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Terra mia il furore dei libri editore Pământ cu roti de cauciuc Tutti i testi sono stati ceduti dai rispettivi autori a “Il Furore dei Libri” e qui sono pubblicati secondo i termini della licenza Creative Commons (Non commerciale 2.5) Il progetto grafico e l’ impaginazione sono di Renzo Galli (Il Furore dei Libri) La copertina è di Bruno Zaffoni (Il Furore dei Libri) © 2013\Il Furore dei Libri Editore Rovereto, Corso Bettini 43 - www.ilfuroredeilibri.org Țara mea de glorie, țara mea de dor... Pământul țării mele călcat în fiece zi în picioare încălțate și de roți de cauciuc călcat fără milă și fără nici o conștiință îți dedic cuvântul Pământul meu cu glorie mare și oameni mărunți Țărână care nu se mai transformă în lut ci în asfalt Ieri copiii te-au iubit azi ar vrea să te abandoneze ca să înfieze alte țări Și vin străini pe tine să te înfieze Peste cernoziom șoseaua ne face cale ca să nu ne mai bătătorim călcâiele ne alinți ca pe niște motani care fug nopțile afară pe fereastră sătui și chemați de vocea unei fete morgana O zi bună țara mea o zi bună o zi bună… Diana Ungureanu 3 Terra mia gloriosa, Terra mia cara... Terra della mia Patria! Calpestata, giorno dopo giorno, da pesanti scarpe e da ruote di gomma. Dedico a te queste parole: Terra mia piena di gloria e di gente miserevole. Terreno che non si trasforma mai in argilla ma in asfalto. Ieri i tuoi figli ti hanno amato, oggi ti vorrebbero abbandonare per adottare altre terre e stranieri vengono a prendersi cura di te. Sul tuo suolo fertile, una strada asfaltata ci permette di camminare senza rovinarci i piedi, ci vizi come dei gatti... che di notte scappano dalla finestra... sazi ed attratti dalla voce di una fata morgana Buona giornata, Terra mia. Buona giornata. Buona giornata... traduzione di Olga Irimciuc 4 Indice Terra con le ruote di gomma Presentazione10 Prefazione12 Introduzioni13 1. Gregory Alegi — Henry Farman 20 2. Livia Alegi — Un sogno bruciato 22 3. Meriam Al-Ghajariah — Plurale 24 4. — 25 5. Giorgio Anastasio — Il vecchio e il muro 28 6. Andrea Angiolino — Tornerò di sicuro 30 7. Wallace Armani — Verwaist e gli spiritelli del bosco Wallace Armani — Verwaist e os espíritos da mata 32 33 8. Fabio Baldi — Cercando terra 36 9. Rossella Baldi — In fondo al lago 38 10. Livio Bauer — This Hard Land 40 11. Elena Belotti — Dalla valigia di cartone al trolley 42 12. FeBe — Il germoglio è il mio orgoglio 44 13. Margherita Berlanda — Vista dall’alto 46 14. Italo Bonassi — Ho fatto un sogno 48 15. Luigi Brasili — Fango 50 16. Roberto Caprara — Astronauta 52 17. Vittorio Caratozzolo — Per aequora vectus 54 18. Giuseppe Carmeci — Tripoli bel suol d’amor natio 56 19. Carla Casetti — Un fazzoletto... 58 20. Matteo Cermusoni — Magari fiorisse il cielo 60 21. David Cerri — Due nostalgie 62 22. Matias Cimadon — Immigrante del mondo 64 5 Matias Cimadon — El inmigrante del mundo 65 44. Ornella Fait — Lucciole 116 23. Ramona Corrado — Sogno di una notte... 68 45. Gabriele Falcioni — Dipinti nella sabbia 118 24. Diana Crispo — La scoperta 70 46. Guido Falqui-Massidda — Le zucche 120 25. Nives Cristoforetti — Terra 72 47. Lidia Filippi — Poesia per la mia terra 122 26. Pelagio D’Afro — Colori 74 48. Gilberto Gagliardi — Ricordi di fanciullo 124 27. Livio Dalpiaz — Le grandi mani di Dario 76 49. Davide Galati — Anniversario 126 28. Davide Daniele — Air Jordan 78 50. Francesca Garello — Tre chili 128 29. Susanna Daniele — Deriva e approdo 80 51. Karin Gelten — Il mio paese incantato 30. Igor De Amicis — Verso casa 82 Karin Gelten — Mi país encantado 130 131 31. Marcello De Santis — Il pratosangiovanni 84 52. Vanessa Giolitti — L’ incontro 134 32. Margherita De Simone — Vient’ ’e mare 86 53. Giuseppe Gottardi — Marte mio 136 33. Patrizia Debicke van der Noot — La canzone 88 54. Marco Guarnieri — Splendore 138 34. Martina Dei Cas — La piazza degli specchi 90 55. Luigi Guicciardi — Un commissario, una città 140 35. Gian Luca Del Marco — Incanti di viaggio 92 56. In-pagina — Terra d’accoglienza 142 36. Emanuele Delmiglio — Lontano dal mare 94 57. Norberto Julini — Le noci di Al Mansura 144 37. Joselina Destefani — La Figueira della mia terra 96 58. Marisa Lanzerotti — Mari&monti 146 Joselina Destefani — A Figueira de minha terra 97 59. Gordiano Lupi — La mia Baratti 148 38. Giorgio Diaz — La mia terra è il mare 100 60. Paola Malcotti — Ceneri... 150 39. Alessandro Disertori — Come le radici dell’ acacia 102 61. Carla Mannarini — A terre unite 152 40. Peter Disertori — Nostalgia 104 62. Giacomo Manzoni di Chiosca — L’ orto 154 41. Danuta Dobkowska — Quale terra? 106 63. Angelo Marenzana — Sepolti vivi 156 107 64. Tiziana Margoni — Confine158 110 65. Donato Marinello — La terra del re 160 111 66. Caterina Rosa Marino — A terra 162 114 67. Miriam Marino — Clandestino 164 Danuta Dobkowska — Która ziemia? 42. Dorina Dumbravă— Moldova - Patria mia Dorina Dumbravă— Moldova - Patria mea 43. Anna Maria Ercilli — Colpo di vento 6 7 68. Nadia Mariz — Cartolina dal fronte 166 89. Emma Saponaro — Il sapore dolce del Salento 216 69. Carlo Martinelli — La canzone perfetta 168 90. Sarcitana — Un piccolo angolo... 218 70. Maria Grazia Masciadri — Punti di vista 170 91. Giovanna Sartori — Terre diverse 220 71. Rita Mazzon — Il colore dei ricordi 172 92. Marco Savarese — Fuori tema 222 72. Marta Minervino — L’ albero solitario 174 93. Barbara Scovoli — Radici 224 73. Armando Mondin — Tra cielo, terra e acqua 176 94. Catia Simone — Maggio 226 74. Noemi Nappo — Vedi Napoli e poi muori 178 95. Mirta Slomp — Il mio bosco 228 180 Mirta Slomp — El me bosc 229 181 96. Abdelmalek Smari — Briru 232 75. Fabio Novel — Athdeu Fabio Novel — Athdeu 76. Rahma Nur — Le radici nascoste in me Rahma Nur — Xididdada dhaxdeeyda ku qarsoon 77. Gloria Odorizzi — Quando ero giovane Gloria Odorizzi — Conti de cando ero giona 184 — 233 185 97. Andrey Josè Taffner Fraga — Il mio “Vecchio Cedro” 236 188 Andrey Josè Taffner Fraga — El me “Veccio Cedro” 237 189 98. Anna Tava — Campo metropolitano 240 78. Laura Oreglia — Terra d’ombra 192 99. Giorgio Tosini — Da dove vieni? 242 79. Riccardo Ozog Francesconi — Vorrei poterti chiamare... 194 100. Adelina Valcanover — Zio Merico 244 80. Luisa Pachera — 14 agosto 1914, venerdì 196 101. Marco Vallarino — Piedi nudi, mani armate 246 81. Morena Pedrotti — Promesse violate 198 102. Laura Vignali — A mia nipote Chiraz Sofia 248 82. Marinette Pendola — Omaggio alla moribonda 200 103. Vittorio Vulcan — La baita 250 83. Snežana Petrovic — Il paese che non c’è più 202 104. David Wilkinson — Cornovaglia 252 105. Fulvio Zanoni — Piazza delle Oche e del Nettuno 254 256 Снежана Петровић — ЗЕМЉА КОЈЕ ВИШЕ НЕМА203 84. Biagio Proietti — Il ritorno 206 106. Paolo Ziino — Un emigrante dell’Ottocento 85. Giuliana Raffaelli — Andar per valli 208 107. Antonio Angelo Zurlo — I contadini 258 86. Giorgio Ragucci Brugger — Terra, terra! 210 259 262 87. Michela Rigotti — Terra virtuale 212 Antonio Angelo Zurlo — I contadini Gli autori 88. Rossella Saltini — Carapace migrante 214 Ringraziamenti287 8 Presentazione A nche quest’anno con il tema “Terra mia” Il Furore dei Libri promuove l’interesse ed il piacere verso la lettura stimolando negli autori invitati la consapevolezza che chi legge possa arricchire le proprie conoscenze pensando “al plurale”, condividendo saperi e culture, con l’obiettivo ultimo di permettere al lettore di comprendere meglio se stesso e i propri sentimenti. L’antologia, con i suoi 101 racconti brevissimi, vuol raggiungere tutti i lettori, sia quelli che amano leggere molto, sia quelli che per vari motivi leggono meno. Si propone inoltre alle diverse età ed è anche per questo che tra i propri autori adulti e professionisti nasconde dei giovanissimi che hanno scoperto il piacere della scrittura. Non dimentica nemmeno i lettori di altra nazionalità e per loro propone un bel gruppo di scrittori di altro idioma, dando così ai cittadini di Paesi Terzi l’opportunità di partecipare pienamente alla vita della nuova comunità in cui son venuti a trovarsi. Per un doveroso tributo alla nostra terra Trentina abbiamo invitato i figli dei nostri emigranti a scrivere il loro racconto sia in italiano che nella lingua del Paese dove vivono. E qui le sorprese non sono mancate. La prima è quella della risposta immediata e numerosa, la seconda è quella di trovarsi di fronte non tanto all’italiano ma al nostro antico dialetto trentino conservato per generazio- ni. Ma lasciamo ai lettori il piacere della scoperta. Tutto questo ha comportato un grande ed impegnativo lavoro alla redazione ed alla giuria, formata da elementi di diverse età ed esperienza dislocati in Trentino, Veneto, Piemonte e Lombardia. Tra di essi abbiamo i ragazzi di due classi di istituti superiori, un bibliotecario, una giornalista, due insegnanti, la redazione di una casa editrice, un direttore di biblioteca, un assessore all’istruzione, il rappresentante de Il Furore dei Libri. Tante persone collaborano al progetto di Parole per Strada ed è con tanto affetto che ringrazio il Direttivo, la Commissione organizzatrice e gli Autori, che ormai sento tutti amici, ma il mio sentimento di riconoscenza va soprattutto a chi per primo ha riconosciuto valido questo progetto sostenendo la nostra associazione e partecipando direttamente all’evento col suo impegno personale o istituzionale. Ringrazio inoltre le Istituzioni che con il loro contributo economico hanno permesso che questo progetto continui nel tempo ed è grazie anche a loro se Parole per strada è giunta alla quarta edizione. 10 11 MariaLuisa Mora Presidende de Il Furore dei Libri Giovanna Sirotti Assessore alla condivisione dei saperi del Comune di Rovereto Introduzioni Prefazione N on è impresa semplice la scrittura di un racconto breve. Occorrono spiccate capacità di sintesi, di rapida delineazione dei soggetti e di sicura eliminazione del superfluo, occorre una forte padronanza linguistica che eviti ogni vizio stilistico. Un buon racconto è “soprattutto privazione”, suggerisce, confida nel lettore per completare i particolari tralasciati, suscita emozioni. Tutto un non-detto che genera forte complicità tra l’autore e il lettore indotto a completare, a sua discrezione, quanto solo accennato. L’incipit stesso, tralasciando introduzioni esplicative, fa entrare, ex abrupto, in medias res, come dice Calvino. Così come la conclusione può essere una non-fine, oppure aprire a infinite soluzioni: corrispondenza inquietante con la mancanza di certezze e il disorientamento dell’uomo d’oggi. Ancor più, se il racconto deve catturare l’attenzione di chi cammina! Parole per strada lancia questa sfida: dare gambe alle parole perché rincorrano il passante e lo catturino invogliandolo a leggere. A settembre di questo anno ho incontrato il Furore dei Libri e il Concorso Parole per strada. Con gentilezza sono stata convinta a partecipare, con la mia classe, in qualità di giurati, al concorso letterario. È stata questa un’esperienza che ha arricchito la mia persona e mi ha fatto crescere professionalmente. Ho sempre amato insegnare letteratura italiana nonostante le molte difficoltà incontrate soprattutto a causa dello scarso interesse e motivazione che molti studenti di oggi dimostrano nei confronti della materia. Anziché scoraggiarmi questa è stata per me una sorta di sfida. Il mio scopo è stato, ed è tuttora, quello di cercare di far capire come, attraverso la lettura gli studenti possano arricchire la loro cultura personale, consolidare buone capacità e competenze linguistiche, acquisire una capacità critica e un’autonomia di pensiero e, non da ultimo, sentirsi, per una volta protagonisti. Parole per strada mi ha permesso di fare tutto ciò. La consapevolezza che la scuola italiana sta vivendo un momento delicato, la convinzione che la scuola deve essere antropocentrica, il mio personale timore di “addormentare gli alunni” mi hanno spinta ad accettare la sfida. Il lavoro è stato impostato in modo da sviluppare l’autonomia di lettura e di analisi, il confronto e la discussione, e, non da ultimo, la responsabilità di emettere un giudizio. Credo che tutto ciò li abbia arricchiti e li abbia fatti sentire partecipi di una bellissima esperienza culturale. Grazie Furore dei Libri! Lucia Debiasi Docente presso il Liceo Linguistico «A. Rosmini» Rovereto 12 13 14 Introduzioni Introduzioni I l tema di quest’anno, Terra mia, si presta magnificamente alla metafora. Certo, in molti di questi racconti c’è la terra nel senso più letterale del termine: la campagna, sfondo frequente di un’infanzia mitizzata, e insieme marca di appartenenza a generazioni ormai al tramonto. Il mondo rurale, da cui pure tutti proveniamo, appartiene alla memoria di chi ha vissuto gli anni arcaici tra le due guerre, quelli di privazione tra secondo conflitto mondiale e dopoguerra, fino alla ricostruzione e al boom economico che ha accelerato la fine del mondo agricolo ancestrale. Mondo arcaico e arcadico, la campagna compare in questi racconti sovente attraverso l’immagine dell’albero, emergenza ineludibile nella memoria di un’infanzia a contatto con la natura per quanto ostile e dura, ricordata oggi con nostalgia. Da quest’Arcadia rurale si deve fuggire per la fame, per la miseria, per la mancanza di prospettive di lavoro: l’emigrazione appare così sullo sfondo di molti racconti. La guerra – quella mondiale per gli scrittori italiani, quelle balcaniche o africane più recenti nell’esperienza di alcuni narratori stranieri – è insieme ricordo epocale e momento traumatico di rottura. La guerra talvolta segna la fine del paesello d’origine, talvolta la fine della Patria stessa. L’emigrazione dai Paesi africani o asiatici o dell’Est europeo diventa – nella prospettiva del lettore italiano – immigrazione; e il grande tema virgiliano del dulcia linquimus arva si conferma eterno, universale. Ma, come detto al principio, molti autori di questi racconti (talvolta bozzetti, talaltra mere considerazioni che esulano dalla forma narrativa) hanno scelto di interpretare Terra mia in chiave metaforica; e piace ricordare l’albero solitario del racconto omonimo: in un cerchio che si chiude, si torna alla natura dell’infanzia, alla campagna, da dove eravamo partiti… Da dove tutti siamo partiti. ≥ I sedici ragazzi e ragazze che hanno accettato di leggere e valutare i racconti fanno tutti parte della classe 2 B del liceo classico “Concetto Marchesi” di Padova: frequentano il quarto anno e quindi stanno entrando uno dopo l’altro nella maggiore età. Essi sono stati selezionati su un gruppo più ampio di 27 studenti, o, per meglio dire, si sono autoselezionati: infatti il primo criterio proposto dal docente per l’ammissione alla giuria era il semplice desiderio di farne parte. Un’esperienza nuova per tutti, visto che a scuola sono solitamente oggetto di valutazione (temi, verifiche, versioni, test ed elaborati vari) e non giudici attivi di produzioni altrui, se si eccettuano le “analisi del testo” inevitabilmente somministrate loro dai docenti in vista dell’esame di Stato. L’impegno è stato necessariamente casalingo, in quanto non era possibile né opportuno, con buona parte della classe non partecipante, utilizzare le ore curricolari per organiz- 15 Stefano Tonietto Docente presso il Liceo Classico “C. Marchesi” Padova La II Liceo Classico B Istituto di Istruzione Superiore “Concetto Marchesi” Padova Andrea Agbariah – Luca Barin – Elena Bortolato – Rebecca Ciriolo – Beatrice Fenato – Diletta Filippi – Giulio Fornaciari – Lorenzo Iannuzzi – Elena Lucchetta – Alberto Michielon – Laura Piva – Orysya Ratalska – Sofia Testa – Giulia Tiberio – Martina Tripaldi – Catalina Turuta 16 Introduzioni Introduzioni zare e seguire il lavoro; similmente, il lavoro è stato condotto in modo individuale, senza particolari momenti di condivisione di pareri e giudizi. In pratica, ogni studente ha lavorato come singolo giurato, in base ai propri gusti e alla propria esperienza di lettore, benché il giudizio espresso dal gruppo sia stato poi sintetizzato in un’unica tabella. Q uando ci è stato proposto di partecipare al concorso “Parole per Strada” come giuria, entusiasti abbiamo subito accettato poiché ci è sembrata un’esperienza nuova e diversa dalle altre. Essendo abituati ad essere noi giudicati abbiamo colto l’occasione per capire cosa si prova a stare dalla parte di chi valuta. Ci siamo resi conto che giudicare è più difficile di quanto si possa pensare, infatti abbiamo incontrato alcune difficoltà poiché dare giudizi implica una grossa responsabilità. Anche l’organizzazione non è stata semplice dato che le opinioni erano molte e abbastanza contrastanti. Ma nonostante questo è stato soddisfacente riuscire a gestire tutto da soli, senza aiuti da parte dell’insegnante. È stato bello vedere come i partecipanti hanno interpretato in modi diversi il tema di quest’anno, riferendosi alla propria terra d’origine, altri ad un punto fermo della loro vita, quali un oggetto o una persona. La lettura dei racconti è stata scorrevole e piacevole e alcuni che ci hanno particolarmente coinvolto, ci hanno portato a dibattiti e discussioni in classe. Siamo comunque convinti che sia stata un’esperienza molto positiva e costruttiva che ci ha aiutato a migliorare la nostra capacità critica e organizzativa; per questo alla domanda: “Lo rifareste?” risponderemmo all’unanimità “Sì!”. Un racconto che mi ha particolarmente colpito è L’albero solitario dove un uomo racconta la sua vita, paragonandosi ad un albero, che “ha visto morire la speranza di un 17 18 Introduzioni Introduzioni verde futuro in cui affondare le radici” e che dopo aver già dato tutto non ha più nulla da offrire, ma che nonostante ciò, è riuscito a trovare un posto al sole dove stabilirsi: la sua terra. Questo racconto richiama una realtà purtroppo presente e diffusa al giorno d’oggi, e anche se consapevole di questo fatto, leggere questo racconto mi ha comunque impressionato. (Erzana) Tra i racconti che più mi hanno colpita, c’è Sepolti vivi, in cui il protagonista Nadir lascia la propria patria in cerca di fortuna. Il finale non è specificato, ma si riesce a capire che non ha un lieto fine e, aggiungendoci l’ottima fruibilità, posso affermare che ha avuto un forte impatto sulla mia sensibilità. (Andrea) Nonostante la varietà di racconti, alcuni mi hanno trasmesso maggiore emozione poiché da questi trapelava con più sentimento l’amore e il rispetto per la propria terra. (Rachele) Nonostante il racconto Briru non sia piaciuto a molti, mi ha colpito per il suo finale triste e mi ha dato la consapevolezza che ci sono persone nel mondo che sono alla ricerca di uno spiraglio che possa salvarli dalla crudele realtà in cui vivono. (Giulia) Uno dei racconti che più mi ha colpito ed emozionato è 14 agosto 1914, venerdì in cui l’autore riesce a farmi rivivere emozioni che il personaggio prova, descrivendo l’abbandono forzato della propria terra. Un uomo costretto a la- sciarla per salire su un treno, non sapendo quale sia la destinazione, consapevole solo del fatto che segnerà la fine della propria vita. (Caterina) Personalmente mi ha molto commossa il racconto Clandestino, in quanto il protagonista esprime le sofferenze delle sue speranze deluse, affrontando il problema della mancanza di lavoro, che proprio in Italia colpisce molti giovani. Nel brano infatti egli si paragona ad un cane randagio, il quale le sere viene morso dalla nostalgia e che con il passare del tempo sparge il suo cuore in ogni parte del mondo. (Carolina) Mi ha colpito molto il racconto intitolato Il pratosangiovanni nel quale l’autore, con grande fruibilità, ha definito la sua terra attraverso una semplice immagine in cui dei ragazzini facevano della birra con della liquirizia; un particolare ricordo della sua infanzia in perfetta attinenza al tema. (Jessica) La III Linguistico B Liceo «Antonio Rosmini» Rovereto Erica Amistadi – Giada Andreolli – Andrea Bisoffi Marta Bottesi – Emily Calabri – Carolina Cestarollo Giulia Ciaghi – Giuseppe Francesco D’Amato – Martina Demozzi Beatrice Francesconi – Erzana Hallidri – Jessica Martinelli Denise Pancot – Alice Prandi – Layla Ulivieri – Caterina Viesi Rachele Zambelli – Giorgia Zenatti 19 Gregory Alegi Henry Farman I l pilota non può scordare il primo volo. La tecnica: i controlli, l’inutile bollettino meteo, l’odore della benzina. Le persone: l’istruttore che scende e batte una pacca sulla spalla, la fidanzata alla quale non hai detto nulla, l’operatore in torre che attraverso una cuffia gracchiante dice «India Golf Romeo Echo Golf autorizzato al decollo». Le emozioni: staccare l’ombra da terra, ma soprattutto riportarcela mezz’ora dopo. I riti: dal ruotino bagnato per scaramanzia alla secchiata d’acqua (o il tuffo, se c’è una fontana) all’atterraggio. Tanti sogni e addestramento trasformati in data indimenticabile, come nascita o matrimonio. È così da oltre un secolo per tutti. Fingere che non sia stato così anche per me sarebbe stupido o arrogante o le due cose insieme. Però la cosa che mi colpì di più non l’ho mai detta a nessuno. Quando, superata la sorpresa di essere ancora vivo, distolsi lo sguardo dagli strumenti e guardai fuori, il mondo mi apparve in un modo che non avevo mai provato da passeggero o con l’istruttore: per la prima volta tutto intero. Aprii gli occhi e alzai sulla fronte gli occhiali da sole. Inclinai con prudenza le ali e abbozzai una dolce virata. Case, strade, monti, boschi, auto blu e rosse sul nastro grigio di una strada che correva chissà dove. Spettacolo meraviglioso, ma con qualcosa fuori posto. Temendo di essermi perduto, confrontai la terra con la mappa ripiegata. E feci la mia prima scoperta di aviatore: dal cielo non c’è traccia di confini. 20 21 Livia Alegi Un sogno bruciato M i ricordo il mio primo libro. Era L’ Isola del Tesoro, di Stevenson. Avevo dodici anni. Fu questo libro che mi spinse a collezionarne tanti fino al punto di fondare una biblioteca, anche se con fatica, all’ età di trent’ anni. Era piccola la biblioteca. I libri erano accatastati e riempivano ogni angolo. Tutti apprezzavano il mio sforzo: ero l’ unica bibliotecaria in una biblioteca da cinquemila libri. Non era facile. I libri aumentavano, sia per studio che per piacere. Ma L’ Isola del Tesoro era sempre lì sulla mia scrivania e faceva da sentinella nel mio regno. Era il più vecchio libro della collezione e ne andavo fiera. Era tutto a posto nella nostra piccola città. Tutto andava bene. Poi arrivò un inverno terribilmente freddo. Molti non superarono la stagione, ma io ero al caldo e al sicuro nella biblioteca, lontana dai pericoli. Finché non arrivò la guerra. Il nostro villaggio non la sentì quasi, se non come un fuoco d’ artificio o un tuono distante. Un giorno del 1944 arrivarono cinque uomini in grigio. Per giorni si aggirarono, apparentemente pattugliando, ma in realtà cercavano qualcosa. Libri. Era il dodici novembre quando entrarono ridendo. — Questo – il più vecchio dei cinque prese L’ Isola del Tesoro – è inutile. Possiamo bruciarlo. Lo passò ad uno dei cinque che mi prese per un braccio e mi trascinò fuori. Una mezz’ ora dopo, l’ intera biblioteca era lì. — Il Führer vuole che tutti i libri vengano bruciati. E così sarà. Ecco. L’ avevano fatto. Avevano bruciato la mia terra. 22 23 Meriam Al-Ghajariah Plurale T erra mia: dove il nonno di mio nonno di mio nonno piantò questi ulivi. Terra mia: conquistata con il sangue degli eroi e protetta da alti bastioni. Terra mia: profumi di casa e suoni chiari della mia lingua. Terra mia: percorsi lungo piste che solo io conosco, e solo la sete e il sonno mi sono limite. Terra mia: comprata a prezzo vantaggioso da un manipolo di ambiziosi incapaci. Terra mia: l’alta scogliera che abbraccia il porto da cui partire alla conquista dei mari. Terra mia: dove scorre il mio sudore e guadagno il mio pane. Terra mia: il mio orto, le piante curate con amore sul balcone quando le gambe non possono portarmi più lontano. Terra mia: il profilo delle montagne che circondano la mia valle. Terra mia: novecentomila ettari e due mi24 25 liardi di fatturato. Terra mia: quella che si appoggia sulle mie ossa, sotto la lapide che ricorda il mio nome. Terra NOSTRA: rubata, lacerata, sfruttata. Unica e indivisibile. Amata. 26 27 Giorgio Anastasio Il vecchio e il muro I l campetto non era poi tanto male. Chissà come era avanzato quello spiazzo di terra marcia tra i palazzoni decrepiti. Una domenica certi ridicoli volontari del centro città c’avevano pure tolto le siringhe e discaricato una panchina, ma i ragazzi più grandi l’avevano sfasciata subito e ora la usava solo il vecchio. Io come tutti gli incapaci giocavo in porta e siccome quelli del palazzo mio erano forti m’arrivava un tiro (e un gol) ogni secolo, e avevo tutto questo tempo qui per guardarmi intorno. E così mi spizzicavo il vecchio. La cosa che mi straniva era che stava sempre a fissare verso un muro tutto graffitato abbastanza alto da non fare vedere aldilà. Niente paesaggi infiniti e robe così. Solo quel muro. Mica ci vedeva attraverso? Per un po’ ho sospettato che si toccasse guardandoci il culo con uno specchietto. Invece no. Stava solo teso verso l’avanti, come una vedetta che scruta l’orizzonte, tanto che la bava gli formava una pozza tra i piedi. Una volta l’ho sentito che parlava da solo. Allora un’altra volta ancora ho mandato la palla proprio vicino a lui e gli ho detto scusi la palla e giuro che gli ero a un metro ma non faceva caso a me e sbavava e biascicava e fissava il muro. Era il vecchio più vecchio del mondo. E ripeteva questa frase: quella era la mia terra. Me ne sono scappato in mezzo agli altri. La sua terra che? Mica c’è la terra al di là del muro. Ci sta il mio palazzone che è sempre stato là, già da quando sono nato io e cosa vuole che ci fosse prima? 28 29 Andrea Angiolino Tornerò di sicuro T erra mia, ti penso sempre. Anche ora che siamo in pausa in fondo al campo. Con dieci minuti scarsi per tirare il fiato prima di tornare a raccogliere verdura, la schiena piegata che fa male da morire e il caporale che urla di fare più in fretta, ma con delicatezza per non guastare nulla. Chi è nato qua mi guarda dall’alto in basso, e non è solo una metafora: sono più slanciati di noi. E ci disprezzano, anche se andando indietro nel tempo i nostri antenati sono gli stessi. Nati dove sono nato io: i loro trisavoli erano “terricoli” quanto me, per usare il nomignolo con cui ci chiamano oggi i marziani. Che sono tutti, ovviamente, discendenti da coloni terrestri. Hanno fatto il possibile per far somigliare questo pianeta alla Terra, cominciando secoli fa da mari e atmosfera. Ce n’è voluto di tempo. Era un deserto, ora è un giardino per ricchi: ma si vede che è costruito, sa proprio di falso. Io sono venu- to a servirne i padroni scappando dalla Terra vera, devastata e ipersfruttata. In cambio ottengo qualche soldo da mandare alla famiglia rimasta a casa e sguardi obliqui in cui leggo solo commiserazione o disprezzo. Alzo gli occhi. In questo periodo la Terra è vicina, si vede bene a occhio nudo: sembra una doppia stella vista da qua, lei azzurra e la luna più piccola accanto. Ancora qualche anno di risparmi per scampare alla miseria e me ne tornerò al mio pianeta, questo è poco ma sicuro. Per quanto maltrattato e povero possa essere. Amara Terra mia, amara e bella. 30 31 Wallace Armani Wallace Armani Verwaist e gli spiritelli del bosco Verwaist e os espíritos da mata (Traduzione dal portoghese brasiliano) N ascosto dietro ad un cespuglio, come una lince, guardava calmamente. Era meraviglioso conoscere esseri come quelli, piccini, di una pelle bianca come la neve, capelli multicolore ed orecchie appuntite. Ancora lontano da essi, non sentiva quello che dicevano ed essendo curioso come un furetto, decise di avvicinarsi ancora di più. Saltando velocemente sopra il cespuglio, cadde in mezzo a quella gente ed immediatamente, tutti si nascosero, temendolo. Senza capire che cosa fosse successo, disse: “Mi chiam’ Verwaist, son’ ün guerrieru e la zent del mio villazio mi chiaman’ el folletto gufo, ma nom’import’. Non ho paur’ di nient’, neanche di nessün’. Papà e maam non ho, ma son’ felisce. Io ho doue amisci, la mia shpada e ‘l mio uttavin’. Son’ FAMEEELICO! Hai qualcos’ da manziar’?” Il silenzio era gelificante ed oscuro. Sopra un albero, una civetta cominciò a piare. Verwaist ebbe un’idea. 32 E scondido atrás de um arbusto, como um lince, observava calmamente. Era maravilhoso conhecer seres como aqueles, pequenininhos, de uma pele branca como a neve, cabelos multicoloridos e orelhas pontudas. Ainda distante deles, não escutava aquilo que falavam e sendo curioso como um furão, decidiu aproximar-se ainda mais. Saltando velozmente sobre o arbusto, caiu no meio daquele povo e imediatamente, todos eles se ocultaram, temendo-o. Sem entender o que estava acontecendo, disse: “Me cham’ Verwaist, so’ üm guerreiru e u pof’ du meu vilareju me chaman’ de u travesso solitário, mas num’import’. Num tenhu med’ de nad’, e de ninhum. Papá e mamã não tenhu, mas so’ feliz. Eu tenhu douas amigas, a minha eshpada e a minha flautinha. Eshtou MORREEENDO DE FOME! Tem alguma cois’ de cumê?” 33 Prese l’ottavino e subito iniziò a suonare una musica gioiosa e vivace. Gli spiritelli si avvicinarono al flautista e cominciarono a danzare. Il tempo non era importante, solo la musica. Le voci delle creature del bosco erano simili all’instrumento musicale di Verwaist. Vi era, fra essi, una comunicazione pura e semplice. Magicamente, gli esseri cominciarono a brillare ed una luce mistica e spirituale emanò da ognuno, creando uno sfolgoramento scintillante. Rapidamente, tutto il bosco sembrava un gran faro che risuonava come una colossale corazza di cristallo. Luce e suono. Armonia. O silêncio era gélido e escuro. Em cima de uma árvore, uma coruja começou a piar. Verwaist teve uma ideia. Pegou a flautinha e subitamente começou a tocar uma música alegre e festiva. Os espíritos se aproximaram do flautista e começaram a dançar. O tempo não era importante, apenas a música. As vozes das criaturas da mata eram parecidas com o instrumento musical de Verwaist. Havia entre eles, uma comunicação pura e simples. Magicamente, os espíritos começaram a brilhar e uma luz mística e espiritual emanou de cada um, criando um brilho cintilante. Rapidamente, toda a mata parecia um grande farol que ressonava como uma colossal couraça de cristal. Luz e som. Harmonia. 