Acque suolo territorio - Politecnico di Milano

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Acque suolo territorio. Esercizi di pianificazione sostenibile
di Pier Luigi Paolillo
1. La valutazione urbanistica e territoriale delle risorse fisiche
1. Da tempo ormai è stato segnalato – tra l’altro – l’eccessivo consumo di suolo agricolo per via delle dinamiche urbanizzative, ma il fenomeno non ha ancora trovato un freno decisivo: neppure la legge 183/1989 (“Norme
per il riassetto organizzativo e funzionale della difesa del suolo”) ha trattato il problema nei suoi aspetti poliedrici – difendendo il suolo, cioè, non solo limitatamente alle offese “naturali” dei processi idrogeologici ma anche estendendosi alla tutela della risorsa in sé – e l’istituzione delle Autorità e dei piani di bacino non ha minimamente sfiorato l’opportunità di analizzare, valutare e contenere il fenomeno del consumo di suolo originato
da urbanizzazione1.
1
Il problema è stato peraltro assunto nelle Linee generali di assetto del territorio lombardo (Regione Lombardia, 2000)
col richiamo al primo Rapporto sullo stato dell’ambiente in Lombardia (Regione Lombardia, 1999a) e alla nozione di biodiversità, definita nella convenzione internazionale di Rio del 1992 come “variabilità degli organismi viventi di ogni tipo
[... compresi] i complessi ecologici di cui fanno parte”; la Lombardia comincia finalmente ad assumere il principio che “ogni ente, sia locale o regionale, potrà e dovrà mettere in atto le proprie politiche di sviluppo valutando attentamente anche l’aspetto della biodiversità, ognuno alla propria scala d’intervento, ma comunque in forma integrata. [...] correlata
alla sostenibilità, intesa come integrazione fra le esigenze di tutela della natura e quelle dello sviluppo economico”. Il documento lombardo richiamato deve dunque ammettere che “anche la nostra regione è interessata da un fenomeno di impoverimento [di biodiversità, n.d.a.] le cui cause, come per il resto del modello territoriale europeo, sono state ricondotte
ad alcuni fattori comuni fra i quali [...] il consumo di suolo per insediamenti e infrastrutture, che determina inquinamento,
perdita di ambienti ed ecosistemi oltreché un effetto barriera che tende a separare le popolazioni rendendole quindi più
isolate geneticamente e più vulnerabili”. Nelle Linee generali di assetto del territorio lombardo viene così espressamente
individuato (sulla base di una condivisibile trilogia concettuale) il “rischio suolo/ambiente/paesaggio” e si avanzano “alcune tipologie di risposte possibili, per intervenire almeno sulle modalità e sulle forme del consumo di suolo se non esplicitamente e direttamente sulla sua quantità”, in dipendenza del fatto che “il suolo è una risorsa finita e difficilmente rinnovabile, e che la sua protezione risulta fondamentale per il mantenimento degli equilibri ambientali [sicché sussiste una,
n.d.a.] discrepanza fra la rapida progressione della degradazione del suolo e l’estrema lentezza dei processi di formazione
del suolo stesso. [...] É in tal senso che anche i documenti di programmazione urbanistica e territoriale devono iniziare
esplicitamente ad esprimersi.. [...] Ciò che appare evidente è che non esiste una risposta unica, e che tali risposte, ancorché diverse, devono comunque muovere verso un obiettivo comune rappresentato dal contenimento del consumo di risorse.
In altre parole, se è vero che è il mercato che determina le trasformazioni del territorio, dovrà essere un obiettivo di ‘sviluppo sostenibile’ che le dovrà comunque guidare”. Indubbiamente la scala ottima per contenere il consumo di suolo − unitamente all’orientamento delle politiche insediative − non può individuarsi altrimenti che in quella provinciale; in effetti,
il tema appare considerato da quasi tutte le proposte di piano territoriale di coordinamento delle province lombarde e, tuttavia (così evidenziano le Linee generali di assetto del territorio lombardo), con assai distanti tagli argomentativi: i) “o
criteri di carattere compositivo, finalizzati al contenimento del consumo di suolo, che privilegiano gli interventi di recupero del patrimonio edilizio esistente attraverso l’uso di aree dismesse e la ricompattazione delle forme urbane, e che evitano saldature tra nuclei autonomi incentivando forme di utilizzo del patrimonio edilizio disponibile per l’affitto e la vendita; o criteri di indirizzo in ordine alla reale dinamica della popolazione (solo in termini generali, senza il suggerimento di
metodologie di calcolo) indicando per le aree industriali l’orientamento di concentrarle nei siti già attrezzati almeno con
un primo livello di servizi alle imprese; o ricognizioni sulla capacità residua dei comuni a seguito di parziale attuazione
del Prg con indicazione di previsioni quantitative in relazione alla residenza, il produttivo e il commerciale esplicitate per
circondari”; ii) oppure direttive finalizzate all’applicazione di nuove modalità dimensionali: “accanto al calcolo della capacità insediativa teorica il documento della Provincia di Cremona, per evitare l’eccessivo dimensionamento dei Prg, indica ai Comuni la necessità che venga effettuato il calcolo del dimensionamento anche sulla base della capacità insediativa reale, per poter valutare correttamente le espansioni previste [...]; il documento della Provincia di Lecco fornisce una
procedura metodologica per calcolare il fabbisogno minimo e massimo di stanze nei dieci anni entro cui collocare la previsione di Prg [...]; la Provincia di Sondrio intende definire parametri di valutazione più elastici per il calcolo della capacità insediativa teorica di Piano [...]; la Variante del Piano Territoriale del Consorzio del Lodigiano è impostato infine su
un elemento innovativo rispetto al Piano precedente, che [...] si basa su un parametro numerico (coefficiente K) da rapportare alla densità di utilizzo degli ambiti già urbanizzati e tramite il quale calcolare la possibilità di utilizzo del territorio non urbanizzato”; iii) ancora, circa il tema delle aree produttive, la rilevante proposta di piano di Cremona che “individua strategie d’intervento finalizzate alla minimizzazione degli impatti sull’ambiente, sul paesaggio e sulle aree agricole
ed alla massimizzazione dell’efficienza territoriale ed urbanistica tramite la localizzazione del sito più idoneo, la minimizzazione del consumo del suolo e il contenimento dei fenomeni di edificazione diffusa e dei costi di urbanizzazione primaria, la riqualificazione dell’esistente, dei vuoti e delle frange, la minimizzazione della frammentazione del paesaggio agricolo”; iv) infine, “elemento puntuale, ma particolarmente significativo”, il fatto che “quasi tutte le province hanno previsto
(anche se con modalità e caratteristiche diverse) l’individuazione di varchi fra gli ambiti edificati da mantenere, fattore
Anche lo Schema di Sviluppo dello Spazio Europeo del 1997 addita “l’urbanizzazione diffusa come il problema
che emerge con più rilievo nelle aree dell’Europa centrale, da Londra alla Padania”, e già il il documento di
Lipsia (Comitato di Sviluppo Spaziale Europeo, 1994; cfr. anche Presidenza del Consiglio dei Ministri, 1996)
poneva in stato d’accusa “la diffusione urbana, la dispersione degli insediamenti e le densità urbane molto deboli, che aumentano la dipendenza dall’automobile (e dunque l’inquinamento atmosferico), esercitano una
pressione sulle zone rurali e gonfiano la spesa pubblica per investimenti sociali e culturali e per la gestione
delle infrastrutture”, mentre il documento di Potsdam (Committee on Spatial Development, 1999) invitava a
“incentivare il modello della città compatta per contenere ulteriori espansioni urbane [...] nel contesto di
un’oculata politica localizzativa e insediativa, specie nelle periferie [...] intensificando la cooperazione città/campagna [mediante] nuove forme di armonizzazione dei rispettivi interessi”2.
Oltretutto, negli strumenti urbanistici comunali – lo rilevano le Linee generali di assetto del territorio lombardo
(Regione Lombardia, 2000) – se negli ultimi tempi si registra “una più puntuale attenzione al rilievo
dell’edificato storico e d’interesse architettonico non soltanto per i centri storici ma anche esteso alle aree agricole, con censimenti delle cascine e dei manufatti riconosciuti di pregio”, tuttavia “difficilmente lo studio dei
diversi elementi del territorio agricolo viene tradotto in una visione sistemica e ancor più difficilmente in azioni di piano coordinate”, e “in generale [...] si riscontra una scarsa attenzione al tema del consumo di suolo e
della tutela delle aree agricole, che continuano ad essere considerate essenzialmente quali parti residuali della
questo che denota l’esigenza di interrompere i fenomeni conurbativi, che caratterizzano molte delle aree urbanizzate considerate, e pone la premessa per fornire ai comuni anche condizioni ‘irrinunciabili’ cui riferirsi al fine di non compromettere un quadro d’insieme che interessa tutta la provincia”; in particolare il lavoro della Provincia di Cremona contiene un
significativo elemento innovativo rappresentato “dall’indicazione delle ‘risorse non negoziabili’ che rappresentano un
fondamentale elemento di riferimento delle scelte di piano”. Le Linee generali di assetto del territorio lombardo considerano anche le trasformazioni edilizie del territorio ricavabili dal confronto delle edizioni della Carta tecnica regionale al
1980 e al 1994: “praticamente non c’è non solo comune, ma nucleo edificato che non registri qualche espansione nel periodo considerato [...] valutabile mediamente nell’ordine del 20%, e ciò anche nelle aree non particolarmente dinamiche
[...], in base a un numero limitato di ‘modelli’ di espansione, che si ripetono con una certa uniformità nei comuni di un
medesimo ambito territoriale. Nelle aree a più bassa densità della pianura, là dove i nuclei storici sono distanti gli uni
dagli altri e hanno mantenuto un’identità e una forma ben riconoscibili, anche le espansioni assumono in generale una
configurazione più chiara e compatta, con due varianti principali: la corona circolare e le direttrici radiali o più spesso
una combinazione delle due [...] a diretto contatto con i tessuti urbani preesistenti, senza vuoti interposti [...] nella Bassa
bresciana, nell’Oltrepo mantovano, in alcune parti del Lodigiano. Nelle aree a densità più alta e a morfologia più irregolare, come il Nord Milano e la Brianza, i livelli di conurbazione e saturazione già raggiunti danno luogo a configurazioni
più complesse o confuse, con frequenti episodi di ‘infill’, ovvero di saturazione degli spazi interstiziali (cfr. Saronno, Monza): ma sempre è leggibile il rapporto delle nuove urbanizzazioni con i centri preesistenti, il loro tendenziale disporsi a
corona di questi. Il Sud Milano presenta una situazione molto particolare, essendo la sola zona nella quale le trasformazioni di questo periodo hanno dato luogo a insediamenti isolati di nuovo impianto e, più in generale, alla radicale trasformazione di ampie porzioni di territorio. In quest’area, l’esame delle trasformazioni suggerisce un giudizio ambivalente: positivo, là dove mostra la sostanziale assenza di fenomeni rilevanti di dispersione insediativa (sprawl) e di spreco di
suolo, severo per quanto riguarda la capacità della pianificazione di controllare il rapporto delle nuove espansioni con le
reti di mobilità, soprattutto collettiva, fortemente critico per quanto riguarda la qualità complessiva delle nuove espansioni che, nonostante alcuni episodi che raggiungono standard progettuali elevati alla scala del quartiere (Milano 3, Milano
3 City), non si organizzano secondo una forma urbana riconoscibile, con punti focali e luoghi rappresentativi di una nuova identità urbana, ma si configurano come una periferia caotica, prodotta dall’accumulazione di strategie comunali non
coordinate e di operazioni immobiliari frutto della contrattazione tra singole amministrazioni e proprietari di aree. In diverse parti della regione si manifestano fenomeni di disordine urbanistico anche grave, con segni evidenti di ingiustificata
compromissione del territorio, dovuta all’eccessiva frammentazione degli interventi e alla loro dispersione in ambiti più o
meno vasti o diluizione lungo assi stradali [...] nel Magentino, nella pianura tra Bergamo e l’Adda, tra Melegnano e Lodi,
intorno a Mantova”.
2
Nel merito, le Linee generali di assetto del territorio lombardo (Regione Lombardia, 2000) operano “una netta distinzione tra due fenomeni che vengono talvolta impropriamente confusi: la ‘diffusione’ insediativa, leggibile alla scala territoriale, consistente nella redistribuzione della popolazione e delle attività in genere su vasti ambiti, tale per cui si attenuano
decisamente le punte estreme di densità toccate intorno agli anni ‘60; la ‘dispersione’ insediativa, leggibile alla scala locale, consistente nell’affermarsi di modelli insediativi disorganizzati, tali per cui l’espansione avviene mediante episodi
edilizi non collegati tra loro, sparsi nel territorio, con interposti spazi inedificati di varia forma e ampiezza”, e il documento lombardo giunge a riconoscere nei processi di diffusione e dispersione territoriale i tre rischi principali della “inutilmente ampia occupazione di suolo, frammentazione degli spazi aperti, banalizzazione del paesaggio, impermeabilizzazione dei suoli”, di un “aumento degli spostamenti, scarsa efficienza del trasporto collettivo, uso predominante del mezzo
proprio, congestione, aumento delle emissioni inquinanti”, del “declino della città storica e della sua capacità di integrazione sociale, tendenza alla segregazione sociale, perdita dell’identità comunitaria, aumento delle patologie sociali (criminalità diffusa, problemi di sicurezza e agibilità del territorio)”.
pianificazione ‘rilevante’ in termini economici, o riconosciute come mere riserve territoriali degli sviluppi insediativi futuri. Nella maggioranza dei piani, infatti, ciò che non è urbanizzato è classificato in zona agricola,
in relazione alla quale la normativa ripropone sostanzialmente i contenuti della Lr. 93/1980. Sovente la zona
agricola è articolata in sottozone: nei casi più semplici, la suddivisione è tra zone agricole e zone boscate; in
altri casi la suddivisione è maggiormente affinata in relazione alle caratteristiche morfologiche del territorio o
alla presenza di elementi caratterizzanti o peculiari (zona agricola montana, collinare, di pianura, dei fontanili, …), alle presenze vegetazionali (zona dei vigneti, zona boscata, …), agli utilizzi agronomici (zona produttiva
intensiva, zona di produzione zootecnica, …). Spesso inoltre la possibilità di attuare trasferimenti volumetrici,
ammessa dalla normativa vigente, ha condotto all’individuazione di zone agricole di rispetto, intese come aree
di rispetto per l’edificato o sedi di future localizzazioni dell’espansione urbana che, nei casi estremi e soprattutto per territori comunali interessati dalla presenza di attività zootecniche, ha determinato l’individuazione di
aree di concentrazione volumetrica da destinare all’edificazione delle strutture produttive agricole”.
A ben vedere, è questa la conferma di un comportamento assai riduttivo nell’applicazione della Lr. 93/1980
(“Norme in materia di edificazione nelle zone agricole”), quasi che riguardasse soltanto il patrimonio edilizio
agricolo esistente − talvolta con atteggiamento svenevolmente “pittoresco” a favore di porticati e tetti a coppi −
e non, com’è principalmente, la tutela del suolo agricolo dal consumo immotivato per finalità urbanizzative (ossia, con modi espliciti, la limitazione dell’edificabilità urbana nello spazio rurale alle sole situazioni di necessità
dimostrata): si può dunque constatare a consuntivo come la Lr. 93/1980 sia stata assai poco capita e ancor meno
applicata nel suo pionieristico pretendere, già vent’anni or sono, una vera e propria successione analitica, complessiva e sistemica, di tutti i fattori insediativi e fisici alla scala comunale, la cui valutazione comparata − ed
essa sola − avrebbe permesso sia il risparmio dall’urbanizzazione di buona parte dei suoli agricoli fin qui consumati, sia la soluzione “dentro la città esistente” di tutta una serie di contraddizioni esportate invece “extra
moenia” e, oltretutto, non per questo condotte a soluzione: le stesse Linee generali di assetto del territorio lombardo appaiono fortemente critiche per “la qualità complessiva delle nuove espansioni che, nonostante alcuni
episodi che raggiungono standard progettuali elevati alla scala del quartiere [...], non si organizzano secondo
una forma urbana riconoscibile, con punti focali e luoghi rappresentativi di una nuova identità urbana, ma si
configurano come una periferia caotica, prodotta dall’accumulazione di strategie comunali non coordinate e di
operazioni immobiliari frutto della contrattazione tra singole amministrazioni e proprietari di aree”; oltretutto,
“in diverse parti della regione si manifestano fenomeni di disordine urbanistico anche grave, con segni evidenti
di ingiustificata compromissione del territorio, dovuta all’eccessiva frammentazione degli interventi e alla loro
dispersione in ambiti più o meno vasti o diluizione lungo assi stradali”.
2. Avevamo detto bene della Lr. Lombarda 93/1980 a suo tempo3, continuiamo a dirne bene tuttora (nonostante
se ne debba constatare la quasi completa disapplicazione sia nei piani comunali adottati, sia nella loro istruttoria
regionale e nella susseguente approvazione), e auspichiamo che l’ormai prossima revisione della legge urbanistica regionale 51/1975 ne recepisca tutto il rilevante meccanismo analitico-informativo di ricerca della conoscenza e derivazione delle scelte; in particolare, della Lr. 93/1980 apparivano assai qualificanti per contenere il
consumo di suolo agricolo:
a) la finalità espressamente “ruralistica” dettata nel comma 1 dell’art. 1 (“I piani regolatori generali dei comuni, al fine di valorizzare e recuperare il patrimonio agricolo e assicurare la tutela e l’efficienza delle unità produttive anche mediante il soddisfacimento delle esigenze degli imprenditori e dei lavoratori agricoli, individuano: a) le zone destinate ad attività agricole [...]; b) gli interventi di recupero, conservazione e
riuso del patrimonio edilizio esistente [...], disciplinandone con specifiche norme il potenziamento al servizio delle aziende agricole; c) gli edifici esistenti [...] non adibiti ad usi agricoli che si intendono mantenere
nello stato di fatto, con prescrizioni per il loro uso e il loro riattamento funzionale; d) le aree per eventuali
insediamenti rurali e relativi servizi, fissandone i limiti e le prescrizioni”);
b) l’espresso obiettivo di “limitare l’utilizzazione edilizia dei territori agricoli”, dichiarato nel comma 2
dell’art. 1 avvalendosi di una prescrizione tale da obbligare il pianificatore a dotarsi di un bagaglio tecnicoanalitico “guidato” (anche se poi l’istruttoria dell’avvenuto adempimento si è diluita nell’iter conclusivo
dell’approvazione dei prg): “i piani regolatori devono prevedere il soddisfacimento dei bisogni abitativi
prioritariamente mediante il recupero degli edifici esistenti e l’uso delle aree anche parzialmente inedificate e site in zone già urbanizzate (il che avrebbe preteso l’approntamento di analisi tali da classificare il grado di utilizzo residenziale e saturazione insediativa per tutta l’armatura urbanizzata, e solo dopo aver dimostrato l’avvenuto suo completamento sarebbe stato possibile considerare i processi espansivi); evitare, in
3
Che avevamo applicato innovativamente nell’ambito della “Variante al Prg del Comune di Lodi per le zone agricole e
agricole tutelate e per il patrimonio edilizio esistente”; cfr. Paolillo, 1986.
ogni caso, la destinazione a usi extragricoli di suoli a coltura specializzata, irrigui o a elevata produttività
ovvero dotati di infrastrutture e impianti a supporto dell’attività agricola (il che avrebbe reso indispensabili per tutto lo spazio extra-urbano le analisi pedologiche, idrologiche e socio-economiche circa il grado di
produttività dei suoli e delle aziende4), salvo che manchino possibilità di localizzazioni alternative per gli
interventi strettamente necessari alla realizzazione di servizi pubblici e di edilizia residenziale pubblica o
per altre eccezionali esigenze, da motivarsi in modo circostanziato (motivazioni che assai rararmente sono
state constatate nelle relazioni di prg)”;
c) la dichiarata intenzione di impedire la commistione funzionale generata dal modello diffusivo negli spazi
rurali, mediante i combinati disposti dell’art. 2 (“In tutte le aree destinate dagli strumenti urbanistici generali a zona agricola sono ammesse esclusivamente le opere realizzate in funzione della conduzione del fondo e destinate alle residenze dell’imprenditore agricolo e dei dipendenti dell’azienda, nonché alle attrezzature e infrastrutture produttive quali stalle, silos, serre, magazzini, locali per la lavorazione e la conservazione e vendita dei prodotti agricoli”) e dell’art. 3 (“In tutte le aree previste dagli strumenti urbanistici generali come zone agricole, la concessione edilizia può essere rilasciata esclusivamente: a) all’imprenditore
agricolo singolo o associato, iscritto al l’albo di cui alla Lr. 13 aprile 1974, n. 18, per tutti gli interventi di
cui al precedente articolo 2, I comma, a titolo gratuito ai sensi dell’articolo 9, lettera a) della legge 28
gennaio 1977, n. 10; b) al titolare o al legale rappresentante dell’impresa agricola per la realizzazione
delle sole attrezzature e infrastrutture produttive e delle sole abitazioni per i salariati agricoli, subordinatamente al versamento dei contributi di concessione”);
d) il ragionevole rinvio, per le limitazioni insediative che costellano tutta la ratio della 93/1980, “fino
all’approvazione del piano territoriale comprensoriale di cui alla sezione II, titolo II, della L.R. 15 aprile
1975, n. 51” (art. 2, c. 7); ma è oltremodo noto l’inglorioso prepensionamento dell’istituzione intermedia
dei comprensori, i cui piani già sul finire degli anni Settanta avrebbero senz’altro rappresentato la scala ottima per il governo del consumo di suolo agricolo e dei processi insediativi, ma la cui abolizione in assenza
di riferimenti di piano regionale ha generato l’apoteosi della sola scala comunale fino alla situazione fin qui
descritta, con difficoltà sanabile ora dalla pianificazione provinciale (che, oltretutto, se non fosse stata concepita fin dal 1990 negli artt. 14 e 15 della legge nazionale 142 e rafforzata dall’art. 57 del D.Lgs.
112/1998, non si sarebbe moltiplicata con le sole volontaristiche forze del decentramento amministrativo);
e) infine, l’opportunità del monitoraggio delle attività agricole in funzione “dell’accertamento da parte del
sindaco dell’effettiva esistenza e funzionamento dell’azienda agricola” (art. 3, c. 2, lett. b): se, già negli anni Ottanta, le condizioni del settore primario e delle sue risorse fossero state osservate in via continuativa
non solamente sotto il profilo socio-economico ma proprio nell’ottica della partnership città/campagna, verosimilmente le Linee generali di assetto del territorio lombardo agli anni 2000 non avrebbero così accentuato la trilogia di rischio “suolo/ambiente/paesaggio, mobilità, città” e non avrebbero segnalato la necessità di “tenere sotto controllo i processi e gli effetti che ne derivano mediante indagini specifiche che, attraverso l’individuazione di opportuni indicatori territorialmente disaggregati, producano mappe articolate
dei livelli di rischio e attivino strumenti di monitoraggio”.
3. Non sembra dilazionabile più oltre5 la costruzione di pratiche urbanistiche a base territoriale: a partire, cioè,
da quello spazio urbano-rurale “complesso”6 in cui salvaguardare le componenti fisiche “contrattualmente” più
deboli e, nondimeno, imprescindibili risorse per il mantenimento di elevati livelli di complessità ambientale del
“sistema territorio”, giacché il binomio “crescita” e “diffusione”7 (che ha contraddistinto l’evoluzione urbanistica del paese negli ultimi decenni) ha ormai raggiunto la soglia dell’insostenibilità.
Se, per puro principio, negativo non sarebbe l’avvenuto riequilibrio dei pesi insediativi tra città centrali e reti di
centri minori, tuttavia le modalità attraverso cui il processo è avvenuto sono state sostanzialmente dettate da di4
Ho identificato l’intero apparato analitico occorrente per la valutazione dello spazio rurale nella Variante generale del
Prg di Cusago per le zone agricole (cfr. Paolillo, 1995).
5
La parte iniziale di questo capitolo è tratta da una rielaborazione dello scritto di Paolillo P.L., “La sintesi del piano: le ragioni dello spazio rurale e il processo di riorganizzazione urbana”, in Aa. Vv. (1997), Gli interessi agricoli nella pianificazione del territorio, Quaderni Accademia dei Georgofili, Firenze, pp. 39-124.
6
Turco, 1988; Borachia e Paolillo, 1993.
7
La smisurata “crescita” del patrimonio edilizio, assai diversificata per funzioni e tipologie e talvolta necessaria per rispondere al degrado, al sovraffollamento urbano, ai processi migratori, all’atomizzazione dei nuclei familiari, alle esigenze
dei settori produttivi, si è tuttavia realizzata quasi esclusivamente mediante un’accentuata “diffusione” insediativa individuabile alla macro-scala nei bacini della “terza Italia” a prorompente capacità economica piuttosto che, a livello locale, attraverso un generalizzato traboccamento della produzione edilizia dai nuclei urbani storicamente consolidati verso un nuovo “spazio rurale urbanizzabile”.
namiche emergenziali, improgrammate e spontaneistiche, lasciando che l’armatura urbana consolidata espellesse fuori dal suo organismo molte contraddizioni irrisolte e contagiasse spazi fin’allora dedicati solo alla produzione agricola e in qualche modo esenti dal “malessere-città”: un vero e proprio meccanismo ingovernato, che
non ha certo contribuito a costruire una rete più efficiente di centri minori, e oltretutto in presenza di un modello di crescita che sembra più aver seguito la linea di minor resistenza e maggior rendita fondiaria a favore di
privilegiati attori sociali8 che non piuttosto le indispensabili pratiche progettuali a base territoriale per il governo dello spazio urbano/agricolo9.
Uno dei temi, su cui più d’altri la presa di coscienza è indifferibile, riguarda proprio le fattezze fisiche insediative generate dai molti processi di controurbanizzazione, disurbanizzazione, crescita periferica convulsamente
accavallatisi nell’ultimo ventennio; e non si può qui concordare con coloro che rinvengono − nei brandelli di
costruito che segnano in modo pervasivo periferie metropolitane, così come valli appenniniche o litorali − i
connotati virtuosi di uno spontaneo mutamento assecondabile.
Ma tali accadimenti al territorio italiano non rappresentano che il portato di un negativo clima culturale di lunga
data, in cui s’è incuneata una serie di fattori ancor più ostativi; proviamo a isolarne alcuni (pur in un tentativo
episodico e campionario).
Innanzitutto la categoria analitica “territorio” ha subito una ri-connotazione da parte di discipline (come
l’economia regionale o la geografia economica) che nei loro perimetri operativi, strumentali alla legittimazione
della fase “spontanea” della crescita produttiva, l’hanno implicitamente considerato come il supporto spaziale
(muto e indefinitamente flessibile e ricettivo) delle necessità insediative e come bacino di risorse insediabili; si
è fatta pertanto strada nel dibattito una posizione che ha visto la dimensione urbana (sede classicamente “deputata” allo sviluppo economico e produttivo e all’emancipazione sociale) prevalere sulle ragioni dello spazio rurale determinando una serie di politiche nazionali di stampo keynesiano che, privilegiando i grandi e diffusi interventi infrastrutturali, hanno per contro costantemente rinviato nel tempo il riordino del comparto primario e
di conseguenza l’equa considerazione dei suoi addetti e del suo capitale fisso sociale e ambientale; e, così, la
prevalenza delle funzioni urbane nella considerazione della risorsa suolo come serbatoio espansivo edilizio e
infrastrutturale è andata accrescendosi nel tempo, generando quella mancata interazione tra tutela della risorsa
suolo e razionale e pianificata crescita urbana che, oggi, si esprime nell’attuale permanenza del conflitto tra usi
multipli del suolo.
4. Piace qui ricordare il Gutkind dell’immediato dopoguerra (1950a, 1950b) che denunciava la grave compromissione cui il territorio andava incontro insistendo perché si pensasse e agisse in termini di compatibilità tra
esigenze umane e risorse naturali e, nel privilegio della nozione di limitatezza, rivendicava un’accezione di territorio tesa piuttosto a far intravvedere il valore collettivo e inalienabile del suolo e degli ambienti; e, per dire di
Luigi Piccinato, già nel 1952 “quella di oggi è dunque l’epoca della pianificazione tendenziosa a gruppi. Tutti
pianificano: fanno i loro piani le città; gli enti pubblici, le società private; i vari ministeri, i comuni, le provincie, le bonifiche e le ferrovie; i magistrati delle acque e i provveditorati alle opere pubbliche; le grandi industrie e la sanità, ma tutti distaccati gli uni dagli altri, spessissimo in lotta feroce tra loro”.
In effetti, anche i più qualificati piani già dal dopoguerra cominciavano a piegare gli interessi agricoli agli aggregati urbani, come nel caso di Reggio Emilia10 dove [“questi nuovi sviluppi (di superficie coltivabile, n.d.a.)
avranno un riflesso diretto sulla città in quanto richiederanno un notevole impiego di manodopera e favoriranno così il fissarsi alla campagna delle eccedenzr di popolazione attiva dovute agli incrementi demografici”] o
in altri casi dove lo spazio rurale diviene un puro accessorio del “viver sano” della popolazione urbana (talvolta
8
Sembrano emblematici in questo senso, nelle politiche di riequilibrio territoriale, i tanti esempi di sovvenzioni pubbliche
ad aziende (ormai ai bordi del mercato) per dismettere le aree urbane, che si sono trasferite in ambiti di cintura metropolitana in termini del tutto ingovernati e senza un piano che definisse criteri e compatibilità di lungo termine; d’altra parte le
amministrazioni dei centri minori, vincolate a un’ancora solida “ideologia della modernizzazione”, hanno gareggiato per
accaparrarsi sia gli impianti produttivi che la residenzialità connessa, in termini del tutto municipalistici e senza verificarne
le coerenze complessive. A proposito del particolare nesso “periurbanizzazione/politiche territoriali”, cfr. l’intero volume
di Boscacci, F. e Camagni, R. (1994); ivi, tra gli altri Camagni, R., “Processi di utilizzazione e difesa dei suoli nelle fasce
periurbane: dal conflitto alla cooperazione tra città e campagna”; Magnani, I., “La rendita fondiaria nelle fasce periurbane: modelli interpretativi”; Paolillo, P.L., “Contenimento degli sprechi e qualità morfologica territoriale, una correlazione inseparabile”.
9
In tal quadro, dove la gerarchia della configurazione spaziale sembra non esser più riconoscibile e dove quindi è impossibile definire priorità di sorta dovendo tutte le pulsioni soddisfare, le scelte delle politiche spaziali non sembrano operabili
secondo i criteri classici di efficienza ed efficacia, ma piuttosto secondo il modello che Tarrow (1979) denomina “distributivo-clientelare”.
10
Del 1950, autori Albini, Castiglioni e De Carlo.
avvicinandosi molto alle teorie razionalistiche), né riuscì a divenire lezione generale il noto piano di Assisi11,
magistrale lezione di strumento complesso conseguente all’invocazione “totalista” di Piccinato - dalle colonne
di Urbanistica - in occasione dell’evento del Polesine del ‘5212.
Cominia a delinearsi qui l’esigenza di una pianificazione d’area vasta, per tutelare le risorse finite e individuare
le compatibilità tra intenti, disponibilità economiche e assetto naturale, e del resto ben lo chiariva Astengo nel
‘53 sul periodico dell’Inu: “la mancanza di una pianificazione territoriale incide talmente sulla vita della nazione da produrre in breve volgere di tempo alterazioni profonde al volto del territorio”.
Senz’altro non si può non riconoscere che, subito dopo l’evento bellico, gran parte del dibattito e delle modalità
progettuali trovassero una qualche fondata giustificazione “ricostruttiva” ma, anche in quell’occasione, qualcuno avvertiva l’esigenza di riconoscere un ruolo preminente alle risorse finite e al suolo agricolo: ancora la straordinaria figura di Astengo - dalle colonne di Urbanistica che egli dirigeva - aveva cominciato a intravvedere il
problema di un territorio sempre più compromesso (è del 1946 lo scritto13 significativamente intitolato “Agricoltura e urbanistica”, dove veniva presentata una procedura di ricerca sulle relazioni tra insediamento umano e
produzione agricola come misura della capacità dei suoli di alimentare la popolazione residente in termini di rese produttive, principio applicato poi nel concorso per il piano regolatore di Torino14); e successivamente, proprio Astengo (1949) si chiedeva se, per la tutela delle risorse finite, fosse ancora utile e appropriato riferirsi alla
nozione di “urbanistica” − ormai inadatta a esprimere le sopravvenute esigenze di coordinamento a scala vasta
− o se non occorresse piuttosto rifarsi al più appropriato concetto di “pianificazione territoriale”.
Si trattava tuttavia di voci risonanti in un deserto, e il comportamento delle amministrazioni non faceva ben
sperare che si innescasse quel doveroso processo di auto-tutela, rispetto, affezione, identificazione nei propri siti, alla cui assenza qualsivoglia legge avanzata diviene inutile; né sarebbe stato possibile appostare un tutore
della legge dietro ogni dispregiatore dell’ambiente (e lo faceva rilevare proprio Mario Labò in occasione del IV
congresso Inu di Lucca, denunziando lo scarso interesse degli italiani per la natura, oltre a quella cassandra incisivissima rappresentata da Antonio Cederna15), né non si può dire che rimanesse silente l’alta cultura urbanistica dell’Inu: sulle pagine d’Urbanistica è molto vivo il dibattito sulla pianificazione regionale, ancora Labò
nel congresso di Lucca propone d’estendere la concezione di “bellezze naturali” anche agli spazi dell’intervento
antropico (nell’implicito che i loro valori “economici” debbano essere governati insieme a quelli “fisici”) mentre Eduardo Vittoria pensa a una sorta di paesaggio-integrazione dello spazio fisico con le attività umane, riplasmato da secolari e accorte antropizzazioni, che Ludovico Quaroni rivendica con forza dover essere censito e
pianificato a livello nazionale (il che avrà luogo solo a distanza di trent’anni, in forza della legge “Galasso”
431/1985).
Sono gli anni della crescita forsennata e dissennata, i famigerati anni ‘60 del nefasto Progetto ‘80, gli anni della
formazione di un’eredità assai poco goduta: il lavoro della “Commissione d’indagine per la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico, archeologico, artistico e del paesaggio”16 che, ancorché allora disatteso, se fosse
stato riesumato vent’anni dopo e avesse presieduto nel 1985 alla stesura della “legge Galasso” avrebbe
senz’altro mostrato la sua straordinaria contemporaneità, riuscendo a orientare il legislatore e gli intervenuti
piani regionali paesistici più della politica da “cento fiori” che ogni Regione s’è poi inventata.
Il resto della vicenda è cosa nota, dal dissesto di Agrigento alla “legge ponte”, dal decreto sui servizi pubblici
alla ”legge Bucalossi”, dal contenzioso innescato dalle regioni sul trasferimento dei poteri ex art. 117 Cost. fino
al travisamento legislativo dell’ineffabile Nicolazzi, dal XV congresso dell’Inu del 1977 su “Agricoltura e go-
11
Approntato da Giovanni Astengo nel 1958.
“L’attuale catastrofe è l’esempio probativo di una non-pianificazione. Piani parziali hanno presieduto fino a oggi alle
arginature, alle bonifiche, alle strade, all’agricoltura: ma se il problema fosse stato affrontato attraverso il generale coordinamento di tutti i suoi fattori a mezzo di un piano totale, coordinando il rimboschimento, il tema idraulico, le industrie, gli insediamenti umani (...), non saremmo giunti a tanto disastro”.
13
Con Mario Bianco.
14
Del 1947, concorrenti Astengo, Bianco e Rizzotti.
15
Sul Mondo di Pannunzio prima, e successivamente sull’Espresso, con titoli come “Boria italica ed esempi stranieri”,
“La riprovazione internazionale: inefficienza e complicità di politici e amministratori”, “Un’isola che si autodistrugge:
l’analfabetismo urbanistico raddoppia la popolazione”, “Da Tarquinia a Gaeta, 330 chilometri di mare in gabbia: le micidiali previsioni urbanistiche dei comuni” (Cederna, 1956, 1965 e 1975).
16
Attiva nel 1966 in forza della legge 310/1964, presieduta dall’on. Franceschini e formata - oltre che dai parlamentari - da
figure come Giovanni Astengo, Feliciano Benvenuti, Massimo Severo Giannini, Mino Maccari, Massimo Pallottino, Carlo
Ludovico Ragghianti.
12
verno del territorio” ad alcune (poche) convincenti leggi regionali17: in buona sostanza, una vicenda in discesa18.
17
P. es. la piemontese “legge Astengo” del 1977 o la lombarda 93/1980 recante “Norme in materia di edificazione delle
zone agricole” (v. alcune riflessioni in Paolillo, 1986a).
18
Talmente in discesa che nel piano di fattibilità del Progetto finalizzato Ipra (“Incremento Produttività Risorse Agricole”)
avanzato dal Cnr al Cipe (cfr. Cnr, 1982, in part. pp. 227-236) l’allarme scientifico risultava tale da indurre lo stesso Cnr
ad attivare un’apposita Area-problema di ricerca (n. 2.4.: “Interazione e competizione dei sistemi urbani con l’agricoltura
per l’uso della risorsa suolo dal punto di vista economico, sociale, ambientale”). Poiché chi scrive aveva esteso nel 1981 il
programma dell’Area-problema 2.4. con Ennio Galante (divenuto poi direttore del Sotto-progetto 2, “Il sistema agricolo
forestale: analisi e proposte di rimodellamento”), è di qualche utilità riproporre nel seguito nel seguito integralmente un
testo che altrimenti rimarrebbe sepolto negli archivi del Cnr e che oltretutto risulta sorprendentemente attuale anche ventidue anni dopo.
1. Programma dell’Area-problema 2.4. del Progetto Finalizzato Cnr-Ipra
1.1. Motivazioni della scelta dell’Area-problema
Com’è noto, il rapporto città-campagna (o, meglio la dicotomia aree forti/deboli) ha subito - nel quinquennio ultimo - una
consistente evoluzione concettuale e soprattutto due aspetti rilevanti hanno subito un chiarimento e una definizione “avanzata”: quello urbanistico e, dato di non poco conto, quello economico-pianificatorio.
Per il primo, che a partire dalla formalizzazione della disciplina si è connotato in termini pressoché totalmente ediliziourbani (con tutti gli atteggiamenti d’uso conseguenti nella valutazione delle aree libere - urbanizzabili o comunque produttive agricole - che hanno subito uno spreco crescente al di là di qualunque effettiva necessità), il Congresso Inu di Roma del 1977, dedicato appunto alla questione del territorio dell’agricoltura, ha sancito un fondamentale salto di qualità;
in sintesi, è possibile affermare che ora, nella teoria urbanistica, dovrebbe prevalere il principio di “aree agricole = risorsa fisico-produttiva” da pianificarsi con attenzione pari a quella assunta nella valutazione della risorsa patrimonio edilizio o della risorsa servizi o del complesso delle altre risorse, la cui valutazione è preliminare nel processo di pianificazione urbanistica; l’urbanistica, cioè, non dovrebbe più solo configurarsi secondo quella nota definizione della Corte Costituzionale come “disciplina dell’assetto e dell’incremento edilizio del territorio” ma diviene il modo organizzativo e gestionale dell’intero territorio in tutti i suoi aspetti spaziali, fisici, produttivi, con pari dignità progettuale per tutte le componenti del modello territoriale in atto o in tendenza.
L’altro aspetto evolutosi è quello economico-pianificatorio: l’aspetto cioè costituito dall’intreccio della programmazione
economica per settori produttivi con la pianificazione territoriale di vasta scala, soprattutto alla luce del nuovo quadro
legislativo delle regioni ordinarie; il rapporto nascente tra piani comprensoriali, intercomunali, di comunità montana e
piani zonali agricoli (che sovente presentano analoga perimetrazione amministrativa) ha permesso in taluni casi esaminati di riscontrare un differente atteggiamento, molto più razionale e tutelatorio nei confronti della risorsa-suolo, a cui è stato assegnato un valore di redditività economica non secondo il vecchio modello di prevalenza urbana ma distribuendo
funzioni e destinazioni nei limiti delle vocazioni fisiche dei suoli, dei fabbisogni effettivi della struttura urbana, delle compatibilità tra usi urbani e agricoli.
Dal quadro emergente si potrebbe dire che sia il bagaglio concettuale di coloro che dovrebbero occuparsi in termini tecnici, amministrativi, gestionali della pianificazione sia il corpo di riferimento istituzionale, normativo, finanziario che dovrebbe organizzare una nuova valorizzazione dell’assetto agricolo nei suoi aspetti produttivi e territoriali potrebbero ora
permettere un razionale processo d’intervento.
E’ possibile affermare con qualche certezza - invece - che il dibattito concettuale e il diverso scenario delle norme non
hanno modificato sostanzialmente i modi del progetto urbanistico e le tendenze dell’irrazionale occupazione di suolo agricolo; anzi, a fronte della pervicace modalità di considerare l’intero complesso del suolo come “serbatoio per indifferenti usi urbani”, sta un forte decadimento contrattuale delle funzioni agricole che - soprattutto nelle aree metropolitane
nazionali - vengono pericolosamente assediate da un artato fabbisogno di aree urbanizzabili fino alla situazione, in molti
casi, di venire deprivate delle componenti essenziali per produrre: dal reticolo della maglia irrigua, modificato dalle espansioni edilizie, ai “minimi di massa” colturali sotto i quali l’azienda agricola diviene improduttiva.
1.2. I nodi attuali della pianificazione: spreco, scoordinamento, irrazionalità
Risulta difficile comprendere come, a fronte del quadro estremamente innovatore apertosi dopo il dibattito e sulla base dei
nuovi dispositivi legislativi regionali, il territorio dell’agricoltura risulti invece ancora una vera e propria area di riserva,
passibile di qualsivoglia operazione di piano che ne esautori le caratteristiche produttive, ecologiche, funzionali e ne mini
i potenziali insiti di riequilibro territoriale.
Da un’analisi forzosamente schematica e superficiale tre paiono le “crepe” che dimostrano come permanga una dicotomia pericolosa tra livello teorico-concettuale e prassi corrente dell’urbanistica. Innanzitutto, lo spreco: molti suoli extraurbani potrebbero essere preservati ai fini quali storicamente sono vocati (quelli dell’esercizio agroproduttivo) se invalesse - radicata e generalizzata - la pratica di ricercare all’interno del territorio già urbanizzato spazi e modi di risoluzione
del fabbisogno arretrato e tendenziale; si vuole dire, cioè, che - a esempio per il settore residenziale - il riuso edilizio e
urbanistico fornirebbe quote consistenti di vani e spazi fisici per una riorganizzazione di interi settori urbani, a copertura
consistente dell’emergenza pregressa: in questo modo la quantità di aree d’espansione si abbasserebbe notevolmente e
quelle comunque necessarie potrebbero essere localizzate a stretto margine e/o negli interstizi del tessuto preesistente,
senza sottrarre cospicue quote di suolo all’agricoltura.
5. Si tratta di un clima culturale che ha sicuramente condizionato la prassi di governo del territorio e il dibattito
disciplinare, da un lato lasciando ampi margini ai processi deregolativi, emergenziali, “d’eccellenza”, che vedono nella separatezza del progetto architettonico virtù taumaturgiche di riscatto dalla crisi urbana e, di conseguenza, dall’altro sminuendo l’importanza di costruire quadri di riferimento superiori; in tal modo è venuta a
sancirsi la fortuna dei grandi progetti d’architettura urbana i quali, garantendo tempi assai più rapidi
d’elaborazione e legittimandosi con più o meno consistenti meccanismi di negoziazione, hanno tuttavia generato una concezione di città e territorio come collezione di frammenti.
L’atteggiamento diffuso sembra pertanto essere quello per cui (negando credibilità e fattibilità a un progetto che
misuri le coerenze e le compatibilità dei singoli interventi in un quadro territoriale) si tende a invocare e giustificare interventi parziali, “puntuali”, presbiti, il cui ambito di efficacia è misurabile alla sola scala di prossimità:
tuttavia, per dirla con Borachia (1995), “la creazione un pò artificiosa di torri e obelischi” non basta a ridefinire le regole della ricomposizione dei tessuti informi che stanno obliterando la complessità dello spazio italiano.
Si evidenziano all’occhio del viaggiatore i nefasti effetti di quell’omologazione produttrice di vaste e generalizzate periferie, di una “edificazione dei frammenti”19, di processi urbanizzativi indubbiamente eccessivi, di inaIn secondo luogo permettere (o continuare a permettere), nonostante le non poche Regioni che hanno legiferato sulla pianificazione a scala intercomunale e comprensoriale, che ogni comune perpetui l’interezza del piano alla propria scala
collocandovi tutto il ventaglio delle funzioni ipotizzabili (soprattutto circa i settori produttivi, i servizi di grande livello, le
infrastrutture tecnologiche) significa ammettere la preminenza del livello comunale come una sorta di microcosmo in cui
tutte le funzioni debbano essere compresenti, fatto in sé negativo e da risolversi in virtù della pianificazione sovracomunale che senz’altro, interagendo coi processi di programmazione economica, permetterebbe la definizione delle localizzazioni appropriate contemperando ai fabbisogni urbani e alle “tipicità” agricole, e assegnando anche a queste ultime la più
consona dotazione di residenza e servizi per riqualificare i livelli di vita e di lavoro.
Infine, terza “crepa” l’irrazionalità: produttiva innanzitutto, visto il fatto che - a fronte dell’attuale deficit agroalimentare nazionale - le sedi pubbliche non si ritengono incentivate a una tutela rigorosissima del principale fattore produttivo agricolo (il suolo) insieme al capitale, economico e ambientale, connesso (acque, strutture, infrastrutture, ma anche un’irrazionalità tutta locale, tesa a ottimizzare profitti e rendite edilizie in un’ottica di resa immediata
dell’investimento urbano e in un disinteresse totale per le diseconomie e gli squilibri indotti, che inevitabilmente sono creati in tale situazione.
Se questa è la situazione invalente su gran parte dei suoli nazionali (ovviamente, escludendo la dimensione della marginalità o gli spazi dove la pressione urbanizzativa non ha ancora raggiunto i suoi livelli aberranti), consegue una ben misera
identità del territorio agricolo i cui addetti - pur non costituendo più lo storico serbatoio di manodopera urbana, in quanto il grande drenaggio si è compiuto negli anni ‘70 - risentono di uno stato d’insicurezza (civile e produttiva) particolarmente accentuato.
1.3. Necessità di un nuovo modo di pianificare
E’ verosimile ritenere che nel tempo breve la situazione tratteggiata non abbia grande capacità autonoma di modificarsi:
sia perché i processi economici di marca urbana assumono ancora grandissima forza contrattuale su quelli agricoli, determinando di conseguenza molta parte degli “ingredienti” degli strumenti urbanistici, sia perché il processo di comprensorializzazione e coordinamento sovracomunale cozza contro anomale resistenze, a livello nazionale ma anche nelle stesse Regioni che ne hanno legiferato l’istituzione, sia infine perché l’irrazionalità esistente presuppone modifiche fortemente
strutturali.
E’ d’altra parte necessario indagare sui presupposti di tale situazione descrivendo il quadro delle contraddizioni e le costanti presenti: solo da tale conoscenza paiono formulabili proposte teoriche e tecniche di contenimento e controllo di
quegli aspetti più macroscopicamente inibitori della potenzialità agricola a partire dalle pressioni urbanizzative, ipotizzando quindi le seguenti tematiche di ricerca:
a) scelta di Regioni campione in cui le aree metropolitane costituiscano un fattore deterrente per l’assetto agro-colturale;
b) scelta di aree-campione a livello sub-regionale; c) lettura delle tendenze economiche di uso-spreco di suolo agricolo;
d) enucleazione dei perimetri-campione sovraccomunali per un’indagine approfondita sul sistema della pianificazione urbanistica riferito specificamente al trattamento del suolo agricolo; e) enucleazione del modello in atto del trattamento del
suolo agricolo, delle pressioni urbanizzative, degli esiti specifici di condizionamento e/o isolamento del settore primario a
causa della pianificazione urbanistica; f) formulazione del quadro delle ricorrenze e definizione di principi generali per la
pianificazione del territorio agricolo; g) ricognizione del trend quantitativo del trasferimento d’uso e valutazione del rischio economico determinato dalla mancata produzione primaria nel modello economico; h) studio di modelli
d’intervento per frenare lo spreco di suolo agricolo.
19
Sernini (1996); se ne veda tra l’altro a p. 138 in nota: “più che fare la città, si stanno costruendo nei centri medi e medio-grandi tre-quattro simultanee parti di città: 1) il centro storico; 2) il centro direzionale, a volte anulare e tangenziale,
sia poi San Benigno a Genova colla torre come Part Dieu di Lyon, o sia il motel e l’ipermercato fuori Mestre; 3)
l’insediamento periferico del dopoguerra, quando è il caso allietato da nuovissimi shopping center che mimano una ‘main
street’ della quale non vi è luogo a parlare in Italia; 4) l’insediamento sparso di area metropolitana, appoggiato o meno
ai piccoli paesi, e per fruire del quale è obbligatoria l’automobile, e magari il sognare California, senza pensare che lo
dempienze constatabili rispetto alle alternative, possibili e praticabili, dell’intervento sugli spazi incerti della
transizione urbana/non urbana, dove assai scarse sono state le iniziative specificamente finalizzate a saturare la
maglia esistente, altrettanto insufficiente il recupero delle potenzialità collegate alla dismissione o al sottoutilizzo di molti tessuti urbani, egualmente scarsa l’intenzione di riammagliare le incompiutezze dei margini periferici e degli spazi diradati.
Al contrario, si è assistito a molta nuova ingiustificata espansione insediativa, col risultato quasi unico (in Europa) di inammissibili sprechi di ottimo suolo agroproduttivo e di rigenerazione ambientale: e allora, nella constatazione di un’ineludibile necessità di salvaguardia ambientale, sembra proprio il caso di assumere un altro tipo di prospettiva strategica, verso una dichiarazione di perennità (e quindi di innegoziabilità) − all’interno dei
piani provinciali, soprattutto − dei grandi bacini spaziali agricoli, delle infrastrutture di bonifica e di riordino
fondiario, delle opere e dei paesaggi che le geografie europee conservano così orgogliosamente, e che per contro in questo paese rappresentano la riserva inesauribile della periferizzazione dequalificata.
6. Possiamo allora concludere che i modelli urbani, uniformatori del paese nell’ultimo trentennio, possono generalmente includersi nella “diffusione insediativa” (anche se i tessuti ambientali a cui hanno dato luogo sono
stati definiti in termini differenti sia in ragione delle loro molteplici declinazioni locali sia per i differenti giudizi di valore attribuibili: “città diffusa”, “campagna urbanizzata”, “ville éparpillée”, “ville sans cité”, “spread
city”, “sprawling”, “exurbia” e così via); al di là delle sfumature nominalistiche li accomuna il fattore-densità,
prevalentemente molto basso alla mesoscala e nelle configurazioni locali; oltretutto negli Stati Uniti, dove ha
più avuto modo di realizzarsi, l’utopia squisitamente piccolo-borghese del suburbio residenziale a bassa densità
(Sernini, 1996) è da tempo oggetto di ripensamento (p. es. Fishman, 1987) e le inefficienze del modello insediativo diffuso sono state individuate già dal 1974 dalla Real Estate Research Corporation20 (“assumendo come costante il numero di insediati, lo sprawl è la forma più costosa di sviluppo residenziale in termini di costi economici, costi ambientali, consumo di risorse naturali e molti tipi di costi personali”); anche l’American
Planning Association (Easley, 1990) ha ammesso che “i pianificatori sono giunti alla conclusione che occorrerebbe istituire dei confini urbani in modo da preservare gli spazi aperti ed evitare la peste dello sprawl, un
modello che, da un’analisi comparata della letteratura, implica un costo di capitale per strade, servizi e scuole
del 50% più alto di un modello residenziale equivalente di case unifamiliari contigue”; considerazioni tanto più
importanti, oltretutto, se ricondotte a un paese come il nostro dove la rete di centri urbani storicamente consolidati non è solo custode di una memoria storica incorporata in architetture, percorsi, atmosfere, scenari, forme
peculiari ma rappresenta soprattutto l’espressione di un’identità locale, di particolarissime specificità e di diversità molteplici che trovano ragione nell’evoluzione dei popolamenti locali e mediante il cui ascolto è possibile
progettare luoghi riconoscibili: il modello insediativo diffuso nega tali connotati personali, facendo prevalere i
caratteri delle singole funzioni sulla trama insediativa preesistente, la standardizzazione delle tipologie costruttive e la banalità delle morfologie urbanistiche moderne sulla varietà, il disordine della casualità sulla creatività
profonda delle forme di autorganizzazione dei luoghi.
Soprattutto, queste dinamiche manifestano tutto ciò che in altre occasioni abbiamo denunziato come “spreco”,
termine con cui può definirsi quel cattivo e/o improprio uso di una risorsa limitata e irriproducibile in presenza
di alternative disponibili e operabili (Paolillo, 1988; Borachia e Paolillo, 1993) e che, nel nostro caso, si materializza sia nell’uso indifferenziato delle risorse fisiche del territorio sia, a monte, nella configurazione del sistema decisional-politico laddove stabilisce gli scopi senza tenere conto dei mezzi, ovvero “fa politica” senza
fare amministrazione.
7. Sembra qui opportuno riconoscere come i modelli insediativi attuali siano contrassegnati da caratteri “acentrati”, che contribuiscono fortemente a ingenerare lo spreco di suolo (ossia quel sovraconsumo cui sia invece possibile offrire modalità organizzative e forme localizzative differenti, pur nell’ambito dei processi di decentramento insediativo, giacché “decentramento” non può voler dire − com’è invece accaduto − diffusione incontrollata, generalizzata e indifferenziata, ma piuttosto individuazione delle differenti cariche potenziali dei
nodi e ambiti della rete su cui convenga dislocare quote insediabili aggiuntive); e, dunque, il carattere dell’Italia
pianeggiante e collinare divenuto sostanzialmente a-centrato appare manifestare con evidenza quanto sia mancato un efficace governo del territorio in grado di riconoscere e mantenere un’armatura storicamente centrata
stile americano si volge su un territorio che, a fronte di una popolazione quattro volte quella italiana, è vasto trenta volte
l’Italia, sicché per adottare l’insediamento di tipo americano occorrerebbe che l’Italia fosse grande almeno sette volte
quello che è. Nessuna di queste cose è città”.
20
Cfr. Presidenza del Consiglio dei Ministri, 1996.
nella sua gerarchia insediativa, per gestire e organizzare proficuamente le addizioni insediabili in un’ottica di
conservazione e tutela agro-ambientale.
In verità, la progressiva trasformazione territoriale ha avuto luogo quasi come se il centro fosse assente: centro
come espressione di storia insediativa, centro come nodo di armatura territoriale, centro come metafora di un
principio ordinatore condivisibile, forte e in grado di avvalersi di espliciti “limes” di salvaguardia dello spazio
rurale in nome collettivo (Borachia, 1993), contrapponendosi ad assetti a-centrati come sinonimo invece di processi diffusivi incontrollati, di spreco del territorio, di privilegio della sola e insufficiente pianificazione comunale, d’indifferenza all’armatura storica consolidata o, infine, d’inadeguata risposta a una domanda di piano attenta ai valori dell’ambiente.
Ed ecco allora emergere il livello sovraccomunale di piano, per gestire il conflitto urbano-agricolo
nell’individuazione delle località centrali dove programmare la disponibilità di suolo in funzione della pur necessaria crescita urbana, dove localizzare alternative insediative rispetto all’attuale inaccettabile e indifferenziata diffusione insediativa, dove impedire l’irresponsabile (o responsabilmente egoista) spreco di una risorsa limitata e irriproducibile come è lo spazio rurale, dove infine esprimere il governo ambientale sostenibile nel “momento di sintesi” del piano.
Ma tale sintesi è fattibile solo se, una volta rappresentate le ragioni dello spazio rurale, sia stato all’un tempo
innescato anche un processo di riorganizzazione urbana atto a risolvere le molteplici contraddizioni insediative
“all’interno” dell’armatura preesistente; laddove non sia stata avvertita tale necessità, e non sia stato elaborato
un progetto di contenimento dei “limes”, e la città non si sia dimostrata sensibile a verificare la sostenibilità a
medio-lungo termine degli interventi urbanistici in direzione della riconquista di un modello (locale e spaziale)
“centrato”, continueremo ad assistere alla perpetuazione degli attuali fenomeni di diffusione insediativa, indifferenziata nelle sue tipologie e forme d’uso e condizioni strutturali e indifferente alle componenti fisiche: una
vera iattura quasi a un punto di non ritorno, perlomeno nel paese in cui viviamo.
8. Non sono, quelli che finora abbiamo espresso, allarmi di poco conto né posizioni personali valide al pari di
altre di segno opposto nell’infinita babele delle opinioni divergenti: il nodo della diffusione insediativa viene
posto all’attenzione dei governi e delle loro politiche territoriali già nel “Libro verde sull’ambiente urbano”
1990 dell’Unione; è poi del 1994 lo “Schema di sviluppo dello spazio europeo” (il cosiddetto “Europa 2000
+”) in cui s’invocano “misure volte a combattere l’urbanizzazione delle aree rurali” e a “preservare gli spazi
liberi vicini alle aree urbane”, e il “Documento di Lipsia” indica fra gli obiettivi prioritari l’esigenza di “evitare
la diffusione urbana, la dispersione degli insediamenti e le densità urbane molto deboli, che aumentano la dipendenza dall’automobile (e dunque l’inquinamento atmosferico), esercitano una pressione sulle zone rurali e
gonfiano la spesa pubblica per investimenti sociali e culturali e per la gestione delle infrastrutture” (Comitato
di Sviluppo Spaziale della Ue, 1994).
A conferma del fatto che il rapporto tra l’insediamento urbano e il suo intorno spaziale sia assurto al rango di
questione emergenziale nelle politiche territoriali europee (anche in rapporto al tema paradigmatico della sostenibilità ambientale), si ricordi che uno degli assunti-obiettivo è dato dalla nozione di “città compatta”,
anch’esso identificato nel “Libro verde sull’ambiente urbano” del 1990 sulla scorta di precedenti esperienze di
alcune città del nord Europa, particolarmente olandesi e danesi, e ulteriormente approfondito in documenti comunitari successivi.
Il tema della città compatta introduce nell’immediato l’indispensabilità di programmare processi di riorganizzazione urbana che assumano prioritariamente il contenimento del consumo di risorse territoriali, ormai già ampiamente compromesse dalla diffusione insediativa ben oltre la sola dimensione metropolitana, in maniera da
ridurre al contempo i consumi energetici e idrici e i costi di trasporto, insieme a un’attenuazione dei processi di
specializzazione territoriale e di segregazione residenziale; la metafora della città compatta sembra dunque sintetizzare al meglio le tre opzioni strategiche del principio di sostenibilità: l’efficacia allocativa, l’efficienza distributiva e l’equità ambientale.
In un recente documento, elaborato per iniziativa della Presidenza del Consiglio dei Ministri, vengono esplicitati alcuni criteri da assumere nel progetto della città compatta: “una definizione netta del confine urbano/rurale,
che scoraggi processi di sprawl; una densificazione insediativa in corrispondenza degli spazi liberi o delle aree
dismesse presenti in città; una densificazione mirata in corrispondenza dei sub-centri esterni alla conurbazione
densa ben serviti dal trasporto pubblico e organizzati in senso reticolare e policentrico (il modello danese della
decentralized concentration); una diversificazione funzionale del tessuto urbano in queste nodalità compatte;
un decongestionamento della città centrale e una sua riorganizzazione in senso reticolare e policentrico a scala metropolitana”21.
L’urgenza della situazione, il livello del dibattito scientifico e gli assunti tecnico-operativi appaiono pertanto
ormai maturi per legittimare l’indispensabilità di un progetto di governo spaziale e ambientale complessivo:
a) necessario per ricomporre a sintesi territoriale sia i differenti interessi urbano/rurali sia le condizioni di efficienza e competitività di tutti i sistemi produttivi, quello agricolo compreso, in un contesto dove le contraddizioni ambientali sembrano giocare ruoli sempre più imprescindibili;
b) necessario per un governo del decentramento insediativo, che non potrà più configurarsi come sinonimo di
indifferente, casuale e generalizzata diffusione ma dovrà invece contraddistinguersi per l’attenta allocazione
delle componenti di crescita urbana in ambiti spaziali dove siano già in atto configurazioni territoriali locali,
radicate storicamente e in grado di ricevere meglio i nuovi insediamenti;
c) necessario per accentuare (quando non, addirittura, disvelare) il ruolo delle economie di scala costruendo
coerenti reticoli di cooperazione tra luoghi urbani e interazione sociale, salvaguardia delle componenti ambientali e fisico-naturali, efficienza del sistema produttivo agricolo;
d) in un’ottica di piano dove l’immissione di fattori razionali garantisca che non abbiano più luogo onerose
competizioni tra crescita urbana e spazio rurale e in cui, anzi, i) le sinergie tra tutte le componenti territoriali
vengano incentivate, ii) le sollecitazioni “localistiche” assumano un significato positivo di valorizzazione
della specificità delle diverse formazioni socio-territoriali (Bagnasco, 1985), iii) il livello di governo territoriale a scala provinciale sia posto in grado di valutare e indirizzare l’interazione delle scelte locali, iv) così
da fare in modo che la pianificazione ordinaria a scala locale possa assumere efficacia soltanto quando sia
stata concertata in un ambito di pianificazione d’area vasta, per individuare le coerenze delle singole scelte e
le loro priorità rispetto a obiettivi collettivamente riconosciuti e di cui venga valutata la fattibilità ambientale.
9. Tuttavia non è questo il tempo di slogan facili, del tipo “basta con le aree d’espansione”, “non occorre più
edilizia residenziale”, “la crescita del terziario s’è arrestata”, “l’assetto infrastrutturale è troppo denso”, per
concludere “eliminiamo le zone C e D inedificate, non prevediamone di nuove, le circonvallazioni non servono,
riorganizziamo il patrimonio edilizio esistente e il nostro piano regolatore è bell’e fatto, valoroso, ecologico e
condiviso”; e sì che − per esempio riguardo alle politiche abitative − dovrebbe essere maturata la coscienza che,
tranne un limitato segmento di “domanda opulenta”22, la produzione edilizia di massa23 ha abbassato talmente
gli standard qualitativi da generare a breve sacche (fors’anche consistenti) di nuovo fabbisogno residenziale da
“innalzamento dello standard”; oltre allo stock di produzione pubblica, che ha indotto stati di malessere tali −
sia per la stessa natura, qualità, consistenza di un cattivo prodotto sia per la cattiva urbanità dei siti derivanti −
da generare un’ulteriore piena di bisogni dove, se da un lato preme una spasmodica aspettativa di “sommersi”24,
d’altro canto occorrerà contemperare l’abbandono dell’edilizia popolare e l’ingresso nell’arcipelago proprietario non appena i redditi delle famiglie assistite si adegueranno minimamente.
Ma non solo le politiche abitative ci preoccupano: oltre al fatto che si trasformano i protagonisti della domanda
e i relativi modelli25, è l’accentuata arretratezza infrastrutturale italiana a pretendere immediate risposte, stante
il gap del 50% nei confronti di Belgio e Lussemburgo (e del 40% verso Germania e Francia, e del 20% rispetto
al Regno Unito), l’indispensabilità di colmare le lacune nell’ottica europea dei mercati26, “la strettissima dipendenza tra domanda di opere pubbliche e stato della finanza pubblica, nel senso che è quest’ultima a condizio21
Cfr. Presidenza del Consiglio dei Ministri (1996): il rapporto di Camagni trova origine nei lavori del Comitato di progetto della Fondazione Cariplo per la Ricerca Scientifica (composto per il coordinamento dallo stesso Camagni e da Boscacci,
e inoltre da Berni, De Carolis, Lechi, Magnani, Paolillo e Roccella), che ha organizzato il workshop (1993) “Processi di utilizzazione e difesa dei suoli nelle fasce periurbane: dal conflitto alla cooperazione fra città e campagna”; cfr. la sintesi
delle risultanze nello scritto di Camagni, R. (con lo stesso titolo) in Boscacci e Camagni (1994); ivi i contributi dei componenti del Comitato di progetto.
