L`eccidio_versione definitiva

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L`eccidio_versione definitiva
L’eccidio
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A cura di Vittorio Cotesta
Con testi di
B. Allatta, E. Ciotti, V. Cotesta, L. De Meis, M. Ferrarese, G. Nardacci, A. Paritanti, A. Schiavi
L’immagine della copertina è stata realizzata da Fabrizio Bonanni.
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Prefazione
In vista del centesimo anniversario dell’eccidio del 6 gennaio 1913 il Sindaco di Roccagorga,
Carla Amici, ha nominato una commissione consultiva per avere idee, proposte, suggerimenti
su come meglio ricordare quegli avvenimenti.
Nell’ambito della commissione si è svolto un dialogo molto interessante su come meglio
ricordare l’evento e, soprattutto, sul suo significato culturale, politico, sociale. Questo dialogo
è stato nutrito anche da una serie di nuove pubblicazioni dalle quali nuova luce viene fatta su
alcuni aspetti degli eventi del 6 gennaio e dei mesi precedenti. Sono emersi, inoltre, nuovi
tratti di alcuni protagonisti e, cosa ancora più utile, una ricerca sulle condizioni generali del
Lazio meridionale tra fine XIX e inizio XX secolo.
Queste nuove pubblicazioni – qualcuna rimasta al semplice livello di tesi di laurea – sono di
diverso livello e qualità scientifica. La metodologia adottata dagli autori non sempre, infatti,
risponde ai canoni della ricerca scientifica. Ognuna di esse, però, testimonia la generosità
degli autori, la rilevanza dell’eccidio per la storia e l’identità collettiva di Roccagorga.
Dal seno della commissione – in particolare dal Sindaco – è stato proposto di scrivere una
sintesi generale degli eventi del 6 gennaio 1913 a partire dalle conoscenze oggi disponibili. Se
n’è parlato più di una volta perché l’impresa appariva davvero difficile. Ognuno degli
interpellati, quali autori o curatori, si rendeva conto che l’opera presentava difficoltà non
superabili. Pertanto, c’è voluto un po’ di tempo prima di mettersi al lavoro intorno ad progetto
editoriale. Anzi, lo stesso progetto ha richiesto tempo.
Comunque, durante l’estate sono stato in grado di sottoporre alla commissione un progetto di
scrittura. In questa fase prevedevo di lavorare su testi nuovi scritti dalle persone coinvolte.
Non è stato così. Solo Padre Aleandro ed Eros Ciotti mi hanno dato dei testi nuovi. Gli altri
mi hanno inviato brani rivisti dei testi già pubblicati. Il libro diveniva così un’antologia. E se
doveva essere un’antologia, allora si potevano inserire anche testi scritti in anni passati e
ancora, almeno a mio giudizio, validi. Così ho fatto, e ho inserito testi di Mario Ferrarese e
miei.
Rimaneva però la difficoltà più grande: evitare di proporre un libro grosso e noioso. A
conclusione del lavoro mi pare di poter dire che questo rischio è stato evitato. Questo risultato
è stato ottenuto mediante una finzione letteraria, tradizionale certo, ma sempre valida.
La lettura si svolge, infatti, in due giornate. La mattina autori e lettori s’incontrano davanti al
bar Miani; al pomeriggio invece, seguendo il gioco delle ombre, si ritrovano davanti al bar di
Rosa. Come si può, potrebbe obiettare qualcuno, fare una cosa del genere davanti al bar? Il
fatto è che quei due bar sono stati il punto d’incontro della popolazione di Roccagorga negli
ultimi sessant’anni, se non di più (il bar di Rosa, infatti, era in funzione già da molto prima,
quando era gestito da Linneo Palombi).
Per procedere nella lettura ho immaginato la visita (che c’è stata, ma in un altro momento) di
un mio amico franco-tedesco. Dopo un giro per conoscere i monumenti, ci sediamo davanti al
bar di Miani e lì, pian piano, comincia a snocciolarsi il racconto dell’eccidio. Cominciamo in
pochi, poi si aggiungono altri, fino a diventare tanti, quasi una folla. Alcuni leggono, altri
commentano, fino a sviluppare un dialogo-dibattito sulle vicende raccontate e sul loro
significato storico.
Il libro non è alla fine la pura somma dei testi presentati dai vari autori. Attraverso le
domande e i commenti si snoda un’interpretazione dell’eccidio in parte nuova. Vanno in
questo senso le riflessioni di Eros Ciotti sulla Piazza 6 gennaio e quelle di Padre Aleandro
Paritanti sulle donne dell’eccidio, sulle loro fatiche, sul loro coraggio. Io stesso ho guardato
agli eventi, su cui rifletto da almeno quarant’anni, con occhi diversi e ho lasciato in vari punti
idee e proposte che andrebbero sviluppate.
Infine una parola sulle persone coinvolte. L’idea di fondo è stata quella di rappresentare la
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comunità com’è ora. Pensando a quanti hanno partecipato: autori e (nella finzione) lettori, si
ha un’idea della ricchezza culturale della comunità. Ho voluto inserire nomi di persone a cui
sono legato da mille ragioni. Potevo sceglierne tante altre, a cui sono altrettanto legato. Quelli
che vengono citati hanno qualcosa di speciale: un nome, un soprannome, una capacità di fare
battute cattive. Naturalmente, domande, discorsi o battute sono mie invenzioni. Di nulla sono
responsabili quanti, nella finzione, dicono qualcosa che dovesse risultare non gradito. In ogni
modo presento il libro come un’opera aperta. Chiunque vuole, proponga interventi, discorsi e
interpretazioni. Il libro ne verrebbe certamente arricchito.
Ringrazio quanti mi hanno aiutato durante la preparazione del testo: Eros Ciotti e Padre
Aleandro Paritanti mi hanno dato loro testi originali e ottimi suggerimenti; Benito Allatta,
Lorella De Meis, Giancarlo Nardacci e Andrea Schiavi mi hanno messo a disposizione i loro
testi. Ho fatto interventi, modifiche, riduzioni e integrazioni su quanto ho da loro ricevuto.
Spero di non aver tradito il loro pensiero e di aver arricchito il senso di quanto ognuno
singolarmente ha fatto. Infine, mi pare giusto rivolgere un pensiero grato alla memoria di
Mario Ferrarese, tra i primi ad occuparsi dell’eccidio, di Ennio di Rosa e del gruppo di
giovani che, nel 1963, si occupò dell’eccidio.
Ringrazio infine Angelo Battisti e Giulio Cammarone per l’assistenza tecnica e informatica.
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PRIMA GIORNATA
Mattino
L’arrivo in piazza e la visita dei monumenti
Ieri sera è arrivato Jan Spurk1, un mio amico e collega francese, venuto a passare un po’
di giorni con noi. Veramente, è nato e vissuto in Germania fino ad un certo punto della
sua vita. Poi si è trasferito in Francia. Ora insegna alla Sorbona di Parigi.
Stamattina, verso le nove, gli ho proposto di fare un giro per il paese. Speravo, come è
successo altre volte, di fare bella figura. In fondo noi solo la piazza abbiamo. Siamo
arrivati in macchina da Borgo Madonna e, fatti pochi metri, sento dire: oh… che bello!.
Eh, sì, rispondo girando intorno al palo, è veramente una bella piazza. Qui puoi provare
lo stesso stupore che si prova entrando in Piazza Navona a Roma o da una via laterale in
San Pietro. No, no, non ti allargare, replica. Però è vero che si prova una certa
sensazione ... non saprei definire. Forse, come hai detto tu … stupore.
Parcheggio – oggi si può – e cominciamo a girare intorno. Andiamo verso il comune,
poi passiamo per la Chiesa. Gli illustro la scritta e gli spiego perché è dedicata a San
Leonardo e a Sant’Erasmo. Poi, sul portone, gli faccio notare il perfetto allineamento
tra l’altare e il portone della Chiesa, con il portone e il corridoio del Palazzo Baronale.
A guardar bene – gli dico – dalla porta interna del Palazzo si potrebbe vedere il
sacerdote celebrare la messa. Sarà una leggenda, forse, ma si dice che prima il principe
– ma non si sa quale – assistesse alla messa dalla sua residenza. Privilegio grandissimo,
commenta: se non è vero, certamente è verosimile che un principe feudale abbia avuto
un tale privilegio.
Poi scendiamo nella Rifolta. Gli racconto la sua funzione di una volta: raccolta
dell’acqua e allevamento di pesci, rimessa per carri, campo di gioco per i bambini,
eccetera. Poi lui stesso nota la lapide sul 6 gennaio 1913. Mi domanda di che si tratta.
Legge, ma non comprende bene certe espressioni: ‘ciurma briaca’, ‘lanciare alle folle il
grido del riscatto’. Che significano?, mi chiede. Così, rispondo, si scrivono i documenti
solenni, celebrativi. ‘ciurma briaca’ si riferisce al fatto che i militari il giorno prima
dell’eccidio si dice fossero stati accolti con gioia dal sindaco del paese e avessero
festeggiato con abbondanti bevute. Il giorno dopo vi fu una strage in piazza e si ritenne
che i militari fossero ancora ‘ubriachi’. Perciò ‘ciurma ubriaca’ significa ‘gruppo di
ubriachi’. E l’altra espressione? Beh, vuol dire che i morti e i feriti di quel giorno,
furono – e sono – esempio di lotta per il riscatto delle moltitudini: contadini, lavoratori.
Cose così. Conosci queste storie, no!? E penso di essermela cavata.
Poi ci dirigiamo verso il centro della piazza. Legge la targa e commenta: Piazza 6
gennaio 1913. Ah, ecco perché. La piazza porta il nome dell’eccidio.
Cerco di chiudere così il discorso. Non voglio impegnarmi troppo nel racconto
dell’eccidio. È sempre una fatica e un’emozione troppo forte. Ogni volta. Bastano gli
elementi essenziali, penso. Poi ci avviamo verso il Palazzo baronale. Passando gli
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indico la Biblioteca, gli spazi acquisiti nel corso del tempo dal Comune. Infine,
arriviamo all’EtnoMuseo. Cerco di dargli qualche informazione su quando è stato
istituito, perché eccetera. Poi ci viene incontro Giulia Bevilacqua e – dopo alcuni minuti
dedicati alle presentazioni - lo guida alla scoperta della cultura e ai problemi di
Roccagorga.
Dopo un bel po’, usciamo in silenzio. Ad un tratto, scendendo per le scale del Palazzo,
quasi borbotta: È tanto tempo che ci conosciamo e non mi hai detto mai niente!. Vorrai
vedere che adesso è colpa mia, rispondo. Ogni volta che ci vediamo abbiamo sempre un
miliardo di cose da fare!.. Sì, sì, ma qualcosa, un qualche accenno non me lo hai mai
fatto. Va bene. Potevo farlo e non l’ho fatto, o forse l’ho detto e non te lo ricordi. Se non
te ne ho parlato a lungo è perché pensavo non fosse poi così importante sapere il nome
del luogo dove sono nato e la sua storia. E poi cosa mi hai detto, tu, del tuo paese di
nascita … che è nella Saar, vicino Saarbrücken che, per un miracolo della storia ho
avuto la possibilità di conoscere prima di incontrarti. Ora però non me ne ricordo
neppure il nome. Ecco vedi, io qualcosa te l’ho detto. Tu no, risponde e finalmente ride
pensando di avermi preso in castagna.
Siamo arrivati di nuovo in piazza e gli propongo di sederci sulla piazzetta del Bar
Miani. Ci sediamo ma ci sono i soliti casinari che giocano a briscola e litigano e si
dicono tutte le più brutte parole che conosciamo. La più gentile è “n’ci si capito n’c...”,
come noi ben sappiamo. Ordiniamo un caffè, un po’ d’acqua e parliamo un po’ del più
e del meno. Poi, improvvisamente, dice: Certo, questa appare una storia straordinaria. È
una storia straordinaria, rispondo. E allora lui: Perché non vuoi raccontarmela, allora?!.
Ecco, penso, ora mi tocca di nuovo fare tutta la storia del paese, dall’inizio alla fine. Poi
però si avvicina Giulio, mi saluta e gli presento Jan. Parlottano un po’ tra loro e poi
Giulio dice: e che ci vo’. Ora abbiamo anche altri nuovi libri, scritti in occasione del
centenario. Sì, sì, se fa, se fa. Sicuro!. Sì, però, non è possibile … (volevo dire: sempre
io. Mo’ me so stufato.. ma la frase m’è rimasta in bocca). Mentre dico così, Giulio
manco mi dà retta. Eccogli. Eros e Padre Aleandro... E fa loro cenno di venire.
Facciamo le presentazioni e ci sediamo tutti intorno al tavolo. Intanto, sia detto a merito
dei nostri concittadini giocatori, le voci del tavolo della briscola si sono calmate. Forse
avranno sentito di cosa vogliamo parlare.