34 35 Fabio Baldi Cercando terra R icordo quando giocavamo ai pirati; dall’alto di una sedia, con un buffo tovagliolo legato alla fronte, gridavi: “Terra, capitano, ho avvistato la costa!” La nostra terra era l’Isola che non c’è, dove le nostre fantasie ed i nostri sogni non conoscevano confini; quante battaglie e quanta gioia nei nostri giochi di amici inseparabili. Poi scuole diverse, gli anni che passano, gli innamoramenti che ti portano lontano; ci si trovava la domenica al bar a discutere di nuove sfide brindando con il vino rosso e forte che i nostri nonni conservavano in buie cantine. Poi il lavoro. Io, un impiego tranquillo, mi sono fermato qui, tra pianura infinita e colline; tu, tante scelte sbagliate in giro per il mondo, sempre pieno di sogni, alla ricerca dell’Isola che non c’è. La tua terra era sempre quella promessa, quella sottile linea scura che emerge dal mare della vita davanti alla tua nave; e tu a gridare “Terra, lì tro- verò le risposte, lì è la felicità che cancellerà le mie angosce”. Ci si vedeva solo a novembre mentre si rendeva omaggio ai nostri morti nel piccolo cimitero di paese, io con la mia famiglia, ancorato alle profonde radici delle nostre tradizioni, tu pirata irriducibile senza porto né terra. Un giorno sei tornato in una piccola urna, affidato a me in base alle tue ultime volontà. Non hai mai trovato l’Isola che non c’è ma per te compirò l’ultimo gesto da pirata; che le tue ceneri e la tua anima trovino pace su questa terra rossa e fertile dove forse si è sempre nascosta la tua terra promessa. 36 37 Rossella Baldi In fondo al lago E ra così compresa nei miei giorni e nel mio tempo da essere diventata invisibile, come spesso succede per molte delle cose che sono sempre sotto i nostri occhi. Dell’unico sentiero che conduceva al paese conoscevo ogni pietra così come gli alberi e i cespugli. Qualche volta ho pensato che questa terra facesse di tutto per non farsi notare, invece ero io, cieco e oltremodo distratto, a non considerarne appieno la presenza. Quando però stai per perderla, una cosa, a volte la sua bellezza si impone prepotente e beffarda e davanti ai tuoi occhi comincia a scorrere ciò che mai avevi notato prima, come a offrirti l’ultima occasione prima dell’inesorabile epilogo. Con ordine scritto e debitamente firmato si stabilì che questa terra sarebbe presto scomparsa dentro un lago artificiale. Dissero che sarebbe stato un vantaggio per tutti, ma io, da lì a poco, la terra mia non l’avrei mai più vista. Morta annegata o forse solo addormentata. Sono tornato qui dopo tanto tempo, oggi il lago è asciutto e sul fondo quasi riaffiorano i contorni del sentiero. Non più alberi, né cespugli, dappertutto solo erba sbiadita ma il sentiero così affollato non l’avevo mai visto: “Una foto nel paese sommerso, prego Signori, approfittate!” “Pic nic in fondo al lago con antichi sapori – si accettano prenotazioni!” Un vecchio, seduto un po’ in disparte, mostra cartoline d’epoca. La terra mia non si trova più qui ma immutata nel ricordo e pronta a cambiare a ogni mio volgere lo sguardo, sarà con me ovunque io sarò. 38 39 Livio Bauer This Hard Land L o strillo in prima pagina: “3.6.2013, Springsteen a san Siro per la quinta volta”. E mi ricordo... con Marco (i Blues Brothers!), parte la caccia al biglietto, l’organizzazione della trasferta, lo studio delle “scalette” degli ultimi concerti. La febbre che monta all’avvicinarsi del D-Day, il viaggio (macchina, treno, pullman... bicicletta, astronave), la fila sotto il sole, l’apertura dei cancelli, la corsa verso la prima fila, il posto conquistato, ore d’attesa insieme a 50.000. “Blood Brothers”. Cala la notte, si spengono le luci. Il boato, l’estasi. Milano, san Siro, 21 giugno ‘85; e poi Torino, Milano, Verona, Bologna, Genova, Milano, Bologna, Verona, Milano, Udine: un rito. Sempre uguale, sempre diverso. Ne esci ogni volta svuotato, felice, giovane, grande, bello, in lacrime, sorridente. E ne parli allo sfinimento. Con Marco. E poi mio fratello non c’è più. Marco se n’è andato. È la vita, dicono... Di colpo il rito perde significato, e Bruce a san Siro il 7.6.’12 canta per la prima volta senza i Blues Brothers. Non posso più, non voglio. Da solo non mi va, non mi interessa, andateci voi. E mentre sul prato del Meazza si scatena l’inferno e si apre il paradiso io infilo le cuffie sul divano di casa, mi asciugo gli occhi e ascolto “This Hard Land”. Insieme a Marco, e a Danny, e a Clarence. Appena dietro ‘Bluto’ Blutarsky fa le boccacce... 40 41 Elena Belotti Dalla valigia di cartone al trolley S ono in partenza, non so come sarà il mio futuro. Ma ho deciso, il lavoro lì c’è e qui in Italia non esistono prospettive. È una storia antica che si ripete. Mio bisnonno è emigrato in Belgio dal bellunese per sostentare moglie e figli. Lavoro durissimo nelle miniere di carbone. Poi a casa in uno sprazzo di ferie a lavorare i campi con la bisnonna che era capofamiglia. Mia nonna Ida e i suoi fratelli in giro per il mondo. Uno in Svizzera, l’altro in Piemonte e lei a fare la servetta a Milano. Oggi, io, laureata con 110 e lode, alle prese ogni giorno con la spedizione del curriculum e la ricerca di una qualsiasi occupazione. “Troppo giovane” “Troppo specialistica la laurea” “Troppe le domande”… e i concorsi ai quali per un qualsiasi posto di lavoro si presentano migliaia di giovani. Ne ho parlato con i miei genitori che avevano i goccioloni agli occhi. Sanno per esperienza che quando si va all’estero poi è difficile tornare a ca- sa. Ma a Sidney sarò inserita subito in un progetto, con la possibilità di affittare una casa e mantenermi. Magari fare anche dei risparmi. E poi… Ho raccolto un po’ di terra e l’ho messa in un vasetto, come ha fatto Isabel Allende nel suo peregrinare. Pianterò un seme appena arrivata e questa terra sarà un legame con il mio Trentino. Ma porto anche nel cuore una frase di Virginia Woolf: “Come donna non ho paese, come donna non voglio un paese, come donna tutto il mondo è il mio paese”. Sarò cittadina di Gaia. 42 43 FeBe Il germoglio è il mio orgoglio “I l contadino abita la campagna con il seme della passione, ma è dentro i solchi delle braccia e nei rivoli della fronte che vivono le memorie della sua terra”. L’autunno in quell’anno arrivò carico di pioggia e l’esplosione dei colori svanì. Memo lo sentiva. Glielo dettava la sua inquietudine di ritornare nei campi a raccogliere l’ultimo acino dorato e l’ultimo frutto del ramo più alto. L’uomo osservò il cielo: scuro, cattivo. Il vento era calmo. Solo dopo il mezzodì decise di partire. Gim uscì dalla stalla a fatica. Lo incoraggiò con una pacca: “Dai Gim forza!”. Sua moglie come sempre lo seguì. Come poteva sottrarsi con sette figli da sfamare. I campi erano già intrisi d’acqua ma orgogliosi raccolsero gli ultimi frutti. D’improvviso il vento impazzì! Nietta gridò: “Andiamo via!”. Sul carro si strinsero da sentire la pelle bruciare. Gim arrancava con la bava alla bocca. La pioggia batteva fredda e violenta. Angosciati, pregarono. Il paese era avvolto nel buio. A casa, guardò la moglie con ammirazione. Sorrise! La notte fu impietosa. 1966. Fiumi e torrenti tracimarono portandosi via: persone, case, ponti, campi. Passarono i giorni poi Memo si avvicinò alla sua terra diventata straniera. L’ uomo guardò i cumuli di sabbia con l’ abbandono negli occhi. La toccò. I piccoli granelli scivolarono in una lieve carezza. Sentì umide le guance, eppure i suoi occhi già vedevano solchi arati e bianche gemme spuntare. L’asparago germogliò, orgoglioso, nella terra del fiume. 44 45 Margherita Berlanda Vista dall’alto L ei, lontana ci guarda dall’alto pensando ed osservando una Terra confusa e ingenua che non si preoccupa del suo futuro, troppo impegnata a vivere un presente che sfugge e che non lascia né traccia e né tempo. Qualcosa prima o poi cambierà facendo svegliare di colpo un mondo ormai addormentato da molto, che ha perso le sue forze con le guerre e con l’indifferenza, cancellando completamente la speranza di una vita futura migliore. Forse soltanto un’altra Era Glaciale potrebbe dare alla Terra una scossa sufficiente per ritornare in sé e per opporsi agli sbagli umani che l’hanno condotta nell’oscurità più profonda, sperduta nelle tenebre dell’universo, pentita e delusa dagli uomini che hanno avuto l’opportunità di vivere sulla sua superficie e il potere di costruire e distruggere a loro piacimento. Molti uomini, sono senza scrupoli e distruttori, che antepongono il loro interesse al bene della Terra e non apprezzano le cose semplici, come il profumo dei fiori, i loro bellissimi colori, l’odore dell’erba tagliata, gli animali al pascolo o i sorrisi degli amici e delle persone care. Luna! Manda un messaggio! 46 47 Italo Bonassi Ho fatto un sogno H o fatto un sogno. Con me c’era mio padre, ne distinguevo appena il volto. Un sogno. Od un pensiero in cui, chissà, ero scivolato, e, lui, Giona nel ventre della balena, era lì, in attesa. Sei venuto anzitempo, se avvisavi lo dicevo a mamma, non vede l’ora di vederti, ma ha un impegno col suo angelo. È a Pola. Ricordi Pola? Ti ci avevo portato ch’eri bambino. Oh sì, la foto, con babbo, mamma e l’Arena. E, dietro, il mare. Babbo, non sei morto? Babbo scosse la testa: “La morte è cosa di voi uomini, io sono qui, vivo, e anche mamma è viva, e tuo fratello, e nonna…” No, pensavo, è un sogno, un déjà vu, e anche il mare, e l’Arena che spiccava in lontananza, tutto era un’unica finzione spettrale, un attimo, e sarebbe svanito. Babbo, ma è così la morte? Un ritorno delle cose all’origine, nel ventre della terra, e rinasce- re e rivederci tutti insieme, ombre in un sogno di luce? Babbo si accese la pipa e mi sorrise: “Per te è un sogno, per me l’eternità. È qui, e tu ci stai nel mezzo, e vivi e muori e non sai ch’è eterno. Tutto, l’Arena, il mare, le case sul promontorio, quel vaporetto in lontananza, il suo fischio allegro, tutto è la mia piccola eternità che mi porto dietro con la morte, Pola, Pisino, Umago. Chi muore porta con sé tutto ciò che non ha mai avuto o ha perso, un sorriso, una carezza, un amico, un amore. Io ho portato qui con me il mio amore. Un pezzo della mia terra, un pezzo d’Istria”. Lontano, un’esile figura di donna mi salutava. Era lei, mia madre. 48 49 Luigi Brasili Fango È un’alba che sembra una notte grigia. In cielo poche stelle come gocce di petrolio. La bambina aspetta, sporca, lacera; gli occhi tristi, spenti. Attorno solo macerie e fango. Questa è la mia terra?, mi chiede. Cerco di fuggirne lo sguardo, altrove. Ma non trovo nulla; da guardare, da dire. Si muove. Le barcollo dietro, lontano dagli artigli di legno metallo e carne che spuntano dal fango rosso. Artigli. Cento, mille. C’è vento, e pioggia; lacrime di stelle fangose. Il terreno sale, lei procede spedita, come nave in tempesta senza tempesta. A metà altura ci fermiamo. La mia terra, ripete la bambina, le dita tese all’orizzonte. Il mare sputa nuvole di fumo rosso. Una tosse cremisi che non vuole spegnersi; brucia l’aria, la mangia. E brucia e mangia il mare. Sulla cima vento e pioggia muoiono, adesso sono le onde a divorare fango e fuoco. Questa è la mia terra?, chiede ancora la bambina. Una goccia le scorre lenta sul volto. Chiudo gli occhi, impotente. Quando li riapro, dal mare soffia la brezza e il fragore del tuono e del fuoco è solo un ricordo. Al posto del bitume di stelle, il cielo limpido. L’alba non è più notte. È un’alba vera. Piccoli astri salgono verso di noi. Lei sorride e mi stringe la mano. La stretta è forte. Attingo forza dalla sua. Getto il fucile nel fango e tendo le dita verso quelle dei bambini in arrivo. Lei annuisce e indica i bambini, le stelle. È questa, la mia terra… Le onde ancora non si placano, ma presto anche il mare sarà di nuovo calmo, spero. Presto. Domani. 50 51 Roberto Caprara Astronauta A ssenza di gravità. Sospeso in aria, come un pupazzo lanciato nei giochi da bambino. Un senso di vuoto mi costringeva a cercare nuove sicurezze, emozioni sconosciute. Svanivano lentamente i ricordi terrestri, le strade chiassose stipate di traffico, la gente frettolosa, nervosa, alla ricerca di itinerari noti o imprevedibili. La scoperta di nuove realtà. Un piccolo punto scritto nel libro dell’universo. In sogno, toccavo la luna nelle notti d’estate mentre sembrava cadermi addosso. Conquistavo quel deserto arido e sassoso alla ricerca di cose familiari, segnali conosciuti, tracce di un passato da scoprire. Ora, chiuso nella tuta a respirare ossigeno artificiale, prigioniero nel corpo, spaventosamente vicino a lei. Un’avventura costata sacrifici, rinunce, sconfitte, mescolati a emozioni di incredibili momenti di gioia. L’uomo racconta una nuova pagina, apre il suo cuore all’infinito. Un mare di stelle lo accom- pagna, piccoli occhi che scrutano curiosi. La sfida continua. Eroici pionieri alla ricerca dell’immensità, specchio di Dio. In una sofisticata scatola metallica si libra nello spazio e nel silenzio che la circonda. La terra, palla variopinta lontana e silenziosa. Miliardi di persone con le loro storie, paure, gioie, virtù e difetti, che da qui non si vedono e si sentono più. A volte basta alzarsi in volo per non accorgersi di ostilità e differenze. Astronauta della mia terra, abbandonare le misere dispute, confrontarsi con l’eterno e vincerle; questo il sogno dell’uomo. 52 53 Vittorio Caratozzolo Per aequora vectus N acqui a Buenos Aires. Comandavo navi che incrociavano l’Atlantico, da Genova all’Argentina. Nella mia terra d’origine, la Calabria, anche nelle notti serene tra le fronde degli alberi il cielo si scorgeva appena; d’inverno la luce lunare scivolava sui limoni e sulle arance grondanti dai rami ricurvi, mentre in mezzo agli ulivi bastava un soffio di vento a far brillare come stelle il dorso argentato delle foglie. Immergere i piedi scalzi in quella terra umida e accogliente era uno dei miei passatempi preferiti. Quando nelle notti insonni mi inquietava la mancanza del vuoto oceanico intorno a me andavo là, tra le piante, ad attendere la brezza che saliva dal mare, sorseggiando con calma olimpica la yerba mate, bevanda forestiera, con la cannuccia immersa nella bombilla, il sangue che fluiva verso la mano. In mezzo all’Oceano, quando dal ponte scrutavo le infinite colline liquide, lì, sferzato dagli spruzzi del vento, ne assaporavo il sale con cui condivo la polpa degli agrumi che mi ero portato da casa. Al ritorno, alla prima messa mi confessavo, ma erano solo peccati di donne. Femmine dalla voce calda, i fianchi forti e la pelle di tabacco, che amavo di fretta, ma con profondo rispetto. Appena potevo, riprendevo la via di casa, verso il Sud, perché nel mio cuore la nostalgia della mia terra e del mare si alternavano, incessantemente, come gli enormi pistoni dei motori di bordo, spingendomi a preferire ora le inebrianti ansie del viaggio ora la struggente attesa nella quiete. 54 55 Giuseppe Carmeci Tripoli bel suol d’amor natio P rofumo di gelsomini, bougainvillee sgargianti, cespugli odorosi di rigogliose foglie, strade di immacolato ghiaietto, nei giardini del Re, rumore ritmico di rame battuto, forme create e ricreate, sempre allo stesso modo, sempre dalle stesse mani, eppure sempre nuove, sempre nello stesso luogo e dovunque nel suk. Facce sempre uguali, anime diverse, umili gesti di saluto a tutti, il rispetto si sente nell’ aria, quasi palpabile, come il fumo dei narghilè, sempre accesi e sempre a disposizione degli amici. Passano gli anni, arriva la dittatura, insorge la gioventù, la mia terra non è più la mia terra, rovinata dalla lotta civile, colorata di sangue, odorosa di morte, relitti al posto dei cespugli, il silenzio, interrotto da spari ed esplosioni, un bambino che piange, gli occhi gonfi di lacrime, pieni di paura, che cercano consolazione. Solo il cielo è rimasto uguale, solo quelle stelle accese non ancora oscurate dal fumo delle armi che ti pareva di poter toccare, tanto erano vicine. Il rombo terrificante delle bombe, poi lo sparo, a chilometri di distanza, liberatorio, vile ed assassino. Qualche sussulto ancora, e poi di nuovo il silenzio, che non è quello di prima, che è la ricerca di una rinascita, difficile come tutte le risurrezioni, ancora incompleta, ancora da venire, ma che ci sarà, ci sarà certamente per la fede che la sostiene, per la volontà che la persegue, per la mia speranza di poter rivedere ancora la terra mia. 56 57 Carla Casetti Un fazzoletto... U n fazzoletto, terra mia, un lembo di paradiso, dove mazzi di gigli arancio come il sole e blu come il cielo illuminavano il mio sorriso e gratificavano il mio odorato. Ma non solo, tanti frutti nel mio giardino. Il ciliegio sul quale mi arrampicavo come uno scoiattolo e dove mi nascondevo fra le fronde come fossero liane nella foresta di Tarzan. Il caco, il melo, il nespolo, l’uva. Quanti profumi, quanti sapori! La roggia scorreva a lato, piena di misteri, suoni e cianfrusaglie: pezzi di bambole, palloni sgonfi, barattoli, tesori... La siepe di uva spina fungeva da barriera, io spiluccavo le dissetanti palline rosse quando distesa sull’erba meditavo intorno ai miei pensieri e il rumore dell’acqua come musica calmava le giovanili preoccupazioni. Vita di campagna, vita con la natura e gli animali: il cane, il gatto, i conigli, api, buoi, galline e i pulcini che prendevo sulla mano e accarezzavo con tanto amore, come io stessa avrei voluto essere accarezzata. Qui si sviluppò la mia fantasia, la poesia, l’amore per il creato e per tutti gli esseri viventi. Poi viaggiai, conobbi altri paesi e capii che quella mia terra di bambina non era mia, ma apparteneva a tutti gli uomini, assieme alle terre consumate e distrutte dalla voracità, dall’egoismo, dagli tsunami, dai terremoti, dalle guerre, dallo sfruttamento che fa sbriciolare le fabbriche sui corpi degli operai... Anche queste sono terre mie, terre di tutti. Incredibili, superbe terre del mondo. AMARE e BELLE. 58 59 Matteo Cermusoni Magari fiorisse il cielo D a quel giorno lui abita in lei. O lei in lui, il senso è unico sia da contenitore che da contenuto. Un livello di passione sconosciuta tra sconosciuti. Un bacio che non andrà oltre, senza scomodare chimica o magia, umidità più di tutto. Per lei un accordo del momento, per lui un accordo maggiore di sette note da attirare l’attenzione del più distratto tontolone. Yup! L’effetto di anestetico placebo sensoriale da Nutella sul palato che lei prova non va oltre. In lui, appena le labbra si poggiano tra loro, il mondo perde le asperità delle coste, le montagne piantano spilli di ghiaccio nel petto per levigarsi in neve, quello che scatta è tanto semplice da renderlo esule nella propria terra, senza fiato, disperso nel nulla di un unico pensiero. Non dirle amore mai, ma incantala. Strega quegli occhi, ipnotici come specchi d’acqua, armato d’uno specchio, Perseo, la tua musa Medusa è l’isola che non c’è, i suoi crateri, le colline di velluto, la rugiada fan gola alle labbra. Che s’abbia da far qualcosa? Non ber ci otto li tri di limo ncello per dimenticare, ma picchetta la tenda per usucapire quell’Eldorado. Pensa se ti accasassi. Invece lei, dai colori di prato prima del temporale, granitica e ricoperta di lava e mare, abbandona per la tangente l’orbita intorno a questo sole per cercare qualcosa nello spazio siderale. Nessun big bang questa volta. Sterile terra. Solo palta in cui scavare a mani nude e scrivere con l’indice un nome. Lui butta semi in aria. Magari fiorisse il cielo! 60 61 David Cerri Due nostalgie O ggi che ci vivo nuovamente da oltre trent’anni, non capisco cosa ci trovassi in questa cittadina. Me ne ero allontanato – il lavoro di mio padre – al tempo del liceo, quando ci trasferimmo in un paesello del Sud. A quell’epoca (fine anni sessanta) non tutto era ancora omologato, così che effettivamente si avvertiva qualcosa di esotico: solo che questo qualcosa era la mia famiglia, piombata da Marte nel mezzo di una civiltà agricola dove il fatto che mia madre, donna e quasi cinquantenne, guidasse un motorino destava, diciamo così, grande attenzione. A me non dispiaceva attirare l’interesse, ed i primi tempi ho potuto sfruttare quest’aria da straniero. Poco alla volta, però, nel costante confronto familiare con abitudini tanto diverse, si insinuò in me la nostalgia, neppure fossi emigrato in chissà quale lontano continente. Per le feste, un ritorno dai parenti era sempre previsto; ma i contatti con gli amici si diradavano, solo epistolari (già, perché allora ci si scriveva). Nei mesi tra un ritorno e l’altro alla mia città, questa cresceva nei miei pensieri; quella strada, quella curva del fiume, non i celebri monumenti; quel vicolo, quel campetto, assumevano per me una tinta color seppia come le vecchie foto (ed anzi, ogni volta in quei brevi viaggi ne scattavo di nuove, per poi riguardarmele in terra d’esilio). Il ritorno all’università, tanto atteso, come tutti i desideri appagati non fu poi così gratificante; e da allora la nostalgia è rimasta, ma di quell’altra terra. 62 63 Matias Cimadon Matias Cimadon Immigrante del mondo El inmigrante del mundo (Traduzione dallo spagnolo cileno) M io fratello mi ha detto: “Quando si passa attraverso le stesse strade, la piazza, la chiesa... sentirai come se sono stato qui”. Solo quando ho sentito queste parole di Oscar, ho capito per la prima volta in tutto il mio viaggio a Trento, quale connessione avevo con il luogo da cui sono uscito (prima i miei antenati, nonni e bisnonni) alla ricerca di un mondo nuovo, abbandonando per sempre la casa dove avevano vissuto tutta la loro vita. Da quel momento in poi le mie riflessioni sul significato dell’immigrazione-migrazione hanno iniziato ad approfondirsi ulteriormente. Soprattutto, perché per me la questione non è stato qualcosa di rilevante. Ne ero assente, semplicemente lo vedevo riflesso a livello locale negli immigrati peruviani in Cile, o come ho visto sulla stampa, negli immigrati messicani negli Stati Uniti, o in quello che ho imparato in lezioni di storia con gli immigrati cileni in Svezia. 64 M i hermano me dijo: “Cuando pases por las mismas calles, la plaza, la iglesia… sentirás como si ya hubieras estado ahí”. Sólo cuando escuché estas palabras de Oscar, entendí por primera vez en todo mi viaje a Trento, qué conexión tenía con el lugar desde donde salieron por primera vez mis antepasados (bisabuelos y tatarabuelos) en busca de un nuevo mundo, abandonando para siempre la casa en la que han vivido toda su vida. Desde ese momento en adelante mis reflexiones sobre el significado de la inmigración-migración comenzaron a profundizarse aún más. Especialmente, porque para mí ese tema no era algo relevante. Me sentía alejado, pues sólo lo veía reflejado a nivel local con los inmigrantes peruanos en Chile, o según lo que veía la prensa, con inmigrantes mexicanos en Estados Unidos, o por lo que he aprendido en las clases de historia, con inmigrantes chilenos en Suecia. 65 Nel tempo che Oscar ha detto quelle parole, ho capito che io non solo sono del Cile, perché è il luogo dove sono nato e dove c’è il sangue del grande poeta nazionale, Pablo de Rokha, o in Argentina, da dove viene mia madre. Nemmeno Roma, da dove ho pensato partissero i miei parenti, o la Jugoslavia, la loro prima destinazione dopo aver lasciato Trento. Nella mia riflessione finale mi sono reso conto che non solo appartengo a un luogo definito da una mappa. Quello che ho sentito a Trento è perché io sono di qui e di là. Sono parte di questo mondo e quindi, tutto su questo pianeta è la mia terra. En el momento en que Oscar dijo esas palabras, entendí que yo no sólo soy de Chile porque es el lugar donde nací y desde donde tengo la sangre del gran poeta nacional, Pablo de Rokha; o de Argentina, desde donde es mi madre; tampoco sólo de Roma, desde donde pensé que venían mis familiares; o de Yugoslavia, el primer destino al que se dirigieron después de salir de Trento. En mi reflexión final me he dado cuenta que no sólo pertenezco a un lugar delimitado por un mapa. Lo que sentí en Trento es porque soy tanto de aquí como de allá. Soy parte de este mundo y por lo tanto, todo en este planeta es mi tierra. 66 67 Ramona Corrado Sogno di una notte... C ’è un sogno che nasce nella notte dei tempi. Qualcosa di più di avere le ali, qualcosa di meglio che semplicemente volare. Un sogno antico, quello dell’uomo: volare fra le stelle. Ore a guardare la Luna, a chiedersi cosa c’è dietro il suo volto sorridente. A guardare tutti quei puntini luminosi là in alto, così vicini eppure così lontani. Lontani nel tempo, oltre che nello spazio. Un mistero immenso, ma a portata di bambino, perché i bambini con la fantasia possono arrivare dappertutto. La fantasia può portare anche in sella a una determinazione di ferro, a macinare tanta strada, a superare tanti esami, a scavalcare innumerevoli ostacoli. Fino a portare il bambino a contatto con le stelle. Notte di mezza estate per metà del pianeta. Per l’altra metà, giorno di mezzo inverno. Oltre sette miliardi di persone vivono e muoiono ogni secondo. Lui non è fra quei sette miliardi, perché si trova oltre la Terra, nella sua orbita. Il luogo dov’è nato, vissuto e dove presumibilmente morirà, non è che un globo azzurro sotto di sé. La situazione infantile si ripete, solo che ora è lui a trovarsi in alto a guardare i puntini laggiù. Si commuove, in quella piccola scatola orbitante, nel riconoscere ciò che vedeva a scuola sui libri di geografia. I continenti, i fiumi, le montagne, le isole. E lo stivale italiano, unico, forse, nell’universo intero. Non è la mancanza di gravità a sollevare gli angoli delle labbra. È amore. 68 69 Diana Crispo La scoperta L a bambina ha capelli corti, occhi grandi e solo sette anni. È felice di andare in vacanza con la nonna nel paese natale, sperso nella campagna bruciata dal sole. L’antica casa di famiglia a tre piani sembra un castello da esplorare, lei è affascinata e spaventata dalla grandezza. Unico divieto: non salire al terzo piano, troppo pericoloso. Ubbidisce per rispetto e per paura. Un pomeriggio la nonna si addormenta sulla poltrona nella cucina vasta come una piazza, lei non resiste, con lenta paura sale la scala, che finisce su una porta chiusa, riesce ad aprirla: una luce violenta la colpisce, accecandola. Con passi incerti supera la soglia, scopre di essere su un terrazzo, dove sono stese lenzuola bianche, fantasmi che non mettono paura. Di là del parapetto, vede i tetti rossi del paese, le stradine affogate dal sole, sente voci e canti lontani, ancora più distanti ci sono distese di ver- di uliveti, campi gialli di grano: un mondo nuovo che mette paura, per la violenza dei colori, del caldo, del sole. Di corsa torna indietro, nel buio profumato delle scale, ha un sospiro di sollievo nel vedere la nonna dormire. Capisce perché le ha proibito di salire: il mondo va scoperto poco a poco, per non essere travolti. Si siede a fianco, con la manina afferra la mano grande e scura della nonna, avverte un calore piacevole, che placa il battito frenetico del cuore. Si addormenta, felice di aver scoperto un mondo e un amore che non svaniranno mai. Una scoperta che segnerà tutta la sua vita. 70 71 Nives Cristoforetti Terra D ella mia terra natale ricordo il prato verde e le ore passate a rincorrere calciando il pallone in compagnia dei ragazzi della stazione, mentre le ragazze giocavano a casette. Rammento le buche lasciate dalle bombe della seconda guerra nella sabbia ai margini del torrente Ala. Non ho dimenticato le traversate dell’Adige a nuoto in diagonale, per resistere alla corrente. Ricordo il lungo viale all’ombra degli ippocastani, che percorrevamo quando andavamo a scuola, ed in particolare l’albero davanti casa ed il robusto ramo, comodo sedile tra il verde delle fronde, perfetto luogo appartato di lettura. Potrei considerare mia la terra nell’attimo in cui calpesto il terreno fino a quando il passo non lo abbandona. La stessa sensazione vale per il terreno battuto, le radici messe a nudo, i sassi, le rocce e l’erba dei sentieri. Amo percorrerli per raggiungere una cima, un passo o un rifugio, soprattutto sostare di volta in volta ad ammirare le varie ed inesauribili bellezze del mondo che ci circonda. La Terra è un meraviglioso pianeta di roccia ed acqua, protetto dall’aria, con il cuore di fuoco e metallo ardente. L’aggettivo possessivo non dovrebbe esistere, non mia, non tua e nemmeno nostra. Cancelliamo quel mia che porta all’esilio, ai milioni di bambini in fuga, al dolore ed alla morte. 72 73 Pelagio D’Afro Colori L a mia terra ha un colore diverso da tutte le altre terre, e io non sapevo perché. La prima volta che ho sentito dire “Che strano colore ha questa terra” avevo nove anni. “Ma ha il colore della terra” dissi; e il musungu dalla pelle rosa rispose: “La mia terra è bruna, questa è rossa.” È rossa, la mia terra. Chi non l’ha mai calpestata non può sapere com’è. È polverosa sotto il Sole che la secca, fangosa sotto la pioggia che la bagna, e il suo colore resta sui vestiti e sulle scarpe. E ci vuole tanto lavoro per far tornare le scarpe bianche come quelle che indossai il giorno in cui mi laureai in medicina. Per poi tornare nella terra dalla quale ho visto fiorire i padiglioni dell’ospedale che dirigo: baracche dalle tinte viola, indaco e blu come i petali assetati della mia terra. Ma impastati alla mia terra ci sono minerali gialli e petrolio nero, più importanti dei tanti colori del mio ospedale. E la guerra rende più della terra. E ora, legato con tutti gli altri davanti al muro viola del padiglione operatorio, in attesa dell’urlo incolore del kalashnikov, finalmente so perché la mia terra ha questo colore. Perché la mia terra è terra d’Africa, rossa come il nostro sangue che vi si mescola, intrisa delle grida delle vittime e dei carnefici. So long, musungu. È su questa terra rossa e su questo sangue rosso che voi tutti prosperate nelle vostre terre brune. 74 75 Livio Dalpiaz Le grandi mani di Dario M i sono rimaste impresse le grandi mani di Dario. Callose, forti, colme di crepe, abituate alla terra e all’acqua, da ortolano. Maneggiano davanti ai miei occhi grossi cespi di radicchio tardivo, allevati con tanta passione nel campicello sull’ansa del fiume. Ha lo sguardo pacato dell’uomo onesto, Dario, e mi parla con orgoglio delle cure che riserva ad ogni singolo piede, cicoria color del vino, sedano nero, o indivia riccia che sia. “Non uso pesticidi, né concimi chimici. Solo letame” mi spiega, la voce dolce, mentre infila un ultimo cespo nella cassetta e ne allarga le foglie a ventaglio, simile a una rosa di maggio. E aggiunge: “La mia è un’arte umile, mi dà quanto basta per vivere, nulla più, ma anche grandi soddisfazioni. Le massaie del borgo antico scendono con il sorriso sul viso allorché sentono trillare il campanello sotto casa.” Dario apre la pompa e la verdura par che respiri sotto lo spruzzo leggero. Si risciacqua anche gli stivali prima d’inforcare la bicicletta con il carretto al traino. “Anche mia nonna scendeva quest’argine. Sedeva su quella pietra bianca e ripuliva i cespi come ho fatto io, allora la pompa pescava nel fiume. A distanza di anni coltivo le stesse verdure di un tempo e la terra mi risponde con la generosità di una madre.” Gli credo, stringo anch’io un borsone di verdura tra le mani. Saggezza antica e un cuore grande come le ruvide mani avvinte al manubrio. “Ciao Dario e, grazie.” Lo saluto così, mentre s’avvia ondeggiando in pedalata lenta. 