Episteme N. 4 - gianobifronte

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Episteme N. 4 - gianobifronte
EPISTEME
Physis e Sophia nel III millennio
An International Journal
of Science, History and Philosophy
N. 4
21 Settembre 2001 / 21st September 2001
2
Direttore Responsabile: Euro Roscini
Supplemento semestrale ad: Arte in Foglio
Pubblicazione registrata presso il Tribunale di Perugia, N. 36/1991
Morlacchi Editore, Piazza Morlacchi 7/9, 06123 Perugia - Italy
[email protected] , http://www.morlacchilibri.com
ISSN 1593-3482
http://www.robotics.it/episteme
http://www.dipmat.unipg.it/~bartocci
(per ottenere ~ tenere premuto Alt mentre si compone il numero 126 con i simboli numerici
nella parte destra della tastiera)
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EPISTEME
Physis e Sophia nel III millennio/Physis and Sophia in the III millennium
An International Journal of Science, History and Philosophy
N. 4 - 21 Settembre 2001 / 21st September 2001
Informazioni editoriali/Editorial Policy
Presentazione del volume
Pubblicazioni ricevute/Received books and journals
Errata Corrige - Annunci/Announcements
1 - Lino Conti: La topologia del tempo nell'Antichità - Confronto preliminare
fra mondo greco e mondo ebraico
2 - Bruno d'Ausser Berrau: Sum ergo cogito - Intorno al rivolgimento
dell'emblematica divisa del pensiero cartesiano ed alla conseguente messa in
discussione del sistema
"
"
" : De rationis occasu - Dal razionalismo all'assurdo,
passando per l'arbitrario
3 - Euro Roscini: Avvicinandomi a Wittgenstein…
4 - Theo Theocharis: WHAT IS "EPISTEME"? The meaning of "science"
and "truth"
5 - Giorgio Taboga: A case of damnatio personae - Andrea Luchesi, and his
role in the birth of Haydn, Mozart and Beethoven myths
6 - Franco Baldini: ET IN ARCADIA EGO - Semantiche mito-ermetiche in
alcuni quadri di Guercino e Poussin (Parte I)
7 - Emilio Spedicato: Immanuel Velikovsky and his Worlds in Collision, 50
years after…
8 - Alberto Lombardo: Da Rivolta contro il mondo moderno a Gli uomini e
le rovine - Julius Evola 1934-1951
9 - Umberto Bartocci, Laila Rossi: La scienza come strumento ideologico Il caso Galilei e la falsificazione della cosmologia tolemaica
4
10 - Rocco Vittorio Macrì: La fisica unifenomenica cartesiana e il punto
debole dell'Intelligenza Artificiale forte
- "
"
" : The magnetic field as a particular current of
ether - A proposal of experiments on its possible interaction with light
11 - Theo Theocharis: Space Dependence of Light Velocity May Explain
Anomalous Effect Seen in Distant Spacecraft
12 - Umberto Lucia: Equivalenza tra definizione classica e statistica
dell'entropia
"
" : Massima o minima entropia? Approccio globale e
locale nella termodinamica dei processi irreversibili: Landau e Prigogine
Reprints
Roberto A. Monti: Low Energy Nuclear Reactions - The Revival of Alchemy
(allegato, in 7 parti: proposta di una nuova tavola periodica degli elementi)
Commenti ricevuti/Received comments
Mario Agrifoglio: Dalla teoria tricromatica di Maxwell a una nuova
concezione cromatica bipolare della luce
Michael Falotico: Mileva Einstein-Maric
Emilio Spedicato: Geography of Gilgamesh Travels, Part II - The Route to
Mount Mashu
Recensioni
John A. Bossy: Giordano Bruno e il mistero dell'ambasciata
David Donnini: Cristo, una vicenda storica da riscoprire
(con contributi di Bruno d'Ausser Berrau e Sabato Scala; un breve saggio di
Claudio Smargiassi: "La doppia anima del cristianesimo"; due articoli di
David Donnini: "Dio non avrebbe mai scritto un libro come la Bibbia" /
"Come nacque la Bibbia - Indagine critica sulle radici storiche del Vecchio
Testamento")
Carlo Giacchè: Sindone - Una trama templare
Presentazione del prossimo numero
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INFORMAZIONI EDITORIALI
Episteme è soprattutto una rivista "non convenzionale" on-line, reperibile presso i seguenti
siti: http://www.robotics.it/episteme , http://www.dipmat.unipg.it/~bartocci .
Articoli, commenti e altro materiale sono benvenuti, e possono essere presentati per la
pubblicazione da parte di ciascuna persona interessata. La spedizione può essere effettuata
vuoi a mezzo Internet, a:
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(inviare eventuali attachments soltanto in formato txt, o doc - si prega di non usare tex! - ed
eventuali figure, tabelle, etc. in formato jpg),
vuoi facendo pervenire un dischetto tramite posta ordinaria, all'indirizzo:
"Episteme", Dipartimento di Matematica, Università, 06100 Perugia - Italy.
Respingendo ogni forma di "monopolio linguistico", Episteme intende mantenersi
plurilingue, pertanto i lavori potranno essere redatti in qualsiasi (quasi!) lingua, vale a dire
Francese, Inglese, Italiano, Spagnolo, Tedesco (etc.?!).
L'accettazione degli articoli è decisa dagli organizzatori - in base alla conformità con la
linea della rivista - che ne informeranno in modo tempestivo i proponenti, riservandosi
eventualmente di acquisire pareri di esperti (le opinioni ricevute saranno eventualmente
rese note agli interessati), e/o di chiedere agli autori chiarimenti o modifiche.
Il materiale ricevuto anche se non utilizzato non si restituisce.
- La diffusione via Internet di parti della rivista avviene in qualche caso prima della data
prevista per la pubblicazione ordinaria, dopo la quale però ogni correzione ai lavori messi a
disposizione in rete viene segnalata in un apposito Errata Corrige.
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rispetto a quella a stampa (per esempio in presenza di caratteri o simboli speciali). Il file
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dalla redazione (come attachment) a chiunque ne farà richiesta.
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secondo le personali momentanee disponibilità. Sovvenzioni per tenere in vita l'iniziativa
sono ovviamente ben gradite, e possono essere inviate via vaglia postale o assegno (intestati
ad Episteme) al sopra citato indirizzo.
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Istituzioni, etc.. Tali copie potranno essere ottenute da singoli rivolgendone specifica
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del numero delle pagine: per esempio, poiché i volumi successivi al primo constano di oltre
300 pagine, il prezzo di questi sarà di L. 25.000, mentre quello del N. 1, di cui restano
ancora disponibili pochi fascicoli, rimane fissato in L. 20.000). Detta somma va intesa
esclusivamente quale rimborso (assai parziale!) per le spese di stampa, rilegatura e
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progetto. Si ringraziano pertanto in anticipo coloro che vorranno richiedere la versione a
stampa della rivista.
EDITORIAL POLICY
Episteme is mostly an on-line publication, but it does produce even printed copies. In
order to obtain some of these (about 15$ each), a request should be sent to the editor, at one
of the addresses indicated below.
Episteme is interested in publishing papers which illustrate unconventional points of view
- that is to say, which do not usually appear in other academic journals - in Science, History
and Philosophy.
Since Episteme is thought of as a multi-linguistic journal, papers are accepted and
possibly published in Deutsch, French, English, Italian, Spanish (etc.?!).
Episteme will communicate to contributors as soon as possible whether submitted papers
are in agreement with the journal's criteria, or not.
Files of the papers, in doc or txt format (please avoid tex!), together with possible
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or by diskette, through ordinary mail, to:
"Episteme", Dipartimento di Matematica, Università, 06100 Perugia - Italy.
Episteme can be found at the following web sites:
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in a suitable Errata Corrige.
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the journal's whole issue) will be sent free (as an attachment) from the editorial office to
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PRESENTAZIONE DEL VOLUME
The same fate once befell at Babel...
Siamo ovviamente lieti che un fascicolo di Episteme - speriamo ricco e interessante come i
precedenti - sia nuovamente puntuale all'appuntamento con i lettori, nonostante le
molteplici difficoltà, non soltanto d'ordine materiale, che hanno costellato la nostra più
recente attività. In relazione a queste ultime, ci è sembrato stavolta conveniente dedicare il
presente spazio, piuttosto che alla consueta "presentazione" (del resto, il volume parla
benissimo da sé...), a una sorta di "manifesto" della rivista, ispirato dal timore che possa
essersi generato uno spiacevole equivoco. In effetti, se è vero che la linea della rivista è
alquanto critica della condizione attuale della ricerca scientifica e storiografica - nella
sopravvenuta consapevolezza (illustrata brillantemente da Theo Theocharis nell'ampio
saggio contenuto in questo medesimo numero) che a un certo punto del suo (breve)
itinerario storico science has gone wrong - è anche vero che dalla persuasione dell'esistenza
di una siffatta "degenerazione"1 non siamo mai stati indotti al rifiuto totale del metodo
scientifico, della "ragione", di per sé: persuasi, al contrario, che è stato soltanto con
l'irruzione della razionalità sulla scena della storia che si è aperta una via di fuga e di
libertà per l'essere umano, fino allora sempre succube del sistema delle "superstizioni
organizzate", e dei gruppi di presunti "iniziati" che alcune innate credulità e paure hanno
perennemente eletto a fondamento di controllo e dominio sui comuni "profani" (appena
compensati dalla funzione consolatoria delle religioni "strutturate"). Tale duplice
convinzione era del resto all'origine stessa del "progetto Episteme", con cui ci si prefiggeva
di risvegliare delle "coscienze" apparentemente anestetizzate dall'imperante conformismo,
di illustrare la possibilità (e la necessità) di un ritorno a una scienza e una storia razionali2,
indipendentemente dai condizionamenti del "potere" - ai nostri giorni, dall'omologazione
all'ideologia globalizzatrice della demo-cultura - ma il rischio che ci è parso ingigantirsi nel
corso del cammino è che il descritto proposito sia stato frainteso, e la nostra fatica
apprezzata per lo più (?!) da persone convinte della generale inaffidabilità, o incompletezza,
del "metodo" anzidetto3, che porterebbe a trascurare (quanto allora in "cattiva fede", e/o al
servizio di inconfessabili finalità?) amplissimi, e forse essenziali, settori della "realtà":
angeli e demoni, fate e folletti, dischi volanti e contatti con alieni, messaggi da decifrare
celati nella pietra da fantastiche superevolute civiltà del passato, etc.. Insomma, stiamo
parlando di tutte le leggende sul "paranormale" e il "soprannaturale"; della pseudofisica con
le sue strabilianti affermazioni4; della fantastoria che infesta best-sellers e trasmissioni
televisive, nelle quali il successo è maggiormente garantito dalla (spesso strampalata)
sensazionalità delle "teorie" proposte, che non dalla loro fondatezza, dai loro possibili
riscontri5; e così via, ci si è di sicuro ben compresi.
Poiché deludere spiace sempre, comunque, ecco che non si può allora non manifestare il
rammarico per aver disatteso talune "aspettative", che pure avrebbero potuto essere evitate
tenendo conto che Episteme non ha mai nascosto di avere come proprio saldo punto di
riferimento il pensiero, e il metodo, cartesiani, il miglior elogio nei confronti dei quali è
proprio quello espresso da uno dei principali "avversari" di Cartesio, vale a dire Voltaire.
Infatti, nel mentre questi descriveva l'opera del filosofo a cui si deve l'introduzione del
dubbio metodico (e non del dubbio sistematico degli "scettici" e dei "relativisti", come
fraintendono alcuni) con parole del tipo: "Non nego che tutte le opere di Descartes
brulichino di errori […] la sua filosofia divenne solo un romanzo ingegnoso, e tutt'al più
8
verosimile per gli ignoranti", non poté astenersi dall'ammettere che egli: "distrusse le
assurde chimere con cui da duemila anni si riempivano le idee dei giovani; insegnò agli
uomini del suo tempo a ragionare e a servirsi contro di lui delle sue stesse armi. Se non ha
pagato in moneta buona, è molto che abbia screditato la cattiva" (dalle cosiddette Lettere
inglesi, scritte tra il 1727 e il 1733; Ed. Boringhieri, Torino, 1958).
Si replicherà naturalmente che anche certi articoli finora presentati su Episteme non
sfuggono ai precedenti rilievi, e che piuttosto che fare critica si dovrebbe fare auto-critica:
può darsi, ma è ovvio che su determinate "scelte" si è riflettuto, e a lungo, e tutto ciò che
abbiamo proposto (o rifiutato!) è stato attentamente vagliato alla luce dell'interrogativo
fondamentale: "A chi o a che cosa potrebbe essere utile questa pubblicazione?". Tra le
sterili angustie dell'ortodossia contemporanea, e le ciance stile "New Age", il materiale
apparso (o citato) su Episteme ci è sembrato in ogni caso portare elementi a favore di quella
terza posizione su cui siamo costretti, da onestà intellettuale e dovere morale, ad attestarci.
Del resto, bisogna riconoscere che ci si trova qui dinnanzi a una vera e propria antinomia
della "ragione pratica", tra l'esigenza di favorire un dibattito assolutamente libero (in questo
volume viene per esempio dato ampio spazio perfino a una critica del dualismo cartesiano
secondo il punto di vista "tradizionale"), l'espressione di tutti i tipi di dubbio (si veda la
riflessione di Pietro Abelardo prescelta come "motto" per il primo numero della rivista), e
quella di non dimenticare che la nostra mèta resta costante: la ricerca di frammenti di verità.
E la verità, per riecheggiare Aristotele, non può non "costringere", opporsi cioè alla libertà
incondizionata, rimanendo nella sua essenza al di fuori delle possibilità di manipolazione di
potenze terrene, di umani "interessi": non è forse inutile rammentare le parole, dal valore
eterno, pronunciate da Galileo al riguardo: " [...] non è comunque in potere di alcuna
creatura farle essere vere o false, diversamente da quello che sono per natura e di fatto.
Perciò sembra che la decisione più saggia sia quella di assicurarsi prima della necessaria e
immutabile verità del fatto, sulla quale nessuno ha la possibilità di intervenire [...]" (dalla
lettera a Cristina di Lorena già citata nella Nota N. 3).
Per esprimere altrimenti il nostro pensiero, le "difficoltà" d'ordine pratico e teoretico che
abbiamo dovuto fronteggiare, non saremmo persuasi di rendere un servizio a chicchessia, se
Episteme non diventasse altro che un ulteriore strumento con cui si accresce la Babele
culturale che ci circonda (solo parziale, peraltro, dal momento che di certi "punti fermi",
componenti uno Zeitgeist che viene difeso anche con la forza, non appare assolutamente
lecito dubitare), si contribuisce ad aumentare quel rumore di fondo che alla fine non può
che costituire un "bianco" quasi totale, in cui risaltano appunto solamente alcune
"frequenze" privilegiate (e non da un criterio di "verità"). Il nostro (per continuare a usare
un plurale, che rischia di trasformarsi assai presto in un triste singolare) proposito è ben
chiaro, ma la sua attuazione pratica, ahimé, assai meno. Primo, perché non sembra essere di
grande aiuto in questo particolare frangente l'altrimenti pregevolissimo criterio delle
intenzioni dell'autore: se numerosi sono infatti i profittatori, i mestatori di professione
(coloro i quali, più che alla coscienza, rispondono ai "committenti", e alle prospettive di
vantaggi immediati), gli accademici che per finalità di "carriera" si limitano a seguire
passivamente la moda imposta al/dall'ambiente, molti sono pure gli "ingenui", che cadono
in assoluto candore in certe "trappole" intellettuali. Secondo, perché accade che diversi
contributi provenienti da persone non-integrate, ancorché criticabili talora dal punto di vista
del metodo, della "logica", o del "rigore", siano a volte maggiormente interessanti, e
"vicini" al vero, dei corrispondenti "professionali", per i quali sovente, purtroppo, il citato
rigore non è diventato ormai niente più che un involucro vuoto. Esprime bene tale contrasto
Jacopo Fo (nel suo saggio sulle piramidi di cui ci occuperemo in Episteme N. 5 - vedi la
pagina finale di presentazione del prossimo numero): " […] si capisce perché gli
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accademici temono di essere confusi [con tali persone] […] Cercano di cogliere in fallo gli
accademici [detti altrove dall'autore: "parrucconi"] e poi sfruttano lo sbilanciamento
mentale (dovuto alla forza delle loro scoperte) per trascinare l'ascoltatore su per un sentiero
che abbandona ogni prova logica".
Speriamo di riuscire ad andare avanti sulla via che ci appare in questo momento come
unica percorribile, senza tentennamenti e senza commettere troppo gravi "errori", anche se
non bisogna dimenticare che l'esito quasi scontato di talune imprese sembra proprio la
solitudine, condizione esistenziale che rimanda ancora una volta a Cartesio. Una "terza
posizione" forse "disperata" quella che così proponiamo, ma "A che serve vivere, se non
c'è il coraggio di lottare?" (parole del giornalista Giuseppe Fava, ucciso dalla mafia nel
1984, utilizzate come "motto" dell'interessante e-zine: Catena di SanLibero, prodotta da
Riccardo Orioles, [email protected]).
1
Tra l'altro, una "deviazione" che serve precise finalità socio-politiche, un progetto mondialista di
globalizzazione, tendente a ridurre il singolo individuo a elemento di un "gregge", o - come
sembrerebbe più appropriato dire, con riferimento alla leadership mondiale statunitense - di una
"mandria"? Ne riparleremo nel prossimo numero, in relazione all'inquietante opera di Maurizio
Blondet, Gli "Adelphi" della Dissoluzione - Strategie culturali del potere iniziatico. L'ineludibile
perplessità è che la "scienza" possa essere stata utilizzata a guisa di strumento d'eversione soltanto
finché è "servita", mentre raggiunti determinati scopi il "nuovo potere" ha avuto tutto l'interesse a
disinnescarne la carica eternamente "rivoluzionaria", instaurando una "nuova ortodossia", e una
"nuova inquisizione", stavolta di tipo politico-ideologico e non più religioso, che guidano la caccia
ai "nuovi eretici"...
2
E qui v'ha luogo per una precisazione che non può essere omessa nel presente contesto: quando si
parla per esempio di una fisica "irrazionale", non si vuole alludere ovviamente a contraddizioni
logiche interne nelle teorie correnti, la cui ricerca è tanto cara ai numerosi "fisici" che si dilettano di
coltivare obiezioni del tutto controproducenti per la stessa causa che vorrebbero servire, quanto
piuttosto a un'oggettiva designazione di "sistemi" che non riconoscono il ruolo fondante delle
nozioni comuni di spazio, tempo e causalità, espressioni di quella forma di razionalità "naturale", la
quale, se si dovesse distinguere da altre pretese forme di razionalità, potrebbe altrimenti dirsi
ordinaria.
3
Non sarà sfuggita al lettore maggiormente esperto in questioni epistemologiche la somiglianza di
alcune delle nostre asserzioni ad analoghe altre di Feyerabend, seppure non condividiamo la sua
conclusione fondamentale che quella scientifica sia una cultura "come tutte le altre": il guaio oggi
non è tanto che la "scienza" si sia troppo sviluppata fino a diventare oppressiva, come pensano molti
(in parte, come dicevamo, poggiandosi su considerazioni fondate), quanto viceversa che non si sia
sviluppata a sufficienza, insieme all'etica che, almeno nelle dichiarazioni pubbliche, avrebbe dovuto
accompagnarsi ad essa - ad evitare le tentazioni dell'uso improprio della conoscenza a fini di
"potere", e quindi di "tirannide" (anche se, a ben vedere, già Francesco Bacone, uno dei "padri
fondatori" del movimento in questione, constatava, e forse non del tutto "innocentemente", che:
"Neque enim agitur solum foelicitas contemplativa, sed vere res humanae et fortunae, atque omnis
operum potentia [..] Itaque intentiones geminae illae, humanae scilicet Scientiae et Potentiae, vere
in idem coincidunt" - nella sezione "Distributio Operis" del Novum Organum, 1620). Feyerabend è
noto in particolare per un'opera in cui contesta l'esistenza di un "metodo" scientifico, ma quando ci
riferiamo qui a questo concetto vogliamo semplicemente rifarci per esempio alle seguenti parole di
Galileo, che si ispirano al puro e semplice "buon senso" (e coprono "intuitivamente" sia il campo
dei giudizi sintetici a posteriori - esperienze - sia quello dei giudizi analitici a priori - logica
consequenziale - né escludono il possibile ruolo di giudizi sintetici a priori nell'edificazione di ogni
"sistema del mondo"): "pare che quello degli effetti naturali che o la sensata esperienza ci pone
dinanzi a gli occhi o le necessarie dimostrazioni ci concludono, non debba in conto alcuno esser
10
revocato in dubbio" (da una famosa lettera a Cristina di Lorena, 1615). Per ciò che concerne le
valutazioni di Feyerabend riguardanti piuttosto la "sociologia della scienza" (contemporanea),
riportiamo alcune righe da un mail del già citato Theocharis: "<<I can say from observation of
university research policies, extraordinary emphasis is placed on following the funding streams for
research projects. Pragmatically it means that to get funded, the researcher must describe the project
in terms of the funding opportunity. It is a deformity of the notion of politically neutral science>>
[Stephen Miles Sacks]. Having discovered in the 1970s the enormous waste (of time and resources and public funds!) in the Closed Systems of academic research, I asked myself the very same
questions. In the present Closed System, the researchers collectively are accountable only to
themselves, and thus in effect have a licence to burn (not their own but public) money. Worse, this
Closed System best suits the mediocrities whose real expertise, as indicated by Feyerabend, lies in
spin, subterfuge, theatrics, mendacity, deceit, and power-grabbing; whereas the decent and honest
researchers in this Closed System who dare to point out the improprieties (whistle-blowers,
dissidents) are invariable marginalised, silenced, or penalised in other worse ways".
4
Di solito tanto più stupefacenti quanto meno verificabili nei fatti. Buffo a tale proposito osservare
anche come certe "linee di ricerca" siano dall'establishment scarsamente osteggiate, se non
addirittura favorite, rispetto ad altre, secondo quanto osserva acutamente il fisico Caroline H.
Thompson (comunicazione privata, [email protected], http://www.aber.ac.uk/~cat/): "It is
clear that the various establishments tolerate and even sponsor and promote the harmless and
unthreatening groups of "dissidents". This is very true! A dissident group that publishes obvious
nonsense is to be encouraged as it shows up the relative sanity of the establishment. This shows in
the publication of papers on my own pet subject, the Bell test experiments. If you propose some
explanation depending on absurd communication, maybe even backwards in time, between your
two particles, you have much more chance of publication in PRL or PRA than I have. It has got to
the point at which I found myself judging a new contact unlikely to be of interest to me on the basis
of the fact that he HAD managed to get a paper published in PRA!"
5
Si potrebbe aggiungere che la "buona fede" di certo tipo di attività culturali è dimostrata dal
ricorso costante alla strategia della fuga di fronte a specifiche obiezioni, a sollecitazioni di
chiarimento. Esemplare è il caso di una recente trasmissione di Rai 3 ( Turisti per caso), nel corso
della quale sono state fatte numerose affermazioni sensazionali sulla "questione colombiana", ma i
cui responsabili non hanno mai risposto a richieste scritte di precisazioni (i particolari potranno
essere portati a conoscenza degli interessati che vorranno contattarci).
(UB)
*****
Pubblicazioni ricevute/Received books and journals:
1 - Amitabha Ghosh, Origin of Inertia - Extended Mach's Principle and
Cosmological Consequences
Apeiron, Montreal, 2000
C. Roy Keys Inc., 4405 rue St-Dominique, Montreal, Quebec H2W 2B2,
Canada - [email protected] , http://redshift.vif.com/
The riddle of inertia solved! Absolute motion defined by relational motion parameters with
respect to an infinite, quasistatic universe. Problems associated wiht Newton's laws of
11
motion and universal gravitation. Evidence for a cosmic drag depending on velocity with
respect to the mean rest frame of the universe. Solutions to long-standing mysteries of
celestial nechanics.
2 - Jean-Pierre Vigier and the Stochastic Interpretation of Quantum
Mechanics, A Volume in Honour of the 80th Birthday of J.P. Vigier
Papers selected and edited by Stanley Jeffers, Bo Lehnert, Nils Abramson, Lev
Chebotarev
Apeiron, Montreal, 2000
From the Foreword: Professor Jean-Pierre Vigier is a living link to that glorious generation
of physicists that included Einstein, De Broglie, Schrödinger, Pauli and others. In fact,
Einstein wanted the young Vigier to be his personal assistant. Given Vigier's political
positions and the onset of the Cold War, its was not possible for him to obtain a visa to go
to Princeton to work with Einstein. Physics and politics have dominated Vigier's life. His
philosophical approach has been consistently materialist and accordingly he has sided with
Einstein against Bohr in the great disputes over the interpretation of quantum mechanics.
3 - William Day, A New Physics - A Revision of Space, Motion and the
Structure of Matter
Foundation For New Directions
93 Belmont St., Cambridge, MA 02138, USA
[email protected] - http://www.fnd.org
The Michelson-Morley paradox of 1887 can be explained by either of two suppositions.
The author dismisses the current theory that the velocity of light is constant because of
"relativistic effects" and takes the alternate view that light and matter have unrelated
motions. He then deductively outlines a new physics that reshapes the definition of space
and gives explicit meaning to inertia and motion. Space is defined as the induction fields
generated in a nonphysical mediun by the reverberations of structural motion of particles...
4 - Common trends in Condensed Matter and High Energy Physics,
Proceedings of the fourth Chia Meeting, Antonio Barone and Alberto Devoto
Editors, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Napoli, 2000
Palazzo Serra di Cassano, Via Monte di Dio 14, 80132 Napoli, ITALY
From the Preface: ...the aim of the meeting was to bring together experts from the
Condensed Matter and High Energy Physics communities in order to encourage and
facilitate the exchange of ideas in these very active areas of research, as dialogue between
practitioners of the "reductionist" and the "holistic" approaches will always be of help
towards a better understanding of the physical world.
5 - Marco Celentano, Etologia della Conoscenza - Per una teoria critica del
comportamento umano
Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, "Il pensiero e la storia"
12
Ed. La Città del Sole, Napoli, 2000
Dall'Indice: Il comportamento come problema umano - La scuola di Altenberg e il tema
della genesi dei comportamenti cognitivi - Sui comportamenti cognitivi preumani Contributi ad una teoria critica del comportamento cognitivo umano - Etologia della
conoscenza: prospetto delle fonti e delle problematiche. Dalla Prefazione: ...un'attenta
ricostruzione e un approfondimento problematico dei risultati raggiunti in uno dei più
interessanti settori della ricerca scientifica contemporanea: l'epistemologia evoluzionistica o
teoria evoluzionistica della conoscenza (EE).
6 - Johann Gottlieb Fichte, Logica Trascendentale I - L'essenza dell'empiria,
a cura di Alessandro Bertinetto
Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, "Fichtiana", Collana diretta da
Reinhard Lauth e Marco Ivaldo
Ed. Angelo Guerini e Ass., Milano, 2000
Dall'Introduzione: ...Reinhard Lauth ha mostrato l'articolazione sistematica dei corsi di
lezione tenuti da Fichte all'Università di Berlino nel periodo compreso tra il dicembre 1809
e il gennaio 1814. Fra le discipline teoriche che compaiono nell'ultimo sistema fichtiano
una novità rispetto a quelli elaborati a Jena e a Erlangen è costituta dai due corsi di logica
trascendentale del 1812. Il testo che qui presentiamo è la traduzione integrale del primo di
questi corsi, pervenutoci in forma completa nell'autografo del filosofo.
7 - Giovanni Stelli e David Lanari, Modelli di insegnamento della filosofia Modello teoretico, modello storico, filosofia al computer
Istituto Italiano per gli Studi Filosofici
Ed. Armando, Roma, 2001
Dalla Presentazione: Il rapporto tra dimensione teoretica e dimensione storica
nell'insegnamento della filosofia, di grande attualità in relazione ai progetti di estendere tale
insegnamento a tutti gli indirizzi della scuola secondaria superiore, costituisce il tema della
prima parte del volume. Vengono discussi i due modelli fondamentali di insegnamento
della filosofia, il modello teoretico, dalla versione sistematica a quella, recente,
"problematico-critica", e il modello storico, spesso confuso col metodo storicistico che ne
costituisce piuttosto una degenerazione. Utilizzando concezioni tipologiche e cicliche della
storia del pensiero, viene poi proposto un modello di insegnamento della filosofia in cui il
rilievo conferito alla dimensione teoretica non penalizza la dimensione storica. La seconda
parte del lavoro è dedicata al problema della filosofia al computer. La dimensione teoreticoargomentativa della filosofia può essere valorizzata da software didattici adeguati, in cui sia
centrale l'aspetto dell'interattività cosciente…
8 - Bruno Franchi, Siamo Dio
Edito in proprio, 2001
[email protected] , http://space.tin.it/io/brufran
13
Un inconsueto e interessante saggio filosofico in forma di dialogo, ispirato alle concezioni
di Wilhelm Reich, la cui finalità ultima è di persuadere che: "Siamo qui per ricordare di
essere Dio".
9 - Jacopo Fo e Laura Malucelli, Schiave ribelli - 500 anni di vittorie
africane censurate dai libri di storia
Ed. Nuovi Mondi, 2001, 06020 Scritto (Perugia), Italy
[email protected] , http://www.alcatraz.it
Eva era nera e anche Adamo. Erano neri i primi agricoltori, i primi costruttori di canali, i
primi faraoni e i primi imperatori cinesi. Sull'Africa ci hanno raccontato solo bugie. Prima
dell'arrivo degli schiavisti c'erano civiltà matriarcali comunitarie evolutissime e non si
conosceva la parola prostituta. Nessuno racconta che queste popolazioni, guidate da donne
straordinarie, riuscirono a resistere ai colonialisti. Nessuno racconta come le schiave nere
deportate in America capeggiarono migliaia di ribelli ... crearono territori liberi dove
vissero per secoli senza contatti con i bianchi...
10 - Luciano D'Abramo, Fisica & Psiche - Rilettura analogica delle leggi
della fisica e delle relazioni umane
Ed. Il Minotauro, Milano, 1997
[l.d'[email protected], l.d'[email protected], [email protected];
Via A. Mori, 7 - 00176 Roma]
Dalla Prefazione: Non c'è separazione tra aspetti fisici e aspetti mentali. Il concetto di "unità
di mente e corpo", ormai così diffuso anche nel mondo occidentale, implica che le leggi alle
quali è sottoposta questa unità chiamata "uomo" siano le stesse. Le leggi della fisica si
applicano allo stesso modo sia agli oggetti che ai corpi degli individui, che ne
rappresentano i sistemi più complessi, comprendendo una struttura che la scienza definisce
più propriamente come "psichica". Questo è, in estrema sintesi, il motivo della ricerca
condotta attraverso questo libro. Purtroppo i linguaggi utilizzati nel corso del tempo per
studiare le leggi della fisica e quelli creati per investigare i meandri della psiche, sono stati
sempre più influenzati dalla suddivisione che ha imperato per molti secoli tra queste
discipline, e quindi, almeno in apparenza, sembrano trattare argomenti e scoperte
completamente differenti tra loro. La mente umana, però, pur aderendo alla separazione tra
le discipline scientifiche e quelle umanistiche, è rimasta prigioniera - in alcune sue
espressioni - dell'unità che, in origine, sottendeva alla natura umana. Così, riscoprendo le
espressioni più comuni che hanno superato le barriere del tempo e della cultura prevalente,
ho cercato di ricomporre questi frammenti nell'unità originaria, aiutato proprio dalle
analogie che queste stesse espressioni evocano. Parole come "espansione", "calore",
"reazione", "centro", "gradi di libertà" e tante altre, fluttuando tra la fisica e l'espressione
dei sentimenti dell'essere umano, costituiscono il veicolo su cui ho tentato di unire scienza e
anima.
14
*****
Tra i nuovi titoli di riviste pervenute alla Redazione di Episteme, per le quali
tutte ringraziano ancora una volta sentitamente i curatori, si segnala:
- VIÁTOR, Rassegna di prospettive tradizionali, Anno IV, 2000, Annuario del
G.E.R., Direttore Responsabile Alberto Fava
Via Cavour, 20 - 38068 Rovereto (Trento)
http://www.roverete.it/ger
[email protected] , [email protected] .
*****
Errata corrige
1) In the paper by Ken H. Seto, "The Resurrection of the Light Conducting
Medium for Modern Physics", published in Episteme N. 3, Equations (2.17)
and (2.18) must be modified as follows:
Pd = Pm
v 2 cos 2 θ
1−
c2
v cosθ = c 1 −
Pd2
Pm2
(2.17)
(2.18)
The author apologizes for the inconvenience.
2) In virtù di una segnalazione di Antonio Socci, che si ringrazia sentitamente,
si è rilevata un'improprietà nel commento di Franco Baldini sulla Primavera di
Botticelli, pubblicato nel numero precedente. In effetti, il riferimento fatto
all'Immacolata Concezione - che non pretendeva peraltro di essere
circostanziato - poteva alimentare, così come illustrato, il diffuso equivoco
secondo cui tale "dogma" concerne la nascita verginale di Gesù, e non, quale è
invece il caso, quella di Maria, riconosciuta immune dal peccato originale.
Una nuova versione dello scritto in parola, convenientemente modificata in
ordine a questo punto, è disponibile in rete. Il Dott. Socci osserva pure che è
illegittimo definire Origene un "Padre della Chiesa", trattandosi di un semplice
"scrittore ecclesiastico", responsabile di numerose deviazioni teoretiche dalla
dottrina ortodossa della Chiesa che sono state ufficialmente denunciate.
15
*****
[Episteme receives, and publishes]
Dear Madam/Sir
Should you consider it appropriate, and if there is still time, we would appreciate it if you
could mention the conference described below in your publication and/or circulate the
announcement among your colleagues.
Kind regards
Helen Terre Blanche (Conference Alerts)
[email protected]
Conference Announcement
Activism, Ideology, and Radical Philosophy Conference
7 November 2002, Providence, RI, USA
The RPA Conference Program Committee invites submissions of talks, papers, workshops,
roundtables discussions, posters and other kinds of conference contributions, for its fifth
biennial conference.
In the spirit of collaboration, and in the recognition that radical philosophy is often done
outside traditional philosophical settings, we invite submissions not only from philosophers
inside and outside the academy, but also from those who engage in theoretical work in other
academic disciplines-such as ethnic studies, women's studies, social sciences and literary
studies-and from those engaged in theoretical work unconnected to the academy.
We especially welcome contributions from those often excluded from or marginalized in
philosophy, including people of color, glbt persons, persons with disabilities, poor and
working class persons.
The Radical Philosophy Association is approaching its 20th year. It is appropriate that we
reflect on radical philosophy-the endeavor that has brought members of the RPA together
for a generation. Accordingly, the theme for its sixth national conference will be radical
philosophy itself, its relation to social and political activism, and its potential to contribute
to one or more counter-hegemonies.
Despite (and often because of) differences in the kinds of activism in which we engage, in
our philosophical styles and emphases, and even in our far-reaching goals, we in the RPA
seem still to have an affinity that makes collaboration fruitful. We are all concerned about
oppression-generating inequalities, about the limits of reform that is oblivious to the need
for structural change, and about philosophies that leave no room for reflection on their own
roots.
But is this affinity strong enough to be the basis for cooperating both among ourselves and
with other broad social groups to create an effective movement? Or is this affinity so
16
unsuited for that kind of cooperation that we can only wish each other luck in our separate
struggles? Does the conception of "radical philosophy" travel intact across borders, or does
it have a distinctive meaning in the US? What sort of meaning, for example, does radical
philosophy now have as a practice in Eastern Europe? Or China? Or the former Soviet
Union? Or Cuba? When Marxist philosophy has been the establishment philosophy of state
socialism, what has that meant for the concept of radical philosophy in that context? Does
radical philosophy have to be inclusive (i.e. address all forms of social domination, such as
racism, class exploitation, male dominance, heterosexism, able-ism, etc.), or can someone
be a radical philosopher if they critique only one kind of social domination? Must radical
philosophy support identity politics or must it insist on a solidarity politics beyond identity?
As radical philosophers, we face with particular urgency the barrier between the theoretical
work of philosophers and the practice of activists. How are we doing so? How might we do
so?
We encourage submissions that employ formats and media that challenge the standard
conference presentation. For instance, we urge presenters to use formats that allow for
greater interaction between participants and audience. Please consult the web page for
detailed information about submissions.
E-mail enquiries: [email protected]
Website: http://www.uvm.edu/~radphil/rpa2002call.htm
Submission deadline: 31 January 2002
Organized by: Radical Philosophy Association
----------------------------------------------------------------This conference announcement distributed by ConferenceAlerts.com
*****
Dear Madam/Sir
I realise that the conference below is probably too soon to be mentioned in your
publication, but thought that you or your colleagues might nevertheless be interested.
Kind regards
Helen Terre Blanche (Conference Alerts)
[email protected]
17
Conference Announcement
Beyond the Brain IV: Perspectives on Meditation
23 to 26 August 2001, Ripon, Yorkshire, United Kingdom
Just occasionally I get the feeling that somebody has said something important*
John Cleese
This August a pioneering group of world-class experts will meet at a public conference to
put forward groundbreaking frameworks for a fast-growing Western interest: meditation.
No longer a fringe activity, meditation is now medically recommended for heart disease
patients and even business executives. Since the 1970s scientists have taken an interest in
brain wave patterns associated with regular meditators, and studies reveal the extraordinary
benefits of meditation.
All the speakers at this conference have extensive experience of meditation in addition to
their scholarly expertise. This makes it an exciting occasion where there can be a true
meeting of outer and inner in a spirit of open exploration.
Confirmed speakers include: James Austin, Guy Claxton, Ram-Prasad Chakravarthi, Peter
Fenwick, David Fontana, Bisong Guo, Sr. Jayanti, Jon Kabat-Zinn, Z'ev ben Shimon
Halevi, David Lorimer, Andrew Powell, Jonathan Shear, Alan Wallace, Elizabeth West,
and Arthur Zajonc.
Beyond the Brain will also be experiential, with communal meditations and contemplative
walks, especially to the nearby ruins of Fountains Abbey, perhaps one of the most beautiful
and peaceful places in England. There also will be plenty of time for informal conversations
and an exchange of ideas over meals and drinks with other participants.
* John Cleese's remark about Guy Claxton, conference speaker.
Beyond the Brain is organized by the Scientific and Medical Network, Infinity Foundation
Spirituality (the specialist interest group of the Royal College Of Psychiatrists) and the
British Psychological Society (Transpersonal Section).
BOOKINGS: TEL ++44(0)1333 340 490, E-MAIL: [email protected]
PRESS, MEDIA & SPEAKER ENQUIRIES: [email protected]
E-MAIL ENQUIRIES: [email protected]
WEBSITE: http://www.scimednet.org
----------------------------------------------------------------This conference announcement distributed via ConferenceAlerts.com
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La topologia del tempo nell'Antichità
Confronto preliminare fra mondo greco e mondo ebraico
(Lino Conti)
La prima e sconvolgente intuizione dello scorrere del tempo ha sicuramente contribuito ad
innescare l'evoluzione culturale (o esosomatica) dell'homo sapiens sapiens. Ma ancor più
dell'esperienza dell'inarrestabile flusso temporale, evidenziato dalle incessanti
trasformazioni delle cose, è stata l'invenzione ( o la scoperta) del futuro a scatenare
l'evoluzione culturale. Senza dubbio, la comparsa della sistematica capacità di far
riferimento ad un futuro inosservabile con l'occhio dei sensi costituì il più chiaro attestato
dell'effettiva apparizione del pensiero nello scenario dell'evoluzione biologica. Fu, infatti,
proprio la piena conquista della dimensione dell'avvenire a sancire quel miracoloso salto
nella noosfera, che rese la mente capace di elevarsi sopra il flusso dei dati percettivi
immediati, immaginandosi dei mondi possibili, dei domani, ancora non visti, che
anticipavano le oscure distese temporali posteriori alla morte.
Mai nessun contraccolpo dell'invenzione sull'inventore fu più decisivo di quello inferto
dalla comparsa dell'avvenire e dalla conseguente inquietante aspettativa del futuro. Alla
conquista della dimensione del futuro sono legati la religiosità, evidente già nel culto dei
morti, e l'atteggiamento tecnico-progettuale, operativo già nello scheggiare una pietra di
selce alla luce di una progettazione che ne anticipava l'uso e ne pianificava la funzione
strumentale nelle circostanze future. Dalla prima consapevole intuizione dell'avvenire
l'uomo non ha mai cessato di sondare l'enigma del tempo e di interrogarsi sul destino
futuro. Unico vivente a possedere l'angosciante consapevolezza della propria mortalità, ha
intrapreso tutte le strade pur di arginare il senso di tragica precarietà generato dall'irruzione
del futuro nel campo della sua esperienza immediata. Un incessante avvicendarsi e
intrecciarsi di tecniche e forme divinatorie ( profezia, astrologia, oniromanzia, epatoscopia,
libanomanzia, lecanomanzia, aleuromanzia… ) (1) hanno così segnato la sua ininterrotta
interrogazione sul tempo, perennemente alimentata dal bisogno di svelarne il segreto ritmo
e l'ancor più enigmatica struttura. I suoi modi di scandagliare gli abissi del futuro hanno
finito così con l'incidere in maniera talmente profonda nella formazione delle sue strutture
mentali che ancora oggi è possibile ricavare i tratti distintivi delle antiche civiltà
dall'evoluzione storica dei modi di concepire e di esplorare l'avvenire.
Quando, a partire dalle ancestrali concezioni animistiche del mondo, si iniziò a spiegare i
fenomeni visibili mediante il ricorso a forze ed entità invisibili, si fece strada anche l'idea di
un sotterraneo legame genealogico tra passato e futuro. Emerse così la convinzione che
l'avvenire fosse generato dal passato-presente e che quindi dalle situazioni passate e da
quelle presenti dipendessero le caratteristiche strutturali del tempo e dell'avvenire. Questa
convinzione, innescando una risalita a ritroso verso il momento iniziale, verso il remoto
capostipite di ogni processo di generazione, si sedimentò nell'idea che l'intera trama del
tempo fosse determinata dagli eventi iniziali e, più in generale, dalla natura del principio da
cui erano scaturite tutte le cose e tutti i processi naturali.
Tale idea legò indissolubilmente la questione della struttura del tempo alla soluzione del
problema dell'origine e del principio di tutte le cose. Non a caso l'inscindibile nesso della
topologia del tempo con la questione dell'origine è chiaramente attestato tanto dalla
19
concezione greca della temporalità quanto da quella ebraica. E' infatti proprio intorno alla
cruciale tematica del principio originario di tutte le cose che la cultura greca e quella
ebraica, fra il VI e V secolo a.C., determinarono due poderose rotture con le tradizionali
narrazioni mitologiche delle origini, da cui sgorgarono due diverse topologie della
temporalità, tuttora in permanente tensione tra loro, le quali, in definitiva, sottintendono due
concezioni diverse della salvezza, nonché due differenti atteggiamenti epistemologici nei
confronti della conoscibilità del mondo.
In questa breve nota, prendendo come termine di riferimento la cosmologia di
Anassimandro, non tenterò di ricostruire, neanche per sommi capi, la complessa storia delle
concezioni del tempo nell'Antichità; mi limiterò invece ad indicare, in via del tutto
preliminare, come le due diverse topologie del tempo delineate dal mondo greco e da quello
ebraico discendano dalla diversità d'impostazione e di soluzione del problema dell'origine e
del principio di tutte le cose.
1. L'eterno e l'origine
A livello generale, il problema dell'origine, dalla cui impostazione dipende la struttura del
tempo, si colloca sempre sullo sfondo di quella che Leibniz riteneva la domanda metafisica
fondamentale: <<Perché esiste qualcosa piuttosto che il nulla? Il nulla, infatti, è più
semplice e più facile di qualcosa>> (2).
Naturalmente, questa domanda, che contiene l'implicito assunto secondo cui il nulla non
ha affatto bisogno di spiegazione, è dettata dal <<grande principio di ragion sufficiente>>.
Essa, di per sé, non implica che la realtà, presa nella sua globalità, abbia necessariamente
un'origine, ma richiede solo <<una ragion sufficiente a spiegare perché>> c'è qualcosa di
reale piuttosto che il nulla e quindi perché questo qualcosa è così e non altrimenti. Questa
ragione, ovviamente, dev'essere essa stessa reale, cioè dev'essere, come minimo, reale
quanto il qualcosa che è chiamata a spiegare. D'altra parte, non è infatti illogico supporre
che questa ragione sia interna alla realtà, presa in tutta la sua estensione, e che quindi la
realtà stessa sia dotata di un'autonoma energia immanente capace di garantire la propria
esistenza e la propria perenne autoconservazione ed autorealizzazione. Dopo tutto, non va
dimenticato che risulta impossibile fondare l'esistenza di qualcosa di reale a partire da
qualcosa di totalmente irreale. Questa impossibilità ha spesso indotto a guardare con
sospetto e con razionale diffidenza tutte le narrazioni delle origini, tanto quelle dell'antica
mitologia quanto quelle dell'attuale cosmologia. Recentemente, ad esempio, l'astrofisico
Fred Hoyle ha di nuovo invitato a coltivare una sana diffidenza verso tutte le tematiche
dell'origine. <<Ogniqualvolta viene pronunciata la parola origine - ammonisce Hoyle evitate accuratamente di credere a quello che vi raccontano, anche se sono io a
raccontarlo>> (3).
In effetti, <<la parola origine>>, in tutta la gamma delle sue applicazioni a quei
problematici "eventi iniziali" che sembrano confinare col nulla o con l'amorfo ( gli amorfi
inizi del mondo, del tempo, della vita , del pensiero…), ha sempre sollevato accese
controversie in campo filosofico e scientifico. Non a caso, verso la fine dell'Ottocento, il
fisiologo Emil du Bois-Reymond (1818 - 1896) poneva tra gli enigmi inspiegabili dalla
scienza proprio le questioni concernenti l'origine. In due celebri conferenze, tenute a
Berlino nel 1872 e nel 1880, proclamava l'esistenza di sette enigmi del mondo destinati a
sfuggire per sempre a tutti gli assalti della conoscenza scientifica. Tutti i problemi
concernenti le normali interazioni fra i sistemi fisici - affermava du Bois-Reymond - sono
sicuramente risolvibili in base al modello di spiegazione scientifica incarnato dalla
meccanica celeste di Laplace. Pertanto, di fronte a questioni ancora irrisolte concernenti
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l'evoluzione dei sistemi materiali si dovrà pronunciare soltanto un provvisorio "ignoramus":
non siamo ancora riusciti a risolverle, ma le risolveremo sicuramente col progredire della
conoscenza. Ci sono, però, sottolineava du Bois-Reymond, sette problemi ineludibili, sette
enigmi del mondo, che la scienza non potrà mai risolvere e di fronte ai quali allo scienziato
non resterà altro che pronunciare l'inappellabile e definitivo verdetto "ignorabimus":
ignoriamo e ignoreremo per sempre. Le questioni concernenti l'origine costituiscono la
maggior parte di questi sette enigmi inspiegabili dalla scienza. L'origine del moto, l'origine
della vita, l'origine della sensibilità e dei processi di coscienza, l'origine del pensiero e del
linguaggio, secondo du Bois-Reymond, sollevano interrogativi fondamentali a cui la
scienza non sarà mai in grado di dare una risposta soddisfacente (4).
Ernst Haeckel (1834 - 1919), zoologo dell'università di Jena, noto per la legge biogenetica
fondamentale secondo cui l'ontogenesi ricapitola la filogenesi, si contrappose alle
conclusioni scetticheggianti di Emil du Bois-Reymond , negando l'esistenza di problemi
insolubili per la scienza. Nell'opera Gli enigmi del mondo (1899) Haeckel sostenne
spavaldamente che per la scienza non esistono misteri, perché energia, materia, vita e
coscienza non hanno un'origine, giacché sono proprietà dell'unica sostanza eterna, la cui
eternità è chiaramente attestata << dalla legge chimica di conservazione della materia e
dalla legge fisica della conservazione dell'energia>>. L'eternità della materia-energia,
secondo Haeckel, eliminerebbe tutti gli enigmi del mondo, dal momento che il finalismo
sarebbe riconducibile all'ordinamento meccanico della natura, la libertà della volontà
risulterebbe un'illusione e la formazione della vita e del linguaggio si spiegherebbe con
l'evoluzione (5).
Non è qui il caso di entrare nel merito di questa disputa che vivacizzò il clima
positivistico degli inizi del Novecento. Quello che invece va sottolineato è che la
contrapposizione fra du Bois-Reymond ed Haeckel esemplifica in maniera paradigmatica la
persistente antitesi tra l'idea di un'origine (del mondo e del tempo) che porrebbe la scienza
di fronte a problemi insolubili e l'idea di un'eternità senza inizio (della materia-energia) che
invece spazzerebbe via dall'orizzonte scientifico tutti gli enigmi insolubili.
Per quale motivo, almeno in linea di principio, l'eternità della materia e del tempo sarebbe
così favorevole all'illimitata estensione della spiegazione scientifica, mentre la loro
eventuale origine porrebbe insormontabili difficoltà o limiti invalicabili alla razionalità
scientifica? Per accostarci al cuore di questo problema è opportuno vedere, ancor prima di
prendere in considerazione la possibilità o meno di risolvere razionalmente la secolare
antitesi tra finitezza e infinità del tempo, qual è stata la condizione fondamentale che ha
reso possibile la nascita della scienza, della razionalità scientifica. Quale delle due opposte
tesi, sostenute rispettivamente da du Bois-Reymond e da Haeckel, era più vicina allo spirito
che ha generato nel VI secolo a.C. la mentalità scientifica?
2. La scienza nasce dal grembo di un'eternità senza inizio
<<Tra tutti i miracoli dell'universo mitico - ha scritto Harrison - il più notevole, più
anomalo e più gravido di conseguenze fu il sorgere della scienza>> (6). E se si tiene
presente che in molte culture antiche si assiste ad una sconcertante serie di mancati
concepimenti della scienza, non si può non provare stupore di fronte a questo "miracolo
greco", che ha creato e sviluppato la mentalità scientifica. Perché la scienza è nata proprio
in Grecia e non altrove? Quali sono state le condizioni che hanno reso possibile la sua
nascita?
Soffermarsi, sia pure schematicamente, su questi interrogativi è indispensabile per
comprendere la topologia del tempo, perché ciò che determinò la nascita della mentalità
21
scientifica fu proprio una particolare connotazione temporale del principio primo, posto
all'origine e alla base di tutte le cose di tutte le trasformazioni fisiche.
Com'è noto, la nostra scienza, cioè il nostro modello di spiegazione causale dei fenomeni
naturali, nacque da una nuova e rivoluzionaria impostazione del problema dell'origine di
tutte le cose. La problematica dell'origine delle cose era stata ripetutamente affrontata già
molto tempo prima di Talete. Essa veniva abitualmente risolta dal pensiero mitologico
enunciando che a un certo momento, all'improvviso, emergeva una divinità ordinatrice o un
qualcosa di ordinato. Esiodo, l'espressione matura del pensiero mitologico, senza
preoccuparsi affatto di specificare da che cosa proveniva la divinità primigenia, affermava
semplicemente che all'inizio nacque Chaos, poi la Terra ed Eros e così via (7). Più in
generale, le soluzioni mitologiche del problema delle origini consistevano in narrazioni di
teogonie-cosmogonie che prendevano l'avvio dall'improvvisa irruzione sullo scenario del
mondo di una divinità primigenia, dalla cui sovranità assoluta discendeva la garanzia della
regolare successione di giorni e stagioni. Nei miti cosmogonici narrati da tali teogonie non
c'è né una nascita assoluta del mondo, né l'idea di una creazione ex nihilo. Nella visione
mitologica, infatti, il processo cosmogonico viene inteso esclusivamente come un passaggio
all'ordine, come una diakosmèsis.
Nonostante questa sua totale estraneità all'idea di creazione ex nihilo, il pensiero
mitologico non si curava affatto di portare il discorso sulla fonte di provenienza della
divinità primigenia e del materiale informe. In particolare, non si preoccupava di indicare
l'età o le caratteristiche temporali della fonte primigenia e del sostrato caotico che ex
abrupto veniva messo in ordine. In questo modo, restando temporalmente indeterminati
tanto la fonte di provenienza quanto l'amorfo elemento caotico primigenio, il pensiero
mitologico lasciava sempre aperta la possibilità - osservava acutamente Kurt von Fritz <<di inserire prima di ciò che è stato posto come inizio ancora un qualcosa, fosse pure un
nulla o uno stato ibrido tra l'essere e il nulla>> (8). Non a caso, nelle civiltà mitologiche
inserimenti di questo genere rientravano nella normalità. Di solito le popolazioni vincitrici
o predominanti ridisegnavano l'ordine genealogico delle teogonie delle nazioni sconfitte,
inserendo i propri dèi prima di quelli delle popolazioni vinte. L'assoluta indeterminatezza
temporale dell'amorfa condizione iniziale da cui partivano le narrazioni mitologiche
permetteva, insomma, un regresso all'infinito, perché rendeva possibile una sequenza
infinita di regressioni (9) a qualcosa di ancor più originario rispetto a ciò che era stato posto
come primo o come capostipite delle teogonie. Proprio questa possibilità di regressione
all'infinito verso qualcosa di ancor più anteriore di ciò che veniva di volta in volta assunto
come anello iniziale venne definitivamente bloccata dall'assioma (stabilito da Talete,
Anassimandro e Anassimene) dell'eternità del principio originario da cui scaturivano tutte
le cose. La prima fondamentale conseguenza dell'eternità del principio fu, infatti, proprio
quella di impedire di ipotizzare che il principio primordiale fosse stato preceduto da
qualcos'altro: non poteva esserci nulla, nemmeno il nulla, di anteriore ad un principio di
tutto che è sempre esistito ed esiste per sempre.
Poiché è insensato chiedersi da che cosa sia stato preceduto ciò che esiste da sempre e per
sempre, l'eternità del principio determinava il blocco definitivo di qualsiasi possibilità di
regresso all'infinito nell'inserimento mitologico di altri stadi considerati via via come ancor
più originari. Non a caso tale eternità decretava la fine delle improvvise e inspiegabili
generazioni spontanee narrate dai miti. Lo stesso Ferecide di Siro, mitografo vissuto intorno
alla seconda metà del VI secolo a.C., avvertiva la necessità di abbandonare la categoria
della generazione spontanea, tipica della mitologie e presente ancora nella cosmoteogonia
di Esiodo. Iniziava, infatti, la sua storia mitica del mondo sottolineando l'eternità delle
divinità primigenie: <<Sempre erano Zas, Crono e Ctonia>> (10). Da questo abbandono del
22
mito della generazione spontanea e improvvisa emergeva l'assioma, anch'esso implicato
dall'idea di eternità del principio, secondo cui nulla nasce dal nulla (ex nihilo nihil fit).
In breve, bloccando il regresso all'infinito, l'assioma dell'eternità del principio originario
produceva una cascata logica di conseguenze che portava alla scoperta della causalità
naturale e quindi al modello scientifico di indagine causale della natura. I passaggi e le
strutture logico-razionali coinvolti in questa scoperta decisiva per la genesi della mentalità
scientifica occidentale possono essere sinteticamente raccolti in due momenti fondamentali.
Nel primo si arriva all'idea che ogni evento fisico consegue da antecedenti naturali; nel
secondo si giunge alla nozione di nesso causale come connessione uniforme tra antecedente
causale ed effetto conseguente basata sull'assioma dell'uniformità del corso della natura.
Entrambi i momenti si fondano sempre sull'assunto dell'eternità del principio originario.
a) Ogni evento consegue da un antecedente
Il primo momento, quello della genesi dell'idea di derivazione di ogni evento da un
antecedente causale naturale, è interamente basato sull'eternità del principio. Affermare che
l'ingenerata sostanza primordiale da cui scaturiscono tutte le cose esiste da sempre e per
sempre equivale a privare il nulla di qualsiasi potenza e di qualsiasi capacità generativa e
operativa. Dire infatti che tutto deriva da un ente primordiale eterno significa decretare
l'impossibilità di porre il nulla all'inizio dei processi di generazione degli enti: non è
possibile nessuna derivazione dal nulla; nessuna cosa può nascere dal nulla e in nulla si può
ammettere l'azione o l'iniziativa del nulla.
Se dunque non si può partire dal nulla, né attribuirgli l'avvio dei processi, allora deve
sempre preesistere qualcosa da cui procedono gli eventi. L'eternità del principio di tutte le
cose costringe, infatti, ogni evento ad avere un antecedente. Di conseguenza, tutto ciò che
accade deve derivare necessariamente da un antecedente preesistente, le cui radici ultime,
in definitiva, affondano nell'eterno principio primordiale. Gli eventi, pertanto, non si
limitano semplicemente ad accadere, come nelle improvvise e inspiegabili generazioni
spontanee narrate dai miti, ma accadono solo e soltanto al darsi di opportune condizioni.
Insomma, tutto ciò che accade, tutto ciò che nasce e perisce o che ha un inizio e una fine
segue sempre da peculiari situazioni antecedenti; è l'effetto o la conseguenza di specifiche
condizioni iniziali e nulla può quindi accadere senza una causa ( un motivo o una ragione)
che determini perché accade così e non altrimenti.
Ecco come dall'assioma dell'eternità del principio è nata l'idea di una concatenazione
causale degli eventi. Da questo momento in poi tutto ciò che avviene in natura è prodotto
da catene causali naturali e non da misteriose forze sovrannaturali. In questo modo,
scaturito dal grembo di un'eternità senza inizio, il fitto reticolo tessuto dalla concatenazione
causale estese il suo dominio su ogni processo, avviando così alla scoperta della natura,
cioè alla consapevole distinzione fra naturale e sovrannaturale e quindi alla sistematica
sostituzione dell'intervento sovrannaturale con la causalità naturale. Da questo momento in
poi al capriccioso intervento degli dèi non venne assegnato più alcun ruolo esplicativo nel
campo dei processi naturali: nella spiegazione dei fenomeni fisici non si doveva far più
ricorso ad agenti e fattori sovrannaturali.
L'estromissione dell'<<azione del dio>> dal corso della natura venne posta dal Male
sacro, la celebre opera ippocratica sull'epilessia, a fondamento ontologico e metodologico
della nuova logica della ricerca scientifica. Gli dei - afferma perentoriamente Ippocrate, il
padre della medicina scientifica - non sono responsabili dell'insorgere dell'epilessia, perché
<<se il mangiare o il somministrare queste cose genera il male [l'epilessia] o lo accresce, e
il non mangiarle lo cura, allora il dio non è più la causa (aitios), né gli atti di purificazione
23
sono la cura, ma sono i cibi che giovano o nuocciono, e svanisce così l'azione del dio>>
(11).
b) Il nesso causale come connessione uniforme
La grandiosa scoperta greca della natura, che istituì le condizioni di possibilità della
scienza e dell'intelligibilità causale del cosmo, consistette proprio in questa rivoluzionaria
affermazione della naturalezza di tutti i fenomeni fisici: tutti i processi naturali (morte e
malattie comprese) sono prodotti da sottostanti fattori naturali.
Per quanto questa concezione greca della naturalezza dei fenomeni sembri a noi la più
naturale, non va mai dimenticato che non c'è nulla di più culturale dell'idea di natura e non
va mai sottovalutato il fatto che i Greci - come ha osservato Lloyd - non scoprirono la
natura allo stesso <<modo in cui Colombo si imbatté nell'America>> (12), ma l'avvistarono
solo alla luce dell'eternità del principio originario. E fu sempre e solo sotto questa luce che
arrivarono a stabilire e a giustificare (dialetticamente o controfattualisticamente) il principio
dell'uniformità del corso della natura, nonché lo stretto isomorfismo tra nesso causale e
nesso di implicazione logica o, più concisamente, tra cosmos e logos.
L'eternità del principio non portava semplicemente ad affermare che ogni accadimento
discende da un antecedente naturale, ogni effetto da una causa, ma induceva a pensare che,
a parità di condizioni al contorno e concomitanti, le stesse circostanze causali antecedenti si
comportassero sempre allo stesso modo in ogni dove e in ogni tempo. In effetti, un conto è
dire che ogni evento consegue da un antecedente o che ogni fenomeno dipende da una
causa e un altro conto è affermare che dagli stessi antecedenti causali seguono sempre gli
stessi effetti conseguenti. Per passare dalla prima alla seconda affermazione bisogna
necessariamente fare appello al principio dell'uniformità della natura; bisogna, cioè, intuire
o postulare che gli agenti naturali si comportino sempre e ovunque allo stesso modo e che
quindi il corso della natura sia uniforme, cioè strutturalmente regolato da processi di
causazione così impersonali, immutabili e costanti da rendere in qualche modo deducibile,
dal passato, il futuro andamento del mondo, almeno su vasta scala.
L'idea di uniformità del corso della natura vuol dire, ad esempio, che a parità di
condizioni concomitanti, la fiamma sprigionata dalla legna ardente, analogamente a quanto
fece in passato, eserciterà anche in futuro (anche nei casi ancora inosservati) sempre la
stessa azione causale di riscaldamento dei corpi circostanti, così come le stesse cause che in
passato hanno determinato la morte degli uomini (a meno che non vengano disattivate o
rimosse) continueranno anche in futuro a rendere gli uomini mortali. In termini più
generali, tale uniformità vuol dire che, a parità di altre condizioni al contorno, le stesse
circostanze causali antecedenti agiranno sempre allo stesso modo in ogni dove e in ogni
tempo e che quindi antecedenti causali simili daranno sempre origine a effetti conseguenti
simili.
Come ha ripetutamente sottolineato la storiografia filosofica, la nuova impostazione
causale inaugurata dai filosofi ionici scaturì da un rivoluzionario processo di
razionalizzazione delle precedenti concezioni mitiche del mondo (13). E' d'altra parte ben
noto che in origine lo stesso concetto greco di causa era strettamente legato a quello di
responsabilità (divina o umana) e di colpa, e solo in seguito venne semplicemente <<
trasferito dall'imputazione giuridica alla causalità fisica>> (14). Ma quello che è stato meno
evidenziato dalla storiografia è che i Greci, senza una qualche implicita postulazione
dell'uniformità del corso della natura, non avrebbero mai potuto passare dalla nozione di
causa, intesa come derivazione di ogni evento da un antecedente causale, ad una nozione di
causazione naturale intesa come impersonale e immutabile fattore operativo che, a parità di
24
altre condizioni, agisce sempre allo stesso modo senza fare mai preferenze o scelte. Ed è
solo grazie a questa postulazione che i greci riuscirono a compiere questo rivoluzionario
passaggio, che permise di conferire al nesso causale quella costitutiva dimensione
dell'universalità, che estromise definitivamente dalla natura il "capriccio mitico" (15), cioè
l'arbitrario intervento di dèi che agiscono nel mondo fisico quando vogliono, come vogliono
e producono ogni volta quel che vogliono.
Uniformità della natura vuol dire connessione uniforme tra causa ed effetto, e a sua volta
questa connessione uniforme vuol dire universalità del nesso causale . L'universalità
immanente alla relazione causale consiste, infatti, nel costitutivo carattere di connessione
uniforme (cioè costante o invariante) tra l'antecedente causale e l'effetto conseguente, cioè
nella definizione essenziale di nesso causale in termini di connessione uniforme tra
antecedente causale ed effetto conseguente. Senza l'inquadramento della primitiva nozione
di causa (ogni evento consegue da un antecedente) entro la cornice del principio
dell'uniformità della natura, la causalità naturale non avrebbe mai potuto pervenire a quella
dimensione d'universalità, che conferisce ad ogni autentico nesso causale la capacità
esplicativo-predittiva di valere anche per casi analoghi non ancora osservati. Questa
inscindibile saldatura fra causalità e uniformità della natura porta a concludere che solo in
presenza di una connessione uniforme tra due particolari circostanze ha senso parlare di
nesso causale e ha quindi senso asserire che la circostanza A è causa della circostanza B. In
questo modo la connessione uniforme tra la circostanza A e la circostanza B diventa la
conditio sine qua non, cioè la condizione necessaria (ma non sufficiente) senza della quale
non si può introdurre un legame causale tra A e B. Tutto ciò vuol dire che A può essere
legittimamente definita causa di B se e solo se, a parità di altre condizioni, per qualunque
occorrenza di A si avrà sempre ( o con qualche determinata probabilità) l'occorrenza di B.
Come emerge da questa definizione, in ogni autentica asserzione causale è
costitutivamente presente un elemento di universalità: ogni spiegazione causale è tale solo
se si colloca al livello dell'universalità. Infatti, non ha senso dire che la situazione A è causa
della situazione B se non si ammette che per tutti i casi (x) in cui si ha l'occorrenza della
situazione A ( cioè Ax) si ha invariabilmente ( cioè sempre, ovunque, necessariamente o con
una determinata probabilità) l'occorrenza della situazione B (cioè Bx). Ogni espressione
causale del tipo "A è causa di B" sottintende, infatti, un asserto strettamente universale (di
tipo legiforme), che ha la forma logica del condizionale generalizzato (x) (Ax Bx).
Insomma, l'asserto universale "per tutti i casi (x), se si ha l'occorrenza della situazione A,
allora si ha invariabilmente l'occorrenza della situazione B" costituisce la condizione senza
della quale non ha senso dire che "A è causa di B".
Come è stato ampiamente sottolineato, la dimensione dell'universalità insita in ogni nesso
causale è ben evidente già nella spiegazione dei terremoti avanzata da Talete. Ponendo
come causa naturale dei terremoti i violenti ondeggiamenti delle masse d'acqua dell'Oceano
primordiale su cui galleggia la Terra, Talete non spiegò soltanto, come faceva il pensiero
mitico, questo o quel singolo terremoto, bensì universalmente tutti i terremoti in generale:
per la prima volta un'unica causa fondamentale rese conto di tutti i possibili terremoti.
L'universalità, data dalla costanza del nesso causale, permise, altresì, di instaurare il
fondamentale isomorfismo tra cosmos e logos, nel senso che consentì di esprimere la
relazione causale in termini di implicazione logica. Gli effetti - così il razionalismo greco
codificava l'isomorfismo tra cosmos e logos - seguono sempre (costantemente) dalle loro
cause, così come le conclusioni seguono sempre (necessariamente) dalle premesse che le
implicano. Anche se la traduzione linguistico-simbolica del nesso di derivazione causale
(processo di causazione) in termini di implicazione (derivazione) logica spinse talvolta
l'assimilazione del nesso causale (necessità causale) al nesso di implicazione logica
25
(necessità logica) ad una identificazione tale da generare la cosiddetta fallacia naturalistica
(16), non va mai dimenticato che è pur sempre il postulato dell'uniformità della natura il
vero pilastro su cui si fonda la possibilità di esprimere il nesso causale in termini di
inferenza logica.
Se dunque il principio dell'uniformità della natura occupa un posto così rilevante nella
fondazione del valore universale del nesso causale e nella legittimazione dell'isomorfismo
cosmos-logos, risulta di estremo interesse tentare di comprendere lo schema logico delle
argomentazioni che spinsero i primi filosofi greci ad avanzare e a difendere questo
principio, la cui validità oltrepassa la portata dei sensi e dell'esperienza di ogni uomo.
c) La difesa dialettico-controfattuale del principio dell'uniformità della natura e il plesso
"causalità-conservazione-ciclicità"
Ovviamente il principio dell'uniformità della natura non è una tautologia , né un assioma
autoesplicativo , né una verità talmente evidente da essere conoscibile a priori. Esso, una
volta acquisito, trova sicuramente conforto nell'esperienza quotidiana di reiterate e costanti
correlazioni analoghe a quelle rilevabili, ad esempio, fra le nubi e la pioggia ( senza nubi
non si dà pioggia). Ma non va mai dimenticato che, almeno dal punto di vista storico, la
ripetuta osservazione di queste costanti correlazioni non è risultata sufficiente, prima
dell'avvento della filosofia ionica, a imporre il principio dell'uniformità della natura.
Quest'ultimo - come cercherò di evidenziare - trova nell'eternità dell'arché il vero terreno
genetico e il fulcro della sua legittimazione razionale. Ovviamente si tratterà di una
legittimazione che non approderà mai ad una diretta dimostrazione apodittica dell'assoluta
necessità che il corso della natura debba essere sempre uniforme, o dell'assoluta necessità
che, analogamente a quanto avvenuto nel passato, il corso futuro delle cose non cambi mai
le proprie basilari regole di sviluppo, ma si svolga sempre secondo le stesse leggi ( le stesse
strutture causali) che hanno governato l'andamento del mondo nel passato. Dei principi
primi, infatti, non si può dare strutturalmente una dimostrazione, perché altrimenti si
andrebbe incontro ad un regresso all'infinito nella dimostrazione. Del principio
dell'uniformità della natura, al pari di tutti gli altri principi primi, si può dare solo una
legittimazione razionale consistente in una difesa della sua validità mediante prove indirette
basate su argomentazioni dialettiche. La caratteristica fondamentale di queste
argomentazioni è quella di far leva su condizionali controfattuali, costruiti sullo sfondo di
un passato di durata illimitata (di un passato privo di un inizio assoluto) e aventi ricadute
empiricamente controllabili.
Cerchiamo di ricostruire la struttura di questa difesa dialettica, che in generale ha il suo
centro focale nel seguente schema controfattuale: << se l'uniformità del corso della natura
potesse essere realmente violata, allora, poiché l'universo è sempre esistito e ha quindi alle
spalle una storia di durata illimitata, violazioni del genere dovrebbero essere avvenute già
da lungo tempo e almeno alcune conseguenze di queste violazioni dovrebbero essere
osservabili ancora oggi>>. Per non ingenerare equivoci, questo schema richiede una
precisazione preliminare: non si possono scambiare per violazioni dell'uniformità della
natura eventuali cambiamenti olistici dell'intero assetto di leggi naturali, perché nessuno
potrebbe mai rendersi conto di tali istantanei cambiamenti globali dell'intero sistema di
leggi naturali, così come nessuna misurazione spaziale, ad esempio, potrebbe mai rilevare
un improvviso e identico aumento di tutte le grandezze spaziali, per la semplice ragione che
anche i regoli di misurazione avrebbero subito gli stessi incrementi di grandezza (17). Per
di più, se vi fossero repentini cambiamenti olistici di tutto il complesso delle leggi naturali,
si avrebbe tutt'al più una sequenza di sistemi di uniformità della natura, una serie di
26
"nature", ma non ancora una violazione del principio di uniformità della natura. Ciascun
elemento di questa serie di sistemi di uniformità della natura potrebbe, infatti, risultare al
proprio interno inviolato e inviolabile. Di conseguenza, le uniche eventuali violazioni del
principio di uniformità della natura che ha senso prendere in considerazione sono quelle di
tipo locale o non olistico; le uniche di cui ci si potrebbe rendere conto in qualche modo. Le
argomentazioni dialettiche a difesa del principio dell'uniformità della natura prendono in
considerazione i condizionali controfattuali che descrivono tali ipotetiche violazioni non
olistiche.
E' stato fin dall'antichità ribadito che non è logicamente sufficiente constatare la mortalità
(senza eccezioni) degli uomini che ci stanno intorno per concludere universalmente che in
ogni tempo e in ogni luogo, in ossequio al principio dell'uniformità della natura, tutti gli
uomini continueranno regolarmente ad essere mortali. Ma questa insufficienza logica non
implica che gli uomini nel corso futuro della loro storia naturale debbano diventare
immortali. Al contrario: se si assume che il genere umano, al pari del mondo, sia esistito da
sempre, allora la sua permanente mortalità acquista un altissimo grado di probabilità. Se
infatti fosse realmente concreta la possibilità di generare in questo mondo un uomo
immortale, allora, poiché la storia umana ha già percorso l'immensa estensione di una
passato senza inizio, tale possibilità avrebbe dovuto essersi verificata già da lungo tempo e
ora noi dovremmo parlare almeno con qualcuno di questi fortunati immortali. Ma poiché
nessuno finora ha mai visto e parlato con fortunati del genere, la possibilità che nasca in
questo mondo un uomo immortale risulta, purtroppo, altamente improbabile. Non c'è infatti
nessuna ragione per cui la natura debba attendere un'eternità prima di generare un uomo
immortale. Se la natura non l'ha generato nell'infinità del tempo passato, ciò vuol dire che
essa non può generarlo affatto. Pertanto, noi diciamo che tutti gli uomini sono mortali, non
solo perché finora non è stato visto un solo uomo immortale, ma perché in un universo
senza inizio, se la possibilità di un uomo immortale fosse in natura realmente oggettiva,
avremmo dovuto vederlo mentre ancora non l'abbiamo visto e non lo vediamo.
Analogamente, assumendo l'infelice esempio tradizionale dei corvi neri come espressione
di un nesso causale, noi diciamo che tutti i corvi sono neri, non solo perché non ne abbiamo
mai visto uno bianco, ma perché, in un universo esistente da sempre, se l'eventualità
"corvo-bianco" fosse stata una possibilità veramente oggettiva, avremmo dovuto vederlo, e
invece ancora non l'abbiamo mai visto.
A supporto e difesa dell'uniformità della natura si possono addurre innumerevoli
argomentazioni analoghe, basate sul principio che se qualche stato di cose è risultato molto
improbabile nell'arco di un'eternità o di un lunghissimo tempo t, sarà ancor meno probabile
entro un intervallo di tempo inferiore a t. Per esempio, visto che nell'arco dei passati
millenni il piombo non si è spontaneamente tramutato in oro, è ancor più improbabile che
tale mutazione avvenga nei prossimi cento anni. Proiettato sullo sfondo di una processualità
naturale che dura da sempre e per sempre, l'improbabilità di questa mutazione si
approssima al valore di un'impossibilità fisica. Se la tendenza del piombo a trasformarsi in
oro fosse, infatti, un'oggettiva tendenza naturale, allora, vista l'immensità del tempo
trascorso, ora, contrariamente a quanto osserviamo, dovrebbe esserci soltanto oro e non più
piombo.
Come si vede, si tratta di argomentazioni dialettiche imbastite su condizionali
controfattuali, che anziché dimostrare l'assoluta necessità dell'uniformità della natura,
attestano l'alta improbabilità di sue sistematiche violazioni. In sintesi, il tenore di tutte
queste attestazioni è il seguente: poiché la natura è sempre esistita, se fossero state
realmente possibili ipotetiche violazioni locali dell'uniformità del corso della natura, allora
tali violazioni dovrebbero essersi già verificate da tempo e almeno alcuni effetti di tali
27
violazioni dovrebbero essere osservabili, ma poiché finora nessuno ha mai visto tali effetti,
bisogna concludere che secondo natura ( katà physin) tali violazioni risultano talmente
improbabili da rasentare l'impossibilità fisica. Di conseguenza, l'uniformità del corso della
natura appare un principio così ben consolidato dall'illimitato passato di una storia naturale
senza inizio, che si può estendere legittimamente la sua validità anche al corso futuro della
natura.
E' vero che questa estensione non è garantita né imposta da nessuna necessità puramente
logica. Come osserverà Hume (18), il fatto che il corso della natura sia stato finora sempre
regolare, da solo non rappresenta una condizione sufficiente per provare la conclusione che
il futuro continuerà a svolgersi sempre con la stessa regolarità. Ma la continua
constatazione dell'inesistenza di un uomo immortale esemplifica paradigmaticamente il
fatto che nessuno ha finora mai osservato un solo effetto concreto di tante immaginabili
violazioni del principio dell'uniformità della natura che, in un universo esistente da sempre,
avrebbero invece dovuto farsi vedere . Se questa constatata assenza di violazioni la si
proietta sullo sfondo di una processualità naturale eterna, allora le argomentazioni
dialettiche usate dai greci acquistano un notevole peso probativo nella difesa della
ragionevole accettabilità del principio dell'uniformità della natura.
In effetti, l'argomentazione dialettica greca, nella sua più vasta e pregnante accezione, è
tutt'altro che riducibile al momento finale della confutazione o della reductio ad absurdum .
Essa è piuttosto una raffinata e sottile discussione critica di condizionali controfattuali,
volta a far emergere i nessi necessari e le impossibilità sottostanti. La dialettica greca, in
sintesi, è la logica delle situazioni controfattuali, la logica più potente per tracciare, in tutti i
settori dello scibile, i confini tra possibile e impossibile (19). La sua conoscenza è pertanto
indispensabile per comprendere a fondo le strutture portanti della scientificità del pensiero
greco, che sono state forgiate proprio dal confronto critico con i mondi possibili descritti
dagli i asserti controfattuali. Uno dei segni distintivi di questa logica dialetticocontrofattuale è la tendenza a mostrare che il principio di uniformità della natura si basa
proprio sull'impossibilità di ipotetiche violazioni della regolarità della natura, descrivibili in
termini di situazioni controfattuali.
Il fatto che, in un universo che è sempre esistito, avremmo dovuto vedere (se la cosa fosse
stata oggettivamente possibile) e non abbiamo mai visto un uomo immortale non indica
forse che l'evento "uomo immortale" è fisicamente impossibile? La validità del principio
dell'uniformità della natura, cioè l'estensione della regolarità della natura dal corso degli
eventi passati a quello degli eventi futuri, non potrebbe reggersi proprio sulla dimensione di
un'impossibilità fisica sancita da una processualità naturale eterna? La strategia del pensiero
dialettico greco non è affatto insensibile al tentativo di mostrare che la validità del principio
dell'uniformità della natura si regge sulla dimensione dell'impossibilità fisica piuttosto che
su apodittiche dimostrazioni o su incerte e fluttuanti abitudini psicologiche.
A prima vista, tuttavia, sembra che questa strategia sia destinata a cadere nel circolo
vizioso di una petitio principii, dal momento che la portata universale dell'impossibilità
fisica di certi eventi logicamente concepibili ( di un uomo immortale, ad esempio)
presuppone , a sua volta, la validità del principio dell'uniformità della natura. E' infatti
facile rendersi conto che certe classi di eventi risulteranno permanentemente impossibili da
realizzare soltanto se tutte le cause naturali continueranno ad agire sempre allo stesso modo,
cioè soltanto se il corso della natura resterà uniforme. E' dunque sempre il postulato
dell'uniformità della natura ad assicurare che saranno oggettivamente possibili o realizzabili
nel corso del tempo solo quegli eventi permessi dal modo impersonale di operare delle
cause naturali e che risulteranno invece fisicamente impossibili, cioè irrealizzabili in natura,
tutti gli eventi vietati dal reticolo causale. Se l'uniformità della natura è dunque il postulato
28
che fonda la possibilità di una stabile demarcazione tra ciò che è fisicamente possibile (stati
di cose possibili) e ciò che è invece fisicamente impossibile (stati di cose impossibili), non
si potrà, a meno di altre assunzioni, collocare l'impossibilità fisica a fondamento
dell'uniformità della natura.
D'altra parte, il tentativo di ricavare l'impossibilità fisica dalla mancata constatazione di
effetti osservabili implicati da eventuali violazioni "P" dell'uniformità della natura sembra
cozzare contro le più elementari regole di logica modale. Dalla mancata osservazione
dell'evento "uomo-immortale" non derivano informazioni sufficienti a decretare la falsità
della possibilità di tale evento; potrebbe benissimo darsi una situazione in cui tale evento
potrebbe essere vero. Lo stato di falsità fattuale della proposizione "R", descrivente un
qualsiasi evento, non fornisce informazioni sufficienti a determinare il valore di verità
dell'asserto modale "è possibile che R". Com'è noto, la verità fattuale di R rende vero
l'asserto modale "è possibile che R" ( R), ma lo stato di falsità fattuale di R lascia del tutto
indeterminato il valore di verità dell'asserto "è possibile che R" ( R).
Ma se la continua constatazione dello stato di falsità fattuale di conseguenze osservabili
"P" implicate da ipotetiche violazioni dell'uniformità della natura lascia indeterminato il
valore di verità dell'asserto modalizzato "è possibile che P" ( P), allora lascia indeterminato
anche il valore di verità dell'asserto (contraddittorio) " è impossibile che P" ( P). Questo
vuol dire che dal punto di vista logico la mancata constatazione degli effetti di ipotetiche
violazioni dell'uniformità della natura non ci permette di dedurre validamente
l'impossibilità assoluta di tali violazioni.
Come si vede, anche la difesa dialettica del postulato dell'uniformità della natura, basata
sull'impossibilità fisica di violazioni dell'uniformità, sembra destinata ad oscillare tra le
secche dei circoli viziosi privi di inoppugnabile forza probativa e l'inconcludenza dei "non
sequitur". E' vero che ci si potrebbe sbarazzare facilmente di chi a parole rifiuta questo
postulato, ricorrendo ad una confutazione ad hominem del seguente tipo: <<gettati
tranquillamente nel pozzo, perché se non ritieni valido il principio dell'uniformità della
natura devi ammettere che potresti benissimo volare in alto, anziché cadere in basso e
rischiare di morire annegato>>. Ma anche questa facile eliminazione degli avversari, dopo
tutto, lascia il tempo che trova.
E' sicuramente difficile imbattersi in avversari, veramente coerenti, del principio
dell'uniformità della natura, così come è altrettanto insoddisfacente pensare che tale
principio sia nato e sia stato posto alla base di una poderosa e rivoluzionaria concezione del
mondo senza altro supporto che la ripetuta osservazione di costanti correlazioni tra
fenomeni fisici.
La tesi che la sola e ripetuta osservazione di correlazioni costanti tra fenomeni sia
sufficiente a generare l'idea di uniformità del corso della natura è un puro e semplice mito
che crolla appena ci si chieda come mai tali correlazioni, già ben conosciute e apprezzate
dal pensiero mitologico, dovettero attendere i filosofi ionici per suggerire l'idea di
un'immutabile regolarità causale immanente al corso naturale degli eventi. In effetti, è bene
ribadirlo, la pura e semplice osservazione di costanti correlazioni tra fenomeni non è affatto
sufficiente a suggerire il principio dell'uniformità della natura. Lo prova il fatto che tali
correlazioni, per quanto già note ed enfatizzate, non indussero mai la cultura mitologica (e
non solo questa) a concepire il mondo in termini di ordinamento causale uniforme o
invariante.
Contrariamente a quanto affermerà Hume, il pensiero mitologico, proprio perché non
arrivò alla scoperta della causalità naturale, costituisce la più evidente prova storico-fattuale
che la relazione di causa-effetto non solo non ha un'origine a priori, ma non è ricavata
nemmeno dalla sola ed esclusiva percezione sensoriale di successioni e di correlazioni
29
costanti tra eventi. Il pensiero mitologico, proprio perché ancora lontano dall'idea di un
ordinamento causale uniforme della natura, mostra di fatto che l'abitudine psicologica a
veder seguire da situazioni antecedenti simili situazioni conseguenti simili non è sufficiente
da sola a far nascere l'idea dell'uniformità del corso della natura. In breve, per la scoperta
del cosmos, inteso come impersonale e costante funzionamento causale della natura, non
bastò né un affinamento della percezione sensibile, né una maggiore sollecitazione della
memoria che forma l'abitudine, ma occorse piuttosto un rivoluzionario mutamento di
pensiero, i cui sotterranei assunti ontologico-cosmologici si ritrovano alla base della difesa
dialettico-controfattuale del principio dell'uniformità della natura.
Ovviamente, questi assunti, al pari della genesi dell'idea di causalità naturale, sono
sempre indissolubilmente legati all'idea fondamentale dell'eternità dell'archè , intesa come
materia-forza la cui inesauribile azione dinamica dura indefinitamente nel tempo, cioè
persiste nel tempo senza inizio e senza fine e senza dissipazione alcuna (20). Il primo di
questi assunti riguarda proprio il carattere autoconservativo del principio originario: il
dinamismo espresso dall'archè deve possedere innanzitutto una struttura conservativa sia
per quanto concerne la propria forza-energia, sia per quanto riguarda le modalità della sua
azione.
Che la concezione dell'eternità del principio implicasse proprietà autoconservative era una
cosa già ben nota all'antica storiografia filosofica. Queste proprietà conservative derivano
dal fatto che il principio originario non ha solo la funzione di remoto punto di partenza che
si trova esclusivamente all'inizio dei processi naturali. Al contrario, esso costituisce la
matrice originaria che resta sempre presente alla base di tutti i fenomeni fisici: tutti i
processi e le trasformazioni naturali sono espressioni della sottostante energia dell'archè
originario, che è principio e termine di tutte le cose. Non a caso, sottolineava già Aristotele ,
i primi filosofi <<affermano che ciò di cui tutti gli esseri sono costituiti e ciò da cui
derivano originariamente e in cui si risolvono da ultimo, è elemento e principio degli esseri,
in quanto è una realtà che permane identica pur nel trasmutarsi delle sue affezioni. E, per
questa ragione, essi credono che nulla si generi e nulla si distrugga, dal momento che una
tale realtà si conserva sempre>> (21). E' del resto difficile non osservare che questa
concezione ci pone di fronte a <<qualcosa di simile a una legge di conservazione della
materia>> (22). In effetti, fu proprio la fede dei presocratici <<nel principio che qualcosa si
conserva in natura>> a incanalare il pensiero scientifico occidentale verso la ricerca di
principi di conservazione (23).
Inoltre, se si scarta - come fecero i presocratici - l'ipotesi che l'archè possa manifestare
arbitrarie preferenze o compiere libere scelte, allora si deve per forza concludere che la sua
eternità rende impossibile l'esistenza di un istante in cui il suo dinamismo e il conseguente
flusso del divenire cosmico si arrestino definitivamente. Se infatti l'approdo ad un ristagno
definitivo fosse un evento realmente possibile per la struttura costitutiva dell' archè, allora,
considerata l'illimitata estensione del passato, questo arresto definitivo si sarebbe realizzato
già da lungo tempo e ora non esisterebbe più nessun processo fisico. Argomentazioni
analoghe evidenziano, altresì, l'eterna invarianza delle sue modalità d'azione: se la caduta in
una situazione di disordine permanente fosse oggettivamente possibile, allora tale
possibilità si sarebbe realizzata già da lungo tempo e noi non staremmo qui a contemplare i
meravigliosi moti dei cieli. Come si vede, queste considerazioni indicano che l'azione
dinamica dell'archè si dipana secondo un'intrinseca struttura d'ordine eternamente
immutabile.
Da tutto ciò consegue che il dinamismo proprio dell'archè, in quanto vincolato alla
propria intrinseca e invariante struttura d'ordine, non può realizzare tutte le possibilità
logicamente concepibili ( tutti i sogni o tutti gli eventi immaginabili), ma solo quelle
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possibilità consentite dalla suo ordinamento architettonico, cioè dal suo reticolo di leggi
immutabili. In questo modo la struttura d'ordine che governa da sempre il dinamismo
dell'archè determina necessariamente una demarcazione fondamentale tra l'insieme delle
possibilità-oggettivamente-realizzabili (sfera del fisicamente possibile) e l'insieme delle
possibilità -non-realizzabili in natura (sfera del fisicamente impossibile). L'eternità
dell'archè, infatti, nel generare l'idea di causalità naturale, genera anche un sistema di
vincoli restrittivi che vietano l'accadere di innumerevoli classi di eventi logicamente
concepibili. Non si può negare l'esistenza di questi vincoli restrittivi, perché se tutto il
logicamente possibile o immaginabile fosse realizzabile nel mondo naturale, allora, vista
l'infinita estensione del tempo passato, molti sogni dovrebbero essersi realizzati già da
tempo. L'esperienza, però, ci attesta proprio il contrario: la stragrande maggioranza dei
nostri sogni più allettanti resta irrealizzata in questo mondo. Come si evince da questo tipo
di argomentazioni, l'eternità dell'archè porta al netto rifiuto della credenza che "a questo
mondo tutto è possibile": essa infatti istituisce un vero e proprio principio generale di
demarcazione tra ciò che è fisicamente possibile e ciò che invece risulta fisicamente
impossibile o irrealizzabile in natura: tra ciò che la natura può fare e ciò che non può fare.
L'archè, insomma, genera tutto ma non è onnipotente in senso assoluto o simpliciter: può
fare solo tutto ciò che è consentito dalle sue leggi causali. Le strutture causali immanenti al
principio primo risultano, infatti, dei veri e propri principi di impossibilità, che,
perimetrando la sfera del fisicamente realizzabile, assegnano alla scienza il compito di
scoprire le leggi causali che consentono di separare l'isola del realizzabile dallo sterminato
oceano dei sogni impossibili.
Questa demarcazione non solo pone le condizioni di possibilità della scienza (24), ma
porta anche a concludere che <<tutto il possibile-oggettivamente-realizzabile in natura è
stato già realizzato in passato>>, in un passato senza inizio e quindi di durata illimitata. Un
principio eterno, il cui dinamismo è restato perennemente in azione fin da un passato di
durata illimitata, ha infatti già avuto tutto il tempo necessario per realizzare tutto il possibile
oggettivamente realizzabile dalla sua struttura causale. Anzi, non è difficile mostrare che la
totalità del possibile-realizzabile sia stata realizzata nel passato per più di una volta.
Ora, proprio questa idea cardine, secondo cui <<tutto il possibile oggettivamente
realizzabile in natura è stato già realizzato in passato>> costituisce quel secondo assunto
fondamentale del pensiero scientifico-filosofico greco che, a mio avviso, gioca un ruolo
determinante nella giustificazione del principio dell'uniformità della natura e nella
fondazione della concezione ciclica del tempo.
Per quanto l'arché sia un principio caratterizzato da una dinamica non dissipativa ed
autoconservativa, il suo campo e le sue modalità di realizzazione, proprio perché circoscritti
entro insuperabili vincoli causali, risultano finiti. Ma poiché l'azione dinamica dell'arché si
svolge per un arco temporale che va da t = - a t = + , è chiaro che, in virtù della finitezza
del campo e delle modalità di realizzazione dell'arché, tutto debba essere già accaduto nel
passato e che il blocco di "tutto il possibile fisicamente realizzabile" debba essersi
realizzato più e più volte, all'infinito, nel corso del tempo. Da ciò consegue che il
sempiterno flusso del divenire cosmico deve necessariamente acquistare un andamento
ciclico: il nostro universo, secondo questa ciclicità, non è nient'altro che l'esemplare attuale
di una serie infinita di mondi.
La saldatura di questa concezione ciclica con l'idea che il passato è inalterabile determina
quel fatalismo ciclico, tipico della mentalità greca, che risulta il vero sedimento profondo su
cui poggia la legittimazione forte del principio dell'uniformità della natura. Nella filosofia
greca la forma più radicale di questa legittimazione è rintracciabile nel celebre "Argomento
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Dominante" o "argomento vittorioso" (kyrieyon logos) di Diodoro Crono (IV sec. a.C.),
filosofo della scuola megarica, celebre per le sue dottrine di logica modale.
L'"Argomento Dominante" parte dalla tesi che il passato è inalterabile. Lo stesso
Aristotele, del resto, nell'Etica nicomachea non mancherà di riconoscere l'inalterabilità del
passato: <<Nessuno delibera intorno al passato, ma attorno a ciò che è futuro ed è possibile,
mentre il passato non può non essere avvenuto; dunque ha ragione Agatone a dire: " D'una
sola facoltà è privo Dio stesso: la facoltà di fare sì che non sia avvenuto ciò che è
avvenuto">> (25). Dall'idea che il passato è necessariamente così come è stato, e non può
più essere altrimenti, Diodoro ricavava la prima premessa del suo "argomento vittorioso":
<<ogni cosa che è passata e vera è necessaria>> (26).
Nonostante il suo elevato spessore di ambiguità, questa premessa, proprio perché
conferisce il carattere della necessità ad <<ogni cosa che è passata e vera>>, conferisce al
contempo anche il carattere dell'impossibilità a tutte le negazioni delle <<cose che sono
passate e vere>>. Se, ad esempio, la morte di tutti gli uomini è uno stato di cose passato e
vero, ed è quindi, secondo Diodoro, una stato di cose necessario, allora la negazione di
questo stato di cose sarà impossibile, cioè sarà sempre falsa. Conferire la necessità ad una
<<cosa che è passata e vera>>, indicata con "R", (R), equivale infatti a dire che è
impossibile nonR (- -R).
Ora, se tutto è già avvenuto, cioè se <<tutto il possibile realizzabile si è già realizzato nel
passato>> più e più volte, la definizione di possibilità sostenuta da Diodoro (<<è possibile
solo ciò che è vero o sarà vero>>) e il suo "argomento vittorioso" risultano non solo
pienamente comprensibili, ma anche capaci di fornire la più solida e consistente
legittimazione del principio di uniformità della natura. Quest'ultimo, in definitiva, si
reggerebbe sull'impossibilità logico-ontologica di ipotetiche violazioni dell'uniformità della
natura. Nella prospettiva ciclico-fatalistica di Diodoro Crono, infatti, gli stati di cose che i
passati cicli della storia naturale non hanno potuto realizzare risulterebbe impossibili.
Certo, il prezzo di questa legittimazione dell'uniformità della natura, non esente essa stessa
da inevitabili circolarità, è, come è stato rimarcato a proposito delle tesi di Diodoro (27),
quello di un eterno fatalismo ciclico. In ogni caso, ciò che non va dimenticato è che la
mentalità scientifica nasce dal plesso "eternità-causalità-conservazione-ciclicità-fatalismo",
che sottintende un'ontologia generale e una cosmologia ben precise. Questo inestricabile
plesso - in cui giocano un ruolo primario nozioni complesse e altamente problematiche
come quelle di infinito, causalità, possibilità e necessità - mostra che il principio
dell'uniformità della natura, proprio perché tenuto a battesimo da precise dottrine
ontologiche e da peculiari concezioni del tempo, non può essere analizzato soltanto sulla
base di un sommario esame dell'inferenza induttiva.
Ad ogni modo questo plesso lascia trasparire una topologia del tempo incentrata su tre
elementi essenziali: 1) sul predominio del passato sull'orizzonte temporale; 2) sull'identità
(su larga scala) tra futuro e passato; 3) sulla valenza soteriologica della ciclicità del tempo.
Per quanto concerne il primo punto, va ricordato che il netto predominio del passato
all'interno di questa topologia del tempo emerge già dalla difesa dialettica del principio
dell'uniformità della natura. Quest'ultimo infatti veniva difeso sulla base di un passato senza
inizio, la cui illimitata durata rendeva improbabili (o impossibili) ipotetiche violazione
dell'uniformità della natura. In effetti, nella visione ciclica dei greci, il passato finisce con
l'assumere il ruolo di vero e proprio criterio ontologico in grado di stabilire ciò che è
realizzabile e ciò che non è realizzabile nel corso del tempo. Il Timeo di Platone fornisce
uno degli esempi più significativi al riguardo. Per dimostrare che il modello di città ideale
delineato nella Repubblica è un progetto concretamente realizzabile e non un'astrazione
utopistica, Platone non ricorre affatto a previsioni ricavate da favorevoli tendenze sociali,
32
politiche o economiche, ma guarda esclusivamente a quanto è già avvenuto in passato. Egli
pensa, infatti, che la migliore conferma della realizzabilità della sua città ideale può essere
data solo da quanto attesta il passato. Perciò, a solida prova della sua piena realizzabilità,
Platone non porta altro che la memoria tramandata dagli scritti degli antichi sacerdoti
d'Egitto, la quale assicurava che il modello platonico di città ideale aveva già avuto una sua
realizzazione nella storia dell'antica Atene del passato (28), e precisamente nel ciclo
precedente chiuso dall'ultimo diluvio universale.
Come emerge da questo esempio, la teoria della ciclicità universale, sintetizzabile
nell'espressione "tutto è già stato", porta a far coincidere storicità e predittività, perché
fonda sulla ricostruzione storica del passato la possibilità di prevedere quanto avverrà nel
futuro corso degli eventi. La grandiosa cosmologia di Anassimandro non solo conferma
questa coincidenza, ma costituisce anche lo snodo fondamentale per cogliere appieno gli
altri due elementi essenziali di questa topologia del tempo e per misurare l'altezza delle
dorsali di pensiero che hanno generato la mentalità scientifica.
3. Anassimandro: cosmologia, tempo ciclico e salvezza
L'unico frammento che ci resta dell'opera Sulla natura di Anassimandro (610-545 a.C.) è la
più antica parola scritta da un filosofo e il primo trattato di cosmologia scientifica, che
delinei con lucida razionalità lo sviluppo dell'universo <<secondo l'ordine del tempo>>.
Il frammento, in cui compare per la prima volta il termine principio (archè), staccato dal
contesto dossografico, non è facilmente comprensibile. <<Principio (archè) degli esseri è
l'infinito (apeiron)… - afferma Anassimandro - da dove infatti gli esseri hanno l'origine, ivi
hanno anche la distruzione secondo necessità: poiché essi pagano l'uno all'altro la pena e
l'espiazione dell'ingiustizia secondo l'ordine del tempo>> (29). Questo lapidario testo, a
causa della sua antichità e della sua eccezionale rilevanza, è stato sempre al centro
dell'attenzione della storiografia filosofica. Di recente, lo stesso Heidegger, nel commentare
in chiave ontologica questo celebre frammento, si è sentito in dovere di precisare che a
proposito delle concezioni di Anassimandro il giudizio della scienza successiva è stato
<<sufficientemente indulgente per non biasimare questa indagine fisica ai suoi primi
passi>> (30).
In realtà, contrariamente a quanto pensa Heidegger, la scienza successiva ha ben poco da
essere indulgente, perché dal punto di vista scientifico non c'è proprio nulla da biasimare
nella grandiosa cosmologia di Anassimandro. In effetti, come ha recentemente ribadito
André Pichot , <<i pochi elementi che ci restano della concezione fisiocosmologica di
Anassimandro bastano a fare di lui uno tra i primissimi "scienziati" non della sola antichità,
bensì di tutti i tempi>> (31). La sua concezione dell'universo, secondo Mugler, è infatti il
risultato di <<riflessioni paragonabili alle speculazioni suggerite agli scienziati e ai filosofi
moderni dalle grandi scoperte della termodinamica nel XIX secolo>> (32).
Per apprezzare la grandiosa rilevanza scientifica della cosmologia di Anassimandro è
sufficiente una sintetica esposizione (33) del suo modello di formazione e di evoluzione
dell'universo. L'apeiron, cioè l'illimitato senza forma e senza fine nello spazio e nel tempo,
è per Anassimandro l'archè, il principio dinamico, l'elemento primordiale indeterminato da
cui hanno origine tutte le cose e le trasformazioni fisiche. In seno all'apeiron,
all'indifferenziato infinito, forse a causa del suo eterno moto vorticoso (34), si produce una
differenziazione primordiale che provoca una primigenia separazione del caldo dal freddo.
L'elemento freddo si dispone al centro dell'universo e va a formare il cilindro schiacciato
della Terra, attorno al quale, come la corteccia intorno al tronco dell'albero, si dispone
l'elemento caldo, che assume la forma di un involucro sferico di fuoco.
33
Sotto la continua azione di riscaldamento generata dalla sfera di fuoco, una parte
dell'umidità primordiale presente nella Terra evapora, separando così le terre asciutte dai
mari e formando un cuscino d'aria-vapore che si frappone fra la primitiva sfera esterna di
fuoco e la Terra centrale, distanziandole ulteriormente. Per effetto del continuo processo di
evaporazione, la massa d'aria-vapore compressa tra la Terra e l'involucro sferico di fuoco
aumenta al punto da generare una pressione talmente poderosa da squarciare l'involucro di
fuoco, suddividendolo in diversi anelli concentrici. La maggior parte di questi anelli di
fuoco, e precisamente quelli più vicini alla Terra, si dispongono su piani paralleli tra loro e
costituiscono gli anelli degli astri fissi, cioè delle stelle. Ma nella lacerazione dell'involucro
di fuoco si formano anche due anelli di fuoco più esterni: quello intermedio della Luna e
quello ancora più esterno del Sole. Ogni anello di fuoco è circondato da un involucro opaco
di aria condensata che non lascia filtrare la luce del fuoco interno se non da alcuni orifizi, la
cui chiusura, più o meno completa, determina, nei due anelli superiori, le fasi di Luna e le
eclissi di Luna e di Sole. Questi anelli ruotano intorno alla Terra, perché spinti dai venti,
cioè dalle correnti di vapore che avevano squarciato la sfera di fuoco. La Terra, in quanto
occupa il centro dell'universo, non ha bisogno di alcun supporto: non poggia su nulla, ma si
mantiene in equilibrio, perché, trovandosi ad uguale distanza da tutte le parti, non è
sottoposta a nessuna sollecitazione.
4. Il modello di universo di Anassimandro
L'universo, cioè questo sistema ordinato di anelli di fuoco ruotanti intorno alla Terra, ha una
durata limitata nel tempo, perché è destinato necessariamente a finire. Anche se non è
possibile calcolare con precisione quando arriverà la fine del mondo, questo evento
catastrofico, proprio perché imposto da immutabili e implacabili leggi fisiche, è prevedibile
con estrema sicurezza. L'intera storia cosmica, infatti, si snoda attraverso due fasi: quella
costruttiva in cui il freddo ha il sopravvento sul caldo (formazione dei cieli) e quella
distruttiva in cui tutte le trasformazioni fisiche avvengono nella direzione di un progressivo
riassorbimento del freddo nel caldo. Secondo Anassimandro, infatti, il fuoco, che nella
prima fase era stato violentemente squarciato dall'elemento freddo-umido, si fa riparare
l'"ingiustizia" subita, disseccando e riassorbendo le riserve di umidità della Terra.
L'incessante evaporazione, attestata dall'esperienza quotidiana, farà sì che il caldo
riassorbirà infine l'ultimo residuo di umidità terrestre. Ma una volta disseccata
completamente la Terra, scompariranno tutti i processi di evaporazione. Di conseguenza,
non vi saranno più venti o correnti di vapore ad alimentare il moto degli anelli di fuoco;
sparirà la pressione dell'aria che li tiene separati e tutto l'edificio celeste precipiterà e
crollerà sulla Terra: l'universo intero verrà distrutto e tutto ripiomberà infine nel seno
dell'apeiron, nel grembo dell'indeterminato da cui era nato. La storia del mondo, generata
da una rottura dell'equilibrio e segnata da una catena di squilibri (termo-dinamici), di
violenze e di ingiustizie dell'elemento freddo su quello caldo e viceversa, risulta dunque un
processo di restituzione e di ristabilimento dell'equilibrio <<secondo l'ordine del tempo>>.
In questo quadro cosmologico, la previsione dell'esito finale della vicenda cosmica non
appare affatto problematica: la fine del mondo è talmente certa da essere fuori discussione.
Ciò che invece risulta altamente problematico è piuttosto la natura di questa fine: si tratta
della fine assoluta di tutto o della fine relativa di un singolo mondo? In altri termini,
l'inevitabile ricaduta dell'universo nell'apeiron indifferenziato rappresenta la fine definitiva
del mondo e del tempo o no? C'è un motivo per cui, dopo la scomparsa finale del mondo,
l'apeiron, l'amorfa sostanza primordiale infinita non debba restare per sempre in uno stato
di indistinzione perpetua? Vi sono delle ragioni per dire che la scomparsa di questo mondo
34
nell'indifferenziato non rappresenta la fine definitiva del tempo e nemmeno l'arresto
definitivo di ogni processo?
Per quanto insoddisfacente sul piano della spiegazione razionale, la dossografia offre una
prima risposta a questi interrogativi. Presentando l'archè come eterno movimento vorticoso
(35) o come processualità infinita e inarrestabile, essa indica implicitamente che per
Anassimandro la fine di un mondo non può rappresentare l'arresto definitivo del tempo e di
ogni processo. Ma ancor più esplicito di questa indicazione dossografica è il tipo di
ragionamento con cui Anassimandro, secondo la tradizione, scongiurava l'arresto definitivo
di ogni processo, dimostrandone dialetticamente l'impossibilità.
Se la natura della sostanza primordiale - così, secondo Mugler, ragionava Anassimandro fosse quella di restare in uno stato di perenne indifferenziazione dopo il riassorbimento del
mondo nel suo grembo, allora il momento fatale della fine definitiva del mondo sarebbe
arrivato già da tempo, data l'infinità del tempo trascorso. Non c'è infatti nessuna ragione per
cui la sostanza primordiale, l'apeiron, dovrebbe attendere un'eternità prima di fermarsi del
tutto. Se non si è arrestata definitivamente nell'infinità del tempo passato, ciò vuol dire che
essa non ha potuto arrestarsi, che quindi non c'è nulla nella sostanza primordiale che le
impedisca di differenziarsi più e più volte e di riprodurre così all'infinito altri mondi.
Come si vede, questo ragionamento ha la tipica forma dei condizionali controfattuali. Di
sicuro il ragionamento controfattuale non doveva essere estraneo ad Anassimandro, perché
si ripresenta anche nella giustificazione dell'idea di una derivazione evolutiva dell'uomo da
un'altra specie animale (36). Certamente, anche l'argomentazione controfattuale, con cui
Anassimandro dimostra razionalmente l'impossibilità di un arresto definitivo e di una fine
assoluta di tutto nell'indifferenziato primitivo, è circolarmente intrecciata tanto con il
postulato dell'eternità del tempo, quanto con l'idea di una natura causalmente strutturata ed
estranea a qualsiasi tipo di predilezione e di scelta. Anzi, il suo valore probativo si regge
interamente sul postulato che la <<natura non conosce predilezioni, né nel flusso del tempo,
né nella distribuzione degli oggetti nello spazio, né nelle trasformazioni materiali di cui essa
è sede, che essa non ammette, a meno di una ragion sufficiente, né momenti privilegiati, né
fatti o eventi di scelta>> (37). Questa idea di natura, secondo Mugler, è l'espressione di un
vero e proprio <<principio di indifferenza>>, che, per la prima volta nella storia del
pensiero occidentale (38), impone il sistematico ricorso ad una "ragione sufficiente".
Anassimandro si serve proprio di questo principio di indifferenza per dimostrare che il
mondo, una volta riassorbito nello stato primitivo di indifferenziazione, rinasce ancora
eternamente, perché non c'è nessuna ragione per cui la sostanza primordiale debba attendere
un'eternità prima di arrestarsi definitivamente. Il filosofo-scienziato di Mileto non è tuttavia
il solo a ricorrere a questo principio. Parmenide, ad esempio, sempre sulla base di questo
principio, affermerà perentoriamente che l'essere non può nascere, perché non c'è nessuna
necessità o ragione per farlo nascere prima piuttosto che dopo (39).
Evidentemente, se la natura (o l'archè primordiale) facesse spontaneamente libere scelte o
arbitrarie preferenze, potrebbe benissimo arrestarsi definitivamente, a suo piacere ed
arbitrio, in qualsiasi momento. In questo caso, ovviamente, l'argomentazione dialetticocontrofattuale di Anassimandro, privata di una delle sue premesse essenziali, perderebbe
qualsiasi valore probativo. Se invece si assumono le premesse da cui parte Anassimandro,
allora l'idea di eterno ritorno dell'identico e di ciclicità del tempo risultano l'espressione di
una necessità fisico-razionale interna alla struttura del divenire cosmico.
Quando un mondo scompare nell'apeiron, svanisce semplicemente il prodotto di una
differenziazione fra caldo e freddo, ma non scompare affatto il potere della sostanza
primordiale di produrre una nuova differenziazione da cui prenderà l'avvio la costruzione di
un nuovo mondo. Ogni nuovo mondo, comunque, non potrà essere che una riedizione
35
rigorosamente identica a quello precedente. Non è infatti possibile che lo storia del nuovo
mondo si differenzi da quella del mondo precedente, perché la più piccola deviazione del
corso del nuovo mondo dal cammino di quello precedente implicherebbe una
disuguaglianza nelle condizioni iniziali; implicherebbe, cioè, una differenza
nell'indifferenziato, il che è assurdo (40). Di conseguenza, il mondo quale noi lo vediamo è
la copia perfetta degli innumerevoli mondi che lo hanno preceduto e l'esemplare di tutta la
serie infinita di mondi che lo seguiranno.
Questo sistema cosmologico segna una delle tappe più decisive di tutta la storia del
pensiero scientifico in generale, e delle concezioni del tempo in particolare. Per la prima
volta nella storia l'intero meccanismo di formazione e di funzionamento della natura va
avanti da solo senza bisogno di nessun intervento degli dèi. Per la prima volta la causalità
naturale e la spiegazione razionale soppiantano completamente le rappresentazioni mitiche.
Per la prima volta si ha una geometrizzazione dell'intero universo, che, oltre ad offrire una
poderosa naturalizzazione dei cieli, ha il merito di fornire spiegazioni geometriche
dell'immobilità centrale della Terra e dei moti circolari degli astri, le quali superano
decisamente la semplice astronomia di posizione dei Caldei. Da questa rivoluzionaria
geometrizzazione nascono due concezioni di grande successo: il modello di universo
sferico, il paradigma di tutta l'astronomia antica, e la teoria secondo cui il movimento di
rotazione uniforme costituisce la legge fondamentale dei moti celesti.
Sfericismo, circolarità e moto di rotazione uniforme, oltre a rendere perfettamente conto
della regolare periodicità dei fenomeni astronomici, risultano l'espressione matematica della
ciclicità che domina e pervade la natura. Questa universale ciclicità, scandita dall'infinita
sequenza di distruzioni e rinascite dello stesso mondo, determina, ovviamente, una
topologia del tempo caratterizzata, su larga scala, dall'identità fra passato e futuro e dal
rifiuto dell'irreversibilità del tempo. Per quanto impedisse il concepimento di qualsiasi idea
di progresso, questa identità fra cicli passati e futuri svolgeva per la mentalità antica una
funzione estremamente positiva e rassicurante. Secondo Mircea Eliade era proprio mediante
questa ciclicità, negatrice di qualsiasi novità, che <<l'umanità arcaica si difendeva come
poteva contro tutto ciò che la storia comportava di nuovo e di irreversibile>> (41), cioè,
contro il terrificante carico d'incertezza legato all'idea di un futuro realmente diverso dal
passato.
A ben guardare, l'idea di eterno ritorno dell'identico finisce col far girare a vuoto il tempo.
Essa ha infatti <<il senso di un supremo tentativo di statizzazione del divenire,
d'annientamento dell'irreversibilità del tempo. Poiché tutti i momenti e tutte le situazioni del
cosmo si ripetono all'infinito la loro evanescenza si rivela in ultima analisi come apparente;
nella prospettiva dell'infinito, ogni momento e ogni situazione restano fermi e acquistano
così il regime ontologico dell'archetipo>> (42). Vista da questa prospettiva, la concezione
dell'eterno ritorno di Anassimandro mostra implicazioni etico-religiose di primaria
grandezza. Essa ha indubbiamente una valenza religiosa, se per religione si intende la
credenza in una garanzia di salvezza offerta all'uomo. La visione ciclica del tempo, infatti, è
una vera e propria teoria della salvezza, perché offre la garanzia di scongiurare il rischio di
un annientamento totale della realtà in generale e di ogni singola sostanza in particolare.
Come ha recentemente ribadito Davies, l'attrattiva maggiore del mondo ciclico consiste
proprio nello sfuggire risolutamente <<allo spettro dell'annientamento totale>> (43). Se le
immutabili leggi della natura fanno sì che il mondo attuale non differisca in nessun minimo
dettaglio dai mondi che l'hanno preceduto e da quelli che seguiranno, allora ogni evento,
ogni cosa, ogni uomo si è già ripetuto un'infinità di volte nel passato e ritornerà
puntualmente con le stesse caratteristiche e gli stessi destini infinite volte nel futuro.
Poiché, grazie a questa infinita reiterabilità, la vita di ogni cosa si prolunga al di là dei limiti
36
dell'esistenza attuale, la teoria dell'eterno ritorno risulta in grado di soddisfare l'istinto di
conservazione e la naturale sete d'immortalità di ogni uomo. L'idea di un'eterna rinascita,
razionalmente codificata da Anassimandro, rende infatti ogni uomo eterno, nel senso che gli
offre quantomeno un'eternità intermittente, in cui nessun più piccolo e insignificante
dettaglio della sua vita andrà mai perduto, e in cui ciascun istante della sua esistenza
acquistava la dignità dell'eterno.
Presentata da Anassimandro come l'espressione di un implacabile ordine immanente alla
natura, la concezione dell'eterno ritorno si rivela, in definitiva, come la vera religione dei
Greci, come la loro autentica idea di salvezza. Questa grandiosa concezione, fra l'altro,
aveva anche la forza di far accettare con maggiore serenità la sofferenza, la decadenza della
vecchiaia e la morte, perché assicurava ad ogni uomo non un'incolore e umbratile
immortalità nell'Ade, ma una perenne ritorno del vigore della giovinezza sotto la calda e
amata luce del Sole.
Una concezione di questa grandezza, una volta nata, era destinata a lasciare un'impronta
profonda nel pensiero successivo. Gran parte della filosofia greca, comprese le dottrine di
Platone e di Aristotele, non sarà altro che un commento e uno sviluppo del pensiero di
Anassimandro. Il più grande filosofo-scienziato dell'Antichità delinea per la prima volta con
estrema nitidezza quella strategia di nientificazione del nulla, o di messa al bando di
qualsiasi rischio d'annientamento totale, che costituisce la profonda dorsale della mentalità
scientifico-filosofica greca. I principali snodi di questa strategia li possiamo ora riassumere
in questa sequenza logica: l'eternità dell'archè, privando il nulla di qualsiasi capacità
d'azione e bloccando il regresso all'infinito, genera l'idea di causalità naturale (ogni evento
ha un antecedente), stabilizza poi l'ordinamento causale (uniformità della natura)
battezzandolo con la logica dialettico-controfattuale, pone quindi alla base delle
trasformazioni fisiche principi di conservazione della materia-energia e genera infine una
ciclicità del tempo che, vera e propria fonte di salvezza, garantisce ad ogni esistenza finita
un'eternità intermittente vissuta nella piena luce del Sole. In conclusione, l'eternità
dell'archè, del tempo e della materia-energia non solo genera la mentalità scientifica, non
solo è disposta , come sosteneva Haeckel, ad eliminare dall'orizzonte scientifico tutti gli
enigmi insolubili, ma arriva anche a garantire tante resurrezione dei corpi quante sono le
infinite reiterazioni del ciclo cosmico.
5. Il mondo ebraico: un tempo finito, futurocentrico, separato dall'eternità
Per quanto allettante sotto il profilo ontologico, epistemologico e soteriologico, la visione
ciclica dei Greci presentava lo svantaggio di imprigionare per sempre l'intera processualità
cosmica nelle gabbie di un'eterna ripetizione degli stessi schemi di sviluppo, dalle cui sbarre
nulla sfuggiva. Già Epicuro aveva avvertito il soffocante peso dell'implacabile fatalismo
insito in questa perenne ricorsività delle stesse fasi di sviluppo. <<Era meglio credere scriveva nella lettera a Meneceo - ai miti sugli dèi piuttosto che essere schiavi del destino
dei fisici [cioè dell'inesorabile fatalismo ciclico]: quelli infatti suggerivano la speranza di
placare gli dèi per mezzo degli onori, questo invece ha implacabile necessità>> (44). Per
quanto potesse apparire amara, questa schiavitù del "destino dei fisici" dominò quasi
incontrastata sulla cultura classica dell'Antichità. Solo una popolazione che avesse
sperimentato sulla propria pelle la devastante disperazione della deportazione di massa e
della schiavitù avrebbe potuto ribellarsi ad una ciclicità che non liberava mai
definitivamente dalla prigionia, ma rinnovava all'infinito nel tempo la condizione di schiavi.
Gli Ebrei furono il popolo che spezzò le sbarre della ciclicità, proponendo una nuova
topologia del tempo.
37
Come per i primi filosofi, anche per la visione ebraica dell'Antico Testamento alla base di
tutto c'è l'eternità: c'è Dio, l'Eterno per definizione. Analogamente alle dottrine dei filosofi
ionici, anche la Bibbia afferma che tutto ha avuto origine dall'Eterno, che la causa prima di
tutto l'esistente è necessariamente unica ed eterna. Il primo atto divino di cui ci parla la
Genesi è infatti la creazione dell'intero mondo: <<In principio Dio creò il cielo e la terra>>
(Gn 1,1).
Al pari dei filosofi ionici, che non ci hanno lasciato nessuna dimostrazione dell'esistenza
del principio eterno, cioè del "divino", la Bibbia non compie nessuno sforzo per dimostrare
l'esistenza di Dio. Tanto nell'approccio dei primi filosofi quanto in quello biblico,
l'esistenza, rispettivamente, dell'archè divina e di Dio è data per scontata alla stregua di una
verità prima. In entrambi gli approcci, a mio avviso, è presente la seguente struttura logica
di fondo: se esiste qualcosa, allora esiste Dio (o l'archè divina), perché questo qualcosa di
esistente o è esso stesso Dio (ha cioè il potere di darsi l'esistenza da sé), oppure deriva da
Dio (riceve cioè l'esistenza da Dio o dall'archè divina) (45).
Sulla scorta dell'assioma dell'eternità del Principio primo, tanto il punto di vista filosofico
quanto quello biblico, sia pure con accenti diversi, istituiscono le condizioni di possibilità di
una leggibilità razionale-causale della realtà, perché partono da una causa ultima
autosufficiente che, bloccando il regresso all'infinito, sostiene la catena della cause
penultime o seconde (il reticolo delle cause naturali). Entrambe le prospettive, per quanto in
forme diverse, condividono una strategia di nientificazione del nulla, cioè di eliminazione
del pericolo di un annientamento totale. L'atto creatore di Dio, di cui ci parla il primo
versetto della Bibbia, non ribadisce semplicemente l'impossibilità di qualsiasi iniziativa del
nulla, ma fa dell'universo creato l'espressione della più tangibile nientificazione del nulla.
Nella creazione, infatti, il nulla da cui è tratto il creato non è la materia di cui è composto il
mondo, ma è semplicemente il non essere (ancora) del mondo a cui segue l'esistenza della
realtà creata. Inoltre, tanto i filosofi ionici quanto l'Antico Testamento si contrappongono
alle rispettive tradizioni culturali, sostenendo ciascuno un risoluto processo di
demitizzazione che libera la natura dal capriccioso intervento degli dèi. Alla critica dei
primi filosofi contro le divinità mitologiche corrisponde l'implacabile critica biblica contro
ogni forma di idolatria e di politeismo. Entrambi gli atteggiamenti critici, in definitiva,
approdano alla stessa conclusione: al divieto di ogni forma di deificazione delle forze
naturali.
Certamente, queste analogie strutturali non attenuano affatto le profonde diversità
esistenti, persino nell'impostazione ontologica di fondo, tra il discorso filosofico greco e
quello biblico. Senza alcun dubbio la Torah vede, sì, l'ordinamento naturale come il
risultato delle leggi imposte da Dio al creato, ma non è interessata a fondare una concezione
del mondo in termini di causalità naturale. Questa mancanza d'interesse, però, non vuol dire
che la visione biblica della natura sia incompatibile con la concezione causale dei filosofi
ionici. Quest'ultima, assunta in un quadro di radicale contingenza, può benissimo, come di
fatto avverrà, essere innestata nell'idea biblica di natura. Ad ogni modo non è qui il caso di
soffermarsi sull'ampio spettro delle differenze esistenti tra l'impostazione filosofica e quella
ebraica, perché, dopo tutto, si tratta di diversità ben note e ripetutamente enfatizzate da tutte
le ricorrenti contrapposizioni illuministiche tra theoria greca e Torah ebraica. Ciò che
nell'economia del presente discorso merita invece di essere sottolineato è la profonda
divergenza esistente tra filosofia greca e mondo ebraico nell'impostazione del rapporto tra
eternità e tempo: mentre nel pensiero greco il flusso temporale del divenire cosmico resta
sempre inscritto nell'eternità, nel mondo ebraico la temporalità, proprio nel suo fluire,
risulta invece nettamente separata dall'eternità.
38
Per vedere come da questa separazione nasca una topologia del tempo antitetica a quella
ciclica è bene soffermarsi innanzitutto sul concetto di eternità. Nella filosofia ionica, e
soprattutto nella cosmologia di Anassimandro, predomina l'idea di un'eternità come
illimitata estensione nel tempo, cioè come durata senza inizio e senza fine del flusso
temporale. Anche Eraclito si attiene a questa idea di eternità quando afferma che
<<quest'ordine universale, che è lo stesso per tutti, non lo fece alcuno tra gli dèi o tra gli
uomini, ma sempre era è e sarà fuoco sempre vivente, che si accende e si spegne secondo
giusta misura>> (46). In generale, è proprio su questa nozione di eternità che si fondano
tutti i tentativi di giustificare dialetticamente l'uniformità della natura, ossia l'invarianza
dell'ordinamento causale immanente al cosmo.
Quando, attraverso i primi rigorosi procedimenti logico-dimostrativi, si scopre che le
verità matematiche sono necessarie, immutabili e valide per sempre, cioè sono eterne, si fa
strada anche il concetto di eternità atemporale, secondo cui eterno è ciò che permane
immutabile senza successione: ciò che non era né sarà ma è soltanto. L' "essere" di
Parmenide, ad esempio, gode soltanto di questa eternità atemporale, intesa come
contemporaneità o come presenza immutabile che resta sempre identica a se stessa, esiste
sempre al presente, non ha né principio né fine, ed è esente da qualsiasi tipo di successione.
La mentalità scientifica greca, nata sotto l'egida di un'eternità temporale, conobbe dunque
anche un'eternità al di fuori del tempo e separata quindi dalla temporalità (47). Tuttavia,
escluse le negazioni parmenidee del divenire, per il pensiero greco l'eternità atemporale
( delle verità matematiche, delle idee platoniche, delle essenze e dei motori immobili di
Aristotele) coesiste sempre con l'eternità temporale del divenire cosmico. La durata
illimitata è infatti l'orizzonte comune entro cui restano inscritti i due tipi di eternità. Nel
mondo greco, pertanto, non si assiste mai ad una completa scissione fra eternità e tempo,
perché anche il flusso temporale gode di una forma di eternità (di divinità), nel duplice
senso che la successione temporale dura indefinitamente senza inizio e senza fine e
riproduce sempre gli stessi immutabili schemi eterni di sviluppo. Poco importa se questi
schemi eterni siano chiamate idee da Platone e essenze da Aristotele.
A differenza della filosofia greca, che aveva preso l'avvio dall'eternità temporale, la
Bibbia, invece, parte risolutamente dall'eternità atemporale di Dio. Nel Pentateuco, infatti,
ci troviamo di fronte al paradosso di un Dio eterno, unico e totalmente trascendente il
tempo, che tuttavia crea il mondo, si rivela all'uomo ed interviene misteriosamente nel
corso della storia. L'assoluta trascendenza di Dio si manifesta, infatti, in una duplice
separazione dalla successione temporale: l'Eterno trascende il tempo non solo perché è al di
fuori del tempo, al di là di qualsiasi successione, ma anche perché dura per sempre, mentre
il tempo del mondo creato ha giorni e secoli contati. Insomma, per la Bibbia solo Dio è
l'unico Essere veramente eterno. Di conseguenza, a differenza di quella greca, la
temporalità biblica non ha in sé nessuna qualità divina ( cioè nessun tipo di eternità), perché
la sua durata finita non le consente di coesistere per sempre con l'eternità atemporale di Dio.
Infatti, il principale elemento differenziale che contraddistingue nettamente la concezione
biblica da quella greca consiste proprio nell'assegnare alla temporalità, cioè all'asse
strutturale di questo mondo, lo statuto di una condizione transeunte di durata finita.
Nonostante i ripetuti accostamenti tra la Genesi e il Timeo di Platone, sempre ricorrenti a
partire da sant'Agostino, alla temporalità biblica non è affatto applicabile la definizione
platonica di tempo come <<immagine mobile dell'eternità>> (48), perché il tempo biblico,
a causa della sua durata finita, non può fungere nemmeno da immagine dell'eternità.
Com'è noto, la concezione della creazione, oltre che dall'armonizzazione dei diversi
racconti biblici alla creazione, dipende dal modo in cui viene interpretato il primo versetto
della Genesi. Se lo si interpreta come una proposizione dichiarativa, allora il senso dei
39
primi due versetti risulta il seguente: <<In principio Dio creò>> dal nulla <<il cielo e la
terra>> allo stadio di qualcosa di informe, vuoto e caotico. Se invece si attribuisce al primo
versetto la funzione di sommario introduttivo o di titolo del primo capitolo della Genesi,
allora il senso appare il seguente: dapprima, quando Dio si accinse a creare il cielo e la
terra, la terra era (ancora) <<informe e vuota e la tenebra era sulla faccia dell'abisso>> e
proprio da questo stadio caotico preesistente ebbe inizio il processo di creazione.
Come attesta la storia dell'esegesi biblica, la possibilità di queste due antitetiche
interpretazioni ha fatto versare fiumi d'inchiostro per dirimere la questione se Gn 1 parli di
creazione dal nulla (creatio ex nihilo) oppure dal caos. Dal punto di vista strettamente
filologico la questione risulta, se non indecidibile, sicuramente di difficile soluzione. Dal
punto di vista logico, invece, la preesistenza all'atto creativo divino di un elemento caotico
o di una terra <<informe e vuota>>, è del tutto incompatibile con l'onnipotenza e con
l'unicità assoluta di Dio. Se infatti preesistesse all'atto creativo un qualcosa di caotico, allora
vi sarebbe una realtà non causata da Dio, e Dio non sarebbe più l'unica e onnipotente causa
di tutto. In definitiva, è il radicale monoteismo del Pentateuco, cioè il netto rifiuto ebraico
di qualsiasi dualismo e politeismo, ad implicare l'idea di una creatio ex nihilo (49), in cui
l'universo e il tempo, creato necessariamente con il mondo, presentano la singolarità di un
inizio assoluto. Certamente, l'inizio assoluto di un mondo lanciato nel corso del tempo, cioè
questo salto dal nulla all'universo in divenire, è destinato a restare un mistero inafferabile
alla ragione umana: l'inizio assoluto, in quanto tale, cade infatti oltre l'orizzonte
dell'esperienza possibile; può essere solo rivelato da Dio o dedotto dalla ragione umana
(50). Di fronte a questa singolarità dell'inizio ( ed anche della fine del mondo) la ragione
umana mostra limiti conoscitivi insuperabili. Non a caso la problematica dei limiti della
conoscenza umana, cioè il pessimismo epistemologico, appartiene al mondo ebraico e non a
quello greco. D'altro canto, la concezione di un tempo finito, delimitato cioè da una
singolarità iniziale e da una finale, non consente più di legittimare il principio
dell'uniformità della natura sulla base delle sottili argomentazioni controfattuali elaborate
dai Greci alla luce dell'eternità del flusso temporale. Nella visione ebraica l'invarianza delle
leggi naturali si basa solo sull'imperscrutabile volontà di Dio. E di fronte alla Sua assoluta
trascendenza a ben poco servono le ragioni ricavate dalle nostre più raffinate
argomentazioni controfattuali.
Senza alcun dubbio, dalla Genesi emerge con estrema chiarezza che la creazione è un
passaggio al temporale: non solo la formazione del mondo risulta un processo che si snoda
lungo una successione temporale ( i sei giorni della creazione), ma la temporalità risulta una
delle fondamentali proprietà oggettive del mondo. Non c'è nulla di più distante dalla Genesi
dell'idea che il tempo sia qualcosa di puramente soggettivo. La creatio ex nihilo implica che
il tempo sia creato col mondo, ma questo non vuol dire che il tempo biblico sia un
contenitore inerte, utile soltanto a fornire agli eventi l'etichetta di una datazione. Nella
Genesi il tempo appare piuttosto come una sorta di operatore che presiede alla formazione
del mondo e in cui sono inscritte le potenzialità di sviluppo della storia cosmica. Si tratta, in
ogni caso, di una storia che ha un inizio assoluto (la creazione) e una fine assoluta
(l'avvento del <<regno di Dio>>). Secondo la visione ebraica, infatti, prima della fine dei
tempi arriverà il Messia, che sarà di stirpe davidica ed annuncerà la fine dei tempi e l'inizio
di un'era nuova, in cui <<Il Signore distruggerà la morte per sempre>> (Is 25,8) e in cui si
prefigura la resurrezione dei morti ( Is 26,19; Ez 37, 1-14).
L'avvento di questa era nuova di pace (shalom), cioè di pienezza e di appagamento
completo, non implica la distruzione del mondo, bensì la sua trasfigurazione paradisiaca in
una <<nuova Gerusalemme>> la quale, affrancata definitivamente dalla morte e da
qualsiasi rischio di annientamento, durerà per sempre, acquisendo così una nuova
40
dimensione temporale la cui topologia resta inattingibile anche alla visione profetica.
L'avvento del <<mondo a venire>> comporterà la fine di una temporalità fatta di privazioni,
di sforzi di realizzazione, di precarietà e di morte.
L'era messianica, che precorre e annuncia la fine dei tempi, si colloca in un momento del
futuro indefinito e imprevedibile: potrebbe essere molto vicina come
incommensurabilmente lontana. In ogni caso la continua attesa del Messia incentra l'intera
temporalità biblica sul futuro. Ed è proprio il netto predominio del futuro nell'orizzonte
temporale a conferire direzionalità al tempo biblico: l'intera storia ha un senso, perché ha
per metà finale l'avvento del regno di Dio.
Del futuro corso della storia, tuttavia, si conosce solo l'esito finale, il punto di approdo,
ma non l'esatta sequenza delle tappe e nemmeno la traiettoria del suo decorso. Anche se la
realizzazione dell'esito finale, la salvezza, è garantita dal Creatore, l'uomo è chiamato ad
un'alleanza con Dio, che lo impegna a cooperare attivamente per il raggiungimento della
salvezza finale. Questa richiesta di cooperazione vuol dire che, a parte l'esito finale, il
futuro è relativamente aperto, nel senso che il corso futuro della storia è affidato in parte
alla libera e operativa collaborazione dell'uomo alla realizzazione del progetto di salvezza,
inscritto nel tempo fin dal primo istante della creazione. In questo modo, all'atteggiamento
contemplativo, implicato dalla temporalità ciclica dei Greci, la Bibbia contrappone un
atteggiamento pratico operativo tendente alla trasformazione del mondo, fondato sull'idea
che il futuro è ancora un testo da scrivere e non un libro già tutto scritto.
Com'è facilmente deducibile da queste schematiche osservazioni, la topologia del tempo
biblico rappresenta l'antitesi di quella ciclica. Nella Bibbia, infatti, è il futuro e non il
passato ad avere il predominio nell'orizzonte temporale. Alla concezione greca dell'eternità
del tempo il mondo ebraico contrappone una temporalità di durata finita, in cui il futuro plasmabile dal lavoro e dall'azione dell'uomo e aperto ad accogliere novità, eventi unici ed
irripetibili - contiene qualcosa di più del passato e può progredire verso la meta finale. Per
l'Antico Testamento, in antitesi alla ciclicità greca, la salvezza non si trova nel tempo; non
risiede in un'eternità intermittente fondata sul prolungamento all'infinito del tempo
mediante la continua reiterazione dello stesso ciclo. Il tempo è solo il cammino progressivo
verso la pace; la via che porta alla salvezza. Una via di lunghezza finita, perché Dio
mantiene la Sua promessa.
Note
1) Per rendersi conto di quanto la conoscenza del futuro sia stata al centro degli interessi delle
civiltà antiche è sufficiente una rapida lettura del testo di G. PETTINATO, La scrittura celeste.
La nascita dell'astrologia in Mesopotamia, Mondadori, Milano, 1998, pp. 29-56.
2) G. W. LEIBNIZ, Les principes de la nature et de la grace fondés en raison, par. 7 ( trad. it. G.
W. LEIBNIZ, Monadologia, Rusconi, Milano, 1997, p. 47).
3) F. HOYLE, L'origine dell'universo e l'origine della religione, trad. it., Mondadori, Milano,
1998, p. 16.
4) E. du BOIS-REYMOND, I confini della conoscenza della natura, trad. it., Feltrinelli, Milano,
1973, pp. 51-80.
5) E. HAECKEL, Les énigmes de l'univers, trad. franc., Schleicher Frères, Paris, 1902, p. 243 e pp.
51-80.
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6) E. HARRISON, Le maschere dell'universo, trad. it., Rizzoli, Milano, 1989, p. 96.
7) ESIODO, Teogonia, 123-130.
8) K. von FRITZ, Le origini della scienza greca, trad. it., Il Mulino, Bologna, 1988, p.22.
9) Questo blocco del regresso all'infinito verso qualcosa di ancor più originario viene definito da
K. von FRITZ, op. cit., p. 22, una "forma di finitismo". Questa definizione tuttavia non è
adeguata a rilevare che l'eternità del principio costituisce il blocco logico-ontologico di qualsiasi
regresso all'infinito.
10) H. DIELS W: KRANZ, Die Fragmente der Vorsokratiker, Berlin, 1966,
7 B 1 ( trad. it. I presocratici. Testimonianze e frammenti, Laterza, Bari, 1969). D'ora in poi faremo
riferimento a questa opera con l'abituale sigla "DK" seguita dalla relativa numerazione delle
testimonianze e dei frammenti dei presocratici.
11) IPPOCRATE, Morb. sacr., II, 41-46.
12) G. E. R. LLOYD, Metodi e problemi della scienza greca, trad. it., Laterza, Bari, 1993, p.745.
13) Cfr. W. JAEGER, Paideia, trad. it., La nuova Italia, Firenze, vol. I, p. 287.
14) W. JAEGER, op. cit., p. 302.
15) BLUMENBERG, La legittimità dell'età moderna, Trad. it., Marietti, Torino, p. 175.
16) Come è noto D. HUME, nel libro I, parte III, sez. XIV del Trattato sulla natura umana, trad.
it., Laterza, Bari, 1978, pp. 169-193, mostrando l'indeducibilità logico-apriori dell'effetto dalla
causa, evidenzia la fallacia naturalistica contenuta nell'identificazione del legame causale con il
nesso di derivazione logica. L'eliminazione di questa fallacia non impedisce, però, di esprimere
il nesso causale in termini di derivazione logica. Come attesta il modello nomologico deduttivo
di spiegazione scientifica, le spiegazioni e previsioni della scienza non sono altro che deduzioni
logiche ricavate da premesse esprimenti relazioni causali. Hume, insomma, ci dice
semplicemente che la buona fisica non si fa a priori.
17) H. REICHENBACH, La filosofia dello spazio e del tempo, trad. it., Feltrinelli, Milano, 1977,
pp. 36-44, prendendo in considerazione esempi di variazioni olistiche di tutte le grandezze
spaziali conclude che <<una espansione che concerna tutti i corpi allo stesso modo non è
osservabile>>.
18) D. HUME, op. cit., lib. I, parte III , sez. VI.
19) La dialettica greca, da Hegel a Gadamer, è stata sempre considerata giustamente il cuore della
razionalità filosofica. Tuttavia nessuno si è reso conto che essa poggia interamente su
argomentazioni controfattuali. Anche senza affrontare i dialoghi di Platone, è sufficiente leggere
i frammenti di Melisso (ad esempio, DK 30 B 7- 8) per scoprire che i condizionali controfattuali
costituiscono lo spazio logico della dialettica. E' sicuramente giusto sottolineare il momento
elenctico, tipico dell'argomentazione filosofica greca, ma senza un serio esame delle strutture
controfattuali sottostanti sarà impossibile comprendere la vera natura della dialettica e della
razionalità del mondo greco.
42
20) Per la mentalità greca i processi dissipativi hanno un valore meramente locale e non globale,
riguardano cioè le singole sostanze, ma non la processulità cosmica nella sua interezza.
21) ARISTOTELE, Metaph., I 3, 983b 6-13.
22) K. von FRITZ, op. cit., p. 38.
23) Y. ELKANA, La scoperta della conservazione dell'energia, trad. it., Feltrinelli, Milano, 1977,
p. 13, sottolinea giustamente che la lunga storia attraverso cui emerge il moderno concetto di
energia mostra quanto la scienza <<sia radicata nella metafisica>>, nel senso che fu proprio la
