PDF - Spaghetti Writers

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Tommaso Noia, #2
Giulio Lepri
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Un colpo alla gola, veloce e forte. Il coltello affonda nella giugulare, il sangue schizza libero nell’aria
velocissimo.
Il tunisino crolla sulle ginocchia, gli occhi bianchi rovesciati in contrasto col nero della pelle. La lama
ancora bene dentro la carne.
Tommaso ha la camicia lorda di sangue. Si guarda le mani. Rosse.
Accanto al tunisino, una donna cerca di rialzarsi. Ha un vestitino a fiori, i petali sono ricoperti da
chiazze rosse gocciolanti; ha il culo nudo sull’asfalto e il cazzo che ciondola moscio sotto la gonna.
«Grazie Tomaso.» dice lei.
Tommaso, con la testa che trema, si chiede cosa è andato storto.
Ha ventisette anni, si è laureato ad aprile fuoricorso. La sua ragazza è in Germania, forse sta scopando
un altro, forse no; i suoi amici sono al mare, forse stanno scopando, forse no.
Non ha mai combinato un cazzo nella vita, niente di rilevante. Non sa suonare uno strumento, fa schifo
a FIFA e anche su Pornhub finisce sempre a guardare le stesse categorie da quando aveva quindici anni.
Stasera ha ucciso un uomo.
E in tutto questo non ha ancora capito dove sia finito Francesco Moroni.
Solleva le mani insanguinate: «Sono fottuto».
***
«Ci sei?» la voce esce dal cellulare abbastanza forte. Tommaso scrolla la bacheca di Facebook con la
sinistra rapidamente: qualcosa non gli torna.
«Sì, sì, scusami… Stavo…»
«Allora, sai niente di mio fratello?»
Eccole lì, le foto del ferragosto di Sara, «Sì, cioè, No. Io… non lo sento da ieri. Non è tornato a casa?».
«Direi di no, se ti sto chiamando…»
Il locale ha un nome tedesco impronunciabile, finisce con -haus, «No, vabbè, hai ragione anche te…»
«Ieri cos’è successo?»
Tuo fratello si è scopato un trans.
«Mi puoi rispondere?»
«Abbiamo… Ha… Ascolta io…»
«Ti ho preso in un brutto momento?»
Le prime tre foto sono selfie con il bicchiere in mano, Sara beve vodka-lemon, chissà se anche in
Germania hanno la Lemon-Soda, «No, figurati stavo… è che…».
«Senti, io sto andando in Santa Caterina, sono quasi dalle parti tue. Che ne dici se ci troviamo fra una
ventina di minuti?»
Le 5 foto successive sono di gruppo, a volte manca qualcuno, dietro Sara c’è sempre un biondone, «Sì,
direi che è ok», il tag dice che si chiama Hans Kruger.
«Davanti alla copisteria, ok?»
A ogni foto il grado alcolico sale. Sara balla, ride e si diverte con tutti. Beve molto. Sarà al quinto
bicchiere.
«Ok!»
Sara e Hans incrociano le braccia e bevono il cocktail guardandosi direttamente negli occhi. Lei ha una
goccia di sudore che scivola lungo la tempia destra mentre sorride etilica, lui ha un bicipite grosso come
un uovo di struzzo e al polso un cronotech col quadrante a prisma.
Non è ok per niente.
La copisteria è accanto a un negozio di sigarette elettroniche. Tommaso sorride: trenta euro per
ammazzarsi senza dover uscire dal ristorante. La gente si giustifica: “sto smettendo”, ma è come se un
eroinomane combattesse la dipendenza passando alla cocaina; o come quando inventi un impegno per
non fare la doccia con gli altri dopo la partita, ma la verità è che hai solo il cazzo piccolo.
Tommaso ha avuto venti minuti per uscire; a malapena sufficienti per tirarsi dell’acqua in faccia,
scrostarsi i denti e buttarsi addosso i primi cenci che non sapessero di provola o di friggitoria notturna.
