo animale ci viene dal latino cervus: parola dalle origini assai lontane,
risalente a un'antica forma indoeuropea *ker-wo- (che è ampliamento in -u di *ker, 'testa'),
attestata in più aree, ossia in quella celtica (gallese carw, cornico carow, bretone karo),
germanica (antico alto tedesco hiruz), baltica (prussiano sirwis, 'capriolo') e greca (xeras,
'cornuto'). «Dal nome del cervo», spiega inoltre Fr. Villar, «deriva poi la parola castigliana
cerveza (in francese antico cervoise, in italiano antico cervogia) "birra", entrata in latino come
cervsia (e cerevsia) attraverso le Gallie. La birra era così designata per il colore biondo,
che ai Galli doveva evocare il colore del cervo».
Si tratta senza dubbio di un animale assai importante per noi Indoeuropei, tanto per quanto
riguarda gli aspetti linguistici quanto per i significati che al cervo si sono associati. Infatti,
esso è uno degli animali fondamentali della protopatria nordica che i nostri antichi progenitori
abitarono in epoche remote, prima della diaspora e delle numerose migrazioni che li portarono
a popolare buona parte dell'orbe terracqueo. Sin da tempi antichissimi, in quell'area
circumpolare il cervo era significativamente associato col simbolismo del sole e della luce,
come recita l'Edda: «da Sud vidi il cervo solare muovere - i suoi piedi stanno sulla terra - ma
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le corna raggiungono i cieli». Questa importanza centrale del cervo è stata spiegata
egregiamente da Adriano Romualdi, un profondo studioso della preistoria indoeuropea: egli
identificò il cervo con l'animale dei cacciatori del Nord, contrapposto nel simbolismo al toro,
elemento della forza cieca generatrice e tipico delle precedenti civiltà matriarcali. Lo scontro
tra i due opposti simbolismi, tanto chiaro in Irlanda, in Scandinavia, in Val Camonica, è la
raffigurazione nei simboli di due civiltà e anche di due diversi principî, e il cervo in questa
contrapposizione assume l'emblema di animale tipico della civiltà indoeuropea. Scrive
Romualdi: «Dietro a questo urto di simboli, dietro all'espansione dei popoli dell'ascia da
combattimento e alla diffusione dei linguaggi indoeuropei, si cela un avvenimento di grande
importanza spirituale. È il principio paterno che si urta contro la "civiltà della madre"; la
virilità olimpica contro il mito taurino e materno della fecondità; l'ethos delle "società degli
uomini" contro la promiscuità entusiastica dell'antico matriarcato».
Non stupisce dunque la grande diffusione e importanza di questo animale nelle mitologie
indoeuropee: dalla Grecia, ove era consacrato a dei della purezza e della luce (Apollo, Atena,
Diana), all'India, in cui rappresenta la cavalcatura del dio del canto Vayu. Nella cosmologia
scandinava i quattro cervi sull'albero del mondo rappresentano i quattro venti; nel mondo
celtico esistono veri e proprî dei-cervi (p. es. Cernunnos) e divinità che conducono carri
trainati da cervi; ancora oggi chi visiti in Irlanda luoghi come Coole, nella contea di Clare,
rimarrà colpito dal senso di profonda reverenza e rispetto che vengono tributati dagli abitanti a
questi stupendi animali.
Per quanto riguarda l'alce, il suo nome ci viene dal latino alces, e questo derivò a sua volta
dall'antico alto tedesco *alha (in tedesco oggi è Elch e in svedese elg). La radice indoeuropea
è forse ARK-, che ha senso di "difendere", "proteggere", presente anche nel latino (arca, arx)
e nel greco arké (= "proteggo"). Ma la parentela più stretta (stando al Benveniste) ad
apparire è quella col greco alk, che è "la forza dell'anima, la fortitudo, che non cede davanti
al pericolo e resta risoluta qualunque sia il destino". Significativamente, nell'Iliade (IV 245)
Agamennone sprona gli Achei paragonandoli, per la loro mancanza di alk, a "cervette che,
quando molto han corso pei campi, si fermano stanche, perché non hanno in petto coraggio".
Il nome richiama strettamente quello di una delle rune, la quindicesima della serie del futhark,
e cioè Algiz, che non a caso richiama nella sua forma le corna dell'animale. Il suo nome
richiama quello dei Gemelli, i nordici "dioscuri" Alcis (analoghi anche agli Ashvin della
tradizione indiana), associati a loro volta alla terza funzione sovrana indoeuropea, quella
relativa alla fecondità.
Questo animale è simbolo di vita e rinascita, come le corna lo sono della primavera e
dell'eterno ritorno: numerose divinità indoeuropee munite di corna rimandano a questo stesso
senso. Il dio celtico Cernunnos, per esempio, raffigurato sul famoso Calderone di Gundestrup,
è munito di corna, e viene associato alla fecondità naturale.
Lupo.
Parrà strano che l'inglese e il tedesco Wolf sorgano dalla medesima radice da cui deriva alla
nostra lingua "lupo". Eppure il latino lupus deriva da *lukwos / *wlkwos, ed è affine al greco
lkos e al sanscrito vrka. Il termine si presenta nel lituano vlkas, nell'antico slavo vlk,
nel gotico vulfas e in molte lingue antiche e moderne in forme affini. In latino e in alcuni
dialetti italici la 'p' è sostituita alla 'k' del ramo germanico; così avviene anche nella seconda
sillaba del termine in questione. La radice del termine, e analogamente quella della lince (la
latina lynx, greca lygx e antico alto tedesca luhs) è la stessa di "luce", cioè *leuk.
Simbolicamente, il lupo è infatti in antico animale luminoso dalle sacre valenze; come nel
caso di molti simboli, peraltro, il suo significato divenne duale, e a quelle positive andarono a
giustapporsi valenze negative. Fu così che, seppure legato a miti fondatori (Roma) e a società
guerriere, il lupo fu al tempo stesso collegato all'età oscura, come al Ragna-rkkr ricordato
dall'epica nordica.
100
Cane.
I nostri avi indoeuropei conobbero, certo già nell'epoca precedente la loro diaspora, un
termine comune per designare il cane. Questo animale accompagnava infatti la vita agropastorale dei lontani progenitori già numerosi millennî orsono. Il nome per designarlo doveva
essere *kwn, che si è poi tramandato, tra le numerose lingue, nell'antico irlandese cu, nel
gallese ci, nel tocario A ku, nel lituano u(n), nell'armeno un, nel greco con, nel
nell'avestico span-, nel sanscrito çv-, oltre che nel latino canis, da cui il nostro 'cane'. Per
quanto attiene alle lingue germaniche, si hanno le testimonianze dell'antico alto tedesco (hunt)
e del gotico (hunds), e le sopravvivenze, tra le lingue moderne, nel tedesco Hund e
nell'inglese, oggi desueto, hound (si noti che ancor'oggi greyhound designa il 'levriero').
Gli indoeuropeisti Adams e Mallory rilevano come il cane sia il primo animale addomesticato,
e come il processo di addomesticazione avvenne oltre diecimila anni orsono. Dal Mesolitico
in poi, il cane è largamente conosciuto in Eurasia. I due studiosi, in un loro scritto sul tema,
fanno un'osservazione interessante: in varie aree indoeuropee le parole che designano il 'cane'
possono indicare anche il 'lupo', come avviene per esempio in Irlanda e nell'India arcaica. In
tali casi il cane assumerebbe il significato e la funzione anche simbolica del lupo, tanto dal
punto di vista mitico quanto in quello del comportamento sociale, ove i lupi sono usualmente
associati ai guerrieri.
La millenaria stretta familiarità con questo animale ha determinato il sovrapporsi di una
miriade di leggende, tradizioni e significati, tanto che è impossibile accennare a tutti. Vi sono
però alcuni elementi fondamentali: è uno psicopompo, vale a dire una "guida delle anime",
specie nel post-mortem, analogamente a come lo è stato durante la vita (sua e del padrone); è
collegato agli inferi, che custodisce o nei quali dimora (si pensi al Garm dei Germani, al
Cerbero dei Greci o alle figure dei cinocefali e di Anubis nell'antico Egitto) e alla morte in
genere, tanto da poter mettere in contatto con l'aldilà; è, come accennato, un simbolo del furor
guerriero (specie nel suo aspetto di lupo): esempio ne è l'eroe irlandese Cchulainn, il cui
stesso nome significa "cane di Culann".
Volpe.
Viene alla nostra lingua senza soluzione di continuità dal latino vulpes (in antico volpes).
Arrivando al latino si è solo a una stazione intermedia: risalendo ulteriormente verso la
sorgente gli studiosi hanno identificato una comune radice indoeuropea *wlp. In ogni caso
Giacomo Devoto definisce le connessioni del termine latino con gli altri corrispondenti nelle
aree baltica e greca come "disturbatissime". Si hanno attestati il lituano lp e il greco
alpex. Inoltre, attribuendo alla parola che nell'etimologia designa la volpe - come fece il
Pokorny mezzo secolo fa - il significato di "rubatrice", si può vedere nel sanscrito lopas,
"furto", un ulteriore sviluppo di questa stessa radice, la quale, varrà notare, si presenta nei suoi
primi due elementi del tutto affine a quella che designa il "lupo" (la radice di questo termine è
*wkwo). D'altronde anche nel simbolismo esistono alcune affinità tra i due animali. Inoltre la
caratteristica e proverbiale furbizia di questo mammifero nelle lingue storiche ha prodotto
talvolta un'assimilazione con termini che ne indicano tale qualità; non solo noi usiamo dire
"furbo come una volpe", per indicare una persona astuta e talvolta anche ingannevole, ma
anche nell'antico scandinavo il termine fox (che permane inalterato, tra le lingue germaniche,
nell'inglese - a indicare appunto la volpe) significava "inganno".
La volpe è una delle più classica figure di "briccone", note ai simbolisti e - a un gradino più
basso - agli etnologi e studiosi di folklore; anzi tra gli animali è quello che meglio lo incarna.
Nel mondo nordico nella volpe «si incarnano gli spiriti delle persone infide che talora
appaiono nei sogni». Inoltre - particolare che conferma quanto scritto sopra - anche il termine
maschile Refr ("volpe", appunto) «si ritrova talora come nome proprio, spesso a indicare
persone assai astute» (Chiesa Isnardi, I miti nordici). Restando nel mondo nordico esiste una
kenning, o circonlocuzione poetica, per definire l'aurora boreale: "luce della volpe".
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Lontra.
In latino lutra deriva forse dall'incrocio di *udro-, con significato di "animale acquatico",
(attestato nelle aree ariana o indoiranica, greca e germanica) e lutum, "fango". Questo termine
lutra, successivamente incrociato con il greco en()dria (quest'ultimo derivante a sua volta da
énydris, "animale acquatico"), deve avere dato origine a "lontra".
Nello Zoroastrismo e nel mazdeismo è uno degli animali "puliti", e come il cane non può
essere uccisa impunemente (poiché appartiene ad Ahura-Mazda); nell'iconografia cristiana
rappresenta invece S. Cutberto. Nella mitologia classica l'énydris è identificata da Plinio ed
Eliano con la serpe d'acqua (Idro), cui è attribuita la leggenda della distruzione del
coccodrillo; questa credenza (in realtà spuria) sopravvive nei bestiari medievali in una visione
generale del mondo cristianizzata. Tra i Celti la lontra, insieme a un orso e un lupo,
accompagna il "signore degli animali" Cernunnos.
Castoro.
Viene dal latino castor, e questo nacque probabilmente come aggettivo castoreus dal greco
Kastor (nome di uno dei due Dioscuri). Ma in latino il termine "puro" (come lo definisce il
Calonghi) per designare tale animale è fiber (della seconda declinazione: genitivo fibri).
Sembrerà strano che la lingua dei Romani avesse un termine per indicare un'animale che mai
si sarebbe potuto incontrare sulla riva del Tevere: si tratta, anche in questo caso, di una parola
sopravvissuta nella lingua particolare dopo la diaspora indoeuropea, sebbene ciò che essa
designava non fosse più visibile ai parlanti tale lingua. In questi casi spesso accadeva che il
termine andasse col tempo a indicare concetti affini, legati a elementi della nuova realtà che i
parlanti incontravano; ma ciò non avvenne in questo caso particolare.
Il termine fiber trova corrispondenza nel gallico Bibr(acte) (un nome personale), nell'alto
tedesco bibar (tedesco moderno Biber), nel lituano bebras e nel sanscrito babhru, che ha due
significati: come aggettivo significa "brunorosso" e come sostantivo maschile indica
l'icneumone. Anche il greco phrne (rospo) viene dallo stesso tema, e cioè l'indoeuropeo
*bhebhru- (Pokorny).
Sull'importanza di questo termine comune del vocabolario indoeuropeo varrà riportare quanto
scrisse Romualdi: «Gli Indoeuropei conoscono la betulla, l'albero bianco del Nord.
Conoscono la quercia, il pioppo, le conifere. Conoscono l'orso, il lupo, il cervo, il castoro.
Vivono in un ambiente di foreste dove la radura, il luogo in cui piove la luce in mezzo alla
gran selva, è sacra alla divinità del cielo». Anche questo animale, cioè, ci riconduce
nell'identificazione della protopatria originaria, l'Urheimat degli indogermanisti, a un
paesaggio nordico - le regioni nordeuropee della Svezia meridionale, della Danimarca e della
Germania settentrionale.
Topo, sorcio, ratto.
Nel caso di questo animale il termine venuto a prevalere in italiano non è probabilmente di
origine indoeuropea, ma mediterranea. Si tratta infatti del risultato del tardo latino talpus (da
talpa, che è appunto di origine mediterranea). In area settentrionale *talp è cambiato in
*taup-, sino a giungere al termine oggi invalso; sino al secolo scorso aveva una diffusione più
o meno pari a "topo" anche "sorcio", oggi però sempre più in disuso. Anch'esso ha
probabilmente origine mediterranea. Mentre le lingue romanze hanno subito questa influenza
mediterranea (francese taupe, spagnolo topo, catalano taup) in quelle germaniche il vocabolo
si è mantenuto in forme più fedeli alle origini indoeuropee: inglese mouse, tedesco Maus: qui
è rimasta evidente la radice indoeuropea *mus, che si manifestò in forme pressoché invariate
dal latino all'alto tedesco e al norreno e dal sanscrito al greco, sino al prussiano moderno;
nello slavo antico compare come my0, nell'armeno come mukn e nell'albanese sotto la forma
m. A queste parole va ancora aggiunto l'italiano "ratto", derivante da una serie
onomatopeica in cui le due consonanti "r" e "t" dovevano rimandare all'idea del "rodere" (la
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cui radice era *rd / *rd); forme affini a "ratto", come rileva Devoto, sono attestate in tutta
l'area romanza e in quella germanica occidentale (provenzale e francese rat, spagnolo e
portoghese rato, tedesco Ratte), ma verosimilmente anche in area celtica (bretone raz, medio
irlandese rata, gaelico radàn).
Suini.
Si tratta di animali che ci forniscono molte informazioni sull'antichità. In italiano vi sono tre
sostantivi per indicare questo animale: maiale, porco e suino - quest'ultimo designa la
sottofamiglia zoologica. L'etimologia del primo termine ci porta forse alla dea romana Maia,
cui poteva essere offerto. Il secondo è di chiara origine indoeuropea: viene da *porko(s) e
indica l'animale addomesticato (e di norma giovane) in contrapposizione a quello selvatico: è
presente nell'antico irlandese orc, alto tedesco farah, lituano pars, slavo antico prase,
latino porcus e umbro purka (in cui è femminile). Pare attestato anche in area iranica: avestico
*parsa (ricostruito da Benveniste), curdo purs, khotanese pasa. Per quanto attiene "suino",
infine, viene da *ss, di più ampio significato, e comprendente l'animale adulto ma anche la
scrofa e il cinghiale. È assai diffuso (in latino sono presenti sia sus sia suinus): gallese hwch,
alto tedesco ss, gotico swein (da cui il tedesco Schwein), lettone suvns, antico slavo svin,
tocario B suwo, umbro si, greco hs, albanese thi, avestico h e sanscrito s(karas). In
norreno Sr è un attribuito della dea Freyja, e significa "scrofa".
Come ha scritto Adriano Romualdi, «il maiale è un tipico elemento della prisca cultura
indoeuropea, legato ad antichissimi riti (suovetaurilia), attestante sedi ben visibili». È
sacrificato anche dai Greci, nei misteri eleusini, in Irlanda tra i Celti e assai diffusamente tra i
Germani (anche i Longobardi): è infatti l'animale tipico dell'agropastorizia nordica originaria,
secondo quanto ha spiegato tra gli altri Walther Darré scrivendo del popolo indoeuropeo
preistorico, presso il quale tale animale aveva valenze sacrali: «non è un caso che la razza
nordica consideri tra gli animali sacri il tipico animale dei sedentarii delle foreste a foglie
caduche della zona fredda temperata, […] né è un caso che, quando si scontra con i Semiti del
Mediterraneo orientale, proprio il maiale dia luogo alle più accese dispute; il maiale è
l'antipodo animale del clima desertico. Ed è naturale che i patrizi all'atto del matrimonio
sottolineino l'elemento agricolo e sacrifichino un maiale che doveva essere ucciso con
un'ascia di pietra». Una diversa sacralità, cioè, rispetto alla venerazione di cui invece era
oggetto tra i Semiti, che lo considerano impuro, ma, secondo il Frazer, sebbene non potessero
ucciderlo, «in origine il maiale era piuttosto venerato che aborrito dagli Ebrei. Questa
spiegazione è confermata dal fatto che fino ai tempi di Isaia vi furono Ebrei che si riunirono
segretamente in qualche giardino per mangiare carne suina o di topo come rito religioso.
Senza dubbio era questa una cerimonia antichissima». Insomma, conclude Romualdi, «la
familiarità col maiale è uno dei molti elementi che ci obbligano a vedere negli Indoeuropei un
popolo delle foreste del Nord».
Nel suo significato simbolico è di norma associato alla fertilità e il suo sacrificio segna la
venerazione degli dèi e la consacrazione dei patti, ma con il predominare del cristianesimo
sull'occidente è andato sempre più assumendo caratteristiche "semitiche", sino a venire
identificato via via con l'impudicità, la passione, la lussuria e infine col diavolo. Nella Bibbia,
infatti, il "guardiano dei porci" (immagine dell'agropastore indoeuropeo originario) è la figura
più degradata e spregevole (il figliuol prodigo della parabola).
Orso.
Il nome del plantigrado viene da un tema indoeuropeo *kyo- o *kos, che serve a
designarlo come "il danneggiatore". Da questa radice fonetica sono sortiti: in area celtica
l'irlandese art, il gallese arth e il nome personale gallico Art(ioni), di una divinità femminile
affine alla greca Arto; il latino ursus (da cui il nostro "orso", tramite un *orcsos); il greco
rktos; l'albanese ari, l'armeno arj, l'avestico ara- e il sanscrito kas; anche una lingua
non indoeuropea come il basco, per il tramite di un prestito, presenta la forma hartz. Dal
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termine greco è poi derivato "artico", cioè "proprio all'orsa" - e il riferimento è qui
ovviamente alla costellazione. Nelle varianti del mito greco, ad assurgere in cielo sub specie
delle due orse sono Callisto la bella, amata da Zeus, e suo figlio. Secondo alcune versioni fu
l'invidia di Giunone, secondo altre la misericordia di Zeus a produrre tale catasterismo
(trasformazione in astro o costellazione).
Questa "assunzione in cielo" dell'orsa, oltre che a livello linguistico, può essere illustrata con
l'aiuto del simbolismo. L'orsa (o meglio le due orse) ci indicano la direzione del Nord, tramite
la stella polare. Il simbolo nordico, la direzione cioè della patria d'origine, è
significativamente collegato con l'orso anche nelle tradizioni che gli sono relative: tra l'altro,
tornando agli aspetti linguistici, l'orso è animale di localizzazione nordica e la sua presenza in
così tante lingue indoeuropee corrobora la individuazione nel Nord della patria originaria
(l'Urheimat) dei popoli indoeuropei. Nel simbolismo l'orso è animale altamente sacro, specie
(ma non solo) tra gli Indoeuropei, che per designarlo ebbero moltissime circonlocuzioni e
kenningar. Analoga reputazione l'orso gode tra gli Ainu, una popolazione di razza
apparentemente occidentale che vive nell'isola di Hokkaido e segue una religione animista di
tipo sciamanico; ivi è anche fatto oggetto di un rito sacrificale. Questa sacralità dell'orso si
lega a quella delle origini; l'orso è animale ancestrale, e non a caso presenta sia caratteristiche
maschili sia femminili (specialmente nella tradizione nordica). Inoltre è animale "ordinatore":
secondo una diffusa leggenda, tramandata da Aristotele e Plinio sino ai bestiarî medievali,
l'orsa darebbe la vita ai proprî piccoli leccando pezzi di carne: "modellandola", essa crea la
propria progenie. Questa virtù creatrice fu poi reinterpretata, in epoca cristiana, con un'ardita
metafora che voleva vedere in tale atto la conversione dei pagani al cristianesimo.
Un figura importante e altamente significativa è quella dell'uomo-orso, che si presenta in
forme varie in ambiti diversi. Il più noto di questi esempî è quello dei berserkir, gli uominiorso invasati dalla furia odinica delle saghe nordiche. Oggi nel folklore l'uomo-orso è ancora
assai diffuso e ha funzioni "totemiche" (su questi temi ha scritto pagine assai interessanti M.
Centini).
L'importanza di questo animale si avverte ancora nettissima sul suolo europeo: seppur nelle
fiere ormai non vi siano più orsi danzanti, restano i toponimi (per esempio di Berna, legata
anche nel mito di fondazione alla figura del plantigrado; rileviamo di passaggio che tra le
lingue germaniche il tedesco Bär e l'inglese bear derivano da una diversa radice, che è la
stessa da cui il nostro colore "bruno"), oltre alle raffigurazioni araldiche, gli emblemi
nazionali (come nel caso della Russia), i cognomi e i nomi personali (specie in Scandinavia),
oltre ai proverbi ("vendere la pelle dell'orso"), i modi di dire ("comportarsi come un orso"),
una ricca favolistica (per esempio la fiaba dei "tre orsi") e varie raffigurazioni carnevalesche
tradizionali.
Felini.
Adams e Mallory, nell'Encyclopedia of Indo-European Culture edita pochi anni orsono,
identificano due forme dalle quali nello spazio linguistico indoeuropeo sono sortiti i termini
indicanti il gatto comune: *kat- e *bhel-; delle due è stata probabilmente la prima ad avere
una maggiore fortuna. Per la ricostruzione di *kat si hanno elementi nel latino volgare cattus
(che, divenuto gattus per via della lenizione di c in g, era in origine termine indicante il gatto
selvatico), sia nell'antico irlandese catt; ma non è del tutto certo che quest'ultimo derivi dal
latino, anzi il Devoto pare pensare il contrario. Quel che è attestato o dimostrato è il passaggio
del termine dalla lingua latina sia all'area slava (russo kot) sia a quella baltica (antico
prussiano catto, lituano katè, lettone kae); di qui sino a lingue a noi più familiari, come
l'inglese (cat), il tedesco (Katze) e lo svedese (katt). Ovviamente il passaggio è avvenuto
anche alle lingue romanze (in provenzale, catalano, spagnolo e portoghese si usa cato, in
francese chat). Ma, aggiungono Adams e Mallory, «presumibilmente il latino cattus fu preso
in prestito da qualche fonte non-latina». Per quanto attiene *bhel-, ci limitiamo qui a ricordare
che esso sopravvive, nella nostra lingua, nel termine felino.
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Alcuni problemi ci sono posti dall'archeologia, poiché testimonianze varie parrebbero
suffragare l'idea che questo animale si sia diffuso in Italia prima e in Europa poi in tempi
relativamente recenti. Risulta dunque poco chiaro il suo ruolo, per esempio, nella mitologia
nordica, dove è un importante attribuito della dea Freyja, della quale, in pariglia, tira il carro.
A nostro modo di vedere se gli studî archeologici sono fondati si tratta, come spesso avviene
in mitologia, di una trasposizione del simbolismo da un animale a uno consimile - e cioè
probabilmente da un piccolo mammifero selvatico, forse proprio il gatto selvatico, a quello
domestico.
Il leone ha un interesse diverso rispetto agli altri termini esaminati. Mentre la parola italiana
"leone" deriva dal latino leo (accusativo leonem), e questo a sua volta venne in età arcaica alla
lingua di Roma dal greco lén, léontos (questa forma pare essere quella di un participio
presente), tra gli antichi Indoeuropei si può solo con grande fatica determinare una radice
ricollegabile a questo animale: mentre in sanscrito questo grosso felino si designa con simha,
nell'albanese il leopardo è inj. Da questi due dati si è dedotta una radice *singho- (WaldePokorny), che, quand'anche fondata, non ha però la stessa diffusione di altri termini designanti
animali diversi. Questa è un'importante prova a contrario per escludere che gli Indoeuropei
potessero essere originarî di una zona abitata da leoni, e per localizzare viceversa nel Nord la
loro patria originaria.
Pesci.
Da una forma indoeuropea *piski-, secondo il Pokorny, si sarebbero sviluppati i termini
comuni: l'irlandese asc (peiskos), l'alto tedesco fisc, il gotico fisks e il latino piscis: è
ovviamente da quest'ultimo che è venuto il nostro "pesce"; altrettanto chiaro il fenomeno della
rotazione consonantica di Grimm nelle lingue germaniche (la "p" passa in "f", come da pater
a fadar). Anche se le connessioni del latino sono dunque solo con le aree celtica e germanica
la parentela è comunque abbastanza significativa. In ogni caso oggi in moltissime lingue
europee contemporanee si utilizzano termini imparentati.
Il salmone deriva il suo nome italiano dal latino salmo (accusativo salmonem), ed è presente
nell'antico francese e in inglese come salmon. Il Devoto ne sostiene l'origine gallica; vi è chi
ha ipotizzato che il nome derivi dalla radice *sar-, cioè 'scorrere', dalla quale deriva anche il
verbo 'salire'. Questo rimanderebbe infatti alla caratteristica del pesce inteso come "saltatore".
Tale pesce (che in indoeuropeo trae l suo nome da una forma *laks) che ha fornito a uno
studioso tedesco, P. Thieme, il fondamento per uno studio epocale e da cinquant'anni assai
dibattuto che gli ha fatto evidenziare con estremo fondamento la possibilità dell'origine
nordica degli Indoeuropei.
La balena deriva il suo nome dal termine latino volgare balena (classico ballaena), che trova
una corrispondenza nel greco phállaina. In area germanica, si presenta in tedesco come
Walfisch, in inglese come whale (il nome del Galles si è legato infatti anche a quello del
mitico cetaceo), mentre in islandese, svedese e danese è hval.
Parole come "baleno", "balenio", "balenare" derivano dal nome della balena, in ragione
dell'apparire repentino e improvviso di questo animale.
Tra i Germani la balena aveva una parte importante nel simbolismo, e nella tradizione nordica
esisteva la credenza che questo animale, dotato di poteri magici, portasse al sabba le streghe
(Olaus Magnus nel suo famoso Historia de gentibus septentrionalibus dà ampio spazio al
cetaceo e alla sua caccia).
Granchio.
Il nome di questo animale crostaceo si presenta simile in varie lingue e dialetti neolatini e
celtici (anche a questi ultimi è arrivato dal latino cranculus, diminutivo di cancer): provenzale
e catalano cranc, vallone cranche, spagnolo cangrejo, portoghese granquejo (e garanguejo da
*cancriculus), cimbrico cranc e bretone kranck. In italiano e portoghese si verifica la
lenizione della c- iniziale in g-.
105
Il latino cancer passò a designare anche la costellazione (e da essa il corrispondente segno
zodiacale), e successivamente è divenuto termine medico per via dell'analogia delle
ramificazioni di tale malattia con le molte zampe dell'animale. Scrivendo dell'etimologia di
questa parola, Devoto spiega che il termine latino cancer è in realtà una forma dissimilata da
carcer (dissimulazione, dunque, di una -r in -n); cioè il termine che, dal significato di "sbarre
del circo" è poi passato a designare la prigione ("carcere" nell'italiano attuale). Lo studioso
inoltre scrive che esistono parallelismi, sia semplici sia dissimulati, anche nelle aree greca e
indiana. Ed effettivamente il tema indoeuropeo da cui venne il termine cancer è stato
ricostruito dal Pokorny come *karkar ("granchio"): oltre al latino si trova effettivamente sia
nel greco karknos sia nel sanscrito karkaa-. La presenza del termine nelle "aree laterali" è
un argomento che ne fa ritenere l'appartenenza alla lingua comune indoeuropea, almeno nel
suo stadio detto "postanatolico".
Serpente.
Il corrispondente latino della nostra lingua, serpens (accusativo serpentem) nasce come
participio presente di un verbo serpere - e questo viene a sua volta dalla radice fonetica
indoeuropea *serp. Da questa stessa, che ha appunto il significato di "serpeggiare", sono
derivati anche il greco antico hérp, il sanscrito sarpati e l'albanese gjarpn (quest'ultimo
corrisponde all'animale, non al verbo all'infinito). Verrebbe in questo caso da pensare a una
radice di tipo onomatopeico, o quantomeno a un'antica vicinanza tra suono e significato: un
simile pensiero ci porta indietro nei millennî, sino ai territori - fisici o meno - dove si verificò
la nascita della parola. Forse per ragioni simili, ma ormai inconsce, dal latino classico bstia
si passò al tardo latino medievale bstia e da questo al nostro "biscia": anche qui il suono
pare richiamare l'immagine dell'animale. Bisogna segnalare sin d'ora che nel fondamentale
Indogermanisches etymologisches Wörterbuch del Pokorny (Berna 1955), saggio che resta un
punto di riferimento fondamentale per lo studio della linguistica comparata indoeuropea,
figura un'altra radice fonetica che designa il serpente, che è *e(n)gwh, e che da essa derivano,
oltre all'irlandese esc(ung), "anguilla" (cioè serpe acquatica), il lituano angìs, l'antico slavo
oz0, il tocario B auk e i greci égis e fis, anche l'armeno auj, l'avestico ai- e il sanscrito
ahi-; inoltre il latino anguis, da cui è venuto il nostro termine "anguilla".
Quello del serpente è uno dei simboli più enigmatici e ricchi di significati che esistano. È
essenzialmente la manifestazione della potenza, dell'energia e della forza. Ma le sue
caratteristiche sono in tutto e per tutto duali, dato che è collegato tanto al maschile quanto al
femminile, alla generazione e alla nascita quanto alla morte, ed è presente, nei miti, come
portatore di influenze di ogni tipo: non è un caso che assai di frequente sia assimilato o
addirittura confuso con il drago. Nello stesso simbolismo giudaico-cristiano, seppure
prevalgano le caratteristiche oscure, con conseguente assimilazione al male, al demonio e al
"tentatore", Cristo è da Tertulliano definito "il Buon Serpente". Per Guénon il carattere
"terribile" del serpente si spiega col fatto che «raffigura l'incatenamento dell'essere alla serie
indefinita dei cicli della manifestazione». Tra i Greci vi sono numerosissimi miti e leggende
su questo animale: da quella relativa al giovinetto Ercole che nella sua culla strozza due
serpenti al mito di Medusa (come delle Erinni e delle Graie), di cui una moltitudine di serpi
costituisce la capigliatura; inoltre avvolto (o avvolti) sul caduceo rimandano al potere del
corpo - e di conseguenza sono attributi di Ermes e Asclepio nelle loro vesti "mediche". A
questo proposito un'immagine assai affine è quella yogica indiana relativa ad ida e pingala, le
due vie opposte del respiro, che analogamente si sviluppano sinuose intorno a un asse retto quello della colonna vertebrale - per risvegliare la Kundalini, il "potere del serpente". Tra i
Germani è largamente presente, a simboleggiare, secondo la Chiesa Isnardi, la vita
primordiale. In età vichinga, però, la sua connotazione divenne negativa, e fu associato alle
potenze malefiche che irromperanno nel giorno della battaglia finale. La studiosa ricorda che
«Il serpe-mostro per eccellenza ricordato nel mito è Migarsormr, "serpe di Migar"»: si
tratta dell'enorme animale che costituisce la crosta terrestre, e i cui sommovimenti nel sonno
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rappresentano i nostri terremoti. Quando verrà la battaglia finale sorgerà contro il cosmos,
l'ordine degli uomini e degli dèi, e verrà affrontato da Thor, che ucciderà venendone a sua
volta ucciso.
Verme.
"Verme" corrisponde al latino vermis. Questo vocabolo è il corrispondente latino del
germanico wurm (alto tedesco) e warms (gotico). Ancora oggi in tedesco si indica con
Wurm e in inglese con worm. Così gli indoeuropeisti ricostruirono un tema *wermi-. Al di
fuori di queste due aree linguistiche tra gli Indoeuropei prevalse però una forma simile,
*kwrmi-, attestata in area indoiranica (medio persiano kirm, sanscrito kmi), baltica (lituano
kirmìs), slava (antico slavo rv0) e celtica (irlandese cruim, gallese pryf). Segnaliamo che il
colore "vermiglio" trae il suo nome dalla cocciniglia, che forniva questo colore rosso tra il
cremisi e lo scarlatto.
Nel mondo nordico germanico il verme venne confuso in più casi con il serpente. La cosa può
apparire curiosa, ma quello di "Gran Verme" fu uno degli attributi del serpe di Migarr,
cioè del mostruoso figlio di Loki che riposa sul fondo dell'oceano e il cui corpo costituisce le
terre ferme. Sussultando e muovendosi nel sonno questo essere mostruoso provoca i
terremoti; si ridesterà per la Battaglia Finale. Allora verrà affrontato da Thor, che ucciderà
venendone a sua volta ucciso: «ecco sopraggiunge il famoso / figlio di Hlyn, / va il figlio
di Odino / a lottare col serpe, / con coraggio si batte / il guardiano di Migarr, / tutti gli
uomini / lasceranno il mondo abitato; / retrocede per nove passi / il figlio di Fjörgyn / morente
lontano dal serpe / incurante del disonore» (Völusp LVI). Un'altra assimilazione nordica del
verme con il serpente si ha nel mito relativo al frassino Yggdrasill, l'albero del mondo. Le sue
possenti radici, specie quella in Niflheimr, sono rose da serpenti (o vermi, appunto). Eppure il
possente albero resterà saldo sulle sue radici delle quali nessuno conosce l'origine sino alla
Battaglia Finale, «produrrà frutti salutari e medicamentosi e non temerà né ferro né fuoco».
Formica.
Usiamo in italiano, per designare questo animale, il termine latino. Questo però venne da un
più antico *mmica, derivazione della forma indoeuropea *morm. Questo nome, come scrive
del resto G. Devoto, è al tempo stesso largamente diffuso nel territorio indoeuropeo, ma anche
di tradizione disturbatissima: infatti si presenta in forme varie, dall'antico irlandese moirb e
l'antico gallese morion (plurale), al norreno maurr, l'antico slavo mrav0ji, il greco mrenx, il
tocario B warme, l'armeno mrimn, l'iranico avestico maoiri- e il sanscrito vamra. Tale
varietà di forme ha fatto scrivere a un altro studioso, D.Q. Adams: «il numero delle varianti
fonologiche suggerisce che la designazione per "formica" nelle tradizioni indoeuropee fu più
che usualmente soggetta a deformazione fonologica… così risulta difficile ricostruire l'esatta
forma protoindoeuropea di tale parola, la quale è chiaramente di origine protoindoeuropea».
Uccelli.
Primo per valenza simbolica è il cigno, che trae il suo nome dal latino cygnus, che deriva a
sua volta dal greco kknos. Il tedesco Schwan (antico svan) come l'inglese swan derivano
dalla medesima radice *kan, la quale è all'origine del latino cano (cantare). Il cigno è dunque,
etimologicamente, il "cantante".
Le leggende di diverse aree confermano questa sua proprietà. In Irlanda, una nota leggenda
narra del triste destino dei figli del re Lir che vengono trasformati in cigni e ridotti per secoli
in tale condizione; il loro canto, peraltro, aveva la virtù di affascinare chiunque li avesse
ascoltati. Nel Fedone platonico Socrate afferma che il canto funebre del cigno esprimeva la
gioia di reintegrarsi nel divino, del quale l'uccello era epifania.
Animale iperboreo, sacro all'Apollo nordico, è presente nelle incisioni della Valcamonica,
avanguardia della "migrazione dorica" in Italia. Non senza un preciso significato, nel mito
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greco il carro della bionda Venere è trainato in aria da cigni. Nella tradizione indiana è
simbolo di purezza e conoscenza: ha deposto l'uovo aureo dal quale sorse il dio Brahma.
Secondo il mito raccontato da Ovidio, Cigno era il figlio di Stenelo, re dei Liguri. Quando
Fetonte, per avere improvvidamente condotto il carro solare del padre Febo (Apollo), fu
fulminato da Giove e cadde nell'Eridano (cioè il fiume Po), Cigno, che era parente del
defunto, ne pianse disperatamente la morte. Il dolore fu tanto, che si trasformò nell'animale
che porta il suo nome. Scrive a proposito di Cigno il poeta del IV-V secolo Claudiano (carme
XXVIII): "Un vecchio trasformato dalle piume… un circolo latteo bagna le ali protese del
compagno Cigno, lo stellato Eridano vagando con curve sinuose solca la chiara volta di Noto
e scorre con gorgo siderale sotto ad Orione terribile per la sua spada". E Virgilio (Eneide,
X.192-3): "e una vecchiezza raggiunse bianca di morbida piuma / e questa terra lasciò, salì
dietro il canto alle stelle". Il tema della vecchiezza legata all'animale non va riferita, forse,
solo alla bianchezza della capigliatura che richiama quella dell'animale, bensì anche alla
remota origine, i cui connotati, secondo il mito richiamato, sono quelli della purezza, della
bianchezza, della "solarità". Simboli che univocamente ci parlano dell'origine nordica e
iperborea, cui ancora oggi guardiamo.
Per quanto riguarda l'oca, data l'etimologia del suo nome si potrebbe dire che essa fu definita
come "uccello minuto", poiché questo viene dal latino tardo auca (che corrisponde alla forma
del catalano e dell'antico spagnolo), da una forma intermedia ricostruita avica, la quale viene a
sua volta da avis ("uccello", appunto). Il latino classico aveva però un altro termine più antico
e preciso per designare questo animale, e cioè anser (hanser), nel quale il retaggio
indoeuropeo era ben più evidente. Suoi termini parenti erano l'irlandese giss ("cigno") e la
forma ricostruita gans; l'alto tedesco gans (tedesco sing. Gans, plur. Gänse; in inglese il
singolare è goose, il plurale Geese e l'oca maschio gander); il lituano asìs; l'antico slavo
gasi; il greco chén e il sanscrito hamsa- (anche questo spesso significante "cigno"): tutti
sortivano da una medesima forma *ghans (Pokorny). Questa sorta di confusione linguistica
col cigno diffusa in varie lingue si spiega sia per via della somiglianza dei due animali,
entrambi bianchi e col collo curvo, sia a livello simbolico, dove parimenti spesso sono
confusi. Un esempio mitologico ha valore indicativo più di ogni altro: la ninfa Nemesi, per
sfuggire a Zeus che voleva unirsi a lei si trasformò in oca, ma fu ugualmente fecondata dal re
degli dei, trasformatosi in cigno. Dalla loro unione scaturirà l'Uovo. Sulla scia degli studî di
Bachofen, Alfredo Cattabiani rileva come l'oca sia «la Terra stessa, un'immagine della materia
materna», e ne sottolinea la forte partecipazione all'universo simbolico della Grande Madre.
Così possiamo forse vedere oca e cigno come le due manifestazioni, rispettivamente sotto
forma femminile e maschile, di una stessa immagine trascendente. Come il cigno, l'oca
rappresenta (tra l'altro) l'origine artica, e l'arcaica ciclicità del tempo. Questo è testimoniato,
tra l'altro, dal fatto che nella civiltà classica fu associata al tempo stesso sia alle immagini di
bambini (lo mette ben in luce Cattabiani nel suo Volario), sia a Persefone-Proserpina, dea
degli inferi. Lo stesso avviene nel caso del cigno. Le coincidenze nel simbolismo non si
fermano però qui: vanno ricordati almeno altri tre importanti elementi. Anzitutto
l'associazione di entrambi questi uccelli con donne sovrannaturali (si pensi per esempio alla
favolistica celtica e a quella slava). In secondo luogo, appaiono entrambi come epifanie
dell'altro mondo: tipica a proposito la mitologia irlandese, ma non solo. Infine - e soprattutto sono entrambi associati al suono e alla musica in senso eminente. In una visione ciclica del
tempo il canto del cigno, che predice la fine, forse non è poi troppo dissimile dal verso
dell'oca, che rappresenta la creazione e l'origine. Infatti secondo la mitologia egizia il verso di
Amon-Ra, che in forma d'oca sorvolò le acque deponendovi l'Uovo cosmico, fu il primo
suono mai prodotto; e nell'India (citiamo nuovamente le parole di Cattabiani) «è la
manifestazione della Grande Madre originaria, tant'è vero che fu chiamata anche la Madre dei
Veda, creatrice della lingua scritta, dea della parola».
Per quanto riguarda l'anatra, o anitra, si usano in italiano entrambi i termini, che hanno
percorso una storia parallela. Il secondo corrisponde in pieno al latino volgare *anitra, che è il
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risultato di un incrocio del latino classico anas, anatis con il suffisso in -tr-; il primo è invece
meno influenzato dalla volgarizzazione. Comunque anas viene da un'antica radice fonetica
indoeuropea, e cioè *ant (Pokorny) o comunque da una forma *hahati- / *haenhati(Greppin). Essa compare, oltre che nel latino, nell'alto tedesco anut (tedesco moderno Ente),
nell'antico prussiano antis, nel lituano ntis, nell'antico slavo ty (e nel russo tka), nel
greco nessa e anche nel sanscrito ti-, "uccello acquatico". Inoltre esistono alcune parole
derivate che indicano la carne d'anatra, come il latino anatina. Tutti questi dati fanno pensare
a buon diritto agli studiosi a uno «status protoindoeuropeo di questo termine» (John Greppin).
Inoltre è logico dedurre che questo animale facesse parte del mondo indoeuropeo originario,
data la presenza nel vocabolario comune. Gli studi archeologici ne attestano la presenza
ovunque in Europa e solo in parte dell'Asia settentrionale (ciò ci pare indicativo per tornare a
negare la possibilità che i nostri progenitori provenissero dall'Oriente, come certi studiosi
indoeuropeisti sovietici o di impronta ideologica sovietica hanno spesso sostenuto).
Spesso nel mondo classico l'anitra ha carattere di "profetessa dei venti", in quanto capace di
prevedere le variazioni atmosferiche e meteorologiche. Inoltre (riportiamo quanto afferma
Cooper) «quando volava in gruppo a pelo d'acqua era intesa come simbolo di superficialità,
eccessiva loquacità e inganno. Il tema dell'inganno è evidente nel francese canard, che
significa anitra, ma anche "falsa notizia"».
Andrà ricordata la nota vicenda fiabesca del "brutto anatroccolo", nella quale, probabilmente,
non si deve tanto ravvisare un'immagine negativa dell'anitra quanto piuttosto, per
contrapposizione, un inno poetico alla bellezza simbolica del bianco animale nordico, il cigno
iperboreo che indica la direzione delle origini remote.
L'origine del nome del colombo è abbastanza paradossale. Sebbene infatti la colomba sia uno
dei simboli per eccellenza della bianchezza, il latino columbus, che ha un corrispondente
esatto nel greco klymbos, pare venga da una radice indoeuropea *kel (o forse *gel),
ricostruita sul raffronto con l'antico slavo golobi: tale radice ha il significato di "scuro" (come
nel greco kelains, "nero"), e il nome dell'animale significherebbe dunque "uccello grigio
scuro".
Bisogna però aggiungere che da millennî altri uccelli hanno evoluto il loro nome in modo del
tutto parallelo a quello del colombo. Così, in particolare, il palombo: da una radice
indoeuropea *pel, indicante un colore grigio o azzurro sbiadito, venne al latino palumbes, che
si sviluppò sino all'italiano odierno in modo del tutto parallelo al columbus. Da *pel deriva
anche "pallido", che ha mantenuto il senso originario di "sbiadito": inoltre altre voci in varie
aree, specie in quella greca e germanica, ma anche nell'armena, nella slava, nella baltica e
nell'indo-iranica. Aggiungiamo come curiosità che il nome "palombaro" deriva da quello dato
in tardo latino allo sparviero (palumbarius), per via dell'assimilazione dell'uomo che si
immerge nelle profondità delle acque con l'animale che si precipita dalle altezze dei cieli.
Come ha recentemente spiegato Alfredo Cattabiani, «nei miti antichi e poi nei bestiari
medievali si tende in genere a parlare della colomba, al femminile, anche quando si indica il
maschio, il colombo o piccione: sicché il lettore rimane sconcertato e non riesce più a
raccapezzarsi […]. In ogni modo i tre nomi colombo, colomba e piccione sono equivalenti;
tuttavia il secondo è prevalso nel linguaggio simbolico».
La colomba è tradizionalmente simbolo dell'anima, della purezza e della pace. Consacrata alla
Grande Madre, spesso viene associata all'Albero della Vita e in particolare all'ulivo. In
quest'ultima iconografia il suo simbolo richiama la pace e la prosperità luminosa (Atena); ma
nella mitologia classica fu associata anche a Bacco e a Venere. Sotto forma di piccione questo
animale talvolta è legato alla codardia, alla vigliaccheria e alla lascivia; presso varî popoli fu
oggetto di sacrifici rituali. La sua associazione al tema diluviale, inoltre, non è solo biblica.
La parola 'corvo' ci viene direttamente dal latino corvus (cfr. anche l'accusativo singolare
umbro curnaco), parola di remota origine indoeuropea, probabilmente onomatopeica (kr…
kr). È attestata in forme affini in diverse altre aree (il che ne fa presumere una derivazione
dalla fonte comune): celtica (irlandese cr, ricostruito *krowos), germanica (alto tedesco
109
hraban, norreno hraukr) e baltica (lituano rka, e krakti il verbo), oltre che greca (crax,
corne), indiana (sanscrito kravas) e nell'albanese srr (cornacchia). Dalle lingue
indoeuropee il termine è passato poi all'ebraico haraban.
Nell'Urheimat il corvo doveva solcare con la sua nera figura il cielo: assurse a epifania di
diverse divinità, con tratti affini. Il suo simbolismo, peraltro, è duale, dal momento che è
collegato sia con la saggezza, la preveggenza e la lungimiranza, sia con la morte e la
distruzione: le sue peculiarità lo fanno animale solare e notturno al tempo stesso. Forse è
anche per questo motivo che viene spesso associato al lupo, che ha analoghe caratteristiche.
Gianna Chiesa Isnardi, ricordando la Hlfs saga ok Hlfsrekka (Saga di Hlfr e dei
guerrieri di Hlfr), afferma che «nelle figure dei due fratelli Hrkr inn hvti e Hrkr inn
svarti "cornacchia bianca" e "cornacchia nera" è forse conservato il ricordo della duplice
simbologia dell'animale» (I miti nordici).
Nello Zoroastrismo è animale benefico e puro che dissipa la corruzione; il culto di Mitra
definì corvus il primo grado iniziatico dei suoi misteri solari. Nella mitologia greca il carattere
solare si manifesta nel fatto che è messaggero di Helios-Apollo e collegato a Crono, ad Atena
e a Asclepio-Esculapio; i corvi predissero la morte di Platone, come a Roma quelle di Tiberio
e Cicerone. Nell'Orfismo appare a simboleggiare la morte iniziatica ed è conseguentemente
associato alla pigna e alla torcia, che sono simboli della rinascita metafisica. Analogamente
nella tradizione ermetica è simbolo della nigredo (la morte rituale, il "passaggio alle tenebre"),
come lo sono il teschio e la tomba. Il dio Brahma, nella religione hindu, si manifesta anche
sotto le sembianze del corvo.
Particolare importanza riveste nella mitologia nordico-germanica e in quella celtica. Tra i
Germani i corvi sono sacri a Wotan-Odino, e i suoi due corvi Huginn e Muninn ("pensiero" e
"memoria") volano nel mondo a raccogliere ogni informazione, per poi tornare a riferirla al
dio sovrano. Lo seguono anche nella furiosa caccia selvaggia, e analogamente nella mitologia
celtica sono sacri tanto a Lug dalla lunga lancia (così simile a Odino), quanto alla Morrigan,
dea del furor guerriero e della morte in battaglia. In un mito gallese Owein è un eroe "sovrano
di corvi" e si scontra con il seguito di Artù. Questa diffusione in area celtica e germanica ne
ha comportato una forte presenza nell'araldica, dove pare però essere confuso con la
cornacchia.
Un ultimo dato interessante è che il corvo è spesso associato, in diverse aree e sino al tardo
medioevo, agli occhi: non solo per via della sua capacità di lungimiranza, ma anche perché gli
occhi sono il suo primo pasto quando si imbatte nei caduti in battaglia; inoltre i suoi occhi
hanno potere medicamentoso. Fjölsvir è minacciato, allorché menta, «di essere mutilato da
due corvi che gli strapperanno gli occhi». Ciò è forse da mettere in relazione con la qualità del
corvo di rappresentare la prima funzione sovrana indoeuropea, quella magico-religiosa
(testimoniata anche dal suo collegamento a Odino e Lug), come gli occhi lo sono nella
gerarchia simbolica del corpo umano.
Il cuculo trae il suo nome da una forma onomatopeica (*kuku-) abbastanza diffusa nel
panorama indoeuropeo. Di essa si ha vestigia nelle lingue storiche nell'irlandese cach, nel
gallese cog, nel verbo lituano kukoti (fare cucù), nel russo kuka, nel greco kkkyx, nel
sanscrito koka- (e kokila-) e nel latino cuclus. Il latino pare avesse anche una forma, più rara
e antica, ccus (a ulteriore conferma della ricostruzione del tema indoeuropeo), della quale
cuculus rappresenterebbe una sorta di diminutivo poi invalso come nome principale. Questa è
una delle tante parole che si sono conservate ancora oggi affini in moltissimi lingue, e in quasi
tutte si è mantenuto il senso dell'onomatopea: anche in lingue influenzate da quelle
indoeuropee, come il turco e il georgiano. Nominando questo uccello, ne riproduciamo il
verso e, per un attimo, parliamo forse inconsapevolmente la sacra lingua degli uccelli, che
molteplici tradizioni e leggende raffigurano come la "lingua angelica" e sacra per eccellenza.
Nel simbolismo il cuculo è strettamente legato ad amore, fecondità e abbondanza pere via
della sua funzione di "annunciatore" della bella stagione (in un calendario scandinavo
medievale al cuculo è associata la data del 25 aprile, e nella antica tradizione nordica il mese
110
che andava da circa metà aprile a circa metà maggio era definito "mese del cuculo"); inoltre,
in alcuni ambiti ha la funzione di "sovrano" tra gli altri uccelli; ed ha anche alcuni
caratterizzazioni negative e tenebrose, che fanno di lui uno dei parassiti simbolici per
antonomasia.
Come riportava già Aristotele, questo animale depone il suo uovo nel nido di altri uccelli (per
lo più passeracei) eliminando dalla covata uno di quelli dell'ospite; allo schiudersi, il piccolo
cuculo viene allevato e cresciuto dall'ignaro genitore adottivo. Questo fatto ha avuto due
significative attribuzioni nel mondo del simbolismo: da una parte, ha accresciuto i significati
primaverili che già erano proprî di tale animale, dall'altra lo ha fatto apparire in alcuni ambiti
quale «emblema dell'abbandono dei doveri materni e del parassitismo, ma anche del
canzonatore, tanto che una volta si usava il verbo "cuculiare" per "prendere in giro"»
(Cattabiani).
In ambito folklorico, e specialmente in Piemonte, esiste l'espressione "vecchio come il cucco".
Sempre stando a quanto scrive Alfredo Cattabiani, essa sarebbe sorta dalla credenza secondo
la quale il cuculo non morirebbe mai; inoltre, essendo immortale il cuculo tutto ha visto e
tutto sa - un po' come il corvo, per altri aspetti. In un poema indotibetano quest'immagine del
cuculo quale sapiente risulta appieno suffragata. Ne La preziosa ghirlanda degli insegnamenti
degli uccelli si narra infatti del saggio Avalokitevara il quale, dopo avere assunto le forme di
questo uccello, rimase per lunghi anni nel folto di un albero di sandalo. Quando venne
richiesto di parlare da un pappagallo, iniziò un discorso di saggezza che fu ascoltato da un
uditorio sempre maggiore di uccelli, che si radunarono in un grande e memorabile convegno.
Il cuculo stabilì di riunirsi l'anno seguente: ciò avvenne, e quasi tutti i pennuti assunsero un
impegno di natura spirituale; ciò li condusse sulla strada verso la liberazione.
L'italiano "tordo" corrisponde al latino turdus, che è una parola di antiche origini. Si trovano
suoi corrispondenti tra i Celti (irlandese moderno truid, 'tordo', e irlandese medievale truit,
'storno'), i Germani (antico alto tedesco drosca, norreno throstr, inglese moderno thrush,
tedesco moderno Drossel), i Balti (lituano strzdas, lettone strazds, antico prussiano tresde),
gli Slavi (russo drozd) e i Greci (greco stroudhos, che assunse il significato di 'passero'). La
linguistica comparata ha individuato l'origine di questi nomi in una forma comune
indoeuropea *(s)trsdos-, dalla quale sarebbero sortite le varie espressioni dialettali. John
Greppin, dell'Università di Cleveland, la definisce parola «del Nord-Ovest indoeuropeo».
Riferisce inoltre che i tordi del genere zoologico turdus sono ben noti per il loro dolce canto, e
che i più comuni, all'interno del genere, sono il tordo canterino, il merlo e la tordella gazzina.
Aggiunge infine che i varî tordi sono «ben distribuiti dall'Europa sino all'Asia occidentale e
centrale» e che in India il tordo e la ciarla sono definiti con termini comuni, che designano
entrambi tali uccelli.
Mosca.
Il nome di questo insetto si è conservato nei millennî, sino a giungere alla nostra lingua del
tutto simile a quello utilizzato in tempi arcaici dal vocabolario indoeuropeo. Attraverso il
latino musca ci giunge sin dalla radice indoeuropea *mus, ampliata in *mus-k. Questo tema
è stato ricostruito dai linguisti tramite la comparazione con l'antico basso tedesco muggia, il
norreno my, il lituano musè, l'antico slavo muxa, il greco antico myîa, l'albanese miz e
l'armeno mun. Si delinea così la radice *mus, attestata nelle aree baltica, slava e greca;
ampliata da *-ka nel latino e ridotta alla forma *mu o *m nelle aree germanica, albanese e
armena.
----[Una presentazione dell'autore si trova nel numero 4 di Episteme]
[email protected], [email protected]
111
De Verbo Mirifico - Il Nome e la Storia
(Bruno d'Ausser Berrau)
Premessa
112
Ho voluto chiamare così questa ricerca perché tali e non altri ne sono i protagonisti: il nome
è il Nome per eccellenza ovvero è la designazione di Dio nella tradizione ebraica. Tradizione,
che trovandosi alla sorgente, dalla quale sono scaturite le tre religioni nate con Abramo,
presenta un evidente e particolare interesse anche per i popoli, da esse stesse determinati, nel
corso del tempo due volte millenario che sta per concludersi. Inoltre, per sue intrinseche
caratteristiche, l'Ebraismo è portatore di elementi arcaici; alcuni di relativa evidenza, altri
assai meno. Tutti però dal contenuto assai sorprendente per le possibilità da essi offerte nel far
luce su aspetti remoti della storia. In realtà, sarebbe più corretto parlare di preistoria ma
questo termine è spesso associato con prospettive paleontologiche non contigue al punto di
vista qui utilizzato.
L'approccio al problema, partendo dai rituali massonici, è assai insolito; sia perché questi
appaiono relativamente poco conosciuti, sia perché sono, erroneamente, ritenuti elaborazioni
colte assai tardive. I segni invece della loro genuina antichità risaltano, con evidenza, non solo
per quanto può scaturire da un esame comparato del contestuale simbolismo ma proprio come nei particolari presi in considerazione - per la presenza di deformazioni ed alterazioni
tipiche di una trasmissione per lungo tempo orale; avvenuta, inoltre, in ambiti linguistici e
culturali, al fondo, lontani dalle fonti, in prevalenza semitiche, di partenza. Un patrimonio, nel
suo insieme, assai diversificato; essendone conseguenza un lascito complesso: una sorgente
ebraica primaria, veicolata dal primo cristianesimo, alla quale si sono poi aggiunti apporti
della tradizione classica e con essa ma, soprattutto più tardi grazie agli arabi, anche
componenti ermetiche (i.e. egizie), attive queste - del resto - in tutte le iniziazioni di mestiere
dell'ambito europeo.
Il problema principale, sotteso al ritualismo muratorio, è la ricerca della "parola" perduta del
grado di Maestro. Parola, che dovrebbe coincidere con il vero nome del Grande Architetto
dell'Universo; esso è poi il nome del Creator Mundi nella particolare prospettiva dell'Ars
Ædificatoria: nel seguito, si vedrà come, di parola sostitutiva in parola sostitutiva, in un gioco
di rimandi, connesso alla peculiare natura dell'ineffabile, si giunga infine ad un Nome per
scoprire che è anch'esso surrogatorio. Anzi, se ne scopre un nascosto, composito assetto,
strettamente dipendente dalla stratificazione cronologica di eventi storici, determinanti lo
stesso intimo e più profondo carattere della tradizione ebraica. È quindi dalla disamina di
questa struttura che si rende possibile gettare uno sguardo su fasi ed eventi di epoche molto
lontane ed è per questo che anche il termine storia (ιστορια, historia), si trova presente nel
sottotitolo. Nella sua estrinsecazione in questo studio, esso deve pertanto essere letto e inteso,
e nel senso corrente, quale espressione di un tentativo d'interpretazione ricostruttiva di alcuni
avvenimenti del passato, e nella primitiva accezione, contenuta nella √ƒιδ, dalla quale
ιδειν, corrispondente al lt. videre, connotante tutte quelle attività che, dal senso della vista,
attraverso la ricerca e l'investigazione, giungono alla conoscenza intellettuale. Nella
conclusione, ho cercato, infine, di rendere ragione dell'importanza del ruolo che l'Ebraismo ha
giocato nella realtà delle organizzazioni iniziatiche occidentali, trovandola nell'originaria
natura del massaggio cristiano, il quale, soltanto in quella successiva, discreta, dimensione
elitaria ha avuto seguito ed autonomo, peculiare sviluppo. Questo ho provato a fare ed anche
se il modus operandi potrebbe sembrare quello di un mero lavoro d'erudizione - altri strumenti
non essendoci in quest'archeologia materiæ non signata - la volontà è stata soprattutto quella
di pervenire a gettare una qualche luce sulle vere radici della nostra epoca.
SIGLE DEI RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Elenco parziale dei testi consultati
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BdR: B. de Rachewiltz; Egitto magico religioso, Boringhieri, 1961
BGT: B.G.Tilak; The arctic Home in the Vedas, Poona & Bombay, 1903
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113
CFV: C.Fabre-Vassas; La bête singulière. Les Juifs, les Chrétiens et le cochon, Gallimard,
1994
Ch: P.Chantraine; Dictionnaire Étymologique de la Langue grecque, vol.I, t.1,2, vol.II, t.3,4,
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CS: C.Schmitt; Il Nomos della Terra, Adelphi, 1991
E.1: J.Evola; Lo Yoga della Potenza, Ed. Mediterranee, 1968
E.2: Ibid.; Metafisica del Sesso, Ed. Mediterranee, 1969
F: J.G.Février; Histoire de l'Écriture, Éd. Payot, 1984
FdO: Fabre d'Olivet; La Langue Hébraïque Restituée, L'Age d'Homme, 1985
FEI: First Encyclopaedia of Islam, 1913-1936, reprint Brill, 1987
FV: F.Vinci; Omero nel Baltico, Ed. Palombi, 1997
GG: G.Garbini; I Filistei, Rusconi, 1997
H: J.Hadry; Les Indo-Européens, P.U.F. 1981
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K: Kluge; Etymologisches Wörterbuch der deutschen Sprache, de Gruyter, 1995
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S: G.Semerano; Le Origini della Cultura Europea, (vol.1, t.I, II, vol.2, t.I, II), Ed. Olschki,
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Sh: G.Scholem; La Cabala, Ed. Mediterranee, 1982
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W: J.S.M.Ward; The Higher Degrees of Masonry, s.d.
Z: Le Zohar; (t.I,II, III, IV), Éd. Verdier, 1996
Considerazioni intorno alla parola di Maestro ed al Nome del grande Architetto
dell'Universo così come espressi nei rituali della Gran Loggia Unita d'Inghilterra
Per la priorità storica dell'Inghilterra nella moderna diffusione della Massoneria, in questo
studio, nella presunzione d'avere così ottenuto una maggior prossimità all'antico, ho attinto ai
testi originali facenti riferimento alla documentazione prodotta dalla United Grand Lodge.
Tale antico, per me, non si ferma agli inizi del XVIII sec., epoca nella quale si costituì la
Massoneria Speculativa, come, in modo riduttivo, pensano anche alcuni massoni e neppure si
114
colloca in tempi rinascimentali, qual è opinione di altri ma si perde invece lontano, ab
immemorabili, com'è del tutto naturale avvenga per qualsivoglia tradizione.
In ogni caso, a mio parere, la tradizione massonica, ancorché impoverita nella qualità degli
uomini e nell'eterogeneità dei fini,1 è autentica e, per questo, meritevole d'attenzione in quanto
suscettibile di fornire indicazioni di notevole valore ove la si sappia mondare dagli effetti di
una patina ottocentesca, spesso fatta di stucchevole moralismo nei paesi anglosassoni e
d'aggressivo impegno politico-laicista in quelli latini.
I rituali massonici, qui presi in considerazione, sono pertanto quello Emulation per il Craft2 e
l'Aldersgate per il Royal Arch, il quale non è un grado a sé stante ma si colloca, pur con una
sua autonomia espressa in Chapters, all'interno del Craft stesso quale estensione e
completamento del grado di Maestro e pertanto non deve, in alcun modo, essere confuso con
gli Higher Degrees.3
Alla chiusura nel terzo grado, il Maestro Venerabile (Worshipfull Master), dopo aver ricevuto
dal 1° Sorv. (Senior Warden) i segni ed ascoltato le parole di Maestro - pronunciate ad alta
voce - dichiara: brethren, the substituted Secrets of Master Mason, thus regularly
communicated to me, I, as Master of this Lodge, and thereby the humble representative of
King Salomon, sanction and confirm with my approbation, and declare that they shall
designate you, and all Masters throughout the Universe, until time or circumstances shall
restore the genuines.
È quindi chiaro come Mahbenah e Mohabon - sono queste le parole ritualmente comunicate al
nuovo Maestro - siano soltanto parole sostitutive, si tratta ora di vedere da quale parte
cominciare per ritrovare the genuines.
Per tutte e due il rituale dà poi una spiegazione che - in quanto tale e in qualche modo sembra attenuare l'affermazione dall'impatto più nettamente negativo che ho citato sopra:
<<both words have a nearly similar import, one signifying "the death of the builder", the
other "the builder is a sacrificed man". Nonostante, la fuorviante e probabilmente
volontaria inesattezza della traduzione, queste due frasi trasmettono però altrettanti validi
suggerimenti:
1.
2.
Le parole, ancorché sostitutive, non sono prive di senso.
C'è, in entrambe le frasi, un richiamo al costruttore che - come spiegherò tra poco - è
importante.
R.Guénon,4 scrive che le interpretazioni, finora date, non possono trovare una corretta
spiegazione perché, ove si cerchi di inserirle in <<…une étymologie hébraïque
quelconque>>, si rivelano, al primo approccio, del tutto fantasiose. A questo punto c'è la
precisa traccia - ancorché scontata - di doversi riferire alla lingua ebraica. Ma leggiamo
ancora: <<…ce mot, [è a Mahbenah che si riferisce] en réalité, n'est pas autre chose qu'une
question, et la réponse à cette question serait le vrai "mot sacré" ou la "parole perdue" ellemême, c'est-à-dire le véritable nom du Grand Architecte de l'Univers.>>.
Altrettanto, secondo logica debbo supporre, varrà per l'altra parola; quindi, essendo due quelle
disponibili ed una la "parola perduta" entrambe le domande dovranno comportare la stessa
risposta.
Mahbenah corrisponde assai bene all'ebraico MâH BâNâH? [ ]: che cosa costruisci? La
risposta è evidente: il Tempio.
L'altra parola è Mohabon, per la quale posso usufruire di un altro prezioso suggerimento dello
stesso autore,5 che scrive, in forma alquanto ellittica, <<…qu'on répondra jamais
valablement à la question posée par un "mot" qui a été déformé de tant de façons diverses,
question qui d'ailleurs, chose curieuse, se lit en arabe encore plus clairement qu'en hébreu:
Mâ el-Banna? [⊕×_← ∇ ∴↓] >> Mâ, nella lingua araba attuale, è un pronome interrogativo
avente il senso di che cosa? Mentre, per gli individui, s'adopera man (chi?). È invece nella
115
lingua aulica, che mâ è impiegato per interrogare sull'identità personale; anzi, in alcuni passi
della Scrittura, questo pronome sta proprio a designare la funzione divina di creazione.
Pertanto, l'equivalente ebraico di Mâ el-Banna? È MY Ha BONèH? [  ]. Cioè, quello che, con una
leggera deformazione,6 è il nostro Mohabon, il quale - in entrambe le lingue - infine, significa:
chi è il costruttore? Si potrebbe, qui giustamente, osservare che costruttore non è
esattamente la stessa cosa di architetto ma, del resto, nell'imperfetta spiegazione qual è
quella, data in via rituale e più sopra riportata, si parlava proprio di un builder e non di un
architect ed in effetti, ciò che troveremo al termine di questa prima fase, non è tanto il nome
del Grande Architetto dell'Universo (GADU) quanto un suo attributo. Tale disposizione è in
analogia ai consueti, terreni rapporti gerarchici, dove, il costruttore è concettualmente
subordinato all'architetto.
I nomi o attributi di Dio sono settantadue; le difficoltà mi appaiono pertanto minori
affrontando la gamma dei sinonimi relativi a tempio. Ed essi sono essenzialmente due: HIKâL
[] e QaDoS h [ ].7
HIKâL ha, principalmente, il significato di un edificio imponente, monumentale; un palazzo
insomma e soltanto lato sensu può essere esteso ad un edificio di culto. Un'accezione
propriamente religiosa è invece connessa a QaDoSh, lett. santo ma anche tempio, che - nel
giudaismo, pel concetto dell'imprescindibile unicità del luogo di culto - non può essere che il
Tempio, cui, tale ieratica ed esclusiva designazione, perfettamente, s'addice. Per più estesi
riferimenti ho utilizzato lo HL, limitandomi qui a riportare come di QaDoSh affermi che è
proprio of places set apart as sacred by God's presence; da cui consegue che, con tale
vocabolo, viene pertanto designato, e il Tempio, e - prima di esso - the Tabernacle and its
courts nonché, con l'espressione QaDoSh QaDoShIM, l'inviolabile Santo dei Santi.
Questa, ottemperando ai requisiti premessi, dovrebbe essere quindi la risposta nonché la
parola cercata.
Mi rendo conto, come, l'immediata traduzione con santo non riesca, in italiano, ad essere del
tutto congrua per la designazione del Tempio; meglio sarebbe, quindi, servirsi di santuario;
però - così facendo - si viene ad attenuare la pregnanza della metonimia scaturita dalla singola
risposta. L'importante, non dovendo esserci un effettivo uso della traduzione in una lingua
diversa dall'ebraico, è capire a fondo il concetto che sottende l'originale. In questo senso, è
utile partire dall'etimo latino della versione italiana dove il significato, indiviso nell'unico
termine ebraico, si scinde in due componenti. Voglio procedere con ordine:
 Sanctum è ciò che si trova alla periferia del sacrum e che serve ad isolarlo da ogni
contatto, infatti quest'ultimo ha un doppio significato designando ciò che non può essere
toccato senza essere contaminato o senza contaminare: mons sacer, via sacra / auri sacra
fames, homo sacerrimus. Mentre la funzione isolante, di limes, del sanctum, è ben
leggibile nel sanctuarium, nel murus sanctus ed anche nella lex sancta.
Tutto bene quindi per restituire il concetto di tempio ma capisco come possa esserci qualche
difficoltà a ritenerlo un attributo del GADU, cui allora parrebbe più appropriato sacro:
 << sacer indique un état, sanctus le résultat d'un acte>>8 Ma come siamo arrivati
all'attuale senso, anche morale, di santo? E' un portato, storicamente ben collocabile,
dell'evangelico αγιος, che ha mutuato il suo significato proprio dall'ebr. QaDoSh, nella
cui radice si trova, allo stato principiale, ciò che, come ho già accennato, nel latino ha dato
luogo alle due accezioni esaminate.
E, infatti, nello HL, alla traduzione di QaDoSh, la dicotomia risulta ben evidente: sacredness,
apartness: il primo concetto riconduce a Dio e pertanto all'Attributo, il secondo alla Casa di
Dio ovvero al Tempio.
L'esame radicale e comparato della parola (QaDoSh), mi conferma i due significati qui sopra
riportati9 nonché il suo ruolo nella corrispondenza funzionale col GADU.
Ambito di sacredness
116
•
•
•
FdO, per QD [ ], scrive: <<Le point vertical, le pole, le sommet de quelque chose que
se soit; le pivot, le mobile, le point sur lequel tout porte, tout roule.>> Mentre per Sh [ ]:
<<Comme image symbolique, il représente la partie de l'arc d'ou la flèche s'élance en
sifflant.>>. Sembra palese che siamo di fronte all'immagine del prodursi di tutta la
manifestazione da un punto o anche, in termini più "muratòri" e più consoni al contesto
biblico, è l'Antico dei Giorni che, con il suo compasso, divide le acque superiori da quelle
inferiori: <<... quando tracciava un cerchio sull'abisso…>>.10
Ben evidente è la prossimità semitica all'accadico quddušu,11 essere luminoso,
splendente, che, in termini concettuali ma non linguistici, richiama l'idea mazdea ed
iranica della Xvarnah, la luce di gloria propria ad ogni manifestazione del divino.
In un senso più ristretto QDD [ ] è inclinarsi e QDH [ ] è un inchino; evidente
riflesso della maestà connessa alla radice.
Ambito di apartness
• QD ha naturalmente anche il senso di separare, dividere, in arabo [ϖ≤] si concretizza
in <<…une ligne de démarcation, une fissure, une entaille; c'est en particulier, la taille
de quoi que ce soit, la proportion corporelle…>> (FdO).
Per quest'ultimo ambito, c'è da mettere in evidenza come, nonostante la doppia valenza di
Qadosh, esista nelle lingue semitiche un'altra serie di termini usciti da una √HRM [
  , ±ζο]
per i quali i sono assai evidenti i rapporti con le accezioni di sacer piuttosto di quelli relativi a
sanctus ma ritengo più proficuo privilegiare il vocabolo nel quale le possibilità semantiche
sono più ampie.
Ma ritorno ora alle nostre due domande; com'è facile constatare, sia nel sostantivo BONèH, sia
nel verbo BâNâH l'elemento radicale è rappresentato da √ BN [] . Qui, il FdO mi è ancora
d'aiuto: <<… cette racine développera l'idée d'une extension génératrice … d'une émanation
… elle sera le symbole de toute … manifestation de l'acte générateur … dans un sens propre
c'est un fils, une formation, une corporisation, une construction.>> In essa, si trova pertanto,
in nuce, quello che se ne svilupperà ossia: dal piano dell'idea a quello della concretezza
dell'edificio. Dal suo fondersi con la √ YN [] - <<… toutes les idées de manifestation
particulière et d'être individuel>> - consegue √ BYN → BYNâH []: <<L'intelligence; ce qui élit
intérieurement et dispose les éléments pour l'édification de l'âme.>>.
Questo percorso mi ha così portato a trovare la ragione profonda di uno di quelli che, per
travisamenti secolari, sembrerebbe poter classificare tra i luoghi comuni di un certo
moralismo massonico: la costruzione del Tempio interiore.
Il rapporto tra il Manifestato ed il suo Principio sono illustrati, nella tradizione ebraica,
dall'Albero Sefirotico (da Sephiroth, 
 
: numerazioni), il quale gioca un ruolo
fondamentale in quell'esoterismo. Esso e n u m e r a appunto dieci "categorie", disposte
secondo un impianto tripartito, dalla forma d'ideogramma geometrico mentre il Principio
dell'intera costruzione ha un ruolo matematico e, a maggior ragione, metafisico di zero: è
l'Inconoscibile o AYN-SOPh [ 
    , lett. senza limiti ] che sovrasta lo schema standone
però all'esterno.
La terza di dette categorie è la nostra BYNâH, l'Intelligenza. Ciò, che qui, particolarmente,
m'interessa è l'abbinamento, attuato dalle dottrine cabalistiche, tra le Sephiroth e le più diverse
serie concettuali d'ordine teologico, cosmologico o morale. In tale prospettiva, è importante
vedere con quali conseguenze, concependo l' e n u m e r a z i o n e come progressiva
manifestazione d'alcuni nomi di Dio, a BYNâH risulti appaiato il Tetragramma YHWH
[   ].12 A conferma, nel Decalogo, è il terzo enunciato, che ha come tema il Nome: <<Non
pronuncerai invano il Nome del Signore, perché il Signore non lascerà impunito chi pronuncia
il Suo Nome invano>>.13 Ed è noto che tale compito fosse riservato - una volta l'anno, nel
giorno dello Yom Kippur - soltanto al Sommo Sacerdote.
117
Resta, ora, da trovare la non ancora individuata identità dell'Architetto, che concepisce il
progetto poi attuato dal Costruttore. Per far questo debbo tornare ai rituali, dei quali rimane da
esaminare quello del Royal Arch, che, come ho già scritto, è il completamento del grado di
Maestro ed al quale si accede attraverso un rito che ha nome Exaltation. Al termine di esso, al
Maestro "esaltato" viene espressamente rivelato il vero nome del GADU che è, appunto, il
Tetragramma. Quindi i rapporti gerarchici, tra Square Masonry ed Arch Masonry, risultano sempre per legge d'analogia - un riflesso di quelli esistenti tra uno dei nomi o attributi e quello
che è il Nome ovverosia <<…l'Hiérogramme du Grand Architecte de l'Univers>>.14
Per altro, attraverso una delle operazioni alfanumeriche della Cabalah, a BYNâH è attribuito il
valore di 50,15 il quale coincide con il risultato della somma dei quadrati dei lati del triangolo
rettangolo (di proporzioni 3 / 4 / 5)16 su cui si basa la Master's square: è pertanto
all'Intelligenza che si rapportano - come dimostrano tutte queste, sottese relazioni - sia la
Square, sia l'Arch Masonry, trovando in essa attinenza qualsiasi opera costruttiva a
qualsivoglia livello ontologico la s'intenda intraprendere.
Per completezza, debbo aggiungere che, alla Sephira BYNâH, è anche collegato il nome ALôHYM
[] e per esso, come suggerito da Gen. 1.1 <<Berashit bera Elohim…>>,17 si perviene ad una
stretta rispondenza con la prima parola della Torah: BéRAShYTh [
    ], in principio. Poi,
attraverso questa, dalla scissione in due componenti, nasce un nuovo significato: BéRA ShYTh
[
      ], Egli crea sei. È così, significativamente, mostrato il determinarsi delle sei
direzioni dello spazio.
Come si può vedere, siamo sempre in piena cosmogenesi; in effetti il collegamento, di ALôHYM
e BYNâH con il Tetragramma, è quello che si ha quando la Presenza/Potenza [Shekina, 
]
di Dio si manifesta ed opera in questo mondo ed il testo biblico, nell'originale ebraico, fa
apparire evidente questo ruolo <<..è detto, Elohim che la luce sia ! E la luce fu>>18
Tale Fiat Lux primordiale ha la sua corrispondenza microcosmica nel processo iniziatico in
quanto - mentre il primo determina l'ordinamento del χaος - quest'ultimo produce un'analoga
rettificazione nel composto individuale del neofita o Entered Apprentice.
Adesso, ritengo che si possa stabilire quale sia la corrispondenza massonica degli Elohim
creatori: se esamino questo nome - che è, appunto, un plurale - constato come, sempre lo
Zohar, lo metta in relazione con il settenario, completando in tal modo il nesso già rilevato
con le direzioni dello spazio. Esse - diciamo così - si riassumono nel centro da cui originano
ed è quindi, in definitiva, esso stesso (che è poi un loro: gli Elohim), il soggetto della frase:
Egli crea sei. Ciò facendo, determinano il settimo e principale componente nella croce a tre
dimensioni che, secondo i modi della geometria descrittiva, le rappresenta.19 Ma per formare
una Loggia e poter quindi trasmettere l'iniziazione sono necessari sette maestri, i quali
saranno così - in piena armonia con tutto il simbolismo cosmologico del Tempio - la
proiezione terrena di quel consesso celeste.
Torniamo ora al Nome, sul quale il rituale dell'Exaltation ci riserva ulteriori informazioni: al
termine of the legend that deals with the "discovery" of the lost secrets at the re-building of
the Temple after the return from the Captivity, viene scoperto (è letteralmente nascosto da un
velo) il Nome del GADU. Di fatto, la cosa si presenta più complessa: c'è sull'ara la
rappresentazione di una circonferenza, nella quale è inscritto un triangolo equilatero. Nella
parte superiore, della circonferenza, sta scritto Jehovah, sui lati del triangolo, spezzata in tre
parti, si legge la parola Jah-bul-on. In corrispondenza dei vertici si trovano le lettere , , .20 Di
tutti questi elementi esaminerò in particolare il primo perché del Tetragramma YHWH, oggi,
come si sa, la pronuncia generalmente accettata concorda per il convenzionale Iahveh pur non
escludendo che in antico essa fosse diversa. Questo suggerimento rituale, appare invece
confermare un'indicazione del simbolismo, che fa ritenere come, quella originaria e supposta
perduta fosse, appunto, Jehovah; consonante, d'altronde, con l'altro, più insolito Nome di
Jahbulon. Quanto alle tre lettere ebraiche, con le quale si esemplificavano interessanti
combinazioni, esse non compaiono più per precise ma non chiarite disposizioni 21 del Supreme
118
Grand Chapter. Ma torniamo al problema della pronuncia; a favore della seconda dizione del
Nome debbo fare anche questa considerazione: la forma della lettera yod [] è quella
geometrica di una piccola squadra e pure una squadra è la gamma Γ maiuscola; entrambe,
nel simbolismo e in antichi rituali, sono associate alla G la cui pronuncia può essere gutturale
come in God - dove l'assimilazione fonetica a "yod" era, in inglese, espressamente voluta
(Yah22 è uno dei nomi) - oppure dolce come in Geometry (the fifth science secondo
l'enumerazione delle sette arti liberali) ma in ogni caso è sempre detto che essa stands for
God.
Ora, parrebbe d'esser giunti al termine della quête avendo, secondo il diligente investigare sin
qui condotto, trovato sia la Parola, sia il Nome; infatti, riepilogando: QaDoSh è l'Attributo di
BONèH, il Costruttore e QaDoSh è la vera parola del grado di Maestro. Il Costruttore è poi
ipostasi di YHWH, ed il Tetragramma, con la pronuncia Jehovah, è pertanto il Nome
dell'Architetto ovverosia del GADU, Nome e pronuncia che sono rivelati nel Royal Arch al
completamento della Maestria.
Ma la via iniziatica ha sue specifiche caratteristiche ed anche se attentamente percorsa con gli
strumenti dell'erudizione, è necessario tenerne conto. Pertanto, nonostante quanto acquisito, il
viaggio non è giunto al suo termine: cosicché, collocando il punto di vista ad un livello
superiore di realtà, l'orizzonte si allontana ulteriormente. Infatti, ogni forma tradizionale e, di
conseguenza, ogni lingua sacra che la supporta, non sono, essi stessi, altro che sostituti della
Tradizione Primordiale una ed indivisa come pure della lingua originaria anch'essa unica e
comune a tutta l'umanità. Dobbiamo quindi avere ben presente che siamo, ancora una volta, di
fronte a termini sostitutivi. Del resto, il reale raggiungimento dell'obiettivo implicherebbe
l'aver conseguito la pienezza della realizzazione e questa - appartenendo per sua stessa natura
all'ineffabile - comporterebbe l'incomunicabilità della "parola ritrovata", a maggior
ragione poi attraverso uno scritto.
Nell'ambito iniziatico del mondo classico, cui la Societas Latomorum è debitrice per quel
filum che la lega ai Collegia Fabrorum, questi ultimi, in quanto organizzazioni artigianali,
appartenevano ai "piccoli misteri" e - a chi vi militava - si poneva, come meta della
realizzazione spirituale, il raggiungimento della condizione di "uomo primordiale" ovvero,
secondo la terminologia cristiana, il superamento degli effetti della "caduta".
È quindi evidente come nel Tempio non possano mancare gli accenni alla Tradizione
Primordiale; in altri termini alla fase iniziale di questo ciclo di umanità, la sede della quale - il
berceau originario - elementi concordi, presso le più diverse tradizioni, collocano - per quanto
ciò possa apparire singolare - in posizione artica.23
Tale localizzazione, di fatto, risulta in Loggia con tutta evidenza: ancor oggi, quando
l'ambiente dedicato a quest'uso è arredato e composto secondo le prescrizioni, dovrebbe
esserci una volta stellata ed inoltre dovrebbero essere esposti i segni zodiacali e messi intorno
alle pareti sì da riprodurre la situazione che si ha ponendosi esattamente sul Polo. Da questa
posizione sommitale sul globo terrestre, lo Zodiaco appare dietro al cerchio dell'orizzonte di
modo che, quest'ultimo viene a coincidere con l'Equatore celeste; quindi, per l'esattezza, nella
realtà geografica, esso emerge per la metà superiore, cioè sino al Tropico del Capricorno in
guisa che, l'altro settore della fascia, quello limitato a Sud dal Tropico del Cancro, resti
nascosto alla vista. Anzi, nel Tempio degli Operativi, l'ambiente artico era ancor più leggibile
essendo la Polare posta al centro della volta quale <<siège effectif du Soleil central, caché de
l'Univers, Yah24>> e la G si ritrovava inscritta o circoscritta ad essa. In quest'ultimo caso, era
invece inscritta la yod [] e, dal tutto, calava, fino al pavimento, un filo a piombo, che
terminava al centro di uno swastika formato da quattro Γ, riproducenti il movimento (senso
antiorario) delle due Orse25 e di tutto il firmamento intorno alla Polare nel corso delle
ventiquattro ore. Questo è il senso del moto celeste che - anche alle nostre latitudini - risulta
tale ove lo si osservi volti a Settentrione mentre con la direzione rituale 26 ad Oriente (cristiana
e massonica) lo spostamento ci appare essere quello delle lancette dell'orologio ed è il Sole,
più che le stelle, a dominare la scena. Non a caso le Soleil central caché… è Yah ed è
119
rappresentato dallo yod, che avendo appunto, in piccolo, la forma speculare a quella della Γ
corrisponde all'altro senso di rotazione dello swastika: giustamente quello solare.
Naturalmente questi sensi di rotazione hanno una serie di "ricadute": ad essi corrisponde il
movimento di deambulazione in Loggia e per analogia, in un contesto sacrale più ampio,
quello intorno ai luoghi di culto,27 fino a definire l'andamento della scrittura in vari ambiti
culturali.
A riprova di quanto sia forte l'interna coerenza di tutto il simbolismo tradizionale, mi è utile
sottolineare che, avendo in precedenza28 messo in rilievo (per la cosmogonia ebraica, a
proposito della croce a tre dimensioni) una prima relazione tra lo spazio ed il tempo,
egualmente, essendo ora pervenuto ad un esame dello swastika ed avendo esteso l'indagine
all'Induismo, indottovi dal nome stesso del simbolo, posso individuarne una seconda. Nel
Genesi, al succedersi dei giorni, c'è una formula sempre ricorrente che è lecito definire
d'approvazione e pertanto di benedizione dell'opera compiuta: <<…and God saw that it was
good>> ovvero KY TÔB [
  