<<fede nel principio che qualcosa si conserva in natura a condurre a quell'attività di creazione
concettuale che sfociò infine nello sviluppo del concetto di energia>>. Ad Elkana sfugge,
tuttavia, il fatto che è stato proprio il pensiero greco a fare delle proprietà conservative il quadro
strutturale della scienza. Causalità e principi di conservazione costituiscono infatti il plesso
inscindibile da cui nasce la mentalità scientifica. Le attuali critiche al concetto di causalità,
provenienti soprattutto dalle interpretazioni della meccanica quantistica, sembrano dimenticare
questo legame strutturale tra causalità e principi di conservazione. Dubito che possano valere
ancora i principi di conservazione in una fisica che elimini la causalità, proclamando "la
causalità impossibile".
24) Una delle condizioni di possibilità della conoscenza scientifica è data dal postulato che in
natura non tutto è possibile: paradossalmente, un mondo in cui tutto fosse possibile renderebbe
impossibile la scienza (cfr. L. CONTI, Possibilità realizzabili e potenzialità tecnologiche, in M.
BALDINI (ed), L'uomo la tecnica e Dio, Centro Editoriale Dehoniano, Bologna, 1994, pp. 6373).
25) ARISTOTELE, Eth. nic., VI 2, 1139b 7-11.
26) Epitteto (cfr. W. C. KNEALE - M. KNEALE, Storia della logica, trad. it., Einaudi, Torino,
1972, p. 144 ) ci ha lasciato la seguente versione completa dell'argomentazione di Diodoro
Crono: <<L'Argomento Dominante sembra sia stato formulato movendo da premesse come
quelle che seguono. V'è un'incompatibilità tra le tre seguenti proposizioni: "ogni cosa, che è
passata e vera, è necessaria", "l'impossibile non segue dal possibile", "Ciò che né è, né sarà, è
possibile". In considerazione di questa incompatibilità Diodoro usò l'attendibilità delle prime
due proposizioni per stabilire la tesi che è possibile solo ciò che o è vero, o sarà vero>>.
27) Cfr. P.-M. SCUHL, Le Dominateur et les possibles, Paris, 1960.
28) PLATONE, Timeo, 19 C - 26 E.
29) DK 12 B 1.
30) M. HEIDEGGER, Sentieri interrotti, trad. it., La Nuova Italia, Firenze, 1968, p. 307.
31) A. PICHOT, La nascita della scienza. Mesopotamia, Egitto, Grecia antica, trad. it., Edizioni
Dedalo, Bari, 1993, p. 326.
32) Ch. MUGLER, Deux thèmes de la cosmologie grecque: devenir cyclique et pluralité des
mondes, Librairie C. Klincksieck, Paris, 1953, p. 20. Lo studio più ampio su Anassimandro
resta quello di Ch. H. KAHN, Anaximander and the origins of greek cosmology, Columbia
University Press, 1960, tuttavia nel presente lavoro seguiremo soprattutto il lavoro di Mugler,
verso ci riconosciamo profondamente debitori.
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33) Cfr. MUGLER, op. cit., pp. 13-15.
34) DK 12 A 11.
35) DK 12 A 10, 11, 12.
36) DK 12 A 10. Anassimandro, a quanto tramanda Plutarco, sostenne che l'uomo da principio fu
generato da altre specie viventi, perché <<mentre gli altri viventi si nutrono subito da sé, solo
l'uomo ha bisogno per molto tempodelle cure della nutrice: ora (ecco l'argomentazione
controfattuale) se all'inizio fosse stato tale[com'è adesso] non avrebbe potuto sopravvivere>>.
37) MUGLER, op. cit., p. 20.
38) Ibidem.
39) DK 28 B 8.
40) MUGLER, op. cit., p. 16.
41) M. ELIADE, Il mito dell'eterno ritorno, trad. it., Borla, Torino, 1966, p. 70.
42) M. ELIADE, op. cit., p. 159. A proposito delle differenze fra tempo statico e tempo dinamico
cfr. L. CONTI, Teilhard de Chardin e la prevedibilità del fenomeno evolutivo, in <<Annali
della Facoltà di Lettere e Filosofia>> Università degli Studi di Perugia, vol. XXXII, pp. 341402, L. CONTI, Il tempo e il problema del futuro, in G. BONOMI (ed.), Il tempo. Scienza,
cultura ed educazione, Irrsae Umbria, Città di Castello, 1999, pp. 117-139.
43) P. DAVIES, Gli ultimi tre minuti, trad. it., Sansoni, Firenze, 1995, p. 146.
44) EPICURO, Ep. ad Men., 133-134.
45) In senso rigoroso dell'esistenza di Dio non si dà dimostrazione vera e propria, perché
dimostrare significa dedurre una conclusione da premesse. Ma un Dio la cui esistenza
dipendesse da premesse non sarebbe più il Dio incondizionato e assoluto. Se proprio si vuol
parlare di prove dell'esistenza di Dio, allora bisogna dire che la semplice esistenza di qualcosa è
l'autentica prova dell'esistenza di Dio. In realtà, il vero problema non è l'esistenza di Dio, ma
Chi è Dio. L'autentico problema filosofico consiste infatti nell'alternativa fra immanentismo e
trascendenza: Dio è un Essere trascendente il mondo o non è altro che l'universo stesso nella sua
globalità? Molto spesso si scambia l'ateismo con l'immanentismo, cioè con le divinizzazioni del
mondo o di qualche aspetto della realtà fisica. La stessa molteplicità di forme di religiosità, in
generale, attesta che la questione cruciale non riguarda l'esistenza di Dio, ammessa da quasi
tutte le religioni, ma Chi e Dio. Il compito proprio della filosofia consiste nel mostrare
dialetticamente (controfattualisticamente) l'aporeticità delle sempre ricorrenti tentazioni
idolatriche di divinizzazione del mondo.
46) DK 22 B 30.
47) L'eternità come perenne durata atemporale (aion) è chiaramente definita da Parmenide (DK 28
B 8) da Platone (Tim, 37 e) e da Aristotele (Phys. IV 12, 221b 3).
48) PLATONE, Tim., 37 D.
44
49) Cfr. 2Mac 7,28.
50) Sul fatto che <<non c'è posto nella coscienza umana per l'esperienza dell'inizio>> ha insistito
giustamente P. GIBERT, Bibbia, miti e racconti dell'inizio, trad. it., Queriniana, Brescia, 1993,
pp. 27-44. Per inquadrare in via preliminare i problemi sollevati dall'interpretazione dei primi
capitoli della Genesi cfr. E. van WOLDE, Racconti dell'inizio. Genesi 1-11 e altri racconti di
creazione, trad. it., Queriniana, Brescia, 1999; I. ASIMOV, In principio. Il libro della Genesi
interpretato alla luce della scienza, trad. it., Milano, 1997.
----Lino Conti è nato a Città di Castello, nel 1947. Insegna "Storia del pensiero
scientifico" presso l'Università di Perugia. Ha svolto attività didattica e di
ricerca presso l'Università di Padova. Si occupa di tematiche concernenti la
storia e la filosofia della scienza, con particolare riferimento alla nascita
della scienza moderna (Galilei). Tra i saggi pubblicati: I no della scienza
(1982); Giuseppe Neri un matematico aristotelico (1990); Il cuore dal circolo
cosmico al trapianto (1997); Dio e le dinamiche della natura (1997).
E-mail: [email protected]
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Sum ergo cogito
Intorno al rivolgimento dell'emblematica divisa del pensiero cartesiano
ed alla conseguente messa in discussione del sistema
(Bruno d'Ausser Berrau)
In un nostro recente lavoro - JANUA INFERNI - pubblicato sul primo numero di questa rivista,
abbiamo preso in considerazione il vulnus, provocato dal pensiero cartesiano, in seguito
all'eliminazione dell'elemento intermediario dal disegno della struttura cosmologica
tradizionale e della conseguente polarizzazione dell'immagine del reale in spirito e materia
(res cogitans et res extensa); dicotomia intorno alla quale si è poi sviluppato il pensiero di
questo filosofo, che tanta parte ha avuto nella creazione delle premesse ideologiche sulle
quali è andato formandosi il mondo moderno. Sviluppo questo, alieno, forse, dalla sua
volontà e dalle sue intenzioni. 1 Non avendolo particolarmente trattato nell'articolo citato,
vorremo ora prendere in considerazione il concetto di coscienza di sé, quale ente, propria ad
un individuo, che il Nostro esprime con la nota formula, 2 polemicamente invertita nel titolo
del presente studio. Intorno al concetto di coscienza, con gli sviluppi della moderna
filosofia, s'è venuta a formare un'aura di carattere morale, intrinseca ad un'indagine che
investa soprattutto le relazioni dell'anima con se stessa e dove quindi le capacità d'esame e
d'autogiudizio prevalgano su quelle conoscitive, considerate allora quali semplici supporti
delle altre per l'immediatezza loro propria nell'ambito del foro interiore. Caratteristica di
questa deriva, subita dal concetto di coscienza, sono l'uso di essa e del suo contrario in
psicanalisi. Qui, invece, si vuole prendere in esame quello che già Platone ed Aristotele,
intendevano e che fa espresso riferimento a ciò che potremmo definire la consapevolezza
del nostro stato: la συνειδησις insomma. In questo senso, attraverso l'autoevidenza
esistenziale, Cartesio pone nella chiarezza e nella distinzione (clarté et distinction) di ciò
che si presenta all'attenzione del soggetto, le basi della sua idea d'evidenza; sottolineandone
- in ANTR. I. 6 - l'aspetto analitico ed induttivo quando, ivi, afferma che è dalla somma delle
rappresentazioni, nella quale sia pensato l'ordine di una molteplicità, che scaturisce la
conoscenza. Ben altrimenti, nelle REGULÆ AD DIRECTIONEM INGENII, aveva escluso il giudizio
soggettivo dalla stessa, avendola invece collegata all'immediatezza sintetica della facoltà
intuitiva che, correttamente, svincolava dai limiti individuali della testimonia dei sensi (il
mondo corporeo) e dell'immaginazione (il mondo intermediario) per farne una pura
concezione dello spirito (il mondo intellettuale). Egli, rispettando anche la tripartizione
cosmologica, era rimasto, pertanto, entro i termini della rappresentazione catalettica
(φαντασια καταληπτικη), tale quale era stata espressa dagli antichi: vale a dire,
l'evidenza come conseguenza di un atto dell'intelletto, il quale garantisce la piena
congruenza dell'oggetto con la sua rappresentazione. Se le sue riflessioni avessero
continuato a procedere in questo modo, non si sarebbero chiuse come, di fatto, poi avvenne,
le vie in grado di condurre ad una reale possibilità di comprensione della vera e complessa
natura dell'uomo. Natura, le cui potenzialità oltrepassano, con certezza universalmente
condivisa ancorché molto diversamente motivata, la modalità corporea; esse, come ammette
anche la moderna psicologia, si sviluppano in estensione indefinita dalla realtà concreta al
piano psichico. Piano dove ha sede anche la facoltà di raziocinio ma, ciò nonostante, questo
livello resta pur sempre un'espressione esteriore e transeunte dell'Essere dove si collocano
46
le possibilità dell'intelletto.3 Le potenzialità dunque della condizione umana corrispondono
con quest'essenza ontologica, che attinge l'infinito e che, pertanto, è tutt'uno con la stessa
ragion sufficiente di quel composto instabile e contingente che è la "sottostante", fragile
individualità. Questo passo fatale per il pensiero occidentale, si verificò a ragione di
circostanze che, forse, oggi sarebbero classificate sotto la banalizzante etichetta di
<<momento di depressione>>: infatti, essendo Cartesio giunto ad una fase della sua
esistenza nella quale gli parve come ogni suo sapere potesse essere messo in dubbio, sentì
allora la necessità di rifondare ab imis fundamentis ogni approccio conoscitivo e fu quindi
proprio nell'evidenza del proprio pensare che trovò stabilità e certezza. È per questo, che il
cogito ergo sum assunse il ruolo di divisa del sistema, con tutte le limitazioni inerenti ad
una personale teoria della conoscenza, messa a fronte della possibilità offerta da un diretto
approccio alla conoscenza stessa. Il limite metafisico di tale assunto filosofico è presto detto
e non è vuoto gioco verbale affermare come la corretta impostazione del problema stia
nell'inversione dei termini: sum ergo cogito; formula con la quale la principialità ontologica
appare giustamente evidenziata rispetto alla coscienza di sé. Non si vuole qui mettere in
forse che, per la prospettiva individuale, questa coscienza, abbia un ruolo rilevante perché,
nella finzione logica del dubbio totalizzante, escogitata da Cartesio nell'impostare sa
méthode, anche il dubitare di pensare è già un pensare e questo costituisce, sicuramente,
uno dei fondamenti di un certo modo di essere; soltanto che, per questa via, non resta altra
strada dalla mera elaborazione di carattere razionale, le cui premesse sono di ordine
esclusivamente individuale e non si basano su quell'immediata evidenza concettuale che è
propria del dominio dell'intelletto. Nella percezione del proprio pensiero, si esprime una
riflessione, la quale anche in ottica, non è una visione diretta e non è, pertanto, una
conoscenza effettiva. A questo punto, è necessario fare presente come, la possibilità di
esprimere discorsivamente, ovverosia con gli strumenti offerti dal dominio intermediario
quanto attiene alla pura metafisica, trova, nella stessa natura di quest'ultima, un limite
invalicabile ed è perciò attraverso l'analogia ed il simbolismo che queste realtà sono sempre
state rappresentate. L'abbandono o meglio l'incomprensione ed il susseguente abbandono di
queste forme espressive, date le premesse filosofiche della cultura europea, 4 non potevano
risolversi in maniera diversa da quanto ha fatto Cartesio e questo ha aperto tutto un
ventaglio di opportunità, le quali erano state, sino allora, in una condizione di latenza ma
che, a quel punto, hanno trovato modo di manifestarsi. È per questo che, chi non riesca a
farsi cognizione della vera natura della metafisica tradizionale, può magari ritenersi - per
tutta una serie di negative reazioni sentimentali, generate in lui dalla società circostante sinceramente ed attivamente antimoderno ma ciò non gli impedirà di essere non meno
coinvolto e soprattutto non meno intimamente partecipe delle conseguenze sociali ed in
particolar modo culturali, proprie allo spirito contemporaneo. Ma torniamo alla conoscenza
di sé come riflessione; quest'ultima implica la presenza di un oggetto riflesso e quella di un
soggetto che ne contempli l'immagine: nella fattispecie, l'oggetto è l'Essere puro, che, nello
specchio5 della psiche, "proietta" la propria "immagine" (il cogito), dalla quale, il soggetto
individuale, trae la percezione della propria esistenza. L'exsistentia, il sum (l'ego sum),
implica tutta la distanza (l'ex stare), che intercorre tra i due. È per questo motivo che, se il
concetto generale di evidenza è così impostato, la dualità tra soggetto ed oggetto diviene
insuperabile, trasferendo la scissione anche al dominio delle articolazioni del reale con una
separazione senza intermediazioni tra materia e spirito. Spirito, sia ben inteso, che, in tal
caso decade a flatus vocis, coincidendo, di fatto, con la promozione del riflesso al rango del
riflettente. La percezione diretta dell'Essere richiede invece un annullamento della distanza
ossia il passaggio dall'ex stare al suo principio immediato e questo, per prodursi
effettivamente, comporta una disposizione attiva, che implica, nell'essere individuato, il
47
superamento dei limiti propri alla sua condizione e la realizzazione effettiva, in sé, della
coincidentia oppositorum o di quelli che, solo una prospettiva contingente faceva apparire
tali. Nessuno pretende che Cartesio, personalmente, si dedicasse ad una via unitiva 6 di
quest'ordine ma è d'averne tagliato le radici dottrinarie nella cultura dell'Occidente che gli si
fa carico. Nel mondo premoderno, le caratteristiche personali entravano in gioco soltanto
sul piano delle capacità intellettive, dell'efficacia espositiva o della didattica, poiché i dati
tradizionali di riferimento restavano per tutti immutati non essendo essi il frutto del
pensiero di alcuno ma avendo invece un'origine essenzialmente sopraindividuale. È in
questo specifico senso che si è potuto affermare esserne "non umana" la fonte e, in termini
religiosi, se n'è asseverata la natura divina. Nel contempo, a contrario, allorché s'è perso il
concetto di cosa significasse il limite dell'individualità, ogni "pensatore" ha teso a creare un
proprio sistema filosofico, una propria Weltanschauung, ingegnandosi affinché ogni parte
di essa, compresa un'elaborata e specifica terminologia, avesse l'impronta dell'ego. Sembra,
a questo punto, d'aver chiarito come mai, quella che possiamo definire coscienza di sé,
lungi dall'essere uno status privilegiato è, nell'ambito della possibilità universale, soltanto
uno dei compossibili (einer von den Kompossibelen) e, per la precisione, peculiare al piano
d'esistenza relativo a quest'umanità. Essa non corrisponde ad una posizione particolarmente
favorita poiché implica, come abbiamo visto, una distanza tra soggetto ed oggetto, dove
l'oggetto è, nientemeno, che la ragion sufficiente della controparte. L'eventuale
annullamento dello iato è allora funzione di quell'azione del soggetto, definita
realizzazione, la quale si caratterizza come un'attività eminentemente intellettuale ma così
centrale da essere ritenuta, in certi ambiti tradizionali, 7 il primo dovere per chi partecipi
dell'umana natura. In effetti, tutte le regole e le relazioni imposte dalle norme, che
reggevano e parzialmente ancora reggono ciò che di premoderno sopravvive nella società,
siano esse a carattere religioso, come avviene per il filum abraminico, siano altrimenti
configurate, non hanno proposito diverso da quello di ordinare, il composto individuale e
l'ambiente che lo circonda, in vista di permettere l'espletamento di quella "operatività" il cui
fine ultimo, da parte di coloro che, qualificati, n'avvertono l'esigenza, sarà il
raggiungimento di tale supremo obiettivo. Si deve inoltre far osservare come, il piano di
riflessione (lo speculum animico), indipendentemente dalla sua eliminazione nel sistema
cartesiano, cancellazione esclusivamente teorica e con conseguenze soltanto per coloro che
a quella visione hanno aderito ma non certo con effetti a livello cosmologico, possa non
avere ruolo di sorta per alcuni esseri. Tra questi, oltre a coloro che, partendo dalla
condizione umana, realizzano stati sopraindividuali, dovremmo annoverare quelli che, in
tali stati superiori dell'essere, si trovano di per sé 8 e quelli, viceversa, la cui esistenza si
svolge al di sotto dello status di esseri "animati". Questi ultimi, per detta ragione, di per sé
evidente, non hanno la facoltà riflessiva (nelle due accezioni dell'espressione) e,
semplicemente, sono. Cercando di riassumere i punti principali, intorno ai quali s'articola il
sistema cartesiano, diremmo come essi siano riconducibili a cinque fondamenti. In tale
elenco, il primo posto spetta sicuramente al cogito, essendo il criterio stesso del concetto
d'evidenza. Seguono le ideæ, che, indicate quali contenuto del cogito, sono i più immediati
oggetti di conoscenza; il problema sta tutto nella sua già indagata natura: per essa, queste,
pur sotto stesso nome, non sono affatto le idee di Platone ovvero non appartengono
all'universale, quali specie uniche e originali, intuibili in una qualsivoglia molteplicità ma
sono semplici oggetti del pensiero individuale ed appartengono pertanto alla
gerarchicamente inferiore categoria del generale. Sono, in altre parole, il risultato di un
lavoro teorico, di un'astrazione che, di per sé, appartiene all'ambito del pensiero razionale e
non a quello dell'intuizione intellettuale. Quali massi erratici, staccatisi dalla rocca della
perduta metafisica, emergono, in questo paesaggio soggettivista, le idee innate; intese come
48
<<capacità di pensare e di comprendere le essenze vere, immutabili ed eterne delle cose>> 9.
Naturalmente, se il concetto di evidenza non è definito secondo i parametri della
rappresentazione catalettica o comprensiva che dir si voglia, non si capisce come
quest'ordine di idee possa darsi ed allora ci sembrano esse i relitti difformi di tutt'altra
visione del mondo, lì presenti, in un ambiente alieno, costruito con tutt'altra logica e scopi,
a testimonianza di non espresse o di non esprimibili ragioni. Al terzo posto di questo
sistema potremmo collocare la ratio che, attraverso le idee, sarebbe, secondo il Nostro, lo
strumento principe per giungere al vero; essa fa ricorso al responso della subordinata
experientia soltanto nel caso della necessità di dover dirimere tra alternative equivalenti. La
differenza con Bacone è che, in questi - nell'acquisizione della certezza piuttosto che nella
rimozione del dubbio - è l'ultima che sembra prevalere sulla precedente; da lui chiamata,
implementandone l'aspetto dialettico,10 argumentum. Ciò, a dimostrazione delle posizioni
sicuramente più radicali, sempre caratteristiche del filosofo inglese. Quinto ed ultimo
caposaldo del sistema, conseguenza di tutte le scelte gnoseologiche fin qui enumerate, è la
divisione della realtà in sostanza pensante e sostanza estesa, dove le due res prive di un
medium di collegamento, seguono leggi diverse ed incomunicabili con risultati veramente
rivoluzionari sul modo di pensare il mondo. Tali contraccolpi culturali sono stati esaminati,
con maggiore attenzione, nel nostro precedente e già citato lavoro ma qui vorremmo
limitarci a sottolineare che, nella visione tradizionale, la vita e tutto ciò che esiste
coincidono: in altri termini, per mettere in rilievo tutta la differenza tra l'antica e l'attuale
concezione del tema è opportuno fare presente come, pur collocandosi secondo quella
gerarchia della consapevolezza supra indagata, anche il mondo minerale appartenga
pienamente alla vita.11 Per Cartesio invece mentre la res extensa è retta dalle leggi
meccaniche, la res cogitans, essendo puro pensiero e perciò priva di qualsivoglia rapporto
con la vita, è caratterizzata dalla libertà. Questo fa sì che, un evento liminare, quale la
morte, non potrà avere altra origine se non corporea e perciò il distacco dell'anima sarà
sempre un effetto e mai una causa. Quando, al contrario, nella cosmologia tradizionale, la
radice d'ogni evento materiale è proprio nella materia subtilis, la quale, a sua volta, ha il
suo principio nel mundus intellectualis, con le fondamentali implicazioni teologiche relative
ai concetti di Provvidenza e Grazia nonché a quelle contenute in qualsivoglia visione
escatologica della storia.12 È chiaro quindi come siano queste le premesse per poi giungere,
in altri tempi e presso altri filosofi, alla teorizzazione della superfluità di qualsiasi idea di
trascendenza nei confronti della realtà grossolana. C'è un'ultimissima considerazione da fare
ed è che, paradossalmente, ma non senza una certa perversa logica, le premesse suddette
furono elaborate dal Nostro nel pio intento di fornire nuove armi teoretiche per la difesa
dell'ortodossia cattolica, proprio perché, apparentemente infranto l'antico silenzio della
riservatezza esoterica, tutto l'affiorare rinascimentale, di tante scienze tradizionali, veicolato
e, per di più, ampiamente diffuso dai nuovi mezzi di comunicazione, era percepito, da molti
timorosi spiriti exoterici, quale travisamento ed insidiosa minaccia per la fede. Una
dimostrazione in più, se ce ne fosse bisogno, di come, dietro il trepido letteralismo e l'ottusa
chiusura delle posizioni tradizionaliste, troppo spesso, si celi e riesca a guadagnare ampi
spazi di consenso l'azione dissolvente di potenti forze antitradizionali.
Note
1
È stato lontano dal suo atteggiamento personale intraprendere la strada del libero esame in materia
di fede (cfr. il presente studio in fine) ed in merito all'assetto dell'ordine sociale del suo tempo; anzi,
si può dire che, avendo egli affermato espressamente di voler restar legato alla religione dei suoi
padri ed alle leggi della sua epoca, abbia ben intravisto dove avrebbe potuto portare la strada che
49
stava aprendo ma, con una forzatura logica, con un atto di volontà chissà in qual modo intimamente
motivato, si sia impedito di percorrerla sino in fondo. Intraprendenza o opportunità che ad altri,
quando i tempi furono maturi, non mancò certo ed i risultati eversivi rispetto al vecchio mondo sono
sotto i nostri occhi nonostante che il cammino non sia stato ancora percorso sino ai suoi limiti
estremi.
2
DISCOURS, IV; MÉD. II.6.
3
In via analogica, prendendo ad esempio il discorso geometrico, il dominio intellettuale - spirito ed
intelletto sono qui sinonimi ed appartengono all'universale - corrisponde gerarchicamente alla
collocazione dei postulati, la cui evidenza è immediatamente intuibile mentre, su di essi, per logica
deduzione, può essere impostata tutta la successiva costruzione: è questo specifico momento, di
riflessione ed elaborazione, che, ontologicamente, viene appunto per secondo ed appartiene, insieme
a tutte le facoltà della psiche, ragione compresa, al mondo intermediario, cui sono propri i limiti
dello stato individuale.
4
Non bisogna dimenticare che, già con Bacone, c'era stato il rigetto dell'apparato sillogistico e,
soprattutto, della scienza fisica ereditati da Aristotele perché proprio dalla totalmente nuova
concezione delle scienze, rette da esigenze eminentemente utilitaristiche, è sorta la necessità di un
rinnovamento del metodo conoscitivo. Si può dire che Bacone abbia messo in evidenza la necessità
d'assolvere certe esigenze mentre è a Cartesio che spetta il primo tentativo di risposta, realizzato con
la costruzione di un vero e proprio sistema di pensiero a ciò destinato.
5
Da questo ben preciso processo deriva anche il verbo speculare inteso nell'accezione di
studiare ed in quella, costruita sulla stessa metafora, di riflettere. Nei limiti, impliciti a
questa specifica condizione rientra anche il caso della Massoneria Speculativa a fronte
dell'immediatezza concettuale di quella Operativa. Per le caratteristiche e la storia delle relazioni tra
le due, vd. il ns. MYSTERIA LATOMORUM, pubblicato sul n. 2 di questa rivista.
6
Qui si è voluto semplificare per necessità espositive ma è chiaro come un processo di realizzazione
comporti un'indefinita gradazione di stazioni intermedie e quindi la coincidentia interiore, sebbene
possa avvenire con stati ontologici superiori alla condizione individuale, non necessariamente deve
essa situarsi a livello del principio immediato dell'esistenza come, per altro verso, può ben superarlo
per raggiungere, al di là d'ogni determinazione, il dominio di quella che la tradizione cristiana
chiama teologia negativa.
7
Il fine effettivo della realizzazione è la liberazione da ogni stato condizionato e quest'obiettivo,
chiamato in skr. moksha, è, appunto nell'Induismo, espressamente definito quale fine supremo
dell'uomo.
8
Anche se certa stucchevole olografia degli ultimi secoli ha culturalmente eroso la definizione
tradizionale, tali esseri sono in linguaggio religioso gli Angeli; in quello metafisico, gli stati
superiori dell'Essere.
9
MÉD.; III; LETTRE A MERSENNE, 16.06.1641, ŒUVR. ; III. 383. Considerato il destinatario, le
perplessità potrebbero trovare conferma in una possibile captatio benevolentiæ.
10
S. Tommaso - in DE VER.; Q. 14, A. 2, OB. 14 - infatti, afferma: <<….dicesi argumentum ciò che
convince (arguit) la mente ad assentire qualcosa>>.
11
Sta lì il motivo di quelle raccolte medievali, che vanno sotto il titolo di lapidari e che
s'accompagnavano alle altre dedicate ai due rimanenti regni della natura e note come florari e
bestiari.
50
12
Esprimendosi nel linguaggio della teologia cattolica, si può, infatti, affermare come sia in questa
precisa catena di dipendenze che si struttura il piano provvidenziale del mondo creato ed al quale
nulla può sfuggire. Tale piano, gerarchicamente ordinato, abbraccia anche la libertà delle creature
senza che essa debba perciò esserne totalmente annullata (<<come un cane alla catena>>, è detto
nell'Induismo). Così Dio, nella sua eternità, dirige il corso del mondo dando un senso escatologico
alla storia. A questo scopo Dio usa le forze immanenti al mondo e da lui stesso create manifestando
per tali vie la sua grazia.
*****
Decadenza del raziocinio
Dal razionalismo all'assurdo, passando per l'arbitrario
(Bruno d'Ausser Berrau)
In due nostri precedenti lavori1 abbiamo affrontato il problema costituito, sia dal ruolo che
Cartesio svolge nel mettere le basi del razionalismo e sia, quindi, di quello del nascere, nei
paesi di cultura europea, dell'illusione, all'epoca fortemente innovativa, della supremazia
della ragione. L'impostazione di un metodo gnoseologico siffatto ha comportato la
negazione di tutto quanto è pertinente al dominio sopra-individuale, con la conseguenza che
la pura intuizione intellettuale ha cessato di svolgere qualsivoglia funzione nell'approccio
epistemologico al reale. È così cominciata un'irreversibile crisi della comprensione della
metafisica, dalla quale, tutti i segnali che ci giungono, attraverso i più recenti sviluppi
filosofici, contribuiscono a rafforzare la percezione di un progressivo allontanamento
culturale la cui entità appare, in sostanza, ormai incolmabile. Nella tripartizione
dell'antropologia tradizionale - corpo, anima/psiche, spirito/intelletto - è appunto
quest'ultimo,2 che si pone in posizione sopra-individuale, appartenendo il composto3
individuale al dominio psichico intermediario custode anche delle capacità logicorazionali.4 È quindi evidente come la confusione cartesiana di ragione ed intelletto, con la
reductio antropologica binaria, abbia innescato una progressione delle istanze sociali e
filosofiche di carattere individualistico e di portata eversiva nei riguardi del vecchio ordine.
Questo, nonostante che il Nostro non abbia mai manifestato velleità di sorta sul piano
politico-sociale e neppure su quello propriamente confessionale nonostante che il
Protestantesimo, con l'introduzione del libero esame, abbia, in qualche modo, messo le
premesse per l'accettazione di analoghi atteggiamenti anche in altri contesti. Da qui, si
comprende perché, nella successiva storia del pensiero, razionalismo ed individualismo
abbiano dato origine a potenti sinergie e soltanto in epoche recenti sembra sia proprio il
razionalismo a mostrarsi soccombente in quest'infausta ma forse logora alleanza. Il metodo
cartesiano è, di per sé, un procedimento semplificatorio, 5 consistendo, nell'affrontare un
problema, col ridurlo ai suoi elementi inferiori. La necessità di semplificare, da esso
appunto introdotta, ha portato, quale logico sviluppo, ad una tendenza verso la quantità
pura, proprio perché questa rappresenta il massimo della semplicità. Semplicità, il cui limite
- che di per sé non può appartenere al concreto 6 - sarà dato da un insieme indefinito di unità
uguali tra loro ovvero dalla molteplicità numerica: unico dominio essa dell'assoluta
"esattezza",7 altrimenti illusorio attributo d'ogni altra scienza. Stupisce quindi come certi
neo-cartesiani lamentino la metastasi della formalizzazione matematica nelle scienze
51
contemporanee, quando i germi di questa patologia erano tutti racchiusi nel semplicismo de
la méthode. Soppresso, appunto, tutto il dominio sopra-individuale, la logica conseguenza,
attinta dalle speculazioni dei successori, è stata quella di ricondurre la parte individuale (a
livello d'antropologia e di concezioni filosofiche) alla sola modalità dell'ordine sensibile,
intesa, disomogeneamente, come un semplice aggregato di componenti quantitativi. Ma, su
tale pervasiva riduzione di tutto alla quantità ritorneremo tra poco nell'esaminare a cosa
questa tendenza ha portato anche nell'ambito matematico propriamente detto. Passiamo
adesso al caso particolare, che ha provocato queste riflessioni: esiste, dagli inizi della
moderna cartografia, un problema topologico definito dei «quattro colori». Esso consiste
nella constatazione empirica che, per attribuire alle differenti entità statali rappresentate su
una mappa, i rispettivi colori in modo che nessuna abbia a condividerne qualcuno con le
confinanti, sì da generare confusione, siano necessari ed appunto sufficienti quattro colori.
Negli annali della matematica, questa dimostrazione sinora manca ma quello che ci ha
stupito è stato apprendere, come, un professore dell'Università di Lione 1, Nikos Lygeros, 8
desse invece la cosa per acquisita in virtù dei risultati ottenuti dall'aver messo in atto una
procedura fondata su un'idea della dimostrazione che è agli antipodi di quella intesa da chi
abbia una formazione matematica evidentemente non aggiornatissima. L'intero processo
logico è superato, non assegnandolo, almeno parzialmente, al computer, il che sarebbe
ancora accettabile pur dubitando che le attuali macchine ne sarebbero capaci, ma
abbandonando del tutto i passaggi del procedimento dimostrativo per far eseguire al
programma un'indefinita iterazione delle verifiche dell'assunto. La cosa, in quella che per
noi era una novità, all'inizio c'era sembrata una bizzarria anche perché, affidare al metodo
sperimentale un'ipotesi di carattere matematico, sul piano tecnico, veniva platealmente a
collidere col concetto stesso di esattezza (cfr. supra, n. 6) mentre su quello - diciamo così morale, appariva, francamente, una superflua abdicazione alle possibilità della logica.
Superata questa fase di sconcerto e cercando di capire quali fossero i fondamenti di tale
atteggiamento è venuto in luce come queste tesi siano, alla radice, assai più antiche di
quello che non appaia. Il dibattito, perché è di dibattito che si tratta, nasce, in apparenza, col
sorgere della scienza moderna e, in effetti, a quel momento, si verifica soltanto un
riaffiorare, con nuove forze, di temi anti-aristotelici già ampiamente sviluppati dai sofisti
empiristi e da Democrito. Tutti questi contestano che, il solo modo di giungere al vero sia il
discorso deduttivo, impostato su una successione sillogistica, scaturita da una base
d'assiomi la cui realtà è tale per intuizione immediata: essi invece ritengono che gli stessi
principi siano spiegabili attraverso le loro conseguenze et vice versa. Un'altra figura chiave
è proprio quel Carneade (di Cirene, -214/-129) di manzoniana memoria, che riteneva
impossibile ogni corrispondenza tra la realtà esterna e la sua rappresentazione: 9 un nesso tra
loro poteva, infatti, avvenire soltanto sotto forma di due rappresentazioni, riconducendo
pertanto qualsiasi atto cognitivo all'interno della stessa funzione rappresentativa di per sé
priva di qualsiasi capacità costrittiva all'"assenso". È evidente come una posizione del
genere portasse al più totale scetticismo. L'impasse era superato attraverso l'affermazione
che, qualsivoglia fenomeno, pur non potendo sfuggire al limite gnoseologico della
rappresentatività, fosse nondimeno noto. Tutto ciò, oltre a ridurre la conoscenza alla
fenomenologia, implicava che ogni fenomeno acquisisse realtà soltanto nella misura in cui
fosse in grado di "convincerci" del suo essere tale. Questo concetto della "persuasività"
(πιθανοτης) del fatto è stato tradotto da Cicerone con probabilitas (ab origo i.e:
approvabilità) ed è secondo tale criterio probabilistico che Carneade ritiene debba
essere osservato, sia il reale (per lui limitato al fenomeno, non dimentichiamolo), sia le sue
interpretazioni. Ora il grado di possibilità di un fatto, cioè la rilevazione statistica della
relativa uniformità della frequenza di un certo evento è quello prescelto dal Lygeros nella
52
sua nuova fattispecie "dimostrativa" del problema dei «quattro colori». Non solo, esso si
basa su quella tendenza di tutto riportare all'uniformità, tipica delle scienze attuali ossia
quella di ammettere che possano esistere fenomeni identici (già nella Στοα era invece ben
noto quel principio metafisico che, da Cicerone, 10 trae nome di identitas indiscernibilium;
esso fu ripreso da Cusano11 ed asseverato da Leibniz12) ma tale approccio, concettualmente
errato, applicato ai fenomeni fisici, diventa una vera aberrazione introdotto nell'ambito
dell'analysis situs ossia in un contesto strettamente geometrico-matematico però rilevante
perché è attraverso questo tipo d'analisi che ben s'apprezza la connessione della matematica
con la realtà sensibile ovvero con la fisica. Essendo, infatti, la matematica l'unica scienza
alla quale si può, come già detto, correttamente applicare la qualifica di "esatta", la messa in
atto, al suo interno, di un procedimento "empirico" si rivela, appunto, un'aperta
contraddizione in termini. Ma ricordiamoci cos'è necessario per poter effettuare una
dimostrazione (αποδειξις); innanzitutto, bisogna avere il pieno possesso della facoltà
intuitiva (intelletto), poi è indispensabile la padronanza delle capacità razionali (psiche):
con la prima si sceglieranno i pochi postulati (principi assiomatici, intuitivamente veri) dai
quali far discendere, in logica concatenazione, la serie di proposizioni13 che ci condurranno
al teorema preso in considerazione. L'economia, la funzionalità e l'esaustività dell'intero
processo sillogistico ne costituiranno l'eleganza, da non intendersi secondo un criterio
meramente estetico-stilistico ma piuttosto secondo un canone d'efficacia architettonica. Sia
la necessità dell'evidenza intuitiva, sia quella della correttezza formale della deduzione sono
- ai fini del valore probatorio sul piano gnoseologico della conclusione - importanti anche
per Cartesio. La cosa è rilevante, perché, la necessità di quest'ordine d'evidenza convive, nel
suo sistema, con il concetto delle «idee innate», labile permanenza di una traccia
metafisica non soppiantata dal formalismo razionalista. Bisogna precisare che Cartesio,
nella sua teoria della conoscenza, confonde i due piani e, mentre concede la verità a priori
degli assiomi - esemplificandoli proprio col more geometrico - n'assegna l'appartenenza
all'ambito delle idee «chiare e distinte», le quali, pei loro due attributi, cioè nella loro
"esattezza", sono però di pertinenza della ratio e non del "soprastante" intellectus. Per
questi antecedenti antichi, non è senz'altro un caso che la scienza moderna abbia potuto
svilupparsi soltanto dopo la massiva reintroduzione in Occidente della cultura classica e, in
particolare, di quella della civiltà ellenistica.14 La precisazione s'impone perché è proprio in
quel periodo che, nell'approccio epistemologico greco, non solo a livello della Gestalt ma,
letteralmente, nel suo intero paradigma, s'era verificato un fondamentale mutamento:
piuttosto che a fini di purezza conoscitiva, com'era avvenuto nel periodo classico, quel
pensiero s'era allora volto a tutta una serie di realizzazioni pratiche. E qui, è bene dare
qualche maggiore dettaglio: con singolare parallelismo nei confronti delle fasi relative alla
nascita del mondo moderno, questa trasformazione comportò l'individualizzazione delle
concezioni e la sostituzione dell'intellettualità con un esplicito razionalismo filosofico
mentre, di conserva, nascevano sia un grande interesse per le scienze, sia (ma questo pur
essendo cosa della massima rilevanza non è mai stato sufficientemente messo in evidenza) 15
venivano messe a punto una serie di sorprendenti ricadute sul piano tecnologico. Per
l'incontrovertibile, ininterrotta continuità storica16 del mondo ellenistico, proseguito nel
contesto dell'Impero di Roma e di questo in quello costantinopolitano-bizantino, è nota la
rilevanza, per lo sviluppo del Rinascimento, del transfert culturale avvenuto ad opera di
quella costellazione d'ingegni, che si sviluppò alla scuola dei tardi epigoni di quest'ultimo
avatar della civiltà antica: i più noti tra loro furono Giorgio Gemisto Pletone ed il
Bessarione, cui fece seguito sulle nostre coste, dopo la conquista ottomana, tutta una
successiva ondata d'eruditi in fuga. È interessante vedere quando, queste posizioni riescano
53
a transitare da un ambito gnoseologico ad uno propriamente geometrico-matematico: già
Leibniz ha reso problematico il discorso riducendo a semplici definizioni i principi della
geometria e gli empiristi inglesi, si sono spinti fino a dar loro solo un significato
sperimentale, affermando il fondamento induttivo d'ogni possibile scienza. La rimessa in
ordine di Kant, che, di nuovo, porta questi stessi principi al rango di giudizi sintetici a
priori, inerenti al dominio dell'intuizione soggiacente ad ogni esperienza, dura sino alla
costruzione delle geometrie non euclidee ed al trionfo del formalismo anti-intuitivo in
matematica ed in fisica.
Invero, ove si tolga valore a quella funzione intellettuale e metalogica che è l'intuizione
diretta di un concetto - e non si parla qui nei termini dell'intuizionismo bergensoniano,
epifenomeno della sfera sentimentale infrarazionale - s'assume che codesti concetti possano
aggregarsi quali classi o costruzioni fatte d'elementi supposti. Tali elementi saranno,
ovviamente, in quantità indefinita e pertanto qualsivoglia costruzione sarà sempre parziale e
incompiuta: ne consegue l'incompatibilità dei concetti assiomatici col reale e viene a cadere
il ruolo probante di quello sviluppo deduttivo che è la dimostrazione. L'indefinito (si
preferisce questa parola a quella corrente d'infinito, che ha per noi un significato metafisico
ben diverso) diventa pertanto una virtualità inerente alla costituzione della classe
assiomatica, dando luogo ad una serie inesauribile di possibilità meramente formali, tutte
egualmente "vere" e "reali" in virtù della semplice correttezza formale del processo logico,
pervenuto a metterle in atto.
Assai prima dell'avvento del computer, nei primi decenni del secolo, Brouwer (L.E.Jan,
1881/1966) e Weyl (Hermann, 1885/1955) - una scuola logico-matematica - negavano che,
in via di principio, si potessero legittimamente fare affermazioni d'ordine teoretico (i.e.
enunciare teoremi), fatta salva la possibilità di una verifica "costruttiva" che n'asseverasse
gli enunciati. Quando invece difficoltà d'ordine anche pratico (mancanza del tempo
necessario ad es.) fossero intervenute a rendere materialmente ineseguibile questa verifica,
ogni altra dimostrazione sarebbe stata da considerarsi solo presuntiva. In quegli anni, queste
posizioni erano considerate decisamente estremistiche; adesso, con l'avvento
dell'informatica, sembra siano riuscite ad avere piena soddisfazione. Ma la problematica
suscitata dal sorgere delle geometrie non euclidee, lo sviluppo dell'algebra ed il fondersi in
essa della logica, pongono l'opera17 di un matematico prussiano, David Hilbert (1862/1943),
decisamente a principio di tutto questo nuovo modo di rapportarsi con i fondamenti del
raziocinio e di conseguenza delle scienze matematiche m'anche - e questo è un ulteriore ma
non meno importante, aspetto della questione - dell'argomentare, 18 normalmente inteso. Le
analogie, tra la sequenza sillogistica della dimostrazione matematica ed il processo che
viene messo in atto per confermare o confutare una tesi, sono assolutamente evidenti. Sul
piano della dialettica, tra i precursori classici di atteggiamenti anti-metafisici, nonostante
ciò possa sorprendere, si deve includere lo stesso Aristotele: è come se, solo in questi ultimi
tempi, certe potenzialità negative, delle sue teorizzazioni in questo specifico ambito,
avessero potuto trovare piena attuazione. Infatti, per lui la dialettica è semplicemente un
procedimento razionale non dimostrativo insomma. Prova ne sia che lo starting point del
sillogismo non si colloca in premesse "vere" ma "probabili" (cfr. supra); cioè,
"generalmente" ammesse. E l'attributo della loro ammissibilità ha l'anacronistico e
mediocre sapore del "buon senso" cartesiano. Ben diverse le tesi degli stoici, fatte proprie
anche dalla scolastica, dove la dialettica è intesa strettamente come logica e dove il
ragionamento, fatto di premessa e conclusione, deve poggiare sull'evidenza. Tornando a
Hilbert, egli, in sostanza, porta a completamento una riduzione della matematica e della
geometria all'aritmetica e di quest'ultima, lato sensu, ad una mera sintassi logica. Per la
geometria, subentra una distinzione tra il prenderla in considerazione come scienza
54
dell'estensione ed il "costruirla" come un sistema del tutto ipotetico e deduttivo,
indipendentemente dal contenuto intuitivo o - afferma - anche empirico degli assiomi di
partenza. Tale perdita di "contatto" sviluppa una serie di notevoli conseguenze: non soltanto
si perde il rapporto d'analogia che regge la relazione tradizionale tra sistema assiomatico
immediatamente intuibile e metafisica ma entra in crisi anche quello tra gli enti geometrici
di un qualsivoglia sistema ipotetico - però formalmente corretto - e realtà sensibile;
relazione che sembrerebbe l'imprescindibile cardine di ogni Weltanschauung moderna. A
questo punto, si capisce anche perché il termine stesso di dimostrazione sia quasi caduto in
disuso nella matematica e nella logica contemporanee: con esso, s'indicano, di norma, una
serie di enunciati, considerando ognuno di essi quale enunciato primitivo o, comunque,
immediatamente derivabile da altri che lo precedano. 19 L'inizio di questa fase scientifica,
post-moderna è proprio contraddistinto dalla confusione tra enti teorici e mondo reale; essa
ha dato luogo ad una matematica e ad una fisica del paradosso dove la distinzione tra
modello ed oggetto sembra non più sussistere e, in ogni caso, la relazione tra i due ha
assunto qualcosa di schizoide (cfr. n. 3). Alla fondata obiezione che anche la geometria e la
meccanica classiche fossero fatte di modelli teorici quali, appunto, un cerchio rispetto ad
una torta o un solido perfettamente elastico rispetto ad un pallone da calcio, può sempre
essere risposto come la differenza fosse allora presente, o meglio, potesse essere presente
alla coscienza dello scienziato o del tecnico mentre, attualmente, l'assenza di una
formazione, la quale strettamente associ la matematica alla sua rappresentazione geometrica
- avendo la geometria, a sua volta, perduto un sistema assiomatico intuibile - faccia sì che
anche i modelli della nuova fisica possano essere confusi con il mondo sensibile,
quand'invece la lontananza di essi da qualsivoglia verosimiglianza non è nemmeno
paragonabile a quella degli enti teorici classici con il concreto. Ed è proprio la non
rappresentabilità degli sviluppi formali della fisica contemporanea, che rappresenta uno dei
segnali più inquietanti della deriva infra-razionale in atto. Questo sembrerebbe contrastare
con la pretesa moderna di ridurre ogni cosa alla quantità mentre invece, se collochiamo la
fase materialistica al suo giusto posto nello svolgersi di questo nostro ciclo di umanità,
dobbiamo riconoscere che ogni fine non può presentarsi in modo diverso dalla dissoluzione.
Pertanto, i segnali raccolti stanno proprio ad indicare il superamento della fase
materialistica: la materia, presa in considerazione dalla meccanica quantistica, appare
sciogliersi in un caos nel quale un qualche orientamento può trovarsi soltanto attraverso
valutazioni probabilistiche. Cosicché, il cartesiano buon senso, fondato sugli aspetti più
"solidi" della vita ordinaria, perde la sua forza di paradigma anche a ragione dello
stravolgersi di quest'ultima, il cui concetto 20 è ormai superato da eventi sociali sempre nuovi
e mutevoli secondo una frequenza temporale incalzante. Tutto questo avviene per ragioni
inerenti alla natura stessa del processo di "solidificazione": la condizione di "solido" è
identica a quella di "corpo" ed esso è epifenomeno dello spazio anche se la "corporeità" è
solo una delle modalità dell'estensione, la quale, presa di per sé, sarebbe meglio definibile
secondo parametri qualitativi piuttosto che quantitativi (cfr. n. 15 e Annesso). Resta il fatto
che, anche considerandola quantitativamente, dovrebbe essere presa in esame la quantità
continua, passando invece al numero, si va esattamente nel senso opposto (quantità
discontinua), col risultato che i corpi non possono più sussistere come tali e l'immagine del
mondo concreto si frantuma: trasformandosi prima in un reticolo atomico, volatizzandosi
poi nell'indistinzione del predetto e ben noto caos subatomico. La tendenza è onnivora e
così, oggi, costatiamo come ciò che non riesca ad essere enumerato (digitalizzato) ovvero
espresso secondo modalità meramente quantitative, sia considerato privo di valore
scientifico e pertanto immeritevole d'ogni serio interesse. Nel caso preso in esame, la più
illustre vittima di questo modus operandi, teso ad elaborare un ordine della realtà solo
55
quantitativo ed ipotetico è - paradossalmente - lo stesso, preteso e proclamato, unico
fondamento del pensiero moderno ossia la razionalità, qui rappresentata dalla fattispecie del
procedimento dimostrativo, sostituito da un semplice accumulo di fatti. È per questo, che il
materialismo ed ancor più la filosofia cartesiana, rappresentano una fase meno avanzata di
tale processo distruttivo anche se lo hanno preparato e reso possibile, soltanto che avendo
entrambe, in sé, le tossine portatrici del male, chi, soltanto ad esse si rifaccia, non ha
chances di uscire dal "cerchio magico" nel quale si trova. Interessante è anche l'aver
acquisito consapevolezza di come le potenzialità negative, connesse all'intima natura di
certe conoscenze, fossero ben presenti alle coscienze e probabilmente ad una riservata
memoria storica21 degli uomini di civiltà passate e come questi, pertanto, s'adoprassero
nell'intento di limitarne l'apprendimento e d'impedirne un'applicazione massiva: soltanto
con l'avvento della modernità e con il conseguente grande impulso ricevuto dalla tecnica,
esse hanno infine potuto trovare pieno ed incontrastato compimento, determinando, col loro
impatto, radicali mutamenti della mentalità e, di conseguenza, del costume. Forse è però
proprio questo quello che si voleva ottenere. In altri termini, la modernità come mezzo ma
non come fine: ed una riprova ne è, appunto, la crescita apparentemente bizzarra e
paradossale dell'irrazionalità.
Ritornando al Lygeros non si può negare ch'egli sia estremamente chiaro quando, a
proposito delle grandi capacità di calcolo proprie allo strumento, fa riferimento, per
giustificare «l'avènement d'un nouveau type de preuve mathématique», a «une étude
combinatoire…que ….une vie d'homme ne suffirait pas à la rendre explicite». Ma il testo
qui rprodotto permetterà ad ognuno di giudicare.
Speriamo d'essere riusciti a rendere trasparenti, nei limiti di una breve analisi, i precedenti,
la portata e gli estremi concettuali di un misfatto, che, per le caratteristiche anti-intellettuali
ed infrarazionali sarebbe meritevole d'ulteriori approfondimenti.
Annesso
La natura del problema dei «quattro colori» è strettamente topologica, e viene affrontata
con gli strumenti propri dell'analysis situs. Ci sembra pertanto opportuno significare come
le determinazioni qualitative dello spazio siano fondamentalmente le dimensioni e le
direzioni di esso. Partendo da questa considerazione di base, si può rilevare la stretta
relazione esistente tra tali determinazioni ed il compito di separare porzioni di esso,
colorandole in modo da definirle senza generare confusione nella contiguità. Ecco dunque
le relazioni intuibili: in uno spazio ad una dimensione (una retta), ci sono due direzioni e,
allo scopo, sono necessari e sufficienti due colori. In uno spazio a due dimensioni (un
piano, la carta geografica), ci sono quattro direzioni e sono n. e s. quattro colori. In uno
spazio a tre dimensioni, ci sono sei dimensioni (la croce solida) e sono n. e s. sei colori. In
questa fattispecie, che corrisponde alla realtà sensibile, è singolare come proprio sei siano i
colori più evidenti dello spettro visibile: rosso, arancio, giallo, verde, azzurro, violetto.
Riassumendo schematicamente:
1dm → 2dr → 2cl , 2dm → 4dr → 4cl , 3dm → 6dr → 6cl .
Passiamo ora all'articolo in argomento, tratto dal seguente indirizzo INTERNET:
http://www.desargues.univ-lyon1.fr/home/lygeros/Mensa/couleur.html
56
DEMONSTRATION, ORDINATEURS ET COULEURS
par Nikos Lygeros ([email protected])
Considérons le principe suivant. Si un théorème dépend de toute la structure de l'objet
étudié, alors, pour rendre son utilisation effective il faudra sans doute l'ordinateur. Il est
bien évident que la véracité de ce principe dans le cas général est contestable, pour le voir
il suffit de considérer un problème qui ne concerne que peu d'objets. Par contre si l'on a
affaire à un grand nombre d'objets et s'ils sont un tant soit peu compliqués, alors, la
puissance du principe devient flagrante. De sorte qu'il est préférable de l'énoncer sous une
forme plus précise - mais un peu plus formelle. Si une démonstration d'un théorème sur n
objets (pour n suffisamment grand mais fini) nécessite l'utilisation d'un théorème qui
dépend de toute la structure (suffisamment complexe) des objets auxquels il s'applique
alors l'ordinateur sera nécessaire à sa réalisation. Il semble que l'on puisse aller encore
plus loin dans cette idée en augmentant soit le nombre n d'objets soit leur complexité car
alors on en arrive à l'énoncé qui est inaccessible même à l'aide de l'ordinateur, du moins
dans sa totalité. Par exemple l'on pourrait se retrouver dans la situation suivante qui
représente bien sûr un cas particulier du précédent principe. Si le problème général est
indécidable alors le problème partiel rend l'ordinateur indispensable. Il est bien évident
qu'en se restreignant à des préoccupations générales comme nous l'avons fait l'on ne
saurait obtenir comme résultat autre chose que des principes. De toute façon le but que
nous désirons atteindre ici n'est pas de construire une théorie complètement axiomatisée du
rôle de l'ordinateur au sein de la théorie de la démonstration. Nous nous contentons
seulement, du moins pour l'instant, d'écrire les prémices de cette théorie de la
démonstration. En ce qui concerne le théorème des 4 couleurs Appel et Haken sont
convaincus par des analyses probabilistes qu'un ensemble inévitable beaucoup plus petit et
contenant des configurations de beaucoup plus petite taille n'existe pas. De récents
développements dans la démonstration du théorème des 4 couleurs qui ont simplifié la
partie traitée par l'humain et non par l'ordinateur vont dans ce sens. Appel et Haken ont
employé 1000 heures de temps de calcul à prouver la réductibilité des 1880 configurations
de leur ensemble. Ils croient qu'il est possible de produire un ensemble qui exige seulement
200 heures pour la vérification. Mais ils sont sûrs qu'il est impossible de produire une telle
preuve vérifiable à la main. Jean Mayer, un des grands experts en matière de réductibilité,
ne croit pas que la tâche de vérifier un tel ensemble à la main soit praticable. Ainsi, si
personne ne trouve une preuve plus simple sans utiliser d'ordinateur, il faudra admettre
que le théorème des 4 couleurs exige une preuve que personne ne peut vérifier à la main
même en y passant toute sa vie. La solution exige une étude combinatoire d'autant plus
complexe que les données logiques sont plus simples et peu susceptibles d'engendrer des
théorémes généraux. Pour les mêmes raisons, l'ensemble inévitable de configurations
réductibles ne peut se réduire à un petit nombre d'éléments. Enfin, la plupart des
réductions auxquelles on aboutit sont impraticables à la main, vu le grand nombre de
coloriages mis en jeu : on voit donc en quoi la démonstration du théorème,
quoiqu'accessible à notre logique, dépasse par son ampleur les capacités de l'intelligence
individuelle. Elle illustre l'avènement d'un nouveau type de preuve mathématique. En effet,
c'est la première fois, à notre connaissance, qu'un théorème impliquant par sa nature un
nombre infini de cas se trouve ramené à une étude combinatoire finie, mais d'une ampleur
telle que la preuve a nécessité plusieurs centaines d'heures d'ordinateur et que, même a
posteriori, une vie d'homme ne suffirait pas à la rendre explicite. Réflechissons un peu sur
ce dernier point et analysons l'idée sur laquelle il est basé. Tout d'abord le problème initial
57
concerne deux infinités, le nombre de cartes et le nombre de couleurs, qui ont bien sûr un
rôle dissymétrique. Le problème est de trouver le plus petit nombre possible de couleurs tel
que la propriété soit vérifiée. Il est trivial de montrer que ce nombre est supérieur ou égal à
4 et il est facile de montrer que ce nombre est inférieur ou égal à 5. Il s'agit donc d'un
problème où l'on peut aisément obtenir une borne supérieure et une borne inférieure de la
valeur recherchée. Par contre il n'est absolument pas trivial de montrer que la valeur est
précisément 4. Pourquoi une telle différence de complexité ? Du point de vue théorique il
est naturel que la minoration soit plus facile à obtenir puisque somme toute il ne s'agit que
de trouver une carte qui nécessite un nombre donné de couleurs pour la colorier. Par
ailleurs dans le cas présent la facilité d'obtenir une majoration provient non pas d'un
raisonnement symétrique mais des contraintes imposées sur le graphe associé à la carte
considérée par la formule d'Euler. Ainsi pour la valeur recherchée, la difficulté consiste
bien à prouver l'égalité avec l'une des deux bornes, seulement ce problème concerne une
infinité de cartes même en les traitant à isomorphie près. La méthode utilisée, du point de
vue de la mathématique pure, va consister à rendre fini le nombre de cartes à étudier. Ce
passage de l'infini au fini représente une étape fondamentale ; c'est sans aucun doute l'une
des situations où l'on peut le mieux prendre conscience de la puissance de l'outil
mathématique. Une fois cette étape cruciale franchie un autre problème apparait : le
nombre de cas à traiter. Bien sûr si ce nombre est très petit, la gêne causée devient
dérisoire. Mais qu'en est-il lorsqu'il est grand ? S'il est vraiment très grand et qu'il
appartient aux nombres métaphysiques comme dirait F. Le Lionnais, l'on ne peut guère en
dire quoi que ce soit puisqu'il est par définition inaccessible à toute méthode raisonnable.
Par contre si ce nombre est accessible, cela dépend bien sûr du problème, et alors
plusieurs difficultés méthodologiques apparaissent : Tout d'abord comment faire pour
réduire ce nombre ? Dans les cas les plus favorables il faut réitérer la méthode, cependant
ils ne représentent pas la majorité. Dans les cas plus difficiles seul le changement de la
méthode utilisée permet de réduire ce nombre. Mais dans les cas les plus difficiles on ne
sait pas faire mieux, alors si cela est possible on fait appel à l'ordinateur. Ce qui a pour
conséquence directe de donner un rôle important à ce dernier. Si celui-ci permet d'obtenir
un contre-exemple, son rôle est effacé et l'on n'en parle plus que laconiquement. S'il permet
de compléter la démonstration du théorème conjecturé alors dans un ultime effort l'on
essaye a posteriori et en utilisant les résultats de ses calculs d'éliminer sa contribution.
Pourtant dans le cas du théorème des 4 couleurs cette dernière tentative a échoué et l'on
s'est retrouvé avec un résultat démontré grâce à l'ordinateur. Ensuite lorsque l'on se trouve
dans une situation où l'ordinateur a été indispensable, l'on est en droit de se demander si
en utilisant une autre méthode (dans le futur) il aurait encore été nécessaire. En ce qui
concerne le problème des 4 couleurs on sait grâce aux analyses probabilistes d'Appel et
Haken que des variantes de la méthode utilisée seraient obligées d'employer l'ordinateur.
Seulement cela n'est pas convaincant car il s'agit de méthodes trop proches pour résoudre
le cas général. C'est à ce niveau là que nous prenons le contre-pied de l'opinion
majoritaire. Nous nous plaçons dans la problématique qu'aurait eue un épistémologue
prégödelien fictif. Car si à l'époque de Gödel les mathématiciens n'ont point trouvé son
théorème, cela ne provient pas tellement de la difficulté technique mais plutôt conceptuelle.
En fait de façon plus concise l'on peut dire qu'ils ne réfléchissaient pas au bon problème.
Ils s'étaient tous mis dans l'idée de chercher à unifier les mathématiques en les ramenant à
une structure dont ils espéraient démontrer la cohérence sans se poser un seul instant la
question de savoir si cela était seulement possible! À notre époque certains mathématiciens
s'acharnent à trouver des démonstrations où l'intervention de l'ordinateur est éliminée.
Mais après tout il ne peut s'agir là que d'un acte de foi car l'on ne sait pas si cette
58
procédure est possible dans le cas général. Car de la même façon que l'on ne peut lutter
contre les lois physiques, l'on ne peut guère lutter contre un fait mathématique (comme
c'est le cas lorsque l'on a affaire à des structures indépendantes). Par exemple une des
grandes réussites du 20ème siècle sur le plan mathématique a été la classification des
groupes finis simples et donc aussi l'explicitation des groupes sporadiques, l'oeuvre de
nombreux mathématiciens, qui ont travaillé pendant plusieurs décennies, dont la
démonstration comporte actuellement plus de 15000 pages ! Mais que se serait-il passé si
au lieu de 26 groupes sporadiques, il y en avait eu 260 ou 2600 ? Car l'esprit humain, et
par conséquent les mathématiques qui en sont un des honneurs, a toujours tendance à
unifier, à synthétiser les objets qu'il étudie pour mieux les comprendre, mais comment faire
s'il y a à faire face à des structures véritablement indépendantes? Ainsi si l'on arrivait à
démontrer qu'un problème comporte un grand nombre de structures indépendantes on
montrerait du même coup la nécessité d'utiliser un ordinateur, si le nombre est accessible
évidemment. Pour cela il faudrait montrer quequelque que soit la méthode utilisée, la
donnée des structures à considérer est incompressible. Peut-être d'ailleurs que le théorème,
qui démontrera la nécessité de l'utilisation de l'ordinateur pour démontrer un théorème
sera lui-même démontré à l'aide de l'ordinateur ? Après tout lorsque l'on parle de
fondements l'autoréférence est souvent au rendez-vous. Pour finir essayons d'expliciter ce
que nous avons voulu démontrer. Nous avons voulu mettre en évidence que du point de vue
de la théorie de la démonstration, l'action de l'ordinateur intervenait de la même façon que
l'utilisation d'un axiome. En effet l'alternative est simple : soit on utilise l'axiome de
l'ordinateur c'est-à-dire que l'on se permet d'employer une procédure mécanique qui
détermine si un ensemble fini, mais grand, de cas à considérer vérifie ou pas une certaine
propriété, soit on exclut la possibilité et dans certains cas - comme celui du théorème des 4
couleurs - l'on n'arrive pas à prouver la vérité d'une conjecture.
Note
1
JANUA INFERNI e SUM ERGO COGITO.
2
Spirito ed intelletto sono sinonimi.
3
Perché di tale amalgama si tratta come ben vedesi nel caso di alcune patologie della psiche: la
schizofrenia (da σχιζω, scindo) è, infatti e letteralmente, una rottura di quel composto.
4
È bene precisare che la razionalità è ciò che gli scolastici collocavano tra le differentiæ animalis
come carattere distintivo dell'uomo rispetto agli altri esseri viventi in questa nostra modalità
d'esistenza essendo essa assente e non necessaria per la presenza di un altro porsi dell'evidenza negli
stati superiori dell'essere.
5
Caratteristico è il suo riferirsi al «buon senso» nell'affrontare temi filosofici; assoluta novità in
materia perché anche lo scettico Arcesilao (di Pitane, -315/-240) considera l'ευλογον quale valido
fondamento soltanto per l'azione pratica e lo stesso Aristotele sembra accennare a qualcosa di simile
nei fondamenti della sua DIALETTICA.
6
Qualsivoglia continuo, per la sua stessa natura, non può ammettere l'esistenza di un "ultimo
elemento" perché dal punto di vista dei "componenti" esso è, in quanto tale, un insieme indefinito. È
chiaro allora come qualsiasi variazione abbia la sua "fine", lo "stato ultimo", il suo "limite" non in
se stessa - perché non c'è un valore ultimo dei valori successivi della variabile (n + 1 è sempre
59
possibile) - ma "al di fuori", con un saltus ovvero una discontinuità necessaria. Del resto, per
"definire", "limitare" una qualsivoglia condizione, è implicito che ci si debba trovare "al di fuori".
7
Ciò che è "esatto" non è necessariamente "vero", essendo esso soltanto il risultato garantito
dall'osservanza delle regole reggenti le procedure di un determinato ambito e, di effettivamente
esatto, non può allora darsi che la matematica, quale sola referente della pura quantità: quindi,
l'esattezza è una caratteristica strettamente connessa all'osservanza di un preciso formalismo, il cui
campo di competenza sarà l'astrazione e non il concreto (unica parte del reale che realmente
interessi queste scienze). Da qui la non "verità", la convenzionalità - spesso esplicita - delle teorie
delle scienze fisiche matematizzate ancorché appaiano dotate di tutte le correttezze formali previste
dalle corrispondenti procedure.
8
Ci sembra opportuno fornire il testo in argomento, disponibile in rete e qui riprodotto in calce: vd.
ANNESSO.
Quella che gli stoici definivano rappresentazione catalettica (φαντασια καταληπτικη): vale a
dire, l'evidenza come conseguenza di un atto dell'intelletto, il quale garantisce la piena congruenza
dell'oggetto con la sua rappresentazione.
9
10
Acad. III. 17. 18
11
DE DOCTA IGNOR. 2.1 : «nell'universo due cose non possono essere assolutamente eguali».
12
IV LETT.
nomi».
13
A
CLARKE, OP. : «porre due cose indiscernibili significa porre la stessa cosa sotto due
Di esse potranno far parte anche tutti i teoremi la cui dimostrazione è data per acquisita.
14
Per meglio apprezzare la vastità culturale dell'ellenismo, basti ricordare come in esso confluissero
la civiltà egizia (Tolomei), che investiva oltre all'Egitto propriamente detto anche gran parte
dell'attuale Medio Oriente e Nord Africa, quella persiano-caldaica (Seleucidi) ed infine con la
Battriana fosse tutta l'Asia Centrale ad entrare, con sé trascinando anche le sue relazioni con l'India
e la Cina.
15
In un libro (LA RIVOLUZIONE DIMENTICATA, Feltrinelli, 1999) brillante e ben documentato Lucio Russo
(Univ. di Roma Tor Vergata) dimostra che la nascita della scienza moderna deve essere retrodatata
alla fine del IV sec. a. C. ossia all'inizio del periodo ellenistico, quando la coalescenza del pensiero
greco con le culture degli antichi imperi, dalla Mesopotamia alla Valle del Nilo, determinò gli
sviluppi sopra accennati. Sviluppi, nei quali i prodotti tecnologici raggiunsero un grado di
raffinatezza e d'ingegnosità che, solo dopo duemila anni, esso cominciò a riproporsi sul proscenio
della storia. I motivi dell'interruzione di questo processo sono, dall'autore, attribuiti alla mentalità
romana; la qual cosa racchiude, sicuramente, molti elementi di verità, non disgiunti, a parer nostro,
da altri fattori connessi a quelle che potremmo definire le determinazioni qualitative del tempo.
Concetto questo, necessitante di un qualche approfondimento: come i corpi ineriscono e, di
conseguenza, si rapportano allo spazio, gli eventi mantengono analoga relazione col tempo. La
differenza consiste nella preponderanza di attributi qualitativi nel tempo piuttosto che nello spazio.
A riprova, è che la misura del primo sia possibile soltanto in rapporto al secondo e solo pel tramite
del movimento, che viene posto in corrispondenza analogica col suo "scorrere". Ne consegue che,
come non tutti i corpi sono adatti a qualsivoglia spazio, così, non tutti gli eventi possono accadere in
qualsiasi epoca: anzi, mentre i corpi non è escluso possano muoversi nello spazio, ciò è
rigorosamente impossibile agli eventi, la cui "localizzazione" è "inamovibile". Sono dunque tali
determinazioni (corrispondono a ciò che s'intende con l'esprit du temps), le quali fanno sì che, prima
di una certa data (e quella sopra indicata può ben essere presa quale riferimento) certe cognizioni
60
ancorché note fossero destinate ad un ambito riservato (riguardo ai motivi, ci limitiamo ad alludere
a una loro qual certa "pericolosità") mentre, a partire da tempi ad essa successivi, ebbe, di nuovo, a
verificarsi un'immersione di tale, particolare, carsica corrente del sapere. Il loro più recente
riaffiorare è l'oggetto del presente lavoro. Concordiamo, infatti, con la scuola di Tubinga, la quale,
prendendo sul serio la condanna platonica della scrittura - ovvero quella che, con apparente
paradosso, ricadrebbe sugli stessi dialoghi, perché, esplicita, è possibile leggerla nel Fedro (274B 278E) e nella Lettera VII (344C, D) - ha redatto una serie di studi (fondamentali quelli di
H.J.Krämer e di K. Gaiser), con cui s'è cercato di ricostruire la dottrina orale e riservata, sottesa ai
testi pervenutici. Se poi teniamo conto che tale atteggiamento esoterico era tratto comune della
mentalità arcaica non solo dei greci (cfr. Iliade, 7.360 e 12.234) ma di tutte le culture degli antichi
imperi, dove il sacerdozio era il custode della conoscenza, possiamo spiegarci come, pur in
mancanza, presso di esse, del ritrovamento archeologico di elaborati sufficientemente giustificativi,
siano state possibili opere stupefacenti, la cui realizzazione comportava, di per sé, precise
conoscenze teoriche e tecniche. La disciplina del segreto di mestiere vincolava, infatti, allo stesso
modo di quella attinente alla scienza sacra. Non si deve infine dimenticare - e qui dissentiamo da
Russo - che, dopo le conquiste di Alessandro (-336/-323), sia per le dottrine, sia per tutte le scienze,
i greci, ampiamente, attinsero dagli egizi (nonché dalle civiltà mesopotamiche e indù: cfr. n. 14) dei
quali, già prima, riconoscevano la preminenza culturale. Così, del resto, essi stessi, più volte, hanno
esplicitamente affermato e, soltanto per quello che, in argomento, ha detto Platone, ci si può meglio
rendere conto del loro atteggiamento col rileggere: Leg. VII, 819b; Epinom. 987a; Gorg. 511d; Tim.
21c, 21e, 25b; Criti. 114c, Leg. IV, 707e. La differenza sta nel fatto che, di certe cose assai
contingenti e specifiche, la civiltà ellenistica invece profusamente scrisse e ne implementò in via
culturale e sociale l'impatto sul costume, rivelando in questo, com'anche pel penchant tecnologico
ed inventivo, un tratto tutto "moderno" mentre gli altri avevano taciuto, limitandosi ad esprimere, su
quest'ultimo piano, mute ed enigmatiche immensità architettoniche, nelle quali includere, tramite
strutture, disposizioni, articolazioni e proporzioni, la summa stessa del loro sapere.
16
Le tracce di questa continuità stanno venendo, chiaramente, in luce dal lavoro di recupero
effettuato sui palinsesti (da παλιµψηστος: raschiato di nuovo per scrivervi ancora), che la
parsimonia medievale ci ha lasciato nelle legature di antiche pergamene o "tra le righe" delle
successive riscritture. Labili tracce, rese evidenti soltanto dalle più recenti tecniche di elaborazione
digitale dell'immagine, le quali ci consentono recuperi assai più soddisfacenti di quelli volenterosi
ma approssimati e distruttivi messi in atto da quel benemerito precursore, tanto ammirato dal
Leopardi, che fu Angelo Mai. Tra queste opere "perdute" (per tutti?): l'originale greco di SUI CORPI
GALLEGGIANTI ed il totalmente inedito SUI TEOREMI MECCANICI, entrambi di Archimede. Tali ricerche
sono condotte in Italia dall'Università di Bologna (Ravenna), tramite la "Fotoscientifica" di Parma e
negli USA dalla John Hopkins University e dal Rochester Institute of Tecnology. Vd. articolo di
Guglielmo Cavallo, p. 35, sul n. del 15.11.00 del CORRIERE DELLA SERA.
17
GRUNDLAGEN DER GEOMETRIE, 1900; raccolte in GESAMMELTE ABHANDLUNGEN, Berlin, 1932-35; trad. it. I
GEOMETRIA, CON I SUPPLEMENTI DI P. BERNAYS, Milano, 1970.
FONDAMENTI DELLA
18
Il precitato Prof. Russo (cfr. n. 15) ha toccato quest'aspetto, tutt'altro che peregrino, nella sua
relazione tenuta in Firenze al Convegno "PERCHÉ L'ANTICO" (28 Genn. 2000) ed organizzato da
quell'Università.
19
20
R. Carnap, LOGICAL SYNTAX OF LANGUAGE, § 10; trad it. SINTASSI LOGICA DEL LINGUAGGIO, Milano, 1966.
Questo tipo di perdite è generalizzato; significative, le note difficoltà concettuali e di giudizio,
nelle quali possono imbattersi i magistrati, quando, in certe circostanze, si vedono costretti ad
appellarsi all'ancor prescritto «comune senso del pudore».
61
21
In quel demi-monde, situato nell'ombra degli argomenti viziati dall'imperversare di visionari e
truffatori, con la debita controparte di preconcetti negatori d'ogni fenomeno difficilmente
catalogabile, si collocano, a tal proposito, le cosiddette «pietre di Ica»; il cui valore e la cui
testimonianza di un momento "tecnologico" arcaico, dovrebbe essere, infine, vagliata con un
minimo d'attenzione e obiettività.
----[Una presentazione dell'autore si trova nel numero 1 di Episteme]
E-mail: [email protected]
62
Avvicinandomi a Wittgenstein…
(Euro Roscini)
1
Ho la sua Prefazione sotto gli occhi.
Non mi trovo in accordo, da subito, con la frase/chiave che vuole riassuntiva
dell'intero 'Trattato': "Tutto ciò che può essere detto si può dire chiaramente; e su ciò, di
cui non si può parlare, si deve tacere."
A parte la cacofonia delle ripetizioni può e si può/si può, detto e dire e con due ciò
in così breve spazio (una ventina di parole); a parte l'ambiguità banale (probabilmente da
illetterato che è) tra dire e parlare, e l'istanza deontologica (si deve) che sbilancia la frase,
chiudendola brutalmente - a parte... (ché, se del caso, avrebbe dovuto esprimersi: 'tutto ciò
di cui si può parlare, va detto chiaramente, e quanto non può esser detto va taciuto').
Ho l'impressione che tagli/che spezzi. E neppure tanto di netto. Da un lato
l'espressione/linguaggio chiaro (possibilmente?) e dall'altro l'espressione/linguaggio taciuto
(dignitosamente?): il primo legittimo nella sua concretezza (forse), il secondo abusivo nella
sua astrattezza (forse).
Come se avesse voluto sputare la sentenza: se sai di che parlare, fallo e il più
possibile chiaramente; se no stai zitto, ché fai più bella figura. Ma non voglio pensare
neppure un attimo che sottintenda a questo logoro suggerimento screanzato, no!
Comunque non mi sembra, da questa sorta di auto/presentazione telegrafica, che
sia quel pensatore a tutto sesto che molta cultura del mio tempo erige quasi a fondatore
della nuova chiarezza (logica?).
2
La chiarezza dell'espressione dei pensieri (perché questa egli intende e dirà
immediatamente dopo) è - secondo me - un miscuglio di fatalità, tendenza e specificità.
È fatale perché non è idealizzabile, progettabile, programmabile. E tendente perché
continua, progressiva, infinita (di questo, in particolare, dirò appresso).
Soprattutto, essa/chiarezza, è specifica perché relativa a chi pensa/parla/scrive (non
semplicemente che dice). In più al suo luogo e al suo tempo.
Ogni uomo consapevole - cioè - esprime più/meno chiaramente i suoi pensieri, a
seconda che pensi soltanto (per se stesso?), o pensi/parli (a chi?) o pensi/scriva (per chi?). E
ovviamente in ragione del luogo geografico e del tempo storico in cui si colloca di volta in
volta.
Dal canto mio, ho voglia soltanto di godere - possedendola! - di altra più dilatata
chiarezza espressiva appena ne raggiungo/ne conquisto una qualsiasi che m'illumini,
illuminandomi dall'alto. E se qualcuno mi commenta dietro che le mie espressioni, avendole
pur scelte, avrei potuto sceglierle più chiare oppure tacerle, ribatto che no: che ho soltanto
63
provato, giuocato, ingannato me stesso e l'aria che mi circonda - ovvero finto di sceglierle.
Pur tuttavia arrampicandomici, sudando e logorandomici su di esse/con esse tanto da
morirne.
Voglio dire - un uomo come son io finisce col vivere la propria chiarezza mentale
come pelle, istintivamente, con passione e libidine. Almeno il più delle volte. E l'omuncolo
che mi venisse più/meno gratuitamente a fare la 'morale logica', trovandomi surriscaldato,
potrei mandarlo di filato a quel paese.
3
Questa sacrosanta tendenza all'espressione migliore, di maggiore chiarezza e
sempre più nitida del mio pensiero è simile/analoga a quella a cui - credo - è destinata la
mia stessa coscienza.
La coscienza di me si muove, cresce, va verso... (è tuttavia tendenza di ciascuno,
vale per tutti, è tragitto che accomuna - questo lo penso con convincimento assoluto)...
verso l'infinito. E il concetto d'infinito - non mi venite a dire - riesce ad intuirlo anche un
uomo mediocremente intelligente, seppure per poco e nell'infinitesimo di cui è capace.
Io sostengo con forza che ogni uomo tende a proiettarsi in esso. Che chiami poi
vita o natura o dio, o l'Immenso, l'Immutabile, il Perfetto; che gli dia il nome immacolato
d'un unto, di un santo, di un papa o gli assegni un simbolo geometrico, un numero o altro
simbolo (o magari il suo stesso nome/guru di se stesso) - beh, veramente non fa differenza e
conta niente.
Anche colui che uccide il suo infinito non agendo/non volendo agire radicalmente
la sua funzione trascendente, in realtà sancisce la propria caduta nel vortice del vuoto/del
buio/del silenzio senza fine (che però vuole/esige - lo stronzo! - vuoto/buio/silenzio di tutti,
universale, meta ineludibile anche dell'uomo diverso da lui; ma questo è altro discorso).
Insomma, la nostra proiezione nell'infinito non ha limiti.
Così che procedendo in questa direzione - verso l'infinito - anche la chiarezza
attraverso la luce dell'espressione, anche la coscienza attraverso l'espressione della
chiarezza si sposta, diviene, asseconda quel verso: da oscura si fa chiara, da meno chiara si
fa più chiara; a volte con cadute e ricadute verso l'oscurità. Ma poi, riprendendo, torna in
linea col suo percorso verso l'infinito.
In coscienza, credo che Dio stesso non si salvi da questa condizione.
4
Che mi viene a dire nel suo tractatus/con la sua praefactio questo filosofo/logico molto tecnico e molto poco filosofo? Io non so se parlo lo stesso linguaggio logico di lui
(che comunque rivendico insieme a quello ana/logico ed in/logico, a pari dignità). Ma con
immediatezza spavalda sostengo... - perché sono tridimensionale/perché credo nella
Tridimensione che ho scritto/perché il TRE m'illumina di chiarezza stimolandomi a
donargli sempre maggiore espressione - ... sostengo le affermazioni seguenti.
1°) Tutto ciò che è chiaro (nel contenuto) non va/non andrebbe mai detto/tanto
detto, meno che meno con chiarezza (della forma) perché ovvio e scontato, noioso,
sfiancante da ripetere seppure più chiaramente e, se da sviscerare, demoniaco. 2°) Tutto ciò
64
che può essere detto, è lapalissiano che si può dire chiaramente (cioè - suppongo brevemente/semplicemente, grammaticalmente/sintatticamente, logicamente/lucidamente,
concretamente/sensatamente, e sempre che si abbia voglia e attitudine in un preciso
momento ad esser brevi, sintattici, sensati, ecc./ecc.). Ma - aggiungo - lo si può dire anche
in modo oscuro, ambiguo, oracolistico, devastante, solleticoso, visionario o altro del genere,
da farlo sembrare eccezionale, inquietante, seduttivo, bello/brutto ma pregnante o altro del
genere. 3°) Tutto quanto è da dirsi di approfondente/di luminoso/di colmante, si deve dire
con chiarezza estrema, ossessiva e sviscerata; non si può dire soltanto. 4°) Se l'umanità immagino - avesse veramente taciuto tutto quello di cui non avrebbe dovuto parlare mai,
non ci sarebbe stata né umanità né storia/né evoluzione dell'umanità: ovvero non sarebbe
mai accaduto quel divenire per gradi/per tappe, o per fasi, o per cicli e come in progress (io
amo dire per brutte copie) di religione, di scienza e di coscienza, qui la politica, lì l'arte, più
in là la letteratura, non al centro l'economia, in fondo il viaggio e sopra a tutto l'esperienza
che è maestra di vita per l'uomo universale - cioè quel che fa il percorso complessivo/fatale
dell'uomo verso quell'infinito di cui sopra.
E poiché questo 'gran logico/filosofetto' introduce fin nella sua formula/divisa
l'idea costringente e faticosa di dovere (si deve) legandola/sposandola a tacere, bene, io cavaliere smarrito e generoso - difendo chi è strutturalmente difficile, o puro, o
squadernato, vergine e tagliente, o consunto... Per cui, in aggiunta ai precedenti quattro
punti, ne pongo con enfasi altri tre.
5°) 'Si deve' parlare anche oscuramente e 'si può' tacere anche chiaramente! 6°)
Tutto ciò che non può essere detto non si deve tacere - anzi! - né chiaramente né
oscuramente, e tutto ciò che non deve essere detto si può dire - anzi! - oscuramente come
chiaramente! 7°) E quello che non si deve affatto dire si può sempre/comunque logicizzare
e quello che si può tacere doverosamente non si deve sempre/comunque poter logicizzare!...
(vorrei seguitare).
Questo ed altro, con altre cento inermi affermazioni combinate come le precedenti,
lo sostengo perché nel mondo che vivo ha senso e significato la prova, lo sprone, la
provocazione, il suggerimento, la difesa, l'esasperazione, il tentativo, la forzatura, il
non/senso, lo scivolare nei propri crepacci, la contraddizione, il fracassarsi nei precipizi
altrui, il delirio... - tutto ha senso!
Tuttavia non è questo che mi preme.
5
La sua formula teoretica non è ternaria. Ma binaria. L'intera frase lo dimostra:
morfologia, sintassi, semantica, stile, intendimento, propaganda di sé e quant'altro.
Affermazione e negazione (e il dubbio? - affermo un postulato, lo concreto nel
dubbio, per superarlo/negarlo). Dire e parlare (e il pensare e lo scrivere se sono sinonimi?,
o soltanto lo scrivere se 'dico' nel senso che 'penso'?). Si può e si deve (e la volontà? - io
voglio, dunque devo, perché io possa). Dire/parlare e tacere (e l'osare? - oso fondando,
dico/parlo discorrendo/confrontandomi, concludo tacendo/ascoltando a mia volta).
Chiaramente, poi, come avverbio/attributo di ciò che si può dire è contrapposto a
ciò che si sottintende che sia l'avverbio/attributo di ciò di cui non si può parlare (qui, oltre
tutto, l'ambiguità fondamentale della frase, per cui egli non sarà mai deputato ad introdurre
nessun saggio di logica/chiarezza per me).
65
Si può supporre, ma solo a tentare, in contrapposizione binaria a chiaramente un
termine che va dall'irrazionale all'insensato, dall'insensato all'osceno, dall'osceno
all'indicibile (tanto è vero che non si dice proprio!).
E in fondo a tutto lo stile.
Chi non si accorge (in una paginetta striminzita che introduce un trattato che
"merita per ampiezza, per portata, per profondità - come scrive l'invaghito Bertrand
Russell introducendolo a sua volta - di essere considerato un evento importante nel mondo
filosofico") di quella sua dicotomia formale, quasi bambinesca, o della scrittura da liceale
sguarnito e al limite del patetico, quale "Tutto il senso del libro si potrebbe riassumere
nelle parole: Tutto ciò che può essere detto si può dire ecc." - eh, chi non se n'accorge?
6
Ora, tutta la mia cultura d'appartenenza è ancorata (qui l'ennesima prova
miserevole) sul 'due', sulla 'dualità', sul 'binario'.
Essere e divenire (e l'esistere?), soggetto ed oggetto (e il concetto?), mezzo e fine
(e il principio?), causa ed effetto (e il corso?), necessità e sufficienza (e il numero?),
quantità e qualità (e la natura?), forma e sostanza (e il contenuto?) o contenuto e forma (e
la sostanza?), spazio e tempo (e la vita?), mente e corpo (e lo spirito?) o anima e corpo (e
la mente?), il femminile e il maschile (e il neutro?), il dio e il demone (e l'uomo?) o
l'uomo e il dio (e il nume?), ecc./ecc. All'infinito.
Il binario, rispetto al ternario mi sembra così limitativo, escludente e barbarico da
poter stabilire con polso sicuro - io! - l'appartenenza di chi ne faccia uso al novero di quanti,
per parafrasare un po' e un po' per plagiare questo Autore rigidino e ragioniere, 'non
potendo parlare (di filosofia) dovrebbero tacere'.
Eh sì, la specialità (peggio, specializzazione) del proprio intelletto e quand'anche
la genialità non fanno assolutamente, per nessun motivo, il filosofo, mai!
Giacché allora, per lo stesso motivo di eccezionalità/di merito/di bravura, di
ambito circoscritto/di regole del giuoco/di maestria nel giuocare, di capacità
propria/espressione perimetrale/superlatività indiscussa, se ciò bastasse, a buon titolo,
potrebbe essere filosofo, considerarsi tale e magari con sussiego anche un condottiero, un
sollevatore di pesi e uno scacchista, oppure un chimico, un giocoliere ed un pittore, oppure
un parrucchiere, un centometrista e un matematico...
Ebbene, egli è un semplice matematico!
7
Infine, questa formula non è originaria. E la cosa è filosoficamente grave dal mio
punto di vista.
Per questo motivo mi accingo a scivolare appena, guardandomi da ogni lato e
pronto ad aggrapparmi, da questa prefazioncina allo snocciolamento di poche centinaia di
frasi numerate/variopinte, variopinte/ermetiche che vengon dopo, costituenti il corpo del
libro. Su cui ho già gettato lo sguardo, curiosando, ma con certa perplessità, timore alquanto
e quasi diffidenza.
66
Non è originaria perché egli si richiama dichiaratamente ad altri: Frege e Russell. I
quali sono matematici, di cui lui è allievo (questo la dice lunga). A cui deve gran parte
dello stimolo di quanto scrive (questo preannuncia il quadrato e la fortificazione).
Ecco difatti la frase/incipit, di apertura della Prefazione.
"Questo libro, forse, lo comprenderà solo colui che già a sua volta abbia pensato
i pensieri ivi espressi - o, almeno, pensieri simili -." Il che equivarrebbe a: oh saggio
discepolo, se vuoi esser saggio, ascolta (forse) il saggio maestro!
Fin da queste prime parole riesco a dedurre la dipendenza e l'élite,
l'approfondimento filosofeggiato, la chiosa e l'addobbo, il clima accademico/il clima di
Cambridge (dove insegna Russell e dove è voluto andare il promettene studente austriaco
pure invaghito). Insomma, capisco il punto d'onore - come posso dire? - che l'allievo eletto
deve esibire e sostenere di fronte ai suoi maestri: punto d'onore intorno a princìpi, a schemi,
a teorie matematiche/cosi maledettamente matematiche (altro che logiche!). Da smaltire per
compito - princìpi, schemi, teorie - professionalmente, quotidianamente. E poi magari
ringozzarsene nei giorni dei giorni.
8
Bene, eccomi a leggere la prima pagina del "Tractatus logico/philosophicus" di...
Mi rendo subito conto di tante cose... Tra queste, dell'onestà che io ho avuto
scrivendo da me stesso l'introduzione (non la prefazione) alla mia Tridimensione: cioè
l'essermi definito/collocato - anch'io élitario! - come 'uomo comune' tra la razza degli
'uomini di talento' e la razza degli 'imbecilli d'Iddio' (ché almeno in questo senso sì, sono
razzista).
Mi fermo a metà pagina - come al solito, come miliardi di altre volte: dal liceo,
dall'università; anzi da quando ero adolescente e bambino.
Non credo che procederò più oltre. E il motivo è semplice: non ho la chiave
d'ingresso, non conosco il codice, mi sfugge il linguaggio segnico. Mi sento solo, col mio
linguaggio, bello ed unico - sguarnitamente solo, ma vergine.
Tuttavia...
Tuttavia un'idea ruffianesca, medianica, devozionale; un'idea che mi intriga, mi
rende assonantico, mi metamorfizza per qualche battito; un'idea scimmiesca, un'idea
pagliaccia, no: un'idea simbiotica/sinergica/comunistica mi suggerisce... mi suggerisce di
provare per qualche riga... di provare uno schema/un metodo, una soluzione giuocata:
anch'io, a fargli da pappagallo e da pendant, o da imitatore infimo made/television (magari).
9
Meus tractatus in fieri
1
1.1
1.2
Il mondo è tridimensionale.
Tridimensionale come alto/lungo/largo, o verticale/orizzontale/laterale... Ma
anche pensiero/azione/senso... Soprattutto Logos/Ethos/Pathos!
Il mondo sono io: sostanzialmente, contenutisticamente, formalmente.
67
2
Io sono il mio interno/la mia superficie/il mio esterno.
2.1
Il mio interno sono i miei organi anatomici. Ma di più è il mio pensiero, il mio
giudizio, i miei stati d'animo. E di più ancora, la mente contenitrice di
anima, e ancora massimamente, l'anima contenitrice del mio pezzo di 'dio'
incondivisibile (forse il noumeno di me) frammento infinitesimo del Dio
originario 'suicidatosi'/frantumatosi nella tridimensione dell'Universo, che
Lui volle generare e a cui appartengo.
2.2
La mia superficie è la mia stessa fenomenologia: di me che appaio innanzi tutto a
me stesso, e secondariamente agli altri che incrocio/mi guardano/mi
considerano... Potrei aggiungere alla mia superficie, inoltre, i miei passi, le
gocce di sudore che a volte mi colano (spesso l'estate, dalla fronte
principalmente), le lacrime rare che ho versato poco e male nella vita (ma
certamente non i corrispondenti stati emotivi, i quali appartengono al mio
interno).
2.3
Il mio esterno è tutto ciò che realmente/concretamente/ materialmente (non
immaterialmente, spiritualmente, ecc. che appartiene solo al mio interno)
esiste/sussiste/ resiste o rovina in ogni direzione a un milionesimo di
millimetro dal mio corpo/dalla mia pelle: la formica e la galassia, il
bicchiere dal quale vedo bere l'amico e la luna, lo sputo (sputo di rado), il
libro, l'orgasmo (innumerevoli); inoltre la voce di me di cui ascolto il suono
(non la pregnanza) e soprattutto suoni/immagini/idee di altri che mi sono
simili e non simili; poi ancora i paesaggi che vedo (non le mie visioni), le
materialità che tocco (non quelle che tocco virtualmente), ecc.
3
Il mio interno, la mia superficie e il mio esterno hanno uguale valenza: cioè gli
attribuisco uguale importanza.
3.1
Importanza come valore, bene, interesse, curiosità, riflessione, studio, giudizio,
ecc. secondo i casi, le situazioni, le circostanze.
3.2
Ogni valenza d'importanza ha tre modalità: positività/neutralità/negatività.
4
Il mondo diviene/io sono il mondo/io divengo.
4.1
Divenente è un mio giudizio.
4.2
4.2.1
4.2.1.1
Divenente è il giudizio che do principalmente del mondo/a me stesso/a tutto.
Principalmente implica/sottintende/include una scala di gradazioni di
maggiore/uguale/minore importanza, tali da farmi scegliere in determinati
casi/situazioni/circostanze quello a cui il termine (nel caso 'principalmente')
si riferisce (nel caso 'divenente').
Scegliere, in particolare, lo uso/abuso nel senso/significato di preferire,
focalizzare, cogliere... Oppure anche amare. Ma altrimenti temere o odiare
(mi succede spesso di odiare nel senso di disprezzare).
68
4.2.1.2
Casi/situazioni/circostanze, le intendo specificamente di riflessione
filosofica/filosofeggiante: anzi, prevalentemente.
4.3
Divenente perché io (il mondo) mi muovo/mi modifico/mi trasformo. Divenente
perché non sono mai, mentre vivo (penso/agisco/sento) uguale/identico a
quello che ero prima o - suppongo - sarò dopo. Divenente perché
nell'attimo stesso in cui io dico che 'sono', il mondo/il mio mondo/io stesso
'non siamo più', in quanto divenuti/perché divenuti.
4.4
Divenente come accadente. O succedente. O avvenente (non nel senso di seduttivo,
ma spesso anche nel senso di seduttivo). E altri sinonimi dello stesso
calibro.
4.4.1
5
"Qualcosa può accadere (divenire, succedere, avvenire, verificarsi,
sopraggiungere, capitare, ecc.) o non accadere e tutto il resto rimanere
uguale" - (Tractatus alienus 1.2.1) - è frase sghemba, trasversale,
metafisica, oscura, illuminante (alla maniera del lanternino di Diogene), la
quale anziché lasciare il tempo che trova, trova il tempo che lascia.
Comunque, per me, non seduttiva.
Io/divenente sussisto o mi dissolvo?... - ecco un primo punto eventualmente da
chiarire, riguardante la sussistenza di ciò che è (io/il mondo) o la sua
dissoluzione.
5.1
Il mio interno e/o la mia superficie e/o il mio esterno, divenendo/non
restando/scomparendo formalmente, sussiste/sussistono nella sostanza (e/o
nel contenuto) di prima (quale?) o si dissolvono trasformandosi in altro (in
che?) o in niente?... - secondo punto/corollario del primo eventualmente da
chiarire.
5.2
E dove e quando e perché il mio interno e/o la mia superficie e/o il mio esterno,
nell'attimo stesso che l'ascolto/lo guardo/lo tocco, o l'osservo/lo misuro/lo
definisco, o lo valuto/lo giudico/l'assolvo (oppure lo boccio), essendo
divenuto altro da sé, sussiste/come? Oppure si dissolve del tutto/come?... terzo punto/corollario del primo eventualmente da chiarire.
6
Il mio interno e/o ecc. nell'attimo ecc. che ascolto ecc. che osservo ecc. che valuto
ecc. è "divisibile in fatti"? (1° punto alquanto irrilevante da chiarire), e
questi sono fatti "in spazio logico"? (2° punto alquanto irrilevante da
chiarire), e i fatti sono "sussistenze di stati di cose"? (3° punto alquanto
irrilevante da chiarire).
6.1
Divisibile vuol dire che si può dividere senza pregiudizio.
6.1.1
Senza pregiudizio, in particolare, vuol dire che ciò che è eventualmente diviso
mantiene le sue peculiarità: identità, personalità, coscienzialità...
6.1.2
Divisibile, dunque, più nel senso/significato di analizzare che nel
senso/significato di frantumare.
6.1.3
Divisibile come 'che divido mentalmente' (atto inerente al mio interno) o 'che
divido realmente' (frantumo).
69
6.2
6.2.1
6.3
6.3.1
Il (mio) spazio logico non comprende/esautora l'intero spazio.
L'intero mio spazio consta di spazio ana/logico, spazio logico e spazio in/logico
(in ordine susseguente).
Nel 99,99 % (forse per mille o per milione) dei casi/situazioni/circostanze che
vivo i fatti sono le cose e le cose i fatti - qui non ci piove come nel Tartaro.
A meno che un bell'intelletto mi fa degli esempi convincenti di fatti che
non son cose e di cose che non son fatti.
E, forse, nello 0,01% (o per mille o per milione) i fatti sono 'facenti' come le cose
- qui ci piove come nel Tartaro. Ma allora una delle due...
6.3.1.1
Non ho il tempo infinitesimale di dividere/analizzare (neppure di dividere
frantumare), o ascoltare, osservare, valutare, ecc. il facente, perché ho
soltanto da starci con esso passivamente/fatalmente il tempo istantaneo che
mi usa - il porco!
6.3.1.2
Oppure ci faccio quel che ci ho da fare (a mia volta, sono io il porco); allora scopro - che non è più facente, ma è fatto/già fatto/irrimediabilmente fatto.
7
Io sono alto/lungo/largo...
ecc. ecc. ecc.
10
Concludendo, dal mio punto di vista tridimensionale ci sono tre modalità di
approccio del filosofo sedicente, vero o falso che sia (non parlo dei ragionatori tout court di
filosofia o studiosi di filosofia altrui) alla verità/alla ricerca/all'infinito. Che sarebbe
interessante focalizzare ed esplicare scientificamente, tecnicamente, dottrinariamente; ma
che non faccio perché: 1°) non sono capace, 2°) sarebbe inutile, 3°) non vorrei neppure
saperlo fare. Per cui mi limito secondo il mio stile intuitivo/analogico/organico (mi basta e
avanza) ad esporle qui di seguito, aggiungerle a queste note come so fare e a mò di 'ite
missa est' - la cosa viene da sé.
Supponendo che le piccole verità innumerevoli di cui è cosparsa la mente
dell'uomo storico - come siamo - siano i punti infiniti costituenti un'unica grande verità a
linea, ipotizzo tre possibili figurazioni di linee.
La prima un segmento: finito, netto, delimitato per definizione dai suoi due
estremi. Su di esso uomini come il mio austriachetto trattatista si ficcano, scavano, si
seppelliscono; vanno a cercarvi il limite del limite, suddividendo e ri/suddividendo,
misurando fino allo spasimo il punto/verità che hanno lasciato un attimo prima (forse
perché sanno di trovarsi in una linea chiusa). I quali sono/mi appaiono, nella loro ricerca
maniacale, determinati e lucidi, stitici e risparmiatori, aridi e freddi; come d'altra parte
affilati nel giudizio, che mirano, con spietatezza. Qui, dentro il loro segmento, questi
filosofi di verità/di ricerca/d'infinito elaborano i loro trattati (anch'essi infiniti, eppure
ripetitivi), che tendono a sacralizzare ed imporre con autorità a quanti riescono a
raggiungere.
70
La seconda una linea retta: infinita, aperta ai due lati, lunga quanto il mondo. In
essa soggetti/individui come sono stato io (soprattutto fanciullo, o quando transitavo più per
i banchi stretti del liceo che per i banchi sgangherati dell'università) si muovono a destra e a
sinistra, ritornando/procedendo, ora contando svariati punti in una direzione ora
cancellandoli/fermandosi/andando in altra direzione. Uomini - questi - improvvisatori e
disordinati, furiosi/perdenti, oscillanti/entusiastici, ma al primo vento capriccioso accorati e
rinunciatari... (su cui - credo - il sistema di verità che di volta in volta si va edificando, su
questo pianeta assegnatoci, fa bene a non dargli la responsabilità e il merito di nessuna
pietra fondante). Io, se ancora fossi quello di allora, con questa mentalità finirei con lo
scrivere volumi e collane del 'meus tractatus' (e sarebbe sempre 'in fieri' perché una retta) di
cui sopra ho dato un minuscolo saggio.
La terza una linea spezzata/chiusa: dal cerchio (che è un poligono infinito) al
triangolo, infinitesimalmente angolare o tutt'al meno triangolare, un' 'ò' tonda quanto
l'Essere o un triangolo equilatero (non isoscele, non scaleno) come il mio terzo occhio/
occhio interno. Qui, saggi come sono io adesso, dentro/ma non chiusi, variabili/ma
disciplinati, illusi/ma non angosciati, soprattutto creativi, conficcano ogni volta
ana/logicamente, logicamente e in/logicamente tutti i paletti delle loro verità. Verità infinite
e combaciantesi, smesse eppure riprendibili, finite ed illimitate.
Ah questi filosofi (tra cui esigo/voglio/desidero di essere tridimensionale) nella
visione/concezione/emozione del loro UNIVERSO - di appartenenza - che va dal cerchio al
triangolo!...
----Euro Roscini è nato a Perugia nel 1939. Laureato e giornalista, conduce
nella sua città una tranquilla esistenza di funzionario nell'Amministrazione
regionale. Sposato/separato/divorziato, ha due figli a cui è legato: Leda e
Matia. Dalla pubblicazione di Tridimensione (I edizione, dicembre 1998,
presso la Editrice Selecta di Quinto Vicentino, II edizione. novembre 2000,
presso Morlacchi Editore) si considera un "filosofo nuovo del III Millennio",
contenendo il suo libro la formula/cifra (o schema/teorema)
unica/intera/onnicomprensiva di percezione/concezione/visione di sé e
dell'uomo, della vita, del mondo e di dio. Scrive da sempre poesie metriche,
che recentemente ha raccolto in un'unico volumetto - Alfabeto poetico - di
prossima pubblicazione (ancora presso Morlacchi Editore). Come
giornalista/pubblicista dirige responsabilmente questa stessa rivista
Episteme.
E-mail: [email protected]
71
What is "Episteme"?
The meaning of "science" and "truth"
(Theo Theocharis)
"There are some matters which no mind, however gifted, can present in
such a way as to be understood in a cursory reading. There is need of
meditation and a close thinking through of what is said." (Johanness
Kepler, New Astronomy, Chapter 59, translation by W. H. Donahue)
"TO THINK FREE IS GREAT; TO THINK RIGHT IS GREATER"
(Thomas Thorild,1759-1808)
In our (post-)modern times, the neglect, subversion, or even the outright rejection of
both terms 'science' and 'truth' has become an almost universal affliction. The attempt is
here made to strip away the various layers of misconceptions, and thus develop sound (as
well as useful) definitions.
GRAVE FLAW
The 2 April 1989 issue of the London Sunday newspaper The Observer published
an article by Michael Ignatief under the heading "Defenders of [Salman] Rushdie [are] Tied
Up in Knots". The explanation ran briefly as follows: The Islamic (and other religious)
fundamentalists have a dogma, and they are absolutely certain about their dogma. On the
other hand, the western intellectuals have a so-called "philosophy", but by their own
uncoersed admission they can never be certain about their own "philosophy". Therefore, the
western intellectuals cannot really believe in whatever they say or, worse, preach. For the
same reason, Clifford Longley, the then religious affairs correspondent of the London daily
The Times, could boldly claim that the post-Enlightenment "philosophy" of the modern
secular western world is now dead, and he could thus carry out, with evident delight, the
"Inquest on the Enlightenment" (The Times, 25 March 1989).
Significantly, both The Observer and The Times are leading organs of the
mainstream western culture in the UK. I expect that in 1989 similar articles appeared in the
analogous press throughout Europe and America and indeed the whole world. I also guess
that the same arguments feature all the time with much greater force in the religious
fundamentalist media everywhere.
It may have not seemed very obvious to everybody, but the plain truth is that this
incident in 1989 exposed to the whole wide world a grave intellectual flaw at the heart of
so-called 'Western' culture. The Islamic fatwa elicited by Salman Rushdie's The Satanic
Verses and the subsequent intense international controversy dealt a deadly blow to western
"philosophy", and the grave flaw at its core was forcibly brought to the fore of international
affairs.
This sorry international hot episode in 1989 supplied me with one more piece of
powerful evidence with which to show that the voluntarily but thoughtlessly professed
72
(universal and permanent) "anti-certaintism" by the intellectual leaders of the West was the
exact point "Where the [entire] West[ern Civilisation] Has Gone Wrong" (T. Theocharis,
Journal of Applied Philosophy, Vol. 6, 1989, pp. 249-250).
As strongly suggested by Clifford Longley in the above cited Times article
("Inquest on the Enlightenment", The Times, 25 March 1989), the ultimate origin of the
western universal and permanent anti-certaintism is western science, which of course is the
most fundamental and the most distinctive constituent of western culture. Again it was with
much sorrow that M. Psimopoulos and I had to explain that this is the exact point "Where
Science Has Gone Wrong" (Nature 1987; 329: 595-598; Nature, 1988; 333: 389).
Worse, many science spokesmen, while all the time paying lip-service to the
hallowed rhetoric of anti-certaintism and (consequently also) of humilitism, speak with a
superior air of cock-sureness and supercilious arrogance that comprehensively defeats any
avowed dogmatist. Naturally, this is seen as insincere and hypocritical, and as smacking of
bad faith, and it thus, regrettably, fuels the already hotly and ferociously burning flames of
anti-science.
The dogmatic preaching of anti-certaintismism is yet another (post-)modernist
oxymoron. (The term 'oxymoron' literally means 'acute folly'). Having as the only nonnegotiable principle the rejection of every certitude is a self-refuting and self-destructive
proposition.
OPEN-ENDED QUEST
When it is stated (rather ambiguously) that science is an open-ended quest for
knowledge, it must be clarified that it is the horizons that are constantly and ceaselessly
expanded, not that one never attains any definite and final article of knowledge. The openendedness is in the quest, not in the specific findings resulting from the quest. The quest for
knowledge is open-ended because the number of individual items of possible knowledge is
infinite, but each item of course is in principle fully attainable and conclusively verifiable.
Regrettably, the current (post-)modernist (mis-)conception of science implies that
science goes on for ever not because the number of truths is infinite (for allegedly there
aren't any truths at all) but because science never gets anywhere.
Throwing everything into doubt was justifiable at the very beginning and also
during the early days of science. But surely all the resourceful and productive work
painstakingly done by so many industrious individuals and groups during the past 2500
years must have yielded at least a few results that are by now beyond dispute! Of course
critical questioning is still a must at the frontiers of research.
It is especially in the delicate field of new types of consumable and ingestable
products (chiefly foods and drugs), where there naturally is no sufficient evidence at the
beginning to declare a new product absolutely safe where one must be cautious and openminded. But this does not entail that one must reject all certainties, for if one has no
centainties at all, one ultimately has nothing.
I had hoped then that the extraordinary events of 1989 in international affairs over
the Islamic fatwa elicited by Salman Rushdie's The Satanic Verses ought to have galvanised
all western thinkers and their influential organisations to seriously reconsider the
inconsistent, unsound, shaky, and ultimately untenable foundations of their "philosophy",
and thus devise a new, coherent, unshakeable, and indestructible set of fundamental
principles.
Regrettably, the then burning issue of inconsistent and unsound fundamentals was
glossed over and quickly forgotten, and no concrete steps were ever made so as to remove
73
this intellectually ruinous and crippling flaw, to the continuing further detriment of science,
culture, and society - but especially scientific prestige. To this day, the authority of both
western "science" and western "philosophy" remains both subverted and unconvincing.
Intellectually, this has effectively amounted to a crushing, if unacknowledged, defeat.
There is only one satisfactory way to answer this devastating criticism. This would
entail tackling the very roots of the problem by starting afresh from the very beginning, reexamining the foundations, and then determining and adopting ab initio a new set of core
principles that are soundly and conclusively proven and thus no longer questionable. These
non-negotiable axioms will therefore serve as the solid epistemological foundation upon
which to be able to erect a stable, secure, defensible, and indestructible scientific edifice.
The definition of 'science' and 'truth' must necessarily be one (arguably the first) of
the non-negotiable postulates.
THE MOST FUNDAMENTAL SCIENCE
It is more or less universally agreed that the whole subject of discussing the
definition and meaning of 'science' is not part of science, but instead it belongs to some
other discipline, perhaps the so-called 'metaphysics' or 'philosophy'. The philosopher
C.E.M. Joad argued correctly that people who think they haven't got a philosophy simply
have a badly-thought-out philosophy. This is another way of stating Aristotle's observation
(more than two millennia earlier) that the claim to not have a metaphysics is itself a form a
metaphysics.
In fact the whole subject of investigating the definition and meaning of 'science' - ie
the 'science of science' or 'epistemology' - is the most basic, fundamental, and indispensable
part of science. The ordinary persons who think that they haven't got a 'metaphysics' or a
'philosophy' can be excused for being poor metaphysicists or philosophers. But can the
scientists who do not know, or worse do not care, what science is be similarly excused?
NAÏVE INSTRUMENTALISM
There are millions of people who would call themselves a 'scientist', but how many
ever asked the question "What Is Science?", let alone try to answer it? The relatively few
individuals who have taken the trouble to reflect on the issue invariably say that science is
the systematic study of observational data in order to gain an understanding of the world
around us. The understanding is (almost universally) supposed to somehow come about by
devising models or theories that work; all that is required from a scientific theory in this
scheme is empirical 'adequacy' and practical 'reliability'. Models in this scheme are mere
tools that serve as instruments for routine computations and standard predictions. The old
saying "If it ain't broken, don't fix it" comes readily to mind here.
When fresh data come along which do not accord with the existing model, the
model is no longer "empirically adequate", or to use the parlance of folk philosophy, the
model is now "broken" and it needs "fixing". If, however, it cannot be fixed, it is then
discarded. Then a new model is constructed that 'works' with the fresh data, and the process
may be repeated ad infinitum.
(EPISTEMO-)LOGICAL INADEQUACY
However, this is a seriously inadequate conception of science, for it involves a
rather superficial understanding of 'understanding'. This is best demonstrated thus: For the
74
human infant, the Santa-Claus theory of Christmas gifts works unfailingly year after year. It
follows that (according to the widespread viewpoint as to what science is) the Santa Claus
theory of Christmas gifts is a proper scientific theory. Moreover, the laboratory rat all the
time makes and re-makes models that work and are empirically 'adequate' or 'reliable' in
order to find its way to the intermittently altered location of rat-food in the experimental
maze. It follows that (according to the common viewpoint as to what science is) the
laboratory rat is a proper scientist.
All organisms living now have already been rigorously selected and programmed by
the austere and harsh evolutionary process to be able to cope with everyday tasks and thus
survive in the cut-throat world of nature. Science surely has to comprise in more than the
ordinary chores required for mere survival, and the 'empirical adequacy' conception of
science is thus shown to be epistemologically inadequate and unreliable. In the final
analysis, in the long term the "but the theory works" theory of science does not work
adequately; in other words, it is indeed "broken" and it needs "fixing".
All the frequent colourful public displays of batteries of technical wizardry paint too
rosy a picture of the current state of science, and omit the dark shadows concerning the
non-obvious deficit in scientific understanding. Any amount of technical wizardry cannot
really compensate for this deficiency which entails that science is being neglectfully and
wastefully under-utilised, and so there is an unnecessary delay in growth and the resulting
progress falls far short of the optimum. Thus the unpalatable truth is that all the technical
wizardry conceals very effectively a serious flaw and unless this flaw is recognised and
corrected, the public will continue to be both misled and, worse, deprived from even greater
benefits.
Imagine a public event in 1600 AD exhibiting terrestrial and celestial globes,
orreries, clocks, sextants, and other such ornate instruments and impressive devices.
Consider also the claim then that all these ingenious devises and the then (fairly
successfully) practised calendar and ocean navigation PROVE the geocentric model of
planetary astronomy. How could someone then conceivably challenge this (prima facie
powerful) argument? It is the chief task of this essay to answer this question, not only for
1600 AD but for all times.
SHORT-TERMISM
What is the cause of this inadequate understanding of science, and why does it stop
short of capturing the full meaning of science? The short answer is 'short-termism'. Of
course the short-sighted, blinkered, and one-track vision of short-termism is not specifically
confined to the scientific community. On the contrary, it is endemic in the wider world (of
politics, industry, business, commerce, etc) and the scientific community evidently feels,
and yields to, the socio-political pressure. However, the causal influence does not operate
only in the one way direction from the outside world to the scientific community. Owing to
the (not totally justified) prestige that the scientific community enjoys, the pathology of
'short-termism' flows also in the opposite direction.
The "model-that-works-now" (mis-)conception of science is geared up to the
prevalent short-term outlook of the current socio-political set-up that focuses on short-term
goals, and thus neglects the long term at the expense of optimum progress. The 'profit-now'
drive of most entrepreneurs and the 'must-win-the-next-election' motive of all political
organisations combine to concentrate on short-term goals, and thus generally undermine
progress in the long term. It is adequate in a NON-scientific society (both human or nonhuman).
75
The "If it ain't broken, don't fix it" folk "wisdom" was devised in an era when
society was essentially static and where no change and no progress were ever expected to
take place. It was designed to preserve things exactly as they had always been. But for
guiding a society with a fully-fledged science, the "If it ain't broken, don't fix it" folk
"philosophy" is a woefully inadequate principle; if fact it is a badly "broken" rule. Nor is
the "quick fix" attitude quite satisfactory; only the 'correct fix' will suffice.
"TRUTH"?
Nowadays, those few science spokesmen who still use the term 'truth' invariably
concede that science is only one of many ways of producing 'truth'; only very few insist that
it is the most reliable way. It will be argued here that in fact only the scientific method (and
only when correctly applied) can generate truth. Conversely, apart from the obvious, the
only truth possible is by definition scientific.
SCIENCE IN CHINA AND JAPAN
The historically fully-documented answer to the following question has a immense
cultural significance, and it will further illustrate the ongoing arguments: When did the
Chinese and the Japanese first discover that the Earth is spherical? In the sixteenth century,
when Jesuit missionaries from Europe first arrived in China and Japan, and simply
informed them. In fact it is also documented that during the Yuan dynasty (1279-1368),
visiting Muslim astronomers presented to the Chinese court the image of the spherical Earth
in the (by then standard in western Eurasia) form of a globe. This incident, however,
apparently had little, if any, impact. It is questionable whether the tremendous import of
this information was appreciated; and if it was, it was kept at court and was not circulated
outside.
This valuable historical information regarding the shape of the Earth is almost
completely unknown, and its great importance unrecognised; the only publications known
to the present author that mention it are:
(i) Pingui Chue, "Trust, Instruments, and Cross-Cultural Scientific Exchanges:
Chinese Debate over the Shape of the Earth", Science In Context 12 (3), pp. 385-411, 1999;
(ii) Akihito (Emperor of Japan), "Science in Japan: A Historical Viewpoint - Early
Cultivators of Science in Japan", Science 258, 23 October 1992, pp. 78-79.
Unquestionably, China and Japan had a recognisable civilisation for many centuries
(arguably millennia) before the sixteenth century (with writing, legal code, state
bureaucracy, literature, art, music, religious rituals, etc.), but it was a NON-scientific
civilisation. During all those centuries, China and Japan (like other, less advanced,
civilisations) also had arithmetic, logic, astronomy, medicine, technology, history, etc, but
strictly speaking all these disciplines were not developed to the point where they could
qualify as fully scientific.
It is frequently implied that the early foundation and operation in China of an
astronomical observatory and also the early invention in China of paper, printing,
gunpowder, rocket, magnetic compass, porcelain, acupuncture, etc., somehow proves the
presence of some well-developed state of science. However, like many early mostly
serendipitous or fairly easy (but nevertheless important) inventions elsewhere (cooking,
pottery, metallurgy, weaving, sewing, plough, wheel, mill, lever, oar, boat, thread, string,
76
rope, cloth, sail, pulley, gear; trade, writing, coinage; bread, wine, ice-cream, mirror, glass,
lens, spectacles; bridge, arch, dome, cement; soap, sieve, button, needle, syringe, saddle,
harness, stirrup, inoculation, grafting, etc.) the above early discoveries in China do not
require any in-depth understanding of the workings of either nature or society.
VITAL DIFFERENCE
Perhaps the best way to demonstrate the stark difference between PRE-scientific and
strictly scientific medicine and technology (and hence to really understand the meaning of
'science' itself) is to cite these two very illuminating and helpful examples. Consider and
contrast both the comparative easiness and the very early date of the PRE-scientific
achievements on the one hand, with on the other hand both the great difficulty and the quite
recent date of their strictly science-based counterparts:
(i)
(ii)
Grafting in, or cloning of, plants; and grafting in, or cloning of, animals. The former
were both achieved in ancient times, whereas the latter were both achieved in the
20th century AD.
The original (and by comparison crude) 'compression' wheel; and the later
(sophisticated) 'suspension' wheel.
The former was invented in the 4th millennium BC and its spokes are necessarily
thick (and therefore heavy) so as to be able to withstand the large compressive forces,
whereas the latter was invented in the 19th century AD and its spokes are very thin (and
therefore very light) because they were ingeniously designed (scientifically) to be in
tension.
It is also true that, on some very early date, an emperor of China instituted an
astronomical observatory which for many centuries meticulously recorded and preserved
accurate observations. Routine observation and tabulation is of course an essential part of
science. But by itself the mere compiling of observed data (however accurate), and even
any (re-)arrangement of any type of sensory input, do not qualify as a fully-fledged science.
To paraphrase Ernest Rutherford, science is more than mere 'stamp-collecting'. A
substantial degree of understanding of (or at least a conscious effort to understand) the
underlying reality that gives rise to the observations is required, but evidently this never
happened independently in China or Japan before the arrival of the Jesuits.
Moreover, the ordinary 'trial and error' type of experiment is also a legitimate part of
the scientific process. But again routine 'trial and error' by itself (and even together with the
correct result) is not quite fully-fledged science. Otherwise, the laboratory rat which always
finds (by straightforward 'trial and error') its way to the intermittently altered location of
rat-food in the experimental maze will have to be promoted to the status of a proper
scientist.
SCIENCE: A SPECIAL EXPERTISE
Form all the above considerations it follows that a consummate and competent
scientist (by definition) must cultivate what might be termed 'EPISTEMIC ACUMEN'. This
must comprise of:
I. The ability to attain a certain degree of cerebral exertion and cognitive abstraction;
II. The studious mastery of at least one scientific discipline (and preferably more);
77
III. The achievement of a higher proficiency in logic, mathematics, planning, design,
craftsmanship, programming, etc.
The special expertise must embrace both breadth and depth of knowledge - both are
necessary. A scientific investigation can be either highly-focused and penetrative or broadly
spanned and integrative. Both approaches (either separately or, more effectively, jointly)
can yield novel results. The strict adherence to experimental accuracy, logical discipline,
mathematical rigour, etc, is an absolute must. Familiarity with the links between one's main
discipline with others is also essential. Multi-disciplinarity (that gives rise to positive 'interplay', 'inter-action', 'feed-back', 'cross-information', and 'cross-fertilisation') is even better.
The fostering of initiative, discernment, sagacity, originality, creativeness, inventiveness,
etc. are recommended extras.
THE BEGINNING OF SCIENCE
Plainly then, the Chinese and Japanese never discovered science by themselves. In
fact no other civilisation, except uniquely the Hellenic, discovered science. Science was
discovered once, in the lands in and around the Aegean sea, in about the sixth century BC,
and gradually spread from there. This is not to say that all the people inhabiting these lands
of ancient Greece from the sixth century BC possessed the scientific frame of mind. On the
contrary, as always, only a certain small (but for a few centuries influential) section of a
privileged minority of the intellectual community possessed the scientific frame of mind.
The vast majority of people (even most of the highly literate elites) have always lacked the
scientific frame of mind.
CENTRAL ELEMENT OF A CIVILISATION
Certain very influential individuals today believe and state that the "central element
of a civilisation" (ie a distinctive culture or society), that distinguishes it from other
civilisations, is religion (eg Samuel P. Huntington, The Clash of Civilizations and the
Remaking of World Order, Touchstone Books, 1998). This statement is inaccurate. The
correct proposition is this: The central element of PRIMITIVE civilisations (of the past,
present, and future) is RELIGION; whereas the central element of HIGHLY evolved
civilisations (of the past, present, and future) is SCIENCE as defined here correctly. In fact
science is the one and only DEFINING characteristic of MODERN society. If one wants to
really understand modern society, one will first have to understand science.
THE BEGINNING OF SCIENCE
Science began with these prodigious realisations:
I. No gods, divinities, or spirits act in the physical world; all phenomena have a natural
cause;
II. The direct sense-impressions may sometimes be illusory; the phenomenon
(=appearance) is not necessarily the reality; and therefore a non-obvious (but still physical)
truth may be hidden behind the appearances;
III. Humans (uniquely) as a species, although part of nature themselves, (have evolved and)
possess the cognitive tools with which to probe, explore, scrutinise, and understand the
hidden realities of nature - and also possibly exploit them.
78
HUMANITY'S FINEST HOUR
These original discoveries are the keys that unlocked the still continuing process of
further discovery. In the long term, this is the most powerful wealth creator in history that
opened the super-highway to riches for the many to travel to.
This is not to suggest that these momentous realisations occurred in a single person
in one instant. Moreover, it is very unlikely that we will ever know exactly how it
happened. But we can be absolutely certain that it happened somehow, and we must all be
grateful that it did.
The above listed ground-breaking recognitions are undoubtedly the earliest and most
seminal scientific discoveries. This truly momentous point in history must be recognised
and celebrated as arguably humanity's highest achievement that set the Earth (humanity's
home in the universe) in motion, so to speak. This colossal achievement out-classed and
still over-shadows everything that has happened before or since. During the last two
centuries, we have collectively harvested the ripe technological fruit grown on the now
mature and highly productive scientific tree that germinated from the epistemic seed that
was planted 2500 years ago by the first cultivators of natural philosophy.
OUR DEBT TO THE FOUNDERS AND THEIR HEIRS
All those who value the artificial comforts of our technological civilisation (and who
also want to know whom to be grateful to for this material opulence) have got to really
understand all these challenging points. Otherwise, they will neglect the greatest heroes the discoverers and inventors - as the vast majority of people ignorantly and unjustly do.
Moreover, appreciating the force of these arguments is a must to those who want the best
possible future for our descendants. The latter can be brought about only by the optimum
advancement of science, technology, and medicine. Naturally, such an optimum
advancement requires the CORRECT understanding of science, its method, and the
resulting knowledge.
From all conceivable candidates competing for the title 'humanity's finest hour', the
case considered here is surely the best. Churchill's memorable (para-)phrase also applies:
"Never in history have so few achieved so much for the benefit of so many." Such is the
huge debt that everyone owes to them.
EARLY SCIENCE
The following are a few examples of excellent candidates for early fully-fledged
science:
I. The (inter-related) concepts: Inductive generalisation, deductive logic, mathematical
theorem, rigorous proof.
II. (What is commonly considered to be) The first mathematical law of nature: Uniform
strings produce harmonious sounds when their lengths are in simple numerical ratios: 1 :
3/4 : 2/3 : 1/2.
III. The fundamental 'constitutional' theory of the universe: All matter in the universe
consists of 'atoms' (ie 'building blocks') moving and interacting in space; nothing is ever
created or perishes, but only combines and separates.
79
IV. The next in significance universal scientific theory: (The (related) propositions that) the
Earth is spherical and that the Sun and Moon and all the stars are (not mere lights in the sky
but instead) large massive material spherical bodies like the Earth.
It is remarkable that the one important point that was understandably missed in the
fundamental 'constitutional' theory of the universe was the hierarchical structure of all
matter in the universe, and that the unfortunately named "atom" (= indivisible) is not the
ultimate in the division of matter. Rather it is just another spatial step in this universal (and
possibly endless to both the infinite and the infinitesimal directions) hierarchy. Perhaps now
it is too late to replace the unfortunately named "atom" (whose literal meaning is
'indivisible') with an etymologically correct term. (Or maybe it is not!) We must always
explain its post-19th century use as a chemical 'building block'. The lesson we must draw
from this unfortunate incident in the history of science is that we must always be careful in
how we move forward.
Apart from this single blemish, every subsequent painstaking elaboration of, or
improvement on, the above early scientific propositions has been a minor adjustment or
refinement of some marginal detail.
It is true that much early (and, remarkably, also recent) work in science turned out to
be wrong and consequently forgotten. (But those were the early days of no precedence and
little experience.) The fashionable view in recent decades has been that ALL scientific
knowledge is impermanent and transitory. One must wonder how long one still has to wait
for the just cited 2500-year or so old (and still obviously robust) articles of scientific
knowledge to be refuted and replaced by still other ephemeral work. Could it possibly be
the case that these most ancient items of scientific knowledge have never been refuted
because they are indestructible eternal truths?
Another early theory (circa 400BC) that may yet be spectacularly verified is that
attributed to Metrodorus of Chios: "It goes against nature in a large field to grow only one
shaft of wheat, and in an infinite universe to have only one living world."
Yet another remarkable early theory that was repeatedly confirmed in the twentieth
century was enunciated in the fourteenth century by Ibn Khaldun (1332-1406) in
Muqaddimah: "Famines are not the result of the land's incapacity to cope with increasing
demand, but of the political chaos and physical oppression that invade the state in its
decline."
Thucydides of Athens (5th century BC) was a pioneer of scientific history. In his
History of the Peloponnesian War, Thucydides claimed: "My work is not a piece of writing
designed to meet the taste of an immediate public, but was done to last forever." As this
was written in the 5th century BC, the claim has already gone a very long way to being
fulfilled. Is "doing work to last forever" too much of a challenge for the 21st century AD
research scientist?
SCIENTIFIC TECHNOLOGY AND MEDICINE
The utilisation of scientific knowledge for harnessing the resources of nature (for
either good or regrettably bad) is an optional extra that has motivated many but by no
means all scientists. In fact it is unlikely that the exploitation of scientific knowledge was
high in the list of possible motives of the founding fathers of science. It is also doubtful that
they ever recognised the great potency either of their specific discoveries or of the scientific
method in general. Democritus of Abdera (5th century BC), of "atom" fame, was one of the
early scientists. Not untypically, Democritus is reputed to have preferred to have discovered
80
one more true cause than be King of Persia. In a similar spirit, in Academia Cicero talks of
the inner drive of the scholar: "curiosity drives him on much more strongly than the carrot
of promised rewards". Following this virtuous tradition (inaugurated in the 6th century BC),
for very many scientists the one and only objective is knowing for the sake of knowing, and
the resulting knowledge is its own reward.
It must be emphasised that there existed little scientific medicine and technology
anywhere (not even in Europe) before the nineteenth century. Before the era of Leonardo da
Vinci (circa 1500 AD), only a handful of individuals (notably Archimedes in the third
century BC) seem to have appreciated the utility and potency of scientific technology. As
for the first unambiguous articulation of the tremendous emancipatory capacity of scientific
medicine and technology, that seems to have been made by Francis Bacon in the early
seventeenth century. However, as indicated above, Bacon's ambitious great project really
took off as recently as the nineteenth century.
The philosopher Martin Heidegger correctly observed that there is no etymological
link between the terms 'technology' and 'science'. The 'techn' in 'technology' and 'technique'
is the Greek for 'art' (as in 'artful'), and 'art' is the Latin for 'skill'. The early Greek pioneers
of science insisted on the careful distinction between 'techne' (= traditional practical knowhow) and 'episteme' (= scientific knowledge), which the speakers of Latin later called
'scientia', and which the speakers of English today call 'science'.
ART, LITERATURE, AND SCIENCE
This is yet another point that is almost universally mis-understood, so it needs to be
stated explicitly and correctly: The highest form of art is the technological invention, and
the highest form of literature is the scientific text.
The following interesting pronouncement is attributed to the eminent professor of
semiotics and novelist Umberto Eco: "I write novels because I don't understand what
happens in the world. If I had a clear idea I would write a scholarly work." ("They said it",
Daily Telegraph, 14 October 1995) (Evidently, writing novels - even good ones - is
comparatively easy.) The reader is invited to consider this statement with the utmost
seriousness that it deserves.
POETRY
The standard English rendition of the first line of the creed of Nicaea (325 AD) is:
"We believe in one God the Father Almighty, MAKER of all things visible and invisible;"
The word 'MAKER' here is a gross mistranslation of the corresponding word in the
original Greek text, which is 'ΠΟΙΗΤΗΣ' (POIETES). Of course the correct English
translation is 'POET'. Naturally, no human person can be a 'poet' "of all things visible and
invisible". However, if the term 'poet' is to be used meaningfully to designate with any
justice any specific group of humans, it will have to be the inventors and the discoverers.
Small-time 'word-smiths' like Homer and Shakespeare may be skilful at telling a good
fictional(-ised) story, but as literal 'poets' they are of little consequence. Obviously, a
certain class of arrogant impostors appropriated the term 'poet' in order to inflate their
importance.
But if the definition of genuine 'poetry' is as given above, what is then the correct
definition of conventional "poetry"? Conventional "poetry" is nursery rhymes for grown up
infants. Similarly a "novel" is a bed-time story again for grown up infants.
81
SCHOLARSHIP
It may be useful to also point out here that the 'gn' in 'dia-gnosis' and in 'gnome' is,
in evolutionary linguistics, the same as the 'gn' in 'co-gnise', and also the same as the 'kn' in
'know'; also the 'math' in 'mathematics' is the same as the 'math' in 'polymath' (= very
learned); finally, the original meaning of 'school' (whence 'scholarship') is 'leisure'.
The significance of the original meaning of 'school' (= 'leisure') to the present
(scientific) investigation may not be obvious, so it is necessary to state it explicitly: The
social institution 'school' was founded by 'scholars', ie those members of the leisured class
who entertained themselves by conducting 'scholarship' in various fields, including of
course scholarship in science, and by all accounts they had a really good time. They
enjoyed doing it, and they were further pleased by their discoveries. There seems to be no
evidence that they did their scientific research specifically in order to exploit the resulting
knowledge. Nevertheless, and this is a delightful irony, the (unintended) useful application
of the accumulated scientific knowledge over the centuries is the most basic (if unknown)
cause for the abolition of slavery throughout the world in the 19th century, and also for the
general increase of leisure time for all social classes in much of the world in the 20th
century.
For most school pupils in later times, gradual changes in social conditions slowly
but surely brought about the surprising change in the meaning of 'school' from the original
'leisure' to the almost exact opposite 'hard toil'. Those school officials who now decry the
recent movement to inject some enjoyment into schooling and make it less of a boring
chore obviously would benefit from some schooling in the history of 'schooling'.
LAWS GOVERNING THE ECONOMIC GROWTH OF SOCIETIES
The economic advancement of societies with no technology is infinitesimal, if any.
The optimum economic advancement of societies with PRE-scientific technology is
linear.
The optimum economic advancement of societies with science-based technology is
exponential.
These are tentative conjectures derived from the comparative study of civilisations,
and submitted for further scrutiny by the appropriate specialists.
Moore's Law seems to be an elementary corollary of the stated general laws.
Enunciated in 1965 by Gordon Moore, Moore's Law states that computing power rises
exponentially over time.
(http://www.intel.com/intel/museum/25anniv/hof/moore.htm)
POLITICS
There exist widespread and justifiable concerns about the possible influence of
certain paymasters on the direction and conduct of research, on the researchers themselves,
on their findings, and also on how these findings are applied. These concerns must be
acknowledged and subjected to the one and only objective scrutiny in existence: ie that of
science. There is also the problem of the unequal distribution of the fruits of applied
science. The problem of the unequal distribution of wealth of course predates science. What
the critics either neglect or forget or never notice is that without science there would have
been no fruits at all of applied science to distribute to anyone. Naturally, this problem and
that of who supplies the funds for scientific research and how scientific knowledge is
82
applied are essentially political issues, and in a democratic polity they must engage the due
attention of all citizens. This point demonstrates the need, in a democracy, for a
scientifically literate public to make informed decisions.
The best solutions to all such essentially political problems (with scientific input), as
in all the others, will be arrived at by the judicious application of the scientific method, not
by rejecting or decrying it.
Moreover, many critics have lost sight of the enormous benefits and complain
incessantly about the (comparatively minor) side effects. Sadly, this has been happening for
decades. Again, the solution of this problem is the better application of science, not its
rejection.
DEFINITION
It follows from all the above arguments that the best possible one-sentence
definition of science is this:
Science is the conscious, disciplined, systematic, and sustained, endeavour to
methodically discover the non-obvious truths - of both nature and society.
The non-obviousness of scientific truths may range from the frequently
uncommonsensical, to the often counter-intuitive, to the sometimes surprising, and
occasionally to the truly astonishing.
NO ROYAL ROAD TO SCIENCE
In about 300BC the first Greek King of Egypt following Alexander's conquest,
Ptolemy I Soter, asked Euclid if there were not an easier way to learn geometry. Euclid is
said to have replied: "In the realm that you are King there are roads for the common people
and there are roads reserved just for royalty. In geometry there is no such royal road."
George Bernard Shaw is reported to have said: "The reasonable man adapts himself
to the world: the unreasonable one persists in trying to adapt the world to himself.
Therefore all progress depends on the unreasonable man." Adapting the world to oneself
requires a scientific understanding of the world. Shaw's perceptible remarks capture the
spirit of scientific endeavour perfectly.
CAUTION: Another instructive lesson that one must learn from the long history of science
is that theorising must be securely grounded on the solid foundation of careful observation
and sound logic. Otherwise, wild speculation compounded by indifferent logic will
invariably become completely divorced from reality, and then the careless speculator will
go over the top and fall over the edge of the precipice into the abyss of pure phantasy.
EPISTEMOLOGICAL CORRECTNESS
Needless to say, the truth is the most important thing that anyone can know. It is the
simplest of truisms to say this, but in our benighted (post-)modern era, this truism needs to
be said and explained until it is no longer questioned. In the thick smoke of the suffocating
(mis-)information overload that has plagued our (post-)modern world, free expression can
help to ensure that unpopular truths may be communicated, debated, and better evaluated.
83
However, without the correct understanding of the fundamental concept 'truth', everything
loses meaning.
In this context, it must be noted that some very senior spokesmen of the science
community sometimes say words to the effect that the hallmark of science is independence
of thought and freedom of expression. The most notable example is Sir Michael Atiyah
who expressed this precise viewpoint in his 1995 Presidential Address to the Royal Society
(published in both the Financial Times of 19 Dec 1995 and the THES of 5 January 1996).
Atiyah asserted that "independence of thought really is the hallmark of a scientist".
Regrettably, this viewpoint is grossly inaccurate, and so it has to be corrected. The
simplest way to expose the grave flaw in the above common misconception is by
considering the proverbial chimpanzee who is given both a typewriter and the freedom to
type indefinitely. How long will it take to generate a single line from (never mind the
entirety of) Shakespeare's writings?
The most basic hallmark of science must be CORRECTNESS of thought,
expression, and execution. Apart from accidental discoveries that can be made by anybody,
it is 'EPISTEMOLOGICAL CORRECTNESS' that CAUSES discovery, invention, and
advancement. Freedom merely FACILITATES the communication and dissemination of
discovery and invention (and, naturally, of everything else).
RIGHT THINKING
The Swedish poet Thomas Thorild (1759-1808) is credited with what everyone must
understand to be a very great aphorism which, since 1887, graces the building of the
University of Uppsala, Sweden, as a splendid epigram:
ATT TANKA FRITT AR STORT; ATT TANKA RATT AR STORRE
TO THINK FREE IS GREAT; TO THINK RIGHT IS GREATER
This superb epigram ought to be displayed prominently at all places that entertain
any serious pretensions to being 'intellectual'.
The early Greek culture was not unique in tolerating a certain degree of individual
initiative, free argument, and vigorous competition. (For example, the contemporary
civilisations of Phoenicians, Hebrews, etc. also permitted a certain degree of initiative,