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Niente tempo di sbirciare la parentela di Francesco su facebook; nessun controllo incrociato twitterinstagram-snapchat per valutare, nell'ordine: appetibilità, quoziente intellettivo, segni particolari con cui
riconoscerla.
Dal negozio esce una ragazza nera, in mano un malloppone di appunti fotocopiati e rilegati con la
classica spirale in plastica. La ragazza lo fissa.
«Ciao,» esordisce, «sono Tommaso».
«Dafrith.» sorride e allunga la mano.
«Mi dispiace per tuo fratello, sono sicuro che non è niente di grave.»
Gli occhi di Dafrith si spalancano.
«Siamo usciti per una birra,» continua, «niente di più. Ci siamo salutati in Piazza dei Cavalieri, non ho
idea di dove sia andato dopo».
«M-ma che è successo a Karim?»
«Karim?»
«H-hai detto “mi dispiace per tuo fratello”: cosa è successo a Karim?»
«Non sapevo che Francesco si chiamasse anche Karim.»
«Chi è Francesco?»
«È mio fratello,» esclama una voce femminile alle spalle di Dafrith, «mentre questo qui è un cretino.»
La voce ha un corpo, magro e slanciato: le caviglie sottili calzano dei sandali, di quelli che si allacciano
lungo il polpaccio, sbarcano su uno stacco di coscia tonico e bianco come il latte, coperto con
disinvoltura da una gonna floreale; sopra, una canottiera bianca ripara un seno piccolo ma sodo che
sboccia in un collo lungo e delicato avvolto da una collana in legno, una sorta di pendaglio indiano da
mercatino marittimo. Il viso è dolce ma appuntito, la pelle diafana è incorniciata da capelli biondi,
quasi platino. Forse sono gli anni sessanta, o forse è lei che sembra uscita da una canzone dei Beach
Boys.
Dafrith guarda la ragazza, poi di nuovo Tommaso, «Ma vaffanculo!» gli urla, e se ne va come un
tornado.
«Io sono Miriam» dice la ragazza bionda allungando la mano destra.
«Piacere,» fa Tommaso raccogliendo la mano di latte nella sua: «io sono il cretino.»
Miriam ha un non so che di piacevole, assomiglia a quelle pioggerelle sottili che portano a galla nuovi
odori nella campagna.
Seduti all’ombra di una grossa quercia in piazza Santa Caterina, Tommaso nota – per fortuna di Dio –
che non è una di quelle persone che indossano i sandali pur avendo dei piedi orrendi o ossuti; forse,
giusto un po’ quadrati.
«Mi dispiace per prima, è solo che…»
«Ti aspettavi che fossi nera come mio fratello.»
«Esatto.»
«Tranquillo, capita sempre. Sei solo uno dei tanti.»
Gli pesò sentirselo dire così, Tommaso non faceva niente per spiccare sulla massa, eppure desiderava
lasciare un’impressione di unicità nelle persone.
«Hai idea di dove possa essere mio fratello?»
Eccola lì, la domanda da un milione di dollari: «No, ci siamo salutati in Cavalieri ieri sera, verso le
quattro. Non so cos’abbia fatto dopo».
«A casa non è rientrato. Non è la prima volta che fa così, ma i miei stanno per rientrare dalle ferie e lì
sono cazzi.»
«Capisco.»
«No, non capisci: i miei si sono raccomandati a me. Francesco è un cretino e loro lo sanno. Non sanno
tutto, ma sanno comunque abbastanza.»
Tommaso rimase perplesso nei confronti di quel tutto. Che significava? Sapevano dei trans? O
intuivano dagli occhiali da sole sbarrati à la Kanye West di avere un figlio quantomeno bizzarro?
«Mi sfondano il culo…»
«Ehi, non c’è bisogno di prenderla così…»
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«Ma che cazzo ne sai tu?» Era davvero terrorizzata, ma cercò di ricomporsi: «Scusami, è solo che tu non
conosci i miei».
