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Università Commerciale Luigi Bocconi Econpubblica Centre for Research on the Public Sector WORKING PAPER SERIES Uguaglianza di genere e sistemi pensionistici: aspetti critici e prospettive per l’Italia Alessandra Casarico, Paola Profeta Working Paper n. 139 February 2009 www.econpubblica.unibocconi.it Uguaglianza di genere e sistemi pensionistici: aspetti critici e prospettive per l’Italia♦ Alessandra Casarico*, Università Bocconi Paola Profeta#, Università Bocconi Febbraio 2009 Abstract Questo lavoro si propone di analizzare e valutare la presenza di disparità di genere nei sistemi pensionistici, con particolare riferimento al caso Italiano, ma con una costante attenzione al resto d’Europa. Dopo aver fornito evidenza della presenza di differenze di genere nei sistemi pensionistici, indagheremo le cause di queste differenze. Queste sono riconducibili a caratteristiche generali del sistema pensionistico che, pur non avendo una dimensione esplicita di genere, possono produrre differenze tra le pensioni degli uomini e quelle delle donne; a caratteristiche specifiche del sistema pensionistico esplicitamente collegate al genere; a differenze di genere presenti sul mercato del lavoro e al carico di lavoro di cura svolto dalle donne, che amplifica le differenze generate sul mercato del lavoro. Analizzeremo se e come il processo di invecchiamento in atto influenza i canali che generano disuguaglianza all’interno del sistema pensionistico tra uomini e donne, traendo infine alcune considerazioni di policy. ♦ In fase di revisione per Studi e Note di Economia. Alessandra Casarico, Dipartimento di Analisi Istituzionale, Econpubblica e Dondena Research Center, Università Bocconi. Via Röntgen 1, 20136 Milano, [email protected] # Paola Profeta, Dipartimento di Analisi Istituzionale, Econpubblica e Dondena Research Center, Università Bocconi. Via Röntgen 1, 20136 Milano, [email protected] * 1 1. Introduzione Pensioni e riforma del sistema pensionistico sono argomenti centrali del dibattito pubblico e di politica economica in tutte le economie sviluppate, e anche in quelle in via di sviluppo. E’ tra le priorità di tutti i Paesi assicurare la sostenibilità finanziaria dei sistemi pensionistici, senza tuttavia sacrificare la garanzia di prestazioni adeguate a rispondere alle esigenze degli anziani attuali e dei futuri pensionati. La caduta nei tassi di fecondità e la maggiore longevità hanno aumentato i tassi di dipendenza e motivato la ricerca e l’implementazione di progetti di riforma: maggiori contributi, pensioni meno generose, legame attuariale tra contributi versati e benefici maturati, allungamento della vita lavorativa sono le direzioni più seguite dai paesi europei. Tutti questi cambiamenti incidono sui rapporti tra generazioni. La fattibilità delle riforme risiede quindi in ultima istanza nella capacità del processo politico di riconciliare i conflitti tra generazioni. Su questi temi l’attenzione di studiosi, politici e cittadini è massima1. Oltre alla dimensione generazionale, i sistemi pensionistici possono influire su un’altra differenziazione individuale, molto meno studiata e meno dibattuta: la dimensione di genere. I sistemi pensionistici determinano risultati differenziati tra uomini e donne, derivanti o da caratteristiche generali del loro design (grado di redistribuzione, requisiti anagrafici o contributivi richiesti, sviluppo delle componenti private), o da caratteristiche specifiche pensate ad hoc per differenziare secondo il genere (requisiti anagrafici o contributivi differenziati per genere, coefficienti di trasformazione del montante contributivo basati su speranze di vita differenziate per genere). Le riforme dei sistemi pensionistici che incidono su questi parametri hanno tipicamente un impatto differenziato su uomini e donne. Come avremo modo di argomentare, intensificare il legame tra contributi versati e prestazioni ricevute, come accade con l’adozione del metodo contributivo, riduce il grado di redistribuzione del sistema pensionistico, accentuando la finalità assicurativa, con evidenti svantaggi sui soggetti, come le donne, più deboli dal punto di vista reddituale o più a rischio di povertà in età anziana. Negli schemi di tipo retributivo in cui si considerano i redditi dell’intero periodo lavorativo ai fini del calcolo della retribuzione pensionabile, le donne possono essere svantaggiate a causa dei periodi di inattività, tipici delle loro carriere lavorative, che contribuiscono a ridurre la media sulla quale si calcola la pensione. Se anche si considerano solo i redditi dell’ultimo periodo lavorativo, poiché tipicamente le donne sperimentano profili retributivi per età più bassi e 1 Si veda Galasso e Profeta (2004, 2007). 2 carriere mediamente meno dinamiche degli uomini, i rendimenti impliciti sui contributi versati e quindi i redditi pensionistici delle donne risultano inferiori. L’attenzione sulla redistribuzione di genere dei sistemi pensionistici è stata finora marginale nel dibattito di politica economica e secondaria negli interessi degli economisti rispetto a quella intergenerazionale. Le riforme pensionistiche succedutesi in quasi tutti i paesi industrializzati negli ultimi anni sono state principalmente guidate dall’obiettivo della sostenibilità finanziaria, politica e al più dalla salvaguardia di principi di solidarietà sociale. Le riforme realizzate in Italia negli ultimi decenni anni hanno sostanzialmente modificato i principi ispiratori e la struttura del nostro sistema previdenziale. Pur nate sotto la spinta dei cambiamenti demografici, le riforme non hanno solamente rappresentato una risposta ai cambiamenti in atto, ma anche la testimonianza del diffondersi di nuovi valori nella costruzione di un sistema pensionistico. La neutralità nei confronti delle principali decisioni degli agenti economici, l’individualità e responsabilità di scelta nei confronti delle risorse da destinare alla previdenza sono diventati obiettivi da perseguire nella definizione dei cardini di un sistema pensionistico. Questo cambiamento ampio di prospettiva non ha tuttavia rappresentato l’occasione per una riflessione che includesse anche la dimensione di genere. Recentemente una sentenza della Corte di Giustizia europea ha imposto all’Italia di uniformare l’età legale di pensionamento prevista per uomini e donne nel pubblico impiego, eliminando per le donne la possibilità di andare in pensione 5 anni prima degli uomini. Potremmo cogliere questa sentenza come un’occasione per riflettere e portare il tema delle differenze di genere nei sistemi pensionistici al centro dell’attenzione, ma soprattutto per ampliare la prospettiva in cui il dibattito colloca la disparità di trattamento tra uomini e donne. Questa riflessione non può infatti prescindere da quella, più ampia, sulle differenze di genere nel mercato del lavoro, che purtroppo vedono l’Italia tra i paesi europei con i più tristi primati, in primis quello del più basso tasso di occupazione femminile in Europa (seguito solo da Malta). Questo lavoro si propone di analizzare e valutare la presenza di disparità di genere nei sistemi pensionistici, con particolare riferimento al caso Italiano, ma con una costante attenzione al resto d’Europa. Nella sezione successiva forniremo evidenza della presenza di differenze di genere nei sistemi pensionistici, mostrando dati recenti sui principali indicatori che possono essere adottati per misurare queste differenze. Nella terza sezione indagheremo le cause di queste differenze. Queste sono riconducibili a caratteristiche generali del sistema pensionistico che, pur non avendo una dimensione esplicita di genere, possono produrre differenze tra le pensioni degli uomini e quelle delle donne; a caratteristiche specifiche del 3 sistema pensionistico esplicitamente collegate al genere; a differenze di genere presenti sul mercato del lavoro e al carico di lavoro di cura svolto dalle donne, che amplifica le differenze generate sul mercato del lavoro. Nella quarta sezione analizzeremo se e come il processo di invecchiamento in atto influenza i canali che generano disuguaglianza all’interno del sistema pensionistico tra uomini e donne. Infine approfondiremo la discussione e trarremo alcune conclusioni dal nostro studio. 2. Evidenza sui differenziali di genere nel sistema pensionistico La presenza di disparità di genere nel sistema pensionistico può essere indagata e valutata con riferimento a più aspetti. Un primo riguarda l’ammontare medio dei redditi pensionistici percepiti da uomini e donne. Un secondo aspetto, strettamente legato al primo, riguarda l’anzianità contributiva di uomini e donne e l’età effettiva di ritiro dal mercato del lavoro, al di là di quanto previsto dal punto di vista legislativo. Da ultimo, è rilevante osservare quali siano le tipologie di pensioni percepite da uomini e donne. Nel 2006, l’importo medio lordo annuale dei redditi pensionistici per un uomo era pari a 15.990 euro rispetto a 11.133 euro percepiti in media dalle donne.2 Le diversità negli importi medi derivano dalla forte concentrazione delle donne nelle classi di importo pensionistico basso, come mostra chiaramente la Figura 1. [Inserire Figura 1] Nel 2006 il 24,1% delle donne pensionate riceveva una pensione tra i 250 e i 500 euro mensili contro una percentuale maschile poco al di sotto del 8%. La percentuale di donne che riceve pensioni per un importo tra i 500 e i 750 euro è il 25,9% mentre per gli uomini non raggiunge il 15%. Al 1.1.2006, circa l’83% delle pensioni di anzianità era percepito da uomini. Il diverso accesso a questa tipologia di prestazione pensionistica deriva chiaramente dalle diverse storie contributive di uomini e donne. Mentre oltre il 40% degli uomini ha anzianità contributive tra i 35 e 40 anni (dati 2003), solo il 10% delle donne soddisfa questo requisito. La distribuzione dell’anzianità contributiva degli uomini mostra un picco in corrispondenza dei 35-40 anni che, all’interno del sistema retributivo che tuttora coinvolge la totalità dei pensionati, rappresentano non solo i requisiti minimi di accesso alla pensione di anzianità ma anche gli anni di lavoro che consentono di massimizzare il tasso di sostituzione della prestazione pensionistica rispetto alla retribuzione pensionabile. Questo può essere interpretato come un 2 I riferimenti per i dati riportati in questo paragrafo sono: INPS-ISTAT (2007) e INPS-ISTAT (2008). 4 segnale non solo della partecipazione continuativa al mercato del lavoro degli uomini, ma anche della flessibilità che hanno nel progettare il momento di ritiro dal mercato del lavoro in modo da sfruttare efficacemente gli incentivi impliciti nella formula di determinazione dei benefici pensionistici. Lo stesso non può essere affermato per le donne: il 27% (dati 2003) delle donne ha una anzianità contributiva tra i 15 e i 20 anni – i requisiti minimi di accesso alla prestazione di vecchiaia come prescritti prima della Riforma Amato e dalla Riforma Amato – e tale percentuale decresce costantemente quando si considerino anzianità più elevate. Le diverse anzianità contributive di uomini e donne si riflettono poi sull’età di uscita dal mercato del lavoro: nonostante la prescrizione esplicita del nostro sistema pensionistico, superata dalla Riforma Dini ma reintrodotta dalla Riforma Maroni, di età legali di pensionamento differenziate per genere,3 la differenza nell’età media effettiva di uscita dal mercato del lavoro per uomo-donna al momento non è 5 anni come suggerisce l’età legale. Come chiarisce la Tabella 1, che riporta per alcuni paesi dell’Unione Europea l’età effettiva di pensionamento e l’età legale prevista, non vi sono differenze sostanziali nell’età media effettiva di uscita dal mercato del lavoro4 per uomini e donne in Italia, nonostante il nostro sia l’unico tra i paesi considerati a prevedere tuttora una più bassa età di pensionamento per le donne. La mancanza di differenze di genere in Italia sul momento di ritiro è confermata anche dai dati sull’età media a cui si cominciano a percepire redditi pensionistici (si veda la Figura 2). Questi dati si spiegano sostanzialmente con la possibilità che gli uomini hanno finora avuto di accedere alle pensioni di anzianità, che vengono corrisposte ben prima dei 65 anni. [Inserire Tabella 1] [Inserire Figura 2] Se le donne sono sottorappresentate tra i beneficiari delle pensioni di anzianità, sono invece tra le principali beneficiarie delle pensioni ai superstiti (87,7% dei beneficiari è donna): sebbene le pensioni ai superstiti siano indifferentemente previste per uomini e donne, i differenziali di aspettativa di vita a favore delle donne e la loro minor partecipazione al mercato del lavoro fanno sì che, di fatto, siano principalmente queste ultime a ricevere il trasferimento derivante dalla partecipazione al mercato del lavoro del coniuge. L’accesso a questa prestazione consente un’integrazione dei redditi pensionistici femminili, che risulterebbero altrimenti inferiori. 3 Su questo punto ritorniamo nel paragrafo 5. L’indicatore “età media effettiva di uscita dal mercato del lavoro” indica l’età media di ritiro dal mercato del lavoro. La sua costruzione si basa su un modello probabilistico che considera i cambiamenti relativi nei tassi di attività da un anno all’altro per una specifica età (si prendono in esame le persone tra i 50 e i 70 anni). 