A questo punto, Giulio dice: Su!, professo’, comincia!
Mi rivolgo agli altri e domando se sia il caso. Padre Aleandro dice: perché no? È un
modo di raccontare la storia dell’eccidio utile per tutti. Eros aggiunge: E poi con le
nuove pubblicazioni abbiamo un po’più di materiale, anche se ... Perciò concludo: Va
bene… mi avete incastrato un’altra volta… e comincio a raccontare.
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L’inizio del racconto
Il sei gennaio 1913 verso le sette, sette e mezzo di mattina dai vicoli dietro palazzo dalla Porta
Nova, dalla Crocella, a uno a due a tre, piano piano arrivano in piazza e vanno sopra al
palazzo Pacifici. Quella era la sede della Società Agricola di Mutuo Soccorso “Savoia”. La
mattina del sei gennaio era previsto un comizio in Piazza.
Ad una certa ora, finito il comizio, un gruppo di donne e bambini, con la bandiera tricolore in
mano vogliono andare verso il Municipio. Soldati e carabinieri non le lasciano passare.
Qualcuno tira dei sassi, vola qualche parolaccia, qualche schiaffo. Poi, dalle parti del comune,
si sente uno sparo, uno o due colpi. Il comandante dei militari presenti in piazza ordina di
sparare sulla folla.
Restano a terra tanti feriti. I morti sono sette.
Momento!, momento!, dice Jan. Hai nominato la Società Agricola di Mutuo Soccorso
‘Savoia’. Cos’era? Un sindacato? Un partito? Una lega di contadini?
No, no… niente di tutto questo, continuo. La Società Agricola di mutuo soccorso Savoia era
un’associazione di contadini. Come dice il suo nome era un’associazione di solidarietà tra i
contadini di Roccagorga. Fu costituita il 2 giugno 1912, giorno della festa del santo patrono
del paese, Sant’Erasmo.
La Società aveva vari scopi: per esempio contrattava lavori a nome di tutti i contadini, la paga
relativa e così via. E in questo somigliava ad un sindacato. Si occupava, però, anche delle
condizioni di vita dei lavoratori e delle loro famiglie. In questo magari assomigliava più ad un
partito. Si poneva infatti obiettivi che riguardavano tutta la comunità. Così, è diventata più di
un partito, più di un sindacato e più di una Lega di contadini.
Però, suggerisce Padre Aleandro, Benito Allatta e Lorella De Meis hanno fatto una
ricerca sulla Società. Sarebbe bello se fossero qui loro per parlarne…
Certo, sarebbe bello, aggiungo, “ma quelli stanno ad Aprilia.
Ma no, dice Eros. Li ho visti poco fa dal giornalaio. Ah, eccoli, fa’ Giulio, stanno vicino
aglio palo?!, e fa loro cenno di venire.
Bongiorno, bongiorno... Nuove presentazioni e ci sediamo. Informo Benito e Lorella su
cosa stiamo facendo e loro sono entusiasti di partecipare. Nel frattempo la piazzetta è
diventata un unico tavolo attorniato da tanta gente. Ci sono tante persone, almeno una
ventina o una trentina. Come alla finale del torneo di briscola di qualche tempo fa.
Amici che mi salutano. Qualcuno (mi sembra Peppino Baccalà) ad alta voce dalle parti
del bancomat, sfottendo: sempre a fa n’arte, eh!?. E che ci posso fa’? È il mio mestiere,
no?, rispondo. E un altro (mi sembra Merico de Schiera) aggiunge: Prò a nu n’ci tocca
mmai. Tenima ancora racconta’ della neve e de Roma. Sì, gli rispondo, l’ho promesso e
l’anno prossimo tocca a noi, alla nostra generazione.
Tra i presenti noto facce che non conosco, giovani – forse rumeni – e due neri. Questi
sono i rifugiati politici, penso.
Allora, chi di voi ci racconta la storia della Società Agricola Savoia?, dico rivolgendomi
a Benito e Lorella. Lorella, Lorella, risponde Benito. Però, non la fare lunga, borbotta
scherzando Eros.
E Lorella comincia così:
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La Società di Mutuo Soccorso Savoia
Agli inizi del Novecento emergevano con forza i bisogni politici e sociali che limitavano
significativamente la qualità e la dignità della vita delle persone dei ceti più poveri come i
contadini, appartenenti alla classe più numerosa in un’Italia prevalentemente rurale.
A Roccagorga prese vita un movimento tra i contadini animato dagli emigranti di ritorno dagli
Stati Uniti capeggiato dal contadino Antonio Basilico. Inizialmente si cercò e si trovò
supporto nel sindaco Vincenzo Rossi e nel segretario comunale Domenico Rossi per costituire
una società di mutuo soccorso chiamata Senza scarpe. Il sostegno dell’amministrazione
comunale era subordinato però alla condizione che la Società avesse come finalità
esclusivamente scopi legati alle attività agricole.
Il segretario comunale trovò i locali presso palazzo Pacifici e si preoccupò di redigere la
bozza dello statuto e il due giugno del 1912 si inaugurò la sede sociale ed il vessillo della
società. Intanto il sindaco, che mirava alla presidenza della società, ottenne un rifiuto in tal
senso dai contadini disponibili solo a concedergli la presidenza onoraria e per questo motivo
si allontanò da loro insieme al segretario comunale.
Nonostante il segretario fosse avvocato non aveva adempiuto agli obblighi che la legge
prevedeva per la costituzione delle società di mutuo soccorso attraverso la redazione dell’atto
costitutivo da parte del notaio, la stesura dello statuto da allegare al primo e alla loro
registrazione.
I contadini, guidati da Antonio Basilico, trovarono in Dante Mucci, piccolo possidente del
paese, la persona che avrebbe potuto assolvere la funzione di direttore della società e con lui,
il 13 ottobre del 1912, alla presenza del notaio Ernesto Coletta di Priverno, costituirono la
Società agricola di mutuo soccorso Savoia con gli ottanta contadini soci fondatori, lessero e
approvarono pubblicamente lo statuto scritto dal loro direttore.
Lo Statuto della Società si proponeva l’elevazione morale e materiale dei soci attraverso lo
sviluppo del sentimento della mutualità. Per questo stabiliva di tenere ogni anno un corso di
conferenze; effettuare la distribuzione di buoni libri e facilitarne l’audizione per gli analfabeti;
diffondere l’istruzione; assicurare una ricompensa per il compimento di una importante e
lodevole azione. Per il miglioramento delle condizioni materiali la Società prevedeva di
stabilire la durata del lavoro giornaliero, fissandone l’orario di inizio e di fine; assegnare la
giusta paga all’operaio dei campi; procurare attrezzi agricoli e il lavoro ai disoccupati;
destinare aiuti in denaro e gratuita prestazione di manodopera per i lavori agricoli ai soci
infermi; difendere la classe contadina dagli individui irrispettosi dei suoi interessi e diritti;
combattere la piaga dell’usura mediante la costituzione di una piccola Cassa rurale e una
cooperativa di consumo; costituire o invitare una società edilizia per la costruzione di case
igieniche per i contadini.
L’immagine dei contadini di Roccagorga rappresentata nei rapporti delle autorità intervenute
in paese, tra la fine del 1912 e nei primi mesi del 1913, è quella di gente rozza, ignorante,
superstiziosa, di indole remissiva e impressionabile. Aspetti probabilmente veri per alcuni ma
non per tutti.
La consapevolezza di alcuni, la maggiore sensibilità per carattere, per formazione culturale e
per la loro esperienza realizzata in patria e all’estero riescono a divenire elementi catalizzatori
della fiducia e della speranza di tutti gli altri contadini.
La capacità dei promotori, di ricercare ed integrare le risorse umane necessarie per arricchire
sul piano culturale la Società e per disporre delle competenze idonee a ricoprirne i ruoli
dirigenziali e a rappresentarla, ha organicamente definito la sua struttura e la sua funzionalità.
Struttura e funzioni capaci di progettare un intervento di cambiamento reale sul territorio e
nelle coscienze che diffondeva il principio solidale a cui si ispirava a tutti i piani di
un’esistenza dignitosa e accettabile dei contadini di Roccagorga.
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Nell’autunno 1912 la Società comincia la sua attività, riprendo a raccontare io. Dal
tavolo, però, fanno domande. Non riesco a seguire tutti. Perciò – dico – un po’ d’ordine
e vediamo di dare la parola a tutti. Anzi, come a scuola, a questo punto. Ognuno, se
vuole parlare, alzi la mano.
Jan, in realtà, l’aveva già alzata da tempo. Per dovere di ospitalità, credo, lo lasciano
parlare per primo.
Questa organizzazione a dire la verità non mi sorprende affatto. In tutta l’Europa la
mutualità – la mutualité, come diciamo in Francia – è un movimento molto diffuso tra
gli operai e tra i contadini. Non mi è mai capitato di vederne una, però, con il nome
della famiglia reale. Mi potete spiegare questo?
Mi giro intorno, ma noto un po’ di indecisione. Perciò, comincio a rispondere io. Forse
– comincio – dipende dal fatto che i promotori non avevano un orientamento politico
ben definito. Infatti, i contadini tornati dall’America avevano una consapevolezza dei
propri diritti – diciamo così – sindacali ma non avevano partecipato a movimenti
politici. Allora in America c’era un forte movimento anarco-sindacale ma un partito
politico di orientamento socialista non si è sviluppato neppure dopo. E questo fa la
differenza con l’Europa, aggiunge Jan. Inoltre - continuo -, i promotori erano religiosi,
cattolici e, se avevano qualche riferimento politico, guardavano al movimento di
Ballarati. Questo si vedrà anche nelle manifestazioni: la Madonna è continuamente
invocata. Insomma, non c’era un sentimento antimonarchico. I contadini pensavano che
le radici dei loro problemi si trovavano a Roccagorga. Intitolare la Società ai Savoia era
un modo di far capire che non si volevano mettere in contrasto con lo stato ma ce
l’avevano solo con il potere locale.
Un’altra cosa si dovrebbe dire – aggiunge Padre Aleandro: a Roccagorga era viva la
tradizione degli ‘scagni a renne’ e la Società riprende questi aspetti della propria cultura.
Forse non tutti capiscono quest’espressione, dice Eros. Sarebbe meglio spiegarla.
Infatti, dice uno dei giovani neri, io non l’ho capita.
A questo punto chiedo al giovane nero. Scusa noi non conosciamo il tuo nome. Puoi
dircelo? Perché no?, risponde. Mi chiamo Pierre e vengo dalla Repubblica Centro
Africana.
Padre Aleandro, allora con molta calma continua: ‘scagni a renne’ significa ‘scambio a
rendere’. Perciò, se tu vieni oggi a mietere con me, domani o quando è ora io vengo a
mietere con te nella tua terra. E questo si faceva con la vendemmia, la semina, insomma
con tutte le attività agricole che richiedevano una manodopera che una sola famiglia non
aveva.
E hanno fatto qualcosa in questo senso?, domanda a questo punto un giovane biondo.
Sì, sì, rispondo. Già nell’estate del 1912 fecero qualcosa del genere. Però, pure tu
perché non ci dici come ti chiami, così è più facile parlarsi. Mi chiamo Florian,
risponde, e vengo dalla Romania.
Dal tavolo emerge ancora una domanda (è Francesco): avete nominato Ballarati e il suo
movimento. Si potrebbe saperne di più?
Va bene – sento borbottare dietro di me – andiamo un po’ avanti con il racconto perché
sennò qua facciamo notte.
Va bene, rispondo. Poi affronteremo anche il capitolo Ballarati. Ora, andiamo un po’
avanti.
Dunque nell’autunno 1912 la Società Savoia prende un certo numero di iniziative. Forse
però su questo punto possiamo dare la parola ancora a Lorella che, con Benito, ha fatto
un racconto dettagliato dei mesi precedenti il gennaio 1913. Lorella, vuoi raccontare
questa parte della storia? Sì, certo, risponde.
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Autunno 2012 - Inverno 2013
Dunque, esordisce, nell’autunno 1912 i contadini aderenti alla Società Agricola Savoia misero
sul tappeto una serie di problemi irrisolti del paese: il mancato rispetto dei diritti civici, il
disservizio municipale per lo sperpero di denaro pubblico e altri provvedimenti di prima
necessità, in particolare l’assenza della farmacia da circa due anni o del sostitutivo armadietto
per i farmaci di prima necessità, e il servizio sanitario da loro giudicato molto carente.
Le autorità si limitarono a fare un intervento burocratico, applicando in modo formale le leggi
e le regole esistenti. I problemi posti dalla Società Agricola Savoia meritavano invece
qualcosa di più di un intervento burocratico e richiedevano azioni politiche capaci di
affrontare alla radice i problemi.