76 77 Davide Daniele Air Jordan P ensavo solo alle mie scarpe, Air Jordan dell’89, originali. Mio padre non mi disse mai come fosse riuscito a procurarsele. Mi disse solo: “Devi partire con queste”. Ho sognato un milione di volte il mio arrivo e l’immagine del salto con le gambe larghe e il braccio alzato era in cima alla mia lista. Me le portarono via subito in cambio di un po’ d’acqua. Per un secondo ho pensato che avrei potuto uccidere qualcuno, poi ho pensato che potevano portarmi via le scarpe, non i miei piedi. Durante il viaggio si portarono via anche il dente d’oro. Mio padre mi aveva detto di non ridere, di non parlare. Non ridere è stato facile. Quando me lo strapparono ho pensato che potevano portarsi via i miei denti, non le mie parole. Poi un giorno successe qualcosa. Una sirena, una serie di colpi e mi ritrovai calpestato da piedi e urla e braccia e visi e sudore e nuvole. Gridavano e sparavano: “Tutti fuori, tutti giù!”. Dalla mia posizione potevo sentire la gente saltare. Corsa, primo appoggio, secondo appoggio, salto. Come un terzo tempo, come Michael Jordan che schiacciava a canestro sospeso in aria. L’ovazione del pubblico era coperta solo dagli schiaffi degli spruzzi e dal rumore dell’acqua che si rompeva come il vetro. Pensavo solo al salto che avrei potuto fare con le mie scarpe. Mi dissero che alcuni di noi furono salvati da un peschereccio a 5 miglia dalla costa. Mi risvegliai su un lettino. Avevo indosso abiti non miei. Poggiai un piede a terra, poi l’altro. Non li avrei più staccati da lì. 78 79 Susanna Daniele Deriva e approdo H o fantasticato a lungo sulla prima immagine che avrò di quella striscia di terra che appena s’intravede in quest’ alba grigia, quasi sporca. Senza rendermene conto, l’ho assimilata a una sorella che mi accoglie, in nome di una comune origine. Non vengo da tanto lontano. Fino a pochi giorni fa vivevo sull’altra sponda dello stesso mare: il Mediterraneo. Mi avevano insegnato che in una lingua antica voleva dire “mare in mezzo alle terre”. Dunque noi popoli che affacciamo sullo stesso mare apparteniamo alla stessa famiglia, abbiamo in comune profonde radici, proprio come gli olivi antichi e ritorti che coltivava mio nonno. Terra e Madre, due parole all’origine della civiltà. Gli antenati non raffiguravano la divinità della fertilità come una donna grassa o incinta con grandi seni penduli? La Grande Madre, appunto. Il vento e le correnti si sono rinforzati, la barca, strapiena, beccheggia. Alle narici l’odore a- cre della paura, l’isola sembra irraggiungibile. Non sono affatto sicuro che ce la faremo, eppure per non farmi prendere dal gorgo della paura mi sforzo di concentrarmi sul pensiero dello sbarco. L’approdo come salvezza del corpo e metafora di una nuova esistenza per me, per i miei figli e dei figli dei figli. Inshallah. 80 81 Igor De Amicis Verso casa R ussia, 24 dicembre 1941 Benedetto Rinolfi si svegliò di soprassalto. Il fragore delle esplosioni risuonava nel vecchio magazzino. Le pareti spoglie tremavano e la terra sembrava voler sprofondare. Un altro bombardamento. Si guardò intorno, i suoi compagni si stavano alzando veloci e raccoglievano le loro cose: gavette, zaini, coperte. L’ aria era gelida e il vento tagliava la faccia. Davanti a loro un’immensa distesa bianca di ghiaccio e neve. Dietro di loro l’Armata Rossa che avanzava inesorabile. Alcuni cadevano in silenzio e altri in silenzio avanzavano. Nessuno aveva la forza di fermarsi, chiedere, aiutare. Dovevano solo andare avanti. Verso ovest. Verso casa. Benedetto guardava il bianco sconfinato della neve e pensava al verde delle sue colline, ai lunghi filari di alberi che coprivano l’orizzonte, alla terra grassa e profumata dei suoi campi. Voleva tornare a casa. Doveva tornare a casa. Dalla sua famiglia. Si strinse ancora di più nel lungo cappotto militare. Un passo dopo l’altro fissando il bianco. Il vento crebbe di intensità. Arrivò la tempesta. 82 83 Italia, 25 aprile 1991 Benedetto Rinolfi fissava il verde delle colline. Lunghi filari di alberi circondavano l’orizzonte. Si chinò depositando la piccola cassa di legno nella terra grassa e profumata dei suoi campi. Si sollevò con decisione, forte dei suoi venticinque anni. Un lieve sorriso si dipinse sul suo volto. Guardò la piccola cassa nell’abbraccio di quella terra morbida e accogliente. “Bentornato a casa nonno!” Marcello De Santis Il pratosangiovanni A ccendevamo la fantasia: con una o due lire, e quando le avevamo era festa, cercavamo noi ragazzini in mutandine e canottiera e scarpe rotte, e raccoglievamo pezzi di ferro di piombo di rame e correvamo a Carlucciu che trattava ferraglia in via acquaregna; ci dava bisunti biglietti da una lira; felici tornavamo al prato stringendo uno di noi in mano quella insperata ricchezza programmando come spenderla. Investivamo in liquirizia dura, a cannelli. E sovente co’ lla licorizzia ci facemmio la bira... (con la liquirizia ci facevamo la birra). Qualcuno di noi saliva a casa riportando una bottiglia (se no ce la procuravamo al barcesare là in fondo sulla strada; qualcuna vuota si trovava, del chinottoneri, dell’aranciatasanpellegrino); alla fontanella dell’ospedale la sciacquavamo, la riempivamo d’acqua e ci mettevamo dentro la licorizzia tagghiata a pezzitti (liquirizia fatta a pezzetti). La tappavamo con un pollice tenendola stretta al collo e l’agitavamo fino a che l’acqua cambiava di colore (più la sbattemmio su e gghio’ – più l’agitavamo, più diventava scura); la licorizzia si scioglieva, e noi, gli occhi attenti a quann’era pronta, aspettavamo con ansia di poter poggiare le nostre labbra al becco della bottiglietta e passàcci la bira – ao’ , a reca’, ‘nzorzittu perùnu (a passarci la birra, ohé ragazzi, un sorsetto per uno). Ma diventammo grandi. Andai fuori per lavoro, ma quel rettangolo illimitato di terra del mio pratosangiovanni l’ho portato sempre con me... 84 85 Margherita De Simone Vient’ ’e mare “N u’ s’ po fà!”, firmava lo stato indiscutibile, e io anelavo tutto di lui, ma in comune solo una condizione di non-libertà. Giri di parole, spiragli, che avvitavano ad una sola pagina della storia di un altro. — Lasseme stà! – reagivo. Mi cercò ancora, precisando il freddo che è nel provvisorio, surrogato eterno e duraturo. — Nata vota, una sola – implorò Cigolò ruggine fra parole di ieri. — Comm’ stai? — E tu, tien’ a nat’? — No, una a’ vot’,o ssaj – m’accostai alla sua virilità, gli cercai le mani sui facili alibi di entrambi. Grondavo su lui. — Pecché m stai facenn’ chest’? Fuori, il vento dal mare attraccò sulla sera. Gli occhi erano passato mutato in ricordo recente,una vena disperata, sorgente torva di a86 nelli scuri che sposavano insonnia. Sentii respingermi, era rancore, lo eravamo insieme. Eserciti di liti reclamarono, ma assecondarle no: voraci di tempo che non potevamo sprecare per sanarle. Sentii d’avergli divorato i fianchi, lui mi lesse dentro. — Tu me’ pavat’, si, ma cù na’ risata. — Che vuò a me? – Dissi lungo la crepa che mi correva dentro. Non calò gli occhi, non si tolse da me. Affermammo come se quei corpi non fossero i nostri, avvinghiati a catena, nel duello di carne e mente. Il riflesso dei suoi occhi scuri, due pozze nere, nessun gesto avrebbe potuto innamorarmi tanto. Voli di gabbiani insanguinati, il vento aizzò il mare che li schiantò sugli scogli, ammarò l’innegabile intesa fra noi, assassinata per salvare i nostri separati mondi. 87 Patrizia Debicke van der Noot La canzone A ppennino toscano 1945 All’inizio della salita sentirono: Its a long, long way to Tipperary… cantata a piena voce da un coro maschile. Il padre di Alessandro impallidì e mormorò: — La marcia inglese. E viene da su, da noi! Per fortuna, le campane della chiesa che battevano a morto soverchiavano il suono. — Edwards è chiuso in cantina. Vado a vedere, non correre – disse Alessandro, allungando il passo. Il cancello era socchiuso, aprì affannato. Nel giardinetto occhieggiavano i primi fiori di primavera. Its a long way to go! E il disco finì! Dalla porta finestra della sala da pranzo poteva vedere due soldatini della Wehrmacht, seduti al tavolo davanti a una bottiglia di marsala semivuota, che bevevano e ridevano. Sul grammofono il disco girava ancora. Entrò. — Buon giorno! Desiderate? – chiese in tedesco. Sostituì tranquillamente il 78 giri con quello di Lili Marleen e l’avviò: Vor der Kaserne… Era arrivato anche suo padre. I crucchi si erano alzati in piedi. Uno spiegò: — Il maggiore Konrad chiede se domani Donna Josephina può fare colazione con lui? — Mia moglie è andata al cimitero. Verrà con piacere, ringrazi il maggiore – rispose lui. — Jawohl, riferiremo. È tardi, dobbiamo andare – dissero in coro. Il figlio li scortò alla porta. Lili Marleen… ripeteva Lale Andersen. — Bella canzone quella di prima, ma quando si è lontani da casa, questa è meglio – dichiarò il più giovane dei due. — Per forza, la propria casa, mein Land, terra mia – riconobbe Alessandro, mentre chiudeva. 88 89 Martina Dei Cas La piazza degli specchi A ldo scende dal treno con un balzo. Il viso segnato dal sole si protende alla ricerca del capostazione, ma l’orizzonte rimane deserto. Così s’incammina verso il paese incastonato tra le montagne. Prende la scorciatoia lungo il fiume: dove una volta c’erano solo erbacce e pietrisco, sorge ora un quartiere residenziale. In lontananza i trattori si muovono lenti: la vendemmia è iniziata. L’anziano li segue e senza pensarci giunge al limitare dei campi. Le scarpe di buona fattura sprofondano nel fango e i pantaloni chiari s’inzaccherano, ma lui non se ne cura, perché quelle che per gli altri sono solo macchie rappresentano l’impasto dei suoi ricordi. Respira profondamente e si dirige verso il centro. È giorno di mercato: in piazza un ragazzo dalla pelle scura vende oggetti da pochi spiccioli. Ha gli occhi tristi e il sorriso gentile. Aldo si toglie il panama in segno di rispetto, senza parlare. Si deterge la fronte, lavando via la paura della partenza, il sudore degli anni di lavoro al di là dell’oceano, la fatica del ritorno. Si appoggia alla quercia che separa il Comune dalla Chiesa. Il vecchio e il giovane emigrante si guardano, come in uno specchio del tempo. Uno è tornato con dignità tra le montagne che gli hanno dato i natali, la vita avviata verso il tramonto. L’altro è appena arrivato in cerca di riscatto, ma con la speranza di sentire ancora, almeno una volta prima di morire, il profumo della terra che hanno calpestato i suoi avi! 90 91 Gian Luca Del Marco Incanti di viaggio I l treno lentamente prendeva velocità, rumorosamente, quasi con fatica. Una coppia di mezz’età sedeva davanti a me parlando una lingua straniera incomprensibile e misteriosa. Dal loro aspetto si capiva che erano turisti. Mi sforzai di carpire qualche suono della loro voce, qualche parola che mi avrebbe potuto far intendere da dove potessero venire. I loro visi erano bianchi, occhi e capelli scuri. Due belle facce, sorridenti e spensierate. Socchiusi un po’ gli occhi, cullato dal movimento del treno, chissà da dove vengono – mi domandai – e chissà dove andranno… Pareva quasi che i due stranieri avessero sbagliato percorso, la tranquillità con cui discutevano tra loro strideva con l’abituale e tumultuoso chiacchiericcio che animava i vagoni durante il viaggio. Il treno intanto aveva imboccato la galleria, annunciando la prossima fermata: la meta del mio quotidiano percorso. Un sole abbagliante, ormai al tramonto, mi annunciò l’arrivo. Ad un tratto, sentii un trambusto, mi accorsi che i due stranieri erano con gli occhi spalancati, lei tracciava dei percorsi immaginari con ampi gesti della mano ed indicava col dito dei punti sul vetro che l’uomo prontamente immortalava con la sua macchina fotografica. Capii che erano rimasti estasiati dal panorama del lago e dai monti attorno che si rispecchiavano sul suo azzurro. Mi alzai per scendere, quasi sorpreso da tanto entusiasmo ma in fondo un po’ orgoglioso… Avrei voluto dir loro: Questa è la MIA TERRA! Ma sapevo che non mi avrebbero capito. 92 93 Emanuele Delmiglio Lontano dal mare S ognava di andare in un posto dove non si sentisse più quel ronzio intermittente. Camion di frutta, vecchie Dune con masse informi legate al portapacchi grazie a corde elastiche multicolori, Bmw fiammanti stabilmente e rabbiosamente sulla corsia di sorpasso. Passavano notte e giorno, emettendo il proprio lamentoso brusio; basso e prolungato i veicoli lenti, più acuto e rapido quelli veloci. Sognava di andare a vivere dove fosse il rumore della risacca a svegliarlo. Con calma. Avrebbe aperto gli occhi rimanendo qualche momento a pensare a cose non essenziali, per poi andare a passeggiare a piedi scalzi sulla battigia, cercando senza fretta qualche conchiglia curiosa e osservando lo zampettare dei granchi che rincorrevano la bassa marea. E invece rimaneva lì ad ascoltare l’identico brontolio. Tir frigoriferi carichi di animali morti, sciami di motociclisti vestiti della pelle delle stesse bestie, auto venute apposta dall’Ungheria. Ogni sera portava giù i rifiuti e guardava il sole calare oltre le barriere antirumore che rendevano ovattato, senza attenuarlo troppo, il frusciare dei mezzi sull’autostrada. Si attardava a chiedersi blandamente come facessero gli altri ad abituarsi. Sera dopo sera, lontano dal mare. 94 95 Joselina Destefani Joselina Destefani La A Figueira della mia terra Figueira de minha terra (Traduzione dal portoghese brasiliano) N ella mia terra c’è una grande Figueira, bella e frondosa, mistica, romantica e misteriosa, ma anche gentile. Fra i suoi grandi rami crescono lunghe barbas de velho (barbe di vecchio) che usiamo per fare il presepio a Natale. La sua grande chioma protegge dal vento i piccoli alberi e le piante rampicanti che crescono alla sua ombra. Su di lei si aggrappano anche piante acquatiche, perché sotto la frondosa Figueira sgorga una fonte che esiste da molti anni, bella e suggestiva: un’immagine che incanta. Quando sorge il sole, lunghi raggi filtrano fra i rami e arrivano ai miei occhi. Su di lei trovano rifugio uccelli di tutte le specie. Là l’uomo non ha il coraggio di cacciare, perché lei li protegge. Su di lei vivono numerose varietà di orchidee e bromeliacee colorate, licheni e molte piante d’aria e insetti, che si sviluppano per l’abbondanza di humus e umidità; la gentile Figueira della mia ter96 N a minha terra tem uma figueira gigante, linda e frondosa, mística, romântica e misteriosa, mas também bondosa. Em seus grandes galhos crescem longas barbas de velho, que se usa para fazer o presépio no Natal. Seus grandes galhos também protegem árvores menores contra o vento, e as plantas rasteiras, que crescem na sua sombra. Nela também vivem as plantas aquáticas porque debaixo da frondosa figueira passa uma nascente que ali existe há muitos anos, linda e sugestiva: uma imagem que encanta. Ao raiar do sol, longos raios atravessam suas ramagens e chegam aos meus olhos. Nela pousam pássaros de todas as espécies. Lá o homem não ousa atacar, pois ela os protege. Hospedeira de orquídeas e inúmeras variedades de bromélias coloridas, liquens e muitas plantas aéreas, além de insetos, que lá se criam devido a abundancia de húmus e umidade. A bondosa figueira da minha terra a todos alimenta. É uma 97 ra offre cibo per tutti. È una pianta antica, citata già dalla Bibbia nel Vecchio Testamento. Perché lei è grande ed imponente, i raggi del sole la colpiranno ma non la feriranno. Lei resta ferma e in piedi, misteriosa e romantica, da generazioni e generazioni. Giovani innamorati ti guardano e sognano una lunga vita come la tua nell’amore e nell’armonia del Creato. I biologi vogliono studiarti per capire cosa c’è in te di misterioso che tanto protegge, tanto resiste, tanto affascina. E tu sei lì e sarai sempre lì, con le radici nella mia terra. árvore muito antiga, mencionada já no antigo testamento da Bíblia. Por ser vasta e imponente, os raios a atingiram e não a esmoreceram. Ela continua firme e em pé, misteriosa e romântica, por gerações e gerações. Jovens apaixonados olham para você, sonham com vida longa como a sua, no amor, e na criação de Deus. Biólogos querem te estudar para entender o que tens de tão misterioso que tanto proteges, tanto resistes, tanto encantas. E tu estás e estarás sempre ali, com as raízes no chão de minha terra. 98 99 Giorgio Diaz La mia terra è il mare L a mia terra è aperta al mare, il mare dove sguazzavo da bambino, dove nuotavo guizzando fra i pesci. Vedevo le grandi navi di ferro sostare in rada ed equipaggi multicolori scendere sulle banchine del porto, per assaporare la terra, la terra mia e loro. Gli schizzi di libeccio mi inumidivano i capelli, lo scirocco mi fiaccava, il maestrale mi rinvigoriva. La mia terra è aperta alle genti; odora di spezie orientali, di stoccafisso che asciuga al vento. Vi ho conosciuto mercanti di tappeti, commedianti, artisti; nugoli di pittori ritraggono le sue pinete, i suoi tramonti, le facce scarne dei marinai, rose dal sole, le tamerici ritorte. La mia terra mescola le religioni, rispetta i riti, costruisce templi e cimiteri. Dalla Palestina alla Norvegia, dall’Armenia alla Spagna, dall’Africa, dal di là degli oceani, tutti vi sono giunti cercando fortuna, ospitalità, rifugio; hanno attraversato il mare, che sempre ha u- nito i popoli, e hanno visto le luci della città marinara che si avvicinavano, il porto sicuro. Ma il mare è indifferente, alterna la calma e la forza e non distingue fra negrieri e schiavi, “una bontà e una forza che non comprendi”; il mare vuole che il suo dominio venga riconosciuto, e accettato. Tanti lo hanno solcato, carezzandolo e a volte domandolo, se erano riusciti a farglisi amici. Ora dalla mia terra scruto il mare e mi chiedo quali donne e uomini verranno, per accoglierli e nutrirli. La vita vi scorre, bisogna rispettarlo. La mia terra è il mare. 100 101 Alessandro Disertori Come le radici dell’ acacia I l luogo della nascita non è il nostro primo ricordo. Lo è invece il luogo nel quale siamo cresciuti. Perenne sorgente dei nostri pensieri, è importante come l’ aria che respiriamo. Il distacco da lui è infatti uno degli atti chiave, spesso doloroso, della commedia umana. Soprattutto è rassicurante come il calore del petto materno, sia esso un fastoso castello, una masseria, una abitazione di periferia o anche, spesso, una bidonville o peggio. Come l’ acacia con le proprie radici, si fa sempre più ampio. Gli si aggiungono altri siti, ma in noi è sempre il ricordo della sua esistenza ad avere la meglio. Il mio fu un grande cedro ed una fontanella. Si sarebbero poi aggiunti l’ accogliente conca di Trento protetta da quattro cime, che ritenevo toccassero l’ azzurro trono di Dio, le Dolomiti atesine, tanto estranee a stupide sudditanze etniche, l’ Adige e, infine, i laghi. Quando ritorno in questo mio mini-universo pur privo dei visi allora amati, l’ aria che vi respiro è uno champagne d’ annata. “L’ Italia non è un’ astrazione – scrisse De Sanctis ai propri concittadini – è la casa, la famiglia, la provincia, la regione. Chi si sente legato ad esse è l’ italiano migliore. Cominciate dunque ad essere buoni napoletani; guai se vedete solo un’ Italia astratta, accademica e di scuola”. Egli voleva rendere coscienti loro e noi, oggi, come il legame alla terra che ci ha cresciuto, anche se sostenuto solo dal ricordo, aiuti a rendere più ricca la nostra essenza umana. 102 103 Peter Disertori Nostalgia A vvolto nelle tenebre equatoriali, guardavo il buio, ascoltavo i mille rumori assordanti della giungla ed il brusio di legioni di insetti. Maledicevo l’afa e il caldo soffocante della foresta pluviale, anche se mi rendevo conto che non erano nulla in confronto al penetrante odore, l’ odore d’Africa, l’ odore che mi aveva assalito nel momento stesso in cui ero sceso dall’ aereo e che non mi aveva più lasciato: un misto di frutta andata a male, di marciume e di acqua putrida che unito all’ umidità era ormai diventato parte di me. All’ improvviso il ricordo di casa mi assalì doloroso. Ma non erano le cime innevate delle Alpi, i maestosi scenari dolomitici, il verde delle vallate o il frusciare dei torrenti a tornarmi alla mente, erano la fragranza del fieno appena tagliato, l’ aroma dei boschi di conifere, il profu- mo impalpabile della neve appena caduta, della legna d’ abete arsa nelle stufe… gli odori della mia terra. 104 105 Danuta Dobkowska Danuta Dobkowska Quale terra? Która ziemia? (Traduzione dal polacco) C i vuole una sterzata; la mia vita è diventata un dramma. Ero disubbidiente. Mio padre tuonava: “Devi finire gli studi e farti una famiglia!”. Sapevo che, se avessi fallito, sarei stata cacciata, ma qualcosa mi diceva di non ascoltarli. Ho fatto le valigie e sono partita alla scoperta del mondo. Il bisogno di amare mi faceva girare come una trottola, annusavo le vite e le terre degli altri, conquistavo le cose e un giro di amici, per poi ricominciare. Mi sentivo un’ eterna forestiera, un’ orfana, aggrappata al pezzo di cielo che può franare da un momento all’altro. Oggi percorro la strada dei canti smarriti portando in giro un’ombra stanca a ritroso fra il futuro, passato immediato o remoto sedimentato. Il corpo e il viso si sono consumati. La memoria vacilla. I discorsi dei vecchi amici sono estranei. La mia lingua madre è oramai sgrammaticata. Salgono i rimorsi dalle città dei morti. Stringo a due Moje życie stało się dramatem, potrzebna jest zmiana kierunku. Nie słuchałam rad rodziców. Mój ojciec grzmiał: “Musisz skończyć szkołę i założyć rodzinę!”. Wiedziałam, że jeśli nie zrealizuję planów, rodzina oddali się ode mnie. Coś mi mówiło, aby nie słuchać się ich. Spakowałam się i wyruszyłam poznawać świat. Potrzeba uczucia przenosiła mnie z miejsca na miejsce jak bączek, wąchałam życie i ziemie innych narodów, osiągałam przyjaźń, rzeczy materialne i już likwidowałam wszystko, aby żyć od nowa. Czułam się jak wieczny cudzoziemiec, sierota, przyczepiona do kawałka nieba, co może spaść z chwili na chwilę. Dziś mój zmęczony cień wraca do tych dróg, gdzie śpiewałam do utraty tchu, zagubiona między przyszłością i przeszłością. Sylwetka i twarz postarzały się. Pamięć osłabła. Rozmowy z dawnymi przyjaciółmi są obce. Język ojczysty nie kleci się. Z miast nieżywych wznoszą 106 107 mani la vita che resta chiedendomi: quale terra? Dico addio quando l’aereo decolla. Le mie lacrime si disperdono come un patchwork di vite sospese; per quanto polverizzate, ritrovano l’unità nel rivelare che la mia terra è un piccolo orto nel Trentino, adagiato ad un muretto a secco dove le piante e gli animali si dividono i favori del sole e della pioggia. La vita si trasforma in danza: i lombrichi scavano la terra. Le rane cantano in coro, la mia gatta caccia le lucertole, con il buio osano le lumache. Qui mi sento felice, immersa nella lettura di un libro. się wyrzuty sumienia. Przytrzymuję obiema rękoma pozostałe życie, zadając sobie pytanie: która ziemia? Żegnam kraj, gdy samolot startuje. Moje łzy rozpraszają się i realizują układankę tego rozproszonego życia. Wnet łączą się ujawniając, że moja ziemia to ten ogródek warzywny w Trentino pod naturalnym kamiennym murem, w którym rośliny i zwierzęta dzielą się dobrocią. Słońca i deszczu. Życie zamienia się tu w taniec: dżdżownice przekopują ziemię, żaby śpiewają w chórze, kot poluje na jaszczurki, w nocy urzędują ślimaki. Tutaj czuję się szczęśliwa, zanurzona w lekturze książki. 108 109 Dorina Dumbravă Dorina Dumbravă Moldova Moldova - Patria mia - Patria mea (Traduzione dal rumeno) L a Moldova è il paese dei contrasti: le città moderne con alti palazzi di cemento e vetro si affiancano a piccoli villaggi con vecchie case che si nascondono tra gli alberi ombrosi, una terra dove le persone ascoltano con lo stesso piacere sia la musica moderna che le canzoni ancestrali. I monasteri di una rara bellezza conservano tesori culturali e storici, innalzati orgogliosamente sulle pianure o nascosti tra le colline o scolpiti nelle rocce, le fortezze invece raccontano le pagine del nostro tumultuoso passato. Qui ho ascoltato il canto cristallino dei rigagnoli che si fanno strada tra le radici degli alberi secolari e il sussurro del vento che vaga tra i campi. Ho ammirato l’arrivo dell’autunno nei boschi con le sue tonalità bronzee e con il suo gusto dolce tra i vigneti e la primavera che colora la terra di verde. Amo la mia terra. Amo i boschi ombrosi, le rocce taglienti ed i laghi con i salici piangenti sulle loro rive. 110 M oldova e o ţară a contrastelor: oraşele moderne cu clădiri înalte din beton şi sticlă se învecinează cu sate mici cu case bătrîneşti ce se ascund printre copacii umbroşi, ţara în care oamenii cu aceiaşi plăcere ascultă muzica modernă şi doinele strămoşeşti. Mănăstirile de o frumuseţe rară păstrează comori ale culturii şi istoriei noastre, înălţăte mîndru pe cîmpii sau pitite printre dealuri şi sculptate în stînci iar cetăţi măreţe povestesc file din trecutul nostru tumultos. Aici am ascultatat cîntecul cristalin al pîrîiaşelor ce îşi fac cale printre rădăcinile copacilor seculari şi şoapta vîntului ce cutreeră cîmpiile. Am admirat toamna coborînd cu nuanţe de bronz peste păduri şi cu gust dulce în vii şi primăvara care colorează pămîntul în verde. Îmi iubesc ţara. Iubesc pădurile umbroase, stîncile abrupte şi lacurile pe malurile cărora se închină salciile. Iubesc oamenii binevoitori, obiceiurile străvechi şi limba melodioasă. Iubesc să privesc cum soare111 Amo le persone per bene, le vecchie tradizioni e la mia lingua melodiosa. Amo guardare come il sole sorge dietro le colline e come piano piano cambi colore. Amo l’immagine dei campi dove fioriscono i girasoli e quella degli alberi che nascondono tra le loro foglie dolci frutti. La mia Terra è veramente bella. Per me, la Patria si associa al profumo del pane appena sfornato, al gusto dolce dell’uva matura, al suono della madrelingua e al paesaggio delle distese dorate di grano che raggiungono l’orizzonte. La mia Patria è la Moldova, terra con una storia millenaria. Terra che coniuga il passato con il presente. le răsare de după dealuri şi ele încet încet îşi schimbă culoarea. Iubesc imaginea cîmpiilor pe care înfloreşte floarea-soarelui şi a pomilor între frunzele cărora se coc fructele dulci. Ţara mea e cu adevărat frumoasă. Pentru mine, Patria întotdeauna se va asocia cu aroma pîinii tocmai scoase din cuptor, cu gustul dulce al strugurelui copt, cu sunetul graiului matern şi cu priveliştea lanurilor aurii ce se întind pînă la orizont. Patria mea e Moldova, ţara cu o istorie milenară. Ţara care îmbină trecutul cu prezentul. 112 113 Anna Maria Ercilli Colpo di vento I l ritorno nel bosco, il luogo della sua infanzia lo emoziona come nel giorno della festa degli alberi. Si rivede scolaro, alla ricerca del suo piccolo albero da piantare, ognuno poteva scegliere fra quelli posati nel riparo, le radici avvolte nella juta. Le buche, scavate dagli uomini della Forestale di primo mattino, aspettavano i bambini titubanti con gli alberelli per il nuovo bosco. È arduo ritrovare i propri passi fra i tronchi cresciuti e le ombre disegnate dai rami, ma con un po’ di fortuna rivedrà il suo albero. Ne ricorda il nome e la silhouette, il carpino bianco. Veniva qui da ragazzo, prendeva la terra odorosa di humus da portare a casa, per i vasi della mamma. Terra mia, si diceva, annusando il tipico odore della trasformazione delle foglie in soffice terra scura. Non c’era bisogno di concime, i gerani erano rigogliosi dalla primavera all’autunno. Riconosce l’albero dal tronco grigio e le infiorescenze sui rami, lo accarezza, scorrendo con lo sguardo tutta l’altezza – amico albero sei cresciuto, anche noi ragazzi siamo cambiati – fatichiamo a riconoscerci. Il vento e i suoni del bosco ravvivano un ricordo. Un sentiero fra il verde, teneva per mano Alice, parlavano fitto e ridevano spensierati. Quanti propositi e desideri nascevano dai loro incontri. Ingenui entrambi, non sapevano che la lontananza li avrebbe separati. Nel racconto, Alice si addormenta e incontra un mondo fantastico; lui dove stava, nel sogno o nel ritorno? Sente il desiderio di cercarla. 114 115 Ornella Fait Lucciole -V iviamo in un mondo fantastico! – esclamo guardando il paesaggio dal treno. – Il perimetro dell’orizzonte è suggestivo al tramonto. — Dobbiamo rendercene conto prima che sia tardi e che troppo veleno distrugga la natura – risponde una signora che ha preso posto accanto a noi. — Ricordo che quando ero più giovane di notte si vedevano tante piccole luci ed erano le lucciole, ora scomparse a causa dell’aria irrespirabile – aggiunge sconsolata. — Di notte si nota sui prati in collina qualche lucciola – sono sicura d’averla rincuorata. – È necessario preservare la natura. Ci troviamo davanti un cambiamento epocale. La signora accenna affermativamente. — La congiunzione di Nettuno sarà quella che ci apporterà una diversa consapevolezza e l’aprirsi ad una cultura di Rispetto e di Trasformazione. C’è molto silenzio. Sui binari il treno ripete un suono che c’accompagna fino alla destinazione. Un’isola che non rivedo da anni e che m’ha lasciato nel cuore tanta nostalgia. La terra mitica dove tutte le storie umane si sono allacciate per dare una impronta a tutta la storia fino ad adesso. — La terra è tutta fatta di sassi vento e colori. Respireremo dal Mediterraneo la forza per ringiovanire – dico alla signora. E scopriremo che stiamo facendo la stessa strada per diventare ricchi abitanti d’una terra finalmente rispettata in ogni sua forma ed essere vivente. Il tramonto è terminato e la sera copre con un manto di stelle la nostra terra futura. 116 117 Gabriele Falcioni Dipinti nella sabbia N on usa colori, solo chiaroscuri. Dita danzano e solcano la sabbia. Granelli si ammucchiano, altri si separano e lasciano filtrare la luce. Qualche graffio, e una cavità diviene una medusa dai tentacoli fluttuanti. Uno scatto del polso, e da un solco nasce il collo flessuoso di un brontosauro. Dita che si aprono su traiettorie divergenti, ed ecco gli arti dinoccolati di un primate. Un affresco immenso e dettagliato di creature incastonate con perizia. Quasi una settimana di lavoro, di sforzi sovrumani, d’amore. Un uomo e una donna si osservano al centro del disegno, circondati da simili. Si fronteggiano. Un profilo sottile li separa, l’uno il riflesso dell’altra. Immobili. Dov’è la vita? La vita è cambiamento. Dove sono finiti i gesti che hanno creato il disegno? Come può quel disegno rappresentare la vita? Un alito sulla sabbia e il disegno tremola. Persone che lottano per cambiare minuzie, purché tutto resti com’è. Persone che negano il cambiamento e che lo negano ai propri figli. Persone che negano la vita. Figure nella sabbia che fingono di vivere nel cemento. È tempo di cambiare. Le sue dita si aprono e affondano nella sabbia. Scendono verso il disegno. Dove passano, solo scie di luce pura, come se il cielo si fosse aperto e avesse vomitato strali infuocati. Poi esitano, e si fermano. Ama troppo tutto questo. Ama questa terra. È la sua. Si china verso le due figure al centro del disegno. Ma è tempo di cambiare. Le bacia. Ora non le vede più: una lacrima le ha trasformate. Inizia a piovere. 