Accanto al malato

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Accanto al malato
Accanto al malato
di Enzo Bianchi
A cura della formazione permanente
DI FRONTE ALLA MALATTIA
Parlare della malattia?
Ha detto il cardinal Veuillot sul letto d’ospedale durante la
malattia che l’ha condotto alla morte: “Sappiamo pronunciare belle
frasi sulla malattia. Io stesso ne ho parlato con calore. Dite ai preti di
non dirne niente: noi ignoriamo quello che è. Ne ho pianto”. È importante ricordare questa testimonianza mentre ci si assume il rischio di
parlare della malattia e della sofferenza. Infatti, l’ “enigma del male”,
l’enigma dell’irriducibile sofferenza” di cui parla Ricoeur, resiste ad
ogni sapienza e sanziona lo scacco di ogni discorso, soprattutto del
discorso concettuale. Inoltre, più semplicemente, più che parlare di
malattia occorrerebbe osservare e ascoltare il malato, colui che nella sua situazione di sofferenza ha veramente qualcosa da dirci e da
insegnarci, colui che può rivelare noi a noi stessi, mettendoci alle
strette circa il “serio” della vita. È dunque solo con timore e tremore
e con grande umiltà che “osiamo dire” (audemus dicere) qualcosa
sulla malattia. Ma anche con fermezza: “È essenziale rischiare una
parola su questa realtà che fa parte di ogni vita umana, perché se la
parola è ciò che specifica l’uomo, è nell’atto di parlare che noi potremo inventare dei cammini di senso”. In quest’ottica, “dire una parola
sulla malattia” è una sfida perenne che l’uomo deve sempre di nuovo
raccogliere, nella coscienza che si tratta non di “dare la risposta”, ma
di far propria una ricerca inesausta e inesauribile, eppure altrettanto
essenziale all’umanizzazione dell’uomo quanto la domanda: “Chi
sono?” L’uomo si umanizza interrogandosi su se stesso, e la domanda e la riflessione sulla malattia e, più in generale, sulla sofferenza, è
inerente a questo compito di divenire uomo.
Dunque, fra l’impotenza del mutismo e la presunzione arrogante delle parole certe e definitive, ci è chiesto di osare una parola,
una parola umile che, sorgendo dal silenzio, riviva in se stessa il
dinamismo pasquale della morte-resurrezione.
Discorso concreto, plurale, non impositivo
Nella realtà, più che la sofferenza, astratta e singolare, noi
incontriamo uomini e donne sofferenti: la malattia noi la vediamo
nel volto e nel corpo di persone malate. E afflitte da malattie diversissime: si pensi alle specificità che comporta l’essere sieropositivi
oppure portatori di handicap fisici o segnati da malattie psichiche.
Si pensi a malattie mortali e a malattie che possono essere vissute
come parentesi, più o meno lunghe, nell’arco della vita. Vi è poi
una maniera assolutamente peculiare con cui ciascuno reagisce alla
stessa malattia, maniera che è afferente alla biografia e all’esperienza personale del malato, al suo mondo di riferimenti culturali e
religiosi. Se la malattia rischia di spersonalizzare il malato, è anche
vero che il malato personalizza la malattia. Il che significa che ciascuno, nella sua malattia e a misura di ciò che gli è possibile e grazie
all’aiuto di chi eventualmente lo assiste e accompagna, è chiamato
alla responsabilità di “dotare di senso” la propria sofferenza.
Qui, anche il cristiano non ha ricette e tanto meno garanzie
che gli consentano di realizzare questo compito e di affrontare “positivamente” la malattia più degli altri uomini. L’esperienza mostra
che il cristiano, anche se nella sua malattia ha un punto di riferimento a cui può costantemente rivolgersi, deve confrontarsi non
solo con lo scacco costituito dalla sua malattia, ma anche sostenere la sua fede e affrontarne la crisi e la messa in discussione, così
come deve passare dal “sapere” piuttosto astratto della necessità
di portare la croce dietro a Gesù, all’assunzione non di una croce
qualsiasi, ma della propria. E i cammini che la malattia suscita e
gli esiti a cui conduce sono sempre imprevedibili. Non si può che
condividere quanto scritto da Erika Schuchardt: “Anche un cristiano non conosce alcuna strada che aggiri il dolore, ma piuttosto una
strada - insieme con Dio - che lo attraversi. Le tenebre non sono
l’assenza ma il nascondimento di Dio, in cui noi - seguendolo 3
lo cerchiamo e lo troviamo nuovamente”. Per questo è essenziale
ascoltare i racconti dei malati o le testimonianze narrative che i loro
accompagnatori si premurano di consegnare ai lettori: è una scuola
di umanità e, nel caso si tratti di un malato che ha cercato di integrare la propria sequela Christi nell’esperienza della sofferenza,
può anche essere una forma di trasmissione della fede, dunque un
ministero ecclesiale fondamentale. Il carattere concreto e plurale
del discorso sulla malattia ha come forma letteraria la narrazione,
il racconto. Un libro come La morte amica di Marie de Hennezel,
in cui l’autrice-psicologa in un’unità di cure palliative - guida per
mano il lettore, con infinita delicatezza, all’incontro con volti e storie diverse di malati terminali, è più istruttivo e “vero” di molti testi
dichiaratamente “spirituali”. È un’opera di così densa e profonda
umanità che è anche autenticamente spirituale!
