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Terra mia
il furore dei libri editore
Pământ cu roti de cauciuc
Tutti i testi sono stati ceduti dai rispettivi autori a
“Il Furore dei Libri”
e qui sono pubblicati secondo i termini della
licenza Creative Commons (Non commerciale 2.5)
Il progetto grafico e l’ impaginazione sono di Renzo Galli (Il Furore dei Libri)
La copertina è di Bruno Zaffoni (Il Furore dei Libri)
© 2013\Il Furore dei Libri Editore
Rovereto, Corso Bettini 43 - www.ilfuroredeilibri.org
Țara mea de glorie, țara mea de dor...
Pământul țării mele
călcat în fiece zi în picioare încălțate
și de roți de cauciuc
călcat fără milă și fără nici o conștiință
îți dedic
cuvântul
Pământul meu
cu glorie mare și oameni
mărunți
Țărână care nu se mai transformă în lut
ci în asfalt
Ieri copiii te-au iubit
azi ar vrea să te abandoneze
ca să înfieze alte țări
Și vin străini pe tine să te înfieze
Peste cernoziom
șoseaua ne face cale
ca să nu ne mai bătătorim călcâiele
ne alinți ca pe niște motani
care fug nopțile afară pe fereastră
sătui și chemați de vocea unei fete morgana
O zi bună țara mea
o zi bună
o zi
bună…
Diana Ungureanu
3
Terra mia gloriosa, Terra mia cara...
Terra della mia Patria!
Calpestata, giorno dopo giorno,
da pesanti scarpe
e da ruote di gomma.
Dedico a te
queste parole:
Terra mia
piena di gloria e di gente
miserevole.
Terreno che non si trasforma mai in argilla
ma in asfalto.
Ieri i tuoi figli ti hanno amato,
oggi ti vorrebbero abbandonare
per adottare altre terre
e stranieri vengono a prendersi cura di te.
Sul tuo suolo fertile,
una strada asfaltata
ci permette di camminare senza rovinarci i piedi,
ci vizi come dei gatti...
che di notte scappano dalla finestra...
sazi ed attratti dalla voce di una fata morgana
Buona giornata, Terra mia.
Buona giornata.
Buona
giornata...
traduzione di Olga Irimciuc
4
Indice
Terra con le ruote di gomma
Presentazione10
Prefazione12
Introduzioni13
1. Gregory Alegi — Henry Farman
20
2. Livia Alegi — Un sogno bruciato
22
3. Meriam Al-Ghajariah — Plurale
24
4. —
25
5. Giorgio Anastasio — Il vecchio e il muro
28
6. Andrea Angiolino — Tornerò di sicuro
30
7. Wallace Armani — Verwaist e gli spiritelli del bosco
Wallace Armani — Verwaist e os espíritos da mata
32
33
8. Fabio Baldi — Cercando terra
36
9. Rossella Baldi — In fondo al lago
38
10. Livio Bauer — This Hard Land
40
11. Elena Belotti — Dalla valigia di cartone al trolley
42
12. FeBe — Il germoglio è il mio orgoglio
44
13. Margherita Berlanda — Vista dall’alto
46
14. Italo Bonassi — Ho fatto un sogno
48
15. Luigi Brasili — Fango
50
16. Roberto Caprara — Astronauta
52
17. Vittorio Caratozzolo — Per aequora vectus
54
18. Giuseppe Carmeci — Tripoli bel suol d’amor natio
56
19. Carla Casetti — Un fazzoletto... 58
20. Matteo Cermusoni — Magari fiorisse il cielo
60
21. David Cerri — Due nostalgie
62
22. Matias Cimadon — Immigrante del mondo
64
5
Matias Cimadon — El inmigrante del mundo
65
44. Ornella Fait — Lucciole
116
23. Ramona Corrado — Sogno di una notte...
68
45. Gabriele Falcioni — Dipinti nella sabbia
118
24. Diana Crispo — La scoperta 70
46. Guido Falqui-Massidda — Le zucche
120
25. Nives Cristoforetti — Terra
72
47. Lidia Filippi — Poesia per la mia terra
122
26. Pelagio D’Afro — Colori
74
48. Gilberto Gagliardi — Ricordi di fanciullo
124
27. Livio Dalpiaz — Le grandi mani di Dario
76
49. Davide Galati — Anniversario
126
28. Davide Daniele — Air Jordan
78
50. Francesca Garello — Tre chili
128
29. Susanna Daniele — Deriva e approdo
80
51. Karin Gelten — Il mio paese incantato
30. Igor De Amicis — Verso casa
82
Karin Gelten — Mi país encantado
130
131
31. Marcello De Santis — Il pratosangiovanni
84
52. Vanessa Giolitti — L’ incontro
134
32. Margherita De Simone — Vient’ ’e mare
86
53. Giuseppe Gottardi — Marte mio
136
33. Patrizia Debicke van der Noot — La canzone
88
54. Marco Guarnieri — Splendore
138
34. Martina Dei Cas — La piazza degli specchi
90
55. Luigi Guicciardi — Un commissario, una città
140
35. Gian Luca Del Marco — Incanti di viaggio
92
56. In-pagina — Terra d’accoglienza
142
36. Emanuele Delmiglio — Lontano dal mare
94
57. Norberto Julini — Le noci di Al Mansura
144
37. Joselina Destefani — La Figueira della mia terra
96
58. Marisa Lanzerotti — Mari&monti
146
Joselina Destefani — A Figueira de minha terra
97
59. Gordiano Lupi — La mia Baratti
148
38. Giorgio Diaz — La mia terra è il mare
100
60. Paola Malcotti — Ceneri...
150
39. Alessandro Disertori — Come le radici dell’ acacia
102
61. Carla Mannarini — A terre unite
152
40. Peter Disertori — Nostalgia
104
62. Giacomo Manzoni di Chiosca — L’ orto
154
41. Danuta Dobkowska — Quale terra?
106
63. Angelo Marenzana — Sepolti vivi
156
107
64. Tiziana Margoni — Confine158
110
65. Donato Marinello — La terra del re
160
111
66. Caterina Rosa Marino — A terra
162
114
67. Miriam Marino — Clandestino
164
Danuta Dobkowska — Która ziemia?
42. Dorina Dumbravă— Moldova - Patria mia
Dorina Dumbravă— Moldova - Patria mea
43. Anna Maria Ercilli — Colpo di vento
6
7
68. Nadia Mariz — Cartolina dal fronte
166
89. Emma Saponaro — Il sapore dolce del Salento
216
69. Carlo Martinelli — La canzone perfetta
168
90. Sarcitana — Un piccolo angolo... 218
70. Maria Grazia Masciadri — Punti di vista
170
91. Giovanna Sartori — Terre diverse
220
71. Rita Mazzon — Il colore dei ricordi
172
92. Marco Savarese — Fuori tema
222
72. Marta Minervino — L’ albero solitario
174
93. Barbara Scovoli — Radici 224
73. Armando Mondin — Tra cielo, terra e acqua
176
94. Catia Simone — Maggio
226
74. Noemi Nappo — Vedi Napoli e poi muori
178
95. Mirta Slomp — Il mio bosco
228
180
Mirta Slomp — El me bosc
229
181
96. Abdelmalek Smari — Briru
232
75. Fabio Novel — Athdeu
Fabio Novel — Athdeu
76. Rahma Nur — Le radici nascoste in me
Rahma Nur — Xididdada dhaxdeeyda ku qarsoon
77. Gloria Odorizzi — Quando ero giovane
Gloria Odorizzi — Conti de cando ero giona
184
—
233
185
97. Andrey Josè Taffner Fraga — Il mio “Vecchio Cedro”
236
188
Andrey Josè Taffner Fraga — El me “Veccio Cedro”
237
189
98. Anna Tava — Campo metropolitano
240
78. Laura Oreglia — Terra d’ombra
192
99. Giorgio Tosini — Da dove vieni?
242
79. Riccardo Ozog Francesconi — Vorrei poterti chiamare...
194
100. Adelina Valcanover — Zio Merico
244
80. Luisa Pachera — 14 agosto 1914, venerdì
196
101. Marco Vallarino — Piedi nudi, mani armate
246
81. Morena Pedrotti — Promesse violate
198
102. Laura Vignali — A mia nipote Chiraz Sofia
248
82. Marinette Pendola — Omaggio alla moribonda
200
103. Vittorio Vulcan — La baita
250
83. Snežana Petrovic — Il paese che non c’è più 202
104. David Wilkinson — Cornovaglia
252
105. Fulvio Zanoni — Piazza delle Oche e del Nettuno
254
256
Снежана Петровић — ЗЕМЉА КОЈЕ ВИШЕ НЕМА203
84. Biagio Proietti — Il ritorno
206
106. Paolo Ziino — Un emigrante dell’Ottocento
85. Giuliana Raffaelli — Andar per valli
208
107. Antonio Angelo Zurlo — I contadini
258
86. Giorgio Ragucci Brugger — Terra, terra!
210
259
262
87. Michela Rigotti — Terra virtuale
212
Antonio Angelo Zurlo — I contadini
Gli autori
88. Rossella Saltini — Carapace migrante 214
Ringraziamenti287
8
Presentazione
A
nche quest’anno con il tema “Terra mia” Il
Furore dei Libri promuove l’interesse ed il piacere verso la lettura stimolando negli autori
invitati la consapevolezza che chi legge possa arricchire le proprie conoscenze pensando “al plurale”, condividendo saperi e culture, con l’obiettivo ultimo di permettere al lettore di comprendere meglio se stesso e i propri
sentimenti.
L’antologia, con i suoi 101 racconti brevissimi, vuol
raggiungere tutti i lettori, sia quelli che amano leggere molto, sia quelli che per vari motivi leggono meno. Si
propone inoltre alle diverse età ed è anche per questo che
tra i propri autori adulti e professionisti nasconde dei
giovanissimi che hanno scoperto il piacere della scrittura. Non dimentica nemmeno i lettori di altra nazionalità
e per loro propone un bel gruppo di scrittori di altro idioma, dando così ai cittadini di Paesi Terzi l’opportunità
di partecipare pienamente alla vita della nuova comunità in cui son venuti a trovarsi.
Per un doveroso tributo alla nostra terra Trentina abbiamo invitato i figli dei nostri emigranti a scrivere il loro racconto sia in italiano che nella lingua del Paese dove vivono. E qui le sorprese non sono mancate. La prima
è quella della risposta immediata e numerosa, la seconda
è quella di trovarsi di fronte non tanto all’italiano ma al
nostro antico dialetto trentino conservato per generazio-
ni. Ma lasciamo ai lettori il piacere della scoperta.
Tutto questo ha comportato un grande ed impegnativo
lavoro alla redazione ed alla giuria, formata da elementi
di diverse età ed esperienza dislocati in Trentino, Veneto,
Piemonte e Lombardia. Tra di essi abbiamo i ragazzi di
due classi di istituti superiori, un bibliotecario, una giornalista, due insegnanti, la redazione di una casa editrice, un direttore di biblioteca, un assessore all’istruzione,
il rappresentante de Il Furore dei Libri.
Tante persone collaborano al progetto di Parole per
Strada ed è con tanto affetto che ringrazio il Direttivo, la
Commissione organizzatrice e gli Autori, che ormai sento tutti amici, ma il mio sentimento di riconoscenza va
soprattutto a chi per primo ha riconosciuto valido questo progetto sostenendo la nostra associazione e partecipando direttamente all’evento col suo impegno personale o istituzionale.
Ringrazio inoltre le Istituzioni che con il loro contributo economico hanno permesso che questo progetto
continui nel tempo ed è grazie anche a loro se Parole per
strada è giunta alla quarta edizione.
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11
MariaLuisa Mora
Presidende de Il Furore dei Libri
Giovanna Sirotti
Assessore alla condivisione dei saperi del Comune di Rovereto
Introduzioni
Prefazione
N
on è impresa semplice la scrittura di un racconto
breve. Occorrono spiccate capacità di sintesi, di
rapida delineazione dei soggetti e di sicura eliminazione del superfluo, occorre una forte padronanza linguistica che eviti ogni vizio stilistico.
Un buon racconto è “soprattutto privazione”, suggerisce,
confida nel lettore per completare i particolari tralasciati,
suscita emozioni.
Tutto un non-detto che genera forte complicità tra l’autore e il lettore indotto a completare, a sua discrezione, quanto solo accennato.
L’incipit stesso, tralasciando introduzioni esplicative, fa
entrare, ex abrupto, in medias res, come dice Calvino.
Così come la conclusione può essere una non-fine, oppure
aprire a infinite soluzioni: corrispondenza inquietante con
la mancanza di certezze e il disorientamento dell’uomo d’oggi. Ancor più, se il racconto deve catturare l’attenzione di chi
cammina!
Parole per strada lancia questa sfida: dare gambe alle parole perché rincorrano il passante e lo catturino invogliandolo a leggere.
A
settembre di questo anno ho incontrato il Furore dei
Libri e il Concorso Parole per strada. Con gentilezza sono stata convinta a partecipare, con la mia classe, in
qualità di giurati, al concorso letterario. È stata questa un’esperienza che ha arricchito la mia persona e mi ha fatto crescere
professionalmente.
Ho sempre amato insegnare letteratura italiana nonostante le
molte difficoltà incontrate soprattutto a causa dello scarso interesse e motivazione che molti studenti di oggi dimostrano nei
confronti della materia. Anziché scoraggiarmi questa è stata per
me una sorta di sfida. Il mio scopo è stato, ed è tuttora, quello di
cercare di far capire come, attraverso la lettura gli studenti possano arricchire la loro cultura personale, consolidare buone capacità e competenze linguistiche, acquisire una capacità critica
e un’autonomia di pensiero e, non da ultimo, sentirsi, per una
volta protagonisti.
Parole per strada mi ha permesso di fare tutto ciò.
La consapevolezza che la scuola italiana sta vivendo un momento delicato, la convinzione che la scuola deve essere antropocentrica, il mio personale timore di “addormentare gli alunni”
mi hanno spinta ad accettare la sfida. Il lavoro è stato impostato
in modo da sviluppare l’autonomia di lettura e di analisi, il confronto e la discussione, e, non da ultimo, la responsabilità di emettere un giudizio. Credo che tutto ciò li abbia arricchiti e li abbia fatti sentire partecipi di una bellissima esperienza culturale.
Grazie Furore dei Libri!
Lucia Debiasi
Docente presso il Liceo Linguistico «A. Rosmini»
Rovereto
12
13
14
Introduzioni
Introduzioni
I
l tema di quest’anno, Terra mia, si presta magnificamente alla metafora. Certo, in molti di questi racconti c’è la terra nel senso più letterale del termine: la campagna, sfondo frequente di un’infanzia mitizzata, e insieme
marca di appartenenza a generazioni ormai al tramonto. Il
mondo rurale, da cui pure tutti proveniamo, appartiene alla
memoria di chi ha vissuto gli anni arcaici tra le due guerre,
quelli di privazione tra secondo conflitto mondiale e dopoguerra, fino alla ricostruzione e al boom economico che ha
accelerato la fine del mondo agricolo ancestrale.
Mondo arcaico e arcadico, la campagna compare in questi racconti sovente attraverso l’immagine dell’albero, emergenza ineludibile nella memoria di un’infanzia a contatto
con la natura per quanto ostile e dura, ricordata oggi con
nostalgia. Da quest’Arcadia rurale si deve fuggire per la fame, per la miseria, per la mancanza di prospettive di lavoro: l’emigrazione appare così sullo sfondo di molti racconti.
La guerra – quella mondiale per gli scrittori italiani, quelle balcaniche o africane più recenti nell’esperienza di alcuni narratori stranieri – è insieme ricordo epocale e momento traumatico di rottura. La guerra talvolta segna la fine del paesello d’origine, talvolta la fine della Patria stessa.
L’emigrazione dai Paesi africani o asiatici o dell’Est europeo
diventa – nella prospettiva del lettore italiano – immigrazione; e il grande tema virgiliano del dulcia linquimus arva
si conferma eterno, universale.
Ma, come detto al principio, molti autori di questi racconti (talvolta bozzetti, talaltra mere considerazioni che esulano dalla forma narrativa) hanno scelto di interpretare Terra
mia in chiave metaforica; e piace ricordare l’albero solitario del racconto omonimo: in un cerchio che si chiude, si
torna alla natura dell’infanzia, alla campagna, da dove eravamo partiti… Da dove tutti siamo partiti.
≥
I sedici ragazzi e ragazze che hanno accettato di leggere e valutare i racconti fanno tutti parte della classe 2 B del
liceo classico “Concetto Marchesi” di Padova: frequentano
il quarto anno e quindi stanno entrando uno dopo l’altro
nella maggiore età. Essi sono stati selezionati su un gruppo
più ampio di 27 studenti, o, per meglio dire, si sono autoselezionati: infatti il primo criterio proposto dal docente per
l’ammissione alla giuria era il semplice desiderio di farne
parte. Un’esperienza nuova per tutti, visto che a scuola sono
solitamente oggetto di valutazione (temi, verifiche, versioni, test ed elaborati vari) e non giudici attivi di produzioni
altrui, se si eccettuano le “analisi del testo” inevitabilmente
somministrate loro dai docenti in vista dell’esame di Stato.
L’impegno è stato necessariamente casalingo, in quanto non
era possibile né opportuno, con buona parte della classe
non partecipante, utilizzare le ore curricolari per organiz-
15
Stefano Tonietto
Docente presso il Liceo Classico “C. Marchesi”
Padova
La II Liceo Classico B
Istituto di Istruzione Superiore “Concetto Marchesi”
Padova
Andrea Agbariah – Luca Barin – Elena Bortolato – Rebecca
Ciriolo – Beatrice Fenato – Diletta Filippi – Giulio Fornaciari –
Lorenzo Iannuzzi – Elena Lucchetta – Alberto Michielon –
Laura Piva – Orysya Ratalska – Sofia Testa – Giulia Tiberio –
Martina Tripaldi – Catalina Turuta
16
Introduzioni
Introduzioni
zare e seguire il lavoro; similmente, il lavoro è stato condotto in modo individuale, senza particolari momenti di condivisione di pareri e giudizi. In pratica, ogni studente ha lavorato come singolo giurato, in base ai propri gusti e alla
propria esperienza di lettore, benché il giudizio espresso dal
gruppo sia stato poi sintetizzato in un’unica tabella.
Q
uando ci è stato proposto di partecipare al concorso “Parole per Strada” come giuria, entusiasti abbiamo subito accettato poiché ci è sembrata un’esperienza nuova e diversa dalle altre. Essendo abituati ad essere noi giudicati abbiamo colto l’occasione per capire cosa si prova a stare dalla parte di chi valuta. Ci siamo resi
conto che giudicare è più difficile di quanto si possa pensare,
infatti abbiamo incontrato alcune difficoltà poiché dare giudizi implica una grossa responsabilità. Anche l’organizzazione non è stata semplice dato che le opinioni erano molte e abbastanza contrastanti.
Ma nonostante questo è stato soddisfacente riuscire a gestire tutto da soli, senza aiuti da parte dell’insegnante.
È stato bello vedere come i partecipanti hanno interpretato in modi diversi il tema di quest’anno, riferendosi alla propria terra d’origine, altri ad un punto fermo della loro vita,
quali un oggetto o una persona. La lettura dei racconti è stata
scorrevole e piacevole e alcuni che ci hanno particolarmente
coinvolto, ci hanno portato a dibattiti e discussioni in classe.
Siamo comunque convinti che sia stata un’esperienza molto positiva e costruttiva che ci ha aiutato a migliorare la nostra capacità critica e organizzativa; per questo alla domanda: “Lo rifareste?” risponderemmo all’unanimità “Sì!”.
Un racconto che mi ha particolarmente colpito è L’albero
solitario dove un uomo racconta la sua vita, paragonandosi ad un albero, che “ha visto morire la speranza di un
17
18
Introduzioni
Introduzioni
verde futuro in cui affondare le radici” e che dopo aver già
dato tutto non ha più nulla da offrire, ma che nonostante
ciò, è riuscito a trovare un posto al sole dove stabilirsi: la
sua terra. Questo racconto richiama una realtà purtroppo
presente e diffusa al giorno d’oggi, e anche se consapevole
di questo fatto, leggere questo racconto mi ha comunque
impressionato. (Erzana)
Tra i racconti che più mi hanno colpita, c’è Sepolti vivi, in
cui il protagonista Nadir lascia la propria patria in cerca di
fortuna. Il finale non è specificato, ma si riesce a capire che
non ha un lieto fine e, aggiungendoci l’ottima fruibilità, posso affermare che ha avuto un forte impatto sulla mia sensibilità. (Andrea)
Nonostante la varietà di racconti, alcuni mi hanno trasmesso maggiore emozione poiché da questi trapelava
con più sentimento l’amore e il rispetto per la propria terra. (Rachele)
Nonostante il racconto Briru non sia piaciuto a molti, mi
ha colpito per il suo finale triste e mi ha dato la consapevolezza che ci sono persone nel mondo che sono alla ricerca di uno spiraglio che possa salvarli dalla crudele realtà in
cui vivono. (Giulia)
Uno dei racconti che più mi ha colpito ed emozionato è
14 agosto 1914, venerdì in cui l’autore riesce a farmi rivivere emozioni che il personaggio prova, descrivendo l’abbandono forzato della propria terra. Un uomo costretto a la-
sciarla per salire su un treno, non sapendo quale sia la destinazione, consapevole solo del fatto che segnerà la fine
della propria vita. (Caterina)
Personalmente mi ha molto commossa il racconto
Clandestino, in quanto il protagonista esprime le sofferenze delle sue speranze deluse, affrontando il problema della mancanza di lavoro, che proprio in Italia colpisce molti
giovani. Nel brano infatti egli si paragona ad un cane randagio, il quale le sere viene morso dalla nostalgia e che con
il passare del tempo sparge il suo cuore in ogni parte del
mondo. (Carolina)
Mi ha colpito molto il racconto intitolato Il pratosangiovanni nel quale l’autore, con grande fruibilità, ha definito la
sua terra attraverso una semplice immagine in cui dei ragazzini facevano della birra con della liquirizia; un particolare ricordo della sua infanzia in perfetta attinenza al tema. (Jessica)
La III Linguistico B
Liceo «Antonio Rosmini» Rovereto
Erica Amistadi – Giada Andreolli – Andrea Bisoffi
Marta Bottesi – Emily Calabri – Carolina Cestarollo
Giulia Ciaghi – Giuseppe Francesco D’Amato – Martina Demozzi
Beatrice Francesconi – Erzana Hallidri – Jessica Martinelli
Denise Pancot – Alice Prandi – Layla Ulivieri – Caterina Viesi
Rachele Zambelli – Giorgia Zenatti
19
Gregory Alegi
Henry Farman
I
l pilota non può scordare il primo volo.
La tecnica: i controlli, l’inutile bollettino meteo, l’odore della benzina.
Le persone: l’istruttore che scende e batte una
pacca sulla spalla, la fidanzata alla quale non hai
detto nulla, l’operatore in torre che attraverso una
cuffia gracchiante dice «India Golf Romeo Echo
Golf autorizzato al decollo».
Le emozioni: staccare l’ombra da terra, ma soprattutto riportarcela mezz’ora dopo.
I riti: dal ruotino bagnato per scaramanzia alla secchiata d’acqua (o il tuffo, se c’è una fontana)
all’atterraggio.
Tanti sogni e addestramento trasformati in data
indimenticabile, come nascita o matrimonio.
È così da oltre un secolo per tutti. Fingere che
non sia stato così anche per me sarebbe stupido o
arrogante o le due cose insieme.
Però la cosa che mi colpì di più non l’ho mai
detta a nessuno. Quando, superata la sorpresa di
essere ancora vivo, distolsi lo sguardo dagli strumenti e guardai fuori, il mondo mi apparve in un
modo che non avevo mai provato da passeggero
o con l’istruttore: per la prima volta tutto intero.
Aprii gli occhi e alzai sulla fronte gli occhiali da
sole. Inclinai con prudenza le ali e abbozzai una
dolce virata. Case, strade, monti, boschi, auto blu
e rosse sul nastro grigio di una strada che correva chissà dove.
Spettacolo meraviglioso, ma con qualcosa fuori posto. Temendo di essermi perduto, confrontai
la terra con la mappa ripiegata. E feci la mia prima scoperta di aviatore: dal cielo non c’è traccia
di confini.
20
21
Livia Alegi Un sogno bruciato
M
i ricordo il mio primo libro. Era L’ Isola
del Tesoro, di Stevenson. Avevo dodici anni. Fu questo libro che mi spinse a
collezionarne tanti fino al punto di fondare una biblioteca, anche se con fatica, all’ età di trent’ anni.
Era piccola la biblioteca. I libri erano accatastati e riempivano ogni angolo. Tutti apprezzavano il
mio sforzo: ero l’ unica bibliotecaria in una biblioteca da cinquemila libri. Non era facile.
I libri aumentavano, sia per studio che per piacere. Ma L’ Isola del Tesoro era sempre lì sulla mia
scrivania e faceva da sentinella nel mio regno.
Era il più vecchio libro della collezione e ne andavo fiera.
Era tutto a posto nella nostra piccola città.
Tutto andava bene.
Poi arrivò un inverno terribilmente freddo. Molti non superarono la stagione, ma io ero
al caldo e al sicuro nella biblioteca, lontana dai
pericoli.
Finché non arrivò la guerra. Il nostro villaggio
non la sentì quasi, se non come un fuoco d’ artificio o un tuono distante.
Un giorno del 1944 arrivarono cinque uomini
in grigio. Per giorni si aggirarono, apparentemente pattugliando, ma in realtà cercavano qualcosa.
Libri.
Era il dodici novembre quando entrarono
ridendo.
— Questo – il più vecchio dei cinque prese L’ Isola
del Tesoro – è inutile. Possiamo bruciarlo.
Lo passò ad uno dei cinque che mi prese per
un braccio e mi trascinò fuori. Una mezz’ ora dopo, l’ intera biblioteca era lì.
— Il Führer vuole che tutti i libri vengano bruciati. E così sarà.
Ecco. L’ avevano fatto. Avevano bruciato la mia
terra.
22
23
Meriam Al-Ghajariah Plurale
T
erra mia: dove il nonno di mio nonno di
mio nonno piantò questi ulivi.
Terra mia: conquistata con il sangue degli
eroi e protetta da alti bastioni.
Terra mia: profumi di casa e suoni chiari della mia lingua.
Terra mia: percorsi lungo piste che solo io conosco, e solo la sete e il sonno mi sono limite.
Terra mia: comprata a prezzo vantaggioso
da un manipolo di ambiziosi incapaci.
Terra mia: l’alta scogliera che abbraccia il
porto da cui partire alla conquista dei mari.
Terra mia: dove scorre il mio sudore e guadagno il mio pane.
Terra mia: il mio orto, le piante curate con
amore sul balcone quando le gambe non possono portarmi più lontano.
Terra mia: il profilo delle montagne che circondano la mia valle.
Terra mia: novecentomila ettari e due mi24
25
liardi di fatturato.
Terra mia: quella che si appoggia sulle mie
ossa, sotto la lapide che ricorda il mio nome.
Terra NOSTRA: rubata, lacerata, sfruttata.
Unica e indivisibile. Amata.
26
27
Giorgio Anastasio Il vecchio e il muro
I
l campetto non era poi tanto male. Chissà come era avanzato quello spiazzo di terra marcia tra i palazzoni decrepiti.
Una domenica certi ridicoli volontari del centro città c’avevano pure tolto le siringhe e discaricato una panchina, ma i ragazzi più grandi l’avevano sfasciata subito e ora la usava solo il vecchio.
Io come tutti gli incapaci giocavo in porta e siccome quelli del palazzo mio erano forti m’arrivava un tiro (e un gol) ogni secolo, e avevo tutto
questo tempo qui per guardarmi intorno. E così
mi spizzicavo il vecchio.
La cosa che mi straniva era che stava sempre
a fissare verso un muro tutto graffitato abbastanza alto da non fare vedere aldilà. Niente paesaggi infiniti e robe così. Solo quel muro. Mica ci vedeva attraverso?
Per un po’ ho sospettato che si toccasse guardandoci il culo con uno specchietto. Invece no.
Stava solo teso verso l’avanti, come una vedetta
che scruta l’orizzonte, tanto che la bava gli formava una pozza tra i piedi.
Una volta l’ho sentito che parlava da solo.
Allora un’altra volta ancora ho mandato la palla proprio vicino a lui e gli ho detto scusi la palla
e giuro che gli ero a un metro ma non faceva caso a me e sbavava e biascicava e fissava il muro.
Era il vecchio più vecchio del mondo. E ripeteva questa frase: quella era la mia terra.
Me ne sono scappato in mezzo agli altri.
La sua terra che? Mica c’è la terra al di là del
muro.
Ci sta il mio palazzone che è sempre stato là,
già da quando sono nato io e cosa vuole che ci
fosse prima?
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Andrea Angiolino
Tornerò
di sicuro
T
erra mia, ti penso sempre. Anche ora che
siamo in pausa in fondo al campo. Con
dieci minuti scarsi per tirare il fiato prima
di tornare a raccogliere verdura, la schiena piegata che fa male da morire e il caporale che urla di
fare più in fretta, ma con delicatezza per non guastare nulla.
Chi è nato qua mi guarda dall’alto in basso, e
non è solo una metafora: sono più slanciati di noi.
E ci disprezzano, anche se andando indietro nel
tempo i nostri antenati sono gli stessi. Nati dove
sono nato io: i loro trisavoli erano “terricoli” quanto me, per usare il nomignolo con cui ci chiamano oggi i marziani. Che sono tutti, ovviamente, discendenti da coloni terrestri.
Hanno fatto il possibile per far somigliare questo pianeta alla Terra, cominciando secoli fa da
mari e atmosfera. Ce n’è voluto di tempo. Era un
deserto, ora è un giardino per ricchi: ma si vede
che è costruito, sa proprio di falso. Io sono venu-
to a servirne i padroni scappando dalla Terra vera,
devastata e ipersfruttata. In cambio ottengo qualche soldo da mandare alla famiglia rimasta a casa e sguardi obliqui in cui leggo solo commiserazione o disprezzo.
Alzo gli occhi. In questo periodo la Terra è vicina, si vede bene a occhio nudo: sembra una
doppia stella vista da qua, lei azzurra e la luna più
piccola accanto. Ancora qualche anno di risparmi per scampare alla miseria e me ne tornerò al
mio pianeta, questo è poco ma sicuro. Per quanto maltrattato e povero possa essere. Amara Terra
mia, amara e bella.
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Wallace Armani
Wallace Armani
Verwaist e gli spiritelli del bosco
Verwaist e os espíritos da mata
(Traduzione dal portoghese brasiliano)
N
ascosto dietro ad un cespuglio, come una
lince, guardava calmamente. Era meraviglioso conoscere esseri come quelli, piccini,
di una pelle bianca come la neve, capelli multicolore
ed orecchie appuntite.
Ancora lontano da essi, non sentiva quello che
dicevano ed essendo curioso come un furetto, decise di avvicinarsi ancora di più. Saltando velocemente sopra il cespuglio, cadde in mezzo a quella gente ed immediatamente, tutti si nascosero, temendolo. Senza capire che cosa fosse successo, disse: “Mi chiam’ Verwaist, son’ ün guerrieru e la zent
del mio villazio mi chiaman’ el folletto gufo, ma
nom’import’. Non ho paur’ di nient’, neanche di
nessün’. Papà e maam non ho, ma son’ felisce.
Io ho doue amisci, la mia shpada e ‘l mio uttavin’.
Son’ FAMEEELICO! Hai qualcos’ da manziar’?”
Il silenzio era gelificante ed oscuro.
Sopra un albero, una civetta cominciò a piare.
Verwaist ebbe un’idea.
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E
scondido atrás de um arbusto, como um
lince, observava calmamente. Era maravilhoso conhecer seres como aqueles, pequenininhos, de uma pele branca como a neve,
cabelos multicoloridos e orelhas pontudas.
Ainda distante deles, não escutava aquilo que
falavam e sendo curioso como um furão, decidiu aproximar-se ainda mais. Saltando velozmente sobre o arbusto, caiu no meio daquele
povo e imediatamente, todos eles se ocultaram,
temendo-o.
Sem entender o que estava acontecendo, disse: “Me cham’ Verwaist, so’ üm guerreiru e u pof’
du meu vilareju me chaman’ de u travesso solitário, mas num’import’. Num tenhu med’ de nad’, e de
ninhum. Papá e mamã não tenhu, mas so’ feliz. Eu
tenhu douas amigas, a minha eshpada e a minha
flautinha.
Eshtou MORREEENDO DE FOME! Tem alguma
cois’ de cumê?”
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Prese l’ottavino e subito iniziò a suonare una musica gioiosa e vivace.
Gli spiritelli si avvicinarono al flautista e cominciarono a danzare. Il tempo non era importante, solo la musica. Le voci delle creature del bosco erano
simili all’instrumento musicale di Verwaist.
Vi era, fra essi, una comunicazione pura e semplice. Magicamente, gli esseri cominciarono a brillare ed una luce mistica e spirituale emanò da ognuno, creando uno sfolgoramento scintillante.
Rapidamente, tutto il bosco sembrava un gran faro che risuonava come una colossale corazza di
cristallo.
Luce e suono. Armonia.
O silêncio era gélido e escuro. Em cima de
uma árvore, uma coruja começou a piar.
Verwaist teve uma ideia.
Pegou a flautinha e subitamente começou a tocar uma música alegre e festiva. Os espíritos se aproximaram do flautista e começaram a dançar.
O tempo não era importante, apenas a música. As
vozes das criaturas da mata eram parecidas com
o instrumento musical de Verwaist.
Havia entre eles, uma comunicação pura e
simples. Magicamente, os espíritos começaram a brilhar e uma luz mística e espiritual emanou de cada um, criando um brilho cintilante.
Rapidamente, toda a mata parecia um grande farol que ressonava como uma colossal couraça de
cristal.
Luz e som. Harmonia.
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Fabio Baldi Cercando terra
R
icordo quando giocavamo ai pirati;
dall’alto di una sedia, con un buffo tovagliolo legato alla fronte, gridavi: “Terra, capitano, ho avvistato la costa!”
La nostra terra era l’Isola che non c’è, dove le
nostre fantasie ed i nostri sogni non conoscevano
confini; quante battaglie e quanta gioia nei nostri
giochi di amici inseparabili.