argument, and competition.) However, although the argumentative and competitive
elements in early Greek culture naturally facilitated the advancement of science, they did
NOT cause them - either the beginning as such of science or the subsequent advancement
of science. The cause, of course, was and remains 'epistemo-logical correctness'. This is
essentially the traditional scientific world-view and method (plus the resulting truths) as
articulated and gradually refined by the likes of Thales, Pythagoras, Thucydides, Aristotle,
Archimedes, al-Kwarismi, al-Kindi, Ibn-Khaldun, Viete, Bacon, Galileo, Descartes,
Newton, etc.
HOMO-SCIENTIFICUS
In, the final analysis, if there is one thing that completely and unambiguously
separates the human species - HOMO-SCIENTIFICUS - from all other biological species
(and culturally raises humans above animals), it must surely be 'science' as correctly
84
defined here. All other proposed criteria (tools, language, thought, aesthetics, ethics, etc.)
do not quite succeed in doing this conclusively.
VOODOO MATHEMATICS
There is a very popular creed commonly known as "holism" whose fundamental
postulates, too, are very well known:
"Less Is More"
"The whole is greater than the sum of its parts."
"Holism" is supposed to be about the 'whole', but it is so full of (epistemo-)logical
holes that a more appropriate appellation would be "Hole-ism".
EPISTEMIC (W)HOLISM
'Epistemo-logical correctness' entails 'EPISTEMIC (W)HOLISM'. 'Epistemic
(w)holism' is concerned about 'overall correctness' and the 'integrity of the whole'. The
latter of course are its defining basic tenets. Of course the correct scientific mathematics
consistent with 'Epistemic (w)holism' are these:
"Less Is Less"
"More Is More"
"Equal Is Equal"
"The whole is exactly equal to the total sum of all its parts."
Although 'Hole-ism' is a formidable adversary of 'Epistemic (w)holism', the rational
person has only one rational choice: 'Epistemic (w)holism'.
TRUTH
'Truth' must be unique, objective (= inter-subjective), permanent, constant,
unchangeable, invariable, immutable, imperishable, indestructible, theory-free, ideologytranscendent, universal, eternal, ultimate, absolute; and also in principle (but perhaps
difficult in practice) discoverable, accessible, inspectable, attainable, amenable, tractable,
knowable, comprehensible, verifiable, effable, and communicable.
Any use of the term 'truth' which does not satisfy one or more of the above defining
features is fatally flawed, and is bound to lead, sooner or later, to "anything goes" - as
indeed it has.
Contrary to the popular misconception, there is only one correct 'world-view'; all the
others are '(un-)world(-ly) phantasies'.
SCIENTIFIC RATIONAL DOGMA
Proven scientific truths entail scientific certainty. In its turn, scientific certainty
entails scientific rational dogma. Thus the valid proposition "healthy degree of scepticism"
must be complemented by the equally valid - and equally indispensable - proposition
"healthy degree of dogmatism".
85
To be sure, the rejection and demonisation of rational scientific certitude generated a
pandemic of pathological public dogma-phobia, in addition to the enormous intellectual
vacuum. Predictably, the various dogmatic so-called "fundamentalist" religions gratefully
stepped in to fill this gigantic intellectual gap with their transcendental metaphysical
"certainties", to the huge detriment of society at large.
In the (post-)modern era, the term 'dogma' has come to mean irrational, usually
religious, belief. This is evidently the result of the Christian Church hijacking the word
'dogma' for its own beliefs some two millennia ago. The term 'dogmatism' acquired further
unpleasant connotations in the 20th century as a result of the actions of people like Stalin
and Hitler. (Post-)modernist logic therefore induced that all kinds of certaintism and
dogmatism must be as wrong and as evil as Stalinism and Hitlerism - the ultimate sin. But
the non-religious, philosophical use of the term 'dogma', as a proven tenet or justified
opinion, and of the term 'dogmatism, as a positive assertion of reasoned belief, preceded the
Christian Church by several centuries, and that use is still recorded in some of today's
dictionaries.
SCIENTIFIC FUNDAMENTALISM
It turns out that if one is not a fundamentalist, ie if one has no fundamental
principles or dogmas, one cannot really have anything else, ie one is a nihilist. Between
rational fundamentalism and irrational nihilism there are no intermediates. And between
logical positivism and illogical negativism there is only irrational nihilism.
To the standard postmodernist objection that "truth is elusive and never attainable",
I devised the standard reply:
"How can one be certain that one knows the truth? This is often difficult to answer.
But we suggest that this is the very question that every professional (not only scientists and
philosophers but also historians, physicians, journalists, police officers and so on) ought to
be trying to answer, instead of denying the very existence of truth. If one does not do so,
this conduct must be seen for what it really is: a breach of professional duty. The question is
whether on the available evidence a hypothesis has been refuted, or verified, or is still open
to investigation. In the latter case one has to be sceptical, in the former dogmatic." ("Where
Science Has Gone Wrong", Nature, 1988; 333: 389)
"WHERE SCIENCE HAS GONE WRONG"
Like in all complex human affairs, there are always many causes and contributory
factors. But if (post-)modernism has a unique origin, it is the rejection of scientific 'truth'. In
other words, (post-)modernism originated IN science. The (post-)modernist revolution first
took place in science decades ago and, as a result, the old-fashioned ideas about 'science'
and 'truth' advocated here were characterised as "scientism", denounced as wrong, and
demonised as evil and dangerous. Naturally, the cognate terms "scientist", "scientific", and
"science" have by association suffered dearly as a result. In fact this is the most dangerous
(because unrecognised) cause of anti-science. M. Psimopoulos and I explained that this is
the exact point "Where Science Has Gone Wrong" (Nature 1987; 329: 595-598; Nature,
1988; 333: 389).
86
NEW DARK AGE?
The (post-)modernist revolution succeeded in replacing: the concept of permanent
truth with the transient paradigm of (transient) paradigm; "healthy dogmatism" with
"unhealthy (and invariably bogus) humilitism". This ushered the twentieth century culture
into a veritable new Dark Age of intellectual decline.
The medieval Dark Age was essentially decreed by brute force by the then allpowerful Roman Emperors. Mysteriously, the
(post-)modern Dark Age came about in the ostensibly free and tolerant culture of our
Europe and America - the so-called 'West'. Arguably, this is the greatest intellectual tragedy
in history.
The ultimate cause of the oxymoron 'skill-less art' is the earlier and greater
oxymoron 'truth-less science'. (Oxymoron = acute folly)
THE DESCENT OF MAN
Charles Darwin's book The Descent of Man (1871) was about the genetic extraction
of Homo-sapiens. Jacob Bronowski's book The Ascent of Man (1973) was about the
intellectual rise of Homo-sapiens. Tragically, we may now be witnessing "The Descent of
Man" - in the sense of not Darwin but Bronowski.
'CRITERION OF VERIFIABILITY' VERIFIED
Watts T L P ("After postmodernism", Lancet 2000; 355: 149) stated: "[Logical]
Positivism foundered on the criterion of verifiability because it was not verifiable." This is
clearly the philosophically most basic cause of the supposed discrediting of both 'logical
positivism' and 'scientism' and the alleged triumph of '(post-)modernism'. Obviously it is
also for this (ultimately unsound) reason why the original champions of 'Logical Positivism'
later turned against it. For example, A. J. Ayer's view on 'Positivism' in his later years was:
"Nearly all false". (Bryan Magee, Men of Ideas, BBC, 1978, p. 131). Regrettably, not only
the Lancet but practically all supposed "scientific" forums are only too happy to
demonstrate their openness to "dissent" by publishing such negativist "critiques" of science.
What these bastions of "openness" curiously do not tolerate is the rebuttals and refutations
of 'IL-logical negativism'.
In my 1988 "On the Method and Scope of Research" (In: Belardinelli, E. (editor),
Imola Conference on University and Research, Edizioni Martello, Bologna, 1988, pp. 157192), I went a long way towards verifying the 'criterion of verifiability'. I now want to put it
on public record that I have positively completed the verification of the 'criterion of
verifiability'. Only this breakthrough and probably no other can obviously rescue for good
both 'logical positivism' and 'scientism' from the ruinous threat posed by both 'IL-logical
negativism' and 'anti-science'.
87
SEEING FURTHER
"If I have seen further, it is by standing on the shoulders of giants." Isaac Newton, 1675.
"If I, too, have seen further, it is also by standing on the shoulders of giants like Newton.
But before I could climb on the shoulders of giants, I had to struggle to free my neck
from under the boot of the dwarves." Theo Theocharis, 1978.
(EPISTEMO-)LOGICAL INDUCTION
The second most important unsolved problem of science is the so-called "problem
of induction", which was stated by David Hume in the 18th century and gave rise to the socalled "Humean scepticism". I discovered the key that has unlocked the process of solving
this problem too.
HEURISTICS PLUS APODEICTICS
'Heuristics' is already a fully recognised scientific discipline that covers the early
stages in the process of scientific discovery. It is argued here that a new scientific
discipline, to be christened 'apodeictics', also needs to be founded in order to complement
heuristics. 'Apodeictics' will cover the regrettably still largely empty ground concerning the
last steps that in principle bring the long and tortuous scientific process to its final
conclusion - imperishable truth. These final steps of course should constitute the rigorous
'verification' - and not just in pure mathematics.
DUMBING DOWN
During the last three or four years (since about 1996), a very curious paradox
concerning our highly cultured society has been noted and vigorously debated. This is the
quandary of declining standards in education, in the media, and in popular culture
generally. This has been termed 'dumbing down'. In fact there seems to exist a general
downward trend in every domain of culture, both vernacular and elite, both low-brow and
high-brow.
Of course it must be stressed at this point that one must always be careful never to
infringe another's inalienable right to be dumb.
Many years before, I pointed out this more basic paradox, in fact the ultimate puzzle
of our (post-)modern era: the destructive influence of the endemic anti-science movement
in the most successful scientific civilisation in history. I identified the most basic and most
dangerous (because unrecognised) cause of anti-science to have been the either negativist or
nihilist attitude to science (and its method and knowledge) by the scientific community
itself, who thus have mysteriously been the authors of their own misfortune. The whole of
culture went wrong because the most basic foundation of culture, namely scientific
understanding, went wrong first. A 'domino effect' of a causal chain of spread has been at
work since then. This is how the debasement of the entire culture has come about. The
ultimate cause of the oxymoron 'skill-less art' is the earlier and greater oxymoron 'truth-less
science'. (Oxymoron = acute folly)
WHY?
88
(i)
(ii)
(iii)
(iv)
Why has the (post-)modernist "Mickey Mouse" grotesque (and worse) art been
elevated in this century above classical art?
Why are (post-)modernist "noisicians" widely regarded in this century more
highly than classical musicians?
Why has the (post-)modernist "theatre of the absurd" gained so much ground in
this century over the traditional theatre of the serious?
Why has factual knowledge and theoretical rigour in all disciplines in traditional
education been replaced by "airy-fairyness" in (post-)modernist education?
Many years before, I pointed out this more basic paradox, in fact the ultimate puzzle
of our (post-)modern era: the destructive influence of the endemic anti-science movement
in the most successful scientific civilisation in history. I identified the most basic and most
dangerous (because unrecognised) cause of anti-science to have been the either negativist or
nihilist attitude to science (and its method and knowledge) by the scientific community
itself, who thus have mysteriously been the authors of their own misfortune. The whole of
culture went wrong because the most basic foundation of culture, namely scientific
understanding, went wrong first. A 'domino effect' of a causal chain of spread has been at
work since then. This is how the debasement of the entire culture has come about. The
ultimate cause of the oxymoron 'skill-less art' is the earlier and greater oxymoron 'truth-less
science'. (Oxymoron = acute folly)
SCIENTIFIC UNDERSTANDING?
If naturally one next makes the consequent enquiry as to where exactly scientific
understanding first went wrong, the following brief (but not perfectly accurate) answer can
be given:
In his regular column "Hard drive" in the London Daily Telegraph weekly
supplement Connected, Peter Cochrane is described thus: "Peter Cochrane holds the Collier
Chair for the Public Understanding of Science and Technology at the University of Bristol."
In the opening paragraph of his "Bricks in an unreal city" (Hard drive, 10 February 2000),
Peter Cochrane wrote with evident admiration: "Richard Feynman was ... a founding father
of our most fundamental atomic understanding. One of my favourite [Feynman key
pronouncements] is the shrewd: 'I think we can safely assume that no one understands
quantum mechanics'." (emphasis added)
The curious "no one understands quantum mechanics" viewpoint articulated in the
very last year of the 20th century by a Professor for the Public Understanding of Science
and Technology at a leading University has been the standard viewpoint of establishment
science throughout the 20th century. I recognised the stark and gross inconsistency pointed
out here from the very beginning of my scientific studies in the 1970s when I also devised
my standard rebuttal (published in a Letter in The Listener): "A theory that no one
understands is not scientific but hopelessly mystic." ("Men of Ideas", The Listener, 4 May
1978)
As indicated, the above is a brief but not a perfectly accurate answer to enquiry as to
where exactly scientific understanding first went wrong. A both full and accurate answer is
too long to be included in this essay; it will be published separately soon.
ACCENTUATE THE NEGATIVE?
89
Regrettably, my warnings since the 1970s were not heeded, and the situation is not
improving. The following is a recent and by no means untypical example, but noteworthy in
that spans the Atlantic: The one Lecture (out of hundreds) from the AAAS millennium
conference in Washington DC in February 2000 that the UK daily newspaper The
Independent selected to publish was given the very suggestive but disappointing (and
utterly typical of our (post-)modern era) title: "Cherish mistakes, since to err is science"
(Douglas Allchin, Podium, Friday Review, 25 February 2000, p. 4). Sadly, this has been the
(sub-)standard official line for many decades.
Future generations will surely regard with puzzled and amazed incomprehension the
anti-science sentiment that dominated the benighted last decades of the 20 th century, and its
most basic cause - the prevailing negativism in the scientific community itself that
unthinkingly rejected scientific truth and certainty, and dogmatically (but frivolously and
inconsistently) preached anti-certaintism.
(POST-)MODERN "TRUTH"
The (post-)modernist and "politically correct" idea of "truth" - subjective, relative,
parochial, impermanent, ephemeral, transient, perishable, destructible, theory-laden,
ideology-dependent, falsifiable, unprovable, changeable, variable, surreal; as well as the
traditional religious idea of "truth" - untestable, unknowable, incomprehensible, ineffable,
transcendental, other-worldly; (or a any confused mixture of the two) are of course
meaningless, incoherent, untenable, and, needless to say, untrue.
Probably beginning with Bertrand Russell, all Professors of philosophy everywhere
throughout the 20th century have taught universal anti-certaintism. However, I have yet to
find a refutation of Descartes's brilliant argument (from the 1630s) that the proposition 'I
think' is indubitable: Any and every attempt to disprove it, only succeeds in proving it!
ROMANTIC "TRUTH"
Romantic "truth" is alleged to be found either through attaining harmony with nature
or through spiritual exploration of the inner self. All this is too airy-fairy and mystical to be
debated meaningfully.
THEOLOGICAL "TRUTH"
On the meaning and content of religious "truth", countless millions of individuals
have speculated ceaselessly (and often fancifully) all the way to the grave and, apart from
the grave, arrived at no other final destination. However, there exist some important
questions about religion that are amenable to objective and definite answers, notably these:
- Which particular discoveries were made by means of either divine or spiritual
contemplation?
- Which specific inventions were caused by godly inspiration?
Both the theological and romantic versions of "truth" fail the crucial test of
objectivity (= inter-subjectivity).
THE INDISPENSABILITY OF TRUTH
90
Any "paradigm" that appears merely to work and does not claim to be (at least an
approximation to) a truth of nature is a SantaClaus-type infantile theory and cannot
legitimately claim to be scientific. For sound scientific practice in general, the terms 'truth'
and 'reality' are indispensable. Moreover, any non-accidental advancement (both theoretical
and practical) in every scientific field is heavily predicated on knowing and using correctly
a theory that is close to the truth. In fact the closer the practised theory is to the truth, the
greater is the theory's effectiveness (both theoretical and practical), and also the greater the
probability of advancement. In genuine science, the "but-the-theory-works" theory of
knowledge does not really work. In the final analysis, at best it is an infantile theory; and as
explained above there is also a less charitable evaluation.
BIRD-BRAIN 'EPISTEMOLOGY'
The less charitable evaluation in question can be best demonstrated by recounting
the following fascinating story (involving the 'epistemology' of a popular species of bird the turkey) that was beautifully narrated by Richard Dawkins in his River Out of Eden
(1995):
It has been established by zoologists that a mother turkey protects her hatchlings
quite competently by means of a model that (in most cases) works quite effectively:
anything that moves and does not make the characteristic hatchling sound 'glu, glu, glu' (eg
cats, snakes, etc), the mother turkey attacks and repulses. Someone, however, carried out
the following ingenious experiment: this bright, if cruel, experimenter somehow caused the
mother turkey to lose completely her sense of hearing. The first thing that the mother turkey
then did was astonishing but easily explainable by the "but-the-theory-works" theory of
knowledge - she attacked and killed, one after another, all her own hatchlings.
There must surely be a lesson buried somewhere deep in this extraordinary but true
story for the fans of the "but-the-theory-works" theory of knowledge.
TRUTH AND PROGRESS
The example that best illustrates the indispensability of 'truth' and 'reality' is the
millennia-long history of astronomy's endeavour to model accurately the movement of the
planets. Ptolemy's geocentric model of planetary motion worked adequately for the
purposes that it was designed for (keep a calendar and predict the positions of planets and
the eclipses of Sun and Moon).
Imagine a public event in 1600 AD exhibiting terrestrial and celestial globes,
orreries, clocks, sextants, and other such ornate instruments and impressive devices.
Consider also the claim then that all these ingenious devises and the then (fairly
successfully) practised calendar and ocean navigation PROVE the geocentric model. How
could someone then conceivably challenge this powerful argument?
From the (for many centuries) apparently empirically "adequate" and practically
"reliable" (but essentially untrue) Ptolemaic model, it is impossible to derive either Kepler's
or Newton's laws. As Kepler himself fully realised, one has to discard (the essentially
untrue) Ptolemaic model and instead use the (approximately true) Copernican model in
order to get to the (closer to the truth) Keplerian model, and subsequently to the (still closer
to the truth) Newtonian model. It is clear that Newton also understood this point. This is
exactly the reason why Newton quoted the famous phrase: "If I have seen further, it is
because I stood on the shoulders of giants."
91
Owing to the periodic character of planetary movement, the geocentric model could
(and indeed still can) make successfully ROUTINE predictions concerning the observed
positions of the planets in the sky from the terrestrial observatory, but it never made any
NOVEL theoretical predictions or practical applications such as stellar parallax, Foucault
pendulum, black box of inertial navigation, Global Positioning System, etc. The latter, of
course, can only be made (as indeed have been made) by using the one TRUE model and no
other.
DELIVERING THE GOODS
On the very important and pertinent matter of practical accomplishments, without
the Newtonian model it is impossible to achieve guided rockets, space travel, satellite
communication, the Global Positioning System, etc. Accurate measurement alone, or
sophisticated experimentation alone, or meticulous data-compilation alone, or complicated
mathematical computation alone, or any type of trial-and-error alone, or even any
combination of all these will never lead to the above tremendous accomplishments. (For,
putting it rather crudely, it is like letting the proverbial chimpanzee type away on a typewriter and expect him to re-produce by pure chance a poem by Shakespeare.) The
CORRECT theoretical modelling (ie the appropriate 'TRUTH') is absolutely indispensable.
Mysteriously, the paramount significance of Kepler's and Newton's true knowledge
as explained here seems to have been buried under the gigantic mountain of the
(post-)modernist confusion - and thus forgotten. All the well-meaning people who
nowadays disregard (and, worse, slight) the possibly true model by rehashing the old
chestnut that the present model "ain't broken" and thus needs no "fixing", could be doing as
much harm (by obstructing progress) as those who in earlier millennia opposed the
(approximately) true heliocentric model on the (here shown to be) untenable grounds that
the (now known to be) untrue geocentric model worked. This 'naïve instrumentalist' view of
science may not actually be actively killing people, but it is quite possible that it is failing to
save lives by neglecting to develop new live-saving drugs and cures.
Thus the concept of the mere "empirical adequacy" of scientific knowledge (that
allegedly dispenses with 'truth' because allegedly it is not needed) is empirically proven to
be woefully inadequate. The similar concept of the mere "reliability" of scientific
knowledge is similarly shown to be notoriously unreliable.
Without the solid foundation of verified truths on which to erect sound and enduring
scientific edifices, any flimsy fabrications on the shifting sands of any transient paradigm
will (as everyone seems to agree) naturally collapse sooner or later.
For optimum scientific advancement, there is no substitute for good old-fashioned
TRUTH. In the final analysis, in the long term it is (closeness to) imperishable 'truth' that
invariably delivers the goods, and brings home the bacon.
CULTURAL "CRIME"
Thus the much vaunted "epistemological pluralism" (another basic tenet of
(post-)modernism) is thus been shown to be epistemologically untenable, although of
course "political pluralism" is politically still tenable - and desirable.
The rejection of 'truth' is tantamount to the proverbial killing the scientific 'goose'
that lays the 'golden eggs' of medicine and technology. We still have the already laid 'golden
eggs', but how many more have been missed as a result of this thoughtless, reckless, and
ruinous cultural "crime"?
92
NEVER MIND THE TRUTH?
As I already explained, the rejection or subversion of 'truth' is the exact point
"Where Science Has Gone Wrong" (Nature 1987; 329: 595-598; Nature, 1988; 333: 389).
The one and only response in the English language anywhere to the serious warnings
contained in "Where Science Has Gone Wrong" was a Comment article published on 7
December 1987 in the UK daily The Independent by the then President of the British
Society for the Philosophy of Science Dr Peter Gibbins (p. 15). The heading of this article
was again very telling and disappointing (and again typical of our (post-)modern era):
"Never mind the truth: research must pay off"; and so also was its profoundly erroneous
conclusion: "Profit does not depend on truth".
In fact any serious scientific study of the true history of scientific research proves
that in the LONG run: Profit (from the fruits of the scientific endeavour) does indeed
depend PROFOUNDLY (though not obviously nor straightforwardly) on truth. I hope that I
have shown that if scientific research is to really pay off, it must be research for
imperishable truths and eternal verities, not for current consensus or an ephemeral paradigm
that appears to work today, but fails tomorrow.
TRUTH AND JUSTICE
Another noteworthy concept that was rendered meaningless by
(post-)modernity is 'justice'. Injustice (either to an individual or a group) is perpetrated
generally by the powerful to the powerless. The correction of injustices is heavily
predicated on discovering and making known the (usually suppressed) underlying truths.
POLITICAL CORRECTNESS
The total confusion resulting from the (post-)modernist subversion of the meaning
of 'truth' perfectly suits the unscrupulous - both individuals and groups.
Curiously, the most enthusiastic embracers and promoters of (post-)modernist
nonsense have been the self-proclaimed political "progressives" who declare the correction
of social injustices to be their prime concern. These same people also expelled forcibly the
term 'correctness' from its natural home in the sciences and relocated it in politics. Thus
emerged the ugly term "POLITICAL CORRECTNESS" (PC). Worse, some of these
phoney "progressives" sank even deeper in the (post-)modern mire: they asserted that the
concept "objective truth" is a pernicious device invented by the powerful (white European
heterosexual male) specifically to despoil the environment and exploit and oppress the
weak (women, minorities, third world).
The elected political leaders customarily let down their supporters some years after
the former have made their promises to the latter. In stark contrast, the intellectual leaders
of the (post-)modernist movement harm the welfare of the persons whom they purport to
care about at the very moment they utter their basic principle. Their lofty rhetoric
concerning the exploited and oppressed is all about enabling the differently-abled and
empowering the differently-powered (or some other similarly colourful PC phrases to the
same effect). However, the simple statement of their basic principle nullifies instantly the
emancipatory prospects that the correct definition of the basic concepts 'truth' and 'justice'
entails.
93
The rejection or subversion of 'truth' (as defined here) is the "Philosophical Mother"
of all PCs, from which all lesser PCs are (epistemo-)logically derived.
Most people believe that PC is merely about a language code designed so as to not
offend the feelings of vulnerable groups. No, as shown here it is a fundamental issue of
substance. It is about the meaning and application of such basic concepts as 'truth' and
'justice'; and also about the many harmful effects, as explained here, of the prevailing
(post-)modernist MIS-conceptions of 'truth' and 'justice' on science, culture, society, and
progress.
SCIENCE AND THE LAW
The "Disconnects between science and the law" Perspective article by David T.
Case and Jeffrey B. Ritter (Chemical & Engineering News Vol. 78, No. 7, pp. 49-60, 14
February 2000) stated:
"The clash between scientific and legal truth is thought to be fundamental. …
Scientific conclusions are subject to perpetual revision, both in detail and sometimes in the
fundamentals. … This paradigm of a dichotomy between law and science has been
recognised and embraced by the U.S. Supreme Court (in 1993 as part of Daubert v Merrell
Dow Pharmaceuticals)."
Lawyers (and the entire public) cannot complain that they were not amply
forewarned about the grave dangers stemming from the (post-)modernist alleged
"fundamental clash between scientific and legal truth".
On 17 and 22 February 1986 BBC2 broadcast Hilary Lawson's Horizon film
"Science ... Fiction?" and on 20 February 1986 The Listener published Hilary Lawson's
article "The fallacy of scientific objectivity" (pp. 12-13). In a Letter published in the 27
February 1986 issue of The Listener (and entitled "Science versus fiction"), M.
Psimopoulos, T. Theocharis, and N. Bedding rebutted Hilary Lawson's (post-)modernist
preaching, and demonstrated that by literally accepting and faithfully implementing "the
fallacy of scientific objectivity", then "one can literally get away with murder".
SCIENCE OATH: "UPHOLD THE TRUTH"
There has been much talk about the need for a 'Hippocratic Oath' for scientists.
Invariably, all such talk boils down to the injunction: "Do Good." But as the old saying
goes: "The road to ruin is paved with good intentions." More often than not, busybody
meddlesome do-gooders end up effectively becoming busybody meddlesome do-badders.
This indeed is always the case with those who have demonstrated their complete lack of
understanding of such basic concepts as 'truth' and 'justice'.
Aside from the inherent and insurmountable subjectivity of the concept 'good', the
command "Do Good" applies to every profession and to every single citizen. Neither moral
piety nor ideological preaching should be the primary concern of the scientist. As already
explained, the first duty of the scientist must be 'EPISTEMOLOGICAL CORRECTNESS'.
Hence, if there is to be an oath specifically for scientists, this will have to be along the idea:
"Uphold the Truth." The oath must also explain that, if the oath is to be of lasting value,
'truth' must be of the imperishable type as defined here, not of the perishable
(post-)modernist variety of the "current consensus" or "present paradigm" type.
"TRUTH WILL OUT"?
94
In the cultural chaos that is (post-)modernity, an infinite variety of daft ideas get
publicised. In the wide and deep ocean of this
(mis-)information overload, what I argue are the correct ideas about the most fundamental
principles of our culture have all but disappeared from the public domain. (In the old times
it was said that humanity cannot bear much reality. Sadly, in our benighted (post-)modern
world humanity obviously cannot bear ANY reality.)
It is high time that all the earnest supporters of science began to re-assert the
positive virtues of science (as correctly expounded here at some length), as well as the
tremendous positive achievements of science-based medicine and engineering. On the
germane point about making the 'truth' public, the playwright Bertold Brecht can teach us
all a rather instructive lesson. In Brecht's The Life of Galileo, there is this dramatic scene:
LITTLE MONK: Will not the truth, if it is the truth, prevail either with or without us?
GALILEO: No, no, no! So much of the truth will prevail that WE make prevail!
PLANNING THE FUTURE
Without a clear and sound understanding of the current state of affairs of our world,
humanity's future prospects are uncertain and nebulous. There can be no such
understanding if the crucial events of the past (that have shaped the present) are MISunderstood, as indeed they are, and especially those that have the closest bearing on: THE
MEANING OF 'SCIENCE' AND 'TRUTH'. For the best possible future of humanity, a
comprehensive plan is needed that is informed by the important lessons (a few outlined
here) drawn from the correct understanding of both past and present.
----Theo Theocharis was born in Cyprus in 1952, and took a degree in Physics
at London's Imperial College in 1976. In 1977 he became a dissident in both
science and philosophy (as well as conventional politics). In this respect, Theo
Theocharis is probably unique in that he became a dissident from the outset
while he was still a PG student and thus before he could get any academic
job. After his university degree, his entire CV consists of only his dissident
publications. The most notable of these (co-authored with M. Psimopoulos) is
a 1987 Nature Commentary article entitled "Where Science Has Gone
WRONG" (Vol. 329, pp. 595-598, 15 October 1987). Following this highly
critical, dissenting, and whistle-blowing publication, Theocharis has been
unable to obtain any employment since then, although he has continued to
generate research material of both sound (if controversial) scholarship and
uncompromised integrity ever since. Theocharis's most recent (easily
accessible) publication is: "What's WRONG with science", Issues in Science
and Technology, Vol. XVII, No. 1, Fall 2000, pp. 24-25; online:
http://bob.nap.edu/issues/17.1/forum.htm (last forum item).
200A Merton Road
95
London SW18 5SW
England
020-88706191
E-mail: [email protected], [email protected]
96
A case of damnatio personae
Andrea Luchesi, and his role in the birth
of Haydn, Mozart and Beethoven myths
(Giorgio Taboga)
I would like to thank the Department of Mathematics of the University of Bergamo, and
especially professor Emilio Spedicato, who asked me to give a lecture on Andrea Luchesi.
This allows me to reveal some falsities and reticences which hinder this musician's right
appraisal and the understanding of his role in the birth of Haydn, Mozart and Beethoven's
myths. Already in 1806, abbot Giannantonio Moschini described him as the well-known
L.uchesi della Motta, then music master at the Cologne Elector's court (in Bonn), where he
richly married and where he enjoyed every privilege. 1 Although his name can be found on
the head of the chapel in twenty Cologne court calendars, and his contacts with the three
mythical figures are supported by documentary evidence, his name was expunged from
their biographies. It is therefore only right to talk of erased genius, and not misunderstood,
as the German musicologists have always been aware that his reappearance would cancel
the myths built around the great self-taught people of the "Wiener Klassik".
About Riccati, I must point out that among the 18th century mathematicians we can find
four members of the count family Riccati from Castelfranco Veneto: count Jacopo and
three sons of his: Vincenzo, Giordano and Francesco. Jacopo owes his celebrity to the
differential equation of second degree carrying his name. In his research on the Riccati
brothers, my friend professor Giorgio Tomaso Bagni recollects an application made by the
group of via Panisperna (Panisperna Street), witnessed by the physicist Edoardo Amaldi:
"Ettore Majorana drew a small piece of paper out of his pocket It was a schedule that he
had calculated in the last 24 hours turning the Thomas-Fermi's non linear equation of
second degree, following Segre's recollection, into a Riccati's equation, that he had then
numerically integrated".
Jacopo initiated his son Giordano (1709-1790) into mathematics. Giordano had a didactic
and artistic relationship with Andrea Luchesi. Vincenzo, a Jesuit, was compared for his
importance to Euler, Leibnitz and Daniel Bernouilli. He was considered as the best Italian
mathematician of his time; Francesco stood out in the field of architecture.
Once achieved his studies in Padua with the mathematician Ramiro Rampinelli, Giordano
graduates in law in 1733. Meanwhile he attends marchese Giovanni Poleni's lessons on
hydraulics; he is interested in literature, philosophy, theology, physics (he'll become the
best acoustic physicist of his time), architecture and musical theory. With Vincenzo, he
studies the logarithms of the negative numbers, the isoperimeters and the resolution of the
Cardano's equation of third degree. Now his success in the physical-mathematical field has
overshadowed other aspects of his activity as a man of science and culture. In December
1992 I wrote "Giordano Riccati un teorico musicale trevigiano dimenticato" ("Giordano
Riccati, a forgotten music theorist from Treviso")2 to remind his contributions to the science
of music in the sphere of the "physical-mathematical harmonists" school, which was so
fluorishing during the 18th century in Padua. The innovative "Paduan school" involved
97
musicians and mathematicians, among whom there were some Friar Minors, such as the
Venetian Francesco Antonio Calegari (he was the founder of the school, and anticipated
Rameau) and the Piedmontese Francesco Antonio Vallotti (the encoder of the theory of the
dissonance); then there were the Bohemian Bohuslav Cernohorsky and his pupil Giuseppe
Tartini, the count Giordano Riccati and several musicians. Among them we can find St.
Mark's master Giuseppe Saratelli, Andrea Luchesi (Beethoven's and Antonin Reicha's
teacher) and abbot Joseph Georg Vogler (Weber's and Meyerbeer's teacher). Giordano
Riccati, with his "Saggio sulle leggi del contrappunto" (1762) ("Essay on the counterpoint
laws") published Vallotti's system aiming to "demonstrate, against the opinion of the
modern mathematicians, that music is not just a sentimental art or an art of pure
practice, but that it is a real mathematical science". Only in 1779 Vallotti published the
first of four planned volumes; two more tomes were published in 1950, but they didn't
reflect his thought. Riccati attended to Vallotti's theory application through the teaching
activity and the careful correction of the works done by several musicians addressing to him
for suggestions and judgements. Riccati entrusted Luchesi to Vallotti. Until he left for
Bonn, in 1771, Luchesi kept in touch with both; seven letters sent to the count between
1764 and 1770 witness this relationship. On 9 January 1764 Luchesi gives back to Vallotti
his basses and he writes to him:
(…) poi vi è una fuga a quattro che io feci la quale avrei piacere che fosse corretta da Lei e
mi dicesse il suo sentimento. Mi presi l'ardire di scriverle confidato dalla sua innata bontà.*
After a short time he writes another letter, with no indication of date:
Dalla sua pregiatissima lettera intesi una favorevole decisione intorno alla mia fuga; non
mancherò per l'avvenire di approfittarmi sempre più e di mettere in pratica le cognizioni
che Vostra Signoria si è degnato di comunicarmi a Castel Franco. Mi sono preso il
coraggio di rassegnarle i bassi del Saratelli avendoli per mio divertimento copiati
egualmente con la fuga. Attendo con piacere i soggetti del Padre Minore Vallotti che lei si
esibisce di spedirmi.**
In a letter dated 17 February, Luchesi shows to be enthusiast about three ot Vallotti's
works, that the count had sent to him for a judgement; 3 Luchesi is ready to adopt the new
method of composition:
Ricevei con sommo piacere la sua gentilissima lettera con tre soggetti del P. M. Vallotti. Io
non mi sazio di sempre guardarli e riguardarli per sempre più intendere l'artifizio e i1
lavoro, qui con una unità costante scorgo modulare nei suoi suoni accessori senza
aggiungere inutili riempiture, qui scorgo un maneggio di rivolti e di dissonanze disposto
con tanta arte che pare ch'ognuno potrebbe fare lo stesso, ma qui è anzi dove consiste
l'arte maggiore. Insomma da questi io spero d'imparare molto; mi dispiacerebbe che Lei
avendomi lusingato il palato col spedirmeli mi lasciasse senza spedirmi altre cose preciose
per saziar i1 mio appetito. Questa Fiera di Padova, ho d'andare a suonare i1 cembalo nel
Teatro Nuovo, con questa occasione, (benché sia poco tempo), farò in tal maniera da
prendere lezione dal P. M. Vallotti e forse anche per mezzo di V. S.Illustrissima.***
The news concerned the origin of the diatonic scale and the turnings of the ninth, twelfth
and thirteenth chords. For the details, I refer the reader to Patrizio Barbieri's study on
"Padre Martini e gli armonisti fisico-matematici" ("Father Martini and the physical-
98
mathematical harmonists")4. I only briefly mention Vallotti's disappointment because
Riccati had spread his system without his agreement, and the theoretical differences of
opinion between Riccati and Tartini, that the count treated with respect despite his obvious
lack of mathematical knowledge. This is what G. T. Bagni 5 writes about the value of
Riccati as an example of ability and seriousness for Luchesi:
La concezione che Giordano Riccati ha dell'architettura è facilmente confrontabile con
quella che lo studioso chiaramente manifesta nei confronti della musica: la matematica, e
più in generale l'approccio razionale, non possono essere esclusi dall'impegno culturale
umano, in ogni disciplina, in ogni fase di elaborazione di un'opera. Anzi la ragione umana,
coltivata ed educata attraverso lo studio e la pratica delle scienze esatte, viene ad essere la
traccia, la guida sicura, il sostegno nella corretta concezione e realizzazione dell'opera
d'arte. Da questo punto di vista lo studio delle leggi del contrappunto o l'uso della media
armonica nel tentativo di immaginare e progettare una costruzione dalle proporzioni ideali
sono espressioni della medesima volontà di raggiungere e codificare il controllo, da parte
della ragione dell'emozione che da sempre giunge all'uomo attraverso il messaggio
artistico".****
Thanks to his strict coherence, characterizing every moment of his artistic or scientific
activity, Luchesi learns from the theorist Riccati (more than from the more skilled Vallotti)
the correct way to get music problems underway and to solve them. Beethoven, Antonin
Reicha (teacher of Liszt, Gounod and Berlioz) and the other pupils who had him as a
teacher in Bonn, through him could discover the theoretical studies begun by Calegari,
carried on by Vallotti and spread by Riccati. A long musical path, which went far, and that
therefore deserves to be reconstructed in a more exact way than we can do here.
°°°°°
Andrea Luchesi was born in Motta di Livenza on the 23 May 1741; his father Pietro was a
rich corn wholesaler. His elder brother Matteo, a priest, an organ player and a public tutor
gives him a culture allowing him to attend Venice noble salons. He associates an inborn
fondness for music and deep studies with the best teachers of the town and he improves
thanks to his relationships with the Paduan school's representatives. At the age of 22, on
suggestion of the count Giacomo Durazzo, he gives prince Nikolaus Esterhazy the first of
several symphonies nowadays thought to be Haydn's 6. In 1764 he sets to music the
important service for S. Lorenzo convent; the following year he starts out in the Hoftheater
of Vienna with "L'isola della fortuna" ("The island of fortune"), an opera buffa which will
be performed once again in 1767 at the Royal Theatre of Lisbon. Perhaps Luchesi is the
first one to compose concerts for cembalo in the form of a sonata; in February 1771 he
lends one of them to Mozart, who uses it still in 1777-78 during his travel to Mannheim and
Paris. When he arrives in Bonn, the "famous Luchesi" has operas, cantatas, symphonies,
quartets, sonatas and a lot of sacred music for public and private holidays to his credit.
Thanks to the Notatori of the N.H. (Nobil Homo) Pietro Gradenigo I could ascertain that
the Elector of CoIogne called for Luchesi to remedy the damages caused to the chapel of
Bonn by the direction of Ludwig van Beethoven, the Titan's grandfather. Luchesi's
assignement in Bonn can be compared only to Galuppi's three-year long stay in St.
Petersburg to give a new life to the chapel of Catherine II of Russia. Beethoven was a lifelong Kapellmeister, but when he suddenly died, the prince offered the position to Luchesi,
rather than to Johann van Beethoven, the Titan's father. As his new position would compell
99
him to put his works anonymously and free in the music archives, Luchesi reaches an
agreement and begins to create instrumental and theatre works under the names of Joseph
Haydn and his brother-in-law Ferdinand d'Anthoin; these works will be payed to him as
purchases from outside until 1784. Since May 1774 Luchesi officially produces sacred
works that today are still considered as anonymous; today you can find these works in the
Estense Library of Modena, where the music file of Bonn arrived during the 19th century.
But the contractor and musicologist Benjamin de La Borde points out that in Germany his
symphonies were hunted for the new ideas, the terse plot and the special gracefulness of the
style7.
During April 1783 Luchesi is in Italy to settle some family matters. The organ player
Christian Gottlob Neefe, taking temporarily his place, will also train Luchesi's pupils during
his absence. As Neefe is busy with conducting, Luchesi assigns the organ service to the 12
years old Beethoven, also playing the cembalo during the singing rehearsal of the
Grossmann's theatrical company and at the theatre. Beethoven has been Luchesi's pupil for
quite a long time; violoncellist Bernhard Joseph Maeurer witnesses that Beethoven's first
work, the cantata on the death of the English minister George Cressner in 1781, was
corrected by Luchesi and, following his will, it was sung by the choir 8. In Venice Luchesi
composes the serious opera "Ademira" for the Ascension Day of 1784; with this piece of
work Venice pays honour to a special guest: Gustavus III of Sweden. During the
preparation the news of prince Max Friedrich's death in Bonn arrives. When Luchesi comes
back, he will find the new elector Max Franz of Austria, who has promised to his friend
Mozart (they are of the same age) the position of Kapellmeister in Bonn. As Max Franz
wants Luchesi to resign, he reduces his wages, but he finally gives up his aim to avoid
possible consequences on Haydn's fame and on Austrian music. Max Franz forbids to put
Haydn's handwritten symphonies, as they create paternity problems, and he obtains Luchesi
to stop using his brother-in-law's name and to adopt that of Mozart. Max Franz hopes that
through Mozart's celebrity the glory of the Austrian music could spread. Ferdinand
d'Anthoin wiIl reappear only after Mozart's death. In 1784 Mozart's symphonies, quartets,
sonatas and concerts for piano, completely unknown till then, begin to circulate.9
As Max Franz is always looking for reasons to get rid of Luchesi, as soon as he arrives in
Bonn he orders Neefe to draw up the musical inventory, under notary Fries's control.
Following Luchesi's outline, drafted before his departure, Neefe finishes his task on 8th of
May 1784. The comparison between Neefe's inventory and the current evidence of the
"Fondo Lucchesi" (Luchesi's File) in Modena witnesses that the 28 Modenese symphonies
D-131/158, registered in the name of Haydn and all written before 1784, are the 28
symphonies that Neefe describes at page 258 as "de differents auteurs" ("by different
authors"), and the nine symphonies in the name of Mozart E-154/162, to which we have to
add the anonymous D-640 (K.551 Jupiter), are the ten symphonies entered as "de differents
auteurs" ("by different authors") at page 260. Already in 1984 Luchesi's biographer Claudia
Valder-Knechtges supposed that among Modena's anonyms there were Luchesi's
symphonies10. Surprisingly doctor Alessandra Chiarelli of the Estense Library, after having
examined some Modenese manuscripts and some others transferred from Modena to the
National Library in Vienna, writes:
"The name NIC HEISLER, that can easily be found as watermark in the Este manuscripts
containing Andrea Luchesi's music produced for the musical chapel of Bonn, and therefore
of sure Electoral origin, (…) this name relates them to D-136-141 (…) the presence (of the
letters A. R. and A. F.) on D-137 excludes the mere confluence of these sources in the
Modenese file; however it allows us to think that they are parts of two linked paths or two
100
stages of a shared path".
The initials A. F. and A. R. don't allow us to think anything different. They are the initials
of those who helped in the inventory drafting, included the one finished on 8 May 1784, the
last one drafted in Bonn. If the number stays the same, only the initials can witness the
actual filing. The presence of the initials only tells us that D-137 was registered three times
under the number 12. D-146, bearing the numbers 9 and 31 and an initial, was also
inventoried three times, and once the number was changed. (See documents 5, 6 and 7).
However the watermark NIC HEISLER singled out Swiss paper factory belonging to the
Heusler family of S. Albantal, near Basel, and it is almost impossible to find it in places far
from the Rhine Valley after 178411. This bereaves Robbins Landon's theory of any value; he
says that the Modenese copies deserve no attention because they are late, as the watermark
NIC HEISLER would indicate a 1820 Modenese paper factory12. Moreover, the
Lockenhaus-Esterhazy paper on which Haydn writes D-138 and other autographs dated
1762/75, is surely later than 179513. Therefore Haydn's copies were born twenty years after
the composition. The 28 symphonies D-131/158 were therefore inventoried in Bonn as "de
differents auteurs" ("by various authors") and the current registration under the name of
Haydn proves that the group has been tampered with after the inventory. The expression
"by various authors", approved by notary Fries, assures that the authors of the symphonies
were at least two. Haydn became therefore the author of those works which, in the
inventory of 8 May, hadn't been assigned to him. The title pages removed in four
symphonies prove this theory. We are equally sure that also the ten Mozart's symphonies
have been tampered with; here there is an aggravating circumstance: the name of Mozart
doesn't appear in Neefe's inventory. Independently from the Modenese file we have two
(unrelated) pieces of evidence proving that the paternity of K.297 Pariser is wrongly
assigned to Mozart. In June 1778 at the Concert Spirituel Mozart tried to pass off it as his,
and as a result he was ignobly thrown out of Paris; baron Melchior von Grimm put him on
the first stage coach to Strasbourg14. In a copy kept in Regensburg, Mozart's name is written
on another one, erased but still visible (see documents 1 and 2). We are sure that the
Modenese copies of K.504 Prague (document 3) and K.551 Jupiter (document 4) in May
1784 were in Bonn and this excludes Mozart's paternity. Mozart recordes them in his
private catalogue on 6 December 1786 and on 10 August 1788. The Koechel catalogue says
nothing about them because their presence in Modena is the obvious consequence of their
presence in Bonn during the month of May 1784. The Hapsburg establishment hid the
dangerous musical file of Bonn, not to leave it to the enemy Prussia, heir of the Principality
of Cologne. The archives weren't Max Franz's, but they belonged to the principality,
therefore the Hapsburg family is guilty of embezzlement and the duke of Modena of
receiving stolen goods, two crimes which can be easily justified if we take into account the
importance of the stakes. This file has always been managed by Vienna and the AustroGerman musicology has always been aware of how dangerous the Fondo Lucchesi (the
Luchesi File) was for the Wiener Klassik myths.
However Beethoven was among the German composers listed in Forkel's almanac far
1789, three years before arriving in Vienna15. Luchesi's biographer T. A. HenseIer excludes
any reliable recreation of Beethoven's education if we don't consider Luchesi 16. Beethoven
learned nothing from Haydn. On 23 December 1793 Max Franz told Haydn that the works
sent to witness Beethoven's improvements under his guidance had been achieved in Bonn
before November 1792. The artistic dimension reached by Beethoven proves the rule that
art "geniuses" educate themselves along precise and exclusive paths17:
101
"Appare certo che la carriera di ogni artista creatore (...) si divida in tre periodi
diversificati tra loro dal carattere delle opere: imitazione, transizione e riflessione. Nel
primo periodo, dopo aver studiato più o meno lungamente le regole ed i procedimenti
tradizionali del mestiere, l'artista imiterà... A questa regola non è sfuggito nessuno dei
grandi pionieri della poesia, della pittura o della musica, non un Alighieri nè un Molière,
non un Gozzoli nè un Rembrandt, non un Bach nè un Wagner Davanti a questa regola cade
la troppo comoda teoria dei geni autodidatti, teoria della quale, si deve convenire, la
storia dell'arte non offre alcun esempio."*****
I now dare to enunciate a very plain theorem, which could be denied only through exact
(but absolutely improbable) scientific evidence:
There are no self-taught geniuses.
A master's tuition allows a quick acquisition of the previous achievements, and the older
is the science taken into account, the more useful this tutor is. From this theorem takes
origin the following corollary:
Every time that an artist produces works whose level is not justified by a demostrable
curriculum of his studies, there are only two possibilities:
a) the master has been hidden;
b) the works are not made by him.
In both cases we can talk of mystification.
Ludwig van Beethoven belongs to the case a). The hidden master is Andrea Luchesi,
Kapellmeister in Bonn from 1771 to 1794. His teaching concerns the whole Beethoven's
education in Bonn18. During the Beethovenian meeting held in Berlin in July 1999, Dr.
Luigi della Croce pointed out that Luchesi is the only master able to give an explanation for
Beethoven's greatness, and on 25 January 2000, at the Associazione Mozart Italia (ltalian
Mozart Association) in Brescia, he indicated him as Mozart's master as well. At the same
time Dr. Della Croce singled out two exact reasons why Luchesi had been wiped out by the
Austro-German musicology which, in the past two centuries, has been lavishing care and
arrogance. This is why Luchesi was stolen his three quartets with piano WoO36 19 - from
which Beethoven took inspiration far a sonata included in the op. 2 and for the Patetica and his cantatas dedicated to Giuseppe II (WoO 87) and to Leopoldo II (WoO 88). The first
one is especially dangerous for Beethoven's myth because the "cantabili", the expressive
and tied melodies which appear in this work will be found once again in the Fidelio, in the
Missa Solemnis and even in the Ode to the Joy of the Ninth Symphony20.
To the case b) belong the two other "Wiener klassik" mythical figures, who give us other
reasons which can explain why Luchesi had been wiped out. Haydn owes his fame and
fortune to the great advertising operation made by Giacomo Durazzo, who tried to increase
family Esterhazy's glory. The prince exclusively bought the works he then registered in the
name of Haydn, but the only one who was authorized to grant Haydn's griffe was Bernhard
von Kees from Vienna, who also kept a catalogue. "Haydn's symphonies" are Giovan
Battista Sammartini's from Milan21 and, since 1763, Andrea Luchesi's as well22. In 1776
Haydn forgot to list in his curriculum the 60 symphonies which at the time were thought to
be his; this shows that he ignored the existence of many of them. Once 256 symphonies
were registered in his name, but today they are only 104; all these remaining should be
returned to Sammartini and Luchesi, except Hob.25, probably written by Dittersdorf.
102
Maynard Solomon tells us that before 1771 Mozart would have composed 25
symphonies, but we know for certain that only ten are his, and just the autograph of one has
been preserved23. Leopold Mozart's letter dated 24 September 1778 bears witness to their
quality. Mozart had informed his father that in Paris they didn't like his symphonies;
Leopold answered writing that: "What doesn't you credit, we'd better not spread it. This
is why I kept all of your symphonies, since I can foresee that, in later times, when your
critics awareness will be higher, you'll be truly happy that nobody would possess
them. We become more and more demanding"24. Mozart embezzled Abel's and MichaeI
Haydn's symphonies and, after 1784, Luchesi's works which can explain the qualitative
leap. It was an appropriation arranged with Max Franz, it was granted and protected by law,
as the Walsegg/Mozart's Requiem case assures, and it was not always limited to the
registration of the works in Mozart's name. The private purchase of Luchesi's works is the
reason for the dreadful conditions of Mozart's finance and the decrease in the number of his
symphonies. Only a Esterhazy prince could afford what turned out to be an unbearable cost.
Anyway, it is clear that Mozart's and Haydn's symphonic masterpieces have to be registered
in the name of Andrea Luchesi, Kapellmeister in Bonn. To hide such a truth, Jacob even
appeals te supernatural entities:25
"On Monday Mozart composes like Haydn and on Tuesday Haydn composes like Mozart.
This was a favourite Viennese joke in the middle of the nineteenth century (p. 202). (…)
Haydn's share in the tragedy of Mozart death was spiritual; with the death of Mozart the
sense of an invisible communion increased. Haydn felt as though strengthened and
befriended by some supernatural agency. Traces of this effect can be discovered in his
works of 1791. In the following year, which began for Haydn with the news of Mozart's
death, it is far more evident. It is not necessary te interpret this influence in any mystical
sense, what happened was no more mysterious than spiritual changes always are. After the
old master had for so long been the giver, the relationship between the two composers
changed with a suddeness that, indeed, was Mozartian in character. As we know, nine
years earlier Mozart had suddenly become a disciple of Haydn; now Haydn became a
disciple of Mozart. Now the latter was paying posthumously his debt of gratitude by adding
his genius to the genius of the older master" (p.201).
For the last two centuries the correctness of the attributions and the greatness of the two
"music geniuses" are thought to be confirmed by such nonsense and by Robbins Landon's
forgeries, that can be found, in more or less imaginative versions, in Haydn's and Mozart's
biographies. Logic excludes any odd hypothesis and ectoplasm. Luchesi diversified his
production; he wrote ordinary symphonies for Haydn, and more sophisticated works for
Mozart. Christmas 1790: during his trip to London, where he was involved in an
undertaking with Johann Peter Salomon, Luchesi's brotherly friend, Haydn stops in Bonn
where, of course, the italian Kapellmeister gives him works similar to those he gives to
Mozart. The resemblance among the works dated 1791 comes before Mozart's death on 5
December 1791. But "Mozart's" symphonies dated 1792 bear witness that their author
wasn't dead on 5 December 1791 but, however, he keeps working for Haydn. On the other
hand, the official end of Haydn's production testifies that Luchesi's death on 21 March 1801
stops the necessity to pretend any productive skill in Haydn, who for the last years had been
living in a larval condition because of the encephalosclerosis 26. This is the mystery. The
self-evident Beethoven's dependence on Mozart's and Haydn's models is simply the natural
consequence of Luchesi's long lasting teaching, as we knew that the school style spreads
like in a family, from master to pupils"27.
103
Therefore we should consider the Wiener Klassik as a whole italian phenomenon. The
famous idiot Haydn28 didn't compose any symphony, and those which are still registered in
his name are Sammartini's and Luchesi's; the high masses and the oratori aren't his as well.
We have discovered seventy works which aren't his and this witnesses that Mozart is still a
common name29. His best symphonies have to be ascribed to Luchesi; Beethoven could
become a genius of music thanks to the long and accurate teaching he received in Bonn
from the Kapellmeister Andrea Luchesi.
Since 216 years ago, since 8 May 1784, one has attempted to hide the truth.
Note
1
G.Moschini, Della letteratura veneziana ecc., Venezia 1806 p.221.
2
Restauri di Marca n.2 (December 1992), Ed.Coop. DiEmmeCi, Villorba (Tv) 1992, p.88-90.
*
(…) then I created a four fugue and I would like you to correct it and tell me your impression. I
dared write you as I know your innate kindness.
**
Reading your letter, it seemed to me that you approciated my fugue; I'll surely continue to take
advantage of your opinions and I'll try to put into practice the knowledge you conveyed me in
Castel Franco. I dared send you Saratelli's basses as I enjoyed copying them together with the fugue.
It is with pleasure that I wait for Friar Minor Vallotti's themes, that you'll kindly send to me.
3
P. Revoltella, Musiche di Vallotti nell'epistolario di Giordano Riccati, in AA. VV. Contributi per
la storia della musica sacra in Padova, Padova 1993, p.269 and following.
***
I was extremely glad to receive your letter with the three Friar Minor Vallotti's themes . I read
them over and over to understand the stratagems and the work: here, in a constant unity, I can see
how he modulated the subsidiary sounds, he didn't fill up with useless sounds; there I can see how
he worked with turnings and dissonances, which are organized with so much skill that it seems that
everybody could do the same, but there is the greatest art. I hope to learn a lot from them; I would
be disappointed if you, after having excited my curiosity, left me without sending me other precious
things to satisfy my longing to Knowledge. During Padua Fair I'll be at the Teatro Nuovo (New
Theater) to play the harpsichord. I'll see that Friar Minor Vallotti gives me a lesson, perhaps also
thank to you.
4
AA. VV, Padre Martini. Musica e cultura del '700.(A.Pomilio) Firenze 1987, p.173-209.
5
G.T. Bagni, Vincenzo, Giordano e Francesco Riccati, Treviso 1993, p.123.
****
Giordano Riccati's conceiving of architecture can easily compared to that of music: mathematics
and, more in general, the rational approach, cannot be left out from the human, culturale
engagement, in every discipline, in every phase of the creating process of a work. Human reason,
built and educated through the study and the practice of exact sience, become the path to follow, the
sure guide, the support in the right conceiving and carrying out of a work of art. From this point of
view the study of the counterpoint laws or the use of the harmonic mean when trying to imagine and
planning an ideal proportioned construction, are expressions of the will to reach and code the
reason's control of the emotions, that have always reached men through the artistic message.
6
G. Taboga, A.Luchesi.L'ora della verità, Ponzano Veneto (Tv) 1994, p.84 and 86.
104
7
J.B. de La Borde, Essai sur la musique, Paris 1780, Vol.III, Luchesi Andrè.
8
Grove 5° 1964, Lucchesi Andrea.
9
J.N. Forkel, Musikalische Almanach für das Jahr 1789, Leipzig 1788, p.84 - Reprinted Olms 1974.
10
C. Valder-Knechtges, Die weltliche Werke A.Luchesis, Merseburger, 1984, p.100 and following.
11
Johson-Tyson-Winter, Beethoven's Sketches, Oxford U.P., p.516.
12
H.C.Robbins Landon, The symphonies of J.Haydn,London 1955, p.611 and 613.
13
Ibidem p. 61.The author tries to make J.P.Larsen responsible for the forgery.
14
Leopold Mozart's letter to his son dated 10 October 1778, in J. et B. Massin, Mozart, Paris 1988,
p.280.
15
Musikalische Almanach für das Jahr 1789, ref. p. 69.
16
T.A. Henseler, Andrea Luchesi, der letzte Bonner Kapellmeister zur Zeit des jungen Beethoven,
Bonn 1937, Introduction.
17
Vincent d'Indy, Beethoven, Paris 1952, p. 6.
*****
"It seems clear that each artist-creator's career should be divided into three periods, which are
different because of the kind of their works: the three periods could be identified as imitation,
transition and meditation. During the first one, after having studied the rules and the traditional
procedures of the profession, the artist will imitate… All the great pioneers of poetry, painting or
music, Alighieri, Molière, Gozzoli, Rembrandt, Bach and Wagner included, all of them were
subjected to this rule. It disproves the too easy theory of the self-taught geniuses, a theory which,
you should agree with me, is not represented by any example in the whole history of art".
18
G. Taboga, A. Luchesi e la cappella di Bonn, Restauri di Marca n.3 (special issue), ref. p.11-41.
19
G. Taboga, L'assassinio di Mozart, Lucca 1997, p.190.
20
Poggi-Vallora, Beethoven, Torino 1995, p.578.
21
G. Carpani, Le Haydine, Padova 1823, p.62.
22
See note 6.
23
M. Solomon, Mozart, Milano 1999, p.74 and 79.
24
H. Abert, Mozart, Milano 1956, Volume I, p.461.
25
H.E. Jacob, Joseph Haydn, New York and Toronto, 1950, p.201 and following.
26
Graphologic study made by professor Sante Bidoli on Haydn's mental condition in 1802, never
published.
27
P. Lichtenthal, Dizionario e bibliografia della musica, Milano 1836, Volume II, ref. Stile.
105
28
Carpani, Le Haydine , p.252.
29
B. e J. Massin, Mozart, Introduction II.
Conference given in Bergamo, April 6, 2000.
Testo pubblicato in: Quaderni del Dipartimento di Matematica Statistica, Informatica ed
Applicazioni, Serie Miscellanea, Anno 2000 N. 4 - Università degli Studi di Bergamo, via
Salvecchio, 19 - 24129 Bergamo - Italy .
Si ringraziano per la traduzione Emanuela Zonca ed Emilio Spedicato.
----Giorgio Taboga è nato a Venezia nel 1933, e si è laureato in Scienze
Economiche all'Università "L. Bocconi" di Milano. Dopo diverse esperienze
di lavoro in Lombardia, Toscana ed Emilia-Romagna, è rientrato nel natio
Veneto e si è dedicato all'insegnamento. A Motta di Livenza, dove è vissuto
per oltre quindici anni, ha preso origine il suo interesse per il musicista
Andrea Luchesi, artista che lo affascina come persona al di là del valore della
sua musica. A seguito di quasi vent'anni di studi è giunto alla convinzione che
il caso di Andrea Luchesi sia forse il più eclatante di una lunga serie di artisti
e scienziati italiani ingiustamente ignorati o cancellati. Da questa convinzione
nascono i suoi lavori Andrea Luchesi e la cappella di Bonn (1993), Andrea
Luchesi. L'ora della verità (1994) e L'assassinio di Mozart (1997), oltre a
numerosi articoli su riviste italiane e straniere. Ha anche dedicato la sua
attenzione a Faustino Perisauli (1450?-1523), poeta romagnolo precursore
ignorato di Erasmo da Rotterdam. Attualmente sta completando la seconda
parte della biografia di Luchesi, gli anni di Bonn (1771-1801), quando il
Maestro fu l'insegnante di Beethoven e fornì sua musica a J. Haydn e W.A.
Mozart. Dai suoi studi emerge la certezza che la storia della musica della fine
del '700 vada riscritta in base a documenti, rifiutando il miracolismo
interessato e fideistico che impera oggi negli scritti sui tre grandi della
"Wiener Klassik", Haydn, Mozart e Beethoven, tutti e tre seppur in diversa
misura debitori della loro grandezza all'oscuro e cancellato maestro italiano.
E-mail: [email protected]
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ET IN ARCADIA EGO
Semantiche mito-ermetiche in alcuni quadri
di Guercino e Poussin
Parte Prima - Guercino
(Franco Baldini)
Non proverò nemmeno a spacciare quanto segue per oro colato: è soltanto il lavoro di un dilettante
sollecitato da un enigma che le indagini professionali non sono riuscite a chiarire in modo
soddisfacente. Sulla base della mia cultura, ovviamente abborracciata e lacunosa, ho costruito
un'interpretazione diversa da quella comunemente accettata combinando in una costruzione un
certo numero di indizi e anche quella che ai miei occhi somiglia molto a una prova. Tuttavia devo
riconoscere onestamente che anche questa mia rimane soltanto un'ipotesi interpretativa di dignità
non superiore alle altre: come tale non vale la minima polemica. La cosa migliore da fare è
secondo me di leggerla come una fiction, un racconto di come le cose avrebbero potuto andare, che
consente di scorrazzare liberamente in alcuni angoli poco noti del periodo storico a cavallo tra
cinquecento e seicento. Insomma, non chiedo affatto al lettore di condividere le mie tesi, sarei però
assai contento se la storia che sto per raccontare lo dilettasse almeno un poco. Infine, poiché
questo non è che un divertissement, mi sono preso la libertà di risparmiarmi la fatica di dotarlo di
un sistematico apparato di note che l'avrebbe inutilmente appesantito.
1. ET IN ARCADIA EGO
Il quadro che ci accingiamo a studiare è un olio su tela di cm. 82 x 91, eseguito pare intorno
al 1618 dopo una breve visita dell'autore a Venezia, ed è oggi alla Galleria Nazionale
D'Arte Antica di Palazzo Corsini in Roma. Dopo quasi quattrocento anni dalla
composizione del dipinto, gli storici dell'arte ammettono ancora che né le origini né il
significato del tema Et in Arcadia Ego sono chiari. È nostra intenzione cercare di risolvere
l'enigma.
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In un paesaggio agreste e montuoso, sotto un cielo ancora notturno ma in cui si comincia a
scorgere il chiarore che precede l'alba, due enigmatici personaggi si affacciano tra gli alberi
da dietro una massa rocciosa di colore nerastro, di fronte alla quale sta un angolo di
muratura che sorregge un grande teschio sulla cui calotta cranica è posato un moscone,
mentre un topo sembra roderne il lato destro della mascella. Su un alberello sovrastante e
biforcuto - il cui ramo superiore è verde mentre l'inferiore secco - sta un uccellino
appollaiato, con il capo ritratto e le penne arruffate: dunque ancora visibilmente
addormentato. D'altra parte anche la stasi del moscone - insetto che entra in attività solo di
giorno - e la presenza di quell'animale notturno per eccellenza che è il topo, confermano
inequivocabilmente l'ora - antelucana sia pur di poco - in cui abbiamo situato la scena.
Nella parte frontale del pezzo di muratura - invisibile ai due personaggi dipinti, dunque
offerta esclusivamente alla sagacia dello spettatore - campeggia in maiuscole latine la
famosa scritta "ET IN ARCADIA EGO", sulla quale tanto inchiostro è stato inutilmente
versato. I due personaggi, di cui sono visibili solo i torsi, dimodoché sembrano quasi
emergere direttamente dalla massa rocciosa che sta loro davanti, appoggiandosi a bastoni di
diversa lunghezza scrutano meditabondi il simbolo per eccellenza della morte corporale:
l'uno è più giovane, imberbe, a capo scoperto e vestito di una tunica bianca mentre l'altro è
più anziano, barbuto, ed ha il capo coperto da un voluminoso berretto, rosso come la tunica
che lo riveste e della quale si scorge in alcuni punti il risvolto bianco.
Dobbiamo dire - a scanso di equivoci - che siamo ben lungi dal contestare il significato
tradizionalmente attribuito dalla critica accademica alla composizione: certamente, e nel
migliore spirito rinascimentale, i due personaggi stanno meditando sul mistero della morte,
ma voler pretendere che con ciò si esaurisca il senso del dipinto, e che ciò sia addirittura
confermato dalla misteriosa frase epigrafica, significa votarne i dettagli - in definitiva, tutta
la materia formale che lo costituisce fisicamente - all'insignificanza più totale. Questo è secondo noi - il maggior difetto di un'ermeneutica che, per il continuo timore di cadere nel
discredito, finisce spesso per contentarsi di restituire soltanto l'evidenza.
Infatti, perché mai Guercino avrebbe esplicitamente conferito alla sua tela un carattere di
enigmaticità così elevato se avesse voluto esprimervi solamente un'allegoria generica e per
ciò stesso triviale? Nessuno ignora che una tale operazione lo avrebbe certo esposto, ai suoi
tempi - tempi di erudizione preziosa e aristocratica e di ingegnosità geroglifica
impareggiabile - al ludibrio generale. Quel che in questo modo si rende al pittore non è
davvero un bel servizio: vuol dire ignorare lo sforzo che deve essergli costata l'inventio che
la Galleria di Palazzo Corsini offre, ormai inutilmente, allo sguardo superficiale dei
visitatori. Per parte nostra non dubitiamo che anche il Guercino, come ogni altro uomo di
cultura del tempo, all'atto di accingersi a costruire nella propria mente lo schema di
un'opera, doveva avere ben chiaro quel passo del De vulgari eloquentia in cui l'Alighieri
dichiara le regole semantiche della scrittura, naturalmente estese anche al dominio delle arti
figurative, e che vale la pena di trascrivere:
"Dico che, sì come nel primo capitolo è narrato, questa sposizione conviene essere litterale e
allegorica. E a ciò dare a intendere, si vuol sapere che le scritture si possono intendere e deonsi
esponere massimamente per quattro sensi. L'uno si chiama litterale, [e questo è quello che non si
stende più oltre che la lettera de le parole fittizie, sì come sono le favole de li poeti. L'altro si chiama
allegorico,] e questo è quello che si nasconde sotto 'l manto di quelle favole, ed è una veritade
ascosa sotto bella menzogna: sì come quando dice Ovidio che Orfeo facea con la cetera mansuete le
fiere, e li arbori e le pietre a sé muovere; che vuol dire che lo savio uomo con lo strumento della sua
voce fa[r]ia mansuescere e umiliare li crudeli cuori, e fa[r]ia muovere a la sua volontade coloro che
non hanno vita di scienza e d'arte: e coloro che non hanno vita ragionevole alcuna sono quasi come
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pietre. E perché questo nascondimento fosse trovato per li savi, nel penultimo trattato si mostrerrà.
Veramente li teologi questo senso prendono altrimenti che li poeti; ma però che mia intenzione è qui
lo modo de li poeti seguitare, prendo lo senso allegorico secondo che per li poeti è usato.
Lo terzo senso si chiama morale, e questo è quello che li lettori deono intentamente andare
appostando per le scritture, ad utilitade di loro e di loro discenti: sì come appostare si può ne lo
Evangelio, quando Cristo salio lo monte per transfigurarsi, che de li dodici Apostoli menò seco li
tre; in che moralmente si può intendere che a le secretissime cose noi dovemo avere poca
compagnia.
Lo quarto senso si chiama anagogico, cioè sovrasenso; e questo è quando spiritualmente si spone
una scrittura, la quale ancora [sia vera] eziandio nel senso litterale, per le cose significate significa
de le superne cose de l'etternal gloria, sì come vedere si può in quello canto del Profeta che dice che,
ne l'uscita del popolo d'Israel d'Egitto, Giudea è fatta santa e libera. Ché avvegna essere vero
secondo la lettera sia manifesto, non meno è vero quello che spiritualmente s'intende, cioè che ne
l'uscita de l'anima dal peccato, essa sia fatta santa e libera in sua potestate. E in dimostrar questo,
sempre lo litterale dee andare innanzi, sì come quello ne la cui sentenza li altri sono inchiusi, e
senza lo quale sarebbe impossibile ed inrazionale intendere a li altri, e massimamente a lo
allegorico."
Non possiamo fare a meno di sottolineare a nostra volta il punto su cui Dante insiste alla
fine e nel seguito della citazione che abbiamo riportato ossia che, laddove non s'intenda
correttamente il "senso litterale", l'accesso agli altri è precluso, e "massimamente"
l'allegorico. Vale ancora la pena di notare che questa tradizione ermeneutica - di cui
l'attuale critica d'arte sembra far poco conto - durò imperterrita fino a tutto il Rinascimento.
Qual è dunque la "favola poetica" che può schiuderci l'intera semantica del dipinto? È noto
che la tradizione della critica accademica la indica concordemente nelle Bucoliche di
Virgilio, non curandosi affatto di rispondere alle ovvie obiezioni che una tal referenza
suscita. Se infatti essa non può essere generica ma deve chiarire con precisione la relazione
tra gli elementi assiali del dipinto - ossia due personaggi maschili, delle ossa umane e la
regione centrale del Peloponneso denominata Arcadia - allora non si vede proprio come
possa consistere in qualche brano delle Bucoliche. Anche considerando - come si conviene l'Arcadia quale simbolo generico di un mondo pastorale idealizzato, constatiamo che in
nessuna ecloga che in qualche modo vi si riferisce è mai questione di un cadavere o di ossa
umane. L'ecloga VII, per esempio - che possiamo considerare di ambientazione arcadica
anche se la scena si svolge sul Mincio perché comunque i suoi due protagonisti principali,
Coridone e Tirsi, sono Arcadi - ha come oggetto una semplice tenzone poetica. L'ecloga
VIII - in cui lo scenario del monologo cantato da Damone sembra collocarsi vicino al
Menalo, montagna d'Arcadia - vede uno dei protagonisti - Damone, appunto - in procinto di
suicidarsi per una delusione d'amore: anche se qui si tratta di morte, essa non è ancora
avvenuta ma solo possibile. Infine l'ecloga X - unica ad esser chiaramente situata in Arcadia
- contiene soltanto il lamento amoroso del poeta Gallo. La sola ecloga in cui si tratta di un
morto, cioè Dafni, è la V, ma non è ambientata in Arcadia bensì in Sicilia, teatro notorio
della vicenda dello sfortunato poeta-pastore figlio di Ermes e di una ninfa.
Non v'è dunque un solo passo in tutte e dieci le ecloghe che possa essere rispecchiato con
buona fedeltà dal dipinto sicché la referenza, non essendo relativa alla lettera delle
Bucoliche, potrebbe semmai rilevare soltanto dallo spirito che si coglie nel loro insieme.
Per far cio' tuttavia, Guercino avrebbe dovuto incorrere in una violazione delle regole
dell'esposizione vigenti al suo tempo: in una citazione, la lettera deve corrispondere alla
lettera, non allo spirito di quel che si cita. In più, a noi pare che non vi sia nemmeno questa
pretesa corrispondenza con lo spirito delle Bucoliche, che è notoriamente quello del
turbamento indotto dal contrasto tra le varie condizioni - interiori ed esteriori -
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dell'esistenza umana: infatti, se guardiamo l'opera, non vi troviamo alcuna traccia di ciò, al
contrario vi regna una specie di pace incantata culminante nella tranquilla, meditabonda e
quasi reverente curiosità con cui i due personaggi osservano il teschio.
Ma, anche ammettendo per un momento che l'interpretazione tradizionale possa tenere, noi
vediamo che questa ci schiude semmai soltanto un senso morale, mentre non ci permette
minimamente di accedere né al senso anagogico né, soprattutto, a quello allegorico. E se si
fosse trattato solo di un'allegoria generica, perché Guercino avrebbe dovuto usare l'artificio
dell'iscrizione - sgrammaticata e apparentemente monca - per comunicarci quel senso di
enigmaticità che non è mai sfuggito a nessuno degli osservatori del dipinto? Come recita il
vecchio adagio: il diavolo si nasconde nei dettagli.
Naturalmente si può sempre sostenere che, proprio attraverso la lettura di Virgilio, il tema
dell'Arcadia diviene, nel Rinascimento, un vero e proprio tópos artistico. Tuttavia non si
può fare a meno di aggiungere che già in Petrarca la poesia pastorale è un contenitore
buono a tutte le allegorie - estetiche, morali, gnoseologiche, politiche, ecc. - e con l'Arcadia
di Sannazzaro diviene esplicitamente veicolo di iniziatismo: in questo romanzo si tratta
sostanzialmente - come nella famosissima, ed ancor oggi altamente enigmatica,
Hypnerotomachia Poliphili - di un'allegoria iniziatica imperniata sul tema ermetico della
morte e della resurrezione. E così sarà per lungo tempo, attraverso il Marino e fino
all'Accademia dell'Arcadia, di fatto nata - con il nome di Accademia di Camera - nel salotto
di Cristina di Svezia, delle cui occupazioni ci da un'idea eloquente l'abate Francesco
Cancellieri:
"La celebre Cristina Alessandra, Regina di Svezia, dopo di aver rinunciato il Regno, ed abbracciato
la Religione Cattolica Romana, nel 1655, scelse per suo soggiorno questa Città, ove si applicò
interamente a proteggere le Scienze, le Lettere, e le Belle Arti, fino al 1689, in cui terminò di vivere.
Fra le sue occupazioni volle ancora tentare di rinvenire l'Arte cotanto decantata, e non mai trovata di
far l'Oro. Onde fatti costruire nella propria abitazione vari Laboratori, invitò i Dilettanti di una
tal'Arte, ad andare a fare in essi le loro operazioni, somministrando loro, quanto occorreva per
eseguirle."
Tenuto conto di ciò appare chiaro che il tema pastorale - quando è affrontato da un artista
del primo '600 - non può assolutamente essere evocato come spiegazione perché è
esattamente quello che si tratta di spiegare.
In definitiva - per le ragioni che abbiamo detto e che riteniamo pertinenti e cogenti - noi
pensiamo che non si tratti affatto di un'allegoria generica bensì di una precisa citazione, il
maggior indizio della quale si trova nella scritta che menziona l'Arcadia ma che, tuttavia,
non ha alcun legame con le Bucoliche.
No, non crediamo affatto che in questo caso Guercino si spieghi con Virgilio, il che ci
restituisce intatto l'enigma della tela, che può essere così riassunto: "Che rapporto c'è tra
due uomini, delle ossa umane e l'Arcadia?"
Naturalmente, la menzione dell'Arcadia fa sì che - pur scartando Virgilio - ci rivolgiamo a
nostra volta ai classici, ben sapendo come gli usi dell'epoca portassero gli artisti a una
ricerca esasperata dell'originalità, all'impiego della citazione inusuale o rara che, quanto più
era tale, tanto più veniva presentata ellitticamente, mai in modo del tutto esplicito, come
un'autentica sfida rivolta non tanto al pubblico, quanto agli altri artisti loro pari. La cosa è
talmente risaputa che menzioneremo soltanto l' "intendami chi può, ch'i' m'intend'io!" di
Petrarca; l'imbarazzato sconforto che fa dire a Pietro Aretino: "Poi che Michelangelo non
vuole che le sue invenzioni vengano intese, se non da pochi e dotti, io, che di questi e pochi
dotti non sono, ne lascio il pensiero a lui"; e la sarcastica difesa del cavalier Marino davanti
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all'accusa di "rubare" in zone della tradizione scarsamente frequentate: "assicurinsi [...]
codesti ladroncelli che nel mare dove io pesco e dove io trafico essi non vengono a
navigare, né mi sapranno ritrovar addosso la preda, s'io stesso non la rivelo". Tanto basti a
dar conto della temperie culturale dell'epoca.
Dobbiamo dire che - nelle nostre esplorazioni della letteratura classica accessibile al
Guercino - non abbiamo trovato nulla che possa costituire un referente letterale adeguato al
suo quadro, salvo un solo brano che si dimostra però altamente significativo. Non ci sembra
quindi per nulla inverosimile che Guercino abbia potuto leggere le Storie di Erodoto - nella
versione latina di Lorenzo Valla, data alle stampe in Venezia nel 1474, oppure nel
volgarizzamento di Matteo Maria Boiardo, pubblicato sempre in Venezia nel 1539 - e
imbattersi con la più viva curiosità nel passo seguente che narra un episodio - peraltro
altamente inverosimile - occorso durante il lungo conflitto che oppose Spartani e Arcadi:
"67. Così durante la prima guerra sempre con esito costantemente sfavorevole lottarono contro i
Tegeati; invece al tempo di Creso e del regno a Sparta di Anassandrida e Aristone gli Spartani erano
ormai riusciti vincitori nella guerra, e lo erano riusciti nel modo seguente: [2] poiché venivano
sempre battuti in guerra dai Tegeati, mandarono messi a Delfi per chiedere quale degli dei
propiziandosi sarebbero riusciti superiori ai tegeati nella guerra. E la Pizia profetò loro che lo
sarebbero riusciti quando avessero ricondotto in patria le ossa di Oreste figlio di Agamennone. [3]
Ma, poiché non furono capaci di rintracciare la tomba di Oreste, mandavano di nuovo al dio per
chiedere il luogo in cui Oreste giaceva. Ai messi che le rivolgevano questa domanda così la Pizia
risponde: [4] «C'è una Tegea d'Arcadia in luogo piano, ove due venti spirano sotto una forza
possente e c'è colpo e contraccolpo, e danno su danno. Lì la terra datrice di vita tiene
l'Agammennonide; tu portandolo via sarai vincitor di Tegea» [5] Quando gli Spartani ebbero udito
ciò, benché da per tutto cercassero, pure non erano meno lontani dal trovarlo, finché Lica, uno degli
Spartani detti «benemeriti», lo trovò. I «benemeriti» sono cinque cittadini, scelti ogni anno, sempre i
più anziani, fra i cavalieri; questi nell'anno in cui sono tratti a sorte fra i cavalieri hanno il dovere di
non stare mai in ozio, e vengono mandati chi qua chi là dallo stato spartano.
68. Lica dunque, uno di questi uomini, aiutato e dal caso e dalla sua avvedutezza la trovò a Tegea.
Essendoci in quel tempo libertà di scambio con i Tegeati, capitato in una officina egli osservava la
lavorazione del ferro, e stava tutto meravigliato a contemplare il lavoro. [2] Il fabbro, accortosi della
sua meraviglia, gli disse interrompendo il lavoro: «Certo, o ospite spartano, se tu avessi visto ciò
che io vidi molto ti saresti meravigliato, dal momento che tanto ammiri la lavorazione del ferro. [3]
Ché io, volendo farmi in questo cortile un pozzo, scavando trovai un'urna di sette cubiti. Non
credendo che fossero mai esistiti uomini più grandi di quelli di oggi la aprii e vidi il cadavere, che
era della stessa lunghezza dell'urna. Dopo averlo misurato tornai a seppellirla». Questi dunque gli
diceva ciò che aveva visto, e l'altro, avendo riflettuto su tali parole, congetturava che secondo
l'Oracolo quello doveva essere Oreste, da questo arguendolo: [4] vedendo i due mantici del fabbro
trovò che erano i venti, e l'incudine e il martello erano il colpo e il contraccolpo, e il ferro lavorato il
danno aggiunto a danno, da questo a un dipresso desumendolo, che il ferro è stato inventato per la
rovina degli uomini. [5] Fatte questo congetture se ne tornava a Sparta e riferiva ai lacedemoni ogni
cosa. Ma essi lo bandirono, accusandolo di falso. Allora, tornato a Tegea e esposta al fabbro la sua
disgrazia, tentava di prendere in affitto il cortile, mentre quello non voleva darlo. [6] Come poi col
tempo l'ebbe persuaso, andò ad abitarvi e allora, scavata la tomba e raccolte le ossa, tornava con
esse a Sparta e da quel momento, ogni volta che combatterono fra loro, gli Spartani riuscirono di
gran lunga superiori in guerra."
Riteniamo che il Guercino - la cui sensibilità era assai più vicina della nostra a questo
genere di virtuosismi - o, comunque, qualcuno per lui, abbia inteso immediatamente quel
che d'altra parte notano anche i curatori delle attuali edizioni di Erodoto: che cioè il brano in
questione non ha nulla a che vedere con la storia effettiva del conflitto tra Lacedemoni ed
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Arcadi, essendo null'altro che una "favola poetica", scientemente inseritavi dall'autore
oppure - cosa secondo noi meno probabile - ereditata come già inserita da una fonte
precedente. Infatti, a proposito della pretesa libetà di scambio con i Tegeati, Gianfranco
Maddoli, curatore del volume Erodoto e Tucidide, scrive: "Il dato, in contrasto palese con la
situazione di guerra, appare un'invenzione di Erodoto per giustificare il racconto
aneddotico." A nostro modo di vedere questa leggenda erodotea non è null'altro che la
narrazione - simbolica e, per la verità, assai trasparente - di un'iniziazione ad antichi misteri
metallurgici, sul tipo di quelli dei Cabiri - ed è noto che Erodoto era iniziato ai misteri di
Samotracia - come li presenta Mircea Eliade nel suo ormai classico Arti del metallo e
alchimia:
"Si è sottolineato che, nella Grecia arcaica, alcuni gruppi di personaggi mitici - Telchini, Cabiri,
Cureti, Dattili - costituiscono confraternite segrete, in relazione con i misteri oppure gilde di
lavoratori di metalli. Secondo le diverse tradizioni i Telchini furono i primi a lavorare il ferro e il
bronzo, i Dattili Idei scoprirono la fusione del ferro e i Cureti la lavorazione del bronzo; questi
ultimi erano, inoltre, famosi per una loro danza particolare, che eseguivano facendo cozzare le armi.
I Cabiri e i Cureti sono chiamati «signori delle fornaci», «potenti per mezzo del fuoco», e il loro
culto si è diffuso in tutto il bacino del Mediterraneo orientale. I Dattili erano preti di Cibele, divinità
delle montagne ma anche delle miniere e delle caverne, che avevano la propria sede all'interno delle
montagne. [...] Disponiamo, quindi, di tracce mitologiche di una situazione arcaica in cui le
confraternite dei fabbri assolvevano un ruolo preciso nei misteri e nelle iniziazioni."
E ancora:
"Pare dunque che esista, a livelli culturali differenti, ed è indice di grandissima antichità, un legame
intimo tra l'arte del fabbro, le scienze occulte (sciamanismo, magia, guarigione, ecc.) e l'arte della
canzone, della danza e della poesia. Queste tecniche solidali sembra, inoltre, che si siano trasmesse
in un'atmosfera pregna di sacralità e di mistero, che comportava iniziazioni, rituali specifici, «segreti
del mestiere»."
Infatti, tenuto conto di ciò, se rileggiamo il brano con un po' più di attenzione ci accorgiamo
che - durante un'improbabile tregua commerciale stipulata nel pieno della guerra del
Peloponneso - uno spartano di nome Lica si reca nella città arcade di Tegea, sulle tracce
delle ossa di Oreste. Non si può fare a meno di notare che Líches (Lica) viene da léicho
(lecco, lambisco), esattamente come líchnos (ghiotto; goloso; avido; bramoso; curioso).
Lica - colui che è curioso, bramoso (di conoscenza) - è dunque il prototipo dell'iniziando.
Allo stesso modo Teghéa (Tegea) viene da stégo (copro; proteggo; custodisco; difendo;
nascondo; tengo occulto, segreto; tengo lontano; respingo; resisto a) prestandosi così assai
bene a costituire il luogo più logico in cui deve recarsi chi vuole essere iniziato. Che
Guercino non sapesse di greco è assai poco rilevante, dato che i significati dei nomi greci
costituiscono solo elementi accessori della nostra interpretazione. Aggiungiamo che
comunque questi sono talmente trasparenti da risultare accessibili anche a chi non conosca
tale lingua: "Lica" evoca giustamente - attraverso il latino "lingo" - l'italiano "leccare",
mentre "Tegea" evoca "proteggere", attraverso il latino "tego". E, in ogni caso, abbiamo già
detto che il brano erodoteo e la sua interpretazione avrebbero benissimo potuto essergli
suggeriti. Così Lica si ferma davanti alla bottega di un fabbro intento a lavorare il ferro, già
ammirando l'aspetto essoterico, esposto agli occhi di tutti, della sua attività. Notando ciò, il
fabbro accenna a un'implicazione meno triviale della propria esperienza, che potrebbe
meravigliarlo ancor più (il ritrovamento favoloso dell'urna funeraria nel cortile). Di ritorno
a Tegea dopo lo sfortunato interludio spartano, Lica cerca di affittare il cortile (di essere
114
iniziato) ma senza successo ("colei che respinge" è appunto uno dei significati del nome
"Tegea"): conseguirà la propria meta solo dopo un certo numero di sforzi. Resta da vedere
cosa ha a che fare un "segreto di mestiere" con le ossa di un eroe mitologico, e a questo
proposito Eliade ci fa notare non solo che i complessi mitico-rituali legati all'attività
metallurgica implicano "il sacrificio o l'autosacrificio di un dio" ma anche che: "Secondo
altre tradizioni, anche un semidio o un Eroe civilizzatore, messaggero di Dio, può essere
all'origine dei lavori minerari e metallurgici."
Questa "favola poetica", così trasparente persino ai nostri occhi, doveva esserlo molto di più
a quelli di un uomo del seicento, epoca in cui magia, astrologia e alchimia erano una
componente fissa e abbondante della dieta culturale. Lo stesso Newton, ancora nel 1728,
scriveva: "Le antichità Greche sono piene di finzioni Poetiche, perché i Greci non scrissero
nulla in Prosa, prima della Conquista dell'Asia da parte di Ciro, re di Persia."
Come è noto il '400, il '500 e la prima metà del '600 sono i secoli in cui in particolare la
passione per l'alchimia si generalizza al punto da somigliare a un delirio di massa. Le
pubblicazioni su questo argomento divengono incredibilmente numerose: Borelli stimava
che esse ammontassero a più di quattromila titoli e tutti, scienziati, principi, monaci, preti e
porporati, curiosi di cose naturali, ciarlatani e illusi si davano a questo genere di ricerche.
Alla corte dell'imperatore d'Austria e dei re di Francia, alla corte dei re di Spagna e
d'Inghilterra, nei palazzi cardinalizi, si distillavano erbe, si preparavano oli e si trattavano
metalli secondo metodi alchimistici, sia per fabbricare farmaci, sia per fare l'oro. E lo stesso
accadeva in Italia alla corte dei Medici e dei duchi di Savoia, dove Francesco I, o lo stesso
Emanuele Filiberto, attendevano con le proprie mani, tra fornelli e alambicchi, alle
operazioni alchimistiche. È verosimile pensare che gli artisti, di solito chiamati dai loro
committenti a rappresentare lo spirito dell'epoca, potessero essere estranei a tale
movimento? Vi è da notare poi che il fatto della preparazione dei colori poneva allora la
pittura in adiacenza con l'arte spagirica.
Così, se non ci siamo sbagliati, possiamo ora tornare a guardare il quadro con occhi nuovi
per comprenderne il senso letterale, obbligatoria porta d'ingresso alla decifrazione di tutti
gli altri: non vi vediamo più due "pastori" davanti a un teschio, bensì l'iniziando Lica come si conviene vestito di bianco - che, in compagnia del fabbro suo iniziatore - a sua
volta vestito del colore del fuoco - sosta pensoso in contemplazione del mistero
metallurgico cifrato dalle ossa di Oreste. Il tutto, naturalmente, nell'Arcadia menzionata
dall'iscrizione misteriosa, il cui senso cominciamo finalmente a comprendere. Abbiamo già
messo in luce il dettaglio che questa - essendo loro invisibile - non è per i due personaggi
bensì per lo spettatore cui, evidentemente, vuole comunicare qualcosa.
Sul "che cosa" le illazioni si sono sprecate: gli accademici - da Panofsky a Lévi-Strauss suppongono che essa manchi del verbo e la completano con un "sum", assumendo che sia la
morte stessa a pronunciarla. Ma, anche così, la frase continua ad essere sgrammaticata: il
che deve pur venire spiegato, a meno di non assumere che Giovanni Francesco Barbieri - o
chi per esso - non fosse nemmeno in grado di compitare un latino tanto elementare.
Per dar ragione della forzatura grammaticale, la prima idea che viene in mente è che risulti
dal trattamento anagrammatico di un'altra frase che vi sarebbe nascosta: purtroppo, su
questa via si sono gettati solo dilettanti appassionati di occultismo i quali - sulla base di
un'ipotesi formulata per la prima volta nel best-seller Il santo Graal di Baigent, Leigh e
Lincoln - credono che essa contenga un riferimento al fatto che Gesù Cristo sia
sopravvissuto alla crocefissione per morire poi di morte naturale e venir sepolto da qualche
parte nel Sud della Francia. Come ci si poteva attendere, tale ipotesi è stata accolta dal
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pubblico profano con un entusiasmo direttamente proporzionale alla sua assurdità, dando
luogo a una nutrita serie di volumi se possibile ancora più improbabili e scatenando nelle
pacifiche campagne circostanti Rennes-le-Château una caccia al tesoro che - pur non
avendo dato ovviamente alcun risultato - è ancor'oggi ben lontana dal cessare. Così la si è
anagrammata come "I, TEGO ARCANA DEI" ("Vattene, custodisco i segreti di Dio"):
naturalmente, che tale vaga allusione imprecatoria non riveli assolutamente nulla ma sia
addirittura più enigmatica della frase da cui è ricavata - tanto da spingere a chiedersi quale
sia l'utilità di nasconderla in un anagramma - non pone il minimo problema ai cercatori di
tesori immaginari.
Tuttavia, vi è un'altra possibilità di decodifica - segnalataci dall'amico Vincenzo Franchini,
ottimo latinista - che si rivela adeguata alla nostra ipotesi in modo davvero stupefacente:
ET IN ARCADIA EGO
è anche l'anagramma perfetto di
ARA IN TEGEA DICO
in cui l'ablativo "ara" è certamente da intendere come complemento di argomento, nel
senso di "de ara", in cui il "de" - come avveniva quasi sempre in latino - è sottinteso. Il
verbo "dico" non significa dunque "dedico" - se così fosse richiederebbe l'accusativo
"aram" - bensì è da intendere nel senso di "narro, racconto". La frase "DICO (DE) ARA IN
TEGEA" - tenuto conto del fatto che il termine "ara" designava comunemente anche il
sepolcro - significa dunque esattamente: "NARRO DEL SEPOLCRO IN TEGEA",
concordando alla perfezione con il brano di Erodoto che abbiamo supposto costituire il
referente letterale del dipinto.
Anche i più scettici concorderanno sul fatto che le probabilità che un anagramma così
letteralmente e semanticamente preciso sia casuale - e che dipenda esclusivamente dalla
possibilità meccanica di permutazione delle lettere nella frase - sono praticamente nulle:
perciò noi consideriamo questo come qualcosa di molto prossimo a una prova oggettiva del
fatto che la nostra ipotesi corrisponda effettivamente all'intenzione del Guercino.
Naturalmente, ciò dovrebbe condurci a comprendere, con precisione e aderenza ai dettagli,
anche gli altri tre sensi impliciti nella composizione. Cercheremo dunque ora di spingerci
verso il secondo, quello allegorico, ossia verso la "veritade ascosa sotto bella menzogna" di
cui parla Dante. Già sappiamo che essa riguarda le arti del fuoco il che vuol dire, all'epoca,
l'alchimia, e questo ci porta su un terreno particolarmente scivoloso. Dobbiamo dunque
premettere che se tentiamo un'esegesi alchemica del quadro lo facciamo esclusivamente
perché persuasi che essa fosse davvero nell'intenzione del suo autore e perché, come
sottolinea Edgar Wind, nel suo Misteri pagani nel rinascimento:
"non ci può essere dubbio che la presenza di residui non chiariti di significato è un ostacolo al
godimento dell'arte. Per quanto grande sia la soddisfazione visiva suscitata da un dipinto, essa non
può essere perfetta fin tanto che lo spettatore è assillato dal sospetto che nel dipinto ci sia di più di
quello che il suo occhio vede. In letteratura lo stesso tipo di imbarazzo può essere prodotto dalla
poesia di Spenser, di Chapman o perfino di Shakespeare, in un lettore al quale si sia consigliato di
abbandonarsi alla musica dei versi senza preoccuparsi di capire o no ogni singolo verso. È dubbio
che questo atteggiamento possa durare a lungo senza ottundere il godimento estetico, per quanto
giustificato esso sia come approccio preliminare.
Spero quindi che non mi si fraintenda, pensando che io consideri con particolare favore la dottrina
dei misteri che mi accingo a esporre. L'assioma proposto da Pico della Mirandola, che per essere
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profondi i misteri debbono essere oscuri, mi sembra altrettanto falso del pernicioso assioma di
Burke che «un'idea chiara è un modo diverso di significare un'idea piccola». Ma non v'è modo di
eludere il fatto, per quanto spiacevole, che da quel terreno impuro si sviluppò e fiorì una grande
arte. Studiando questo argomento io cercherò la chiarezza - un fine già di per sé riprovevole dal
punto di vista dei mistagoghi del Rinascimento. Eppure, la comprensione di questi inquietanti
fenomeni non è certo favorita dall'arrendersi di fronte ad essi, non più che dall'ignorarne l'esistenza.
Come osservava Donne, la maschera è una delle grandi forze della rivelazione. «Perché la Colonna
di Nube, non meno della Colonna di Fuoco, svolse il compito di guidare»."
Tuttavia c'è, per quanto riguarda l'alchimia, una complicazione ulteriore: la sua esegesi non
è univoca. Tra i suoi interpreti ce n'è che vogliono la terminologia chimica degli alchimisti
pura allegoria di un processo spirituale o mentale interno all'uomo; ce n'è che la vogliono
invece un processo puramente chimico-metallurgico, senza altra implicazione; infine ce n'è
che vi ritengono presenti entrambi gli aspetti.
Pur non avendo particolari titoli per dirimere la questione, oltre trent'anni di frequentazione
dell'enigmistica alchemica ci hanno persuasi che la terza ipotesi sia la più vicina al pensiero
degli alchimisti del periodo classico. Facciamo cioè nostro il giudizio di Mircea Eliade
nell'affermare che:
"Certamente le operazioni alchemiche non erano di natura simbolica: erano operazioni materiali,
effettuate all'interno di laboratori, ma perseguivano fini diversi da quelli della chimica. Il chimico
pratica l'osservazione esatta dei fenomeni fisico-chimici e di esperienze sistematiche, allo scopo di
cogliere la struttura della materia; l'alchimista si sofferma piuttosto sulla «passione », la «morte» e
l'«unione» delle sostanze, in quanto agenti di trasmutazione della Materia (la Pietra Filosofale) e
della vita umana (l'Elixir Vitae)."
Questo perché: "nessun mestiere, perfino nella tarda antichità, era soltanto una tecnica." Ciò
naturalmente non significa che aderiamo alla Weltanschaaung degli alchimisti: il nostro
atteggiamento, se somiglia a qualche altro, somiglia a quello dell'etnologo, volto a
ricostruire pratiche e credenze loro relative, senza porsi minimamente il problema
dell'oggettività delle prime come della verità delle seconde. Ci importa soltanto restituire un
mondo intellettuale e semantico quasi sempre trascurato e che riteniamo essenziale alla
comprensione di molte opere appartenenti a uno dei periodi artistici più felici della storia
dell'umanità. Perciò - dato che la situazione da allora non è gran che cambiata - ci
associamo senz'altro a quanto scrisse, nel 1975, uno dei migliori ricercatori del campo,
ossia René Alleau:
"Se ora si vorrà prendere in considerazione l'estensione di una letteratura ancora sconosciuta che
conta decine di migliaia di opere le quali, tra il XIII e il XVIII secolo, hanno esercitato un'influenza
incontestabile sulle menti e sulle opere della civiltà occidentale, come non essere sorpresi
constatando che tali documenti non sono ancora stati esaminati e nemmeno recensiti e classificati in
modo sistematico e serio? Dopo vent'anni di ricerche in tale giungla, credo di essere in diritto di
affermare che essa rimane appena esplorata, con tutte le conseguenze che lacune così gravi
implicano in quel che concerne la nostra attuale concezione della cultura e dell'evoluzione delle
idee. In questa prospettiva, non si tratta affatto di «disoccultare l'occulto», ma di restituire alla
cultura ciò che le è sempre profondamente appartenuto, salvo nella nostra epoca, vale a dire il senso
del mistero universale. Questo mistero non è situato fuori dalla cultura ma è nella cultura autentica,
come l'arte è nascosta nella natura, secondo l'ammirevole formula di Albrecht Dürer: «Guarda
attentamente la natura senza mai discostartene nella vana speranza di trovare qualcosa di meglio per
te stesso. In verità, l'arte è nascosta nella natura: chi può estrarla da essa la possiede»."
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L'adesione al punto di vista di Eliade ci ha in ogni caso obbligati a uno sforzo che di solito
gli esegeti delle opere alchemiche non fanno: con qualche rarissima eccezione, essi si
contentano di collegare tra loro i differenti simboli come se da questi semplici accostamenti
potesse scaturire una chiarezza maggiore di quella esibita dai testi che commentano. Al
contrario noi, persuasi come siamo che, se c'è un segreto, esso non concerne i simboli ma
l'operatività che essi ricoprono, e che la spiegazione di simboli con altri simboli sia soltanto
una pseudo-ermeneutica, priva di valore perché regolarmente più oscura di ciò cui si
applica, abbiamo cercato - nei limiti delle nostre capacità - di ricostruire il tessuto empirico
che costituiva il referente della rete simbolica manifestata dai dipinti. Naturalmente, non
essendo né iniziati né praticanti dell'arte, abbiamo dovuto cercare - lungo laboriose letture
sinottiche dei classici più e, soprattutto, meno noti dell'alchimia occidentale - di ricostruire
l'effettiva pratica operativa a partire dai testi: cosa secondo noi non impossibile, se si ha la
pazienza e la tenacia di svolgere il lavoro necessario a realizzarla.
Quando dunque in alchimia è questione di sepolcri, ossa, crani o cadaveri il riferimento è
notoriamente alla fase operativa detta della "putrefazione". Infatti, come attesta Nicolas
Flamel nel Libro delle figure geroglifiche:
"Dunque questa nerezza e colori insegnano chiaramente che all'inizio la materia e il composto
comincia a putrefarsi […]. E questa dissoluzione è chiamata dai Filosofi invidiosi Morte,
Distruzione e Perdizione, perché le nature cambiano di forma; di qui sono uscite tante allegorie su
morti, tombe e sepolcri."
Non diversamente si esprime Teodoro Nadasti, nel suo Trattati teorici-pratici:
"Dicono per anche intercedere nel nostro Magistero morte, e resurrezione. Per la qual frase vogliono
significare lo stato dell'Oro, o Argento, il quale quando è internato per minima nel Mercurio, e non
si vede più, apparisce non solo come morto, ma come sepolto ancora…"
Lo stesso concetto si può ritrovare espresso, invero assai laconicamente, nella seguente
illustrazione tratta dalla Margarita pretiosa di Janus Lacinius:
Per comprendere di che si tratta bisogna aver chiaro che - secondo gli autori reputati
migliori - questa segue le due precedenti della "congiunzione" e della "separazione". Nella
"coniunctio" si trattava di compiere un'operazione al crogiolo facendo reagire due sostanze
- denominate "solfo" e "mercurio" - attraverso una terza - il cosiddetto "fuoco segreto" o
"doppio", o ancora "sale" -, dopodiché il risultato, a raffreddamento avvenuto, veniva
separato tra la sua componente depurata e le scorie. Per mostrare il grande accordo che gli
alchimisti intrattenevano su questo punto faremo alcune citazioni provenienti da trattati di
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autori ed epoche diverse, le quali mostrano chiaramente come vi si tratti sempre del
medesimo procedimento. La prima viene dal Breviario attribuito a Nicolas Flamel:
"Baderai innanzitutto di prendere il primogenito o primo figlio di Saturno, che non è il comune,
nove parti; della sciabola calibe del Dio guerriero, quattro parti; falli arrossare in un crogiolo e
quando sarà rosso fondente getta dentro le nove parti di Saturnia che t'ho detto. Quando questo
improvvisamente mangerà l'altro, pulisci bene dalle sporcizie fecali che vengono a monte della
Saturnia con salnitro e tartaro...".
La seconda viene da Le dodici chiavi della filosofia di Basilio Valentino:
"Perciò, se vuoi lavorare con i nostri corpi, prendi il Lupo grigio avidissimo che, dall'esame del suo
nome, è assoggettato al bellicoso Marte, ma, per la sua stirpe di nascita, è figlio del vecchio Saturno
e che, nelle valli e nelle montagne del mondo, è in preda alla fame più violenta. A questo stesso
Lupo getta il corpo del Re, affinché riceva il proprio nutrimento, e quando avrà divorato il Re fai un
gran fuoco e gettavi il Lupo per consumarlo interamente: allora il Re sarà liberato."
Traiamo la terza da L'entrata aperta al palazzo chiuso del re di Ireneo Filalete:
"...prendi quattro parti del nostro Drago igneo che nasconde nel suo ventre l'Acciaio magico, e nove
parti della nostra Calamita; mescolali insieme con l'aiuto del torrido Vulcano, in modo che formino
un'acqua minerale su cui galleggerà una schiuma...".
Poiché questo è uno studio iconografico, concludiamo la rassegna riproducendo
un'immagine dall'Atalanta fugiens du Michael Maier che è una ripresa letterale del passo di
Basilio Valentino appena citato:
Inoltre, ai fini della nostra argomentazione, è molto importante sapere che la sostanza che
Flamel chiama "sciabola calibe del Dio guerriero", Basilio Valentino "Re" e Filalete
"Calamita" - ossia ciò che nell'operazione svolge il ruolo di "solfo" - è il ferro. Questo
infatti ci è formalmente dichiarato da Giovanni Braccesco nel suo La espositione di Geber
filosofo.
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"Geb. Quantunque il ferro comune in se sia il piu vile delli altri metalli, nientedimanco separata la
immonditia, è piu precioso delli altri, perche ha potentia piu propinqua da convertirsi in Elixir. [...]
Pensa che io non ho parlato senza ragione. Nel testamento io ho detto, il Marte perche ha la
sustantia fissa, egli è il megliore infra gli corpi. Et benche per il Marte si possi intendere del solfo,
rispetto alli altri metalli intrinsechi, nientedimanco si puo anchora intendere, che il ferro comune sia
migliore delli altri, perche ha la sustantia fissa, cioè piu di solfo fisso, che tutti gli altri metalli.
Dem. Piu fisso è il solfo dell'oro. Geb. Si, ma el costa caro: et non è utilità a lavorare sopra quello et
non si puo migliorare, perche egli è pervenuto all'ultima sua perfettione: ma il solfo del ferro è in
via alla ultima perfettione et tintura, et con nostro magisterio si puo aiutare a pervenire alla rubedine
permanente, et di quello facilmente ne possiamo avere in buona quantità, et con poca spesa."
D'altra parte Johannes de Monte-Snyder, nel suo Commentario sul farmaco universale non
fa che confermarne l'opinione:
"Possiede Marte un caldo Solfo solare e sembra bianco al di fuori, ma è ben rosso al di dentro. Il
suo sale è talmente maturato e avviato dal proprio suo solfo, che persino a un sì agile rapinatore
come Mercurio, dà molto filo da torcere. Il sale di Marte può, infatti, costantemente coagulare e
fissare il Mercurio, specialmente quando lo soccorra il vecchio Saturno con le sue armi e la doppia
sua daga."
Cosa che Sabine Stuart de Chevalier, nel suo Discorso filosofico sui tre principi, animale,
vegetale e minerale o La chiave del santuario filosofico, sottoscrive apertamente: "Il ferro
contiene anche un solfo prezioso e che è assolutamente necessario alla composizione del
magistero...". E, in modo ancora più esplicito: "abbiamo già dimostrato più sopra, che
Marte o il sale di ferro è una calamita ausiliaria che attira le influenze celesti."
Da tutte le citazioni che abbiamo fatto si evince che il risultato della "prima opera", a
quanto pare, constava di un lingotto di "sostanza mercuriale" depurata che si depositava sul
fondo della lingottiera, mentre le scorie - dette anche "feci" o "caput mortuum", e costituite
da tutte le altre sostanze intervenute della reazione - galleggiavano in superficie come una
specie di schiuma solida, nerastra e vagamente fetida, costituita in gran parte dai
fluidificanti salini (il "sale") e dal ferro.
D'altra parte, se gli alchimisti facevano in genere tanto mistero della loro "prima opera" è
semplicemente perché essa era ben conosciuta nell'usuale chimica del tempo, come si può
desumere dai trattati più famosi, come quello scritto dal dottor Nicolas Lemery, membro
dell'Académie Royale des Sciences, e riedito nel 1757, con numerosissime annotazioni, dal
suo allievo Baron, dal quale - a conferma di ciò che abbiamo appena scritto - traiamo il
giudizio relativo al "caput mortuum": "Le scorie sono dunque composte di ferro, di zolfo e
di salnitro fisso." Affermazione ulteriormente chiarita nella lunghissima "nota (c)" aggiunta
dal dottor Baron a commento del testo del proprio maestro: "Tutto ciò che galleggia sul
regolo precipitato, e che forma le scorie, non è dunque più che un composto di zafferano di
Marte, di colcothar, e di fegato di zolfo, nel quale sono dissolte una porzione di ferro e una
porzione di regolo."
Quanto precede costituisce secondo noi l'oggetto di un altro dipinto del Guercino, noto
sotto il titolo di "Vanitas", oggi appartenente alla collezione Feigen di New York:
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Senza approfondirne particolarmente la lettura - dato che non costituisce l'oggetto del
presente studio - ci limiteremo a segnalare che il libro chiuso costituisce, in alchimia, un
simbolo tradizionale della "materia mercuriale" allo stato grezzo, ossia all'uscita dalla
miniera: tale accostamento è stato probabilmente suggerito dal fatto che si tratta di un
minerale che ha spesso una struttura grossolanamente lamellare, tanto da esser denominato
pure "terra foliata". Questo libro è chiuso da sigilli che vengono spezzati o sciolti nel corso
della lavorazione, finché esso, al termine, diviene aperto.
Così noi vediamo, nel quadro, il libro ancora chiuso, ma di cui l'"assazione" preliminare e la
"prima opera" hanno già sciolto i due lacci che lo chiudevano: a questo punto esso è
giustamente sovrastato dal teschio che simboleggia le scorie o "caput mortuum". Questa
sovrapposizione verticale dei due protagonisti principali dell'opera alchemica è peraltro
restituita molto fedelmente da uno dei simboli (il secondo nell'immagine seguente) che
l'antica chimica riservava al "caput", in cui la linea orizzontale sottostante il teschio
equivale al libro del quadro di Guercino:
L'orologio a sabbia che si vede sul lato destro è un'allusione al fatto che la massa delle
scorie è friabile e si disgrega facilmente assumendo un aspetto sabbioso, inoltre, poiché la
clessidra è un classico simbolo di Saturno, riguarda il fatto che le scorie della "prima opera"
sono chiamate anche "Saturno o piombo dei filosofi". Ciò è certificato anche dall'anonimo
autore del Dizionario ermetico contenente la spiegazione dei termini, favole, enigmi,
emblemi e modi di dire dei veri Filosofi, accompagnato da due trattati singolari e utili ai
Curiosi dell'Arte il quale, alla voce "Saturno dei filosofi", si esprime nel modo seguente:
"è quando la materia Ermetica è diventata come della pece fusa, e poi diventa nerissima, in cui si fa
l'eclissi del Sole e della Luna, che i saggi chiamano fango e limo, in cui l'anima dell'oro (che è
121
chiamata il fiore dell'oro nella Turba) si unisce al Mercurio; in modo che chiamano Saturno o
piombo, la tomba in cui il Re è sepolto: O anche Nigredo, ossia la nerezza, che è la testa del Corvo."
Le due roselline in vaso, sulla sinistra, simboleggiano invece il prodotto finale dell'opera
alchemica, cioè le due pietre filosofali "al bianco" e "al rosso": questa differenza è
sottilmente suggerita dal Guercino con il fatto che una delle due roselline è ancora
parzialmente in boccio (pietra al bianco) mentre l'altra (pietra al rosso) si mostra nel pieno
della fioritura. Il medesimo simbolismo delle due rose - che qui sono, più canonicamente,
rose selvatiche a cinque petali - si può ritrovare nell'illustrazione premessa alla dodicesima
e ultima chiave de Le dodici chiavi della filosofia di Basilio Valentino:
Il secondo vaso, che vediamo sullo sfondo a destra, riempito di fiori di vari colori,
simboleggia appunto i colori che si susseguono nel corso dell'opera, allo stesso modo che
ne Les sept nuances de l'oeuvre chymique di Etteilla in cui il laconico commento al punto
quattro del frontespizio recita enigmaticamente: "Non riferitevi troppo al colore":
122
Tuttavia, e più pertinentemente di Etteilla, Guercino non ci mostra i fiori ancora radicati al
terreno, bensì recisi e immersi in due vasetti di vetro trasparente. Malgrado l'apparente
naturalezza della cosa, anche qui è cifrata un'indicazione assolutamente pertinente: a
eccezione del nero, i colori si producono e passano nel vetro, ossia nel fluido salino
incaricato di captare - durante la "terza opera" - la parte più pura delle materie messe in
opera. Secondo i migliori autori, sarà proprio questo fluido a costituire il corpo cristallino
del "rubino celeste" finale.
Infine, pensiamo che l'indecifrabile cartiglio attaccato al medesimo vaso, in cui si può
leggere soltanto la parola "nascitur", sia - proprio come ne Et in Arcadia Ego - l'indice che
il quadro contiene un messaggio incomprensibile ai più.
Pe rendere ancor meglio conto della fondatezza della nostra tesi, accosteremo il precedente
quadro del Guercino a un altro molto simile di Lorenzo Lotto - comunemento noto come
Amore che incorona un teschio - che Edgar Wind presenta sorprendentemente così: "Un
dipinto particolarmente morboso di Lorenzo Lotto mostra Amor che incorona un teschio
posato su un cuscino (emblema di «dolcezza» o voluptas)":
Dobbiamo ammettere di non riuscire proprio a comprendere che cosa abbia questo
magnifico quadro di "particolarmente morboso"; pensiamo inoltre che l'illustre studioso sia
ben lontano dall'aver colto la genialità dell'inventio di Lotto. A differenza del quadro di
Guercino, questa volta il teschio non è in posizione verticale su un libro ma orizzontale,
mollemente adagiato su un cuscino sul quale lascia - esattamente come farebbe il capo di un
qualunque dormiente - un'ampia impronta stellata: sopra di esso un putto dall'espressione
tra il pensoso e l'ammiccante sostiene una corona d'alloro. Il contrasto è particolarmente
forte e tale da far riflettere: perché l'alloro - albero sacro ad Apollo e simbolo notorio di
immortalità, come d'altra parte tutte le piante che rimangono verdi in inverno - è imposto al
teschio, che è invece il rappresentante per eccellenza del suo contrario, ossia la morte? E
perché questa strana postura da vivente del teschio sul cuscino? Aggiungiamo che
123
quest'ultimo, a causa dell'assenza della mascella e della strana posizione, sembra sorriderci
beffardamente. Ancora una volta pensiamo che il ricorso all'alchimia sia l'unico a poterne
render conto in modo soddisfacente e, per dimostrarlo, ricorrereremo di nuovo ai suoi
classici. Ne L'entrata aperta al palazzo chiuso del re Ireneo Filalete, nel suo solito stile
criptico e roboante, aveva scritto:
"Al polo, si trova il cuore del Mercurio, che è un vero fuoco ove si trova il riposo del suo Signore.
Navigando su questo vasto mare, per approdare all'una e all'altra delle Indie, governa la sua corsa
con la vista della stella del nord che la nostra Calamita ti farà apparire. Il Saggio se ne rallegrerà, ma
il folle vi farà poco caso e non s'istruirà nella saggezza, quand'anche avesse visto il Polo centrale
volto all'esterno e marcato dal segno riconoscibile dell'Onnipotente."
Sembra dunque che all'uscita della prima opera le materie siano marcate da un segno che
non può evitare di imporsi agli occhi dell'operatore. Di quale segno si tratti ce lo dice, come
sempre, Sabine Stuart de Chevalier: "Aggiungetevi poi due once di salnitro e altrettante di
sale di tartaro, raffinati e incorporati assieme; agitate bene con una spatola di ferro; vedrete
apparire una stella splendente nel crogiolo…".
La conoscenza di questo segno stellato non era peraltro appannaggio esclusivo degli
alchimisti, dato che era condivisa comunemente anche dai chimici spagirici dell'epoca,
come testimonia il famoso Christofle Glaser nel suo Traité de Chymie, alla voce "Regolo
d'Antimonio con il Marte": "…e, oltre a ciò, il regolo avrà sulla superficie la figura di una
stella, che è il vero segno della perfezione."
Infine, si tratta della medesima stella disegnata sul frontespizio dell'Aureum saeculum
redivivum di Hinricus Madathanus:
Ora, anche chi non ha alcuna esperienza di operazioni metallurgiche potrà comprendere che
questa impronta stellata si presenterà a maggior ragione durante il raffreddamento nella
lingottiera, e sarà visibile nella frattura di separazione tra il cosiddetto "regolo d'antimonio"
124
e le scorie marziali sovrastanti, come una forma di interfaccia comune alle due parti. A
nostro avviso, è proprio per suggerire questo che Lotto, con tutta la genialità del grande
artista, adagia il cranio orizzontalmente sul cuscino, suggerendo l'impronta che vi
lascerebbe la testa di un qualunque dormiente: che essa abbia una forma visibilmente
stellata conferma - secondo noi in modo inequivocabile - quanto abbiamo detto. Ma la
composizione ci dice ancora qualcos'altro, ossia che la materia simboleggiata dal cranio non
è morta come sembra bensì dorme, e ciò è rafforzato dall'alloro dell'immortalità con cui il
putto - in questa accezione simbolo dello spiritus mundi - si prepara a incoronarlo. Infatti
questo bambinetto - che a livello del senso morale rappresenta senz'altro Amore, come
osserva giustamente il Wind - a livello dell'allegoria alchemica è il medesimo che vediamo,
in piedi su un banco di nuvole, intento a espletare le sue funzioni naturali, in modo invero
non troppo pudico, nella seguente figura tratta dal manoscritto della Biblioteca Vaticana
denominato Speculum veritatis, e accompagnata da questa breve leggenda: "La purgazione
della Materia e la riduzione del Generato crudo in Generatore cotto, affinché la loro urina
lavi il Mercurio":
Benché l'immagine che mostriamo non si riferisca alla stessa fase operativa di cui si tratta
nel quadro di Lotto, l'elemento incarnato dal bambino è lo stesso per entrambe: è comunque
lui - a detta dei testi alchemici - la causa anche della "resurrezione del Re" che ora giace nel
suo sepolcro, ossia l'agente operativo capace di restituirgli una funzionalità nell'opera.
Come scrive Limojon de Saint-Didier ne Il trionfo ermetico: "Il balsamo della vita è
nascosto in queste feci immonde, voi dovete lavarle con l'acqua celeste, finché non ne
avrete tolta tutta la nerezza, e allora la vostra acqua sarà animata da questa essenza ignea,
che opera tutte le meraviglie della nostra arte."
Sulla natura di quest'acqua celeste - la stessa che il bambino dell'illustrazione orina
impudicamente - Sabine Stuart de Chevalier è particolarmente esplicita:
"La vita e la salute sono contenute nello spirito universale. L'unica fomentazione è contenuta nel
mare universale; per la sola ragione che è salata, essa racchiude dei tesori, essa contiene i principi e
i germi dell'oro e dell'argento in quantità inesauribile. L'aria libera contribuisce molto a
mercurificare i minerali e i semi-minerali. Cornelio Agrippa ha nominato un soggetto nei sui scritti;
è una materia volgare che ha la virtù di attirare questo spirito così salutare. Se ne attira in
abbondanza in un momento. Questo spirito universale è tanto potente che guarisce quasi tutti i mali
125
con il suo solo vapore e odore; è nascosto sotto una forma aerea, acquosa, terrosa e salina. Lo si
attira dall'aria con una calamita; è anche contenuto nella rugiada e nell'acqua di pioggia."
Non è fuori luogo attirare anche l'attenzione su un'immagine dell'Hypnerotomachia
Poliphili , essa pure di certo relativa a questo argomento:
La sua pertinenza alchemica può esser giudicata leggendo il testo che l'accompagna, in cui
l'invenzione dell'autore anonimo tocca veramente il vertice del grottesco immaginando che
il putto orini addirittura in faccia a un sorpreso Polifilo il quale, per l'occasione, si dice
stranamente "melancochro" - parola derivata dal greco melànkrokos, "con tessuto nero, con
vele nere" - che per metonimia vale "negro": effettivamente, perché l'allegoria si attagli al
processo alchemico, la testa su cui il fanciullo orina dev'esser nera.
126
Sinceramente - sia detto senza intento polemico - non comprendiamo perché i due peraltro
bravissimi curatori dell'edizione Adelphi dell'Hypnerotomachia - e in particolare Stefano
Andreani, che addirittura dirige la collana di riedizione di testi alchemici presso la casa
editrice Mediterranee -, abbiano perso l'occasione di tener conto, nel pur monumentale
commento da loro dedicato all'opera, degli indubitabili significati alchemici presenti in
numerosi suoi passi: secondo noi non è un buon servizio reso all'intelligibilità del testo.
Tanto più che la tradizione ermeneutica in questo senso è storicamente attestata, per
esempio dalla stessa Sabine Stuart de Chevalier: "L'ingegnoso Polifilo ha fatto un grosso
volume in cui designa tutte le operazioni con tutti i dettagli; egli indica il sale dei Filosofi
sotto il nome di Polia con la quale vuole sposarsi."
Il dottor Nicolas Lemery, che da semplice chimico non aveva le preoccupazioni di
riservatezza degli alchimisti, è ancora più chiaro in merito alle convinzioni della scienza
dell'epoca:
"La pioggia e la rugiada sono impregnate dallo spirito dell'aria che le rende penetranti; e perciò noi
vediamo che esse apportano maggior profitto alle piante che annaffiano di quanto non faccia l'acqua
comune: la rugiada, soprattutto, contiene molto di questo spirito universale che è acido, perché
durante la frescura della notte è stato condensato e precipitato con l'umidità che era sparsa nell'aria."
Per chiudere questa lunga digressione e riprendere l'esame del nostro quadro, diremo che a
questo punto dell'opera pare che si ponesse, per i neofiti e comunque per i profani denominati, dagli alchimisti, con il termine spregiativo di "soffiatori" - un problema
piuttosto grave: affascinati dalla bellezza e dallo splendore metallico della "sostanza
mercuriale depurata", costoro proseguivano l'opera esclusivamente con essa, gettando via le
scorie - "foeces" ("feci") o "caput mortuum" ("testa di morto") - come qualcosa che era
ormai del tutto privo di valore. Stando agli alchimisti, sembra invece che le scorie
diseredate e sgradevoli avessero ancora una grande parte da giocare nel seguito delle
operazioni: occorreva che fossero lavorate in modo da estrarne non solo il "sale" ma anche
il "solfo marziale", in vista di un ulteriore impiego. Relativamente a questo, che veniva
considerato un punto molto segreto della pratica, ci furono autori assai "invidiosi": alcuni di
essi, forse eccedendo nell'obliquità dei loro discorsi, finirono per provocare nei creduli
profani un danno addirittura maggiore di quello cui volevano rimediare. A quanto pare ci fu
chi - prendendo l'espressione "caput mortuum" alla lettera - lavorò effettivamente su ossa di
cranii umani, e da qui sembra provenire la scoperta del fosforo, ma ci fu anche chi finì per
rendersi ridicolo pasticciando con un materiale assai meno nobile del precedente, forse
soggiogato dall'autorità emanante dal supposto autore de L'arte trasmutatoria, ossia
nientemeno che papa Giovanni XXII: "La polvere di escremento umano disseccata al sole,
poi lavata nell'acqua, rimasta sul fondo del vaso perché non dissolta, è un buon elisir che
tinge il piombo in oro."
Per chiarire fino a che punto inimmaginabile frasi come la precedente potessero risultare
fuorvianti per i profani, vale la pena aprire un inciso onde narrare brevemente l'esperienza
letale e del tutto volontaria che coinvolse, verso la fine del '700, il supposto autore de Il
Gran Libro della Natura, così come ce la riferisce Eugène Canseliet nel suo L'alchimia
spiegata sui suoi testi classici:
"L'illuminismo venuto dalla Germania e che regnava a quell'epoca nelle assemblee massoniche, può
fornire molto bene la ragione dell'impresa pericolosa e filosoficamente irragionevole. In ogni caso è
127
così che Touzay, alias Duchanteau, dell'importante loggia Les amis Réunis, cercò di concentrare, in
seno al proprio liquido escremenziale, quel sale che pensava fosse l'armoniaco dei vecchi
alchimisti, e che potesse diventare, per mezzo di questo riprovevole procedimento, la Medicina
universale. Questo assorbendo, senza discontinuità e con l'esclusione di qualunque altro nutrimento,
la sola urina delle sue successive emissioni. Cosa poteva avvenire, se non che, durante lo sviluppo
della sua tecnica pericolosa, la morte sorprendesse l'imprudente filosofo […] ?"
Tuttavia, altri si incaricarono di dichiarare in modo esplicito la corretta interpretazione di
questo genere di metafore perniciose. Così Braccesco: "La loppa, cioè la calce del ferro, la
quale si genera nel fuoco, et dalli fabri, è gettata per le vie, et ne sterquilini: ella è la
vilissima pietra de filosofi, et ha similitudine di pietra, et non è pietra, et sola ha tutte le
cose, et tutte le proprietà, lequali dicano li filosofi della sua pietra." Così anche Sabine
Stuart de Chevalier, nell'opera che abbiamo citato più sopra, la quale insistette moltissimo
su questo punto: "Abbiamo già parlato molte volte delle scorie che galleggiano durante la
confezione del regolo, e raccomandiamo ancora di averne grande cura; fatele bollire
nell'acqua piovana, che filtrerete e farete evaporare per ritirarne un sale prezioso; dopo aver
così liscivato queste scorie, le farete calcinare in un crogiolo, aggiungendovi qualche
pezzetto di zolfo comune; esse diverranno rosse come del cinabro...".
Riteniamo ormai di avere materiale a sufficienza per decifrare l'allegoria contenuta nel
quadro di Guercino: il grande cranio posato in primo piano sul frammento di muratura è il
"caput mortuum" che l'artista, al pari degli alchimisti del suo tempo, ci invita a non
disprezzare. Che si tratti delle ossa di Oreste costituisce allora un'indicazione in più in
quanto il nome Oréstes (Oreste), derivando da òros (monte), significa ovviamente
"montanaro", "colui che abita in un luogo alto", e ciò identifica la posizione che dopo la
prima opera le scorie assumono rispetto al lingotto sottostante. L'albero metà verde e metà
secco che si vede nella parte superiore del dipinto allude proprio al fatto che la morte del
caput è soltanto apparente, mentre una vita ora solo latente aspetta di esservi risvegliata: di
questo tema, vediamo una versione molto ben concepita in un altro quadro di Lotto,
conosciuto sotto il nome eccessivamente anodino di Allegoria:
128
Un'altra immagine che merita di venire accostata alle precedenti in quanto fa spuntare,
molto eloquentemente, l'albero verde direttamente dai genitali del Re morente, si può
trovare nei Miscellanea d'alchimia:
Caritatevolmente, Guercino ci mostra persino quale sia la reale apparenza fisica del "caput"
durante le operazioni alchemiche, nonché cosa si possa trarre da un suo accorto utilizzo: la
massa rocciosa e nerastra fronteggia il teschio perché lo rispecchia: infatti ha lo stesso
medesimo aspetto delle scorie di fusione e da essa, quasi per un'illusione ottica, sembrano
emergere i due strani personaggi. Ciò vuol dire, secondo noi, che ne provengono, e
nell'ordine preciso in cui li elenca il brano di Stuart de Chevalier: prima il "sale prezioso"
bianco come la neve (il personaggio più vicino a noi) poi, dopo la calcinazione al forno da
riverbero, la sabbia "rossa come cinabro". Inoltre, il fatto che l'abito rosso del secondo
personaggio mostri dei risvolti bianchi, significa secondo noi - se non sbagliamo - che il
"sale prezioso" non deve essere completamente estratto dal "caput mortuum", dimodoché
un poco ne resti corporificato con la "sabbia rossa".
Di questi due stessi personaggi, emergenti dal cadavere del Re, abbiamo una
rappresentazione pressoché identica nel Chymisch Kleinod di Oswald Crollius:
129
Per quanto riguarda l'ora antelucana in cui avviene la scena del quadro - espressa, come
abbiamo detto all'inizio, dalla stasi degli animali diurni e dall'attività di quelli notturni -,
essa ha il preciso significato di suggerire quella precauzione climatico-astronomica che
doveva necessariamente accompagnare le manipolazioni alchemiche e che differenzia
radicalmente l'alchimia dalla chimica che le era contemporanea: Guercino, evocando il
momento del giorno in cui la lavorazione del "caput" deve compiersi, si mostra così non
meno caritatevole di Pierre Jean Fabre, Dottore alla Facoltà di Medicina dell'Università di
Montpellier, nel suo Compendio dei segreti chimici: "io non intendo il vetriolo comune e
ordinario, ma quello dei Filosofi, che si trova al levar del Sole, sparso molto copiosamente e
più che abbondantemente su tutta la terra."
Il lungo periplo del senso allegorico ci mette ora in grado di affrontare in modo pertinente
quello morale. Secondo noi questo si dispiega lungo due assi, a seconda che si prenda come
guida uno dei due primi sensi.
Rispetto al senso letterale - quello di Lica, del fabbro e delle ossa di Oreste - esso si
sostanzia nell'idea di carità: venire iniziati al mistero del "caput mortuum", delle scorie,
significava che, nel mentre si era oggetto di aiuto, occorreva comprendere che al mondo
non v'è nulla di così miserabile che, ricevendo un aiuto, non possa esse nobilitato aldilà di
ogni aspettativa: proprio come dei miseri resti umani rivelano esser le spoglie preziose di un
eroe mitico.
Rispetto al senso allegorico invece - cioè a quello alchemico - esso indica un'altra virtù: la
modestia. In questo contesto, infatti, sono i due materiali nobili che osservano la materia
vile da cui, essendone estratti, provengono. E non possiamo fare a meno di suggerire che
questo deve aver avuto per il Guercino - uomo di grande dirittura morale - anche una
portata più personale: secondo noi egli, a causa delle proprie umili origini, potrebbe aver
visto se stesso nel "caput mortuum", materia vile da cui però si originavano opere sublimi.
Così, se noi leghiamo insieme i due aspetti del senso morale, ne ricaviamo la corretta
lettura, quella di modesta caritas: infatti, la vera carità non si proclama ai quattro venti, non
fa mostra di sé ma frutta una vera soddisfazione esercitandosi nell'ombra, in modo non
apparente: secondo noi, è proprio quella che lo stesso Guercino pensava di offrire,
nell'enigma della sua tela, all'interprete abbastanza ingegnoso da meritarla.
Ci resta dunque solo da chiarire il senso anagogico, ossia quello che "per le cose significate
significa de le superne cose de l'etternal gloria". Dobbiamo ora considerare che, all'epoca
del Guercino, l'alchimia medievale era stata già da tempo incorporata nell'ermetismo
neoplatonico di matrice ficiniana come uno dei suoi aspetti, per così dire, sperimentali,
rinnovando così quell'altro incontro di cui parla Eliade e che aveva avuto luogo molto
tempo prima:
"Sebbene il problema dell'origine storica dell'alchimia alessandrina non sia ancora risolto, possiamo
spiegare la repentina apparizione dei testi alchemici dell'era cristiana come il risultato dell'incontro
di una corrente esoterica viva soprattutto tra le classi colte e rappresentata dai Misteri, dal
neopitagorismo e dal neoorfismo, dall'astrologia, dalle «verità orientali rivelate», dallo gnosticismo
ecc., con le tradizioni «popolari», custodi dei segreti di mestiere, delle magie e delle tecniche più
arcaiche."
Allo stesso modo che agli antichi iniziati ai Misteri, anche a quelli rinascimentali non
doveva essere sfuggito - come nota ancora Eliade - l'intrinseco rapporto tra questi e
l'alchimia:
130
"Sappiamo che l'iniziazione ai Misteri consisteva, nella sua essenza, nel partecipare alla passione,
alla morte e alla resurrezione di un dio. Noi ignoriamo le modalità di questa partecipazione, ma si
può congetturare che le sofferenze, la morte e la resurrezione del dio, conosciute dal neofita nella
forma del mito, della storia esemplare, gli venissero comunicate, durante l'iniziazione, in maniera
«sperimentale». Il senso e la finalità dei Misteri erano la trasmutazione dell'uomo: attraverso
l'esperienza della morte e della resurrezione iniziatiche, il mito mutava di regime ontologico
(diveniva «immortale»). Ora, lo scenario drammatico delle «sofferenze», della «morte» e della
«resurrezione» della Materia è attestato fin dall'inizio nella letteratura alchemica greco-egizia."
Si trattava insomma di far "sperimentare" al neofita la "realtà" della palingenesi: e proprio
questo riteniamo sia il senso anagogico presente nel quadro di Guercino. Il che ci è già
significato dall'albero in parte verde e in parte secco del quale Wind conferma il significato
palingenetico:
"Un germoglio nuovo che nasce da un albero secco […] era una formula comune per significare
«rinascita», adottata anche nella medaglia del Laurana per Renato d'Angiò […], con allusione al
nome, Renatus. Su un cammeo rinascimentale che si trova alla Bibliothèque Nationale […] ci si è
serviti dello stesso motivo per simboleggiare la rinascita religiosa."
Che l'esoterismo rinascimentale sia completamente dominato dall'idea di una ciclicità del
tempo e di un ritorno incessante delle anime ai corpi, salvo nel caso di una liberazione
eroica e iniziatica dalla tirannia di Crono, è abbondantemente attestato. Se non è del tutto
certo che il cardinale Bessarione accettasse la dottrina pagana della metempsicosi,
sappiamo che il suo amico e maestro Gemisto Pletone la condivideva, così come Marsilio
Ficino, Beroalde de Verville, Lorenzo de' Medici, Renato d'Angiò e tanti altri. E se è vero
che ai tempi del Guercino le accademie erano da tempo estinte, è altrettanto vero che
Venezia era diventata il centro di resistenza dell'ermetismo rinascimentale: segnatamente e
soprattutto con Francesco Giorgio Veneto, il patrizio veneziano Zorzi, frate minore
dell'Osservanza, teologo, filosofo neoplatonico, ermetizzante e cabbalista, uomo assai noto
ed autorevole - significativamente sospettato dalle gerarchie ecclesiastiche fino a ricevere
una scomunica, poi revocata - la cui influenza si estese lontano nello spazio e nel tempo,
come spiega dettagliatamente il massimo esperto attuale del suo pensiero, Cesare Vasoli:
"Più tardi le sue dottrine, affidate al De harmonia mundi ed ai Problemata e sostenute da fedeli
discepoli, come Arcangelo Pozzi da Borgonuovo e Serafino Cumirano, ebbero un'indiscutibile
fortuna testimoniata non solo dalle citazioni di Giulio Camillo Delminio e del Giambullari, ma
anche della singolare affinità di certi loro temi con gli atteggiamenti di alcuni tipici esponenti
dell'«eresia» cinquecentesca, come Camillo Renato e il Curione, dalle esplicite dichiarazioni di
Francesco Pucci, dai frequenti, esaltanti riferimenti di Guillaume Postel che molto contribuì a
diffondere la fama di Francesco Giorgio negli ambienti e nei gruppi tendenzialmente settari nei
quali si muoveva. Né è certo un caso che uno dei suoi più noti seguaci, Guy Le Fèvre de La
Boderie, ne traducesse l'opera maggiore, apparsa a Parigi nel 1579, insieme alla versione francese
dello Heptaplus pichiano. D'altro canto l'influenza del De harmonia mundi e dei Problemata doveva
essere alquanto estesa e profonda nella cultura filosofico-religiosa del tardo Cinquecento, se il
domenicano (ed ebreo convertito) Sisto da Siena svolse, nella sua Bibliotheca Sancta, una minuta
confutazione del I libro dei Problemata, e se lo stesso Bellarmino attaccò esplicitamente, e in tono
molto drastico, il loro autore. E tale supposizione mi sembra anche confermata dal ricorrere del
nome e dei testi di Francesco Giorgio anche in ambienti culturali non italiani, come, per esempio, il
circolo di John Dee e, poi, di Robert Fludd (di cui basterà qui ricordare le celebri idee sull'armonia
musicale dell'universo), o, per passare in Francia, i gruppi religiosi in cui operarono il predicatore
131
francescano «leghista» François Fueuardent, il celestino Pierre Crespet, Blaise de Vigenère (lo
scolaro di Nicolas Le Fèvre de La Boderie, influenzato dallo Zorzi nell'elaborazione del Traité des