118 119 Guido Falqui-Massidda Le zucche Q uesta volta me ne dovrò stare lontano dalla mia terra per un bel tratto di tempo. Il mio lavoro, maledizione, prevede interventi in loco per rimettere in piedi organizzazioni aziendali traballanti. E il raggio d’azione fino ad oggi mi permetteva una residenza più o meno stabile. Adesso dovrò andare lontano, in una terra grassa e montuosa, che dà frutti troppo ricchi, insipidi, zuccherosi, rivoltanti. Addio terra delle mie brame. Quella terra che mi dava la vera ragione di vita: le mie uniche, incomparabili zucche. Zucche che portavano nella pasta arrostita, lessata, pasticciata in torte e tortelloni tutto il sapore di una terra tormentata, viva, minerale. Perché vivere senza questi veri piaceri, perché lottare e lavorare senza le mie zucche?! Ho deciso. L’occasione di carriera è troppo ghiotta. Ma accetterò solo se i miei datori di lavo- ro faranno trasportare nella mia nuova residenza, per mare, per terra, per aria, si arrangino, la terra del mio orto. Hanno accettato perbacco. Grandi vasi di terracotta sono stati portati in una grande terrazza. Con dentro la mia terra. La terra mia. 120 121 Lidia Filippi Poesia per la mia terra L ia si spazzolò i lunghi capelli neri davanti allo specchio che le restituiva un’immagine di donna ormai cinquantenne, pur sempre molto bella; cercava di confrontarla con quella delle vecchie fotografie di allora quando, trent’anni prima, se n’era andata per seguire gli studi universitari. Non sono cambiata poi tanto – disse fra sé – sorridendo. Era diventata giornalista, inviata speciale, scrittrice, poetessa di successo e ne era fiera. Ora si sentiva felice perché stava per ritornare alla sua terra, in mezzo alla sua gente. Poi prese penna e foglio e scrisse così: “Il paese dove nasci e cresci è la tua terra, è un luogo speciale, un piccolo mondo perfetto, quello che vedi per primo e ami. Ne conosci ogni suono e ogni profumo, ogni cosa parla il tuo stesso linguaggio e tu lo comprendi perché ti appartiene; è un mondo che ti protegge e ti rassicura. Ancora non sai che oltre l’orizzonte ci sono altri paesi, città, strade, fiumi… Poi cresci e ti prende il desiderio di andartene, incontri nuova gente, vedi cose stupende, ma il paese dove nasci rimane la tua terra, tu non la puoi scordare, essa ritorna sempre nei tuoi sogni e nei ricordi.” Era il pensiero di Lia alla vigilia del suo ritorno al paese natale, la frase che avrebbe pronunciato all’inizio della cerimonia di presentazione del suo libro. Seguendo il richiamo della sua terra stava per farvi ritorno, con sé una raccolta di poesie meravigliose ed emozionanti, composte pensando alle sue origini. 122 123 Gilberto Gagliardi Ricordi di fanciullo N oi abitavamo al primo piano di una casa di campagna, vicino alla stazione ferroviaria. La famiglia di sotto, per racimolare qualche lira, aveva trasformato la vecchia stalla in deposito biciclette per chi doveva prendere il primo treno. La nostra Mamma si alzava ancora col buio per iniziare la sua estenuante giornata, aggravata anche dal pesante lavoro di magliaia, in soccorso alla paga del Babbo ferroviere. Come accendeva la lampada da tavolo, il gallo, percependone il barlume, straziava il silenzio lanciando a squarciagola il suo primo chicchirichì. Mamma, col suo solito umorismo bolognese, commentava: “Anche oggi ti ho fatto da starter, pennuto erotomane”. Poi, sempre col buio, si accendeva la fioca luce del deposito e il re del pollaio rilanciava nella notte il suo secondo lacerante grido. Dopo un po’ arrivava l’alba e con essa il terzo chicchirichì, quello naturale per intenderci, che faceva imbestialire chi aveva sperato in una sua défaillance, per riprendere il sonno interrotto bruscamente più volte. Non per Mamma, che ne apprezzava, con ironico diletto, la puntuale sonora vitalità. Le vivaci disquisizioni degli anziani erano sempre animate, perché l’originale pennuto avrebbe dovuto annunciare ad alta voce ognuna delle sue prestazioni maritali iniziate con l’aurora e non un’unica volta ad ogni stimolo pseudo meteorologico, che il cambio delle stagioni contribuiva al disarmonico funzionamento dei suoi neuroni. Solo la quiescenza pose termine alla sua curiosa notorietà. 124 125 Davide Galati Anniversario L’ uomo aveva i capelli bianchi, era seduto al tavolino del bar e guardava la neve cadere. L’interno era piccolo e raccolto, sulle pareti di legno le ballerine di Degas. Socchiuse gli occhi, poi avvertì il suo profumo. — Ciao, – disse lei appoggiando i guanti sul tavolo e togliendosi il cappotto – è molto che aspetti? — No. – mentì lui osservando i fiocchi di neve che le cadevano dai capelli ricci e soffermandosi sui suoi occhi profondi. — Bugiardo. – sorrise lei. — Mi piace stare qui ad aspettarti. Si sedette con un sorriso accogliente. Lui guardava con dolcezza le piccole pieghe che la pelle, col tempo, aveva fatto sul suo viso. La rendevano ancora più affascinante. La cameriera li fissò da lontano. Venivano ogni anno, l’otto dicembre, solo quel giorno. Lei era davvero una bella signora, molto elegante. Lui un po’ sovrappeso, ma con un certo fascino. Stavano lì un paio di ore, ordinavano sempre le stesse cose e parlavano, parlavano… parlavano. Guardandoli capivi che si volevano bene davvero. Lui scoppiò a ridere. Lei si illuminò. Gli occhi di lui divennero tristi, ma solo finché lei non gli strinse la mano. Risero ancora e continuarono a parlare e il tempo perse significato. Poi lei si alzò e si rimise il cappotto. La baciò con passione, poi lei uscì e lui la guardò allontanarsi nella neve. La cameriera si avvicinò per pulire e si lasciò sfuggire: — È davvero una bella signora... — Sì, è la mia casa... il mio punto fermo... la mia terra... è mia moglie! – rispose sorridendole. 126 127 Francesca Garello Tre chili S ono tre chili, più o meno. Stanno tutti in soli sedici centimetri di diametro e quindici di altezza. Non è una cosa molto ingombrante da trasportare, magari non comodissima se si va lontano, e soprattutto se si va di fretta. Io sono andata via di fretta. Non ho portato molto di più con me, d’altra parte, quindi non è che mi abbia dato tutto questo disturbo. Avevo le mani abbastanza libere. Era il ’38. C’è voluto più impegno, semmai, nel trovargli ogni giorno un bicchiere d’acqua e proteggerlo dal freddo e dalle scosse del viaggio, che non è stato né corto né comodo. Ogni tanto ho temuto che non ce la facesse. Non sembra, ma il basilico è una pianta delicata. È talmente diffuso che nessuno ci fa caso se una pianta muore: se ne trova facilmente un’altra, si svuota il vaso e la si rimpiazza con una nuova. Ma io ci tengo a questa pianta, a questo vaso. Sul retro della casa avevo un piccolo orto. La terra la presi lì e la misi nel vaso perché il basilico volevo tenerlo sul davanzale della finestra, in modo da averlo sotto mano mentre cucinavo. Un vaso piccolo. Circa tre chili di terra. Così stava al riparo anche quando soffiava il vento, che dalle nostre parti è molto freddo. Anche adesso il basilico sta sul davanzale, un altro. Sta abbastanza bene, nonostante tutto. Potrei metterlo in giardino, forse. In America tutti hanno un giardino, e sono sicura che al basilico piacerebbe. Però mi spiacerebbe buttare la terra del vaso. È tutto quello che resta di casa mia. 128 129 Karin Gelten Karin Gelten Il mio paese incantato Mi país encantado (Traduzione dallo spagnolo) I niziai a sentire l’odore e il rumore inconfondibile del mare che mi salutava, dopo aver attraversato un bosco infinito di un verde brillante, popolato d’allegri pappagalli variopinti come il paesino che i miei occhi videro apparire all’orizzonte: umili casette di legno sopra palafitte, dipinte con i colori dell’arcobaleno. La mia gente, sorridente, mi salutava gioiosa con le braccia aperte. Mi avevano riconosciuta. Corsi da loro, urlando: terra mia! Mi hanno abbracciata ridando vita ai miei ricordi. La nostalgia che portavo nel cuore, dopo anni di lontananza, era tale che i miei occhi si riempirono di lacrime. Un tremore scosse il mio corpo guardando quella terra tempestata di isole, laghi, fiumi, sovrastata da maestose montagne dai picchi innevati. Guardando il cielo celeste intenso, un sole arancio mi sorrideva emanando potenti raggi, che ca130 E mpecé a sentir el olor y el ruido inconfundible del mar, que me saludava, luego de haber atravesado un bosque infinito de un verde brillante, poblado de alegres papagayos variopintos como el pueblito que mis ojos veían aparecer al horizonte: humildes casitas de madera sobre palafitos, pintadas con los colores del arcoiris. Mi gente contenta, sonreía alegremente y me saludava con los brazos abiertos. Me habían reconocido. Corrí hacia ellos, gritando: tierra mia! Me abrazaron dando vida a mis recuerdos. La nostalgia que llevabo en mi corazón, después de años de lejanía, era tanta que brotaron lagrimas de mis ojos. Un tremor invadió mi cuerpo mirando esa tierra tempestada de islas, lagos, rios, circundada por majestuosas montañas con picos nevados. Mirando el cielo celeste intenso, un sol naranja me sonreía mandando sus potentes rayos, que 131 devano sopra l’interminabile oceano, le sue onde muovendosi brillarono fortemente, provocando in me un’emozione che mi tolse il respiro. Contemplando l’infinito oltre l’orizzonte, domandai a Dio come avesse creato questa meraviglia. Si levò un vento gagliardo che mosse i miei capelli, accarezzò il mio viso e una voce affettuosa mi sussurrò che, quando creò le meraviglie del mondo, Gli erano avanzati pezzi di terra, ghiacciai, boschi, fiumi e invece di lasciare che si perdessero, li depose nel luogo più remoto della Terra: la mia Terra. caían sobre el interminable oceano, sus olas moviéndose brillaron fuertemente y provocaron en mi una emoción que me quitó el respiro. Contemplando el infinito mas allá del horizonte, le pregunté a Dios como había creado tal maravilla. Se levantó un viento gallardo que movió mi pelo, acarició mi cara y una voz cariñosa como un susurro me dijo que, cuando había creado las maravillas del mundo, Le habían sobrado pedazos de tierra, glaciares, bosques, rios y en vez de dejar que se perdieran los juntó y los depositó en el lugar mas remoto de la Tierra: mi Tierra. 132 133 Vanessa Giolitti L’ incontro L’ una saliva, l’altra scendeva le scale della palazzina dove avevano vissuto la prima parte della loro vita. Erano passati quasi trent’anni da quando si erano viste l’ultima volta. Un sorriso, un abbraccio: “Sei tu? Come stai? Che fai qui?”. L’una faceva eco all’altra. Per la vendita dello stabile si ritrovavano sullo stesso pianerottolo luogo di lontani giochi. Scorrono i ricordi all’indietro pensando alle loro madri, ai loro padri, alle amiche. Porte che si aprivano con un semplice: “È permesso?”, un andare e venire con una qualsiasi scusa. “Uno spicchio d’aglio, un pezzo di pane, un bicchiere di vino. Domani glielo riporto...” “Guardi cosa ho fatto: vuole assaggiare? Venga...”. — Ti ricordi la vecia del piano di sotto? Forse la figlia ci sta guardando dallo spioncino. Vecchie abitudini?! Ammicca l’una, ride l’altra e così scendono e si ritrovano sul marciapiedi dove, bambine, giocavano a palla prigioniera. Ora lo solca una ciclabile senza divisorie. Il traffico della strada è sostenuto. Bambini non se ne vedono. Altri tempi! Arrivano al caffè dell’angolo, pochi minuti ancora poi ognuna deve ripartire. Un’ultima occhiata all’orologio, due passi insieme fino al pullman che riporta l’una al paese, mentre l’altra va ai treni. Il posto vicino al finestrino mostra a sinistra tutta la città. Il corso, la rotonda, il ponte, il castello, la campana, l’ossario, la curva e mentre il pullman sale, il treno prende velocità e scende al Sud. “Ciao terra, terra mia” e un sorriso frena il pianto. 134 135 Giuseppe Gottardi Marte mio A tti della IIª Commissione Lessicografica Martiana. Lettura Accademica del Presidente Nicholaus Tommaseus. Signori, mi pregio di riferirVi con questo mio breve excursus, lo stato attuale dell’arte. L’incarico da noi assegnato alla nostra illustre Commissione Accademica, ha portato a compimento la prima stesura del Lessico Martiano. Un lavoro arduo e immenso che dovrà godere della nostra più ampia benevolenza. Le soluzioni prospettate per il superamento di difficili problemi linguistici ci vedono particolarmente soddisfatti. Tuttavia, mi sia permesso esplicare un’unica perplessità. All’interno del vocabolario c’è stata una furia quasi iconoclasta nel cercare di far scomparire il termine terra. È vero che siamo su Marte e che il ricordo delle nostre origini, specialmente nelle nuove generazioni, ha ormai subito devastanti metastasi, ma alcune scelte linguistiche mi hanno, addirittura, mosso al riso. Vedere termini, come: interramento, interrazziale, senzaterra, terracotta, terrazzamento, zappaterra subire una trasformazione al punto da divenire incomprensibili, ci lascia oltremodo perplessi. Parole come: inmartemento, inmartezziale, senzamarte, martecotta, martezzamento, zappamarte, non credo si possano accettare senza alcun fremito. A nostro avviso un’unica eccezione riteniamo sia possibile ammettere e quindi consigliamo d’introdurre, quasi come d’obbligo, nei corsi primari: che si usi non più la frase TERRA MIA, bensì MARTE MIO. 136 137 Marco Guarnieri Splendore S plendeva. Sì, splendeva il suo mucchio enorme di carabattole e chincaglieria che teneva fra le braccia: antichi collier della nonna con zirconi e zaffiri, manoscritti rilegati in pelle, candide perle di vecchie clienti, papillon in raso fine orientale, minuscole e slanciate bottigliette arabe con spezie di viaggiatori collezionisti,… tutto splendeva e ad ogni scalino che faticosamente lasciava dietro a sé un canto di beatitudine irrorava il suo cuore di pura gioia ed appagamento. Il terz’ultimo scalino volle, come per burla, ritirarsi sotto alla sua scarpa trasandata, lasciandolo cadere sugli altri compagni di legno e tarli. I ragnetti del soffitto raccontarono poi d’un maestoso e ben riuscito fuoco d’artificio di mille colori e scintillii: ei cadde sontuosamente separandosi, aimè, di preziose collane, rarissimi scrigni e dell’unico collo che aveva. Dio, quello della mela proibita, lo guardò più volte prima di distogliere lo sguardo divertito da quel suo ometto: lo vedeva morto e quasi spento nel suo cofanetto di carne umana che ancor aveva gli occhi sgranati sulle pareti della fossa e, come volendo scansare i colleghi stecchiti, volgeva un sol pensiero a quella torba succosa e nera che pian piano lo pigiava: “Mia questa terra, questa terra è mia, mia terra, TERRA MIA!” 138 139 Luigi Guicciardi Un commissario, una città S siede sul bordo del letto, pieno di stanchezza. Chiude gli occhi e osserva lo scintillio che passa rapido da destra a sinistra. Si chiede da cosa possa dipendere. Forse è l’effetto della debolezza, della convalescenza. L’hanno messo in guardia, i medici. Ma forse è qualcosa di più di una convalescenza. Può anche diventare un congedo; un congedo dalla polizia. Lasciare la presa, finalmente, sui problemi degli altri, sulla gravità, la furia, il fango della vita. Allo stesso modo in cui si finisce per stancarsi del dolore, del senso di colpa, della rabbia verso ciò che ci circonda. Si sdraia sul letto. E pensa a Modena, adesso. In un clima da film francese, in bianco e nero. Modena buia per la nebbia, grigia per la pioggia, certe piazzette, all’improvviso, che ricordano Parigi, vecchie chiese che sembrano dipinte. Non l’ha mai ascoltato, ma l’ha avvertito spesso, un suono malinconico di piano. E i pomeriggi dalle ombre di cenere, le notti lunghe di pioggia e di ricordi, le strade strette del centro storico, e i viali che si slargano, con le foglie dei platani… E le memorie: dei luoghi, dei visi, dei gesti, anche di quelli appena accennati, intuiti, indovinati; la memoria di volti di donna, non solo di Alice; di profumi, di gesti consumati, svelti o lenti, nel modo più vissuto. Tutto dentro. L’amore, sì. Non solo per la donna, il suo odore, gli occhi, i movimenti; ma anche per una città, che se la giri finisci per amarla sul serio e senti che è tutto, tranne che estranea, lontana. 140 141 In-pagina Terra d’accoglienza Q uando ti svegli nella cuccetta, con la bocca impastata d’un sonno di rotaie infinite, l’odore degli altri è la prima cosa che senti, ma non lo capisci subito. Sai solo d’aver dormito col peso della notte addosso e non ti senti riposato. In cerca d’aria boccheggi fino al finestrino del corridoio. L’alba si sfila dalle spalle dei monti. La voce del capotreno fa capire che la meta non è lontana. L’occhio scopre anticipi di malinconia, verdi distese che diventano sempre più gialle. Coltivazioni di luppolo. Le conosci bene e ti si stringe il cuore a pensare che sulla scia di quei campi s’è costruita la tua storia d’emigrante. Uguale a quella di tanti. Chilometri di terra senza terra, che non ti sei sentito più appartenere a nulla, neanche ai campi. Volevano operai, non contadini. E operaio fosti, per macchine belle oltre l’immaginazione stretta di chi non se le può permettere. Osservavi il lusso da lontano, senza disturbare. Non era pre- visto che la forza lavoro a basso costo avesse esigenze di alcun tipo. Le braccia che volevano erano senza corpo e senza cuore. Improvviso, un nodo d’angoscia ti avvinghia: chi ti riconoscerà più? Dallo scompartimento fa capolino Petra. Ti sorride. È per lei che sei rimasto, anche quando la nostalgia delle montagne ti uccideva. Nella florida rotondità porta ancora il segno della discendenza che ti ha dato, lei sì che si è fatta per te Terra d’accoglienza. Ora le farai conoscere il tuo Paese. “Guten Morgen meine Liebe!”. 142 143 Norberto Julini Le noci di Al Mansura A l piccolo Geries piacevano le noci, ma la sua famiglia era povera, le noci costavano troppo. Un giorno vicino ad un villaggio abbandonato sui monti della Galilea con i ragazzi più grandi si imbatté in un noce che ne aveva lasciate cadere una gran quantità. Geries tornò a casa fiero di portare un dono prelibato ed inatteso. Papà Sa’ed invece lo rimproverò: — Dove le hai prese? Ti ho detto di non rubare, mai! — Le abbiamo trovate nel bosco e tutti ne hanno prese sotto l’albero – rispose Geries spaventato. — Quale albero? – insistette il padre. – Portami a vedere. Appena vide l’albero Sa’ed tornò precipitosamente a casa, aprì la finestra, buttò le noci. — Perché l’hai fatto? – chiese la moglie. — Erano noci di Al Mansura – rispose Sa’ed e si chiuse in un silenzio cupo. — Che cosa ho fatto di male? – chiese Geries alla mamma. — Nulla, ma devi sapere che quelle noci un tempo erano nostre, noi veniamo da Al Mansura. Là c’era la mia terra e la mia casa. I soldati vennero un giorno a dirci che dovevamo venire via e di non prendere nulla, soltanto di chiudere la porta a chiave. Saremmo tornati presto, dissero. Invece il giorno dopo arrivarono i bulldozer e distrussero tutto. Oggi ad Al Mansura c’è un parco naturale e i resti delle case sono segnalati come “ruderi romani”. Geries accompagna i pellegrini. Si rifiuta di pagare il biglietto d’ingresso, spiega da lontano la storia della sua famiglia e del suo popolo che aspetta il ritorno a casa. Ha ancora la chiave: la tiene appesa al muro come una croce. 144 145 Marisa Lanzerotti Mari&monti M ia sorella è alpinista, lei i monti li scala. Io no. Lei dice che io non li amo, perché non ci vado, ma è una bufala mega, perché io i monti li amo eccome! Solo che forse li amo per motivi diversi dai suoi. Ah, non parlo del Nepal, ‘ché io di quello non so nulla. Io so dei monti della Val di Non & co., ma forse i monti sono tutti uguali, in fondo. 1. I monti erano lì quando sono nata, anzi hanno visto nascere pure mio padre e il padre di mio padre; hanno visto anche i miei antenati spostarsi da Rumo a Romeno nel 1400, anzi i monti erano lì molto prima che fondassero Rumo e Romeno... quindi mi conoscono da sempre e io per questo li amo. Amici di lunga data. 2.In questo mondo di cose passeggere ed agitate, come non amarli? I monti sono lì, fermi, maestosi e tranquilli. 3. Nei monti vivono molte piante grandi, vivono molti animali selvatici, e, soprattutto, c’è il si- lenzio. A me piace la natura e il suo silenzio e se ci vado, mi piace camminare piano, che non si senta il rumore dei miei passi. Non so se sono così felici che la gente li scali, a dire il vero. Credo che li disturbiamo. Ragionevolmente, il regno del silenzio mi mette soggezione. 4. A volte sono rotondi e materni, coperti dai pini. A volte no. A volte sono nudi e aguzzi contro il cielo. Sono attratti dall’Infinito. E con l’Infinito non si scherza. Chi tende all’Infinito non può far altro che mostrarsi per quel che è, esposto nudo agli eventi. Sono coraggiosi, come non amarli? 146 147 Gordiano Lupi La mia Baratti B aratti capolinea del mondo. Era il solo modo per definirlo quando viaggiavo per le strade di Piombino con la mia Legnano azzurra, ma anche quando mio padre mi portava a Salivoli a bordo di una bicicletta nera o di una moto Laverda. Baratti era lontano dalla grande acciaieria che divorava il presente e il futuro di braccia operaie, la serenità d’un lago salato per chi si affacciava dalla rocca di Populonia, un orizzonte di ricordi dispersi nella quiete del golfo etrusco. Baratti era il mare dei giorni festivi, la spiaggia del Primo Maggio, del Ferragosto, luogo per un picnic all’ombra di pini secolari, invecchiati insieme al bambino che li osservava stupito negli anni Sessanta, correndo dietro a un pallone nel grande prato verde. Baratti era il mare borghese di noi figli d’operai, da raggiungere a bordo di affollati torpedoni, con una moto scoppiettante, in bicicletta, corren- do in motorino, persino a piedi dopo essere scesi dal treno che fermava alla stazione di Populonia. Adesso, chi lo fa più? La crisi ci tormenta, lo spread è in cima ai nostri pensieri, ma tutti possediamo almeno due auto per famiglia e un telefonino per abitante. Baratti si raggiunge soltanto in auto, al limite in moto, ogni giorno d’estate, ma anche d’inverno, nelle terse domeniche assolate. Perduta la magia d’un tempo, finita la storia del capolinea del mondo. Baratti resta uno spettacolo per gli occhi, ma è svanito il mistero racchiuso in un golfo tormentato dal maestrale. 148 149 Paola Malcotti Ceneri... È in ciò che resta di questa vita mia, ormai accartocciata su se stessa, che rivedo il periodo nostro più bello, quello delle speranze, del batticuore, dell’amore. È in ciò che resta di questa nostra terra, ormai arida nuvola di polvere, che torno a percorrere i sentieri più sinuosi o dolci, più solitari o affollati, dove le nostre mani si sfioravano, si univano, si accarezzavano. È in ciò che resta di questi nostri laghi, ormai oceani di indifferenza, che mi lascio trasportare alla deriva dalle onde dei ricordi, come una nave senza capitano né equipaggio, senza bussola né meta. È in ciò che resta di questi miei occhi, ormai stanchi di lacrime amare, che i colori si fanno giorno dopo giorno sempre più spenti, per dar spazio al nero profondo. È in ciò che resta di questi miei orecchi, ormai sordi ad ogni parola di conforto, che trovo le me- lodie più dolci, quelle che eravamo soliti ascoltare, condividere ed amare. È in ciò che resta di queste mie parole, ormai solitarie e sussurrate al vento, che i tuoi silenzi stridono ora, e straziano, e rimbombano come echi di cannoni lontani. È in ciò che resta di questa mia pelle, un tempo bruciata da baci e carezze ma ormai solcata da ferite profonde e sanguinanti, che l’immagine di te, di noi, si fa presente, nella tua assenza. È in ciò che resta di queste mie ceneri, da te ormai raffreddate e sparse sulla nuda terra, che ora io più forte rinasco. 150 151 Carla Mannarini A terre unite È estate. Il sole incanta le parole con cui cerco di descriverti l’aria impastata di sale marino e campagna della mia infanzia. Le cicale ci accompagnano. Sono felice che tu sia qui con me. Stiamo scendendo lungo la pineta intricata e ombrosa. I raggi la squarciano a tratti, ma lassù l’azzurro limpido è la promessa della sorpresa che vedrò dipingersi nei tuoi occhi quando lo sguardo si aprirà sulla baia di Portoselvaggio. Ti muovi con passo sicuro tra i sassi di calcare bianco che devono sembrarti percorso per principianti, abituato come sei alle spigolose rocce rosa della tua terra alpina. Non dici nulla. La nostra giovane età ci dispone al venirsi incontro, è per questo che stavolta hai rinunciato al tuo Lagorai per una breve vacanza nel mio Salento. Ma questo spicchio di mare nascosto non te lo aspettavi, e quando il sentiero d’improvviso s’allarga, lo vedo che il fiato ti manca per lo stupore. Mi abbracci. Siamo solo noi, perduti nell’infinito azzurro che si stratifica. Acque di cristallo e toni iridescenti del verde riflesso che si rincorrono fino al blu e al lilla violaceo delle striature in fondo al cielo. Il vasto intorno, senza soluzione di continuità. — È come stare sulle cime del tempo, prima della creazione delle montagne – mi sussurri. Vorrei baciare la tua trentinità, in viaggio fino a qui, nel fuori luogo, dove si rinnova. — È la mia terra d’acqua… – sorrido – Sono io. Intrecci le tue dita alle mie: — Mare e monti uniti per sempre. L’emozione ci uccide e ridiamo felici. 152 153 Giacomo Manzoni di Chiosca L’ orto L ui s’ era impegnato parecchio per poter disporre di quei pochi metri quadrati. Era stato il suo sogno fin dall’infanzia ed ora si godeva il suo orto, insieme ai bambini, felici di vedere il loro babbo sudare, affaticato ma contento, a zappare, seminare, diserbare e alla fine raccogliere le delizie di quell’orticello tutto suo. La moglie no. Non sopportava i suoi ritorni con le scarpe infangate, i pantaloni imbrattati, le camicie logorate e le mani incallite. E poi quell’impegno costante rendeva problematico allontanarsi anche solo per pochi giorni di vacanza. In effetti, col tempo, gli impegni di lavoro del marito, lo avevano obbligato a ridurre le ore dedicate al suo orto, fino a trascurarlo del tutto. E lei, un po’ per far piacere a lui, un po’ perché quel terreno vicino a casa non assumesse un aspetto vergognoso, si era data da fare per tenerlo in ordine. Pian piano si era veramente appassionata a quel lavoro a contatto con la natura, che le per- metteva, per qualche ora al giorno, di dimenticare i crucci e i problemi quotidiani. Ora l’orto era suo: la sua terra produceva frutti deliziosi, orgoglio della sua mensa. Non se ne sarebbe più privata per nulla al mondo. Lui s’era impigrito; senza più quell’esercizio quotidiano era diventato grasso e bolso. Sì, ora lei amava il suo orto più di suo marito. Quei pochi metri rigogliosi le davano più soddisfazioni di quell’essere in mutande e birra che dal divano si lamentava dell’afa, del governo, della vita com’era andata... 154 155 Angelo Marenzana Sepolti vivi A Nadir i cinquecento dollari pagati parevano troppi solo per viaggiare dove l’aria dei motori secca la bocca e l’odore di nafta brucia la gola. Senza contare l’attesa su una spiaggia inospitale prima di imbarcarsi sul peschereccio. Non gli avevano nemmeno detto che sarebbero stati duecento. Corpi neri ammucchiati, senza poter respirare, allungare le gambe. Senz’acqua, cibo e luce del giorno. Sepolti vivi nella stiva. Aveva scelto in nome della fuga dalla propria terra. Arida, alla mercé dei ribelli e preda di bambini guerrieri addestrati a tagliare piedi e mani a chi capitava a tiro della loro furia. Libertà e futuro a caro prezzo. Quando la catena dell’ancora si srotolò in mare con un rimbombo crudele, creò un istante di panico. Uno squarcio di luna inondò la stiva. Comparvero tre uomini armati. Urlavano e presero a spintonare uomini e donne con il cal- cio dei fucili. Tutti fuori, uno ad uno, sul ponte, feriti dal fresco della notte e dall’odore pungente del mare. Scesero a bordo di due gommoni attaccati al barcone. Poi l’imbarcazione ripartì a luci spente trainando la matassa di corpi tra le onde cupe. Nadir tossiva, ansimava, si guardava attorno ma la riva pareva lontana. All’orizzonte nessuna traccia di terraferma. Poi capì. Il gommone perdeva velocità. Si sporse ad accarezzare i flutti. Vide galleggiare il capo reciso della gomena. Lo assalì un’onda di terrore. La raccolse e allargò le braccia per sventolarla nel buio del cielo. Senza nemmeno essere più capace di gridare. 156 157 Tiziana Margoni Confine P rima che scenda la nebbia. Prima del temporale. Mentre l’aria solleva i semi leggeri delle acacie. Nell’attimo in cui la stagione si fa ibrida e sconosciuta. Mi accoglie con: — Oh, mi hai cambiato la giornata! L’abbraccio piano. Mi fissa con sguardo fragile: — Oggi mangiamo fuori, ma non so dove sia la comitiva. Ci sono quattro scuole tutte assieme. Devo stare con le compagne. – Si guarda in giro, ansiosa. — Le troverai a cena in sala da pranzo. — Io non dovrei essere qui. — Adesso stai quieta, parla con me. — Non posso staccarmi dal gruppo, mi perdo. — Ci sono io con te. — Sì, ma io non dovrei essere qui! Si appoggia al mio braccio. Camminiamo. Fatica più del solito. — Passeggiamo un po’? Ti fa bene. — Beh, qualcuno vedrà che non ci sono e si chie- derà pure dove posso essere finita. — Mangia qualcosa. Vuoi un caffè? — Sì, grazie. Non riesce a stare ferma, nemmeno da seduta: trema; le cade a terra il bastone; le cade la borsetta; le cadono briciole e biscotti. Come se fosse in alto mare. Come se l’orizzonte fosse irraggiungibile. Un colpo di vento la potrebbe portare con sé. Via. Guardo oltre la grande vetrata. Dopo verrà la pioggia. Anche il sonno verrà sui suoi novantaquattro anni, a breve. — No, no. Non so perché sono così, perché non capisco più niente. È stanca di pensare: i pensieri non le tornano. È stanca di ricordare: i ricordi non le tornano. — Ah, non so più cosa ho dentro questa testa. Mi guarda con occhi lucidi. — Parlami di te, mamma! Prima che scenda la nebbia. 158 159 Donato Marinello La terra del re G uglielmo si dovette adattare ai lavori più umili, senza mai perdere la speranza in una vita migliore. Nel frattempo s’innamorò di una ragazza americana. Un giorno, mentre camminava per le vie di New York, fu affrontato dal rivale in amore che gliele suonò. Guglielmo cominciò a straparlare, perdendo così anche l’amore. Pallido e trasandato, senza soldi, né affetti, il giovane incominciò a vagare per le vie della città, finché non giunse al porto. Aveva un solo desiderio: rimpatriare. Ma come fare? Si gettò su una panchina, in preda al più nero sconforto. Era così triste e disperato che a mala pena avvertì il tocco di una mano. Vide un signore che gli stava allungando dei soldi. Il giovane rimase lì come trasognato, finché non si accorse che i soldi erano veri. Gugliemo ritornò alla sua terra siciliana, dormendo le notti in una grotta. Allargò il suo abi- tacolo ed incominciò a scolpire le pietre scartate imprimendovi i visi delle persone della sua vita. In seguito nacque una corte di soldati, che nella sua mente visionaria dovevano proteggerlo dal nemico. Ammantato di una palandrana, dava ordini ai soldati, oppure scendeva in paese, attirando le risate dei bambini. Quando qualche vicino, non vedendolo più, si addentrò nel suo podere, vide un parco immerso nella vegetazione divorante. In fondo alla grotta aperta all’ invasione della selva stava il corpo dell’eremita. Migliaia di cortigiani di pietra proteggevano il sonno del loro re nella sua terra. 