L`arte rubata - Direzione Generale Archeologia

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L`arte rubata - Direzione Generale Archeologia
L’arte rubata
Fabio Isman
L’esposizione che il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ospita nel Palazzo del Quirinale,
conferendole così maggiore visibilità e solennità, non solo propone sessantotto bellissimi reperti
archeologici (spesso assai preziosi, perché assolutamente unici al mondo), permettendo per la prima
volta d’ammirarli in Italia quantunque facciano parte delle nostre “radici”, del nostro passato, e
provengano dal sottosuolo della Penisola; ma soprattutto, chiude e archivia una pessima stagione,
per chiunque abbia a cuore l’arte e la cultura: quella della Grande Razzia, che è durata circa 30
anni. I suoi protagonisti sono stati chiamati “predatori dell’arte perduta”, in facile assonanza con
un film giustamente famoso; ora, è forse il caso di cominciare a correggersi: predatori dell’arte
perduta e ritrovata, restituita, ritornata. Sono un folto gruppo di persone («ho indagato almeno
2.500 soggetti», dice il sostituto Procuratore della Repubblica di Roma Paolo Ferri), che, dal 1970
circa ai primi anni 2000, hanno depredato tanti bacini archeologici del nostro Paese
d’incommensurabili ricchezze: specialmente al centro e al sud, ma anche nelle due isole maggiori.
I “predatori” sono uniti come in una catena. I “tombaroli”, scavatori clandestini e di frodo,
vendono i reperti ritrovati a mediatori e trafficanti internazionali, che li cedono a celebri mercanti
d’archeologia stranieri. Gli acquirenti finali sono invece una trentina dei più importanti musei
europei, americani e giapponesi, e di ricche collezioni private, formate o cresciute nel dopoguerra.
Confidando anche (ma non sempre) in dichiarazioni di provenienza fittizie e impossibili da
riscontrare, hanno pagato cifre talora da capogiro, per assicurarsi capolavori spesso senza eguali.
La catena è stata individuata e spezzata dalle indagini. Della magistratura, specie del sostituto
Procuratore Ferri; e del Comando Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale, un reparto che
è stato il primo del genere sorto nel mondo, e che tanti Paesi ancora ci invidiano. Quando, a
Ginevra e Basilea nel 1995 e nel 2002, sono stati scoperti i depositi e archivi di due tra i più attivi
“trafficanti” internazionali, Giacomo Medici e Gianfranco Becchina (10 mila oggetti; ancor più
documenti; migliaia di foto), il Pm Ferri ha incaricato gli archeologi Daniela Rizzo e Maurizio
Pellegrini di comparare le fotografie ritrovate con gli oggetti, spesso dei capolavori, nei cataloghi
di mostre e musei, e delle maggiori case d’asta. «Abbiamo studiato oltre 10 mila immagini, e
ritrovato più di 500 reperti, sicuramente scavati di frodo in Italia», spiega Pellegrini. E analogo
lavoro, con risultati ancora più corposi, l’hanno compiuto i “Carabinieri dell’arte”, oggi comandati
dal generale Giovanni Nistri (e prima, da Ugo Zottin e Roberto Conforti), e la loro sezione
archeologica diretta dal capitano Massimiliano Quagliarella. In parecchi casi, rinvenute anche foto
polaroid (quindi, inadatte a ogni scopo scientifico) dei reperti archeologici appena scavati, ancora
sporchi di terra, in attesa d’essere restaurati: quasi una “garanzia d’autenticità”, per surrogare la
mancanza di qualsiasi pedigree.
I risultati di questa formidabile fatica non sono soltanto quelli che si vedono nella mostra al
Quirinale. In possesso di una documentazione tanto inoppugnabile, le autorità di Governo italiane
hanno affrontato i direttori e i board dei grandi musei americani, proprio mentre al Tribunale di
Roma si apriva un processo contro Marion True, Robert “Bob” Hetch e Giacomo Medici. Marion True
è stata curator del Getty Museum dal 1986 al 2005. Hetch, classe 1919, da mezzo secolo è tra
i più grandi mercanti al mondo: per la prima volta nella storia, ha spuntato un milione di dollari per
un solo oggetto; era il 1972, e si trattava del celebre Cratere di Eufronio, scavato a Cerveteri e pagato
100 mila dollari, comperato dal Metropolitan di New York, che tornerà a Roma il 15 gennaio 2008.