prières et oraisons), Johannes Benedicti, Jean Pierre Camus, il collaboratore di Francesco di Sales,
o, ancora, Jean Baptiste Morin, il corrispondente di Cartesio e di P. Mersenne, autore
dell'Astrologicorum domorum cabbala detecta. Nondimeno, la prova più convincente della lunga
fortuna dello Zorzi, a quasi un secolo dalla sua morte, credo sia costituita dalla nuova edizione dei
Problemata, apparsa a Parigi nel 1622, ai tempi, insomma, della famigerata «invasione» dei
Rosacroce. Com'è noto, proprio questa ristampa provocò, l'anno seguente, la recisa confutazione di
un frate dei Minimi, ancora ignoto, ma destinato a diventare ben presto il grande «segretario» della
nuova cultura scientifica, colui che, tra Galileo, Cartesio, Gassendi e Hobbes, tenne le fila
dell'impetuoso rinnovamento del «grand siècle»: P. Marin Mersenne. Con grande intuito e acuta
comprensione egli vide, infatti, nelle dottrine del frate veneziano l'espressione più compiuta e più
tipica di tutte quelle concezioni esoteriche, iniziatiche, magiche ed ermetizzanti che, secondo la sua
rigorosa mentalità di scienziato e di uomo di Chiesa, minacciavano insieme la sana e chiara
ortodossia e lo sviluppo lucido e preciso del sapere metodico e dei suoi fondamenti matematici. Ma
neppure la battagliera polemica di Padre Marin riuscì a cancellare il singolare fascino di queste
dottrine e di queste opere destinate a continuare a sopravvivere per tutto il secolo. Poi le pagine
dedicate al francescano veneziano da storici ed eruditi, tra i quali basterà ricordare il Morophius, il
Warton ed il Brucker testimoniano che il ricordo di Francesco Giorgio non era affatto spento nel
tardo Seicento e nel Settecento, come mostra, ancora, il medaglione scritto da Giovanni degli
Agostini nelle Notizie istorico-critiche intorno alla vita degli scrittori veneziani, dal quale dipende
anche la breve notizia fornita dal Tiraboschi."
Il lungo brano sopra riportato era necessario per render conto dell'incredibile influenza di
un autore in seguito pressoché dimenticato. Le citazioni seguenti ci faranno invece
comprendere fino a che punto lo Zorzi aderisse alla dottrina della palingenesi:
"Per Francesco Giorgio simili considerazioni possono persino spiegare le antiche credenze nella
metempsicosi sostenute da Pitagora e Platone; e, almeno in parte, giustificano chi ha creduto nella
possibile reincarnazione dell'anima in corpi vegetali o animali. Ricorda che alcuni platonici
(Carneade, Senocrate, Arcesilao) hanno interpretato la metempsicosi «poetico more», mentre altri
(Plotino, Giamblico e Porfirio, Proclo e Siriano) l'hanno addirittura sottaciuta, forse perché ne
avevano compreso la più intima e riposta verità. E, invero, si tratta piuttosto di un'immagine poetica,
usata dai filosofi per indicare la decadenza dell'anima peccatrice, divenuta «animale» e, per così
dire, «imbestialita». Ma come può discendere al più basso livello della vita cosmica, l'uomo può
ascendere con la sua anima sino alla divinità, contenere in sé ed apprendere tutto; i cieli e i loro
segni, le intelligenze angeliche, le idee eterne, Dio sommo di cui il suo animo riesce a cogliere i
vestigi e l'immagine riflessa nell'universo."
Tuttavia, vi è un'accezione più specifica in cui la palingenesi interviene nell'opera dello
Zorzi:
"La «resurrectio», argomento essenziale del settimo «tonus», è dunque, il punto focale, l'ultima
conclusione escatologica verso la quale tende la spiritualità di Francesco Giorgio, nutrito delle tante,
diverse e contrastanti ispirazioni mistiche del suo tempo e della sua cultura. Anch'egli - come il suo
maestro Ficino - sa che condizione per la vita eterna è la giusta tendenza dell'anima verso il suo vero
bene, Dio, e, dunque, il desiderio di quella beatitudine ultraterrena che consiste nella
contemplazione e nel godimento illimitato di Dio. La vita futura è, anzi, in un certo senso, la
continuazione e perfezione della vita attuale, perché essa sviluppa e completa la scelta che l'anima
ha già compiuto quando ha saputo vincere il peso della materia e della carne e mirare soltanto al suo
principio e alla sua superiore natura. Deposta finalmente la «perstrepens et dissonans materia» che
di per sé tende alla dissoluzione, «opera consummatissima» di Dio, raggiunge la sua ultima
132
armonia, perché il suo stesso corpo - lo insegnano il mitico Enoch e lo Pseudo-Taddeo - si trasforma
in sostanza spirituale e immortale. Ora, questa trasmutazione è concessa in vita solo a pochissimi."
Ora, quest'ultimo punto - della palingenesi in vitam - è indubbiamente di derivazione
alchemica in quanto sembra essere l'obiettivo autentico che muoveva gli sforzi degli
alchimisti. Vale la pena di illustrare quanto generalmente ciò fosse considerato possibile in particolare nella Venezia dei tempi appena successivi a quelli del Guercino - riportando
alcuni stralci da un libello anonimo stampato proprio nella città, nel 1697, e intitolato La
critica della morte, overo l'apologia della vita e le ricette dell'arte ch'accrescono i languori
della natura, in cui si narrano le vicende veneziane di un tal Federico Gualdi, da voce
pubblica considerato in possesso della Crisopea, vicende che sembrano anticipare il cliché
di quelle, ben più clamorose, del cosiddetto Conte di St. Germain nel secolo seguente.
Questo Gualdi sembra sia stato in contatto epistolare con il Marchese Francesco Maria
Santinelli autore - sotto lo pseudonimo di Fra Marcantonio Crassellame Chinese, del
famoso trattato alchemico Lux obnubilata suapte natura refulgens, pubblicato anch'esso a
Venezia nel 1666:
"Io ero ancor giovinetto, quando l'Anno 1653 cominciai a conoscere il Signor FEDERICO
GUALDI, ma la debolezza della mia età non mi permetteva di poter per anche conoscere la
chiarezza del suo ingegno, e la profondità della sua scienza, e della sua dottrina. Non so né meno
dire se all'ora fosse poco, o molto tempo ch'egli soggiornasse nella nostra Città, ma solo mi ricordo,
ch'egli aveva l'effigie, e le apparenze tutte d'un Uomo d'età di 40 Anni in circa; perche sempre anche
tale, senza fare alcuna imaginabile mutazione, si è conservato fino all'Anno 1680 ch'io fui chiamato
in Napoli da alcuni miei affari. […] Qualità così rare dunque non poterono restare occulte, e perciò
passarono alla cognizione di molti Uomini dotti d'Italia, di molti Signori, de' quali alcuni che
capitavano in Venezia, pieni della di lui Fama, nell'inchiesta delle cose più cospicue della Città,
procuravano precisamente di vedere il Gualdi, e di ottenere la sua amicizia coltivandola poi per via
di lettere; e ci sono stati alcuni venuti a posta a trattenersi qui, per aver la di lui continua
conversazione, pregiandosi del titolo di suoi Discepoli, particolarmente doppo che si era sparso il
concetto di tener egli il Tesoro Ermetico, per esser stato veduto un suo Ritratto da molti Intendenti
della Pittura asserito costantemente per opera del Gran Tiziano. Era molto tempo ch'egli aveva
piantato Casa notabilmente addobbata, & in specie di buone pitture unite nella stanza migliore di
essa, dietro la porta della quale teneva appeso il detto Ritratto. Andati un giorno alcuni a vedere le
belle pitture, e fra di essi un Dipingitore ben pratico, chiusasi a caso quella parte di porta, dov'era
appoggiato il ritratto, l'osservò il Dipingitore, ad alta voce in atto di maraviglia gridò, questa è
mano di Tiziano! Mostrò di ridersene il Gualdi e disse, che se ciò fosse stato egli avrebbe avuto più
di 200 Anni, soggiungendo, che veramente ne aveva 86, e ciò fu l'Anno 1677. Non si acquetò per
questo il Dipingitore, mà sempre asseverantemente affermava, che l'opera era di Tiziano. Intanto il
Gualdi confessò 86 Anni, quando non ne mostrava più di 40 e faceva delle operazioni da un Uomo,
che si ritrovi in quel fiore della sua età. […] Lo deve bensì essere il nostro Gualdi (meglio diressimo
il nostro Eroe) e ne diede li più evidenti contrasegni quando finalmente il giorno 22 Maggio
dell'Anno 1682 si assentò da questa Città, senza averne avuto altri motivi, che quelli gli vennero
forse suggeriti dalla pubblicata notizia della sua Virtù. Aveva egli fatto anticipatamente Procura
generale ad un suo ben fortunato Servitore, con la quale averebbe potuto disponere d'ogni suo
effetto; all'improvviso poi verso la sera del sudetto giorno, fattosi poner in un picciolo Baullo alcune
poche Biancarie, e Vestiti, come se avesse dovuto portarsi a diporto in un luogo di Villa, ch'egli
godeva verso Trevigi, promise il suo ritorno frà pochi giorni, e rifiutata la compagnia del Servitore
istesso, gli raccomandò solamente la casa, nella quale lasciava mobili, & effetti preziosi, e
considerabili; e Nonagenario, come si era confessato; ma forse coetaneo di qualche secolo; solo, e
senza alcun'altra assistenza, partì, ò per dir meglio sparì. Aspettarono molti giorni il Servitore, e le
Serve di sua Casa il promesso ritorno, mà non vedendolo, né ricevendo sue lettere, finalmente
compresero, che il suo viaggio non era terminato nel diporto della Villa, dove seppero che né anche
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era comparso, onde complito con parte de' di lui effetti agli ordini, che aveva lasciati, il rimanente è
bastato, e basta per mantener essi lontani dalle angustie della servitù."
Singolarmente, laddove un qualunque uomo d'oggi troverebbe mille logiche spiegazioni
alternative per una tale vicenda - tutte ruotanti comunque intorno al concetto d'impostura sembra che quella che appariva invece come la più plausibile a un uomo del '600 implicava
la possibilità di un indefinito prolungamento della vita umana. Di come fossero
esteriormente intese vicende come la precedente si conservano comunque molte
testimonianze, mentre non ve ne sono quasi relativamente alla dimensione interiore che una
tale credenza poteva assumere. Una delle rarissime su questo punto ci viene da un
documento autografo - messo in luce da Clara Miccinelli - del noto scienziato e alchimista
del settecento napoletano, Raimondo di Sangro Principe di Sansevero, che - pur essendo
posteriore all'epoca che stiamo studiando - attesta senz'altro il perdurare di una tradizione
più antica. Il suo contenuto - stettamente consonante alle credenze dello Zorzi - si può
leggere direttamente dal manoscritto riprodotto nella figura seguente:
"La polvere violacea - recita il documento - emana energia sconosciuta e potente. Quante
volte la tocco, tremito m'assale interiore. Sono in un altro stato di coscienza. Un solo
granello di senape di Saturno contiene Energia di Mutazione Totale."
Non dovrebbe esserci bisogno di ripetere che ciò non prova nulla né riguardo alla natura né
riguardo all'obiettività di tale trasmutazione, che potrebbe essere benissimo il risultato di
una qualche forma di autosuggestione o persino una beffa giocata dal Principe ai posteri.
Tuttavia, nel cercare di comprendere questo mondo intellettuale così lontano dal nostro
bisognerebbe essere più che prudenti, cercando di evitare tanto il facile scetticismo quanto
la creduloneria "occultistica", certamente favoriti dalla deprecabile scarsità di studi
attendibili sulle teorie psicologiche in auge all'epoca: non sappiamo proprio che cosa gli
ermetisti intendessero realmente quando parlavano di palingenesi, ma certo si trattava di un
fatto eminentemente spirituale. Che questo potesse venir indotto da una serie di operazioni
manuali eseguite su un supporto materiale diverso dallo stesso corpo umano lascia come
134
minimo intendere, alla base delle loro concezioni teoriche, un sorprendente - e quanto mai
moderno - monismo fisicalista. Come è noto, Sansevero morì di saturnismo, ossia
avvelenamento da piombo, contratto nel corso dei suoi esperimenti di laboratorio, che
peraltro si diagnosticò da se stesso, come si può leggere in un'altra lettera autografa:
"Non tale si può dire di me, ch'ormai mi preparo al trapassamento del corpo; vomito, fecce nerastre,
respiro d'affanno in ispecie la notte, Grambi allo Stomaco, contrattura della Mano sinistra. Le
Gingive sono di color turchino. Inescusabilmente mi sento obbligato a non intralciare lo
Svolgimento del mio Spirito. Saturno è intieramente a carico di parte del mio Corpo; ma il mio
Spirito è Aureo."
Si vede bene che neppure l'imminenza di una morte dolorosa e prematura riuscì a scuotere
nel Principe la convinzione di aver riuscito l'Opera Ermetica, e si tratta dello stesso uomo
che, esaminando un preteso "lume eterno" ritrovato a Monaco nel 1753, dimostrò
brillantemente - con una dissertazione che è ancor oggi un modello di ragionamento
scientifico - trattarsi di un semplice bastoncino di fosforo immerso in acqua che, per
evaporazione del liquido, si era acceso. Tuttavia, come abbiamo detto, quanto precede non
prova nulla se non la più grande consonanza tra l'ermetismo dello Zorzi e lo scopo della
cosiddetta arte regia. E infatti:
"Francesco Giorgio, che usa con la massima disinvoltura linguaggio e analogie alchimistiche, crede
che proprio per mezzo di questa unione l'uomo possa trasformarsi in una natura superiore, liberarsi
dalla propria animalità, vincere definitivamente le potenze demoniache, diventare, insomma, «oro
purissimo» invece che metallo ancora informe ed impuro. Come insegnano le «verità» ermetiche e
cabbalistiche, questa «trasmutazione» è il vero destino dell'uomo al quale cospirano anche le forme
di «regeneratio» penitenziale e sacramentale che Dio ha istituito proprio per un tale fine."
Il senso anagogico non evoca dunque semplicemente la morte, come vorrebbe Panofsky,
bensì la morte e rinascita dell'ideale palingenetico alchemico-ermetico. Se, come abbiamo
visto, lo Zorzi vantava una notorietà addirittura internazionale, quale non deve esserne stata
quella che possedeva nella sua Venezia, è dunque perfettamente ammissibile l'esistenza, in
quella città e all'epoca del Guercino, di una o più cerchie iniziatiche in cui la tradizione
alchemica di Giovanni Augusto Pantheus, autore dell'Ars transmutationis metallicae e di
altre opere sul medesimo soggetto, di Giovanni Aurelio Augurello e del suo poema
Crisopeia, e del volgarizzamento di Geber da parte del Braccesco che abbiamo noi stessi
citato - tutte opere stampate proprio in Venezia tra il 1515 e il 1544 - confluiva e si fondeva
con la letteratura "arcadica" e con l'eredità dell'ermetismo fiorentino, romano e napoletano
ivi veicolato e mantenuto in vita da fra' Zorzi e dai suoi seguaci. Tendiamo cioè ad esser
persuasi che l'anno che il Guercino trascorse a Venezia non deve essergli servito solo a
studiare la pittura di Tiziano e Bassano, ma anche a prendere un contatto non superficiale
con la locale cultura. E pensiamo che non sia un caso che il quadro che stiamo studiando sia
stato dipinto - a detta degli storici dell'arte - immediatamente dopo questo viaggio.
Così il cerchio ermeneutico dantesco si chiude: partiti da una letteralità insospettata ma
strettamente coerente con gli elementi principali dell'opera, ne abbiamo seguito gli sviluppi
attraverso un'allegoria operativa propria dell'alchimia - tale da consentirci di render conto di
numerosi dettagli pittorici mai spiegati prima - poi attraverso un senso morale
rigorosamente dedotto dai due primi, fino all'anagogia ermetica con cui il serpente
Ourobóros dell'interpretazione torna a mordere la coda della propria letteralità.
Non abbiamo trovato, nel misterioso quadro di Giovanni Francesco Barbieri, né segreti
sconvolgenti né rivelazioni apocalittiche, bensì - seguendo il metodo ermeneutico canonico
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della cultura del suo tempo - nulla più di quel che essa consentiva che egli vi mettesse, ma
in ogni caso molto di più di quel che la moderna critica d'arte ha mai saputo vedervi.
2. Apollo che scortica Marsia
Non possiamo chiudere l'esame di Et in Arcadia Ego senza prendere in considerazione un
altro dipinto, eseguito dal Guercino nello stesso anno del primo e ad esso evidentemente
legato dal fatto che vi si ritrovano - ora respinti sullo sfondo e ancor più apparentemente
emergenti dalla roccia - gli stessi due personaggi: si tratta dell'Apollo che scortica Marsia,
commissionato all'artista dall'allora Granduca di Toscana Cosimo II de' Medici. Il quadro,
che misura cm. 185,5 x 200, è oggi alla Galleria Palatina di Palazzo Pitti in Firenze.
Questa parziale sovrapposizione è stata spiegata in vari modi. L'ipotesi fatta da alcuni
storici dell'arte è che Et in Arcadia Ego in origine non fosse altro che un bozzetto per le
figure dei due "pastori", poi riciclato in un dipinto compiuto per essere a sua volta
vendibile. Secondo Mahon (1968) si tratterebbe invece di un dipinto autonomo, eseguito
successivamente, ma comunque collegato a quello che stiamo studiando ora.
La nostra tesi interpretativa suggerisce invece che Et in Arcadia Ego sia stato eseguito
come un lavoro a sé stante, dotato di una propria referenza letterale, quindi di unità
concettuale e formale, e che una sua cellula, concepita in modo particolarmente felice, sia
stata ripetuta nell'Apollo che scortica Marsia - dipinto dunque subito dopo - in ragione del
fatto che anch'esso doveva presentare un significato alchemico. Infatti, se si riflette un
momento, ci si accorge che il passaggio delle due figure emergenti dalla roccia dal primo al
secondo dipinto implica uno svincolamento dal senso letterale: il fatto che il riferimento
all'Arcadia sia lasciato cadere vuol dire che non si tratta più della storia di Lica, e che esse
conservano solo il loro senso alchemico, ormai sottomesso alla nuova letteralità della favola
di Marsia.
Questo ci mette di fronte a un problema supplementare: se la nostra tesi interpretativa è
vera, dovrà esserlo a maggior ragione per questo secondo dipinto, in particolare riguardo al
136
contenuto alchemico dell'allegoria, che dovrà emergere in modo assolutamente non
ambiguo. Certamente - e lo premettiamo a scanso di equivoci - non è il caso di vedere
l'alchimia dappertutto, nemmeno nella produzione artistica del periodo rinascimentale, e
questo è particolarmente vero per il soggetto di questo quadro.
Come è noto, il tema dello scorticamento di Marsia è uno dei più frequentati del
Rinascimento, e molto più di quel che appare, se si considera che i numerosissimi "martirii
di S. Bartolomeo" non ne costituiscono altro che la versione ecclesiastica, come risulta
chiaro da una lettera di Michelangelo a Vittoria Colonna del 1538, menzionata dal Wind: "I
principi, dichiarava, preferirebbero vedere Ercole che brucia sulla pira funebre invece di S.
Lorenzo che arrostisce sulla graticola, e alla vista dell'«Apostolo scorticato» preferirebbero
quella di «Marsia senza pelle»."
Si può escludere con certezza che ogni tela che rappresenta tale soggetto possieda ipso
facto un significato alchemico. Per esempio, concordiamo assolutamente con Edgar Wind
quando esamina un Apollo e Marsia, affrescato da Raffaello nella Stanza della Segnatura,
non trovandovi un solo atomo di alchimia. Secondo lui: "La gara musicale fra Marsia e
Apollo riguardava quindi le forze rispettive dell'oscurità dionisiaca e della chiarezza
apollinea, e finì con lo Scorticamento di Marsia perché lo scorticamento era esso stesso un
rito dionisiaco, una tragica ordalia di purificazione mediante la quale la bruttezza dell'uomo
esterno veniva lacerata per rivelare la bellezza del suo io interno."
Ripetiamo che, pur pensando che le implicazioni alchemiche in molti quadri del
Rinascimento siano radicalmente sottovalutate dalla storiografia e dalla critica dell'arte,
secondo noi proprio in ragione dell' intrinseca, estrema difficoltà di questo tipo di letteratura
e di iconografia, allo stesso modo mettiamo in guardia dall'abuso che implicherebbe una
generalizzazione indiscriminata di tale lettura. Anche nel Rinascimento, per quanto diffusa
e coltivata, l'alchimia era ben lontana dall'essere accessibile a tutti. Secondo noi, la prima
cosa da fare perché sia consentito ipotizzare un significato di questo tipo in un quadro è
vedere se per caso esso contenga particolari incongrui o strani, inspiegabili di primo acchito
o addirittura apparentemente contraddittori con il soggetto raffigurato e, comunque, tali da
domandare un ricorso alla cosiddetta Arte Regia.
Vale ora la pena di spendere qualche parola sul committente del quadro dato che, per i
Medici, l'alchimia, se non il mestiere, fu senz'altro l'hobby di famiglia. Ecco cosa dice Mino
Gabriele nella sua dotta prefazione al poema di Antonio Allegretti De la trasmutatione de'
metalli:
"Un posto d'onore, tra coloro che nella Firenze del '500 si impegnarono operosamente nell'arte
ermetica, spetta ad alcuni membri della famiglia Medici. Già Cosimo il Vecchio si era rivolto con
profondo interesse alla filosofia del Corpus Hermeticum, e sembra che scrivesse anche un libro di
crisopea, ma furono Cosimo I ed in particolar modo Francesco I che si dedicarono ad una sollecita
sperimentazione spagirica. Del lavoro del primo ci rimane un manoscritto, compilato dal suo
segretario Bartolomeo Concino tra il 1561 e il 1565, dove si parla della tempra per «corsalotti», di
infusioni, di congelazione del mercurio, di fabbricazione dell'olio di vetriolo ed altre simili e varie
ricette concernenti la maiolica, i metalli, le pietre dure. Nei laboratori di Francesco I, diretti
principalmente dal Buontalenti, vennero conseguiti «notevolissimi risultati ». Si riuscì a fondere il
cristallo di montagna, si scoprì il segreto di una porcellana artificiale, si sviluppò la specialità del
commesso delle pietre dure. Assai operò Don Antonio, il figlio di Bianca Capello che ci ha lasciato
dei poderosi volumi intitolati Segreti sperimentati dall'Ill.mo D. Antonio de Medici nella sua
fonderia del Casino, e Apparato della Fonderia dell'Ill.mo et Ecc.mo Don Antonio Medici. Nel
quale si contiene tutta la arte Spagirica di Teofrasto Paracelso, e sue medicine. Et altri segreti
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bellissimi, nei quali si trovano ricette di medicamenti per ferite, sciatiche, catarri, come per la
preparazione degli inchiostri o la lavorazione di pietre preziose e minerali, fino alla cura per
scacciare i pidocchi dal capo: scritti che in sostanza non oltrepassano il limite della spagiria e della
ricerca chimico-metallurgica. Don Antonio, che Inghirami considera «amantissimo degli studi
d'Alchimia», cercò invano di venire a conoscenza del «segreto del lapis philosophorum» da Antonio
Neri, «religiosissimo sacerdote e dottissimo alchimista» che visse in povertà e morì a Firenze nel
1614, il quale asseriva di aver trovato il modo di ottenere la «pietra dei filosofi». […] Enigmatico
emblema architettonico-figurativo del pensiero di Francesco I rimane lo Studiolo in Palazzo
Vecchio, nel quale l'apparente veste manierista dell'allegoria mitologica meriterebbe una rilettura
più attenta ed approfondita, delle possibili implicazioni ermetiche, di quanto non sia stato finora
fatto. La composita iconografia del neopaganesimo rinascimentale costituirà infatti, presso gli
alchimisti del '500 e dei secoli successivi una precisa forma lessicografica."
La Bianca Capello menzionata nel brano precedente è la bellissima e ribelle gentildonna
veneziana che fu per lungo tempo amante e poi ultima moglie di Francesco I: il figlio di lei
Antonio fu dunque contemporaneo del nostro Cosimo II, figlio invece del fratello di
Francesco I, Ferdinando, che fu a sua volta Granduca dopo la morte di costui. Cosimo II uomo pacifico, amante delle scienze e universalmente ricordato per la ferma protezione che
accordò a Galileo Galilei dalle sgradevoli attenzioni di Santa Romana Chiesa - era dunque
cugino di Don Antonio de' Medici e, secondo noi, come lui coltivava - seppur più
discretamente - l'arte che aveva trattenuto tanto a lungo lo zio nel suo famoso "studiolo", il
cui interno ci è mostrato dal quadro del pittore Jan Van der Straet, detto Stradanus,
conservato a Palazzo Vecchio, in Firenze:
Che un uomo come Cosimo II - fervente difensore delle scienze positive come suo padre possa essersi interessato alla cosiddetta "scienza di Ermete" non deve stupire: all'interno
della conoscenza dell'epoca i confini accettati tra razionalità e irrazionalità non erano gli
stessi di ora. Nel suo De Revolutionibus Orbium Coelestium, Copernico confessava di esser
giunto alla concezione eliocentrica studiando gli scritti segreti degli antichi Egizi e, in
particolare, le opere nascoste di Toth; Keplero, nelle Harmonices Mundi, sottolineava di
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aver formulato le leggi sulle orbite planetarie rubando nei vasi aurei degli Egizi; William
Gilbert, nel suo De magnete magneticisque corporibus et de magno magnete Tellure
physiologia nova, si richiamava a Ermete e Zoroastro; Newton infine dedicò all'alchimia un
trentennio della propria vita di studioso, lasciando scritte sull'argomento qualcosa come
mezzo milione di parole. Aggiungiamo che, dell'interesse di Cosimo II per l'alchimia, ci ha
persuaso proprio l'Apollo che scortica Marsia, per l'eminente singolarità che presenta.
C'è infatti, nel dipinto che stiamo studiando, un dettaglio evidentissimo, del tutto
contraddittorio e - a quanto ci consta - assolutamente unico. Come si può vedere, la scena è
collocata sotto il brillante chiarore di una luna piena, che non è visibile solo in quanto la
testa di Apollo le si sovrappone esattamente, in modo da risultare incoronata dal debole
alone luminoso che circonda usualmente l'astro notturno. Escludendo che possa trattarsi di
un fatto casuale, naturalmente ci si domanda quale imperiosa necessità - così visibilmente
ostentata - abbia costretto Guercino a mettere Apollo, dio diurno e solare per eccellenza,
sotto il segno della luna. Certo, risulterebbe assai problematico estendere a questo quadro
l'interpretazione - prima ricordata - che Wind ha fatto dell'affresco di Raffaello sul
medesimo tema, relativa allo scontro tra "le forze rispettive dell'oscurità dionisiaca e della
chiarezza apollinea", perché qui Apollo stesso risulta un dio oscuro. Non ci pare sia
possibile risolvere questo problema in modo soddisfacente se non rivolgendoci, ancora una
volta, all'alchimia.
Prima, è comunque bene richiamare brevemente la favola di Marsia. Si trattava di un satiro
frigio, che forse inventò, o forse ritrovò casualmente, il flauto a due canne inventato invece
da Atena. Egli imparò a suonarlo così bene da sfidare Apollo. Secondo gli accordi presi
prima della gara, il vincitore avrebbe potuto fare ciò che voleva del vinto. A un certo punto
Apollo suonò la cetra capovolta e chiese a Marsia di fare altrettanto con il suo strumento:
questi non vi riuscì e il dio, appesolo a un pino - secondo Plinio a un platano - lo scorticò.
Stante la ben nota equivalenza simbolica tra sole, oro, solfo e fuoco, cominciamo dicendo
che, in alchimia, di oro si distinguevano tre tipi, come è dichiarato apertamente ne Il trionfo
ermetico di Limojon de Saint-Didier:
"EUDOSSO. - Per non lasciarvi nulla a desiderare riguardo la teoria e la pratica della nostra
filosofia, voglio insegnarvi che, secondo i Filosofi, ci sono tre tipi d'oro.
Il primo è un oro astrale, il cui centro è nel Sole, che attraverso i suoi raggi lo comunica, insieme
alla sua luce, a tutti gli astri che gli sono inferiori. È una sostanza ignea, e una continua emanazione
di corpuscoli solari che, attraverso il movimento del sole e degli astri, essendo in un perpetuo flusso
e riflusso, riempiono tutto l'universo; tutto ne è penetrato nella distesa dei cieli, sulla superficie della
terra e nelle sue interiora, noi respiriamo continuamente questo oro astrale, queste particelle solari
penetrano i nostri corpi e se ne esalano senza posa.
Il secondo è un oro elementare, vale a dire che è la più pura e più fissa porzione degli Elementi, e di
tutte le sostanze che ne sono composte; dimodoché tutti gli esseri sublunari dei tre generi
contengono nel loro centro un granello prezioso di questo oro elementare.
Il terzo è il bel metallo […] Dopo di che non troverete più difficoltà a concludere che l'oro metallico
non è quello dei Filosofi, e che non è senza fondamento che, nella discussione di cui si tratta qui, la
Pietra gli rimproveri di non esser quale pensa di essere: ma che è lei stessa a nascondere dentro di sé
l'autentico Oro dei Saggi, cioè i due primi tipi d'oro di cui ho appena parlato: perché dovete sapere
che la Pietra, essendo la più pura porzione degli elementi metallici, dopo la separazione e la
purificazione che il Saggio ne ha fatto, ne consegue che essa è propriamente l'oro del secondo tipo;
ma quando questo oro, perfettamente calcinato ed esaltato fino alla purezza e alla bianchezza della
neve, ha acquisito attraverso il magistero una simpatia naturale con l'oro astrale, di cui è
visibilmente divenuto la vera calamita, attira e concentra in sé una così grande quantità d'oro astrale
e di particelle solari, che riceve dall'emanazione continua che ne è fatta dal centro del Sole e della
139
Luna, da trovarsi nella disposizione prossima d'esser l'Oro vivente dei Filosofi, infinitamente più
nobile e più prezioso dell'oro metallico…".
Da quanto precede risulta già molto chiaramente che gli ori, o solfi, propriamente
alchemici, sono solo due: l'uno di origine celeste, l'altro terrestre. Del secondo, già
sappiamo che gli alchimisti lo ricavavano dal ferro; riguardo al modo di procurarsi il primo,
invece, è particolarmente esplicito un manoscritto anonimo intitolato Ricreazioni ermetiche:
"La luna è di conseguenza il ricettacolo o focolare comune di cui tutti i filosofi hanno sentito
parlare; essa è la fonte della loro acqua viva. Se dunque volete ridurre in acqua i raggi del sole,
scegliete il momento in cui la luna ce li trasmette in abbondanza, cioè quando è piena o quando si
approssima alla pienezza; avrete così l'acqua ignea dei raggi del sole e della luna nella sua massima
forza. Ma vi sono ancora certe disposizioni indispensabili da osservare, senza le quali farete soltanto
un'acqua chiara e inutile. C'è solo un tempo adatto a fare questa raccolta di spiriti astrali. È quello in
cui la Natura si rigenera, perché a quest'epoca l'atmosfera è tutta piena di spirito universale. Gli
alberi, le piante che rinverdiscono, e gli animali che si abbandonano al pressante bisogno della
generazione ci fanno conoscere in particolare la sua benigna influenza. La primavera e l'autunno
sono di conseguenza le stagioni che dovete scegliere per questo lavoro, ma soprattutto è preferibile
la primavera. […] Si può cominciare il lavoro appena il sole è tramontato e continuarlo tutta la
notte; ma bisogna interromperlo quando sorge, perché la sua luce disperde lo spirito e non si
raccoglie più che un flemma inutile."
Opinione confermata in due parole da Sabine Stuart de Chevalier: "Il regolo dev'esser
composto durante la luna piena e nella stagione adatta."
Siamo stati così informati dell'esistenza di due ori, nonché del fatto che, dalla necessità di
acquisire anche il primo dei due - quello celeste -, nasceva l'esigenza che le operazioni
alchemiche venissero compiute in primavera, di notte e con la luna piena. Cominciamo così
a farci un'idea della ragione per cui, nel quadro che stiamo esaminando, Apollo porta tanto
le insegne solari - la tunica purpurea drappeggiata sulla spalla - quanto quelle lunari: con un
ammirevole artificio stilistico, Guercino ha insomma saputo condensare in una sola figura il
solfo - o oro - marziale e terrestre, e quello celeste, il quale si mostra particolarmente
sottomesso alla luna. Vediamo ora per quale ragione tale condensazione deve essergli
sembrata del tutto legittima.
Veniamo in questo modo ad occuparci del significato alchemico di Marsia. Come molte
figure animali, anche quelle teriomorfe come i Satiri o i Sileni - in particolare quando sono
collegate alla musica - rappresentano la "materia mercuriale" grezza, nello stato in cui esce
dalla miniera. In queste condizioni il minerale non ha la compiuta bellezza del metallo
lavorato e depurato: l'esser spesso mescolato a una ganga formata da varie altre sostanze e
l'esser quasi regolarmente privo di una ben definita struttura cristallina gli dà un'apparenza
sgradevole, assai poco invitante.
Così l'antica teoria metallurgica, testimoniata dal De re metallica di Giulio Agricola o
dall'Ultimo testamento attribuito a Basilio Valentino - che considerava i filoni minerari
come creature viventi, lentamente evolventi verso la perfezione metallica, simboleggiata
dall'identificazione dei metalli con i pianeti e con gli dei dell'Olimpo - vedeva i minerali
come qualcosa che, essendo estratto anzitempo dalla matrice, rimaneva a mezza via tra il
caos elementare e l'ordine metallico dunque, simbolicamente, tra la natura animale e quella
umana. Ne fa fede Basilio Valentino al capitolo XIII dell'opera appena citata, intitolato De
metallo imperfecto: "Il metallo imperfetto è tra tutti i metalli il più selvaggio, perché
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l'impurità vi è ancora tutta attaccata, come vi sono anche svariate mescolanze, una nell'altra
in modo strano."
Quest'idea di bizzarra sauvagerie, di primitività o di bestialità è molto ben rappresentata
nell'immagine seguente, contenuta in Della tramutatione metallica sogni tre di Giovanni
Battista Nazari, bresciano:
Si vede che, come Marsia, anche l'asino dell'illlustrazione s'ingegna a suonare il flauto, non
riuscendo però a rallegrare con la sua musica niente più di un gruppetto di scimmie che gli
danzano intorno. Il povero animale - se nell'espressione intenta e concentrata del viso
mostra un'evidente predisposizione a un destino più elevato di quello che la natura sarebbe
propensa a riservargli - è dunque ancora ben lontano dal saper raggiungere quella
cristallina purezza di suono che contraddistingue l'artista compiuto: per ottenere ciò deve
sottoporsi a un lungo lavoro, nonché trovare degli insegnanti che eccellano nell'arte della
musica, come veniva talora anche chiamata l'alchimia.
Crediamo non sia difficile ammettere che, come in qualunque altro lavoro di tipo
metallurgico, anche in quello alchemico i materiali non potevano esser messi in opera così
come la natura li consegna agli uomini: in particolare il solfuro minerale che vi svolgeva il
ruolo di "sostanza mercuriale" aveva bisogno di un'operazione preliminare volta a
sbarazzarlo dalla ganga, ad arricchirlo e a ridurlo nello stato polverulento adatto alla
fusione. A questa - che veniva detta "assazione", "retrogradazione", talora "rianimazione", e
di cui gli alchimisti non parlano quasi mai - si riferisce Basilio Valentino nel brano
seguente:
"Senonché la risoluzione è di due tipi. […] L'altra è quando l'alchimista prende questo corpo duttile
e lo conduce per retrogradazione in cenere, terra, vetro, colore o fuliggine quale era sotto o nella sua
dimora terrestre; e allora là dentro, cioè in questo corpo ridotto in cenere, la semenza dei metalli e il
Ferch si smuovono e si lasciano allora trovare in uno stato più fruttuoso, più abbondante e più
fertile […]; e questo corpo può essere agevolmente ridotto in acqua spirituale e in materia prima
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secondo la specie e proprietà del corpo metallico, ossia si lascia separare e dividere del tutto
artisticamente nei suoi principi naturali, secondo l'uso e la scienza degli alchimisti."
E ancora:
"Ma, quanto al corpo, predisponilo con il soccorso che gli devi dare, impedendogli che scorra via, si
insinui o si mescoli con un altro, ugualmente scacciando la spoglia o la superfluità."
La parte della frase che abbiamo messo in corsivo manifesta chiaramente l'idea che
accompagnava questo genere di operazione: proprio quella di perdita della pelle, di
scorticamento che è cardinale nella favola di Apollo e Marsia. La stesso concetto, mitigato
in quello meno doloroso di semplice denudamento, troviamo rappresentato nella seguente
immagine del Filosofo Solidonius, che ispirò a Duchamp il sottotitolo del suo Grande
Vetro: "La mariée mise à nu par ses célibataire, même":
Ma, come abbiamo visto poco sopra, v'era qualcosa di più, in quanto l'assazione doveva
accompagnarsi e modularsi su ben precise condizioni climatico-astrologiche,
verosimilmente nel modo evocato da Eugène Canseliet nel suo Due dimore alchemiche:
"Bisogna, in effetti, mantenere l'armonia con il crescere della luna nel cielo astrologico della Grande
Opera fisica. Principalmente, regolare bene la temperatura, aumentarla o abbassarla seguendo
l'attività dell'astro, a seconda che cresca, sia pieno o diminuisca; che sia apparente o nascosto nel
firmamento notturno. Di quest'ultimo si osserverà, con la stessa attenzione, se è coperto o sgombro;
come, rispetto all'atmosfera, se è calma o perturbata da acquazzoni o da vento."
Infatti, se l'"assazione" fosse consistita soltanto nella depurazione e nella concentrazione del
solfuro, non sarebbe stata altro che un'operazione chimica senza vero rapporto con
l'alchimia. Abbiamo infatti visto che, in quest'ultima, agli scopi chimici doveva
accompagnarsi l'accumulo - non importa qui se vero o presunto - delle "particelle solari",
menzionate da Limojon de Saint Didier, in seno alla "sostanza mercuriale".
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È ora bene chiarire che le due fasi consecutive dell'"assazione" e della "prima opera"
attuavano insieme la "retrogradazione" della sostanza mercuriale: per conseguirla, il Marsia
minerale veniva prima rianimato dall'Apollo celeste per poi essere unito a quello terrestre.
Solo al termine di quest'ultima fase, eliminata la sua spoglia ferina e ridottolo a lingotto
metallico lucente e segnato, lo si considerava riportato alla condizione di nudità adamitica
evocata dall'immagine di Solidonius. Si comprende bene, allora, perché Marsia non è legato
né a un pino né a un platano, bensì all'albero secco che già conosciamo e che, in questa
fase, non può ancora mostrare alcun nuovo germoglio. L'azione consecutiva dei due Apollo
sulla medesima sostanza viene rappresentata da Guercino, con una bellissima invenzione
stilistica, come esercitata da un solo attore che è però di natura duplice. Ed è logico
aspettarsi che, in qualunque delle due accezioni lo si consideri, Apollo sovrasti Marsia.
Queste due azioni consecutive e del medesimo tipo sono evocate in modo assai simile nella
seguente immagine tratta dall'Atalanta fugiens di Michael Maier, in cui l'Apollo celeste è
sostituito dalla luna, mentre quello terrestre porta - assai significativamente - la corazza di
Marte:
Ma, come sappiamo, l'operazione aveva un costo: al suo termine l'Apollo terrestre si
rivestiva delle spoglie ributtanti di Marsia divenendo uguale alla massa rocciosa e nerastra qui relegata sullo sfondo - da cui spuntano i due personaggi. Il dio "moriva" nello sforzo,
era sepolto nella tomba del "caput", e doveva essere "resuscitato" con un lavoro apposito.
Dal punto di vista allegorico il quadro ci appare dunque come una sinopsi dell'intero lavoro
alchemico, in cui tuttavia le tre fasi della "prima opera" sono esposte in dettaglio, mentre le
altre due "opere" sono ricapitolate in un unico simbolo: la viola appesa in alto a sinistra, che
riunisce in sé tanto il risultato della "seconda" quanto la caratteristica maggiore della
"terza". Pur essendo, all'epoca, regolarmente assegnata ad Apollo o ad Orfeo in luogo della
classica lira, tale strumento musicale possedeva anche un ben preciso significato alchemico.
Se lo strumento musicale evoca, come abbiamo detto, il prodotto finale della "seconda
opera", è senz'altro per l'omonimia con il fiorellino primaverile. Infatti, come nota Jean
d'Espagnet nel suo L'opera segreta della filosofia di Ermete:
"Non lontano dalla fontana dell'ingresso, ti si presenteranno innanzitutto le violette primaverili, ed
essendo annaffiate dai canali di un largo fiume dorato, prenderanno nettamente il colore di uno
zaffiro appena scuro: il Sole te ne darà dei presagi. Tu non coglierai questi fiori così preziosi finché
non avrai composto la Pietra perché, colti di fresco, essi hanno più succo e tintura: in quel momento
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strappali con cura e con una mano destra e ingegnosa: in effetti, se i destini non vi faranno ostacolo,
esse verranno via facilmente e, un fiore essendo strappato, ne nascerà subito un altro al suo posto."
Lo stesso fiore campeggia sul frontespizio del Giardino delle ricchezze di George Aurach,
di cui possiamo mostrare solo una copia in bianco e nero eseguita da un copista
contemporaneo:
Sembra insomma che fosse a causa del suo tipico colore che il modesto fiore di campo era
considerato un simbolo eminente del "Mercurio dei filosofi" o "Rebis": si ricordi la
menzione di Sansevero della "polvere violacea" emanante, secondo lui "energia sconosciuta
e veemente". Come riferisce anche Fulcanelli nel suo Le dimore filosofali:
"Si tratta d'un corpo minuscolo, - in confronto al volume della massa da cui deriva, - che ha
l'apparenza esteriore d'una lente biconvessa, spesso circolare, talvolta ellittica. D'aspetto terroso
piuttosto che metallico, questo leggero bottone, infusibile ma facilmente solubile, duro, fragile,
friabile, con una faccia nera e l'altra biancastra, violetto nella zona di frattura, ha avuto diversi nomi
che si riferiscono alla sua forma, al suo colore o ad alcune particolarità chimiche. […] Nel
linguaggio orale degli Adepti, però, questo corpo non è indicato altrimenti che col termine di
violetta, primo fiore che il saggio vede nascere e fiorire, nella primavera dell'Opera, e trasformare
con un nuovo colore il verde del suo giardino…".
In effetti, il riferimento è alla fase che gli antichi alchimisti greci chiamavano iosis, come
attesta Lindsay nel suo Le origini dell'alchimia nell'Egitto greco-romano:
"Il terzo passaggio era la produzione di una tinta violetta o purpurea, iosis. Il fermento violetto
trasformava a poco a poco l'oro in un ios di oro, che era la tintura permanente, la quale, se gettata
sull'oro, ne produceva dell'altro. Questa interpretazione della iosis (raffinazione) è stata posta in
dubbio. Uno studioso ha suggerito che la iosis fosse una formazione di bronzo purpureo come il
giapponese shaku-do; ma una tale formazione non si adatta allo schema di cambiamenti e non vi è
alcuna prova di essa. Un altro suggerimento ipotizza che la iosis costituisse la rimozione finale di
ogni ios: ruggine o alterazione sulla superficie del metallo. Però sembra sicuro che la iosis fosse un
terzo cambiamento di colore esprimente il culmine del processo alchemico, così che ios qui
significa violetto e non ruggine."
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Ma la viola, questa volta proprio in quanto strumento musicale, suggerisce anche la
maggiore caratteristica della "terza opera". Come attesta Canseliet, questa consisteva in una
cottura lineare della durata di sette giorni, scandita a intervalli regolari da stridori o fischi
emessi dalla materia sulla via del suo perfezionamento definitivo: curiosamente sembra che
essi in qualche modo riproducessero la scala delle sette note; per tale ragione, come
abbiamo già ricordato, l'alchimia era detta anche "arte della musica". È, d'altra parte, quel
che sembra potersi desumere dalla fascia inferiore della seguente immagine, in cui
ritroviamo il nostro strumento, sicuramente preso - come nel quadro di Guercino - in
entrambi i suoi due sensi alchemici:
Ci asterremo dal proseguire con l'esposizione dei sensi morale e anagogico in quanto, per
sostenere la nostra tesi relativa a Et in Arcadia Ego, ci bastava - come crediamo di aver
fatto - evidenziare il contenuto alchemico dell'allegoria presente nell' Apollo che scortica
Marsia, senza supporre la quale non si spiegherebbe la strana condizione "lunare" in cui ci
viene presentato il dio solare per eccellenza.
Per concludere, noi pensiamo che - progettando per Cosimo II de' Medici una sinopsi del
lavoro alchemico in cui sviluppava particolarmente le tre fasi della "prima opera" Guercino riuscì a condensare le prime due nella scena di Apollo che scortica Marsia, e che
per la terza abbia pensato di avvalersi ancora, seppure come elemento di sfondo, della
straordinaria inventio prodotta per il quadro precedente, anche considerato il fatto che essa
era facilmente piegabile a una nuova letteralità.
----[Una presentazione dell'autore si trova nel numero 3 di Episteme]
E-mail: [email protected]
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Immanuel Velikovsky and his Worlds in Collision,
50 years after…
(Emilio Spedicato)
Introduction
Half a century ago (more precisely in 1950 published by McMillan, in 1951 by Doubleday,
the house to which the publications rights were transferred after boycott threats to
McMillan by the astronomical academia) a book was published of substantial size and very
rich in references, titled Worlds in Collision. It was a bestseller in US in 1952 and appeared
in condensed form in Readers Digest, including the Italian version Selezione. At that time
the present writer was a schoolboy of seven, an avid reader of everything printed. I read the
article in Selezione with utmost fascination, being particularly impressed by the explanation
provided of the "miracle" of the Sun stopping in the sky during the siege of Jericho.
Then I forgot both the name of the author and the book. These I recalled suddenly over 30
years later, when I was discussing with an Irish colleague some ideas I had developed about
a possible catastrophic origin of ice ages and explanation within this context of the origin of
the Atlantis myth. Velikovsky had been forgotten at the conscious level, but had left a seed
in the deep that was going to germinate.
When his book was published, Velikovsky (later on referred to as V.) was unknown for
most people, albeit he was well known to a limited number of scientists. Indeed, in addition
to several papers in psychiatry, in the Thirties V. had edited in collaboration with Albert
Einstein the journal Scripta Universitatis atque Bibliothecae Hierosolymitarum, that was
instrumental in leading to the establishment of the Hebrew University in Jerusalem. The
great success of his book with the public was due to several factors, partly related to a
postwar reawakening of interests in religious traditions and widespread critical sentiments
against a science that had led to the atomic weapon and to the risk of a nuclear obliteration
of humankind. Also a factor was the publicity provided by the opposition to the book by the
astronomical academia led by Shapley and Payne Gaposhkin, who forced McMillan to
discontinue the publication of the book. There are not many authors who incur the attacks
of the academia, who tends to simply ignore those who propose alternative points of view
from the outside.
Worlds in Collision was mainly devoted to a nonstandard presentation of events in the
recent life of the solar system. In the following years V. published several other books with
no less revolutionary content in the field of geology, chronology and ancient history. He
gave moreover talks in several countries and inspired a number of journals and study
groups, who further developed his ideas, some of these being still quite active. Many of the
ideas of V. have by now been accepted by academia, albeit quite often his precursor role is
simply ignored.
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Debate and influence of V. have been quite significant in the anglosaxon world (US,
Canada, England, Australia and New Zealand). Much less the attention in the Latin world,
perhaps due to the less interest in these countries for biblical topics. Concerning Italy, we
should recall that V. got positive attention by the great mathematician Bruno de Finetti and
that the science historian Federico Di Trocchio has devoted to him a substantial chapter of
his book Il Genio Incompreso.
In next sections we will give some biographical information on V. and on the content of his
main monographs Worlds in Collision and Ages in Chaos. Then we end with information
on a forthcoming symposium on V. organized by the University of Bergamo.
Immanuel Velikovsky: a biographical sketch
Velikovsky was born in 1895 in Vitebsk, city of western Russia, then counting about
70.000 inhabitants, many of them Jews, native city also of Chagall. Third son, his name was
chosen by father during a solitary promenade in the nearby woods. We read in his
autobiography Days and Years available in the internet site due to Jan Sammer
(www.varchive.org) "my name was chosen from a verse of the seventh chapter of Isaiah;
there was no Immanuel among the ancestors known to him… he expected from me a great
role concerning the tragic story of our nation…we should see the personality of my father,
a Jew with a vision of national reawakening…. When I was seven my father showed m the
chapter of Isaiah with the name Immanuel...".
1895 was the year when Freud began writing The interpretation of dreams, when Roentgen
discovered X rays and when, exactly on 10th June, the day V. was born, Herzl wrote in his
diary I take in my hands the broken thread of the tradition of my people: I will bring them
to the Promised Land…
From Vitebsk the family moved to Moscow, where his father became a successful
businessman and one of the most active persons in the Sionist movement. He was among
the first organizers of the policy of buying land in Palestine for kibbutz.
Immanuel did classical studies, learnt several languages and excelled in mathematics. As
teenager he traveled widely to Europe and to Palestine (Tel Aviv had been founded only
three years before). He graduated in medicine in Moscow in 1921, after doing part of the
studies in Montpellier. He left Russia after the revolution with an adventurous escape via
the Caucasus. He settled first in Berlin, marrying Elisheva Kramer, a brilliant performing
violinist and pianist. He started in this period the editorial work of the above quoted journal
Scripta Universitatis..., whose mathematics and physics section was under the care of
Albert Einstein.
From 1924 to 1939 he lived in Palestine; in 1930 he published a paper where, apparently
for the first time in literature, he proposed that epilexy was characterized by pathological
encephalograms.
The interest of V. for a reinterpretation of ancient history was kindled by reading Freud's
work Moses and Monotheism. In contrast with the interpretation of Freud, V. got the idea
that pharaoh Akhnaton was the real figure behind the mythical Oedipus. Such idea was
further developed in the year 1930 that V. spent researching in the libraries of New York
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producing the extraordinary book Oedipus and Akhnaton, published only in 1960, that this
writer read nonstop between 9pm and 3am. In this book V. analyzes the impressive
parallelisms between what is historically known on Akhnaton and the data of the Greek
tradition on Oedipus, in the context of his revised chronology of Egyptian history. Thus
Akhnaton is dated not only well after Moses (therefore killing any hypothesis of Moses
getting from him the idea of monotheism) but even after Solomon, i.e. in the ninth century,
not many years before the Assyrians would invade Egypt and put it under their control, a
thesis later developed in the book The Assyrian conquest (still unpublished, albeit available
in the quoted internet site).
In April 1940 V. got the idea that a great natural catastrophe characterized the time of
Exodus, interpreting the phenomena described in the Bible as the Ten Plagues of Egypt as
natural phenomena due to an extraterrestrial cometary origin. The idea was reinforced when
he found a description of similar events in an Egyptian source, i.e. the Ipuwer papyrus of
the Leiden collection. He therefore abandoned his profitable profession of psychiatrist for a
full time study lasting many years of ancient and modern documents useful for his thesis.
Worlds in Collision was the outcome of ten years of research in the great libraries of New
York and Princeton (he had moved to Princeton at the beginning of second world war).
Several other books followed in a short time dealing with geological issues (Earth in
Upheaval) and especially with chronological issues and corresponding revision of ancient
history of the eastern Mediterranean countries.
In Princeton V. reestablished frequent and friendly contacts with Einstein, with long
discussions on astronomical and historical topics. Einstein frequently visited him at his
home where his violin playing was accompanied by the piano playing of V. wife Elisheva.
The story of his contacts with Einstein in these years is available in another of the still
unpublished books, Before the Day Breaks, available in the quoted internet site.
During the Fifties and Sixties V. was persona non grata in universities and research centers
in US. However when first space missions confirmed in a spectacular way some of his
forecasts he was invited to give talks in several universities (Brown, Yale, Pennsylvania,
Columbia, Dartmouth, Duke, Rice...); of great success were his conferences at Harvard and
McMaster at the beginning of the Seventies.
V. died aged 84 in Princeton, in 1979. The archive of his works - including several still
unpublished monographs - is under care of his surviving two daughters, Ruth, a
psychanalist in Princeton, and Shulamit, who lives in a kibbutz near Haifa, married with the
well known mathematician Abraham Kogan.
Worlds in Collision
Worlds in Collision was published in US by McMillan in 1950 and from 1951 by
Doubleday, that got the publications rights from McMillan, after Shapley let McMillan
know that its role of important publisher of academic works in astronomy was threatened
by the presence of V. book in its catalogue. The story of this censorship episode and of
other events about the difficult relation of V. with American academia is available in the
book Stargazers and Gravediggers, published in 1983 after V. death, copyright of Elisheva
V.
148
Worlds in Collision had immediate great success with the readers, albeit it had been
rejected by several publishers previously contacted (a similar story happened around that
time with Thor Heyerdahl Kon Tiki) and was defined by New York Times "A literary
earthquake". In the preface to the paperback edition V. wrote: First published in 1950, this
book was left unchanged in all subsequent printings…in 1950 it was generally assumed
that the fundamentals of science were all known and that only details and decimals were let
to fill in. In the same year, a cosmologist, certainly not of a conservative bent of mind, Fred
Hoyle, wrote in the conclusion of his book "The Nature of the Universe": "Is it likely that
any astonishing new developments are lying in wait for us? Is it possible that the
cosmology of 500 years hence will extend as far beyond our present beliefs as our
cosmology goes beyond that of Newton? … I doubt whether this will be so. I am prepared
to believe that there will be many advances in the detailed understanding of matters that
still baffle us…But by and large I think that our present picture will turn out to bear an
approximate resemblance to the cosmologies of the future…". That Hoyle's opinion was
then the dominant one was recently confirmed to me by a statement made at a meeting
dealing with the planned (in 2012) GAIA ESA mission by the famous Italian physicist
Salvini (quoted not verbatim): Forty years ago we believed to know all essentials, now we
are in deep uncertainties… About Hoyle one has anyway to observe that he later became an
advocate of radical new theories and has been in particular a strong opponent of the big
bang theory, albeit this name was invented by him. Hoyle has quoted V. in his
autobiography (they met at a seminar given by Hoyle) without any of the usual heavy
criticism by most people in the academia.
The book Worlds in Collision is based upon the hypothesis that the events of clearly
catastrophic nature described in ancient literature, particularly in the Bible, are phenomena
that really happened, whose explanation cannot be given in a purely terrestrial context and
must therefore be found in interactions between Earth and extraterrestrial bodies. The book
deals in particular with two catastrophes: the first one associated with Exodus, the second
one with the siege of Jerusalem by Sennacherib (that is dated some 20 years after Sargon II
had conquered and deported the Ten Tribes of Israel, to a place that has been subject of
much discussion and that this writer have identified with eastern Afghanistan…). V.
claimed that the agents of the catastrophe were not ordinary comets or asteroids but two
planets, namely Venus in the first case, Mars in the second case. According to him these
planets had at that time orbits with different shape, more elliptical than now, as
consequence of previous interactions with other planets in the solar system (the story of the
previous events in the solar system is partly given in the book At the Beginning, another of
the unpublished works available in the cited internet site). The orbits of the two planets
would have been circularized after the last catastrophe, thereby terminating for our planet
the catastrophic era, where planets were a real threat and where astrology was a real science
based upon the study of planetary interactions in a differently organized solar system. The
book is based mainly on the analysis of a huge number of classical and mythological
references (about a thousand quotations, of texts in many languages or of difficult access).
While the analysis is never quantitative - and a quantitative analysis of the scenarios
proposed by V. would even with present computer power be beyond modeling and
computation possibilities - V. is well aware of where modern science stood and has a
number of pointed criticism to the traditional scenarios, in particular where they only
consider gravitational effects in the astronomical relations, neglecting the electromagnetic
effects, both on large scale and in the study of close flybys of large bodies.
149
Worlds in Collision is written with a very clear albeit synthetic language. We cannot here
give a detailed presentation of the extremely rich content of this book, thus we only review
some of the main theses.
•
V. stresses the information value of ancient texts, based according to him on real
experiences lived in a different astronomical context than now. The idea that the events
described in ancient texts pertained to real experiences used to be accepted without
difficulty in western world until Illuminism: this included in particular the idea of
catastrophes within human memory, including the Universal Deluge described in the
Bible and in other traditions (Deucalion,…). These ideas were accepted by Newton and
Cuvier. Illuminism started criticism of Bible opening the way to the so called
uniformitarism approach that became dominant in the 19th century thanks in particular
to the works of Lyell in geology and of Darwin in biology: the present is the key of the
past, there are no celestial catastrophes today, there were none in Moses time. No stones
fall from the sky today, no stones could have fallen in the past (this extreme statement
dominated astronomy well into the second half of 19th century, when a heavy fall of
meteorites in France convinced the astronomers to accept ancient records of falling
stones). Now, fifty years after Worlds in Collision we can certainly say that scholars in
the natural sciences pay more attention to ancient records of catastrophes. Such
attention is partly due also to the existence of technological means, not available at V.
time, to verify the effects of such unusual events in the geological and biological record:
sophisticated analysis of pollen and other organic material in lacustral and oceanic
sediments, analysis of organic and inorganic materials in long ice carrots extracted in
Greenland or Antarctica, dendrochronological series extending now to about 10.000
years in some cases. From such analysis evidence has emerged of strong climatic
variations in the last 12.000 years, some setting so quickly that they can probably not be
explained in terms of the usual terrestrial processes. Finally the direct observation in the
case of the Shoemaker-Levy comet of the processes of disintegration proposed by V.
and other neocatastrophists (especially Clube and Napier) and of planetary impact, an
event that astronomers considered extremely unlikely to be able to observe in their
lifetime, has made the astronomical community conscious that our solar system
surrounding is more fraught with dangers than it was believed just fifty years ago.
•
V. has claimed the instability of solar system and the emergence of the present orbital
configuration, with regard at least to Mars and Venus, in very recent times, in fact in
historical times (the last catastrophe, associated with Sennacherib siege of Jerusalem,
being dated at about 27 centuries ago). Such claim was made at a time when the solar
system was considered to be an extremely stable configuration, on the basis of
approximate analytical analysis of the stability of dynamical n-body systems and of the
properties of the standard model (condensation from a gas cloud) for the formation of
the solar system. This scenario after fifty years has dramatically changed, albeit the
theses of V. about Venus and Mars are still considered unacceptable, except from a
small minority of scholars. The analysis made using the modern very sophisticated
analytical instruments has indeed shown that nonlinear complex dynamical system,
including planetary systems, have generally a behavior of the type defined chaotic,
whose long term behavior cannot be predicted and whose dynamical structure is
extremely rich. Now it is estimated that, even disregarding the very possible interactions
with other bodies and structures in the galaxy, the solar system cannot be back
integrated in time for more than a few million years, a factor one thousand less than
150
estimated fifty years ago. Moreover components of the solar system have been
discovered, both at large distances or at planetary distances, that either were then
unknown or their importance was not properly evaluated, e.g. the so called
Apollo/Amor objects and the Kuiper belt (where objects of a considerable 600 km
diameter are now known to exist). The observation, albeit incomplete, of about sixty
non solar planetary systems has shown dynamical and structural features completely
unexpected and actually in several cases considered previously as dynamical
impossibilities (e.g. the presence of Jovian or super Jovian planets very close to the
mother star, when the current model had in that region only terrestrial type planets; or
the presence of Jovian type planets in highly elliptical orbits). With a hundred
arguments the astronomer Van Flandern has proposed again the hypothesis of Olbers
about the explosion of one or more planets in the region of the asteroid belt, as the event
that originated not only the asteroids but as well the majority of comets and probably
even Mars, considered as a surviving satellite of the exploded planet. Van Flandern
dates the last explosion to 3.2 million years ago. Observing, independently of Van
Flandern, that the sequence of ice ages on our planet starts also 3.2 million years ago,
the physicists Woelfli and Baltensperger have recently proposed a new theory for the
origin of such ice ages, in terms of effects on Earth axis, called true polar wandering
(where the north and south points move over the Earth surface), due to the close flyby
of a planet, whose size was taken as default as that of.… Mars! These authors have
solved on the computer the equations defining the dynamics of the flyby (considering
only gravitational forces, but with heavy use of the tidal forces). Their computations
have shown that a sufficiently close passage can lead to a polar displacement of even 18
degrees, a conclusion with Velikovskian flavor. They have moreover found that the
body interacting with Earth at its perihelium would be heated so much by the Sun that it
would move away from the Sun as a giant comet, surrounded by bluish hot gas over one
million km diameter… again a wholly Velikovskian scenario. Outstanding is however
still the problem of proving that the proposed rounding of orbits of Venus and Mars can
be achieved in a few centuries, i. e a few hundred revolutions, albeit we are also not
aware of a rigorous proof that it cannot. In conclusion, fifty years after Worlds in
Collision we are facing very open scenarios about the structural and dynamical
configuration of planetary systems. This confirms the importance of the idea of V. to
use the testimonial information from ancient people about the evolution of our own
planetary system.
•
V. has also stressed the importance of electromagnetic interactions in astronomy, with
particular regard to close flybys of large bodies. Gravity still remains the only force
considered by the majority of cosmologists for the evolution of the Universe and
smaller structures as planetary systems, despite the authoritative alternative ideas of
Nobel Prize Alfven (quoted in several papers by V.) on the role of large scale plasma
structures in the Universe. Several problems have however arisen by using the classical
Newtonian law of inverse square dependence on distance when used on structures
(globular clusters, galaxies, clusters of galaxies…) having much greater size than the
solar system size where Kepler derived his laws. Thus the need of introducing dark
matter or even more exotic structures and particles or to hypothesize a different
functional relation to distance or to introduce new forces. V. had lengthy discussion
with Einstein on the role of electromagnetism in the Universe, see his book in internet
on his meetings with Einstein. Developments of V. ideas on electromagnetism role are
151
due to scholars inspired by V., among them Juergens, Thornhill, Ginenthal, De Grazia,
Milton, Zysman.
•
V. predicted emission of radio waves from Jupiter, a high temperature of Venus surface
(when it was believed it should be a little above Earth temperatures) and that Earth was
surrounded by a magnetic field. These forecasts were confirmed within a few years and
V. had his forecast recognized in a letter sent to Science (21 December 1962) by the
Princeton physicist Bargmann and the Columbia University astronomer Motz. V. had
moreover often insisted with Einstein to the purpose that during one of the first space
missions his predicted radio emissions from Jupiter should be looked for. Einstein failed
to obtain this experiment and later sent a letter to V. excusing himself for not having
supported his proposal.
•
The detailed pictures obtained in the last years of the surfaces of Mars and Venus have
shown quite surprising geological features. Venus surface seems to have been recently
melted or covered by magma emissions; erosion structures are essentially lacking. Mars
surface shows evidence of very recent catastrophic sculpturing events, including
unexpected evidence of subterranean water. Again there is a remarkable lack of the
erosion phenomena that should have smoothed the planet surface in the course of the
billion years of life in the standard model. A detailed analysis of Mars morphology at
the light of V. hypotheses has been presented in a paper by Ginenthal at the New York
1995 conference for the centennial of V.
Ages in Chaos
The book Ages in Chaos was published in 1952, the first of a number of historical
monographs, followed by Oedipus and Akhnaton (1960), Peoples of the Sea (1977) and
Ramses II and his Time (1977). Not yet published by available in the quoted internet site
are the works The Assyrian Conquest and The Dark Ages of Greece.
The basic idea of V. is that the official chronology of the first and second millennium BC of
Egyptian and other civilizations dated by anchoring them to the Egyptian one (Micenean,
Cananean, Ugaritic, Cretese, Anatolian…) is affected by a substantial error. This is for V.
the main reason why scholars have essentially been unable to fit the events described in the
Bible with the events described in Egyptian or other histories. V. claims that the
fundamental error lies in the absolute anchoring of the Egyptian chronology that was made
about two hundred years ago, at the beginning of Egyptology (the times of Lepsius and
Champollion). A consequence of this error has also been the introduction of so called dark
centuries for the Micenean and Anatolian civilizations. For these centuries there is
practically no archeologically documented activity, with the curious fact that at the end of
this sterile period archeological documentation reappears with the same styles that were
active before the dark period, as if centuries had passed without any stylistic evolution.
The problem of a correct determination of the chronology of ancient civilizations is very
complex, albeit it is often supposed to have been fully solved, except for a few years
possible variations, on the basis of chronologies established mainly in the 19 th century. This
problem was of great interest to Isaac Newton, who wrote a monograph, by him considered
the landmark of his life, The Chronology of Ancient Kingdoms Amended, product of his
152
enormous classic culture (he had read essentially all works of the Latin and Greek fathers,
to make a better personal opinion of the trinity problem). The work of Newton, originally
published in 1728 one year after his death, has been recently reprinted but very few people
have read it; his biographer Westfall has defined reading that book the worst penitence one
can think of for a person. Following the seminal work of V. the chronology problem has
since be at the center of the attention of several historians, especially in the anglosaxon
world (Rohl, James, Bimson, Murphie…). The German scholars Heinsohn and Illig and the
Russian mathematician Fomenko, who has analyzed chronological data with statistical
techniques, have reached even much more radical revision in shortening the time span than
V. did.
Ages in Chaos can be seen as a parallel book to Worlds in Collision, devoted to chronology
and historical correlations, while the first book was concerned with physical phenomena
and their possible explanation.
V. determines the Exodus period, hence Moses time, as the end of the Egyptian Middle
Kingdom, when Egypt was invaded by a population coming from the east, called Hyksos in
Manetho, Amu in contemporary Egyptian sources, Amalek in the Bible. The Hyksos
devastated Egypt, destroying town, temples and exterminating large amount of the
population. The date given by V. for Exodus, based on internal chronology of the Bible and
some 200 years lower that the traditional date for the Hyksos invasion, is 1447 BC. The
Pharaoh is the Tutimaios of Manetho, i.e. the Dudimose in the list of kings of the well
known papyrus in the Turin Egyptian Museum. Under this chronological setting it is clear
that with the Exodus Moses not only terminated the slavery of Hebrews but most probably
saved them from a likely annihilation by the Hyksos. This writer has recently proposed for
the term Hyksos the meaning people of the horses and has identified their origin in the
Turanian region of the Amu Darya river, wherefrom the Amu would have moved in the
time of worldwide migrations due to a global catastrophe of which the events described in
the Bible for Egypt are just a local case. I have also hinted that the wife of Moses from
Kush, land usually identified with Ethiopia, was actually a women form the
Hindukush/Badakshan region, land of the precious lapis lazuli exported also to Egypt. Then
Moses may have been informed of the arrival of the Hyksos by the wife's family and this
would explain why he took the unusual way through the desert, wishing not so much to
escape from a pursuing Pharaoh but from the oncoming Amu.
The dating of Exodus at 1447 BC at the end of the Middle Kingdom - now accepted with
further arguments by scholars as Rohl, James, Bimson… - was at great variance with the
traditional dating, which put the Exodus, of which someone even doubted the historicity,
about 350 years after the Hyksos, at the time of the New Kingdom, often during the reign of
Ramses II. The lack of references to Exodus in Egyptian sources was considered a sign of
unreliability of the Bible as a historical document or at least of a tendency of the Bible to
amplify the importance of events relating the Hebrews. The dating proposed by V.
redefines completely the historical setting with important consequences on the following
history, till the time of Alexander, when use can be made of the work of the Greek and
Latin historians.
Now we select some statements from Ages in Chaos:
153
•
•
•
•
•
The Amu/Hyksos controlled their territory from the city of Avaris, that according to V.
was located near El Arish, in present Gaza strip. In this area recent archeological
findings have discovered Hellenistic and Egyptian ruins under over ten meters of sand,
which means that a search for the ruins of Avaris would imply a huge and very
expensive excavation work
The Amu/Hyksos were expelled by a coalition of Egyptians that had taken refuge in the
south of Egypt, and of Hebrews led by Saul
The queen of Sheba was the woman pharaoh Hatshepsut
The pharaoh who invaded the land that had been the great kingdom of Solomon was
Tuthmosis III
Amenophis III and Amenophis IV (Akhnaton) lived in the ninth century BC, hence after
Solomon (this eliminates any possibility of interpreting Akhnaton as the inspirer of
Moses monotheism). The El Amarna archive of their letters, to be dated to the period
870-840 BC, includes letters sent to the Hebrew kings of the kingdom of Samaria
(capital city of the territory of the Ten Tribes of Israel) and of Jerusalem (capital of the
territory of the tribes of Judah and Benjamin).
In three recent monographs the Lebanese historian Kamal Salibi, professor at the American
University of Beirut and director of the Interfaith Study Center in Amman, has claimed that
the land of milk and honey where Abraham settled (at a time that within the V. chronology
may be set at about 1850 BC, probably the time also of pharaoh Sesostris I the Great) was
not Palestine but the region of south-western Arabia that is now called Asir, rich of water,
pastures and forests. The present writer is of the opinion that the approach of Salibi can be
blended with that of V. contributing to a further resolution of many puzzles of antiquity.
----[Some information about the author can be found in the first number of
Episteme]
E-mail: [email protected]
154
Announcement of Workshop on:
Fifty years after Velikovsky's Worlds in Collision:
classical and new scenarios on evolution of solar system.
Bergamo, October 20th and 21st, 2001
SCIENTIFIC PROGRAM
In the occasion of the fifty years since publication of Worlds in Collision the University of
Bergamo organizes a symposium, coordinated by this writer, to revisit the work of
Velikovsky with discussion of associated topics at the light of present knowledge. The
symposium is organized within the framework of research done in Bergamo on n-body
dynamical systems. The program is the following.
Saturday 20, from 9.30 a.m.:
Prof. Emilio Spedicato, Un. di Bergamo:
Introduction to the symposium
Prof. Federico Di Trocchio, Un. di Lecce:
Velikovsky as rejected genius
Jan Sammer, Prague:
The Velikovsky website
Prof. Alfred De Grazia (Princeton) and dr. Immanuel Velikovsky (presented by Amy De
Grazia)
A final communication, November 14th, 1979
Prof. Alfred De Grazia (Princeton):
Before Worlds in Collision: the Solaria Binaria scenario
Saturday 20, afternoon:
Prof. Laurence Dixon, Un. Hertfordshire, UK :
Velikovsky orbital planetary changes do not violate conservation laws
Admiral Dr. Flavio Barbiero, Accademia Navale, Livorno:
On fast changes of Earth axis after comet or asteroid impacts
Dr. Walter Baltensperger, Physics Research Center, Rio de Janeiro:
Polar wandering after close passages of objects of planetary size
Prof. Emilio Spedicato, Un. di Bergamo:
A super Tunguska impact on Pacific Ocean in year 1178 AD
155
Prof. Chandra Wickramasinghe, Un. di Cardiff, UK
New light on origin of life
Dr. Antonino Del Popolo, Un. di Bergamo:
Extrasolar planetary systems: observational results and theoretical problems
Sunday 21, morning:
Prof. Erasmo Recami, Un. di Bergamo:
Catastrofism and uniformitarism in history of astronomy
Dwardu Cardona, editor of journal Aeon, Vancouver:
Saturn before Sun
Charles Ginenthal, editor of journal The Velikovskyan, New York:
Velikovsky's ideas on role of electromagnetism on evolution of Universe
Dr. Adalberto Notarpietro, Centro di Dinamica Alpina, CNR, Milano:
Earth in Upheaval of Velikovsky and extraterrestrial catastrophes in history of Earth
Shulamit Velikovsky Kogan, Haifa, Israel
On the validation of Velikovsky hypotheses
Notes on the lecturers:
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•
Prof. Di Trocchio teaches history of sciences at University of Lecce. He has given a
presentation of the role of V. as a controversial non academic innovator in the book Il
Genio Incompreso: uomini e idee che la scienza non ha capito, Collana Scienza, Oscar
Saggi Mondadori.
Jan Sammer collaborated with V. in Princeton in the last years of his life and took care
of his electronic archive. He has opened the web site where unpublished works of V.
can be accessed, albeit not in their final expected form.
Prof. Alfred De Grazia taught in several US universities, including Stanford, Chicago
and New York, and was friend of V. He is the author of a number of books developing
what he calls Quantevolution, containing alternative ideas on the formation of the solar
system and the evolution of mankind. In the monograph Solaria Binaria written with
astronomer Earl Milton the formation of the solar system is considered within the
framework of an original binary stellar system (notice that some 80% of stars are now
considered to be part of multiple systems). He will review this hypothesis. Moreover his
joint communication with Velikovsky will be delivered, that had been written for a 79
meeting to which death prevented V. participation.
Prof. Laurence Dixon taught at Hatfield Polytechnic and has been a leading scholar in
the field of optimization and dynamical systems, producing also software that ESA used
for several space missions. He will discuss the compatibility of the orbital changes
proposed by V. with the mechanical conservation laws.
Dr. Flavio Barbiero, a specialist of technological advanced mechanical systems at
Accademia Navale of Livorno, has recently proved that impacts with external bodies of
a few hundred diameter size can lead, via complex phenomena related to the oceanic
156
•
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equatorial bulge, to a changing of the rotation axis of Earth and to catastrophic events,
including ice ages and their termination.
Prof. Chandra Wickramasinghe of University of Cardiff, well known astrophysicist and
collaborator of Fred Hoyle, will discuss the theory proposed by him and Hoyle on
origin of life from space, with a special role attributed to comets. We notice that V. in
Worlds in Collision hypothesized the arrival on Earth at time of Exodus of living
material (by him called vermin). Hoyle and Wickramasinghe have shown how living
material (viruses, bacteria and even insects) can survive under some conditions fast
impacts with the stratosphere.
Dr. Antonino del Popolo, an astrophysicist specialized in large scale n-body dynamical
systems, has studied structures at both galactic and planetary level. He was able to show
how certain gravitational migration effects can lead to vast changes in the orbit of
planetary bodies, also with reference to the strange extra solar planetary systems
recently discovered.
Prof. Erasmo Recami is well known for his studies on fundamentals of physics. He has
developed the theory of tachions, particles with superluminal velocity; a recent
experiment confirming superluminality was proposed by him many years ago. His
interests include also archeology and history of science.
Dwardu Cardona collaborated with Velikovsky and is editor of the journal Aeon
devoted to mythological studies. He has used archaic mythological elements for a very
alternative reconstruction of the formation of the solar system.
Charles Ginenthal is editor of the journal The Velikovskyan that analyzes and develops
V. ideas. He has authored several monographs on catastrophic topics, including one on
the demise of the mammoth, one on electromagnetic forces in cosmology and one
criticising Carl Sagan criticism of V.
Dr. Adalberto Notarpietro, a geologist of CNR Centro Studi per la Dinamica Alpina di
Milano, has developed interest in recent catastrophic changes of Earth from his
experience as a field geologist.
Shulamit Velikovsky Kogan, daughter of Immanuel V., has a degree in Physics. She
attended most meetings of her father with Einstein. She lives in Israel and has recently
translated in Hebraic some of the works of V.
The Symposium will take place at the Conference Room of University of Bergamo in via
dei Caniana n. 2 (not far from rail station and motorway access). Participation is free within
space availability (180 seats) on first come first served basis (but see the web site for
possibility of reserving a place). For further information contact Emilio Spedicato
([email protected]) or Laura Capelli ([email protected]) or consult the site
www.unibg.it/dmsia/seminari/Velikovsky_uk.html .
157
Da Rivolta contro il mondo moderno a Gli uomini e le rovine
Julius Evola 1934-1951
(Alberto Lombardo)
1. La pubblicistica degli Anni '30 e la Rivolta contro il mondo moderno.
Le esperienze pubblicistiche degli Anni '20 e della prima metà dei '30 fecero notare
Evola da più parti. Iniziò così la sua collaborazione a numerose testate dell'epoca, prime fra
tutte «La vita italiana» 1 di Giovanni Preziosi e «Il regime fascista» di Roberto Farinacci.
Sul quotidiano del ras di Cremona, esponente del fascismo intransigente e squadristico,
Evola dispose dal 1934 di una speciale pagina culturale quindicinale, che prese il nome di
«Diorama filosofico»2. Su quelle pagine, per dieci anni, si alternarono alcune delle firme
più prestigiose del conservatorismo aristocratico europeo dell'epoca (sir Ch. Petrie, il
principe Rohan, O. Spann, E. Dodsworth, F. Everling, W. Stapel, W. Heinrich); inoltre
contribuirono esponenti di spicco del pensiero tradizionalista (R. Guénon, G. De Giorgio),
studiosi dell'antichità (tra cui lo storico della romanità Fr. Altheim), scrittori di grande fama
(G. Benn, P. Valéry) e buona parte degli ex-collaboratori de «La Torre» 3. Evola ricorda
l'esperienza del «Diorama filosofico» in questi termini: «Fu, questo, un tentativo unico nel
suo genere nell'ambiente del tempo. Fu anche un appello la cui risposta, nell'insieme,
doveva però essere negativa»4. La causa di ciò, sempre secondo Evola, fu che «nel campo
della cultura in senso proprio la "rivoluzione" fu uno scherzo. Per poter rappresentare la
"cultura fascista" l'essenziale era essere iscritti al partito e tributare un omaggio formale e
conformistico al Duce. Il resto, era più o meno indifferente» 5. In un simile squallido
panorama le pretese aristocratiche e tradizionali di Evola e del suo gruppo di collaboratori
dovevano andare per necessità frustrate.
Dopo aver collaborato all'Enciclopedia Italiana sul finire degli Anni '206, nei tredici
anni successivi l'attività pubblicistica di Evola si fece ancora più intensa. Vanno ricordati
anche, tra gli altri, i numerosi scritti per «Il corriere padano» (quotidiano di Ferrara),
«Bibliografia fascista»7, «Augustea», «Lo Stato»8, «La rivista del C.A.I.»9 e, dal 1939, «La
difesa della razza». Il suo pensiero andava in quegli anni facendosi sempre più radicalmente
tradizionalista. Nel 1934 usciva quello che da molti è considerato il suo libro più importante
e significativo, Rivolta contro il mondo moderno10, in cui esponeva una vera e propria
visione metafisica della storia e della civiltà; si interessava inoltre di varî altri temi, come in
Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo, del 1932, ne Il mistero del Graal e la
tradizione ghibellina dell'impero11, del 1937, e ne Il mito del sangue12, dello stesso anno.
Prima che l'argomento iniziasse a divenire una moda culturale a seguito
dell'emanazione delle famose "leggi razziali" del 1938 (tema in quegli anni spesso
affrontato senza la debita preparazione), Evola si occupò dello studio delle razze umane,
formulando una singolare dottrina razziale incentrata sull'elemento spirituale. Partendo
dalla tripartizione tradizionale dell'uomo in corpo, anima e spirito, egli evidenziava
l'esistenza di altrettante razze, corrispondenti ai tre diversi livelli. In tale visione si possono
di conseguenza delineare, gerarchicamente ordinati, un razzismo del corpo, uno dell'anima
e uno dello spirito. Va in ogni caso precisato, con Adriano Romualdi, che «avrebbe poco
senso definire il razzismo di Evola un "razzismo dello spirito", perché la razza è
158
innanzitutto un dato psico-fisico. Esso è piuttosto un'analisi del fatto razziale integrata in
una dimensione più profonda»13.
Alcuni dei libri che il filosofo tradizionalista scrisse sull'argomento (oltre al già citato
Il mito del sangue, Tre aspetti del problema ebraico, del 193614; Sintesi di dottrina della
razza, del 194115; Indirizzi per una educazione razziale, dello stesso anno16) e anche alcuni
articoli17 furono notati da Mussolini, che convocato Evola a Palazzo Venezia gli espresse il
suo plauso per la concezione spiritualista della razza che vi vedeva espressa. Fu a seguito di
quell'incontro che Evola ebbe rapporti di collaborazione con il Ministero della cultura
popolare (e probabilmente da lì presero spunto, più o meno direttamente, anche alcune
collaborazioni giornalistiche)18 e che nacquero almeno un paio di iniziative di carattere
ufficiale, tra le quali la pubblicazione in lingua tedesca di Sintesi di dottrina della razza con
il titolo di Grundrisse des faschistischen Rassenlehre19, il progetto di rivista bilingue
«Sangue e spirito»20 e una sorta di "mappatura razziale d'Italia" condotta a livello scientifico
sui tre livelli dell'uomo prima elencati. Questi due ultimi progetti però non giunsero a buon
esito21.
In un'intervista del dopoguerra Evola espone in tre punti quelle che a suo avviso
furono le ragioni dell'interesse suscitato in Mussolini dalla sua opera: «All'epoca in cui
parlavo in Germania, Mussolini si interessava al razzismo. Per tre ragioni: 1) avevamo
conquistato l'Etiopia; si trattava di suscitare una specie di orgoglio nazionale nell'elemento
italiano per impedire le mescolanze di sangue. Questo razzismo assomigliava meno al
razzismo fanatico tedesco di quello che i bravi inglesi hanno sempre praticato nelle colonie.
2) D'altronde Mussolini aveva riconosciuto il fatto che una rivoluzione sarebbe diventata
una burla se non si fosse creato un tipo umano nuovo […]. 3) In terzo luogo, dal momento
in cui l'Italia fosse divenuta alleata della Germania, l'ebreo sarebbe diventato suo nemico.
All'inizio del regime fascista, in Italia, al contrario della Germania e della Francia di
Gobineau e di Achille de la Ponge (errore per Georges Vacher De Lapouge, N.d.A.), vi
erano solo antropologi limitati»22.
Se nel 1934, in concomitanza con l'uscita della prima edizione della Rivolta Evola
ancora riteneva del fascismo «che si poteva sempre tentare di rafforzare le potenzialità
positive presenti nei movimenti politici in discorso, separandole da quelle negative e
problematiche»23, e se probabilmente sulla base di una simile veduta svolse anche, in modo
più o meno ufficioso, alcuni ruoli paradiplomatici in stati dell'Europa orientale 24, questa
tenue speranza di una restaurazione dell'ordine tradizionale parve dissolversi al crollo di tali
regimi.
Evola continuerà nel dopoguerra a dare indicazioni politiche agli uomini dell'Ordine,
che avrebbero dovuto opporsi alla decadenza contemporanea. Ma tali indicazioni appaiono
ormai quasi esclusivamente l'additare la "giusta battaglia", senza che più un realismo
politico o una minima prospettiva di successo a esse minimamente arrida. Si tratta di una
visione "guerriera", ignara e priva di «compromessi, illusioni e finzioni di sorta» 25, che nel
suo ascetismo legionario si richiama idealmente alla Repubblica Sociale Italiana.
2. La Repubblica Sociale Italiana.
Dopo l'otto settembre 1943 Evola non si accodò ai tanti intellettuali cresciuti nel
fascismo e pronti a vendere la propria intelligenza al nuovo padrone, americano o sovietico
che fosse. Pur se critico nei confronti del fascismo durante il potere di questo, non può che
schierarsi dalla parte del fascismo quando, nel grande conflitto, lo vede opporsi alle forze
dell'antitradizione capitalista e comunista. Come aveva già scritto sin nel maggio 1929, «ad
Oriente, è la Russia. Ad Occidente, è l'America. Due forme, due poli di un pericolo che,
159
come due branche di una unica tenaglia, cominciano a serrarsi lentamente intorno al nucleo
della nostra Europa»26. Due forme di civiltà accomunate da uno stesso materialismo, da uno
stesso primato dell'economia, da uno stesso ideale "da bestiame bovino" di produzione e
consumo. Risultano ancora oggi profetiche le parole che Evola scrisse oltre settanta anni
orsono a tale proposito27: «Se il bolscevismo ha destato, ed ancora continuerà a destare,
delle reazioni precise come per una cosa mortale per tutta la tradizione della nostra cultura,
l'Europa tuttavia in mille forme va ogni giorno più subendo l'influenza dell'americanismo,
epperò del pervertimento di valori e di ideali che sta dietro all'americanismo e che il
bolscevismo conduce al vertice […]. L'americanizzazione di alcuni aspetti della vita
europea rappresenta una specie di cavallo di Troia con cui l'America - forse senza pensarci
e senza volerlo, ma volendolo invece la nostra debolezza - dissolverà la civiltà del vecchio
continente, fra cui d'altra parte sotto specie di ideologie comunistico-pacifiste,
internazionalistiche, bolsceviche e democratiche, serpeggia il fermento di
decomposizione»28.
Date simili premesse ideologiche e culturali lo schierarsi evoliano dalla parte della
R.S.I. è un'adesione necessitata, di estrema e coraggiosa coerenza. Anche per lui può valere
la classificazione di quella scelta come quella di "onore", presa in un momento in cui i
destini del conflitto pendevano già con tragica evidenza dalla parte del nemico.
Gianfranco De Turris ha ricostruito dettagliatamente, sulla base dei documenti
esistenti, il poco che si sa sul periodo 1943-1945 nella vita di Evola 29, e ha tratto dal suo
studio queste conclusioni: «Julius Evola ha avuto una posizione quantomeno singolare
all'interno dell'esperienza della Repubblica Sociale. Operò nella R.S.I., ma non fece parte
propriamente della R.S.I.: infatti, almeno allo stato attuale delle ricerche, non risulta che
ebbe incarichi ufficiali nella Repubblica, a parte i rapporti di collaborazione esterna con il
Ministero della Cultura Popolare sino all'ottobre 1943; né continuò la sua intensissima
attività pubblicistica, come era stato in precedenza sino al luglio 1943: infatti, da quanto è
stato possibile fino ad ora controllare, sui giornali della R.S.I. risultano appena due suoi soli
articoli». Si tratta delle collaborazioni giornalistiche con il quotidiano torinese «La
Stampa»30. A esse va aggiunta la pubblicazione, nello stesso anno, de La dottrina del
risveglio31. Va menzionata altresì l'attività svolta a Vienna - dove Evola visse in quegli anni
sotto falsa identità32, e dove, nel marzo 194533 riportò la lesione al midollo spinale che lo
costrinse alla immobilità degli arti inferiori per il resto dei suoi giorni - di ricerca sulla
massoneria e simili movimenti, che avrebbe dovuto portare alla stesura di una Storia
segreta delle società segrete, mai andata in porto, e l'attività di collaborazione a organi
politici, sulla quale però ben poco si sa34.
Un dato di fatto acclarato è però che Evola fu uno dei pochissimi italiani a incontrare
Mussolini al Quartier Generale di Hitler dopo la liberazione del Duce dal Gran Sasso a
opera di Otto Skorzeny, nel novembre 194335.
3. Il dopoguerra: un mondo di rovine.
Come accennato, nel 1945 Evola riportò una lesione al midollo osseo che lo costrinse
all'immobilità degli arti inferiori per il resto della sua vita 36. Trascorse così circa tre anni
girando tra diversi ospedali, prima in Austria e poi in Italia. Questi problemi fisici non
menomarono però in alcuna misura le sue facoltà intellettive: anzi, egli interpretò quella
forzata immobilità quasi come il segno di una volontà superiore che la sua attitudine
"guerriera" si sviluppasse sul piano esclusivamente culturale.
Dopo la fine del conflitto e «dopo aver trascorso circa un anno e mezzo in cliniche
austriache, nel 1948 rientrai in Italia. Qui mi aspettavo di trovare solo un mondo di rovine,
160
spirituali ancor più che materiali. Restai sorpreso nel constatare che esistevano invece dei
gruppi, soprattutto di giovani, che non si erano lasciati trascinare nel crollo generale. Specie
nei loro ambienti il mio nome era noto e i miei libri erano molto letti» 37. Si avviò così un
fecondo rapporto intellettuale tra Evola e quella gioventù "non spezzata": tra i ragazzi che
primi entrarono in contatto con Evola vi sono Clemente Graziani38, Fausto Gianfranceschi39,
Roberto Melchionda40, G.A. Spadaro41, Enzo Erra42, Paolo Andriani43, Rutilio Sermonti e
Pino Rauti. Quest'ultimo rammenta con queste parole la "scoperta" di Evola: «non lo
conoscevamo. Durante il regime fascista aveva avuto scarso rilievo ufficiale, anche se gli
articoli che scrisse su «Diorama» furono, a mio parere, una cosa enorme. Ma noi
ignoravamo tutto della vita culturale del fascismo […]. Evola lo scoprimmo durante uno dei
nostri tanti soggiorni in carcere. Leggemmo Rivolta contro il mondo moderno, che per noi
ebbe un'importanza decisiva»44.
Con quei giovani - nucleo dal cui ambiente sarebbero sorte varie iniziative politiche e
culturali45 - si instaura un importante rapporto; ed è essenzialmente per quella gioventù che
Evola scrive, nei primi anni del dopoguerra, i suoi principali saggî di argomento politico. Si
tratta del settore della Destra giovanile e culturale di quegli anni, vicina al (o all'interno del)
Movimento Sociale Italiano e soprattutto si tratta della corrente di Ordine Nuovo: «Si era
[…] formato un "Movimento Sociale Italiano", composto di vecchi fascisti, ma anche di
giovani; sono loro che combattono il comunismo per le strade e all'università. Conta circa
due milioni di membri. […]. Ma un altro gruppo, "Ordine Nuovo", ha adottato totalmente le
mie idee»46. Il giudizio sui membri di "Ordine Nuovo" non fu sempre dei migliori: «anche
dal lato dottrinale la situazione è critica, appunto per la mancanza di studiosi qualificati di
tale indirizzo: lo si vede dallo stesso caso del gruppo di "Ordine Nuovo" che volentieri
vorrebbe seguire una linea tradizionale non cattolica o cristiana, ma che manca quasi
completamente degli accennati elementi qualificati, per cui ogni volta che vogliono far
uscire un numero della rivista si trovano di fronte al problema dei collaboratori»47.
La gioventù di Destra manterrà con Evola un rapporto privilegiato sino alla morte di
questi. Negli anni successivi gravitarono intono alla sua casa di Via Vittorio Emanuele, tra
gli altri, Mario Merlino48, Gianfranco De Turris49, Gaspare Cannizzo50, Renato Del Ponte51 e
soprattutto Adriano Romualdi, che fu senza dubbio il suo migliore interprete, oltre che
l'autore della prima biografia evoliana52.
Adriano Romualdi (1941-1973), figlio di Pino, (che fu vicesegretario del P.F.R., tra i
fondatori del M.S.I. e presidente dello stesso, oltre che direttore della rivista mensile
«L'Italiano») fu una delle più coscienti e acute menti critiche della Destra italiana. Tra i suoi
testi più propriamente politici figurano un saggio sulla Konservative Revolution tedesca53, la
già citata biografia interpretativa di Evola, il saggio postumo Il fascismo come fenomeno
europeo54, il lirico saggio Le ultime ore dell'Europa, che rappresenta una drammatica
narrazione della conclusione della seconda guerra mondiale, la lettura critica di pensatori di
spicco della storia della filosofia e della letteratura (Nietzsche 55, Platone56, Spengler57, Drieu
La Rochelle58) e due saggî, oggi raccolti in un volume unico 59, dal titolo, rispettivamente,
Idee per una cultura di Destra e La Destra e la crisi del nazionalismo.
Occorre chiarire che Evola rimase del tutto estraneo alla politica in senso stretto.
Come non era mai stato iscritto al P.N.F., allo stesso modo non aderì ad alcun partito nel
dopoguerra. Nei confronti del M.S.I. in una lettera del 1948 a un vecchio amico (Girolamo
Comi) così si espresse: «La prima impressione circa la vita della nuova Italia, quale l'ho
potuta avere da qualche giornale e dallo stile di chi si trova qui, è quella di una particolare
turbolenza […]. Quanto a "posizioni", le più decenti mi sembrano quelle del MSI, ma
unicamente perché negano senza eccezioni gli altri partiti e sono balie asciutte per i
161
"liberatori" sia del blocco occidentale che di quello orientale. Ma, quanto al lato positivo,
nemmeno essi vanno un passo avanti oltre il pantano»60.
Nell'aprile del 1951 Evola venne arrestato con l'accusa di essere stato "maestro" e
"ispiratore" dei F.A.R. (Fasci di Azione Rivoluzionaria), un movimento politico costituitosi
su basi spontaneistiche, membri del quale avevano fatto esplodere alcune bombe-carta nella
capitale. Il collegamento a Evola fu presunto sulla base della sua pubblicazione di
Orientamenti per conto di «Imperium» e delle sue collaborazioni giornalistiche con alcune
delle riviste sopra citate61. Dopo sei mesi circa di custodia cautelare in carcere, Evola,
patrocinato gratuitamente dal famoso professore Francesco Carnelutti, pronunciò la famosa
Autodifesa, poi ripubblicata anche nella rivista «L'eloquenza» 62. Fu assolto il 20 novembre
del 1951 con formula piena - sebbene il Pubblico Ministero avesse chiesto otto mesi di
reclusione. Nella sua autobiografia definì poi tale episodio come una «comica vicenda» 63.
Oltretutto, rilevava, «nella mia autodifesa ebbi occasione di mettere in chiaro un punto
fondamentale. Dissi che attribuirmi idee "fasciste" era un assurdo. Non in quanto erano
"fasciste", ma solo in quanto rappresentavano, nel fascismo, la riapparizione di principî
della grande tradizione politica europea di Destra in genere, io potevo aver difeso e potevo
continuare a difendere certe concezioni in fatto di dottrina dello Stato»64.
Su questa stessa linea sono i saggi evoliani Il Fascismo visto dalla Destra 65 e Gli
uomini e le rovine66. Affini nella stessa struttura, questi saggi affrontano il problema
politico in chiave storiografica il primo e di teoria generale il secondo (con commistioni in
entrambi i casi): già in Orientamenti erano presenti le idee-base e la struttura generale dei
due saggi teorici successivi.
Sulla nascita de Gli uomini e le rovine, in particolare, ricorda Evola: «mi parve non
inutile esporre in un libro quei presupposti d'ordine generale che, nel campo della dottrina
dello Stato e della visione generale della vita, si prestassero per l'orientamento di detto
schieramento»67. Un dato è in particolare interessante: «Gli uomini e le rovine uscì con una
presentazione del principe Valerio J. Borghese, assai noto come esponente dei combattenti
dell'ultima guerra, essendo egli stato a capo di forze della marina italiana, che, fra l'altro,
con una impresa audacissima colarono a picco nel porto di Alessandria due corazzate e altre
navi inglesi e avendo egli poi combattuto fino all'ultimo come comandante del corpo
chiamato Decima Mas. Questa associazione del suo nome col mio doveva avere un
carattere simbolico: entrambi eravamo uomini che avevano seguito liberamente una linea
ideale, rifuggendo dal piano più basso della politica, l'uno potendo rappresentare il
combattentismo, l'altro il teorico di una precisa idea di Destra. Pensai che un tale binomio
avrebbe forse potuto cristallizzare in Italia forze per quel nuovo fronte. […]. Ciò, in termini
diversi da un partito politico, piuttosto in quelli di quadri potenziali di un ordine nuovo.
[…]. Dunque: da un lato lo schieramento di un'élite di Destra, dall'altro, come controparte,
questi quadri potenziali per l'azione; un partito, unicamente per una funzione tattica
contingente. Tutto questo progetto non ebbe seguito alcuno»68. Adriano Romualdi descrive
Gli uomini e le rovine con queste parole: «un libro "reazionario", nel senso positivo e
legittimo del termine, il libro di chi reagisce, e duramente, contro il sudiciume del mondo
democratico-marxista»69.
Evola avrebbe dovuto cioè constatare e sempre più negli anni convincersi di come i
tempi non fossero più maturi per una restaurazione, in alcuna forma, dell'ordine tradizionale
che teorizzava. Il capitolo della sua autobiografia dedicato alla Ricerca di uomini fra le
rovine si conclude dunque con questa amara constatazione: «In genere, sembrano non
esistere, in Italia, i presupposti necessari per una seria azione di risollevamento ideale e
politico. Purtroppo come sostanza umana s'incontra dappertutto quella del politicante che
162
rimane tale anche quando combatte il comunismo e professa idee "nazionali". Gli intrighi
parlamentari hanno assorbito a poco a poco anche i migliori»70.
Note
1
I contributi al quindicinale di Preziosi sono stati poi raccolti: J. Evola, Gli articoli de «La vita
italiana» durante il periodo bellico, Centro Studi Tradizionali di Treviso, Treviso 1988. Molti scritti
sono riportati anche in J. Evola, Il "genio d'Israele". L'azione distruttrice dell'ebraismo, Il Cinabro,
Catania 1992.
2
Gli articoli dei primi due anni (1934 e 1935) furono raccolti in un volume: J. Evola, Diorama
filosofico. Problemi dello spirito nell'etica fascista, Europa, Roma 1974. Il libro recava la dicitura
"volume I"; ma non è mai seguita l'edizione di volumi successivi. Rimando necessariamente
all'ampio studio del prof. R. Del Ponte, Gli orizzonti europei del tradizionalismo nel «Diorama
filosofico» (1934-1943), in M. Bernardi Guardi e M. Rossi (cur.), Delle rovine e oltre. Saggi su
Julius Evola, Pellicani, Roma 1995, pp. 167-197. Del Ponte (n. 23 p. 177) vi preannunciava (si era
nel 1995) la futura edizione critica, in almeno sei volumi, dell'intero «Diorama», per conto delle
edizioni Sear. Anche questo secondo progetto non è però mai andato in porto, per via delle difficoltà
incontrate nella prima metà degli Anni '90 dalla casa editrice.
3
Cfr. J. Evola, La Torre, Il Falco, Milano 1977. Su D. Rudatis in particolare cfr. L. Pignatelli,
Sport, cultura, tradizione. Domenico Rudatis collaboratore del «Diorama filosofico» evoliano, in
«Futuro presente» 6 (1995), pp. 175-180.
4
J. Evola, Il cammino del cinabro, Scheiwiller, Milano 1972 (II), p. 104.
5
J. Evola, Il cammino del cinabro, cit., p. 105.
6
Cfr. St. Arcella, La collaborazione di Evola con l'Enciclopedia Italiana, in «Studi evoliani» 1
(1998), pp. 82-92, che conclude: «la collaborazione di Evola con la Treccani si inserisce […] in una
strategia della presenza volta a garantire all'orientamento spirituale e culturale che rappresentava
uno spazio istituzionale di espressione all'interno delle strutture culturali ufficiali» (pp. 91-92). La
sola voce Atanr, di sicura attribuzione a J. Evola, è stata ripubblicata in «Algiza» 13 (1999), p. 21.
7
Gli scritti sono stati raccolti nel libro in due volumi J. Evola, Esplorazioni e disamine. Gli scritti di
«Bibliografia fascista», Edizioni all'insegna del Veltro, Parma 1994 e 1995.
8
I contributi a «Lo Stato» sono stati organicamente raccolti in un'edizione curata da G.F. Lami: J.
Evola, Lo Stato (1934-1943), Fondazione Julius Evola, Roma 1995.
9
Pubblicati, con altri e a cura di R. Del Ponte, nel volume J. Evola, Meditazioni delle vette, Il
Tridente, La Spezia 1974 (l'ultima edizione, la quarta, è Sear, Borzano 1997). Sull'Evola alpinista
cfr. anche E. Longo (cur.), Il regno perduto. Note sul simbolismo tradizionale della montagna, Ar,
Padova 1989; id., Montagne di ghiaccio e di luce: la metafisica delle vette in Julius Evola, in
«Convivium» 18 (1994), pp. 13-19; id., Il fuoco e le vette, Il Ventaglio, Roma 1996, passim; id.,
Swastika. Il mistero dell'alpinismo esoterico, in «Algiza» 13 (1999), pp. 13-17.
10
J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, Hoepli, Milano 1934. L'ultima versione, la quarta, è
Mediterranee, Roma 1998.
163
11
J. Evola, Il mistero del Graal e la tradizione ghibellina dell'impero, Laterza, Bari 1937. L'ultima
edizione, la quarta, è Il mistero del Graal, Mediterranee, Roma 1994. Sulla genesi editoriale del
libro, in cui giocò una parte di rilevo anche l'intermediazione di Benedetto Croce presso l'editore
Laterza di Bari, cfr. J. Evola, La biblioteca esoterica. Evola Croce Laterza carteggi editoriali 19251959 (a cura di A. Barbera), Fondazione Julius Evola, Roma 1997.
12
J. Evola, Il mito del sangue, Hoepli, Milano 1937. Ne seguì una seconda edizione nel 1942 presso
lo stesso editore. Di entrambe le versioni sono oggi disponibili edizioni anastatiche, rispettivamente
Ar, Padova 1978 e Sear, Borzano 1995. Si noti che le riproduzioni sono entrambe uscite dopo la
morte dell'autore, poiché questi si era opposto alla riproposizione di tali libri dopo il secondo
conflitto mondiale.
13
A. Romualdi, Julius Evola: l'uomo e l'opera, Volpe, Roma 1968, ora in id., Su Evola, Fondazione
Julius Evola, Roma 1998, p. 86.
14
J. Evola, Tre aspetti del problema ebraico, nel mondo spirituale, nel mondo culturale, nel mondo
economico sociale, Mediterranee, Roma 1936. Ne esiste oggi un'edizione anastatica (Ar, Padova
1978).
15
J. Evola, Sintesi di dottrina della razza, Hoepli, Milano 1941. Edizione anastatica Ar, Padova
1978.
16
J. Evola, Indirizzi per una educazione razziale, Conte, Napoli 1941. Ne esiste una seconda
edizione ricomposta (Ar, Padova 1994).
17
Il riferimento è in particolare a J. Evola, Razza e cultura, in «Rassegna italiana» 188/XVII (1934),
pp. 11-16, e di imminente riedizione nel volume da me curato J. Evola, Il "mistero iperboreo".
Scritti sugli Indoeuropei 1934-1956, Fondazione Evola, Roma 2001. Ne Il Cammino del cinabro
(cit., p. 148) Evola ricorda erroneamente il 1935, anziché il 1934, come anno di edizione
dell'articolo.
18
Tra queste cfr. U. Indrio, Da «Roma fascista» al «Corriere della Sera». Cinquant'anni di storia
italiana nelle memorie di un giornalista, Edizioni Lavoro, Roma 1987, 116-117. Il riferimento è alla
collaborazione evoliana a «Roma fascista», resa possibile tramite l'intermediazione di Massimo
Scaligero. Cfr. infra anche il caso della collaborazione evoliana al quotidiano torinese «La stampa».
19
J. Evola, Grundrisse des faschistischen Rassenlehre, Runge Verlag, Berlin o.D. (1943).
20
«"Le propongo di creare una rivista italo-tedesca che si chiamerebbe «Sangue e spirito»"
Mussolini approvava; io m'incaricavo quindi della parte italiana, Rosenberg e Gross di quella
tedesca; purtroppo la cosa non è continuata», ricorda Evola in E. Antebi, Un'intervista a Julius
Evola, in «Heliodromos» 6 (1995), p. 19. Cfr. sul tema l'ampia documentazione dell'auswärtiges
Amt in N. Cospito - H. W. Neulen, J. Evola nei documenti segreti del Terzo Reich, Europa, Roma
1986, pp. 85-109. Da essa si apprende che dopo l'incontro con Mussolini dell'agosto 1941 Evola
ebbe modo di sentirsi confermare il proposito del Duce nuovamente nel dicembre 1941.
21
J. Evola, Il cammino del cinabro, cit., pp. 147-160. Rileviamo di passata come una "mappatura
razziale", di tipo nettamente materialistico, sia stata invece stilata nel dopoguerra tramite gli studi
genetici e sulla tipologia del sangue dall'antropologo L. Cavalli-Sforza.
22
E. Antebi, Un'intervista a Julius Evola, cit., p. 18.
23
J. Evola, Il cammino del cinabro, cit., p. 131.
164
24
Cfr. il documentato lavoro di C. Mutti, Julius Evola sul fronte dell'Est, Edizioni all'insegna del
Veltro, Parma 1998. Gli Stati cui si fa riferimento sono la Cecoslovacchia, la Romania e l'Ungheria.
25
Espressioni evoliane riferite, nel dopoguerra, alle prospettive aperte da Rivolta contro il mondo
moderno (J. Evola, Il cammino del cinabro, cit., p. 132).
26
J. Evola, Americanismo e bolscevismo, in «La nuova antologia» 10 (maggio 1929), ora in J.
Evola, I saggi della Nuova Antologia, Ar, Padova 1982 (II), p. 35.
27
Scriveva F. Freda (sub nomine Edizioni di Ar) nella Nota introduttiva a J. Evola, I saggi della
Nuova Antologia, cit., pp. 10-11: «nella lucida diagnosi sul modo d'essere e di manifestarsi
dell'americanismo e del bolscevismo, accanto ad affermazioni che assumono il valore di vere e
proprie predizioni di ciò che gli eventi hanno in seguito confermato, l'Autore è incline a ritenere
esistenti tra i due sistemi delle differenze che gli avvenimenti successivi hanno provveduto a negare
e superare [...]. Egualmente pare - quanto meno a noi - che oggi non siano più americanismo e
bolscevismo a comporre le membra della Bestia e a suscitarne i movimenti. Forze più sottili, non
ancora precisatesi e "incarnatesi", stanno concentrandosi per dirigerla sino al fondo».
28
J. Evola, Americanismo e bolscevismo, cit., p. 52.
29
G. De Turris, Un tradizionalista nella R.S.I. Julius Evola 1943-1945, in AA.VV., Uomini e scelte
della R.S.I., Bastogi, Milano 2000.
30
In una ricerca d'archivio, ho portato alla luce l'intera collaborazione evoliana a «La Stampa». Essa
ammonta a un totale di sedici articoli, tutti usciti in tempo di guerra, e due dei quali editi durante il
periodo della R.S.I. Ne ho dato un primo resoconto (A. Lombardo, Quando Evola collaborava a La
Stampa, in «Area» 45 (2000), pp. 79-80), e ne è in preparazione l'edizione critica completa per
conto della Fondazione Evola nella "Biblioteca evoliana". È verosimile che la collaborazione
evoliana con «La stampa» abbia preso avvio a seguito del rapporto di collaborazione di Evola con il
Ministero della cultura popolare favorito dall'incontro con Mussolini cui sopra accennavo.
31
J. Evola, La dottrina del risveglio, saggio sull'ascesi buddhista, Laterza, Bari 1943. L'ultima
edizione, la quarta, è Mediterranee, Roma 1995.
32
33
J. Evola, Il cammino del cinabro, cit., p. 163.
La data di marzo, e del giorno dodici in particolare, anziché quella correntemente ritenuta di
aprile, risulta più verosimile, secondo il calcolo che ha fatto lo studioso viennese M. Schwarz, cui
sono debitore dell'informazione. La sua tesi si fonda soprattutto sul fatto che il bombardamento del
dodici marzo fu il più disastroso per Vienna, e in tale data fu forse anche distrutto, almeno in parte,
il palazzo di Neuer Markt 3 in Wien 1 dove Evola aveva certamente vissuto negli anni precedenti.
Si trattava del settimo anniversario dell'Anschluss. Il bombardamento alleato (non russo come si
ritiene correntemente, dunque) contro i civili, rammentiamo di passata, non aveva di per sé alcun
interesse militare. Oggi nel pieno centro di Vienna, a pochi isolati da dove Evola visse, e dove vi
furono la maggior parte dei morti, una statua e una lapide ricordano i molti caduti di quel 12 marzo,
che vengono definiti (con una logica piuttosto tortuosa) "vittime del nazifascismo". Secondo un'altra
fonte, rileva però lo stesso Schwarz, è possibile che il ferimento di Evola avvenne nella o presso la
Schwarzenbergplatz, dove si trovavano diversi centri ufficiali e delle SS. De Turris (nota del
curatore ad A. Romualdi, Julius Evola: l'uomo e l'opera, cit., n. 4 p. 90), scrive: «secondo quanto
riferisce il medico personale, Evola venne sbalzato dallo spostamento d'aria provocato da una
esplosione e sbattuto contro una struttura di legno - delle impalcature - che erano in una piazza: il
che provocò la compressione della colonna vertebrale».
165
34
Cfr. J. Evola, Il cammino del cinabro, cit., pp. 135, 140-146, 161-163; G. De Turris, Un
tradizionalista nella R.S.I., cit., passim; H. Th. Hansen, Julius Evolas politisches Wirken, che
costituisce l'ampia Einführung a J. Evola, Menschen inmitten von Ruinen, Hohenrain, Tübingen
1991, pp. 60-65.
35
J. Evola, Diario 1943-1944, Sear, Scandiano 1989, pp. 32-37 (come correttamente rileva G. De
Turris nel suo Un tradizionalista nella R.S.I., cit., n. 3, sotto questo titolo sono stati riuniti i cinque
articoli che Evola pubblicò sul quotidiano di Roma «Il popolo italiano» dal 14 al 24 marzo 1957
sotto l'intestazione complessiva Con Mussolini al Quartier Generale di Hitler). Cfr. anche J. Evola,
Il cammino del cinabro, cit., p. 135.
36
Circa tale periodo, cfr. G. De Turris, Ventimila lire per andare a Lourdes, in «Letture» 549
(1998), pp. 29-32; id. (cur.), Lettere di Julius Evola a Girolamo Comi (1934-1962), Fondazione
Evola, Roma 1987.
37
J. Evola, Il cammino del cinabro, cit., p. 164. Sul rapporto ideale e politico tra Evola e la gioventù
italiana (e i suoi riflessi sino ai giorni nostri) mi permetto di rimandare ad A. Lombardo, Evolas
Rezeption in Italien, in «Kshatriya» R. 9 (2000), pp. 1-3.
38
Cfr. E. Massagrande, Per ventidue anni compagno di latitanza, in S. Forte, Clemente Graziani.
La vita, le idee, Settimo sigillo, Roma 1997, p. 40: «fu lui che mi fece conoscere certi autori (Evola
anche di persona)».
39
F. Gianfranceschi, L'influenza di Evola sulla generazione che non ha fatto in tempo a perdere la
guerra, in G. De Turris (cur.), Testimonianze su Evola, Mediterranee, Roma 1985 (II), pp. 130-134.
40
Cfr. R. Del Ponte, L'attività pubblicistica di Evola negli anni del secondo dopoguerra sino a
«Ordine Nuovo», in «Convivium» 17 (1994), p. 44.
41
Dopo la morte del filosofo tradizionalista, Spadaro fu il primo presidente della Fondazione Evola.
Di lui si cfr. il ricordo di Evola La forza interiore, in «Raido» 11/12 (1998), pp. I-II.
42
Cfr. E. Erra, Il mistero di Evola, in G. De Turris, Testimonianze su Evola, cit., pp. 248-259; R.
Del Ponte, L'attività pubblicistica di Evola…, cit., p. 45. Enzo Erra fu il direttore di «Imperium» sin
dal maggio 1950, in cui la rivista fu fondata. Per conto di tale testata, la cui linea editoriale era
nettamente spiritualista e antisocialista, Evola scrisse l'opuscolo Orientamenti (Imperium, Roma
1950). Su posizioni analoghe a quelle di «Imperium» si attestò il Centro Studi Ordine Nuovo,
fondato nel 1954 da Pino Rauti, che dall'anno successivo diresse «Ordine Nuovo» (che si definiva
Mensile di politica rivoluzionaria), cui lo stesso Evola collaborò con almeno undici articoli. Sulla
storia di "Ordine Nuovo" cfr. Il movimento politico "Ordine Nuovo". Precisazioni, in «Noi» 1
(1971), pp. 2-4 e 27-29; C. Graziani, Processo a "Ordine Nuovo": processo alle idee, Roma 1972,
passim; F. Ferraresi, La destra eversiva, in id. (cur.), La destra radicale, Milano 1984, pp. 62-66
(per queste indicazioni bibliografiche sono debitore al prof. R. Del Ponte). Come precisa Del Ponte
(L'attività pubblicistica di Evola…, cit., p. 49 n. 28), «Non bisogna confondere il "Movimento
Politico Ordine Nuovo", gruppo extraparlamentare creato il 21 dicembre 1969, col "Centro Politico
Ordine Nuovo" [probabilmente si tratta di un lapsus per "Centro Studi Ordine Nuovo", N.d.A.],
diretto da Rauti e confluito nel Novembre dello stesso anno nel MSI, anche se è dalle ceneri del
secondo che il primo deriva».
43
Cfr. p. es. P. Andriani, Cambiare rotta, in «Imperium» II/1 (1951). L'avv. Andriani fu il secondo
presidente della Fondazione Evola, dopo il prof. G.A. Spadaro.
166
44
Sono parole di P. Rauti nell'intervista rilasciata a M. Brambilla e pubblicata nel volume da questi
curato Interrogatorio alle destre, Rizzoli, Milano 1995, p. 25.
45
A parte la citata «Imperium», tra le varie testate nazionaliste, nostalgiche, combattentistiche e
fasciste di quegli anni ricordiamo «Asso di bastoni», «Rosso e nero», «Rataplan», «Il Nazionale»,
«Il meridiano d'Italia», «Rivolta ideale».
46
Sono parole di J. Evola in E. Antebi, Un'intervista a Julius Evola, cit., p. 20.
47
J. Evola, Lettere 1955-1974. L'epistolario evoliano raccolto, catalogato e annotato da Renato del
Ponte, La Terra degli Avi, Finale Emilia s.d. (1995), p. 15. Si tratta della lettera del 18.II.1963 a
Salvatore Ruta.
48
M.M. Merlino, Ed il vento racconta…, in «Raido» 11-12 (1998), pp. II-V, in part. p. IV.
49
M. Brambilla (cur.), Interrogatorio alle destre, cit., p. 152.
50
J. Evola, Lettere 1955-1974 (cur. R. Del Ponte), La Terra degli Avi, Finale Emilia 1995, pp. 95113 e soprattutto G. Cannizzo, Premessa a J. Evola, Scritti per Vie della Tradizione 1971-1974, Vie
della Tradizione, Palermo 1996, p. 7 e G. Cannizzo, Il consigliere silenzioso, in G. De Turris (cur.),
Testimonianze su Evola, cit., p. 69-71.
51
J. Evola, Lettere 1955-1974 (cur. R. Del Ponte), cit., p. 155 n. 2.
52
A. Romualdi, J. Evola: l'uomo e l'opera, cit. Circa l'influenza di Evola sulle generazioni di
giovani successive cfr. M. Veneziani, Evola e la generazione che non ha fatto in tempo a perdere il
Sessantotto, in G. De Turris (cur.), Testimonianze su Evola, cit., pp. 324-331; E. Nistri, Evola e la
generazione che non ha fatto in tempo a perdere il Sessantotto, in «Studi evoliani» 1 (1998), pp.
120-131 (in cui Nistri scrive a p. 125, riferendosi a Gli uomini e le rovine: «Nelle sezioni missine
dei primi Anni Settanta la lettura di questo vademecum politico era considerata una sorta di prova di
iniziazione, una cartina di tornasole per valutare l'equazione personale di un militante, il primo
passo per la cooptazione degli iscritti più promettenti sotto il profilo culturale»); A. Piscitelli, Evola
e la generazione che non ha fatto in tempo a perdere un bel nulla perché ha già perso tutto , in
«Studi evoliani» 1 (1998), pp. 132-138. Cfr. anche G. De Turris, Evola e le rovine elettroniche
degli Anni Novanta, introduzione a J. Evola, Gli uomini e le rovine4, cit., pp. I-XXXVIII.
53
A. Romualdi, Le correnti politiche e culturali della destra tedesca dal 1918 al 1932, L'italiano,
s.i.l. ed..
54
A. Romualdi, Il fascismo come fenomeno europeo, Settimo sigillo, Roma 1984.
55
A. Romualdi, Nietzsche e la mitologia egualitaria, Ar, Padova 1981.
56
A. Romualdi, Platone, Settimo sigillo, Roma 1992.
57
A. Romualdi, Oswald Spengler. Ombre sull'Occidente, Volpe, Roma 1973.
58
A. Romualdi - G. Giannettini - M. Prisco, Drieu La Rochelle, il mito dell'Europa, La Salamandra,
Roma 1965.
59
A. Romualdi, Una cultura per l'Europa, Settimo sigillo, Roma 1996 (II).
167
60
G. De Turris (cur.), Lettere di Julius Evola a Girolamo Comi (1934-1962), cit., p. 23. Si tratta di
una lettera manoscritta autografa di due facciate inviata da Evola da Cuasso al Monte il 31 agosto
1948.
61
Cfr. F. Gianfranceschi, In carcere con Evola, in «Studi evoliani» 1 (1998), pp. 117-119.
62
J. Evola, Autodifesa, in «L'eloquenza» 11-12 (1951); ora Fondazione Evola, Roma s.d. (1976).
63
J. Evola, Il cammino del cinabro, cit., p. 165.
64
J. Evola, Il cammino del cinabro, cit., p. 166.
65
J. Evola, Il Fascismo. Saggio di una analisi critica dal punto di vista della Destra, Volpe, Roma
1963. Nella seconda edizione (Volpe, Roma 1970) il saggio uscì con in appendice un saggio
parallelo intitolato Note sul terzo Reich.
66
J. Evola, Gli uomini e le rovine, Edizioni dell'Ascia, Roma 1953. L'ultima edizione, la quarta, è
Settimo Sigillo, Roma 1990; ma ne è imminente l'uscita di una quinta, da parte delle Edizioni
Mediterranee.
67
J. Evola, Il cammino del cinabro, cit., p. 167.
68
J. Evola, Il cammino del cinabro, cit., pp.175-176.
69
A. Romualdi, Julius Evola: l'uomo e l'opera, cit., p. 91.
70
J. Evola, Il cammino del cinabro, cit., p. 177.
----Alberto Lombardo è nato a Chiavari (GE) nel 1976. Dopo aver frequentato
il locale liceo scientifico, si è laureato in giurisprudenza con una tesi sul
pensiero politico evoliano. E' da vari anni presidente del Centro Studi La
Runa, per le cui edizioni ha curato la pubblicazione di diversi volumi di
argomento storico e tradizionale e della rivista Algiza. Collabora alla pagina
culturale di alcuni quotidiani e riviste, sui quali si occupa di simbolismo,
storia antica e studi indoeuropei.
E-mail: "Centro Studi La Runa" <[email protected]>
Sito Internet: http://utenti.tripod.it/centrostudilaruna
168
La scienza come strumento ideologico
Il caso Galilei e la falsificazione della cosmologia tolemaica
(Umberto Bartocci - Laila Rossi)
1 - Esiste un capitolo assolutamente centrale per la comprensione dell'essenza della
"modernità", ed è quello relativo alla storia della scienza, e della tecnica, che della prima va
considerata, al tempo stesso, figlia e madre1. All'interno di esso, troviamo un argomento che
deve essere a sua volta riguardato come uno dei fili conduttori fondamentali dello sviluppo
del pensiero scientifico degli ultimi secoli 2, al quale si fa generico riferimento con
l'espressione: "rivoluzione copernicana". Non c'è dubbio infatti che sia proprio a partire
dall'affermazione dell'ormai familiare (fin dalla prima educazione scolare) sistema
eliocentrico che "viene infranta l'antica alleanza" (per usare l'espressione con cui Jacques
Monod chiude quel manifesto della Weltanschauung positivista del XX secolo che è Il
Caso e la Necessità); da essa che datano l'irruzione del profano, del pratico, del
quantitativo, nel mondo della conoscenza, riducendo sempre di più lo spazio del sacro, del
trascendente, del qualitativo. La dimostrazione che la Terra, e quindi l'essere umano, non
occupano affatto un posto privilegiato - in un universo che viene concepito anche come
smisuratamente (e di conseguenza pure "inutilmente"?!) ampio, "vuoto" più che "pieno" sferra ovviamente un duro colpo ai "tradizionali" credi filosofico-religiosi, aprendo la strada
a quello "smarrimento" concettuale e morale che domina ancora oggi la storia della civiltà
occidentale, sotto l'incubo del "silenzio" e dell'estraneità della Natura. Non a caso il
creatore della psicanalisi, Sigmund Freud, sostiene trattarsi, nel presente contesto, di una
grande mortificazione che la scienza ha recato all'ingenuo amore dell'umanità per se stessa 3,
e gli fa eco il nostro Luigi Pirandello con il "Maledetto sia Copernico!", gridato a gran voce
nelle prime pagine de Il fu Mattia Pascal:
"Io dico che quando la Terra non girava, e l'uomo, vestito da greco o da romano, vi faceva
così bella figura e così altamente sentiva di sé e tanto si compiaceva della propria dignità,
credo bene che potesse riuscire accetta una narrazione minuta e piena d'oziosi particolari
[...] Siamo o non siamo su un'invisibile trottolina, cui fa da ferza un fil di sole, su un
granellino di sabbia impazzito che gira e gira e gira, senza saper perché, senza pervenir mai
a destino, come se ci provasse gusto a girar così, per farci sentire ora un po' più di caldo, ora
un po' più di freddo, e per farci morire - spesso con la coscienza d'aver commesso una
sequela di piccole sciocchezze - dopo cinquanta o sessanta giri? Copernico, Copernico, don
Eligio mio, ha rovinato l'umanità, irrimediabilmente. Ormai noi tutti ci siamo poco a poco
adattati alla nuova concezione dell'infinita nostra piccolezza, a considerarci anzi men che
niente nell'Universo, con tutte le nostre belle scoperte e invenzioni; e che valore dunque
volete che abbiano le notizie, non dico delle nostre miserie particolari, ma anche delle
generali calamità? Storie di vermucci ormai, le nostre".
A tale particolare vicenda, soprattutto alle origini di questa rivoluzione concettuale, il
primo dei due autori4 ha dedicato un recente studio5, in cui la questione viene ricollegata
all'epopea delle grandi navigazioni portoghesi del XV secolo, sullo sfondo ideologico della
"crisi templare", e delle manifeste tendenze non soltanto anti-cattoliche, bensì più in
169
generale anti-cristiane, o addirittura scettico/atee, di quel periodo. E' nella stessa linea di
pensiero che va collocato il presente articolo, che si propone di analizzare un momento
paradigmatico degli eventi inerenti detta particolare storia, e dimostrare - forse un po'
inaspettatamente - quanto poco contenuto oggettivo-sperimentale avessero alcune
polemiche, passate nell'immaginario collettivo dei secoli successivi come un esempio della
perenne titanica lotta tra le forze delle tenebre e della luce. Resterà poi compito del lettore
valutare quanto certe "incongruenze" siano da ricondursi al normale ambito delle umane
strutturali imperfezioni, o non debbano piuttosto classificarsi quali indizi a favore di un
contesto interpretativo più ampio, e complesso - assai diverso, ovviamente, sia da quello
proprio dello scientismo, avente come motivo conduttore una forma ingenua del
"falsificazionismo" popperiano, sia da quello, assolutamente agli antipodi, proposto da tesi
storiografiche alquanto "fantasiose", nelle quali si suppongono coinvolte, nel corso degli
avvenimenti in oggetto, forze di natura trascendente il "semplice" livello del razionalmente
comprensibile e del percepibile (seppure non "immediatamente")6.
2 - Non è possibile naturalmente sintetizzare in poche parole la storia dell'affermazione
della concezione eliocentrica, che va almeno dal 1543, data della pubblicazione del De
Revolutionibus Orbium Caelestium di Niccolò Copernico, al 1687, anno in cui uscì la prima
edizione dei Philosophiae Naturalis Principia Mathematica, di Isaac Newton - passando
attraverso l'opera di personaggi quali Tycho Brahe, Johannes Kepler, Galileo Galilei, René
Descartes, etc.. Del resto, ciascuno conosce le linee generali di tale avventura del pensiero:
l'immagine di una Terra immobile, collocata al centro dell'universo, intorno alla quale
orbitano tutti i corpi celesti (famiglia di cui, a rigore, la Terra non veniva considerata far
parte), viene definitivamente sostituita da quella attuale, a causa, si afferma, e si sarebbe
quindi indotti a credere, di una serie di osservazioni manifeste e indiscutibili.
Così si esprime in effetti Galileo 7 a proposito della questione particolare che qui
prenderemo in esame, vale a dire la variabilità della distanza dei pianeti dalla Terra prevista
nei due sistemi: il primo, che denomineremo con lui tolemaico (o geocentrico) - seppure il
termine, come vedremo, sia alquanto improprio; il secondo, ovviamente, copernicano (o
eliocentrico)8. A una domanda di Simplicio, "Ma da che argumentate voi che non la Terra,
ma il Sole, sia nel centro delle conversioni de' pianeti?", Salviati risponde:
"Concludesi da evidentissime, e perciò necessariamente concludenti, osservazioni: delle
quali le più palpabili, per escluder la Terra da cotal centro e collocarvi il Sole, sono il
ritrovarsi tutti i pianeti ora più vicini ed ora più lontani dalla Terra, con differenze tanto
grandi, che, verbigrazia, Venere lontanissima si trova sei volte più remota da noi che
quando ell'è vicinissima, e Marte si inalza quasi otto volte più in uno che nell'altro stato".
Poco più avanti, Salviati conferma tale opinione, sostenendo dapprima che:
"questo avvicinamento ed allontanamento importa tanto, che Marte vicino si vede ben 60
volte maggiore che quando è lontanissimo",
mentre di seguito, per ciò che riguarda Venere, afferma che:
"ella si mostri in un tempo quasi 40 volte maggiore che in altro tempo, cioè grandissima
quando, sendo retrograda, va alla congiunzion vespertina del Sole, e piccolissima quando
con movimento diretto va alla congiunzion mattutina".
170
Sarebbero questi secondo Galileo, dunque, dei dati sperimentali inattaccabili, da lui
acquisiti con l'uso del cannocchiale, quello strumento che Copernico non poté utilizzare per
vedere così brillantemente convalidate le sue teorie: "Oh Niccolò Copernico, qual gusto
sarebbe stato il tuo nel veder con sì chiare esperienze confermata questa parte del tuo
sistema!"9.
La verifica della circostanza che tale opinione fa ancora oggi parte di quanto viene
assicurato per certo dalla "comunità scientifica", è fornita per esempio da uno studio
abbastanza recente dedicato a "Galileo e la falsificazione della cosmologia tolemaica"10:
"Un'ulteriore conferma del sistema copernicano viene dalle osservazioni del disco di Marte
che risulta al cannocchiale variare effettivamente la propria superficie apparente di circa 60
volte, come previsto da Copernico, e non di poche volte come previsto da Tolomeo. Anche
in questo caso siamo di fronte ad una precisa falsificazione del sistema tolemaico! [...] si
può ben dire che le dimensioni osservate al telescopio di Venere e di Marte costituivano un
altro colpo mortale al sistema tolemaico".
Del resto, non è difficile, anche per i meno esperti in tale genere di cose, farsi un'idea
della questione almeno nelle sue grandi linee: in un sistema copernicano "approssimato" 11,
in cui i pianeti ruotano intorno al Sole in orbite circolari, e ammettiamo pure con moto
uniforme, può accadere che, diciamo la Terra e Marte, si trovino allineati dalla stessa parte
rispetto al Sole (in congiunzione12), oppure da parti opposte, con il Sole nel mezzo (in
opposizione), dal che deriva che a volte Marte sarà "vicino" alla Terra, e a volte "lontano".
Al contrario, in uno geocentrico, nel quale le orbite siano concepite ancora pressoché
circolari, la distanza di un pianeta dalla Terra sarebbe da considerarsi sostanzialmente
costante, d'onde la fondata possibilità di una confutazione sperimentale di una teoria in
favore dell'altra.
Per renderci conto della situazione, facciamo due calcoli davvero elementari. Assunta
quale unità di misura la distanza (media) della Terra dal Sole (quella che si definisce oggi
un'unità astronomica, UA, vale a dire circa 149.600.000 Km), risulterà che la misura del
raggio dell'orbita terrestre è uguale a 1; dell'orbita marziana a 1.52 ; dell'orbita venusiana a
0.72 . Ne consegue che, in prima approssimazione, la distanza minima del pianeta rosso
dalla Terra è 0.52 UA, mentre la massima è 2.52 ; gli analoghi valori per la "vagabonda
stella d'Oriente" saranno invece rispettivamente 0.28 e 1.72 .
Questi numeri, desunti dalle stime oggi accettate per le distanze medie dei pianeti in
questione dal Sole - e, come vedremo, le stesse che erano conosciute, con notevole
approssimazione, sin dal tempo di Copernico - ci informano che il rapporto tra distanza
massima e minima dalla Terra nel caso di Venere è uguale a 6.14 , laddove nel caso di
Marte si ottiene solo un 4.84 . In realtà, le cose sono un po' più complicate di così, perché le
orbite dei pianeti non sono esattamente circolari, e il Sole non si trova al centro di esse,
fatto questo che ha le sue conseguenze osservative, di cui sia Tolomeo che Copernico erano
bene al corrente, e tenevano nel giusto conto, modificando con opportuni accorgimenti lo
schema ideale semplificato sopra descritto. Se l'eccentricità di Venere (vale a dire il
rapporto tra lo scostamento del Sole dal centro dell'orbita e la distanza media del pianeta dal
Sole) è soltanto di 7 millesimi, e quella della Terra di 16 centesimi, per quanto riguarda
Marte si trova invece un valore di quasi 1 decimo, circostanza la quale fa sì che la distanza
minima tra questo pianeta e la Terra non sia di 0.52 UA, bensì di 0.4 UA, e quella massima
di 2.64 UA, anziché 2.52 13. Il rapporto 2.64:0.4 produce adesso il numero 6.6 , al posto di
4.84 , e ad esso ci riferiremo nel seguito come al valore più adeguato.
171
Perché sono importanti per noi i numeri citati? Beh, perché permettono di comprendere
come variano davvero le dimensioni dei due astri, osservati dalla Terra. Basta notare che il
diametro apparente14 di Marte sarà circa 6 volte e mezzo più grande quando il pianeta è
vicino a noi rispetto a quando ci è lontano, sicché la superficie ancora apparente del suo
disco, che come sappiamo è proporzionale al quadrato del diametro, varierà di circa 44
volte (6.62×6.62 = 43.82); mentre, per quanto riguarda Venere, questo rapporto sarà di circa
38 volte (6.14×6.14 = 37.73). Ne consegue che il riferimento galileiano al numero 6, e
quindi al numero 40, risulta corretto per Venere, laddove appare invece alquanto esagerato
quello al numero 8, e quindi al numero 60, per Marte. Se Galileo con il suo cannocchiale
avesse veramente osservato una variazione della superficie apparente di Marte pari a 60
volte, avrebbe falsificato, e non già confermato, il sistema copernicano, almeno in ordine
alle stime dell'astronomo polacco per la variazione della distanza del pianeta in parola dal
Sole, e quindi dalla Terra. Si tratta in questo frangente di un'enfasi di troppo, dovuta al fatto
che si ha a che fare con stime quantitative, sulle quali non era facile al tempo essere precisi.
In effetti, il disco di Marte, senza la strumentazione opportuna, appare sempre comunque
molto "piccolo", vale a dire quasi puntiforme, sia quando ci è vicino che quando ci è
lontano, e per averne un'idea basta eseguire il seguente calcolo. Il diametro reale di Marte è
di 6800 Km, pari a 0.54 volte quello della Terra. Se lo immaginiamo posto a una distanza di
59 milioni di Km (e cioè intorno alla situazione più favorevole), lo vedremmo sotto un
angolo di soli 24 secondi d'arco, un valore assolutamente inapprezzabile a occhio nudo (il
cui limite strutturale è di almeno un primo - ricordiamo che un primo è un sessantesimo di
grado, mentre un secondo è, a sua volta, un sessantesimo di un primo). Con un
cannocchiale capace per esempio di venti ingrandimenti (sembra che gli ultimi cannocchiali
di Galileo potessero arrivare fino a trenta), questi diventerebbero circa 8 primi, e per far
comprendere cosa ciò significhi in realtà forniamo qualche paragone comprensibile a tutti
(sempre approssimando, ovviamente, ma a un livello che non dovrebbe alterare l'essenza
delle cose). Un grado è l'angolo che viene compreso da 1 cm posto a 50 cm di distanza (si
dice, lo spessore di un dito alla distanza di un braccio teso), mentre un millimetro, a cui
possiamo fare riferimento con la classica espressione "una capocchia di spillo", si vede alla
stessa distanza sotto un angolo di circa 7 primi. Nel caso in esame, quindi, Galileo avrebbe
potuto vedere il disco di Marte più o meno come la detta capocchia di spillo. Se lo aveva
visto in questo modo nel caso migliore, come può averlo osservato in quello peggiore? Per
esagerare il rapporto che voleva valutare, sottostimando di conseguenza il denominatore,
diciamo pure 4 secondi d'arco15, e quindi 80 visti al telescopio, poco più di un primo. Ciò in
effetti riporterebbe all'incirca al valore 8 indicato nel Dialogo, ma ci sarebbe da chiedersi
come si fa ad apprezzare veramente 1/8 (un ottavo) di capocchia di spillo a 50 cm di
distanza - o se per questo anche 1/5, o 1/6, o 1/7 (tralasciando poi altri problemi tecnici,
quali la capacità di risoluzione dell'immagine dovuta al diametro dell'obiettivo, etc.). Ma,
soprattutto, con quali strumenti di misura a disposizione, e utilizzati in che modo? Galileo
aveva forse oculari graduati al millimetro o al decimillimetro 16? Numeratore e
denominatore della frazione sono tanto piccoli che sembra difficile abbia potuto ottenere
una stima quantitativa apprezzabile del loro rapporto senza apparecchiatura adeguata.
Altra questione sono ovviamente le variazioni effettive di luminosità (ovvero delle
magnitudini apparenti) di questi due pianeti, le quali non sono però direttamente
proporzionali ai numeri sopra riportati, e i cui rapporti risultano per di più assai minori di
quelli precedentemente discussi - per motivi piuttosto complessi da spiegare, e comunque
certamente ignoti al tempo di Galileo17. E' quindi presumibile che lo scienziato pisano,
dall'osservazione di tali variazioni di magnitudine, non potesse risalire alle variazioni delle
corrispondenti superficie apparenti di dianzi esaminate. Del resto, di siffatti cambiamenti
172
erano, ovviamente!, del tutto al corrente anche gli antichi astronomi greci, come presto
accerteremo, sicché la loro evidenziazione non avrebbe dovuto costituire in ogni caso
una grande novità (ancorché la visione con il cannocchiale avrebbe certamente potuto
metterli meglio in rilievo).
Si può pensare che Galileo abbia fatto ricorso a diversi espedienti, per esempio che abbia
estrapolato i valori desiderati utilizzando soltanto alcune osservazioni (si vede in quanto
tempo si ha una diminuzione del 50%, e poi si presume che sia di 1/4 in un tempo doppio,
etc.), o che abbia asserito di aver visto qualcosa che era in realtà un risultato combinato di
aspettative teoriche e di osservazioni reali (avendo in effetti a disposizione, come sarà
subito chiaro, una teoria che comunque gli indicava a priori gli ordini di grandezza che
erano in gioco), ma quello che ci interessa non è tanto approfondire la possibile esiguità
sperimentale delle sue argomentazioni. Ciò che vogliamo nella presente occasione portare
all'attenzione dei lettori di Episteme è ben altro, e riguarda precisamente l'espressione
"poche volte" contenuta nel commento sopra riportato, a proposito delle analoghe
previsioni effettuate all'interno del sistema tolemaico. Quando un cultore della scienza
"moderna" resta nel vago su qualcosa su cui ci si aspetterebbe possa essere più preciso come peraltro nel commento in esame accade invero in diversi altri punti - c'è da stare
specialmente attenti: questa è una di quelle volte in cui tale norma di comportamento verrà
felicemente ricompensata.
3 - Formuliamo esplicitamente il problema che ci proponiamo di discutere: qual è il numero
di volte con il quale, secondo Tolomeo, variano le distanze rispettive di Venere e di Marte
dalla Terra? E' vero che le relative osservazioni di Galileo, qualunque fosse il loro grado di
accuratezza e di attendibilità, falsificavano il sistema tolemaico in favore del sistema
copernicano?
La risposta a tali domande richiede una conoscenza dell'opera dell'antico astronomo
alessandrino superiore a quella che è oggi abituale, dal momento che è ormai invalsa
l'abitudine di considerarla poco più che un pezzo di antiquariato, da conservare sì con
qualche rispetto nel museo della scienza, ma in fondo di scarsa attualità, proprio perché
demolita dai "colpi mortali" precedentemente illustrati18.
Occorre innanzitutto sgombrare il terreno da un equivoco, tuttora diffuso presso i meno
informati, vale a dire che nel sistema di Tolomeo le distanze dei pianeti dalla Terra fossero
pressoché costanti19. In effetti, una concezione astronomica di questo tipo, geocentrica, con
i pianeti fissati su sfere aventi per comune centro la Terra, era stata elaborata nel IV secolo
A.C. da Eudosso, e poi ritoccata dal suo discepolo Callippo (ad essa si fa riferimento come
alla teoria delle sfere omocentriche). Si tratta di un sistema evidentemente errato, dal punto
di vista che stiamo qui esaminando, capace comunque, pare, di rendere conto anch'esso con
buona approssimazione20 dello "strano" moto dei pianeti (termine che in greco significa
appunto errabondo), secondo il punto di vista di un osservatore terrestre: questi corpi infatti
