Miles Davis, restare fedele alla musica

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Miles Davis, restare fedele alla musica
Miles Davis, restare fedele
alla
musica
cambiandola
continuamente
While living in London, I had an apartement with a small
garden.
During the summer around 4 or 5 o’ clock in the morning,
just as the day began, birds would gather here one by one
and sing together, each declaring its freedom in song. -Dave
Holland [1]
Può accadere talvolta che un individualista, un solitario
incallito, diventi una figura simbolo, capace di incarnare i
sogni, i desideri e i pensieri di milioni di suoi
contemporanei, i fermenti culturali di un’epoca. Nonostante il
luogo comune critico racconti il contrario, in realtà Miles
Davis fu uomo di sintesi, piuttosto che di intuizioni, di pura
invenzione. La sua presenza ha attraversato la storia del jazz
moderno senza determinare le grandi svolte del linguaggio,
bensì legittimandole e rendendole più compiute, intellegibili,
sistematizzate.
Se al grande Duke Ellington si riconosce la capacità
indiscussa di scrivere avendo in mente i «propri musicisti»,
quelli che poi daranno vita definitiva a una partitura che
sulla carta è appena abbozzata, fissando in qualche modo un
«parametro possibile di scrittura jazzistica», Davis ha una
qualità diametralmente opposta: quella di indurre i propri
musicisti a scrivere per lui. È un grande «istigatore» della
creatività, una sorta di «Socrate nero», capace di scavare
fuori dai suoi partner idee che forse mai avrebbero sospettato
di avere in testa. E non a caso i gruppi di Miles sono, fin
dall’inizio, palestre intellettuali in cui crescono autori
celebri (con insospettabile generosità, alcuni dei loro brani
sono diventati poi titletrack di leggendari dischi davisiani:
da «In a Silent Way», di Zawinul, a «Tutu», di Marcus Miller).
Come risulta abbastanza chiaramente dalle interviste con Chick
Corea, Dave Holland e John McLaughlin l’atteggiamento verso i
giovani musicisti è spesso «paterno», sia pure con poche
moine: Miles è uno di quei genitori che scaraventano il figlio
in piscina pensando «se non vuole andare a fondo, imparerà a
restare a galla».
Ma per quanto siano stati trattati, a volte, un po’
bruscamente da questo «padre burbero», tutti i suoi ex
collaboratori hanno conservato gratitudine e rispetto per
questo maestro che ai giovani credeva davvero, perché da loro
vengono le nuove sfide, e la loro presenza è indispensabile
per «continuare a creare e a cambiare, per non restare fermi e
mettersi al sicuro». Il mondo avrebbe mai conosciuto il genio
di John Coltrane, se Davis non si fosse adoperato per
rimediargli quella prima registrazione discografica da leader?
Dare anche solo una scorsa alle varie formazioni che ha
allestito in quasi mezzo secolo equivale a ripercorrere la
storia del jazz moderno per intero. Quel primo quintetto del
1947, con Parker, John Lewis, Nelson Boyd e Max Roach,
annuncia un futuro che sarà interminabile. L’anno successivo,
infatti, inizia il sodalizio con Gil Evans, che sarebbe durato
per tutta la vita, nella leggendaria Capitol Band, con Gerry
Mulligan, Lee Konitz, John Lewis, Mike Zwerin, Junior Collins,
Bill Barber, Al McKibbon e Roach.
Nel ’49 gli arrangiatori sono Lewis, Evans e John Carisi,
mentre nella band J.J. Johnson e Kay Winding si alternano ai
tromboni, Roach e Kenny Clarke alla batteria, in compagnia di
Junior Collins, Bill Barber, Konitz, Mulligan, Al Haigh, Sandy
Siegelstein e Nelson Boyd. Lo stesso anno, sul palcoscenico
del festival di Parigi, Miles suona con James Moody, Tadd
Dameron, Barney Spieler e Kenny Clarke. Il ’51 è l’anno del
sestetto con Jackie McLean, Sonny Rollins, Walter Bishop jr,
Tommy Potter e Art Blakey. Non sono passati tre anni dal suo
esordio come leader, e già i suoi gruppi hanno visto sfilare i
tre capiscuola della percussione bop… Il biennio 1952-53
chiarisce già come Miles ami esplorare simultaneamente diverse
direzioni. Per le registrazioni dei dischi Blue Note il
sestetto comprende J.J. Johnson, Jackie McLean, Gil Coggins,
Oscar Pettiford e Clarke, ma allo stesso tempo sono attivi il
gruppo con Parker (insolitamente al tenore), Rollins, Bishop,
Percy Heath e Philly Joe Jones, un quartetto con Lewis, Heath
e Roach, e un altro con Horace Silver, Heath e Blakey. Alla
metà del decennio la ritmica privilegiata è decisamente quella
con Silver, Heath e Clarke, mentre ai fiati si alternano Lucky
Thompson, Johnson e Rollins, ma c’è anche il tempo di
approfondire la conoscenza di Milt Jackson e Thelonious Monk.