Medici, 69 anni, vive invece a Santa Marinella (villa con piscina, due campi da tennis, una Maserati),
è il più rilevante “collettore” del “mercato nero” in area etrusca: ha deciso di farsi processare per
conto proprio, e, in primo grado, è stato condannato a 10 anni di carcere e – mai successo – a una
provvisionale di 10 milioni di euro da versare allo Stato, per i danni inferti al patrimonio culturale.
Una volta scavati clandestinamente, i reperti diventano infatti “muti”; sono decontestualizzati: non
forniscono più informazioni agli studiosi sulla loro provenienza, sul corredo di cui eventualmente
facevano parte, sugli oggetti da cui erano accompagnati. Insomma, lo scavo clandestino cancella
tutta la Storia (e le storie) che gli oggetti recano con sé, e di cui sono impregnati.
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Il Governo italiano ha iniziato le trattative quando Ministro dei Beni culturali era ancora Rocco
Buttiglione (e piace che un simile tema sia stato affrontano in modo assolutamente bipartizan),
e il Vicepremier Francesco Rutelli ha poi conferito loro ulteriore impulso e vigore, coadiuvato da
una commissione diretta dall’Avvocato dello Stato Maurizio Fiorilli. Così, nel tempo, i maggiori
musei americani hanno mutato “filosofia”; sono divenuti più rigorosi; hanno cominciato a restituire
(“spontaneamente”, e “senza ammissioni di colpa”) oggetti scavati di frodo nel nostro Paese, e che,
in Italia, nessuno aveva mai visto, a parte i “tombaroli” e i loro sodali. E ne ricavano importanti
accordi di collaborazione scientifica: la possibilità di compiere scavi nella Penisola, di studiare i
reperti così ritrovati, di ospitare rilevanti mostre d’arte italiana, di ottenere prestiti a lungo termine.
Quella che il nostro Paese ha condotto, e che trova oggi suggello in questa mostra, è una grande
battaglia etica a livello internazionale. Prima, il Getty, senza alcuna trattativa, nel 2005 ha
restituito quattro opere. Anche un vaso apulo alto oltre 70 centimetri, del diametro di 60, vecchio
di 2.340 anni, su cui il famoso pittore Asteas (uno degli unici due nel sud Italia che “firmassero”
i propri lavori) eterna una tra le più antiche raffigurazioni di Europa: è a cavallo di Zeus che,
tramutatosi in Toro, la rapisce. I carabinieri avevano ritrovato la foto di questo capolavoro
dell’archeologia di tutti i tempi nel cruscotto dell’automobile in cui, incidente che resta misterioso,
era morto un famoso “trafficante”, Pasquale Camera; il vaso era stato poi individuato al Getty
Museum, cui l’aveva venduto Gianfranco Becchina, il massimo “collettore” degli scavi clandestini
nel sud della Penisola.
Quindi, febbraio 2006, Philippe de Montebello, che da 30 anni dirige il Metropolitan Museum di
New York, sigla un accordo che «corregge gli errori del passato», dice, «è importante e vantaggioso,
e rappresenta, anche per gli altri musei americani, un modello». L’Italia ottiene così quattro vasi
importanti (due dei Pittori “di Dario” e “di Berlino”), un corredo unico al mondo di 15 argenti
ellenistici proveniente da Morgantina, che tornerà a inizio 2010, e il Cratere di Eufronio, tanto grande
da contenere 45 litri di vino, decorato dal massimo vasaio attico con la Morte di Sarpedonte, il figlio
di Zeus accanto a cui sono Hypnos e Thanatos, scavato a Cerveteri nel 1971, pagato 100 mila dollari
da Hecht e rivenduto, appunto, per un milione. Quindi, il direttore del Museum of Fine Arts di
Boston, Malcom Rogers, davanti a Rutelli svela una statua alta due metri e 4 centimetri, di Vibia
Sabina, la moglie dell’imperatore Adriano cui non riuscì a dare figli, vissuta tra l’86 e il 136 dopo
Cristo; e insieme ad essa, acquistata nel 1979 da Fritz Burki (vedremo chi è), restituisce 11 vasi, un
paio alti quasi un metro e uno ancora del “Pittore di Berlino”, e un frammento di marmo con rilievo:
«Discuteremo su eventuali altre restituzioni», spiega Rogers, «ma la casa di questi reperti è l’Italia, e
noi siamo orgogliosi d’averli riportati qui». Tocca poi al Getty: trattativa più lunga, aspra e difficile.