Direi poi che questa pluralità e concretezza ha una specifica
valenza per quanto riguarda la fede cristiana. L’atto per cui un uomo
arriva a dotare di senso cristiano la sua malattia e a viverla nella
fede è un evento pneumatico, è un’azione dello Spirito santo che si
innesta su un itinerario, su un cammino umano di “rapporto” con la
malattia che è accidentato e contraddittorio, denso di incognite e di
sorprese, di gesti di assunzione e di regressioni, di passi indietro, di
rifiuti, di momenti di pace e di momenti di ribellione, di sconforto e
di volontà di combattere. Si pensi, per esempio, alle fasi individuate
dalla dottoressa Elizabeth Kiibler-Ross che un malato può conoscere nella sua reazione all’insorgere di una grave malattia e alla
prospettiva dell’avvicinarsi della morte: shock, negazione, collera,
trattativa, depressione, accettazione, pace. Il “senso cristiano” di
quell’esperienza di malattia avviene nell’incontro fra lo Spirito santo, la particolare umanità del malato, la sua fede, e l’ambiente che
circonda il malato stesso. Per questo è importante, quando si parla
e si scrive sulla malattia e sull’atteggiamento spirituale di fronte a
essa, uscire dal linguaggio categorico, normativo, impositivo del “si
deve”, “bisogna”, eccetera. Non è solo un problema di correttezza
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di linguaggio, ma di rispetto di ciò che può solo essere un evento
della libertà del malato illuminato dallo Spirito santo e sorretto dalla
fede all’interno dei condizionamenti e delle limitazioni che la malattia gli impone. Si tratta di percepire la spiritualità come evento,
non come precettistica da applicare, e il senso della malattia non
come già dato, ma come evento che deve essere ricreato sempre di
nuovo. Poco importa che la risposta, il senso che un uomo intravede
nella sua situazione particolare sia riconducibile a risposte già date
da altri uomini: quell’evento, in quella situazione, per quell’uomo,
è un novum!
Si può parlare di una “spiritualità del malato”?
La risposta a questa domanda la lascio alle parole degli stessi
malati citando un brano di un testo ormai datato (risale al 1950),
ma esemplare per chiarezza di propositi. Si tratta di un articolo che
presenta la storia, la fisionomia spirituale e le finalità de 1’ Union
catholique des malades: “Non abbiamo bisogno di una farmacia
spirituale, ma del buon cibo comune. I malati non chiedono una
cappella d’infermeria, ma la chiesa. Abbiamo bisogno solamente di
una spiritualità ecclesiale. Non chiediamo che per noi si apra una
nuova scuola di spiritualità, in cui tutti i problemi della vita siano
esaminati e adattati alla situazione di coloro che hanno familiarità
con il bacillo di Koch o con il morbo di Pott, e in cui tutto sia visto
attraverso un’ottica di malati e in un odore di ospedale. Si smetta
di rivolgersi a noi e di parlarci ‘in quanto malati’, come se non si
volesse sapere null’altro di noi; prima di essere malati, siamo degli
uomini e dei figli di Dio ... Dovunque altrove, nella famiglia, nella professione, nella città, noi siamo forzatamente distaccati dalle
attività comuni, un po’ messi a parte, se non tenuti in disparte. Il
sentimento di questa distinzione, di questo isolamento e di questa
inutilità, è forse ciò che vi è di più penoso nella malattia. Perché
volerci mettere ancora a parte anche nella Chiesa?”
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Vi è, nell’idea ghettizzante di una “spiritualità del malato”,
qualcosa di patologico sia nella visione della spiritualità che del malato. Da un lato, infatti, la spiritualità cristiana non può che essere,
nella sua essenza, “una e inalterabile”: va perciò denunciato come
patologico il fenomeno di specializzazione delle spiritualità avvenuto in occidente, che assomiglia più alla disgregazione dell’autentica, semplice, unica vita secondo lo Spirito. Sì, non esiste che una
e una sola spiritualità cristiana che trova la sua esauriente figura
nel battesimo: il battezzato è un uomo che pone sotto il segno della
fede in Cristo tutta la sua vita, nei buoni come nei cattivi giorni,
nella salute come nella malattia. “Cristo è morto per noi”, dice Paolo, “affinché, sia che vegliamo, sia che dormiamo [cioè, sia in vita
che in morte], noi viviamo insieme con lui” (1 Ts 5,10); e potremmo aggiungere: sia nella salute che nella malattia. È significativa,
a questo proposito, la testimonianza trasmessa da Suzanne Fouché:
“Gli anni sciupati della malattia ci hanno stranamente maturato ...
La loro luce proiettata sulla nostra vita ne illumina il senso: sono
stati ... una seconda nascita, un battesimo””.
Una ipotetica “spiritualità del malato” implica anche la visione monca che nella persona considera solo il malato, solo la parte,
diciamo così, menomata del suo essere e non le potenzialità positive, vitali, di cui ancora dispone e che devono essere valorizzate. Una simile spiritualità rischierebbe di cadere nel dolorismo o
comunque in ottiche unilaterali che impoveriscono l’interezza del
mistero cristiano e lo deformano.