22
Dedicato alla produzione di un parco abitativo sofisticato che − proprio perché ha introdotto miti, riti, desideri
nell’immaginario collettivo (anche attraverso un uso accorto dei media, una sollecitazione di necessità superflue,
l’accensione di voglie per un modello residenziale estraneo) − pretenderà anch’esso ulteriori quote di prodotto edilizio da
“fabbisogno post-primario”.
23
Tutta incentrata sulla preponderanza proprietaria, col record addirittura europeo al 74% delle famiglie.
24
Dramma sul quale ancora non s’è ragionato abbastanza, quello degli immigrati slavi, africani, orientali.
25
Tesi all’apertura di un nuovo ventaglio quantitativo particolarmente frammentato, transitorio, repentino sovente e tale da
innescare vere e proprie “nuove filiere dei fabbisogni”. Si rinvia a un’ampia ricerca del Censis, che già nel 1994 evidenziava una nuova configurazione del bisogno abitativo.
26
Si veda nel merito l’indagine del Centro Studi Confindustria, Ecoter, già nel 1989.
nare le possibilità di effettiva espressione della prima, relegando l’analisi della domanda potenziale di opere
pubbliche a teorico esercizio economico e statistico”27, la conseguente messa in campo di risorse private che in
parte o in tutto si sostituiranno allo Stato nella realizzazione e messa a disposizione di quell’insostituibile bagaglio infrastrutturale che allineerebbe finalmente il settore all’Europa28.
Cominciano allora a delinearsi non poche pulsioni d’ulteriore consumo di suolo per via di attendibili nuovi processi urbanizzativi: i) quelle famiglie, già obbligate da un mercato unidirezionale ad accedere alla proprietà
dell’abitazione (e, in particolare, a un’abitazione sovente dequalificata per via della loro scarsa capacità
d’indebitamento), vorranno certo raggiungere migliori standard abitativi; ii) la moltiplicazione sia della “domanda opulenta” sia di quel particolare segmento di mercato tendente a by-passare il fattore spaziale come variabile dipendente localizzativa (a causa dell’affermazione di un nuovo policy maker particolarmente attento al
legame tra nuove professionalità terziarie, sistemi informativi avanzati e tele-lavoro residenziale) occuperà
anch’essa quote non indifferenti di mercato edilizio; iii) è particolarmente prevedibile un corposo turn over tra
immigrazione storica − che aveva animato e giustificato i quartieri operai della re-industrializzazione postbellica, in un afflusso tutto intranazionale sud/nord − e la recente immigrazione extra-europea: i redditi della
prima, assai prossimi oggi alla dimensione proprietaria, formeranno anch’essi nuove quote di fabbisogno residenziale; iv) occorreranno ulteriori dotazioni infrastrutturali: certo maggiormente calibrate sul passo tecnologico dell’adeguamento europeo, più fattibili sulla traccia dell’impulso privatistico, e per ciò stesso fautrici di ulteriore domanda di suolo urbanizzabile; v) da non sottovalutarsi come promotrici d’altra urbanizzazione (senza
con ciò pretendere d’aver esaurito la rassegna dei fattori urbanizzativi) quelle particolari e innovative forme di
concerto, che tendono sempre più spesso a coinvolgere fisionomie pubblico-private rappresentando così un indubitabile interruttore di successo nello sveltimento procedurale, nella trasparenza del contratto e nel raggiungimento di obiettivi che, nella usuale prassi urbanistica, sovente si disperdevano per strada.
10. Abbiamo visto quindi29 i molteplici stimoli a urbanizzare ulteriormente, peraltro del tutto ricomprensibili
dalla pianificazione provinciale, nel senso che apposite analisi quantitative (mirate all’identificazione del fabbisogno urbanizzativo insorgente), un ulteriore bagaglio di analisi qualitative (soprattutto di carattere fisicoambientale, geo-pedologico, economico-agrario, paesaggistico) e, infine, un’accurata modalità d’incrocio selettivo della base dati acquisita permetterebbero d’identificare: i) i saggi tendenziali della crescita provinciale; ii)
le quantità corrispondenti in termini di suolo urbanizzabile; iii) le risorse fisiche esistenti e i gradi di sostenibilità del relativo utilizzo; iv) la classificazione dello spazio provinciale in sub-bacini spaziali a differente propensione d’uso del suolo e delle risorse fisiche; v) l’identificazione degli ambiti spaziali di competizione/conflittualità tra usi multipli del suolo e delle risorse fisiche; vi) i modi ricompositivi di tali conflitti d’uso
identificando la gamma di opzioni possibili (nell’ottica della minor compromissione del patrimonio fisicoambientale), scegliendo le soluzioni ottime (in direzione del consumo minimo di suolo agricolo e della localizzazione delle aree espansive nella maggior prossimalità agli insediamenti preesistenti), indirizzando/prescrivendo soluzioni insediative di minima dispersività e massima compattezza morfologica, in termini
“centrati” rispetto all’armatura urbanizzata in atto30.
Se così si verificasse dappertutto, se cioè funzionasse una sorta di macchina deterministica (dalla scala provinciale a quella comunale; dall’individuazione sovraordinata delle quantità alla loro puntuale localizzazione spaziale; dalla normazione dei tipi morfologico-insediativi al loro disegno di dettaglio nello spazio comunale) e se,
quindi, la pianificazione provinciale effettivamente garantisse di assorbire l’oggi sovradimensionato ruolo del
piano comunale in un “progetto di lunga durata, riconoscibile e interpretabile nel tempo ma sempre individuabile come misura di compatibilità per i progetti parziali, settoriali e locali, per un sistema insediativo in evoluzione con obiettivi qualitativi elevati e affinabili”31, allora le nostre preocupazioni parrebbero eccessive; ma,
27
Cfr. Centro Europa Ricerche, “L’economia e il mondo delle costruzioni”, cit. in Censis (1994).
Del resto già si colgono iniziative in proposito, in particolare quelle particolari tecniche di finanziamento note come Project Financing (operabili a seguito di concessione combinata di costruzione e gestione per opere infrastrutturali, finanziate
attraverso anticipazioni pubbliche-private reintegrate con i flussi di cassa generati dalla gestione dell’opera realizzata).
29
Anche se soltanto per accenni, e certamente in una gamma non completa.
30
Tali nozioni sono state identificate tra l’altro in Paolillo (1992); un’applicazione particolarmente estesa all’area di pianura è contenuta in Paolillo e Prestamburgo (1994).
31
Così Borachia (1995a), p. 22. Inoltre ivi, a p. 23, si veda anche la particolare nozione di “semplificazione strategica” di
piano: “il governo di un territorio complesso, in una società complessa, richiede al contrario di quello che spesso si sostiene una semplificazione strategica delle azioni e dei meccanismi d’intervento, una loro limitazione e concentrazione su
quanto costituisce protezione e controllo della complessità stessa nei suoi aspetti attuali e potenziali; questo significa individuare le linee di un progetto permanente e aperto all’adeguamento richiesto dal mutare delle opzioni sociali nella loro
articolata configurazione”.
28
poiché la pratica della pianificazione provinciale non è per nulla consolidata (per lo meno in questa direzione) e
d’altra parte, come abbiamo considerato finora, comincia a insorgere nuova domanda urbanizzativa,
quest’ultima continuerà a impegnare la miope decisione comunale, l’angusta scala del piano regolatore generale, i delicati ambiti di quelle risorse fisiche (i suoli, i sottosuoli, le acque) che per loro stessa costituzione non
sopportano confine amministrativo alcuno.
In buona sostanza, non abbiamo nessun valido motivo per ritenere conclusa né l’epopea dello “spreco edilizio”
né la supremazia dell’urbanistica comunale né la catastrofe della disseminazione insediativa; ed ecco che il
“fardello localizzativo” delle innumerevoli sollecitazioni a urbanizzare − ossia “dove” individuare le zone C e
D nell’ambito di un territorio comunale − continuerà, ancora per qualche tempo, a gravare sullo strumento urbanistico locale.
2. La conoscenza e conservazione delle risorse fisiche: qualche caso applicativo
2.1. Il suolo agricolo nel comune lombardo di Cusago
1. Offriamo allora nel seguito degli spunti di percorso analitico (che abbiamo applicato in un comune lombardo
ad alta densità rurale32) per: i) ammettere alle impellenze urbanizzative consumi di suolo ammessi solo dove la
risorsa agricola non venga menomata33; ii) guidare l’analisi attraverso alcune procedure finalizzate che considerino l’interazione dei sottosistemi al contempo economico-agrario, geo-ambientale e paesaggistico; iii) ottenere
infine una classificazione dello spazio extra-urbano che indirizzi il decisore all’apposizione delle destinazioni
d’uso del piano34.
Assumiamo dunque che lo spazio rurale possa venir considerato assumendo come unità minima di rilevazione
l’azienda agricola; occorrerà pertanto qualificare l’indefinito concetto di vocazione agraria rispetto ai tipi produttivi, classificati per parametri agro-pedologici, economico-strutturali e morfologici; in altre parole, privilegiando lo stretto nesso insistente tra la nozione ampia di tutela dello spazio rurale e la salvaguardia
dell’integrità aziendale, intesa quest’ultima come insieme di risorse umane e strumentali finalizzate alla produzione e valorizzazione di risorse ambientali35.
Operando, quindi, sovente in bacini ad accentuata vocazione agricola e, al tempo stesso, ad accesa competizione tra le molteplici attività produttive intersettoriali, appare allora necessario riconoscere il quadro attitudinale
dell’azienda nella valorizzazione delle risorse di cui risulta pro tempore in possesso, anche al fine di massimiz32
Cfr. Paolillo, 1995.
Tale problema, particolarmente evidente nel Progetto finalizzato Cnr Ipra (“Incremento Produttività Risorse Agricole”),
è stato sviluppato in Borachia, Boscacci e Paolillo (1990); il rapporto tra “Tipologie dell’assetto territoriale e consumo di
suolo agricolo” è stato valutato da Paolillo in Martellato e Sforzi, 1990, e “Un’esperienza urbanistica di tutela delle risorse
fisiche e agricole: il caso della variante di Lodi” è in Tintori e Paolillo, 1990.
34
Così diviene necessario, proprio nelle operazioni di piano a scala comunale, preparare mediante indagine diretta e con estrema minuzia il “tavolo dei dati” strutturali e infrastrutturali per tutte le aziende agricole esistenti; garantire lo scenario
comparativo sovracomunale (per stabilire il grado locale rispetto ai più dilatati scenari territoriali); prescegliere e calcolare
indicatori, componenti e sub-sistemi di un modello agroproduttivo ridotto di complessità apposta per calcolarne la portata
(senza con ciò imbarcarsi in defatiganti indagini economiche, che spesso il pianificatore non può fare per ristrettezze di budget, ma più semplicemente effettuando le prospezioni indispensabili) e per classificarne il relativo spazio aziendale; percorrere le stesse procedure analitico-classificatorie per le macro-componenti geoambientale e paesaggistica; “chiudere il
cerchio” riconducendo tutte le porzioni di lavoro precedente in un unico quadro metodologico dove: i) il macro-modello
d’analisi territoriale ripristini le ragioni dello spazio agricolo; ii) vengano identificati i modi di ricerca d’un algoritmo risolutivo per il calcolo di tali ragioni; iii) venga allora pensato un modo per allestire conoscenza utile a effettuare tale calcolo;
iv) vengano quindi presentate alcune tracce per trattare la conoscenza ottenuta, vale a dire: v) scoprendo la quantità di correlazioni tra le tre macro-componenti identificate (assetto agricolo, geologico e paesaggistico); vi) identificando i caratteri
concettuali che - a partire dall’intensità di tali correlazioni - debbono contraddistinguere gli “areali attesi” (ossia quegli spazi sub-comunali di cui si avanza l’ipotesi di configurazione, dati i presupposti conosciuti); vii) aggregando le classi omogenee ottenute in rapporto al loro grado di corrispondenza agli areali attesi; viii) individuando infine in modo esplicito tali areali, dove il grado di “resistività aziendale” alla trasformazione urbanizzativa sia analogo e su cui pertanto risulti opportuno apporre analoghe destinazioni d’uso del suolo.
35
La scelta dei fattori di classificazione dipende strettamente dall’espressione di “giudizi di valore” dei suoli attraverso una
stima dell’azienda che li conduce, valutando il contesto aziendale derivante per dotazione di strutture, intensità degli investimenti fondiari permanenti, tipologia e stabilità organizzativa d’impresa, nonché quantità e qualità delle risorse naturali di
cui l’impresa stessa é dotata; in ultima analisi, è possibile concludere che le procedure classificatorie proposte non intendono agire sulle variabili “monetarie” o di bilancio dell’azienda agraria ma piuttosto sull’espressione della sua “resistività”
potenziale, garanzia per una maggiore continuità temporale in dipendenza del forte conflitto invalente sull’uso della risorsa
suolo da parte della pressione urbanizzativa.
33
zare l’utilità collettiva indirettamente garantita dal mantenimento dell’ambiente, dalla tutela del paesaggio produttivo, dalla stessa produzione di beni alimentari.
Assumiamo allora l’ipotesi che il modello di resistività potenziale dell’azienda agraria (nei confronti della pressione urbanizzativa e delle congiunture economico-politiche) possa venire utilmente ricavato dal calcolo delle
interazioni di cinque componenti relative a: 1. assetto socio-occupazionale, 2. produttività, 3. consistenza del
capitale agrario, 4. qualità fondiaria, 5. morfologia spaziale.
Consideriamo una procedura di ricerca articolata nelle quattro fasi di: 1. analisi (individuazione e calcolo degli
indicatori descrittivi che caratterizzano ogni componente considerata); 2. finalizzazione36; 3. gerarchizzazione
(classificazione dell’assetto strutturale aziendale e del grado di resistività delle unità produttive sulla base dei
risultati ottenuti dal duplice procedimento classificatorio); 4. rappresentazione dei risultati37.
La funzione di resistività aziendale (RA)38 assume una forma pari a RA = f(SO, P, CA, QF, MA), dove SO =
parametro socio-occupazionale, P = parametro della produttività aziendale, CA = parametro del capitale agrario, QF = parametro della qualità fondiaria, MA = parametro della morfologia aziendale.
In particolare, l’assetto socio-occupazionale (SO) è finalizzato a valutare la rilevanza sociale dell’azienda e
viene ottenuto sulla base di SO = f(Sa, Oa, Ti)/3, dove Sa = indicatore della stabilità aziendale, Oa = indicatore
dell’occupazione aziendale, Ti = indicatore della tipologia dell’impresa agricola39.
La produttività aziendale (P) è formalizzata come P = f(Pha, PU.L.)/2, dove Pha = produttività per ettaro, PU.L.
= produttività per Unità Lavorativa.
Il capitale agrario d’esercizio presente (CA) viene espresso dall’insieme dei capitali in dotazione al fondo e, in
particolare, dal capitale di scorta e da quello di anticipazione: il primo composto dai mezzi strumentali (le
“scorte morte”, macchine e attrezzi), dalle “scorte vive” (bestiame) e dai prodotti di scorta (foraggi, sementi,
ecc.), mentre quello di anticipazione comprende la liquidità necessaria per avviare i cicli produttivi in attesa dei
ricavi40; assumeremo pertanto la forma di CA = f(Da.c., Da.z.)/2, dove Da.c. = indicatore della dotazione di capitale strumentale “morto”, Da.z. = indicatore della dotazione di capitale strumentale “vivo”.
La qualità fondiaria dell’azienda (QF) concerne l’insieme di elementi concorrenti a determinare il grado
d’intensità del capitale fondiario aziendale per valore endogeno (corrispondente in buona sostanza alla qualità
pedologica dei suoli in conduzione) e gamma delle qualità esogene (come lo stato dei rapporti impresa36
Riparto del territorio rurale per aree omogenee applicando comparativamente due procedimenti classificatori, il primo dei
quali utilizza il trattamento “massale” dei dati elementari con una cluster analysis di tipo non gerarchico, mentre il secondo
richiede una riduzione per successivi passaggi della complessità del modello analizzato; in specifico, questo secondo procedimento contempla: 2.1. la collocazione di ogni indicatore descrittivo in tre classi sulla base della distribuzione statistica
dei dati osservati, delle prescrizioni normative e, infine, di suggerimenti in letteratura; 2.2. una successiva attribuzione a
ciascuna classe di un punteggio variabile da uno a tre (sulla base di valutazioni qualitative); 2.3. la formazione di un indice
sintetico di livello intermedio (per ognuna delle cinque componenti descrittive considerate), ottenuto dalla media aritmetica
dei punteggi degli indicatori compresi nel gruppo; 2.4. la formazione di un indice composito, ottenuto dalla media aritmetica degli indici sintetici di livello intermedio a maggiore significatività; 2.5. la classificazione gerarchica delle aziende, in
funzione dell’indice composito ottenuto, essendo stato verificato che i due procedimenti finalizzativi (di trattamento “massale” e di elaborazione algebrica), benché procedano parallelamente e autonomamente a partire da differenti approcci
d’origine, di fatto pervengono ad una classificazione delle aziende pressoché analoga: l’uno, quindi, rappresenta reciprocamente il momento di verifica dell’altro.
37
Espressione cartografica dei dati ottenuti sulla base di un percorso caratterizzato da tre distinti livelli: 4.1. “cartografia
descrittiva di base” (rappresentazione dei dati elementari o di livello empirico); 4.2. “cartografia classificatoria combinata” (basata su classi di combinazioni di più indicatori descrittivi); 4.3. “cartografia classificatoria gerarchica” (basata su
macro-indicatori compositi, gerarchicamente ordinati rispetto all’assetto strutturale agricolo a scala comunale).
38
Espressa dall’intensità del legame sussistente tra l’assetto strutturale e infrastrutturale dell’azienda agricola e un “grappolo” di variabili esplicative sulla possibilità aziendale di resistere autonomamente alla pressione insediativa urbana, giovandosi delle sue peculiarità economico-agrarie.
39
Sa esprime la fragilità dell’assetto organizzativo dell’azienda (Agostini, Franceschetti e Tempesta, 1994) e viene determinato nel senso di Sa = f(e, g.o, c.f, a.c), dove e = età dell’imprenditore, g.o = grado di occupazione dell’imprenditore, c.f
= grado di coinvolgimento dei componenti familiari dell’imprenditore, a.c = azienda definibile a conduzione capitalistica.
Oa (occupazione aziendale effettivamente presente; cfr. Agostini, Franceschetti e Tempesta, 1984) misura la capacità
dell’azienda in termini occupazionali esprimendo l’intensità e il ruolo sociale dell’attività agricola nel contesto territoriale;
esso è identificabile con Oa = f(U.L.), dove U.L. = numero di Unità Lavorative (una Unità Lavorativa risulta pari a un lavoratore occupato in azienda almeno 287 giornate all’anno; cfr. De Benedictis e Cosentino, 1979).
Ti (tipologia dell’impresa agricola; cfr. Zappavigna, 1990) esprime le relazioni intercorrenti tra impresa e lavoro nel senso
di Ti = f(U.L.fam./U.L.tot.), dove U.L.fam.: unità lavorative appartenenti alla famiglia dell’imprenditore; U.L.tot.: unità lavorative totali impiegate in azienda.
40
Considerata la preponderanza di valore del capitale di scorta su quello di anticipazione, il patrimonio mobile dell’azienda
agraria viene in questo caso descritto solo in funzione del primo.
proprietà e la presenza di miglioramenti fondiari); sembra sussistere pertanto una stretta relazione tra la qualità
fondiaria, la sua configurazione fisica, quella giuridica e contrattuale e, infine, il grado d’incorporazione dei capitali stabilmente investiti; si può allora formalizzare QF = f(I, Pp, Ip, Sc)/4 dove I = indicatore del grado
d’intensità del sistema agrario, Pp = indicatore della potenzialità produttiva dei suoli aziendali41, Ip = indicatore
dell’incidenza proprietaria, Sc = indicatore della stabilità contrattuale del capitale fondiario.
Circa la qualità morfologica (MA): abbiamo finora costantemente sottolineato l’importanza dell’azienda come
unità di produzione e presidio nell’azione di tutela del territorio rurale e delle risorse ambientali; appare a questo punto utile introdurre anche le relazioni intercorrenti tra la configurazione spaziale del capitale fondiario e
la sua capacità reddituale; si tratta di un approfondimento avvertito della preoccupante persistenza di quei modelli di crescita urbana, a causa dei quali si é originata quella “patologia” fondiaria meglio nota come “frammentazione della maglia poderale” col pericoloso risultato di suddividere l’azienda agricola in più corpi42,
spesso tra loro separati e distanti: un fenomeno dovuto, in buona sostanza, sia alla diffusione insediativoinfrastrutturale urbana sia all’adattamento strutturale che vede gli imprenditori dilatare all’eccesso la base produttiva aziendale, a costo di compromettere la continuità del fondo pur di migliorarne l’intensità produttiva; un
vero e proprio processo di “disinvestimento” complessivo, insomma, pur in presenza di apparenti condizioni di
“miglioramento” fondiario (Franceschetti, Prestamburgo e Tempesta, 1990).
Sembra allora a chi scrive che il concetto di configurazione morfologica aziendale possa ritenersi fortemente
correlato al grado di resistività dell’azienda giacché ne condiziona la produttività, l’uso razionale ed efficiente
delle risorse (specie delle macchine e del lavoro), le scelte colturali e d’indirizzo produttivo, l’impiego dei mezzi tecnici, interrompendo la continuità dei processi produttivi43 e svalutando il fondo in termini di valore di
mercato.
La morfologia aziendale sembra dunque descrivibile da due indicatori principali, strettamente correlati alla capacità reddituale di azienda sulla base della forma: MA = f(Ca, Ac)/2, dove Ca = compattezza aziendale, Ac =
accessibilità colturale.
La Compattezza aziendale (Ca) viene descritta come Ca = f(Kn, Ki, Kd)/3, considerando le variabili sostanziali
del numero di corpi (Kn), del loro rapporto dimensionale (Kd) e del loro grado di dispersione sul territorio comunale o extracomunale (Ki): si tratta dei principali descrittori dell’aspetto macro-morfologico dell’azienda,
pur considerando che l’efficienza dei fattori produttivi (e soprattutto delle macchine) dipende anche da aspetti
per così dire micro-morfologici come la dimensione, la forma e la lunghezza dei singoli appezzamenti, nonché
dallo schema di lavoro adottato, naturalmente a parità di condizioni strumentali di lavoro (trattrice e attrezzature); tuttavia, in letteratura44 si desume che i principali fattori condizionanti della capacità operativa delle macchine sono, nell’ordine, la larghezza di lavoro dell’attrezzo, la sua velocità di avanzamento e soltanto infine la
lunghezza del campo; quindi, il condizionamento parrebbe sopravvenire soprattutto da parte di fattori dipendenti più dalle condizioni di meccanizzazione che dalla morfologia dell’appezzamento e, soprattutto, in presenza di
ridotte superfici o di bassi coefficienti di forma del campo (meglio noti in letteratura come “fattori di campo”
41
L’indicatore della potenzialità produttiva dei suoli aziendali (Pp) esprime la capacità d’uso agricolo e il quadro dei possibili utilizzi e/o limitazioni dei terreni condotti; in tale quadro la tutela delle risorse fisiche rappresenta senz’altro presupposto essenziale per il buon governo del territorio: tuttavia, ciò può avere luogo solo se la tutela medesima riesce a essere attiva nei confronti di quelle risorse (principalmente il suolo) che l’azienda agricola sostanzialmente presidia e di fatto protegge; si vuol dire cioè che sussiste una sostanziale coincidenza tra “buon” suolo e “buona” azienda come uno dei fattori più
rassicuranti di resistività agricola e, da qui, la necessità di tradurre gli output dell’indagine pedologica (che approda alla
carta della capacità d’uso dei suoli) in termini di qualità aziendale rispetto all’indicatore della sua capacità produttiva. Per il
calcolo possono essere utilizzate le carte regionali dell’Ersal, e l’indicatore utilizzato viene espresso dalla media ponderata
delle classi di appartenenza dei suoli secondo la classificazione pedologica; una procedura di calcolo di Pp prevede che, a
ogni classe di capacità d’uso presente in un territorio comunale, si attribuisca un punteggio direttamente proporzionale al
valore potenziale del suolo, successivamente moltiplicandolo per l’estensione dei suoli aziendali ricadenti nella classe; la
sommatoria dei prodotti così calcolati per ogni azienda si dividerà infine per la superficie aziendale totale.
42
Viene intesa qui come corpo aziendale una porzione di terreno non interrotta da fattori di discontinuità quali strade (comunali o di ordine superiore), canali di derivazione irrigua d’interesse comunale, capezzagne.
43
Si pensi, a titolo d’esempio, all’incremento dei tempi di trasferimento dal centro aziendale ai corpi, all’impossibilità di
smaltire reflui zootecnici o di praticare colture pregiate nei corpi più distanti dal centro aziendale, all’impossibilità
d’intervenire tempestivamente in caso di necessità insorgenti, all’aumento dei danni cagionati al bestiame o alle colture dal
traffico stradale.
44
Cfr. Pellizzi, 1987. Si veda anche la tesi di laurea di Cattaneo, M. (1990), Proposta di un modello per la simulazione del
comportamento cinematico su campo delle macchine agricole, Facoltà di agraria dell’Università degli Studi di Milano, relatore G. Castelli.
intesi come rapporto tra i lati)45; pertanto, data la minore importanza degli aspetti micro-morfologici, siamo
portati a escludere queste variabili dall’analisi della morfologia aziendale.
Ma vediamo ora di approfondire nel dettaglio la spiegazione della struttura di Ca = f(Kn, Ki, Kd)/3.
(Kn) è la componente relativa al numero di corpi condotti dall’azienda e viene determinata rispetto a M (numero medio di corpi per azienda nel comune), ottenendola con:
n
Μ−
∑ cx
1
N
, dove:
cx = numero corpi dell’azienda x con sede nel territorio comunale considerato; N = numero di aziende con sede
nel territorio comunale considerato.
(Ki) è la componente relativa al grado di dispersione sul territorio comunale ed extracomunale dei corpi rispetto
al centro aziendale, ottenuta dalla media ponderata dei punteggi assegnati ai singoli corpi in relazione alla loro
distanza dal centro aziendale:
n
Ki =
∑ ha yx . punteggio
1
(S.A.T.)x
, dove:
hayx = ettari del corpo y condotto dall’azienda x con sede nel territorio comunale considerato, n = numero totale di corpi dell’azienda x, (S.A.T.)x = superficie agricola totale dell’azienda x46.
(Kd) rappresenta la componente relativa al rapporto dimensionale tra i corpi condotti (ossia il grado di “concentrazione” di suolo condotto dall’azienda, ottenuto dalla media ponderata dei punteggi assegnati ai singoli corpi
in relazione alla loro dimensione) come segue:
n
Kd =
∑ ha yx . punteggio
1
(S.A.T.)x
, dove:
hayx = ettari del corpo y condotto dall’azienda x con sede nel territorio comunale considerato; n = numero totale di corpi dell’azienda x; (S.A.T.)x = superficie agricola totale dell’azienda x.
La seconda variabile Ac (“accessibilità colturale”), influente sui rapporti tra morfologia aziendale e redditività,
riguarda l’accessibilità ai corpi (ovvero la presenza di una rete di viabilità costituita da strade comunali o
d’ordine superiore e strade poderali, capezzagne e quant’altro agevoli lo spostamento sul territorio agricolo)47.
2. Effettuata una cluster analysis per individuare gruppi di aziende agricole a elevata affinità economica, strutturale, fondiaria, produttiva48, il procedimento analitico è stato infine rappresentato in cartografia49.
45
Secondo la letteratura, l’incremento della capacità di lavoro delle macchine (soprattutto considerando la riduzione dei
tempi di svolta e dei tempi in genere) si annulla in appezzamenti con area superiore a 1-1,2 ettari o con coefficiente di campo superiore a 8/1 o ancora di lunghezza maggiore a 100-200 metri.
46
Ogni corpo aziendale condotto dall’azienda x viene moltiplicato per un punteggio variabile da uno a tre in funzione del
suo grado di dispersione sul territorio comunale ed extracomunale rispetto al centro aziendale, e la sommatoria ottenuta
viene poi divisa per la superficie aziendale totale; la dispersione dei corpi sul territorio viene valutata avvalendosi della nozione di isocrona (vale a dire di quella figura che congiunge punti dello spazio rurale a pari tempo di percorrenza dal centro
aziendale e in grado di rappresentare il raggio di un cerchio che inscriva tutti i corpi costitutivi dell’azienda).
47
È’ stato utilizzato il programma Addati, messo a punto da S. Griguolo e M. Mazzanti dell’Istituto Universitario di Architettura di Venezia.
48
Considerati i profili delle singole classi e il profilo globale dell’insieme aziendale sulla base di un metodo di classificazione non gerarchico; di conseguenza le classi individuate non risultano comprese in una graduatoria. I profili esprimeranno allora il seguente significato: sia xm(j,i) il valore medio della variabile j nella classe i e Xg(j) il valore medio della medesima variabile nell’intero gruppo di aziende; nel caso in cui xm(j,i) si discosti significativamente dalla media globale
Xg(j), ciò rappresenta una forte caratterizzazione del comportamento della classe i rispetto all’universo delle aziende e la
significatività dello scostamento viene espressa dal rapporto tra [xm(i,j) - Xg(j)/O(j)], dove O(j) é lo scarto quadratico medio della variabile j.
49
Un accettabile percorso cartografico per la conoscenza e la descrizione dei fatti agro-strutturali, per uno strumento di piano urbanistico a scala comunale, può articolarsi nella Cartografia descrittiva di base (carte del mosaico aziendale,
dell’ordinamento colturale aziendale, dell’indirizzo aziendale, della tipologia di conduzione agricola); nella Cartografia
classificatoria combinata [Classificazione socio-occupazionale: carte della stabilità aziendale, dell’occupazione aziendale,
della tipologia dell’impresa agricola. Classificazione della produttività aziendale: carte della produttività per ettaro, della
produttività per unità lavorativa. Classificazione del capitale agrario: carte della dotazione delle aziende cerealicole, della
dotazione delle aziende zootecniche (fattori quantitativi), della dotazione delle aziende zootecniche (fattori qualitativi).
Classificazione della qualità fondiaria: carte del grado di intensità del sistema agrario, della stabilità contrattuale, della po-
Ricorrono qui, nel caso di Cusago, spazi a forte incidenza di attività agricole, sottoposti a elevate pressioni urbanizzative e inseriti in contesti di particolare pregio storico-paesaggistico, dove le finalità dell’azione urbanistica s’identificano principalmente nella tutela delle risorse finite, nella salvaguardia del patrimonio ambientale,
nel mantenimento delle attività agricole insediate, nella gestione consapevole di uno spazio-suolo inteso come
fattore extra-produttivo (non, quindi, dipendente dalle congiunture di politica agraria ma nemmeno dalla pressione del mercato edilizio), che combinatamente concorre alla vitalità del settore primario e alla qualità
dell’assetto ambientale (o al loro congiunto soffocamento a seconda che il piano riesca o meno a governarne
con rigore e parsimonia le pur inevitabili trasformazioni).
Ma, soprattutto in contesti metropolitani regionali dove le propulsioni insediative appaiono consumare molto
suolo (si pensi al rinnovo dei modelli residenziali, alla trasformazione dei processi di lavoro, alla riorganizzazione dei settori e dei mercati, alla ri-localizzazione delle imprese, alla conseguente competizione tra le attività), non ci sembra praticabile l’astratto principio di preservare tutto il suolo extra-urbano in quanto tale; sembra
allora profilarsi la necessità di una scelta: garantire l’innegoziabilità di quei complessi di suolo agricolo a maggior resistività potenziale alla trasformazione d’uso, e concentrarvi le azioni urbanistiche possibili per una tutela indirizzata, circoscritta, difendibile.
Il percorso analitico del territorio extra-urbano è sembrato allora potersi articolare in quattro fondamentali momenti50, e i dati assunti sono stati aggregati attorno a tre sostanziali macro-componenti, individuabili rispettivamente negli assetti strutturale, fisico, paesistico.
La prima macro-componente (l’assetto strutturale agricolo) è finalizzata alla conoscenza del suolo quale risorsa produttiva del settore primario, che lo utilizza più d’ogni altra attività attribuendo in tal modo forma e identità allo spazio; per suo tramite pertanto le aziende agricole vengono classificate in termini di resistività alle pressioni urbanizzative, come abbiamo fin qui visto51.
La seconda macro-componente (l’assetto fisico del suolo e del sottosuolo) è, invece, finalizzata a conoscere il
suolo quale sede di processi geo-fisici complessi, e intende valutarlo e classificarlo rispetto al suo grado di suscettività alle trasformazioni nella duplice direttrice urbana e agricola; in altri termini si valutano qui le limitazioni edafiche presenti, e i fattori valutativi utilizzati individuano le direttrici cinetiche delle acque sotterranee,
il reticolo idrografico superficiale, i comprensori di utenza irrigua, la geomorfologia del profilo territoriale, la
qualità litologico-sedimentologica dei terreni, in buona sostanza tutto quanto interessa il complesso pedologico
dei suoli.
La terza macro-componente (l’assetto storico-paesaggistico) intende appropriarsi dei modelli di trasformazione
affermatisi nelle epoche pregresse e tradotti nella matrice insediativa originaria, su cui si è depositato nel tempo
il processo evolutivo nei suoi mutamenti, permanenze e compromissioni.
Hanno così luogo le tre fasi: i) dell’analisi delle correlazioni tra le classi finali delle macro-componenti; ii)
dell’analisi tipologica delle associazioni presenti; iii) della formazione degli areali a differente suscettibilità alla
trasformazione.
Il lavoro individua quegli areali sub-comunali che, considerato l’elevato grado di resistività endogena che sembra caratterizzarli, non si ritengono contrattabili nell’ambito del negozio urbanistico (a pena di degrado
dell’intero sistema territoriale); assumiamo allora: i) che gli areali a minor contrattabilità siano rappresentati, in
particolare, dai suoli compresi in aziende col maggior grado di resistività (a buona stabilità organizzativa, ad alta rilevanza occupazionale, con buona dotazione di capitale agrario vivo e morto, ad alta produttività per ettaro), cui dovrebbe corrispondere la maggior persistenza nel tempo delle qualità paesistiche; ii) che gli areali a
maggior negoziabilità, e quindi in qualche modo sacrificabili per finalità urbanizzative, corrispondano per contro ai suoli compresi in aziende a basso grado di resistività (a scarsa stabilità organizzativa e contrattuale, a bastenzialità produttiva dei suoli aziendali, dell’incidenza proprietaria. Classificazione della morfologia aziendale: carte della
compattezza aziendale, della qualità dei corpi aziendali, della dispersione dei corpi aziendali, del rapporto dimensionale tra
i corpi aziendali, dell’accessibilità colturale] e nella Cartografia classificatoria gerarchica (carta sintetica dell’assetto
strutturale aziendale e del grado di resistività agricola).
50
Così formalizzabili: I fase: analisi descrittiva dei dati elementari o di livello empirico (il fine è quello di esplorare lo spazio d’interesse rispetto ai molteplici fenomeni che vi hanno luogo, sia apparenti che dati tal quali); II fase: analisi classificatoria di livello combinato (vi s’interpretano i molteplici aspetti fenomenici sulla base dei dati elementari raccolti); III fase: analisi classificatoria di livello gerarchico (vi s’effettua la sintesi degli indicatori individuati nella precedente fase esplorativo-interpretativa per parametrare lo spazio d’indagine sulla base di indicatori globali di stima che discriminino le
unità minime per ogni macro-componente individuata; ha luogo qui il trattamento multivariato delle molteplici macrocomponenti dell’analisi extra-urbana; IV fase (classificazione sintetica), che rappresenta il momento progettuale.
51
I fattori di classificazione (tra i quali si è volutamente ritenuto di escludere quelli di natura meramente economica, rinviando alla loro ormai consolidata identificazione in letteratura) intendono definire la solidità dell’azienda agraria nonché la
sua continuità temporale.
sa rilevanza occupazionale, con scarsa dotazione di capitale agrario vivo e morto), cui dovrebbe corrispondere
la minore persistenza nel tempo delle qualità paesistiche.
Siamo dunque al momento sintetico delle gerarchie degli assetti fisico, economico e paesistico dello spazio comunale52, che avviene approntando apparati cartografici che orientino il governo dell’intero territorio extraurbano: intanto, nella prima carta di sintesi (di chiara derivazione pedologica) viene localizzato il grado di alterazione della naturalità fisica e di suscettività alla trasformazione nella direttrice urbana53; poi, la seconda carta
sintetica esprime il grado di resistività produttiva dell’assetto strutturale aziendale (sul quale molto finora ci
siamo soffermati); per terza e conclusiva, la carta di sintesi delle gerarchie di assetto fisico, economico e paesistico, una vera e propria espressione spazio-simbolica dell’approccio sistemico che ha animato fin qui il nostro
lavoro e che riesce ora a esprimere la complessità interattiva delle molteplici componenti territoriali insieme a
un vero e proprio carattere “progettuale” sia per dettare la disciplina dei suoli extra-urbani (le cosiddette “zone
E”) sia per reperire eventuali localizzazioni urbane espansive (in termini di zone urbanistiche C e D) che esprimano il minor impatto nei confronti dei sottosistemi agricolo-produttivo, geo-ambientale e paesaggistico.
L’interazione fra le tre macro-componenti costitutive esprime la connotazione peculiare dello spazio agricolo
comunale e ne disvela le isotropie, sottraendolo all’arbitrarietà d’uso che ha contraddistinto finora il suo consumo/spreco e obbligando il pianificatore a oggettivare i suoi intendimenti, a palesare gli esiti dei suoi approfondimenti, a dichiarare prima i mezzi, i fini, i percorsi dell’analisi urbanistica anche a rischio, a voler richiamare un’immagine di Borges, di sconfinare nel “giardino dei sentieri che si biforcano” (o forse proprio per
questo).
2.2. Interpretazioni pedologiche a Pozzolengo sul Garda
1. Abbiamo visto, già nel precedente caso di Cusago, che l’informazione pedologica si è rivelata insostituibile
strumento di base per la conoscenza dei terreni, così come abbiamo constatato che gli aspetti immediatamente
applicativi di una carta pedologica appaiono in sè limitati: essa è in realtà un serbatoio omnicomprensivo dei
caratteri dei suoli, e il suo valore sta nelle numerose carte derivabili54, dalla capacità d’uso dei terreni alla loro
attitudine allo spandimento agronomico dei liquami e fanghi di depurazione, fino alla protettività nei confronti
delle acque profonde; così, i contenuti pedologici possono essere “filtrati” per schemi interpretativi tali da collocare ogni unità cartografico-pedologica in una delle classi tematiche individuate.
Nel seguito, per ogni carta derivata si riporta il modello assunto55 e i tratti caratterizzanti degli spazi omogenei
individuati a Pozzolengo, dove l’Ersal ha effettuato una sperimentazione di dettaglio per verificare il contributo
che le discipline pedologiche sono in grado di offrire alla decisione urbanistica.
2. Intanto, la Carta della capacità d’uso dei suoli consente d’individuare le terre di maggior attitudine agronomica56 (per preservarle in quanto tali nello strumento urbanistico, come la Regione Lombardia già prescriveva
nella Lr. 93/198057 e nella successiva Dgr. 18 maggio 1993, n. 5/36147, ribadendo il principio nell’odierna Dgr.
7 aprile 2000, n. 6/4950958)59.
Le classi di capacità d’uso60 sono complessivamente otto (cfr. tabella sottostante), designate da un numero romano il cui incremento indica il parallelo aumentare dei fattori limitanti e la riduzione delle scelte tecniche pos52
Le correlazioni tra ciascun areale di resistività e le classi sintetiche derivanti dovrebbero in generale esprimere i seguenti
caratteri: a) la I classe di resistività (areali a bassa suscettività alla trasformazione nella direttrice urbana) comprende in sostanza tutti i suoli di I classe economico-agraria e parte di quelli di II, la gran parte dei suoli di I classe ficica con piccole
quote di III e IV, tutti i suoli di I e II classe paesistica; b) la II classe di resistività (areali a media suscettività alla trasformazione nella direttrice urbana) coinvolge gran parte dei suoli della II e tutta la III classe della macro-componente economicoagraria, nonché la gran parte dei suoli di III e IV classe fisica; c) la III classe di resistività (areali ad alta suscettività alla trasformazione nella direttrice urbana) interessa i restanti suoli di III e IV classe economico-agraria e fisica.
53
Si ha qui l’individuazione dei criteri spaziali di tutela che sui diversi areali debbono essere considerati, restringendone
cioè la propensione urbanizzativa all’interno di accurate comparazioni tra fragilità ambientale e necessità giustificate di
consumo della risorsa suolo.
54
Oltre che nell’opportunità di calcolarne le interazioni coi molteplici aspetti e parametri ambientali ed economico-agrari.
55
Ossia l’interpretazione rappresentativa del tramite che lega la carta pedologica alle sue derivate.
56
Sostanzialmente i suoli di I e II classe di Capacità d’uso.
57
Cfr. un’ampia trattazione critica, sulla mancata applicazione della Lr. 93/1980, nel precedente paragrafo 2.1.1.
58
Sulla Dgr. 6/49509 si veda il precedente paragrafo 2.1.3.
59
Tale Carta è stata redatta in base alla “Land Capability Classification”, elaborata nel 1961 dal Soil Conservation Service
del Dipartimento dell’Agricoltura degli Usa (Usda); il metodo prevede l’articolazione dello spazio in categorie, classi e sottoclassi in base al tipo e gravità (di natura fisica, chimica o climatica) delle limitazioni alla crescita delle colture.
60
Primo livello della gerarchia di classificazione.
sibili; mentre i suoli delle prime quattro classi sono adatti all’attività agricola (pur con limitazioni crescenti),
l’attitudine delle classi da V a VI propende solo al pascolo e alla forestazione (anche in questo caso, con limitazioni crescenti) e i suoli dell’VIII classe sono inadatti anche a queste attività (anche se si possono utilizzare in
funzione ricreativa, estetica, naturalistica o idrologica)61.
Le classi di capacità d’uso individuano ambiti spaziali simili per gravità di limitazioni; queste ultime possono
differire fra loro per tipologia, e a quest’ulteriore aspetto sono dedicate le sottoclassi (individuate con lettera
dopo il simbolo numerico di classe, p. es. VII w): c (limitazioni legate alle sfavorevoli condizioni climatiche) e
(limitazioni legate al rischio di erosione), s (limitazioni legate a caratteristiche negative del suolo come
l’abbondante pietrosità, la scarsa profondità, la sfavorevole tessitura e lavorabilità, etc.), w (limitazioni legate
all’abbondante presenza di acqua entro il profilo pedologico, tale da interferire sul normale sviluppo dei vegetali).
L’ultimo livello gerarchico della classificazione è rappresentato dalle unità di capacità d’uso, ossia da raggruppamenti minori di suoli in una stessa sottoclasse, sufficientemente simili da presentare analoghe limitazioni e
potenzialità e da richiedere interventi in tutto simili di miglioramento o di bonifica; dal punto di vista agronomico i suoli di una stessa unità consentono di effettuare le stesse colture, con simili risposte produttive e richiedendo uguali pratiche conservative. Le unità di capacità d’uso sono individuate da un numero arabo posto dopo
la sigla corrispondente alla sottoclasse (IIIs1), ed hanno valore per la sola area del rilevamento.
Pertanto, si avranno le seguenti classi di capacità d’uso secondo la “Land Capability Classification” (Lcc):
a) suoli adatti all’agricoltura, al pascolo, alla forestazione e alla protezione naturalistica: classe I (suoli che
presentano pochissimi fattori che ne limitino l’uso, e quindi utilizzabili per tutte le colture); classe II (suoli
che presentano moderate limitazioni, tali da richiedere un’opportuna scelta delle colture e/o moderate pratiche conservative); classe III (suoli che presentano severe limitazioni, tali da ridurre la scelta delle colture e
da richiedere speciali pratiche conservative); classe IV (suoli che presentano limitazioni molto severe, tali da
ridurre drasticamente la scelta delle colture e da richiedere accurate pratiche di coltivazione);
b) suoli adatti al pascolo, alla forestazione e alla protezione naturalistica: classe V (suoli che, pur non mostrando fenomeni di erosione, presentano altre limitazioni difficilmente eliminabili, e tali da restringere l’uso
al pascolo o alla forestazione o come habitat naturale) classe VI (suoli che presentano limitazioni severe, tali
da renderle inadatte alla coltivazione e da restringere l’uso, seppur con qualche ostacolo al pascolo, alla forestazione, o come habitat naturale); classe VII (suoli che presentano limitazioni severissime, tali da mostrare difficoltà anche per l’uso silvo-pastorale);
c) suoli inadatti ad utilizzazioni agro-silvo-pastorali, da destinare ad usi turistico-ricreativi e a protezione naturalistica: classe VIII (suoli che presentano limitazioni tali da precludere qualsiasi uso agro-silvo-pastorale,
e che pertanto possono essere adibiti a fini ricreativi, estetici, naturalistici, o come spazio di raccolta delle
acque).
La classe di capacità d’uso è individuata da parametri di tipo pedoambientale per cui, anche in presenza di suoli
ottimi in quanto tali, possono essere altri i parametri (nel nostro caso pendenza e rischio d’inondazione) che limitano e declassano una superficie62; in particolare:
a) i suoli di I classe presentano solo poche o lievi limitazioni63; quest’unità raccoglie suoli profondi, a tessitura
equilibrata, ben drenati, ben poco diffusi nell’ambiente morenico; in questo caso corrispondono a una sola
unità cartografica (u.c. 21) costituita da pochi frammenti territoriali e, data la debole ondulazione da cui sono affette queste superfici, non sono ammissibili livellamenti che generebbero un sicuro peggioramento dei
caratteri dei suoli;
b) i suoli di II classe presentano alcune limitazioni64 che riducono la scelta colturale o richiedono moderate pratiche di conservazione; nell’ambito della classe compaiono 3 sottoclassi legate rispettivamente a caratteri
negativi del suolo (s), alla presenza di falda poco profonda o eccessiva ritenzione idrica con problemi del
suolo a liberarsi dell’acqua (w), o alla combinazione delle due situazioni (sw);
c) i suoli di III classe esprimono severe limitazioni65, che riducono la scelta delle colture e/o richiedono particolari pratiche di conservazione; in particolare: in III s − u.c. 5, la moderata profondità dei suoli (50-80), dovuta alla presenza di un substrato sabbioso grossolano o tipicamente morenico indurito che riduce fortemente la sezione di suolo utile alla vita della pianta; in III w − u.c. 6, drenaggio da mediocre a lento, o lento, le61
Nel territorio comunale di Pozzolengo sono presenti i suoli dalla I alla VI classe.
E’ evidente che il sistema degli anfiteatri morenici si presta ad avere forti limitazioni di carattere morfopaesistico prima
ancora che pedologico.
63
I suoli di I classe coprono una superficie complessiva di 19 ha, per l’1% dei suoli cartografati nel territorio comunale.
64
I suoli di II classe coprono 164 ha, pari all’8,6%.
65
I suoli di III classe si estendono su 569 ha (29,8%).
62
gato alla presenza di orizzonti a tessitura fine o compattati, che possono sostenere faldine sospese evidenziando condizioni dominanti di parziale riduzione a modesta profondità; in III es − u.c. 7, suoli con pendenze tra 10 e 20% e consistenti rischi erosivi; in III ws − u.c. 8, suoli limitati in profondità, a substrato ghiaioso-sabbioso e a rischio d’inondazione o allagamento moderato, nonché suoli a limitazioni di profondità (5080 cm) legata al substrato morenico addensato e al drenaggio lento per tessitura fine;
d) i suoli di IV classe presentano limitazioni molto forti66 che restringono la scelta delle colture e/o richiedono
una gestione molto accurata: in IV s − u.c. 9, ridotta profondità con substrato ghiaioso-sabbioso o deposito
morenico addensato entro 50 cm dalla superficie67; in IV w − u.c. 11, drenaggio molto rallentato dalla presenza di falda superficiale costantemente entro il metro e di depositi molto fini cui si combina generalmente
la posizione estremamente ribassata, per cui si convoglia il ruscellamento dei versanti circostanti rendendo
assai problematico il drenaggio interno (molto lento) e superficiale; IV sw − u.c. 10, in cui si combinano le
limitazioni precedenti, con drenaggio lento causato dalla presenza della falda e una ridotta profondità connessa al substrato limoso-argilloso o sabbioso, estremamente calcareo e poco profondo, talvolta con presenza di torbe;
e) i suoli di V classe presentano limitazioni difficilmente eliminabili68, che sostanzialmente impediscono le
normali pratiche colturali giacché la terra è molto poco ospitale alle radici delle piante e, sostanzialmente,
non in grado di alimentarne una quantità compatibile con l’attività agricola (la destinazione d’uso possibile
rimane dunque il pascolo o la forestazione o la destinazione ad habitat naturale); la limitazione estremamente penalizzante che ha portato in classe Vw i suoli dell’u.c. 32 è il combinarsi di frequenti allagamenti in occasioni di piogge di certa intensità, cui si aggiungono suoli che di per sè risultano comunque fortemente limitati nelle possibilità d’uso a causa della torba poco profonda e della falda;
f) i suoli di VI classe coincidono69 con quelli della sola u.c. 1, con limiti di carattere ambientale connessi
all’incidenza di gravi fenomeni erosivi per forte pendenza (la fragilità dell’area e il costo eccessivo della
messa a coltura è talmente evidente, che tali suoli sono da sempre destinati alla forestazione).
Si può concludere dunque che, rispetto ai 1.912 ha considerati, solo 48 ha non sono atti all’agricoltura (anche
se, d’altra parte, soltanto 183 sono occupati da suoli di buona qualità); si tratta, beninteso, di dati comunque da
interpretarsi siccome la Land Capability Classification valuta l’utilità complessiva di un pedopaesaggio, e non
già l’attitudine specifica70.
3. Passiamo ora all’esame della Carta dell’attitudine allo spandimento agronomico dei liquami: l’inquinamento
delle acque sotterranee e superficiali da scarichi industriali, civili e zootecnici rappresenta uno dei peggiori aspetti nel complesso problema dell’alterazione ambientale, e tuttavia la pratica dello spandimento agronomico
dei liquami zootecnici è strumento assai importante per il reddito aziendale, consentendo corposi risparmi
nell’entità dei concimi chimici da somministrare alla colture e ottenendo rese ugualmente soddisfacenti; peraltro tale pratica comporta due tipi di rischio: i) lo scorrimento in superficie (con conseguente possibile inquinamento delle acque superficiali, per raccolta e convogliamento di liquame o sue rimanenze da parte delle acque
di ruscellamento)71; i) l’inquinamento delle acque profonde (dovuto invece principalmente al lisciviamento in
falda dei nitrati, non trattenuti dal potere adsorbente del suolo e trascinati in profondità dalle acque di percolazione72).
Appare allora indispensabile valutare il grado di ricettività dei suoli alle pratiche di spandimento, per prevenirne i possibili inquinamenti in ragione delle differenti tipologie pedoambientali sussistenti, e l’esempio di carta
derivata che qui presentiamo − prodotta dall’Ersal per il caso di Pozzolengo e basata su uno schema interpreta66
I suoli di IV classe si estendono su 1.112 ha (58,2%).
Situazione che si ritrova con frequenza sui versanti morenici, dove l’erosione ha progressivamente ridotto la sezione di
suolo disponibile; sono compresi anche i casi in cui l’aratura è arrivata a interessare suoli sottili per loro natura, limitati dal
substrato ghiaioso-sabbioso e tipici delle piane fluvioglaciali, in cui si manifestano peggioramenti del drenaggio (rapido).
68
I suoli di V classe si estendono su circa 39 ha (1,9%), sostanzialmente corrispondente alle Paludi di Pozzolengo.
69
La VI classe grava su circa 9 ha, pari al 0.5%.
70
Di ciò rappresentano palese esempio i suoli delle colline moreniche, in genere sottili (e quindi di IV classe) e tuttavia caratterizzati da notevole attitudine a colture specifiche come l’olivo o la vite; infatti, la zona della Lugana Doc tipica, coincidente con MR 7, è dominata da suoli freddi, a drenaggio mediocre o lento, generalmente ricchissimi in CaCo3, sottili o
moderatamente profondi, comunemente affetti da comportamenti vertici e croste superficiali, con problemi di lavorazione e
transitabilità, e ciò nonostante questi suoli rappresentano il substrato che, combinato col vitigno specifico, offre un prodotto
di ottimo valore commerciale. E’ scontato invece che, per tante altre colture, gli elementi negativi richiamati possono interferire pesantemente in tutto il ciclo colturale.
71
In questo caso le sostanze maggiormente pericolose sono date da fosforo, materia organica, azoto ammoniacale e cloruri.
72
Anche alcuni metalli pesanti (rame e zinco) possono presentare problematiche analoghe.
67
tivo nato col primo rapporto di rilevamento73 della carta pedologica al 50.000, poi adattato e rivisto con la taratura del modello − si riferisce appunto a spandimenti agronomici nel cosiddetto “periodo asciutto”74, il più opportuno per lo spandimento dei liquami giacché le colture in atto ne utilizzano gli elementi nutritivi, rendendo
perciò meno probabile (o meno consistente) il pericolo d’inquinamento da nitrati delle falde e acque superficiali75.
Tuttavia, come abbiamo visto in altre parti del volume la cartografia Ersal 1:50.000 non è certamente in grado
di fornire indicazioni direttamente utilizzabili in azienda e, per certi versi, risulta ben poco versatile anche alla
scala comunale76, mentre la carta prodotta per Pozzolengo parrebbe invece il mezzo adatto da interporre tra le
scale aziendale e provinciale77, per suggerire valutazioni complessive di sostenibilità del carico zootecnico sul
territorio comunale o su porzioni sufficientemente estese; e dunque, per il livello delle indagini attuali e dei
prodotti pedologici di cui mediamente le amministrazioni dispongono, si può dire che lo strumento offra grandi
possibilità.
La valutazione dell’attitudine allo spandimento individua così i suoli adatti, moderatamente adatti, poco adatti,
non adatti, e i parametri considerati riguardano i caratteri: i) di tipo ambientale (inondabilità; rocciosità; pietrosità; pendenza); ii) del suolo (drenaggio; presenza e profondità della falda, anche se temporanea; presenza e abbondanza dello scheletro; caratteristiche vertiche connesse ad argille espandibili con possibilità di accentuate
fessurazioni; substrato pedogenetico ad alta permeabilità; tessitura del primo metro di suolo; presenza di torba
in superficie o entro il suolo), mentre il grado di attitudine allo spandimento è articolato come segue:
a) i suoli adatti sono tutti localizzati su superfici pianeggianti o a pendenza tanto debole da non potersi produrre ruscellamenti; alcune tipologie di suolo sono caratterizzate da presenza di substrato limoso-sabbioso o limoso-argilloso sovraconsolidato, che garantisce dalle limitazioni legate a eccessiva permeabilità dell’intero
profilo o del substrato; in altri casi i suoli presentano buone caratteristiche complessive di tessitura e profondità, situazioni peraltro associate a condizioni in cui la superficie di falda risulta molto lontana da quella del
suolo, il che limita fortemente i rischi di inquinamento78;
b) i suoli moderatamente adatti presentano diversi tipi di limitazioni; la pendenza, compresa nell’intervallo 510%, corrisponde all’intervallo descritto per le aree di piede versante, e la sua pericolosità è legata a possibili episodi di ruscellamento; altra situazione è l’eccessiva permeabilità complessiva lungo il primo metro di
suolo, carattere che può consentire una percolazione facilitata e conseguente scarsa ritenzione di elementi
nutritivi, individuabile sostanzialmente sotto gli aspetti della tessitura franco-sabbiosa considerata come media sul primo metro di suolo, e della presenza di uno strato ad alta permeabilità entro 80 cm dalla superficie
del suolo; poi il cattivo drenaggio del suolo (molto lento) e la presenza, anche discontinua, della superficie
di falda entro 150 cm dalla superficie del suolo79;
c) i suoli poco adatti presentano limitazioni simili a quelle dei suoli moderatamente adatti, ma con maggiore
consistenza, tra cui presenza della superficie di falda entro il metro (per quanto in modo non costante ma alterno), soprattutto in alcune delle unità cartografiche comprese nel sistema torrentizio di drenaggio superficiale olocenico, insieme a un consistente rischio di allagamento; talvolta drenaggio rapido e pendenza media
compresa tra 10 e 20%, cui sono connessi consistenti rischi di ruscellamento;
d) i suoli non adatti presentano limitazioni tanto forti da impedire lo spandimento80, e appartengono sostanzialmente a due soli casi: le pendenze superiori al 20% e le bassure in conche chiuse o parti più depresse e
73
Cfr. Ersal, SSR1, I suoli della bassa pianura bresciana fra i fiumi Mella e Chiese.
Corrispondente grosso modo ai mesi tra marzo e ottobre, in cui statisticamente l’evapo-traspirazione potenziale prevale
sulle precipitazioni; comunque, lo spandimento dovrebbe sempre venire effettuato in condizioni climatiche buone (assenza
di precipitazioni prima e dopo l’operazione, e ridotta umidità).
75
Mentre lo spandimento durante il “periodo umido” (da novembre a febbraio) è sconsigliato per i maggiori rischi di inquinamento legati alle maggiori precipitazioni, per la scarsa evaporazione, per l’assenza delle colture in fase vegetativa. Per
questi motivi, oltre che per consentire una completa maturazione del liquame è consigliato lo stoccaggio per almeno 180
giorni.
76
Essa è infatti uno strumento di programmazione di ordine tipicamente sovracomunale.
77
Infatti, nel corso del tempo sono stati utilizzati strumenti poco più approfonditi dello stesso 50.000, per produrre cartografia che risultasse utile alla programmazione comunale, e tuttavia lo strumento di riferimento difettava di precisione per i
bassi standard utilizzati; la carta prodotta diviene quindi utile riferimento per gli amministratori e per i tecnici, anche se ovviamente non sostituisce il bisogno del rilevamento aziendale in termini di scala e densità di punti d’osservazione; oltre a
ciò, non si tiene qui conto delle colture in atto per valutarne gli eventuali asporti che esse possono assicurare (molto diversi
da caso a caso).
78
Complessivamente questi suoli coprono una superficie di 530 ha, pari al 27,7 % di quella totale, non comprensiva delle
scarpate per evidenti motivi di pendenza e conseguente rischio di ruscellamento.
79
Complessivamente questi suoli coprono una superficie di 559 ha, pari al 29,2 % della superficie totale.
80
La superficie occupata dai suoli non adatti allo spandimento è di 250 ha (13%).
74
prive di drenaggio naturale (bacini di raccolta delle acque superficiali di ruscellamento, e perciò sedi di torbiere nel passato talvolta con orizzonti torbosi a 50 cm dalla superficie, con assenza totale di ossigeno e processi di degradazione della sostanza organica negli orizzonti)81.
4. Si consideri ora la successiva Carta dell’attitudine dei suoli allo spandimento dei fanghi di depurazione urbana; il loro utilizzo agronomico dipende dal connesso potere fertilizzante e richiede la conoscenza dei parametri chimico-fisici del prodotto utilizzato, per valutarne l’apporto di nutrienti al terreno e il miglioramento dei
suoi caratteri fisici; il fango è quindi utilizzabile nella duplice veste di concime e ammendante, in quest’ultimo
caso per il contenuto in sostanza organica, nel caso della concimazione per l’apporto di azoto, fosforo, zolfo e
microelementi82; tuttavia, il concime di fanghi non può che considerarsi integrativo, per la possibilità di provocare apporti eccessivi in azoto o fosforo83 e situazioni fitotossiche.
Data l’origine, i fanghi di depurazione generano rischi e richiedono usi accorti, apportando molte sostanze tossiche (tra cui metalli pesanti come piombo, zinco, manganese, arsenico, mercurio, cromo, molibdeno, cadmio,
nichel, cobalto, che il suolo tende a trattenere dando luogo a un’accumulazione per apporti successivi); se, dunque, da un lato la ritenzione di metalli pesanti preserva dalla percolazione le falde sotterranee, il loro accumulo
nel suolo dev’essere tuttavia controllato e mantenuto entro parametri sicuri.
E, comunque, il pericolo principale è legato alla fitotossicità dei fanghi oltre soglie variabili per ogni specifica
tipologia, che vincolano gli apporti rispetto alla loro specifica composizione84; altro aspetto da non sottovalutare concerne la presenza di olii, tensioattivi, solventi etc., composti tanto diversi e legati a dinamiche così differenziate, da prevenirne la presenza curando la qualità delle fonti di immissione ed escludendo dall’uso agricolo
i fanghi di provenienza non civile; ulteriore aspetto di primaria importanza è l’apporto in batteri, virus, eumiceti, protozoi, elminti, nematodi e cestodi, dotati di potenzialità patogene e parassitarie.
L’uso dei fanghi comporta quindi rischi: i) da ruscellamenti o percolazioni indesiderate in acque, superficiali e
profonde; ii) da accumulo di inquinanti nel suolo e nelle colture in atto; iii) da patogenesi o parassitismo per
l’uomo o animali che ne utilizzino i prodotti colturali; iv) da degrado qualitativo dei prodotti, con danni ambientali e/o economici legati all’accumulo di sostanze tossiche e all’ingresso nella catena alimentare.
Tuttavia l’uso appropriato di quella che, nonostante tutto, va considerata risorsa può minimizzare gli impatti riducendone il rischio; se, dunque, lo smaltimento di fanghi sul suolo agricolo trova la sua ragione nell’utilità agronomica di fertilizzazione85, recuperando i principi nutritivi ed evitando che, diversamente, fanghi e liquami
rappresentino un problema ambientale, deve peraltro venire valutata l’attitudine di ogni suolo a ricevere fanghi
(e in particolare la sua capacità di utilizzare i nutrienti, consentendo cosi una riduzione degli apporti in concimi
minerali)86.
E’ indubbio che occorrerà individuare le specifiche interazioni suolo/fango rispetto alle classificazioni assunte
(suoli adatti, moderatamente adatti e poco adatti), per cui lo smaltimento potrà risultare inammissibile (pur in
presenza di suoli adatti) se siano evidenti accumuli pregressi di taluni elementi, cosi come suoli poco adatti al
contrario potranno ricevere fanghi che ne migliorino i caratteri87.
La legislazione vigente88 si è già pronunciata circa il fatto che i fanghi devono provenire dalla depurazione di
acque reflue, originate da insediamenti civili o assimilabili, ed essere sottoposti a trattamenti igienizzanti e stabilizzanti; è tuttavia evidente che la variabilità della provenienza e dei trattamenti rende il fango un prodotto e81
Per cui risulterebbe solamente dannoso aggiungere altra sostanza organica in superficie.
A fronte di un apporto in potassio irrilevante.
83
E’ quindi necessario, in base ai caratteri chimici del fango, integrare i fabbisogni con concimi minerali.
84
Ovviamente, esistono valori limite non solo rispetto alle diverse colture praticate, ma anche nei confronti dell’uomo, degli animali e più in generale dell’ambiente.
85
Così come per i liquami zootecnici.
86
Ovviamente, tanto maggiore è la copertura del fabbisogno alle colture che lo spandimento dei fanghi consente, tanto
maggiore è l’attitudine di quel suolo a ricevere i fanghi.