Abbiamo un’idea piuttosto precisa delle questioni perché tutti gli avvenimenti, dal 6 dicembre
in poi, furono documentati dalla Sottoprefettura di Frosinone.
Le autorità si rendono conto che già “nei primi giorni di dicembre del 1912 cominciarono a
manifestarsi segni di agitazione nella popolazione”. La loro risposta, però, aveva come scopo
il solo mantenimento dell’ordine pubblico. A questo scopo fu inviato un delegato di pubblica
sicurezza.
Ma vediamo il racconto degli eventi giorno per giorno.
6 dicembre.
Il Sindaco di Roccagorga telegrafò al Sottoprefetto per comunicare che i rappresentanti della
Società Agricola Savoia avevano presentato una richiesta indirizzata all’Amministrazione
comunale, firmata da Dante Mucci, con cui si informava che la domenica successiva, 8
dicembre, alle ore 9.00, si sarebbe tenuta una manifestazione di protesta per il servizio
sanitario e per altri disservizi e che ad essa avrebbero partecipato i componenti della Società
Agricola Savoia, insieme alla maggioranza del popolo. La dimostrazione sarebbe iniziata da
palazzo Pacifici presso la sede sociale della Società in piazza Vittorio Emanuele III, e si
sarebbe svolta in forma di passeggiata per le vie del paese.
La richiesta mise in allarme il Sindaco Rossi che percepì un certo pericolo per la possibile
occupazione del Comune e il conseguente disconoscimento dell’istituzione locale, ed avanzò
immediatamente presso il Sottoprefetto una richiesta perché durante la manifestazione fosse
tutelato l’ordine pubblico.
7 dicembre.
Lo stato di inquietudine esistente continuò a crescere tanto che il Sindaco telegrafò
nuovamente al Sottoprefetto di Frosinone per chiedere l’invio immediato di un funzionario di
Pubblica Sicurezza. Il Sindaco sollecitava la predisposizione di un adeguato servizio di tutela
dell’ordine pubblico, poiché si vociferava che alla manifestazione avrebbero partecipato
anche esponenti della Lega dei Contadini di Sezze.
Se ai manifestanti locali si fossero unite altre forze estranee al paese – così si pensava – i
contadini di Roccagorga si sarebbero sentiti sostenuti nelle loro richieste e anche nella
presenza numerica. La Lega dei Contadini di Sezze, però, non intervenne alla manifestazione.
Questa notizia era stata probabilmente inventata e diffusa ad arte, per sostenere con più forza
da parte del Sindaco la richiesta di intervento delle forze di Pubblica Sicurezza per la tutela
dell’ordine pubblico.
Il Comando di Compagnia dell’Arma assicurò al Sottoprefetto che a Roccagorga già si
trovava il Tenente di Ceccano, Ernesto Catalano, il quale sarebbe stato raggiunto da dieci
carabinieri. Il Sottoprefetto dispose la partenza per Roccagorga del Delegato di Pubblica
Sicurezza di Anagni, L. Mazzucco, che avrebbe assunto la responsabilità del servizio di
ordine pubblico.
L’obiettivo di garantire l’ordine pubblico da parte delle autorità era stato dunque raggiunto.
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8 dicembre.
Quella mattina in piazza cominciarono a radunarsi numerosi contadini per manifestare il
proprio malcontento.
Il Delegato Mazzucco telegrafò da Roccagorga per informare il Sottoprefetto di Frosinone che
il corteo composto da circa duecento persone aveva percorso le vie del paese al grido di
“Abbasso l’Amministrazione Comunale”, mentre Dante Mucci incitava la folla dei
manifestanti. Inoltre il Delegato riferì che tra la popolazione regnava un grave malcontento,
specialmente per il servizio sanitario e contro l’Amministrazione Comunale. L’intenzione dei
manifestanti era quella di imporre la chiusura del Municipio perché nei paesi limitrofi,
all’occupazione della casa comunale era seguita la chiusura ed il commissariamento del
Comune.
Lo scopo non dichiarato dei manifestanti erano le dimissioni del sindaco, della giunta e dei
consiglieri comunali. Anche se non fu sostenuto esplicitamente dai manifestanti, l’obiettivo di
occupare il Comune era fin troppo chiaro agli occhi dei rappresentanti dell’Amministrazione
comunale, come a quelli delle autorità preposte al mantenimento dell’ordine pubblico.
Non ci voleva poi tanto per arrivare a questa conclusione. Allora, i contadini non potevano
partecipare alle elezioni. Votavano solo i cittadini che avevano un certo reddito. Le autorità
erano pertanto consapevoli della distanza esistente tra le istituzioni e la popolazione. Si
aspettavano, infatti, proteste forti anche a Roccagorga, come era già successo in altri paesi
della Ciociaria. Perciò organizzarono le proprie forze tenendo conto di questo fatto.
Posero di guardia i carabinieri davanti al Municipio, pronti a reagire ad ogni eventuale azione
illegale. Per impedire l’occupazione da parte della “folla minacciosa e furibonda”, i
carabinieri furono costretti ad innastare le baionette sui moschetti. Il loro comportamento
energico e determinato, fece desistere i manifestanti, che non proseguirono nell’azione.
Il Commissario di Pubblica Sicurezza, Bruzzi, nella sua relazione al Questore di Roma, riferì
che il Mucci, salito su un palchetto improvvisato, disse: “Per questa volta lasciamo il
Municipio in mano alla forza [pubblica], ma ricordiamoci che, se nel più breve tempo non
otterremo ciò che vogliamo, ritorneremo ancora qui e non avremo allora paura delle armi
bianche (alludendo alle baionette dei Carabinieri).
Il Mucci sostenuto dai capi della Società: Ferdinando De Angelis ed Egidio Pacifici, era
intenzionato a condurre i manifestanti all’occupazione del Municipio.
Solo l’intervento del Delegato e dei carabinieri aveva impedito la chiusura del Municipio e
allo stesso tempo fermato l’azione dei manifestanti che dopo aver fatto la propria protesta
ebbero la necessità di formalizzare le loro richieste con altre forme.
Il Delegato Mazzucco fu informato dell’intenzione dei manifestanti di costituire una
commissione per ottenere un incontro con il Sottoprefetto e il conseguente scioglimento del
Consiglio comunale.
Nello stesso giorno, intanto, il Sottoprefetto di Frosinone aveva comunicato alla Prefettura di
Roma tutti gli avvenimenti che si erano fin lì verificati. Inviò poi un telegramma al Delegato
di Pubblica Sicurezza, ancora presente in paese, per ricevere dai rappresentanti dei contadini il
testo del reclamo da parte della loro commissione. Il Delegato fu sollecitato perché esortasse i
manifestanti alla calma e ad essere fiduciosi nei provvedimenti adottati da parte delle
Autorità. Non risultava agli atti che i manifestanti avessero costituito la commissione né che
avessero inviato alcun reclamo al Sottoprefetto.
Nel rapporto del 12 dicembre, i carabinieri posero la loro attenzione sul Mucci. La loro
convinzione era che Mucci istigava gli aderenti alla Società Agricola Savoia a porsi contro
l’Amministrazione comunale. I carabinieri rappresentarono la situazione considerando
solamente il punto di vista del mantenimento dell’ordine pubblico per il quale erano stati
chiamati a prestare servizio. Sottolinearono che se non fosse stato per la loro presenza, il
Municipio sarebbe stato invaso, ne sarebbero state chiuse le porte e custodite le chiavi fino
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all’arrivo del Commissario prefettizio. I carabinieri indicarono anche le motivazioni della
protesta che animavano i dimostranti contro l’Amministrazione comunale: la tolleranza verso
il medico, la spesa eccessiva per i restauri del Municipio, la condiscendenza verso il
Segretario Comunale, lo stipendio di 50 lire mensili concesso al fratello del Sindaco, nella
funzione di ricevitore del Dazio, l’esosità dei progetti per la costruzione di aule e delle
condotture delle acque. Il rapporto, certamente superficiale per la reale comprensione del
fenomeno, omise completamente l’esposizione delle cause, molto più profonde, che
animavano la contrapposizione verso l’Amministrazione Comunale.
Il contenzioso determinato dall’anomalo rapporto tra Amministrazione e principe, che aveva
accentuato, anche recentemente, il restringimento e disconoscimento dei diritti popolari sugli
usi civici, doveva essere accertato e riconosciuto attraverso altri tipi di indagini, capaci di
ridefinire un quadro attendibile in tutti i suoi aspetti compreso l’aumento degli affitti dei
terreni da parte della Congregazione di carità e la mancata costituzione dell’università agraria.
Eh, ma quante cose, disse Marcellino a questo punto. Non si capisce bene. In che
consisteva il conflitto tra la comunità e il principe? Forse non tutti sanno cosa sono –
cos’erano – gli usi civici. E Alfiotto aggiunge: Mo’, capisco che la Congregazione di
carità è una cosa della Chiesa. Si potrebbe spiegare cosa faceva? Abbiamo pure un
prete, qui, e chi può spiegarlo meglio di lui?
Calma, calma, dico a questo punto. Stiamo seguendo uno schema. Prima parliamo degli
avvenimenti, poi approfondiamo i problemi storici e parleremo anche dei personaggi
principali. Non tutti sanno, infatti – soprattutto non lo sanno i nostri amici stranieri e
non lo sanno i più giovani -, chi era Basilico, il maestro De Angelis, Dante Mucci e così
via. Ne parleremo dopo. D’accordo? Va bene vai!, qualcuno risponde. E Lorella
continua:
9 dicembre.
Il Delegato di Pubblica Sicurezza, Mazzucco, inviato a Roccagorga in missione per trovare
una soluzione al conflitto in corso, se non avesse raggiunto lo scopo di conciliare gli animi
avrebbe almeno dovuto indurre gli aderenti alla Società Agricola ad attendere i provvedimenti
che l’Autorità superiore avrebbe adottato per rimuovere gli elementi del contenzioso.
Il Delegato Mazzucco si fece promotore di una riunione per la sera del 9 dicembre nel
Municipio, dove erano presenti, da una parte, una Commissione comunale formata dal
Sindaco, dai componenti della Giunta e dal Segretario comunale e, dall’altra, la Commissione
della Società Agricola di Mutuo Soccorso Savoia, composta dal Presidente, Antonio Basilico,
dal Direttore, Dante Mucci, dal Vice Presidente, Antonio Ciotti, dal Segretario, Erminio
Ettorre, dal Cassiere, Alberto Basilico, e da altri componenti del Consiglio direttivo.
Della Commissione facevano parte anche il maestro Ferdinando De Angelis ed il
commerciante Egidio Pacifici, anche se non erano membri della Società Savoia. Per questo
motivo, il Delegato chiese loro a quale titolo intervenissero ed entrambi risposero di
rappresentare il popolo assente.
Nella relazione redatta per il Ministero degli Interni dall’Ispettore Generale di Pubblica
Sicurezza, Ildebrando Stroili, il dieci gennaio del 1913, si ritrovano le richieste avanzate dalla
delegazione della Società Agricola Savoia: “Dopo una lunga discussione, il maestro
Ferdinando De Angelis rappresentante della Commissione della Società Agricola, chiese a
nome della popolazione:
1. le immediate dimissioni del Sindaco;
2. le immediate dimissioni del Medico;
3. le immediate dimissioni del Segretario Comunale;
4. il licenziamento immediato del ricevitore del Dazio;
5. il licenziamento immediato dei salariati dipendenti comunali: messo, guardia;
6. la riduzione dello stipendio (lire 1000) al Commesso di Segreteria;
7. la rivendicazione dei diritti comunali al Principe Doria.”
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Le motivazioni del malcontento si manifestarono, finalmente, in maniera ufficiale, chiara ed
articolata. Le rivendicazioni dei contadini riportate dai loro rappresentanti investivano tutti gli
aspetti della vita che si svolgeva in paese, dall’operato dei dipendenti comunali alla
rivendicazione dei diritti civici, alle modalità irregolari delle assunzioni.
Il maestro De Angelis fu portavoce delle richieste della popolazione esclusa dal diritto di voto
per povertà o analfabetismo, non tutelata dall’operato degli amministratori, rappresentanti del
ceto benestante. I gestori del potere locale, attenti e gelosi custodi dei propri interessi, vennero
messi in discussione, in modo tanto netto da rendere inconciliabile ogni forma di mediazione
che potesse far superare i contrasti che si erano venuti a manifestare. Gli amministratori si
contrapponevano ai contadini per tutelare i propri interessi e quelli di Casa Doria Pamphilj.