Spirito di Dio e spirito dell’uomo
L’esperienza di accompagnamento di malati, e particolarmente di morenti, mostra l’emergere, nei malati stessi, della dimensione
spirituale come assolutamente vitale. È una dimensione che si pone
“sul piano del senso e dei valori nell’esistenza”, che “si estende a
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tutto ciò che riguarda la capacità dell’uomo di conoscere e di amare
un’altra persona per se stessa, capacità che, se impegna sempre la
nostra sensibilità, dipende dal nostro ‘spirito’ (spiritus)”, che ha a
che fare con “la domanda di essere riconosciuto come persona, con
tutto il suo mistero e la sua profondità” e che si manifesta particolarmente come “domande spirituali”, cioè come “attesa dell’uomo
di essere colto nella sua globalità e di avere la possibilità di manifestare ciò che costituisce il fondo della sua umanità”. È bisogno
di una presenza, esigenza di ascolto, manifestazione e ricerca di
gratuità, desiderio di confidenza, domanda di unità (anzitutto con se
stessi), desiderio di composizione delle proprie relazioni, anelito di
riconciliazione, sete di comunicazione... Si tratta di una dimensione
prettamente antropologica, che vien prima e non riveste necessariamente le forme religiose o cristiane dello “spirituale”.
Al tempo stesso essa non è e non può essere assolutamente
estranea a una “spiritualità cristiana”: l’evento pasquale che per il
cristiano getta luce sulla sofferenza è inscindibile dall’incarnazione in cui Dio stesso, nel Figlio, assume la totalità della condizione
umana. Il cristiano che soffre è anzitutto un uomo che soffre! Proprio per questo lo sguardo che la fede cristiana porta sulla malattia
non può farsi ispiratore di atteggiamenti inumani: sia nel senso di
produrre una colpevolizzazione del malato, sia nel condurlo a proclamare la malattia un “privilegio” perché unisce più strettamente
al Cristo sofferente, o a vedere in essa lo strumento con cui Dio
corregge il peccatore, o con cui l’uomo vede accresciuto il proprio
merito, e così via. Il fatto che la sofferenza, il male e la morte siano
stati abitati da Cristo e che pertanto anche le situazioni di malattia e
di sofferenza possano nella fede essere vissute con e in Cristo, non
toglie certo quel volto “nemico” che è ineliminabile dalla malattia e
che impegna il cristiano anzitutto alla lotta e alla resistenza contro
di essa.
Ciò che più colpisce nell’evoluzione dell’atteggiamento della
chiesa nei confronti della malattia dalle origini ai nostri giorni è quel
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“ribaltamento” che sembra doversi situare nel XII secolo e di cui è
stato scritto: “In tutto il periodo precedente della storia cristiana, la
cura dei malati assicura principalmente il merito e la santificazione
di coloro che sono in buona salute. A iniziare dal XII secolo, è la prova stessa che viene considerata come una fonte di merito e di santità
per colui che la sopporta”. La malattia, da elemento negativo da cui
Gesù libera guarendo i malati, diviene ambito di comunione mistica
con Cristo e mezzo di identificazione con lui: dall’immagine del
Gesù medico, del Gesù che guarisce, si passa a quella del Crocifisso
a cui il malato stesso si assimila tramite la malattia. Questo trapasso
avrà conseguenze notevoli sulla spiritualità cristiana del secondo
millennio, nel periodo della chiesa divisa, e sull’atteggiamento nei
confronti della malattia: dimenticanza dell’elemento pneumatico,
cristo-centrismo e perfino cristomonismo, influenza della teologia
della “soddisfazione”, sono elementi che possono aver provocato
il nascere di “ideologie spirituali” sulla malattia, distanti dalla freschezza dell’annuncio evangelico e dalla comprensione dei Padri
della chiesa. In termini sarcastici così si esprimeva (alla fine degli
anni ‘40, in un testo certamente datato, ma nondimeno significativo) Philippeau: “I giganti dell’ascesi primitiva, da sant’Antonio a
san Gerolamo e anche oltre, si sarebbero certamente molto stupiti
se avessero potuto intravedere nelle età ancora lontane a venire, le
Suore cieche di San Paolo, le Serve di Gesù crocifisso o anche certi settori dell’Azione Cattolica per i quali la malattia o l’infermità
permanente diviene l’asse centrale della spiritualità, così che non
solo non vi si domanda la guarigione, ma se questa si verificasse,
sarebbe sentita come una catastrofe in grado di rimettere in causa
la vocazione individuale a tale forma determinata di vita attiva o
contemplativa”.
Noi non possiamo dimenticare che “nessuna immagine si è
impressa così profondamente nella tradizione cristiana primitiva
come quella di Gesù grande medico”, al punto che ne troviamo innumerevoli tracce nei testi dei Padri della chiesa e che da essa è
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scaturita una tradizione di preghiere rivolte al Cristo medico. Nel
suo ministero storico nei confronti dei malati Gesù ha sempre “detto di no” al male, ha lottato contro il male, ha curato e guarito i
malati. Quando Matteo afferma che in Gesù si compiono le parole
riguardanti il Servo sofferente che “ha preso su di sé le nostre infermità e si è addossato le nostre malattie” (Is 53,4; Mt 8,17), lo fa
in un contesto nel quale appare che Gesù guarisce sia i malati fisici
che quelli psichici, gli “indemoniati” (Mt 8,16). Questa istanza di
lotta per la guarigione dalla malattia è dunque l’elemento spirituale, sia cristiano che antropologico, fondamentale. Lo scandalo e il
paradosso della fede cristiana, dell’evento pasquale, non sono così
evacuati, ma ricollocati in quel contesto in cui Dio stesso li ha voluti collocare: la carne umana, la storia, la vita delle persone. Che
anche la malattia, il cammino di diminuzione, di perdita, insito nella discesa nella malattia, possa divenire cammino di fecondità, di
approfondimento e arricchimento umano, insomma cammino non
di morte ma di vita, è verità umana fondamentale. Tutto questo il
cristiano lo vive nella fede dell’evento pasquale, quasi facendo suo
il dinamismo di morte-resurrezione proprio dell’evento pasquale.