].29
Per elementari cognizioni di geografia astronomica si sa che il volgersi, nello spazio del cielo
polare, dei due suddetti asterismi, produce una completa rotazione nell'arco delle ventiquattro
ore. Rotazione, appunto, plasticamente raffigurata dallo swastika; si marca così, ad ogni giro,
il transito da un giorno al successivo. Infatti, viene parimenti ripetuto: <<E fu sera e fu
mattina>>.30 Ebbene, in skr. swastika - che è di per sé segno di <<good luck>> - può divenire
, se sono utilizzati <<the Asoka characters>> , il monogramma di sw-astì il cui senso è reso
dal benedicente <<may it be well with thee !>>. Se poi prendiamo il sostantivo composto
swastivâcana, troviamo che trattasi di <<a religious rite…performed by…invoking blessings
by repetition of certain Mantras>>;31 proprio l'esatto corrispondente dell'iterativa formula
biblica. Trovo davvero suggestivo pensare come un tempo questa benedizione divina potesse
quindi, letteralmente, leggersi nel cielo.
Tali precisazioni, sia detto per inciso, tolgono ogni significato a tutte quelle strane fantasie,
nate dall'arbitrario contenzioso politico sorto, per le note ragioni, riguardo allo swastika, che
lo vorrebbero buono o cattivo a seconda del suo senso di rotazione e chiariscono invece il
significato fondamentalmente cosmologico che gli è proprio.
Questo detto - stante la posizione assiale del Polo nel mondo terrestre - risulta evidente
perché la Camera di Maestro venga detta Camera di Mezzo (the middle chamber) ed anche si
comprende perché il Tempio - inteso in un'accezione universale - dovrebbe essere a pianta
quadrata (Square Masonry) proprio per la simmetria di quella figura rispetto al suo centro. Il
cerchio (cupole ed archi competono alla Arch Masonry) attiene al cielo mentre il quadrato alla
terra; ne consegue che - tra i numeri - il quattro si rapporta all'aspetto sostanziale della
manifestazione, dando luogo, nella concretezza dell'edificio, all'alzata cubica che potrà o
meno essere culminata da un assetto architettonico derivato from a circle's development, a sua
volta sensibile aspetto della relazione tra cielo e terra.
Un semplice cubo è difatti la Kaaba ed un cubo era il Santo dei Santi ma l'allontanamento,
non solo geografico, dal Polo ha provocato una specie di compromesso; pertanto l'attuale
planimetria della Loggia, di proposito, non è descritta come un rettangolo ma come a double
square. Con questa duplicazione, si è ottenuta, per l'allungarsi della figura, una direzione
(qibla), che - non potendo più lo spazio sacro incentrarsi sulla proiezione del "sole zenitale" è ormai quella volta a Solis adventus, caratteristica di più basse latitudini. Quindi, sul lato
corrispondente all'aurora, dietro al Venerabile - a ragione dell'immutata posizione dello
zodiaco astrologico, che ha "dimenticato" di tener conto degli effetti del moto precessionario è ancor oggi indicato il segno dell'Ariete [] - asterismo in cui sostava il punto vernale in
epoca salomonica (-968 / -928) - cioè esattamente l'equivalente grafico di una lettera " γ "
(gamma) minuscola; piccola, appunto, come piccola è la square dello "  " ed entrambi,
contrassegnati da una relazione col sole da intendersi, quindi, sostitutiva di quella polare
originaria.
120
Quest'indagine sulle caratteristiche del Tempio, mi ha permesso di meglio illustrare le
relazioni tra  / Γ / G, ottenendo così un'ulteriore conferma riguardo alla pronuncia di YHWH;
inoltre - nel sottolineare l'importanza di Yah, - viene messa in luce un'evidenza alla quale farò
ancora cenno a proposito del significato insito nello stesso Hiérogramme du GADU.
Parimenti interessante è un'altra connessione esistente tra il Nome ed il Tempio: l'architettura
cubica di base, oltre a poter essere sovrastata da una cupola, può esserlo anche da un dôme
piramidale com'è verificabile per alcune chiese e per molti campanili. Questo solido, che sul
piano diventa un quadrato sormontato da un triangolo, è un simbolo presente in molte Logge
ed è chiamato " broached thurnel" ma il termine italiano "pietra cubica a punta"
m'appare, descrittivamente, più esatto. Quand'esso è riprodotto in immagine, vi è inscritto il
Tetragramma, il quale è scomposto in modo che lo  risulti posto al centro del triangolo mentre
le rimanenti lettere  sono collocate nel quadrato. Più sopra, abbiamo visto come, al quattro,
corrisponda l'aspetto sostanziale del creato mentre, al mondo dello spirito, afferisce il tre e
come entrambe le cifre siano congruamente rappresentate nei due poligoni (triangolo +
quadrato) e nel modo in cui questi sono disposti per formare la figura in esame.
Inoltre, se tengo conto delle corrispondenze esistenti tra le lettere ed i numeri nell'alfabeto
ebraico, risulta per l'intero Nome il valore di 26: in questo totale, 10 deve essere attribuito allo
 ,32 che è appunto l'essenza del Nome stesso mentre per le altre lettere si ottiene una somma
pari a 16 ovvero il quadrato di 4 , cioè l'area della superficie su cui sono tracciate. Queste
attribuzioni, per le concordanze con il mondo classico presenti in Loggia, trovano conferma
nel pitagorismo: in esso, il valore riassuntivo (essenziale) del 10 rispetto alla substantia del 4 a sua volta rappresentato dalla Τετρακτυλ: 1 + 2 + 3 + 4 = 10 - è testimoniato da un'altra
rappresentazione della stessa figura nella quale, al posto delle lettere ebraiche, si possono
trovare punti geometricamente distribuiti: in n. di 10 nel triangolo ed in n. di 16 nel quadrato.
Il senso sotteso al simbolo è pertanto da intendersi come se fosse la forma stessa del Tempio a
proclamare il nome GADU. La pregnanza di esso è tale che i massoni letteralmente se ne
rivestono: in the English version del grembiule - quadrato con bavetta triangolare - l'identità
con il disegno in argomento è perfetta se si considera che, the Entered Apprentices should
wear their aprons with the bibs up.
Più sopra, ho fatto riferimento all'illusorietà di un raggiungimento della Parola e del Nome
definitivi; ebbene, si deve ora accettare e prendere atto di come, anche YHWH, rimandi, a sua
volta, a qualcosa di diverso e che, <<…suivant l'interprétation la plus autorisée et la plus
plausible, il s'agit en réalité d'un mot composite, formé par la réunion de trois noms divins
appartenant à autant de traditions différentes>>.33 Del resto, un suggerimento che questo
fosse il modo di procedere nell'interpretazione, appariva implicito nella suddivisione del
secondo Nome - Jahbulon [] - sui tre lati del triangolo.
In effetti, quando i Tre Principali del Royal Arch, si comunicano la Parola - in entrambe le
varianti è, appunto, un Tetragramma per la sostanzialità d'ogni scrittura (in analogia con
supra; a proposito del numero quattro) - lo fanno in modo assai singolare e spezzandola in tre
sillabe (Je-ho-wa e Jah-bul-on)34 e questo poiché la voce, veicolo del Verbo e quindi
dell'essenzialità, si rapporta, a sua volta, al tre nel simbolismo numerico.
La rappresentazione della specifica leggenda dell'Exaltation è incentrata sul secondo Tempio,
cioè after the return from the Captivity e pertanto i Tre Principali rappresentano:
•
Zorobabele, come Re (figlio di Sealtièl, guidò una colonna di esuli al ritorno da Babilonia:
-520, tutti e tre
i personaggi sono contemporanei);
• Giosue, come Gran Sacerdote, (figlio di Jozedàc);
• Aggeo, come Dottore della Legge, (profeta).
121
Ma, dalla leggenda iniziatica del grado di Maestro ci è noto come il segreto della Parola fosse
custodito dai primi tre Grandi Maestri; <<…Our Master [Hiram], true to his Obligation,
answered that those secrets were known to but ..[only three persons]…in the world and
without the consent and co-operation of the other …[two]…he neither could nor would
divulge them…>>. Ed essi erano:
1. Salomone,
2. Hiram, Re di Tiro e
3. Hiram Abi, l'Architetto, quest'ultimo però, negli Old Charges, non è mai chiamato così
bensì Amon [] che in ebraico significa, infatti, artigiano.
Quindi le connessioni con le tre traditions différentes sono:
1. per la componente Je- e Jah- []
• Je- e Jah- []: è il precitato Yah ma è la stessa lettera yod , che costituisce in sé un
nome divino. Questo, rapportandosi a Salomone, sembra la più diretta espressione
della tradizione ebraica e soprattutto, da questa, della Tradizione Primordiale. Ma
andiamo con ordine: dello "  " viene detto essere formato dall'unione di tre punti
corrispondenti alle tre middoth supreme ed inoltre - a motivo del suo geometrico
disegno - si afferma che da esso, per combinazioni, derivino tutte le altre lettere dello
squadrato alfabeto chiamato caldaico35 (cfr. infra, punto 2.) Il suo valore
numerico è, lo abbiamo già visto, 10 pari appunto alle Sephiroth, a loro volta
espressioni di tutto il manifestato. 36 La sua trascrizione in lettere latine è I e << …I
s'appellava in Terra il sommo Bene…>> 37 dice Adamo, riferendosi ai tempi
edenici ossia proprio alla Tradizione Primordiale - per la quale cfr. MMW, il skr. Îsh,
master, Lord, the Supreme Spirit38 - mentre Francesco da Barberino nel suo
Tractatus Amoris - in un'incisione - si fa raffigurare in adorazione della lettera I.39 Del
resto, perché non supporre che la nostra forma Iddio sia da intendersi <<I [‫]י‬: Dio>>,
evidente ri-velazione di un Nome?
• In questa componente i due Nomi coincidono.
2. per le componenti -ho- [] e -bul- []
• -ho- []: si rapporta ad Hiram, Re di Tiro, che ebbe tuttavia un ruolo nella costruzione
del Tempio. Il suo nome, probabilmente per influenza del racconto biblico, è stato poi
trasferito, con l'avvento della Massoneria Speculativa, all'Architetto sostituendosi così
al nome originario che era appunto Amon (cfr. supra p. 8 et infra, punto 3.).
L'allusione ad un Re straniero anche se prossimo e di un regno posto a Nord della terra
d'Israele, sembra ricondurre alla tradizione caldaica dalla quale sorse l'ebraismo
come viene suggerito dal racconto d'Abramo sortito da Ur per dare inizio alla sua
fatale migrazione. A conferma,40 abbiamo l'accadico ha'atu: watchful, said of
gods and demons ed ancora hâtu: to watch over, to take care of ma anche
hadû: joy. Per quest'ultimo è da notare la curiosa convergenza con ←δ⇓ς e la
parallela relazione semantica esistente tra God e Good.
• -bul- []: anche in questo caso il riferimento settentrionale è dominante, sia perché,
nella forma ba´al [
  ], it seems to have been used, as divine name, in Northern
Kingdom of Israel (HL), sia perché il termine, di generale radice semitica, con il senso
di rule over, be lord, era diffuso in tutta l'area; dalla terra di Canaan all'Assiria (cfr.
acc. Bêlu) quale nome di divinità. Per tutti questi motivi - il rigetto di Ba´al, nella
Bibbia è ripetuto innumerevoli volte - è assai strano trovarlo nel nostro contesto e,
forse, l'alterazione vocalica (a → u) potrebbe essere stata volontaria proprio per
dissimularne, in qualche modo, l'identità. In ogni caso, il legame con la componente
122
-ho-, apparentemente più "ortodossa", è evidente anche nel riferimento a Tiro; città
dove il dio era chiamato Ba´al Melqart ovvero, letteralmente, Re della Città.
3. per le componenti -wa [] e -on []
• -wa [] : si rapporta ad Amon, l'Architetto del Tempio; la radice è la stessa di Amen (;
infatti) che esprime <<en hébreu comme en arabe [∝↓∩], les idées de fermeté, de
constance, de foi, de fidélité, de sincérité, de vérité, qui s'accordent fort bien avec le
caractère attribué par la légende maçonnique au troisième Grand-Maître>> 41. Inoltre
è immediato metterlo in relazione con l'omonimo dio egiziano che ha invece il senso pur esso non contraddittorio al contesto - di misterioso. Per tutto ciò, appare
evidente come Wa debba riferirsi a quest'ultima tradizione dalla quale l'Ebraismo
ricevette sicuramente notevoli apporti ed il collegamento risulta soddisfacente per
Wsir che è il "nome reale" di Osiride. Nome, che ha una singolare e non spiegata
assonanza con ο⋅σ∅α. Nel nostro caso Wsir sarebbe l'egiz. Ws - iri, πολυοφθαλµος
ovvero onniveggente, che - quale attributo divino - risulta accettabile. Oltre a ciò
ho anche trovato per la √ WSR il senso di potenza e per la √ WR 42 quello di
grandezza ed essi pure ben si integrano al precedente attributo, sembrando semmai
l'ultimo prevalere sugli altri per contenimento.
In Plutarco,43 si trovano - a proposito di queste relazioni - alcune interessanti notizie:
* <<…il est interdit aux dévots d'Osiris (puisqu'il est le même que Dionysos) détruire
aucune arbre cultivé…>>,44
* <<C'est tout d'abord le caractère tauromorphe qui constitue la preuve de l'identité
d'Osiris et de Dionysos..>>,45
* <<…Dionysos, qu'une opinion alors46 répandue pensait identique au dieu des Juifs>>.47
Tutte e tre queste affermazioni rimandano a Dioniso ma non mi sembra il caso d'approfondire
ora questo aspetto; qui mi limito a quelle connessioni che esso comporta con l'argomento. C'è
da dire intanto che, dalla terza di esse, ho conferma delle equivalenze esistenti: Dionisio ≡
Osiride = Wsir ≡ Wa delle quali, s'aveva, evidentemente ancora e in qualche modo, contezza
sino all'epoca ellenistica. Poi - nelle altre - trovo una qualche giustificazione di tre momenti
d'idolatria del popolo d'Israele: enigmatici i primi due, dovuto invece alla conquista straniera
il più recente.
* Noto è quanto avvenne ai piedi del Sinai 48 mentre Mosé sul monte incontrava YHWH, che
già - nell'episodio del roveto ardente49 - gli si era manifestato come Essere (appunto,
Ουσια):50 il popolo, nell'attesa, Lo (direi che il destinatario è lo stesso ma è il modo che non è
più accettato) adora come idolo tauromorfo.
* L'altro episodio è successivo e risale Re Roboamo (-931 / -913), che sull'esempio del
Regno settentrionale permette che alberi e pali sacri divengano oggetti di culto, sino a che il
Re Giosia (-640 / -609), nell'intento di purificare i costumi religiosi, fa togliere e distruggere
vari oggetti introdotti nel Santo dei Santi e tra essi appare appunto un palo sacro (2Re, 23.6)
mentre, sui monti intorno, ordina vengano abbattuti altari, boschetti ed alberi sacri. Anche
qui, come nel caso precedente, sembra che manifestazioni di culto, un tempo del tutto
regolari, siano poi percepite come idolatriche: all'epoca di Giosue (metà del XIII sec. a.C.) è
detto esplicitamente <<…the oak which is in the sanctuary [i.e. Tabernaculum] of >>.51
Quella quercia, nella Settanta, diventa un τερεµινθοΗ 52 ma, in ogni caso, la ritroviamo - pur
se in un ruolo di minor valenza - in numerosi altri riferimenti scritturali. 53 Però, la cosa più
sorprendente è che the oak in ebr. è ALH [] ovverosia pressoché identico ad Al [], il quale è uno
dei nomi ma era il Nome tout court presso i Cananei e che si trova, infine, alla base proprio di
quell'enigmatico plurale ALôHYM [] precedentemente indagato.
* Nell'ultimo fatto, l'elemento strano è che Dioniso è ancora protagonista: Antioco IV
Epifane (-175 / -164), nel -167, in conformità a tutta la politica ellenizzante della dinastia dei
Seleucidi, impose che il 25 Kislev, data del suo compleanno, il dio fosse festeggiato; però,
123
questo ed altri più gravi episodi di carattere sacrilego non furono accettati dalla maggioranza
della nazione e contribuirono, in seguito, ad innescare la rivolta dei Maccabei.
• -on []: il riferimento è, anche in questa circostanza, da ricercare nello stesso ambito
geografico; ma, a differenza di quello che possono pensare alcuni autori di studi
massonici,54 non è qui, a mio parere, il caso, (ne mancano i presupposti linguistici)
come per la componente -wa, di riportarsi all'<< Egyptian god Osiris>> ma, piuttosto,
all'enigmatica fase "monoteistica" di quella tradizione, che trova i suoi inizi tra quei
sacerdoti di Heliopolis, i quali fecero del simbolo solare On (or Aton; an ancient name
for the physical sun, that was employed to designate him.) il centro del loro culto.
Culto, che ebbe poi valenza totalizzante per l'intero paese nel - per tanti versi
misterioso - regno del Faraone Akhenaton, al cui riguardo, sono note le supposizioni
d'appartenenza al popolo ebraico. Questo suffisso ricompare curiosamente anche nei
toponimi Gabaon [
   , GaBON] e Aialon [, AYaLON] che sono relativi ai luoghi
nei quali avvenne il famoso episodio (Gs. 10.12) della battaglia, durante la quale,
Giosue, per conseguire la vittoria, chiese a Dio di fermare il sole. GaB, , ha il senso
di convex, high; un colle insomma mentre AYL,  è, significativamente help: Aialon
potrebbe dunque leggersi come <<l'aiuto del sole>>. Gabaon ha poi avuto un uso
massonico ben preciso, essendo stata indicata, fino agli anni '80 del XIX secolo, nei
rituali francesi, come <<la dénomination mystérieuse des Maîtres>> mentre in
alcuni, attuali rituali inglesi, accompagna il segno di riconoscimento del secondo
grado. Non può essere infine trascurato che, Aton avesse anche un nome dal netto
sapore ebraico: Yati.55 Ma, ciò che più stupisce, è che nessuno, a mia conoscenza,
abbia ancora messo in evidenza come un nome di Dio, quello di norma pronunciato,
sia Adonai ovvero ADON, 0&$!, Signore, la cui eguaglianza con l'appellativo
egizio appare immediatamente. È evidente come tutto quest'ordine di possibilità meriti
d'essere particolarmente vagliato anche perché le tracce massoniche tendono a
confermare l'ipotesi ebraico-eliopolitana; tale indagine porterebbe però oltre gli intenti
del presente lavoro.
Lo sviluppo di questa parte finale, relativa agli elementi costituenti la tradizione ebraica, è di
notevole importanza, in specie per comprendere gli apporti, che hanno determinato il formarsi
dell'assetto religioso delle culture egemoni nel ciclo di civiltà cui noi apparteniamo. A questa
ricerca è dedicato il capitolo che segue; in esso, il Nome preso in considerazione è, per ragioni
di semplicità espositiva, soltanto quello "storico" di YHWH anche perché, nell'altra più
insolita versione, i collegamenti geografici delle tre componenti sono gli stessi ed è,
principalmente, su questi che s'imposta l'intera indagine.
Sulle implicazioni della pronuncia tripartita del Nome del grande
Architetto dell'Universo
Nella conclusione del capitolo che precede è apparsa, in maniera in un certo modo imprevista,
la composita costituzione del Tetragramma, rivelando, nell'ordine dei componenti, la
successione degli apporti determinanti il formarsi della tradizione ebraica storicamente nota.
Quindi YHWH - che abbiamo visto pronunciarsi Jehowa56 - rivela, per la testimonianza del
Royal Arch, la trama tripartita Je-ho-wa, i cui riferimenti ho già messo sommariamente in
evidenza.
Questo risultato che, agli occhi timorosi di alcuni, può apparire quasi dissacrante, svela invece
la complessità dei processi tradizionali e - nel contesto della scienza sacra - la loro profonda
congruenza con quell'insieme di relazioni, le quali, nello svolgersi del ciclo di quest'umanità,
hanno legato tra loro epoche e civiltà apparse spesso lontane ed inconciliabili.
È in questa prospettiva che cercherò adesso di dare un quadro cronologico e storico 57
significante; tengo però a precisare - proprio perché partiti dalle motivazioni all'origine della
124
tripartizione del Nome - la mia distanza dalla teoria degli imprestiti. Teoria, per la quale,
questi apporti appaiono il risultato di una mera sovrapposizione ossia di un collage sincretico,
conseguente ad una decadente e pressoché sempre anacronistica (viste le epoche prese in
considerazione) inclination to an exotic style e perciò stesso priva di spessore quanto di una
reale possibilità di fruizione spirituale. Sono, infatti, del parere che sempre, elementi della più
diversa provenienza, quali possono apparire le adduzioni in questione, siano - come tutte le
operazioni realmente determinanti e durature - l'esito di precise e consapevoli intese avvenute
tra i rappresentati le forme tradizionali implicate. Tal genere di accordi, aventi lo scopo
provvidenziale, sia di far transitare sotto altra forma un corpus dottrinale altrimenti in
estinzione, sia di conservare proprio la specifica Gestalt di una qualche scienza o concezione,
danno luogo ad esiti di diversa ma spesso ingannevole, successiva leggibilità.
Ad esempio; un fenomeno, dalle apparenze prevalentemente rinascimentali, quale la cabala
cristiana mi appare, a prima vista, di una trasparenza e possibilità di ricostruzione anche
documentaria assai agevole: Ficino, Pico, Reuchlin vengono subito alla mente. Poi, se rifletto
sulle origini cristiane che, nel primo, riservato ambiente giudeo-cristiano, avevano tutte le
caratteristiche di un raggruppamento esoterico interno alla società ebraica (vd. infra p. 26) e, a
riprova, tengo conto dell'evidente matrice cabalistica 58 di tanti passi evangelici, paolini e dei
Padri, sino alle, proprio in questo lavoro constatate, influenze, presenti in ciò che sopravvive
dei riti dei costruttori medievali, 59 divento consapevole di quanto le cose non siano, in effetti,
così semplici come, a prima vista, c'appaiono. Altrettanto, ed a volte ancor più difficile, è
individuare l'eredità classica o druidica sottesa al cristianesimo ed ancor differente ma
parimenti oscuro è il percorso della filiazione ermetica. Fenomeno analogo - ma nel quale
l'aspetto sommerso e spesso indecifrabile è del tutto prevalente, trovando rifugio al più
modesto livello sociale - è quello del folklore, dove, dietro la veste vernacolare, possono
celarsi nozioni appartenenti a scienze scomparse ma anche elementi di cosmologia e simboli
di essenza puramente metafisica: in questo caso, è come se al popolo fosse stato affidato un
lascito che - facendosi strumento protettivo di una trasmissione prevalentemente non
cosciente del valore dei contenuti - abbia attraversato il tempo quale messaggio di naufraghi,
lasciando a chi, dei posteri, fosse stato in grado d'intendere, l'onere e la ricompensa di ricevere
qualcosa d'altrimenti perduto.
Non è quindi, quella che segue, una deminutio sui dell'eredità abraminica bensì un tentativo di
dimostrarne la complessità e l'importanza per la fase ciclica cui apparteniamo.
Per attuare questa collocazione è necessario che io dia, pur se per sommi capi, alcune nozioni
della dottrina dei cicli, la quale ha la sua massima espressione nell'Induismo e, ad esso, mi
rapporterò con frequenza. Debbo inoltre fare presente che, il nostro modo di pensare, dopo la
fenomenologia di Hegel, ci fa opporre storia a natura, poiché vediamo la prima inserita nel
divenire della scienza e del sapere. Nel pensiero tradizionale invece, il concetto di φυσιλ è
molto più ampio: comprende ogni aspetto del manifestato, annullando così la cesura tra i due
flussi; con la conseguenza che, storia e geografia, si trovano ad essere rette dalle stesse leggi.
È quanto, con un parziale recupero di alcuni antichi frammenti concettuali, cerca di fare la
moderna ma proprio perciò discussa geopolitica. Limitandomi al Manvantara, che è il ciclo di
una umanità,60 mi sembra importante sottolineare che esso è sottoposto a due principali
scansioni: la prima, ne comporta la divisione in quattro parti diseguali - gli yugas - stanti tra
loro nelle stesse proporzioni della già citata Τετρακτυλ e dove la durata d'ogni yuga va
raccorciandosi mano a mano che si procede nel tempo. 61 L'altra invece, lo seziona in cinque
parti eguali, ognuna corrispondente ad un semiperiodo della precessione degli equinozi 62 ed
ognuna, relativa alla fase di reggenza di una delle cinque grandi razze componenti questa
umanità. Poiché l'orologio cosmico, che ritma il ciclo non può essere - per la sua stagionale e
celeste evidenza - che la suddetta precessione,63 un notevole ruolo nelle determinazioni
qualitative del tempo, lo hanno pure le stazioni64 rappresentate dai dodici asterismi zodiacali
attraverso le quali transita, alla velocità di un grado ogni settantadue anni, il punto vernale. La
125
cesura tra un Grande Anno (Mahâyuga) ed il susseguente ha la caratteristica d'essere sempre
segnata da un cataclisma provocato dallo scatenarsi di uno degli elementi tradizionali.65
Quello attuale è l'ultimo Grande Anno del Manvantara ed è appannaggio della razza bianca
discesa da zone circumpolari, dove si trovava "in sonno", quale erede diretta della Tradizione
Primordiale (razza hamsa: 1° Grande Anno) mentre, a minori latitudini, si succedevano civiltà
che, pur sempre espressione della Religio Una, n'esprimevano, di volta in volta, le specifiche
possibilità - in rituum varietate66 - quali sensibili apparenze della diversa natura delle razze e
delle loro peculiari caratteristiche, estrinsecate nella dominanza di epoche e terre diverse.
La discesa verso Sud della razza bianca non avvenne senza problemi ed i principali tra essi
dipesero dall'incontro-scontro (circa -8.000)67 con i rappresentanti della razza rossa, stanziati,
principalmente, nelle zone occidentali e costiere del continente europeo nonché in quella
fascia di terre che va dal Magreb68 al Caucaso ed alla Mesopotamia. Altrettanto importante era
la presenza umana esistente sull'altro lato dell'oceano; il motivo di questa distribuzione
dipendeva dal risultare l'arcipelago atlantideo, metropoli e centro d'irradiazione di tale civiltà
ma escludo ora dal discorso le culture americane perché lontane dagli eventi qui esaminati.
Questi brevi cenni sono però sufficienti per capire come sia proprio a motivo della natura
talassocratica dell'impero di Atlantide che, i popoli, nei quali quel tipo d'eredità prevale,
abbiano il Diluvio nelle loro leggende fondatrici mentre, nelle stirpi di più diretta filiazione
iperborea, facenti capo ad una cultura di agricoltori-allevatori, sia invece ricorrente il racconto
di un brusco incrudimento del clima a motivo del quale, a seguito di gelo e tempeste di neve,
fu intrapresa una penosa migrazione in cerca di terre più vivibili. 69 Entrambi gli eventi sono
però epifenomeni di uno stesso immane cataclisma dalle conseguenze veramente planetarie.
Tra i tanti argomenti, che possono sottolineare quell'antica rivalità, basti pensare a come, per i
popoli indoeuropei, nei quali ha invece dominanza l'eredità iperborea e continentale, 70 solo la
terra sia la iustissima tellus e quindi unico luogo del diritto (della Lex, del Ν:≅λ anche nel
senso alto di Dharma dell'intera, presente umanità): sulle onde nessuna traccia permane,
<<sulle onde tutto è onda>>. Il mare è libero perché non ha carattere (da
χαρασσειν, incidere) come, in effetti, non lo ha il mondo contemporaneo dove, di nuovo, c'è
l'universale e incontrastato dominio di un impero marittimo e ciò fino a quando non
torneranno i <<Saturnia regna, … Hinc … cedet et ipse mari vector, nec nautica pinus
mutabit merces,71 omnis feret omnia tellus.>>72 e coerentemente per l'Apocalisse73 non solo
non ci sarà più navigazione ma sulla pura terra avvenire non ci sarà proprio più mare:
<<η θαλασσα ουκ εστιν ετι>>. Del resto, altri racconti attribuiscono alla discesa ciclica
uno spazio ognor crescente pel mare: solo 1/7 dell'intera superficie agli inizi, 1/4 nel periodo
atlantideo mentre ai nostri giorni la proporzione si è addirittura invertita: 4 a 1.
L'ultimo Grande Anno, che, in epoche tanto remote, stava per iniziare, era così segnato dagli
esiti di questi due principali ed in un certo senso alternativi retaggi. Esiti, poi reperibili in tutte
le civiltà successive, sia sul piano della loro organizzazione tradizionale, sia su quello della
composizione etnica dei popoli vettori. Le differenze erano ma sono ancor oggi individuabili,
in entrambi i livelli, dalla maggiore o minore presenza degli elementi entrati nella
composizione. A complicare le cose, per la precisione, debbo aggiungere come la presenza di
ciò ch'era sopravvissuto da forme cultuali appartenute ai periodi di dominanza delle razze,
nera (meridionale: 3° Grande Anno) e gialla (orientale: 2° Grande Anno), avesse un ruolo
residuale ma non indifferente al momento della formazione di alcune di queste culture.
Senza poi troppo allontanarmi dal tema principale, mi sembra infine il caso di rispondere ad
alcuni interrogativi che, per quanto mi risulta, non sono mai stati sufficientemente ascoltati da
alcuno con questa disponibilità quando, al contrario, la risposta è decisiva per iniziare a
ricomporre un puzzle altrimenti irrisolvibile. Innanzitutto, l'uso della terminologia <<razza
bianca>> e <<razza rossa>> può generare equivoci, dovuti all'accezione contemporanea in cui
la prima è intesa e, di conseguenza, al sorgere di qualche perplessità riguardo a farsi
un'immagine della seconda. Le differenze tra loro possono oggi non sembrare eccessive ma
dobbiamo tener conto del melting pot di cui ho qui tratteggiato soltanto gli inizi e che, da
126
tempo, si sta ulteriormente complicando. Inoltre, mentre per la razza bianca l'isolamento ne
aveva permesso l'omogeneità,74 per quella rossa l'elemento cosmopolita, collegato all'impero
ed al dominio dei mari e di terre lontane, doveva aver già avuto inevitabili conseguenze.
Oltre alle obiettive difficoltà scientifiche, esistenti nell'affrontare il tema razziale, un
approccio il più possibile neutro è via inusitata non godendo, né delle simpatie della
politically correctness, né di quelle del punto di vista avverso perché, per prima cosa, si deve
affermare che i popoli d'origine europea - o meglio, ciò che comunemente viene, ai nostri
giorni, designato quale razza bianca, creando così qualche confusione col valore originario di
tale denominazione - sono, nel loro insieme, il frutto di mistioni assai complesse: in primis
con la razza rossa, la quale, a sua volta, dagli antropologi non è nemmeno considerata quale
razza a sé stante ma è ritenuta soltanto una semplice variante. In ogni modo, essa, all'epoca
della giunzione, veicolava, per i motivi già detti, molte altre componenti.
In definitiva, si può affermare come il prototipo del tipo razziale bianco e linguisticamente
indoeuropeo sia rappresentato da quello che oggi è noto come tipo nordico; 75 nell'Induismo
vedico, Indra è il dio biondo (hàri) mentre per la pelle, avendo presente come i nordici, nella
percezione cromatica degli arabi, siano detti "uomini blu"76 - a ragione del trasparire del
sangue - è rilevante l'attribuzione di questo colore a Vishnu ed a Krishna.77
Da quanto ho detto sinora, è evidente come l'eredità iperborea sia in prevalenza riscontrabile
presso i popoli della famiglia linguistica indoeuropea ed in particolare - come già affermato 78 presso gli Indù. Avendo ben presenti i tipi umani dominanti nel sub-continente, è anche palese
di come, al contrario, l'elemento etnico non sempre segua gli stessi rapporti d'incidenza
percentuale di quello culturale.
L'eredità tradizionale atlantidea è invece più presente presso i popoli di stirpe semitica; tra gli
Ebrei in particolare nonché, in parte, tra i Camiti mentre, da un punto di vista genetico, la
partecipazione della razza rossa è rilevante in quella che, oggi, s'intende per razza bianca,
ebrei compresi.79 A tutto questo, si deve aggiungere che, esclusi gli indù (in tutte le loro
varianti confessionali e pochi buddisti), nel nostro tempo, tutti gli indoeuropei stiano
praticando religioni d'origine semitica.80
Per cercare di visualizzare in qualche modo quest'evanescente razza rossa, ritengo essere la
giusta strada quella di procedere alla collazione delle testimonianze che la riguardano e, nel
contempo, sempre avendo presente che lo scopo è quello di riportarci alle diverse confluenze
tradizionali presenti nell'Ebraismo, giudico, altresì indispensabile, verificare gli eventuali
segni del suo riconnettersi a quel preciso filum etnico. Incominciando da questi ultimi, sono
del parere che, il primo indizio sia lo stesso nome di Adamo. Intanto, bisogna sottolineare
come appartenga ad un processo del tutto normale dei testi tradizionali, il far sì che un
elemento particolare possa essere preso a prototipo di un insieme più ampio e viceversa. Per
tale motivo, Adamo, il quale nel Genesi rappresenta il primo uomo di quest'umanità, appare
poi, da alcune peculiarità linguistiche appartenere invece ad un ciclo secondario ed assai più
recente. Infatti, il suo ruolo di primo referente della filiazione semitica (lato sensu), dalla
quale è poi sorto l'Ebraismo, risulta proprio dall'etimo: AâDâM [], man, mankind ∏ √ DM [ e
→υ], blood, da cui ADêM, be red, ADuMYM, ruddy, red of a man oppure ebr. ed ar. ADM,
tawny ovvero il fulvo dei capelli mentre significativo, quale accenno all'epidermide, è l'ar.
ADaMaTh [≈↓υ∩], skin, che in ebr. ha la più prossima assonanza con ADaMaH, ground,
land81 riproducendo così lo stesso rapporto esistente in lat. tra homo e humus con, in più, una
significativa coincidenza che <<…si l'on rapporte plus spécialement ce même nom d'Adam
à la tradition de la race rouge, celle-ci est en correspondance avec la terre parmi les
éléments, comme avec l'Occident parmi les points cardinaux…>>82
L'Occidente è la terra di Atlantide, la terra in cui la Tula - già iperborea (cfr.supra, n. 25) venne ad identificarsi con l'isola di Ogigia posta nell'Atlantico settentrionale ovvero nelle
attuali Færöer di cui resta una traccia toponomastica nel Mt. Høgoyggi dell'isola di Stòra
Dìmun.83 Ma, per l'area semitica, all'Occidente ci riconducono altri precisi riferimenti: come
abbiamo visto84 l'iterativa formula del Genesi <<…and God saw that it was good>> ovvero
127
] è sempre seguita dall'altra <<…and evening came and then morning>>
ovvero OYHY ‘ReB OYHY BoQeR [
     
],85 nella quale è evidente la precedenza data
alla sera quando - sole occidente - l'astro del giorno va verso quella terra liminare che è
appunto das Abendland . Infatti, alla √ ‘RB [
 ] è connesso il senso di qualcosa <<…qui est
placé derrière ou au-delà, ce qui est éloigné, caché, dissimulé, privé du jour; ce qui
passe, ce qui termine, ce qui est occidental, etc. les Hébreux, dont le dialecte est
évidemment antérieur à celui des Arabes, en ont dérivé ‘BRY, (
  , ebreo] et les Arabes
‘aRaB []ζ , arabo) par une transposition de lettres qui leur est très-ordinaire dans ce cas.
Mais soit qu'on prononce ‘BRY, soit qu'on prononce ‘aRaB, l'un ou l'outre mot exprime
toujours que le peuple qui le porte se trouve placé ou-delà, ou à l'extrémité, ou aux confins,
ou au bord occidental d'une contrée>>.86
Oltre a questi due segni dell'appartenenza del filum ebraico alla scomparsa civiltà occidentale,
un altro è individuabile nel già citato ruolo biblico del Diluvio 87 quale fondamentale turningpoint of history, inoltre c'è una poco nota descrizione 88 dell'aspetto fisico del suo protagonista
- che in qualche modo a quel mondo apparteneva - tale da fornirci ulteriori ragguagli sulle
caratteristiche della razza in argomento: <<Dopo del tempo, mio figlio [è Enoc che parla]
Matusalemme prese una moglie per suo figlio Lamek e costei rimase incinta da lui e generò
un figlio. Ed era la sua carne, bianca come neve e rossa come rosa e i capelli del suo capo e la
sua chioma erano come bianca lana e belli erano i suoi occhi e, quando li apriva, illuminava
tutta la casa come il sole, e tutta la casa risplendeva assai. E quando suo padre, Lamek, ebbe
paura di lui, fuggì. E venne da suo padre Matusalemme>>.
Viene ora da domandarsi il perché di tanto timore per l'aspetto di quel neonato cui sarebbe poi
stato dato il nome di Noè; il motivo lo indica espressamente Lamek nella descrizione che, del
figlio, fa a suo padre: <<…mi sembra che egli non sia nato da me ma dagli angeli ed io temo
che, ai suoi giorni avverrà un prodigio sulla terra...>>. 89 La spiegazione di questo
apparentemente ingiustificato pericolo rappresentato dagli angeli la dà il bisavolo Enoc,
presso il quale, Matusalemme è andato a chiedere consiglio: <<Il Signore restaurerà la Sua
Legge sulla terra ed io ho già visto ciò nella visione e ti ho fatto noto che nella generazione di
Yared, mio padre, si è negletta, dall'alto dei cieli, la parola del Signore. Eccoli [e.s. gli angeli],
fanno peccato e trasgrediscono la Legge e si sono uniti con le donne e commettono peccato
con loro e tra loro hanno preso mogli, generando figli. Genereranno sulla terra i giganti, non
di spirito ma di carne e sarà gran flagello su tutta la terra ma essa si laverà da tutta la
corruzione.>>90
È lo stesso episodio che, nella versione biblica, viene espresso con contenuti sostanzialmente
identici: <<Quando gli uomini cominciarono a moltiplicarsi sulla terra e nacquero loro figlie, i
figli di Dio [qui, nell'originale, Dio è Elohim e la frase è bene ha'Elohim] videro che le figlie
degli uomini erano belle e ne presero per mogli quante ne vollero. Allora Dio [qui invece è
YHWH] disse: "il mio spirito non resterà sempre saldo nell'uomo, perché egli è carne e la sua
92
vita sarà di centoventi anni."91 C'erano sulla terra i giganti [Nephilim, NeFLYM, 
 
] a quei
tempi - ed anche dopo - quando i figli di Dio si univano alle figlie degli uomini ed ebbero da
loro dei figli: questi furono gli eroi dell'antichità, uomini famosi.>>93
Chi sono dunque questi enigmatici bene ha'Elohim? A mio parere qui entrano in gioco due
diversi piani ontologici, entrambi significativi per questa ricerca: dai brani riportati, certe
volte, gli angeli che fanno peccato e che hanno figli carnali sembrano coincidere con i bene
ha'Elohim, così determinando incertezza e perplessità. È necessario quindi precisare che, al
livello più alto, si trovano gli Elohim ovvero entità definibili quali
 i quali secondo quanto afferma il Deuteronomio,94 nella
sua versione ultima, stabilita dalla scoperta a Qumrân di un frammento del 1°sec.A.C.,
versione già presente nella Settanta (…ed ora pertanto documentalmente
convalidatasono coloro che quando l'Altissimo spartì le nazioni, quando divise i figli degli
uomini, Egli fissò le frontiere dei popoli secondo il numero dei Figli di Dio>>. Gli altri invece
sono i fedeli, i seguaci di questi ed anche i loro figli: i Nephilim.95
KY TÔB
[
  
128
In questo πανθειον , uno degli Elohim è (se ricordiamo la tripartizione del Tetragramma) -Je
[], Colui che sceglie Israele e diventa il suo Dio. 96 In altri termini, passando ad un modo
d'esprimersi più diretto: è il monoteismo (qui sarebbe più appropriato l'uso del termine
vedantico di "non-dualità") della Tradizione Primordiale, della Religio Perennis,97 che si
perpetua, a dispetto di tutte le avvenute deviazioni ma rivestito di forme legittime ancorché
proprie alla civiltà condannata, in quella comunità rappresentata da Noè 98 e dall'εκκλησια
dell'Arca. Del resto, tra i tre figli del Patriarca della Prima Alleanza 99 - ognuno in singolare e
non casuale coincidenza con la tripartizione100 - non è a Giafet (eponimo dei Giapeti ossia di
quegli Indoeuropei che, discesi dalle ancestrali sedi boreali, rivivificavano ed in parte
sostituivano la decaduta tradizione atlantidea) che spetta un'espansione mondiale ed il dover
poi, sul finire del ciclo, in epoche a noi molto più prossime, abitare le tende di Sem ovverosia
far propria l'abitazione, l'habitus, rivestire cioè le forme della tradizione semitica?101
Il Libro di Enoc ci fornisce, riguardo alla localizzazione di questi avvenimenti, un'ulteriore
importante informazione: il Cap.LXXI contiene un complicatissimo excursus calendariale, nel
quale sembra essersi riuscito ad orientare molto bene il primo traduttore inglese del testo
etiopico: Richard Laurence;102 i risultati sono davvero significativi, in quanto stanno ad
indicarci che gli avvenimenti narrati, si svolgono in una contrada dove il giorno più lungo
dell'anno è pari al doppio del giorno più corto. Poiché sappiamo - ci è noto dai Vêda - che la
sede della Tradizione Primordiale era <<la terre où le soleil faisait le tour de l'horizon sans
se coucher…>> e <<…il est dit aussi que, plus tard, les représentants de la tradition se
transportèrent en une région où le jour le plus long était double du jour le plus court …>>, 103
siamo ora in grado di fissarne la latitudine intorno ai 49° ovvero la collocazione che, in
Europa, è quella di Parigi. La région in questione è naturalmente l'Atlantide e la posizione
geografica che abbiamo ottenuto è del tutto compatibile con il possibile assetto della massa
principale del continente (arcipelago) scomparso.
Giunto a questo punto, non mi è possibile approfondire il tema della natura del peccato
commesso e dei suoi sviluppi sino ai giorni nostri ma il fatto stesso che ne siano risultati i
"caduti" lo qualifica - in analogia con quello perpetrato illo tempore et in Cælo - come
"luciferino" (in altri termini, il rifiuto di un ruolo assegnato). Il fatto che a compierlo possano
essere stati gli "angeli" lo definisce quale deviazione all'interno di una società di uomini, il cui
scopo originario era la santificazione ovvero di un gruppo inteso ad una qualche forma di
realizzazione spirituale. Il fatto infine che tale
perversione sia potuta avvenire esclude, per esprimere la cosa nei termini della tradizione
classica, che possa essersi trattato di un'organizzazione appartenente al novero dei magna
mysteria. Non resta quindi che pensare ad un ambiente di Kshatryias o "cavalleresco" che dir
si voglia come, infatti, sia l'espressione <<… eroi dell'antichità, uomini famosi.>>, sia il brano
<<Giacciono con i guerrieri, i Nephilim dell'antichità, che scesero allo Sheol con le loro armi
da guerra>>;104 entrambi, pienamente, confermano. In sostanza, essa fu la ribellione di un
potere temporale verso le legittime prerogative del potere spirituale. È quindi, da questo
elemento "militare" che, tutto il susseguente Grande Anno viene marcato, non soltanto per
l'aspetto negativo è bene sottolineare 105 ma, comunque, coinvolgendo ogni momento della
successiva storia della "razza bianca" o, con maggior precisione, europea.
In ogni modo, secondo una logica causale di matrice teologica, fu questa stessa specifica
"insurrezione" a provocare il Diluvio106 mentre, da un punto di vista cosmologico, si può dire
che il processo debba essere considerato come sincronico. In altri termini, il collegarsi in
successione dei due eventi, era, in quella precisa fase ciclica, diretta espressione della qualità
dei tempi. In seguito, come ho già precedentemente accennato, a proposito della discesa verso
Sud della razza bianca, il 6° Avatâra di Vishnu cioè Parashu-Râma107 pose fine a quel potere
usurpato, sconfiggendo demoni, Titani,108 Giganti o Nephilim che dir si voglia.
Dovrebbe ora risultare chiaro perché, quando degli indoeuropei cominciamo ad avere notizie
storicamente più precise, le due razze, sulla fascia più occidentale dell'Eurasia, appaiano
inscindibilmente fuse anche se l'apporto iperboreo abbia, di fatto, maggior incidenza per
129
quello che riguarda miti e costumi. Sul piano di questi ultimi, direi che una certa prevalenza
dell'elemento nautico, predatorio, mercantilistico ed in molti casi nettamente piratesco è un
segno evidente dell'importanza assunta dall'influenza definibile occidentale. Anche l'astuzia è,
in Ulisse, un indice d'alterità rispetto all'ingenuità nativa109 della razza. Ed egualmente, per
quest'aspetto divergenti, sono - quali navigatori - gli Achei 110 e, con loro, i "popoli del mare";
così i più tardi Vichinghi e tra essi i Variaghi. 111 Questi ultimi, imponendosi ai continentali
Slavi e fondando a Kiev un loro principato, sono dai vinti definiti i "rossi" (anche i finni li
chiamano Ruotsi), da cui il nome di Rus dato al paese. Quest'aspetto ha poi, nettamente,
caratterizzato l'espansione mondiale degli anglosassoni benché figli della pur <<pallida
Albione>>. Ma, ciò nonostante, l'elemento boreale resta prevalente: <<L'homologie entre le
type physique e le statut social est explicite dans le Chant de Rig de l'Edda: Jarl le noble est
"blond pâle", Karl le paysan libre est "roux, aux joues roses", Træll le serviteur est "noir de
peau".>>112
Per la seconda componente della tripartizione del Tetragramma -Ho [] - il rinvio è ad una fase
assai più tarda del ciclo: Abramo esce infatti da Ur all'inizio del II millennio A.C. Ur, ci è nota
come una città dei Caldei, il che può apparire un anacronismo in quanto quel popolo compare
come tale soltanto intorno all'XI sec. A.C., in effetti, il radicamento in quell'area della base
linguistica semitica è realmente antico ed <<essa pone come sistema o quadro di riferimento
l'idioma che ha la più antica e più ampia documentazione scritta , l'accadico [o assiro; ho qui
usato l'uno o l'altro nome a seconda di quello che ho trovato nella fonte citata]….con tracce di
sostrato sumero ed i cui documenti più remoti risalgono alla metà del III millennio A.C.>>. 113
Quindi, se per Caldea non ci si deve limitare ad intendere la patria di un popolo è, in
alternativa, logico pensare che se <<…le nom …. désignait en réalité non pas un peuple
particulier, mais bien une caste sacerdotale>> e se <<la Celtide et … la Chaldée, dont le
nom…est le même>>,114 in un senso profondo s'identificano, perché non vedere qui uno dei
risultati dell'incontro tra la corrente settentrionale e quella occidentale? Certo che, per
determinare in tutta sicurezza il momento della giunzione, <<…il faudrait tout d'abord
savoir à quelle époque précise remonte le Druidisme, et il est probable qu'il remonte
beaucoup plus haut qu'on ne le croit d'ordinaire, 115 d'autant plus que les Druides étaient les
possesseurs d'une tradition dont une part notable était incontestablement de provenance
hyperboréenne.>>116 A mio parere, la collocazione temporale ma anche spaziale è quella che
ho già dato a proposito dell'incontro-scontro precedentemente citato 117 e, per il quale, posso
aggiungere che il mitico posarsi dell'arca sul Mt. Ararat indica nella parte orientale e
meridionale di quell'ambito geografico, il settore che più interessa la genesi dell'Ebraismo.
In effetti, il Caucaso, per l'incredibile giustapporsi dei popoli più diversi, sembra
rappresentare come un résumé delle razze aventi parte all'ultima fase del Manvantara e lì,
come nella parte occidentale ed atlantica dell'area in questione, si ritrovano gli stessi segni
linguistici; ad esempio il nome Iberia designa, sia la penisola europea (ma anche la grande
isola atlantica: l'Irlanda è, in lat., l'Hibernia), sia, nella lingua nativa, la Georgia (variante:
Imeria). Infine, le lingue prettamente caucasiche ed il basco trovano, nel reciproco confronto,
le uniche possibili affinità nell'intero contesto mondiale.
Del resto, anche sul piano antropologico, esiste tra Celti ed Ebrei una comune tendenza al
rutilismo ed i rossi sono stati (spesso ancor oggi) per vari aspetti ed in molte circostanze,
stranamente, associati nei luoghi comuni del pregiudizio antisemita: << le rouge de cheveux
trahit, un peu partout en Europe, la fécondation pendant les règles, d'ou découle par ailleurs
un ensemble de traits qui font du rouquin un être trouble, à l'odeur forte, à l'haleine trop
chaude.>>.118 A tutto ciò, si può confrontare l'antica diceria del fetor judaicus nonché <<…le
désordre des humeurs, et singulièrement du sang …. [les] "écoulements" des juifs et des
cagots, eux aussi affligée de ces étranges "flux", …>>. 119 Evidentemente si tratta di un
qualcosa di ancestrale che è rimasto indelebile nel folklore se <<toutes les "races maudites"
dont nos avons cerné l'image présentent ce trait>>.120 <<"Poil de Judas" en France, suffit
130
pour désigner un roux. En Allemagne, on le traite tout simplement de "Judas" ou bien d' "âme
de Judas"…..un peu partout en Europe les éphélides sont appelées "marques de Judas>>. 121
Vizi d'origine e impurità che determinano un calore malsano e libidinoso nonché un carattere
difficile, violento ed infido; anche per il Ruodlied (XI sec.):122 <<non sit tibi rufus unquam
specialis amicus>>. Tratti questi, che non mi sembrano lontani dall'immagine, quale, sulla
base di ciò che c'è stato narrato, possiamo attribuire ai Nephilim. Con loro, l'Ebraismo, che
non di meno li condanna, avrebbe avuto in comune soltanto la civiltà d'origine, non certo la
colpa essendo Noè un puro, un hanîf inteso nell'accezione già esposta: cfr. supra, n. 96.
È noto <<…le rapport légendaire établi entre Nimrod et les Nephilim ou autres "géants"
antédiluviens, qui figurent aussi les Kshatriyas dans des périodes antérieures…>> 123 ma,
oltre a queste significative relazioni, c'è da fare un'altra considerazione; in ebr. Nimrod è
NiMRoD [
   ] ed in arab. è NiMR [ζ°≥], in entrambe le lingue il vocabolo sta ad indicare un
animale with a spotted coat ma anche keen-eyed, in ass. Namâru ha il senso di shine,
gleam.124 Come non pensare a les éphélides od anche alla descrizione dell'infante Noè
<<belli erano i suoi occhi e, quando li apriva, illuminava tutta la casa come il sole>>. 125 Però,
dietro quelle macchie c'è ancora dell'altro: l'animal tacheté può essere la tigre che <<…
comme l'ours dans la tradition nordique [est] un symbole du Kshatriya et la fondation de
Ninive et de l'empire assyrien par Nimrod semble être effectivement le fait d'une révolte des
Kshatriyas contre l'autorité de la caste sacerdotale chaldéenne>>.
Riassumendo, credo quindi possa affermarsi che, la Caldea (da intendersi assai più ampia che
quella storica) sia stata teatro del momento orientale di quella giunzione più volte citata,
dando luogo a tradizioni dove la componente "occidentale" risultava prevalente mentre la
parte atlantica e centrale dell'Europa ha avuto nel Druidismo un esito, dove, l'elemento
"settentrionale" giocava sicuramente il ruolo preponderante.
Le tracce mediorientali di quella giunzione - pur se non rilevate e fraintese - sono molto
evidenti anche da un punto di vista linguistico; basti pensare ai Sumeri il cui nome è del tutto
confrontabile con il skr. sumera, nome composto da sú-, corresponding in sense to Gk.
,υ e da -meru, name of a fabulous mountain, regarded as the Olympus of Hindû
mythology and said to form the central point of Jambu-dvîpa [i.e. questo nostro
mondo terrestre; in realtà tutti e sette i dvîpas convergono nel "vertice" del Meru]; all the
planets revolve round it …: 126 è, in effetti, la montagna polare, per la quale passa l'asse
terrestre ed è espressamente indicata dall'Induismo come la sede della Tradizione Primordiale.
È perciò significativo che Sumera,127 risulti il nome dell'Artico, con ciò testimoniando di cosa
fu sede quella regione; potremmo infatti anche tradurre e con maggior precisione, "beata sede
iperborea" . Un tal nome applicato ad un popolo - nel contesto generale che ho delineato - fa
riflettere. L' ebr. ShMR [ ], keep, watch, preserve, e l'ar. SaMaRa, [ζ° ], stay awake,
trasmettono un'idea di vigilanza, di conservazione e - di fatto - con ShMR, si designa la Samaria
stante, in quel particolare ambito, il ruolo storico di assoluto conservatorismo religioso dei
Samaritani nei riguardi del rimanente Ebraismo. Il più ampio significato sotteso è da intendere
nella custodia di un legato tradizionale.
C'è poi un altro nome di paese, la Siria o Assiria (o Accadia), che presenta due interessanti
connessioni:
 Per essere stata la patria di quel tardo epigono dei Nephilim, quale fu Nimrod, l'ebraica √
SUR [
 ], dal significato di base turn aside sviluppa, ovviamente, quelli, nella
fattispecie del tutto appropriati, di rebellion e apostasy. 128
 Con l'arabo invece torniamo alla relazione con la tradizione iperborea: per un <<…
enseignement traditionnel de l'Islam …la langue "adamique" était la "langue syriaque",
loghah sûryâniyah [≠ℵ≥∴↵ζ ∂∴ ↔ [ ], qui n'a d'ailleurs rien à voir avec le pays
désigné actuellement sous le nom de Syrie, non plus qu'avec aucune des langues plus ou
moins anciennes dont les hommes ont conservé les souvenir jusqu'à nos jours.>> 129 Pel
concetto tradizionale di monogenesi del linguaggio, si tratta ovviamente della lingua
131
originaria, propria agli uomini della razza hamsa, i quali vivevano in the Arctic home. Mi
sembra, adesso, importante sottolineare come, mentre nei paesi meridionali il sole, non
dico che sia un nemico ma, per il calore, determina un atteggiamento di fuga dai suoi
raggi, nell'estremo Nord è atteso e desiderato così da scaturirne, nell'indigenza, un
richiamo assoluto. Ed il nome in skr. del sole è proprio Sûryâ <<et ceci semblerait
indiquer que sa racine SUR,130 une de celle qui désignait la lumière, appartenait elle-même
à cette langue originelle.>>.131 È questa, quella Siria primitiva <<dont Homère parle
comme d'une île située "au-delà d'Ogygie", ce qui l'identifie à la Tula hyperboréenne, et
"ou sont les révolutions du Soleil>>.132 La Siria storica giunge pertanto ad avere lo stesso,
trasposto significato attribuito ai Sumeri, i quali quindi ce ne appaiono, davvero, i legittimi
abitanti.
Tutto quanto ho già esaminato, ci ha, più volte, mostrato ciò che può trarsi da un'attenta
collazione del lessico accadico (ovvero dalla lingua semitica, che per geografia e tempi è
relativamente più prossima alla giunzione in argomento) e di quello indoeuropeo. Alcuni dei
raffronti riportati mostrano, infatti, le notevoli convergenze con questa lingua ma del pari
importanti sono anche quelle che appaiono esistere tra i due ambiti linguistici, indoeuropeo e
semitico, considerati nel loro insieme. I motivi, all'origine del fenomeno, risiedono, per gli
apporti che c'interessano maggiormente, nei contatti predetti mentre, per altri casi, non è da
escludere la necessità di rapportarsi anche al substrato più arcaico, collegato alla stessa
monogenesi del linguaggio. Non deve essere infine dimenticato come, in seguito - last but not
least - quando ci fu il grande insediamento indoeuropeo nel Mediterraneo (2° millennio A.C.),
quell'area diventasse un tale punto d'incontro che, le tante somiglianze linguistiche, oggi
riscontrabili, siano da attribuire piuttosto alla stratificazione di tale complesso succedersi di
eventi invece che - con atteggiamento notevolmente riduttivo e singolarmente one minded ascriverle al discendere tout court di una delle due grandi famiglie dall'altra, negandone le
rispettive, specifiche identità.133
Resta adesso da esaminare la terza ed ultima parte del Nome -Wa [], che, per i suoi
riferimenti egizi, è - rispetto alle altre - in sequenza cronologica con la storia ebraica e con il
succedersi delle civiltà nell'area mesopotamico-mediterranea. Per quest'ultimo aspetto, è
dunque importante collocare la civiltà egizia nell'ambito temporale, che le compete. Lo scopo,
è di pervenire a delineare un quadro, il più possibilmente chiaro, dell'intreccio d'influenze che
hanno poi condotto alla definizione dell'Ebraismo. Agli inizi di questo percorso, è apparso il
rilievo del ruolo del profeta Enoc; giunti ora a questa fase è bene ricordare che <<…on sait
qu'Henoch ou Idris [il suo nome nell'Islam] antédiluvien lui aussi, s'identifie à Hérmes ou
Toth, qui représente la source de laquelle le sacerdoce égyptien tenait ses connaissances…
>>.1344 E Toth era, dai Greci, fatto corrispondere ad Hermes con la conseguenza - e adesso lo
vedremo meglio - di un'origine egizia di tutte le correnti, le quali, appunto sotto il titolo di
ermetiche, hanno in seguito percorso l'Europa cristiana, influenzando in modo particolare,
come ho in precedenza accennato, le scienze e le arti tradizionali. Nonostante, infatti, le
equivalenze succitate anche il nome di Hermes ha una sua rispondenza a sé stante in arabo:
hermes [ ↓ ζ• ]. Essa non è, probabilmente, che solo un parziale ricalco sul greco, in quanto
già Ερµηλ doveva essere estraneo a quest'ultimo sin dall'inizio perché pervenuto <<[on]
suppose [par] une origine égéenne>>.135 Come poteva, infatti, un dio con quelle
caratteristiche risultare ingenuus alla stirpe? Non per niente era anche figlio illegittimo di
Zeus e di Maia, figlia, naturalmente, d'Atlante.136
Se poi prendo gli elementi consonantici di base: HRM, vedo che, significativamente,
coincidono con la radice di haram [→ζ•], piramide; radice cui, a sua volta, è connesso il
senso di grande vecchiaia, remota antichità. L'attributo datogli dai greci di
Τρισµεγιστολ è riprodotto con lo stesso significato e più esplicitamente (triplo per la
saggezza) dall'ar. al-muthallath bil-hikam [±♦ο←⊥ η←γ°↔[] ed ha, in questa lingua, la
particolarità che al-muthallath sta a designare anche il triangolo e triangolari sono le facce
132
della piramide, <<…qui a dû être déterminée aussi "par la sagesse" de ceux qui en établirent
les plans…>>.137 In egizio, il nome del monumento era mr, nel quale ritroviamo gli stessi
componenti radicali di Meru ossia della montagna polare degli Indù e sede della Tradizione
Primordiale e del resto il triangolo di per sé, come il πυραµιδιον che, in Loggia, costituisce
la parte sommitale di the broached thurnel, hanno entrambi la stessa possibilità di richiamo
simbolico senza che vengano escluse le altre citate in precedenza. 138 Non stupisca questo
riferimento al Meru perché, prima della "confusione delle lingue",139 la percezione
dell'equivalenza di fondo e della comune origine di tutte le tradizioni era patrimonio
universale ed ancor oggi, in ambito islamico, il termine lingua può essere usato, parlando di
un popolo, come sinonimo per indicarne la religione.
Rimanendo nel mondo islamico vediamo che <<cette "triplicité" a d'ailleurs encore une
autre signification, car elle se trouve parfois développée sous la forme de trois Hermès
distincts: le premier, appelé "Hermès des Hermès" (Hermes El-Harâmesah) et considéré
comme antédiluvien, est celui qui s'identifie proprement à Seydna Idris; les deux autres, qui
seraient postdiluviens, sont l'"Hermès Babylonien" (El-Bâbelî) et l'"Hermès Égyptien (ElMiçrî); ceci paraît indiquer que les deux traditions chaldéenne et égyptienne auraient été
dérivées directement d'une seule et même source principale, laquelle, étant donné le
caractère antédiluvien qui lui est reconnu, ne peut guère être autre que la tradition
atlantéenne>>.140
Per completare i nostri parametri, resta da dire che <<…si la source principale est ainsi la
même, la différence de ce formes fut probablement déterminée surtout par la rencontre avec
d'autre courants, l'un venant du Sud pour l'Égypte, et l'outre du Nord pour la Chaldée>>. 141
Mentre la cosa, per la Caldea, c'era nota, con l'Egitto compare adesso il legato della Razza
Nera (3°Grande Anno); nonostante ciò è però necessario sottolineare che <<…la tradition
hébraïque est essentiellement "abrahamique" donc d'origine chaldéenne>>.142 Qui giunti,
c'imbattiamo in un ulteriore diversificarsi della prospettiva: infatti, la soluzione che per prima
sarebbe venuta allo spirito ed anche quella in apparenza più semplice, sarebbe stata di
considerare l'ultima parte della tripartizione nient'altro che l'introduzione di una componente
egizia nell'insieme dell'Ebraismo. Invece, <<…la "réadaptation" opérée par Moïse a sans
doute pu, par suite des circonstances de lieu, s'aider accessoirement d'éléments égyptiens,
surtout en ce qui concerne certaines sciences traditionnelles plu ou moins secondaires; mais
elle ne saurait en aucune façon avoir eu pour effet de faire sortir cette tradition de sa lignée
propre, pour la transporter dans une autre lignée, étrangère au peuple auquel elle était
expressément destinée et dans la langue duquel elle devait être formulé.>> 143 Di fatto, nel
percorso sinora compiuto, abbiamo veduto come Noè, ancorché hanîf, fosse un rappresentante
del mondo atlantideo e come poi, dal melting pot della giunzione,siano emersi sia il
Celtismo, dove l'influenza nordica era prevalente, sia il Caldaismo, dove, invece, quella
occidentale aveva maggior ruolo. Giunto in Egitto, il popolo ebraico, fedele al suo genio, può
aver trovato συµπαθεια soltanto con gli aspetti della tradizione del paese più affini a sé ed
alle sue origini e se le cose stanno così, debbo concludere che nemmeno in questo caso siamo
in presenza di un prestito, di un collage sincretico ma che Wa →← Wsir è un fenomeno di
convergenza provocato da un substrato comune ad entrambe le tradizioni e l'aggiunta è
pertanto avvenuta nel pieno rispetto del portato caldaico. Questa fedeltà alle proprie radici,
traspare allora anche nel senso che ho attribuito alla terza parte del già esaminato Jahbulon
(Jah-bul-on); nel qual caso, addirittura, ci sarebbe un'operazione inversa: -on, pur parola
egizia (On, Aton), testimonierebbe un momento storico nel quale, il popolo ebraico avrebbe
imposto la propria visione monoteista al paese ospite. Sembra logico attribuire l'appartenenza
di questo substrato alla discendenza atlantidea d'entrambe le tradizioni ma ciò è vero solo in
parte e, soprattutto, le evidenti differenze tra le due investono anche questa condivisa eredità
per ciò che riguarda, in particolare, le estrinsecazioni di carattere cultuale.
Ma soffermiamoci sul perché si trovi qualcosa non completamente pertinente al comune
substrato: qual è dunque la novità? A mio parere essa sta in quella corrente multiforme,
133
pressoché universalmente presente e non altrimenti definibile se non "dionisiaca". Essa
corrisponde all'affiorare, nel corpo sociale144 dell'ultimo Grande Anno del Manvantara, di
impulsi ognora crescenti e dall'immenso potere disaggregante e, perciò stesso, in necessità di
un contenimento rituale, rappresentato, e da un preciso quadro teologico/mitico, e da riti intesi
alla trasformazione/ sublimazione delle grandi forze presenti, nonché, da periodici episodi di
"libertà" vissuti, in Europa, sino al nostro Medio Evo, nelle ben note feste carnascialesche.
Anzi, a sottolinearne l'importanza, si deve mettere in evidenza come la fine di queste coincida
con la nascita del mondo moderno, nel quale tali spinte dal basso non più respinte o incanalate
ma, disordinatamente accolte e ricercate, contribuiscono a rafforzarne ogni aspetto innovativo
grazie all'enorme potenziale inerente la loro magmatica energia.145
La razza bianca, nelle sue sedi circumpolari, contrassegnata da un temperamento
flemmatico146 e depositaria di dottrine e di culti, i quali erano - come abbiamo già visto quanto di più prossimo ci fosse alla Tradizione Primordiale, doveva godere di una situazione
sociale e psicologica definibile olimpica. Quest'equilibrio, senza dubbio, iniziò ad alterarsi già
al momento della discesa ma ancor più, quando, poi, s'ebbero gli scontri-incontri con altre
genti anche se poi, in qualche modo, rimase tra gli ideali dei popoli che da quella stirpe
derivarono.147 Per fare un esempio tra i molti possibili: l'imperturbabilità è, anche oggi,
sentita, al fondo, come un atteggiamento superiore essendo connaturata alla padronanza di sé
e, di conseguenza, all'attitudine al comando mentre l'emotività e le sue pulsioni, spesso
paradossalmente cercate, suggerite ed addirittura lodate come indice di genuina umanità, sono
percepite, pur se non sempre lo si confessi, quali segni di una caduta di tono. Di un vulnus nel
carattere insomma. Cosicché, quando in un popolo tale sentimentalità domina e lo
contraddistingue, siamo certamente in presenza di un sintomo di decadenza e stanchezza
civile.
Stante quest'attitudine di base, si può comprendere come, in tempi lontanissimi, il rapporto
con il soprasensibile, si realizzasse unicamente per mezzo della volontà e della capacità di
concentrazione nonché attraverso l'uso di precisi mezzi rituali. 148 Soltanto in seguito, sorse la
necessità d'altri strumenti, che, in qualche modo, aiutassero l'uomo a superare l'ormai sempre
più spessa barriera per lui rappresentata da ciò che la Bibbia chiama la "tunica di pelle"
ovverosia il corpo carnale in cui è "caduto" dopo la "cacciata" dalla sede originaria. 149 Per
questa decadenza, che il Mazdeismo definisce un passaggio dallo stato mênôk (sottile) allo
stato gêtik (grossolano), <<…n'est-il plus possible aujourd'hui aux humains, comme il le fut à
l'origine, de passer d'un keshwar150 à l'autre.>>,151 non è infatti più possibile cavalcare << …
[l']animal mythique maintenant conservé en un lieu secret jusqu'au Frashkart [la
παλινγενεσις ] où il doit être sacrifié et son corps servir à la composition du breuvage
d'immortalité>>.152 Era con quest'immagine equestre che veniva indicata tale perduta
possibilità degli uomini primordiali di liberamente accedere a tutti i recessi delle "terre" da
allora nascoste e la cui presenza poté ormai rendersi visibile ed il cui spazio essere percorso
esclusivamente attraverso virtù eroiche o godendo di specialissime situazioni non certo
ottenibili soltanto ex voluntate.153
Nelle epoche, che immediatamente precedettero la fine rovinosa del penultimo Grande Anno
del Manvantara, la situazione nell'uomo delle capacità di quest'ordine, pur se sicuramente
superiore a quella esistente ai nostri giorni, non era in misura alcuna paragonabile a quella
propria allo stato dell'umanità primordiale. Il rapporto però con il mondo à côté doveva essere
vissuto in maniera più facile e poiché ogni manifestazione dell'ordine corporeo ha in quella
sfera, per gerarchia ontologica, la sua immediata radice è comprensibile come, quello, che
oggi può apparirci un residuo per certi versi grottesco - intendo riferirmi a tutto ciò che va
sotto l'assai generica etichetta di Sciamanismo - facesse allora parte di un diffuso modus
operandi, probabilmente proprio, in misura e forme diverse, anche a periodi ancor più antichi.
Di tale operatività, quello che n'è rimasto ai nostri giorni, fa comprendere come essa fosse, in
prevalenza, rivolta e limitata all'ambito cosmologico. Doveva, in altri termini, esser parte
dell'esercizio di numerose scienze tradizionali; per cui, non a caso, lo sciamano, per gli
134
antropologi anglosassoni, a motivo delle funzioni oggi prevalenti, prende pure il nome di
medicine-man. Ora è noto che, sul finire di una civiltà, sono proprio le scienze e le tecniche a
prevalere e quella che chiamiamo magia è l'applicazione di analoghe procedure sul piano
sottile (mênôk, in iranico) piuttosto che su quello grossolano (ir. gêtîk); pertanto, tutto
quest'ordine d'attività tende ad assumere un ruolo sempre maggiore ed è proprio quello che
deve essere accaduto al mondo atlantideo. 154 Ma, alle ombre fanno riscontro alcune luci, quali
la presenza, nei riti sciamanici, di simboli sicuramente primordiali come quelli dell'albero e
del cigno.155 Cosicché chiaro ed oscuro, s'alternano anche in singolari raffronti linguistici: la
designazione della funzione ci è pervenuta da un contesto ugro-finnico ma vediamo che in
Hindi, sheman è un idolatra mentre è singolare constatare in qual modo, sempre presso i
popoli mongolo-siberiani, alla connessione tra il nome di Dio ed i concetti di "cielo - alto elevato", faccia riscontro il reperimento degli stessi significati nelle pressoché identiche radici
semitiche di shmym, [
], cielo; sama, [∴° ], cielo; samin,[→∴ ], elevato. Il candidato
a quell'iniziazione presso i Kirkisi156 ha nome di baqça, che posso, significativamente,
confrontare a baqsh,157 [ ] , quête (da cfr. con l'accezione cavalleresca: la quête du Graal)
bahth è [ην⊥] chercher. Però, secondo i Buriati,158 nell'estasi, gli spiriti degli antenati
rapiscono in Cielo l'anima del candidato per portarla dinanzi ad un consesso docente che è
l'Assemblea dei Saaitan, cui corrisponde nientemeno che un più che trasparente satan, [ ].
Le sopra accennate, sopravvenute, difficoltà ad accedere ai particolari stati liminari, necessari
per trasferire, in stato di veglia, la coscienza nel mondo sottile, determinarono il ricorso a
tecniche e sostanze di supporto ed è così molto interessante constatare come, nell'era postdiluviana, Noè s'identifichi con lo "scopritore" del vino e dei suoi poteri. Più sopra,159 ho
scritto, a proposito della √ ‘rb e della sua connessione ad un significato ampio di sera e
d'occidente (das Abendland), per ricollegarmi ai riferimenti atlantidei sottesi al suo
significato. Ebbene, per evidenti ragioni di colleganza genealogica, presso i popoli semitici,
da tale radice è scaturito anche il concetto di relationship between persons of the
same status, 160 infatti: hâbêr, [] , camarade; acc. ibru, colleague, comrade ma gli
esempi potrebbero continuare investendo una serie davvero importante di derivati. Nelle
lingue di questi popoli il pref. la- ha valore negativo per questo l'accadico laibru (la-ibru),
designa qualcuno privo di vincoli. Se a questo si raffronta la mancanza di soddisfacenti
etimi i.e. per il lat. liber, che ha lo stesso significato, c'è di che rimanere incuriositi ed ancor
più se ricordiamo che Liber è pure nomen e lo è di una <<divinité italique….assimilée a
Bacchus… [et]…des rapprochements pertinents… [ont montré]…que le culte était identique
à celui de ∆ιονυσος>>.161 Il motivo è evidente: <<Liber repertor vini ideo sic appellatur
quod vino nimio usi omnia libere loquantur>>.162 Davvero intrigante è allora leggere, sempre
a proposito di Noè, che <<l'Arca andò vagando e si fermò sulla cima di Lubar, uno dei
monti di Ararat.>>163
Per tutta una serie di paradossi, che caratterizzano questa parte terminale del ciclo, tra i popoli
semitici, quelli di fede mussulmana hanno la proibizione degli alcolici; 164 gli Ebrei trovano
nella Torah, accanto alla lode della vite e dei suoi frutti ed al loro positivo simbolismo, la
condanna, innumerevoli volte ripetuta dell'ubriachezza,165 mentre tra i popoli i.e.,
originariamente lontani da questi abbandoni, è avvenuto che, per quelli in seguito
cristianizzati,166 l'abuso dell'alcool sia - da tempo immemorabile - una piaga sociale sicché
soltanto nell'Induismo è sopravvissuto il divieto di consumare bevande fermentate.
Da un esame linguistico, risulta poi che i popoli i.e. dell'Europa acquisirono sì la conoscenza
del vino allorché giunsero nel bacino del Mediterraneo ma che già conoscevano i prodotti e
gli effetti della fermentazione quale evidente risultato di quel primo incontro-scontro con i
tardi epigoni della civiltà atlantidea, cui ho fatto più volte menzione.
Provo ora a esaminare da vicino quest'aspetto: il nome della vite ha in gr. una chiara origine
semitica che ne determina nettamente l'esotismo rispetto all'originario habitat boreale:
οινος, digamma initial assuré,167 quindi, posso supporre una forma ƒοινος, confrontabile
135
con l'ar. WaYN , [∝℘…], black grapes; acc. inu, vino; sémitique commun √ wainu ma
anche georg. g'wino. Analoghi processi stanno a monte di vinum poiché e in gr. ed in lat.
non c'è una soddisfacente etim. i. e.
Nel Nord del continente eurasiatico le bevande fermentate s'ottenevano, infatti, diversamente;
in questo caso, sono partito dalla conseguenza del bere: l'ubriachezza. In gr. c'è un verbo
normalmente usato, in tutte le accezioni, per indicare l'ubriacarsi ed è µεθυσκοµαι mentre,
per precisare l'ubriacarsi di vino, esiste il più raro ed ovviamente più tardo
οινυν (→ εζοινεω), d'evidente origine non i.e. in quanto formato su οινος. Il KK afferma
che i termini originari erano µεθυειν, µεθυσκειν, comunque in tutti l'elemento base è
µεθυ (→ µελι), miele e da questo proviene la "bevanda degli Dei"168 per eccellenza lo
υδροµελι. Il vocabolo di riferimento è antichissimo perché risuona in tutte le lingue i.e. (ingl.
mead, ted. der Met, skr. madhu, per tutti: birra di miele e poi skr. mâda, ubriacatura da
cfr. con l'ingl. mad, pazzo) ed anche nelle lingue ugro-finniche (fin. mesi, metinen, ung.
méz). In it. c'è mézzo (dal lat. mitis, dolce) nelle espressioni mézzo di vino, ubriaco
mézzo che, nelle forme popolari toscane può limitarsi all'icastico <<è mézzo !>> per
definire la precaria condizione di qualcuno.
Alla luce di tutto questo, è dunque mera falsità dire con Plutarco che il Dio degli Ebrei fosse
Dioniso? Indubbiamente sì, se l'affermazione fosse presa alla lettera ma, con evidenza, ove la
prospettiva cambi ed i riferimenti siano intesi in senso trasposto come avviene, per
esemplificare, nei vari aspetti che hanno avuto sviluppo nel successivo Cristianesimo: <<Io
sono la vera vite…>>169 oppure <<Prese il calice e rese grazie … ne bevvero tutti>> 170 …
l'affermazione assume ben altra pregnanza.
Intendo dire che l'elemento di base, i mitologhemi di partenza sono comuni, essendo radicati
nelle strutture di una forma tradizionale lontana, in larga parte profondamente modificatasi
all'inizio dell'ultimo Grande Anno e, per troppi aspetti, totalmente perduta. Quanto alla
raccapricciante morte - per smembramento - e resurrezione iniziatica dello sciamano ed a
quella mitica ed atroce di Dioniso/Osiride,171 sono del parere che il più compiuto svolgimento,
si è avuto col Cristo nel suo sacrificio e resurrezione. Direi quindi, valutando anche l'elemento
arboreo172 e quello tauromorfo173 che, la costituente "dionisiaca", sottesa a -Wa [], debba
essere considerata una porzione importante ma silente del retaggio ebraico e che essa", nel
passato, nella sua versione "letterale", debba, in linea di massima, aver costituito una
"tentazione" verso l'osservanza di un culto "non hanîf "e, perciò stesso, ritenuto eretico dai
custodi dell'ortodossia israelita. Pertanto, la sua messa in evidenza, durante il periodo egizio 174
è stata più un effetto di coalescenza, al contatto del locale culto di Osiride, con un qualcosa
già presente piuttosto di una reale acquisizione ex novo.
Resta, infine, l'elemento sessuale che, nei riti dionisiaco/shivaiti 175 è così rilevante ma è, di
fatto, presente solo in negativo nell'Ebraismo. Attitudine che questo ha trasmesso al
Cristianesimo, il quale, in qualche misura, la ha ulteriormente potenziata. C'è questo passo di
Abacuc176 che, significativamente, accomuna due condanne: <<Guai a chi fa bere i suoi vicini
versando veleno per ubriacarli e scoprire le loro nudità. Ti sei saziato di vergogna, non di
gloria. Bevi e ti colga il capogiro. Si riverserà su di te il calice della destra del Signore e la
vergogna sopra il tuo onore>>. Mentre Paolo: 177 <<…Qualsiasi peccato l'uomo commetta, è
fuori del suo corpo ma chi si dà alla fornicazione, pecca contro il proprio corpo.>>
Sempre a proposito della componente -Wa [], esiste un episodio significativo, accaduto in
Egitto in epoca però assai più tarda della remota schiavitù, dalla quale gli Ebrei sfuggirono
sotto la guida di Mosé.178 Sembra, infatti, che, dopo la presa di Gerusalemme, da parte di
Nabuccodonosor (-587), alcuni nuclei della tribù di Giuda, intorno al -580 (la lingua corrente
era già l'aramaico), si fossero rifugiati nella valle del Nilo, per evitare la deportazione in
Mesopotamia. In genere, si trattava di coloni, raggruppati in clan familiari, insediati in
villaggi, sul tipo degli stanitsy cosacchi, dove la terra era concessa alla coltivazione in cambio
di una costante milizia. Sembra, infatti, che i Persiani, signori in quel tempo dell'Egitto, molto
136
apprezzassero lo spirito castrense del popolo ebraico. A Yeb, nell'isola nilotica di Elefantina,
nell'Alto Egitto, ad oltre ottocento chilometri dal Mediterraneo, fu, da questi profughi,
innalzato un tempio, la cui costruzione era, in qualche modo, sentita lecita (faccio presente
che si stava, in tal guisa, contravvenendo al concetto principalmente giudaico dell'unicità del
luogo di culto) essendo stato distrutto il santuario gerosolimetano. Un'altra informazione lo fa
invece risalire ad epoca anteriore e pertanto già in uso ad una comunità preesistente in zona, la
quale si sarebbe quindi limitata ad accogliere i profughi. Quel tempio, dal nome dato a Dio,
c'è noto sotto il titolo di Yaho. Adesso bisogna dire che, sebbene tutto questo avvenisse in
epoca pre-tolemaica, le notizie ci sono pervenute prevalentemente da fonte greca, egizia o
veicolate dall'aramaico, che era, allora, la lingua veicolare di tutta l'area mediorientale.
È per questa ragione, che non può esserci sicurezza su quale fosse l'effettiva grafia ebraica di
Yaho ma, di norma, per la corrispondenza di O e di W a ,179 si dice fosse un nome trilittero
della forma yhw, [] invece del consueto tetragramma yhwh, []; a mio parere, la trascrizione
fonetica pervenutaci, invece corrisponde e pertanto conferma la testimonianza massonica
della costituzione tripartita del tetragramma, con tutte le implicazioni oggetto di questo
lavoro.
Doveva, quindi, trattarsi di un nome dalla pronuncia Jèho e dalla scrittura bilittera YH, [], al
quale mancava, appunto, la componente -Wa []. Perché, proprio in Egitto, fu tolta dal Nome la
costituente che poteva essere ricondotta ad Osiride? La risposta può essere soltanto ipotetica
ma se consideriamo che, nei pressi di quel luogo di culto, si trovava un tempio egizio dedicato
a Khnum, il dio dalla testa d'ariete, i sacerdoti del quale mal sopportavano che, l'oggetto del
sacrificio ebraico fosse, spesso, proprio tale animale 180 e se, a ciò, s'aggiunge il consueto
esclusivismo ebraico, il quale, parimenti, mal sopportava apparentamenti con quei gentili,
potremmo forse individuare una spiegazione. Altra ipotesi è che, non volendo semplicemente
contraddire appieno la prescritta unicità templare,181 il clero, preposto al santuario, abbia
attuato quella modifica a mero scopo giustificativo. Terza ed ultima ipotesi: il Nome si
presentava bisillabo perché la comunità originaria del luogo era, come il Tempio stesso,
estremamente antica, risalendo ad un'epoca precedente l'Esodo; quindi, essendo essa rimasta
isolata e poco toccata, sia dagli sviluppi sopravvenuti nell'Ebraismo, sia dalle influenze locali,
era a conoscenza soltanto della dizione praticata prima dell'arrivo del popolo nella terra dei
Faraoni. Se ciò fosse, avrebbe un senso la supposizione, tratta dalla documentazione
papirologica ritrovata, che quel nucleo remoto non avesse cognizione della Thorah, almeno
nella veste sua storica di Pentateuco. In ogni caso, dalle forme assunte nonché dalla generale
accettazione di questa partitio, appare evidente - anche a livello popolare - la coscienza,
all'epoca, della composita costituzione del Nome.
L'ostilità sacerdotale egizia fu, comunque, così irriducibile da ottenere infine che, dalla riva
destra del Nilo, dalla guarnigione persiana della vicina città di Syene, si muovesse verso Yeb
una spedizione, che, nel -411, distrusse l'inviso tempio giudaico.
Conclusioni
Nell'affrontare il tema delle razze ho voluto attenermi ad un punto di vista strettamente
tradizionale, sia perché, a mio parere, corrisponde, molto semplicemente, a verità, sia perché
permette di fare chiarezza su un tema riguardo al quale i pregiudizi sono oggi presenti come
non mai. In effetti, lo spettro delle opinioni, in questa fine di millennio, si estende dalla, di
fatto, negazione della fondatezza di quel criterio tassonomico, alle posizioni avverse più
oltranziste: quelle che non vogliono vedere, quanto, la composizione attuale dell'umanità resti
lontana dagli originari tipi di riferimento.
La prima è esplicita opinione di molti genetisti, i quali sembrano ignorare come, nelle antiche
classificazioni, si volesse, così catalogando, mettere prioritariamente in risalto l'aspetto
qualitativo ovvero formale e temperamentale inerente le differenze esistenti. Aspetto, che è
poi quello di maggior rilevanza sul piano sociale e culturale. Oggi, la negazione o estrema
137
svalutazione di tali differenze, scaturisce invece da una sottolineatura del riscontro,
meramente quantitativo, della prevalente uniformità genetica e fisiologica, la quale, spogliata
dalla sua dominante veste ideologica, non è, a sua volta, meno vera, essendo, di fatto, unica
l'appartenenza specifica alla comune umanità. Quest'ovvia presa d'atto sarebbe però meglio e
più scientificamente proposta ove non si volesse, assurdamente, dimenticare che non è con lo
spostamento dell'angolo visuale che, sull'altro piano, quello qualitativo e formale, cambi
alcunché.
La seconda posizione tende a confondere razze e popoli mentre quelle sono presenti in questi
con una rilevanza soltanto percentuale e mai esclusiva. Considerando, per il tema qui
affrontato, la razza rossa, vediamo come essa sia rilevabile, nel popolo ebraico - di quella
remota civiltà il diretto successore - maggiormente tra gli Askenaziti (pare anche tra i
Samaritani) piuttosto che tra i Sefarditi ma è incomparabilmente più importante tra i
cattolicissimi e linguisticamente indoeuropei d'Irlanda (Hibernia, appunto!). Vediamo poi
che, ad essa, vadano ascritte alcune caratteristiche - le attitudini marinara e commerciale fatte proprie, sin da epoche remote, da popoli, sempre indoeuropei, quali i Greci e gli
Scandinavi quando, a Roma, fu invece necessaria la mortale minaccia cartaginese per
adottare, obtorto collo, l'arte navale ed assimilarne così le relative influenze.
Il popolo, il quale, nonostante le più diverse contaminazioni, meglio si mantiene, nello spirito
e nell'effettiva eredità culturale, vicino all'ancestrale tradizione iperborea della razza; il popolo
Indù, ne è forse il più lontano sul piano fisico. Al contrario, le nazioni d'Europa, 182 che,
forzando in molti casi il concetto, sono definite di razza bianca, hanno tutte adottato una
religione semitica, in tal modo esaltando, come, dopo la Riforma, è avvenuto per gli
Anglosassoni ma non solo per loro,183 la già rilevante componente "punica".
Poiché, in questo campo, le cose non sono mai semplici; per mia parte, riguardo al
Cristianesimo, condivido la documentata posizione del Cardini, il quale afferma come, ai
nostri giorni, se proprio si volesse trovare qualche vivente traccia della tradizione classica,
l'erede - di quel lascito il maggior beneficiario - sia stato proprio il Cattolicesimo romano. 184
Io aggiungo che lo stesso possa dirsi di ciò che resta del mondo celtico.185
Sempre per mostrare la complessità di tutti questi temi, che possono diventare esplosivi se
non affrontati con le dovute precauzioni, basti pensare all'immensa portata della discesa
indoeuropea nel bacino del Mediterraneo; tema, che è stato indagato da un'importante opera di
Giovanni Garbini,186 nella quale, si dimostra come quelli che sono conosciuti sotto la generica
denominazione di "popoli del mare" ovvero Achei, Danai, Micenei, Sardi, Siculi, Teucri e
Filistei, abbiano fortemente determinato, assimilandosi, la composizione dei popoli semitici
delle sponde orientali di quel mare, sì da essere all'origine di alcune delle stesse componenti
d'Israele; quali Dan (Danai), Aser (Teucri) e Zabulon (Sardi, che sono poi gli stessi che hanno
anche - popolandola - dato nome all'isola) nonché degli stessi Fenici. 187 La meno toccata
sarebbe stata la tribù di Giuda ed allora anche la storia dello scisma di Geroboamo 188 e quella
delle dieci tribù perdute verrebbero illuminate da nuova luce, risultando tali eventi in qualche
modo connessi a questo "vizio" d'origine: parimenti, la chiusura fortemente etnocentrica, che
dal ritorno da Babilonia ha determinato, per volontà di Esdra, l'Ebraismo sino ai nostri giorni,
sarebbe da rivedere e reinterpretare. Eppure, nonostante l'esclusivismo giudaico post-esilico, il
primo Ebraismo su suolo tedesco, costretto, secoli dopo, a migrare ad oriente, nella slavia,
portandovi, nel XIV sec., la lingua jiddish e la cultura dello schtetl, sembra che, in larga
misura, debba il suo sorgere al ritorno in patria di legionari germanici, i quali, provenienti dal
medio-oriente con mogli ebree189 ed essi stessi proseliti, abbiano in tal modo, dato origine in
Renania alle prime comunità.
Resta, ora, da chiarire un punto che, soprattutto con la connotazione negativa dell'avverso
pregiudizio, avendo sempre associato Massoneria ed Ebraismo, può trovare in questo studio
conferma per il continuo, anche se non esclusivo, rimando alla lingua ed alla cultura ebraiche
che il rituale massonico, con frequenza, richiede. L'intera questione ha la sua non facile
spiegazione, nelle origini stesse del Cristianesimo; pertanto, volendo fare solo un breve cenno
138
agli estremi del tema, è necessario metterne in evidenza i punti essenziali. Il Cristianesimo
nasce come una struttura esoterica, interna alla religione ebraica ed essa corrisponde a quella
fase che, oggi, si suole definire Giudeo-cristianesimo (vd. supra p. 11). A conferma, l'Islam, il
quale, in modo un po' riduttivo, può dirsi sorto da quella corrente, afferma che, alle sue
origini, il Cristianesimo altro non fosse che una tarîqah ovvero si trattasse, secondo quella
terminologia, di una specifica via iniziatica. Tale stato di cose implica alcune importantissime
conseguenze:
• La maggiore discende dal fatto che, Gesù non corrispondeva pienamente a ciò che le
Scritture prevedevano per il Messia, il cui compito fondamentale, essendo l'effettiva
restaurazione dello stato primordiale, risultava invece modificato dal prospettarsi, nel
suo annunzio, detta αποκαταστασις, in forma del tutto virtuale; cioè, quale semplice
possibilità di salvezza offerta ai credenti mentre si sarebbe attualizzata erga omnes e
come oggettivo evento cosmico, soltanto alla fine dei tempi, con il Secondo Avvento.
Da quest'unico, specifico messianismo sono scaturite due, molto diverse, cristologie.
* La prima, intende la predicazione di Gesù in senso restrittivo; propedeutica alla
Restaurazione finale e quale manifestazione da porre nella sequenza del Verus Propheta <<se
hâtant, de prophète en prophète, jusqu'au lieu de son repos.>> 190 Essa è la visione giudeocristiana ed islamica; quest'ultima chiuderà la sequenza con l'avvento di Mohammad, "Sigillo
dei profeti" (khâtim al-nobowwat).
* La seconda cristologia è quella costruita da Paolo con un'operazione teurgica di carattere
gnostico;191 essa, pur collocando nel futuro l'evento d'impatto cosmico, sì da farlo coincidere
colla Seconda Venuta, estende subito, erga omnes, la portata del Vangelo, in un'operazione
universalistica imperniata sulla deificazione della figura di Gesù, pel quale, l'attributo di
Cristo, si carica di implicazioni straordinarie ma necessarie e provvidenziali onde permettere
il passaggio dall'originario status di gruppo elitario a quello di religo delle genti. In questa
prospettiva, il Primo Avvento, dà luogo ad un momento intermedio del processo e, in tale
spazio, trova un suo ruolo anche l'Ebraismo. 192 Sant'Agostino afferma anzi che gli ebrei
<<necessari sunt credentibus gentibus>>193 perché le disgrazie che li colpiranno, per non
aver saputo comprendere la nuova era, annunziata nelle rivelazioni contenute nelle Scritture
che rivendicano, saranno tutt'uno con la missione rimasta loro da compiere ovvero <<ut sibi
sumant judicium, nobis praebeant testimonium>>:194 <<ainsi, non seulement l'apologétique
chrétienne s'accommode de leur persistance, mais elle l'exige.>>195 Le basi teologiche di
questa posizione durissima m'anche singolare nel suo ostile permissivismo sorgono nel
momento cruciale in cui andava consolidandosi la definizione della Grande Chiesa quale
Verus Israel e si rendeva pertanto concettualmente indispensabile la precisa collocazione
subordinata del Vetus. È così che, nella mora dell'iter formativo di quella grandiosa
operazione teurgica, si può intravedere il sorgere dell'intrinseca esigenza di negarla,
occultandola e chiudendo la via ad ogni possibile comprensione dei fatti con una condanna
inflessibile, e mai abbandonata dalla Chiesa, d'ogni dottrina gnostica mentre, nel contempo,
s'imponeva analoga rottura e nascondimento delle origini giudaiche, verso le quali si doveva
impedire qualsivoglia possibilità di un ritorno, il quale, a livello delle masse, avrebbe
vanificato tutta la complessa costruzione universalistica tanto sapientemente e - ripeto provvidenzialmente elaborata.
• La conseguenza, che più direttamente ci porta al centro del problema, è come
l'esoterismo cristiano, diretto epigono dell'elitaria formula originaria e quindi troppo
alternativo, nell'esegesi, rispetto agli enunciati teologici dell'exoterismo dominante,
nemmeno in pieno Medio Evo, godesse nella Cristianità - né potesse permettersi - di
quella diffusa, ampia anche se superficiale notorietà, riscontrabili, per analoghe forme,
in altre tradizioni; sia abraminiche, quali la Cabala nell'Ebraismo o il Tasawwuf
nell'Islam, sia di differenti origini, quali le corrispondenti articolazioni dell'Induismo o
del Buddismo. Si è pertanto sviluppata, ai margini della Chiesa ufficiale e sotto la
"copertura" di ordini religiosi, terz'ordini, ordini cavallereschi, confraternite artigiane e
139
caritatevoli, quella che è stata anche denominata la <<Chiesa interiore>>. I Padri,
Ireneo, Tertulliano, Origene e Clemente d'Alessandria196 (il più esplicito), parlano
dell'esoterismo cristiano come di un insegnamento - la trasmissione avveniva da
maestro a discepolo e comportava una gerarchia diversa da quella espressa nella
successione dei vescovi - avente per obiettivo la conoscenza integrale del reale; non un
contrasto con la fede dunque ma l'approccio alla sua più intima natura. Sono queste le
dottrine, che a volte, anche se il loro approfondimento e sviluppo variava molto da un
tipo d'organizzazione all'altra, indebitamente diffuse e mal comprese, hanno potuto
apparire, nel corso della storia, eretiche e con ben noti, disastrosi contraccolpi.
Per questa via, si giunge, infine, alla questione della lingua: Gesù parlava aramaico quando si
rivolgeva alle folle, ebraico con i dottori e, soprattutto, quando pregava (Shemà Israel…)197 ed
allorché leggeva le Scritture.198 Pertanto questa è la lingua sacra del Cristianesimo ma, ad essa,
devesi aggiungere l'aramaico199 mentre in 1Cor. 16.22 (Maran atha, il Signore è venuto)
nella forma Marana tha (Vieni, Signore!) faceva parte, alla Consacrazione, della liturgia
della Chiesa primitiva come testimonia la DIDACHÉ.200 Inoltre, l'aramaico è considerato lingua
sacra anche dall'Ebraismo essendo così scritti alcuni brani del canone: Esd. 4.8 a 6.18, Dn. 2.4
a 7.28, Ger. 10.11. Invece, solo per un libro come l'Apocalisse, che appare, direttamente,
redatto in greco, una specifica funzione sacrale può essere data anche a quella lingua.
È evidente quindi perché, investigando nei rituali massonici, i riferimenti all'ebraico ricorrano
con tanta frequenza e pregnanza.
Facendo chiarezza sulle origini, si riescono, soprattutto, a collocare e comprendere due delle
peculiarità cristiane particolarmente salienti:
• L'ossessivo antigiudaismo, matrice del futuro antisemitismo, che pertanto ci appare
quale necessità intrinseca alla sua stessa struttura teologica ovvero alla veste exoterica
con la quale, per i più, la Chiesa s'identifica.
• L'altrettanto ossessiva fobia per la gnosi, scaturita dalla volontà di calare un velo
impenetrabile sulla ben gnostica operazione di teurgia, che permise la sintesi paolina
tra l'originario Giudeo-cristianesimo con le tradizioni delle nazioni (i goim) e consentì
di salvare il mondo antico da una deriva antitradizionale, nella quale già c'erano le
premesse di un prematuro sviluppo di ciò che, i tempi successivi hanno reso possibile
con l'avvento del mondo moderno.
Nonostante, un artifizio di "sipari" pressoché perfetto, gli "affioramenti", a tutti livelli, sono
moltissimi; altre a quelli finora analizzati, posso citarne alcuni altri non sempre noti.
Sulla corona del SRI era scritto;201 a destra, REX SALOMON, a sinistra, PER ME REGES REGNANT.
L'Imperatore, dal quale tutti i re traevano potere, era quindi identificato a Salomone. Questo
stava pertanto a significare come gli Imperatori fossero, exotericamente, da considerare
successori di Cesare mentre, da un punto di vista sacrale, esoterico, lo erano del figlio di
David, quali guide del Verus Israel ossia della Res Publica Christiana. In questo modo, si
spiega anche, come in Dante, si riscontri un'apparente contraddizione dei corretti rapporti
gerarchici e tradizionali, quand'egli, affermando che il potere imperiale proviene direttamente
da Dio, nega la sottomissione di questi al Papa. Anche le cinque vocali AEIOU, una divisa del
SRI, possono, attraverso alcune combinazioni, come, in altri casi, avviene che parole latine
abbiano nascosto parole ebraiche,202 rivelare insospettati significati: IA (Jah), IEOUA
(Jehovah). Non a caso, l'identificazione, del Re-Profeta con l'Imperatore, trova conferma
nell'abbinamento di Jah con il primo dei due personaggi, nel rituale del settimo ed ultimo
grado dell'ordinamento massonico operativo. Del resto, G. Scholem203 riporta come, Abraham
ben Samuel Abulafia ebbe a scrivere d'aver incontrato, in Italia (negli anni 1279 / 1291),
all'epoca di Dante, alcuni esoteristi cristiani, i quali mostravano d'avere in perfetta conoscenza
i metodi cabalistici necessari per interpretare le Scritture. Non è, quindi, il caso di chiedersi
quale rabbi abbia potuto mai contattare un cristiano, quando dagli scritti di quest'ultimo
traspaia una qualche conoscenza cabalistica; essa doveva quindi far parte delle dottrine
esoteriche e, pertanto, la cabalistica cristiana del Rinascimento è dunque più un venire in luce
140
(tutto si manifesta alla fine del ciclo) che una vera innovazione. A questo punto, stanti le
conoscenze esoteriche di Dante, perché non pensare che esse facessero parte, in proprio, delle
tradizioni giudeo-cristiane e non fossero state perciò trasmesse dall'Islam come, dopo Asin
Palacios (1919),204 si tende invece a credere? Secondo questa diversa angolazione, quanto, con
tali dottrine, nell'essenza, appare coincidere, è invece più giusto ritenerlo espressione di un
comune patrimonio, proprio a ragione di quel rapporto che lega la nascita dello stesso Islam al
prolungato persistere del Giudeo-cristianesimo anche dopo la creazione della <<grande
Chiesa>>. Diverso è il discorso della sostanza, della forma insomma che, tali conoscenze
prendono nella Commedia; per esse, notevoli sono le concordanze con i possibili modelli
arabi.205 Inoltre, nelle proporzioni delle cattedrali, si ripresentano e s'evidenziano rapporti
caratteristici del valore numerico di alcuni nomi divini ebraici: El, Adonai, Shadday, Jehovah.
In particolare, ciò avviene negli edifici cistercensi e, di quest'ordine, è nota la stretta relazione
con i Templari: S. Bernardo era, appunto, un cistercense. 206 Riguardo ai monaci cavalieri, essi,
dagli atti del processo loro intentato, forniscono un'ulteriore testimonianza sulla natura
dell'esoterismo cristiano. Senza potermi dilungare sulla situazione di questo all'interno
dell'Ordine - articolato secondo una struttura che prevedeva una cerchia interna di singolare
assonanza qumrânica - si può intuire come l'accedervi risultasse limitato207 e che i casi, in cui
sembra fosse richiesto uno strano rifiuto del Crocefisso (non della Croce), facessero forse
parte dei saggi di valutazione dei possibili candidati. I motivi dottrinari giustificativi, si
possono individuare in una cristologia di tipo docetista e di conseguenza nell'esaltazione della
Croce come puro simbolo dell'estensione cosmica della Redenzione: a conferma la
caratteristica, triplice inquadratura208 di essa in alcuni graffiti trovati nelle celle dove i
cavalieri furono incarcerati. Tutto questo è molto probabile, soprattutto perché, perfettamente,
si cala nella complessiva visione giudeo-cristiana originaria, qual è oggi ricostruibile e della
quale, appunto, l'esoterismo è stato, in larga misura, il proseguimento. Conferma inoltre, come
la teologia della croce, del primitivo nucleo cristiano, quello della Chiesa 209 di Gerusalemme,
la Chiesa di Giacomo, la Chiesa degli apostoli che conobbero il Signore, fosse imperniata sul
Mysterium Crucis della Crux Gloriæ e non prendesse in considerazione lo strumento di
supplizio.210
Ritengo in fine che, quest'occultamento delle origini, sempre inestricabilmente legato ad un
parallelo momento dell'efficere,211 resti, per tanti versi, ancora inesplorato mentre, per altri,
intuitiva ce n'appaia l'inelusibile, intrinseca necessità. Inoltre, esso, nelle tre religioni
abraminiche,212 ancorché in forme e misure differenti, è tutt'altro che limitato al solo
Cristianesimo;213 sicché, nell'Ebraismo, analoghi processi sottendono al lungo periodo della
costituzione del canone ed alla complessa elaborazione dell'esegesi talmudica, fino
all'affermarsi di quella che è, oggi, la prevalente confessione giudaica e rabbanita.
Epifenomeni sommersi214 s'evidenziano, anche per questa fattispecie, in ciò che, attraverso un
attento scandaglio, può scaturire dal deposito dottrinario e rituale, in parte custodito,
dall'ultimo epigono della tradizione iniziatica occidentale.215
Note
1
Non deve però essere trascurato il lato "benefico" della casualità del reclutamento massonico: esso ha
comportato, e tuttora permette, un aumento delle chances di sopravvivenza, nei tempi ultimi,
dell'intera Istituzione.
2
L'Ordine, nella terminologia italiana.
3
I Riti, nella stessa terminologia.
4
RG.1, t.II, p.37-38.
5
Ibid., t.I, p. 128.
141
6
Come faccio cenno nella prefazione, queste deformazioni, sono frequenti; un'altra, caratteristica è
quella relativa al cappio che sta intorno al collo del candidato all'iniziazione. In ing. è chiamato cabletow. Questo deriva dalla deformazione, per assonanza, dell' ebraico qïbolty [‫יתלבק‬, ho ricevuto;
stesso etimo di Qabalah, vedi infra, n. 58] da cfr. con l'ar. qabeltu [da ♠_ ≤, ammissione,
accettazione nel tasawwuf], relativo all'impegno iniziatico.
Potrebbe essere obiettato di considerare anche una terza denominazione: BeYT HaMiQaDoSh [  -  ] ,
la casa del luogo santo ma essa è chiaramente solo una semplice amplificazione di QaDoS h [ ].
7
8
M
9
A conferma, la variante qadesh ha, appunto il senso di rigettato ovvero l'equivalente di homo
sacerrimus.
10
Pr.8.27.
11
S
12
Sh, p.133.
13
Es.20.7.
14
RG.1, t.II, pp.47, 48.
15
L, p.197, n.34.
16
Inoltre la loro somma ha, quale risultato, 12 come i segni dello zodiaco, che circondano le pareti
della Loggia (cfr. infra, p. 6) e come i componenti di un centro spirituale. Per questa squadra, si dà
un'altra curiosa coincidenza; essa - con le sue proporzioni - è anche la L dell'alfabeto romano nel quale
ha, di nuovo, il valore numerico di 50, in ciò confermando l'impressione visiva di un'originaria
impostazione geometrica delle lettere in questione.
17
Cfr. Z, t. I, 23b-24a.
18
Gen.1.3.
19
Mentre viene creato lo spazio e ciò che contiene, sorge anche il tempo (i giorni) egualmente
ordinato dalla relazione 6 + 1 con la differenza che l'analoga funzione "riassuntiva" del centro, viene nella modalità temporale - a collocarsi logicamente per ultima come riposo: il riposo sabbatico.
La  è posta in alto quando le altre due lettere stanno agli estremi della base:  a sn. e  a dx. Le tre
lettere possono essere considerate isolatamente oppure assemblate in due gruppi; l'uno di sei
combinazioni, due a due e l'altro di altrettante, tre a tre. Molto sinteticamente, i concetti dei riferimenti
radicali sono i seguenti:
1.  un principio,  il dimorare,  l'allontanarsi, l'espandersi, l'elevarsi
2.  progressione,  espansione (è anche un nome divino),  generazione,  elevazione (altro nome
divino),  animazione, vitalità,  deprivazione
3. , , , , , : queste combinazioni precisano ed a volte puntualizzano, anche con parole di senso
compiuto, i concetti precedenti. Ad esempio  significa lutto, cioè il contrario [
allontanamento] della generazione [ ossia + ] mentre  è cuore.
20
Febr.1989. Debbo aggiungere come, oggi, nemmeno Jahbulon [] sia più presente sull'ara e questo,
sembra, per mero rispetto umano a ragione degli equivoci che le esotiche assonanze di un termine
desueto provocavano in alcuni timorosi ed ignoranti massoni nonché nei soliti malevoli, i quali ne
traevano occasione per fantasiose ed oscure illazioni.
21
142
22
<<Warrant and certificates issued by the First Grand Chapter in the pre-1813 period [ prima
dell'Unione tra Antients e Moderns] often bore the words:"In the name of the Grand Architect of the
Universe, the Almighty Jah">>: BEJ, p.153.
23
Cfr. BGT: deve essere qui fatto presente - quale semplice cenno - che la tradizione Indù rappresenta,
in specie nel suo nucleo vedico, la più diretta filiazione della Tradizione Primordiale.
24
Uno dei Nomi, cfr. supra, n.22.
25
Una delle tracce del remoto, comune possesso di certe cognizioni è nel virgiliano <<…tibi serviat
ultima Thyle…>> (Georg. 1.30), dove è citato quello che fu uno degli appellativi del centro spirituale
primordiale. Esso, posto alla massima latitudine aveva allo zenit la costellazione da cui traeva nome:
infatti in skr. tula è la bilancia (√ tul: to lift up; raise; to determine the weight of anything by
lifting it up; da cui il lt. tollo ed anche ϑα8∀ντον, bilancia) ed in epoca arcaica, proprio perché
basculanti sul perno della Polare, erano così designate le due Orse. Soltanto in tempi successivi il
nome di Libra [] fu trasferito ad un asterismo zodiacale. Quelli stessi tempi in cui, il medesimo
centro venne ad identificarsi con l'isola di Ogygia posta nell'Atlantico settentrionale (cfr. FV, et infra
note nn. 83, 132). Tra l'altro, si può così comprendere perché l'aspetto principale dell' astrologia non
abbia avuto niente a che vedere con le applicazioni divinatorie, oggi divenute ossessive, ma come essa
fosse intimamente connessa con i principi che reggevano la geografia sacra.
26
Dalla metà del XV sec., essa non è più scrupolosamente osservata in Occidente, pertanto le chiese
non sono necessariamente disposte secondo un asse equinoziale ma, nel mondo islamico, la qibla
[↑_≤] ossia la direzione della Mecca, è d'assoluto rigore anche nella preghiera individuale.
27
Ad es. quanto fanno i pellegrini intorno alla Kaaba [  ♣ ].
28
Cfr. supra, n. 19.
29
Gn.1.4, 10, 12, 18, 21, 25 da HL.
30
Ibid.
31
Il rif. delle citazioni è a MMW. Per quanto riguarda i caratteri di Asoka (-272 / -231), si tratta della
geometrica scrittura brâhmî che ben si presta a questo tipo di composizioni; altro elemento
interessante è la sua antichità. L'inizio del suo uso viene, infatti, collocato intorno al V sec. A.C. ma
potrebbe risalire assai più indietro poiché è stata autorevolmente (A.Cunningham e Dowson)
congetturata <<l'existence d'une vieille écriture indigène, ancêtre de la brâhmî>> (F, p.340).
32
Parimenti, secondo le attribuzioni della ∅Φ≅Ρ0Νι∀, allo iota, ι , spetta il valore 10.
33
RG.1, t.II, p.42.
34
Attualmente, ci si limita al solo Jehowa (cfr. supra n. 21).
35
È quello che si incontra in questo testo: risale al periodo del Secondo Tempio. Prima dell'esilio ne
veniva usato uno assai più elaborato ma che - da allora sino ad oggi - è rimasto appannaggio dei
Samaritani.
36
È appunto alle dieci Sephiroth che si allude quando in Bahir,§118, viene affermato:<<Il mondo fu
creato per dieci parole>> è ciò perché nello yod c'è il germe d'ogni cosa.
37
Par. XXVI, 134.
143
38
Îsh + vára (environing, enclosing) determina come una personalizzazione ed infatti ne risulta che
Ishvará è the Supreme Being ovvero l'equivalente di -Wa/Wsir/ουσια per i quali, cfr. infra, punto
3.
39
La primordialità di questo segno è suggerita dall'essere pressoché ovunque, e non solo presso i
romani, cifra dell'unità; il che ci richiama al concetto di subordinazione del Cosmo al suo Principio;
universum: Unum versus [ire].
40
Cfr.S.
41
RG.1, t.II, p.177.
42
Cfr. BdR.
43
Cfr. JH.
44
JH, p.173.
45
Ibid., p.175.
46
Tolomeo III regnante: -246 / -221.
47
JH, p.170.
48
Es.32.
49
Es.3.14.
50
Metafisicamente L'Essere, pur appartenendo al Non-manifestato è all'origine della Manifestazione o
Esistenza che dir si voglia, infatti: esistenza - exsistentia - sottende ex stare; quindi,
propriamente, è da interpretare fuori dall'Essere, il quale, rispetto ad essa, è un Principio relativo. Il
Principio Assoluto (è l'AYN-SOPh, il Deus Incognitus più sopra citato a proposito dell'Albero Sefirotico)
- che si colloca al di là d'ogni determinazione non esclusa la prima (l'Unità) ovvero l'Essere stesso corrisponde a ciò che potremmo chiamare Zero Metafisico. E Chi parla dal roveto ardente, secondo la
formula più diffusa, Si nomina <<Io sono Colui Che è>> in realtà la forma ebraica AHYH AShR AHYH (  
) è piuttosto un futuro: <<Io sarò Colui Che sarà>>. Nell'immediato l'espressione appare non del tutto
trasparente ma se si tiene conto di quanto premesso e si consideri la successione cronologica - in
rapporto al reale eterno presente del Soggetto - come una successione puramente logica, la frase può
risultare così "tradotta": <<Io, che, per mia propria condizione, sono al di là dell'Essere,
mi manifesterò a te secondo quello stato>>. Il sottinteso motivo è: <<…per permettere il
mio intervento nell'Esistenza come Legislatore>>.
51
Gs.24.26 da HL.
52
Questa versione è stata poi accolta dai redattori della Bibbia di Gerusalemme.
53
Gen.12.6, 35.4, Dt.11.30, Gdc.9.6.
54
Henry Wilson Coil, Coil's Masonic Encyclopedia, New York, Macoy Publishing and Masonic
Supply, 1961, pp. 516-517; Malcom C. Duncan, Masonic Ritual and Monitor, New York, David
Mckay Co., nd., p. 226; Dr. Ron Carlson, Fast Facts on False Teachings, Eugene, Oregon, Harvest
House, 1994, p. 86.
55
Questa dizione è di particolare interesse perché, esaminata secondo la sillabazione qui messa in atto,
si presenta con la precitata componente (1.) Yah- [], e tutto il suo carico semantico, abbinata a -ti, che,
nell'egizio, significa forno ed è precisamente il forno del vasaio, riprodotto del resto dalla grafica
144
del corrispondente geroglifico t3 nella sua tipica struttura alta e biconica. Non a caso dunque ,
YâTzaR, sta per to form, to fashion, nella specifica accezione di Gen. 2.8 ovvero di quando si narra che
Dio plasma l'uomo come fa un vasaio. E come non ritrovare gli stessi concetti nelle metafore utilizzate
da Paolo nella sua Rm. 9.20? A riprova, nello stesso ambito linguistico, il fenicio  è the potter, così
come, in neoebraico, il participio  è potter, creator ma nemmeno è da trascurare, pur per altri
rimandi, l'apparentato ar. ζ … , UŞR, the covenant.
56
È naturalmente anche questa un'approssimazione, stante la variabilità vocalica delle lingue
semitiche.
57
Per l'uso di questo termine, deve farsi riferimento a quanto ho scritto in prefazione.