a volte procedono in un senso, altre in quello contrario, talora infine sembrano addirittura
restare fermi nella loro posizione per qualche tempo. Tale sistema fu adottato da Aristotele
come fondamento della propria cosmologia, che prevedeva una serie di elementi del tipo:
sfere di cristallo, incorruttibilità dei cieli, etc.21, i quali, ancora ben "vivi" al tempo di
Galileo, costituiscono l'autentico oggetto della critica dello scienziato, ed escono, questi sì,
demoliti da irreversibili colpi mortali nel corso della disputa scientifica di cui ci stiamo
occupando. Non esiste nessuna "impalcatura" materiale che sostiene l'universo, nessuna
musica di sfere di cristallo che ruotano, collocate secondo proporzioni armoniche; non c'è
nessuna differenza tra il Sole e le altre stelle, allo stesso modo che non ce n'è tra la Terra, o
la Luna, e gli altri pianeti, per lo più gelidi o torridi sassi inospitali; e se uno di tali oggetti
173
dovesse modificare la sua traiettoria usuale portandosi in rotta di collisione con la Terra,
allora non sarebbe per obbedienza agli imperscrutabili voleri di un Dio, bensì per cieca
sottomissione a inesorabili "leggi" fisico-matematiche. Ma, per ciò che riguarda invece il
punto di vista strettamente astronomico, proprio perché incapace di rendere conto delle
evidenti variazioni delle distanze dei pianeti dalla Terra, messe in evidenza dai richiamati
palesi aumenti e diminuzioni di luminosità, il sistema di Eudosso-Callippo era stato in
verità presto abbandonato22, e l'astronomia greca (che la polemica di Galileo rischia di far
sottovalutare ingiustamente - va oggi di moda enfatizzare i contributi di altre civiltà anche
in questo campo, ma chi mai ha concepito sistemi rendenti conto di movimenti e distanze
quali quelli che stiamo qui descrivendo? Altrove, ci si è limitati a questioni di misurazione
del tempo, di calendario...) aveva cominciato a cercare delle alternative, pur mantenendo
generalmente ferma l'ipotesi della staticità della Terra23. Tra queste, la teoria che
contemplava l'introduzione di deferenti ed epicicli (la tradizione ne attribuisce il merito ad
Apollonio di Perga, il grande matematico attivo ad Alessandria nella seconda metà del III
secolo A.C.), che si può sinteticamente illustrare nel seguente modo. Un corpo celeste non
si muove su un'orbita circolare, o quasi, intorno alla Terra, bensì su una circonferenza
(epiciclo) il cui centro si muove a sua volta su un'altra (deferente), avente (quasi) come
centro la Terra (e quel "quasi" fa sì che i deferenti vengano chiamati a volte eccentrici). Fa
eccezione il Sole, per il quale non sono previsti epicicli. Un tale sistema era in grado di
rendere conto non solo dello strano comportamento altalenante dei pianeti, ma anche del
loro avvicinamento o allontanamento dalla Terra, e fu sempre più utilizzato per dare una
descrizione matematica precisa, almeno quanto era a quei tempi possibile, della posizione
dei corpi che popolavano il cielo. Il metodo in parola venne prescelto a fondamento della
Sintassi Matematica (detta pure Grande Sintassi, o Almagesto in epoca medievale,
seguendo una consuetudine di origine araba) da parte appunto di Tolomeo, nel II secolo
D.C.: un'opera che, come gli Elementi di Euclide per la geometria, divenne, assai
comprensibilmente, sinonimo di astronomia per oltre un millennio.
Ciò premesso, ci si può chiedere quale fosse la stima dei raggi dei deferenti (rd) e degli
epicicli (re) contenuta nel libro di Tolomeo per i due pianeti in questione, visto che risulta, e
ancora una volta in prima approssimazione24:
distanza minima dalla Terra (dmn) = raggio del deferente (rd) meno raggio dell'epiciclo (re)
= rd - re ; distanza massima (dmx) =rd più re = rd + re .
I raggi degli epicicli sono invero sempre supposti da Tolomeo minori di quelli dei relativi
deferenti (la scelta non è però obbligata!, vedi la Nota N. 32), ma vengono anche
immaginati in generale, secondo la divulgazione scientifica corrente - che segue una moda
come vedremo presto del tutto arbitraria - quali assai "piccoli" rispetto ai primi, quasi si
trattasse di percentualmente modesti "correttivi", dello stesso ordine di grandezza degli
"aggiustamenti" che pure continuava a introdurre, per i medesimi scopi, Copernico. E' tale
circostanza che porta a ritenere che nel sistema dell'astronomo alessandrino l'entità prevista
delle variazioni che stiamo indagando sia comunque insufficiente a rendere conto di quelle
realmente verificantisi. Invece, in verità, e si resterà forse sorpresi nell'apprenderlo,
nell'Almagesto non c'è alcuna stima dei parametri in oggetto! Tolomeo non è onestamente
in grado di fornirne dei valori, e non si lancia pertanto in speculazioni azzardate. Calcola
però con estrema accuratezza ciò che era alla sua portata, vale a dire i rapporti rd:re tra
raggio del deferente e raggio dell'epiciclo per tutti i pianeti del sistema solare (oltre che per
la Luna, che veniva allora ad essi apparentata). In altre parole, il sistema tolemaico è, dal
punto di vista in discorso, un sistema indeterminato, a meno di un fattore di proporzionalità
174
addirittura possibilmente diverso astro per astro (visto che essi non vengono mai tra loro
correlati). Pertanto, siamo di fronte a una descrizione del cosmo non suscettibile di banali
falsificazioni, o di ricevere "colpi mortali", e che comprende addirittura, come caso
particolare, il sistema copernicano: sicché, se la più antica venisse falsificata, lo sarebbe
anche la più moderna, ma ovviamente non viceversa25!
Diamo i rapporti in parola, a titolo di informazione, per tutti i pianeti, allo scopo di far
notare la loro estrema precisione, confrontandoli con i dati attualmente accettati per le
distanze (medie) dei pianeti dal Sole26:
Mercurio
Venere
Marte
Giove
Saturno
0.38
0.72
1.52
5.18
9.52
60
60
60
60
60
;
;
;
;
;
22.5
43.16
39.5
11.5
6.5 .
Nella prima colonna della precedente tabella sono riportate le distanze dei pianeti dal Sole
attualmente accettate (espresse in UA), nella seconda e nella terza i rispettivi dati tolemaici
per raggio del deferente e raggio dell'epiciclo. Il tutto va interpretato nel seguente modo: se
il raggio del deferente viene posto convenzionalmente uguale a 60, allora quello
dell'epiciclo varrà, ad esempio nel caso di Mercurio, 22.5 parti di esso, e così via. Bene,
notiamo allora che la prima colonna si ottiene con ottima approssimazione dalle ultime due
semplicemente eseguendo i rapporti dei due numeri che si trovano alla fine di ciascuna riga,
in un ordine o nell'altro a seconda che si tratti di pianeti interni o esterni: 22.5:60 = 0.37 (da
confrontare con 0.38); 43.16:60 = 0.72 (versus 0.72); 60:39.5 = 1.52 (versus 1.52); 60:11.5
= 5.2 (versus 5.18); 60:6.5 = 9.2 (versus 9.52).
Il perché di tale coincidenza è facilmente spiegato alla luce di quanto abbiamo prima
accennato: il sistema copernicano ammette una "lettura" in chiave tolemaica, quando si
pongano uguali a 1 i raggi degli epicicli dei pianeti esterni, e uguali a 1 i raggi dei deferenti
dei pianeti interni. Viceversa, sotto la sola ipotesi che i pianeti mantengano (mediamente)
costante la loro distanza dal Sole - il che non è incompatibile con nessuna delle assunzioni
del sistema tolemaico, anzi il contrario 27 - si può tradurre il sistema tolemaico in uno
copernicano28, ciò che appunto è legittimo a questo punto supporre fece, poggiandosi in
modo fondamentale sull'antico testo, l'astronomo polacco29.
Torniamo adesso alla nostra primitiva domanda: se Tolomeo nella sua grande opera non
dà alcuna informazione sui valori assoluti delle distanze, è comunque possibile dire se
prevedeva "poco", o "molto", per la variazione di quelle che ci interessano? Certo che è
possibile, se si riguardano però soltanto quei rapporti tra distanza massima e minima
precedentemente calcolati rispettivamente per Venere e per Marte. E ciò perché, se è vero
che nel sistema tolemaico non si conoscono né raggio del deferente né raggio dell'epiciclo
(per nessun pianeta: fanno eccezione, come avremo modo di vedere in seguito, la Luna e il
Sole), pure dalle identità precedenti si ottiene evidentemente che:
dmx:dmn = (rd+re):(rd-re) = [(1+(re:rd)]:[(1-(re:rd)],
ovvero, che il rapporto cercato è perfettamente determinabile noto che sia il rapporto re:rd e quest'ultimo, come abbiamo visto, è individuato da Tolomeo in modo incredibilmente (in
relazione all'apprezzamento corrente che si ha della sua opera) corrispondente al reale.
C'è adesso bisogno di fare davvero i calcoli fino in fondo, dopo quelli che abbiamo già
precedentemente effettuato, per persuaderci che il rapporto dmx:dmn nel caso del pianeta
175
Venere è, secondo Tolomeo, precisamente uguale al precedente 6.14 , e che il numero in
parola vale, nel caso di Marte, esattamente 4.84 30? Cioè, che tanto nel sistema tolemaico
quanto in quello copernicano le previsioni per i valori in discorso risultano, in prima
approssimazione, esattamente le stesse, e quindi sostanzialmente identiche le aspettative di
variazione delle superficie apparenti di tali pianeti nei due sistemi a confronto?!
4 - La presente discussione non ci sembrerebbe completa se non informassimo il lettore di
un'altra poco nota circostanza. Infatti, anche se, come abbiamo detto, non c'è alcuna
possibilità di determinare, sia pure in misura approssimativa, i valori dei raggi dei deferenti
e degli epicicli (per ogni singolo pianeta) all'interno dell'Almagesto, nondimeno una stima
di tali valori era in realtà ben corrente nel Medioevo. E questo per via di una curiosa
tradizione evidentemente affermatasi nella cultura greca a un certo punto della sua storia, e
poi dalla prima filtrata nell'astronomia araba, da cui si riversò successivamente di nuovo in
Occidente31 - sicché ad essa potrebbe avere verosimilmente fatto riferimento Galileo, il
quale comunque, tutto infervorato nella sua opera di "propaganda" ideologica, non la
esamina così accuratamente come avrebbe viceversa onestamente dovuto/potuto 32. Di tale
concezione ci informa Proclo di Costantinopoli (VI secolo D.C.), nelle sue Hypotyposes, e
consiste sostanzialmente nel presupposto che nel cosmo non esistano spazi vuoti. La detta
assunzione si concretizza, nel caso che ci sta a cuore, con l'ipotesi che la sfera che
costituisce l'epiciclo di Mercurio sia tangente a quella della Luna (ovvero, la distanza
minima di Mercurio dalla Terra viene ipotizzata uguale a quella massima della Luna dalla
Terra), e così via di seguito: la sfera di Venere è immaginata tangente a quella di
Mercurio33, etc.. Si tratta ovviamente di una speculazione del tutto arbitraria 34, che non ha
alcun fondamento osservativo, ed è solo da pochi decenni che Bernard Goldstein35 ha
potuto rintracciare l'origine di quest'opinione, diffusa come dicevamo nel mondo arabo e in
quello medievale cristiano. Saremmo in effetti di fronte a una teoria che proviene ancora da
un'opera di Tolomeo, le cosiddette Ipotesi dei pianeti, nella cui seconda parte del Libro I, a
noi non pervenuta, si sarebbe trovato esposto il modello in questione. Questo, sopravvissuto
in codici ebrei e arabi, avrebbe dato origine a uno schema quantitativo abbastanza irreale,
ma comunque capace di soddisfare la sete di certe conoscenze. Ciò premesso, l'unico
riferimento che si possa fare in quanto a previsioni numeriche assolute è all'interno di tale
sistema, o delle modificazioni che ne fecero astronomi arabi come il già citato (Nota N. 31)
al-Farghani, o il suo contemporaneo al-Battani (latinizzato in Albatenio).
Vediamo dunque in dettaglio, ancorché del tutto elementare, cosa esso è capace di dirci in
ordine alla nostra questione. Senza attardarci troppo in notazioni storico-filologiche 36,
informiamo subito che secondo Tolomeo la distanza massima della Luna dalla Terra vale
64 r.t. (valore arrotondato, come faremo d'ora in poi) 37, dove la sigla r.t. significa "raggi
terrestri", un'unità di misura molto utilizzata in siffatti problemi nel mondo antico, e per il
resto anche da Copernico (per esempio Libro IV, Capp. XVII e XIX), sicché 64 = dmn di
Mercurio dalla Terra = raggio del deferente meno il raggio dell'epiciclo di Mercurio. Poiché
conosciamo il rapporto di queste due quantità, ecco che possiamo determinare in modo
univoco tali parametri altrimenti sconosciuti, e un calcolo immediato fornisce (tutti i valori
sono d'ora in poi da intendersi espressi in r.t.):
raggio del deferente di Mercurio = 102,
raggio dell'epiciclo di Mercurio = 38,
dmn di Mercurio = 64 = 102-38, dmx di Mercurio = 102+38 = 64+2×38 = 140 (in realtà,
tenuto conto dell'eccentricità, 166 38).
176
Partendo da qui, e procedendo in maniera analoga per Venere, si trova:
raggio del deferente di Venere = 593,
raggio dell'epiciclo di Venere = 427,
dmn di Venere = 166, dmx di Venere = 1020 (tenuto conto dell'eccentricità, 1079);
e così via proseguendo:
raggio del deferente del Sole = 1160 (anziché i precedenti 1079, sempre a causa
dell'eccentricità),
(raggio dell'epiciclo del Sole = 0)
dmn del Sole = 1160, dmx del Sole = 1160 (ancora per l'eccentricità, 1260 39);
raggio del deferente di Marte = 3683,
raggio dell'epiciclo di Marte = 2423,
dmn di Marte = 1260, dmx di Marte = 6106 (a ragione della sensibile eccentricità di questo
pianeta, 8820).
Dalla precedente "arida" tabella di numeri, sulla quale abbiamo dovuto di necessità
dilungarci, si trae (abbastanza naturalmente nel caso di Venere, poiché i rapporti rd:re non
sono mutati, mentre nel caso di Marte risultano decisive le correzioni dovute
all'eccentricità) che i due valori oggetto della nostra particolare attenzione sono
rispettivamente quasi uguali a quelli dianzi stimati quali veri: 1079:166 = 6.5 (nel caso di
Venere); 8820:1260 = 7 (nel caso di Marte). Ciò riconferma che all'interno del sistema
tolemaico - seppure del Tolomeo delle Ipotesi sui pianeti, e non del Tolomeo
dell'Almagesto - la variazione prevista per le distanze in parola, non solo non è "piccola"
rispetto a quella teorizzata dal sistema copernicano, ma è addirittura ad essa quasi identica
(questa volta eccentricità comprese anche nel sistema copernicano)!
Concludiamo il paragrafo fornendo, per completezza, stime degli analoghi valori assoluti
secondo Copernico (per il quale resteranno fermi ovviamente i rapporti "veri"
precedentemente riportati), dal momento che il lettore potrebbe pensare che, nel caso di
distanze significativamente diverse come ordine assoluto di grandezza, le cose potrebbero
poi nella pratica osservativa mutare di molto (nel medesimo modo che è stato detto per le
misure angolari di Marte, sempre troppo piccole per poter essere facilmente apprezzate). In
effetti, il valore determinato da Tolomeo per l'unità astronomica - vale a dire una distanza
Terra-Sole uguale a 1210 r.t. (in media), corrispondenti quindi a 1210×6305 Km, ovvero a
circa 7.630.000 Km - costituisce una grossolana sottovalutazione del dato reale, addirittura
di circa 20 volte. Si potrebbe credere allora che da questa "pècca" il sistema copernicano, e
lo stesso Galileo, fossero immuni, ma, senza voler ripetere tutta la procedura di prima,
complicata anche adesso dalla presenza delle eccentricità, limitiamoci ad informare di
quella che è la valutazione copernicana dell'unità astronomica (Libro IV, Cap. XIX): soli
1142 r.t. (minima 1105, massima 1179), un valore che è appena leggermente diverso dalla
stima accettata da Tolomeo, e pertanto ancora errato di circa 20 volte.
Nella sottovalutazione in oggetto Copernico e Tolomeo sono dunque compagni d'errore
nello stesso identico modo40, e se andiamo a calcolare le distanze assolute dei pianeti nel
sistema copernicano, espresse come prima in r.t., e tenuto conto delle eccentricità, si
trovano, nei due casi che ci interessano, circa i seguenti valori41:
177
dmn di Venere dalla Terra = 304 ; dmx = 1946 ;
dmn di Marte dalla Terra = 464 ; dmx = 3007 ;
dai quali si trae ovviamente, ancora una volta, 1946:304 = 6.40 (al quadrato, 41), 3007:464
= 6.48 (al quadrato, 42), che sono da confrontarsi, ricordiamolo, rispettivamente con i valori
tolemaici 1079:166 = 6.5 ; 8820:1260 = 7 42.
Per quanto riguarda le parallassi, tali forti sottovalutazioni darebbero conseguenze non
indifferenti in ordine alle misure angolari che ci stanno a cuore. Ad esempio nel caso di
Marte, quando si trova vicino alla Terra, si dovrebbe osservare, secondo le tavole
tolemaiche riportate nel paragrafo precedente - e fermo restando il vero dato del diametro,
ovviamente al tempo però sconosciuto - un angolo di 2 primi e 55 secondi d'arco, e, quando
il pianeta è lontano, di 25 secondi d'arco, valori entrambi molto distanti da quelli effettivi si noti che risulta sempre, come deve, 175:25 = 7 . Con le stime copernicane, invece, per
Marte si dovrebbe evidenziare nella prima circostanza un angolo addirittura di 7 primi e
55.6 secondi d'arco; nella seconda di 73 secondi, valori questi non soltanto
incommensurabilmente lontani dai reali, ma perfino meno vicini alla verità dei
corrispondenti tolemaici - ripetiamo che, in ogni caso, risulta 475.6:73 = 6.5 . Se ne trae
che, forse paradossalmente, proprio il cosmo di Copernico è un po' più ristretto di questo
particolare schema tolemaico. Si comprende bene che, comunque, in entrambi i "modelli"
rimaniamo pressappoco sullo stesso piano: molto lontani in entrambi dai veri valori
assoluti, e molto vicini a quelli relativi, e quindi di fronte a sistemi capaci di spiegare tutti e
due in maniera adeguata alcuni43 fenomeni osservabili.
5 - In conclusione, è forse opportuno accennare esplicitamente a quale possa essere una
morale del precedente discorso. Un "onesto", scientifico raffronto tra la teoria esposta
nell'Almagesto e quella nel trattato di Copernico, mostra che non c'è grande differenza tra le
due44, sicché bisogna ammettere che ci si trova in presenza di un conflitto che deve dirsi
prevalentemente di natura ideologica, coinvolgente non solo la posizione epistemologica
propria di Galileo (vedi Nota N. 6), ma anche la lotta contro il potere temporale della
Chiesa di Roma. In effetti, a differenza del più "politicizzato" Galileo (che sa bene come le
sue argomentazioni servano soprattutto la "causa protestante", ed è molto lontano
dall'essere quel "buon cattolico" che taluni autori vogliono descrivere45), l'astronomo
polacco/tedesco non spinge mai le sue argomentazioni fino al punto da rompere
esplicitamente e definitivamente con la tradizione classica e medievale - tanto da essere
considerato per questo da molti commentatori ancora un uomo del Medioevo in quanto a
struttura mentale, e pertanto, secondo un punto di vista "moderno", inaccettabile. Fu per
esempio già rimproverato da Giordano Bruno per "non aver sfruttato fino in fondo la carica
rivoluzionaria" della concezione generale espressa dal cardinale di Santa Romana Chiesa
Nicola Cusano46. Invero, il cosmo di Copernico può assomigliare ancora, nell'ottica di chi
non è capace di accorgersi di certi "dettagli", di certi valori simbolici, a quello di Tolomeo,
e della scienza antica, poiché, se si prescinde da ciò che può essere considerato soltanto un
trascurabile cambiamento di centro, il tutto resta sempre, almeno formalmente, incastonato
all'interno della "confortante" sfera delle "stelle fisse". Bisogna riconoscere, d'altro canto,
che non appare agevole immaginare un sistema di tipo tolemaico che soddisfi tante diverse
esigenze, quali, tanto per dire, essere coerente con i fenomeni osservabili e contemplare la
possibilità di un'impalcatura solida e mobile che sostenga l'universo e garantisca la
trasmissione del moto. In tal senso, il progresso della scienza ha certamente costretto a
178
doverose rinunce, o, meglio, a soluzioni troppo semplici di questioni aventi una matrice
anche di tipo metafisico/spirituale, un aspetto questo via via sempre più ignorato.
Due parole da ultimo sul nominato Nicholas Krebs, nativo della tedesca Cues, e perciò
detto il Cusano (il "divino Cusano", ancora secondo Bruno). Eccoci di fronte a un
personaggio molto interessante, il cui ruolo nelle origini della scienza moderna è ben noto,
ma forse non adeguatamente apprezzato, precursore quale egli fu della necessità di
matematizzazione della scienza ("Nihil certi habemus in nostra scientia nisi nostram
mathematicam", opina il Cusano, e gli fa eco Copernico con il suo famoso: "Mathemata
mathematicis scribuntur"47), e anticipatore, nella sua opera De docta ignorantia (1440, ma
stampata per la prima volta soltanto nel 1488), di tutte le caratteristiche peculiari della
cosmologia moderna.
E' ovvio che, procedendo per la via delineata, si comincerebbe a entrare nel vivo di una
questione che appare ancora oggi per tanti versi non troppo ben chiarita, e che i presenti
autori propendono piuttosto per un'azione di Copernico politicamente meditata,
commisurata ai tempi, anziché per un suo reale attaccamento al "mondo antico". Ma è
venuto ormai il momento di congedarsi, esprimendo l'auspicio che la tesi di fondo che
questo articolo voleva sostenere sia stata esaurientemente illustrata, anche se, il lettore lo
comprenderà appieno, assai più avrebbe potuto essere detto; non solo, ma quello che è stato
detto avrebbe potuto essere espresso con maggiore rigore, che ci sembra in nulla avrebbe
però modificato il senso generale del discorso a cui il tipo di analisi adottato voleva
contribuire. Non è certo la differenza di pochi decimali un elemento capace di alterare il
quadro complessivo che si è venuto fin qui delineando...
Appendice
Sulla possibile determinazione dei periodi di rivoluzione dei pianeti del
sistema solare a partire dall'opera di Tolomeo
Val forse la pena di integrare quanto dianzi esposto fornendo un altro importante elemento
a sostegno della tesi che il sistema tolemaico non fosse così "errato" come pretendeva
Galileo (almeno dal punto di vista della pura descrizione cinematica, l'unica peraltro che
fosse al tempo oggetto di discussione), e che non era troppo difficile passare da questo a
quello copernicano, e viceversa, oppure correggere adeguatamente il primo a seguito di
nuove sopravvenute scoperte (vedi per esempio le Note NN. 28, 43). Si tratta della
questione dei periodi di rivoluzione dei pianeti intorno al Sole, che risultano tutti
perfettamente desumibili dai dati tolemaici.
Nel trattato di Copernico, più precisamente nella figura rappresentante il nuovo sistema
che compare nel Libro I (alla pag. 213 dell'edizione citata), troviamo i seguenti valori,
naturalmente approssimati:
Mercurio 80 giorni (0.22 anni)
Venere 9 mesi (0.75 anni)
Marte 2 anni
Giove 12 anni
Saturno 30 anni
I valori attualmente riconosciuti corretti (contenuti in ogni enciclopedia), ai quali faremo
riferimento nel seguito, sono:
179
Mercurio 88 giorni (0.24 anni)
Venere 224 giorni (0.613 anni)
Marte 687 giorni (1.88 anni)
Giove 11.315 anni
Saturno 29.167 anni
In Tolomeo troviamo i seguenti valori:
Mercurio
Venere
Marte
Giove
Saturno
145
5
37
65
57
46
8
42
6
2
46
8
79
71
59
I numeri elencati nella precedente tabella vanno interpretati nel seguente modo. In 46 anni
solari, valore riportato in III colonna, Mercurio compie per esempio 145 rivoluzioni
sull'epiciclo (o "in anomalia"), laddove il centro dell'epiciclo ne compie 46 sul deferente
(rivoluzioni "in longitudine"), e così via. Si noti che per i tre pianeti esterni il dato nella
terza colonna si ottiene dalla somma dei primi due, mentre per i due pianeti interni esso
coincide con quello della seconda colonna. Ciò dimostra viepiù che nell'Almagesto i moti di
tutti i pianeti sono collegati chiaramente a quello del Sole.
Si eseguano adesso le seguenti operazioni, e si confrontino poi i risultati con i dati della
tabella dei periodi di rivoluzione dei pianeti.
Mercurio
46:(145+46) [dato in III colonna diviso somma dei dati nelle prime due] = 0.24 (da
confrontarsi con 0.24)
Venere
8:(8+5) = 8:13 = 0.615
(da confrontarsi con 0.613)
Marte
(37+42):42 [per i pianeti esterni, bisogna prendere la somma dei dati delle prime due
colonne, che è poi il dato riportato nella III, e dividerla per il valore riportato nella II] =
79:42 = 1.88 (da confrontarsi con 1.88)
Giove
(65+6):6 = 71:6 = 11.83
(da confrontarsi con 11.315)
Saturno
(57+2):2 = 29.5
(da confrontarsi con 29.167).
Ancora una volta, ogni commento è superfluo...
Nota: Come ben risaputo, dal punto di vista geocentrico, è conveniente introdurre, per ogni
180
pianeta, un periodo sinodico, diciamolo N, contrapposto all'ordinario periodo orbitale P,
del quale ci siamo fino a qui occupati. La relazione tra i due periodi è data, per i pianeti
esterni, dall'identità:
(1) 1/P = 1 - 1/N
mentre, per quelli interni, sussiste la:
(2) 1/P = 1 + 1/N .
L'accordo tra periodi sinodici e dati forniti da Tolomeo è ovviamente ancora ottimo. Se
diciamo, per ogni pianeta, v1, v2, v3 i parametri che gli corrispondono rispettivamente nelle
tre colonne della precedente tabella, risulta per esempio, per un pianeta esterno:
(3) N = v3/v1 , mentre, come abbiamo visto P = v3/v2 .
Per i pianeti interni, si ha invece:
(4) N = v2/v1 , P = v3/(v1 + v2) .
Nel primo caso, dalla (3) si deduce esattamente la (1), dal momento che risulta
v3 = v1 + v2 :
1/P + 1/N = v2/v3 + v1/v3 = (v1 + v2)/v3 = 1 ;
mentre nel secondo, dalla (4) si deduce la (2) in virtù della v3 = v2 :
1/P - 1/N = (v1 + v2)/v3 - v1/v2 = (v1 + v2)/v2 - v1/v2 = v2/v2 = 1 !
Note
1
Vedi per esempio M. Heidegger, "La questione della tecnica" (in Saggi e discorsi, a cura di G.
Vattimo, Ed. Mursia, Milano, 1976), e il commento che se ne fa nel II capitolo di U. Bartocci,
America: una rotta templare - Un'ipotesi sul ruolo delle società segrete nelle origini della scienza
moderna, dalla scoperta dell'America alla Rivoluzione copernicana (Ed. Della Lisca, Milano,
1995).
2
Anche perché è in relazione ad essa che si sviluppano la "nuova" fisica e la "nuova" matematica.
Per quanto riguarda la prima, il sistema del mondo che si afferma dal Rinascimento in poi,
eliminando il "primo mobile" e l'"impalcatura" costituita dalle aristoteliche "sfere di cristallo", si
trova di fronte alla ineludibili domande: qual è l'origine del movimento? perché i corpi celesti si
tengono su senza "cadere"? (vedi anche la Nota N. 21). Per non dire di quella ancora più
fondamentale: come mai l'asserito movimento della Terra non si avverte da parte degli uomini che
ci stanno sopra? (le "risposte" sono costituite rispettivamente dal "principio d'inerzia", dalla teoria
della gravitazione universale, e dal "principio di relatività", che guideranno tutti i successivi sviluppi
della meccanica). Per ciò che concerne invece la matematica, è ben noto che la nascita del calcolo
infinitesimale può ascriversi ai tentativi di trovare risposta alle suddette domande, mentre le radici
della geometria analitica possono essere rintracciate negli studi di geografia terrestre naturalmente
collaterali al progetto portoghese di esplorazione del globo (latitudine e longitudine).
181
3
Introduzione alla psicanalisi, Prima e seconda serie di lezioni, 1915-17; Ed. Boringhieri, Torino,
1978, p. 258.
4
Che è professore ordinario di Geometria presso la Facoltà di Scienze Matematiche Fisiche e
Naturali dell'Università degli Studi di Perugia, e docente di Storia delle Matematiche. Il secondo
autore ha elaborato con il primo la propria tesi di laurea, dal titolo "La matematica come
astronomia: dal sistema tolemaico al sistema copernicano", presso il detto Ateneo, nel 1996. Il più
vecchio desidera ringraziare vivamente: il Dott. Giuliano Bruni, per avergli permesso di vagare, nel
corso di amichevoli stimolanti conversazioni, in spazi del pensiero a lui in precedenza sconosciuti;
il Prof. Giancarlo Cavalleri, dell'Università Cattolica di Brescia, che gli ha spiegato come emendarsi
di diversi errori concettuali che, in assoluta buona fede, continuava a diffondere attraverso il suo
insegnamento.
5
Loc. cit. nella Nota N. 1. Un ampio sunto di questa ricerca, riveduta e aggiornata con alcune
informazioni successivamente acquisite, costituisce il primo capitolo ("Alle origini della costruzione
dell'immagine scientifica del mondo: un problema storiografico") del volume: La costruzione
dell'immagine scientifica del mondo - Mutamenti nella concezione dell'uomo e del cosmo dalla
scoperta dell'America alla Meccanica quantistica (a cura di M. Mamone Capria, Ed. Città del Sole,
Napoli, 1998), mentre una sua versione sintetica ("Une utopie scientifique à la découverte d'un
Nouveau Monde") è comparsa in Politica Hermetica (L'Age d'Homme, Paris, N. 12, 1998), numero
speciale dedicato a: Les contrées secrètes.
6
Come dire che, per esempio, ci si vuol mantenere ugualmente distanti sia dalle interpretazioni
apocalittico-messianiche di certo pensiero cattolico/cristiano integralista, sia da quelle che si rifanno
a una pretesa ultima fase di "dissoluzione" della storia dell'umanità, conformememente agli
insegnamenti "trasmessi" da una fantomatica "tradizione primordiale". Entrambe queste posizioni
hanno a comune un rifiuto del "metodo scientifico" in quanto tale, del "razionalismo cartesiano" che
ha felicemente portato, almeno in taluni ambienti, alla distruzione delle "assurde chimere con cui da
duemila anni si riempivano le menti dei giovani" (per usare un'espressione di Voltaire riferita
proprio alla filosofia di Cartesio: Lettere inglesi, scritte tra il 1727 e il 1733; Boringhieri, Torino,
1958). Trattandosi nel presente articolo in modo particolare di Galileo, val forse la pena di
aggiungere che si può stabilire un naturale "parallelismo" tra il detto razionalismo e l'epistemologia
galileiana, quale espressa nella famosa lettera a Cristina di Lorena (1615): "Ma che quell'istesso Dio
che ci ha dotati di sensi, di discorso e d'intelletto, abbia voluto, posponendo l'uso di questi, darci con
altro mezo le notizie che per quelli possiamo conseguire, si' che anco in quelle conclusioni naturali,
che o dalle sensate esperienze o dalle necessarie dimostrazioni ci vengono esposte innanzi a gli
occhi e all'intelletto, doviamo negare il senso e la ragione, non credo che sia necessario il crederlo".
7
Nel suo celebre Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano (1632),
Dialogo III, 349-351.
8
Anche se, per la verità, il sistema tolemaico non è del tutto geocentrico, come presto vedremo, allo
stesso modo che quello copernicano non è del tutto eliocentrico (e sarebbero allora preferibili, nei
due casi rispettivamente, gli appellativi geostatico ed eliostatico).
9
Loc. cit. nella Nota N. 7, 367.
10
F. Selleri, in Scritti di Storia della Scienza, a cura di A. Ballio e L. Paoloni, Accademia Nazionale
delle Scienze detta dei XL, Roma, 1990, pp. 37-52.
11
"Approssimati" sia il sistema copernicano che quello tolemaico, quando si prescinda da
accorgimenti particolari come eccentrici, equanti, etc., con cui si teneva conto di quanto oggi viene
espresso dalle leggi di Keplero, secondo le quali le traiettorie dei pianeti intorno al Sole non sono
circonferenze ma ellissi, con il Sole situato in uno dei relativi fuochi, e i moti dei pianeti non hanno
velocità (in modulo) costante, ma hanno costante la sola velocità areolare (come dire che, in tempi
uguali, il segmento che va dal pianeta al Sole descrive aree uguali).
182
12
Come preferiremo allora dire, anche se bisognerebbe specificare che si tratta di una congiunzione
eliocentrica, dal momento che è invalso invece l'uso di parlare in questo caso di opposizione, con
riferimento al fatto che nella configurazione in parola il Sole e il pianeta risultano in opposizione
rispetto alla Terra.
13
L'elevata eccentricità dell'orbita di Marte, e una sfasatura tra gli assi maggiori delle relative orbite,
fa sì che in realtà, a volte, in media una ogni sette, la congiunzione dei due pianeti al perielio porti la
distanza relativa a soli 56 milioni di Km, ovvero a 0.37 UA. Noi converremo sempre qui, però, per
le stime che ci interessano, di calcolare la distanza minima (media) come differenza tra le distanze
minime dei pianeti dal Sole (congiunzione perielica), e la distanza massima (media) come somma di
una distanza massima più una distanza minima (assumendo che la configurazione in parola si
verifichi appunto quando la Terra si trova al perielio e Marte dalla parte opposta all'afelio).
14
Ci si riferisce per queste grandezze a misure angolari, vale a dire a misure dell'angolo
(parallasse) sotto il quale un osservatore terrestre "vede" il diametro del pianeta. Il rapporto tra il
raggio del pianeta e la sua distanza dà evidentemente la tangente trigonometrica della metà
dell'angolo in questione, che si può ottenere quindi come doppio della funzione arcotangente di quel
rapporto. Ne consegue che, per valori abbastanza prossimi allo zero (ovvero, "grandi" distanze
rispetto a "piccoli" diametri), i rapporti tra gli angoli coincidono con buona approssimazione con i
rapporti tra le distanze, come avremo modo nel seguito di constatare in qualche caso particolare.
15
In un'attuale enciclopedia potremmo trovare per esempio 25 secondi d'arco contro 5 (Dizionario
Enciclopedico Treccani), che danno un rapporto pari a 5, in altre 25 secondi contro 3,5 (E.S.T., Ed.
Mondadori), che darebbero un netto 7, un valore invero abbastanza vicino all'8 di Galileo, anche se
7 al quadrato dà comunque al massimo una stima di 50 volte di variazione per la superficie
apparente di Marte, e non 60.
16
Secondo Stillman Drake e Charles T. Kowal ("L'osservazione di Nettuno fatta da Galileo", Le
Scienze, N. 150, febbraio 1981; vedi anche Galileo messaggero delle stelle, Electa/Gallimard, 1992,
pp. 138 e segg.): "In che modo Galileo riuscì a compiere misurazioni di piccoli angoli le quali sono
utili ancor oggi? Il suo metodo di usare il telescopio come strumento di misurazione è rimasto in
gran parte sconosciuto ... di solito si suppone che misurazioni astronomiche esatte siano cominciate
solo col micrometro a filo, che fu perfezionato dopo la morte di Galileo. Nessun micrometro del
genere avrebbe potuto essere utilizzato col telescopio di Galileo ... Galileo fu nondimeno in grado di
sviluppare una sorta di strumento micrometrico che funzionava abbastanza bene col suo
telescopio ... 'uno strumento per prendere gli intervalli e distanze esquisiti, non che lo strumento sia
fatto ancora con molta precisione'". Possiamo aggiungere a queste parole che viene ascritto al
bolognese Cornelio Malvasia (1603-1664) - un nobile appassionato che si adoperò per far nominare
il Cassini (vedi la Nota N. 40) professore di astronomia presso l'Ateneo petroniano nel 1650 - il
merito di aver ideato il reticolo (1622), uno "strumento che, posto nell'oculare del telescopio,
permette[va] di ottenere misure astronomiche più precise che in passato" ("In viaggio tra le stelle Da Galileo a Galileo", La Stampa, Tuttoscienze, 1998). Restano quindi numerosi fondati dubbi sulla
"precisione" delle osservazioni di Galileo, e la reale origine di certi "dati" da lui divulgati.
17
Per i quali vedi ad esempio F. Selleri, loc. cit. nella Nota N. 10. Si tratta in sostanza del fatto che
l'occhio umano interpreta i flussi luminosi con una scala logaritmica, sicché una variazione di 6
volte nelle dimensioni geometriche produce in effetti solo un rapporto 2 quanto a corrispondente
variazione di luminosità. E' curioso a questo proposito osservare che Andrea Osiander, nella sua
premessa alla prima edizione dell'opera di Copernico, segnala che la scarsezza di tali variazioni
rispetto alle previsioni della teoria appare come uno dei punti deboli dell'ipotesi eliocentrica (senza
rendersi conto, apparentemente, del fatto che lo sarebbe anche per il sistema tolemaico, secondo
quanto qui in seguito argomenteremo).
18
Un giudizio questo che una lunga serie di motivi fanno ritenere ai presenti autori condiviso anche
da Galileo, tanto che si sarebbe quasi indotti a pensare che il pisano non conoscesse l'opera di
Tolomeo se non superficialmente, oppure soltanto attraverso fonti di seconda mano (come il
183
compendio piuttosto elementare di Giovanni di Sacrobosco, De Sphaera, del XIII secolo, a sua
volta debitore di analoghe opere arabe), se non avesse scritto nel 1597, a fini didattici (quando era
già da diverso tempo un "copernicano"), un Trattato della sfera, ovvero cosmografia, in cui
esponeva il sistema geocentrico. A proposito di "colpi mortali", c'è da dire che Galileo non si
limitava (almeno nel Dialogo...) all'argomento delle distanze: parla pure delle fasi di Venere (vedi le
Note NN. 27, 43), delle macchie solari, e delle maree, elementi a favore del sistema copernicano
tutti discutibili.
19
E, in effetti, nel luogo citato Salviati afferma: "Vedete intanto se Aristotele s'ingannò di qualche
poco in creder che e' fussero sempre egualmente remoti da noi", come a dire che quella che viene
falsificata è semmai la cosmologia aristotelica, e non già la tolemaica che dà il titolo al libro di
Galileo (e al saggio del Prof. Selleri) - sulla questione vedi anche la Nota N. 22.
20
Vedi il commento che ne fa l'ottima Storia dell'astronomia da Talete a Keplero, di J.L. Dreyer
(1906; prima edizione italiana: Ed. Feltrinelli, Milano, 1970).
21
Tutti elementi che avevano comunque una loro ben precisa motivazione logica, dovendosi pur
tentare una spiegazione di cosa mantenesse i vari corpi su nel cielo senza che cadessero sulla Terra,
e quale fosse la causa del loro movimento (vedi anche la Nota N. 2). Nella concezione aristotelica, il
cosmo è una sorta di grande impalcatura solida, in cui il movimento si propaga dall' ultimo cielo (in
esso sono incastonate le stelle, cosiddette fisse perché non mutano le loro relative distanze, e quindi
configurazioni relative, ma ruotano come tutto il resto del cielo in quanto insieme collettivo - che è
detto infatti uni-versum) via via a tutti gli altri. Si noti, comunque, che di sfere di cristallo non c'è
proprio traccia, né nell'Almagesto, né tanto meno nel De Revolutionibus….
22
E probabilmente già dalla generazione successiva a quella di Aristotele. Per quanto riguarda il
grande filosofo, e l'argomento qui oggetto di discussione, Simplicio (VI secolo D.C.), nel suo
commento al De caelo, sostiene che lo stesso Aristotele "non era del tutto soddisfatto delle ipotesi
con cui gli astronomi cercavano di render conto delle variazioni di luminosità", tanto da avere
inserito tale questione in uno dei suoi Problemi fisici andati purtroppo perduti (cfr. J.L. Dreyer, loc.
cit. nella Nota N. 20, p. 129).
23
E' un fatto abbastanza sorprendente che, nonostante ciò che viene oggi comunemente ritenuto,
l'ipotesi eliocentrica sembra piuttosto estranea alla cultura greca. Sostanzialmente Aristarco di
Samo (III secolo D.C.) è l'unico autore ricordato per averla proposta, ma vedi il commento
estremamente riduttivo che di questa opinione fa il Dreyer (loc. cit. nella Nota N. 20, pp. 123-128 l'autore sottolinea anche, p. 37, il fraintendimento della teoria pitagorica del "fuoco centrale", una
teoria che era comunque geodinamica, seppure non eliostatica). E bisognerebbe aggiungere, per
evitare equivoci, che si sta qui discutendo del cosiddetto moto progressivo della Terra, ovvero della
sua rivoluzione intorno al Sole, e non già del suo eventuale moto di rotazione diurna (per cui si
ricorda ad esempio, insieme a quello di altri "pitagorici", il nome di Eraclide Pontico, IV secolo
A.C.). Il lettore che vorrà invece approfondire la questione sotto un diverso punto di vista potrà
utilmente giovarsi di: L. Russo, La rivoluzione dimenticata - Il pensiero scientifico greco e la
scienza moderna, Ed. Feltrinelli, Milano, 1996. A proposito infine di Aristarco come precursore di
Copernico, viene appropriato segnalare (nella misura in cui questo lavoro si occupa anche della
vulgata scientifica corrente), un'informazione fornita dall'Enciclopedia Hoepli, alla voce Copernico,
che contiene ben tre errori in una sola riga: "L'idea eliocentrica [...] aveva ripreso vigore quando si
conobbero gli scritti originali di Aristarco di Samo nella traduzione che ne aveva fatto (1488)
Lorenzo Valla, e che era commentata animatamente a Bologna quando Copernico ne frequentava
l'Università". Orbene, di Aristarco ci è rimasto un solo scritto, Sulle dimensioni e la distanza del
Sole e della Luna, e in esso non si fa il minimo cenno all'ipotesi eliocentrica; per di più, non fu
tradotto dal famoso Lorenzo Valla, ma dal molto meno noto Giorgio Valla, che non sappiamo
neppure se fosse un parente del primo.
184
24
Dovuta al fatto che, in modo analogo a quanto precedentemente discusso nel caso di Marte, anche
nel sistema di Tolomeo sono previste delle eccentricità, in qualche circostanza non del tutto
trascurabili.
25
In effetti, e proprio nell'ottica particolare del presente lavoro, è la teoria copernicana a essere
maggiormente suscettibile di una falsificazione sperimentale, se appunto le distanze dei pianeti dal
Sole non fossero di fatto pressoché costanti. Poiché questo appare come un dato sperimentale che
possiamo considerare realmente acquisito, dobbiamo concludere di essere di fronte a descrizioni
della realtà che sono, dal punto di vista dell'oggetto, praticamente equivalenti (almeno finché non
intervengono, con Newton, considerazioni di tipo dinamico, e non soltanto cinematico).
26
Si potrebbe fare altrettanto per le tavole dei periodi, ovvero, sarebbe possibile ottenere con
notevole approssimazione le attuali tavole dei periodi di rivoluzione dei pianeti intorno al Sole a
partire dai dati tolemaici relativi ai periodi del moto di un pianeta sul deferente (moto in
longitudine) e sull'epiciclo (moto in anomalia), vedi Appendice.
27
Il moto dei pianeti ha una "strana" connessione con quello del Sole, peraltro inspiegata, e
inspiegabile, all'interno dell'ottica tolemaica. Il segmento che congiunge un pianeta esterno con il
centro dell'epiciclo è sempre parallelo a quello che congiunge il Sole e la Terra, mentre nel caso dei
pianeti interni, ovvero Mercurio e Venere, viene postulato che Terra, Sole e centro del relativo
epiciclo siano sempre tra loro allineati (il che spiega tra l'altro il fatto che essi si discostano sempre
di "poco" dall'astro splendente). E' tanto difficile immaginare i due detti segmenti uguali, o il centro
dell'epiciclo coincidente direttamente con il Sole (in modo da avere a che fare con soli due punti,
che sono quindi sempre allineati, e non con tre)? Come dire che questi legami di origine ignota
avrebbero potuto già al tempo di Tolomeo richiamare la possibilità di un sistema eliocentrico, la
distanza Terra-Sole costituendo l'elemento comune capace, in conformità a quanto abbiamo visto, di
correlare tra loro tutti gli altri parametri indeterminati della teoria tolemaica, e di esprimerli nei suoi
termini. E del resto, sia pure soltanto per i due pianeti interni, la congettura che abbiamo prima
avanzato era corrente in almeno una concezione del cosmo, di cui ci informa Marziano Capella (V
secolo D.C.): "Venus vero ac Mercurius non ambiunt terram" (De Nuptiis Philologiae et Mercurii,
L. VIII, 854). Con riferimento a ciò che è stato osservato nella Nota N. 23, c'è da informare che
quest'opera conobbe la sua prima edizione a stampa a Vicenza nel 1499, e che potrebbe avere quindi
ispirato Copernico assai più che non il libro di Aristarco.
28
Del resto, Copernico non nasconde i suoi debiti culturali con l'opera di Tolomeo, citandola molte
volte, e riprendendone numerose argomentazioni, anzi in un'occasione addirittura "dimenticandosi"
materialmente di sostituire Terra con Sole (Libro V, Cap. VI - l'errore viene automaticamente
"corretto" in alcune traduzioni). Secondo il punto di vista illustrato da L. Russo nell'opera citata
nella Nota N. 23, si potrebbe anzi avanzare la congettura che come Copernico avrebbe soltanto di
fatto "trasformato" l'Almagesto in un sistema eliocentrico, l'astronomo alessandrino avrebbe a sua
volta adattato un a noi ignoto trattato eliocentrico in uno geocentrico: si sarebbe così nel XVI secolo
ritornati alle origini! Agli espliciti riconoscimenti copernicani fa invece da contraltare il già
ricordato "silenzio" galileiano (vedi anche le Note NN. 18, 32). E' per esempio significativo
osservare che Galileo cita soltanto tre volte nel suo Dialogo, e peraltro sempre di sfuggita, il
termine epiciclo, senza mai operare rinvii precisi al trattato di Tolomeo, di cui discute solo in un
paio di punti, e piuttosto superficialmente, le "stime" matematiche.
29
E bisognerebbe aggiungere, per amore di esattezza, che Copernico va considerato assai più
tedesco che non polacco, al punto che Giordano Bruno, fervente fautore della teoria eliocentrica, il
quale dedicò a Copernico parole appassionate ("Venerabile ingegno che il secolo oscuro non toccò,
che il clamore degli sciocchi non fece tacere"), lo chiama "alemano", o altrove, "borusso" (vedi per
esempio l'ottimo: "La rivoluzione copernicana e il mito solare", di E. Garin, in Rinascite e
rivoluzioni - Movimenti culturali dal XIV al XVIII secolo, Ed. Laterza, Bari, 1975, in cui si
tratteggia il più verosimile sfondo ideologico capace di correttamente inquadrare la "rivoluzione"
oggetto del nostro interesse).
185
30
E si potrebbe tenere conto delle stime delle eccentricità fornite da Tolomeo per passare da questo
valore, circa 5, ai più adeguati 6.5 o 7, come abbiamo dianzi visto, ma di siffatti approfondimenti ci
occuperemo meglio nel prossimo paragrafo.
31
Per esempio tramite al-Farghani (IX secolo), latinizzato in Alfragano, e i suoi Elementi di
Astronomia, che furono tradotti in latino nel XII secolo (prima versione a stampa: Ferrara, 1493).
32
Bisognerebbe a questo punto anche sottolineare che Galileo non discute mai, come possibile
ulteriore alternativa, il sistema proposto da Tycho Brahe, di cui pure era perfettamente al corrente,
una sorta di "compromesso" tra sistema tolemaico e sistema copernicano: la Terra è immobile al
centro dell'universo, il Sole gira intorno ad essa, e tutto il resto gira intorno al Sole (si tratta
semplicemente di un'altra versione della medesima teoria generale per deferenti ed epicicli, nella
quale si lasci cadere l'ipotesi che i raggi dei deferenti siano sempre maggiori di quelli degli epicicli).
Tale concezione avrebbe "salvato", almeno in certa misura, il quadro metafisico che la Chiesa
romana stava cercando di difendere. Andrebbe ancora aggiunto, a prevenire equivoci, che sembra
Tycho non avesse di siffatte preoccupazioni religiose (tra l'altro, era un protestante), ma intendesse
solo individuare la teoria che descriveva più adeguatamente la "realtà". Il moto progressivo della
Terra gli appariva infatti fisicamente impossibile a causa per esempio della mancata osservazione
della cosiddetta ellisse parallattica stellare. Al moto di rivoluzione della Terra intorno al Sole
avrebbe dovuto invero corrispondere, dal punto di vista di un osservatore terrestre, un analogo
movimento annuale di ogni stella, che in effetti esiste, ma è così piccolo che non poteva essere
assolutamente apprezzato ai tempi di Tycho (la parallasse stellare annua fu osservata per la prima
volta da Friedrich Wilhelm Bessel soltanto nel 1838). Si ripensi del resto a quanto già detto prima
per la parallasse di Marte, in connessione con quella che oggi sappiamo essere la relativamente
incommensurabile distanza sia pure della stella a noi più vicina (Sole ovviamente escluso) rispetto
al diametro dell'orbita terrestre. Di tale sproporzione quantitativa, che bene risponde all'obiezione
sulla mancata rilevazione della parallasse in parola all'epoca di cui si parla, erano ovviamente del
tutto consapevoli sia Copernico ("Dell'immensità del cielo in rapporto alla grandezza della Terra" è
infatti il titolo del Cap. VI del Libro I del De Revolutionibs...), sia Galileo: "Si conclude con
dimostrazion verace che la distanza di esse stelle fisse da noi viene ad esser tanta, che basta per far
che in esse non apparisca notabile il movimento annuo della Terra, che ne i pianeti cagiona sì grandi
ed osservabili variazioni" (Dialogo..., 386).
33
Si noti che stiamo qui procedendo secondo l'ordine esatto dei "cieli" previsto dal sistema
tolemaico: Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno, il tutto incastonato all'interno
dell'ultima sfera in cui sono infisse le stelle. Si tratta di una "gerarchia" assolutamente corretta, fatta
eccezione per Mercurio e Venere, nel cui caso si registra un'inversione rispetto alla situazione reale
(e che potrebbe essere individuata sia in base ai rapporti precedentemente calcolati, sia in base alla
tavola dei periodi, secondo la quale Mercurio risulta avere il periodo più piccolo - si tratterebbe però
naturalmente di un'ottica diversa da quella geocentrica). La ragione di questo scambio è abbastanza
curiosa, dal momento che Tolomeo utilizza un bizzarro criterio di "complessità": più vicina alla
Terra è la Luna, il cui moto è decisamente irregolare, e per lo stesso motivo dopo deve venire
Mercurio, che presenta un comportamento assai più anomalo di quello di tutti gli altri pianeti (e
Copernico del resto ribadisce questa constatazione, quando, nel suo Libro V. Cap. XXX, osserva
che: "Con molti sotterfugi e molta fatica ci ha dunque martoriato questo astro, per poter scrutare i
suoi movimenti").
34
Ma che ha per esempio il vantaggio di poter concepire l'intero sistema dei deferenti e degli
epicicli nella stessa ottica della cosmologia aristotelica, e della relativa teoria della trasmissione del
moto dall'alto verso il basso. Questo sistema evita anche un'obiezione di Galileo (loc. cit. nella Nota
N. 7, 370), secondo la quale le sfere degli epicicli, intersecandosi le une con le altre, come invero
accadrebbe in un sistema tolemaico che sia una versione geocentrica di quello copernicano, si
dovrebbero rompere.
35
B.R. Goldstein, The Arabic Version of Ptolemy's "Planetary Hypotheses", American
Philosophical Society Transactions, N. 57, 1967; cfr. A. Van Helden, Measuring the Universe -
186
Cosmic Dimensions from Aristarchus to Halley, The University of Chicago Press, 1985. Si noti che
Galileo non era con ogni verosimiglianza al corrente dell'origine tolemaica di queste speculazioni,
che si accompagnavano comunque usualmente alle esposizioni divulgative dell'Almagesto.
36
Che richiederebbero la citazione almeno delle opere del già nominato Aristarco (Nota N. 23) e di
Ipparco di Nicea (II secolo D.C.).
37
Diamo il valore reale per confronto, che è stimato oggi in 406.590 Km (laddove 64, in realtà 64 e
1 sesto, moltiplicato per 6305 fa 404.571 Km!), dicendo però anche che, proprio con riguardo alla
Luna, Tolomeo commette gli errori più rilevanti, prevedendo variazioni della sua distanza dalla
Terra del tutto inverosimili (cfr. J.L. Dreyer, loc. cit. nella Nota N. 20, pp. 176-178).
38
Vedi la tavola inserita in A. Van Helden, loc. cit. nella Nota N. 35, p. 27.
39
A proposito di tale valore, ci sarebbe da notare che la stima della distanza (media) Terra-Sole
viene dedotta nell'Almagesto con un metodo che alcuni commentatori non hanno esitato a definire
addirittura fraudolento, allo scopo di far tornare un rapporto pari a 19 volte tra questa distanza e la
distanza (massima) Terra-Luna, una stima che, introdotta da Aristarco nell'opera citata nella Nota N.
23, godette di autorità indiscussa fino ai tempi di Copernico, il quale pure non se ne discosta, come
presto noteremo (cfr. A. Van Helden, loc. cit. nella Nota N. 35, p. 19). Vale a dire, certe tentazioni
di "addomesticare" dati e argomenti (fondendo a volte valori di origine sperimentale con
"aspettative" teoriche) appaiono una costante fisiologica della pratica scientifica. A. Kohn (in False
Prophets - Fraud and Error in Science and Medicine, Basil Blackwell, Oxford, 1986, p. 3), elenca,
riprendendole dal matematico inglese ottocentesco Charles Babbage, tre categorie tipiche di
"manipolazioni": forging ("when one records observations that have never been made"), trimming
("in modern usage also 'massaging data' or 'fudging'"), cooking (manipulating data so as to make
them look better, in order to "fit the researcher's hypothesis best").
40
Il primo a fornire una stima ragionevole dell'UA fu Gian Domenico Cassini, che riuscì a
determinare nel 1672 un valore finalmente appropriato per la parallasse solare, attraverso
osservazioni coordinate effettuate a Parigi e alla Cajenna. Di Cassini, Dreyer dice che (loc. cit. nella
Nota 20, p. 388): "Essendo nato in Italia, era timoroso di pronunciarsi pubblicamente a favore del
moto della Terra, anche dopo essersi trasferito a Parigi", a riprova che le preoccupazioni
ideologiche, e politiche, sovrastano spesso quelle scientifiche (e bisognerebbe chiedersi se la
scienza di oggi sia proprio del tutto immune da siffatti condizionamenti, sebbene di altro segno...).
41
Cfr. ancora A. Van Helden, loc. cit. nella Nota N. 35, p. 46.
42
Notiamo anche che questo valore è più vicino all'8, e quindi al 60, di Galileo, che non l'analogo
valore copernicano!
43
Ma, in verità, non tutti. Per esempio, il sistema esposto da Tolomeo nelle Ipotesi dei pianeti
contempla di fatto per Venere un epiciclo che resta interamente al di sotto del Sole, mentre
osservazioni dirette (le famose fasi di Venere), effettuate da Galileo con il cannocchiale, e riportate
nel suo Dialogo, mostrano chiaramente che non è questo il caso (vedi anche la Nota N. 27). Si tratta
comunque di un'obiezione non decisiva, perché il sistema tolemaico (e intendiamo quello
dell'Almagesto, in cui peraltro non ci sembra venga formulata l'ipotesi in parola, a ulteriore
conferma di quanto osservato nella Nota N. 18) potrebbe essere in ogni caso facilmente "corretto" in
relazione a tale particolare dettaglio.
44
Si prescinde dall'ovvio aggiornamento "specialistico" dei dati contenuti nell'Almagesto, che viene
in realtà effettuato sin dai primi secoli successivi a Tolomeo, grazie per esempio agli studi
astronomici arabi. Queste "correzioni" riguardano soprattutto le posizioni delle stelle, sensibilmente
mutate nel corso degli anni per effetto della precessione degli equinozi (il terzo movimento della
Terra, dopo rotazione diurna e rivoluzione annuale). Da un punto di vista pratico, è verosimilmente
la necessità di produrre delle tavole stellari adeguate alle nuove esigenze della navigazione in mare
aperto il primo autentico motivo di una ripresa dell'interesse nei confronti dell'astronomia nel XV
secolo, il che rimanda a quanto già detto alla fine della prima sezione del presente lavoro. Si osservi
187
però che anche questo terzo moto potrebbe essere teoreticamente inquadrato in una concezione
geostatica, come ben riconosce lo stesso Copernico: "Ora, dopo che è passato molto tempo, ci si è
accorti che una tale inclinazione della terra nei confronti delle figure del firmamento, muta; ed è
proprio per questo che a molti parve che il firmamento stesso fosse mosso da alcuni movimenti, non
essendo ancora stata compresa a sufficienza la loro legge. In realtà è meno sorprendente che tutte
queste cose possano avvenire per il movimento della terra" (Commentariolus; ed. it.: Opere di
Nicola Copernico, UTET, Torino, 1979, p. 113 - si tratta di "abbozzo sommario" delle tesi
contenute nell'opera maggiore, composto da Copernico in un periodo a noi sconosciuto, e mai dato
alle stampe nel corso della sua vita; il problema della sua datazione non è mai stato definitivamente
risolto, ma l'ipotesi più plausibile è che esso sia stato elaborato tra il 1509 e il 1512; vedi F. Barone,
ibidem, p. 100); "essendo tale differenza molto modesta, non appare se non con il passare di molto
tempo: da Tolomeo a noi i punti solstiziali ed equinoziali hanno avuto una precessione di circa
ventun gradi. Per la qual cosa alcuni hanno creduto che anche la sfera delle stelle fisse si muovesse
e posero quindi sopra a questa una nona sfera; ma anche questa non bastando, ora i moderni ne
hanno aggiunto una decima"; "Già aveva cominciato a venire alla luce anche un'undicesima sfera, e
facilmente confuteremo tale numero di cerchi come superfluo nel caso del moto terrestre [...]
Sarebbe infatti più appropriato dire (con un confronto del minore al maggiore) che l'equatore è
obliquo rispetto all'eclittica, anziché che l'eclittica è obliqua rispetto all'equatore" (De
Revolutionibus..., L. I. Cap. XI; L. III, Cap.I; loc. cit., pp. 218-219; pp. 368-369 - enfasi degli
autori). Con queste parole Copernico conferma l'opinione già espressa all'inizio del
Commentariolus, "Io vedo che i nostri avi hanno ammesso un gran numero di sfere celesti [...]
andavo spesso meditando se per caso non si potesse trovare un più razionale sistema di circoli con i
quali fosse possibile spiegare ogni diversità apparente" (loc. cit., pp. 107-109), secondo la quale il
suo sistema è appunto semplicemente "più razionale" di quello geostatico, ma non più vero, almeno
in assenza di ulteriori elementi (vedi la Nota N. 32).
45
Tra questi, particolarmente notevole è Domenico Galati (Galileo - Primario matematico e
filosofo, Ed. Pagoda, Roma, 1991), ma siffatte interpretazioni filo-cattoliche del personaggio
sembrano poter essere confutate dalla fortunata circostanza che sono stati trovati recentemente
presso l'Archivio di Stato di Venezia documenti concernenti "le denunce e il tentato processo per
eresia nei confronti di Cesare Cremonini e Galileo Galilei presso il tribunale del Sant'Ufficio di
Padova nell'aprile 1604" (Antonino Poppi, Cremonini e Galilei inquisiti a Padova nel 1604 - Nuovi
documenti d'archivio, Antenore Ed., Padova, 1992). In essi si attesta uno "scontro" tra Galileo e la
Chiesa già nel 1599, ben prima dunque della "questione copernicana", ovvero precedente ai fondati
"sospetti" che si appuntarono sullo scienziato nel 1611 (a seguito della pubblicazione del Sidereus
Nuncius, nel quale si annunciavano i risultati delle prime osservazioni astronomiche strumentali). In
quell'occasione, viene tra l'altro rimproverato dai denuncianti a Galileo di non praticare né "la messa
né i sacramenti" (loc. cit., p. 20), e questa accusa - a cui è assai facile credere - la dice lunga sulla
pretesa di essere stato quegli un devoto "figlio della Chiesa". Secondo l'interrogatus messer
Silvestro Pagnoni, che Galileo "aveva assunto nella sua casa" in qualità di amanuense "per ricopiare
le sue opere e dispense da vendere agli studenti" (loc. cit., p. 55): "Io so anco questo, che io sono
stato 18 mesi in casa sua et non l'ho mai visto andare alla messa altro che una volta, con occasione
che lui andò per accidente, per parlare a monsignore Querengo, che io fui con lui; et non so che lui
si sia confessato et communicato mentre son stato in casa sua" (loc. cit., p. 58). Di fronte a tale
esplicita dichiarazione appare un po' pretestuoso - allo scopo di difendere comunque l'immagine del
Galileo cattolico - richiamarsi alla distinzione tra semplici credenti e devoti praticanti, come cerca di
fare anche l'autore (un sacerdote) del "fortunato rinvenimento" (loc. cit., p. 28) in parola: "E' uno
scarto comune da sempre tra i cristiani fra ortodossia nel pensare e ortoprassi nell'agire" (loc. cit., p.
60). In detto frangente Galileo se la cavò grazie all'intervento diretto del governo della Serenissima,
che non si scomodava certo a rischiare crisi politiche con Roma per chicchessia. E' forse curioso
aggiungere che in uno dei verbali concernenti un'analoga delibera del Senato veneziano - relativa a
un altro inquisito nello stesso frangente - sia riportato che la mozione di difesa fu infine approvata,
dopo una prima votazione negativa, "cacciati li papalisti" (loc. cit., p. 84). L'altro compagno di guai
di Galileo era Cesare Cremonini, suo amico e collega presso lo Studio di Padova, accusato di "non
188
tener l'immortalità dell'anima nello spiegare Aristotele" (loc. cit., p. 13). A differenza del pisano,
però, Cremonini rimase sempre, a quel che pare, fedele all'aristotelismo. Naturalmente, ancora
numerosi sono gli indizi che confermano il quadro interpretativo che proponiamo, e fanno dubitare
al contrario della validità di quello fatto proprio dal Galati, citato in inizio di Nota (secondo la
presentazione di Pietro Prini all'opera in parola: "La ricostruzione del Galati si muove
costantemente su due piani, quello teologico e quello scientifico, per enucleare dal testo galileiano
[…] l'aurora del pensiero moderno non al di fuori, ma nel seno stesso di un cristianesimo che com'era stato testimoniato anche nell'avventura tragica del grande amico di Galileo, Paolo Sarpi - è
'il cristianesimo essenziale ed ecumenico verso il quale marcia la storia'"). Concepire Galileo nei
panni di un integerrimo cattolico (e quindi cristiano!), preoccupato di evitare alla Chiesa degli errori
fatali, teso a "salvare simultaneamente la ragione e la fede" (loc. cit., p. 437), appare infatti difficile
anche per il motivo che segue. Se si prendono i grossi 19 volumi dell'Edizione Nazionale delle
Opere di Galileo curata da Antonio Favaro (il ventesimo è il volume degli Indici), quante volte vi si
trova un riferimento a Gesù Cristo, al Messia, al Redentore, etc.? Nel Dialogo… una soltanto, dove
il cenno al Cristo è peraltro messo in bocca a Simplicio, e per il resto potremmo dire mai, se si
escludono le locuzioni prima di Cristo o dopo di Cristo, oppure citazioni ("obbligate") di vari autori
(Tasso e Virgilio), con un'unica eccezione: la Consideratione astronomica circa la stella nova
dell'anno 1604, in cui abbastanza singolarmente (e in modo secondo noi "sospetto") Galileo indulge
a far credere che il fenomeno celeste possa essere "prenunti[o] di qualche gran mutatione, si nelle
cose della fede, come de Regni, & Imperi […] di qualche felice stato nella fede Christiana e
chatolica" etc.. Per contro, si trovano naturali riferimenti al Cristo in lettere rivolte a Galileo, ma
non provenienti da Galileo, a riprova che erano d'uso comune. Si potrebbe inoltre proficuamente
discutere, e a lungo!, sul "buffo" fatto che, nelle due antitesi tra la Chiesa di Roma e il
copernicanesimo (la prima non fu leggera con il secondo, dichiarandolo esplicitamente nel 1616
"stolt[o] e assurd[o] in filosofia e formalmente eretic[o]"), e ancora la stessa Chiesa e quella
protestante, sia avvenuto - come spesso accade: "i nemici dei miei nemici sono miei amici" - che i
protestanti si siano schierati dalla parte dei "copernicani" (in genere, è ben noto che questo non fu il
caso degli stessi Lutero e Melantone, secondo i quali, rispettivamente: "Il pazzo vuole rovesciare
l'intera arte dell'astronomia..."; "un governo saggio non dovrebbe permettere la diffusione di tali
idee" - cfr. F. Barone, loc. cit. nella Nota N. 44, p. 159), senza tenere appunto conto della
circostanza che la distruzione della "concezione del mondo" di una Chiesa avrebbe fatalmente
trascinato nella disfatta anche l'altra. Il caso più recente ed eclatante di "strane" convergenze, ovvero
motivate da una comune inimicizia, è costituito, stando almeno a ciò che viene lasciato "apparire"
sul palcoscenico della storia, dall'alleanza tra USA e URSS contro il III Reich hitleriano, mentre,
per restare in tema di controversie scientifiche, è molto interessante, soprattutto nello spirito del
presente saggio, la seguente considerazione di Aldo Mola: "La vulgata dell'evoluzionismo divenne
presto uno dei punti d'incontro di certi massoni che, anche senz'avere una precisa cognizione dei
contenuti scientifici del darwinismo e delle sue implicanze socio-politiche, dalle strenua lotta
sostenuta dalla Chiesa di Roma contro la sua diffusione e per la sua stessa provenienza dalla terra di
Desaguliers ed Anderson deducevano ch'esso fosse comunque un buon compagno di strada, se non
verso la Vera luce almeno per dissipare le tenebre più fitte; e che dalla sua diffusione sarebbe
scaturita la definitiva liberazione dai lacci dell'ignoranza e dall'occhiuta 'clerocrazia cattolica' ... Non
diversa da quella di ogni altra dottrina o scoperta o invenzione scientifica era la sorte del
darwinismo: ognuno vi cercava le conferme più gradite e vi riponeva le verità più confacenti alle
proprie aspettazioni, anche se, come dirompente novità, la sua valenza propendeva a innescare
processi di colore rivoluzionario o comunque disgregatori del sapere e dei poteri costituiti"
(Storia della Massoneria italiana dalle origini ai nostri giorni, Bompiani, Milano, 1992, pp. 104105 - enfasi degli autori).
46
47
Cfr. ancora E. Garin, loc. cit. nella Nota N. 29.
De Possest (1460). La seconda espressione citata si trova invece nella Prefazione al De
Revolutionibus…, in cui Copernico si rivolge direttamente al Papa Paolo III, illustrando le ragioni
alla base della sua opera.
189
190
Ringraziamenti - Gli autori desiderano esprimere la loro più viva gratitudine a Maurizio
Caselli, Paolo Maffei, Giuseppe Nicolosi, Paolo Zappa, per preziose osservazioni che
hanno consentito una revisione adeguata del presente lavoro (la prima stesura risale al
dicembre 1998).
----[Una presentazione del primo autore si trova nel N. 1 di Episteme, oltre che
nella precedente Nota N. 4, nella quale sono fornite anche notizie sul secondo
autore.]
E-mail: [email protected] , [email protected]
Il sistema copernicano come illustrato nel De Revolutionibus...
191
La copertina della I edizione del Dialogo...
Gli epicicli tolemaici, T Terra, P pianeta
Se l'epiciclo di Venere restasse tutto compreso
tra la Terra e il Sole, Venere non potrebbe vedersi
in effetti mai piena (da F. Selleri, loc. cit.).
192
La fisica unifenomenica cartesiana
e il punto debole dell'IA forte
(Rocco Vittorio Macrì)
"I confini dell'anima non li potrai mai trovare, per quanto tu percorra le
sue vie; così profondo è il suo logos".
(Eraclito, fr. 45)
"Se uno dicesse che, se non avessi queste cose, cioè ossa nervi e tutte le
altre parti del corpo che ho, non sarei in grado di fare quello che voglio,
direbbe bene; ma se dicesse che io faccio le cose che faccio proprio a
causa di queste. e che, facendo le cose che faccio, io agisco, sì, con la mia
intelligenza, ma non in virtù della scelta del meglio, costui ragionerebbe
con assai grande leggerezza. Questo vuol dire non essere capace di
distinguere che altra è la vera causa e altro è il mezzo senza il quale la
causa non potrebbe essere causa. E mi sembra che i più, andando a
tastoni come nelle tenebre, usando un nome che non gli conviene,
chiamano in questo modo il mezzo, come se fosse la causa stessa".
(Platone, Fedone, 99 a-b)
1 - La dissoluzione del dualismo cartesiano
Il dualismo cartesiano tra spirito e materia, dopo la morte del filosofo francese 1, divenne
distorto e "monizzato"2, smembrato in due tronconi isolati al posto dell'unico albero
originario3: il primo avrebbe portato all'idealismo assoluto, il secondo al materialismo più
spregiudicato, attraverso l'empirismo inglese prima (per quello che riguarda la
frantumazione del "puzzle" cartesiano), l'illuminismo francese poi, con La Mettrie che,
eliminando di netto la parte spirituale, presenterà l'uomo "solo" macchina. Così come
Leucippo e Democrito pensavano l'anima formata da atomi rotondi piccoli e veloci con
particolari caratteristiche che li rendevano capaci di produrre stati coscienti, così nel nostro
tempo, dopo la "facoltà sensitiva della materia" di La Mettrie 4, le "molecole sensibili" di
Diderot5, i tentativi holbachiani di una "animalisation"6 della materia e i "picnatomi" di
Haeckel7, siamo arrivati alla più elaborata "coscientizzazione particellare" della meccanica
quantistica8.
La "cintura protettiva lakatosiana" avrebbe aggiunto in seguito un radicale «appello alla
chiarezza e alla scienza libera dalla metafisica».9 «Dal Cogito non segue il sum; dall'"io
sperimento" non segue che io sono, ma che una esperienza è».10 E con Russell si passerà
dall'«io penso» di Cartesio al «si pensa in me», fino al wittgensteiniano «Io posso sapere
quello che pensa l'altro, non quello che penso io»11, o ancora «un "processo interno"
abbisogna di criteri esterni».12 Password: "oggettività"! Ecco da quale humus speculativo
attingono la filosofia e la scienza contemporanee che - dalla messa in guardia di Ryle nei
confronti di ogni «dogma dello spettro nella macchina» 13, sino alla più recente denuncia di
Rorty che per salvarci dalla «frattura ontologica» dichiara che «la nozione di sostanza
mentale come ciò di cui sono fatti i dolori e giudizi ha esattamente tanto poco senso quanto
quella di "ciò di cui sono fatti gli universali"» 14 - porta spontaneamente al ribaltamento del
193
Cogito ergo sum: «Noi siamo, e quindi pensiamo; e pensiamo solo nella misura in cui
siamo, dal momento che il pensare è causato dalle strutture e dalle attività dell'essere» 15...
Ecco la filosofia dell'ibernazione, la morte dell'anima!16 Da qui all'estremo
antropomorfismo enunciato da Paul Davies in Dio e la nuova fisica la distanza è breve:
«Tuttora non è ancora immaginabile una mente senza cervello. Se Dio è una mente, avrà
dunque un cervello? Un cervello corporeo?».17
Parlare dunque oggi di anima spirituale equivale a evocare fantasmi del passato che la
nostra scienza moderna ha dissipato definitivamente, come i concetti di calorico, flogisto e
spiriti vitali.18 Così, mentre il vecchio dualismo si è tripartito in "dualismo delle sostanze",
"dualismo delle proprietà" e "dualismo concettuale"19, i materialisti di ieri si sono
trasformati oggi in moderni "materialisti monisti eliminativisti", "funzionalisti
computazionali", "modularisti", "connessionisti", "emergentisti monisti, pseudo-dualisti e
pseudo-pluralisti", ecc... La manovra «dagli-un-nome»20 sembra regnare sovrana in vetta al
nostro paradigma attuale! La tendenza fantascientifica di questo, dettata dalla seconda
rivoluzione scientifica avvenuta nel nostro secolo ad opera di Einstein e della scuola di
Copenaghen, ha spazzato via il vecchio "buon senso" 21 e, scavalcando (o meglio,
utilizzando) il senso di disagio prodotto22, ha "magicizzato"23 l'universo fisico usando "la
matematica come forza razionalizzatrice diretta" 24 fino a "creare" spazi a 950 dimensioni 25,
universi paralleli26, fotoni "coscienti"27, buchi neri virtuali, bosoni fantasma28, "closed
timelike curves" e viaggi nel tempo!29
Di fronte a tale spinta propulsiva verso il "fantastico", verso l'irreale, provocata
dall'immaginario collettivo scientifico del nostro secolo, non c'è da stupirsi se nel campo
della filosofia della mente, del mind-body problem, dell'intelligenza artificiale... "il
fantastico" si materializza con ancor maggiore densità: le "qualità mentali" di Hal, il
calcolatore super-evoluto di 2001: odissea nello spazio, vengono viste per niente
chimeriche e, a sentire i cervelli di questo campo di ricerca, Hal sarà realizzato quanto
prima; la coscienza e le sensazioni superiori all'uomo - nel momento che afferma: "Io ne ho
viste di cose che voi umani non potreste immaginare" - possedute dal super-replicante,
modello Nexus 6, Batty, nel film Blade Runner del 1982, sembrano non scandalizzare più
di tanto neanche gli "esperti". Fantascienza? Si provi a leggere uno scritto di Marvin
Minsky, il fondatore dell'intelligenza artificiale, e quella risulterà piccola cosa in confronto!
30
D'altra parte se «ogni sensazione è, in ultima analisi, chimica, perché ogni attività
neuronale del nostro cervello dipende dal trasporto di molecole e ioni da una
localizzazione a un'altra e dalle reazioni a cui partecipano quelle molecole» 31, e ancor più,
se «"Io" sono non tanto i miei atomi quanto la configurazione secondo la quale i miei
atomi sono disposti»32, il tutto appare scientificamente coerente!
2 - Il concetto di "fisica U"
«Se vi pare strano che, per spiegare questi elementi, io non mi serva, come i filosofi,
delle qualità chiamate caldo, freddo, umidità, secchezza, vi rispondo che, secondo me,
queste qualità stesse hanno bisogno di spiegazione, e, se non m'inganno, non solo queste
quattro qualità, ma anche tutte le altre, e persino tutte le forme dei corpi inanimati si
possono spiegare senza bisogno di supporre nella materia dei corpi stessi nient'altro che il
movimento, la grandezza, la forma, la disposizione delle parti». Così Cartesio nel suo Le
Monde ou Traité de la Lumière 33 manifestava il principio unifenomenico del mondo fisico,
il quale è alla base - o a fondamento - della sua grande sintesi cosmica. A un decennio di
distanza, nei suoi Principia, preciserà: «Non c'è dunque che una stessa materia in tutto
194
l'universo, e noi la conosciamo per questo solo, che essa è estesa; poiché tutte le proprietà
che percepiamo distintamente in essa, si riportano a questa: che essa può essere divisa e
mossa secondo le sue parti, e può ricevere tutte le diverse disposizioni, che noi osserviamo
potersi verificare per mezzo del movimento delle sue parti. Poiché... è certo... che tutta la
diversità delle forme che vi si trovano dipende dal movimento locale».34
Il carattere unifenomenico della fisica cartesiana, una fisica cioè che consenta di spiegare
i fenomeni e le apparenze a partire da un unico fenomeno (e sostanza) primordiale, ha una
tale valenza semantica e intuitiva per la struttura mentale umana che già Platone, prima
dell'hyle aristotelico35, era arrivato a contemplare il concetto di chora, di quella matrice
cosmica e universale alla base di tutti i fenomeni, che permane al di là del divenire degli
elementi e delle cose sensibili: «Se alcuno plasmando in oro figure d'ogni specie, non
ristesse mai di trasformare ciascuna di esse in tutte le figure, e un altro, mostrando una di
quelle, domandasse che cos'è, sarebbe molto più sicuro, rispetto alla verità, rispondere che è
oro: quanto al triangolo e alle altre figure, che ivi si formarono, non converrebbe mai
nominarle come esistenti, perché mutano mentre si pongono, ma contentarsi, se volessero
accettare sicuramente anche il tale. Ora lo stesso ragionamento vale per quella natura che
riceve tutti i corpi: si deve dire che è sempre la stessa, perché non perde affatto la sua
potenza, ma riceve sempre tutte le cose, e in nessun modo prende mai una forma simile ad
alcuna di quelle cose che entrano in essa: perché essa di sua natura è la materia formativa di
tutto, che è mossa e figurata dalle cose che vi entrano, e appare, per causa di esse, ora in
una forma e ora in un'altra».36 La stessa fisica democritea è unifenomenica.37
Un esempio perfetto di fisica unifenomenica nel nostro secolo è la Spaziofluidodinamica
dello scienziato bergamasco Marco Todeschini (1899 - 1988) che con la sua monumentale
Teoria delle apparenze del '49 avrebbe tentato di aprire un varco alla speranza di arrivare
ad un sintesi cosmica unitaria di tipo cartesiano: «"L'Universo è costituito solamente di
spazio fluido inerziale i cui moti rotanti costituiscono i sistemi atomici ed astronomici che
formano la materia ed i cui moti ondosi, quando e solamente quando colpiscono i nostri
organi di senso, suscitano in noi le sensazioni di forza, elettricità, suono, calore, luce, odore,
sapore, ecc.". Queste sensazioni quindi, sorgendo esclusivamente in noi, sono irreperibili
nel mondo fisico oggettivo a noi circostante, nel quale esistono invece solamente i
movimenti di spazio fluido corrispondenti. L'unico fenomeno possibile nel mondo fisico
oggettivo è quindi il movimento dello spazio, poiché tutti gli altri fenomeni (forza,
elettricità, suono, luce, calore, sapore, ecc.) sono sensazioni che sorgono esclusivamente in
noi quando quei movimenti di spazio incidono sui nostri organi di senso. In ciò consiste il
principio unifenomenico del mondo fisico».38
Noi qui accoglieremo della teoria todeschiniana soltanto il concetto di fondo, cioè il
carattere unifenomenico della sua fisica, senza preoccuparci di quale valore o plausibilità
abbiano le sue ipotesi. Tale concetto di fisica unifenomenica ci servirà in seguito come
strumento ultra-trasparente per dissipare le epistemologiche nebbie dell'IA (Intelligenza
Artificiale).
Il "carattere U" (cioè unifenomenico) di questo tipo di fisica indica che fuori dall'essere
percipiente le qualità primarie rimangono sempre tali e mai generanti qualità secondarie se
non all'interno di questo. In altri termini, la "liquidità searleana" 39 qui viene vista e
facilmente accorpata all'interno delle qualità primarie: essa appare uno stato di fase della
materia con caratteristiche di non-linearità ben precise e di tipo quantitativo. Ben diverso
invece risulta accettare entità come i qualia al di fuori dell'essere animato che li percepisce
(al di fuori cioè della percezione): il tipico sapore del cloruro di sodio non risulterebbe
quindi come emergente dall'insieme Na + Cl, ma semplicemente come percezione di
un'entità fisica capace di innescare un processo a catena nell'essere percipiente (a causa di
195
una pre-regolazione, o volendo dare un termine tecnico "triggeraggio", dei recettori di
questo...). Il sapore "salato" non esiste fuori dalla percezione.40
Saremmo considerati matti se sostenessimo che è una proprietà (di tipo emergente) di un
certo tipo di onda elettromagnetica quella di far scoccare una scintilla in un circuito
accordato, come esperimentò Hertz, completamente assente in altre frequenze... Sappiamo
invece che questo fenomeno non è dato da virtus o facultas peripatetiche, e neanche da
proprietà emergenti, ma semplicemente da un meccanismo nascosto, da un retroscena
(anche se in questo caso l'essere percipiente prende parte attiva per quello che riguarda le
qualità secondarie come suono, luce, colore, odore, calore...). Il monossido di carbonio non
è velenoso perchè possiede una certa facultas deleteria, ma semplicemente perchè prende il
posto dell'ossigeno nella macromolecola dell'emoglobina: un meccanismo elementare di
causa ed effetto, un'idea chiara e distinta, per dirla alla Cartesio, movimenti di una res
extensa che possono apparire complessi solo per numero, quantitativamente.41
E' bene rendere esplicito anche il "carattere D" (cioè deterministico) di questa fisica, che
come definizione, per non usare ancora una volta in più quella sfruttatissima di Laplace, ci
serviremo di una delle ultime (cronologicamente) equivalente: «Una teoria è deterministica
quando raffigura un sistema fisico come un sistema del quale, conoscendo uno stato
iniziale, sia possibile prevedere uno stato futuro con un grado analogo di precisione. Le
teorie della fisica classica sono deterministiche. Al contrario, una teoria è indeterministica
quando raffigura un sistema fisico come un sistema che non permette tali previsioni,
nemmeno in linea di principio».42
E' opportuno a questo punto spendere qualche parola per dissipare moderne ragnatele di
un certo "sofisma concettuale" riguardanti i concetti di caos e complessità.43 Quale peso
semantico acquista la frase appena riportata «prevedere uno stato futuro con un grado
analogo di precisione» nel contesto del "carattere D" del tipo di fisica da noi circoscritta? O
in altri termini, a quale livello epistemologico si colloca la non-linearità e la retroazione nei
processi fisici? Crea questo un confine di demarcazione tra fisica deterministica e non?44
Davanti alla "scatola nera" del caos lasciata dai teorici che misero in moto questa
disciplina45 è bene non cadere in uno stato di smarrimento e usare come bussola
l'esortazione di Misone46: «Indaga le parole a partire dalle cose, e non le cose a partire dalle
parole». Complessità e caos rimangono "buie" non per una linea assiomatica o di principio,
come nel caso del principio d'indeterminazione di Heisenberg, ma per il rapporto
gigantesco fra l'enormità del numero di parametri in gioco e i limiti nostri (attuali!)
conoscitivi. In effetti il caos, a differenza della meccanica quantistica, è un sistema
potenzialmente "algoritmico" e "computazionale".47
Desta preoccupazione inoltre la "ipo-filosofica" e grossolana confusione che molti
scienziati fanno tra impredicibilità e inderminatezza. Come abbiamo sottolineato
precedentemente in altri contesti, l'errore più comune e tristemente grave che lo scienziato
di oggi fa è quello che abbiamo definito con una speciale sigla: "TGO" (trasferimento dal
piano gnoseologico al piano ontologico). Innescato (un simile processo) probabilmente da
Einstein con la sua simultaneità indeterminata, operazioni di questo tipo (TGO) appaiono
ormai in ogni angolo della scienza, infirmando e violentando la logica filosofica sottostante
il ragionamento e la congetturazione scientifica. Un esempio di TGO è appunto confondere
impredicibilità con indeterminatezza, "quello che so" con "quello che è" o, ancorpiù,
"quello che non so" con "quello che non è". Si noti l'infinita distanza concettuale ed
epistemica tra "sistemi impredicibili" e "sistemi indeterminati": i primi possono anche
essere indeterminati, mentre i secondi non possono non essere impredicibili. Così la
precedente definizione di teoria deterministica di McAllister, «prevedere uno stato futuro
con un grado analogo di precisione», è inquinata da un processo di TGO: qui il termine
196
«[non] prevedere» viene confuso con "mancanza di causa ed effetto", e «un grado analogo
di precisione» viene suggerito più da una giustificazione che da una norma scientificofilosofica.48 Affinché una teoria non sia deterministica non è sufficiente vestirla di
impredicibilità, infatti potrebbe essere impredicibile (piano gnoseologico) e nello stesso
tempo deterministica (piano ontologico). Nessun grado di complessità Ω può essere preso
come parametro per indicare un punto di rottura irreversibile tra determinatezza e
indeterminatezza (del tipo "se complessità > Ω allora fine del carattere D"). Una teoria è
deterministica se c'è proporzionalità tra causa (C) ed effetto (E) anche solo di tipo debole:
non necessariamente deve esistere una corrispondenza biunivoca tra C ed E, ma è
sufficiente che esista una suriezione. Cioè non è necessario che lo stesso effetto sia dato
dalla stessa causa, ma è sufficiente che ogni effetto abbia una causa. Quindi può esistere
una teoria deterministica anche se impredicibile: pur non potendo fare previsioni
nondimeno è determinata "top-downamente", cioè dalla causa verso l'effetto, anche se non
"bottom-upamente", dall'effetto alla causa. Si vede qui chiaramente come nessuna nonlinearità e retroattività può eliminare il "carattere D" del tipo di fisica che stiamo
esaminando.
Definiamo, a tale scopo, fisica U forte49 un tipo di fisica come quella todeschiniana
appena accennata, dove l'unico fenomeno reperibile nel mondo fisico è il movimento del
fluido spaziale (o, per i nostri scopi, qualunque entità unifenomenica); fisica U debole una
fisica simile a quella newtoniana e pre-quantistica dove pur non essendo basata su un unico
fenomeno (come il moto), le altre entità sono in numero limitato (ad esempio le 4
interazioni conosciute) e totalmente indipendenti.50 Definiamo infine fisica U ultra-debole
una ipotetica fisica costruita su un numero di interazioni e princìpi grande a piacere, ma,
ancora una volta, totalmente indipendenti.
3 - Il punto debole dell'IA forte
L'intelligenza artificiale (IA) sta diventando una delle creazioni umane più suggestive e
significative del nostro secolo. Grazie all'universo tecnologico a cui possiamo attingere, le
"macchine pensanti" incominciano ad emergere dalle congetturazioni della nostra epoca,
almeno virtualmente, lasciando intravedere la possibilità di una sorta di vita "oltre la
biologia". Il computer, che già ingaggia severe partite con i grandi campioni di scacchi,
sembra meritare il termine "intelligente": forse per le suggestioni che provoca, la scienza
dell'IA sta acquistando connotati di grande popolarità.
È passato poco più di mezzo secolo dalla costruzione del primo grande calcolatore
digitale elettromeccanico51 e in questo lasso di tempo abbiamo superato la sua velocità per
un fattore 10, 100, 1000, 10000, 100000, 1000000, ... 52 Un chip oggi contiene milioni di
transistors, quando meno di 30 anni fa il più avanzato ne conteneva poche decine di
migliaia53. Si parla già da qualche anno di una nuova e superiore tecnologia a
funzionamento fotonico invece che elettronico54; questo permetterà di "bypassare" i limiti
imposti dai circuiti binari: infatti si potrà fare uso delle tecniche olografiche capaci di creare
dei "transitori ottici" multi-stato invece del classico on-off. Per non parlare delle nuove reti
parallele che si dimostrano «capaci, dopo addestramento, di esibire prestazioni cognitive di
un livello di sofisticazione assolutamente sbalorditivo»55.
In mezzo secolo, dunque, grazie a progressi tecnici quasi miracolosi, l'informatica ha
bruciato le tappe sul versante dei dispositivi, delle architetture, dei materiali e della
miniaturizzazione56. Prende forma quindi anche in questo campo, così come è avvenuto per
197
la teoria dei quanti, l'idea che la realtà superi la fantasia. Premi Nobel come Crick o
Edelman sembrano ormai sicuri di poter spiegare proprietà mentali quali la coscienza a
partire direttamente dalla materia.57 Anzi, secondo loro, è pura follia dare credito a qualcosa
di diverso. Ormai, per la scienza, c'è un'unica via per spiegare il rapporto mente-corpo: la
materia (tutt'al più organica). Ma... «a rigor di termini l'aggettivo "organica" non definisce
più con esattezza i confini della materia» 58, e tantomeno quelli della coscienza per i fautori
dell'IA forte come Minsky. Tutte le facoltà mentali sarebbero disposizioni spaziali pure,
geometrie particolari, software in un hardware come il cervello ma non necessariamente
fatto di materia grigia. Un computer sufficientemente sofisticato potrebbe fare da "substrato
hardwaristico". Bisogna notare, oltretutto, che dietro a queste concezioni «vi è l'assunzione
comune che l'attività cogitativa abbia direttamente a che fare con rappresentazioni, e
soltanto indirettamente con le realtà che tali rappresentazioni simboleggiano. È questa
assunzione a far sì che l'idea moderna che i calcolatori possano essere portati a pensare
suoni comprensibile almeno in parte. Se pensare è manipolare rappresentazioni, perché non
dovremmo essere in grado di fare in modo che gli stati della macchina "rappresentino" le
cose, e che gli elaboratori possano ordinare, classificare e trasformare questi stati?».59
Se la "versione forte" dell'intelligenza artificiale sostiene che l'intelligenza dipende solo
dall'organizzazione di un sistema e dal suo operato come manipolatore di simboli e non
dalla natura fisica degli elementi che costituiscono il sistema intelligente, allora - seguendo
il funzionalismo passo passo - anche «la vita dipende solo dall'organizzazione degli
elementi nel tempo e nello spazio e dall'interazione di relazioni e processi di cui quegli
elementi fanno parte»60 e non invece dalla natura fisica degli elementi che costituiscono il
"sistema vivente". Ecco la vita artificiale!61 Per quest'ultima anche i virus, «i programmi
virulenti [che] si riproducono e si diffondono in tutti i calcolatori [...] sono, in questo senso,
forme di vita»62. Si domanda Rucker: «Sarebbe giustificato asserire che questi robot
altamente evoluti sono dotati di coscienza nello stesso senso in cui ne sono dotati gli esseri
umani?».63 In fondo si tratterebbe di esseri pensanti evolutisi «da un substrato di metallo e
di chips al silicio, come noi siamo esseri pensanti evoluti da un substrato di aminoacidi e
altre sostanze a base di carbonio».64 Tutto diventa forma, geometria, virtualmente
riproducibile. Persino il sé diventa emergente e virtuale.65
Degna di nota è la riproducibilità teorica che tale visione implicherebbe; si potrebbe dire,
parafrasando la famosa frase di Laplace, che un'intelligenza che in un dato momento avesse
posto ogni particella nella giusta geometria, avrebbe realizzato non solo un particolare
cervello, ma addirittura una persona umana completa di ricordi, esperienze, "io", "sé" e
relativo inconscio. Nulla sarebbe fuori dalla tetraktys pitagorica, dal mondo della
geometria: «Se un individuo ha una gamba, o un fegato o un cuore artificiale, è sempre la
stessa persona. Io sostengo che è anche possibile immaginare un tempo in cui si potrà avere
un cervello artificiale. Ciò si potrebbe ottenere, per esempio, registrando olograficamente la
struttura fisica, elettrica e biochimica del cervello, e quindi trasferendola isomorficamente
su un grande chip al silicio o su qualche tipo di tessuto ottenuto in coltura. Presumibilmente
si sperimenterebbe questo tipo di trasferimento come un breve periodo di incoscienza, dopo
il quale si ricomincerebbe a pensare più o meno come prima. L'intero processo sarebbe
paragonabile all'introduzione di un programma in un calcolatore nuovo».66
C'è da dire però che una materia sostenuta da una fisica U, cosa questa implicita per i
sostenitori delle tesi appena esposte, non regge per la spiegazione dei fenomeni mentali,
neppure se viene usata la versione "U ultra-debole".67 Infatti in una materia retta da questo
tipo di fisica rimarrebbero del tutto inspiegabili le proprietà ordinarie di una res cogitans:
libero arbitrio68, volontà, sensazioni (qualia), coscienza e autocoscienza.
198
Dando per scontato che una fisica U forte fornirebbe (con la stessa evidenza) le stesse
possibilità (pari a zero) di spiegare le proprietà mentali69 di quante ne siano implementate
nel "calcolatore costruito con lattine di birra" immaginato da Searle 70, ci baseremo su quella
"U debole" perché ben conosciuta (essendo praticamente quella classica newtoniana), ma lo
stesso ragionamento si può applicare inalteratamente anche a quella "U ultra-debole".71
Sia le leggi della dinamica che quelle della termodinamica vengono sistematicamente
violate se diamo consistenza alle realtà della volontà e del libero arbitrio. Infatti la terza
legge di Newton ci dice che esiste inviolabilmente la conservazione della quantità di moto
in un sistema isolato. Dalla seconda sappiamo inoltre che per agire su una particella
dobbiamo usare l'urto di un'altra o una forza equivalente (che nasca dall'interazione sempre
di una o più particelle). Le conclusioni a cui queste due leggi della dinamica, unite insieme,
portano, impongono inequivocabilmente che la volontà e il libero arbitrio non possono
esistere. Infatti da cosa sarebbe mossa la prima particella - elettrone, atomo o molecola che
sia - dalla quale inizierebbe una specie di reazione a catena fino a far muovere un arto in un
atto volitivo? Qualunque sia la causa72, per poter azionare il movimento di un arto (ad
esempio alzare un braccio) essa deve necessariamente muovere una o più particelle
(diciamo un sistema di particelle) fino a causare il rilascio del neurotrasmettitore alle
terminazioni assonali dei neuroni motori. Ora ciò può avvenire soltanto a causa di urti o di
forze: ma sia gli uni che le altre vengono ottenuti da movimenti particellari... chi
innescherebbe a sua volta questi? Ne viene un ricorso all'infinito.
Alla stessa conclusione si arriva se utilizziamo le leggi della termodinamica. Una scelta
mentale presuppone necessariamente una riduzione di entropia a livello di stati sinaptici.
Ora, se c'è una riduzione di entropia questa va contro le leggi della termodinamica
rendendole non più sufficienti a spiegare la volontà; se, d'altra parte, queste ultime
rimangono inviolate, risulta evidente allora che la volontà è solo chimerica, e altrettanto
risulta la libertà.
Non solo un atomismo democriteo, quindi, sarebbe lontano dalle aspettative di
Feyerabend73, ma anche ogni possibile fisica U: le proprietà di una ipotetica res cogitans,
infatti, sono incompatibili e ingenerabili da quelle di una res extensa, a meno che i fautori
della versione forte dell'IA non considerino quest'ultima una nuova teoria flogistica della
mente.
Note
1
Già Spinoza nel 1677, nella prefazione alla quinta parte della sua Ethica Ordine Geometrico
demonstrata rifiutava il dualismo cartesiano perchè «le forze del Corpo non possono essere mai
determinate dalle forze della Mente», adeguandosi però al principio unifenomenico del mondo
fisico di Cartesio: «I corpi si distinguono fra loro in ragione di moto e di quiete, di velocità e di
lentezza, e non in ragione di sostanza» (Ethica, lemma 1).
2
«Il mondo doveva essere spiegato in base a un principio unitario» (H. Kung, Dio esiste?, Milano
1979, p. 111).
3
«Quello che il genio di Descartes riusciva ancora a tenere unito, dopo di lui si separa» (Ivi, p.
29). La "non-ologrammaticità" (se rompiamo un ologramma ogni suo frammento conserva ancora
l'intera immagine dell'ologramma completo) del pensiero cartesiano non permette una sua
frammentazione, pena la perdita di una delle più grandi Weltanschauungen concepite dall'umanità.
Tutto è collegato come un puzzle nella sintesi cosmica cartesiana, come un insieme di connessioni
199
sinaptiche di una rete neurale. Si pensi al «paradosso» dello «smembramento del Discorso sul
metodo per ben condurre la propria ragione e cercare la verità nelle scienze più la Diottrica, le
Meteore e la Geometria che son saggi di questo metodo, opera concepita come affatto unitaria e che
non può essere intesa se non nel suo insieme», così si pronuncia E. Lojacono nella sua introduzione
al II vol. delle Opere scientifiche di Descartes, Torino 1983, p. 10.
4
J.O. de La Mettrie, Storia naturale dell'anima, in S. Moravia [ed.] Opere filosofiche di La Mettrie,
Roma-Bari 1974, (in particolare il capitolo VI: Sulla facoltà sensitiva della materia, pp. 62 sgg.).
5
D. Diderot, Il sogno di d'Alembert, in P. Rossi [ed.] Opere filosofiche di Denis Diderot, Milano
1963.
6
Un caratteristico neologismo di Paul-Henry Thiry d'Holbach: cfr. il suo Sistema della natura.
7
E. Haeckel, Les énigmes de l'univers, Paris 1902.
8
Si veda, a titolo di esempio, J. Guitton, G. e I. Bogdanov, Dio e la scienza, Milano 1992.
9
R. Carnap, La costruzione logica del mondo, Milano 1966, p. 80. Contrariamente Popper: «Da
Talete ad Einstein, dall'atomismo antico alle speculazioni di Descartes sulla materia, dalle
speculazioni di Gilbert, Newton, Leibniz e Boscovic sulle forze, a quelle di Faraday e Einstein sui
campi di forze, sono state le idee metafisiche a indicare la strada» (K.R. Popper, Logica della
scoperta scientifica, Torino 1970, p. XXVII).
10
R. Carnap, cit., p. 326.
11
L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Torino 1967, p. 290.
12
Ibidem. L'hardware filosofico per il Test di Turing è così avviato! Risponde Searle: «A mio modo
di vedere, un processo interno, come un senso di dolore, non "abbisogna" di alcunché. Perché poi
dovrebbe?» (J.R. Searle, La riscoperta della mente, Torino 1994, p. 267).
13
G. Ryle, Lo spirito come comportamento, Torino 1955.
14
R. Rorty, La filosofia e lo specchio della natura, Milano 1986, pp. 21, 31.
15
A.R. Damasio, L'errore di Cartesio, Milano 1995, p. 337.
16
Si consideri la non trascurabile distorsione etica che ne consegue e il relativo dissolvimento di una
certa classe di valori (i quali sembrano ancorati maggiormente al concetto di anima spirituale che a
quello di Dio).
17
P. Emanuele, Nel meraviglioso mondo della filosofia, Torino 1996, pp. 109-110. Aggiungono J.P.
Changeux e A. Connes in Pensiero e materia: «Nessuno dirà, salvo certi credenti, che il Verbo
esiste prima della Materia!» (Torino 1991, p. 26). Forse non è del tutto errato posizionare ciò a
cartina di tornasole sull'immagine del mondo plasmata dalla seconda rivoluzione scientifica,
innescata dalle Teorie della Relatività e dei Quanti.
18
Oggi dichiararsi apertamente dualisti significa essere schiacciati e presi per folli o incompetenti
dal largo fronte dei polemisti del pensiero filosofico-scientifico contemporaneo, i quali hanno, senza
eccezione alcuna, il pollice verso per gli "spiritualisti fuori moda". Scrive Gilberto Corbellini in una
recente recensione del libro La scienza e l'anima del premio Nobel F. Crick sulla prestigiosa rivista
200
Le Scienze: «... il problema più drammatico, oggi, è che sempre più persone, anche scienziati, sono
credenti o dualisti e, spesso, lo sono in modo decisamente più irrazionale del necessario»!
19
J.R. Searle, cit., p. 42.
20
Ivi, p. 21.
21
«L'aspetto esplicativo manca del tutto nel lavoro di Einstein.» (P. W. Bridgman, La logica della
fisica moderna, Torino 1965, p. 163). Famosa la risposta di Niels Bohr a quanti gli esponevano
nuove idee sulla risoluzione dei tanti enigmi della teoria dei quanti: «La sua teoria, caro signore, è
folle, ma non lo è abbastanza per essere vera». E altri: «Sotto questo profilo, il vero successo della
teoria dei quanti consiste nell'essere stata costruita fuori, anzi, per lo più contro la ragione ordinaria.
E' per questo che c'è qualcosa di "folle" in tale teoria, qualcosa che va oltre la scienza stessa.»
(Guitton-Bogdanov-Bogdanov, cit., p. 88). «Il cammino percorso finora dalla teoria quantistica
indica che la comprensione di quei tratti ancora non chiariti della fisica atomica si può raggiungere
solo con una rinuncia all'intuitività» (W. Heisenberg, Lo sviluppo della meccanica quantistica, in S.
Boffi [ed.] Onde e particelle in armonia, Milano 1991, p. 200). «La teoria ha due argomenti molto
efficaci a suo favore e solo uno, di scarso rilievo, a sfavore. Innanzitutto, la teoria è
sorprendentemente esatta rispetto a tutti i risultati sperimentali fino ad oggi ottenuti. In secondo
luogo [...] si tratta di una teoria di straordinaria e profonda bellezza dal punto di vista matematico.
L'unica cosa, che può essere detta contro di essa, è che, presa in assoluto, non ha alcun senso!»
(Penrose, cit. da A. Zeilinger, Problemi di interpretazione e ricerca di paradigmi in meccanica
quantistica, in F. Selleri [ed.] Che cos'è la realtà, Milano 1990, p. 123).
22
«Ogni studente di fisica si sente profondamente insoddisfatto quando gli vengono esposte queste
idee della fisica moderna» (F. Selleri, Fondamenti della fisica moderna, Milano 1992, p. 13). E non
soltanto lo studente visto che anche fisici del calibro di J.R. Pierce ammettono «un senso di disagio
e di confusione che molti altri al pari di me hanno avuto quando si parlava di meccanica
quantistica» (Elettronica quantica, Bologna 1967, p. 27).
23
«Non è un caso che tutti quelli che guardano con simpatia al mondo magico dei fenomeni
"paranormali" accettano senza difficoltà le violazioni della diseguaglianza di Bell!» (Selleri, cit., pp.
33-34).
24
Ivi, p. 62.
25
Ivi, pp. 66-67. Per non parlare che già «negli anni Venti i fisici Werner Heisenberg e Erwin
Schrödinger scoprirono che il modo migliore di interpretare la meccanica quantistica consiste
nell'affermare che le particelle sono configurazioni in uno spazio di Hilbert ∞D [infinite
dimensioni!]. Da quel momento i matematici e i fisici hanno costruito una elaborata teoria
quantistica in cui il mondo è concepito come una configurazione in uno spazio di Hilbert ∞D. Uno
dei problemi più seri presentati da questa teoria è quello di trovare un significato reale per lo spazio
∞D così introdotto. [...] Ma nessuno sembra capire bene che significato abbia veramente lo spazio di
Hilbert.» (R. Rucker, La quarta dimensione. Un viaggio guidato negli universi di ordine superiore,
Milano 1995, pag. 246).
26
«Nella fantascienza è cosa comune ritenere che esistano infiniti universi paralleli e che ogni
possibile universo esista davvero in qualche luogo. Una variante di quest'ultima idea è stata in effetti
inserita nella moderna meccanica quantistica» (Ivi, pag. 159).
27
Cfr. J. Guitton e G. e I. Bogdanov, cit.
201
28
L. Fraioli, Buchi neri virtuali e bosoni fantasma, in "Le Scienze", n. 326, 1995, p. 18; S.W.
Hawking, La meccanica quantistica dei buchi neri, in "Le Scienze", n. 105, 1977, pp. 38-44.
29
Si veda, a titolo di esempio, La fisica quantistica del viaggio nel tempo, di D. Deutsch e M.
Lockwood, in "Le Scienze", n. 309, 1994; o il libro di John Gribbin Costruire la macchina del
tempo. Viaggio attraverso i buchi neri e i cunicoli spazio-temporali, Roma 1995. E non sembrino
tali concetti pure invenzioni senza credenza alcuna, la scienza moderna fa perno sullo stato febbrile
di un istintivo bisogno dell'immaginazione umana: «Perché dev'essere così difficile viaggiare nel
tempo? E' facile immaginare il veicolo perfetto: una specie di automobile con alcuni tasti speciali
sul cruscotto. Si entra, si digita il codice numerico corrispondente al luogo e al tempo in cui si
desidera trovarsi, si gira la chiave di accensione e - oplà - ecco che siamo nella Parigi degli anni
Venti, nelle Grandi Pianure prima dei pionieri, sulla Luna o addirittura in un'altra galassia. E' da
epoche remote che gli uomini sognano una siffatta libertà dalle pastoie dello spazio e del tempo. [...]
Potranno mai diventare realtà i viaggi nel tempo e i viaggi FTL [faster than light]? Riusciremo mai
a conquistare definitivamente il tempo e lo spazio? [...] Non se ne sa molto davvero, ma c'è qualche
possibilità che maneggiando sistemi dotati di enorme massa - come i buchi neri - si riesca forse a
distorcere lo spazio e il tempo in modo tale da consentire quei balzi nello spazio-tempo che sono
richiesti dai viaggi nel tempo e dai viaggi FTL. Un'altra via per compiere viaggi di questo genere
passa forse attraverso la meccanica quantistica, secondo la quale, al livello di realtà più profondo, il
tempo e lo spazio non esistono affatto.» (R. Rucker, cit., pag. 203).
30
Cfr. ad esempio Saranno i robot a ereditare la Terra?, in "Le Scienze", n. 316, 1994, pp. 96-102;
Macchine intelligenti, in J. Brockman [ed.] La terza cultura, Milano 1995; La società della mente,
Milano 1990. «Potremmo perfino modificare il nostro DNA per facilitare l'integrazione uomomacchina» dichiara candidamente (in realtà il livello di fattibilità in questo caso è nettamente
diverso dalle ipotesi di Minsky) il creatore della realtà artificiale (M.W. Krueger, Realtà artificiale,
Milano 1992, p. 257).
31
P.W. Atkins, Molecole, Bologna 1992, p. 105.
32
R. Rucker, cit., p. 182.
33
Trad. in Cartesio. Opere filosofiche, vol. primo, Roma-Bari 1991, p. 140.
34
II, 23, in Opere filosofiche, cit., vol. terzo, p. 81. Due decenni più tardi Spinoza cercherà di
giungere a una dimostrazione di ciò nella Proposizione II della seconda parte dei suoi Principi della
filosofia di Cartesio dimostrati secondo il metodo geometrico: «La natura del corpo non viene tolta
per la sottrazione delle qualità sensibili (per la proposizione I, Parte II); perciò esse non
costituiscono la sua essenza (per l'assioma II). Non rimane dunque niente altro eccetto l'estensione e
le sue affezioni (per l'assioma VII) le quali (per l'assioma VI) non possono essere concepite senza
l'estensione. Perciò, se l'estensione è tolta, non rimarrà niente che appartenga alla natura del corpo,
ma questa sarà interamente tolta; dunque (per l'assioma II) la natura del corpo consiste nella sola
estensione. C.d.d.» (Roma-Bari 1990, p. 59).
35
Il sostrato o "materia prima", quel «qualcosa di primitivo, che non venga più denominato da altro
come fatto di esso» (Aristotele, Metaph. IX 7, 1049a).
36
Platone, Timeo, XVIII, 50 a-c. La "ragnatela epistemica" che collega Cartesio con Platone è molto
più fitta di quanto si possa immaginare in un primo momento. Un esempio, preso dal Timeo di
quest'ultimo, può servire a dissipare ulteriori dubbi: «E così è da spiegare [...] la meravigliosa forza
attrattiva dell'ambra e del magnete: perché in nessuno di questi corpi esiste forza d'attrazione, ma il
vuoto non c'è...» (XXXVII, 79 c).
202
37
«Si differenziano [gli atomi] infatti bensì per le figure, ma la loro natura è, dicono, una e la
medesima, come se ognuna d'esse fosse ad esempio una particella separata d'oro.» (Aristotele, De
Cael., I 7, 275 b 32 - 276 a 1). «Del fatto che le sostanze rimangono in contatto tra di loro per un
certo tempo, egli [Democrito] dà la causa ai collegamenti e alle capacità di adesione degli atomi:
alcuni di questi, infatti, sono irregolari, altri uncinati, altri concavi, altri convessi, altri differenti in
innumerevoli altri modi; ed egli reputa dunque che gli atomi si tengano attaccati gli uni agli altri e
rimangano in contatto solo fino a quando, col sopraggiungere di qualche azione esterna, una
necessità più forte non li scuota violentemente e li disperda in varie direzioni.» (Diels-Kranz, 68 A
37). «Per convenzione il dolce, per convenzione l'amaro, per convenzione il caldo, per convenzione
il freddo, per convenzione il colore, in realtà solo atomi e il vuoto» (Diels-Kranz, 68 B 9; v. anche
68 B 125). «All'inizio troviamo le sostanze-qualità-forze di Anassimandro e dei suoi immediati
successori, cui fa seguito in Senofane - passando per Empedocle e fino ad Anassagora - la
separazione del principio o dei principi agenti da quelli materiali che mantengono fino a un certo
punto il loro carattere di qualità, e contemporaneamente la crescente riduzione delle forze agenti a
forze meccaniche. Infine con Democrito la riduzione a principi materiali con qualità puramente
spaziali e la sostituzione delle forze agenti col movimento puro, al quale viene attribuita un'azione
che consiste nella pressione e nell'urto che si verificano all'impatto tra due particelle materiali.»
(Kurt von Fritz, Le origini della scienza in Grecia, Bologna 1988).
38
M. Todeschini, Psicobiofisica, Torino 1978, p. 111. «Sin da quando ero studente delle scuole
medie e specialmente durante gli studi universitari al Politecnico di Torino, sentivo come tutti i mie
compagni, il disagio di dover assimilare un sapere diviso in tanti scompartimenti stagni senza
alcuna affinità tra di loro, insegnatoci con astrusi concetti nozionistici da ritenere a memoria.
Ricordo che una notte mi era sorta spontanea la domanda: - Come mai invece di raggiungere
l'ambito traguardo dell'unificazione del sapere siamo giunti al contrario a spezzettarlo in un numero
sempre crescente di scienze e specializzazioni diverse senza alcuna relazione, né continuità di
concetti tra di loro, né di cause ed effetti materiali tra i particolari fenomeni da esse contemplate? Ponderando su tale domanda pensai che se fosse stata vera l'ipotesi di Galileo che le sensazioni di
luce, calore, suono, odore, sapore, ecc. sono irreperibili nel mondo fisico oggettivo, ma sorgono in
noi solamente quando contro il nostro corpo vengono ad infrangersi urti di materia, solida, liquida,
gassosa, o sciolta allo stato di spazio fluido (etere), allora questo restava l'unica realtà del mondo
fisico. In tal caso era chiaro che la meccanica unitaria dell'Universo era la fluidodinamica. Mi
apparve allora evidente che la materia nei 4 stati citati, sotto forma di particelle atomiche, oppure di
onde di etere, colpendo i nostri organi di senso, poteva far oscillare i loro atomi costituenti e farne
espellere gli elettroni periferici, i quali andando a colpire gli atomi successivi, avrebbero fatto a loro
volta espellere l'elettrone periferico, e così via, propagando in tal modo, lungo il nervo che collega
l'organo di senso periferico all'organo cerebrale, sede della psiche, una successione più o meno
rapida di urti corpuscolari, che il nostro spirito trasforma in una delle sensazioni sopra citate, a
secondo della frequenza e dell'intensità degli urti corpuscolari trasmessigli. Mi balenò allora nella
mente quanto fosse stata significativa la frase di Leonardo da Vinci, che: «Li nervi sono li cavallari
dell'anima», e come fosse andato vicino al vero il grande Cartesio nel ritenere che essi subiscono
sollecitazioni meccaniche per risvegliare nell'anima le sensazioni. Scoprii allora che abbiamo ideate
tante scienze differenti quanti sono i nostri organi di senso. Così è sorta l'acustica, perché abbiamo
l'udito, con la membrana del timpano che vibra allorché su di essa vengono ad infrangersi onde
atmosferiche silenti, a bassa frequenza, [...]. E' sorta l'ottica perché abbiamo l'organo della vista [...].
E' sorta la termodinamica, perché abbiamo dei corpuscoli di Krauser [...]. E' sorta l'elettrotecnica,
perché abbiamo i corpuscoli di Dogiel nell'epidermide, [...]. E' sorta la dinamica, perché abbiamo
organi di tatto (corpuscoli di Pacini) [...]. Il non aver tenuto conto nella fisica teoretica che le
sensazioni sono irreperibili nel mondo oggettivo, ha smembrato quindi la scienza in tante branche
diverse quante sono i nostri organi di senso...» (Ivi, pp. 306-309).
39
«Così come la liquidità dell'acqua è causata dal comportamento di elementi al microlivello, ed è
tuttavia allo stesso tempo una caratteristica realizzata nel sistema dei microelementi, allo stesso
203
modo, esattamente nello stesso senso di causato da e realizzato in, i fenomeni mentali sono causati
da processi che hanno corso nel cervello al livello neuronale o modulare, e allo stesso tempo sono
realizzati proprio nel sistema costituito dai neuroni. [...] Non mi sarebbe possibile, per esempio,
entrare in questo bicchiere d'acqua, estrarne una molecola e dire: "Questa è liquida".» (J.R. Searle,
Mente Cervello Intelligenza, Milano 1988, p. 15).
40
Possiamo immaginare la dinamica di "cattura" dello stimolo raffigurandoci la medesima delle
radio-onde da parte di un circuito accordato: esistono innumerevoli tipi di onde che "incontrano"
l'antenna di un ricevitore, ma soltanto quelle la cui frequenza è compatibile col circuito vengono
"captate" (l'esempio diventa ancora più calzante se associamo il recettore ad un circuito PLL [Phase
Locked Loop]. In questo caso l'"aggancio" avverrebbe solo se il "segnale/stimolo" non è al di fuori
del campo di cattura dell'"anello/recettore"). Siamo vicini, anche se soltanto in parte, all'approccio
enattivo di Varela per quello che riguarda l'interattività del percipiente: «Nell'approccio enattivo la
realtà non è un dato: essa dipende dal percipiente, non perché si costruisce per capriccio, ma perché
ciò che conta come un mondo rilevante è inseparabile da ciò che è la struttura del percipiente.» (F.J.
Varela, Un know-how per l'etica, Roma-Bari 1992, p. 16).
41
Si rischia diversamente di vanificare tutto il cammino della scienza ritornando alle qualitas
peripatetiche: «A questo proposito egli [Boyle] si scaglia contro un certo tipo di spiegazioni
(derivate non tanto da Aristotele quanto dall'aver ripreso in maniera superficiale e quasi sempre del
tutto erronea alcune tesi aristoteliche e altre teorie della medicina tardoantica) nelle quali si tentava
di motivare gli effetti delle sostanze semplicemente in base alla loro qualità (qualitas) o facoltà
(facultas) di produrre questi stessi effetti. Per contro, Boyle sottolineò a ragione che così facendo
non si chiariva nulla e che gli effetti specifici delle sostanze dovevano dedursi da caratteristiche più
generali se si voleva davvero spiegare qualcosa. Egli addusse come esempio che perfino l'effetto
dannoso delle schegge di vetro sull'intestino umano era stato spiegato con una particolare facultas
deleteria anziché ammettere che le schegge feriscono l'intestino in modo puramente meccanico»
(Kurt von Fritz, cit., p. 106).
42
James W. McAllister, Bellezza e rivoluzione nella scienza, Milano 1998, Pag. 195.
43
«La parola "caos" è diventata un'espressione concisa per designare un movimento in rapida
crescita che sta plasmando ex novo il tessuto dell'ortodossia scientifica. Oggi congressi e riviste sul
caos si moltiplicano. [...] La nuova scienza ha generato un proprio vocabolario, un elegante
linguaggio tecnico di frattali e biforcazioni, intermittenze e periodicità, attrattori strani e
diffeomorfismi piegati. Questi sono i nuovi elementi del moto, esattamente come, nella fisica
tradizionale, quark e gluoni sono i nuovi elementi della materia. Per alcuni fisici il caos è una
scienza di processo anziché di stato, di divenire anziché di essere. [...] Il caos valica le linee di
demarcazione fra le varie discipline scientifiche.» (J. Gleick, Caos. La nascita di una nuova scienza,
Milano 1996, pp. 10-11).
44
«I fautori più appassionati della nuova scienza si spingono addirittura ad affermare che la scienza
del XX secolo sarà ricordata per tre sole cose: la relatività, la meccanica quantistica e il caos. Il
caos, essi sostengono, è diventato la terza grande rivoluzione di questo secolo nelle scienze fisiche.
Come le prime due rivoluzioni, il caos abolisce i dogmi della fisica newtoniana. Come si espresse
un fisico: "La relatività eliminò l'illusione newtoniana dello spazio e tempo assoluti; la teoria
quantistica eliminò il sogno newtoniano di un processo di misurazione controllabile e il caos
elimina la fantasia laplaciana della prevedibilità deterministica".» (Ivi, p. 12).
45
I quali, secondo James Gleick, «avevano un debole per la casualità e per la complessità, per
margini frastagliati e per salti bruschi.» (Ivi, p. 11).
46
Uno dei Sette Sapienti che Platone ricorda insieme a Talete oltre due millenni e mezzo fa.
204
47
«Malgrado tali profonde difficoltà di realizzare una predizione deterministica, tutti i normali
sistemi, a cui ci si riferisce come "caotici", devono essere inclusi tra quelli che io chiamo
"computazionali". [...] Deve essere chiaro che i sistemi caotici sono inclusi in quello che io intendo
come "computazionale" o "algoritmico". La questione, se qualcosa possa essere simulata in pratica
oppure no, è distinta dai problemi di principio» (R. Penrose, Ombre della mente, Milano 1996, pp.
42-43). Ed ecco altri "misoniani" della stessa opinione (su che cos'è il caos): «H. Bruce Stewart,
specialista di matematica applicata al Brookhaven National Laboratory di Long Island: Un
comportamento ricorrente apparentemente casuale in un sistema deterministico (meccanicistico)
semplice. [...] James Crutchfield [...]: Dinamica con entropia metrica positiva ma finita. La
traduzione dal matematichese è: un comportamento che produce informazione (amplifica piccole
indeterminazioni), ma non è del tutto impredicibile. [...] John Hubbard [...], per lui il messaggio
fondamentale era che i processi semplici in natura potevano produrre splendidi edifici di
complessità senza casualità.» (J. Gleick, cit., pp. 297-298).
48
Giustificazione creata in particolare per la meccanica quantistica a mo' di cintura protettiva contro
gli attacchi dei neorealisti: «La questione fondamentale della fisica moderna riguarda la possibilità
di dare una descrizione razionale della realtà, dove "razionale" significa: basata sulle idee di
causalità, di spazio tridimensionale e di tempo. Una descrizione che tanti grandi scienziati, da
Galilei, Faraday e Maxwell, fino a Lorenz, Bolzmann e Einstein, considerarono come la vera
essenza della fisica. Durante il Novecento è invece stato di moda adottare un atteggiamento
negativo circa la comprensibilità della realtà oggettiva, seguendo un modo di pensare sviluppato
nella seconda metà degli anni venti da Bohr, Heisenberg e altri. Ostacoli formidabili furono eretti
contro il desiderio di alcuni di riallacciare la fisica alla descrizione causale nello spazio e nel tempo,
le cosiddette "dimostrazioni di impossibilità", cioè il teorema di von Neumann, il principio di
complementarità di Bohr e l'interpretazione di Heisenberg delle sue diseguaglianze come "relazioni
di indeterminazione". Si pretendeva nientemeno che fosse logicamente impossibile cercare di
riformulare la teoria dei quanti in modo causale. La nuova situazione, pienamente emersa solo di
recente, è che tutti questi ostacoli sono stati superati, in linea di principio. Lo si è fatto dimostrando
la mancanza di generalità, e dunque l'infondatezza, delle ipotesi che stavano alla base delle
dimostrazioni di impossibilità.» (Franco Selleri, in P. Nutricati Oltre i paradossi della fisica
moderna, Bari 1988, p. 7).
49
"U" sta naturalmente per "unifenomenica" (ma anche per "unitaria", "universale", "unificata",
ecc.).
50
Per "totalmente indipendenti" indichiamo quelle proprietà della materia, come le interazioni, dalla
cui combinazione non ne scaturiscano altre se non (come nel caso dell'interazione elettromagnetica)
sullo stesso piano semantico di quelle di partenza.
51
L'ASCC, funzionante a relè.
52
E' prudente non fissare... Infatti l'evoluzione di questo settore ha una curva esponenziale
strabiliante: è considerato difatti il settore applicativo umano con la crescita evolutiva più rapida in
assoluto.
53
Per esempio, il 68000 della Motorola ne conteneva appunto 68000 (da qui il suo nome, come un
vanto).
54
Sono già state realizzate delle prime unità di elaborazione digitale fotonica a partire dall'inizio del
1990.
205
55
R. Luccio, in P.M. Churchland La natura della mente e la struttura della scienza, Bologna 1992,
p. 24.
56
Anche se meno spettacolare, è da evidenziare un notevole progresso nel campo della
programmazione di queste macchine.
57
Edelman propone una teoria della selezione dei gruppi neuronali, del darwinismo neurale e dei
cosiddetti "anelli rientranti" (cfr. G.M. Edelman, Il presente ricordato. Una teoria biologica della
coscienza, Milano 1989), Crick (scopritore, insieme a Watson, della struttura del DNA), per
spiegare la coscienza, punta sull'accensione sincronizzata di particolari neuroni che assumerebbe la
forma di oscillazioni semisincrone entro uno spettro di 40-70 hertz (oscillazioni gamma, cfr. F.H.C.
Crick, La scienza e l'anima, Milano 1994).
58
R.T. Morrison - R.N. Boyd, Chimica organica, Milano 1976, p. 1.
59
V. Pratt, Macchine pensanti. L'evoluzione dell'intelligenza artificiale, Bologna 1990, p. 9.
60
C. Emmeche, Il giardino nella macchina. La nuova scienza della vita artificiale, Torino 1996, p.
10.
61
«Non vi è soltanto la possibilità di costruire modelli matematici dei sistemi biologici: oggi esiste
una corrente di pensiero, che affonda le proprie radici nella biologia, nella fisica, nella scienza dei
calcolatori e nella matematica, che ha aggregato molti ricercatori nel tentativo comune di arrivare
alla sintesi della vita, realizzando la creazione dei processi vitali grazie al calcolatore. Nella
concezione di questo movimento, la vita non è questione dei diversi materiali dei quali siamo
composti [...]. Gli specifici elementi materiali si potrebbero sostituire con altri, che potrebbero
essere, per esempio, i piccoli chip di silicio dei calcolatori (in silico). [...] Se la vita è una macchina,
la stessa macchina può diventare viva.» (Ibidem).
62
Ivi, p. 16.
63
R. Rucker, La mente e l'infinito, Padova 1991, p. 218.
64
Ibidem.
65
Cfr. Varela, Il Sé emergente, in J. Brockman La terza cultura, Milano 1995.
66
R. Rucker, cit.
67
Penrose sviluppa una linea argomentativa in qualche modo simile alla nostra: se il tipo di fisica
utilizzata è "computazionabile" (noi diremmo di tipo "U") allora non è esaustiva già in linea di
principio a dare spiegazioni delle facoltà mentali (cfr. R. Penrose, Ombre della mente, cit.). Se
esistono facoltà mentali necessariamente non computazionali allora un tipo di fisica come quello
appena accennato non riesce a spiegarle: «Io uso l'argomento di Gödel per dimostrare che la
comprensione umana non può essere una attività algoritmica; e, se possiamo dimostrare questa cosa
in qualche contesto specifico, ciò sarà sufficiente.» (Ivi, p. 76). Si veda pure, dello stesso autore, La
Mente Nuova dell'Imperatore, Milano 1998.
68
«Si potrebbe pensare che, dopo oltre duemila anni di preoccupazioni al suo proposito, il problema
della libertà del volere dovrebbe ormai essere stato finalmente risolto. Be', in realtà la maggior parte
dei filosofi pensa che sia stato risolto. Essi pensano che sia stato risolto da Thomas Hobbes e David
Hume e da vari altri filosofi empiristi, le cui soluzioni sono state ripetute e migliorate fino al XX
secolo. Io penso che non sia stato risolto.» (J.R. Searle, Mente Cervello Intelligenza, cit., p. 75).
206
69
In particolare, quelle passive (come i qualia) sono rese chimeriche dal "carattere U" di questo tipo
di fisica, mentre quelle attive (come volontà e libero arbitrio) vengono dimostrate assurde tramite il
"carattere D".
70
«Secondo questo punto di vista [quello cioè del funzionalismo], qualsiasi sistema fisico in
possesso del giusto programma con i giusti input e i giusti output avrebbe una mente esattamente
nello stesso senso in cui voi e io abbiamo una mente. Supponiamo per esempio di costruire un
calcolatore con lattine di birra usate e mosso da mulini a vento: se questo calcolatore avesse il
programma giusto, allora dovrebbe avere una mente. E ciò che conta non è che per quello che ne
sappiamo esso potrebbe avere pensieri e sensazioni, ma piuttosto che esso deve avere pensieri e
sensazioni, perché tutto il necessario per avere pensieri e sensazioni è questo: implementare il
programma giusto.» [Ivi, pp. 21-22]. Si noti che la linea argomentativa searleana, così come quella
penroseana, "bypassa" qualunque stato/stadio di complessità o specificità circuitale (come i
computer paralleli). L'argomentazione di pensatori come Paul M. Churchland, già affetta da troppe
assunzioni gratuite, si scioglie come neve al sole dinanzi a tale "generalità-universalità":
«Assumiamo che l'intelligenza cosciente che gli esseri umani esibiscono risulti dal contesto di
quelle reti di codificazione e di calcolo vettoriale che abbiamo esplorato nei precedenti capitoli. Il
che comprende le reti ricorrenti e i sistemi formati da tali reti. Si assuma anche che le nostre diverse
forme di competenza cognitiva vengano acquisite tramite un processo di aggiustamento dei pesi
sinaptici che suddivide i nostri spazi di attivazione neuronale in categorie e successioni prototipiche;
vale a dire in un quadro concettuale che risponde agli input percettivi, permette esplorazioni
deliberate, e dirige la produzione di un output comportamentale. Se questo è il modo in cui gli
umani ottengono la loro intelligenza, è possibile per una macchina elettronica fare altrettanto? A
giudicare dalle apparenze, la risposta è sì, almeno in linea di principio.» (P.M. Churchland, Il
motore della ragione. La sede dell'anima, Milano 1998, p. 254). E' veramente strano e nello stesso
tempo interessante come cervelli di questo calibro possano perdersi in un bicchiere d'acqua: «Il suo
argomento fondamentale [quello di Searle] contro la presenza di un significato intrinseco nei
computer è diretto contro le macchine classiche, programmabili. Questo argomento non ha alcuna
presa sulla posizione che sto difendendo io, perché è dei computer paralleli che stiamo discutendo.»
(Ivi, p. 263).
71
E' sufficiente usare il "carattere D debole" definito precedentemente. La conservazione della
quantità di moto (per la fisica cartesiano-todeschiniana) o quella dell'energia (per quella "U debole"
e "U ultra-debole") sarebbero più che sufficienti per manifestare il "carattere D" ("prequantisticamente"... E forse un giorno anche "quantisticamente" se saranno risolti gli enigmatici "Zmisteri", per usare un neologismo di Penrose: «Dopo una vita spesa a sviluppare l'approccio di
Copenaghen, Dirac giunse a questa sorprendente conclusione: "Vi sono grandi difficoltà [...] in
connessione con l'esistente meccanica quantistica. Ma non si deve supporre che sopravviverà
indefinitamente nel futuro. Anzi, io credo molto probabile che in qualche tempo futuro avremo una
meccanica quantistica migliorata in cui vi sarà un ritorno al determinismo e che, pertanto,
giustificherà il punto di vista di Einstein."» [Selleri, in Nutricati, cit., p. 17]).
72
73
Per quanto complesso si possa immaginare "l'universo" da cui è formata.
Avrebbe infatti cercato di difenderne la coerenza. Cfr. P.K. Feyerabend, Materialism and the
mind/body problem, "Review of Metaphysics", 17, 1963, pp. 49-66.
207
The magnetic field as a particular current of ether:
a proposal of experiments
on its possible interaction with light
(Rocco Vittorio Macrì)
«Powerful philosophical intellects, as that of Anaxagoras and Descartes, capable physicists,
such as Lord Kelvin, Huygens, Fresnel, not to mention other major ones, have tried to
explain by means of a fluid's motions respectively astronomical, atomical, electrical and
optical phenomena, without however arriving at discovering their inner laws», thus Marco
Todeschini (Bergamo, 1899 - 1988) referred to the dense net of attempts made by great
thinkers of the past to unify physical phenomena as manifestations of etheric states, in his
monumental Theory of appearances - Space-dynamics and Psychobiophysics of 1949,
consacrating his entire life to the research of this purpose.
Already in ancient times, Plato with his chora, and Aristotle with his hyle, moved in this
same direction. Also in the physics of Descartes, the fine substance that composed the skies
held such decisive functions. Even Newton, famous for his objections to Descartes'
approach, will manifest later in his Opticks a lack of certainty in regard to the ether's
theories, which is more surprising if one compares these last considerations with the
apodeictic procedure of the Principia, so as to let us feel the sensation of kind of an indirect
conversion to the ether's theory, in the new Quaestiones, added to the last editions of his
work.
An attempt to establish a link between electrical, magnetic and optical phenomena starting
from an etheric point of view, in antithesis with the concept of an action at a distance, was
made by Faraday. Elaborating about the Oersted's discovery of the deviation experienced
by a magnetic needle in proximity of a current, and the famous Arago's experience, in
which a current passing in a plane covered with iron filings causes a displacement of these
in concentric circles, Faraday came to the conclusion that the ether was the medium through
which electromagnetic forces propagated, thus reviving the old scholastic law affirming that
«Matter cannot act in places where it does not exist».
The discovery of electromagnetic induction and of the simmetry between electrical and
magnetic effects was fundamental for the theoretical developments of Maxwell first and
then of Lord Kelvin. They (as well as many others, such as J. J. Thomson) built mechanical
models for the ether, and applied them with a certain success; in particular, Lord Kelvin
theorized an atom vortex. His theory was merely a part of a wider whole, having the
characteristics of considering in some cases the ether as a fluid, and its vortices as the
magnetic field. We thus arrive to our days, to the todeschinian Space-dynamics, the tip of
an iceberg of a surprisingly thick spider's web under the shadow of the official physics,
connecting many brains which try, autonomously, to find a "visionary" alternative - to use a
todeschinian word - to the preponderance of the "illusionist" today's science.
In synthesis, these alternative theories represent magnetism as an ether's current, which
moves in the space from one point to another. Using the electron as a micro-vortex of the
ether, we can explain the magnetic field produced by an electrical current: the electron flux
within the conductor would move with the spin's axis parallel to the direction of the motion,
creating in such a way a "mega-vortex" of ether around the conductor. In the case of a
208
solenoid the combination of the vortices around each coil creates on its interior a continual
ether flux parallel to the solenoid's axis.
Our suggestion simply consists in verifying, with a laser-beam passing through the
solenoid, the possible speed's variation of the beam (or of the transit time), which would be
dragged or slackened according to the verse of the electrical current (and thus of the ether
flux or of any of its complex states). Being hypothetically possible to continuously vary as
desired the intensity of the magnetic field, and then to possibly vary in a continuous way
the speed of the luminous beam - and even to surpass the value c - here it is that this
experiment could be able to give a new confirm, or to put new doubts, about the validity of
the theory of relativity.
The following examples are meant as simple guidelines for further experimental
elaborations. It is opportune to use, for some of these, in place of a continuous current, an
alternate one, in order to give major evidence to possible variations of the effects. It is not
to be totally excluded also the possibility of positive results of experimentations using
electrical field in place of the magnetic ones.
SOME BASIC GUIDELINES
Used abbreviations:
SOL: solenoid; L: laser; M: mirror; ST: semi-trasparent mirror;
O: observer; MG: magnet; MON: monitor or analyzer or computer;
CCD: CCD sensor or analogous; K: Kerr's cell; F: photomoltiplicator or
photosensor; TOR: toroidal coil; OF: winding of n spire of an optical fibre.
Experiment A: interpherometric metod
209
Experiment B: transversal deviation
Experiment C: variations of the velocity of the luminous beam
210
If one does not make use of a device different from a Kerr's cell, the
luminous beam should be polarized since the beginning, making it for instance
reflect on the surface of a semi-silvered glass plate. Furthermore, because of a
possible new polarization assumed by the luminous beam at the interior of the
solenoid, it would be better to find in any case an alternative to the Kerr's cell.
The required effects could be increased by making the luminous beam pass
more than once inside the solenoids. We could even think (with some caution)
to make use of a wave-like guideline, for instance an optical fibre, in place of
the mirrors, with the aim of increase the path of the luminous beam.
----[Una presentazione dell'autore si trova nel numero 1 di Episteme]
E-mail: [email protected]
211
Space Dependence of Light Velocity May Explain
Anomalous Effect Seen in Distant Spacecraft
(Theo Theocharis)
ABSTRACT:
The Maxwellian electromagnetic wave nature of light is assumed. This theory requires a
medium of propagation. There is evidence that this medium is generated by (and therefore
attached to and carried along by) large celestial bodies. It is explained how this theory may
account for the anomalous effect seen in distant spacecraft. This leads to the practical idea
of an "optical translational velocimeter".
KEYWORDS:
Matter-generated
velocimeter.
light-wave-medium,
hierarchical
schesis,
optical
translational
PACS Numbers:
03.50.D
Maxwell theory
41.20.Jb
Electromagnetic wave propagation
42.25.Bs
Light propagation
07.07.Df
Optical sensors
42.81.Pa
Sensors, gyros
04.80.Cc
Experimental tests of gravitational theories
95.55.Pe
Lunar, planetary, and deep-space probes
95.10.Eg
Orbit determination and improvement
Anderson et al [1,2] reported an anomalous effect seen in distant spacecraft and
investigated various possible causes, but failed to find a satisfactory explanation. A new
candidate for a potential explanation is put forward here.
Anderson et al remarked that "it is interesting to speculate on the possibility that the
origin of the anomalous signal is new physics".[1] It is not so much new physics that is
proposed here; rather it is a new version of quite old physics which regrettably was
unjustifiably neglected. What follows is an outline of a theory that may explain the
anomalous effect.
Anderson et al also commented that "one can speculate that there is some unknown
interaction of the radio signals with the solar wind".[1] The speculation here is that there is
a well-defined connection of the electromagnetic-wave radio signals with the (admittedly
imperfectly known) electromagnetic-wave medium - "Maxwell's Ether".[3]
In order to understand better the properties of radio signals over large
(interplanetary) distances, one has to consider the nature and large-scale structure of the
medium of radio signals. There is considerable evidence that this medium is generated by
212
(and therefore attached to and carried along by) large celestial bodies.[3] Thus for the Earth
observer, the speed of radio signals is the universal constant c only in the neighbourhood of
the Earth. Elsewhere, it is c with respect to the nearest dominant body (which invariably
moves with respect to the Earth), and it is probably this that gives rise to the anomalous
effect. This theory is corroborated by the Anderson et al remark that "our [anomalous]
effect could only be seen … further than 10-15 Astronomical Units".[2]
The best way to visualise the situation is to consider a "fluid" and "turbulent", so to
speak, medium (of waves propagated through it) with "currents" or "streams" or "winds" or
"fluxes" flowing in this fluid medium. Examples : (i) ocean-currents in the ocean-wavemedium (i.e. ocean); (ii) winds in the sound-wave-medium (i.e. air); (iii) "ether-fluxes" in
the light-wave-medium (i.e. ether); etc.[3]
Elementary observation discloses a well-defined hierarchical (non-static but nonchaotic and dynamically stable) organisation of matter in the universe: planet, star, galaxy,
cluster, etc. More careful study than is commonly done, shows that it is one of these
material frames, and no others, which provide the scientists (and specifically the NASA
investigators) with the concrete natural standard with respect to which all velocities
(including c) and all accelerations which enter into the true laws of nature must be referred in order to obtain consistent results. Alfred O'Rahilly's 1938 term "schesis" has been
adopted [4] to denote these all-important concrete natural standards. Assuming that each
celestial body generates in its vicinity its own light-medium, it follows that the speed of a
radio signal near a celestial body B is the universal constant c with respect to the schesis B
only, and c with respect to nothing else.
The inexorable fact is that the various scheses move with respect to each other, and
from this follows that there are "ether-fluxes" (and not the nineteenth century misconceived
"ether-wind") and it may be this that the NASA deep space missions have unknowingly
been detecting for decades. It also follows that (although in reality the numerical value c is
in a certain general sense still a universal constant) for an observer on schesis E the speed
of a radio signal near a schesis B is not c, even when the radio signal is sent from E.
In a certain sense, this unknowingly detected (by NASA) positive result is the
outcome of a Michelson-Morley type of experiment on a grand (interplanetary) scale.
Significantly, Michelson's own and substantially correct explanation of the null result of the
original (laboratory scale) Michelson-Morley experiment was that it contradicted Fresnel's
"ether-wind" model of the light-medium and instead supported Stokes's "ether-drag" model
of the light-medium. Moreover, Michelson never endorsed the popular tendency of
neglecting (or, worse, denying) the existence of the light-medium of the
light(-electromagnetic)-waves.[3]
The above ideas lead one to suspect that a source of the anomalous effect (and
possibly the only one) lies in the analysis of the ranging data (when dealing with large
distances, spanning more than one planet), and specifically in the (in this problem)
inappropriate use of the formula:
(probe distance) = (speed of light)(radio signal transit time)
213
The probably inaccurate value of the probe distance incorrectly derived from this
inappropriate formula predictably fails to agree with the probably accurate value of the
probe distance correctly derived from the initial conditions plus the integration of Newton's
law of dynamical motion:
F = dp/dt
In order to correctly account for the anomalous effect, it is suggested that in the
analysis of the ranging data the following formula must be used:
dt = dx/c(x)
This formula is evidently simple, and it evidently applies to small distances dx and
small durations dt. The great difficulty has always lain in the in effect space-dependence
(over large distances, spanning more than one planet) of c(x), which is non-trivial and not
so obvious. In order to obtain correct results over large distances, one has got to do some
non-trivial integration.
The exact function c(x) is not known, and it must be the business of space agencies
to determine it experimentally. In the same way that oceanographers have meticulously
mapped (for example) the Gulf stream in the Atlantic ocean, the various space agencies
ought to have started mapping the "ether fluxes" in space from the dawn of the space age.
The most efficient mapping these "ether fluxes" in space can be done by equipping all space
probes with what has been termed the "optical translational velocimeter".[5,6]
In the same way that the apparatus of the Sagnac experiment has been painstakingly
developed into the now very useful "optical rotational velocimeter", the present theory
predicts the development of the apparatus of the Michelson-Morley experiment into the
"optical translational velocimeter", which may turn out to be equally (if not more) useful.
[5,6]
[1]
J. D. Anderson, P. A. Laing, E L. Lau, A. S. Liu, M. M. Nieto, and S. G. Turyshev,
Phys. Rev. Lett. 81 (1998) 2858.
[2]
J. D. Anderson, P. A. Laing, E. L. Lau, A. S. Liu, M. M. Nieto, and S. G. Turyshev,
Phys. Rev. Lett. 83 (1999) 1891.
[3]
T. Theocharis, Lettere al Nuovo Cimento 36 (1983) 325.
[4]
T. Theocharis, Physics Education 17 (1982) 148.
[5]
M. Psimopoulos, and T. Theocharis, Nature, 319 (1986) 269.
[6]
M. Psimopoulos, and T. Theocharis, Electronics & Power, 32 (1986) 789.
----[A presentation of the author is given at the end of his previous paper
published in this same issue of Episteme]
214
Equivalenza tra definizione classica e statistica dell'entropia
(Umberto Lucia)*
La Meccanica Statistica Classica (una descrizione rigorosa dovrebbe fare riferimento alle
leggi della Meccanica Statistica Quantistica. La Meccanica Statistica Classica è un caso
particolare della prima, valido quando la descrizione quantistica tende a quella classica:
h→0 , con h costante di Planck, 6.67 10-34 Js . Nell'approccio termodinamico la teoria
cinetica classica permette di descrivere con notevoli risultati i fenomeni sperimentalmente
osservati o osservabili, quindi per quanto riguarda la descrizione termodinamica è
sufficiente ricorrere alla teoria classica della Meccanica Statistica) è un settore della Fisica
sviluppato col fine di analizzare le proprietà della materia quando essa si trova in equilibrio
termodinamico.
Il fine di questa disciplina è di derivare tutte le proprietà macroscopiche del sistema in
esame dalle leggi della dinamica microscopica del sistema stesso: si opera in questo modo
una descrizione macroscopica del sistema ponendone le basi fisiche su un'analisi
microscopica. La Meccanica Statistica non fornisce una descrizione di come un sistema
raggiunge l'equilibrio, né determina le condizioni fisiche per cui un sistema permanga in
equilibrio, ma descrive lo stato di equilibrio quando esso sia già stato raggiunto. In questo
contesto risulta interessante definire per mezzo della dinamica microscopica le grandezze
macroscopiche che forniscono informazioni riguardo allo stato di equilibrio e le sue
condizioni di realizzabilità, come per esempio l'entropia. Infatti, dopo aver definito una
grandezza macroscopica dalla quale si possano derivare le condizioni di equilibrio e di
stabilità del sistema, si possono applicare a questa funzione le leggi della termodinamica
connesse con lo stato di equilibrio e le condizioni di stabilità stesse.
Ogni stato del sistema, costituito da N particelle, è univocamente e completamente definito
da un insieme di 3N coordinate canoniche {q1, ..., qN} e di 3N impulsi canonici {p1, ..., pN}:
queste 6N coordinate costituiscono la base dello spazio delle fasi (q,p) 6N-dimensionale, o
spazio Γ, del sistema. La dinamica del sistema è determinata dalla hamiltoniana H(q,p) dalla
quale si possono ottenere le equazioni canoniche del moto
⋅
dpi
 ∂ H ( q, p )
=
−
=
−
p
 ∂q
dt