Il maestro durante la riunione riuscì ad interpretare gli elementi di disagio della popolazione e
dopo aver richiesto fin da principio assoluta libertà di parola, espose le richieste raccolte tra i
contadini. Sensibile ai bisogni e alle istanze della popolazione ridotta allo stremo, venne poi
individuato dalle autorità quale istigatore e agitatore dei manifestanti. Gli strumenti culturali
del maestro permisero di evidenziare con chiarezza, nella forma linguistica dovuta, la somma
dei reclami all’autorità di riferimento.
Nel rapporto Stroili sulla riunione tenutasi in Municipio la sera del 9 dicembre, si
evidenziarono le parole che il maestro avrebbe pronunciato subito dopo aver espresso le
richieste e le rivendicazioni della popolazione: “Se a quanto ho esposto a nome della
Commissione della Società Agricola di Roccagorga non verrà subito provveduto, faremo la
rivoluzione e questo sarà il mezzo col quale otterremo quanto chiediamo”.
Le parole del maestro erano il risultato di una formazione culturale e politica più ricca di
quelle possedute dagli altri componenti della Commissione che gli consentiva di cogliere
quanto si manifestava anche fuori dal paese. Continuavano a diffondersi in tutta Italia le idee
e le rivendicazioni di ispirazione socialista che rappresentavano le istanze popolari e che a
Roccagorga non avevano ancora trovato seguito pur essendovene i presupposti.
Le parole attribuite al maestro suscitarono scandalo e riprovazione nella valutazione
dell’Ispettore Generale di pubblica sicurezza che si chiese come mai il Delegato di pubblica
sicurezza Mazzucco, presente alla riunione, avesse permesso che fossero pronunciate. Per
questo comportamento il Delegato Mazzucco fu rimproverato di persona dal Sottoprefetto e si
dovette giustificare spiegando che ad entrambi le parti, fin dall’inizio, era stata concessa
assoluta libertà di parola e di linguaggio, per esporre le reciproche motivazioni durante la
riunione.
Le autorità erano disposte a tollerate tutto nel discorso pronunciato dal maestro per sostenere
le rivendicazioni dei contadini, ma non l’affermazione di principi rivoluzionari. Era concesso
comunque di opporsi all’istituzione locale, ma solo nelle forme previste e consentite dalla
legge. “Lo scopo del funzionario di pubblica sicurezza era quello di tentare una via per
giungere alla pacificazione degli animi. Egli voleva far comprendere a quei capi popolo che il
mezzo per ottenere la eliminazione degli inconvenienti lamentati nei riguardi dei pubblici
servizi a Roccagorga, era quello di presentare un regolare reclamo alle autorità superiori e di
invocare un’inchiesta che ne avesse accertato la sussistenza”.
11 dicembre.
Il Delegato Mazzucco inviò un telegramma da Roccagorga per chiedere al Sottoprefetto se
fosse stato disposto a ricevere la Commissione dei contadini con la richiesta dello
scioglimento dell’Amministrazione comunale. Ma alla risposta positiva del Sottoprefetto di
riceverla, la Commissione non si sarebbe presentata.
Temendo una manifestazione contro l’Amministrazione Comunale per la domenica
successiva, il Delegato Mazzucco inviò un espresso al Sottoprefetto per chiedere l’invio di un
Commissario Prefettizio che accertasse la veridicità delle accuse mosse contro
l’Amministrazione. La situazione trovata in paese fece comprendere al Delegato quanto essa
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fosse compromessa e che il solo intervento per il mantenimento dell’ordine pubblico, non
fosse sufficiente a placare gli animi e a far rientrare nella normalità la vita del paese.
12 dicembre.
Da Anagni il Delegato Mazzucco inviò una lettera al Sottoprefetto con la quale specificava i
motivi del malcontento popolare contro l’Amministrazione e il medico, e premeva perché si
procedesse con l’inchiesta. L’insistenza del Delegato per un’indagine di carattere
amministrativo dà l’idea di quale fosse la tensione di quel momento.
Il tentativo di isolare i contadini, per renderli più deboli, proseguì con l’invio di una lettera
anonima che conteneva delle minacce contro l’Arciprete Orsini di Roccagorga. Il Vescovo di
Terracina Monsignor Ambrosi, venuto a conoscenza della costituzione della Società di Mutuo
Soccorso, comunicò al Vicario Foraneo del paese che fosse suo intendimento “di rendere noto
al clero di Roccagorga di astenersi dal far parte o favorire in qualunque modo detta lega o
società”.
L’Arciprete, Giuseppe Orsini, in risposta all’intendimento del Vescovo, comunicò al delegato
vescovile che “niuno di noi vi prenderà alcuna parte”.
Il clima di inquietudine si andava diffondendo e coinvolse gran parte della popolazione.
L’Amministrazione comunale dimostrava una certa attenzione all’influenza che il clero di
Roccagorga avrebbe potuto esercitare se si fosse schierato apertamente dalla parte della
Società Agricola Savoia. La secolare cultura della Chiesa nell’opera di mediazione e nella
capacità di rivendicare in modo pacato ma fermo i diritti della popolazione avrebbe arginato
poteva essere un elemento di moderazione in un conflitto tanto duro.
I parroci rappresentavano una forza che, per il loro ascendente sulla popolazione, se si fossero
schierati, avrebbe prodotto un cambiamento nel rapporto tra l’Amministrazione e la
popolazione a favore di quest’ultima. In quei giorni una lettera anonima giunse nelle mani del
Vescovo di Terracina in cui si faceva riferimento all’Arciprete Giuseppe Orsini, e nella quale
si leggeva: “Monsignore se il Parroco di Roccagorga non finisce di fumentare la satanica
Società contro il Municipio finisce male... X (senza temere)”.
Un sacerdote fu incaricato perché scrivesse all’Arciprete di Roccagorga per “esortarlo a non
impicciarsi di cose del Municipio, e in ogni caso, per evitare fastidi e grattacapi di non
prendere alcun impegno di associazione. [...] Già al defunto Luigi Tasciotti dalla S.
Congregazione fu vietato di interessarsi delle cose del Municipio. Il Signor Arciprete Orsini
perciò, per sua quiete e tranquillità e per esercitare con maggior profitto il bene spirituale, si
astenga dal partecipare a qualsiasi società che ha per mira scopi personali o di elezioni. Ciò è
necessario stante le circostanze speciali del luogo”.
13 dicembre.
I membri della Giunta municipale, percepito l’accentuarsi della gravità e pericolosità della
situazione che li investiva direttamente, si recarono personalmente dal Sottoprefetto di
Frosinone per sollecitarlo affinché intervenisse per rimuovere una situazione che ai loro occhi
andava precipitando. Intanto, avendo ricevuto il rapporto inviato dal Comando di Compagnia
dell’Arma e le lettere del Delegato di Pubblica Sicurezza, il Sottoprefetto decretò l’invio a
Roccagorga del Ragioniere Filippo Velli in qualità di Commissario Prefettizio. L’incarico
ricevuto dal Ragioniere Velli era volto ad indagare e riferire su tutti i servizi municipali di
Roccagorga per conoscere la fondatezza delle motivazioni dell’agitazione popolare.
Le autorità, pur a conoscenza delle reali motivazioni e richieste della popolazione,
consapevoli che esse avrebbero messo in discussione sia il potere locale che gli interessi
economici e di immagine di casa Doria, tergiversarono nel tentativo di trovare un piccolo
accomodamento, che facesse apparire dei minimi cambiamenti di facciata più che di sostanza,
e decisero di inviare il Commissario Prefettizio Filippo Velli per accertare le cause del
malcontento in paese e formulare concrete proposte per poterle rimuovere.
Il Sindaco di Roccagorga telegrafò per informare il Sottoprefetto che la Società Agricola
Savoia aveva presentato domanda per tenere un pubblico comizio per la domenica 15
14
dicembre, per protestare contro il disservizio municipale e per richiedere che fossero accertate
le responsabilità derivanti dalla gestione della Amministrazione comunale e contestualmente
comunicò che prevedeva il verificarsi di gravissimi disordini.
14 dicembre.
Da Roccagorga il Delegato di Pubblica Sicurezza Mazzucco chiese con un telegramma che
fossero inviati per il giorno 15 dicembre trenta carabinieri e cinquanta soldati. Alle ore 16.00,
appena ricevette la richiesta, si adoperò per inviare la forza pubblica richiesta e informò il
Prefetto sia dei provvedimenti decisi per impedire l’invasione del Municipio che
dell’imposizione delle dimissioni all’Amministrazione comunale.
La volontà delle Autorità che rappresentavano lo Stato dimostrò di voler difendere, a
prescindere, l’Istituzione comunale, indipendentemente dalla qualità del suo operato. Si
sarebbe prima riaffermata, anche con la forza delle armi, l’autorità costituita e permesso al
Commissario Prefettizio di incominciare ad indagare le cause, peraltro già note, del
malcontento popolare.
A questo proposito si tenne una conferenza a cui parteciparono il Tenente dei Carabinieri, il
Commissario Prefettizio, i dirigenti e numerosi componenti della Società Agricola Savoia, al
termine della quale, si decise che il comizio previsto per il giorno successivo non si sarebbe
più tenuto. La partecipazione delle autorità presenti a Roccagorga fece percepire alla
popolazione la disponibilità istituzionale ad ascoltare le proprie rimostranze.
15 dicembre
Il Commissario Prefettizio Filippo Velli si mise al lavoro e si rese conto subito della gravità
della situazione igienica che a suo avviso richiedeva interventi urgentissimi; comprese le
deficienze nella gestione amministrativa e nella cura del paese da parte dell’Amministrazione,
perciò chiese al Sottoprefetto di poter estendere l’inchiesta affidatagli a tutti i rami
dell’Amministrazione e di poter intervenire immediatamente per eliminare le deficienze di
carattere igienico.
Il Ragioniere Velli consapevole della disastrosa situazione in cui versavano la popolazione, la
gestione comunale e il territorio, e della fondatezza del reclamo degli usi civici da parte della
cittadinanza, prospettò al Sottoprefetto la necessità del commissariamento del Comune di
Roccagorga scrivendogli: “Il giorno 14 giunsi a Roccagorga, ed essendo a conoscenza che per
il dì seguente era indetto un comizio, mi affrettai subito a convocare presso di me i dirigenti
della Società Agricola Savoia, la quale in numerosa rappresentanza ed in mia presenza,
determinò senz’altro di desistere dallo indetto comizio, il quale difatti non ebbe più luogo.
Tutta la giornata del 15 io passai in continui abboccamenti con membri della Società ed altri
avversari dell’Amm.ne, raccolsi i desiderata dei reclami, mi resi conto di persona delle
lamentate deficienze igieniche dell’abitato, e venuto nel convincimento che gli argomenti di
reclamo non erano del tutto destituiti di fondamento, feci la sera del 15 stesso un dettagliato
rapporto al Sig. Sottoprefetto di Frosinone con il quale proponevo:
1. che si fosse eseguita regolare inchiesta sopra ogni ramo di servizio dell’Amministrazione
Comunale;
2. che, data l’urgenza di provvedere all’igiene dell’abitato, si concretassero mezzi capaci di
condurre alla relativa risoluzione nel minor tempo possibile.
Per l’oggetto, anzi, non nascondevo al Sig. Sottoprefetto la necessità dell’immediata nomina
di un Commissario Prefettizio di gestione per l’igiene nella eventualità che l’Amm.ne
Comunale, si fosse mostrata esitante a rimuovere i lamentati inconvenienti igienici.
Nel predetto mio rapporto poi ritenni opportuno di prospettare la non breve durata della
missione, allo scopo di far conoscere al Sig. Sottoprefetto che nel caso essa fosse a me
affidata, avrei dovuto assentarmi per parecchio tempo dalla Sottoprefettura, che sapevo
sprovvista dell’unico Consigliere aggiunto Dott. Felici, perché in congedo.”
Il lavoro che avrebbe atteso il Commissario Prefettizio eventualmente nominato per essere
svolto avrebbe richiesto un lungo periodo. Il Ragioniere Velli si preoccupò di prospettare la
15
durata dei tempi al Sottoprefetto per gli innumerevoli compiti da tempo disattesi, ai quali
avrebbe dovuto far fronte stando lontano dal suo ufficio, se l’incarico fosse stato affidato a lui.
La comunicazione di Velli fu tempestiva e chiara nell’esporre i problemi riscontrati e la
soluzione possibile nell’immediato attraverso il commissariamento. Il Sottoprefetto non prese
però la decisione di commissariare immediatamente il Comune di Roccagorga.
16 dicembre
Il Delegato Mazzucco comunicò con un telegramma che la popolazione si manteneva calma
poiché confidava benevolmente nell’opera dell’Autorità che aveva potuto percepire con
l’attiva presenza del Commissario Prefettizio.