87
Un criterio utilizzato per l’attribuzione di classi limitanti è anche quello della riduzione della gamma di fanghi applicabili; altro carattere di declassamento del suolo è il grado d’incidenza di pratiche agronomiche che utilizzano fanghi (il parametro risulta di fondamentale importanza in quanto l’aumento degli interventi abbatte proporzionalmente i vantaggi derivanti dalla sostituzione dei concimi minerali, per cui riduce anche la possibilità di collocare il fango). Peraltro, non è negli
intendimenti né possibilità di questa carta individuare quantità, modalità ed epoche distributive, determinabili solo in presenza di analisi chimiche sul suolo e sul fango, cosi come richiede la legislazione vigente
88
Si consideri nel merito tutta la successiva Parte III, in questo stesso volume. L’utilizzo agronomico dei fanghi è regolamentato dal D.Lgs. n. 99 del 27 gennaio 1992; in Lombardia l’uso dei fanghi in agricoltura era stato in precedenza disciplinato con le Dgr. n. 5/6943 del 22 marzo 1991 (contenente lo schema di deliberazione tipo per la concessione delle autorizzazioni), e 5/8462 del 2 maggio 1991, riportante l’elenco della documentazione richiesta a corredo della domanda, tuttora
valide per quanto non contrastante con il D.Lgs. anzidetto.
82
stremamente vario per contenuti chimici e per natura fisica, in base ai seguenti caratteri influenti
sull’adattabilità dei suoli allo spandimento89:
a) calando il pH del suolo i metalli spostano verso forme ioniche, suscettibili di movimento lungo il profilo, i
loro equilibri di dissociazione e divengono assimilabili da parte delle piante, con rischio quindi connesso
prevalentemente ai metalli pesanti; diversa dinamica si ha per quei metalli (cromo e molibdeno) che, potendo formare anioni, vedono aumentare la loro solubilità all’aumentare del pH90; a valori alti i metalli precipitano dando idrati, fosfati e carbonati (oltre a far registrare una maggior stabilità dei complessi con la sostanza organica)91;
b) la capacità di scambio cationico (c.s.c.) determina l’attitudine del suolo a inattivare i principi attivi che vi
giungano, limitando o eliminando eventuali caratteri dannosi di svariati composti chimici; attraverso la c.s.c.
è inoltre possibile valutare l’attitudine del suolo a deprimere la mobilità dei metalli, impedendone l’azione
fitotossica, cosi come l’assunzione da parte degli apparati radicali e la percolazione in falda;
c) il parametro “tessitura” è trattato considerando negativamente l’aumento di permeabilità connesso
all’incrementare del contenuto in sabbia, correlato all’eventuale presenza della superficie di falda entro 150
cm;
d) la presenza di ghiaia o scheletro con pezzature maggiori contrae, proporzionalmente al suo aumentare, le
capacità produttive e più in generale d’interazione chimica del suolo, diminuendone la porzione attiva;
e) circa i parametri “drenaggio” e “falda acquifera superficiale”, è noto che un drenaggio difficoltoso rende
più probabili episodi di scorrimento superficiale e, inoltre, il ridotto afflusso in ossigeno rallenta la mineralizzazione della sostanza organica; così l’ambiente riducente (che s’instaura in modo proporzionalmente più
efficace) all’aumentoe delle difficoltà di drenaggio tende ad aumentare la mobilità dei metalli; si tratta in sostanza di parametri fortemente negativi per lo spandimento dei fanghi, da valutarsi attentamente preferendo
comunque la cautela (giacché la profondità della superficie di falda non è fissa ma varia con la stagione e rispetto agli afflussi meteorici);
f) occorre inoltre considerare il parametro “inondabilità”, valutando possibili inquinamenti diretti delle acque
superficiali;
g) nel caso del parametro “pendenza” dev’essere valutata la probabilità che si producano episodi di ruscellamento superficiale (con conseguente inquinamento delle acque superficiali).
Nel caso di Pozzolengo, sono questi i parametri caratteristici delle classi attitudinali individuate:
1) i suoli adatti non presentano limitazioni interne o stazionali allo spandimento dei fanghi, occupando posizioni subpianeggianti caratterizzate da suoli profondi, con tessitura equilibrata92;
2) i suoli moderatamente adatti presentano varie combinazioni di aspetti debolmente limitanti: una buona porzione di territorio è caratterizzata da pendenze superiori al 5% (entrano nella classe le aree dei bassi cordoni
e dei collegamenti di piede versante); la c.s.c. è spesso limitante dove il suolo è andato incontro a processi
erosivi o di troncatura antropica, con esposizione del substrato o comunque con coinvolgimento nell’aratura
di orizzonti dai valori di c.s.c. molto bassi, che hanno abbassato anche quelli del materiale rimescolato (sono
qui coinvolti il suolo delle creste moreniche spianate, quello a sabbie ben cernite e relativamente povero, le
tessiture complessivamente franco-sabbiose sul primo metro di suolo); altro parametro è il drenaggio lento,
senza compresenza di falda poco profonda (condizione dei suoli a substrato limoso-argilloso sovraconsolidato, tipico delle superfici sommitali dei cordoni più spostati verso il lago o debolmente ondulate, oltre che
del paesaggio retromorenico); la presenza dell’acqua entro 150 cm, almeno localmente o temporaneamente,
è una limitazione che compare in alcune aree di piede versante caratterizzate dalle acque di falda infiltrate
lungo il versante, e in spazi interposti tra la piana vera e propria e le ondulazioni, in cui compare il substrato
morenico sovraconsolidato che fa probabilmente da letto a queste falde superficiali93;
89
Nell’interpretazione l’Ersal non ha tenuto conto dell’eventuale contenuto in metalli pesanti del suolo; l’elenco naturalmente considera soltanto gli elementi significativi per lo sviluppo del tematismo alla scala di semidettaglio, anche se fitto
come in questo caso (alcuni dei quali sono regolamentati dal D.Lgs. 99/1992).
90
Il parametro va quindi verificato in sede d’analisi e attentamente valutato qualora risultino contenuti significativi in questi metalli.
91
Quindi, a valori inferiori a 5 il suolo è inadatto, tra 5 e 5,9 lo spandimento deve avvenire cautamente badando a correggere verso l’alto il parametro ma evitando nel modo più assoluto tutte le pratiche agronomiche che ne provochino
l’abbassamento anche temporaneo; con valori compresi tra 6 e 7,5 possono essere utilmente previsti dei correttivi, mentre
con valori superiori a 7,5 la situazione è ottimale. Essendo gli interventi correttivi del pH solamente temporanei, con tendenza del suolo a tornare poco a poco alle condizioni iniziali, il valore cui fare riferimento è quello del suolo non corretto.
Non è comunque questo il caso di Pozzolengo, in cui i valori non scendono mai sotto 7,8.
92
Complessivamente i suoli adatti coprono una superficie di 228 ha pari all’11,9% della superficie.
93
I suoli moderatamente adatti risultano coprire una superficie di 727 ha (38,1%).
3) i suoli poco adatti non sono particolarmente presenti94, tranne nelle aree a drenaggio assai lento e con falda
entro 100 cm dalla superficie del suolo (superfici ribassate e a depositi fini delle incisioni che drenano la
piana retromorenica verso il lago, parti più antiche del reticolo drenante del fosso Rudone, talvolta possibile
allagamento delle superfici);
4) i suoli non adatti coinvolgono95 le aree a pendenza > 15%, i terreni decapitati con valori della c.s.c. assai ridotti (dai bassi versanti alle zone e ripiani ondulati), i suoli ghiaiosi e sottili delle piane fluvioglaciali e dei
bassi versanti (completamente rimaneggiati dalle lavorazioni il cui drenaggio rapido e la tessitura sovente
sabbioso-franca del primo metro non garantiscono un filtro accettabile), le condizioni di drenaggio da molto
lento a impedito legato alla falda subsuperficiale nelle conche chiuse e depressioni, cui s’associa la presenza
di torba poco profonda, i possibili allagamenti delle superfici e il forte rischio di rimescolamento di fanghi
alle acque superficiali con loro conseguente inquinamento.
5. Vediamo infine la Carta della capacità protettiva dei suoli; come tale s’intende la loro attitudine a filtrare e
tamponare potenziali inquinanti della falda, recapitati direttamente (in forma di soluzione) ovvero disciolti dalle
acque meteoriche e/o irrigue dopo la immissione sul (e nel) suolo di materiali in grado di dare composti idrosolubili96, ed è solitamente una delle voci considerate per determinare la vulnerabilità della prima falda97; consegue che il dato non è utilizzabile a sè stante, ma va legato ad altri parametri esterni: in sostanza, un suolo può
avere caratteri ottimi per protettività ma incrociarsi con altri tratti negativi per cui, trovandosi per esempio in
un’area di ricarica delle falde, con substrati molto permeabili e così via, potrà influenzare poco la valutazione
sulla vulnerabilità dell’area.
Nello schema sono stati introdotti parametri chimici e fisici quali il pH, la capacità di scambio cationico (c.s.c.),
la permeabilità, giacché influenzano direttamente la solubilità e mobilità degli inquinanti98; i parametri considerati riguardano i caratteri chimici (pH in acqua e c.s.c.) e fisici (permeabilità, profondità della falda, classe granulometrica), e le classi individuate sono tre (alta, moderata, bassa); in particolare:
a) la capacità protettiva elevata99 si riscontra in quelle situazioni in cui, alla bassa permeabilità dei suoli,
s’associa anche una profondità di prima falda almeno > 100 cm, classi granulometriche fini o moderatamente fini, coperture (anche se entro il metro sono presenti orizzonti grossolani) di livelli limoso-argillosi tali da
garantire una relativa tenuta, e infine parametri chimici tali da non favorire il passaggio in soluzione di inquinanti; i suoli a protettività elevata si trovano nel territorio di Pozzolengo pressoché su ogni superficie ein
ogni unità di paesaggio (con l’eccezione delle vallecole oloceniche e delle conche chiuse, a causa della profondità dell’acqua);
b) nei casi di capacità protettiva moderata, il carattere più comunemente limitante è senza dubbio dato dalla
classe granulometrica relativamente grossolana, con capacità ritentiva degli inquinanti piuttosto modesta, a
cui s’aggiungono poi le classi contrastanti franco-fine su sabbioso e sabbioso scheletrico; altro parametro
(legato alla tessitura, struttura e porosità del suolo) è la permeabilità; la falda compare localmente entro il
metro soprattutto nelle vallecole oloceniche; nei suoli caratterizzati da troncature l’orizzonte superficiale in
alcuni casi presenta valori di c.s.c. estremamente bassi, per cui si può ritenere che la capacità del suolo di interagire chimicamente con composti che lo attraversino si riduca fortemente100;
c) nei suoli a capacità protettiva bassa influisce la presenza di substrati a elevata permeabilità (che abbatte decisamente le possibilità di ritenere le soluzioni) solitamente poco sotto l’orizzonte arato, associato a tessitura
media o moderatamente grossolana dell’orizzonte superficiale101; altra situazione consimile è quella in cui
l’oggetto da proteggere (la falda) si avvicina eccessivamente alla superficie, per cui diminuisce la sezione di
94
Le superfici raggiungono solo 245 ha (12,8%).
712 ha complessivi, pari al 37,2%.
96
Vengono quindi valutate caratteristiche strettamente interne ai suoli, su uno spessore di 150 cm corrispondente alla profondità massima esplorabile con trivella a mano.
97
DRASTIC, per esempio. Perciò non vengono assunti parametri esterni al suolo, come per i liquami, né vengono considerati dati idrogeologici sotto i 150 cm.
98
I parametri imposti nel modello interpretativo sono relativamente agevoli da soddisfare, inoltre va rimarcato come, a differenza della carta dello spandimento agronomico dei liquami, in questo caso non intervengono le limitazioni stagionali per
cui è molto più agevole ottenere in sede di derivazione intrepretazioni positive.
99
I suoli a protettività elevata occupano complessivamente 698 ha, pari al 36,5 % della superficie totale.
100
I suoli a protettività moderata insistono su 971 ha (50,8%).
101
Situazioni accomunate dall’appartenere allo stesso sottogruppo della Soil Taxonomy utilizzato per inquadrare e descrivere le situazioni in cui suoli sottili, a substrato ghiaioso-sabbioso, a seguito di consistenti arature perdono il sottile orizzonte argillico di cui dispongono, per cui la loro capacità d’intercettare sostanze di vario genere cala decisamente; si tratta di
una situazione molto più diffusa nell’alta pianura ghiaiosa.
95
suolo che l’inquinante deve attraversare prima di giungere in falda (come nel caso dei suoli presenti nelle
conche chiuse)102.
2.3. Il caso di Zoppola in Friuli: la valutazione attitudinale dei suoli103
1. A venticinque anni da quell’evento sismico di forza tale da sconvolgere i 5.700 kmq dei 137 comuni tra il
pedemonte spilimberghese, l’alto Udinese e tutta la Carnia fin quasi al confine austriaco, non pare constatarsi
mattone fuori posto e, anzi, il Friuli appare un vero e proprio esempio rispetto ad altre parti d’Italia sinistrate da
catastrofi similari: un’evenienza addebitabile forse alle peculiarità antropologiche friulane (come è stato sovente sostenuto, in modo senz’altro folcloristico) o più semplicemente una rigorosa consuetudine applicativa della
legge (auspice anche un’autonomia regionale ben gestita) e, dunque, una capacità d’intervento ordinario estensibile con semplicità ai drammi straordinari?
In effetti, il federalismo urbanistico friulano ha radici ben piantate, e già nella Lr. 9 aprile 1968, n. 23 (“Norme
regionali in materia urbanistica“) modificata e integrata dalla Lr. 17 luglio 1972, n. 30 era contemplata una figura di piano regionale, poi entrato in vigore nel 1978 dove, accanto alla valorizzazione del patrimonio storico,
artistico e culturale friulano e, quindi, al rispetto per i centri storici e alla loro tutela e recupero, si poteva constatare una particolare sensibilità nei confronti dell’ambiente e delle risorse fisiche recependo la difesa del suolo
dal dissesto e dal degrado, la conservazione del patrimonio boschivo, la tutela dei valori naturalisticoambientali e l’attenzione per lo spazio agricolo.
Si confermava poi nella Lr. 52/1991 (la nuova legge urbanistica friulana) l’esigenza di considerare al centro
dell’attenzione il “parametro suolo”104, apparendo cioè necessario graduare gli interventi insediativi sul reale
fabbisogno territoriale, in maniera da massimizzare gli obiettivi conseguibili preservando le risorse e contenendone lo spreco; in questo senso, l’attenzione alle aree a bassa densità antropizzativa (e sovente ad alto valore
ambientale), la loro possibile riqualificazione dal degrado, il ruolo da destinare all’agricoltura in base alle vocazioni del suolo, in un termine il rilancio del settore primario, rappresentava (e rappresenta) sicuramente una delle prospettive ancora aperte dell’urbanistica friulana.
Non si può ignorare tuttavia l’aspetto fortemente conflittuale sull’uso del suolo, talché molti piani urbanistici
comunali anche qui sono apparsi sovradimensionati e, in genere, più attenti all’espansione edilizia che a una
politica di recupero urbano e territoriale; soprattutto negli spazi peri-urbani, poi, è risultata crearsi una situazione incerta per le attività primarie, in particolare perché molti indiscriminati vincoli (all’agricoltura), la copiosa
localizzazione di nuove infrastrutture, la previsione di usi alternativi del suolo hanno ingenerato una sensazione
di provvisorietà diffusa, che ha limitato le scelte imprenditoriali dei conduttori agricoli contenendo gli investimenti a medio e lungo tempo; spesso, infine, le distinzioni previste dal Piano unbanistico regionale fra aree genericamente “agricole”, “di preminente interesse agricolo”, o invece “di tutela ambientale”, oltre a risultare
largamente disattese nel quadro della pianificazione di grado subordinato hanno rappresentato talvolta fonte di
imprecisione localizzativa e, quindi, di vera e propria distruzione di terreni agrari, o al contrario di ideologistica
affezione “naturale” ingenerando un vincolismo eccessivo, artificioso e pesantemente limitativo del settore
primario.
Anche qui hanno avuto luogo profonde trasformazioni: nonostante la pianificazione regionale prefigurasse un
modello polarizzato di attività e servizi localizzati strategicamente, è emersa − insieme a un sensibile aumento
dell’occupazione extra-agricola del suolo − una marcata tendenza alla dispersione insediativa105, che dev’essere
oggi ri-orientata verso il recupero del notevolissimo patrimonio edilizio esistente inoccupato, saturando oltretutto gli spazi liberi nelle maglie di tessuto preesistente e in particolare evitando nuove aree di espansione106.
102
Complessivamente i suoli a bassa protettività occupano 243 ha, pari al 12,7% della superficie.
Questo paragrafo trae stimolo dagli scritti contenuti in Paolillo P.L., ed, 1988, Al confine del nord-est. Materiali per il
nuovo piano regolatore di Zoppola, Forum, Udine; i contenuti più emintemente agronomici derivano dai saggi di Danuso
F. e Giovanardi R., in quello stesso volume.
104
La locuzione nasce dal titolo del lavoro di Borachia, Paolillo, Moretti e Tosi, 1988.
105
Anche perché il Pur 1978 aveva assunto come riferimento della capacità insediativa teorica alla scala comunale il limite
massimo del raddoppio della popolazione esistente: un criterio nato nel clima edilizio convulso di quegli anni, che sarebbe
successivamente risultato sovradimensionato rispetto alla reale tendenza del mercato e all’effettivo fabbisogno di standards
per servizi pubblici.
106
Legata alla riflessione sulla necessità di ricomporre i vuoti di tessuto è allora la problematica degli standard urbanistici,
i quali negli anni addietro furono individuati sulla sola base di impostazione quantitative e funzionali, trascurando di riqualificare l’armatura insediativa, risultando inoltre sovradimensionati a causa del loro meccanicistico rapporto con la capacità
insediativa teorica assunto e infine venendo resi omogenei su tutto il territorio regionale senza tenere conto delle specificità
locali: tutto ciò, espansione indifferenziata della disponibilità insediativa e politica non mirata delle aree a standard, non ha
103
In questo quadro dissestato, è parso necessario a chi scrive rivedere107 lo stesso concetto di pianificazione delegata al solo ambito comunale sembrando imprescindibile operare per ambiti territoriali più ampi, sia dal punto
di vista economico che geografico, pensare a una strategia dei tempi lunghi su cui organizzare la salvaguardia
dei valori ambientali e il recupero della compromissione delle risorse fisiche (e non solo rispetto ai cicli medio/brevi di conduzione agricola), coordinare le norme e i vincoli che regolano insediabilità e trasformazione
delle aree agricole: ossia identificare tutto quel coacervo strumentale a tutt’oggi non ancora allestito in termini
tali da poter gestire eco-sistemicamente lo spazio regionale.
È peraltro noto come il suolo agricolo non possa più venir considerato una sorta di dato puramente residuale, a
guisa di semplice serbatoio indifferentemente consumabile per quantità, qualità e funzioni d’uso da parte di
qualsivoglia espansione urbanizzativa; è questa una consapevolezza che trae origine dalla crescente esigenza
collettiva di godere dei cosiddetti “beni tipici ambientali” e, più in generale, fa constatare l’esigenza di un uso
diverso delle risorse fisiche che ha ormai assunto i caratteri propri dei “beni pubblici puri” (Prestamburgo,
1993).
2. Richiamiamo allora una proposta di normativa per gli “ambiti di densità rurale” della bassa collina e pianura
friulana e giuliana108, avanzata negli anni Novanta assumendo che le azioni programmatiche dell’intervento regionale potessero riproporsi il raggiungimento dell’equilibrio nei conflitti d’uso del suolo tra attività agricole e
armatura urbana garantendo al settore primario la continuità produttiva mediante la miglior tutela del fattore
suolo e delle strutture e infrastrutture aziendali e territoriali connesse, e assumendo misure finalizzate a impedire lo spreco di suolo agro-forestale evitandovi la disseminazione insediativa di nuovi aggregati, nuclei e case
sparse non strettamente funzionali all’esercizio delle attività agricole, limitando la realizzazione di nuove infrastrutture viabilistiche ai tracciati meno dannosi per il mantenimento della forma ed estensione dei corpi colturali, del reticolo idrologico di superficie e della trama consolidata del paesaggio agro-forestale, finalizzando
l’assetto morfologico delle zone di completamento ed espansione al mantenimento e/o ricostituzione
dell’ordinamento insediativo storico, curando pertanto: i) che tali zone venissero fortemente connesse ai margini degli insediamenti preesistenti mediante il rinvenimento e l’applicazione delle regole della matrice compositiva originaria; ii) che si evitasse in modo particolare la conferma e/o l’innesco di forme frammentate nel perimetro urbano preesistente, favorendo una morfologia perimetrale compatta nelle eventuali addizioni insediative; iii) che di conseguenza venissero individuate demarcazioni morfologiche esplicite tra le zone E e le restanti
zone urbanizzate o urbanizzabili, in maniera da impedire la formazione di reliquati e interstizi residuali.
Per contemperare l’evoluzione dei caratteri strutturali dell’agricoltura regionale (registrati nel decennio e/o prevedibili negli scenari di politica agraria comunitaria) con le finalità di tutela del settore primario e con un appropriato governo del processo urbanizzativo, la normativa proposta ammetteva che la pianificazione territoriale sottordinata potesse contemplare modalità e localizzazioni di tipo espansivo su suolo agricolo purché fossero
state saggiate tutte le possibilità di provvedere altrimenti al soddisfacimento del fabbisogno arretrato e/o insorgente, da motivarsi in termini cartografici e quantitativi circostanziati nell’ambito del corredo analitico di piano;
e purché in particolare109:
a) fosse stato esperito in via privilegiata il ricorso al riuso edilizio dell’intero patrimonio esistente, degradato
e/o sotto o male utilizzato, anche ammettendo incentivi e premi volumetrico-dimensionali;
certo giovato al contenimento del consumo di suolo agricolo, che in molti casi risulta essere stato sprecato con certa dose di
indifferenza.
107
Nella “Ricerca sul sistema agro-forestale regionale” effettuata da chi scrive e dal prof. Mario Prestamburgo nell’ambito
delle attività di revisione del Piano urbanistico regionale 1978 per la redazione del Piano territoriale regionale generale; cfr.
il lavoro nella sua interezza in Paolillo e Prestamburgo, 1994; per una sua sintesi, idem, 1996.
108
Prodotta nel 1992-1993 da chi scrive e da Mario Prestamburgo, dell’Università degli Studi di Trieste (ambedue operanti
a cavallo degli anni Ottanta nei Progetti finalizzati Cnr Ipra “Innovazione Produttività Risorse Agricole” e Raisa “Ricerche Avanzate per l’Innovazione nel Settore Agricolo”) per la Direzione della pianificazione territoriale della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia, nell’ambito degli studi per il nuovo Piano territoriale regionale generale e per la definizione
dei nuovi indirizzi in materia di zone agricole e forestali (piano e indirizzi a tutt’oggi mai adottati, a causa del “clima” assai poco favorevole alla pianificazione regionale); in particolare la ricerca era preordinata a individuare gli scenari evolutivi agricoli, a definire gli strumenti per raggiungere lo scenario più auspicabile e a identificare le migliori modalità di protezione delle risorse fisiche finite nel processo di trasformazione territoriale.
Il lavoro è stato interamente pubblicato in Paolillo e Prestamburgo, 1994; una sua sintesi é stata presentata alla XVII Conferenza italiana di scienze regionali dell’Aisre, Sondrio (cfr. Paolillo e Prestamburgo, 1996); la nozione di “ambito di densità rurale” è spiegata in Paolillo, 1997.
Si ringrazia l’allora Direttore regionale della pianificazione territoriale, arch. Enzo Spagna, per la cortese autorizzazione a
pubblicare parti dei materiali prodotti nell’ambito della ricerca (concessa con prot. 8431 del 29 agosto 1996).
109
Proprio traendo spunto dalla (e anzi approfondendo in termini applicativi la) assai condivisibile Lr. lombarda 93/1980.
b) fosse stato praticato in via subordinata il ricorso al riuso urbanistico di aree, parzialmente completate ma
comunque comprese in spazi urbanizzati degli insediamenti preesistenti, anche agendo sull’accrescimento
degli indici territoriali e fondiari preassegnati nella pianificazione comunale vigente;
c) fosse stato perseguito come alternativa finale il ricorso alle modalità espansive ma, in tal caso, le nuove localizzazioni non avrebbero dovuto coinvolgere suoli irrigui, a coltura specializzata, di media o elevata classe pedologica o, comunque, la cui analisi economico-agraria di tipo aziendale nell’ambito del corredo analitico di piano avesse fatto constatare l’elevata produttività e/o l’adeguata dotazione di infrastrutture e impianti al servizio dell’attività agricola o, ancora, nei cui confronti potesse ingenerarsi l’interruzione della
continuità spazio-colturale o irrigua aziendale o un’interferenza con il sub-affioramento degli acquiferi o
con risorgive, fontanili e simili o, infine, con opere di bonifica e riordino fondiario di qualunque sorta.
La normativa proposta per il Piano territoriale regionale del Friuli-Venezia Giulia, inoltre, assegnava agli strumenti urbanistici comunali in “ambiti territoriali a elevata densità rurale e dinamica urbana medio-alta”110 la
promozione del rafforzamento infrastrutturale agricolo, in maniera da permettere alle aziende un cospicuo aumento di produttività giovandosi delle sinergie infrareticolari111; inoltre i piani comunali avrebbero dovuto dotarsi di un apparato conoscitivo, atto all’un tempo a preordinare il Sistema informativo comunale e a contribuire
all’allestimento del catasto regionale del suolo agro-forestale e delle risorse finite; veniva poi proposta, per la
conoscenza del territorio agro-forestale comunale e delle attività che v’insistevano, una scheda informativa tipo
su ogni azienda agricola112 mentre i piani, per rappresentare lo stato di fatto del territorio agroforestale comunale e delle attività insistenti, avrebbero dovuto approntare un congruo repertorio analitico-cartografico113 e, per
formare la decisione sull’uso del territorio agro-forestale, avrebbero dovuto rappresentare elaborati sintetico-cartografici che configurassero:
a) le condizioni d’interferenza con gli acquiferi sotterranei, anche in ragione del loro sub-affioramento in rapporto ai possibili fattori inquinanti;
b) l’estensione colturale di ogni azienda agricola, le modalità di raggiungimento carrabile dei corpi condotti, le
modalità irrigue e la rete idrologica di dettaglio;
c) la classificazione di ogni azienda agricola per grado di validità economico-agraria alla luce delle conoscenze derivanti dalle indagini dirette, anche in rapporto alle specializzazioni colturali e alle classi pedologiche
dei suoli condotti;
d) e, inoltre, i seguenti elementi di natura morfologico-insediativa: i) l’individuazione dei lotti interclusi in aggregati urbani che, risultando inedificati, potessero validamente sostituirsi all’espansione edificatoria nei
suoli agricoli; ii) la classificazione di tutti i lotti marginali nei perimetri insediativi che, rappresentando elementi di frammentarietà morfologica, potessero validamente prestarsi alla ricomposizione di forme urbane compatte, contenendo così l’espansione edificatoria nei suoli agricoli; iii) il censimento delle costruzioni
110
Vale a dire quegli “ambiti di densità rurale” in cui più intensa si configurava la competizione tra fattori urbani e agricoli per l’uso del suolo, in presenza di elevata produttività agraria.
111
Negli “ambiti territoriali a elevata densità rurale con bassa dinamica urbana” era prevista inoltre la ricerca della massima continuità e compattezza dei bacini spaziali coltivati (in modo da agevolare quelle trasformazioni strutturali indispensabili all’agricoltura moderna e da impedire categoricamente qualsivoglia menomazione della disponibilità quantitativa di
suolo agricolo e qualunque sua compromissione o alterazione da parte del processo urbanizzativo), e negli “ambiti territoriali a media e/o bassa densità rurale” era contemplata la salvaguardia, ove se ne verificasse la possibilità e convenienza,
delle aziende marginali tipiche dei bacini spaziali periurbani in funzione delle loro potenzialità di tutela ambientale, assoggettando tali bacini a piani particolareggiati comunali estesi a tutto lo spazio non urbanizzato e comprendenti anche le propaggini periferizzate degli insediamenti urbani.
112
Sulla forma di conduzione e abitazione del conduttore, sull’indirizzo aziendale, sull’utilizzo dei terreni nell’annata agraria corrente e nelle serie storiche precedenti, sulle attività agricole extraziendali con particolare riferimento a quelle a tempo parziale e in conto terzi, sugli allevamenti zootecnici, sull’irrigazione, sulla consistenza del parco macchine, sui fabbricati rurali, sulla configurazione sociologica (con particolare riferimento alla struttura e attività delle famiglie residenti nelle
unità edilizie di pertinenza dell’azienda censita).
113
Comprendente almeno: i) un atlante delle mappe catastali unitamente alla derivante carta delle proprietà; ii) la carta
dell’uso e copertura del suolo agro-forestale; iii) la carta delle risorse agro/forestali, recante la verifica finalizzata alla conoscenza della produzione agricola e delle attività connesse e, in particolare per i boschi, contenente l’individuazione delle
associazioni, il dettaglio delle presenze botanico-vegetazionali significative e la verifica di consistenza di tutte le risorse
agro/forestali segnalate in studi, ricerche, carte della pianificazione territoriale sovraordinata; iv) e inoltre, esemplificativamente: 1. una carta idrologica locale, idrografica di superficie alla dimensione territoriale e geotecnica con approfondimenti di natura pedologica; 2. una carta idrografica di superficie al dettaglio e dei comprensori d’utenza irrigua; 3. una carta degli ordinamenti colturali in atto e dell’estensione aziendale; 4. una carta dell’indirizzo produttivo aziendale e della
densità spaziale del carico zootecnico; 5. una carta del frazionamento della conduzione aziendale; 6. una carta dell’assetto
geomorfologico-naturalistico, storico-culturale e del paesaggio agrario.
improprie in zona agricola, ossia di quelle costruzioni non pertinenti alla residenza e/o alle attività degli addetti agricoli, e da assoggettarsi a specifica destinazione e disciplina di tipo urbano.
Abbiamo inteso richiamare tali prescrizioni per avvalorare l’ipotesi come, generando nella pianificazione comunale la presenza di un robusto bagaglio conoscitivo sull’assetto urbano ed extra-urbano, senza apporre onerosi e impopolari vincoli sia possibile contenere lo spreco di suolo agricolo proprio avvalendosi di una decisione supportata dalla conoscenza (e, ovviamente, verificata con rigore dalle sedi istruttorie sovraordinate − regionali e/o provinciali − rispetto alle motivazioni addotte dal decisore comunale); e, senz’altro, nel caso lombardo
la presenza della conoscenza ambientale indotta dai data set dell’Ersal può agevolare tale trasparente modalità
di analisi/classificazione/valutazione/decisione sull’uso della risorsa suolo.
Nella nostra attività di pianificazione in Friuli-Venezia Giulia, abbiamo ritenuto opportuno delimitare “ambiti
di densità rurale” accorpando interi territori sovracomunali114 (il cui approfondimento è delegato al livello comunale115) in:
a) “ambiti agro-forestali di alta collina e di montagna”, articolati in: a.1) aree forestali di alta collina e montagna; a.2) aree con attività agro-zootecniche in presenza di seminativi, prati-pascoli e malghe; a.3) aree di agricoltura marginale a scarsa presenza di attività agro-zootecnica116;
b) “ambiti territoriali a elevata densità rurale” (ossia ad agricoltura fortemente caratterizzata da coltivazioni
intensive e dalla predominanza di aziende economicamente vitali), articolati − secondo il grado di correlazione dell’intensità dei fattori urbani con le condizioni della struttura agraria − in: b.1) aree a dinamica urbana medio-alta, che ha determinato positivi effetti sinergici tra agricoltura e attività extragricole; b.2) aree a
bassa dinamica urbana, di buon livello produttivo, caratterizzate dalla presenza di opere di bonifica, di disponibilità idriche per l’irrigazione, di infrastrutture di servizio;
c) “ambiti territoriali a media densità rurale”, comprensivi degli spazi comunali di pianura e collina in cui
prevalgono attività agricole part time che risentono dell’influenza dei poli urbani presenti;
d) “ambiti territoriali a bassa densità rurale”, che coinvolgono infine gli assetti comunali dove l’alto livello di
pressione insediativa origina un’eccessiva quota di consumo di suolo, una generalizzata periferizzazione di
bassa qualità e uno stato di conflittualità permanente tra agricoltura e usi extragricoli dello spazio; sono ambiti in cui prevalgono sistemi di conduzione agraria precari e non professionali, e in cui il settore agricolo
non è in grado di svolgere un’autonoma funzione ambientale né tanto meno produttiva, scontando
l’avvenuta formazione di un’incerta agricoltura periurbana117.
114
Tutti i comuni pianeggianti, pertanto, sono stati collocati in quattro bacini omogenei di densità rurale (rapportata alle dinamiche urbane, come abbiamo diffusamente argomentato in precedenza): di grado A, dove la densità rurale è stata particolarmente compressa in favore di un’accentuata crescita dei fattori demografici, insediativi e urbanizzativi e in cui quindi
l’agricoltura assume un’assai instabile configurazione periurbana; di grado B, peraltro contenuto sul territorio regionale, in
cui la densità rurale è configurata in forma mediana; di grado C, dove i fattori connotativi della dimensione urbana quasi
non hanno influito su un’elevata e preponderante densità rurale; e, infine, di grado D, dove si constata il più elevato livello
sinergico positivo tra “effetto città” e “agricoltura di qualità” (in questo caso, sono apparsi efficacemente scambievoli, e per
nulla competitivi, gli esiti dell’offerta di servizi urbani nei confronti del radicamento e miglioramento produttivo del settore
primario); pertanto, la proposta avanzata per il Ptrg evidenzia:
a) negli “ambiti a bassa densità rurale e dinamica urbana medio-alta”, l’esigenza di riorganizzare uno spazio troppo attanagliato dalla pressione insediativa, dalla congenita difficoltà difensiva di un’agricoltura particolarmente frammentata, da
una politica agraria comunitaria tendente a espellere dagli scenari agricoli molte aziende periurbane;
b) negli “ambiti a media e alta densità rurale”, l’opportunità di interventi difensivi sulle aziende economicamente vitali,
sugli effetti sinergici tra assetto urbano e settore primario, sul capitale fisso territoriale rappresentato dalle opere di bonifica
e riordino irriguo, e infine su quel particolare segmento produttivo agrario rappresentato dal lavoro part time che, proprio
per il suo regime reddituale misto, necessita di tutela particolare soprattutto per garantire un’agricoltura “ambientale” in vicinanza di poli e centri urbani.
115
Approfondimenti che, come vedremo, che scrive ha identificato in sede di proposta normativa di Ptrg, stante il fatto che
nell’ambito di uno stesso comune si può sovente constatare la compresenza di aziende agricole vitali e marginali o, comunque, di condizioni morfologiche, urbanizzative, proprietarie, pedologiche, idrologiche e simili (alla rinfusa) che debbono
essere rappresentate e giudicate troppo in dettaglio da poter diventare oggetto di piano alla scala considerata nella nostra ricerca.
116
Sono questi ultimi spazi a far constatare la preminenza dell’interesse ambientale su quello produttivo agricolo, la cui
presenza tuttavia costituisce una garanzia di tutela delle risorse naturali.
117
La collocazione dei territori comunali nei diversi ambiti ha avuto luogo adottando procedure di cluster analysis e in particolare considerando le interazioni tra indicatori comunali agrourbanizzativi in maniera da rappresentare appropriatamente
la pluralità delle componenti di classificazione dell’intero sistema territoriale; e infine: a) è stata prodotta una carta nel
rapp. 1:50.000, denominata “degli ambiti di risorse fisiche” e da ritenersi intermedia rispetto al vero e proprio progetto di
Ptrg per le aree agroforestali; b) vi sono state localizzate (e assoggettate a specifica normativa) le seguenti tipologie: 1. Ambiti agroforestali di alta collina e di montagna: 1.1. aree forestali di alta collina e di montagna; 1.2. aree con attività zoo-
Nella proposta di normativa avanzata per gli “ambiti di densità rurale” della bassa collina e pianura118, veniva
assunto che le azioni programmatiche dell’intervento regionale si proponessero il raggiungimento
dell’equilibrio nei conflitti d’uso del suolo tra attività agricole e armatura urbana e infrastrutturale, garantendo
al settore primario la continuità produttiva mediante la miglior tutela del fattore suolo e delle strutture e infrastrutture aziendali e territoriali connesse; tale equilibrio avrebbe potuto essere raggiunto dalla pianificazione
territoriale sottordinata assumendo misure finalizzate a: i) impedire lo spreco di suolo agro-forestale, evitandovi
la disseminazione insediativa di nuovi aggregati, nuclei e case sparse non strettamente funzionali all’esercizio
delle attività agricole; ii) limitare la realizzazione di nuove infrastrutture viabilistiche ai tracciati meno dannosi
per il mantenimento della forma ed estensione dei corpi colturali, del reticolo idrologico di superficie e della
trama consolidata del paesaggio agro-forestale; iii) finalizzare l’assetto morfologico delle zone di completamento ed espansione al mantenimento e/o ricostituzione degli ordinamenti insediativi storici, e curando: 1. che
tali zone venissero fortemente connesse ai margini degli insediamenti preesistenti mediante il rinvenimento e
l’applicazione delle regole della matrice compositiva originaria; 2. che fosse evitata in modo particolare la conferma e/o l’innesco di forme frammentate nel perimetro urbano preesistente, favorendo una morfologia perimetrale compatta nelle eventuali addizioni insediative; 3. che di conseguenza venissero individuate demarcazioni
morfologiche esplicite tra le zone agricole e le restanti zone urbanizzate o urbanizzabili, in maniera da impedire
la formazione di reliquati e interstizi residuali.
La normativa proposta ammetteva, per contemperare l’evoluzione dei caratteri strutturali dell’agricoltura regionale (registrati e/o prevedibili negli scenari di politica agraria comunitaria) con un appropriato governo del processo urbanizzativo, che la pianificazione territoriale sottordinata potesse contemplare modalità e localizzazioni
di tipo espansivo su suolo agricolo purché fossero state saggiate tutte le possibilità di provvedere altrimenti al
soddisfacimento del fabbisogno arretrato e/o insorgente, da motivarsi in termini cartografici e quantitativi circostanziati nell’ambito del corredo analitico di piano; e purché in particolare: 1. fosse stato esperito in via privilegiata il ricorso al riuso edilizio dell’intero patrimonio esistente, degradato e/o sotto o male utilizzato, anche
ammettendo incentivi e premi volumetrico-dimensionali; 2. fosse stato praticato in via subordinata il ricorso al
riuso urbanistico di aree, parzialmente completate ma comunque comprese in spazi urbanizzati degli insediamenti preesistenti, anche agendo sull’accrescimento degli indici territoriali e fondiari preassegnati nella pianificazione comunale vigente; 3. fosse stato perseguito come alternativa finale il ricorso alle modalità espansive; in
tal caso, le nuove localizzazioni non dovevano coinvolgere suoli irrigui, a coltura specializzata, di media o elevata classe pedologica o, comunque, la cui analisi economico-agraria di tipo aziendale nell’ambito del corredo
analitico di piano ne avesse fatto constatare l’elevata produttività e/o una adeguata dotazione di infrastrutture e
impianti al servizio dell’attività agricola; o, ancora, nei cui confronti potesse ingenerarsi una interruzione della
continuità spazio-colturale o irrigua aziendale o un’interferenza con il sub-affioramento degli acquiferi o con risorgive, fontanili e simili; o, infine, con opere di bonifica e riordino fondiario di qualunque sorta.
La normativa proposta per il Ptrg, inoltre, assegnava agli strumenti urbanistici generali comunali negli “ambiti
territoriali a elevata densità rurale e dinamica urbana medio-alta” (come è il caso di Zoppola, il comune che
ora esamineremo) il compito di contemplare e promuovere un razionale sviluppo delle opere infrastrutturali a
tecniche a presenza di seminativi, prati-pascoli e malghe; 1.3. aree di agricoltura marginale a scarsa presenza di attività
zootecnica. 2. Ambiti territoriali a elevata densità rurale: 2.1. aree con dinamica urbana medio-alta; 2.2. aree con bassa dinamica urbana; 3. Ambiti territoriali a media densità rurale. 4. Ambiti territoriali a bassa densità rurale.
118
Nell’ambito del lavoro effettuato, su commessa della Direzione della pianificazione territoriale della Regione autonoma
Friuli-Venezia Giulia (Direttore arch. Enzo Spagna), negli studi per il nuovo Piano territoriale regionale generale e per la
definizione dei nuovi indirizzi in materia di zone agricole e forestali; in particolare la ricerca (approntata nel 1992-1993 da
chi scrive e da Mario Prestamburgo, ordinario di Economia e politica agraria nell’Università degli Studi di Trieste, ambedue operanti nei Progetti finalizzati Cnr Ipra “Innovazione Produttività Risorse Agricole” e Raisa “Ricerche Avanzate per
l’Innovazione nel Settore Agricolo”) era preordinata soprattutto a individuare gli scenari verso i quali stava evolvendosi
l’agricoltura regionale, a definire gli strumenti per raggiungere lo scenario considerato più auspicabile e a identificare le
migliori modalità di protezione delle risorse fisiche finite nel processo di trasformazione territoriale. La ricerca è stata interamente pubblicata in Paolillo P.L. e Prestamburgo M., 1994, Il sistema agro-forestale dello spazio regionale. Indirizzi territoriali in materia di zone agricole e forestali, Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia, Trieste, 4 voll. (rispettivamente: I,
“Le attività agricole nella economia e nello spazio regionale”; II/1, II/2, “L’uso del suolo e l’assetto economico nel sistema
agroforestale regionale”; III, “Gli ambiti di densità rurale per il governo del sistema agro-forestale regionale”). Una sintesi
della ricerca é stata presentata alla XVII Conferenza italiana di scienze regionali dell’Aisre, Sondrio, 1996 (cfr. Paolillo
P.L. e Prestamburgo M., “Il sistema agro-forestale dello spazio regionale friulano e giuliano: dimensione economica del
settore primario e processi urbanizzativi”, in Atti, vol. I, Tema 2: “Sviluppo economico e trasformazioni territoriali nelle aree montane e rurali”, pp. 285-309).
Si ringrazia il Direttore regionale della pianificazione territoriale per la cortese autorizzazione a pubblicare parti dei materiali prodotti nell’ambito della ricerca (concessa con prot. 8431 del 29 agosto 1996).
servizio dell’uso agricolo, al fine di permettere alle aziende di aumentare la loro produttività119; inoltre i piani
comunali avrebbero dovuto dotarsi di un apparato conoscitivo preliminare, atto a contribuire all’allestimento
del catasto regionale del suolo agro-forestale e delle risorse finite e tale da configurarsi in qualità di Sistema Informativo Comunale, per conseguire la standardizzazione degli elementi e l’unificazione dei contenuti minimi
di piano; per la conoscenza del territorio agro-forestale comunale e delle attività che v’insistono, veniva poi
proposta una scheda informativa tipo riguardante per ogni azienda agricola120 notizie sintetiche121, mentre per la
rappresentazione dello stato di fatto del territorio agro-forestale comunale e delle attività insistenti i piani comunali avrebbero dovuto approntare un congruo repertorio analitico-cartografico122; per quanto concerne, infine, la decisione sull’uso del territorio agro-forestale, i piani comunali avrebbero dovuto rappresentare elaborati
sintetico-cartografici che configurassero: a) le condizioni d’interferenza con gli acquiferi sotterranei, anche in
ragione del loro sub-affioramento e dei possibili fattori inquinanti; b) l’estensione colturale di ogni azienda agricola e le modalità di raggiungimento carrabile dei corpi condotti; c) le modalità irrigue di ogni azienda agricola e la sua rete idrologica di dettaglio; d) la classificazione di ogni azienda agricola per grado di validità economico-agraria alla luce delle conoscenze derivanti dall’indagine diretta, anche in rapporto alle specializzazioni
colturali e alle classi pedologiche dei suoli condotti; e, inoltre, i seguenti elementi di natura morfologicoinsediativa: 1. l’individuazione dei lotti interclusi in aggregati urbani che, risultando inedificati, potessero validamente sostituirsi all’espansione edificatoria nei suoli agricoli; 2. la classificazione di tutti i lotti marginali nei
perimetri insediativi che, rappresentando elementi di frammentarietà morfologica, potessero validamente prestarsi alla ricomposizione di forme urbane compatte, contenendo così l’espansione edificatoria nei suoli agricoli; 3. il censimento delle costruzioni improprie in zona agricola, ossia di quelle costruzioni non pertinenti alla
residenza e/o alle attività degli addetti agricoli, e da assoggettarsi a specifica destinazione e disciplina di tipo
urbano.
3. Lo spazio comunale di Zoppola è principalmente coinvolto dal bacino della “bassa pianura friulana occidentale” e occupa ben 3.449 ha123, tutti collocati negli “ambiti territoriali a elevata densità rurale”, derivanti dalle
ricerche di cui abbiamo finora trattato e comprensivi dei territori comunali ad agricoltura fortemente intensiva,
in cui predominano aziende per lo più vitali; secondo il grado di correlazione dell’intensità dei fattori urbani
con le condizioni della struttura agraria, questo comune è stato collocato nella tipologia delle “aree con dinamica urbana medio-alta” dove si sono determinati positivi effetti sinergici tra agricoltura e le altre attività; la superficie agraria utile comunale interessa 2.783 ha e vi operano ben 803 aziende, prevalentemente di piccola dimensione, conduttrici in media di non oltre 3,5 ha e fondate per l’88% sulla sola manodopera aziendale, a fron119
Negli “ambiti territoriali a elevata densità rurale con bassa dinamica urbana”, era prevista poi la ricerca della massima
continuità e compattezza dei bacini spaziali coltivati, in modo da agevolare quelle trasformazioni strutturali indispensabili a
un’agricoltura moderna e da impedire categoricamente qualsivoglia menomazione della disponibilità quantitativa di suolo
agricolo e qualunque sua compromissione o alterazione da parte del processo urbanizzativo; negli “ambiti territoriali a media e/o bassa densità rurale”, era inoltre prevista la salvaguardia, ove se ne verifichi la possibilità e la convenienza, delle
aziende marginali tipiche dei bacini spaziali periurbani in funzione delle loro potenzialità di tutela ambientale, assoggettando tali bacini a Piani regolatori particolareggiati comunali estesi a tutto il territorio comunale non urbanizzato e ricomprendenti anche le propaggini periferizzate degli insediamenti urbani.
120
Avvalendosi di apposite indagini prodotte da laureati iscritti all’Ordine dei dottori agronomi e forestali.
121
Sulla forma di conduzione e abitazione del conduttore, sull’indirizzo aziendale, sull’utilizzazione dei terreni nell’annata
agraria corrente e nelle serie storiche precedenti, sulle attività agricole extraziendali, con particolare riferimento a quelle a
tempo parziale e in conto terzi, sugli allevamenti zootecnici, sull’irrigazione, sulla consistenza del parco macchine, sui fabbricati rurali, sulla configurazione sociologica (con particolare riferimento alla struttura e attività delle famiglie residenti
nelle unità edilizie di pertinenza dell’azienda censita).
122
Comprendente almeno: a) un atlante delle mappe catastali unitamente alla derivante carta delle proprietà; b) la carta
dell’uso e copertura del suolo agro-forestale, ottenuta a partire dalla ricognizione alla scala comunale dell’omonima carta
prodotta dal Servizio regionale dell’informazione territoriale; c) la carta delle risorse agro/forestali, recante la verifica finalizzata alla conoscenza della produzione agricola e delle attività a essa connesse e, in particolare per i boschi, contenente
l’individuazione delle associazioni, il dettaglio delle presenze botanico-vegetazionali significative e la verifica di consistenza di tutte le risorse agro/forestali segnalate in studi, ricerche, carte della pianificazione territoriale sovraordinata; d) e inoltre, esemplificativamente: 1. una carta idrologica locale, idrografica di superficie alla scala territoriale e geotecnica, con approfondimenti di natura pedologica; 2. una carta idrografica di superficie al dettaglio e dei comprensori d’utenza irrigua; 3.
una carta dell’ordinamento colturale in atto e dell’estensione aziendale; 4. una carta dell’indirizzo produttivo aziendale e
della densità spaziale del carico zootecnico; 5. una carta del frazionamento della conduzione aziendale; 6. una carta
dell’assetto geo-morfologico-naturalistico, storico-culturale e del paesaggio agrario.
123
La sua parte meridionale è attraversata dalla “mitica” statale 13 (la cosiddetta “Pontebbana”, da Venezia al confine di
Tarvisio), e a ovest il confine con Cordenons è segnato dal fiume Meduna; Zoppola è circoscritta dai territori comunali di
Pordenone e Cordenons (a ovest), San Giorgio della Richinvelda (a nord), Arzene e Casarsa (a est) e Fiume Veneto (a sud).
te di 152 unità locali e 1.751 addetti nei settori extra-agricoli, per cui Zoppola appare tra i 25 comuni regionali
ad alta concentrazione manifatturiera124.
Ecco allora una situazione per così dire idealtipica, tale da saggiare l’interazione tra i due livelli di piano (applicando cioè gli esiti delle ricerche regionali sulla tutela dello spazio agricolo alle necessità espansive di un comune certo munito di “densità rurale”, ma altrettanto necessitante di rafforzare la “densità manifatturiera”).
Erano state affidate nel 1995 a chi scrive125 le funzioni di consulenza urbanistica per il nuovo piano regolatore
generale comunale e, proprio perché uno dei più importanti obiettivi del piano (si può dire addirittura quello
preponderante) era rappresentato dalla conoscenza dei caratteri agricolo-colturali e dei fattori geologicoambientali, per derivarne il grado di compatibilità con il (pure indispensabile) sviluppo produttivo erano state
chiamate le figure di agronomo a indirizzo economico-aziendale e ambientale”126 e geologo a indirizzo idrogeologico e ambientale127.
Si traccia allora nel seguito un percorso completo di analisi spaziali alla scala locale, in un “ambito territoriale
a elevata densità rurale e dinamica urbana medio-alta”, per tentare il raggiungimento di un punto d’equilibrio
compatibile nella competizione tra attività agricole e armatura urbana e infrastrutturale per l’uso della risorsa
suolo; è questo un esercizio di “urbanistica rurale” per architetti/ingegneri/urbanisti (che possono così avvicinarsi al mondo sconosciuto dell’analisi agronomica e avvantaggiarsene, per non commettere più l’errore di ritenere “bianche” le zone non urbane quasi fossero inorganiche e senz’anima e mero serbatoio residuale del processo urbanizzativo).
4. Intanto, nell’ambito delle attività di ricerca geo-ambientale, per uno spazio (come quello di Zoppola) a cavallo della linea delle risorgive diveniva ineludibile conoscere l’idrografia superficiale e sotterranea; data inoltre la sensibilità del reticolo idrografico superficiale (e in particolare degli acquiferi presenti nel sottosuolo)
all’azione degli inquinanti, sembrava indispensabile conoscere l’ubicazione delle falde, il grado di protezione
degli acquiferi sotterranei, i dati di spessore dei livelli a bassa permeabilità, oltre all’entità delle riserve idriche
disponibili, alla loro potenzialità e agli elementi di costo per il loro utilizzo128.
E’ noto che nei territori di pianura il rischio geologico é ascrivibile soprattutto all’esondabilità dei corsi
d’acqua; la richiesta crescente di aree per nuovi insediamenti urbanizzati e per attività agricole intensive ha sovente sottovalutato gli eventi di piena (neanche tanto eccezionali) che periodicamente interessano il territorio
friulano, e dunque a Zoppola occorreva definire con cura gli spazi d’esondazione potenziale interdicendo la loro antropizzazione129.
Sono state di conseguenza prodotte:
124
Ossia quelli: a) la cui % di addetti 1991 all’industria sull’intero Friuli-Venezia Giulia é superiore allo 0,55% (siamo qui
all’l,10% rispetto alla punta massima di Monfalcone del 4,25%); b) la cui quantità di addetti 1991 all’industria supera la
soglia comunale di 300 (siamo infatti a quota 1.751); c) i cui ulteriori indicatori (addetti all’industria sui residenti, addetti
all’industria sugli addetti complessivi, ecc.) risultano sempre collocati oltre le soglie medie regionali; d) dove quindi la vocazione manifatturiera é forte e in cui, differentemente dal complesso del sistema urbano pordenonese (nel quale il nostro
comune deve intendersi compreso), insiste la presenza di grande industria; purtroppo a fronte di una modesta accessibilità
interregionale e intraregionale e con un relativamente basso quoziente di terziarizzazione privata (servizi alla produzione e
di rete).
125
Alla fine del 1995, in coincarico con l’arch. Fabio Oblach di Spilimbergo (Pn) e con compiti di identificazione della metodologia generale e settoriale, coordinamento e verifica in corso d’opera delle attività specialistiche settoriali e del gruppo
operativo, eventuale formazione del cantiere scuola e attività didattiche e operative conseguenti, redazione del nuovo Prgc.
126
Nelle persone di Romano Giovanardi e Francesco Danuso, del Dipartimento di produzione vegetale e tecnologie agrarie,
Università degli Studi di Udine, con compiti di effettuazione di indagine aziendale e naturalistico-vegetazionale diretta,
formazione di data base delle risorse e delle attività agricole, predisposizione di cartografia descrittivo-tematica su base aziendale, approntamento di analisi statistiche per la identificazione dei bacini spaziali a differente intensità economicoagraria e agro-ambientale, predisposizione di cartografia progettuale su basi catastale e aziendale, relazione e norme tecniche attuative.
127
E’ stato prescelto dall’Amministrazione il dott. Pierluigi Di Bernardo, di Frisanco (Pn), che ha effettuato l’indagine sui
caratteri geo-ambientali e idrologici dell’assetto superficiale e della geometria dell’acquifero sotterraneo, formando il data
base delle risorse fisico-ambientali, immettendovi i dati ricavati dall’indagine in posto nonché da ulteriori fonti di provenienza esterna, predisponendo la cartografia descrittivo-tematica e progettuale su basi catastale e topografica insieme alla
relazione e alle norme tecniche d’attuazione.
128
Data la crescente domanda di apporti idrici per usi domestici, agricoli e industriali.
129
Oltre alla conservazione della flora (soprattutto arborea e arbustiva) nelle vicinanze dei maggiori corsi d’acqua, giacché
l’intreccio delle radici nel sottosuolo contribuisce alla difesa delle sponde fluviali dall’attività erosiva della corrente e, di
conseguenza, al mantenimento dei flussi idrici dentro gli alvei originari.
a) la Carta geolitologica e morfologica dei depositi alluvionali superficiali, per valutare i terreni presenti nei
primi 3-4 m dal piano di campagna, giacché la conoscenza dei caratteri meccanici dei livelli superficiali
concorre al dimensionamento delle opere edilizie di fondazione130;
b) la Carta dei bacini idrogeologici principali e del reticolo idrografico (aste drenanti naturali e artificiali) in
quanto, nella fascia ecologicamente sensibile delle risorgive di Zoppola, la ricostruzione della gerarchia dei
corsi d’acqua rappresenta il primo elementare intervento della loro salvaguardia; in caso d’inquinamento la
delimitazione dei bacini e delle rispettive aste drenanti semplifica l’individuazione della fonte inquinante e
di conseguenza, ove sia noto il punto in cui abbia avuto luogo il fenomeno, é facilitata l’osservazione della
diffusione e dispersione dei fluidi inquinanti; la conoscenza del reticolo idrografico superficiale facilita inoltre l’analisi delle alterazioni morfologiche di alvei e sponde, e ne agevola la valutazione degli effetti131;
c) la Carta dell’idrografia del sottosuolo, che riporta la ubicazione dei pozzi esistenti, i dati relativi alla profondità della falda e, in caso di pozzi realizzati con sonda a rotazione, la loro stratigrafia, tentando inoltre alcuni profili del sottosuolo, correlando le stratigrafie dei pozzi ed evidenziando la presenza di falde freatiche
o artesiane)132;
d) la Carta del rischio idraulico e della tutela dei corsi d’acqua, considerando le situazioni negative
dell’urbanizzazione in aree golenali e spondali e dell’estensione agricola ai limiti di magra; oltretutto,
l’esondazione in golena e in spazi limitrofi alle linee idrologiche di flusso riduce la velocità e capacità erosiva della corrente, e la vegetazione sulle rive contribuisce a migliorare la resistenza all’erosione; quindi,
l’eliminazione della flora per reperire nuove aree di coltivo e l’aratura dei terreni superficiali riduce sensibilmente la densità del suolo e ne facilita l’asporto da parte dei fattori idrici; il rispetto della morfologia e
della flora delle aree golenali, degli ambiti suscettibili di esondazione e di eventuali zone umide limitrofe ha
pertanto lo scopo di contenere il danneggiamento degli insediamenti antropici da parte delle piene conseguenti a precipitazioni meteoriche, non necessariamente eccezionali133;
e) la Carta dei caratteri geolitologici e morfologici, con particolare interesse alla disposizione del reticolo superficiale, alla geometria degli acquiferi in sottosuolo, alla delimitazione delle aree esondabili e ambiti soggetti all’attività erosiva correntizia, all’individuazione dei siti di particolare interesse geologico-naturalistico134;
f) la Carta dei limiti d’uso geo-ambientale (definizione dell’ampiezza delle aree esondabili e distanza
dall’alveo delle zone a rischio in condizioni normali, segnalazione delle zone spondali in fase erosiva e pre130
Il prodotto atteso concerneva: a) l’esame della cartografia geo-ambientale prodotta in funzione dello strumento urbanistico vigente, e desunzione degli elementi utilizzabili; b) la ricerca ed esame di studi e indagini geologiche effettuate in precedenza sul territorio comunale; c) la ricerca ed esame di prospezioni geognostiche effettuate in precedenza (quali sondaggi
con sonda a rotazione, prove penetrometriche eseguite in base alle vigenti norme Uni, Astm, ecc.); d) il rilevamento geolitologico del territorio comunale, ricostruzione delle stratigrafie dei depositi superficiali e descrizione delle loro caratteristiche meccaniche; e) lo scavo di trincee profonde circa 4 m, da localizzare in spazi non interessati da precedenti indagini; f)
l’esecuzione di prove penetrometriche in n. minimo di 3 e profonde 10 m, nella parte meridionale del territorio comunale
non interessato da precedenti prospezioni; g) il prelievo, in corrispondenza dei sondaggi, di campioni da analizzarsi in laboratorio; h) l’esecuzione di analisi granulometriche, limiti di Atterberg, classificazioni Uni 10006; i) il rilevamento geomorfologico del territorio comunale con particolare riguardo agli ambiti non urbanizzati, prospicienti ai corsi d’acqua, alle zone
di risorgiva e alle eventuali zone umide; l) l’individuazione delle principali peculiarità morfologiche mediante l’analisi fotogrammetrica.
131
Prodotto atteso: a) esame della cartografia geo-ambientale prodotta in funzione dello strumento urbanistico vigente e desunzione degli elementi utilizzabili; b) rilevamento dell’idrografia superficiale; c) analisi dei bacini dei corsi d’acqua; d)
reperimento dell’ubicazione delle sorgenti principali; e) analisi della gerarchizzazione del reticolo idrografico; f) conoscenza e delimitazione dei comprensori di utenza irrigua.
132
Prodotto atteso: a) esame della cartografia geo-ambientale prodotta in funzione dello strumento urbanistico vigente, e
desunzione degli elementi utilizzabili; b) ricerca dati di precedenti lavori presso privati ed enti pubblici (stratigrafie, profondità delle falde, direzione dei flussi idrici, permeabilità degli acquiferi); c) rielaborazione dei dati ottenuti; d) ubicazione
dei pozzi presenti nel territorio; e) profili stratigrafici, ricostruiti con l’ausilio delle stratigrafie dei pozzi e dei depositi alluvionali interessati dalla presenza delle falde.
133
Prodotto atteso: a) esame della cartografia geo-ambientale prodotta in funzione dello strumento urbanistico vigente, e
desunzione degli elementi utilizzabili; b) ricerca dati riguardanti le portate dei corsi d’acqua principali; c) rilievi topografici
di alcune sezioni degli alvei; d) analisi del rischio idraulico; e) individuazione di alcuni tratti spondali in fase erosiva e degli
interventi di mitigazione; f) individuazione e delimitazione di fasce lungo le sponde dei corsi d’acqua e di ambiti, prospicienti alle zone umide, ove precludere l’edificazione e le attività agricole.
134
Prodotto atteso: a) carta geolitologica e morfologica dei depositi alluvionali superficiali; b) carta dei bacini idrogeologici
principali e del reticolo idrografico; c) carta dell’idrografia del sottosuolo; d) carta del rischio idraulico e della tutela dei
corsi d’acqua.
scrizioni attenuative, citazione delle zone con presenza diffusa di lenti od orizzonti sabbiosi suscettibili di liquefazione, conseguente accertamento dei depositi alluvionali a rischio sismico.
5. Riguardo all’analisi agronomica135, Danuso e Giovanardi136 hanno adottato i sistemi di classificazione americano (Soil Taxonomy, Usda, 1975; chiavi di classificazione, ed. 1985) e Fao-Unesco (Soil Map of the World,
revised legend 1988)137, e hanno studiato i suoli di Zoppola con approfondimento tale da raggiungere il livello
di Famiglia, definita per caratteri chimico-fisici di granulometria, mineralogia, contenuto in calcare, reazione e
temperatura del suolo138.
Gli obiettivi dello studio agronomico-ambientale hanno mirato a: i) valutare la vocazione irrigua dei terreni in
base alla difficoltà di approvvigionamento idrico, alla risposta produttiva ottenibile e alla sensibilità ambientale;
ii) evidenziare gli spazi che sarebbero stati avvantaggiati dalla regimazione idrica rispetto al regime climatico,
tipo di terreno e profondità di falda; iii) stimare la capacità recettiva in liquami zootecnici, compatibilmente con
le esigenze produttive colturali e d’impatto ambientale139; iii) evidenziare gli spazi più sensibili
all’inquinamento dei corpi idrici sotterranei da sorgenti agricole diffuse (azoto, fosforo e fitofarmaci); iv) classificare i terreni sulla base delle specifiche vocazioni colturali per colture arboree, orticole, erbacee asciutte, erbacee irrigue e per la vite; v) valutare i terreni per la capacità di adattarsi a diversi ordinamenti colturali; vi) valutare il paesaggio e le risorse fisiche in termini di indici oggettivi basati sull’uso del suolo; vii) presentare criteri appropriati per contenere il consumo di suolo a fini urbanizzativi, fondati sulla valorizzazione produttiva dei
terreni e sulla tutela delle risorse ambientali.
E’ stata prodotta copiosissima cartografia in rapp. 1:5.000, e in particolare (nella fase descrittiva):
a) la carta dell’uso e copertura del suolo extra-urbano, connessa all’annata agraria 1995-1996 e alla distribuzione vegetale, prodotta in base a sopralluoghi con identificazione di tutti gli appezzamenti utilizzati a mais,
135
Sono state prodotte nel corso della ricerca le seguenti 40 carte: uso del territorio extraurbano, profondità utile del terreno, scheletro del terreno, tessitura del terreno, conducibilità idrica del terreno, capacità idrica di campo, coefficiente di avvizzimento, intensità economico agraria, suoli, riserva idrica strato agrario (50 cm), riserva idrica strato utile (120 cm), fabbisogno irriguo mese di punta, fabbisogno irriguo stagionale mais, fabbisogno irriguo stagionale patata, fabbisogno irriguo
stagionale frumento, fabbisogno irriguo stagionale soia, fabbisogno irriguo stagionale vite, fabbisogno irriguo stagionale
medica, durata della stagione irrigua, produttività mais in asciutto, variabilità rese mais in asciutto, percolazione, rilasci in
falda di azoto (alto input), rilasci in falda di azoto (basso input), rilasci in falda di fosforo agricolo. rilasci in falda fitofarmacui a bassa mobilità, rilasci in falda fitofarmaci ad alta mobilità, vocazione irrigua, necessità regimazione idrica, capacità
recettiva liquami zootecnici, vulnerabilità dei corpi idrici sotterranei, potenzialità agronomica generale, vocazione agronomica per vite, vocazione agronomica per arboree, vocazione agronomica per orticole, vocazione agronomica per erbacee
asciutte, vocazione agronomica per erbacee irrigue, vocazione colturale generale, vocazione colturale specifica, valore paesaggistico/naturalistico, urbanizzabilità dei suoli agricolo-naturali.