i

⋅
 ∂ H( q, p ) = − dqi = q
 ∂ pi
dt
i=1,…,3N
Ogni punto nello spazio delle fasi rappresenta uno stato fisico e questa relazione è
biunivoca. Inoltre il luogo geometrico dei punti che soddisfa l'equazione
H(q,p) = E
è un'ipersuperficie nello spazio delle fasi di definita energia E. In termini di operatori
matematici l'energia E è un autovalore dell'operatore di evoluzione e iH, nel caso classico,
oppure dell'operatore hamiltoniano, in quello quantistico, e lo stato che essa caratterizza è
215
un autostato. Lo stato del sistema evolve secondo le equazioni canoniche del moto e
descrive una curva nello spazio delle fasi che si trova sempre sulla stessa ipersuperficie di
energia in quanto il sistema è conservativo.
Per un sistema macroscopico l'interesse termodinamico è focalizzato solo su alcune
specifiche proprietà macroscopiche del sistema stesso come per esempio il volume definito
V e l'energia E compresa in un determinato intervallo [E,E+∆E]. Queste proprietà
macroscopiche sono soddisfatte da un notevole numero di possibili stati microscopici del
sistema, i microstati, pertanto si introduce una funzione che esprime per il volume
elementare d3Nq d3Np dello spazio delle fasi la probabilità di realizzazione dello specifico
stato macroscopico, la densità di probabilità ρ(q,p;t). Essendo interessati alla situazione di
equilibrio occorre limitare la propria attenzione alla descrizione la cui funzione di densità
non dipende esplicitamente dal tempo t, ma solo dalle variabili canoniche (q,p) per mezzo
dell’hamiltoniana H(q,p) cioè:
ρ(q,p;t) = ρ(q,p) = ρ(H(q,p))
(1)
da cui segue, dal teorema di Liouville, che la densità di probabilità ρ(q,p;t) è una grandezza
conservata, quindi costante nel tempo. Infatti secondo il teorema di Liouville si ha che:
∂ρ
+ { ρ , H} = 0
∂t
(2)
ma le parentesi di Poisson per ρ(H(q,p)) sono nulle, pertanto anche ∂ρ/∂t = 0 .
Inoltre nella teoria statistica si introduce il postulato di uguaglianza della probabilità a priori
secondo il quale "quando un sistema macroscopico è in equilibrio termodinamico, il suo
stato microscopico deve essere con uguale probabilità uno qualsiasi degli stati che
soddisfano le condizioni macroscopiche del sistema stesso". Conseguenza di questo
postulato è che il sistema considerato sia un elemento di un insieme detto insieme
microcanonico con la funzione densità di probabilità definita come:
 costante se l' autovalore di H(q, p) appartiene

ρ ( q, p ) = 
all' intervallo d' energia [ E , E + ∆ E ]
0
negli altri casi

In questo contesto se si considera un'osservabile, definendo come tale una qualsiasi
grandezza termodinamica misurabile direttamente o indirettamente, O(q,p) , il suo valore
misurato deve corrispondere al suo valore medio calcolato nell'insieme microcanonico. Il
suo valore più probabile è quello realizzato dal maggior numero di microstati
corrispondenti al determinato macrostato considerato, mentre il valore medio risulta:
[ O(q, p)]
∫ O(q, p) ρ (q, p)d qd
∫ ρ (q, p)d qd p
3N
2
=
3N
3N
3N
p
(3)
Inoltre il valore medio e quello più probabile coincidono se la fluttuazione quadratica media
è molto piccola, cioé se:
216
[ O(q, p)] 2
− O(q, p)
O(q, p)
2
<< 1
2
(4)
Se quest'ultima condizione non è verificata, allora non è possibile determinare
univocamente il valore osservato della grandezza fisica considerata e, quando ci si trova in
questa condizione la Meccanica Statistica non è più applicabile perchè non sono più
verificate le ipotesi su cui è fondata. In tutti i casi fisici di interesse per la termodinamica la
fluttuazione quadratica media è dell'ordine dell'inverso del numero di particelle N che
costituiscono il sistema termodinamico, ma essendo molto grande tale numero, allora la
fluttuazione quadratica media è molto prossima allo 0, quindi la condizione di equivalenza
tra valore più probabile e valore medio nell'insieme microcanonico è verificata.
Come conseguenza questo permette di sviluppare una teoria statistica della Termodinamica
e di definire attraverso una funzione di probabilità la funzione di stato entropia. Per fare ciò
occorre innanzitutto definire a livello microscopico l'entropia e verificare che essa
corrisponde alla funzione di stato termodinamico entropia.
Si consideri il volume Γ(E) occupato nello spazio delle fasi dall'insieme microcanonico:
∫ ρ ( q, p ) d
Γ (E) =
3N
qd 3 N p
( E ,E + ∆ E )
(5)
e quello, Σ(E) , racchiuso dalla superficie di energia E:
Σ (E) =
∫
( 0, E )
d 3 N qd 3 N p
(6)
allora, come conseguenza del postulato di uguaglianza della probabilità a priori, si ottiene la
relazione:
Γ(E) = Σ(E + ∆E) - Σ(E)
(7)
e se ∆E << E si può sviluppare Σ(E + ∆E) in serie di McLaurin al primo ordine, ottenendo:
Γ (E) =
∂ Σ (E)
∆ E = ω ( E )∆ E
∂E
(8)
dove si è indicato con ω il coefficiente dello sviluppo del primo ordine.
Con queste relazioni si introduce, in Meccanica Statistica Classica, la definizione di
entropia come:
S(E,V) = kB ln(Γ(E))
(9)
dove kB è la costante di Boltzmann. Questa definizione statistica di entropia deve essere
equivalente a quella classica questo significa che deve godere delle stesse proprietà
analitiche, deve contenere le stesse informazioni globali e locali sul sistema e deve
permettere di giungere agli stessi risultati fisici, cioè ai principi della termodinamica.
Innanzi tutto l'entropia (3) è una grandezza estensiva, cioè se un sistema è composto di due
sottosistemi, le cui entropie sono S1 e S2 , la sua entropia totale S risulta la somma di quelle
217
dei sottosistemi stessi, S = S1 + S2 (altrimenti detto, si definisce estensiva ogni grandezza il
cui valore è funzione delle massa del sistema). Per dimostrare che anche la (9) soddisfa
questa proprietà si considera un sistema composto da due sottosistemi che hanno
rispettivamente N1 e N2 particelle ed i volumi V1 e V2 . L'energia di interazione molecolare
tra i due sottosistemi è trascurabile se confrontata con l'energia totale di ogni sottosistema.
L'hamiltoniana totale del sistema composto è la somma delle hamiltoniane dei due
sottosistemi, cioè:
H(q,p) = H1((q,p)1) + H2((q,p)2)
(10)
Si considera, quindi, per prima cosa il caso in cui i due sottosistemi siano tra loro isolati:
essi hanno energia rispettivamente compresa il primo nell'intervallo [E1,E1+∆E1] ed il
secondo in [E2,E2+∆E2]. Le entropie dei sottosistemi, in base alla (9), sono:
S(E1,V1) = kB ln(Γ1(E1))
(11)1
S(E2,V2) = kB ln(Γ2(E2))
(11)2
Ora si prende in esame l'insieme microcanonico del sistema composto e si pone l'energia
nell'intervallo [E1,E1+2∆E1] e si sceglie ∆E << E in modo che valga l'approssimazione
effettuata precedentemente per ottenere l'espressione di Γ(E) in funzione di ∆E . Questo
insieme microcanonico contiene tutte le coppie del sistema composto per cui:
1.
le N1 particelle le cui posizioni nello spazio delle fasi sono (q,p)1 sono contenute nel
volume V1 ;
2.
le N2 particelle le cui posizioni nello spazio delle fasi sono (q,p)2 sono contenute nel
volume V2 ;
3.
le energie E1 ed E2 dei sottosistemi presentano valori che soddisfano la condizione:
E1 + E2 ∈ [E1+E2,E1+E2+2∆E]
(12)
Il volume dello spazio delle fasi che corrisponde alle condizioni di equilibrio termico con
l'energia totale che si trova nell'intervallo [E1+E2,E1+E2+2∆E] è:
Γ(E1)Γ(E2)
(13)
Se i due sistemi sono energeticamente isolati rispetto all'esterno, posti a contatto essi
raggiungono l'equilibrio oltre che con l'esterno anche tra loro: con l'accoppiamento non si
verifica alcuno scambio di energia, cioè:
dΓ(E1) = dΓ(E2) = 0
(14)
e quindi in particolare:
dlnΓ(E1) = dlnΓ(E2) = 0
(15)
218
pertanto si ha che:
d(lnΓ(E1)Γ(E2)) = 0
(16)
Se vi fosse uno scambio di calore, però, si avrebbe una variazione in Γ(E) e quindi anche in
lnΓ(E) e questa variazione sarebbe proporzionale al calore scambiato. Se una quantità di
calore (-∆Q1), come definito nella Termodinamica dell'equilibrio, si trasferisce dal sistema
1 al sistema 2 si avrebbe che:
∆Q1 = ∆Q2 = 0
(17)
e, quindi:
 ∆ [ ln Γ 1 ( E1 )] = − β 1Q

 ∆ [ ln Γ 2 ( E 2 )] = β 2 Q
(18)
da cui si ottiene:
∆ln[Γ1(E1)Γ2(E2)] = (β2 - β1)∆Q
(19)
In questo caso la condizione di equilibrio risulta:
β2 ≤ β1
(20)
Se si ipotizza che il trasferimento di calore avvenga dal sistema 2 al sistema 1, allora con
considerazioni equivalenti si giunge alla condizione di equilibrio:
β2 ≥ β1
(21)
Affinché queste due condizioni di equilibrio siano contemporaneamente verificate nella
situazione fisica considerata deve essere soddisfatta la relazione:
β2 = β1
(22)
Poiché la condizione di equilibrio termodinamico è legata alla uguaglianza del valore delle
temperature - equilibrio termico - allora si rileva un legame tra i coefficienti β e la
temperatura stessa. Questo prova la proprietà estensiva dell’entropia, perché:
 ∆ [ ln Γ 1 ( E1 )] = ± β 1Q

 ∆ [ ln Γ 2 ( E 2 )] =  β 2 Q
(23)
da cui:
∆ln[Γ1(E1)Γ2(E2)] = (β2-β1)∆Q = ∆[lnΓ1(E1)-lnΓ2(E2)]
(24)
Inoltre questa dimostrazione prova anche il fatto che i sottosistemi si trovano
rispettivamente negli stati di energia +E1 , e +E2 . Questi sono i valori di energia che
219
rendono massima la funzione Γ1(E1)Γ2(E2) con la condizione E = E1 + E2, cioè
analiticamente:
δ [ Γ 1 ( E1 )Γ 2 ( E 2 )] = 0
δ E1 + δ E 2 = 0
∧
(25)
da cui si ricava la condizione:
 ∂

[ ln Γ 1 ( E1 )] 

 ∂ E1
 E1 =
E1
 ∂

= 
[ ln Γ 2 ( E 2 )] 
 ∂ E2
 E2 =
(26)
E2
cioè:
 ∂ S1 


 ∂ E1  E1 =
E1
 ∂S 
=  2
 ∂ E 2  E2 =
(27)
E2
Da questi risultati con l’aggiunta di temperatura assoluta, si deduce che la temperatura di un
sistema isolato è il parametro che governa l’equilibrio tra i sottosistemi, cioè si trova la
condizione di equilibrio termico.
Inoltre l’entropia, definita dalla relazione statistica (9):
S(E,V) = kB lnΓ(E) = kB lnω(E) = kB lnΣ(E)
(28)
è una funzione sempre crescente in quanto Σ(E) è una funzione non decrescente, pertanto
tale risulta anche la funzione entropia.
Si è così verificato che l’entropia nella definizione statistica coincide con l’entropia così
come espressa nella sua definizione classica.
Bibliografia
1. M. Alonso, E. Finn, "Quantum and Statistical Physics", Fundamental University
Physics, Vol.III, Addison-Wesley Pubblishing Company, Reading (Massachusetts), 1968
2. H. Callen, "Termodinamica", Tamburini Editore, Milano, 1972
3. D. L. Goodstein, "States of matter", Dover Pubblication Inc., New York, 1985
4. K. Huang, "Statistical Mechanics", John Wiley & Sons, New York, 1987
5. L. D. Landau, E. M. Lifshitz, "Fisica Statistica", Editori Riuniti, Edizioni Mir, Roma,
1986
6. B. H. Lavenda, "Termodinamica dei Processi Irreversibili", Liguori Editore, Napoli,
1980
7. U. Lucia, "Analisi Termodinamica della cavitazione con transizione di fase", Tesi di
Dottorato, Università degli Studi di Firenze, 1995
8. F. Reif, "Fisica Statistica", La Fisica di Berkeley, Zanichelli, Bologna, 1984
9. L. Sertorio, "Thermodynamics of complex systems", World Scientific Publishing
Company, London, 1991
10. C. Truesdell, "Rational Thermodynamics", Spinger-Verlag, Berlino, 1984
220
* ITIS "Alessandro Volta"
Spalto Marengo, 42
15100 Alessandria
Società Italiana di Storia delle Matematiche
Dipartimento di Matematica - Università
Via Carlo Alberto 10, 10100 Torino, Italy
----Umberto Lucia è nato ad Alessandria nel 1966. Laureato in Fisica a Torino
nel 1991, si è successivamente perfezionato in Fisica della Materia, ed ha
acquisito il dottorato di ricerca in Energetica (VIII ciclo, Firenze e Roma,
1996). E' docente di ruolo di Fisica presso l'ITIS "Volta" di Alessandria e
svolge ricerche sia in Storia della Matematica presso il Dipartimento di
Matematica di Torino sia in Metodi matematici della Fisica-matematica e
della Chimica Teorica. E' stato Tecnologo a tempo determinato presso il
Nucleo Applicativo (afferente alla Direzione Generale) dell'Istituto Nazionale
per la Fisica della Materia, dove si è occupato di Ricerca Applicata. Ha
insegnato "Metodologie fisiche per i beni culturali" per il corso di Storia del
restauro presso l'Università degli Studi di Bologna, sede di Ravenna (Corso
di laurea: Conservazione dei Beni Culturali). E' socio fondatore della SISM Società Italiana di Storia delle Matematiche. Organizza e gestisce alcune
attività della formazione post-secondaria nella Provincia di Alessandria:
corsi post-diploma e IFTS; progetti di trasferimento tecnologico dalla ricerca
all'industria; ha contribuito allo studio della rete di trasferimento tecnologico
dell'INFM ed ha proposto le attività di ricerca sulle Metodologie fisiche per i
beni culturali, "da Parnaso a Giano"; ha collaborato con l'ENEA alla
realizzazione del Simposio "Meccanica statistica e termodinamica
computazionale: dai fondamenti alle applicazioni in campo ingegneristico,
ambientale e diagnostico" nell'ambito del IV Congresso Nazionale della
SIMAI - Società Italiana di Matematica Applicata ed Industriale - realizzato a
Giardini Naxos (Messina), 1-5 giugno 1998. Oltre a quelli relativi ai suoi
specifici campi di competenza, ha interessi in: Fondamenti della Fisica e
della Matematica; Didattica della Fisica e della Matematica; Cibernetica e
Teoria dei Sistemi. Collabora con i settimanali locali Il Piccolo alessandrino e
La Voce alessandrina, per la diffusione della cultura scientifica. E' membro
del direttivo del Centro Studi "Francesco Faà di Bruno" di Alessandria, ente
morale legalmente riconosciuto, dove si occupa di problemi sociali e
culturali.
E-mail: [email protected]
221
Massima o minima entropia?
Approccio globale e locale nella termodinamica
dei processi irreversibili: Landau e Prigogine
(Umberto Lucia)
Nell'analisi della stabilità dei sistemi termodinamici riveste un ruolo importante il teorema
di "minima produzione di entropia", valido solo per piccole deviazioni dallo stato di
equilibrio. Fu sviluppato da Prigogine.
Per poter ricavare tale principio si considera l'analisi, esposta da Lavenda, sviluppata per la
variazione dell'entropia nelle sue componenti di scambio con l'esterno deS e di origine
interna diS
dS = deS + diS
(1)
Questa equazione rappresenta il bilancio di entropia; infatti confrontando la (1) con
l'equazione di Gibbs generalizzata:
dS =


1
1
dE + PdV − Χ ⋅ dα
T
T
(2)


dove α indica la generica grandezza estensiva e Χ la forza termodinamica generalizzata, e
dove secondo la prima legge della termodinamica sussiste
dE = δQ - PdV
si possono ottenere le espressioni:
1
deS = δ Q
T


d i S = − Χ ⋅ dα
(3)
(4)
Se si divide la seconda delle (4) per il tempo dt e per la massa totale mtot, che si considera
costante, si ottiene l'espressione della produzione di entropia specifica per un processo
isotermo:

⋅
 
1  dα
s= −
Χ ⋅
= − Χ ⋅ι
(5)
mtot
dt

Se si utilizza il fatto che i vettori velocità per unità di massa ι sono legati alle variabili di
stato per mezzo di una relazione quale:
  
ι = ζ (α )
(6)
222
e si considerano piccole variazioni intorno ad uno stato stazionario, in un intorno
 del quale
sono linearizzate, allora introducendo la variazione della forza termodinamica χ per mezzo
di una equazione di stato si ottiene l'insieme di relazioni fenomenologiche lineari (si sono

scelti i valori delle velocità in modo tale che quelli stazionari ι (0 ) risultino nulli)


χ = − Λ ⋅ι
(7)
Se la linearizzazione è stata effettuata in un intorno dello stato di equilibrio la relazione di
Onsager (Λjk = Λkj) impone che la matrice dei coefficienti differenziali sia simmetrica, cioè:
Λ = Λ
T
(8)
In questo contesto Glansdorff e Prigogine introdussero un "criterio universale di
evoluzione". Per fare ciò, considerarono il differenziale della produzione di entropia (5),
cioè:
⋅
 
 
(9)
d s = − Χ ⋅ dι − dΧ ⋅ ι
Occorre prendere in considerazione due situazioni differenti:
1) quella lineare nella quale valgono le relazioni di Onsager per cui le variazioni delle
velocità e delle forze sono legate dalle relazioni fenomenologiche (7) (poiché il
valore stazionario della forza si annulla all'equilibrio, nel caso lineare si usa la
 
relazione Χ = χ ) che introdotte nella (9) conducono alla condizione:
⋅
 
d s = 2∑ Λ ijι i dι j = 2 − Χ ⋅ ι ≤ 0
(10)
(
ij
)
2) quella non lineare in cui le relazioni di Onsager non sono più valide; in questo caso
non si riesce a definire in modo generale il segno della componente differenziale
 
Χ ⋅ dι , mentre esiste una dimostrazione che fornisce il segno dell'altra componente
differenziale. La derivata temporale della forza generalizzata, essendo in uno stato
stazionario (tutte le grandezze estensive sono conservate, quindi presentano derivata
prima nulla), risulta:

dΧ
d  ∂ S 
∂  ∂ S  
= − 
=
−
⋅ι 
(11)
dt
dt  ∂ α i 
∂ α  ∂ α i

e se non esiste un legame tra la velocità e le variabili di stato, cioè se:
  
ι ≠ ζ (α )
allora si può scrivere:

dΧ
= −∑
dt
i
 ∂

 ∂α

(12)
i
∂S
∂α i
 
 ι


(13)
223
che permette di ottenere (in conseguenza dell'assunzione dell'equilibrio locale, la superficie
della componente interna dell'entropia risulta sempre con curvatura convessa e, pertanto la
sua derivata seconda è sempre non positiva)

dΧ 
−
⋅ι ≤ 0
dt
(14)
La (10) e la (14) forniscono il criterio generale di evoluzione, secondo cui la produzione di
entropia è minima. In questo modo Glansdorff, Prigogine e Nicolis introdussero i seguenti
criteri di stabilità:

δ 2


δ 2

dS 
 > 0
dt 
stabilità asintotica
dS 
 = 0
dt 
stabilità marginale
(15)
dove l'operatore δ2 è definito come:
δ
2
=
∑
ij
∂ 2
∂ xi ∂ x j
(16)
I risultati ottenuti da Prigogine rappresentano un metodo di indagine locale, al quale si
contrappone il metodo di analisi globale che Landau sviluppò, analizzando il trasferimento
di calore tra due sorgenti con interposto un fluido, con particolare attenzione alla variazione
di entropia. Egli iniziò l'analisi considerando
l'equazione generale del trasferimento di

calore in un fluido in moto con velocità v
ρT

∂s
+ ρ Tv ⋅ ∇ s =
∂t
∑
ij
σ
ik
∂ vi
+ ∇ ⋅ (κ ∇ T )
∂ xk
(17)
dove σik è il tensore degli sforzi, x la posizione e κ la conduttività termica.
Se non si considera la viscosità, il termine a secondo membro è nullo e si ottiene
l'equazione di conservazione per l'entropia.
L'espressione a primo membro è la derivata temporale ds/dt dell'entropia specifica
moltiplicata per ρ T, quindi T ds/dt è la potenza per unità di massa ed infine ρ T ds/dt è
quella scambiata per unità di volume. Allora da questa equazione si può dedurre che il
calore scambiato per unità di volume e di tempo è dato dalla relazione:
⋅
Q=
∑
ik
σ
ik
∂ vi
+ ∇ ⋅ (κ ∇ T )
∂ xk
(18)
dove il primo termine è l'energia dissipata in calore per la presenza della viscosità ed il
secondo è il calore scambiato per conduzione nel volume considerato.
Se nella (17) si sostituisce al tensore degli sforzi la sua espressione
224
σ
ik
 ∂v ∂v
2
= η i + k − δ
 ∂x
 k ∂ xi 3
ik
∂ vj 
 + ςδ
∂ x j 
∂ vj
ik
(19)
∂ xj
dove η è la viscosità cinematica e ζ la seconda viscosità, si ottiene la relazione
∑
σ
ik
ik
 ∂v ∂v
∂ vi
2
=∑ η i + k − δ
∂ x k ik  ∂ x k ∂ xi 3
ik
∂ v j  ∂ vi

+ς
∂ x j  ∂ x k
∑
δ
ik
ik
∂ v j ∂ vi
∂ x j ∂ xk
(20)
il cui primo termine a secondo membro puo essere espresso per mezzo della seguente
relazione
 ∂ vi ∂ v k 2

+
− δ
 ∂x
 k ∂ xi 3
ik
∂ v j  ∂ vi 1  ∂ vi ∂ v k 2

= 
+
− δ
∂ x j  ∂ x k 2  ∂ x k ∂ xi 3
ik
∂ vj 

∂ x j 
2
(21)
mentre il secondo termine del secondo membro risulta
∑
ik
δ
ik
∂ v j ∂ vi

= (∇ ⋅ v )
∂ x j ∂ xk
2
(22)
Sostituendo queste espressioni nella (17) si ottiene

∂s
1
ρ T + ρ Tv ⋅ ∇ s = η
∂t
2
∑
ik
 ∂ vi ∂ v k 2

+
− δ
 ∂x
 k ∂ xi 3
2
ik
∂ vj 
 + ζ (∇ ⋅ v ) 2 + ∇ ⋅ (κ ∇ T )
∂ x j 
(23)
La variazione di entropia per unità di tempo del sistema si ottiene per mezzo della
relazione:
d
ρ sdV =
dt ∫
∫
∂ ( ρ s)
dV
∂t
(24)
In base all'equazione di continuità unitamente alla (17) ed alla (23) l'integrando del termine
a secondo membro della (24) diviene
∂ ( ρ s)
∂s
∂ρ
= ρ
+ s
=
∂t
∂t
∂t


1
η
= − s∇ ⋅ ( ρ v ) − ρ v ⋅ ∇ s + ∇ ⋅ (κ ∇ T ) +
T
2T
∑
ik
 ∂ vi ∂ v k 2

+
− δ
 ∂x
 k ∂ xi 3
2
ik
∂ vj 
 + ζ (∇ ⋅ v ) 2
∂ x j 
T
(25)

I primi due termini nell'ultimo membro danno ∇ ⋅ ( ρ sv ) . L'integrale di volume di questo

termine può essere trasformato nell'integrale di superficie del flusso di entropia ρ sv .
225
Se si considera un volume di fluido non limitato questo integrale si annulla. L'integrale del
terzo termine può essere riscritto come
∫
1
∇ ⋅ (κ ∇ T )dV =
T
(∇ T ) 2
κ∇ T 
∇
⋅
dV
+
κ
∫  T 
∫ T 2 dV
(26)
Assumendo che la temperatura del fluido tenda rapidamente ad un valore costante su tutto il
volume infinito si può trasformare il primo integrale in uno sulla superficie all'infinito su
cui ∇T=0 , pertanto l'integrale risulta nullo. Allora la (24) risulta:
d
(∇ T ) 2
ρ sdV = ∫ κ
dV +
dt ∫
T2
+
∫
1
η
2T
∑
ik
 ∂ vi ∂ v k 2