4 5 Prima di chiedersi cosa generi le differenze testimoniate dai dati presentati per l’Italia, vale la pena di domandarsi se quanto osservato all’interno del sistema pensionistico italiano sia peculiare del nostro paese o sia invece un fenomeno che accomuna diversi paesi europei. Una misura sintetica per confrontare il trattamento riservato dai sistemi pensionistici a uomini e donne è rappresentata dal tasso di sostituzione.5 [Inserire Tabella 2] Come è chiaro dalla Tabella 2, l’Italia è senz’altro il paese per cui le differenze nei tassi di sostituzione sono più ampie e a sfavore delle donne. Differenze sono evidenti anche in paesi come la Francia e la Svezia. Sono invece più contenute, se non di segno opposto, in paesi come Regno Unito e Danimarca, dove, come avremo modo di spiegare nel prossimo paragrafo, la redistribuzione operata dai sistemi pensionistici pubblici favorisce (o non penalizza) le donne, dati i salari mediamente più bassi e le carriere meno continuative che caratterizzano la loro partecipazione al mercato del lavoro. Un ultimo aspetto che può essere considerato per cogliere se e come il sistema pensionistico tratti diversamente uomini e donne riguarda il rischio di povertà per gli ultrasessantacinquenni. Come mostra la Tabella 3, la probabilità di avere redditi non adeguati nella vecchiaia è in media più alta per le donne rispetto agli uomini: per alcuni paesi questa differenza è contenuta, per altri, tra cui l’Italia, la differenza è molto più consistente. [Inserire Tabella 3] Come si spiegano i dati fin qui illustrati? Quali le cause a cui ricollegare la presenza di differenziali di genere nel sistema pensionistico? 3. Le cause dei differenziali di genere nelle pensioni Le differenze di genere osservate nei sistemi pensionistici possono essere attribuite a diverse cause. Possiamo classificarle come segue: 1. Caratteristiche generali del sistema pensionistico che, pur non avendo una dimensione esplicita di genere, possono produrre differenze tra le pensioni degli uomini e quelle delle donne; 2. Caratteristiche specifiche del sistema pensionistico esplicitamente collegate al genere; 3. Differenze di genere presenti sul mercato del lavoro; 5 Il tasso di sostituzione aggregato è definito come il rapporto tra il reddito pensionistico mediano dei pensionati (65-74 anni) e il reddito mediano percepito dai lavoratori (50-59 anni). 6 4. Il carico di lavoro di cura svolto dalle donne, che amplifica le differenze generate sul mercato del lavoro. In questo paragrafo ci soffermiamo su ognuna di queste cause, con una particolare attenzione al caso italiano. E’ chiaro che il raggruppamento che proponiamo non elimina i legami, che cercheremo di far emergere, tra gli elementi che abbiamo classificato distintamente. 3.1 Caratteristiche generali del sistema pensionistico Quando parliamo di caratteristiche del sistema pensionistico pubblico che non sono esplicitamente pensate per creare differenze di genere, ma che possono produrle, ci riferiamo in particolare al design delle prestazioni e al livello di redistribuzione da esse attuato. Se il sistema pensionistico prevede il pagamento di contributi proporzionali al reddito e prestazioni non legate al reddito individuale passato (ossia un sistema pensionistico di tipo “flat-rate”), allora l’obiettivo redistributivo è prevalente; se al contrario il sistema prevede prestazioni strettamente legate ai contributi individuali versati (“earnings-related”, sia di tipo retributivo che contributivo), allora la redistribuzione è minima e l’obiettivo dominante è quello assicurativo-previdenziale. Il primo dei due schemi tende a favorire le donne, che tipicamente sono i soggetti più deboli in termini di reddito di lavoro e quindi beneficiano dell’elemento redistributivo. Questo schema è anche più efficace nel contrastare la povertà femminile in età anziana: le donne anziane sono tra le categorie a maggiore rischio di povertà (Ginn, 2004b) a causa di livelli inadeguati di pensione, che a loro volta sono il risultato o di un sistema pensionistico nel suo design poco attento alle disuguaglianze reddituali, o di un basso livello occupazionale femminile. Il legame stretto tra contributi versati e benefici ricevuti rafforza la funzione assicurativa del sistema pensionistico a scapito di quella redistributiva e aumenta le differenze tra uomini e donne pensionati. Questo legame è massimo negli schemi di tipo contributivo, come quello previsto in Italia dopo la riforma Dini6 (1995), nel quale non c’è spazio per redistribuzione intragenerazionale e la finalità principale è l’equità attuariale. Se le donne sono il segmento debole del mercato del lavoro il sistema contributivo non può che penalizzarle, a meno che non venga integrato da elementi di solidarietà, quali, ad esempio, contributi figurativi accreditati ai fini pensionistici a favore del lavoratore costretto a interrompere l’attività lavorativa, in particolare per periodi dedicati alla cura. Ma anche negli schemi di tipo retributivo si possono generare differenziali pensionistici a sfavore delle donne (Leitner, 6 Per una descrizione delle riforme pensionistiche italiane dagli anni Novanta, si veda Brugiavini e Galasso (2004). L’impatto delle riforme in una prospettiva di genere sarà approfondito nel paragrafo 4. 7 2001), sia nel caso in cui la retribuzione pensionabile, sulla base della quale si determina la pensione, sia calcolata considerando un periodo retributivo esteso, sia nel caso in cui si valuti un periodo più limitato. Infatti, se si considerano i redditi dell’intero periodo lavorativo (come ad esempio in Italia dopo la riforma Amato del 1992) i periodi di inattività, che caratterizzano più le carriere lavorative femminili di quelle maschili, contribuiscono a ridurre la media sulla quale si calcola la pensione, a meno che questi periodi non siano completamente coperti dai contributi previdenziali figurativi. Ma anche se si considerano solo i redditi dell’ultimo periodo lavorativo (come in Italia prima della riforma Amato) le pensioni delle donne sono svantaggiate, perché tipicamente le donne sperimentano profili retributivi per età più bassi e carriere più piatte o meno dinamiche degli uomini. Una possibile correzione potrebbe derivare dal calcolo della retribuzione pensionabile su una media degli “anni migliori” (Ginn, 2004b), che non necessariamente per le donne coincidono con gli ultimi anni lavorativi. Ulteriori elementi nel design del sistema pensionistico possono generare differenziali di genere, pur non avendo questo esplicito obiettivo: un esempio è rappresentato dalla presenza di requisiti anagrafici o contributivi uniformi per uomini e donne. Poiché le donne sperimentano tipicamente maggiori periodi di inattività e di interruzione lavorativa rispetto agli uomini, queste discontinuità rendono per le donne molto più difficile che per gli uomini raggiungere i requisiti di anzianità necessari. Un discorso più dettagliato merita il sistema pensionistico privato, che, secondo Ginn (2004a), opera una vera e propria redistribuzione al contrario, e cioè dalle donne agli uomini: le donne hanno meno possibilità di acquistare una pensione privata rispetto agli uomini e, nel caso in cui la acquistino, ricevono generalmente ammontari minori. Poiché tutti gli schemi pensionistici privati sono basati sul legame tra contributi versati e pensioni ricevute e sono attuarialmente equi e poiché le donne hanno una longevità attesa superiore agli uomini, è inevitabile che questi schemi siano a priori svantaggiosi per le donne.7 Questo svantaggio può essere interpretato come forma di discriminazione se, sempre seguendo Ginn (2004a), teniamo presente che non tutte le donne vivono più a lungo degli uomini, che una vita più lunga non significa necessariamente un privilegio, e che molte donne vedove hanno dedicato molti anni alla cura del partner, pur sapendo che non riceveranno la stessa assistenza, quando a loro volta saranno nelle condizioni di averne bisogno. 