Poi scuole diverse, gli anni che passano, gli innamoramenti che ti portano lontano; ci si trovava
la domenica al bar a discutere di nuove sfide brindando con il vino rosso e forte che i nostri nonni
conservavano in buie cantine.
Poi il lavoro. Io, un impiego tranquillo, mi sono fermato qui, tra pianura infinita e colline; tu,
tante scelte sbagliate in giro per il mondo, sempre
pieno di sogni, alla ricerca dell’Isola che non c’è.
La tua terra era sempre quella promessa, quella sottile linea scura che emerge dal mare della vita davanti alla tua nave; e tu a gridare “Terra, lì tro-
verò le risposte, lì è la felicità che cancellerà le mie
angosce”.
Ci si vedeva solo a novembre mentre si rendeva omaggio ai nostri morti nel piccolo cimitero di
paese, io con la mia famiglia, ancorato alle profonde radici delle nostre tradizioni, tu pirata irriducibile senza porto né terra.
Un giorno sei tornato in una piccola urna, affidato a me in base alle tue ultime volontà.
Non hai mai trovato l’Isola che non c’è ma per
te compirò l’ultimo gesto da pirata; che le tue ceneri e la tua anima trovino pace su questa terra
rossa e fertile dove forse si è sempre nascosta la
tua terra promessa.
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Rossella Baldi In fondo al lago
E
ra così compresa nei miei giorni e nel mio
tempo da essere diventata invisibile, come
spesso succede per molte delle cose che
sono sempre sotto i nostri occhi. Dell’unico sentiero che conduceva al paese conoscevo ogni pietra così come gli alberi e i cespugli. Qualche volta ho pensato che questa terra facesse di tutto per
non farsi notare, invece ero io, cieco e oltremodo
distratto, a non considerarne appieno la presenza.
Quando però stai per perderla, una cosa, a volte la sua bellezza si impone prepotente e beffarda e davanti ai tuoi occhi comincia a scorrere ciò
che mai avevi notato prima, come a offrirti l’ultima occasione prima dell’inesorabile epilogo.
Con ordine scritto e debitamente firmato si stabilì che questa terra sarebbe presto scomparsa
dentro un lago artificiale. Dissero che sarebbe stato un vantaggio per tutti, ma io, da lì a poco, la terra mia non l’avrei mai più vista. Morta annegata o
forse solo addormentata.
Sono tornato qui dopo tanto tempo, oggi il lago è asciutto e sul fondo quasi riaffiorano i contorni del sentiero. Non più alberi, né cespugli,
dappertutto solo erba sbiadita ma il sentiero così affollato non l’avevo mai visto:
“Una foto nel paese sommerso, prego Signori,
approfittate!”
“Pic nic in fondo al lago con antichi sapori – si
accettano prenotazioni!”
Un vecchio, seduto un po’ in disparte, mostra
cartoline d’epoca.
La terra mia non si trova più qui ma immutata
nel ricordo e pronta a cambiare a ogni mio volgere lo sguardo, sarà con me ovunque io sarò.
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Livio Bauer This Hard Land
L
o strillo in prima pagina: “3.6.2013,
Springsteen a san Siro per la quinta volta”. E
mi ricordo... con Marco (i Blues Brothers!),
parte la caccia al biglietto, l’organizzazione della trasferta, lo studio delle “scalette” degli ultimi
concerti. La febbre che monta all’avvicinarsi del
D-Day, il viaggio (macchina, treno, pullman... bicicletta, astronave), la fila sotto il sole, l’apertura
dei cancelli, la corsa verso la prima fila, il posto
conquistato, ore d’attesa insieme a 50.000. “Blood
Brothers”. Cala la notte, si spengono le luci. Il boato, l’estasi.
Milano, san Siro, 21 giugno ‘85; e poi Torino,
Milano, Verona, Bologna, Genova, Milano,
Bologna, Verona, Milano, Udine: un rito. Sempre
uguale, sempre diverso. Ne esci ogni volta svuotato, felice, giovane, grande, bello, in lacrime, sorridente. E ne parli allo sfinimento. Con Marco.
E poi mio fratello non c’è più. Marco se n’è andato. È la vita, dicono...
Di colpo il rito perde significato, e Bruce a san
Siro il 7.6.’12 canta per la prima volta senza i Blues
Brothers. Non posso più, non voglio. Da solo non
mi va, non mi interessa, andateci voi.
E mentre sul prato del Meazza si scatena l’inferno e si apre il paradiso io infilo le cuffie sul divano
di casa, mi asciugo gli occhi e ascolto “This Hard
Land”. Insieme a Marco, e a Danny, e a Clarence.
Appena dietro ‘Bluto’ Blutarsky fa le boccacce...
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Elena Belotti Dalla valigia di cartone al trolley
S
ono in partenza, non so come sarà il mio
futuro. Ma ho deciso, il lavoro lì c’è e qui in
Italia non esistono prospettive. È una storia antica che si ripete. Mio bisnonno è emigrato in
Belgio dal bellunese per sostentare moglie e figli.
Lavoro durissimo nelle miniere di carbone. Poi a
casa in uno sprazzo di ferie a lavorare i campi con
la bisnonna che era capofamiglia.
Mia nonna Ida e i suoi fratelli in giro per il mondo. Uno in Svizzera, l’altro in Piemonte e lei a fare
la servetta a Milano.
Oggi, io, laureata con 110 e lode, alle prese ogni giorno con la spedizione del curriculum e la
ricerca di una qualsiasi occupazione. “Troppo giovane” “Troppo specialistica la laurea” “Troppe le
domande”… e i concorsi ai quali per un qualsiasi
posto di lavoro si presentano migliaia di giovani.
Ne ho parlato con i miei genitori che avevano
i goccioloni agli occhi. Sanno per esperienza che
quando si va all’estero poi è difficile tornare a ca-
sa. Ma a Sidney sarò inserita subito in un progetto,
con la possibilità di affittare una casa e mantenermi. Magari fare anche dei risparmi. E poi…
Ho raccolto un po’ di terra e l’ho messa in un
vasetto, come ha fatto Isabel Allende nel suo
peregrinare.
Pianterò un seme appena arrivata e questa terra sarà un legame con il mio Trentino. Ma porto anche nel cuore una frase di Virginia Woolf:
“Come donna non ho paese, come donna non voglio un paese, come donna tutto il mondo è il mio
paese”.
Sarò cittadina di Gaia.
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FeBe Il germoglio è il mio orgoglio
“I
l contadino abita la campagna con il seme della passione, ma è dentro i solchi
delle braccia e nei rivoli della fronte che
vivono le memorie della sua terra”.
L’autunno in quell’anno arrivò carico di pioggia e l’esplosione dei colori svanì. Memo lo sentiva. Glielo dettava la sua inquietudine di ritornare nei campi a raccogliere l’ultimo acino dorato e
l’ultimo frutto del ramo più alto. L’uomo osservò
il cielo: scuro, cattivo. Il vento era calmo. Solo dopo il mezzodì decise di partire.
Gim uscì dalla stalla a fatica. Lo incoraggiò con
una pacca: “Dai Gim forza!”.
Sua moglie come sempre lo seguì. Come poteva sottrarsi con sette figli da sfamare. I campi erano già intrisi d’acqua ma orgogliosi raccolsero gli
ultimi frutti.
D’improvviso il vento impazzì! Nietta gridò:
“Andiamo via!”. Sul carro si strinsero da sentire la
pelle bruciare.
Gim arrancava con la bava alla bocca. La
pioggia batteva fredda e violenta. Angosciati,
pregarono.
Il paese era avvolto nel buio. A casa, guardò
la moglie con ammirazione. Sorrise! La notte fu
impietosa.
1966. Fiumi e torrenti tracimarono portandosi
via: persone, case, ponti, campi. Passarono i giorni poi Memo si avvicinò alla sua terra diventata
straniera.
L’ uomo guardò i cumuli di sabbia con l’ abbandono negli occhi. La toccò. I piccoli granelli scivolarono in una lieve carezza. Sentì umide le guance, eppure i suoi occhi già vedevano solchi arati e
bianche gemme spuntare.
L’asparago germogliò, orgoglioso, nella terra
del fiume.
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Margherita Berlanda Vista dall’alto
L
ei, lontana ci guarda dall’alto pensando ed
osservando una Terra confusa e ingenua
che non si preoccupa del suo futuro, troppo impegnata a vivere un presente che sfugge e
che non lascia né traccia e né tempo.
Qualcosa prima o poi cambierà facendo svegliare di colpo un mondo ormai addormentato da molto, che ha perso le sue forze con le guerre e con l’indifferenza, cancellando completamente la speranza di una vita futura
migliore.
Forse soltanto un’altra Era Glaciale potrebbe dare alla Terra una scossa sufficiente per ritornare in sé e per opporsi agli sbagli umani
che l’hanno condotta nell’oscurità più profonda, sperduta nelle tenebre dell’universo, pentita e delusa dagli uomini che hanno avuto l’opportunità di vivere sulla sua superficie e il potere di costruire e distruggere a loro piacimento.
Molti uomini, sono senza scrupoli e distruttori,
che antepongono il loro interesse al bene della
Terra e non apprezzano le cose semplici, come il
profumo dei fiori, i loro bellissimi colori, l’odore
dell’erba tagliata, gli animali al pascolo o i sorrisi
degli amici e delle persone care.
Luna! Manda un messaggio!
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Italo Bonassi Ho fatto un sogno
H
o fatto un sogno. Con me c’era mio padre, ne distinguevo appena il volto. Un
sogno. Od un pensiero in cui, chissà, ero
scivolato, e, lui, Giona nel ventre della balena, era
lì, in attesa.
Sei venuto anzitempo, se avvisavi lo dicevo a
mamma, non vede l’ora di vederti, ma ha un impegno col suo angelo. È a Pola. Ricordi Pola? Ti ci
avevo portato ch’eri bambino.
Oh sì, la foto, con babbo, mamma e l’Arena. E,
dietro, il mare.
Babbo, non sei morto? Babbo scosse la testa:
“La morte è cosa di voi uomini, io sono qui, vivo,
e anche mamma è viva, e tuo fratello, e nonna…”
No, pensavo, è un sogno, un déjà vu, e anche
il mare, e l’Arena che spiccava in lontananza, tutto era un’unica finzione spettrale, un attimo, e sarebbe svanito.
Babbo, ma è così la morte? Un ritorno delle
cose all’origine, nel ventre della terra, e rinasce-
re e rivederci tutti insieme, ombre in un sogno di
luce?
Babbo si accese la pipa e mi sorrise: “Per te è un
sogno, per me l’eternità. È qui, e tu ci stai nel mezzo, e vivi e muori e non sai ch’è eterno. Tutto, l’Arena, il mare, le case sul promontorio, quel vaporetto in lontananza, il suo fischio allegro, tutto è la
mia piccola eternità che mi porto dietro con la morte, Pola, Pisino, Umago. Chi muore porta con sé tutto ciò che non ha mai avuto o ha perso, un sorriso,
una carezza, un amico, un amore. Io ho portato qui
con me il mio amore. Un pezzo della mia terra, un
pezzo d’Istria”.
Lontano, un’esile figura di donna mi salutava.
Era lei, mia madre.
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Luigi Brasili Fango
È
un’alba che sembra una notte grigia. In cielo poche stelle come gocce di petrolio.
La bambina aspetta, sporca, lacera; gli occhi tristi, spenti.
Attorno solo macerie e fango.
Questa è la mia terra?, mi chiede.
Cerco di fuggirne lo sguardo, altrove. Ma non
trovo nulla; da guardare, da dire.
Si muove. Le barcollo dietro, lontano dagli artigli di legno metallo e carne che spuntano dal fango rosso. Artigli. Cento, mille.
C’è vento, e pioggia; lacrime di stelle fangose.
Il terreno sale, lei procede spedita, come nave in
tempesta senza tempesta.
A metà altura ci fermiamo. La mia terra, ripete
la bambina, le dita tese all’orizzonte.
Il mare sputa nuvole di fumo rosso. Una tosse
cremisi che non vuole spegnersi; brucia l’aria, la
mangia. E brucia e mangia il mare.
Sulla cima vento e pioggia muoiono, adesso
sono le onde a divorare fango e fuoco.
Questa è la mia terra?, chiede ancora la
bambina.
Una goccia le scorre lenta sul volto.
Chiudo gli occhi, impotente.
Quando li riapro, dal mare soffia la brezza e il
fragore del tuono e del fuoco è solo un ricordo. Al
posto del bitume di stelle, il cielo limpido. L’alba
non è più notte. È un’alba vera. Piccoli astri salgono verso di noi.
Lei sorride e mi stringe la mano. La stretta è forte. Attingo forza dalla sua.
Getto il fucile nel fango e tendo le dita verso
quelle dei bambini in arrivo.
Lei annuisce e indica i bambini, le stelle. È questa, la mia terra…
Le onde ancora non si placano, ma presto anche il mare sarà di nuovo calmo, spero. Presto.
Domani.
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Roberto Caprara Astronauta
A
ssenza di gravità. Sospeso in aria, come
un pupazzo lanciato nei giochi da bambino. Un senso di vuoto mi costringeva
a cercare nuove sicurezze, emozioni sconosciute.
Svanivano lentamente i ricordi terrestri, le strade
chiassose stipate di traffico, la gente frettolosa, nervosa, alla ricerca di itinerari noti o imprevedibili.
La scoperta di nuove realtà. Un piccolo punto
scritto nel libro dell’universo. In sogno, toccavo
la luna nelle notti d’estate mentre sembrava cadermi addosso. Conquistavo quel deserto arido e
sassoso alla ricerca di cose familiari, segnali conosciuti, tracce di un passato da scoprire.
Ora, chiuso nella tuta a respirare ossigeno artificiale, prigioniero nel corpo, spaventosamente
vicino a lei.
Un’avventura costata sacrifici, rinunce, sconfitte, mescolati a emozioni di incredibili momenti di
gioia. L’uomo racconta una nuova pagina, apre il
suo cuore all’infinito. Un mare di stelle lo accom-
pagna, piccoli occhi che scrutano curiosi.
La sfida continua. Eroici pionieri alla ricerca
dell’immensità, specchio di Dio. In una sofisticata scatola metallica si libra nello spazio e nel silenzio che la circonda.
La terra, palla variopinta lontana e silenziosa.
Miliardi di persone con le loro storie, paure, gioie,
virtù e difetti, che da qui non si vedono e si sentono più.
A volte basta alzarsi in volo per non accorgersi
di ostilità e differenze.
Astronauta della mia terra, abbandonare le misere dispute, confrontarsi con l’eterno e vincerle;
questo il sogno dell’uomo.
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Vittorio Caratozzolo Per aequora vectus
N
acqui a Buenos Aires. Comandavo navi
che incrociavano l’Atlantico, da Genova
all’Argentina.
Nella mia terra d’origine, la Calabria, anche
nelle notti serene tra le fronde degli alberi il
cielo si scorgeva appena; d’inverno la luce lunare scivolava sui limoni e sulle arance grondanti dai rami ricurvi, mentre in mezzo agli ulivi bastava un soffio di vento a far brillare come stelle
il dorso argentato delle foglie. Immergere i piedi
scalzi in quella terra umida e accogliente era uno
dei miei passatempi preferiti.
Quando nelle notti insonni mi inquietava la
mancanza del vuoto oceanico intorno a me andavo là, tra le piante, ad attendere la brezza che
saliva dal mare, sorseggiando con calma olimpica la yerba mate, bevanda forestiera, con la cannuccia immersa nella bombilla, il sangue che fluiva verso la mano.
In mezzo all’Oceano, quando dal ponte scrutavo le infinite colline liquide, lì, sferzato dagli
spruzzi del vento, ne assaporavo il sale con cui
condivo la polpa degli agrumi che mi ero portato da casa.
Al ritorno, alla prima messa mi confessavo, ma
erano solo peccati di donne. Femmine dalla voce
calda, i fianchi forti e la pelle di tabacco, che amavo di fretta, ma con profondo rispetto.
Appena potevo, riprendevo la via di casa, verso il Sud, perché nel mio cuore la nostalgia della mia terra e del mare si alternavano, incessantemente, come gli enormi pistoni dei motori di bordo, spingendomi a preferire ora le inebrianti ansie
del viaggio ora la struggente attesa nella quiete.
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Giuseppe Carmeci
Tripoli
bel suol d’amor natio
P
rofumo di gelsomini, bougainvillee sgargianti, cespugli odorosi di rigogliose foglie,
strade di immacolato ghiaietto, nei giardini del Re, rumore ritmico di rame battuto, forme
create e ricreate, sempre allo stesso modo, sempre
dalle stesse mani, eppure sempre nuove, sempre
nello stesso luogo e dovunque nel suk.
Facce sempre uguali, anime diverse, umili gesti di saluto a tutti, il rispetto si sente nell’ aria, quasi palpabile, come il fumo dei narghilè, sempre accesi e sempre a disposizione degli amici.
Passano gli anni, arriva la dittatura, insorge la
gioventù, la mia terra non è più la mia terra, rovinata dalla lotta civile, colorata di sangue, odorosa di morte, relitti al posto dei cespugli, il silenzio,
interrotto da spari ed esplosioni, un bambino che
piange, gli occhi gonfi di lacrime, pieni di paura,
che cercano consolazione.
Solo il cielo è rimasto uguale, solo quelle stelle
accese non ancora oscurate dal fumo delle armi
che ti pareva di poter toccare, tanto erano vicine.
Il rombo terrificante delle bombe, poi lo sparo, a chilometri di distanza, liberatorio, vile ed
assassino.
Qualche sussulto ancora, e poi di nuovo il silenzio, che non è quello di prima, che è la ricerca
di una rinascita, difficile come tutte le risurrezioni, ancora incompleta, ancora da venire, ma che
ci sarà, ci sarà certamente per la fede che la sostiene, per la volontà che la persegue, per la mia speranza di poter rivedere ancora la terra mia.
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Carla Casetti Un fazzoletto...
U
n fazzoletto, terra mia, un lembo di paradiso, dove mazzi di gigli arancio come
il sole e blu come il cielo illuminavano il
mio sorriso e gratificavano il mio odorato.
Ma non solo, tanti frutti nel mio giardino.
Il ciliegio sul quale mi arrampicavo come uno
scoiattolo e dove mi nascondevo fra le fronde come fossero liane nella foresta di Tarzan.
Il caco, il melo, il nespolo, l’uva. Quanti profumi, quanti sapori!
La roggia scorreva a lato, piena di misteri, suoni e cianfrusaglie: pezzi di bambole, palloni sgonfi, barattoli, tesori...
La siepe di uva spina fungeva da barriera, io
spiluccavo le dissetanti palline rosse quando distesa sull’erba meditavo intorno ai miei pensieri e
il rumore dell’acqua come musica calmava le giovanili preoccupazioni.
Vita di campagna, vita con la natura e gli animali: il cane, il gatto, i conigli, api, buoi, galline e
i pulcini che prendevo sulla mano e accarezzavo
con tanto amore, come io stessa avrei voluto essere accarezzata.
Qui si sviluppò la mia fantasia, la poesia, l’amore per il creato e per tutti gli esseri viventi.
Poi viaggiai, conobbi altri paesi e capii che quella mia terra di bambina non era mia, ma apparteneva a tutti gli uomini, assieme alle terre consumate e distrutte dalla voracità, dall’egoismo, dagli
tsunami, dai terremoti, dalle guerre, dallo sfruttamento che fa sbriciolare le fabbriche sui corpi degli operai...
Anche queste sono terre mie, terre di tutti.
Incredibili, superbe terre del mondo.
AMARE e BELLE.
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Matteo Cermusoni Magari fiorisse il cielo
D
a quel giorno lui abita in lei. O lei in lui, il
senso è unico sia da contenitore che da
contenuto.
Un livello di passione sconosciuta tra sconosciuti. Un bacio che non andrà oltre, senza scomodare chimica o magia, umidità più di tutto.
Per lei un accordo del momento, per lui un accordo maggiore di sette note da attirare l’attenzione del più distratto tontolone.
Yup! L’effetto di anestetico placebo sensoriale
da Nutella sul palato che lei prova non va oltre.
In lui, appena le labbra si poggiano tra loro, il
mondo perde le asperità delle coste, le montagne
piantano spilli di ghiaccio nel petto per levigarsi
in neve, quello che scatta è tanto semplice da renderlo esule nella propria terra, senza fiato, disperso nel nulla di un unico pensiero.
Non dirle amore mai, ma incantala. Strega
quegli occhi, ipnotici come specchi d’acqua, armato d’uno specchio, Perseo, la tua musa Medusa
è l’isola che non c’è, i suoi crateri, le colline di velluto, la rugiada fan gola alle labbra.
Che s’abbia da far qualcosa?
Non ber ci otto li tri di limo ncello per dimenticare, ma picchetta la tenda per usucapire
quell’Eldorado.
Pensa se ti accasassi.
Invece lei, dai colori di prato prima del temporale, granitica e ricoperta di lava e mare, abbandona per la tangente l’orbita intorno a questo sole
per cercare qualcosa nello spazio siderale.
Nessun big bang questa volta. Sterile terra. Solo
palta in cui scavare a mani nude e scrivere con
l’indice un nome. Lui butta semi in aria.
Magari fiorisse il cielo!
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David Cerri Due nostalgie
O
ggi che ci vivo nuovamente da oltre
trent’anni, non capisco cosa ci trovassi
in questa cittadina.
Me ne ero allontanato – il lavoro di mio padre
– al tempo del liceo, quando ci trasferimmo in un
paesello del Sud.
A quell’epoca (fine anni sessanta) non tutto era
ancora omologato, così che effettivamente si avvertiva qualcosa di esotico: solo che questo qualcosa era la mia famiglia, piombata da Marte nel
mezzo di una civiltà agricola dove il fatto che
mia madre, donna e quasi cinquantenne, guidasse un motorino destava, diciamo così, grande
attenzione.
A me non dispiaceva attirare l’interesse, ed i
primi tempi ho potuto sfruttare quest’aria da straniero. Poco alla volta, però, nel costante confronto familiare con abitudini tanto diverse, si insinuò
in me la nostalgia, neppure fossi emigrato in chissà quale lontano continente.
Per le feste, un ritorno dai parenti era sempre
previsto; ma i contatti con gli amici si diradavano, solo epistolari (già, perché allora ci si scriveva). Nei mesi tra un ritorno e l’altro alla mia città,
questa cresceva nei miei pensieri; quella strada,
quella curva del fiume, non i celebri monumenti;
quel vicolo, quel campetto, assumevano per me
una tinta color seppia come le vecchie foto (ed
anzi, ogni volta in quei brevi viaggi ne scattavo
di nuove, per poi riguardarmele in terra d’esilio).
Il ritorno all’università, tanto atteso, come tutti i desideri appagati non fu poi così gratificante;
e da allora la nostalgia è rimasta, ma di quell’altra terra.
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Matias Cimadon
Matias Cimadon Immigrante del mondo
El inmigrante del mundo
(Traduzione dallo spagnolo cileno)
M
io fratello mi ha detto: “Quando si passa attraverso le stesse strade, la piazza, la
chiesa... sentirai come se sono stato qui”.
Solo quando ho sentito queste parole di Oscar,
ho capito per la prima volta in tutto il mio viaggio
a Trento, quale connessione avevo con il luogo da
cui sono uscito (prima i miei antenati, nonni e bisnonni) alla ricerca di un mondo nuovo, abbandonando per sempre la casa dove avevano vissuto tutta la loro vita.
Da quel momento in poi le mie riflessioni sul significato dell’immigrazione-migrazione hanno iniziato ad approfondirsi ulteriormente. Soprattutto,
perché per me la questione non è stato qualcosa di
rilevante. Ne ero assente, semplicemente lo vedevo
riflesso a livello locale negli immigrati peruviani in
Cile, o come ho visto sulla stampa, negli immigrati messicani negli Stati Uniti, o in quello che ho imparato in lezioni di storia con gli immigrati cileni
in Svezia.
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M
i hermano me dijo: “Cuando pases por
las mismas calles, la plaza, la iglesia…
sentirás como si ya hubieras estado ahí”.
Sólo cuando escuché estas palabras de Oscar,
entendí por primera vez en todo mi viaje a Trento,
qué conexión tenía con el lugar desde donde salieron por primera vez mis antepasados (bisabuelos y tatarabuelos) en busca de un nuevo mundo,
abandonando para siempre la casa en la que han
vivido toda su vida.
Desde ese momento en adelante mis reflexiones sobre el significado de la inmigración-migración comenzaron a profundizarse aún más.
Especialmente, porque para mí ese tema no era
algo relevante. Me sentía alejado, pues sólo lo
veía reflejado a nivel local con los inmigrantes
peruanos en Chile, o según lo que veía la prensa,
con inmigrantes mexicanos en Estados Unidos, o
por lo que he aprendido en las clases de historia,
con inmigrantes chilenos en Suecia.
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Nel tempo che Oscar ha detto quelle parole, ho
capito che io non solo sono del Cile, perché è il luogo dove sono nato e dove c’è il sangue del grande
poeta nazionale, Pablo de Rokha, o in Argentina, da
dove viene mia madre. Nemmeno Roma, da dove ho
pensato partissero i miei parenti, o la Jugoslavia, la
loro prima destinazione dopo aver lasciato Trento.
Nella mia riflessione finale mi sono reso conto
che non solo appartengo a un luogo definito da una
mappa. Quello che ho sentito a Trento è perché io
sono di qui e di là.
Sono parte di questo mondo e quindi, tutto su
questo pianeta è la mia terra.
En el momento en que Oscar dijo esas palabras, entendí que yo no sólo soy de Chile porque
es el lugar donde nací y desde donde tengo la sangre del gran poeta nacional, Pablo de Rokha; o
de Argentina, desde donde es mi madre; tampoco sólo de Roma, desde donde pensé que venían
mis familiares; o de Yugoslavia, el primer destino al que se dirigieron después de salir de Trento.
En mi reflexión final me he dado cuenta que no
sólo pertenezco a un lugar delimitado por un mapa. Lo que sentí en Trento es porque soy tanto de
aquí como de allá.
Soy parte de este mundo y por lo tanto, todo
en este planeta es mi tierra.
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Ramona Corrado Sogno di una notte...
C
’è un sogno che nasce nella notte dei tempi. Qualcosa di più di avere le ali, qualcosa di meglio che semplicemente volare. Un sogno antico, quello dell’uomo: volare fra
le stelle.
Ore a guardare la Luna, a chiedersi cosa c’è
dietro il suo volto sorridente. A guardare tutti quei
puntini luminosi là in alto, così vicini eppure così
lontani. Lontani nel tempo, oltre che nello spazio.
Un mistero immenso, ma a portata di bambino, perché i bambini con la fantasia possono arrivare dappertutto. La fantasia può portare anche
in sella a una determinazione di ferro, a macinare tanta strada, a superare tanti esami, a scavalcare innumerevoli ostacoli. Fino a portare il bambino a contatto con le stelle.
Notte di mezza estate per metà del pianeta. Per
l’altra metà, giorno di mezzo inverno. Oltre sette miliardi di persone vivono e muoiono ogni
secondo.
Lui non è fra quei sette miliardi, perché si trova
oltre la Terra, nella sua orbita. Il luogo dov’è nato, vissuto e dove presumibilmente morirà, non è
che un globo azzurro sotto di sé.
La situazione infantile si ripete, solo che ora è
lui a trovarsi in alto a guardare i puntini laggiù.
Si commuove, in quella piccola scatola orbitante, nel riconoscere ciò che vedeva a scuola
sui libri di geografia. I continenti, i fiumi, le montagne, le isole. E lo stivale italiano, unico, forse,
nell’universo intero.
Non è la mancanza di gravità a sollevare gli angoli delle labbra. È amore.
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Diana Crispo La scoperta
L
a bambina ha capelli corti, occhi grandi e
solo sette anni. È felice di andare in vacanza con la nonna nel paese natale, sperso
nella campagna bruciata dal sole.
L’antica casa di famiglia a tre piani sembra un
castello da esplorare, lei è affascinata e spaventata dalla grandezza.
Unico divieto: non salire al terzo piano, troppo pericoloso. Ubbidisce per rispetto e per paura.
Un pomeriggio la nonna si addormenta sulla
poltrona nella cucina vasta come una piazza, lei
non resiste, con lenta paura sale la scala, che finisce su una porta chiusa, riesce ad aprirla: una luce violenta la colpisce, accecandola.
Con passi incerti supera la soglia, scopre di
essere su un terrazzo, dove sono stese lenzuola
bianche, fantasmi che non mettono paura.
Di là del parapetto, vede i tetti rossi del paese, le stradine affogate dal sole, sente voci e canti
lontani, ancora più distanti ci sono distese di ver-
di uliveti, campi gialli di grano: un mondo nuovo che mette paura, per la violenza dei colori, del
caldo, del sole.
Di corsa torna indietro, nel buio profumato
delle scale, ha un sospiro di sollievo nel vedere la
nonna dormire. Capisce perché le ha proibito di
salire: il mondo va scoperto poco a poco, per non
essere travolti.
Si siede a fianco, con la manina afferra la mano grande e scura della nonna, avverte un calore
piacevole, che placa il battito frenetico del cuore.
Si addormenta, felice di aver scoperto un mondo e un amore che non svaniranno mai.
Una scoperta che segnerà tutta la sua vita.
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Nives Cristoforetti Terra
D
ella mia terra natale ricordo il prato verde e le ore passate a rincorrere calciando
il pallone in compagnia dei ragazzi della
stazione, mentre le ragazze giocavano a casette.
Rammento le buche lasciate dalle bombe della seconda guerra nella sabbia ai margini del torrente Ala.
Non ho dimenticato le traversate dell’Adige a
nuoto in diagonale, per resistere alla corrente.
Ricordo il lungo viale all’ombra degli ippocastani, che percorrevamo quando andavamo a
scuola, ed in particolare l’albero davanti casa ed
il robusto ramo, comodo sedile tra il verde delle
fronde, perfetto luogo appartato di lettura.
Potrei considerare mia la terra nell’attimo in
cui calpesto il terreno fino a quando il passo non
lo abbandona.
La stessa sensazione vale per il terreno battuto, le radici messe a nudo, i sassi, le rocce e l’erba dei sentieri.
Amo percorrerli per raggiungere una cima, un
passo o un rifugio, soprattutto sostare di volta in
volta ad ammirare le varie ed inesauribili bellezze del mondo che ci circonda.
La Terra è un meraviglioso pianeta di roccia ed
acqua, protetto dall’aria, con il cuore di fuoco e
metallo ardente.
L’aggettivo possessivo non dovrebbe esistere,
non mia, non tua e nemmeno nostra.
Cancelliamo quel mia che porta all’esilio, ai milioni di bambini in fuga, al dolore ed alla morte.
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Pelagio D’Afro Colori
L
a mia terra ha un colore diverso da tutte le
altre terre, e io non sapevo perché.
La prima volta che ho sentito dire “Che
strano colore ha questa terra” avevo nove anni.
“Ma ha il colore della terra” dissi; e il musungu
dalla pelle rosa rispose: “La mia terra è bruna, questa è rossa.”
È rossa, la mia terra. Chi non l’ha mai calpestata non può sapere com’è. È polverosa sotto il
Sole che la secca, fangosa sotto la pioggia che la
bagna, e il suo colore resta sui vestiti e sulle scarpe. E ci vuole tanto lavoro per far tornare le scarpe bianche come quelle che indossai il giorno in
cui mi laureai in medicina. Per poi tornare nella
terra dalla quale ho visto fiorire i padiglioni dell’ospedale che dirigo: baracche dalle tinte viola, indaco e blu come i petali assetati della mia terra.
Ma impastati alla mia terra ci sono minerali
gialli e petrolio nero, più importanti dei tanti colori del mio ospedale.
E la guerra rende più della terra.
E ora, legato con tutti gli altri davanti al muro
viola del padiglione operatorio, in attesa dell’urlo
incolore del kalashnikov, finalmente so perché la
mia terra ha questo colore.
Perché la mia terra è terra d’Africa, rossa come
il nostro sangue che vi si mescola, intrisa delle grida delle vittime e dei carnefici.
So long, musungu. È su questa terra rossa e su
questo sangue rosso che voi tutti prosperate nelle
vostre terre brune.
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Livio Dalpiaz Le grandi mani di Dario
M
i sono rimaste impresse le grandi mani
di Dario. Callose, forti, colme di crepe,
abituate alla terra e all’acqua, da ortolano. Maneggiano davanti ai miei occhi grossi cespi di radicchio tardivo, allevati con tanta passione nel campicello sull’ansa del fiume. Ha lo sguardo pacato dell’uomo onesto, Dario, e mi parla con
orgoglio delle cure che riserva ad ogni singolo piede, cicoria color del vino, sedano nero, o indivia
riccia che sia.
“Non uso pesticidi, né concimi chimici. Solo letame” mi spiega, la voce dolce, mentre infila un ultimo cespo nella cassetta e ne allarga le foglie a
ventaglio, simile a una rosa di maggio.
E aggiunge: “La mia è un’arte umile, mi dà quanto basta per vivere, nulla più, ma anche grandi soddisfazioni. Le massaie del borgo antico scendono con il sorriso sul viso allorché sentono trillare il
campanello sotto casa.” Dario apre la pompa e la
verdura par che respiri sotto lo spruzzo leggero.
Si risciacqua anche gli stivali prima d’inforcare la bicicletta con il carretto al traino. “Anche mia
nonna scendeva quest’argine. Sedeva su quella pietra bianca e ripuliva i cespi come ho fatto io, allora la pompa pescava nel fiume. A distanza di anni
coltivo le stesse verdure di un tempo e la terra mi risponde con la generosità di una madre.”
Gli credo, stringo anch’io un borsone di verdura tra le mani. Saggezza antica e un cuore grande
come le ruvide mani avvinte al manubrio.
“Ciao Dario e, grazie.” Lo saluto così, mentre
s’avvia ondeggiando in pedalata lenta.
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Davide Daniele
Air Jordan
P
ensavo solo alle mie scarpe, Air Jordan
dell’89, originali. Mio padre non mi disse
mai come fosse riuscito a procurarsele. Mi
disse solo: “Devi partire con queste”.
Ho sognato un milione di volte il mio arrivo e
l’immagine del salto con le gambe larghe e il braccio alzato era in cima alla mia lista. Me le portarono via subito in cambio di un po’ d’acqua. Per
un secondo ho pensato che avrei potuto uccidere
qualcuno, poi ho pensato che potevano portarmi
via le scarpe, non i miei piedi.