136
Cfr. il dettaglio delle indagini agronomiche, le loro definizioni metodologiche e l’esposizione di tutto il lavoro negli
scritti di Danuso e Giovanardi in Paolillo P.L., ed., 1988, Al confine del nord-est. Materiali per il nuovo piano regolatore di
Zoppola, Forum, Udine.
137
In particolare, secondo la classificazione americana la definizione degli orizzonti diagnostici permette l’inquadramento a
livello di Ordine, e gli Ordini a loro volta vengono suddivisi in Sottordini su base pedoclimatica; il pedoclima viene definito attraverso la determinazione del regime idrico e di quello termico e i Sottordini vengono ulteriormente suddivisi in
Grandi Gruppi e poi in Sottogruppi, Famiglie e Serie.
138
L’interpolazione spaziale dei dati ottenuti è stata realizzata sulla base del metodo dell’interpolazione pesata con
l’inverso del quadrato della distanza, utilizzando un programma di interpolazione (Bogaert et al., 1995; Idrisi, 1995); sono
state successivamente ottenute elaborazioni cartografiche suddivise in tre tipologie: a) carte descrittive, che riportano caratteri descrittivi del territorio da impiegarsi tal quali per la realizzazione delle carte progettuali o per ulteriori elaborazioni destinate alla realizzazione delle carte sintetiche; b) carte sintetiche, che riassumono o estendono l’informazione delle carte
descrittive mediante l’applicazione di modelli euristici o matematici di regressione o simulazione dinamica, e che forniscono indicazioni operative sull’uso del territorio o caratterizzano meglio i suoi aspetti rilevanti (es., capacità di ritenzione idrica) anche al fine della realizzazione delle carte progettuali; c) carte progettuali, che integrano le informazioni di diverso
livello ottenibili da carte descrittive e di sintesi, nonché da altre fonti euristiche, per fornire una base fisica per la normativa
di tutela e valorizzazione del territorio, secondo approcci multicriteriali. Per realizzare la cartografia è stata impiegata la
procedura raster in cui tutta l’informazione viene rappresentata in maglia di celle quadrate a dimensione costante, a ognuna
delle quali compete un attributo. Nelle carte descrittive e di sintesi i dati puntiformi (ottenuti da misura, da ricostruzione indiretta o da simulazione) sono stati “spazializzati” (vale a dire interpolati spazialmente) in maglia di 115 x 105 = 12.075
celle, con coordinate Gauss-Boaga da 2341000 a 2352500 (longitudine) e da 5089000 a 5099500 (latitudine), sulla base
quindi di una dimensione di cella pari a 100 m di lato; l’elaborazione delle carte progettuali invece, in relazione alla maggiore risoluzione richiesta, è stata effettuata con una griglia raster di 10 x 10 m, e ciò ha comportato la realizzazione di griglie di 1.150 x 1.050 = 1.207.500 celle per ogni carta.
139
E quindi fornire uno strumento operativo per la localizzazione di nuovi allevamenti sul territorio comunale.
soia, cereali autunno-vernini (frumento, orzo), patata, bietola, prati avvicendati (medica), prati permanenti e
pascoli, vite, vivai di barbatelle da vite, fruttiferi, pioppeti, set-aside e incolto, siepi, boschi (Saf);
b) la carta della profondità utile del terreno (che non supera i 50 cm per la nutrizione minerale e idrica delle
colture ortive, e i 120 per le colture di pieno campo140; più importante è tuttavia lo “strato agrario” da 0 a 50
cm e, solo secondariamente, quello da 50 a 120 cm, soprattutto per formare riserve idriche141);
c) la carta dello scheletro del terreno (che riporta il contenuto in pietre e ghiaia dello strato più superficiale lavorato, di circa 40 cm); la conoscenza dello scheletro è importante per valutare l’intralcio alle lavorazioni
del terreno e la riduzione della massa di terreno utile (quello cioè in grado di trattenere acqua ed elementi
nutritivi disponibili per le piante); dalla profondità utile del terreno e dall’entità di scheletro è possibile ricavare, applicando funzioni di taratura, la capacità di ritenzione idrica; i dati cartografati si basano sui profili
pedologici speditivi effettuati con trivella e valutazione visiva a punteggio per i diversi strati;
d) la carta della tessitura del terreno riporta la descrizione granulometrica della terra fine (strato agrario da 0 a
50 cm) con metodo Usda (sabbia con ∅ da 2 a 0.05 mm; limo da 0.05 a 0.002 mm, argilla <0.002 mm); i dati cartografati si basano sia sui profili pedologici speditivi con trivella e attribuzione alla classe di tessitura
con test di campo, sia sui campioni da trincee analizzati in laboratorio; i dati di contenuto di sabbia e argilla
(%)normalizzati sono stati poi spazializzati ricostruendo una griglia raster con il metodo della “pesatura con
l’inverso del quadrato della distanza”142;
e) la carta della conducibilità idrica del terreno (saturo, fino a 120 cm) evidenzia i problemi insorgenti per eccessiva o scarsa permeabilità all’acqua143;
f) la carta della capacità idrica di campo esp0rime la capacità idrica di campo della terra fine per lo strato superficiale del terreno (0-50), ossia la % d’acqua che può essere trattenuta dal terreno come [(volume di acqua/volume di terreno indisturbato)*100]144.
Le variabili fin qui osservate, generalmente in formato continuo, sono state discretizzate per permetterne una
più agevole interpretazione cartografica e la successiva classificazione, in maniera da trasformare i valori di variabili continue in valori discreti attribuendo loro un attributo intero (1, 2 3, ecc) a seconda della classe di appartenenza e, quando una carta derivava da interazioni di una o più carte preprodotte, è stato adottato un approccio
multicriteriale per normalizzare i dati145.
140
In condizioni particolari alcune colture (bietola, vite, arboree) possono utilizzare parzialmente anche il suolo fino ad una
profondità di 300 cm.
141
La profondità utile può essere ridotta dalla presenza di strati di argilla impermeabile, da suole di lavorazione, dalla falda
acquifera superficiale, oppure essere naturalmente ridotta, terminando con strati di scheletro (ghiaia, roccia madre), con
scarsa capacità di trattenuta idrica.
142
Nel territorio allo studio (strato superficiale) si sono rinvenuti solo terreni del tipo franco, franco-sabbioso, francolimoso e franco-limoso-argilloso.
143
La conducibilità idrica (K0) è stata ottenuta, per ciascuno strato, sulla base di relazioni di tessitura (rapporto tra il contenuto di sabbia e quello di argilla; Driessen, 1986); iL valore medio di conducibilità del terreno è stato ottenuto con una media armonica, che equivale a trasformare le conducibilità in resistenze, ottenerne la media aritmetica e poi trasformare in
conducibilità il valore ottenuto, naturalmente ponderato sulla profondità degli strati.
144
La procedura di ottenimento della capacità di campo e dell’altra costante idrologica che permette di identificare l’acqua
disponibile (coefficiente di avvizzimento) parte dalla conoscenza della curva di ritenzione idrica del terreno che presenta la
relazione tra contenuto dell’acqua e il suo potenziale di trattenuta.
145
In modo tale che il valore minimo fosse = 0 e il massimo = 1, calcolandone successivamente la media pesata con ponderazioni ricavate tramite il software Idrisi; pertanto, la classificazione della variabile ottenuta è stata eseguita suddividendo il suo range di variazione (0-1) in parti uguali e attribuendo una qualifica di merito ai valori rientranti in ciascuna classe. L’elaborazione statistica è stata realizzata con il programma Stata v. 3.1 (Stata Corp., 1993); le simulazioni degli impatti dell’agricoltura sono state effettuate col modello Css (Crop System Simulator; Danuso et al., 1996) sviluppato presso il
Dpvta del’Università di Udine; le interpolazioni spaziali sono state ottenute con programmi specifici (Bogaert et al., 199)
che impiegano le specifiche routines di Idrisi; la realizzazione ed elaborazione delle carte raster è stata ottenuta con il Gis
raster Idrisi v. 1.04, e le bozze manuali delle mappe sono state digitalizzate in termini vettoriali nel formato Dxf (Autocad).
Quindi i files Dxf sono stati trattati impiegando il Gis vettoriale MapInfo, e si è proceduto alla selezione e riclassificazione
dei tematismi riportati (strade, fiumi, nuclei urbani, greti fluviali, usi agricoli diversi del suolo) mantenendo, per le strade,
solo quelle di una certa rilevanza; le carte vettoriali in formato MapInfo sono state poi lette e rasterizzate con Idrisi.
L’elaborazione è stata realizzata completamente con Pc Pentium; i tempi di elaborazione complessivi sono risultati accettabili mentre la principale limitazione ha riguardato la disponibilità di memoria sul disco fisso per trattare la gran mole di
dati sia per le simulazioni che per la realizzazione delle carte: si consideri che un’intera simulazione di tipo Montecarlo col
modello Css (60 anni x 185 siti) ha richiesto per ciascuno scenario colturale circa 700 Mb di memoria su disco rigido;
l’informazione contenuta alla fine dell’elaborazione può essere tuttavia sintetizzata in circa 10 Mb per simulazione, mentre
per la realizzazione delle carte è stata necessaria una memoria di lavoro su disco di circa 1 Gb.
Ma passiamo ora alla considerazione di ogni specifica carta “progettuale” prodotta nell’ultima fase del lavoro,
vale a dire la cartografia di maggior complessità di calcolo; Danuso e Giovanardi hanno approntato un ricco
apparato cartografico, e in particolare:
a) la carta della vocazione colturale generale (in termini analoghi alla “Land capability” Usda, esprimendo il
grado di flessibilità nella scelta delle colture viticole, arboree, orticole, erbacee asciutte e irrigue;
b) la carta della vocazione colturale potenziale (aree adatte a colture intensive ed estensive, a sole colture intensive, a sole colture estensive, aree poco vocate alla coltivazione)146;
c) la carta della vocazione irrigua, basata sui tre criteri dell’efficacia irrigua (l’incremento produttivo atteso
introducendo l’irrigazione), della facilità di approvvigionamento dell’acqua (distanza dai corsi d’acqua e
profondità di falda) e della capacità di immagazzinamento idrico del terreno147;
d) la carta della necessità di regimazione idrica, che riporta l’esigenza di realizzare scoline o drenaggio tubolare sotterraneo in base principalmente a due criteri: la profondità della base della falda freatica più
superficiale e la natura del terreno148; è noto che il ristagno idrico determina forti decurtazioni delle rese,
negative modificazioni strutturali e chimiche nei terreni e difficoltà di transito, e che le esigenze di regimazione sono tanto maggiori quanto più superficiale è la falda acquifera sottosuperficiale; inoltre, la natura dei terreni influisce sulla risposta alla regimazione idrica in relazione a: profondità del terreno, acqua disponibile specifica del terreno, granulometria, contenuto in scheletro, conducibilità idrica e pendenza149;
e) la carta della capacità recettiva in liquami zootecnici, in cui si individuano le quantità massime sopportabili senza che si verifichino inconvenienti alla salute pubblica e alla qualità dell’ambiente (formazione di odori, inquinamento dei corpi idrici sotterranei e di superficie), in rapporto alle distanze da zone urbane,
strade e corsi d’acqua nonché ai caratteri pedologici e climatici e al rischio di trasferimenti in falda tramite
percolazione150;
146
Per colture intensive si intendono i fruttiferi, la vite e le colture orticole e vivaismo, per estensive le colture del mais,
bietola, soia, frumento, orzo, prati e colture legnose. Il confronto della carta della “vocazione colturale potenziale” con
quella della “vocazione colturale reale” permette di valutare se le colture di fatto praticate vengono realizzate negli ambienti adatti; permette inoltre di identificare le zone in cui incentivare o inibire la diffusione delle diverse colture.
147
Impiegando un metodo parametrico che prevedeva il calcolo di un indice additivo di vocazione irrigua, che si assume
dipendere da: 1) risposta ottenibile con l’introduzione dell’irrigazione (efficacia irrigua o miglioramento delle rese); 2) difficoltà o possibilità di reperire l’acqua irrigua; 3) riserva idrica utilizzabile massima del terreno; maggiore sarà la produzione recuperata con l’irrigazione e più conveniente sarà la stessa; l’indisponibilità di acqua irrigua preclude la possibilità
di realizzare l’irrigazione mentre la lontananza delle fonti di approvvigionamento (profondità falda freatica e distanza dai
corsi d’acqua) la rende meno attraente; la bassa capacità idrica del terreno comporta irrigazioni troppo frequenti e rischi
ambientali per dilavamento; l’alta capacità idrica rende poco utile l’irrigazione.
148
Date le dimensioni del territorio non si considerano differenze di regime pluviometrico e vengono inoltre trascurati gli
aspetti inerenti salinità, alcalinità, eccessi di sostanza organica, orizzonti anomali, pendenza.
149
I terreni poco profondi (poggianti su un materasso ghiaioso), più declivi, più ricchi di scheletro e maggiormente permeabili presentano in genere modeste esigenze di regimazione idrica; al contrario i terreni con elevata capacità di ritenzione
idrica, profondi, argillosi o limosi, poco permeabili e con giacitura pianeggiante richiedono delle sistemazioni idraulico agrarie. Si è impiegato un metodo parametrico che prevede il calcolo di un indice additivo di necessità di regimazione idrica, ispirato al metodo della Land Suitability (Fao, 1976). La procedura è suddivisa in due fasi. Nella prima, sulla base della
profondità della base della falda freatica i terreni sono stati suddivisi in adatti (S) e non adatti (N) alla regimazione idrica
considerando una profondità di cut-off di 10 m. A tale proposito si considera che la profondità della falda di circa 5 m debba esser considerato un livello soglia in quanto costituisce il limite massimo di profondità per il pompaggio dell’acqua con
pompe in superficie; a profondità superiori i costi crescono bruscamente per la necessità di impiegare pompe sommerse. Si
considerano 10 m poichè non viene utilizzato un valore reale di profondità della falda ma il livello minimo (base della falda freatica superficiale). Nella seconda fase, per i terreni che richiedono regimazione (con base falda inferiore a 4.5 m),
sono state individuate le classi S1, S2 e S3 sulla base di sette fattori che concorrono ad un punteggio totale additivo di 100
punti, così suddivisi tra due categorie di fattori: fattori pedologici (40 punti): profondità del terreno 10, granulometria 20,
scheletro 10, fattori idrologici (60 punti): profondità della falda 30, acqua disponibile 10, conducibilità idrica 20.
150
Il territorio è stato classificato, secondo la procedura della Land Suitability (Fao, 1976) secondo l’ordine dei terreni adatti allo spargimento dei liquami (S) e non adatti (N) per i quali lo spargimento deve essere vietato. Il criterio per definire
N è quello della distanza dai nuclei urbani, dalle strade e dalla rete idrografica, considerando una zona di rispetto di 200 m
per i nuclei urbani, 50 m dalle strade e 50 m dai corpi idrici di superficie (tali fasce di rispetto sono state ottenute con Idrisi
calcolando, per ciascuna cella, la distanza dagli elementi su indicati. L’ordine S è stato poi suddiviso in classi di recettività
decrescente: S1, S2, S3 e S4, considerando la produttività del terreno e quindi le esigenze delle colture, la capacità di contenimento e i fattori pedologici che favoriscono il passaggio in falda degli inquinanti (percolazione) o l’inquinamento dei
corpi idrici superficiali (run off). Per la dose di riferimento sono stati adottati i valori proposti da Giardini e Giupponi che
sulla base di considerazioni sul bilancio dell’azoto nel sistema colturale e considerando accettabile un dilavamento di 50
f) la carta della vulnerabilità dei corpi idrici sotterranei, che descrive il rischio d’inquinamento diffuso dei
corpi profondi (in particolare la percolazione in falda di nitrati, fosforo e fitofarmaci) per effetto
dell’attività agricola;
g) il complesso di carte della vocazione colturale per vite, arboree, orticole, erbacee asciutte e irrigue151,
nonché le carte della vocazione colturale generale e specifica;
h) la carta del valore paesaggistico-naturalistico, basata sull’uso del suolo in rapporto alla struttura del paesaggio e, in particolare, alla presenza nel territorio comunale di elementi pregevoli152 e di peculiarità orografiche; i fattori del paesaggio sono stati raggruppati nelle tre categorie U (calcolando un indice di eterogeneità dell’uso del suolo), S (struttura del paesaggio), Q (qualità visiva del paesaggio in termini orografici
e di associazioni vegetazionali), Z (zone umide come paludi, risorgive, magredo fluviale); la valutazione è
stata realizzata mediante una “funzione di paesaggio” (VPN) ottenuta come funzione pesata153 di U, S, Q e
Z=
VPN = f (U , S , Q, Z ) = Pu ⋅ U + Ps ⋅ S + Pq ⋅ Q + Pz ⋅ Z
6. Vediamo ora i criteri adottati per la classificazione dello spazio comunale in aree a edificabilità differenziata
(USAN) in base ai caratteri di intensivazione (VCS), marginalità (VCG) e valore paesaggistico (VPN), nel senso che se in una cella i fattori agricoli sono marginali e il valore paesaggistico è alto, allora la classe USAN è 1
(non edificabilità assoluta per valori paesaggistico-naturalistici) e così via, come nel riquadro che segue (per
VCS si fa riferimento a vite, arboree ed orticole; estensiva a colture erbacee di pieno campo; si considera marginale una zona con VCG < 7; il valore paesaggistico è alto per VPN tra 6 e 10, medio tra 3 e 6, basso tra 0 e
3):
Classe
1
2
3
4
5
VCS
(intensivazione)
Indifferente
Estensivo
Intensivo
Indifferente
Indifferente
VCG
(marginalità)
Marginale
Non marginale
Non marginale
Marginale
Marginale
VPN
(valore paesaggistico
Alto
Indifferente
Indifferente
Medio
Basso
La tutela dei suoli nella direttrice urbanizzativa parte dai presupposti di: i) salvaguardare in modo rigoroso i
suoli dotati di elevato valore paesistico e naturalistico in quanto esplicite risorse da salvaguardare; ii) considerare inedificabili anche i suoli dove non sussistono motivi urbanizzativi (zone ad agricoltura non marginale ed estensiva); iii) permettere un’edificabilità limitata e finalizzata a potenziare le sole infrastrutture produttive di aree ad agricoltura potenzialmente (e/o realmente) intensiva e non marginale; iv) permettere un’edificabilità come in iii) ma estesa anche alla residenza del conduttore per le zone marginali; v) limitare a tutti gli effetti lo
spreco di suolo rurale.
La classificazione finalizzata agli indirizzi di tutela del suolo rurale nella direttrice urbanizzativa si è basata sulle carte progettuali VCG (vocazione colturale generale, espressiva del livello di marginalità dell’agricoltura),
VCS (vocazione colturale specifica (indicativa del grado d’intensivazione potenziale o effettiva), VPN (connotativi del valore paesaggistico-naturalistico).
Il valore paesaggistico (alto, medio, basso) è stato ottenuto dall’indice del valore paesaggistico VPN da cui
vengono ricavate le classi di valore paesaggistico alto (VPN da 6 a 10), medio (VPN da 3 a 6), basso (VPN da
0 a 3).
La marginalità dell’agricoltura è valutata con VCG (che varia da 0 a 15): quando VCG < 7, allora l’agricoltura
si considera marginale per quella zona, e il contrario per valori superiori.
kg N/ha/anno, stabilisce un carico massimo di 3.5 t/ha di peso vivo di vitelloni (10 t/ha s.s. liquami bovini), oppure 2.5 t/ha
di suini (6 t/ha s.s. liquami suini) oppure 1.2 t/ha di ovaiole (7 t/ha s.s. pollina).
151
La scelta dei pesi riguarda: a) la profondità del terreno; b) la tessitura sciolta; c) il contenuto di scheletro; d) la ritenzione idrica; e) la potenzialità agronomica generale; f) la vocazione irrigua.
152
Quali boschi, corsi d’acqua, siepi, fabbricati di interesse storico-culturale.
153
Dove i pesi sono Pu = 0.2, Ps = 0.2, Pq = 0.4 e Pz = 0.2, e vale: Pu + Ps + Pq + Pz = 1 (U, S, Q, Z e quindi anche VPN
vengono espresse con un punteggio da 0 a 10); si avrà pertanto 1 =
zone di elevato pregio paesaggistico (VPN da 8 a
10), 2 = zone di medio-elevato pregio paesaggistico (VPN da 6 a 8), 3 = zone di medio pregio paesaggistico (VPN da 4 a
6), 4 = zone di medio-basso pregio paesaggistico (VPN da 2 a 4), 5 = zone di scarso valore paesaggistico (VPN da 0 a 2).
La tipologia intensiva/estensiva viene determinata sulla base della carta della vocazione colturale specifica
(VCS): se VCS è assegnato VI (vite) o AR (arboree) o OR (orticole) la tipologia si considera intensiva, mentre
è estensiva per VCS = EA (erbacee asciutte) o = EI (erbacee irrigue).
La classificazione di ciascuna cella (100 x 100 m) nelle classi 1, 2 3, 4 e 5 viene ottenuta come segue:
1 = zona a inedificabilità assoluta per compresenza di valori paesistici e/o ambientali di particolare pregio;
2 = zona a inedificabilità assoluta per presenza di valori agro-produttivi estensivi;
3 = zona a edificabilità finalizzata alle sole necessità di adeguamento agricolo aziendale in funzione infrastrutturale (con esclusione della residenza) per presenza di ambienti non-marginali e caratteristiche di intensività;
4 = zona a edificabilità finalizzata anche alla residenza dei soggetti produttori agricoli, per presenza di valori
agro-produttivi marginali;
5 = suoli a indifferente destinazione urbano/agricola, per presenza di valori agro-produttivi marginali.
7. Consideriamo, infine, i modi in cui è stato ottemperato all’art. 30, c. 5, lett.a), n. 2) della Lr. Friuli-Venezia
Giulia n. 52/1991 (ossia la “rappresentazione schematica della strategia risultante dalla sintesi degli elementi
strutturali del territorio relazionati alle previsioni del piano”), che nello strumento di Zoppola si sono articolati
mediante l’approntamento della Carta degli elementi strutturali del territorio e degli indirizzi di progetto insediativo e ambientale”, in cui si è provveduto a relazionare, sintetizzare e calcolare interattivamente tutte le risultanze spaziali ottenute nel corso della procedura analitica; in particolare, è stato prescelto di considerare:
a) per l’Assetto insediativo, le Carte della strumentazione urbanistica vigente, dei vincoli urbanistici vigenti,
della dotazione di urbanizzazioni a rete, del demanio municipale, delle aree edificate e urbanizzate e
dell’accessibilità ai servizi pubblici, della compattezza morfologica dei margini urbani;
b) per l’Assetto geo-ambientale, le carte dei bacini idrologici principali e del reticolo idrografico,
dell’acquifero superficiale (andamento della falda freatica – base della falda freatica superficiale, andamento della prima falda artesiana – tetto della falda artesiana superficiale), della vulnerabilità
dell’acquifero, del rischio idraulico e tutela dei corsi d’acqua, della zonizzazione geologica;
c) per l’Assetto agro-ambientale, le carte dell’uso e copertura del suolo extraurbano, della percolazione, dei
rilasci in falda, della vocazione colturale reale, della necessità di regimazione idrica, della vulnerabilità dei
corpi idrici sotterranei, delle vocazioni agronomiche, del valore paesaggistico naturalistico,
dell’urbanizzabilità dei suoli agricolo-naturali.
Per individuare le interdipendenze sussistenti tra i differenti databases cartografici (ottenuti nel corso della ricerca per l’intero territorio comunale) s’è reso necessario trasformare tali archivi in un nuovo database alfanumerico “discreto”; tale passaggio metodologico, che ha obbligato a effettuare una vera e propria astrazione delle entità grafiche cartografate, è stato eseguito (lo ricordiamo qui solo sinteticamente) suddividendo il territorio
comunale in celle di uguale dimensione e forma (quadrata), alle quali sono stati abbinati codici e indicatori differenziati derivanti da ogni tematismo analizzato; la procedura, mutuata dalle discipline geograficoquantitative154, permette infatti di strasformare in database quantitativi gli “oggetti” spaziali rilevati cartograficamente155, misurandone pertanto (tra l’altro) la distribuzione localizzativa x y z, la frequenza e/o la densità.
154
Cfr. un primo, datato, esperimento, in Colombo, L. (1976), Modellistica e assetto territoriale, Dedalo, Bari; cfr. inoltre,
ancora ai primordi della disciplina, Bertuglia, C.S. e Rabino, G. (1976), Modello di organizzazione di un comprensorio,
Napoli; Branch Melville, C. (1966), Simulation models and comprehensive city planning, in Urban affairs, 3; D’Ambrosio,
R., Piemontese, A, Piemontese, L. e Scarano, R (1974), Sistemi e modelli nell’analisi territoriale, Bologna; Echenique, M.
(1972), Models, a discussion, in Urban space and structures, Cambridge; Lucchini, S.F. (1972), Modelli di ricerca operativa applicati al territorio: metodologie di approccio, in Metodologia urbanistica, ricerca operativa, modellistica urbana,
Napoli; March, L. e Steadman, P. (1974), La geometria dell’ambiente. Una introduzione all’organizzazione spaziale nella
progettazione, Milano; Toniolo, G. (1975), Analisi strutturale con l’elaboratore elettronico, Milano.
155
Recenti contributi invece, tra gli altri, di Arbia, G. (1988), Spatial data configuration in statistical analysis of regional
economic and related problems, Kluwer Academic Publisher, Dordrecht, The Netherlands; Arbia, G. ed Espa, G. (1996),
Statistica economica territoriale, Cedam, Padova; Besag, B.M. e Horst, C. (1966), Spatial interaction and the statistical
analysis of lattice systems, in Journal of the Royal Statistical Society, B, r6, 192-225; Costa, M. (1993), Geografia col pc,
Nis, Roma; Frayre, M. (1994), Metodi di analisi multidimensionale dei dati, Cisu, Roma; Paolillo, P.L., ed. (1995a), Spazi
agricoli a Cusago. Un esercizio analitico sul territorio extra-urbano: agricoltura, ambiente, paesaggio in un comune lombardo, Angeli, Milano; Paolillo, P.L., ed. (1995b), Il programma di Diana. Storia ambiente tradizione venatoria, alla ricerca di un modello condiviso, De Agostini, Novara; ivi: “Un esempio di sintesi cartografica per la rappresentazione dei lineamenti strutturali fisici e delle unità di paesaggio locale: il caso di Noli in Liguria”, pp. 219-228; “Lo spazio montano interlacuale tra Iseo e Idro in Bresciana: trattamento cluster dell’informazione fisica e rappresentazione tridimensionale”, pp.
230-235; “Un atlante cartografico per l’analisi multivariata delle risorse fisiche: la sponda orientale del Lago Maggiore”,
In particolare, nel nostro caso:
a) è stata sovrapposta al territorio comunale di Zoppola (dopo la sua digitalizzazione in ambiente AutoCad)
una griglia regolare a maglia quadrata di 199 x 220 celle, di 50 m di lato;
b) entro ogni cella è stato verificato e misurato il contenuto corrispondente, ottenendo un file di output strutturato in forma di matrice di 43.780 righe e 9 colonne, le cui prime tre sono riferite alle coordinate geografiche
x y z dello spigolo inferiore sinistro di ogni cella (le coordinate necessarie, cioè, per georeferenziare le singole celle), mentre le successive sei concernono le seguenti variabili rilevate nell’ambito delle analisi di piano:
N
X
righe
Y
Z
Fattori
Fattori
geo-ambienta agroambientali
Fattori
Fattori
Aggregati Fattori
paesaggistic vincolistici urbanizzati morf.insediativi
1
2
…
43.780
Lo studio preparatorio alla redazione della “Carta degli elementi strutturali del territorio e degli indirizzi di
progetto insediativo e ambientale” ha percorso le seguenti fasi analitiche:
a) prima fase (preparazione dell’archivio alfanumerico):
nell’ambito dei fattori geo-ambientali, sono stati considerati:
⇒ i fattori della Zonizzazione geologico-tecnica, ossia le zone Z2 (depositi ghiaioso-sabbiosi localmente cementati), Z3 (lenti e livelli sabbioso-ghiaiosi con locale presenza di sedimenti sabbioso-limosi e limoargillosi), Z4 (lenti e livelli limo-argillosi con intercalazioni di livelli sabbioso-limosi);
⇒ i fattori della Liquefacibilità, ossia le zone con presenza di terreni potenzialmente liquefacibili;
⇒ i fattori della Esondabilità, ossia le zone esondabili con lama d’acqua > 1,00 m, le zone esondabili con lama
d’acqua < 1,00 m;
⇒ i fattori dei Ristagni idrici, ossia le zone di ristagno idrico (in presenza di piovosità intensa) dovuto a bassa
permeabilità verticale dei terreni, oltre alle zone acquitrinose e saltuariamente acquitrinose (zone esondabili
per bassa permeabilità verticale),
sulla base della seguente matrice:
Elemento di rischio
Classe 1
Zonizzazione geologico-tecnic Z2
Liquefacibilità
NL
Esondabilità
N.E.
Ristagni idrici
NO
Classe 2
Z3
L
≤ 1m
Con piogge
intense
Classe 3
Coeff. 1
Z4
0
/
0
> 1m
0
In aree
0
acquitrinose
Coeff. 2
0,50
1,00
0,50
0,50
Coeff. 3
1,00
/
1,00
1,00
Peso
0,10
0,10
0,70
0,10
E’ stato poi calcolato per ogni cella territoriale il rischio geologico R, con R = (Z + L + E + I) dove:
⇒ Z (= superficie interessata x coeff. x peso = valore pesato del rischio relativo alla zonizzazione geologicotecnica);
⇒ L (= superficie interessata x coeff. x peso = valore pesato del rischio relativo alla liquefacibilità);
⇒ E (= superficie interessata x coeff. x peso = valore pesato del rischio relativo alla esondabilità);
⇒ I (= superficie interessata x coeff. x peso = valore pesato del rischio relativo alla presenza di ristagni idrici).
Le risultanze del calcolo, ottenute per ogni cella indagata, sono state suddivise in due classi e, con i
corrispondenti risultati di rischio R, sono state codificate le celle I = celle con R (≥) 0,70 (riguardano aree da
precludere a qualsiasi forma di utilizzo); II = celle con R (≥) 0,20 e < 0,70 (riguardano aree di contenimento
dell’edificabilità); e pertanto:
a) circa i fattori agro-ambientali è stato utilizzata, in questa fase, la Carta dell’urbanizzabilità dei suoli
agricolo-naturali, che riporta una classificazione riassuntiva delle limitazioni agro-ambientali ai fini
dell’edificabilità dei suoli; allo scopo sono state raggruppate in due classi le informazioni mappate,
codificando le celle interessate sulla base della corrispondente % di superficie coinvolta in prevalenza, con
pp. 236-253; “Il territorio comunale di Varese: una cartografia rappresentativa dell’energia di rilievo in un contesto di paesaggio prealpino”, pp. 254-261; Zani, S., ed. (1993), Metodi statistici per le analisi territoriali, Angeli, Milano.
I = suoli a inedificabilità assoluta ed edificabilità finalizzata agricola bassa e medio-bassa; II = suoli a
edificabilità finalizzata agricola medio-alta, alta e/o libera;
b) riguardo ai fattori paesaggistico-naturalistici è stata utilizzata la Carta del valore paesaggisticonaturalistico, che valuta la corrispondente qualità sulla base dell’uso del suolo, della struttura del paesaggio
valutata empiricamente in sopralluogo e della presenza di elementi paesaggistici di particolare pregio (quali
boschi, corsi d’acqua, siepi, fabbricati di interesse storico culturale), e raggruppa le informazioni nelle due
classi: I = territorio di alto, medio-alto e medio valore paesaggistico-naturalistico; II = territorio di mediobasso e basso valore paesaggistico-naturalistico, sulla base delle quali sono state codificate le celle rispetto
aella relativa percentuale di superficie coinvolta in prevalenza.
c) rispetto ai fattori vincolistici, sono state utilizzate le carte della perimetrazione del parco regionale del
Meduna e dei vincoli urbanistici vigenti a scala comunale”, estraendo – oltre al perimetro di parco – le
informazioni relative alla presenza di vincoli militari e di aree esondate nell’alluvione del 1966, con lama
d’acqua superiore e/o inferiore a 100 cm;
d) gli aggregati urbanizzati sono stati ovviamente esclusi dalle analisi ambientali;
e) i fattori morfologico-insediativi, infine, sono stati estratti dalla carta di valutazione della compattezza
morfologica dei margini urbani a scala comunale, e in particolare sono state opportunamente codificate le
celle comprese nei perimetri virtualmente compatti;
b) seconda fase (analisi delle tipologie o “Typolog analysis”):
l’archivio alfanumerico è stato pertanto contenuto in una matrice, nei cui assi orizzontali insistono i vettori
descrittivi di ogni cella territoriale del comune di Zoppola; confrontandoli tra loro mediante una Typolog
analysis, si sono potute individuare ben 35 tipologie differenti di cella (un’entità senza dubbio eccessiva per
poterne ottenere degli spazi omogenei sufficientemente ampi da rappresentare utili suggerimenti per il progetto
di nuova localizzazione insediativa e di apposizione delle tutele ambientali);
c) terza fase (aggregazione delle tipologie di cella individuate per assetti omogenei):
viste allora le marcate differenze morfologico–ambientali constatate fino alla seconda fase, si è ritenuto più
consono ponderare le tipologie di cella individuate, così da esaltarne maggiormente i fattori peculiari centrali; a
ogni fattore analizzato, pertanto, sono stati attribuiti i seguenti pesi:
A = fattori geo-ambientali: I classe (R ≥ 0,70) con P = 1; II classe (R ≥ 0,20 e < 0,70) con P = 0,50;
B = fattori agro-ambientali: I classe con P = 1; II classe con P = 0,10;
C = fattori paesaggistico-naturalistici: I classe con P = 0,50; II classe con P = 0,10;
D = fattori vincolistici: parco del Medusa con P = 20; vincoli militari e aree esondate nell’alluvione del 1966
con P = 0,50;
E = aggregati urbanizzati: presenza di aggregati urbanizzati con P = 10;
F = fattori morfologico-insediativi: aggregati urbanizzati compresi nel perimetro virtualmente compatto, con P
= 0,10.
Il valore V, vale a dire le risultanze dell’interazione dei fattori A, B, C, D, E ed F, è stato quindi calcolato per
sommatoria ponderata dei corrispondenti indicatori presenti nelle singole celle, per cui:
V = ∑ [(P x A) + (P x B) + (P x C) + (P x D) + (P x E) + (P x F)]
in tal modo identificando 4 differenti Aggregazioni:
a) l’Aggregazione n. 1 (V > 20) corrisponde in cartografia all’Assetto n. 1 e riguarda l’area del parco regionale
del Meduna ex art. 5 della Lr. 42/1996; il peso (P = 20), attribuito alla presenza del parco, ha contribuito a
distinguerlo con forza rispetto al restante spazio comunale e, d’altra parte, è questo l’assetto più complesso
giacché vi risultano aggregate ben 12 tipologie di cella differenti (oltretutto tra loro simili unicamente per
l’attraversamento del fiume Meduna, e per ciò stesso caratterizzative di buon tasso di biodiversità);
b) nell’Aggregazione n. 2 (1 ≥ V < 10) insistono le celle ad alto valore agro-ambientale e paesaggisticonaturalistico, e le peculiarità rilevate si devono tutelare vietando qualsivoglia edificabilità; pur trattandosi di
spazi assai consimili, vista la differente distribuzione territoriale si è deciso di distinguerli in due Assetti, e
in particolare uno (“Spazi integrativi delle Aree di rilevante interesse ambientale”) comprende le celle
contigue al parco ambientale del Meduna (interessanti, in particolare, 7 tipologie di cella) mentre l’altro
(“Spazi agricoli ad alto valore agro-ambientale, paesaggistico e naturalistico”) comprende celle lontane
dal perimetro del parco del Meduna e distribuite variamente nello spazio comunale (sono coinvolte, in
questo assetto, soltanto cinque delle sette tipologie individuate, e le due tipologie di cella mancanti
riguardano la mancata concorrenza dell’alto rischio geoambientale giacché si tratta di spazi lontani dalle
aree esondabili con lama d’acqua superiore a 100 cm);
c) l’Aggregazione n. 3 (V < 1) riguarda spazi a basso valore agro-ambientale e paesaggistico-naturalistico;
sono interessate soltanto sei tipologie di cella, differenziate per presenza di vincoli militari o di aree
esondate nell’alluvione del 1966 o di spazi compresi nel perimetro compatto degli aggregati urbanizzati, in
cui sono state localizzate zone espansive e/o di completamento di Prgc;
d) l’Aggregazione n. 4 (10 ≤ V < 20) concerne gli spazi degli aggregati urbani consolidati, di completamento
e/o di espansione; anche se tra loro differenti (lo dimostra l’aggregazione di ben nove tipologie di cella) sono, questi, spazi già urbanizzati per i quali sono contemplati unicamente interventi a saturazione dei lotti
ancora liberi, purché compresi in celle prive di vincoli e limitazioni agro-ambientali.
2.4. L’analisi multivariata nel nord-est collinare, lacuale e montano del Bresciano e Bergamasco.
Il “prototipo di programma ecologico-ambientale” 156 si è riproposto d’identificare modi e strumenti di conoscenza integrata delle molteplici componenti dell’ecosistema regionale lombardo, per assicurare che la decisione politico-amministrativa venga corroborata da una verifica delle condizioni di sostenibilità dello sviluppo.
L’utilità di predisporre strumenti di eco-programmazione appare in particolare indirizzata a: i) descrivere il sistema ambientale157, disaggregandolo in bacini sub-regionali omogenei; ii) fornire la misura dello stato
dell’ambiente in tali differenziati bacini, proponendo: 1. valori (propensioni e prerogative positive), 2. disvalori
(inattitudini e specificità negative), 3. rischi (incertezze e limiti d’uso delle risorse); iii) esplorare i nessi causaeffetto dei problemi constatati; iv) suggerire le esigenze di recupero e le funzioni di riequilibrio territoriale, segnalare i gradi di priorità delle iniziative rispetto alle ipotesi di minor carico ambientale, avanzare ipotesi
d’intervento ecologico finalizzato in luoghi nodali dello spazio regionale; v) verificare e aggiornare le risultanze
del modello descrittivo ambientale rispetto ai processi evolutivi della base informativa.
Nelle 122.448 celle158, condotte separatamente nei due grandi aggregati bresciani e bergamaschi: i) del nord-est
collinare, lacuale e montano = 57.517 celle = 46,9% e ii) del centro-sud collinare e pianeggiante = 64.931 celle
= 53,1%, il processo classificatorio si è articolato nelle fasi: a) di messa a punto della banca dati in forma disgiuntiva completa, b) di analisi delle corrispondenze e c) di classificazione non gerarchica.
In particolare nella prima fase sono state importate e assemblate in Stata159, nel formato Ascii, le mappe raster
di Idrisi160 e – accanto alle componenti originariamente comprese nell’archivio derivato dagli Enti lombardi –
nella tabella binaria sono state inserite le nuove componenti derivate dalla spazializzazione di dati originari, ottenendo così un dataset finale del nord-est collinare, lacuale e montano, bergamasco e bresciano) comprendente
57.517 record (uno per cella) e 345 variabili; dall’analisi delle corrispondenze sono stati estratti 261 assi fattoriali, mantenendo infine 11 fattori per la classificazione non gerarchica delle celle161 col metodo delle nubi dinamiche di Diday, e conducendo 10 partizioni con 10 classi e scelta casuale e ripetibile dei centri iniziali; le due
partizioni migliori sono state incrociate, scegliendo infine la partizione a 11 classi in grado di rappresentare il
59.533% dell’inerzia registrata negli assi fattoriali, valore (quota di inerzia spiegata) dato dal rapporto tra
l’inerzia tra le classi (o “esterna”, = 1.23597) e quella totale (= 2.07609), mentre l’inerzia intraclasse (o “interna”) è = 0.84013.
Si constata così, a conclusione delle analisi, la presenza dei seguenti bacini d’intensità problematica ambientale
nel territorio bergamasco e bresciano: 1 (i boschi e pascoli in contesti naturali e/o paranaturali); 2 (i boschi e
pascoli di transizione, tra contesti naturali e antropici con presenza di governo della vegetazione); 3 (i complessi per lo più boschivi, a moderata energia di rilievo); 4 (il complesso naturalistico unitario della media val Seriana); 5 (gli spazi di relazione con l’urbanizzato, a potenziale o reale uso agro-pastorale); 6 (i prati-pascoli in
ambiti a bassa energia di rilievo, integrati da presenza antropica); 7 (le evidenze impervie di rilevanza estetico156
Questo lavoro trae origine dalle ricerche effettuate negli anni 1997/2000 per la Direzione generale Tutela ambientale
della Regione Lombardia. Per gli esiti, cfr. Paolillo P.L., ed., 2000, Terre lombarde. Studi per un ecoprogramma in aree
bergamasche e bresciane, Giuffrè, Milano (in part. “Una modalità descrittivo-classificatoria di individuazione dei ‘bacini
d’intensità problematica ambientale’ alla scala regionale”, nonché “L’estrazione dei bacini di intensità problematica ambientale in Bergamasca e Bresciana”).
157
In questo caso sperimentale, limitandoci a una sua parte relativa a significative porzioni di territorio bergamasco e bresciano (pari a 136 comuni pianeggianti, collinari e montani).
158
Pari appunto a 122.448 ha (risultando ogni cella = 1 ha), operazione successiva – ricordiamolo – alle precedenti applicazioni multidimensionali nei 136 territori comunali considerati.
159
Un pregevole e versatile software di statistica avanzata, nel nostro caso complementare al sofisticato Addati.
160
Agile Gis dalle buone prestazioni e, soprattutto, dal basso costo d’acquisto; un fondamentale carattere delle mappe raster
di Idrisi insiste nella codificabilità vettoriale, in maniera da ‘affiancare’ tutte le componenti del dataset creando un’unica
tabella dove, per ogni record, corrisponde una cella contrassegnata da un codice e, per ogni campo, una componente; ognuna di queste ultime, descritta da più indicatori, è stata suddivisa in un numero di campi corrispondente al numero degli indicatori, generando così una tabella in forma disgiuntiva completa.
161
Riferiti al 20% dell’inerzia totale.
visuale e naturalistica); 8 (la sub-pianura alluvionale); 9 (le aree di relazione coi fiumi e i contesti urbani); 10
(le torbiere del Sebino); 11 (il complesso delle cave); 12 (i contesti urbani); 13 (i bacini ben drenati, utilizzati a
seminativi con buona capacità d’uso agroproduttivo); 14 (i bacini sub-pianeggianti con problemi di drenaggio);
15 (i bacini collinari a bosco e prato, a settentrione, o terrazzati a meridione); 16 (i bacini delle risorgive - depressioni - a drenaggio difficoltoso); 17 (i bacini di transizione fluviale); 18 (i bacini di relazione fluviale con
processi esondativi); 19 (i bacini dell’alta pianura ondulata); 20 (i bacini collinari pedemontani contigui ai contesti naturalistici); 21 (i bacini di risorgiva a capacità agro-produttiva non limitata); 22 (i bacini agricolointensivi dell’alta pianura ghiaiosa).
2.5. Un’applicazione dell’analisi morfologica all’Isola Bergamasca: dispersione insediativa e consumo di suolo
L’analisi in ambiente ArcView della porzione provinciale di Bergamo racchiusa tra i fiumi Adda e Brembo e il
Monte Canto permette di misurare e classificare l’assetto morfo-insediativo per valutare il grado di compattezza
perimetrale rispetto al centroide di ogni forma insediativa; ovviamente, all’accentuazione del grado di frammentazione perimetrale e/o di diffusione inseediativa corrisponde una maggior quota di consumo di suolo agricolo, corrispondente allo spreco di risorsa (Paolillo 1988).
L’area-studio dell’Isola bergamasca è composta da 19 comuni articolati in 75 nuclei urbani, ognuno dei quali è
rappresentato da un poligono e identificato attraverso la denominazione comunale e un n. progressivo; a tali identificativi sono stati associati l’area e il perimetro dei nuclei urbani.
L’esigenza di classificare l’armatura urbana mediante parametri geometrici ha suggerito di determinare per ciascun nucleo il coefficiente di forma Cf, parametro geometrico espressivo del grado di “frastagliatura/frantumazione” perimetrale del tipo:
Cf =
Pi
Pc
dove Pi = perimetro del centro i di area s, Pc = perimetro di un cerchio c di uguale area s.
Il coefficiente di forma Cf assume valori ottimali = 1 quando il nucleo urbano considerato è espresso da una
forma perimetrale compatta, mentre si hanno valori > 1 laddove essa risulta frastagliata e filamentare.
Nello spazio bergamasco considerato si constata che solo i nuclei di ridotta dimensione assumono un grado quasi accettabile (tra 1 e 1,5) mentre i coefficienti di forma più elevati (tra 1,5 e 2 e tra 2 e 4,4) sono assunti soprattutto dai nuclei urbanizzati maggiori: in questo caso l’area di studio presenta forme a basso grado di compattezza, attestando una crescita insediativa prevalentemente innestata sulle direttrici infrastrutturali che hanno attratto
la costituzione di forme insediative allungate e conurbanti.
Si noti, in particolare, l’influenza sulla forma urbana delle due armature principali, le provinciali 170 “Rivierasca” lungo l’Adda (al margine ovest in direzione nord/sud) e 155 lungo il Brembo (al margine est, egualmente
in direzione nord/sud) che convergono all’autostrada al culmine del triangolo rovesciato, presso il casello di Capriate.
L’indice di dispersione dei centri comunali analizza invece il rapporto tra la superficie urbanizzata dell’intero territorio del comune e quella del capoluogo comunale, nel senso di:
Idcc =
Sc
Sn
dove Sc = superficie urbanizzata totale nel territorio comunale, Sn = superficie urbanizzata del centro rappresentativo del capoluogo comunale.
L’indice di dispersione dei centri comunali assume valori = 1 quando gli insediamenti si presentano molto concentrati, mentre in presenza di valori > 1 sussiste una situazione di maggior diffusione urbana.
L’area considerata complessivamente un basso grado di dispersione dell’armatura urbana; infatti, il 58% dei comuni considerati si colloca nella categoria ottimale (tra 1 e1,2), il 32% nella classe di media dispersione (tra 1,2 e
2), il 5% in medio-alta dispersione (tra 2 e 3) e il5% in alta dispersione (tra 3 e5).
In particolare, si può evidenziare una rilevante dispersione dei centri urbani nella punta meridionale (Filago,
Brembate e Capriate San Gervasio), per la presenza dell’autostrada che funge da catalizzatore del processo insediativo diffusivo.
2.6. Le funzioni agroproduttive peculiari, la cartografia attitudinale e la vocazione alle produzioni tipiche
1. Assai più di vent’anni or sono (a seguito della legge “omnibus” 984/1977)162 veniva istituito nell’ambito del
Cipe il Comitato interministeriale per la politica agricola e alimentare, con compiti di pianificazione nazionale
“degli interventi pubblici nei settori della zootecnia,della produzione ortoflorofrutticola ivi comprese le colture ai
fini di trasformazione industriale, della forestazione, della irrigazione, delle colture arboree mediterranee con
particolare riguardo all’olivicoltura,della vitivinicoltura, nonché della utilizzazione e valorizzazione dei terreni
collinari e montani”; si inaugurava in tal modo la stagione della programmazione agricola regionale, da concretarsi (art. 5) nei “programmi di settore” coordinabili “coi programmi generali regionali di sviluppo economico e
sociale e di assetto territoriale”.
Non interessa tanto ora (anche se la ricostruzione storica risulterebbe indubbiamente affascinante) affrontare il
tema dei programmi regionali in agricoltura e degli esiti conseguenti alla loro evoluzione; preme piuttosto collocare qui, negli ultimi scorci del Settanta, il prologo dell’idea di “vocazione” che accompagnerà, nel tempo, il processo evolutivo delle produzioni agricole connettendole in misura sempre maggiore ai parametri fisici della loro
fattibilità, ai fattori economici della loro praticabilità, ai criteri ambientali della loro sostenibilità, agli elementi
antropo-culturali della loro appartenenza locale: in un termine, appunto, alla loro “vocazione” (vero e proprio
contraltare all’anisotropia delle produzioni continentali estensive, o alla diseducativa generalizzabilità dei contributi assistenziali, o alle carenze selettive della − oltretutto mancata − pianificazione zonale agricola).
In effetti, è proprio nell’art. 10 della legge 984/1977 che comincia a rinvenirsi (per la prima volta, a quanto ci risulta) la dichiarata esigenza di “definire le naturali vocazioni ai fini delle diverse destinazioni” − anche se limitatamente al settore della forestazione163 − a cui avrebbe dovuto seguire la “compilazione della carta delle destinazioni potenziali agricolo-silvoforestali”, e l’idea di vocazione appare associata − per “i terreni di collina e di montagna” − (art. 15) a quelli rappresentativi di una “naturale capacità” di “assicurare elevate produzioni unitarie di
foraggi e cereali per uso zootecnico”.
2. Oltre all’idea di “vocazione”, successivamente accompagnata a quella di “attitudine” fino a sovrapporvisi al
punto in cui − oggi − quasi non si ravvisa differenza di sorta tra i termini (ambedue comunque derivati dalla nozione di “locale”, “peculiare”, “hic et nunc”, “non altrove” e, dunque, nozioni strettamente connesse agli studi di
campo, alla scala del dettaglio, al localismo analitico, alla specificità, alla scoperta del diverso), gli anni Novanta
sanciscono a livello comunitario la “protezione delle indicazioni geografiche e delle denominazioni d’origine dei
prodotti agricoli e alimentari”.
Così una grande ed evoluta tradizione della storia agraria e alimentare italiana trova nel Regolamento del Consiglio 14 luglio 1992, n. 2081/92/Cee una definitiva ricezione: i) la “diversificazione della produzione agricola per
conseguire un migliore equilibrio tra domanda e offerta sul mercato”, ii) la “promozione di prodotti di qualità
[come] carta vincente per il mondo rurale in particolare nelle zone svantaggiate o periferiche”, iii) il fatto che
“nel corso degli ultimi anni […] i consumatori tendono a privilegiare nella loro alimentazione la qualità anziché
la qualità [nella] ricerca di prodotti specifici [comportando] una domanda sempre più consistente di prodotti agro-alimentari aventi un’origine geografica determinata”, iv) la constatazione che “le denominazioni di origine
controllata si sono diffuse e sono apprezzate dai produttori, che conseguono risultati migliori in termini di reddito quale contropartita per lo sforzo qualitativo effettivamente sostenuto, nonché dai consumatori che dispongono
di prodotti pregiati che offrono una serie di garanzie sul metodi di fabbricazione e sull’origine”, v) la consapevolezza che “esiste un nesso tra le caratteristiche del prodotto e la sua origine geografica”, vi) l’avvertenza che occorre “adeguare il disciplinare, in particolare di fronte all’evoluzione delle conoscenze tecnologiche, o cancellare una indicazione geografica o una denominazione d’origine relativa a un prodotto agro-alimentare quando
questo non è più conforme al disciplinare in virtù del quale ha beneficiato dell’indicazione geografica o della denominazione d’origine”, tutto ciò ha generato nell’ultimo decennio un’indubbia trasformazione: il fare meglio e
con successo agricoltura, una nuova e più elevata considerazione sociale delle figure agricole, il differente valore
dello spazio rurale, la crescente partnership infrareticolare città/campagna, il riscatto dalla storica sociomarginalità dell’agricoltore sembrano derivare proprio dalla messa in norma delle “denominazioni d’origine” e
della “indicazione geografica” ex art. 2 del Reg. Cee 2081/92, e viene qui evidenziata la preponderanza del “nome” (“di una regione, di un luogo determinato o […] di un paese”) significativo per “designare un prodotto agri162
Recante “Coordinamento degli interventi pubblici nei settori della zootecnia, della produzione ortoflorofrutticola,
della forestazione, dell’irrigazione, delle grandi colture mediterranee, della vitivinicoltura e dell’utilizzazione e valorizzazione dei terreni collinari e montani”.
163
Vale a dire, chiarisce l’art. 10 della L. 984/1977, “alle esigenze dell’incremento della produzione legnosa, in particolare con la piantagione di specie forestali a rapido accrescimento in terreni non convenientemente utilizzati o utilizzati
per colture agricole o attività di allevamento oppure destinabili al rimboschimento o al miglioramento della silvicoltura esistente per la tutela dell’ambiente in genere e dell’assetto idrogeologico in particolare”.
colo o alimentare” che possa ritenersi espressamente “originario di tale regione, di tale luogo determinato o di
tale paese” e che: i) per quanto concerne le “denominazioni d’origine”, “la cui qualità o le cui caratteristiche”
siano dovute essenzialmente o esclusivamente all’ambiente geografico comprensivo dei fattori naturali e umani e
la cui produzione, trasformazione ed elaborazione avvengano nell’area geografica delimitata” mentre, ii) per la
“indicazione geografica”, “una determinata qualità, la reputazione o un’altra caratteristica possa essere attribuita all’origine geografica, e la cui produzione e/o trasformazione e/o elaborazione avvengano nell’area geografica determinata”.
Altre categorie concettuali animano poi il Reg. Cee 2081/92, a ribadire il radicamento al genius loci dell’opera
contadina: le “condizioni particolari per la produzione delle materie prime”164, la capacità di comprovare “un carattere tradizionale nonché una reputazione e una notorietà eccezionali”, addirittura una “denominazione divenuta generica” (un nome che, pur collegato con quello del luogo in cui il prodotto “è stato inizialmente ottenuto o
commercializzato, è divenuto nel linguaggio corrente il nome comune di un prodotto agricolo o alimentare”), un
nome non registrabile come denominazione d’origine o indicazione geografica “qualora sia in conflitto con il
nome di una varietà vegetale o di una razza animale e possa, pertanto, indurre il pubblico in errore quanto alla
vera origine del prodotto”, la conformità a un disciplinare (che contenga, tra l’altro, “le principali caratteristiche
fisiche, chimiche, microbiologiche e/o organolettiche” e “i metodi locali, leali e costanti” di ottenimento del prodotto), la considerazione degli “usi locali e tradizionali”, la tutela contro usurpazioni/imitazioni/evocazioni anche
in caso di “espressioni quali “genere”, “tipo”, “metodo”, “alla maniera”, “imitazione” o simili”.
Si può allora lecitamente ritenere che il “Registro delle denominazioni d’origine protette e delle indicazioni geografiche protette”165 rappresenti un vero e proprio repertorio di “prodotti unici” come “tangibile eredità di una
cultura contadina non scritta, ma complessa e ricca”, espressiva del “risultato di una lunga elaborazione che ha
cercato di trarre il massimo da ciò che era disponibile in loco affinandosi, adattandosi ed evolvendosi” giacché,
come ci ricorda l’Ersal166, “si tratti del terreno e del clima per la riuscita di ortaggi e frutta, delle caratteristiche
di certi alpeggi che danno un particolare sapore a latti e formaggi, dell’umidità e dei venti per la perfetta stagionatura di certi salumi, dell’esposizione o della pendenza dei vigneti: i molteplici fattori che influenzano coltivazioni e allevamenti sfuggono a ogni uniformità industriale e ci consegnano prodotti particolari”, oltre al fatto
che, “strettamente intrecciate ai fattori naturali, le tecniche di lavorazione sono un altro elemento che rende tipico un prodotto; gli strumenti utilizzati, l’abilità e l’esperienza dell’artigiano, i tempi e i modi delle operazioni,
l’aggiunta di determinati ingredienti creano prodotti unici”.
Insomma, non ci sembra proprio azzardato ritenere il Registro delle Dop e delle Igp l’odierna versione del repertorio “gridato” nel mercato milanese del Verziere al tempo del Porta: “Oh che cuccagna/Che l’è el Verzee
[…]/On sold la lira i pomm/Ses quatrin figh e fioron/Guardee che bel melon/O i bei scigoll de Com”167.
3. E, dunque, s’assiste a un mutato rapporto tra prodotto alimentare e consumatore, dove s’ingenera un crescente
interesse ai requisiti qualitativi e insieme alla geografia dell’origine agroalimentare; giocano qui fattori multivariati di accrescimento del reddito e affinamento della domanda, di sazietà del bisogno e curiosità del gusto, di gioco di gola e nobilitazione dei sapori, il tutto al cospetto di eccedenze di mercato dei prodotti agricoli estensivi che
hanno sollecitato/giustificato azioni comunitarie che differenziassero e rivalutassero le peculiarità locali; così,
termini oggi ormai protetti dalla registrazione comunitaria168 come “denominazione d’origine” e/o “indicazione
geografica” hanno conferito, a produzioni quasi in corso di oblio o per lo meno sottovalute, una nobiltà derivante
insieme dalla memoria dei paesaggi agrari antesignani, dal recupero delle provenienze storico-culturali, dalle diversità alimentari e dalle forme dialettali delle culture autoctone, inducendo nuove forme di percorrenze gastronomiche degli spazi, nuove consapevolezze del territorio agrario, un reimpossessamento dei saperi (e sapori) locali fino a qualche tempo addietro impensabile.
Ma, certo, siamo pervenuti con ritardo a tale passo, ed è verosimile ritenere che si sia contrapposta nell’Unione
una differente concezione, spazio-qualitativa, tra un Nord Europa carente di (e forse indifferente alle) produzioni
164
Ex par. 5, art. 2 del Reg. Cee 2081/92, “sono considerate materie prime soltanto gli animali vivi, le carni e il latte”.
Ex par. 3, art. 6 del Reg. Cee 2081/92.
166
Cfr. Ersal (IV ed. 1998), Atlante dei prodotti tipici lombardi, Milano.
167
“Oh che cuccagna che è il Verziere… Un soldo alla libra le mele, sei quattrini fichi e fioroni, guardate che bel melone,
e che belle cipolle di Como” (Carlo Porta, 1776/1821, poesie in milanese). Non è forse come le odierne mele della Valtellina, o il melone di Viadana, o la cipolla di Sermide, o gli asparagi di Cilavegna, o la pera mantovana?
168
In Lombardia, tra i formaggi: i) Gorgonzola Dop, ii) Grana Padano Dop; iii) Provolone Valpadana Dop; iv) Quartirolo
Lombardo Dop; v) Taleggio Dop; vi) Formai de Mut dell’Alta Valle Brembana Dop; vii) Bitto Dop (Reg. Ce n. 1263/96);
viii); tra gli ortofrutticoli, la Pera Mantovana Igp (Reg. Ce n. 134/98); tra gli oli d’oliva: i) Garda Dop; ii) Laghi Lombardi
Dop (Reg. Ce n. 2325/97); tra le preparazioni di carni: i) Salame di Varzi Dop; ii) Salame Brianza Dop (Reg. Ce n.
1107/96); iii) Bresaola della Valtellina Igp (Reg. Ce n. 1263/96).
165
agro-alimentari tipiche e una particolarità franco-italiana in cui, oltre alla tradizione produttiva di nicchia, già si
era conformata una sostanziosa giuspubblicistica legislativa sulla denominazione d’origine di vini, salumi, formaggi.
Come abbiamo visto prima in dettaglio, la promulgazione nel 1992 del Regolamento 2081 ha così garantito (anche se non durevolmente, a considerare le minacce che periodicamente insorgono dai paesi nordeuropei) una
normativa uniforme delle produzioni locali, oltretutto rendendo il consumatore consapevole del prodotto tipico
acquistato e, al contempo, esaltandone la tipicità rispetto a prodotti consimili mediante un disciplinare di produzione e la certificazione di un sistema di controllo a garanzia della sua conformità.
A quest’ultimo proposito, ricordiamo che l’originaria modalità nazionale di controllo derivava dai due Dm. del 3
novembre 1995 (che assegnava tale compito all’Ispettorato centrale repressione frodi) e del 18 dicembre 1997
(che individuava nel Ministero per le politiche agricole le funzioni di coordinamento dei controlli); per la successiva vigenza dell’art. 53 della legge 128/1998 e del successivo art. 14 della legge 526/1999 la materia è stata riorganizzata, assegnando agli organismi privati un grande ruolo (in particolare i Consorzi di tutela, per i quali
s’individuano attività di promozione, valorizzazione, informazione del consumatore e cura degli interessi delle
denominazioni); è ormai approntato l’Albo degli organismi di controllo ex c. 6, art. 53 della L. 128/1998169, abilitato al controllo di una o più denominazioni170, oltre alle Autorità pubbliche171.
4. Abbiamo più volte rilevato172 che: (a) l’intensità con cui la complessità ambientale s’esprime non dipende tanto
da regole generali ma piuttosto da interazioni di fenomeni locali; (b) occorre quindi scoprire localmente le specifiche fisionomie, le differenze sostanziali, i modi espressivi peculiari di tale complessità; (c) deve pertanto ricercarsi la differente intensità problematica dei molteplici bacini regionali, al cui interno s’evidenzino quei particolari fenomeni attrattori del danno ambientale e possano valutarsi i segnali d’attenzione per il pianificatore attento alla tutela.
Un percorso esplorativo possibile deve pertanto prevedere la conseguente individuazione di raggruppamenti o173
mogenei di fenomeni locali nello spazio regionale, attraverso: (x) l’applicazione dell’analyse des données per
un’efficace esplorazione degli archivi disponibili; (y) la scoperta delle relazioni qualitative intercorrenti attraverso
tecniche di analisi multivariata; (z) l’individuazione conclusiva di “aree tipo” in cui possano essere sperimentati
interventi mirati per la riduzione del danno ambientale174 o per l’applicazione di misure dedicate.
Siamo quindi al problema tecnico della cosiddetta “zonazione”: tramite analisi multivariate si esplorerà l’archivio,
traspariranno “grappoli” di variabili dipendenti differenziate al variare della finalità (variabile indipendente) che
la zonazione si prefigge, il calcolo del grado d’interazione tra variabili suggerirà isospazi a consimile aggregazione dei legami e, per conseguenza, deriverà una geografia di areali a consimile intensità vocazionale all’utilizzo
dato.
Se, per un certo verso, tale modalità ricognitivo-classificatoria può essere ritenuta in certa misura ricorrente nella
pianificazione urbanistica (in cui, cioè, è di qualche utilità reperire isotropie insediative rispetto a un’apparente
175
condizione anisotropa dell’armatura urbana), essa non è così diffusa per i fattori extra-urbani e, in particolare,
sembra essere praticata con successo soprattutto nello studio dell’interazione vitigno-ambiente e delle molteplici
Tra i diciotto operatori nazionali di controllo, in Lombardia sono attivi l’Organismo “Certiquality − Istituto di certificazione della qualità − Settore Certiagro”, Milano, e l’Organismo “Certiprodop − Società di certificazione prodotti alimentari”, Bergamo.
170
Per la Lombardia, i formaggi Dop Gorgonzola, Grana Padano, Provolone Valpadana, Quartirolo Lombardo, Taleggio,
Formai de Mut dell’Alta Valle Brembana, Bitto, Valtellina Casera; gli olii di oliva Dop Garda e Laghi Lombardi; i prodotti
a base di carne Igp Bresaola della Valtellina.