, QaBâLâH, è un derivato del verbo leqabbelet e della √  , che significa ricevere,
accogliere. Pertanto, Cabala significa lett. ricezione e lato sensu tradizione, è l'aspetto interno,
puramente dottrinario dell'Ebraismo: cfr. supra, n. 6.
58
59
PV
60
In RG.5: 64.800 anni.
61
In RG.5: 25.920, 19.440, 12.960, 6.480 anni.
62
Ibid.: 12.960 anni.
63
Ibid.: 25.920 anni.
64
Ibid.: ognuna, 2.160 anni.
65
Sono i Mahâbûtas o "grandi elementi" quelli che determinano la relazione: chiaramente, il Diluvio
(circa -11.000) è correlato all'acqua, invece, la finis mundi lo sarà col fuoco: …dies irae dies illa,
testet David cum Sibilla… lo testimoniano cioè l'Ebraismo e la tradizione classica. In fatto di
terminologia si può precisare che, in quest'ultima il Grande Anno è il Magnus Annus Platonis mentre
per i caldei il Manvantara, s'identifica al regno di Xisuthros, la cui durata è appunto di 64.800 anni.
66
La coscienza di quest'unità di fondo di tutte le forme tradizionali, adombrata dalla comunità di
lingua poi distrutta dagli eventi miticamente rappresentati dalla costruzione della Torre di Babele
(Gen.11.4), giunge sino all'inizio del Kaly Yuga: -4.480.
67
Quanto accadde è, in qualche modo, accennato da Platone (Tim.24e,25d, Criti.108e) sebbene, nel
suo racconto, la guerra tra Atene e l'Atlantide possa sembrare precedere la catastrofe. Inoltre, agli
stessi fatti, sono da ricondurre le narrazioni, presenti in tutti i miti indeuropei (e non), relative ai
bellicosi rapporti con i Giganti. Quanto alla datazione indicata, è significativo che, in Scandinavia, sia
frequente il reperimento di incisioni rappresentanti piovre e con questo ottopode spesso, in certe
culture, si è voluta indicare la stazione zodiacale da noi conosciuta come Cancro []: ebbene, il punto
vernale sostò in detto asterismo negli anni intercorrenti tra il -8700 ed il -6540.
68
L'Africa è presente a più titoli per questo retaggio: ad es., secondo alcune versioni le Esperidi (da
εσπερα, sera) vivevano sul Mt. Atlante in Mauritania ma anche nell'Esperia etiopica ovvero
l'Eritrea: da ερευθω, arrossisco e lo stesso abissino, abishà è rosso.
69
Chiarissimo è il racconto iranico dell'abbandono dell'Airyanem Væjah, le berceau ou germe des
Aryens, per le grandi tempeste di neve che lo investirono. Cfr. HC.
Il mare è sconosciuto in indo-europeo; significativi i teonimi ad esso relativi: Neptunus, in origine,
presiede a fiumi e fonti e, soltanto in seguito, per assimilazione a Ποσειδων, estende al mare il suo
70
145
dominio. Ποσειδων, dapprima legato anch'egli alla terra, ha origini più complesse analizzate infra n.
106.
71
Anche il commercio in indo-europeo è un'attività senza nome, priva di una specificità che lo
distingua dall'acquisto e la vendita; merx non ha etimi in lat. che sono invece reperibili nell'ebr. MeHYR,
[], prezzo e nell'accad. makurru, bene, possesso, merce. Cfr. S.
72
Virgilio, Buc. egl. IV, per tutto questo cfr. CS.
73
21.1.
74
Il matrimonio indoeuropeo era di natura endogamica essendo caratterizzato dall'unione di cugini
incrociati, pertanto le specificità psichiche e fisiche di un clan erano fortemente delineate e mantenute
nel tempo. Cfr. CB, vol.I. Un esempio estremo ne è stato lo xvêdhvaghdas ovvero unione tra
consanguinei immediati, considerato segno di grande religiosità dal mazdeismo iranico ma motivo di
mai sopito scandalo per greci e romani.
75
Per pervenire alla determinazione del tipo si può disporre dei ritrovamenti antropologici e della
testimonianza delle fonti letterarie e figurative; <<cette seconde source a l'avantage de ne pas
dépendre d'une hypothèse préalable. Or, ces témoignages concordante pour désigner la race
nordique, sinon comme celle de l'ensemble du peuple, au moins comme celle de sa couche
supérieure.>>: H. Naturalmente qui ci si riferisce ad una fase avanzata ma non recente del movimento
della razza dalla sede originaria.
76
Cfr. la definizione di "sangue blu" per caratterizzare gli aristocratici, i quali - a ragione delle vicende
storiche relative all'origine delle moderne nazioni europee - sono spesso de souche germanique.
77
Riepilogando, si può affermare, in base a tutta una serie di dati convergenti, che la razza rossa si
doveva presentare d'aspetto atletico, d'altezza notevole (l'uomo di Crô-Magnon), brachicefalaacrocefala con capelli rossi, gli occhi castano-dorati, naso aquilino, pelle arrossata e delicata,
lentiggini.
78
Cfr. supra n. 23.
79
Non è un caso che, nella geografia mazdaica, il continente (iran. keshvar) occidentale, si chiami
Arezai, quindi singolarmente eguale al vocabolo ebr. per terra: AReZ, .
80
Le altre eccezioni, numericamente irrilevanti, sono i Parsi (Zoroastriani) dell'India ed i Kafiri
dell'Afganistan.
81
I riferimenti etimologici sono tratti dallo HL.
82
RG.2, p.56.
83
FV: opera nella quale si dimostra che lo svolgersi dell'intera epopea omerica è avvenuto nell'area
baltica e nell'Atlantico settentrionale, ben prima quindi che gli Achei giungessero nelle sedi storiche
dove dettero origine, all'inizio del nuovo insediamento, a quella che è nota come cultura micenea.
84
Vd. supra, p. 7, n. 29. Di questo una traccia evidente è l'inizio del giorno al tramonto sia per
l'Ebraismo, sia per l'Islam m'anche - in certi casi pure oggi, es. la Messa vespertina prefestiva - per il
Cristianesimo.
85
86
HL
FdO, p. X. Per metafora tratta dal senso d'oscurità connesso al tramonto; stessa origine può essere
attribuita a Ερεβος − cfr. anche l'acc. erebu, tramonto.
146
87
Cfr. supra p. 12, n. 65.
88
Libro di Enoc, 106. 1-4. Il Libro di Enoc etiopico - qui citato - è posto, in quel canone, prima del
Libro di Giobbe: quindi, significativamente, tra i Libri Sapienziali. Riguardo all'aspetto di Noè, si deve
considerare la frequenza dello pseudo-albinismo neonatale nei rossi e - tratto indicativo della
monogenesi della specie umana- anche presso i neri aborigeni australiani.
89
Ibid., 106.6.
90
Ibid. 106. 13-17.
91
È la cosiddetta età biblica: secondo tradizione, c'è, nello svolgersi del ciclo, un progressivo
accorciarsi della durata della vita.
92
Il termine ebraico significa, alla lettera, i caduti ma in figurative sense è utilizzato anche per
indicare i morti.
Gen. 6. 1-4. È da notare come il ns. eroe derivi da ηρωλda cfr. quindi con il predetto skr. hàri,
blond (MMW). È però curioso che esso converga con l'ambito camito-semitico dove, infatti,
abbiamo: eg. WRR, great, important; WR, prince (S); ebr. HOR, [], the noble, free e, addirittura, be
or grow white, pale (HL). Il termine invece usato nel testo biblico è GaBORYM [
   ], strong,
valiant man (HL).
93
94
32.8; per tutto questo cfr. HS, l'articolo di Ronald S. Hendel.
95
Noto qui una particolarità interessante; la nascita li qualifica - per antonomasia - quali figli di
donna infatti in Enoc, 15. 18-20, espressamente si dice che <<…questi spiriti si rivolteranno contro i
figli degli uomini e contro le donne perché essi sono nati da loro>>. C'è nella
contrapposizione una delle motivazioni del titolo di Figlio dell'Uomo attribuito al Cristo.
96
Quest'aspetto non tanto di Principio Primo quanto più limitato di Angelo Etnarca (il Dio geloso)
esiste sicuramente nel testo biblico e nel vissuto d'Israele ma non esclude in alcun modo l'altro, quello
realmente universale.
È, per l'esattezza, il concetto islamico di hanîf [ ℵ ×ο ] <<…the word means the original, innate,
primitive religion in contrast to the particular which arose later, polytheism on the one hand and the
in part corrupt religions …>> ; (FEI).
97
98
NôHa,[
], la √ NH esprime calma, compostezza, tranquillità ma anche preminenza, distinzione.
99
Ad essa ed al suo simbolo (the Rainbow) fa espresso riferimento uno degli Higher Degrees che collegati alla United Grand Lodge of England - sono più direttamente associati alla Mark Grand
Lodge; il Royal Ark Mariner, da non confondere ovviamente con l'assonante Royal Arch. I colori dei
regalia sono appunto quelli dell'arcobaleno mentre the apron's bib ha la forma a semicerchio, comune
al fenomeno meteorologico ed allo scafo dell'Arca. Non è, in special modo, significativo per questo
studio però <<… the most interesting features are the use of a stone, instead of the Volume of the
Sacred Law, on which to take the Obligation. The reason for this is explained in the ritual, but it may
be that we have here a survival of the old custom of swearing on a stone altar, which was the earliest
form of a binding oath>>; da W.
100
In questa fattispecie per Cam prevale la corrispondenza linguistica su quella razziale: è il filum
egizio.
101
Gen. 9. 24-27; profezia totalmente avveratasi come da riscontro storica anche per quanto riguarda
Cam (in questo caso la razza nera).
147
102
The Book of Enoch, London, s.d.
103
RG.2, p.37.
104
Ez. 32.27.
105
Basti pensare al ruolo di baluardo tradizionale avuto dall'Ordine del Tempio ed alla funzione del
Ghibellinismo.
106
È interessante constatare che anche in cinese il fonema hóng dà luogo ad ambiti semantici tutti
significativi in ordine alle relazioni che ho finora indicato: *rosso, rivoluzionario [accezione
scontata e del tutto moderna ma, in questo contesto, non priva di senso e non solo in cinese]
**arcobaleno, ***grande, magnifico, ****inondazione. Del resto lo start point della tradizione
estremo orientale, quasi esattamente corrisponde a quello della cronologia ebraica: -3.468 (Cina) a
fronte di -3.760 (Ebraismo): cfr. infra, n. 113. Molto indicativo è anche il nome, che, dato dai Greci ad
un importante popolo semitico, fosse quello di Fenici; da φοινι> →φοινισσα, roux, fauve, rouge
sombre (Ch), chiamati però Sidonî [
] dalla Bibbia (Gn. 10.15-19, 49.3). Sidôn, Σιδων, oggi
Şaydā, era a ancient Phoenician city, on coast N. of Tyre (HL) ma 
o 
è formata dal loanword from Egypt  (ZY ← egz. t'aī), ship e da , DaN, che è il nome di una delle tribù settentrionali
d'Israele. Tutte queste associazioni dell'etnonimo, con una delle componenti del popolo ebraico, da
mettere in più stretta relazione coi "popoli del mare" (cfr. infra, CONCLUSIONI), sono abbastanza
curiose; tant'è che, a conferma, Sidoni potrebbe essere inteso come: i Danai, quelli delle navi. A
questo punto, Ποσειδων, letto Πο−σειδων, ci pone qualche problema. In origine, designava il dio che
presiedeva alla terra, come è confermato dall'epiteto omerico di Ενοσιχθων. Tale attributo è attestato
dalla giustapposizione uscita da un vocativo Ποτειδα, dove sono presenti Ποτει ← ποσις (pater
familias) e l'antico nome della terra ∆α, ∆ας, che ritroviamo incluso nella sua controparte femminile
∆ηµητηρ. In seguito, analogo abbinamento di ποσις, si verifica invece con un etnonimo, Sidoni,
[
, Zidan], che ha assimilato un termine non indoeuropeo [ , zy, nave] e si presenta, prima nel
mic. Posidaijo, poi nel classico Ποσειδων, che potremmo, adesso, legittimamente, interpretare come
"Signore dei Danai" o anche come "Signore dei popoli del mare". La risposta ad un
interrogativo, ne solleva però un altro: mentre i Romani avevano, con certezza, una mentalità
continentale, in ordine con l' "ideologia" i.e. (cfr. supra n. 70), gli Achei erano già navigatori prima di
scendere nel Mediterraneo (FV) e quindi se Posidone è nome tardivo, qual era quello del loro dio del
mare? Direi che, come risposta, un aiuto possa fornirlo ancora Omero (Il. 1. 265 e 403-404) con, non a
caso (cfr. infra n. 139), il nome di un gigante: Βριαρεως e, neppure qui a caso (cfr. note nn. 25, 67,
68, 83, 108, 136), eponimo delle atlantiche, famose colonne: le Βριαρεω στηλαι, prima
denominazione di quelle che, poi, furono intitolate a Ercole; più tarda variante onomastica dello stesso
dio. Egli era però detto anche Αιγαιος (inoltre Αιγαι, Ege era la sede di Posidone; Od. 5. 381) ed i
due appellativi, nell'area scandinava, hanno avuto un seguito norreno in Brimir e Ægir. Il primo era,
come il personaggio greco, un gigante (per tutta questa famiglia di parole vd. in skr. la √ brih, to be
thick, grow great or strong, increase) il secondo, il dio del mare. Ma c'è di più: Αιγαιος e
Αιγαι, derivano da αιξ, capra: e non è la chimerica, anfibia figura della capra-pesce, in cui i due
elementi terra ed acqua, s'uniscono il simbolo del Capricorno []? Simbolo quindi, nel quale,
ritrovandosi sia il Ποτειδα, sia il Βριαρεως, poi divenuto Ποσειδων, può ragionevolmente, al
momento del passaggio ma anche della maggior confusione tra una funzione e l'altra, aver dato luogo
al soprannome di Egeo. Su questa fase e sullo specifico ruolo dell'asterismo, sarebbero da farsi
ulteriori considerazioni ma io ritengo opportuno lasciarle ad un più preciso studio.
107
Da non confondere con il 7° Avatâra di Vishnu, cioè Râma-chandra, l'eroe del Râmayana, il marito
di Sita, la cui epopea, popolarissima in India, rispecchia eventi relativamente più recenti e connessi
all'incontro degli Aryias con genti meridionali, appartenenti, in prevalenza, alla razza nera.
108
Il gigantesco Atlante era il capo dei Titani nella guerra contro Zeus. La vittoria di quest'ultimo
terminò con un compromesso: anche Posidone prese posto tra gli immortali: mitico riflesso della
fusione delle due razze.
148
109
Considerato l'etimo - ingenuus, qui prend naissance dans… (M) - l'aggettivazione sarebbe
superflua ed è proprio l'accezione contemporanea del sostantivo, significativa di quale fosse l'ingenua
indoles degli indoeuropei intesa come l'unica <<digne d'un homme libre, franc …>>(M).
110
L'età del bronzo, che è una fase prettamente nordica, trova singolari riscontri tra il rosso, il furor
bellico ed il bronzo: sv. röd, rosso; acc. urudû, bronzo; acc. rûbo (cfr. lat. rubeo), ira ignea,
perfetto attributo di guerrieri ribelli: siamo lontani dal distacco e dalla misura che distinguevano la
prisca forza della razza, che è ben resa dai noti versi del Petrarca: <<Virtù contro a furor prenderà
l'armi / e fia il combatter corto che l'antico valor / negl'italici cor non è ancor morto>>. Nonostante la
pia illusione del poeta, era giustamente questa una precisa caratteristica di Roma, dove la compostezza
e l'ordine delle legioni vinceva, a dispetto degli influssi latitudinari, il disordinato slancio dei barbari.
Ed altri e numerosi sono, infatti, i segni che, nell'Urbe, fanno mostra di una singolare fedeltà alle
origini.
Il nome deriva da una√ var, contratto, accordo, da cui lato sensu: merce, prodotto (cfr. ingl.
ware) e pertanto commercianti; segno evidente di un avvenuto snaturamento della nativa
ingenuità.
111
112
H, p.123.
113
S, vol. I, p. VIII. Di fatto, la cronologia ebraica rimonta ad un'epoca ben più antica di Abramo
(inizio II mill. a. C.) ossia al già citato -3.760 (inizio del calendario ebr.) ed i rapporti con la tradizione
iperborea, qui presi in considerazione, risalirebbero pertanto ad un'epoca precedente quella
dall'accertata presenza in zona di Hittiti, Filistei, Persi, Medi e Mitanni. Cfr. infra CONCLUSIONI.
114
RG.2, p. 50.
115
Storicamente, i Celti non sono segnalati (al massimo) prima del VI-VII sec. A.C.
116
Ibid., p.39.
117
Supra n.54.
118
CFV, p.123.
119
Ibid., p.120.
120
Ibid. p.124.
121
Ibid. p.126.
122
PW.1, p.74.
123
RG.3, p.157.
124
HL
125
Cfr. supra p. 5.
126
MMW
127
The southern hemisphere or pole …è invece chiamato Kumeru, dove ku- , è un …prefix
implying deterioration, depreciation, deficiency…ed il luogo è a region of the demons…
(MMW).
128
MMW
149
129
RG.3, p.69.
130
Facendo rif. al predetto suffisso sú- ne deriva un senso come sorgente del bene.
131
RG.3, Ibid.
132
Ibid. ma, per le implicazioni e sviluppi omerici, cfr. la precitata opera (FV) di Felice Vinci.
133
È in questo senso che si sviluppa tutta l'opera del S, che - per tanti versi meritevole (fosse solo per
l'ampiezza e l'accuratezza del lavoro compiuto) operando principalmente sul lessico, sorvola sulle
profonde differenze sintattico-grammaticali dei due gruppi, forza spesso la linguistica storica e
trascinato dalla volontà di trovare riscontri alla propria tesi, svisa, anche in campo strettamente
lessicale, molti confronti dichiarando una quantità di risultati di gran lunga, certo, superiore a realtà.
Molto limitante ed assai datata appare anche una decisa impostazione evoluzionistico-positivista.
Resta, in ogni caso, un'importante opera di riferimento per trovare verifiche nell'attribuzione al
substrato non-indoeuropeo di termini la cui congruenza culturale risulti estranea all'originario ηη≅λ
della stirpe.
134
RG.2, p.142.
135
Ch
136
Ad ulteriore dimostrazione, delle profonde influenze reciproche tra la tradizione iperborea e quella
atlantidea, si può verificare che in skr. budha, saggezza è anche il nome del pianeta Mercurio mentre
la madre del Buddha (il nome è in pâli) è stata Mâya-Dêvî, così budha equivale etim. al ger. Wotan, il
quale è omonimo del centro-americano Wotan ovvero Quetzalcohuatl, le cui caratteristiche di serpente
alato si ritrovano nel caduceo ermetico.
RG.2, Ibid. Sembra qui opportuno fare presente che una √HRM era già stata citata a p.4 a proposito
di sacer/aparteness; in questa fattispecie, senza voler escludere, per la vicinanza fonetica, una
relazione con quelle accezioni, è opportuno segnalare che, tra i due casi, esiste una differenza
ortografica: ±ζο nel primo, →ζ• in questo.
137
138
139
Cfr. supra p. 8.
All'origine della "confusione" (incipit del Kaly Yuga, cfr. supra, n. 66) c'è la famosa Torre di
Babele (torre ← turris ← τυρσις), termine pel quale si danno curiose e significative associazioni.
Intanto, nonostante l'etimo, greco in prima istanza ma non i.e., forti sono gli indizi di una provenienza
dall'Asia Minore. Cibele, detta la turrita per la corona che la cinge, venne a Roma da quell'area
geografica sebbene, oggi, sia spesso presa a emblema dell'Italia. Ci sono poi - misteriosi per
antonomasia e della stessa probabile origine nonché onomastici vettori della parola in argomento - gli
Etruschi o Tyrrheni, τυρρηνοι. L'elemento più inquietante, caratteristico di questa specifica
costruzione, è titanico e controiniziatico, che è poi quello qui preso in considerazione: in Gen.11.4 , la
Torre è MaGDaL da √ GDL, [], crescere, diventare grandi m'anche nobile, illustre ed i Nephilim
li conosciamo quali "famosi eroi". Grandi sono i Giganti e non a caso in norr. þurs è il gigante. In
seguito le torri et in urbe le case torri sono state, anche in Europa, strumento militare e segno di
nobiltà. Sempre in ebraico la √ ThÛR, [ ] ha il senso di cambiare, modificare, circuire m'anche
tradurre; senso non estraneo ad un contesto geografico, teatro di un'importante giunzione di
differenti correnti tradizionali. Ma, se si ritorna al tema dell'antica usurpazione operata dalla casta
militare ai danni del potere spirituale, un riflesso è leggibile in τυραννος , un usurpatore appunto
m'anche uno che cambia, modifica, confonde i ruoli: τυρενω, rimescolo, confondo insieme.
Curiosa poi la quasi omofonia cinese tra tã, torre e tâ, rovinare, che trova riscontro nella XVI lama
dei Tarocchi dove una torre rovina fulminata trascinando, nella sua caduta, un personaggio coronato:
significativa punizione divina (la temuta mors repentina, procurata dal telum Iovis che qui esce da un
Sol Justitiæ) dello Kshatrya ribelle. In Gen.36.43 c'è anche un Magdial , capo di Edom, il regno
150
nemico per eccellenza. Infine gli Yezidi hanno le Torri del Diavolo dove, pare - vox populi - si tengano
strani consessi.
140
RG.2, Ibid. p.146.
141
Ibid., p.153.
142
Ibid.
143
Ibid.
144
Ad esempio, nell'Induismo le concordanze vanno dallo Shivaismo ai Tantra.
145
Siegmund Freud antepose come motto alla sua Traumdeutung l'esplicita affermazione: <<Si
flectere nequeo superos, acheronta movebo>>.
146
Le altre corrispondenze temperamentali sono: r. rossa / biliosa, r. nera / sanguigna, r. gialla /
nervosa, r. hamsa / equilibrata.
147
Una delle caratteristiche degli dei, segno del loro distacco dalle cose terrene, era, per gli antichi, la
mancanza del battito delle palpebre ed una certa rassomiglianza ad essa fu ravvisata nella qualità
dell'acies germanica, cosa che molto impressionò.
148
In India, questo nucleo arcaico è individuabile nella parte che potremmo definire più propriamente
vedica della tradizione mentre i Tantra sono sicuramente una apporto acquisito dalle civiltà indigene
del sub-continente aventi, come principale riferimento, la razza nera. Cfr. E.1.
149
Fine del primo Grande Anno.
150
Le sette modalità sottili del nostro mondo che, nel loro insieme, costituiscono la terra totale. Sono i
sette dvîpas indù, i keshvar iranici (cfr. supra, n.79), le sette terre della Cabala e dell'Islam ed in
Dante, i sette ripiani della montagna del Purgatorio.
151
HC, p.42.
152
Ibid., p. 83, n.36.
153
È chiaro, come, in una condizione tanto alterata, le tappe della realizzazione spirituale, s'allontanino
in proporzione.
154
Enoc, Libro dei Vigilanti, VII.1: <<E si presero per loro [i Figli di Dio] mogli ed ognuno se ne
scelse una ….ed insegnarono loro incantesimi e magie…>>. Ibid. XVI.3: <<…Avete appreso un
segreto abominevole e, nella durezza del vostro cuore, lo avete raccontato alle donne…>>. Non si
deve poi dimenticare che, i Nephilim erano dei mislead Kshatryas e lo studio delle scienze come il loro
esercizio sono appannaggio di tale classe in ogni società tradizionale.
155
Cfr. RG.4, ch. XXVI.
156
ME, p. 66.
157
Tutta questa terminologia non sembra, in via fonetica e concettuale, lontana dal td. der Bursch,
Mitglied einer solchen Gemeinschaft:… Soldaten, Handwerker.. (K)... era, infatti, il nome
relativo dell'apprendista in senso compagnonico. L'etimo (dal lt. bursa → it. borsa) appare però
basarsi sulla metafora dello zaino, che caratterizzava questi giovani, itineranti lungo i loro tours di
formazione. Il vocabolo lt. proviene da βυρσα, cuoio, pelle rasata, otre, il quale scaturisce da
un'ignota voce semitica testimoniata dall'acc. burschu, das Fell mit ausgezupftem Haar (S),
singolarmente prossimo al vocabolo td. da cui siamo partiti. Ibidem, p. 65.
151
158
Cfr. supra p. 22: I "transiti" da un keshwar all'altro.
159
Cfr. supra p. 14.
160
S
161
M
162
P.F.103.3.
163
Libro dei Giubilei, V.28; da una segnalazione dall'Ing.F.Vinci, nel contesto della quale, egli ha
anche messo in evidenza come Dioniso (Dio-Niso) sia il Dio del Mt. Nisa ed il suo
omologo Osiride sia Dio del Mt. Ba-Ckaw (cfr. l'assonanza con Bacco). Inoltre, nell'epopea di
Gilgamesh - mesopotamico equivalente di Noè - Up-Napishtim approda, dopo il diluvio, sul Mt.
Nisir. Tutti rapporti non sempre trasparenti ma che confermano il legame dell'ebbrezza col mondo
post-diluviano.
164
Corano.II.219: <<Ti domanderanno ancora del vino e del maysir. Rispondi: <C'è peccato grave e ci
sono vantaggi per gli uomini in ambe le cose ma il peccato è più grande del vantaggio>>>. Sempre al
vino, può alludersi in positivo, intendendolo però in senso traslato; Cor.LII.23: <<E si passeranno
calici di un vino che non farà nascer discorsi sciocchi o eccitazion di peccato.>> come in Proverbi,
9.5-6 dov'è la Sapienza che parla: <<Venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che io ho preparato.
Abbandonate la stoltezza e vivrete: andate diritti per la via dell'intelligenza>>.
165
Tb.4.15: <<…non bere vino fino all'ebbrezza e non avere per compagna del tuo viaggio
l'ubriachezza.>>. Solo in occasione di Purim c'è indulgenza verso chi usi il vino per dare un tono
d'allegra socievolezza ai festeggiamenti.
166
Ovvero "semitizzati" secondo la profezia di Noè in Gen. 9.27: <<…Dio dilati Jafet e questi dimori
nelle tende di Sem…>>.
167
Ch
168
Designazione che è sempre segno di grande antichità.
169
Gv.15.1s.
170
Mc. 14.23-25.
171
Cfr.KK e BdR.
172
Indubbiamente, nei tempi più antichi, c'era una maggior tolleranza per questi culti, Gs.24.26: <<poi
Giosuè …prese una gran pietra e la rizzò là, sotto il terebinto, che è nel santuario del Signore>>. Cfr.
supra p.10 e n.51e 52.
173
Ad esempio, la funzione della vacca rossa è indispensabile nei riti di purificazione ed ancor oggi ci
sono notizie che indicano dei tentativi di ripristinarne il sacrificio. Nonostante questi casi "letterali"
ben precisi, quali anche gli olocausti, resta però il fatto che, l'elemento dirompente, caratteristico del
dionisismo/shivaismo, è sempre stato alieno allo spirito ebraico. Cfr. inoltre 1Sam.11.7. Ritengo però
che, il ruolo del toro - come protagonista dei miti dionisiaci e quale oggetto del sacrificio - sia
relativamente recente, ricollegandosi alla fase di precessionaria dominanza vernale dell'omonimo
asterismo (-4380/-2220). Fase grandemente significativa, comprendendo l'inizio del Kaly Yuga e
quello del calendario ebraico. A riprova: l'apparizione più tarda del capro sacrificale, connessa
all'ingresso del momento equinoziale nell'Aries [].
174
Precedentemente al -1300 circa.
152
175
Cfr. E.2, opera quasi unica nel suo genere per profondità e ricchezza di riferimenti.
176
2.15-16.
177
1Cor.6.17.
178
Cfr. supra p. 20 e n.143.
179
L'ambivalenza è dovuta alla problematica vocalizzazione nelle scritture semitiche.
180
Cfr. supra, n.173.
181
Dt.18.6-7.
Del resto, è opinione di molti che, l'etimo di Ευρωπη sia da ricercare nel già citato (cfr. supra, n.
86) ereb, ‘RB [
 ], occidente. Significativo, che ευρως, ruggine, ci rimandi di nuovo al rosso o,
meglio, al fulvo. Inoltre, Europa era, con Cadmo, figlia di Agenore Fenicio e, per "fenicio", già ne
abbiamo verificata (cfr. supra, n. 106) la relazione con rosso.
182
183
Basti pensare all'importanza avuta dalle nostre repubbliche marinare.
184
Da intendere in senso storico, indipendentemente - è ovvio - dalla bizzarra configurazione che esso,
sempre più, va oggi assumendo.
185
Cfr. PW.1 e 2.
186
GG
187
CFR. SUPRA, P. 16, N. 106.
188
-926.
189
Nonostante la struttura patriarcale di quella società, l'Ebraismo si trasmette per via femminile.
190
HC1, t. I, p. 101. Il superiore grado di realtà, d'attribuire al risultato della "costruzione", rispetto a
quello attinente al mero fatto storico, non è accettato, sia dagli agnostici, sia da troppi teologi;
irriducibili apologisti di una linea di pensiero (e comportamenti: vd. l'École Biblique di Gerusalemme),
per la quale i racconti della storia sacra (vetero e neotestamentari) sono non solo "profeticamente" veri
ma rigorosamente autentici persino nei loro particolari. Tutto questo appartiene all'ampia problematica
delle relazioni esistenti tra verità e autenticità. Cfr. infra n. 198 e vd. anche il mio studio
VERO O AUTENTICO?
191
Ho analizzato, anche nelle sue complesse motivazioni interne, detto aspetto della storia del
Cristianesimo nel mio studio EFFICERE DEOS. Lo stesso, presente lavoro procede da un'impostazione
concettuale, che prevede una continua interazione tra eventi svoltisi in uno spazio-tempo fisico e
quantitativo ma che, in realtà, hanno radice e spiegazione in una corrispondente ma sovrapposta
modalità qualitativa, permanente e gerarchizzata, nella quale la storia del mondo visibile è imitazione
o proiezione di eventi dell'anima; luogo dunque, tale mundus subtilis, del privilegiato teatro d'ogni
ierostoria. È per questo che, certo letteralismo teologico, con il suo inevitabile corollario di infantili
images d'Épinal, confondendo la sostanza formale con l'essenza che pone in essere il cosmo, ha infine
permesso che si producesse, quale logica degenerazione, l'elementare semplicismo della rationalité
voltairienne nella quale, ogni possibilità di dare alla parola spirito un ruolo diverso dalla mera
esornatività letteraria, inesorabilmente si spenge.
192
La giustificazione agostiniana è in via meramente negativa, l'altra, quella più strettamente dottrinale
e non di parte è che i due tempi del messianismo cristiano ricavano un reale, obiettivo spazio e
153
necessità tradizionale alla presenza, dopo la Rivelazione cristiana (ed islamica), dell'Ebraismo
propriamente detto.
193
Enarr. in Ps., Ibid.
194
Serm., 201.3.
195
MS, p. 120.
196
Tra l'altro, in un suo testo, trasmesso da Eusebio, egli afferma che, dopo la Resurrezione, Gesù donò
la gnosi a Giacomo, Pietro e Giovanni. I Padri inoltre, rivelano, attraverso alcune allusioni, che
confermano l'esistenza di una non palese tradizione orale, la conoscenza della mistica ebraica come, ad
esempio, avviene per S. Giovanni nell'Apocalisse a proposito del Trono di Dio (la Merkaba), portato
dai quattro animali.
197
Mc. 12. 29-30.
198
Molti passi evangelici, relativi alla persona di Gesù, sono introdotti dall'incipit <<In illo tempore…
>>; più sopra (p. 16), ho pur io utilizzato tale formula nella sua versione classica (senza lo in,
superfluo in quel compl.) per definire - come avviene anche presso altri autori - un tempo nel quale gli
eventi narrati mostrino o la presenza di un attore non umano oppure per imporre ad essi
un'ermeneutica profetica che li innalzi ad un grado di realtà, trascendente toto cælo quello materiale
della storia comunemente intesa. Tra l'altro, manifestando i Vangeli, per troppi segni, l'impronta di un
pensiero e forse anche di un Urtext, espresso secondo le modalità linguistiche semitiche (cfr. i lavori
dell'Abbé Jean Carmignac), singolarmente, la versione latina renderebbe meglio del troppo concreto
"originale" greco <<Εν εκεινω τω καιρω....>> : <<al momento opportuno…>>, la possibile,
sottesa dizione ebraica <<HaYoH HaYaH...[…. ]>>: <<il y avait une fois ….>>. Naturalmente,
questo ci riconduce alle complesse relazioni tra verità e autenticità accennate alla n. 190.
199
Mt. 27.46, Mc. 5.41, 7.34, 15.34.
200
Cfr., JD, pp. 392-393.
201
Da un disegno di Dürer, tracciato intorno al 1510.
202
In genere, era usata la figura dell'acrostico come nel caso dell'AGLA, organizzazione fiamminga di
operatori del libro (stampatori, librai…). Il suo significato sembra fosse <<Aïth Gadol Leolam
Adonaï>>; Adonai sarà grande nell'eternità. Charbonneau-Lassay afferma che il tutto formava
uno degli emblemi grafici del Cristo. Questo lavoro sulle parole è tipico della scienza delle lettere
anche in altre lingue sacre; in Europa, tali procedimenti, nel Seicento, ebbero una fioritura abnorme,
mossa però da scopi di solo estetismo letterario o d'elegante estrinsecazione devozionale. Ci si
esprimeva giocando con i versi intessuti, gli anagrammi, i palindromi ed i calligrammi, fino alle forme
più barocche ricavabili dalle innumerevoli possibilità dell'iconismo poetico. Ricchissimo e
documentato lo studio di G. Pozzi, LA PAROLA DIPINTA, Adelphi, 1981. In questo contesto, si potrebbero
citare anche altre manifestazioni "ebraiche" quali lo schema del Magen David (i due triangoli
equilateri intrecciati) "occultato" sia nell'aquila dell'Impero, sia nel giglio dei Borboni e di Firenze (ma
anche in altre figure araldiche) però, in questo caso, trattandosi fondamentalmente di un riferimento al
rapporto tra macrocosmo e microcosmo esso, piuttosto che as symbol of Judaism, deve essere qui
ricondotto al suo valore universale.
203
Sh1, p. 144 e nn. 33, 34 a p. 389.
204
In effetti, sulla stessa linea "islamica", ci sono alcuni predecessori: 1780, S.J. Juan Andrès; 1839,
Ozanam; 1842, Labitte; 1901, Blochet.
205
Queste manifestazioni "formali", di convergenze scaturite senz'altro dai rapporti intercorsi all'epoca
delle crociate, si presentano, a volte, in modi che non possono non lasciare stupiti com'è il caso dei
154
riferimenti sciiti (la ricorrenza delle morte di Alì scritta in caratteri neski) sulla veste di un personaggio
miniato in un manoscritto (LE CŒUR ÉPRIS) destinato al Re Renato d'Angiò (XV sec.) o in quello della
professione di fede (la shahada) leggibile, in caratteri cufici, nell'aureola di una Madonna (Museo
Nazionale di Pisa), dipinta dall'enigmatico Gentile da Fabriano nel XV sec.
206
È curioso che, nel XVIII sec., in Francia, quando molti erano nelle Logge gli ecclesiastici
(l'esenzione dalla scomunica era considerata uno dei privilegi gallicani), i Cistercensi fossero
particolarmente numerosi. Mancavano, invece, i Gesuiti; ordine controriformista.
207
È anche la mediocrità dei maggiorenti del Tempio, quale traspare dai suddetti verbali degli
interrogatori, che rafforza la possibilità dell'esistenza di una gerarchia occulta, vera detentrice delle
conoscenze e, in ultima analisi, sede del fons honorum dei titolari visibili del governo dell'Ordine.
Quanto alla sua predetta assonanza qumrânica, essa, a mio parere, riverbera particolari significati sul
fatto che - nella Cristianità medievale - la più fedele e diretta discendenza dalle origini ovvero il filum
iniziatico, avesse il suo centro non in una delle religiones contemplative ma proprio in un ordine
guerresco di monaci cavalieri. Questo perché, la prima comunità cristiana, da identificare con la
Chiesa gerosolimitana di Giacomo il Giusto, era l'espressione, anzi, l'élite degli "zelanti della Legge"
ossia degli irriducibili sostenitori della legittimità dinastica e sommo-sacerdotale dei salomonici
zadochiti, dei quali, conservava financo il calendario. S'identificava quindi con gli irriducibili
avversari, sia del sacerdozio sadduceo e dei Farisei che lo sostenevano, sia dei re erodiani controllati
da Roma. Tracce di quest'animus pugnace, anche se - di esse - altre, trasposte interpretazioni sono
legittime, si ritrovano in Mt. 10. 34-35, 11. 12 e, più tardi, riecheggiano in Dante: Par. 20. 94-95.
Considerata infine la genesi dell'Islam, un'ulteriore conferma ci giunge dalla constatazione come, tale
bellicosa militanza abbia, anche oggi, tanta, visibile parte in quella spiritualità. Sono però
comprensibili, specie dopo le opzioni "buoniste" ed i "pentimenti" della Chiesa, le difficoltà anche
psicologiche ad accettare che, nei suoi anni iniziali, questa fosse la vera natura del Cristianesimo.
208
Allusione al dominio di Cristo nei tre mondi (per l'importanza di questa divisione ternaria, vd. il ns. JANUA
INFERNI) e stesso riferimento simbolico presente nella da poco (decisione di Giovanni Paolo I) abolita
Tiara.
In genere non si riflette come, anche lo stesso termine Εκκλησια provenga dal vb.
εκκαλεω (chiamo, convoco, nel senso di convoco per un'adunanza) e come questo sia
corrispondente a , KoNeS (riunisco per un'assemblea); tant'è che     , BeYTh KeNeSeTh, è
la Sinagoga. La quale ha poi ricevuto, nella diaspora, questo nome dal tardo lt. eccl. Synagoga, a sua
volta, derivato da συν−, insieme e αγειρω, raccolgo, convoco. Corrispondono dunque entrambi i
vocaboli, tanto pertinacemente contrapposti nei millenni, allo stesso significato comunitario e
chiaramente derivando, nella prospettiva giudeo-cristiana, l'una dall'altra.
209
210
Tutti i dati a nostra disposizione, stanno a confermare che, la Chiesa delle origini preferisse
riconoscersi in altri simboli, quali il pesce (anche qui l'importanza di un acrostico: Ιχθυς) o il crisma.
Dopo Costantino, compare la croce nella forma commissa ovvero quale lettera tau [Τ] maiuscola ma
l'immagine del Crocefisso, sempre assente presso i monofisiti (tipiche le croci copte), appartiene
soltanto agli ultimi anni del IV sec. Di norma però, non è mostrato il Christus dolens ma un Cristo
sereno; in ogni caso, è in Oriente che la rappresentazione del dolore risulta attenuata con la
riproduzione di un corpo non più vivente. Il realismo, in Europa, con il passare dei secoli, si fa però
sempre più crudo, finché il corpo viene spogliato anche del colobium, lunga tunica priva di maniche e
caratteristico dell'età romanica mentre tende a prevalere il mostrarlo coperto dal solo perizoma ed in
preda a tutti gli strazi della Passione. L'intensificarsi di questa tendenza, appare andare, di pari passo,
con il farsi dominante della componente sentimentale e dell'imporsi, nell'osservanza, di un'attitudine
puramente devozionale, sin che si giunge all'irrompere di orientamenti strettamente sociali e, in tempi
recenti, al crescente spazio dedicato ad un elemento spettacolare contesto di immense folle la cui
portata è ancor tutta da valutare.
211
Cfr. supra, n. 191.
155
212
Parimenti nell'Islam: nell'epoca successiva alla morte di Muhammad ovvero negli anni dei Califfi
Ben Guidati, stesse considerazioni, s'impongono per quanto riguarda l'ordinamento e la definitiva
fissazione del corpus coranico nonché la raccolta degli Hadith (i detti, gli aneddoti) del Profeta
costituenti la Sunna. Tant'è che quest'ultima risulta la seconda fonte della Shari‘a ed è quella che ha
fornito lo strumento per calare il dettato divino nelle molteplici tradizioni, costituenti poi il substrato
delle nuove e numerose realtà di fede islamica. In particolare, molto evidenti risultano tali operazioni,
in tutta l'area riconducibile alla Shi‘a.
213
Ho usato il presente perché credere fatti obsoleti queste applicazioni della teurgia è, con certezza,
un errore; infatti, pur se con ruolo minore e con un diverso livello di consapevolezza, esse, come lo
testimoniano proclamazioni dogmatiche e santificazioni, sono sempre, giustamente, anch'oggi
praticate e poi non rientra tutto questo in quella pienezza di potere, che definisce il comportamento
della Chiesa nell'eone presente secondo la nota formula della potestas clavium? Cfr. Mt. 16.19, 18.1,
18.18.
214
I.e.: l'occulta struttura delle due forme del Nome e, a riprova dell'imbarazzo che ancora genera
quest'ordine di argomenti, basti riflettere su quant'è, di recente, accaduto per Jahbulon, a ragione dello
"scandaloso" riferimento a Baal (cfr. supra, n. 21).
215
La Massoneria, quale erede di numerose organizzazioni precedenti, tutte - nelle sue molte strutture le conserva in germe per l'incombente transfert al <<novus mundus>> (Ap. 21). Dopo la loro
scomparsa come forme autonome, sono ora esse vestigia viventi, non reliquie e suscettibili quindi
anche d'attualizzarsi ove per questo se ne venisse a creare la possibilità. Tale condizione, nei rituali, è
resa in simbolo dall'espressione che <<la Loggia di S. Giovanni [i.e. la M. stessa], si tiene nella Valle
di Giosafat>>. Essa è, insomma, l'"Arca" della civiltà occidentale e porta pertanto il - solo
apparentemente incongruo - titolo di <<Arte Reale>>; storicamente confermato da innumerevoli
concrete militanze, socialmente superiori alla condizione artigianale, proprio perché, in virtù di questa
non immediatamente percepibile funzione, le sue finalità iniziatiche superano la dimensione dei
"piccoli misteri". A conferma, si deve aggiungere che, dalla precedente analisi di quel completamento
della Maestria che è the Royal Arch, evidenti v'appaiono anche gli elementi provenienti dall'antica,
dimenticata Arte Sacerdotale.
----[Una presentazione dell'autore si trova nel numero 1 di Episteme]
[email protected]
156
DE LA RELIGION... de Benjamin Constant
Le fondement épistémologique et métaphysique*
(Sabina Kruszyñska)**
1. Les remarques préliminaires.
Dans de nombreux volumes de l'histoire de la philosophie, on ne peut pas trouver le nom de
Benjamin Constant. Il serait exagéré d'affirmer que ce manque soit une injustice de la
mémoire humaine. Benjamin Constant n'était pas philosophe. Aucune de ses oeuvres n'est pas
un ouvrage philosophique. Néanmois, à chaque siècle, et particulièrement au siècle
d'abaissement de la pensée philosophique commune, un véritable esprit philosophique réside
même en dehors d'oeuvres strictement philosophiques. Dans certains ouvrages littéraires,
politiques, etc. nous pouvons trouver les réponses de valeur aux questions fondamentales; aux
questions relatives à la structure de la nature humaine et la structure de l'univers humain. Les
réponses de valeur, ce sont d'aprés moi les réponses qui ne prétendent pas être exclusivement
justes, qui ne réduisent pas les phénomènes culturels aux phénomènes biologiques, mais qui,
en même temps, reposent sur de solides fondations empiriques et tout en présentant une clarté
de notions et une cohérence logique. Elles résultent alors des efforts d'expliquer
rationnellement la réalité humaine en tenant compte de sa complexité. Je pense que quelques
oeuvres de Benjamnin Constant sont les oeuvres de ce genre, et que notament De la religion...
est un tel ouvrage.
Il serait intéressant, bien sûr, de faire une analyse historique des idées philosophiqes
constantiennes en les situant parmi d'autres idées de son époque, de l'époque précédente et de
l'époque suivante. Mais il est aussi possible, et je le trouve plus passionnant, de suivre et de
mettre en lumière les conceptions constantiennes qui sont le fondement épistémologique et
métaphysique de sa pensée en général. Je voudrais examiner ces conceptions dans lesquelles
les germes de vérité sur l'homme et son monde survivaient jusqu'à nos temps. C'est une tâche
immense et elle est encore à faire. Dans cette communication je peux seulement marquer les
principales lignes de mes recherches.
2. L' aspect cognitif - L'objet et la méthode.
"Pour arriver à la vérité, il faut
toujours considérer les questions
sous toutes leurs faces."
(B.Constant, Du polythéisme... I.)
a. L'objet
De la religion..., l'oeuvre sur l'histoire de la religion serait une oeuvre exclusivement
historiographique si'il y manquerait quelques dizaines de pages et quelques dizaines de
phrases. Une d'entre ces phrases nous présente un objet réel des investigations constantiennes:
"L'on n'a jusqu'ici envisagé que l'extérieur de la religion. L'histoire du sentiment intérieur
reste en entier à concevoir et à faire" (De la religion..., p.13)
157
En examinant et en présentant de nombreux faits de l'histoire de la religion, Constant a un
but principal - découvrir et décrire un fonctionnement complexe d'un unique sentiment
religieux dans une diversité des formes religieuses. On peut dire, en appliquant une
terminologie plus moderne, qu'il cherche une structure fonctionnelle interne dans les jeux
superficiels des évémements. Il examine les manifestations du sentiment religieux dans la
religion, dans les systèmes philosophique, morale et politique. Alors, pour Constant, tout ce
qui fait l'objet de la connaissance se transforme et se redouble en objet empirique et en objet
hypothétique. Connaître l'objet c'est-à-dire le saisir comme l'ensemble diachronique
(empirique) et synchronique (hypothétique) en même temps. La structure fonctionnelle
interne a des relations multiples et compliquées avec la surface changeante. Il n'est pas
possible alors de fixer pour toujours ces relations quoiqu'elles soient les manifestations d'une
cause stable; mais il ne serait pas aussi possible d'expliquer les jeux des événements actuels
sans les efforts de les decouvrir avec toute leur dynamique. Tout forme un système, un
ensemble, alors, tout doit être considéré comme tel. Constant exprime ses intuitions sur la
spécificité de son objet en écrivant p. ex.:
"Comme elle [la religion - S.K.] modifie tout ce qu'elle touche, elle est aussi modifiée par tout
ce qui la touche. Les causes se rencontrent, s'entre-choquent, et se font plier mutuellement.
Pour expliquer la marche d'une religion, il faut examiner le climat, le gouvernement, les
habitudes présentes et passées du peuple qui la professe: car ce qui existe influe, mais ce qui
n'existe plus ne cesse pas toujours d'influer. Les souvenirs ont comme les atomes d'Epicure,
des éléments rentrant toujours dans la compositon des combinaisons nouvelles. Conduire le
lecteur à travers ces recherches, serait écrire une histoire universelle." (D.l.R., pp.214/215).
Il est évident qu'il parle ici du niveau empirique qui est representé par les formes religieuses
donc, à son tour, ne sont pas à comprendre que dans ses relations multiples avec le sentiment
religieux (hypothétique).
Constant parle du caractère hypothétique du sentiment religieux (comme une règle stable et
comme une cause efficace) au début de son ouvrage:
"Si donc il y a dans le coeur de l'homme un sentiment qui soit étranger à tout le reste des
êtres vivants, qui se reproduise toujours, quelle que soit la position où l'homme se trouve,
n'est-il pas vraisemblable [soulignement S.K.] que ce sentiment est une loi fondamentale de
sa nature?" (D.l.R., p. 3)
Étant un être hypothétique le sentiment religieux n'est pas à appréhender que par ses formes.
Constant, construisant l'objet des ses recherches comme un tout structuré, complexe et
variable, et voulant le décrir, se charge d'un travail énorme et hasardeux. On peux dire qu'il en
a réalisé une part assez signifiante.
b. La méthode.
Il faut constater qu'avoir pleine conscience d'une complexité de l'objet, n'est pas encore avoir
une idée d'une méthode suffisante pour l'explorer. Constant n'avait pas à sa disposition que les
méthodes connues et employées dans l'historiographie, dans l'empirisme et dans le
rationalisme philosophiques et, moins utiles dans son espace de recherche, les méthodes des
sciences naturelles. Il était trop attaché à la réalité pour traiter sérieusement les méthodes
purement spéculatives proposées par les philosophes allemandes. Alors, pour accomplir sa
tâche difficile, Constant unie les méthodes historiques, empiriques et rationnelles. Il n'élabore
pas une méthode spécifique, originale ni précise mais on peut remarquer qu'il veut agir selon
une manière qui lui permettrait d'examiner l'objet le plus exactement possible. Je voudrais
faire quelques remarques sur ce sujet.
158
Dans le chapitre VI De la religion... (De la manière dont on a jusqu'ici envisagé la religion)
Constant écrit:
"...que presque tous ceux qui ont voulu aborder ce vaste sujet aient fait fausse route." (D.l.R.,
p.101)
Il analyse précisément les causes diverses des erreurs commises (les causes frequentes sont
les réductions simplificatrices de l'objet) mais une d'entre elles me semble particulièrement
intéressante; non seulement parce qu'elle concerne presque tous auteurs discutés, mais qu'elle
soit un principe général de la position cognitive de Constant. Il s'agit du principe
d'objectivisme cognitif.
Constant reproche aux auteurs français, anglais et allemands (les Allemands sont les seuls
qui ont apporté les idées justes et nouvelles parce qu'ils avaient aperçu que la religion fait un
système de symboles et que ces symboles sont historiquement variables) qu'ils ont preferé être
les défenseurs de leurs convictions et de leurs partis que les chercheures d'une vérité. Comme
Voltaire, ils ont pensé "qu'il valait mieux frapper fort que juste" (D.l.R., p. 112).
Selon Constant l'objectivité forme la base de chaque recherche de valeur. Il constate:
"La recherche est immense. Ceux même qui la croient telle, ne l'ont pas appréciée dans toute
son étendue. Bien qu'on ait beaucoup écrit sur cette matière, la question principale reste
encore inaperçue. Un pays peut être long temps le théâtre de la guerre, et demeurer, sous
tous les autres rapports, inconnu aux troupes qui le parcourent. Elles na voient dans les
plaines que des champs de bataille, dans les vallons que des défilés. Ce n'est qu'à la paix
qu'on examine le pays pour le pays même." (D.l.R., pp.12/13)
Qu'est-ce qu'on peut faire pour garder l'objectivité en examinant les faits historiques (socials
et culturels)? La réponse constantienne, que j'essayais de reconstruire, contient une germe
d'idée de l'interprétation herméneutique (l'influence de Schlegel?).
Costant, en concevant son objet comme un système structuré, le comprend aussi comme un
ensemble des phénomènes de la conscience qui changent dans un processus du
développement de l'esprit humain. Il pense alors qu'il est nécessaire d'interpréter chaque
élément de ce système à travers les sens communs de ce tout organisé parce que:
"Parmi les opinions comme parmi les hommes, tout tourne au profit de la puissance. Lors
qu'une opinion est dominante, elle force toutes les idées contemporaines à se grouper autour
d'elle et à la servir." (Du polythéisme... v.I; p. 252)
et, en même temps:
"On n'invente pas les opinions; elles naissent dans l'esprit des hommes, indépendament de
leur volonté."(D.l.R., p. 209)
Les sens communs sont à saisir par une analyse psychologique (on analyse en effet les faits
de conscience) et contextuelle des idées religieuses, philosophiques, littéraires, etc. à la
condition qu'on voit au processus du développement de ces idées les efforts de la conscience
humaine d'expliquer les conditions et le sens de son existence.
Pour Constant:
"...chaque génération est placée comme un point dans la vaste série des choses humaines,
pour profiter de ce qui a été fait, et pour préparer ce qu'il y a à faire." (D.l.R., p. 125)
159
Chaque interprétation contextuelle et psychologique cherche les garanties de son objectivité
dans l'unité des expériences humaines - les expériences intersubjectives et subjectives. Aux
propositions herménutiques classiques (p. ex. W. Dilthey) cette unité possède son
enracinement profond dans la nature humaine. Pour les conceptions antymétaphysiques (p. ex.
postmodernisme) pour lesquelles la catégorie de la nature humaine n'existe pas, aucune
catégorie d'objectivité n'est pas possible. On voit alors que pour Constant une structure
hypothétique - la nature humaine - est un à priori cognitif sans lequel les phénomènes
culturels resteraient incompréhensibles et non-exprimables dans la connaissance objective.
3. L'aspect métaphysique - l'anthropologie philosophique et l'axiologie.
a. L'anthropologie philosophique.
D'une manière générale, la nature humaine c'est un ensemble des potentiels et des inévitables
fixé à l'homme, aussi que la façon de laquelle ces potentiels se manifestent et ces inévitabilités
percent réellement. On peut dire autrement qu'elle est une totalité des tendences et des
dispositions hypothétiques, qui pourraient expliquer les élémentes stables visibles dans le
comportement des êtres humains et communs pour eux (v. Boguslaw Wolniewicz; Filozofia i
wartosci; WFiS UW Warszawa; 1993; p.95 et p.245).
Je n'analyserai pas la conception constantienne de la nature humaine. J'en ai fait dans mon
article intitulé "La nature humaine - l'enracinement anthropologique du libéralisme de
Benjamin Constant". J'y présente la nature humaine comme une structure dynamique interne
composée de trois élémentes suivants: le sentiment religieux, l'esprit et la vis vitalis. Dans un
comportement d'un individuum humain ces trois élémentes se manifestent, respectivement,
comme la capacité d'éprouver des sentiments supérieurs (selon la compréhension de Max
Scheler) et sous les formes différentes de la rationalité et de l'animalité. Ce que je voudrais
faire ici c'est d'accentuer la spécificité de l'anthropologie philosophique de Constant.
Chaque l'opinion sur la nature humaine, claire et plus ou moins cohérente, peut être nommée
une anthropologie philosophique. Il est alors évident qu'il existe autant d'anthropologies
philosophiques que d'opinions sur la nature humaine. Il est néanmoins possible de les grouper
en deux catégories: celle des anthropologies naturalistes et celle des anthropologies
antinaturalistes. Selon les premières l'homme n'est qu'une partie de la nature. Les deuxièmes
rejettent la these naturaliste et affirment que l'homme ne soit seulement une partie de la nature
mais qu'il la dépasse Un dépassement ne se realise qu'au niveau de la concience. Les
antinaturalistes affirment que l'homme, dépasse la nature parce qu'il ait une concience des
valeurs objective, c'est-à-dire, des valeures qui existent par elles-mêmes indépendamment des
besoins et des désirs humains (V.B. Wolniewicz; op. cit.; pp. 95/96).
L'anthropologie de Constant est antinaturaliste. La thèse sur l'existence "dans le coeur
humain" du sentiment religieux - d'une tendence humaine stable et commune - forme le noyau
de cet antinaturalisme.
Selon Constant le sentiment religieux (datum extrême de sa réflexion philosophique) est la
source d'une dissonance entre l'homme et tout le reste du monde. Il déclare au début de son
livre:
"Nous ne rechercherons point ici quelle est l'origine de cette disposition, qui fait de l'homme
un être double et énigmatique, et le rend quelquefois comme déplacé sur cette terre." (D.l.R.,
pp. 33/34.).
Probablemant, sans le sentiment religieux l'homme ne pourrait fonctionner qu' au niveau
quasi animal où même sa rationalité ne serait pas la garantie suffisante de l'humanité. Il faut
réfléchir alors:
160
"...si en repoussant le sentiment religieux, (...), l'espèce humaine ne se dépouille pas de tout
ce qui constitue sa suprématie, abdiquant ainsi ses titres les plus beaux, s'écartant de sa
destination véritable, se refermant dans une sphère qui n'est pas la sienne, et se condamnant
à un abaissement qui est contre sa nature." (D.l.R., pp. XXII/XXIII).
La réponse de Constant est déterminée: sans le sentiment religieux l'homme serait un animal
rationnel mais il ne serait pas l'homme parce que "être l'homme" signifie "être un animal
rationnel et moral en même temps". Il écrit:
"Tous les systèmes se réduisent à deux. L'un nous assigne l'intérêt pour guide, et bien-être
pour but. L'autre nous propose pour guide le sentiment intime, l'abnégation de nous-mêmes et
la faculté du sacrifice. En adoptant le premier, vous ferez de l'homme le plus habile, le plus
adroit, le plus sagace des animaux; mais vous le placerez en vain au sommet de cette
hiérarchie matérielle: il n'en restera pas moins au-dessous du dernier échelon de toute
hiérarchie morale." (D.l.R., pp XXXVIII/XXXIX).
On ne peut pas réduire l'humanité à un égoïsme rationnel et séparer la rationalité et
l'égoïsme de l'émotivité si on veut donner à l'homme la possibilité d'être non seulement
intelligent mais aussi bon. Être bon (faire le bien) ça exige au mois deux fondements: la
capacité de distinguer le bien du mal et la volonté du bien. (Je parle de la volonté du bien,
pour éviter la notion de la bonne volonté). Ça exige alors la raison (la raison pratique selon
Kant) non mois qu' une force qui pourrait pencher la volonté vers le bien. Constant voit cette
force dans le sentiment religieux. Il apercevait dans ses manifestations réels le fonctionnement
permanent de l' idée du sacrifice désintéressé et il juge que les réalisations de cette idée, plus
ou moins exactes, ne soient pas possibles que par l'action de l'amour, le seul sentiment qui
nous fait oublier nous-mêmes. Selon Constant le sentiment religieux:
"est toujours d'accord avec la sympathie, la pitié,la justice, en un mot, avec toutes les
vertus."(D.l.R., s. 65);
et:
"L'idée du sacrifice est inséparable de toute religion. L'on pourrait dire qu'elle est
inséparable de toute affection vive et profonde. L'amour se complaît à immoler à l'être qu'il
préfère tout ce que d'ailleurs il a de plus cher; il se complaît même, dans son exaltation
raffinée, à se consacrer à l'objet aimé, par les souffrances les plus cruelles et les privations
les plus pénibles." (D.l.R., p. 250).
Nous voyons donc que pour Constant le sentiment religieux est une condition nécessaire
d'un dépassement réel de l'ordre de la nature. Il faux dire clairement que ce n'est pas la
condition unique. L'esprit humain en est aussi une. Mais savoir ce qui est bon, et faire le bien,
ce sont deux choses différentes. Le sentiment représente ici la force causale.
b. L'axiologie.
Une anthropologie antinaturaliste implique une axiologie antinaturaliste. Affirmant que
l'homme a une concience des valeurs objectives on suppose que ces valeurs possèdent leur
manière d'exister indépendente. Une axiologie naturaliste admet uniquement les valeurs
utilitaires, qui par leur nature sont subjectives. Elles "existent" seulement grâce aux besoins et
désires humains.
Il est cértain quesi nous voulions déchiffrer l'axiologie constantienne, elle apparaîtrait
antinaturaliste. Nous ne trouverons aucune theorie axiologique explicite ni dans De la
161
religion..., ni dans Du polytheisme... . Nous devons néanmoins apercevoir que ces oeuvres
sont une protestatation contre l'utilitarisme et sa théorie naturaliste de la moralité. L'histoire
du sentiment religieux y présentée est aussi l'histoire d'une bataille entre le sentiment religieux
- un symbole d'un nouveau regard romantique de l'homme, et la raison et l'égoisme - les
symboles d'un regard propre au siècle des lumières. Sans doute, la passion avec laquelle
Constant défend le sentiment, était causée par le zèle pour l'idée naîssante. Mais elle est aussi
effectuée-par la conviction plus rationnelle, étant un résultat de son principe méthaphysique
antinaturaliste. En défendant le sentiment religieux, il défend l'existence des valeures
objectives.
Dans la bataille mentionnée ci-dessus, la raison assez fréquemment prend le parti de
l'égoïsme, mais une analyse entière du texte indique le fonctionnement plus cohérent du
sentiment et de la raison, pendant que l'égoïsme reste toujours son ennemi mortel. Constant
décrit les luttes de ces trois éléments dans le processus du développement des formes
religieuses. Le processus, pas linéaire et pas simple, est un effort terrible de perfectionnement.
(Je le nomme "terrible" parce que il est, pour Constant, une série des luttes impitoyables entre
les idées, les intérêts et les émotions; des luttes réelles, c'est-à-dire, des luttes entre les
hommes concrets, des luttes qui ont besoin des vaincus et des vainqueurs, qui ontbesoin de
temps en temps des victimes sanglantes).
On ne peut pas douter que selon Constant, le processus du perfectionnement est effectué par
l'effort commun du sentiment et d'esprit. Je vais évoquer un assez long fragment du texte:
"Une lutte s'élève, non-seulement entre la religion établie et l'intelligence qu'elle blesse, mais
entre cette religion et le sentiment qu'elle ne satisfait plus. Cette lutte amène la troisième
époque, l'anéantissement de la forme rebelle, et de là, les crises d'incrédibilité complète,
crises désordonnées et quelquefois terribles, mais inévitables, quand l'homme doit être
délivré de ce qui ne lui serait désormais qu'une entrave. Ces crises sont toujours suivies d'une
forme d'idées religieuses, mieux adaptée aux facultés de l'esprit humain, et la religion sort
plus jeune, plus pure et plus belle de ses cendres." (D.l.R., p. 145).
Il est certain que le processus du perfectionnement s'exécute au niveau de la conscience.
L'homme se perfectionne en perfectionnant: son savoir (ses idées sur les objets), sa morale
(ses idées sur les relations entre les sujets humains), et sa religion (ses idées sur les relations
de l'homme avec l'être qui le dépasse). Le perfectionnement des toutes ces idées ne serait pas
possible si l'homme n' était pas un être rationnel, s'il n'aurait pas la concience des valeurs
objectives: des valeurs cognitives, des valeurs ethiques et des valeurs religieuses. Mais il ne
serait pas possible non plus sans une force qui pousse l'homme vers ces valeurs et, chez
Constant, il faut voir cette force dans le sentiment religieux.
Si nous suivons les réflexions de Constant sur l'histoire du perfectionnement de l'homme
nous sommes frappés d'une triste pensée que les momentes des triomphes communs du
sentiment religieux et de la raison sont rares et brefs, et les époques du règne de l'égoïsme qui
dirige tous les effors humains vers les valeurs utilitaires, sont longues et fréquentes. Cette
pensée est adéquate à une thèse, qui semble vraie et importante. Elle dit qu'une influence des
valeurs utilitaires sur les actions des hommes est plus forte que l'influence des valeurs
objectives. Les valeurs utilitaires agitent avec la force impétueuse éloignant de notre champ
de vue les valeurs objectives. Les valeurs objectives cependant, bien qu'elles existent
indépendemment d'une autre existence quelconque, aparaissent au monde sensible (naturel)
seulement par leur influence sur les actions humaines (v. B. Wolniewicz; op.cit.; pp. 97/98).
S'il n'y a pas cette influence, elles disparaissent et on peut penser qu'elles n'existent pas et on
peut croire aussi que l'homme n'est pas capable de dépasser la nature ni vers la vérité que l'on
pense toujours relative, ni vers le bien que l'on pense toujours subjectif, ni vers la sainteté qui
n'est qu'une hallucination des personnalités mal accommodés.
162
Dans De la religion... et dans Du polythéisme... on trouve les descriptions suggestives des
époques où le sentiment religieux est aussi faible et l'esprit aussi dépravé que presque tous les
hommes vivent contre leur nature sublime. Seulement peu d'entre eux agissent sous la
pression impliquée par la conscience des valeurs objectives. L'optimisme constantien quant à
la nature humaine doit être alors modéré. Jean Baelen a écrit avec justesse en parlant de la
philosophie générale de Constant qu'elle est: "philosophie optimiste d'un tempérament
pessimiste", et que: "Constant est convaincu de cette perfectibilité humaine qui fut chère aux
Encyclopédistes et qui formait le fonds de pensée de l'ouvrage de Mme de Staël: De la
littérature; mais il sait que le pacifisme, pas plus que le libéralisme ne sont dans les
prédispositions naturelles de l'homme. Ils sont le fruit de la civilisation, du progrès. Le
despotisme et l'esprit de conquête représentent des manifestations arriérées et virtuellement
condamnées, quoique leurs possibilités demeurent grandes. Si le pire n'est pas toujours sûr, il
est au moins probable." (J. Baelen; Benjamin Constant et Napoléon; Paris,1965; pp.138/139).
Je voudrais souligner ce "tempérament pessimiste" de la philosophie constantienne. Je pense
qu'il a une grande importance pour la pensée sociale et politique de Constant. De cette
méfiance de Constant à l'egard de la nature humaine résulte p. ex. sa préférance des
transformations évolutives aux transformations révolutionnaires. Il choisi alors le modèle
anglais des transformations sociales, (le modèle proposé par Locke et Jefferson), dans lequel
les changements, limités et purement politiques, sont un couronnement d'un long processus
historique. Constant n'est pas non plus d'accord avec Rousseau et son idée de l'égalité qui
s'associe avec l'idée du socialisme et de la volonté du peuple. Il préfère l'idée de la liberté; la
liberté qui: "se nourrit de sacrifices"; qui "veut toujours des citoyens, quelquefois des héros"
(D.l.R., p.XLIV).
Pour Constant la liberté n'est pas toutefois une valeur objective. Elle n'est pas non plus une
valeur utilitaire. Constant conçoit la liberté comme une condition importante (peut-être
nécessaire) mais réelle (c'est-à-dire que l'on peut en parler seulement au niveau empirique) de
la réalisation des valeurs objectives. La liberté n'est une valeur qu'à l'egard des valeurs
objectives. Je propose alors d'admettre qu'elle est chez Constant une valeur fondamentale (La
vie p. ex. serait aussi une valeur fondamentale). De cette manière, la liberté doit être gardée en
conformité avec une lumière commune d'une société, mais elle ne doit pas se transformer dans
un être idéal. On ne peut pas postuler la liberté absolue comme principe général du procèssus
de changement d'une réalité humaine, comme p. ex. on peut postuler la vérité absolue comme
principe général du développement de la connaissance humaine.
Dans le "tempérament pessimiste" de Constant je trouve une sorte de la modération
rationnelle qui serait nécessaire dans les considerations actuelles sur l'homme et sur les
conditions de son existence individuelle et sociale.
Annexe
Benjamin Constant est né à Lausanne en 1767 et mort à Paris en 1830; l'homme politique, le
publiciste, l'écrivain, l'un des pères du libéralisme moderne.
Sa jeunesse était voyageuse, errante parfois, influencée par les rencontres et les lectures faites
en Allemagne, en Angleterre, en France et en Suisse. Trois grandes aventures ont rempli sa
vie pour l'essentiel. L'une, sentimentale et intellectuelle, se joua pendant une vingtaine
d'années: c'est la relation avec Madame de Staël; la deuxième, publique et active, devait
l'entraîner sur la route accidentée de l'engagement politique, depuis le Directoire jusqu'à la
Monarchie de Juillet; dans la troisième enfin, plus intime, celle de l'écriture, il trouvait refuge
en tous temps et toutes circonstances.
L'oeuvre de Benjamin Constant est vaste, très diverse et primordiale sous tous ses aspects. Ses
textes littéraires {tels Adolphe, Ma vie, Cécile ou les Journaux intimes) sont autant d'étapes
majeures dans l'histoire du roman et de l'autobiographie. Ses nombreux essais et ouvrages
politiques (dont les Principes de politique de 1806 donnent une synthèse) révèlent une pensée
163
forte et vigoureuse, centrée sur le principe de la liberté de l'homme dans les sociétés
organisées et sur les fondements de la démocratie parlementaire moderne.
Mais Constant est aussi l'auteur d'un oeuvre mal connu, d'un oeuvre sur la religion, qui
présente une réflection historique, philosophique et critique sur la question des formes que les
sociétés ont offertes ou imposées à cette composante anthropologique, essentielle pour
Constant: le sentiment religieux.
Constant conçoit l'idée d'une histoire du polythéisme dès 1785, mais il a travaillè pendant plus
de quarante ans à son ouvrage, dont le titre général était De la religion, considérée dans sa
source, ses formes et ses développements. Le premier volume parut à Paris (chez Bossange)
en 1824 (la deuxième édition en 1826). Les tomes 2 et 3 paraissent (chez Béchet) en 1825 et
en 1827. Les deux derniers volumes, auxquels Constant a mis la dernière main, sortent des
presses après sa mort, (chez Pichon-Didier) en 1831. Un fragment posthume, entièrement
redigè sauf le dernier chapitre, Du polythéisme romain, considéré dans ses rapports avec la
philosophie grecque et la religion chrétienne, est publié en 1833 (éd. J. Matter, 2 vol.,
Béchet).
Depuis vingt dernières années on peut parler de la renaissance de la pensée constantienne. En
1979 à Lausanne ont été fondés l'Association Benjamin Constant (la continuation d'une
première société des amis de l'auteur) et l'Institut Benjamin Constant de l'Université de
Lausanne. Le nombre d'éditions de textes de Constant et sur Constant augmente et une
diversification des titres s'est amorcée. Les Oeuvres complètes de Benjamin Constant (une
cinquantaine de volumes prévus) sont en cours de publication chez Max Niemeyer Verlag à
Tübingen.
* Le texte ici présenté est le développement de la communication prononcée à l'occasion du VI-e
Colloque de Coppet organisé par la Société des Etudes Staëlienne (Paris) et L'Association Benjamin
Constant (Lausanne) (Liège, 1-11-12 juillet 1997). Une première version a était publiée dans Le
groupe de Coppet et le monde moderne. Conception-Images-Débats. Actes du VI-e Colloque de
-Coppet..., Bibliothèque de la Faculté de Philosophie et Lettre de l'Université de Liège, Liège 1998.
** Uniwersytet Gdañski
Instytut Filozofii i Socjologii
ul. Bielañska 5
80-851 Gdañsk
Pologne
----Sabina Kruszyñska (1955), est professeur adjoint à l'Institut de Philosophie et
de Sociologie a l'Université de Gdánsk (licence en mathématiques, doctorat en
philosophie). Auteur des textes sur le structuralisme, sur le postmodern:sme et
sur la philosophie de Benjamin Constant (livre: Benjamin Constant philosophe
de la religion. La religion - la morale - la liberté, Gdánsk 2000). Membre de
l'Association Benjamin Constant à Lausanne et de la Société Philosophique
Polonaise.
-----
164
[Episteme ritiene al solito di fare cosa utile ai lettori presentando un intero
numero della rivista on-line Liberalia, dedicato all'autore oggetto d'attenzione
nel precedente saggio.]
Liberalia
libera lingua loquemur
ludis liberalibus
Periodico liberale di cultura, politica ed editoria - Dicembre 2001, n.18
["liberalia" <[email protected]>, "liberalia" <[email protected]>]
La libertà come orizzonte morale
Benjamin Constant, La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni, a cura di Luca
Arnaudo, pp.60+XXXVI, Liberilibri, Macerata, 2001, lire 20.000 (il volume può essere
ordinato direttamente all'editore: [email protected]).
Personaggio storico dalla vita leggendaria, Benjamin Constant è stato, parola di Giovanni
Sartori, "il più importante pensatore politico della sua epoca" - ed è una benedizione che
Liberilibri, elegantissimo editore di Macerata, ristampi in un'edizione preziosa il suo La
libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni, testo di un discorso pronunciato
all'ateneo di Parigi nel 1819, che è un piccolo grande classico del pensiero liberale.
Nato a Losanna il 25 ottobre del 1767, discendente degli ugonotti che avevano abbandonato la
Francia dopo la revoca dell'editto di Nantes, Constant ha una formazione scostante ed
errabonda - caratterizzata dai lunghi soggiorni presso l'università di Erlangen prima e quella di
Edimburgo poi.
Quest'ultima, allora, era uno dei centri più floridi del pensiero Whig, alma mater di Adam
Smith e di Adam Ferguson. Sul giovane Benjamin, la vita parigina e il gioco d'azzardo
esercitano un fascino magnetico: bazzica i consessi intellettual-salottieri da prima dello
scoppio della rivoluzione, a vent'anni appena. Ma, curiosamente, è solo il 18 ottobre 1794, in
Inghilterra, che, auspice la cugina di lei Costance Cazenove d'Arlens, s'imbatte nella regina
dei salotti, Madame de Staël.
"Napoleone è in guerra contro quattro potenze: l'Inghilterra, la Russia, l'Austria e Madame de
Staël": questo si dirà, di lì a poco, di questa donna straordinaria. Figlia di Jacques Necker,
banchiere ginevrino e ministro di Luigi XVI, nata a Parigi un anno prima di Constant e morta
nel 1817 (le sopravvivrà per tredici anni), Anne-Louise-Germaine Necker, dopo aver rifiutato
una proposta di matrimonio di William Pitt, convolerà a nozze, senza amarlo mai, con il
barone de Staël-Holstein, ambasciatore di Svezia a Parigi (se ne separerà definitivamente solo
nel 1802).
A Constant che la corteggia, dapprima oppone resistenza - salvo andarci a vivere assieme,
all'inizio del 1795. I due torneranno a Parigi nel mese di maggio, quando Madame de Staël
riaprirà il suo salotto in rue du Bac, senz'altro il più eclettico e rinomato di quei tempi. Da
questa relazione turbolenta, fatta di alti e bassi e liti furibonde, movimentata da frequenti
interludi amorosi con altri amanti tanto da parte di lui che da parte di lei, nascerà Albertine,
terza "figlia" del barone svedese, cornuto e contento.
La liaison fra la de Staël e Constant dura fino al 1811, attraversa gli anni dell'ostracismo
contro di lei (messa alla porta da Napoleone nel 1804) e dell'esilio volontario di lui (espulso
dal Tribunato, di cui faceva parte, nel 1802), sino al matrimonio di Constant con Charlotte de
Hardenberg nel 1806, e la nascita di Coppet, il ritiro intellettuale svizzero in cui brillano gli
165
ultimi Lumi, e germogliano i primi fiori del romanticismo. A dispetto di questo prendersi e
lasciarsi, il sodalizio fra Benjamin Constant e Madame de Staël è fra i più floridi sul piano
intellettuale: la frequentazione con quest'autentico motore della vita intellettuale dell'Europa
di quegli anni, con questa cosmopolita levatrice d'intelligenze, con questa intrigante libertaria
si riverbera senz'ombra di dubbio negli scritti di Constant. A cominciare da quel De l'esprit de
conquête et de l'usurpation che lo consacra nel 1813. Nel 1830, gravamente ammalato,
Constant partecipa ai moti rivoluzionari - e si spegne dopo aver assistito all'affermarsi della
monarchia di luglio.
In questo libretto a cura di Luca Arnaudo, oltre al discorso che gli dà titolo, vengono
riproposte la Nota sulla sovranità del popolo e i suoi limiti (1818) e il saggio La letteratura
nei suoi rapporti con la libertà. In tutto, fa una lettura veloce, sessanta pagine appena, ma
corroborante, viva. C'è la grandezza di un classico, e la lievità serena della pamphlettistica
migliore.
Diceva Constant di sè: "ho sempre difeso il medesimo principio: libertà in tutto; e per libertà
intendo il trionfo dell'individualità, tanto sull'autorità che dovrebbe governare con il
dispotismo, quanto sulle masse che reclamano il diritto di asservire la minoranza alla
maggioranza. Il dispotismo non ha alcun diritto sull'opinione personale e ciò che è individuale
non dovrebbe essere sottomesso al potere sociale".
Ci sono, in queste parole, un'immensa forza visionaria, un'incredibile capacità anticipatrice di
quelle che saranno problematiche e sfide del liberalismo di domani: il matrimonio a termine
con la democrazia, e il dover fronteggiare l'assalto impietoso del principio di maggioranza
anzitutto.
Come ha scritto Ralph Raico, Constant è uno di quei personaggi che testimoniano come il
liberalismo, pur non avendo avuto la Francia come terra d'elezione, è incredibilmente debitore
alla tradizione francese. Ma, a differenza di intellettuali come Mercier de la Rivière e Du Pont
de Nemours, o del suo contemporaneo britannico Jeremy Bentham, Constant non è un liberale
d'ispirazione utilitarista. "E' dunque così vero che la felicità, di qualunque genere possa essere,
è il solo scopo della specie umana?", si chiede in un dialogo ideale con i portabandiera
dell'utilitarismo. La risposta è no: "Signori, io chiamo a testimone questa parte migliore della
nostra natura, la nobile inquietudine che ci perseguita e tormenta, l'ardore di estendere le
nostre conoscenze e sviluppare le nostre facoltà: non alla felicità soltanto, ma anche alla
ricerca della perfezione il nostro destino ci chiama; e la libertà politica è il più potente ed
energico strumento di perfezionamento che il cielo ci abbia concesso".
Come sottolinea ancora Raico, Constant smentisce inoltre il luogo comune del liberale
economista, pur essendo un ardente alfiere della libertà di mercato. Le sue preoccupazioni
oltrepassano le leggi dell'economia, per puntare al cuore del problema della libertà. Che è una
questione morale. Per lo stesso motivo, Constant rigetterà la presunzione fatale dei liberali
immaginari, apologeti a tutti i costi della Rivoluzione Francese (di cui, pure, ricorda il
carattere emancipatore) - e condanna la pretesa di un laicismo a tutti i costi, di un
anticlericalismo per tutte le stagioni, così tipico di certo illuminismo. Nelle sue Réflexions sur
les Constitutions et les Garanties (1815), Constant elogia il carattere positivo del localismo,
identificando nel senso di realtà verso la comunità e la famiglia un importante arma contro
l'avanzare del dirigismo. La devozione alla propria terra più che alla bandiera "contiene i
germi di una resistenza che l'autorità politica soffre, e che essa cerca in tutti i modi di
sradicare".
Allo stesso modo, Constant prefigura i pericoli dello "Stato laico", che è solo un'altra variante
dello Stato etico, che fa "della religione uno strumento contro la libertà" - e il pensiero corre
all'immaginifica Chiesa della Ragione inaugurata da Robespierre.
Ma quale è la differenza fra libertà degli antichi e libertà dei moderni per come ce l'illustra
Constant in questo straordinario discorso? La libertà degli antichi, che trovava forma nella
democrazia diretta ateniese, non era il paradiso che ci disegnano: la guerra era l'attività
primaria delle società, lo schiavismo il suo necessario corollario. La libertà dei moderni trae la
166
sua forza in un'altra attività: il commercio. "Il commercio ispira agli uomini un vivo amore
per l'indipendenza individuale: provvede ai loro bisogni, soddisfa i loro desideri, e questo
senza l'intervento dell'autorità". E' l'esperienza del mercato a creare una sorta di anticorpo
naturale al virus del dispotismo, perché "ogniqualvolta i governi pretendono di farsi i nostri
affari, li fanno peggio e più dispendiosamente di noi" (e potrebbe essere quasi una legge della
storia).
Per questo, e per gli interminabili vari impegni che la vita moderna porta con sé, nonché per
l'estensione enormemente superiore degli Stati, Constant sostiene che la libertà nostra, a
differenza di quella degli antichi, non è "partecipazione" nel dominio dell'uomo sull'uomo,
non risiede nella presenza costante negli ingranaggi del potere collettivo. No: "la nostra libertà
sta nel tranquillo godimento dell'indipendenza individuale". E il mercato contribuisce a
rendere l'uomo sempre meno schiavo della politica: "l'esistenza individuale è meno inglobata
nell'esistenza politica. Gli uomini trasferiscono lontano i propri tesori, portano con sé tutti i
piaceri della vita privata; il commercio ha riavvicinato le nazioni e ha dato loro costumi e
abitudini praticamente paralleli; i capi di Stato possono essere nemici, ma i popoli sono
compatrioti". Difficile trovare formulazione più cristallina e convincente dell'ideale di pace e
libertà, che unisce Constant a un altro grande teorico francese, Frédéric Bastiat. Ma è anche
impossibile imbattersi in una citazione più profetica, sul mondo nuovo della globalizzazione:
paradisi fiscali inclusi.
Constant previde non solo le gioie ma anche i dolori con cui oggi dobbiamo fare i conti: nella
Nota sulla sovranità , mette in guardia dalla superstizione politica rousseauiana, denunciando
il mito del potere al popolo e, in ultima istanza, la frode buonista della democrazia. Che "si
rende colpevole allo stesso modo di un despota, che fonda il suo diritto sulla spada
sterminatrice: la società non può eccedere nelle sue competenze senza essere usurpatrice, la
maggioranza non può farlo senza essere faziosa". Il Contratto sociale di Rousseau è, per
Constant, "il più terribile strumento d'aiuto di tutti i generi di dispotismo". Perché "il consenso
della maggioranza non è per nulla sufficiente a legittimare i suoi atti: e quando una qualsiasi
autorità commette atti criminali, poco importa da quale fonte essa dichiari di derivare; poco
importa che si chiami individuo o nazione, perché sarà l'intera nazione, meno il cittadino che
essa opprime, a non essere più legittima".
Giustizia, legittimità, libertà, individuo: sono queste le stelle polari del liberalismo di
Constant. Una lezione che certi liberali alle vongole di oggi farebbero bene a ripassare.
(Alberto Mingardi)
(recensione uscita su Il Nuovo, in data 17 settembre 2001)
Benjamin CONSTANT - Detail, in Nos Anciens et leurs Oeuvres, 1916
Centre d'Iconographie genevoise, coll. BPU
[Da: http://un2sg4.unige.ch/athena/html/swissaut.html]
167
Il linguaggio della matematica
(Umberto Bartocci - Rocco Vittorio Macrì)
"E hai tu mai pensato che l'essenza della musica non è nei suoni?" domandò il
dottor mistico. "Essa è nel silenzio che precede i suoni e nel silenzio che li segue. Il
ritmo appare e vive in questi intervalli di silenzio. Ogni suono e ogni accordo
svegliano nel silenzio che li precede e che li segue una voce che non può essere
udita se non dal nostro spirito. Il ritmo è il cuore della musica, ma i suoi battiti non
sono uditi se non durante la pausa dei suoni."
(Gabriele d'Annunzio, Il Fuoco)
1 - Dalla matematica retorica alla matematica simbolica
Quando si pensa oggi ad un libro di matematica si immagina un testo che si differenzia da
tutti gli altri per almeno due caratteristiche. Il contenuto, naturalmente, visto che non ci si
aspetta ad esempio che esso tratti dei problemi dell'integrazione degli immigrati, o della
guerra del Peloponneso; ma anche la forma, dal momento che le sue pagine vengono
concepite piene più di formule, di espressioni simboliche, che non di parole appartenenti al
linguaggio ordinario. Il significato nascosto in quei fogli resterà sempre quindi
incomprensibile, anche in prima istanza, a meno che non si sia dei "matematici", ovvero delle
persone abituate a decrittare quel codice cifrato, ad estrarne un senso. Un libro per iniziati,
dunque, o se si preferisce usare un termine meno esotico, per esperti, che sono diventati tali
dopo un lungo speciale addestramento.
Se le considerazioni precedenti hanno un certo fondamento, che vale del resto in qualche
misura per tutti i testi specialistici, in realtà la situazione non è stata sempre questa. Ferma
restando la discriminante sui contenuti, è senz'altro più difficile comprendere una pagina di un
moderno libro di matematica che non diciamo una degli Elementi di Euclide1. Come dire che
la simbolizzazione, senza la quale appare oggi impossibile esprimere qualunque fenomeno
matematico, non è sempre stata caratteristica precipua di questa disciplina. Il passaggio da una
matematica retorica ad una simbolica è il punto di arrivo di un lungo processo di
trasformazione, che ha consentito a questa particolare branca della conoscenza di fare gli
straordinari progressi che sono a tutti ben noti. La ragione di fondo di questo successo
consiste probabilmente nel fatto che il nostro cervello appare più capace di manipolare
automaticamente delle espressioni, che non di concepire lunghe catene dimostrative, quali
quelle che ci venivano fatte imparare - quasi a memoria - nei primi anni del liceo, quando si
trattava dei criteri di uguaglianza dei triangoli, o di qualche altro teorema riguardante la
cosiddetta geometria euclidea (che assai meglio sarebbe dire intuitiva, per evitare una serie di
equivoci che non è qui il caso di discutere2). Si può ritenere addirittura che una delle cause del
declino della matematica antica, oltre a quelle di solito prese in considerazione (quali le
invasioni barbariche e la conseguente crisi socio-economica della civiltà greco-romana, o la
contrapposizione ideologica tra la cultura "pagana" ed il cristianesimo, dopo l'editto di
Costantino), sia costituita proprio da questo mancato passaggio: come dire che quella
matematica aveva ormai raggiunto il massimo possibile consentito dai mezzi che impiegava, e
che più di così non era possibile fare, d'onde l'inarrestabile decadenza.
Si può aggiungere che ancora oggi esistono delle "verità" matematiche riguardanti ad
esempio la geometria che è agevole raggiungere per via algebrica (analitica), ma che
resistono ad ogni tentativo di dimostrazione per via geometrica (o, come si dice anche,
sintetica). Naturalmente, una dimostrazione conseguita per via analitica ci garantisce
168
senz'altro della validità di una affermazione, ma spesso non ci dà informazioni adeguate sul
suo profondo "perché", ed è questa circostanza che spinge spesso i geometri a cercare anche
dimostrazioni sintetiche quando pure già siano in possesso di dimostrazioni analitiche, ma,
come dicevamo, non sempre con successo.
Scontati quindi tutti gli apprezzamenti trionfalistici relativi a tale situazione di fatto,
preferiamo piuttosto occuparci in queste poche pagine di alcuni degli aspetti più in ombra, e
quindi anche più pericolosi, dell'attuale assetto della matematica, e del ruolo privilegiato che
essa riveste nell'attuale complesso panorama delle scienze.
2 - La matematica e l'intuizione
Il primo aspetto paradossale dell'uso sistematico di un linguaggio iniziatico nella matematica
consiste nella circostanza che questa ha al contrario la (giusta) pretesa di essere una
descrizione universale di alcuni fondamentali meccanismi di funzionamento dell'intelletto
umano, che rischiano così di essere offuscati anziché chiariti. Su questa strada si muove
Galileo3, quando cerca di spiegare la teoria delle proporzioni di Euclide (fondamentale per
l'edificazione del comune concetto di misura), dopo aver ammesso sinceramente e
modestamente di essere restato "involto con la mente nella [stessa] caligine" (la stessa dei suoi
interlocutori) allorché si era messo a studiare il V Libro degli Elementi: "Per dare una
difinizione delle suddette grandezze proporzionali [...] dovremmo prendere una delle loro
passioni, ma però la più facile di tutte e quella per appunto che si stimi la più intelligibile
anco dal volgo non introdotto nelle matematiche" (il corsivo è nostro).
Si tratta qui non soltanto di quei meccanismi che riguardano la percezione dello spazio
(Geometria-Continuo) e del tempo (Aritmetica-Discreto), che Kant eresse a forme
trascendentali della ragione pura, ma anche della semplice capacità del ragionare, o meglio
dell'esprimere con il linguaggio, allo scopo di comunicazione interpersonale, i frutti del
proprio ragionamento, mettendo insieme catene sensate di proposizioni, e costruendone di
nuove con sillogismi4.
"E quantunque io qui sia per dire molte cose intorno alle figure e ai numeri, perché esempi
tanto evidenti e tanto certi non si possono prendere da nessun'altra disciplina, chiunque
tuttavia avrà attentamente considerato il mio intendimento, facilmente vedrà che qui niente ho
pensato di meno che alla matematica comune, ma che espongo una cert'altra disciplina, di cui
quelle cose sono involucro piuttosto che parti. Tale disciplina infatti deve contenere i primi
rudimenti della ragione umana, e deve estendersi alle verità che si possono trar fuori da
qualsiasi soggetto; e, a dirla apertamente, io son persuaso che essa sia più importante di ogni
altra cognizione a noi data umanamente, essendo quella che è fonte di tutte le altre". Così
Cartesio descriveva nelle sue Regulae ad directionem ingenii (Regola quarta) quella "logica
primordiale", da lui definita "matematica universale", nascosta tra le pieghe (a mo' di
"conoscenza tacita", per usare un'espressione ormai famosa di Michael Polanyi) di qualunque
formula o discorso scientifico-filosofico5. Una matematica cioè che trascende come "metamatematica" quella usuale, della quale quest'ultima, impregnata della prima, assume o assorbe
i contorni semantici. Ogni sapienza, per quanto antica, continua un po' più avanti il filosofo
francese, non può farne a meno, essa è come l'anima per il corpo: "Ma pensando in seguito
donde pertanto venisse che un tempo i primi autori della filosofia non volessero ammettere
allo studio della sapienza alcuno che non avesse conoscenze di matematica, quasi che questa
disciplina sembrasse più facile di ogni altra e massimamente necessaria per ammaestrare e
preparare la mente alla conquista di altre scienze più importanti, ben mi accorsi che essi
conoscevano una specie di matematica molto diversa da quella comune ai nostri tempi".
Ma c'è un altro pericolo insito nella prassi matematica moderna, oltre a quello di rischiare di
oscurare con un linguaggio cifrato quanto, essendo ai primordi stessi del pensiero, dovrebbe
viceversa essere reso chiarissimo: ed è di abbandonare addirittura, con le sue attuali
169
presentazioni assiomatiche, e con l'enfasi posta sulla forma (le regole deduttive), anziché su
una sostanza (il problema della cosiddetta natura degli enti matematici) quella rete semantica
primordiale, o "mathesis divina", che è tutt'uno con l'intuizione, intesa nel doppio ruolo di
sorgente dei concetti e di controllo del progresso della conoscenza 6. Allontanarsene troppo, in
forza della convinzione che una fondazione intuitiva sa troppo di antropocentrismo 7, scava un
baratro sempre più profondo tra semplici fruitori ed addetti ai lavori, i quali sono incappati del
resto sempre più frequentemente a livello dei fondamenti, cercando nuove vie non più
illuminate dall'intuizione primordiale, in quei "nonsense" della teoria degli insiemi che
permettono di constatare candidamente a Paul Davies, a proposito del rapporto tra concetto di
infinito e intuizione, che: "le proprietà degli insiemi (o collezioni) infiniti contraddicono
sovente la nostra intuizione", e che "d'altra parte il senso comune può generare dei nonsense".
Tuttavia, dal momento che l'uso e il funzionamento "operativo" di tali proprietà sono sembrati
coerenti ed efficaci, la paura di questo mostro è stata esorcizzata, e i matematici possono "far
uso dell'infinito senza paura, sempre che si attengano fedelmente alle regole, per strane che
possano apparire"8. Lo stesso Hilbert, uno dei padri fondatori della matematica del XX secolo,
ci rende edotti esplicitamente del perché sia necessario restare attaccati al livello formale del
ragionamento matematico, nel timore di poter smarrire la via tra quei nonsense: "L'infinito
[...] non si trova mai realizzato. Esso non è presente nella natura, né è ammissibile come
fondamento del nostro pensiero razionale [...] L'infinito essendo proprio la negazione di uno
stato che vige dovunque, è un'astrazione spaventosa eseguibile soltanto con l'uso consapevole
o inconsapevole del metodo assiomatico"9.
Una specie di ricettario dunque, una manipolazione di simboli formali come nel famoso
esempio della "stanza cinese" di John Searle 10, senza criptotipi11, o semantica nascosta.
L'edificio - o meglio, il castello - dell'infinito eretto da Cantor, quel "paradiso da cui nessuno
potrà scacciarci" - come si espresse ancora David Hilbert12 - ha sollevato così il suo ponte
levatoio, rimanendo inattaccabile da eventuali intrusi13.
La logica aristotelica sembra totalmente abbattuta, così come tutti i tentativi fatti da miriadi
di empiristi e razionalisti, per i quali l'infinito non è una realtà ma un ordine della ragione (ad
es. David Hume, Treatise, I, IV), di cui Kant farà un'idea trascendentale, con le note
antinomie (Prolegomeni). La matematica resta sommersa da un formalismo che dovrebbe
salvarla dalle contraddizioni implicite - a parere di alcuni! - nel senso comune; da un
funzionalismo che funge da arida linfa alle radici del moderno pensiero scientifico, nel suo
rifiuto di ogni sorta di ontologia. Si pensi, per esempio, alla convenzionalità operativista delle
strutture matematiche in riferimento allo spazio quadridimensionale relativistico, il famoso
"spazio-tempo" di Einstein e Minkowski, in cui la variabile tempo, "t", figura col coefficiente
immaginario "i", che non ha alcuna possibilità di un'interpretazione 'reale'.
Di fronte a certe situazioni, è necessario tenere in mente che il successo non è sempre indice
di verità oggettiva14, e che "un matematico può arrivare a manipolare degli oggetti che hanno
un significato. Ma se non è pienamente cosciente del modo in cui, storicamente, questi oggetti
sono stati introdotti, rischia facilmente di commettere degli errori" 15. Si aggiunga, a questo,
che: "Quando una scienza si è saldamente costituita, gli specialisti di quella scienza
dimenticano il passato del loro proprio sapere. Soggiacciono tutti ad una stessa illusione:
pensano che la loro specialità sia esistita da sempre. Questa è un'illusione tipica e
fondamentale per la quale Giambattista Vico ha anche coniato un nome. Si tratta della 'boria
dei dotti ... i quali, ciò ch'essi sanno, vogliono che sia antico quanto il mondo' "16.
3 - La matematica e l'indagine del mondo naturale
Veniamo adesso ad un altro importante aspetto del "linguaggio della matematica" che non si
può passare in secondo piano, strettamente legato com'è al prestigio - nel senso moderno, e
quindi pratico, del termine, e non già speculativo, come nella teoresi antica - che questa
170
disciplina si è costruita negli ultimi secoli, da quando essa è stata individuata come strumento
di elezione dell'indagine quantitativa sul mondo naturale, consentendoci di esercitare su di