7 Ritorneremo su questo punto nel paragrafo 3.4. 8 3.2 Caratteristiche del sistema pensionistico legate alla dimensione di genere Un secondo elemento che contribuisce a creare differenze di genere tra i pensionati deriva dall’esplicito design del sistema pensionistico, che può prevedere età di pensionamento diverse tra uomini e donne o requisiti di accesso diversi per genere: ne sono un esempio il diverso periodo contributivo necessario per le pensioni di anzianità o formule attuariali basate sulla diversa speranza di vita tra uomini e donne. Nei sistemi pensionistici questi elementi sono stati tipicamente utilizzati “a favore” delle donne: nei paesi in cui si prevede un’età pensionabile diversa per genere, quella prevista per le donne è più bassa, nonostante la speranza di vita femminile sia più elevata (si veda la Tabella 1). Anche il requisito contributivo può agevolare le donne, richiedendo un numero di anni di contribuzione inferiori rispetto a quelli previsti per gli uomini. Negli schemi contributivi infine, non si osservano casi in cui la maggiore speranza di vita della donna sia penalizzante nel calcolare la rendita pensionistica. In Italia per esempio, il metodo contributivo introdotto dalla riforma Dini prevede coefficienti di trasformazione uniformi per genere per la conversione del montante contributivo in rendita pensionistica. Quali sono le giustificazioni di queste regole esplicitamente a vantaggio delle donne? In primo luogo queste regole nascono come tentativo di “compensare” gli svantaggi femminili, dovuti a carriere tipicamente più discontinue e associate a maggiori periodi di inattività non coperti da contributi previdenziali e quindi penalizzanti per il raggiungimento dei requisiti di pensionamento. Queste considerazioni sono amplificate dall’evidenza che sulle donne ricade la maggior parte del lavoro di cura rivolto sia ai bambini sia agli anziani. La necessità che siano le donne a svolgere questi compiti è maggiore nei Paesi in cui l’intervento pubblico nelle aree di assistenza all’infanzia e agli anziani è molto limitato (per esempio in Italia). Dove le donne devono dedicarsi di più al lavoro di cura si generano periodi più prolungati di inattività e maggiori discontinuità che penalizzano le pensioni. Si tratta di un circolo vizioso: spezzarlo richiede un ripensamento del sistema di welfare dei paesi in cui il lavoro di cura è prerogativa delle donne, non tanto per scelta quanto per mancanza di un attore pubblico e per mancanza di condivisione dei ruoli all’interno della famiglia.8 Questa strada è molto più difficile da percorrere che non prevedere una compensazione “ex-post” in termini pensionistici alle donne per gli svantaggi accumulati nelle fasi della vita lavorativa. 8 Su questi punti ritorniamo nel paragrafo 3.4 e 5. 9 Un’altra giustificazione risiede nel tentativo di recuperare parte delle finalità redistributive del sistema pensionistico, che si perdono in uno schema in cui la pensione dipende strettamente dai redditi. Poiché le donne, come abbiamo argomentato al paragrafo 3.1, sono danneggiate da questi schemi, regole specifiche e favorevoli per le pensioni femminili possono compensare gli svantaggi, pur restando l’impostazione di un sistema pensionistico basato sulla funzione assicurativa rispetto a quella assistenziale-redistributiva. Infine, esistono giustificazioni più specifiche. Per esempio, come motivare l’adozione in Italia nel nuovo sistema contributivo di coefficienti di trasformazione omogenei per uomini e donne? Data la diversa longevità attesa per uomini e donne all’età di pensionamento sarebbe stato più coerente con l’impianto complessivo del metodo contributivo, che mira alla realizzazione dell’equità attuariale, adottare le tavole di mortalità differenziate per genere per il calcolo dei coefficienti di trasformazione. Poiché le donne hanno un’aspettativa di vita superiore agli uomini, l’uniformità dei coefficienti rappresenta un vantaggio per le pensioni delle donne. Questa scelta può essere interpretata come un premio assicurativo che il sistema carica sugli uomini al fine di finanziare la pensione di reversibilità che gli uomini solitamente “comprano” per le loro mogli (nell’evenienza che diventino vedove). In pratica, è come se ci fosse un riferimento alla “previdenza di coppia” anziché a quella individuale (Borrella e Fornero, 2002). Queste considerazioni ci introducono ad un ulteriore elemento di compensazione delle differenze pensionistiche di genere, e cioè l’esistenza di pensioni ai superstiti (Luckaus, 1997). Tradizionalmente fondate sulla nozione di dipendenza e pensate come strumento per fornire supporto alle donne anziane vedove, questi istituti sono sottoposti a continuo ripensamento a seguito dei cambiamenti radicali delle società attuali, per esempio l’aumento delle convivenze rispetto ai matrimoni e l’indebolimento del legame tra maternità e matrimonio. Infatti, poiché non è prevista pensione per le donne che hanno allevato figli al di fuori del matrimonio, si genera una redistribuzione a favore di chi ha contratto matrimonio, indipendentemente dai carichi di cura. Le donne non sposate sussidierebbero le pensioni delle donne sposate con figli. Alla luce dei cambiamenti nella struttura delle famiglie sarebbe auspicabile un ripensamento delle pensioni ai superstiti. Il superamento completo di questo istituto non può tuttavia prescindere dalla garanzia di una protezione pensionistica delle componenti più deboli sulle quali ricade il lavoro di cura. 10 3.3 Il mercato del lavoro La parità nel trattamento pensionistico è strettamente legata alla parità sul mercato del lavoro. E’ nel momento dell’occupazione che si creano le differenze di genere che si perpetuano nei trattamenti pensionistici (si veda il paragrafo 3.1) e che il sistema legislativo prova a compensare (si veda il paragrafo 3.2), non sempre con successo. E’ dal mercato del lavoro quindi che occorre iniziare se l’obiettivo è la parità di genere anche in sede pensionistica. Abbiamo già ricordato come le differenze di genere presenti sul mercato del lavoro abbiano un ruolo importante nel determinare i differenziali pensionistici. In particolare abbiamo evidenziato il ruolo delle interruzioni di carriera, più frequenti per le donne e non sempre coperte dai contributi previdenziali, e dei profili retributivi femminili, tipicamente più bassi e meno dinamici di quelli maschili.9 Altri aspetti possono essere rilevanti, per esempio la maggior presenza delle donne negli impieghi part-time, nei lavori occasionali e atipici, che molte volte non danno adeguata copertura previdenziale, e nel sommerso. Ma da dove hanno origine queste differenze e come si possono superare? Nel tentativo di dare una risposta e di documentare l’esistenza di differenze di