In questo modo, il Cristo che ha dato senso alla sua vita, dà senso
anche alla sua malattia.
Xavier Thévenot ha proposto un suggestivo parallelo fra triduo pasquale e momenti fondamentali dell’evoluzione della sofferenza: “All’inizio, una vera sofferenza è sempre troppo forte! Così
bisogna distinguere dei tempi. Da parte mia, ne definisco tre. Un
tempo di ‘siderazione’, in cui si è come paralizzati dallo shock, alcuni dicono lo stupro, della disgrazia che ci colpisce (la perdita di
un figlio, la notizia che si è colpiti da una malattia grave, lo scoprirsi
con un handicap permanente dopo un incidente). Quindi il tempo
dell’elaborazione del lutto, in cui si impara a liberarsi dai propri
sogni attraverso la rivolta, la depressione, la regressione, eccetera.
Un terzo tempo, infine, che è quello del lavorio di Pasqua. Si ritrova
qui la struttura del triduo pasquale. Il Venerdì santo, in cui si è come
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schiacciati dall’eccesso rappresentato dal male; il tempo del Sabato
santo, che è il tempo del silenzio in cui si riorganizza la propria vita,
la propria memoria, le proprie speranze; il tempo di Pasqua, che è
un tempo di speranza, ma una speranza che non si confonde con il
riposo completo. È ancora un lavorio, l’intraprendere un cammino.
Il Dio su cui ci si riposa non è un Dio di tutto riposo”.
Nell’elaborazione della malattia dunque “Spirito di Dio” e
“spirito dell’uomo” (cf. Rm 8,16) sono co-protagonisti: la situazione di debolezza (asthéneia) in cui la malattia getta è lo spazio che
attira l’aiuto dello Spirito santo (Rm 8,26: “Lo Spirito viene in aiuto
alla nostra debolezza”) ed è la diminuzione umana che può essere
assunta come debolezza in Cristo (2Cor 13,4: “Cristo fu crocifisso
per la sua debolezza, ma vive per la potenza di Dio. E anche noi che
siamo deboli in lui, saremo vivi con lui per la potenza di Dio”). Il
cristiano è chiamato a “dare il nome di croce” al suo umanissimo
cammino di malattia, alla salita del suo personalissimo Calvario.
Ma questo cammino richiede una maggiore sottolineatura
dell’azione dello Spirito santo, rispetto alle molte immagini tradizionali troppo unilateralmente centrate su Cristo e cristallizzate su
una sua imitazione da parte del malato; richiede di non separare ciò
che Dio ha unito, cioè l’umano e lo spirituale, per non cadere in
atteggiamenti dualisti; e richiede l’intelligenza e la delicatezza di
comprendere che il senso della malattia può emergere come frutto
dell’interazione fra lo Spirito di Dio, la fede dell’uomo e il plesso
di relazioni e le differenti situazioni che si creano attorno al malato
e in lui.
Forza nella debolezza
Il malato è chiamato ad assumere questa lotta contro il male
proprio nella situazione di debolezza in cui lo pone la malattia. È
una debolezza molteplice: non solo fisica, ma che investe il livello
psichico, affettivo, relazionale. Il malato è una totalità che soffre.
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Nella malattia tutte le relazioni, con se stesso, con gli altri, con le
cose e con Dio, subiscono un profondo mutamento. La malattia diviene così un osservatorio nel quale il malato è chiamato ad ascoltare di nuovo, a vedere e ad assumere la realtà da un’angolatura
assolutamente inedita. Il rapporto con il corpo, con il tempo, con
la parola e dunque con gli altri è profondamente sconvolto per il
malato che si trova in una situazione di radicale bisogno. Vi è come
un’umiliante regressione a uno stato di dipendenza dagli altri, ci si
trova consegnati in mano di altri, in una avvilente riduzione all’impotenza. Il malato conosce l’esperienza della fragilità, della finitezza, della distanza e dell’estraneità da sé e dagli altri; patisce la malattia come drammatica epifania del limite. Ma in questa negatività
è anche insita la rivelazione della necessaria accettazione dei limiti
come segreto della vita: vivere significa assumere i molteplici limiti
che l’esistenza stessa ci presenta. Di più. Non è solo il malato che fa
questa esperienza di limitatezza. La malattia è un contesto che può
arrivare a coinvolgere i famigliari del malato, gli amici, il personale
medico e infermieristico, gli accompagnatori, i compagni di camera
in ospedale, eccetera. Lì può avvenire l’incontro, e l’incontro è il
luogo privilegiato dell’espressione dell’esperienza spirituale.