Durante il viaggio si portarono via anche il dente d’oro. Mio padre mi aveva detto di non ridere,
di non parlare. Non ridere è stato facile. Quando
me lo strapparono ho pensato che potevano portarsi via i miei denti, non le mie parole.
Poi un giorno successe qualcosa. Una sirena,
una serie di colpi e mi ritrovai calpestato da piedi
e urla e braccia e visi e sudore e nuvole.
Gridavano e sparavano: “Tutti fuori, tutti giù!”.
Dalla mia posizione potevo sentire la gente
saltare. Corsa, primo appoggio, secondo appoggio, salto. Come un terzo tempo, come Michael
Jordan che schiacciava a canestro sospeso in aria. L’ovazione del pubblico era coperta solo dagli
schiaffi degli spruzzi e dal rumore dell’acqua che
si rompeva come il vetro.
Pensavo solo al salto che avrei potuto fare con
le mie scarpe.
Mi dissero che alcuni di noi furono salvati da
un peschereccio a 5 miglia dalla costa. Mi risvegliai su un lettino. Avevo indosso abiti non miei.
Poggiai un piede a terra, poi l’altro. Non li avrei
più staccati da lì.
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Susanna Daniele
Deriva e approdo
H
o fantasticato a lungo sulla prima immagine che avrò di quella striscia di terra
che appena s’intravede in quest’ alba grigia, quasi sporca. Senza rendermene conto, l’ho
assimilata a una sorella che mi accoglie, in nome
di una comune origine.
Non vengo da tanto lontano. Fino a pochi giorni fa vivevo sull’altra sponda dello stesso mare: il
Mediterraneo. Mi avevano insegnato che in una
lingua antica voleva dire “mare in mezzo alle terre”. Dunque noi popoli che affacciamo sullo stesso mare apparteniamo alla stessa famiglia, abbiamo in comune profonde radici, proprio come gli
olivi antichi e ritorti che coltivava mio nonno.
Terra e Madre, due parole all’origine della civiltà.
Gli antenati non raffiguravano la divinità della fertilità come una donna grassa o incinta con
grandi seni penduli? La Grande Madre, appunto.
Il vento e le correnti si sono rinforzati, la barca, strapiena, beccheggia. Alle narici l’odore a-
cre della paura, l’isola sembra irraggiungibile.
Non sono affatto sicuro che ce la faremo, eppure
per non farmi prendere dal gorgo della paura mi
sforzo di concentrarmi sul pensiero dello sbarco.
L’approdo come salvezza del corpo e metafora di
una nuova esistenza per me, per i miei figli e dei
figli dei figli. Inshallah.
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Igor De Amicis Verso casa
R
ussia, 24 dicembre 1941
Benedetto Rinolfi si svegliò di soprassalto. Il fragore delle esplosioni risuonava
nel vecchio magazzino. Le pareti spoglie tremavano e la terra sembrava voler sprofondare.
Un altro bombardamento.
Si guardò intorno, i suoi compagni si stavano
alzando veloci e raccoglievano le loro cose: gavette, zaini, coperte.
L’ aria era gelida e il vento tagliava la faccia.
Davanti a loro un’immensa distesa bianca di
ghiaccio e neve. Dietro di loro l’Armata Rossa che
avanzava inesorabile. Alcuni cadevano in silenzio
e altri in silenzio avanzavano. Nessuno aveva la
forza di fermarsi, chiedere, aiutare. Dovevano solo andare avanti. Verso ovest. Verso casa.
Benedetto guardava il bianco sconfinato della
neve e pensava al verde delle sue colline, ai lunghi filari di alberi che coprivano l’orizzonte, alla
terra grassa e profumata dei suoi campi. Voleva
tornare a casa. Doveva tornare a casa. Dalla sua
famiglia. Si strinse ancora di più nel lungo cappotto militare. Un passo dopo l’altro fissando il
bianco.
Il vento crebbe di intensità.
Arrivò la tempesta.
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Italia, 25 aprile 1991
Benedetto Rinolfi fissava il verde delle colline.
Lunghi filari di alberi circondavano l’orizzonte. Si
chinò depositando la piccola cassa di legno nella
terra grassa e profumata dei suoi campi. Si sollevò con decisione, forte dei suoi venticinque anni.
Un lieve sorriso si dipinse sul suo volto. Guardò la
piccola cassa nell’abbraccio di quella terra morbida e accogliente.
“Bentornato a casa nonno!”
Marcello De Santis Il pratosangiovanni
A
ccendevamo la fantasia: con una o due
lire, e quando le avevamo era festa, cercavamo noi ragazzini in mutandine e canottiera e scarpe rotte, e raccoglievamo pezzi di
ferro di piombo di rame e correvamo a Carlucciu
che trattava ferraglia in via acquaregna; ci dava bisunti biglietti da una lira; felici tornavamo al prato stringendo uno di noi in mano quella insperata
ricchezza programmando come spenderla.
Investivamo in liquirizia dura, a cannelli. E sovente co’ lla licorizzia ci facemmio la bira... (con la
liquirizia ci facevamo la birra).
Qualcuno di noi saliva a casa riportando una
bottiglia (se no ce la procuravamo al barcesare là
in fondo sulla strada; qualcuna vuota si trovava,
del chinottoneri, dell’aranciatasanpellegrino); alla
fontanella dell’ospedale la sciacquavamo, la riempivamo d’acqua e ci mettevamo dentro la licorizzia tagghiata a pezzitti (liquirizia fatta a pezzetti).
La tappavamo con un pollice tenendola stretta
al collo e l’agitavamo fino a che l’acqua cambiava
di colore (più la sbattemmio su e gghio’ – più l’agitavamo, più diventava scura); la licorizzia si scioglieva, e noi, gli occhi attenti a quann’era pronta,
aspettavamo con ansia di poter poggiare le nostre
labbra al becco della bottiglietta e passàcci la bira
– ao’ , a reca’, ‘nzorzittu perùnu (a passarci la birra,
ohé ragazzi, un sorsetto per uno).
Ma diventammo grandi.
Andai fuori per lavoro, ma quel rettangolo illimitato di terra del mio pratosangiovanni l’ho portato sempre con me...
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Margherita De Simone
Vient’ ’e mare
“N
u’ s’ po fà!”, firmava lo stato indiscutibile, e io anelavo tutto di lui, ma
in comune solo una condizione di
non-libertà.
Giri di parole, spiragli, che avvitavano ad una
sola pagina della storia di un altro.
— Lasseme stà! – reagivo. Mi cercò ancora, precisando il freddo che è nel provvisorio, surrogato
eterno e duraturo.
— Nata vota, una sola – implorò Cigolò ruggine
fra parole di ieri.
— Comm’ stai?
— E tu, tien’ a nat’?
— No, una a’ vot’,o ssaj – m’accostai alla sua virilità, gli cercai le mani sui facili alibi di entrambi.
Grondavo su lui.
— Pecché m stai facenn’ chest’?
Fuori, il vento dal mare attraccò sulla sera. Gli occhi erano passato mutato in ricordo
recente,una vena disperata, sorgente torva di a86
nelli scuri che sposavano insonnia. Sentii respingermi, era rancore, lo eravamo insieme. Eserciti
di liti reclamarono, ma assecondarle no: voraci
di tempo che non potevamo sprecare per sanarle. Sentii d’avergli divorato i fianchi, lui mi lesse
dentro.
— Tu me’ pavat’, si, ma cù na’ risata.
— Che vuò a me? – Dissi lungo la crepa che mi
correva dentro. Non calò gli occhi, non si tolse da
me. Affermammo come se quei corpi non fossero
i nostri, avvinghiati a catena, nel duello di carne
e mente. Il riflesso dei suoi occhi scuri, due pozze nere, nessun gesto avrebbe potuto innamorarmi tanto.
Voli di gabbiani insanguinati, il vento aizzò il
mare che li schiantò sugli scogli, ammarò l’innegabile intesa fra noi, assassinata per salvare i nostri separati mondi.
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Patrizia Debicke van der Noot La canzone
A
ppennino toscano 1945
All’inizio della salita sentirono: Its a long,
long way to Tipperary… cantata a piena
voce da un coro maschile.
Il padre di Alessandro impallidì e mormorò:
— La marcia inglese. E viene da su, da noi!
Per fortuna, le campane della chiesa che battevano a morto soverchiavano il suono.
— Edwards è chiuso in cantina. Vado a vedere, non correre – disse Alessandro, allungando
il passo. Il cancello era socchiuso, aprì affannato. Nel giardinetto occhieggiavano i primi fiori di
primavera.
Its a long way to go! E il disco finì!
Dalla porta finestra della sala da pranzo poteva
vedere due soldatini della Wehrmacht, seduti al tavolo davanti a una bottiglia di marsala semivuota,
che bevevano e ridevano. Sul grammofono il disco girava ancora.
Entrò.
— Buon giorno! Desiderate? – chiese in tedesco.
Sostituì tranquillamente il 78 giri con quello di Lili
Marleen e l’avviò: Vor der Kaserne…
Era arrivato anche suo padre.
I crucchi si erano alzati in piedi. Uno spiegò:
— Il maggiore Konrad chiede se domani Donna
Josephina può fare colazione con lui?
— Mia moglie è andata al cimitero. Verrà con piacere, ringrazi il maggiore – rispose lui.
— Jawohl, riferiremo. È tardi, dobbiamo andare –
dissero in coro.
Il figlio li scortò alla porta.
Lili Marleen… ripeteva Lale Andersen.
— Bella canzone quella di prima, ma quando si è
lontani da casa, questa è meglio – dichiarò il più
giovane dei due.
— Per forza, la propria casa, mein Land, terra mia –
riconobbe Alessandro, mentre chiudeva.
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Martina Dei Cas La piazza degli specchi
A
ldo scende dal treno con un balzo.
Il viso segnato dal sole si protende alla ricerca del capostazione, ma l’orizzonte rimane deserto.
Così s’incammina verso il paese incastonato
tra le montagne. Prende la scorciatoia lungo il fiume: dove una volta c’erano solo erbacce e pietrisco, sorge ora un quartiere residenziale.
In lontananza i trattori si muovono lenti: la
vendemmia è iniziata.
L’anziano li segue e senza pensarci giunge al limitare dei campi.
Le scarpe di buona fattura sprofondano nel
fango e i pantaloni chiari s’inzaccherano, ma lui
non se ne cura, perché quelle che per gli altri sono solo macchie rappresentano l’impasto dei suoi
ricordi.
Respira profondamente e si dirige verso il
centro.
È giorno di mercato: in piazza un ragazzo dalla
pelle scura vende oggetti da pochi spiccioli. Ha gli
occhi tristi e il sorriso gentile.
Aldo si toglie il panama in segno di rispetto,
senza parlare.
Si deterge la fronte, lavando via la paura della partenza, il sudore degli anni di lavoro al di là
dell’oceano, la fatica del ritorno.
Si appoggia alla quercia che separa il Comune
dalla Chiesa.
Il vecchio e il giovane emigrante si guardano,
come in uno specchio del tempo.
Uno è tornato con dignità tra le montagne
che gli hanno dato i natali, la vita avviata verso il
tramonto.
L’altro è appena arrivato in cerca di riscatto,
ma con la speranza di sentire ancora, almeno una
volta prima di morire, il profumo della terra che
hanno calpestato i suoi avi!
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Gian Luca Del Marco
Incanti di viaggio
I
l treno lentamente prendeva velocità, rumorosamente, quasi con fatica. Una coppia di
mezz’età sedeva davanti a me parlando una
lingua straniera incomprensibile e misteriosa. Dal
loro aspetto si capiva che erano turisti. Mi sforzai
di carpire qualche suono della loro voce, qualche
parola che mi avrebbe potuto far intendere da dove potessero venire. I loro visi erano bianchi, occhi
e capelli scuri. Due belle facce, sorridenti e spensierate. Socchiusi un po’ gli occhi, cullato dal movimento del treno, chissà da dove vengono – mi
domandai – e chissà dove andranno…
Pareva quasi che i due stranieri avessero sbagliato percorso, la tranquillità con cui discutevano tra loro strideva con l’abituale e tumultuoso
chiacchiericcio che animava i vagoni durante il
viaggio.
Il treno intanto aveva imboccato la galleria, annunciando la prossima fermata: la meta del mio
quotidiano percorso.
Un sole abbagliante, ormai al tramonto, mi annunciò l’arrivo.
Ad un tratto, sentii un trambusto, mi accorsi
che i due stranieri erano con gli occhi spalancati, lei tracciava dei percorsi immaginari con ampi
gesti della mano ed indicava col dito dei punti sul
vetro che l’uomo prontamente immortalava con
la sua macchina fotografica. Capii che erano rimasti estasiati dal panorama del lago e dai monti
attorno che si rispecchiavano sul suo azzurro. Mi
alzai per scendere, quasi sorpreso da tanto entusiasmo ma in fondo un po’ orgoglioso…
Avrei voluto dir loro: Questa è la MIA TERRA!
Ma sapevo che non mi avrebbero capito.
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Emanuele Delmiglio
Lontano
dal mare
S
ognava di andare in un posto dove non si
sentisse più quel ronzio intermittente.
Camion di frutta, vecchie Dune con masse
informi legate al portapacchi grazie a corde elastiche multicolori, Bmw fiammanti stabilmente e
rabbiosamente sulla corsia di sorpasso.
Passavano notte e giorno, emettendo il proprio lamentoso brusio; basso e prolungato i veicoli lenti, più acuto e rapido quelli veloci.
Sognava di andare a vivere dove fosse il rumore della risacca a svegliarlo.
Con calma.
Avrebbe aperto gli occhi rimanendo qualche
momento a pensare a cose non essenziali, per poi
andare a passeggiare a piedi scalzi sulla battigia,
cercando senza fretta qualche conchiglia curiosa
e osservando lo zampettare dei granchi che rincorrevano la bassa marea.
E invece rimaneva lì ad ascoltare l’identico
brontolio. Tir frigoriferi carichi di animali morti,
sciami di motociclisti vestiti della pelle delle stesse
bestie, auto venute apposta dall’Ungheria.
Ogni sera portava giù i rifiuti e guardava il sole
calare oltre le barriere antirumore che rendevano
ovattato, senza attenuarlo troppo, il frusciare dei
mezzi sull’autostrada.
Si attardava a chiedersi blandamente come facessero gli altri ad abituarsi.
Sera dopo sera, lontano dal mare.
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Joselina Destefani
Joselina Destefani
La
A
Figueira della mia terra
Figueira de minha terra
(Traduzione dal portoghese brasiliano)
N
ella mia terra c’è una grande Figueira, bella e frondosa, mistica, romantica e misteriosa, ma anche gentile.
Fra i suoi grandi rami crescono lunghe barbas
de velho (barbe di vecchio) che usiamo per fare
il presepio a Natale. La sua grande chioma protegge dal vento i piccoli alberi e le piante rampicanti che crescono alla sua ombra. Su di lei si aggrappano anche piante acquatiche, perché sotto la frondosa Figueira sgorga una fonte che esiste da molti anni, bella e suggestiva: un’immagine
che incanta. Quando sorge il sole, lunghi raggi filtrano fra i rami e arrivano ai miei occhi.
Su di lei trovano rifugio uccelli di tutte le specie. Là l’uomo non ha il coraggio di cacciare, perché lei li protegge.
Su di lei vivono numerose varietà di orchidee e
bromeliacee colorate, licheni e molte piante d’aria e insetti, che si sviluppano per l’abbondanza di
humus e umidità; la gentile Figueira della mia ter96
N
a minha terra tem uma figueira gigante,
linda e frondosa, mística, romântica e misteriosa, mas também bondosa.
Em seus grandes galhos crescem longas barbas de velho, que se usa para fazer o presépio no
Natal. Seus grandes galhos também protegem árvores menores contra o vento, e as plantas rasteiras, que crescem na sua sombra. Nela também vivem as plantas aquáticas porque debaixo da frondosa figueira passa uma nascente que ali existe há
muitos anos, linda e sugestiva: uma imagem que
encanta. Ao raiar do sol, longos raios atravessam
suas ramagens e chegam aos meus olhos. Nela
pousam pássaros de todas as espécies. Lá o homem não ousa atacar, pois ela os protege.
Hospedeira de orquídeas e inúmeras variedades de bromélias coloridas, liquens e muitas plantas aéreas, além de insetos, que lá se criam devido a abundancia de húmus e umidade. A bondosa figueira da minha terra a todos alimenta. É uma
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ra offre cibo per tutti. È una pianta antica, citata
già dalla Bibbia nel Vecchio Testamento. Perché
lei è grande ed imponente, i raggi del sole la colpiranno ma non la feriranno. Lei resta ferma e in
piedi, misteriosa e romantica, da generazioni e
generazioni.
Giovani innamorati ti guardano e sognano una
lunga vita come la tua nell’amore e nell’armonia
del Creato. I biologi vogliono studiarti per capire cosa c’è in te di misterioso che tanto protegge, tanto resiste, tanto affascina. E tu sei lì e sarai
sempre lì, con le radici nella mia terra.
árvore muito antiga, mencionada já no antigo testamento da Bíblia. Por ser vasta e imponente, os
raios a atingiram e não a esmoreceram. Ela continua firme e em pé, misteriosa e romântica, por
gerações e gerações.
Jovens apaixonados olham para você, sonham com vida longa como a sua, no amor, e na
criação de Deus. Biólogos querem te estudar para entender o que tens de tão misterioso que tanto proteges, tanto resistes, tanto encantas. E tu estás e estarás sempre ali, com as raízes no chão de
minha terra.
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Giorgio Diaz La mia terra è il mare
L
a mia terra è aperta al mare, il mare dove sguazzavo da bambino, dove nuotavo
guizzando fra i pesci. Vedevo le grandi navi di ferro sostare in rada ed equipaggi multicolori scendere sulle banchine del porto, per assaporare la terra, la terra mia e loro. Gli schizzi di libeccio mi inumidivano i capelli, lo scirocco mi fiaccava, il maestrale mi rinvigoriva.
La mia terra è aperta alle genti; odora di spezie orientali, di stoccafisso che asciuga al vento. Vi
ho conosciuto mercanti di tappeti, commedianti, artisti; nugoli di pittori ritraggono le sue pinete, i suoi tramonti, le facce scarne dei marinai, rose dal sole, le tamerici ritorte. La mia terra mescola le religioni, rispetta i riti, costruisce templi
e cimiteri.
Dalla Palestina alla Norvegia, dall’Armenia alla Spagna, dall’Africa, dal di là degli oceani, tutti vi sono giunti cercando fortuna, ospitalità, rifugio; hanno attraversato il mare, che sempre ha u-
nito i popoli, e hanno visto le luci della città marinara che si avvicinavano, il porto sicuro.
Ma il mare è indifferente, alterna la calma e la
forza e non distingue fra negrieri e schiavi, “una
bontà e una forza che non comprendi”; il mare vuole che il suo dominio venga riconosciuto,
e accettato. Tanti lo hanno solcato, carezzandolo e a volte domandolo, se erano riusciti a farglisi amici.
Ora dalla mia terra scruto il mare e mi chiedo
quali donne e uomini verranno, per accoglierli e
nutrirli.
La vita vi scorre, bisogna rispettarlo.
La mia terra è il mare.
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101
Alessandro Disertori Come le radici dell’ acacia
I
l luogo della nascita non è il nostro primo ricordo. Lo è invece il luogo nel quale siamo
cresciuti. Perenne sorgente dei nostri pensieri, è importante come l’ aria che respiriamo.
Il distacco da lui è infatti uno degli atti chiave,
spesso doloroso, della commedia umana.
Soprattutto è rassicurante come il calore del
petto materno, sia esso un fastoso castello, una
masseria, una abitazione di periferia o anche,
spesso, una bidonville o peggio.
Come l’ acacia con le proprie radici, si fa sempre più ampio. Gli si aggiungono altri siti, ma in
noi è sempre il ricordo della sua esistenza ad avere la meglio.
Il mio fu un grande cedro ed una fontanella.
Si sarebbero poi aggiunti l’ accogliente conca di
Trento protetta da quattro cime, che ritenevo toccassero l’ azzurro trono di Dio, le Dolomiti atesine, tanto estranee a stupide sudditanze etniche,
l’ Adige e, infine, i laghi.
Quando ritorno in questo mio mini-universo
pur privo dei visi allora amati, l’ aria che vi respiro
è uno champagne d’ annata.
“L’ Italia non è un’ astrazione – scrisse De Sanctis
ai propri concittadini – è la casa, la famiglia, la
provincia, la regione. Chi si sente legato ad esse è l’ italiano migliore. Cominciate dunque ad essere buoni napoletani; guai se vedete solo un’ Italia astratta,
accademica e di scuola”.
Egli voleva rendere coscienti loro e noi, oggi,
come il legame alla terra che ci ha cresciuto, anche se sostenuto solo dal ricordo, aiuti a rendere
più ricca la nostra essenza umana.
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Peter Disertori Nostalgia
A
vvolto nelle tenebre equatoriali, guardavo il buio, ascoltavo i mille rumori assordanti della giungla ed il brusio di legioni di insetti.
Maledicevo l’afa e il caldo soffocante della foresta pluviale, anche se mi rendevo conto
che non erano nulla in confronto al penetrante odore, l’ odore d’Africa, l’ odore che mi aveva assalito nel momento stesso in cui ero sceso dall’ aereo e che non mi aveva più lasciato:
un misto di frutta andata a male, di marciume e
di acqua putrida che unito all’ umidità era ormai
diventato parte di me.
All’ improvviso il ricordo di casa mi assalì
doloroso.
Ma non erano le cime innevate delle Alpi, i
maestosi scenari dolomitici, il verde delle vallate o il frusciare dei torrenti a tornarmi alla
mente, erano la fragranza del fieno appena tagliato, l’ aroma dei boschi di conifere, il profu-
mo impalpabile della neve appena caduta, della legna d’ abete arsa nelle stufe… gli odori della mia terra.
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Danuta Dobkowska Danuta Dobkowska Quale terra?
Która ziemia?
(Traduzione dal polacco)
C
i vuole una sterzata; la mia vita è diventata
un dramma. Ero disubbidiente. Mio padre
tuonava: “Devi finire gli studi e farti una
famiglia!”.
Sapevo che, se avessi fallito, sarei stata cacciata,
ma qualcosa mi diceva di non ascoltarli.
Ho fatto le valigie e sono partita alla scoperta del
mondo. Il bisogno di amare mi faceva girare come
una trottola, annusavo le vite e le terre degli altri,
conquistavo le cose e un giro di amici, per poi ricominciare. Mi sentivo un’ eterna forestiera, un’ orfana, aggrappata al pezzo di cielo che può franare
da un momento all’altro.
Oggi percorro la strada dei canti smarriti portando in giro un’ombra stanca a ritroso fra il futuro, passato immediato o remoto sedimentato. Il corpo e il viso si sono consumati. La memoria vacilla. I
discorsi dei vecchi amici sono estranei.
La mia lingua madre è oramai sgrammaticata.
Salgono i rimorsi dalle città dei morti. Stringo a due
Moje życie stało się dramatem, potrzebna jest
zmiana kierunku. Nie słuchałam rad rodziców. Mój
ojciec grzmiał: “Musisz skończyć szkołę i założyć
rodzinę!”.
Wiedziałam, że jeśli nie zrealizuję planów, rodzina
oddali się ode mnie. Coś mi mówiło, aby nie słuchać
się ich.
Spakowałam się i wyruszyłam poznawać świat.
Potrzeba uczucia przenosiła mnie z miejsca na
miejsce jak bączek, wąchałam życie i ziemie innych
narodów, osiągałam przyjaźń, rzeczy materialne i już
likwidowałam wszystko, aby żyć od nowa. Czułam
się jak wieczny cudzoziemiec, sierota, przyczepiona
do kawałka nieba, co może spaść z chwili na chwilę.
Dziś mój zmęczony cień wraca do tych dróg, gdzie śpiewałam do utraty tchu, zagubiona między
przyszłością i przeszłością.
Sylwetka i twarz postarzały się. Pamięć osłabła.
Rozmowy z dawnymi przyjaciółmi są obce. Język
ojczysty nie kleci się. Z miast nieżywych wznoszą
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mani la vita che resta chiedendomi: quale terra?
Dico addio quando l’aereo decolla. Le mie lacrime si disperdono come un patchwork di vite sospese; per quanto polverizzate, ritrovano l’unità
nel rivelare che la mia terra è un piccolo orto nel
Trentino, adagiato ad un muretto a secco dove le
piante e gli animali si dividono i favori del sole e
della pioggia.
La vita si trasforma in danza: i lombrichi scavano la terra. Le rane cantano in coro, la mia gatta
caccia le lucertole, con il buio osano le lumache.
Qui mi sento felice, immersa nella lettura di un
libro.
się wyrzuty sumienia. Przytrzymuję obiema rękoma
pozostałe życie, zadając sobie pytanie: która ziemia?
Żegnam kraj, gdy samolot startuje. Moje łzy
rozpraszają się i realizują układankę tego rozproszonego życia. Wnet łączą się ujawniając, że moja ziemia
to ten ogródek warzywny w Trentino pod naturalnym
kamiennym murem, w którym rośliny i zwierzęta
dzielą się dobrocią.
Słońca i deszczu. Życie zamienia się tu w taniec:
dżdżownice przekopują ziemię, żaby śpiewają w chórze, kot poluje na jaszczurki, w nocy urzędują ślimaki.
Tutaj czuję się szczęśliwa, zanurzona w lekturze
książki.
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Dorina Dumbravă
Dorina Dumbravă
Moldova
Moldova
- Patria mia
- Patria mea
(Traduzione dal rumeno)
L
a Moldova è il paese dei contrasti: le città moderne con alti palazzi di cemento e vetro si affiancano a piccoli villaggi con vecchie case
che si nascondono tra gli alberi ombrosi, una terra
dove le persone ascoltano con lo stesso piacere sia la
musica moderna che le canzoni ancestrali.
I monasteri di una rara bellezza conservano tesori culturali e storici, innalzati orgogliosamente sulle
pianure o nascosti tra le colline o scolpiti nelle rocce, le fortezze invece raccontano le pagine del nostro tumultuoso passato.
Qui ho ascoltato il canto cristallino dei rigagnoli che si fanno strada tra le radici degli alberi secolari e il sussurro del vento che vaga tra i campi. Ho
ammirato l’arrivo dell’autunno nei boschi con le sue
tonalità bronzee e con il suo gusto dolce tra i vigneti
e la primavera che colora la terra di verde.
Amo la mia terra. Amo i boschi ombrosi, le rocce taglienti ed i laghi con i salici piangenti sulle loro rive.
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M
oldova e o ţară a contrastelor: oraşele moderne cu clădiri înalte din beton şi sticlă se
învecinează cu sate mici cu case bătrîneşti
ce se ascund printre copacii umbroşi, ţara în care oamenii cu aceiaşi plăcere ascultă muzica modernă şi
doinele strămoşeşti.
Mănăstirile de o frumuseţe rară păstrează comori
ale culturii şi istoriei noastre, înălţăte mîndru pe cîmpii sau pitite printre dealuri şi sculptate în stînci iar
cetăţi măreţe povestesc file din trecutul nostru tumultos. Aici am ascultatat cîntecul cristalin al pîrîiaşelor
ce îşi fac cale printre rădăcinile copacilor seculari şi
şoapta vîntului ce cutreeră cîmpiile. Am admirat toamna coborînd cu nuanţe de bronz peste păduri şi cu
gust dulce în vii şi primăvara care colorează pămîntul
în verde.
Îmi iubesc ţara. Iubesc pădurile umbroase, stîncile abrupte şi lacurile pe malurile cărora se închină salciile. Iubesc oamenii binevoitori, obiceiurile străvechi
şi limba melodioasă. Iubesc să privesc cum soare111
Amo le persone per bene, le vecchie tradizioni e la
mia lingua melodiosa.
Amo guardare come il sole sorge dietro le colline
e come piano piano cambi colore. Amo l’immagine
dei campi dove fioriscono i girasoli e quella degli
alberi che nascondono tra le loro foglie dolci frutti.
La mia Terra è veramente bella.
Per me, la Patria si associa al profumo del pane
appena sfornato, al gusto dolce dell’uva matura, al
suono della madrelingua e al paesaggio delle distese dorate di grano che raggiungono l’orizzonte. La
mia Patria è la Moldova, terra con una storia millenaria. Terra che coniuga il passato con il presente.
le răsare de după dealuri şi ele încet încet îşi schimbă
culoarea. Iubesc imaginea cîmpiilor pe care înfloreşte
floarea-soarelui şi a pomilor între frunzele cărora se
coc fructele dulci. Ţara mea e cu adevărat frumoasă.
Pentru mine, Patria întotdeauna se va asocia cu aroma pîinii tocmai scoase din cuptor, cu gustul dulce al strugurelui copt, cu sunetul graiului matern şi cu
priveliştea lanurilor aurii ce se întind pînă la orizont.
Patria mea e Moldova, ţara cu o istorie milenară. Ţara
care îmbină trecutul cu prezentul.
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Anna Maria Ercilli Colpo di vento
I
l ritorno nel bosco, il luogo della sua infanzia
lo emoziona come nel giorno della festa degli alberi. Si rivede scolaro, alla ricerca del suo
piccolo albero da piantare, ognuno poteva scegliere fra quelli posati nel riparo, le radici avvolte nella juta. Le buche, scavate dagli uomini della Forestale di primo mattino, aspettavano i bambini titubanti con gli alberelli per il nuovo bosco.
È arduo ritrovare i propri passi fra i tronchi cresciuti e le ombre disegnate dai rami, ma con un
po’ di fortuna rivedrà il suo albero. Ne ricorda il
nome e la silhouette, il carpino bianco.
Veniva qui da ragazzo, prendeva la terra odorosa di humus da portare a casa, per i vasi della
mamma. Terra mia, si diceva, annusando il tipico odore della trasformazione delle foglie in soffice terra scura. Non c’era bisogno di concime, i
gerani erano rigogliosi dalla primavera all’autunno. Riconosce l’albero dal tronco grigio e le infiorescenze sui rami, lo accarezza, scorrendo con lo
sguardo tutta l’altezza – amico albero sei cresciuto, anche noi ragazzi siamo cambiati – fatichiamo
a riconoscerci.
Il vento e i suoni del bosco ravvivano un ricordo. Un sentiero fra il verde, teneva per mano Alice, parlavano fitto e ridevano spensierati. Quanti propositi e desideri nascevano dai loro incontri. Ingenui entrambi, non sapevano che
la lontananza li avrebbe separati. Nel racconto,
Alice si addormenta e incontra un mondo fantastico; lui dove stava, nel sogno o nel ritorno?
Sente il desiderio di cercarla.
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Ornella Fait Lucciole
-V
iviamo in un mondo fantastico! – esclamo guardando il paesaggio dal
treno. – Il perimetro dell’orizzonte è
suggestivo al tramonto.
— Dobbiamo rendercene conto prima che sia
tardi e che troppo veleno distrugga la natura – risponde una signora che ha preso posto accanto
a noi.
— Ricordo che quando ero più giovane di notte
si vedevano tante piccole luci ed erano le lucciole, ora scomparse a causa dell’aria irrespirabile –
aggiunge sconsolata.
— Di notte si nota sui prati in collina qualche lucciola – sono sicura d’averla rincuorata. – È necessario preservare la natura. Ci troviamo davanti un
cambiamento epocale.
La signora accenna affermativamente.
— La congiunzione di Nettuno sarà quella che ci
apporterà una diversa consapevolezza e l’aprirsi ad una cultura di Rispetto e di Trasformazione.
C’è molto silenzio.
Sui binari il treno ripete un suono che c’accompagna fino alla destinazione. Un’isola che non rivedo da anni e che m’ha lasciato nel cuore tanta
nostalgia. La terra mitica dove tutte le storie umane si sono allacciate per dare una impronta a tutta la storia fino ad adesso.
— La terra è tutta fatta di sassi vento e colori.
Respireremo dal Mediterraneo la forza per ringiovanire – dico alla signora. E scopriremo che stiamo facendo la stessa strada per diventare ricchi
abitanti d’una terra finalmente rispettata in ogni
sua forma ed essere vivente.
Il tramonto è terminato e la sera copre con un
manto di stelle la nostra terra futura.
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Gabriele Falcioni Dipinti nella sabbia
N
on usa colori, solo chiaroscuri.
Dita danzano e solcano la sabbia.
Granelli si ammucchiano, altri si separano
e lasciano filtrare la luce. Qualche graffio, e una cavità diviene una medusa dai tentacoli fluttuanti.
Uno scatto del polso, e da un solco nasce il collo flessuoso di un brontosauro. Dita che si aprono
su traiettorie divergenti, ed ecco gli arti dinoccolati di un primate.
Un affresco immenso e dettagliato di creature
incastonate con perizia. Quasi una settimana di lavoro, di sforzi sovrumani, d’amore.
Un uomo e una donna si osservano al centro
del disegno, circondati da simili. Si fronteggiano.
Un profilo sottile li separa, l’uno il riflesso dell’altra.
Immobili.
Dov’è la vita?
La vita è cambiamento. Dove sono finiti i gesti
che hanno creato il disegno? Come può quel disegno rappresentare la vita?
Un alito sulla sabbia e il disegno tremola.
Persone che lottano per cambiare minuzie, purché tutto resti com’è. Persone che negano il cambiamento e che lo negano ai propri figli.
Persone che negano la vita. Figure nella sabbia
che fingono di vivere nel cemento.
È tempo di cambiare.
Le sue dita si aprono e affondano nella sabbia.
Scendono verso il disegno. Dove passano, solo scie
di luce pura, come se il cielo si fosse aperto e avesse
vomitato strali infuocati. Poi esitano, e si fermano.
Ama troppo tutto questo. Ama questa terra.
È la sua.
Si china verso le due figure al centro del disegno.
Ma è tempo di cambiare.
Le bacia. Ora non le vede più: una lacrima le ha
trasformate.
Inizia a piovere.
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Guido Falqui-Massidda Le zucche
Q
uesta volta me ne dovrò stare lontano
dalla mia terra per un bel tratto di tempo. Il mio lavoro, maledizione, prevede
interventi in loco per rimettere in piedi organizzazioni aziendali traballanti. E il raggio d’azione fino
ad oggi mi permetteva una residenza più o meno stabile.