171
Per la Lombardia, solo l’Ente Nazionale Risi a Milano.
172
Cfr. in Paolillo 1990, 1994, 1995, 1997a, 2000a, 2000b.
173
Ci si riferisce qui ai fondamenti francesi dell’analyse des données (o “analisi multidimensionale dei dati”); cfr. tra gli altri Benzecri, 1973; Bertier e Bouruche, 1975; Caillez e Pages, 1976; Fenelon, 1981, oltre alla trad. it. del Gruppo Chadoule,
1983; per le applicazioni italiane, si vedano in particolare i pionieri Bellacicco, 1975, 1979, 1983; Bellacicco e Labella,
1979; Fano, 1978, Palermo e Griguolo, 1983; vedi poi, non ultime, le importanti ricerche di Merlin, 1974 e di Nijkamp,
1977, 1984), si tratta di “un gruppo numeroso di tecniche statistiche multivariate che consentono di analizzare, mediante
l’impiego di metodi quantitativi, realtà sociali o fenomeni complessi” (Fraire, 1994). Per il dettaglio bibliografico qui richiamato, cfr. nello scritto richiamato nella nota successiva.
174
Si veda al proposito la Parte II (L’eco-programmazione: proposte di metodo applicativo) in Paolillo P.L., ed., 2000, Terre lombarde. Studi per un ecoprogramma in aree bergamasche e bresciane, Giuffrè, Milano; in particolare, ivi Paolillo,
P.L., “Una modalità descrittivo-classificatoria d’individuazione dei “bacini d’intensità problematica ambientale” alla scala
regionale”, pp. 103-153.
175
Gli esperimenti effettuati per la zonazione extra-urbana, in dipendenza di fattori urbanizzativi e per la tutela della risorsa
fisica suolo, possono essere riassunti tra l’altro in Paolillo, 1995b; 1998.
169
variabili al contorno (altitudine, esposizione, giacitura, origine geologica, suolo, tipologia di barbatella, forma
d’impianto, ecc.) che caratterizzano la qualità enologica.
Si consideri l’esempio dello schizzo cartografico nella pagina successiva: dentro il cacumine collinare “a” (caratterizzato in parte ovest dal borgo storico “B”, dal “vigneto primitivo” d’autoconsumo “Vv”, con ++ = caratteri
qualitativi intermedi, e dal contiguo “vigneto commerciale” di vecchio impianto “Vc” con basso valore +), l’area
centrale “N” rappresenta il cru vitivinicolo primitivo d’èlite (con +++ per le migliori condizioni fisicoambientali), ed è circondata dai “vigneti commerciali” più recenti “Vc” le cui qualità peggiorano in verso centrifugo (da ++ a +); quindi, si riconosce l’appezzamento vitivinicolo commerciale “H” esterno all’area storica, i cui
tratti qualitativi decrescono fino a −; infine, gli spazi interni ad “a” e interclusi tra “Vc”, “Vv”, “N” e “B”, verosimilmente a selva e bosco in atto e tali, ove il mercato enologico (e i contingentamenti Ue) lo permettano, da venire rapidamente trasformati in ulteriori vigneti.
La situazione è indubbiamente un pò intricata: intanto perché, già oggi, per l’espansione produttiva avvenuta nelle
ulteriori zone “Vc”i requisiti qualitativi variano in “a” da vigna a vigna, e pertanto la produzione d’area non sembra in grado di garantire un livello +++ generalizzato; inoltre, perché il nucleo urbanizzato “B” potrebbe pretendere un’espansione insediativa (per lucrare sulla rendita immobiliare, derivante dall’indubbia amenità del contesto);
infine perché (come abbiamo appena introdotto) potrebbero allo stesso modo generarsi ulteriori espansioni produttive vitivinicole per ragioni di mercato, così come al contrario potrebbero innescarsi modalità di riduzione degli spazi vitati (per un processo di concentrazione produttiva ed elevamento qualitativo), piuttosto che attività di
reimpianto e diversificazione varietale per nuovi gusti di mercato.
Siamo dunque al problema dell’appropriata “zonazione”, che contemperi tale così intricato quadro di bisogni (talvolta antitetici) concentrando sugli areali più vocati la produzione vitivinicola, e destinando invece ad altri usi
compatibili gli spazi a minor attitudine pedologica (macchie arboree e arbustive di supporto alla caratterizzazione
organolettica dei vini, spazi di rinaturalizzazione, vegetazioni caratterizzative delle specificità paesistiche locali).
Il fine della modalità analitico-territorale è qui dunque piegato a individuare “unità vocazionali”, nel cui ambito le
prestazioni vegetative, produttive e soprattutto qualitative dei vigneti possano considerarsi sufficientemente omogenee, concorrendo così (nell’ambito dei processi di assistenza tecnica al viticoltore) a fornire consigli per ottimizzare l’uso dei fattori produttivi, aumentando il rendimento qualitativo delle uve e dei vini prodotti e ovviando
agli errori più comunemente commessi nel vigneto; da non sottovalutare inoltre la ricaduta promozionale della
zonazione vitivinicola a garanzia qualitativa, contro le omologazioni di prodotto, per più efficaci politiche di marketing territoriale, per lo sviluppo dell’enoturismo, per l’aumento occupazionale, per la permanenza nei luoghi a
presidio dell’ambiente e delle tradizioni, storie, culture native.
176
5. Alcuni autori cominciano ad ammettere che, sovente, la localizzazione degli impianti viticolturali ha storicamente avuto luogo non tanto in funzione del grado di produttività qualitativa agro-ambientale, quanto piuttosto
al traino dei noti condizionamenti socio-economici del rapporto domanda/offerta e, soprattutto, rispetto a produzioni vitivinicole quantitative e indifferenziate.
176
Tra gli altri Scienza, 1998.
E’ ben vero che l’evoluzione del mercato ha già selezionato i bacini di potenziamento e/o miglioramento della vite, ma è anche vero che l’art. 4 della legge 164/1992 contempla la possibilità di riconoscere, dentro ogni Doc e
Docg, subzone caratterizzate da attributi spaziali riconoscibili (“comune”, “frazione”, “microzona”, “fattoria”,
“vigna” e simili), a contrassegno della superiore qualità dei vini prodotti in quelle enclavi; ecco, dunque, un ulteriore elemento di valore che la zonazione può assumere a scale d’indagine assai differenziate, dal continente vitivinicolo alla singola vigna e per differenti livelli spaziali, estensioni territoriali e metodi investigativi: i) macrozonazioni, realizzate nei confronti di bacini assai vasti, dalla dimensione regionale a quella comunitaria (e comunque dalla difficiltosa applicazione immediata); ii) mesozonazioni, in genere estese a entità amministrative come
un intero bacino Doc o Docg e spesso promosse da un consorzio o cantina sociale; iii) microzonazioni, alla dimensione minima aziendale e con ricadute pratiche immediate nell’assistenza tecnica all’impresa vitivinicola (in
materia di scelta varietale, forma di allevamento, gestione del vigneto) mentre limitato appare invece il suo contributo allo sviluppo delle conoscenze generali del territorio177.
Oltre alle finalità intrinseche di ogni zonazione, nel processo valutativo dell’attitudine alla produzione vitivinicola
occorre costantemente perseguire il principio dell’uso territoriale sostenibile; siamo dunque nel caso della stima
attitudinale dei suoli a produrre vini di qualità in base ai caratteri infrastrutturali (il tipo di vitigno, il vigneto specializzato o promiscuo, l’impianto e i sistemi d’allevamento, i caratteri colturali di potatura, irrigazione, ecc.) e
strutturali (strategie agronomiche per migliorare la qualità enologica; assetti ambientali favorevoli a produzioni
originali e tipiche e condizioni sfavorevoli da privilegiare per usi alternativi; difesa dell’originalità e tipicità degli
ambiti ad alta vocazione vitivinicola; protezione delle aree più vocate dagli interventi urbanistici di trasformazione; ottimizzazione dell’uso dei fattori produttivi.
Peraltro, nella ricerca delle ragioni della qualità enologica ampia è stata l’antinomia storica tra fautori del valore
del sito e laudatori dell’importanza del vitigno, e alla “ragion pedoclimatica” si è contrapposto «il genio del vino
nel vitigno» di Guyot (1866) e del Gallesio (1817-19): impostazioni divergenti, con ripercussioni profonde sulle
tendenze evolutive della viticoltura europea, che hanno trovato sintesi in Odard (1854), Foex (1865) e Savastano
(1899) dai cui studi è scaturita la consapevolezza che i motivi di qualità del vino si rinvengono per lo più
nell’interazione fra condizioni ambientali e vitigno178.
Molti sono al tempo odierno gli studi sull’influenza esercitata dall’ambiente nella risposta quanti/qualitativa di un
vigneto, così come numerosi appaiono gli strumenti diagnostici utilizzati179; alcuni lavori hanno tentato di correlare la composizione del mosto (e più raramente del vino) coi caratteri climatici e, negli studi più recenti, con aspet180
ti chimico-fisici dei suoli ;
L’esperienza italiana ha generalmente diretto l’attenzione sul parametro suolo (tra gli altri Costantini et al., 1987,
Lulli et al., 1989181 per la Vernaccia di San Gimignano; Lulli e Arretini, 1979, per il comprensorio del Sangiove177
Nelle zonazioni con finalità applicative a livello aziendale i processi in gioco sono principalmente di dettaglio, perchè si
studia l’interazione fra i fattori ambientali e il genotipo della vite su uno spazio di limitate dimensioni, ricercando le variabili di risposta nei risultati viticoli ed enologici; giacché la risposta può cambiare anche significativamente a livello parcellare, è necessario un estremo dettaglio informativo (da cui si potrà successivamente organizzare in modo gerarchico i dati,
così da ottenere diversi gradi di generalizzazione per ognuno dei fattori funzionali all’analisi); dunque, per definire con
buona approssimazione la sequenza paesaggio/suolo/vitigno/vino occorrerà uno studio di vocazionalità aziendale col preciso intento di individuare e valorizzare, fra le differenti parcelle dell’azienda, i diversi gradi di pregevolezza di 1° livello (interpretazione dei risultati per ogni singola combinazione “vitigno x unità di paesaggio”; 2° livello (interpretazione dei risultati di uno stesso vitigno nelle diverse unità di paesaggio); 3° livello (interpretazione dei risultati di una stessa unità di paesaggio con diversi vitigni). Il 1° livello fornisce consigli specifici per la corretta gestione di ogni combinazione esistente, rispondendo alla domanda del viticoltore: «Mi trovo a coltivare una determinata combinazione vitigno/U.P., come posso ottenere il miglior risultato possibile?». Il 2° livello consente di stabilire la gerarchia delle diverse U.P. in funzione di un vitigno coltivabile, rispondendo quindi alla domanda dell’azienda: «Mi trovo nella condizione di dover espandere la produzione e quindi la coltivazione del vitigno “X”, in quale U.P. vi sono i migliori presupposti di riuscita? ». Infine il 3° livello
permette di conoscere, data una determinata unità di paesaggio, qual è o quali sono, nell’ordine, i vitigni più idonei a essere
coltivati, corrispondendo quindi alla domanda del viticoltore: «Mi trovo nella condizione di dover reimpiantare un vigneto
ubicato nell’U.P. “Y”, su quale vitigno conviene insistere?».
178
Da ciò emerge l’illusorietà di quei convincimenti per cui si sarebbe potuto produrre vini simili a quelli dei paesi
d’origine solo trasferendo i vitigni da un paese all’altro.
179
Scienza, 1992, li classifica nelle cinque tipologie fondamentali delle esperienze empiriche, degli indici bio-climatici, dei
caratteri chimico-fisici del suolo, nelle caratteristiche del suolo e del clima, nell’interazione genotipo x ambiente.
180
E tali applicazioni hanno rivelato la priorità del rapporto tra situazioni edafiche e vitigno nella determinazione della qualità del prodotto.
181
Tale ricerca ha individuato sul territorio le unità di suolo sufficientemente omogenee, definite “serie”, con propri microclimi e morfologie; mediante analisi sensoriali si è scoperta la correlazione tra serie pedologiche e qualità del vino, per cui
è emerso che il prodotto migliore si ottiene su suoli profondi, con tessitura franca e con medio contenuto di carbonati.
se; Fregoni e Dorotea, 1986, per i terreni vitati di Franciacorta e Valtenesi; Fregoni e Bavaresco, 1885, per i suoli
comunali di Canneto Pavese)182; a partire dagli anni ottanta gli studi sull’adattamento del vitigno all’ambiente
hanno cominciato finalmente a raggiungere un carattere integrato e interdisciplinare183 assumendo insieme fattori
morfologici (posizionamento, pendenza, esposizione) e pedologici (tessitura, profondità, percentuale di calcare,
attitudine al drenaggio e al riscaldamento); per descrivere l’adattabilità del vitigno al mesoambiente sono stati assunti inoltre criteri complessi considerando nell’ambiente edafico un esito della sequenza “ecogeopedologica”; i
fattori generalmente studiati nell’ambito del metodo “genotipo x ambiente” hanno riguardato la natura del substrato colturale (litologia e pedologia) e lo spazio nella sua complessità morfologica (altimetria, esposizione, pendenza) e climatica; le esperienze scientifiche sono infine pervenute ai tre presupposti fondamentali: i) dello stampo infradisciplinare degli studi184, ii) dell’interazione genotipo-ambiente185; c) dell’analisi sensoriale del prodotto,
e per individuare il grado di attitudine viticolturale dei terroirs si studiano oggi clima, terreno, vitigni insieme.
Assistiamo quindi, allo stato odierno, a una congiuntura scientifico-culturale (e, ovviamente, socio-economica)
favorevole alla stima dell’attitudine dei terreni alla produzione di vini di qualità, sulla base dei caratteristiche fisici permanenti (forme e processi geomorfologici, tipi litologici, clima, utilizzi dei terreni, idrologia, natura dei suoli) e del principio d’uso sostenibile (un uso cioè che non generi deterioramento maggiore o ulteriore alla qualità
territoriale, e che tenga quindi conto degli impatti ambientali generati dai nuovi impianti o reimpianti di vigneti).
La valutazione considera le fondamentali tipologie della vigna, dell’impianto e della coltivazione e ne misura i caratteri, vale a dire gli attributi funzionali semplici delle diverse componenti fisiche e gli attributi attitudinali (disponibilità idrica; caratteri del suolo: tessitura, profondità, caratteri climatici: temperature, piovosità; caratteri
morfologici: conformazione delle superfici); le qualità ottenute vengono quindi confrontate coi requisiti edificocolturali e coi requisiti di gestione e conservazione dell’ambiente, per ricavare i giudizi e le conseguenti classi di
attitudine in un processo schematizzabile come segue:
Indagini preliminari − Analisi economica del sistema produttivo
Analisi pedologica
Analisi climatica
Analisi uvologica
Analisi biologica
Caratteri pedologici
Caratteri bioclimatici
Caratteri viticoli
Caratteri della fertilità bio
Vigneti guida
Stazioni meteo
Vigneti guida
gica − Vigneti guida
Elaborazione statistica
Analisi univariata − Analisi multivariate − Analisi stabilità note sensoriali
Stima dell’interazione vitigno-ambiente
Delimitazione del territorio in zone omogenee
Definizione dei criteri di gestione agrotecnica dei vigneti
Criteri di realizzazione dei nuovi impianti
Occorre ricordare come, nell’analisi vocazionale vitivinicola, la pedologia assuma un ruolo nodale giacché − a
partire dalla individuazione dei vigneti guida fino alla preparazione della carta dei suoli − vengono usualmente
identificate aree omogenee per tipo e intensità del processo morfogenetico (unità fisiografiche, paesistiche, pedologiche), oltre che per fattori climatico-fenologici, uvologici, biologici e così via, fino a definire i criteri gestionali
e di reimpianto dei vigneti: dalla particella, dunque (e per ogni particella), fino all’approntamento di un articolato
complesso informativo indispensabile tanto nella gestione agrotecnica aziendale quanto nella pianificazione territoriale, paesistica e ambientale.
E così, in Toscana come in Piemonte (nella regione del Barolo186 e del Barbera d’Asti Doc)187, in Val d’Illasi nel
Veneto188 come nel Trentino Alto Adige, e ancora in Friuli Venezia Giulia (nel comprensorio delle Grave189), in
182
Cfr. comunque una vasta serie di esperienze nei successivi Riferimenti bibliografici.
Definendo come vocazione ambientale l’interazione di dati climatici, topografici, pedologici e colturali ed evidenziando
il rapporto sinergico fra le variabili considerate; ha cominciato così ad affermarsi il concetto vero e proprio di zonazione
che, associandosi a quello di vocazione viticola, consente di ripartire l’area-studio per caratteri ecopedologici e tipologici e
per risposta adattiva dei differenti vitigni.
184
Giacché le discipline coinvolte (pedologiche, agronomiche, enologiche, informatiche, pianificatorie ecc.) non possono
che operare di concerto.
185
In quanto la valutazione delle potenzialità qualitative di uno spazio dato è ricavabile soltanto dallo studio
dell’interazione delle varietà coltivate con i caratteri dell’ambiente colturale.
186
L’area di produzione del Barolo è stata scelta per la peculiarità del vino prodotto e per la contenuta dimensione di 7.500
ha, di cui 1.200 accolturati con vitigno Nebbiolo; si estende su 11 comuni della Langa cuneese con poco meno di 1.000 aziende vitivinole, per una produzione media annua di sei milioni di bottiglie.
187
Sulla base del seguente processo analitico:
Indagini preliminari
183
Lombardia (Oltrepo Pavese190, Franciacorta191, Garda Bresciano192) fino al Chianti, cominciano a consolidarsi esperienze di zonazione vitivinicola a maglia di rilevamento dettagliata, con definizioni accurate della sequenza
Paesaggio/Suolo/Vitigno/Vino, con elevati gradi di approfondimento scientifico/disciplinare: siamo in una strada
ormai tracciata, che necessita solamente di estendersi al complesso delle svariate realtà enologiche nazionali per
recuperare un ritardo ormai non più trascurabile.
6. Può ben essere affermato, allora, che la conoscenza dei caratteri e comportamenti delle risorse pedo-ambientali
nello spazio regionale deve concorrere appieno alla redazione degli strumenti di piano, e non soltanto nella mera
Analisi pedologica Analisi climatica
Analisi viticola
Studio fenologico
Agronomicocolturale
Studio
Ampelografico
Analisi enologica
Analisi chimica
mosti e vini
Analisi sensoriale
Analisi statistiche
Caratterizzazione dei vini
188
La valle d’Illasi, nota per la sua viticoltura fin dall’antichità, è intensamente vitata. La zonazione ha interessato il corpo
centrale della valle (i territori comunali di Illasi e Tregnago), con più di 1100 ha di vigneti, ripartiti per circa il 75% nel
fondovalle e per il rimanente 25 % sui versanti. L’uva prodotta è utilizzata per la produzione del Valpolicella Doc e del Soave Doc, il primo con l’uvaggio di Corvina nera, Corvinone nero, Rondinella nera e Molinara nera (750 ha ca.), il secondo
con il solo vitigno Garganega bianca (350 ha ca.). L’indagine pedologica, iniziata con studi bibliografici e fotointerpretativi
e considerando solo la presenza della vite sul fondovalle, ha permesso con trivellate e profili di definire la carta delle unità
di paesaggio al 20.000; i profili sono stati scavati all’interno dei vigneti in modo da descrivere le caratteristiche del rimaneggiamento prodotto dagli interventi di scasso realizzati agli impianti; il paesaggio e i suoli sono stati minuziosamente
suddivisi e solo in fase di analisi sono stati raggruppati in un numero ridotto di gruppi. L’indagine climatica, in questo caso,
è stata molto riduttiva in quanto le serie storiche non erano disponibili per un periodo sufficientemente lungo facendo così
ricorso alla stazione di Verona per dati elaborati dall’anno 1974 al 1992, di cui si è definito il regime termico e l’umidità.
Per l’indagine viticola sono stati individuati una serie di vigneti di riferimento, rappresentativi delle diverse condizioni pedologiche e climatiche della Val d’Illasi e delle condizioni colturali prevalenti; l’indagine è stata effettuata separatamente
per le aree ricadenti nelle due zone Doc Soave e Valpolicella (i vigneti scelti in entrambe le zone hanno caratteri simili: sono impiantati a Pergola Veronese, hanno età tra i 10 e i 25 anni nel Soave e tra i 10 e i 35 anni nel Valpolicella; in ogni vigneto sono state selezionate parcelle di 15 viti per ogni varietà, caratterizzate dal punto di vista fenologico, vegetativo, produttivo, qualitativo, nutrizionale e dalle curve di maturazione; nelle 15 parcelle sono stati raccolti campioni per le microvinificazioni, il cui prodotto è stato poi sottoposto ad analisi sensoriale). I dati raccolti sono stati, quindi, elaborati statisticamente. In primo luogo sono state raggruppate le parcelle simili per caratteri vegeto-produttivi e qualitativi, a cui successivamente sono state associate le caratteristiche pedopaesaggistiche dando luogo alla formulazione di Unità Vocazionali
provvisorie, poi mediante vari modelli fatte interagire con variabili quali anno, vitigno e azienda, quindi, per completare la
caratterizzazione viti-enologica si sono verificate le differenze nelle prestazioni viticole delle Unità Vocazionali rispetto
tutte le variabili raccolte. Il lavoro ha approfondito anche un ulteriore aspetto attraverso la realizzazione di varie carte tematiche: per la scelta del vitigno e del portinnesto, per lo stato nutrizionale dei vigneti e della fertilizzazione, per il rischio di
stress idrico e dell’irrigazione.
189
La viticoltura friulana ha tradizioni lontanissime; essa ha dovuto reagire a grossi problemi dalla metà dell’800 fino
all’inizio del ‘900; l’oidio, la peronospora, la filossera e i conflitti bellici hanno provocato danni tali da costringere la viticoltura a cambiare completamente volto. La nuova viticoltura si sviluppò in pochi decenni utilizzando vecchi vitigni quali
Tocai friulano, Picolit, Refosco, Verduzzo friulano e nuovi vitigni come il Merlot, il Cabernet e il Pinot. Questa coltura ebbe modo di svilupparsi anche grazie ai sistemi di irrigazione che permisero alla vite di espandersi su nuovi terreni fino al
1970 anno in cui è stata riconosciuta alle Grave friulane la Denominazione di Origine Controllata.
190
L’Oltrepò Pavese rappresenta la più vasta zona viticola della Lombardia con vasta gamma di vitigni presenti: Pinot n.,
Chardonnay e Riesling italico in alta Valle Versa; Barbera, Croatina, Pinot nero e Riesling italico in Oltrepo centrale; Barbera, Croatina, Pinot nero, Chardonnay, Riesling italico e Cortese in Oltrepo occidentale.
191
La viticoltura della Franciacorta ha tradizioni molto remote ma lo sviluppo maggiore risale al secolo del ‘900. Le aziende agricole sono state in grado di far interagire tradizione e innovazione di conoscenze e di sperimentazioni per far apprezzare le qualità del loro vino. Dagli anni cinquanta la Franciacorta inizia un periodo di continua risalita grazie anche agli investimenti fatti da imprenditori che hanno dato origine al “fenomeno bollicine” chiamato Franciacorta.
192
All’interno dell’area del Garda Bresciano (zona di grande afflusso turistico) trovano collocazione tre Doc: Garda Classico, Lugana e San Martino della Battaglia, la presenza dei cui vigneti è parte integrante ed essenziale del paesaggio e
dell’ambiente lacustre; proprio la presenza del lago permette ai viticoltori di ottenere la massima qualità delle uve, necessaria e indispensabile per realizzare buoni vini rispettando contemporaneamente lo straordinario ambiente e le sue particolarissime esigenze.
valutazione della componente produttiva agro-forestale ma, anzi, per il controllo di una gamma assai vasta di funzioni ambientali giacché il suolo − rappresentando la porzione più esterna ed evoluta della crosta terrestre e, dunque, il luogo d’incontro della litosfera con l’idrosfera, l’atmosfera e la biosfera − costituisce di conseguenza: i) la
“parte viva” della terra nella regolazione degli scambi e flussi di materia ed energia fondamentali per lo sviluppo
di tutti gli ecosistemi terrestri; ii) la testimonianza più esplicita dell’interazione concomitante tra tempo, clima,
morfologia, roccia madre, fattori biotici (compresa la stessa azione umana); iii) una delle fondamentali componenti fisiche dell’ambiente e del paesaggio, in cui si forma ed evolve nella sua struttura di corpo naturale tridimensionale193; iv) la materia in grado di esercitare contemporaneamente le numerose funzioni ecologiche, tra cui
le tre principali del tipo produttivo (in termini di fertilità/capacità di sostenere e favorire la produzione alimentare), protettivo (in rapporto all’azione barriera/filtro verso gli inquinanti proteggendo, in particolare, le risorse idriche), naturalistico (rispetto al ruolo di formazione degli habitat naturali, di protezione della biodiversità e di conservazione di importanti patrimoni culturali per l’umanità).
Si può affermare allora che il comportamento e le risposte attese dai suoli − rispetto alla gestione e uso a cui sono
sottoposti − dipendono dal grado di espressione delle funzioni qui ricordate; descriviamo, dunque, più oltre i caratteri dei suoli presenti nei diversi ambienti pedopaesistici lombardi, con particolare attenzione alla funzione protettiva delle coperture pedologiche.
2.7.
Le zonazioni agroambientali: i Regolamenti europei 2078 e 2080/1992, 1257/1999
1. Rispetto alla genericità, scarsa approssimazione, vera e propria indifferenza nei confronti dei fattori agroambientali e delle peculiarità e vocazioni produttive agrarie, contenuta nei piani urbanistici fino agli anni
Novanta (del che attestano le nefaste zone E), si constata oggi una diversa sensibilità nei confronti della variegata gamma delle “peculiarità locali” in agricoltura: non solo per il più incisivo indirizzo che l’Unione intende esprimere a favore delle produzioni tipiche di nicchia194 e per il riorientamento dei contributi verso la
dimensione ambientale del produrre (le cosiddette “buone pratiche agricole”), ma anche per l’aumentata quota di conoscenza sulla natura fisica dei suoli; così, terreni che i piani regolatori comunali finora volgarmente
definivano “zone bianche” (non tanto per la storica collocazione politica dell’agricoltura italiana, ma proprio
per il fatto di non aver nulla da esprimere circa la loro classificazione di dettaglio) possono oggi godere
dell’evoluzione disciplinare pedologica e trovare tassonomie descrittive tali da permetterne una destinazione
d’uso agroambientale “a grana fina”.
A considerare per esempio la vasta esperienza lombarda dell’Ersal, si constata come dalla primigenia carta
pedologica sono state derivate nel tempo le carte dei pedopaesaggi, della capacità d’uso dei suoli in relazione
all’utilizzo agro-silvo-pastorale, dell’attitudine dei suoli allo spandimento agronomico dei liquami e dei fanghi di depurazione urbana, della capacità protettiva dei suoli nei confronti delle acque profonde e superficiali, del valore naturalistico dei suoli, e la stessa identificazione del “settore scientifico disciplinare”
dell’insegnamento universitario pedologico195 assegna a tale scienza (oltre a evidenziarla finalmente in tutta
la sua autonomia) “i temi di ricerca inerenti al sistema suolo quale risultato delle azioni e interazioni dei fattori ambientali e antropici che ne condizionano la dinamica evolutiva, e delinea principi e metodi di classificazione, valutazione e distribuzione spaziale e cartografica dei suoli”196.
Tuttavia, corre l’obbligo di ammettere che il ritardo della pianificazione urbanistica e territoriale (e non solo:
anche delle produzioni agroalimentari, e in complesso del settore primario) sui temi delle zonazioni agroambientali (ossia individuare al dettaglio locale limiti, potenzialità, vocazioni del produrre rispetto/insieme al
conservare) non è così giustificato − come qualcuno potrebbe ad arte insinuare − dai ritardi della ricerca pedologica; già nell’ambito delle “misure strutturali” della Pac il Reg. (Cee) n. 2078/92 del 30 giugno 1992 in193
Negli ambienti collinari e montani alpini e appenninici (in cui aspetto, evoluzione e comportamento funzionale dei suoli
rispecchiano in gran parte la natura delle rocce da cui hanno avuto origine) sono i caratteri litologici fondamentali a orientare significativamente la pedogenesi; invece, negli ambienti padani tali ruoli sono principalmente attribuibili alla granulometria dei depositi e all’idromorfia e, infatti, la parte pianeggiante e collinare lombarda a valle dei depositi prequaternari alpini
e appenninici è formata da depositi di origine glaciale (gli anfiteatri morenici), fluvioglaciale (la pianura vera e propria) e
alluvionale (le valli che la intersecano).
194
Ne abbiamo diffusamente trattato nel precedente paragrafo 2.1.5. sulla vocazione alle produzioni tipiche.
195
Cfr. nel Dm. Ministero dell’università e della ricerca scientifica e tecnologica 4 ottobre 2000, in Suppl. ord. alla Gu.
N. 249, 24 ottobre 2000, Serie generale.
196
Conclude la definizione del settore scientifico disciplinare pedologico: “le competenze formative riguardano la pedologia, la genesi, geografia, classificazione e cartografia dei suoli, la pedoarcheologia, i suoli antropici e la ricostruzione dei suoli, le tecniche e metodi di valutazione dei suoli”.
vocava i “metodi di produzione agricola compatibili con le esigenze di protezione dell’ambiente e con la cura dello spazio naturale” proprio in considerazione dei molteplici fattori per cui “le esigenze in materia di
protezione ambientale sono una componente della politica agricola comune”, “le misure volte a ridurre la
produzione agricola nella Comunità devono avere conseguenze positive sotto il profilo ambientale”, “gli agricoltori, col sostegno di un regime di aiuti appropriati, possono svolgere un ruolo decisivo per l’intera società, introducendo o mantenendo metodi di produzione compatibili con le crescenti esigenze di tutela
dell’ambiente e delle risorse naturali, nonché con la necessità di salvaguardare lo spazio naturale e il paesaggio”, “l’istituzione di un regime di aiuti volto a incentivare una sensibile riduzione dell’impiego di concimi o fitofarmaci oppure l’applicazione di metodi di agricoltura biologica può contribuire non solo a limitare i rischi dell’inquinamento di origine agricola, ma anche ad adeguare i vari settori produttivi alle esigenze dei mercati favorendo produzioni meno intensive”, “una riduzione del bestiame delle aziende o della
densità di animali per ettaro può contribuire a evitare i danni ambientali dovuti all’ampiezza eccessiva del
numero di ovini e bovini”, “un regime inteso a promuovere l’introduzione o il mantenimento di metodi di
produzione particolari può costituire uno strumento efficace per la soluzione di vari problemi specifici di difesa dell’ambiente e dello spazio naturale”, “numerose zone agricole e rurali della Comunità sono sempre
più esposte a rischi di spopolamento, erosione, inondazione, incendio dei boschi, e l’istituzione di misure espressamente destinate a promuovere la cura delle superfici può servire a ridurre tali rischi”, “data la gravità dei problemi, i regimi di aiuti devono essere applicabili a tutti gli agricoltori della Comunità che si impegnino a esercitare la loro attività in modo da proteggere, mantenere in buone condizioni o migliorare
l’ambiente o lo spazio naturale e che rinuncino a qualsiasi nuova iniziativa volta a intensivizzare la produzione agricola”, “si rivela nondimeno opportuno instaurare un regime comportante un ritiro di lunga durata
dei terreni agricoli per scopi di carattere ambientale e di salvaguardia delle risorse naturali”.
Il notissimo Regolamento 2078/92 già allora, pertanto, contemplava misure tali da “incitare gli agricoltori
ad assumere impegni che li vincolino all’esercizio di un’agricoltura compatibile con le esigenze della tutela
ambientale e con la cura dello spazio naturale”, compensandoli “per le perdite di reddito loro arrecate dalla
riduzione della produzione e/o dagli aumenti dei costi di produzione, nonché per il ruolo che essi svolgono
nel miglioramento dell’ambiente”; tuttavia ciò avrebbe potuto avvenire solo se gli Stati membri avessero introdotto per tempo “norme di comportamento in agricoltura”, stante “la diversità delle condizioni ambientali
e naturali e delle strutture agrarie nelle varie zone della Comunità” e la necessità di “un adattamento corrispondente delle misure previste”.
Il reg. 2078/92 introduceva di conseguenza i “programmi zonali di gestione dei terreni agricoli o abbandonati” e le “iniziative di formazione e informazione per incoraggiare l’introduzione di metodi produttivi agricoli e forestali compatibili con l’ambiente e, in particolare, l’applicazione di un codice di comportamento in
agricoltura, nonché l’agricoltura biologica”, e integrava “le risorse disponibili per l’attuazione delle misure
contemplate con le risorse previste per la realizzazione delle azioni avviate in virtù dei regolamenti sui fondi
strutturali”197.
197
Difatti, l’art. 1 del reg. 2078/92 individuava come obiettivi del regime di aiuti (insieme al completamento delle trasformazioni previste nell’ambito delle organizzazioni comuni dei mercati e all’assicurazione agli agricoltori di un reddito adeguato): “a) promuovere l’impiego di metodi di produzione agricola che riducano gli effetti inquinanti
dell’agricoltura, contribuendo nel contempo, mediante una riduzione della produzione, a un migliore equilibrio dei
mercati; b) promuovere l’estensivizzazione, favorevole all’ambiente, delle produzioni vegetali e dell’allevamento bovino e ovino, compresa la riconversione dei seminativi in pascoli estensivi; c) promuovere forme di conduzione dei terreni agricoli compatibili con la tutela e con il miglioramento dell’ambiente, dello spazio naturale, del paesaggio, delle risorse naturali, del suolo, nonché della diversità genetica; d) incentivare la cura dei terreni agricoli e forestali abbandonati, nelle zone in cui essa si dimostri necessaria per ragioni ecologiche o per il sussistere di rischi naturali o
d’incendio e prevenire in tal modo i pericoli connessi allo spopolamento delle regioni agricole; e) incoraggiare un ritiro di lunga durata dei seminativi per scopi di carattere ambientale; f) incoraggiare la gestione dei terreni per l’accesso
del pubblico e le attività ricreative; g) promuovere la sensibilizzazione e la formazione degli agricoltori a metodi di
produzione agricola compatibili con le esigenze della tutela ambientale e con la cura dello spazio naturale”.
In specifico, il regime di aiuti di cui all’art. 2, “a condizione che abbia effetti positivi per l’ambiente e lo spazio naturale”, comprende “aiuti destinati agli imprenditori agricoli che assumano uno o più dei seguenti impegni: a) sensibile riduzione dell’impiego di concimi e/o fitofarmaci, oppure mantenimento delle riduzioni già effettuate o introduzione o
mantenimento dei metodi dell’agricoltura biologica; b) estensivizzazione delle produzioni vegetali con mezzi diversi da
quelli di cui alla lettera a), oppure mantenimento della produzione estensiva già avviata in passato o riconversione dei
seminativi in pascoli estensivi; c) riduzione della densità del patrimonio bovino od ovino per unità di superficie foraggiera; d) impiego di altri metodi di produzione compatibili con le esigenze di tutela dell’ambiente e delle risorse naturali, nonché con la cura dello spazio naturale e del paesaggio, oppure allevamento di specie animali locali minacciate
di estinzione; e) cura dei terreni agricoli o forestali abbandonati; f) ritiro dei seminativi dalla produzione per almeno
Circa la natura e importo degli aiuti derivanti dal reg. 2078/92, il premio annuale per ettaro o unità di bestiame ritirata veniva assegnato agli imprenditori agricoli che avessero sottoscritto uno o più impegni per almeno
cinque anni (venti in caso di ritiro dei seminativi), coinvolgendo le colture annuali198, i bovini e ovini ritirati,
le specie animali in pericolo, gli uliveti specializzati, gli agrumi, le altre colture perenni e il vino, la cura delle superfici abbandonate, il ritiro dei seminativi, la coltura e moltiplicazione dei vegetali adatti alle condizioni locali e minacciati di erosione genetica199.
Come si può agevolmente constatare, grande spazio era stato riservato dal regolamento 2078 del 1992 alle
zonazioni agroambientali: parole chiave (che ricaviamo dal testo regolamentare alla rinfusa) come “zone agricole e rurali della Comunità sempre più esposte a rischi di spopolamento, di erosione, d’inondazione,
d’incendio dei boschi”, “zone della Comunità in cui la diversità delle condizioni ambientali e naturali e delle
strutture agrarie richiede un adattamento corrispondente delle misure previste”, “programmi zonali di gestione dei terreni agricoli o abbandonati”, “zone in cui la cura dei terreni agricoli e forestali abbandonati si
dimostri necessaria per ragioni ecologiche o per il sussistere di rischi naturali o d’incendio e prevenire in
tal modo i pericoli connessi allo spopolamento delle regioni agricole”, “zona omogenea dal punto di vista
dell’ambiente e dello spazio naturale”, “caratteristiche specifiche di una determinata zona”, “delimitazione
della zona geografica e, se del caso, delle sottozone interessate”, “descrizione delle caratteristiche naturali,
ambientali e strutturali della zona”, “superfici abbandonate”, “superfici soggette al regime di ritiro dei seminativi e utilizzate per produzioni non alimentari”, non avrebbero potuto che tradursi in zonazioni cartografiche, tali da animare di sé il processo decisionale nei piani e programmi territoriali, ambientali e agronomici.
Se ciò non è del tutto (o, meglio, quasi mai) avvenuto, il fatto non può certo addebitarsi alla norma.
2. Allo stesso modo, a vedere il Reg. Cee n. 2080/92 del 30 giugno 1992 (che istituiva un regime comunitario di aiuti alle misure forestali nel settore agricolo) se ne constata lo stimolo alla zonazione agroambientale
sia per l’importanza rivestita dagli imboschimenti delle superfici agrarie nella difesa dell’ambiente (e per la
conseguente opportunità di analisi multivariate che ne individuassero la localizzazione opportuna)200, sia per
contrastare la carenza di risorse silvicole nella Comunità, sia come complemento della Pac per contenere la
produzione agricola; in effetti, già negli anni Novanta l’esperienza acquisita dimostrava “l’inadeguatezza dei
vigenti regimi di aiuti destinati a incitare gli agricoltori a praticare l’imboschimento dei loro terreni” e, negli ultimi tempi, “le azioni di imboschimento delle superfici ritirate dalla produzione agricola si sono rivelate poco soddisfacenti”, dunque, il regolamento 2080/92 non poteva che istituire “un regime di premi al fine
di compensare la perdita di reddito subita dagli agricoltori durante il periodo non produttivo delle superfici
imboschite” coinvolgendo al contempo “privati diversi dagli imprenditori agricoli”201 insieme ai “pubblici
poteri, e segnatamente i comuni”202; riguardo all’aspetto degli introiti, il legislatore comunitario risultava ben
avvertito che “l’imboschimento con specie a rapido accrescimento, coltivate in regime di turno breve, è generalmente abbastanza redditizio” e che sarebbe stato “perciò sufficiente prevedere un contributo comunitario per le operazioni di imboschimento con queste specie effettuate”, altresì considerando che “il miglioramento delle superfici boschive nelle aziende agricole può contribuire a migliorare, sotto il profilo del reddito, la situazione di quanti lavorano nell’agricoltura”.
In realtà, la portata del regolamento 2080/92 era più ambiziosa: oltre a “completare le trasformazioni previste nell’ambito delle organizzazioni comuni dei mercati” contribuendo “a un miglioramento nel tempo delle
risorse della silvicoltura”, esso intendeva “favorire una gestione dello spazio naturale più compatibile con
l’equilibrio dell’ambiente” attraverso “la lotta contro l’effetto serra” e “l’assorbimento dell’anidride carbovent’anni nella prospettiva di un loro utilizzo per scopi di carattere ambientale, in particolare per la creazione di riserve di biotopi o parchi naturali, o per salvaguardare i sistemi idrologici; g) gestione dei terreni per l’accesso del pubblico e le attività ricreative”, oltre a “misure volte a migliorare la formazione degli agricoltori per quanto concerne
l’impiego di metodi di produzione agricoli o forestali compatibili con l’ambiente”.
198
Quelle “che beneficiano di un premio per ettaro in virtù della regolamentazione relativa alle organizzazioni comuni
dei mercati”, nonché “le altre colture annuali e i pascoli”.
199
Era stato contemplato anche un aiuto speciale per “corsi e seminari di formazione concernenti metodi di produzione
agricola e forestale, compatibili con le esigenze di tutela dell’ambiente e delle risorse naturali, nonché con la cura dello spazio naturale e del paesaggio e conformi, in particolare, a norme di comportamento in agricoltura e ai criteri di
agricoltura biologica”.
200
I piani d’imboschimento “riguardano principalmente: la determinazione di un obiettivo di imboschimento, le condizioni relative alla localizzazione e al raggruppamento delle superfici idonee all’imboschimento, le tecniche di silvicoltura da applicare, la selezione delle specie di alberi adeguate alle condizioni locali”.
201
E istituendo “un premio per ettaro” in loro favore.
202
Sostenendo e rafforzando così “le iniziative pubbliche in materia di imboschimento”.
nica” mediante “un’utilizzazione alternativa delle terre agricole mediante l’imboschimento” e “uno sviluppo
delle attività forestali nelle aziende agricole”; è stata anche ammessa la possibilità di “realizzare piani zonali
di imboschimento che rispecchino la diversità delle situazioni ambientali, delle condizioni naturali e delle
strutture agricole”, oltre a “incentivi agli investimenti per il miglioramento delle superfici boschive, quali la
sistemazione di frangivento, fasce tagliafuoco, punti d’acqua e strade forestali”.
3. Consideriamo ora un recente nato dell’Unione (il Regolamento n. 1257/1999 del Consiglio del 17 maggio
1999), in materia di sostegno allo sviluppo rurale da parte del Fondo europeo agricolo di orientamento e di
garanzia, che ci ricorda come “la riforma del 1992 ha dato particolare rilievo alla dimensione ambientale
dell’agricoltura in quanto principale utilizzatrice della terra”, in presenza oltretutto di cambiamenti che “influenzeranno non soltanto i mercati agricoli, ma anche l’economia locale delle zone rurali in generale” talché necèssita ricostituire e rafforzare la loro competitività “contribuendo in tal modo a mantenere e a creare
posti di lavoro” in raccordo con le “misure di accompagnamento della riforma della politica agricola comune del 1992” (sopra commentate), ossia il “regolamento (Cee) n. 2078/92 del Consiglio, del 30 giugno 1992,
relativo a metodi di produzione agricola compatibili con le esigenze di protezione dell’ambiente e con la cura dello spazio naturale” e il “regolamento (Cee) n. 2080/92 del Consiglio, del 30 giugno 1992, che istituisce un regime comunitario di aiuti alle misure forestali nel settore agricolo” (oltre al prepensionamento, misura tuttavia non rilevante ai fini della conservazione della risorsa suolo e delle conseguenti zonazioni agroambientali).
Rilevante è invece la constatazione della “varietà delle zone rurali della Comunità” (e non solo: anche
all’interno delle stesse regioni degli stati membri) per cui “la politica di sviluppo rurale dovrebbe attenersi
al principio della sussidiarietà” e, di conseguenza, “i criteri per poter beneficiare del sostegno allo sviluppo
rurale non dovrebbero quindi oltrepassare la misura necessaria a raggiungere gli obiettivi della politica di
sviluppo rurale”.
Viene richiamato, alla base del Regolamento n. 1257/1999203, anche il fatto “che il sostegno alle zone svantaggiate dovrebbe contribuire a un uso continuato delle superfici agricole, alla cura dello spazio naturale, al
mantenimento e alla promozione di sistemi di produzione agricola sostenibili”; si pone quindi il problema di
“classificare le zone svantaggiate in base a criteri comuni” e vengono introdotte le nozioni molteplici degli
“strumenti agroambientali”, dei “metodi di produzione compatibili con le crescenti esigenze di tutela e miglioramento dell’ambiente, delle risorse naturali, del suolo e della diversità genetica, nonché con la necessità di salvaguardare lo spazio naturale e il paesaggio”, dei “problemi specifici relativi al cambiamento climatico”, della “stabilità ecologica delle foreste in talune zone”, del riorientamento verso “usi extra agricoli,
come la silvicoltura o la creazione di riserve ecologiche, in maniera compatibile con la tutela o il miglioramento della qualità dell’ambiente e dello spazio naturale”,
Si constata così come lo spazio concettuale (e spaziale) delle zonazioni si amplia di molto, in particolare
nell’applicazione delle misure alla scala regionale e locale; siamo qui in presenza di “zone svantaggiate” e
“soggette a vincoli ambientali”, “zone di montagna”204 e “zone svantaggiate minacciate di spopolamento e
nelle quali è necessario conservare l’ambiente naturale”205, quelle “assimilate alle zone svantaggiate”206 e i
203
Finalizzato complessivamente al “sostegno allo sviluppo rurale, legato alle attività agricole e alla loro riconversione”, per “il miglioramento delle strutture nelle aziende agricole e delle strutture di trasformazione di commercializzazione dei prodotti agricoli, la riconversione e il riorientamento del potenziale di produzione agricola, l’introduzione di
nuove tecnologie e il miglioramento della qualità dei prodotti, l’incentivazione della produzione non alimentare, uno
sviluppo forestale sostenibile, la diversificazione delle attività al fine di sviluppare attività complementari o alternative,
il mantenimento e il consolidamento di un tessuto sociale vitale nelle zone rurali, lo sviluppo di attività economiche e il
mantenimento e la creazione di posti di lavoro allo scopo di garantire un migliore sfruttamento del potenziale esistente,
il miglioramento delle condizioni di lavoro e di vita, il mantenimento e la promozione di sistemi di coltivazione a bassi
consumi intermedi, la tutela e la promozione di un alto valore naturale e di un’agricoltura sostenibile che rispetti le esigenze ambientali, l’abolizione delle ineguaglianze e la promozione della parità di opportunità fra uomini e donne, in
particolare mediante il sostegno a progetti concepiti e realizzati da donne”.
204
Ossia “quelle caratterizzate da una notevole limitazione delle possibilità di utilizzazione delle terre e da un notevole
aumento del costo del lavoro (dovuti all’esistenza di condizioni climatiche molto difficili a causa dell’altitudine, che si
traducono in un periodo vegetativo nettamente abbreviato); in zone di altitudine inferiore, all’esistenza nella maggior
parte del territorio di forti pendii che rendono impossibile la meccanizzazione o richiedono l’impiego di materiale speciale assai oneroso, ovvero a una combinazione dei due fattori, quando lo svantaggio derivante da ciascuno di questi
fattori presi separatamente è meno accentuato, ma la loro combinazione comporta uno svantaggio equivalente”.
205
Esse “sono composte di territori agricoli omogenei sotto il profilo delle condizioni naturali di produzione e per esse
devono ricorrere tutte le seguenti caratteristiche: esistenza di terre poco produttive, poco idonee alla coltivazione, le
cui scarse potenzialità non possono essere migliorate senza costi eccessivi e che si prestano soprattutto all’allevamento
“sistemi di pascolo a scarsa intensità”, gli “ambienti agricoli ad alto valore naturale esposti a rischi” e “zone forestali la cui funzione protettiva ed ecologica sia d’interesse pubblico”, zone per la “ricostituzione del
potenziale agricolo danneggiato da disastri naturali e l’introduzione di adeguati strumenti di prevenzione”,
zone assoggettate ai “piani di sviluppo rurale redatti al livello geografico ritenuto più opportuno”, tutti sistemi geografici la cui zonazione è rinviata dal Regolamento n. 1257/1999 ad apposite localizzazioni che le
regioni non potranno che individuare avvalendosi di un’apposita cartografia ambientale (che l’Ersal ha già
approntato, e che potrà senza dubbio venire approfondita alla scala e in base alle metodiche di dettaglio più
appropriate, valorizzando un bagaglio di metodi e tecniche già da anni presente nell’esperienza dell’Ente
lombardo).
estensivo, a causa della scarsa produttività dell’ambiente naturale; ottenimento di risultati notevolmente inferiori alla
media quanto ai principali indici che caratterizzano la situazione economica dell’agricoltura; scarsa densità, o tendenza alla regressione demografica, di una popolazione dipendente in modo preponderante dall’attività agricola e la cui
contrazione accelerata comprometterebbe la vitalità e il popolamento della zona medesima”.
206
Le “altre zone nelle quali ricorrono svantaggi specifici e nelle quali l’attività agricola dovrebbe essere continuata,
se del caso e a talune condizioni particolari, per assicurare la conservazione o il miglioramento dell’ambiente naturale, la conservazione dello spazio naturale e il mantenimento del potenziale turistico”.
Il caso del territorio extra-urbano di Cusago (cfr. in Paolillo P.L., 1995, Spazia agricoli a Cusago. Un esercizio analitico sul territorio extra-urbano: agricoltura, ambiente, paesaggio in un comune lombardo, Angeli, Milano).
1. Identificazione della procedura di ricerca
OBIETTIVI
ALLESTIMENTO
DELLA
CONOSCENZA
TRATTAMENTO
DELLA
CONOSCENZA
FASI
FASE DESCRITTIVA
Analisi dei dati elementari
a livello empirico
FASE
INTERPRETATIVA
Analisi classificatoria
a livello combinato
ESITI
Territorio: luogo di interazioni complesse tra fenomeni geofisici, ambientali e socioeconomici
Conoscenza
dell’impatto delle
trasformazioni
analisi
univariate
analisi di
correlazione
rappresentazione
cartografica
analisi
tipologica
cluster
analysis
SINTESI
DELLA
CONOSCENZA
FASE
CLASSIFICATORIA
analisi classificatoria
a livello gerarchico
Territorio: sistema complesso disaggregato in areali isotropi a simile
grado di interazione tra fenomeni
geo-fisici, ambientali e socioeconomici
rappresentazione
cartografica
Governo delle
trasformazioni
2. Procedimento di analisi della macro-componente economico-agraria (cfr. Paolillo, 1995)
carte gerarchiche
cartografia
comparazione
con contesti territoriali
di riferimento
aggregazioni
delle aziende
in classi
sinossi
aziendale
selezione
Macrocomponente
economico-agraria
analisi
dell’assetto
agricolo locale
analisi dell’evoluzione
storica dell’assetto
agricolo locale
analisi
aziendale
indicizzazione
del sistema delle aziende
analisi
univariate
correlazione
sintesi
ponderazione
classi di
resistività
aziendale
3. Procedimento di sintesi delle classificazioni finali (cfr. Paolillo, 1995)
ASSETTO FISICO DEL SUOLO
E SOTTOSUOLO
ASSETTO
ECONOMICO-AGRARIO
ASSETTO
STORICO-PAESAGGISTICO
Classificazione geologica
1°
Areali con un indice di naclasse turalità maggiore del contesto territoriale
Condizioni edafiche limitanti
(idromorfia)
Classificazione agronomica
1°
Ambiti spaziali delle azienclasse de a
elevato grado di resistività.
Buona stabilità organizzativa e
contrattuale.
Alta rilevanza occupazionale.
Alta produttività per ettaro.
Alta dotazione di capitale
agrario
2°
Ambiti spaziali delle azienclasse de a medio grado di resistività.
Buona stabilità organizzativa e
contrattuale.
Bassa rilevanza occupazionale.
Media dotazione di capitale
agrario
3°
Ambiti spaziali delle azienclasse de a basso grado di resistività.
Scarsa stabilità organizzativa e
contrattuale.
Bassa rilevanza occupazionale.
Scarsa o nulla dotazione di
capitale agrario
4°
Ambiti spaziali delle azienclasse de a
insufficiente grado di resistività.
Nulla stabilità organizzativa; suoli non irrigui.
Classificazione paesaggistica
1°
Suoli con persistenza nel
classe tempo dei caratteri agricoli.
Alto valore visuale
2°
Areali con un indice di naclasse turalità maggiore del contesto territoriale
Condizioni edafiche limitanti
(bassa persistenza freatica;
falda freatica alta)
3°
Areali con un indice di naclasse turalità medio rispetto al
contesto territoriale.
Areali caratterizzati da elevato grado di antropizzazione nella direttrice agricola.
Suoli a scarsa limitatività.
4°
Areali con un indice di naclasse turalità minore del contesto
territoriale.
Suoli adiacenti a infrastrutture varie o insediamenti
urbani.
2°
Suoli con permanenza dei
classe caratteri agricoli non fruibili.
3°
Aree a carattere residuale
classe
4°
Aree che richiedono interclasse venti per la ricomposizione
del quadro paesaggistico
ANALISI DI CORRELAZIONE
ANALISI TIPOLOGICA
Individuazione delle classi di resistività attese
CLASSI DI RESISTIVITA’ ATTESE
SUOLI DI I° CLASSE DI RESISTIVITA’
Suoli a scarsa/media suscettività alla
trasformazione urbana
SUOLI DI II° CLASSE DI RESISTIVITA’
Suoli a media suscettività alla trasformazione urbana
SUOLI DI III° CLASSE DI RESISTIVITA’
Suoli ad alta suscettività alla trasformazione
urbana
Suoli ricompresi in aziende ad alta/media
resistività
Suoli ricompresi in areali ad alto
valore
paesaggistico
Suoli ricompresi in aziende a media resistività
Suoli ricompresi in aziende a bassa/insufficiente resistività
Suoli ricompresi in areali a medio/alto valore paesaggistico
Suoli ricompresi in areali a minore
valore
paesaggistico
aggregazione delle classi delle
macro-componenti a simile significatività, per il raggiungimento degli obiettivi prefissati
individuazione di 3 distinti areali di
suoli a
differente grado di suscettività alla
trasformazione nella direttrice urbana
individuazione di 4 distinti areali di
suoli a
differente grado di resistività produttiva
individuazione di 2 distinti areali di
suoli a
differente grado di trasformazione
del paesaggio
AREALI DELLE MACROCOMPONENTI
Classificazione geologica
1°
Scarsa suscettività alla traareale sformazione
(1° e 2° classe)
2°
Media suscettività alla traareale sformazione
(3° classe)
3°
Elevata suscettività alla traareale sformazione (4° classe)
Classificazione economico-agraria
1°
Elevato grado di resistività
areale produttiva
(1° classe)
2°
Medio grado di resistività
areale produttiva
(2° classe)
3°
Basso grado di resistività
areale produttiva
(3° classe)
3°
Insufficiente grado di resiareale stività produttiva (4° classe)
AREALI A DIFFERENTE GRADO DI
RESISTIVITA’ ALLA TRASFORMAZIONE NELLA DIRETTRICE URBANA
1° a- Bassa suscettività alla trareale sformazione
2° a- Media suscettività alla trareale sformazione
3° a- Alta suscettività alla trareale sformazione
Classificazione paesaggistica
1°
Elevato valore paesaggistiareale co
(1° e ° classe)
2°
Minore valore paesaggistiareale co
(3° e 4° classe)
5. Diagramma riassuntivo del modello analitico finalizzato alla pianificazione delle risorse fisiche a scala comunale
(cfr. in Paolillo P.L., 1998, Al confine del nord-est. Materiali per il piano regolatore di Zoppola, Forum, Udine)
I FASE:
cartografia
descrittiva
Assetto
insediativo e storiografico
Assetto
geo-ambientale
0.1. Carta della strumentazione
urbanistica vigente a scala
comunale - zonizzazione aree
extraurbane
0.2. Carta della strumentazione
urbanistica vigente a scala
comunale – ambiti di intervento
0.3. Carta della strumentazione
urbanistica vigente a scala
comunale – zonizzazione aree
urbane
1. Carta dei vincoli urbanistici
vigenti a scala comunale
1.A. Carta geolitologica e morfologica dei depositi alluvionali superficiali su base Carta
tecnica regionale
1.B. Carta geolitologica e morfologica dei depositi alluvionali superficiali su base neutra
1. Carta dell’uso e copertura
del suolo extra-urbano
2.A. Carta dei bacini idrologici
principali e del reticolo idrografico su base Carta tecnica
regionale
2.B. Carta dei bacini idrologici
principali e del reticolo idrografico su base neutra
3.1. Carta dell’acquifero superficiale: andamento della falda
freatica – base della falda freatica superficiale
3. Carta dello scheletro del terreno
2. Carta tecnica regionale su
base aster
3. Carta del mosaico catastale
su base vettoriale
Assetto
agro_ambientale
2. Carta della profondità utile
del terreno
4. Carta della tessitura del terreno
5. Carta della conducibilità idrica del terreno
(segue)
Diagramma riassuntivo del modello analitico finalizzato alla pianificazione delle risorse fisiche a scala comunale
(cfr. in Paolillo P.L., 1998, Al confine del nord-est. Materiali per il piano regolatore di Zoppola, Forum, Udine)
I FASE:
cartografia
descrittiva
Assetto
insediativo e storiografico
Assetto
geo-ambientale
Assetto
agro_ambientale
4. Carta della morfologia urbanizzata
5. Carta della georeferenziazione dell’indagine diretta sul
patrimonio edilizio urbano
6. Carta della tipologia edilizia
a scala comunale
7. Carta delle funzioni d’uso ai
piani terra a scala comunale
8. Carta della presenza di piani
interrati e di sottotetti finestrati
a scala comunale
9. Carta della dotazione di
giardini privati e di posti auto
scoperti a scala comunale
10. Carta della distribuzione
della popolazione residente per
classi d’età a scala comunale
11. Carta dei tipi di insediamenti produttivi a scala comunale
12. Carta della dotazione di urbanizzazioni a rete a scala comunale
13. Carta della dotazione di
servizi e attrezzature collettive
a scala comunale
14. Carta della dotazione di
servizi e attrezzature collettive
a scala locale
15. Carta del demanio municipale a scala comunale
16. Carta della localizzazione
delle istanze dei soggetti sociali a scala comunale
17. Carta del n. di piani e delle
pertinenze virtuali assegnate a
scala comunale
18. Carta dell’individuazione
dell’indice fondiario virtuale
per isolato a scala comunale
19. Carta dell’uso del suolo al
1837
3.2. Carta dell’acquifero superficiale: andamento della prima
falda artesiana – tetto della falda artesiana superficiale
6. Carta della capacità idrica di
campo
7. Carta del coefficiente di avvizzimento
8. Carta della potenzialità agronomica generale
Diagramma riassuntivo del modello analitico finalizzato alla pianificazione delle risorse fisiche a scala comunale
(cfr. in Paolillo P.L., 1998, Al confine del nord-est. Materiali per il piano regolatore di Zoppola, Forum, Udine)
II FASE:
cartografia
di sintesi
1. Carta della localizzazione
delle abitazioni da ristrutturare
o recuperare
1. Carta della vulnerabilità
dell’acquifero
2. Carta delle aree edificate e
urbanizzate e dell’accessibilità
ai servizi pubblici a scala comunale
3. Carta di verifica del grado
d’attuazione del Prg vigente a
scala comunale: servizi pubblici
4. Carta di verifica del grado
d’attuazione del Prg vigente a
scala comunale: produzione
5. Carta di verifica del grado
d’attuazione del Prg vigente a
scala comunale: residenza
6. Carta di valutazione della
compattezza morfologica dei
margini urbani a scala comunale
7. Carta della trasformazione
fondiaria
2. Carta del rischio idraulico e
della tutela dei corsi d’acqua
1. Carta dei suoli
2. Carta della riserva idrica
dello strato utile (fino a 50 cm)
3. Carta della riserva idrica
dello strato utile (fino a 120
cm)
4. Carta del fabbisogno irriguo
massimo nel mese di punta
5. Carta del fabbisogno irriguo
stagionale del mais
6. carta del fabbisogno irriguo
stagionale della patata
7. Carta del fabbisogno irriguo
stagionale del frumento
8. Carta del fabbisogno irriguo
stagionale della soia
9. Carta del fabbisogno irriguo
stagionale della vite
10. Carta del fabbisogno irriguo stagionale della medica
11. Carta della durata della
stagione irrigua
12. Carta della produttività relativa in asciutto del mais
13. Carta della variabilità in
asciutto delle rese relative del
mais
14. Carta della percolazione
15. Carta dei rilasci in falda di
azoto da sistemi colturali intensivi
16. carta dei rilasci in falda di
azoto da sistemi colturali a
basso impatto
17. Carta dei rilasci in falda di
fosforo agricolo
18. Carta dei rilasci in falda di
un fitofarmaco a bassa mobilità
19. Carta dei rilasci in falda di
un fitofarmaco ad alta mobilità
20. Carta della vocazione colturale reale
Diagramma riassuntivo del modello analitico finalizzato alla pianificazione delle risorse fisiche a scala comunale
(cfr. in Paolillo P.L., 1998, Al confine del nord-est. Materiali per il piano regolatore di Zoppola, Forum, Udine)
III FASE:
cartografia
progettuale
1. Carta degli elementi strutturali del territorio e degli indirizzi di progetto insediativo e
ambientale
1. Carta del rischio idraulico
2. Carta della necessità di regimazione idrica
2. Carta della zonizzazione geologica
IV FASE:
cartografia di
piano regolatore generale comunale
1. Carta della vocazione irrigua
1. Carta della disciplina dei suoli urbanizzati e urbanizzabili
2. Carta della disciplina dei suoli extra-urbani
3. Carta della capacità ricettiva
in liquami zootecnici
4. Carta della vulnerabilità dei
corpi idrici sotterranei
5. Carta della vocazione agronomica per la vite
6. Carta della vocazione agronomica per le colture frutticole
7. Carta della vocazione agronomica per le colture orticole
8. Carta della vocazione agronomica per le colture erbacee
in asciutto
9. Carta della vocazione agronomica per le colture erbacee
in irriguo
10. Carta della vocazione colturale generale
11. Carta della vocazione colturale potenziale
12. Carta del valore paesaggistico naturalistico
13. Carta dell’urbanizzabilità
dei suoli agricolo - naturali
2.8. Il D.Lgs. 11 maggio 1999, n. 152 sulla tutela delle acque dall’inquinamento
1. Già mediante la Direttiva Cee n. 80/778 i Paesi membri provvedevano a regolare la qualità delle acque destinate al consumo umano, e con Dpr. 24 maggio 1988, n. 236207 l’Italia stabiliva “i requisiti di qualità delle
acque destinate al consumo umano, per la tutela della salute pubblica e per il miglioramento delle condizioni
di vita”, introducendo misure per la difesa delle risorse idriche; vi si ravvisava oltretutto il dovere regionale
d’individuare sia le aree di salvaguardia delle risorse idriche (zone di tutela assoluta e zone di rispetto; zone di
protezione nei bacini imbriferi e delle aree di ricarica della falda)208 sia la disciplina delle attività e destinazioni ammissibili, e insieme di adottare i piani d’intervento per il risanamento e miglioramento della qualità
idrologica e coordinare il flusso informativo sui caratteri delle acque destinate al consumo umano; inoltre, il
Dpr. 236/2988 individuava il regime dei controlli, l’obbligo di rilevamento dell’impiego di antiparassitari, le
sanzioni amministrative e penali.
Quindi, mediante il D.Lgs. 27 gennaio 1992, n. 132 (che, con straordinario ritardo, attuava la Direttiva
80/68/Cee del 17 dicembre 1979 sulla “protezione delle acque sotterranee dall’inquinamento provocato da
certe sostanze pericolose”), lo Stato italiano tentava di contenere i processi inquinatori di “tutte le acque che
si trovano sotto la superficie del suolo nella zona di saturazione e a contatto diretto con il suolo e il sottosuolo” identificando209 l’inquinamento come “scarico di sostanze o di energia effettuato direttamente o indirettamente dall’uomo nelle acque sotterranee, le cui conseguenze siano tali da mettere in pericolo o la salute
umana o l’approvvigionamento idrico, nuocere alle risorse viventi e al sistema ecologico idrico, od ostacolare altri usi legittimi delle acque” ed espressamente escludendo dalla sua disciplina: a) gli scarichi degli effluenti domestici “delle abitazioni isolate non raccordate a una rete di fognatura e situate furi delle zone di
protezione delle captazioni d’acqua destinata al consumo umano”; b) gli scarichi con presenza di sostanze ex
elenchi I e/o II “in quantità e concentrazione poco significative, tali da escludere qualsiasi rischio presente o
futuro di deterioramento della qualità delle acque sotterranee riceventi“; c) gli scarichi “contenenti sostanze
radioattive”; infine il D.Lgs. 27 gennaio 1992, n. 132 introduce210 (tra gli elaborati tecnici preventivi al rilascio delle autorizzazioni211) i fondamentali parametri conoscitivi della “capacità depurativa del suolo e del
sottosuolo”212 e delle “caratteristiche dell’ambiente ricevitore, ivi compresa la capacità depurativa del suolo”213.