Perché avvenga vero incontro occorre però entrare nell’accettazione della propria impotenza e limitatezza: solo allora sarà possibile il riconoscimento reciproco, sarà possibile l’incontro come
condivisione della povertà di ciascuno. Lì si sperimenta la potenza
della debolezza del malato: essa rivela le ribellioni, le oscurità del
cuore, le presunzioni, le illusioni, le superficialità, le inadeguatezze che abitano in chi lo accompagna e gli è accanto. Scrive Jean
Vanier: “Da un certo numero di anni vivo con uomini e donne in
situazioni di bisogno che portano gravi handicap e comincio a prendere coscienza delle barriere che esistono in me ... Davanti alla loro
esigenza di comprensione, di amicizia, davanti alle loro paure e ai
loro atteggiamenti con cui mi mettono alla prova, ho cominciato a
cogliere la distanza fra la loro sete di presenza e di sostegno e la mia
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incapacità a rispondervi. Ho toccato con mano le mie barriere e le
mie paure ... Quando si cerca di accogliere il povero, di ascoltarlo e
di rispondere al suo appello, allora si scoprono le nostre barriere, le
nostre paure e le nostre aggressività”.
Solo quando la relazione tra visitatore e malato si configura
come incontro di poveri, il rapporto con il malato può divenire luogo
di comunione, di amore e di responsabilità. “Il richiamo, l’ingiunzione, anche la fiducia che derivano dal fragile fanno sì che sia sempre un altro ... a chiamarci alla responsabilità. Un altro, contando su
di me, mi rende responsabile dei miei atti”. Questa responsabilità è
una responsabilità di amore: farsi presente all’altro nel suo dolore,
aiutare l’altro a “essere”, questa è opera di amore che rende la situazione di alterazione del malato una situazione di alterità, di incontro
e riconoscimento reciproco fra persone. Il grido del malato può divenire parola perché c’è qualcuno che ascolta. Scrive Agostino: “Io
non so come accada che, quando un membro soffre, il suo dolore
divenga più leggero se le altre membra soffrono con lui. E l’alleviamento del dolore non deriva da una distribuzione comune dei
medesimi mali, ma dalla consolazione che si trova nella carità degli
altri” (Epist. 99,2). La malattia trova allora nell’amore un senso, o
quantomeno una sopportabilità. Ma l’amore è anche il senso della
vita: l’amore crea vita, dà vita a ciò che è morto. E per il cristiano
questa è opera dello Spirito, è evento suscitato dallo Spirito, dalla
grazia del Signore. È lo Spirito che infonde forza nella debolezza.
In tutto questo il cristiano confessa il mistero della “debolezza di
Dio, che è più forte degli uomini” (1 Cor 1,25).
Nodi cruciali
Cerco ora di riesprimere alcuni nodi cruciali che hanno attraversato e segnato la storia dell’atteggiamento cristiano nei confronti
della malattia. Si tratta appena di note, di appunti ispirati al modello
spirituale che ho cercato di abbozzare e che vuole sfuggire al rischio
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di riflettere l’immagine di un Dio contro l’uomo che a volte traspare
dietro certe visioni cristiane della malattia e della sofferenza. Se è
vero che le molte parole che la spiritualità ha speso sulla malattia
per spiegarla o farla accettare vanno comprese storicamente, è anche vero che a volte si sono verificate vere e proprie aberrazioni. Il
seguente testo tardomedievale è una efficace illustrazione di simili
bestemmie teologiche e antropologiche: “Se l’uomo sapesse come
la malattia gli sarebbe più utile, non vorrebbe mai vivere senza malattia. Perché? Perché l’infermità del corpo è la salute dell’anima.
... Come? Grazie alla malattia del corpo, la sensualità viene
estinta, la vanità distrutta, la curiosità cacciata, il mondo e la vana
gloria ridotti a niente, l’orgoglio svuotato, l’invidia allontanata, la
lussuria bandita ... Facendo odiare il mondo, essa dispone all’amore
di Dio”. Giustamente, in tempi più vicini a noi, Teilhard de Chardin ha osservato che “una falsa interpretazione della rassegnazione
cristiana è, insieme con una falsa idea del distacco cristiano, la principale fonte delle antipatie che fanno così lealmente odiare l’Evangelo a un gran numero di gentili”. Iniziamo dunque il nostro breve
itinerario di rilettura di alcuni rapporti con la malattia.
1. Preghiera e malattia. La tradizione spirituale cristiana ha
sempre visto nella condizione di precarietà della malattia una situazione particolarmente adatta alla preghiera. Certo, le concezioni
della preghiera del malato e le modalità della stessa risentono delle
“spiritualità” dominanti in ciascuna epoca. Influenza dello stoicismo e sottolineatura della pazienza e della rassegnazione, esaltazione della sofferenza come mezzo di identificazione con il Christus
patiens, concezione della malattia come castigo dei peccati, come
forma di espiazione, come acquisizione di meriti, come preparazione alla vita eterna, eccetera, determinano di epoca in epoca toni
e contenuti della preghiera dei malati. Si pensi alla determinante
influenza giansenista presente nella famosissima Preghiera per domandare a Dio il buon uso delle malattie di Pascal. Sempre, co13
munque, la tradizione cristiana, basandosi sulla convinzione della
potenza terapeutica della fede, ha affermato la preghiera come strumento di guarigione, sia nel senso di riacquisizione della salute, sia
nel senso spirituale di ottenimento della pacificazione, dell’unificazione del cuore, di accettazione nella pace della volontà di Dio,
quale che sia la forma in cui si esprime.