«Vabbè dai, non hai mica quindici anni, che ti potranno mai fare?»
Miriam lo fulminò.
«Comunque,» provò a recuperare Tommaso, «Quando ho salutato Francesco in Vettovaglie, l’ho visto
andare verso Piazza Dante».
«Non avevi detto che vi eravate salutati in Cavalieri?»
«Sì… Cavalieri, un lapsus…»
«Strano, però, non è la direzione di casa nostra. Sarebbe dovuto andare dalla parte opposta.»
Rimasero in silenzio per un po’.
«Non sai proprio altro?»
Tommaso fece finta di pensarci su: «No, è tutto».
Miriam abbassò lo sguardo e rigirò fra le dita un paio di spiccioli, forse il resto della copisteria, «Speravo
mi potessi essere più utile.», alzò la testa, «Fa niente, chiamami se scopri qualcosa».
Non riuscì ad aggiungere nulla di più al saluto standard baciandosi le guance. Era stato inutile e la cosa
gli pesava. Non solo perché la sparizione di Francesco cominciava a essere strana, ma anche perché
Miriam era davvero carina, e tutti vogliono fare colpo su una ragazza carina.
La guardò andarsene, con le balze della gonna che ondeggiavano a un ritmo jazz, uno di quelli à la
Miles Davies, da suonare in punta di dita.
Non sapeva neanche dove abitasse Francesco, mentre Miriam sapeva dove abitasse lui e persino il suo
numero di cellulare.
Ritornò a casa con i pensieri a metà fra il: sono veramente un ingenuo menefreghista del cazzo e il, ma
no è lei che è donna e le donne sanno sempre tutto, specie quello che non serve.
Il pomeriggio, forse per inerzia, forse per imposizione, Tommaso lo passò steso sul letto a fissare il
soffitto.
Non passava più di dieci minuti senza impegnare lo sguardo dal 2010, cioè da quando aveva comprato
il primo smartphone. Da quel giorno il binomio Facebook-Whatsapp, a cui si era poi aggiunto Netflix,
era diventato il padrone della sua vita, costringendolo a un’esistenza di perenne stanchezza, occhi rossi e
deficit dell’attenzione.
Quando il telefono vibrò erano le diciotto.
«Amore!»
«Sara.»
L’appartamento era arancione, il sole tramontava placido.
«Scusami ma ho poco tempo, passato un bel ferragosto?»
«Mah, non l’ho ancora capito.»
«E Rudi?»
«È a Gallipoli. Sono tutti via. L’unico stronzo in città sono io.»
«Dai non fare il melodrammatico. Noi stasera andiamo a un concerto hip-hop.»
«Il famoso hip-hop tedesco.»
«Già, chissà, magari è forte.» Tommaso sentì uno strano brusio in sottofondo, come una voce maschile.
«Amore, devo andare adesso, ti amo eh!»
Neanche il tempo di controbattere che aveva già riattaccato.
Seguirono due ore di film mentali, di cui un paio candidabili all’oscar.
I suoi genitori gli chiesero se sarebbe rimasto a cena. Cambiò maglietta, inventò un aperitivo e uscì in
gran fretta. Quella sera sarebbe finita a birra e cattivi pensieri.
Stava seduto esattamente sullo stesso scalino della sera prima. Una serata assurda, forse nemmeno la più
assurda che avesse mai passato, ma il giorno dopo si era sempre risvegliato coi suoi amici accanto. Invece
Francesco era sparito e Tommaso lo sentiva nelle budella che c’era del marcio sotto. Forse era la quinta
Poretti, forse i bonghi suonati scoordinati dai senegalesi che gli rimbombavano nei timpani, ma il suo
amico, pensava, non se la stava passando bene.
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A quindici metri di fronte a lui c’era di nuovo il trans. Lo stesso di ieri, ne era certo.
Scosse la testa abbrutita dalla birra, per un attimo gli era sembrato che il trans stesse evitando il suo
sguardo.