2. Poco tempo prima del richiamato D.Lgs. 27 gennaio 1992, n. 132 sulla protezione delle acque sotterranee
nazionali dagli inquinamenti di sostanze pericolose, è stata promulgata la Direttiva 91/271/Cee del 21 maggio
1991 sul trattamento delle acque reflue urbane (giacché “l’inquinamento dovuto a un trattamento insufficiente
delle acque reflue in uno Stato membro ha spesso ripercussioni sulle acque di altri Stati membri”); il ventaglio di problemi aperto dalla Direttiva 91/271 spazia: i) dal trattamento differenziato delle acque per grado di
sensibilità delle aree214, ii) allo smaltimento dei reflui e fanghi derivanti dal trattamento delle acque urbane215;
iii) ai requisiti, prima dell’adduzione nelle acque recipienti, degli scarichi di acque reflue industriali biodegradabili non trattate; iv) alla promozione del riciclo dei fanghi di trattamento delle acque reflue e alla graduale
cessazione dello smaltimento di fanghi nelle acque superficiali; v) ai controlli sugli impianti di trattamento,
sulle acque recipienti e sullo smaltimento dei fanghi.
Anche in questo caso, appare di qualche utilità richiamare per esteso le “definizioni”, che concernono: a) “Acque reflue urbane” = acque reflue domestiche o il miscuglio di acque reflue domestiche, acque reflue industriali e/o acque meteoriche di dilavamento; b) “Acque reflue domestiche” = acque reflue provenienti da insediamenti di tipo residenziale e da servizi e derivanti prevalentemente dal metabolismo umano e da attività
domestiche; c) “Acque reflue industriali” = qualsiasi tipo di acque reflue scaricate da edifici in cui si svolgono
attività commerciali o industriali, diverse dalle acque reflue domestiche e dalle acque meteoriche di dilavamento; d) “Agglomerato” = area in cui la popolazione e/o le attività economiche sono sufficientemente con207
Il Dpr. richiamato recava “Attuazione della direttiva Cee n. 80/778 concernente la qualità delle acque destinate al
consumo umano, ai sensi dell’art. 154 della legge 16 aprile 1987, n. 183”.
208
Artt. da 4 a 7 del Dpr. 24 maggio 1988, n. 236.
209
Nelle “definizioni” ex art. 2.
210
Negli artt. da 10 a 12.
211
Vale a dire autorizzazioni a scaricare acque reflue nelle unità geologiche profonde (art. 6); a eliminare e/o deporre sostanze dell’elenco I e II (artt. 7, 9); a reiniettare in falda acque utilizzate a scopo geotermico, acque d’infiltrazione di miniere o cave, acque pompate in lavori d’ingegneria civile (art. 8); a scaricare ed eliminare acque usate (art. 11); a eliminare e depositare rifiuti (art. 12).
212
Art. 10 (“Indagine preventiva e rilascio della autorizzazione”).
213
Lett. c), art. 12 (“Autorizzazione alle operazioni di eliminazione e di deposito di rifiuti”).
214
“Considerando che nelle aree sensibili occorre prevedere un trattamento più spinto e che in ambienti meno sensibili
si potrebbe invece ritenere sufficiente il trattamento primario”.
215
In dipendenza della confluenza delle acque reflue industriali in reti fognarie.
centrate così da rendere possibile la raccolta e il convogliamento delle acque reflue urbane verso un impianto
di trattamento di acque reflue urbane o verso un punto di scarico finale; e) “Rete fognaria” = un sistema di
condotte per la raccolta e il convogliamento delle acque reflue urbane; f) “Un a.e. (abitante equivalente)” =
carico organico biodegradabile, avente una richiesta biochimica di ossigeno a 5 giorni (BOD5) di 60 g di ossigeno al giorno; g) “Trattamento primario” = il trattamento delle acque reflue urbane mediante un processo
fisico e/o chimico che comporti la sedimentazione dei solidi sospesi, ovvero mediante altri processi a seguito
dei quali il BOD5 delle acque reflue in arrivo sia ridotto almeno del 20 % prima dello scarico e i solidi sospesi totali delle acque reflue in arrivo siano ridotti almeno del 50 %; h) “Trattamento secondario” = il trattamento delle acque reflue urbane mediante un processo che in genere comporta il trattamento biologico con sedimentazioni secondarie, o un altro processo in cui vengano rispettati i requisiti stabiliti nella tabella 1
dell’allegato I; i) “Trattamento appropriato” = il trattamento delle acque reflue urbane mediante un processo
e/o un sistema di smaltimento che dopo lo scarico garantisca la conformità delle acque recipienti ai relativi
obiettivi di qualità e alle relative disposizioni della presente direttiva e di altre direttive comunitarie pertinenti;
l) “Fanghi” = i fanghi residui, trattati o non trattati, provenienti dagli impianti di trattamento delle acque reflue urbane; m) “Eutrofizzazione” = l’arricchimento delle acque in nutrienti (particolarmente composti
dell’azoto e/o del fosforo) che provoca una proliferazione di alghe e di forme superiori di vita vegetale, producendo una indesiderata perturbazione dell’equilibrio degli organismi presenti nell’acqua e della qualità delle acque interessate.
Per quanto a noi interessa (vale a dire per le ricadute territoriali che la Direttiva è stata ed è in grado di esprimere nei confronti di un miglior uso dei Sit/Gis e delle basi dati ambientali) la 91/271, oltre a identificare i
requisiti delle acque reflue urbane e degli impianti di trattamento conseguenti (Allegato I) e ad assegnare a
ogni Stato membro un termine non superiore ai quattro anni per reidentificare le cosiddette “aree sensibili” e
“aree meno sensibili”, proprio nell’Allegato II provvedeva a esprimere i “criteri per l’individuazione delle aree sensibili e meno sensibili”; pertanto, è “sensibile un sistema idrico classificabile in uno dei seguenti gruppi: a) laghi naturali, altre acque dolci, estuari e acque del litorale già eutrofizzati, o probabilmente esposti a
prossima eutrofizzazione, in assenza di interventi protettivi specifici216; b) acque dolci superficiali destinate
alla produzione di acqua potabile che potrebbero contenere, in assenza di interventi, una concentrazione di
nitrato superiore a quella stabilita conformemente alle disposizioni pertinenti della direttiva 75/440/Cee del
16 giugno 1975”217.
3. Nello stesso periodo in cui era stata promulgata la Direttiva 91/271/Cee del 21 maggio 1991 sul trattamento
delle acque reflue urbane, aveva anche avuto luogo la promulgazione della Direttiva 91/676/Cee del 12 dicembre 1991 sulla protezione delle acque dell’inquinamento provocato dai nitrati di fonti agricole, in particolare per l’aumento del contenuto di nitrati in acqua218; così, la 91/676 si è rivolta principalmente al controllo e
alla riduzione dell’inquinamento idrico risultante dallo spandimento e scarico di deiezioni zootecniche o
dall’uso eccessivo di fertilizzanti, dichiarando oltretutto che “la politica agricola deve prendere maggiormente in considerazione la politica ecologica”.
E, dunque, a fronte della necessità di “prendere provvedimenti riguardanti l’uso in agricoltura di composti
azotati e il loro accumulo nel terreno derivante da talune prassi di gestione del suolo” e della consapevolezza
che “in taluni Stati membri, la situazione dell’idrogeologia è tale che solo dopo parecchi anni le misure di
protezione potrebbero dar luogo ad un miglioramento della qualità delle acque”, viene qui incoraggiata “la
buona pratica agricola”, si dichiara la indispensabilità “che gli Stati membri individuino le zone vulnerabili e
progettino e attuino i necessari programmi d’azione per ridurre l’inquinamento idrico provocato da composti
azotati nelle zone vulnerabili” e si ritiene oltretutto opportuno “stabilire restrizioni specifiche nell’impiego di
concimi organici animali”.
Passando poi alla gamma delle usali definizioni, si rinviene: a) “acque sotterranee” = “tutte le acque che si
trovano sotto la superficie del terreno nella zona di saturazione e in diretto contatto col suolo o sottosuolo”;
216
“Per individuare il nutriente da ridurre mediante ulteriore trattamento, vanno tenuti in considerazione i seguenti elementi: i) nei laghi e nei corsi d’acqua che si immettono in laghi/bacini/baie chiuse con scarso ricambio idrico e ove
possono verificarsi fenomeni di accumulazione la sostanza da eliminare è il fosforo, a meno che non si dimostri che tale
intervento non avrebbe alcun effetto sul livello dell’eutrofizzazione. Nel caso di scarichi provenienti da ampi agglomerati si può prevedere di eliminare anche l’azoto; ii) negli estuari, nelle baie e nelle altre acque del litorale con scarso ricambio idrico, ovvero in cui si immettono grandi quantità di nutrienti, se, da un lato, gli scarichi provenienti da piccoli
agglomerati urbani sono generalmente di importanza irrilevante, dall’altro, quelli provenienti da agglomerati più estesi
rendono invece necessari interventi di eliminazione del fosforo e/o dell’azoto, a meno che non si dimostri che ciò non
avrebbe comunque alcun effetto sul livello dell’eutrofizzazione”.
217
È invece “area meno sensibile un sistema o un ambiente idrico marino in cui lo scarico di acque reflue non ha conseguenze negative sull’ambiente, per le particolari condizioni morfologiche, idrologiche o più specificamente idrauliche
dell’area in questione”.
218
Dimostratosi più elevato rispetto alle norme delle precedenti direttive 75/440/Cee, 79/869/Cee e 80/778/Cee.
b) “acque dolci” = quelle “che si presentano in natura con una bassa concentrazione di sali e sono spesso
considerate appropriate per l’estrazione e il trattamento al fine di produrre acqua potabile”; c) “composto
azotato” = “qualsiasi sostanza contenente azoto, escluso l’azoto allo stato molecolare gassoso”; d) “fertilizzante” = “qualsiasi sostanza contenente uno o più composti azotati, sparsa sul terreno per stimolare la crescita della vegetazione compresi gli effluenti di allevamento, i residui degli allevamenti ittici e i fanghi di fognatura”; e) “concimi chimici” = “qualsiasi fertilizzante prodotto con procedimento industriale”; f) “effluente di allevamento” = “le deiezioni del bestiame o una miscela di lettiera e deiezioni anche sotto forma di prodotto trasformato”; g) “applicazione al terreno” = “l’apporto di materiale al terreno mediante spandimento
superficiale, iniezione, interramento, mescolatura con gli strati superficiali”; h) “eutrofizzazione” =
“l’arricchimento dell’acqua con composti azotati il quale causa una crescita rapida delle alghe e di forme di
vita vegetale più elevate, con conseguente indesiderabile rottura dell’equilibrio degli organismi presenti nelle
acque e deterioramento della loro qualità”; i) “inquinamento” = “scarico effettuato direttamente o indirettamente nell’ambiente idrico di composti azotati di origine agricola, le cui conseguenze siano tali da mettere in
pericolo la salute umana, nuocere alle risorse viventi e all’ecosistema acquatico, compromettere le attrattive
o ostacolare altri usi legittimi delle acque”.
Per stabilire “un livello generale di protezione dall’inquinamento per tutti i tipi di acque”, gli Stati membri
avrebbero dovuto entro due anni dalla direttiva 91/676/Cee fissare “uno o più codici di buona pratica agricola applicabili a discrezione degli agricoltori” e controllare la concentrazione di nitrati nelle acque dolci per
“designare le zone vulnerabili e rivederne le designazioni”.
A mente dell’Allegato II (“Codici di buona pratica gricola”), la direttiva 91/676/Cee prescriveva infine come,
per ridurre l’inquinamento da nitrati tenendo conto delle condizioni esistenti nelle varie regioni della Comunità, i Codici avrebbero dovuto “contenere disposizioni concernenti gli elementi seguenti: 1) i periodi in cui
l’applicazione al terreno di fertilizzanti non è opportuna; 2) l’applicazione di fertilizzante al terreno in pendenza ripida; 3) l’applicazione di fertilizzanti al terreno saturo d’acqua, inondato, gelato o innevato; 4) le
condizioni per applicare il fertilizzante al terreno adiacente ai corsi d’acqua; 5) la capacità e la costruzione
dei depositi per effluenti da allevamento, incluse le misure destinate a prevenire l’inquinamento idrico causato da scorrimento e infiltrazione nelle acque sotterranee e superficiali di liquidi contenenti effluenti da allevamento ed effluenti provenienti da materiale vegetale come i foraggi insilati; 6) procedure di applicazione al
terreno comprese percentuali e uniformità di applicazione sia di concimi chimici che di effluenti di allevamento, in modo da mantenere le dispersioni nutrienti nell’acqua ad un livello accettabile”.
Gli Stati membri avrebbero potuto altresì includere nei loro propri codici di pratica agricola i fattori seguenti:
“7) gestione dell’uso del terreno, compreso l’uso dei sistemi di rotazione delle colture e la proporzione di terreno destinata a colture permanenti collegate a colture annuali; 8) mantenimento, durante i periodi (piovosi),
di un quantitativo minimo di copertura vegetale destinata ad assorbire dal terreno l’azoto che altrimenti potrebbe inquinare l’acqua con i nitrati; 9) la predisposizione di piani di fertilizzazione, per ciascuna azienda, e
la tenuta di registri sulle applicazioni di fertilizzanti; 10) prevenzione dell’inquinamento delle acque dovuto
allo scorrimento e alla percolazione dell’acqua oltre le radici nei sistemi di irrigazione”.
L’Allegato III, poi, recava le “Misure da inserire nei programmi d’azione” tra le quali: “1) i periodi in cui è
proibita l’applicazione al terreno di determinati tipi di fertilizzanti; 2) la capacità dei depositi per effluenti di
allevamento219; 3) la limitazione dell’applicazione al terreno di fertilizzanti conformemente alla buona pratica agricola e in funzione delle caratteristiche della zona vulnerabile interessata, in particolare: a) delle condizioni del suolo, del tipo e della pendenza del suolo; b) delle condizioni climatiche, delle precipitazioni e
dell’irrigazione; c) dell’uso del terreno e delle prassi agricole, inclusi i sistemi di rotazione delle colture, e
basata sull’equilibrio tra: i) il fabbisogno prevedibile di azoto delle colture, e ii) l’apporto alle colture di azoto proveniente dal terreno e dalla fertilizzazione, corrispondente alle quantità di azoto presenti nel terreno
nel momento in cui la coltura comincia ad assorbirlo in misura significativa (quantità rimanenti alla fine
dell’inverno), all’apporto di composti di azoto tramite la mineralizzazione netta delle riserve di azoto organico nel terreno, all’aggiunta di composti di azoto proveniente da effluenti di allevamento, all’aggiunta di
composti di azoto provenienti da fertilizzanti chimici e da altri fertilizzanti”.
Le misure avrebbero dovuto garantire “che, per ciascuna azienda o allevamento, il quantitativo di effluente di
allevamento sparso sul terreno ogni anno, compreso quello distribuito dagli animali stessi, non superi un determinato quantitativo per ettaro”220; nell’Allegato V, infine (relativo alle “Informazioni da inserire nelle re219
“Tale capacità deve superare quella necessaria per l’immagazzinamento nel periodo più lungo, durante cui è proibita la applicazione al terreno di effluenti nella zona vulnerabile, salvo i casi in cui sia dimostrato all’autorità competente
che qualsiasi quantitativo di effluenti superiore all’effettiva capacità d’immagazzinamento sarà smaltito in un modo che
non causerà danno all’ambiente”.
220
Corrispondente al quantitativo di effluente contenente 170 kg di azoto. “Tuttavia: a) per i primi quattro anni del programma di azione, gli Stati membri possono accordare un quantitativo di effluente contenente fino a 210 kg di azoto; b)
durante e dopo i primi quattro anni del programma di azione, gli Stati membri possono stabilire quantitativi diversi da
quelli indicati in precedenza. Questi quantitativi devono essere fissati in maniera tale da non compromettere il raggiun-
lazioni”), avrebbe dovuto comparire espressamente − oltre alla descrizione dell’azione di prevenzione organizzata − una mappa rappresentativa delle acque individuate (“precisando, per ogni tipo di acqua, quale criterio sia stato adottato ai fini dell’individuazione”) e le zone designate come vulnerabili.
4. Giungiamo ora alla più recente produzione legislativa nazionale, e consideriamo in particolare il D.lgs. 11
maggio 1999, n. 152, recante “Disposizioni sulla tutela delle acque dall’inquinamento” nonché “recepimento
della direttiva 91/271/Cee concernente il trattamento delle acque reflue urbane e della direttiva 91/676/Cee
relativa alla protezione delle acque dall’inquinamento dei nitrati provenienti da fonti agricole”;
l’adeguamento alla legislazione comunitaria anche qui ha luogo con l’usuale ritardo constatato in altri casi,
soprattutto considerando che già la legge 22 febbraio 1994, n. 146, e in particolare gli articoli 36 e 37, prevedevano il recepimento delle due direttive 91/271 e 91/676 (oltre all’art. 17 della legge 24 aprile 1998, n. 128
che delegava il Governo ad apportare “le modificazioni e integrazioni necessarie al coordinamento e riordino
della normativa vigente in materia di tutela delle acque dall’inquinamento”).
4.1. Si consideri intanto che il D.Lgs. 152/1999 ha inteso perseguire gli obiettivi di i) prevenire e ridurre
l’inquinamento e attuare il risanamento dei corpi idrici inquinati; ii) conseguire il miglioramento dello stato
delle acque e adeguate protezioni di quelle destinate a particolari usi; iii) perseguire usi sostenibili e durevoli
delle risorse idriche, con priorità per quelle potabili; iv) mantenere la capacità naturale di autodepurazione dei
corpi idrici e di sostenimento di comunità animali e vegetali ampie e diversificate, il tutto mediante gli strumenti: a) dell’individuazione di obiettivi di qualità ambientale per specifica destinazione dei corpi idrici; b)
della tutela integrata degli aspetti qualitativi e quantitativi di ciascun bacino idrografico (insieme a un adeguato sistema di controlli e sanzioni); c) del rispetto dei valori limite degli scarichi e della definizione di valori limite rispetto agli obiettivi qualitativi del corpo recettore; d) dell’adeguamento dei sistemi di fognatura,
collettamento e depurazione degli scarichi idrici; e) dell’individuazione di misure di prevenzione e riduzione
dell’inquinamento nelle zone vulnerabili e nelle aree sensibili; f) dell’individuzione di misure di conservazione, risparmio, riciclo delle risorse idriche.
4.2. Il quadro di definizioni contenuto nell’art. 2 del D.Lgs. 152/1999 coinvolge una vasta gamma di definizioni: a) un “abitante equivalente” è “il carico organico biodegradabile avente una richiesta biochimica di
ossigeno a 5 giorni (BOD5) pari a 60 grammi di ossigeno al giorno”; b) le “acque ciprinicole” sono quelle
“in cui vivono o possono vivere pesci appartenenti ai ciprinidi (Cyprinidae) o a specie come i lucci, i pesci
persici e le anguille”; c) le “acque salmonicole” coinvolgono lo spazio “in cui vivono o possono vivere pesci
appartenenti a specie come le trote, i temoli e i coregoni”; d) le “acque dolci” “si presentano in natura con
una bassa concentrazione di sali e sono considerate appropriate per l’estrazione e il trattamento al fine di
produrre acqua potabile”; e) le “acque reflue domestiche” sono “provenienti da insediamenti di tipo residenziale e da servizi e derivanti prevalentemente dal metabolismo umano e da attività domestiche”; f) le “acque
reflue industriali” coinvolgono “qualsiasi tipo di acque reflue scaricate da edifici in cui si svolgono attività
commerciali o industriali, diverse dalle acque reflue domestiche e dalle acque meteoriche di dilavamento”; g)
le “acque reflue urbane” comprendono sia quelle domestiche sia il “miscuglio di acque reflue domestiche, industriali o meteoriche di dilavamento”; h) un “agglomerato” è “l’area in cui la popolazione ovvero le attività
economiche sono sufficientemente concentrate così da rendere possibile la raccolta e il convogliamento delle
acque reflue urbane verso un sistema di trattamento di acque reflue urbane o verso un punto di scarico finale”; i) una “applicazione al terreno” riguarda “l’apporto di materiale al terreno mediante spandimento sulla
superficie del terreno, iniezione nel terreno, interramento, mescolatura con gli strati superficiali del terreno”;
l) una “autorità d’ambito” è “la forma di cooperazione tra comuni e province ai sensi dell’art. 9, c. 2, della
legge 5 gennaio 1994, n. 36”; m) un “effluente d’allevamento” interessa “le deiezioni del bestiame o una miscela di lettiera e di deiezioni di bestiame, anche sotto forma di prodotto trasformato”; n) la “eutrofizzazione”
riguarda le forme di “arricchimento delle acque in nutrienti, in particolare modo di composti dell’azoto ovvero del fosforo, che provoca una proliferazione delle alghe e di forme superiori di vita vegetale, producendo
una indesiderata perturbazione degli equilibri degli organismi presenti nell’acqua e della qualità delle acque
interessate”; o) è un “fertilizzante”221 “qualsiasi sostanza contenente uno o più composti azotati, sparsa sul
terreno per stimolare la crescita della vegetazione, compresi gli effluenti di allevamento, i residui degli allevamenti ittici e i fanghi”; p) sono “fanghi” i “residui, trattati o non trattati, provenienti dagli impianti di trattamento delle acque, reflue urbane”; q) è uno “scarico” “qualsiasi immissione diretta tramite condotta di acque reflue liquide, semiliquide e comunque convogliabili nelle acque superficiali, sul suolo, nel sottosuolo e
gimento degli obiettivi e devono essere giustificati in base a criteri obiettivi, ad esempio: stagioni di crescita prolungate;
colture con grado elevato di assorbimento di azoto; grado elevato di precipitazioni nette nella zona vulnerabile; terreni
con capacità eccezionalmente alta di denitrificazione”.
221
Fermo restando quanto disposto dalla legge 19 ottobre 1984, n.748.
in rete fognaria, indipendentemente dalla loro natura inquinante, anche sottoposte a preventivo trattamento
di depurazione”; r) si ha un “trattamento appropriato” quando le acque reflue urbane vengono trattate “mediante un processo o sistema di smaltimento che dopo lo scarico garantisca la conformità dei corpi idrici recettori ai relativi obiettivi di qualità”; s) il “trattamento primario” interessa “le acque reflue urbane mediante
un processo fisico ovvero chimico che comporti la sedimentazione dei solidi sospesi, o mediante altri processi
a seguito dei quali il BOD5 delle acque reflue in arrivo sia ridotto almeno del 20% prima dello scarico e i solidi sospesi totali delle acque reflue in arrivo siano ridotti almeno del 50%”; t) il “trattamento secondario” determina “un processo che in genere comporta il trattamento biologico con sedimentazioni secondarie”; u) il
“valore limite di emissione” è il “limite di accettabilità di una sostanza inquinante contenuta in uno scarico,
misurata in concentrazione o in peso per unità di prodotto o di materia prima lavorata o per unità di tempo”;
v) infine, le “zone vulnerabili” sono porzioni “di territorio che scaricano direttamente o indirettamente composti azotati di origine agricola o zootecnica in acque già inquinate o che potrebbero esserlo in conseguenza
di tali tipi di scarichi”.
4.3. Abbiamo più volte visto in precedenza la locuzione “raggiungimento di obiettivi di qualità”; se ne occupa
in dettaglio il D.Lgs. 152/1999222 individuando “gli obiettivi minimi di qualità ambientale per i corpi idrici
(…) da garantirsi su tutto il territorio nazionale (…) in funzione della capacità di mantenere i processi naturali di autodepurazione e di supportare comunità animali e vegetali ampie e ben diversificate”; pertanto, entro il 31 dicembre 2001 le regioni dovranno identificare “per ciascun corpo idrico significativo, o parte di esso, la classe di qualità corrispondente”, affinché ogni corpo idrico superficiale consegua entro il 2008 almeno
i requisiti di “sufficiente” (ed entro il 2016 venga raggiunto l’obiettivo di qualità ambientale “buono”)223.
Nella disciplina delle “Acque a specifica destinazione” vengono considerate tra l’altro le “acque superficiali
destinate alla produzione di acqua potabile”224 e le “acque dolci idonee alla vita dei pesci”225 (escluse quelle
dei bacini naturali o artificiali utilizzati per gli allevamenti intensivi di specie ittiche, i canali artificiali adibiti
a uso plurimo di scolo o irriguo e quelli realizzati per allontanare i liquami e acque reflue industriali) che, ove
i valori siano conformi, debbono essere classificate “entro quindici mesi dalla designazione, come acque dolci
salmonicole o ciprinicole”.
Riguardo alla tutela dei corpi idrici e degli scarichi, vengono intanto evidenziate le “aree richiedenti specifiche misure di prevenzione dall’inquinamento e di risanamento”; in questo senso l’art. 18 coinvolge le “aree
sensibili” che, in prima individuazione, interessano tra l’altro laghi e corsi d’acqua afferenti226, zone umide ex
convenzione di Ramsar e Dpr. 448/1976, corpi idrici ove si svolgono attività tradizionali di produzione ittica
sostenibile bisognose di tutela; importanti compiti coinvolgono dunque le regioni, che: i) entro un anno
dall’entrata in vigore del D.Lgs. 152/1999 possono designare ulteriori aree sensibili o individuare i corpi idrici che non costituiscono aree sensibili; ii) delimitano nelle aree sensibili i bacini drenanti che contribuiscono
al loro inquinamento; iii) reidentificano ogni quattro anni le aree sensibili.
Vi si disciplinano poi le “zone vulnerabili da nitrati di origine agricola”; anche in questo caso le regioni (sentita l’Autorità di bacino), possono individuare ulteriori zone vulnerabili o le loro parti che non esprimono
condizioni di vulnerabilità e, almeno ogni quattro anni, “rivedono o completano le designazioni delle zone
vulnerabili per tener conto dei cambiamenti e fattori imprevisti al momento della precedente designazione”
(oltre a predisporre e attuare, sempre ogni quattro anni, “un programma di controllo per verificare le concen222
Recante “Obiettivo di qualità ambientale e obiettivo di qualità per specifica destinazione”.
Il D.Lgs. 152/1999 ammette la possibilità, da parte delle regioni, di stabilire motivatamente “obiettivi di qualità ambientale meno rigorosi per taluni corpi idrici qualora ricorra almeno una delle seguenti condizioni: a) il corpo idrico ha
subito gravi ripercussioni in conseguenza dell’attività umana che rendono manifestamente impossibile o economicamente insostenibile un significativo miglioramento dello stato qualitativo; b) il raggiungimento dell’obiettivo di qualità previsto non è perseguibile a causa della natura litologica o geomorfologica del bacino di appartenenza; c) l’esistenza di
circostanze impreviste o eccezionali, quali alluvioni e siccità”.
224
Da sottoporsi, a seconda della categoria di appartenenza, ai trattamenti A1 = trattamento fisico semplice e disinfezione; A2 = trattamento fisico e chimico normale e disinfezione; A3 = trattamento fisico e chimico spinto, affinazione e disinfezione.
225
Vengono in questo caso privilegiati: a) i corsi d’acqua che attraversano il territorio di parchi nazionali e riserve naturali dello Stato, nonché di parchi e riserve naturali regionali; b) i laghi naturali ed artificiali, gli stagni e altri corpi idrici,
situati nei predetti ambiti territoriali; c) le acque dolci superficiali comprese nelle zone umide dichiarate “d’importanza
internazionale” ai sensi della convenzione di Ramsar del 2 febbraio 1971, resa esecutiva col Dpr. 13 marzo 1976, n. 448
sulla protezione delle zone umide, e quelle comprese nelle “oasi di protezione della fauna” istituite dalle regioni e province autonome ai sensi della legge 11 febbraio 1992, n.157; d) le acque dolci superficiali non comprese nelle precedenti
categorie e con rilevante interesse scientifico, naturalistico, ambientale e produttivo in quanto costituenti habitat di specie
animali o vegetali rare o in via di estinzione, o sede di complessi ecosistemi acquatici meritevoli di conservazione, o sede
di antiche e tradizionali forme di produzione ittica, che presentano un elevato grado di sostenibilità ecologica ed economica.
226
Per un tratto di 10 chilometri dalla linea costiera.
223
trazioni dei nitrati nelle acque dolci per il periodo di un anno”, nonché riesaminare “lo stato eutrofico causato da azoto delle acque dolci superficiali e delle acque di transizione”); entra in gioco qui la piena attuazione
delle “prescrizioni contenute nel codice di buona pratica agricola”227 (cfr. il precedente par. 2.1.6. di questo
stesso volume) per cui le regioni debbono provvedere a “integrare se del caso, in relazione alle esigenze locali, il codice di buona pratica agricola, stabilendone le modalità di applicazione” e a “predisporre e attuare
interventi di formazione e informazione degli agricoltori sul programma di azione e sul codice di buona pratica agricola”; oltretutto, per “garantire un generale livello di protezione delle acque”, viene raccomandata
l’applicazione del codice di buona pratica agricola anche “al di fuori delle zone vulnerabili”.
Queste ultime (ossia le “zone vulnerabili da prodotti fitosanitari e altre zone vulnerabili”), oltre a venire identificate dalle regioni per “proteggere le risorse idriche o altri comparti ambientali dall’inquinamento derivante dall’uso di prodotti fitosanitari”, coinvolgono anche “la presenza nel territorio di competenza di aree soggette o minacciate da fenomeni di siccità, degrado del suolo e processi di desertificazione”, e le regioni “le
designano quali aree vulnerabili alla desertificazione”.
4.4. Siamo, come si sarà finora constatato, alla presenza di una fitta serie di zonazioni territoriali, da identificarsi nell’ambito della programmazione regionale e da dettagliarsi da parte della pianificazione urbanistica
(anche alla scala comunale); occorre dunque la disponibilità di un’informazione cartografica particolarmente
efficace nei confronti dei fattori ambientali, e le banche dati dell’Ersal si rivelano, al proposito, assai utili
giacché, secondo il D.Lgs 152/1999, si debbono individuare anche le aree di salvaguardia delle risorse idriche
“distinte in zone di tutela assoluta e zone di rispetto nonché, all’interno dei bacini imbriferi e delle aree di ricarica della falda, le zone di protezione”228; in particolare:
a)
la zona di tutela assoluta “è costituita dall’area immediatamente circostante le captazioni o derivazioni”, con “estensione in caso di acque sotterranee e, ove possibile, per le acque superficiali di almeno
dieci metri di raggio dal punto di captazione, dev’essere adeguatamente protetta e adibita esclusivamente a opere di captazione o presa e a infrastrutture di servizio”;
b)
quindi occorre delimitare (intorno a quella di tutela assoluta) la zona di rispetto, sottoponendola “a vincoli e destinazioni d’uso tali da tutelare qualitativamente e quantitativamente la risorsa idrica captata”, suddividendola in “zona di rispetto ristretta e zona di rispetto allargata, in relazione alla tipologia
dell’opera di presa o captazione e alla situazione locale di vulnerabilità e rischio della risorsa” e oltretutto vietandovi qualsivoglia “insediamento dei seguenti centri di pericolo e svolgimento delle seguenti
attività: a) dispersione di fanghi e acque reflue, anche se depurati; b) accumulo di concimi chimici, fertilizzanti o pesticidi; c) spandimento di concimi chimici, fertilizzanti o pesticidi, salvo che l’impiego di
tali sostanze sia effettuato sulla base delle indicazioni di uno specifico piano di utilizzazione che tenga
conto della natura dei suoli, delle colture compatibili, delle tecniche agronomiche impiegate e della
vulnerabilità delle risorse idriche; d) dispersione nel sottosuolo di acque meteoriche proveniente da
piazzali e strade; e) aree cimiteriali; f) apertura di cave che possano essere in connessione con la falda; g) apertura di pozzi, a eccezione di quelli che estraggono acque destinate al consumo umano e di
quelli finalizzati alla variazione della estrazione e protezione delle caratteristiche quali-quantitative
della risorsa idrica; h) gestione di rifiuti; i) stoccaggio di prodotti ovvero sostanze chimiche pericolose
e sostanze radioattive; l) centri di raccolta, demolizione e rottamazione di autoveicoli; m) pozzi perdenti; n) pascolo e stabulazione di bestiame che ecceda i 170 chilogrammi per ettaro di azoto presente negli effluenti, al netto delle perdite di stoccaggio e distribuzione; è comunque vietata la stabulazione di
bestiame nella zona di rispetto ristretta”;
c)
siccome la norma inoltre recita che “per gli insediamenti o le attività preesistenti ove possibile, e comunque a eccezione delle aree cimiteriali, sono adottate le misure per il loro allontanamento, e in ogni
caso dev’essere garantita la loro messa in sicurezza”, non sembra esservi dubbio alcuno che tale complessa attività di zonazione debba venire assolta in sede combinata di piano regolatore comunale (attribuendo così all’urbanistica una nuova e più esplicita valenza ambientale) e di piano territoriale di coordinamento (in effetti, alle regioni e province autonome è attribuita, “all’interno delle zone di rispetto, la
disciplina delle seguenti strutture od attività: a) fognature; b) edilizia residenziale e relative opere di
urbanizzazione; c) opere varie, ferroviarie e in genere infrastrutture di servizio; d) distribuzione di
concimi chimici e fertilizzanti in agricoltura nei casi in cui esista un piano regionale o provinciale di
fertilizzazione; e) le pratiche agronomiche e i contenuti dei piani di fertilizzazione”).
d)
infine, occorre delimitare “le zone di protezione” delle risorse idriche adottando “misure relative alla
destinazione del territorio interessato, limitazioni e prescrizioni per gli insediamenti civili, produttivi,
turistici, agroforestali e zootecnici da inserirsi negli strumenti urbanistici comunali, provinciali, regionali, sia generali sia di settore”; all’interno delle zone di protezione delle acque sotterranee (“anche di
227
228
Di cui al decreto del Ministro per le politiche agricole del 19 aprile 1999.
Siamo in presenza di definizioni già presenti nel Dpr. 24 maggio 1988, n. 236, e ora sostituite dal D.Lgs. 152/1999.
quelle non ancora utilizzate per l’uso umano”), le regioni dovranno a conclusione individuare e disciplinare: a) le aree di ricarica della falda; b) le emergenze naturali e artificiali della falda; c) le zone di riserva.
4.5. Il D.Lgs 152/1999 interviene inoltre in materia di “tutela quantitativa della risorsa e risparmio idrico”,
introducendo la prassi della “pianificazione del bilancio idrico”229 per evitare ripercussioni sulla qualità idrica, “consentire un consumo idrico sostenibile” e considerare “i fabbisogni, le disponibilità, il minimo deflusso
vitale, la capacità di ravvenamento della falda e delle destinazioni d’uso della risorsa compatibili con le relative caratteristiche quali-quantitative”.
Pertanto, nel rilascio di concessioni per derivazioni idriche, l’utilizzo “di risorse riservate al consumo umano
può essere assentito per usi diversi solo nel caso di ampia disponibilità delle risorse predette o di accertata
carenza qualitativa e quantitativa di fonti alternative di approvvigionamento; in tal caso il canone di utenza
per uso diverso da quello potabile è triplicato”230 e, a ogni buon conto, “la quantità di acqua concessa è
commisurata alla possibilità di risparmio, di riutilizzo o riciclo della risorsa” così come “nei casi di prelievo
da falda deve essere garantito l’equilibrio tra il prelievo e la capacità di ricarica dell’acquifero, anche al fine
di evitare pericoli di intrusione di acque salate o inquinate”.
In questo senso, l’avvenuta introduzione del “risparmio idrico” (finalizzato “all’eliminazione degli sprechi,
alla riduzione dei consumi, a incrementare il riciclo e il riutilizzo”) dovrà indurre le regioni in particolare a:
“a) migliorare la manutenzione delle reti di adduzione e distribuzione di acque a qualsiasi uso destinate, al
fine di ridurre le perdite; b) realizzare, in particolare nei nuovi insediamenti abitativi, commerciali e produttivi di rilevanti dimensioni, reti duali di adduzione al fine di utilizzare acque meno pregiate per usi compatibili; c) promuovere l’informazione e diffusione di metodi e tecniche di risparmio idrico domestico e nei settori
industriale, terziario e agricolo; d) installare contatori per il consumo dell’acqua in ogni singola unità abitativa nonché contatori differenziati per le attività produttive e del settore terziario esercitate nel contesto urbano; e) realizzare nei nuovi insediamenti sistemi di collettamento differenziati per le acque piovane e perle
acque reflue”231.
4.6. Relativamente alla disciplina degli scarichi in agricoltura, sono assimilate alle acque reflue domestiche
quelle provenienti da imprese agricole dedite: a) esclusivamente alla coltivazione del fondo o alla silvicoltura;
b) ad attività zootecniche che dispongono almeno di un ettaro di suolo agricolo (funzionalmente connesso con
l’allevamento e la coltivazione del fondo) per ogni 340 kg di azoto presente negli effluenti di allevamento (al
netto delle perdite di stoccaggio e distribuzione); c) ad attività di trasformazione o di valorizzazione della
produzione agricola232; d) ad acquacoltura e piscicoltura caratterizzate per densità d’allevamento ≤ 1 kg/mq di
specchio d’acqua o in cui sia utilizzata una portata d’acqua ≤ 50 litri/min. sec..
Il D.Lgs. 152/1999 si occupa poi della tutela delle aree di pertinenza dei corpi idrici, rinviando alla disciplina
regionale gli interventi di trasformazione e gestione del suolo e soprassuolo nella fascia di almeno 10 metri
dalla sponda di fiumi, laghi, stagni e lagune e, comunque, vietandovi la realizzazione di impianti di smaltimento dei rifiuti e la copertura dei corsi d’acqua non derivante da ragioni di tutela dell’incolumità pubblica;
ciò, in maniera da “assicurare il mantenimento o ripristino della vegetazione spontanea nella fascia immediatamente adiacente i corpi idrici, con funzioni di filtro per i solidi sospesi e gli inquinanti di origine diffusa, di
stabilizzazione delle sponde e di conservazione della biodiversità da contemperarsi con le esigenze di funzionalità dell’alveo”; per raggiungere tali finalità, “le aree demaniali dei fiumi, dei torrenti, dei laghi e delle altre acque possono essere date in concessione allo scopo di destinarle a riserve naturali, a parchi fluviali o
lacuali o comunque a interventi di ripristino e recupero ambientale”233.
Passando poi alla materia dei “piani di tutela delle acque”, si riscontra qui un notevole sforzo di unificazione
informativa234: difatti, per “garantire l’acquisizione delle informazioni necessarie alla redazione del piano di
229
Nel rispetto delle priorità della legge 5 gennaio 1994, n. 36.
Escluse le concessioni a uso idroelettrico, i cui impianti sono posti in serie con gli impianti di acquedotto.
231
E’ fatta ascrivere alla competenza degli strumenti urbanistici la previsione di “reti duali al fine dell’utilizzo di acque
meno pregiate, nonché tecniche di risparmio della risorsa”.
232
Inserita con carattere di normalità e complementarietà funzionale nel ciclo produttivo aziendale e con materia prima
lavorata proveniente per almeno due terzi esclusivamente dall’attività di coltivazione dei fondi di cui si abbia a qualunque titolo la disponibilità.
233
“Qualora le aree demaniali siano già comprese in aree naturali protette statali o regionali inserite nell’elenco ufficiale di cui all’art. 3, c. 4, lett. c), della legge 6 dicembre 1991, n. 394, la concessione è gratuita”; inoltre, “le aree del
demanio fluviale di nuova formazione ai sensi della legge 5 gennaio 1994, n. 37, non possono essere oggetto di sdemanializzazione”.
234
Difatti, per “evitare sovrapposizioni e garantire il flusso delle informazioni raccolte e la loro compatibilità col Sistema informativo nazionale dell’ambiente, nell’esercizio delle rispettive competenze, le regioni possono promuovere accordi di programma con le strutture definite ai sensi dell’articolo 92 del decreto legislativo del 31 marzo 1998 n. 112,
230
tutela, le regioni provvedono a elaborare programmi di rilevamento dei dati utili a descrivere le caratteristiche del bacino idrografico e a valutare l’impatto antropico esercitato sul medesimo”, e per ottenere ciò “le
amministrazioni sono tenute a utilizzare i dati e le informazioni già acquisite, con particolare riguardo a
quelle preordinate alla redazione dei piani di risanamento delle acque”235; inoltre, le regioni elaborano programmi per la conoscenza e verifica dello stato quali-quantitativo delle acque superficiali e sotterranee in ciascun bacino idrografico, ed “entro il 31 dicembre 2003, sentite le province, previa adozione delle eventuali
misure di salvaguardia, adottano il piano di tutela delle acque (che costituisce “un piano stralcio di settore
del piano di bacino ai sensi dell’art. 17, c. 6 ter, della legge 18 maggio 1989, n. 183”) e lo trasmettono alle
competenti autorità di bacino”236.
Infine, il D.Lgs. 152/1999 introduce cospicue sanzioni amministrative rispetto al danno ambientale: i) ove
nell’effettuare scarichi o immissioni occasionali vengano superati i valori limite di emissione, la sanzione va
da cinque a cinquanta milioni237; ii) chi effettua scarichi di reflui domestici o di reti fognarie senza autorizzazione è punito con sanzione da dieci a cento milioni; iii) in caso di inosservanza delle prescrizioni indicate
nell’autorizzazione la sanzione passa da due a venticinque milioni; iv) chi applica al terreno effluenti zootecnici senza tempestiva comunicazione è punito con sanzione da uno a cinque milioni; v) chi “con il proprio
comportamento omissivo o commissivo in violazione delle disposizioni del presente decreto provoca un danno alle acque, al suolo, al sottosuolo e alle altre risorse ambientali, ovvero determina un pericolo concreto e
attuale di inquinamento ambientale, è tenuto a procedere a proprie spese agli interventi di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino ambientale delle aree inquinate e degli impianti dai quali è derivato il danno
ovvero deriva il pericolo di inquinamento”238; vi) chi effettua, non autorizzato, nuovi scarichi di reflui industriali o continua a mantenerli dopo che l’autorizzazione sia stata sospesa o revocata, è punito con l’arresto da
due mesi a due anni o con l’ammenda da due a quindici milioni, e quando ciò riguardano reflui industriali
contenenti sostanze pericolose l’arresto è da tre mesi a tre anni239.
5. Consideriamo a conclusione il recentissimo D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 258 che ha corretto e integrato il
D.Lgs 152/1999 modificandone le definizioni240, mettendo a punto (tra l’altro) le nozioni di “zone di tutela
assoluta”241, “zone di rispetto”242 e “zone di protezione”243, dettagliando la “pianificazione del bilancio idricon l’Agenzia nazionale per la protezione dell’ambiente, le agenzie regionali e provinciali dell’ambiente, le province, le
autorità d’ambito, i consorzi di bonifica e gli altri enti pubblici interessati. Nei programmi devono essere definite altresì
le modalità di standardizzazione dei dati e di interscambio delle informazioni”.
235
Ex legibus 10 maggio 1976, n. 319 e 18 maggio 1989, n. 183.
236
Il piano di tutela contiene “oltre agli interventi volti a garantire il raggiungimento o il mantenimento degli obiettivi di
cui al presente decreto, e le misure necessarie alla tutela qualitativa e quantitativa del sistema idrico”, quanto segue: “a)
i risultati dell’attività conoscitiva; b) l’individuazione degli obiettivi di qualità ambientale e per specifica destinazione;
c) l’elenco dei corpi idrici a specifica destinazione e delle aree richiedenti specifiche misure di prevenzione
dall’inquinamento e di risanamento; d) le misure di tutela qualitative e quantitative tra loro integrate e coordinate per
bacino idrografico; e) l’indicazione della cadenza temporale degli interventi e delle relative priorità; f) il programma di
verifica dell’efficacia degli interventi previsti; g) gli interventi di bonifica dei corpi idrici”.
237
Ove gli scarichi abbiano luogo nelle aree di salvaguardia delle risorse idriche destinate al consumo umano, o in corpi
idrici nelle aree protette, la sanzione non è inferiore a trenta milioni.
238
“Nel caso in cui non sia possibile una precisa quantificazione del danno, lo stesso si presume salvo prova contraria
di ammontare non inferiore alla somma corrispondente alla sanzione pecuniaria amministrativa, ovvero alla sanzione
penale in concreto applicata. Nel caso in cui sia stata irrogata una pena detentiva, solo al fine della quantificazione del
danno di cui al presente comma il ragguaglio fra la stessa e la pena pecuniaria ha luogo calcolando quattrocentomila
lire per un giorno di pena detentiva. In caso di sentenza di condanna in sede penale o di emanazione del provvedimento
di cui all’art. 444 del codice di procedura penale, la cancelleria del giudice che ha emanato il provvedimento trasmette
copia dello stesso al Ministero dell’ambiente”.
239
Se vengono superati anche i valori limite fissati per le sostanze contenute nella tabella 3A dell’allegato 5, l’arresto è
da sei mesi a tre anni e l’ammenda da dieci a duecento milioni.
240
Talché “acque reflue industriali” = “qualsiasi tipo di acque reflue scaricate da edifici od installazioni in cui si svolgono attività commerciali o di produzione di beni, diverse dalle acque reflue domestiche e dalle acque meteoriche di dilavamento”; “acque reflue urbane” = “acque reflue domestiche o il miscuglio di acque reflue domestiche, industriali o
meteoriche di dilavamento convogliate in reti fognarie, anche separate, e provenienti da agglomerato”; “agglomerato” =
“area in cui la popolazione ovvero le attività economiche sono sufficientemente concentrate così da rendere possibile, e
cioè tecnicamente ed economicamente realizzabile anche in rapporto ai benefici ambientali conseguibili, la raccolta e il
convogliamento delle acque reflue urbane verso un sistema di trattamento di acque reflue urbane o verso un punto di scarico finale”; “utilizzazione agronomica” = “la gestione di effluenti di allevamento, di acque di vegetazione residuate dalla lavorazione delle olive o di acque reflue provenienti da aziende agricole e piccole aziende agroalimentari, dalla loro
produzione fino all’applicazione al terreno, finalizzata all’utilizzo delle sostanze nutritive e ammendanti o al loro utilizzo
irriguo o fertirriguo”.
241
“La zona di tutela assoluta è costituita dall’area immediatamente circostante le captazioni o derivazioni: essa deve
avere una estensione in caso di acque sotterranee e, ove possibile per le acque superficiali, di almeno dieci metri di rag-
co”244, individuando la disciplina dei procedimenti concessori per la derivazione di acque pubbliche245, dettando ulteriori “criteri per la disciplina degli scarichi”246 e regolando le “acque meteoriche di dilavamento e
acque di prima pioggia”, soprattutto per la prevenzione di rischi idraulici e ambientali (a tal fine le regioni
“disciplinano: a) le forme di controllo degli scarichi di acque meteoriche di dilavamento provenienti da reti
fognarie separate; b) i casi in cui può essere richiesto che le immissioni delle acque meteoriche di dilavamen-
gio dal punto di captazione, deve essere adeguatamente protetta e adibita esclusivamente ad opere di captazione o presa
e ad infrastrutture di servizio”.
242
“La zona di rispetto è costituita dalla porzione di territorio circostante la zona di tutela assoluta da sottoporre a vincoli e destinazioni d’uso tali da tutelare qualitativamente e quantitativamente la risorsa idrica captata e può essere suddivisa in zona di rispetto ristretta e zona di rispetto allargata in relazione alla tipologia dell’opera di presa o captazione
e alla situazione locale di vulnerabilità e rischio della risorsa. In particolare nella zona di rispetto sono vietati
l’insediamento dei seguenti centri di pericolo e lo svolgimento delle seguenti attività: a) dispersione di fanghi e acque
reflue, anche se depurati; b) accumulo di concimi chimici, fertilizzanti o pesticidi; c) spandimento di concimi chimici,
fertilizzanti o pesticidi, salvo che l’impiego di tali sostanze sia effettuato sulla base delle indicazioni di uno specifico
piano di utilizzazione che tenga conto della natura dei suoli, delle colture compatibili, delle tecniche agronomiche impiegate e della vulnerabilità delle risorse idriche; d) dispersione nel sottosuolo di acque meteoriche proveniente da
piazzali e strade; e) aree cimiteriali; f) apertura di cave che possono essere in connessione con la falda; g) apertura di
pozzi ad eccezione di quelli che estraggono acque destinate al consumo umano e di quelli finalizzati alla variazione della estrazione e alla protezione delle caratteristiche quali-quantitative della risorsa idrica; h) gestione di rifiuti; i) stoccaggio di prodotti ovvero sostanze chimiche pericolose e sostanze radioattive; l) centri di raccolta, demolizione e rottamazione di autoveicoli; m) pozzi perdenti; n) pascolo e stabulazione di bestiame che ecceda i 170 chilogrammi per ettaro di azoto presente negli effluenti, al netto delle perdite di stoccaggio e distribuzione. È comunque vietata la stabulazione di bestiame nella zona di rispetto ristretta”.
243
“Delimitate secondo le indicazioni delle regioni per assicurare la protezione del patrimonio idrico. In esse si possono
adottare misure relative alla destinazione del territorio interessato, limitazioni e prescrizioni per gli insediamenti civili,
produttivi, turistici, agroforestali e zootecnici da inserirsi negli strumenti urbanistici comunali, provinciali, regionali,
sia generali sia di settore. Le regioni, al fine della protezione delle acque sotterranee, anche di quelle non ancora utilizzate per l’uso umano, individuano e disciplinano, all’interno delle zone di protezione, le seguenti aree: a) aree di ricarica della falda; b) emergenze naturali ed artificiali della falda; c) zone di riserva”.
244
“Le regioni definiscono, sulla base dei criteri adottati dai Comitati istituzionali delle autorità di bacino, gli obblighi
di installazione e manutenzione in regolare stato di funzionamento di idonei dispositivi per la misurazione delle portate
e dei volumi d’acqua pubblica derivati, in corrispondenza dei punti di prelievo e, ove presente, di restituzione, nonché
gli obblighi e le modalità di trasmissione dei risultati delle misurazioni all’Autorità concedente per il loro successivo inoltro alla regione ed alle Autorità di bacino competenti”.
245
“Le regioni disciplinano i procedimenti di rilascio delle concessioni di derivazione di acque pubbliche nel rispetto
delle direttive sulla gestione del demanio idrico emanate, entro il 30 settembre 2000, ai sensi dell’art. 88, c. 1, lett. p),
del D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 112, su proposta del Ministro dei lavori pubblici, nelle quali sono indicate anche le possibilità di libero utilizzo di acque superficiali scolanti su suoli o in fossi o in canali di proprietà privata. Le regioni, sentite
le Autorità di bacino, disciplinano forme di regolazione dei prelievi delle acque sotterranee per gli usi domestici, come
definiti dall’articolo 93 del regio decreto 11 dicembre 1933, n. 1775, laddove sia necessario garantire l’equilibrio del
bilancio idrico di cui all’articolo 3 della legge 5 gennaio 1994, n. 36”.
246
Per “gli insediamenti, installazioni o edifici isolati che scaricano acque reflue domestiche le regioni identificano sistemi individuali o altri sistemi pubblici o privati adeguati (…) che raggiungano lo stesso livello di protezione ambientale, indicando i tempi di adeguamento”. Comunque, “tutti gli scarichi sono disciplinati in funzione del rispetto degli obiettivi di qualità dei corpi idrici” e devono “comunque rispettare i valori limite di emissione previsti nell’allegato 5”;
pertanto “le regioni, nell’esercizio della loro autonomia, tenendo conto dei carichi massimi ammissibili e delle migliori
tecniche disponibili, definiscono i valori-limite di emissione, diversi da quelli di cui all’allegato 5, sia in concentrazione
massima ammissibile sia in quantità massima per unità di tempo in ordine ad ogni sostanza inquinante e per gruppi o
famiglie di sostanze affini”. Inoltre, “ai fini della disciplina degli scarichi e delle autorizzazioni, sono assimilate alle
acque reflue domestiche le acque reflue: a) provenienti da imprese dedite esclusivamente alla coltivazione del fondo o
alla silvicoltura; b) provenienti da imprese dedite ad allevamento di bestiame che dispongono di almeno un ettaro di
terreno agricolo funzionalmente connesso con le attività di allevamento e di coltivazione del fondo, per ogni 340 chilogrammi di azoto presente negli effluenti di allevamento prodotti in un anno da computare secondo le modalità di calcolo
stabilite alla tabella 6 dell’allegato 5. Per gli allevamenti esistenti il nuovo criterio di assimilabilità si applica a partire
dal 13 giugno 2002; c) provenienti da imprese dedite alle attività di cui alle lettere a) e b) che esercitano anche attività
di trasformazione o di valorizzazione della produzione agricola, inserita con carattere di normalità e complementarietà
funzionale nel ciclo produttivo aziendale e con materia prima lavorata proveniente per almeno due terzi esclusivamente
dall’attività di coltivazione dei fondi di cui si abbia a qualunque titolo la disponibilità; d) provenienti da impianti di acquacoltura e di piscicoltura che diano luogo a scarico e si caratterizzino per una densità di allevamento pari o inferiore
a 1 kg per metro quadrato di specchio di acqua o in cui venga utilizzata una portata d’acqua pari o inferiore a 50 litri al
minuto secondo; e) aventi caratteristiche qualitative equivalenti a quelle domestiche e indicate dalla normativa regionale”.
to, effettuate tramite altre condotte separate, siano sottoposte a particolari prescrizioni, ivi compresa
l’eventuale autorizzazione”)247.
2.9. La conservazione dell’ambiente nel Piano regionale lombardo di sviluppo della VII Legislatura
1. Appare indubbiamente estesa la sfera delle materie regionali in cui trova ricezione la problematica ambientale, e perciò non è semplice darne completo conto: intanto, a considerare gli “obiettivi gestionali 2001”248 del
documento lombardo di programmazione economico-finanziaria regionale 2001–2003, emergono:
a) finalità di: i) recupero, valorizzazione e smaltimento dei rifiuti249; ii) pianificazione della gestione dei rifiuti250; iii) innovazioni tecnologiche, ammodernamento di impianti e nuove proposte finalizzate alla valorizzazione energetica dei rifiuti251; iv) bonifica delle aree inquinate sul territorio lombardo e individuazione del
grado di rischio ambientale e per la salute umana252; v) programmazione e gestione delle risorse idriche253;
b) relazioni tra ambiente e sviluppo regionale sostenibile, che generano tra l’altro: i) strumenti informativi, orientamenti e metodi per integrare la dimensione ambientale nelle politiche settoriali regionali; ii) incentivi
all’adozione di Agenda 21 locali254, interventi per il miglioramento della qualità ambientale, azioni di sensibilizzazione ed educazione ambientale; iii) sostegni all’adozione dei sistemi di gestione ambientale Iso 14000
ed Emas e alle produzioni eco-compatibili; iv) l’attuazione dell’Accordo di programma quadro in materia di
ambiente ed energia255; v) la sperimentazione della valutazione ambientale strategica;
c) il tema della valorizzazione territoriale e della difesa dai rischi idraulico e idrogeologico, articolato: i) nella
247
Occorre altresì disciplinare da parte delle regioni “i casi in cui può essere richiesto che le acque di prima pioggia e di
lavaggio delle aree esterne siano convogliate e opportunamente trattate in impianti di depurazione per particolari ipotesi nelle quali, in relazione alle attività svolte, vi sia il rischio di dilavamento dalle superfici impermeabili scoperte di sostanze pericolose o di sostanze che creano pregiudizio per il raggiungimento degli obiettivi di qualità dei corpi idrici”.
248
Che, per quest’anno, risultano 520, i quali “rappresentano la declinazione operativa dei 57 obiettivi programmatici e dei relativi
168 obiettivi specifici riportati nel Programma regionale di sviluppo” e vengono “annualmente ridefiniti del Documento di programmazione economico-finanziaria regionale in relazione alle scelte programmatiche della Regione, in funzione delle priorità individuate, nonché dei risultati conseguiti”.
La Giunta regionale lombarda ha scelto di collocare gli obiettivi gestionali nel Dpefr “in quanto si tratta di azioni con caratteristiche
progettuali e pertanto più correlabili ad un documento operativo quale è il Dpefr, che nella parte relativa agli indirizzi per la gestione economico-finanziaria introduce elementi che consentono di collegare gli obiettivi gestionali alle risorse necessarie per perseguirli; in sede di approvazione del bilancio di previsione 2001-2003, gli obiettivi gestionali troveranno definitiva configurazione programmatica e operativa”.
249
Con particolare considerazione del contenimento e riduzione della produzione dei rifiuti, adeguamento dei cicli produttivi e incentivazione del riutilizzo, recupero e riciclaggio delle frazioni recuperabili; sostegno alla realizzazione di impianti di riutilizzo e riciclaggio rifiuti; sviluppo omogeneo dei servizi di raccolta differenziata; riduzione dei rifiuti urbani indifferenziati avviati a smaltimento in discarica; finanziamento di iniziative e opere destinate al recupero e riutilizzo delle frazioni di rifiuti urbani.
250
Si tratta qui di avviare l’aggiornamento della normativa regionale in materia di smaltimento e recupero dei rifiuti (“tenuto conto
delle problematiche e delle criticità conseguenti in particolare alle novità introdotte dalle recenti legislazioni statali e comunitarie”),
di regolamentare le attività di smaltimento e recupero dei rifiuti di origine urbana e industriale, di definire criteri per la localizzazione
e lo svolgimento delle attività di smaltimento e recupero.
251
Individuando i raccordi col sistema industriale per recuperare energia dai rifiuti.
252
Dovrà essere pertanto completato il Piano regionale di bonifica dei siti contaminati “mediante l’implementazione dei dati
dell’anagrafe dei siti contaminati e sulla base dei criteri di valutazione comparata del rischio definiti dall’Agenzia Nazionale per la
Protezione dell’Ambiente, ai sensi dell’art. 14, c. 3, del D.M. 25 ottobre 1999, n. 471, nonché in base ai risultati ottenuti attraverso
l’avvio di progetti di ricerca con la Fondazione Lombardia per l’Ambiente o Centri di ricerca e l’individuazione di criteri relativi al
livello di rischio delle varie tipologie di aree contaminate”.
253
Tra cui la gestione delle risorse idriche superficiali e sotterranee (regolarizzando gli usi in atto delle acque e introitando i relativi
canoni, nonché approvando la nuova normativa sugli usi delle acque con delega alle province), l’organizzazione del Servizio Idrico
Integrato negli Ambiti territoriali ottimali per favorire una maggiore efficienza ed economicità del servizio, l’organizzazione e gestione dell’Autorità delle acque e dell’Osservatorio regionale dei servizi idrici integrati, la pianificazione dell’uso e tutela delle risorse idriche per il raggiungimento di obiettivi di qualità delle acque superficiali e sotterranee adeguando e divulgando il Piano Regionale di
Risanamento delle acque, la redazione del Piano degli Usi della acque e del Piano di Tutela con Accordo di Programma per il controllo dell’innalzamento della falda nell’area milanese, l’istituzione dell’Osservatorio regionale dei laghi e degli Osservatori locali dei
grandi laghi.
254
Ricorda l’atto che “Agenda 21 è un documento internazionale finalizzato a tradurre i presupposti teorici dell’ambientalismo in azioni concrete, secondo principi di crescita economica, politica della conservazione e accrescimento delle principali risorse ambientali”; la Giunta regionale si è impegnata a promuovere la diffusione di Agenda 21 presso gli Enti locali lombardi, assumendo un ruolo
di coordinamento e supporto.
255
Mediante interventi straordinari nei parchi regionali per l’acquisizione di aree per attuarne il risanamento e il recupero, e controllando i livelli di inquinamento atmosferico derivanti da emissioni di grandi impianti civili e industriali.
prevenzione del rischio256; ii) nella definizione delle componenti idrogeologiche del territorio necessarie per
la redazione degli strumenti di pianificazione territoriale (Ptr, Ptcp, Prg)257; iii) nella pianificazione e programmazione pluriennale degli interventi di difesa del suolo (opere idrauliche e consolidamento dei versanti)
e riorganizzazione delle modalità operative; iv) nella razionalizzazione e riordino funzionale del quadro normativo regionale in materia di difesa del suolo e riassetto idrogeologico del territorio258; v) negli interventi
straordinari per il riassetto idrogeologico del territorio a seguito di calamità naturali259.
2. Entriamo ora nel merito dei temi ambientali nel Piano regionale lombardo di sviluppo della VII Legislatura,
non omettendo ovviamente di considerare la più complessiva ipotesi federalistica (a cui il Prs è sotteso) che
fonda la sua operatività nella “programmazione strategica, negoziata e comunitaria attraverso il partenariato
territoriale”; in tal senso, tra le linee strategiche dell’azione lombarda260 le maggiori novità riguarderanno “gli
istituti di programmazione sub-regionale (ex patti territoriali e contratti d’area) poiché deve trovare applicazione, entro l’anno in corso, il processo di regionalizzazione degli istituti di programmazione negoziata per
lo sviluppo locale in attuazione del D.Lgs 112/98. Ciò porrà le condizioni affinché regioni come la Lombardia, finora solo marginalmente interessate dagli interventi straordinari in aree depresse, possano prendere in
considerazione l’uso esteso di istituti locali di programmazione negoziata. Il processo di regionalizzazione
sarà l’occasione per ricondurre questi modelli programmatori a una tipologia più generale e flessibile, emancipata da connotazioni emergenziali e da limitazioni territoriali (aree depresse), nonché semplificata nei
meccanismi di attribuzione e gestione delle risorse. La definizione di un modello regionale di programmazione negoziata per lo sviluppo locale rappresenterà un punto nodale di applicazione del principio di sussidiarietà, consolidando un processo di sviluppo di competenze progettuali e programmatorie secondo una traiettoria bottom-up”.
Assai importante è il principio per cui, se “per lo sviluppo a livello locale del partenariato istituzionale e sociale è determinante la possibilità di strutturare conseguentemente il Bilancio e gli strumenti finanziari della
Regione secondo postazioni ‘territorializzate’, con la possibilità di collegare la progettazione locale alle procedure e ai tempi del Documento di Programmazione Economico Finanziaria Regionale”, consegue allora
che “la programmazione strategica dovrà sempre più essere quindi orientata al territorio mediante la condivisione degli obiettivi di sviluppo con le realtà locali”.
La consultazione si moltiplicherà pertanto attraverso “tavoli di confronto e partenariato” (tematici e territoriali)261, avrà luogo la ricerca di una “sempre maggiore integrazione dei diversi strumenti di programmazione a
disposizione, sia in relazione alla diversa provenienza delle risorse (la disponibilità dei fondi derivati dalla
partecipazione all’Unione Europea non deve essere gestita con obiettivi e modalità operative separate dal
contesto della programmazione regionale), sia in relazione alla necessità di collegare in modo diretto le risorse agli obiettivi da raggiungere”, e i momenti più significativi saranno rappresentati dalla “predisposizione
dei documenti di programmazione dell’obiettivo 2, dell’obiettivo 3 e del Piano di sviluppo rurale, accanto al256
Attraverso il censimento dei dissesti idrogeologici sul territorio regionale, l’implementazione delle conoscenze sulla pericolosità e
il rischio idrogeologico e sismico, l’integrazione e l’aggiornamento degli strumenti di pianificazione del settore idrogeologico con la
banca dati del dissesto, la diffusione dei dati di monitoraggio e lo sviluppo di tecnologie innovative.