esso un dominio senza precedenti nella storia 17. Oggi non c'è corso di laurea che voglia
fregiarsi dell'appellativo di "scientifico" in quale non abbia nei primi anni qualche
insegnamento di matematica (anche solo finalizzato a fornire elementi di probabilità e
statistica, o di informatica), come se un pur epidermico contatto con il freddo rigore di questa
disciplina potesse distinguere quel corso di studi da quelli umanistici, e garantisse alla materia
particolare di cui tratta il carattere oggettivo e prestigioso appunto della "scienza". Come dire,
nell'ottica peculiare del nostro tema, che il ricorso ad un po' di simboli e di formule
matematiche ha l'effetto di assicurare a chi ne fa uso una considerazione speciale, ed agli
argomenti rafforzati dall'introduzione di quel linguaggio un maggiore fondamento di validità
nei confronti di altri incapaci di un tale sfoggio.
E si noti che i rischi di cui si parla non si incontrano soltanto nell'ambito delle indagini della
fisica o delle altre scienze naturali: accade oggi ad esempio che sofisticati modelli matematici
guidino il mondo dell'economia, laddove si può invece ragionevolmente supporre, con il noto
economista Geminello Alvi, che la matematica in economia non sia a volte altro che "un
espediente retorico per giustificare le scelte del potere". In verità, infatti, la matematica può
essere assimilata al cappello di un prestigiatore, da cui non può uscire nulla che non vi sia
stato inserito - ma di nascosto, lontano dagli occhi del pubblico - sin dall'inizio. Trovare un
modello matematico che possa giustificare ordine o disordine, continuità o discontinuità, o
quant'altro si desideri, non è impresa impossibile per un esperto, ma ecco che la semplice
esibizione di quel modello anziché di un altro, in un regime di monopolio degli indirizzi
economici e culturali, rischia di conferire all'idea che si vuole veicolare un'autorevolezza che
deriva in realtà soltanto dalla veste in cui è espressa, e non dal suo contenuto. Strano che la
saggezza popolare sappia bene che "l'abito non fa il monaco", ma che in questi casi non si
accorga dell'attualità del vecchio adagio!
Siffatta concezione ha naturalmente radici antiche, da quando dicevamo la matematica è
stata considerata agli albori della rivoluzione scientifica l'unico elemento di oggettività e di
certezza sui quali potesse contare l'essere umano nel suo difficile cammino sul sentiero di una
conoscenza e di un progresso svincolati da ogni fondamento metafisico. Già Copernico, tra i
primissimi esponenti della rivoluzione in parola, ebbe a sottolineare il carattere privilegiato
della matematica, e dei matematici, con il celebre ammonimento: Mathemata mathematicis
scribuntur, contenuto nelle prime pagine della sua opera fondamentale del 1543 18, con la
quale iniziava il crollo della concezione aristotelico-tolemaica nella quale la cultura europea
aveva fin allora inquadrato tutta la storia dell'uomo e del cosmo. Ma l'astronomo polacco era
stato preceduto su questa strada addirittura da un Principe di Santa Romana Chiesa, quel
Nicola Krebs - nativo di Cues, e noto appunto con l'appellativo di Cusano - che aveva
enunciato il pensiero secondo il quale: Nihil certi habemus in nostra scientia nisi nostram
mathematicam, facendo così piazza pulita, con poche parole, tanto di ogni riferimento ad una
forma di "coscienza", quanto ad un'eventuale "rivelazione"19.
Non c'è dubbio che proprio da qui prende origine la considerazione di cui la matematica
gode ai nostri tempi, dall'essere cioè diventata indispensabile in ogni indagine naturale,
considerata del resto quale l'unica investigazione possibile per l'essere umano. Agli inizi del
'600 Galileo Galilei, considerato a ragione uno dei padri fondatori della fisica moderna,
poteva riferirsi all'uso della matematica nella fisica con le seguenti parole: "La filosofia è
scritta in questo grandissimo libro, che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi (io dico
l'universo), ma non si può intendere se prima non s'impara a intender la lingua e conoscere i
caratteri ne' quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri sono triangoli,
cerchi ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente
parola". Né è un caso che una delle opere che più hanno impregnato di sé lo spirito di questi
ultimi secoli si intitolasse appunto Philosophiae Naturalis Principia Mathematica. Con queste
parole Isaac Newton limita il campo della sua indagine 'filosofica' (ma da allora anche quella
171
di tutti gli altri che avessero condiviso la stessa valutazione) alla filosofia naturale, vale a dire
alla fisica, mentre è curioso osservare che la specificazione finale sulla veste matematica dei
suoi Principi viene evidenziata nel titolo di un'edizione olandese del libro (Amsterdam, 1723)
con un carattere di formato molto più grande di quello usato per le altre tre parole del titolo20.
Sembra difficile negare del resto che, dopo il successo della fisica newtoniana, il puro
"involucro" matematico esercitò un fascino e un potere stordente mai avuti in precedenza: "La
cultura occidentale è caratterizzata da una sorta di mito della matematica, dalla fede, forse
dovuta a Pitagora, in una sua virtù esplicativa e quasi trascendente. A molte persone,
descrivere in termini matematici una struttura sintattica o delle relazioni di parentela sembra
già una 'spiegazione' sufficiente"21.
Il peso autorevole che un linguaggio complesso e quasi iniziatico come quello della
matematica possiede, provoca anche sugli esponenti della stessa comunità scientifica quasi
una sorta di stato ipnotico, di arrendevolezza, o perlomeno di affievolimento della vigile
"ragione cartesiana", con il rischio che in certe teorie fisiche di oggi sia la sola forma
matematica che riveste la teoria ad essere ragione sufficiente di apprezzamento: "The habit
has developed of assuming that a physical theory is necessarily sound if its mathematics is
impeccable: the question of whether there is anything in nature corresponding to that
impeccable mathematics is not regarded as a question, it is taken for granted"22.
Per riprendere la bella immagine di Galileo dianzi citata, se è vero che la matematica sta alla
ricerca fisica come una sorta di linguaggio con il quale esprimere le relazioni tra esperienza ed
esperienza, non bisogna dimenticare però che un linguaggio: "is just as capable of expressing
false ideas as true ones. The fact, therefore, that something can be expressed with rigorous
mathematical exactitude tells you nothing at all about its truth, i.e. about its relation to nature,
or to what we can experience"23.
Ma tale rapporto di natura 'viziosa' tra fisica e matematica si chiude anche nell'altra
direzione, fondando la persuasione in molti uomini di scienza che se una teoria fisica non è
espressa in una sofisticata forma matematica allora non ha alcun valore. E' questa la ragione
del giudizio oggi generalmente negativo sulla fisica di Cartesio, esposta ad esempio nei suoi
Principia Philosophiae, a cui la dianzi menzionata opera di Newton fa riferimento implicito
sin dal titolo, con i due qualificativi 'correttivi' la cui funzione è stata già analizzata. Oggi
pochi rimpiangono la filosofia naturale di Cartesio, che potremmo dire qualitativa (ma non
con allusione ad eventuali "qualità occulte", che anche Cartesio bandiva dalle proprie
considerazioni!), in contrapposizione alla fisica quantitativa newtoniana, che fornisce ad
esempio una descrizione matematica della gravitazione, ma nessuna possibile spiegazione
delle sue cause. Essa ha origine nella materia?, o nello spazio circostante?, e come può
trasmettersi da un corpo ad un altro? Newton si rendeva ben conto che la mancata risposta a
tali interrogativi rendeva molto meno apprezzabile il suo studio, ma l'Hypotheses non fingo,
con il quale esprimeva la propria rassegnazione per l'insuccesso seguito a molti infruttuosi
tentativi, è stato assunto quasi a grido di esultanza ed a simbolo di fede epistemologica per
tutti coloro che lo hanno seguito sulla stessa strada. "Descartes, con i suoi vortici e i suoi
atomi uncinati, spiegava tutto e non calcolava nulla; Newton con la legge di gravitazione in
1/r2 calcolava tutto e non spiegava nulla [...] Non sono affatto convinto che il nostro intelletto
possa accontentarsi di un universo retto da uno schema matematico coerente, privo però di
contenuto intuitivo", con queste parole il matematico René Thom, il creatore della cosiddetta
"teoria delle catastrofi", esprime tra i pochissimi la sua simpatia per il punto di vista
cartesiano24, relegato oggi nel dimenticatoio delle idee sconfitte, ma unica risorsa per una
fisica che voglia tornare ad essere comprensibile.
E' bene chiarire a questo punto che la fisica moderna, dopo l'affermazione del punto di vista
newtoniano, è stata per di più contaminata quasi irreversibilmente dalla "tensione al
fantastico" e dall'"anti-intuitività" che Teoria della Relatività 25 e Meccanica Quantistica hanno
inoculato nel suo corpo dall'inizio di questo secolo. E' diventata famosa ad esempio la risposta
che dava Niels Bohr a quanti gli esponevano nuove idee sulla risoluzione dei tanti enigmi
172
della teoria dei quanti: "La sua teoria, caro signore, è folle, ma non lo è abbastanza per essere
vera"26. E' stata l'affermazione di queste teorie, in larga misura dovuta proprio all'influenza di
matematici27, a dare risalto a parti della matematica che altrimenti sarebbero state perlomeno
circondate da qualche perplessità sul loro effettivo valore. Arrivando a mettere in dubbio lo
stesso concetto di causalità28, la fisica subliminalmente innescava la possibilità che la stessa
logica fosse relativa, e chiamava quindi la matematica ad inventarne tante quante fossero
necessarie funzionalmente!29 E si noti che l'enfasi posta sul "funziona" è quanto meno poco
convincente, dal momento che la pura funzionalità, quando è fortemente collegata con
operazionismo e convenzionalismo, perde la "universalità" che dovrebbe avere. Heisenberg
stesso, uno dei padri fondatori della nuova meccanica del microcosmo, dove non ha senso
parlare di relazioni di causa ed effetto, e la concezione stessa di realtà si disperde fino a
diventare quasi un ectoplasma evanescente, rimane fermo sulla sua teoria "funzionale", pur
sapendo che "qualsiasi teoria che cerchi di rispondere contemporaneamente alle esigenze della
relatività speciale e della teoria dei quanta porterà a delle inconsistenze matematiche" 30. E
ancora, si esorta: "La risposta pratica a questo problema è 'chiudi gli occhi e calcola'. La
meccanica quantistica potrà anche essere difficile da interpretare, ma non si può negare che
funzioni molto bene"31. In realtà, è più plausibile pensare invece che: "Un fisico di chiara
fama come Boltzmann poteva ancora dire ingenuamente che 'la dimostrazione che le nostre
teorie sono giuste è data dal fatto che le macchine da noi costruite secondo queste teorie
funzionano'. Questo resta tuttora valido per le formule e i calcoli matematici con l'aiuto dei
quali le macchine vengono costruite, ma per i concetti e i modelli di particelle elementari,
onde, campi di forza ecc. questo non è più altrettanto certo"32.
4 - Conclusioni
Giunti ormai al termine di questo breve discorso, val forse la pena di sottolineare
esplicitamente che si è cercato di approfittare dell'occasione per segnalare alcune delle
difficoltà (anche d'immagine) in cui si dibatte l'impresa scientifica verso la fine del secondo
millennio, piuttosto che proporre il solito discorso apologetico ad usum delphini, votato di
solito a cercare di persuadere il pubblico della convenienza di continuare a finanziare
generosamente i vari programmi di ricerca teorici e sperimentali. Nel cercare di analizzare
alcuni dei possibili rischi di ogni linguaggio iniziatico, e quindi di ogni organizzazione di
casta, siamo stati ispirati da una volontà sincera di favorire un'ulteriore evoluzione dell'umana
conoscenza, senza rifiutare a priori come infondate, o motivate da un irrazionalistico ed
anacronistico senso di rivalsa nei confronti della supremazia della scienza, le attuali voci
contro una possibile forma di arroganza e dittatura della categoria degli scienziati 33, i timori
contro forme di tecnocrazia senza scrupoli, dimentiche di principi etici irrinunciabili. Si è
spesso parlato di una sorta di "democrazia naturale" che reggerebbe le dinamiche della
comunità scientifica, ma se ci sono dubbi che sarebbe più appropriato parlare di un'oligarchia
(e il problema è se si tratti di un'oligarchia democratica o non piuttosto aristocratica), ecco che
fugare tali dubbi diventa uno delle imprese più impegnative ed irrimandabili nelle quali
dovrebbe impegnarsi la nostra cultura, pena davvero in caso contrario un possibile rifiuto
della scienza da parte della società civile, ed il rifugio in poco auspicabili nuove tendenze
queste sì irrazionalistiche.
Per quanto riguarda il tema particolare di questo saggio, un altro rischio da evitare è che
l'estrema complessità del linguaggio matematico, necessario per descrivere compiutamente le
ricerche attuali, porti ad una sorta di fiducia nell'altro più che in noi stessi, ad una specie di
delega in bianco ai cosiddetti "esperti", nella convinzione che quanto non si è capito sia
dovuto ad un inadeguato e insufficiente numero di neuroni a nostra disposizione; una sorta di
"epistemologia della rassegnazione"34 di cui sono preda non solo tanti studenti, ma anche tanti
docenti35. Questo timore viene suggellato poi "dall'angusta specializzazione e dalla fede
173
oscurantistica nella speciale abilità dell'esperto e nella sua conoscenza e autorità personale;
fede, questa, che tanto bene si adatta alla nostra età 'postrazionalistica' e 'postcritica',
orgogliosamente impegnata nella distruzione della filosofia razionalistica e dello stesso
pensiero razionale"36.
Sofisticati modelli matematici hanno assunto la guida ormai non solo nel momento della
creazione di modelli fisici (si pensi ad esempio alle tanto propagandate quanto inverosimili
teorie cosmologiche), ma addirittura durante il relativo processo ermeneutico, restituendo
splendore a Pitagora e all'affermazione del suo discepolo Filolao: "Senza il numero non
sarebbe possibile pensare né conoscere alcunché" 37. Nuove tecniche matematiche e algoritmi
ipercomplessi vengono elaborati di continuo, e la loro estensione a macchia d'olio in tutte le
moderne teorie scientifiche è irrefrenabile, ma forse non del tutto necessaria 38. "La geometria
non euclidea e l'algebra non commutativa, che erano un tempo considerate pure esibizioni
della mente e passatempi per i logici, si sono ora mostrate assolutamente necessarie per la
descrizione dei fatti generali del mondo fisico"39. Riteniamo invece che nel momento in cui la
ricerca scientifica si allontana di molto dalla sua fonte empirica ed intuitiva, diventando
formalisticamente una continua prova di coerenza interna o di contenuti estetici, rimane
veramente un mistero il contatto a priori, è il caso di dirlo, quasi in modo cieco, che le nostre
teorie hanno, o dovrebbero avere, con la realtà; a volte, ci sembra, dando quasi l'impressione
di una ridondanza di efficacia. Un ulteriore pericolo è poi che, nell'applicare "la matematica
come forza razionalizzatrice diretta"40 durante la spiegazione dei fenomeni fisici, la si spinga
lungo la linea che offre minor resistenza, portando ad utilizzare gli ultimi e più in voga
modelli matematici - belli e pronti all'uso - senza preoccuparsi troppo se per far quadrare i
conti sia infine necessario "arrotondare" ogni spigolo e frastagliatura di una realtà
sperimentale apparentemente indomabile.
Forse, tutto il problema sta nell'aver dimenticato l'esortazione di Misone, uno dei Sette
Sapienti di oltre due millenni e mezzo fa, ricordato da Platone insieme a Talete:
"Indaga le parole a partire dalle cose,
e non le cose a partire dalle parole"
Note
1
Una delle vette più alte della matematica greca, composto intorno al 300 A.C. ad Alessandria, e
rimasto nei secoli come esempio paradigmatico di cosa è, e come si fa, la matematica.
2
Se certamente la geometria intuitiva è quella che studiò Euclide, non è detto viceversa che il modo
con cui il geometra alessandrino affrontò tale studio sia l'unico possibile, o il più conveniente (vedi
anche la successiva Nota 3).
3
Nel Principio di giornata aggiunta (Giornata quinta) contenuto nella sua ultima opera: Discorsi e
Dimostrazioni matematiche intorno a due nuove Scienze. Galileo mostra ancora una volta il suo
coraggio e la sua indipendenza di pensiero, criticando addirittura Euclide (vedi anche la precedente
Nota 2), dopo essersi già messo in rivalità con Aristotele e Tolomeo.
4
Oggi, con analogia informatica entrata a far parte del linguaggio comune, parleremmo del software di
base, o sistema operativo, del cervello, la cui rete neuronale andrebbe allora intesa come semplice
hardware.
5
E ad una "mathesis universalis" si riferisce anche qualche decennio più tardi Leibniz, che la descrive
sostanzialmente dualista nel suo fondamento: "Mathesis universalis est scientia de quantitate in
universum ... seu de ratione aestimandi". Qui quantità e misura si riferiscono ai due pilastri fondatori
della matematica tradizionale, ovvero, come abbiamo già detto, Aritmetica e Geometria.
6
Il matematico G. Frege, che pure ne era stato agli inizi conquistato, si riferì a questa moderna
tendenza della filosofia della matematica come al frutto di un Morbus mathematicorum recens.
174
7
A questo proposito non va dimenticato né che l'anti-antropocentrismo sembra una delle
caratteristiche costanti della scienza moderna, dalla Rivoluzione copernicana in poi, né che la
'ribellione' di alcuni influenti matematici tedeschi contro la fondazione intuitiva della matematica
avviene in un periodo che non può non essere influenzato dalle concezioni darwiniste, con
conseguente ulteriore diminuzione del ruolo dell'essere umano nella Weltanschauung del tempo.
8
P. Davies, Sull'orlo dell'infinito, tr. it. di C. Sborgi, Milano, 1994, pp. 64-65.
9
Cit. in T. Regge, Infinito. Viaggio ai limiti dell'universo, Milano, 1995, p. 296.
10
J. Searle, Menti, cervelli e programmi, tr. it. di G. Tonfoni, Milano, 1984, pp. 48-51; o anche, sempre
dello stesso autore, Mente cervello intelligenza, Milano, 1988, pp. 24-28.
11
Un criptotipo è "un significato sommerso, sottile ed elusivo, che non corrisponde a nessuna parola
reale, ma di cui pure l'analisi linguistica mostra l'importanza funzionale nella grammatica" (Benjamin
Lee Whorf, "Analisi linguistica del pensiero nelle comunità primitive", in Linguaggio pensiero e realtà,
tr. it. di F. Ciafaloni, Torino, 1970, p. 55).
12
Vedi ancora P. Davies, loc. cit.. Scrive R. Rucker a questo proposito (La mente e l'infinito. Scienza e
filosofia dell'infinito, tr. it. di M. Negri, Padova, 1991, p. 9): "I matematici, comunque, esitavano ancora
a rituffarsi nel mondo dell'infinito attuale, dove un insieme poteva avere la stessa grandezza di un
sottoinsieme, una retta poteva avere tanti punti quanti una semiretta e un processo senza fine poteva
essere trattato come un oggetto compiuto. Fu Georg Cantor che, verso la fine del XIX secolo, creò
finalmente una teoria dell'infinito attuale che, con la sua chiara coerenza, demolì le obiezioni
aristoteliche e scolastiche" (i corsivi sono nostri).
13
L'insieme di questi ultimi non è però un "insieme vuoto": si vedano ad es. le perplessità di A.W.
Moore ("Una breve storia dell'infinito", in Le Scienze, n. 322, 1995): "Ma davvero la sua [di Cantor]
teoria ha fugato tutti i dubbi sui rapporti fra matematica e l'infinito? Quasi tutti oggi pensano di sì, ma io
sostengo che Cantor possa avere in realtà rafforzato quei dubbi" (p. 76). E fra le tante perplessità, molto
significative restano quelle relative alla possibilità di poter concepire enti quali l'insieme di tutti gli
insiemi (o Allklasse): "Dato il teorema di Cantor, questa collezione deve essere più piccola dell'insieme
di tutti gli insiemi di insiemi. Ma, un momento! Gli insiemi di insiemi sono a loro volta insiemi: perciò
ne consegue che l'insieme di tutti gli insiemi deve essere più piccolo di uno dei suoi stessi sottoinsiemi
propri. Questo, però, è impossibile. Il tutto può avere le stesse dimensioni di una sua parte, ma non può
essere più piccolo di una sua parte. Come potè Cantor sfuggire a questa trappola? Con meravigliosa
ostinazione, negò l'esistenza di una cosa come l'insieme di tutti gli insiemi" (p. 79). La scappatoia che
usò Cantor non è esente da critiche. In particolare il problema, ci sembra, è quello che una teoria siffatta
possa dare l'impressione (e a molti la certezza!) di aver domato e pianificato tale concetto. "Nella sua
ricerca della realtà matematica, il matematico, crea degli 'strumenti di pensiero'. Non bisogna confonderli
con la realtà matematica in sé" (J.P. Changeux - A. Connes, Pensiero e materia, tr. it. di C. Milanesi,
Torino, 1991, p. 20). Il fatto che la rappresentazione cantoriana possa essere applicata formalmente a
tutta la gerarchia, non convalida il passaggio "ai singoli insiemi particolari che la formano" (Moore, loc.
cit., p. 80). Il concetto di infinito rimane in realtà ben lontano dal poter essere afferrato dalla mente:
"Pochi ammetterebbero che la definizione tecnica di insieme infinito esprima la loro comprensione
intuitiva del concetto" (Ibidem). Il fatto è che nella pratica matematica corrente la teoria degli insiemi
continua ad essere trattata in quello che si dice un "modo ingenuo", ignorando tutte le difficoltà legate
all'introduzione di infinità non costruttivamente definite, e lasciando credere agli studenti di avere fatto
ricorso, utilizzando il concetto di insieme, ad una intuizione assai più limitata, e semplice, che non quella
della geometria intuitiva. Invece, come sostenne preveggentemente H. Weyl già nel 1917, "una parte
essenziale di quest'edificio [l'Analisi] è costruita sulla sabbia", ed una delle cause essenziali di questa
circostanza "va ricercata unicamente nell'arbitrio (commesso sin dall'inizio in matematica) di considerare
un campo di possibilità costruttive come un aggregato chiuso di oggetti esistente in sé" (Il Continuo.
Indagini critiche sui fondamenti dell'Analisi, Ed. Bibliopolis, Napoli, 1977, p. 26). Ci sembra più che
saggia, quindi, l'esortazione alla cautela di Moore (loc cit., p. 80): "Ma vorrei esortare matematici e altri
scienziati a usare maggiore cautela del solito quando valutano l'importanza dei risultati di Cantor per le
175
concezioni tradizionali dell'infinito. Il vero infinito, sembra, rimane ancora molto al di là della nostra
comprensione".
14
"Ma in virtù di un duplice mancamento", scrisse Berkeley, "voi arrivate, sebbene non alla scienza, alla
verità" (Cit. in G. Giorello, "Il 'disgusto dell'infinito' e il rigore del calcolo", in G. Toraldo di Francia ed.,
L'infinito nella scienza, Roma, 1987, p. 294).
15
Changeux - Connes, loc. cit, p. 16. Aggiunge a questo proposito il premio Nobel per la fisica R.P.
Feynman: "I matematici trattano solo della struttura del ragionamento, e non si interessano veramente di
quello di cui stanno parlando. Non devono neppure sapere quello di cui stanno parlando, o, come essi
dicono, se quello di cui parlano è vero" (La legge fisica, tr. it. di L. Radicati di Bròzolo, Torino, 1971, p.
61). M. Polanyi parla addirittura del "paradosso" di una matematica basata su un sistema di assiomi che
non vengono considerati evidenti, nel momento che se anche logicamente coerenti a livello interno "non
si può sapere se escludono qualsiasi contraddizione fra loro. Può sembrare completamente assurdo che si
applichi una grandissima ingegnosità e un grandissimo impegno per provare i teoremi della logica o della
matematica, mentre le premesse di queste inferenze vengono allegramente accettate, senza che ci siano
ragioni sufficienti per farlo, in quanto sono 'formule asserite e non provate'. Questo fa pensare al caso di
un clown che con grande solennità colloca al centro dell'arena di un circo due stipiti con una porta ben
chiusa fra l'uno e l'altro, tira fuori un mazzo di chiavi e con grande impegno ne sceglie una che apre la
porta, poi passa attraverso la porta e accuratamente la chiude dietro di sé, mentre tutta l'arena è aperta ai
due lati degli stipiti e sarebbe stato possibile passare di là senza difficoltà. Un sistema deduttivo
completamente assiomatizzato è come una porta accuratamente chiusa in mezzo a uno spazio vuoto
infinito" (M. Polanyi, La conoscenza personale, tr. it. di E. Riverso, Milano, 1990, p. 328).
16
P. Rossi, "Tradizione matematica e tradizione sperimentale nella rivoluzione scientifica", in L. Conti
ed., La matematizzazione dell'universo, Assisi, 1992, p. 4.
17
Vedi ad esempio K. Mendelssohn, La scienza e il dominio dell'Occidente, Editori Riuniti, Roma,
1981.
18
Si tratta della celebre De Revolutionibus Orbium Coelestium, pubblicata a Norimberga nello stesso
anno della morte dello scienziato, il quale aveva rimandato il momento della pubblicazione della sua
opera per diversi decenni, probabilmente allo scopo di evitare quelle critiche da cui non furono invece
immuni prima Giordano Bruno e poi Galileo.
19
Per un approfondimento di quelli che furono i primi passi della scienza moderna, e delle speciali
connotazioni ideologiche che li ispirarono, si rinvia il lettore interessato a: U.Bartocci, America: una
rotta templare - Un'ipotesi sul ruolo delle società segrete nelle origini della scienza moderna, dalla
scoperta dell'America alla Rivoluzione copernicana, Ed. Della Lisca, Milano, 1995.
20
Il libro di Newton fu pubblicato per la prima volta a Londra nel 1686, ma in quell'occasione non fu
dato altrettanto rilievo tipografico al Mathematica del titolo.
21
Changeux-Connes, loc. cit., p.12.
22
H. Dingle, Science at the Crossroads, M. Brian & O'Keeffe, Londra, 1972, p. 30. E' curioso
osservare a questo proposito che la circostanza in oggetto fu riconosciuta, e disapprovata, anche dallo
stesso Einstein, che pure se ne era giovato largamente nel momento del successo della sua teoria della
relatività: "Tu sei uno dei pochi teorici che non siano stati spogliati della loro intelligenza nativa
dall'epidemia di matematica" (da una lettera di Einstein a P. Ehrenfest, cit. in F. Selleri, La causalità
impossibile - L'interpretazione realistica della fisica dei quanti, Ed. Jaca Book, Milano, 1988, p. 25).
23
24
H. Dingle, loc. cit., stessa pagina.
In Parabole e Catastrofi - Intervista su Matematica Scienza Filosofia, a cura di G. Giorello e S.
Morini, Ed, Il Saggiatore, Milano, 1980, p. 8.
176
25
"L'aspetto esplicativo manca del tutto nel lavoro di Einstein" (P.W. Bridgman, La logica della fisica
moderna, tr. it. di V. Somenzi, Torino, 1965, p. 163).
26
"Sotto questo profilo, il vero successo della teoria dei quanti consiste nell'essere stata costruita fuori,
anzi, per lo più contro la ragione ordinaria. E' per questo che c'è qualcosa di 'folle' in tale teoria,
qualcosa che va oltre la scienza stessa" (Guitton-Bogdanov-Bogdanov, Dio e la scienza, tr. it. di M.
Spranzi, Milano, 1992, p. 88). "Il cammino percorso finora dalla teoria quantistica indica che la
comprensione di quei tratti ancora non chiariti della fisica atomica si può raggiungere solo con una
rinuncia all'intuitività" (W. Heisenberg, "Lo sviluppo della meccanica quantistica", in S. Boffi ed.,
Onde e particelle in armonia, Milano, 1991, p. 200). "La teoria ha due argomenti molto efficaci a suo
favore e solo uno, di scarso rilievo, a sfavore. Innanzitutto, la teoria è sorprendentemente esatta
rispetto a tutti i risultati sperimentali fino ad oggi ottenuti. In secondo luogo [...] si tratta di una teoria
di straordinaria e profonda bellezza dal punto di vista matematico. L'unica cosa, che può essere detta
contro di essa, è che, presa in assoluto, non ha alcun senso!" (R. Penrose, cit. da A. Zeilinger,
"Problemi di interpretazione e ricerca di paradigmi in meccanica quantistica", in F. Selleri ed., Che
cos'è la realtà, Milano, 1990, p. 123). "La relatività speciale fu la prima teoria completa ad introdurre
cambiamenti radicali nei concetti basilari della fisica classica; ma quando lo sviluppo della meccanica
quantistica raggiunse la completezza e si ottenne una comprensione dei cambiamenti ancora più
radicali del pensiero fisico da essa provocati, molti scienziati ritennero giustamente che lo sviluppo
della teoria della relatività rappresentasse il completamento della fisica classica" (A.A. Tyapkin,
Relatività speciale, Milano, 1993, p. 10).
27
Vedi ad esempio L. Pyenson, The young Einstein - The advent of relativity, A. Hilger, Londra, 1985.
Il Cap. V di questo testo è intitolato proprio: "Physics in the shadow of Mathematics [...]".
28
"Si era sempre ammesso nel passato, che i fenomeni del mondo fisico fossero governati dal principio
di causalità. [...] La nuova teoria dei quanti, invece, ha portato un cambiamento profondo" (G.
Castelfranchi, Fisica moderna atomica e nucleare, Milano, 1959, p. 447). "La fisica deve descrivere
formalmente solo il complesso delle osservazioni. Anzi, i fatti reali possono essere meglio caratterizzati
così: siccome gli esperimenti sono soggetti alle leggi della meccanica quantistica e quindi all'equazione
(1), mediante la meccanica quantistica viene stabilita definitivamente la non validità del principio di
causalità" (W. Heisenberg, "Il contenuto intuitivo della cinematica e della meccanica nella teoria
quantistica", in S. Boffi ed., loc. cit.).
29
Non è raro vedere che una "catena logica" impossibile prima, diventa possibile dopo la scoperta di
una nuovo campo matematico. Si veda ad esempio W.I. McLaughlin ("La risoluzione dei paradossi di
Zenone sul moto", in Le Scienze, N. 317, 1994, pp. 60-66), che affronta addirittura la risoluzione dei
paradossi di Zenone sul moto grazie a nuove "caratteristiche fondamentali" di "nuove teorie"
matematiche: "Per molti secoli la logica di Zenone è rimasta pressoché intatta, e ciò dimostra la
tenacia dei suoi argomenti" (p. 66). "Per due millenni e mezzo i paradossi di Zenone sono stati fonte di
discussione e oggetto di analisi, ma solo oggi, grazie a una formulazione dell'analisi matematica che è
stata sviluppata nell'ultimo decennio, è possibile risolverli" (p. 60). "Nuovi tipi di logica possono forse
aiutarci a capire com'è che gli elettroni, [...] sembrano comportarsi illogicamente" (B.L. Whorf, "Le
lingue e la logica", in loc. cit.).
30
W. Heisenberg, Fisica e filosofia, tr. it. di G. Gnoli, Milano, 1994, p. 191.
31
R. Gilmore, Alice nel paese dei quanti, tr. it. di P. D. Napolitani, Milano, 1996, p. 93.
32
K. von Fritz, Le origini della scienza in Grecia, tr. it. di M. Guani, Bologna, 1988, p. 133.
33
Si è levata in modo particolare tra queste quella del famoso e scomodo epistemologo "anarchico"
P.K. Feyerabend, recentemente scomparso.
34
Per citare un'azzeccata espressione di F. Selleri, loc. cit., p. 13.
177
35
La lucidissima Viviane Forrester (nel suo inquietante L'orrore economico , Ponte alle Grazie Ed,
Firenze, 1997) pone l'attenzione su una strategia consolidata da parte di chi tiene alla conservazione
del proprio potere (di qualsiasi genere, anche quello di dettare mode culturali), che consiste nel creare
le condizioni perché i probabili interlocutori non si sentano all'altezza di porre domande, chiedere
spiegazioni, provino insomma vergogna:"Niente indebolisce, niente paralizza come la vergogna. E' un
sentimento che altera sin dal profondo, lascia senza risorse, consente qualunque influenza dall'esterno,
riduce chi la patisce a diventarne una preda: da qui l'interesse dei poteri a farvi ricorso e a imporla. E'
la vergogna che permette di fare leggi senza incontrare opposizione, e di trasgredirle senza temere
proteste".
36
K.R. Popper, Logica della scoperta scientifica, tr. it. di M. Trinchero, Torino, 1970, p. XXX.
37
Diels-Kranz, 44 B 4.
38
"La nuova bellezza [delle teorie einsteiniane] inagurava la concezione moderna di una realtà definita
matematicamente"(M. Polanyi, loc. cit., p. 264).
39
P.A. Dirac (1931), cit. da D. Monti, Equazioni di Dirac, Ed. Boringhieri, Torino, 1996, p. 215.
"Troppo spesso il fisico ha una mente 'geometrica'. Egli non è soddisfatto se non volge in equazione un
fenomeno, che solo allora è reputato 'esatto'. Per lui tutto è riconducibile alla matematica e si compiace
dell'astrazione delle formule. Finisce col dimenticare il concreto, col dimenticare la vera fisica, poiché,
per definizione, l'aspetto fisico è il concreto, non la speculazione intellettuale astratta, risultante da
trasformazioni matematiche. Vi è una deformazione professionale di cui sono vittime la maggior parte
dei fisici. Per loro le formule sono diventate dogmi intoccabili che è sacrilegio discutere, cosicché
bisogna rinunciare a convertirli: essi sono persi per la vera scienza, quella che sempre si fa umile, che
resta consapevole della nostra immensa ignoranza, che sa serbare il dubbio. Loro, non dubitano di nulla,
e sopratutto di se stessi!" (C.L. Kervran, Prove in Geologia e Fisica delle trasmutazioni a debole
energia, Palermo, 1986).
40
F. Selleri, Fondamenti della fisica moderna, Milano, 1992, p. 62.
----[Una presentazione degli autori si trova nel numero 1 di Episteme]
[email protected], [email protected]
178
La comunicazione cellulare
(Carlo Cirotto)
E' forse per pigrizia o, più banalmente, per superficialità che non ci soffermiamo quasi mai a
considerare i nostri organismi per quello che in realtà sono: complesse comunità di esseri
viventi di grandezza microscopica, le cellule, le cui singole vite formano l'ordito della nostra
stessa vita e ne determinano le caratteristiche. A nostro discarico può esserci il fatto che di
una simile comunità non è possibile formarsi una immagine adeguata neanche facendo leva su
tutta la nostra fantasia. Le grandezze che la contraddistinguono, infatti, sono totalmente al di
fuori dell'ambito della nostra esperienza. Si prenda, ad esempio, il numero delle cellule che
costituiscono un uomo di media corporatura. Se ne stimano intorno ai 75.000 miliardi.
Nessuno, di sicuro, sa farsene un'immagine, neanche fantastica. E che dire, poi, dell'ordine
estremo che regna nella loro disposizione spaziale e nel loro funzionamento? Tutte occupano
posizioni ben definite e svolgono funzioni distinte per gruppi di specializzazione. In questo
modo si configurano gruppi organizzati di cellule, e gruppi di gruppi, tessuti ed organi.
La complessità e l'ordine non regnano solo a livello cellulare e supracellulare ma anche a
livello subcellulare. Consideriamo, come esempio, una qualsiasi cellula del nostro organismo.
E' una struttura estremamente complessa fatta da grosse molecole organiche capaci di
svolgere funzioni diversificate con raffinata precisione. A seconda del tipo cellulare
considerato, ci imbatteremo in strutture specifiche che costituiscono il fondamento delle varie
"specializzazioni" cellulari. Così, ad esempio, le cellule muscolari sono specializzate a
contrarsi e possono farlo grazie alla presenza, al loro interno, di sofisticate organizzazioni di
proteine specifiche, che sono molecole organiche gigantesche fabbricate ad hoc dalle stesse
cellule. Le cellule nervose, dal canto loro, sono iper-specializzate a ricevere stimoli dal loro
ambiente, a trasformarli in impulsi elettrici e chimici e a trasferirli ad altre cellule nervose per
l'opportuna conduzione o elaborazione. Anche le cellule nervose possono offrire questi
raffinati servizi all'organismo grazie alla loro iper-complessa struttura proteica interna.
Strutture organizzate su molteplici livelli - molecole, cellule, tessuti, organi, apparati concorrono a strutturare l'organismo, il quale si presenta, quindi, come costituito da un
insieme di parti ordinatamente interrelate capaci di svolgere funzioni differenti, di elevata
qualità, a vantaggio della totalità dell'organismo stesso.
L'organismo, però, non nasce adulto. Non nasce già in possesso di gruppi di cellule
specializzate e pronte a svolgere la loro funzione. Al contrario, nasce come un'unica cellula
(lo zigote), frutto della fusione dell'uovo e dello spermatozoo, che non può essere definita
"specializzata" nel senso tradizionale del termine. E' solo una cellula con grandi potenzialità.
Infatti è capace, dividendosi, di originare cellule-figlie che a poco a poco, durante lo sviluppo
embrionale, assumeranno la necessaria specializzazione.
Ci sono dei limiti a questa potenzialità, che sono poi quelli della stessa specie di
appartenenza. Non ci si può aspettare che da uno zigote di topo si sviluppi un coniglio, né un
cane. Potrà svilupparsi solo un topo con muscoli di topo e sistema nervoso di topo.
Ma torniamo ancora al nostro esempio dei muscoli e dei nervi dell'adulto. Ogni unità
specialistica di tali sistemi deve occupare il posto giusto al tempo giusto e, cosa ancora più
importante, le unità debbono comportarsi in maniera organicamente efficace. Nel nostro
corpo, ad esempio, è di fondamentale importanza che i muscoli (fasci di cellule capaci di
contrarsi) ed i nervi (fasci di cellule nervose) si formino in posizioni anatomicamente corrette
tali da permettere l'instaurarsi di relazioni efficaci. E' altrettanto fondamentale che, sia le
cellule muscolari all'interno dei muscoli, sia le cellule nervose all'interno del sistema nervoso
lavorino in maniera coordinata. Fallirebbe, ad esempio, un muscolo le cui cellule non si
179
contraessero tutte in contemporanea. E parimenti non avremmo reazioni nervose regolari se
ognuna delle cellule del sistema si attivasse a caso.
L'ordine, a qualsiasi livello di complessità organizzativa lo si consideri, comporta
informazione. Il che è come dire che per essere instaurato l'ordine a livello subcellulare,
cellulare, di tessuto, di organo, di organismo e di specie sono necessari "messaggi" adeguati
che inducano uno zigote di topo a diventare topo, cellule indifferenziate a differenziarsi
adeguatamente e gruppi di cellule del tessuto ad interagire in modo funzionalmente corretto.
Tutto quanto detto e gli esempi, banalissimi, forniti fanno intravvedere di quale fitto intrico
di scambi di informazioni-messaggi abbiano bisogno le cellule per sopravvivere e per
funzionare al meglio. Hanno bisogno di ricevere messaggi da altre cellule loro
contemporanee, ma anche dalle loro cellule madri e dalle loro progenitrici. Debbono, inoltre,
esse stesse inviare messaggi ad altre unità. Questo andirivieni di scambi di informazioni tra
cellule presuppone l'esistenza di adeguati messaggi e della capacità delle cellule sia di
emetterli che di recepirli. C'è, in poche parole, tra le cellule del nostro organismo, come in
quello di tutti gli altri organismi, una efficiente ed instancabile comunicazione.
I tipi di informazione che costituiscono l'oggetto di questa comunicazione sono
tradizionalmente raggruppati in tre categorie: genetica, metabolica e nervosa. Senza il
patrimonio originario di informazioni genetiche non saremmo uomini come siamo e senza i
sistemi di comunicazione metabolica e nervosa, non potremmo vivere ed operare come
facciamo.
Comunicazione genetica
L'informazione genetica di un organismo consiste nell'esatta sequenza delle basi azotate
(adenina, guanina, timina e citosina) contenute nelle molecole di DNA presenti in ogni sua
cellula. Questa frase, dal sapore un po' sibillino per i non addetti ai lavori, può essere così
tradotta in linguaggio più accessibile. Tutte le caratteristiche, strutturali e funzionali, di un
organismo dipendono da adeguate proprietà delle sue cellule. Le cellule, dal canto loro, hanno
la giusta struttura e possono svolgere le giuste funzioni grazie ad alcuni loro costituenti
molecolari altamente specializzati: le proteine. A loro volta, le proteine funzionano
correttamente se anche la loro struttura molecolare è corretta. Per fabbricare corrette molecole
proteiche, la cellula si deve servire dell'informazione contenuta nel DNA, che la cellula stessa
ha ricevuto in eredità, al momento della "nascita", dalla sua cellula-madre. Quest'ultima prima
di dare origine a due cellule figlie, infatti, lo ha opportunamente duplicato ed ha lasciato in
eredità ciascuna delle due copie identiche ad ognuna delle due cellule figlie.
E' riduttivo, però, prendere in considerazione soltanto l'ultimo passaggio dell'informazione
genetica e cioè quello dalla cellula madre alla cellula figlia. La cellula madre infatti l'ha
ricevuta, a sua volta, dalla propria cellula madre e così via, indietro nel tempo, fino ai
primordi della vita. L'informazione genetica viene quindi, in realtà, da molto lontano,
giungendo fino a noi attraverso una lunghissima catena di comunicazioni "testamentarie" che
ogni generazione cellulare ha lasciato a quella successiva. Ovviamente, durante questo
processo inimmaginabilmente lungo (durato probabilmente 3 miliardi e 800 milioni di anni),
le molecole di DNA sono andate incontro ai più svariati tipi di incidenti di percorso che hanno
modificato la loro struttura e, di conseguenza, anche le informazioni in essa contenute. Di tali
variazioni casuali alcune, la stragrande maggioranza, sono risultate incompatibili con la vita
stessa della cellula e ne hanno determinato la morte; altre, molte di meno, non avendo
prodotto cambiamenti significativi, sono risultate neutrali; altre ancora, di eccezionale rarità,
hanno portato a miglioramenti della vita cellulare e sono entrate a far parte, a pieno titolo, del
messaggio genetico lasciato in eredità da una popolazione all'altra.
La storia della vita è la storia di una comunicazione che, nata con la vita stessa, si è dipanata
con alterne vicende lungo i millenni facendo sì che venissero alla luce e si evolvessero
innumerevoli generazioni cellulari tutte impegnate a tramandare la comunicazione stessa.
180
Oltre a questa comunicazione "verticale" per la quale ogni cellula riceve la sua informazione
genetica dalla cellula madre e, attraverso di essa, dalle cellule delle generazioni passate, esiste
una comunicazione genetica "orizzontale" attraverso la quale le cellule scambiano la propria
informazione genetica, per dar luogo ad una progenie di origine mista. Ci sono almeno quattro
diversi meccanismi mediante i quali si realizza questo scambio di informazioni. Tre sono
specifici dei batteri, le forme più elementari di vita cellulare. Uno, la riproduzione sessuale, è
invece tipico delle forme superiori. In esse, la nuova vita nasce dalla fusione di due gameti,
uno femminile (l'uovo) ed uno maschile (lo spermatozoo) che, in questo modo, mettono in
comune il loro DNA. Il processo dà origine, così, ad una progenie il cui patrimonio di
informazione genetica proviene dal rimescolamento del patrimonio materno e di quello
paterno.
Nella comunicazione genetica "orizzontale", la novità emerge ad ogni atto riproduttivo.
Nella comunicazione genetica "verticale", invece, perché emerga una novità è necessario
attendere un "incidente di percorso". Poiché è sull'emergere delle novità che si basa la
plasticità delle specie e cioè la loro capacità ad evolversi, risulta evidente di quale portata
rivoluzionaria sia stata l'apparizione, nel corso dell'evoluzione, della comunicazione genetica
"orizzontale" accanto alla preesistente "verticale".
Comunicazione metabolica
Al contrario della comunicazione genetica, la cui utile influenza si protrae per periodi di
tempo molto più lunghi della vita delle singole cellule, la comunicazione metabolica interessa
segmenti temporali molto più brevi.
Il meccanismo di questa comunicazione consiste nel rilascio di messaggi molecolari da
parte di cellule "emittenti", nel loro trasporto fino a tutti i distretti del corpo ad opera dei fluidi
corporei circolanti (per esempio il sangue o la linfa) e nella loro ricezione da parte di cellulebersaglio capaci di riconoscerli. Gli ormoni, questo è il nome generico dato a tali molecole,
sono un insieme molto vasto di tipi molecolari, che differiscono per grandezza, composizione
e struttura a seconda del tipo di informazione trasportato.
Il significato biologico della comunicazione metabolica è fondamentalmente di due tipi.
Il primo consiste nel controllare l'ordinato sviluppo di animali e piante multicellulari. Questi
organismi, come ho già sottolineato, sono comunità, altamente organizzate, di milioni o
miliardi di cellule, tutte derivate da un'unica cellula (lo zigote) frutto della fusione di due
gameti. Il loro numero va aumentando durante lo sviluppo grazie a successive divisioni
cellulari. Anche le loro diverse specializzazioni compaiono in un ben definito ordine spaziotemporale. E' così che si formano le cellule muscolari, quelle ossee, quelle sanguigne, quelle
nervose e molte altre. L'organismo, infatti, è il frutto della ordinata collaborazione di gruppi di
cellule capaci di svolgere funzioni specialistiche a vantaggio dell'intera comunità. Non si
potrebbe definire organismo un insieme di cellule uguali, che riescono, sì, a sopravvivere e a
svolgere le fondamentali funzioni metaboliche ma risultano incapaci di compiere servizi
specifici a favore della comunità. Così come non ce la sentiremmo di definire società un
gruppo umano in cui tutti siano mediocremente capaci di fare tutto, e non esistano categorie di
persone che si sono specializzate a compiere in maniera egregia lavori specifici.
Buona parte del complesso lavorio della riproduzione e, soprattutto della specializzazione
cellulare, che in termine tecnico si chiama differenziamento, è iniziato nel momento
opportuno e diretto a buon fine dagli ormoni.
Il secondo significato assunto dalla comunicazione metabolica riguarda le modifiche che
l'organismo apporta al suo ambiente interno come reazione a stimoli eccessivi provenienti
dall'ambiente circostante.
Avviene con una certa frequenza che le caratteristiche chimico-fisiche dell'ambiente in cui
l'organismo vive cambino così drasticamente da rendere difficile, se non impossibile, la stessa
sopravvivenza dell'organismo. In questo caso scattano i meccanismi "omeostatici" che
181
tendono a riportare le condizioni dell'ambiente interno dell'organismo entro valori più adatti
alla vita. Un esempio farà comprendere, meglio di qualunque trattazione, il nocciolo della
questione. E' noto che la temperatura ottimale per la vita e la corretta funzionalità delle cellule
del nostro organismo si aggira intorno ai 37 °C. Ciò non vuol dire, però, che si sia costretti a
passare la vita in una camera termostatata. Al contrario, avviene spesso, per i più svariati
motivi, che la temperatura ambientale salga al di sopra, o scenda al di sotto, del valore
ottimale, senza che ciò implichi necessariamente per noi malesseri particolari né tanto meno la
morte. Ciò è dovuto all'attivazione di opportuni meccanismi omeostatici che riportano la
temperatura interna dell'organismo a valori prossimi a quelli ideali. Così, se la temperatura
esterna è troppo alta si attiveranno meccanismi di sudorazione e di iperventilazione
polmonare, mentre se è troppo bassa compariranno brividi e pelle d'oca.
In questo complesso sistema di compensazioni, la comunicazione ormonale, insieme a
quella nervosa, gioca un ruolo fondamentale. Gli ormoni, emessi da singole cellule o da
gruppi di cellule a questo deputate, sono messaggi che raggiungono tutti i distretti
dell'organismo, anche i più distanti, servendosi delle "vie d'acqua" dei suoi fluidi. Sono, un
po', come i messaggi chiusi nelle bottiglie ed affidati dai naufraghi alle correnti del mare. Non
è possibile, in alcun modo, predeterminare il loro cammino e chi li invia può solo affidarsi alla
speranza che, prima o poi, essi giungano a qualcuno capace di recepirli. Anche le cellule che
inviano messaggi ormonali non possono influenzarne il percorso. Si limitano a rilasciare nel
mezzo liquido corporeo molte molecole-messaggio, tutte identiche, in modo che ci sia una
probabilità finita che almeno una di esse giunga a destinazione. Le cellule a cui questi
messaggi sono diretti possono essere localizzate in regioni dell'organismo anche molto
distanti dal punto di partenza del messaggio stesso. Ciò significa che il messaggio, prima della
cellula a cui è diretto, ha modo di incontrare un'infinità di altre cellule che non sono
potenzialmente interessate ad esso. Come farà l'ormone-messaggio a non disperdere
inutilmente il suo contenuto di informazione cedendolo a cellule ad esso non interessate?
Utilizza un escamotage analogo a quello in uso nelle radio comunicazioni umane. Prendiamo,
ad esempio, un messaggio riservato emesso da un radio-amatore e diretto ad un suo amico che
abita molto lontano. Come fare perché il messaggio resti riservato e non giunga alle orecchie
indiscrete di tutti i radio-ascoltatori della zona? Semplice. E' sufficiente che il radio-amatore
invii il suo messaggio su una determinata lunghezza d'onda sulla quale è sintonizzata la radio
ricevente dell'amico.
Traduciamo ora il discorso nei termini molecolari dell'attività ormonale. La cellula emittente
invia i suoi messaggi sotto forma di molecole che colpiscono indiscriminatamente tutte le
cellule che incontrano sul loro cammino, come le onde radio dell'esempio colpiscono
indifferentemente tutte le antenne. Di tutte queste cellule però solo alcune, quelle "bersaglio",
sono attrezzate a riconoscere l'ormone. Per tutte le altre, le molecole ormonali che passano
nelle adiacenze non rivestono alcun significato.
Le cellule bersaglio sono sensibili al corrispettivo ormone perché sono attrezzate a
riconoscerlo. Sono dotate, sulla loro superficie, di piccole cavità, come nicchie, le cui pareti si
adattano alla perfezione alle molecole ormonali, un po' come la serratura si adatta alla sua
chiave ed un guanto alla sua mano. Questo gioco ad incastro è talmente raffinato e perfetto
che nessuna altra molecola, all'infuori di quella prevista, può entrare nella nicchia ed adattarsi
alle sue pareti. Va così che solo un certo tipo di cellule è capace di captare un certo tipo di
messaggio.
Una volta che l'ormone-messaggio è stato captato sulla superficie della cellula ricevente, la
sua stessa presenza nella nicchia, fino a quel momento vuota, scatena una cascata di reazioni
che sono la risposta della cellula al messaggio o, se si preferisce, costituiscono l'atto di
obbedienza della cellula all'ordine ricevuto.
Il tempo intercorso tra l'emissione del messaggio e la sua ricezione dipende
fondamentalmente da due fattori: dalla velocità con cui i messaggi-molecole diffondono
attraverso il mezzo liquido intercellulare e dalla distanza tra la cellula emittente e quella
182
ricevente. La velocità di diffusione molecolare in un liquido è piuttosto lenta. Ha bisogno di
alcune ore, per esempio, una qualsiasi molecola per diffondere da un capo all'altro del corpo
di un animale piccolo come una mosca. Le ore diventano giorni e settimane se si sale con la
taglia dell'animale considerato.
Gli intervalli temporali tipici della comunicazione metabolica sono estremamente piccoli se
confrontati con quelli che scandiscono gli eventi della comunicazione genetica. Pur tuttavia
un animale non potrebbe fare totalmente conto su di essi per la propria sopravvivenza. La
maggior parte degli animali, infatti, per mantenersi in vita deve poter reagire a certi eventi del
suo stesso ambiente in tempi dell'ordine di secondi o addirittura di millesimi di secondo. Per
far ciò deve poter contare su di un altro tipo di comunicazione intercellulare, particolarmente
efficiente e veloce: la comunicazione nervosa.
Comunicazione nervosa
L'informazione nervosa dipende dall'attività di un particolare tipo di cellula posseduta da tutti
gli animali multicellulari: la cellula nervosa o "neurone". La funzione biologica della
comunicazione dell'informazione nervosa, svolta dai neuroni, è quella di generare le rapide
reazioni stimolo-risposta che danno vita al comportamento animale.
I neuroni sono provvisti di due caratteristiche che li rendono particolarmente adatti a questo
scopo. In primo luogo, a differenza di quasi tutti gli altri tipi di cellule, essi possiedono delle
ramificazioni molto lunghe e sottili, per mezzo delle quali raggiungono altri neuroni posti
lontano e con i quali formano una trama di connessioni che si estende a tutto il corpo
dell'animale. In secondo luogo, a differenza di quasi tutti i tipi di cellule, i neuroni sono capaci
di produrre segnali elettrici in risposta a stimoli di natura chimica o fisica. Essi propagano,
poi, questi segnali lungo le ramificazioni e li trasmettono ai neuroni da esse raggiunti. La
trama delle connessioni dei neuroni ed il movimento dei segnali elettrici che in essa avviene
costituiscono il sistema nervoso.
Il sistema nervoso si divide in tre parti: una parte ricevente, o "sensoriale", specializzata a
comunicare all'animale informazioni relative al suo ambiente esterno o interno; una parte
"centrale" deputata ad elaborare le informazioni ricevute dal sistema sensoriale e decidere la
risposta più opportuna; una parte emittente o "effettrice", che comunica alla periferia le
decisioni prese dal sistema centrale, determinandone l'attuazione. Un esempio classico è
quello di una preda che veda il suo predatore. L'immagine di quest'ultimo giunge ai neuroni
sensoriali degli occhi della preda e da questi, attraverso i nervi ottici, la comunicazione passa
al sistema centrale. Qui l'immagine viene elaborata, il predatore è identificato e, per mezzo del
sistema nervoso efferente, viene comunicato ai muscoli delle zampe di attivarsi
opportunamente.
Comunicazioni in ingresso, quindi, e comunicazioni in uscita. Tra l'uno e l'altro percorso,
poi, c'è la parte più importante: l'elaborazione delle informazioni che è, essa stessa, un ipercomplesso scambio di messaggi.
Considerando l'esempio della preda e del predatore, si comprende quanto sia importante la
velocità e la precisione in questo tipo di comunicazioni. Ritardi anche piccoli nella reazione di
fuga potrebbero significare la morte e, parimenti, informazioni approssimative potrebbero
essere altrettanto letali. Quali sono, allora, i meccanismi biologici che assicurano una tale
efficienza di scambio di informazioni?
I neuroni, come sottolineato qui sopra, sono capaci di produrre segnali elettrici in risposta a
stimoli di diversa natura, depolarizzando momentaneamente (per uno o due millesimi di
secondo) la loro regione stimolata. L'impulso elettrico si propaga, poi, fino alle parti terminali
delle ramificazioni ad una velocità di circa 100 metri al secondo. Una via nervosa è in genere
composta non da un solo neurone, ma da una catena di più neuroni, ognuno dei quali riceve il
messaggio dal neurone che lo precede e lo trasmette a quello che segue. Poiché il messaggio è
un impulso elettrico, verrebbe spontaneo pensare che il suo passaggio da un neurone all'altro
183
avvenga per contatto elettrico e che, quindi, la comunicazione neurone-neurone sia essa stessa
di natura elettrica. In realtà non è così. I neuroni che costituiscono il sistema nervoso, infatti,
non si toccano l'un con l'altro, ma anche nei punti in cui sembrerebbero entrare in contatto, le
"sinapsi", rimane pur sempre tra di essi uno spazio (da 26 a 40 milionesimi di millimetro) che
li rende elettricamente isolati. Attraverso questo piccolissimo spazio la comunicazione
neurone-neurone è assicurata da un meccanismo di diffusione molecolare analogo a quello
degli ormoni. Vale la pena di entrare un po' di più nel particolare. Immaginiamo che un
impulso elettrico attraversi il primo neurone della catena e giunga fino alla estremità delle sue
ramificazioni. Giunto lì, provoca la liberazione di circa 3 milioni di molecole-segnale, i
"neurotrasmettitori", nello spazio sinaptico che sta tra il primo ed il secondo neurone. Dopo
un viaggio di circa 2 millesimi di secondo, queste molecole arrivano sulla superficie del
secondo neurone dove vengono riconosciute e legate da recettori specifici. Il legame del
neurotrasmettitore emesso dal primo neurone con il corrispettivo recettore del secondo
neurone determina, su quest'ultimo, l'insorgere di un nuovo impulso elettrico. Il segnale, poi,
si propagherà fino alle estremità del secondo neurone, provocherà un nuovo rilascio di
neurotrasmettitori, che, a loro volta, attiveranno il terzo neurone, e così via.
L'interposizione di comunicazioni di tipo chimico tra i neuroni della catena sembra essere, a
prima vista, controproducente in quanto rallenta il processo globale di trasmissione del
messaggio. In realtà, la perdita in velocità è abbondantemente ripagata dall'emergere di una
possibilità del tutto nuova, quella di modulare il segnale attraverso i neurotrasmettitori,
facendo sì che possa assumere una vasta gamma di intensità. Ed è su questa modulazione
della comunicazione interneuronale che si basa l'attività del cervello, la parte di gran lunga più
importante del sistema nervoso centrale.
Giunti a questo punto, la mia impresa si fa veramente ardua. Dovrei abbandonare la
trattazione delle singole comunicazioni interneuronali, per passare ad un livello superiore di
descrizione, presentando le configurazioni globali dei flussi di comunicazione che interessano
la totalità dei neuroni dell'intero cervello. Sono queste configurazioni globali, infatti, più che
le singole unità che le compongono, a costituire il fondamento fisiologico di tutto ciò che ci fa
essere quello che siamo. Per usare un parallelo musicale, ciò che è importante non è ciò che
cantano i singoli coristi, ma il coro nella sua globalità. E qui ci si scontra con difficoltà di ogni
genere: descrittive, sperimentali, interpretative, e tante altre ancora. Il motivo è molto
semplice. Il cervello è in assoluto la struttura più complessa dell'universo conosciuto. Un
semplicissimo calcolo renderà ragione della mia affermazione. Il cervello umano è costituito
da circa 100 miliardi di neuroni. In media ogni neurone dialoga con gli altri attraverso 1000
sinapsi. Il numero totale delle reciproche connessioni sinaptiche è quindi 100 mila miliardi.
La configurazione globale di questi 100 mila miliardi di connessioni è di fondamentale
importanza per l'individuo che la possiede perché è essa che determina il modo in cui il
cervello reagisce alle informazioni sensoriali, risponde agli stati emotivi, pianifica il suo
comportamento futuro eccetera. Sappiamo calcolare quante diverse smazzate di bridge
possono essere distribuite usando un normale mazzo di 52 carte: abbastanza da occupare
svariate vite del giocatore più incallito. Si provi ora a pensare quante "smazzate" possono
essere distribuite dal ben più grande "mazzo" cerebrale, con i suoi 100 mila miliardi di
connessioni sinaptiche modificabili. Non è difficile calcolare la risposta. Assumendo, con un
margine di cautela, che ogni connessione sinaptica possa avere uno qualunque di 10 possibili
gradi di intensità, il cervello ha a sua disposizione un numero totale di possibili configurazioni
distinte che è pari a 10 elevato a 100 mila miliardi, cioè 10 100.000.000.000.000 . Si provi ora a
confrontare questa cifra con quei miserabili 1087 metri cubi che rappresentano la stima
corrente del volume dell'intero universo astronomico!
Questa è la motivazione che mi ha spinto a sorvolare sull'argomento della configurazione
globale delle comunicazioni interne cerebrali, facendomelo definire "arduo". Spero che il
lettore mi comprenda e ... non me ne voglia, avendo comunque ormai compreso che il
184
benessere ed il funzionamento unitario dell'organismo dipendono in maniera diretta dal
benessere e dalla concordia operativa di un numero enorme di componenti. L'ordine, a
qualsiasi livello di complessità organizzativa lo si consideri, comporta informazione, e quindi
comunicazione, tra di essi. Questa affermazione sembra, a prima vista, ovvia. Quando però ci
domandiamo in che modo questo straordinario ordine venga raggiunto e mantenuto nel corso
del tempo ci troviamo di fronte ad uno, forse il più grande, dei misteri della vita...
Fonti bibliografiche
Riviste scientifiche:
"Le Scienze" (Milano), "Nature" (London), "New Scientist" (London), "Rivista di
Biologia/Biology Forum" (Perugia), "Science" (Washington), "Scienza Nuova" (Trieste),"The
Scientist" (Philadelphia).
Testi:
Alberts B., Bray D., Lewis J., Raff M., Roberts K., Watson J.D., 1995, Biologia Molecolare
della Cellula, Zanichelli, Bologna.
Boncinelli E., 1996, A caccia di geni, Di Renzo Ed., Roma.
Churchland P.M., 1998, Il motore della ragione, la sede dell'anima, Il Saggiatore, Milano.
Di Berardino M.A., 1997, Genomic potential of differentiated cells, Columbia University
Press, New York.
Lodish H., Baltimore D., Berk A., Zipursky S.L., Matsudaira P., Darnell J., 1995, Molecular
Cell Biology, Scientific American Books, New York.
Queste letture sono consigliate anche a coloro che vogliano approfondire l'argomento.
----Carlo Cirotto è nato a Camerino nel 1944. Insegna "Citologia e Istologia"
presso l'Università di Perugia. Ha svolto attività di didattica e ricerca presso le
Università di Perugia e L'Aquila e presso il Laboratorio di Embriologia
Molecolare del C.N.R. di Napoli. Si occupa di problemi riguardanti i processi
del differenziamento embrionale a vari livelli di complessità, da quello
molecolare a quello cellulare, a quello tissutale. Gli argomenti ai quali ha
dedicato maggior attenzione sono il ricambio delle emoglobine, l'eritropoiesi e
l'angiogenesi embrionali. E' autore di oltre cento pubblicazioni scientifiche ed è
co-autore di due volumi di divulgazione scientifica sull'ingegneria genetica e
sulle implicazioni etiche delle sue applicazioni.
[email protected]
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La comunicazione nel mondo fisico
(Francesco Sacchetti)
1 - Interpretazione estesa del concetto di comunicazione
E' ovvio che se ci si limita a definire, in modo semplificato, la comunicazione come quel
processo che permette lo scambio di informazioni fra esseri umani, il numero di forme di
comunicazione risulta molto ridotto. Tuttavia è normalmente accettato che vi siano delle
forme di comunicazione anche fra animali. E' anche evidente che una più estesa definizione
del termine comunicazione potrebbe essere lo scambio di informazioni fra esseri senzìenti.
Come sempre accade quando si tenta di dare definizioni estese aumenta il numero di
possibilità che non sono state considerate originariamente. Ad esempio, al limite del
paradosso, se si definisse l'Uomo come un bipede implume, ci si troverebbe di fronte al fatto
che un pollo spennato è un uomo!
E' pertanto evidente che deve essere ben chiaro cosa sia un essere senziente affinché la
definizione data sia utilizzabile. Il termine senziente potrebbe essere sostituito con vivente, ma
anche in tal caso non sarebbe facile trovare una semplice definizione: è vivente un virus?
Sono tali certi acidi nucleici che hanno capacità di replica (riproduzione)? Come si vede da
questi esempi una definizione estesa del temine comunicazione ci porta ad una sorta di
contìnuità fra lo scambio di informazioni fra esseri umani e uno scambio di informazioni che
si ha in una reazione chimica fra acidi nucleici.
Da qui a vedere una forma di comunicazione in ogni processo fisico che dia luogo ad una
scambio di informazioni a distanza fra enti che siano animati o meno il passo è relativamente
breve. Se si accetta una simile accezione del termine comunicazione può essere interessante
rivisitare alcuni fenomeni naturali esaminandoli da questo nuovo punto di vista.
Quest'esercizio può essere un po' accademico e, difficilmente, è di qualche utilità per lo studio
della natura e dei suoi meccanismi, tuttavia può essere di qualche interesse nel discutere il
concetto stesso di comunicazione. Il giorno che si dovesse venire in contatto con esseri di un
altro mondo (se esistono), non ci si potrà limitare ad usare il concetto di comunicazione così
come ci viene dal suo uso quotidiano, ma potremmo essere costretti ad impiegarlo nelle sue
forme più estese ed imprevedibili. In realtà una simile situazione si è già verificata: quando
siamo entrati in contatto con i batteri, prima, e con i virus, poi, abbiamo dovuto affrontare un
nuovo mondo che, lentamente, ha costretto l'umanità a cambiare molti punti di vista che erano
considerati acquisiti.
2 - La trasmissione a distanza di informazioni
Come descritto nel paragrafo precedente, si può assumere che la comunicazione sia
equivalente allo scambio di informazioni a distanza fra due enti dotati di dinamica propria. In
un linguaggio tipico della fisica si può dire che la comunicazione è lo scambio di informazioni
fra due osservatori (non necessariamente animati) che si trovano in due punti diversi dello
spazio. Nel mondo fisico la comunicazione fra due osservatori dà sempre luogo a una
successione di eventi, anzi tutto l'Universo fisico nella sua infinita complessità è un continuo
scambio di informazioni fra osservatori, come avremo modo di osservare nel seguito.
E' possibile fare alcuni esempi che ci mostrano il mondo fisico come un complesso
organismo in cui poche funzioni fondamentali si diversificano fino a mostrarsi così come noi
lo vediamo, cioè un insieme sconfinato di fenomeni anche estremamente complessi.
186
Per vedere il mondo fisico in questo modo si può partire da un esempio semplice che,
sebbene non sia direttamente accessibile nel nostro mondo quotidiano, è in qualche modo
continuamente sotto i nostri occhi. La presenza della Luna ed il suo moto è qualcosa che è nel
nostro vivere quotidiano. Tutti noi abbiamo imparato che la Luna è il satellite naturale del
pianeta su cui viviamo. Fin dai tempi della rivoluzione Copernicana quando si passò da una
concezione geocentrica, con la Terra al centro dell'Universo, ad una più moderna, si è stabilito
che la Luna segue un'orbita quasi circolare attorno al nostro pianeta. Quest'orbita è il risultato
di un equilibrio fra la forza di attrazione gravitazionale della Terra (la forza gravitazionale è in
realtà una forza mutua fra i due corpi, Terra e Luna) e la tendenza della Luna a sfuggire a
causa della forza centrifuga presente nel suo moto circolare. Questa è la descrizione che, salvo
qualche necessaria precisazione, darebbe il fisico del moto della Luna attorno alla Terra. Il
tutto potrebbe essere descritto con delle appropriate equazioni che darebbero la veste
matematica e che permetterebbero di prevedere in modo accuratissimo tutti i dettagli del
movimento della Luna intorno alla Terra, mentre quest'ultima orbita intorno al Sole. Tuttavia
si può esaminare il processo in modo diverso. La Terra è una sorgente di forza gravitazionale,
vale a dire essa produce nello spazio circostante un campo gravitazionale. Quest'ultimo può
essere visto come una sorta di fluido (senza consistenza materiale) che riempie lo spazio. In
questo modo la Terra invia, in ogni direzione, l'informazione della sua presenza ad ogni
oggetto sensibile all'interazione gravitazionale (per quanto se ne sa ogni oggetto esistente
nell'Universo è sensibile a questa forza). La Luna, passando nello spazio che circonda la
Terra, riceve questa informazione e si comporta di conseguenza seguendo la sua orbita. In
realtà anche la Luna produce il suo campo gravitazionale, questa informazione giunge sulla
Terra ma, vista la differenza delle masse l'effetto prodotto sull'orbita di quest'ultima è molto
piccolo. Tuttavia l'informazione gravitazionale è più complessa di come detto. Il campo
gravitazionale è un fluido che riempie tutto lo spazio ma è più tenue se si è più lontani dalla
sua sorgente. Si ha così che sia sulla Luna che sulla Terra l'intensità della forza gravitazionale
sia più forte dal lato che si affaccia fra i due corpi che dal lato opposto. Questo fatto dà luogo
sulla Terra al fenomeno delle maree e sulla Luna produce degli sforzi sulle sue rocce, tanto
che se il nostro satellite fosse molto più vicino potrebbe arrivare a frantumarsi, cosa che in un
lontano futuro avverrà poiché questi sforzi interni alle rocce lunari tendono a rallentarne il
moto, come conseguenza vi è un lento e continuo avvicinamento della Luna alla Terra (è
opportuno però sottolineare che a tale conclusione teorica si perverrebbe in un quadro
semplificato rispetto a quello reale, avendo cioè riguardo soltanto alle interazioni tra i due
corpi Terra e Luna, senza tenere conto degli altri oggetti presenti nel sistema solare).
Come si vede possiamo pensare che tra Terra e Luna nel loro continuo moto vi sia un
complesso scambio di informazioni che dà luogo a vari fenomeni.
Può essere utile riesaminare alcuni fenomeni del mondo fisico con lo stesso procedimento
usato per esaminare l'orbita lunare.
Allo scopo di procedere con un ordine logico si esaminerà il mondo fisico, così come è oggi
interpretato, procedendo dalla scala del mondo microscopico fino alla scala cosmologica. Va
precisato che la discussione si manterrà ad un livello qualitativo, esprimendo talvolta quelli
che sono i punti di vista dell'autore su argomenti che, per essere trattati con rigore, necessitano
di un notevole bagaglio di conoscenze matematiche. Il procedimento formale, tuttavia,
sebbene sia l'unico che permetta di avere risultati quantitativi, non consente in modo semplice
la costruzione di modelli mentali che sono di grande utilità per un discorso di carattere
generale che permetta la visione del processo scientifico come un processo culturale. Va
comunque evidenziato che senza l'aspetto tecnico-matematico i grandi progressi tecnologici
indotti dalla ricerca scientifica non sarebbero stati possibili.
187
2.1 - Il mondo dell'ultra-piccolo
Fin dalla più lontana antichità si è pensato che potesse essere possibile descrivere l'intera
natura come l'insieme delle combinazioni di opportuni mattoni base. Questa visione filosofica
pervade tutt'oggi la scienza e le sue conseguenze, grazie anche agli incredibili successi
ottenuti, sono universalmente accettate.
E' evidente però che il mondo sulla scala di distanze che sono un miliardo di miliardi più
piccole di quelle della nostra esperienza quotidiana non può essere molto simile a quello che
conosciamo. Su questa scala il concetto esteso di comunicazione diviene un elemento senza il
quale non è possibile procedere. Gli oggetti ultra-microscopici che si incontrano all'interno
degli atomi e all'interno dei nuclei e, più in giù, all'interno dei costituenti di questi ultimi, non
hanno più le caratteristiche che noi attribuiamo ai corpi solidi macroscopici. Nel mondo
microscopico ogni oggetto va visto come l'insieme delle interazioni (o le forze) che produce
ed a cui è sensibile, cioè dei campi con cui riempie lo spazio circostante. Non siamo in grado
di attribuire altro livello di esistenza agli oggetti del mondo microscopico. Quindi noi (di fatto
i nostri strumenti che ci permettono di osservarli) li osserviamo per mezzo delle informazioni
che ci comunicano. Da questa frase emerge naturalmente la presenza di una forma di
comunicazione fra gli oggetti dello studio e lo scienziato che lo effettua.
Se si parte dall'oggetto microscopico più semplice (si fa per dire) che si conosca vale a dire
l'elettrone, possiamo osservare che esso riempie lo spazio circostante, ad esempio, con il suo
campo elettrico. Se facciamo avvicinare un altro elettrone (che ovviamente viene respinto
come sempre succede a cariche elettriche dello stesso tipo) osserviamo che i due comunicano
la loro presenza fra di loro con questo campo elettrico ed avvicinandoli si comportano
esattamente come se fossero punti geometrici ideali. Sebbene questo comportamento renda
estremamente complessa la teoria che descrive questi fenomeni e, per molti versi, ripugni al
fisico, che ha difficoltà ad accettare un oggetto senza dimensioni, a tutt'oggi non è possibile
aggiungere altro,
E' interessante osservare che gli elettroni hanno varie forme di comunicazione a distanza,
alcune piuttosto curiose e che non trovano equivalente nel mondo macroscopico. Va ricordato
che ogni elettrone è portatore di un movimento locale simile alla rotazione di una sfera
intorno al suo asse. Questo movimento, detto spin, è da intendersi localizzato nel punto in cui
si trova l'elettrone, che come detto, è virtualmente puntiforme. Tuttavia si osserva che due
elettroni che abbiano la rotazione lungo lo stesso asse e nella stessa direzione hanno molta
maggiore difficoltà ad avvicinarsi di due elettroni che lo abbiano diverso. In altri termini ogni
elettrone comunica ai suoi simili in quale modo stia ruotando, in modo che quelli dello stesso
tipo siano scoraggiati dall'avvicinarsi. Questo curioso meccanismo è estremamente importante
poiché è largamente responsabile della coesione nella materia, In realtà la situazione è molto
più complessa di quella descritta, ma le linee più importanti sono quelle indicate.
Non diversa è la situazione che si incontra all'interno dei costituenti dei nuclei atomici, dove
neutroni e protoni si legano riempiendo lo spazio circostante con la cosiddetta interazione
forte. I costituenti del nucleo atomico, neutroni e protoni, sono a loro volta composti da tre
oggetti più piccoli detti quark. I quark comunicano fra di loro tramite dei campi particolari,
ma la loro caratteristica più sorprendente è che possono viaggiare solo a teme legate, in questo
caso si è di fronte ad una forma di comunicazione complessa che è essenziale per rendere il
mondo così' come lo conosciamo.
Su una scala molto più grande, vale a dire quella degli atomi, si ha che il campo elettrico
prodotto dal nucleo atomico riempie lo spazio, così come il campo gravitazionale della Terra
riempie lo spazio dove orbita la Luna, e gli elettroni vi viaggiano, comunicando fra di loro le
caratteristiche del loro spin.
Visto in questo modo il mondo microscopico appare molto simile al nostro mondo pieno di
comunicazioni con i più disparati mezzi. Anche i costituenti ultimi della materia sono in
188
continuo contatto fra di loro e questo contatto è, per essi e per la materia stessa, importante
almeno quanto le comunicazioni sono importanti per l'esistenza della società umana.
E' opportuno ricordare anche un altro modo con cui vengono descritte le interazioni fra i
corpi microscopici. Per descrivere questo punto di vista si può impiegare il seguente esempio:
se immaginiamo due corridori che corrano lungo linee parallele scambiandosi con forza una
palla, la spinta della palla stessa tenderà ad allontanare i due corridori. Questo esempio
macroscopico ci permette di introdurre un analogo microscopico che è estremamente utile per
una descrizione delle interazioni, cioè delle comunicazioni nel mondo microscopico, senza
ricorrere al riempimento dello spazio con quel fluido inconsistente che è il campo. Si assume
che ogni interazione sia portata da un opportuno portatore (in pratica una particella con delle
caratteristiche specifiche), come è la palla nel caso dei corridori. Tale portatore, a differenza
della palla che ha una sua esistenza anche in assenza dei corridori, viene prodotto dalle
particelle che si trovano nello spazio o viene da essi assorbito qualora sia già presente. Si ha
quindi un meccanismo più complesso che permette di descrivere sia le attrazioni che le
repulsioni fra le particelle. In questo modo le interazioni sono vere comunicazioni in cui ogni
partecipante trasmette o riceve informazioni dagli altri e si comporta di conseguenza. L'unica
differenza che sembra esservi rispetto al nostro mondo è che le particelle del mondo
microscopico non sembrano avere libero arbitrio ed il loro comportamento sembra essere
deciso da leggi immutabili.
2.2 - La scala intermedia
Ovviamente, passando dal mondo delle particelle elementari a quello degli atomi ed in su, si
potrebbero esaminare infiniti fenomeni che sono forme di comunicazione più o meno
complessa. Nella scala umana sono poi numerose le forme che tutti noi saremmo in grado di
riconoscere.
Nel presente contesto si vogliono mettere in evidenza solo alcuni esempi che sono
particolarmente interessanti e lontani dalla comunicazione tradizionale fra esseri umani.
Nella materia condensata, cioè non costituita da atomi lontani, si incontrano molti fenomeni
che vanno sotto l'unica denominazione di transizioni di fase. Uno dei più comuni casi di
transizione di fase è il passaggio di una sostanza dallo stato solido allo stato liquido. Questo
fenomeno è ben noto in quanto può essere facilmente osservato da tutti. Tuttavia è più
interessante discutere il processo inverso. Quando un liquido puro, ad esempio acqua, viene
lentamente raffreddato esso mantiene il suo stato anche al di sotto della temperatura di fusione
del ghiaccio. Questo fenomeno è detto di sottoraffreddamento. Il liquido non riesce a rendersi
conto che, a quella temperatura, è preferibile che stia allo stato solido e continua a rimanere in
uno stato fluido. Tuttavia se una piccola perturbazione favorisce la formazione del primo
cristallo microscopico di ghiaccio si ha una trasformazione istantanea di tutto il liquido alla
fase solida. In un altro linguaggio, il primo cristallino di ghiaccio comunica al resto del
liquido la sua esistenza e si ha la conseguente trasformazione.
Esistono molti tipi di trasformazioni di fase, alcune delle quali con caratteristiche
particolarissime, ma tutte hanno la proprietà di tenere in continua comunicazione tutte le parti
che compongono il corpo che subisce, o è prossimo a subire, la trasformazione. Esistono, ad
esempio, leghe metalliche particolari che, ad una certa temperatura, subiscono una transizione
di fase che modifica la disposizione degli atomi (trasformazioni di questo tipo sono dette
strutturali). Alcuni di questi sistemi possono essere foggiati in forme diverse nelle due fasi e
queste forme vengono acquistate a seconda della temperatura (memoria di forma). Questo è
un caso in cui tutti gli atomi hanno memoria della loro posizione alle due temperature e la
comunicano agli atomi vicini in modo da disporsi secondo la forma macroscopica che era
stata originalmente stabilita con un'appropriata procedura.
189
Un altro tipo di comunicazione vicino alla scala umana e introdotta dall'Uomo è quella che
avviene tra i componenti del computer per mezzo del quale può essere scritto un testo come il
presente. Il computer è costituito da una miriade di componenti piccolissimi ma ha la capacità
di comunicare con il mondo umano. La tastiera consente di inviare al processore (così è detto
l'elemento centrale del computer che presiede a tutte le operazioni) le informazioni che
vogliamo immettere nella sua memoria e lo schermo consente di esaminare le informazioni
che nella memoria sono contenute. Il sistema permette di effettuare lo spostamento e l'analisi
di queste informazioni a grande velocità poiché tutti i suoi componenti sono in grado di
comunicare fra di loro e con il mondo esterno. Il computer si comporta come una grande
metropoli dove vi è un centro di controllo delle attività (potremmo dire la City) ed infiniti
magazzini, centri di produzione e smistamento ed infine un sistema di raccolta delle richieste
e distribuzione dei prodotti. Ovviamente questa analogia non può essere perfetta, ma molti
sono i punti di contatto che potrebbero essere cercati con un attento esame che però esula dal
presente contesto.
2.3 - La scala cosmologica
Come per il mondo microscopico, la scala cosmologica non può essere compresa con i nostri
normali mezzi. Sebbene l'Universo sia in parte osservabile con i nostri sensi, la porzione di
cui abbiamo qualche informazione diretta è così piccola e l'aspetto che cogliamo è così
secondario che è bene spogliarsi di ogni senso comune prima di alzare anche solo lo sguardo
al cielo.
La comunicazione fra i componenti dell'universo avviene con mezzi molto diversi da quelli
impiegati dagli esseri umani e dalle particelle microscopiche. Il mezzo più importante è
probabilmente l'interazione gravitazionale, tuttavia molti altri fattori entrano in gioco, primo
fra tutti la dimensione incredibile dell'Universo conosciuto (quello sconosciuto potrebbe
essere molto più grande). Ogni descrizione attuale dell'Universo, prescinde dall'assumere una
dimensione finita per esso. Il massimo successo viene ottenuto con una descrizione che
assume l'Universo come omogeneo ed isotropo. Il primo termine si riferisce al fatto che, non
già le stelle, ma le intere galassie costituiscono un piccolissima granulosità nella struttura
dell'Universo così che esso può essere pensato come un fluido, come l'acqua le cui molecole
non sono assolutamente rilevanti per la scala umana. Il secondo termine ribadisce il fatto che
l'Universo va inteso come una cosa che è allo stato liquido e non ha direzioni speciali. In
questo incredibile Universo tutti i componenti a tutti i livelli comunicano fra loro: le stelle
raccolgono con i loro campi gravitazionali i pianeti, le stelle doppie si scambiano materia,
gruppi di stelle si riuniscono a formare galassie, con forme dettate dalla velocità di gruppi di
stelle che impiegano decine e centinaia di migliaia di anni ad orbitare attorno a centri comuni.
In mezzo ad esse stelle ormai morte e buchi neri che assorbono materia dallo spazio
circostante. Ogni oggetto è in comunicazione con gli altri e solo così si raggiunge una parziale
equilibrio in continua evoluzione. Al di sotto di tutta questa materia sembra esserci una
quantità ancor più grande di materia oscura che non emette luce ma che fa sentire la sua
presenza con un forte campo gravitazionale che domina il movimento delle galassie ed anche
la loro evoluzione.
3 - I limiti fisici alla comunicazione
Nel descrivere quello che accade sulla scala cosmica si devono necessariamente invocare
comunicazioni che avvengono su distanze e su tempi che, sulla scala umana, non hanno
praticamente significato. Tuttavia l'Universo così come noi lo possiamo osservare con i nostri
mezzi è dominato da un limite che appare, attualmente, insormontabile. Questo limite è la così
detta velocità della luce.
Allo scopo di non rischiare di parlare di fantascienza, per altro degnissimo ed apprezzabile
190
genere letterario e di costume, è opportuno precisare cosa sia questo limite.
Nella nostra esperienza quotidiana sappiamo che le velocità degli oggetti si addizionano
(compongono) secondo semplici leggi. Ad esempio se un treno viaggia in una certa direzione
a 100 km all'ora ed un viaggiatore lo percorre alla velocità di 5 km all'ora nella stessa
direzione, un osservatore che si trovi sul marciapiede di una stazione dirà che il viaggiatore
va, rispetto al suolo, alla velocità di 105 km all'ora. Questa legge, che appare intuitiva, viene a
cadere se le velocità in gioco sono molto alte. La legge di composizione delle velocità diviene
più complessa che una semplice addizione e la sua forma è tale che se si compongono due
velocità di cui una sia uguale alla velocità della luce, allora la velocità composta sarà ancora
la velocità della luce. Questo risultato, che è confermato da numerosissimi ed accurati
esperimenti, sembra essere in contraddizione con l'intuito, ma è, in realtà, solo diverso da
quanto osserviamo nel nostro mondo quotidiano dove velocità molto alte non si possono
osservare mai (anche il più veloce razzo va solo a un decimillesimo della velocità della luce).
Questo fenomeno, che va visto come una delle infinite curiosità che ci riserva la Natura, fa sì
che ci sia una sorta di separazione fra gli oggetti più veloci della luce (se ve ne sono) e quelli
più lenti. Nessun oggetto può superare, in un senso o nell'altro, questa linea di demarcazione.
Noi siamo dalla parte degli oggetti più lenti della luce. In tale situazione qualsiasi
informazione si voglia inviare, noi, o anche gli oggetti inanimati di cui si è discusso nei
paragrafi precedenti, si dovrà fare i conti con questo limite. Esso è un reale limite alle
possibili comunicazioni e fa sì che l'universo si presenti così come lo vediamo (noi ed i nostri
strumenti). Quest'ultimo punto è molto importante poiché l'Universo comunica a noi le sue
leggi, ma lo fa con un mezzo che non può essere più veloce della luce. Questo limite produce
anche dei limiti alla quantità di informazione che si può inviare da un punto all'altro in certo
tempo, qualunque sia il mezzo ed il codice che si impiegano.
----Francesco Sacchetti è nato a Roma nel 1946. Insegna attualmente
all'Università di Perugia, Corso di Laurea in Fisica. Si occupa del problema a
molti corpi, con particolare riferimento agli elettroni nella materia condensata:
un problema considerato di frontiera negli ultimi 50 anni e avente importanti
relazioni anche con le applicazioni in numerosi settori. In particolare si è
impegnato nello studio dell'origine delle proprietà magnetiche della materia,
con riferimento al comportamento degli elettroni nei materiali magnetici. Al
fine di sviluppare queste tematiche ha impiegato costantemente la diffusione dei
neutroni termici, tecnica poco impiegata in Italia, ma di largo uso nei paesi
avanzati, avviando così il rilancio di queste metodologie nel nostro paese. E'
attualmente coordinatore delle attività italiane presso le maggiori installazioni
mondiali dedicate all'uso dei neutroni termici per lo studio della materia
condensata.
[email protected]
191
Irreversible entropy in biological systems
(Umberto Lucia)
Abstract
The maximum of the entropy due to irreversibility has recently been demonstrated as a principle of
stability for the open systems. This principle is applied to biological systems to obtain their
thermodynamic conditions of stability. A thermodynamic analysis of the synthesis of the ATP is
developed.
Keywords:
bio-chemical reactions, Irreversible entropy, Maximum entropy, synthesis of ATP,
thermodynamic biological systems, thermodynamic stability of biological systems
Nomenclature
Latin symbols
b
constant
E
Ecological function [J/s]
g
molar Gibbs energy [J/mol]
J
generalised fluxes
L
interference coefficients [K s/kg2]
LT
Thermodynamical Lagrangian [J]
L
Lagrangian [J/(m3K s)]
P
power output [J/s]
R
ideal gas constant (= 8.314 [J/(mol K)])
S
entropy [J/K]
t
time [s]
T
temperature [K]
V
Volume [m3]
Greek symbols
Χ
scalar value of generalized forces
η
efficiency
υ
reaction velocity [mol/(m3s)]
ξ
generalised lagrangian thermodynamical coordinates
Ψ
non-linear dissipative potential [J/(kg s K)]
Subscripts
env
environment
int
internal
irr
irreversible
sys
system
Symbols
δ
differential variation
∆
finite variation
ADP adenosine diphosphate
ATP adenosine triphosohate
C
carbon
CO2
carbon dioxide
H2O
water
O
oxigen
P
phosphorus
192
I. - Introduction
Energy conversion processes are relevant in the biological systems and, as a consequences,
they have been studied in the thermodynamic analysis of the living systems [1-3]. The study
of linear energy converters working in steady states has been also developed in linear
irreversible thermodynamics and the concept of efficiency has been first introduced [1,2].
Moreover some biological systems have been analysed as optimum working regime [2] and in
relation to dissipations [4].
Recently some optimisation criteria have been analysed for biological systems by means of
the irreversible thermodynamics [2]. The results obtained is that “the election of the working
regime depends on the needs or evolutionary advantages it provides, which could differ
among species” [2].
In thermodynamics of the irreversible processes a general principle of stability, the maximum
variation of the entropy due to irreversibility, for the steady states of the open systems is
deduced by means of the calculus of variations [5,6]. Then this principle has been shown to be
the general evolution principle of the natural systems [7-11].
In this paper the irreversible entropy maximum principle will be applied in the analysis of the
thermodynamic biochemical engineering systems evaluating their efficiency.
II. - Maximum principle for the open systems
To obtain the maximum principle for the open systems, a global analysis was developed [5,6].
The initial and the final states are assumed uniquely defined and stable, and the system has a
response time τ after which it goes from the initial to the final state. Thus the state functions
satisfy the conditions of the calculus of variations [5-8].
Following Gyarmati [5,6,8,9] a continuum general system was examined and its partition in
its subsystems with mass dm and volume dV = dm/ρ, with ρ the density, has been made.
For every sub-system the density of the thermodynamic Lagrangian per unit of time and
temperature L been defined as:
d 3 LT
(1)
L =
dVdTdt
where LT is the thermodynamic Lagrangian. The analytical expression of L is [5,6,8,9]:
⋅
dS
L =
− Ψ
dV
(2)
where [5,6,8]:
⋅
(3)
dS
=
dV
∑
ij
Lij ξ iξ j +
1
∑ Lijk ξ iξ jξ k
2 ijk
with ξ generalised co-ordinates, and Ψ, the non-linear dissipative potential density, is [5,6]:
(4)
Ψ =
1
1
Lijξ iξ j + ∑ Lijk ξ iξ jξ k
∑
2 ij
6 ijk
To obtain the thermodynamic Lagrangian from the relation (1) the integration on the total
volume V, on the temperature and on time was done, obtaining by the analytical expression
(2), with the (3) and (4), and by the Gouy-Stodola theorem, which states that when a system
operates irreversibly it destroys work at the rate that is proportional to the system's rate
entropy generation [6], the following expression [5-9]:
193
(5)
L = ∫ dt ∫ dT ∫ dVL =
∫ ∆S
irr
dT
where ∆Sis the variation of the entropy due to irreversibility.
Thus, as a consequence of the principle of the least action [5-7], the following result was
obtained [5-8]:
δ(∆Sirr) = 0
(6)
So the required principle of stability for the open systems stationary states was deduced and
demonstrated. This principle can be expressed as: “the condition of stability for the open
systems' stationary states consists of the maximum for the variation in the entropy due to
irreversibility” [6-9].
This principle, here shown in its most general form, has been verified both in linear and in
non-linear physics [5-9,11].
III. - Entropy due to irreversibility in biological systems
In irreversible thermodynamics the steady states revel themselves very interesting because
they are characterised by the constancy in time of their thermodynamic variables, even when
they are not homogeneous inside the system's bulk; to maintain these inhomogeneities there
are required some fluxes like mass, energy or others [2,5-8,11-20].
Now a steady state system, characterised by two coupled processes with generalised fluxes (
 