Decise di alzarsi e di andarle incontro, la fortuna di stare a Pisa d’agosto è che nessuno lo avrebbe visto.
«Ehi...» si accorse solo in quel momento che non sapeva neanche come iniziarla quella conversazione,
lasciò che fosse l’alcool a improvvisare per lui, e l’alcool scelse la strada più veloce: «Che fine ha fatto
Francesco?»
Il trans indietreggiò guardandosi intorno alla ricerca di vie di fuga.
«Ti ho fatto una domanda.»
«Io non so niente!»
Tommaso quasi fece un balzo, qualcuno gli aveva stretto il braccio destro. Si girò e vide Miriam.
«Ciao Tommaso.»
Lui, lei e il trans. Poteva essere una commedia francese a basso budget, o una canzone di Brunori Sas.
«Scusami, ti ho interrotto?»
«No è che io... No, stavo...»
«Dai, ti lascio stare, volevo solo sapere se avevi sentito mio fratello, ancora non si è visto.»
«No, stavo cercando di capirlo anch’io, infatti.»
Miriam diede un’occhiata al trans: «Certo». Staccò il braccio da Tommaso, «Chiamami se sai qualcosa,
buona serata».
Tommaso la guardò andarsene per la seconda volta quel giorno. Scosse la testa e tornò a concentrarsi sul
trans.
«Cos’è successo dopo che me ne sono andato?»
«Non ho idea di che parli.»
«Ieri sera, da te, io e il mio amico nero, Francesco. È sparito.»
Il trans evitava il contatto visivo, Tommaso cominciava a incazzarsi: «Quello col cazzo grosso che ti
piaceva tanto, dai non puoi essertelo dimenticato, è un miracolo che riesci a camminare ancora».
«Orginaleee, grande capo! Grande capooo!» un odore dolciastro colpì il naso di Tommaso. Proveniva da
un mazzo di rose che una specie di omino Michelin pakistano in miniatura gli sventolava allegramente.
I ragazzi pisani lo chiamavano Grande Capo, ma nessuno sapeva veramente il suo nome. Era spuntato,
armato di fiori, quattro anni prima. Da quel giorno nessuna coppia aveva più potuto terminare un
litigio in serenità.
«No guarda non è proprio...»
«Lasciaci stare» disse il trans.
L’omino cambiò espressione: «Oh, scusa Ramona!», e si allontanò.
«Ramona, ti prego. La ragazza di prima è la sorella di Francesco, è preoccupata per lui. Nessuno ti
accusa di niente, voglio solo sapere qualcosa... quando se ne è andato, se ha detto qualcosa di
particolare...»
Ramona si guardò intorno. Sospirò: «Non qui».
Si lasciarono piazza dei Cavalieri alle spalle ed entrarono in via Consoli del Mare, costeggiando la chiesa
di Santo Stefano, dove l’immancabile studente pugliese autografava il muro con le proprie urine.
Ramona non disse niente fino a che non superarono Borgo Largo e si fecero avvolgere dall’oscurità di
Santa Caterina.
«Io non sapevo chi fosse Francesco.»
«Che vuol dire?»
Ramona continuava a guardarsi intorno, Tommaso non capiva il perché di tutta quella circospezione,
osservò la piazza buia intorno a lui: erano soli.
«Francesco è un georgiano.»
«E che cazzo è un georgiano?»
«Della Georgia, un georgiano. Cazzo ma l’hai visto che era negro?»
«Sapevo che era adottato...»
«Ma allora non sai proprio un cazzo, tu.»
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Il riff prepotente di Satisfaction cominciò a suonargli nei pantaloni, guardò il telefono: era Rudi.
Riattaccò, aveva ben altro a cui pensare che i possibili deliri del suo amico. Sullo schermo però
galleggiava l’anteprima di un messaggio, sempre di Rudi: “Tutto bene con Sara?”. Rimase di sasso: non
aveva parlato con nessuno di Sara, ancora. Che voleva dire?
Tommaso aprì facebook in un lampo, non ci fu neanche bisogno di cercare la bacheca di Sara.
