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I nembi scuri non erano stati che un’avvisaglia. L’annuncio
di qualcosa che presto sarebbe successo. Niente di più. Ora
un maledetto sole arroventava l’Arena. Il Promontorio era
una montagna scura e boscosa a cui qualcuno sembrava aver
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tagliato via la cima. Un tavoliere si estendeva sulla sommità.
Un tavoliere torrido e riarso. Lì si trovava l’Anfiteatro dei
Giochi del Signore della Guerra. Zoe aveva avvertito subito
l’odore fetido di carcasse e putrescenza. Quello del sudore.
E il rumore sommesso della paura. Gli spalti erano pieni di
uomini simili a bestie, assetati solo di quello spettacolo di
sangue. Dietro un velario, i quattro Campioni attendevano.
Il piazzale era deserto e polveroso ma, qua e là, si intravedevano ancora le chiazze ormai secche della vita versata in altre
battaglie; in altri duelli mortali. I cani randagi trascinavano
ossa nelle fauci affamate. Una moltitudine di schiavi accaldati e atterriti, stipati nelle segrete che immettevano all’Arena,
spingeva ora, in una massa compatta, verso l’esterno. Verso la
luce. Verso una fine che era comunque meglio di quell’attesa.
Ecco. Erano fuori. Istintivamente si erano dispersi nell’ellisse. In cerca di spazio. Il giusto compenso per essere stati
ammassati per ore uno sull’altro. Il sudore di un uomo sulle
ferite del suo compagno. O del suo avversario. Impossibile
da dire. Ora, però, erano fuori. Potevano separarsi. Eppure in un attimo si erano riavvicinati per fronteggiare insieme qualcosa di molto più grande di tutti loro. Il loro stesso
destino. Un uomo abbronzato, vestito solo di una gonna di
pelle e sandali legati ai polpacci, urlò qualcosa dividendoli in
gruppi. Non indossava armi. Ma i suoi ordini non erano in
discussione. Qualcuno entrò portando bastoni. Gli uomini
li presero cominciando a capire che gli unici compagni sarebbero stati, d’ora in poi, quelli trovati per caso sullo stesso lato. Agli altri sarebbe andato l’appellativo di avversari.
Nessun motivo. Nessuna pietà. Solo metà di loro sarebbe
sopravvissuta. Forse meno. Uno dei Campioni fece cenno di
cominciare Non c’erano regole. E nessun obbligo. Ma all’im-
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provviso, all’interno del mucchio, uno partì a testa bassa, il
bastone tenuto forte con entrambe le mani. La meta, dritta
alla testa dell’avversario. Fu subito sangue. E grida. E morte.
Nessuno si fermò più. Fu allora che Zoe lo vide. Nella caligine di quell’arsura. Tra la polvere sollevata dai piedi, per lo più
scalzi. Era Khor. Privato dei pugnali, stava piantato a terra
coi piedi ben distanziati. Intento a non perdere l’equilibrio,
teneva il bastone perfettamente parallelo al corpo. Le braccia, all’impugnatura, strette all’altezza della testa. Parava ogni
colpo. E non attaccava. Nella disperazione cieca della lotta,
molti si ferivano da soli. Altri perdevano persino le nozioni
rudimentali del duello. Il Guardiano, vigile, sopravviveva alla
mischia. Alla fine, le previsioni si erano rivelate ottimistiche.
Meno di un terzo degli uomini era rimasto in piedi. Pochissimi quelli che, a terra, avrebbero potuto combattere ancora.
Gli altri avrebbero fatto la fortuna dei cani. Fuori dalla vista,
però, che al pubblico interessa il brivido del combattimento,
non l’elemosina di una fine scontata. L’uomo che aveva impartito i primi ordini li ricondusse nelle celle. Li avrebbero
dissetati. Sarebbero serviti uomini in forze per il prossimo
spettacolo. E poi i Campioni attendevano l’arrivo del loro
Signore. Dopo la selezione, avrebbe di sicuro assistito alla
prova di resistenza. A meno che la Ninfa, ultima arrivata, non
lo avesse distratto. Non erano felici dell’arrivo di Ariel sul
Promontorio. Ma avrebbero tollerato la sua presenza. Almeno per ora. Almeno fino a quando non avesse interferito con
i loro disegni.
Dopo essersi fatta annunciare, rimanendo all’esterno delle
stanze private del Signore, la guardia udì un rumore sordo
provenire da dentro, come una specie di sommesso ringhio
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animale. Sapeva che il Dio pretendeva di non essere disturbato nei suoi momenti di privacy ma pensava che, stavolta,
quello che aveva da dirgli lo avrebbe interessato e che gli
sarebbe stato riconoscente per l’alacrità dimostrata nell’informarlo. Ugualmente indietreggiò di fronte a quel rantolo
sinistro che non lasciava presagire niente di buono. Alecsandr si sollevò in piedi. Il corpo, nudo. Senza coprirsi, si diresse
all’entrata. Ariel rimase per qualche secondo a terra: ricurva
sul pavimento, con le ginocchia piegate e il peso del corpo
poggiato sugli avanbracci, come un animale appena montato.