genere nel mercato del lavoro, concentriamo la nostra attenzione sul caso italiano. Alcuni dati d’insieme sono importanti. In Italia10 nel 2007 il tasso di occupazione femminile tra i 15 e i 64 anni è stato pari al 46,6% (l’obiettivo fissato dal Consiglio Europeo di Lisbona è pari al 60%) contro il 70,7% per gli uomini. A parte la Grecia e la Spagna, tutti gli altri paesi EU-15 hanno un tasso di occupazione femminile oltre il 55%, che supera il 65% nei Paesi del Nord Europa. Il dato medio italiano sul tasso di occupazione femminile nella classe di età 15-64 cela ampie differenze territoriali e generazionali: nel Nord è circa il 58%, mentre nel Mezzogiorno è fermo al 31%. Nelle coorti più giovani, il tasso di occupazione femminile è più elevato ed è pari al 58,8% (per il gruppo 25-34 anni), suggerendo una prospettiva più ottimistica sulla partecipazione delle donne. Tuttavia il divario con gli uomini, il cui tasso di occupazione nello stesso gruppo di età è superiore all’80%, resta significativo e raggiunge il livello massimo nel gruppo di età 35 – 44. Il tasso di occupazione delle madri il cui figlio più piccolo ha un’età compresa tra i 3 e i 5 anni è in Italia il 53%, contro l’81% della Svezia, il 65% della Francia e il 60% del Regno Unito.11 In tutti i paesi europei il tasso di occupazione femminile delle donne con figli è inferiore a quello delle donne senza figli, ma è una caratteristica italiana la mancanza di 9 Borrella e Fornero (2002) supportano con un’analisi su dati Inps questa evidenza per il caso delle pensionate italiane. 10 Dove non diversamente specificato, i dati di questa sezione provengono da ISTAT (2007a). 11 OECD Family database. 11 riallineamento del tasso di occupazione delle madri a quello dell’intera coorte all’aumentare dell’età del bambino. Al Sud più che al Nord è forte l’associazione tra presenza di figli e assenza dal mercato del lavoro: il tasso di occupazione delle donne tra 35 e 44 anni coniugate/conviventi con figli è al Nord del 25% inferiore a quello di una single (68,2% contro 91% rispettivamente), mentre arriva al 50% al Sud (70,5% contro 36,5%). L’Istat12 rileva anche che nel 2005, il 18,4% delle madri occupate all’inizio della gravidanza ha lasciato il lavoro dopo il parto: in particolare, il 5,6% è stata licenziata o ha perso il lavoro in seguito alla cessazione dell’attività lavorativa che svolgeva e il 12,8% si è licenziata per via degli orari inconciliabili con i nuovi impegni familiari o per potersi dedicare completamente alla famiglia. Il 67% delle donne che hanno smesso di lavorare durante la gravidanza desidera tornare a lavorare in futuro. Se ci soffermiamo sulle tipologie di impiego delle donne, negli ultimi anni c’è stata una notevole crescita del lavoro flessibile o precario (part-time e lavoro a tempo determinato). Sul totale delle donne occupate, il 26% ha un contratto part-time, mentre per gli uomini questa percentuale è pari al 5%.13 Anche l’occupazione a tempo determinato è più alta per le donne: 14,7% contro 10,5% degli uomini. Il part-time è più diffuso nel Centro-Nord, mentre il lavoro a tempo determinato domina al Sud. Infine, il tasso di irregolarità delle unità di lavoro era pari nel 2003 al 22,8% al Sud, contro una media nazionale del 13,4%. Non esistono statistiche sulla diffusione del sommerso distinte per genere, ma è ragionevole pensare che una minore diffusione del sommerso migliorerebbe la partecipazione femminile. Se poi guardiamo oltre il semplice accesso al mondo del lavoro, il divario con gli uomini è ancora più ampio. Le donne sono svantaggiate nelle progressioni di carriera: solo il 3,6% delle donne laureate appartiene alla categoria di “legislatore, dirigente, imprenditore” contro l’11,7% degli uomini (è il noto soffitto di cristallo). L’assenza di donne ai vertici non può essere spiegata, come in passato, con il minor livello di istruzione delle donne. L’istruzione femminile è infatti fortemente migliorata negli ultimi decenni e i dati più recenti dicono che nel nostro paese il 12,7% delle donne italiane tra 25 e 64 anni è laureata contro l’11% degli uomini (OECD, 2008). I differenziali di partecipazione e carriera si accompagnano anche a ampi differenziali salariali: secondo un’indagine Isfol (Centra e Venuleo, 2007) il 12 ISTAT (2007b) Questa caratteristica è comune anche agli altri paesi europei: fatta eccezione per la Finlandia, la Francia e la Svezia, negli altri paesi europei più dell’80% dei lavori a tempo parziale sono svolti da donne. 13 12 differenziale salariale di genere è del 23% nel totale della popolazione lavorativa, del 26% tra i laureati e del 35% tra chi ha titoli post-laurea.14 Questo breve excursus sul lavoro femminile in Italia suggerisce che le differenze tra uomini e donne sul mercato del lavoro possono essere molto ampie, in termini sia di partecipazione, sia di tipologia di occupazione, sia di carriera e di salari. Queste differenze si riflettono in trattamenti pensionistici differenziati, mediamente penalizzanti per le donne e spesso non adeguati. In generale possiamo affermare che il problema delle differenze di genere legate alle pensioni è la conseguenza ex-post di un problema ben più radicale che caratterizza il mercato del lavoro. Solo agendo dapprima sul mercato del lavoro potremo superare le differenze nei trattamenti pensionistici senza la necessità di interventi compensativi ad hoc (paragrafo 3.2). In particolare questo vale in paesi come l’Italia: all’ampio divario di genere sul mercato del lavoro il nostro paese ha risposto con interventi compensativi ex post nei trattamenti pensionistici. Le nostre considerazioni suggeriscono un ribaltamento della prospettiva finora adottata: dare priorità all’eliminazione dei divari di genere sul mercato del lavoro per poter superare il ricorso a meccanismi compensativi ex post in fase pensionistica. Rimane il delicato problema dei tempi e delle modalità specifiche con cui realizzare questo cambiamento. 3.4. Il lavoro di cura Come abbiamo già sottolineato, l’attività di cura di bambini e anziani, svolta prevalentemente dalle donne, è uno dei principali responsabili delle diverse performance occupazionali di uomini e donne, che a loro volta si riflettono in differenti ammontari di pensioni. Dedicarsi alla cura dei nipoti o dei genitori anziani può inoltre rappresentare di per sé una motivazione che induce le donne vicine alla pensione a smettere di lavorare. In Italia questo fenomeno è particolarmente forte, come evidenziato da Moscarola (2007) nel confronto con i Paesi Bassi. I sistemi pensionistici dei paesi Europei prevedono forme di compensazione per gli anni dedicati alla cura dei bambini, per esempio riducendo il numero di anni necessari per il raggiungimento della pensione, almeno nel caso delle pensioni minime.15 Negli schemi non redistributivi i periodi di “credito pensionistico” per l’attività di cura sono un meccanismo comune, il cui valore dipende dall’aliquota contributiva figurativa applicata al periodo coperto, che può essere calcolata sulla base del reddito individuale o di quello medio nazionale. Sottolineiamo tuttavia che c’è una grande varietà tra i paesi Europei e che la 14 Recenti analisi economiche si sono concentrate sulla spiegazione delle origini dei differenziali salariali. Tra queste, si veda Albanesi e Olivetti (2006), Olivetti e Petrongolo (2008). 