+
− δ
 ∂x
∂
x
3
k
i

2
ik
∂ vj 
 dV +
∂ x j 
∫

ζ
(∇ ⋅ v ) 2 dV
T
(27)
Con questa relazione Landau dimostrò che l'entropia di un fluido, che occupa un volume
infinito, aumenta continuamente come conseguenza dei fenomeni di irreversibilità e della
conduzione interna. Questo risultato rappresenta una conferma della osservazione
sperimentale riguardo alla massima variazione di entropia per unità di tempo, ma non ne è
una dimostrazione rigorosa per i sistemi aperti perché è stato sviluppato con una procedura
di limite all'infinito con la conseguenza di non considerare più un sistema finito e limitato,
come sono quelli reali: il sistema considerato al limite infinito risulta un sistema isolato,
pertanto la sua entropia cresce sempre.
Bibliografia
1. H. Callen, "Termodinamica", Tamburini Editore, Milano, 1972
2. S. R. de Groot, P. Mazur, "Non equilibrium thermodynamics", North-Holland
Pubblishing Company, Amsterdam, 1962
3. P. Glansdorff, "Thermodynamics in Contemporary Dynamics", Courses and Lectures No.74, Lectures Held at the Department of Mechanics of Solids, July 1971, Udine 1971,
Springer-Verlag, Berlino, 1972
4. P. Glansdorff, I. Prigogine, "On a General Evolution Criterion in Macroscopic Physics",
Physica 30, 1964, 351-374
5. P. Glansdorff, "Thermodynamics Theory of Structure, Stability and Fluctuations", John
Wiley & Sons, New York, 1971
6. I. Gyarmati, "Non-equilibrium thermodynamics", Springer-Verlag, Berlin, 1970
7. L. D. Landau, E. M. Lifshitz, "Fluid Mechanics", Pergamon Press, Oxford, 1993
226
8. B. H. Lavenda, "Termodinamica dei Processi Irreversibili", Liguori Editore, Napoli,
1980
9. U. Lucia, "Analisi Termodinamica della cavitazione con transizione di fase", Tesi di
Dottorato, Università di Firenze, 1995
10. U. Lucia, "Irreversibility and entropy in Rational Thermodynamics", Ricerche di
Matematica, in stampa
11. U. Lucia, "Mathematical consequences of the Gyarmati's principle in Rational
Thermodynamics", Il Nuovo Cimento, B20, 10 (1995) 1227-1235
12. U. Lucia, "Maximum principle and open systems including two phase-flows", Revue
Générale de Thermique, 37 (1998) 813-817
13. I. Prigogine, "Steady States and Entropy Production", Physica 31, 1965, 719-724
14. L. Sertorio, "Thermodynamics of complex systems", World Scientific Publishing
Company, London, 1991
15. M. J. Sewell, "Maximum and Minimum Principles", Cambridge University Press,
Cambridge, 1987
----[Una presentazione dell'autore si trova alla fine dell'articolo precedente]
227
REPRINTS
228
Low Energy Nuclear Reactions
The revival of alchemy
(Roberto A. Monti)
Abstract. In 1959 C.L. Kervran shows experimental evidence of Low Energy
Transmutations, but contemporary physicists refuse to believe in the experimental evidence
in front of them because it would question the interests, widely well established, of High
Energy Physics. In 1989 Fleishmann and Pons made another Low Energy Transmutation,
erroneously called "Cold Fusion", which drew great attention. High Energy Physicists
started a huge campaign to invalidate "Cold Fusion" in front of the public. In 1996 "The
Developing Technology of Transmutations" becomes the fundamental issue of the Second
Conference on Low Energy Nuclear Reactions (College Station, TX). In 1998, ICCF-7
(Vancouver) and in 2000, ICCF-8 (Lerici, Italy) show conclusive evidence of Low Energy
Transmutation Phenomena. The Alchemic hints result to be always correct, proving that
Alchemy is an experimental science. XXI century physics will be characterized by Low
Energy Nuclear Reactions: The revival of Alchemy.
INTRODUCTION
1794. French Revolution. May 8. Lavoisier is beheaded. Lavoisier introduced the
"Galilean method" in chemistry, contributing to its "scientific foundation". On the basis of
his experiments he could observe that "in all chemical reactions the same quantity of matter
is present before and after the reaction". Lavoisier consequently makes the hypothesis that
in a chemical reaction transmutations from one element to another do not occur (1).
1799. Vauquelin observes what Lavoisier had no occasion to observe: the transmutation
from one element to another. The experimental method of Vauquelin is as stringent as
Lavoisier's method. But Lavoisier cannot take note of it (2).
1815. Prout noted that the weights of the several atoms appeared to be multiples of the
weight of hydrogen, and advanced the hypothesis that all other atoms are composed of
hydrogen atoms (3).
1815-1847. The Restoration "excessively" rehabilitates Lavoisier: the "intrasmutability"
of the chemical elements becomes a dogma instead of an experimental hypothesis.
Alchemy (which, on the other hand, admits transmutations of the chemical elements) is
"discredited". However the experimental results of Vauquelin are too stringent to be denied.
Therefore they are neglected. The last official trace of his experiments can be found in
Regnault's Course De Chimie (1847) then they disappear (4).
1848. Berzelius reports Vogel's experimental evidence for biological transmutations (5).
1860. Marignac supposed the deviations of atomic weights from integral numbers to be a
consequence of the fusion process of hydrogen atoms (3).
1863. De Chancourtois arranged the elements in a spiral in the order of their atomic
weights, and made the remark: "the properties of substances are the properties of numbers"
(3).
1869. Mendeleef built his Periodic Table of the Elements. The properties of the elements
are periodic functions of the atomic number (3).
229
1897. J.J. Thomson discovers that the cathode rays are material particles, charged with
"negative" Electricity: the electrons (6).
1898. W. Wien identifies a particle which is "positively" charged, with a mass equal to
that of the hydrogen atom, in a beam of ionized gas: the proton (7).
1902-1904. Lord Kelvin formulates the first atom model, which was so strongly
supported and developed by J.J. Thomson that it became known as the "Thomson (first)
atom". According to this model, the atom consists of a sphere of uniformly distributed
charge, about one Angstrom in diameter, in which the electrons are embedded lake raisins
in a pudding (8), (9).
1904. Hantaro Nagaoka hypothesizes that the positive charge is concentrated in the center
of the atom and that electrons form a ring, around such a nucleus, which is similar to that
around Saturn (10).
1905. Albert Einstein formulates the Theory of Relativity. With the gradual
"disappearance" of the ether the physical space where to place the atom and rebuild its
structure disappears as well. The establishment of the Theory of Relativity compromises the
development of a model of the atom consistent with the experimental evidence, and
deviates the "natural course" of Atomic Mechanics" (11).
1910. J.J. Thomson definitely confirms the discovery of the proton, made by Wien (12).
1911. Ernest Rutherford gathers and develops the observations of Geiger and Marsden,
two of his young assistants. He concludes that the atom has a "nucleus" where the positive
charge is concentrated. In some way, around it, the electrons are placed. Being excessively
enthusiastic for the results obtained with the "bombardment method", Rutherford directs
Nuclear Physics towards High Energies. Rutherford's model has a fundamental flaw: the
dimensions of the nucleus result to be "very small" (of the order of 10-12 cm) on the basis
of the hypothesis that "the central charge … may be supposed to be concentrated at a
point", which allows the erroneous exchange of the word "surface" of the nucleus with the
word "centre" of the nucleus (13). His model, moreover, does not answer three major
questions:
1) Negative electrons are attracted by the positive nucleus: yet they appear as "distant"
from the nucleus. Why don't they fall on it?
2) Electrons are supposed to be distributed and "moving" around the nucleus. Why don't
they radiate electromagnetic energy?
3) Nuclear charge is an integer multiple of Wien's "elementary positive charge". How
come doesn't the nucleus "explode" because of electrostatic repulsion? (14).
1913. Niels Bohr attempts an answer to the unsolved questions. These are his answers:
1) the atom is a "planetary" system; centrifugal force prevents an electron from falling on
the nucleus.
2) he simply postulates that electromagnetic laws are not valid for nuclear orbits. He then
states that as a consequence of "its small dimensions" the nucleus does not influence "the
atom's ordinary physical and chemical properties which, on the other hand, depend on
external electrons".
3) As far as the third issue is concerned, he ignores it (15).
1913. J.J. Thomson observes that no one has ever demonstrated that the electrons are
spherical and that the Coulomb field - at a micro level - has a spherical symmetry. He
builds Thomson's "second atom": a "rigid" atom and consequently a "theory of valence"
(16).
1915. Bohr's atom is absolutely incapable of eliminating the fundamental contradictions
with the laws of electromagnetism. Above all, it is incapable of accounting for chemical
phenomena (17).
230
1915. A.L. Parson introduces the magnetic field: the electron is not just an electric charge,
but it is also a small magnet. Positions of electromagnetic stable equilibrium of electrons in
atoms are possible. In 1911 Kamerlingh Onnes even provided a model of this "magnetic
electron": a superconductive ring where electric flux going into the ring generates a
magnetic field. Both are exceptionally stable. Moreover Parson observes that the planetary
atom is irremediably inconsistent with chemical and stereochemical evidence. But his
model has two flaws:
1) He does not extend the same hypothesis he made about the electron to the proton.
2) He maintains the "uniformly charged sphere of the Kelvin or Thomson atom" as a model
of the nucleus (18).
1915. William D. Harkins reconstructs the Periodic Table of the Elements, and provides
two models (a spiral one and a helicoidal one). He moves from the hypothesis that every
element's chemical properties essentially depend on the nucleus structure, which is
composed of the sum of hydrogen and helium nuclei. He resolves the problem of the
nucleus stability by advancing the hypothesis that the hydrogen atom "captures" its electron
and, thus, gives raise to a neutral particle: the Neutron. Electrons which have been captured
"cement" (bind) the protons (19).
1916. G.N. Lewis works on Thomson's and Parson's ideas and "stops" the atom: "Bohr,
with his electron moving in a fixed orbit, (has) invented systems containing electrons of
which the motion produces no effects upon external charge. Now this is not only
inconsistent with the accepted laws of electromagnetics but, I may add, is logically
objectionable, for that state of motion which produces no physical effects whatsoever may
better be called a state of rest". Lewis builds the theory of valence (20).
1918. H.S. Allen sees how the "rigid" atom stands. He lists the remarkable amount of
experimental data in favour of a rigid structure, and he concludes by observing that: "it will
be necessary to revise the prevailing view as to the small size and pure electrostatic field of
the nucleus", and that: "Bohr's theory as to origin of series line in spectra may be restated so
as to apply it to the ring electron. The essential points of the quantum theory and of Bohr's
equations may be maintained, even if his atomic model be rejected" (21).
1919. J.J. Thomson introduces magnetism and builds everything anew: series line in
spectra, etc. from the point of view of the rigid atom. But he does not take into account the
contributions of Parson, Lewis, Allen and Harkins (Rutherford can be considered as the
cause of the "separation" between Harkins, in particular, and the other authors. As a result
the different contributions given by the above mentioned scientists, could not merge into a
single coherent model) (22).
1919. E. Rutherford believes he has disintegrated nitrogen. As a matter of fact he has
fused a helium nucleus with a nitrogen one, expelling thus a proton: Transmutations are
possible but - in his opinion - only "High Energy Transmutations". What is worse, he is
convinced once and for all of the quality of the "bombardment method". He hopes for the
future that growing energetic projectiles be available. It is the prelude to the birth of High
Energy Physics (23).
1920. W.D. Harkins publishes the first version "Alpha Extended Model" of the nucleus
but his theory has a fundamental flaw : he places the "right" neutron and nucleus in the
"wrong" atom of Rutherford and Bohr (24).
1921. J.J. Thomson confirms that Bohr's planetary model - as far as atoms with many
electrons are concerned - would become "hopelessly intricate" (25).
1921. A.H. Compton provides experimental evidence in favour of the magnetic electron
(26).
231
1921. W.D. Harkins further develops the "Alpha Extended Model" of the nucleus. He
introduces in current terminology the neutron as "sum" of a proton and an electron.
Moreover he introduces in his model of the nucleus three "polyneutrons": D0 (2n), T0 (3n),
α0 (4n) (27).
1921. A.C. Crehore points out that the rigid atom is by now currently used in chemistry,
where it daily proves itself useful. He suggests that the entire field of chemistry is not a silly
thing to be lightheartedly neglected in order to support Bohr's atom. He observes that those
"useful" results from Bohr's theory can be obtained from other atomic models - i.e. rigid
atom. And he adds that despite what Bohr did it is not essential to assume things against
ordinary laws of electromagnetism. The rigid atom is based on the laws of
electromagnetism: "So long as there is strict adherence to the Bohr model, an understanding
of phenomena on the basis of electromagnetic theory will remain difficult, if not
impossible…the abandonment of ring of electrons from an atomic model does not seem to
be so revolutionary when viewed in the light of these facts" (28).
COUP DE THEATRE
1921. Albert Einstein receives the Nobel Prize for Physics. He is given the Prize for the
"discovery of the laws of photoelectric effect". But it inevitably assumes the "political
value" of an "endorsement" of the Theory of Relativity.
1922. Niels Bohr receives the Nobel Prize for Physics. He is given the Prize for his
studies on "the atoms structure and radiation".
RELATIVITY AND PLANETARY ATOM BECOME "OFFICIAL SCIENCE"
On a theoretical level, physicists impose the planetary atom on chemists. Chemists
"suffer" but, as a matter of fact, do not give a damn. The theory of valence is, and continues
to be, that by Lewis and Thomson.
FINAL HOAX
1925. Bohr's atom has some problems with the anomalous Zeeman effect. Uhlenbeck and
Goudsmit "discover" the magnetic electron. Before introducing such a "revolutionary
concept" they ask for advice to the least apt person: Niels Bohr. Bohr takes the opportunity
of staging a clever "coup de main", that of introducing the main argument adopted by
Parson and Allen against planetary atom: the magnetic electron. With a warm letter
encouraging the "birth" of Spin, Bohr gives them his approval (29).
1926. E. Schroedinger presents his: "An Undulatory Theory of the Mechanics of Atoms
and Molecules": "The point of view taken here…is rather that material points consist of, or
are nothing but, wave systems" (30). Schroedinger does not ask himself what his "wave
systems" are made of. By paraphrasing Einstein, one could say that "the ether took its
revenge and ate matter" (31).
1928. W.D. Harkins attempts to produce gold by introducing an electron into a mercury
nucleus, but fails (32).
1932. J. Chadwick "discovers" the neutron (33).
1932. W.D. Harkins timidly lays claim to the neutron (34). Heisenberg states that
"Harkins's neutron" (the sum of a proton and an electron) is "different" from " Chadwick's
neutron", that is, a "new" particle which "does not contain" electrons, but "creates" them at
the moment of its decay (35). As a matter of fact, as we have seen before, Harkins placed
232
the right neutron and nucleus in the wrong atom: "his" neutron cannot be accepted because
it is "incompatible with Bohr's atom and Heisenberg's Quantum Mechanics.
1935. Thus, it is J. Chadwick who receives the Nobel Prize for Physics "for the discovery
of the neutron".
1937. While looking for "an artificial generator of neutrons", Enrico Fermi accomplishes
a "cold fusion" between "heavy ice" and deuterium (heavy hydrogen). But he does not give
it enough attention, as he should (36).
1940. Seemingly unaware of Harkins's work, Don Carlo Borghi makes the assumption
again that the neutron is a peculiar "bound state" of the hydrogen atom. His hypothesis is
obviously refused because it "contradicts Bohr's atom and Heisenberg's Quantum
Mechanics". Borghi does not realize the "danger" of his hypothesis. He insists and is
estranged (37).
1950-1955. C. Borghi planned an experiment to synthesize neutrons starting from a cold
hydrogen plasma. Expelled from the University of Milan, he moves to the Vatican. With
the money he is given -under the counter- by De Gasperi, he starts his experiments in a
Roman laboratory. Borghi succeeds where Harkins failed: "cold" synthesis of the neutron
shows that the neutron really is "the sum of a proton and an electron". De Gasperi's death
marks the end of Borghi's financial support. He emigrates to Brazil in order to continue his
experiments. In Recife he founds the Center for Nuclear Energy (38).
1958. C. Borghi tries to present his experimental results at the Vienna convention. But
Amaldi's action prevents him from having his paper accepted. Estranged once again, Borghi
leaves the scene for good (39).
KERVRAN'S LOW ENERGY TRANSMUTATIONS
Since 1959 C.L. Kervran takes note of a new series of phenomena which "Classical
Physics" cannot explain: Fusion and Fission of elements at energies much lower than the
ones occurring in "ordinary" nuclear reactions: "During these Low Energy Transmutations
we do not observe any radioactivity" (40), (41). The Low Energy Transmutations observed
by Kevran are all reversible. See for example the following:
27
13
± 11H
Al ←  →
( 6α
31
15
Si
+ T1 ) ← ± P → ( 7α
± 11H
P ←  →
( 7α
39
19
28
14
32
16
±P
K ←  →
( 9α
40
20
±P
)
S
+ T1 ) ←  → ( 8α
± 11H
⇔
⇔
)
Ca
+ T1 ) ←  → (10α
⇔
)
233
55
25
± 11H
Mn ←  →
(12α
24
12
56
26
28
14
4
± 24H e
Cr ←  →
(12α
+α
56
26
±α
12
±6 C
Si ← 
→
23
11
± 8O
Na ← 
→
24
12
± 8O
Mg ← 
→
15
7
± 8O
N← 
→
40
20
16
)
⇔
Fe
⇔
+α
Ca
39
19
K
0
±α
( 6α ) ← 
→ ( 7α )
)
⇔
( 7α ) ← ±3α → (10α )
⇔
+ T1 ) ← ±4α → ( 9α + T1 )
16
16
( 3α
0
Si
) ←  → (13α
0
28
14
( 5α
⇔
+ α 0 + T1 ) ← ± P → ( 13α + α
± 2H e
Mg ← 
→
52
24
Fe
40
20
Ca
31
15
P
⇔
( 6α ) ← ±4α → (10α )
⇔
+ T1 ) ← ±4α → ( 7α + T1 )
If on the one hand, these transmutations can be regarded as "cold fusions", on the other,
they can be considered as examples of "cold fissions".
Another significant example of cold fission, described by Kervran, is the following
electromagnetically induced "cold fission":
206
82
103
Pb → 2( 103
41 Nb ) → 2( 45 Rh )
"The most important thing" - Kervran maintains - "is to note that the nucleus has divided
into two parts, like a walnut that breaks along the median plane. Therefore, in Lead 206
there must be a plane characterized by a lower resistance, for fission takes place along this
plane …it appears obvious then that the notion of mean energy per nucleon does not make
any sense since it has been ascertained that nuclei are made of thick parts that always divide
in the area of lower resistance (40), (41).
234
Spontaneous fission of lead. On the left the nucleus of Lead -206 divides into two equal
parts. This can only be explained with a median fissure. On the right the shell structure
seems impossible because it would be necessary a heart made of 41 protons, which should
open like a shell and then assemble into a nucleus" (40), (41).
THE ALPHA -EXTENDED MODEL OF THE ATOM
The Alpha particle model was suggested by stereochemistry … it can be applied to light
nuclei which have an equal number of neutrons and protons, as long as that number is a
multiple of 4. Obviously one can think that these nuclei are made of nuclei of 4He (42).
These Alpha particles are arranged in space so as to give the closest possible packing …
In table 1 we have tabulated the configuration that probably gives closest packing and the
corresponding number of bonds … the last column gives the binding energy per bond,
which is remarkably constant except in the case of 8Be (43).
Table 1
Nuclide
Configuration
N° 0f
bonds
Mass M
(Mu)
He4
Be8
C12
O16
Ne20
Mg24
Si28
S32
A36
Ca40
------------Dumbbell
Triangle
Tetrahedrom
Square pyramid
Octahedron
Pentagonal bipyramid
Hexagonal bipyramid
Heptagonal bipyramid
Octagonal bipyramid
0
1
3
6
8
12
16
19
22
25
4.00387
8.00785
12.00380
16.00000
19.9988
23.9926
27.9858
31.9822
35.9789
39.9752
1
AMα
4
(mMu)
0
-0.11
7.81
15.48
20.6
30.6
41.3
48.8
55.9
63.5
M-
Bond energy
(mMu)
0
-0.11
2.60
2.58
2.58
2.47
2.59
2.57
2.54
2.54
"The most disturbing feature of this table is the lack of alpha stability of 8Be (44); as
well as, obviously, the fact that "the alpha particle model can only be applied to light
40
nuclei" (43) up to 20 Ca . 11α ( 44
22Ti ) and the following "do not exist".
The most valuable feature of the alpha particle model is, on the other hand, the fact that it
is a static model of the nucleus, as it is more suitable to a "rigid" atom.
235
Let us see, now, how it can be conveniently extended (45).
In order to explain the experimental results of L. Kervran, in 1988 I devised a new model
of the atom characterized by the following features:
1) Substantial asymmetry of Coulomb electric and magnetic fields of electrons and
protons.
2) Existence of positions of stable electromagnetic equilibrium of electrons in the vicinity
of nuclei.
3) The Neutron is a particular "bound state" of a proton and an electron.
4) The Nuclei are composite structures of hydrogen atoms of period 4.
5) Physical and chemical properties of each atom depend on the various isomeric
configurations.
As we have just seen, the Alpha particle model of the nucleus is interrupted … because of
40
lack of Alpha particles. After 20 Ca (10 α), in fact, "there is not" 44
22Ti (11α).
44
But let us examine now the two isobars 44 : 44
22Ti and 20 Ca .
The first is unstable ( t1/ 2 = 47y) and, after two electron captures, changes into the
second:
44
22
Ti (11α)  2EC →
44
20
Ca (10 α + 4 n)
Let us observe, now, the three isobars 48:
After two electron captures changes into
48
22
48
20
48
24
48
22
Cr (12α), unstable ( t1/ 2 = 21.56h).
Ti .
Ti (11α + 4 n).Stable (maximum abundance: 73.7%)
Ca (10α +2⋅ 4n). Stable (0.187%).
Let us imagine now that in agreement with the above hypotheses on atomic and nuclear
structure, the electrons of an Alpha group (Helium atom) are bound in a position of stable
equilibrium in the vicinity of the corresponding protons.
Let us assume, then, that because of the tridimensional packing of the Alpha groups, one
of them is completely inside the nucleus and that, because of the various forces exercised
by the surrounding Alpha groups, the two hydrogen atoms (Protium) which make it up,
each captures its own electron.
The result is a new "group", which is even more "neutral" than the (Helium 4) atom (the
Alpha), made up by 4 neutrons which are more strongly bounded - inside the nucleus - of
the two Protium atoms and two neutrons which make up the "Alpha group".
I will call the new "even more neutral" group: Alpha-Zero Group (α0).
Consequently 48
can be read as: (11α + α0). Stable.
22Ti
Similarly, we can suppose that two Alpha Groups "capture" their corresponding electrons.
48
20 Ca therefore can be read as: (10 α + 2α0). Stable.
By reconstructing in this way the structure of the various atoms ordered according to
mass number (A) it is easy to realize that electron and proton are the "primary" elementary
constituents of every atom, while the "secondary" elementary constituents are: Protium
(Proton + Electron): P = (p + e) ; Neutron: (pe) = n ; Deuterium: D = (p + n) ;
D-zero: D0 = (2n) ; Tritium: T1 = (D + n) ; Helium 3: T2 = (D + P) ; T-zero: T0 = (3n) ;
Alpha: α = (D + D) ; Alpha-zero : α0 = (4n).
We have consequently introduced 3 groups of "polyneutrons": D0 ,T0 ,α0 .
236
Moreover it results that atoms and nuclei are composite structures of Protium, of period 4.
Finally it follows that the different physical and chemical properties of each atom depend
on the various, possible isomeric configurations of the Protium atoms which make it up.
In light of what has been said above, the Periodic Table of the Elements has been
reconstructed as follows:
PERIODIC TABLE OF THE ELEMENTS ACCORDING TO THE ALPHA
EXTENDED MODEL OF THE ATOM
The reconstruction of the Periodic Table of the Elements according to the Alpha Extended
Model of the Atom is shown in Fig. 1, while Fig. 2a, 2b, 3a, 3b, 4a, 4b, give the details of
this Table up to the element 26, Fe [In the printed version of the journal these seven tables
are given apart; unfortunately, it was not possible to offer them in their beautiful full colour
form, which is available on-line: interested people could ask for a colour copy to Episteme].
The horizontal view of Fig.1 shows clearly that the nuclei are periodic structures of period
4. The vertical view (Mendeleef order, in which only the two most abundant isotopes are
listed) suggests immediately the "composite structure" of the nuclei.
Example: n ⋅ 4α Reactions.
GROUP IA
7
3
Li
23
11
Na
39
19
K
87
37
Rb
135
55
Cs
(α + T1)
⇓+4α
(5α + T1)
⇓+4α
(9α + T1)
⇓ + 3 ⋅ 4α
(18α + 3α0 + T1)
⇓ + 3 ⋅ 4α
(27α + 6α0 + T1)
(4.8 1010 y)
(3 106 y)
GROUP 0 (Noble Gases)
4
(α)
2 He
⇓+4α
20
(5α)
10 Ne
⇓+4α
36
18
Ar
(9α)
⇓ + 3 ⋅ 4α
Kr
(18α + 3α0)
⇓ + 3 ⋅ 4α
132
(27α + 6α0)
54 Xe
As it can easily be seen, the difference between the very active Elements of Group IA and
the "inert" Noble Gases consists in a "T1 terminal".
84
36
237
Neutron synthesis and α0 group
Neutron synthesis - which is the first step in atom building - was achieved by Borghi,
starting from a cold plasma of protons and electrons (39).
The following steps: synthesis of Deuterium (D), Tritium (T1), He 3 (T2), He 4 (α) and
experimental evidence for the 4- neutron (α0) group were already well documented in the
scientific literature . As well as the production and the decay of the nuclei from 11α to 18 α
and the "New Radioactivity" (reversible transition) (45).
Experimental evidence for Low Energy Nuclear Reactions:
Nucleus + n ⋅ 3α ; Nucleus + n ⋅ 4α
At the end of 1989 I could get information about the reaction: Nucleus + n ⋅ 3α ;
Nucleus + n ⋅ 4α , which confirmed the reality of the "composite structure" of the nuclei
(45). The nuclear reactions indicated were the following:
C + O → Si ; 2 (C + O) → Fe ; Na + O → K .
The first could be very easily reproduced. Consequently I tested it following methods 2
and 3 (45).
The report handed to me claimed the production, with the same methods, of 35 different
Elements. I noticed that all the stable isotopes of Si and Fe could be considered "composite
structures of C and O (45).
Further experimental evidence for the reactions:
Nucleus + n ⋅ 3α ; Nucleus + n ⋅ 4α
a) Experiments at B. A. R. C.
In 1991 I gave a lecture at B. A. R. C. , on Low Energy Nuclear Reactions. One year later
M. Srinivasan gave me a preprint showing experimental evidence for the reactions: C + N
→ Al ; C + O → Si ; 2(C + N) → Cr ; 2(C + O) → Fe ; 2(C + O) → Ni (46).
b) Experiments at Texas A&M
Immediately after this positive result Sundaresan and Bockris repeated test 2 (45)
showing once more experimental evidence for the reaction: 2 (C + O) → Fe (47).
Experiments by Champion and co-workers
In 1992 I informed J. Champion about the experimental tests of Oshawa and I showed
him how to use my Periodic Table of the Elements. Champion and co- workers repeated
later (1994) method 3 (45), with the following results (48):
238
a) Carbon - Iron - Carbon arc
New Elements produced : Zr , Mo , Ru , Ba , Sm , Yb , Hf , Os .
b) Carbon - Nickel - Carbon arc
New Elements produced : Mo , Ru , Pd , Ce , Ba , Nd , Sm , Hf , W , Os , Pt .
c) Carbon - Copper - Carbon arc
New Elements produced : Rh , Pd , Ag , Nd , Eu , W , Re , Ir , Pt , Au .
Low Energy Nuclear Fission of Stable Isotopes
a) Experiments at Texas A&M and Engelhard Laboratories
In 1992 I was invited by J. O'M. Bockris to witness experimental tests suggested by J.
Champion . The first of these tests told me immediately what was going on: I had already
seen it in a drawing made 500 years before.
The same experiment, repeated at Engelhard Laboratories, showed conclusively the
reactions:
201
80
Hg − α  →
197
78
Ag − α  →
105
45
109
47
−
β
Pt  
→
−
Rh  β →
197
79
105
46
Au
Pd
That is: the possibility to cause an α decay of stable isotopes by means of "ordinary"
chemical reactions (49).
b) Experiments by Champion and co-workers
In 1995 J. Champion noticed that one of his "Hg cells", designed to make Platinum by
electromagnetic excitation, was producing Ru at a rate 10 times bigger than that of Pt,
giving further confirmation of the reality of the half-fission nuclear reactions indicated by
Kervran (40), (41). It is easy in fact to notice that the half-fission of:
196
80
98
44
198
80
Hg ,
Ru ,
99
44
Ru ,
Hg ,
100
44
Ru ,
200
80
101
44
202
80
Hg ,
Ru ,
102
44
Hg , 204
80 Hg ,
results
in
:
Ru.
The two remaining isotopes of Hg : 199 and 201, by the induction of an α decay, produce
Pt and Au.
239
Low Energy Nuclear Reactions (Transmutation) of unstable isotopes
The possibility to cause nuclear fission of stable isotopes by "ordinary" chemical
reactions suggests immediately the possibility to cause the fission of unstable isotopes,
which Kervran did not consider (40), (41). A series of experimental tests made in '93, '94,
'95, '96, '97, '98, proved the possibility to get rid of the nuclear waste (Thorium, Uranium)
(50). The EUCAN Thechnologies GmbH signed a contract with the "Laboratorio Nazionale
per la caratterizzazione dei rifiuti radioattivi" of ENEA, Saluggia in order to carry out same
experiments an for the product characterisation. The activities started in October 1996. The
results of the first series (1996-97) and of the second series (1997-98) of experiments have
been reported in the Proceedings of ICCF-7 (51). Thorium was reduced by about 2g (an
88% reduction) (51). It was possible to show the reality of seasonal effects in Low Energy
Nuclear Reactions (51). To make a further demonstration of the reality of these
experimental results a third series of tests was carried out on May 21 an May 25 1998 (52).
The first experiment (May 21) showed the transmutation of 1.32g (30% of the total) of
Uranium (52). The uncertainty declared by the laboratory was between 5 and 10% (52). To
avoid any possibility of error we decided to show the possibility to increase this result
through a slight change in the proprietary formula used, suggested by the Alpha-extended
model of the atom (53). Consequently a second test was carried out on May 25,1998 with
the only addition of 50g of SiO2 (powder) in the same composition used for the test of May
21 (52). The result was the transmutation of 2.07g of Uranium (45% of the total) (52). An
increase of 15% (+50% compared to the test of May 21).
Reactions: Hg - Na
In 1995 J. Champion showed, in Colorado Springs (54), the possibility to obtain the
results which Harkins was unable to obtain in 1928:
198
80
Hg +
23
11
Na  p →
198
80
Hg +
23
11
Na  α →
197
79
Au + 1224 Mg
194
78
Pt +
27
13
Al
simply making an amalgam of Mercury and Sodium.
I repeated the same test after a few months in a condition of "sodium excess". The result
was the production of the following Elements : Si, K, Ca, Fe, Ti, Cr, Cu. The Periodic
Table suggests immediately further tests of this kind (reactions: Hg - Li , Hg - K , Hg - Rb ,
Hg - Cs), which can be easily performed. The reaction: Hg - Sb seems to be dangerous
(production of "Red Mercury").
"Cold fusion" in metal lattices
When Fleischmann and Pons published their experimental results about the "cold fusion"
D + D in Palladium lattices (55) I had already published (in Italian) my new model of the
atom and the Periodic Table (56). Consequently it was easy, for me, to understand what had
really happened and where Fleischmann and Pons were wrong . I explained these facts for
240
the first time in the Erice Conference (Italy, Spring 1989). In 1991 I gave the following
written explanation at the Second ICCF (Como, Italy) (45):
a) Pd does not only act as a catalyst of the D + D reactions .
b) As a consequence of the nuclear reactions among Pd and LiOD the Palladium was
"burning" like a match forming, at least within a thin layer, a plethora of new nuclei. I
suggested to analyze the atomic and isotopic composition of the electrodes before
and after the reactions.
In 1996 Mizuno et al. made this test, with the following results: within a thin layer of
1micron they found: Cr , Fe , Cu , Pt , Ca , Ti , Mn , Co , Zn , Cd , Sn , Pb, Ga , As , Br ,
Sb , Te , I , Xe , Hf , Re and Ir (57).
A similar test was made by Bockris and Minevskii, with the following results: within a
layer of one micron they found : Mg (6.7%), Si (10.2%), Cl (3.0%), K (1.1%), Ca (19.9%),
Ti (1.6%), Fe (10.5%), Cu (1.9%), Zn (4.2%), Pd (31.9%), Ag (1.9%), Pt (7.1%) (57).
The starting concentration of Palladium was: 99.8%. The various different reactions can
be singled out using the Periodic Table and finding the exact isotopic composition of each
new Element.
Isomeric configurations of the atoms
The Alpha-extended model allows each atom to "keep in storage" within its "rigid"
tridimensional structure the information which determines its physical and chemical
behavior.
In 1991 I suggested that the two allotropic forms of the Carbon atom (diamond and
graphite) were a good example of this kind and that this example should be: "only the first
of a long series. This opinion has recently been confirmed by the experimental results of
S.K. Dixit . In the Rasasastra Department (Department of Alchemy) of the Banaras Indu
University it is normal practice to obtain different isomeric configurations of atoms and
molecules, characterized by different physical and chemical properties, from the most
common configurations . The same atom or molecule is given a specific name according to
the various isomeric configurations which prove useful in the medical field" (45).
A few months later (October 1991) I could get information about the discovery of a third
isomeric configuration of the Carbon atom: Fullerenes, obtained by arcing Carbon in a
Helium atmosphere (58).
Finally, in 1995, I was informed by D. Hudson about the discovery of new, peculiar,
isomeric configurations of monoatomic Transition Elements, which he called O.R.M.E.S.
(Orbitally Rearranged Monoatomic ElementS) (59). These isomeric configurations are well
known in Alchemic Literature (60). But, according to the Alpha Extended Model of the
Atom (no "orbits"), the "right" name for these isomeric configurations should be :
E.R.M.E.S. (Electronically Rearranged Monoatomic ElementS).
Conclusions
The experimental evidence listed above constitutes, in my opinion, a good validation for
the Alpha Extended Model of the Atom.
In 1996 "The Developing Technology of Transmutations" becomes the fundamental issue
of the Second Conference on Low Energy Nuclear Reactions (College Station, TX) (61).
241
In 1998, ICCF-7 (Vancouver) (51) and in 2000, ICCF-8 (Lerici, Italy) (62) showed
conclusive evidence of Low Energy Transmutation Phenomena.
The Alchemic hints result to be always correct, proving that Alchemy is an experimental
science (50).
XXI century Physics will be characterized by Low Energy Nuclear Reactions: The
revival of Alchemy.
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(62) ICCF-8. Lerici, Italy. Proceedings (to be published).
This paper has been published for the first time in the Proceedings of the VI International
Scientific Conference "Modern Problems of Natural Sciences", August 21-25, 2000, StPetersburg. Episteme thanks most heartily Svetlana Tolchel'nikova-Murri and Markiyan
Chubey for their kind co-operation.
----[A presentation of the author can be found in Episteme N. 3]
E-mail: [email protected]
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RICEVUTI
245
[Nella versione a stampa non è purtroppo possibile inserire le immagini a colori, che nel
presente caso sono viceversa essenziali: gli interessati a visionarle nella loro interezza
possono trovarle nelle pagine Internet di Episteme]
Dalla teoria tricromatica di Maxwell
a una nuova concezione cromatica bipolare
(Mario Agrifoglio)
Per risolvere, una volta per tutte, il problema del "dualismo onda-corpuscolo", bisogna
rettificare alcuni punti nei campi della "termodinamica", della "quantistica", del mondo
"eterico" ed inoltre chiarire il vero punto di equivalenza fra energia e massa.
Come già espressi nelle mie relazioni presentate al Congresso Internazionale a Ischia
(1991), in quello a Fivizzano (1994) e quello di Perugia (1996), lo stato eterico non solo
esiste, ma ve ne sono di "due tipi": uno individuato nel calore puro ( = energia positiva E+);
che come tale, puro, sul nostro pianeta può esistere solo a circa 9000 ° C; e l'altro individuato
nel freddo puro ( = energia negativa E-), che come tale, puro, sul nostro pianeta si può
trovare solo oltre lo 0° K. Per cui lo 0° K resta solo il punto minimo di "moto entropico", ma
non limite di freddo. Questi due stati eterici, o bosonici che dir si voglia (che io ritengo più
giusto chiamare Energie Primarie: E+ ed E-), "fondendosi" - oltre alla luce - hanno
consentito il generarsi della massa.
In verità si tratta di due "energie" già da tempo conosciute e dette anche di "segno
opposto", in quanto nel procedere nello spazio quella positiva (calda) oscilla in senso
longitudinale alla direzione del flusso (elettromagnetico), mentre quella negativa (fredda),
oscilla in senso ortogonale. Queste due energie primarie, allo stato eterico, interagenti, sono
state individuate nel 1992 dal satellite COBE (a grandissime bolle calde e fredde) nello
spazio cosmico primordiale, in tali condizioni potevano anche esistere in forma più diradata
o più concentrata. Energie che, appunto, essendo di stato eterico, possono concentrarsi o
diradarsi quasi all'infinito e, per se stesse, non posseggono moto di rilievo: miscelate
invece, possono procedere anche a grandissime velocità, e inoltre - a velocità medio basse a vari gradi di concentrazione e percentuali divergenti l'una dall'altra, danno adito alle varie
temperature, e come tali sono percepibili anche dai nostri sensi.
Ora qui sintetizzando al massimo l'argomento, dirò che dalla miscelazione e
concentrazione, in vari punti del cosmo primordiale, di queste grandissime bolle calde e
fredde - una volta raggiunta la concentrazione X specifica - le due componenti si sono
"fuse" dando vita ai quasar: dai quali è sorta la prima luce nel cosmo. Poi, da quella luce,
di ogni singolo quasar - nel corso di miliardi d'anni - si è generata una galassia. E questo
significa anche che di Big Bang ve ne sono stati tanti miliardi: per quante sono le galassie
esistenti! Big Bang per modo di dire, in quanto - questi quasar - sono nati sì in modo
"repentino", ma sono poi rimasti accesi per miliardi d'anni: le cui componenti e conseguente
reazione sono giustificati dalla miscelazione e concentrazione di queste immani bolle di
energie preesistenti nell'immenso cosmo primordiale.
Dunque, dalla "fusione" di queste due Energie Primarie E + ed E-, è sorta la luce, e dalla
luce si è generata tutta la materia esistente nel cosmo: vita compresa. Energie che si
possono anche inscatolare: vedi pila e batteria, e nel contempo possono convivere con i vari
246
elementi sia allo stato gassoso. liquido e solido, pur essendone le basi fondamentali; e
proprio dai loro gradi di concentrazione e rapporto in percentuale di miscelazione
dipendono i vari cambiamenti di stato dei vari elementi.
Prima di entrare nell'argomento specifico della quantistica, ho ritenuto giusto anteporre
(sinteticamente) alcuni dati sui punti fondamentali che hanno anche affinità con le molte
scoperte che ci giungono dalla cosmologia, dall'astrofisica, dal mondo subnucleare oltre che
dalla spettrometria. Si tratta di dati ormai molto attendibili, dai quali è possibile trarre
alcune conclusioni basate su queste nuove scoperte, che possono confermare o smentire
molte "supposizioni" fatte nel corso dei secoli: sulla quantistica, sulla termodinamica,
sull'equivalenza energia e massa e altro ancora; per cui molte valutazioni del passato sulla
scienza in generale - con particolare riferimento a tutta la "fisica teorica a livello di
principio costitutivo" - devono essere rivedute in modo radicale.
Venendo al problema specifico della quantistica, il "dualismo onda-corpuscolo" può
trovare ora una spiegazione molto attendibile, in quanto l'equivalenza "energia/e e massa"
può essere spiegata in modo che il duplice aspetto si giustifichi in termini "deterministici ".
Infatti, energia e massa sono "circa" equivalenti, però non nei termini stabiliti da Einstein; e
il "circa" viene incluso per il fatto che il cambiamento di stato di un elemento dipende dai
valori differenziati di base eterica. Per cui tutta la fisica viene ad assumere un aspetto molto
più chiaro; per cui le varie teorie fisiche possono "uniformarsi" e dar corso ad una nuova
scienza basata su dati verificabili.
- Dalla miscelazione e concentrazione e "fusione" di due energie primarie preesistenti nel
cosmo primordiale è sorta la luce.
- Dalla luce - a doppia componente - è sorta la massa.
- Dalla prima "massa" (relativa) del fotone y, si sono poi evolute tutte le particelle
subatomiche, per dar vita agli atomi, molecole, cellule ecc. ecc..
La luce dalle fonti emittenti viene espulsa a "quanti" hn, ovvero a quanti di energia
radiante, "neutri" in modo giustificato, che vengono emessi in successione, e che, a onde,
possono apparirci solo se osservati attraverso certe apparecchiature di rilevamento: mentre
con altre ci appaiono a quanti indipendenti l'uno dall'altro (vedere in Appendice foto di
quanti luce - da me eseguita nel 1974 - e relative spiegazioni sulla meccanica esplicativa).
Quanti che nell'arco di miliardesimi di secondo si commutano in particelle - a massa
relativa, ossia instabile - ragion per cui, nell'impatto su sostanze materiche possono
ricommutarsi in quanti d'energia radiante hn, e come tali scindersi pure nelle due
componenti di base: le due cariche elementari monopolari di segno opposto A+ ed A-, delle
quali sono composte le due energie primarie E + ed E-. Dato, questo, comprensibile e
compatibile con lo spettro scaturito dal prisma, e, giustificato a sua volta nei seguenti
termini: quando un fotone y s'imbatte su di una sostanza diafana, non l'attraversa da
"particella" ma, ricommutandosi in quanto di energia hn l'attraversa in veste di impulso
elettromagnetico, per poi riacquistare massa uscendo dall'altro lato. E lo stesso discorso
vale anche per i neutrini e altre particelle neutre nei confronti della materia.
Il quanto hn e il conseguente fotone y equivalgono alla luce "bianca", mentre i fotoni
colorati (la definizione di "fotone" fu data da Einstein) sono derivati da azioni secondarie:
un fotone y che assorba una carica elementare monopolare positiva A + dà origine ad un
quanto giallo (hp); mentre se si associa a due cariche elementari monopolari positive dà
origine ad un quanto rosso (hp'); se si associa a tre, entra nella gamma dell'infrarosso (non
più percepibile dal nostro apparato ottico); se invece un fotone y si associa ad una carica
elementare monopolare negativa A- dà origine ad un quanto azzurro (hd); mentre se ne
assorbe due dà origine ad un quanto blu-violetto (hd'); se ne assorbe tre, entra nella
gamma dell'ultravioletto (non più percepibile dal nostro sistema ottico). I colori arancione,
247
verde e indaco che appaiono nello spettro, sono derivati da miscelazione: l'arancione dalla
miscelazione di quanti gialli e rossi; il verde da quanti gialli e azzurri; l'indaco da quanti
azzurri e blu-violetto.
Da questi dati appare evidente anche che la Teoria Tricromatica di Maxwell non sia
attendibile, e vada sostituita dalla nuova Concezione Cromatica Bipolare, in quanto le
componenti della luce sono solamente due a cariche contrapposte, e singolarmente non
sono percepibili dal nostro sistema ottico, mentre se miscelate a valori paritari danno
origine alla luce bianca, e se miscelate a percentuali varie, danno vita a tutti i colori
percepibili dal nostro sistema ottico (vedere in Appendice lo schema interpretativo).
La causa principale di tanti equivoci (non solo in quantistica), è nata con la Fisica
Classica, e promulgata - per ironia della sorte - proprio da colui che viene indicato come il
Padre della Scienza Moderna: Galilei. E questo grave equivoco consiste nell'aver valutato
"il caldo e il freddo effetti secondari derivanti dalla materia"; ma se così fosse, sarebbe stata
la materia a generare l'energia. e non viceversa. E questo equivoco, come già espressi più
volte a vari Congressi, è di gran lunga più grave di quello "geocentristico" di tolemaica
memoria; il quale fu sostenuto - a spada tratta - dagli scienziati di tutto il mondo per oltre
tredici secoli: e quei pochi che tentarono di correggerlo rischiarono il rogo! (Galilei
compreso). Ora però, a seguito di questo nuovo equivoco (galileiano), nacquero "tante
fisiche", ognuna delle quali cercò di giustificare comunque il problema "energia e massa"
nei modi più inverosimili. Inoltre, nel 1910, alcuni "cervelloni" credettero di aver scoperto
che il "calore" sia generato dal moto delle particelle: ma che cos'è che genera questo
"moto"? - Il moto, invece, è generato dalla "coreazione" tra le due Energie Primarie, e non
dalle fantasiose teorie promulgate dai fisici scientisti!
Planck nel 1900, infatti, scoperse che la luce dalle fonti emittenti viene espulsa a quanti
emessi in successione (e non a onde), quanti che si commuterebbero in particelle: i fotoni.
Quanti e fotoni risultati a carica "neutra", per cui ciò presupponeva fossero composti da
cariche o particelle ancora più piccole di segno opposto, ma non trovandole, e non
concependo che gli stati eterici potessero essere "due", a Energie Primarie specifiche, la
"quantistica" finì nel limbo delle astrazioni. Infatti, queste due energie di stato eterico non
sono solo dei supporti passivi per consentire la propagazione di ipotetiche onde luminose;
ma sono le essenze stesse della luce e di tutto ciò che esiste nel cosmo.
A causa di queste basi equivoche della fisica ortodossa, i fisici teorici hanno dovuto
formulare una valanga di teorie inverosimili, che con le Vere Leggi della Natura nulla
hanno a che fare. E per "demerito" di Bohr e Heisenberg nel 1927: che pur avendo ragione
nell'affermare che le particelle subatomiche vengono modificate dai vari tipi di
apparecchiature usate, tuttavia sbagliarono nel valutare il quanto/corpuscolo
(energia/massa) due effetti solo apparenti di un unico fenomeno, e peggio ancora, aver
valutato il tutto neutro per natura.
Ora il secolare problema "ondulatorio-corpuscolare" può ritenersi risolto, rettificando sia
l'aspetto "apparente" da onda ad impulso (di lunghezza terminata per ogni cromia), sia
avendone individuata la doppia componente; il cui impulso o quanto di energia radiante hn
(luce bianca), è composto da due cariche elementari monopolari di segno opposto (per cui
"neutro" in modo giustificato, il che consente la commutazione in massa del fotone y).
Mentre per ciò che concerne sia i fotoni colorati, sia tutta la gamma delle onde
elettromagnetiche, sarebbe più corretto chiamarle "elettrodiamagnetiche": in quanto il
magnetismo - vero e proprio - necessita di corpi rigidi per potersi realizzare; ed inoltre esso
è generato da una doppia circolazione (prevalentemente) di cariche elementari monopolari
di segno opposto, e le pochissime masse di elettroni e positroni (circolanti in senso
248
contrapposto), non si annichiliscono comunque perché s'incontrano a spin divergenti. Poi è
risaputo che le masse elettroniche in un corpo conduttore viaggiano lentissime, mentre la
circolazione delle cariche elementari monopolari avviene alla velocità della luce. Ma qui il
discorso si amplierebbe enormemente, entrando anche nel mondo dei vari elementi chimici,
e nelle loro rispettive trasmutazioni, che in Natura avvengono in modo assai differente da
come sono state interpretate dalla scienza ortodossa.
La Legge di Compensazione, studiando la quale sono riuscito a mettere a punto la nuova
concezione Compensazionistica/Evoluzionistica (che riesce a spiegare tutti i fenomeni
della Natura in modo coerente): non me la sono inventata, ma è la Legge della Natura sulla
quale si basano i vari rapporti attrattivi, repulsivi, rotativi e di "fusione" delle due
componenti eteriche, o energie primarie, dalle quali dipendono tutti i fenomeni che si sono
verificati e tuttora si verificano nel cosmo. I mattoni fondamentali dell'Universo, o la
particella di Dio (o particella di Higgs), cercata mediante i grandi acceleratori di particelle,
è già stata scoperta da Planck un secolo fa: ed è il fotone, che però non è stato capito
come tale perché non capirono come era "composto"; e la cui "massa relativa" (instabile)
da me introdotta riesce a chiarire l'aspetto "dualistico" in maniera inequivocabile. Per cui,
come già sosteneva Senofane, le Essenze Divine, dalle quali tutto deriva, sarebbero due. E
con la luce, da queste derivata, ebbe inizio la Creazione. Ed io, in tutto questo contesto, non
avrei fatto altro che riscoprire cose già "supposte": dimostrando però, sperimentalmente, la
"veridicità" di alcuni dati già previsti nel corso dei secoli sia dalla scienza che dalla
filosofia.
Appendice
Schema Interpretativo
Un quanto luce hn (luce bianca) (1) si forma dalla fusione di due cariche elementari
monopolari di segno opposto (chiamate Antepiù A + la carica elementare positiva, calda, e
Antemeno A- la carica elementare negativa, fredda). Dall'atto "coreattivo" (che le porta alla
fusione) partono a velocità c (roteando in senso contrapposto), e nell'arco di miliardesimi di
secondo (per cause termiche) si commutano in particella: il "fotone y" (2) (a massa relativa,
ovvero a massa instabile). Quando il fotone y s'imbatte su di una superficie pigmentosa a
carica "neutra" (equivalente a energie di eccedenza del 50%+ e del 50%-), si ricommuta integralmente - in quanto luce hn, per tornare ulteriormente fotone y, e poi, nuovamente, nel
249
nostro cristallino, in quanto hn: per cui quella superficie la percepiremo "bianca".
Infatti, a parità di percentuale tra le due cariche elementari monopolari di segno contrario
si ha, appunto, la luce bianca. Se invece la superficie pigmentosa ha carica (in eccedenza
alla sua massa) nella percentuale dell'80% in positivo e del 20% in negativo, quella
superficie la percepiremo "rossa". In tal caso, il quanto luce riflesso - rispetto a quello
incidente - si estenderà notevolmente (come appare nel grafico soprastante). Se invece la
superficie pigmentosa avrà un'eccedenza dell'80% in negativo e del 20% in positivo, quella
superficie la percepiremo "blu". Conseguentemente ad ogni minima variazione in
percentuale tra queste due energie primarie di base - in eccedenza ai vari pigmenti - si
avranno variazioni del flusso riflesso rispetto a quello incidente, per cui percepiremo - di
volta in volta - sensazioni policromatiche differenti. Va tenuto presente che, a
polarizzazione oltre 85%/15% sia in positivo che in negativo, il nostro apparato ottico non
percepisce più sensazioni policromatiche, ma soltanto nero a causa di eccesso di
polarizzazione. Tutto questo, ovviamente, è stato semplificato al massimo per rendere il
fenomeno percettivo dei colori entro termini "quantitativi e qualitativi" realistici e nel
contempo comprensibili a tutti.
Con queste nuove scoperte è possibile fornire dati molto precisi (e verificabili
sperimentalmente) su tutti i colori percepibili dal nostro occhio, mentre con le varie teorie
precedenti si riusciva a dare delle spiegazioni alquanto approssimative: quasi sempre basate
su formule matematiche che assai poco avevano a che fare con dati sperimentali interpretati
in modo attendibile. Il motivo di tutti questi dati poco attendibili, è dovuto al fatto che
troppi dati sperimentali - molto recenti - non sono stati presi in dovuta considerazione, per
cui, nel mondo accademico, si preferisce usare "vecchi schemi", anche se, tuttavia, questi
sono serviti a dare solo spiegazioni approssimative.
(1) Il "quanto luce hn" di Agrifoglio equivale - in estensione - al "quanto luce h" di Planck, salvo
che Agrifoglio ha saputo "giustificarne la neutralità" attraverso la doppia componente energetica e,
(2) con il fotone y - a massa relativa - giustificarne la commutazione da energia/e in massa relativa,
appunto, per cui instabile. Attraverso tale scoperta è possibile giustificare, in modo molto
attendibile, numerosi altri fenomeni fisici: in modo particolare, la commutazione energia/e in massa.
*****
Questa foto di "quanti luce" ha consentito di chiarire un equivoco di
fisica quantistica rimasto avvolto nel mistero per quasi un secolo
250
Fotografando una sorgente luminosa con tecniche specifiche, è possibile visualizzare i
"quanti luce", come potete osservare nella foto sopra. Ma per interpretare correttamente
questo fenomeno bisogna fare alcune considerazioni di ordine tecnico sul come e sul perché
si manifesta in questo modo. E prima di ogni altra cosa bisogna sapere che la luce,
contrariamente a come era stata valutata dalla fisica quantistica, è composta da due "energie
primarie" di segno opposto - tra loro interagenti - siglate E + (quella positiva, calda) ed E(quella negativa, fredda), a loro volta suddivisibili in "cariche elementari" monopolari,
siglate rispettivamente A+ ed A-. Cariche elementari monopolari dalla cui coreazione e poi
"fusione" nascono i quanti luce hn, ossia quanti composti, emessi comunque a impulsi
susseguenti, mentre i quanti luce h di Planck furono valutati erroneamente a energia
"monogenica", ossia unica. La foto sopra ci mostra come questo fenomeno può essere
rilevato su pellicola a colori, dove i tre strati di pigmento fotosensibile ai colori di sintesi
additiva vengono impressionati in tre fasi susseguenti. Però - non a caso - in campo
fotografico molta importanza viene data alla temperatura colore. Questo cosa significa?
Ogni colore ha una sua temperatura specifica, per cui le pellicole a colori - dette in
diapositiva - vengono composte a strati fotosensibili ai tre colori di sintesi additiva rosso,
verde e blu, che vengono impressionati dal medesimo quanto luce hn a causa del suo
procedere in maniera vorticale. Quanti luce che, essendo costituiti da due componenti opposte sia in senso rotatorio/vibratorio che in temperatura, partendo a velocità c (con
all'interno di ogni singolo quanto la componente negativa), vanno ad impressionare la
pellicola in tre fasi susseguenti, dovute appunto all'azione rotatoria-vibratoria "sfasata"
che gli consente di creare attimi "termici" differenti.
Va tenuto presente che le due energie primarie fondendosi danno vita alla luce bianca,
ma se prese singolarmente non sono percepibili dal nostro sistema ottico; se poi con
tecniche specifiche si fanno variare le percentuali delle due componenti, ad ogni variante
corrisponde una radiazione colorata differente. Quindi i colori visualizzati in questa foto
sono causati dalle differenti percentuali di miscelazione: quelle del rosso equivalgono a 75+
e 25-; quelle del verde a 45+ e 55-; quelle del blu a 30+ e 70-. La somma complessiva delle
quali è di 50% di energia positiva e di 50% di energia negativa, equivalenti a luce bianca.
Dove il rosso si somma con il verde e si ha il giallo a 60+ e 40-. Questi dati dimostrano che
a far variare le lunghezze d'onda e le frequenze, sono le percentuali divergenti delle due
energie primarie che costituiscono i singoli quanti di energia radiante polarizzata: sia in
flusso diretto che riflesso. Però, non di lunghezze d'onda si dovrebbe parlare, ma di cariche
elementari monopolari espulse congiuntamente a quanti luce hn dalle fonti irradianti.
Quanti luce, poi, variabili in rapporto quantità alle diverse potenze d'emissione, e
ulteriormente variabili in frequenze in rapporto qualità tra le due componenti, il che può
avvenire per cause varie.
*****
251
Nelle precedenti tre immagini si possono osservare spettri ad un solo colore: rosso; a tre
colori: verde - giallo - rosso; e a quattro colori: blu - azzurro/giallo - rosso. Lo spettro a
quattro colori è quello che rappresenta la realtà fotonica (forse sarebbe più giusto parlare di
"quanti"). Infatti, i fotoni colorati (o quanti polarizzati) dello spettro visibile sono solamente
"quattro", mentre gli altri tre conosciuti sono dovuti a miscelazione. L’arancione è dovuto
alla miscelazione di fotoni (o quanti) gialli e rossi; il verde di fotoni (o quanti) gialli e
azzurri; l’indaco di fotoni (o quanti) azzurri e blu-violetti. Questa scoperta (che conferma
una teoria dei colori simile a quella di Goethe, ma questi al posto del blu aveva indicato il
verde) si spiega bene in termini scientifici in base all’individuazione delle due energie
primarie (E+, positiva, ed E-, negativa), dalla "fusione" delle quali (a pari valore in
percentuali) si ha la luce bianca. Quando invece (con tecniche specifiche) le due
componenti si fanno variare in percentuali: con la prevalenza dell’energia positiva - nelle
varie proporzioni - si ottiene la gamma dei colori (caldi): giallo arancione e rosso; se invece
a prevalere è l’energia negativa - nelle varie proporzioni - si ottiene la gamma dei colori
(freddi): azzurro indaco e blu-violetto.
252
*****
Mario Agrifoglio - Raffronti - opera 60x70 del 1987
Queste due immagini sono il risultato di una sola opera fotografata con luce comune
(sopra) e con luce ultravioletta (sotto). Nella prima immagine si possono osservare le 5
tessere rosse su sfondo bianco e nero, le quali nella seconda immagine, irradiata con luce
ultravioletta, hanno cambiato totalmente colore. L'opera poteva essere dipinta anche con lo
sfondo totalmente rosso, uguale alle 5 tessere, tanto da far apparire tutta la superficie del
quadro a colore rosso uniforme, e ancora apparire come sotto alla luce ultravioletta, in
quanto è possibile creare un numero infinito di colori da altrettanti rossi o checchessia altro
colore: usando ovviamente pigmenti e accorgimenti speciali.
253
----Mario Agrifoglio è nato a S. Margherita Ligure (GE) nel 1935. Cominciò a
dipingere all'età di 11 anni, e già a 12 ad occuparsi anche di scienza
(congiuntamente agli studi scolastici). Dal 1965 intraprese in modo
sistematico studi di Storia delle Religioni, Storia della Ricerca Scientifica e
infine Storia della Filosofia. Nel 1974 pubblicò un primo saggio di filosofia
basato sulla Legge di Compensazione e sempre nello stesso anno elaborò un
Enunciato di Fisica in Chiave Compensazionistica (nel quale vengono
indicate le premesse per una revisione radicale di tutta la fisica teorica) e
che, successivamente, nel corso degli anni ampliò per rendere i concetti
espressi in modo più chiaro e dettagliato. Nel 1992 pubblicò il suo primo
libro I Falsi Paradossi della Fisica (Ed. Eccellenti, Rozzano, Milano), uscito
poi in seconda edizione assieme ad altri due testi: Compensazionismo: Aldilà
del Tempo e oltre la Materia e La Ragione dell'Essere, Ed. Andromeda,
Bologna. Ha scritto inoltre vari saggi di Cromatica Ottica, di
Termodinamica, di Cosmologia. ecc. E' membro di diverse Accademie
Internazionali per l'Arte e la Ricerca Scientifica.
Via Canto di Mezzo, 13
54013 Fivizzano (Massa Carrara) - Italy
E.mail: [email protected]
254
Mileva Einstein-Maric
(Michael Falotico)
It is a truism to state that Albert Einstein was undoubtedly a genius and a breathtakingly
original thinker. Nothing in this article can or should take away from the accomplishments
of the most celebrated scientist of all time. But a basic sense of justice and fair play requires
that credit must be given where credit is due. It is in that spirit that the world should know
the name (and credit should be given) to an equally brilliant scientist, Mileva Maric, the
first wife of Albert Einstein.
Albert Einstein met Mileva Maric when he entered the elite Swiss Polytechnic school
("ETH") in Zurich. [An aside: Albert did not initially gain admittance to this elite school
and much has been made by Einstein's critics that Einstein was only admitted on his second
attempt. While it is true that Einstein did not initially pass the admittance test, this had
nothing to do with his mathematical or scientific understanding. In fact, Einstein scored
very well in math and science on the admission test (See the Collected Papers of Albert
Einstein, Princeton University Press). Where he failed was in his French test; the Swiss
were very picky about French, and although it seems Einstein's French essay was very
good, it was not good enough to satisfy the high standards of the picky French professors.
Further, Einstein was trying to gain admission to the Swiss Polytechnic at the tender age of
16, without even having first completed high school. The Swiss Polytechnic advised the
young Einstein that they were impressed by his math and science scores but he should
really finish high school first and then try to gain admission the next year.
Encouraged by kind words of the Swiss Polytechnic, Einstein went back to high school in
Germany, got his high school diploma, and was easily admitted on his second attempt to
enter the Swiss Polytechnic. See Abram Pais, Subtle is the Lord…- The Science and the
Life of Albert Einstein, Oxford University Press, 1982]. On entering the Swiss Polytechnic
school in Zurich, the young 17 year old noticed the only woman in the class, Mileva Maric,
a brilliant Serbian student. Maric remained the only woman studying physics at the Swiss
Polytechnic the entire time Einstein was there. Maric was four years Einstein's senior. She
was a Serb, an Eastern Orthodox Christian, short of stature, had a limp and was extremely
bookish. In addition to taking the exact same course-work in college that Einstein took,
Maric studied on her own for one semester in Germany under Phillipe Lenard, the Nobel
Prize winning physicist who discovered the photo-electric effect (which was explained in
one of the 1905 papers attributed to Einstein).
Soon the two physics students fell in love and began living together, sharing love and
textbooks. The work they would do together would change the world of science and rearrange the universe. Maric is finally beginning to be noticed among scholars. Her
achievements were first chronicled by Desanka Trbuhovic-Gjuric in her book In the
Shadow of Albert Einstein, which, unfortunately, has been published only in German.
Because Trbuhovic-Gjuric relied on oral reports of friends of the Einsteins her
documentation is not considered rigorous enough. Trbuhovic-Gjuric writes that Maric
always considered herself as partner of Einstein, and when asked why she did not insist on
more of the credit for their joint work, she replied, "We are one stone; Ein stein."
255
The Serbian scholar Dord Krstic has written about Maric's close working relationship in
an Appendix to the book, Hans Albert Einstein: Reminiscences of his LIfe and our LIfe
Together, written by Elizabeth Einstein, the wife of Einstein's son, Hans Albert Einstein.
Senta Toremel-Ploetz has written a noteworthy article on Maric, "Mileva Einstein Maric,
the woman who did Einstein's mathematics" in Women's Studies International Forum, vol.
13, no. 5 (1990).
By far the most interesting and insightful writer on Maric is Dr. Evan Harris Walker, who
literally has turned the Einstein image around, crediting Maric with having formulated the
Special Theory of Relativity as well as other ideas now commonly attributed to Einstein.
Many other popular writers have adopted the insights of Dr. Walker; it is his manuscript
Ms. Einstein (1990) that remains the leading work so far on the collaboration between
Einstein and Maric. Dr. Walker is hereby credited for the information and ideas contained
in this article. It was he who first seriously pushed the idea of an Einstein/Maric
collaboration. And what a collaboration it was! The Collected Papers of Albert Einstein
prove to any open-minded person, that Maric did indeed collaborate on the authorship of
Einstein's famous papers in 1905. Einstein even uses the word "collaboration". Just a
sample quote from Albert to Mileva from their love letters:
"How happy and proud I will be when the two of us together will have brought our work on
the relative motion to a victorious conclusion!"
Our work???
This is just one isolated quotation. One should read the entire Love Letters, published in
the Collected Papers of Albert Einstein by the Princeton University Press and separately as
The Love Letters; Albert Einstein and Mileva Maric edited by Jurgen Renn and Robert
Schulmann and translated by Shawn Smith. There you will find that Albert shares all his
physics ideas with her and is extremely interested in her opinion. There are literally dozens
of examples. See also the copyrighted manuscript by Evan Harris Walker Ms. Einstein.
No two physicists ever had a closer relationship: Mileva and Albert ate together, went to
school together, shared ideas together, shared textbooks together, slept together, raised
children together and discussed physics together. The Love Letters prove incontrovertibly
that they discussed in great detail the work of physicists and mathematicians like Lenard,
Helmholtz, Hertz, Drude, Boltzmann, Kirchhoff, and Planck. In their leisure hours, Mileva
often would play the piano accompanying Einstein's violin while they entertained friends,
including Einstein's inner circle: Michele Besso, Paul Ehrenfest, Conrad Habicht, Marcel
Grossmann, Maurice Slovine. This group eventually became known as "The Olympia
Academy."
Senta Troemmel Ploetz, in her excellent paper, quotes Einstein as telling his friends that
his wife did his math for him. When one realizes the highly mathematical aspect of the
1905 Special Relativity paper, which relies heavily on derivations of the Lorentz
transformations, then one can see the importance of having a first-rate mathematician's
help. The Collected Papers of Albert Einstein even have a photo-static copy of one of
Albert's college notebooks, in which Mileva has gone through and corrected Albert's math!
Yet the myth of the isolated Einstein working alone, who all by himself, without help from
anyone, wrote four brilliant papers on physics in 1905, endures. These papers included the
work on Special Relativity; the photo-electric effect; an explanation of Brownian motion;
and the famed formula, E=mc2. All this is detailed in the Love Letters and in Dr. Walker's
paper, Ms. Einstein.
256
Yet "Einstein Establishment" has been reluctant to recognize the important role Maric
played. John Stachel, the first editor of the Collected Papers of Albert Einstein, has recently
moved away from previous statements that Maric was a mere "sounding board" for
Einstein, and has grudgingly stated that she has played a "small but significant role" in
Einstein's work.
See http://www.ucl.ac.uk/sts/cain/pubs/rev-pyc.htm.
But was her role really so small?
In addition to the many references to joint work and swapping of textbooks, Dr. Walker
has found fascinating evidence that Mileva Maric may have actually put her name on the
original manuscript of the Special Relativity. Naturally, the original manuscript for the
Special Relativity paper is missing. It was lost during Einstein's lifetime. Yet, Abram Joffe,
a summa cum laude Russian physics graduate of the ETH is quoted as having seen the
original 1905 manuscript and said it was signed, "Einstein-Marity" (Marity being the
Hungarianized version of Maric'; at that time Serbia was under the dominion of AustroHungarian empire). Joffe died in 1961. (see Ms. Einstein by Evan Harris Walker.)
It is interesting that Joffe would remember the name as "Einstein-Marity" since "Marity"
was the Hungarianized version of Maric. Mileva Maric rarely wrote her name as "Marity"
except on important formal documents, such as her wedding certificate. That Joffe would
remember the name specifically as "Marity" lends credence to his having seen the original
Special Relativity manuscript. It is extremely unlikely that Joffe could have made a
mistake.
Moreover, when Albert admitted adultery and divorced Mileva in 1919, he promised that
in the event he should win the Nobel Prize all the money-not part of the money but all the
money-would go to Mileva. According to the Einstein biography, Subtle is the Lord,
Einstein kept his promise. When he received the Nobel Prize money in 1922 (he was
awarded the prize for the year 1921; the award was announced and he received the money
in 1922) Albert did indeed give Mileva all the money from the Nobel Prize. Why all the
money?
There are other strange aspects to Einstein's life. Einstein was extremely secretive about
his first marriage. It was only in 1987, with the publication of the Love Letters between
Albert and Mileva that we find out Einstein fathered a daughter, named Lieserl, the first
child of Albert Einstein and Mileva Maric. Nobody really knows what happened to this
child; there is a mention in one of the letters to her having scarlet fever and it is believed
that the child was put up for adoption in Serbia. Albert never breathed a word about her
publicly during his lifetime, which is quite strange.
The Love Letters also make clear that Mileva Maric was absolutely hated by Einstein's
mother, Pauline, who protested to her son that Mileva was, "a book like you." Still, despite
his mother's fierce objections, Einstein stubbornly went ahead and married her. It was
during this marriage that Einstein is credited with producing the 1905 papers which made
him famous.
After they married, Mileva bore Albert two more children, sons Hans Albert and Eduard.
Eduard suffered psychological troubles throughout his life, and according to Dord Krstic
was even seen by Sigmund Freud.
Maric seems never quite willing to take complete credit for the work she did. Much has
been made of Maric never having graduated from the Swiss Polytechnic, implying that she
could not have been the intellectual equal of Albert Einstein. This is simply not accurate.
Mileva faced the obvious invidious prejudice of being a woman. Remember, in 1900
women couldn't even vote! Even to be allowed admittance as a woman to the elite Swiss
Polytechnic, she had to have been brilliant. Although her grades were comparable to
257
Einstein's grades, Mileva ultimately did not pass her final examinations. It must be noted,
however, that at the time she was taking these exams she was late in her pregnancy with
Albert's second child (his son, Hans Albert) and also faced the prejudice of her teachers for
being both a Slav and a woman. She was, indeed, the only student in Albert's class not to
graduate, although she did receive a research position with Professor Weber, which later
fell through. Of the students who did actually graduate, Einstein had the lowest grade point
average (see The Collected Papers of Albert Einstein, Volume 1, which lists the grades of
all those who graduated; also see Dr. Evan Harris Walker, Ms. Einstein.)
Einstein rarely mentioned those who assisted him. Indeed, in all the famous 1905 papers
that he published, only Michele Besso, his friend and sounding board, is mentioned. There
is simply no other source material cited in any other of his 1905 papers.
We know from the Love Letters that he had a very close collaboration with Maric.
Unfortunately, these letters are heavily edited, the omissions being mainly from Maric's
letters. Why are Maric's letters so heavily edited? Why are there so many omissions? Will
the editors of the Collected Papers of Albert Einstein publish or make available Maric's
letters in their entirety? Some have felt that Maric's senior thesis at the Swiss Polytechnic
might actually have dealt with Relativity theory but, according to correspondence I have
had with Professor Bartocci of the University of Perugia, her thesis cannot be located in the
Polytechnic's archives.
Einstein's marriage to Maric ended in acrimony. He began treating Maric, for whom he
had originally professed such great love, cruelly toward the end of the marriage, even
calling her "uncommonly ugly" (see Collected Papers). He admitted in a deposition during
divorce proceedings (28 December 1918) that he had carried on an adulterous relationship
with one of his cousins, whom he later married. During this second marriage, Einstein had
numerous affairs, even including -apparently - an affair with a Russian spy! And again,
Einstein never breathed a word about having fathered a daughter with Maric.
The full truth of Mileva Maric's role in the work now commonly attributed exclusively to
Einstein will only become known when the complete, unedited letters of Mileva Maric are
made available to scholars. It is also a fervent hope that the senior thesis of Maric might be
found - or at least its subject might become known - because that thesis might actually have
been about Relativity theory. Clearly, further research on her life and her physics work
needs to be done.
E-mail: "Michael and Lydia Creighton" <[email protected]>
258
Geography of Gilgamesh Travels, Part II
The Route to Mount Mashu
(Emilio Spedicato)
Abstract
In this part of the paper, we consider Gilgamesh trip to Mount Mashu. We identify this
mountain with the Anye Maquen range, close to the sources of the Yellow River, sacred to
the local Ngolok population. We propose that Gilgamesh reached this mountain via the
Zungarian Gates.
Sintesi
In questa parte del lavoro consideriamo il viaggio di Gilgamesh verso il Monte Mashu, da
noi identificato nella catena montuosa detta Anye Maquen, localizzata presso le sorgenti del
Fiume Giallo e sacra alla tribu' degli Ngolok. Proponiamo che Gilgamesh abbia raggiunto
tale meta passando dalle Porte di Zungaria.
1. The second trip. Numerics and geographical information
The second trip aims to reach mount Mashu, the dwelling place of Utanapishtim (in
Assyrian; Ziusudra in Sumerian), a man who survived the Flood and who was granted
granted immortality by the gods. Gilgamesh hoped to get from Utanapishtim the secret for
immortality. He did not get it (we may hint that the secret is the one that locally survived
till the time of Marpa, the teacher of Milarepa).
In the following we give the surviving information from the Gilgamesh texts in Pettinato
(1992).
Tablets from Assurbanipal library.
-
IX, 5-9: I wander by the steppes. I am going to the place of Utanapishtim, the son of
Ubartutu. I am moving fast towards this place. In the night I have reached a mountain
pass. I have seen lions, I was scared.
-
IX, 36: The name of the mountain is Mashu.
-
IX, 55-59: Who are you who came by far away roads, who wandered till you got to my
presence, crossing with difficulty ever fast flowing watercourses?
-
IX, 132-134 : You, Gilgamesh, do not be afraid! I open for you Mount Mashu, cross
without fear the mountains and the hills!
-
X, 1 : Siduri, the hostess who lives far away at the shore of the sea.
259
-
X, 43-47: Why do you look as someone who has travelled over long distances? Why
does your face show signs of hot and of cold wheather? Why do you wander only
covered with a lion skin?
X, 76-91: Gilgamesh insisted: Please, hostess, which is the direction to Utanapishtim?
Give me accurate directions. If necessary, I will cross the sea, otherwise I will take the
way by the steppe.
Gilgamesh, there has never been a boat for the crossing, no one in memory has ever crossed
this sea. Only Shamash can cross it... The crossing is difficult, fraught of dangers, in the
middle there are lethal waters that make navigation impossible. How, Gilgamesh, can you
cross this sea? Once you get to the mortal waters, what will you do? There is however,
Gilgamesh, the boatman of Utanapishtim, his name is Urshanabi. You can find him cutting
trees in the woods, near the stone "stela".
-
-
X, 156-160: Gilgamesh, take an axe, go to the wood, cut planks of 30 meters length,
work them smooth, bring them to me.
-
X, 166-170: Gilgamesh and Urshanabi entered the boat and began the voyage. A route
of one month and a half towards the land of..... they made in three days. Then Urshanabi
arrived at the waters of death.
-
X, 259-261: I have killed bears, hyenas, lions, leopards, tigers, deer...
- XI, 194-195: Now let Utanapishtim and his wife be like gods. Let Utanapishtim
dwell far away, at the mouth of the rivers.
-
XI, 257-258: Gilgamesh and Urshanabi enter the boat. They free the boat and begin the
[return] voyage.
-
Berlin/London tablet, 100-104 : So Gilgamesh spoke to Surshanabu: Gilgamesh is my
name. I have come from Uruk, from the Eanni, I have wandered by the mountains. I
have made a long way towards the rising Sun.
-
Berlin/London tablet,115-119: The stones "stela", Gilgamesh, are my guide, so that I
avoid the waters of death. In your fury you have broken them. I keep them with me, so
that they can guide me.
Hittite version: The god of the Moon (Sin) said: bring the two lions you killed to the city,
bring them to the temple of Sin.
Hittite version by J. Friedrich (1930), quoted by Sitchin (1980):
After crossing the death waters with Urshanabi, they were in Tilmun, aiming to the
Mashu mountain in a straight way, in the direction of the far away great sea. On the way
there was the town Itla, sacred to the god Ullu-Yah.
-
260
2. Identifying the route of the second trip
According to the scenario proposed by us, Gilgamesh trip took him to the heart of Asia, to
Mount Mashu, that we will identify, close to the sources of the Yellow River, with a huge
mountain range still sacred to the local population, the Ngolok tribe. Then he returned to
Uruk by water, first following the Yellow River (for about 4000 km), then coasting the
eastern-southern side of Asia, for at least 15.000 km. Thus Gilgamesh succeeded in
performing a voyage of truly epic dimensions.
Gilgamesh reached mount Mashu by a route about which some information had to be
available. The distance travelled in the second trip was about 3000 km longer than by the
route he had attempted the first time. Now however he did not have to go through the
almost impassable high ranges of the Karakorum. The route took him through wild and
almost unpopulated steppes, fraught of difficulties in term of quick sands, salt flats and lack
of sweet water. We think that without the guiding help of Urshanabi he would have been
lost after the about 5000 kilometers that had taken him to the "sea" where he met Siduri, the
custodian of the tple of Sin.
It is perhaps interesting at this point, before unveiling the final destination, to introduce a
digression on how the routes proposed here came to my mind. I first read Gilgamesh epic in
the Penguin edition, in 1971, when I was visiting the University of Essex in UK for
research in numerical optimization. Already at that time I had doubts about the real
destination of Gilgamesh trips. Several years ago, having reread the epic in the 1992 book
of Pettinato, I looked in the great italian Enciclopedia Treccani (almost twice the size of the
Britannica), about cedars of Lebanon. To my delight I found out that they grow in the
variety Cedrus Deodara in Kashmir. Since the Indus basin and Mesopotamia at Gilgamesh
time were in well documented contacts via water, it made sense to hypothesize that not only
Kashmir had to be a well known source of cedar timber, but that reaching and exploring
that region might have been an interesting goal -- personal and even political, in view of
incipient trends towards forms of "imperialism" -- to a strong willed, intelligent and
physically powerful person as king Gilgamesh.
The identification of Mount Mashu came suddenly to my mind on a day of May 1999,
while I was reading Sitchin's "The Stairway to Heaven". At the point where Sitchin, whose
source is mainly the Hittite text in Friedrich's translation, describes how Gilgamesh, after
crossing a mountain pass, saw a water extent, near which there was a city with a temple
dedicated to Sin, I closed the eyes and visualized the map of central Asia. It dawned to me
that the water expanse, certainly not a sea but a large lake, had to be the Balkash lake,
which, as will be discussed soon, fully satisfies the features in the text. Then I thought what
Mount Mashu might be in this geographical context, and the answer flashed back
immediately, the product of a geographical and anthropological information I had
memorized a couple of years before from a book by Leonard Clark. Of Leonard Clark,
possibly with Heyerdahl the greatest explorer of the 20th century, I had read and reread in
my teens the fascinating book Thr rivers ran to east, describing his explorations in
Amazonia. Reading his less known book The Marching Wind, led me to the proposed
identification of Mount Mashu.
261
Let us now discuss the route that we propose to Mount Mashu. Our guess is very natural
once the "sea" with the temple of Sin and Mount Mashu are identified.
Let us first discuss the "sea" with the temple of Sin. The text calls it a "sea", and the local
Kirghiz actually call it "sea" (their word for sea being just "Balkash"), but it is actually a
large lake. Notice that what we call "Caspian sea" is also a large lake, the remnant of a
previous very large lake, hence in a sense a "sea", that included at least also the Aral lake,
as the Atlas of Ptolemy shows, see the critical edition by Pagani (1990).
We claim that Gilgamesh reached this "sea" after a very long way, in a mainly easterly
direction, along which he was attacked by wild beasts and had to cross large rivers always
full of water. The "sea" appearead just after crossing a mountain pass. Going beyond the sea
appeared to be difficult, the steppes around were also appearing difficult, making
Gilgamesh feel depressed. Near the "sea" there was a city with a temple dedicated to Sin,
the god, inter alia, associated with the Moon.
We identify the above "sea" with the Balkash lake on the following grounds:
-
It is certainly far away from Sumer, about 4000 km as the crow flies, probably well over
5000 km by the route taken by Gilgamesh, where many detours and false starts had to
occur.
-
It lies in a rather flat basin, elevation around 350-400 meters, which is surrounded on
the north and west side by a chain of hills (the Khaisaghin Daban hills in the north reach
1559 meters, the Chu-Ili hills on the west reach 1053 meters). On the south-east,
beyond the mainly flat gently sloping delta of the Ili, there are the quite high Tien Shan
mountains, reaching almost 5000 meters.
-
The lake is fed mainly by a river coming from the fertile green Fergana valley among
high mountains, where the city of Alma-Ata is located. The river has the intriguing
name Ili, easily associated with the semitic EL, one of the main gods.
-
The waters are salty, undrinkable by man, so salty that only small fish live in the lake. It
has a tormented coastline, it is surrounded by marshes, quick sands and salty deposits,
over which it is extremely difficult to move by foot, either for man and for camel, see
Hedin (1943) for the claim that these areas, called scior in central Asia, are avoided by
everyone. Around the shores there are woods. The lake has sources of sweet water on
his bottom, that apparently have contributed in reducing the high salinity noted in the
19th century to a more moderate salinity, especially in the southern part (industrial
pollution is now poisoning the lake).
From a description of the lake at the end of the 19th century by Grégoire (1876) we have
the following information (to be probably updated in the sense of a decreasing size of the
lake, the phenomenon of drying up of inner lakes being common worldwide and being
probably related to the fact that such lakes were filled over their normal capacity during
some catastrophical flooding event, the Noah-Utanapishtim flood being one of such likely
events):
-
the lake is 530 km long, at most 85 km large, area 22.000 square kilometers;
262
-
the lake around 1950 was very shallow, max depth only about 11 meters
- present elevation (Times Atlas, Comprehensive Edition, 1974) is 339 meters over sea
level. Just east of Balkash two smaller lakes are found aligned in an easterly direction: lake
Sasykul, elevation 334m, and Alakul, 340m. In case the water level in the Balkash would
increase by about ten meters, these two lakes would join with the Balkash, as appears it was
the case from maps in atlases of the 18th century, then giving rise to a lake over 800 km
long but no more than 100 km wide.
-
the form of the lake is arcuate, rather half-Moon like.
- if the level of the lake would reach the isoipse 500 meters, quite a possibility in the event
of a great flood, it would give rise to a water expanse with no outlet to the ocean and a size
of about 150.000 square kilometers. We do not know how was the elevation of the Balkash
at Gilgamesh time (but see below). We guess, in view of the drying up tendency of inner
lakes, that it was significantly higher than now;
-
the lake could have had the characteristic half Moon shape before the Flood, making it
sacred to the god Sin; an increase of the water level to the isoipse 500m, for instance,
about 160 meters higher than now, would completely change its shape.
-
the name of the lake is indicative, in the linguistic analysis that we will propose, of a
relation with the god Sin, to whom perhaps the lake was sacred in view of its peculiar
half-Moon shape (if not at Gilgamesh time, before the Flood).
Let us now discuss our proposal about the meaning of the name BALKASH. We have been
unable of getting literature information on the etymology of that name, that for the Kirghiz
is now synonimous of "sea". Our proposal is that the name BALKASH is the contracted
form of a more ancient BALKASHIN. To my delight I have found that atlases and
geographic dictionaries up to the mid 19th century call the lake BALKASHI, one step
closer to the proposed BALKASHIN. Now there are no linguistical problems in the
equivalence BALKASHIN = BALKASIN, that we see as a word composed by three
meaningful monosyllabic words, namely BAL - KA - SIN, for which we claim the validity
of the following translation: Sin, Lord of the people. The references to Sin and the term
Lord are obvious. The main point is the validity of the identification KA = PEOPLE, that is
addressed in the Appendix.
Having thus identified the "sea" with the temple of Sin with the Balkash lake, we can now
make an educated guess on the first stage of Gilgamesh trip, from Uruk to the Balkash lake.
From the Hittite text in Friedrich translation, but not from the corpus in Pettinato, the trip
appears to have started when Enkidu was still alive, and by sea, on board of a boat named
MA-GAN. The boat sank near the coast of MA-GAN, with Enkidu dying in the accident.
Then Gilgamesh continued the trip alone overland. Sitchin identifies Magan with Egypt,
while most scholars identify Magan with the easternmost coast of the Arabian peninsula,
i.e. Oman and part of the Emirates, in view of the fact that copper was among the exports of
Magan and that bronze age mines of copper have been found in the mountains of Oman. If
263
the Hittite version used by Sitchin is correct, then we may think that Gilgamesh again
intended to reach the heart of Asia by the Karakorum passes tried before, reaching the
Kashmir mountains not by the overland route explored in the first trip but by the more usual
way via the Indian Ocean and the Indus river.
Moreover we claim that MAGAN, also read as MAKAN, is neither Egypt nor Oman, but a
land including the southern coast of the Iranian plateau, the ancient Gedrosia, a vast
extremely dry expanse of valleys, plateaus and low mountains, that Alexander insisted to
cross on the return from India, for reasons that are not clear in the surviving reports of his
adventures (Arrianus, Curtius Rufus, Plutarch, perhaps not unrelated to a memory of the
feat that we are now proposing Gilgamesh accomplished). This region, while difficult and
even now sparsely populated, is not a complete desert. Now mainly inhabited by Baluchi
people, divided between Iran and Pakistan, in classical times, as reported in that superb
navigational reference book that is the Periplus of the Erythraean Sea, had a number of
ports and a coastal population, the Icthyophagies, that survived on sea life (some of them
even had cows, that were fed with dried fish: the flesh of these cows tasted of fish,
according to the report of Nearchos, quoted in Arrianus book on India; thus we see that
feeding proteins to cows predates our times!!). The present local name, attested as I have
checked at least in atlases of the 18th century, is MAKRAN (sometimes also spelled as
MEKRAN, MUKRAN). The name MAKRAN has obvious similarity with
MAGAN/MAKAN, a fact reinforced by the observation that the sound KR does not belong
to the Sumerian phonama. Moreover the name MAKAN appears in the 18th century great
D'Anville Atlas as a region in the present Kara Kum desert, which comprises much of
Turkmenistan, north of Khorasan. In view of references to a people called Maka in several
inscriptions found in the excavations of Persepolis after second world war, located in the
east, and of other considerations that will be developed in a forthcoming paper, we claim
that MAGAN/MAKAN should be indentified with the eastern part of the "great Iran" to
which Shanameh refers, comprising much of present Turkmenistan, Khorasan, Sistan,
Baluchistan and Makran.
Whether or not the second trip of Gilgamesh began by boat, the "sea" with the temple of
Sin was reached overland. The likely route is the following.
-
First from Uruk to Sistan. This could have been done via sea and then crossing the
Makran region, along one of the valleys that certainly allowed the precious hard stones
and the copper mined or worked in Sistan to reach the Indian Ocean for trade to the east
and to the west. Notice also that there are important copper mines in Birjand, just about
150 km north-west of central Sistan, that possibly were already exploited in bronze age
time, therefore voiding the claim that Oman was Magan because of the presence of
copper in Oman, and that recently translated Accadian documents refer to metal
specialists sent to eastern Iran to get hold of copper. Or the trip could have been made
overland, possibly even by same route taken in the first trip.
-
From Sistan the natural way to the Balkash, not less than 3000 km, skirts the western
side of the mountains of Afghanistan and Pamir, in a basic direction north-east. On this
way Gilgamesh had to cross a few really large rivers, certainly not fordable and rich of
water the whole year around, including the Amu Darya (literally The sea of Amu,
Adamu?; classical Oxus, meaning The great water), the Syr Darya (classical
Jaxartes/Araxes, meaning The sea of lions) and, finally, the Chu river. The epic states
264
that Gilgamesh was attacked by dangerous animals along the way. Leopards and hyenas
are still found in the area; the famous Aral tiger became extinct around 1950 and was
common along the Amu Darya even in the Termez region still before Second World
War, see McLean (1949); lions were common in classical times.
Let us now discuss the second stage of the trip, from lake Balkash to Mount Mashu. As
observed before and as additionally discussed below, at Gilgamesh time lake Balkash was
almost certainly much larger, with a length close to 1000 km and a width possibly over 100
km on average. We do not know where the temple of Sin was, certainly close to the ancient
higher shore, so at some distance of the present shore. A look at the map of the Times Atlas
of the World, Comprehensive Edition, 1974, suggests that Gilgamesh, who presumibly had
coasted the western side of the Tien Shan (Mountain of the Sky), may have crossed the
Chu-Ili hills in the pass where both a road and a railway exist now, near the towns of
Khantau and Burubaytal, hence approaching the lake at its southern shore. At his time the
lake probably filled much of the Zhusandala steppe, that extends east of the present
southern side of the lake. As is the case for many flat bottomed lakes in central Asia,
navigation is often extremely dangerous due to the low level of the waters. Once a boat gets
stuck in the muddy bottom, putting it again in motion may be an almost impossible task,
because the soft bottom, essentially consisting of quick sands, is extremely dangerous for
anyone who would jump in the waters trying to push the boat.
The above navigational problem first suggested to me that the "stone stelae" that looked so
important to Urshanabi and that Gilgamesh had broken, might have been magnetite, and
could have been used as a compass (recall that compass comes from China, and that many
elements of Chinese culture and science have their original source in the heart of Asia).
This would also explain why Urshanabi was still able to navigate using apparently
fragments of the broken stelae, since they of course would still maintain their dipole
characteristics.
There is however an even more interesting possibility. If the water level of lake Balkash at
Gilgamesh time was about 150 meters higher than now, the lake would extend into
Zungaria flooding the Zungarian depression and the pass called Zungarian Gates, a corridor
about 80 km long, 10 km wide, with very steep mountains walls, appearing from Shuttle
photographs just as a clear vertical cut in the mountains (let us recall the biblical statement
that at the time of Peleg the earth was divided….) and would almost reach the present city
of Urumchi. Thus there would have been a connected water basin, most certainly of salt
water possibly originated from the Arctic Ocean via a huge tsunami associated with the
Flood. It would have had an extension of several hundred thousand kilometers, given by a
much larger Balkash connected with the flooded Zungarian basin. Under these conditions
one had to navigate the flooded Zungarian gates to enter present Xinjang.
Now the Zungarian gates are a very special geographical structure, characterized not only
by steep walls where trails were probably not existing and (presently at least) by lack of
sweet water, but they are extremely windy, so much so that caravans in the past tended to
avoid them when they had to reach Kirghizistan and Khazakistan from Xinjang, preferring
to pass by the longer and more northernly way of Chuguchak, through the Tarbagatai hills,
see Lattimore (1929, 1995). In view of the difficulty of navigating the flooded Zungarian
Gates, with their strong winds and presumibly also strong and turbolent currents, it is
possible that the big stones used by Urshanabi were the so called "drag stones", i.e. flat
265
large stones that tied with a rope to the boat were used to increase the drag of the boat,
hence to stabilize it against winds and currents. Such stabilizing technique is known from
Herodotus to have been used by people navigating the Nile when strong northernly winds
from the Mediterranean made navigation impossible even by following the natural Nile
current; the boatmen in such a case dropped large stones and so were able to navigate as
under normal conditions. The technique is essentially even now used by fishermen in the
Bosphorus, who have no problem in navigating tp an easternly direction by following the
upper current from the Marmara Sea towards the Black Sea, and are able to navigate to the
westernly direction against such a current by dropping a chest full of stones that catches the
lower cold current from the Black Sea towards the Marmara Sea. It should finally be noted
that several huge specially shaped anchor stones have been found in the Kazan/Uzengili
region near Mount Judi of last century Armenian maps in eastern Turkey, where a structure
has emerged in 1948 that might be the remnant of Noah's Ark, see Fasold (1988); in this
context Fasold, a marine expert dealing in recovery of foundered spanish vessels in the
Caribbeans, has proposed that the stones were drag stones stabilizing the ark against the
strong winds and rough seas of the Flood.
Finally notice that evidence that the inner basins of central Asia were in fact huge lakes, as
we have above proposed in connection with the Balkash-Zungarian system, has recently
been given by the Turkish geomorphologist Erol on the basis of satellite pictures, see Ryan
and Pitman (1998).
Now near Urumchi, precisely on the northern side of the Bokhda-Ula (or Bogdo Ola,
sacred mountain) range, there is a huge solfatara, with a perimeter of some 25 km at the
beginning of the 19th century, see Marmocchi (1856), where large amounts of poisonous
gases are emitted, killing every being, birds included, that would attempt to cross the area.
The gases would escape from the waters and might kill anyone on a boat. We are presently
unable to ascertain the actual coastline of the Balkash at Gilgamesh time, but the
phenomenon here described would provide a perfect explanation of the "waters of death"
described in the epic. Another phenomenon that may have characterized such an extended
Balkash would also have been the low visibility associated with the dust carried by the
winds, very strong in Zungaria, making the availability of a compass very important.
3. Mount Mashu and the return to Uruk
According to a recent proposal by Temple (see Hera Magazine, n.1, 2000), Mashu means
the place where the sun rises in the orient. This interpretation fits perfectly with our
scenario and the considerations that will be put forward in a forthcoming paper about the
original land of the Sumerians. Now, to introduce our identification of Mount Mashu, let us
recall some war events of the 20th century.
At the beginning of 1949 the armies of Mao Tsedong were already in control of the whole
eastern part of continental China. On the western part Tibetans in the south still hoped they
could keep their ancient autonomy, while in the north, along the corridor Xining-Lanzhou, a
muslim army led by general Ma Pufang tried to stop the advance of a Chinese army led by
Lin Biao. The muslim army was quickly routed, and Xinjang returned under the firm
control of Beijing. The way was then opened for the Chinese army to enter Tibet, via the
eastern, warriors inhabited, Kham and Amdo regions. During the few months when Ma
Pufang army still hoped to stop Lin Biao, Leonard Clark, an American military envoy by
266
Ma Pufang, tried to ascertain whether it would have been possible to continue resistence
against the communists from the northern Tibetan territory. Clark made a recognition of
northern Quinghai, particularly of the Tsaidam Basin, rich of rivers and lakes, including
two lakes, Gyaring Hu and Ngorin Hu, formedby the Yellow River at about 100 km from
its multiple sources. This region was inhabited by a Tibetan tribe called the Ngolok (also
spelled as Gu-Lok, Go-Log, Mgo-Log), who still practiced the ancient Tibetan pre Buddhist
religion named Bon-Po, and who were excellent horsemen and fighters.
The territory of the Ngolok included a great mountain range sacred to them and closed to
foreigners. The range is over 300 km long and, except for the northern part, is surrounded
by the Yellow River that defines its border for over 800 km. The name of the mountain is
so given in the following atlases:
-
ANYE MAQEN SHAN, in the Atlas of People's Republic of China (APRC) and in the
1992 National Geographic Atlas (Maquen is pronounced as Machen)
AMNE MACHIN Range and ANI MACHING Shan, in the quoted 1974 Times Atlas
-
AMNIE MACHIN, in the Grande Atlante Geografico, M. Beretta and L. Visintin
editors, Istituto Geografico De Agostini, 1927
-
AMNIA MACHER, in the book Dach der Erde, Berlin, 1938, quoted by Messner
(1999). In Richardson (1998) the mountain is spelled as A-MYES RMA-CHEN and the
local name of the Yellow River is spelled as RMACHU.
The Yellow rivers, which braces most of the range, has also a special local name, written as
follows:
-
MACHU, in The Times Atlas, 1895 (no local name is given in the 1974 edition)
-
MAQU (read as above), in the APRC Atlas.
Now we can linguistically accept the equivalence between MAQU=MACHU with the
Gilgamesh epic word MASHU, especially since these wordings do not completely
characterize the exact local prononciations, which moreover certainly has local variations
and changes in time. The term ANI, ANYE (ANY-E ?, E turkish-like dative suffix?) is
intriguingly suggestive of the Sumerian name of the god ANU, the head of the Sumerian
pantheon. Changes from I to U are linguistically well documented, e.g. in the well known
iotization undergone by modern versus classical Greek and in some transitions from Arabic
to Farsi in personal names (e.g. ADHUB becomes ADHIB, HAMUD becomes HAMID..).
Hence on linguistical grounds the sacred mountain of the Ngolok can be equated with the
sacred Sumerian Mashu, a relation reinforced by the additional reference to ANI=ANU.
Thus we may conclude that the sacred mountain of the Ngolok fits the basic requirents for
an identification of Mashu (a sacred place; a place in the east; a place named Mashu) and
we propose, using also Temple's claim, the following translation of the name/names of the
sacred mountain:
ANYE MAQUEN = ANU MASHU
267
= the place of god Anu, where the Sun rises .
We might even infer the identification ANU MASHU = NIMUSH, Nimush being the name
of the mountain where Ziusudra (alter ego of Utanapishtim in the older versions of the epic)
landed his boat, thus confirming the assertion that we made elsewhere (Spedicato, 1991)
that Noah and Ziusudra are distinct survivors of the Flood, by them experienced in quite far
away lands, Noah in eastern Anatolia, Ziusudra in the heart of Asia. That many boats were
built to survive the Flood and that more than one of them survived the event is stated in
Talmud and in Midrashim, and additionally in the Koran.
Having thus identified the final destination of Gilgamesh second trip, let us make an
educated guess on his route from the Zungarian Gates.
-
In a general east-east-south direction, for about 3000 km, pointing to the "great sea" in
the Hittite text translation by Friedrich, that we can now identify with a real great sea,
namely the Pacific Ocean.
-
Skirting the northern side of the Tien Shan for about 500 km. This part of Zungaria has
several oasis and rivers and at Gilgamesh time was probably even more rich in water
than now. Notice that the name Zungaria comes from the Mongolian JA'UN-GHAR and
corresponds to the Chinese PE-LU, which is Northern Road.
-
Crossing into the Turfan depression by way of an easy pass where the city of Urumchi
is now located. The Chinese name of Urumchi is TIWA or TI-HOUAS (see Atlas
Classique de Géeographie, Monin, Paris, 1839-1840). Allowing by metathesis the
change TI in IT and noting that W = HOUA is a liquid vowel, essentially a consonant,
we can claim the virtual identity of TIWA with ITLA, thereby retrieving the
information in the Hittite text according to Friedrich. Notice moreover that the present
name Urumchi may be considered equivalent via the allowed transition fron R to L to
ULUMCHI, ULUM being intriguingly similar to the name of the god ULLU to which
the place was sacred, according to the Hittite text, CHI meaning in mongolian "place"
(place of good grazing is presently considered to be the meaning of the word Urumchi).
-
Reaching Dunhuang, about 1000 km to the south-east, by way of the great oasis of
Hami and Anxi. Notice that Dunhuang is an historically very important town, famed for
the One Thousand Buddhas, but more importantly for the invaluable cache of some
60.000 scrolls by chance found hidden behind a wall in a monastery around 1920, many
of them about 1500 years old, among them the first documents found written in
Tocarian, a previously unknown new indoeuropean language.
-
From Dunhuang there are several routes into the Tsaidam Basin and then to Anye
Maqen, a distance of about 1000 km. It is a region of elevation between 2000 and 3000
meters, rich of marshes, lakes, rivers, game and minerals. Lakes should be noted (or so
were at the time Clark saw them) for the incredible transparency of their waters,
allowing to see their bottom at great depths, and for the beauty of big richly coloured
fish, never disturbed or eaten by the local population. This region, as is true for most of
Tibet, is also full of aromatic medicinal plants The area is also rich in rare minerals,
268
including uranium ore. Perhaps these special features may explain certain "esoteric"
details characterizing the region where Gilgamesh met Utanapishtim.
From Anye Maqen the return to Uruk can be accomplished over water. First by following
the Yellow River, which is a rather peaceful river, without the dangerous gorges and
currents found for instance in the Yang Tze-Kiang. Then by coasting China, Indochina,
India and Makran to Uruk via a short stretch of the Euphrates. Certainly a rather long trip,
some 15.000 km, but without any real great difficulties, the main danger after Gilgamesh
time for this trip coming from piratery, a profession certainly not yet developed at his times.
Acknowledgements
This paper (parts I and II) would never have been written without the following
contributions:
-
the corpus of all Gilgamesh texts provided by Pettinato
-
the Hittite text version of Friedrich in Sitchin (our itineraries differ from those proposed
by Sitchin)
-
the relation of LBN with "milk, dairy products" and the rendering of PRT as PAROT is
due to dr. Lia Mangolini, as PERATH is due to Antonio Agriesti
-
the information on the Hunza valley has come by Agriesti, who, having studied many
languages, helped much in the analysis of etymology of some words
-
the information on Anye Maqen came via my aunt Amelia Risso and my late uncle
Umberto Risso's unquenchable thirst for books, among which I found the book by Clark
-
the information on the solfatara near Urumchi comes from Mariuccia Risso's inspection
of the Marmocchi's four volumes, bought years ago by my uncle Umberto Risso.
References
D. Fasold, The ark of Noah, Wynwood Press, New York, 1988
J. Friedrich, "Die hethitischen Bruchstueckes des Gilgamesh-Epos", Zeitschrift fuer
Assyriologie, 49, 1930
L. Grégoire, Géographie Générale, Garnier, 1876
S. Hedin, Il lago errante, Einaudi, 1943-XXI
O. Lattimore, The desert road to Turkestan, Little, Brown and Company, 1929
(also by Kodansha International, 1995)
F. McLean, Eastern approaches, Jonathan Cape, London, 1949
269
F.C. Marmocchi, Geografia Universale, SEI, Torino, 1856
G. Pettinato, La saga di Gilgamesh, Rusconi, 1992
L. Pagani (editor), Cosmographie, Tables de la Géographie de Ptolémé, Bookking
International, 1990
W. Ryan and W. Pitman, Noah's Flood. The new scientific discoveries on the event that
changed history, Simon and Schuster, New York, 1998
Z. Sitchin, The stairway to heaven, Bear and Company, Santa Fe, 1980
E. Spedicato, Apollo objects and Atlantis, a catastrophical scenario for the end of the last
glaciation, NEARA Journal 26, 1-14, 1991
E. Spedicato, "Who were the Hyksos?", C\&C Review 1, 55, 1997
G. Tucci, La via dello Swat, Newton Compton. 1978
Appendix: on the meaning of KA
It is now believed by many language specialists, in the aftermath of the seminal work done
by professor Joseph Greenberg of Stanford University, that all human languages descend
from a single original language, paralleling the recent discovery, by sophisticated genetic
analysis (of mithocondrial DNA and of the Y gene), that all present humans descend from a
single woman and a single father, who lived an estimated circa 200.000 years ago. The
work of Greenberg has led to group the existing and the known extinct languages in
different levels of families and superfamilies, one of which,called the Afroasiatic family,
includes hamitic, sitic, indoeuropeans, turkish and other previously defined families.
Here we claim that the syllable KA should be related to an afroasiatic word vowel - K vowel with the general meaning of people, clan on the basis of the following arguments:
-
the great anthropologist Luca Cavalli Sforza, of Stanford University, spent many years
researching a tribe of Pygmies living in Cameron; as many other "primitive" people,
these Pygmies called themselves AKA, a word meaning simply "people"
-
there are four main tribes in Ghana who speak a common language, whose name,
AKAN, means "of the people"
-
a very interesting "primitive" tribe of hunters lived on a sacred mountain at the border
of Uganda, Sudan and Kenya. It was led to extinction when the British prohibited their
ancestral way of life based on hunting. They called themselves IK, presumibly meaning
"people", albeit the meaning of this name is not given in Turnbull (1972), the
anthropologist who studied them. This tribe had anthropometric features unrelated to
those of the surrounding Bantu tribes and a language apparently close to that of ancient
Egyptians
270
-
the work IK means "clan" in several dialects of the Berbers and in Guanche
-
the Khazars had two leaders, one, the Bek, involved in administrative matters, another,
the Kagan, involved in religious matters. Now the acceptable equivalences KA-GAN =
KA-HAN (a Hebrew name) = CO-HEN (a high priest in Levi's tribe)= KA-HN (the
king of Mongols) = CAC- ANUS (the latin name used by Paulus Diaconus with
reference to the chiefs of the Avars, by him related to the Huns) seem all to have the
same original meaning, that we interpret as AN = divine light, KA = of the people, in
perfect correspondence with the actual role associated with these names
-
perhaps the original meaning of the term Inca is IN-CA=AN-CA,= divine light of
people
-
the Afghani are divided into differently named tribes, but share, or at least shared till
about half of 19th century, the common name Aklai = AK-LAI, where the exact
meaning of LAI is not clear to me (perhaps by metathesis it is related to AK-EL, i.e.
"divine people", "people of the gods"); in a future paper we will argue that the land
where Sargon II relocated most of the 10 tribes deported from Samaria was
Afghanistan/Kashmir, hence explaining the proposed origin of the word Aklai and the
presence of many clearly hebraic words in local topography and in the Pashtun
language
-
one of the tribes living in Swat (a mountain province of Pakistan, whose name derives
from sanscrit Suvasto, country of the beautiful buildings) is called locally Assaka, the
Assakenoi of the Greeks, see Tucci (1978). Now ASSA (prascrit) = ASVA (sanscrit) =
ASPA (old Persian), means "horse", implying, with our interpretation of the word KA,
the expressive meaning people of the horses. It is known that the Chinese called the
invading Mongols of Gengis Khan the People of the Horses. In Spedicato (1997) it has
been argued that the real meaning of the word Hyksos, the fierce warriors that invaded
Egypt at the end of the 13th dynasty, is also People of the horses, from HYK = AK and
SOS = SUS (hebrew) = HORSE. In the framework of this interpretation we can also
propose that the Saka people who invaded Sistan were the same as the Assaka, and even
that such a meaning is behind the name Kazakh (an eastern Kazakh tribe is still named
Sachs).
----[The first part of this paper has been published in Episteme, N. 1, June, 2000]
271
RECENSIONI
272
Giordano Bruno e il mistero dell'ambasciata
Filosofi e spie, eretici e principi, intrighi e congiure
nella Londra di Elisabetta I
(John Bossy)
(Garzanti, 1992)
"La difficoltà è quella, ch'è ordinata a far star a dietro gli poltroni. Le cose
ordinarie e facili son per il volgo ed ordinaria gente; gli uomini rari, eroichi
e divini passano per questo camino de la difficoltà, a fine che sii costretta la
necessità a concedergli la palma de la immortalità. Giungesi a questo che,
quantunque non sia possibile arrivar al termine di guadagnar il palio,
correte pure e fate il vostro sforzo in una cosa de sì fatta importanza, e
resistete sin a l'ultimo spirto. Non sol chi vence vien lodato, ma anco chi
non muore da codardo e poltrone: questo rigetta la colpa de la sua perdita e
morte in dosso de la sorte, e mostra al mondo che non per suo difetto, ma
per torto di fortuna è gionto a termine tale. Non solo è degno d'onore
quell'uno c'ha meritato il palio, ma ancor quello e quell'altro c'ha sì ben
corso, ch'è giudicato anco degno e sufficiente de l'aver meritato, benché
non l'abbia vinto. E son vituperosi quelli, ch'al mezzo de la carriera,
desperati si fermano, e non vanno, ancor che ultimi, a toccar il termine con
quella lena e vigor che gli è possibile. Venca dunque la perseveranza,
perché, se la fatica è tanta, il premio non sarà mediocre. Tutte le cose
preziose son poste nel difficile. Stretta e spinosa è la via de la beatitudine"
(Giordano Bruno, La cena delle ceneri, Dialogo II).
Soltanto un anno fa ricorreva il IV centenario del rogo di Giordano Bruno a Campo dei
Fiori, e nell'occasione fiumi di inchiostro sono stati versati sulla figura del Nolano, per lo
più1 trasfigurata in quella di eroe e martire della "modernità" e del "progresso", il cui
avvento fu fino all'ultimo momento combattuto dalle forze della superstizione e
dell'ignoranza. Conformemente a una diffusa versione ingenua dell'accaduto, Bruno
sarebbe stato processato e condannato per aver appunto sostenuto, del tutto
"innocentemente", talune opinioni banalmente vere, che sono oggi proprie di ogni bambino
delle elementari: il fatto che la Terra gira intorno al Sole, l'infinità dell'universo, la
molteplicità dei " soli" e dei mondi, etc.. Un buon cattolico, o meglio un "buon cristiano",
insomma - Bruno fu anche sacerdote - che ebbe l'unico torto di voler anticipare il
riconoscimento di qualche "verità" inconfutabile secondo il metro della "ragione",
diventando così, come più tardi Galileo, un eretico per l'ottusa ortodossia del momento, la
quale reagì con la consueta inesorabile ferocia.
Fedele al suo assunto costante di presentare ai lettori informazioni controcorrente, ma
attendibili, capaci quindi di innescare un processo di revisione dell'opinione comune,
Episteme propone adesso un'altra opera singolare, che mette in una luce completamente
diversa la personalità, e le intenzioni, del celebre domenicano (palesemente "apostata"),
dando senso, e coerenza, all'opposizione della Chiesa nei suoi confronti, e al fatale esito che
ne fu conseguenza.
273
L'autore del libro in oggetto, prezioso in ogni caso per chi voglia avere una concezione
realistica dei tempi, e dei conflitti ideologico-politici che li travagliarono, non è però
stavolta uno di quei ricercatori indipendenti, non integrati, ai quali siamo tanto affezionati.
Bossy (1933) ha studiato a Cambridge e a Belfast, è stato professore di storia all'Università
di York, uno specialista dell'età della Controriforma. Che cos'ha da dirci di originale, questo
accademico, sulla vicenda terrena di Giordano Bruno?
Introduciamo qualche "punto fisso" come riferimento. Tutto comincia quando gli Inglesi
si liberano dalla "tutela" della Chiesa di Roma con l'Atto di Supremazia (1534), prendendo
a pretesto2 la famosa questione del divorzio di Enrico VIII dalla spagnola Caterina
d'Aragona in favore di Anna Bolena. Soltanto pochi anni prima (1517), il monaco
agostiniano Martin Lutero aveva affisso le sue famose 85 Tesi al portale della chiesa di
Wittemberg. La Chiesa di Roma si trova a dover fronteggiare la più violenta crisi, teologica
e politica insieme, contro la sua supremazia da Costantino in poi. E' in questo clima che
nasce a Nola (1548), nei pressi di Napoli, Filippo Bruno, che giovanissimo (1565) veste
nella città partenopea il saio domenicano assumendo il nome di fra' Giordano. La smania di
emancipazione dai successori di Pietro dilaga per l'intera Europa, e Paolo III cerca di
arginare l'emergenza aprendo i lavori del Concilio di Trento (1545, lo stesso anno della
morte di Lutero). Intanto in Inghilterra la situazione precipita: nel 1558 sale al trono
Elisabetta I, figlia di Enrico VIII e di Anna Bolena, la quale emana immediatamente (1559)
l'Atto di Uniformità, con cui si proibisce ogni forma di culto che non sia quello anglicano 3.
Comincia un grave periodo di tensione tra cattolici perseguitati ("papisti") e potere centrale
(l'articolo di Stevan Dedijer pubblicato sul secondo numero di Episteme - "The Rainbow
Scheme - British Secret Service and Pax Britannica" - ne offre una vivace drammatica
descrizione). Pio IV scomunica Elisabetta I (1570), definita "eretica e nemica della Chiesa
di Dio", ma gli atti di violenza, da una parte e dall'altra, non accennano a cessare. Si
susseguono le congiure per assassinare la regina, e le terribili conseguenti repressioni. Sullo
sfondo, l'aspra lotta per il trono (Elisabetta I fa decapitare Maria Stuart, 1587), e l'inizio
della sfida militare tra l'Inghilterra protestante e la Spagna cattolica (gli inglesi appoggiano
l'insurrezione antispagnola nei Paesi Bassi capeggiata da Guglielmo d'Orange-Nassau 4; il
1588 vede la distruzione della cosiddetta Invincibile Armata ad opera delle forze navali
britanniche). Fra tutto questo clamore di guerre, quali eventi segnano invece la modesta vita
del nostro povero ma turbolento monaco campano5?
Nel 1572 prende gli ordini sacerdotali, però è manifesto che i suoi talenti sono piuttosto
quelli dell'intelletto, e della polemica. Nel 1575 si laurea in teologia, e subito, accusato
d'eresia, è costretto a fuggire (1576). Trova riparo a Roma, ma anche nella città eterna
continua ad essere in mezzo ai guai: viene infatti implicato nell'omicidio di un religioso, e
deve scappare ancora una volta, dopo aver abbandonato l'abito talare. Soggiorna a Genova,
Venezia, Padova, Bergamo, dove torna a indossare la veste, salvo dismetterla di nuovo
quando si reca a Ginevra e si accosta al calvinismo (1578). Nel 1579 è a Tolosa, nel ruolo
di pubblico lettore di filosofia, e nel 1581 a Parigi. Dalla capitale francese si sposterà in
Inghilterra, al seguito dell'ambasciatore di Francia Michel de Castelnau, ed è proprio in
questo momento che l'attenzione di John Bossy si porta su di lui.
Siamo in pieno conflitto tra i "papisti" e i seguaci della regina, paranoicamente
ossessionati dal sospetto (peraltro fondato) che si cercasse in tutti i modi di ucciderla. Le
contromisure sono estese e spietate, e non meno atroci del rogo usato dai "romani" a scopo
di purificazione. Si veda per esempio, nel citato articolo di Dedijer, la sentenza con la quale
furono mandati a morte (1583), dopo essere stati torturati, Edmund Campion e altri gesuiti
suoi compagni. Dallo stesso articolo (nella sezione: "England's Ragione di Stato versus
Vatican's Ragione di Chiesa") citiamo: " According to the Encyclopedia Cattolica of 1953,
274
"by 1600 over 1000 young English priests were trained and sent to England" by Allen and
Persons to support the Catholic, and hence the Spanish cause against Elisabeth and her
government. The English government saw to it that the English colleges in Rome, Rheims,
and Douai were as Bacon would say "full of spies and false brethren." In England itself,
with the support of a considerable section of the population, these priests and their
"recusant" Catholic supporters were tracked, hunted, imprisoned by government "searchers"
in the ports, professional informers, agents and officials. According to the Encyclopedia
"During her [Elisabeth's] reign the number of Catholics who suffered [death] was 189, of
whom 128 were priests, 58 laymen, 3 women." The brutality and severity with which
Elisabeth's government dealt with these priests was extreme".
Bruno appare sulla scena di simili gesta tra il 1583 e il 1585, ed è esattamente in quegli
anni che il servizio di sicurezza di sua maestà, diretto da Francis Walsingham, trova un
valido occulto collaboratore in un certo Henry Fagot, nom de plume di una persona che
denuncia attraverso sue relazioni scritte6 i "congiurati" cattolici, e consente alle guardie
governative di arrestarli e metterli fuori gioco. L'azione di tale misterioso agente segreto,
emulo della migliore tradizione7 dei britannici 007, cessa improvvisamente proprio quando
Bruno lascia l'Inghilterra per rientrare a Parigi8, non senza aver prima permesso agli inglesi
di sgominare un'altra cospirazione - quella capeggiata da William Parry (morto sul patibolo
nel marzo 1585).
Saranno certamente bastate queste poche righe per far comprendere a chi ci ha seguito fin
qui il proposito del bel libro di cui stiamo parlando, alla ricerca della vera identità del
fantomatico Fagot, e delle sue motivazioni, che appaiono più ideali che non materiali. Un
lavoro che si legge d'un fiato, alla stregua di un giallo, tutto teso com'è alla risoluzione di
un reale enigma storico, che sarebbe forse rimasto per sempre avvolto nelle nebbie
dell'oblio, se non fosse stato per l'intelligente indagine postuma dello storico di York, che
conduce alla sorprendente conclusione della quale l'autore si dice infine totalmente
persuaso, e con lui sicuramente molti dei suoi lettori:
Febbraio del 1600, Fagot al rogo.
Sicuro, si tratta di una ricostruzione indiziaria - né può essere altrimenti - ovvero di una
"congettura", che Bossy descrive con le seguenti ammirevoli parole:
"Fino a questo momento abbiamo ripercorso i destini di due uomini, sia a Londra che a
Parigi, per circa tre anni. I due avevano molto in comune. Entrambi erano italiani, ed
entrambi erano sacerdoti cattolici. Entrambi vennero ad abitare da Castelnau a Londra verso
l'aprile 1583, e in seguito prestarono servizio nella casa. Entrambi erano molto ostili al
papato, alla Spagna e alle congiure cattoliche in Inghilterra. Entrambi incontrarono
personalmente la regina Elisabetta ed entrambi scrissero di lei, dichiarandole, in termini
esagerati, la loro devozione9. Entrambi lasciarono l'Inghilterra per Parigi insieme a
Castelnau nel settembre del 1585, ed entrambi smisero di stare al suo servizio poco dopo
essere arrivati a Parigi. Nel 1586 uno dei due partì da Parigi per l'ultima volta, e l'altro
scomparve. Sembrano possibili due spiegazioni di queste vite parallele. O si trattava di due
uomini molto vicini l'uno all'altro per origini, sentimenti, esperienze e movimenti, i quali
vissero nella stessa casa per due anni e mezzo; e in questo caso dovevano diventare molto
amici o darsi reciprocamente sui nervi. Oppure i due uomini erano in realtà lo stesso
uomo" (JB, p. 97 - enfasi del recensore).
275
Chi vorrà potrà sempre naturalmente dichiararsi non convinto della verità di questa tesi, e
richiedere prove maggiormente circostanziate, ma la messe di dati che Bossy mette a
disposizione degli studiosi disposti a recepirli è davvero ingente, in un lavoro che è
scrupoloso, appassionato, e corredato di tutta la documentazione opportuna (comprese
numerose riproduzioni fotografiche).
Non diciamo di più per non togliere il piacere di ammirare la rigorosa catena di deduzioni
a chi deciderà di scorrere un saggio storico che è al tempo stesso un romanzo, ma vogliamo
concludere offrendo qualche ampia citazione dal testo sui possibili moventi concettuali del
Bruno, allo scopo di far comprendere meglio, su "dati di fatto", quanto forte fosse
l'avversione che egli nutriva nei confronti dell'intero cristianesimo (ed errata quindi
l'interpretazione che lo rappresenta - al pari di Galileo, ma si tratta di un'altra faccenda, di
cui si dà un cenno altrove in questo medesimo numero di Episteme - come la solita "brava
persona" assolutamente ignara di intrighi, colpevole solamente di aver creduto e divulgato
delle banali verità naturali), e sulla sua multiforme e decisa personalità, anche spietata nella
misura che era forse necessaria per sopravvivere in tempi altrettanto spietati.
"L'unico movente di tutte le iniziative nelle quali abbiamo trovato coinvolto Bruno, era la
distruzione del papato e di tutte le sue opere. E' il filo conduttore di tutte le lettere e di tutte
le informazioni di Fagot [...] Il papato è il nemico universale, tiranno che opprime gli
uomini, le coscienze e i beni, mandante di assassini e di traditori, sedicente "signore del
mondo". I papisti e i "romani" sono i nemici, i libri filopapali sono propaganda nemica,
"l'église papalle" qualcosa di abominevole. Alla luce della sua spietata ossessione,
possiamo sospettare che quei contemporanei che pensavano che il papa fosse la "bestia
trionfante" di cui veniva profetizzata la rovina nello Spaccio della bestia trionfante, fossero
più vicini alla verità degli studiosi moderni che hanno pensato che il simbolo della bestia
indicasse qualcosa di diverso. Bruno scriveva nella sua ultima lettera a Stafford che il loro
compito era "di arrecare danni al nemico e di fiaccarlo con ogni mezzo possibile", e che, a
suo avviso, qualsiasi mezzo era giustificato" (JB, p. 177).
"Castelnau non fu l'unica persona che Bruno tradì. Il Nolano tradì tutti quelli ai danni dei
quali trasmise informazioni; in qualità di prete, tradì almeno una persona, che gli si
presentò; o tradì, o si offrì di tradire, almeno un altro sacerdote e il suo ospite, che, se
trovati colpevoli, sarebbero stati condannati entrambi per tradimento. Queste delazioni
erano le conseguenze del suo tradimento di Castelnau: una cosa portava all'altra. Il suo
tradimento di Enrico III non fu disonorevole quanto quello di Castelnau, perché non aveva
vissuto sotto lo stesso tetto con il re per due anni e mezzo e più. Ma, salvo che non
facciamo l'ipotesi, che sembra del tutto ingiustificata, che Enrico III lo avesse mandato a
Londra a fare proprio quello che fece, si trattò effettivamente di tradimento. Non si trattò
neanche di un semplice tradimento in ambito pubblico, perché il re, come Castelnau, era
suo amico ed era molto gentile con lui. Mi soffermerò tra poco sui loro rapporti: furono
onorevoli per Enrico III e disonorevoli per Bruno. Bruno non era un bugiardo nato, come
potrebbero supporre i lettori del suo processo: disse a Walsingham e a Stafford la verità,
come aveva promesso loro di fare, sebbene qualche volta dicesse un po' più della verità.
Sappiamo che mentiva sotto interrogatorio, e ora possiamo aggiungere una grossa bugia nel
suo interrogatorio più importante (quella del suo esercizio delle mansioni di sacerdote e dei
sacramenti), e un interrogatorio minore (quello di Chateauneuf), nel quale mentì
sistematicamente. Questo non è disonorevole per lui; può, tuttavia, rendere le cose più
difficili per gli storici. Penso che mentisse abbastanza spesso e con una certa naturalezza
276
[...] Nei casi nei quali ci siamo imbattuti, mentiva con uno scopo, e non ci possono essere
dubbi su quale fosse questo scopo" (JB, p. 176).
"Se vogliamo tentare di scoprire che concezione Bruno avesse della sua condizione di
sacerdote, ci troviamo ad affrontare un grosso problema, che non avevamo prima. A
Venezia egli disse ai suoi compagni di prigionia di essere un nemico della messa e di
considerare ridicola la transustanziazione e bestiali e blasfemi i riti cattolici. Paragonava
l'elevazione dell'ostia all'impiccagione di un uomo, o forse alla pratica di sollevarlo con un
forcone. Disse a qualcuno che aveva sognato di andare a messa che questo era un pessimo
auspicio; rappresentò una farsa di una messa usando l'Ars Amandi di Ovidio come messale.
Si prese gioco di preti affamati che uscivano dalla messa per andare a consumare una lauta
colazione. Disse tutto il male possibile della messa intesa come sacrificio, e affermò che
Abele, il modello del prete che sacrifica, era un macellaio criminale che venne giustamente
ucciso dal vegetariano Caino. Una frase, che usò altrove, apparentemente sulla passione di
Cristo e non esattamente sulla messa, sembra ugualmente esprimere con una certa
precisione il suo giudizio sul rito: lo definì "non so che tragedia caballistica". Disse anche
che il breviario era pieno di spazzatura, di favole e di pornografia, e che nessun uomo
dignitoso poteva recitarne le preghiere: chi le aveva scelte, chiunque fosse, era un "becco
fottuto", e Bruno certamente non le avrebbe recitate. Nell'insieme, le caratteristiche della
condizione sacerdotale cattolica sembrano bestiali e perverse, non diversamente da come ce
le si può aspettare da un clero governato dal papa. Ora, però, noi sappiamo che Bruno
trascorse diciotto mesi della sua maturità, e per essere precisi i momenti in cui stava
componendo le sue opere più famose, esercitando professionalmente questo ministero
farsesco e disonesto a Londra. Sappiamo che diceva messa per Castelnau, per i suoi
domestici, e per chiunque altro si presentava, ascoltava le loro confessioni e somministrava
loro la comunione pasquale; presumibilmente fu proprio lui a sfregare le ceneri sulle loro
fronti il mercoledì delle Ceneri e a battezzare la figlia di Castelnau [...] Faceva visita alle
prigioni e - suppongo - distribuiva l'elemosina di Castelnau ai cattolici indigenti. Sembrava
che leggesse il breviario, per lo meno prima di addormentarsi. Quando affermava di non
avere nessun compito a Salisbury Court, salvo fare da "gentiluomo" di Castelnau, non
diceva la verità; o piuttosto faceva sua la formula che Castelnau aveva inventato per
presentarlo sistematicamente in pubblico [...] Si possono fare ipotesi su come Bruno può
aver vissuto la sua condizione: che la ritenesse una routine nauseante, o uno scherzo, o un
eccellente vantaggio per esercitare la sua professione di spia" (JB, p. 206-207 - enfasi
del recensore).
"Quello che Bruno aveva quasi sempre detto era che agli uomini si deve far subire quello
che loro stessi hanno fatto agli altri; e lo credeva. Questa sua convinzione rende conto della
sua avversione alla dottrina della remissione dei peccati per fede e della sua ossessione per
quella della trasmigrazione delle anime [...] Bruno riscrisse il discorso sulla montagna per
poter affermare che se qualcuno ti ha dato uno schiaffo su una guancia, tu glielo devi
restituire. Non poteva però credere che la regola dovesse essere applicata a lui stesso [...]
Ma la regola si è vendicata di lui; possiamo dunque affermare, dopo aver ribadito tutta la
nostra comprensione, che ben gli è stata la sua sorte" (JB, pp. 218-219 - enfasi del
recensore).
1 - A parte quelle provenienti dalle associazioni laiche, ispirate al "libero pensiero", etc., non sono
mancate naturalmente neppure interpretazioni alternative, dall'altra sponda. Ricordiamo per
277
esempio l'intervista, a cura di Cosimo Baldaro e Cosimo Galasso, al Prof. Stanley L. Jaki O.S.B.
(cosmologo e storico della scienza, insignito nel 1970 del premio Lecomte du Nouy e nel 1987 del
premio Templeton per la Religione), sul tema: Giordano Bruno "martire della scienza"? (in
http://www.alleanzacattolica.org/indici/dichiarazioni/jakis299.htm).
2 - Come non considerare questa una ben misera motivazione per un evento così importante?
Citiamo soltanto il suggestivo eloquente titolo di un articolo pubblicato su Il Sabato (Antonio Socci,
5 Dicembre 1992): "Il terzo incomodo - Il sacerdozio femminile riapre il contenzioso tra Chiesa
cattolica e anglicana. Che ha avuto un intruso interessato per quattro secoli: la massoneria. Ecco un
po' di storia" (si noti l'intenzionale "anacronismo": nel 1534 la massoneria "ufficialmente" non
esisteva ancora!).
3 - E' invece del 1563 il rinnovo da parte di Elisabetta dell'Atto di Supremazia, che rafforza la
subordinazione della Chiesa d'Inghilterra alla Corona.
4 - Un Guglielmo d'Orange diventerà addirittura re d'Inghilterra (e d'Olanda) un secolo più tardi, nel
1689.
5 - In quanto segue ci gioviamo della snella opera di Gabriele La Porta dedicata a Giordano Bruno vita e avventure di un pericoloso maestro del pensiero (Newton Compton 1988; Bompiani, 1991).
6 - Ecco come esempio due delle comunicazioni di Fagot (JB, pp. 254-255 - con questa sigla si
rimanderà alla prima edizione italiana del libro in esame): "Monseigneur, con questa lettera intendo
trasmetterVi l'informazione sicura che il Signor, l'Economo [della Casa Reale] ha un servitore di
nome Monsieur Morris, che risponde agli ordini dell'ambasciatore. Morris riferisce a Castelnau le
notizie di corte, di cui viene a conoscenza dal suo padrone. L'ambasciatore lo paga per le sue
soffiate e per tutte le novità di corte, che Morris gli riferisce. L'ambasciatore è molto contento di
Morris e lo definisce suo compagno e suo buon amico. Questo Morris è un papista convinto ed è
amico di Monsieur Tindalle, e Vi assicuro che, se verrà interrogato, rivelerà molte cose. Tenetelo
molto sotto controllo. Vi consiglio di fare attenzione a Monsieur Douglas perché viene pagato
dall'ambasciatore. Henry Fagot"; "C'è un uomo rinchiuso nella prigione Fleet, che è un papista
convinto. Questi mi ha detto che ringraziava Dio, perché Monsieur Throckmorton [giustiziato nel
novembre 1583] non aveva detto la verità di quello che sapeva. Se lo avesse fatto, tutti i papisti si
sarebbero trovati nei guai. Il suo nome è M. Huton; è un gentiluomo irlandese. Laurent Feron ha
ricevuto denaro dall'ambasciatore. L'ambasciatore intende recarsi in Scozia; ma tenetelo d'occhio e
tentate d'impedirglielo. Ho in serbo notizie segrete che vi svelerò più tardi. E' tutto vero, in fede".
7 - Sulle qualità di Bruno come spia, Bossy si esprime nel seguente modo (JB, p. 171): "Per essere
schietti, Bruno fu un agente molto brillante. Come spia, era molto professionale e di grande
successo. Era attento, paziente e prudente. Si valeva dei suoi talenti sociali, che erano effettivamente
notevoli, per ottenere risultati eccellenti. Non permetteva, in generale, che i suoi sentimenti
interferissero con il lavoro. Anche se ha, o forse si coltivò una reputazione di gran parlatore e di
vanaglorioso, non parlò mai delle sue imprese nello spionaggio, né se ne vantò, né allora né più
tardi. Nessuno lo scoprì. [...] Dopo essere tornato a Parigi, Bruno corse dei rischi, forse a causa delle
pressioni di Chateauneuf, forse perché gli mancava la guida di Walsingham; ebbe, però, la capacità
di capire dove fermarsi, di defilarsi e di andarsene in Germania. Siccome era una spia di eccellente
valore, nessuno fino ad ora ha avuto gli elementi per poter commentare la sua prestazione;
solamente in retrospettiva, si capisce che proprio Bruno in persona espresse la sua opinione in
merito, in due brani delle sue opere pubblicate, e lo fece con legittimo compiacimento. Il primo è il
brano sulla dissimulazione dello Spaccio: è la chiave di lettura della nostra storia [...] Il secondo è
all'inizio del terzo dialogo della Cena, è quindi precedente, e fu composto quando i successi in
clandestinità erano ancora molto recenti. [...] si discute se Bruno conosca l'inglese. Teofilo dice che
non lo conosce, perché non è degno di un uomo di scuola. In risposta Frulla, il servitore che ha la
278
funzione di intervenire facendo affermazioni inopportune e improntate da saggezza popolaresca dice
di essere certo che Bruno in realtà capisce l'inglese, ma che asserisce di non intenderlo alfine di
ascoltare che cosa stanno dicendo gli altri, quando pensano che non li capisca. Non sarei molto
sorpreso se questa fosse la semplice verità".
8 - L'ultima delle lettere di Fagot proviene da Parigi, nel 1586, dove il fantomatico personaggio
svolse certamente attività spionistica (JB, p. 121), ancora una volta proprio mentre nello stesso
luogo si trovava il Bruno. "Se Fagot scrisse altre lettere in seguito, non ne è rimasta traccia" (JB, p.
87).
9 - Nota del recensore. Di questa devozione resta un ben preciso documento, una lettera indirizzata
da Bruno alla regina, intestata: "En la serenissime Royne d'Angleterre, France et Yrlande salut,
bonne, longue et heureuse vie. Amen". Leggiamo il commento che ne fa Bossy: "La lettera termina
solennemente in latino: "Deus adjuvat te et maneat tecum omnibus diebus vite tue. Amen". [...] Ne
deduco che, a parte la forte impressione personale che Elisabetta fece su di lui, Bruno si era fatto
un'idea abbastanza chiara della regina e della propria relazione con lei. Era, per così dire,
giustificato a dire agli inquisitori che non pensava che Elisabetta fosse divina; ma era convinto che
fosse sacra. Non era sacra semplicemente perché era una regina [...] Era sacra in parte per il fatto di
essere regina e per la sua personificazione delle virtù e delle caratteristiche che lui ammirava: ma lo
era specialmente per la posizione che occupava, dove l'inviolabilità della sua persona e del suo
governo simboleggiavano la presente sopravvivenza e la futura vittoria delle forze della luce e della
verità su quelle dell'oscurità e dell'errore rappresentate dal papa, dal papato e dai papisti. La sua
persona e il suo governo erano perciò oggetti della vera religione, e parlarne o agire contro era sia
sacrilego, sia blasfemo. Il dovere di un vero religioso era proteggerla, difenderla e ostacolare i suoi
nemici; il dovere di un vero sacerdote era di pregare e di sacrificare per lei, e di portare tutti i giorni
della sua vita l'aiuto e la benedizione di tutti gli dèi. Sappiamo che Bruno pregava per lei e la
benediceva; non sappiamo se sacrificasse per lei, ma non mi sorprenderei molto che lo facesse" (JB,
pp. 205-206).
(UB)
279
Cristo, una vicenda storica da riscoprire
David Donnini
(Roberto Massari Ed., Bolsena, 1994)
(http://diaframma64.supereva.it/files/donnini.htm?p
http://www.nostraterra.it)
" [...] gli storici devono essere esatti, veritieri e spassionati; né l'interesse o
il timore, il rancore o la simpatia devon farli deviare dal cammino della
verità, di cui è madre la storia, che ben può essere detta emula del tempo,
archivio dei fatti, testimonianza del passato, esempio e ammonizione del
presente, insegnamento dell'avvenire" (Miguel de Cervantes, L'ingegnoso
gentiluomo Don Chisciotte della Mancia, Parte I, Cap. IX)
La recensione dell'opera di Flavio Barbiero La Bibbia senza segreti, apparsa sul secondo
numero di Episteme, è stata accolta, com'era prevedibile, in modi assai contrastanti, talvolta
addirittura "scandalizzati". E' parso allora opportuno, allo scopo di favorire ulteriormente il
dibattito generale concernente l'origine storica delle "religioni rivelate", ebraismo,
cristianesimo, islamismo (ovvero, le tre varianti di maggiore successo della religione
monoteistica "di Abramo", o meglio sarebbe dire "di Mosè"), presentare ai lettori le
ricerche di un altro studioso "indipendente", David Donnini, il cui sito è ben noto agli
appassionati di tali argomenti. Un'estesa "recensione" 1 che comprenderà diversi commenti
al lavoro di questo autore, e anche due suoi brevi saggi sullo stesso tipo di questioni (dopo
aver inizialmente rivolto la propria attenzione alla nascita e sviluppo del cristianesimo,
Donnini è passato in modo naturale a investigare l'Antico Testamento, cioè l'ebraismo, che
è la radice al principio di tutto), sicché si sarebbe potuto decidere che non c'era bisogno di
aggiungere parole. Ci siamo sentiti però in dovere di far precedere il detto materiale da una
sorta di "introduzione", dal momento che la discussione rimanda idealmente a taluni temi
affrontati in sede di "presentazione".
Non si può fingere infatti che quella qui trattata sia materia qualsiasi, dati i quasi 2000
anni di presenza - pure morale e politica - del cristianesimo nella storia dell'Occidente, e
che esso tuttora assolve dottrinalmente una rilevante funzione di κατεχων (katéchon, "colui
che trattiene", II Tess. 2,7) di fronte alle spinte dissolutrici della civiltà tradizionale 2
europea che provengono dai progetti mondial-liberisti, dall'ideologia riduzionista della
globalizzazione totale (che appiattisce l'esperienza umana sul piano esclusivo
dell'economia). Più importante di ogni altro aspetto ci è sembrato però, come sempre,
stabilire, o ricercare, fin dove è possibile, la pura e semplice verità, nonostante il grave
"prezzo sociale" che un'eventuale "verità scomoda" potrebbe esigere in pagamento 3. Lo
stesso Donnini non è inconsapevole delle prevedibili "ricadute" indirette di studi quali i
suoi, e a tale argomento dedica in effetti ampio spazio in sede di "Premessa" e di
"Conclusioni" del suo lavoro, sicché ci è parso opportuno riproporre entrambe qui di
seguito integralmente. L'autore sembra dare libero corso, senza impedimenti di alcun
genere, alla sua brama di verità (e non di gratuita distruttività), ma oscilla anche tra i due
corni di una delle inevitabili "antinomie" in cui ci si imbatte in siffatti frangenti, allorché si
280
rende ben conto che in mancanza di "pietose bugie" appare impossibile edificare una
qualsivoglia struttura sociale4, o almeno che tale sforzo è stato vano fino al presente stadio
di evoluzione dell'umanità. In ogni caso, certe storiche influenti "bugie" del passato non
possono non essere ritenute ormai giunte al grado estremo della loro "funzionalità", e
Donnini chiude (come si vedrà) il suo appassionato intervento con le parole: "Abbiamo
bisogno di bugie più nuove. Speriamo che qualcuno le inventi presto".
Un compito invero gigantesco, e parzialmente antinomico: da una parte, l'esigenza di
ridimensionare un "mito", introdurre ragionevolezza, credibilità, nella storia; dall'altra, di
escogitare qualche "favola" inedita. Chi scrive queste righe non saprebbe neppure da dove
cominciare ad affrontare una simile impresa, ma ripete che spera si verifichi l'affermazione
di una forma nuova (razionale) di spiritualità, sganciata da ogni tipo di menzogna
(benevola o no che pretenda di essere, alla resa dei conti è la stessa cosa 5), che alcuni dei
fondatori di Episteme hanno creduto per esempio di poter individuare in un pensiero ancora
attuale (si potrebbe dire addirittura inesplorato) come quello di Cartesio…
Torneremo, dobbiamo tornare, a discutere siffatti problemi, sia perché sono ben lungi
dall'essere definitivamente risolti6, sia perché rivestono senza dubbio un'importanza capitale
per la comprensione del percorso da cui la nostra civiltà proviene, e quindi delle strategie da
mettere in atto per rispondere alle sfide che il futuro ci prospetta con evidenza e insistenza
crescenti, costringendo a una sgradevole scissione mentale tra il legittimo desiderio di
difendere e mantenere un'identità - e ammettiamo pure il "benessere" proprio di una civiltà
avanzata - e la necessità di eliminare, o attenuare, il potenziale latente di conflittualità che a
tale proposito si associa ineludibilmente (a quanto pare). Nel prossimo numero ospiteremo
un nuovo straordinario articolo di Flavio Barbiero collegato alle tematiche in oggetto,
sperando di non fare, di non aver fatto, il "gioco" di nessuno, contribuendo
involontariamente a favorire posizioni e intenzioni difficilmente condivisibili, una volta che
le si sia comprese a fondo7. Ciò purtroppo non è sempre facile: troppo spesso si rischia di
essere "diminuiti non solo a strumento, ma a strumento inconscio di formazione di una
realtà completamente diversa da quella per la quale si è combattuto" (ancora dal libro di
Maria Caredio citato nella Nota N. 3) - e il "brutto" è che la descritta trasposizione potrebbe
non avere un'origine casuale, involontaria, bensì essere conseguenza di una manipolazione,
di una pre-visione, da parte di gruppi di accorti "registi" (prossimamente pure una
discussione sulle ipotesi storiografiche di Maurizio Blondet, e i suoi strateghi della
"dissoluzione").
1 - In effetti, una recensione piuttosto anomala, e dalla struttura complessa, come il lettore si
renderà subito conto, ma che paradossalmente, tra le diverse "mani" a cui è stata affidata, rischia di
omettere anche solo un cenno ai punti più rilevanti delle originali argomentazioni di Donnini, quelli
riguardanti per esempio la possibile esistenza di due Messia, ovvero due distinte persone, e non una
soltanto, che la storia avrebbe successivamente fuso in una; l'inesistenza di una città di nome
Nazareth; la vera famiglia di Gesù; etc.!
2 - Si fa notare, a chi è attento a certi "dettagli", che l'iniziale della parola è decisamente minuscola,
come dire che non si vuol fare alcun riferimento a "leggende" su un presunto "sapere" sacro
primordiale, che risale alla notte dei tempi, e sarebbe (ancora oggi) trasmesso per via iniziatica,
secolo dopo secolo, attraverso diverse "fasi" della storia dell'umanità.
3 - Un "pagamento" c'è comunque stato, c'è sempre, non lo si può evitare, dal momento che: "La
fede ... distolse la mente dalla realtà, modificò e cancellò la Storia, sconfessò le testimonianze che
non collimavano, abituò i seguaci ad appagarsi di formule e di immagini, a non indagare, a non
281
dubitare e a non fidarsi delle proprie esperienze e riflessione ... Il criterio di verità diviene, allora,
non il dato o l'esperienza, ma la retta trasmissione da parte del vescovo. La verità non è più un
valore ultimo, sussistente di per sé, coincidente con il dato, il reale, l'accaduto, da non traviare
perché è Dio che bisogna ritrovare dietro la storia e l'evento, è Dio che ha imposto di non
testimoniare il falso. Essa diviene una manifestazione, un'emanazione dell'autorità che, per ciò
stesso, usurpa un attributo divino ... la nuova storiografia cristiana minimizzava e annullava la
gravità dei delitti, come se, cambiando ideologia fosse cancellato il male fatto precedentemente e le
distruzioni di interi popoli [da parte dei Romani] non fossero mai avvenute" (dal bel libro di Maria
Caredio Il Messia e il potere, Ed. Kineret, 1995, che pure si può trovare nel sito di Donnini). Per
rimanere in tema, secondo lo stesso Donnini: "Purtroppo sono molti coloro che credono di far bene
ad anteporre il credere al capire, orgogliosi come se fosse un merito l'aver subordinato
l'intelligenza ad alcuni presupposti ideologico-dottrinari. Sono coinvolte in questo fatto molte
delicate questioni relative al senso della propria identità, per rinforzare il quale siamo disposti,
troppo spesso, a sacrificare una parte di ragione" (in "Il cristianesimo (anno 2001) - Indagine critica
dal mito alla storia - Fede, storia, ragione, scienza e futuro", ancora nel sito citato - enfasi del
recensore).
4 - Del resto già in Platone si trova chiaramente enunciata la necessità di "nobili menzogne" (quali
quella dell'essere i cittadini "tutti fratelli") al fine della costituzione di uno stato: La Repubblica,
Libro III, XXI. E' forse curioso ricordare che Federico di Prussia (dietro suggerimento
dell'illuminista D'Alembert) invitò nel 1777 il meglio dell'intelligenza europea a discutere la stessa
questione ("E' utile ingannare il popolo?"). Il premio che era stato messo in palio per la migliore
soluzione del dilemma fu aggiudicato a pari merito a due matematici (Frédéric de Castillon e il più
noto Condorcet), i quali dettero però risposte del tutto antitetiche alla domanda (Bisogna ingannare
il popolo?, Ed. De Donato, Bari, 1968).
5 - Non esiste in effetti un grosso rischio ad ancorare certi valori morali, in larga misura
presumibilmente naturali, a concezioni metafisico-soprannaturali, suscettibili di essere quindi
frantumate, quando poggiano su una base storica confutabile? Si accenna qui evidentemente al
problema della resurrezione, intesa quale evento storico su cui si basa la fede cristiana, e non
viceversa, come oggi invece da più parti si pretenderebbe, con un salto teologico invero "mortale"
(in ordine a ricercatori indipendenti interessanti, e a un testo che al contrario, secondo il punto di
vista di un "credente", prende alla lettera il racconto evangelico - con coerenza comunque
ammirevole, a nostro parere - citiamo: Don Antonio Persili, parroco di S. Giorgio, Tivoli, Roma,
Sulle tracce del Cristo risorto - Con Pietro e Giovanni testimoni oculari, pubblicato in proprio,
C.P.R., 1988). Per quanto riguarda la "morale" della Chiesa, e la sua possibile identificazione con il
fondamento stesso della civiltà europea, si afferma da settori cattolici che gli odierni attacchi di
ispirazione mondialista e globalizzatrice contro la seconda (o entrambe) "intend[ono] abbattere
esplicitamente il fondamento della tradizione giudaico-cristiana, cioè il primato dell'essere umano e
la bontà della sua presenza sul pianeta" (da un "manifesto" divulgato in rete da: it.politica.cattolici Lista di informazione su cattolici e politica sotto la protezione di Giuseppe Tovini,
[email protected], con il titolo "G8 e Anti G8. Da cristiani a cristiani",
7.7.2001). Ma ci sarebbe da chiedersi: la teoria della dignità della persona è davvero un'esclusiva
della concezione giudaico-cristiana del mondo? (si potrebbe poi molto discutere su quanto tale
"teoria" sia coerente con alcuni, non marginali, passi dell'Antico Testamento). Integrità morale,
solidarietà interpersonale, senso della famiglia e del dovere, non possono essere giustificati senza
passare attraverso "leggende" sempre meno credibili?
6 - In realtà, come diceva S. Agostino (De civitate Dei, L. XXII, V), non si può negare che siamo di
fronte a "tre fatti incredibili e tuttavia realizzati: E' incredibile che Gesù Cristo sia risuscitato nella
sua carne e che con essa sia salito al cielo; è incredibile che il mondo abbia creduto una cosa così
incredibile; è incredibile che pochi uomini sconosciuti, di umile condizione e senza cultura, abbiano
potuto far credere al mondo e ai sapienti del mondo un avvenimento tanto incredibile e con tanto
282
successo". Fornire una spiegazione credibile di questi tre fatti "incredibili" è sicuramente questione
di non poco conto...
7 - Non è fuor di luogo fare un cenno alle accuse di antisemitismo che provengono da chi vede nella
messa in discussione di certa eredità un attacco alla cultura da cui essa storicamente proviene. Tra
"persone di scienza" non si dovrebbe aver paura di termini, di "definizioni" (tra l'altro alquanto
sballate: a parte la circostanza che chissà perché il riferimento è soltanto agli ebrei e non per
esempio anche agli arabi, si veda pure la Nota N. 7 alla recensione del libro di Flavio Barbiero La
Bibbia senza segreti, apparsa sul N. 2 di Episteme), ma il loro utilizzo è sicuramente "sleale",
laddove l'intenzione è di procurarsi un facile "vantaggio" facendo rimando, piuttosto che a civili
discussioni su dati di fatto, o opinioni, a suggestioni psicologico-emotive, che evocano gli orrori
della guerra, campi di concentramento, morti, persecuzioni, etc.. Non si vede poi (o meglio lo si
vede anche troppo bene!) perché quella in parola sia diventata una sorta di cartina di tornasole alla
quale ciascun "sistema" concettuale è chiamato a rispondere - pena l'esecrazione di massa, se non
peggio - quando "anti-x" lo si è sempre in numerosi modi diversi, tutte le volte che non si accetta
legittimamente "qualcosa", scorgendone dei lati negativi...
(UB)
*****
Premessa
Mentre scrivo queste parole, a conclusione di un lavoro protrattosi per circa quattro
anni, sulla scena mondiale numerose tragedie si stanno consumando...nel nome del Padre.
Nella ex Yugoslavia e nella stessa terra in cui si ambienta l'argomento di questo
libro, per citare solo i casi che i mass-media hanno reso più famosi, inaudite violenze si
commettono fra uomini che appartengono a religioni diverse. Spesso con la ferma
convinzione che tali azioni siano giustificate, se non addirittura santificate, dal fatto di
essere compiute in nome della fede.
Purtroppo, possiamo citare numerosi altri focolai di violenza fra popoli appartenenti
a religioni diverse; nell'Irlanda del nord cattolici e protestanti si fronteggiano da decenni;
indù, musulmani e buddhisti danno luogo a crisi ricorrenti che insanguinano l'India da
sempre. Qualche secolo fa un ingenuo profeta credette di trovare la soluzione alla ricorrente
violenza religiosa indiana e creò la setta dei sikh, la cui dottrina era stata ricavata
dall'assemblaggio sincretistico di elementi islamici e induisti. Un quarto polo di potenzialità
conflittuale si aggiunse agli altri, e il tempio d'oro di Amritsar, nel Punjab, è stato teatro di
massacri anche in tempi recenti.
Di fronte a queste dolorose osservazioni alcuni rispondono che la colpa non è della
religione, ma degli uomini, senza tener conto del fatto che essa, come dottrina e come
istituzione, è l'espressione che riguarda gli aspetti più importanti della cultura e del
comportamento collettivo: l'etica, la morale, il diritto. Vogliamo forse chiudere gli occhi
davanti al fatto che le principali linee di conflitto all'interno del genere umano sono proprio
i confini fra le religioni?
C'è un solo motivo per misconoscere questa triste realtà, o per voler negare a tutti i
costi la responsabilità delle religioni nel dramma della guerra e della violenza: l'interesse a
difendere, non tanto quella verità di cui ogni religione si dichiara depositaria e
283
rappresentante, quanto i presupposti della egemonia sociale, culturale, e magari anche
politica ed economica, di una istituzione religiosa.
Questo libro, che agli occhi di molti può apparire come un attacco perpetrato
direttamente e specificamente alla fede cattolica, vuole essere una analisi della divergenza
che, in senso del tutto generale, può esistere fra la verità come espressione di una realtà
(storica nel nostro caso) e la verità come espressione di una dottrina. Il cattolicesimo e la
sua interpretazione della figura di Cristo sono solo un pretesto, scelti per la semplice
ragione che l'autore è nato in un paese cattolico, ed è in esso che vive e lavora.
Il lettore che non vorrà arroccarsi in una posizione rigidamente difensiva, mosso
esclusivamente dal bisogno di confutare tutto ciò che turba i presupposti della sua fede,
riuscirà, forse, ad intravedere, in ogni passo di questo lavoro, la ragione di fondo che lo ha
determinato: il desiderio di mettere in discussione, non l'insegnamento di una religione in
particolare, ma il procedimento culturale che ha operato, sempre e dovunque, nella genesi
delle dottrine di tutte le grandi religioni storiche.
All'interno di ogni società omogenea la religione ha sempre svolto una funzione
determinante ed irrinunciabile: una funzione coesiva, didattica, senza la quale il tessuto
socio-culturale andrebbe inevitabilmente incontro al disfacimento. In molti paesi cristiani il
testimone di un processo, prima di deporre, giura sulla Bibbia, poiché essa costituisce una
autorità che sovrasta anche le strutture della legge e dello stato.
Perché dunque una analisi impietosa che sembra finalizzata a demolire le strutture
elementari su cui si regge la fede cristiana e sulla quale è costruita la civiltà occidentale?
Ci sono due risposte da offrire a questa domanda. La prima è che questa analisi non
vuole avere come vittima una particolare dottrina, ma il principio generale di tutti quegli
insegnamenti che sviluppano nella mente l'attitudine a credere in modo cieco e supino. La
seconda è che il genere umano ha un bisogno drammatico ed urgente di risolvere gli aspetti
conflittuali delle sue disomogeneità culturali, ovverosia di comprendere in quale misura gli
insegnamenti e le tradizioni nazionali che gli provengono dal passato (le religioni in primo
luogo), sui quali i popoli hanno costruito la propria identità culturale, sono utili e necessari
nella attuale situazione.
Nei prossimi anni, avremo tristemente modo di osservare nello scenario mondiale in
quale dolorosa misura le religioni storiche saranno sempre meno causa di ciò che
promettono, ovverosia di amore, di tolleranza e di comprensione, e sempre più duramente
protagoniste della conflittualità; fino al punto da mettere a repentaglio la sicurezza e la vita
di centinaia di milioni di persone innocenti. Ma anche fino al punto da mettere in
discussione, davanti agli occhi del mondo intero, se stesse.
So che queste parole hanno i toni cupi del presagio apocalittico, ma lo spirito che le
anima è molto lontano da quello dei profeti biblici, sebbene somigliante; è solo la ragione
lungimirante che porta, se non ad un totale pessimismo, al cauto riconoscimento dei pericoli
oggettivi che incombono sul prossimo destino storico del genere umano.
Chi si ostina a misconoscere tutto ciò, non potrà sottrarsi alle proprie responsabilità.
E così, anche se per il lettore questo potrebbe sembrare troppo lontano e troppo in
secondo piano rispetto agli obiettivi primari del libro, l'analisi critica della dottrina storica
del cristianesimo è stata condotta allo scopo di favorire l'emancipazione culturale di cui ha
bisogno l'uomo del duemila: lo sviluppo di una cultura planetaria che, se non deve
significare il livellamento e la distruzione delle tradizioni, deve comunque abbattere quelle
disomogeneità che già si manifestano come grave ostacolo ai rapporti di convivenza, di
confronto e di dialogo fra popoli che la tecnologia e l'economia hanno imposto.