Nel 1956 inizia la collaborazione con John Coltrane, in un
altro quintetto storico, completato da Red Garland, Paul
Chambers e Philly Joe Jones, che produrrà parecchie opere
discografiche fondamentali. Nel ’57 c’è un «ritorno di fiamma»
per Gil Evans, che nel successivo triennio produrrà opere come
«Miles Ahead», «Porgy & Bess» e «Sketches of Spain». Louis
Malle lo chiama a registrare la colonna sonora di Ascenseur
pour l’echafaud, a fianco di Barney Wilen, René Urtreger,
Pierre Michelot e Kenny Clarke. Il successivo sestetto con
Julian Cannonball Adderley, Coltrane, Bill Evans (o Wynton
Kelly), Paul Chambers e Philly Joe Jones, durerà fino al ’61,
quando a fianco dei «veterani» Kelly e Chambers entreranno in
gioco Hank Mobley e Jimmy Cobb. L’anno successivo nasce una
delle più celebrate sezioni ritmiche della storia, con Herbie
Hancock, Ron Carter e Tony Williams, all’epoca ancora teenager. Al tenore ci sono George Coleman, brevemente Sam Rivers
e poi Wayne Shorter, che sarà poi un fedelissimo di Miles fino
all’alba degli anni Settanta. Il quintetto con Shorter,
Hancock, Carter e Williams resterà in piedi stabilmente fino
al ’68, producendo album come «ESP», «Live at the Plugged
Nickel», «Miles Smiles», «Sorcerer», «Nefertiti», «Water
Babies», «Miles in Berlin» e, con l’aggiunta di George Benson,
«Miles in the Sky».
Un giovanissimo Chick Corea comincia a comparire
sporadicamente. Col 1969 e «In a Silent Way» inizia l’era di
John McLaughlin, Joe Zawinul, Dave Holland e Jack DeJonnette.
Verrà poi la pietra miliare «Bitches Brew», e compariranno
Keith Jarrett, Bennie Maupin, Lenny White, e ancora Dave
Liebman, Steve Grossman. Poi ci saranno sei anni di silenzio,
e dopo il ritorno sulle scene vale la pena di citare almeno la
geniale intuizione di far suonare insieme due chitarristi come
Mike Stern e John Scofield. Chi ha confidenza col mondo del
jazz, avrà compreso anche solo da questo imponente elenco di
nomi quanto estesa sia stata l’influenza di Miles, o meglio
quale affascinante processo di osmosi egli abbia stabilito con
la musica della sua gente, e quanto abbia avuto il coraggio di
investire sui musicisti del futuro.
Questo, sul piano artistico, è stato Miles Davis: un maestro e
un poeta, rispetto alla storia della musica del Novecento, non
a quell’orticello che la gente chiama normalmente jazz. Sul
piano personale, peraltro, i limiti e i pregi di
quell’orticello lo segnarono profondamente. Sposandone, e
portandone alle estreme conseguenze, gli atteggiamenti
anticonformisti, Davis personifica paradossalmente il
«conformismo del jazz»: tradisce un’appartenenza dalla quale
non riesce mai ad affrancarsi completamente, quasi un peccato
originale che lo accompagna nelle frequenti escursioni in
altri mondi culturali. Anche perché il novero dei suoi
interessi è davvero «ad ampio spettro».
Un orecchio avvertito lo può sentire nella sua musica in
maniera inequivocabile, ma lui stesso lo confessa nella sua
autobiografia, pubblicata poco prima della sua scomparsa. A
fianco di passioni note, quali quelle per James Brown, Sly &
the Family Stone, Jimi Hendrix, si trovano meno ovvie passioni
per Stravinskij, e perfino per Harry Parch e John Cage.
Durante gli anni del «ritiro» la curiosità si spinge fino a
Karlheinz Stockhausen, del quale lo intriga «il modo di
servirsi del ritmo e dello spazio». E della cultura nera,
ovviamente, non gli sfuggono gli aspetti recenti: apprezza
Prince, ma anche il rap, l’hip hop, la break dance. Né gli
sfugge l’importanza del fatto che l’Europa, tutta, stia
diventando un altro grande continente multirazziale, con le
implicazioni culturali e musicali del caso. Nei critici, nei
musicisti, nel pubblico, detesta la pigrizia intellettuale:
«Quando sento tutti questi musicisti di jazz – dichiara – che
suonano le stesse cose di tanti anni fa, mi sento triste per
loro. Il bebop, quando è nato, parlava di cambiamento, di
rivoluzione».
Che è come dire: l’unico modo di restare fedele ai presupposti
di quella musica è quello di cambiare musica, continuamente.
[1] Quando vivevo a Londra, avevo un appartamento con un
piccolo giardino. Durante l’estate, intorno alle 4 le 5 del
mattino, gli uccelli si raccoglievano lì uno ad uno e
cantavano insieme, ognuno dichiarando col canto la propria
libertà.
di Filippo Bianchi