15 Una prescrizione di questo tipo è stata in vigore nel Regno Unito fino al 1970. Più generoso ancora il sistema Olandese che prevede la stessa pensione di base per chi ha svolto attività di cura per alcuni anni e chi è rimasto occupato con continuità. 13 tendenza comune sembra essere verso una riduzione di questi periodi di “credito pensionistico”, soprattutto nei paesi con sistemi pensionistici redistributivi (Regno Unito, per esempio; si veda Leitner, 2001). Queste forme di compensazione non sono sufficienti per garantire che l’attività di cura non generi disparità nel trattamento pensionistico di uomini e donne. Soprattutto nei sistemi non redistributivi, le donne si trovano di fronte al trade-off se dedicarsi ai figli, almeno per un certo periodo, o garantirsi un’adeguata pensione. Una scelta che difficilmente tocca gli uomini. La scelta delle madri di dedicarsi ai figli, per quanto tempo dedicarvisi, così come la stessa scelta di fecondità dovrebbero in realtà prescindere da considerazioni di carattere pensionistico. Allo stesso tempo il sistema pensionistico nel suo aggregato non può che beneficiare dei contributi pagati dalle mamme lavoratrici, soprattutto se full time, e di un elevato tasso di fertilità, che contribuisce a garantirne la sostenibilità. Questo induce a pensare che il superamento del trade-off non sia solo una questione di “giustizia” sociale nei confronti delle donne, ma sia anche una necessità e un’opportunità economica. Se le donne lavorano e hanno figli potranno beneficiare individualmente di una pensione più adeguata ma anche l’intero sistema pensionistico ne sarà avvantaggiato, con conseguenze positive sull’equilibrio macroeconomico. Il superamento del trade-off passa ancora una volta (si veda il punto 3.3) attraverso la diffusione delle cosiddette politiche di conciliazione: servizi all’infanzia e agli anziani (asili nido, strutture per anziani ecc.); condizioni di lavoro favorevoli alle mamme lavoratrici e in generale alle donne (per esempio, l’adozione da parte delle imprese di codici di comportamento che regolino le assunzioni in modo che non ci siano discriminazioni di genere e riconoscimenti alle imprese che adottano best practices manageriali, che prevedano nei processi di selezione per le posizioni di vertice la presenza di almeno un candidato donna); superamento della divisione dei ruoli tra uomini e donne nella famiglia e condivisione del lavoro domestico e del lavoro sul mercato. Quando il lavoro di cura non graverà più interamente sulle donne penalizzandole ai fini pensionistici non sarà più necessario ricorrere a elementi che favoriscano le pensioni femminili rispetto a quelle maschili (paragrafo 3.2) e/o utilizzare il sistema pensionistico per esplicite finalità redistributive. 4. L’impatto dell’invecchiamento e le riforme pensionistiche Una volta individuati i principali canali tramite cui si generano disuguaglianze all’interno del sistema pensionistico tra uomini e donne, in questo paragrafo ci chiediamo se e come il 14 processo di invecchiamento in atto influenzi tali canali, aggravando o indebolendo i meccanismi di differenziazione di genere all’interno del sistema pensionistico. L’invecchiamento della popolazione italiana è stato, negli ultimi decenni, particolarmente intenso e rapido, secondo solo a quanto osservato e previsto per il Giappone. All’inizio degli anni Ottanta, la popolazione ultra-sessantenne era pari al 17,2% della popolazione totale. All’inizio del 2006 tale percentuale era salita al 25,2%. La percentuale di ultrasessantenni nel 2050 nella previsione 2005 dell’ISTAT, nello scenario centrale, è di poco inferiore al 40%. A questi andamenti demografici contribuiscono sia l’aumento nell’aspettativa di vita, sia il prolungato ridottissimo numero di nascite che non alimenta sufficientemente il flusso di entrata nella popolazione. I cambiamenti demografici hanno sicuramente rappresentato una delle motivazioni alla base delle recenti e numerose riforme che hanno investito il sistema pensionistico italiano. Le questioni della sostenibilità finanziaria e macroeconomica della spesa pensionistica in un quadro di aumento nella speranza di vita della popolazione hanno guidato le trasformazioni del nostro sistema pensionistico pubblico che, a regime, sarà pienamente contributivo. Data la diversa posizione di uomini e donne sul mercato del lavoro, abbiamo già avuto modo di sottolineare come questa tipologia di sistemi pensionistici facilmente crei disparità di trattamento tra generi. Se, in media, le donne hanno salari inferiori a quelli maschili ma anche crescite salariali più contenute, saranno meno penalizzate - in termini di tassi di sostituzione-, dal passaggio da sistema retributivo a sistema contributivo; ma il problema dell’adeguatezza della prestazione pensionistica come calcolata a regime sulla base delle proiezioni disponibili, riguarderà non meno le donne degli uomini. Due sono le principali strategie identificate dal legislatore e nel dibattito di politica economica per contrastare la riduzione dei tassi di sostituzione del sistema pubblico e continuare a garantire prestazioni pensionistiche adeguate nel futuro. La prima prevede l’attivazione della previdenza complementare. La seconda consiste nel prolungare il periodo lavorativo e posticipare l’età di pensionamento. Sul primo punto è opportuno osservare che le condizioni a cui la previdenza integrativa può garantire un recupero dei tassi di sostituzione sono stringenti: in particolare, l’adesione alla previdenza integrativa deve essere piena e continuativa, tralasciando in questa sede considerazioni sui rendimenti e i rischi associati agli investimenti.16 Le carriere lavorative femminili e i salari ad esse associati rendono meno probabile che l’adesione sia piena e 16 Su questo argomento si veda Artoni e Casarico (2008). 