A me preme sottolineare anzitutto la legittimità del linguaggio di lamento e di protesta nella preghiera del malato. È il linguaggio di Giobbe e che troviamo frequentemente anche nei Salmi. In
particolare, certi Salmi portano il malato a “dire”, a “esprimere” la
propria situazione di sofferenza o di vicinanza alla morte e, dunque,
l’angoscia, la protesta, la disperazione di fronte alla malattia o anche
la speranza di un ristabilimento. Di fronte alla moderna incapacità
di esprimere i propri sentimenti nella malattia e all’avvicinarsi della
morte, di fronte alla rimozione del pensiero della morte che porta la
parola a nascondersi e a vergognarsi, a divenire mistificatrice, falsa,
menzognera, i Salmi sanno far accedere alla dignità del linguaggio
la sofferenza della malattia e l’esperienza del lutto”. Se poi guardiamo a Gesù, vediamo che anch’egli, morente sulla croce, grida
a Dio il suo “Perché?”, tra l’altro, con le parole di un Salmo. Se la
preghiera è espressione della relazione vitale del credente con il suo
Signore, ecco che nella situazione di crisi propria della malattia egli
si appella a Dio contro Dio, cercando di ritrovare e di riconoscere il
volto del Signore che ora si nasconde a lui. Questa preghiera di protesta è vitale, perché fa parte della lotta contro la malattia e perché è
una ricerca di senso di ciò che appare solo enigma. Il credente grida
a Dio e si sfoga con lui perché non può fare a meno di lui, non può
stare senza Dio, non vuole essere privato di Colui che ha dato senso
a tutta la sua vita.
All’interno di questa ricerca fondamentale di senso espressa
con linguaggio di supplica, si colloca anche il problema della preghiera di domanda. Che non va tacciata frettolosamente di egoismo.
Con la preghiera di domanda il credente si innalza dal suo bisogno e
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lo trasfigura in desiderio, pone una distanza fra sé e la sua situazione,
stabilisce un’attesa fra il bisogno e il suo soddisfacimento, cerca di
immettere un Altro nella situazione enigmatica che sta vivendo. La
preghiera di domanda attesta che il mondo e la vita non mi sono immediatamente disponibili, ma li posso solo ricevere nello spazio del
dono e della gratuità da parte del Dio Padre. Ed è nello spazio e nei
limiti della relazione filiale con Dio (Mt 7,7-11), vivibile solo nella
fede (Rm 8,14-17), che si colloca la preghiera di domanda. Anche
per il malato, come per ogni cristiano, è normativo l’esempio della
preghiera che Cristo rivolge nello Spirito al Padre. Al Getsemani
Gesù prega il Padre che lo liberi da quell’ora, ma sottomette la sua
richiesta al compiersi non della sua volontà ma di quella del Padre:
“non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu” (Mc 14,36), “non come
voglio io, ma come vuoi tu” (Mt 26,39). La preghiera di domanda
del malato si configura così come una lotta tra lui e il suo Dio, tra
due libertà dialoganti. In questo rapporto è essenziale salvaguardare
la libertà di colui che chiede e di colui che risponde. Nella sua libertà di figlio, che nello Spirito si rivolge a Dio chiamandolo “Abba”,
il malato può chiedere tutto a Dio, anche la guarigione. Non è sano
spiritualmente affer mare affrettatamente che la malattia “è volontà
di Dio”: la malattia è un male, una disarticolazione dell’essere e
ad essa occorre resistere. Scrive giustamente Dietrich Bonhoeffer:
“Certamente non tutto quello che accade è semplicemente ‘volontà
di Dio”.
Ma quando la preghiera resta inascoltata? Molti sono gli
esempi biblici di tale non-esaudimento: si pensi ai Salmi 88 e 102 e
all’esperienza di Paolo in 2Cor 12,7-10. Qui Paolo prega insistentemente per essere liberato da una “spina nella carne” che va probabilmente identificata con una malattia che lo affliggeva. Paolo, sottomettendosi al non-esaudimento della sua preghiera, comprende che
gli è chiesto di assumere la debolezza della sua carne come spazio
di manifestazione della potenza di Dio: “Ti basta la mia grazia; la
mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza” (2Cor
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12,9). Gli è negato l’esaudimento di una richiesta, non la relazione
con il Signore che è al cuore della preghiera. La preghiera non resta
inefficace, anzi essa porta Paolo a conoscere il Dio che gli resta
vicino nella sua debolezza. La preghiera è lo spazio dialogico in cui
vive la relazione con Dio e in cui il credente arriva a modificare la
sua immagine di Dio conformando se stesso all’unica immagine rivelata di Dio: il Cristo e questi crocifisso. A questo punto possiamo
completare la citazione precedente di Bonhoeffer: “Certamente non
tutto quello che accade è semplicemente ‘volontà di Dio’. Ma alla
fine comunque nulla accade ‘senza che Dio lo voglia’ (Mt 10,29);
attraverso ogni evento, cioè, quale che sia eventualmente il suo carattere non-divino, passa una strada che porta a Dio”. La preghiera
aiuta il cristiano malato a discernere e percorrere questa strada.