18 dicembre
Ancor prima di ricevere il telegramma in cui Velli chiese un mandato specifico per svolgere le
indagini sugli atti amministrativi, il Sottoprefetto gli aveva affidato l’incarico di procedere
con un’inchiesta sul Comune, sul medico, sul Segretario Comunale e sugli altri aspetti oggetto
di contestazione, in qualità di Commissario inquirente.
Gli interventi igienici e la rimozione del medico, secondo il Tenente dei Carabinieri di
Ceccano, sarebbero stati utili a far cessare ogni agitazione a Roccagorga. Nell’analisi condotta
dal Ragioniere Velli, quello del medico apparve come uno dei problemi più spinosi, la
vertenza in corso aveva incrinato ulteriormente il rapporto di fiducia della popolazione, che
non si sentiva più sufficientemente tranquilla nell’affidarsi alle cure mediche di una persona
contestandolo così duramente.
Mentre si dimostrarono disponibili ad accettare i tempi necessariamente lunghi dell’inchiesta
a carico dell’Amministrazione comunale, i responsabili della Società non potevano accettare,
invece, che l’allontanamento del medico non avvenisse immediatamente.
Il Commissario Velli si consultò con il dottor Garzia, “al quale ben credetti di esporre nuda la
sua situazione, non riuscii a trarre altro profitto che quello concepito in queste sue parole: – Io
nulla ho fatto per demeritare dal popolo; se questo non mi vuole, trattiamo il prezzo della mia
stabilità, e se mi conviene, me ne vado.”
19 dicembre
Il Commissario inquirente, dovendosi recare a Frosinone il giorno 20 per conferire con il
Sottoprefetto, convocò un’ampia rappresentanza della Società Agricola alla quale espose il
suo bisogno di allontanarsi dal paese per poter esporre al Sottoprefetto i loro problemi. La
comunicazione fu accolta positivamente da tutti, l’azione di Velli era fattiva e sollecita.
Durante l’assenza di Velli, l’ordine pubblico non venne turbato in alcun modo.
20 dicembre
Velli incontrò il Sottoprefetto di Frosinone ed espose l’urgenza della questione medica di
Roccagorga, che richiedeva una convocazione immediata del dottor Garzia in Sottoprefettura.
23 dicembre
Presso la Sottoprefettura di Frosinone si svolse l’incontro tra il Sottoprefetto, il dottor Garzia,
il Presidente della Federazione Regionale Medica, dottor Arnaldo Angelini e il Commissario
Velli che fece la sua relazione. “Dopo lunga discussione – disse tra l’altro - potette concretarsi
che il Dr. Garzia chiedesse due mesi di congedo, con l’obbligo di allontanarsi dal Comune di
Roccagorga e con la intelligenza che in questo periodo si fosse adoperato (ed in ciò gli veniva
promesso l’ausilio dell’Autorità e della Federazione) per scegliere un posto migliore e lasciare
così un paese in cui quel serpeggiare di sfiducia, tornava a disdoro della sua dignità
professionale.”
28 dicembre
Velli tornò a Roccagorga ed informò i membri più autorevoli della Società di essersi occupato
durante la sua breve assenza della questione medica senza però specificare in quali termini lo
avesse fatto.
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29 dicembre
Il dottor Garzia presentò la domanda per chiedere i due mesi di congedo. Le condizioni di
tranquillità del paese indussero il Commissario Prefettizio Velli a comunicare al Sottoprefetto,
che in seguito ad una conferenza tenuta con i rappresentanti della Società Agricola, il comizio
del primo gennaio non si sarebbe tenuto e che sarebbe stato sufficiente mantenere a
Roccagorga solo quindici dei Carabinieri presenti. Nello stesso giorno il Sottoprefetto rispose
positivamente alla richiesta.
30 dicembre
La delibera della Giunta Comunale accolse con procedura d’urgenza la domanda di congedo
di due mesi presentata dal Dottor Garzia. La figura del medico che in principio era stata
evidenziata dalle autorità locali come la causa principale dell’eccitazione popolare, appariva
sacrificabile sia dalla Giunta comunale che dalle autorità governative. Il dottor Garzia era
riuscito, per una serie di fattori non necessariamente determinati da lui, a concentrare su di sé
il risentimento sia degli strati più poveri della popolazione, che di una parte del ceto
benestante. La sua presenza aveva recato fastidio soprattutto per le cariche che aveva
ricoperto senza essere compiacente verso le consuetudini del paese.
Il Sindaco comunicò al Sottoprefetto, attraverso una lettera confidenziale, che la situazione in
paese era tranquilla e che avrebbe inviato ulteriori comunicazioni qualora si fosse modificata.
Il congedo di due mesi del sanitario, secondo il Commissario Prefettizio, aveva creato nella
popolazione un clima di fiducia verso i provvedimenti che l’autorità avrebbe adottato, il fatto
che non ci fosse nulla da temere gli fece chiedere al Sottoprefetto di potersi assentare dal
giorno successivo fino al primo gennaio.
31 dicembre
Il Commissario prefettizio telegrafò per far sapere che in paese la situazione si presentava
nella norma.
Il Comando di Compagnia dell’Arma dei Carabinieri comunicò che, in seguito al ritorno a
Roccagorga del Commissario prefettizio, la situazione dello spirito pubblico locale si era
modificata, perché la popolazione appariva fiduciosa nei provvedimenti che sarebbero stati
adottati dall’Autorità e si mostrava meno agitata. Siccome la dimostrazione progettata per il
primo gennaio non si sarebbe svolta, l’Arma dispose che i soli 15 militari presenti fossero un
numero sufficiente per controllare la situazione e sarebbero rimasti fino al 2 gennaio.
3 gennaio.
Durante la serata il Commissario cercò di conoscere attraverso colloqui informali con i
contadini, quali fossero le loro opinioni sulla votazione che si sarebbe tenuta in Consiglio
Comunale. Il congedo del medico era ben visto da tutti, ma creava lamentela il fatto che
durante i due mesi di congedo gli fosse conservato lo stipendio. Non vi era poi nessuna
garanzia che al termine dei due mesi il medico sarebbe andato via definitivamente. Velli
spiegò che la deliberazione della Giunta garantiva il Comune col diritto di rivalsa sul medico
in conseguenza dei risultati dell’inchiesta a suo carico che, nel frattempo, non sarebbe stata
sospesa. L’inchiesta, poi, si sarebbe conclusa prima dei due mesi e quindi non sussisteva la
preoccupazione sulla sua permanenza.
Siccome i membri della Società Agricola si sarebbero astenuti dal lavoro per seguire la seduta
del Consiglio Comunale, il Commissario Prefettizio telegrafò al Sottoprefetto per chiedere il
potenziamento del numero dei Carabinieri perché da sei fosse portato a quindici.
Alle ore 19.00, il Sottoprefetto inoltrò la richiesta al Comando di Compagnia dei Carabinieri e
avvertì il Commissario Prefettizio dei provvedimenti presi.
4 gennaio
Prima del Consiglio, Velli convocò il direttore della Società, Dante Mucci, per accertarsi che
fosse chiara la portata del provvedimento verso il medico, argomento inserito nell’ordine del
giorno della seduta. Il Consiglio comunale ratificò la delibera di Giunta circa il congedo del
medico, ma Mucci, quale consigliere di opposizione, non approvò il provvedimento,
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adducendo come motivazione che ad esso non sarebbe seguito il licenziamento. Durante la
riunione del Consiglio su proposta del Commissario Velli vennero approvate altre tre
deliberazioni che riguardavano la costruzione della fogna in via Porta Nuova, l’assunzione in
servizio di nuovi scopini, e l’impianto di un nuovo armadio farmaceutico. All’esterno, nei
pressi del Municipio si aggiravano circa duecentocinquanta persone che manifestavano
pubblicamente il loro dissenso contro il semplice congedo del medico e richiedevano lo
scioglimento del Consiglio comunale. Il Commissario Prefettizio chiese al Sottoprefetto che
fossero inviati per lunedì 6 gennaio in occasione del preannunciato comizio di protesta in
piazza trenta Carabinieri e un funzionario di Pubblica Sicurezza.
Il Sottoprefetto dispose l’invio dei Carabinieri e del Delegato di Pubblica Sicurezza, ed
informò il Prefetto di Roma dei provvedimenti presi e dell’evoluzione della vertenza. Per
l’impossibilità da parte del Delegato Mazzucco di giungere in tempo a Roccagorga, il
Sottoprefetto lo sostituì, nominando al suo posto il Delegato Longhi.
5 gennaio
Durante la mattinata i rappresentanti della Società Agricola Savoia presentarono un avviso per
informare che si sarebbe tenuta il giorno successivo una manifestazione di protesta contro
l’Amministrazione Comunale.
In accordo con il tenente dei Carabinieri, il Commissario prefettizio chiese per la sera stessa
l’invio di cinquanta militari di truppa e di portare a trenta il numero dei carabinieri. In serata
giunsero a Roccagorga 50 soldati del 59° Reggimento di Fanteria di stanza a Velletri, al
comando del Tenente Gregori, mentre il numero dei carabinieri presenti era di 37.
Il Sottoprefetto raccomandò al Commissario Prefettizio e al Delegato di adoperarsi in maniera
persuasiva per indurre i promotori a desistere dal proposito di inopportune manifestazioni ed
esortare la popolazione a mantenersi calma e fiduciosa nei provvedimenti già adottati dalle
Autorità.
Entrambi i funzionari avrebbero dovuto rappresentare alla popolazione che l’ordine pubblico
sarebbe stato efficacemente tutelato.
Per il Delegato, il corteo serviva a mascherare l’invasione del Municipio e per questo convocò
oltre ai firmatari dell’avviso, anche il Mucci, il Basilico ed il De Angelis, che vennero
formalmente diffidati a realizzarlo. Negò l’autorizzazione richiesta in quanto la domanda non
era stata presentata nei termini previsti dalla legge e concesse solamente il permesso per
tenere il comizio. La comunicazione venne allora riscritta con le modifiche richieste, per
informare del solo comizio e Mucci, anche a nome degli altri, aderì alla richiesta del
Delegato.
Forse a questo punto possiamo fare una pausa nel racconto e cercare di capire se
questo periodo di agitazione e di lotta abbia prodotto qualcosa. Ma no, dice Antonio.
È già l’una. Forse è meglio che interrompiamo. Proprio, ora, rispondo. Stiamo
appena entrando nelle questioni decisive? No, afferma Eros, è meglio interrompere e
riprendere nel pomeriggio. Ora, pure se andassimo avanti, non potremmo comunque
finire.
E va bene, così sia!, concludo. Allora ci vediamo verso le cinque. Però davanti al bar
di Rosa, perché qui nel pomeriggio ci batte il sole. Ma come? non lo sai?, dice
Fernando. Il bar di Rosa è chiuso da più di un anno, ormai. Sì, replico, ma quelli del
bar nuovo, vicino da Giovanni il barbiere, possono mettere le sedie e i tavoli davanti
al bar di Rosa. È così, dice Giulio. Prima di andarmene gli chiedo se lo possono fare.
Non vi preoccupate. Ci vediamo alle cinque e una soluzione la troveremo.
Ci allontaniamo per vie diverse ma qualcosa di incompiuto resta nella mente di
ognuno. Noi andiamo a casa e durante il breve percorso Jan mi confessa che non si
sarebbe mai aspettato una cosa così complessa e difficile da interpretare. Non è stato
facile neppure per noi, gli rispondo; anzi forse per noi è ancora più difficile perché,
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bene o male, siamo tutti coinvolti e, mantenersi “oggettivi”, è una vera e propria
impresa. E mentre dico così siamo arrivati…
PRIMA GIORNATA
Pomeriggio
Verso le quattro e mezza, dopo il pranzo e un po’ di siesta, ci prepariamo per uscire.
A questo punto Eveline, la moglie di Jan, dice: ma dove andate? Non dovevamo
andare a Fossanova? Sì, rispondo, ci andiamo domani. Facciamo tutto il giro delle
chiese cistercensi, andiamo pure a Valvisciolo. Ora però ci aspettano in piazza…
Durante il pranzo avevamo raccontato la mattinata a lei e a mia moglie senza però
accennare alla continuazione del pomeriggio. A questo punto mia moglie dice:
Allora veniamo pure noi ….
La notizia nel frattempo si è diffusa. Davanti al bar di Rosa sono stati preparati tavoli
e sedie, come nei gironi di festa. Molti hanno già preso posto, come fossimo a
teatro.
Prendiamo posto in un tavolo centrale perché tutti possano sentire. Sono arrivati altri
autori, nel frattempo. Giancarlo e Andrea, un giovane di Priverno che ha fatto la tesi
di laurea sui movimenti contadini in Ciociaria. C’è pure Pier Giulio Cantarano che
ha scritto una sceneggiatura per un film sul 6 gennaio. Chi sa se questo film si farà
mai?.