15 continuativa rispetto a quanto non accada per gli uomini. In un’ottica complessiva, il tasso di adesione alla previdenza integrativa e come questo sia distribuito è un elemento importante per valutare la capacità del sistema di garantire tassi di sostituzione adeguati a tutti e non solo a coloro che hanno redditi elevati o ai lavoratori maschi, come sembra invece accadere nei paesi in cui la previdenza complementare è a uno stadio di sviluppo molto più avanzato di quanto non accada in Italia. Un ulteriore elemento di differenziazione tra uomini e donne con riferimento alla previdenza complementare deriva dal fatto che solo le tradizionali pensioni pubbliche sono quasi perfettamente protette dall’inflazione, al contrario di quelle a capitalizzazione individuale. Se si tiene conto della più elevata speranza di vita femminile, gli effetti negativi che l’inflazione può avere sulla capacità di una prestazione pensionistica di mantenere un tenore di vita adeguato saranno molto più accentuati per le donne rispetto agli uomini. Il posticipo dell’età pensionistica è una seconda strada per innalzare i tassi di sostituzione e rafforzare l’adeguatezza della prestazione pensionistica:17 il meccanismo che produce questo innalzamento dei tassi di sostituzione fa riferimento sia alla maggiore contribuzione, sia al fatto che – per il metodo di calcolo contributivo – i coefficienti di trasformazione sono crescenti all’aumentare dell’età di pensionamento. Questa è spesso considerata una strada tramite cui le donne possono giungere a trattamenti pensionistici più soddisfacenti. L’utilizzo di coefficienti uniformi anche in presenza di speranze di vita differenziate dovrebbe ulteriormente rafforzare questo canale. Il successo di questa strategia dipende chiaramente dalla funzionalità del mercato del lavoro e dalla sua capacità di assorbire lavoratori anziani. Non è infatti solo una questione di offerta di lavoro. La domanda di lavoratori formulata dalle imprese è cruciale nel determinare il tasso di partecipazione alla forza lavoro della popolazione anziana. I lavoratori possono trovare nella scarsa domanda delle imprese un vincolo alle loro scelte di prolungamento dell’attività lavorativa. Questo problema, per le considerazioni avanzate nel paragrafo 3.3, può essere più serio per le donne rispetto agli uomini. In generale, l’aumento dell’età di pensionamento non può prescindere dalla predisposizione di opportune politiche volte a favorire l’assorbimento di individui in età più avanzata da parte del mercato.18 17 Si noti che Boeri e Brugiavini (2008) trovano effetti differenziati per genere delle riforme pensionistiche italiane degli anni Novanta: le donne rispondono meno degli uomini alle modifiche nelle regole pensionistiche. Questo è compatibile con quanto osservato in precedenza, ossia con la presenza di vincoli nelle scelte delle donne in materia pensionistica a seguito delle maggiori interruzioni di carriera e quindi minori anni di contribuzione che caratterizzano i percorsi di lavoro femminili. 18 Sulle problematiche concernenti il rapporto tra sistemi pensionistici e domanda di lavoro rinviamo a Fenge e Pestieau (2005), cap. 8. 16 In un quadro di invecchiamento della popolazione c’è un ulteriore canale che può rendere ancora più precaria la posizione femminile, nel mercato del lavoro e nel sistema pensionistico: in assenza di istituzioni che si occupino di cura, l’aumento nella speranza di vita, per quanto più che benvenuto, si accompagnerà a maggiori pressioni su famiglia, o meglio sulla donna all’interno della famiglia, o su reti informali che porranno nuovamente al centro la donna come fornitore di cura primario, anche se indiretto. Quali risposte dare? 5. Discussione e Conclusioni La presenza di disparità di genere nel sistema pensionistico è una questione aperta per molti paesi europei. Le riforme introdotte nel nostro sistema pensionistico negli ultimi decenni non hanno certamente avuto tra le loro finalità primarie (e neppure secondarie) la riduzione delle differenze di genere. In Italia, gli svantaggi per le donne nel mondo del lavoro sono più ampi che altrove e le recenti riforme del sistema pensionistico, che prevedono un rafforzamento del legame tra contributi versati e benefici previdenziali ricevuti, lasciano ben poco spazio ad elementi redistributivi. Il tema dell’adeguatezza della prestazione pensionistica, in particolare delle donne, si pone con forza. Le pensioni ricevute dalle donne italiane hanno importi mediamente più bassi rispetto a quelle ricevute dagli uomini. Come abbiamo argomentato, l’invecchiamento della popolazione e le risposte di policy finora adottate non potranno che aggravare questi elementi di disparità. La flessibilità nell’età di uscita dal mercato del lavoro per uomini e per donne è una possibile soluzione per superare le differenze di genere nel sistema pensionistico. Se associata ad uno schema incentivante al prolungamento dell’età lavorativa, questa misura potrebbe anche rappresentare un’efficace risposta alla sfida dell’invecchiamento, a condizione che non solo i lavoratori, ma anche le imprese rispondano a questo incentivo. La flessibilità nell’età di pensionamento potrebbe essere anche una soluzione per superare il problema dei diversi requisiti di accesso alla pensione di vecchiaia, inferiori per le donne rispetto agli uomini (si veda la Tabella 1). Va comunque sottolineato che l’età effettiva di pensionamento di uomini e donne è già pressoché uguale. Il dibattito più recente si è soffermato sul tema dei diversi requisiti anagrafici per uomini e donne, dividendo studiosi e politici tra favorevoli e contrari: da un lato coloro che sottolineano la necessità di compensare ex post, con il requisito pensionistico favorevole, le donne per l’attività che svolgono nella cura di bambini e anziani e per le penalizzazioni che ancora subiscono nel mondo del lavoro. Dall’altro coloro che ritengono che regole 17 apparentemente favorevoli del sistema pensionistico non siano lo strumento appropriato per realizzare una correzione delle disparità osservate nel sistema e auspicano l’innalzamento dell’età pensionabile in tutti i settori, prevedendo che i risparmi ottenuti siano però utilizzati per aumentare i servizi di cura. Questa posizione riporta al centro dell’attenzione il mercato del lavoro e la condivisione delle responsabilità nella famiglia e sul mercato tra uomini e donne. Numerosi studi hanno cercato di spiegare l’origine del divario di genere sul mercato del lavoro, e quindi di suggerire proposte per superarlo (si vedano Del Boca e Locatelli, 2006 per una rassegna della letteratura e Ferrera, 2008). In questa sede ci limitiamo a ricordare che gli elementi istituzionali e quelli culturali giocano un ruolo importante. La scarsità di servizi all’infanzia è una delle cause principali dell’accesso limitato delle donne al mercato del lavoro: mentre in Danimarca la spesa in servizi all’infanzia è pari al 2,7% del PIL, in Italia la spesa complessiva per le famiglie non arriva all’1% del PIL19 e l’offerta dei servizi soddisfa solo una minima parte della domanda (solo il 13,5% dei bambini di 1 e 2 anni è accudito nei nidi pubblici e al Sud la carenza è maggiore).20 La risposta italiana al superamento delle disparità di genere, nell’occupazione così come nelle pensioni, anche in vista del processo di invecchiamento che aumenterà la necessità di cura nei confronti del crescente numero di anziani, non potrà prescindere da un ripensamento del nostro sistema di welfare, tuttora fondato su famiglie monoreddito con protezione sul capofamiglia e scarso intervento sulla cura di bambini e anziani, demandata in via principale alle donne. Non solo la spesa per la famiglia è inferiore in Italia rispetto alla media degli altri paesi europei; è la spesa sociale nel suo complesso ad essere più contenuta. E’ importante recuperare e sottolineare il ruolo della spesa sociale come strumento assicurativo e di promozione dell’assunzione dei rischi degli individui e non come veicolo di redistribuzione che premia le componenti meno produttive e promuove comportamenti scarsamente imprenditoriali. Nei paesi dove la spesa sociale è più elevata, un’adeguata offerta di servizi ha creato le condizioni per lo sviluppo di un ambiente dove la donna o la famiglia si sentono più protette, nel senso di maggiormente assicurate. Questo ha determinato una risposta positiva in termini di occupazione e anche di natalità. Perché la spesa sociale possa svolgere in modo adeguato questo ruolo assicurativo, è necessario che risponda ai cambiamenti dell’ambiente sociale ed economico circostante. 