J 1 , J 2 ) and corresponding forces (X1,X2) considered. Considering the near-equilibrium
⋅ int
irreversible thermodynamics, the time variation of the internal entropy of the system S sys is
defined as follows [2,5-8,11-13,16,18-20]:
(7)
⋅ int
S sys = J1X1+ J2X2
Following Santillán et al. [2] only internal irreversibility are considered because it has been
shown that they are the only responsible of the whole entropy increments of the universe
[1,2,5,7-9,18-21].
The total entropy increments are the results of the internal and external contributions of the
⋅
⋅
entropy variations both of the system S sys and of the environment S env :
(8)
⋅ int
⋅ ext
 ⋅
 S sys = S sys + S sys
 ⋅
⋅ int
⋅ ext
 S env = S env + S env
It has been shown [2] that
(9)
so that the relations (8) becomes:
⋅
 int
S
 env = 0
 ⋅
⋅ ext
 S ext = − S env
 sys
194
⋅ int
⋅ ext
 ⋅
 S sys = S sys + S sys
 ⋅
⋅ ext
 S env = S env
(10)
⋅
As a consequence the total entropy increments in time, due to irreversibility, S irr , is:
(11)
⋅
⋅
⋅ int
⋅
S irr = S sys + S env = S sys = JX+ JX
where, the in many biological systems, Xis considered constant [1,2].
Recently has been first introduced the ecological function E:
(12)
⋅
E = P - T S irr
where P = - T J1X1 is the power output and T is the equilibrium temperature. The ecological
function must be maximised in the steady state [21].
Considering the relation (11) in the relation (12) it follows:
(13)
E = - T (2 J1X 1 + J 2 X 2 )
Using the maximum irreversible entropy variation coupled with the condition of maximum for
the ecological function, the following relation can be deduced:
(14)
 ⋅
 d S irr = J 1 dX 1 + X 1 dJ 1 + X 2 dJ 2 = 0
 dE
= − 2 J 1 dX 1 − 2 X 1 dJ 1 − X 2 dJ 2 = 0