160 161 Caterina Rosa Marino A terra È a terra, ma come ci è arrivata non lo sa. Stava lavorando, svelta come sempre, brava più di tutte, e poi, dev’essere successo qualcosa alla macchina, quella nuova, meraviglia della produzione industriale. È a pancia in giù, la guancia sinistra sul pavimento sporco, da quella posizione riesce a vedere poco, e ascoltare ancora meno, percepisce come in lontananza una gran confusione di urla, sirene, qualcuno dà ordini, ma a chi, non lo sa. Vede le scarpe delle sue colleghe e le gambe dei loro pantaloni. Qualcuno corre. Strana visuale e ancora più strana sensazione: come di intorpidimento generale, anche i suoi pensieri sono rallentati. Vede il suo braccio e la sua mano sinistra davanti a sé, riconosce le unghie dallo smalto tutto rovinato, e vede pure la sua mano destra davanti a sé con lo stesso smalto sbeccato. Contemporaneamente percepisce la sua mano destra ancora attaccata al suo braccio destro che è steso dietro, non riesce a vederlo, ma avverte come un formicolio. La macchina deve averle tranciato la mano, non sente male, sa che tra poco qualcuno la raccoglierà e la metterà in un frigo portatile in mezzo al ghiaccio, come si fa coi panini per i picnic, ha letto sul giornale che si fa così e poi un chirurgo, mago del bisturi, la riattaccherà e oplà, tutto come prima. Fanno miracoli ormai! O quasi. È a terra, e l’unica cosa cui riesce a pensare è che certamente non riuscirà a finire la sciarpa come quella di Harry Potter per il suo bambino prima dell’autunno... 162 163 Miriam Marino Clandestino I l sole accarezza di luce dorata, a quest’ora, le case azzurre di Tangeri. Bacia le cime dei minareti svettanti. Poi al crepuscolo la voce del muezzin chiama alla preghiera nella luce oscura e incantata. A casa ho lasciato i sogni, la sabbia del deserto li ha dispersi come un canto berbero di notte. Ho lasciato quello che avrei voluto fare, quello che avrei voluto essere. Sono partito per cercare un destino migliore ma non ho trovato un destino migliore. Sono un randagio. Vado dove c’è il lavoro come il cane dietro l’osso e sempre attento al piede che può sferrare il calcio. Nelle sere la nostalgia mi morde come un cane quando l’alito caldo del vento mi porta il profumo di spezie. A volte penso di tornare a casa ma non posso ritrovare quello che ho lasciato. Il me stesso che ho lasciato. Indico il mio paese sulla carta geografica, lo guardo da lontano. So che l’ho perso quando sono passato per la strada obliqua che conduce ad un esilio racchiuso nell’anima che m’impedisce di tornare anche se torno. Spaesato, straniato, qui come sulla terra da cui sono partito. Non mi sembrerà più uguale il profumo del pane, il mio cuore è diventato una terra straniera. Sempre di passaggio sopra il mondo, non ho più casa e casa è dovunque. Parto ogni volta che finisce il lavoro e ogni volta lascio un pezzo del mio cuore. Il mio cuore è ormai sparso dappertutto nel mondo. 164 165 Nadia Mariz Cartolina dal fronte “N ikolajewka, 21 gennaio 1943. Mia amata Nina, non un istante sfugge al tuo pensiero e tutto abbellisce ed ogni dolor sconfigge. Le sorti sono incerte ma il mio desiderio è di riportarmi a te e in cuor mio so che il buon Dio si ricorderà di me nel momento del bisogno. Sempre tuo. Cirillo”. Tra le sue mani la cartolina aveva il valore di una reliquia e una piccola foto sgualcita l’accompagnava in ogni preghiera. La guerra era ormai finita, nessun’altra notizia era sopraggiunta e il suo nome compariva nella lista dei dispersi. Lo sfollamento l’aveva costretta lontana da casa. Ora vi era tornata. Nessun vetro era rimasto intatto. Mancavano la luce e l’acqua. Quel poco che era riuscita a mettere al sicuro era ancora lì: pochi tegami, una coperta, fogli di giornale e l’abito da sposa. L’anello l’aveva consegnato al Duce, e non era più quello. Ormai da mesi i treni restituivano i soldati liberati dai campi di concentramento e sui binari assisteva agli abbracci tanto sospirati, o a chi, come lei, se ne usciva, sola. I centri di assistenza profughi accoglievano quanti giungevano a piedi, ma tra loro, certo, non lo avrebbe riconosciuto. Teneva per sé la sua tristezza. Ognuno, per sé, ne aveva tanta. Ogni giorno terminava nel silenzio, accanto ad un piccolo lume. Aspettava, pregava e piangeva. “Nina, Nina, la venga giù, presto, il suo Cirillo. Nina, Nina, il suo Cirillo è tornato”. Non furono le grida a destarla e neppure sentir ripetere tante volte il suo nome, ma i loro nomi, insieme. 166 167 Carlo Martinelli La canzone perfetta I colleghi, all’Università, lo avevano preso in giro. Rinunciare ad un comodo viaggio aereo che in un paio d’ore lo avrebbe portato a destinazione, per scegliere invece uno scomodo trasferimento in pullman. Che storia era mai quella? Ma dal finestrino del treno vedeva il mondo venirgli incontro. Docile, colorato, apparentemente accomodante. Scorrevano strade, vasti prati, campagne coltivate, stazioni di rifornimento, case in legno, caseggiati anonimi, giardini, depositi di carta riciclata, scuole e centri commerciali. Si muovevano uomini e animali, automobili e altri treni. Da studioso della musica popolare qual era, si chiedeva quali canzoni avrebbero mai potuto ispirare quei panorami in movimento, quei fondali di vita vera. Sì, gli aveva fatto piacere l’essere stato invitato a quel convegno e ancor più lo solleticava la sfida che lo aspettava. Certo, appariva un po’ modaiola e certamente strizzava l’occhio ad una spettacolarizzazione inconsueta per un appuntamento di ricerca e studio, ma poco importava. Sapeva che ciascun intervento – il suo avrebbe analizzato il rapporto tra i movimenti sindacali degli Anni Venti del secolo scorso e le protest songs –, sarebbe stato accompagnato dall’esecuzione di una canzone che ogni relatore era tenuto ad indicare come unica, imperdibile, seminale. Lui l’aveva scelta subito, d’istinto. E quel viaggio in pullman glielo aveva confermato. This Land is your Land. Questa terra è la tua terra. La canzone perfetta. 168 169 Maria Grazia Masciadri Punti di vista -B alù, sei una meraviglia! – esclamò la signora con passeggino. Testa tonda grossa, zampe ampie, coda vivace, morbido biondo rosato come sabbia corallina il pelo. L’aria ancora fresca di un mattino di luglio, sul Lungoleno solo le nuove coppie dei nostri giorni: cane-padrone, badante gentile-anziano rassegnato, nonna-nipotino. La bimba e il cucciolo si annusarono per pochi secondi; lei voleva toccarlo, lui la mordicchiò. I merli lì intorno inchiodarono l’istinto del piccolo labrador in ferma e la nipotina perse le attenzioni del cane. — Balù gioca come i bimbi... vedrai lo incontreremo ancora! – cercò di consolarla la nonna. Il sole cominciava a farsi sentire; il fiume continuava a cullare le anatre e forse anche le trote. La bambina sognò nuovi incontri con merli, piccioni e cuccioli; la nonna ripensò ad un freddo mattino di giugno. Di buon’ora al portone dell’agenzia delle entrate per vincere uno dei tre appuntamenti giornalieri, osservava i rari passanti tutti tirati da un guinzaglio: occhi bassi, aria circospetta semmai il loro cane avvertisse un impellente bisogno. — Ma, accidenti, proprio qui, davanti a tutti... Dal marciapiede un acido commento a bassa voce: — ’Sti cani tienili a casa tua, non a sporcare sul suolo pubblico; non è mica terra tua! Il cane abbaiò di rimando: — Terra tua, Terra mia: non sarà di tutti? Uomini, cani, fiori, alberi, sassi? La Terra sorrise: — Calmi, io sono qui, siete tutti miei. 170 171 Rita Mazzon Il colore dei ricordi U n sentiero di ghiaia bianca spacca il verde. Una linea tremolante divide il cespuglio dall’erba bagnata di rugiada. Una casa di mattoni ha un’unica finestra accesa. La luce gialla unge i muri rugosi, dove l’edera grida. Il cielo si fa scuro. Spaventa i sogni che facevo da bambina. Volevo volare sopra le stelle, ma troppo piccolo era il mio paese per ricamarci sopra l’infinito. La salita si inerpica, poi perde fiato per arrestarsi in quattro case incollate per non sentirsi sole. Il campanile sgomita tra i tetti. Chiede un silenzio di preghiera. Sullo sfondo la montagna gli risponde. Abbraccia il paese e tace. Questa è la mia terra. Giace incontaminata nei miei pensieri. Ho sempre avuto paura che fosse cambiata, così non sono più tornata a rivederla. Volevo rimanesse pura nell’ingenuità di me bambina. La mia terra è qualcosa di prezioso che spazia oltre il tempo. Mi ha visto nascere e mi sopravvi- vrà anche dopo. Mi mancano le zuppe calde di mia madre e la mano forte di mio padre. La mia terra è lo stupore e la continua scoperta dei miei sensi. Il profumo della campagna, le zolle che hanno l’odore delle stagioni. Non ho chilometri da percorrere, mi basta andare nello studio. Appesi alle pareti stanno i quadri dipinti da mia madre che ritraggono il mio paese. Le tele risvegliano i colori. Il pennello intinge dalla tavolozza della memoria i ricordi. Si piallano le rughe. Il tempo non ha più la forza di deridermi, perché ora sono nella mia terra assieme ai miei cari. 172 173 Marta Minervino L’ albero solitario E ro solo una piantina quando mi hanno strappato alla mia terra. Alla mia casa. Ai miei amici. Mi hanno trapiantato in un luogo sconosciuto, poi in un altro e in un altro ancora. Ho navigato mari e valicato monti. Ho attraversato boschi e praterie col sole e le tempeste rinunciando a sogni e desideri. Ogni volta ho ricominciato e ogni volta ho perduto qualcosa strada facendo. Ora sono un albero vagabondo e solitario che ha collezionato una serie di fallimenti. Che ha visto morire la speranza di un verde futuro in cui affondare le radici e riprodursi. Un vecchio tronco cavo che soffre di tenerezza e agogna ancora una fissa dimora. Là in fondo due filari di cipressi felici e affiatati solleticano la mia curiosità: si capisce che sono nati e cresciuti insieme; accoglieranno mai un randagio come me? Uno che ha già dato tutto e non ha più nulla da offrire? M’incammino, strascicando i monconi doloranti, li raggiungo e chiedo asilo. — Qui c’è posto per tutti – rispondono tranquilli, facendo oscillare le cime con una lentezza esasperante. Varco il cancello e cerco un buco libero: un minuscolo lotto di terra in cui sistemarmi definitivamente. Sono sicuro che nessuno verrà a reclamarmi. Questa volta ci faccio sopra una croce e non mi muovo più perché ho trovato finalmente un posto al sole... ho trovato la terra mia. 174 175 Armando Mondin Tra cielo, terra e acqua C omincia dal cielo e poi dalle montagne. Corre prima in leggera discesa, poi sempre più forte fino a diventare fiume che sbocca sul mare nostro. Qua l’acqua dolce si mescola con quella salata tra misteri e giochi d’onde mentre tutto si compie. Acqua e terra emergono e scompaiono e fioriscono di fiori violetti verso l’incomprensibile. La strada è percorsa mentre sempre più vicino appare qualcosa d’incredibile: una città sospesa sul mare, bellissima colorata di bianco, verde e oro. Navi e barche vi navigano dentro e attorno. Un leone alato domina in una piazza dove tutto assomiglia alla favola cercata, alla sfida vinta. Dove tutto è unico d’incanto e noi stessi figli di Dei e Anguane ci stupiamo ubriachi di fantasie raggiunte. Un uomo vestito di rosso primeggia sul Bucintoro, seguito da un numeroso imponente corteo di barche che si fermano in religioso silen- zio di fronte alla chiesa dove sta il protettore dei naviganti, e gettando in mare un prezioso anello recita: “Noi ti sposiamo, mare. In segno di vero e perpetuo dominio”. 176 177 Noemi Nappo Vedi Napoli e poi muori C amminavo lentamente nell’aria di mare che arrivava fin qui, alla salita di Posillipo. Vedere le case costose e gli alberghi raffinati del quartiere mi fece sospirare. Scendevo senza alzare lo sguardo sul mare a tratti nascosto dai palazzi, chiudendomi nei miei pensieri nell’aria fresca della notte. La città simile a un presepe ha sempre avuto luoghi più rumorosi, più poveri e più nascosti: i cosiddetti bassi, così lontani da quella Napoli da cartolina che vedevo in quel momento! Arrivai a una piazza che affaccia sul mare, prima del porto. Tolsi le mani dalle tasche e mi appoggiai alla ringhiera, respirando a fondo l’aria carica di salsedine. Nonostante il quartiere signorile, di giorno era usuale vedere scugnizzi fare il bagno vicino agli scogli. Di notte non c’era nessuno, e l’infrangersi delle onde mi rilassava. Tornai a camminare, fermandomi di tanto in tanto a guardare le barche stanziate nel por- to. Ecco come l’ombra di Napoli si mostrava, con una barca da pescatore ormeggiata vicino a uno yacht. Chiusi gli occhi, pensando alle viuzze in cui sono cresciuto, ai cosiddetti quartieri difficili. Li riaprii, pentito. Ero lì per godermi il panorama da cartolina, quello che cancella ogni male, non per pensare. Tornai a guardare il mare, chiedendomi come fosse possibile per l’uomo rovinare una città così bella. Com’era quel detto? “Vedi Napoli e poi muori”, già. Alzai lo sguardo sul Castel dell’Ovo, tinto dalle prime luci dell’alba, e capii il perché. 178 179 Fabio Novel Fabio Novel Athdeu1 Athdeu (Traduzione in albanese di Rikard Shamo) -S brigati, cazzo! Quelli non ci aspettano. — Sì, sì! Arrivo. Si rialza, infila in tasca il sacchetto riempito di rena umida e scatta con tutta la rapidità dei suoi vent’anni. Corre nella notte, verso il mare troppo mosso, verso una scommessa che ora gli fa paura. Quando il gommone si tuffa nelle tenebre, serra le palpebre… — Dule, svegliati! Sono qui. – È Vana, sua moglie, a scuoterlo dall’accogliente abbraccio domestico della vecchia poltrona. La sua famiglia, è già arrivata. L’amato nipotino è il primo ad affacciarsi sulla soglia. — Hajde këtu biri imë2 – lo invita Dule, allargando le braccia. — Baba3, è inutile. Te l’ho già detto. Non ti capisce. Non l’ha imparato. – Fa suo figlio Sokol, 1 La terra del padre = patria. 2 Vieni qua, figliolo. 3 Papà. 180 -N xito dreqin! Ata nuk na presin. - Po, po! Mbrita. Ngrihet, fut ne xhep qeskën e mbushur me rërën e lagur dhe fillon të vrapojë me gjithë shpejtësinë dhe forcën e tij 20 vjecare. Vrapon nëpër natë, në drejtim të detit plot dallgë te shkumuara, në drejtim të një të panjohure që “tashmë” është e frikshme për të. Kur gomonia futet në mjegullën e dëndur, mbyll fort qepallat… — Dule, zgjohu! Erdhën. – Është Vana, gruaja e tij, që e përmënd nga përqafimi i ngrohtë i kolltukut të tij të vjetëruar. Familja e tij, familja e tij e bukur, mbriti. Nipçja i tij i dashur është i pari që kalon pragun e derës. — Hajde këtu nipçe të marsha të keqen – e thërret Dulja duke zgjatur krahët në drejtim të tij. — Baba, është e kote. Ta kam thënë. Nuk të kupton. Nuk di shqip. – I thotë i penduar, djali i tij, Sokoli. Dulja psherëtin. Shikon përreth. Shtëpia e tij, 181 accondiscendente. Dule sospira. Si guarda attorno. La sua casetta, frutto di duro lavoro. Poi Vana, la donna di una vita. Sokol, che ha portato alla laurea. Sua nuora Lisa: un’Italiana. E Marco, otto anni; che, a parte quattro parole, l’albanese non lo sa proprio… Sotto gli sguardi perplessi dei familiari, Dule si alza con un mugugno. Toglie dallo scaffale quel vasetto trasparente per lui così prezioso: contiene la sabbia dorata di Valona, quella manciata d’Albania che lo accompagna da cinquant’anni. Va in giardino, ne rovescia metà tra le siepi. Affonda la mano nel suolo bruno per riversarne parte nel contenitore. Lo scuote, si ricorda delle sue notti da barman, per secondo lavoro. Poi rientra in soggiorno e rimette a posto la sua terra. E si apre a un ruvido sorriso. frut i punës e tij, të rëndë. Pastaj Vana, gruaja e tij e jetës, Sokoli, që mezi arriti ta çojë deri në diplomim, nusja e tij, Liza, italiane. Dhe se fundi Marko, tetë vjec, që me përjashtim të katër fjalëve, shqipen nuk e di fare... Nën shikimet e cuditura të familjarëve të tij, Dulja ngrihet duke mërmëritur. Merr nga rafti një vazo transparente që për të është aq e vlefshme, e cila mban rërën e artë të Vlores, atë grusht dheu nga Shqipëria që e shoqëron që prej pesëdhjetë vjetësh. Niset drejt kopështit dhe hedh gjysmën te shkurret. Gërmon me dorë në tokën e murme për të hedhur një pjesë në vazo. E tund, e i kujtohen netët e punës si banakier, që bënte si punë të dytë. Pastaj futet në dhomën e ndënjes dhe e rivendos në vendin e duhur “Tokën e tij”. Papritmas në fytyrën e tij e rrudhosur nga jeta shfaqet një buzëqeshje e lehtë kënaqesie. 182 183 Rahma Nur Rahma Nur Le radici nascoste in me Xididdada dhaxdeeyda ku qarsoon (Traduzione in somalo di Angelo [Abdiaziz] De Luca) V edevo solo nuvole bianche, soffici, un sole accecante; il rumore continuo dell’aereo che mi trasportava. Avevo solo cinque anni, se avevo paura di volare non me lo ricordo; forse in quel momento la curiosità e la novità erano le uniche sensazioni che occupavano il mio cuore e la mia mente, non avevo coscienza di dove andavo, né da dove venivo. Non c’era un parente, una mamma, ad accompagnarmi in questo volo. La mia unica “amica” era una hostess gentile, bionda, bellissima ai miei occhi di bimba africana, che ogni tanto veniva a controllare se stavo bene, se avevo bisogno di qualcosa: ma in quale lingua comunicavamo? La lingua universale dei gesti, la lingua di una donna e di una bimba, l’essenziale. Le mie radici erano state strappate bruscamente dalla terra che mi aveva vista nascere, ora me le portavo dietro, nascoste dentro di me ma allo stesso tempo visibilissime per chiunque: erano lì 184 W axaan u jeeday caad cad, fudeed, qorax indhaha kaa cawireeyso, dhawaaq, aan istageen oo ka socdo dayaaradda i waddo. Waxaan jiray shan sano kaliyo, haddan ka cabsanaayi dulitaanka ma aan xasuusto, lakiinse waqtigaas, ku dimisteeyda waxaas cusub waxeey ila ahaayeen wax wadnaheeyga xil saarayo, iyo maskaxdeeyda ma aan garaneynin, meesha aan u jeedo iyo meeha aan ka imid. Dulitaankaan wax aan wahashanaayo hooyo iyo waalid ahaan ma ila socon. Wax aan saxiib iyo wahal ahaan u haastay waxey aheed gabadha ka shakheeydo dayaaradda ‘hostess’, oo aad u macaan, qurax badan tima cas indhabeega gabar yar oo afrikan ey ila muuqatay oo mar allale iga soo kor meereysay. Luqadda aan isla hadleyni ayaa dhibaato leheed, midda kaliyo luqadda summada. Waddanka aan ku dhashay kuna soo koray, a185 nella grana delicata e liscia della mia pelle, nei soffici ricci che contornavano il mio viso, nelle parole che a stento uscivano dalla mia bocca per timore e timidezza in una lingua che presto avrei dimenticato, nel cibo che aveva riempito il mio piccolo stomaco nei primi anni della mia vita. Quelle stesse radici, di lì a poco, sarebbero state accolte da una nuova terra, fertile ma dura allo stesso tempo; avrebbero faticato ad aggrapparsi al terreno ma non a trovare nutrimento: la storia, la lingua, i sapori, le idee avrebbero subito iniziato il loro cammino vorticoso nella mia anima. yaa leyga soo cirib tiray, hadda wey ila socotaa, dhaxdeeyda ayeey ku kharsoontahay xil darradas ley galay. Qof kastana akhoonsan karto hadduu i daawado korkeeyga jilacsan ayeey ka muukhataa timaheeyga fud fudud oo wijigeeyga salaaxayaan, hadallada oo afkeeyga yar xishoodka iyo cabsida ka soo baxaayeen, oo waqti dhaqsi leh aan ku ilaawi doono. Cuntada oo caloosheyda yar buuxiday, sanadaha yaranteeyda oo nolosheyda iyo xididdada aan ka soo as asmay si deg deg, dhul aan garaneynin ayaa i soo dhaweyndoono oo aad u adag la qabsigiisa. Isla waqtigaasna aan aad u dhibtoon doono. Lakiinse aan ku dheef heli doono, sheekada, luqadda, dhedhenka, fikradda dhaqsi nolosheyda la qabsan doonto. 186 187 Gloria Odorizzi Gloria Odorizzi Quando ero giovane Conti de cando ero giona (Traduzione dal ladino noneso del primo ’900) N ell’agosto del 1948 mio padre decise di trasportare la sua famiglia composta da mamma, papà, mia sorella di 14 anni e me di anni 9, dalla grande città di New York a Sanzenone di Tassullo in Trentino. Sanzenone è il paese nativo di mio padre e di mia madre, ambedue avevano ancora mamma e papà e tanti fratelli e sorelle. Questa era veramente la loro terra e divenne rapidamente anche la mia terra. Mi ricordo che in casa non avevamo l’acqua corrente, io dovevo andare alla fontana con i ciasedrei1 e portare l’acqua in casa. Mi sono fatta ben presto delle amichette con le quali giocavo ai sesseri2 e ballavamo il lindy. Dopo il rosario nella piccola chiesetta, andavamo a passeggio verso il castello Valer e cantavamo a viva voce. Che bello! In settembre, siccome non parlavo bene la lin- 1 Secchi. 2 Biglie di terracotta. 188 E n agost del 1948 me pare l’a decidest de portar la so familia, papà, mama, me sorela da catordez ani e mi da nof, da la granda cità de Nova Iork a Sanzenon, Tasul, Val Di Non, Trent. Sanzenon l’è el paes endo’ che i è nati tuti doi e endo’ che i giaveva ancor mama e papà e tanti fradei e sorele. Ben prest la so terra l’ai deventada la Mia Terra ancia. Me ricordi che non giaveven l’aca en ciasa e l’era el me mester de nar a la fontana e portarla su coi ciasedrei. Ben prest me son fata dele amiche e giugiaven ai sesseri e balaven il lindy. Dopo el rosari ala glesietta, naven a spas fora al ciastel Valer e ciantaven! Che bel! En setember i ma mandà a scola, ma perché non parlavi ben el bon talian, i ma metu mez an en seconda clas e mez an en terza. L’è stá en ben per mi, ma mi eri pu granda che la maestra. 189 gua, hanno deciso di mettermi in seconda classe per cinque mesi ed in terza per gli altri cinque. È stato un bene per me, solo che ero più grande della maestra. L’anno successivo ho fatto l’esame per entrare nelle Medie a Cles. Per tre anni ho fatto i 5 chilometri da Sanzenone a Cles due volte al giorno con una vecchia bicicletta. Superate le Medie, ho poi frequentato le Magistrali al Collegio Sacro Cuore a Trento per quattro anni, finendo con un diploma di Abilitazione Magistrale. Nel 1960 sono ritornata a New York e nel 1964 ho sposato un giovane di discendenza tirolese di Montreal in Canada dove vivo tutt’ora. Ritorniamo spesso nel Trentino per visitare i parenti con i quali parliamo ancora “el nones da sti ani” con loro grande sorpresa e divertimento. L’an dopo son nada ale scole medie a Cles per trei ani. Giavevi na vecla bicicleta semper rota e favi sinch kilometri a nar e sinch kilometri a nir tuti i di, ancia en invern. Can’ che ho finì le medie son nada a Trent al Colegio Sacro Cuore a far le magistrali per cater ani per deventar maestra. Appena finì son tornada a Nova Iork dove ai ensegnä per cater ani en ingles. Nel 1964 me son sposada con un tiroles canades e son venuda en Canada e son ancora cì a Montreal. Nan spes nel Trentin a veder le nosse montagne e i nossi parenti che resta. I ne fa parlar el nones da sti ani e ridono perché el nos, non l’a cambià da sento ani. 190 191 Laura Oreglia Terra d’ombra D a qualche giorno mamma s’è aggravata. Come se aver soffiato sulle “ottanta” candeline della torta avesse anche significato spegnere memorie e cancellare storie. La sua vita. Le mostro alcune foto di lei per risvegliarle ricordi. — Vedi? – le dico. – Qui sei a Bene, in Piemonte, dove sei nata. Ci sono la tua mamma e i nonni. Annuisce, ma non sembra capire. — Qui sei a Pietra Ligure. E questa è Milano. Ricordi? Dove hai lasciato tutti i tuoi giocattoli quando i tuoi genitori si sono trasferiti a Sestri Levante. Avevi sei anni ed eri tremenda. — Vedi? Vedi che io non ho mai avuto una mia terra? – Piange come si fosse perduta in un bosco. I nomi la confondono piuttosto che aiutarla. Ma io ricordo la nostalgia con cui parlava del paese natio o dell’amichetta di via Giambellino. Per anni ogni ritorno a Sestri, in vacanza, erano lacrime ed emozioni per una gioventù e un passato ormai perduti. — Ma la casa di Grumo te la ricordi, vero? Ci sei stata quasi trent’anni. Le tue amiche e le vicine. Il tuo orto. — L’orto era di papà. – Precisa. Non le dico che la terra è di chi la abita. Di chi la ama e la fa vivere. Non capirebbe. — E poi, qui a Palù, ci sei ben stata bene. Dicevi sempre che, finalmente, avevi messo a dimora le tue radici. — Ho vissuto in molti posti ma questa, infine, era la mia terra. – Pare stupita. — Sì, mamma. Sei stata in molti posti, ma qui eri felice. Amata. Sorride, inseguendo un suo pensiero già lontano. In una terra d’ombra, dove io non sono ammessa. 192 193 Riccardo Ozog Francesconi Vorrei poterti chiamare... R aggiunsi a stento quella che i miei pensieri chiamavano terra mia. Quelli stessi pensieri che attraverso gli occhi avevano visto asfalto, sassi, acqua negli interminabili giorni di viaggio tra fortuna e speranza. Con la vista del cartello stradale s’aggiunse ai miei pensieri quel sussurro che mi accarezzava con le parole: “terra mia”. Camminando mi lasciai avvolgere completamente dai profumi della terra mia, quelle dolci carezze al cuore ora riscaldato, felice. E soffiò il vento, come schiaffo freddo, al grido di abitanti di quella terra ora anche mia. D’insulti lungo il viaggio tra le condizioni peggiori e disumane ne avevo ricevuti tanti ma i graffi delle voci che venivano dalla terra mia facevano male. Mi ordinavano di tornarmene nella mia terra, nella mia terra da dove ero venuto, di andare via dalla loro terra. Ascoltando quei pugni alle mie speranze, ai miei sogni, tornarono i pensieri, ora confusi, pieni di domande. Era un sovraffollarsi nella mente delle parole terra mia terra mia terra mia che si sovrastavano urlando: Terra mia. Ero partito perché dove ero nato non volevano fosse terra mia, avevo percorso migliaia di chilometri con il sogno d’una terra che mi appartenesse un poco, la avevo raggiunta, ma mi aveva respinto. Terra mia terra mia terra mia. Dove sei, terra mia? E quel latino che diceva: “patria est ubicumque est bene”, chissà se lui aveva una terra che poteva chiamare: “terra mia”. 194 195 Luisa Pachera 14 agosto 1914, venerdì A ll’ombra di un salice dalle lunghe fronde, guardo l’Adige scorrere oltre il confine. Nessun filo spinato lo trattiene, nessuna sbarra lo rimanda indietro, l’acqua saltella, si gira e passa oltre. Con mano lenta e ferma, strappo l’erba che mi sta accanto. È giunta l’ora e devo andare, pochi minuti e sarò lontano. Dalle vigne alle mie spalle piangono grappoli pesanti, grossi grumi di lacrime rosate che l’aria del fiume non riesce a spostare. Dicono che torneremo presto, che l’imperatore ci ama e non ci terrà lontano, che l’onore e la gloria saranno nostri in un baleno. Raschio il suolo con la punta di un ramo spezzato e mi chiedo se sarò di nuovo qui per la vendemmia, per riportare le vacche dall’alpe, per riprendere una vita che fino a ieri mi sembrava spenta. Scavo e, poco alla volta, il terreno si muove, respira. Raccolgo piccole pietre e le lancio sul- la cresta del fiume. Alcune rimbalzano, altre sprofondano nel verde dell’acqua e spariscono. Cosa sarà di me e di chi salirà con me sul treno? Rimbalzeremo? Sprofonderemo e spariremo? Nessuno sa dove siamo diretti. Dicono che andremo a nord, ma il mio nord si ferma all’orizzonte. Scavo e mi chiedo se esiste un nord più a nord per cui dovrei morire. Nella casa che ho appena lasciato, trovano spazio i miei punti cardinali. Lì c’è tutto quanto serve alla mia vita. L’aria è trafitta da un fischio lontano. Mi scuoto e mi alzo, infilo lo zaino e mi avvio. In tasca, stretta nel caldo del mio pugno, porto con me un po’ della mia terra. 196 197 Morena Pedrotti Promesse violate V elia fissò una mela, selvatica come Alfonso, il suo frutto proibito. Succoso, un po’ acerbo, il cuore croccante. Occhieggiò la villa con il viale coccolato da cipressi, poi procedette nella direzione opposta. Due passi e una Berberis la artigliò. Velia strappò le bacche rosse di passione, le imprigionò, le stritolò e osservò il liquido colare fra le dita. L’avrebbe ingerito, se l’avesse aiutata a morire. Si accasciò sotto il cespuglio di crespino e verso l’orizzonte colse filari di viti e alberi opulenti. E sarcasmo nel ricordare che le parole di Alfonso l’avevano trasportata in un miraggio con campanelli gialli a sussurrare una melodia per irretirle i sensi. Una passione consumata su un letto odoroso di timo con le dita conficcate nel terreno a scaricare l’ardore dell’amplesso. La tenuta di Alfonso aveva aperto le braccia e ricevuto i loro corpi, aveva promesso l’incanto e adesso suggeriva pensieri di morte? Quelle zolle umide, accoglienti come una Madre si erano strette a incrostarle il corpo e a imprigionarle lo Spirito. Mi ha reso culla per un figlio destinato a essere soltanto un errore. Lacrime lacerate per rigettare quel destino che le aveva digrignato un “Vattene!” Velia gettò le bacche, lasciò tracce di sangue sulle foglie e se ne andò, terra fertile, ma bastarda. 198 199 Marinette Pendola Omaggio alla moribonda -G ira a sinistra! – ti ho detto indicandoti una stradina bianca. — No! È la prossima, là dove c’è la diga. È vero. Nel frattempo hanno costruito una diga quasi dietro casa. Abbiamo percorso qualche chilometro sollevando nuvole di polvere. Ci siamo inerpicati per la collina perdendo di vista la strada asfaltata. Dopo una curva, ho creduto di vederla. — Eccola! – ti ho quasi gridato. — No! È quella dei vicini. La nostra è prima. Prima dove? Non vedo nulla, solo cespi rigogliosi e una siepe magra che punta verso il cielo. Dopo una curva, all’improvviso, hai fermato la macchina. Eccola lì, la casa dell’infanzia. Smarrita fra i cespugli, senza porta, senza finestre, senza tetto. Una moribonda che ancora resiste al vento, in attesa, forse, di un gesto d’amore che le dia nuovo vigore, come una vecchia nella speranza di una carezza. 200 Ho varcato la soglia. Calpestando calcinacci e tegole, mi sono fermata in mezzo alla sala. Ora tutto è piccolo e vuoto. Dovrei andarmene chiudendo gli occhi per serbare in me i tesori dell’infanzia finché la memoria mi è amica. Invece guardo, oltre la finestra, la distesa degli ulivi piantati dal babbo, ancora giovani, ed io quasi vecchia. Esco. Di fronte a me, oltre i campi nudi, la montagna azzurra chiude l’orizzonte, serena ed eterna. Come un tempo, acquieta a un tratto i tumulti dell’animo. Tutto passa. Tutto è passato già. Rimangono solo le parole che caparbiamente scrivo, giorno dopo giorno, per raccontare, per rivivere. E resistere. 