Adesso dovrò andare lontano, in una terra
grassa e montuosa, che dà frutti troppo ricchi, insipidi, zuccherosi, rivoltanti.
Addio terra delle mie brame. Quella terra che
mi dava la vera ragione di vita: le mie uniche, incomparabili zucche. Zucche che portavano nella pasta arrostita, lessata, pasticciata in torte e tortelloni tutto il sapore di una terra tormentata, viva, minerale.
Perché vivere senza questi veri piaceri, perché
lottare e lavorare senza le mie zucche?!
Ho deciso. L’occasione di carriera è troppo
ghiotta. Ma accetterò solo se i miei datori di lavo-
ro faranno trasportare nella mia nuova residenza,
per mare, per terra, per aria, si arrangino, la terra
del mio orto.
Hanno accettato perbacco. Grandi vasi di terracotta sono stati portati in una grande terrazza.
Con dentro la mia terra. La terra mia.
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Lidia Filippi Poesia per la mia terra
L
ia si spazzolò i lunghi capelli neri davanti
allo specchio che le restituiva un’immagine di donna ormai cinquantenne, pur sempre molto bella; cercava di confrontarla con quella
delle vecchie fotografie di allora quando, trent’anni prima, se n’era andata per seguire gli studi universitari. Non sono cambiata poi tanto – disse fra
sé – sorridendo.
Era diventata giornalista, inviata speciale, scrittrice, poetessa di successo e ne era fiera.
Ora si sentiva felice perché stava per ritornare
alla sua terra, in mezzo alla sua gente.
Poi prese penna e foglio e scrisse così:
“Il paese dove nasci e cresci è la tua terra, è un
luogo speciale, un piccolo mondo perfetto, quello che vedi per primo e ami. Ne conosci ogni suono e ogni profumo, ogni cosa parla il tuo stesso linguaggio e tu lo comprendi perché ti appartiene;
è un mondo che ti protegge e ti rassicura. Ancora
non sai che oltre l’orizzonte ci sono altri paesi, città,
strade, fiumi… Poi cresci e ti prende il desiderio di
andartene, incontri nuova gente, vedi cose stupende, ma il paese dove nasci rimane la tua terra, tu
non la puoi scordare, essa ritorna sempre nei tuoi
sogni e nei ricordi.”
Era il pensiero di Lia alla vigilia del suo ritorno
al paese natale, la frase che avrebbe pronunciato all’inizio della cerimonia di presentazione del
suo libro.
Seguendo il richiamo della sua terra stava per
farvi ritorno, con sé una raccolta di poesie meravigliose ed emozionanti, composte pensando alle sue origini.
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Gilberto Gagliardi
Ricordi
di fanciullo
N
oi abitavamo al primo piano di una casa
di campagna, vicino alla stazione ferroviaria. La famiglia di sotto, per racimolare qualche lira, aveva trasformato la vecchia stalla in deposito biciclette per chi doveva prendere
il primo treno.
La nostra Mamma si alzava ancora col buio per
iniziare la sua estenuante giornata, aggravata anche dal pesante lavoro di magliaia, in soccorso alla paga del Babbo ferroviere.
Come accendeva la lampada da tavolo, il gallo,
percependone il barlume, straziava il silenzio lanciando a squarciagola il suo primo chicchirichì.
Mamma, col suo solito umorismo bolognese,
commentava: “Anche oggi ti ho fatto da starter,
pennuto erotomane”.
Poi, sempre col buio, si accendeva la fioca luce
del deposito e il re del pollaio rilanciava nella notte il suo secondo lacerante grido.
Dopo un po’ arrivava l’alba e con essa il terzo
chicchirichì, quello naturale per intenderci, che
faceva imbestialire chi aveva sperato in una sua
défaillance, per riprendere il sonno interrotto bruscamente più volte.
Non per Mamma, che ne apprezzava, con ironico diletto, la puntuale sonora vitalità.
Le vivaci disquisizioni degli anziani erano sempre animate, perché l’originale pennuto avrebbe dovuto annunciare ad alta voce ognuna delle
sue prestazioni maritali iniziate con l’aurora e non
un’unica volta ad ogni stimolo pseudo meteorologico, che il cambio delle stagioni contribuiva al
disarmonico funzionamento dei suoi neuroni.
Solo la quiescenza pose termine alla sua curiosa notorietà.
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Davide Galati Anniversario
L’
uomo aveva i capelli bianchi, era seduto
al tavolino del bar e guardava la neve cadere. L’interno era piccolo e raccolto, sulle pareti di legno le ballerine di Degas.
Socchiuse gli occhi, poi avvertì il suo profumo.
— Ciao, – disse lei appoggiando i guanti sul tavolo e togliendosi il cappotto – è molto che aspetti?
— No. – mentì lui osservando i fiocchi di neve che
le cadevano dai capelli ricci e soffermandosi sui
suoi occhi profondi.
— Bugiardo. – sorrise lei.
— Mi piace stare qui ad aspettarti.
Si sedette con un sorriso accogliente.
Lui guardava con dolcezza le piccole pieghe
che la pelle, col tempo, aveva fatto sul suo viso.
La rendevano ancora più affascinante.
La cameriera li fissò da lontano. Venivano ogni
anno, l’otto dicembre, solo quel giorno. Lei era
davvero una bella signora, molto elegante. Lui un
po’ sovrappeso, ma con un certo fascino. Stavano
lì un paio di ore, ordinavano sempre le stesse cose e parlavano, parlavano… parlavano.
Guardandoli capivi che si volevano bene
davvero.
Lui scoppiò a ridere. Lei si illuminò. Gli occhi di
lui divennero tristi, ma solo finché lei non gli strinse la mano. Risero ancora e continuarono a parlare e il tempo perse significato. Poi lei si alzò e si
rimise il cappotto. La baciò con passione, poi lei
uscì e lui la guardò allontanarsi nella neve.
La cameriera si avvicinò per pulire e si lasciò
sfuggire:
— È davvero una bella signora...
— Sì, è la mia casa... il mio punto fermo... la mia
terra... è mia moglie! – rispose sorridendole.
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Francesca Garello Tre chili
S
ono tre chili, più o meno. Stanno tutti in
soli sedici centimetri di diametro e quindici di altezza. Non è una cosa molto ingombrante da trasportare, magari non comodissima se si va lontano, e soprattutto se si va di fretta.
Io sono andata via di fretta. Non ho portato
molto di più con me, d’altra parte, quindi non è
che mi abbia dato tutto questo disturbo. Avevo le
mani abbastanza libere. Era il ’38.
C’è voluto più impegno, semmai, nel trovargli ogni giorno un bicchiere d’acqua e proteggerlo dal freddo e dalle scosse del viaggio, che non è
stato né corto né comodo.
Ogni tanto ho temuto che non ce la facesse.
Non sembra, ma il basilico è una pianta delicata. È talmente diffuso che nessuno ci fa caso se
una pianta muore: se ne trova facilmente un’altra,
si svuota il vaso e la si rimpiazza con una nuova.
Ma io ci tengo a questa pianta, a questo vaso.
Sul retro della casa avevo un piccolo orto. La
terra la presi lì e la misi nel vaso perché il basilico
volevo tenerlo sul davanzale della finestra, in modo da averlo sotto mano mentre cucinavo.
Un vaso piccolo. Circa tre chili di terra.
Così stava al riparo anche quando soffiava il
vento, che dalle nostre parti è molto freddo.
Anche adesso il basilico sta sul davanzale, un
altro. Sta abbastanza bene, nonostante tutto.
Potrei metterlo in giardino, forse. In America tutti hanno un giardino, e sono sicura che al basilico piacerebbe.
Però mi spiacerebbe buttare la terra del vaso.
È tutto quello che resta di casa mia.
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Karin Gelten Karin Gelten Il mio paese incantato
Mi país encantado
(Traduzione dallo spagnolo)
I
niziai a sentire l’odore e il rumore inconfondibile del mare che mi salutava, dopo aver attraversato un bosco infinito di un verde brillante, popolato d’allegri pappagalli variopinti come il paesino che i miei occhi videro apparire all’orizzonte: umili casette di legno sopra palafitte, dipinte con i colori dell’arcobaleno.
La mia gente, sorridente, mi salutava gioiosa con
le braccia aperte.
Mi avevano riconosciuta.
Corsi da loro, urlando: terra mia!
Mi hanno abbracciata ridando vita ai miei ricordi. La nostalgia che portavo nel cuore, dopo anni di
lontananza, era tale che i miei occhi si riempirono
di lacrime.
Un tremore scosse il mio corpo guardando quella
terra tempestata di isole, laghi, fiumi, sovrastata da
maestose montagne dai picchi innevati.
Guardando il cielo celeste intenso, un sole arancio mi sorrideva emanando potenti raggi, che ca130
E
mpecé a sentir el olor y el ruido inconfundible del mar, que me saludava, luego de
haber atravesado un bosque infinito de un
verde brillante, poblado de alegres papagayos variopintos como el pueblito que mis ojos veían aparecer al horizonte: humildes casitas de madera sobre palafitos, pintadas con los colores del arcoiris.
Mi gente contenta, sonreía alegremente y me
saludava con los brazos abiertos.
Me habían reconocido.
Corrí hacia ellos, gritando: tierra mia!
Me abrazaron dando vida a mis recuerdos. La
nostalgia que llevabo en mi corazón, después de
años de lejanía, era tanta que brotaron lagrimas
de mis ojos.
Un tremor invadió mi cuerpo mirando esa tierra tempestada de islas, lagos, rios, circundada por
majestuosas montañas con picos nevados.
Mirando el cielo celeste intenso, un sol naranja
me sonreía mandando sus potentes rayos, que
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devano sopra l’interminabile oceano, le sue onde
muovendosi brillarono fortemente, provocando in
me un’emozione che mi tolse il respiro.
Contemplando l’infinito oltre l’orizzonte, domandai a Dio come avesse creato questa meraviglia. Si
levò un vento gagliardo che mosse i miei capelli,
accarezzò il mio viso e una voce affettuosa mi sussurrò che, quando creò le meraviglie del mondo, Gli
erano avanzati pezzi di terra, ghiacciai, boschi, fiumi e invece di lasciare che si perdessero, li depose
nel luogo più remoto della Terra: la mia Terra.
caían sobre el interminable oceano, sus olas moviéndose brillaron fuertemente y provocaron en
mi una emoción que me quitó el respiro.
Contemplando el infinito mas allá del horizonte, le pregunté a Dios como había creado tal maravilla. Se levantó un viento gallardo que movió
mi pelo, acarició mi cara y una voz cariñosa como un susurro me dijo que, cuando había creado
las maravillas del mundo, Le habían sobrado pedazos de tierra, glaciares, bosques, rios y en vez
de dejar que se perdieran los juntó y los depositó
en el lugar mas remoto de la Tierra: mi Tierra.
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Vanessa Giolitti L’ incontro
L’
una saliva, l’altra scendeva le scale della
palazzina dove avevano vissuto la prima
parte della loro vita.
Erano passati quasi trent’anni da quando si erano viste l’ultima volta.
Un sorriso, un abbraccio: “Sei tu? Come stai?
Che fai qui?”. L’una faceva eco all’altra.
Per la vendita dello stabile si ritrovavano sullo
stesso pianerottolo luogo di lontani giochi.
Scorrono i ricordi all’indietro pensando alle loro madri, ai loro padri, alle amiche. Porte che si
aprivano con un semplice: “È permesso?”, un andare e venire con una qualsiasi scusa. “Uno spicchio d’aglio, un pezzo di pane, un bicchiere di vino.
Domani glielo riporto...” “Guardi cosa ho fatto: vuole assaggiare? Venga...”.
— Ti ricordi la vecia del piano di sotto? Forse
la figlia ci sta guardando dallo spioncino. Vecchie
abitudini?!
Ammicca l’una, ride l’altra e così scendono e si
ritrovano sul marciapiedi dove, bambine, giocavano a palla prigioniera. Ora lo solca una ciclabile senza divisorie. Il traffico della strada è sostenuto. Bambini non se ne vedono. Altri tempi!
Arrivano al caffè dell’angolo, pochi minuti ancora poi ognuna deve ripartire. Un’ultima occhiata all’orologio, due passi insieme fino al pullman
che riporta l’una al paese, mentre l’altra va ai treni.
Il posto vicino al finestrino mostra a sinistra tutta la città. Il corso, la rotonda, il ponte, il castello,
la campana, l’ossario, la curva e mentre il pullman
sale, il treno prende velocità e scende al Sud.
“Ciao terra, terra mia” e un sorriso frena il
pianto.
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Giuseppe Gottardi Marte mio
A
tti della IIª Commissione Lessicografica
Martiana.
Lettura Accademica del Presidente
Nicholaus Tommaseus.
Signori,
mi pregio di riferirVi con questo mio breve excursus, lo stato attuale dell’arte.
L’incarico da noi assegnato alla nostra illustre
Commissione Accademica, ha portato a compimento la prima stesura del Lessico Martiano.
Un lavoro arduo e immenso che dovrà godere
della nostra più ampia benevolenza.
Le soluzioni prospettate per il superamento di
difficili problemi linguistici ci vedono particolarmente soddisfatti.
Tuttavia, mi sia permesso esplicare un’unica
perplessità.
All’interno del vocabolario c’è stata una furia
quasi iconoclasta nel cercare di far scomparire il
termine terra.
È vero che siamo su Marte e che il ricordo delle nostre origini, specialmente nelle nuove generazioni, ha ormai subito devastanti metastasi, ma
alcune scelte linguistiche mi hanno, addirittura,
mosso al riso.
Vedere termini, come: interramento, interrazziale, senzaterra, terracotta, terrazzamento, zappaterra subire una trasformazione al punto da divenire incomprensibili, ci lascia oltremodo perplessi. Parole come: inmartemento, inmartezziale, senzamarte, martecotta, martezzamento, zappamarte, non credo si possano accettare senza alcun fremito.
A nostro avviso un’unica eccezione riteniamo
sia possibile ammettere e quindi consigliamo d’introdurre, quasi come d’obbligo, nei corsi primari: che si usi non più la frase TERRA MIA, bensì
MARTE MIO.
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Marco Guarnieri
Splendore
S
plendeva. Sì, splendeva il suo mucchio enorme di carabattole e chincaglieria che
teneva fra le braccia: antichi collier della
nonna con zirconi e zaffiri, manoscritti rilegati in
pelle, candide perle di vecchie clienti, papillon in
raso fine orientale, minuscole e slanciate bottigliette arabe con spezie di viaggiatori collezionisti,…
tutto splendeva e ad ogni scalino che faticosamente lasciava dietro a sé un canto di beatitudine irrorava il suo cuore di pura gioia ed appagamento.
Il terz’ultimo scalino volle, come per burla, ritirarsi sotto alla sua scarpa trasandata, lasciandolo cadere sugli altri compagni di legno e tarli. I ragnetti del soffitto raccontarono poi d’un maestoso e ben riuscito fuoco d’artificio di mille colori
e scintillii: ei cadde sontuosamente separandosi,
aimè, di preziose collane, rarissimi scrigni e dell’unico collo che aveva.
Dio, quello della mela proibita, lo guardò più
volte prima di distogliere lo sguardo divertito da
quel suo ometto: lo vedeva morto e quasi spento
nel suo cofanetto di carne umana che ancor aveva gli occhi sgranati sulle pareti della fossa e, come volendo scansare i colleghi stecchiti, volgeva
un sol pensiero a quella torba succosa e nera che
pian piano lo pigiava:
“Mia questa terra, questa terra è mia, mia terra,
TERRA MIA!”
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Luigi Guicciardi Un commissario, una città
S
siede sul bordo del letto, pieno di stanchezza. Chiude gli occhi e osserva lo scintillio che passa rapido da destra a sinistra.
Si chiede da cosa possa dipendere. Forse è l’effetto della debolezza, della convalescenza. L’hanno
messo in guardia, i medici.
Ma forse è qualcosa di più di una convalescenza. Può anche diventare un congedo; un
congedo dalla polizia. Lasciare la presa, finalmente, sui problemi degli altri, sulla gravità,
la furia, il fango della vita. Allo stesso modo
in cui si finisce per stancarsi del dolore, del
senso di colpa, della rabbia verso ciò che ci
circonda.
Si sdraia sul letto. E pensa a Modena, adesso. In un clima da film francese, in bianco e
nero. Modena buia per la nebbia, grigia per la
pioggia, certe piazzette, all’improvviso, che ricordano Parigi, vecchie chiese che sembrano
dipinte.
Non l’ha mai ascoltato, ma l’ha avvertito
spesso, un suono malinconico di piano. E i pomeriggi dalle ombre di cenere, le notti lunghe
di pioggia e di ricordi, le strade strette del centro storico, e i viali che si slargano, con le foglie dei platani…
E le memorie: dei luoghi, dei visi, dei gesti,
anche di quelli appena accennati, intuiti, indovinati; la memoria di volti di donna, non solo
di Alice; di profumi, di gesti consumati, svelti o
lenti, nel modo più vissuto. Tutto dentro.
L’amore, sì. Non solo per la donna, il suo odore, gli occhi, i movimenti; ma anche per una
città, che se la giri finisci per amarla sul serio e
senti che è tutto, tranne che estranea, lontana.
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In-pagina Terra d’accoglienza
Q
uando ti svegli nella cuccetta, con la
bocca impastata d’un sonno di rotaie infinite, l’odore degli altri è la prima cosa
che senti, ma non lo capisci subito. Sai solo d’aver
dormito col peso della notte addosso e non ti senti
riposato. In cerca d’aria boccheggi fino al finestrino del corridoio.
L’alba si sfila dalle spalle dei monti. La voce del
capotreno fa capire che la meta non è lontana.
L’occhio scopre anticipi di malinconia, verdi distese che diventano sempre più gialle. Coltivazioni
di luppolo. Le conosci bene e ti si stringe il cuore a pensare che sulla scia di quei campi s’è costruita la tua storia d’emigrante. Uguale a quella
di tanti. Chilometri di terra senza terra, che non
ti sei sentito più appartenere a nulla, neanche ai
campi. Volevano operai, non contadini. E operaio fosti, per macchine belle oltre l’immaginazione
stretta di chi non se le può permettere. Osservavi
il lusso da lontano, senza disturbare. Non era pre-
visto che la forza lavoro a basso costo avesse esigenze di alcun tipo. Le braccia che volevano erano senza corpo e senza cuore.
Improvviso, un nodo d’angoscia ti avvinghia:
chi ti riconoscerà più?
Dallo scompartimento fa capolino Petra. Ti sorride. È per lei che sei rimasto, anche quando la
nostalgia delle montagne ti uccideva. Nella florida rotondità porta ancora il segno della discendenza che ti ha dato, lei sì che si è fatta per te Terra
d’accoglienza. Ora le farai conoscere il tuo Paese.
“Guten Morgen meine Liebe!”.
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Norberto Julini Le noci di Al Mansura
A
l piccolo Geries piacevano le noci, ma la
sua famiglia era povera, le noci costavano troppo.
Un giorno vicino ad un villaggio abbandonato
sui monti della Galilea con i ragazzi più grandi si
imbatté in un noce che ne aveva lasciate cadere
una gran quantità.
Geries tornò a casa fiero di portare un dono
prelibato ed inatteso.
Papà Sa’ed invece lo rimproverò:
— Dove le hai prese? Ti ho detto di non rubare, mai!
— Le abbiamo trovate nel bosco e tutti ne hanno
prese sotto l’albero – rispose Geries spaventato.
— Quale albero? – insistette il padre. – Portami a
vedere.
Appena vide l’albero Sa’ed tornò precipitosamente a casa, aprì la finestra, buttò le noci.
— Perché l’hai fatto? – chiese la moglie.
— Erano noci di Al Mansura – rispose Sa’ed e si
chiuse in un silenzio cupo.
— Che cosa ho fatto di male? – chiese Geries alla mamma.
— Nulla, ma devi sapere che quelle noci un tempo erano nostre, noi veniamo da Al Mansura.
Là c’era la mia terra e la mia casa. I soldati vennero un giorno a dirci che dovevamo venire via e
di non prendere nulla, soltanto di chiudere la porta a chiave. Saremmo tornati presto, dissero.
Invece il giorno dopo arrivarono i bulldozer e
distrussero tutto.
Oggi ad Al Mansura c’è un parco naturale e i resti delle case sono segnalati come “ruderi romani”.
Geries accompagna i pellegrini. Si rifiuta di pagare il biglietto d’ingresso, spiega da lontano la
storia della sua famiglia e del suo popolo che aspetta il ritorno a casa.
Ha ancora la chiave: la tiene appesa al muro
come una croce.
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Marisa Lanzerotti
Mari&monti
M
ia sorella è alpinista, lei i monti li scala.
Io no. Lei dice che io non li amo, perché non ci vado, ma è una bufala mega, perché io i monti li amo eccome! Solo che forse li amo per motivi diversi dai suoi.
Ah, non parlo del Nepal, ‘ché io di quello non
so nulla. Io so dei monti della Val di Non & co., ma
forse i monti sono tutti uguali, in fondo.
1. I monti erano lì quando sono nata, anzi hanno visto nascere pure mio padre e il padre di mio
padre; hanno visto anche i miei antenati spostarsi
da Rumo a Romeno nel 1400, anzi i monti erano
lì molto prima che fondassero Rumo e Romeno...
quindi mi conoscono da sempre e io per questo li
amo. Amici di lunga data.
2.In questo mondo di cose passeggere ed agitate, come non amarli? I monti sono lì, fermi, maestosi e tranquilli.
3. Nei monti vivono molte piante grandi, vivono molti animali selvatici, e, soprattutto, c’è il si-
lenzio. A me piace la natura e il suo silenzio e se ci
vado, mi piace camminare piano, che non si senta il rumore dei miei passi. Non so se sono così felici che la gente li scali, a dire il vero. Credo che li
disturbiamo.
Ragionevolmente, il regno del silenzio mi mette soggezione.
4. A volte sono rotondi e materni, coperti dai
pini. A volte no. A volte sono nudi e aguzzi contro il cielo. Sono attratti dall’Infinito. E con l’Infinito non si scherza. Chi tende all’Infinito non può
far altro che mostrarsi per quel che è, esposto nudo agli eventi.
Sono coraggiosi, come non amarli?
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Gordiano Lupi La mia Baratti
B
aratti capolinea del mondo. Era il solo
modo per definirlo quando viaggiavo per
le strade di Piombino con la mia Legnano
azzurra, ma anche quando mio padre mi portava
a Salivoli a bordo di una bicicletta nera o di una
moto Laverda.
Baratti era lontano dalla grande acciaieria che
divorava il presente e il futuro di braccia operaie, la serenità d’un lago salato per chi si affacciava
dalla rocca di Populonia, un orizzonte di ricordi
dispersi nella quiete del golfo etrusco.
Baratti era il mare dei giorni festivi, la spiaggia
del Primo Maggio, del Ferragosto, luogo per un
picnic all’ombra di pini secolari, invecchiati insieme al bambino che li osservava stupito negli anni
Sessanta, correndo dietro a un pallone nel grande prato verde.
Baratti era il mare borghese di noi figli d’operai, da raggiungere a bordo di affollati torpedoni,
con una moto scoppiettante, in bicicletta, corren-
do in motorino, persino a piedi dopo essere scesi
dal treno che fermava alla stazione di Populonia.
Adesso, chi lo fa più? La crisi ci tormenta, lo
spread è in cima ai nostri pensieri, ma tutti possediamo almeno due auto per famiglia e un telefonino per abitante.
Baratti si raggiunge soltanto in auto, al limite in
moto, ogni giorno d’estate, ma anche d’inverno,
nelle terse domeniche assolate.
Perduta la magia d’un tempo, finita la storia del
capolinea del mondo.
Baratti resta uno spettacolo per gli occhi, ma è
svanito il mistero racchiuso in un golfo tormentato dal maestrale.
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Paola Malcotti Ceneri...
È
in ciò che resta di questa vita mia, ormai
accartocciata su se stessa, che rivedo il periodo nostro più bello, quello delle speranze, del batticuore, dell’amore.
È in ciò che resta di questa nostra terra, ormai
arida nuvola di polvere, che torno a percorrere i
sentieri più sinuosi o dolci, più solitari o affollati, dove le nostre mani si sfioravano, si univano, si
accarezzavano.
È in ciò che resta di questi nostri laghi, ormai
oceani di indifferenza, che mi lascio trasportare
alla deriva dalle onde dei ricordi, come una nave senza capitano né equipaggio, senza bussola
né meta.
È in ciò che resta di questi miei occhi, ormai
stanchi di lacrime amare, che i colori si fanno
giorno dopo giorno sempre più spenti, per dar
spazio al nero profondo.
È in ciò che resta di questi miei orecchi, ormai
sordi ad ogni parola di conforto, che trovo le me-
lodie più dolci, quelle che eravamo soliti ascoltare, condividere ed amare.
È in ciò che resta di queste mie parole, ormai
solitarie e sussurrate al vento, che i tuoi silenzi
stridono ora, e straziano, e rimbombano come echi di cannoni lontani.
È in ciò che resta di questa mia pelle, un tempo
bruciata da baci e carezze ma ormai solcata da ferite profonde e sanguinanti, che l’immagine di te,
di noi, si fa presente, nella tua assenza.
È in ciò che resta di queste mie ceneri, da te ormai raffreddate e sparse sulla nuda terra, che ora
io più forte rinasco.
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Carla Mannarini A terre unite
È
estate. Il sole incanta le parole con cui cerco di descriverti l’aria impastata di sale marino e campagna della mia infanzia. Le cicale ci accompagnano.
Sono felice che tu sia qui con me. Stiamo scendendo lungo la pineta intricata e ombrosa. I raggi la squarciano a tratti, ma lassù l’azzurro limpido
è la promessa della sorpresa che vedrò dipingersi nei tuoi occhi quando lo sguardo si aprirà sulla
baia di Portoselvaggio.
Ti muovi con passo sicuro tra i sassi di calcare
bianco che devono sembrarti percorso per principianti, abituato come sei alle spigolose rocce rosa della tua terra alpina. Non dici nulla. La nostra
giovane età ci dispone al venirsi incontro, è per
questo che stavolta hai rinunciato al tuo Lagorai
per una breve vacanza nel mio Salento.
Ma questo spicchio di mare nascosto non te lo
aspettavi, e quando il sentiero d’improvviso s’allarga, lo vedo che il fiato ti manca per lo stupore.
Mi abbracci.
Siamo solo noi, perduti nell’infinito azzurro che
si stratifica. Acque di cristallo e toni iridescenti del
verde riflesso che si rincorrono fino al blu e al lilla violaceo delle striature in fondo al cielo. Il vasto
intorno, senza soluzione di continuità.
— È come stare sulle cime del tempo, prima della
creazione delle montagne – mi sussurri.
Vorrei baciare la tua trentinità, in viaggio fino a
qui, nel fuori luogo, dove si rinnova.
— È la mia terra d’acqua… – sorrido – Sono io.
Intrecci le tue dita alle mie:
— Mare e monti uniti per sempre.
L’emozione ci uccide e ridiamo felici.
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Giacomo Manzoni di Chiosca L’ orto
L
ui s’ era impegnato parecchio per poter disporre di quei pochi metri quadrati. Era stato il suo sogno fin dall’infanzia ed ora si godeva il suo orto, insieme ai bambini, felici di vedere il loro babbo sudare, affaticato ma contento, a
zappare, seminare, diserbare e alla fine raccogliere le delizie di quell’orticello tutto suo.
La moglie no. Non sopportava i suoi ritorni con
le scarpe infangate, i pantaloni imbrattati, le camicie logorate e le mani incallite. E poi quell’impegno costante rendeva problematico allontanarsi
anche solo per pochi giorni di vacanza.
In effetti, col tempo, gli impegni di lavoro del
marito, lo avevano obbligato a ridurre le ore dedicate al suo orto, fino a trascurarlo del tutto. E lei,
un po’ per far piacere a lui, un po’ perché quel terreno vicino a casa non assumesse un aspetto vergognoso, si era data da fare per tenerlo in ordine.
Pian piano si era veramente appassionata a
quel lavoro a contatto con la natura, che le per-
metteva, per qualche ora al giorno, di dimenticare i crucci e i problemi quotidiani. Ora l’orto era
suo: la sua terra produceva frutti deliziosi, orgoglio della sua mensa. Non se ne sarebbe più privata per nulla al mondo. Lui s’era impigrito; senza
più quell’esercizio quotidiano era diventato grasso e bolso.
Sì, ora lei amava il suo orto più di suo marito.
Quei pochi metri rigogliosi le davano più soddisfazioni di quell’essere in mutande e birra che dal
divano si lamentava dell’afa, del governo, della vita com’era andata...
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Angelo Marenzana Sepolti vivi
A
Nadir i cinquecento dollari pagati parevano troppi solo per viaggiare dove l’aria dei motori secca la bocca e l’odore
di nafta brucia la gola. Senza contare l’attesa su
una spiaggia inospitale prima di imbarcarsi sul
peschereccio.
Non gli avevano nemmeno detto che sarebbero stati duecento. Corpi neri ammucchiati, senza
poter respirare, allungare le gambe. Senz’acqua,
cibo e luce del giorno. Sepolti vivi nella stiva.
Aveva scelto in nome della fuga dalla propria
terra. Arida, alla mercé dei ribelli e preda di bambini guerrieri addestrati a tagliare piedi e mani a
chi capitava a tiro della loro furia. Libertà e futuro a caro prezzo.
Quando la catena dell’ancora si srotolò in mare con un rimbombo crudele, creò un istante di
panico. Uno squarcio di luna inondò la stiva.
Comparvero tre uomini armati. Urlavano e
presero a spintonare uomini e donne con il cal-
cio dei fucili. Tutti fuori, uno ad uno, sul ponte, feriti dal fresco della notte e dall’odore pungente del
mare. Scesero a bordo di due gommoni attaccati
al barcone. Poi l’imbarcazione ripartì a luci spente trainando la matassa di corpi tra le onde cupe.
Nadir tossiva, ansimava, si guardava attorno
ma la riva pareva lontana. All’orizzonte nessuna
traccia di terraferma. Poi capì. Il gommone perdeva velocità. Si sporse ad accarezzare i flutti. Vide
galleggiare il capo reciso della gomena. Lo assalì
un’onda di terrore. La raccolse e allargò le braccia
per sventolarla nel buio del cielo. Senza nemmeno essere più capace di gridare.
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Tiziana Margoni
Confine
P
rima che scenda la nebbia. Prima del temporale. Mentre l’aria solleva i semi leggeri
delle acacie. Nell’attimo in cui la stagione
si fa ibrida e sconosciuta.
Mi accoglie con:
— Oh, mi hai cambiato la giornata!
L’abbraccio piano. Mi fissa con sguardo fragile:
— Oggi mangiamo fuori, ma non so dove sia la comitiva. Ci sono quattro scuole tutte assieme. Devo
stare con le compagne. – Si guarda in giro, ansiosa.
— Le troverai a cena in sala da pranzo.
— Io non dovrei essere qui.
— Adesso stai quieta, parla con me.
— Non posso staccarmi dal gruppo, mi perdo.
— Ci sono io con te.
— Sì, ma io non dovrei essere qui!
Si appoggia al mio braccio. Camminiamo.
Fatica più del solito.
— Passeggiamo un po’? Ti fa bene.
— Beh, qualcuno vedrà che non ci sono e si chie-
derà pure dove posso essere finita.
— Mangia qualcosa. Vuoi un caffè?
— Sì, grazie.
Non riesce a stare ferma, nemmeno da seduta: trema; le cade a terra il bastone; le cade la borsetta; le cadono briciole e biscotti. Come se fosse
in alto mare. Come se l’orizzonte fosse irraggiungibile. Un colpo di vento la potrebbe portare con
sé. Via. Guardo oltre la grande vetrata. Dopo verrà la pioggia. Anche il sonno verrà sui suoi novantaquattro anni, a breve.
— No, no. Non so perché sono così, perché non
capisco più niente.
È stanca di pensare: i pensieri non le tornano. È
stanca di ricordare: i ricordi non le tornano.
— Ah, non so più cosa ho dentro questa testa.
Mi guarda con occhi lucidi.
— Parlami di te, mamma!
Prima che scenda la nebbia.
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Donato Marinello La terra del re
G
uglielmo si dovette adattare ai lavori più
umili, senza mai perdere la speranza in
una vita migliore. Nel frattempo s’innamorò di una ragazza americana.
Un giorno, mentre camminava per le vie di
New York, fu affrontato dal rivale in amore che
gliele suonò. Guglielmo cominciò a straparlare,
perdendo così anche l’amore.
Pallido e trasandato, senza soldi, né affetti, il
giovane incominciò a vagare per le vie della città, finché non giunse al porto. Aveva un solo desiderio: rimpatriare. Ma come fare? Si gettò su una
panchina, in preda al più nero sconforto.
Era così triste e disperato che a mala pena avvertì il tocco di una mano. Vide un signore che
gli stava allungando dei soldi. Il giovane rimase lì
come trasognato, finché non si accorse che i soldi erano veri.
Gugliemo ritornò alla sua terra siciliana, dormendo le notti in una grotta. Allargò il suo abi-
tacolo ed incominciò a scolpire le pietre scartate imprimendovi i visi delle persone della sua vita.
In seguito nacque una corte di soldati, che nella sua mente visionaria dovevano proteggerlo dal
nemico. Ammantato di una palandrana, dava ordini ai soldati, oppure scendeva in paese, attirando le risate dei bambini.
Quando qualche vicino, non vedendolo più, si
addentrò nel suo podere, vide un parco immerso nella vegetazione divorante. In fondo alla grotta aperta all’ invasione della selva stava il corpo
dell’eremita.
Migliaia di cortigiani di pietra proteggevano il
sonno del loro re nella sua terra.
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Caterina Rosa Marino A terra
È
a terra, ma come ci è arrivata non lo sa.
Stava lavorando, svelta come sempre, brava più di tutte, e poi, dev’essere successo
qualcosa alla macchina, quella nuova, meraviglia
della produzione industriale.
È a pancia in giù, la guancia sinistra sul pavimento sporco, da quella posizione riesce a vedere poco, e ascoltare ancora meno, percepisce come in lontananza una gran confusione di urla, sirene, qualcuno dà ordini, ma a chi, non lo sa.
Vede le scarpe delle sue colleghe e le gambe
dei loro pantaloni.
Qualcuno corre. Strana visuale e ancora più
strana sensazione: come di intorpidimento generale, anche i suoi pensieri sono rallentati.