Per ora, ha fruttato l’arrivo a Roma di 40 importanti “pezzi”, anche se assai più sono quelli sospetti
identificati nel museo di Malibu; rimane invece sospeso (e impregiudicato) il destino dell’Atleta
vittorioso attribuito a Lisippo, un bronzo del III secolo a.C. pesante 200 chili, recuperato nel 1964
nel mare di Fano, rimasto a lungo in Italia (perfino nel sottoscala di un sacerdote a Gubbio: i fratelli
Barbetti l’avevano rilevato per 4 milioni di lire) prima di essere acquistato dal museo californiano,
nel 1977, per 4 milioni di dollari. Entro il 2010, il museo di Malibu rinuncerà anche alla Venere di
Morgantina, un acrolito (testa di marmo, e corpo in calcare) di 25 secoli fa, alto 220 centimetri,
rinvenuto ad Aidone in provincia di Enna, ceduto dal mercante londinese Robin Symes per 18
milioni di dollari nel 1988. Gli oggetti che il Getty ha restituito hanno un valore (ai fini puramente
assicurativi: quelli di mercato, s’intende “nero”, sono dieci volte maggiori) di almeno 300 milioni di
euro; e tutti, tranne la Venere, sono ora in mostra al Quirinale. Alcuni sono degli hapax: reperti privi
di simili, o equivalenti, in qualsiasi collezione, pubblica o privata, del mondo intero.
Altre “restituzioni” sono intanto già alle porte; e, complice anche la pressione della stampa
americana, la nuova filosofia ha fatto sì che perfino Jerome Eisenberg, un antiquario dei più
accreditati non solo a New York, abbia consegnato otto reperti, risalenti più o meno a 2.500 fa.
Le sue Royal Athena Galleries esistono dal 1942 e vantano «la più vasta selezione al mondo
d’oggetti antichi», e lui d’avere venduto, nelle sedi di Londra e Manhattan (Lexington Avenue,
angolo 57a Strada) «oltre 30 mila capolavori ai massimi musei americani ed europei». Infine,
nemmeno due mesi fa, è stata la volta del Museo di Princeton, istituzione universitaria fondata
nel 1882, con un patrimonio di oltre 60 mila oggetti d’arte: otto “pezzi”, di cui quattro subito
spediti a Roma, e presenti in questa mostra, e i rimanenti entro il 2011. Ma altre trattative restano
aperte: perché gli oggetti razziati nel nostro Paese sono finiti in musei di tre Continenti.
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Anche in alcuni tra quelli con più tradizioni e maggiormente “al di sopra d’ogni sospetto”. E una
razzia, analoga nelle modalità e nell’importanza, se non per l’entità, ha riguardato anche altri Paesi
“produttori” di antichità, come per esempio la Grecia. E anche Atene ha riottenuto alcuni dei
capolavori che erano stati sottratti al patrimonio della Nazione: uno, splendido, è “ospite d’onore”
in questa mostra, per testimoniare che il fenomeno travalica i confini.