 T
2
Solving this system and considering that
J=
∑
k=1
Lik X k , with i = 1,2 and
LOnsager
coefficients [2,5-8,12-16,18], such that L= L, it follows that the condition of stability of the
steady state for biological systems is:
(15)
X1 = −
L12
X2
2 L11
IV. - Application to thermodynamic biochemical engineering systems: the
synthesis of the ATP
In order to employ the previous results in the thermodynamic analysis of the biochemical
engineering systems, the hypotheses of the linear irreversible thermodynamics model, here
deduced, are summarised in the following:
i) the biological system is in a non-equilibrium steady state consisting of two coupled process
ii) the driven force Xmust be constant
iii) only linear relations are considered.
It has been demonstrated that these hypotheses are acceptable for many biological systems
[1,2].
195
Following Sántillan et al. [2] the synthesis of the ATP is considered in anaerobic glycolysis
and in respiration. The chemical energy conversion can be described by the following
chemical equations, in which the driver reaction is indicated with curly brackets and the
driven reaction by square brackets:
(16)
{glucose} + [2ADP + 2P+] / {2lactate} + [2ATP]
{6O2 + glucose} + [36ADP + 36P+] / {6CO2 + 6H2O} + [36ATP]
For this system the generalised fluxes and forces are [2]:
J1 = υ 1
J2 = υ
(17)
2
X1 = −
∆ g1
T1
X2 = −
∆ g2
T2
where υ1 and υ2 are the reaction velocities, such that υ1 = υ2 = υ [2], while ∆gand ∆gthe
molar Gibbs energies changes of the corresponding reactions.
For this reaction the linear phenomenological Onsager coefficients are [2]:
(18)
L= L= L= L=
υ
mf
b
R
where υmf is the maximum forward velocity, b a positive constant that takes into account the
enzymatic processes and R the ideal gas constant [2].
Introducing the definition of efficiency η = - (J1X 1 / J 2 X 2 ) [1,2] and considering the relations
(17), (18) and (15) the following result can be obtained:
(19)
η =
1 T2
2 T1
Using the data present in literature [2,21] about the chemical reactions (16) the numerical
evaluation of (19) for the chemical reactions (16) is the following:
(20)
η = 0 .5
η = 0 .7
according to the measured values presented in the Reference [2].
V. - Conclusions
The principle of maximum for the variation of the entropy due to irreversibility has been
summarised. It follows that it represents a general principle of investigation for the stability of
the open systems. In fact this principle states that: “in a general thermodynamic
transformation, the condition of the stability for the open systems' equilibrium states consists
196
of the maximum for the variation of the entropy due to the irreversibility”.
This statement represents an important result in Irreversible processes Thermodynamics
because it represents a global theoretical principle for the analysis of the stability of the open
systems' states.
The result here obtained must be compared with the ones recently obtained by Bejan [11]. In
fact, Bejan has developed the “constructal” theory, a theory by which it is possible to predict
some macroscopic shapes, originated by the spatial organisation, in Nature, both in living and
in non-living. The Bejan result is an optimisation principle. Bejan himself has pointed out that
the theoretical bases of the architecture of many living and non-living systems remains an
unknown design principle [11].
The irreversible entropy maximum principle [6] represents the theoretical fundamental of this
design principle.
Starting from this thermodynamic result the biological systems have been analysed by the
irreversible entropy maximum principle and a condition for the stability of their steady states
has been obtained.
A particular application has been done to the synthesis of the ATP: the results obtained agree
with the measured ones present in literatures.
References
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Thermodynamics, Harvard University Press, Cambridge, 1983
Linear
Nonequilibium
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Firenze, Italy, SGE, Padova, 1997, 15
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[20]
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[21]
F. Angulo-Brown, M. Santillán and E. Calleja-Quevedo, Il Nuovo Cimento, D17
(1995) 87
----[A presentation of the author can be found in Episteme N. 4]
198
An algorithm for the cybernetic model of tumour evolution
(Umberto Lucia)
Abstract
Starting from the results recently obtained in Rational Thermodynamics, the thermo-physical
analysis of the dynamics of cancer interaction with the host immune system is developed
using the mathematical model recently obtained in literature. A mathematical model to
evaluate the growth of the cancer is proposed.
1. - Introduction
The high degree of order displayed by living systems in space and time makes one often
wonder about their compatibility with the laws of Thermodynamics, specifically with the
Second Law. The tendency of living systems to increase their internal order in the course of
their differentiation, growth, development, may appear to be at odds with the tendency of
most condensed matter to proceed towards states in which the entropy of the systems is
maximized. A living system is not isolated and is not in equilibrium. It is rather an open
system, which can exchange matter and energy with the environment. It is in a stationary
state, which is not at equilibrium, but which must display stability for times, which are short
respect to a lifetime and long with respect to the characteristic times of the internal processes
of the system. It can evolve continuously to other stationary states of slightly different
structure and function in times comparable to its lifetime [1].
Recently, in Thermodynamics, the basic role of the entropy has been demonstrated in global
analysis [2-5] and in the studies of the stability also for the open systems [2,3]. Moreover
mathematical results about the analysis of the Thermodynamic stability of the open systems
have been recently obtained [3-5], for any non-linear thermodynamic transformation, also
when chemical reactions can occur.
In this paper this thermodynamic results are used in the analysis of the dynamics of cancer
interaction with the host immune system, described by the more recent mathematical model
proposed [6]. As a consequence a mathematical model for the evaluation of the numerical
growth of cancer cells is obtained.
2. - Recently developments in Rational Thermodynamics
To deduce a global principle of analysis for the stability of the open thermodynamic systems
the initial and the final states have been assumed uniquely defined and stable, and the system
has a response time τ after which it goes from the initial to the final state. Thus the state
functions satisfy the conditions of the calculus of variations [1].
A continuum general system was examined and its partition in its subsystems with mass dm
and volume dV = dm/ρ, with ρ density, has been made [3-5]. For every sub-system the density
of the thermodynamic Lagrangian per unit of time and temperature L has been defined as:
d 3 LT
L =
(1)
dVdTdt
where T is temperature, t time and LT is the thermodynamic Lagrangian. The analytical
expression of L is [3]:
199
⋅
L = dS − Ψ
dV
(2)
where S is the entropy and [3]:
⋅
dS
=
dV
∑
ij
Lij ξ iξ j +
1
∑ Lijk ξ iξ jξ k
2 ijk
(3)
with Lij and Lijk symmetric coefficients, and Ψ, the non-linear dissipative potential density, is
expressed by the relation [3]:
Ψ =
1
1
Lijξ iξ j + ∑ Lijk ξ iξ jξ k
∑
2 ij
6 ijk
(4)
To obtain the thermodynamic Lagrangian from the relation (2) the integration on total volume
V, on temperature T and on time t was done, obtaining, by the analytical expression (3) and
the Gouy-Stodola theorem [3], the following expression [3]:
LT = ∫ dt ∫ dT ∫ dVL =
∫ ∆S
irr
dT
(5)
where ∆Sirr is the variation of the entropy due to irreversibility.
Thus, as a consequence of the principle of the least action [3], the following result was
obtained [3-5]:
δ(∆Sirr) = 0
(6)
and during the thermodynamic path from the initial to the final stationary state [3-5]:
δ(∆Sirr) < 0
(7)
As a consequence the non-linear principle of stability for the open systems' stationary states
has been obtained; this states: “the non-linear mathematical condition of stability for the open
systems' stationary states consists of the maximum for the variation of the irreversible entropy
function, in the response time of the system” [3-5].
3. - The mathematical fundamental for the dynamics of tumor interaction
with the host immune system
To describe the dynamics of cancer interaction with the host immune system a kinetic or
Boltzmann-like theory is considered. This can describe the non-equilibrium evolution of a
population of several interacting populations referred to the physical system. This system is
constituted by a cancer which grows in vivo and interacts with the host immune system. The
host system has the potential capability of producing some significant anti-cancer reactions,
since it can recognize cancer-associated membrane antigens or mutated peptides presented
histocompatibility complex [1,6-8]. The cellular interaction can be modelled by the evolution
equations for statistical variables related to the distribution over physical states which
characterize the various interacting populations [6-8].
The axiom, which are the fundamental of the mathematical theory, are [7]:
200
Axiom 1. - The physical system consists of cells belonging to n interacting populations, each
denoted by the subscript i, with i =1,...,5, where i = 1 corresponds to the cancer cells, i = 2 to
the cells of the feeding host and i = 3 to Polymorpho Nuclear Leukocytes, i = 4 to
Lymphocytes and i = 5 to Macrophages.
Axiom 2. - The physical state of each cell is described by the variable u, the activation state,
whose values span in the interval [0,1]. The statistical of the state of the whole system is
defined, for each of the n populations, by the number densities
Ni = Ni(t,u) : [0,T] × [0,1] → R+
(8)
where Ni(t,u) du defines the number of cells of the i-population which, at the time t, are
characterized by an activation in the range [u, u + du]. The state of the whole system is
defined by the whole set of number densities {N1,...,Nn}Ni≥0. The number of cells in the same
volume at time t is defined by:
1
n(t) =
∫ N (t , u)du
i
(9)
0
Axiom 3. - Encounter between pairs can be divided into conservative encounters, which
preserve the total number of cells and are characterized by transition of state, and proliferative
encounters, which are characterized by increase or decrease of the number of individuals.
Conservative encounters occur between cell pairs, from the same or different populations, and
have transition rates of the type:
Aij(v,w;u) = ηij(v,w) ψij(v,w;u)
(10)
where Aij(v,w;u), elements of the n × n matrix A, denotes the number of encounters per unit
volume and unit time between cell pairs of the (i,j)-populations with states v and w, and
transition into the state u; ηij(v,w), elements of the n × n matrix η, is the encounter rate, which
denotes the rate of such encounter; ψij(v,w;u), elements of the n × n matrix ψ, is the transition
probability density, which denotes the density of the probability distribution of such
encounters and transition into the state u. Proliferate encounters occur between cell pairs of
the same or different populations, and generate a proliferation or destruction rate in the ipopulation of the type:
5
S i (t , u ) = N i (t , u )∑
1
∫s
j= 1 0
ij
(u, v) N j (t , v)dv
(11)
where sij, elements of the n × n matrix s, denotes a term which will be defined proliferationdestruction rate coefficient. The elements sij of the n × n matrix s can be written as:
sij(u,v) = βij(u,v) dij
(12)
where (see Table I):
β
ij
β
ij
β
ij
= 1 
 proliferation
 when the ecnounter generates
= − 1
 destruction
= 0
when nothing occurs
(13)
201
and dij must be evaluated experimentally.
Axiom 4. - The number of encounters per unite time in the volume, between cells of the (i,j)populations with states (u,v), is proportional to the product Ni(t,u) Nj(t,v).
Axiom 5. - An external action ϕi(t), which may depend on t, can be defined in such a way that
it acts directly on the rate growth of u related to Ni
du
= ϕ i (t )
dt
(14)
Axiom 6. - Generation from the bone marrow will be equivalent to the death of unstimulated
cells. The artificial addition of cells from each population is simulated by the source terms
γi(t,u).
4. - The thermo-physic and mathematical model
In this Section it will be obtained the result of the application, of the theorem of maximum for
the entropy due to irreversibility in the open system [11], to the dynamics of tumor interaction
with the host immune system.
The irreversibility consists of the proliferation or destruction rate in the population caused by
the encounters between cell pairs of the same or different population. This is expressed by the
proliferate encounters (11). As a consequence the variation of the entropy due to
irreversibility ∆Sirr is directly proportional to this term:
∆Sirr = constant Si(t,u)
(15)
Now, applying the maximum principle (6), it follows:
δSi(t,u) = 0
(16)
which, considering βij and dij constant, becomes:
1
Λ i Ni = −
Ni
5
1
5
∑
j= 1
β ij d ij N j
∑
j= 1
β ij d ij Λ j N j
(17)
where Λk is the following differential operator:
d
Λk = dt + ϕ
k
d
du
(18)
From the differential equation (17), the following two first order differential equations system
can be obtained:
202









1 dN i
= −
N i dt
5
1
5
∑
β ij d ij N j
j= 1
dN i
1
ϕi
= −
Ni
du
∑
j= 1
5
1
5
∑
j= 1
β ij d ij
β ij d ij N j
∑
j= 1
dN j
dt
dN j
β ij d ij ϕ
j
(19)
du
To solve this mathematical problem it is necessary to deduce a model for the variable u as a
function of time, ϕ and d, starting from the experimental data. Here, to obtain an analytical
first order approximated solution, the mathematical problem can be solved assuming that the
two differential equations are independent and that ϕ and d are constant. As a consequence it
follows that, for the first equation, the solution is:
5
N i (t )
=
N i0
5
∏
∑
k= 1
k≠ j
β ik d ik N k (t ) + β ij d ij N j 0
(20)
5
∑
j= 1
j= 1
β ij d ij N j (t )
and, for the other one, it results:
N i (u )
=
N i0
5
∏
j= 1
 5



 ∑ β ik d ik N k (u ) + β ij d ij N j 0 
 kk =≠ 1j



∑ (β
5
j= 1
ij
d ij N j (u ) )
ϕ j /ϕ
ϕ j /ϕ i
(21)
i
where Nk0 are the number of cells at the initial time.
From these relations (20) and (21) it is possible to argue that:
1) cancer growth is a function of the time behaviour of the immune system;
2) cancer growth depends on the statistical distribution of the tumour and the immune cells;
3) cancer cells proliferation or destruction depends on the interaction between tumour and
immune cells and between the different immune cells themselves;
4) cancer growth is a function of the u-state behaviour of the immune system;
5) cancer cells proliferation or destruction depends on the u-state change velocity rate ( ϕj/ϕi)
between the u-state changes velocity ϕ of the immune and of cancer cells.
As a consequence of these considerations about the first order solution obtained, it follows
that cancer cell is an adaptative system, able to change its u-state and the u-state change
velocity as a function of the external conditions and the interactions with the immune system.
5. - Conclusion
The dynamics of cancer interaction with host immune system has been analysed using the
more recent mathematical model and applying the principle of maximum entropy variation
due to irreversibility. A two first order differential equations system (19) has been obtained to
evaluate the numerical density variation of the cancer and immune cells during their
203
interaction. A first order solution of this differential equations system has been obtained. It
follows that cancer growth is a function of the time behaviour of the immune system, it
depends on the statistical distribution of the cancer and the immune cells, it is a function of
the u-state behaviour of the immune system, cancer cells proliferation or destruction depends
on the interaction between cancer and immune cells and between the different immune cells
themselves, it depends on the u-state change velocity rate between the u-state changes
velocity of the immune and cancer cells.
As a consequence it can be argued that cancer cell is an adaptative system, able to change its
inner state and its inner state change velocity as a function of the external conditions and the
interactions with the immune system.
In Figure 1 represents the qualitative shape of the behaviour of two kind of cancer, whose data
can be found on Ref. [7]: a highly aggressive and poorly immunogenic cell line established
from the first in vivo transplant of the moderately differentiated mammary Aden carcinoma
that spontaneously arose in a 20 month old multiparous BALB/c mouse and a poorly
immunogenic methylcholantherene induced sarcoma of BALB/c mice. The shapes obtained
agree with the experimental shapes reproduced on Ref. [7].
j:
i:
1: Tumor
2: Envir.
3: Leuk.
4: Lymph.
5: Macroph
1: Cancer
0
1
±1
±1
±1
Table I - βij coefficients (see Ref. [7])
2: Envir.
1
0
0
0
0
3: Leuk.
±1
0
0
0
0
4: Lymph.
±1
0
0
0
0
5: Macroph.
±1
0
0
1
0
Figure 1 - Qualitative shape for the cancer growth as a function of the immune system answer
(cancer data from Ref. [7])
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lymphocytes on a human melanoma, Science, 254 (1991) 1643-164
----[A presentation of the author can be found in Episteme N. 4]
205
A cybernetic model for the thorax potential in ECG maps
A recent history of mathematical applications
(Umberto Lucia)
1. - Introduction
During the last three decades, computer modelling and mathematical simulation have become
increasingly important in cybernetic and physics applications to physiology models. In fact
mathematical modelling has been shown to be a substantial tool for the investigation of
complex systems and their dynamics, and moreover, since the level of complexity it is
possible to model parallels existing hardware configurations, primarily tuned to memory, disk
capacity, and CPU speed advances in computer technology have made possible their
application to the computational models of complex living systems. For these reasons, the
computational methodology has taken hold in medicine and has been used successfully to
suggest physiologically and clinically important scenarios and results [1]. The goal consists in
understanding which of the system's characteristics and interactions are essential in order to
quantify and represent its behaviour: such results may help to describe known behaviour as
well as predict unknown responses and may suggest new representations.
In this paper, the aim is to show a methodological technique to solve the inverse problem in
electrocardiography (ECGraphy); to do so the fundamental of modelling and simulation
technique, which can be applied to a class of bioelectric field problems, will be described.
It will be analysed a class of direct and inverse volume conductor problems which arise in
electrocardiography [2-5]. The solutions to these problems have applications to defibrillation
studies, detection and location of arrhythmia, impedance imaging techniques, and localization
and analysis of spontaneous brain activity in epileptic patients; furthermore, they can, in
general, be used to estimate the electrical activity inside a volume conductor, either from
potential measurements at an outer surface, or directly from the interior bioelectric sources.
It will be described the recent history of the mathematical models used in the cybernetic
interpretation of physiological input in the direct problems.
2. - Myocardium electric volume conductors
A general volume conductor can be defined as a region of volume, Ω, with conductivity, σ,
and permittivity, ε, in which it resides a source current per unit volume, Iv.

Solving a volume conductor problem means to find the expressions for the electric field, E ,
and potential, Φ, within the volume, Ω, or on the boundary surface, Γ.
The bioelectric current sources, Iv, arise from excitable cells undergoing an activation process:
for cardiac tissue, it can be characterized as the process in which the cells undergo rapid
depolarization. The depolarization process causes a propagation of excitation waves to move
through the myocardium and, as a consequence, these waves produce an extracellular
potential field, Φ. This potential field can be characterized by [1-6]
i.
ii.
iii.
iv.
v.
the geometry of the volume conductor
the conductivity of the volume conductor
the distance from the source current, Iv
the orientation of the source current, Iv
the intensity of the source current, Iv.
206
For the macroscopic volume conductor problem, in which the individual membrane currents
are not considered, it is possible to apply a quasi-static approximation. Because the
displacement current, jωεE, with j = − 1 , is much smaller than the conduction current, σE,
the propagation effects are negligible, and inductive effects are dwarf [5].
In this case, the more general analytical form consists of a reduction of the Maxwell's
equations to Poisson's one for electrical conduction:
∇ ⋅ σ ∇ Φ = − I v in Ω
(1)
In this form, the source region and an understanding of the primary bioelectric sources, Iv, are
considered in the form of a simplified mathematical model.
Alternatively, it is possible to define a boundary surface around the region which includes the
sources and recast the formulation in terms of information on that surface, finding the
following Laplace's equation:
∇ ⋅σ ∇ Φ = 0
in Ω
(2)
Now, these equations must be solved considering appropriate set of boundary conditions.
The associated boundary conditions depend on the type of problem one wishes to solve.
Here, the direct problem will be solved respect to Φ, with a known description of Iv and the
Neumann boundary condition:

σ ∇ Φ ⋅ n = 0 on ΓT
(3)
This problem can be used to solve the direct ECGraphy volume conductor problems: it is
possible to utilize the descriptions of the current sources in the heart and calculates the
currents and voltages within the volume conductor of the chest and voltages on the surface of
the thorax.
The inverse problems associated with these direct problems involve the estimation of the
current sources Iv within the volume conductor from measurements of voltages on the surface
of the thorax itself.
So it is possible to solve the equation considering the boundary conditions:
Φ = Φ0
on Σ ⊆ ΓT

σ ∇ Φ ⋅ n = 0 on ΓT
(4)
(5)
The first is the Dirichlet condition, which says that it is possible to use a set of discrete
measurements of the voltage of a subset of the outer surface, while the second is the natural
Neumann condition, considered before. It does not look much different than the formulation
of the direct problem, so the mathematician Hadamard [7] noticed that inverse formulations of
boundary value problems were often ill-behaved and defined the conditions for well-posed
and ill-posed problems. For a problem to be well-posed in the Hadamard sense, it must meet
the following criteria:
1.
2.
3.
for each set of data, there always exists a solution
the solution is unique
the solution depends continuously on the data.
207
If a problem does not meet one or more of these criteria the problem is considered to be illposed. The bioelectric inverse problem in terms of primary current sources lacks two of the
three criteria for being well-posed:
a)
there is not a unique solution; in fact there is a multitude of solutions
b)
the solution does not depend continuously on the data; in fact small errors in
measurements may cause large errors in the solution.
While many strategies tend to be problem-dependent, there are a few which are generally
applicable to bioelectric field problems [7-9]: a general technique for dealing with the
problem of nonuniqueness transfers the problem to be solved into a model problem. One
usually breaks up the solution domain into a finite number of subdomains, in which a
simplified model of the bioelectric source can be described. Once the problem of
nonuniqueness is addressed, there still exists the problem occurring when the solution does
not depend continuously on the data. In these cases, the linear algebra counterpart to the
elliptic boundary value problem is often useful; in fact the numerical solution to all elliptic
boundary value problems can be written as follows [7-9] in the form of a set of linear
equations:
 
Az = u


z ∈ Z,u ∈ U
(6)


where z is the solution vector, u , is the vector of input data, A is the transfer matrix between

z and u , which describes the geometry and physical properties of the volume conductor, and
Z and U are the metric spaces for the variables. In this way, the direct problemis simply posed


as solving for u given z , while the inverse problem is to determine z given u .
A characteristic of A for ill-posed problems is that it has a very large condition number, so
that the ill-conditioned matrix A is very near to being singular. The inversion of a matrix,
which has a very large condition number, is highly susceptible to errors. The condition
number is defined as κ(A) - ||A||.||A-1|| or the ratio of maximum to minimum singular values
measured in the L2 norm. The ideal problem conditioning occurs for orthogonal matrices
which have κ(A) ≈ 1 , while an ill-conditioned matrix will have κ(A) >> 1. The condition of a
matrix is relative because it is related to the precision level of computations and is a function
of the size of the problem [7-9].
For the ECGraphy problem, voltages could be measured on the surface of the heart and used
to calculate the voltages at the surface of the thorax, as well as within the volume conductor of
the thorax. The inverse problems are formulated as using measurements on the surface of the
thorax and calculating the voltages on the surface of the heart. Here we are solving Laplace's
equation instead of Poisson's equation, because we are solving for distributions of voltages on
a surface instead of current sources within a volume [7-9].
If this problem is represented as a linear system, by expressing
AΦ = b
(7)
for the Cauchy problem:
 ATT

 AVT
A
 ET
ATV
AVV
AEV
ATE   Φ

AVE   Φ
AEE   Φ
  0
  
V  =  0
  0
E 
 
T
(8)
where the subscripts, T, V, and E stand for the nodes in the regions of the thorax, volume, and
epicardium.
In general, the ATE sub-matrix is zero, so it is possible to obtain:
208
ΦE = A-1 ΦT
(9)
3. - Physiological considerations and cybernetic model
Clinical ECGraphy is concerned with the problem of relating the time-varying potentials
measured at the thorax surface to the correlated electrophysiological phenomena in the
auricles and ventricles, during the heart cycle.
A detailed knowledge of the intracardiac charge distribution, the electromotive source, and the
extracardiac distribution of electric potentials, during the various phases of the heart beat, is
essential for a correct understanding of their correlation and the consequently pathologies
[10].
The distribution of the potentials in volume conductors was investigated by immersing an
isolated turtle heart in a cylindrical Ringer bath [10-12]: electrical recordings allowed the
scientists to obtain the instantaneous equipotential maps corresponding to the ventricular
activation. The maps showed that [10]:
i.
at the beginning of the ventricular excitation, the extracardiac potential distribution is
similar to that of produced by a single electric dipole, both near the heart and at the boundary
of the medium
ii.
the potential maximum is located near the apex of the heart
iii.
the potential minimum is located near the base of the heart
iv.
during later stages of ventricular activation, the potential distribution at the boundary
of the medium is still of the single dipole, while the potential pattern near the heart is much
more complicated
v.
during the multipolar phases, exploration of the medium near the heart provided
information about the probable location of multiple intracardiac excitation waves
vi.
the potential distribution and the correlated current distributions suggested that two
groups of active fibres are located in the right and left parts of the heart, at the end of
ventricular activation
As a consequence, it is possible to argue that, during the multipolar intervals, measurements,
taken at increasing distances from the heart, contain less and less information on the heart
activity.
It is of considerable clinical interest to determine whether thorax surface ECGraphy allows to
derive local heart information. Maps, representing the instantaneous distribution of the chest
potentials, in normal subjects and in cardiac patients, may give significant information about
the multiple depolarization waves travelling through the heart walls during the heart cycles,
allowing to obtain a method of clinical prevention in cardiac pathologies [10,13,14]. In fact, in
heart patient, the number, location and displacement of potential maxima and minima are
different respect to those of normal subjects [10,13].
The cybernetic model use to analyse the physiological phenomena is the multipole expansion,
which consists of an orthogonal expansion of the thorax potentials in spherical harmonics. To
do so, the thorax will be considered as a cylinder with an approximated circular cross section
and it will be drawn a sphere defined as follows [6]:
1.
2.
its centre is the symmetry centre of the cylinder
its total area is the same of the cylinder.
Now polar coordinates are introduced defining their origin coincident with the centre of the
sphere, the z axis along the vertical direction and the origin of the azimuthal angle ϕ on the
209
middle of anterior chest wall. In this geometry, it is possible to introduce the spherical
harmonics functions Ylm(ϑ,ϕ), with l = 0, 1, 2, ... and -l ≤ m ≤ l, defined as [15]:
Yl m (ϑ , ϕ ) =
1 2l + 1 (l − m)!
d l+ m
m
(
−
sin
ϑ
)
(cos 2 ϑ − 1) l e imϕ
l
l+ m
2 l! 4π (l + m)!
d (cos ϑ )
(10)
It has been showed that the electric potential V t(ϑ,ϕ), measured at the thorax surface, can be
expressed in terms of the spherical harmonics functions themselves as follows [6]:
7
l
∑ ∑
Vt (ϑ , ϕ ) =
l = 0 m= − l
g lm (t )Yl m (ϑ , ϕ )
(11)
where
g lm (ϑ , ϕ ) =
2π
∫
0
π
dϕ ∫ d (cos ϑ )V (ϑ , ϕ )Yl m∗ (ϑ , ϕ )
(12)
0
The first 64 spherical harmonics provide a very good representation of the ECGraphy maps,
taken with a particular arrangement of the leads on the thorax, but also the maps taken
wearing the lead jacket with any arbitrary orientation with respect to a prescribed system of
body axes.
It can be shown that it is possible to obtain the same representation by using a less number of
orthogonal functions introducing the Loéve-Karunen expansion.
A good approximation to decoding the data collected by the leads on the thorax surface is the
one provided by the research of the random variables which must be not correlated and by
which it is possible to write that the signal f(t) can be represented as follows:
f (t ) =
∑
c kψ k (t ) + E[ f (t )]
k
(13)
where ck are the uncorrelated random variables, the ψk the waves forms a priori unknown and
E[f(t)] is the error. At the beginning everything is unknown, so it is important to introduce a
lot of mathematical conditions. They are [16]:
1.
2.
3.
the set of the waves forms {ψ k (t)} T must be a set of orthogonal real functions on
the definition domain T
the functions ψk are normalized to 1 as follows:
2
(14)
∫T ψ k (t )dt = 1
the coefficients ck are given by the relation:
c k = ∫ f R (t )ψ k (t )dt
T
(15)
with fR(t) = f(t) - E[f(t)], the measured signal
4.
the functions ψk are numerated so that the variance of the random variables ck
associated to them are in non-increasing order:
E (ck2 ) ≥ E (ck2+ 1 )
(16)
5.
the ψk are such that, if it is considered the truncated series:
f N (t ) =
N
∑
k= 1
c kψ k (t ) + E N [ f (t )]
the N-th remainder is minimum in quadratic means:
(17)
210
EN
{∫ [ f (t ) −
T
}
f N (t )] dt = minimum
(18)
Under these hypotheses the ψk satisfies the homogeneous Fredholm integral equation:
∫
T
K (t , t ' )ψ k (t ' )dt ' = λ kψ k (t )
(19)
with K(t,t') the correlation function of the random function, defined as:
K(t,t') = E[fR(t) fR*(t')]
(20)
The technique of canonical expansion for random fields, the Loève-Karhuen expansion, has
been applied to the ECG maps reconstruction as follows [6]:
1.
the measured thorax voltage has been written by the Loève-Karhuen expansion:
V N (ϑ , ϕ ; t ) = Vˆ (ϑ , ϕ ) +
N
∑
k= 1
g k (t ) Fk (ϑ , ϕ )
(21)
with Vˆ (ϑ , ϕ ) = M t , I {Vt (ϑ , ϕ )} , average on time and individuals of the measured voltage
Fk(ϑ,ϕ) are normalized orthogonal functions on the domain [0,π]×[0,2π] of
definitions of the fields, and are to be determined
gk(t) are random variables evaluated as follows:
2.
3.
g k (t ) =
4.
2π
1
0
−1
∫ dϕ ∫ V (ϑ ,ϕ ) F (ϑ ,ϕ )d (cosϑ )
t
k
the Fk are labelled in such a way that the following condition is satisfied:
M t , I g k2+ 1 (t ) ≤ M t , I g k2 (t )
{
5.
}
{
}
the first N Fk are chosen in such way that:
1
 2π
M t , I  ∫ dϕ ∫ [Vt (ϑ , ϕ ) − V N (ϑ , ϕ )] 2 d (cos ϑ
 0 −1