Vede il suo braccio e la sua mano sinistra
davanti a sé, riconosce le unghie dallo smalto tutto rovinato, e vede pure la sua mano destra davanti a sé con lo stesso smalto sbeccato.
Contemporaneamente percepisce la sua mano
destra ancora attaccata al suo braccio destro che
è steso dietro, non riesce a vederlo, ma avverte
come un formicolio.
La macchina deve averle tranciato la mano,
non sente male, sa che tra poco qualcuno la raccoglierà e la metterà in un frigo portatile in mezzo
al ghiaccio, come si fa coi panini per i picnic, ha
letto sul giornale che si fa così e poi un chirurgo,
mago del bisturi, la riattaccherà e oplà, tutto come prima. Fanno miracoli ormai! O quasi.
È a terra, e l’unica cosa cui riesce a pensare è
che certamente non riuscirà a finire la sciarpa come quella di Harry Potter per il suo bambino prima dell’autunno...
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Miriam Marino Clandestino
I
l sole accarezza di luce dorata, a quest’ora, le
case azzurre di Tangeri. Bacia le cime dei minareti svettanti. Poi al crepuscolo la voce del
muezzin chiama alla preghiera nella luce oscura e
incantata.
A casa ho lasciato i sogni, la sabbia del deserto
li ha dispersi come un canto berbero di notte. Ho
lasciato quello che avrei voluto fare, quello che
avrei voluto essere. Sono partito per cercare un
destino migliore ma non ho trovato un destino
migliore. Sono un randagio.
Vado dove c’è il lavoro come il cane dietro l’osso e sempre attento al piede che può sferrare il
calcio.
Nelle sere la nostalgia mi morde come un cane quando l’alito caldo del vento mi porta il profumo di spezie.
A volte penso di tornare a casa ma non posso
ritrovare quello che ho lasciato. Il me stesso che
ho lasciato.
Indico il mio paese sulla carta geografica, lo
guardo da lontano. So che l’ho perso quando sono passato per la strada obliqua che conduce ad
un esilio racchiuso nell’anima che m’impedisce di
tornare anche se torno.
Spaesato, straniato, qui come sulla terra da cui
sono partito. Non mi sembrerà più uguale il profumo del pane, il mio cuore è diventato una terra straniera. Sempre di passaggio sopra il mondo,
non ho più casa e casa è dovunque.
Parto ogni volta che finisce il lavoro e ogni volta lascio un pezzo del mio cuore.
Il mio cuore è ormai sparso dappertutto nel
mondo.
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Nadia Mariz
Cartolina
dal fronte
“N
ikolajewka, 21 gennaio 1943.
Mia amata Nina, non un istante sfugge al tuo pensiero e tutto abbellisce ed
ogni dolor sconfigge. Le sorti sono incerte ma il mio
desiderio è di riportarmi a te e in cuor mio so che il
buon Dio si ricorderà di me nel momento del bisogno. Sempre tuo. Cirillo”.
Tra le sue mani la cartolina aveva il valore di
una reliquia e una piccola foto sgualcita l’accompagnava in ogni preghiera. La guerra era ormai finita, nessun’altra notizia era sopraggiunta e il suo
nome compariva nella lista dei dispersi. Lo sfollamento l’aveva costretta lontana da casa.
Ora vi era tornata. Nessun vetro era rimasto intatto. Mancavano la luce e l’acqua. Quel poco che
era riuscita a mettere al sicuro era ancora lì: pochi tegami, una coperta, fogli di giornale e l’abito da sposa.
L’anello l’aveva consegnato al Duce, e non era
più quello.
Ormai da mesi i treni restituivano i soldati liberati dai campi di concentramento e sui binari assisteva agli abbracci tanto sospirati, o a chi, come
lei, se ne usciva, sola.
I centri di assistenza profughi accoglievano
quanti giungevano a piedi, ma tra loro, certo, non
lo avrebbe riconosciuto. Teneva per sé la sua tristezza. Ognuno, per sé, ne aveva tanta.
Ogni giorno terminava nel silenzio, accanto ad
un piccolo lume. Aspettava, pregava e piangeva.
“Nina, Nina, la venga giù, presto, il suo Cirillo.
Nina, Nina, il suo Cirillo è tornato”.
Non furono le grida a destarla e neppure sentir ripetere tante volte il suo nome, ma i loro nomi, insieme.
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Carlo Martinelli
La
canzone perfetta
I
colleghi, all’Università, lo avevano preso in giro. Rinunciare ad un comodo viaggio aereo
che in un paio d’ore lo avrebbe portato a destinazione, per scegliere invece uno scomodo trasferimento in pullman.
Che storia era mai quella? Ma dal finestrino del treno vedeva il mondo venirgli incontro.
Docile, colorato, apparentemente accomodante.
Scorrevano strade, vasti prati, campagne coltivate, stazioni di rifornimento, case in legno, caseggiati anonimi, giardini, depositi di carta riciclata,
scuole e centri commerciali. Si muovevano uomini e animali, automobili e altri treni.
Da studioso della musica popolare qual era, si
chiedeva quali canzoni avrebbero mai potuto ispirare quei panorami in movimento, quei fondali di vita vera.
Sì, gli aveva fatto piacere l’essere stato invitato
a quel convegno e ancor più lo solleticava la sfida
che lo aspettava. Certo, appariva un po’ modaiola
e certamente strizzava l’occhio ad una spettacolarizzazione inconsueta per un appuntamento di ricerca e studio, ma poco importava.
Sapeva che ciascun intervento – il suo avrebbe analizzato il rapporto tra i movimenti sindacali degli Anni Venti del secolo scorso e le protest
songs –, sarebbe stato accompagnato dall’esecuzione di una canzone che ogni relatore era tenuto ad indicare come unica, imperdibile, seminale.
Lui l’aveva scelta subito, d’istinto. E quel viaggio in pullman glielo aveva confermato. This Land
is your Land. Questa terra è la tua terra.
La canzone perfetta.
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Maria Grazia Masciadri Punti di vista
-B
alù, sei una meraviglia! – esclamò la
signora con passeggino.
Testa tonda grossa, zampe ampie, coda vivace, morbido biondo rosato come sabbia
corallina il pelo.
L’aria ancora fresca di un mattino di luglio, sul
Lungoleno solo le nuove coppie dei nostri giorni:
cane-padrone, badante gentile-anziano rassegnato, nonna-nipotino.
La bimba e il cucciolo si annusarono per pochi secondi; lei voleva toccarlo, lui la mordicchiò.
I merli lì intorno inchiodarono l’istinto del piccolo labrador in ferma e la nipotina perse le attenzioni del cane.
— Balù gioca come i bimbi... vedrai lo incontreremo ancora! – cercò di consolarla la nonna.
Il sole cominciava a farsi sentire; il fiume continuava a cullare le anatre e forse anche le trote.
La bambina sognò nuovi incontri con merli,
piccioni e cuccioli; la nonna ripensò ad un freddo
mattino di giugno.
Di buon’ora al portone dell’agenzia delle entrate per vincere uno dei tre appuntamenti giornalieri, osservava i rari passanti tutti tirati da un
guinzaglio: occhi bassi, aria circospetta semmai il
loro cane avvertisse un impellente bisogno.
— Ma, accidenti, proprio qui, davanti a tutti...
Dal marciapiede un acido commento a bassa
voce:
— ’Sti cani tienili a casa tua, non a sporcare sul
suolo pubblico; non è mica terra tua!
Il cane abbaiò di rimando:
— Terra tua, Terra mia: non sarà di tutti? Uomini,
cani, fiori, alberi, sassi?
La Terra sorrise:
— Calmi, io sono qui, siete tutti miei.
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Rita Mazzon Il colore dei ricordi
U
n sentiero di ghiaia bianca spacca il verde. Una linea tremolante divide il cespuglio dall’erba bagnata di rugiada. Una casa di mattoni ha un’unica finestra accesa. La luce
gialla unge i muri rugosi, dove l’edera grida.
Il cielo si fa scuro. Spaventa i sogni che facevo da bambina. Volevo volare sopra le stelle, ma
troppo piccolo era il mio paese per ricamarci sopra l’infinito.
La salita si inerpica, poi perde fiato per arrestarsi in quattro case incollate per non sentirsi sole. Il
campanile sgomita tra i tetti. Chiede un silenzio di
preghiera. Sullo sfondo la montagna gli risponde.
Abbraccia il paese e tace. Questa è la mia terra.
Giace incontaminata nei miei pensieri. Ho sempre avuto paura che fosse cambiata, così non sono più tornata a rivederla. Volevo rimanesse pura
nell’ingenuità di me bambina.
La mia terra è qualcosa di prezioso che spazia
oltre il tempo. Mi ha visto nascere e mi sopravvi-
vrà anche dopo. Mi mancano le zuppe calde di
mia madre e la mano forte di mio padre.
La mia terra è lo stupore e la continua scoperta
dei miei sensi. Il profumo della campagna, le zolle che hanno l’odore delle stagioni.
Non ho chilometri da percorrere, mi basta andare nello studio. Appesi alle pareti stanno i quadri dipinti da mia madre che ritraggono il mio
paese.
Le tele risvegliano i colori. Il pennello intinge
dalla tavolozza della memoria i ricordi. Si piallano le rughe. Il tempo non ha più la forza di deridermi, perché ora sono nella mia terra assieme ai
miei cari.
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Marta Minervino L’ albero solitario
E
ro solo una piantina quando mi hanno
strappato alla mia terra. Alla mia casa. Ai
miei amici.
Mi hanno trapiantato in un luogo sconosciuto,
poi in un altro e in un altro ancora.
Ho navigato mari e valicato monti. Ho attraversato boschi e praterie col sole e le tempeste rinunciando a sogni e desideri. Ogni volta ho ricominciato e ogni volta ho perduto qualcosa strada facendo. Ora sono un albero vagabondo e solitario
che ha collezionato una serie di fallimenti. Che ha
visto morire la speranza di un verde futuro in cui
affondare le radici e riprodursi. Un vecchio tronco
cavo che soffre di tenerezza e agogna ancora una
fissa dimora.
Là in fondo due filari di cipressi felici e affiatati
solleticano la mia curiosità: si capisce che sono
nati e cresciuti insieme; accoglieranno mai un
randagio come me? Uno che ha già dato tutto e
non ha più nulla da offrire?
M’incammino, strascicando i monconi doloranti, li raggiungo e chiedo asilo.
— Qui c’è posto per tutti – rispondono tranquilli, facendo oscillare le cime con una lentezza
esasperante.
Varco il cancello e cerco un buco libero: un minuscolo lotto di terra in cui sistemarmi definitivamente. Sono sicuro che nessuno verrà a reclamarmi. Questa volta ci faccio sopra una croce e non
mi muovo più perché ho trovato finalmente un
posto al sole... ho trovato la terra mia.
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Armando Mondin Tra cielo, terra e acqua
C
omincia dal cielo e poi dalle montagne.
Corre prima in leggera discesa, poi sempre più forte fino a diventare fiume che
sbocca sul mare nostro.
Qua l’acqua dolce si mescola con quella salata
tra misteri e giochi d’onde mentre tutto si compie.
Acqua e terra emergono e scompaiono e fioriscono di fiori violetti verso l’incomprensibile. La
strada è percorsa mentre sempre più vicino appare qualcosa d’incredibile: una città sospesa sul
mare, bellissima colorata di bianco, verde e oro.
Navi e barche vi navigano dentro e attorno.
Un leone alato domina in una piazza dove tutto assomiglia alla favola cercata, alla sfida vinta. Dove tutto è unico d’incanto e noi stessi figli
di Dei e Anguane ci stupiamo ubriachi di fantasie
raggiunte.
Un uomo vestito di rosso primeggia sul
Bucintoro, seguito da un numeroso imponente
corteo di barche che si fermano in religioso silen-
zio di fronte alla chiesa dove sta il protettore dei
naviganti, e gettando in mare un prezioso anello recita: “Noi ti sposiamo, mare. In segno di vero e
perpetuo dominio”.
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Noemi Nappo Vedi Napoli e poi muori
C
amminavo lentamente nell’aria di mare
che arrivava fin qui, alla salita di Posillipo.
Vedere le case costose e gli alberghi raffinati del quartiere mi fece sospirare.
Scendevo senza alzare lo sguardo sul mare a
tratti nascosto dai palazzi, chiudendomi nei miei
pensieri nell’aria fresca della notte. La città simile
a un presepe ha sempre avuto luoghi più rumorosi, più poveri e più nascosti: i cosiddetti bassi,
così lontani da quella Napoli da cartolina che vedevo in quel momento!
Arrivai a una piazza che affaccia sul mare, prima del porto. Tolsi le mani dalle tasche e mi appoggiai alla ringhiera, respirando a fondo l’aria
carica di salsedine. Nonostante il quartiere signorile, di giorno era usuale vedere scugnizzi fare il
bagno vicino agli scogli. Di notte non c’era nessuno, e l’infrangersi delle onde mi rilassava.
Tornai a camminare, fermandomi di tanto
in tanto a guardare le barche stanziate nel por-
to. Ecco come l’ombra di Napoli si mostrava, con
una barca da pescatore ormeggiata vicino a uno
yacht.
Chiusi gli occhi, pensando alle viuzze in cui sono cresciuto, ai cosiddetti quartieri difficili. Li riaprii, pentito. Ero lì per godermi il panorama da
cartolina, quello che cancella ogni male, non per
pensare.
Tornai a guardare il mare, chiedendomi come
fosse possibile per l’uomo rovinare una città così
bella. Com’era quel detto? “Vedi Napoli e poi muori”, già. Alzai lo sguardo sul Castel dell’Ovo, tinto
dalle prime luci dell’alba, e capii il perché.
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Fabio Novel Fabio Novel Athdeu1
Athdeu
(Traduzione in albanese di Rikard Shamo)
-S
brigati, cazzo! Quelli non ci aspettano.
— Sì, sì! Arrivo.
Si rialza, infila in tasca il sacchetto riempito di rena umida e scatta con tutta la rapidità
dei suoi vent’anni. Corre nella notte, verso il mare
troppo mosso, verso una scommessa che ora gli
fa paura. Quando il gommone si tuffa nelle tenebre, serra le palpebre…
— Dule, svegliati! Sono qui. – È Vana, sua moglie,
a scuoterlo dall’accogliente abbraccio domestico
della vecchia poltrona.
La sua famiglia, è già arrivata. L’amato nipotino
è il primo ad affacciarsi sulla soglia.
— Hajde këtu biri imë2 – lo invita Dule, allargando le braccia.
— Baba3, è inutile. Te l’ho già detto. Non ti capisce. Non l’ha imparato. – Fa suo figlio Sokol,
1 La terra del padre = patria.
2 Vieni qua, figliolo.
3 Papà.
180
-N
xito dreqin! Ata nuk na presin.
- Po, po! Mbrita.
Ngrihet, fut ne xhep qeskën e mbushur
me rërën e lagur dhe fillon të vrapojë me gjithë
shpejtësinë dhe forcën e tij 20 vjecare. Vrapon nëpër
natë, në drejtim të detit plot dallgë te shkumuara, në drejtim të një të panjohure që “tashmë” është
e frikshme për të. Kur gomonia futet në mjegullën e
dëndur, mbyll fort qepallat…
— Dule, zgjohu! Erdhën. – Është Vana, gruaja e tij,
që e përmënd nga përqafimi i ngrohtë i kolltukut të
tij të vjetëruar.
Familja e tij, familja e tij e bukur, mbriti.
Nipçja i tij i dashur është i pari që kalon pragun
e derës.
— Hajde këtu nipçe të marsha të keqen – e thërret
Dulja duke zgjatur krahët në drejtim të tij.
— Baba, është e kote. Ta kam thënë. Nuk të kupton.
Nuk di shqip. – I thotë i penduar, djali i tij, Sokoli.
Dulja psherëtin. Shikon përreth. Shtëpia e tij,
181
accondiscendente.
Dule sospira. Si guarda attorno. La sua casetta,
frutto di duro lavoro. Poi Vana, la donna di una
vita. Sokol, che ha portato alla laurea. Sua nuora Lisa: un’Italiana. E Marco, otto anni; che, a parte quattro parole, l’albanese non lo sa proprio…
Sotto gli sguardi perplessi dei familiari, Dule si
alza con un mugugno. Toglie dallo scaffale quel
vasetto trasparente per lui così prezioso: contiene
la sabbia dorata di Valona, quella manciata d’Albania che lo accompagna da cinquant’anni.
Va in giardino, ne rovescia metà tra le siepi.
Affonda la mano nel suolo bruno per riversarne
parte nel contenitore. Lo scuote, si ricorda delle
sue notti da barman, per secondo lavoro.
Poi rientra in soggiorno e rimette a posto la sua
terra.
E si apre a un ruvido sorriso.
frut i punës e tij, të rëndë. Pastaj Vana, gruaja e tij
e jetës, Sokoli, që mezi arriti ta çojë deri në diplomim, nusja e tij, Liza, italiane. Dhe se fundi Marko,
tetë vjec, që me përjashtim të katër fjalëve, shqipen
nuk e di fare...
Nën shikimet e cuditura të familjarëve të tij, Dulja
ngrihet duke mërmëritur. Merr nga rafti një vazo transparente që për të është aq e vlefshme, e cila mban rërën e artë të Vlores, atë grusht dheu nga
Shqipëria që e shoqëron që prej pesëdhjetë vjetësh.
Niset drejt kopështit dhe hedh gjysmën te shkurret. Gërmon me dorë në tokën e murme për të hedhur
një pjesë në vazo. E tund, e i kujtohen netët e punës si
banakier, që bënte si punë të dytë.
Pastaj futet në dhomën e ndënjes dhe e rivendos
në vendin e duhur “Tokën e tij”.
Papritmas në fytyrën e tij e rrudhosur nga jeta
shfaqet një buzëqeshje e lehtë kënaqesie.
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Rahma Nur Rahma Nur Le radici nascoste in me
Xididdada dhaxdeeyda ku qarsoon
(Traduzione in somalo di Angelo [Abdiaziz] De Luca)
V
edevo solo nuvole bianche, soffici, un sole accecante; il rumore continuo dell’aereo che mi trasportava. Avevo solo cinque anni, se avevo paura di volare non me lo ricordo; forse in quel momento la curiosità e la novità erano le uniche sensazioni che occupavano
il mio cuore e la mia mente, non avevo coscienza di dove andavo, né da dove venivo. Non c’era
un parente, una mamma, ad accompagnarmi in
questo volo.
La mia unica “amica” era una hostess gentile,
bionda, bellissima ai miei occhi di bimba africana,
che ogni tanto veniva a controllare se stavo bene,
se avevo bisogno di qualcosa: ma in quale lingua
comunicavamo? La lingua universale dei gesti, la
lingua di una donna e di una bimba, l’essenziale.
Le mie radici erano state strappate bruscamente dalla terra che mi aveva vista nascere, ora me
le portavo dietro, nascoste dentro di me ma allo
stesso tempo visibilissime per chiunque: erano lì
184
W
axaan u jeeday caad cad, fudeed, qorax indhaha kaa cawireeyso, dhawaaq, aan istageen oo ka socdo dayaaradda i waddo.
Waxaan jiray shan sano kaliyo, haddan ka
cabsanaayi dulitaanka ma aan xasuusto, lakiinse
waqtigaas, ku dimisteeyda waxaas cusub waxeey
ila ahaayeen wax wadnaheeyga xil saarayo, iyo
maskaxdeeyda ma aan garaneynin, meesha aan
u jeedo iyo meeha aan ka imid. Dulitaankaan wax
aan wahashanaayo hooyo iyo waalid ahaan ma
ila socon.
Wax aan saxiib iyo wahal ahaan u haastay
waxey aheed gabadha ka shakheeydo dayaaradda ‘hostess’, oo aad u macaan, qurax badan tima cas indhabeega gabar yar oo afrikan ey ila
muuqatay oo mar allale iga soo kor meereysay.
Luqadda aan isla hadleyni ayaa dhibaato leheed,
midda kaliyo luqadda summada.
Waddanka aan ku dhashay kuna soo koray, a185
nella grana delicata e liscia della mia pelle, nei soffici ricci che contornavano il mio viso, nelle parole
che a stento uscivano dalla mia bocca per timore
e timidezza in una lingua che presto avrei dimenticato, nel cibo che aveva riempito il mio piccolo
stomaco nei primi anni della mia vita.
Quelle stesse radici, di lì a poco, sarebbero state accolte da una nuova terra, fertile ma dura allo
stesso tempo; avrebbero faticato ad aggrapparsi al
terreno ma non a trovare nutrimento: la storia, la
lingua, i sapori, le idee avrebbero subito iniziato il
loro cammino vorticoso nella mia anima.
yaa leyga soo cirib tiray, hadda wey ila socotaa,
dhaxdeeyda ayeey ku kharsoontahay xil darradas
ley galay. Qof kastana akhoonsan karto hadduu i
daawado korkeeyga jilacsan ayeey ka muukhataa timaheeyga fud fudud oo wijigeeyga salaaxayaan, hadallada oo afkeeyga yar xishoodka iyo
cabsida ka soo baxaayeen, oo waqti dhaqsi leh
aan ku ilaawi doono. Cuntada oo caloosheyda
yar buuxiday, sanadaha yaranteeyda oo nolosheyda iyo xididdada aan ka soo as asmay si deg
deg, dhul aan garaneynin ayaa i soo dhaweyndoono oo aad u adag la qabsigiisa. Isla waqtigaasna aan aad u dhibtoon doono. Lakiinse aan ku
dheef heli doono, sheekada, luqadda, dhedhenka, fikradda dhaqsi nolosheyda la qabsan doonto.
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187
Gloria Odorizzi Gloria Odorizzi Quando ero giovane
Conti de cando ero giona
(Traduzione dal ladino noneso del primo ’900)
N
ell’agosto del 1948 mio padre decise di trasportare la sua famiglia composta da mamma, papà, mia sorella di 14 anni e me di anni 9, dalla grande città di New York a Sanzenone di
Tassullo in Trentino.
Sanzenone è il paese nativo di mio padre e di mia
madre, ambedue avevano ancora mamma e papà
e tanti fratelli e sorelle. Questa era veramente la loro terra e divenne rapidamente anche la mia terra.
Mi ricordo che in casa non avevamo l’acqua corrente, io dovevo andare alla fontana con i ciasedrei1 e portare l’acqua in casa. Mi sono fatta ben
presto delle amichette con le quali giocavo ai sesseri2 e ballavamo il lindy. Dopo il rosario nella piccola chiesetta, andavamo a passeggio verso il castello
Valer e cantavamo a viva voce.
Che bello!
In settembre, siccome non parlavo bene la lin-
1 Secchi.
2 Biglie di terracotta.
188
E
n agost del 1948 me pare l’a decidest de
portar la so familia, papà, mama, me sorela da catordez ani e mi da nof, da la granda
cità de Nova Iork a Sanzenon, Tasul, Val Di Non,
Trent.
Sanzenon l’è el paes endo’ che i è nati tuti doi
e endo’ che i giaveva ancor mama e papà e tanti
fradei e sorele. Ben prest la so terra l’ai deventada
la Mia Terra ancia.
Me ricordi che non giaveven l’aca en ciasa e l’era el me mester de nar a la fontana e portarla su
coi ciasedrei. Ben prest me son fata dele amiche e
giugiaven ai sesseri e balaven il lindy.
Dopo el rosari ala glesietta, naven a spas fora al
ciastel Valer e ciantaven! Che bel!
En setember i ma mandà a scola, ma perché
non parlavi ben el bon talian, i ma metu mez an
en seconda clas e mez an en terza.
L’è stá en ben per mi, ma mi eri pu granda che
la maestra.
189
gua, hanno deciso di mettermi in seconda classe per
cinque mesi ed in terza per gli altri cinque.
È stato un bene per me, solo che ero più grande
della maestra.
L’anno successivo ho fatto l’esame per entrare nelle Medie a Cles.
Per tre anni ho fatto i 5 chilometri da Sanzenone
a Cles due volte al giorno con una vecchia bicicletta.
Superate le Medie, ho poi frequentato le Magistrali
al Collegio Sacro Cuore a Trento per quattro anni,
finendo con un diploma di Abilitazione Magistrale.
Nel 1960 sono ritornata a New York e nel 1964 ho sposato un giovane di discendenza tirolese di Montreal
in Canada dove vivo tutt’ora. Ritorniamo spesso nel
Trentino per visitare i parenti con i quali parliamo
ancora “el nones da sti ani” con loro grande sorpresa e divertimento.
L’an dopo son nada ale scole medie a Cles per
trei ani. Giavevi na vecla bicicleta semper rota e
favi sinch kilometri a nar e sinch kilometri a nir
tuti i di, ancia en invern. Can’ che ho finì le medie son nada a Trent al Colegio Sacro Cuore a far
le magistrali per cater ani per deventar maestra.
Appena finì son tornada a Nova Iork dove ai
ensegnä per cater ani en ingles. Nel 1964 me son
sposada con un tiroles canades e son venuda en
Canada e son ancora cì a Montreal. Nan spes nel
Trentin a veder le nosse montagne e i nossi parenti che resta. I ne fa parlar el nones da sti ani e ridono perché el nos, non l’a cambià da sento ani.
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Laura Oreglia Terra d’ombra
D
a qualche giorno mamma s’è aggravata.
Come se aver soffiato sulle “ottanta” candeline della torta avesse anche significato
spegnere memorie e cancellare storie. La sua vita.
Le mostro alcune foto di lei per risvegliarle
ricordi.
— Vedi? – le dico. – Qui sei a Bene, in Piemonte,
dove sei nata. Ci sono la tua mamma e i nonni.
Annuisce, ma non sembra capire.
— Qui sei a Pietra Ligure. E questa è Milano.
Ricordi? Dove hai lasciato tutti i tuoi giocattoli quando i tuoi genitori si sono trasferiti a Sestri
Levante. Avevi sei anni ed eri tremenda.
— Vedi? Vedi che io non ho mai avuto una mia
terra? – Piange come si fosse perduta in un bosco.
I nomi la confondono piuttosto che aiutarla.
Ma io ricordo la nostalgia con cui parlava del
paese natio o dell’amichetta di via Giambellino.
Per anni ogni ritorno a Sestri, in vacanza, erano lacrime ed emozioni per una gioventù e un
passato ormai perduti.
— Ma la casa di Grumo te la ricordi, vero? Ci sei
stata quasi trent’anni. Le tue amiche e le vicine. Il
tuo orto.
— L’orto era di papà. – Precisa.
Non le dico che la terra è di chi la abita. Di chi
la ama e la fa vivere. Non capirebbe.
— E poi, qui a Palù, ci sei ben stata bene. Dicevi
sempre che, finalmente, avevi messo a dimora le
tue radici.
— Ho vissuto in molti posti ma questa, infine, era
la mia terra. – Pare stupita.
— Sì, mamma. Sei stata in molti posti, ma qui eri
felice. Amata.
Sorride, inseguendo un suo pensiero già lontano. In una terra d’ombra, dove io non sono
ammessa.
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Riccardo Ozog Francesconi
Vorrei poterti chiamare...
R
aggiunsi a stento quella che i miei pensieri chiamavano terra mia. Quelli stessi
pensieri che attraverso gli occhi avevano
visto asfalto, sassi, acqua negli interminabili giorni
di viaggio tra fortuna e speranza.
Con la vista del cartello stradale s’aggiunse ai
miei pensieri quel sussurro che mi accarezzava
con le parole: “terra mia”. Camminando mi lasciai avvolgere completamente dai profumi della terra mia, quelle dolci carezze al cuore ora riscaldato, felice.
E soffiò il vento, come schiaffo freddo, al grido
di abitanti di quella terra ora anche mia.
D’insulti lungo il viaggio tra le condizioni peggiori e disumane ne avevo ricevuti tanti ma i graffi delle voci che venivano dalla terra mia facevano male.
Mi ordinavano di tornarmene nella mia terra,
nella mia terra da dove ero venuto, di andare via
dalla loro terra.
Ascoltando quei pugni alle mie speranze, ai
miei sogni, tornarono i pensieri, ora confusi, pieni di domande.
Era un sovraffollarsi nella mente delle parole
terra mia terra mia terra mia che si sovrastavano
urlando: Terra mia.
Ero partito perché dove ero nato non volevano
fosse terra mia, avevo percorso migliaia di chilometri con il sogno d’una terra che mi appartenesse un poco, la avevo raggiunta, ma mi aveva respinto. Terra mia terra mia terra mia. Dove sei, terra mia?
E quel latino che diceva: “patria est ubicumque
est bene”, chissà se lui aveva una terra che poteva
chiamare: “terra mia”.
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Luisa Pachera 14 agosto 1914, venerdì
A
ll’ombra di un salice dalle lunghe fronde, guardo l’Adige scorrere oltre il confine. Nessun filo spinato lo trattiene, nessuna sbarra lo rimanda indietro, l’acqua saltella, si gira e passa oltre.
Con mano lenta e ferma, strappo l’erba che mi
sta accanto. È giunta l’ora e devo andare, pochi
minuti e sarò lontano. Dalle vigne alle mie spalle piangono grappoli pesanti, grossi grumi di lacrime rosate che l’aria del fiume non riesce a spostare. Dicono che torneremo presto, che l’imperatore ci ama e non ci terrà lontano, che l’onore e la
gloria saranno nostri in un baleno.
Raschio il suolo con la punta di un ramo spezzato e mi chiedo se sarò di nuovo qui per la vendemmia, per riportare le vacche dall’alpe, per riprendere una vita che fino a ieri mi sembrava
spenta.
Scavo e, poco alla volta, il terreno si muove,
respira. Raccolgo piccole pietre e le lancio sul-
la cresta del fiume. Alcune rimbalzano, altre
sprofondano nel verde dell’acqua e spariscono.
Cosa sarà di me e di chi salirà con me sul treno?
Rimbalzeremo? Sprofonderemo e spariremo?
Nessuno sa dove siamo diretti. Dicono che andremo a nord, ma il mio nord si ferma all’orizzonte. Scavo e mi chiedo se esiste un nord più a nord
per cui dovrei morire. Nella casa che ho appena
lasciato, trovano spazio i miei punti cardinali. Lì
c’è tutto quanto serve alla mia vita.
L’aria è trafitta da un fischio lontano. Mi scuoto
e mi alzo, infilo lo zaino e mi avvio. In tasca, stretta nel caldo del mio pugno, porto con me un po’
della mia terra.
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Morena Pedrotti
Promesse violate
V
elia fissò una mela, selvatica come
Alfonso, il suo frutto proibito. Succoso, un
po’ acerbo, il cuore croccante. Occhieggiò
la villa con il viale coccolato da cipressi, poi procedette nella direzione opposta.
Due passi e una Berberis la artigliò. Velia strappò le bacche rosse di passione, le imprigionò,
le stritolò e osservò il liquido colare fra le dita.
L’avrebbe ingerito, se l’avesse aiutata a morire.
Si accasciò sotto il cespuglio di crespino e verso l’orizzonte colse filari di viti e alberi opulenti. E
sarcasmo nel ricordare che le parole di Alfonso
l’avevano trasportata in un miraggio con campanelli gialli a sussurrare una melodia per irretirle i
sensi. Una passione consumata su un letto odoroso di timo con le dita conficcate nel terreno a scaricare l’ardore dell’amplesso.
La tenuta di Alfonso aveva aperto le braccia e
ricevuto i loro corpi, aveva promesso l’incanto e
adesso suggeriva pensieri di morte?
Quelle zolle umide, accoglienti come una
Madre si erano strette a incrostarle il corpo e a imprigionarle lo Spirito.
Mi ha reso culla per un figlio destinato a essere
soltanto un errore.
Lacrime lacerate per rigettare quel destino che
le aveva digrignato un “Vattene!”
Velia gettò le bacche, lasciò tracce di sangue
sulle foglie e se ne andò, terra fertile, ma bastarda.
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Marinette Pendola Omaggio alla moribonda
-G
ira a sinistra! – ti ho detto indicandoti una stradina bianca.
— No! È la prossima, là dove c’è la
diga.
È vero. Nel frattempo hanno costruito una diga
quasi dietro casa. Abbiamo percorso qualche chilometro sollevando nuvole di polvere. Ci siamo inerpicati per la collina perdendo di vista la strada
asfaltata. Dopo una curva, ho creduto di vederla.
— Eccola! – ti ho quasi gridato.
— No! È quella dei vicini. La nostra è prima.
Prima dove? Non vedo nulla, solo cespi rigogliosi e una siepe magra che punta verso il cielo. Dopo una curva, all’improvviso, hai fermato la
macchina. Eccola lì, la casa dell’infanzia. Smarrita
fra i cespugli, senza porta, senza finestre, senza
tetto. Una moribonda che ancora resiste al vento, in attesa, forse, di un gesto d’amore che le dia
nuovo vigore, come una vecchia nella speranza
di una carezza.
200
Ho varcato la soglia. Calpestando calcinacci e
tegole, mi sono fermata in mezzo alla sala. Ora
tutto è piccolo e vuoto. Dovrei andarmene chiudendo gli occhi per serbare in me i tesori dell’infanzia finché la memoria mi è amica. Invece guardo, oltre la finestra, la distesa degli ulivi piantati
dal babbo, ancora giovani, ed io quasi vecchia.
Esco. Di fronte a me, oltre i campi nudi, la
montagna azzurra chiude l’orizzonte, serena ed
eterna. Come un tempo, acquieta a un tratto i tumulti dell’animo. Tutto passa. Tutto è passato già.
Rimangono solo le parole che caparbiamente
scrivo, giorno dopo giorno, per raccontare, per
rivivere. E resistere.
201
Snežana Petrovic Снежана Петровић Il paese che non c’è più
ЗЕМЉА КОЈЕ ВИШЕ НЕМА
(Traduzione dal serbo)
I
У
l mio paese non c’è più. È morto per via delle ferite riportate nell’ultima guerra. È sopravvissuto a molte invasioni straniere, ma non è sopravvissuto alla guerra civile.
I suoi cittadini erano brava gente di nazionalità
e mentalità diverse, ma uniti dall’amore per il paese in cui erano nati e cresciuti. La guerra che ha distrutto il paese non era voluta da loro, era pianificata e provocata dai potenti del mondo.
Questo paese non c’è più. Per un periodo davanti
al suo nome si scriveva “ex”, come davanti al nome
di una persona morta si usa il “fu”. Dopo breve tempo il suo nome è scomparso del tutto, sostituito dai
nomi delle sue Repubbliche.