Di fatto un livellamento è già in corso, quello che i modelli del consumismo
occidentale hanno provocato in tutti i paesi, mettendo veramente in pericolo le culture e le
284
tradizioni nazionali, lasciando di esse solo il potenziale distruttivo e conflittuale (che, tra
l'altro, fa comodo al sistema economico perchè offre al mercato la colossale chance del
traffico di materiale bellico).
Non farà male ai cristiani comprendere le dinamiche storiche reali del processo che
portò alla nascita e allo sviluppo del cristianesimo, al di là delle immagini manipolate che
l'istituzione ecclesiastica ha dovuto trasmettere per sostenere le tesi e i dogmi che erano
necessari alla sua egemonia. Nessuno deve temere o sottovalutare la conoscenza delle
proprie origini più di quanto non debba temere l'ignoranza e le sue conseguenze sul piano
del senso di identità; è quest'ultimo, infatti, l'elemento fondamentale dell'equilibrio
psicologico e culturale tanto del singolo quanto della collettività, ed è un senso della propria
identità errato o carente che produce la totalità dei disturbi del comportamento individuale e
collettivo.
Ed ecco il nocciolo della questione: la frammentazione del senso di identità del
genere umano che, nel contesto economico e tecnologico del mondo di oggi, ha urgente
bisogno di imparare a sentirsi omogeneo ed unito, piuttosto che eterogeneo e diviso in
centomila culture conflittuali.
Gli esponenti delle religioni potrebbero domandare, a questo punto: siamo forse noi
che impediamo lo svolgimento del processo di integrazione e di armonizzazione delle
diverse culture planetarie? La risposta onesta ad un tal genere di domanda non può essere
che una: le istituzioni ecclesiastiche, di fronte a questa impellente necessità di
emancipazione culturale, possono facilmente assumere un atteggiamento negativo; nella
misura in cui esse non vogliono che sia messo in discussione il loro privilegio di avere,
ciascuna, la verità in mano e l'autorità esclusiva per trasmetterla e per insegnarla; nonché
nella misura in cui esse antepongono gli interessi della propria egemonia, in parte senza
nemmeno rendersene conto, agli interessi della salvezza del genere umano,.
Già qualche anno fa fu realizzato un incontro ad Assisi, nel quale i capi delle più
diverse religioni sedettero insieme alla ricerca di dialogo e di unità. Sebbene l'intento di un
simile meeting debba comunque essere apprezzato, non possiamo fare a meno di ammettere
che i rappresentanti si guardarono in faccia con elargizione di grandi sorrisi, belle promesse
e benedizioni reciproche, ma senza cambiare una briciola della sostanza del loro rapporto.
Un fatto si è evidenziato in tutta la sua nuda chiarezza: le religioni, per la loro stessa
natura, sono sistemi chiusi, costruiti in funzione della conservazione di se stessi, non del
dialogo aperto, e non prevedono alcuna flessibilità nei confronti delle proprie strutture
teologiche e dottrinarie. Gesù è l'unico ed irripetibile Figlio di Dio che abbia trasmesso
l'unica rivelazione che oggi, per i cristiani, può essere accettata e creduta; Jahvè è l'unico
Padre di tutto il genere umano e Israele è il suo popolo prediletto; Allah è l'unico Dio e
Maometto è il suo profeta; Krishna è l'unica incarnazione terrena di Vishnu, ecc... Stando
così le cose, dove le condizioni sono favorevoli, ovverosia dove la gente è in crisi di
trasformazione sociale e ricorre al più vecchio e collaudato fra i mezzi di riconoscimento o
di mantenimento della propria identità culturale, ogni religione non può far altro che
partorire lo spettro dell'integralismo, il più duro scoglio contro il progresso culturale
dell'umanità e contro l'avvicinamento, il dialogo e la comprensione fra i popoli.
E' significativo che un uomo come Gandhi, che si dichiarava contemporaneamente
indù, cristiano e musulmano, sia sopravvissuto alla lotta contro il dominio britannico per
l'indipendenza dell'India e sia morto per mano di un indù che non sopportava le sue
elasticità teologiche. Non è un caso, come non è un caso che gli alleati della Serbia, il paese
che oggi l'occidente sembra unanime nel condannare per la sua politica, siano i Russi e i
Greci, gli unici paesi al mondo che, come i serbi, sono cristiani-ortodossi.
285
Purtroppo non c'è altro da fare se non da attendere e magari agevolare quello che
forse sarà il salto culturale più grande nella storia del genere umano: l'emancipazione della
spiritualità dal dogmatismo e la sua liberazione dalla fissità delle dottrine teologiche.
Dio, il grande artefice del mondo, non ha mai incaricato nessuno in particolare di
rappresentarlo; né alcuno può arrogarsi il diritto di essere suo testimone esclusivo (se non
per guadagnare un potere sugli uomini); né le sue verità furono scritte in alcun volume se
non in quell'immenso libro, dalle pagine sempre aperte, che è l'universo intorno a noi.
----Conclusioni
Quando ero ragazzo, anzi bambino, i miei genitori mi hanno mandato, come di
norma, al catechismo. Infatti sono stato battezzato ed educato secondo la più consueta
tradizione cattolica; ad otto anni presi la prima comunione, più grandicello fui cresimato.
Ma il rapporto fra me e la religione è sempre stato difficile; ero ancora uno
sbarbatello quando già discutevo accesamente col professore di religione, contestando il
dovere di credere per fede, ciecamente, a quanto mi veniva insegnato.
Un adolescente, naturalmente, non ha tutti gli strumenti intellettuali per mettere
perfettamente a fuoco ciò che sente e per dare una forma matura e consapevole ai propri
pensieri. Ciò non ostante, verso gli undici-dodici anni, un sentimento molto chiaro
albergava nella mia mente: la più assoluta intolleranza per lo stridente contrasto che
l'insegnamento religioso, almeno nel modo in cui era trasmesso dai miei interlocutori
(sacerdoti e professori), finiva per creare tra spiritualità e ragione.
Molto spesso sembrava che fosse proibito chiedere perché, e al mio desiderio di
comprendere, di spiegare, e persino di dare una dimostrazione alle cose, si rispondeva non
solo con l'invito a rinunciare a tale atteggiamento, ma anche con la sua condanna, come se
esso fosse, per sua stessa natura, irriverente nei confronti della religione, offensivo,
blasfemo. Mi furono citati esempi dalle scritture in cui qualcuno era stato premiato da Dio
per avere semplicemente creduto, senza essersi domandato niente, senza avere chiesto
alcuna prova, per un atto di pura fede; come la famosa emorroissa, o il centurione romano.
Mi furono citati in contrapposizione altri esempi di persone che erano state punite per avere
subordinato la fede alla ragione, per non essere stati capaci di credere senza avere le prove.
Il caso più eclatante, sebbene non appartenga alle scritture sacre, era quello di
Ulisse, che il sommo poeta aveva condannato per avere dato la priorità assoluta al desiderio
di conoscenza; quasi come se il "...fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e
canoscenza..." potesse essere in qualche modo una colpa, piuttosto che la più alta e nobile
delle attitudini umane; l'unica, forse, che possa realmente distinguere l'uomo dalle altre
creature. La cosa mi irritava e mi riempiva del sospetto che dietro a questa inclinazione
della cultura ci fosse qualcosa, un inganno, un trucco, uno strano mistero che un
adolescente non può avere le capacità di spiegare.
Non si trascuri, nel leggere queste note autobiografiche, che questi furono i vissuti
di un ragazzo nel periodo immediatamente precedente il '68, quando autoritarismo e
vecchie mentalità non erano ancora stati messi in discussione da un fenomeno culturale e
psicologico di così vaste proporzioni come la contestazione giovanile.
Così, pur conservando nel profondo la sensazione che il mistero dell'esistenza non
potesse trovare la sua esauriente spiegazione nel materialismo e nelle teorie scientifiche, mi
allontanai dalla religione cattolica e mi rifugiai per lungo tempo in una sorta di
286
agnosticismo: potrei chiamarlo un parcheggio, in attesa di qualcosa di più di ciò che preti e
catechisti erano riusciti a dirmi.
Nel frattempo osservavo e notavo quelle che, a mio modo di vedere, erano le gravi
ipocrisie congenite del mondo cattolico: ci voleva poco, ad una persona che non aveva
accettato la supinità mentale, per rendersi conto che la prassi degli appuntamenti fra il
cattolico e la sua religione contrastava nella maniera più stridente col messaggio etico e
spirituale del Vangelo. Il cattolicesimo degli anni cinquanta e sessanta camminava fianco a
fianco col perbenismo, col benpensantismo, con la mentalità borghese (uso una
terminologia che è volutamente quella del periodo dello scontro frontale fra il polo laico
marxista e quello cattolico conservatore), insomma con tutto ciò che si opponeva allo
spirito espresso dalla figura di Gesù; il quale infrangeva le regole del sabato e quelle della
purità, sedendo a tavola con i pagani e coi peccatori, che era dolce con gli umili e
aggressivo coi potenti e coi sacerdoti del tempio.
Gesù, con queste sue attitudini, non si presentava come un contestatore a tutti i
costi, ma come un intransigente cercatore di verità, come colui che non esitava a trapanare
tutti gli strati della ipocrisia e della convenienza per giungere alla sorgente della verità e
della giustizia: là dove le cose, spogliate da ogni maschera, non possono più essere
giustificate dalla consuetudine e si rivelano per quello che sono.
Da questo punto di vista il Vangelo mi affascinava, mentre il cattolicesimo mi
respingeva.
Molti anni dopo, già trentenne, laureato, insegnante, sposato, padre, mi rivolgevo
alle culture orientali, con la segreta speranza di trovare, nella suggestiva civiltà del sole
nascente, quella coerenza e quella verità che in occidente non avevo trovato. E' bello
rifugiarsi nell'idea che qualcosa che viene da lontano contenga la risposta a tante domande e
la soluzione a tanti problemi. E così mi sono dedicato allo studio e alla pratica della
disciplina Yoga, dell'Induismo, del Buddhismo, del Taoismo, scoprendo cose
interessantissime; non esclusa l'importanza che tali culture attribuiscono a valori ed aspetti
che in occidente sono trascurati; la cui mancanza, spesso, è proprio la causa di qualcuna
delle afflizioni croniche dell'occidente.
Eppure, anche nel molteplice e ricchissimo universo delle spiritualità e delle
filosofie orientali, uno spettro maligno si aggira esattamente come nelle culture religiose
dell'occidente, uno spettro che non tardai a riconoscere non appena ebbi modo di
frequentare qualche seminario e di incontrare bonzi, lama, swami e yoghi famosi ed
apprezzati a livello internazionale per la validità del loro insegnamento.
Quello spettro era l'ortodossia, la dottrinalizzazione della conoscenza, la
subordinazione della verità alle esigenze delle persone e delle istituzioni che di essa si
sono fatte rappresentanti.
Sempre e comunque, là dove una qualsiasi consapevolezza ha superato il momento
felice della sua nascita nella mente umana, ed è già passata allo stadio in cui viene gestita
da qualche organismo istituzionale come mezzo per educare, e per attuare il controllo
psicologico e culturale della gente, la verità slitta in una posizione subordinata nella quale
le è consentito di essere sé stessa fintantochè non turba lo status quo. Non appena essa reca
turbamento e cessa di essere funzionale agli equilibri istituzionali e agli interessi dominanti,
qualsiasi elemento della verità non è più riconosciuto come tale e viene totalmente
cancellato, non solo dall'ufficialità del sapere, ma dai processi di pensiero della persona,
attraverso un sottilissimo meccanismo di ricatti in cui si gioca l'appartenenza dell'individuo
al sistema o la sua emarginazione. In questo modo la sostituzione del pensiero libero,
incline alla verità totale, col pensiero condizionato, incline alla verità di convenienza,
avviene inconsciamente, come se un file di controllo (per usare la terminologia informatica
287
al posto di quella psicologica) lavorasse nel sistema operativo cerebrale per escludere tutte
quelle opzioni che generano conflittualità con la cultura e con la morale sociale. Questo
avviene soprattutto nella mente di coloro che nel sistema vogliono porsi in una situazione di
vantaggio, così come in quella di coloro che sono troppo semplici e troppo poco coraggiosi
per pensare in maniera autonoma, senza lasciarsi indottrinare e senza resistere alla facile
suggestione della cultura dominante.
E così, anche nell'affascinante mondo delle culture orientali osserviamo l'esistenza
di un complicatissimo mosaico di parrocchie piccole e grandi, ciascuna con le sue verità di
regime, con i suoi moralismi, con le sue invenzioni ad uso e consumo di qualche sistema.
Se non avessi una profonda convinzione che il cammino verso la verità è l'unica
ragione valida della nostra esistenza, pur essendo destinato a rimanere un anelito
incompiuto, le precedenti considerazioni sarebbero più che sufficienti a giustificare uno
stato di depressione e di cinismo. Beati coloro che si sono sistemati in una qualunque delle
centomila parrocchie di questo mondo e, rinunciando alle colonne d'Ercole, non si sono
macchiati della colpa di Ulisse!
Il quadro ha cominciato a farsi meno oscuro quando, una decina di anni fa, ho
sentito il desiderio di scavare alle radici della cultura cristiana, nella quale sono stato
generato e cresciuto, per trovare quanto in essa ci fosse di comune con le altre religioni del
mondo, e magari di autentico, di precedente al processo che tutte le culture storiche hanno
subito, cioè la canonizzazione e la riduzione a qualche forma di ortodossia.
E' stato un viaggio affascinante che mi ha portato alla scoperta dei manoscritti del
Mar Morto, dei Vangeli gnostici, della molteplice letteratura apocrifa, dei risvolti più
dimenticati della storia antica e, soprattutto, che mi gratificava ogniqualvolta scoprivo
l'esistenza reale di collegamenti fra le radici dell'ebraismo e del cristianesimo con quelle
delle religioni orientali.
Ma, ahimé, il Cristo non era quello che avrei avuto piacere di scoprire, cioè una
sorta di asceta alla maniera indo-buddista, che magari fosse addirittura stato in India, come
alcune fonti sostengono; uno spirito libero privo di quel genere di collocazioni ortodosse
che ho sempre detestato. Al contrario, il Cristo che i romani hanno voluto arrestare e
crocifiggere non era allineato alla ortodossia del giudaismo fariseo e sadduceo, ma era il più
autentico rappresentate dell'integralismo jahvista dei suoi tempi, il Messia di Israele, il re
dei giudei. Encomiabile per la sua coerenza, per l'abnegazione e il coraggio dedicati alla
causa, per il prezzo che è stato disposto a pagare; criticabile per la mancanza di senso della
realtà, dei rapporti di forza e del grado di consenso, al punto da marciare dritto verso il
fallimento, nonché per quello che, visto con occhi moderni, non può essere chiamato in
altro modo che fanatismo, il tipico scellerato fanatismo degli integralisti.
Resta aperta la possibilità lasciata dall'ipotesi non del tutto inverosimile che il Gesù
Cristo del Vangelo, frutto della sintesi paolina, sia il prodotto di una sovrapposizione di
caratteristiche appartenute a personaggi diversi: un messia politico, giustiziato dai romani, e
un messia religioso, rilasciato perchè non riconosciuto colpevole di atti contro la sovranità
imperiale. In tal caso l'attenzione si sposta sul personaggio di Jeshu bar Abbà, probabile
maestro di tecniche iniziatiche, che avrebbe impartito i suoi principali insegnamenti ai
membri della famiglia zelotica, ai fratelli partigiani, all'aspirante messia, alla moglie di
costui, Myriam, al cognato, Eleazar. Ma gli elementi sono pochi, veramente troppo pochi
per tentare una seria ricostruzione di questo enigmatico personaggio.
In fin dei conti, non è ai termini tecnici della ricostruzione storica che è diretto il
nucleo essenziale del mio interesse, sebbene tanta energia abbia dedicato a questo lavoro,
bensì ai significati più generali che da essa si possono estrarre. Infatti posso aver compiuto
numerosi errori, o avere tratto conclusioni sbagliate, e molti difensori della ortodossia si
288
affretteranno, possibilmente anche con ragione, a confutare questa o quella fra le tesi che ho
sostenuto in questo studio. Ciò che mi interessa è il fatto di avere mostrato, al di là delle
singole questioni storiche (con un lavoro divulgativo che, forse per la prima volta in
assoluto, porta il lettore medio a conoscenza delle mille problematiche relative alla lettura
critica del Nuovo Testamento), che è esistito un preciso intervento, consapevole ed
intenzionale, protratto nel tempo di secoli, da parte di una limitata comunità prima (i
seguaci di Paolo di Tarso) e di una colossale istituzione ecclesiastica poi (la chiesa del dopo
Costantino), per costruire su misura una teologia e una dottrina che fossero funzionali al
sistema che si intendeva stabilire o difendere.
Gesù Cristo, a dispetto del suo essere ebreo, aveva fondato una nuova religione;
Gesù Cristo, a dispetto del suo titolo messianico, non aveva assolutamente niente a che fare
con la lotta jahvista; Gesù Cristo era una incarnazione divina; gli ebrei erano i principali
responsabili della sua morte; i romani erano incolpevoli e Pilato era stato praticamente
raggirato.
Questi presupposti onnipresenti nei vari aspetti della dottrina cristiana di oggi, così
come nei diversi stadi del suo sviluppo, a partire dai più primitivi, che sono senza ombra di
dubbio il prodotto degli interventi di manipolazione, possono essere spiegati col fatto che la
nuova fede cristiana aveva rinnegato la concezione messianica tradizionale, aveva
realizzato uno scisma dal giudaismo, aveva sostituito al messia della nazione ebraica un
salvatore universale mutuato dalle filosofie del vicino e lontano oriente: il Soter dei greci, il
Saoshyant dei persiani, il Buddha degli indiani.
A conti fatti non credo che l'opera di Paolo debba essere considerata semplicemente
disonesta in quanto lavoro di falsificazione di una realtà storica; direi piuttosto che c'è, nella
colossale formulazione sincretistica del Gesù Cristo di Paolo, una genialità senza
precedenti. L'impero romano non aveva mai avuto altra unità se non quella del potere
politico e militare emanato dalla sua capitale: i popoli sottomessi sono sempre stati stranieri
fra loro, ciascuno con la sua religione e i suoi culti; che Roma, acuta nell'arte del dominio,
sapeva rispettare. Forse l'elemento comune ai numerosi popoli e alle numerose culture
abbracciate dal potere dell'urbe può essere individuato nel sentimento escatologico, non
improbabile nella psicologia di coloro che si sentono intrappolati in una condizione
irrisolvibile, almeno a breve termine, di inferiorità e di subordinazione, quando non di
miserabile schiavitù, privati della padronanza del proprio destino e del diritto a costruire in
modo autonomo la propria felicità.
Questo era il clima psicologico comune, conscio o inconscio, che Roma aveva
determinato nell'area del suo potere.
Paolo aveva sicuramente intuito, non solo la scarsa probabilità di successo materiale
del progetto messianico, ma soprattutto la limitatezza di quell'anelito alla salvezza e alla
libertà che, in seno alla fede giudaica, aveva preso la forma del rigoroso integralismo
nazional-religioso jahvista. Magari esistessero oggi, nel mondo in cui la presa di coscienza
collettiva dei problemi reali e drammatici del genere umano è ostacolata e resa
penosamente lontana dal persistere di antichi integralismi e fanatismi, un uomo della
larghezza mentale e della lungimiranza di Paolo (ma è mai esistito il Paolo di cui parla la
tradizione? O è solo il punto leggendario su cui è fatto convergere il lavoro di numerosi
uomini nell'arco di molto tempo?). Insomma, esistito come persona o come processo
storico, quello che chiamiamo Paolo ha intuito che se il salvatore nazional-religioso degli
ebrei aveva un improbabile destino, in quanto solo contro tutti, il salvatore universale del
genere umano aveva un probabile destino, in quanto si collocava, nel clima psicologico e
culturale del ventaglio di popoli sottomessi a Roma, come colui che rappresentava le
istanze più insoddisfatte dell'animo umano: un Dio degli umili, e non dei potenti, un Dio
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senza razza, un Dio buono, un Dio venuto fra gli uomini a promettere a tutti la salvezza ma,
soprattutto, a restituire la dignità umana a coloro ai quali, nella società schiavistica e
totalitaria, era stato fatto dimenticare di possederne una.
E così, ricucendo insieme l'escatologia messianica degli ebrei con spezzoni di
religioni misteriche ed orientali, Paolo costruì il più potente strumento di trasformazione
culturale del bacino mediterraneo: Gesù Cristo. Qualcosa che a quel tempo, ne sono
profondamente convinto, era veramente suggestivo e meraviglioso.
Che cosa importa se Gesù Cristo, il Gesù Cristo di Paolo, non è mai esistito? Vale
forse meno del Cristo realmente esistito, quello condotto al patibolo da una fede fanatica e
dura come un macigno? Quella fede che ha portato Gerusalemme ad essere rasa al suolo e
gli ebrei ad essere sparsi e odiati fra genti straniere. O vale di più un Gesù Cristo che, per
quanto fantastico, ha prodotto una omologazione culturale nell'area circum-mediterranea
determinando quell'unità fra i popoli cristiani che, se non fosse esistita, non avrebbe mai
visto lo sviluppo planetario della civiltà occidentale moderna ma, piuttosto, al suo posto,
una civiltà islamica, una civiltà cinese, o chi sa cosa.
L'analisi storica delle origini cristiane, purché non sia quella sponsorizzata da coloro
che hanno interesse a difendere i sistemi ortodossi, vista in funzione dei problemi
dell'umanità di oggi è certamente una grande lezione: perchè anche oggi, come ai tempi in
cui i vessilli imperiali di Roma sventolavano col loro aspetto blasfemo nella città santa
degli ebrei, l'umanità, vittima del dominio di uno strapotente impero, si dibatte nella
frustrazione di non saper trovare una soluzione alle sue attese di salvezza. Oggi, come
allora, il sentimento che accomuna tutti i popoli della terra, stranieri fra loro, è un
sentimento escatologico. E, come allora, numerose forme di messianismo sono intervenute
nel tentativo di colmare le aspettative.
Forse il più largamente diffuso dei messianismi moderni che, come lo jahvismo
degli esseni e degli zeloti, ha avuto la carica suggestiva di una promessa rivoluzionaria, che
si attribuisce la capacità di abbattere l'impero dominante e di costruire la giustizia, è stato
sicuramente il comunismo. Ma, come il messianismo jahvista, il comunismo è crollato alla
prova dei fatti, mostrandosi scellerato dove avrebbe voluto essere buono, meschino dove
avrebbe voluto essere grande; creando la catastrofe dei popoli dove avrebbe voluto creare la
prosperità.
Nella crisi di identità e di ideali dei tempi attuali, alcuni si scoprono messaggeri di
verità, che può essere considerata tale soltanto nel deserto delle verità in cui si sta
incamminando questa esule umanità in cerca di terra promessa, e speculano sulla loro
posizione riproponendo i vecchi modelli culturali: il cattolicesimo, l'islam, l'ebraismo;
circondati da una costellazione di sottoverità che, in più rispetto a quelle superortodosse,
hanno solo la facile ma illusoria suggestione del diverso, dell'alternativo, del rivoluzionario:
i testimoni di Geova, gli Hare Krishna, i buddhisti occidentali. In effetti ogni religione
storica, come quella creata dalla sintesi paolina, ha avuto un grande valore evolutivo nel suo
momento nascente, e ha portato a battesimo una qualche civiltà. Chi avrebbe potuto
trasformare le bande beduine in un popolo di conquistatori, mercanti e scienziati, come
furono gli arabi, se non l'islam? Chi avrebbe potuto fare dei figli della sabbia (i semiti
analfabeti e nomadi che gli egizi usavano come schiavi) un popolo orgoglioso ed
indistruttibile sotto tutti i gioghi, se non la sintesi mosaica? Chi avrebbe creato le civiltà
dell'oriente, l'India, la Cina, il Tibet, se non l'Induismo e il Buddhismo?
Ma, naturalmente, ciascuno di questi grandi motori dell'evoluzione morale e
culturale dell'umanità attraversa le sue stagioni e, dalla fase creativa, passa a quella matura,
in cui si consolida come ortodossia, nella quale si effettua lo slittamento della verità verso
posizioni subordinate, e il valore evolutivo è sostituito da quello coesivo; per giungere
290
quindi alla fase di invecchiamento, in cui il valore coesivo finisce per diventare una
attitudine sclerotica quando non, addirittura, un potenziale conflittuale.
I moderni araldi delle vecchie religioni storiche, papi, patriarchi, lama ed ayatollah,
non si rendono conto che di esse, raggiunta la loro ultima fase e divenute senili, una volta
esauriti i principali valori evolutivi, non resta che un mucchio di patetiche bugie, delle quali
ho voluto dare un saggio nella mia analisi storica del racconto evangelico. Se non capita
invece, come nella ex Yugoslavia fra cattolici, ortodossi e musulmani, o come in medio
oriente, fra ebrei e musulmani, o come in tante altre circostanze analoghe nel mondo, che le
religioni storiche esprimono tutta la negatività della loro degenerazione senile e producono
quel tipico genere di bestialità che si giustificano con santi scopi.
Molti dei miei lettori, forse, a metà del libro chiuderanno le pagine pensando che
l'autore sia un rappresente tardivo del razionalismo anticlericale, appartenente ad una
sinistra ormai abbondantemente superata. Non si saranno resi conto che ho voluto invece
augurare la nascita di una nuova sintesi paolina, che superi le insufficienze dei moderni
messianismi parziali. Questa volta non è l'impero di Roma il nemico, né il mediterraneo il
teatro ma, rispettivamente, l'economia della autodistruzione e il pianeta.
Abbiamo bisogno di bugie più nuove. Speriamo che qualcuno le inventi presto.
Gennaio 1994, David Donnini.
*****
David Donnini, nato a Firenze nel 1950, ha ivi conseguito la laurea nel 1975, mentre nel
1990 ha frequentato un seminario di specializzazione presso la Michigan Technological
University (USA). Attualmente è insegnante di Tecnica Fotografica presso un Istituto
Professionale di Stato. Da circa vent'anni si occupa di religioni orientali ed anche dello
studio delle origini cristiane. Ha svolto un servizio fotografico in Palestina, nei siti che
riguardano il cristianesimo primitivo. In Israele ha approfondito i contatti col Prof. Daniel
Gershenson (Università di Tel Aviv), che lo ha aiutato nel suo lavoro di ricerca e che
condivide le sue conclusioni. Ha pubblicato sull'argomento alcuni libri:
Nuove Ipotesi su Gesù
Macro-Edizioni, Cesena (FO) Tel. 0547/346290
Seconda edizione (1998) riveduta e corretta, corredata con 14 fotografie a colori
291
Cristo, una vicenda storica da riscoprire (1994)
Roberto Massari Editore, CP 144, 01023 Bolsena (VT)
Tel. 0761/799831
Terra di Giuda (1997)
Appunti di viaggio fra i drammi e i misteri storici di Israele
(pubblicato on-line)
Alcune questioni discusse nei siti di Donnini:
Premesse per l'analisi storica del racconto evangelico
I Manoscritti del Mar Morto - la storia
I Manoscritti del Mar Morto - estratti dai testi
La letteratura giudeo-cristiana
La redazione dei 4 vangeli canonici
Analisi critica dei racconti sulla nascita di Gesù Cristo
Il mistero di Barabba
Il problema del titolo "Nazareno"
Perché San Paolo ha inventato il cristianesimo?
CRISTO E QUMRAN, QUALI CONCLUSIONI?
Il martirio zelotico e quello cristiano
Fratelli e sorelle di Gesù Cristo
Il problema del discepolo senza nome
"7Q5", una prova schiacciante delle relazioni fra esseni e cristiani?
Estratti da Filone Alessandrino e Giuseppe Flavio sugli "Esseni"
Sulle origini storiche del Vecchio Testamento
ESTRATTI DA VANGELI APOCRIFI:
Dal codice Arundel 404
Dal vangelo di Pietro
Dal vangelo di Maria
Dal vangelo copto di Tomaso
Dal vangelo di Filippo
Note ai vangeli gnostici di Tomaso, Maria e Filippo
292
Breve commento sui lavori cristologici
del Dr. Daniele Donnini
L'amico Prof. Bartocci mi ha chiesto un commento all'opera del Dr. Daniele Donnini 1 e, a
tale sollecito, volentieri consento, seppur assai brevemente. Nell'ormai lontano Ottobre del
1999, dietro segnalazione di un amico stampai da INTERNET, due studi di questo
ricercatore; il primo, dal titolo di GAMLA, individuava in questo omonimo e ben poco
conosciuto sito archeologico delle alture del Golan, quello che avrebbe dovuto essere il
vero villaggio dove, in alternativa alla notissima Nazareth, Gesù sarebbe invece vissuto.
Debbo dire che la disanima delle ragioni storiche e geografiche, che rendono impossibile
come quest'ultima località possa corrispondere alle caratteristiche riscontrabili nella
narrazione evangelica, è del tutto convincente. Efficace anche la messe di contestazioni, in
ordine all'evidente forzatura, insita nel voler far coincidere l'appellativo di <<nazareno>>
con quello di abitante di Nazareth, che, da varie fonti, attentamente raccoglie: sono, queste
ultime, cose note ma, collazionate con le altre osservazioni, vieppiù contribuiscono ad
accreditare la tesi favorevole all'individuazione di Gamla quale right place.
Il secondo lavoro, è uno studio assai più ambizioso e s'intitola CRISTO, UNA VICENDA
STORICA DA RISCOPRIRE.2 Di esso è forse bene riprodurne il sommario per avere una
qualche idea della vastità degli argomenti affrontati:
Premessa
Sommario
Introduzione
1.
La cena misteriosa.
1.1.
1.2.
Una sera, a Betania.
Il Vangelo al Computer.
2.
Il Giallo di Gerusalemme.
2.1.
2.2.
2.2.1.
2.2.2.
2.2.3.
2.3.
2.3.1.
2.3.2.
2.3.3.
2.3.4.
2.4.
2.4.1.
2.4.2.
2.4.3.
2.4.4
Sinossi della passione e morte di Cristo.
L'arresto.
Il bacio di Giuda.
Lo scontro armato.
L'arresto.
Il Processo Giudaico.
Il trasferimento presso il sommo sacerdote.
Il rinnegamento di Pietro.
Il processo davanti alle autorità ebraiche.
Gli oltraggi.
Il Processo Romano.
Il trasferimento presso Pilato.
La morte di Giuda.
L'interrogatorio davanti a Pilato e le accuse dei Giudei.
Gesù al cospetto di Erode
293
2.4.5.
2.4.6.
2.5.
2.5.1.
2.5.2.
2.5.3.
2.5.4.
2.6.
2.6.1.
2.6.2.
2.6.3.
Il ballottaggio: o Cristo o Barabba.
Il verdetto.
La Via Crucis.
Lo scherno dei soldati.
Il trasporto della croce.
La crocifissione.
Gli insulti e l'agonia.
Morte e Sepoltura.
Morte ed eventi soprannaturali.
L'intervento di Giuseppe di Arimatea.
Deposizione e sepoltura.
3.
Il Giallo di Betlemme.
3.1.
3.2.
3.2.1.
3.2.2.
3.2.3.
3.3.
3.3.1.
3.3.2.
3.4.
3.4.1.
3.4.2.
3.5.
3.5.1.
3.5.2.
E' nato Gesù.
I luoghi.
Il luogo di nascita di Gesù secondo gli evangelisti Matteo e Luca.
Il luogo di residenza della famiglia di Gesù secondo gli evangelisti Matteo e Luca.
I contrasti sui luoghi.
I tempi.
Il tempo della nascita secondo gli evangelisti Matteo e Luca.
I contrasti sui tempi.
Le Genealogie.
L'albero genealogico secondo gli evangelisti Matteo e Luca.
I contrasti sulle origini.
La Dinamica della Natività.
La dinamica della natività secondo gli evangelisti Luca e Matteo.
I contrasti sulla dinamica della natività.
4.
Il Giallo di Nazaret.
4.1.
La Profezia del Nazareno.
4.2.
La Città di Cristo.
4.3. La Famiglia Storica.
4.3.1. Il numero dei figli.
4.3.2. I fratelli di Cristo.
4.3.3. Fratelli, apostoli e zeloti.
4.3.4. I Genitori di Cristo.
5. Il Giallo di Betania.
5.1.
5.1.1.
5.1.2.
5.2.
5.2.1.
5.2.2.
5.2.3.
Sempre sulla cena del mistero.
Maria Maddalena = Maria di Betania?
Chi era Maria di Magdala-Betania?
"Colui che ami è ammalato".
Il miracolo di Betania o che cos'altro?
I miracoli di resurrezione nei Vangeli.
Eleazar ben Jair.
294
6. Conclusioni.
Indice analitico
Note bibliografiche
Testi classici di riferimento
Bibliografia
Non volendo questa nota essere una vera recensione, mi limito a segnalare l'interesse del
lavoro del Donnini, il quale affronta il problema delle origini del Cristianesimo col
sottolinearne la diversità tra quanto di storico possa essere ricostruito e quello che invece c'è
pervenuto attraverso l'interpretazione canonica. Personalmente, io condivido molte delle
sue conclusioni, che vedono nella narrazione canonica una complessa opera mitopoietica
anche se non mi sembra di poter consentire su una qualche ingenuità positivistica nel taglio
di certi giudizi: truffe e raggiri di personaggi furbeschi, intenti soltanto a creare storie, volte
queste - si presume - a meglio dominare le masse. È chiaro come, per quest'autore, il mito
sia, in linea di massima, una sovrastruttura priva d'ogni potere anagogico.
Il Donnini non deve però essere totalmente posseduto da questo spirito cartesiano, perché,
in una sua riflessione sul tema, riconosce l'enorme semplicismo culturale che tale attitudine
comporta e che, soprattutto, impedisce a chi ne sia afflitto di leggere, con la coscienza del
tempo che le è proprio, la narrazione di eventi lontani, sicché questi ne risultano distorti ed
irrimediabilmente impoveriti. Nel contempo, egli prende anche le distanze dal teologico
letteralismo exoterico che sempre vuol far credere all'assoluta storicità dei fatti straordinari
della narrazione sacra quasi che questi non possano essere latori di messaggi più profondi e,
dal punto di vista della <<dottrina che s'asconde>>, assai più consistenti del mero episodio
miracolistico.
Donde, in lui, sorga questo felice spessore ermeneutico, così caratteristico della prospettiva
esoterica, non è dato di sapere; in ogni caso, il Donnini dà, secondo questo filtro, una
sommaria interpretazione di alcuni miracoli, che mi sembra oltremodo soddisfacente. In
particolare, ho apprezzato il commento a GV. 5.9-11: il famoso episodio della
moltiplicazione dei pani e dei pesci; dove, il pesce - ιχθυς; ricordiamo che fu preso a
simbolo del Cristo3 - è presente con una coppia mentre cinque sono i pani. E, giustamente,
il Donnini ricorda come due siano i Messia 4 attesi nell'ambiente esseno-zelota - al quale egli
fa risalire il primitivo messaggio cristiano - e cinque (il PENTATEUCO) i libri della THORAH.
Colpito dalle tesi di questo ricercatore indipendente, gli trasmisi al tempo per e.mail alcune
osservazioni che ripropongo qui di seguito ai lettori di Episteme, dal momento che gli
interrogativi e gli appunti allora formulati sono per me ancor validi, e costituiscono
l'espressione del mio pensiero su un lavoro che reputo di una certa importanza e coerenza.
<<…da un collega, mi è stato segnalato il "sito" da Lei curato e così ho potuto conoscere la
sua interpretazione del Nuovo Testamento: Le dico subito che m'è apparsa molto innovativa
e feconda di risultati anche rispetto a quanto prodotto dalla letteratura scientifica d'autori
non cristiani ovvero di autori non sospettabili del pregiudizio conservativo. La verifica
logica, interna all'insieme dei testi, quale quella da Lei felicemente sperimentata, si è, nella
maggioranza dei casi precedenti, limitata ad argomenti specifici evitando d'affrontare
l'intero corpus, canonico e non. Mi sembra ch'Ella ritenga quest'atteggiamento dovuto ad
una qualche forma - spesso inconscia - di rispetto mentr'io sarei più propenso a privilegiare
l'inerzia, frequente in ambiente accademico e derivante dall'autorità di studi da sempre
condotti secondo criteri ben accreditati e sperimentati.
295
Questo detto, ovvero avendoLe fatta presente la mia distanza riguardo a certi conformismi
universitari, non posso evitare d'esprimerLe alcune perplessità. Lei dà per scontato che, il
Santo Graal, in effetti, dissimuli un Sang Raal ossia ‹‹sangue reale›› (in occitanico?).
Ebbene, senza entrare nel merito di ciò che questo dovrebbe significare ma limitandomi ad
un'analisi linguistica, io trovo che le indicazioni, da essa ricavabili, conducano altrove: il
‹‹graal›› è una coppa ‹‹grasale›› m'anche un libro, gradale, graduale, il liturgico liber
gradalis››; tant'è che i due significati, si ritrovano a coincidere in quelle versioni, nelle quali
è fatto cenno ad un'iscrizione αχειροποιητος5 leggibile in un'incisione tracciata sul calice
stesso. Il passaggio ‹‹Sanctus Graal > san[ctus]g-raal›› pare, francamente, forzato ed inoltre
la fonte - da lei indicata nel noto lavoro dei tre anglosassoni Baigent, Leigh, Lincoln 6 - non
è delle più serie, soprattutto perché, l'intera storia del Priorato di Sion, strettamente legata
agli altri temi portanti dell'opera, è una mera fantasia elaborata dal Plantard 7 sin dal 1956
con intuibili scopi auto-affabulatori.8 Visto infine come, sull'argomento, tutte le leggende
comunemente note non prendano in considerazione quest'accezione dinastica, 9 sarebbe
interessante avere - per la genealogia merovingia e per la sua precitata, supposta liaison con
le leggende del Graal - un riferimento "scritturale" più affidabile; sul genere, per intenderci,
delle inequivocabili affermazioni del Vangelo di Filippo. Di questo possibile riferimento, io
non sono a conoscenza ma reputo probabile una mia lacuna e sarei quindi ben lieto di avere
da Lei qualche attendibile indicazione in proposito.
Sempre in tema di fantasie, Le segnalo come Mircea Eliade, 10 in giovanissima età, avendo
accettato di fare una conferenza su Rama, avesse fiduciosamente tratto tutta la sua
documentazione da Les Grands Initiés dello Schuré per poi apprendere, con stupore e
rabbia, che quanto aveva esposto con tanta passione e convinzione, altro non fosse che una
specie di "racconto mistico" dell'inaffidabile autore. Questo per dirLe che, non solo i
riferimenti all'Induismo sia miglior cosa reperirli altrove m'anche le notizie sulle antiche
iniziazioni (alludo alle modalità di quella da Lei supposta per Lazzaro e quale effettivo
retroscena del miracoloso episodio) se - come mi sembra - hanno la stessa origine, non
trovano riscontri nella realtà in ogni tempo documentata e, per ragioni assai complesse,
meno che mai in un così remoto passato. Tali riti si sono svolti, sempre e soltanto, in forme
allusive e la morte alla vita profana, non portava certamente alle condizioni liminari dello
stato catalettico di morte apparente.11
La Chiesa, nella sua rigidezza exoterica,12 sta puntando tutto sulla totale storicità delle
Scritture; un riflesso di quest'atteggiamento lo si può riscontrare nell'ossessione antignostica dei gruppi più fondamentalisti. Ossessione, che può sembrare immotivata 13 se non
si conoscono i risvolti dei quali, appunto, Ella s'occupa nei suoi studi. L'errore di questo
arroccarsi è grande, perché è proprio nel punto di vista gnostico che sta la chiave per
comprendere il senso di quella "costruzione" di mitologhemi che è il Cristianesimo quale
oggi conosciamo14 ma non solo esso, essendo parimenti strutturate - anche se in modi e
misure diverse - tutte le forme tradizionali. Non fu per imbastire menzogne che ebbe quindi
ad operare quell'ignoto consesso, formato da esponenti qualificati del mondo giudaicocristiano e di quello classico ma per creare, secondo i procedimenti della teurgia, una sintesi
(non un complesso sincretico), un organismo, che fosse ‹‹un ponte fra l'uomo e il potere
misterioso che pone in essere il mondo››.15 Le ‹‹bugie››16- e non solo quelle - sono venute
dopo, specie quando si è persa, sia la cognizione dei fatti, sia la scienza, che permetteva ad
una élite di apprezzare il superiore grado di realtà del mito a fronte dello storicismo: è da
allora che la storia può creare sgomento.17
296
Credo che, appunto sul piano storico, Ella abbia ottenuto riscontri significativi ed invero
suscettibili di importanti sviluppi; Le faccio i miei complimenti ed i migliori auguri.>>
Mi rendo conto che, una vera e propria recensione avrebbe comportato un più ampio spazio
riassuntivo dei contenuti di quanto invece non sia loro dedicato in una serie di
considerazioni rivolte, al momento della loro formulazione, soprattutto allo stesso autore.
M'auguro però che tale manchevolezza vieppiù induca il lettore a rivolgersi, direttamente, ai
testi in questione.
Note
1
Il mio testo di riferimento è quello tratto da un vecchio indirizzo internet non più attivo; adesso, al
nuovo recapito (http://vangelo.supereva.it/vangelo.html?p) sono state apportate notevoli modifiche
ed arricchimenti. Presumo, comunque, che i testi possano essere ancora discussi nei termini nei
quali li affronto ma, chi voglia, può verificare.
2
In rete si può leggere quest'avvertimento: questo libro è stato pubblicato in Italia, nel 1994, da
Roberto Massari Editore, CP 144, 01023 Bolsena (VT) Tel. 0761/799831. Il testo è coperto da
copyright e la riproduzione in tutto il mondo è soggetta ad autorizzazione da parte della casa
editrice.
3
Inteso quale acrostico di Ιησους Χριστος Θεου Υιος Σοτηρ .
4
Uno il Messia regale, davidico, l'Unto del Signore (Re d'Israele) e l'altro il Messia sacerdotale
(Sommo Sacerdote). Questa duplicità gemellare presenta alcuni singolari rimandi: intanto è con
l'inizio dell'era cristiana che il punto vernale entra nell'asterismo dei Pisces. Costellazione il cui
segno astrologico è, appunto, doppio:  mentre il suo nome - al pl. - è in ebr. Dogim () . Altro
duplice simbolo astrologico è quello dei Gemini (), immagine dell'omofona, spartana ∆οκανα,
che, come emblema dei divini gemelli Castore e Polluce, era uno delle insegne della nazione.
Inoltre, rimanendo nell'area medio-orientale, il Dio dei Filistei era Dogon () , forse unico ma
ittiforme. Però, presso quel popolo, un richiamo alla gemellarità, l'abbiamo e con la stessa struttura
della ∆οκανα nelle due colonne sulle quali s'incentra la drammatica fine della storia di Sansone
(Gdc. 16.22-30). Su tutte queste coincidenze sarebbe utile intraprendere qualche studio specifico.
Cfr. anche il ns. "La Scandinavia e l'Africa" nel n. 2 di Episteme (p.33).
5
Le immagini e le scritte acheropite sono quelle - in specie nel Cristianesimo orientale - reputate
essere non opera dell'uomo ma miracolosamente prodottesi per volontà celeste.
6
1a ed. it. Il Santo Graal, Mondadori, 1982.
7
Pierre Plantard de Saint-Clair (il predicato è una fantasia del Sig. Plantard) sarebbe il sedicente,
ultimo Gran Maestro del fantomatico Priorato di Sion.
8
Cfr. Jean Robin, Rennes-le-Château, la colline envoûtée, éd Trédaniel, 1982.
9
È la leggenda della sopravvivenza di Gesù, del suo matrimonio con la Maddalena e della loro
avventurosa migrazione in Provenza. Da quest'unione sarebbero poi discesi i re Merovingi e da qui
scaturirebbe l'indiscutibile sacralità della Prima Razza (dal V sec. alla metà dell'VIII), la cui
insostituibile legittimità avrebbe reso usurpatori i sopravvenuti Pipinidi, Carolingi e Capetingi.
10
Le Promesse dell'Equinozio, memorie 1°, 1907 - 1937, Jaca Book, 1995; p. 76.
297
11
Tali "favolose" visioni del tema - che credo il Donnini utilizzi, al fondo, senza malizia - sono
purtroppo caratteristiche della non innocente deformazione d'ogni prospettiva iniziatica operata da
personaggi quali il noto giornalista Maurizio Blondet, sempre alla ricerca di qualcosa che possa
mostrare un supposto lato satanico di questa dimensione del sacro. Tuttora, infatti, l'iniziazione
massonica comporta un rito, che sottintende morte (alla vita profana) e resurrezione (alla vita nova).
12
È la ‹‹pietra›› dei Fedeli d'Amore: cfr. Luigi Valli, Il Liguaggio Segreto di Dante e dei Fedeli
d'Amore, Il Basilisco, Genova, 1988.
13
Dov'è, infatti, adesso, il rischio di un'eresia gnostica di massa? Eppure questi signori ne parlano
con singolare, insistita frequenza.
14
È l'opera di Paolo della quale, ampiamente, scrive il Nostro.
15
La citazione è relativa ad una suggestiva espressione dello stesso Donnini.
16
Ibidem.
17
Su quest'argomento cfr. il ns. "Efficere Deos" nel terzo numero di Episteme.
(BdAB)
298
Sintesi delle tesi di Donnini su Marco e Matteo
La tesi fondamentale del Donnini sulle origini storiche del cristianesimo, che ci
permetteremo di riassumere rimandando al suo sito per un eventuale approfondimento, è
che Gesù fu arrestato come pericoloso terrorista dai romani, e che fu da questi processato
con l'accusa di essersi dichiarato re dei giudei, stimolando attraverso questa pretesa regalità
una resistenza armata all'impero romano, finalizzata a liberare Israele dallo stato di
occupazione.
Gli elementi che l'autore porta a sostegno della sua tesi sono ricavati da una comparazione
tra la versione dei fatti fornita da Giovanni, Marco e Matteo, che porta a rilevare alcune
interessanti anomalie e differenze relative alle modalità dell'arresto e del processo di Gesù.
E' proprio da Giovanni che Donnini ricava due informazioni essenziali sull'arresto:
- il numero (600) di soldati romani utilizzati nella circostanza;
- il tentativo di resistenza armata, che vede nell'azione di Pietro (recise con la spada
l'orecchio di una delle guardie) la prova dell'opportunità di adottare una precauzione (ben
600 soldati) in apparenza eccessiva.
Un'ulteriore deduzione viene avanzata comparando Marco e Matteo. Donnini sottolinea la
curiosa simmetria tra il processo a Gesù di fronte a Caifa descritto in Matteo e quello di
fronte a Pilato descritto in Marco. Quest'osservazione si associa, a suo parere, all'inesistenza
del processo di fronte a Caifa, motivata dalla rilevazione di vari anacronismi, e dal fatto che
sarebbe stata ben possibile, contrariamente a quanto si sostiene nei Vangeli, una condanna
per lapidazione decisa autonomamente dal gran sacerdote; all'inattendibilità
dell'atteggiamento conciliante di Pilato e della liberazione di Barabba, il quale, come fa
notare Donnini, veniva denominato nelle antiche versioni dei Vangeli Iesous Barabbas,
cioè Gesù Figlio di Dio (Abba = Padre), generando così un'evidente anomala coincidenza.
In pratica Matteo sembra, sia rispetto a Marco che a Giovanni, preoccupato di mostrare
che i romani non sono responsabili della morte di Cristo, e che gli unici responsabili sono
invece gli ebrei. Con questa finalità, inventa un processo di fronte a Caifa, reinterpetrando
quella che era solo una consultazione che in Giovanni si svolge di fronte al suocero di Caifa
e non di fronte al sommo sacerdote.
Un'ultima interessante osservazione, che mostra la scarsa affidabilità di alcuni dei
riferimenti in Marco e Matteo, è l'attribuzione del termine Nazareno alla città di Nazaret.
Donnini mostra come i riferimenti topologici alla città di Nazaret, sulla base dei recenti
ritrovamenti archeologici, siano del tutto errati, arrivando a suppore che Nazaret non
esistesse neppure quando i due Vangeli vennero scritti, e che, invece, la città natia di Gesù
fosse Gamla, non a caso sede di disordini fomentati dagli zeloti in anni immediatamente a
ridosso di quelli che videro il nascere della prima comunità cristiana.
Tali osservazioni porterebbero alla conclusione che il Vangelo di Matteo (vedi processo a
Caifa) e quello di Marco (vedi problema inerente la città di Nazaret) sono di certo ed
entrambi stati rimaneggiati, probabilmente sia a ridosso del periodo che precede il 70 d.c.
che successivamente ad esso. In pratica, le affermazioni della patristica, che parlano di una
versione del Vangelo degli Ebrei (o dei Nazorei), e che segnalano come questo fosse una
versione ridotta del Vangelo di Matteo, priva di alcune parti essenziali quali la genealogia,
diverrebbe ora più chiara.
299
Sulla base delle ipotesi ora avanzate e di quelle esposte in precedenza, è possibile allora
proporre la seguente ricostruzione complessiva.
Il primo vero Vangelo fu scritto in ebraico e da questo furono tratti la versione greca del
Vangelo di Matteo e di quello di Marco. Inizialmente i giudeo-cristiani integrarono il loro
Vangelo inserendo la genealogia, e lo tradussero in greco per utilizzarlo come controvangelo rispetto a quello predicato da Paolo. Ci sembra poco probabile che siano stati essi
ad aggiungere (inventandolo) il processo di fronte a Caifa per evitare il sospetto di attività
sovversiva ed antiromana. Sulla stessa base fu, inizialmente, stilato il Vangelo di Marco,
ispirato dai suggerimenti di Paolo, ma approvato anche dalla Chiesa di Gerusalemme e da
Sila. In tale Vangelo si omisero le parti inerenti la Legge su consiglio di Paolo, e il testo fu
approvato da Gerusalemme che non intendeva appesantire l'evangelizzazione dei pagani in
linea con le decisioni del Concilio.
Con la scomparsa dei giudeo-cristiani seguita alla distruzione del Tempio, l'originale
Vangelo degli ebrei redatto in ebraico scomparve, anche grazie anche alla successiva
persecuzione contro l'eresia Ebionita. Alla sua traduzione in greco, fatta dai giudeo cristiani
con l'aggiunta di parti come la genealogia, vennero aggiunte ancora, in ambito paolino, le
sezioni inerenti il processo di fronte a Caifa, con lo scopo di eliminare eventuali messaggi
che potessero risultare antiromani. Le modifiche furono sicuramente introdotte dopo il 70
d.c., e quindi dopo la stesura del Vangelo di Luca. La spiegazione della denominazione
Gesù Nazareno con una presunta origine del Cristo nella città di Nazaret può essere fatta
risalire anch'essa al timore di possibili repressioni da parte dei romani. L'appellativo
Nazareno poteva infatti essere associato (e, secondo Donnini, lo era) alla sua appartenenza
alle sètte con tendenze indipendentiste, messianiche e sostanzialmente zelote. La modifica
fu dettata dalla constatazione che quel Vangelo era ormai troppo diffuso e noto per poterlo
dichiarare non valido (del resto era stato probabilmente quello utilizzato dai dodici). Il
Vangelo di Marco, non potè essere eliminato, per analoghi motivi e del resto, anche se non
abracciava le tesi di Paolo non le negava neppure. Probabilmente alla versione originale
greca furono successivamente aggiunte le sezioni inerenti la resurrezione.
Il Vangelo di Luca, la cui stesura dovette essere successiva a Matteo e Marco, ma
comunque precedente al 70 d.c., fu il primo ad introdurre inventandolo, il processo di fronte
a Caifa, ed insieme anche quello di fronte a Pilato. Sulla base del Vangelo di Luca furono,
probabilmente non molto dopo il 70 d.c., prodotte le modifiche che abbiamo menzionato
alla versione greca di Matteo. Tra queste c'è anche stata, probabilmente, l'introduzione della
funzione primaria di Pietro, che ha sostituito quella di Giacomo, per gli ovvi motivi dovuti
ai contrasti tra questi e Paolo. Il ruolo guida di Giacomo è viceversa chiaramente indicato
nel Vangelo apocrifo di Tommaso, ma è completamente assente nei canonici.
L'ipotizzata sequenza delle stesure dei Vangeli può quindi essere schematizzata come
segue:
Vangelo degli Ebrei in ebraico
(autore probabilmente Matteo)
Vangelo degli Ebrei tradotto in greco
(autori i giudeo-cristiani vicini alla chiesa di Gerusalemme, con l'aggiunta della genealogia)
Vangelo attribuito a Marco
(non scritto da Marco, ma da un discepolo di Paolo, e non in greco; estratto dal Vangelo
degli Ebrei, a meno di parti scomode alla predicazione di Paolo)
300
Vangelo attribuito a Luca
(scritto da Dema, lo stesso autore degli Atti; in linea con la Teologia di Paolo, con
l'aggiunta del processo a Caifa insieme a quello di fronte a Pilato)
Vangelo di Giovanni
Versione definitiva del Vangelo di Matteo
(ottenuta dalla versione in greco del Vangelo degli Ebrei, rimaneggiato sulla base del
Vangelo di Luca; in linea con la teologia paolina)
Versione definitiva del Vangelo di Marco
(ottenuta aggiungendo le sezioni conclusive sulla resurrezione; in linea con la teologia
paolina).
Come si evince dalla detta teoria, pur nella numerosità delle versioni, la fonte primaria ed
unica dei Vangeli è il Vangelo di Matteo (o Vangelo degli Ebrei), originariamente scritto in
ebraico. I rimaneggiamenti (nelle sole versioni greche) e la moltiplicazione dei Vangeli,
almeno di quelli cui si è fatto da un certo punto comune riferimento, sono essenzialmente
dovuti alla necessità di giustificare (nel caso di cristianesimo che si rifà a Paolo) o di
screditare (nel caso contrario di cristianesimo di origine giudea) la teologia ideata da Paolo
di Tarso.
301
Anomalie e anacronismi nei Vangeli:
alcune obiezioni alle tesi di Donnini
Aggiungiamo alla precedente sintesi alcune considerazioni personali, mirate a verificare la
rispondenza delle ipotesi avanzate relativamente ai Vangeli di Marco e Matteo nel sito sotto
specificato con quelle di Donnini. Questi, sulla base della precisione con la quale nei
Vangeli viene descritta la distruzione del Tempio, resta fermamente convinto che la
datazione dei Vangeli vada collocata di certo dopo il 70 d.c., anno della distruzione di
Gerusalemme da parte delle legioni di Tito. Ad avvalorare questa tesi egli adduce le
anomalie già menzionate, che dimostrerebbero una totale non conoscenza dei fatti e
dell'ambiente ebraico da parte degli autori dei testi evangelici. Sebbene siamo convinti della
presenza di manipolazioni dei testi, non riteniamo però, come fa l'autore in questione, che
dette manipolazioni siano avvenute dopo il 70, ma che siano, per lo più, databili tra il 52 ed
il 62 d.c., e cercheremo di dimostrarlo nei successivi paragrafi.
A Qumran si conosceva la sorte del Messia e di Gerusalemme prima del 70 d.c.
Cominciamo con il soffermare la nostra attenzione sull'elemento chiave che Donnini
adduce per la posdatazione dei Vangeli: l'impossibilità che gli evangelisti conoscessero ciò
che sarebbe avvenuto nel 70.
In realtà la cultura essena ed i Manoscritti qumramici ci dimostrano in maniera
chiarissima che gli esseni conoscevano benissimo, non solo la sorte della città santa e
del Tempio, ma anche la sorte del loro Messia.
In tal senso è emblematico il papiro 4Q541, che contiene la intera storia del Messia e le sue
caratteristiche:
- Colonna I (Frammento 2) - Il Messia parla in parabole
(1)... parole ... e secondo la volontà di (2) ... a me. Di nuovo egli scrisse (3) ... Parlerai su di
ciò in parabole (4) ... era vinino a me. Quindi fu lontano da me (5) ... la visione sarà
profonda ... il furto ...
- Colonna II - Consolatore degli afflitti elargitore di sapienza
(2) da Dio ... (3) Accoglierai gli afflitti (4) Benedirai i loro olocausti e tu stabilirai per essi
un fondamento di pace ... (5) tuo Spirito e ti rallegrerai nel tuo Dio. Ora io vi parlo in
parabole ... rallegrati. (6) Ecco un uomo saggio comprenderà che io osservo e comprendo
profondi Misteri, così pure io parlo ... parabole (7) Il greco non comprenderà. Ma la
Conoscenza della Sapienza verrà su di te poichè hai ricevuto ... acquisirai ... (8) Seguila [la
sapienza] e cercala e ne verrai in possesso per inghiottirla. Ecco tu allieterai molti ... molti
avranno un luogo.
- Colonna IV - L'espiazione, il Verbo eterno, ingiusta condanna del Messia, il dramma
degli ultimi tempi e l'esilio del popolo
302
(1) ... la sua Sapienza sarà grande. Farà espiazione per tutti i figli della sua generazione.
Sarà inviato a tutti i figli della sua generazione. La sua parola sarà come parola del Cielo ed
il suo insegnamento in accordo con la volontà di Dio. Il suo eterno sole brillerà ardente. (3)
E il fuoco avvamperà su tutte le estremità della terra. E sulle Tenebre rifulgerà. Allora le
Tenebre si allontaneranno (4) dalla terra e l'oscurità dalla terraferma. Pronunceranno storie
contro di lui, e diranno ogni genere di infamie su di lui. Egli rovescerà la sua malvagia
generazione (6) ci sarà una grande collera. Al suo risorgere vi sarà menzogna e violenza e il
popolo errerà nei giorni e saranno confusi.
Questo brano, come si vede, appare in perfetta linea con le previsioni apocalittiche che
ritroviamo nella profezia degli ultimi tempi che Matteo mette in bocca a Gesù. E se ancora
non bastasse ecco la prova finale che i papiri di Qumran, ben prima della distruzione del
Tempio, contenevano una perfetta sceneggiatura di ciò che sarebbe avvenuto:
- Colonna V - fustigazione del Messia ingiustamente accusato
(1) ... e coloro che sono colpiti in relazione a ... (2) ... tuo giudizio ma tu non sarai colpevole
... (3) le sferzate di coloro che ti affliggono ... (4) ... la tua protesta (?) non mancherà e
tutto ... (5) il tuo cuore innanzi.
- Colonna VI - i tre giorni di Giona, la Crocefissione del Messia e la resurrezione
(1) Dio porrà riparo agli errori ... egli giudicherà le colpe svelate ... quindi ... (2) Indaga e
ricerca e saprai come Jona pianse. E non sopprimere il debole annientandolo e con la
crocifissione ... (3) con un chiodo non lo devi toccare. Allora farai sorgere un nome di Gioia
per tuo padre e tutti i tuoi fratelli un saldo fondamento (4) ... Tu vedrai e gioirai nella Eterna
Luce e non sarai [odiato da Dio].
Si noti il riferimento a Giona, usato da Gesù per profetizzare i tre giorni che sarebbero
passati fino alla resurrezione, e soprattutto l'impressionante riferimento al chiodo e quindi
alla crocifissione.
Anomalie dell'arresto e dell'ultima cena spiegabili attraverso il substrato esseno
Un altro dei temi cari al Donnini, segnalato come indizio chiaro di una manomissione
postuma del testo evangelico, è rappresentato dalla cena pasquale e dall'anomalo arresto di
Gesù. Riteniamo che entrambi gli aspetti trovino giustificazione piena inquadrando i
vangeli (in particolare Matteo) nell'ambito della cultura essena qumraniana. In primo luogo
va osservato che la struttura organizzativa del gruppo che Gesù aveva formato rispecchia
chiaramente la struttura organizzativa della comunità qumraniana. In essa era prevista
un'assemblea di 12 membri laici presieduta da tre sacerdoti:
Nel consiglio della comunità (ci saranno) dodici uomini e tre sacerdoti, perfetti in tutto ciò
che è stato rivelato dell'intera legge, per praticare la verità, la giustizia, il giudizio,
l'amore misericordioso e la condotta umile di ciascuno con il suo prossimo… (1QS Col
8,1).
Nel caso della comunità che si riuniva intorno a Gesù i 12 membri sono chiaramente i 12
apostoli e i tre sacerdoti sono Giacomo, Gesù e Pietro (Giacomo, Giovanni e Pietro dopo la
303
morte di Gesù). In particolare a Qumran l'attesa messianica prevedeva non un Messia ma
due, uno della stirpe di Aronne (Giovanni il Battista si diceva figlio di Zaccaria, della stirpe
di Aronne) che avrebbe dovuto nominare il nuovo principe di Israele, il secondo messia
della stirpe di Davide (chiaramente Gesù figlio di Giuseppe della stirpe di Davide).
E' emblematico osservare che nelle scritture qumraniche è profetizzata la cena degli
ultimi tempi nella quale il Messia di Aronne avrebbe spezzato il pane dandolo per primo al
Messia di Davide, e successivamente si sarebbe distribuito del vino giovane (non
fermentato). La morte di Giovanni probabilmente fece sì che Gesù assumesse su di sé
entrambe le funzioni messianiche. Ma ci potrebbe essere una risposta ancor più interessante
che prende spunto da un pezzo originariamente presente nel Vangelo degli Ebrei,
probabilmente eliminato successivamente per la centralità che dava alla controversa figura
di Giacomo il Giusto, capo della Chiesa di Gerusalemme e della corrente giudaico-cristiana
antipaolina:
- [10] Dopo la risurrezione del Salvatore, anche il vangelo detto secondo gli Ebrei,
recentemente tradotto da me in lingua greca e latina e del quale fa spesso uso Origene,
afferma: "Dopo aver dato il sudario al servo del sacerdote, il Signore andò da Giacomo e gli
apparve". Giacomo infatti aveva assicurato che, dal momento in cui aveva bevuto al calice
del Signore, non avrebbe più preso cibo fino a quando non l'avesse visto risorto dai
dormienti. E poco dopo (prosegue): "Portate la tavola e il cibo" dice il Signore. E subito:
"Prese il pane, lo benedisse, lo spezzò e diede a Giacomo il Giusto, dicendo: Fratello mio,
mangia il tuo pane, poiché il figlio dell'uomo è risorto dai dormienti" (GEROLAMO, De
viris ill., 2).
Gesù spezza il pane e lo offre a Giacomo che, a questo punto, prende il posto del Messia
di Davide: ciò giustificherebbe perché lui, e non Pietro, divenne capo della comunità
cristiana di Gerusalemme.
In sostanza, i dubbi che Donnini solleva circa l'esistenza stessa della cena o la funzione
sacrilega nella cultura ebraica del cibarsi del corpo e del sangue (del pane e del vino) ci
paiono infondate. Donnini usa, a nostro avviso, il metro della cultura farisaica,
dimenticando che il nocciolo del cristianesimo non è il fariseismo ma l'essenismo
qumranico che, sappiamo bene, si discostava alquanto da quella cultura, accettando usanze
che erano vietate presso Gerusalemme come la magia, l'astronomia e l'astrologia. A nostro
avviso è proprio grazie alla segnatura con il sangue dell'Agnello che ai dodici fu permesso
di uscire durante la notte della vigilia di Pasqua per recarsi sul monte degli Ulivi. La notte
della vigilia di Pasqua segnava il ricordo, nella cultura ebraica, della strage dei primogeniti
avvenuta nella notte che precedette la fuga dall'Egitto. Le case segnate con il sangue
dell'agnello immolato non sarebbero state toccate dall'angelo vendicatore. Questa
maledizione sarebbe ricaduta su coloro che avessero abbandonato le case in quella notte, e
chiaramente impediva ad un ebreo di uscire di casa, salvo che, come nel caso dei 12, l'aver
bevuto il sangue dell'Agnello non simboleggiasse il segno posto sulla "casa del cuore". E
che Gesù non intendesse mangiare carne ma probabilmente far mangiare il simbolo di essa
è richiamato sempre negli scritti della patristica a proposito del Vangelo degli Ebrei:
[6] Abbandonando il vero ordine delle parole, alterano la frase, sebbene sia chiara da tutto il
contesto delle parole, e fanno dire ai discepoli: "Dove vuoi che ti prepariamo da mangiare
la pasqua?". Al che egli rispose: "Forse che io ho desiderato mangiare carne con voi in
questa pasqua?" (EPIFANIO, op. cit., 30, 22, 4).
304
Diversa è invece la motivazione che adduciamo a sostegno della veridicità dell'arresto
praticato durante la notte di Pasqua, segnalato invece da Donnini come ulteriore anomalia.
Gli esseni qumraniani utilizzavano un calendario solare di 364 giorni che differiva
sostanzialmente da quello ebraico in uso a Gerusalemme che invece era lunare. Il papiro
4Q321 ci consente oggi di conoscere il ciclo calendariale di 6 anni previsto per questo
calendario, e di conoscere l'equivalente giorno nel calendario ebraico. Oggi sappiamo, ad
esempio, che la vigilia della Pasqua essena veniva festeggiata in giorni diversi da quella
ebraica e cadeva sempre di Martedì. Ora caso vuole che, nel primo e terzo anno del ciclo, la
vigilia di Pasqua ebraica cada esattamente un giorno dopo quella essena, e quindi di
Mercoledì. Grazie a questa costatazione possiamo dare soluzione al problema sollevato da
Donnini, e pure ad un'altra anomalia che Donnini non ha notato: quella dei 3 giorni di
Giona.
Se supponiamo che Gesù seguisse l'usanza essena, egli festeggiò la Pasqua di
Martedì, il giorno prima della vigilia della Pasqua ebraica, quindi fu sicuramente
possibile l'arresto condotto dai farisei in un giorno che, per loro, non era tabù.
Inoltre la versione ufficiale della Passione prevede la morte il Giovedì, e di conseguenza
resterebbero soltanto 2 giorni (Venerdì e Sabato) "nel ventre della terra", e non 3, come
previsto dalla profezia in Matteo (12,40): "Come infatti Giona rimase tre giorni e tre notti
nel ventre del pesce, così il Figlio dell'uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della
terra".
Per spiegare questa anomalia bisogna, prima di tutto, ricordare che gli ebrei misuravano il
tempo da tramonto a tramonto, successivamente possiamo avanzare la seguente
ricostruzione:
1 - Martedì sera, arresto e processo con Caifa;
2 - Mercoledì mattina, crocifissione;
3 - Mercoledì, alle 3 del pomeriggio, la morte di Gesù.
Essendo il Mercoledì la vigilia della Pasqua ebraica, è chiaro che il significato che
assume Gesù è proprio quello dell'Agnello che viene sacrificato nella vigilia di Pasqua
prima del tramonto. In questo modo vi è l'automatica maledizione non di tutti gli
ebrei ma dei soli Farisei, colpevoli di aver interpetrato, come afferma Matteo, la legge
con metro di uomini.
Si comprende, così, perché quello di Gesù era il sacrificio di un giusto che malediceva gli
ingiusti: i farisei e la loro falsa Pasqua. Quel sacrificio doveva segnare la fine dei successivi
sacrifici che sarebbe avvenuta di lì a poco con la distruzione del Tempio. Ancora una volta
ci viene in aiuto la patristica che sempre con riferimento al Vangelo degli ebrei scrive:
- riferito in quel cosiddetto vangelo secondo gli Ebrei: "Io sono venuto ad abolire i sacrifici.
E se non cesserete dall'offrire sacrifici, non desisterà da voi l'ira" (EPIFANIO, op. cit., 30,
16, 4-5).
Si noti che i 3 giorni e le tre notti tornano, a questo punto, perfettamente:
- Mercoledì, Giovedì e Venerdì sera;
- Giovedì, Venerdì e Sabato mattina.
305
Ma c'è di più, questa ricostruzione elimina un'altra anomalia non sottolineata da Donnini:
la sigillatura operata dai farisei della tomba di Gesù il Sabato sacro, impossibile secondo la
tradizione ebraica. Infine essa ci pare perfettamente conciliabile con il solo Vangelo di
Matteo che afferma che la sigillatura avvenne "il giorno dopo che era Parasceve". Marco
interpretò questo termine, dall'ebraico probabilmente, con l'equivalente termine greco
avente il significato di Preparazione al sabato: cioè Venerdì. Nel Matteo ebraico,
probabilmente, questo termine era la distorsione del termine Erev Pesah cioè Vigilia di
Pasqua, distorsione introdotta dagli esseni per distinguere, probabilmente, la loro "vera"
vigilia di Pasqua da quella falsa farisaica.
In buona sostanza Marco ha generato, traducendo male il termine Parasceve (Erev
Pesah farisaica e quindi Giovedì) con "Preparazione" (al sabato) e quindi Venerdì
determinando gli errori nei successivi Vangeli Luca e Giovanni.
Vicinanza di Matteo alla cultura qumranica
Donnini ritiene possibile, se non reale, l'esistenza di un Vangelo degli Ebioniti, o un protoMatteo, segnalata dalla patristica, ma, a suo giudizio, gli elementi che abbiamo menzionato
ed altri che vedremo nei successivi paragrafi dimostrebbero che la nostra versione di questo
Vangelo sia molto distante da quello che, a suo giudizio, è l'unico testo scritto prima del 70.
A nostro avviso ci sono viceversa fondati motivi per ritenere il testo di Matteo
estremamente vicino alla versione originaria del proto-Matteo ebraico, e questi indizi sono
da ricercarsi, in linea anche con quanto ritenuto da Donnini, nell'essenismo dell'autore.
Vogliamo, in tal senso, mostrare il seguente brano tratto dal papiro 4Q521.
Frammento 1 Colonna II
(1) ... i Cieli e la terra obbediranno al suo Messia (2) ... e tutto quanto è in essi. Egli non si
allontanerà dai comandamenti santi. (3) Mantenendoli saldi al suo servizio, (voi) che
cercate il Signore. (4) Non troverete forse in questo il Signore, tutti voi che aspettate
pazientemente nei vostri cuori? (5) Perché il Signore visiterà i Pii (Hassadim) e i Giusti
(Zadddikim) li chiamerà per nome. (6) Sull'umile poserà il Suo Spirito e ristorerà il Fedele
con il suo Potere. (7) Egli glorificherà i Pii (Hassidim) sul Trono del Regno Eterno. (8)
Libererà i prigionieri, ridarà la vista ai ciechi, risolleverà gli oppressi ... (9) Per sempre
aderirò a Lui ... e avrò fiducia nella sua Pietà [Hased è anche Grazia] (10) e la Sua bontà ...
della Santità non sarà differita (11) E in quanto alle azioni gloriose che sono opera del
signore quando lui ... (12) allora risanerà i malati, farà risorgere i morti e annuncerà agli
umili felici notizie (13) ... Egli guiderà i santi.Egli li condurrà, Egli farà ... e tutto il suo ...
Frammento 1 Colonna III
(1) e la Legge sarà perseguita. Li libererà ... (2) Tra gli uomini, i padri sono onorati
dinnanzi ai figli ... (3) Canterò (?) la benedizione del Signore con il suo favore ... (4) La
terra andrà in esilio in ogni luogo ... (5) E tutto Israele in esilio ...
Gesù (in Matteo, 11,4-6) sembra richiamare proprio questa brano quando vuole mostrare
a Giovanni che in lui si avverano le profezie: "Gesù rispose: Andate e riferite a Giovanni
ciò che voi udite e vedete: i ciechi ricuperano la vista, gli storpi camminano, i lebbrosi
sono guariti, i sordi riacquistano l'udito, i morti risuscitano, ai poveri è predicata la buona
novella, e beato colui che non si scandalizza di me".
306
In pratica Gesù segue il canovaccio delle scritture qumraniane. Il fatto che questo brano
appartenga a Matteo e non a Marco, ed il fatto che Matteo preceda di certo Luca, ci
testimoniano come questo testo contenga elementi che non possono che provenire dalla
cultura esseno-qumranica che costituì, a nostro avviso, e ad avviso dello stesso Donnini, il
substrato per il nascente Cristianesimo.
L'automaledizione degli ebrei non è inattendibile
Un altro degli elementi che Donnini adduce per ritenere postuma la stesura dei testi
evangelici è la frase con la quale gli ebrei maledicono se stessi nel Vangelo di Matteo (27,
24-25): "Pilato, visto che non otteneva nulla, anzi che il tumulto cresceva sempre più,
presa dell'acqua, si lavò le mani davanti alla folla: "Non sono responsabile", disse, "di
questo sangue; vedetevela voi!". E tutto il popolo rispose: "Il suo sangue ricada sopra di
noi e sopra i nostri figli"."
Alcuni elementi presenti nelle lettere paoline ci inducono a ritenere che Paolo avesse
conosciuto la versione ebraica del Vangelo di Matteo utilizzata dai suoi oppositori a
Corinto. In particolare la versione dell'ultima cena che ritroviamo nella prima lettera ai
Corinzi (Cor. 1,23-27), con l'enfasi posta sulla funzione di remissione dei peccati, e
soprattutto le parole utilizzate da Paolo a Corinto quando, in seguito all'abbandono di Sila,
egli decide di concludere la predicazione ai giudei: "Il vostro sangue ricada sul vostro capo:
io sono innocente" (Atti 18,6); frase, questa, che ha due soli paralleli apprezzabili nel
Nuovo Testamento:
- Mt 23,34-35: "Perciò ecco, io vi mando profeti, sapienti e scribi; di questi alcuni ne
ucciderete e crocifiggerete, altri ne flagellerete nelle vostre sinagoghe e li perseguiterete di
città in città; perché ricada su di voi tutto il sangue innocente versato sopra la terra",
e coincide soprattutto con l'invettiva pronunciata dagli ebrei contro Gesù al momento della
sua condanna morte nel Vangelo - appunto secondo Matteo - quella che Donnini ritiene
anacronistica, ma che invece sembra ispirare Paolo ben prima del 70 d.c. (52 d.c.).
In pratica, la maledizione lungi dall'essere inattendibile è stata realmente inserita
nel proto-Matteo, e non riguarda tutti gli ebrei ma i soli Farisei e Scribi, rientrando
perfettamente nella polemica antifarisaca caratteristica di Matteo e comune ai testi
qumraniani. In questo contesto ci pare plausibile anche il dito puntato contro Caifa e
contro il sinedrio e di conseguenza lo stesso processo alla presenza di Caifa.
Il ritrovamento recente della tomba di Caifa, in cui è stato rinvenuto il teschio con una
moneta tra i denti, chiara usanza pagana, testimonia l'ambiguità di questo personaggio. Tale
ambiguità nel contesto dei documenti qumraniani quali le "Lettere sulle opere di Giustizia",
che criticano aspramente le cerimonie al Tempio, e le violazioni delle norme di purezza
compiute dagli stessi sacerdoti, ci sembrano giustificare l'atteggiamento ostile alla classe
sacerdotale, e prima di tutto a Caifa, nel testo di Matteo. A partire da questa constatazione,
dalla situazione personale di Paolo a Corinto fortemente avversato dai giudeo-cristiani, e da
alcuni elementi riscontrabili nel Vangelo di Marco (Mc 15,21), quali la presenza di
Alessandro il ramaio Efesino, (Atti 19,31) scomunicato da Paolo nel 62 a Roma, (I Tim.
1,20 e II Tim. 4,14), e di Rufo, personaggio anch'esso presente ad Efeso nel 52d.c. (Rom.
307
16,3), riteniamo di poter collocare la stesura del Vangelo di Marco ad Efeso nel 52d.c.
Il testo doveva servire per contrastare le parti pericolose per la nascente teologia paolina.
Partendo quindi dalla versione ebraica di Matteo, Paolo fece redigere il testo, con
l'omissione di elementi quali:
- il discorso della Montagna, con il richiamo alla validità della Legge;
- la polemica antifarisaica (Paolo era Fariseo);
- la supremazia di Pietro (che Paolo avversava, vedi le lettere ai Corinti e ai Galati);
- la funzione centrale del battesimo di Giovanni come premessa necessaria alla missione di
Gesù (Paolo, proprio ad Efeso, incontra un gruppo di giudei convertiti al battesimo di
Giovanni e vuole sminuirne la portata)
Con la scomparsa dei giudeo-cristiani seguita alla distruzione del Tempio, il Vangelo
degli ebrei originale in ebraico scomparve, anche grazie alla successiva persecuzione contro
l'eresia Ebionita. Diversa sorte toccò al Vangelo di Marco, che Paolo inviò nella capitale - a
nostro avviso, per mano del gruppo di giudeo-cristiani di rientro da Efeso - insieme alla
Lettera ai Romani. Il fatto che quel testo fu scritto in un greco approssimativo, ben diverso
dal greco del testo di Matteo, è a nostro avviso una prova che l'autore non era un asiatico
ma, probabilmente, un giudeo-romano, buon conoscitore dell'ebraico, che tradusse il testo
ebraico di Matteo ponendo enfasi sulla sua conoscenza della cultura ebraica e dei luoghi
della Giudea per sopperire ad una evidente totale mancanza di informazione sui fatti narrati
(la sua unica fonte è il testo ebraico di Matteo). La presenza a Roma del testo e la leggenda
della discesa a Roma del primo degli apostoli e del suo legame stretto con Paolo favorirono,
a nostro avviso, l'attribuzione di questo testo ad un personaggio che sicuramente non può
essere il vero autore, e cioè Marco (che non era ad Efeso nel 52 d.c.), figlio del primo degli
apostoli (1 Pt. 5,12 , Mt 8,14). Luca, venuto in possesso dei due Vangeli, Marco e Matteo,
utilizzò Marco come canovaccio confermandone alcune scelte, e Matteo per integrare le
narrazioni. Alcune modifiche, probabilmente, furono introdotte dopo il 70, e dopo la stesura
del Vangelo di Luca. Anche la presenza della giustificazione dell'appellativo Nazareno con
la pretesa origine di Gesù nella città di Nazaret giustifica, per le motivazioni già addotte,
l'attendibilità di questa ipotesi.
Il Vangelo di Luca, la cui stesura dovette essere successiva a Matteo e Marco, ma
comunque precedente al 70 d.c., calcò la mano sull'innocenza di Pilato, ed introdusse le
sezioni del Capitolo 23,6-16 con le quali si discolpava lo stesso Erode, facendo ricadere,
però , la colpa non più sui soli Farisei e Scribi - come avveniva in Matteo - ma su tutti gli
Ebrei, scelta che verrà confermata anche nel successivo volume attribuito al medesimo
autore: gli Atti. Questa scelta antisemita aveva avuto origine dallo scisma tra Paolo ed il
giudeo-cristianesimo gerosolomitano, di cui troviamo una chiarissima traccia nella prima
lettera di Paolo ai Tessalonicesi (1,14-16): " … come loro da parte dei Giudei, i quali
hanno perfino messo a morte il Signore Gesù e i profeti e hanno perseguitato anche noi;
essi non piacciono a Dio e sono nemici di tutti gli uomini, impedendo a noi di predicare ai
pagani perché possano essere salvati".
I motivi che ci spingono a credere che la stesura di questo testo sia collocabile a
Gerusalemme nel 58 d.c. sono molteplici:
- l'autore degli Atti si riaggancia al suo precedente testo, il Vangelo di Luca;
- gli Atti terminano ispiegabilmente nel 62 d.c. con gli arresti domiciliari a Roma di Paolo;
308
- l'autore è testimone oculare di alcuni dei fatti narrati negli Atti: in particolare è presente in
tutti i viaggi via mare dopo il Concilio di Gerusalemme (Atti 15);
- l'autore non può aver conosciuto ed approfondito i fatti che narra se non durante l'ultimo
drammatico viaggio a Gerusalemme di Paolo nel 58 d.c., con il suo soggiorno di 2 anni
(solo in quella data potè avere qualche contatto con la chiesa gerosolimitana);
- non esiste alcun motivo valido che giustifichi la sospensione della narrazione delle
vicende paoline al 62 d.c., se non che quello è l'anno in cui fu terminata la stesura del libro.
Dubbi seri nascono in relazione all'attribuzione di questo testo al medico Luca (Col.
4,14). L'autore sembra un ottimo conoscitore di tecniche di navigazione ed è presente
sempre nei viaggi che coinvolgono percorsi via mare (in particolare sulla rotta Triade Tessalonica); viceversa non si può dire lo stesso per le sue conoscenze mediche, che paiono
scadenti.
Riteniamo di poter identificare l'autore non in Luca, ma in Dema sulla base delle seguenti
constatazioni:
- la detta altrimenti inspiegabile interruzione degli Atti nel 62;
- l'abbandono di Paolo da parte di tutti gli asiatici a Roma, ultimo dei quali fu Dema
(abbandona Paolo e parte per Tessalonica (II Tim. 4,10);
- la permanenza del solo Luca con lui (II Tim. 4,11);
- il fatto che nelle lettere Luca e Dema sono sempre menzionati insieme.
Ricapitolando, la sequenza delle stesure dei Vangeli da noi ipotizzata può essere
schematizzata come segue:
Vangelo degli Ebrei in ebraico
(autore probabilmente Matteo - scritto intorno al 42-48)
Vangelo attribuito a Marco
(non scritto da Marco ma da un discepolo di Paolo, un giudeo-romano rifugiatosi ad Efeso
dopo la persecuzione di Claudio, e ritornato a Roma tra il 52 ed il 54, recando la lettera ai
Romani che annunciava l'imminente arrivo di Paolo nella capitale. Questo testo rappresenta
un estratto dal Vangelo degli Ebrei, a meno di parti scomode alla predicazione di Paolo)
Vangelo degli Ebrei tradotto in greco (Matteo in greco)
(autori i giudeo-cristiani vicini alla chiesa di Gerusalemme, con l'aggiunta della genealogia
e della natività - scritto intorno al 52-58)
Vangelo attribuito a Luca
(scritto da Dema, lo stesso autore degli Atti, intorno al 58-60)
Atti degli apostoli
(scritti dallo stesso Dema, intorno al 62)
Vangelo di Giovanni
Versione definitiva del Vangelo di Matteo
(ottenuta dalla versione in greco del Vangelo degli Ebrei, rimaneggiato sulla base del
Vangelo di Luca, e in linea con la teologia paolina)
309
Versione definitiva del Vangelo di Marco
(ottenuta aggiungendo le sezioni conclusive sulla resurrezione, ancora in linea con la
teologia paolina).
Conclusioni
Molte delle discrepanze e delle anomalie riscontrate da Donnini nei Vangeli sembrano
sollevare seri dubbi sull'affidabilità storica del contenuto di questi, e, all'apparenza,
sembrano giustificabili solo supponendo che la data della loro stesura sia molto lontana
dagli eventi narrati. In realtà questa conclusione, peraltro sostenuta pressoché
unanimemente dalla moderna esegesi, prescinde da un'irrinunciabile chiave di lettura: la
lotta tra il giudeo-cristianesimo di origine esseno-qumranica ed il cristianesimo paolino.
Testi come Marco e Luca, pur elaborati in date prossime a quelle degli eventi narrati,
rivelano una totale mancanza di informazione o comunque una informazione estremamente
approssimativa, ma questa caratteristica è spiegabile osservando la distanza fisica e
culturale abissale che separa Paolo (nel cui ambito nascono i due testi) dalla comunità
gerosolimitana e giudeo-cristiana.
A differenza di Donnini, non riteniamo che tali opere abbiano subito rimaneggiamenti
pesanti in anni successivi al 70, se non per le parti che li ricollegano saldamente alla cultura
giudeo-cristiana (in particolare per l'omissione totale dei rapporti tra Gesù e il fratellastro
Giacomo, e la designazione di questi quale capo della nascente comunità cristiana alla
morte di Gesù). La loro diffusione doveva essere già notevole, e la stessa constatazione che
ci sono pervenute diverse versioni dei Vangeli, che pur mantenendo contenuti simili
vengono distinte per il nome dell'autore, ci dimostra che più che rimaneggiare testi
manipolandone il contenuto, si era soliti stenderne di nuovi. Del resto è difficile pensare che
testi di così larga diffusione, (abbiamo segnalato l'uso del Matteo ebraico nelle regioni
greche evangelizzate da Paolo) potessero subire rilevanti modifiche, se, come abbiamo
ipotizzato, se ne colloca la stesura in anni in cui erano ancora vivi i testimoni oculari.
Insomma, ferma restando l'inattendibilità di Marco e Luca, riteniamo che Matteo, per la
vicinanza estrema ai testi qumranici che erano ignoti a qualunque altra letteratura a noi
pervenuta, rappresenti, nel complesso, il più attendibile del Vangeli.
(Sabato Scala)
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Il portale della ricerca storica innovativa sulle Origini del Cristianesimo
310
La doppia anima del Cristianesimo
(Mario Smargiassi)
L'ipotesi di una doppia anima del cristianesimo primitivo, ovvero di una polarizzazione del
primo dibattito cristologico attorno a due opposte interpretazioni della missione storica di
Gesù, mi pare la più plausibile per spiegare le numerose oscillazioni e contraddizioni che
emergono da una lettura, anche superficiale, dei testi evangelici. Queste contraddizioni, ad
una prima analisi davvero sconcertanti, appaiono in diversa luce se dislocate in un ambito
evolutivo e diacronico, se cioè nel loro insorgere si ravvisano le dinamiche conflittuali di
una comunità religiosa che tentava faticosamente di ridisegnarsi e riorganizzarsi dopo i
tragici avvenimenti del 70 d.C. Il cristianesimo come dottrina della salvezza di tutti gli
uomini non sarebbe allora l'autentico nucleo della predicazione del Gesù storico, che non
aveva alcuna intenzione di fondare una religione extragiudaica e che, in modo del tutto
coerente, affermava di essere venuto soltanto per le "pecore perdute della casa di Israele".
L'impressione tratta dai miei primi studi sulle origini del cristianesimo è che più ci
avviciniamo al Gesù della storia, più risulta sfocata ed improbabile l'immagine del
predicatore pacifico, apolitico, filo-romano, anti-ebreo che la tradizione ecclesiastica ha
consolidato lungo i secoli e che tuttora splende incontrastata nella mente di moltissimi
credenti e non-credenti. Paradossalmente, i risultati dell'indagine storica sulla figura di
Cristo conducono ad una erosione delle differenze che tradizionalmente hanno diviso la
fede di ebrei e cristiani: non nel senso, puramente apologetico, di un superamentoinveramento, di una Aufhebung, per cui il cristianesimo sarebbe la verità più profonda
dell'ebraismo, il compimento delle promesse dell'ebraismo; ma nel senso, assai meno
rassicurante per i cristiani, di una totale e consapevole appartenenza di Gesù Cristo alle
proprie radici giudaiche.
Gesù era ebreo e tale voleva restare; il "regno di Dio" che egli intendeva stabilire tra gli
uomini era, con ogni probabilità, un regno di questo mondo. Fin dai primi decenni di vita
del cristianesimo, l'appello di Gesù alla preparazione del "regno" è stato rimodellato nelle
sue linee essenziali, cioè privato della pungente ed inequivocabile accezione politica che
originariamente possedeva, e interpretato in termini puramente spirituali e trascendenti. Del
resto, è estremamente significativo il fatto che gli stessi Vangeli canonici, per molti aspetti
frutto del revisionismo paolino, manifestino le tracce indelebili della dimensione
messianico-politica della predicazione di Gesù (l'interesse per la questione del tributo, la
presenza di combattenti zeloti nella cerchia degli apostoli, l'episodio della "purificazione
del tempio", la condanna a morte per sedizione, la crocifissione, ecc.).
Questi elementi attraversano come un filo rosso la narrazione evangelica e sconfessano
patentemente la diffusa convinzione secondo la quale Gesù avrebbe compiuto la propria
missione storica in una sovrana indifferenza rispetto ai fermenti politici del suo tempo,
chiudendo gli occhi sulla situazione reale del suo popolo, o addirittura santificando il giogo
dell'oppressione romana con la dottrina dell' "amore per il nemico". E' assai più probabile,
come molti studiosi hanno fatto notare, che i capisaldi di questa celebre dottrina siano stati
elaborati da Paolo, che non era affatto interessato alla concreta figura storica di Gesù, ma al
Cristo eterno e trascendente, paradigma della parola divina, redentore dell'umanità intera,
estraneo alle vicende particolari che punteggiano la storia dei popoli e decidono del loro
destino terreno.
311
Questo Cristo paolino, divinizzato e degiudaizzato, quindi lontanissimo dal Gesù
condannato a morte da Pilato e crocifisso come "re dei Giudei", era l'incarnazione di
tensioni ed esigenze profonde che la catastrofe del 70 d.C. avrebbe ulteriormente
radicalizzato e condotto ad una soglia critica. Il lento tramonto delle prospettive di
liberazione dal dominio romano giocò in favore della riforma paolina e, con la scomparsa
della Chiesa di Gerusalemme, che rappresentava per così dire l'anima giudaica del
cristianesimo primitivo, cioè quella più vicina al Gesù storico, la nuova immagine di Gesù
divenne sempre più vincolante ed "autentica". La storia, com'è noto, è scritta dai vincitori. Il
cristianesimo riformato di Paolo è il cristianesimo che ha vinto la lotta per l'esistenza, è la
forma di cristianesimo che la storia ha selezionato e trasmesso fino ai nostri giorni,
nonostante tutte gli scismi, le divisioni, le eresie che ne hanno segnato il cammino.
Senza potermi ora addentrare nella ricerca delle cause di questo successo, vorrei proporre
un'ipotesi: il cristianesimo paolino è sopravvissuto alle tempeste della storia non tanto per la
sublimità dei valori che incarnava, quanto per l'estrema indeterminatezza dei contorni della
sua dottrina, una indeterminatezza che ha significato flessibilità ed adattabilità del
messaggio al mutare delle situazioni economiche, politiche e sociali. Solo al prezzo di
questo "principio di indeterminazione" il cristianesimo avrebbe potuto sopravvivere nelle
difficili congiunture storiche che, di volta in volta, ha dovuto affrontare; configurandosi, di
volta in volta, come religione dei martiri o degli imperatori, dei re taumaturghi o dei
giacobini, del socialismo popolare o del capitalismo selvaggio, della teocrazia politica o
della secolarizzazione tecnologica.
Non bisogna passare sotto silenzio, poi, la frequente riscoperta degli aspetti "militaristici"
della missione di Gesù in situazioni contingenti di pericolo per la Chiesa: in tali circostanze,
non è stato certo l'amore per il nemico a proteggere i vecchi equilibri dalla minaccia di
dissoluzione; semmai, è stata la pura e semplice volontà di potenza, talvolta esercitata in
modo brutale. Una volontà di potenza che, attualmente, appare sopita o che, quantomeno,
percorre strade meno violente ed autoritarie; ma ciò avviene proprio perché minori sono i
pericoli per la stabilità complessiva della Chiesa.
Oggi, l'Occidente sembra un cimitero di ideologie e il cristianesimo è di fatto l'ultima
grande "ideologia" capace di infiltrarsi con successo nelle maglie della società capitalistica
matura e di costituire anche (ma fino a che punto?) un'alternativa, adombrando una
prospettiva di trascendenza e di salvezza nel macrocosmo di una civiltà tecnologica alle
prese con problemi ed inquietudini che nascono dal suo stesso cuore.
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312
Dio non avrebbe mai scritto un libro come la Bibbia
(David Donnini)
La Bibbia: il Libro dei libri, la scrittura più tradotta, stampata e diffusa in tutto il mondo...
Per molti (centinaia di milioni di esseri umani, o forse miliardi) essa è la "parola di Dio",
ovverosia ciò che il Creatore in persona avrebbe voluto comunicare agli uomini, nel corso
della storia, attraverso la penna di scrittori ispirati. Anche se esistono vaste aree del pianeta
in cui non prevale la civiltà cristiana (Cina, India, paesi arabi...) la parte tecnologicamente
ed economicamente più evoluta dell'umanità è caratterizzata da questo elemento comune: la
Bibbia come riferimento culturale e spirituale. Negli Stati Uniti si trova una Bibbia nel
comodino di ogni camera d'albergo e il presidente eletto giura il suo impegno di fedeltà
sulla Bibbia. In conseguenza di ciò la Bibbia fornisce alcuni criteri fondamentali nella
struttura del nostro pensiero, della nostra etica, delle nostre scelte, del nostro
comportamento. E questo, naturalmente, sia in coloro che la riconoscono come autorità
spirituale, sia in coloro che non la accettano.
Ovviamente la Bibbia è un testo di importanza enorme, non fosse altro per il fatto che essa
è il pilastro culturale dell'occidente, ma anche perché essa costituisce, come scrittura che ci
giunge dai lontani secoli trascorsi, una delle più importanti fonti storiche per la conoscenza
del passato, della storia, delle tradizioni, della cultura antica, delle credenze. In questo senso
essa non ha comunque un particolare primato, dal momento che si affianca ad altre opere
altrettanto importanti che, come la Bibbia, ci mettono in contatto con le civiltà di un tempo
e con le loro tradizioni: l'epopea di Gilgamesh, la mitologia greca, i testi vedici e il
Mahabaratha, ecc...
Se oppongo alcune critiche alla Bibbia, non é ad essa in quanto tale, ma all'approccio
culturale che il mondo occidentale ha nei confronti di quel testo. Il problema, infatti, non è
il fatto di leggere o di studiare la Bibbia, ma il fatto di credere ciecamente che essa sia la
"parola di Dio" e che i valori e l'etica da essa rappresentati siano valori universali, sicuri in
quanto firmati da Dio in persona, indiscutibili nella loro positività data per scontata.
Sebbene la Bibbia debba comunque essere considerata un punto importante di riferimento
culturale, il genere di approccio che abbiamo appena descritto può essere letteralmente
calamitoso e, di fatto, lo è moltissimo. Ai tempi di Galileo Galilei e, poi, di Charles Darwin
l'attaccamento dogmatico alla Bibbia costituì in modo particolarmente evidente un infelice
ostacolo al progresso della conoscenza e alla libertà della ragione. Vogliamo forse credere
che l'epoca dell'oscurantismo biblico sia ormai conclusa? È facile distinguere i fattori
inibitori del pensiero, quando questi appartengono ad un passato ampiamente superato, ma
non è altrettanto facile vederli mentre essi sono operativi, mentre siamo noi stessi circondati
dal presente e dai suoi condizionamenti psicologici e culturali.
Talmente radicata è la consuetudine di considerare la Bibbia come una fonte di verità
assoluta, consuetudine prodotta e difesa dall'istituzione ecclesiastica, spesso coi metodi di
una atroce tirannia, che oggi è impresa quasi sovrumana il tentativo di sostenere e
diffondere un atteggiamento critico nei confronti della Bibbia, dei suoi contenuti e della sua
autorità. Il primo effetto è, innanzitutto, quello che l'operazione sia fraintesa come una
crociata sterminatrice, con tanto di cataste di libri le cui pagine vanno a fuoco nel mezzo di
una piazza in cui si è data appuntamento una folla di esaltati miscredenti. In realtà queste
barbarie, a suo tempo, furono compiute proprio da coloro che volevano imporre e difendere
313
l'autorità indiscussa della Bibbia, con la differenza che l'odore, oltre a quello della carta
bruciata, era assai spesso quello della carne umana. Senz'altro, nella lunga e varia raccolta
delle possibili attitudini ci sarà anche una ostilità violenta e inculturale verso la Bibbia, ma
non è questo il mio caso, e non è il caso della grande maggioranza di coloro che sono
favorevoli ad un approccio critico nei suoi confronti.
Se potessimo leggere la Bibbia con atteggiamento libero dalla suggestione culturale che
secoli di consuetudine e di autorità hanno determinato, sarebbe molto semplice convincersi
innanzitutto di un fatto: che essa è un grandissimo testo di epica, di storia, di geografia, di
poesia, di teologia e di filosofia, di cui l'autore più improponibile è esattamente il
Creatore dell'universo.
Già fin dalle prime pagine della Genesi troviamo una serie di concetti (che ispirano le
religiosità ebraica e cristiana, ma indirettamente anche quella islamica) che difficilmente un
Dio creatore di tutto l'universo avrebbe mai potuto indicare all'umanità come principi
spirituali:
1 - innanzitutto perché la Bibbia nega, con la sua rappresentazione dell'evento
creativo, una visione evoluzionistica,
"...Dio fece le bestie selvatiche secondo la loro specie e il bestiame secondo la propria
specie e tutti i rettili del suolo secondo la loro specie. E Dio vide che era cosa buona..."
[Gen I, 25],
2 - poi perché stabilisce una visione totalmente antropocentrica:
"...Dio disse: - Facciamo l'uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza..." [Gen I, 26],
3 - e ancora perché stabilisce una superiorità di principio dell'uomo sulla donna,
configurando un maschilismo assoluto:
"Poi il Signore Dio disse: - Non è bene che l'uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli
sia simile -. Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli
uccelli del cielo e li condusse all'uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque
modo l'uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo
nome. Così l'uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutte le
bestie selvatiche, ma l'uomo non trovò un aiuto che gli fosse simile. Allora il Signore Dio
fece scendere un torpore sull'uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e
rinchiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio plasmò con la costola, che aveva tolta
all'uomo, una donna e la condusse all'uomo..." [Gen II, 18-22],
"Alla donna disse: ... verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà" [Gen III, 16]
4 - e ancora perché, invece di insegnare il rispetto per la natura, dichiara che
l'umanità può soggiogare a suo libero piacimento la terra e tutti gli esseri che vivono
in essa:
"Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del
mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra..." [Gen I, 28]
5 - e ancora perché il Dio biblico stabilisce il concetto supremo della colpa e del
castigo, stabilendo persino che le colpe dei padri ricadono sui figli:
"...All'uomo disse: -Poichè hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato dell'albero,
di cui ti avevo comandato: Non ne devi mangiare, maledetto sia il suolo per causa tua!
Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e
mangerai l'erba campestre. Con il sudore del tuo volto mangerai il pane; finchè tornerai
alla terra, perchè da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere tornerai!-..." [Gen I,
17-19].
6 - e infine perché insegna una visione razzista dei rapporti fra gli uomini, con popoli
che sono benedetti ed altri che sono maledetti:
314
"...I figli di Noè che uscirono dall'arca furono Sem, Cam e Iafet; Cam è il padre di Canaan.
Questi tre sono i figli di Noè e da questi fu popolata tutta la terra..." [Gen IX, 18-19],
"...allora disse: - Sia maledetto Canaan! Schiavo degli schiavi sarà per i suoi fratelli!"
[Gen IX, 25],
"...Disse poi: - Benedetto il Signore, Dio di Sem, Canaan sia suo schiavo! Dio dilati Iafet e
questi dimori nelle tende di Sem, Canaan sia suo schiavo!..." [Gen IX, 26-27],
"...I figli di Iafet: Gomer, Magog, Madai, Iavan, Tubal, Mesech e Tiras... I figli di Cam:
Etiopia, Egitto, Put e Canaan... I figli di Sem: Elam, Assur, Arpacsad, Lud e Aram..." [Gen
X, 1,6,22].
In fine di conti, in quest'epoca di esplosione demografica e di emergenze ecologiche, come
possiamo veramente convincerci di avere commesso errori gravissimi, e dell'urgenza di
correre a drastici ripari, se Dio stesso ci avrebbe invitati, nell'apertura del suo presunto
libro, a "...moltiplicarci, riempire la terra, soggiogarla e dominare su ogni sua creatura"?
Non è forse proprio ciò che abbiamo fatto finora? E, infatti, mi pare che il clero cristiano
abbia sempre visto con grande ostilità qualunque politica di controllo demografico,
qualunque campagna di educazione demografica o di educazione all'uso consapevole dei
sistemi di contraccezione. Da un lato questo è dovuto senz'altro ad un irriducibile
atteggiamento sessuofobo, ma dall'altro è dovuto anche alla convinzione che la Bibbia non
possa sbagliarsi così clamorosamente e che il Signore non possa averci dato indicazioni
cattive.
Come possiamo veramente liberarci da una mentalità maschilista e convincerci della parità
di principio fra i sessi, al di là di ipocrite apparenze, se Dio stesso avrebbe creato la donna
in un secondo momento, come compagnia gregaria dell'uomo, solo dopo aver prima provato
con ogni sorta di animale (...!), e se Egli stesso avrebbe solennemente dichiarato ad Eva:
"...verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà". E, infatti, mi pare che il clero
cattolico, al di là delle sue aperture di secondaria importanza, abbia sempre difeso certi
ruoli tradizionali dei sessi e sia irriducibilmente legato al presupposto che la donna non sarà
mai degna del sacerdozio.
Come possiamo veramente liberarci dai residui inconsci di una attitudine razzista, i cui
affioramenti in epoca moderna si fanno piuttosto evidenti allorché i popoli della miseria
bussano alle porte dei popoli della ricchezza, se Dio stesso avrebbe deciso di maledire
alcune discendenze, come popoli interi (i camiti, per esempio, ovverosia gli africani), e di
eleggere alcuni altri a suoi favoriti? E, infatti, mi pare che il mondo cristiano in generale
non sia mai riuscito ad eliminare dal proprio retaggio l'attitudine razzista e che abbia saputo
far tesoro delle indicazioni bibliche con la tratta degli schiavi negri, o con l'antisemitismo,
visto che lo stesso Vangelo di Matteo sancisce la condanna degli ebrei in quanto razza, con
la frase "E tutto il popolo rispose: - Il suo sangue ricada sopra di noi e sopra i nostri figli -"
(Mt XXVII, 25).
E come potremmo emanciparci da uno spirito vendicativo se è Dio stesso che compie
vendetta? Come potremmo convincerci che le guerre e gli eserciti sono realtà di cui
dobbiamo imparare a fare a meno, se è Dio stesso il Signore degli eserciti che conduce i
suoi favoriti alla vittoria militare e allo sterminio dei loro nemici? Come potremmo
imparare ad odiare il potere e la ricchezza, se è Dio stesso che innalza i potenti? Come
potremmo credere nella vera misericordia se Dio stesso è il castigatore che infligge l'eterna
pena? Dove possiamo trovare la spinta per liberarci dalle nostre peggiori passioni, quando il
Signore esige sacrifici di sangue per espiare le offese ricevute attraverso il peccato, e manda
a morte tutti i neonati di Betlemme salvando solo il suo figlio?
La verità è che lo YHWH del Vecchio Testamento, frutto della umana fantasia letteraria e
teologica, è geloso e vendicativo, possessivo e violento, spietato e orgoglioso. Egli può
315
avere creato, tutt'al più, l'inferno, non l'Universo. Egli è soltanto la proiezione
sovrannaturale di un particolare modello umano, quello della società semitica maschilista,
autoritaria, bellicosa dell'epoca in cui le scritture bibliche furono redatte. Egli rende
onnipotenti tutte le peggiori attitudini dell'uomo, le quali, grazie al vero Dio, sono tutt'altro
che onnipotenti.
Noi dobbiamo studiare profondamente la Bibbia, per conoscere le nostre origini storiche e
culturali, e per imparare a gettare alle nostre spalle la spiritualità rozza e primitiva che essa
rappresenta, rendendo così finalmente possibile l'emancipazione verso una spiritualità più
adulta, universale, adeguata a quello che siamo e ai problemi che abbiamo.
(Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio - L'incredulità di S. Tommaso)
316
Come nacque la Bibbia
Indagine critica sulle radici storiche del Vecchio Testamento
(David Donnini)
1 - UN FARAONE PARTICOLARE.
Una ventina d'anni fa, mentre rovistavo nella vecchia libreria di mio padre, fra scaffali nei
quali facevano bella mostra di sé le eleganti costole rilegate in tela di volumi degli anni
trenta e quaranta, mi capitò fra le mani un testo di Sigmund Freud: "Mosè e il monoteismo".
Rimasi stupito del fatto che Freud si fosse occupato di quell'argomento; ero abituato a titoli
come "Psicopatologia della vita quotidiana", o "L'interpretazione dei sogni", e pensavo che
il padre della psicanalisi non si fosse mai interessato di questioni storiche o religiose. Iniziai
a leggerlo e, devo confessare, fu un impatto travolgente; rimasi talmente affascinato da ciò
che scoprii che mi domandai com'era possibile che certi significativi incontri dipendessero
da circostanze così casuali. E se non ci fosse stato questo libro nella casa dei miei genitori?
L'avrei mai letto?
Sigmund Freud era ebreo di nascita. Egli apparteneva ad una stirpe che, in seguito alla
plurisecolare persecuzione subita da parte dei cristiani, ha sviluppato per reazione un
fortissimo senso della propria identità e trasmette ai propri figli un orgoglio fiero, composto
ma deciso, capace di lunga rassegnazione, ma anche di uno spirito di autodifesa e di
combattimento com'è difficile trovarne in altre realtà etnico-religiose.
La prima parte del libro faceva spesso riferimento ad un faraone egiziano della XVIII
dinastia, Amenofi IV. Costui fu il protagonista di una eccezionale riforma politico-religiosa
del sistema egiziano. L'occidente cristiano non ha la benché minima idea di quanto sia
debitore, nelle caratteristiche della propria identità culturale, al faraone Akhenaton e ai
contenuti della sua riforma.
Sarà bene procedere con calma e ordine, cominciando da una brevissima premessa sulla
situazione dell'Egitto nel periodo che precedette l'ascesa al potere di questo singolare
faraone.
Sotto il regno di Amenofi III (negli anni dal 1405 al 1377 a.C.), quando Tebe era la città
reale, una fortissima casta sacerdotale, custode e amministratrice del culto del dio Ammon,
aveva sviluppato, in connubio con l'aristocrazia del paese, un grande potere, ed era entrata
in una posizione conflittuale con l'egemonia della corte faraonica. Per questo motivo, ma
anche per una propensione caratteriale e ideologica, allorché succedette ad Amenofi III il
figlio che costui aveva avuto dalla regina Tiye, Amenofi IV (intorno all'anno 1377 a.C.),
l'Egitto fu protagonista del suo più grande sconvolgimento, quale nemmeno le precedenti
invasioni degli Hyksos avevano potuto produrre.
In breve tempo, a partire dalla sua nomina al trono, il nuovo faraone rivoluzionò la
religione di stato, spodestò la classe sacerdotale, sostituì il molteplice panteon egizio con
una curiosa fede monoteistica. Si trattava forse del primissimo esempio nella storia di
monoteismo di stato, incentrato sul culto del disco solare, che era chiamato Aton. Anche la
capitale fu spostata ad Akhet-aton, più a nord rispetto a Tebe, e il sovrano mutò il proprio
nome da Amenofi ad Akhenaton, o Ekhnaton (amato da Aton).
Nell'insegnamento di Akhenaton possiamo notare la insistente ricorrenza del termine
"maet" (verità), ed egli stesso si definiva "vivente nella verità", al punto da sovvertire la
317
tradizione che, nelle opere d'arte, era solita presentare il sovrano in una forma stereotipata,
coerente col formalismo celebrativo, e si faceva ritrarre in scene di vita familiare, mentre
insieme alla moglie Nefertiti e alle figlie passeggiava e faceva offerte al dio sole.
Fu, probabilmente, un faraone dal volto umano; sappiamo che perseguì una politica
pacifista, riducendo le spese militari e rinunciando alla difesa ad oltranza dei territori fuori
dall'Egitto. Possiamo ragionevolmente ipotizzare che ciò comportasse una diminuzione del
prelievo fiscale; possiamo anche avanzare l'idea che il popolo percepisse, nella figura del
suo bizzarro faraone, qualcosa di meno lontano da sé di quanto non fossero stati i
precedenti sovrani e sacerdoti. Ma queste, ci tengo a chiarirlo, sono speculazioni arbitrarie,
senza un fondamento nelle prove storiche.
E' abbastanza immediato pensare che un sistema del genere difficilmente avrebbe potuto
funzionare a lungo. Infatti gli hittiti premevano ai confini orientali del regno e sfruttarono la
circostanza per espandere il loro dominio a spese dell'Egitto. Molti fra i sacerdoti spodestati
e gli aristocratici intuirono i pericoli della circostanza e tramarono per preparare una
restaurazione del precedente regime e riconquistare i privilegi perduti. Allorché Akhenaton
morì (intorno al 1362 a.C.), la moglie Nefertiti si adoperò per far salire al trono il
giovanissimo genero Tut-ankh-aton, ma, alla morte della stessa Nefertiti, sacerdoti ed
aristocratici approfittarono della situazione instabile e dell'inesperienza del nuovo faraone,
per iniziare una rapida controriforma e per rimettere in piedi gli antichi poteri e la religione
tradizionale dell'Egitto. La città di Akhet-aton fu abbandonata e la capitale fu ristabilita a
Tebe. Anche il nome del faraone fu opportunamente corretto in Tut-ankh-amon,
coerentemente col culto restaurato del dio Ammon. Tutti conosciamo il famoso faraone, è
l'unico di cui è stata scoperta la tomba intera, inclusa la mummia, e questo ritrovamento è
stato l'evento più spettacolare dell'archeologia egiziana.
E' ovvio che, con l'avvento della restaurazione, una parte della società egiziana, che si era
sviluppata alla corte di Akhenaton, visse un pesante tracollo. Possiamo facilmente
immaginare in quale difficile situazione si siano trovati i suoi ex funzionari e sacerdoti,
improvvisamente esautorati e, probabilmente, perseguitati.
Ora, come spesso succede in questi casi, se sono i grandi poteri a stabilire certe tappe
importanti del cammino storico, sono alcuni poteri meno appariscenti (oserei dire occulti) a
dirigere il cammino definitivo della storia, anche se a lunga scadenza. Infatti è
assolutamente certo che l'esperienza del regno di Akhenaton aveva lasciato una traccia
profonda, non solo negli interessi politici e nei rancori di quanti erano stati colpiti dalla
controriforma, ma anche, e forse soprattutto, nell'inconscio collettivo, grazie all'idea di una
teologia monoteistica, che sostituiva le figure fantasiose delle numerose divinità col
concetto affascinante di un principio creatore unico ed universale, irrimediabilmente
superiore a quello delle immagini dall'aspetto antropomorfico o animale, simboleggiato dal
disco solare; in cui chiunque riconosce istintivamente la paternità di ogni manifestazione
della vita terrestre.
Sebbene non ci siano elementi per riportare alla luce, dall'oblio in cui sono stati
definitivamente sepolti, i movimenti e le trame di coloro che, per interesse o per adesione
ideologica, simpatizzavano con le concezioni dell'ormai sconfitto sistema politico-religioso
di Akhenaton, possiamo essere certi che questo desiderio di ritorno alle novità di cui
l'Egitto aveva avuto un assaggio, non ha mai più abbandonato almeno una parte della
società di questo paese, e ha giocato un ruolo non indifferente nella dinamica delle
conflittualità interne.
318
2 - GLI EBREI IN EGITTO.
A questo punto, nel nostro discorso, possiamo innestare la realtà dei popoli semitici che
erano penetrati in Egitto, pur non essendo egiziani, in una condizione che troppo spesso è
semplicisticamente rappresentata dal termine "schiavitù".
Già in precedenza i rozzi nomadi semiti avevano preso di mira, con le loro migrazioni di
massa, altre grandi civiltà sedentarie, attratte dallo straordinario sviluppo tecnologico di cui
queste erano depositarie, e della loro imponente organizzazione urbanistica e sociale. Mi
riferisco ai sumeri, che furono letteralmente schiacciati da questa corrente migratoria. I
semiti in questione erano gli accadi. Un grande condottiero di questi uomini (siamo intorno
all'anno 2450 a.C.), protagonista di una clamorosa vittoria sui sumeri, fu Sargon. Di lui la
leggenda accadica narra che era stato abbandonato dalla madre nelle acque del fiume, in un
canestro di giunchi, per poi essere raccolto da un acquaiolo, su indicazione della dea Ishtar,
che lo aiutò a diventare un re potente. E' una storia che già conosciamo, anche se con altri
protagonisti.
Adesso, nell'Egitto degli ultimi faraoni della XVIII dinastia, e dei primi della XIX,
succedeva qualcosa di somigliante a ciò che era successo nel paese dei sumeri mille anni
prima; e che succede ancora oggi nei paesi opulenti dell'occidente cristiano. Le popolazioni
circostanti, etnicamente diverse, socialmente e culturalmente meno evolute,
economicamente più povere (potremmo considerarli gli extracomunitari dell'epoca),
entravano in Egitto e qui si stabilivano in cerca di fortuna. Gli stessi Egiziani tolleravano la
loro presenza perché, non ostante gli evidenti svantaggi del fenomeno immigratorio, questa
gente offriva forza lavoro a basso costo, e poteva svolgere gli innumerevoli compiti che i
contadini egizi non avrebbero potuto né voluto svolgere. La Bibbia li rappresenta come un
popolo che aveva già maturato una sua identità nazionale, chiamandoli ebrei. Ma questa è
pura leggenda. Infatti le popolazioni che si erano introdotte in Egitto per lavorare erano
molte e diverse, così come oggi, da noi, sono diversi i marocchini dai senegalesi, gli
albanesi dagli slavi...
E' probabile che, ad un certo punto, questa parte della varia umanità che componeva il
tessuto sociale egiziano, abbia acquistato un certo peso e una certa coscienza di sé,
maturando il bisogno di acquistare anche un senso della propria identità che, ovviamente,
fino a quel momento non esisteva perché si trattava di un gruppo eterogeneo per lingua,
razza e culti religiosi, in cui, probabilmente, prevaleva una componente semitica.
L'opinione di Freud, che egli illustra con grande chiarezza nel libro che abbiamo citato in
precedenza, è quella che le conflittualità interne alla società egiziana e, in particolare, le
opposizioni nei confronti della classe dominante, costituita dai faraoni della XIX dinastia e
dalla classe sacerdotale fedele al culto restaurato del dio Ammon, abbiano potuto
concentrarsi intorno alla nostalgia per la perduta riforma voluta da Akhenaton.
E' probabile che il monoteismo incentrato sulla figura divina del sole offrisse l'idea di un
concetto universalistico che si prestava alle istanze di quanti, in seno alla società egiziana,
erano collocati in una posizione fortemente emarginata e subordinata. Ed è anche probabile
che gli ex funzionari e sacerdoti di Akhenaton, o i loro discendenti, abbiano trovato nelle
popolazioni semitiche, che vivevano in Egitto in una condizione di pesante asservimento,
una comunità disposta ad ascoltarli, interessata a seguirli, a dare loro peso e importanza. Si
sarebbe così determinata una simbiosi fra la parte dissidente della società egiziana,
costituita da quanti avevano subito il tracollo del sistema di Akhenaton, e le popolazioni
immigrate, le quali, fino a quel momento, non erano state capaci di darsi né una identità né
una forza come gruppo.
319
Freud si è spinto fino ad avanzare l'idea che l'uomo che noi conosciamo come Mosè fosse
stato un ex funzionario di Akhenaton, anche se ciò dà adito a qualche obiezione. Una di
queste, per esempio, riguarda i tempi; infatti una delle probabili datazioni dell'uscita delle
popolazioni semitiche dall'Egitto è intorno al 1250 a.C., durante il regno del faraone
Ramsete II. Sono passati cento anni dalla restaurazione del culto di Ammon e Mosè non
potrebbe essere stato un protagonista in prima persona dell'esperienza del sistema di
Akhenaton. Anche se, in realtà, la datazione dell'esodo è quanto di più incerto ci sia e non è
possibile porre questa obiezione come decisiva. Personalmente non credo affatto che
determinare una datazione certa per il cosiddetto esodo sia molto importante, ai fini del
nostro discorso; infatti non è così fondamentale che Mosè sia stato, oppure no, un
funzionario del faraone Akhenaton. A noi importa soprattutto introdurre un'idea: quella che
gli egiziani accomunati da un interesse nostalgico per il sistema di Akhenaton e per la sua
concezione monoteistica, da un lato, e la componente emarginata della società egiziana che
aveva avuto origine nei trascorsi flussi immigratori, dall'altro lato, avessero trovato
un'intesa che li poneva in serio conflitto con le classi dominanti e che li aiutava a maturare
una identità di gruppo.
Ora, gli interpreti di questo più che verosimile processo possono essere stati sia gli ex
protagonisti del sistema di Akhenaton, in un'epoca immediatamente successiva alla
restaurazione (fra il 1350 e il 1300 a.C.), sia i loro discendenti (fra il 1300 e il 1200 a.C.),
ovverosia all'epoca in cui siamo soliti ambientare l'esodo biblico.
3 - MOSE' EGIZIANO?
C'è un aspetto estremamente importante che Freud sottolinea con argomentazioni puntuali
e, direi, piuttosto ineccepibili. Si tratta del fatto che Mosé sarebbe stato un egiziano e non,
come si crede comunemente, un ebreo. Una delle basi di questa opinione risiede nel nome
stesso: "...E' importante notare che il suo nome (il nome di questo capo), Mosè, è egiziano.
Esso è semplicemente la parola egiziana "mose" che significa "fanciullo", ed è la
contrazione di forme nominali più complesse, quali ad esempio "Amon-mose", che significa
"Amon un fanciullo", o "Ptah-mose", che significa "Ptah un fanciullo", i quali nomi sono a
loro volta abbreviazioni della forma piena "Amon ha donato un fanciullo", o "Ptah ha
donato un fanciullo". L'abbreviazione "fanciullo" presto divenne una forma rapida più
conveniente dell'ingombrante nome completo, ed il nome Mose, "fanciullo", non è
infrequente sui monumenti egizi. Il padre di Mosé senza dubbio prefisse al nome del figlio
quello di un dio egizio, quale Amon o Ptah, e questo nome divino si perdette gradualmente
nell'uso corrente, finché il fanciullo venne chiamato "Mose"" [Citazione da History of
Egypt, di J.H.Breasted, in Freud, Mosè e il monoteismo, Pepe Diaz, Milano, 1952].
"...nella lingua [egiziana] "Mosè" equivaleva a "bambino", "figlio", "discendente", sia in
senso letterale che metaforico..." [J.Lehmann, Mosè l'egiziano, Garzanti, Milano, 1987].
E ancora: "...non ci resta perciò che il nome, il quale, malgrado la spiegazione giudaica
"tratto dalle acque", riallaccia Mosè ai nomi egiziani Tutmosi o Ramesse (Rah-mose)"
[F.Castel, Storia d'Israele e di Giuda, Ed. Paoline, Cinisello Balsamo (Mi), 1987].
C'è poi un'altra importante considerazione da fare. Il Mosè biblico ha un abito del tutto
leggendario, a sostegno dell'idea che la sua identità sia il frutto di una operazione artificiale
finalizzata a rappresentarlo come il padre nazionale degli ebrei. Infatti il racconto della sua
nascita, coerentemente con le leggende semitiche, è la copia esatta del racconto che
riguarda la nascita del grande Sargon di Accad, che fu abbandonato nelle acque e poi
salvato per diventare, infine, un grande re. Evidentemente, allorché fu redatta la storia del
popolo che era sfuggito dall'Egitto, si voleva che il suo condottiero possedesse i requisiti
320
che lo rendevano meritevole, a pieno titolo, di quella dignità. Il racconto non fu scritto da
storici, animati da uno spirito scientifico di cronaca, ma da apologeti, che dovevano
contribuire alla creazione di una coscienza nazional-religiosa.
Ora, esistono altri elementi di sostegno alla tesi del Mosé egiziano, seguace della teologia di
Akhenaton: uno è il nome che gli ebrei utilizzano spesso per riferirsi al loro dio, al posto del
termine tabù (indicato comunemente dal tetragramma YHWH) che nessuno poteva
pronunciare ad alta voce. Si tratta della parola Adonai, che ha la stessa radice (Adon) del
dio solare di Amenofi IV (Aton). I glottologi sanno bene che le lettere t e d sono del tutto
intercambiabili nelle radici etimologiche, pertanto Adon e Aton sono esattamente lo stesso
nome. Si osservi quanto afferma ancora Sigmund Freud: "Il credo ebraico, come è noto,
recita: "Schema Jisroel Adonai Elohenu Adonai Echod". Se la somiglianza del nome
dell'egizio Aton alla parola ebraica Adonai e al nome divino siriaco Adonis non è casuale,
ma proviene da una vetusta unità di linguaggio e significato, così si potrebbe tradurre la
formula ebraica: "Odi Israele il nostro Dio Aton (Adonai) è l'unico Dio"" [Sigmund Freud,
Mosè e il Monoteismo, Milano, 1952].
L'altro elemento è l'aspetto della famosa "arca dell'alleanza", che, nel racconto biblico (Es
25, 10-22), Dio aveva ordinato a Mosè di edificare e che, in seguito, sarebbe stata
conservata nel tempio di Salomone fino all'invasione assira. Essa riproduce la "barca degli
dei" dei templi egizi, anch'essa coi cherubini ad ali spiegate.
Ma c'è un altro elemento, senza dubbio quello di maggior peso: Mosè è comunemente
considerato il padre del monoteismo, ma dobbiamo ammettere che la sua idea ha un
precedente molto vicino nello spazio e nel tempo, e molto analogo, nella teologia di
Akhenaton, pertanto ci rimane difficile credere che la sintesi monoteistica di Mosè non
abbia alcun debito nei confronti della rivoluzione religiosa del faraone Amenofi IV.
Riassumendo:
1 - Mosè predica in Egitto, come Akhenaton 50 o 100 anni prima, una teologia
monoteistica;
2 - Mosè ha un nome egiziano;
3 - Mosè ha, nel racconto biblico, una nascita assolutamente leggendaria;
4 - Un nome del dio ebraico (Adonai), ha la stessa radice del dio solare (Aton) di Amenofi
IV;
5 - L'arca dell'alleanza degli ebrei è quasi identica alla "barca degli dei" dei templi egizi.
4 - UN POPOLO ETEROGENEO.
Ci troviamo davanti ad importanti constatazioni: le genti che uscirono dall'Egitto, attraverso
quel processo che la Bibbia rappresenta nel libro dell'Esodo, erano costituite, per una
componente, da una parte della società egiziana, quella dissidente, erede della riforma
politico-religiosa di Akhenaton, fedele alla teologia monoteistica, e, per l'altra componente,
da un insieme variegato di tribù, in prevalenza semitiche, che avevano trascorso in Egitto
molti decenni, trovando interessi da condividere. Si trattava comunque di genti che
parlavano lingue o dialetti diversi, con tradizioni religiose diverse, legate agli dei tribali.
Non si trattava affatto di un popolo omogeneo, che potesse riconoscersi sotto il nome di
ebrei. Ed è per questo che il racconto biblico ci testimonia la grande difficoltà di tenere
unito questo insieme di persone ma, soprattutto, la difficoltà di Mosè a mantenere una
egemonia su queste genti. Si ricordi a questo proposito il ritorno di Mosè dal monte Sinai,
col popolo che, in sua assenza, aveva iniziato ad adorare il vitello d'oro, restaurando, chi lo
sa, qualche culto tribale.
321
E' molto verosimile che la componente egizia di questo insieme di genti, ovverosia gli eredi
del sacerdozio di Aton, fossero quelli che la tradizione ebraica chiama "Leviti" e che Mosè
ne fosse il capo.
Volendo mantenere un atteggiamento storicamente onesto, noi dobbiamo dissociarci
dall'immagine biblica e riconoscere che, all'epoca dell'esodo, non esistevano affatto, o
ancora, gli ebrei, intesi come un popolo che potesse essere considerata tale a tutti gli effetti,
ovverosia con una sua omogeneità etnica, linguistica, culturale e religiosa, e con una storia
comune oltre al fatto di avere condiviso uno stato di emarginazione e di subordinazione in
Egitto. Quello che la Bibbia ci rappresenta come il momento in cui gli ebrei realizzarono il
loro riscatto dalla schiavitù egiziana è, in realtà, il primo momento in cui gli ebrei iniziano
ad inventarsi come popolo. Mosè fu il loro punto di riferimento, come Maometto, 1800 anni
più tardi, fu il punto di riferimento per la nascita di una nazione araba. Allora possiamo
quasi affermare che la Bibbia non fu un prodotto degli ebrei ma, al contrario, furono gli
ebrei un prodotto della Bibbia, nel senso che i principi teologici della Bibbia furono
concepiti col fine primario di offrire una base adatta a creare e consolidare l'identità
etnico-religiosa di quell'insieme di tribù che si era voluto far diventare popolo.
5 - DAVID, L'UNTO DI YHWH.
I fuoriusciti dall'Egitto, governati da una casta egiziana e da un capo che aveva riciclato il
monoteismo di Akhenaton, ebbero vita difficile e peregrinarono in cerca di una casa finché
non giunsero nei pressi di quella striscia di territorio che sta tra il fiume Giordano e il mar
mediterraneo. In quel contesto di deserti infuocati (Sinai, Negev, penisola arabica...), dove
in estate il sole, picchiando sulle rocce e sulle sabbie nude, produce comunemente
temperature di 50 e persino 60 gradi che arrostiscono ogni creatura vivente, le colline della
palestina, che sfiorano i mille metri d'altitudine, arrestano il vento che viene dal mare e
facilitano le piogge, creano un ambiente assolutamente idilliaco. Clima temperato, boschi
verdeggianti, erba adatta al pascolo, stambecchi che scorrazzano, sorgenti di acqua fresca e
terra fertile.
Chi non avrebbe pensato che quella sorta di oasi incredibile era un giardino preparato
apposta dal creatore come dote per un popolo che godeva di una sua particolare simpatia?
Ma, ahimé, altre genti occupavano questo suolo. Tribù che non erano molto intenzionate ad
accettare l'intromissione di questa nuova banda di nomadi.
Certamente i fuoriusciti dall'Egitto ebbero da affrontare prove molto dure, come del resto è
chiaramente testimoniato dal racconto biblico relativo al tutto il lungo periodo che separa
Mosè da David (due o tre secoli). Un periodo di lotte interne e di conflitti esterni in cui
queste genti, oltre a combattere con gli indigeni che trovavano sul loro cammino, dovevano
anche combattere contro quella crisi di identità che non poteva non affliggere coloro che
tentavano di comportarsi come popolo, pur essendo un miscuglio molto bastardo. Ed è per
questo che la società di Israele ha sempre conservato nella sua struttura una molteplicità
che, nei fatti, si è espressa nella suddivisione in dodici tribù.
Ovviamente, le vicende e i disagi che questo insieme di genti ha dovuto vivere nei due o tre
secoli successivi all'uscita dall'Egitto, ha influito profondamente sulla maturazione della
loro concezione religiosa. Infatti, sebbene l'eredità teologica della concezione monoteistica
di Akhenaton fosse il concetto di un creatore unico per tutto l'universo e per tutti gli esseri,
fu impossibile evitare che queste tribù, impegnate in una dura lotta per la sopravvivenza,
non sviluppassero un'immagine del dio come "proprio" dio, un dio che amava intervenire a
favore del suo popolo prediletto, un dio che determinava gli esiti delle battaglie e veniva
definito per questo "dio degli eserciti".
322
Questa, filosoficamente parlando, è senz'altro una involuzione del monoteismo pacifista di
Akhenaton, che sembrava accarezzare l'idea incredibilmente moderna di una religione
universale, legata all'immagine di dio non come signore tribale, ma come signore della
natura, depositario di quella potenza che elargisce e governa la vita di tutte le creature. Ma è
anche vero che Akhenaton, in giovane età, come principe ereditario, si è trovato senza
fatica sul trono di una antica e splendida civiltà. Per lui è stato facile immaginare una
religione universale e pacifica, e non possiamo dimenticare che la sua politica idealista, in
fin dei conti, è stata abbastanza rovinosa per l'Egitto.
Il dio unico di Israele non è più quel sole equanime che splende per tutti, i cui raggi
scendono sulla terra come mani amorose che accarezzano tutte le creature. Il dio di Israele
diventa molto partigiano, intende sterminare coloro che non vogliono essere suoi fedeli,
incarica un popolo prediletto di farsi esecutore impietoso di questo piano finalizzato al
risanamento spirituale dell'umanità. Questa è ovviamente la proiezione narcisistica eseguita
da un gruppo umano che, a differenza di Akhenaton, non ha ereditato lo splendore di un
antico e ricco paese, bensì non ha ancora una terra, non ha una storia comune, non ha altro
che povertà, nemici ostili e crisi di identità collettiva.
Che altro può fare, un gruppo umano come questo, se non inventarsi un orgoglio nazionalreligioso, anzi, una missione spirituale, un patto privilegiato col creatore, colmare il proprio
immaginario collettivo con l'idea di essere, fra tutti i popoli, il favorito del creatore e di
legittimare il proprio interesse promuovendolo al rango di una causa di giustizia universale?
Non solo è una idea necessaria, ma si tratta di una idea geniale, assolutamente vincente e,
sebbene il presunto favore di dio sia solo una invenzione narcisistica, chi, in Israele,
avrebbe osato metterlo in dubbio? Ed è così che l'idea di un monoteismo di stato, presa in
prestito da Akhenaton, che non si era rivelata utile per il vecchio Egitto, si rivelò utile per il
giovane Israele; adattando però una parte della sua filosofia alle necessità di questo popolo
nascente e assumendo tinte di spiccato nazionalismo.
6 - IL REGNO DI DIO.
Uno dei momenti più gloriosi della sua storia Israele l'ha vissuto quando, a seguito di
brillanti vittorie contro i popoli indigeni della palestina, si è trasformato in un regno, prima
sotto Shaul, capo della tribù di Beniamino, e subito dopo sotto David, un umile pastorello
della tribù di Giuda, che era andato in sposa alla figlia di Shaul.
Shaul era riuscito a riunire sotto lo stesso regno solo tre tribù e non aveva stabilito una
capitale, mentre David, un individuo affascinante, abile, spregiudicato, anzi, decisamente
cinico, seppe riunire tutte e dodici le tribù sotto un grande regno. E poiché si trattava del
regno di un popolo che aveva ormai maturato la convinzione di essere depositario di una
missione affidatagli direttamente da dio, o meglio, che era cresciuto e aveva vinto proprio
perché aveva trovato la sua identità e la sua forza inventandosi tale convinzione, quel regno
non poteva essere altro che il "regno di dio". E il suo compito era quello di splendere
davanti a tutti i popoli della terra come luce di verità.
David fu l'unto del signore, messia (mashiah in ebraico, che si traduce christos in greco e
cristo in italiano). Le sue umili origini devono in qualche modo essere promosse e la Bibbia
ci racconta del profeta Samuele che va a Betlemme (città natale di Davide) e, ispirato da
dio, lo riconosce come colui che regnerà su Israele e lo cosparge con l'olio dell'unzione.
David esprime un disegno ambizioso: dare una capitale grandiosa al regno di dio e erigervi
un tempio monumentale, che potesse competere con la memoria degli splendori egiziani,
sumeri, babilonesi... E' sua la scelta felice di Gerusalemme come capitale, sopra uno dei
colli più fortunati della palestina, fra i boschi, a ottocento metri di altitidine, dove i nemici
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non possono sorprendere con attacchi imprevedibili, dove zampillano sorgenti rigogliose e
dove il clima estivo è quello, delizioso, di una località di vacanze di mezza montagna.
Ma David dovette anche affrontare un problema che non era per niente risolto e che
dimostra, in modo inequivocabile, quanto eterogeneo fosse questo popolo e come fosse
difficile tenerlo unito. David dovette superare gravi difficoltà interne, fra cui una ribellione
voluta da uno dei suoi figli, Assalonne, che egli non esitò a far uccidere.
E così David non riuscì a edificare il tempio, sarà uno dei suoi figli, Salomone, che egli
ebbe da Betsabea, a realizzare questa ambizione, ma i costi di tale impresa furono talmente
elevati, in termini umani e fiscali, da far precipitare il problema della coesione interna, che
non poteva non essere sempre minaccioso in un popolo che si era inventato tale,
appiccicando insieme tribù diverse e dalle origini più varie.
E così il sedicente "regno di dio" si sfasciò troppo presto sotto il proprio peso e si trasformò
in due regni: quello di Israele, nelle regioni della attuale Samaria (palestina centro
settentrionale), e quello di Giuda, nelle regioni a ovest del Mar morto (palestina centro
meridionale). Il regno di dio durò meno di un secolo, né mai più trovò il suo antico
splendore. Furono uomini come quello che Pilato fece crocifiggere alla vigilia di una
festività pasquale che, mille anni dopo David, tentarono di replicarne l'impresa, ma
fallirono e finirono puntualmente i loro giorni con le mani e coi piedi inchiodati.
7 - UN LIBRO SACRO CHE RACCONTI LA NOSTRA GLORIOSA STORIA.
L'ideale monoteista, in associazione con la convinzione di essere toccati da una scelta di
dio, e quindi di essere gli affidatari di una missione spirituale e i destinatari di una terra
promessa, è l'ideologia che ha consentito agli ebrei di inventarsi come popolo, di
svilupparsi, di risolvere i suoi problemi di sopravvivenza, di mantenere una difficile
coesione, per quanto traballante essa sia stata. Ed è per questo che gli ebrei, ad un certo
punto della loro storia, fra le tante altre cose geniali che hanno fatto, hanno deciso di darsi
come punto di riferimento delle scritture.
Naturalmente una buona parte dei contenuti che tali scritture avrebbero dovuto esprimere
era già preesistente alla loro stesura in forma grafica e, come è normale nei popoli antichi,
la loro conservazione e trasmissione era stata affidata ad una tradizione orale di cui i saggi
erano i depositari. Ma una scrittura da leggere in pubblico, le cui frasi fossero da imparare a
memoria e da ripetere innumerevoli volte, intorno alla quale la gente si sarebbe potuta
incontrare, avrebbe offerto al popolo qualcosa di assai più concreto e tangibile che non la
sapienza custodita da una ristretta elite di iniziati.
Quand'è che questa necessità si presentò con una urgenza irrinunciabile? La risposta è
senz'altro all'epoca della formazione del regno, quando David tolse alla tribù di Beniamino
l'egemonia per darla alla tribù di Giuda e scelse, o impose, Gerusalemme come capitale. E'
questo il momento in cui gli scribi si sono rimboccati le maniche e hanno redatto i primi
libri. Come minimo è questo il momento in cui diventano bianco su nero le storie di
Abramo e di Isacco e, forse, molte altre cose.
Ovviamente gli scribi del "regno di dio" appena nato, sono spinti da una serie di esigenze
molto precise. La coesione fra le genti del regno è precaria, la scrittura deve eliminare
questo vizio congenito di Israele, essa non solo deve raccontar loro che essi sono figli dello
stesso dio, ma figli di uno stesso padre umano, e Abramo, figura di cui non sapremo mai se
è prodotta dalla fantasia o dalla storia, vince questo ruolo. A lui dio chiede delle prove
molto dure, infine lo sceglie per dare origine al popolo a cui sarà affidata la missione.
Nel redigere queste scritture gli scribi compiono una sintesi colossale e fanno man bassa di
tutto il materiale che possono raccogliere per rendere la loro opera nobile, grandiosa,
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venerabile, prestigiosa, autorevole. Oggi la Bibbia ci si presenta come parola di dio
perché i suoi redattori furono spinti dalla necessità ideologica di farla apparire tale al
giovane popolo di Israele.
Una parte abbondante della mitologia del vicino oriente confluisce in questa sintesi, non
solo quella accadica, ovverosia quella dei popoli che condividevano con Israele la radice
semitica, ma anche quella sumera, una etnia completamente diversa, con cui gli accadi
avevano avuto a che fare a lungo. E così il quadro della genesi si apre con una scena
assolutamente sumera, ovverosia con il racconto della trasgressione primordiale compiuta
da Adamo e Eva nel giardino dell'Eden. E poi continua con il racconto del diluvio, che è
letteralmente sottratto all'epopea sumera di Gilgamesh, poi ripresa dai babilonesi, in cui
Noè si chiamava Ziusudra, Uta-napishtim, Atrahasis. Ed anche il racconto della torre di
Babele ha come punto di riferimento gli ziggurat mesopotamici, mentre la confusione delle
lingue sta senz'altro a rappresentare il disagio dovuto all'imbastardimento della società
sumerica in seguito alla consistente infiltrazione accadica.
Un presupposto di grande importanza è la creazione fittizia di una continuità, o meglio, di
una linearità. Una delle principali mistificazioni prodotte da questa esigenza è, per esempio,
il fatto che gli ebrei avessero questa radice etnica unitaria e fossero un popolo prima ancora
delle vicende dell'esodo. Sarebbero stati un popolo già in Egitto, un popolo schiavo e
prigioniero da raffigurare con una buona dose di vittimismo ma, a parte il fatto che gli
immigrati e gli emarginati della società egiziana non avranno certamente avuto vita facile
né molto privilegi da condividere, si tratta di una rappresentazione del tutto falsata. Infatti
non si trattava di un popolo omogeneo; né il loro stato poteva definirsi schiavitù secondo
quella accezione del termine a cui siamo stati abituati dall'immagine latina, ovverosia dello
schiavo inteso come oggetto subumano, che è proprietà privata del suo padrone, su cui
quest'ultimo ha pieno diritto di vita e di morte. Abbiamo una subordinazione del tutto
diversa, che non rispecchia questo cliché romano.
Al fine di ottenere l'effetto della continuità storica, le scritture abbondano di lunghi elenchi
di patriarchi i quali, posti in fila in lunghe paginate, offrono una efficace suggestione
didattica. E molti imparano a memoria, e ripetono all'infinito questi elenchi, finché essi
realizzano un condizionamento psicologico che infonde nell'immaginario collettivo l'idea di
appartenere ad un popolo che ha radici antiche, che ha una messaggio da trasmettere, che ha
una eredità da salvaguardare.
Dopo avere costruito la figura chiave del padre della razza, Abramo, è necessario costruire
quella del padre della nazione, Mosè. Ed è così che l'egiziano diventa ebreo, gli si innesta
artificialmente la mitologia accadica del "salvato dalle acque", lo si fa salire sul monte Sinai
per incontrare personalmente il dio dell'universo e prendere da lui le tavole della legge. E,
sebbene una componente considerevole della teologia di Mosè abbia una derivazione dal
monoteismo di Akhenaton, questa radice è completamente recisa e abbandonata nell'oblio.
Esattamente come mille anni dopo, quando dal monoteismo ebraico, attraverso la sintesi
sincretistica di San Paolo, si stacca la fede cristiana, che recide il suo cordone ombelicale e
rinnega l'ebraismo, pur avendo derivato da quello una mole fondamentale del suo bagaglio
teologico e scritturale.
Il leit motiv di questa base dell'identità etnico religiosa di Israele deve essere, senza mezzi
termini, la continua regia di dio dietro le quinte del teatro storico. E così è, attraverso i suoi
frequenti interventi. Quando manda le piaghe in Egitto, quando apre le acque del mar rosso,
quando fa scendere la manna, quando ferma il sole in pieno cielo durante una battaglia, o
guida la mano del pastorello David a colpire il gigante Golia.
I protagonisti umani che svolgono un ruolo fondamentale in questa storia sono quasi
sempre ammantati da una cornice miracolosa, le loro nascite sono annunciate, le loro madri
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partoriscono pur essendo sterili, le loro gesta non sono completamente umane. Il prodigio è
la chiave di autentificazione della scrittura, il sigillo di riconoscimento dell'autorità.
Le figure di Abramo e di Mosé si completano con quella di David, il padre politico, il
messia, il costruttore del "regno di dio".
Anche in seguito, dopo lo scisma dei due regni che avvenne alla morte di Salomone, e
quando il paese iniziò a subire un plurisecolare destino di dominazioni straniere, sotto gli
assiri, i babilonesi, i persiani, i greci e i romani, le scritture sono caratterizzate da un fine
primario: salvaguardare l'eredità nazionale, continuare a dimostrare che Israele è sempre,
malgrado tutto, il popolo di dio, che il suo futuro gli riserva un riscatto. Il profetismo
messianico, ovverosia l'attesa di un liberatore che ripeta la figura di David e ricostruisca il
"regno di dio", diventa un motivo ricorrente, finché si trasforma in autentica ossessione e
porterà, sotto la dominazione romana, ad una crisi fatale. L'imperatore Tito, interprete della
esasperazione romana nei confronti di questo popolo, visto come affetto da una patologia
teocratica maniacale, farà strage e rovina degli ebrei e della loro capitale, ed essi ricadranno
improvvisamente nella condizione in cui si trovavano in Egitto, come emarginati vittime di
una diaspora penosa.
E' il momento in cui l'eredità monoteistica di Akhenaton, che aveva subito una prima
grande trasformazione con la sintesi biblica, subisce una seconda grande trasformazione
con la sintesi cristiana. Occorreranno ancora cinquecento anni perché maturino in medio
oriente le condizioni per la terza sintesi: quella coranica.
Adesso non vorrei essere accusato di ambizioni profetiche, perché è solo la ragione, e non
la visione mistica, che mi suggerisce quando sarà la prossima tappa del monoteismo:
quando il sistema commerciale globalistico avrà mostrato in modo drammatico la stridente
contraddizione che esiste fra la promessa del benessere tecnologico e la crescita
inarrestabile dei problemi planetari (demografici, economici, politici ed ecologici),
facendoci vivere tragedie di dimensioni bibliche che oggi non abbiamo nemmeno il
coraggio di immaginare. Allora nascerà una nuova sintesi religiosa e potrebbe addirittura
darsi che l'essere supremo sia di nuovo rappresentato come un disco solare, circondato da
una corona di raggi che scendono sulla terra e terminano con mani affettuose che carezzano
le creature. E' una visione non lontanissima da ciò che accadrà realmente, nel millennio che
sta nascendo.
Io, personalmente, sono già pronto. Ma il momento è ancora prematuro.
Firenze, 15/11/1999
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Sindone una trama templare
(Carlo Giacchè)
(Arte Stampa, Perugia, 1992; Atanòr, Roma, 1992)
"la Storia non si può tutta dimostrare; spesso essa è
intuizione, ragionamento, intreccio logico" (CG, p. 87)
Nonostante i risultati della datazione con il sistema del carbonio 14 abbiano fatto il giro del
mondo (stabiliti indipendentemente dai Laboratori delle Università dell'Arizona, di Oxford,
e del Politecnico di Zurigo, furono resi pubblici il 13 ottobre 1988 dall'allora cardinale di
Torino Anastasio Ballestrero, Custode Pontificio della Sindone), le discussioni sulla celebre
"reliquia" conservata nel capoluogo piemontese non accennano a cessare, alimentate da una
foga che continua a dividere i fautori della "razionalità scientifica" da coloro che nutrono
invece, talora non apertamente, un certa nostalgia per la maggiore "libertà d'opinione" di
cui si gode sul versante dell'"irrazionale", e del "fantastico". E' sembrato allora opportuno
presentare ai lettori di Episteme uno studio poco noto ma interessante sull'argomento, anche
perché in qualche modo collegato alla questione fondamentale che si è ampiamente trattata
nel corso della recensione precedente. Infatti, malgrado le prudenti dichiarazioni in
proposito della gerarchia ecclesiastica, che si è sempre "ben guardat[a] dall'asserire
l'autenticità del telo, forse sospettandone una diversa origine"1, c'è ancora chi, con
comunque ammirevole coerenza "integralista", sostiene tesi del genere: "Su nostro invito, il
gesuita Vittorio Marcozzi, antropologo di chiara fama e professore emerito alla Pontificia
Università Gregoriana, ha analizzato alcune di queste "teorie" [contrarie all'autenticità]
confutandole su base scientifica riconoscendo nella Sindone la prova della Morte e
Resurrezione di Cristo" (dall'Editoriale di Alberto Di Giglio, Il Telo - Rivista di
sindonologia, Novembre/Dicembre 1997, http://www.sindonologia.it). L'articolo del Padre
Marcozzi contiene affermazioni del seguente tenore: "La S. Sindone è il lenzuolo che ha
avvolto Gesù quando fu deposto dalla croce e sepolto. I Vangeli e innumerevoli testimoni
attestano che Gesù è risorto e ha lasciato la Sindone nel sepolcro [...] Vi sono inoltre segni
innegabili che Gesù lasciò il lenzuolo funerario in modo umanamente inspiegabile [...] Al
contrario la Sindone mostra in modo evidente non solo l'immagine di un uomo crocifisso,
ma l'immagine di un uomo morto, di un cadavere; vi sono inoltre indizi che un fatto
straordinario, unico, misterioso e miracoloso, è accaduto: la risurrezione [...] Inoltre la
Sindone presenta innumerevoli macchie di sangue e i coaguli sono intatti, dai contorni netti
e precisi: non ci sono slabbrature o spappolamenti. Ora questo fatto è inspiegabile se il
distacco della tela dal corpo piagato è avvenuto con modalità meccaniche naturali. Il fatto ci
richiama ai racconti evangelici che attestano che il corpo risorto di Gesù entrava nel
Cenacolo a porte chiuse. Gli studiosi Stevenson e Habermas hanno osservato: "Il segno
della risurrezione nella Sindone riguarda il modo con cui il corpo e la tela si separarono. I
fatti indicano che il corpo non fu rimosso ad opera di mezzi umani [...] Similmente si è
espresso il padre Paul De Gail:"Per le sue impronte sanguigne rimaste intatte, la reliquia del
Salvatore attesta una separazione misteriosa del corpo dal telo senza nessuna manipolazione
del drappo funerario, senza nessun intervento di mani umane [...] Tale scomparsa
327
meravigliosa noi dalla Fede sappiamo che avvenne mediante Risurrezione"". Ciò prova
palesemente che esistono ancora persone convinte che le predette analisi scientifiche (pur
riferenti il telo al periodo 1260/1390 con una probabilità del 95%, la quale sale al 99.9% se
"rapportata al più esteso periodo 1000/1500 d.c." - CG, p. 23) siano o errate, o inaffidabili,
o addirittura volutamente artefatte a seguito di un "complotto" 2, un atteggiamento che
ignora le sagge parole del nominato cardinale Ballestrero: "Penso non sia il caso di mettere
in dubbio i risultati. E nemmeno è il caso di rivedere le bucce agli scienziati se il loro
responso non quadra con le ragioni del cuore" (CG, p. 16).
Ci sembra perciò qui di poter considerare la questione definitivamente chiusa, sia pure
soltanto sotto questo punto di vista, aggiungendo a quanto precede l'opinione esplicita
dell'autore oggetto della nostra attuale attenzione: "La tesi [dei sindonologi integralisti] è
ancorata non solo alla presunta inattendibilità della prova al carbonio, ma anche al fatto che
la stessa ha riguardato un reperto sottoposto ai disagi del tempo, vittima delle conseguenze
termiche e meccaniche di un incendio che la coinvolse, sia pure indirettamente. Tali eventi essi sostengono - potrebbero aver alterato, anche sensibilmente, la struttura intima del telo,
falsandone le analisi! Si potrebbe rispondere che migliaia di reperti archeologici, sottoposti
allo stesso procedimento di analisi, anch'essi offesi dal tempo e da avverse vicende, non
sono stati mai contestati nella datazione assegnata! Perché tanta, sia pure illustre,
eccezione?"3.
Ammesso ciò - e di fatto Giacchè (un altro di quei ricercatori "non integrati" a cui va
spesso l'apprezzamento di questa rivista) ne fa il fondamento del proprio percorso di ricerca
- restano ancora tutte da indagare le reali vicissitudini dell'oggetto, e principalmente quale
possa essere stata la vera origine di tale "colossale equivoco", o "millenaria beffa" (CG, p.
44). Non vogliamo privare il lettore del piacere di dipanare da sé i fili della "trama" tessuta
dall'autore, che si sviluppa a partire da una constatazione sicura: e cioè che la storia certa
dell'illustre telo inizia dal 1353, quando lo troviamo nelle mani dei conti de Charney. Da
esse passerà poi, nel 1453, in quelle dei Savoia, e più precisamente di Ludovico di Savoia e
di sua moglie Anna di Lusignano (che comprarono la reliquia, o la ricevettero in dono, non
si sa precisamente). Dal 1578 la "sacra" Sindone viene custodita nel Duomo di Torino, e
infine Umberto di Savoia la dona (1983) a Giovanni Paolo II. Orbene, il nome de Charney
non è ignoto a chi è al corrente di taluni particolari di un'altra vicenda "misteriosa"
dell'Europa medievale, visto che Geoffroy de Charney fu il grande dignitario dell'Ordine
del Tempio arso vivo sul rogo nel 1314 insieme all'ultimo Gran Maestro dei Templari,
Jacques de Molay. Lusignano ci riconduce invece alla dinastia dei re di Cipro, l'isola che
era stata addirittura un possedimento templare ai tempi della III crociata (i Templari
l'acquistarono nel 1191 da Riccardo Cuor di Leone), e aveva offerto rifugio, nel 1291, ai
pochi cavalieri superstiti della tragica caduta di S. Giovanni d'Acri, uno dei residui
possedimenti cristiani in Terra Santa, prima del suo definitivo abbandono. In
quell'occasione era deceduto, dopo aver combattuto al solito da valoroso, il terz'ultimo Gran
Maestro dell'Ordine (il XXI della serie, nominato alla carica nel 1273), Guillaume de
Beaujeu (cugino del re di Sicilia Carlo d'Angiò, e fratello di Luigi, conestabile di Francia,
morto nel 1285 nel corso della cosiddetta crociata d'Aragona). Ancora da Cipro il nuovo
Gran Maestro Thibaud Gaudin cercherà di predisporre i piani per il successivo
ripiegamento, e infine una volta di più proprio a Cipro (1294) verrà eletto lo sventurato
supremo rappresentante finale dell'Ordine, il già nominato de Molay.
Giacchè fonde insieme mirabilmente siffatti diversi ingredienti 4, corredando le sue
argomentazioni di numerosi elementi "congetturali", per arrivare a sostenere l'ipotesi che la
Sindone è sì in qualche modo una reliquia, ma una reliquia laica, testimone di un evento
luttuoso che non fu la morte del Cristo sulla croce, bensì quella del vinto de Beaujeu a S.
328
Giovanni d'Acri5, abbandonato al suo destino da chi avrebbe dovuto viceversa aiutarlo
(Chiesa e regni cristiani, che si trovavano però al tempo in tutt'altre beghe affaccendati), e
considerato quindi dai suoi fedelissimi partecipe degli stessi tradimento, martirio e passione
del Messia! Per codesto motivo, essi vollero fare un simbolo venerabile6 di un oggetto che
conservava memoria di quel triste evento, e che le bizzarre vicende della storia portarono
posteriormente, per ironia della sorte, proprio nelle mani della Chiesa di Roma, nei cui
confronti l'Ordine doveva avere più di una doglianza. Fu così alimentato, o almeno non
impedito, l'equivoco che dette origine alla devozione verso la Sindone, come se essa fosse
davvero la sacra testimone della resurrezione, un equivoco che avrebbe anche potuto essere
interpretato dagli occulti eredi dei cavalieri a guisa di parziale risarcimento, e sul quale
coloro che sapevano (che sanno) hanno sempre mantenuto il più stretto riserbo.
Il libro che stiamo presentando è scritto in modo semplice, piacevole, soprattutto
equilibrato (non pare utile soffermarsi nella presente sede su alcuni errori "minori" in esso
contenuti, per esempio alle pagine 81 e 84), costruito secondo i canoni di una logica
consequenziale non priva di attrattive di per sé, al punto che si potrebbe essere indotti a
scommettere che, se quella intravista da Giacchè non è esattamente l'intera verità
sull'intrigante enigma plurisecolare, pure la verità non deve essere troppo lontana dalla
tanto intelligente ricostruzione offerta nel testo. Questo si conclude con la citazione di una
bella riflessione di Paolo VI (che assume un particolare significato alla luce dell'ipotesi
laica di Giacchè), e la vogliamo allora riproporre integralmente:
"Qualunque sia la nostra fede, quali che siano le nostre convinzioni, la Sindone ha qualcosa
da dirci. L'appello che questo lenzuolo insanguinato ci rivolge non è soltanto verticale, di
richiamo religioso alla realtà divina. E' un appello anche orizzontale, accettabile da tutti: è
l'immagine dell'uomo perseguitato dalla ingiustizia, il volto di ogni vinto, emarginato,
oppresso, innocente che come Gesù è stato perseguitato e ucciso!".
Potremmo terminare qui la recensione, ma a proposito di verità "contigue", ovvero di
"variazioni" sul medesimo tema7, non possiamo non richiamare da ultimo l'attenzione dei
lettori, seppur brevemente, sull'opera citata nella Nota N. 3. Ciò perché si tratta di un lavoro
sorprendentemente simile a quello che abbiamo appena esaminato (e chissà che non ci sia
stato qualche rapporto di "ispirazione"!), con la differenza che de Beaujeu viene sostituito
con de Molay. La "beffa" sarebbe stata allora perpetrata in seguito ai supplizi fatti patire
all'ultimo Gran Maestro dagli aguzzini dell'Inquisizione. Quindi, una parodia alquanto
blasfema della crocifissione, che ci appare invero assai poco convincente 8, mentre più
persuasiva risulta invece l'ipotesi che gli autori del testo indicato riportano come elemento
scatenante per le loro conclusioni. Avrebbero infatti ascoltato (nel 1995) un'intervista alla
radio, nel corso della quale Alan Mills, "impiegato al Dipartimento di Fisica e Astronomia
dell'Università di Leicester" esponeva le sue personali tesi sull'origine della Sindone con le
seguenti parole:
"E' possibile che i saraceni abbiano crocifisso un prigioniero crociato seguendo passo passo
le testimonianze degli evangelisti, in segno di crudele dileggio della sua fede" (op. cit., p.
188).
1 - CG, p. 108, corsivo nel testo (con questa sigla si rimanderà alla prima edizione perugina del
libro in esame). Fa eccezione un isolato "atto formale di Giulio II" (CG, p. 92 - Giuliano della
Rovere, che fu sul trono di Pietro tra il 1503 e il 1513, il cosiddetto "papa guerriero"), ma per
329
esempio nel 1991 l'Arcivescovo di Torino Giovanni Saltarini, successore del nominato Ballestrero,
ha dichiarato che: "Nessuno ha mai sognato di portare la Sindone come una prova della verità del
Cristianesimo" (CG, p. 108), con le quali ultime parole si intende naturalmente ribadire che fides
christianorum resurrectio Christi est (S. Agostino).
2 - Citazione dalla pagina web http://www.newsitaliapress.it/speciali/sindone/sindone08.htm . In
effetti, dopo un primo periodo di smarrimento, di fronte a risultanze oggettive che sembravano aver
risolto la questione una volta per sempre, il "partito dei credenti" è tornato con ardore alla carica,
rimettendo tutto in discussione, in qualche caso attraverso una serie di puntigliose contestazioni
"numerico-metrologiche" (per la verità alquanto dubbie), alle quali in un'occasione si è infatti
risposto nel seguente modo: "You refer an error in the calculation of the mean of the variances on
the results from Tucson. I am not a statistician and can only therefore make the comment that if any
such error occurred it is regrettable, but much larger error would be needed to change the dates
significantly" (dal Prof. Michael Tite del British Museum, coordinatore del "progetto datazione",
all'Ing. Ernesto Brunati, autore di un articolo critico sul numero de Il Telo dianzi citato - Piero
Iacazio, comunicazione privata). Addirittura, secondo l'opinione del noto "sindonologo" Pier Luigi
Baima Bollone, almeno talvolta sarebbero stati fatti passare per autentici reperti che invece non
provenivano dalla Sindone: "L'ho confrontato con le foto del Lino sindonico: ebbene quel brandello
non appartiene alla Sindone" (ancora dalla pagina web sopra menzionata). Possiamo aggiungere
infine che vari sostenitori della "sacralità" del reperto utilizzano l'identico metodo scientifico dei
"contestatori", sviluppando elucubrazioni (che preferiamo non qualificare) del tipo descritto nel
pezzo che riportiamo (ibidem): "Il tedesco Eberhard Lindner, docente di chimica in Karlsruhe,
[offre] una tesi che da parte dei molti studiosi che si occupano dello studio della formazione
dell'impronta sindonica è stata considerata meritevole di approfondimenti. Secondo Lindner "il più
elevato contenuto di C14" che ha ringiovanito la Sindone "deriva da un flusso di neutroni termici
durante l'evento della resurrezione" che avrebbe determinato la formazione di C14. "La materia di
cui era costituito il cadavere di Gesù Cristo scomparve nel nulla, al contrario di quando Dio creò la
materia." Quasi sulla stessa linea di Lindner altri studiosi della Sindone e dell'esame al
radiocarbonio. Virginio Gagliardi, docente all'Università Cattolica del Sacro Cuore, Policlinico
Gemelli di Roma, ha sostenuto che "La formazione dell'immagine dell'Uomo sindonico ci induce ad
ammettere l'intervento di una scarica energetica fotolitica di elevatissima intensità, come una
esplosione termonucleare"".
3 - A tali considerazioni si potrebbe aggiungere l'interrogativo di Christopher Knight e Robert
Lomas: "perché mai tre laboratori accademici di fama mondiale avrebbero dovuto mettere a
repentaglio la loro reputazione comportandosi in modo così poco professionale"? (in Il Secondo
Messia - I Templari, la Sindone e il Grande Segreto della Massoneria, Mondadori, 1998, uno di
quei best-sellers oggi alquanto comuni, metà affidabili e metà no, del quale avremo modo di
riparlare, p. 175). Chi scrive questa recensione non esita a dubitare talvolta della totale onestà (e
capacità) degli scienziati (e della scienza), ma per arrivare a certe conclusioni ci vogliono sempre
dei più che fondati elementi, e vanno soprattutto decentemente ipotizzati dei possibili verosimili
moventi. Piuttosto che indagare sull'esistenza e l'estensione di un "nuovo" complotto anti-cattolico
(anti-cristiano), ormai del tutto anacronistico, ci sembrerebbe invece interessante investigare sulle
motivazioni che hanno indotto taluni "ambienti" ecclesiastici a dare il via a verifiche scientifiche il
cui esito si poteva prevedere a priori scontato...
4 - E' forse interessante far notare che pure Savoia e Beaujeu si ritrovano in qualche modo
"intrecciati" nel corso della storia, dal momento che un Antonio di Beaujeu fu amico e protetto di
Amedeo VI, il famoso "conte verde" (1334-1383), il quale sostenne anche le rivendicazioni sul
Piemonte di Margherita di Beaujeu, sorella di Antonio, contro il figliastro Filippo d'Acaia
(probabilmente messo a morte nel 1368 - Francesco Cognasso, Il conte verde - Il conte rosso, Ed.
dall'Oglio, Milano, 1989).
330
5 - E del resto le impronte rimaste effigiate sul "sacro lenzuolo" si riferiscono a un individuo che fu
certamente di "tipo mediterraneo", con barba e capelli fluenti (che non risultano del tutto conformi
all'uso ebraico ai tempi della dominazione romana), avente un'altezza compresa tra 1.79 e 1.83
metri, un peso che si può presumere tra 70 e 80 chili (dunque in piena forma!), insomma un
personaggio di indubbia possanza atletica, più un "cavaliere" abituato a portare le armi, dunque, che
un "mistico"... (CG, p. 41).
6 - Fors'anche all'origine del cosiddetto culto da parte dei Templari dell'idolo barbuto, il famoso
enigmatico Bafometto?!
7 - Non sembra al contrario per nulla tale l'ipotesi recentemente presentata nelle pagine della rivista
Hera (N. 17, maggio 2001), che ospita un articolo di Adriano Forgione dall'eloquente titolo
"Sindone: reliquia templare". In esso si opta infatti per l'autenticità della Sindone (contestando le
conclusioni dell'esame al carbonio 14), la quale sarebbe quindi una vera testimonianza della
crocifissione di Cristo, recante per di più le tracce della miracolosa resurrezione (trasmutazione
della materia in pura energia, ovvero immagine impressa sul telo funerario da una radiazione di
natura ancora non pienamente compresa - vedi anche la Nota N. 2), e i Templari entrerebbero nella
vicenda solamente perché il sacro reperto fu da essi (ri)trovato a Gerusalemme, e in seguito
conservato come cosa evidentemente preziosissima.
8 - Riteniamo sia invece tra le parti interessanti della ricerca di Knight e Lomas un'esposizione
dettagliata dell'eventuale processo fisico che avrebbe potuto portare alla formazione dell'immagine
sindonica, secondo il già citato A. Mills (ipotesi della cosiddetta "fotografia vegetale").
* Un ringraziamento particolare a Piero Iacazio, il quale non condivide le idee dianzi
esposte, e ha dato quindi origine a un vivace scambio di e-mails con l'autore del presente
scritto, con la conseguenza che la recensione è divenuta mano mano più "completa"...
(UB)
331
(Insediamenti templari in Terra Santa)
(da Alain Demurger, Vita e Morte dell'Ordine dei Templari, Garzanti, 1987)
332
Il prossimo numero di Episteme - Episteme's next number:
N. 5 - 21 Marzo 2002 / 21st March 2002
Informazioni editoriali/Editorial Policy
Presentazione del volume
1 - Flavio Barbiero: La famiglia di Mosè - Un potere occulto nella storia
dell'Occidente?
2 - Franco Baldini: ET IN ARCADIA EGO - Semantiche mito-ermetiche in
alcuni quadri di Guercino e Poussin (Parte II - Poussin)
3 - Francesco Vitale: La fine del mondo secondo la Bibbia e secondo la
scienza
4 - Giorgio Taboga: Faustino Perisauli, poeta romagnolo, precursore di
Erasmo da Rotterdam
5 - Umberto Bartocci: Leonardo Sciascia e il caso Majorana - Siciliani
scompaiono nel nulla, ma un'ipotesi tarda ad apparire...
6 - Alberto Lombardo: La fauna dell'Urheimat
7 - Bruno d'Ausser Berrau: De Verbo Mirifico - Il nome e la storia
8 - Sabina Kruszyñska: DE LA RELIGION... de Benjamin Constant - Le
fondement épistémologique et métaphysique
9 - Umberto Bartocci, Rocco Vittorio Macrì: Il linguaggio della matematica
10 - Carlo Cirotto: La comunicazione cellulare
11 - Francesco Sacchetti: La comunicazione nel mondo fisico
12 - Umberto Lucia: Irreversible entropy in biological systems
- "
"
: An algorithm for the cybernetic model of tumour
evolution
- "
"
: A cybernetic model for the thorax potential in ECG
maps - A recent history of mathematical applications
Reprints
Emilio Spedicato: Galactic encounters, Apollo objects and Atlantis - A
catastrophical scenario for discontinuities in human history
Commenti ricevuti
Giuseppe Antoni: La questione del tempo nelle Confessioni di S. Agostino
Paolo Bocchio: Quattro ipotesi sulla natura del tempo
333
Bruno d'Ausser Berrau: ATOΠON - Relazioni spazio-temporali e metafisica
tradizionale / Solvet saeclum in favilla - In attesa del Dies Irae
Alessandro Moretti (a cura di): Quattro lettere di Sir Isaac Newton al Dottor
Bentley, contenenti alcuni argomenti sulla dimostrazione dell'esistenza di una
Divinità
Sabato Scala: Il mosaico pavimentale della cattedrale di Otranto - L'ultimo
oltraggio di un monaco gnostico?
Recensioni
Presentazione del prossimo numero