257
Concernente la valutazione degli studi geologici a supporto degli strumenti urbanistici comunali in base a un’omogeneità e rigore
tecnico-scientifico negli studi, incentivando e supportando i Comuni affinché si dotino di indagini geologiche e contribuendo
all’elaborazione di standard e requisiti minimi per la prevenzione del rischio idrogeologico nei Ptcp.
258
Attraverso un progetto di Testo unico legislativo per la difesa del suolo, il riassetto territoriale e il coinvolgimento istituzionale degli enti locali per organizzare le attività manutentive sul territorio.
259
Riferiti a riorganizzare i modi attuativi degli interventi straordinari conseguenti a ordinanze di protezione civile, ad attuare la Lr.
1/2000 per la gestione delle opere di pronto intervento (Lr. 34/1073), a intervenire per un uso razionale del sottosuolo (dotare i Comuni con popolazione inferiore ai 30.000 abitanti di mezzi finanziari adeguati alla realizzazione degli obiettivi attraverso ausili per sottoscrivere accordi di programma, individuare aree urbane ad alta densità abitativa o ambiti territoriali a particolare sensibilità ambientale, definire un quadro di pianificazione territoriale in collaborazione con altri soggetti pubblici).
260
Il cui contesto di riferimento evidenzia uno “scenario della ‘nuova programmazione’ caratterizzato da alcuni elementi costitutivi
forti. Il primo è quello della generalizzazione della programmazione negoziata come modello ordinario di regolazione degli investimenti per lo sviluppo locale. Al progressivo ridimensionamento del principio della ‘ripartizione storica’ corrisponderà l’affermarsi di
un nuovo principio regolatore secondo il quale la politica degli investimenti dipenderà sempre meno dalla risposta a generiche istanze di sviluppo e sempre più dalla qualità e dall’affidabilità degli interventi proposti e dalla coerenza complessiva dei programmi, instaurando un meccanismo concorrenziale tra programmi, tra regioni, tra territori, sullo scenario complessivo della ‘regionalizzazione’ del bilancio statale. Lo sviluppo degli strumenti di programmazione negoziata dovrà essere collegato e sostenuto da una nuova
strumentazione finanziaria che consenta di utilizzare le risorse regionali, che risultano fortemente limitate rispetto al fabbisogno
complessivo di investimenti in infrastrutture, come fattore catalizzatore di pacchetti finanziari integrati che coinvolgano e mobilitino
risorse pubbliche e private”.
261
In tale contesto “diventerà strategico il ruolo delle strutture periferiche” e “i Servizi tecnici amministrativi provinciali diventeranno nodi per la verifica preventiva della programmazione regionale e per le attività di monitoraggio, assumendo il ruolo di riferimento
istituzionale per il livello provinciale dei diversi tavoli di concertazione”.
la partecipazione alla definizione dei programmi di iniziativa comunitaria Interreg III, Equal, Leader +, Urban”.
Siamo dunque (finalmente) all’evidenza “delle diverse realtà territoriali”, alla coniugazione delle “differenze
(e le opportunità) tra i territori ammissibili ai diversi regimi comunitari (obiettivo 2, aree ex 87.3c, coinvolte
in Programmi di iniziative comunitarie) e il resto della Regione”, alla concentrazione “su obiettivi condivisi di
risorse provenienti dal pubblico e dal privato, nell’ottica di sviluppare delle partnership che vedono il coinvolgimento di tutti i soggetti interessati”, alla ricerca di “sistemi per il controllo e la valutazione strategica”, al
“passaggio da una concezione di amministrazione per atti a una concezione di amministrazione per programmi, e quindi, per risultati”, alla capacità di “orientare o riorientare gli obiettivi da perseguire in relazione
all’emergere di nuovi problemi o domande sociali”262.
a)
b)
c)
d)
262
3. Il tema dell’ambiente è nodale in questa ottica e i 37 indicatori rilevanti, assunti per analizzare e quantificare le pressioni ambientali sulla Lombardia263, permettono di evidenziare una serie di criticità; in particolare:
gli andamenti e valori dell’inquinamento atmosferico appaiono (se non altro) almeno coerenti con quelli europei, e sembrano dirigersi “verso una significativa riduzione della pressione sull’ambiente”, sicché “la percezione pubblica negativa della situazione è determinata dalla difficoltà di inseguire standard sempre più esigenti imposti dalle politiche europee e mondiali e non da un aggravamento della situazione”264; tuttavia, occorre ammettere che “la pressione media globale mette in ombra il problema delle punte di pressione locale,
concentrate tutte attorno alle città superiori ai 50mila abitanti e determinate dall’effetto dominante dei trasporti”265;
riguardo ai cambiamenti climatici, la Regione constata che “l’andamento dell’emissione di gas serra266 per
abitante in Lombardia (come in Europa) ha una tendenza crescente, in contrasto con i programmi di riduzione che appaiono quindi piuttosto velleitari in assenza di politiche più incisive”; assunto allora il peso lombardo sull’economia “e quindi sui consumi energetici del paese, se a livello nazionale si vorranno rispettare gli
impegni di Kyoto, la Regione Lombardia dovrà, con sollecitudine, assumere una funzione guida
nell’individuare strade realistiche per dare una risposta al problema”;
circa la perdita di biodiversità (tema “trattato in modo molto incompleto” anche a causa di una capacità analitica inefficace267), nonostante l’agricoltura lombarda si sia orientata a partire dagli anni 94-95 verso colture
più ecocompatibili essa mostra ancora un notevole ritardo in termini assoluti rispetto alla situazione media europea (e, “per l’agricoltura biologica, anche rispetto alla situazione media italiana”); la gran superficie lombarda di aree protette, poi, “pone il problema del mantenimento della loro qualità ai fini della conservazione
della biodiversità”; sul tema emergono allora “due indicazioni: l’opportunità di accelerare la conversione
della agricoltura in ecocompatibile e la necessità di valorizzare la ricchezza potenziale della grande quantità
di aree protette”;
sul tema dell’esaurimento delle risorse emerge in particolare il nodo del dilavamento e degrado dei suoli, il
“problema acqua appare dominante e di carattere generale, come il tema dell’inquinamento delle risorse idriche” (e, nonostante per l’acqua i dati siano estremamente frammentari, “l’indicatore consumo di acqua per
abitante è estremamente significativo e allarmante: il dato disponibile per il 1995 pone la Lombardia nella
posizione di area a più alto consumo per abitante europeo”); si evidenzia un accumulo “di problemi legati alla lentezza nella conversione dell’agricoltura, al ritardo nelle strutture di trattamento delle acque reflue, a un
uso irrazionale delle acque del sottosuolo, a un caos tariffario nell’uso della risorsa acqua”; secondo il Piano
regionale di sviluppo della VII Legislatura, “l’analisi dello stato dell’ambiente ha mostrato che il comparto
acqua è quello che, in questo momento, richiede la maggiore attenzione”; ma viene qui sottovalutato
l’ulteriore tema dello spreco di suolo agricolo in forza dei processi urbanizzativi, che per contro è ben stato
“Il controllo strategico risponde a queste esigenze in quanto dovrà garantire quel necessario livello di adeguatezza e congruenza
delle scelte gestionali rispetto agli obiettivi programmatici verificando la loro effettiva attuazione, e segnalando gli eventuali scostamenti al fine di attivare azioni correttive. Saranno pertanto introdotti, accanto alle misurazioni di economicità ed efficienza
dell’azione amministrativa, anche valutazioni sull’efficacia delle politiche intese non solo come grado di raggiungimento degli obiettivi prefissati, ma anche e soprattutto, come grado in cui il problema affrontato è stato risolto nella direzione auspicata e come livello
di raggiungimento degli effetti attesi”.
263
In riferimento al sistema di indicatori proposto da Eurostat.
264
“Il sistema conoscitivo per monitorare gli indicatori rilevanti è carente solo per l’aspetto polveri”.
265
“C’è tuttavia un indicatore che si scosta significativamente dai dati europei e che deve essere più accuratamente monitorato: il
consumo specifico di combustibile per autotrazione”, il quale “merita una riflessione ed un monitoraggio particolare nel quadro più
generale della politica dei trasporti”.
266
“Gli indicatori di emissione di gas serra vanno completati con i dati mancanti dei composti alogenati. Ma va fatta, soprattutto,
una valutazione realistica degli interventi strutturali necessari e della loro capacità di ricondurre gli indicatori ai valori programmati a Kyoto”.
267
Fonte: Eurostat.
e)
f)
g)
h)
rappresentato nelle Linee generali di assetto del territorio lombardo (Regione Lombardia, 2000) richiamando
il primo Rapporto sullo stato dell’ambiente in Lombardia (Regione Lombardia, 1999)268;
sussiste poi un problema di dispersione di sostanze tossiche, addebitabile principalmente ad agricoltura, industria e trasporti (le ridotte informazioni disponibili non permettono altro che stime degli indicatori assai incomplete, tranne che per i pesticidi, alcuni prodotti tossici nell’industria e il piombo da trasporti); in particolare, il consumo di pesticidi per ettaro coltivato va riducendosi del 2% annuo (quota assai vicina al livello di riduzione europeo)269, mentre per contro la quantità di sostanze tossiche manipolate nei processi industriali
lombardi è superiore alla quota italiana270; infine, il piombo disperso in atmosfera rappresenta un indicatore di
riferimento per “successive verifiche del miglioramento della situazione a seguito del cambiamento della
composizione delle benzine per autotrazione”;
riguardo alla pressione sull’ambiente urbano, è rilevante la frazione di acque di scarico civili non ancora trattate, superiore alla media nazionale (il peso di Milano271 sulla media lombarda attenua il dato, ma certo non
l’annulla, e si tratta “di un elemento della protezione ambientale che rivela un ritardo significativo anche a
confronto con la situazione di altre regioni e paesi europei”); inoltre incombe il problema dei trasporti, e
l’esame dell’indicatore “quota di trasporto pubblico” nel periodo 92-96 si conferma nel ridotto valore del
16%;
in tema di rifiuti, alla significativa riduzione dell’avvio in discarica corrisponde sia l’aumento netto
dell’incenerimento sia, dal 1995 al 1998, la crescita della produzione di rifiuti urbani (andamento che in parte
vanifica l’eccezionale incremento della raccolta differenziata); appare chiara dunque “la necessità di
un’azione focalizzata sul contenimento della produzione di rifiuti, oltre che sui processi di smaltimento; in
questo senso occorre proseguire nell’azione volta a ridurre l’impatto degli imballaggi sulla produzione di rifiuti; resta, infine, aperto il problema della destinazione finale dei prodotti della raccolta differenziata”;
infine, il tema dell’inquinamento dell’acqua e delle risorse idriche appare “dominato dall’agricoltura e dagli
usi civili”; il carico pro capite di nutrienti sugli ecosistemi acquatici (in equivalenti di eutrofizzazione) è per lo
più allineato ai valori medi italiani ed europei, “mentre il carico di azoto per ettaro è nettamente superiore alla media italiana e a quella europea”.
4. Considerando poi il bilancio energetico regionale, il consuntivo desta particolari preoccupazioni: nell’arco
1990-1996 il consumo energetico lombardo è aumentato dell’8%272, e del 13% le emissioni di CO2273; la produzione energetica si è accresciuta del 3%274, insieme all’utilizzo di combustibili d’origine fossile che ha generato un aumento del 5% di CO2; in ambito civile (dove l’80% dei consumi deriva dal riscaldamento)
l’incremento è del 5%275, così come è cresciuto nell’industria il consumo di energia elettrica276; i trasporti
hanno accentuato il consumo del 24%, con prevalente uso di benzina e gasolio e con un aumento del 50% delle emissioni di CO2.
268
Le Linee generali di assetto del territorio lombardo dunque ammettonoe che “anche la nostra regione è interessata da un fenomeno di impoverimento [di biodiversità, n.d.a.] le cui cause, come per il resto del modello territoriale europeo, sono state ricondotte ad
alcuni fattori comuni fra i quali [...] il consumo di suolo per insediamenti e infrastrutture, che determina inquinamento, perdita di
ambienti ed ecosistemi oltreché un effetto barriera che tende a separare le popolazioni rendendole quindi più isolate geneticamente e
più vulnerabili”. Nelle Linee generali di assetto del territorio lombardo viene così espressamente individuato (sulla base di una condivisibile trilogia concettuale) il “rischio suolo/ambiente/paesaggio”, in dipendenza del fatto “che il suolo è una risorsa finita e difficilmente rinnovabile, e che la sua protezione risulta fondamentale per il mantenimento degli equilibri ambientali [sicché sussiste una,
n.d.a.] discrepanza fra la rapida progressione della degradazione del suolo e l’estrema lentezza dei processi di formazione del suolo
stesso. [...] É in tal senso che anche i documenti di programmazione urbanistica e territoriale devono iniziare esplicitamente ad esprimersi”. Dal confronto delle edizioni della Carta tecnica regionale al 1980 e al 1994: “praticamente non c’è non solo comune, ma
nucleo edificato che non registri qualche espansione nel periodo considerato [...] valutabile mediamente nell’ordine del 20%, e ciò
anche nelle aree non particolarmente dinamiche”, e il documento lombardo giunge a riconoscere nei processi di diffusione e dispersione territoriale i tre rischi principali della “inutilmente ampia occupazione di suolo, frammentazione degli spazi aperti, banalizzazione del paesaggio, impermeabilizzazione dei suoli”, di un “aumento degli spostamenti, scarsa efficienza del trasporto collettivo, uso
predominante del mezzo proprio, congestione, aumento delle emissioni inquinanti”, del “declino della città storica e della sua capacità di integrazione sociale, tendenza alla segregazione sociale, perdita dell’identità comunitaria, aumento delle patologie sociali (criminalità diffusa, problemi di sicurezza e agibilità del territorio)”.
269
Pur in assenza di informazioni più specifiche sulla differente tossicità delle sostanze attive utilizzate.
270
La dispersione nell’ambiente non è di per sé correlabile all’indicatore indiretto dello stock o del flusso di sostanze tossiche, e “tuttavia la massa di sostanze tossiche circolanti è sempre un indicatore di pericolo che va monitorato, oltre che ridotto”.
271
Non dotata di depuratori.
272
In particolare nei trasporti, calando peraltro nel settore industriale.
273
Il biossido di carbonio, uno dei principali gas responsabili dell’effetto serra.
274
+ 4% quella termoelettrica.
275
Tuttavia “la progressiva sostituzione dei prodotti di origine petrolifera con il gas naturale ha consentito di ottenere un calo delle
emissioni pari al 2%”.
276
“Che però, rapportato al calo del consumo di prodotti petroliferi e alla miglior efficienza energetica dei processi produttivi, ha
consentito di diminuire di circa 1.200.000 tonnellate le emissioni di CO2 prodotte nel 1996 rispetto a quelle del 1990”.
E dunque − secondo il Piano regionale lombardo della VII Legislatura − “il quadro delineato, considerata la
crescita dei costi ambientali (in primo luogo quelli legati all’effetto serra e ai danni per la salute) impone di
rafforzare gli strumenti che possono rompere la ‘storica’ relazione proporzionale fra fabbisogno energetico e
sviluppo economico”; ribadisce di conseguenza il Prs che “l’uso di combustibili più puliti e il miglioramento
dell’efficienza energetica (intesa sia come rendimento dei processi di produzione energetica che come riduzione dei fabbisogni a parità dei servizi erogati) rappresentano quindi obiettivi fondamentali, tenuto conto
che in Lombardia esistono già positive esperienze in merito agli impianti idroelettrici, allo sfruttamento del
biogas, al teleriscaldamento, alle pompe di calore e al risparmio energetico”, anche assumendo che “le forze
di mercato hanno contribuito, negli ultimi anni, a migliorare l’efficienza energetica dei sistemi produttivi e
degli impianti termici. Si tratta ora di dare loro un nuovo impulso, tenendo presente che la Commissione europea ha dichiarato che esiste un potenziale economico di miglioramento che va oltre il 18% dell’attuale
consumo energetico”.
Quali, allora, le linee strategiche dell’azione regionale? Intanto, è in approntamento il Piano energetico regionale che, per assicurare il fabbisogno lombardo277, privilegerà “l’uso delle fonti di approvvigionamento basate
sulle risorse locali (impiego di biomasse o di rifiuti per la produzione combinata di energia e di calore, sviluppo del comparto solare e fotovoltaico, ottimizzazione dell’idroelettrico) e sull’uso di combustibili puliti nel
sistema dei trasporti e del riscaldamento, migliorando l’efficienza energetica nei settori che presentano ancora forti margini di miglioramento, come il settore civile e terziario”, per realizzare gli impianti di produzione
energetica da fonti rinnovabili (contemplati dall’Accordo di programma quadro col Ministero dell’Ambiente),
raddoppiarne la produzione nel sistema dell’offerta regionale, consentire così di: i) ridurre le emissioni climalteranti entro il 2005278, ii) ridurre la dipendenza del sistema economico dall’andamento del costo dei combustibili convenzionali (prevalentemente importati) e del cambio dollaro/euro279; iii) valorizzare le risorse locali
provenienti dai sistemi industriale e agro-forestale, favorendo un maggior presidio degli spazi in via di spopolamento.
5. Si consideri ora il tema del recupero, valorizzazione e smaltimento dei rifiuti, insieme alla bonifica delle
aree contaminate, ricordando che − anche se nell’arco temporale 1995-1998 il conferimento diretto in discarica si è ridotto dall’83% al 39%, la termodistruzione è aumentata dal 14 al 23%, la selezione/trattamento è
giunta dal 3 al 38%280, la raccolta differenziata ha superato il 30%281 − comunque la Lombardia continua a
rappresentare la maggior produttrice italiana di rifiuti urbani282 e, come ammette il Prs, “il superamento
dell’emergenza non può essere considerato come il raggiungimento dell’obiettivo finale nel campo della politica sui rifiuti; anzi, tale superamento stimola e permette oggi di iniziare a perseguire obiettivi di ‘ciclo virtuoso’ nell’ambito della produzione, del riutilizzo e dello smaltimento dei rifiuti”.
Inoltre il processo di deindustrializzazione della fine degli anni Settanta, se ha restituito ad altri usi possibili
un grande patrimonio di superfici industriali, genera sovente il bisogno di ingenti operazioni di bonifica: oggi
“i siti contaminati e/o potenzialmente contaminati sono circa 2.400, di cui 536 riconosciuti tali dal piano regionale del 1995”283.
Quali allora, in materia di rifiuti e bonifiche, le linee strategiche lombarde?
Intanto, esse muoveranno “dal concetto di rifiuto come risorsa e non solo come problema da eliminare, passando dalla logica dello smaltimento a quella della valorizzazione” (muoverà in questo senso l’integrazione
dei grandi termodistruttori con “piccoli impianti di recupero energetico mirati alle varie frazioni di rifiuto
non altrimenti riutilizzato e creando un vero e proprio mercato dei materiali recuperati”, la cui qualità dovrà
essere innalzata per garantire la reimmissione sui mercati del prodotto); poi, uno spazio notevole è offerto al
combustibile derivato dal trattamento dei rifiuti (e la Lombardia perseguirà la realizzazione di “piccoli impianti di termoutilizzazione con recupero di energia presso aziende energivore pubbliche o private” col vantaggio della “produzione e utilizzo di energia (e quindi diminuzione dell’uso di fonti combustibili primarie),
diminuzione dell’impegno delle discariche (in cui verrebbero conferite solo le ceneri, pari a non più del 20%
di quanto termodistrutto), diminuzione del traffico di rifiuti sul territorio”; infine, l’aggiornamento del Piano
regionale di bonifica delle aree inquinate e dell’anagrafe dei siti da bonificare si accompagnerà al finanziamento degli interventi degli enti territoriali di base.
277
Ossia il 20% di quello nazionale.
“Conformemente agli obiettivi indicati dall’Unione Europea (a seguito del Protocollo di Kyoto) e recepiti dal Governo italiano”.
279
Anche attraverso il sostegno agli enti locali per diffondere veicoli a basso impatto ambientale e contenere i consumi energetici nelle costruzioni.
280
Con avvio al riciclaggio delle frazioni riutilizzabili.
281
Ben al di sopra dell’obiettivo previsto dal decreto Ronchi, pari al 25%.
282
Negli ultimi anni ha prodotto annualmente circa 10 milioni di tonnellate di rifiuti, di cui 4 milioni urbani.
283
Approvato dalla Giunta regionale con delibera n. 66818 dell’11 aprile 1995.
278
6. Il tema della riorganizzazione e integrazione del ciclo dell’acqua (a partire dalla distribuzione fino al convogliamento fognario e alla depurazione delle acque reflue284) presenta in Lombardia qualche elemento problematico, derivante “dalla presenza di sistemi ambientali di alto valore naturalistico e strategico, in un contesto a elevata concentrazione di popolazione, di industrie e di servizi e all’esigenza di contemperare le azioni di salvaguardia e di risanamento in un più ampio sistema, identificabile con il bacino idrografico del Po”;
il tutto, nell’ambito dell’intenzione regionale di passare “dalla gestione puntuale degli usi, i cui presupposti
sono da individuare nella concessione del bene acqua come risorsa di illimitata disponibilità e priva di valore economico, alla gestione complessiva della risorsa”.
La pianificazione regionale è pertanto rivolta al risanamento delle acque (individuando i fattori inquinanti e i
modi della riqualificazione dei corpi idrici), all’adeguamento infrastrutturale, all’attuazione della riforma dei
servizi idrici.
7. Riguardo alla difesa dai rischi idraulico e idrogeologico, infine, l’attività regionale va sempre più configurandosi come interfaccia tra Enti locali e Autorità di bacino, consapevole che la programmazione non può aver luogo senza “conoscenza approfondita e dinamica della realtà territoriale”, affinché l’uso del suolo compatibile coi rischi d’inondazione, dissesto e valanga e le conseguenti politiche di difesa vengano recepite dagli
strumenti urbanistici provvedendo: i) alla “creazione di un quadro conoscitivo aggiornato del territorio, del
dissesto e della dinamica fluviale”; ii) a “definire e graduare le criticità e la tipologia dei fenomeni naturali”;
iii) ad “adottare norme di salvaguardia, temporanee o definitive, sul territorio”; iv) a “programmare piani di
intervento integrati di prevenzione del rischio, possibilmente con opere di basso impatto, in un’ottica di bacino e sottobacino idrografico, in funzione del quadro conoscitivo del rischio idraulico e idrogeologico”; v) a
“definire e aggiornare piani di manutenzione territoriale e delle opere di difesa realizzate”; vi) a “riorganizzare le strutture operanti in materia di difesa del suolo anche alla luce dell’attuazione del D.Lgs. 112/1998 e
della Lr. 1/2000”.
8. Il Piano regionale lombardo di sviluppo, poi, sembra assumere il nesso ambiente/sviluppo sostenibile:
a) cosciente della necessità di gestire l’uso delle risorse in modo tale da non erodere il capitale naturale; il che
tuttavia (anche se in Lombardia “sono stati raggiunti importanti risultati nello smaltimento dei rifiuti, nella
bonifica delle aree contaminate, nella tutela delle aree naturali, nella qualità delle emissioni degli impianti e
nel controllo della loro sicurezza”) si scontra col “pesante ruolo che giocano molti fattori di pressione” e con
“la distanza che ci separa dagli obiettivi indicati a livello europeo per l’emissione di gas climalteranti, il consumo e la depurazione delle acque, l’uso di fertilizzanti, il trasporto automobilistico privato”285;
b) consapevole che “le politiche ambientali scontano spesso la difficoltà di ricondurre a unità il vantaggio individuale e quello collettivo, nonché di ottenere un soddisfacente rapporto fra costi/benefici già a partire dai
risultati di breve e medio periodo” (oltretutto, “le politiche propulsive e gli strumenti di incentivazione auspicati dalla Comunità europea, presuppongono la disponibilità di adeguate risorse finanziarie e di una significativa autonomia regionale sotto il profilo normativo e fiscale”):
E’ tuttavia indubbio che “le politiche ambientali di comando e controllo basate su autorizzazioni e prescrizioni puntuali non possono, da sole, consentire lo sviluppo sostenibile”, e pertanto all’Amministratore lombardo sembra più proficuo privilegiare “interventi diretti, rivolti soprattutto al mondo delle imprese e della ricerca, e iniziative di sostegno agli enti locali in particolare per l’attuazione dell’Agenda 21”, in particolare: i)
sviluppando “iniziative per orientare in modo più compatibile con l’ambiente i comportamenti che caratterizzano la produzione, la gestione e il consumo di beni e servizi”; ii) promovendo “l’adozione, anche in via sperimentale, della contabilità ambientale evidenziando i costi, diretti e indiretti, che si celano dietro la mancanza di un’adeguata prevenzione del degrado ambientale”.
284
In attuazione della legge quadro nazionale 36/1994) e della Lr. 21/1998.
Oltretutto “l’ambiente urbano appare caratterizzato dal crescente congestionamento del traffico, dalla comparsa di nuovi inquinanti (quali l’ozono e il particolato), dalla presenza di numerose fonti di rumore, dalla necessità di rendere meno conflittuale la presenza degli insediamenti produttivi”.
285
3. La dimensione istituzionale per la conservazione delle risorse fisiche
3.1. Il riordino del sistema delle autonomie in Lombardia, la Lr. 1/2000 e la dimensione territoriale
1. É appena stato riordinato in Lombardia − in attuazione dell’art. 4 della L. 59/1997286 − l’intero sistema delle autonomie, e si è assunta tale impervio onere la Lr. 5 gennaio 2000, n. 1 individuando “le funzioni trasferite
o delegate agli enti locali e alle autonomie funzionali e quelle mantenute in capo alla Regione” relativamente
alle materie contemplate nel D.Lgs. 112/1998287 (tra cui, appunto, l’ambito “territorio, ambiente e infrastrutture”).
Le funzioni sono state conferite in applicazione dei cinque principi basilari di ammodernamento del diritto
degli enti locali (che dovranno, d’ora in poi, segnare costantemente l’azione amministrativa) identificati − così si esprime l’art. 2 della Lr. 1/2000 − come: a) sussidiarietà, “per cui tutte le funzioni regionali che non attengono a esigenze unitarie per la collettività e il territorio regionale sono conferite ai comuni, alle province
e alle comunità montane secondo le rispettive dimensioni territoriali, associative e organizzative”; b) completezza, omogeneità e unicità della responsabilità amministrativa, “in modo da assicurare ai singoli enti
l’unitaria responsabilità di servizi o attività amministrative omogenee e un’effettiva autonomia di organizzazione e di svolgimento”; c) efficienza ed economicità, “in modo da assicurare un adeguato esercizio delle
funzioni anche attraverso la differenziazione dei conferimenti, in considerazione delle diverse caratteristiche
e dimensioni degli enti riceventi e in relazione all’idoneità organizzativa dell’ammministrazione ricevente a
garantire, anche in forma associata con altri enti, l’esercizio delle funzioni”; d) autonomia “organizzativa e
regolamentare e di responsabilità degli enti locali nell’esercizio delle funzioni loro conferite”; e) cooperazione “attraverso strumenti e procedure di raccordo e concertazione tra la Regione e gli enti locali”.
Una buona dose di rilevanza è attribuita (nell’art. 1, c. 6) − “per l’attuazione delle politiche di rilevanza strategica che richiedono l’intervento congiunto dello Stato, degli enti locali, delle autonomie funzionali nonché
di soggetti privati” − agli “strumenti di programmazione negoziata”288, il cui esercizio “comunque” tuttavia
trova lodevole limite (ex art. 1, c. 8, lett. e) nella necessità di garantire “il raccordo dei singoli interventi con
gli obiettivi di programmazione regionale in materia di conservazione della natura e di tutela e risanamento
del suolo, delle acque, dell’aria”.
2. Nell’art. 3 della Lr. 1/2000 viene dunque identificato per la “materia territorio, ambiente e infrastrutture”
il complesso di funzioni e compiti “in tema di territorio e urbanistica, edilizia residenziale pubblica, protezione della natura e dell’ambiente, tutela dell’ambiente dagli inquinamenti e gestione dei rifiuti, risorse idriche e difesa del suolo, lavori pubblici, viabilità, trasporti e protezione civile”; in particolare, relativamente al
fattore suolo sembra essere stata ribadita la sua correlazione coi fattori idrogeologici289 ma non compare il
principio della sua tutela in sé, come “risorsa di natura essenzialmente non rinnovabile” − così lo definisce il
primo Rapporto sullo stato dell’ambiente in Lombardia (Regione Lombardia, 1999a) − talché, continua sempre il Rapporto, “la percezione del suolo come risorsa per l’umanità e, quindi, la sensibilità verso la sua conservazione sono meno radicate rispetto a quanto non avviene, per esempio, per acqua e aria. Ciò si riflette
anche nel campo legislativo, nonostante il termine ‘suolo’ ricorra spesso nel titolo o nel corpo di numerosi
atti normativi. Infatti manca tuttora in Italia una legislazione organica che intenda il suolo come una risorsa
difficilmente rinnovabile e, come tale, da tutelare attraverso la regolamentazione delle attività umane che
possono causare alterazioni o perdite irreversibili”.
In effetti, così è sol che si valuti il c. 108 dell’art. 3, per la cui efficacia e “ferme restando le attribuzioni riservate all’autorità di bacino [...] sono di competenza regionale” la “fissazione di criteri, indirizzi e procedure [...] per la delimitazione e tutela delle aree di salvaguardia del patrimonio idrico finalizzate a garantire
l’integrità ecologica e funzionale delle acque superficiali o sotterranee”, oltre alla “progettazione, realizza286
Recante “Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della
Pubblica Amministrazione e per la semplificazione amministrativa”.
287
Concernente il “Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dallo Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59”.
288
Vengono richiamati particolarmente “quelli di cui all’art. 2, comma 203 e seguenti, della legge 23 dicembre 1996, n.
662 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica)”.
289
E difatti, al c. 108 dell’art. 3, viene ribadito che “La Regione, in materia di risorse idriche e difesa del suolo, esercita le
funzioni ad essa attribuite dalle leggi dello Stato che richiedono l’unitario esercizio a livello regionale, in attuazione in particolare della legge 18 maggio 1989, n. 183 (Norme per il riassetto organizzativo e funzionale della difesa del suolo), della
legge 5 gennaio 1994, n. 36 (Disposizioni in materia di risorse idriche), della l.r. 20 ottobre 1998, n. 21 (Organizzazione
del servizio idrico integrato e individuazione degli Ato in attuazione della legge 5 gennaio 1994, n. 36 ‘Disposizioni in materia di risorse idriche’)”. E’ questo il caso in cui ha trovato applicazione l’art. 57 di uno dei cd. “decreti Bassanini”, il
D.Lgs. 112/1998, che prevede come le Regioni possano attribuire al Ptcp valenza di piano di settore in materia di assetto
idrico, idrogeologico e idraulico-forestale.
zione e gestione delle opere idrauliche e di difesa del suolo” per cui “la Regione realizza le opere idrauliche e
la manutenzione del territorio”.
Anche considerando il c. 110, per cui “sono trasferite alle province, ai comuni e alle comunità montane le
funzioni concernenti la progettazione, l’esecuzione e la gestione di opere di difesa del suolo relative alle aree,
ai manufatti e alle infrastrutture di proprietà dei singoli enti, ivi comprese le opere di pronto intervento, di
monitoraggio e di prevenzione”, si accentua la cosiderazione del suolo come oggetto vulnerabilmente passivo
da difendersi rispetto alla calamità, e non anche come − e forse soprattutto − soggetto “membrana, attraverso
cui avviene uno scambio continuo di materia ed energia, che i suoli regolano riflettendo o trattenendo flussi e
sostanze” e divenendo “così il luogo d’incontro della litosfera con l’idrosfera, l’atmosfera e la biosfera” (Regione Lombardia, 1999a); non si ha dunque, alla scorsa letterale della pur così portante Lr. 1/2000, la percezione dell’avvenuta consapevolezza che “una gestione attenta e sostenibile della risorsa suolo è quindi indispensabbile, non solo per mantenere la produttività agricola ma anche per la protezione delle risorse idriche
e l’equilibrio degli ecosistemi naturali” (Brenna e Rasio, 1992a, b; 1997).
3. A ogni buon conto viene assegnata ora, finalmente, particolare rilevanza sostanziale alla dimensione della
pianificazione territoriale e, una volta che290 il comune abbia provveduto a trasmettere “alla provincia competente per territorio il piano regolatore generale adottato o le sue varianti”, essa “ne verifica [...] la compatibilità con gli aspetti di carattere sovracomunale contenuti nel proprio piano territoriale di coordinamento”
e291, “nel caso in cui [...] ravvisi [...] elementi di incompatibilità [...], il comune procede ai conseguenti adeguamenti in sede di decisione sulle osservazioni e di approvazione definitiva; qualora il comune non provveda ai necessari adeguamenti, interviene in via sostitutiva il presidente della Giunta regionale o l’assessore
competente, se delegato, mediante la nomina di un commissario ad acta”.
La duplice incisività interattiva, provinciale e regionale, della pianificazione a scala vasta viene in tal modo
espressamente sancita dal c. 25 dell’art. 3 giacché − ferma restando la considerazione delle “proposte dei comuni e degli altri enti locali” − operano sia “il piano territoriale di coordinamento provinciale” (con “efficacia di piano paesistico-ambientale”) sia la necessaria garanzia di “coerenza con le linee generali di assetto
del territorio regionale292 e con gli strumenti di pianificazione e programmazione regionali” rispetto agli “obiettivi generali relativi all’assetto e alla tutela territoriale”.
Tuttavia il c. 26 dell’art. 3, configurando la peculiarità ‘lombarda’ del piano territoriale di coordinamento
provinciale, sembra in qualche misura limitarne la portata ad “atto di programmazione generale che definisce
gli indirizzi strategici di assetto del territorio a livello sovracomunale” riferendosi solo − e in via esclusiva,
sembrerebbe − “al quadro delle infrastrutture, agli aspetti di salvaguardia paesistico-ambientale, all’assetto
idrico, idrogeologico e idraulico-forestale”, da un lato sminuendo così la ricchezza problematica constatata
dalle stesse Linee generali di assetto del territorio lombardo (Regione Lombardia, 2000) rispetto ai piani già
redatti dalle nostre province293 (al punto da far ritenere che − se s’iniziasse da oggi nella mera applicazione
del c. 26 − l’attività di pianificazione provinciale coglierebbe una sfera problematica assai meno articolata),
dall’altro affrontando i temi della conservazione del suolo e le sue tre sostanziali funzioni produttiva, protettiva e naturalistica (Regione Lombardia, 1999a) senza discostarsi dall’usuale direttrice delle “linee di intervento per la sistemazione idrica, idrogeologica e idraulico-forestale e in genere per il consolidamento del suolo
e la regimazione delle acque”.
S’intravvede tuttavia lo spiraglio di un piano provinciale espressivo delle “vocazioni generali del territorio
con riguardo agli ambiti di area vasta”, locuzione attraverso cui il c. 26 dell’art. 3 (pur con tutte le incertezze
interpretative derivanti dall’inesplicita governabilità delle vocazioni constatate rispetto alla mera facoltà descrittivo-classificatoria del grado di ‘vocazione generale’, e oltretutto non anche ‘particolare’ e/o ‘locale’)
permette comunque di ‘andare fuori tema’ rispetto alle sole infrastrutture, salvaguardie paesistico-ambientali,
assetti idrici, idrogeologici e idraulico-forestali; oltretutto lo spiraglio si amplia avvalendosi del c. 27, secondo
cui “il piano territoriale di coordinamento provinciale può avere, previa intesa tra la provincia e i comuni interessati, contenuti ulteriori rispetto a quelli di cui al comma 26 e, in particolare, può individuare aree da destinare al soddisfacimento di specifici fabbisogni non risolvibili su scala comunale”; con una buona dose di
ottimismo si può dunque ritenere che, oltre alle mere necessità insediativo-urbanizzative, possa considerarsi la
conservazione del suolo per soddisfare ‘fabbisogni’ che la sola scala comunale, per ovvi caratteri fisicoambientali delle risorse coinvolte, difficilmente potrebbe garantire: produttivi (“la capacità del suolo di crea290
Ai sensi del c. 18, art. 3 della Lr. 1/2000.
In applicazione del c. 19.
292
Attualmente, quelle approvate con la Dgr. 7 aprile 2000, n. 6/49509 recante “Approvazione delle linee generali di assetto del territorio lombardo”.
293
Abbiamo richiamato alcuni spunti di ampliamento tematico e di validità propositiva dei piani provinciali, fin qui approntati, nel precedente par. 2.1.1. “I processi di consumo di suolo e la Lr. 93/1980 (Norme in materia di edificazione nelle
zone agricole)”, sub 1.
291
re e mantenere condizioni di fertilità atte a favorire la produzione di alimenti, foraggio, fibre, biomassa ed
energia rinnovabile”), protettivi (“la capacità del suolo di controllare il trasporto in profondità dei soluti e lo
scorrimento dell’acqua in superficie, e di creare condizioni favorevoli alla degradazione delle molecole inquinanti”), naturalistici (“la capacità del suolo di condizionare il bilancio energetico della superficie terrestre, agire da modulatore del clima, completare i cicli dell’acqua, del carbonio e degli altri elementi naturali,
contribuire a formare l’habitat delle comunità vegetali e animali, esprimere l’eredità culturale
dell’uomo”)294.
4. Prosegue, l’art. 3 della Lr. 1/2000, col c. 30 che individua nella scala provinciale il nodo di convergenza
delle istanze locali (“nella fase di predisposizione del piano territoriale di coordinamento provinciale, la provincia assicura la partecipazione attiva dei comuni, delle comunità montane, degli altri enti locali e delle autonomie funzionali”), dove ha luogo l’imbuto del perseguimento −per così dire − della “coerenza degli obiettivi di piano con le esigenze e le proposte manifestate da tali enti acquisite in via preventiva” e la deviata della possibilità di “chiedere alla Regione apposita consultazione diretta a ottenere orientamenti e informazioni
sulle linee generali di assetto del territorio regionale di cui al comma 2, lett. c), nonché sugli strumenti di
pianificazione e programmazione regionali necessari per la redazione del piano”.
In verità quest’ultima locuzione non è particolarmente comprensibile, atteso che − se ai sensi del c. 39 “la Regione provvede entro novanta giorni dall’entrata in vigore della presente legge a elaborare e approvare con
provvedimento della Giunta regionale il documento contenente la definizione delle linee generali di assetto
del territorio regionale per la predisposizione dei piani territoriali di coordinamento provinciali” (come in
effetti ha avuto luogo con la Dgr. 7 aprile 2000, n. 6/49509 di “Approvazione delle linee generali di assetto
del territorio lombardo”) − i cosiddetti “orientamenti e informazioni” risultano già contenuti nel disposto approvato e pare dunque del tutto pleonastica un’ulteriore e “apposita consultazione”; così come non è dato
comprendere quali siano gli “strumenti di pianificazione e programmazione regionali necessari per la redazione del piano” provinciale, assunto che per gli effetti del c. 3 “sono trasferite alle province le funzioni amministrative di interesse provinciale [...] e in particolare (la redazione e, n.d.a.) approvazione del piano territoriale di coordinamento provinciale”; pertanto quest’ultimo si ritroverà ad applicare gli “strumenti di pianificazione e programmazione regionali” vigenti ma non potrà certo suscitarne di nuovi (o si tratta per caso della facoltà di proporne variazioni in dipendenza delle mutate esigenze, constatate alla scala provinciale, in maniera da coerenziare le misure alle due scale?).
A ogni buon conto la formulazione non riluce per chiarezza, né sembra potersi accampare la nozione paritetico-concertativa tra i livelli giacché, a tutti gli effetti, permane la gerarchia del sovraordinamento regionale:
così è per l’efficacia del c. 34 secondo cui “La provincia, contestualmente al deposito del piano territoriale di
coordinamento o sue varianti, lo trasmette alla Giunta regionale che, entro centottanta giorni dal ricevimento
degli atti, ne verifica, garantendo comunque il confronto con la provincia interessata, la conformità alle disposizioni della presente legge, la coerenza con le linee generali di assetto del territorio regionale [...] nonché con gli strumenti di pianificazione e programmazione regionali”; e, ancora, il sovraordinamento gerarchico regionale è ribadito nel successivo c. 35 in quanto “nel caso in cui la Regione ravvisi [...] elementi di incoerenza con le linee generali di assetto del territorio regionale [...] nonché con gli strumenti di pianificazione
e programmazione regionali, la provincia provvede ai conseguenti adeguamenti in sede di decisione sulle osservazioni e di approvazione definitiva”.
Di conseguenza, solo nel caso in cui295 “la Giunta regionale non provveda nei termini previsti [...] a elaborare e approvare [...] il documento contenente la definizione delle linee generali di assetto del territorio regionale per la predisposizione dei piani territoriali di coordinamento provinciali [...], le province hanno facoltà
di presentare [tali piani. n.d.a.] ai sensi del comma 34”; ma siccome sono già state approvate sia − con Dgr.
29 dicembre 1999, n. 47670 − le Linee generali di assetto del territorio lombardo. Criteri di pianificazione
urbanistica e di assetto insediativo (Regione Lombardia, 2000) sia − con Dgr. 7 aprile 2000, n. 6/49509 − i
Criteri relativi ai contenuti di natura paesistico-ambientale dei Ptcp (Regione Lombardia, 1999b), tutti i piani
provinciali fin qui redatti debbono ora essere adeguati ai due atti regionali richiamati.
Sembra allora ragionevole ritenere che, in questa nuova fase, anche il nodo problematico della conservazione
del suolo possa essere assunto alla base dei piani provinciali adeguati, proprio considerando in particolare le
Linee generali di assetto del territorio lombardo (nel cui merito operativo vedremo più oltre).
5. Appare oltremodo noto infine come le dinamiche insediative, i processi urbanizzativi e il derivante consumo di suolo appaiano fortemente contrassegnati dalle (e sovente accampino motivazione principale sulle) necessità residenziali; appare interessante allora, proprio nella prospettiva di una riunificazione metodologica
del rilevamento e di una valutazione quantitativa estesa all’intera scala regionale (sottratta, fortunatamente, al294
295
Definizioni tratte dal capitolo 9 (“La risorsa suolo”) in Regione Lombardia, 1999, p. 316-318.
Secondo il c. 39.
la dimensione comunale spesso sovradimensionante), constatare che il c. 41 mantiene in capo alla Regione la
funzione di determinare “le procedure di rilevazione del fabbisogno abitativo, tenendo conto della consistenza del patrimonio edilizio esistente e delle sue possibilità di integrazione attraverso l’azione coordinata e sinergica dei diversi soggetti sociali ed economici presenti sul territorio regionale”.
Inoltre, per l’effetto del c. 45 “le province predispongono e gestiscono, d’intesa con la Regione, sulla base dei
criteri dalla stessa definiti e dei dati forniti dai comuni, un sottosistema informativo a livello provinciale, articolato su base comunale, finalizzato all’individuazione del fabbisogno abitativo, nonché alla programmazione e al coordinamento regionale degli interventi di manutenzione, recupero e nuova costruzione di alloggi
di edilizia residenziale pubblica”.
Indubbiamente il fatto è rilevante, giacché la combinata azione regionale (per la determinazione dei criteri di
rilevazione) e provinciale (per il rilevamento e la conseguente determinazione del fabbisogno abitativo) influirà senz’altro sulla qualità e veridicità del calcolo, sulla giusta motivazione del dimensionamento comunale,
sull’equiripartizione delle necessità alla scala vasta, sulla limitazione degli addensamenti comunali arbitrari,
sulla stessa unificazione metodologica della pianificazione provinciale lombarda per l’orientamento delle politiche insediative residenziali, tema296 che appare “trattato da tutte le proposte di piano esaminate, tuttavia
[con] diversi approcci al problema: [...] nelle proposte di alcuni Ptcp, sono stati definiti alcuni criteri nel rispetto delle prescrizioni di cui all’art. 19 della Lr. 51/1975, senza la formulazione di nuove modalità di calcolo. Si tratta in particolare o di criteri di carattere compositivo finalizzati al contenimento del consumo di suolo [...], o di criteri d’indirizzo in ordine alla reale dinamica della popolazione [...], o di ricognizioni sulla capacità residua dei comuni a seguito di parziale attuazione del Prg [...]. In altre proposte di Ptcp esaminati
sono contenute direttive finalizzate all’applicazione di nuove modalità di calcolo [...] anche sulla base della
capacità insediativa reale, per poter valutare correttamente le espansioni previste [... o mediante]
l’applicazione di un metodo statistico di tipo previsionale, senza che tuttavia venga fatta menzione
dell’opportunità di modificare l’art. 19 della Lr. 51 che fino ad ora regola il calcolo della capacità insediativa teorica di Piano [... o con] parametri di valutazione più elastici per il calcolo della capacità insediativa
teorica di Piano, in attesa della revisione dell’art. 19 della Lr. 51 [...o] su un parametro numerico (coefficiente K) da rapportare alla densità di utilizzo degli ambiti già urbanizzati e tramite il quale calcolare la possibilità di utilizzo del territorio non urbanizzato”.
3.2. La programmazione territoriale regionale e la Dgr. 7 aprile 2000, n. 6/49509 (“Approvazione delle linee
generali di assetto del territorio lombardo”)
1. A mente dell’art. 3 della Lr. 1/2000, in combinato disposto tra la lett. c), c. 2297 e il c. 39298, sono state approvate le Linee generali di assetto del territorio lombardo” (Regione Lombardia, 2000) i cui primi due volumi rappresentano il riferimento sostanziale per la redazione dei piani territoriali di coordinamento provinciali e dei piani regolatori comunali; l’introduzione “evidenzia in particolare l’impostazione volutamente di indirizzo generale del documento, che la Regione propone alle Province [...] senza imporre vincoli rigidi di preventiva definizione, ma delineando un percorso di collaborazione istituzionale volto all’individuazione condivisa delle linee generali di assetto del territorio”.
Il documento appare assai ‘immerso’ nel dibattito in corso fin dalla I Sezione del Volume I299 (che illustra “le
linee fondamentali di riforma normativa in tema urbanistico-territoriale di questi ultimi cinque anni e gli
strumenti pianificatori e programmatori settoriali di livello regionale e di bacino emanati attualmente operanti”), procedendo poi infradisciplinarmente nella II Sezione alla “ricognizione delle problematiche ambientali interessanti il territorio lombardo [mediante] indagini disciplinari compiute da altre Direzioni regionali”
e alle “analisi relative a quelle dinamiche insediative (popolazione, attività economiche, spostamenti) identificate come più direttamente collegate alla gestione urbanistica e che rappresentano utile riferimento per la
definizione di indirizzi di programmazione territoriale”; infine, la III Sezione esamina “i primi documenti già
prodotti dalle Province lombarde, nel corso degli anni più recenti, che costituiscono un significativo contributo per alcuni nuovi spunti di riflessione sulla pianificazione provinciale”, ed effettua una “valutazione delle
problematiche e delle recenti linee di sviluppo della pianificazione comunale, da cui emergono alcune importanti considerazioni dirette alle Province sulle evoluzioni in atto nella disciplina urbanistica”.
296
Cfr. Regione Lombardia, 2000, Vol. 1 (“Linee di evoluzione dell’assetto del territorio”).
Recante: “Sono mantenute in capo alla Regione le seguenti funzioni: (omissis): c) definizione delle linee generali di assetto del territorio regionale”.
298
“La Regione provvede entro novanta giorni dall’entrata in vigore della presente legge a elaborare e approvare con
provvedimento della Giunta regionale il documento contenente la definizione delle linee generali di assetto del territorio
regionale per la predisposizione dei piani territoriali di coordinamento provinciali di cui al comma 2 lett. c) del presente
articolo. Qualora la Giunta regionale non provveda nei termini previsti, le province hanno facoltà di presentare i piani
territoriali di coordinamento provinciali ai sensi del comma 34”.
299
Intitolato “Linee di evoluzione dell’assetto del territorio”.
297
Nel II Volume (“Linee strategiche di riferimento”) si affronta “il merito dei contenuti del Ptcp in base alla Lr.
1/2000 individuando, tra l’altro, una metodologia per definire criteri preliminari diretti alla definizione delle
intese tra la Provincia e i Comuni in ordine alla localizzazione delle aree da destinare al soddisfacimento di
specifici fabbisogni non risolvibili su scala comunale”; innanzitutto si evidenziano “le principali indicazioni
provenienti dal quadro programmatorio europeo” e “le possibili opzioni di fondo della pianificazione territoriale deducibili da tale quadro”300; poi, oltre all’esame giuridico dei disposti ex art. 3 della Lr. 1/2000 e
all’esemplificazione di una modalità possibile “cui le Province potranno attenersi per individuare criteri preliminari attraverso cui [...] coordinare la localizzazione degli insediamenti conseguenti al soddisfacimento di
fabbisogni non risolvibili a scala comunale”, il documento formula “indicazioni relative alle tematiche fondamentali di assetto del territorio con particolare riferimento al paesaggio, alle aree strategiche per la pianificazione provinciale, alla mobilità, all’ambiente, alla costruzione della rete verde territoriale”; il Volume II
infine si conclude con l’illustrazione delle “tendenze e orientamenti per la pianificazione comunale, evidenziando l’importanza dell’informatizzazione degli strumenti urbanistici comunale al fine di un’omogenea lettura dei dati territoriali: in tale ottica si inserisce, infatti, il progetto strategico regionale del Mosaico degli
strumenti urbanistici a cui partecipano le Province lombarde”.
Vediamo ora nel merito i possibili riflessi delle Linee strategiche di riferimento sui problemi di conservazione
della risorsa suolo: già alla prima scorsa del documento s’intravvede una decisa sterzata “ambiental-fisicista”,
impressa agli stili della pianificazione − territoriale e comunale − dapprima dal deciso richiamo agli impegni e
obblighi comunitari e, poi, dalla crescente insistenza sulla finitezza e non riproducibilità delle risorse fisiche,
in termini tali da ritenere senz’altro che tutta una prossima “generazione” di piani sortirà improntata al “render conto” dei motivi ambientali rispetto alla “Carta delle città europee per un modello urbano sostenibile”
(Aalborg, 1994)301: auspicabile sarà allora la moltiplicazione di Agenda 21 locali che evidenzieranno problemi
ambientali e cause scatenanti, priorità coerenti coi problemi individuati e strategie alternative d’intervento,
piani d’azione sostenibile e visioni condivise, sistemi e procedure di monitoraggio e valutazione dell’efficacia
di piano.
Non sono, questi, auspicabili desideri lontani dal raggiungersi quanto, piuttosto, i requisiti che − da
quest’anno in poi − la pianificazione locale e provinciale dovrà cogentemente possedere in base alla Dgr. 7
aprile 2000, n. 6/49509 “Approvazione delle linee generali di assetto del territorio lombardo”. Vediamoli allora nel dettaglio302.
2. Non si ravvisa esitazione alcuna, nelle Linee strategiche di riferimento, all’esplicito richiamo allo Schema
di sviluppo dello spazio europeo303, nel cui ambito “anche le province e i comuni avranno modo di sviluppare
i propri strumenti e di poter coordinare risorse economiche a obiettivi di valorizzazione territoriale [...]; è
pertanto importante che le Province ispirino i propri documenti di pianificazione e programmazione [...] agli
obiettivi e opzioni individuati dai documenti comunitari: quelli che riguardano lo sviluppo sostenibile della
città − il controllo dell’espansione urbana, la gestione intelligente ed economica dell’ecosistema urbano (acqua, energia, rifiuti) −, quelli che riguardano la preservazione e lo sviluppo del patrimonio naturale − lo sviluppo delle reti ecologiche, l’integrazione e considerazione della biodiversità nelle politiche settoriali, il
maggiore ricorso a strumenti economici per rinforzare il significato ecologico delle zone protette e delle risorse sensibili, la protezione dei suoli anche attraverso il controllo di un loro utilizzo eccessivo −, quelli che
riguardano la gestione creativa dei paesaggi e del patrimonio culturale − la valorizzazione dei paesaggi cul300
Continua l’introduzione: “in tale ottica è, quindi, fondamentale che tutti i soggetti istituzionali (in particolare Regione,
Provincia e Comune) che operano sul territorio ispirino i propri documenti pianificatori e programmatori, cui riferire i
progetti di intervento e i piani di sviluppo locale, agli obiettivi e alla opzioni individuate dai documenti comunitari”.
301
Si tratta dell’atto − sottoscritto nella Conferenza europea sulle città sostenibile di Aalborg (Danimarca) − che ha avviato
la Campagna delle città europee sostenibili promossa dall’Ue, la cui partecipazione ha luogo con l’avvio di un processo di
“Agenda 21 locale”, ossia un piano d’azione di sostenibilità ambientale improntato ad Agenda 21 (l’atto d’intenti delle Nazioni Unite per lo sviluppo sostenibile del XXI secolo, assunto nella Conferenza su ambiente e sviluppo di Rio de Janeiro
del 1992).
302
Esaminiamo, da qui in avanti, le Sezioni IV (Le grandi opzioni territoriali), V (Linee guida: aspetti normativi e procedure), VI (Linee guida: la pianificazione infraregionale) del Volume II (Linee strategiche di riferimento).
303
Potsdam, maggio 1999: si tratta del culmine delle elaborazioni avviate, fin dal 1993, dai ministri dell’assetto territoriale
dei paesi membri attraverso una serie di atti preliminari (Europa 2000, Europa 2000 +, Compendium of Spatial Planning,
Ssse di Nordwick 1997); tre le finalità fondamentali (coesione economica e sociale, sviluppo sostenibile, equilibrata competitività per il territorio europeo), tre gli obiettivi operativi conseguenti (equilibrio, protezione e sviluppo), grande attenzione − per quanto c’interessa − allo sviluppo territoriale policentrico e al nuovo rapporto città-campagna, allo sviluppo interno mediante la conservazione delle diversità e delle performances peculiari degli spazi rurali, al partenariato cittàcampagna. D’indubbio interesse è la particolare attenzione posta dallo Ssee alla “misurazione” dell’efficacia delle politiche
territoriali contemplando l’istituzione di una rete di osservazione dell’assetto spaziale europeo (Orate) incentrata, con metodi comparativi, sugli andamenti urbanizzativi e sullo stato della pianificazione nella differenti regioni dell’Unione.
turali nel quadro di strategie integrate di sviluppo spaziale, il miglior coordinamento delle misure di sviluppo
che riguardano i paesaggi, la riqualificazione dei paesaggi che hanno sofferto d’interventi umani −”.
Si tratta di principi di fondo del tema della sostenibilità, da cui la Regione Lombardia (“per corrispondere agli impegni assunti in sede comunitaria”) ricava “la definizione di alcuni punti cardine di riferimento per il
disegno dell’assetto del territorio (per esempio: sviluppo territoriale equilibrato e policentrico = definizione
di una gerarchia di città o di ambiti territoriali, con individuazione della dotazione di qualità urbane che
questi devono possedere (servizi, attrezzature, ecc.) e delle relazioni che devono intercorrere tra gli stessi;
oppure: conservazione e sviluppo del patrimonio naturale = definizione degli ambiti prioritari di salvaguardia del territorio, delle greenways di interesse regionale, del sistema del verde di scala superiore); orientamento verso politiche di incentivazione più che di vincolo (politiche di buone pratiche); miglioramento del
coordinamento fra politica agricola e assetto del territorio e sviluppo delle città, collegamento tra politiche
settoriali provinciali; miglioramento delle relazioni fisiche nelle aree periferiche; concorso per utilizzazioni e
applicazioni innovative di tecnologie moderne di analisi territoriale; elaborazione di una strategia coordinata di conservazione e di sviluppo del patrimonio naturale e culturale; valutazione degli strumenti e delle politiche territoriali esistenti in merito alla loro sostenibilità”.
Il documento lombardo individua poi “le opzioni più significative che sembrano emergere dalle analisi delle
tendenze [...], linee di condotta alternative tra le quali scegliere, [da intendersi come] invito a esaminare
comparativamente ipotesi alternative effettivamente percorribili, ognuna delle quali comporta vantaggi e
svantaggi che devono essere attentamente soppesati”; in particolare, tra le altre ricordiamo le opzioni nei confronti della diffusione insediativa residenziale, dal grado 0 (di “accettazione di fatto della tendenza in atto”)304
fino a 1 (di “rigoroso contenimento”)305, 2 (di “raffreddamento dei processi diffusivi”)306, 3 (di “mitigazione
degli effetti negativi”307, e riguardo alla diffusione insediativa delle attività economiche e dei servizi (0 = “lasciare tutto com’è”308; 1 = “il sistema olandese, ovvero le funzioni giuste nei posti giusti”309; 2 = “la determinazione di soglie dimensionali minime”310; 3 = “la combinazione di più opzioni”.
304
Che pessimisticamente il documento regionale ritiene “eventualità non improbabile, poiché per governare in qualche
misura (non già per arrestare) la tendenza diffusiva, si richiede una determinazione molto forte e un elevato grado di cooperazione tra i soggetti istituzionali operanti ai diversi livelli e nei diversi ambiti di competenza”, senza peraltro biasimarla
(“non è certo che gli effetti siano così univocamente negativi come qualcuno prefigura”).
305
Il che secondo la Regione equivarrebbe a “contrastare la domanda delle famiglie che intendono localizzarsi all’esterno
delle aree più densamente urbanizzate” dovendosi contenere “le previsioni di espansione [...] nei piani dei [...] comuni minori, quelli con bassa densità territoriale, quelli più lontani dai grandi nodi di interscambio del trasporto collettivo”, concludendo infine che, “per attuare tale politica, si dovrebbe intervenire d’autorità sui Prg vigenti, poiché in presenza di un
siffatto indirizzo, è prevedibile che molti Comuni si asterrebbero dal mettere in cantiere varianti generali. Tale intervento
dovrebbe essere demandato ai Piani provinciali, su impulso e indirizzo della Regione, eventualmente con il supporto di
specifiche norme e disposizioni di legge. Tale impostazione esula largamente dalla filosofia della Lr. 1/2000 e appare pertanto difficilmente praticabile.”.
306
“Obiettivo analogo a quello dell’opzione precedente, ma (perseguito) con un’azione meno drastica, basata sul recupero
di attrattività delle aree urbane mature (tramite) miglioramento della competitività dell’offerta residenziale nelle aree in
deficit migratorio (a incominciare dai maggiori centri urbani), miglioramento della qualità complessiva dell’ambiente urbano. [...] Questa opzione, sebbene si presenti potenzialmente meno conflittuale della precedente, non è priva di problemi.
Si deve infatti segnalare che: in assenza di sostanziali modificazioni delle politiche urbane attuate nell’ultimo decennio,
non vi è ragione di aspettarsi da esse un più efficace contributo al rallentamento dei processi diffusivi; l’eventuale prevalente destinazione a residenza e verde delle aree dismesse, se da un lato favorisce la competitività residenziale delle aree
di esodo, dall’altro accelera il decentramento dei posti di lavoro e quindi, a lungo andare, alimenta il processo diffusivo”.
307
Che, “accettando il processo diffusivo come tendenza di fondo non superabile, si propone di correggerne alcuni aspetti
specifici [...] particolarmente negativi, legati alla componente dispersione [...] promuovendo un uso selettivo e finalizzato
dello strumento degli oneri di urbanizzazione, tale da rendere gli operatori e gli utenti sensibili al costo ambientale e sociale delle scelte localizzative e tipologiche. Si pensi ad esempio a una ‘tariffa urbanistica’ (tradotta in) ‘tariffa d’impatto’
[...] che faccia pagare gli oneri non più solo in proporzione al volume edificato, ma anche alla superficie del lotto asservito (quindi penalizzando le basse densità fondiarie) e al perimetro del lotto confinante con lo spazio aperto (quindi penalizzando la frammentazione)”.
308
“In questo caso l’opzione zero si configurerebbe piuttosto come una sconfitta che come l’esito di una possibile scelta
consapevole”.
309
“Consiste nell’imporre che le funzioni che richiamano grandi flussi di persone (quali complessi di uffici, grandi servizi
pubblici, attività espositive) si localizzino esclusivamente in luoghi dotati di grande accessibilità alle reti di forza del trasporto collettivo [...].L’esperienza dimostra però che ci sono diversi punti deboli. Nonostante queste difficoltà e controindicazioni, il sistema olandese resta la sola proposta capace di rendere trasparenti le reciproche relazioni tra politiche insediative e infrastrutturali. Ciò significa prevedere nuove stazioni e fermate delle linee di forza del trasporto collettivo
all’esterno delle aree già urbanizzate, a esempio sulle linee storiche Fs alleggerite dai quadruplicamenti”.
310
“Intervenire non tanto sulla localizzazione degli insediamenti produttivi, quanto sulla loro dimensione unitaria, con
l’obiettivo di garantire che in ogni caso si raggiungano livelli di soglia sufficienti per rendere possibile un servizio di trasporto pubblico efficiente in termini di costi e frequenze [...]. In quest’ottica, più che sul ferro si punta sulla gomma o
3. Le Linee strategiche di riferimento richiamano poi i pochi precetti assegnati dalla Lr. 1/2000 alla disciplina
costitutiva del piano provinciale311: riguardo alle “vocazioni generali del territorio con riguardo agli ambiti di
area vasta” risultano individuate le “tre generali vocazioni territoriali [...] insediativa, agricola e ambientale,
le quali dovranno riguardare ambiti di area vasta la cui individuazione spetta al Ptcp”, e vengono quindi
rammentati i contenuti “ulteriori ed eventuali” (definibili “solo previa intesa tra la Provincia e i Comuni interessati e diretti unicamente al soddisfacimento di specifici fabbisogni non risolvibili a livello comunale”)
nonché i requisiti paesistici e il soddisfacimento dei fabbisogni abitativi rilevati per singoli ambiti territoriali e
per tipologie di intervento.
In verità, nella Lr. 1/2000 il cammino intrapreso già dall’inizio non si presenta facile, dalla limitata e lasca identificazione dei contenuti minimi del Ptcp fino all’eccessivo rinvio concertativo per poterne ampliare la
portata, dai tratti etimologici di un’interpretabilità talvolta ambigua al cospicuo contenzioso intravvedibile
(per estensione applicativa non supportata da esplicita legittimazione); vero è “che la pianificazione urbanistica non può presumere di opporsi efficacemente alle domande che la società e il mercato esprimono con
forza (ed è bene che sia così), ma può e deve governare e regolare le forme e i modi della risposta”, ed è altrettanto vero che, “come una buona rete idraulica, deve incanalare l’acqua attraverso sezioni opportunamente dimensionate, non lasciarla divagare per i campi né tantomeno ostacolarne il deflusso. Altrimenti vi è
il rischio – o meglio la certezza – che l’acqua, cercandosi da sé la via di minor resistenza, sgorghi nel luogo
più inopportuno”, ma è anche vero che, nella lodevole voglia di incanalamento, molte reti idrauliche pur ritenute inizialmente buone si sono poi rivelate deleterie per eccesso o per difetto dimensionale.
Ci chiediamo se rivesta ancora senso comune rincorrere le cosiddette “vocazioni del territorio” (la cui del tutto astratta locuzione, già rinvenuta per la pianificazione provinciale nella legge 142/1990, appare poi annacquata nella Lr. 1/2000 per cui esse dovranno ricercarsi nei loro tratti “generali” e non già in tutta l’estesissima
gamma locale), o non conviene piuttosto ammettere che uno spazio complesso come quello lombardo è talmente (ormai) polivalente da aver reso tutto vocato per tutto dappertutto? E che pertanto non si tratta tanto di
scoprire la vocazione dei siti quanto piuttosto di classificare il grado di compatibilità (economica) e di sostenibilità (fisica) dell’uso delle risorse ambientali, identificando quindi i “limiti d’uso” di tutte le risorse anziché
l’uso selettivo di alcune risorse in determinati siti vocati?