Mi trovavo costretta a sostituire il mio paese con
una delle Repubbliche, proclamate Stati indipendenti, ma si trattava di un’impresa ardua, perché i
miei genitori erano di nazionalità diverse, io stessa
sono nata in una Repubblica, cresciuta in un’altra e
mi sono sposata in una terza; e le amo tutte quante.
мрла је моја Земља. Умрла је од рана
задобијених у последњем рату. Преживела
је многе нападе страних непријатеља, али
није могла да преживи грађански рат.
202
203
Имала је све оно што чини лепом једну Земљу:
прекрасно море, високе планине, језера и бање, реке и речице међу таласастим брдима, шуме пуне дивљачи... Њени становници су били добри
људи, разних националности, менталитета и вера, којима је била заједничка љубав према Земљи у
којој су рођени, у којој су одрасли и коју су градили.
Они нису желели рат. Рат који је унишио њихову
земљу изазвали су светски моћници.
Та земља више не постоји. Када је о њој било
речи, говорили су «бивша», као када умре човек
што се каже «покојни». Њено име је брзо ишчезло,
не помиње се више. Замењено је именима њених
шест Република. Морала сам да одлучим којој ћу
припадати, али то је било немогуће: моји родитељи
су били различитих националности, рођена сам
Alla fine me ne sono andata, come molti altri, orfani come me dal paese d’origine: sono stata adottata dall’Italia. È una brava matrigna, ma non potrà
mai sostituire una mamma, una mamma che non c’è
più.
у једној, одрасла у другој а удала сам се у трећој
Републици, а волела сам ту Земљу - целу.
Када је умрла отишла сам, као многи који су остали без Ње. Мене је усвојила Италија. Она је као
добра маћеха, али никада неће моћи да ми замени
Земљу мог порекла, као што нико не може да замени мајку које више нема.
204
205
Biagio Proietti Il ritorno
M
i avrebbe accolto la banda, allegra, colorata, rilucente di ottoni quando sarei tornato nel mio paese, dopo gli anni vissuti in esilio, per fuggire da odi e rancori che
sapevano di morte.
Ricordi e rimpianti mi hanno fatto superare
paure ataviche, spingendomi a ritrovare le mie
radici. Sono tornato, sicuro che il tempo abbia
cancellato il passato. Ora, sono un uomo nuovo.
Dei vecchi amici non ho ritrovato nessuno, la
banda non è venuta ad accogliermi, il silenzio è
un messaggio.
Uomini vengono incontro, mi separano dalla
folla. Uno di loro mi sferra un colpo così violento
da farmi cadere a terra.
In un lampo svanisce la felicità per aver rimesso piede sulla mia terra, tanto desiderata. Che ho
trovato cambiata: enormi, brutti palazzi hanno invaso i campi verdi, che diventavano gialli quando
il grano era pronto per la mietitura.
Non è più bella la mia terra, è violenta e feroce.
Come i calci che squarciano il mio povero corpo,
la nebbia scende nei miei occhi che non riescono a restare aperti, pensieri si affollano nella testa
che continua a sanguinare.
Troppi uomini intorno a me, in silenzio continuano a colpirmi, con violenza, senza la passione dell’odio, un lavoro gelidamente professionale. Provo a sottrarmi a questa furia cieca, scivolo sulla terra calpestata, sporca del mio sangue,
che ha un sapore sgradevole, fa venire voglia di
vomitare.
Con la faccia finisco dentro la polvere, la bocca si riempie di terra: è la mia terra a soffocarmi.
L’ultimo pensiero, prima di morire.
206
207
Giuliana Raffaelli Andar per valli
D
ove s’innalza un fumo crepita un fuoco,
dove si stende una valle scorre un torrente, il torrente diventa fiume, e fiume e valle, legati nella genesi, sono sovente anche legati
nel nome.
Racconto del Trentino-Alto Adige circondato
da foreste di rocce: le splendide Dolomiti. Penso a
ciascuno dei picchi come controfigure della Torre
di Babele: là il sogno di onnipotenza dell’uomo,
qui torri misteriose discese dal cielo.
Le abita e le pervade il silenzio.
Terra di leggende, di città e borghi antichi, di
castelli che recuperano atmosfere perdute e voci dimenticate.
Luoghi abitati da un genio il cui spirito vive ovunque, nelle case, nei giardini, nei cortili, nelle
chiese, nella natura e nell’ambiente, anche quando l’uomo li abbandona e poi li fa rivivere.
Si avverte nel verde di un prato, in un fiore, in
un suono qualcosa di familiare, di affine.
È questo genio del luogo che qui vive che vorrei poter cogliere.
Vado dove il vento mi porta e la mia identità altoatesina e trentina mi suggerisce: trasferisco me
stessa dalla Bolzano bagnata dall’Isarco alla dolce Vallagarina affiancata dall’Adige tra il verde degli alberi.
Il giorno è azzurrato dall’estate ancora dolce
d’accenti, e l’atmosfera sa di quegli aromi che sono propri al fieno e sanno farsi spezie, alta la luce.
I seminatori di pane sono tra noi, perseguono comunione d’intenti con la Madre Terra. Qui
il dolore s’incontra con la gioia, il fiato riprende.
Di dentro, si sente il suono dell’erba che rinasce.
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Giorgio Ragucci Brugger Terra, terra!
T
erra, terra!
Un urlo seguito da un gesticolare convulso, l’uomo di vedetta si sbraccia, sembra
impazzito, di sotto, la ciurma alza lo sguardo, ripara gli occhi dal sole, è stanca, sfiduciata.
L’urlo si ripete più volte, la parola rinfranca,
scaccia l’angoscia. I marinai si affrettano a prua,
allungano le teste, sgranano gli occhi, trattengono il respiro. L’attesa di giorni e giorni è finita, ma
dov’è la terra che non si vede? È forse quella striscia grigia lontana, un piccolo punto all’orizzonte, oppure, uno scherzo delle onde, il capriccio
del sole?
— Capitano, capitano! – gridano tutti, dov’è il capitano? Dalla stiva risale la scaletta, ha il passo
stanco, il viso tirato... Non ha dormito, è stato a
poppa l’intera notte, ha seguito il volo di gabbiani
sempre in cerca di cibo e quello era senz’altro un
buon segno, ha pregato il cielo, la luna, le stelle,
la Madonna di Spagna, la sua regina che l’avven-
tura finisca al più presto. Si fa largo tra la ciurma
che esulta, raggiunge la prua, saluta il nocchiero
che gli porge il cannocchiale. Il capitano lo punta
dritto all’orizzonte e poco dopo esclama:
— Signori, è la terra, diamo vento alle vele, tra poco avremo cibo, acqua fresca, il meritato riposo.
La ciurma è in delirio. Un marinaio seguito dal
compagno scende di sotto, carica il cannone, spara due bordate.
Il capitano rientra nella sua stanza, annota sul
diario l’evento, spia dall’oblò quanto mare lo separa dalla nuova terra: “La mia terra” – sussurra –
ma non sarà mai sua.
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Michela Rigotti
Terra virtuale
L
ucia ha il pc aperto sul ventre, lo guarda
mentre riapre gli occhi. Se n’è rimasto lì, un
foglio word senza parole.
Per lei scrivere è farsi compagnia, ma di sera,
rimanere viva, spesso è pura utopia. Riprende il
bandolo dei pensieri, vuole partorire una poesia.
Nella nevrosi di desideri inappagati, Lucia approda su un’isola. Circumnaviga il globo internauta, traccia un embrione senza tempo. Ha scelto il titolo e cerca versi che diano valore al grappolo d’uva. È questo che ha in mente per addolcirsi la notte. Pittura acini con parole succose, nascoste fra le foglie.
Delle vendemmie, in realtà, ha ricordi meno
poetici. La fatica di giorni lontani nella campagna
dei nonni e lo sporco appiccicoso che colava come inchiostro.
Lucia ora vive in una casa angusta. L’ansia della cattività le trasuda nella ricerca del respiro dei
ricordi. Si chiede che ne sia stato dei campi. Dove
siano finiti i rovi di more e l’orto ordinato. Vede
solo asfalto. Solo semafori e lampioni al posto dei
grandi fichi su cui s’arrampicava.
Lo chiede alla poesia, ma quella non le dà
retta. Vomita versi maligni di tecnologia, di comunicazione evoluta, di sfacelo ambientale.
All’amichevole tolleranza, alle mani che producono, contrappone sibilline strofe di solitudine, di
partner virtuali.
Quanto è distante tutto ciò dal suo grappolo. Il
tempo è divenuto un combattere senza raccolta.
Lucia lo sa, quel file senza terra, senza odori buoni
del vero vivere, stanotte non la salverà.
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Rossella Saltini Carapace migrante
F
inalmente l’avevo aperto. Due colpi di zampa, un colpo di testa e il guscio si era infranto. La luce calda e abbagliante mi colpiva.
“Dev’ essere sole”, avevo detto.
Le mie simili, al mondo già da qualche ora, mi
avevano guardato con un sorriso amaro. Eppure
il tepore della lampada mi accarezzava e dava fiducia. Avrei trovato uno stagno per immergermi
e nuotare, già sentivo odore d’acqua. Felice mi
ero tuffata ma mi ero incagliata subito.
Decine di Trachemys Scripta sbattevano zampe
e carapace in una vasca. Mi ero rifugiata sopra un
legno a pelo d’acqua, da lì scendevo per bagnarmi solo quando avvertivo la secchezza. Talvolta
mordevo l’acqua per afferrare residui di cibo, ma
le mie simili erano più svelte e io rimanevo a bocca asciutta. Speravo in una vita migliore e rimpiangevo l’uovo che mi aveva coccolata.
Un giorno erano passati. “Voglio quella sul tronco”, aveva detto il bambino. Detto e fatto. Ero fi-
nita sola soletta in una vasca in plastica con palma finta. Mangiavo gamberetti e crescevo, crescevo, crescevo. Una notte avevo divelto la palma ed
ero saltata fuori dalla vasca. Mi avevano trovato
giorni dopo dietro il battiscopa della cucina.
“Basta dobbiamo sistemarla”, aveva tuonato la
mamma. Il bambino aveva pianto. Li sentivo parlare di un Parco e di un’introduzione clandestina.
E lì mi ero ritrovata: avevo conosciuto un vero
stagno, un vero sole, vere piante.
Carapace migrante, clandestina forse, in quella
che riconoscevo davvero come Terra Mia.
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Emma Saponaro Il sapore dolce del Salento
L
acrime di pioggia rigano i vetri cupi del mio
ufficio.
Dieci anni sono passati da quando vivo al
Nord. Da allora, malgrado tentassi di chiuderlo
fuori, il gelo si è insinuato in ogni parte di me.
Gente che va, gente che viene, gente che corre. Il brunch, gli aperitivi, la frenesia metropolitana che mi stordisce. A casa, la sera, chiusa la porta, il frastuono si dissolve nella malinconia che
impertinente si svela e si esibisce.
Il Natale ormai prossimo mi regala nostalgici
ricordi, profumi mai dimenticati, sapori che stridono con pasti fugaci e distratti.
Il trillo del campanello squarcia la tristezza.
Sussulto, decido di allontanare il cruccio. Un pacco per me! Firmo e congedo il fattorino allungandogli la mancia.
Non posso aspettare, adagio il dono sul tappeto e m’inginocchio al suo cospetto. Osservo quella scatola che mi suggerisce la provenienza.
C’è ancora chi pensa a me!
La apro, guardo curiosa e sorrido. Un pesce di
pasta di mandorle mi rivede bambina, quando mi
era dato il privilegio di scegliere la parte migliore,
la più morbida e ricca di marmellata, e il diritto di
mangiare l’occhio del pesce, un chicco di caffè.
Li sento, ora, quei profumi. Profumo di terra
rossa, quella terra che si estendeva nella campagna del nonno rivestita da ulivi.
Salento, terra che mai potrò dimenticare.
Un sorriso desta il torpore.
Accovacciata sul tappeto svestito, mi sono persa nel suo arabesco concentrata su una improbabile figura di pesce.
E il dolce della marmellata si aggrappa ai miei
pensieri…
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Sarcitana Un piccolo angolo...
C
ontinuava ad annusare e scavare ma l’uscita verso il prato non c’era più. Le sue
zampe lavoravano senza sosta.
Niente da fare: quel giorno era tutto tappato.
Dopo decine di tentativi si stancò e si addormentò.
Un rombo meccanico la svegliò poco dopo.
Ebbe netta la sensazione che la sua tana stesse
collassando. Le sue narici le prudevano: stava per
morire soffocata. Iniziò a scavare nella direzione
opposta al fragore.
Via via, lontano! Si ricordò di un cunicolo dismesso scavato qualche tempo prima. Eccolo.
Trovato.
Via via di corsa. Il rumore diminuiva mano a
mano che si allontanava ma l’odore no: quello
aumentava.
Via via, in fretta. Ad essere ciechi il vantaggio
maggiore è quello di riuscire a correre senza l’ossessione di non vedere.
Ciò che l’ossessionava davvero era l’odore a-
cuto che stava impregnando il suo corpo, il terreno, l’aria.
Aveva guadagnato l’uscita ma proprio in quel
momento il naso iniziò a dolerle e una nuvola
soporifera l’avvolse: acida e nauseabonda che le
frantumava il cervello.
Non vedeva nulla: era cieca come tutte le talpe.
Il camion che aveva appena riversato sul prato un’intera cisterna di liquami, stava ripartendo.
Lei non lo vide, ma ne sentì ancora il rombo. Il
terreno in pochi istanti divenne un fetido acquitrino. Lei era lì, inebetita, immobile.
Il tempo di un rantolo e rotolò su se stessa finendo dentro quella pozza.
Peccato che l’autista non sapesse che la casa di
quella talpa altro non era che un piccolo angolo
di una casa anche sua.
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Giovanna Sartori
Terre
diverse
“E
l gay saber”, c’era scritto sul foglietto. Era nel vecchio volume, il primo
che aveva pescato nella sua libreria,
prima di correre alla Stazione. “Ci si annoia sempre sui treni!” aveva pensato. E s’era ritrovata tra le
mani il romanzo che tanto le era piaciuto ai tempi
dell’Università a Bologna. E quel biglietto.
La frase, in lingua spagnola, gliel’aveva scritta lui, mentre lei sosteneva l’esame di Storia
Romana. Le aveva donato quel libro e s’erano
arrampicati verso S. Luca, voltandosi di tanto in
tanto a guardare dalla collina i tetti e le torri imponenti della città. Infine avevano trovato un angolo tutto per loro, s’erano baciati con gioia e immersi l’uno negli occhi dell’altro.
Dopo la laurea in medicina, lui era tornato a
Bari. Lettere appassionate, attese di nuovi incontri. Si vedevano, a Bari, una due volte al mese.
Passeggiavano a piedi nudi sulla sabbia, alla voce eccitante del mare, progettando il loro futuro.
Un giorno egli, serio, le disse che sarebbe andato negli USA per un corso di specializzazione.
Lei approvò, coprendo con un sorriso una fitta
improvvisa.
Molte lettere sorvolarono l’Oceano, come bianchi gabbiani. Poi più niente. Finché seppe che lui
s’era accasato là e aveva messo su famiglia.
Fuggivano i campi, le piante, le case, mentre
lei si chiedeva quando avesse ripreso ad amare.
S’alzò e indossò il cappotto.
“Signora” la chiamò un ragazzo, “le è caduto un
foglietto”. Lo raccolse e lo guardò, lo rimise tra le
pagine del libro. “El gay saber”, mormorò.
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Marco Savarese Fuori tema
L
a mia Terra è uno dei satelliti del Sole che
compie un giro su se stesso in un giorno e
uno intorno al Sole in un anno (solare). Su
di essa si è evoluto, all’incirca centomila anni fa,
un primate sprovvisto di pelliccia molto laborioso
che si è autochiamato Homo sapiens.
Questo animale, a differenza degli altri, che ha
sottomesso e di cui si ciba, possiede un cervello
molto sviluppato che produce incessantemente
pensiero... di solito utilizzato per giustificare, più
o meno fraudolentemente, azioni di puro istinto.
Da qualche secolo, con la scoperta di procedure meno fantasiose che egli ha chiamato “metodo
scientifico”, la sua vita media è aumentata notevolmente mentre quella massima purtroppo è rimasta pressoché immutata a dimostrazione che il
suo organismo non è fatto per durare.
Malgrado ogni evidenza comunque gran parte degli appartenenti a questa specie afferma di
credere di poter sopravvivere alla morte in quan-
to ogni esemplare sarebbe dotato di un’anima
immortale.
Molti individui sono legati ai luoghi nei quali
hanno passato i primi anni della loro vita e spesso a tal riguardo si dilettano nell’arte di scrivere
racconti.
Questo scritto dovrebbe essere uno di questi
ma l’autore non è stato in grado o non ha voluto
essere aderente al tema.
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Barbara Scovoli Radici
-G
hel el dutur? – chiese il signore anziano rigirandosi il cappello tra le
mani con fare inquieto.
— Sì, il dottore c’è! – risposi. Il vecchietto si
avvicinò alla finestra della sala d’aspetto e guardò fuori, mentre lo osservavo incuriosita, iniziai
a prevedere le sue mosse; un po’ più rilassato, si
sarebbe girato, avvicinandosi alla signora incinta e le avrebbe chiesto se il posto accanto a lei era
libero.
Così fece, esattamente con quelle movenze e
quello sguardo che avevo immaginato.
Poi si aprì la porta del medico, uscì una persona ed un’altra entrò, anticipai mentalmente che
la signora incinta si sarebbe alzata per aspettare
in piedi, con un misto di fretta e di rispetto per il
medico.
Arrivò un’altra signora: “Ghe tanto de spetà?”, la
domanda della casalinga che deve correre a casa per preparare il pranzo. Ero sicura che si sareb-
be rivolta alla signora incinta in piedi e così fu. La
risposta arrivò in un coro di voci che tra l’italiano ed il dialetto lombardo dichiararono che sempre c’era da aspettare! Alcuni sorrisero e l’atmosfera si distese.
Io ero tornata a casa da poco dopo un lungo soggiorno all’estero, mi ero sentita estraniata, confusa, mi sembrava di essere tornata ad una
vita che appartenesse a qualcun altro; eppure, in
quel momento, lì con gli altri, mi sentii di nuovo
a casa.
Di quella gente che parlava la lingua dei miei
avi, potevo prevedere gli atteggiamenti e le mimiche facciali perché loro erano il mio popolo,
quella era la mia terra e lì erano le mie radici.
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Catia Simone Maggio
L
o specchio d’acqua adriatica rifletteva l’ombra dell’aereo in volo.
Seduta accanto a un sedile vuoto, non riuscivo a comprendere la destinazione finale. E ti
pensavo, mentre la lente opaca del finestrino volante, trafitto dai raggi ultravioletti e dal bagliore di un mattino troppo limpido, accendevano il
mio viso e le mie lacrime silenziose, incredula e
stordita per quell’addio senza un saluto.
L’aereo sorvolava l’arrivo sulla campagna fertile, sul susseguirsi degli ulivi scultorei, e su quel
mare dentro cui ci eravamo immerse un anno
prima con le caviglie in ammollo e la lingua rissosa. Eravamo così, due nemiche a cui avevano reciso il cordone ombelicale troppo presto. Guerra
e pace nelle distanze.
Ma eri mia madre e questo non potevo
dimenticarlo.
La tavola blu scuro schiumava al passaggio delle piccole imbarcazioni, e congiungeva il passato
e il presente della mia vita passata altrove. E proprio altrove ti consegnavi al cielo eterno mamma,
negandomi il tuo ultimo fiato mentre le ruote stridevano sull’asfalto svegliandomi dal torpore, e il
mare diventava terra e terra anche il mio cuore!
Brulla, arida, lacerata dal tuo viaggio inaspettato
eppure atteso: l’eternità.
Lo specchio d’acqua adriatica rifletteva l’ombra
dell’aereo in volo. Lo sguardo sull’etereo panorama del ritorno mi riconduceva verso una vita senza di te, madre immortale.
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Mirta Slomp Mirta Slomp Il mio bosco
El me bosc
(Traduzione dal dialetto della Vallagarina)
-B
ambina mia, domani ti porto nel mio
bosco per vedere e insegnarti i confini di proprietà. Partiremo presto qui
dai Dossi, passeremo il Maso dell’Aria, andremo fino
al forte Basso e al forte Alto, poi davanti alle vasche
dell’acqua, fino ad arrivare alla calcara e alle fontanelle dell’orso.
— Ma papà non è che troveremo veramente l’orso?
— Una volta si diceva che l’orso veniva qui, ma io non
l’ho mai visto.
La giornata è proprio bella e durante il cammino
mio papà mi narra storie accadute un tempo: davanti alle trincee mi racconta della guerra, poi mi racconta che doveva mangiare la polenta senza il companatico perché era difficile che arrivasse il formaggio visti i tempi di carestia.
Così senza accorgercene arriviamo nel suo bosco.
— Ecco, vedi bambina, qui alle fontanelle dell’orso
una goccia d’acqua non mancherà mai, lì c’è un carpino che segna dove inizia il confine.
228
-P
opa, doman nem fin for en del me
bosc, te porto a vedere e te ensegno
anca i confini. Partim bonora chi dai
Dosi, pasem dal Mas de l’Aria, nem su al forte Bas
e po’ al forte Alt, dentro ai vasconi de l’acqua, fin
fora al calcara e ale fontanele de l’ors.
— Ma papà no l’è che ghe per dal bon l’orso ale
fontanele?
— Na volta i diseva che el ghera ma mi no l’ho
gnanca mai vist.
La giornada l’ei proprio bela, en tant se camina
e me papà el me conta tante de quele robe de sti
ani: pasando davanti ai stoi el me conta dela guera, el me conta de quel dal formai che nol vegniva mai e so mama la ghe diseva: “En tant magna la
polenta biota che quel dal formai el vegnirà!”. E così senza nascorzerne arivem en del sò bosc.
— Eco, vedet matelota chi l’è le fontanele de l’orso, na goza de aqua no la manca mai, lì ghe en carpem che el segna en do che scominzia el confim.
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— Ma papà, quell’albero resterà lì per sempre?
— Certo, quello lì non lo toccherà nessuno e lì vicino c’è anche un sasso che fa da confine. Qui potrai
venire e troverai sempre legna da ardere.
Di anni ne sono passati e io vedo ancora le grandi mani di mio papà che tagliano la legna, per scaldare il mio cuore dai miei pensieri: vedo i suoi occhi che luccicano a vedermi qui in questo suo piccolo bosco, che tra le foglie che pitturano l’autunno,
cerco, ascolto e ricordo ancora qualcosa.
— Ma papà, quel alber resteralo lì per sempre?
— Zerto, quel lì nol lo tocherà nesum e lì arent
ghe anca en sas che l’è segn de confim. Chi te poderai vegnir e te troverai sempre legna bona da
arder.
De ani n’è pasà e mi ancor ancoi vedo le manone de me papà che le taia la legna per scaldar el
me cor dai mei pensieri: vedo i sò oci che i slusa a
vederme chi en de sto fazol del sò bosc, che en tra
le foie che le ‘mpitura l’autum, zerco, ascolto e ricordo ancor qualcos.
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Abdelmalek Smari Briru
(Traduzione dall’arabo)
“S
embra ieri!” dice Wafi fra sé piegando
la lettera. Gli viene in mente la risposta del contadino alla cicogna.
Quale vita t’aggradi io non conosco,
…
t’ho catturato insieme con costoro
che ai miei lavori recano gran danno.
Ritorna a pensare a quando accompagnò
Briru, amico d’infanzia e di cuore, che doveva andare a Parigi, alla Stazione Centrale di Milano.
— Ti ricordi il tuo nome? Me lo ripeti?
— Micro Bbandi.
— No! Mirko Bondi!
Era da giorni che Briru riprovava ma non riusciva a ripetere il suo nuovo nome.
— E come si risponde, da vero italiano?
— Briru.
— Noo! Prego. Pre-go. Ripeti.
Briru non ci riusciva, ma lo aveva ringraziato.
L’amico alzò le spalle.
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— Ce la farò, vedrai.
— Insciallah!
Era Wafi che aveva fatto venire Briru dal paese
dove aveva vissuto senza istruzione – non ce l’aveva fatta – né mestiere, ma in tanta miseria, nonostante la sua voglia di lavorare. Lo stesso fallimento però lo accolse qui in Italia.
— La Francia sì che è un paese sviluppato.
L’amico lo rivede, malaticcio e mingherlino, sulla gru di un cantiere a Pavia: minacciava
di buttarsi nel vuoto, dopo un periodo di prova
inconcludente.
Il capo-cantiere gli aveva dato del denaro con
cui si comprò un falso documento Schengen.
— A Parigi non avrai rogne con la polizia e troverai sicuramente un lavoretto da qualche algerino.
Alla Gare de Lyon, Briru venne ammanettato e
rispedito come una lettera al mittente.
Stanco di aver camminato e pianto, si asperse di benzina, scricchiò un fiammifero e sorrise alla vita.
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Andrey Josè Taffner Fraga Andrey Josè Taffner Fraga Il mio “Vecchio Cedro”
El me “Veccio Cedro”
(Traduzione dal trentino di Rio Cedro, Brasile)
S
ono nato in un bel paesello. Quando gli emigranti trentini arrivarono qui, guardando la
bellezza del fiume, accompagnato dall’ombra dei cedri, l’hanno chiamato Rio dos Cedros, il
fiume dei Cedri! I nonni lo chiamano Il vecchio cedro, come se fosse un vecchio amico, un porto sicuro e gentile.
Con l’arrivo degli emigranti, quella che era una
foresta inospitale è diventata una bella, piccola comunità. Se gli emigranti hanno lasciato le loro montagne e i loro laghi del Trentino, a Rio dos Cedros
hanno trovato altre montagne ed altri laghi e così l’hanno soprannominato “Il paradiso dei laghi”.
Furono costruite le case, le chiesette, il suolo è stato
coltivato e ha dato i suoi frutti. I trentini hanno portato il loro dialetto, che si sentiva per la strada e in
ogni casa. Hanno portato la loro musica in ricordo
dei vecchi tempi. Hanno portato il loro cibo e le loro
abitudini, e hanno dato un’identità alla città.
Ma il tempo, che non si ferma mai, ha portato an236
M
i son nat n’de na bela cita. Quando l’imigranti trentini i è arivadi, ia vist l fiume con ntorno bele piante de Cedro, ia
ciamá “Rio dos Cedros”, il Fiume dei Cedri. Ei nonni ei ghe dis “El veccio Cedro”, come per riconhocer a un veccio amigo, en porto secur e gentile
Quando che è rivadi l’imigranti, quel que lera
un bosc vergine, l’è deventà n bel e picol postejel
de viver. Se l’imigranti i ga lascià so montagne e
so laghi a Trento, al Rio dos Cedros e i a trovà altri monti, e altri laghi e cosi, ei l’à ciamà “El paradis dei laghi”. Sta fat le case, le ciese, la tera le stata laorada e la dat i so fruti. L’imigranti e i a portà
el so dialeto, che sel sentiva en tute le case, e en
tute le strade. I a portà le so sonade, que rimeteva ai tempi de sti ani. I a portà il suo magnar, e i
soi costumi de vita che i a dat la identità dela cità.
Però el temp, che nol se ferma mai, l’a portà
anca la vita moderna al la picola cità.
Ades non se scolta pu l’bel e antico dialeto per
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che la modernità alla nostra piccola città.
Adesso, per le strade, non si può più sentire il nostro antico e bel dialetto. I canti e le musiche sono finiti, dimenticati, vivono ancora solo nella memoria
dei nonni e nella nostalgia.
Così vedo la mia città che agonizza e muore fra
il rumore isterico e l’indifferenza dei tempi nuovi.
Vedo dimenticare la sua cultura e le sue radici più
profonde.
Voglio dirtelo, paesello mio, anche se non posso
più stare da te, tu vivrai sempre nel mio cuore e ti
porterò avanti. Qui con me sarai eterno.
le strade. Le cantade da’imigranti no se sente pu,
le ghè sol an de la memòria dei nonni e an de la
nostalgia.
Così, vedo la mia bela cità agonizar e morir n
tra i rumori isterichi e l’indiferenza dei novi tempi. Vedo la sua cultura e le so radiz pu profonde eser desmentegade. Ma tel digo, cità mia, che se no
podo pu vivere in te, ti te sarai sempre an del mio
cor, e te porterò avanti.
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Anna Tava Campo metropolitano
-O
gnuno deve avere un pezzo di terra
che sia solo suo.
— Perché, nonno?
— Per non perdersi.
Non diceva altro. Contadino di poche parole e
stringati concetti, era.
Radicato nella terra del suo campo, stesso orizzonte per tutta la vita.
Ma io no, io sono partito, ho scelto il mondo, le
grandi città, gli orizzonti infiniti, la libertà.
Il campo del nonno passò a mio padre e poi fu
venduto. Non ne ebbi mai nostalgia.
Fino a un certo giorno.
Ci sono nell’animo trabocchetti e dentro ci galleggiano parole caricate come bombe a orologeria. Quando esplodono ti ribaltano la vita.
La mia parola era terra ed esplose dentro di me
in un’estate non diversa dalle altre. Solo più stanca, certamente troppo vuota.
Stavo guardando dalla vetrata dell’82° piano
del grattacielo vetro-acciaio di New York in cui abito e ho sentito impellente la voglia di terra. Una
terra che fosse solo mia. “Perché un uomo ne ha bisogno”, ho sentito che dicevo a voce alta.
Così ho comprato i vasconi, ci ho messo uno
strato di graniglia, la terra grassa, un po’ di sabbia e qualche sasso. Ci ho piantato piante aromatiche, un rosaio, violette, degli alberelli. Ho iniziato a curarli consultando libri sulle coltivazioni in
casa.
Niente di strano, si dirà, vasi di piante e fiori.
Solo che il mio appartamento misura meno di
40 metri quadrati e non ha balconi.
Via il tavolo e il divano, metà spazio è occupato dalle coltivazioni. È un campo metropolitano
solo mio, dove cerco di ritrovarmi.
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Giorgio Tosini Da dove vieni?
-D
a dove vieni?
— Non lo so
O forse dovrei saperlo.
C’era stato silenzio dopo.
Il vecchio non aveva insistito a chiedere altro.
Aveva distolto lo sguardo e fissava un punto
lontano, chissà dove.
La donna, che poco prima gli si era seduta a
fianco su quell’unica panchina un po’ sgangherata
davanti alla valle, dopo aver risposto in quel modo si era come estraniata.
Adesso provava turbamento.
Più che per la domanda del vecchio per le risposte che aveva dato.
E ora le sarebbe toccato di pensare anche a
questo.
Già, perché non aveva risposto semplicemente
che veniva da Folgaria dove era nata e cresciuta?
Oppure avrebbe potuto dire che veniva da
Como dove aveva vissuto per vent’anni e dove a-
veva partorito e cresciuto i suoi figli.
Oppure avrebbe potuto rispondere che veniva
da Trento dove viveva da single dopo il divorzio.
In tutti e tre i casi avrebbe chiuso la faccenda
invece di ritrovarsi a fare i conti con quella domanda: “Da dove vieni?”.
E poi, il vecchio intendeva riferirsi alla sua origine o al posto dove abitava?
Al punto dove era arrivata, però, la questione
più importante non era più cosa intendeva il vecchio, ma come lei aveva vissuto la domanda.
Si rese conto che le case e le terre dove aveva
vissuto erano tutte “la sua casa”.
E non erano lontane, erano lì.
Dentro di lei.
“Vengo da tanti luoghi, ma sono tutti qui dentro
di me”.
Così avrebbe detto al vecchio.
Chissà se avrebbe capito.
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Adelina Valcanover
Zio
Merico
I
l bambino cammina lungo il sentiero che costeggia il boschetto di castagni. È un pomeriggio d’autunno, le foglie secche fanno un rumore sotto i suoi piedi e pare una colonna musicale ai suoi pensieri.
Nell’aria serena e limpida, aleggia un profumo
vago e amaro, ma il bambino pare non sentire, né
vedere i colori che lo circondavano. Già dall’anno scorso, i grandi non fanno che un gran parlare
dello zio Merico, che in realtà si chiama Giovanni,
ma emigrato trent’anni prima negli Stati Uniti, lo
ha sempre sentito chiamare così. Dicono che sta
per tornare.
Oggi è il giorno fatidico. È curioso, ma non si
spiega tutta quell’agitazione. Cosa porterà? In fondo al sentiero vede avvicinarsi al grande gelso in
mezzo al prato davanti a casa, un uomo con qualcosa in mano. Si avvicina lentamente e lo saluta.
L’uomo tiene in mano un barattolo pieno di
terra, mormora in risposta qualcosa di incom-
prensibile. Il bambino si fa coraggio e dice:
— Sei lo zio Merico?
L’uomo sorride e annuisce.
— Come mai sei qui da solo? – chiede ancora il
bambino.
— Voglio restituire un dono. Questo gelso l’ho
piantato tanti anni fa con mio fratello Marco e
mio nonno. Da quando sono morti, considero
questo albero un amico che mi consola. Lui c’è
sempre. Quando sono emigrato, ho portato con
me un barattolo di terra presa alla base del tronco e questo mi ha aiutato in momenti di solitudine e nostalgia, ora è tempo che torni alle radici.
Anche per me.
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Marco Vallarino Piedi nudi, mani armate
M
i chiamo Kevin Crane e cammino a piedi nudi da sempre. Sono nato e cresciuto in una terra soffice, profumata, cosparsa di erba, fiori, alberi, attraversata da fiumi
limpidi e illuminata da un sole che non scalda solo l’aria ma anche i cuori, e accende i sorrisi. Si sta
bene, qua. O meglio, si stava.
Non pensavo di avere bisogno di un paio di
scarpe finché la fabbrica non ha aperto. Dicevano
che avrebbe portato lavoro e soldi per tutti, anche
se nessuno si era mai lamentato di essere povero. Vivevamo di ciò che dava la terra e ci bastava.
Ora però non dà più niente, è troppo inquinata.
Camminare scalzi è pericoloso, in giro ci sono chiodi, rottami, vetri rotti e le siringhe di chi si
droga per dimenticare lo squallore che ci circonda. L’acqua è torbida e il sole è oscurato dai fumi
delle ciminiere.