201 Snežana Petrovic Снежана Петровић Il paese che non c’è più ЗЕМЉА КОЈЕ ВИШЕ НЕМА (Traduzione dal serbo) I У l mio paese non c’è più. È morto per via delle ferite riportate nell’ultima guerra. È sopravvissuto a molte invasioni straniere, ma non è sopravvissuto alla guerra civile. I suoi cittadini erano brava gente di nazionalità e mentalità diverse, ma uniti dall’amore per il paese in cui erano nati e cresciuti. La guerra che ha distrutto il paese non era voluta da loro, era pianificata e provocata dai potenti del mondo. Questo paese non c’è più. Per un periodo davanti al suo nome si scriveva “ex”, come davanti al nome di una persona morta si usa il “fu”. Dopo breve tempo il suo nome è scomparso del tutto, sostituito dai nomi delle sue Repubbliche. Mi trovavo costretta a sostituire il mio paese con una delle Repubbliche, proclamate Stati indipendenti, ma si trattava di un’impresa ardua, perché i miei genitori erano di nazionalità diverse, io stessa sono nata in una Repubblica, cresciuta in un’altra e mi sono sposata in una terza; e le amo tutte quante. мрла је моја Земља. Умрла је од рана задобијених у последњем рату. Преживела је многе нападе страних непријатеља, али није могла да преживи грађански рат. 202 203 Имала је све оно што чини лепом једну Земљу: прекрасно море, високе планине, језера и бање, реке и речице међу таласастим брдима, шуме пуне дивљачи... Њени становници су били добри људи, разних националности, менталитета и вера, којима је била заједничка љубав према Земљи у којој су рођени, у којој су одрасли и коју су градили. Они нису желели рат. Рат који је унишио њихову земљу изазвали су светски моћници. Та земља више не постоји. Када је о њој било речи, говорили су «бивша», као када умре човек што се каже «покојни». Њено име је брзо ишчезло, не помиње се више. Замењено је именима њених шест Република. Морала сам да одлучим којој ћу припадати, али то је било немогуће: моји родитељи су били различитих националности, рођена сам Alla fine me ne sono andata, come molti altri, orfani come me dal paese d’origine: sono stata adottata dall’Italia. È una brava matrigna, ma non potrà mai sostituire una mamma, una mamma che non c’è più. у једној, одрасла у другој а удала сам се у трећој Републици, а волела сам ту Земљу - целу. Када је умрла отишла сам, као многи који су остали без Ње. Мене је усвојила Италија. Она је као добра маћеха, али никада неће моћи да ми замени Земљу мог порекла, као што нико не може да замени мајку које више нема. 204 205 Biagio Proietti Il ritorno M i avrebbe accolto la banda, allegra, colorata, rilucente di ottoni quando sarei tornato nel mio paese, dopo gli anni vissuti in esilio, per fuggire da odi e rancori che sapevano di morte. Ricordi e rimpianti mi hanno fatto superare paure ataviche, spingendomi a ritrovare le mie radici. Sono tornato, sicuro che il tempo abbia cancellato il passato. Ora, sono un uomo nuovo. Dei vecchi amici non ho ritrovato nessuno, la banda non è venuta ad accogliermi, il silenzio è un messaggio. Uomini vengono incontro, mi separano dalla folla. Uno di loro mi sferra un colpo così violento da farmi cadere a terra. In un lampo svanisce la felicità per aver rimesso piede sulla mia terra, tanto desiderata. Che ho trovato cambiata: enormi, brutti palazzi hanno invaso i campi verdi, che diventavano gialli quando il grano era pronto per la mietitura. Non è più bella la mia terra, è violenta e feroce. Come i calci che squarciano il mio povero corpo, la nebbia scende nei miei occhi che non riescono a restare aperti, pensieri si affollano nella testa che continua a sanguinare. Troppi uomini intorno a me, in silenzio continuano a colpirmi, con violenza, senza la passione dell’odio, un lavoro gelidamente professionale. Provo a sottrarmi a questa furia cieca, scivolo sulla terra calpestata, sporca del mio sangue, che ha un sapore sgradevole, fa venire voglia di vomitare. Con la faccia finisco dentro la polvere, la bocca si riempie di terra: è la mia terra a soffocarmi. L’ultimo pensiero, prima di morire. 206 207 Giuliana Raffaelli Andar per valli D ove s’innalza un fumo crepita un fuoco, dove si stende una valle scorre un torrente, il torrente diventa fiume, e fiume e valle, legati nella genesi, sono sovente anche legati nel nome. Racconto del Trentino-Alto Adige circondato da foreste di rocce: le splendide Dolomiti. Penso a ciascuno dei picchi come controfigure della Torre di Babele: là il sogno di onnipotenza dell’uomo, qui torri misteriose discese dal cielo. Le abita e le pervade il silenzio. Terra di leggende, di città e borghi antichi, di castelli che recuperano atmosfere perdute e voci dimenticate. Luoghi abitati da un genio il cui spirito vive ovunque, nelle case, nei giardini, nei cortili, nelle chiese, nella natura e nell’ambiente, anche quando l’uomo li abbandona e poi li fa rivivere. Si avverte nel verde di un prato, in un fiore, in un suono qualcosa di familiare, di affine. È questo genio del luogo che qui vive che vorrei poter cogliere. Vado dove il vento mi porta e la mia identità altoatesina e trentina mi suggerisce: trasferisco me stessa dalla Bolzano bagnata dall’Isarco alla dolce Vallagarina affiancata dall’Adige tra il verde degli alberi. Il giorno è azzurrato dall’estate ancora dolce d’accenti, e l’atmosfera sa di quegli aromi che sono propri al fieno e sanno farsi spezie, alta la luce. I seminatori di pane sono tra noi, perseguono comunione d’intenti con la Madre Terra. Qui il dolore s’incontra con la gioia, il fiato riprende. Di dentro, si sente il suono dell’erba che rinasce. 208 209 Giorgio Ragucci Brugger Terra, terra! T erra, terra! Un urlo seguito da un gesticolare convulso, l’uomo di vedetta si sbraccia, sembra impazzito, di sotto, la ciurma alza lo sguardo, ripara gli occhi dal sole, è stanca, sfiduciata. L’urlo si ripete più volte, la parola rinfranca, scaccia l’angoscia. I marinai si affrettano a prua, allungano le teste, sgranano gli occhi, trattengono il respiro. L’attesa di giorni e giorni è finita, ma dov’è la terra che non si vede? È forse quella striscia grigia lontana, un piccolo punto all’orizzonte, oppure, uno scherzo delle onde, il capriccio del sole? — Capitano, capitano! – gridano tutti, dov’è il capitano? Dalla stiva risale la scaletta, ha il passo stanco, il viso tirato... Non ha dormito, è stato a poppa l’intera notte, ha seguito il volo di gabbiani sempre in cerca di cibo e quello era senz’altro un buon segno, ha pregato il cielo, la luna, le stelle, la Madonna di Spagna, la sua regina che l’avven- tura finisca al più presto. Si fa largo tra la ciurma che esulta, raggiunge la prua, saluta il nocchiero che gli porge il cannocchiale. Il capitano lo punta dritto all’orizzonte e poco dopo esclama: — Signori, è la terra, diamo vento alle vele, tra poco avremo cibo, acqua fresca, il meritato riposo. La ciurma è in delirio. Un marinaio seguito dal compagno scende di sotto, carica il cannone, spara due bordate. Il capitano rientra nella sua stanza, annota sul diario l’evento, spia dall’oblò quanto mare lo separa dalla nuova terra: “La mia terra” – sussurra – ma non sarà mai sua. 210 211 Michela Rigotti Terra virtuale L ucia ha il pc aperto sul ventre, lo guarda mentre riapre gli occhi. Se n’è rimasto lì, un foglio word senza parole. Per lei scrivere è farsi compagnia, ma di sera, rimanere viva, spesso è pura utopia. Riprende il bandolo dei pensieri, vuole partorire una poesia. Nella nevrosi di desideri inappagati, Lucia approda su un’isola. Circumnaviga il globo internauta, traccia un embrione senza tempo. Ha scelto il titolo e cerca versi che diano valore al grappolo d’uva. È questo che ha in mente per addolcirsi la notte. Pittura acini con parole succose, nascoste fra le foglie. Delle vendemmie, in realtà, ha ricordi meno poetici. La fatica di giorni lontani nella campagna dei nonni e lo sporco appiccicoso che colava come inchiostro. Lucia ora vive in una casa angusta. L’ansia della cattività le trasuda nella ricerca del respiro dei ricordi. Si chiede che ne sia stato dei campi. Dove siano finiti i rovi di more e l’orto ordinato. Vede solo asfalto. Solo semafori e lampioni al posto dei grandi fichi su cui s’arrampicava. Lo chiede alla poesia, ma quella non le dà retta. Vomita versi maligni di tecnologia, di comunicazione evoluta, di sfacelo ambientale. All’amichevole tolleranza, alle mani che producono, contrappone sibilline strofe di solitudine, di partner virtuali. Quanto è distante tutto ciò dal suo grappolo. Il tempo è divenuto un combattere senza raccolta. Lucia lo sa, quel file senza terra, senza odori buoni del vero vivere, stanotte non la salverà. 212 213 Rossella Saltini Carapace migrante F inalmente l’avevo aperto. Due colpi di zampa, un colpo di testa e il guscio si era infranto. La luce calda e abbagliante mi colpiva. “Dev’ essere sole”, avevo detto. Le mie simili, al mondo già da qualche ora, mi avevano guardato con un sorriso amaro. Eppure il tepore della lampada mi accarezzava e dava fiducia. Avrei trovato uno stagno per immergermi e nuotare, già sentivo odore d’acqua. Felice mi ero tuffata ma mi ero incagliata subito. Decine di Trachemys Scripta sbattevano zampe e carapace in una vasca. Mi ero rifugiata sopra un legno a pelo d’acqua, da lì scendevo per bagnarmi solo quando avvertivo la secchezza. Talvolta mordevo l’acqua per afferrare residui di cibo, ma le mie simili erano più svelte e io rimanevo a bocca asciutta. Speravo in una vita migliore e rimpiangevo l’uovo che mi aveva coccolata. Un giorno erano passati. “Voglio quella sul tronco”, aveva detto il bambino. Detto e fatto. Ero fi- nita sola soletta in una vasca in plastica con palma finta. Mangiavo gamberetti e crescevo, crescevo, crescevo. Una notte avevo divelto la palma ed ero saltata fuori dalla vasca. Mi avevano trovato giorni dopo dietro il battiscopa della cucina. “Basta dobbiamo sistemarla”, aveva tuonato la mamma. Il bambino aveva pianto. Li sentivo parlare di un Parco e di un’introduzione clandestina. E lì mi ero ritrovata: avevo conosciuto un vero stagno, un vero sole, vere piante. Carapace migrante, clandestina forse, in quella che riconoscevo davvero come Terra Mia. 214 215 Emma Saponaro Il sapore dolce del Salento L acrime di pioggia rigano i vetri cupi del mio ufficio. Dieci anni sono passati da quando vivo al Nord. Da allora, malgrado tentassi di chiuderlo fuori, il gelo si è insinuato in ogni parte di me. Gente che va, gente che viene, gente che corre. Il brunch, gli aperitivi, la frenesia metropolitana che mi stordisce. A casa, la sera, chiusa la porta, il frastuono si dissolve nella malinconia che impertinente si svela e si esibisce. Il Natale ormai prossimo mi regala nostalgici ricordi, profumi mai dimenticati, sapori che stridono con pasti fugaci e distratti. Il trillo del campanello squarcia la tristezza. Sussulto, decido di allontanare il cruccio. Un pacco per me! Firmo e congedo il fattorino allungandogli la mancia. Non posso aspettare, adagio il dono sul tappeto e m’inginocchio al suo cospetto. Osservo quella scatola che mi suggerisce la provenienza. C’è ancora chi pensa a me! La apro, guardo curiosa e sorrido. Un pesce di pasta di mandorle mi rivede bambina, quando mi era dato il privilegio di scegliere la parte migliore, la più morbida e ricca di marmellata, e il diritto di mangiare l’occhio del pesce, un chicco di caffè. Li sento, ora, quei profumi. Profumo di terra rossa, quella terra che si estendeva nella campagna del nonno rivestita da ulivi. Salento, terra che mai potrò dimenticare. Un sorriso desta il torpore. Accovacciata sul tappeto svestito, mi sono persa nel suo arabesco concentrata su una improbabile figura di pesce. E il dolce della marmellata si aggrappa ai miei pensieri… 216 217 Sarcitana Un piccolo angolo... C ontinuava ad annusare e scavare ma l’uscita verso il prato non c’era più. Le sue zampe lavoravano senza sosta. Niente da fare: quel giorno era tutto tappato. Dopo decine di tentativi si stancò e si addormentò. Un rombo meccanico la svegliò poco dopo. Ebbe netta la sensazione che la sua tana stesse collassando. Le sue narici le prudevano: stava per morire soffocata. Iniziò a scavare nella direzione opposta al fragore. Via via, lontano! Si ricordò di un cunicolo dismesso scavato qualche tempo prima. Eccolo. Trovato. Via via di corsa. Il rumore diminuiva mano a mano che si allontanava ma l’odore no: quello aumentava. Via via, in fretta. Ad essere ciechi il vantaggio maggiore è quello di riuscire a correre senza l’ossessione di non vedere. Ciò che l’ossessionava davvero era l’odore a- cuto che stava impregnando il suo corpo, il terreno, l’aria. Aveva guadagnato l’uscita ma proprio in quel momento il naso iniziò a dolerle e una nuvola soporifera l’avvolse: acida e nauseabonda che le frantumava il cervello. Non vedeva nulla: era cieca come tutte le talpe. Il camion che aveva appena riversato sul prato un’intera cisterna di liquami, stava ripartendo. Lei non lo vide, ma ne sentì ancora il rombo. Il terreno in pochi istanti divenne un fetido acquitrino. Lei era lì, inebetita, immobile. Il tempo di un rantolo e rotolò su se stessa finendo dentro quella pozza. Peccato che l’autista non sapesse che la casa di quella talpa altro non era che un piccolo angolo di una casa anche sua. 218 219 Giovanna Sartori Terre diverse “E l gay saber”, c’era scritto sul foglietto. Era nel vecchio volume, il primo che aveva pescato nella sua libreria, prima di correre alla Stazione. “Ci si annoia sempre sui treni!” aveva pensato. E s’era ritrovata tra le mani il romanzo che tanto le era piaciuto ai tempi dell’Università a Bologna. E quel biglietto. La frase, in lingua spagnola, gliel’aveva scritta lui, mentre lei sosteneva l’esame di Storia Romana. Le aveva donato quel libro e s’erano arrampicati verso S. Luca, voltandosi di tanto in tanto a guardare dalla collina i tetti e le torri imponenti della città. Infine avevano trovato un angolo tutto per loro, s’erano baciati con gioia e immersi l’uno negli occhi dell’altro. Dopo la laurea in medicina, lui era tornato a Bari. Lettere appassionate, attese di nuovi incontri. Si vedevano, a Bari, una due volte al mese. Passeggiavano a piedi nudi sulla sabbia, alla voce eccitante del mare, progettando il loro futuro. Un giorno egli, serio, le disse che sarebbe andato negli USA per un corso di specializzazione. Lei approvò, coprendo con un sorriso una fitta improvvisa. Molte lettere sorvolarono l’Oceano, come bianchi gabbiani. Poi più niente. Finché seppe che lui s’era accasato là e aveva messo su famiglia. Fuggivano i campi, le piante, le case, mentre lei si chiedeva quando avesse ripreso ad amare. S’alzò e indossò il cappotto. “Signora” la chiamò un ragazzo, “le è caduto un foglietto”. Lo raccolse e lo guardò, lo rimise tra le pagine del libro. “El gay saber”, mormorò. 220 221 Marco Savarese Fuori tema L a mia Terra è uno dei satelliti del Sole che compie un giro su se stesso in un giorno e uno intorno al Sole in un anno (solare). Su di essa si è evoluto, all’incirca centomila anni fa, un primate sprovvisto di pelliccia molto laborioso che si è autochiamato Homo sapiens. Questo animale, a differenza degli altri, che ha sottomesso e di cui si ciba, possiede un cervello molto sviluppato che produce incessantemente pensiero... di solito utilizzato per giustificare, più o meno fraudolentemente, azioni di puro istinto. Da qualche secolo, con la scoperta di procedure meno fantasiose che egli ha chiamato “metodo scientifico”, la sua vita media è aumentata notevolmente mentre quella massima purtroppo è rimasta pressoché immutata a dimostrazione che il suo organismo non è fatto per durare. Malgrado ogni evidenza comunque gran parte degli appartenenti a questa specie afferma di credere di poter sopravvivere alla morte in quan- to ogni esemplare sarebbe dotato di un’anima immortale. Molti individui sono legati ai luoghi nei quali hanno passato i primi anni della loro vita e spesso a tal riguardo si dilettano nell’arte di scrivere racconti. Questo scritto dovrebbe essere uno di questi ma l’autore non è stato in grado o non ha voluto essere aderente al tema. 222 223 Barbara Scovoli Radici -G hel el dutur? – chiese il signore anziano rigirandosi il cappello tra le mani con fare inquieto. — Sì, il dottore c’è! – risposi. Il vecchietto si avvicinò alla finestra della sala d’aspetto e guardò fuori, mentre lo osservavo incuriosita, iniziai a prevedere le sue mosse; un po’ più rilassato, si sarebbe girato, avvicinandosi alla signora incinta e le avrebbe chiesto se il posto accanto a lei era libero. Così fece, esattamente con quelle movenze e quello sguardo che avevo immaginato. Poi si aprì la porta del medico, uscì una persona ed un’altra entrò, anticipai mentalmente che la signora incinta si sarebbe alzata per aspettare in piedi, con un misto di fretta e di rispetto per il medico. Arrivò un’altra signora: “Ghe tanto de spetà?”, la domanda della casalinga che deve correre a casa per preparare il pranzo. Ero sicura che si sareb- be rivolta alla signora incinta in piedi e così fu. La risposta arrivò in un coro di voci che tra l’italiano ed il dialetto lombardo dichiararono che sempre c’era da aspettare! Alcuni sorrisero e l’atmosfera si distese. Io ero tornata a casa da poco dopo un lungo soggiorno all’estero, mi ero sentita estraniata, confusa, mi sembrava di essere tornata ad una vita che appartenesse a qualcun altro; eppure, in quel momento, lì con gli altri, mi sentii di nuovo a casa. Di quella gente che parlava la lingua dei miei avi, potevo prevedere gli atteggiamenti e le mimiche facciali perché loro erano il mio popolo, quella era la mia terra e lì erano le mie radici. 224 225 Catia Simone Maggio L o specchio d’acqua adriatica rifletteva l’ombra dell’aereo in volo. Seduta accanto a un sedile vuoto, non riuscivo a comprendere la destinazione finale. E ti pensavo, mentre la lente opaca del finestrino volante, trafitto dai raggi ultravioletti e dal bagliore di un mattino troppo limpido, accendevano il mio viso e le mie lacrime silenziose, incredula e stordita per quell’addio senza un saluto. L’aereo sorvolava l’arrivo sulla campagna fertile, sul susseguirsi degli ulivi scultorei, e su quel mare dentro cui ci eravamo immerse un anno prima con le caviglie in ammollo e la lingua rissosa. Eravamo così, due nemiche a cui avevano reciso il cordone ombelicale troppo presto. Guerra e pace nelle distanze. Ma eri mia madre e questo non potevo dimenticarlo. La tavola blu scuro schiumava al passaggio delle piccole imbarcazioni, e congiungeva il passato e il presente della mia vita passata altrove. E proprio altrove ti consegnavi al cielo eterno mamma, negandomi il tuo ultimo fiato mentre le ruote stridevano sull’asfalto svegliandomi dal torpore, e il mare diventava terra e terra anche il mio cuore! Brulla, arida, lacerata dal tuo viaggio inaspettato eppure atteso: l’eternità. Lo specchio d’acqua adriatica rifletteva l’ombra dell’aereo in volo. Lo sguardo sull’etereo panorama del ritorno mi riconduceva verso una vita senza di te, madre immortale. 226 227 Mirta Slomp Mirta Slomp Il mio bosco El me bosc (Traduzione dal dialetto della Vallagarina) -B ambina mia, domani ti porto nel mio bosco per vedere e insegnarti i confini di proprietà. Partiremo presto qui dai Dossi, passeremo il Maso dell’Aria, andremo fino al forte Basso e al forte Alto, poi davanti alle vasche dell’acqua, fino ad arrivare alla calcara e alle fontanelle dell’orso. — Ma papà non è che troveremo veramente l’orso? — Una volta si diceva che l’orso veniva qui, ma io non l’ho mai visto. La giornata è proprio bella e durante il cammino mio papà mi narra storie accadute un tempo: davanti alle trincee mi racconta della guerra, poi mi racconta che doveva mangiare la polenta senza il companatico perché era difficile che arrivasse il formaggio visti i tempi di carestia. Così senza accorgercene arriviamo nel suo bosco. — Ecco, vedi bambina, qui alle fontanelle dell’orso una goccia d’acqua non mancherà mai, lì c’è un carpino che segna dove inizia il confine. 228 -P opa, doman nem fin for en del me bosc, te porto a vedere e te ensegno anca i confini. Partim bonora chi dai Dosi, pasem dal Mas de l’Aria, nem su al forte Bas e po’ al forte Alt, dentro ai vasconi de l’acqua, fin fora al calcara e ale fontanele de l’ors. — Ma papà no l’è che ghe per dal bon l’orso ale fontanele? — Na volta i diseva che el ghera ma mi no l’ho gnanca mai vist. La giornada l’ei proprio bela, en tant se camina e me papà el me conta tante de quele robe de sti ani: pasando davanti ai stoi el me conta dela guera, el me conta de quel dal formai che nol vegniva mai e so mama la ghe diseva: “En tant magna la polenta biota che quel dal formai el vegnirà!”. E così senza nascorzerne arivem en del sò bosc. — Eco, vedet matelota chi l’è le fontanele de l’orso, na goza de aqua no la manca mai, lì ghe en carpem che el segna en do che scominzia el confim. 229 — Ma papà, quell’albero resterà lì per sempre? — Certo, quello lì non lo toccherà nessuno e lì vicino c’è anche un sasso che fa da confine. Qui potrai venire e troverai sempre legna da ardere. Di anni ne sono passati e io vedo ancora le grandi mani di mio papà che tagliano la legna, per scaldare il mio cuore dai miei pensieri: vedo i suoi occhi che luccicano a vedermi qui in questo suo piccolo bosco, che tra le foglie che pitturano l’autunno, cerco, ascolto e ricordo ancora qualcosa. — Ma papà, quel alber resteralo lì per sempre? — Zerto, quel lì nol lo tocherà nesum e lì arent ghe anca en sas che l’è segn de confim. Chi te poderai vegnir e te troverai sempre legna bona da arder. De ani n’è pasà e mi ancor ancoi vedo le manone de me papà che le taia la legna per scaldar el me cor dai mei pensieri: vedo i sò oci che i slusa a vederme chi en de sto fazol del sò bosc, che en tra le foie che le ‘mpitura l’autum, zerco, ascolto e ricordo ancor qualcos. 230 231 Abdelmalek Smari Briru (Traduzione dall’arabo) “S embra ieri!” dice Wafi fra sé piegando la lettera. Gli viene in mente la risposta del contadino alla cicogna. Quale vita t’aggradi io non conosco, … t’ho catturato insieme con costoro che ai miei lavori recano gran danno. Ritorna a pensare a quando accompagnò Briru, amico d’infanzia e di cuore, che doveva andare a Parigi, alla Stazione Centrale di Milano. — Ti ricordi il tuo nome? Me lo ripeti? — Micro Bbandi. — No! Mirko Bondi! Era da giorni che Briru riprovava ma non riusciva a ripetere il suo nuovo nome. — E come si risponde, da vero italiano? — Briru. — Noo! Prego. Pre-go. Ripeti. Briru non ci riusciva, ma lo aveva ringraziato. L’amico alzò le spalle. 232 233 — Ce la farò, vedrai. — Insciallah! Era Wafi che aveva fatto venire Briru dal paese dove aveva vissuto senza istruzione – non ce l’aveva fatta – né mestiere, ma in tanta miseria, nonostante la sua voglia di lavorare. Lo stesso fallimento però lo accolse qui in Italia. — La Francia sì che è un paese sviluppato. L’amico lo rivede, malaticcio e mingherlino, sulla gru di un cantiere a Pavia: minacciava di buttarsi nel vuoto, dopo un periodo di prova inconcludente. Il capo-cantiere gli aveva dato del denaro con cui si comprò un falso documento Schengen. — A Parigi non avrai rogne con la polizia e troverai sicuramente un lavoretto da qualche algerino. Alla Gare de Lyon, Briru venne ammanettato e rispedito come una lettera al mittente. Stanco di aver camminato e pianto, si asperse di benzina, scricchiò un fiammifero e sorrise alla vita. 234 235 Andrey Josè Taffner Fraga Andrey Josè Taffner Fraga Il mio “Vecchio Cedro” El me “Veccio Cedro” (Traduzione dal trentino di Rio Cedro, Brasile) S ono nato in un bel paesello. Quando gli emigranti trentini arrivarono qui, guardando la bellezza del fiume, accompagnato dall’ombra dei cedri, l’hanno chiamato Rio dos Cedros, il fiume dei Cedri! I nonni lo chiamano Il vecchio cedro, come se fosse un vecchio amico, un porto sicuro e gentile. Con l’arrivo degli emigranti, quella che era una foresta inospitale è diventata una bella, piccola comunità. Se gli emigranti hanno lasciato le loro montagne e i loro laghi del Trentino, a Rio dos Cedros hanno trovato altre montagne ed altri laghi e così l’hanno soprannominato “Il paradiso dei laghi”. Furono costruite le case, le chiesette, il suolo è stato coltivato e ha dato i suoi frutti. I trentini hanno portato il loro dialetto, che si sentiva per la strada e in ogni casa. Hanno portato la loro musica in ricordo dei vecchi tempi. Hanno portato il loro cibo e le loro abitudini, e hanno dato un’identità alla città. Ma il tempo, che non si ferma mai, ha portato an236 M i son nat n’de na bela cita. Quando l’imigranti trentini i è arivadi, ia vist l fiume con ntorno bele piante de Cedro, ia ciamá “Rio dos Cedros”, il Fiume dei Cedri. Ei nonni ei ghe dis “El veccio Cedro”, come per riconhocer a un veccio amigo, en porto secur e gentile Quando che è rivadi l’imigranti, quel que lera un bosc vergine, l’è deventà n bel e picol postejel de viver. Se l’imigranti i ga lascià so montagne e so laghi a Trento, al Rio dos Cedros e i a trovà altri monti, e altri laghi e cosi, ei l’à ciamà “El paradis dei laghi”. Sta fat le case, le ciese, la tera le stata laorada e la dat i so fruti. L’imigranti e i a portà el so dialeto, che sel sentiva en tute le case, e en tute le strade. I a portà le so sonade, que rimeteva ai tempi de sti ani. I a portà il suo magnar, e i soi costumi de vita che i a dat la identità dela cità. Però el temp, che nol se ferma mai, l’a portà anca la vita moderna al la picola cità. Ades non se scolta pu l’bel e antico dialeto per 237 che la modernità alla nostra piccola città. Adesso, per le strade, non si può più sentire il nostro antico e bel dialetto. I canti e le musiche sono finiti, dimenticati, vivono ancora solo nella memoria dei nonni e nella nostalgia. Così vedo la mia città che agonizza e muore fra il rumore isterico e l’indifferenza dei tempi nuovi. Vedo dimenticare la sua cultura e le sue radici più profonde. Voglio dirtelo, paesello mio, anche se non posso più stare da te, tu vivrai sempre nel mio cuore e ti porterò avanti. Qui con me sarai eterno. le strade. Le cantade da’imigranti no se sente pu, le ghè sol an de la memòria dei nonni e an de la nostalgia. Così, vedo la mia bela cità agonizar e morir n tra i rumori isterichi e l’indiferenza dei novi tempi. Vedo la sua cultura e le so radiz pu profonde eser desmentegade. Ma tel digo, cità mia, che se no podo pu vivere in te, ti te sarai sempre an del mio cor, e te porterò avanti. 238 239 Anna Tava Campo metropolitano -O gnuno deve avere un pezzo di terra che sia solo suo. — Perché, nonno? — Per non perdersi. Non diceva altro. Contadino di poche parole e stringati concetti, era. Radicato nella terra del suo campo, stesso orizzonte per tutta la vita. Ma io no, io sono partito, ho scelto il mondo, le grandi città, gli orizzonti infiniti, la libertà. Il campo del nonno passò a mio padre e poi fu venduto. Non ne ebbi mai nostalgia. Fino a un certo giorno. Ci sono nell’animo trabocchetti e dentro ci galleggiano parole caricate come bombe a orologeria. Quando esplodono ti ribaltano la vita. La mia parola era terra ed esplose dentro di me in un’estate non diversa dalle altre. Solo più stanca, certamente troppo vuota. Stavo guardando dalla vetrata dell’82° piano del grattacielo vetro-acciaio di New York in cui abito e ho sentito impellente la voglia di terra. Una terra che fosse solo mia. “Perché un uomo ne ha bisogno”, ho sentito che dicevo a voce alta. Così ho comprato i vasconi, ci ho messo uno strato di graniglia, la terra grassa, un po’ di sabbia e qualche sasso. Ci ho piantato piante aromatiche, un rosaio, violette, degli alberelli. Ho iniziato a curarli consultando libri sulle coltivazioni in casa. Niente di strano, si dirà, vasi di piante e fiori. Solo che il mio appartamento misura meno di 40 metri quadrati e non ha balconi. Via il tavolo e il divano, metà spazio è occupato dalle coltivazioni. È un campo metropolitano solo mio, dove cerco di ritrovarmi. 240 241 Giorgio Tosini Da dove vieni? -D a dove vieni? — Non lo so O forse dovrei saperlo. C’era stato silenzio dopo. Il vecchio non aveva insistito a chiedere altro. Aveva distolto lo sguardo e fissava un punto lontano, chissà dove. La donna, che poco prima gli si era seduta a fianco su quell’unica panchina un po’ sgangherata davanti alla valle, dopo aver risposto in quel modo si era come estraniata. Adesso provava turbamento. Più che per la domanda del vecchio per le risposte che aveva dato. E ora le sarebbe toccato di pensare anche a questo. Già, perché non aveva risposto semplicemente che veniva da Folgaria dove era nata e cresciuta? Oppure avrebbe potuto dire che veniva da Como dove aveva vissuto per vent’anni e dove a- veva partorito e cresciuto i suoi figli. Oppure avrebbe potuto rispondere che veniva da Trento dove viveva da single dopo il divorzio. In tutti e tre i casi avrebbe chiuso la faccenda invece di ritrovarsi a fare i conti con quella domanda: “Da dove vieni?”. E poi, il vecchio intendeva riferirsi alla sua origine o al posto dove abitava? Al punto dove era arrivata, però, la questione più importante non era più cosa intendeva il vecchio, ma come lei aveva vissuto la domanda. Si rese conto che le case e le terre dove aveva vissuto erano tutte “la sua casa”. E non erano lontane, erano lì. Dentro di lei. “Vengo da tanti luoghi, ma sono tutti qui dentro di me”. Così avrebbe detto al vecchio. Chissà se avrebbe capito. 242 243 Adelina Valcanover Zio Merico I l bambino cammina lungo il sentiero che costeggia il boschetto di castagni. È un pomeriggio d’autunno, le foglie secche fanno un rumore sotto i suoi piedi e pare una colonna musicale ai suoi pensieri. Nell’aria serena e limpida, aleggia un profumo vago e amaro, ma il bambino pare non sentire, né vedere i colori che lo circondavano. Già dall’anno scorso, i grandi non fanno che un gran parlare dello zio Merico, che in realtà si chiama Giovanni, ma emigrato trent’anni prima negli Stati Uniti, lo ha sempre sentito chiamare così. Dicono che sta per tornare. Oggi è il giorno fatidico. È curioso, ma non si spiega tutta quell’agitazione. Cosa porterà? In fondo al sentiero vede avvicinarsi al grande gelso in mezzo al prato davanti a casa, un uomo con qualcosa in mano. Si avvicina lentamente e lo saluta. L’uomo tiene in mano un barattolo pieno di terra, mormora in risposta qualcosa di incom- prensibile. Il bambino si fa coraggio e dice: — Sei lo zio Merico? L’uomo sorride e annuisce. — Come mai sei qui da solo? – chiede ancora il bambino. — Voglio restituire un dono. Questo gelso l’ho piantato tanti anni fa con mio fratello Marco e mio nonno. Da quando sono morti, considero questo albero un amico che mi consola. Lui c’è sempre. Quando sono emigrato, ho portato con me un barattolo di terra presa alla base del tronco e questo mi ha aiutato in momenti di solitudine e nostalgia, ora è tempo che torni alle radici. Anche per me. 244 245 Marco Vallarino Piedi nudi, mani armate M i chiamo Kevin Crane e cammino a piedi nudi da sempre. Sono nato e cresciuto in una terra soffice, profumata, cosparsa di erba, fiori, alberi, attraversata da fiumi limpidi e illuminata da un sole che non scalda solo l’aria ma anche i cuori, e accende i sorrisi. Si sta bene, qua. O meglio, si stava. Non pensavo di avere bisogno di un paio di scarpe finché la fabbrica non ha aperto. Dicevano che avrebbe portato lavoro e soldi per tutti, anche se nessuno si era mai lamentato di essere povero. Vivevamo di ciò che dava la terra e ci bastava. Ora però non dà più niente, è troppo inquinata. Camminare scalzi è pericoloso, in giro ci sono chiodi, rottami, vetri rotti e le siringhe di chi si droga per dimenticare lo squallore che ci circonda. L’acqua è torbida e il sole è oscurato dai fumi delle ciminiere. Non posso neppure sognare un mondo migliore perché la notte il rumore dei macchinari impe- disce di dormire. Le tasche gonfie di soldi dovrebbero farmi dimenticare le ferite del corpo e dell’anima, ma il lavoro alla catena di montaggio mi rende troppo stanco anche per dimenticare. E poi quello che vendono allo spaccio della fabbrica non mi piace. È superfluo e mi costringe a lavorare di più per mantenere vizi che non mi giovano. Prendo solo le disgustose scatolette che mi tocca mangiare, e continuo a risparmiare per comprare un giorno ciò che mi permetterà di camminare di nuovo libero per la mia terra. Il giorno in cui i piedi torneranno a essere nudi perché le mani saranno armate. 