Allora – esordisco, in tono più formale visto che siamo così tanti – possiamo
riprendere. Eravamo rimasti al bilancio delle lotte dell’autunno 1912. Vuoi
continuare? Dico rivolgendomi a Lorella. Per questa parte, dice lei, sarebbe meglio
che parlasse Benito. Va bene, vai Benito:
Gli interventi effettuati, fino a quel momento, dall’Autorità prefettizia – dice - riguardarono in
primo luogo l’opera persuasiva sul medico, per indurlo a chiedere un congedo di due mesi,
provvedimento che sarebbe stato il preludio al suo allontanamento da Roccagorga. Subito
dopo fu avanzata la richiesta di una perizia da far svolgere ad un ingegnere per conoscere la
portata dei lavori necessari per risolvere il problema igienico causato dall’assenza delle fogne,
che si dimostrava irrisolvibile in poco tempo. Il Commissario si preoccupò di far istituire
l’armadio farmaceutico obbligatorio e tuttavia assente, in violazione alla legge che ne
imponeva l’esistenza. Infine indusse il Segretario comunale, originario di Piperno, a
presentare le dimissioni per il suo assenteismo e, cosa ancora più grave, per aver favorito i
muratori del proprio paese. La popolazione non lo poteva sopportare più.
Le altre richieste avanzate dalla Commissione della Società Agricola Savoia non trovarono
riscontro, eppure v’erano macroscopiche inadempienze ed irregolarità nell’operato
dell’Amministrazione Comunale. Il Sottoprefetto, però, non ritenne di procedere con lo
scioglimento del Consiglio comunale di Roccagorga.
Da parte delle Autorità i reclami presentati erano stati distinti tra quelli ritenuti fondati e quelli
considerati infondati. Questo atteggiamento iniziale viziò fin dall’origine il dialogo con i
manifestanti che videro ristretto il tavolo della trattativa solo ad alcuni punti. Le concessioni,
complessivamente di poco conto, non incisero sulle pregresse inadempienze dei sindaci del
paese e del Prefetto per la mancata istituzione dell’armadietto farmaceutico e dell’Università
agraria, previste entrambi da due leggi dello Stato. Lo stesso operato della Giunta e dei
Consiglieri per la trascuratezza e la gestione poco trasparente della cosa pubblica non fu per
nulla considerato dal Commissario inquirente.
Il Commissario prefettizio sostenne l’Amministrazione e, dove si dimostrò fortemente
inadeguata la sua opera, si sostituì ad essa determinandone l’indirizzo e le scelte.
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Questo si può vedere in una relazione del ragionier Velli: “Il Commissario, diceva il Mucci,
riscuote la piena fiducia nostra, ma noi non vogliamo che egli seguiti a fare il professore
dell’Amministrazione. Soggiungeva, delucidando tale concetto: – Se in pochi giorni il
Commissario ha saputo far tanto, che in anni l’Amministrazione non ha saputo fare, prova
evidente è che l’Amministrazione è inetta, e come tale deve, senz’altro e subito dimettersi”.
Il rag. Velli, dopo aver rilevato lo stato di inadeguatezza generale all’interno del Comune, si
concentrò sugli interventi di prima necessità di carattere sanitario e sull’opera di persuasione
verso il medico, prima ancora che fosse completato l’iter dell’inchiesta a suo carico. Gli
amministratori favorirono l’allontanamento del medico e si conformarono al volere del
Commissario inquirente, realizzando i suoi suggerimenti. I contadini ottennero delle
concessioni minime che non intaccarono, in alcun modo, il gruppo di potere locale, anche se
l’inadeguatezza degli amministratori era evidente. La pressione esercitata sul medico, per
ottenerne l’allontanamento, si sarebbe potuta esercitare sul Sindaco, sui componenti della
Giunta e su tutti i dipendenti comunali, senza invece attendere gli esiti dell’indagine avviata
dal Commissario.
L’Autorità, insomma, si rese disponibile a “sacrificare” le figure meno rappresentative che
avrebbero potuto rispondere personalmente, senza scalfire l’Istituzione verso la quale non fu
individuata alcuna responsabilità: al Prefetto, al Sindaco e al Principe non si chiese in alcun
modo di rispondere del loro operato e delle loro inadempienze. I contestatori non videro una
fattiva disponibilità che rispondesse complessivamente ai problemi che avevano posto al
termine del Consiglio comunale. L’umore della popolazione non poteva che essere inquieto e
indurre ad ulteriori forme di protesta.
La rimozione dell’Amministrazione comunale per i contadini poteva essere ottenuta ora solo
attraverso l’occupazione del Municipio e la conseguente chiusura delle porte. In tal modo –
pensavano - avrebbero mostrato alle autorità dello Stato l’evidente sfiducia nei suoi confronti.
L’obiettivo primario delle Autorità era invece quello di impedire, a qualunque costo, che
l’Amministrazione fosse delegittimata. Inoltre, le rivendicazioni popolari furono
sommariamente ricondotte ad un problema di ordine pubblico. Il Sottoprefetto non riconobbe
responsabilità tali da giustificare l’adozione di provvedimenti radicali verso
l’Amministrazione e tanto meno il diritto di rivendicare gli usi civici sui beni del principe
Doria, per le strette relazioni del Principe con il potere politico scaturito dall’Unità d’Italia.
Il Commissario Prefettizio, il Sottoprefetto, i rappresentanti dell’Arma dei Carabinieri e il
Delegato di Pubblica Sicurezza erano tutti convinti e consapevoli che, con la manifestazione
del 6 gennaio, i manifestanti volessero giungere all’occupazione del Municipio, azione già
progettata e non realizzata l’8 dicembre per l’intervento del Delegato Mazzucco e dei
Carabinieri.
Le autorità ritenevano che la presenza di trentasette carabinieri e cinquanta soldati sarebbe
servita a dissuadere la popolazione. Davanti a un tale schieramento, anche i più esaltati – così
ritenevano - avrebbero desistito da qualsiasi tentativo di ribellione, non potendo contrapporsi
ad una forza numerica notevolissima di militari armati di tutto punto. Il paese contava allora
2394 abitanti, tolti quelli che erano schierati dalla parte dell’Amministrazione Comunale e gli
indifferenti, avrebbero potuto essere presenti alla manifestazione al massimo un migliaio di
persone, comprese donne e ragazzi. Un gruppo di ottantasette uomini ben armati e ben diretti
avrebbe dovuto essere in grado di farvi fronte.
È evidente da questo che dici che le autorità non compresero o non vollero
comprendere la situazione. Insomma, si ha l’impressione che volessero prendere in
giro i rappresentanti della Società Agricola e la popolazione tutta.
No, commenta Padre Aleandro, io non vedo una deliberata volontà di prendere in
giro la popolazione. Secondo me, erano proprio sordi alle ragioni dei contadini di
Roccagorga.
20
E intanto arriva anche Vincenzo Padiglione, il direttore dell’EtnoMuseo, insieme a
Carlo Felice Casula, mio amico e collega a Roma Tre. Anche lui trova posto e
facciamo una breve pausa per riferirgli quello che stiamo facendo. Ottimo, esclama.
Mi posso aggiungere pure io? Come no?, rispondo, in fondo dopo tanti anni che sei
qui, ora ne sai più di noi.
Mi viene però un pensiero obliquo. Siamo tanti, forse troppi per continuare come se
fossimo il gruppetto di questa mattina. Ci vorrebbe qualcuno che con voce chiara e
distinta leggesse le storie che finora abbiamo fatto raccontare agli autori. Perciò mi
azzardo a fare la proposta di far leggere almeno una parte dei testi a qualcuno che
abbia una certa familiarità con la lettura in pubblico. E dico questo guardando a Pier
Giulio Cantarano, che ha una bella voce da attore classico, a Alessandra Gigli, una
giovane attrice teatrale di Roccagorga che ha studiato e recitato a Milano al Piccolo
di G. Strehler.
La proposta è accolta con entusiasmo. Perciò prego Pier Giulio e Alessandra di dare
inizio alla lettura degli eventi del 6 gennaio partendo dalla ricostruzione fatta da B.
Allatta e L. De Meis.
Prima di cominciare i due si scusano. Non hanno avuto modo di prepararsi e non
garantiscono il buon risultato. Da dietro, però, qualcuno a voce alta esclama: che te
stai a preoccupa’! Attacca …
E così cominciano alternandosi nella lettura:
Il 6 gennaio
In previsione dei disordini, i cinquanta uomini di truppa furono schierati nei pressi della casa
comunale dove furono collocati anche una decina di carabinieri. In piazza, al mattino della
domenica dell’Epifania, già prima delle undici, si era radunato oltre alle donne ed ai bambini,
un numero di uomini maggiore rispetto a quello delle manifestazioni precedenti”. Si trattava
di non meno di settecento persone, tenuto conto che la Società Agricola Savoia ne contava
solo tra i suoi iscritti circa trecento.
Le Autorità notarono come quella mattina vi fosse un maggiore fermento tra la popolazione, e
un andirivieni continuo dalla piazza alla sede della Società.
All’interno della sede della Società Agricola c’erano Dante Mucci e Antonio Basilico, mentre
il maestro De Angelis trascorreva le vacanze con i familiari a Sezze e ritornò a Roccagorga
solo il giorno seguente.
Il comizio fu tenuto dal Palazzo Pacifici, ai margini della piazza. Gli oratori parlarono alla
folla dal balcone della sede della Società Savoia: prima intervenne Antonio Basilico,
presidente della Società, e poi Dante Mucci, direttore. Secondo i rapporti di polizia i discorsi
di Basilico e Mucci furono un incitamento alla rivolta. Al processo invece furono ritenuti
discorsi “dai toni e contenuti pacati”.
Quando i due oratori tacquero, le autorità notarono che la folla non dava alcun accenno a
sciogliersi, ma rimaneva nella piazza. Ad un certo punto cominciarono a sentirsi delle grida:
“Al Municipio! Fuori! Fuori!”, mentre nella sede della Società, la bandiera tenuta dalle donne
accanto agli oratori sul balcone, veniva portata in strada. Attorniata da un raggruppamento
serrato di persone, la bandiera giunse al centro della piazza.
Il Delegato di Pubblica Sicurezza Longhi era il funzionario che aveva la direzione e la
responsabilità del servizio di ordine pubblico; comandava sia i carabinieri che i militari
dell’esercito. Convinto dell’intenzione da parte dei manifestanti di occupare il Municipio in
corteo con la bandiera nazionale portata dalle donne, si mosse per bloccarle. Accompagnato
da un forte nucleo di carabinieri, dopo aver raggiunto le donne con la bandiera, deciso a
strapparla dalle loro mani, intervenne causando una colluttazione violenta.
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Le donne si opposero e si scatenò una lotta tra loro che non volevano cedere la bandiera, e i
carabinieri intenzionati a toglierla dalle loro mani. Il funzionario con i carabinieri ebbe la
meglio anche se tra le mani si ritrovò una bandiera ridotta in pezzi, restando convinto che con
la perdita del loro simbolo (la bandiera), i manifestanti si sarebbero sciolti.
La ricostruzione fatta in seguito dalle autorità sulle dinamiche della colluttazione per il
possesso della bandiera, appare parziale. Si fatica a comprendere come i circa ventisette
carabinieri, presenti in quel punto, abbiano potuto a mani nude affrontare ben quattrocento
persone disposte in modo compatto intorno alla bandiera, attorniate da altre quattrocento in
modo meno serrato, fare breccia tra la folla, raggiungere le donne e strappargliela dalle mani.
Secondo le autorità l’intervento energico e risoluto per dissuadere la popolazione che avrebbe
dovuto far comprendere quali gravi conseguenze si sarebbero potute avere, produsse l’effetto
di far scatenare i manifestanti che lanciarono pietre contro i militari. La colluttazione, spenta
intorno alla bandiera, si riaccese in altri punti. Le esortazioni a desistere dall’intenzione di
avanzare verso il Municipio da parte del Delegato, inudibili nella concitazione della folla
nella piazza, caddero inevitabilmente nel vuoto.
La situazione precipitava, l’azione repressiva del Delegato e dei carabinieri aveva sortito
l’effetto di rendere la popolazione incontenibile: ai soprusi vecchi se ne aggiungeva un altro
con la carica violenta contro le donne e l’impiego delle armi bianche per fermare i
manifestanti.
L’intervento brutale contro le donne sortì l’effetto contrario da quello desiderato dalle forze
dell’ordine; la popolazione si mosse da tutte le parti della piazza per spingersi verso la casa
comunale.