Gli atti processuali riservano infinite sorprese, e terribili rivelazioni. Symes, ad esempio, nel 2003
è costretto a restituire il più grande reperto crisoelefantino (oro e avorio) giunto dall’antichità: la
Maschera d’avorio, da lui acquistata per 10 milioni di dollari. Antonio Giuliano, archeologo e a
lungo docente all’Università di Tor Vergata, spiega: «Oggetti che erano destinati solo agli
imperatori; se ne sono salvati pochi frammenti, nessuno tanto grande; a Roma esistevano 100 mila
statue di marmo, ma solo 66 o 77, a seconda delle fonti, crisoelefantine; questa, avrà avuto
addosso non meno di 350 chili d’oro». L’aveva scavata, alle porte di Roma, ottobre 1994, Pietro
Casasanta, “ritrovatore” anche dell’unica scultura che ritrae al completo la Triade Capitolina (Giove,
Giunone e Minerva) sopravvissuta agli insulti del tempo e degli uomini. Casasanta vive ad
Anguillara, ha quasi 70 anni, e in 50 ha eseguito mille scavi; ha subito un centinaio di processi e
un paio di lievi condanne. Dice: «Solo verso Guidonia, negli anni 70, ho recuperato, tutte assieme,
63 statue, di cui 23 a grandezza naturale». Ha avuto l’onore della prima pagina sul prestigioso
Wall Street Journal, per il quale è “il grande trafugatore”. Bene: torniamo a Symes. Un giorno, per
vicende di quattrini pretesi dagli eredi dell’ex socio, su lui indaga la giustizia inglese. E scopre, tra
Londra, Ginevra e New York, 29 depositi di materiali archeologici, 17 mila oggetti, in buona parte
d’origine italiana, valutati – sempre dalla Corte di Londra –125 milioni di sterline: 190 di euro,
quasi 400 miliardi delle nostre vecchie lire. Per capire l’entità del black market italiano, lui aveva
57 milioni di dollari d’affidamenti bancari.
Del resto, il 13 settembre 1995, quando il maresciallo capo Serafino Dell’Avvocato, uno dei
“Carabinieri dell’arte”, entra, il primo italiano, nel deposito di Giacomo Medici, nel porto franco
di Ginevra, corridoio 17, stanza 23, non crede ai propri occhi. Al processo, dirà che c’era «un vero
bendiddio, e nell’ultimo locale, signor giudice, affreschi pompeiani grandi come questa stanza».
Il tavolone di vetro al centro della sala d’esposizione, era retto da un capitello corinzio, che,
implacabile, un carabiniere certifica «provienente da Villa Celimontana, a Roma». Per l’accusa,
Medici ha commercializzato «almeno 10 mila reperti clandestini». Scambiava lettere affettuose con
Marion True: «Caro signor Giacomo», ma anche «Caro Giacomino, mi mandi il vaso dopo che sarà
stato sbiancato»; reso, almeno apparentemente, legittimo. Per lo scopo, venivano spesso usate le
maggiori case d’asta: solo nel 1988, Becchina spedisce a Sotheby’s 320 oggetti; e, travolta dallo
scandalo, nel 1997 la casa d’aste cessa a Londra le vendite archeologiche.
Una sola volta, che si sappia, il Getty dice no a “Giacomino”: quando propone, per due milioni
di dollari, un corredo di 20 piatti dipinti, di 20 centimetri di diametro, fattura etrusca: «Mai visto
qualcosa del genere al mondo», certifica l’archeologo Fausto Zevi, uno dei periti del Pm Ferri.
Il direttore del museo che, non possedendo un passato cerca di costruirselo a suon di dollari,
afferma di non voler spendere una tal somma per 20 opere del medesimo artista; e Marion True
scrive d’esserne «assai dispiaciuta».
In quei possenti archivi, che hanno costretto alcuni grandi musei ad arrendersi all’evidenza, ci sono
immagini terribili. La Tavola cerimoniale in marmo policromo del 300 a.C., Due grifoni che
sbranano un’antilope, è ancora in pezzi, sporca di terra e avvolta in giornali, nel portabagagli di
un’automobile, appena scavata ad Ascoli Satriano, il luogo della celebre battaglia di Pirro re degli
Epiri. Sarà pagata sei milioni e mezzo di dollari. Faceva parte di un ricco corredo funerario, e il
Soprintendente archeologo di Roma, Angelo Bottini, ha penato molto per riunirgli altri due pezzi,
pure in mostra al Quirinale, sequestrati in un’altra occasione, che erano, quasi certamente, sepolti
con lui, nella stessa tomba. Ma dagli archivi spuntano anche infiniti misteri, e le immagini di un
altro terribile misfatto: una Villa pompeiana (non ancora identificata dopo alcuni decenni), proprio
mentre viene violata. È raccapricciante. La si vede ancora sigillata sotto la coltre lavica: tre pareti
tutte affrescate nel “secondo stile” pompeiano, con colori vivacissimi. Della quarta, si vedono i
detriti: i “tombaroli” sono entrati da lì. Gli affreschi vengono distaccati, e anche assai malamente;
divisi in 11 pezzi, per poterli estrarre e trasportare. Finiscono in Svizzera, da Harry e Fritz Burki,
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padre e figlio, restauratori. Il padre era bidello nell’Università dove ha studiato Hetch. Alla fine,
1995, il maresciallo Dell’Avvocato li scopre, «grandi come questa stanza, signor giudice», nel
corridoio 17 al porto franco di Ginevra: il caveau di Giacomo Medici.