) = minimum

(22)
(23)
(24)
It follows that the Fks satisfy homogeneous Fredholm integral equation:
2π
∫
0
1
{
}
dϕ ' ∫ M t , I [Vt (ϑ , ϕ ) − Vˆ (ϑ , ϕ )][Vt (ϑ ' , ϕ ' ) − Vˆ (ϑ ' , ϕ ' )]Fk (ϑ ' , ϕ ' ) d (cos ϑ ' ) = λ k Fk (ϑ , ϕ )
−1
(25)
The results obtained [6] showed that only N = 25 functions are necessary to describe the
ECGraphy signals, so that only 25 leads are necessary to reconstruct the potential maps with a
relative error of 1.5% [6].
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212
REPRINTS
213
Galactic Encounters, Apollo Objects and Atlantis:
a Catastrophical Scenario for Discontinuities in Human History
(Emilio Spedicato)
Dedicated to the memory
of my my late uncle, dr. Umberto Risso.
He led me to scientific investigation.
Summary: Recent findings about interactions of the Earth with extraterrestrial bodies, particularly
comets and Apollo-like objects, are reviewed, with special attention to climatological effects. We
discuss the hypothesis that the last glaciation was started by a collision over a continent and was
terminated by a collision over an ocean. We propose that during the glaciation sufficiently good
climatic conditions in the lower latitudes made possible for mankind to develop a high level of
civilization. The Platonic story of Atlantis is interpreted as an essentially correct description of a
political power active in the final period of the last glaciation. Arguments are given to identify the
island of Atlantis with Hispaniola. The catastrophe which destroyed the Atlantis civilisation is
identified with the oceanic collision which terminated the glaciation. In this framework we also
propose a new interpretation of the flood stories in the Bible and in the Gilgamesh epics, and of the
origin of the Camunian civilisation.
1. Introduction
The idea that collisions between the Earth and celestial bodies have occurred in the past and
have been responsible for dramatic geological and biological effects, including orogenesis and
destruction of many species, was commonly accepted until the nineteenth century (see
Whinston [1] and various statements in Laplace). In the second half of the last century, due
mainly to the influence of Lyell in geology and of Darwin in biology, the concept of slow
evolution by exclusively terrestrial mechanisms became dominant. In the early Fifties of this
century Immanuel Velikovsky, drawing upon immense erudition, fought a lonely battle in
favor of catastrophism of extraterrestrial origin. He not only invoked great catastrophes to
explain geological features, but claimed that relatively minor catastrophes occurred in
historical times, in particular in the first two millennia B.C. He related events like the plagues
of Egypt and Sennacherib's army destruction under the walls of Jerusalem to natural
catastrophes in the course of a great work [3, 4, 5, 6] aimed at synchronizing the traditions of
Israel with the history of the neighbouring peoples. This work led him to propose a
substantially revised chronology of Egyptian and related histories.
While this is not the place to discuss the historical revision proposed by Velikovsky
(that errors of centuries affect Egyptian chronology, upon which the chronology of the other
ancient peoples is based, has now been claimed by astronomers as Clube and Napier [7] and
by several historians, see for instance Bimson [121], James [122] and Rohl [123] or, for a
more radical chronological revision, Heinsohn [136,137]) we have to observe that the
extraterrestrial bodies which are now considered to be the main agents of the catastrophes, say
the Apollo objects, were unknown to Velikovsky. Indeed, even if the first Apollo was
discovered in 1932, in the Fifties the existence of such objects went practicallyunnoticed in
the scientific community and no attention was paid by the astronomers to the question of their
possible collisions with the Earth.
Drawing upon astronomical information from mainly Babylonian sources, Velikovsky
[8] was led to attribute the origin of the terrestrial catastrophes to interactions with Venus and,
to some extent, with Mars, planets which he claimed to be recent offsprings of Jupiter and
214
Saturn. There are substantial arguments against this hypothesis, to which Velikovsky was in
some sense forced in absence of the type of information that we now possess. A remarkable
explanation of the special role of Venus and Mars in Babylonian records has now been given
by Clube and Napier [7], in terms of orbital periods commensurability between these planets
and the comets Hencke and Halley.
The hypothesis however that the orbits of the planets have changed during the period
when Homo Sapiens has been living on the Earth, variously estimated from several thousand
years to possibly more than one million years, cannot be completely discontinued, due to the
recent discovery of the chaoticity of the planetary orbits, implying the possibility of very rapid
changes with possible catastrophic effects. The so called polar planetary model, developed
mainly by Talbott [124] and coworkers publishing in the journal Aeon, but going back to still
unpublished work of Velikovsky, assumes that during man memory the planetary system
passed from a previous configuration, related to the golden age, where Sun, Earth, Mars,
Venus and Saturn revolved in an aligned configuration, to the present one via a catastrophical
collapse of the previous configuration. For a study of the equations defining the polar
configuration see Grubaugh [125], Spedicato and Huang [126], Spedicato [141].
In the Seventies sufficient information was collected about Apollo objects and the
cratering history of the Earth and the Moon to arise again interest in the collisional hypothesis,
and to give it a sound scientific basis. Possibly the first work to divulge the importance of the
Apollo objects as agents of catastrophes was Wetherhill's article [9] on Scientific American in
1979. While already in 1979 Clube and Napier [10] independently rediscovered the terrestrial
catastrophism of Velikovsky on the new basis of Apollos and comets impacts, in 1980
worldwide attention was given to the claim of Alvarez et al. [11] (but see also Ganapathy
[12], Smit and Hertogen [13], Hsu [13] and, for a different view, Officer et al. [84]) that the
disappearance of the dinosaurs 65 millions years ago was due to a collision with a large
extraterrestrial object. The claim was based upon geological traces attributed to the impact
which are found in a narrow layer of deposits marking the separation of the Cretaceous and
the Tertiary geological sediments. The layer contains an unusually large amount (hundred of
times greater than normal, around 105 tons of iridium) of minerals, like iridium, which are rare
on the Earth, but common in extraterrestrial objects, like meteorites, and in interstellar dust. It
was also found, see Wolbach, Lewis and Anders [78], that the layer contains a high amount of
graphitic carbon, presumibly due to worldwide fires triggered by the heat wave associated to
the impact. The total amount of carbon is such that much of the world vegetation and part of
the surface deposits of fossil fuels must have been ignited.
The location of the impact is now considered to be the so called Colombian basin,
extending partly in the Caribbean Sea and partly in the Yucatan peninsula. Here a 300 km
diameter buried crater, the Chicxulub crater, has been found surrounded by huge ejecta
deposits, see Hildebrand and Baynton [79]. In the past other locations had been considered,
including Ireland, the Manson crater in Iowa and a location close to Cuba, see Bohor and
Seitz [80].
Theoretical work by Clube and Napier [7, 10, 14, 15, 16, 17], following the discovery
of molecular clouds (see Cohen et al. [18] or Edmunds and Solomon [19] ), has nowput
catastrophism in the fascinating and far reaching scenario of birth, evolution and death of
planetesimals and cometary bodies. Numerical and experimental work on the effects of
collisions has been performed by many authors, giving useful quantitative information. It will
take however long to obtain a definitive picture, in view of the extreme complexity of the
nonlinear phenomena under consideration.
Even more "exotic" catastrophical extraterrestrial agents have recently been
considered. They include:
1 - Fargion and Doron [142] have argued that the remote solar system space between the
Kuiper belt and the Oort cloud has a significant population of planets with sizes between the
215
Earth and Jupiter. The perihelion of these planetsis close to the Sun and their orbital period is
of several million years. When approaching the perihelion they may pass close to the Earth
with catastrophical effects due to tidal effects. They may also be captured bythe Sun and may
have contributed to over 3% of its mass. Fargion andDoron do not discuss however the
possibility of a close passage during Homo Sapiens time (i.e. in the last few hundred thousand
years).
2 - Dar, Laor and Shaviv [143] have considered the possibility that the solar system would
occasionally cross the very high energy jet produced by the collapse of a neutron binary
system, an event that at thepresent known scale of the Universe appears to happen about once
a day (as indicated by sudden bursts of γ rays that have been associated to the event). The jets
are expected to reach distances of a few hundred light years before disruption. Their crossing
by the Earth would take a few weeksduring which period bombardment by high energetic
particles (particularly muons produced by secondary reactions in the atmosphere) would
affect life even at great depths in the oceans and in the soil. The event would be able therefore
to explain the "big five" mass life extinctions in the last 600 million years. However one
cannot see how it would explain the special geological features that are also associated with
the extinctions.
3 - Collar [144] and Abbas et al. [145] have considered the passage of the solar system
through one of the clumps of the dark matter that many cosmologists believe must exist in
order to explain otherwise impossible dynamical phenomena in galactic and extragalactic
systems (but see Van Flandern [146] for an approach where dark matter is not needed via
reinterpretation and modification of the Newton gravitational law). The crossing of a dark
matter clump would lead to absorption of dark matter by mainly the Earth nucleus, whose
temperature would substantially increase. This extra thermal energy would finally escape to
the Earth surface after an estimated period of 5 million years, in the form of huge venting of
magma. The quoted authors hypothesize that this is the reason of the huge magma fields that
are known as the Deccan and the Siberian traps, extending over hundred of thousand of square
kilometers. They also notice that during the relatively short time of the clump crossing,
estimated at a few years, also living beings would absorb some dark matter with very likely
carcinogenic effects. The proposed mechanism would therefore explain the fact, that now
seems well proven, see Stanley and Yang [147] or Benton [148], that the greatest mass life
extinctions show two peaks, separated by some 5 million years.
4 - From the observation that all last five big extinctions happened while the solar system was
crossing one of the spiral arms of our galaxy (the solar system crosses all arms of the galaxy
in about four of its revolutions around the galaxy, since it has a proper velocity of about 70
km/sec with respect to the arms), Leicht and Varisht [149] have proposed, in addition to
impacts whose likelihood is known to be much higher when crossing a galactic arm,
catastrophical effects due to the passage in proximity of a supernova, supernovas being much
more frequent inside spiral arms.
In this paper we shall review the state of knowledge on Apollo objects and comets as
agents of catastrophes, disregarding the previously considered galactic catastrophical events,
whose occurrence is certainly much less frequent and most probably can be disregarded in the
context of the holocen period. We shall describe the main features of the aftermath of an
impact, in particular the effects on the climate. We shall propose that the last glaciation was
initiated by a continental impact and was terminated by an oceanic impact. We shall then
argument that a civilisation, the "Atlantis civilisation", flourished towards the end of the
glaciation in the lower latitudes to be suddenly destroyed in the aftermath of an oceanic
collision. Information about this civilization is contained in Plato's Timaeus and Critias.
216
Platonic details about Atlantis will be discussed, showing that they can be accepted as
plausible and that they lead to a precise identification of the Atlantis location. Arguments will
be given to explain in the framework of an oceanic collision the biblical story of Noah and the
Sumerian story of Utnapishtim. These stories will be considered as describing the aftermath of
an oceanic collision experienced at two different locations, probably not the same collision
that terminated the Atlantis civilization. Finally, a tantalizing hypothesis will be offered on the
origin of the unique Camunian civilisation.
2. Apollo objects and comets
The name Apollo is applied to a class of asteroid-like objects, whose perihelion lies inside the
orbit of the Earth (see Krinov [20] or Watson [21] for a general presentation of these and
similar objects). The first Apollo was discovered and given this name by Reinmuth, in 1932.
In 1937 a similar object, named Hermes, passed at only 800.000 km from the Earth. Over one
hundred Apollos of diameter at least one kilometer are presently known. Some of them have a
diameter over ten kilometers. The first object in this class of large Apollos was discovered in
1978 and named Hephaistos. There is an object (Amor object 1036, also named Ganymed)
with a diameter close to 39 kilometers. The best studied Apollo is Toutatis, which on 8
December 1992 passed at just 0.0024 astronomical units, i.e. 9.4 lunar distances, from the
Earth. Toutatis has a potato-like form, like comet Halley, principal axes of km 1.92, 2.40 and
4.60, almost homogeneous density, perihelion at 0.92 AU and eccentricity 0.63, see Ostro et
al. [115] and Hudson and Ostro [116].
The search for Apollos goes on actively, quite a number of them having been found in
1983 using the satellite based IRAS telescope. The number of Apollos with a diameter of over
one kilometer is estimated to be at least one thousand, with possibly more than one hundred
concentrated in the Taurid-Arietid meteor stream.
Various proposals have been made about the origin of the Apollos. A study by
Hartmann [22, 23] of the ages of the craters in the solar system, particularly in the Moon,
whose craters are attributed to impacts with Apollo-like objects, has shown that, apart from
superimposed fluctuations, the rate of cratering has been essentially constant in the last three
billion years. However it was thousand of times higher when the first rocks were formed some
4.5 billion years ago. This observation suggests that a large number of Apollo-like objects
were formed coevally with planets in the condensation of the primeval nebula, the process
which according to most theories led to the formation of the solar system. However most of
the original Apollos have by now disappeared in collisions with planets and their satellites.
The present population must be essentially formed by new Apollos, which are generated in
some way to compensate the loss of older Apollos in collisions with planets and the Sun.
One of the possible sources of Apollos is the asteroid belt, from which asteroids can be
expelled into Apollo orbits through gravitational perturbation by Jupiter; also fragments of
asteroids can be injected into Apollo orbits after impacts with comets or other bodies in the
same belt. Numerical considerations on the size of the present Apollo population and on the
possible rate of replenishing from the asteroid belt indicate however that this source is
inadequate, albeit the problem is still not completely settled (Whetherill [24], [120] ).
Degassed comets or fragments of comets are presently considered to be the main source of the
Apollo population.
A general theory on the formation and evolution of comets up to their catastrophic end
in collisions with larger bodies has been developed by Clube and Napier [7, 14, 16] and other
authors (e. g. Yabushita [25], Napier and Staniucha [26]). Here we synthetize the theory by
main lines:
- Comets, together with meteorites and dust grains, are formed in the huge (up to one million
solar masses or more) cold molecular clouds found in the galactic spiral arms and in the
217
galactic plane, through a process of accretion, which can also lead to the formation of planets
and stars.
- Apart from a marginal number of comets whose orbits lie in the region of the planets, most
of the comets of the solar system are supposed to belong to two main populations:
A - the Kuiper belt, estimated to consist of about 10 12 bodies at a heliocentric distance of some
104 A.U. The existence of the Kuiper belt, about which many doubts were voiced till not long
ago, seems now to be confirmed by the discovery of bodies belonging to it of sizes up to 600
km, see [150]. Many astronomers now deem that Pluto is a body that was removed not too
long ago form the Kuiper belt and at the beginning of 1999, in correspondance with the
fiftieth anniversary of Pluto discovery, there was serious discussion in Internet whether it
should be removed from the official list of the planets. The removal of Pluto from the much
farther away Kuiper belt into its present orbit can be explained by several processes, in
particular by special tidal gravitational effects, as shown by Del Popolo and Spedicato [151]
B - the Oort cloud, whose existence is still hypothetical, see for instance Van Flandern [146],
consisting of possibly 1014 comets in highly elongated orbits (spanning up to 50.000
astronomical units, say half the distance to the closest star), with periods of a few million
years. While the traditional view of the origin of the Oort cloud, see Oort [27], considers it to
be coeval with the solar system, Clube and Napier claim that only a marginal portion is left of
the primordial cloud, most comets having being acquired after the solar system was formed,
through the following mechanism. The solar system is known to orbit around the galactic
center with a period of about two hundred million years and an average speed of about 230
km/sec. The orbit has a component perpendicular to the galactic plane which is crossed up and
down about every 30 million years. During its movement the solar system crosses also
galactic arms, which are populated by molecular clouds, often arranged in numerous groups.
The last crossed galactic arm was the Orion arm, which contains molecular clouds in the
Gould belt. The time of the crossing is no more than five-ten million years ago, possibly much
less if deceleration effects on the solar system are taken into account. While crossing a
galactic arm or the galactic plane, there is a significant probability to pass through or very
near to a molecular cloud. In such a case the solar system undergoes a strong gravitational
perturbation, the effect of which is twofold. First a large part of the comets in the Oort cloud
lying outside a radius of some 103 astronomical units are stripped away. Secondly, on leaving
the molecular cloud, the Sun captures a number of planetesimals from the cloud itself. As the
solar system has crossed molecular clouds many times since its formation, most of the
primordial comets have been lost, hence the majority of the comets in the Oort cloud are now
of interstellar origin. Moreover the periodicity inherent in the crossing of the galactic arms
and of the galactic plane becomes reflected in periodicities (cycles of 200, 60, 30 million
years) of events in the inner solar system. Such cycles have been observed on the Moon and
on the Earth in events like cratering rate (see Grieve and Dence [28], Rampino and Stothers
[29], Alvarez and Muller [30]), magnetical reversals (see Doake [31]), geological boundaries,
principal plate movements and glacial ages (see Mc Crea [32]), biological extinctions (see Mc
Crea [32], Fischer and Arthur [33], Raup and Sepkoski [34]).
- The number of comets in short period orbits is small and their orbits are generally
dynamically unstable due to gravitational perturbations by the planets and mass variation
following degassing and fragmentation. The life of a comet in short period orbit as an object
which can produce a shiny tail when approaching the Sun (active comet) is only of a few
thousand years; after this span of time the degassed comet becomes a new member of the
population of the Apollos (or of other similar bodies, like the Amor objects). Evidence of this
evolution is seen in comet Encke, whose orbital parameters and luminosity have drastically
218
changed since it was first observed; comet Encke is currently considered to be on the way of
becoming a new Apollo. Conversely, the large Apollo object Hephaistos has orbital
parameters very similar to those of comet Encke. It is currently supposed that both Hephaistos
and Encke are fragments of a larger comet which fragmented not long ago. The limited life of
short-period comets implies that a replenishing source must be active. The Oort cloud itself
appears to be the required source, through the following mechanism (see Everhart [35, 36]).
When a comet of the Oort cloud approaches perihelion, it becomes subject to gravitational
perturbation by the larger planets. Numerical simulations, see Yabushita [25], show that in
most cases the effect of the perturbation is to inject the comet into a hyperbolic orbit,
therefore expelling it from the solar system. In a few cases however the orbital parameters can
be changed into those of intermediate period comets (those orbiting beyond Saturn), which
evolve later into the short-period orbits and finally into the (relatively stable) Apollo orbits.
- When a large comet (say of diameter greater than 100 km) is captured from the Oort cloud,
the resulting evolution presents various and complex features. Episodes of fragmentation into
smaller comets and boulders are expected. One cause are tidal stresses due to Jovian gravity
which can destroy any body in certain size and material strength intervals. Another cause may
be exothermal reactions in the interior of the comet due to chemical reactions or phase
transition (at 153 K the ice structure changes from amorphous to crystalline liberating
energy). The result of these fragmentations (which apparently are often observed in the sky as
a sudden flaring, followed by the discovery of a new comet) is that there is an accumulation of
smaller active comets, of Apollos, of boulders, of dust and gases (the mass of these up to half
the mass of the large captured comet) along an ellipsoidal torus, with angular concentrations,
spreading with time, along the directions corresponding to the fragmentation episodes.
Experimental data from zodiacal light, interplanetary dust, the distribution of meteor streams
and fireballs, the structure of the orbits of the Apollo and the short-period comets, have led
Clube and Napier [7, 17, 81, 82] to the following conjecture: a large comet (100-200 km
diameter) has been captured some 20.000 years ago, has undergone fragmenting and
degassing phenomena and in the course of these has dramatically interacted with the Earth. In
particular it has been responsible for the last glaciation and for minor catastrophes in the last
millennia, including those attributed by Velikovsky to an extraterrestrial agent. Clube and
Napier suggest moreover that a yet undiscovered large fragment (diameter around 30 km) of
the original comet is orbiting along the torus; tentative orbital parameters which could lead to
its observation are estimated. It is finally predicted that in a next future (around the year 2030)
the Earth will cross again that part of the torus which contains the fragments, an encounter
that in the past has dramatically affected mankind.
We conclude this section with a reference to alternative theories. Whitmire and
Jackson [37] and Davis et al. [38] assume the existence of an unseen companion of the Sun,
named Nemesis, of the size of a black dwarf, with an orbital period corresponding to the
observed 30 million years cycle in the biological extinctions. On approaching perihelion
Nemesis would gravitationally perturb the system of external comets, producing effects
similar to those previously described in connection with the crossing of molecular clouds.
Whitmire and Matese [85] and Van Flandern et al. [86] postulate the existence of a
tenth planet beyond Pluto, named planet X, which could produce the considered periodical
cometary perturbations by gravitational effects on a belt of comets lying beyond Neptune.
Finally, Van Flandern [146] has presented several substantial arguments in favour of the
explosion of a planet in the region of the asteroid belt a few million years ago, a proposal
originally considered by many authors in the past but not with the wealth of arguments given
by him. Such an explosion, in addition to explaining the formation of the asteroid belt itself
and several other features of the solar system, would have led to the formation of a large
number of cometary bodies, many of them evolved now into Apollos.
219
3. Collisions of Apollos with the Earth: transient effects
As the perihelion of the Apollos lies inside the orbit of the Earth, it follows on precession
reasons that the Apollos will periodically cross the orbit of the Earth. On the average, the
frequency of the event for a given Apollo is one crossing every five thousand years. Of
course, orbit intersection does not necessarily mean impact, as the Earth will generally be far
away when the Apollo crosses its orbit. However, there is a finite probability of an impact,
readily estimated at 5-9 per year per single Apollo. This probability implies an average lifetime
for the Apollos of two hundred million years, which is reduced to thirty million years if
impacts with other planets are considered, and to about fifteen million years if impacts with
the Sun are considered, an event which only recently has appeared to be possibly the most
common fate for such objects, see Farinella et al. [117].
With an estimated population of 2000 Apollos of at least one kilometer diameter, it
follows that more than nine impacts with such objects are expected on the average every one
million years. If the estimated distribution of Apollo sizes is taken into account, the impact
with a larger Apollo, say of ten kilometer diameter, is expected every 50-100 million years.
On the other hand, impacts with smaller bodies (say 100-200 meters diameter) are expected
every few centuries. See Spedicato [106] for arguments that a super Tunguska impact
occurred on the Pacific Ocean close to year 1178. If close fly-bys are considered, then every
century an Apollo of at least one kilometer size is expected to pass closer than the Moon, an
observation that led NASA, see [39], to plan a rendez-vous between an Apollo and a TIROS
satellite.
Impacts with active short-period comets are similarly possible. However the number
of such impacts is expected to be a small fraction of those with Apollos, since there are much
fewer such comets than Apollos.
The last known large body which impacted on the Earth was the famous Tunguska
object. On June 30, 1908, at 7.17 a.m., a great explosion occurred in the sky over the basin of
the Stony Tunguska river in central Siberia. The explosion was heard in a radius of about one
thousand kilometers; a column of fire arose from the ground to an estimated height of 20 km
and was visible 400 km around. Trees were destroyed and burnt, in a peculiar way, over an
area of ten thousand square kilometers. Before the explosion, a bright trail was observed in
the sky over western China. For many following nights the sky was unusually luminous over
Europe and western Asia, allowing to read newspapers without the help of artificial light. Due
to the remoteness of the affected area, the first scientific exploration in situ was made only in
1927 by the soviet geologist Kulik. No visible fragments of the exploded body were found
locally, the object having apparently vaporized in the atmosphere. Later accurate field work
uncovered from the soil peculiar black and shiny metallic spheres. Numerous small shallow
craters 50 - 200 meters diameter were found, see Hughes [87]. The metallic spheres have
shown a typical extraterrestrial high content of iridium, nickel, cobalt and other metals.
Analysis of Antarctic ice cores by Ganapathy [40] has similarly shown that an unusually high
content of iridium and other metals is present in the layers corresponding to the year 1912
with an uncertainty of two years; a natural interpretation is that the Antarctic iridium was
deposited after worldwide stratospheric diffusion of the vaporized debris of the Tunguska
object. From the Antarctic data, a global fallout of 7 million tons has been estimated;
assuming that the exploded object was of the carbonaceous chondritic type, its size would
have been about 160 meters. However, there is still much uncertainty about the composition
and the size. For instance, Turco et al. [41] assume that the body was a loose collection of
particles of dust and ice (as most comets are supposed to consist), with a density of 0.003
g/cm3 , a mass of 3.5 million tons, and thus a diameter for spherical shape of 1.3 km. From the
estimated orbital parameters (speed 40 km/sec, approach angle 30 degrees) the object could
well have been a fragment of comet Encke. The energy corresponding to Turco's data is
220
1.4×1025 erg, approximately the same liberated in the explosion of five hundred hydrogen
bombs of one megaton (500 MT); the energy corresponding to Ganapathy's data would be
1000 MT. Estimates as low as 10 MT or 30 MT have also been given (Ben-Menahem [103],
Deacon [104]), while La Violette [105] again argues for energies in the range 250 - 1000 MT.
An important effect of the Tunguska atmospheric explosion, analyzed by Turco et al., may
have been the production of large amounts of nitric oxide (up to 30 million tons), leading to a
strong depletion (30%) of the stratospheric ozone.
While the overall effects of the Tunguska event were negligible (but had the impact
occurred a few hours later, it would have brought havoc in Europe), impacts with more
energetic Apollos are expected to have dramatic consequences on the biosphere and the
lithosphere. The description of these effects cannot be quantitatively accurate, due to the
extreme complexity and nonlinearity of the phenomena. The effects depend on many factors,
including the composition of the Apollo (whether chondritic, metallic or icy), the kinetic
energy (proportional to the mass and to the square of the velocity with respect to the Earth;
this can vary between 15 km/sec to over 70 km/sec with an expected value around 25 km/sec),
the approach angle and the location of the impact (in particular whether continental or
oceanic).
For sake of exemplifying, we shall consider an Apollo object of "typical" parameters,
say diameter 1.4 km, chondritic density 3.3 g/cm3 and relative speed 25 km/sec. The energy of
this object would be about 3×1028 erg, about the same liberated in the explosion of one million
hydrogen bombs of one megaton 106 MT). This energy is comparable with the energy
liberated in the largest historically observed earthquakes 10 25 erg, with the yearly average
earthquake budget 5×1025 erg) and with the total heat flow from the Earth 1.8×1028 erg).
Impacts with larger Apollos (around 10 km diameter) would have energies in the billion MT
range, their frequency being O(108) years. Even impacts with energies in the trillion MT range
could have occurred in the Earth history, probably in the first 1.5 billion years since
solidification of rocks, when the Apollos population, as estimated from the frequency of
Moon cratering, was several orders higher than now.
Let us now consider, at least qualitatively, the effects of the impact with the
hypothesized "typical" Apollo. Of the available energy, only a few per cent would be spent in
the atmosphere, punching an almost instantaneous hole and creating a heat and pressure wave.
The ablation effects of the atmosphere would be negligible and the Apollo would reach the
surface of the Earth with almost unchanged mass and velocity. The heat and pressure wave
created in the atmosphere would propagate outwards at tremendous speed, with lethal effects
in a radius of hundred of kilometers. For a larger Apollo with energy in the billion MT range
the atmospheric disturbance would be colossal and extended over hemispheric areas. For
instance it can be estimated, if ten per cent of the initial energy goes into the blast wave, that
at 2000 km from the impact point the wind velocity would be 2400 km/h, with a duration of
0.4 h, and the air temperature would increase by 480 degrees. At 5000 km the velocity would
be 400 km/h, the duration 0.8 h and the temperature would increase by 60 degrees. At 10.000
km these numbers would be respectively 100 km/h, 14 h and 30 degrees. Additional effects in
the atmosphere would be chemical reactions leading to the formation of poisonous substances,
like cyanogen, or nitric oxide, which would completely remove the protective layer of
stratospheric ozone. Also, particle acceleration processes generating neutrons in the MEV
range might produce, inter alia, radiocarbon C14 (see Brown and Hughes [42]). This process,
which may be present in lesser events, including fireballs, has important consequences on the
radiocarbon dating method (note that Velikovsky [5] predicted radiocarbon variations due to
extraterrestrial causes).
Suppose now that the impact point lies on a continent. An additional few per cent of
the available energy is transmitted to the continental crust under the form of seismic wave,
generating a worldwide earthquake. In the case of energies in the billion MT range, land
waves meters high would probably occur. A transfer of momentum to the tectonic plate and to
221
the underlying mantle would also occur; the transferred momentum would exceed the existing
one for bodies of a few kilometers diameter. While enhanced volcanism would probably
follow events even in the 104 MT range, the change of plate movement directions for the more
energetic 107 MT) events would very likely enhance orogenesis and also start magnetic
reversals (see Velikovsky [2], Clube and Napier [15], Opik [43]); notice that there is now
evidence of very rapid change of the geomagnetic field during a reversal, up to 6 degrees per
day, see Coe et al. [114]). Thus impacts with large Apollos would have important geological
and astronomical consequences, with a periodicity induced by the crossing of the molecular
clouds. Shifting of plates by substantial amount could also happen. With the support of
Einstein, Hapgood [107] proposed that a shifting was the main factor of the last glaciation, but
he considered such a shifting to be caused by centrifugal effects due the asymmetry in the
Earth induced by the presence of polar ice.
Most of the initial available energy (around 80%) is spent in creating a crater and
(around 10%) in injecting dust, including the vaporized Apollo itself, into the stratosphere.
The amount of dust is expected to be over one hundred times the mass of the impacted
Apollo. For the hypothesized Apollo the dust production would be many times greater than
the dust emitted during the greatest volcanic eruption of historical times (say the Tambora
eruption of 1815; according to Strommel [44] about 100 km3 of debris were produced, only
part of them injected in the stratosphere as fine dust, enough however to produce a substantial
worldwide cooling . It should be noted however that the greatest eruption known for the last
100.000 years, the eruption of the Toba volcano in Indonesia, is not associated with a
glaciation despite the emission of estimated 1000 km3 of debris; if dust is not emitted with
sufficient energy it cannot spread all over the globe). Moreover enhanced volcanism would
probably add dust during a long period after the impact, an effect which probably showed up
dramatically after the impact which terminated the Cretaceous, see Officer et al. [84]. In the
case of a larger Apollo, the amount of dust may well be in the order of many thousand cubic
kilometers, shielding completely the surface of the Earth from sunlight.
The problem of determining the evolution of a dust cloud injected in the stratosphere
and its effects on the amount of light reaching the Earth surface is very complex. The
diffusion time from a single source over the whole planet is expected to be about three months
(see Lamb [45]). Clearing should begin at the lower latitudes, being virtually complete in
about six months. The time for complete removal of the stratospheric dust seems to be around
three years and essentially independent of the initial total amount of dust.
In the formation of the crater the energy is spent in minor part in fracturing and
heating the rocks, mostly in ejecting them. For high energetic impacts a portion of the ejects
consists of liquefied rocks, which becoming solid form the so-called tektite fields. Most of the
ejected material will however be solid and will accumulate in a circular ring around the
cavity. The size of the crater depends in a complex way on the energy of the Apollo and on
other factors; an approximate formula states that the energy E required to excavate a crater of
diameter D grows with relation E = D 3.4 . For the hypothesized Apollo a crater of some
twenty kilometers diameter is expected; for the largest Apollos craters of hundred kilometers
would be generated. For sufficiently large energies, the crater has a complex structure, with a
central uplift due to rebound of the rocks. The bottom of the crater is covered by broken rocks
(breccia), forming a layer possibly hundreds of meters deep (see for instance Grieve [88] or
Melosh [89] ). On the Earth hundreds of craters have been detected by now and their size
distribution corresponds to the expected one. Some craters (Popigai in Siberia, Sudbury in
Canada) are in the 100 km diameter range.
The expected depth of a crater is only a fraction of its diameter. As the continental
crust has an average depth of about 80 km, no venting of magma is generally expected. Only
for the very rare events in the trillion megaton range, the continental crust might be broken
with magmatic emissions. We conjecture that the origin of the few very old volcanic
222
structures that are found in the interior of tectonic plates, like the Tibesti plateau in the Sahara,
can be attributed to such continental super-impacts.
Suppose now that the impact point is located on the surface of an ocean. As oceans
cover almost three fourths of the Earth surface, most impacts will be oceanic. It is a
remarkable indicator of the work yet to be done in oceanic exploration the fact that until 1987
no traces had been found of craters in the oceanic floor, of which there should be plenty (even
taking into account the fact that no rocks in the oceanic bed are older than 200 million years).
The first underwater crater was detected in 1987, see Jansa and Pe-Piper [90], on the North
Atlantic continental shelf, 200 km south-east of Nova Scotia. It is a complex type crater, with
a diameter of 45 km and a central uplift 1.8 km high and 11.5 km large. The crater is covered
by a layer of about 600-800 meters of breccia and by 200 meters of sediments deposited after
the formation. The impact is estimated to have occurred about 50 million years ago, the size
of the impacting body evaluated at 2-3 km. Structures which may be associated to oceanic
craters are the so called oceanic plateaus, found for instance in the Central Pacific. They seem
to consist of the huge amount of lava flowed after an impact fissured the oceanic bottom, see
Rogers [91].
When dealing with oceanic impacts, an important observation has to be made about
the oceanic floor: it can be part of the submerged continental shelf (whose area is a good
fraction of the emerged lands) or it can be the proper oceanic floor. In the first case the
oceanic floor consists of a solid crust with a depth of thirty kilometers or more (up to the
Mohorovic discontinuity, see Franchetau [46] or Burchfield [47]). In the second case it is very
thin, about 2.5 km under the oceanic ridges, increasing to about seven kilometers near to the
continental shelf. The difference in depth between the continental and the oceanic crust plays
a fundamental role in the different climatic effects of continental or oceanic impacts.
The main transient effects of an oceanic impact are the following: blast wave in the
atmosphere, formation of a transient crater in the water and subsequent tsunami, earthquake
following the impact with the oceanic floor, formation of a crater in the oceanic floor and
possible emission of magma. The blast wave and earthquake effects are similar to those in the
continental case, but the earthquake would probably be less severe, due to the lesser strength
of the oceanic crust.
Let us consider the other transient effects. Approximate analysis of the temporary
crater in the water and of the following tsunami has been performed for instance by Gault et
al. [48] and by Strelitz [49]. Assuming an ocean of infinite depth, the hypothesized Apollo of
106 MT energy would create a temporary, approximately hemispheric crater, quite similar in
shape to a crater in rock, since in both cases the post-shock overpressure in the materials
greatly exceeds their strength. The crater would have a maximum depth of 13 km and a
maximum diameter of 30 km. Most of the available energy (92%) would be spent in ejection
of water, shock heating and formation of waves, the remaining being transformed into
potential energy of the displaced water. The formed crater would soon collapse, a column of
water ten kilometers high developing over the impact point. The collapse of the column
originates a system of waves, with amplitudes decreasing, in free ocean, inversely with the
distance. The height of the waves would be about one kilometer at 100 km from the impact
and 100 meters at 1000 km. On approaching the shores substantial amplification of the wave
height would follow, the exact value of the amplification depending on the geometry of the
coast. A global catastrophic tsunami, with substantial continental flooding, would be therefore
the consequence of an oceanic impact.
In the previous analysis, an infinite depth of the ocean was assumed. As the average
oceanic depth is only 3.7 km (with a maximum of 11 and a value of only 2.5 over oceanic
ridges), all Apollos in the energy range over 10 6 MT would hit the oceanic floor with still a
substantial part of their initial energy. A quantitative study of the cratering effects in the
oceanic floor has not yet been made, at the knowledge of this author. Therefore the following
considerations will be qualitative. A worldwide earthquake would be generated, as previously
223
observed, not as severe as in the continental impact case, but probably enhancing the tsunami
effects. Breaking of the thin oceanic floor and emission of magma is expected, if the impact
occurs on the proper oceanic floor. If little energy is left in the Apollo when it reaches the
oceanic floor, the emission of the magma may be essentially a slow venting, an enhanced
form of sub water volcanism, with heating effects proportional to the affected area (possibly
thousand of square kilometers) during a quite long time period. When much energy is
available, as first approximation the existence of the oceanic crust may be disregarded and the
impact may be considered equivalent to a direct impact on a bed of magma. A crater would be
formed in such a bed, with ejection of large amounts of hot magma, in the order of hundred or
thousand cubic kilometers. The heating effects would be at first order proportional to the
volume of the displaced magma, determining the almost instantaneous evaporation of several
times that volume of oceanic water. Subsequent slower venting with surface heating effects
would go on for some period. Of course, the clouds formed by the evaporated water would be
carried around the globe by the winds and a truly "universal flood" would inevitably follow.
Finally, observe that little dust is expected to be injected in the stratosphere following
an oceanic impact. The darkening of the sky, if any at all, would last even for the largest event
two or three months at most (see Emiliani et al. [50], O'Keefe and Ahrens [51], Poupeau
[52] ). This will be reflected in the climatic consequences, that, as discussed in the next
section, are of heating the globe in the case of oceanic impacts, of cooling it in the case of
continental impacts.
Before discussing the climatological effects of an impact, we briefly mention, for
completeness, some possible effects on astronomical parameters of the Earth:
- changes in orbital parameters are discussed by Brunini [118]; both impacts and close
encounters with comets or asteroids of the previously discussed size, modelled by a Brownian
motion, can change semimajor axes by about 10-5 AU over the usually assumed total solar age
of circa 4 billion years; the change per impact would therefore be very small, of the order of
few meters
- under certain conditions on the impact location and momentum size and direction by
gyroscopic effects there can be a change in the Earth rotation axis, including a reversal, see
Barbiero [109]. As consequence of a reversal the northern and southern sky emispheres would
interchange and the Sun would appear to rise in the West instead that in the East. According
to an Egyptian tradition related by Herodotus, in the past twice the Sun has been rising in the
East and twice in the West, which is an indicator of three inversions in human memory. Quite
intriguingly the Egyptian priest in Plato's story of Atlantis, see the following section 5, speaks
of three "major" catastrophes. A natural criterion for qualifying a catastrophe as major would
certainly be the interchange of the southern and northern skies and of the rising and setting
points of the Sun
- changes in the duration of the day and in the obliquity of the rotation axis might also be
considered, but to our knowledge no quantitative estimates have ever been made.
4. Impacts of Apollos: climatic effects and a hypothesis on the last glaciation
In this section we shall consider the climatic effects of Apollo impacts, showing that global
cooling is expected after a continental impact, while global heating should follow an oceanic
impact. Under suitable conditions a glaciation can be started in the first event, while an
existing glaciation can be terminated in the second event. The hypothesis will be discussed
that such has been the case with the last glaciation.
As discussed in the previous section, a major effect of a large continental impact is the
injection in the stratosphere of hundred or thousand cubic kilometers of fine dust, which then
224
spreads over the whole globe, possibly completely shielding sunlight. Clearing of the sky
initiates after a few months at lower latitudes and is completed after two or three years (at
least if possible additional dust injection by enhanced volcanism is disregarded). Now a dust
veil which completely screens radiation from the Sun must also produce a greenhouse effect
on the Earth, blocking the escape into the space of the terrestrial heat. In usual conditions the
surface heat content of the Earth per unit volume is larger in oceans and at lower latitudes. In
a globe surrounded by a permanent perfectly insulating dust veil the equilibrium thermal
condition should be characterized by an essentially uniform temperature distribution. As most
of the surface heat is contained in the oceans, the sudden formation of a dust veil blocking the
Sun radiation would cool the oceans at lower latitudes and warm them at higher latitudes,
through a heat exchange process characterized by violent storms. An almost thermally
stationary world would finally result, where the only thermal changes would be the slow
temperature increase due to the heat flow from the interior of the Earth and the transient
effects related to tectonic movements, like earthquakes and volcanic eruptions.
Of course, the above picture describes an unreal situation, since no permanent
completely insulating dust veil is ever expected on our planet. However the mechanism
leading to that state would be operating for some time and the expected result, under the
present conditions of the Earth, would be the starting of a glaciation. This type of process has
been studied mainly by Hoyle and Wickramasinghe [53], see also Hoyle [54]. These authors
have criticized the traditional mechanisms for explaining glaciations in terms of small
variations in the Earth albedo or solar radiation, claiming that the Earth heat exchange
mechanism between lower and higher latitudes can cope well with the effects of small
variations. Mathematical work by Chalikov and Verbitsky [55] on a global Earth climate
model has indeed confirmed the stability of the Earth climate for a wide range of perturbed
solar regimes.
With the diffusion of the dust veil over the globe, the atmosphere would cool rapidly
over the continents, while remaining relatively warm over the oceans. Thus the usual thermal
nonequilibrium conditions which drive the normal heat exchange through winds, rain, snow
etc. would be enhanced and violent and long lasting storms would be expected worldwide.
At lower-middle latitudes the storms would bring heavy rain that could fill interior
continental depressions. This is what happened during the last glaciation, when depressions
covering million square kilometers were filled with water (for instance lake Tchad in Sahara,
lake Murray in Australia, the Caspian Sea, the many salty lakes in Xinjang and Tibet, in the
Armenian and Iranian plateau and in western United States). At middle or high latitudes the
storms would bring snow and ice would be formed by accumulation of snow. As the direction
of the storm carrying winds depends at large on the Coriolis force, related to the rotation of
the Earth and unaffected by the impact (unless a pole inversion had occurred), we expect a
peculiar pattern in the distribution of the ice cover. This is what we indeed observe in the last
glaciation. In the northern hemisphere, for instance, most of the Pacific water should be
carried eastwards, in the direction of North America. In fact, as expected, North America was
covered by ice, approximately north of the line Portland - New York, while eastern Siberia,
northern China and Korea were essentially ice free. Similary we expect snowy storms
originating in the Atlantic to have affected the whole of central-northern Europe and part of
western Siberia (as it actually happened), but possibly not central Siberia, the clouds clearly
getting depleted after moving several thousand kilometers over a continental area.
The configuration presented by the Earth after the settling of the dust veil would thus
be one of extended ice cover at high latitudes, of filling up of internal continental depressions,
of a lower oceanic level (variously estimated at between minus 60 - minus 130 meters at the
end of the last glaciation) and lower oceanic temperature with corresponding reduced
evaporation. In other terms, a typical glaciation configuration would have resulted in a very
short period. Geological evidence for almost sudden onset of many glaciations is now
available, see Bryson [56], Ruddiman et al. [57], Yapp and Epstein [58].
225
That such configuration can be essentially stable is proved a posteriori by the fact that,
apart from climatic oscillations which are present also in our postglacial times, the last
glaciation lasted some twelve thousand years (from about 22.000 A. D. to about 10.000 A.D.).
Physical conditions which can maintain a glaciation are the following:
- periodical replenishing of the dust veil due to increased volcanism (expected after a
continental impact!) or, in the Clube-Napier scenario of a large fragmented comet, to the
crossing of the dust filled portions of the torus associated to the comet fragments
- increased albedo of the Earth surface due to the extended ice and snow cover
- increased albedo of the stratospheric layer due to the extended presence of ice crystals of the
type named by Hoyle "diamond powder".
Some comments are needed on the last physical condition. Tiny droplets of water in
the stratosphere under certain conditions can stay liquid (supercooled liquid phase) till the
temperature drops to -40 °C, when they suddenly crystallize in the "diamond powder" form,
which reflects almost completely sunlight. The temperature of such droplets in the
stratosphere depends essentially on the amount of radiation absorbed in the peculiar
wavelength emitted when water vapour condenses. In present conditions "diamond powder" is
found permanently only over the poles, where it is responsible of many optical phenomena.
During the last glaciation, due to reduced evaporation from the colder oceans, the "diamond
powder" layer surely extended over a larger region, probably up to the middle latitudes.
Incidentally, no "diamond powder" layer could be formed if the oceanic temperature, and thus
evaporation, would be sufficiently high. Now, oceanic temperature depends on continental
masses distribution, being lower when a continent lies near a pole, higher otherwise, the
difference being up to ten degrees. Antartica reached the South Pole about forty millions years
ago and many glacial episodes have since occurred. There have been very long geological
periods without glaciations when no continent was near the poles. However a continent can be
on a pole and glaciations may not occur (as it happened 500 millions years ago, when North
Africa was at high latitudes), since they depend on collisional episodes, which are modulated
by the previously discussed crossing of galactic molecular clouds.
Let us now consider how a glaciation can be terminated by an oceanic impact. In the
previous section we have seen that oceanic impacts have very different consequences than
continental impacts. Smaller tectonic effects and lower emission of fine dust are expected.
The main features are a colossal tsunami and the production of large amount of water vapour
(following the formation of the temporary crater, the release of magma and the enhanced
submarin volcanism). The overall climatic effects are clearly in the sense of a global heating.
In particular, Emiliani et al. [50] have conjectured that the extinction of the dinosaurs 65
million years ago was due to the rapid global heating (at least l0 degrees ) which followed the
impact in the Caribbean sea.
An oceanic impact occurring in a period of glaciation could well provide the
mechanism for terminating the glaciation. The following actions would indeed be operating:
- the tsunamic waves would invade million square kilometers of continental areas, including
ice covered regions. Partial melting of ice would follow, due to the higher temperature of
oceanic water and its salt content, which lowers the melting point. While the volume fraction
of melted ice cannot be great, the surface fraction of area liberated from ice cover would be
greater, decreasing the albedo
- the huge amount of water vaporizing from the impact point would condense in clouds
carrying thermal energy from the ocean and the exposed mantle in clouds towards continents.
226
Great storms would bring warm rains capable of melting the ice layer in areas where it is
thinner, thereby reducing the albedo
- the radiation emitted in the condensation phase of the water vapour would be orders greater
then the normal radiation in that wavelength, leading to substantial reduction of the "diamond
powder" layer and its associated albedo.
The paroxystic effects associated with an oceanic impact are expected to last only a
few days (the tsunami) or a few weeks (the "universal deluge" following magmatic emission).
It is unlikely that all the ice cover can be eliminated in such a short period, and in fact this is
not what is observed from geological evidence. It is however possible that the albedo factor be
modified so profoundly for the Earth to revert, in a few additional centuries, to the climatic
conditions of non glacial times. This agrees with the geological records, see for instance
Broeker et al. [92], which indicate a warming of about 7 centigrades in a period now
estimated at just about 50 years, see Lehman and Kergwa [111]. Note that an accurate date for
the shift between the Dryas (the terminal phase of the glaciation) and the Preboreal has been
recently set by analyis of lacustral sediments at 11.450 years BP with 80 years uncertainty,
see Björck et al. [112]. At that time a huge influx of fresh water entered the North Atlantic
ocean, evidence of very rapid melting of the ices. If the last glaciation was started by a
continental impact, a problem is that no continental crater aged about 24.000 years and of
diameter 10 - 20 kilometers is presently known, as it would be expected for a kilometrically
sized impacting Apollo. Disregarding the possibility that the crater is yet undetected (it could
lie on a submerged continental shelf or under Amazonian jungle where erosion by rain is
heavy) we can consider the hypothesis that the impact was in the super Tunguska class (a
body of a few hundred meters diameter, getting possibly fragmented in the atmosphere). The
Meteor (or Barringer) crater in Arizona has an uncertain age, some estimates putting at about
20.000 years. Its diameter is one kilometer, the depth 200 meters. It was made by an iron body
of an estimated 100 meters diameter; the energy involved may have been a few thousand
megatons. We do not expect that enough dust was injected in the atmosphere by this single
event to start the last glaciation. However, under the Clube-Napier assumption of the capture
and fragmentation of a large comet, that episode might have been one in a series of Tunguska
or super Tunguska impacts (note that an oceanic impact of an object of that size would not
provoke magmatic emission). Moreover enhanced strong volcanism might have followed the
Arizona impact, due to the proximity of the volcanoes rich Coast Range and Mexican
Cordillera.
Another open question relates to the location of the oceanic impact that we
hypothesize terminated the glaciation. We conjecture that the location was in the North
Atlantic, somewhere east of the Carolinas. A fall in the Pacific would have created a minor
tsunami in the Atlantic, the Pacific being almost isolated during the last glaciation (the
Magellan Straits were almost blocked by ice, Australia was almost connected by a land bridge
to Asia, America and Asia were connected via the Bering straits). The evidence from the
Atlantis story that we interpret in the next section points to a great tsunami and a flood
originating from the Atlantic area. We also remark, with Velikovsky [2], that elliptical flat
depressions (the Carolina bays), filled with water, with major axis pointing south-eastwards to
the Atlantic, characterize in number of thousands the Carolina coast (extending also from
New Jersey to Florida). The time of their formation is not certain, but may well be the end of
the last glaciation. If this is the case, the Carolina bays would have been formed by fragments
of an object impacting in the Atlantic.
Finally, extensive evidence for multiple Apollo or cometary impacts in seven points of
the Earth (on the ocean south of Mexico, east of Chile, near the Azores, between Norway and
Greenland, south of Sri Lanka, south of Tasmania and close to Indochina) has been given by
the Austrian geologists Alexander and Edith Tollman [128] and dated at circa 7500 B.C. With
227
reference to the three great catastrophes quoted by the Egyptian priest in the Atlantis story,
this event could be interpreted as the second catastrophe (the one of Noah?), the first one
being that which destroyed Atlantis, the third one the flood of Deucalion (and of Noah?).
5. An interpretation of the Platonic story of Atlantis
In two famous books, written around 360 B.C., Timaeus and Critias (of the second only a part
is extant) Plato has given information on a political power, Atlantis, which dominated the
western world nine thousand years before his time. The story of Atlantis was told by Critias
(an old man of 80 years, a relative of Plato and in his youth one of the thirty tyrants), during a
discussion with Socrates. Before telling the story, Critias spent a night trying to recollect in
his memory all the details. He had originally heard the story, when he was a ten years old
child, from his grandfather, Critias senior. The story had so much impressed him that details
came to his memory even after so many years. Critias senior had got the story from his father
Dropides, a brother of Solon, according to Diogenes Laertius. Solon got the information on
Atlantis in Egypt. He had planned to write a poem about it, but he could not realize his wish
due to his many political commitments.
The way Solon got the story on Atlantis is the following. In the city of Sais, an
important religious center in the Nile delta till now little explored archeologically, he began a
discussion with priests about the oldest events in the Greek tradition, like the story of the first
man Phoroneus and the survival of Deucalion and Pyrrha from the flood. While he was trying
to estimate by generation counting the time of these episodes, he was interrupted by a very old
priest (possibly the one named Sonchis in Plutarch's Life of Solon), who claimed that his
Greek stories were not of great age. In fact, the priest said, the Greeks had kept memory of
some catastrophic events, like the Phaeton story, which was the consequence of the
interaction between the Earth and a heavenly body, and also the Deucalion flood, which was
only a minor catastrophe, but had lost completely the memory of a previous greater
catastrophe, a great deluge which swept most of their ancestors into the sea, leaving only few
survivors. The memory of that event had survived among the Egyptians and was preserved in
written form in their temples in Sais (as confirmed by Crantor, an early commentator of Plato,
who lived about 300 BC; he wrote that a traveller in his time had seen these inscriptions). The
reason for this was that the ancestors of the Egyptians were living at those times on high lands
as herdsmen and shepherds and had not been much affected by the deluge. The catastrophe
had happened nine thousand years before; one thousand years later the first Egyptian
institutions were established.
Before the catastrophe, the priest said, there was a political power, Atlantis, whose
basis was on an island located opposite the straits known as the Pillars of Hercules, separating
the Mediterranean from the Atlantic (the Gibraltar straits). Atlantis was in control of the
following regions:
- islands further on
- parts of a continent lying beyond, which completely surrounded what could be called the
true ocean, the Mediterranean being only a lake in comparison, and, on this side of the
Atlantic, which was navigable at those times, of Europe up to Italy (Thyrrenia) and Africa
(Libya) up to Egypt.
The army of Atlantis started a military operation to extend control over the eastern
basin of the Mediterranean, fighting against the ancestors of the Greeks and of the Egyptians.
Atlantis was defeated and lost control of the western Mediterranean basin. Just after the end of
the war there was an earthquake and a flood of extraordinary violence. In a single terrible day
and night the fighting armies were swept away and the Greek cities were washed to the sea.
228
The Atlantis island was swallowed by the sea and vanished. The ocean became impassable to
navigation and muddy waters appeared in the region of the vanished island.
The above information is found in Timaeus. In Critias the discussion mainly concerns
the political situation at those times in Greece and in Atlantis, but additional information on
Atlantis is also available. It is stated that the catastrophe was the third one before the
Deucalion flood and that it was night when the flood fell upon Greece. Some geographical
features of the island of Atlantis are given. It had many mountains "higher and more beautiful
than any existing today". There were rivers, lakes, pastures and woodlands with abundant
timber. Aromatic spices and many fruits were found. There was plenty of domestic and wild
animals, including elephants. There were mines, some producing "orichalc", a substance
"gleaming like fire", the most precious at that time, except gold. In the southern part of the
island there was a plane, of rectangular shape, used for agriculture, completely irrigated by a
system of canals; the plane was protected by a chain of hills from the northerly winds. Half
way along the plane there was a lake of circular form, whose diameter was ten kilometers and
whose center was fifteen kilometers distant from the coastline. The lake had been connected
to the sea by a canal, one hundred meters large and thirty meters deep. In the centre of the
lake there was a small island, of one kilometer diameter, surrounded by two rings of land,
each one separated from the other by water. In the central island there was a palace, build of
white, black and yellow stone which had been cut from the central island itself and from the
surrounding rings. In the outer rings there were temples, gardens and an area for athletic
activities. The lake was used as a well protected port, frequented by ships from all the lands
controlled by Atlantis. The commercial and residential areas were build around the lake and
along the canal. The whole city, the capital of Atlantis, was surrounded by a circular wall
centered on the palace and whose radius was fifteen kilometers, including therefore a total
area of about 700 square kilometers.
Some numbers on Atlantis dimensions are the following. In Timaeus it is stated that
Atlantis was larger than Asia and Africa (Libya) combined. In Critias that the irrigated plane
was three thousand stades long and two thousand large, say about 600 by 400 kilometers.
About Atlantis more than 3600 works have been written, see for instance the
bibliographies in Bramwell [59], Spanuth [60], Pinotti [138], Zhirov [93] and particularly
Kukal [94]. Before the second world war the discovery of submerged mountains in the
Atlantic ocean excited those looking for a submerged continent; however it was just the
discovery of part of the oceanic ridges which are now known to extend for over 60.000 km in
the middle of oceans. More recently, after the discovery of the great Santorini eruption in the
second millennium BC (see Warren [95] for a discussion of dating problems), it was
theorized, see for instance Carpenter [61] or Luce [62], that Atlantis was Minoan Crete,
destroyed by the tsunami which followed the collapse of the volcanic chamber in Santorini.
This theory, which is widely accepted today, requires so many substantial changes to the
Platonic text, that it is equivalent in our opinion to rejecting the text. Other theories which
require substantial changes include those of Spanuth [60], who put Atlantis in Helgoland, and
of James [108], who related Atlantis with the capital of the ancient kingdom of Tantalus, in
western Turkey, which was apparently destroyed by a great mud flow. An intriguing
identification of Atlantis with the Lesser Antarctica peninsula in Antarctica has been proposed
by Barbiero [133] and redeveloped by Flem-Ath [110]. The idea that the Atlantis story derives
from a memory of the flooding of the continental shelf of Northern Europe following the
increase of the sea level after the end of the last glaciation has been developed by Castellani
[152].
In our scenario the information in the Platonic text is accepted as essentially correct.
Only two major modifications are made, namely in the statements relating to the size of
Atlantis and of the irrigated plane. We accept the numbers, but we change their attribution.
We think that an error slipped in the survived manuscript at a later time, or that Critias
229
memory failed in correctly assembling the details, something about which there should be no
wonder, as he was trying to recollect information obtained seventy years before.
Before giving our interpretation of the Platonic text, it is important to look again at the
configuration of the Earth during the last glaciation (making use, for instance, of the map
given by Kukla in Scientific American, see Broecker [63]). Ice covered northern Europe, west
Siberia and much of northern America. The climate was dryer and colder than now in the
regions below the ice line, which could however maintain a substantial population of large
herbivores, including mammoths, large carnivores, like ursus speleus, and man. At lower
latitudes, corresponding to presently arid regions as northern Mexico, the Sahara and the
Mesopotamian-Caspian region, climatic conditions were wetter than now and probably
favorable to cattle breeding and agriculture. In particular, the Sahara was a huge grassland, its
mountains were forested, large lakes filled the depressions and great rivers were flowing, as
has been spectacularly confirmed by radar photographs from the Shuttle. In western and
central Asia the climate was favorable too, thanks also to the presence of a huge inner sea
which inglobed the Black Sea (during the glaciation the Black Sea was not connected with the
Mediterranean), the Caspian Sea and probably lake Aral, for an extension almost equal to that
of the Mediterranean. Finally, heavy vegetation covered the circumcaribbean region, parts of
central Africa and the circumpacific regions of Asia and Australia from middle China to
southern Australia. It is a remarkable observation that during the glaciation the amount of land
made inhospitable by the ice cover was more than compensated by the availability of good
grasslands in areas which are now desert (more than twenty million square kilometers
between Africa and western-central Asia) or covered by jungle (the Amazonian basin was
probably mainly a grassland, albeit recent analysis of sediments on the bottom of a lake
indicated that the forest was still present, with a different vegetation structure, corresponding
to less warm conditions, see Colinvaux et al. [113]).
If we assume that the climate variations during the twelve thousand years of the last
glaciation were comparable to those of post glacial times, then the conditions for the
development of a civilization would have been, during that time, similar, if not better, to those
that have permitted in the following twelve thousand years the development of the present
civilization. We assume that this was indeed the case and that the story of Atlantis and many
other traditions that we do not consider here, relate to the final stage of that civilization. We
assume that the catastrophic event of Plato's story was the oceanic impact which terminated
the last glaciation, as previously hypothesized. The great Atlantic tsunami devastated
America, Europe and Africa. The ocean penetrated possibly for thousand of kilometers into
the Amazonian basin and the Sahara. Immense devastation affected the Mediterranean region.
No architectural structure, already weakened by the earthquake that preceded the tsunami,
could have resisted. A tsunamic wave of the envisaged size would not only flatten a city, but
carry away its debris, leaving virtually no trace. The deluge following the magmatic emission
would have affected mostly Europe, northern Africa and west-central Asia, bringing havoc
where the tsunami could not reach. Finally, the melting of ice and the subsequent elevation of
the sea level by 60 meters would have changed the coastline configuration and affected the
direction of currents, thereby justifying the claim that Atlantis had vanished and the ocean had
become impassable. We can well wonder how much of our civilization structures could resist
to a similar event.
Let us now consider the details of Plato's story and set them in our scenario for the end
of last glaciation. The date given for the catastrophe, corresponding to circa 11.600 B.P., fits
well the commonly accepted starting time for the withdrawal of the ices (as said in the
previous section, this time is now estimated at 11.450 B.P.). Note that very precise dating for
these events cannot be made using radiocarbon or sedimentary analysis; a five per cent
uncertainty in our opinion should be accepted without difficulty (we note that for a core of
Antarctic ice only one century old, an 8% error in dating the layers was assumed by
Ganapathy [40]!). Remark also that while our approach to glaciations assumes a rapid onset of
230
ice cover, just a few months, the disappearance of the ice cannot be sudden, the thicker layers
requiring possibly thousand of years to melt (in fact, we are still in the last throngs of
deglaciation, as shown by the positive bradisism in Sweeden and the continuing loss of
glaciers in the northern hemisphere, albeit factors due to human activity play now a major
role).
The city of Atlantis is located by Plato beyond the pillars of Hercules and it is noted
that the ocean was navigable at that time. Control was exercised by Atlantis over islands
beyond and parts of the continent which surrounded completely the true ocean.
Our interpretation is that the island of Atlantis is the large Caribbean island that was
encountered by Columbus in his first voyage, was named by him Hispaniola and is presently
split between Haiti and the Dominican Republic. The local name at the time of Columbus was
Quisqueya, which had the notable meaning of "Mother of Lands" (a remembrance of its
dominant role in past times?). This assumption implies of course that man lived in America
during the last glaciation, a fact which is now confirmed by increasing archaeological
evidence, see for instance Morell [100]. The islands beyond Atlantis therefore are the other
large Caribbean islands (Cuba, Jamaica) and the continent further on is America. As already
observed, during the last glaciation the Bering straits were a land bridge, Australia was almost
connected with Asia, and thus a huge continent almost completely surrounded the Pacific
Ocean (the true ocean of Plato's story). One might actually wonder whether, at least during the
austral winter season, ice from Antarctica didn't effectively close the passage to the Atlantic
and Indian oceans. One should at this point notice the existence of a few additional classical
sources that suggest knowledge in the Old World about America that has some relation with
the information on the Atlantis story. One is a passage in Plutarch's De facie quae in lunae
orbe apparet, containing the following:
- a man visited Carthago from a land on the other side of the Atlantic
- the man described a region on that land, located at about the latitude of the Maeotian Sea on
the greath mouth of a river, which was visited in ancient times by the ancestors of the Greeks
- the region can be identified with the estuary of the St Laurence; we may notice that Vinci
[153] has strongly argued that the Homeric world should be set in the Baltic and Northern Sea
at a time, the optimal climatic that ended about 1600 BC, when navigation conditions in the
Northern Atlantic were probably favourable.
The other passage is a statement attributed by Aelian [154] to Theopompus which
says:
- there are two continents on Earth. One consists of Europe, Africa and Asia; the other is far
away in the middle of the ocean
- in the far away continent there were two great cities: one (the capital of the Atlantis empire?)
was inhabited by people bent on war and conquest; the other (possibly one of the great cities
whose remains in the form of huge earthen mounds are found in the central part of the United
States?) was inhabited by peaceful people. Notice that if the Atlantis age came to termination
via a huge tsunami associated with the end of the last glaciation, it is expected that the
Caribbean sea waters invaded large part of the lower and middle Mississippi basin, destroying
and washing away most of any structures built by man.
Identification of Atlantis with Hispaniola is strengthened by the Platonic description of
the island: high beautiful mountains, rivers, lakes, a plane, precipitous coasts, forests and
animals. Hispaniola has indeed mountains over 3000 meters (Pico Duarte is 3175 meters
231
high), some of them (for instance La Selle, 2680 meters) being located very near to the coast.
The effect of the height of such mountains for an observer from the sea should be compared
with that made on an observer of Monte Bianco (4807 meters) from the bottom of Val
d'Aosta. Such mountains could well have seemed higher than anything known to observers
from Greece or Egypt. The luscious tropical forest that covered Hispaniola, in glacial times
and until some years ago (now the island has been largely deforested), was surely a reason of
attraction for visitors from the Mediterranean basin. It is interesting to note that Columbus
was truly fascinated by the natural beauty of the Caribbean islands, a theme which often
recurs in his diaries. Rivers and lakes (including two lakes below sea level, Imani and
Enriquillo) are plentiful in Hispaniola. The reference to elephants may not necessarily relate
to the present African variety (but some exemplars could have been shipped there) but to the
American variety of proboscidates (mammoths or mastodons), which disappeared in the
catastrophe terminating the glaciation.
The reference to the coasts of Atlantis being precipitous is very indicative of
Hispaniola (but see Collins [161] for arguments in favour of Cuba). Hispaniola's coasts are
mostly high and inaccessible. Moreover the ocean is deep around Hispaniola, implying that
the shape of the island during glacial times, when the ocean was 60-130 meters lower, was
essentially the same as now, while, for instance, Cuba was substantially larger and a great
island was located where are now the Bahamas. A roughly rectangularly shaped plane lies in
the south-eastern corner of Hispaniola (Santo Domingo is located there), with a range of hills
on its northern side. Here may have been the irrigated plane described by Critias. If this is so,
then the capital city of Atlantis should be located in a now submerged site along the southern
part of the Dominican republic, somewhere along the present minus 60-130 meters sea depth
level. Another possible location could be the flat area, with mountains both on the north and
the south side, which is named the Plaine de Cul-des-Sac and which contains a number of
lakes, particularly the lake Enriquillo. This lake is very salty and its surface is below the sea
level (-44 meters). This whole area was occupied by the sea in Quaternary times, see Wendell
et al. [96] or Butterlin [97], and could well contain coralline structures now covered by recent
sediments. The information about the ring structure of the central part of the capital of
Atlantis and the colored stones carved there suggests indeed that the site had a coralline atoll
structure, exposed when the onset of the glaciation lowered the level of the oceans.
The Platonic text states that Atlantis was larger than Libya and Asia combined and that
the irrigated plane was about 600 by 400 km. No vanished land of that size has existed in
recent geological times, no plane of that size and characteristics is found now in the Earth, nor
even in present times has man been able to irrigate a connected piece of land of such
dimensions. The data in the text are erroneous. We believe however that they transmit an
actual information, which has been put wrongly in the text, most probably through a memory
slip by Critias. Our opinion is that the reference to the size of Atlantis should be a reference
instead to the continent beyond, say America, part of which was stated to be under control of
Atlantis, or to the empire of Atlantis, which included parts of Africa and of Europe. The
dimensions given to the plane are remarkably close to the dimensions of Hispaniola itself
(which are essentially unchanged if water level is dropped 60-130 meters), which are about
650 by 300 kilometers. Thus we think that the last reference was actually to the Atlantis island
itself.
Some final considerations have to be made about the claim that Atlantis was in control
of the western Mediterranean basin and waged war against the ancestors of Greeks and
Egyptians. According to the Platonic story the ocean was navigable and the Atlantis capital
had a great port. The development of navigation is a characteristic of civilization and is
naturally expected, in viewing the end of the last glaciation as a period of flourishing
civilization. Which types of boats could be available those times? To this question
unfortunately only unprobable archaeological findings could give an answer. However we
point out that large distances over oceans and substantial transfer of men and materials can be
232
performed using very primitive navigational means. This has been proved in the classical
exploration voyages of Thor Heyerdahl [64, 65], who crossed the Pacific (from Peru to the
Tuamotu islands) on a balsa raft, and the Atlantic (from Morocco to Trinidad) on a reed boat
build by lake Tchad fishermen according to millennia old design. Heyerdahl [66] was also
able to find in Polynesia local confirmation of the statement made by Sarmiento de Gamboa
[67] that Tupac Inca once made a circumpacific voyage with a large balsa fleet carrying more
than 20.000 men. Heyerdahl's work has thus shown that even boats as simple as rafts can
transport over oceanic distances a great army.
Boats of the simple type considered by Heyerdahl cross oceans essentially following
currents (but see again Heyerdhal [66] for the remarkable flexibility offered by guara boards
on balsa rafts). It is possible in present times to leave and return to a Peruvian port via
Polynesia along a circular route following currents. It is presently possible to leave the Pillars
of Hercules (Gibraltar) and reach America via currents in about two weeks, but not to return
there, the Gulf stream moving towards Scandinavia. But during the last glaciation the Atlantic
ocean was covered by ice north of a line New England-Ireland and the Gulf Stream had a
different direction. In fact it has been shown, see Pinet et al. [98] and Keffer et al. [99], that
the Gulf Stream during the Quaternary glaciation moved towards Gibraltar. Thus a two ways
connection between America and Europe was possible even using most primitive boats.
Finally, we may deduce some additional information from the Platonic story. The
catastrophe happened probably between late spring and early autumn, those being the time
limits for military operations in classical times and, a fortiori, in glaciation times. Presence of
fresh flowers in the stomach of frozen mammoths is a confirmation. It was night when the
first devastation occurred in Greece, probably due to the earthquake, the seismic waves being
much faster than the tsunamic waves. It may have taken a dozen hours for the front of the
tsunami to have reached Greece and there may have been many rebound waves; this would
explain the night and the day of convulsions. The coastal areas of Greece and the Aegean
islands must have been fully affected by the tsunami with almost complete wiping out of the
population. This may explain the loss of memory of Atlantis in Greek tradition (unless a
remembrance is found in the Golden Age stories of Hesiod), Greece itself having been
repopulated later by populations coming from unaffected areas (central-eastern Asia?). It is
worth recalling here the thesis of Vinci [153], according to whom the Miceneans came to
Greece around the middle of the second millennium BC from the Baltic area, mixing in
Greece with the local preexisting populations that was conquered by them. Therefore any
memory the Greeks may have of very ancient events should most probably relate to events set
in Northern Europe.
Egypt must also have been fully devastated by the tsunamic wave. However,
populations on the Aethiopian highlands (the herdsmen and shepherds of Timaeus), possibly
connected with old Egyptians and other populations then thriving in the Saharian grassland,
would have escaped the tsunami and probably also the following deluge. Among these
populations on the margin of the great empire of Atlantis the memory of Atlantis must have
survived to be transmitted to their descendants. They repopulated the Nile valley and
established the first Egyptians institutions one thousand years after the great catastrophe.
We conclude noting that an explanation of the Atlantis story and of the end of the last
glaciation in terms of a meteoritic impact was also given by Muck [101]. However he
assumed a location of the island of Atlantis in the middle of the Atlantic Ocean and its
disappearance by direct hit effect. He also assumed that the presence of Atlantis in that
position affected the Gulf Stream movement and was responsible of the last glaciation. These
arguments are against established geological knowledge.
233
6. An interpretation of the biblical and Sumerian flood stories
Legends on deluges which almost destroyed mankind are found among many peoples (more
than 600 such legends have been counted). Here we shall be concerned only with the biblical
and Sumerian tradition. Our conjecture is that the two sources describe the survival of two
distinct groups of people in the area affected by a deluge following an Apollo impact. In the
first version of this essay we assumed that the Atlantis story and the biblical and Sumerian
deluge stories related to the same event. Of this identification we are no more sure now and
we prefer to think that the biblical-Sumerian deluge is a later event, probably the second or
last of the three great catastrophes referred to by the priest in Sais. We do not discuss here the
problem of dating this event, but we are sympathetic with Patten [134], who dated it at circa
2500 BC. Patten derived this date using the internal chronology of the Bible, essentially
following Thiele [135], and arguments from his theory of periodic approaches of the planet
Mars to the Earth, resulting by gravitational tide effects in catastrophical events on the Earth
similar to those produced by an oceanic Apollo impact. Notice also that the readjustement of
the Egyptian chronology advocated, as referred before, by Velikovsky, Bimson, James, Rohl,
Clube and Napier, would put Menes and the first dinasty after the deluge. For arguments that
the Sphinx and the great Giza Pyramids were build well before Menes, most probably at the
time when the Atlantis civilization flourished, see West [129], Gilbert and Bauval [130],
Hancock [131] and Schoch [155].
The biblical story of Noah is contained in Genesis 6-9, with additional references in
other parts of the Bible. It is not possible here to discuss the many interpretational problems
connected with biblical texts. Just remember that more than a thousand Hebraic words are
known only from the Bible, where they appear only once and that new insight into
controversial passages comes from the recent important work of Salibi [156, 157, 158], who
has argued that the original land of the Hebrew was the Asir region in southern-western
Arabia, implying that comparison with the surviving dialects of Arabic in that region is very
useful for clarifying the Biblical language. We shall just state the main usually undisputed
content of the story and then give our interpretation. The content of the Genesis is the
following:
- before the deluge mankind had multiplied on the Earth; much violence affected the human
society
- Noah, warned in dream by God that a catastrophe would destroy mankind, built a wooden
ark, 300 cubits long, 50 large, 30 high, insulated with pitch externally and with a material
called gopher internally (perhaps an eatable material, a mixture of roasted barley and water.
This is a basic staple of many primitive people, for instance the ancient Guanche populations
of the Canary islands, who called it, quite intriguingly, gofio. It is still the national food of
Tibetans, who call it tsampa)
- after Noah had taken refuge in the ark with his family and various animals, "the fountains of
the great deep were broken up and the windows of heaven opened " (as in the Holy Bible
revised authorized version)
- "the rain was on the Earth for forty days and forty nights; the waters increased and lifted the
ark"; "the waters prevailed on the Earth and the high hills were covered"
- after five months the ark touched land on some mountains of Armenia, Urartu in the text
(usually and probably incorrectly translated as Ararat); after four more months Noah left the
ark, the land having finally dried up.
234
The Sumerian story of the deluge has been found on a number of tablets with
cuneiform inscriptions from Anatolia to southern Mesopotamia. The dating of the tablets
varies from the beginning of the second millennium B.C. to the seventh century B.C. (the
tablets from the library of Ashurbanipal in Nineveh). The languages are also various, say
Sumerian, Akkadian, Hurrian, Assyrian, Hittite, old Babylonian. Despite some differences
among the content of the tablets, there is consensus that they all derive from a unique
Sumerian source. The first tablets were found in the second half of last century and were
published in 1882. Intriguing evidence that the Sumerian flood story had also survived in the
oral tradition in the Armenian region comes from the Armenian writer Gurdijeff, born in 1877
in Alexandropolis (later Leninakan, in the Armenian province of Kars). In his posthumous
book "Rencontres avec des hommes remarquables" [102], he says that his father Adash was
one of the last story tellers of the Transcaucasian region. One of the songs of his father was
named "The Legend of the Flood before the Flood". A few years before first world war
Gurdijeff read on a magazine the story of Gilgamesh. He was astounded to see that the story
was almost identical with the 21st song of the Legend of the Flood before the Flood. If his
testimony is true, we have a strong evidence that an oral tradition can survive accurately for
thousand of years. The intriguing name "flood before the Flood" might indicate that the
Sumerian flood was not the last of the (three?) great floods referred to in the Platonic text.
The story of the deluge in the Sumerian tradition is imbedded in the epics of
Gilgamesh, a great king of the Sumerian city of Uruk, who probably lived in the third
millennium B.C. (see Kramer [68]). Briefly, Gilgamesh developed a deep friendship with
Enkidu, previously a wild man living in the forests. With him he made an expedition to a far
away land of great cedar trees where he killed the monster Humwawa. On the return to Uruk,
the gods took vengeance of the death of Humwawa and made Enkidu die of a disease. Deeply
affected by the loss of his friend and afraid of his own destiny of mortal being, Gilgamesh
went on a new trip to the distant land where lived Utnapishtim (in the Assyrian text; Ziusudra
in the Sumerian text), the man who survived the deluge and was granted immortality by the
gods. There Gilgamesh, whose request for immortality was not accepted, was told the story of
the deluge. Notice that arguments are given in Spedicato [159] that the place of Humwawa
should be identified with the high valley of Baltistan, in present Pakistan, close to the
Khunjerab pass and that Humwawa might have been a giant yeti; Utnapishtim place is
identified with the Ani Machi Mountain Range, in present Chinghai in China, a massif
surrounded on three sides by the Yellow River and traditionally a sacred mountain of the
Ngolok local tribe. The story is the following (see Kramer [68] for a translation of the
incomplete Sumerian text, or Sandars [69] for the Assyrian text, or Pettinato [119] for most of
the survived texts):
- before the deluge man had greatly multiplied and many cities were build. The incessant
activity of man disturbed the gods, who decided to send a deluge
- Utnapishtim, a man of the city of Shurrupak, was warned by the god Ea in a dream of the
impending catastrophe. He built a large square boat, whith sides of 120 cubits, covered it with
a roof, insulated it with pitch and there he took refuge with his family and various animals
- at first light of dawn a black cloud appeared at the horizon and daylight turned to darkness.
A tempest raged with increasing fury. For six days and nights (in the Assyrian text; seven in
the Sumerian text) the wind blew and torrential rains and flood overwhelmed the world
- after seven days the storm subsided; the boat touched land on the slope of the mountain of
Nisir; the world was desolated and mud covered everything.
235
In Critias the priest of Sais states that there were three great floods before and
including the Deucalion flood, the one which destroyed Atlantis being the first and the
greatest. Excavations in Mesopotamia in 1929 by Woolley [70] have shown the existence of a
sedimentary layer, later shown to extend 600 km inland from the Persian gulf, which separates
strata both containing archaeological artifacts; the age of the layer has been estimated at 4000
years B.C.. It is current opinion that the flood responsible for the layer is the one referred to in
the Utnapishtim-Ziusudra legend and that the Noah story is just another, possibly later,
version of the same event.
In our interpretation the biblical and the Sumerian stories may describe the same
event, but as witnessed by two different groups of survivors, in two different points of the
world.
Now, a basic question. Who has the best chances of surviving in the area affected by
the tremendous consequences of an oceanic Apollo object impact? Surely no one in the large
coastal areas affected by the tsunamic waves. Almost surely no one in the flat lands or valleys
in the interior continental areas affected by the deluge following the evaporation of thousand
cubic kilometers of water. Possibly someone living in caves on the slopes or top of mountains
or someone navigating in a boat provided with food (or made at least partly by eatable
materials...) in an inner lake or in an inner sea, where tsunamic effects could not reach.
We conjecture that Noah was a man living possibly on trade along one of the several
inner lakes which are found in the eastern Anatolian plateau (such as Van Golu in Turkish
Armenia, Ozero Seven in Armenia, lake Urmiah in present Iranian Kurdistan, but formerly
part of Armenia). According to our previous climatological considerations, Central Asia,
Mesopotamia and the Mediterranean had a favorable climate during the last glaciation.
Civilization most probably evolved in these regions and the natural way of transit between
them was through present Armenia. Existence of boats for trasporting goods on the Armenian
lakes should be expected, justifying the technological ability shown by Noah in building a
large (raft-like notably) boat.
We similarly conjecture that Utnapishtim-Ziusudra was a man involved in trade by
boats somewhere along the eastern coast of the great inner sea which during the last glaciation
connected the Black Sea, the Caspian and the Aral (or even possibly along the inner lakes
extending in the Xinjang province of China). Our geographical differentiation is suggested by
the following important variations between the Sumerian and biblical texts:
- the Utnapishtim story tells that a great black cloud appeared on the horizon at dawn and that
daylight turned to darkness. The reference to this surely impressive phenomenon is not
present in the biblical text. A natural explanation is that the cloud front passed over Armenia
during night, hence the sudden change from daylight to darkness did not occur. The extra time
for a cloud front to reach Central Asia would well be several hours, to which a time lag for
longitudinal difference should be added, thereby explaining the different time of the day the
deluge locally started
- in the Utnapishtim story the deluge lasts only six or seven days, much less than the forty
days of the Bible, moreover the increase of the water level does not appear so impressive as in
the biblical text. A front cloud bringing rain from the Atlantic would exhaust itself moving
eastwards and thus a minor amount of water would be washed over Central Asia than over
Armenia. Also the maximum distance reachable by the cloud front is expected to be a
decreasing function of time, as the magmatic emissions responsible of the evaporation would
decrease in time; this would explain the shorter duration of the deluge in Central Asia.
Our conjecture that the Utnapishtim flood was witnessed in Central Asia also agrees
with a possible central Asian origin of the Sumerian people that has long been suspected.
Indeed the Sumerian language is not Semitic, but is related to Turkish languages of Central
236
Asia (even with Hungarian). Populations with anthropocentric features similar to those of the
Sumerians are found in Afghanistan and Beluchistan (Keith, quoted in Cream [71]).
Connections between the Sumerian and the Harappan civilizations have been hinted and
Heyerdahl [72] has shown that Mesopotamia and the Indus valley can be reached by sea using
reed boats. Our conjecture then that Utnapishtim was a man of Central Asia would imply that
his descendants, or some of them, moved southwards, leaving some groups along the way,
and reaching finally Mesopotamia via the Indus valley and the Indian ocean (or via Iran). It is
quite possible that knowledge about good living conditions in Mesopotamia before the deluge
had persisted among these itinerant populations.
We can also do some speculations about the descendants of Noah. In the changed
conditions after the deluge the descendants of Noah probably became shepherds in the eastern
Anatolian - northern Mesopotamian regions. The finding in Ebla of the largest tablets
collection of the third millennium B.C. has given startling information, like the existence of
personal names in Ebla of biblical type (Abraham, Esauh, David), and the existence of a city
named Ur in northern Syria (see La Fay [73] for a review of the work of Mattia and Pettinato
on Ebla); it should also be noticed that a fortress named Ur and located in northern Siria is
referred to by Ammianus Marcellinus. The Bible states that Abraham, a man whose native
land was Nacor in northern Mesopotamia, came from Ur of the Chaldeans to Canaan. Well
before Ebla was discovered, Velikovsky [5] gave many arguments in favor of the thesis that
the Chaldeans were people of northern Mesopotamia - eastern Anatolia to be identified with
the Hittites. Thus we strongly suspect that the biblical Ur of the Chaldeans was not the
Sumerian Ur (why indeed call it "of the Chaldeans") but a city of northern Mesopotamia
indicated by the Ebla findings. For arguments that Abraham was not of Semitic, but of
Indoeuropean stock, as Armenians and Chaldeans are, see Barbiero [127]. Notice that
Abraham moved to the land given him by the Pharaoh from the city of Haran (now Harran, in
southern Turkey), where he left relatives and where Jacob returned to get his two wives Leah
and Rebecca. About 50 km north-west of Haran lies the ancient city of Edessa, whose role in
Christianity has been very important ( his king Abgar exchanged letters with Jesus according
to apocryphal sources; according to tradition the Shroud was hidden in a cavity of its walls
and there rediscovered after an earthquake). The name Edessa was given by the Macedonians
in remembrance of an ancient Macedonian capital. The present name is Urfa and Hurri was
the name before the Macedonian conquest. It was an important city in the second millennium
BC related with the Hurrite and Mitanni kingdoms. Local traditions insist that Abraham dwelt
there, see Middleton [132], and a cave is still now shown where he was supposedly born (see
the guidebook Turkey in the Lonely Planet series). For a location of Ur in Persia five days
from Nisibis see Egeria [140], who visited Edessa around 380 AD.
7. A conjecture about the origin of the Camunian civilization
We conclude this essay by considering the possibility that a group of people survived the
deluge in northern Italy and that their descendants gave origin to the Camunian civilization.
During the last glaciation the Po valley was free from ice, the climate there being similar to
that found now in prearctic regions. Similarly free of ice were the lakes which characterize the
entrance of many valleys of the Alps, the glaciers filling however most of the valleys (the
situation was different in some previous glaciation, when glaciers excavated the depressions
now filled by the lakes). A population of hunters and fishermen lived in northern Italy,
particularly near the shores of the lakes, where villages existed consisting of huts built on
poles. The winter was severe and the summer season was very important for collecting food to
be preserved, dried or smoked, for the winter.
Consider now the fate of these populations in the deluge which followed the impact of
the Apollo object in the Atlantic considered in the framework of the Atlantis story. The Po
valley is essentially protected by the Alps and the Appennines from the tsunami waves
237
coming from the Atlantic, the effect of these being probably restricted to a limited area near
the Adriatic. The effect of the deluge would however be totally destructive for populations
living in the proper Po valley. But a peculiar geographical feature characterizes the entrance
of the Val Camonica, the site where the civilization of the Camunians developed for
thousands of years, from the end of the Ice Age to the Roman conquest, leaving a continuous
documentation of hundred of thousands inscribed rocks (see Anati [74, 75, 76, 77] and
Dufrenne [160]).
The geographical feature is the following: there is a relatively large lake (Lake Iseo) at
the entrance of the valley, in the middle of which lies Montisola, the largest island of the
Italian lakes. Montisola, about two square kilometers, is hilly, its summit about 400 meters
above the level of the lake. Most probably fishermen lived in Montisola, possibly not in pole
villages, dangerous animals in relatively small Montisola having certainly been eliminated,
but on caves or huts along the slopes of the island. We believe that a group of people in
Montisola would have had a good probability of surviving the deluge. In fact, due to its small
surface, the effects of the water washing down the slopes would have been limited; the deluge
in the nearby area would have increased the level of lake Iseo, but not so much to completely
cover Montisola. If the event happened in summer or early autumn (Patten [134] gives
arguments for late October), reserves of food for the winter would have already been
available, allowing survival during the weeks of paroxistic deluge; moreover the effect of the
deluge on the lake fish on which the Montisola population lived was probably marginal. The
people of Montisola found themselves possibly the only survivors in a desolated and changed
world and may have attributed this fact to the special place where they lived. This belief could
well explain why the Camunians did not move for millennia from the valley where their
ancestors survived the deluge. Our interpretation might also shed some light for a nonstandard
interpretation of the over 300.000 inscriptions on rocks found in Val Camonica, where motifs
appear that can be probably related to cosmic events.
8. Final remarks and conclusion
In the previous sections we have developed a scenario to explain the end of the last glaciation,
the stories of Atlantis, Noah and Utnapishtim, and the origin of the Camunian civilization, in
the framework of an event of extraterrestrial origin, say the impact of an Apollo object over
the Atlantic ocean. We are well aware that our scenario, how apparently coherent and
intriguingly fascinating it may be, cannot be considered proved, containing an unavoidable
high amount of speculation. Open questions concern in particular whether the last glaciation
was actually ended by an impact, whether a civilization of the Atlantis level existed in the
final period of the last glaciation, whether the Noah and Utnapishtim deluges were
contemporary with the Atlantidean catastrophe. Future research on Apollo objects, crater
traces on the Earth and global climate models, will help in assessing the validity of our
scenario.
While it is improbable that archaeological research may sometimes prove or disprove
the Noah and Utnapishtim stories (but additional useful documentary sources most probably
are to be found in the thousands of unexcavated tells of the Middle East; see also Fasold [139]
for a discussion of artecfacts related to the Noah's ark on mount Judi, about 30 km south of
mount Ararat) it is not excluded that the development of deep water archaeology and radar
exploration techniques able to photograph below sedimentary deposits will clarify the issue
about the city of Atlantis, which we conjectured lies at least sixty meters below sea level in
the southern part of Hispaniola.
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Acknowledgements
The author acknowledges stimulating discussions with Thor Heyerdahl (Colle Micheri, Liguria and
Guimar, Tenerife), Laurence Dixon (University of Hertfordhshire), Victor Clube (Oxford University),
Emmanuel Anati (Centro Camuno di Studi Preistorici), Zdenek Kukal (Central Geological Survey,
Prague), Donald Patten (Seattle), Flavio Barbiero (Livorno), Antonino Del Popolo (Bergamo), Lia
Mangolini (Milano), Graham Hancock (Leat Mill, Lifton) and Andrew Collins (Leigh on Sea).
Third revised version. First version published in 1985 in Quaderni del Dipartimento di Matematica,
Statitica Informatica ed Applicazioni - Serie Miscellanea, Università degli Studi di Bergamo, 85/3.
First revised version published in 1990 as Quaderno 90/22 (also in Journal of New England
Antiquities Research Association, 26, 1-14, 1991 and in Kadath, 84, 29-55, 1995, in French). Second
revised version published in 1997 as Quaderno 97/5. Work partly supported by ex 60% 1999 program.
----[A presentation of the author can be found in Episteme N. 1]
[email protected]
246
ASTRONET
(Asteroid Tracking, Reconnaissance, and Observation Network)
[a game from http://www.tufts.edu/as/wright_center/impact/impactb.html]
247
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248
LA QUESTIONE DEL TEMPO
NELLE CONFESSIONI DI SANT'AGOSTINO
(Giuseppe Antoni)
Un comune lettore delle Confessioni, abituato a considerare il tempo come qualche
cosa che trascorre normalmente, può, forse, provare meraviglia nel leggere al punto 2 del Cap.
XIV del Libro XI: "Quid ergo est tempus? Si nemo ex me quaerit, scio: si quaerenti explicare
velim, nescio", che in italiano, suona: "Allora che cosa è il tempo? Se nessuno me lo
domanda, lo so. Se voglio spiegarlo a chi me lo domanda, non lo so più". Dopo di che l'autore
passa a denunciare le difficoltà che gli si presentano e le risposte che riesce a dare.
Al Cap. XXI si può leggere:" E il tempo presente come facciamo a misurarlo, se non
ha estensione?", mentre al cap. XXVI si può leggere: "E' il tempo che io misuro, lo so. Ma
non è il tempo futuro, perché ancora non è, non quello presente, perché non ha estensione, non
quello passato, perché non è più. E, allora, che è quello che io misuro?".
Al Cap. XXVII risponde: "... non esse (le cose passate) io misuro, esse che non sono
più, ma misuro qualcosa nella mia memoria, che vi rimane fissa".
Mentre al Cap. XXVIII si può leggere. "Ma in qual modo diminuisce, o si consuma, il
futuro, che non è ancora, o cresce il passato che non è più, se non perché nell'anima che è la
causa del fatto, esistono tre stati? E, invero, essa aspetta, fa attenzione, si ricorda: per modo
che quello che aspetta, attraverso a ciò che è l'oggetto della sua attenzione, passa a diventare
la materia del suo ricordo. Ora nessuno nega che il futuro non è ancora. Ciò non pertanto
esiste nell'anima l'aspettazione del futuro. E nessuno nega che il passato non è più. Ciò non
pertanto esiste ancora nell'anima il ricordo del passato. E nessuno nega che il presente è privo
di estensione, giacché il suo trascorrere è un punto. Ciò non pertanto dura l'attenzione,
attraverso la quale ciò che sarà presente si affretta verso l'essere assente. Non dunque è lungo
il tempo futuro che non esiste, ma il futuro lungo è l'attesa lunga del futuro. Né è lungo il
tempo passato che nemmeno esiste, ma il passato lungo è il ricordo lungo del passato".
Molte difficoltà, che si presentarono a Sant'Agostino nel trattare la questione del
tempo, ed alle quali seppe dare una risposta, forse non gli si sarebbero presentate, se avesse
tenuto presente che il tempo può essere preso in considerazione da un punto di vista
matematico, oltre che da un punto di vista fisico (o fisiologico) e che è bene non fare una
contaminazione dell'uno coll'altro di questi due diversi punti di vista.
Può essere utile trattenersi brevemente sulla questione del tempo considerandola non
disgiunta da quella dello spazio con la quale è intimamente collegata. Incominceremo col
prendere in considerazione brevemente lo spazio matematico.
Euclide ha inquadrato la sua geometria in uno "spazio", che va considerato infinito,
dotato di tre dimensioni (lunghezza, larghezza ed altezza), intellettualmente oggettivo,
formato da infiniti punti infinitamente piccoli. In tale spazio matematico, intellettualmente
oggettivo, sono situate le figure geometriche, le quali pure, analogamente allo spazio
matematico, vanno pensate come entità intellettualmente oggettive.
Insieme allo spazio matematico può essere preso in considerazione un tempo
matematico, anch'esso intellettualmente oggettivo, formato da infiniti punti (istanti)
infinitamente brevi, che si distenda infinitamente verso il passato e verso il futuro, essendo il
suo presente infinitamente breve, essendo, cioè, il presente un punto del tempo.
Il Minkowski ha studiato il tempo considerato come una dimensione di una entità a
quattro dimensioni (di cui le altre tre dimensioni sono quelle spaziali), che era stato chiamato
249
cronòtopo dal Gioberti, e deve essere considerato intellettualmente oggettivo come lo spazio
matematico ed il tempo matematico, che lo costituiscono.
Passiamo ora ad intrattenerci brevemente sullo spazio fisico e sul tempo fisico.
L'uomo é abituato a vedere che quanto si presenta alla sua attenzione ha un suo
contenitore; per la qual cosa è portato ad ammettere istintivamente l'esistenza di un'entità, a
cui può essere dato il nome di spazio (fisico), la quale entità contenga tutto l'universo che egli
è in grado di percepire. Prendendo attentamente in esame lo spazio, ci rendiamo conto, però,
che non può essere considerato come un grande recipiente, che contenga tutto l'universo. Gli
dobbiamo negare un'esistenza oggettiva, perché nessun suo punto può essere considerato
come un concreto punto di riferimento per la posizione di un qualsiasi oggetto, per lo studio di
un qualsiasi moto, o per precisare la posizione di un qualsiasi evento. Tutto, invece, deve
essere riferito ad un qualche corpo concretamente esistente.
Se allo spazio non può essere attribuita un'esistenza oggettiva, dobbiamo considerarlo
come una nostra intuizione, attribuendogli un'esistenza non oggettiva, ma intellettualmente
soggettiva. Possiamo considerarlo, cioè, come un'entità intellettualmente soggettiva. Gli
possiamo, inoltre, attribuire tre dimensioni, perché a ciò siamo portati dal senso della
tridimensionalità di cui siamo dotati.
Se passiamo a prendere in considerazione il tempo che interviene nelle questioni della
fisica (il tempo fisico, o fisiologico), ci possiamo rendere conto facilmente che, sebbene si
presenti con immediatezza alla nostra attenzione come un'entità oggettiva che scorra, anche ad
esso, come allo spazio fisico, non può essere attribuita un'esistenza oggettiva. Un qualsiasi
evento, infatti, non può essere riferito astrattamente ad un punto (ad un istante) del tempo, ma
deve essere riferito ad un qualche altro evento che si sia già verificato e che venga considerato
come evento di riferimento. Anche il tempo (fisico), quindi, come lo spazio (fisico), deve
essere considerato come un'entità intellettuale soggettiva. E' frutto della nostra intuizione, e
perveniamo al concetto di tempo per il fatto che siamo dotati della memoria in cui viene
registrato il succedersi degli eventi. Non si può, quindi, ammettere che il tempo abbia avuto
un'origine. Il soggetto che lo intuisce gli può attribuire un'origine nell'evento che più gli
aggrada.
Ad uno stesso fenomeno possiamo attribuire durate diverse a seconda dell'età, dello
stato d'animo, o di altre condizioni. Questo prova che la durata di un fenomeno non è qualche
cosa che appartenga strettamente al fenomeno osservato, ma al soggetto che lo osserva. Per
convenzioni a fenomeni uguali (ad es., ai battiti di un orologio) attribuiamo durate uguali.
Diciamo che due, o più, fenomeni hanno uguale durata se contengono lo stesso numero di
battiti di un determinato orologio, a prescindere dalla sensazione di durata che possiamo
provare nell'osservarli. L'istante (e così pure il presente) del tempo fisico non ha una durata
infinitesima, come quello matematico, ma ha la durata di un atto di percezione. Il presente e
l'istante del tempo fisico, o fisiologico, pensati non infinitamente brevi, sono perfettamente
intuibili e vivibili.
Da quanto abbiamo esposto si può dedurre che lo spazio matematico ed il tempo
matematico sono adatti per inquadrare un nodello matematico del mondo, mentre col mondo
della concreta realtà fisica fa comodo collegare uno spazio fisico, entità soggettiva, ed un
tempo fisico, anch'esso entità soggettiva.
Da quanto scrive Sant'Agostino si può dedurre che egli considera il tempo (fisico)
come un'entità soggettiva e lo afferma esplicitamente quando, al Cap. XXX, sempre del libro
XI, scrive: "Non può esistere tempo senza creatura". Egli però attribuisce al tempo fisico
qualche proprietà che, invece, potrebbe essere attribuita al tempo matematico, o viceversa, e
ciò può generare un po' di confusione di idee.
250
Si può tener presente che il tempo non va pensato come un'entità che scorra, creata da
Dio. Dio, infatti, può essere considerato come un punto metafisico, per il quale tutto è attuale
e presente, non ha bisogno, perciò. di un prima e di un poi, né di un qua e di un là (di un
tempo e di uno spazio). Già in San Tommaso, all'art. VII della questione III, della Somma
Teologica si può leggere: "Dio è perfettamente semplice, non è unito ad altro e non ha parti";
ma ciò che non ha parti, secondo Euclide, è il punto.
L'uomo, invece, ha bisogno di intuire (di creare) il tempo (fisico) e lo spazio (fisico),
per collegarli con il mondo con i suoi eventi, che egli sa intuire (che egli sa creare) con i sensi
di cui è dotato. Se il tempo fisico, entità intellettualmente soggettiva, è un'intuizione, o
creazione, dell'uomo, risulterà tutto attuale nella sua mente con il suo presente, il suo passato,
ed il suo futuro, ed egli potrà, quindi, misurarli.
----Giuseppe Antoni è nato a Petrella Salto (Rieti) nel 1909. Si è laureato in
Matematica e Fisica a Roma nel 1932, discutendo una tesi assegnatagli da
Enrico Fermi, "Lo spettro continuo dei raggi X". Ha successivamente insegnato
in diversi Licei statali le predette materie, ed è stato infine a lungo Preside. La
bibliografia allegata mostra un esempio delle questioni alle quali ha
maggiormente dedicato studio ed interesse nel corso degli anni, tra queste in
particolar modo quelle riguardanti la teoria della relatività.
Via del Poliziano,7 - Montepulciano (Siena) - [email protected]
Pubblicazioni:
Presso le EDIZIONI ANDROMEDA, Via S. Allende, 1 - Bologna
La relatività ristretta dedotta da considerazioni dinamiche
Per capire la relatività ristretta, che può essere una evoluzione della fisica
classica
La relatività ed il suo spazio-tempo
La relatività generale in un contesto dinamico
La velocità della luce - bradioni, luxoni, tachioni
Tra il serio ed il faceto (versi)
Il misterioso universo
Presso la CASA EDITRICE CEDAM - Padova
L'uomo e la sua missione nel mondo
Pensiero ed esistenza
Presso la LIBRERIA QUADRI - Montepulciano (SI) (o anche Ed. Andromeda)
La poesia nel vangelo
Considerazioni sulla attuale (indeterminata) definizione del metro
Il comportamento relativistico delle lunghezze e l'esperienza
251
Le esperienze di Hafele-Keating e di Briatore-Leschiutta non provano
l'esistenza di effetti relativistici
Ciò che si deve capire della relatività e che (quasi) nessuno ha capito bene
L'universo può non espandersi
Stravaganze sui quanti di luce
Il significato della relatività secondo Einstein, che sembra non averlo bene
inteso
Il comportamento relativistico degli orologi
Lo spostamento gravitazionale delle righe spettrali
L'evoluzione ed i suoi confini
Il big bang in un cronotopo con metrica ellittica
La necessità dell'esistenza di dio
La relatività in un contesto ellittico
Il vuoto ed il suo uso indeterminato nella fisica
Il messia e la sua Chiesa nelle profezie
L'uomo ed il suo mondo
In mancanza di un progetto non può esserci evoluzione
Generalizzazione della legge della gravitazione e sue conseguenze
L'uno e l'altro guido del canto XI del purgatorio
L'immenso ed inespansibile nostro universo
L'uomo al centro del suo universo
L'evoluzione a partire dal big bang
Contributo per un chiarimento alla questione della causalità
A Simple "Classical" Interpretation of Fizeau's Experiment (con U. Bartocci),
Apeiron, Vol. 8, N. 3, July 2001
252
Quattro ipotesi sulla natura del tempo
(Paolo Bocchio)
•
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Per Platone il tempo è in relazione al moto della stelle.
Per Aristotele il tempo è il numero del movimento secondo il prima e il poi, ma i due
istanti che determinano il prima e il poi non fanno parte del tempo, sono solo soste
virtuali introdotte nel continuo del divenire dalla nostra coscienza.
Per Lucrezio nemmeno il tempo sussiste come entità: sono le cose che creano il senso
di ciò che succede negli anni.
Per Plotino il tempo è il movimento con cui l'anima passa da uno stato all'altro.
Per S. Agostino il tempo è «Distensio animæ».
Per Newton il tempo vero, matematico, non è in relazione ad alcunché di esterno e
scorre uniformemente per sua natura.
Per Kant il tempo è un modo della comprensione umana.
Per Hegel il tempo è il modo in cui si sviluppa lo Spirito.
Per Marx il tempo è una convenzione sociale.
Per Emo il tempo è la coscienza dell'istante.
Per Heidegger è l'uomo ad introdurre la differenza tra il prima e il dopo.
Per Prigogine la freccia temporale è insita nella natura.
Pretendere di dire qualcosa di nuovo sul concetto di tempo o tentare addirittura di "spiegarlo"
è cosa che dimostra ingenuità ed irriverenza nei confronti dei grandi pensatori del passato. Ma
quando si è di fronte a montagne che nessuno è mai riuscito a scalare, credo che ciascuno
abbia il diritto e soprattutto il dovere di fornire il suo contributo per raggiungere la vetta,
nonostante Shakespeare abbia scritto che «… disquisire… perché il giorno sia giorno, la notte
notte e il tempo tempo, sarebbe spreco di notte, giorno e tempo» ["Amleto" II.II].
Il tempo è associato al mutamento, al divenire, al movimento, ma anche al concetto di
"Individualità": per poter dire che A "diventa" B bisogna innanzitutto chiarire cosa significa
che lo «stesso individuo», lo «stesso oggetto», lo «stesso ente» che prima era A adesso è
diventato B. Facciamo alcuni esempi:
- sia A un sasso e B lo stesso sasso in cui un atomo si è spostato;
- sia A un embrione e B l'animale che ne è risultato 30 anni dopo;
- sia A una persona e B la stessa persona che ha alzato un dito.
In questi esempi ho dato per scontato che cambiamenti piccoli o grandi che siano (lo
spostamento di un atomo o di un dito e una crescita trentennale) non modificano quella che è
l'individualità di un ente. In realtà nulla ci vieta di pensare che un sasso in cui un elettrone è
ruotato non sia più lo stesso sasso di prima: ovvero, se ciò che dà individualità all'ente è
quella ben determinata disposizione spaziale delle sue particelle costituenti, come pure la sua
relazione con l'ambiente circostante, non possiamo più dire che A diventa B, ma che A e B
sono due enti quasi uguali che esistono in due distinti universi in cui il tempo non esiste!
Quindi per poter dire che il tempo esiste e che A diventa B dobbiamo definire l'individualità
dell'ente in maniera compatibile col fatto che quell'ente possa cambiare restando
essenzialmente lo stesso ente! Immaginiamo un universo in cui esistono solo un elettrone ed
un positrone che si stanno avvicinando. Immaginiamo adesso un embrione che si sviluppa
fino a produrre un uomo che vive fino a 90 anni e poi muore. Cos'è che ci fa dire che
253
l'elettrone ed il positrone che si muovono sono sempre gli stessi e che l'individuo concepito e
vissuto fino a 90 anni è sempre lo stesso individuo? Cos'è che rimane costante per tutto il
tempo? La risposta non può che essere questa: nel caso delle particelle considerate elementari,
l'individualità è associata alle loro caratteristiche fisiche; nel caso di un atomo o di un
organismo, l'individualità è associata al progetto unitario che assembla le parti (quello ad
esempio che dà stabilità ad un atomo o che fa vivere una cellula). In linguaggio informatico si
potrebbe dire che il divenire del singolo ente equivale alla successione degli output di un
determinato programma.
UNA PRIMA IPOTESI: IL TEMPO NON ESISTE.
Sia A il signor Caio in un preciso istante del 1/1/2001, B lo stesso Caio in un preciso istante
del 1/2/2001 e C sempre Caio in un preciso istante del 1/3/2001. Supponiamo di incontrarci
con B: B crederà di essere stato A e che sarà C, irreversibilmente ed assolutamente! In realtà,
in qualunque istante della nostra vita, non abbiamo mai una prova assolutamente certa del
nostro passato (i ricordi non sono che sensazioni che cogliamo nel presente, le fotografie non
sono che pezzi di carta stampata che percepiamo con il tatto e con la vista nel nostro
presente…). Quindi A, B e C potrebbero benissimo essere tre realtà che esistono, immutabili,
eterne ed atemporali in un universo statico e privo di divenire: B ha la sensazione di essere
stato A, così come C ha la sensazione di essere stato A e B. Anzi, continuiamo ad ingannarci
se pensiamo che esistano tante realtà quante sono gli istanti del tempo che passa: è sufficiente
ammettere l'esistenza di un unico istante, di un'unica realtà, eterna, statica ed atemporale:
l'ultima, quella corrispondente all'istante del nostro presente, qualunque esso sia!!! Eppure
sembra così ovvia ed assoluta la sensazione di moto che nasce dal semplice dito mosso
davanti ai miei occhi…
Ma potrebbe essere tranquillamente un'illusione: istante per istante io ho una sensazione
relativa alla posizione attuale del mio dito ed il ricordo delle posizioni immediatamente
precedenti che sono comunque sempre ricordi posti nel presente! È come se nel mio cervello
venissero attivate "contemporaneamente" più zone: una mi dà la sensazione della posizione
attuale, le altre mi danno la sensazione delle posizioni precedenti! Ma quello che esiste è un
unico istante: questo! Un mondo siffatto sarebbe addirittura compatibile con il libero arbitrio e
la possibilità di guadagnarsi il Paradiso! Per scegliere il Bene, infatti, è sufficiente
un'intenzione, e questa potrebbe essere tranquillamente istantanea ed atemporale!
UNA SECONDA IPOTESI:
(QUANTISTICA) DI ISTANTI.
IL
TEMPO
COME
SOVRAPPOSIZIONE
Ammettiamo adesso che il tempo esista. Consideriamo la vita di un individuo come un film:
ad ogni istante corrisponde un fotogramma. Nel fotogramma A lui non sa quando gli morirà il
cane, nel fotogramma B lui sa quando il cane è morto: diciamo che B viene dopo A. Per
spiegare il Tempo dobbiamo capire la causa del "Trascinamento" della pellicola, causa che,
evidentemente, dovrà trovarsi al di fuori del Tempo stesso! Innanzitutto non ci sarebbe nulla
di scandaloso e paradossale a pensare che la pellicola giri alla rovescia, pe cui lo stato B
precede lo stato A. Ecco qui emergere la differenza tra due concetti di tempo molto diversi tra
di loro: il Tempo Oggettivo, che trascina la pellicola ed il Tempo Soggettivo presente solo
nella nostra mente. Comunque giri la pellicola, per noi B viene sempre dopo A, in quanto
quando siamo in B sappiamo cose che prima non sapevamo: quando siamo in A noi ci
chiediamo comunque quando ci morirà il cane, anche se l'evento è "già successo": "Già
successo", sì, ma per chi? Per chi vede la pellicola girare!
Ma codesta entità deve poter vedere scorrere il tempo trovandosi a sua volta in un Tempo che
ingloba e comprende il primo! E così via all'infinito…
254
Pertanto essendo del tutto convenzionale il verso di scorrimento del Tempo Oggettivo, è
molto probabile che esso non fluisca né verso il (nostro) passato né verso il (nostro) futuro,
ma ciò significa che il Tempo Oggettivo non esiste! Anche perché per esistere dovrebbe
implicare un movimento continuo ed assoluto che - come tutto ciò che è assoluto - trascende il
nostro universo! Non a caso tutte le interazioni fisiche sono invarianti rispetto alle inversioni
temporali (tralasciamo per ora il caso dei kaoni neutri).
Tolto il concetto di Tempo Oggettivo, voglio comunque ammettere l'esistenza del movimento.
È possibile spiegare un cambiamento prescindendo dal "Prima" e dal "Dopo"?
È possibile spiegare come A diventa B senza scindere lo stato A dallo stato B?
E d'altraparte imponendo l'esistenza di un solo stato per volta?
Non è forse questo il Principio Quantistico di Sovrapposizione degli Stati?
|S> = |A> + |B>
|S> rappresenta l'intero film mentre |A> e |B> due suoi fotogrammi.
Rispetto alla prima ipotesi (quella della inesistenza del tempo) qui siamo riusciti a recuperare
tutti gli istanti (non esiste solo l'«ultimo») ma la natura del "movimento" resta altrettanto
misteriosa quanto quella del Principio di Sovrapposizione degli Stati!
UNA TERZA IPOTESI: IL TEMPO COME DINAMICITÁ INTRINSECA.
Torniamo al concetto di movimento comunemente inteso: eliminato ormai il concetto di
tempo oggettivo (che sembra essere una percezione esclusiva della mente che, dalla regolarità
di certi movimenti (rotazione della Terra, aumento della sabbia dentro la clessidra, isocronia
del pendolo, oscillazione dell'atomo di quarzo,…) perviene al concetto di "Tempo" e lo
proietta sull'intero universo) , cosa significa che B viene dopo A? Il Tempo, come lo Spazio,
sarebbe un dato strutturale del nostro universo: per spiegarli bisognerebbe uscire dall'universo
stesso! Ogni sistema, ogni struttura, ogni classe di complessità, ogni «Simbolo» ha il suo
"Tempo", la sua "Dinamicità intrinseca", il movimento adatto alla "Sua" stabilità. E tutto ciò
viene "Selezionato Naturalmente", né più né meno come la forma di un becco o il valore di
una carica elettrica. Se si fosse sviluppata la vita sulla Luna gli organismi lunari avrebbero
sviluppato ritmi (motori, cerebrali, psicologici) molto più lenti dei nostri; su Giove, invece,
sarebbero stati molto più rapidi. Ciò che rende un Simbolo costante nel tempo è la relazione
fra le sue parti, è il "software" che ne gestisce tutte le possibili reazioni (per un neutrino è
l'interazione elettrodebole, per un organismo vivente il suo DNA).
J.T. Fraser ha classificato vari tipi di temporalità: la nootemporalità (tipica della mente
umana), la biotemporalità (comune a tutti gli organismi viventi), la eotemporalità (tipica dei
sistemi fisici reversibili), la prototemporalità (tipica della fisica subnucleare), la atemporalità
(tipica dei fotoni) e la sociotemporalità (tipica delle società): nel caso dell'uomo, ad esempio,
la sincronizzazione degli orologi biologici è necessaria per mantenere la vita, quella fra le
funzioni cerebrali per mantenere l'integrità della mente e quella fra le funzioni sociali per
mantenere la società. Il tempo sociale è quello che permette la progettazione di azioni che
vanno oltre la durata della vita individuale e l'uso di idee tratte da un passato collettivo. Il
tempo sociale fa sì che la società possa disporre di gradi di libertà che non sono accessibili ai
suoi singoli membri. [J.T.Fraser: «Il Tempo: una presenza sconosciuta»].
Assumere la dinamicità della materia come la condizione naturale del nostro universo, è
un'idea che si accorda perfettamente con i risultati della fisica moderna: ogni particella
elementare, infatti, va concepita come un pacchetto di energia, come un processo al quale
prende parte l'energia equivalente alla massa della particella stessa: «L'esistere e il dissolversi
delle particelle sono semplicemente forme di moto del campo» [Thirring].
255
In questo modo rispondiamo anche al paradosso di Zenone: «Come è possibile che una freccia
si muova visto che essa in ogni istante è ferma?». Cioè, come è possibile costruire il moto
partendo dall'immobilità? In realtà la domanda da porsi è un'altra: "Visto che tutto è moto, da
dove nasce la nostra idea dell'immobilità?" Essa nasce evidentemente dalla limitatezza della
nostra sensibilità che ci impedisce di cogliere il moto incessante che sta alla base del mondo
fisico.
La contraddizione che sorge dal pensare il divenire come un qualcosa di unitario e mutevole
al tempo stesso, viene superata se si pongono questi due attributi del tempo su due piani
diversi: nella nostra tridimensionalità esiste solo una successione statica ed atemporale di
singoli "istanti" (intendendo per "istante" una determinata configurazione materiale e la sua
relazione con l'ambiente circostante), ma ciò che tiene insieme questi "istanti" è un principio
unificatore che appare solo nella quadridimensionalità dello spazio-tempo, dove il moto è
sostituito dalla geometria pura o dalla durata pura.
«Ma come si sussegue un istante ad un altro?»
Nella quadridimensionalità tali istanti non si "susseguono" essendo sovrapposti e coincidenti
in un unico "quadristante", ma neppure nella nostra tridimensionalità tali istanti si
"susseguono", essi infatti rimangono isolati nella loro atemporalità. Se potessi vedere la
caduta di un sasso nella sua quadridimensionalità, vedrei - immobili, eterne e sovrapposte in
un unico "4-evento" - tutte le posizioni successive assunte dal sasso durante la sua caduta.
Facendo degenerare alle sole 3 spaziali le dimensioni di questo "4-evento" non faccio altro
che "sezionare" questo "4-evento", e le sezioni 3-dimensionali così ottenute sono, a loro volta,
immobili ed atemporali, e sono molteplici, se viste nella loro 3-dimensionalità, ma unitarie se
viste dalla 4-dimensionalità.
Chiarisco il concetto con un esempio. Immaginiamo un universo unidimensionale ed un punto
che si muove su di esso a velocità costante per un intervallo di tempo ∆t. Rappresentiamo
questo movimento su un piano cartesiano dove l'asse Y è il tipico asse dei tempi. Bene, per
l'essere bidimensionale che osserva la scena, il tempo non esiste, l'asse Y è per lui un'ulteriore
dimensione spaziale e nel suo mondo atemporale il moto del punto si traduce in un segmento
AB. Quindi, quello che per l'osservatore unidimensionale è un punto che si muove, per
l'osservatore bidimensionale è un segmento.
Il Tempo, il Movimento, non sono altro che l'interpretazione che l'osservatore
unidimensionale dà, dal suo mondo, dell'unitarietà che caratterizza quel mondo
bidimensionale che lo comprende!
Insomma, la natura dell'osservatore è bidimensionale, ma siccome - per non so quale motivo
- egli si percepisce in maniera unidimensionale, per far coincidere l'unitarietà bidimensionale
degli eventi che osserva con le loro "sezioni" unidimensionali, egli introduce il concetto di
"Tempo"!
Passando a noi, la nostra natura è quadridimensionale, ma siccome noi ci percepiamo in
maniera tridimensionale, per far coincidere la nostra unitarietà quadridimensionale con le
nostre "sezioni" tridimensionali, siamo costretti ad introdurre il concetto di "Tempo" e di
"Movimento".
Il mondo 4-dimensionale è descritto correttamente dall'"Essere" di Parmenide, così come
quello 3-dimensionale dal "Divenire" di Eraclito. In questo modo, l'unitarietà del 4-mondo che
ci comprende giustifica la continuità dei nostri movimenti 3-dimensionali; ma da dove nasce
la "freccia temporale"? Perché questi movimenti avvengono in un senso e non nell'altro? Se io
rapporto la mia attuale sezione 3-dimensionale al mio Io 4-dimensionale, sono costretto ad
ammettere un'asimmetria nella struttura di questo Io 4-dimensionale: in quest'ultimo, infatti, è
"già" presente l'intera mia vita, dal giorno della nascita a quello della morte, ma allora perché
la sezione 3-dimensionale che caratterizza il mio presente è in qualche modo collegata con
256
una parte del mio 4-Io (il mio passato) e non con l'altra (il mio futuro)? È come se questo mio
Io 4-dimensionale avesse una specie di struttura conica, con la base rivolta verso il "futuro":
in questo modo una qualunque sua sezione può tenere traccia di tutte quelle comprese fra essa
ed il vertice, ma non delle altre. Il perché poi sia così, bisognerà chiederlo a quella SuperSelezione-Naturale che ha ritenuto questa forma adatta all'ambiente in cui questo 4-Io si viene
a trovare!
Quello che ho fatto è stato "spiegare" il tempo trasformandolo in uno spazio: aggiungendo una
dimensione allo spazio ordinario si è potuta eliminare la categoria temporale. Ma chi ci dice
che la natura dello spazio sia più ovvia di quella del tempo? Avrei potuto fare l'opposto,
considerando il tempo come concetto-base e cercando di "spiegare" lo spazio chiedendomi
come si "sussegue" un punto al successivo! Sarei arrivato a considerare un "4-evento"
unitario avente 4 dimensioni temporali! Se ho scelto la prima opzione è semplicemente perché
un numero di dimensioni spaziali maggiore di uno riusciamo a figurarcelo, ma dal punto di
vista temporale non arriviamo neppure alla bidimensionalità (non so immaginare un tempo
"perpendicolare" al nostro!). Le 4 dimensioni che unificano i nostri eventi possono essere
intese o come spaziali, o come temporali, ma la loro natura - per noi incomprensibile - le
trascende e le comprende entrambe.
UNA QUARTA IPOTESI: IL TEMPO COME SOGGETTIVITÀ ASSOLUTA.
L'intrinsecità del tempo non implica quella della "freccia temporale"!
La freccia del tempo sembra nascere quando le strutture materiali, diventando via via più
complesse, determinano l'insorgenza di stati aventi diversa probabilità di esistere e già
Boltzmann, nel 1872, affermava che i movimenti vanno nella direzione di maggior probabilità
statistica (Teorema "H"). Subito dopo però, lo stesso Boltzmann ritrattò questa spiegazione
della freccia temporale: infatti, come notò Zermelo, discepolo di Planck, non esiste alcuna
connessione logica tra il concetto di freccia temporale e quello di probabilità: si tratta di una
semplice tautologia associare la direzione del tempo all'evento "più probabile": in un universo
in cui il tempo scorresse al contrario, l'evento "più probabile" sarebbe il bicchiere intero e non
quello rotto.
Quello che io sostengo è quindi che la freccia temporale (ovvero il tempo soggettivo) è un
qualcosa di connesso alla "Logica" e quindi alla Selezione Naturale. Immaginiamo un
universo in cui l'evoluzione abbia selezionato individui il cui scopo sia quello di morire. In
questo universo consideriamo tre istanti differenti:
- in A c'è una persona affamata;
- in B c'è quella persona che mangia;
- in C c'è la stessa persona sazia.
Per la logica di queste persone il mangiare fa dimagrire ed il tempo fluisce quindi nel verso:
C B A! Con questo paradosso (mal riuscito!) voglio solo rendere l'idea di cosa intendo
quando dico che il tempo soggettivo dipende dalla logica, dalla psicologia, che a loro volta
dipendono dai nostri desideri, che a loro volta seguono le leggi della selezione naturale e
dell'evoluzione, che a loro volta dipendono dalle leggi di natura, che a loro volta dipendono