Girò il volto verso di lui, provata ma soddisfatta. In quel momento un rivolo di sangue le scivolò lungo le cosce. La porta
si aprì. La ninfa non si mosse, provocando nel nuovo arrivato
un forte imbarazzo.
“Signore” disse la guardia temendo di non riuscire a finire
la frase, tanto si era fatta secca la sua bocca “I Campioni hanno catturato il Guardiano della Dama Errante”.
“…davvero?” fece eco la donna lasciandosi cadere a terra
per lo stupore e l’ammirazione.
Quello deglutì intuendo di aver fatto la cosa giusta e continuò:
“È sopravvissuto egregiamente alla selezione. Lo stanno
preparando per i combattimenti”.
Poi, sapendo che qualunque altra informazione sarebbe
stata superflua, si dileguò.
I verdi occhi di Ariel brillavano per l’eccitazione. Sembrava che i suoi piani andassero addirittura oltre quelli del Dio.
“Lo ucciderò io stesso” disse lui spicciativo.
“No, lascialo combattere e godiamoci lo spettacolo. Se
supererà la prova, fallo affrontare dai tuoi Campioni. Se si
rivelasse all’altezza…”
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Non finì la frase. La fronte corrugata davanti a lei diceva
che erano altre le carte da giocare per ottenere condiscendenza. Si alzò e strusciando il suo giovane corpo contro quello di
lui, lo baciò con tutto il desiderio di cui fu capace. Lui ne fu
soggiogato: Ariel gli faceva perdere il controllo.
“Non ho mai assistito ai combattimenti” sussurrò con esibita ingenuità “E dicono che il Guardiano sia così potente…”
“Andiamo” concesse lui senza più dubbi.
Sotto al Velario, i Campioni si erano spaccati in due ali per
far posto al Signore e alla sua Ninfa. Erano la perfetta rappresentazione di ciò per cui erano tristemente conosciuti ai
dodici angoli dei Regni: paura, violenza, forza e fragore della
battaglia. Corazze muscolari ed elmi crestati; frange di cuoio
e falcate con lame ricurve; sciabole e spade; armature e schinieri. Una vera parata da guerra. Al centro, la delicatezza della Ninfa e la potenza del Dio, nella semplicità di una tunica
marrone bruciato, soprammessa appena sul petto e calata a
metà delle spalle, completavano quell’impietosa giuria. L’arrivo della coppia aveva fatto scendere il silenzio nell’Arena.
Neanche i cani latravano.
Ad un ordine, i combattenti superstiti erano usciti sul
piazzale. Stavolta non spingevano. Non si accavallavano. Si
sorreggevano a stento e rinviavano l’inevitabile. La pelle segnata da ferite. Le ossa tumefatte. Ma quelli che si reggevano
in piedi erano pronti per combattere ancora. A mani nude.
Uno contro tutti. Era una lotta per la sopravvivenza. All’ultimo sangue. Ne sarebbe rimasto solo uno. La lotta non si
decideva a iniziare. Ormai rivali, gli uomini si studiavano con
attenzione sotto il sole cocente. Rivoli di sudore scendevano sui volti segnati, sulle schiene bruciate. Ma non sentivano
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niente. Né il dolore. Né il caldo. In loro parlava solo l’istinto
di sopravvivenza. Alcuni erano concorrenti temibili: giovani
atletici, con i corpi ancora risparmiati da ferite, presto o tardi, mortali. Altri avevano un’apparenza innocua che avrebbe
potuto rivelare, tuttavia, qualche abilità nascosta. Decidere
il nemico da combattere era una scelta di vita o di morte.
Khor era massa allo stato puro. Il suo corpo anelava contatto.
Quando il primo dette inizio allo scontro, gli altri lo seguirono cedendo la ragione all’impulso del momento.
Ecco che qualcuno si offre in posizione offensiva, frontale;
qualcuno indietreggia. Nessuno può sottrarsi. Ne resterà solo
uno. E allora avanti: un giovane parte di rincorsa e conficca la
testa nell’addome del nemico; un altro tira calci ai polpacci,
mira alle rotule, infrange ossa; un altro ancora, fiaccato nel
corpo, aspetta che qualcuno lo assalga e, con mossa abile, lo
gira su se stesso, gli cinge il collo con le braccia, lo soffoca.
Si sentono grida. Si odora il fetore del vomito. Si percepisce
il calore del sangue. Senza sapere se sia il proprio. E si va
avanti. Khor, fermo in mezzo all’Arena, ha come un cerchio
invisibile intorno a sé. È il suo confine. Lo spazio del suo
combattimento. Chiunque lo varchi sa di doversi confrontare
con quella massa. Un volume compatto di muscoli e tendini.
Uno dopo l’altro, gli ultimi sopravvissuti attaccano a turno il
resistente. Khor li respinge. Li piega. Li ferisce. E non muove
un passo. Uno a uno muoiono tutti. O meglio sarebbe. Quelli
che restano a terra saranno lasciati lì. Sotto il sole. Alla mercé
delle bestie. L’uomo degli ordini fa irruzione nell’Arena. Alza
il braccio del Guardiano in segno di vittoria. Tra i Campioni,
uno fa cenno di riportarlo dentro. Gli occhi di Ariel brillano.
Quelli del Dio sono lontani. Per oggi i Giochi sono finiti.
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