Non posso neppure sognare un mondo migliore perché la notte il rumore dei macchinari impe-
disce di dormire. Le tasche gonfie di soldi dovrebbero farmi dimenticare le ferite del corpo e dell’anima, ma il lavoro alla catena di montaggio mi
rende troppo stanco anche per dimenticare. E poi
quello che vendono allo spaccio della fabbrica
non mi piace. È superfluo e mi costringe a lavorare di più per mantenere vizi che non mi giovano.
Prendo solo le disgustose scatolette che mi tocca mangiare, e continuo a risparmiare per comprare un giorno ciò che mi permetterà di camminare di nuovo libero per la mia terra. Il giorno in
cui i piedi torneranno a essere nudi perché le mani saranno armate.
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Laura Vignali A mia nipote Chiraz Sofia
L
a terra dove sei nata ha un odore speciale che solo quando sarai grande ti sembrerà inconfondibile. Ma tu che appena venuta alla luce ti sei ritrovata in tasca ben due passaporti, scoprirai presto che ognuno di noi può avere più di una patria.
E nessuna meno amata delle altre. Solo se tu
saprai distinguere un odore dall’altro sarai in grado di sentirti figlia di più culture.
Ricordati che la terra non è soltanto quella dove si nasce ma anche quella dove si vive, ci si forma il carattere e si condividono esperienze. Ma
soprattutto dove ci si sente in sintonia con i propri simili.
Tu potrai avere altre patrie e ciascuna di esse
farà parte di te. Solo se imparerai a riconoscere il
loro odore, la vita ti offrirà delle opportunità.
Vedi Sofia, chi si rinchiude nel suo mondo non
lo ama perché gli preclude la possibilità di aprirsi
alla realtà degli altri e lo condanna all’estinzione.
Quante culture diverse si sono intrecciate dietro di te, spesso in conflitto fra loro. Quanta difficoltà a comprendersi e ad accettarsi. Ma l’unica soluzione possibile è quella di raccogliere tante zolle e mischiarle fra loro rendendo più fertile
la terra comune.
Se sarai saggia saprai conciliare culture diverse
senza renderle subalterne l’una all’altra.
Tu che puoi, prendi il meglio di tutte. Così potrai dire con orgoglio che sia gli stretti vicoli medievali della Toscana che l’ampia distesa di mare
del Sahel sono TERRA MIA.
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Vittorio Vulcan La baita
È
parecchio tempo che ci pensa.
A quella stalla che suo padre aveva su, in
valle. Abbandonata da anni, certamente,
ma che potrebbe essere ristrutturata come casetta per le vacanze in montagna.
Adesso che si parla di lui come Ingegnere Capo
ai vertici dell’azienda, ci può fare un pensierino
serio. Il mutuo per la casa è quasi estinto e non ci
sono in vista “altri progetti” rilevanti.
Lo considera un investimento intelligente. Una
baita con terreni annessi, di questi tempi, è un bene godibile facile anche da immettere sul mercato immobiliare delle “case vacanza”.
Ha già parlato anche con un amico architetto
per un bel progettino e ha dato un’occhiata in internet. Così, per farsi un’idea più precisa.
Non solo. Più ci pensa più la cosa gli sembra
fattibile. Urgente.
Ne parla con Mirella, la sua compagna, pronto
anche a uno scontro, se necessario.
Ne ottiene, invece, l’appoggio.
Così si decide. Il prossimo week end andranno
in Trentino, dai suoi, per sentire suo padre. Sapere
cosa intende fare del fabbricato, probabilmente
cadente e semidistrutto.
L’accoglienza è calorosa, l’ospitalità squisita.
Dopocena, con un caffè fumante sul tavolo e una
grappetta al corniolo in mano, l’argomento “baita” si rende ineludibile.
— Sai papà, volevo parlarti di quella stalla che hai
alla Val del mat. Pensavo di ricavarci una bait...
Lo sguardo stupito di suo padre lo impietrisce
prima delle parole.
— Oh miseria, non l’ho più. Ho venduto la malga e
la terra anni fa, quando eri a Milano, a Ingegneria,
e i soldi non bastavano mai...
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David Wilkinson Cornovaglia
M
ucche s’intravvedono aggrappate agli
umidi declivi simili a rasoi che si sprofondano nelle vene dell’Oceano offeso
nel suo grigiore dal verde violento, ultimo lembo
celtico dell’Inghilterra Finisterae.
La Cornovaglia sogna cornamuse, guarda tacita in lontananza, ma da tempo perse la lingua, che
è ancora vivente tra i gallesi, scozzesi e bretoni.
Ultimo lembo della Gran Bretagna è porto di
attracco per cittadini che si dilettano dei vecchi miti, ti ricordano i vecchi pescatori ingoiati dagli abissi del villaggio globale. Lo sciabordio
dell’Atlantico sfida il sussurro continuo di leggenda nell’aria. Gabbiani rivali fanno il pendolino tra i prati e bianche sponde baciate senza zelo dal sole.
Monte San Michele, castello sulla mezz’isola,
sfida la terra ferma, isolata ad alta marea, dove aleggia Merlino.
Stormi di corvi zigzagano in frenetico volo at-
terrando qua e là sul lunatico terreno roccioso,
intorpidito dal tormento dell’Oceano. Incessanti
immagini si proiettano sullo schermo dell’anima,
monotona sequenza di fotogrammi nella catarsi
dell’io sofferto e sofferente.
Verticali cimiteri dai crocefissi grondanti licheni sono attorcigliati su sé stessi, avvinghiati al mistero che nessuna Riforma poté cancellare. Venti
feroci la violentano da sempre ma essa rimane
pura. Ride la strega, a squarciagola lungo le epoche a cui non appartiene, come a nessun luogo
comune: ne sono testimoni le giornate torride, gli
inverni miti inattesi. Merlino che aleggia con incantesimi celti ha risparmiato.
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Fulvio Zanoni Piazza delle Oche e del Nettuno
E
ri giovane, tu, allora, e un poco Oca.
Io ero il tuo Nettuno; alle otto di ogni sera guadagnavo la più bella piazza cittadina, lesto alla tua porta. La finestra in alto la tenevi
chiusa, quasi a serbare intatto il tuo candore; sola
e trepidante mi aspettavi.
Da quanti anni tu non sei più oca? Da quanti
anni io non sono più nettuno? Quella piazza che
fu vicolo cieco stasera la percorro un po’ esitando, con passo stranamente timoroso, ma con lo
sguardo alto… e vedo lassù la tua finestra laidamente spalancata!
No, non puoi essere tu l’oca che accoglie quei
nettuni incravattati, uno con la barba e l’altro senza, l’uno incanutito e l’altro calvo, alle otto della
sera alla tua porta!
Io giro subito l’angolo accelerando il passo:
qualche vipera – istigata da una legge cattiva –
potrebbe bollarmi di stalking. Sapesse, invece, il
mio sollievo! Ora ho la certezza che la mia ter-
ra è Altrove: lontana dalle vipere, dalle oche e dai
nettuni.
Che pericolo ho scampato! Meglio solo, che
peggio accompagnato.
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Paolo Ziino
Un emigrante dell’Ottocento
I
o sono Nino e questa è la mia storia.
Mio padre aveva un podere – un terreno
montuoso e brullo – nei Nebrodi. La mia famiglia stentava a ricavare da esso di che campare.
Mio fratello – primogenito – era destinato a
continuare l’attività di mio padre nel podere.
Prospettive di benessere per me ce n’erano poche
e decisi di andarmene via. Scelsi come meta una
ricca zona agricola del Catanese.
La mia quota di eredità fu una mula e un po’ di
soldi: i mezzi con i quali conquistarmi un futuro
migliore. Quando partii il distacco dalla mia famiglia fu molto sofferto. In ricordo portai con me un
sacchetto della mia terra natia.
Dove mi sono trasferito, con tanti sacrifici e duro lavoro, sono riuscito a comprarmi un fondo agricolo. In esso, quale ideale legame con le mie
radici, ho sparso la terra di quel sacchetto.
Mia moglie era prossima a partorire e c’era da
mietere il grano. Avevo poco tempo per poter fa-
re la mietitura da solo e pochi soldi per poter pagare dei braccianti.
Mi ricordai di compaesani che in attesa di lavoro stazionavano in un vicino villaggio. Andai a
chiedere il loro aiuto, facendo appello al comune paese di origine. Alcuni di quei braccianti avevano lavorato nel podere di mio padre e parecchi
di loro con slancio accorsero in cambio di un poco di pane e di vino. Il raccolto fu terminato giusto in tempo da consentirmi il rientro in paese prima del parto.
Ora vivo sereno e contento: ho di nuovo una
famiglia mia e una terra mia.
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Antonio Angelo Zurlo
Antonio Angelo Zurlo
I
I
contadini
contadini
(Traduzione dal trentino di Santa Teresa, Brasile)
N
ell’interno di Santa Teresa, Espirito Santo,
Brasile, c’era una famiglia di agricoltori discendenti da quelli trentini-tirolesi (loro si
dicevano trentini) arrivati nel 1874/75.
Dopo molti anni di mezzadria acquistarono un
pezzo di terra circondata da montagne impervie.
Lì, tenevano una piantagione e gli allevamenti per
mantenersi durante l’anno (il caffè dalla piantagione veniva solo una volta all’anno), vendere e acquistare qualche chilogrammo di frumento; cherosene
per le lampadine (non c’era la luce elettrica), e anche
qualche paio di zoccoli.
Risparmiare! Lo zucchero, lo facevano loro.
Macinare la canna da zucchero con la macina di
legno girata dai buoi, cuocere il fluido per fare una
sorta di mattoni con i quali, ridotti a pezzetti si addolciva tutto, anche il caffè da bere.
Alla Domenica, il rosario. ll Sabato, un ballo o
una serenata. Negli altri giorni, lavorare! Quelli con
più di 12 anni, dopo la scuola, se ne andavano con
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N
el interior de Santa Teresa, Espírito Santo,
Brasil, gh’era na famiglia de agricoltori descendenti de trentini-tirolesi (i se disea sol
trentini) arivadì nel 1874/75.
Dopo ani de mesadria i sà comprà ’n tochet de
terra ’ntrà montagne erte. Li i fea la piantagion e
alevamenti per mantegnerse. El café el vegnìa na
volta a l’an, per vender e comprar qualche kilo
de farina bianca, petroleo per le luminete e anca
qualche par de socoli.
Esparagnar! El zucher i lo fea lori. Strucar la cana co’la moenda girada coi boi e còser la garapa
per far rapadura (matoni de zucher) che spacadi a tocheti, servia per endolcir tut, anca el cafè
de bever.
Ale domeneghe, la corona. Al sabo n’ balot o
‘na serenada. l altri dì laorar. Quei sora i 12 ani dopo la scola, col papà, al lavoro. I pù zoveni a casa, far ì mistieroti: guernar le galine, i porchi, scorzar el miglio, meter la legna soto ’l fogolar, serar259
il papà al lavoro in campagna. I più giovani rimanevano a casa, a fare i lavoretti: alimentare le galline, i maiali, sfogliare il mais, disporre il legno sotto
il focolare, macinare il caffè, prendere i vitellini, bagnare l’orto... Aiutare la mamma. Lei suonava il corno di bue alle undici, invitando quelli della campagna al pranzo.
Una mattina di inverno, di buon’ora, la mamma
arriva alla camera di suo figlio e dice: “Antonio, alzati, va sul monte a prendere le mucche”. L’ ometto, con i suoi sei anni, si alza, veste la camiciola e i
calzoncini, e, senza scarpe, va su!
Fa che le mucche si alzino, e, mentre loro si stirano, dove una aveva dormito c’era come un materassino d’erba. Allora ha capito che era il momento di
scaldarsi. Si sdraia lì, e aspetta che le mucche inizino a scendere per accompagnarle.
su i vedèi, masnar el cafè, sguazzar l’ort... Agiutar
la mama ’nfati. Ela la sonea el corno de bò ale 11,
perché quei dela compagna i vegnisse disnar.
Na matina bonora de inverno la mama ariva a
la câmera del sò fiolet e la ghe diz: Antonio, leva
sù, và sul monte parar zô le vache. L’omenet, de 6
ani, el salta sù, el se mete la camisota e le braghete e, sensa scarpe, sù. El fà le vache alzarse e entant che lore le se stira, li n’dove una l’aveva dormi, g’hera come un paionet de erba. Elo l’ha capì
che l’era el moment de scaldarse. El sà buta zô lì e
l’aspetà che le vache le scomenziasse nar zô, per
acompagnarle!
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Gli autori
Gregory Alegi Roma. Storico e giornalista, si occupa con continuità di
aviazione da oltre 30 anni per passione e professione. Ha scritto una cinquantina di libri e monografie di storia aeronautica, curato mostre e restauri per i principali musei aeronautici italiani, sceneggiato film, fumetti
e giochi. Insegna Storia dell’Aeronautica presso l’Accademia Aeronautica
e Aviation Management presso la LUISS Business School.
gni genere: da tavolo, di ruolo, per computer... Tra i suoi libri il Dizionario
dei giochi (Zanichelli, 2010, con Beniamino Sidoti), il romanzo Il volo di
Majorana (Boopen Led, 2010) e l’antologia di racconti fantastici Cuore
di drago (Homo Scrivens, 2013). È tradotto in una quindicina di lingue.
Suoi racconti sono apparsi su riviste e antologie tra cui quelle del Premio
RiLL e del collettivo Carboneria Letteraria.
Livia Alegi Roma. Ha tredici anni e scrive da dodici, anche se i suoi
primi scritti erano un po’ difficili da capire. Ha pubblicato alcuni racconti con il club di scrittura creativa della scuola; compare nell’antologia Fedele al mito. Anche agli eroi e agli dei un amico fedele può cambiare
la vita (a cura di A.Morbidelli, 2012); ha partecipato all’edizione 2012 di
Parole per Strada, meritando una menzione speciale come partecipante più giovane. Ha anche scritto un libro-gioco dal titolo In cerca del tesoro di Apollo.
Wallace Armani Belo Horizonte, Brasile. Musicista: compositore e direttore d’orchestra; Linguista: traduttore ed insegnante di italiano, inglese e russo; Scrittore: poeta, librettista, narratore, saggista e critico
letterario; Collezionista: dizionari e fumetti. Tra le composizioni operistiche: Il Diavolo Tentato, in lingua italiana, libretto di Giovanni Papini,
2004; A Farsa dos Tempos in lingua portoghese, libretto del compositore, 2006; The Black Thursday Secrets in lingua inglese, libretto del compositore, 2012. Ha scritto il libro di poesia Paraíso Redescoberto (Paradiso
Riscoperto), edizione bilingue portoghese ed italiano.
Meriam Al-Ghajariah Rovereto. In più di mezzo secolo di vita ha vissuto 21 traslochi (circa), in cinque Paesi (circa) e tre continenti (circa).
Ama lavorare, viaggiare, chiacchierare e leggere. Scrive (poco) per amore o per rabbia (come l’uccellino in gabbia). Vive a Rovereto da pochi anni e ne è innamorata.
Giorgio Anastasio Roma. È nato nel 1977. S’aiuta a vivere nel Basso
Lazio, dove si occupa di comunicazione saltando da una regia video a
una correzione di bozze. Ha realizzato molti documentari sociali e ambientali e una sola fiction (il cortometraggio Love drips del 2012). Gli scritti invece li tiene nel cassetto da quando, nel 2001, si diplomò scuotendo il capo alla Scuola Holden di Torino. Ne tira fuori uno all’anno per Il
Furore dei Libri...
Andrea Angiolino Roma. Giornalista, scrive di cose per lo più futili
come gioco, gastronomia e collezionismo. Per mestiere crea giochi di o-
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Fabio Baldi Milano. Si occupa di gestione delle Risorse Umane. Da circa due anni frequenta un cenacolo di appassionati della poesia, delle
belle storie e dello stare insieme in allegria; qui è nata la voglia di partecipare al loro entusiasmo scrivendo brevi racconti che possano trasmettere emozioni.
Rossella Baldi Pistoia, dove risiede e lavora esercitando la professione
di commercialista. Si interessa di lettura scrittura ed ha partecipato a vari concorsi letterari per racconti brevi tra i quali Parole per strada nel 2012.
Livio Bauer Nomi (TN). Medico odontoiatra a riposo, maturità classica, lettore vorace con preferenze noir. Il rock virato al blues ed il buon
cinema d’azione, con il fumetto d’autore e l’arte del Novecento contribuiscono considerevolmente a migliorarne l’esistenza, altrimenti dedi-
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cata, oltreché alla fatica di vivere, al volontariato locale e all’impegno
amministrativo.
so saggio sul poeta, scrittore, saggista e giornalista roveretano Lionello
Fiumi. Ha vinto un centinaio di premi di poesia in tutta Italia.
Elena Belotti Trento. Si occupa dei diritti delle donne ed è socia fondatrice e segretaria dell’Associazione Coordinamento donne. Suoi racconti brevi e poesie sono inseriti nei Libri Sibillini e in altre pubblicazioni fra
le quali: Viaggi diVersi, Storie di donne, Il valore della vita. È stata premiata ai concorsi “Parlaci di te” a Parma, e “Donne in opera - Una giornata
tutta per me”, in Valle d’Aosta. Nel 2011 pubblica un libretto con suoi disegni, racconti e poesie Camminando incontrai i tarocchi.
Luigi Brasili Tivoli (Roma). Ha ottenuto numerosi riconoscimenti in
concorsi e selezioni editoriali. Ha pubblicato racconti in decine di libri e
riviste, per vari editori e testate tra cui Fanucci, Rai-Eri, Writers Magazine
Italia, Delos Science Fiction. Suoi racconti sono stati letti in trasmissioni radiofoniche e università. Ha pubblicato inoltre tre libri: La strega di
Beaubois (Magnetica); Lacrime di drago (Delos Books); La stirpe del
sentiero luminoso (La penna blu).
FeBe Trento. Da sempre appassionata di scrittura, in età adulta ci si è potuta dedicare con costanza e serietà, frequentando vari corsi. Partecipa a
vari concorsi regionali e nazionali con alcuni scritti premiati e pubblicati in antologie. Ama in modo particolare racconti veri di donne e animali,
perché il suo mondo professionale è quello zootecnico. Ama la semplicità e la gente genuina ed è merito loro se spesso la sua penna si muove
sul foglio, creando emozioni ma anche tante soddisfazioni.
Roberto Caprara Ala (TN). Appassionato di poesia e teatro, predilige la scrittura in dialetto e negli ultimi anni ha pubblicato una raccolta di
poesie dal titolo: ’Na barosola de sogni oltre a diversi testi teatrali, alcuni dei quali rappresentati più volte nei palcoscenici del Triveneto. È socio
e membro del Gruppo Poesia 83 di Rovereto.
Margherita Berlanda Comano Terme (TN). Frequenta il liceo linguistico «Sophie Scholl» ed ha passione per la scrittura creativa e per la poesia. Ama viaggiare; ha visitato alcuni Stati europei e frequentato per sei
mesi una scuola a Chester in Inghilterra. Ha partecipato ad uno scambio
culturale con una classe di Québec City. Desidera frequentare l’università a Monaco di Baviera e continuare a scrivere.
Italo Bonassi è giornalista, poeta, critico letterario e saggista; nato in
provincia di Bolzano, risiede a Rovereto. Presidente del Gruppo Poesia
83, vicepresidente del comitato trentino della Società Nazionale Dante
Alighieri, socio del Cenacolo di Poesia di Verona e del Furore dei Libri.
Ha pubblicato 8 libri di poesie e uno di racconti. Autore di un volumino-
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Vittorio Caratozzolo Genova. Praticante di didattica creativa, nutre
da tempo una particolare affezione per la manipolazione di materiali artistici come dimostra la sua bibliografia, ricca di opere dall’approccio originale: dal “falso d’autore” Processo a Don Giovanni accusato di omicidio e tentato stupro (Guida Editore) a Scrivere come Frankenstein.
Esperimenti di chirurgia testuale (La Meridiana), da Francesco De
Sanctis. Parastoria della letteratura italiana. La fantasaggistica e l’impero del verosimile (Guida) all’audiolibro bilingue Attraverso i “Quadri
di un’Esposizione” (Istituto di Cultura Ladina) e alle letture critiche di
Ungaretti, de Queirós, Ibáñez, Buzzati.
Giuseppe Carmeci Trento. Nato a Tripoli (Libia). Ha inventato e coordina, nella Circoscrizione Oltrefersina, il concorso La favola dei nonni: il
mio è un nonno …da favola dal quale sono stati ricavati e stampati 3 li-
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bri di favole. Ha scritto anche il libro 45° Blocco, i primi a Viterbo, gli ultimi a Rieti con i pensieri, le ansie, le aspettative dei suoi compagni Allievi
Sottufficiali, una raccolta di poesie e fiabe intitolata Scritti, versi e poesie in
libertà giocando con le fotografie sue e di un suo carissimo amico e un
breve manualetto Tiro con l’arco per bambini.
Carla Casetti Zambana Vecchia (TN). Ha operato con passione nel
campo artistico, indagando e promuovendo quasi tutte le arti, dal canto,
al teatro, alla pittura. Ha scritto e pubblicato numerosi racconti e poesie.
Matteo Cermusoni Castelserpio (VA). In arte “Dj irmu”, formazione da
musicista, ha studiato pianoforte. Con La cosa più rosa (Storia di Chicco
e Salma) vince “Lama (Forchetta) e trama” al prestigioso “Lama e trama
2006”. Finalista di “Volo rapido 2007” con Cella Zero Dodici. Pubblicato
per “Criminalcivico 2007” con Martina sotto il cielo. Altri racconti in rete.
Nel 2011 è a pagina 40 dell’antologia “PxS Il libro perduto”. Il racconto
del 2012 “Morte dell’estensore...” per “PxS” è una delle cose migliori uscita dalle sue dita.
David Cerri Pisa. Avvocato civilista, impegnato nelle attività formative della professione (è membro del Consiglio Direttivo della Fondazione
del C.N.F. Scuola Superiore dell’Avvocatura, e direttore responsabile della Rivista Cultura e diritti). Autore di note, commenti e articoli su varie riviste giuridiche, è stato curatore di alcuni volumi collettanei tra i quali gli piace segnalare Le leggi razziali e gli avvocati italiani. Uno sguardo
in provincia.
Ramona Corrado Belluno. Nata a Lecce, di professione infermiera, ha
l’hobby della scrittura e della lettura. Ha vinto alcuni premi letterari con i
suoi racconti, e altri sono presenti in svariate antologie di AA.VV. Fa parte della Carboneria Letteraria, con cui ha pubblicato numerose antologie collettive (l’ultima è Marchenoir, per Italic Pequod, del 2012). È nella redazione del lit blog “La Poesia e Lo Spirito” e ha un blog personale
scritto in punta di piedi (http://puntapiedi.wordpress.com). Nel maggio
2012 ha pubblicato il suo primo libro, un ebook dal titolo Un golfino blu
racconta, edito da Abel books editore.
Diana Crispo Roma. Ha formato con Biagio Proietti una delle coppie
più prolifiche in televisione, cinema, radio e letteratura. Per la televisione hanno ottenuto grande successo con Dov’è Anna? - diventato anche
romanzo per la Rizzoli, ora di nuovo in uscita - la mia vita con Daniela
(diventato nel 2012 il romanzo Chiunque io sia); L’armadio; Miriam da
Truman Capote; La casa della follia da Richard Matheson (presentato al
Mystfest di Cattolica), e Sound un film di fantascienza con Peter Fonda;
Storia senza parole, miglior film tv nel 1981, vincitore del Festival di Praga,
presentato in molti festival cinematografici fra i quali Sorrento, Locarno,
Los Angeles.
Matías Cimadon La Florida, Santiago (Chile). Giornalista cileno e
membro della “Asociación de Periodistas y Comunicadores Italichilenos”
(Assogicile). Di sé scrive: “Me considero un Audax Italiano. También soy
Periodista pero sirvo para todo”.
Nives Cristoforetti, poetessa nata ad Ala, risiede a Rovereto. Molte
le sue pubblicazioni, da Il tempo della vita - Da un diario in versi 19581987 (Le Madonie) a cura di Giuseppe Gentile a Anima nuda (Longo),
da L’ incanto di un grido, dalle 27 sue poesie inserite in “Quaderni paralleli di nuova poesia-2” (Guido Miano) a Estatici sensi (Ibiskos), da
L’incanto della pietra (Universum) a Nell’ombra del tempo (Book
Editore) e a Lo spazio della mente, numero speciale dei Quaderni della
Collana Gruppo Poesia 83. Membro del Gruppo Poesia 83, compare nelle antologie dell’associazione e in vari volumi collettivi.
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Pelagio D’Afro Ancona. È uno scrittore collettivo composto da
Giuseppe D’Emilio, Arturo Fabra, Roberto Fogliardi e Alessandro Papini; è
la “costola” di un altro autore multiplo: Paolo Agaraff. Ha pubblicato racconti in riviste e antologie, specie con il laboratorio creativo Carboneria
Letteraria. Il suo primo romanzo, I ciccioni esplosivi (2009), è anche disponibile gratuitamente su liberliber.it; il suo secondo romanzo, L’acqua tace,
è stato pubblicato nel 2013 da Italic-peQuod. (pelagiodafro.com)
Livio Dalpiaz Mezzolombardo (TN). Inizia a scrivere nel 2009 partecipando a un corso di Anna Tava, dal quale il romanzo a più mani Pochi
silenzi. In seguito ha scritto Arcobaleno; La fantastica meravigliosa storia
di Romedio – eremita, santo e protettore dei nonesi; Sulla mia via incontrai i Tarocchi; Oroscopo Natura & Simpatia; Di palo in frasca; Il giardino della rosa e Naja di un imboscato. Con Carla Mannarini e Anna Tava ha prodotto Poesie d’albero. Con Carla Mannarini e Rosanna Bragagna 7 Vizi e
una pistola.
Davide Daniele Como. Per la cronaca, Davide è il nome e Daniele il
cognome. A volte si confonde anche lui. Attualmente counsellor in formazione. Un suo racconto compare nell’edizione del 2004 Racconti nella rete pubblicata da Newton Compton, Roma. Nel 2006 ha pubblicato
Sette storie semplici per la casa editrice Palomar di Bari.
Susanna Daniele Pistoia. Iscritta all’Ordine dei giornalisti. Collabora
a numerosi periodici e riviste online. Nel 2004 ha iniziato a scrivere racconti gialli vincendo numerosi premi. Autrice di due testi teatrali: Ai
saggi la gloria, rappresentato nelle sale della biblioteca Forteguerriana
di Pistoia, Marco Del Bucchia (2010), e Il ceppo fiorito, EdizioniAtelier
(2012). Numerosi suoi racconti sono stati pubblicati in antologie e riviste letterarie.
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Igor De Amicis Teramo. Commissario di Polizia Penitenziaria, scrive di
diritto per le riviste giuridiche de Il Sole 24 Ore, ha curato diverse raccolte di saggi giuridici. Per la narrativa ha pubblicato svariati racconti in antologie. Nel 2012 ha vinto il contest del Festival delle Letterature dell’Adriatico. Attualmente è uno degli autori dell’iniziativa YouCrime indetta
da Rizzoli/Corriere della Sera.
Marcello De Santis Tivoli (Roma). Già funzionario di banca, ora in
pensione, scrive racconti, poesie, saggi. Ha pubblicato dal lontano 1976:
Odo nel vasto silenzio, ad oggi: ... di me d’altre cose. In mezzo: …e passerà solo il vento; Un pierrot senza speranza; Alla luna ch’è mia; Sarajevo otto
poesie; Gabbiani. E di prosa: Lettere dalla Ciociaria; Cara Ida…; Gocce di ricordi; ...di me e d’altre cose.
Margherita De Simone Napoli. Ha pubblicato con Perrone, Aletti,
Damster, Edit@, Poesièrivoluzione, Progetto Babele, Pagine.net. Terza
classificata al premio “Galeotto fu il libro” ed. 2013.
Patrizia Debicke van der Noot Clervaux (Lussemburgo) e Milano.
Scrittrice di romanzi, gialli, thriller, storici d’avventura, racconti ed E-book:
L’uomo dagli occhi glauchi ha ottenuto il secondo premio assoluto al
IV Festival Mediterraneo del giallo e del noir (2010). Il 10.4.2012, al IX
Premio Europa a Pisa (narrativa gialla e noir), ha ricevuto il Premio alla
carriera. Di prossima uscita il giallo storico La sentinella del papa. (www.
patriziadebicke.com)
Martina Dei Cas Ala (TN). Nel 2009 è uscito il suo primo romanzo per
ragazzi, Una stravagante mattinata a Operà (Albatros Il Filo) al quale
è seguito il suo secondo, Cacao Amaro (Edizioni Miele). Ha vinto alcuni
concorsi letterari: con il racconto “Chañan Curi Pilar” ha vinto il titolo onorifico di “Giovane Ambasciatrice CIRSI dell’Interculturalità”. Nel 2010 è stata insignita dal Presidente della Repubblica del titolo di “Alfiere del Lavoro.”
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Gian Luca Del Marco Besozzo (VA). Da anni si occupa di volontariato promuovendo iniziative e progetti umanitari in favore dei bambini della Repubblica Moldova. Amante della lettura e dei libri al punto da dedicarsi anche alla loro “cura”, restaurandoli e rilegandoli con
passione.
Alessandro Disertori (Sandro Dise) è nato a Vienna da famiglia
trentina, è cresciuto a Trento e si è laureato a Padova in Ingegneria. Ha
lavorato per anni nei vari continenti, come costruttore. Ha due figli ed
ora vive sulla riva veneta del Lago di Garda. Ama la musica, le lettere e
la montagna.
Emanuele Delmiglio Verona. Il suo primo racconto compare nel
1978 sulle pagine del magazine padovano The time machine. Tra i fondatori dell’associazione culturale Fantàsia, è membro dell’associazione Il
Corsaro Nero. Editore e giornalista, pubblica una collana dedicata a personaggi veronesi e veneti, Excellence Book. Direttore responsabile di due
riviste locali e direttore artistico della rivista Inchiostro, alterna scrittura,
consulenza editoriale e creatività grafica. Ha pubblicato due raccolte di
racconti (Ultima uscita, 2002 e Vie traverse, 2008); molti altri racconti fanno parte di altre antologie.
Peter Disertori nato a Trento, si è trasferito sul lago di Garda dove
tuttora vive e lavora. Ha pubblicato romanzi e saggi con diversi editori: La panchina, Osteria al porto, Storia contro, La figura di Cristo tra
ombre e luci, Naja l’ultima vacanza e Dolomiti di piombo. È co-autore delle antologie di argomento alpino In punta di Vibram e Dna alpino. Nel 2011 ha pubblicato I segreti dei rotoli di Qumran.
Joselina Destefani Rodeio (Brasile). Nipote di emigranti trentini. È
nata ed è vissuta sempre a Rodeio, una piccola città brasiliana fondata
dagli emigranti trentini nel 1875. Adesso che è in pensione, dedica molto del suo tempo alla lettura ed alla scrittura.
Giorgio Diaz Firenze. Laureato in legge, ha lavorato nella pubblica amministrazione. Ha pubblicato: Il nibbio dell’Uccellina (ARPANet,
vincitore del concorso 20/04/2004 con presentazione di Andrea G.
Pinketts), L’eroe della Grotta delle fate (Midgard Editrice vincitore del
Premio Midgard Historia), Lo sgozzatore di cigni (Edizioni Montag), Il
bianco e il nero (ARPANet), La città della solitudine. Lettere d’amore
di una sconosciuta (Altrimedia Edizioni). Il racconto Il mare ti accarezza è risultato vincitore nell’XI Premio Elsa Morante per Inediti 2012.
Sue poesie appaiono in varie antologie.
270
Danuta Dobkowska Elk (Polonia) e Milano. Conseguito il diploma di
studi superiori a Varsavia, ha lavorato come segretaria didattica negli istituti “Liceo Internazionale” e “Gonzaga” di Milano. Attualmente in pensione, si dedica a tempo pieno ai suoi hobby preferiti: poesia, lettura, musica, teatro, viaggi, giardinaggio, medicina naturale, trekking.
Dorina Dumbravă è nata e vive a Chişinău, città capitale della
Repubblica Moldova dove frequenta l’ultimo anno del Liceo “Hyperion”.
Appassionata dello studio delle lingue e delle culture straniere, ama leggere i classici della letteratura inglese e francese.
Anna Maria Ercilli Trento. Ha pubblicato: Abbraccio (Alcione), Il dono inquieto (Rebellato), Piccole lame (Ibiskos), Dall’aria, alla terra, all’oblio (Laboratorio delle Arti), La porta di Tàriso (Joker) e La stanza del colore provvisorio; Nelle pagine del tempo, dizionario delle parole perdute, a cura di
Alfredo Tamisari, ed. EmmeTi, 2011; Diario collettivo, Lua, 2013. È presente in
antologie e riviste con racconti e poesie: L’evoluzione delle forme poetiche, ed.
Kairόs, gennaio 2103. Collabora con la rivista “R&S” e con “Il Furore dei Libri”.
271
Ornella Fait roveretana, si è diplomata presso l’Istituto Professionale
ed è attualmente impiegata in un ufficio amministrativo. Ha pubblicato
due libri di poesie: Cartongesso e Lapislazzuli e Duemiladieci.
Gabriele Falcioni Ancona. Affascinato da ciò che è misterioso, fantastico e scientifico, sceglie la Scienza dei Calcolatori. Intanto pasticcia con
penne, matite e giochini, poi imperversa tra giochi intelligenti e narrativa fantastica, sia come parte del tricefalo Paolo Agaraff, sia come parte
della Carboneria Letteraria, sia come parte di se stesso. Appena può torna sott’acqua, dove si sente a casa. Odia scrivere biografie e si sforza di
renderle criptiche. Specie quelle brevi. Qualche volta ha vinto concorsi
letterari. Oltre a racconti in svariate antologie, ha pubblicato tre romanzi
a nome di Paolo Agaraff: Le rane di Ko Samui (Pequod), Il sangue non è
acqua (Pequod), Il quinto cilindro (Montag).
Guido Falqui-Massidda è nato a Primiero. Già notaio in Rovereto,
ex amministratore comunale, ex presidente dei piloti di montagna e
del consiglio notarile di Trento e Rovereto, ora conduce uno studio legale. Ha scritto Germania perdono, Monsignore Giovanni Battista
Deville. Storia di un montanaro trentino e I misteri del Monte Biaena
(Zandonai), oltre a libri e articoli di diritto. Fuori commercio la raccolta
di poesie e racconti Pianti risate sberleffi. Ora fa l’avvocato e, negli intervalli, vive.