Illuminata dai Led del telefono Sara sorrideva taggata da Jacqueline Brass in foto, mentre Hans Kruger
le mordeva un orecchio e con la mano destra le arpionava il culo. A milleduecento chilometri da Piazza
Santa Caterina, lungo gli argini del Reno, un tedescone biondo e nerboruto si scopava la sua ragazza e
ne faceva bello sfoggio su Facebook. Era una Rimini al contrario.
Forse per questo non si accorse del tunisino – o del senegalese, a Pisa la probabilità è cinquanta e
cinquanta – che li aggredì alle spalle.
La botta lo spinse pancia a terra e il telefono gli scivolò via di mano, finendo sotto una macchina.
Tommaso masticò un delizioso mix di cemento e sangue sulle labbra. Quando si girò, Ramona, distesa
a pancia in su, lottava per non farsi tagliare la gola dal serramanico del tunisino.
«Aiutami!»
In uno slancio di furia cieca balzò addosso al nero.
Alle spalle cercò di stringergli i polsi e tirarlo via da Ramona verso di sé.
Il tunisino emise un gorgoglio e d’improvviso le sue braccia si fecero più deboli. Tommaso allora ne
approfittò per tirare più forte e uno schizzo di sangue partì in aria come un soffione boracifero, e il
tunisino cadde a terra.
Non fu subito chiaro cos’era accaduto, ma mentre una pozza color rubino si allargava sotto il tizio, la
mente di Tommaso fece i dovuti calcoli e ricostruì quel poco che c’era da ricostruire: nello strattonare i
polsi del tunisino aveva inavvertitamente portato il coltello alla giugulare del tipo, e nell’attimo in cui
questo aveva ceduto, sempre involontariamente ne aveva aperto la gola come un secondo sorriso.
«Grazie Tomaso»
Aveva ucciso un uomo.
Aveva ucciso un cazzo di uomo.
«No... Nonononononononono...»
«Tranquillo, basta che non tocchi...»
Tommaso prese il coltello in mano, guardava la lama lorda e il corpo senza vita; la lama e il corpo,
l’arma e il «cazzo, le mie impronte!»
Lanciò il coltello verso Ramona come se fosse una polpetta troppo cotta. Cadde esattamente sul suo
vestito, ma lei non si scompose. Raccolse il coltello con le lunghe unghie laccate, «Adesso vieni via con
me, alla svelta.»
Ramona prese per mano Tommaso e i due si trovarono a scappare via veloci come francesi da uno
scontro armato.
Erano in una di quelle viuzze tutte uguali di porta a Lucca, forse via Torino, forse via Savona. Aveva le
tempie invase di sangue che pulsava dolorosamente e il fiato troppo corto per rendersi conto dove fosse
o realizzare davvero cosa fosse successo.
Ramona suonò a un citofono senza nome.
«Sì?»
«Saif, sono Ramona ho bisogni di te»
«Sali.»
Il portone si aprì.
«Passerai la notte qui, è la cosa più sicura per te, adesso.»
Tommaso non aveva neanche la forza di controbattere, stava accadendo tutto troppo in fretta. Forse
avrebbe dovuto avvertire i suoi che dormiva fuori? Sarebbe bastato un messaggio, tanto c’erano abituati.
Cercò il telefono in tasca, assente. Era rimasto laggiù.
«Tutto a posto?»
Tommaso aprì la bocca ma non gli uscì un fiato. Ramona gli si avvicinò e lo abbracciò.
«Stai tranquillo, sei in buone mani.»
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Poteva sentire il gargantuesco pisello di lei premergli addosso da sotto la gonna.
Rimase abbracciato lo stesso.
Al terzo piano bussarono a una porta in noce scura, si sentì un rumore di catenacci, poi un pakistano in
vestaglia di velluto rossa aprì la porta.
Era Grande Capo.
«Be’,» disse in un italiano impeccabile, «entrate o no?»
Entrarono.
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