Le inchieste testimoniano il forsennato attivismo dei “tombaroli”. Bloccato un tunnel sotterraneo
lungo 180 metri, a 10 di profondità, alto quanto bastava per far passare un uomo che spinga una
carriola, e perfino illuminato, cui si accedeva con un ascensore nascosto: per raggiungere una villa
pompeiana sepolta nel terreno di certi vicini; altri 30 metri di scavo, e ce l’avrebbero fatta. Oppure,
lo stupore dei carabinieri che intercettano le comunicazioni, per la richiesta, reiterata più volte
dall’équipe addetta agli scavi, di una “branda”. Finalmente la “branda” arriva, ed è «bellissima, tutti
ce la invidiano». Solo quando si sente che «lavora su tutti i metalli», che «a un metro e 30 ci ha
chiamato un vaso largo 30 centimetri», che «da Londra l’ingegner Paul atterrerà a Capodichino per
tararla, 20 milioni il costo del viaggio», e, soprattutto, quando, un 1° maggio (ma non c’è più
rispetto nemmeno per le festività) i carabinieri la sequestrano all’opera, ci si accorge che è il più
immenso e potente metal detector mai visto. Cinque giorni dopo, da Londra ne arriva un altro,
ancora più potente; lo saggiano «in una vallata intera di tombe a cupole grosse, sono migliaia;
terreno pianeggiante, quindi buono per noi»: perché per far funzionare la “branda” bisogna essere
in due, uno per parte, tanto è pesante e ingombrante.
Restano i misteri. Tanti. Non si sa che fine ha fatto un altare arcaico, largo e alto 70 centimetri,
scavato nel sud Italia: restano soltanto una foto e un’annotazione. Nel 1995, Hecht scrive che
il Metropolitan Museum deciderà se acquistarlo; ha rinunciato, e l’altare è sparito. Come un
piccolo carro villanoviano-etrusco, VIII secolo avanti Cristo, «scavato certamente a Cerveteri, o
a Vulci», garantisce Antonio Giuliano, che tanti musei si contendevano, e non è tra i materiali
ritrovati, né tra le fatture emesse, né nei registri, tenuti in modo assai accurato, delle vendite dei
“trafficanti”. C’è perfino la prova di un trasporto eccezionale in Svizzera, compiuto da Mario Bruno,
un altro grande “tombarolo” che ormai non c’è più, già socio di Giacomo Medici: il 10 febbraio
1992, spedisce un oggetto, 525 chili di peso, di cui allega una foto al documento di trasporto.
È il coperchio di un Sarcofago degli sposi. Al mondo, n’esistono solo altri due esemplari certi,
provenienti da Cerveteri: a Roma, nel Museo di Villa Giulia; e al Louvre, acquistato nel 1862 con
la mitica raccolta del marchese Campana.
Giulio Carlo Argan diceva che «distruggere l’arte è un tal peccato che, se si riscrivessero le Tavole
della Legge, dovrebbe di certo esservi ricompreso»; l’attività della Magistratura e dei Carabinieri, e
le trattative condotte dal Governo italiano, hanno impedito, come questa mostra può ben
dimostrare, la commissione di tanti altri “peccati”, pur del tutto laici. Ora, quella terribile stagione
è alle spalle: degna ancora d’alcune indagini, processi, ricostruzioni, ma archiviata nei fatti; privi
del terminale formato dai grandi musei, i “predatori dell’arte perduta” hanno perduto la fetta più
ingente del proprio mercato. E anche di questo, chiunque abbia a cuore la cultura e l’arte deve
rendere merito a chi ha indagato, trattato, concluso.
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