2) Malattia e guarigione. Il dato oggi certamente più rilevante è quello del recupero della dimensione terapeutica della fede.
L’esperienza di fede deve investire tutta quanta la persona, nella sua
unità inscindibile di corpo e spirito. All’interno del movimento carismatico è fiorita la cosiddetta “preghiera di guarigione” che riguarda non solo la sfera fisica, ma anche quella psicologica e spirituale
e comprende perciò anche, tra le sue forme, la confessione dei peccati, l’esorcismo, la preghiera e la confessione pubblica dei peccati
(con interpretazione non puramente liturgica del testo di Gc 5,16),
eccetera. All’interno del vasto fenomeno del fiorire del cosiddetto
“religioso a struttura simbolica materna” si osservano anche cadute
nel “taumaturgico”, nella ricerca del miracolistico, in confusioni fra
“salute” e “salvezza”. Si riconosce a volte “il ricorso a tecniche più
che a una cultura spirituale, il privilegio accordato alle emozioni, la
dipendenza da leader carismatici, l’effusione, l’immediatezza della
presenza divina che risponde all’ingiunzione di una preghiera”.
C’è da chiedersi quanto tutto questo sia conforme all’agire
di Cristo nelle sue guarigioni. Un agire che, stando soprattutto alla
testimonianza del vangelo di Marco, che accorda rilievo particolare
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all’attività taumaturgica di Gesù, manifesta la potenza sanante di
Dio nel contesto del suo progressivo indebolimento. Gesù guarisce,
ma a prezzo di un suo indebolimento. Marco lascia spesso trapelare,
nei racconti di esorcismi e di guarigioni, la lunghezza, la fatica e il
costo di tali operazioni per Gesù: si pensi all’ordine reiterato dato al
demone in Mc 5,8 (“Gli diceva: Esci ... “); alla dynamis che esce da
lui nella guarigione dell’emorroissa (Mc 5,30); alla ripetizione dei
gesti terapeutici nella guarigione del cieco di Betsaida (Mc 8,2325); al colloquio con il padre del ragazzo epilettico in cui Gesù chiede ragguagli sulla malattia (Mc 9,21). Teologicamente tutto questo
significa che Gesù guarisce mediante una morte-resurrezione: è significativo quanto detto in Mc 9,26-27 al termine della guarigione
dell’epilettico. Uscito lo spirito immondo, il ragazzo “divenne come
morto (nekrós), così che molti dicevano: ‘È morto’ (apéthanen). Ma
Gesù, presa la sua mano, lo fece alzare (égheiren), e si levò (anéste)”. I verbi utilizzati sono quelli del kerygma, dell’annuncio della
morte e della resurrezione di Cristo. Gesù guarisce entrando nella
debolezza, dà vita agli altri perdendo la propria vita. Dietro ogni
guarigione si staglia la sagoma della croce e della sua paradossale
potenza vivificante. Il cammino di guarigione che Gesù percorre è
un cammino nella debolezza per amore e con-passione con i sofferenti, un cammino in cui egli spende forze, energie, tempo, e in cui
lascia agire in lui la potenza di Dio. Credo che noi, nella nostra quotidianità, in cui non conosciamo questa potenza dei miracoli, siamo
chiamati all’estrema umiltà di chi cerca di aiutare gli altri almeno a
fare del cammino attraverso la malattia, quale che sia il suo esito, un
cammino di umanizzazione. Un cammino in cui si vive la fraternità
e si sperimenta, a caro prezzo, la dolcezza dell’amore.
3) Peccato e malattia. È questo certamente il rapporto più
“scabroso” posto già dalle Scritture e che ha avuto i maggiori, e
forse anche maggiormente nefasti, influssi sulla storia della spiritualità. Il rapporto è visibile a molteplici livelli: dalla credenza pre17
sente nella Bibbia per cui una malattia è spiegabile con il peccato,
alle valenze attribuite nella tradizione cristiana alla sofferenza come
espiazione dei peccati, purificazione dai peccati, riparazione dei
peccati del mondo, fino alla descrizione in termini terapeutici della
vita ascetica, della lotta contro il peccato presente nella tradizione
orientale.
Anzitutto occorre dire che la presenza nella Bibbia della concezione del legame fra peccato e malattia non è dovuto a un elemento
della rivelazione ma è un dato culturale diffuso anche al di fuori dei
confini di Israele. Inoltre Gesù ha posto alcune parole molto nette
per distruggere il meccanismo di causa-effetto che, nella mentalità
religiosa, all’interno della teoria della retribuzione, lega la malattia
a un peccato e dunque spiega la malattia come punizione del peccato. Questo meccanismo antichissimo trova già una sua espressione
nella vicenda di Giobbe e nell’interpretazione delle sue disgrazie da
parte dei suoi “amici”. Le parole di Gesù di fronte al cieco nato e
alla domanda dei discepoli che rifletteva la mentalità corrente: “Chi
ha peccato, lui o i suoi genitori?” (Gv 9,2) sono molto chiare: “Né
lui ha peccato, né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero
in lui le opere di Dio” (Gv 9,3). Il vangelo non solo non autorizza,
ma esclude dichiaratamente letture colpevolizzanti della malattia.