Un gruppo di uomini risalì verso il Municipio per la rampa di sinistra, ma fu subito fermato
dai carabinieri armi in mano. Da questa parte, dunque, non si passò. Infatti, il gruppo, dopo
l’intervento dei carabinieri, rinunciò a proseguire. Un altro gruppo, composto prevalentemente da
donne, si diresse verso il Municipio dalla rampa destra e riuscì ad avanzare per metà della strada, dove
i carabinieri lo contrastarono sguainando e utilizzando le sciabole. Nel bilancio finale dei feriti,
riportato nel rapporto del Maggiore dei Carabinieri, Franchi, si contarono numerose donne ferite da
arma da taglio delle sciabole in dotazione ai carabinieri.
All’ordine comandato dal Tenente, i soldati appiedati disposti in via Venti Settembre,
innastata la baionetta sul fucile, si lanciarono verso la popolazione. L’effetto prodotto dalla
vista dei soldati con i fucili spianati e la baionetta innastata verso la gente dovette essere
impressionante.
La discesa dei soldati costrinse i manifestanti a liberare gli spazi adiacenti via Venti
Settembre e la strada che conduceva al Municipio. Effettuata la carica, i soldati si spostarono
da via Venti Settembre, raggiungendo così una posizione di maggiore sicurezza. Essi si
dispiegarono nello spazio più ampio della piazza che consentiva loro un maggiore controllo su
ciò che vi avveniva, mentre la popolazione subiva un’ulteriore prova di forza da parte delle
Autorità intenzionate ad impedire l’occupazione del Municipio a qualsiasi costo.
La folla, scacciata verso la piazza, venne raggiunta dai soldati che lì si disposero in
semicerchio su due file, con le spalle rivolte verso il Municipio. Le Autorità lamenteranno in
seguito che sui soldati, sui militari dell’Arma e contro il Delegato erano stati lanciati sassi
dalla folla, da ogni parte della piazza. I lanci si sarebbero verificati anche dal campanile della
chiesa dove erano saliti alcuni dimostranti e vi si sarebbe trovato anche il fratello del Curato.
Da ogni parte la gente avrebbe gridato: “Fuori il Sindaco!”, “Fuori il medico! Dobbiamo fare
Corte nuova!”.
Nell’inchiesta compiuta in seguito per conto del Partito Socialista, l’avvocato Giulio Volpi
indicò elementi diversi da quelli della ricostruzione ufficiale. Il lancio dei sassi sarebbe
cominciato mentre la fanteria caricava il gruppo delle donne che cercavano di salire verso il
Municipio. Dei lanci di pietre sarebbero stati autori anche i carabinieri: effettivamente, anche
tra i dimostranti vi furono diversi feriti colpiti da sassi.
22
Si erano create le condizioni per lo scioglimento dell’assembramento per il quale la legge
prevedeva l’invito a disperdersi rivolto alle persone riunite da parte degli ufficiali di pubblica
sicurezza2.
Nella versione ufficiale si riportò che, a questo punto, il Delegato di Pubblica Sicurezza cinse
la sciarpa tricolore, ordinò di dare gli squilli di tromba e fece le distinte formali intimazioni e
fece seguire ad ogni squillo l’ordine verbale di scioglimento.
La popolazione ignara della procedura prevista dalla legge, per la prima volta in una
manifestazione con esiti violenti, non comprese il significato degli squilli di tromba dichiarati
e tantomeno le conseguenze formali e sostanziali che avrebbero fatto seguito alle intimazioni.
Tant’è che gli squilli non allontanarono la folla.
Secondo il Delegato, si sentì un tocco di campana intorno al mezzogiorno e questo gli era
apparso il segnale convenuto tra i manifestanti per una più furiosa rivolta.
La folla continuava a gridare. Alcune persone da dietro al muro del giardinetto del Municipio
scatenarono un furioso lancio di sassi. Longhi, sollecitato anche dal Tenente dell’Esercito,
diede a quest’ultimo l’ordine di respingere la folla impiegando la truppa, mentre i carabinieri
al comando del Tenente Catalano avrebbero dovuto sgombrare il piazzale della chiesa.
Quando i soldati scesero per via Venti Settembre, i carabinieri appostati sulla loggetta del
Municipio dichiararono di aver visto una mano armata di rivoltella far fuoco sui soldati.
Questo episodio venne riportato con versioni differenti. Si riferì, ad esempio, che mentre era
in corso la carica dei soldati, sarebbero stati esplosi dei colpi di rivoltella contro la truppa da
una finestra prospiciente via Venti Settembre. Si parlò anche di uno sparo e di spari
provenienti da più punti; di una mano armata di rivoltella, di aver visto sparare da una finestra
e da un portone. Si raccontò anche che venne lanciata una forca da una finestra. I colpi
sarebbero partiti da una finestra del terzo piano dell’ultima casa di sinistra della strada di via
Venti Settembre. La proprietaria della casa, Aristea Rossi, secondo la polizia persona
insospettabile, era una donna tranquilla e l’unico figlio che aveva si trovava in America.
Il vice brigadiere Angelo Zucchi, appostato insieme ad altri carabinieri davanti al portone del
Municipio, dichiarò di aver notato il movimento della persona intenta a sparare dalla finestra.
Egli, senza aver avuto l’ordine dal suo superiore che pur si trovava nelle vicinanze, sparò e
diede ordine di sparare ai suoi subalterni, alcuni colpi di moschetto in quella direzione. Zucchi
giustificò l’ordine dato ai sei carabinieri a lui vicini, per quanto aveva visto. Un altro
carabiniere, Basilio Caselli, avrebbe affermato di aver visto partire un colpo di rivoltella da
una porta di via Venti Settembre. A sostegno della versione ufficiale, anche alcuni impiegati
del Comune, come il Segretario comunale Domenico Rossi, dichiararono di aver visto da
dietro le finestre del Municipio una mano armata sporgere su via Venti Settembre. La finestra
contro cui i carabinieri avrebbero sparato, come la parete della casa e le immediate vicinanze,
non presentarono alcuna traccia di scalfittura o di segno di proiettile, come venne appurato da
indagini indipendenti.
Gli effetti degli spari si manifestarono più in basso, rispetto al punto dichiarato: un asino
decedette sul colpo e due soldati vennero feriti lievemente.
Le ferite lamentate dai soldati risultarono comunque lievissime: il primo ebbe una ferita da
contusione ad un fianco, il secondo una ferita di striscio ad un braccio. Nelle cronache del
tempo si ipotizzò anche che i militari fossero stati feriti per errore dai carabinieri appostati alle
loro spalle, mentre le autorità ne attribuirono immediatamente la responsabilità ai “rivoltosi”.
2
Come previsto dall’articolo 5 della legge sulla Pubblica Sicurezza del 23 Dicembre 1888, nel caso di mancato
accoglimento dell’invito, l’autorità preposta avrebbe dovuto ordinare lo scioglimento dei partecipanti
attraverso tre distinte formali intimazioni preceduta ognuna da uno squillo di tromba. Qualora le
intimazioni fossero state ancora disattese, le persone che si fossero rifiutate di obbedire, potevano
essere arrestate e in caso di rivolta o di opposizione, si riconosceva comunque all’autorità il diritto di
usare la forza anche se non si fosse potuta fare alcuna intimazione, come previsto dall’articolo 6.
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La presenza dei militari feriti diede il pretesto all’ufficiale di ordinare il fuoco sulla folla e
successivamente la giustificazione del proprio operato.
La tipologia delle ferite dei soldati furono diverse: si legge nella Rapporto del Maggiore
Franchi: “il soldato Giuseppe Squillace riportò una leggera contusione prodotta da arma da
fuoco ed un’altra da sasso alla testa, guaribili entrambe in diciotto giorni, mentre il soldato
Alfonso De Simone ebbe una ferita da arma da fuoco di striscio al braccio destro, guaribile in
giorni venti. Oltre ai due soldati indicati, ne rimasero feriti altri tre, e sei carabinieri, tutti in
maniera lieve, colpiti da sassi.
Il Maggiore dei Reali Carabinieri, Franchi, nel suo rapporto attribuì la contusione del soldato
ad arma da fuoco, mentre essa è generalmente causata dall’urto con un oggetto. Anche se
l’affermazione può trovare riscontro nel caso in cui la contusione sia stata provocata dalla
ricaduta verso terra dell’involucro che conteneva i frammenti dei proiettili a mitraglia in
possesso dei carabinieri e da loro sparati alle spalle dei militari.
I soldati sulla piazza, fuori dalla condizione di pericolo imminente, ricevettero l’ordine di
schierarsi in semicerchio a doppia fila, come ad una esercitazione di tiro, mentre la folla dei
contadini, secondo il Delegato, vi si sarebbe contrapposta, nonostante le intimazioni, le ferite
e le minacce. I militari ricevettero l’ordine di fare fuoco, quando ormai i manifestanti si
stavano disperdendo. Il comando di sparare sulla folla venne giustificato come reazione agli
spari “indirizzati” verso i soldati. Sarebbe stato piuttosto difficile giustificare altrimenti
l’ordine di far fuoco, una volta che i soldati erano ormai in una posizione di totale sicurezza,
schierati in semicerchio sulla piazza senza alcuna minaccia alle spalle né ai fianchi.
La sproporzione della forza impiegata nella reazione, considerato che ai primi spari “sentiti”
dalla finestra di via Venti Settembre non ne seguirono altri, testimonia l’inutilità dell’azione
di repressione così spietata.
L’operato di Zucchi venne criticato dall’Ispettore Generale della Pubblica Sicurezza Stroili
che affermò: “Non spetta a me di giudicare il Tenente, il quale certo si attenne alla lettera del
Regolamento sull’impiego della truppa in servizio di Pubblica Sicurezza, anche pel vice
brigadiere Zucchi giudicheranno i suoi superiori, benché sia evidente che trovandosi sul posto, e a pochi passi da lui, il Delegato e il suo Tenente con i quali non gli sarebbe stato
difficile mettersi in relazione, egli non avrebbe mai dovuto prendere una iniziativa così grave
come quella da lui presa.”
L’osservazione di Stroili fa intendere le responsabilità di Zucchi per aver assunto
autonomamente una decisione che spettava ai suoi superiori e rilevò come l’ordine di sparare
dalla loggetta fosse stato “inadeguato ed inopportuno”.
Nessuno parla. Molti si rigirano sulla sedia, gettano lo sguardo a destra, a sinistra ma
nessuno osa dire una parola … Poi .. wrong, wrong .. biip, biip .. un Suv imbocca
rumorosamente Via Cristoforo Colombo. Dal gruppo davanti a me si sentono alcuni
bisbigli non proprio amichevoli. Poi Vincenzo Padiglione mi fa cenno di voler dire
qualcosa. A voce bassa lo prego di parlare.
È indubbio – esordisce – che già in questa parte della vicenda troviamo tutti gli elementi
dell’eccidio. Prima di andare avanti con altri racconti, però, sarebbe meglio cercare di
capire come lo spazio, intendo dire la piazza, abbia determinato gli eventi. Mi sembra
logico – aggiunge Eros - che, se la piazza non avesse avuto o non avesse la forma che
ha, probabilmente le cose sarebbero andate in modo diverso. Bene, allora perché non
approfondisci quest’aspetto?
Sì, risponde, se volete posso dirvi qualcosa su questo argomento.
24
I luoghi dell’eccidio
Pensiamo alla “forma urbana” della Piazza di Roccagorga – così comincia il suo
ragionamento - e impiantiamoci virtualmente quella protesta e quella sparatoria e poi
ragioniamo sullo svolgimento dei fatti e delle relative conseguenze: si sarebbero svolti in
maniera identica provocando la stessa tragedia se la piazza fosse stata un’altra o di altra
forma? Quelle basse quinte protettive del coronamento della Rifolta di allora simili ad una
trincea; il suo ellissoidale invaso chiuso come un’arena per eroici gladiatori con le due
speculari strade che lo circondano e portano al Municipio rendendone possibile l’assedio ma
anche la facile scorribanda dell’esercito verso una massa ormai senza scampo; quel Sacrato
posto proprio lì come un avamposto strategico per i gendarmi per controllo e respingimento;
la grande disponibilità di spazio e contestuale mancanza di luoghi centrali per ripararsi dalle
fucilate; quel campanile alto in alto e irto come una torre d’assedio da cui con primitive
fionde far diluviare sul nemico proiettili fuori ordinanza; il palazzo del potere posto in
posizione elevata come un attributo di difesa attiva di remote fortezze medievali e che
permette ai “Generali” di seguire le operazioni di battaglia, facilmente raggiungibile ma di
difficile espugnazione perché posto al vertice di una strozzatura; quel complicato sistema
scalettato di accesso al Municipio di allora che evoca antichi ponti levatoi: non hanno forse
anche loro chiare responsabilità sulle conseguenze, non già sulle ragioni, di quel funesto
giorno d’epifania?