19 20 OECD Family database. Istat (2007b). Sul ruolo delle istituzioni si veda Del Boca, Pasqua e Pronzato (2007). 18 A questo scopo, una netta revisione in Italia dell’entità e della distribuzione delle risorse dello Stato sociale tra diverse funzioni, con un maggior rilievo dato a componenti finora marginali – individui nella famiglia e lavoro- può essere necessaria per riqualificare il nostro Stato sociale e per renderlo più attento alle necessità di uomini e donne. Uno Stato sociale può infatti definirsi tale se, quale parte del più ampio sistema di finanza pubblica, induce comportamenti ed esiti demografici che promuovono lo sviluppo nel lungo periodo. Un ambiente istituzionale favorevole è anche essenziale per sostenere i cambiamenti culturali necessari per eliminare le disparità negli esiti economici. Sul fronte della domanda di lavoro, se le imprese attribuiscono a tutte le donne (diversamente dagli uomini) un costo associato alla fertilità (effettiva o potenziale), assumere una donna invece che un uomo è per un’impresa più costoso. Questo induce le imprese a preferire un uomo a una donna oppure ad assumere quest’ultima con stipendi lordi inferiori (si veda Bjerk e Han, 2007). Occorre quindi scardinare la percezione delle imprese che il costo della fertilità sia esclusivamente femminile e indurle a rispettare i tempi di conciliazione della vita familiare e professionale. Agire concretamente nella prima direzione richiede per esempio l’introduzione, anche nei paesi in cui non esistono ancora, come l’Italia, di congedi di paternità, sull’esempio dei Paesi Scandinavi, intesi come un periodo riservato al padre, pienamente retribuito, indipendente (e aggiuntivo) rispetto a quello della madre. Sarebbe anche un’esplicita, parziale, affermazione che la responsabilità della cura dei figli è congiunta, con effetto anche sulla cultura dominante, che individua nella donna l’unico prestatore di cura. Come mostrano le risposte ad alcuni quesiti della World Value Survey (1999) in relazione al duplice ruolo delle donne come madri e come lavoratrici, la società italiana è più conservatrice e meno aperta alle donne della media Europea e la divisione dei ruoli all’interno della famiglia è più radicata.21 Anche le imprese italiane sembrano poco aperte al lavoro femminile: con riferimento alle previsioni di assunzione formulate dalle imprese per il 2008, il 42,3% dichiara di preferire l’assunzione di uomini, il 18,2% preferisce una donna e il resto è indifferente (dati indagine Excelsior Unioncamere 2007). La preferenza per l’assunzione del genere maschile aumenta al diminuire delle dimensioni dell’impresa, è maggiore nell’industria rispetto ai servizi e nel Sud rispetto al Centro-Nord. 22 Per realizzare il cambiamento istituzionale e culturale auspicato e promuovere le condizioni per ridurre il divario di genere sul mercato del lavoro, e quindi nel pensionamento, un 21 Per esempio, alla domanda “Un bambino in età prescolare soffre se la mamma lavora” più dell’80% degli italiani si dichiara d’accordo, contro una media europea del 55%. 22 Sul ruolo delle componenti culturali nel determinare i differenziali occupazionali per genere si veda Campa, Casarico e Profeta (2009). 19 rinnovamento del panorama politico può aiutare. Come dimostrato da recente letteratura,23 una maggiore presenza femminile ai vertici della politica può contribuire ad aumentare il supporto per politiche di spesa per le famiglie e a promuovere un modello in cui uomini e donne siano ugualmente coinvolti nella vita familiare e lavorativa. Questi cambiamenti potranno aiutare a raggiungere la parità di genere nel mercato del lavoro e nel pensionamento, un obiettivo importante per la nostra economia e per la nostra società. 23 Si veda Chattopadhyay e Duflo (2004), Funk e Gathmann (2008). 20 Bibliografia Albanesi S. e Olivetti C. (2006). Home production, market production and the gender wage gap: incentives and expectation. NBER W.P. 12212 Artoni R. e Casarico A, (2008) Insurance, Redistribution and the Welfare State: Economic Theory and International Comparisons, con R. Artoni, in Lilia Costabile (ed.) Institutions for Social well-being, Alternatives for Europe. Basingstoke: Palgrave Macmillan. Borella, M. e Fornero, E. 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Figura 2: Età media di pensionamento per genere. Anno 2006. Unione Europea a 15 64 62 60 58 56 54 Totale Uomini Donne 52 Be Da lgio ni m ar Ge ca rm an ia Ir l an da Gr ec ia Sp ag na Fr an cia I Pa tali a es iB as si Au str Po ia rto ga ll o Fi nl an di a Sv Re e gn zia o U ni No to rv eg ia 50 Fonte: nostra elaborazione su dati Labour Force Survey - 2007, Eurostat. 24 Tabella 1: Età media effettiva di uscita dal mercato del lavoro (2007) ed età di pensionamento legale (2009). Paese Danimarca Germania Spagna Francia Totale 60.6 62 62.1 59.4 Uomini 61.4 62.6 61.8 59.5 Donne 59.7 61.5 62.4 59.4 Italia 60.4 61 59.8 Paesi Bassi 63.9 64.2 63.6 Austria 60.9 62.6 59.4 Finlandia 61.6 62 61.3 Svezia 63.9 64.2 63.6 Regno Unito 62.6 63.6 61.7 Età legale 65 65 65 60 Uomini: 65 Donne: 60 65 Uomini: 65 Donne: 60 65 65 (possibilità di posticipo fino a 67) Uomini: 65 Donne: 60 (65 dal 2020) Fonti: Labour Force Survey – 2008, Eurostat. Legal retirement age: Standard Pension - 2009, MISSOC. Tabella 2: Differenze di genere nel tasso di sostituzione aggregato (%). Paese Totale Uomini Belgio 0.42 0.46 Danimarca 0.37 0.37 Germania 0.46 0.48 Spagna 0.48 0.51 Francia 0.58 0.61 Italia 0.58 0.64 Paesi Bassi 0.43 0.48 Austria 0.65 0.65 Portogallo 0.59p 0.59p Finlandia 0.47 0.46 Svezia 0.6 0.63 Regno Unito 0.44 0.42 Fonte: Labour Force Survey – 2007, Eurostat. Donne 0.4 0.39 0.49 0.5 0.53 0.46 0.51 0.6 0.63p 0.47 0.56 0.45 25 Tabella 3: Differenze di genere nel rischio di povertà per gli ultrasessantacinquenni (%). Paese Totale Uomini Donne Differenza assoluta tra uomini e donne Belgio 27.0 21.0 29.0 -8.0 Danimarca 21.0 22.0 21.0 1.0 Germania 20.0 13.0 22.0 -9.0 Irlanda 58.0 53.0 61.0 -8.0 Grecia 34.0 36.0 34.0 2.0 Spagna 48.0 33.0 52.0 -19.0 Francia 21.0 17.0 23.0 -6.0 Italia 34.0 24.0 37.0 -13.0 Paesi Bassi 4.0 4.0 4.0 0.0 Austria 26.0 9.0 31.0 -22.0 Portogallo 40p 37p 41p -3.0 Finlandia 42.0 43.0 42.0 1.0 Svezia 20.0 12.0 24.0 -12.0 Regno Unito 36.0 29.0 38.0 -9.0 Fonte: Employment, Social affairs and Equal Opportunities DG (2008). p: provvisori 26