Lidia Filippi Bolzano. Vicedirettrice delle Scuole dell’Infanzia. Ha partecipato ad alcuni concorsi di scrittura, classificandosi in buone posizioni.
Attualmente pubblica nei siti “Scrivere”, “Rosso Venexiano”, “Poesie e racconti”, “Gocce di poesia”; cura inoltre alcuni blog personali. Ha collaborato per alcuni anni con l’Agenda del Poeta edita da “Pagine”. Nel mese di
settembre 2011 ha pubblicato la sua prima raccolta di poesie intitolata
Chiaroscuri (Kimerik). Premio Internazionale Histonium per il racconto i-
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nedito “La saetta”. Primo premio ex aequo al concorso “Mediterraneo” indetto dall’Accademia Internazionale Giacomo Leopardi, con la poesia “La
bambola di stoffa”. Il suo racconto “Una pietruzza in tasca” è stato selezionato per la Mostra di Parole per strada 2012.
Gilberto Gagliardi Milano. Frequenta da molti anni il Cenacolo
Letterario “Foglie Del Melograno” dove mensilmente i partecipanti declamano i loro lavori, che vengono commentati e raccolti in un opuscolo pubblicato: poesie, racconti, brani musicali. Ha partecipato, in dialetto
veronese, al concorso “Premio Migrà“ di Sanguinetto (VR), vincendo due
volte il primo premio.
Davide Galati Verona. Laureato in Filosofia con una tesi e un percorso di studi in Storia delle Religioni. Vincitore di diversi premi letterari, ha
pubblicato il romanzo Oddwars, distribuito da Feltrinelli; la guida storico-turistico Verona minor Hierusalem per Gabrielli Editori; il romanzo
fantasy E un elfo li radunò... con l’editore Linee Infinite. Cura il blog umbradei.wordpress.com dove si parla di fede a 360 gradi.
Francesca Garello Roma. Scrivere, leggere e giocare sono le sue
occupazioni preferite. È autrice di L’uomo che volle farsi strega (Homo
Scrivens, 2013), antologia di racconti fantastici; altri compaiono su diverse raccolte. È anche autrice di libri-gioco, giochi didattici e moduli
per giochi di ruolo. Tiene una rubrica sui rapporti tra libri e gioco sulla rivista «Il Furore dei Libri». È membro del collettivo di scrittori Carboneria
Letteraria.
Karin Lisbeth Gelten-Lipari Trento. È nata a La Serena in Cile. A
Santiago del Cile ha collaborato con il Rettorato e l’Archivio Antico dell’Università Cattolica e con il Palazzo del Governo come traduttrice. Ha collaborato con Il Messaggero di Sant’Antonio, edizione estera, con articoli sull’immigrazione e l’emigrazione in Cile. Ha tradotto in spagnolo il li-
273
bro Le 4 Repubbliche Marinare ed è autrice dei romanzi La bimba che
visse due mondi (Edizioni L’Autore) e Mapuche. Lo spirito del Vulcano
(Reverdito). Invitata dal Governo Cileno alla Fiera del Libro di Torino 2013.
Vanessa Giolitti Roma. È un’attenta osservatrice dei comportamenti
umani, che fissa nei suoi racconti per lo più ancora inediti. Appassionata
di blog e social network, gestisce siti. Trentina di nascita, romana per
necessità.
Giuseppe Maria Gottardi Rovereto. Medico, odontoiatra, medico-legale e medico volontario del Soccorso Alpino, ha pubblicato: Anàmnesis - Colloquio Medico-Paziente in 5 lingue e il thriller I
Mitocondri. A seguire, tra saggi e romanzi: Dottore mi fa male qui Frasario e Dizionario per Turisti in 5 lingue; Mocca Cecca; Manuale
per demòni di II classe; Eroi o Traditori: I soldati trentini nella I Guerra
Mondiale; Camminando nella storia.
Luigi Guicciardi Modena. Insegnante di liceo e critico letterario, è autore di una serie di mystery, da La calda estate del commissario Cataldo
(1999; Heyne, München, 2000; Hersilia Press, Oxford, 2010) e Filastrocca
di sangue (2000; Heyne, 2001), a Relazioni pericolose; Un nido di vipere;
Cadaveri diversi; Occhi nel buio; Dipinto nel sangue; Errore di prospettiva;
Senza rimorso; La belva; La morte ha mille mani; sino a Una tranquilla città di paura (2013).
Marco Guarnieri nato a Trento, ha studiato prima a Trento poi in
Germania, dove ha vissuto per più di otto anni e concluso un Master in
Studi europei. In Germania una favola in tedesco è stata inserita in un’antologia, in Italia ogni tanto partecipa a dei concorsi: di recente un testo è
stato scelto ed inserito nella raccolta: Premio de palchi – raiziss, XIII selezione di poesia.
274
In-pagina San Michele all’Adige (TN). Il gruppo letterario nasce nel
2009. Promuove lettura e scrittura, organizza eventi culturali e corsi. È
centro di supporto e critica per le produzioni individuali dei soci, e stimolo per lo sviluppo di competenze attraverso produzioni collettive, anche
dedicate a manifestazioni. Alla prima opera collettiva, il romanzo Pochi
silenzi, sono seguite varie raccolte poetiche e di racconti; per la “Festa
della donna” ogni anno viene stampato un libro sui temi inerenti.
Norberto Julini Varallo (VC). Giornalista pubblicista con laurea in
Filosofia, ha insegnato italiano e storia e lavorato per i Ministeri dell’Istruzione e dei Beni Culturali. Consigliere e poi vicepresidente della
Provincia di Vercelli dal 1995 al 1999, è fondatore e segretario dell’associazione “Nova Jerusalem” al Sacro Monte di Varallo per una cultura di pace fra i popoli ed il dialogo interreligioso. Ha recentemente pubblicato il
Romanzo di Gaudenzio, la verosimile vita del più importante pittore rinascimentale valsesiano, Gaudenzio Ferrari.
Marisa Lanzerotti è nata in Trentino. Ama la realtà, convinta che superi di gran lunga la fantasia, quindi ama condividere quello che le succede: i suoi racconti riportano fatti accaduti ed il loro strascico di emozioni. È pure convinta che nella realtà provi a nascondersi la poesia e, quando riesce a scovarla, la descrive in poche righe.
Gordiano Lupi Piombino. Direttore editoriale delle Edizioni Il Foglio e
direttore di collane Anordest Edizioni, collabora con “La Stampa” e “Libero”.
Traduce gli autori cubani Alejandro Torreguitart Ruiz, Heberto Padilla, Yoani
Sánchez (Rizzoli) e Guillermo Cabrera Infante (Minimum Fax). Tra i suoi lavori ricordiamo: Cuba Magica - conversazioni con un santéro (Mursia),
Un’isola a passo di son (Bastogi), Serial killer italiani (Olimpia), Almeno
il pane Fidel - Cuba quotidiana (Stampa Alternativa), Coppie diaboliche
(Olimpia), Avana Killing (Sered) e Mi Cuba (Mediane).
275
Paola Malcotti Ledro (TN). Collabora con i quotidiani “l’Adige” di
Trento e “La Stampa” di Torino e con il settimanale “Vita Trentina”. È corrispondente radiofonico di Radio TrentinoInBlu. Ha ottenuto apprezzabili
risultati in seguito alla partecipazione a diversi concorsi letterari nazionali, con piazzamenti, segnalazioni e pubblicazioni.
Carla Mannarini Trento. Nata a Lecce, fa la maestra e non insegnante (come ama precisare) e fa parte del gruppo letterario In-pagina, assieme ai cui componenti ha realizzato i romanzi collettivi: Pochi silenzi, Fratture e caffè e Sette vizi e una pistola (ancora in fase di stampa),
diverse raccolte di poesie e racconti: Tracce odorose, Soave olezzo, La
donna le scarpe il cammino, Per dire miele ed eventi culturali. Ha pubblicato l’antologia poetica Ricette d’amore, poesia culinaria di calorie
virtuali e il libro di racconti allegorici Tarocchi on the road.
Giacomo Manzoni di Chiosca Lavis (TN). Laureato in Ingegneria
Chimica, amante della vita semplice e della natura, compone poesie,
racconti e favole e si dedica al bricolage. Negli anni ’90 ha iniziato a partecipare a concorsi letterari, con lusinghieri risultati. Fa parte del «Gruppo
Poesia 83» con sede a Rovereto. Ha pubblicato cinque brevi sillogi nella
collana “Il Portone/Letteraria” (ETS): Il tempo, le cose, i sentimenti, Primo
amore, Sterpi, Credere e amare e Cristalli di ghiaccio. Nel 2003 è uscita la sua raccolta di favole L’ippopotamo e altri animali, con illustrazioni dello stesso autore (ARCA).
Angelo Marenzana Alessandria. Scrive di narrativa di genere ritagliandosi uno spazio tra il suo lavoro presso l’Agenzia delle Dogane e
le nebbie invernali di Alessandria e la sua soffocante umidità estiva. Ha
pubblicato un gran numero di racconti su antologie varie, su Il Giallo
Mondadori, Urania e riviste tra cui Cronaca Vera. Esordisce con Frontiere
nel 1999 per l’Editore Mobidick, e prosegue nel suo percorso letterario
276
con Destinazione Avallon (Robin 2008), Legami di morte (Dario Flaccovio
Editore, 2008), Buchi neri nel cielo (Perdisa Pop, 2009) fino al recente
L’uomo dei temporali per l’editore Rizzoli.
Tiziana Margoni Roncegno (TN). Equilibrista fra reale e immaginario, ama narrare e scrivere, con stile sottile e leggero. Autrice di libri per
la scuola, da insegnante; Opuscoli a tema etnografico, da responsabile
della Sezione Didattica per il MUCGT di S. Michele a/A; articoli da Diari
di viaggio per la rivista “Buongiorno Bali-Indonesia”, da viaggiatrice; recensione di libri e co-ideatrice del gioco Spil’hu in Bernstaler, per il Kultur
Institut di Palù del Fersina.
Donato Marinello Milano. Laureato in materie letterarie, ex-insegnante nelle scuole elementari e medie, animatore ed esperto di giochi
antichi per ragazzi. Ha scritto Giochi in vacanza e Quando Robinson
si diverte editi dalla casa editrice Meravigli ed ha collaborato con la De
Vecchi nella pubblicazione di Il grande libro dei giochi. A Milano conduce il Cenacolo letterario “Il Melograno”.
Caterina Rosa Marino San Michele all’Adige (TN). Svolge attività di
volontariato nel settore ambientalista e animalista e partecipa alle attività del “Gruppo In-Pagina” di San Michele all’Adige. Ha partecipato alla pubblicazione dei libri collettivi Pochi silenzi, Tracce odorose e Soave
olezzo. Suoi scritti appaiono anche periodicamente su “Lo Strillozzo”
stampato a Milano.
Miriam Marino Bassano in Tiberina (VT). Artista, scrittrice e attivista
per i diritti umani, è impegnata in tre associazioni “Ebrei contro l’occupazione” , “Amici della Mezzaluna Rossa Palestinese” e “Stelle Cadenti-Artisti
per la pace”. Ha pubblicato libri di narrativa, poesia e saggistica, l’ultima
pubblicazione è una raccolta di racconti ambientata in Palestina durante
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la seconda Intifada e in Iraq durante l’occupazione e la guerra del 2003.
Festa di rovine edizione “Città del Sole”.
è casalinga e pensionata. Ha partecipato a Parole per strada nel 2011 e
2012. Nel suo blog www.raccontiflash.wordpress.com pubblica racconti.
Nadia Mariz Trento. Giornalista pubblicista. Dal 2005 al 2012 ha collaborato con l’emittente televisiva Telepace per la realizzazione di speciali e rubriche riguardanti la storia, la natura e la cultura del Trentino e nel
2009 e 2010 con la sede Rai di Trento. Autrice nel 2012 del volume Trento
1940-1945. I testimoni raccontano. Attualmente collabora con i quotidiani on-line L’Adigetto e Il Taumaturgo.
Armando Mondin Venezia. Del suo territorio, dal Piave alla Laguna,
ha preso i colori, la dignità, i sapori unici, in cui intinge la penna della sua
poesia e del suo scrivere. Collabora da oltre vent’ anni alla rivista “Quatro
Ciàcoe”, mensile di cultura e tradizioni in lingua veneta. Ha pubblicato i libri di poesie Notte Stellata e Tempo dovuto (Fratelli Corradin Editori) ed
è coautore del romanzo I colori danzanti (Fratelli Corradin Editori).
Carlo Martinelli Trento. Giornalista, ex libraio, scrittore (Storie di
pallone e bicicletta, Un orso sbrana Baricco), è coordinatore de “Il
Trentino”, rivista della Provincia Autonoma di Trento, cura la pagina libri
dei quotidiani “Alto Adige” e “Trentino”, fa parte di “em bycicleta”, presidio
di fabulazione sportiva.
Noemi Nappo Casalnuovo di Napoli (NA). Scrittrice di racconti brevi
reperibili online, studia al Liceo Scientifico e si sta dedicando alla stesura di un romanzo.
Maria Grazia Masciadri Moltrasio (CO) e Rovereto, ha studiato e poi
insegnato nelle scuole elementari anche come specialista di inglese; dal
1999 è passata all’educazione degli adulti: l’esperienza in questo ambito
e il contatto con lingue e culture altre hanno ampliato le competenze e
le curiosità nell’ambito delle lingue straniere e della letteratura. In pensione da pochi mesi, può dedicarsi con maggior assiduità alle sue passioni più vive: camminate, viaggi, ricamo e naturalmente... libri.
Rita Mazzon Padova. Fin da bambina ha vissuto con la sua unica amica di nome fantasia e con lei ha inventato meravigliose storie, poesie e
racconti di qualsiasi genere. Amore, vita, favole... tutto diventa un pretesto per prendere la penna. Le piace scrivere anche in vernacolo. Da qualche anno ha cominciato a partecipare a concorsi letterari, ottenendo risultati positivi sia con i racconti che con le poesie.
Marta Maria Minervino Rovereto. Ha fatto molti “mestieri” visto che
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Fabio Novel Trieste. Collabora con vari portali web e blog DelosBooks
e Mondadori. Ha partecipato alla stesura del DizioNoir (DelosBooks) e
con Sergio Alan D. Altieri ha curato Legion (Segretissimo Mondadori).
Esordisce in libreria nel 2002 con il romanzo Scatole siamesi (Editrice
Nord), ambientato nel Sud Est Asiatico, recentemente riproposto dalla
Delos in e-book. Suoi lavori sono apparsi in “Segretissimo” e nel “Giallo
Mondadori”, in “M-La rivista del Mistero”, nella rivista “Writers Magazine
Italia” e in antologie. Suo è anche il western-noir L’uomo che uccise
Texas Jones (Milano Nera eBooks).
Rahma Nur Roma. Nata a Mogadiscio, in Somalia, arrivata in Italia nel
1969, ha sempre vissuto a Roma e dintorni e da circa vent’anni insegna
in una piccola scuola primaria statale nel Sud Pontino. Scrive poesie fin
dalla lontana adolescenza. Da qualche tempo scrive racconti che partono dal suo vissuto tra due mondi culturali, l’Italia, paese che l’ha accolta
all’età di cinque anni e la Somalia, terra che l’ha vista nascere. Ha partecipato al concorso Lingua Madre 2012 e vinto il Premio Speciale Rotary
Club per il racconto Volevo essere Miss Italia. Ha vinto il Primo Premio
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nel Concorso Scrivere Altrove “Amici di Nuto” di Cuneo con il racconto
Mamma Somalia.
Gloria Odorizzi Port Royal (Canada). Nata a New York, all’eta di nove
anni tutta la famiglia è ritornata in Italia dove ha vissuto per dodici anni.
Ha studiato da maestra al Collegio Sacro Cuore a Trento e poi è ritornata a New York dove ha potuto insegnare alle elementari in inglese e in italiano. Sposata con un tirolese canadese, si è trasferita a Montreal dove
ha insegnato per 38 anni.
Laura Stefania Oreglia Trento. Ha scritto una monografia su Clara
Sereni e il romanzo d’esordio Dal Matto al Mondo (Youcanprint, 2013).
Collabora con il Gruppo In-Pagina di San Michele a/A. Ha partecipato al romanzo collettivo Pochi silenzi. Nel suo blog, Racconti di Laura su
Wordpress pubblica racconti, poesie e scritti vari.
Riccardo Ozog Francesconi Rovereto. La passione per la scrittura si
è manifestata nei primi anni di liceo con brevi poesie. Ora i suoi scritti variano dalla poesia al teatro, altra sua grande passione insieme alla musica. Nessuna opera sua è mai stata pubblicata.
Luisa Pachera Avio (TN). Giornalista e scrittrice, ha pubblicato i romanzi Vollmilchschokolade, Mergellinapils (vincitore del premio Nuovi orizzonti) e La tela di Blondie. Per i bambini ha scritto storie e favole in musica edite da Osiride, con cui ha inoltre pubblicato parecchi saggi storici e biografie.
Numerose le opere teatrali, tra cui www.sanvirtuale.it, segnalato al concorso Cofas e Stava, 19 luglio 1985, attestato di merito al Premio Oltreparola.
Marinette Pendola Granarolo dell’Emilia (BO). Nata a Tunisi, dalla sua
infanzia tunisina trae spunto il romanzo La riva lontana. Studiosa della
storia, degli usi e costumi della comunità italiana di Tunisia, ha curato il
volume L’alimentazione degli italiani di Tunisia e ha pubblicato Gli italiani di Tunisia. Storia di una comunità (XIX-XX secolo) oltre che numerosi articoli. Il romanzo La traversata del deserto uscirà nel 2014. Tiene regolarmente laboratori di scrittura creativa.
Snežana Petrovic Rovereto. Nata nella ex Jugoslavia, di nazionalità
serba, si è laureata a Belgrado in Letteratura e lingua serba. Mediatrice interculturale nelle scuole, ha collaborato con la rivista “Missioni Consolata”
con articoli sulla Serbia e sulla religione ortodossa. Suoi racconti, poesie e
articoli sono stati pubblicati sulle riviste “Didascalie”, “Missioni Consolata”,
“Ilustrovana Politika” e “Pravoslavlje”. Attualmente insegna lingua e cultura serba ai figli degli immigrati serbi.
Biagio Proietti Roma. Ha scritto per il cinema, Fai in fretta a uccidermi... ho
freddo, La morte risale a ieri sera (da I milanesi ammazzano il sabato di Giorgio
Scerbanenco), The Black Cat di Lucio Fulci, Chewingum e Puro cashmere, anche diretti. Protagonista dei grandi gialli televisivi Rai: Coralba, Come un uragano, Lungo il fiume e sull’acqua, Un certo Harry Brent, Ho incontrato un’ombra,
Philo Vance, Signé: Ta Claudia, La mia vita con Daniela, Doppia indagine, Un uomo curioso, e soprattutto Dov’è Anna? (pubblicato come romanzo da Rizzoli),
record d’ascolto nel ’76. Per la tv ha scritto Racconti fantastici da Edgar Allan
Poe, Madame Bovary, Storia senza parole premiato come miglior FilmTv , trasmesso in tutto il mondo. Ora si dedica ai romanzi: Una vita sprecata, Io sono
la prova, Chiunque io sia, Io che ho visto i delfini rosa.
Morena Pedrotti Rovereto. Insegnante, naturopata, ama viaggiare,
leggere, scrivere. Due romanzi pubblicati (Risalire la china, edizioni Stella,
2005 e Serendipity, edizioni Alcione, 2011), con i racconti brevi lavora di
cesello per dare forza e dignità a parole e sentimenti.
Giuliana Raffaelli Rovereto. Giornalista pubblicista radiotelevisiva,
per anni voce nota di Radio Rovereto Stereo, presentatrice di premi letterari nazionali e internazionali e manifestazioni culturali varie. Collabora
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281
con alcune riviste di cultura e attualità. Lettrice di poesia e prosa, conosciuta come sensibile interprete, da sempre interessata alla poesia e alla sua dizione. Socia del Gruppo Poesia 83, della società Dante Alighieri e
de Il Furore dei Libri. Studiosa di discipline astrologiche, tiene incontri radiofonici e conferenze-dibattito.
natrice di redazione, e tenuto cicli di lezioni sul tema. I suoi racconti sono
stati pubblicati in varie antologie. Insieme alla scrittrice Diana Sganappa,
è stata curatrice dell’antologia Parole di Pane (Farnesi editore, 2013). Un
romanzo è di prossima uscita e altri due in fase di stesura.
Giorgio Ragucci Brugger Borgo Valsugana (TN). Il suo primo libro in
versi, I Cavalli di Fedro, coniuga l’impegno culturale con lo spirito di solidarietà che ha caratterizzato anche le opere successive. La seconda opera poetica si intitola Poema del Trentino; sono seguiti poi alcuni romanzi, una serie di racconti e un saggio su Beethoven.
Sarcitana Ala (TN). Si occupa della formazione teatrale di giovanissimi cercando di mantenere viva la parlata locale. Scrive soprattutto testi
teatrali brillanti per la scuola e per adulti, in italiano e dialetto trentino.
Segnalazione di merito al Concorso Autori Co.F.As. per Celulari dela malora - messaggi a luci rosse, testo teatrale in dialetto trentino, pubblicato nella Collana del Teatro Trentino.
Michela Rigotti Trento/San Michele all’Adige (TN). Da anni coltiva la
passione per l’arte figurativa e la poesia. Fa parte del gruppo letterario
“In.pagina” di San Michele con il quale ha collaborato a raccolte di racconti e poesie. Partecipando a corsi di scrittura e poesia ha prodotto due
raccolte di poesie da lei illustrate. È iscritta all’archivio degli artisti trentini (ADAC) del Mart.
Giovanna Sartori Trento. Nata a Verona, è vissuta ad Arco e a
Rovereto. Ha pubblicato Il cantare di Dolcino (1996, ristampe nel 2000 e
nel 2007), T’amo che Dio la manda (1998), Dove giocano gli orsi (2002) e
le due commedie Dina Lodron, contessa di C. Romano (1999) e Un curdo
in casa (2000). Un libro di racconti Il mondo di Fatima (2006). Nel 2008,
Scorrendo pagine d’acqua.
Rossella Saltini Rovereto. Milanese di nascita, si trasferisce nel 1985 a
Rovereto, dove tuttora vive e lavora. Lettrice onnivora e scrittrice compulsiva, vincitrice di concorsi e premi letterari, si è occupata di recensioni per
il sito letterario “Il salice narrante” ed ha pubblicato racconti sul blog novel del sito “Eventi trentino”. Attualmente collabora con “Il Trentino”, mensile della Provincia Autonoma di Trento, e tiene una rubrica sulla rivista “Il
Furore dei Libri”. Nel 2010 è uscito il suo primo romanzo Il tempo dei quadrifogli di seta (Montag).
Marco Savarese Roma. Iinsegna matematica e fisica presso un liceo
della capitale. Ha scritto per i suoi studenti qualche dispensa di carattere scientifico disponibile in rete sul suo sito. Questo è il secondo racconto pubblicato con Parole per strada.
Emma Saponaro Roma. Esperta nelle tematiche dell’adozione. Ha
collaborato con l’Associazione Famiglia e Minori, pubblicato articoli a
carattere psico-giuridico per la rivista omonima, diventandone coordi-
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Barbara Scovoli Desenzano (BS). Insegnante per passione, scrittrice
per disperazione.
Catia Simone Bardolino (VR). Ha pubblicato racconti sulla rivista letteraria “Inchiostro”, su un’antologia della Historica Edizioni e per la collana “Incipit d’autore” della Giulio Perrone Editore. Blogger del Corriere della Sera sul forum “leggere e scrivere”. Ha pubblicato per la rivista letteraria “Inchiostro” un breve racconto nell’agosto 2009 intitolato Il Funerale
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e Maglia n.32 nel febbraio 2013. Due raccolte poetiche Frammenti nel
2012 e Amore 2012 nel 2013 con il self publishing. Collabora con la rivista
“Il Furore dei Libri” con articoli e racconti.
Giorgio Tosini Brescia. È docente e psicologo. Ha pubblicato articoli di psicologia su riviste scientifiche. Ama la lettura e scrive racconti che
non ha mai pubblicato.
Mirta Slomp Rovereto. Le piace scrivere in particolar modo racconti che ricordano il passato e le persone che ha incontrato nella sua vita.
Diana Ungureanu Chişinău (Repubblica Moldova). Bibliotecaria
presso la Biblioteca Municipale “B.P.Hasdeu”. Laureata in Lettere all’Università Statale della Moldova, collabora con alcune testate giornalistiche
occupandosi di cultura e di recensioni librarie.
Abdelmalek Smari Milano. Algerino, giunge a Milano nel 1992.
Pubblica Fiamme in paradiso, Il Saggiatore 2000, premio Marisa
Rusconi. Tempora et mores (poesie) ha una menzione speciale al
Premio Montano 2006. Si cimenta nel teatro con Il poeta si diverte e
L’asino sulla terrazza. Nel 2008 pubblica L’occidentalista - Libribianchi.
Gli sono dedicati: una tesi di laurea alla Statale di Milano (2011) e
il Supplemento del numero di giugno della rivista online El-Ghibli
(2012).
Andrey Josè Taffner Fraga Blumenau (Brasile). Ha studiato giurisprudenza ed è avvocato. Ha pubblicato diversi articoli in Brasile ed in
altri Paesi. Come discendente di emigrati trentini è componente del direttivo del Circolo Trentino di Rio dos Cedros ed è stato il fondatore del
Gruppo Giovani Trentini chiamato Tosarami (parola del dialetto valsuganotto che significa “ragazzi”).
Adelina Valcanover Trento. Insegnante, ora in pensione, si dedica
al teatro, come presidente dell’Associazione Culturale “Amici di Parola”,
oltre a tenere lezioni di dizione, calligrafia e teatro anche nelle scuole.
Ha due rubriche settimanali sul quotidiano on line “RagusaOggi”, scrive e racconta storie, alcune pubblicate sul “Gazzettino Ibleo”. Ha preparato anche testi teatrali. Ha un romanzo per ragazzi nel cassetto che prima o poi conta di pubblicare col titolo provvisorio di Il viaggio di Isacco.
Marco Vallarino Imperia. Scrittore, giornalista e game designer, vive a
Imperia. Finalista in vari premi letterari, ha pubblicato il romanzo Il Muro
(ed. Alacràn) e numerosi racconti in volume e su rivista, oltre a videogiochi testuali liberamente scaricabili da Internet, tra cui l’horror Darkiss! Il
bacio del vampiro.
Anna Tava Mezzolombardo (TN). Le piace che nome e cognome si siano fusi in annatava, il suo nome d’arte. Per lavoro si occupa di pubblicazioni e di laboratori formativi, nel tempo libero pure.
Collabora con il quotidiano “Trentino” e organizza eventi culturali artistici. Vincitrice e finalista in diversi concorsi letterari, ha pubblicato
la raccolta di racconti Assenze e presenze (Seneca), la raccolta poetica Sapessi (Uni-Service) e i romanzi Intenso (Temi) e Notte senza meta (Uni-Service).
Laura Vignali Pistoia, insegna lettere. Debutta nel 2007 con il romanzo Il treno fischiava ancora (Tracce) a cui segue la trilogia gialla ambientata a Pistoia Tutta colpa di Amalia, Il dottor Bencistà e il segreto delle
tre donne sole e Il sapore del vino (Del Bucchia). Del 2011 è il romanzo
Il cappotto del babbo (Del Bucchia), storia di un maresciallo quarratino
internato in un lager tedesco. Tra i molti suoi racconti, pubblicati su antologie, riviste e web, L’ultima sfida nel far west padano ha vinto il “Premio
Europa” di narrativa gialla & noir al femminile.
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David Wilkinson è nato in Inghilterra, ha compiuto gli studi a Oxford,
Mosca (in epoca brezneviana) e a Madrid nella Spagna della transizione.
Studioso di lingue, molte delle quali parla, ama anche il mondo classico,
la filosofia, la storia e la teologia. In Pakistan ha sviluppato un amore per
la lingua Urdu e un gran interesse per la lingua e la cultura dei Moghul,
in particolare per le raffinate poesie-canzoni Ghazal nonché del genere Qawali. Numerosi i premi importanti vinti: 21 in Italia, uno a Madrid
e un altro ad Atene.
Fulvio Zanoni Rovereto. Musicista, ha pubblicato due raccolte per
pianoforte, alcuni testi musicologici, un romanzo (Stupidi tutti, 2011), un
saggio poetico (Everness, 2012), il volume Mozart ai Confini d’Italia (2012).
Paolo Ziino Catania. Ha pubblicato il saggio I due Zoppo di Gangi,
C.R.E.S., Catania, 2009 e il volume I racconti della memoria, Il Convivio,
Castiglione di Sicilia, 2013. Ha conseguito per la narrativa e la saggistica
vari premi e riconoscimenti.
Antonio Angelo Zurlo Santa Teresa (Espirito Santo, Brasile). Da
giovane contadino, arrivò a diventare tecnico in agricoltura e avvocato. Presidente fondatore del Circolo Trentino di Santa Teresa nel 1987
e dell’lstituto Storico e Geografico di Santa Teresa. In pensione, vive in
Santa Teresa, coinvolto nelle attività della comunità locale e del Circolo
Trentino, del quale è l’attuale Direttore Culturale.
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Ringraziamenti
Vittorio Vulcan Palù di Giovo (TN), ha lavorato fino al 2008 nel campo edile stradale.
Nel proporre l’ idea di «Parole per strada» abbiamo avuto
l’ occasione di incontrare chi, condividendone lo spirito
e le finalità, oltre a manifestare interesse e apprezzamento, si è reso concretamente disponibile a sostenere la sua
realizzazione e a collaborare con «Il Furore dei Libri» per
il miglior esito del progetto.
Il nostro grazie particolare va quindi a:
Regione Trentino Alto Adige
Provincia Autonoma di Trento Assessorato alla cultura,
rapporti europei e cooperazione
Comune di Rovereto Assessorato alla contemporaneità –
Assessorato alla condivisione dei saperi
Comunità della Vallagarina
BIM Valle dell’ Adige
Fondazione Cassa di Risparmio di Trento e Rovereto
Cassa Rurale di Rovereto
Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto
CGIL del Trentino
Biblioteca civica e Archivi storici di Rovereto
Consorzio Rovereto INCentro
Musica Cittadina «Riccardo Zandonai» - Rovereto
Civica Scuola Musicale «Riccardo Zandonai» - Rovereto
Centro Servizi Volontariato - Trento
Associazione «Il Gioco degli specchi» - Trento
Associazione «Italia-Moldova» - Besozzo (Va)
Gruppo letterario «In-pagina» - San Michele A.Adige
Associazione «Gruppo Poeti 83» - Rovereto
Associazione «Amici di Parola» - Trento
Comunità «L’ Approdo» - Rovereto
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Il Furore dei Libri
DOMANDA DI ISCRIZIONE - 201_
Io sottoscritt_ ________________________________________
Il Furore dei Libri è un’ associazione culturale di promozione sociale che si occupa dalla sua fondazione (2004)
della promozione del libro e della lettura, organizzando
eventi, celebrazioni e iniziative di divulgazione per avvicinare i cittadini alle istituzioni che si occupano di conservare e mettere a disposizione il patrimonio librario e
sostenendole nel diffondere la conoscenza e la valorizzazione dello stesso.
Promuove inoltre i Gruppi di lettura (di narrativa, di
poesia, di filosofia, di psicanalisi) per gli adulti e favorisce
un approccio creativo alla scrittura per i bambini delle
scuole elementari.
Con eventi come «Parole per strada» (e in passato, le
«Trilogie d’Estate» e «Rovereto in giallonoir») si propone
di portare gli autori ad un contatto più diretto e pubblico con i potenziali lettori, nella convinzione che il libro è
solo un ponte tra chi scrive e chi legge.
Per i bibliofili, e per chi ama leggere di libri e sui libri,
propone la riedizione di testi rari o introvabili e pubblica
ogni quattro mesi “La Rivista del Furore”, in abbonamento gratuito per i Soci.
Per diventare soci de Il Furore dei Libri e sostenere la
sua attività, basta compilare la domanda riportata a fianco.
Per ogni altra informazione:
www.ilfuroredeilibri.org
[email protected]
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nat_ a________________________ il_____________________
residente a_______________ via_________________________
cell __________________ e_mail_________________________
chiede di essere ammesso a far parte in qualità di socio dell’Associazione
Culturale “Il Furore dei Libri” e allo scopo
☐ dichiara di aver versato sul C.Corrente intestato a IL FURORE DEI
LIBRI Cassa Rurale di Rovereto
IBAN IT63H0821020800000000129686
☐ dichiara di aver versato tramite PayPal dal sito www.ilfuroredeilibri.org
la quota pari a Euro ___ ,00 corrispondente alla quota annua di:
☐ € 10 - Studente ☐ € 30 - Ordinario ☐ € 50 o più - Sostenitore
Dichiara di essere consapevole che l’adesione è subordinata all’accettazione della domanda da parte del Consiglio Direttivo. Nel caso di non accettazione della domanda la somma versata verrà integralmente restituita.
Data _____________
Firma _____________________
Ai sensi dell’art. 13 del D.lgs. 196/2003 l’Associazione culturale “Il Furore dei Libri”, in qualità di titolare
del trattamento, informa che i dati forniti saranno inseriti nella propria banca dati e saranno trattati sia
per finalità inerenti al rapporto societario che per l’invio di informazioni inerenti l’attività dell’Associazione.
Il conferimento dei dati è obbligatorio unicamente per quanto concerne la partecipazione all’Associazione
in qualità di socio. I dati saranno trattati dall’Ufficio Amministrazione dell’Associazione. Il Responsabile
cui potrete rivolgerVi per l’esercizio dei diritti previsti dall’art. 7 D.lgs. 196/2003 (relativi alle facoltà di
cancellazione integrazione o modifica dei dati, etc.) è il Presidente pro tempore dell’Associazione culturale “Il
Furore dei Libri” ai recapiti della sede.
Data __________
Firma per accettazione __________________
Edizione riservata e non in vendita
realizzata in occasione del concorso ad invito per un racconto brevissimo «Parole per strada - 2013»
Il Furore dei Libri
editore
- Rovereto - Dicembre 2013