246 247 Laura Vignali A mia nipote Chiraz Sofia L a terra dove sei nata ha un odore speciale che solo quando sarai grande ti sembrerà inconfondibile. Ma tu che appena venuta alla luce ti sei ritrovata in tasca ben due passaporti, scoprirai presto che ognuno di noi può avere più di una patria. E nessuna meno amata delle altre. Solo se tu saprai distinguere un odore dall’altro sarai in grado di sentirti figlia di più culture. Ricordati che la terra non è soltanto quella dove si nasce ma anche quella dove si vive, ci si forma il carattere e si condividono esperienze. Ma soprattutto dove ci si sente in sintonia con i propri simili. Tu potrai avere altre patrie e ciascuna di esse farà parte di te. Solo se imparerai a riconoscere il loro odore, la vita ti offrirà delle opportunità. Vedi Sofia, chi si rinchiude nel suo mondo non lo ama perché gli preclude la possibilità di aprirsi alla realtà degli altri e lo condanna all’estinzione. Quante culture diverse si sono intrecciate dietro di te, spesso in conflitto fra loro. Quanta difficoltà a comprendersi e ad accettarsi. Ma l’unica soluzione possibile è quella di raccogliere tante zolle e mischiarle fra loro rendendo più fertile la terra comune. Se sarai saggia saprai conciliare culture diverse senza renderle subalterne l’una all’altra. Tu che puoi, prendi il meglio di tutte. Così potrai dire con orgoglio che sia gli stretti vicoli medievali della Toscana che l’ampia distesa di mare del Sahel sono TERRA MIA. 248 249 Vittorio Vulcan La baita È parecchio tempo che ci pensa. A quella stalla che suo padre aveva su, in valle. Abbandonata da anni, certamente, ma che potrebbe essere ristrutturata come casetta per le vacanze in montagna. Adesso che si parla di lui come Ingegnere Capo ai vertici dell’azienda, ci può fare un pensierino serio. Il mutuo per la casa è quasi estinto e non ci sono in vista “altri progetti” rilevanti. Lo considera un investimento intelligente. Una baita con terreni annessi, di questi tempi, è un bene godibile facile anche da immettere sul mercato immobiliare delle “case vacanza”. Ha già parlato anche con un amico architetto per un bel progettino e ha dato un’occhiata in internet. Così, per farsi un’idea più precisa. Non solo. Più ci pensa più la cosa gli sembra fattibile. Urgente. Ne parla con Mirella, la sua compagna, pronto anche a uno scontro, se necessario. Ne ottiene, invece, l’appoggio. Così si decide. Il prossimo week end andranno in Trentino, dai suoi, per sentire suo padre. Sapere cosa intende fare del fabbricato, probabilmente cadente e semidistrutto. L’accoglienza è calorosa, l’ospitalità squisita. Dopocena, con un caffè fumante sul tavolo e una grappetta al corniolo in mano, l’argomento “baita” si rende ineludibile. — Sai papà, volevo parlarti di quella stalla che hai alla Val del mat. Pensavo di ricavarci una bait... Lo sguardo stupito di suo padre lo impietrisce prima delle parole. — Oh miseria, non l’ho più. Ho venduto la malga e la terra anni fa, quando eri a Milano, a Ingegneria, e i soldi non bastavano mai... 250 251 David Wilkinson Cornovaglia M ucche s’intravvedono aggrappate agli umidi declivi simili a rasoi che si sprofondano nelle vene dell’Oceano offeso nel suo grigiore dal verde violento, ultimo lembo celtico dell’Inghilterra Finisterae. La Cornovaglia sogna cornamuse, guarda tacita in lontananza, ma da tempo perse la lingua, che è ancora vivente tra i gallesi, scozzesi e bretoni. Ultimo lembo della Gran Bretagna è porto di attracco per cittadini che si dilettano dei vecchi miti, ti ricordano i vecchi pescatori ingoiati dagli abissi del villaggio globale. Lo sciabordio dell’Atlantico sfida il sussurro continuo di leggenda nell’aria. Gabbiani rivali fanno il pendolino tra i prati e bianche sponde baciate senza zelo dal sole. Monte San Michele, castello sulla mezz’isola, sfida la terra ferma, isolata ad alta marea, dove aleggia Merlino. Stormi di corvi zigzagano in frenetico volo at- terrando qua e là sul lunatico terreno roccioso, intorpidito dal tormento dell’Oceano. Incessanti immagini si proiettano sullo schermo dell’anima, monotona sequenza di fotogrammi nella catarsi dell’io sofferto e sofferente. Verticali cimiteri dai crocefissi grondanti licheni sono attorcigliati su sé stessi, avvinghiati al mistero che nessuna Riforma poté cancellare. Venti feroci la violentano da sempre ma essa rimane pura. Ride la strega, a squarciagola lungo le epoche a cui non appartiene, come a nessun luogo comune: ne sono testimoni le giornate torride, gli inverni miti inattesi. Merlino che aleggia con incantesimi celti ha risparmiato. 252 253 Fulvio Zanoni Piazza delle Oche e del Nettuno E ri giovane, tu, allora, e un poco Oca. Io ero il tuo Nettuno; alle otto di ogni sera guadagnavo la più bella piazza cittadina, lesto alla tua porta. La finestra in alto la tenevi chiusa, quasi a serbare intatto il tuo candore; sola e trepidante mi aspettavi. Da quanti anni tu non sei più oca? Da quanti anni io non sono più nettuno? Quella piazza che fu vicolo cieco stasera la percorro un po’ esitando, con passo stranamente timoroso, ma con lo sguardo alto… e vedo lassù la tua finestra laidamente spalancata! No, non puoi essere tu l’oca che accoglie quei nettuni incravattati, uno con la barba e l’altro senza, l’uno incanutito e l’altro calvo, alle otto della sera alla tua porta! Io giro subito l’angolo accelerando il passo: qualche vipera – istigata da una legge cattiva – potrebbe bollarmi di stalking. Sapesse, invece, il mio sollievo! Ora ho la certezza che la mia ter- ra è Altrove: lontana dalle vipere, dalle oche e dai nettuni. Che pericolo ho scampato! Meglio solo, che peggio accompagnato. 254 255 Paolo Ziino Un emigrante dell’Ottocento I o sono Nino e questa è la mia storia. Mio padre aveva un podere – un terreno montuoso e brullo – nei Nebrodi. La mia famiglia stentava a ricavare da esso di che campare. Mio fratello – primogenito – era destinato a continuare l’attività di mio padre nel podere. Prospettive di benessere per me ce n’erano poche e decisi di andarmene via. Scelsi come meta una ricca zona agricola del Catanese. La mia quota di eredità fu una mula e un po’ di soldi: i mezzi con i quali conquistarmi un futuro migliore. Quando partii il distacco dalla mia famiglia fu molto sofferto. In ricordo portai con me un sacchetto della mia terra natia. Dove mi sono trasferito, con tanti sacrifici e duro lavoro, sono riuscito a comprarmi un fondo agricolo. In esso, quale ideale legame con le mie radici, ho sparso la terra di quel sacchetto. Mia moglie era prossima a partorire e c’era da mietere il grano. Avevo poco tempo per poter fa- re la mietitura da solo e pochi soldi per poter pagare dei braccianti. Mi ricordai di compaesani che in attesa di lavoro stazionavano in un vicino villaggio. Andai a chiedere il loro aiuto, facendo appello al comune paese di origine. Alcuni di quei braccianti avevano lavorato nel podere di mio padre e parecchi di loro con slancio accorsero in cambio di un poco di pane e di vino. Il raccolto fu terminato giusto in tempo da consentirmi il rientro in paese prima del parto. Ora vivo sereno e contento: ho di nuovo una famiglia mia e una terra mia. 256 257 Antonio Angelo Zurlo Antonio Angelo Zurlo I I contadini contadini (Traduzione dal trentino di Santa Teresa, Brasile) N ell’interno di Santa Teresa, Espirito Santo, Brasile, c’era una famiglia di agricoltori discendenti da quelli trentini-tirolesi (loro si dicevano trentini) arrivati nel 1874/75. Dopo molti anni di mezzadria acquistarono un pezzo di terra circondata da montagne impervie. Lì, tenevano una piantagione e gli allevamenti per mantenersi durante l’anno (il caffè dalla piantagione veniva solo una volta all’anno), vendere e acquistare qualche chilogrammo di frumento; cherosene per le lampadine (non c’era la luce elettrica), e anche qualche paio di zoccoli. Risparmiare! Lo zucchero, lo facevano loro. Macinare la canna da zucchero con la macina di legno girata dai buoi, cuocere il fluido per fare una sorta di mattoni con i quali, ridotti a pezzetti si addolciva tutto, anche il caffè da bere. Alla Domenica, il rosario. ll Sabato, un ballo o una serenata. Negli altri giorni, lavorare! Quelli con più di 12 anni, dopo la scuola, se ne andavano con 258 N el interior de Santa Teresa, Espírito Santo, Brasil, gh’era na famiglia de agricoltori descendenti de trentini-tirolesi (i se disea sol trentini) arivadì nel 1874/75. Dopo ani de mesadria i sà comprà ’n tochet de terra ’ntrà montagne erte. Li i fea la piantagion e alevamenti per mantegnerse. El café el vegnìa na volta a l’an, per vender e comprar qualche kilo de farina bianca, petroleo per le luminete e anca qualche par de socoli. Esparagnar! El zucher i lo fea lori. Strucar la cana co’la moenda girada coi boi e còser la garapa per far rapadura (matoni de zucher) che spacadi a tocheti, servia per endolcir tut, anca el cafè de bever. Ale domeneghe, la corona. Al sabo n’ balot o ‘na serenada. l altri dì laorar. Quei sora i 12 ani dopo la scola, col papà, al lavoro. I pù zoveni a casa, far ì mistieroti: guernar le galine, i porchi, scorzar el miglio, meter la legna soto ’l fogolar, serar259 il papà al lavoro in campagna. I più giovani rimanevano a casa, a fare i lavoretti: alimentare le galline, i maiali, sfogliare il mais, disporre il legno sotto il focolare, macinare il caffè, prendere i vitellini, bagnare l’orto... Aiutare la mamma. Lei suonava il corno di bue alle undici, invitando quelli della campagna al pranzo. Una mattina di inverno, di buon’ora, la mamma arriva alla camera di suo figlio e dice: “Antonio, alzati, va sul monte a prendere le mucche”. L’ ometto, con i suoi sei anni, si alza, veste la camiciola e i calzoncini, e, senza scarpe, va su! Fa che le mucche si alzino, e, mentre loro si stirano, dove una aveva dormito c’era come un materassino d’erba. Allora ha capito che era il momento di scaldarsi. Si sdraia lì, e aspetta che le mucche inizino a scendere per accompagnarle. su i vedèi, masnar el cafè, sguazzar l’ort... Agiutar la mama ’nfati. Ela la sonea el corno de bò ale 11, perché quei dela compagna i vegnisse disnar. Na matina bonora de inverno la mama ariva a la câmera del sò fiolet e la ghe diz: Antonio, leva sù, và sul monte parar zô le vache. L’omenet, de 6 ani, el salta sù, el se mete la camisota e le braghete e, sensa scarpe, sù. El fà le vache alzarse e entant che lore le se stira, li n’dove una l’aveva dormi, g’hera come un paionet de erba. Elo l’ha capì che l’era el moment de scaldarse. El sà buta zô lì e l’aspetà che le vache le scomenziasse nar zô, per acompagnarle! 260 261 Gli autori Gregory Alegi Roma. Storico e giornalista, si occupa con continuità di aviazione da oltre 30 anni per passione e professione. Ha scritto una cinquantina di libri e monografie di storia aeronautica, curato mostre e restauri per i principali musei aeronautici italiani, sceneggiato film, fumetti e giochi. Insegna Storia dell’Aeronautica presso l’Accademia Aeronautica e Aviation Management presso la LUISS Business School. gni genere: da tavolo, di ruolo, per computer... Tra i suoi libri il Dizionario dei giochi (Zanichelli, 2010, con Beniamino Sidoti), il romanzo Il volo di Majorana (Boopen Led, 2010) e l’antologia di racconti fantastici Cuore di drago (Homo Scrivens, 2013). È tradotto in una quindicina di lingue. Suoi racconti sono apparsi su riviste e antologie tra cui quelle del Premio RiLL e del collettivo Carboneria Letteraria. Livia Alegi Roma. Ha tredici anni e scrive da dodici, anche se i suoi primi scritti erano un po’ difficili da capire. Ha pubblicato alcuni racconti con il club di scrittura creativa della scuola; compare nell’antologia Fedele al mito. Anche agli eroi e agli dei un amico fedele può cambiare la vita (a cura di A.Morbidelli, 2012); ha partecipato all’edizione 2012 di Parole per Strada, meritando una menzione speciale come partecipante più giovane. Ha anche scritto un libro-gioco dal titolo In cerca del tesoro di Apollo. Wallace Armani Belo Horizonte, Brasile. Musicista: compositore e direttore d’orchestra; Linguista: traduttore ed insegnante di italiano, inglese e russo; Scrittore: poeta, librettista, narratore, saggista e critico letterario; Collezionista: dizionari e fumetti. Tra le composizioni operistiche: Il Diavolo Tentato, in lingua italiana, libretto di Giovanni Papini, 2004; A Farsa dos Tempos in lingua portoghese, libretto del compositore, 2006; The Black Thursday Secrets in lingua inglese, libretto del compositore, 2012. Ha scritto il libro di poesia Paraíso Redescoberto (Paradiso Riscoperto), edizione bilingue portoghese ed italiano. Meriam Al-Ghajariah Rovereto. In più di mezzo secolo di vita ha vissuto 21 traslochi (circa), in cinque Paesi (circa) e tre continenti (circa). Ama lavorare, viaggiare, chiacchierare e leggere. Scrive (poco) per amore o per rabbia (come l’uccellino in gabbia). Vive a Rovereto da pochi anni e ne è innamorata. Giorgio Anastasio Roma. È nato nel 1977. S’aiuta a vivere nel Basso Lazio, dove si occupa di comunicazione saltando da una regia video a una correzione di bozze. Ha realizzato molti documentari sociali e ambientali e una sola fiction (il cortometraggio Love drips del 2012). Gli scritti invece li tiene nel cassetto da quando, nel 2001, si diplomò scuotendo il capo alla Scuola Holden di Torino. Ne tira fuori uno all’anno per Il Furore dei Libri... Andrea Angiolino Roma. Giornalista, scrive di cose per lo più futili come gioco, gastronomia e collezionismo. Per mestiere crea giochi di o- 262 Fabio Baldi Milano. Si occupa di gestione delle Risorse Umane. Da circa due anni frequenta un cenacolo di appassionati della poesia, delle belle storie e dello stare insieme in allegria; qui è nata la voglia di partecipare al loro entusiasmo scrivendo brevi racconti che possano trasmettere emozioni. Rossella Baldi Pistoia, dove risiede e lavora esercitando la professione di commercialista. Si interessa di lettura scrittura ed ha partecipato a vari concorsi letterari per racconti brevi tra i quali Parole per strada nel 2012. Livio Bauer Nomi (TN). Medico odontoiatra a riposo, maturità classica, lettore vorace con preferenze noir. Il rock virato al blues ed il buon cinema d’azione, con il fumetto d’autore e l’arte del Novecento contribuiscono considerevolmente a migliorarne l’esistenza, altrimenti dedi- 263 cata, oltreché alla fatica di vivere, al volontariato locale e all’impegno amministrativo. so saggio sul poeta, scrittore, saggista e giornalista roveretano Lionello Fiumi. Ha vinto un centinaio di premi di poesia in tutta Italia. Elena Belotti Trento. Si occupa dei diritti delle donne ed è socia fondatrice e segretaria dell’Associazione Coordinamento donne. Suoi racconti brevi e poesie sono inseriti nei Libri Sibillini e in altre pubblicazioni fra le quali: Viaggi diVersi, Storie di donne, Il valore della vita. È stata premiata ai concorsi “Parlaci di te” a Parma, e “Donne in opera - Una giornata tutta per me”, in Valle d’Aosta. Nel 2011 pubblica un libretto con suoi disegni, racconti e poesie Camminando incontrai i tarocchi. Luigi Brasili Tivoli (Roma). Ha ottenuto numerosi riconoscimenti in concorsi e selezioni editoriali. Ha pubblicato racconti in decine di libri e riviste, per vari editori e testate tra cui Fanucci, Rai-Eri, Writers Magazine Italia, Delos Science Fiction. Suoi racconti sono stati letti in trasmissioni radiofoniche e università. Ha pubblicato inoltre tre libri: La strega di Beaubois (Magnetica); Lacrime di drago (Delos Books); La stirpe del sentiero luminoso (La penna blu). FeBe Trento. Da sempre appassionata di scrittura, in età adulta ci si è potuta dedicare con costanza e serietà, frequentando vari corsi. Partecipa a vari concorsi regionali e nazionali con alcuni scritti premiati e pubblicati in antologie. Ama in modo particolare racconti veri di donne e animali, perché il suo mondo professionale è quello zootecnico. Ama la semplicità e la gente genuina ed è merito loro se spesso la sua penna si muove sul foglio, creando emozioni ma anche tante soddisfazioni. Roberto Caprara Ala (TN). Appassionato di poesia e teatro, predilige la scrittura in dialetto e negli ultimi anni ha pubblicato una raccolta di poesie dal titolo: ’Na barosola de sogni oltre a diversi testi teatrali, alcuni dei quali rappresentati più volte nei palcoscenici del Triveneto. È socio e membro del Gruppo Poesia 83 di Rovereto. Margherita Berlanda Comano Terme (TN). Frequenta il liceo linguistico «Sophie Scholl» ed ha passione per la scrittura creativa e per la poesia. Ama viaggiare; ha visitato alcuni Stati europei e frequentato per sei mesi una scuola a Chester in Inghilterra. Ha partecipato ad uno scambio culturale con una classe di Québec City. Desidera frequentare l’università a Monaco di Baviera e continuare a scrivere. Italo Bonassi è giornalista, poeta, critico letterario e saggista; nato in provincia di Bolzano, risiede a Rovereto. Presidente del Gruppo Poesia 83, vicepresidente del comitato trentino della Società Nazionale Dante Alighieri, socio del Cenacolo di Poesia di Verona e del Furore dei Libri. Ha pubblicato 8 libri di poesie e uno di racconti. Autore di un volumino- 264 Vittorio Caratozzolo Genova. Praticante di didattica creativa, nutre da tempo una particolare affezione per la manipolazione di materiali artistici come dimostra la sua bibliografia, ricca di opere dall’approccio originale: dal “falso d’autore” Processo a Don Giovanni accusato di omicidio e tentato stupro (Guida Editore) a Scrivere come Frankenstein. Esperimenti di chirurgia testuale (La Meridiana), da Francesco De Sanctis. Parastoria della letteratura italiana. La fantasaggistica e l’impero del verosimile (Guida) all’audiolibro bilingue Attraverso i “Quadri di un’Esposizione” (Istituto di Cultura Ladina) e alle letture critiche di Ungaretti, de Queirós, Ibáñez, Buzzati. Giuseppe Carmeci Trento. Nato a Tripoli (Libia). Ha inventato e coordina, nella Circoscrizione Oltrefersina, il concorso La favola dei nonni: il mio è un nonno …da favola dal quale sono stati ricavati e stampati 3 li- 265 bri di favole. Ha scritto anche il libro 45° Blocco, i primi a Viterbo, gli ultimi a Rieti con i pensieri, le ansie, le aspettative dei suoi compagni Allievi Sottufficiali, una raccolta di poesie e fiabe intitolata Scritti, versi e poesie in libertà giocando con le fotografie sue e di un suo carissimo amico e un breve manualetto Tiro con l’arco per bambini. Carla Casetti Zambana Vecchia (TN). Ha operato con passione nel campo artistico, indagando e promuovendo quasi tutte le arti, dal canto, al teatro, alla pittura. Ha scritto e pubblicato numerosi racconti e poesie. Matteo Cermusoni Castelserpio (VA). In arte “Dj irmu”, formazione da musicista, ha studiato pianoforte. Con La cosa più rosa (Storia di Chicco e Salma) vince “Lama (Forchetta) e trama” al prestigioso “Lama e trama 2006”. Finalista di “Volo rapido 2007” con Cella Zero Dodici. Pubblicato per “Criminalcivico 2007” con Martina sotto il cielo. Altri racconti in rete. Nel 2011 è a pagina 40 dell’antologia “PxS Il libro perduto”. Il racconto del 2012 “Morte dell’estensore...” per “PxS” è una delle cose migliori uscita dalle sue dita. David Cerri Pisa. Avvocato civilista, impegnato nelle attività formative della professione (è membro del Consiglio Direttivo della Fondazione del C.N.F. Scuola Superiore dell’Avvocatura, e direttore responsabile della Rivista Cultura e diritti). Autore di note, commenti e articoli su varie riviste giuridiche, è stato curatore di alcuni volumi collettanei tra i quali gli piace segnalare Le leggi razziali e gli avvocati italiani. Uno sguardo in provincia. Ramona Corrado Belluno. Nata a Lecce, di professione infermiera, ha l’hobby della scrittura e della lettura. Ha vinto alcuni premi letterari con i suoi racconti, e altri sono presenti in svariate antologie di AA.VV. Fa parte della Carboneria Letteraria, con cui ha pubblicato numerose antologie collettive (l’ultima è Marchenoir, per Italic Pequod, del 2012). È nella redazione del lit blog “La Poesia e Lo Spirito” e ha un blog personale scritto in punta di piedi (http://puntapiedi.wordpress.com). Nel maggio 2012 ha pubblicato il suo primo libro, un ebook dal titolo Un golfino blu racconta, edito da Abel books editore. Diana Crispo Roma. Ha formato con Biagio Proietti una delle coppie più prolifiche in televisione, cinema, radio e letteratura. Per la televisione hanno ottenuto grande successo con Dov’è Anna? - diventato anche romanzo per la Rizzoli, ora di nuovo in uscita - la mia vita con Daniela (diventato nel 2012 il romanzo Chiunque io sia); L’armadio; Miriam da Truman Capote; La casa della follia da Richard Matheson (presentato al Mystfest di Cattolica), e Sound un film di fantascienza con Peter Fonda; Storia senza parole, miglior film tv nel 1981, vincitore del Festival di Praga, presentato in molti festival cinematografici fra i quali Sorrento, Locarno, Los Angeles. Matías Cimadon La Florida, Santiago (Chile). Giornalista cileno e membro della “Asociación de Periodistas y Comunicadores Italichilenos” (Assogicile). Di sé scrive: “Me considero un Audax Italiano. También soy Periodista pero sirvo para todo”. Nives Cristoforetti, poetessa nata ad Ala, risiede a Rovereto. Molte le sue pubblicazioni, da Il tempo della vita - Da un diario in versi 19581987 (Le Madonie) a cura di Giuseppe Gentile a Anima nuda (Longo), da L’ incanto di un grido, dalle 27 sue poesie inserite in “Quaderni paralleli di nuova poesia-2” (Guido Miano) a Estatici sensi (Ibiskos), da L’incanto della pietra (Universum) a Nell’ombra del tempo (Book Editore) e a Lo spazio della mente, numero speciale dei Quaderni della Collana Gruppo Poesia 83. Membro del Gruppo Poesia 83, compare nelle antologie dell’associazione e in vari volumi collettivi. 266 267 Pelagio D’Afro Ancona. È uno scrittore collettivo composto da Giuseppe D’Emilio, Arturo Fabra, Roberto Fogliardi e Alessandro Papini; è la “costola” di un altro autore multiplo: Paolo Agaraff. Ha pubblicato racconti in riviste e antologie, specie con il laboratorio creativo Carboneria Letteraria. Il suo primo romanzo, I ciccioni esplosivi (2009), è anche disponibile gratuitamente su liberliber.it; il suo secondo romanzo, L’acqua tace, è stato pubblicato nel 2013 da Italic-peQuod. (pelagiodafro.com) Livio Dalpiaz Mezzolombardo (TN). Inizia a scrivere nel 2009 partecipando a un corso di Anna Tava, dal quale il romanzo a più mani Pochi silenzi. In seguito ha scritto Arcobaleno; La fantastica meravigliosa storia di Romedio – eremita, santo e protettore dei nonesi; Sulla mia via incontrai i Tarocchi; Oroscopo Natura & Simpatia; Di palo in frasca; Il giardino della rosa e Naja di un imboscato. Con Carla Mannarini e Anna Tava ha prodotto Poesie d’albero. Con Carla Mannarini e Rosanna Bragagna 7 Vizi e una pistola. Davide Daniele Como. Per la cronaca, Davide è il nome e Daniele il cognome. A volte si confonde anche lui. Attualmente counsellor in formazione. Un suo racconto compare nell’edizione del 2004 Racconti nella rete pubblicata da Newton Compton, Roma. Nel 2006 ha pubblicato Sette storie semplici per la casa editrice Palomar di Bari. Susanna Daniele Pistoia. Iscritta all’Ordine dei giornalisti. Collabora a numerosi periodici e riviste online. Nel 2004 ha iniziato a scrivere racconti gialli vincendo numerosi premi. Autrice di due testi teatrali: Ai saggi la gloria, rappresentato nelle sale della biblioteca Forteguerriana di Pistoia, Marco Del Bucchia (2010), e Il ceppo fiorito, EdizioniAtelier (2012). Numerosi suoi racconti sono stati pubblicati in antologie e riviste letterarie. 268 Igor De Amicis Teramo. Commissario di Polizia Penitenziaria, scrive di diritto per le riviste giuridiche de Il Sole 24 Ore, ha curato diverse raccolte di saggi giuridici. Per la narrativa ha pubblicato svariati racconti in antologie. Nel 2012 ha vinto il contest del Festival delle Letterature dell’Adriatico. Attualmente è uno degli autori dell’iniziativa YouCrime indetta da Rizzoli/Corriere della Sera. Marcello De Santis Tivoli (Roma). Già funzionario di banca, ora in pensione, scrive racconti, poesie, saggi. Ha pubblicato dal lontano 1976: Odo nel vasto silenzio, ad oggi: ... di me d’altre cose. In mezzo: …e passerà solo il vento; Un pierrot senza speranza; Alla luna ch’è mia; Sarajevo otto poesie; Gabbiani. E di prosa: Lettere dalla Ciociaria; Cara Ida…; Gocce di ricordi; ...di me e d’altre cose. Margherita De Simone Napoli. Ha pubblicato con Perrone, Aletti, Damster, Edit@, Poesièrivoluzione, Progetto Babele, Pagine.net. Terza classificata al premio “Galeotto fu il libro” ed. 2013. Patrizia Debicke van der Noot Clervaux (Lussemburgo) e Milano. Scrittrice di romanzi, gialli, thriller, storici d’avventura, racconti ed E-book: L’uomo dagli occhi glauchi ha ottenuto il secondo premio assoluto al IV Festival Mediterraneo del giallo e del noir (2010). Il 10.4.2012, al IX Premio Europa a Pisa (narrativa gialla e noir), ha ricevuto il Premio alla carriera. Di prossima uscita il giallo storico La sentinella del papa. (www. patriziadebicke.com) Martina Dei Cas Ala (TN). Nel 2009 è uscito il suo primo romanzo per ragazzi, Una stravagante mattinata a Operà (Albatros Il Filo) al quale è seguito il suo secondo, Cacao Amaro (Edizioni Miele). Ha vinto alcuni concorsi letterari: con il racconto “Chañan Curi Pilar” ha vinto il titolo onorifico di “Giovane Ambasciatrice CIRSI dell’Interculturalità”. Nel 2010 è stata insignita dal Presidente della Repubblica del titolo di “Alfiere del Lavoro.” 269 Gian Luca Del Marco Besozzo (VA). Da anni si occupa di volontariato promuovendo iniziative e progetti umanitari in favore dei bambini della Repubblica Moldova. Amante della lettura e dei libri al punto da dedicarsi anche alla loro “cura”, restaurandoli e rilegandoli con passione. Alessandro Disertori (Sandro Dise) è nato a Vienna da famiglia trentina, è cresciuto a Trento e si è laureato a Padova in Ingegneria. Ha lavorato per anni nei vari continenti, come costruttore. Ha due figli ed ora vive sulla riva veneta del Lago di Garda. Ama la musica, le lettere e la montagna. Emanuele Delmiglio Verona. Il suo primo racconto compare nel 1978 sulle pagine del magazine padovano The time machine. Tra i fondatori dell’associazione culturale Fantàsia, è membro dell’associazione Il Corsaro Nero. Editore e giornalista, pubblica una collana dedicata a personaggi veronesi e veneti, Excellence Book. Direttore responsabile di due riviste locali e direttore artistico della rivista Inchiostro, alterna scrittura, consulenza editoriale e creatività grafica. Ha pubblicato due raccolte di racconti (Ultima uscita, 2002 e Vie traverse, 2008); molti altri racconti fanno parte di altre antologie. Peter Disertori nato a Trento, si è trasferito sul lago di Garda dove tuttora vive e lavora. Ha pubblicato romanzi e saggi con diversi editori: La panchina, Osteria al porto, Storia contro, La figura di Cristo tra ombre e luci, Naja l’ultima vacanza e Dolomiti di piombo. È co-autore delle antologie di argomento alpino In punta di Vibram e Dna alpino. Nel 2011 ha pubblicato I segreti dei rotoli di Qumran. Joselina Destefani Rodeio (Brasile). Nipote di emigranti trentini. È nata ed è vissuta sempre a Rodeio, una piccola città brasiliana fondata dagli emigranti trentini nel 1875. Adesso che è in pensione, dedica molto del suo tempo alla lettura ed alla scrittura. Giorgio Diaz Firenze. Laureato in legge, ha lavorato nella pubblica amministrazione. Ha pubblicato: Il nibbio dell’Uccellina (ARPANet, vincitore del concorso 20/04/2004 con presentazione di Andrea G. Pinketts), L’eroe della Grotta delle fate (Midgard Editrice vincitore del Premio Midgard Historia), Lo sgozzatore di cigni (Edizioni Montag), Il bianco e il nero (ARPANet), La città della solitudine. Lettere d’amore di una sconosciuta (Altrimedia Edizioni). Il racconto Il mare ti accarezza è risultato vincitore nell’XI Premio Elsa Morante per Inediti 2012. Sue poesie appaiono in varie antologie. 270 Danuta Dobkowska Elk (Polonia) e Milano. Conseguito il diploma di studi superiori a Varsavia, ha lavorato come segretaria didattica negli istituti “Liceo Internazionale” e “Gonzaga” di Milano. Attualmente in pensione, si dedica a tempo pieno ai suoi hobby preferiti: poesia, lettura, musica, teatro, viaggi, giardinaggio, medicina naturale, trekking. Dorina Dumbravă è nata e vive a Chişinău, città capitale della Repubblica Moldova dove frequenta l’ultimo anno del Liceo “Hyperion”. Appassionata dello studio delle lingue e delle culture straniere, ama leggere i classici della letteratura inglese e francese. Anna Maria Ercilli Trento. Ha pubblicato: Abbraccio (Alcione), Il dono inquieto (Rebellato), Piccole lame (Ibiskos), Dall’aria, alla terra, all’oblio (Laboratorio delle Arti), La porta di Tàriso (Joker) e La stanza del colore provvisorio; Nelle pagine del tempo, dizionario delle parole perdute, a cura di Alfredo Tamisari, ed. EmmeTi, 2011; Diario collettivo, Lua, 2013. È presente in antologie e riviste con racconti e poesie: L’evoluzione delle forme poetiche, ed. Kairόs, gennaio 2103. Collabora con la rivista “R&S” e con “Il Furore dei Libri”. 