Occorre uscire da quell’atteggiamento, spesso presente soprattutto nell’occidente, per cui si guarda al male e alla sofferenza
con categorie giuridiche che cercano il colpevole invece di porsi
accanto alla vittima in una prassi di con-passione. Diventando subito giudizio, questo atteggiamento è quanto mai antievangelico.
Anche di fronte all’AIDs occorre rifiutare le letture colpevolizzanti:
no, l’AIDS non è un castigo di Dio, non è una punizione giunta a
causa del fenomeno della liberazione sessuale, non è apparso per
ristabilire i diritti della morale e della natura e neppure per chiedere
agli uomini la conversione. Tali “spiegazioni” sono ancora una volta contraffazioni del volto del Dio cristiano.
Spezzato il meccanicismo che lega l’insorgere di una malattia
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a un peccato, occorre però anche cogliere il fatto che ponendo questo rapporto, l’antico Israele recuperava la malattia al problema del
senso. La malattia diveniva in qualche modo eloquente, aveva in sé
un messaggio, e poteva anche essere combattuta e trovare una via
d’uscita. È sotto gli occhi di tutti il fatto che l’ottica con cui oggi si
guarda la malattia è esclusivamente clinica, e il problema del senso
della malattia è di fatto rimosso. Non si tratta certo di ricorrere a
questa “soluzione”, ma di porre e pensare il problema. Penso utile
recuperare il senso della malattia come concernente l’intero uomo:
la psicosomatica arriva a parlare di “innesto biografico” della malattia e l’esperienza stessa mostra come una malattia non sia spesso
dovuta a un’unica causa, ma a un intreccio di cause fisiologiche,
psicologiche e spirituali. È interessante il caso, risalente al V-VI
secolo d.C., di un complesso monastico palestinese fondato da san
Teodosio (+ 529) che comprendeva anche degli alloggiamenti “infermieristici” destinati ad accogliere anacoreti che “per aver perseguito l’ascesi con poco discernimento e aver dimenticato il Signore
che dice: `Senza di me non potete far nulla’ (Gv 15,5) ... avevano lo
spirito che non presiedeva più come è normale e necessario ai loro
pensieri”. Antica testimonianza di come errori di spiritualità possano trasformarsi in turbe psichiche!
Come dunque ripensare questo rapporto che lo stesso Gesù,
in qualche modo (cf. Gv 5,14), conserva? Penso di poter fare mie
le considerazioni di Giuseppe Angelini: “Il nesso pertinente tra peccato e malattia ... non è da intendere in quella forma grossolana
secondo la quale la malattia sarebbe positivamente mandata da Dio
quale castigo dei peccati. È da intendere piuttosto come riferito al
significato della malattia: la malattia trasmette in ogni caso alla coscienza un messaggio. Sempre si tratta di un messaggio che parla
dello stesso soggetto malato e della qualità della sua vita ... In prima
battuta, il messaggio è quello dello svanire ineluttabile della vita,
così com’essa appariva nei tempi normali dell’esistenza. L’esperienza della malattia richiama dunque l’uomo alla consapevolezza
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del fatto che la vita ch’egli vive non è ovvia; non è in suo potere;
c’è, quando c’è e finché c’è, unicamente in forza di un’opera arcana
di Dio, la quale avrebbe di che sorprendere. La sorpresa, e quindi
la riconoscenza nei suoi confronti, la fedeltà all’alleanza con Lui,
consentono di sperare nella restituzione della vita, anche in quel
momento nel quale pure ogni energia di vita sembra lontana e inaccessibile. Questa rinnovata consapevolezza, e quindi la speranza
conseguente, comportano per se stesse la percezione facile dell’errore che insidiava la vita precedente: l’errore che consiste nel vivere
la vita come una ‘proprietà”. Così la malattia diviene possibilità di
ritrovamento della verità dell’esistenza.
4) Offrire a Dio la sofferenza? Che senso può avere questa espressione così spesso ripetuta e ritenuta altamente spirituale?
Come può Dio gradire l’offerta di ciò che disumanizza e sfigura?
Che immagine di Dio suppone una tale “offerta”? Non certo quella
del Dio rivelato da Gesù Cristo! L’esempio di Gesù Cristo che non
ha offerto le sue sofferenze al Padre ma ha vissuto la sua sofferenza
e anche la sua morte facendone un atto di amore, ci mostra che a
noi non è chiesto di “offrire le nostre sofferenze” a Dio, ma di vivere nell’amore la situazione dolorosa che si sta traversando. Ciò
che è gradito a Dio è l’amore, non il sacrificio, ci ricorda il profeta
Osea (6,6; cf. Mt 9,13; 12,7). La spiritualità della croce deve essere
compresa alla luce dell’amore che ha portato Gesù a morire in quel
modo e a fare di tale morte l’atto dell’”amore fino alla fine” (Gv
13,1) per i suoi. No, noi non offriamo a Dio le nostre sofferenze, ma
ciò che siamo arrivati a farne, o meglio ancora ciò che noi siamo
divenuti passando attraverso la sofferenza. Dando un senso alla sofferenza con l’amore. Non è nell’ “offerta della sofferenza” che noi
raggiungiamo il desiderio di Dio, ma quando la nostra vita diviene
dono di sé nell’amore.
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