ancora da una specie di Selezione Naturale Extra-Cosmica che seleziona l'universo più adatto
per ogni punto di un inimmaginabile Iper-Spazio-Tempo.
L'universo sopra descritto non è il nostro visto alla moviola, è l'opposto! Io quando sono in A
aspetto C; l'anti-me quando è in C aspetta A! Il tempo soggettivo esprime il nostro mutamento
in relazione ai nostri desideri. Durante la giornata, durante la vita, ciascuno di noi ha desideri
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diversi, più o meno intensi, più o meno "urgenti" ed a ciascuno di essi è associato un
particolare tempo soggettivo: nel momento in cui il nostro desiderio è quello di svolgere il
nostro compito sociale, tutti noi ci sincronizziamo con l'indicazione dataci dall'orologio e quel
tempo soggettivo lo chiamiamo "tempo oggettivo".
Mentre sogniamo o mentre siamo sotto l'effetto di alcol, sedativi o droghe, la percezione che
abbiamo dello spazio e del tempo è indubbiamente molto diversa da quella "normale". Se
mantenessimo anche da svegli quel tipo di percezione, avremmo vita molto breve! Questo
però non significa che una percezione sia più "giusta" dell'altra: traducendo l'affermazione
kantiana in termini darwiniani, possiamo dire che percepiamo il mondo secondo le modalità
spazio-temporali corrispondenti al nostro stato di veglia perché questa forma di percezione programmata a livello genetico - si è dimostrata più utile nella lotta per la sopravvivenza. Non
ha senso chiedersi - kantianamente parlando - se esiste effettivamente qualcosa che
corrisponde a queste nostre idee dello spazio e del tempo: sono solo predisposizioni innate che
contribuiscono a perpetuare la specie.
E. Bellone, nel suo libro «Spazio e tempo nella nuova scienza», si chiede quali organi di senso
raccolgano i segnali temporali. Visto che il tempo è moto, moto inteso anche come
cambiamento, i sensori che recepiscono il tempo saranno gli stessi che recepiscono il
cambiamento; cambiamento rispetto allo spazio (un sasso che cade), alla forma (un palloncino
che viene gonfiato), al colore (una foglia che ingiallisce), etc.
Per recepire un cambiamento occorre quindi una memoria capace di:
1.
2.
3.
4.
registrare stati diversi di un oggetto,
sovrapporre questi stati,
cogliere l'individualità dell'oggetto che sta divenendo,
discriminare l'intensità della percezione.
È proprio quest'ultima capacità (l'intensità della percezione) che ci induce il concetto di
cambiamento, di movimento e quindi di tempo. Facciamo un esempio: all'istante t (qualunque
cosa sia questo istante) mi si sovrappone nella mente la sensazione forte che ho di un certo
oggetto in quell'istante e quella debole di quello stesso oggetto: bene, quest'ultima sensazione
verrà interpretata dalla mia mente come "istante precedente". Se invece ci fermiamo ai primi
tre punti, ovvero se la memoria ci fa sovrapporre nella mente due stati diversi di due oggetti
qualsiasi (anche coincidenti) ma senza riguardo all'intensità della percezione, nasce in noi il
concetto di spazio: ecco perché il concetto di spazio è più arcaico di quello di tempo (negli
animali e nei sogni, dove si attiva la parte più antica del cervello, la categoria temporale è
molto più imprecisa), proprio perché non necessita di un apparato aggiuntivo capace di
discriminare variazioni dell'intensità percettiva. L'idea che esista uno spazio ed un tempo si
riduce così a semplici sensazioni primarie (visive, tattili, uditive, olfattive, gustative, termiche,
motorie, dolorifiche, etc…) che vengono raccolte, sovrapposte ed elaborate da un unico
centro supersensoriale, centro che in definitiva È lo spazio-tempo.
Spazio e tempo (e la nostra stessa autocoscienza), insomma, vanno intesi solo come
sensazioni elaborate e non come realtà esterne (o interne) che noi percepiamo attraverso
segnali caratteristici (come le immagini o i profumi) che tali realtà emanerebbero. Insomma,
queste stesse percezioni che abbiamo (una luce, un suono…) non è detto che siano segnali
provenienti da "oggetti posti nello spazio", ma potrebbero essere solo sensazioni indotte in
"noi" da chissà che cosa e che ci portano a costruire l'idea di uno "spazio" che contiene degli
oggetti capaci di inviarci tali segnali. Il buon funzionamento di questi modelli, poi, è
garantito, come sempre, dalla Selezione Naturale.
258
Proviamo a fare un "esperimento mentale". Prendiamo due gemelli omozigoti: Pietro e Paolo;
al momento della nascita Pietro viene ibernato mentre Paolo cresce normalmente, ma con un
particolare: per tutta la vita, dall'istante della nascita in poi, Paolo sarà dotato di un
apparecchio collegato a tutte le terminazioni nervose che giungono al suo cervello e capace di
registrare tutti i segnali elettrici convogliati dal nervo ottico, quello acustico, quelli motori,
etc. Alla morte di Paolo (o magari anche prima), Pietro viene disibernato, il suo cervello viene
tolto dal cranio, mantenuto in vita da una circolazione sanguigna opportuna ed alle sue
terminazioni nervose verrà collegato l'apparecchio precedentemente collegato a Paolo, il quale
apparecchio riverserà sul cervello di Pietro tutti i segnali elettrici registrati (ovviamente nello
stesso identico ordine). Bene, benché il cervello di Pietro si trovi chiuso in una scatola dentro
una stanza buia, questi comincerà a vedere, sentire, crederà di muoversi, di camminare, sentirà
la pressione del terreno contro i piedi che non ha, avrà l'impressione di parlare, di ascoltare, di
percepire gusti e profumi e elaborerà una concezione dello spazio e del tempo: insomma,
ripeterà, a qualunque livello, la stessa identica vita di Paolo!
Con questo esempio ho voluto solo dimostrare che, lungi dalla speranza di poter pervenire al
"noumeno" e con la speranza di non essere solo dei cervelli cavie di qualcuno, la discussione
sulle categorie fondamentali dell'essere (spazio, tempo, logica, consapevolezza…) ci deve
porre in una posizione di estrema modestia ed incertezza ove non dare per scontati neppure i
concetti apparentemente più ovvii ed assoluti. (Quando crediamo di spostare la mano nello
spazio che ci circonda, forse non esiste né lo spazio, né la mano e forse anche noi non siamo
che "il sogno di qualcun altro" (Borges "Finzioni - Rovine circolari")).
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Paolo Bocchio è nato a Treviglio (BG), il 6/1/1961 (data ricca di simmetrie,
presagio del suo amore per l'ordine e la chiarezza!). Dopo aver conseguito la
maturità scientifica ad Alessandria, ha lavorato per quattro anni nel
sugherificio paterno, ma, decisamente non tagliato per il commercio, ho optato
per la prosecuzione degli studi e si è laureato in Fisica - indirizzo Nucleareall'Università Statale di Genova nel 1988. Ha insegnato Elettronica,
Matematica e Fisica nelle Scuole Superiori e attualmente è docente di
Telecomunicazioni all'I.T.I.S. "G. Ciampini" di Novi Ligure (AL). E' stato
membro dell'Associazione Astrofili Alessandrini e collabora col Centro Studi Il
Villaggio dell'Uomo e con l'A.I.F. (Associazione per l'Insegnamento della
Fisica), dei quali è socio. Dedica il suo tempo libero all'approfondimento in
campo epistemologico.
[email protected]
259
Una conferma sperimentale delle obiezioni di Halton Arp
al paradigma cosmologico corrente
Episteme riceve, per il gentile tramite del Dott. Alberto Bolognesi (vedi sul N. 2 della rivista:
"Dalla parte del torto: Tully & Fisher vs Hubble - Uno studio critico sul successo della
cosmologia del Big-Bang"), una comunicazione del Prof. Halton Arp, che è lieta di
condividere con i suoi lettori:
- Two quasars in bridge NGC 7603 (Arp 92), paper submitted by young Spanish astronomer
Martin Lopez Corredoira...
Il Dott. Bolognesi sottolinea come la scoperta effettuata nel cielo delle Canarie di due quasar
"vicini", in quanto evidentemente immersi nel braccio di NGC 7603 (z = 0.029), ma aventi
red shift molto diversi tra loro e dall'"ambiente" (risulterebbe infatti z = 0.057 per il primo
grande oggetto luminoso sulla sinistra, z = 0.243 per il quasar sulla sinistra, e z = 0.391 per
quello sulla destra; si è misurato inoltre z = 0.030 per la "zona filamentosa" tra i due quasar, e
ancora z = 0.030 per l'analoga regione osservabile alla destra del secondo), sia da considerarsi
veramente "straordinaria", a conferma delle obiezioni di Arp al paradigma cosmologico
corrente (il famoso big bang!): un'eventuale velocità di fuga non sarebbe l'unica, né la
principale, causa fisica del red shift galattico, e soprattutto sarebbe errata la sua correlazione
con la distanza, che viene effettuata attraverso la cosiddetta "legge di Hubble"...
La lettera del Dott. Bolognesi si conclude con le seguenti parole:
- Caro Bartocci, o QUESTA cosmologia è finita, o è la stessa astronomia osservativa che è
finita!
[Alberto Bolognesi - Via Marche N. 8, 47843 Misano Adriatico (Rimini)]
260
La "fuga" di Amleto, ovvero alla ricerca
dell'Introduzione originaria di Hamlet's Mill
(Il non detto in rapporto alla tematica centrale)
(Massimo Cardellini)
Newton. Scusatemi, signori, ho scritto una storia cronologica del
mondo e le date mi danno qualche fastidio.
Carlo. Ma l'arcivescovo Usher non ha già fissato la data di tutti gli
avvenimenti del mondo?
N. Disgraziatamente non tenne conto della precessione degli
equinozi. Ho dovuto quindi correggere alcuni suoi errori.
C. E, con buon rispetto del nostro pastore, che diavolo è questa
precessione degli equinozi? […]
N. È una cosa semplicissima ed anche un bambino può capirla. I due
giorni dell'anno in cui giorno e notte sono d'uguale durata sono gli
equinozi. In ogni anno siderale che si sussegue questi giorni hanno
luogo con anticipo. Comprenderete subito che ciò involve un moto
retrogrado dei punti equinoziali lungo l'eclittica. Questo è ciò che
chiamiamo la precessione degli equinozi.
Fox. Grazie. Signor Newton, ma ne so tanto quanto prima.
(George Bernard Shaw, Ai tempi d'oro del buon re Carlo)
Quell'indiscusso capolavoro sulla cultura e la mentalità arcaiche, qual è appunto Il Mulino di
Amleto1 è in realtà ancora più degno di considerazione proprio per il sapiente dosaggio usato
da de Santillana, il più celebre dei suoi due autori, 2 nell'esporre quella che qui chiamerò
tematica centrale, e cioè l'evidenziazione, attraverso un'ampia quanto rigorosa analisi
comparativa di miti, concezioni religiose, fiabe, e poemi epici di ogni tempo e luogo, di una
nozione scientifica piuttosto complessa contenuta in essi e consistente nella codificazione
della precessione degli equinozi attraverso una forma narrativa che di solito ha per
protagonisti personaggi e situazioni bizzarre, almeno per la nostra mentalità e senso estetico.
Questa scoperta rappresenta ovviamente l'acme della ricerca intrapresa in Hamlet's Mill, dal
momento che la nozione della natura astronomica di gran parte della mitologia mondiale
funge sempre da supporto a questa tematica centrale.
Definito sommariamente in cosa consista la tematica centrale, su cui, se pur brevemente,
nel corso del presente saggio si dovrà necessariamente ritornare, è ora doveroso specificare
cosa si debba intendere per non detto in rapporto ad essa, di modo che risulti chiaro il perché
esista, e non sarebbe potuta esistere in Hamlet's Mill, una strategia espositiva estremamente
elaborata e raffinata, da vero artista qual era appunto de Santillana.
Anzi spero di mostrare che questa strategia espositiva piuttosto ricercata sia il portato stesso
della indagine svolta dallo studioso italo americano, e cioè un omaggio da parte di una grande
mente dei nostri tempi alle grandi menti del profondo ieri che forgiarono le più robuste
strutture mentali dell'umanità, le categorie eterne dello spirito, il linguaggio del simbolo
attraverso cui essi indagarono il cosmo e se stessi. Ricapitolando, la tematica centrale
sviluppata da de Santillana lungo tutto il corso di Hamlet's Mill potrebbe essere concepita
come lo sviluppo del tema originale di una immensa partitura sinfonica mentre il non detto
come delle ingegnose variazioni che l'andrebbero a sostenere ed arricchire.
Trovo assolutamente importante insistere su questa analogia di natura musicale in quanto
essa non è mia ma suggerita molto sottilmente dallo stesso de Santillana per ben quattro volte
nel corso della sua opera in punti oltretutto altamente significativi.
261
L'ubicazione di questi quattro passi in cui la tecnica musicale della fuga viene adoperata da
de Santillana come immagine analogica per la struttura del suo Hamlet's Mill è molto
importante in relazione a quanto stiamo qui discutendo, in quanto essi si rinvengono una
prima volta nella Prefazione, una seconda volta a brevissima distanza, nell'Introduzione, una
terza volta nel fondamentale capitolo, intitolato Intermezzo. Una guida per i perplessi, ed una
quarta ed ultima volta nello scritto conclusivo, intitolato Conclusione. Queste quattro parti
sono le uniche, insieme al penultimo capitolo intitolato Epilogo. Il tesoro perduto, e che de
Santillana ha voluto portasse addirittura la sua sola firma, a non essere stati numerati
dall'autore.
Nulla di strano in fin dei conti per quel che riguarda sia la Prefazione e la Introduzione che
per la Conclusione il cui compito, come è ovvio, doveva limitarsi rispettivamente ad illustrare
da una parte lo scopo del lavoro che l'autore presentava all'attenzione del lettore, e dall'altra a
trarre un bilancio globale di quanto conseguito nel corso del medesimo. Il capitolo intitolato
Intermezzo compare però nell'indice tra il quarto (Storia, mito e realtà) ed il quinto capitolo
(Rivelazioni in India) senza numerazione ed in modo decentrato rispetto agli altri capitoli
creando così visivamente un vuoto nell'incolonnamento riportato nell'indice che ha come
risultato quello di porlo in forte evidenza (vedi Appendice B). Si viene a creare così una
simmetria nel corpo dell'opera in cui la Prefazione e l'Introduzione precedono il trattato vero e
proprio, costituito di ben 23 capitoli numerati, e l'ampio Epilogo. Il tesoro perduto e la
Conclusione, che la seguono. Unica eccezione, come già detto, l'Intermezzo, collocato in
modo evidentemente, se non ostentatamente, eccentrico rispetto al complesso dell'esposizione,
succedendo ai primi quattro e precedendo i rimanenti diciannove e, reso ancora più visibile,
dalla mancanza di numerazione.
Il motivo fondamentale per cui de Santillana ha usato per ben quattro volte la tecnica
musicale della fuga come figura atta ad illustrare la struttura profonda di Hamlet's Mill risulta
in modo evidente nel terzo passo, contenuto quindi nel capitolo non numerato, in cui de
Santillana scrive:
"Fin dal principio avevamo pensato di intitolare il nostro saggio Arte della fuga, il che esclude, e non
vi si insisterà mai abbastanza, qualsiasi “immagine del mondo”. Ogni sforzo di ricorrere a schemi è
destinato a far cadere in contraddizione. È una questione di tempi e di ritmi. " [pag. 87].
Ecco quindi individuato il motivo del ricorrere per ben quattro volte di questa immagine
dell'arte della fuga bachiana come idonea a descrivere la difficoltà di rendere conto
dell'assenza di un piano espositivo formale rigoroso: il titolo originario di questo vasto Saggio
sul mito e sulla struttura del tempo avrebbe dovuto essere quindi, per ammissione dello stesso
autore, quello di Arte della fuga.
Ecco spiegato anche il motivo per cui questi quattro importanti passi si ritrovano proprio nei
tre capitoli non espositivi della tematica centrale bensì, come già detto nella Prefazione, nella
Introduzione; nell'Intermezzo, la cui funzione è proprio quella di effettuare un primo e ultimo
bilancio di quanto esposto in modo apparentemente caotico nei primi quattro capitoli
dell'opera, e di ciò che si continuerà a esporre nello stesso modo ancora per i rimanenti
diciannove; e la Conclusione.
Ritengo che questi quattro paratesti, che posseggono una loro specifica individualità e
funzione all'interno di Hamlet's Mill, dovevano essere stati in origine, quando de Santillana
aveva l'intenzione di intitolare il suo lavoro Arte della fuga, un unico capitolo, probabilmente
quello introduttivo, in quanto i quattro passi insistono proprio, come avremo modo di vedere
più dettagliatamente, proprio sulla difficoltà di dare ad una tematica qual è quella affrontata
un'adeguata forma espositiva.
L'abbandono del primo titolo per quello infine prescelto, e sicuramente altri motivi (ancora,
non ultimo, l'eccessiva lunghezza di questo capitolo introduttivo in rapporto alla lunghezza
media dei 23 capitoli argomentativi, e il suo tono forse troppo professorale o addirittura
262
eccessivamente, anzi accademicamente sicuro di sé), deve aver convinto il grande studioso a
ridislocare questo lungo scritto, che presumiamo introduttivo, in diverse parti del libro, e che
crediamo di aver potuto individuare grazie all'uso in ognuno di essi dell'uso della figura
analogica della fuga musicale per illustrare adeguatamente la particolare struttura dell'intera
composizione.
Nella Prefazione, paventando che il testo potesse presentare delle serie difficoltà ai lettori, si
teneva a precisare che queste non erano imputabili agli autori:
"Sono le difficoltà inerenti a una scienza che fu fondamentalmente tenuta segreta, e in modi tali che
noi non riusciamo bene a immaginare. Ma la difficoltà maggiore deriva dal fatto che non abbiamo
potuto far uso della nostra tradizionale logica catenaria, così semplice ed onesta, in cui prima si
pongono i principi e poi segue la deduzione. Non così facevano i pensatori arcaici; essi pensavano
invece in un modo paragonabile forse alla fuga musicale, dove tutte le note non possono esser costrette
entro un'unica scala melodica, dove si viene tuffati in medias res e si deve seguire l'ordine temporale
creato dai loro pensieri. È nella natura della musica, dopotutto, che le note non possono essere suonate
tutte assieme. L'ordine e la sequenza, il significato stesso della composizione, si riveleranno – con la
pazienza - a tempo debito. Il lettore, suggerirei, dovrà porsi nell'antico "Ordine del Tempo" ". [pag.
20/21]
Ecco definita con le stesse parole dell'autore in cosa consista la struttura profonda non
soltanto della fuga come genere musicale quanto soprattutto del proprio ponderoso lavoro.
Questo passaggio se ha l'indubbio merito di rendere immediatamente comprensibile la
struttura del libri attraverso il suo accostamento con la tecnica della fuga musicale, presenta
però il demerito di introdurre accanto a questa chiarificazione concettuale già alcune
tematiche collaterali, che ho definito come non detto, e precisamente:
1] l'esistenza di una scienza tenuta segreta attraverso modalità che l'autore ammette di non
riuscire ad immaginare;
2] l'esistenza di una logica che de Santillana chiama non catenaria;
3] l'esistenza di una classe di individui che de Santillana definisce come pensatori arcaici a cui
detta logica catenaria va attribuita.
Risultano così individuate l'una accanto all'altra, tanto per evidenziare la chiarezza con la
quale de Santillana aveva affrontato non soltanto la particolarità della struttura globale della
sua grande affresco, tre grandi tematiche di supporto a cui l'autore accenna ma che non tratta
neanche marginalmente in nessun punto del suo lavoro. La statura intellettuale di de
Santillana gli avrebbe permesso senz'altro di comporre un opera dalla mole ancora più
formidabile, ma egli avrebbe dovuto trattare contestualmente alla tematica centrale, anche:
1] degli aspetti contenutistici di una conoscenza segreta, di cui egli ha rintracciato su scala
mondiale le grandi coordinate;
2] degli aspetti storici ed antropologico culturali della mentalità delle civiltà che elaborarono
questa scienza segreta;
3] degli aspetti da sociologia della conoscenza e sociologici veri e propri degli individui
preposti alla elaborazione e trasmissione di questa conoscenza segreta.
In relazione all'ampia citazione riportata sopra, va evidenziato che è soltanto dopo aver
posto queste tre formidabili tematiche, che de Santillana descrive e non senza acutezza, la
natura complessa della tecnica della fuga musicale, e che la attribuisce anche alla sua opera.
Soltanto così intesa essa assumerebbe una sicura intelligibilità, in quanto a causa della
tematica centrale affrontata (la quale è pur sempre un tentativo di ricostruzione di una
produzione intellettuale elaborata da particolari individui che in ere remote la crearono
263
attraverso tecniche di indagine non basate sulla logica a cui noi contemporanei diamo valore
assoluto), sarebbe altrimenti condannata a non approdare ad alcun risultato certo. Ciò invece
potrà accadere se il lettore sarà paziente e soltanto "a tempo debito", soprattutto se egli capirà
che dovrà porsi nell'antico "Ordine del tempo".
Passando ora al terzo passo, presente come già detto nell'Introduzione e contenente
anch'esso l'analogia con l'Arte della fuga di Bach, dovrò necessariamente rimarcare che esso
costituisce il suo inizio vero e proprio:
"Questo lavoro intende essere semplicemente un saggio: una prima perlustrazione di un regno quasi
mai esplorato e registrato sulle carte. Da qualunque parte vi si penetri, si rimane prigionieri della stessa
sconcertante complessità circolare, come all'interno di un labirinto: esso non possiede, infatti, un
ordine deduttivo in senso astratto, ma assomiglia piuttosto a un organismo tenacemente racchiuso in sé
o, meglio ancora, una monumentale "Arte della fuga" ". [pag. 25]
Ricaviamo così l'assoluta certezza che in origine de Santillana aveva scritto veramente una
lunga Introduzione alla sua opera, il cui titolo L'arte della fuga, lo aveva costretto ad illustrare
approfonditamente i motivi che lo avevano indotto a scegliere quel titolo, adatto più ad un
trattato di musicologia che ad uno studio comparato del mito. L'abbandono di quel primo
titolo per il secondo, ancor più enigmatico del primo ma che per lo meno, al contrario di esso,
ha almeno il merito di scaturire dalla materia stessa della ricerca, provocò così un
ridimensionamento dell'analogia musicale che però deve essere dispiaciuto a de Santillana,
tanto da non indurlo a rigettare del tutto quanto egli aveva elaborato per illustrare quella
singolare quanto significativa analogia, e da ridistribuirla poi negli scritti che all'interno dello
studio gli permettevano di recuperarla.
Non mi sento di escludere a priori che lo stesso vasto penultimo capitolo Epilogo. Il tesoro
perduto, facesse parte, se non del tutto (perché in uno studio di quelle dimensioni un capitolo
conclusivo doveva pur essere previsto) almeno in buona parte dell'Introduzione originaria.
Allo stesso modo non mi sento altresì di escludere che lo stesso Intermezzo facesse anch'esso
parte di questa Introduzione originaria. Se entrambi questi capitoli non contengono più
l'analogia musicale centrata sull'arte della fuga, essi comunque contengono delle indicazioni
sulla logica della mentalità e del linguaggio primordiali che altro non sono che i moventi che
spinsero in un primo momento de Santillana ad orientarsi a scegliere per il proprio lavoro il
titolo poi abbandonato.
La densità delle immagini usate dall'autore come supporto all'analogia illustrata dovrebbero
risultare evidenti. L'opera viene definita innanzitutto, e non per falsa modestia, un semplice
saggio e ancor più precisamente:
A] "una prima perlustrazione di un regno quasi mai esplorato e registrato nelle carte";
B] lavoro che ha come propria peculiarità una "sconcertante complessità circolare" di cui "si
rimane prigionieri come all'interno di un labirinto";
C] lavoro che infine non possiede, (cosa che al lettore non può che risultare strano per uno
storico della scienza) "un ordine deduttivo in senso astratto".
È dopo aver enumerato queste caratteristiche che de Santillana usa infatti a scopo
illustrativo sintetico la detta analogia, e cioè dopo aver rimarcato nei punti precedenti:
A1] l'assoluta originalità dell'oggetto dell'indagine (regno), che corrisponderebbe a quanto in
questo scritto è definita "tematica centrale"; indagine per di più su cui non esisteva alcuna
registrazione nel complesso degli studi sul mito (carte), prima della ricerca in oggetto;
264
B1] una singolare difficoltà che la natura dell'indagine stessa porrebbe a chi la intraprende,
inducendo questi a girare in circolo, cioè a vagare in modo inconcludente come in un labirinto
in cui si rimarrebbe addirittura prigionieri;
C1] che lo studio che l'autore sta proponendo al lettore è addirittura privo di una vera e
propria struttura argomentativa progressiva, di modo che l'autore possa dirsi ad un certo punto
soddisfatto della propria ricerca essendo giunto alfine alla mèta prefissatasi.
In effetti de Santillana, avvertendo già il lettore nella pagina precedente del fatto che sta per
intraprendere una lettura irta di difficoltà che non deve imputare all'autore, ma che sono
appunto "inerenti a una scienza che fu fondamentalmente tenuta segreta, e in modi tali che noi
non riusciamo bene a immaginare", aveva già anticipato quanto è stato posto in evidenza nel
punto C, e chiarito in C1, e cioè il fatto che per Hamlet's Mill egli non aveva potuto far uso
"della nostra tradizionale logica catenaria, così semplice e onesta, in cui prima si pongono i
principi e poi segue la deduzione", caratteristica che egli riconosce essere la difficoltà
principale di quelle che il lettore comunque incontrerà.
La quarta ed ultima citazione in cui de Santillana usa la metafora dell'arte della fuga è
contenuta nell'Epilogo, e quindi nella parte terminale della sua opera. Com'è sin troppo
evidente, se le prime tre citazioni contenenti la nota metafora a carattere musicale sono poste a
distanze brevi - anzi brevissima se consideriamo quella tra la Prefazione (pag. 20/21) e
l'Introduzione (pag. 25), e relativamente breve se consideriamo quella tra questi due primi
paratesti ed il terzo, Intermezzo (pag. 87) - nel loro complesso questi tre pezzi sono posti ad
una distanza piuttosto considerevole rispetto al quarto, appunto l'Epilogo (pagina 407). Ciò
rende non facile una loro individuazione ad una prima lettura, ma come accade per tutti i
grandi studi è la rivisitazione che paga, soprattutto perché in genere sono gli autori di essi ad
aver voluto disseminarli di indizi che, una volta scoperti, permettono a chi li ha trovati di
gustarne in intensità e profondità. Allo stesso modo quando si è in grado di comprendere
finalmente la complessità strutturale dell'Arte della fuga di Bach, o della sua Offerta musicale,
o di qualunque altra opera non importa se letteraria, poetica, pittorica, musicale, plastica,
scientifica, perfino nella stessa natura a vari livelli, fenomeno che Douglas Hofstadter - nel
suo altrettanto ponderoso ma eccitante Gödel, Escher, Bach, un'Eterna Ghirlanda Brillante 3 ha saputo perfettamente illustrare sia come categoria mentale, sia come caratteristica implicita
nella struttura profonda o del reale o della logica, e di cui la mentalità arcaica a suo modo era
perfettamente consapevole.
Chiudiamo, in bellezza con la detta quarta citazione concernente l'ultimo indizio
disseminato da de Santillana, che riteniamo inutile commentare per lasciar meglio agire nel
lettore le sue quasi infinite suggestioni:
"La natura di questo sconosciuto mondo della forma astratta può anche venir suggerita attraverso
simboli musicali. L'Arte della fuga di Bach rimase incompiuta, e le simmetrie presenti in quanto ne
rimane possono solo accennare a ciò che avrebbe potuto essere l'opera completa, e comunque esse non
sono nemmeno così come Bach le lasciò: le lastre incise andarono perdute e in parte distrutte, poi
furono rintracciate, ricomposte e collocate in un ordine approssimativo. Ciò nonostante, se si considera
la composizione così com'è ora, non si può fare a meno di credere che vi fu un tempo in cui il progetto
visse nella sua interezza nella mente di Bach". [pag. 407]
Note
1 - Hamlet's Mill. An essay on myth and the frame of time, 1969. Tr. It: Il mulino di Amleto. Saggio sul
mito e sulla struttura del tempo. Adelphi, Milano, 1ª edizione 1983, 8ª edizione 2000. Le citazioni nel
presente saggio corrispondono alla 4ª edizione del 1997.
2-
L'altro autore è la tedesca storica della scienza, Hertha von Dechend.
265
3 Douglas R. Hofstadter, Gödel, Escher, Bach, An Eternal Golden Braid, 1979, Basic Book; Tr.
It. Gödel, Escher, Bach, un'Eterna Ghirlanda Brillante, Adelphi, Milano, 1984. L'edizione italiana
porta come sottotitolo, non in copertina ma nel frontespizio: Una fuga metaforica su menti e macchine
nello spirito di Lewis Carroll.
Appendice A
Alcune citazioni adeguate, e non dalla sola opera in esame, aiuteranno a comprendere
meglio il senso di ciò che precede.
"Per molti anni ho cercato il punto in cui mito e scienza si congiungono. Da molto tempo mi
era chiaro che le origini della scienza avevano le loro radici profonde in un mito particolare,
quello dell'invarianza" [pag. 15]
"Tanto per cominciare, non esiste un sistema in termini analitici moderni; non c'è una chiave
né vi sono principi. La struttura proviene da un tempo in cui non esistevano sistemi come li
intendiamo noi, e sarebbe scorretto cercarne uno. Ben difficilmente sarebbe potuto esistere
presso popoli che affidavano tutte le loro idee alla memoria. Possiamo considerarla una pura
struttura di numeri" [pag. 87]
"Il lettore moderno rispetta come "scientifiche" soltanto le formule di approssimazione lunghe
una pagina e cose simili. Non gli vien fatto di pensare che in passato una conoscenza
altrettanto importante potesse venir espressa nella lingua di tutti i giorni. È una possibilità che
nemmeno sospetta, anche se le realizzazioni delle civiltà antiche - basti pensare alle piramidi
o alla metallurgia - dovrebbero esser motivo probante per concludere che dietro le quinte
lavorava gente seria e intelligente, che non poteva servirsi di una terminologia tecnica" [pag.
88]
"[un retaggio che dobbiamo a un] quasi incredibile antenato del Vicino Oriente, che per primo
osò intendere il mondo come creato secondo numero, peso e misura" [pag. 164]
"Il merito principale (del linguaggio mitico) è che può essere usato come veicolo per
trasmettere conoscenze concrete indipendentemente dal grado di consapevolezza delle
persone che concretamente narrano le storie, le favole o altro" [pag. 364]
"Era una lingua che non si curava delle credenze e dei culti locali e si concentrava invece sui
numeri, moti, misure, architetture generali e schemi, sulla struttura dei numeri, sulla
geometria… È di antichità che incute timore" [pag. 405]
"Nulla rimane dell'antica conoscenza se non le reliquie, i frammenti e le allusioni
sopravvissuti al violento attrito dei tempi. Parte del tesoro perduto può essere ricuperata
attraverso l'archeologia; parte - per esempio, l'astronomia maya - può venire ricostruita col
ricorso alla pura ingegnosità matematica; ma la totalità del sistema si trova forse al di là di
ogni possibile congettura, poiché le menti creative e ordinatrici che lo idearono sono svanite
per sempre" [pag. 409]
"Un tempo gli studiosi davano per scontata l'identità del nostro passato con i "selvaggi"
contemporanei… Il "primitivo" degli studiosi ottocenteschi era semplicemente "prelogico"...
La scala del Progresso partiva di lì… Ma in quei decenni dell'Ottocento si fecero anche delle
grandi scoperte. Sir James Frazer nel suo Ramo d'oro rivelò l'antichissima diffusione
mondiale di credenze, operazioni magiche, e riti di fertilità che con ogni probabilità
266
precedevano la civiltà a noi nota e dimostrò che essi sono la profonda infrastruttura universale
delle nostre culture storiche, ancor vivi ed operanti ai giorni nostri. I filologi classici
rabbrividirono al vedere quella Grecia unica al mondo che essi avevano vagheggiato, perdere i
propri contorni contro uno sfondo barbarico; gli antropologi, al contrario, esultarono" [Le
origini del pensiero scientifico. Da Anassimandro a Proclo 600 a.C.-500 d. C. (Sansoni,
Firenze, 1966), pag. 14]
"Quelle che ci appaiono condizioni "primitive" sono, con pochissime eccezioni solo ciò che è
rimasto di antiche civiltà altamente sviluppate; quello che sembrava essere uno stadio di
superstizione universale e costante da cui si sarebbe sviluppato il pensiero, non è altro che il
comune denominatore nel quale versano le civiltà in decadenza" [ibidem, pag. 15]
Scheda bio-bibliografica di Giorgio de Santillana
1901-1974. Nato a Roma, abbandona l'Italia nel 1938 a causa delle leggi razziali. Si
trasferisce negli Stati Uniti dove insegnò a lungo al MIT (Massachusetts Institute of
Technology). [1946] Compendio di storia del pensiero scientifico; [1960] Processo a Galileo;
[1961] Le origini del pensiero scientifico; [1968] Fato antico e Fato moderno; [1969] Il
mulino di Amleto.
Appendice B
Indice de Il mulino di Amleto
Prefazione
Introduzione
1.
Il racconto del cronista
2.
La figura in Finlandia
3.
Il parallelo iranico
4.
Storia, mito e realtà
Intermezzo. Una guida per i perplessi.
5.
Rivelazioni in India
6.
La macina di Amlóði
7.
Il coperchio variopinto
8.
Sciamani e fabbri
9.
Il Titano Amlóði e la sua trottola
10.
Il crepuscolo degli dèi
11.
Sansone sotto molti cieli
12.
L'ultimo racconto di Socrate
13.
Del tempo e dei fiumi
14.
Il gorgo
15.
Le acque sorgenti dal profondo
16.
la pietra e l'albero
17.
La struttura del cosmo
18.
La Galassia
19.
La caduta di Fetonte
20.
Le profondità del mare
21.
Il grande Pan è morto
22.
L'avventura e la ricerca
23.
Gilgameš e Prometeo
Epilogo. Il tesoro perduto
Conclusione
267
Appendici
Bibliografia
Indice analitico
----Massimo Cardellini è nato a Binche, in Belgio, nel 1958. Dal 1969 vive a
Foligno. E' sposato ed ha due figli. Si è laureato in Filosofia a Perugia. I suoi
interessi sono prevalentemente rivolti alla storia in generale ed a quella
alternativa in particolare, ma si interessa anche ai tipi di formalizzazione del
pensiero. Queste tematiche lo inducono ad interessarsi tendenzialmente della
letteratura e della storia di ogni tempo e di ogni cultura.
[email protected]
268
Quattro lettere di sir Isaac Newton al Dottor Bentley,
contenenti alcuni argomenti
sulla dimostrazione dell'esistenza di una Divinità
(a cura di Alessandro Moretti)
Le quattro lettere di Newton a Bentley
Nel corso della storia spesso è successo che nuove teorie scientifiche, benché notevoli e degne
di risalto, non ebbero molta diffusione negli ambienti culturali, o per lo meno non con la
rapidità che il loro seguente successo farebbe presupporre. Alcune di esse ebbero impatto solo
su un ristretto numero di specialisti, altre invece sono assurte a ruoli che esulano dalla loro
effettiva area di azione per influenzare il pensiero di intere epoche.
Quest'ultimo è il caso della filosofia Newtoniana. Alcuni anni dopo la sua nascita conobbe
diffusione universale (che per l'epoca significava l'Europa) negli ambienti culturali non
specialistici grazie alla paziente (e veemente) opera di divulgazione fatta da personaggi
celeberrimi come Voltaire. Tale filosofia ebbe (come del resto altre prima e dopo) un notevole
influsso sulla concezione del mondo. L'appoggio prestato da Voltaire fu fondamentale per la
fama di Newton e del suo pensiero negli ambienti culturali, ove il suo nome non era ancora
così famoso come in quelli specialistici. Fu così affascinato dalla nuova filosofia che volle
scrivere un libro dove ne spiegava a grandi linee il contenuto.
Voltaire però non fu il solo letterato che si cimentò con la filosofia naturale. Altri avevano
percorso la stessa strada molti anni prima, nel tentativo di fare un uso non prettamente
scientifico della nuova e rivoluzionaria filosofia.
Richard Bentley nacque nel 1662 da famiglia benestante. Studiò al Trinity College di
Cambridge, dove era famoso per la sua erudizione ma anche per il suo carattere provocatore e
combattivo. Nel 1691 Robert Boyle, cristiano convinto, lasciò una disposizione testamentaria
nella quale istituiva un premio da assegnare a chi avesse proposto una lettura in otto parti in
favore dell'evidenza della cristianità. In quell'anno, come primo oratore, fu nominato appunto
Richard Bentley, la cui fama era grandissima almeno in Inghilterra. Bentley volle dare
un'impostazione del tutto nuova al suo lavoro, che prese il titolo di "Una Confutazione
dell'Ateismo": aveva l'intenzione di suffragare il suo discorso con prove oggettive.
Con questo obiettivo in mente si rivolse verso quello che considerava inconfutabile per
eccellenza: il Creato. Pensò che i Principia, da poco pubblicati, facessero al caso suo, ma non
possedeva gli strumenti necessari per comprenderne il contenuto. Scrisse quindi a John Craige
e gli chiese quali libri avrebbe dovuto leggere per poterli comprendere. Questi rispose con un
elenco di testi troppo lungo anche per una persona brillante come Bentley. Spaventato, ma
deciso a portare a termine il suo disegno, scrisse a Newton stesso chiedendo aiuto. Questi
rispose con un elenco più abbordabile. Gli consigliò poi di leggere soltanto le prime sei pagine
del trattato per passare direttamente all'ultimo libro, dove si trovavano le prove che cercava.
Naturalmente, il testo Newtoniano non era certo di facile lettura. Bentley, che di volta in volta
aveva nuovi dubbi, continuò a scrivere a Newton chiedendo chiarimenti in merito a questioni
più che altro filosofiche, volendo egli portare velocemente a termine il compito affidatogli
269
senza perdersi in dettagli tecnici che non era in grado di padroneggiare. Queste lettere misero
Bentley nella condizione di percepire il senso generale della teoria Newtoniana, anche se non
aveva le competenze necessarie per comprendere appieno la portata di tale innovazione.
Decise quindi, sulla base di queste sue nuove conoscenze, di rovesciare i canoni delle
dissertazioni teologiche come si erano viste sin lì. Per la prima volta non ci si affidava più ad
argomentazioni puramente speculative o alla presunta autorità degli antichi, come era costume
nel medioevo, ma ci si basava su argomentazioni che tutti potevano (almeno in teoria)
controllare.
Dedicò le prime sei letture* all'esposizione delle ragioni della fede in una Divinità, ma lasciò
per le ultime due l'esposizione delle argomentazioni ricavate dai suoi studi Newtoniani. Egli
tentò di dimostrare, sulla base delle deduzioni riguardanti i corpi celesti, in particolar modo i
pianeti, che il puro caso non poteva essere responsabile della creazione del mondo, e che era
evidente l'intervento di una mente raziocinante. Nel fare questo per prima cosa criticò le teorie
cartesiane dei vortici in quanto, implicando un agente di tipo meccanico, toglievano a Dio la
necessità di intervenire nel regolare i moto celesti. In secondo luogo, vista l'attualità del vuoto,
discusse quale potesse essere l'agente che faceva gravitare i corpi. Seguendo la
raccomandazione di Newton, affermò che tale forza fosse la manifestazione dell'azione divina
sul creato, e non una qualità inerente i corpi stessi, che richiamava alla mente le qualità
occulte degli scolastici. In seguito basandosi sul perfetto ordine dell'universo, dedusse che
questo doveva essere il frutto del progetto di una mente raziocinante, dotata di raffinate
conoscenze matematiche. Questa mente non poteva che essere Dio stesso, il quale era
intervenuto nella creazione del mondo fissando le leggi che regolano il moto dei corpi celesti,
contribuendo poi fattivamente alla loro osservanza.
Un tale approccio, oltre ad essere estremamente moderno, ebbe un influsso enorme nello
svolgersi del dibattito filosofico di tutto il secolo seguente. Tutto quadrava, ogni cosa aveva la
sua ragion d'essere ed era stata creata a quel modo perché così il creatore aveva ritenuto
giusto. Ogni cosa nell'universo rifletteva una profonda precisione ed un accurato calcolo che
non potevano essere frutto del caso. E questa parrebbe anche l'opinione di Newton, il quale in
altri luoghi era poco incline a tale ipotesi.
Ora, per essere precisi, dobbiamo dire che questo scritto si inserisce in un contesto della vita
di Newton che lo vedeva impegnato sotto il profilo politico più che dal lato scientifico. Non ci
è dato sapere perché Newton, così poco incline alle corrispondenze, abbia dedicato tempo ad
un progetto al quale non era molto interessato. A quanto pare però anch'egli partecipò alla
nomina di Bentley per questo incarico. Non si può escludere che tale lavoro fosse utile più dal
punto di vista dei rapporti politici che sotto il profilo scientifico; tale valenza però è molto
difficile, se non impossibile, da provare.
Sta di fatto però che il successo delle letture fu enorme e il loro influsso si fece sentire per
molto tempo. E' curioso notare però che, oltre tre secoli dopo, gli stessi argomenti, o meglio la
stessa filosofia, che tanto elegantemente Bentley usò per dimostrare l'esistenza di Dio,
fungono da base per il sostanziale ateismo della scienza moderna.
Le quattro lettere proposte contengono la sostanza del discorso di Bentley, e quindi si possono
considerare, oltre ad una piccola finestra sulla personalità di Newton, un prototipo della
divulgazione che in seguito venne fatta della sua filosofia.
* Gli otto testi in oggetto vennero effettivamente letti al pubblico dal pulpito di una chiesa da
parte di Bentley in persona.
270
Nota - Queste lettere, a quanto mi risulta, non sono mai state tradotte integralmente in
italiano. Ne viene dato qualche brevissimo stralcio in Newton, di R. Westfall, Einaudi, Torino,
1989. I loro testi completi, pubblicati per la prima volta nel 1756, possono essere reperiti in
lingua originale in: ISAAC NEWTON'S Papers and Letters On Natural Philosophy and
Related Documents, a cura di I. B. Cohen, Harvard University Press, 1978, pagg. 279-312. Il
testo presenta una ristampa anastatica di "Four Letters from Sir Isaac Newton to Richard
Bentley, containing some arguments in proof of a Deity", stampate da R. e J. Dodsley, PallMall, Londra, 1761. Nello stesso libro si possono trovare anche le ultime tre letture di Bentley
contro l'ateismo, quelle direttamente influenzate dalla corrispondenza con Newton.
----[Una presentazione dell'autore si trova nel numero 3 di Episteme]
----Lettera I
Al reverendo Dr. Richard Bentley, al vescovado di Worchester in Parkstreet, Westminster.
Signore,
quando scrissi il mio Trattato sul nostro Sistema, tenevo in considerazione tali Principi per
come potessero essere applicati considerando gli Uomini in qualità di Fedeli in una Divinità, e
nulla può rallegrarmi più che il trovarli utili per tale proposito. Ma se in questo modo ho fatto
qualche Servizio al Pubblico, non è dovuto ad altro che all'Industriosità e alla paziente
Riflessione.
Come nella vostra prima Questione, mi sembra che, se tutta la Materia del nostro Sole e dei
Pianeti, e tutta la Materia dell'Universo, fosse uniformemente sparsa attraverso tutto il
Firmamento, e ogni Particella avesse una innata Gravità verso tutto il resto, e l'intero Spazio
attraverso il quale questa Materia fu diffusa era finito, la Materia al di fuori di questo Spazio
dovrebbe, per la sua Gravità, tendere verso tutta la Materia all'interno, e per conseguenza
cadere giù nel mezzo dell'intero Spazio, e là comporre una grande Massa sferica. Ma se la
Materia fu uniformemente disposta attraverso uno Spazio infinito, potrebbe non convenire
mai in una Massa, ma un po' potrebbe convenire in una Massa e un po' in un'altra, in modo da
formare un Numero infinito di grandi Masse, diffuse a grandi Distanze una dall'altra in tutto
questo Spazio infinito. E così potrebbero essersi formati il Sole e le Stelle fisse, supponendo
che la materia fosse di Natura lucida. Ma come la Materia si divida in due specie, e che Parte
di essa, che è adatta a comporre un Corpo splendente, precipiti in una Massa, e formi il Sole,
ed il resto, che è adatta a comporre un Corpo opaco, si concentri non in un grande Corpo
come la Materia splendente, ma in molti piccoli corpi, o se il Sole all'inizio fosse stato un
Corpo opaco come i Pianeti, o i Pianeti Corpi lucidi come il Sole, come egli solo possa essersi
cambiato in un Corpo splendente mentre tutti loro continuano ad essere opachi, o tutti loro
siano cambiati in opachi, mentre egli rimase immutato, Io non lo credo esplicabile per mere
Cause naturali, ma sono costretto ad ascriverlo all'Arbitrio ed al Progetto di un Agente
volontario.
La stessa Potenza, naturale o soprannaturale, che pose il Sole al Centro dei sei Pianeti
primari, pose Saturno nel Centro degli Orbi dei suoi cinque Pianeti secondari, e Giove nel
centro dei suoi quattro Pianeti secondari, e la Terra nel centro dell'Orbe della Luna; e perciò
271
se questa causa fosse stata cieca, senza un Progetto o un Disegno, il Sole dovrebbe essere
stato un Corpo dello stesso tipo di Saturno, Giove e la Terra, cioè senza Luce e Calore. Perché
[per qual ragione] vi sia un Corpo nel nostro Sistema qualificato a dare Luce e Calore a tutto il
resto non conosco Ragione, se non che l'Autore del Sistema lo ha pensato conveniente; e
perché non ci sia che un Corpo di questo genere non conosco Ragione, se non che uno era
sufficiente a riscaldare ed illuminare tutto il resto. Per quanto riguarda l'ipotesi Cartesiana dei
Soli che perdono la loro Luce e poi diventano Comete, e da Comete Pianeti, non può trovare
Posto nel mio Sistema, ed è palesemente erronea, poiché è certo che, tutte le volte che ci
appaiono, esse discendono nel Sistema dei nostri Pianeti più in basso dell'Orbita di Giove, e
qualche volta più in basso dell'Orbita di Venere e Mercurio, ed inoltre non rimangono mai qui
ma se ne vanno sempre lontano dal Sole con lo stesso Grado di Moto con il quale si sono
avvicinate.
Alla vostra seconda Questione io rispondo, che il Moto che attualmente hanno i Pianeti non
potrebbe essere scaturito solo da una qualche Causa naturale, ma fu impresso da un Agente
intelligente. Poiché, dal fatto che le Comete discendono nella Regione dei nostri Pianeti, e qui
si muovono in tutte le maniere, andando talvolta dalla stessa parte coi Pianeti, talvolta in
modo contrario, e talvolta incrociandoli in Piani inclinati rispetto al Piano dell'Eclittica con
tutti gli angoli, è chiaro che non c'è Causa naturale che possa fare in modo che tutti i Pianeti,
sia primari che secondari, si muovano allo stesso modo e nello stesso Piano, senza alcuna
Variazione considerabile: Questo deve essere stato l'Effetto dell'Arbitrio. Né c'è alcuna Causa
naturale che possa dare ai Pianeti quegli esatti Gradi di Velocità in Proporzione alle loro
Distanze dal Sole ed altri Corpi centrali, che fu indispensabile per fare in modo che essi si
muovano in Orbite concentriche attorno a tali Corpi. Se i Pianeti fossero veloci come le
Comete, in Proporzione alle loro distanze dal Sole (se lo fossero stati, il loro Moto sarebbe
causato dalla Gravità, mentre la Materia, alla prima formazione dei Pianeti, poté cadere dalle
più remote Regioni verso il Sole) non si muoverebbero in Orbite concentriche, ma in Orbite
eccentriche come quelle delle Comete. Se tutti i Pianeti fossero veloci come Mercurio, o lenti
come Saturno o come i suoi Satelliti, o diversamente se fossero le loro varie Velocità più o
meno grandi di quello che sono se avessero avuto origine da una causa diversa che la loro
Gravità, o fossero state le loro Distanze dal Centro attorno al quale si muovono più o meno
grandi di quello che sono con le stesse Velocità, o fossero state più o meno grandi di quello
che sono le Quantità di Materia nel Sole, o in Saturno, Giove e la Terra, e per conseguenza
[anche] le loro Potenze gravitazionali, i Pianeti primari non potrebbero orbitare attorno al
Sole, né i secondari attorno a Saturno, Giove e la Terra, in orbite concentriche come fanno,
ma si sarebbero mossi in Iperbole, o Parabole, o in Ellissi molto eccentriche. Perciò fare
questo Sistema, con tutti i suoi Moti, richiese una Causa che comprese e comparò assieme le
Quantità di Materia nei diversi Corpi del Sole e dei Pianeti e le Potenze gravitazionali che da
queste risultano, le diverse Distanze dei Pianeti primari dal Sole e dei secondari da Saturno,
Giove e dalla Terra, e le Velocità con le quali questi Pianeti avrebbero orbitato attorno a
queste Quantità di Materia nei Corpi centrali; e comparare ed aggiustare tutte queste Cose
assieme in una tale Varietà di Corpi, ne fa arguire non essere tale Causa cieca e accidentale,
ma molto ben edotta in Meccanica e Geometria.
Alla vostra terza Questione rispondo, che può essere rappresentato che il Sole possa,
riscaldando i Pianeti in maniera maggiore più gli sono vicini, causare il loro essere meglio
miscelati e più condensati da tale Miscela. Ma quando io considero che la nostra Terra è
molto più riscaldata nelle sue Viscere sotto la Crosta esterna da Fermentazioni sotterranee che
dal Sole, non vedo perché le Parti interiori di Giove e Saturno non possano essere riscaldate,
miscelate e coagulate da queste Fermentazioni come lo è la nostra Terra; e perciò questa varia
Densità può avere altre cause che le varie Distanze dei Pianeti dal Sole. E sono confermato in
questa Opinione dal considerare che i Pianeti di Giove e Saturno, così come essi sono più rari
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del resto, così sono vastamente più grandi, e contengono una molto maggiore Quantità di
Materia, ed hanno molti Satelliti intorno a loro; le quali Qualificazioni sicuramente non sono
sorte dal loro essere posti a così grande Distanza dal Sole, ma piuttosto fu la Causa del perché
il Creatore le ha poste a così grande Distanza. Poiché per le loro Potenze Gravitazionali essi
disturbano sensibilmente uno i Moti dell'altro, come ho trovato grazie a qualcuna delle ultime
Osservazioni di Mr. Flamsteed, e se fossero stati posti molto più vicino al Sole ed uno
all'altro, essi avrebbero causato, per la stessa Potenza, un considerevole Disturbo in tutto il
Sistema.
Alla vostra quarta Questione rispondo che, nella Ipotesi dei Vortici, l'Inclinazione dell'asse
della Terra potrebbe, nella mia Opinione, essere ascritto alla Situazione del Vortice della
Terra prima che fosse assorbito dai Vortici circostanti, e la Terra cambiata da un Sole ad una
Cometa, ma questa inclinazione dovrebbe decrescere costantemente in Conformità col Moto
del Vortice della Terra, il cui Asse è molto meno inclinato sull'Eclittica, come appare dal
Moto della Luna che vi è portata dentro. [Anche] Se il Sole coi suoi Raggi possa trasportare in
giro i Pianeti, ancora non vedo come possa in tal modo effettuare i loro Moti diurni.
Infine, non vedo nulla di straordinario nell'Inclinazione del Asse Terrestre per provare
[l'esistenza] di una Divinità, senza che Voi l'accampiate come espediente per l'Inverno e
l'Estate, e per rendere la Terra abitabile tra i Poli; e che le Rotazioni diurne del Sole e dei
Pianeti, [così] come difficilmente possono sorgere da una qualche Causa puramente
meccanica, in modo da essere tutti determinati allo stesso modo con i Moti annuali e mensili,
sembrano allestire tale Armonia nel Sistema che, come ho spiegato sopra, fu l'Effetto della
Scelta piuttosto che del Caso.
C'è ancora un Argomento a favore di una Divinità, il quale io considero sia di quelli forti,
ma i Principi sui quali è fondato sono male accetti, [e] penso sia consigliabile lasciarlo quieto.
Io sono il suo più umile Servitore, per obbedire
Is. Newton. Cambridge 10 Dicembre 1692.
----Lettera II
Per Mr. BENTLEY, al Palazzo a WORCHESTER.
Signore,
sono d'accordo con voi che se la Materia uniformemente diffusa attraverso uno Spazio finito,
non sferico, cadesse in una Massa solida, questa Massa dovrebbe simulare la Figura dell'intero
Spazio, purché [la materia] non sia stata soffice, come il vecchio Caos, ma così solida e dura
fin dall'Inizio, che il Peso delle sue Parti protuberanti non potesse farla cedere alla loro
Pressione. Inoltre, per i Terremoti, perdendo le Parti di questo Solido, le Protuberanze
possono a volte penetrare un poco per il loro Peso, e perciò la Massa può, per Gradi,
avvicinarsi ad una Figura sferica.
La Ragione del perché la Materia uniformemente diffusa in uno Spazio finito dovrebbe
convenire nel centro la concepite alla stessa mia maniera, ma che ci possa essere una
Particella centrale, così accuratamente posta nel mezzo in modo da essere sempre egualmente
attratta da tutti i lati, e perciò perseverare senza Moto, mi sembra una Supposizione altrettanto
ardita che fare in modo che il più appuntito Ago stia in piedi sulla sua Punta sopra uno
Specchio. Poiché se l'autentico Centro matematico della Particella centrale non è
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accuratamente nell'autentico Centro matematico della Potenza attrattiva dell'intera Massa, la
Particella non sarà egualmente attratta da tutte le Parti. E molto più arduo è supporre che tutte
le Particelle in uno Spazio infinito possano essere così accuratamente poste l'una rispetto
all'altra da stare ancora in perfetto Equilibrio. Poiché io reputo questo altrettanto arduo che
fare in modo che non solo un Ago, ma un numero infinito di loro (tanti quante sono le
Particelle in uno Spazio infinito) stiano accuratamente posti sopra le loro Punte. Comunque lo
riconosco possibile, almeno da una Potenza divina; e se fossero posizionate una volta per
tutte, sono d'accordo con voi che esse continuerebbero in tale Postura senza Moto per sempre,
se non sono messe in Moto dalla stessa Potenza. Perciò, quando dissi che la Materia
uniformemente sparsa per tutto lo Spazio dovrebbe convenire per la sua Gravità in una o più
grandi Masse, io intendevo di Materia che non riposa in una posizione accurata.
Ma voi arguite nel paragrafo seguente della vostra Lettera, che ogni Particella di Materia in
uno Spazio infinito ha una infinita Quantità di Materia da ogni lato, e per conseguenza una
Attrazione infinita da ogni parte, e perciò deve restare in Equilibrio, poiché tutti gli Infiniti
sono eguali. Ancora voi sospettate un Paralogismo in questo Argomento, ed io concepisco il
Paralogismo giacere nella Posizione che tutti gli Infiniti sono eguali. La generalità del Genere
Umano considera gli Infiniti non diversamente dagli indefiniti, ed in questo Senso dicono che
tutti gli Infiniti sono eguali, anche se parlerebbero più propriamente se dicessero che essi non
sono né eguali né ineguali, né hanno una certa Differenza o Proporzione uno all'altro. In
questo Senso perciò nessuna Conclusione può da loro essere tratta sulle Eguaglianze,
Proporzioni o Differenze delle Cose, e coloro che tentano di farlo, usualmente cadono in
Paralogismo. Così [accade] quando gli Uomini argomentano contro l'infinita Divisibilità della
Grandezza, dicendo che se un Pollice può essere diviso in un infinito Numero di Parti la
Somma di queste Parti sarà un Pollice, e se un Piede può essere diviso in un Numero infinito
di Parti la Somma di queste Parti deve essere un Piede, e perciò, dal fatto che tutti gli Infiniti
sono eguali, queste Somme devono essere eguali, cioè, un Pollice è eguale ad un Piede.
La Falsità della Conclusione mostra un Errore nelle Premesse, e l'Errore giace nella
Posizione che tutti gli Infiniti sono eguali. C'è perciò un altro modo di considerare gli Infiniti
usati dai Matematici, e cioè, sotto certe definite Restrizioni e Limitazioni per mezzo delle
quali gli Infiniti sono determinati avere certe Differenze o Proporzioni uno all'altro. Così il
dott. Wallis li considera nella sua Arithmetica Infinitorum, dove attraverso le varie
Proporzioni di Somme infinite egli ha colto le varie Proporzioni tra Grandezze infinite: Il qual
modo di argomentare è generalmente autorizzato dai Matematici, ed ancora non sarebbe
buono nel caso tutti gli Infiniti fossero eguali. In accordo con la stessa maniera di considerare
gli Infiniti un Matematico vi direbbe che, nonostante che ci sia un infinito Numero di piccole
Parti in un Pollice, comunque c'è dodici volte il Numero di tali Parti in un Piede, cioè,
l'infinito Numero di queste Parti in un Piede non è eguale, ma dodici Volte più grande,
l'infinito Numero di essi in un Pollice. E così un Matematico vi dirà, che se un Corpo stesse in
Equilibrio tra due Forze attrattive infinite qualsiasi eguali e contrarie, e se ad entrambe queste
due Forze si aggiunge una qualche forza attrattiva, questa nuova Forza, per quanto piccola sia,
distruggerà il loro Equilibrio, e porrà il Corpo nello stesso Moto in cui lo metterebbe se queste
due Forze contrarie fossero finite, o se non ci fossero; così che in questo Caso i due Infiniti,
per Addizione di un Finito ad entrambi, diventano ineguali nel nostro modo di Ragionare; e
dopo queste cose dobbiamo meditare, se dalla Considerazione degli Infiniti noi potessimo
sempre tracciare Conclusioni vere.
All'ultima Parte della vostra Lettera Io rispondo, Prima, che se la Terra (senza la Luna) fosse
posta da qualunque parte col suo Centro nell'Orbis Magnus, e stesse ancora là senza alcuna
Gravitazione o Proiezione, e là le fosse infusa, tutto in una volta, sia Energia gravitazionale
verso il Sole sia un Impulso trasversale della giusta Quantità per muoverla direttamente per
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una Tangente all'Orbis Magnus, la Composizione di questa Attrazione e di questa Proiezione
potrebbe, in accordo alla mia Nozione, causare una Rivoluzione circolare della Terra attorno
al Sole. Ma l'Impulso trasversale deve essere della giusta Quantità, poiché, se fosse troppo
piccolo o troppo grande, farebbe in modo che la Terra muova in qualche altra Linea. In
secodo luogo non conosco alcuna Potenza in Natura che possa causare questo Moto
trasversale senza il Braccio divino. Blondell ci dice in qualche parte del suo Libro sulle
Bombe, che Platone afferma che il Moto dei Pianeti è tale come se tutti loro fossero stati
creati da Dio in qualche Regione molto remota dal nostro Sistema, e che quindi siano stati
fatti cadere da lì verso il Sole, e nel momento in cui arrivarono alle loro diverse Orbite, il loro
Moto di caduta venne cambiato in un moto trasversale. E questo è vero supponendo che la
Potenza gravitazionale del Sole fosse doppia a quel Momento di Tempo nel quale tutti loro
arrivarono nelle loro diverse Orbite; ma allora la Potenza divina è qui richiesta in modo
duplice, ovvero, cambiare il Moto di discesa dei Pianeti in caduta in un Moto laterale, ed allo
stesso tempo duplicare la potenza attrattiva del Sole. Così allora la Gravità può porre i Pianeti
in Moto, ma senza la Potenza divina non potrebbe mai metterli in un tale Moto di circolazione
come essi hanno intorno al Sole; e perciò, per questo, così come per altre Ragioni, sono
costretto ad ascrivere la Struttura di questo Sistema ad un Agente intelligente.
Voi qualche volta parlate della Gravità come essenziale ed inerente alla Materia. [Vi] Prego
di non ascrivere tale Nozione a me, poiché la Causa della Gravità è ciò che non fingo di
sapere, e perciò dovrei impiegare più Tempo per meditarvi su.
Temo che quello che ho detto degli Infiniti vi sembrerà oscuro, ma è abbastanza se
comprendete che gli Infiniti, quando considerati assolutamente senza alcuna Restrizione o
Limitazione, non sono né eguali né diseguali, né hanno una certa proporzione uno all'altro, e
perciò il Principio che tutti gli Infiniti sono eguali, è precario.
Sir, Io sono il vostro più umile Servitore.
Trinity College
Jan. 17, 1692-93
Is. Newton
----Lettera III
Per Mr. Bentley, al Palazzo di Worcester.
Signore,
poiché voi desiderate la Velocità risponderò alla vostra Lettera il più Celermente possibile.
Nelle sei Posizioni che voi fate all'inizio della vostra Lettera, Sono d'accordo con voi. La
vostra assunzione che l'Orbis Magnus sia ampio 7000 Diametri della Terra implica la
Parallasse orizzontale del Sole essere mezzo Minuto [di grado]. Flamsteed e Cassini l'hanno
ultimamente osservata essere attorno a 10'', e così l'Orbis Magnus deve essere ampio 21000, o
un Numero attorno a 20000, Diametri della Terra. Entrambi i Calcoli io penso risulteranno
buoni, ed io penso non sia necessario alterare i vostri Numeri.
Nella Parte seguente della vostra Lettera voi ponete quattro altre Posizioni, fondate sulle
prime sei. La prima di queste quattro appare alquanto evidente, supponendo voi prendiate
l'Attrazione in modo così generale da comprendere ogni Forza per mezzo della quale Corpi
distanti si sforzano di divenire assieme senza Impulso meccanico. La seconda non appare così
275
chiara, poiché potrebbe essere detto, che potrebbero esserci stati altri Sistemi di Mondi prima
dei presenti, ed altri prima di questi, e così via per tutta la passata Eternità, e per conseguenza,
che la Gravità può essere co-eterna alla Materia, ed avere lo stesso Effetto da tutta l'Eternità
come al presente, senza che voi abbiate provato che i vecchi Sistemi non possono
gradualmente passare a nuovi; o che questo Sistema non ha la sua Origine dalla Materia
esalata dai decadimenti dei precedenti Sistemi, ma dal Caos di Materia uniformemente
dispersa attraverso tutto lo Spazio, poiché qualcosa di questo Tipo, Io penso, voi dite sia il
Soggetto del vostro sesto Sermone; e la Crescita di nuovi Sistemi dai vecchi senza la
Mediazione di una Potenza divina, mi sembra apparentemente assurda.
L'ultima Proposizione della seconda Posizione mi piace molto. E' inconcepibile che la bruta
Materia inanimata possa, senza la Mediazione di qualcos'altro che non è materiale, operare su,
ed influenzare, altra Materia senza mutuo Contatto, come deve essere se la Gravitazione nel
senso di Epicuro, fosse essenziale ed inerente in lei. E questa è una Ragione del perché Io
desidero che voi non ascriviate la Gravità innata a me. Che la Gravità debba essere innata,
inerente ed essenziale alla Materia, così che un Corpo possa agire sopra un altro a Distanza
attraverso il Vuoto, senza la Mediazione di niente altro per, e attraverso il quale, la loro
Azione e Forza possa essere convogliata da uno all'altro, è per me una tale Assurdità, che io
credo che nessun Uomo che abbia una competente Facoltà di pensare in Materie Filosofiche,
possa mai cadere in essa. La Gravità deve essere causata da una Agente che agisce
costantemente in accordo a certe Leggi, ma che questo Agente sia materiale o immateriale,
l'ho lasciato alla Considerazione del mio Lettore.
La vostra quarta Asserzione, che il Mondo non possa essere formato da Gravità innata
solamente, voi lo confermate con tre Argomenti. Ma nel vostro primo Argomento voi
sembrate fare una Petitio Principii, poiché, mentre molti Filosofi antichi, ed altri, come i Teisti
e gli Atei, hanno tutti ritenuto ammissibile che ci potessero essere Mondi ed Agglomerati di
Materia innumerabile o infinita, voi negate questo, rappresentandolo tanto assurdo quanto il
fatto che possa positivamente esistere una Somma aritmetica o Numero infiniti, che è una
contraddizione in Terminis, ma voi non lo provate assurdo. Né voi provate, che quello che gli
Uomini intendono con Somma o Numero infinito è una Contraddizione in Natura, poiché una
Contraddizione in Terminis implica niente più che Improprietà di Discorso. Queste cose che
gli Uomini intendono per Espressioni improprie e contraddittorie, possono talvolta esistere
realmente in Natura senza alcuna Contraddizione: un Calamaio d'Argento, una Pietra
Smerigliatrice di Ferro, sono Frasi assurde benché le Cose significate con ciò sono reali in
Natura. Se ogni Uomo può dire che un Numero ed una Somma, per parlare propriamente,
sono ciò che può essere numerato e sommato, ma le Cose infinite sono senza numero, o, come
diciamo usualmente, innumerabili e senza somma, o insommabili, e perciò non dovrebbero
essere chiamate Numeri o Somme, egli parlerà sufficientemente propriamente, ed il vostro
argomento contro di esso avrà, Io temo, perso la sua Forza. Ed ancora, se qualche Uomo
prendesse le Parole Numero e Somma in un Senso più largo, così da capire con quelle le
Cose che nel modo proprio di parlare sono senza numero e senza somma (come voi sembrate
fare quando ammettete un Numero infinito di Punti in una Linea) Io potrei prontamente
autorizzarlo all'Uso delle Frasi contraddittorie di Numero innumerabile, o Somma senza
somma, senza inferire da questo alcuna Assurdità nella Cosa che intende con queste Frasi.
Comunque, se per questo, o qualsiasi altro Argomento, voi avete provato la Finitezza
dell'Universo, ne segue, che tutta la Materia dovrebbe cadere dall'Esterno, e convenire nel
Mezzo. Ancora, la Materia in caduta potrebbe solidificarsi in molte Masse rotonde, come i
Corpi dei Pianeti, e questi, attraendosi l'un l'altro, potrebbero acquisire una Obliquità di
Discesa, per mezzo della quale essi potrebbero cadere non sopra il grande Corpo centrale, ma
sul suo Fianco, e descrivere un Arco attorno [ad esso], e quindi ascendere di nuovo per gli
stessi Passi e Gradi di Moto e Velocità con i quali essi sono discesi prima, in Modo molto
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simile alle Comete che revolvono attorno a Sole; ma essi non potrebbero mai acquisire un
Moto circolare attorno al Sole in Orbite concentriche solo per mezzo della Gravità.
E benché tutta la Materia fosse divisa all'inizio in diversi Sistemi, ed ogni Sistema, per una
Potenza divina, costituito come il nostro, ancora dovrebbero i Sistemi Esterni discendere
verso il più Centrale, così che questo Sistema di Cose non possa sempre sussistere senza una
Potenza Divina per conservarlo, che è il secondo Argomento, e alla vostra terza Io assento
pienamente.
Come per il Passaggio di Platone, non c'è Posto comune dal quale tutti i Pianeti essendo
lasciati cadere, e discendendo con Gravità uniforme ed eguale (come Galileo suppone)
dovrebbero, al loro Arrivo nelle loro diverse Orbite, acquisire le loro diverse Velocità con le
quali essi ora revolvono in esse. Se supponiamo la Gravità di tutti i Pianeti verso il Sole essere
della Quantità che realmente è, e che i Moti dei Pianeti siano cambiati verso l'alto, ogni
Pianeta ascenderà a due volte la sua Altezza dal Sole. Saturno ascenderà finché sarà due volte
così alto dal Sole di quello che è al presente e non più alto, Giove ascenderà di nuovo così alto
come al presente, cioè, un poco sopra l'Orbe di Saturno, Mercurio ascenderà a due volte la sua
Altezza presente, cioè, fino all'Orbe di Venere, e così via del resto; e poi, cadendo giù di
nuovo dai Luoghi ai quali erano ascesi, arriveranno di nuovo alle loro diverse Orbite con le
stesse Velocità che avevano in principio, e con le quali ora revolvono.
Ma se nello stesso momento nel quale i Moti con i quali essi revolvono sono cambiati verso
l'alto, la Potenza gravitazionale del Sole per la quale essi Ascendono è perpetuamente
ritardata, essendo diminuita di una metà, essi ora ascenderanno perpetuamente, e tutti loro, a
tutte le eguali Distanze dal Sole, saranno egualmente veloci. Mercurio, quando arriva
all'Orbita di Venere, sarà veloce come Venere; e lui e Venere, quando arrivano all'Orbita della
Terra, saranno veloci come la Terra, e così via per il resto. Se essi cominciano ad ascendere
tutti in una volta, ed ascendere nella stessa Linea, essi diventeranno costantemente,
nell'ascendere, sempre più vicini tra loro, ed i loro Moti s'approcceranno costantemente
all'Eguaglianza, e diventeranno alla lunga più lenti di ogni assegnabile Moto. Supponiamo
perciò che essi ascesero finché furono abbastanza contigui, ed i loro Moti inconsiderabilmente
piccoli, e tutti i loro Moti fossero allo stesso Momento di Tempo cambiati indietro di nuovo,
o, il che diventa quasi la stessa Cosa, che essi fossero solo deprivati dei loro Moti, e a quel
Tempo lasciati cadere: essi dovettero tutto in uno arrivare alle loro diverse Orbite, ciascuno
con la Velocità che avevano all'inizio; e se i loro Moti fossero allora cambiati Lateralmente,
ed allo stesso Tempo la Potenza di gravitare del Sole raddoppiata, in modo da essere forte
abbastanza a trattenerli nelle loro Orbite, essi dovrebbero revolvere in esse prima della loro
Ascesa. Ma se la Potenza di gravitare del Sole non fosse raddoppiata, essi andrebbero via
dalle loro Orbite nei Cieli più alti in Linee paraboliche. Queste Cose seguono dai miei
Principia math. Lib. I Prop. 33, 34, 36, 37.
Vi ringrazio molto calorosamente per il vostro Regalo presente, e per il resto
Il vostro più umile servitore, per servirla
Is. Newton
Cambridge Feb. 25 1692-93.
-----
277
Lettera IV
A Mr. Bentley , al Palazzo a Worchester.
Signore,
l'Ipotesi di derivare la Struttura del Mondo dalla Materia uniformemente sparsa attraverso i
Cieli con Principi meccanici, essendo inconsistente col mio Sistema, l'ho considerato molto
poco prima che la vostra lettera mi ci mettesse sopra, e perciò vi tormento con una Linea o
due in più attorno a ciò, se questo non viene troppo tardi per il vostro Uso.
Nella mia precedente [lettera] ho rappresentato che Le Rotazioni diurne dei Pianeti
potrebbero non essere derivate dalla Gravità, ma avere richiesto il Braccio divino ad
imprimerle. E benché la Gravità potrebbe dare ai Pianeti un Movimento di Discesa verso il
Sole, sia direttamente sia con qualche piccola Obliquità, ancora il Moto trasverso attraverso il
quale essi revolvono nelle loro diverse Orbite, richiede il Braccio divino ad imprimerlo loro
in accordo alla Tangente alle loro Orbite. Io vorrei ora aggiungere, che la Ipotesi che la
Materia fosse all'inizio uniformemente sparsa attraverso i Cieli è, nella mia Opinione,
inconsistente con la Ipotesi della Gravità innata, senza una Potenza soprannaturale a
riconciliarle, e perciò inferisce una Divinità. Poiché, se ci fosse una Gravità innata, sarebbe
impossibile ora per la Materia della Terra e di tutti i Pianeti e le Stelle volare via da essi, e
[ri]diventare uniformemente sparsa attraverso tutti i Cieli senza una Potenza soprannaturale; e
certamente ciò che non è successo prima senza una Potenza supernaturale non potrà mai
avvenire in futuro senza la stessa Potenza.
Voi avete richiesto se la Materia uniformemente sparsa attraverso uno Spazio finito, di
qualche altra Figura che quella sferica non dovrebbe, nel cadere verso un Corpo centrale, fare
in modo che tale Corpo centrale sia della stessa Figura dell'intero Spazio, e io ho risposto 'Sì'.
Ma nella mia Risposta è da supporre che la Materia discenda direttamente in basso verso tale
Corpo, e che tale Corpo non abbia Rotazione diurna.
Questo Signore, è tutto quello che avevo da aggiungere alle mie Lettere precedenti.
Il vostro più umile Servitore
Is. Newton
Cambridge Feb. 11 1693.
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Il mosaico pavimentale della cattedrale di Otranto
L'ultimo oltraggio di un monaco gnostico?
(Sabato Scala)
Introduzione
Col presente lavoro volevo sottoporre al paziente lettore una serie di riflessioni suggeritemi da
un interessante quadernetto, gentile omaggio dell'amico Francesco Corona*, dedicato ad uno
dei più misteriosi monumenti del nostro patrimonio storico-artistico: il mosaico pavimentale
della cattedrale di Otranto (vedi figure nell'ultima pagina). L'opera fu realizzata tra 1163 ed
il 1165 da un monaco dell'Abbazia di S. Nicola di Casole in Otranto: Pantaleone, il cui nome
appare nella parte inferiore del mosaico in corrispondenza dell'entrata principale della
cattedrale. Le immagini riportate danno solo una vaga idea della grandiosità di quest'opera,
che si estende per oltre 16 metri coprendo interamente il pavimento della cattedrale.
L'immagine centrale attorno cui ruota l'opera è un maestoso albero che, partendo dalla porta
situata nella parte inferiore del mosaico, giunge quasi fin sotto al presbiterio. Fino ad oggi si
pensava, che questo simbolo inusuale per dimensioni e centralità nell'opera, rappresentasse
l'Albero della Vita, ma decifrare il mosaico è stato, da sempre, un intricato enigma privo di
soluzioni credibili. Quella che voglio proporre è, credo, una chiave di lettura che collega
insieme in maniera limpida le principali ed enigmatiche rappresentazioni figurative contenute
nell'opera.
Una panoramica
Il primo dilemma che ci si trova di fronte è dovuto alla totale assenza di riferimenti
neotestamentari, e la cosa è, a dir poco, inusuale per una chiesa cristiana. Le raffigurazioni
sono, per lo più, tratte dall'antico testamento, ma svariati simboli e immagini appaiono, ad una
prima analisi superficiale, totalmente fuori contesto: vediamone qualche esempio. Il
presbiterio, ove è rappresentata, appunto, la cacciata dal paradiso terrestre di Adamo ed Eva,
ospita la prima presenza inspiegabile: re Artù, raffigurato in groppa ad un caprone mentre
impugna uno scettro stranamente curvo. Che si tratti di Re Artù non v'è dubbio data la
presenza di una dicitura in bell'evidenza.
Sulla punta dell'albero, collocata proprio sotto la cupola della chiesa, e quindi al centro tra le
navate laterali subito sotto il presbiterio, è avvolto il serpente simbolo del demonio posto tra le
figure di Adamo ed Eva. Inutile dire che la collocazione appare, quantomeno, provocatoria.
Scendendo in basso si incontra la raffigurazione dei dodici mesi dell'anno e ancora più sotto
troviamo una vasta rappresentazione del diluvio universale. La scena va letta da sinistra a
destra e mostra l'ordine impartito da Dio a Mosè, raffigurato dalla mano di Dio, fino alla
costruzione dell'Arca, ed alla salita degli animali sulla imbarcazione.
279
In questa sommaria analisi delle rappresentazioni musive, stiamo seguendo un percorso di
lettura inverso a quello che si sarebbe portati ad utilizzare. Partiamo infatti dal presbiterio e
muoviamoci verso la porta della cattedrale (come avremo occasione di mostrare, e come è
stato osservato nel volumetto citato, il mosaico va letto proprio in questo modo): ci
imbattiamo subito nell'episodio della costruzione della Torre di Babele. La dimensione
dell'immagine e la sua posizione in chiara evidenza, ci spingono a credere che Pantaleone
abbia voluto attribuire ad essa un particolare significato che va oltre quello puramente
narrativo. A rendere ancora più intricata la decifrazione della simbologia, interviene uno
stranissimo leone dotato di quattro corpi connessi ad un'unica testa. In posizione simmetrica
troviamo un'altra inspiegabile presenza che ci segnala, se ancora ve ne fosse stato bisogno,
che la chiave di lettura del mosaico non è né quella veterotestamentaria, né quella
cronologica: Alessandro Magno.
280
Il mosaico e la cabala
La prima prospettiva interpretativa dell'opera del monaco Pantaleone è quella cabalistica. La
corrispondenza posizionale tra raffigurazioni principali del mosaico e le Sefirot della Cabala
non lascia dubbi sulla volontà del monaco, di segnalare questa interpretazione come canale
privilegiato d'interpretazione. Vediamo in dettaglio la sequenza dei paralleli. Partiamo dai
simboli cabalistici espliciti. La contrapposizione che troviamo nella parte inferiore del
mosaico tra il leone con quattro corpi ed Alessandro Magno ha un omologo evidente nelle
Sefirot inferiori: lo Splendore (il leone con volto solare) e la Vittoria (l'invincibile
Alessandro Magno). Di pari evidenza è il parallelo tra le Sefirot centrali della cabala e la parte
centrale del mosaico. Il Rigore (Severità) è rappresentata dalla punizione divina e dall'ordine
dato a Mosè da Dio (la mano che appare a sinistra). La Pietà, invece, contrapposta al Rigore,
è indicata attraverso la raffigurazione dell'Arca. Nella parte superiore del mosaico,
l'Intelligenza è raffigurata con l'albero della vita e quello del bene e del male, di fronte a cui
si pone la scelta di Adamo. Il suo desiderio di conoscenza razionale lo porta alla scelta
sbagliata: quella semplicistica e quindi alla scelta dell'albero del bene e del male anziché di
quello della vita.
281
Su questo particolare aspetto torneremo approfonditamente in seguito. All'intelligenza è
contrapposta la Saggezza (Intuizione), che viene raffigurata con Re Artù ed il gatto con gli
stivali. Infine la Corona raffigurata con la cosmogenesi nella parte superiore del mosaico,
rappresenta il mistero, l'illuminazione ed il massimo livello di conoscenza.
I due alberi
La Cabala è tradizionalmente indicata anche con il termine Albero della Vita. Essa, ben
lontana dai tradizionali pregiudizi che ne danno un'interpretazione puramente magica,
rappresenta, in realtà, la chiave di lettura unica degli episodi biblici e rivela il progetto di
redenzione e di amore di Dio verso l'uomo. La cabala sintetizza il percorso sapienziale che
l'uomo deve compiere per giungere a Dio. Essa ha un legame stretto con gli alberi del
paradiso raffigurati nell'opera musiva. Privata, come appare nel mosaico, delle Sefirot
connesse al ramo centrale, sostituito dal grande albero, rappresenta l'albero del bene e del
male. Le Sefirot laterali, non mediate dalle due Sefirot della Consapevolezza e della
Meditazione (la Bellezza e la Conoscenza), diviene strumento di perdizione, di eterna
scissione e eterna oscillazione tra il bene ed il male. Pantaleone ci vuole suggerire in maniera
esplicita questo significato, raffigurando entrambi gli alberi nel paradiso e la scelta di Adamo
che privilegia quello privo di tronco, l'albero del bene e del male, aprendo così il corso alla
storia ed alla schiavitù dello spazio-tempo raffigurato con i dodici mesi.
Le 5 dimensioni
Il significato ora esposto è solo introduttivo. Pantaleone espone, in questo modo, il problema
stesso della vita, ma vedremo come, a questo problema, il monaco propone una soluzione
originale e descritta in dettaglio nell'opera musiva. Prima di tutto va osservato che, un'altra
delle possibili interpretazioni della cabala, è quella multidimensionale. In sintesi la cabala
rappresenta una struttura multidimensionale, che alle dimensioni note all'uomo: la coppia
spazio-tempo, aggiunge la dimensione della consapevolezza raffigurata dal ramo centrale. Lo
spazio-tempo nasce, nell'interpretazione cabalistica, dalla contrapposizione tra le colonne
laterali della cabala private del tronco (la Consapevolezza). La scelta di Adamo vincolò
l'uomo alla schiavitù dello spazio-tempo, rappresentato, per questo motivo, subito sotto la
cacciata dal paradiso con i dodici mesi (il tempo), e le attività dell'uomo per ciascuno di essi
(lo spazio). Fin qui ci muoviamo ancora nell'ambito della descrizione del problema, ma siamo
lontani dalla soluzione che Pantaleone propone.
L'immagine del frate
Corona fa notare, che il monaco Pantaleone s'è rappresentato tra i dodici anelli che si trovano
sotto il presbiterio (secondo a destra a partire dall'alto).
Il frate guarda un unicorno e si è collocato in un cerchio sulla cui corona sono rappresentati
una serie di piccoli cerchi: tra essi, però, ne manca uno. Il cerchio mancante sembra essere
quello che il monaco ha collocato all'interno della stella a 5 punte che sovrasta il cavallo.
282
L'autore del volumetto citato pensa che Pantaleone stia guardando il simbolo della conoscenza
(l'unicorno) e che abbia identificato il suo livello spirituale (nella scala tipica della conoscenza
indiana) segnalandolo con l'anello mancante posto, appunto, nella stella .Forse Corona ha
colto solo uno degli aspetti del mosaico avvicinandosi ad una verità che va ben oltre.
La chiave gnostica
In un brano tratto dal Bestiario Divino (testo del tredicesimo secolo) l'unicorno viene
associato al Vangelo di Verità, un documento gnostico Valentiniano sconosciuto fino al 1945
e ritrovato, insieme ad altri 3 sconosciuti Vangeli: il Vangelo di Filippo, il Vangelo di
Tommaso e quello di Maria, a Nag Hammadi. Nel Bestiario Divino si legge:
"L'unicorno possiede un sol corno nel mezzo della fronte. Esso è il solo animale che può
vincere l'attacco dell'elefante; … L'unicorno rappresenta Gesù Cristo. Che acquista su di sé
la sua natura nel grembo della vergine, che fu tradito dai giudei e consegnato nella mani di
Ponzio Pilato. Il suo unico corno simboleggia il Vangelo di Verità…" (Le Bestiaire Divin, di
Guillaume, Clerc de Normandie [13th century]).
E' possibile che questo sia il senso dell'autoritratto di Pantaleone? La data di stesura presunta
del Bestiario Divino è certamente, compatibile con quella di composizione del mosaico. E'
possibile che i testi gnostici di Nag Hammadi fossero patrimonio anche della biblioteca
dell'Abbazia di Casole?
Il Vangelo di Filippo ed il senso dell'albero nel pensiero gnostico
Alcuni brani tratti dalla sensazionale scoperta di Nag Hammadi sembrano mirabilmente vicini
ai simboli utilizzati da Pantaleone e, probabilmente, offrono quella soluzione al problema
della vita, che abbiamo delineato in precedenza. Nel Vangelo di Filippo si legge infatti:
"Giuseppe il falegname ha piantato un giardino, perché aveva bisogno di legna per il suo
mestiere. E' lui che ha costruito la Croce con gli alberi che ha piantato. Il suo seme è stato
Gesù, la Croce la sua pianta" (ver.91).
La croce è, quindi, l'albero su cui è morto Gesù, che è anche strumento di conoscenza e
simbolo della conoscenza stessa. A riprova, sempre nello stesso testo si legge:
"Ci sono due alberi in mezzo al Paradiso: uno produce animali, l'altro produce uomini.
Adamo ha mangiato dell'albero che produce animali ed è diventato animale ed ha generato
animali. Per questo i figli di Adamo venerano dèi che hanno forma di animali. L'albero di cui
Adamo ha mangiato i frutti è l'albero della conoscenza. Per questo i peccati sono divenuti
numerosi. Se egli avesse mangiato dell'altro albero, i frutti dell'albero della vita, che produce
uomini, gli dèi venererebbero l'uomo. Ma l'albero della vita è in mezzo al Paradiso, e anche
l'ulivo, da cui viene il crisma, grazie al quale la resurrezione" (ver.92).
C'è in questo testo un interessantissimo filo che connette:
•
•
•
•
•
la cabala e quindi l'albero della vita da esso rappresentato;
l'albero del bene e del male (la cabala priva dell'asse centrale o tronco);
l'albero piantato da Giuseppe (metafora che identifica, tra l'altro, in Giuseppe il padre
naturale di Gesù e non solo adottivo);
la Croce di Gesù ed il legno con cui fu costruita;
la funzione redentiva della resurrezione;
283
•
il bestiario che pervade il mosaico riempito dalle bestie (gli uomini) generate
dall'errore di Adamo: la scelta dall'albero del Bene e del Male e non di quello della
conoscenza.
Il ponte tra questi elementi è presente solo nel Vangelo di Filippo ed in parte introdotto nei
principi generali del Vangelo di Verità. In quest'ottica non meraviglia affatto che il monaco si
sia posto di fronte al simbolo di Gesù (l'Unicorno) ed al Vangelo di Verità, il corno che ha
sulla fronte.
Può essere questa la chiave interpretativa e la soluzione indicata dal monaco alla schiavitù
indotta dall'errore di Adamo? Che questa sia la soluzione al dilemma che Pantaleone si pone
nel mosaico è chiaramente indicato sempre dal Vangelo di Filippo, in cui si legge:
"Dio ha piantato un Paradiso. L'uomo viveva nel Paradiso. C'era unità e non c'era
separazione [...] Beati gli uomini che in esso non desidereranno più separarsi. Questo
Paradiso è il luogo in cui mi sarà detto: "Mangia di questo o non mangiare di questo,
secondo il tuo desiderio". E' il luogo dove io mangerò di tutto, poiché là c'è l'albero della
conoscenza. Lì esso ha ucciso Adamo, qui invece l'albero della conoscenza ha dato la vita
all'uomo. La Legge era l'albero. Esso aveva il potere di dare la conoscenza del bene e del
male. Ma esso né lo allontanava dal male, né lo stabiliva nel bene, ma ha creato la morte per
quelli che ne hanno mangiato. Perché quando ha detto: "Mangia di questo, non mangiare di
quello," è stata l'origine della sua morte" (ver.94).
Interessantissima tale visione, che è sbalorditivamente simile a quella che ritroviamo negli
scritti dell'apostolo Paolo e che ci spinge a chiederci se sia il pensiero gnostico ad attingere da
tali opere o se tale pensiero non preceda quello dell'apostolo, configurandosi come una delle
tre anime del cristianesimo primitivo: gnostica, paolina, giudeo-cristiana, ma il discorso ci
porterebbe lontanissimo. La separazione del bene dal male e dell'uomo in se stesso, che
pervade gli scritti gnostici della biblioteca di Nag Hammadi, è il male denunciato dalla gnosi,
che ha, nella Conoscenza ottenuta grazie a Gesù ed alla ricerca personale di Dio e dei misteri
del Regno, la sua soluzione.
Se questa è la soluzione proposta da Pantaleone, essa può davvero essere letta nel Mosaico?
L'albero al centro della Chiesa
Sempre nel Vangelo di Filippo si legge:
"Quando Abramo si rallegrò di vedere ciò che stava per vedere, circoncise la carne del suo
prepuzio, mostrandoci come sia necessario distruggere la carne e il resto di questo mondo.
Finché le loro passioni sono nascoste, rimangono e sono vive; se vengono manifestate,
muoiono, secondo l'esempio dell'uomo che è manifesto: finché le viscere dell'uomo sono
nascoste, l'uomo vive; se le viscere appaiono e vengono fuori di lui, l'uomo morirà. Così pure
è l'albero: finché la sua radice è nascosta, esso fiorisce e cresce; se la radice appare, l'albero
secca. Così è per ogni prodotto che è nel mondo, non soltanto per quello che è manifesto, ma
anche per quello che è nascosto. Infatti, fintanto che la radice dell'errore è nascosta, esso è
forte, ma quando è riconosciuta, esso si dissolve. Questo è il motivo per cui il Logos ha detto:
"Già la scure è posta alla radice degli alberi". Essa non sfronderà soltanto "ciò che è
sfrondato germoglia di nuovo" ma la scure taglia profondamente finché svelle la radice. E
Gesù ha divelto la radice di tutto il luogo; gli altri invece solo in parte. Quanto a noi,
ciascuno scavi profondamente fino alla radice dell'errore, che è dentro di lui e lo divelga dal
suo cuore fino alla radice. Ed esso invero sarà divelto, quando noi lo riconosceremo. Che se
noi siamo ignoranti a suo riguardo, esso affonda in noi le radici e produce i suoi frutti nei
nostri cuori. Esso domina su di noi, e noi siamo suoi schiavi. Ci tiene prigionieri, cosicché
284
noi facciamo ciò che non vogliamo, e ciò che vogliamo non lo facciamo. Esso è potente
perché noi non lo conosciamo, e finche esiste, esso lavora. L'ignoranza è per noi la madre
dell'errore. L'ignoranza è al servizio della morte: ciò che viene dall'ignoranza né è esistito,
ne esiste, ne esisterà. Invece coloro che sono nella verità saranno perfetti quando tutta la
verità si manifesterà. Perché la verità è come l'ignoranza: quand'è nascosta, riposa in se
stessa, ma quando si rivela ed è riconosciuta, viene glorificata, in quanto è più potente
dell'ignoranza e dell'errore. Essa dà la libertà. Il Logos ha detto: "Se voi conoscerete la
verità, la verità vi farà liberi". L'ignoranza è uno schiavo, la conoscenza è libertà. Se noi
riconosceremo la verità, troveremo i frutti della verità in noi stessi. Se ci uniremo con essa,
essa produrrà il nostro perfezionamento" (ver.123).
La conoscenza gnostica è un albero tagliato alla radice e Gesù ha tagliato le radici dell'albero
dandoci la libertà che è nella conoscenza dell'errore.
Abbiamo seguito il percorso che dalla cima dell'albero posta sotto il presbiterio, intorno a cui
è avvolto il serpente, porta verso la porta della cattedrale, vediamo ora la radice dell'albero
raffigurata di seguito:
Si notino i due elefanti che sorreggono l'albero e soprattutto il fatto che l'albero è, in realtà,
privo di radice. L'elefante è notoriamente, simbolo della sapienza ed i due elefanti che
sorreggono l'albero sono contrassegnati da un cerchio vuoto ed uno contenente un cerchio
pieno. Il cerchio rappresenta il serpente e quindi il male e l'altro la pienezza e quindi il bene.
Le figure che suonano intorno ai due elefanti sono chiaramente simbolo dell'armonia
raggiunta percorrendo l'albero dal presbiterio verso la porta, e non a caso è in questo punto
che Pantaleone appone il suo nome. Ma ha un senso il fatto che il nome appaia anche oltre la
soglia della porta, all'esterno della Chiesa?
L'eresia del monaco Pantaleone
Abbiamo visto come il percorso dal presbiterio verso la porta della chiesa sia da un lato il
problema dell'uomo (la lettura destra e sinistra del mosaico) dall'altro riveli anche la
soluzione: il grande albero al centro che è il percorso della conoscenza (Gnosi) Quindi al
termine della conoscenza si giunge alla soglia dell'uscita dalla Chiesa Ufficiale. Si arriva alla
mediazione equilibrata della conoscenza del bene e del male e quindi alla giusta
comprensione armonica degli opposti. Si giunge a quello che nella Cabala è chiamato Regno,
che è proprio quello che Gesù segnalava come mèta ai sui discepoli e che è il cuore ed il senso
stesso della conoscenza che Gesù declama nel Vangelo di Tommaso. A questo punto si è già
fuori la Chiesa (la porta) il luogo dove Pantaleone appone la sua firma e l'anno di costruzione
del mosaico.
285
Ma perché, allora, partire da Artù? Artù non può che richiamare la leggendaria ricerca del
Santo Graal, che è, nel mosaico, la conoscenza, la gnosi e quindi il Logos. Re Artù parte alla
ricerca della Conoscenza, lì dove è la radice del male: nella violazione di Adamo ed Eva nel
paradiso terrestre. Il Graal è l'altro simbolo, nemmeno tanto nascosto, che troviamo nel
mosaico. Si noti, infatti, come i due rami in basso, e la base dell'albero, costituita dai due
elefanti, disegni una coppa: il Graal appunto. Il mosaico pullula, inoltre, dei tradizionali
simboli templari, quali, ad esempio la scacchiera. I templari sono da sempre stati connessi, a
torto o a ragione, con le conoscenze misteriche di cui sarebbero stati unici detentori nella
Chiesa.
La Chiesa, l'albero e la Croce
Un elemento che ha contribuito a rendere criptico il senso del mosaico di Otranto è,
certamente, da ricercarsi nella impossibilità di avere una visione d'insieme dell'opera e delle
sue topologie. La presenza nella cattedrale, di panche, di elementi d'arredo e di culto, rende
praticamente impossibile una lettura complessiva del mosaico al visitatore, anche attento. Per
cogliere il senso della soluzione che Pantaleone offre al problema della maledizione
dell'albero del Bene e del Male, bisogna posizionarsi in alto e visionare tutto il mosaico
uscendo idealmente fuori della Chiesa. E' solo così che si coglie un aspetto a nostro avviso,
emblematico. L'albero del mosaico è al centro della croce formata dalla Chiesa stessa e quindi
esso è il legame che è stato segnalato nel Vangelo di Filippo tra Gesù, la Croce e la Cabala: la
Croce ha fornito il tronco mancante all'albero del Bene e del Male, rendendo di nuovo
possibile all'uomo l'ascesa a Dio e la conoscenza dei misteri.
La cosmogenesi
Quindi il mistero del mosaico ha trovato soluzione?
No, purtroppo, finche non si darà un senso alla parte principale del mosaico: la cosmogenesi.
Abbiamo individuato, nella cosmogenesi del mosaico, la principale delle Sefirot: la Corona.
La cosmogenesi appare raffigurata in 16 cerchi contenenti ciascuno un simbolo, la cui
funzione è estremamente criptica. Pur non volendo affrontare l'arduo compito della
interpretazione complessiva di questa costruzione, vogliamo far cenno ai simboli che per
posizione e forma, ci sembrano avvalorare la pista interpretativa qui proposta.
286
Chi si sia imbattuto, anche una sola volta, nel più classico dei simboli gnostici, non può non
notare una notevole somiglianza tra quella che viene definita la Sirena e l'Abraxas.
L'Abraxas è, nell'accezione ideata dallo gnostico egiziano Basilide, il nome oscuro dato al
Sommo Architetto dell'Universo: i due serpenti che fanno da arti inferiori all'essere
identificano l'unione tra la componente maschile e femminile ed hanno un chiaro significato
di natura sessuale. Il valore numerico delle lettere del nome abraxas è 365 ed è pari quindi, ai
giorni dell'anno (nell'alfabeto greco A = 1, B = 2, R = 100, A = 1, S = 200, A = 1, X = 60, totale
365). Il termine è probabilmente alla base della formula magica Abracadabra (abrasadabra in
greco) e proviene dalle parole Ab, Padre, Ben, Figlio, e Acadsch, lo Spirito, di conseguenza
racchiude in se il concetto trinitario. Tertulliano segnalava, nella sua invettiva contro Basilide,
che l'Abraxas aveva una funzione centrale nella venuta del Cristo. Basilide, sosteneva
Tertulliano, credeva che la venuta di Cristo non fosse dovuta a Dio ma al suo nome nascosto
(Abraxas appunto) e che Cristo fosse venuto sulla terra non in forma corporea (arrivando a
sostenere che fu Simone di Cirene e non Gesù ad essere ucciso sulla Croce). Che l'assenza
delle rappresentazioni cristologiche nella cattedrale sia legata a questo? Ovviamente si tratta
solo di un dubbio privo di alcuna possibilità di verifica, se non dopo aver approfondito
similitudini reali e differenze tra la simbologia del mosaico e quella gnostica.
Per chiudere sul simbolo della Sirena non possiamo non far notare una differenza interessante
tra l'Abraxas e la Sirena: l'Abraxas è, in genere, un uomo, qui l'Abraxas è chiaramente una
donna. Il motivo di questa sostituzione rimane ignoto, anche se va ricordata la centralità che la
donna ha nella cultura gnostica (ad esempio la Maddalena su cui torneremo più avanti). Meno
criptica, invece, sembra essere la forma che Pantaleone ha usato per rappresentare la Sirena: la
Omega. Vediamo il perché.
Salomone
L'immagine di Salomone è chiaramente e simbolicamente legata all'idea di giustizia, ma a
nostro avviso la sua funzione nel mosaico non è solo questa. La forma che il seggio di
Salomone assume nella costruzione sembra ricordare l'Alfa. Il fatto che l'Alfa sia disposta
simmetricamente alla Sirena che è, come detto, l'Omega, simboleggia Dio e soprattutto la sua
funzione creatrice. In buona sostanza, i due simboli in alto al centro della cosmogenesi
rappresentano le funzioni di Dio: creatore, artefice di giustizia, ed una qualità: quella
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trinitaria. A queste, l'Abraxas aggiunge la componente gnostica dell'unione degli opposti e
delle componenti maschili e femminili.
Il Leopardo alato
Alla destra della Sirena, troviamo l'immagine di un leopardo alato che uccide un ariete. Al di
sotto si legge l'iscrizione PASCA già decifrata da mons. Grazio Gianfreda:
P(ardus) = leopardo
A(latus) = alato
S(ternit) = abbatte
C(ornutus) = cornuto
A(rietes) = ariete
Pardus ha, nel senso cabalistico lo stesso valore di Pardes (Paradiso). E' quindi, il luogo della
vittoria. Questo elemento completa il lato destro superiore che definisce le qualità destre di
Dio: il luogo in cui risiede e le sue caratteristiche "fisiche" (la trinità, e l'unione in sé).
La regina di Saba
La regina di Saba completa la parte destra degli attributi di Dio. Va ricordato che storicamente
essa è strettamente legata a Salomone come componente femminile, ma ha anche altre
svariate funzioni nella mitologia gnostica, prima tra tutte il suo parallelo con la Maddalena e
da questa con Maria madre di Gesù. La Maddalena è una delle entità femminili più importanti
negli scritti gnostici e non di rado, il suo ruolo supera per importanza, quello degli apostoli.
Nel Vangelo di Maria, e nella Pistis Sophia, la Maddalena è destinataria delle rivelazioni
segrete di Gesù dopo la morte, mentre nel Vangelo di Filippo viene identificata chiaramente
come la compagna di Gesù. La sua funzione centrale è richiamata anche da Gesù in Matteo in
chiara connessione con il Giudizio divino degli ultimi tempi e con Salomone:
La regina del mezzogiorno comparirà nel giudizio con questa generazione e la condannerà;
perché ella venne dalle estremità della terra per udire la sapienza di Salomone; ed ecco, qui
c'è più che Salomone! (Matteo 12:42)
Andrebbe anche ricordata la connessione tra la regina di Saba, la Maddalena, ed il culto della
Madonna nera, ma questo ci porterebbe fuori contesto.
Conclusione
Un'antica leggenda lega l'interpretazione del mosaico della Cattedrale di Otranto alla scoperta
del Graal. La presenza di Artù e la figura stessa che i due rami inferiori dell'albero tracciano
nel basamento del mosaico, come illustrato, possono a ragione, aver alimentato questa
credenza, ma riteniamo che la leggenda nasconda , in fondo, una parte di verità. Il legame
stretto che abbiamo evidenziato tra la letteratura gnostica scoperta nel 45 a Nag Hammadi (in
particolare il Vangelo di Filippo), il fatto che l'Abbazia di Casole fosse un'accademia
talmudica, i limpidi riferimenti alla Cabala, la leggenda che vuole ricchissimo il materiale
documentale in possesso dell'Abbazia, ci fa verosimilmente ritenere che Pantaleone fosse
entrato in possesso dei testi che solo oggi possiamo visionare a Nag Hammadi, e
probabilmente di molti altri che ancora non conosciamo. Se, come abbiamo cercato di
dimostrare, quella di Pantaleone è una estrema sintesi gnostica della cultura cristiana,
protognostica ed ebraica, probabilmente dovremo fermarci sulla soglia delle interpretazioni
che ho proposto nel presente articolo. La funzione di alcuni dei simboli presenti nel mosaico è
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stata interpretata solo perché letta alla luce dei testi di Nag Hammadi, ma ci sono simboli
(quelli ad esempio presenti nella cosmologia del mosaico) che non trovano riscontri immediati
in quella letteratura. Sebbene abbia, ad esempio, tentato l'arduo compito di un paragone tra la
più avanzata e complessa sintesi del pensiero gnostico, rappresentata dalla Pistis Sophia
(Pistis Sophia, di L.Moraldi, 1999, Ed.:Adelphi) ed il mosaico di Otranto, ho dovuto
riscontrare spesso distanze abissali, che mi hanno portato ad escludere un riferimento diretto a
quel testo. Voglio però ricordare che il prof. Moraldi, nell'appendice, propone per il mosaico
di Aquileia una soluzione non distante da quella da me indicata per il mosaico di Otranto. Per
certi versi, la simbologia del mosaico, appare estremamente più primitiva rispetto alla Pistis
Sophia, mentre, sembra essere un'ottima e puntuale evoluzione dei principali testi della
biblioteca di Nag Hammadi. In ogni caso è indubbio che il Graal, per il mosaico, è
l'elevazione del pensiero dell'uomo alla Conoscenza misterica attraverso il Cristo gnostico,
quindi è la gnosi stessa. La ricerca del Graal è, quindi, il percorso sapienziale che, presa
coscienza dell'impossibilità di interpretare il mistero con il solo uso della Cabala, e degli
scritti talmudici (es.: il Sefer Yetzirà), utilizza la rivelazione della conoscenza nel mondo: il
Cristo, dando corpo al più gnostico dei Vangeli canonici: quello di Giovanni.
Io sono la via (l'albero, il tronco, la via attraverso cui si arriva a Dio), la verità (l'asse che
media tra gli estremi della cabala), la vita (l'albero della vita).
Pantaleone, infine, ci ricorda che questo percorso porta, inevitabilmente, alla radice della
croce, e dell'errore che si trova ancora nella Chiesa, e ci conduce fuori di essa.
*
Il Mistero del Mosaico di Otranto - Sentieri di Crescita Interiore, di Francesco Corona, volume,
temo non rintracciabile nelle librerie (se no non quelle idruntine) poiché pubblicato dallo stesso autore.
----[Una presentazione dell'autore si trova nel numero 4 di Episteme]
[email protected]
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La leggenda dei Merovingi nella Corona del Mosaico di Otranto?
(Sabato Scala)
Introduzione
Nel precedente articolo abbiamo illustrato le linee guida generali che individuano le probabili
chiavi interpretative per la decifrazione della complessa simbologia del mosaico pavimentale
della Cattedrale di Otranto, nelle tematiche tipiche del pensiero gnostico e nei testi scoperti
nel 1945 a Nag Hammadi con particolare riferimento al Vangelo di Filippo.
Adoperando il medesimo metro e metodo interpretativo ci proponiamo, ora, di approfondire e
decodificare la parte più criptica di quest'opera: la Corona, l'insieme di 16 simboli, cioè, che
campeggia nella parte superiore dell'opera al centro del presbiterio (vedi l'immagine allegata
alla fine dello scritto precedente).
La Torre
Torniamo, ancora una volta, alla Torre di Babele, simbolo che nell'opera musiva ha
dimensioni seconde solo all'Albero. Abbiamo già detto che le cospicue dimensioni della
rappresentazione individuano in essa una possibile chiave per la decifrazione del significato
nascosto del mosaico. Limitandoci all'interpretazione della parte centrale del mosaico come
raffigurazione simbolica della cabala ebraica, non abbiamo in effetti dato finora soluzione al
problema della funzione di questo simbolo. L'insistenza sulle tematiche bibliche
veterotestamentarie e sulla cabala, che costituisce un mezzo necessario per l'interpretazione
dei significati nascosti delle narrazioni bibliche, ci porta a pensare che la lingua ebraica possa
aggiungersi agli strumenti adottati per decifrare i significati nascosti dell'opera. Infatti, gli
algoritmi di decodifica esposti in opere antichissime come il Sefer Yietzirà si applicano
unicamente alla Bibbia scritta in ebraico.
Prima di adoperare questo strumento, vogliamo far notare un altro particolare elemento di
regolarità che è insito nel mosaico: quello della rappresentazione delle coppie. Tutte le coppie,
siano esse umane, animali o materiali, nel mosaico sono rappresentate con la parte femminile
a sinistra: la regina di Saba si trova a sinistra di Salomone, Eva a sinistra di Adamo, sia nella
Corona che nella rappresentazione del Paradiso terrestre, la Sirena è a sinistra del Pardus
Alatus, e così via. Nel caso della Torre, essa è, ancora una volta, collocata alla sinistra
dell'albero che troneggia al centro dell'opera. Adoperando, a questo punto, la lingua ebraica, si
ottiene che essa è nel contempo: la compagna, may-ray'-ah, e la torre, mig-dawl, quindi
Maria di Magdala, che rappresenta il cuore e nel contempo la sintesi del pensiero gnostico.
Maria di Magdala è infatti colei che è destinata ai segreti più reconditi (Vangelo di Maria), la
cui intelligenza e capacità di comprensione superano quelle dei dodici (Pistis Sophia), e che
era talmente amata da Gesù da ricevere chiaramente un diverso trattamento, che suscitava non
di rado le invidie dei discepoli ("la baciava sulla bocca", Vangelo di Filippo).
Abbiamo così a disposizione alcune chiavi di lettura necessarie per passare all'interpretazione
della parte superiore del mosaico: la lingua ebraica, la gnosi, la Maddalena ed il principio
delle coppie.
La Pantera e la tesi di Celso
Abbiamo dianzi cercato di fornire una prima chiave di lettura della prima riga della Corona, la
quale ci ha portato a individuare nella Sirena il simbolo principe della gnosi: l'Abraxas,
invenzione simbolica di Basilide che raffigura la potenza dell'unione delle tre figure Padre,
Figlio e Spirito Santo, ma nel contempo contiene espliciti riferimenti alla forza sessuale. Tale
interpretazione dell'intera prima riga della Corona vede in essa la raffigurazione del Padre, e
291
argomenteremo che la paternità è anche una possibile chiave di lettura per il livello
successivo. Infatti, il nome Pardus o Pantera, associato all'Abraxas (la Sirena), simbolo
principe dell'eresia di Basilide e personale invenzione dello stesso, non può non ricondurci a
un'altra e ben più audace tesi: quella di Celso, secondo il quale Gesù era figlio carnale di
Maria e di un soldato romano di nome Pandera. Ad alimentare questa incredibile leggenda vi
sono due fatti, uno antico e l'altro recentissimo. Le Toledoth ebraiche, antichissimi scritti che
polemizzavano contro i cristiani, e in particolare i giudeo-cristiani, richiamano esplicitamente
questa voce, da cui attinse, probabilmente, Celso, ma a tale antico documento se ne è aggiunto
recentemente un altro: un papiro ritrovato nei pressi di Qumran, sottoposto già ad alcune
analisi preliminari, ma mai pubblicato, il cosiddetto Rotolo dell'Angelo [1][2]. Il papiro narra
la storia di Joshua Ben Pediah (Gesù figlio di Pediah) il quale, recatosi nel deserto, viene
portato in cielo dall'angelo Pnimea. Il nome di quest'angelo ritorna in un altro antichissimo
testo cui spesso si ispirano le scritture essene [3] e quelle gnostiche: il Libro dei Segreti di
Enoch. Anche questo elemento va tenuto in conto, per quanto diremo tra breve relativamente
alla figura di Re Salomone.
Tornando a noi, il Jerusalem Report, che ha pubblicato nel 1999 una sintesi del contenuto di
tale papiro, non si esime dall'evidenziare l'incredibile assonanza tra il nome di Joshua Ben
Pediah e Gesù figlio di Pandera, nella tesi di Celso. Ma se il Pardus è associato ad una qualità
del Padre (vedi precedente articolo) e rappresenta anche il padre di Gesù (Pandera), allora ci
dovrebbe essere, in qualche modo, indicato anche il Figlio, ovviamente in forma criptica,
visto che mai nel mosaico Gesù viene esplicitamente raffigurato. In effetti, però, il Pardus
tiene tra le mani un ariete, e sembra schiacciarlo (secondo l'interpretazione di Gianfreda
richiamata nel primo scritto), ma non si comprende come questi possa essere considerato il
Figlio. Qui è necessario adoperare una chiave interpretativa tipica della Corona: quella astrale,
richiamata, peraltro, esplicitamente dalla scritta AUSTRI, presente nella prima riga in alto tra
il simbolo di Salomone e quello della regina di Saba. La Sirena è, nel contempo, la compagna
del Pardus ma anche un pesce: essa non può che rappresentare l'omonima costellazione dei
Pesci, che insieme all'Ariete, quello tenuto appunto in mano dal Pardus-Pandera-Padre, segna
l'inizio della nuova era marcata dalla nascita di Gesù, l'era dei Pesci, e la chiusura di quella
precedente, l'era dell'Ariete.
La Sirena Melusina
Nel precedente lavoro abbiamo interpretato il simbolo della Sirena, riconducendolo alla gnosi,
attraverso l'Abraxas. Non siamo, però, riusciti a decifrare il motivo che spinse Pantaleone a
raffigurare quel simbolo con fattezze femminili invece che maschili. Proviamo, ora, a
risolvere quest'enigma. Il simbolo è, come visto, collocato alla sinistra del Pardus, e tale
collocazione è indispensabile per la corretta interpretazione dello stesso. La Sirena, quindi,
non può che essere, ancora una volta, la compagna (may-ray'-ah), dalla meravigliosa
(meged) coda (al-yaw'), ovvero Maria di Magdala, nuovamente. Secondo tale ricostruzione,
Pantaleone avrebbe voluto, inoltre, denunciare l'ambiguità prodottasi nel corso dei secoli tra le
due persone di Maria Maddalena e della madre di Gesù, allo scopo di offuscare l'importanza
della prima imbarazzante figura, cardine della teologia gnostica. La Sirena appare come la
compagna della Pantera, ma è pure compagna di colui che è rappresentato, come abbiamo
visto, soltanto unendo i due simboli attraverso l'interpretazione astrale:Gesù.
Ma la Sirena svolge anche un altro incredibile ruolo, indispensabile per la decifrazione delle
parti successive del mosaico. Per comprendere di che si tratta, va ricordato che l'immagine in
oggetto, e in particolare la presenza di una Sirena a due code, era presente spesso nelle
raffigurazioni medievali associate alla leggenda di Melusina. Di essa esistono diverse varianti,
ma in sintesi narra quanto segue. Un giovane re conobbe una bella fanciulla di oscura origine.
La giovane accondiscese a sposarlo, a patto di disporre ogni settimana di un giorno durante il
quale si sarebbe allontanata da lui, e avrebbe dovuto rimanere sola. Dal matrimonio,
all'apparenza felice, nacquero però figli umani solo per metà, così il re decise di seguire la
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sposa di nascosto, in uno dei giorni in cui ella si sarebbe allontanata. Con sua meraviglia si
accorse che la bella fanciulla si trasformava in una mostruosa sirena con due code, e la testa
simile ad un drago. Venuta a conoscenza della cosa, Melusina lasciò l'uomo, ritornando in
mare ove, si dice, aveva accumulato una grande ricchezza. Ritroviamo elaborato un analogo
tema in un'altra antica leggenda medievale, che ci riporta a quello riteniamo possa essere il
vero significato nascosto della raffigurazione in discussione. Secondo tale racconto, da datarsi
500 anni circa prima della costruzione del mosaico, il capostipite della stirpe dei Merovingi
sarebbe stato un certo Mervee. Sua madre incinta fu stuprata da un mostro marino denominato
Quinotauro. Questa storia apparentemente innocua, nasconde, ancora una volta, nel gioco di
parole del nome "Mervee", un'altra leggenda legata sempre alla Maddalena, quella che vuole
che ella abbia avuto un figlio da Gesù, e che sia fuggita in Francia dopo la di lui morte sulla
croce. Mervee avrebbe quindi, concordemente, il significato di "figlio di Maria di Magdala", e
di padre della stirpe dei primi re di Francia: i Merovingi. La nostra Melusina, nel mosaico di
Otranto, sarebbe, quindi, oltre che Maria, compagna di Pandera e madre di Gesù, anche Maria
di Magdala compagna di Gesù e madre di Mervee, il leggendario fondatore della stirpe dei
Merovingi. Il tramite per questa correlazione è, appunto, la leggenda di Melusina, che fa del
mostro a due code al contempo il Quinotauro e la madre la quale, pur umana, genera un ibrido
dall'apparenza umana, ma dalle qualità soprannaturali.
Non può a questo punto sfuggire la connessione con un'altra leggenda, alimentata di recente
da scrittori all'apparenza estremamente fantasiosi [4], che si ricollega alla fuga in Francia della
Maddalena, ed alla identificazione del termine Graal o Sangraal con Sangue Reale. Non va
nemmeno dimenticata un'altra caratteristica tipica, questa sì storicamente accertata, relativa
all'abitudine dei re Merovingi di non tagliarsi i capelli. Capelli in ebraico è nezer, e quindi
Nazir, con possibile implicito rimando al Nazareno, loro ipotetico avo. Anche questa
constatazione, che all'apparenza è una pura illazione, torna pesantemente sempre nella
raffigurazione della Sirena, i cui capelli sono talmente lunghi da oltrepassare la lunghezza
stessa della figura, tanto da fuoriuscire dal cerchio che la racchiude nel mosaico.
Re Salomone
Passiamo a un'altra emblematica figura della prima riga: quella di re Salomone. Nella prima
parte abbiamo accennato alla sua funzione nella formazione delle lettere alfa e omega; ora,
invece, ci soffermeremo sulla sua fondamentale e recondita funzione nel mosaico, quella di
simboleggiare il più antico dei personaggi biblici, la cui storia precede la nascita stessa della
Bibbia: Melchisedec. Per arrivare a questa correlazione è necessario risalire all'etimologia di
Melchisedec e a una strana contraddizione esistente tra la versione riportata nel Libro dei
Segreti di Enoch e quella biblica. Melchisedec è l'unione di due parole ebraiche: meh'-lek
(Re) tsaw-dak (Giustizia), e quindi Re di Giustizia. Il libro dei Segreti di Enoch termina con
una intrigante storia. La moglie di Nir, fratello di Noè, nonostante la sua sterilità e l'avanzata
età, concepì un figlio senza l'intervento del marito. Nir non volle riconoscere il figlio e la
moglie morì durante il parto. Miracolosamente essa, pur morta, generò un bimbo che aveva,
sin dalla nascita, l'età apparente di 4 anni e che rimase sulla terra solo 40 giorni (gli stessi che
Gesù trascorse nel deserto). Un angelo disse a Nir che il bimbo nato, cui fu dato nome di
Melchisedec, sarebbe stato il più grande dei sacerdoti: il sacerdote eterno, da cui sarebbe nato
un nuovo ed eterno sacerdozio e una nuova stirpe, dopo l'avvento del diluvio. Melchisedec, al
pari solo di altri due personaggi come Joshua Ben Pediah nel Rotolo dell'Angelo e come Mosè
sempre nella letteratura enochica, fu portato in cielo ancora fanciullo.
Questa storia nella Bibbia manca, e Melchisedec viene sostituito da un oscuro re dell'oscura
cittadina di Salem, spesso identificata con Gerusalemme. Perché questo marginale re biblico
debba rappresentare il più grande dei sacerdoti, capostipite di una nuova stirpe di sacerdoti,
che vedrà in Gesù il suo primo e unico discendente [5], resta un mistero inestricabile restando
all'interno della Bibbia, ma diviene chiaro rifacendosi al Libro dei Segreti di Enoch e
ricollegando il fanciullo alla prima venuta del Messia, prima ancora che nascesse la Bibbia.
293
Lo stesso concetto è mirabilmente presentato anche in uno dei più interessanti papiri
qumraniani: 11QMelch [3].
A questo punto veniamo a Salomone e alla sua raffigurazione nel mosaico. Salomone è,
tradizionalmente, l'emblema stesso dell'associazione del potere e della regalità alla giustizia e
alla saggezza, quindi per sua natura è re meh'-lek ma anche giusto tsaw-dak (Giustizia). Il
suo nome, Salomone, discende dalla radice salem (Pace), la stessa di Gerusalemme (città
della pace), di conseguenza egli è anche il re di Salem che è nel suo ruolo e nel suo nome.
Salomone è quindi il simbolo criptico di Melchisedec, e la sua presenza nel mosaico denuncia
la sostituzione di Melchisedec, nato miracolosamente da vergine e progenitore dello stesso
Gesù, con l'oscuro re di Salem biblico, probabilmente mai esistito.
La regina di Saba
La regina di Saba, come abbiamo anticipato nella parte precedente, è chiaramente e ancora
una volta collegabile alla Maddalena. Per la corretta interpretazione della sua funzione
possiamo ricorrere al seguente oscuro passo del Vangelo di Matteo (12:42):
La regina del mezzogiorno comparirà nel giudizio con questa generazione e la condannerà;
perché ella venne dalle estremità della terra per udire la sapienza di Salomone; ed ecco, qui
c'è più che Salomone!
Il brano collega, manifestamente, la regina del mezzogiorno alla regina di Saba e, nel
contempo, a Salomone, anch'esso raffigurato nell'opera. La regina di Saba è l'emblema della
Regina Nera, la cui bellezza e intelligenza stregarono Salomone. Tradizionalmente il nome
Regina Nera è associato a un altro misterioso culto, quello della Madonna Nera, diffusissimo
in Europa e promosso, guarda caso, dall'ultimo re della stirpe dei Merovingi: Dagoberto,
personaggio sul quale torneremo presto per l'interpretazione della seconda riga. Un passo
delle profezie di Michea (4:6) sembra poter fornire il legame che nella gnosi e nella leggenda
dei Merovingi collega la funzione della Torre a quella della Regina, e della donna che avrebbe
assicurato continuità alla futura stirpe regale:
Quel giorno, dice il SIGNORE, io raccoglierò le pecore zoppe, radunerò quelle che erano
state scacciate e quelle che io avevo trattato duramente. Di quelle zoppe io farò un resto che
sussisterà; di quelle scacciate lontano, una nazione potente. Il SIGNORE regnerà su di loro,
sul monte Sion, da allora e per sempre. A te, torre del gregge, colle della figlia di Sion, a te
verrà, a te verrà l'antico dominio, il regno che spetta alla figlia di Gerusalemme.
La regina di Saba è il simbolo veterotestamentario che meglio si adatta alla figura della
Maddalena nell'eresia gnostica, poiché unisce insieme la figura regale, l'intelligenza, la
capacità di conoscenza e la fedeltà al suo re, di conseguenza non poteva esservi scelta
migliore per una raffigurazione simbolica che, pur senza richiamare elementi neotestamentari,
li riportasse nella potenza e complessità della loro interpretazione gnostica.
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La seconda riga del Mosaico e la fine della stirpe dei Merovingi
Il Sagittario, che è il secondo simbolo della seconda riga del mosaico, la scritta AUSTRI, e
soprattutto le stelle di cui sono costellati tutti e quattro i simboli della seconda riga, ci
suggeriscono che la lettura astrologico-astronomica è quella che va ora adottata per
questa riga. Le stelle, in effetti, erano uno strumento che assolveva a una duplice
funzione pratica: quella cronologica e di localizzazione. Abbiamo già visto come, per la
prima riga, la coppia della costellazione dei Pesci e del piccolo ariete tra le zampe della
Pantera assolva a una possibile funzione cronologica. Riteniamo che anche per la
seconda riga possa adottarsi il medesimo criterio di lettura. Essa è giustificata dal modo
adottato da Pantaleone nella parte centrale del mosaico per raffigurare la condanna alla
schiavitù del tempo dopo la cacciata dal Paradiso Terrestre. Tutti i simboli dei mesi
sono stati associati al corrispondente segno zodiacale.
Cominciamo col notare che il segno immediatamente successivo al Sagittario, nella sequenza
astrologica, è il Capricorno, spesso identificato con il nome di Antilope del mare. Non a
caso nel mosaico notiamo raffigurata un'antilope. La sequenza Capricorno-Sagittario, in
linea con questa chiave interpretativa, non può che segnare il giorno in cui avviene il
cambio di segno nell'anno, e quindi il 22 dicembre. Pantaleone avrebbe quindi voluto
indicare una data, ma relativa a quale evento? La soluzione è nel cervo raffigurato
immediatamente dopo. L'animale appare ferito alla testa da una freccia o una lancia. Il
simbolo del cervo è associato, in diverse raffigurazioni, a un Santo vissuto intorno alla
seconda metà dell'anno 600: Sant'Hubert. La leggenda narra che, abile cavaliere e
cacciatore, durante una battuta di caccia, vide un cervo che recava una croce tra le
corna. La sua storia è intimamente legata a quella dei Merovingi ed a quella di
Dagoberto in particolare: egli, infatti, ne sposò la figlia Floribanne. A questo punto non
può che ritornarci alla mente l'anno di morte di Dagoberto: il 22 (secondo altri il 23)
dicembre del 679. Dagoberto, dopo aver perso il trono, si recò in Inghilterra, e vi rimase
fino al 676, quando fortemente voluto dai suoi sudditi sebbene inviso al papato, fece
ritorno dall'esilio, divenendo re d'Austrasia. Tre anni dopo, durante una battuta di caccia
nella foresta delle Ardenne, fu colpito da una lancia al capo e morì. Si ritenne che la sua
morte, fortemente sospetta, sia stata voluta o comunque favorita proprio in ambienti
ecclesiastici. Con lui muore l'ultimo dei Merovingi. L'assonanza del nome di
Sant'Hubert, raffigurato da un cervo, con Dagoberto, il fatto che questi sia stato ucciso
esattamente come il cervo, il richiamo al giorno della sua morte, sono già ottimi indizi
lungo questa strada, ma crediamo non siano i soli.
Adoperiamo di nuovo la Sirena. Essa è collocata subito sopra il cervo. Il termine pesce in
ebraico è dawg; di conseguenza la coppia dawg e Hubert rimanderebbe a Dagoberto.
Ma, forse, c'è di più. Una leggenda vuole che Dagoberto avesse un figlio di nome
Sigiberto, che sopravvisse all'agguato facendo perdere per sempre le sue tracce. Il cervo,
nel mosaico, si volta all'indietro, e l'azione di "guardare indietro" è in ebraico indicata
con il termine seeg, da cui il nome che si ottiene ancora una volta associandolo con
Hubert: seeg Hubert, Sigiberto.
295
Ciò che manca, a questo punto, è l'anno. Per questo veniamo all'ultimo cerchio della seconda
riga che raffigura l'unicorno ed il frate. Il cerchio contiene tutti intorno 26 cerchi, e
lascia un vuoto per il ventisettesimo, che è invece traslato all'interno del cerchio e
circondato da una strana stella a quattro punte, distribuite secondo i punti cardinali, e
una quinta posta tra la punta superiore e quella di destra. Percorrendo 26 volte il cerchio
maggiore che racchiude l'unicorno, tante volte quanti sono i cerchietti, si ottiene 26x26
= 676 , e quindi l'anno del ritorno al potere di Dagoberto. La stella con le tre punte
asimmetriche in evidenza potrebbe rappresentare i tre anni della durata del suo regno
fino alla sua morte. Passiamo ora all'unicorno. Il termine corno in ebraico è keh'-ren,
che è anche l'etimologia del termine corona. Come detto nel precedente lavoro,
l'unicorno è il "nato da vergine", e rappresenta il Gesù del Vangelo di Verità, ma con la
presenza del solo corno e con il legame a Dagoberto già esaminato, aggiunge a questa
funzione un'altra: esso rappresenta la regalità dell'ultimo dei Merovingi di fronte al
quale si inchina il frate Pantaleone raffigurato in ginocchio di fronte alla fantastica
bestia.
Per concludere questa intrigante ricostruzione della seconda riga del mosaico non possiamo
non far notare che, probabilmente, Pantaleone ci ha voluto indicare anche il nome del
mandante di quell'omicidio. Per leggerlo, ancora una volta, bisogna procedere
traducendo in ebraico i simboli dall'alto verso il basso nella seconda colonna. Partiamo
da Salomone che rappresenta Melchisedec, antesignano di Gesù che, a sua volta, se è
corretta l'interpretazione, è padre della stirpe dei Merovingi. Tutta la prima riga
rappresenta, come visto, il Padre, la paternità che Salomone-Melchisedec sintetizza in
sé. Egli è quindi "padre" che in ebraico è ab. Subito sotto c'è il Sagittario, l'essere metà
uomo e metà cavallo: metà in ebraico è gav. Infine ancora più in basso c'è il drago
Leviathan: drago in ebraico è tan. Abbiamo allora Ab-gav-tan = Agatone, e tale è infatti
il nome di colui che occupò il trono pontificio proprio nell'anno in cui morì Dagoberto.
Dagoberto divenne santo, nonostante fosse avversato dal papato di allora, e a lui si deve
l'introduzione del culto della Madonna Nera che, anche nel mosaico, ha riferimenti fin
troppo espliciti con la Maddalena-Regina di Saba.
Il mosaico sembrerebbe, a questo punto, alludere a un legame tra la gnosi e la stirpe
Merovingia, proprio l'elemento che potrebbe aver determinato la rottura con il papato.
E' possibile che Dagoberto avesse introdotto il culto della Madonna nera giocando
sull'ambiguità Maddalena-Maria madre di Gesù, e sulla stessa ambiguità gioca
Pantaleone con la sua rappresentazione della Sirena.
La terza riga e la diffusione del pensiero gnostico nel mondo
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Per l'interpretazione della terza riga è necessario soffermarsi su due simboli, che paiono voler
indicare esplicitamente due delle principali direttrici della diffusione del pensiero
gnostico. Il dromedario (primo cerchio della terza riga), infatti, è spesso indicato come
simbolo delle terre d'Egitto; in quanto prende, notoriamente, il posto del cammello
arabo per gli spostamenti nel deserto africano. L'Egitto fu una delle terre ove la gnosi
prese più piede, dato il fervente movimento culturale che fioriva intorno alle biblioteche
di Alessandria, e che caratterizzò la nascita delle principali eresie gnostiche. Non a caso
proprio in quelle terre, ed esattamente a Nag Hammadi, fu ritrovata nel 1947 la giara
contenente i famosi testi gnostici cui abbiamo fatto riferimento nel precedente scritto.
L'altro animale che è chiaramente legato a una precisa collocazione geografica è
l'elefante indiano (terzo cerchio della seconda riga). Le terre d'India furono meta del
viaggio di Tommaso, autore dell'omonimo Vangelo gnostico, e sono narrate in un altro
testo di chiara ispirazione gnostica: gli Atti di Tommaso. Questa fu un'altra grande
direttrice del pensiero gnostico, se vogliamo quella più naturale, per le affinità tra lo
gnosticismo e le filosofie orientali (induismo e buddismo in particolare), ma anche la
meno fortunata visto lo scarso seguito che ebbe rispetto alla corrente gnostica che
nacque nelle terre dell'ex Impero Romano. Il più resistente dei filoni gnostici, che è
stato anche il più difficile da sradicare, fu sicuramente quello medio-orientale, che
faceva capo ai territori che vanno dall'attuale Grecia fino alla Turchia. Il simbolo tipico
di queste terre può essere sicuramente la lince, diffusa, al tempo, nelle foreste europee e
nei territori mediorientali. La lince (quarto simbolo della terza riga della Corona,
raffigurato mentre schiaccia una volpe) possiede, poi, anche una particolare funzione
simbolica nei bestiari medioevali [6], quella di rappresentare l'invidia. Probabilmente
Pantaleone si riferisce all'invidia per le conoscenze e per l'evoluzione teologica di quella
complessa filosofia che riusciva a produrre opere per altri oscure come lo stesso
mosaico. Purtroppo quell'invidia scatenò una reazione violenta e durissima contro
l'eresia gnostica, che però non fu mai del tutto domata, poiché trasformò la sua
intelligenza in furbizia volpina. Ecco allora un possibile significato per la volpe-furbizia
schiacciata sì dall'invidia-lonza, ma chiaramente non vinta. Non a caso la raffigurazione
si trova subito sotto quella del monaco, che pare voler indicare la furbizia di correnti
gnostiche come la sua, che trovarono riparo all'interno di monasteri quali l'abbazia di
Casole, ove poterono attingere ai libri proibiti che via via venivano sottratti alla cultura
mondiale dalle persecuzioni delle eresie.
Resta da chiarire la funzione dell'intrigante mostro, Leviathan, che campeggia quale secondo
simbolo della terza riga. Non è difficile intuire una connessione tra il mostro e la SirenaDrago alla base della leggenda dei Merovingi: quel mostro, potrebbe essere, quindi, un
ulteriore rimando a quella leggenda. Il drago assume, nel mosaico, una particolare
forma a cerchio che richiama un'antica leggenda che ha per protagonista un altro dei
protagonisti del mosaico: Alessandro Magno. La leggenda vuole che l'arroganza e il
desiderio di conquista del sapere, oltre che dei territori, portarono Alessandro a costruire
un carro cui legò due grifoni, per farsi portare in cielo e svelare il mistero che in esso si
celava [6]. Tale leggenda appare esplicitamente richiamata nella raffigurazione di
Alessandro nella parte inferiore del mosaico. Egli, infatti, è rappresentato a cavallo di
due grifoni. Un richiamo a tali animali lo si trova, forse, anche nella scritta GRIS
riportata da Pantaleone sopra l'antilope. Alessandro, portato in cielo dai grifoni, vide
sotto di sé il mare a forma di serpente arrotolato che tra le sue spire aveva un disco: la
Terra. Leviathan arrotolato, quindi, è il simbolo del mare. La via del mare fu quella
intrapresa dalla Maddalena per giungere in Francia, tanto che quel simbolo, il dragoserpente, il mostro marino, la Maddalena e Mervee divengono tutt'uno, finendo per
rappresentare allo stesso tempo la Francia e la legittima discendenza al trono: quella dei
Merovingi.
297
L'ultima riga e la sintesi del pensiero gnostico
Nell'ultima riga Pantaleone tenta una sintesi estrema del pensiero gnostico, cercando di
identificarne i simboli che maggiormente rappresentano l'obiettivo e l'ambizione di
quella filosofia. La scelta non poteva che ricadere, ancora una volta, su Adamo ed Eva,
e la divisione da loro generata dell'uomo in se stesso. Il loro peccato di arroganza li
aveva spinti a cibarsi del frutto dell'albero sbagliato, quello del Bene e del Male, e non
di quello della Conoscenza. Con quella scissione in sé l'uomo divenne incapace di
riconoscere la sua componente femminile, e la donna incapace di riconoscere la sua
componente maschile. Una donna, Eva, aveva generato quell'errore, spinta dalla
curiosità di pervenire alla conoscenza gratuitamente e senza sforzo nella ricerca e nella
comprensione. Una donna, la Maddalena, riesce a comprendere il senso recondito delle
parole del Gesù-Logos, strumento principe della gnosi, e mette a disposizione dell'uomo
la chiave reale del suo insegnamento, che consente il superamento delle divisioni
interne attraverso la ricerca faticosa e impegnativa della verità. Nella quarta riga Adamo
ed Eva sono rappresentati ai due lati della punta dell'albero, ma due rami di quell'albero
che rappresentano la via dell'unione e il tronco della cabala (vedi parte precedente), li
tengono ancora uniti. Con quella violazione Eva assunse su di sé la componente della
potenza sessuale e riproduttiva, quella che dà la vita all'uomo, ma anche al pensiero in
forma di intuizione. Questa componente è raffigurata alla sinistra di Eva con un toro. La
stessa componente è, se si vuole, la sintesi del ramo opposto alla posizione di Eva nella
cabala raffigurata nel mosaico: il ramo destro con le foglie della Sapienza-Intuizione,
dell'Amore, e della Forza. Adamo, invece, mantenne la componente dell'Intelligenza,
della Costanza e della Fedeltà, raffigurate nel mosaico con il cane alla sua destra. Egli
racchiude in sé le componenti rappresentate nel ramo opposto della cabala del mosaico
con le foglie dell'Intelligenza, della Potenza, e dello Splendore.
Conclusioni
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Vediamo, a questo punto, un quadro d'insieme di un possibile senso della Corona del Mosaico
di Otranto. La prima riga traccerebbe il filo sottile che da Melchisedec (Salomone) porta
all'Essenismo qumraniano attraverso la letteratura enochica che tanto ha influenzato gli
scritti ritrovati nel 1945 a Qumran. Da quel punto prosegue fino alla nascita di Gesù,
seguendo la tesi di Celso e l'eresia gnostica di Basilide, che lo volevano figlio del
soldato romano Pandera. Prosegue, quindi, fino all'identificazione della funzione della
Maddalena, cuore stesso dell'eresia gnostica, e alla leggenda che ne vuole la fuga in
Francia e la fondazione della stirpe Merovingia (la Sirena), fino all'adozione del culto
della Regina Nera o Madonna Nera promossa dall'ultimo dei Merovingi, Dagoberto. La
seconda riga, invece, indicherebbe la fine di quella stirpe, indicando il giorno di morte
di Dagoberto (con la coppia Antilope-Capricorno e Sagittario), le circostanze e modalità
della morte (la battuta di caccia e la ferita alla testa a mezzo di una lancia), l'anno della
morte (i 26 cerchi del simbolo dell'unicorno e la stella indicano il 679), il nome di
Dagoberto (dawg = pesce + Sant'Hubert che è il cervo), e forse gli stessi nomi sia del
leggendario figlio sopravvissuto (seeg = che si gira indietro + Sant'Hubert = Sigiberto),
sia di colui che ordinò quell'omicidio (papa Agatone, sequenza ab-gav-tan). La terza
riga segnerebbe i percorsi principali lungo i quali si diffuse il pensiero gnostico: Egitto,
Francia, India e Medio Oriente. La quarta e ultima riga sintetizzerebbe l'obiettivo primo
della gnosi: il superamento della divisione in sé che, se superata, consente agli Eoni la
ricongiunzione con il Padre. La via per il superamento di quella scissione consiste nella
meditazione sulla separazione delle diverse componenti della propria personalità alla
ricerca di quelle perdutesi nell'altro sesso (sintetizzate nella foglie della cabala), fino
all'inizio di quel percorso di evoluzione meditativa che porta i prescelti Eoni al
ricongiungimento con il Padre. In questo percorso, la donna Eva guidò l'uomo verso
l'albero errato, quello del Bene e del Male. La donna Maria Maddalena riporta l'uomo
all'albero giusto, il Gesù-Logos che fa da tronco e unione dei rami opposti dell'albero
del Bene e del Male, generando la nuova stirpe. A questo significato metafisico che la
gnosi associa alla Maddalena, si aggiunge il significato storico che sempre la gnosi, le
attribuisce.
Pantaleone avrebbe mescolato allora i principi base della gnosi alle leggende sull'origine della
stirpe dei Merovingi maturate nel periodo medievale in filoni di chiara origine gnostica,
e tutte contenute in questa mirabile enciclopedia che è il mosaico di Otranto.
Si potrebbe compiere, a questo punto, un ultimo passo per decifrare anche l'ultima leggenda
cui facevamo riferimento in precedenza, intimamente legata al mosaico dalla tradizione:
quella del Graal. Per farlo, ricorriamo ancora una volta ai bestiari tipici medievali,
scendendo lungo l'albero, giù giù fino a giungere ai due elefanti che fungono da base
all'albero senza radici che forma, con i suoi primi rami arcuati a forma di coppa, il Graal
[6]. L'elefante, oltre che essere simbolo della sovranità e del potere reale, assume una
funzione particolare specie se, come in questo caso, è appoggiato a un albero privo di
radici o tagliato ma ancora in piedi. Secondo le leggende medievali, l'elefante riposava
appoggiato a un albero. I cacciatori desiderosi di catturare l'animale, usavano
l'espediente di tagliare l'albero cui questi era appoggiato, fino quasi ad abbatterlo.
L'animale, appoggiatosi al tronco tagliato per riposare, finiva per cadere miseramente e,
incapace di rialzarsi, diveniva facile preda dei cacciatori.
Ma c'è ancora un'altra leggenda medievale che permea i bestiari di quell'epoca e che a nostro
avviso potrebbe essere invocata a chiudere il cerchio sull'interpretazione del mosaico e
la sua connessione con la leggenda della Maddalena e della stirpe Merovingia. Ne
riportiamo di seguito uno stralcio [6]:
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"Chi ha insegnato all'elefante ad amare ininterrottamente la castità? Quando però, costretto
dal comando della natura, si è unito sessualmente, volgendo indietro il capo come se
non volesse e se ne fosse nauseato, non appena la femmina si ingravida esso non torna
più ad accoppiarsi. Quanto a lei, come quella che, tremebonda, paventa le insidie
mortali del drago, non partorisce in un luogo diverso dall'acqua purché questa arrivi
fino alle mammelle. Poiché se essa partorisce fuori dell'acqua, il drago assale
all'improvviso il suo piccolo nell'intento di divorarlo" (Patrologia latina 145, 783 d.c.).
A questo punto abbiamo tutti gli elementi necessari oltre che la conferma finale alla nostra
interpretazione. I due elefanti presenti nella parte inferiore del mosaico e raffigurati con
due cerchi diversi, l'uno pieno e l'altro vuoto, sono chiaramente un maschio ed una
femmina ripresi nell'atto dell'accoppiamento. La loro unione forma la coppa del Graal
che è il grembo in cui nascerà la stirpe regale legata allo stesso Gesù, albero e tronco
della cabala. Non si può non notare che la leggenda dell'accoppiamento casto degli
elefanti è legata a quella del drago. L'elefante femmina si nasconde nell'acqua per
sfuggire al drago così come la Maddalena prese la via del mare e giunse in Francia.
Infine, non si può non rilevare un altro incredibile parallelo con l'Apocalisse, e con la donna
che fugge nel deserto per sfuggire al drago [7] e salvare il nascituro. L'Apocalisse di
Giovanni è, peraltro, un'opera che non nasconde riferimenti fin troppo evidenti con la
gnosi.
La nostra storia, a questo punto, ha evidenti stretti legami con le leggende adoperate nella
composizione del mosaico, che esso mescola in maniera così particolare. Non può
nemmeno sfuggire la singolarità rappresentata dal culto della Madonna Nera - introdotto
da Dagoberto, l'ultimo dei Merovingi - ovvero forse la Maddalena, la leggenda della
dinastia e alcune raffigurazioni comuni che inquadrano la Vergine nell'atto di calpestare
un serpente o di sconfiggere un drago.
300
Indipendentemente dall'attendibilità di queste leggende, la nostra interpretazione ha, a nostro
avviso, il pregio di aver definito un tempo massimo per la loro formazione, il 1100
appunto. Inoltre, risulterebbe chiaro che il mosaico raffigura insieme, in uno schema
unico compatto e cronologicamente coerente, leggende che appaiono altrimenti slegate
e indipendenti. Altro suo possibile pregio è il legame che si evincerebbe tra la corrente
gnostica, cui evidentemente apparteneva il monaco Pantaleone, e la stirpe Merovingia.
Non è affatto da escludere che l'eresia catara abbia trovato in questa corrente di pensiero
- che aveva pure evidenti risvolti politici - il suo naturale substrato. Non ci
meraviglieremmo a questo punto, alla luce di quanto analizzato, che l'ordine dei
cavalieri Templari, che si vuole fondato nel 1118, possa essere stato uno dei tanti
camuffamenti della corrente gnostica di cui Pantaleone era solo uno dei tanti esponenti,
e che probabilmente era estremamente diffusa e nascosta nei meandri e nelle pieghe
degli ordini ecclesiastici. Visti gli anni (circa 500) trascorsi dalla morte di Dagoberto, la
passione che Pantaleone mostra per la leggenda Merovingia, il fatto che proprio in
coincidenza con la composizione del mosaico nasca il più discusso e potente degli
ordini monastico-cavallereschi (appunto i Templari), il fatto che proprio da Otranto
partissero le navi che portavano i cavalieri crociati alla conquista della Terra Santa, non
può non far sorger l'idea che tutti questi fatti siano tra loro strettamente connessi. Una
tanto complessa formazione del pensiero, e una così coerente costanza di elementi che si
rilevano presenti non solo nell'architettura del mosaico, ma anche in costruzioni ben più
lontane, come le cattedrali di Santiago de Compostela, di Metz e di Chartres, non sono
verosimilmente dovute a una coincidenza, bensì alla presenza di un coordinamento
spinto e nascosto di queste entità diverse. Ciò richiama alcune teorie sull'antica
formazione della massoneria, che si vuole nata proprio, guarda caso, dalla congrega dei
"maestri muratori", architetti e artisti che presero parte alla costruzione delle chiese di
tutta Europa, riempiendole di simboli dal significato criptico, salvo per coloro che,
come noi oggi, posseggono le scritture che questi uomini indubbiamente possedevano
già, e avevano rintracciato e raccolto.
Riferimenti bibliografici e note
[1] S. Pfann, "The visions of Yeshua Ben Pediah scroll", Jerusalem Report, 27 settembre
1999.
[2] "Annotazioni sul cosiddetto Rotolo dell'Angelo, ovvero Il Libro delle Visioni di Yeshua
ben Padiah", in Bibbia e Oriente, vol. XLII (2000), n. 203, 41-48.
[3] Papiro 11QMelch, in I Manoscritti del Mar Morto, Luigi Moraldi, ed. TEA.
[4] Michael Baigent, Richard Leigh, Henry Lincoln, Il Santo Graal - una catena di misteri lunga
duemila anni, ed. Mondadori; Christopher Knight e Robert Lomas, La Chiave di Hiram, ed.
Mondadori.
[5] Nuovo Testamento, "Lettera agli Ebrei".
[6] Francesco Maspero, Aldo Granata, Il bestiario medioevale, ed. PIEMME.
[7] Apocalisse di Giovanni, 12,13-18.
301
Oil painting of Mozart by Saviero dalla Rosa, January 1770,
formerly attributed to Felice Cignaroli.
The painting was executed during Mozart's first tour of Italy.
[http://www.geocities.com/Vienna/Strasse/9570/mozart/index.