271 Ornella Fait roveretana, si è diplomata presso l’Istituto Professionale ed è attualmente impiegata in un ufficio amministrativo. Ha pubblicato due libri di poesie: Cartongesso e Lapislazzuli e Duemiladieci. Gabriele Falcioni Ancona. Affascinato da ciò che è misterioso, fantastico e scientifico, sceglie la Scienza dei Calcolatori. Intanto pasticcia con penne, matite e giochini, poi imperversa tra giochi intelligenti e narrativa fantastica, sia come parte del tricefalo Paolo Agaraff, sia come parte della Carboneria Letteraria, sia come parte di se stesso. Appena può torna sott’acqua, dove si sente a casa. Odia scrivere biografie e si sforza di renderle criptiche. Specie quelle brevi. Qualche volta ha vinto concorsi letterari. Oltre a racconti in svariate antologie, ha pubblicato tre romanzi a nome di Paolo Agaraff: Le rane di Ko Samui (Pequod), Il sangue non è acqua (Pequod), Il quinto cilindro (Montag). Guido Falqui-Massidda è nato a Primiero. Già notaio in Rovereto, ex amministratore comunale, ex presidente dei piloti di montagna e del consiglio notarile di Trento e Rovereto, ora conduce uno studio legale. Ha scritto Germania perdono, Monsignore Giovanni Battista Deville. Storia di un montanaro trentino e I misteri del Monte Biaena (Zandonai), oltre a libri e articoli di diritto. Fuori commercio la raccolta di poesie e racconti Pianti risate sberleffi. Ora fa l’avvocato e, negli intervalli, vive. Lidia Filippi Bolzano. Vicedirettrice delle Scuole dell’Infanzia. Ha partecipato ad alcuni concorsi di scrittura, classificandosi in buone posizioni. Attualmente pubblica nei siti “Scrivere”, “Rosso Venexiano”, “Poesie e racconti”, “Gocce di poesia”; cura inoltre alcuni blog personali. Ha collaborato per alcuni anni con l’Agenda del Poeta edita da “Pagine”. Nel mese di settembre 2011 ha pubblicato la sua prima raccolta di poesie intitolata Chiaroscuri (Kimerik). Premio Internazionale Histonium per il racconto i- 272 nedito “La saetta”. Primo premio ex aequo al concorso “Mediterraneo” indetto dall’Accademia Internazionale Giacomo Leopardi, con la poesia “La bambola di stoffa”. Il suo racconto “Una pietruzza in tasca” è stato selezionato per la Mostra di Parole per strada 2012. Gilberto Gagliardi Milano. Frequenta da molti anni il Cenacolo Letterario “Foglie Del Melograno” dove mensilmente i partecipanti declamano i loro lavori, che vengono commentati e raccolti in un opuscolo pubblicato: poesie, racconti, brani musicali. Ha partecipato, in dialetto veronese, al concorso “Premio Migrà“ di Sanguinetto (VR), vincendo due volte il primo premio. Davide Galati Verona. Laureato in Filosofia con una tesi e un percorso di studi in Storia delle Religioni. Vincitore di diversi premi letterari, ha pubblicato il romanzo Oddwars, distribuito da Feltrinelli; la guida storico-turistico Verona minor Hierusalem per Gabrielli Editori; il romanzo fantasy E un elfo li radunò... con l’editore Linee Infinite. Cura il blog umbradei.wordpress.com dove si parla di fede a 360 gradi. Francesca Garello Roma. Scrivere, leggere e giocare sono le sue occupazioni preferite. È autrice di L’uomo che volle farsi strega (Homo Scrivens, 2013), antologia di racconti fantastici; altri compaiono su diverse raccolte. È anche autrice di libri-gioco, giochi didattici e moduli per giochi di ruolo. Tiene una rubrica sui rapporti tra libri e gioco sulla rivista «Il Furore dei Libri». È membro del collettivo di scrittori Carboneria Letteraria. Karin Lisbeth Gelten-Lipari Trento. È nata a La Serena in Cile. A Santiago del Cile ha collaborato con il Rettorato e l’Archivio Antico dell’Università Cattolica e con il Palazzo del Governo come traduttrice. Ha collaborato con Il Messaggero di Sant’Antonio, edizione estera, con articoli sull’immigrazione e l’emigrazione in Cile. Ha tradotto in spagnolo il li- 273 bro Le 4 Repubbliche Marinare ed è autrice dei romanzi La bimba che visse due mondi (Edizioni L’Autore) e Mapuche. Lo spirito del Vulcano (Reverdito). Invitata dal Governo Cileno alla Fiera del Libro di Torino 2013. Vanessa Giolitti Roma. È un’attenta osservatrice dei comportamenti umani, che fissa nei suoi racconti per lo più ancora inediti. Appassionata di blog e social network, gestisce siti. Trentina di nascita, romana per necessità. Giuseppe Maria Gottardi Rovereto. Medico, odontoiatra, medico-legale e medico volontario del Soccorso Alpino, ha pubblicato: Anàmnesis - Colloquio Medico-Paziente in 5 lingue e il thriller I Mitocondri. A seguire, tra saggi e romanzi: Dottore mi fa male qui Frasario e Dizionario per Turisti in 5 lingue; Mocca Cecca; Manuale per demòni di II classe; Eroi o Traditori: I soldati trentini nella I Guerra Mondiale; Camminando nella storia. Luigi Guicciardi Modena. Insegnante di liceo e critico letterario, è autore di una serie di mystery, da La calda estate del commissario Cataldo (1999; Heyne, München, 2000; Hersilia Press, Oxford, 2010) e Filastrocca di sangue (2000; Heyne, 2001), a Relazioni pericolose; Un nido di vipere; Cadaveri diversi; Occhi nel buio; Dipinto nel sangue; Errore di prospettiva; Senza rimorso; La belva; La morte ha mille mani; sino a Una tranquilla città di paura (2013). Marco Guarnieri nato a Trento, ha studiato prima a Trento poi in Germania, dove ha vissuto per più di otto anni e concluso un Master in Studi europei. In Germania una favola in tedesco è stata inserita in un’antologia, in Italia ogni tanto partecipa a dei concorsi: di recente un testo è stato scelto ed inserito nella raccolta: Premio de palchi – raiziss, XIII selezione di poesia. 274 In-pagina San Michele all’Adige (TN). Il gruppo letterario nasce nel 2009. Promuove lettura e scrittura, organizza eventi culturali e corsi. È centro di supporto e critica per le produzioni individuali dei soci, e stimolo per lo sviluppo di competenze attraverso produzioni collettive, anche dedicate a manifestazioni. Alla prima opera collettiva, il romanzo Pochi silenzi, sono seguite varie raccolte poetiche e di racconti; per la “Festa della donna” ogni anno viene stampato un libro sui temi inerenti. Norberto Julini Varallo (VC). Giornalista pubblicista con laurea in Filosofia, ha insegnato italiano e storia e lavorato per i Ministeri dell’Istruzione e dei Beni Culturali. Consigliere e poi vicepresidente della Provincia di Vercelli dal 1995 al 1999, è fondatore e segretario dell’associazione “Nova Jerusalem” al Sacro Monte di Varallo per una cultura di pace fra i popoli ed il dialogo interreligioso. Ha recentemente pubblicato il Romanzo di Gaudenzio, la verosimile vita del più importante pittore rinascimentale valsesiano, Gaudenzio Ferrari. Marisa Lanzerotti è nata in Trentino. Ama la realtà, convinta che superi di gran lunga la fantasia, quindi ama condividere quello che le succede: i suoi racconti riportano fatti accaduti ed il loro strascico di emozioni. È pure convinta che nella realtà provi a nascondersi la poesia e, quando riesce a scovarla, la descrive in poche righe. Gordiano Lupi Piombino. Direttore editoriale delle Edizioni Il Foglio e direttore di collane Anordest Edizioni, collabora con “La Stampa” e “Libero”. Traduce gli autori cubani Alejandro Torreguitart Ruiz, Heberto Padilla, Yoani Sánchez (Rizzoli) e Guillermo Cabrera Infante (Minimum Fax). Tra i suoi lavori ricordiamo: Cuba Magica - conversazioni con un santéro (Mursia), Un’isola a passo di son (Bastogi), Serial killer italiani (Olimpia), Almeno il pane Fidel - Cuba quotidiana (Stampa Alternativa), Coppie diaboliche (Olimpia), Avana Killing (Sered) e Mi Cuba (Mediane). 275 Paola Malcotti Ledro (TN). Collabora con i quotidiani “l’Adige” di Trento e “La Stampa” di Torino e con il settimanale “Vita Trentina”. È corrispondente radiofonico di Radio TrentinoInBlu. Ha ottenuto apprezzabili risultati in seguito alla partecipazione a diversi concorsi letterari nazionali, con piazzamenti, segnalazioni e pubblicazioni. Carla Mannarini Trento. Nata a Lecce, fa la maestra e non insegnante (come ama precisare) e fa parte del gruppo letterario In-pagina, assieme ai cui componenti ha realizzato i romanzi collettivi: Pochi silenzi, Fratture e caffè e Sette vizi e una pistola (ancora in fase di stampa), diverse raccolte di poesie e racconti: Tracce odorose, Soave olezzo, La donna le scarpe il cammino, Per dire miele ed eventi culturali. Ha pubblicato l’antologia poetica Ricette d’amore, poesia culinaria di calorie virtuali e il libro di racconti allegorici Tarocchi on the road. Giacomo Manzoni di Chiosca Lavis (TN). Laureato in Ingegneria Chimica, amante della vita semplice e della natura, compone poesie, racconti e favole e si dedica al bricolage. Negli anni ’90 ha iniziato a partecipare a concorsi letterari, con lusinghieri risultati. Fa parte del «Gruppo Poesia 83» con sede a Rovereto. Ha pubblicato cinque brevi sillogi nella collana “Il Portone/Letteraria” (ETS): Il tempo, le cose, i sentimenti, Primo amore, Sterpi, Credere e amare e Cristalli di ghiaccio. Nel 2003 è uscita la sua raccolta di favole L’ippopotamo e altri animali, con illustrazioni dello stesso autore (ARCA). Angelo Marenzana Alessandria. Scrive di narrativa di genere ritagliandosi uno spazio tra il suo lavoro presso l’Agenzia delle Dogane e le nebbie invernali di Alessandria e la sua soffocante umidità estiva. Ha pubblicato un gran numero di racconti su antologie varie, su Il Giallo Mondadori, Urania e riviste tra cui Cronaca Vera. Esordisce con Frontiere nel 1999 per l’Editore Mobidick, e prosegue nel suo percorso letterario 276 con Destinazione Avallon (Robin 2008), Legami di morte (Dario Flaccovio Editore, 2008), Buchi neri nel cielo (Perdisa Pop, 2009) fino al recente L’uomo dei temporali per l’editore Rizzoli. Tiziana Margoni Roncegno (TN). Equilibrista fra reale e immaginario, ama narrare e scrivere, con stile sottile e leggero. Autrice di libri per la scuola, da insegnante; Opuscoli a tema etnografico, da responsabile della Sezione Didattica per il MUCGT di S. Michele a/A; articoli da Diari di viaggio per la rivista “Buongiorno Bali-Indonesia”, da viaggiatrice; recensione di libri e co-ideatrice del gioco Spil’hu in Bernstaler, per il Kultur Institut di Palù del Fersina. Donato Marinello Milano. Laureato in materie letterarie, ex-insegnante nelle scuole elementari e medie, animatore ed esperto di giochi antichi per ragazzi. Ha scritto Giochi in vacanza e Quando Robinson si diverte editi dalla casa editrice Meravigli ed ha collaborato con la De Vecchi nella pubblicazione di Il grande libro dei giochi. A Milano conduce il Cenacolo letterario “Il Melograno”. Caterina Rosa Marino San Michele all’Adige (TN). Svolge attività di volontariato nel settore ambientalista e animalista e partecipa alle attività del “Gruppo In-Pagina” di San Michele all’Adige. Ha partecipato alla pubblicazione dei libri collettivi Pochi silenzi, Tracce odorose e Soave olezzo. Suoi scritti appaiono anche periodicamente su “Lo Strillozzo” stampato a Milano. Miriam Marino Bassano in Tiberina (VT). Artista, scrittrice e attivista per i diritti umani, è impegnata in tre associazioni “Ebrei contro l’occupazione” , “Amici della Mezzaluna Rossa Palestinese” e “Stelle Cadenti-Artisti per la pace”. Ha pubblicato libri di narrativa, poesia e saggistica, l’ultima pubblicazione è una raccolta di racconti ambientata in Palestina durante 277 la seconda Intifada e in Iraq durante l’occupazione e la guerra del 2003. Festa di rovine edizione “Città del Sole”. è casalinga e pensionata. Ha partecipato a Parole per strada nel 2011 e 2012. Nel suo blog www.raccontiflash.wordpress.com pubblica racconti. Nadia Mariz Trento. Giornalista pubblicista. Dal 2005 al 2012 ha collaborato con l’emittente televisiva Telepace per la realizzazione di speciali e rubriche riguardanti la storia, la natura e la cultura del Trentino e nel 2009 e 2010 con la sede Rai di Trento. Autrice nel 2012 del volume Trento 1940-1945. I testimoni raccontano. Attualmente collabora con i quotidiani on-line L’Adigetto e Il Taumaturgo. Armando Mondin Venezia. Del suo territorio, dal Piave alla Laguna, ha preso i colori, la dignità, i sapori unici, in cui intinge la penna della sua poesia e del suo scrivere. Collabora da oltre vent’ anni alla rivista “Quatro Ciàcoe”, mensile di cultura e tradizioni in lingua veneta. Ha pubblicato i libri di poesie Notte Stellata e Tempo dovuto (Fratelli Corradin Editori) ed è coautore del romanzo I colori danzanti (Fratelli Corradin Editori). Carlo Martinelli Trento. Giornalista, ex libraio, scrittore (Storie di pallone e bicicletta, Un orso sbrana Baricco), è coordinatore de “Il Trentino”, rivista della Provincia Autonoma di Trento, cura la pagina libri dei quotidiani “Alto Adige” e “Trentino”, fa parte di “em bycicleta”, presidio di fabulazione sportiva. Noemi Nappo Casalnuovo di Napoli (NA). Scrittrice di racconti brevi reperibili online, studia al Liceo Scientifico e si sta dedicando alla stesura di un romanzo. Maria Grazia Masciadri Moltrasio (CO) e Rovereto, ha studiato e poi insegnato nelle scuole elementari anche come specialista di inglese; dal 1999 è passata all’educazione degli adulti: l’esperienza in questo ambito e il contatto con lingue e culture altre hanno ampliato le competenze e le curiosità nell’ambito delle lingue straniere e della letteratura. In pensione da pochi mesi, può dedicarsi con maggior assiduità alle sue passioni più vive: camminate, viaggi, ricamo e naturalmente... libri. Rita Mazzon Padova. Fin da bambina ha vissuto con la sua unica amica di nome fantasia e con lei ha inventato meravigliose storie, poesie e racconti di qualsiasi genere. Amore, vita, favole... tutto diventa un pretesto per prendere la penna. Le piace scrivere anche in vernacolo. Da qualche anno ha cominciato a partecipare a concorsi letterari, ottenendo risultati positivi sia con i racconti che con le poesie. Marta Maria Minervino Rovereto. Ha fatto molti “mestieri” visto che 278 Fabio Novel Trieste. Collabora con vari portali web e blog DelosBooks e Mondadori. Ha partecipato alla stesura del DizioNoir (DelosBooks) e con Sergio Alan D. Altieri ha curato Legion (Segretissimo Mondadori). Esordisce in libreria nel 2002 con il romanzo Scatole siamesi (Editrice Nord), ambientato nel Sud Est Asiatico, recentemente riproposto dalla Delos in e-book. Suoi lavori sono apparsi in “Segretissimo” e nel “Giallo Mondadori”, in “M-La rivista del Mistero”, nella rivista “Writers Magazine Italia” e in antologie. Suo è anche il western-noir L’uomo che uccise Texas Jones (Milano Nera eBooks). Rahma Nur Roma. Nata a Mogadiscio, in Somalia, arrivata in Italia nel 1969, ha sempre vissuto a Roma e dintorni e da circa vent’anni insegna in una piccola scuola primaria statale nel Sud Pontino. Scrive poesie fin dalla lontana adolescenza. Da qualche tempo scrive racconti che partono dal suo vissuto tra due mondi culturali, l’Italia, paese che l’ha accolta all’età di cinque anni e la Somalia, terra che l’ha vista nascere. Ha partecipato al concorso Lingua Madre 2012 e vinto il Premio Speciale Rotary Club per il racconto Volevo essere Miss Italia. Ha vinto il Primo Premio 279 nel Concorso Scrivere Altrove “Amici di Nuto” di Cuneo con il racconto Mamma Somalia. Gloria Odorizzi Port Royal (Canada). Nata a New York, all’eta di nove anni tutta la famiglia è ritornata in Italia dove ha vissuto per dodici anni. Ha studiato da maestra al Collegio Sacro Cuore a Trento e poi è ritornata a New York dove ha potuto insegnare alle elementari in inglese e in italiano. Sposata con un tirolese canadese, si è trasferita a Montreal dove ha insegnato per 38 anni. Laura Stefania Oreglia Trento. Ha scritto una monografia su Clara Sereni e il romanzo d’esordio Dal Matto al Mondo (Youcanprint, 2013). Collabora con il Gruppo In-Pagina di San Michele a/A. Ha partecipato al romanzo collettivo Pochi silenzi. Nel suo blog, Racconti di Laura su Wordpress pubblica racconti, poesie e scritti vari. Riccardo Ozog Francesconi Rovereto. La passione per la scrittura si è manifestata nei primi anni di liceo con brevi poesie. Ora i suoi scritti variano dalla poesia al teatro, altra sua grande passione insieme alla musica. Nessuna opera sua è mai stata pubblicata. Luisa Pachera Avio (TN). Giornalista e scrittrice, ha pubblicato i romanzi Vollmilchschokolade, Mergellinapils (vincitore del premio Nuovi orizzonti) e La tela di Blondie. Per i bambini ha scritto storie e favole in musica edite da Osiride, con cui ha inoltre pubblicato parecchi saggi storici e biografie. Numerose le opere teatrali, tra cui www.sanvirtuale.it, segnalato al concorso Cofas e Stava, 19 luglio 1985, attestato di merito al Premio Oltreparola. Marinette Pendola Granarolo dell’Emilia (BO). Nata a Tunisi, dalla sua infanzia tunisina trae spunto il romanzo La riva lontana. Studiosa della storia, degli usi e costumi della comunità italiana di Tunisia, ha curato il volume L’alimentazione degli italiani di Tunisia e ha pubblicato Gli italiani di Tunisia. Storia di una comunità (XIX-XX secolo) oltre che numerosi articoli. Il romanzo La traversata del deserto uscirà nel 2014. Tiene regolarmente laboratori di scrittura creativa. Snežana Petrovic Rovereto. Nata nella ex Jugoslavia, di nazionalità serba, si è laureata a Belgrado in Letteratura e lingua serba. Mediatrice interculturale nelle scuole, ha collaborato con la rivista “Missioni Consolata” con articoli sulla Serbia e sulla religione ortodossa. Suoi racconti, poesie e articoli sono stati pubblicati sulle riviste “Didascalie”, “Missioni Consolata”, “Ilustrovana Politika” e “Pravoslavlje”. Attualmente insegna lingua e cultura serba ai figli degli immigrati serbi. Biagio Proietti Roma. Ha scritto per il cinema, Fai in fretta a uccidermi... ho freddo, La morte risale a ieri sera (da I milanesi ammazzano il sabato di Giorgio Scerbanenco), The Black Cat di Lucio Fulci, Chewingum e Puro cashmere, anche diretti. Protagonista dei grandi gialli televisivi Rai: Coralba, Come un uragano, Lungo il fiume e sull’acqua, Un certo Harry Brent, Ho incontrato un’ombra, Philo Vance, Signé: Ta Claudia, La mia vita con Daniela, Doppia indagine, Un uomo curioso, e soprattutto Dov’è Anna? (pubblicato come romanzo da Rizzoli), record d’ascolto nel ’76. Per la tv ha scritto Racconti fantastici da Edgar Allan Poe, Madame Bovary, Storia senza parole premiato come miglior FilmTv , trasmesso in tutto il mondo. Ora si dedica ai romanzi: Una vita sprecata, Io sono la prova, Chiunque io sia, Io che ho visto i delfini rosa. Morena Pedrotti Rovereto. Insegnante, naturopata, ama viaggiare, leggere, scrivere. Due romanzi pubblicati (Risalire la china, edizioni Stella, 2005 e Serendipity, edizioni Alcione, 2011), con i racconti brevi lavora di cesello per dare forza e dignità a parole e sentimenti. Giuliana Raffaelli Rovereto. Giornalista pubblicista radiotelevisiva, per anni voce nota di Radio Rovereto Stereo, presentatrice di premi letterari nazionali e internazionali e manifestazioni culturali varie. Collabora 280 281 con alcune riviste di cultura e attualità. Lettrice di poesia e prosa, conosciuta come sensibile interprete, da sempre interessata alla poesia e alla sua dizione. Socia del Gruppo Poesia 83, della società Dante Alighieri e de Il Furore dei Libri. Studiosa di discipline astrologiche, tiene incontri radiofonici e conferenze-dibattito. natrice di redazione, e tenuto cicli di lezioni sul tema. I suoi racconti sono stati pubblicati in varie antologie. Insieme alla scrittrice Diana Sganappa, è stata curatrice dell’antologia Parole di Pane (Farnesi editore, 2013). Un romanzo è di prossima uscita e altri due in fase di stesura. Giorgio Ragucci Brugger Borgo Valsugana (TN). Il suo primo libro in versi, I Cavalli di Fedro, coniuga l’impegno culturale con lo spirito di solidarietà che ha caratterizzato anche le opere successive. La seconda opera poetica si intitola Poema del Trentino; sono seguiti poi alcuni romanzi, una serie di racconti e un saggio su Beethoven. Sarcitana Ala (TN). Si occupa della formazione teatrale di giovanissimi cercando di mantenere viva la parlata locale. Scrive soprattutto testi teatrali brillanti per la scuola e per adulti, in italiano e dialetto trentino. Segnalazione di merito al Concorso Autori Co.F.As. per Celulari dela malora - messaggi a luci rosse, testo teatrale in dialetto trentino, pubblicato nella Collana del Teatro Trentino. Michela Rigotti Trento/San Michele all’Adige (TN). Da anni coltiva la passione per l’arte figurativa e la poesia. Fa parte del gruppo letterario “In.pagina” di San Michele con il quale ha collaborato a raccolte di racconti e poesie. Partecipando a corsi di scrittura e poesia ha prodotto due raccolte di poesie da lei illustrate. È iscritta all’archivio degli artisti trentini (ADAC) del Mart. Giovanna Sartori Trento. Nata a Verona, è vissuta ad Arco e a Rovereto. Ha pubblicato Il cantare di Dolcino (1996, ristampe nel 2000 e nel 2007), T’amo che Dio la manda (1998), Dove giocano gli orsi (2002) e le due commedie Dina Lodron, contessa di C. Romano (1999) e Un curdo in casa (2000). Un libro di racconti Il mondo di Fatima (2006). Nel 2008, Scorrendo pagine d’acqua. Rossella Saltini Rovereto. Milanese di nascita, si trasferisce nel 1985 a Rovereto, dove tuttora vive e lavora. Lettrice onnivora e scrittrice compulsiva, vincitrice di concorsi e premi letterari, si è occupata di recensioni per il sito letterario “Il salice narrante” ed ha pubblicato racconti sul blog novel del sito “Eventi trentino”. Attualmente collabora con “Il Trentino”, mensile della Provincia Autonoma di Trento, e tiene una rubrica sulla rivista “Il Furore dei Libri”. Nel 2010 è uscito il suo primo romanzo Il tempo dei quadrifogli di seta (Montag). Marco Savarese Roma. Iinsegna matematica e fisica presso un liceo della capitale. Ha scritto per i suoi studenti qualche dispensa di carattere scientifico disponibile in rete sul suo sito. Questo è il secondo racconto pubblicato con Parole per strada. Emma Saponaro Roma. Esperta nelle tematiche dell’adozione. Ha collaborato con l’Associazione Famiglia e Minori, pubblicato articoli a carattere psico-giuridico per la rivista omonima, diventandone coordi- 282 Barbara Scovoli Desenzano (BS). Insegnante per passione, scrittrice per disperazione. Catia Simone Bardolino (VR). Ha pubblicato racconti sulla rivista letteraria “Inchiostro”, su un’antologia della Historica Edizioni e per la collana “Incipit d’autore” della Giulio Perrone Editore. Blogger del Corriere della Sera sul forum “leggere e scrivere”. Ha pubblicato per la rivista letteraria “Inchiostro” un breve racconto nell’agosto 2009 intitolato Il Funerale 283 e Maglia n.32 nel febbraio 2013. Due raccolte poetiche Frammenti nel 2012 e Amore 2012 nel 2013 con il self publishing. Collabora con la rivista “Il Furore dei Libri” con articoli e racconti. Giorgio Tosini Brescia. È docente e psicologo. Ha pubblicato articoli di psicologia su riviste scientifiche. Ama la lettura e scrive racconti che non ha mai pubblicato. Mirta Slomp Rovereto. Le piace scrivere in particolar modo racconti che ricordano il passato e le persone che ha incontrato nella sua vita. Diana Ungureanu Chişinău (Repubblica Moldova). Bibliotecaria presso la Biblioteca Municipale “B.P.Hasdeu”. Laureata in Lettere all’Università Statale della Moldova, collabora con alcune testate giornalistiche occupandosi di cultura e di recensioni librarie. Abdelmalek Smari Milano. Algerino, giunge a Milano nel 1992. Pubblica Fiamme in paradiso, Il Saggiatore 2000, premio Marisa Rusconi. Tempora et mores (poesie) ha una menzione speciale al Premio Montano 2006. Si cimenta nel teatro con Il poeta si diverte e L’asino sulla terrazza. Nel 2008 pubblica L’occidentalista - Libribianchi. Gli sono dedicati: una tesi di laurea alla Statale di Milano (2011) e il Supplemento del numero di giugno della rivista online El-Ghibli (2012). Andrey Josè Taffner Fraga Blumenau (Brasile). Ha studiato giurisprudenza ed è avvocato. Ha pubblicato diversi articoli in Brasile ed in altri Paesi. Come discendente di emigrati trentini è componente del direttivo del Circolo Trentino di Rio dos Cedros ed è stato il fondatore del Gruppo Giovani Trentini chiamato Tosarami (parola del dialetto valsuganotto che significa “ragazzi”). Adelina Valcanover Trento. Insegnante, ora in pensione, si dedica al teatro, come presidente dell’Associazione Culturale “Amici di Parola”, oltre a tenere lezioni di dizione, calligrafia e teatro anche nelle scuole. Ha due rubriche settimanali sul quotidiano on line “RagusaOggi”, scrive e racconta storie, alcune pubblicate sul “Gazzettino Ibleo”. Ha preparato anche testi teatrali. Ha un romanzo per ragazzi nel cassetto che prima o poi conta di pubblicare col titolo provvisorio di Il viaggio di Isacco. Marco Vallarino Imperia. Scrittore, giornalista e game designer, vive a Imperia. Finalista in vari premi letterari, ha pubblicato il romanzo Il Muro (ed. Alacràn) e numerosi racconti in volume e su rivista, oltre a videogiochi testuali liberamente scaricabili da Internet, tra cui l’horror Darkiss! Il bacio del vampiro. Anna Tava Mezzolombardo (TN). Le piace che nome e cognome si siano fusi in annatava, il suo nome d’arte. Per lavoro si occupa di pubblicazioni e di laboratori formativi, nel tempo libero pure. Collabora con il quotidiano “Trentino” e organizza eventi culturali artistici. Vincitrice e finalista in diversi concorsi letterari, ha pubblicato la raccolta di racconti Assenze e presenze (Seneca), la raccolta poetica Sapessi (Uni-Service) e i romanzi Intenso (Temi) e Notte senza meta (Uni-Service). Laura Vignali Pistoia, insegna lettere. Debutta nel 2007 con il romanzo Il treno fischiava ancora (Tracce) a cui segue la trilogia gialla ambientata a Pistoia Tutta colpa di Amalia, Il dottor Bencistà e il segreto delle tre donne sole e Il sapore del vino (Del Bucchia). Del 2011 è il romanzo Il cappotto del babbo (Del Bucchia), storia di un maresciallo quarratino internato in un lager tedesco. Tra i molti suoi racconti, pubblicati su antologie, riviste e web, L’ultima sfida nel far west padano ha vinto il “Premio Europa” di narrativa gialla & noir al femminile. 284 285 David Wilkinson è nato in Inghilterra, ha compiuto gli studi a Oxford, Mosca (in epoca brezneviana) e a Madrid nella Spagna della transizione. Studioso di lingue, molte delle quali parla, ama anche il mondo classico, la filosofia, la storia e la teologia. In Pakistan ha sviluppato un amore per la lingua Urdu e un gran interesse per la lingua e la cultura dei Moghul, in particolare per le raffinate poesie-canzoni Ghazal nonché del genere Qawali. Numerosi i premi importanti vinti: 21 in Italia, uno a Madrid e un altro ad Atene. Fulvio Zanoni Rovereto. Musicista, ha pubblicato due raccolte per pianoforte, alcuni testi musicologici, un romanzo (Stupidi tutti, 2011), un saggio poetico (Everness, 2012), il volume Mozart ai Confini d’Italia (2012). Paolo Ziino Catania. Ha pubblicato il saggio I due Zoppo di Gangi, C.R.E.S., Catania, 2009 e il volume I racconti della memoria, Il Convivio, Castiglione di Sicilia, 2013. Ha conseguito per la narrativa e la saggistica vari premi e riconoscimenti. Antonio Angelo Zurlo Santa Teresa (Espirito Santo, Brasile). Da giovane contadino, arrivò a diventare tecnico in agricoltura e avvocato. Presidente fondatore del Circolo Trentino di Santa Teresa nel 1987 e dell’lstituto Storico e Geografico di Santa Teresa. In pensione, vive in Santa Teresa, coinvolto nelle attività della comunità locale e del Circolo Trentino, del quale è l’attuale Direttore Culturale. 286 Ringraziamenti Vittorio Vulcan Palù di Giovo (TN), ha lavorato fino al 2008 nel campo edile stradale. Nel proporre l’ idea di «Parole per strada» abbiamo avuto l’ occasione di incontrare chi, condividendone lo spirito e le finalità, oltre a manifestare interesse e apprezzamento, si è reso concretamente disponibile a sostenere la sua realizzazione e a collaborare con «Il Furore dei Libri» per il miglior esito del progetto. Il nostro grazie particolare va quindi a: Regione Trentino Alto Adige Provincia Autonoma di Trento Assessorato alla cultura, rapporti europei e cooperazione Comune di Rovereto Assessorato alla contemporaneità – Assessorato alla condivisione dei saperi Comunità della Vallagarina BIM Valle dell’ Adige Fondazione Cassa di Risparmio di Trento e Rovereto Cassa Rurale di Rovereto Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto CGIL del Trentino Biblioteca civica e Archivi storici di Rovereto Consorzio Rovereto INCentro Musica Cittadina «Riccardo Zandonai» - Rovereto Civica Scuola Musicale «Riccardo Zandonai» - Rovereto Centro Servizi Volontariato - Trento Associazione «Il Gioco degli specchi» - Trento Associazione «Italia-Moldova» - Besozzo (Va) Gruppo letterario «In-pagina» - San Michele A.Adige Associazione «Gruppo Poeti 83» - Rovereto Associazione «Amici di Parola» - Trento Comunità «L’ Approdo» - Rovereto 287 Il Furore dei Libri DOMANDA DI ISCRIZIONE - 201_ Io sottoscritt_ ________________________________________ Il Furore dei Libri è un’ associazione culturale di promozione sociale che si occupa dalla sua fondazione (2004) della promozione del libro e della lettura, organizzando eventi, celebrazioni e iniziative di divulgazione per avvicinare i cittadini alle istituzioni che si occupano di conservare e mettere a disposizione il patrimonio librario e sostenendole nel diffondere la conoscenza e la valorizzazione dello stesso. Promuove inoltre i Gruppi di lettura (di narrativa, di poesia, di filosofia, di psicanalisi) per gli adulti e favorisce un approccio creativo alla scrittura per i bambini delle scuole elementari. Con eventi come «Parole per strada» (e in passato, le «Trilogie d’Estate» e «Rovereto in giallonoir») si propone di portare gli autori ad un contatto più diretto e pubblico con i potenziali lettori, nella convinzione che il libro è solo un ponte tra chi scrive e chi legge. Per i bibliofili, e per chi ama leggere di libri e sui libri, propone la riedizione di testi rari o introvabili e pubblica ogni quattro mesi “La Rivista del Furore”, in abbonamento gratuito per i Soci. Per diventare soci de Il Furore dei Libri e sostenere la sua attività, basta compilare la domanda riportata a fianco. Per ogni altra informazione: www.ilfuroredeilibri.org [email protected] 288 nat_ a________________________ il_____________________ residente a_______________ via_________________________ cell __________________ e_mail_________________________ chiede di essere ammesso a far parte in qualità di socio dell’Associazione Culturale “Il Furore dei Libri” e allo scopo ☐ dichiara di aver versato sul C.Corrente intestato a IL FURORE DEI LIBRI Cassa Rurale di Rovereto IBAN IT63H0821020800000000129686 ☐ dichiara di aver versato tramite PayPal dal sito www.ilfuroredeilibri.org la quota pari a Euro ___ ,00 corrispondente alla quota annua di: ☐ € 10 - Studente ☐ € 30 - Ordinario ☐ € 50 o più - Sostenitore Dichiara di essere consapevole che l’adesione è subordinata all’accettazione della domanda da parte del Consiglio Direttivo. Nel caso di non accettazione della domanda la somma versata verrà integralmente restituita. Data _____________ Firma _____________________ Ai sensi dell’art. 13 del D.lgs. 196/2003 l’Associazione culturale “Il Furore dei Libri”, in qualità di titolare del trattamento, informa che i dati forniti saranno inseriti nella propria banca dati e saranno trattati sia per finalità inerenti al rapporto societario che per l’invio di informazioni inerenti l’attività dell’Associazione. Il conferimento dei dati è obbligatorio unicamente per quanto concerne la partecipazione all’Associazione in qualità di socio. I dati saranno trattati dall’Ufficio Amministrazione dell’Associazione. Il Responsabile cui potrete rivolgerVi per l’esercizio dei diritti previsti dall’art. 7 D.lgs. 196/2003 (relativi alle facoltà di cancellazione integrazione o modifica dei dati, etc.) è il Presidente pro tempore dell’Associazione culturale “Il Furore dei Libri” ai recapiti della sede. Data __________ Firma per accettazione __________________ Edizione riservata e non in vendita realizzata in occasione del concorso ad invito per un racconto brevissimo «Parole per strada - 2013» Il Furore dei Libri editore - Rovereto - Dicembre 2013