Se, allora, in qualche modo è vero che “il Ptcp deve riconoscere la tendenziale configurazione spaziale dei
processi insediativi e dare ai comuni gli elementi necessari affinché questi, nei loro piani, possano predisporre le opportune risposte che potranno, secondo le circostanze, essere di acquiescenza o di resistenza, in sede
locale, alle pressioni del mercato, purché nel complesso tornino i conti alla scala territoriale e nessuna domanda legittima resti inevasa”, occorre proporre modi di contabilità ambientale dei limiti d’uso (altrimenti, di
che conti si tratta? i conti del consenso pubblico, quelli delle mere ragioni urbane come sempre, i motivi dello
sviluppo a costo privato zero?) e classi di legittimità (rispetto a quali parametri verrà classificata la domanda?).
Il documento regionale in effetti azzarda qualche tipo di risposta riguardo ai “compiti della pianificazione”,
ammettendo che “tutti i comuni (primo limite: “in relazione alla loro collocazione territoriale e alla loro accessibilità”) possono legittimamente aspirare ad accogliere quote della domanda esogena o mobile, che può
scegliere dove localizzarsi e quindi risponde a criteri di competitività dell’offerta insediativa” ma (secondo
limite) “in un’ottica di rigorosa sussidiarietà” (ossia mantenendo in capo provinciale le scelte attinenti a esigenze unitarie per la collettività e il territorio regionale312) e purché (terzo limite) “le scelte urbanistiche di
ciascun comune non danneggino i comuni contermini” e (quarto limite) “le previsioni urbanistiche intese a
catturare la domanda mobile siano correttamente localizzate e valutate rispetto alle esigenze di tutela ambientale e alle grandi reti infrastrutturali nonché (quinto limite) complessivamente commisurate – in qualità,
quantità e collocazione – all’entità dei processi ragionevolmente prevedibili in base alle tendenze in atto”.
Tuttavia, verranno verificati tali limiti rispetto alle risultanze della contabilità ambientale e alle classi della legittimità insediativa (e, ancor prima, i Ptcp conterranno tale contabilità e tali classificazioni e l’esibizione trasparente della distanza dai loro esiti delle trasformazioni proposte)? In assenza di misure, conti, numeri, entità
multivariate da cui sia derivabile l’interdipendenza ambientale e i limiti oggettivi e il sapere tecnico che guidi
la decisione amministrativa, si è portati a dubitare che il “principio della copianificazione”313 possa tradursi in
altro differente dagli andamenti del passato.
sull’intermodalità ferro/gomma. Si tratta di una linea d’azione molto più flessibile di quella indicata in precedenza, che
appare più aderente alla realtà del territorio lombardo e quindi più facilmente praticabile”.
311
In applicazione dei commi 26, 27 e 28 dell’art. 3, nonché di altre norme della Lr. 1/2000.
312
Con riferimento quindi al “coordinamento dell’individuazione di obiettivi generali relativi all’assetto e alla tutela territoriale” (art. 3, c. 27) e alla definizione di “indirizzi strategici di assetto del territorio a livello sovracomunale” (art. 3, c.
28).
313
Ossia “l’istituzione presso le province di una conferenza dei comuni e delle comunità montane con funzioni consultive e
propositive in materia di pianificazione, l’intesa da stipularsi tra provincia e comuni, in caso di individuazione di fabbiso-
4. Fa ben sperare, nelle Linee strategiche di riferimento, il richiamo alla necessità di inserire le “attività di
pianificazione provinciale e comunale” nel seno delle “linee della programmazione generale della Regione,
che trovano la loro compiuta definizione nel Documento di programmazione economico–finanziaria
regionale (Dpefr) e nel Programma Regionale di Sviluppo (Prs)”, ma debbono essere raggiunte alcune tappe
prima che i processi di “crescita, competitività e coesione sociale” comincino a marciare in “un quadro di
sostenibilità ambientale”: non solo “tecniche” come la nuova legge urbanistica regionale, la piena ricezione
della disciplina comunitaria della Via, la redazione della Carta della natura per la difesa integrata delle
biodiversità, il Progetto SAL.Va.Te.R. per la salvaguardia e valorizzazione dello spazio rurale, i numerosi
Sistemi informativi territoriali314 ma − anche e piuttosto − “politiche” (improntate cioè alla piena
consapevolezza civile e ambientale, dal momento che le stesse Linee strategiche di riferimento non si
nascondono che “la diversità di posizioni può portare anche a significative divergenze, poiché, a fronte della
razionale condivisione degli obiettivi, vi sono situazioni pregresse difficili da modificare e gli effetti di una
situazione finanziaria spesso difficile che induce ogni comune a perseguire il beneficio fiscale attraverso le
politiche urbanistiche di sviluppo. Può quindi accadere, ed è probabile che accada, che alcuni comuni
percepiscano come ingiustamente penalizzanti, o comunque siano indotti a non accettare, politiche
territoriali pur sostenute da buone ragioni di razionalità alla scala dell’area vasta”).
Non si dimentichi che, se il mandato del Ptcp è “ampio per quanto riguarda la definizione degli obiettivi
generali da perseguire mediante le politiche territoriali (art. 3, comma 25) e più specifico a definire gli
indirizzi strategici di assetto del territorio a livello sovracomunale, con valenza di piano di settore per alcune
materie (comma 26: quadro infrastrutturale, salvaguardia paesistica e ambientale, assetto idrico,
idrogeologico e idraulico-forestale)”, la sua “competenza sulle politiche insediative non è esclusiva, ma
subordinata alle intese coi comuni interessati (comma 27)”.
E’ abbastanza palese dunque che − per raggiungere risultati di qualche significatività nella riduzione dei processi dispersivi e diffusivi e nel conseguente contenimento della competizione urbano/agricola per l’uso del
suolo − una delle “condizioni che devono essere rispettate in sede di formazione dei piani e di valutazione dei
singoli interventi rilevanti” riguarda proprio, “per l’ambiente, la definizione di un sistema di compatibilità che
passa anche attraverso l’attribuzione di ruoli ambientali differenziati alle diverse parti del territorio”.
Alcuni primi criteri in effetti compaiono nelle Linee strategiche di riferimento, per esempio riguardo alla domanda insediativa cosiddetta “esogena o mobile”, non calcolabile “a partire dalla scala locale, poiché (a) si
genera altrove e (b) si soddisfa dove trova le condizioni più favorevoli” e pertanto “ragionevolmente stimabile – pur con tutte le incertezze e cautele dal caso – alla scala della Provincia” purché i requisiti siano di “razionalità localizzativa e ridotta conflittualità ambientale e paesistica”315; altri criteri emergono dalla nozione
di “sviluppo sostenibile, che dovrà permeare a tutti i livelli e in modo trasversale l’azione pianificatoria delle
amministrazioni per consentire una integrazione effettiva delle tematiche ambientali con le scelte di assetto
insediativo e di sviluppo in generale”, dalla difesa delle biodiversità, dalla necessità di riduzione dei fenomeni
di inquinamento, dall’obiettivo dei varchi inedificati da mantenere (in rapporto con “l’esigenza di ridefinire
alcuni margini urbani e di riqualificare i limiti fra edificato e non edificato”), e una buona dose di fiducia
viene riposta nell’ottenimento di “una conoscenza diffusa ed esaustiva del territorio considerato” fondata
“anche sull’utilizzo della documentazione tecnica già esistente alla quale ci si dovrà necessariamente riferire
integrandola e, se nel caso, modificandola [tra cui] le basi informative ambientali realizzate dall’Ersal per le
aree di pianura e collina e le carte geoambientali per il territorio montano”.
Si tratta di saperi finora non sufficientemente considerati nel processo decisionale sull’uso del suolo, che
d’ora in poi “dovranno anche essere resi disponibili ai comuni per la determinazione delle proprie scelte di
trasformazione” e che “avranno altresì significativa rilevanza ai fini della valutazione, nelle diverse sedi
all’uopo incaricate, della compatibilità o ammissibilità di progetti di trasformazione del territorio, eventualmente non fatti oggetto di specifiche valutazioni nel contesto del Ptcp”.
In questo senso, grande interesse − per la conservazione della risorsa suolo − riveste la (e molteplici aspettative possono essere riposte nella) nozione di “rete ecologica”, interazione di nodi (“ambiti più o meno vasti,
con caratteristiche di naturalità diffusa e/o con emergenze di significativo interesse”) e collegamenti (“fasce
verdi, con vari livelli di naturalità e varia ampiezza”) in cui va rivalutato il ruolo delle aree agricole, riscatgni non risolvibili su scala comunale, in sede di formazione di Ptc, l’indizione della consultazione con la regione la provincia e le altre amministrazioni interessate in sede di predisposizione del piano regolatore”.
314
Riguardanti il mosaico degli strumenti urbanistici comunali, la valutazione di impatto ambientale (S.I.L.V.I.A.), i beni
ambientali (SIBA) e culturali (Carta del rischio del patrimonio culturale), le aree dismesse, la bonifica e l’irrigazione del
territorio (S.I.B.I.Te.R), l’ambiente (SIRA).
315
La Regione avvierà pertanto un Osservatorio delle dinamiche territoriali, giacché “la possibilità di verificare attraverso
parametri e dati quantitativi il grado di efficacia delle politiche territoriali rappresenta una condizione necessaria per adeguare le politiche all’evoluzione della domanda dei cittadini e degli operatori lombardi e inoltre per il miglioramento
delle performances degli strumenti di governo territoriale”.
tandole dagli “aspetti di marginalità e spesso di degrado ambientale che hanno assunto in contesti fortemente
urbanizzati [e che], in parte per l’alto apporto di sostanze inquinanti di cui l’attività produttiva agricola fa
uso, sono frequentemente considerate come ambiti produttivi non associabili agli elementi naturali se non in
termini potenziali per la permeabilità che mantengono, per la ricca presenza di acque di cui godono e per la
versatilità che continuano a consentire”316.
5. Le Linee strategiche di riferimento affrontano poi il complicato nodo della pianificazione comunale cominciando ad assumerne un’accezione moderna (“da atto finito con controlli di conformità, il Prg deve trasformarsi in un processo circolare, continuo e aperto, assoggettato a verifiche di congruenza, avente funzione regolativa, con massima responsabilizzazione e minima rigidità”), ammettendo la necessità di “distinguere le
‘invarianti’ di lungo periodo (con particolare attenzione a quelle di natura ambientale e storico-culturale)
che costituiscono termine di dinamico confronto per la valutazione dell’ammissibilità d’interventi e progetti
portatori di qualità urbana” e individuando “l’irriproducibilità del bene territorio” come “punto di riferimento e termine di confronto per proporre e operare scelte sostenibili sia ambientalmente sia economicamente”,
all’insegna della carta di Aalborg, per raggiungere “un modello sostenibile di sviluppo che consenta di conservare il capitale naturale, assicurandosi che il tasso di consumo delle fonti non rinnovabili non ecceda il
tasso di ricostituzione delle stesse assicurato dai sistemi naturali; favorire la crescita dello stesso capitale,
riducendone lo sfruttamento e la pressione; migliorare l’efficienza, ottimizzando l’utilizzo e la funzionalità
della città”.
Asasai condivisibile è il richiamo al “processo locale e creativo, che investe le capacità locali di trattazione
delle specificità [per cui] ogni città deve ricercare la propria via alla sostenibilità” non trascurando, in tale
ottica, “una solida conoscenza e interpretazione del territorio e delle relative dinamiche evolutive” tramite “la
messa a punto di un sistema informativo di base in grado di organizzare la frammentarietà delle informazioni
e di renderle confrontabili nel tempo e nello spazio”.
Indubbiamente (anche se l’onere derivante non può essere caricato solo alla dimensione comunale) “occorre
tener presente la necessità di non aumentare negativamente i carichi urbanistici e ambientali sia nelle scelte
relative alle trasformazioni degli interstizi urbani (riqualificazioni leggere e diffuse) sia nella delimitazione
delle aree urbane (modeste aggiunte marginali escludendo edificazioni diffuse in aree extraurbane che compromettono e consumano suolo, con ricadute negative sull’intorno)”; altrettanto indubbia è la necessità di distinguere “le componenti strutturali, riferite a caratteri del territorio permanenti o di lenta modificazione”, in
particolare identificandone “gli elementi non negoziabili”, “i modelli insediativi da privilegiare di tipo reticolare in grado di organizzare e articolare su centralità riconoscibili e differenziate l’espansione urbana, mirando a forme urbane tendenzialmente compatte e policentriche”, “il superamento nel ‘non edificato’ del
concetto di aree residuali, serbatoio per futuri insediamenti, riarticolando il loro azzonamento in considerazione delle caratteristiche morfologiche, dei caratteri connotativi del paesaggio, delle presenze vegetazionali
e degli utilizzi agronomici, per una loro valorizzazione sia in presenza di beni riconosciuti (e vincolati) sia in
carenza di specifiche caratterizzazioni”.
Del tutto condivisibile è il criterio di “individuare le nuove aree di espansione compatibilmente con il quadro
delle risorse fisico-naturali, paesistiche, storico-culturali fornito dal supporto conoscitivo del piano”, e finalmente le Linee strategiche di riferimento ammettono che “le occasioni di ulteriore consumo di suolo devono essere circoscritte e prioritariamente orientate a un ridisegno dei margini della città ispirato a criteri di
elevata qualità formale, escludendo qualsiasi tipo di frammentazione”, anche se il più che lodevole principio
di “scoraggiare espansioni isolate procedendo semmai, nella riorganizzazione del disegno urbano complessivo, attraverso la previsione del completamento delle aree intercluse e la ricucitura di episodi di frangia, attraverso lo studio di progetti complessi” dev’essere accompagnato da forme di convincimento delle amministrazioni comunali che, al momento, non s’intravvedono se non nel disegno morfologico di dettaglio già contenuto alla scala provinciale per i bacini ad alta criticità insediativa, “compiendo di fatto una valutazione exante dell’impatto paesistico delle previsioni di trasformazione e sviluppo territoriale” e prestando “rilevante
attenzione alle relazioni degli interventi ipotizzati con il tessuto urbano in cui si inseriscono, ovvero con le vicine zone agricole o comunque non urbanizzate anche al fine di valutare il corretto inserimento paesistico
degli interventi”.
316
A tal proposito, è rilevante la prescrizione (contenuta nelle Linee strategiche di riferimento per i piani comunali) di “individuare gli ambiti agricoli o incolti (oltre a quelli di specifica rilevanza ambientale) funzionali alla interruzione delle
conurbazioni, che dovranno essere mantenuti nei limiti definiti. Tali ambiti, individuati allo scopo di impedire la saldatura
di contesti urbani che presentano elementi di criticità di diverso tipo e per garantire una continuità funzionale e visiva di
aree e corridoi verdi esistenti o potenziali, saranno puntualmente definiti dai comuni sulla base delle indicazioni fornite
loro dai piani provinciali”. Di conseguenza, “i Piani Provinciali dovranno pertanto contenere indirizzi per i comuni volti
al mantenimento degli ambiti inedificati di cui sopra e ogni altra indicazione utile al conseguimento degli obiettivi ad essi
connessi”.
Appare infine di certo interesse il modello applicativo che le Linee strategiche di riferimento rivolgono ai
comuni per la redazione dei Prg: una volta individuate le quantità di espansione endogena di stretta competenza comunale, la “verifica di sostenibilità e di impatto dovrà porre in relazione le quantità determinate con
i caratteri dei luoghi, sia intrinseci che connessi al loro intorno, con particolare riferimento alle caratteristiche ecologiche in termini di produttività agricola e di funzioni biologiche, alla forma delle aree, in termini di
compattezza e di rapporti con gli insediamenti preesistenti, ala sensibilità paesistica, intendendo con ciò la
rilevanza e l’integrità dei comparti interessati”.
Occorrerà pertanto “ponderare le superfici secondo fattori che possono agire in diminuzione o in aumento a
seconda che si tratti di scelte che vadano o meno a incidere su aree sensibili” − così determinando “una compensazione tra quantità e qualità tale per cui le possibilità di espansione saranno tanto maggiori quanto meno impattanti saranno le scelte urbanistiche” − e la prima verifica da effettuarsi concerne proprio “l’impatto
connesso con la qualità dei suoli destinati all’urbanizzazione” (il che ingenererà il bisogno di dotare il Prg di
congrui corredi di cartografia tematica e sintetica, stante il fatto che “sarà cura degli estensori di ciascun Prg
produrre e argomentare le valutazioni, tenendo conto delle indagini pedologiche prodotte dalla Regione e
delle indicazioni contenute nel Ptcp”): “se − così argomenta il modello applicativo delle Linee strategiche di
riferimento − l’urbanizzazione investe suoli particolarmente pregiati sotto il profilo agronomico o per le funzioni biologiche cui essi assolvono, la superficie dovrà essere ridotta rispetto al valore determinato; se, al
contrario, i suoli sono di scarso valore, può essere aumentata”.
Il modello applicativo invoca dunque la necessità di una classificazione del fattore suolo rispetto a fattori multivariati317, in stretta correlazione tra valori dei suoli ed entità del dimensionamento espansivo e in maniera da
ponderare318 le situazioni in cui: a) “i terreni di recupero e degradati possono avere dei valori in grado di incidere poco o nulla sul dimensionamento complessivo”; b) i terreni produttivi “saranno valutati in funzione
della loro attitudine agronomica secondo i criteri standard della pedologia e secondo le caratteristiche proprie delle attività agricole e aziendali in corso”; c) infine, “i terreni incolti, gli ambiti con caratteristiche naturalistiche, gli ambiti con presenze di elementi naturalistici o con altre caratteristiche funzionali a una qualificazione ambientale di un determinato comparto, saranno valutati secondo criteri di potenzialità biologica
e in base al livello di artificializzazione, ma comunque con pesi che potranno incidere pesantemente sul dimensionamento stimato”.
Un altro rilevante elemento − a cui approda il modello applicativo − individua nella dispersione insediativa
extraurbana un indicatore d’impatto delle urbanizzazioni, misurabile attraverso “lo sviluppo dei perimetri delle zone urbanizzate verso gli spazi aperti” in quanto “più cresce il rapporto tra il perimetro e la superficie,
maggiore è il frazionamento e maggiore l’impatto”319; gli indirizzi regionali ritengono “pertanto opportuno
introdurre un criterio di valutazione che tenga conto di questo aspetto” assumendo “un valore del rapporto
tra perimetro e superficie ritenuto fisiologico” e adottando “conseguentemente un meccanismo di calcolo che
penalizzi la frammentazione e incentivi la compattezza della forma urbana”: viene classificato così come
“sensibile” quel perimetro “che misura lo sviluppo dei confini tra aree destinate all’urbanizzazione e spazi
aperti, siano essi campi coltivati, parchi extraurbani, corpi idrici o aree a conduzione seminaturale” e, in tal
modo, “oltre alla natura dei suoli e alle superfici occupate si mette sotto controllo il fenomeno dell’eccessiva
frammentazione o dispersione delle aree urbanizzate”.
Comincia così ad affacciarsi − nella scena del piano comunale − l’obbligo a confrontarsi con la finitezza delle
risorse fisiche, la sollecitazione alla misura degli impatti problematici, il dovere della giustificazione verso il
consumo di beni limitati: se ancora non è a punto il corrispondente bagaglio tecnico, pare senz’altro avviata la
317
Cfr. alcuni esempi applicativi utili al caso in:
a) Paolillo P.L., ed. (1995), Spazi agricoli a Cusago. Un esercizio analitico sul territorio extra-urbano: agricoltura, ambiente, paesaggio in un comune lombardo, Angeli, Milano;
b) Tintori S. e Paolillo P.L. (1990), “Un’esperienza urbanistica di tutela delle risorse fisiche e agricole: il caso della Variante di Lodi”, in Territorio, n. 7, pp. 33-59.
c) Paolillo, P.L., ed. (1998), Al confine del nord-est. Materiali per il nuovo piano regolatore di Zoppola, Forum, Udine.
318
Nell’eventualità, “il Ptcp potrà opportunamente dettagliare criteri e valori, con riferimento alle specifiche realtà territoriali”.
319
Il tema è stato trattato in Paolillo P.L. (1988a), “Il sistema territoriale extra agricolo in Lombardia: evoluzione della rete
locale e consumo di suolo in dipendenza del parametro forma”, in Borachia, V., Moretti, A., Paolillo, P.L. e Tosi, A., eds.,
Il parametro suolo. Dalla misura del consumo alle politiche di utilizzo, Grafo, Brescia; Borachia V. e Paolillo P.L.
(1988b), “Tra consumo e spreco di suolo extraurbano, in rapporto ad alcuni risultati di analisi della forma nell’area lombarda”, in Territorio, n. 1; Paolillo P.L. (1990a), “Tipologie dell’assetto territoriale e consumo di suolo agricolo”, in Martellato, D. e Sforzi, F., eds., Studi di sistemi urbani, Angeli, Milano; Paolillo P.L. (1990b), “Mesoscala e analisi del processo insediativo nell’evoluzione della rete locale”, in Borachia, V., Boscacci, F. e Paolillo, P.L., eds., Analisi per il governo
del territorio extraurbano, Angeli, Milano; Paolillo P.L. (1992), “La nozione di ‘assetto extraurbano’ in rapporto al parametro suolo: dalla quantità dispersiva di consumo al privilegio qualitativo della forma”, in Territorio, n. 13.
ricerca dei modi di corrispondere ai nuovi compiti ambientali che le Linee generali di assetto del territorio
lombardo assegnano alla pianificazione.
4. Un contributo all’evoluzione del dibattito: il master in ingegneria del suolo e delle acque del Politecnico di Milano
1. Per concludere, ricordiamo come le politiche europee di Agenda 2000 non richiedano più all’agricoltura
(solamente) la produzione di beni alimentari ma (anche) un nuovo ruolo multifunzionale; dunque, la capacità
agricola di competere sarà sempre più connessa, al contempo, all’appeal territoriale e al capitale fisso ambientale da gestire – virtuosamente e unitariamente – per produrre alimentazione tipica (controllata e/o protetta),
servizi collettivi, beni indiretti (la qualità dell’ambiente, il presidio estetico/paesistico, la conservazione/valorizzazione/trasmissione dei valori tradizionali e delle peculiarità culturali): in una parola, per avviare
lo ‘sviluppo locale’.
Siamo in presenza di un importante cambio d’indirizzo, in cui la divaricazione – tutta italiana – tra governo
degli assetti urbani e agricoli dovrà riunificarsi negli strumenti di piano provinciali e comunali, componendo
in queste sedi l’ormai insopportabile conflitto per l’uso delle risorse fisiche suolo e acque: ecco prospettarsi
una affollata e più complessa scena in cui pluridimensionale è il ruolo del settore agricolo, plurifunzionali le
prestazioni attese, molteplici gli attori concorrenti, multiscalare la dimensione del governo territoriale, unificati gli strumenti dal livello finanziario alla dimensione di piano, in continui spaziali dove lo strettissimo nesso urbano/rurale non può che pretendere una programmazione integrata.
Emerge allora la nuova centralità – ambientale e multifunzionale – dell’agricoltura e delle sue principali risorse: i suoli (fondamentali per la protezione della falda, l’assorbimento delle acque eccedentarie, la chiusura di
alcuni importanti cicli ecologici come lo spandimento dei fanghi di depurazione urbana) e gli assetti idrici
(per la riorganizzazione del fabbisogno irriguo, la protezione degli acquiferi e del reticolo idrologico, la lotta
alla desertificazione, salinizzazione, degrado quali/quantitativo delle acque superficiali e profonde), in una situazione nazionale in cui la prevalenza delle funzioni urbane ha considerato la risorsa acqua come fattore da
consumare e inquinare, e la risorsa suolo come mero serbatoio per molta, nuova e spesso ingiustificata espansione insediativa, col risultato quasi unico (in Europa) di inammissibili sprechi di beni idrologici, di ottimi
suoli agroproduttivi e di cospicui spazi di rigenerazione ambientale.
Servono quindi molti dati ambientali: per valutare la compatibilità delle politiche insediative rispetto alle risorse fisiche, per giudicare la sostenibilità delle politiche agricole nei confronti degli ambiti locali, per garantire le biodiversità come interruttore di nuove economie alternative, per accedere alla crescente selettività dei
sostegni finanziari europei, innescando pratiche virtuose di eco-programmazione e unendo alla smisurata domanda di informazione ambientale un’appropriata offerta informativa, di supporto a una decisione sempre più
ambientalmente orientata.
In tale ottica, ove s’impronti – come serve indubbiamente fare – il governo dello spazio agricolo a criteri di
sostenibilità nell’uso del suolo e delle acque, occorre assumere a supporto della decisione una solida base informativa, fondata sulla conoscenza dell’assetto idrologico e idraulico, delle terre e dei processi atmosferici e
tale da consentire d’affrontare sia la prospettiva di medio e lungo periodo sia le emergenze nel breve, contribuendo pertanto alla pianificazione di area vasta, alla progettazione dei comprensori, reti e impianti di irrigazione e drenaggio, alle azioni di protezione civile che assumano obiettivi immediati di programmazione delle
acque sempe più in crisi di disponibilità.
Nel quadro degli scenari evolutivi delle politiche agrarie, dunque, si delineano nell’immediato esigenze di sviluppo integrato e miglioramento degli habitat rurali e territoriali (con misure, tra l’altro, di sistemazioni idrauliche del territorio, del governo dello spazio agricolo e di conservazione delle risorse idriche, pedologiche, paesaggistiche e, più in generale, fisiche).
Offre il suo contributo −a tale situazione complessa di rinnovamento del settore primario − il Centro per lo
sviluppo del polo di Cremona del Politecnico di Milano che ha avviato fin dal 2002 il master universitario di
II livello in Ingegneria del suolo e delle acque, in cui si formano profili specialistici per le differenziate necessità delle risorse fisico-ambientali, per la pianificazione e gestione delle risorse idriche e per la definizione
delle politiche di conservazione del suolo, sviluppando − in una visione multifunzionale dell’agricoltura −
competenze tali da assicurare la coerenza delle scelte tecnologiche con le politiche agricole europee, con le
strategie aziendali e con i contesti operativi delle organizzazioni pubbliche e private agricole.
Nel seguito del volume, abbiamo pertanto selezionato alcuni saggi, tratti dalle tesi di master del 2002320,
organizzandoli in quattro parti: a) l’interpretazione del ciclo idrologico per un governo sostenibile della
risorsa idrica (a partire da un metodo innovativo di bilancio idrologico negli studi territoriali, fino all’analisi
320
In particolare, nell’Area delle Scienze idrauliche sono state discusse le seguenti tesi di Master:
1. Dott. ing. Filippo Bianchini (Recupero e riutilizzo delle acque reflue trattate della città di Cremona per usi irrigui); il
lavoro ha preliminarmente valutato la normativa italiana vigente e in itinere, confrontandola con quella extraeuropea,
studiando i parametri chimico-fisici e microbiologici d’interesse delle acque di scarico in uscita da un depuratore e con-
frontandoli con i valori richiesti dalla normativa per il riutilizzo agricolo dei reflui; sono state poi studiate e valutate sul
piano tecnico le tecnologie più rappresentative per assicurare i migliori rendimenti di depurazione con semplicità tecnologica ed economia di gestione; in particolare è stato considerato il processo di affinamento tramite una fase di filtrazione
su dischi con membrane polimeriche e una successiva fase di disinfezione con radiazioni ultraviolette, dopo aver effettuato prove con impianti pilota forniti da alcune ditte fornitrici di tali tecnologie. Sede di tirocinio Azienda Energetica
Municipale S.p.A., Cremona, relatore ufficiale prof. Enrico Larcan (Politecnico di Milano), tutor di tirocinio ing. Andrea
Guereschi.
2. Dott. ing. Marcello Bonamico (Sconnessione tra dispensa irrigua continua e l’irrigazione di un’azienda del cremonese: studio di un sistema a vasca di accumulo). Lo studio ha valutato la fattibilità economica nella realizzazione di una
vasca di sconnessione, in modo da rendere la dotazione irrigua più flessibile alle esigenze colturali e gestionali. Sede di
tirocinio: Consorzio per l’Incremento delle Irrigazioni nel Territorio Cremonese, relatore ufficiale prof. Stefano Mambretti (Politecnico di Milano), tutor di tirocinio ing. Stefano Loffi.
3. Dott. ing. Marco Giansanti (Influenza della copertura nevosa sui parametri idraulici del bacino del fiume Adda). E’
stata analizzata l’influenza della copertura nevosa dei rilievi montani localizzati nel bacino imbrifero del lago di Como
sugli afflussi al lago nella stagione di scioglimento nevoso, utilizzando due metodi (sia mediante i dati Enel riguardanti il
calcolo dell’indice neve, sia utilizzando le immagini satellitari e ricavando le percentuali di copertura nevosa per ogni fascia altimetrica); è stato verificato che l’utilizzo di quest’ultimo metodo, integrato con le misurazioni puntuali di altezza
e densità nevosa, consente di ottenere una buona correlazione tra dati calcolati e misurati: il valore di correlazione infatti
sale da 0,34 con dati Enel a 0,65 utilizzando invece l’integrazione di immagini satellitari e misure puntuali. Sede del tirocinio: Consorzio dell’Adda, Milano, relatore ufficiale prof. Enrico Larcan (Politecnico di Milano), correlatore prof. Roberto Ranzi (Università degli Studi di Brescia), tutor di tirocinio: ing. Luigi Bertoli.
4. Dott. ing. Daniela Maestroni (Recupero energetico da acque di rogge e canali irrigui). Obiettivo dell’analisi è stata
l’individuazione delle modalità di recupero energetico, ottenibili in sistemi irrigui costituiti da rogge e canali, attraverso
piccole centrali idroelettriche; è stata quindi effettuata un’analisi economica per quantificare i possibili guadagni che sistemi energetici di questo tipo possono portare. Sede di tirocinio Dipartimento di Ingegneria Idraulica, Ambientale, Infrastrutture Viarie, Rilevamento del Politecnico di Milano, relatore ufficiale prof. Enrico Orsi (Politecnico di Milano),
tutor di tirocinio: prof. Enrico Orsi.
5. Dott. ing. Massimo Leardi (Valutazione delle condizioni attuali di sicurezza del sistema di flusso dei fiumi Adda,
Brembo e Serio nello studio di fattibilità della situazione idraulica promossa dall’Autorità di Bacino del Fiume Po). Sede di tirocinio Mwh S.p.A., via Caldera 21, Milano, relatore ufficiale prof. Stefano Mambretti (Politecnico di Milano), tutor di tirocinio: ing. Sergio Contorbia.
6. Dott. ing. Federico Michielotto (Analisi della distribuzione temporale e spaziale della dispensa a orario del Consorzio
Irrigazioni Cremonesi). L’obiettivo del lavoro è stato quello di creare uno strumento operativo per la previsione delle disponibilità idriche invasate nei canali principali della rete gestita dal Consorzio Irrigazioni Cremonesi, tenuto conto dei
prelievi in punti e in orari della rete stabiliti a priori, al fine di capire se la gestione attuale sia ottimizzabile dal punto di
vista del risparmio idrico. Sede di tirocinio Consorzio per l’Incremento dell’Irrigazione nel Territorio Cremonese, relatore ufficiale prof. Stefano Mambretti (Politecnico di Milano), tutor di tirocinio: ing. Stefano Loffi.
7. Dott. ing. Valentina Passoni (Approccio integrato alla pianificazione e gestione della risorsa idrica a scala di bacino).
Sede di tirocinio Tei S.p.A., Milano, relatore prof. Enrico Larcan (Politecnico di Milano), tutor di tirocinio ingg. Fabio
Taglioretti e Luca Del Furia.
8. Dott. ing. Angela Nadia Sulis (Progetto di gestione della rete dei canali del Consorzio Irrigazioni Cremonesi per la
attivazione di salti d’acqua disponibili ai fini idroelettrici). Lo studio ha valutato nuove configurazioni della rete irrigua
del Consorzio per l’Incremento dell’Irrigazione del Territorio Cremonese, per massimizzare la produzione di energia idroelettrica sfruttando antiche centraline, da riattivare insieme ad altri salti esistenti; accanto alle analisi per il dimensionamento degli impianti legate alle nuove portate in gioco, è stata effettuata un’analisi economico-finanziaria alla luce dei
nuovi scenari d’incentivazione per le fonti di energia rinnovabile. Sede di tirocinio Consorzio per l’Incremento
dell’Irrigazione nel territorio cremonese, Cremona, relatore ufficiale prof. Alberto Bianchi (Politecnico di Milano), tutor
di tirocinio ing. Stefano Loffi.
9. Dott. ing. Laura Tremolada (Studio degli effetti delle manovre alla paratoia sugli invasi degli utilizzatori). Le attività
del progetto hanno voluto fornire alcuni strumenti tecnici, analitici e propositivi, necessari alla valutazione degli effetti
delle manovre alla traversa di Olginate sugli invasi degli utilizzatori di valle, ricostruendo la dinamica in base a cui, in taluni casi, soprattutto nei periodo di magra dell’Adda si verifichino situazioni di buchi di portata in prossimità degli invasi
presenti lungo l’asta fluviale, in concomitanza di una manovra in riduzione di portata eseguita alla traversa di regolazione del lago di Como; da qui l’esigenza di evidenziare cause e modalità locali di manifestazione dei buchi di portata che,
sommandosi, possono creare situazioni di crisi reali dei sistemi idroelettrici (e non solo) posti più a valle. Sede di tirocinio Consorzio dell’Adda, Milano, relatore ufficiale prof. Enrico Larcan (Politecnico di Milano), tutor del tirocinio: ing.
Luigi Bertoli.
10. Dott. ing. Annalisa Vignali (Progetto di finissaggio delle acque reflue del depuratore di Mancasale della città di
Reggio Emilia per l’abbattimento dei nutrienti scaricati nel sistema idrico padano e per il recupero delle acque ai fini
irrigui). Lo studio ha riguardato la progettazione preliminare di un sistema di stagni biologici per il finissaggio degli effluenti relativi all’impianto di depurazione di Mancasale, con lo scopo principale del risanamento dei corpi idrici ricettori
dal torrente Crostolo al Po; tale intervento si può poi inquadrare nell’ottica di un futuro riutilizzo irriguo, nel periodo estivo, delle acque reflue depurate. Sede di tirocinio Consorzio della Bonifica Parmigiana Moglia-Secchia – Reggio Emilia, relatore ufficiale prof. Alberto Bianchi (Politecnico di Milano), tutor di tirocinio: ing. Salvatore Vera.
11. Dott. ing. Pietro Zenesi (Verifica dell’efficienza dei sistemi di gestione dei più modesti consorzi di irrigazione appartenenti al bacino dell’Adda). Sede di tirocinio Consorzio dell’Adda, Milano, relatore ufficiale ing. Priscilla Escobar (Politecnico di Milano), tutor di tirocinio ing. Luigi Bertoli.
Nell’Area delle Scienze agrometeorologiche è stata quindi discussa la seguente tesi:
1. Dott. Alberto Rainero (Analisi metodologica per la spazializzazione di parametri agrometeorologici ai fini della caratterizzazione di aree omogenee per il territorio agricolo piemontese). Il lavoro sperimentale, avvalendosi di dati pedoclimatologici, concerne l’ottenimento di una metodica orientata alla definizione di aree omogenee per il territorio piemontese in base a tre fasi principali: analisi geostatistica dei substrati informativi disponibili per il territorio piemontese;
analisi statistico-multiregressiva nelle aree omogenee individuate per estrapolare i coefficienti di correlazione tra variabili dipendenti meteorologiche e variabili indipendenti morfologiche; utilizzo degli algoritmi di interpolazione spaziale
calcolati per la spazializzazione dei campi di temperatura. Sede di tirocinio Consorzio per il Sistema Informativo (Csi)
Piemonte, Torino, relatore ufficiale dott. Lorenzo Craveri, correlatore dott. Federico Spanna, tutor di tirocinio dott. Enrico Bonansea.
Nell’Area delle Scienze economico-agrarie è stata poi discussa la seguente tesi:
1. Dott. arch. Maria Luisa Simonetta (Fattori critici di successo di un campione di aziende vitivinicole delle Langhe). Il
lavoro considera le variabili di tipo fisico-economico maggiormente incidenti per lo sviluppo di una media azienda vitivinicola attraverso lo studio di alcuni casi nelle Langhe piemontesi. Sede di tirocinio Dipartimento di Architettura e Pianificazione del Politecnico di Milano, relatore ufficiale prof. Flavio Boscacci (Politecnico di Milano), tutor di tirocinio:
prof. Flavio Boscacci.
L’Area delle Scienze del suolo ha fatto constatare la discussione delle seguenti tesi:
1. Dott. ing. Chiara Bonapace (La conoscenza del suolo per la corretta gestione della risorsa idrica. Confronto fra il
fabbisogno irriguo di alcune colture in differenti comprensori della Calabria). Questo studio ha riguardato la determinazione dei fabbisogni irrigui e il confronto con le disponibilità idriche per due diversi comprensori della Calabria, attraverso l’implementazione di un modello di bilancio idrico con ingresso di dati pedologici, climatici e di uso del suolo. Sede di tirocinio Arssa – Agenzia Regionale per lo Sviluppo e per i Servizi in Agricoltura della Regione Calabria, Servizio
Agropedologia, relatore ufficiale prof. Alberto Bianchi (Politecnico di Milano), tutor di tirocinio dott. G. Aramini, dott.
R. Paone.
2. Dott. agr. Maria Nunzia Cambareri (Utilizzazione del Sistema di supporto alle decisioni SuSap per la definizione, a
scala comprensoriale e aziendale, di strategie di trattamento fitosanitario sostenibili). E’ stato applicato ad alcune aziende
agricole lombarde il Sistema di supporto alle decisioni SuSap (Supplying Sustainable Agriculture Production), sviluppato dell’Ente Regionale Servizi all’Agricoltura e alle Foreste della Lombardia; con tale strumento è stato possibile individuare quali, tra le aree coltivate, fossero soggette al maggior rischio di inquinamento da fitofarmaci, suggerendo strategie
di trattamento fitosanitario meno impattanti sull’ambiente. Sede di tirocinio Ersaf, Ente Regionale Servizi all’Agricoltura
e alle Foreste della Lombardia, relatore ufficiale dott. Stefano Brenna (Ersaf Lombardia), tutor di tirocinio dott. Carlo
Riparbelli.
3. Dott. agr. Giovanna Fontana (Messa a punto di indicatori e modelli analitici di monitoraggio del rischio di desertificazione nella regione Sicilia). Il lavoro propone una metodologia analitica in grado di quantificare, attraverso una serie
di indicatori di tipo climatico, perdologico, vegetazionale, il rischio di desertificazione alla scala regionale nell’area applicativa costituita dalla Regione Sicilia. Sede di tirocinio Centro di Ricerca Casaccia – Enea, Roma, relatore ufficiale
prof. Carlo Maria Marino, tutor di tirocinio dott. Massimo Iannetta.
4. Dott. geol. Felice Michelotto (Metodologia di bilancio idrologico negli studi ambientali e del territorio). Il lavoro si è
sviluppato attraverso un’analisi delle più diffuse metodologie di bilancio idrologico all’interno di applicazioni ambientali/territoriali, con particolare riferimento alla geologia applicata. Sede di tirocinio Dipartimento di Architettura e Pianificazione del Politecnico di Milano, relatore ufficiale prof. Pier Luigi Paolillo (Politecnico di Milano), tutor di tirocinio
dott. Claudio Avanzati.
Sono poi state discusse le seguenti tesi di Master nell’Area delle Scienze agronomiche:
1. Dott. geol. Simone Lucchini (Studio di alcuni parametri fisici dei suoli del comune di Marcaria (Mn) in relazione agli
usi dei reflui zootecnici e allo stato delle acque superficiali). Le ripercussioni sulla qualità dei suoli e delle acque superficiali in seguito allo spandimento dei reflui zootecnici sono state analizzate in questo lavoro attraverso una serie di indicatori, discretizzati e interpolati nello spazio di indagine per verificare gli andamenti delle concentrazioni in relazione alla distanza dai punti di sversamento. Sede di tirocinio Tecnoterr S.r.L., Mantova, relatore ufficiale prof. Pier Luigi Paolillo (Politecnico di Milano), tutor di tirocinio dott. Marco Goldoni.
2. Dott. agron. Davide Mariani (Valutazione dell’applicazione dei Sistemi Informativi Territoriali nella gestione delle aziende agricole: Package Isaplan). Vengono inizialmente analizzati il grado di informatizzazione in agricoltura, i software disponibili, la propensione degli agricoltori all’uso degli strumenti informatici, il rapporto fra gli agricoltori e gli
enti pubblici; l’agricoltore è in continuo rapporto con le istituzioni per le richieste di finanziamento e autorizzazioni e,
perciò, un diffuso utilizzo degli strumenti informatici rende più agevole il flusso informativo; inoltre, le nuove tecnologie
permettono un continuo monitoraggio rendendosi utili e insostituibili per la salvaguardia ambientale e la tutela del territorio; da tale quadro emerge una particolare importanza dei Sit e della figura dell’agronomo nella diffusione di questi sistemi. Sede di tirocinio Confederazione Nazionale Coltivatori Diretti, Federazione Provinciale di Cremona, relatore ufficiale arch. Laura Meroni (Politecnico di Milano), tutor di tirocinio agron. Mara Malinverno.
Sono state infine discusse le seguenti tesi dell’Area delle Scienze del territorio:
1. Dott. arch. Ottavio Grossi (Modalità di ricezione del Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale di Piacenza
nella Variante generale al Prg di Castelvetro Piacentino). Il lavoro svolge un’accurata critica delle ricadute applicative
del Ptcp di Piacenza nella Variante del piano regolatore generale di Castelvetro Piacentino, soffermandosi particolarmen-
idrica (a partire da un metodo innovativo di bilancio idrologico negli studi territoriali, fino all’analisi della disponibilità idrica nella provincia del Verbano Cusio Ossola, approfondendo l’efficienza di regolazione
dell’Adda e la gestione dei bacini d’invaso di diversi utilizzatori, per concludere con uno studio di fattibilità
della sistemazione idraulica dei fiumi Adda, Brembo e Serio); b) una gestione sostenibile della risorsa idrica:
risparmio e usi plurimi delle acque (iniziando dall’acqua come risorsa limitata, nella disponibilità spaziotemporale della rete del Consorzio Irrigazioni Cremonesi, per considerare le modalità di gestione di una rete
irrigua a utilizzo promiscuo ancora nel Consorzio Irrigazioni Cremonesi, effettuando delle valutazioni sperimentali sul riuso delle acque reflue depurate nel caso cremonese, e considerando infine, per il riordino irriguo,
la sconnessione idraulica aziendale in un caso studio cremonese); c) un governo sostenibile dell’agricoltura:
l’interdipendenza delle risorse suolo e acque (dall’uso razionale della risorsa idrica e la rilevanza degli studi
del suolo nel calcolo dei fabbisogni irrigui in due comprensori calabresi, ai parametri agrometeorologici e caratterizzazione di bacini omogenei: uno studio dell’area piemontese, fino alla gestione sostenibile dei reflui
zootecnici in ambito comunale: un caso mantovano, e all’utilizzo del sistema di supporto alle decisioni SuSap
per il trattamento fitosanitario sostenibile); d) un governo consapevole del territorio: la conoscenza del parametro suolo (gli indicatori per la valutazione di sostenibilità dei processi urbanizzativi alla scala territoriale:
applicazioni in aree valtellinesi, le espansioni urbane e qualità dei suoli agricoli: il comportamento della pianificazione locale nell’area cremonese, le ricadute della pianificazione provinciale negli assetti locali: il caso di
Castelvetro Piacentino, l’analisi agronomica e la tutela dei suoli alla dimensione comunale: il caso di Mariana
Mantovana, l’applicazione dei Sistemi informativi territoriali nella gestione dell’azienda agricola: il package
Isaplan, la valorizzazione di una cava lombarda destinata all’abbandono).
Si tratta di contributi qualificati che indubbiamente si collocano nella direzione degli obiettivi occupazionali
del Master: l’attività professionale in studi e società di progettazione ambientale, con particolare riferimento
alla tutela delle risorse fisiche e alla pianificazione territoriale e ambientale; l’attività di consulenza a favore
di aziende private ed enti pubblici in materia di usi del suolo, distribuzione delle acque, bilanci ambientali delle risorse fisiche; l’attività pubblica negli enti locali, con funzione specialistica di monitoring delle risorse fisiche e di suggerimento di politiche di conservazione del suolo, dell’acqua e del territorio; l’attività dipendente, infine, nell’ambito di aziende pubbliche o private, enti o consorzi di bonifica per la gestione e la distribuzione delle acque.
te sulle analisi urbanistico/ambientali effettuate e proponendo modalità di opportune integrazioni analitiche attraverso
strumenti Gis. Sede di tirocinio Comune di Castelvetro Piacentino (Pc), relatore ufficiale prof. Pier Luigi Paolillo (Politecnico di Milano), tutor di tirocinio arch. Alessandro Amici.
2. Dott. ing. Santi Daniele La Rosa (Individuazione di indicatori appropriati per la valutazione degli andamenti urbanizzativi in relazione alla sostenibilità dei vincoli di natura insediativa imposti: il caso della Valtellina). Il lavoro si pone
l’obiettivo di costruire un modello analitico in grado di quantificare il grado di sostenibilità delle scelte insediative dei
piani regolatori comunali sulla base di un set di indicatori che tengano contemporaneamente conto delle sei differenti variabili: della compattezza delle forme urbane, del numero ed estensione dei nuovi nuclei urbanizzati, della dispersione insediativa, del consumo di suoli ad alta capacità d’uso, del rischio idraulico connesso a localizzazioni di nuove aree urbane in fasce d’espansione fluviale, delle pressioni sui sistemi naturali; l’area studio è costituita da una porzione del fondovalle valtellinese. Sede di tirocinio Dipartimento di Architettura e Pianificazione del Politecnico di Milano, relatore ufficiale prof. Pier Luigi Paolillo (Politecnico di Milano), tutor di tirocinio prof. Pier Luigi Paolillo.
3. Dott. Laura Mezzadri (Localizzazione delle espansioni urbane e qualità dei suoli agricoli. Un’analisi della pianificazione territoriale e urbanistica nella provincia di Cremona). Posto che il consumo di suolo è un esito dei processi insediativi in atto, determinati dalla competizione tra le esigenze urbane, le richieste di spazi dei nuovi modelli produttivi e il
ruolo marginale dell’agricoltura, la tesi ha analizzato la pianificazione territoriale e urbanistica nella provincia di Cremona, valutando le scelte localizzative delle espansioni urbane rispetto alla qualità dei suoli agricoli mediante il metodo
dell’analisi di idoneità territoriale. Sede di tirocinio Cedar (Centro di documentazione dell’architettura e del territorio),
Politecnico di Milano, relatore ufficiale arch. Marcello Magoni (Politecnico di Milano), tutor di tirocinio arch. Marcello
Magoni.
4. Dott. Elena Moggi (Le fasi di escavazione collegate al processo di rinaturalizzazione in un caso lombardo di cava).
La tesi ha individuato le principali opere da realizzare per garantire la stabilità dei versanti, a seguito dell’azione antropica (opere di cava) che ha determinato un’erosione accelerata della risorsa suolo; è stato studiato anche un modello di riqualificazione delle erosioni individuando le specie vegetali maggiormente idonee. Sede di tirocinio Dipartimento di Architettura e Pianificazione del Politecnico di Milano, relatore ufficiale prof. Alessandro Pittaluga (Politecnico di Milano), tutor di tirocinio prof. Alessandro Pittaluga.
5. Dott. agron. Massimo Pinelli (Metodi di analisi agronomica per classificazione aziendale in funzione delle tutele dei
suoli: un caso comunale lombardo). Sono stati presi in considerazione i diversi fattori pedoclimatici e socioeconomici
dell’area comunale e intercomunale di Mariana Mantovana (Mn), per capire la particolare situazione di una discarica
controllata di R.S.U. (in corso di ampliamento) situata in uno spazio al confine con altri comuni; è stata considerata la
possibilità di ampliare ulteriormente tale impianto per risparmiare lo scempio ad altri spazi non ancora coinvolti; sono
state avanzate proposte per mitigare l’impatto dell’impianto e per impiegare in diverso modo, valorizzandolo, il suolo
circostante. Sede di tirocinio Studio dott. agr. Marcellina Bertolinelli, Remedello (Bs), relatore ufficiale prof. Pier Luigi
Paolillo (Politecnico di Milano), tutor di tirocinio dott. agr. Marcellina Bertolinelli.
2. A conclusione, qualche parola sugli allievi del I ciclo 2002 del nostro master, la cui provenienza didattica è
stata fortemente caratterizzata dall’elevata quota di laureati in ingegneria (per l’ambiente e il territorio e civile) seguiti – nell’ordine – dai laureati in geologia, agraria, architettura, scienze ambientali, pianificazione territoriale urbanistica ambientale, scienze naturali.
Aree di provenienza degli allievi
Ingegneria
Agraria
Geologia
Architettura
Scienze ambientali
Ptua
Scienze naturali
Totale
N.
13
3
3
2
2
1
1
25
%
52%
12%
12%
8%
8%
4%
4%
100%
La provenienza accademica è risultata dominata (per quasi la metà) dai laureati del Politecnico di Milano, seguita dalle Università degli Studi di Milano, Piacenza (Cattolica), Bologna, Pavia, Torino, Palermo e Parma.
Ateneo di provenienza
Politecnico di Milano
Uni Milano
Uni Piacenza (Cattolica)
Uni Bologna
Uni Pavia
Uni Parma
Uni Torino
Uni Palermo
Totale
N.
12
3
2
2
2
2
1
1
25
%
48%
12%
8%
8%
8%
8%
4%
4%
100%
Nonostante l’età media relativamente giovane (per la più parte nati tra gli anni 1973 – 1975), il 68% degli allievi ha dimostrato di possedere pregresse esperienze lavorative, seppur brevi e/o occasionali, legate nella
maggior parte dei casi a società o studi professionali, ad ambiti universitari, alla pubblica amministrazione o
alla libera professione.
Età degli allievi (anno di nascita)
1976
1975
1974
1973
1972
Anteriore al 1972
N.
2
8
4
4
3
4
%
8%
32%
16%
16%
12%
16%
Collocazione in fasce d’età degli allievi
1976
1975
1974
1973
1972
Anteriore al 1972
Esperienze professionali
Società e studi professionali
Collaborazioni università
N.
9
3
%
36%
12%
Libera professione
Pubblica Amministrazione
Aziende
Nessuna
Totale
2
2
1
8
25
8%
8%
4%
32%
100%
Abbiamo anticipato prima che gli obiettivi formativi del Master sono stati finalizzati a costituire competenze
specifiche sui temi della conservazione del suolo, della pianificazione e gestione idrica e del miglior impiego
delle risorse suolo e acqua, nel quadro di uno sviluppo sostenibile e nell’ambito dei processi di pianificazione
territoriale; a tali finalità è stata quindi indirizzata l’offerta didattica, articolata nelle aree della modellistica e
ottimizzazione informatica (50 ore), delle scienze del territorio (70 ore), dell’economia e gestione aziendale
agraria (30 ore), delle scienze del suolo e climatico-agrometeorologiche (100 ore) e delle scienze idrauliche
(185 ore), corrispondenti a 435 ore di didattica frontale; alle attività didattiche si devono poi aggiungere i tirocini presso l’Ente Regionale di Sviluppo Agricolo della Lombardia, alcune Direzioni Generali della Regione
Lombardia, Consorzi di bonifica, alcune grandi aziende agricole, studi professionali, società di ingegneria, per
365 ore (il tutto pari a 800 ore complessive e 60 crediti formativi universitari).
In particolare, sono stati contemplavati i seguenti 15 insegnamenti: area dei modelli, ottimizzazione e informatica (Tecniche di ottimizzazione e trattamento informatico dei dati, 50 ore), area delle scienze del territorio (Organizzazione e pianificazione del territorio urbano-agricolo, 40 ore; Sistemi informativi territoriali e
basi di dati, 30 ore); area dell’economia e gestione aziendale agraria (Economia dell’azienda e delle attività
agricole, 30 ore); area delle scienze del suolo e climatico-agrometeorologiche (Pedologia generale, 20 ore;
Pedologia applicata e idropedologia, 20 ore; Climatologia e sistemi di monitoraggio, 20 ore; Meteorologia e
previsioni del tempo, 20 ore; Agroclimatologia, agrometeorologia e fenologia applicata, 20 ore); area delle
scienze idrauliche (Idraulica di base, 40 ore; Infrastrutture e reti, 25 ore; Bonifica e drenaggio del terreno, 30
ore; Irrigazione, 35 ore; Idraulica territoriale, 35 ore; Acque sotterranee, 20 ore).
Le ore dedicate alla didattica frontale sono state inoltre accompagnate da una serie di visite/escursioni per conoscere le realtà agro-aziendali del bacino produttivo cremonese, esemplificare sul campo temi e problemi
trattati nei moduli didattici, conoscere gli strumenti di piano relativi alle realtà ambientali, agronomiche e urbanistico/territoriali esistenti in ambito cremonese.
I docenti coinvolti nella didattica321 provenivano per lo più dai due soggetti organizzatori del Master, il Politecnico di Milano (Dei, Diap, Diiar) e l’Ersaf (Ente Regionale per i Servizi all’Agricoltura e alle Foreste della
Lombardia), insieme al contributo dell’Università Cattolica del Sacro Cuore nell’area dell’economia e gestione aziendale agraria; tali soggetti hanno reso disponibile una notevole esperienza e solidità scientifica, maturata in anni di ricerca e applicazioni di campo.
Provenienza dei docenti
Politecnico di Milano
Ersaf
Università Cattolica del Sacro Cuore
Esperti esterni
Totale
N.
9
5
2
1
17
%
53%
29%
12%
6%
100%
Particolare assistenza ha fornito il sito web del master (www.cremona.polimi.it/msa), a partire dai giorni precedenti ai colloqui di selezione fino ai giorni successivi alla discussione delle tesi; in particolare, le pagine
web322 si sono rivelate fonte insostituibile di informazioni generali sul regolamento del Master, sulle circolari
321
Hanno prestato attività didattica nel Master i seguenti docenti: proff. Giorgio Guariso, Federico Malucelli, Marco Trubian (Politecnico di Milano – Dipartimento di Elettronica e Informazione), Tecniche di ottimizzazione e di trattamento informatico dei dati; prof.
Pier Luigi Paolillo (Politecnico di Milano – Dipartimento di Architettura e Pianificazione), Organizzazione e pianificazione del territorio urbano-agricolo; arch. Laura Meroni (esperto esterno), Sistemi informativi territoriali e basi di dati; proff. Giovanni Galizzi,
Renato Pieri (Università Cattolica del Sacro Cuore), Economia dell’azienda e delle attività agricole; dott. Romano Rasio (Ersaf), Pedologia generale; dott. Stefano Brenna (Ersaf), Pedologia applicata e idropedologia; dott. Valeria Menichini (Ersaf), Climatologia e
sistemi di monitoraggio; dott. Gian Paolo Minardi (Ersaf), Meteorologia e previsioni del tempo; dott. Lorenzo Craveri (Ersaf), Agroclimatologia, agrometeorologia e fenologia applicata; prof. Enrico Orsi (Politecnico di Milano – Dipartimento di Ingegneria Idraulica, Ambientale e del Rilevamento), Idraulica di base; ing. Stefano Mambretti (Politecnico di Milano – Dipartimento di Ingegneria Idraulica, Ambientale e del Rilevamento), Infrastrutture e reti; prof. Alberto Bianchi (Politecnico di Milano – Dipartimento di Ingegneria Idraulica, Ambientale e del Rilevamento), Bonifica e drenaggio del terreno; Irrigazione; prof. Enrico Larcan (Politecnico di
Milano – Dipartimento di Ingegneria Idraulica, Ambientale e del Rilevamento), Idraulica territoriale; prof. Alberto Guadagnini (Politecnico di Milano – Dipartimento di Ingegneria Idraulica, Ambientale e del Rilevamento), Acque sotterranee.
322
Progettate e curate con gran perizia da Gianluca Attolini, della sede di Cremona del Politecnico di Milano, che qui intendiamo ringraziare particolarmente.
della presidenza e su comunicazioni varie, informazioni sull’orario e sul suo aggiornamento durante tutto il
periodo di attività del Master, materiale didattico (le dispense delle lezioni, particolari articoli segnalati, materiali esercitativi), segnalazioni di appuntamenti, convegni e corsi nei settori suolo/acqua/ambiente, links a
numerosi siti nei diversi ambiti scientifici d’interesse.
Le tipologie delle sedi di tirocinio323 sono riportate nella tabella seguente.
Sedi di tirocinio
Università e Enti di Ricerca
Comuni ed Enti pubblici
Consorzi idrici e irrigui
Società e studi professionali
Totale
N.
8
5
7
5
25
%
32%
20%
28%
20%
100%
Le tesi finali si sono infine articolate come segue:
Aree disciplinare delle tesi di Master
Scienze idrauliche
Scienze agrometeorologiche
Scienze economico-agrarie
Scienze del suolo
Scienze agronomiche
Scienze del territorio
Totale
N.
11
1
1
4
2
6
25
%
44%
4%
4%
16%
8%
24%
100%
Dei 24 allievi che hanno condotto a termine il Master, a cinque mesi di distanza (novembre 2002/aprile 2003)
dal conseguimento del titolo ben 21 hanno trovato occupazione (per l’88%) e, tra essi, solo 4 (l’11%) giudicano la propria attività lavorativa non inerente al percorso formativo del Master.
I 3 allievi disoccupati non hanno avuto finora offerte di lavoro congrue col proprio profilo professionale, e
sono impegnati in attività di carattere saltuario o in ulteriore formazione professionale.
La più parte degli diplomati di Master si è collocata in enti pubblici (in numero di 10), principalmente in agenzie strumentali delle Regioni (Arpa Lombardia, Ersaf Lombardia, Arssa Calabria), frazione preponderante
a cui s’affianca un’equa ripartizione tra libera professione (5 ex allievi) e aziende private, studi associati e società di ingegneria o architettura (6 ex allievi).
Il contratto più diffuso è quello di collaborazione coordinata e continuativa, come accade spesso nella libera
professione ma anche negli enti pubblici e nelle aziende private; in particolare, i quattro ex allievi indicati nella tabella successiva collaborano in studi di ingegneria e architettura.
I lavoratori dipendenti sono soltanto 2, entrambi collocati con un contratto di formazione e lavoro, dei quali
uno impiegato in un’Amministrazione comunale e l’altro presso un’associazione sindacale di categoria agricola.
Quasi tutti i diplomati di Master svolgono la propria attività lavorativa nella regione di provenienza, a parte i
due ex allievi siciliani che si sono fermati in Emilia Romagna e in Lombardia (con una collaborazione anche
in Sicilia); in alcuni casi si è verificato uno spostamento interprovinciale all’interno della stessa regione (da
Milano a Mantova, da Pavia a Sondrio, da Cremona a Milano e a Brescia, da Varese a Milano).
Un altro dato interessante riguarda il periodo di disoccupazione a partire dal periodo successivo al conseguimento del diploma di Master, da cui si rileva che 4 ex allievi hanno continuato a svolgere la propria attività libero professionale durante le attività didattiche e di tirocinio, e ben 8 ex allievi hanno trovato impiego prima
della fine del Master.
323
Sono inoltre stati avviati tirocini nelle seguenti sedi: Agenzia Regionale per lo Sviluppo e per i Servizi in Agricoltura della Regione Calabria, Catanzaro, (1); Azienda Energetica Municipale S.p.A., Cremona (1); Centro di Documentazione dell’Architettura e del
Territorio, Politecnico di Milano (1); Comune di Castelvetro Piacentino (1); Comune di Ponte Dell’Olio (1); Confederazione Nazionale Coltivatori Diretti, Federazione Provinciale di Cremona (1); Consorzio dell’Adda, Milano (3); Consorzio della Bonifica Parmigiana
Moglia – Secchia, Reggio Emilia (1); Consorzio per il Sistema Informativo, Regione Piemonte (1); Consorzio per l’Incremento delle
Irrigazioni nel Territorio Cremonese (3); Dipartimento di Architettura e Pianificazione del Politecnico di Milano (4); Dipartimento di
Ingegneria Idraulica, Ambientale, Infrastrutture Viarie, Rilevamento del Politecnico di Milano (1), Enea - Centro di Ricerca Casaccia,
Roma (1), Ente Regionale Servizi all’Agricoltura e alle Foreste della Lombardia (1), Mwh S.p.A., Milano (1), Studio dott. agr. Marcellina Bertolinelli (1), Tecnoterr S.r.L, Mantova (1), Tei S.p.A., Milano (1).
Si noti che ben 9 allievi sono stati impiegati laddove hanno svolto il tirocinio ma solo 5 vi sono rimasti, a due
mesi dal conseguimento del titolo.
Per gli allievi parzialmente soddisfatti o insoddisfatti, si sottolinea che alcuni hanno accettato un impiego, anche se non del tutto gratificante, per motivi economici o perché ritengono opportuno avere comunque
un’attività professionale.
Concentrando l’interesse sulla frazione di ex allievi occupati, si è valutato il livello di attinenza delle attività
lavorative con i temi del Master: la tabella successiva mostra come 8 diplomati si reputino impegnati in attività molto inerenti o inerenti ai temi trattati, mentre la maggioranza (9) si dichiara impegnata in attività solo
parzialmente inerenti.
I 4 allievi occupati in attività non inerenti lavorano nel campo della sicurezza nei cantieri, della certificazione
ambientale, nella collaborazione alla didattica universitaria e in un esercizio commerciale.
È stato chiesto agli ex allievi in quale area didattica del Master ritrovano inerenza rispetto alla successiva occupazione, e i risultati sono indicati nella figura successiva: si ottengono 33 pareri poiché le risposte possono
essere multiple, e le aree tematiche che maggiormente sono reputate inerenti alla attuale attività lavorativa sono rappresentate da quella territoriale (14 preferenze) e idraulica (10), seguite dall’area pedoclimatica (8) e
modellistica (1).
E’ stato chiesto infine ai 21 allievi occupati in quali modi ritenevano che il Master avesse influito sulla loro
attuale occupazione, e i risultati sono esposti nell’ultima figura.
Soltanto 4 ex allievi reputano che il Master non abbia contribuito e non contribuisca in alcun modo alla propria attività professionale, mentre gli altri 17 ritengono che abbiano avuto luogo differenziati livelli
d’influenza, dall’elevazione di livello dei loro curricula ai contatti intrapresi durante il Master, dall’aumento
della loro competenza professionale fino alle risultanze scientifiche ottenute nella tesi.
Anche in questo caso, ogni ex allievo ha avuto la possibilità di esprimere più d’una preferenza.
L’aumento di competenza risulta il fattore più influente per l’attività professionale (dato, questo, d’estremo
interesse specie nell’attuale momento di crisi del mercato del lavoro), accanto alla rilevanza del titolo nel curriculum; e – nonostante il recente moltiplicarsi della formazione universitaria post lauream – da taluni il titolo
di Master conseguito nel Politecnico di Milano è percepito al pari del dottorato, ma con un’impostazione più
centrata sulle applicazioni.
Il terzo fattore influente in ordine d’importanza è quello dei contatti: sia attraverso l’ente/azienda ospitante
durante il tirocinio, sia attraverso il Politecnico di Milano, sia attraverso gli stessi allievi s’è stabilita una rete
di relazioni stabile, incentrata sui temi del Master e tuttora decisamente attiva; la provenienza eterogenea degli allievi (e le loro complementari competenze, attitudini e figure scientifiche per nulla in competizione)
hanno rappresentato il punto di forza di tale rete, oltre alla solidarietà tra gli allievi che, già nel corso del
Master, hanno formato un gruppo assai compatto e solidale.
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