Per quanto surreale possa sembrare: non ci sarebbero sufficienti ragioni per focalizzare
l’attenzione anche sulle “complicità” di una struttura urbana fatta di fisici impedimenti e
agevolazioni per l’una e l’altra parte e che non possono non aver influenzato anche gli umori,
i comportamenti e le decisioni? Se la piazza non fosse stata così ampia, ad esempio, i
dimostranti non avrebbero potuto mettersi al riparo più velocemente e salvarsi?
Dunque la Piazza di Roccagorga come “complice-artefice” di quel tragico tredici e perciò
trasformatasi nel tempo in luogo di rocciosa memoria “segnato” ora da postume simbologie:
una lapide nella quale c’è incisa la rabbia di allora e un’altra che ricorda finalmente i morti
dimenticati chiamandoli per nome. Un atto doveroso e rituale l’uno e la riparazione di una
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dimenticanza l’altro, per non lasciare solo a “pietre, messe e rimosse” il ricordo e il perpetuo
rinnovarsi della coscienza collettiva: Come hai detto tu una volta, Vittorio: “La Piazza,
denominata con significativo omaggio Piazza VI Gennaio, contribuisce al ricordo, alla
conoscenza e alla riconoscenza”. Quante cose dunque potrebbe raccontare la Piazza di
Roccagorga, campo di battaglia e perciò testimone chiave di quel tragico 6 gennaio 1913.
Mario Ferrarese immaginò tempo fa un dialogo della Piazza con se stessa, come fosse una
persona:
La prima cosa che ricordo – dice la Piazza -, prima che accadesse il tumulto, è che faceva freddo
quella mattina del 6 Gennaio, domenica dell’Epifania, di 100 anni fa. L’ultima, l’immagine di un
giorno di sangue: sul mio selciato erano stesi ed allineati i morti dell’eccidio colpiti dalle
pallottole sparate dai fanti e dai carabinieri ed i feriti in attesa di essere portati in ospedale”…”Io
sono la Piazza di Roccagorga, il luogo centrale del paese, dove si svolge gran parte della vita
pubblica, dove si manifestano le aspirazioni civili, l’impegno culturale, la vita democratica stessa.
Sul mio selciato vidi crescere gradatamente una sacrosanta contro il potere costituito. Dopo
scontro, verso mezzogiorno, contai, con dolore e disperazione, i contadini uccisi che avevano
gridato la loro rabbia contro i soprusi dei padroni. Una scena indimenticabile.
Molto bene Eros. Ma potresti soffermarti un attimo sulla posizione dei morti e dei
feriti e descrivere quei momenti?, dice Vincenzo Padiglione. Certo, perché no?,
risponde Eros. E continua:
Partiamo da qui, dai corpi morenti o morti sparsi sul selciato, dal sangue che traccia sul
calcare bianco tristi percorsi circondando le molte vittime, che non dovevano essere meno di
una ventina. Noi, infatti, pensiamo sempre e soltanto a quei sette morti e immaginiamo la
piazza seminata dai loro soli corpi, ma vi furono anche una trentina di feriti (ufficialmente
29), molti dei quali certamente restarono a terra. Un dramma impossibile da celare, anche in
una piazza grande e dispersiva come quella di Roccagorga.
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Possiamo facilmente immaginare tutto: i soldati, fucile impugnato con baionetta inastata,
tutt’intorno a Piazza Vittorio ad impedire che alcuno si avvicinasse ai caduti e i carabinieri
che ordinavano di chiudere gli scuri delle finestre delle abitazioni affacciate sulla Piazza,
perché nessuno doveva vedere. La gente disperata, accalcandosi verso le uscite, si era messa
in salvo fuggendo verso i più vicini ripari. Qualche attimo dopo, il tempo per capire, i parenti
delle vittime tentano di avvicinarsi, chiamano i congiunti ai quali qualcuno risponde. Poi il
silenzio: di chi aveva sparato, per il rimorso, e di chi aveva subito, per disperazione. Un
silenzio però gonfio di pianto e urla di dolore. Questa dovrebbe essere stata Piazza Vittorio
per almeno mezz’ora dopo la sparatoria.
La disposizione di quei corpi sul selciato e dell’esercito e dei carabinieri (più facile da sapere)
è la traccia maestra per ricostruire l’accaduto. Forse oggi è difficile avere tutti i dati necessari
ma ragionarci aiuta a rivelare una verità quanto meno sostenibile. Ritengo, infatti, che una
esaustiva ricostruzione debba partire proprio dalla posizione di quei corpi e dalle loro ferite,
perché sono elementi rivelatori sia dei movimenti della massa che protestava come
dell’esercito in marcia e il successivo posizionamento in figura di fuoco.
Quel giorno furono colpite a morte sette persone (sei adulti e un bambino di cinque anni) e tra
essi Fortunata Ciotti, incinta al settimo, che fa aumentare ad 8 il numero dei morti. Sul
numero dei feriti vi sono informazioni contraddittorie, qualche fonte parla di 16 feriti gravi
ma noi dobbiamo rifarci alle tabelle redatte dal Maggiore Franchi, Comandante della
Divisione dei Carabinieri Reali di Roma allora trasmesse al Prefetto della Capitale, nelle quali
il numero dei dimostranti feriti risulta essere di 29, a cui vanno aggiunti 5 militari. In realtà le
tabelle del Maggiore Franchi contengono i nomi di 34 dimostranti colpiti ma 5 di essi
vengono indicati già come “morti per ferite prodotte dalle schegge della mitraglia” e tre che
versano in gravissimo stato. Fu ucciso anche un povero asino, che in questo tentativo di
ricostruzione ha anche lui la sua importanza (e dalla borsa tira fuori alcune carte per mostrarle
in giro tra i presenti).
27
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A questo punto, però, corriamo un rischio. Stiamo concentrando la nostra attenzione
solo intorno a quanto è avvenuto il 6 gennaio. Dovremmo cercare di comprendere le
ragioni più profonde che hanno portato a quel giorno. Insomma, se le cose sono andate
così è perché nel paese vi era una particolare struttura sociale, economica, culturale.
Non è che la situazione sia esplosa senza una ragione il 1912. Allo studio di questa
situazione abbiamo dedicato molta attenzione sia nel passato sia recentemente. Se siete
d’accordo, vi proporrei di vederla con gli occhi dei parlamentari che, subito dopo,
fecero delle interrogazioni alla Camera dei Deputati.
Bene, disse a questo punto Vincenzo Padiglione. Però dobbiamo sapere che si tratta di
un’indagine fatta un secolo fa e non sarebbe male accompagnarla con qualcosa di più
recente.
Certo, rispondo. Si può fare così: prima leggiamo le interrogazioni e poi vediamo una
ricerca più recente. Chi vuole leggere?, dico rivolto ai presenti.
Si alza Pier Giulio. Leggo io, se volete. Cetty - è la bibliotecaria comunale venuta con
tutti i libri sull’eccidio - per favore puoi darmi gli Atti parlamentari? Posso leggerla da
questa edizione. È già ridotta e commentata, non sarà troppo lunga. Sfoglia il libro,
ritrova le pagine e comincia.
L’eco dell’eccidio in Parlamento
Seduta della Camera dei Deputati del 17 febbraio 1913
Interrogazione dell’on. le Bentini:
La Camera comprenderà - disse tra l’altro l’on. le Bentini - che da questi banchi, ove siede un
po’ di rappresentanza del proletariato, non si poteva tacere sull’argomento degli eccidi, che
nel nostro paese si ripetono e si riproducono ormai sistematicamente ai danni di quel
proletariato. La Camera comprenderà che non si poteva assolutamente tacere degli ultimi
eccidi che, per una fatalità di coincidenza seguirono nello stesso giorno, perché da
Roccagorga a Baganzola e a Comiso è stata un’Epifania di sangue che è andata per l’Italia,
stringendo nord e sud, sino alle porte di Roma, in una unità di lutto.
Avrò l’onore di intrattenere i colleghi in specie sull’episodio di Roccagorga perché, o io
m’inganno, o mi pare che nell’episodio di Roccagorga si trovino gli estremi e le
caratteristiche di questo fenomeno dell’eccidio proletario. Roccagorga è un paese come ce ne
sono tanti in Italia, un paese confuso fino a ieri nell’ombra.
Il quadro del paese è presto fatto. Da una parte una popolazione che vive alla merce’ del
latifondo; dall’altra una amministrazione che si disinteressa della sua igiene, della sua cultura,
dei bisogni più elementari della sua vita morale e materiale e che non si preoccupa se non di
aggravarlo sotto i pesi del fiscalismo. Questa è la tinta che è soffusa sul quadro. Un
particolare: a Roccagorga non ci sono partiti politici; niente propaganda, niente proselitismo
che vibri entro l’irritazione, che possa farla spasimare e scoppiare.
A Roccagorga esiste un circolo che si chiama ‘Savoia’ e che ha in testa una bandiera tricolore;
ma sapete, onorevoli colleghi, perché in sostanza ed in definitiva a Roccagorga ci furono sette
morti e quaranta feriti? Per questo, perché il tricolore non andasse per le strade e perché non si
schierassero dietro di esso gli organizzati nel nome di Savoia. (interruzioni). Proprio per
questo: quelle povere vittime furono immolate alla stupidità prima che alla ferocia.
Se si fosse permesso che i dimostranti irrompessero nella piazza sventolando la loro bandiera,
gridando le loro proteste, questo avrebbe fatto dispiacere a qualche tirannello locale, ma non
avrebbe menomamente turbato e compromesso l’ordine pubblico. Se si fosse lasciato che
quella piccola onda di popolo avesse forzato un po’ di divieto nel quale arbitrariamente era
stata tenuta e soffocata fino allora, se non si fosse fronteggiato l’impeto delle donne e di
ragazzi, nulla o quasi nulla sarebbe accaduto, se non qualche strappo alla legge di pubblica
sicurezza.
Io vi dirò onorevoli colleghi, per tornare all’eccidio di Roccagorga, che tutto lascia credere
che nell’eccidio non sia stato estraneo un elemento di preparazione. A domani, si è detto da
29
taluno, con accento di minaccia. E l’indomani, ci fu la strage. Che cosa abbia saputo, che cosa
abbia intravisto colui dal tristo presagio è cosa che auguro sia chiarita e assodata
dall’istruttoria.
A Roccagorga si sono fatte due istruttorie, onorevoli colleghi: una da parte della pubblica
sicurezza ed un’altra da parte della magistratura. Io dico che ce n’è una di troppo e che l’una
schiaccia l’altra. Perché quando un testimonio ha discorso alla presenza di un funzionario che
può anche involontariamente, anche senza malizia, insidiarlo di intimidazioni e di suggestioni,
quel testimonio non si potrà più disdire in faccia al giudice istruttore”.
L’on.le Bentini, concludendo la sua dichiarazione pubblica così dice: “Onorevole
rappresentante del Governo, c’è una frase che corre per l’Italia, frase terribile che fu respinta:
assassinio di Stato, ma contro questa frase credo sia difficile contrastare.. Che cosa vi
domandiamo noi, signori del Governo? Vi domandiamo niente e troppo. Niente, perché non
c’è nulla da chiedere quando c’è tutto, perché noi non ricommetteremo il torto di ripristinare
un disegno di legge, perché voi vi rifiutate di accoglierlo. C’è il Codice penale, c’è il Codice
penale militare, ci sono i regolamenti di disciplina, di pubblica sicurezza, c’è tutta una
legislazione..”.
Interrogazione dell’on. le Campanozzi:
Voi sapete, onorevoli colleghi, che gli elettori della Ciociaria appartengono alla piccola
borghesia, e che i contadini non sono elettori. Così si spiegano le frequenti agitazioni della
Ciociaria, così si spiegano, onorevole rappresentante del Governo, le agitazioni che hanno
avuto luogo a Supino, a Pofi, le agitazioni di Sonnino (oh, oh), non dell’on. Sonnino,
naturalmente, di Patrica, di Maenza.
A Roccagorga avviene quello che avviene in tutta la Ciociaria, cioè la lotta fra il feudo da una
parte e la nuova coscienza dei contadini che crede di poter profittare delle terre incolte ed
anche delle maggiori libertà conquistate. I quattro quinti del territorio di Roccagorga
appartengono al principe.
Voci: Chi è il principe
Campanozzi: È la casa Doria Pamphilj. Il principe è minorenne, e l’amministrazione è tenuta
da Don Fabrizio Colonna, che è rinomato per il suo spirito liberale e democratico3.
I contadini di Roccagorga per andare a lavorare debbono sobbarcarsi a una fatica enorme.
Gran parte di essi si alzano a mezzanotte, fanno quattro ore di cammino per andare sul posto
di lavoro (moltissimi di loro vanno nelle paludi di Sezze e nelle paludi di Terracina),
attaccano all’alba, staccano alle due pomeridiane e ritornano alle oro casette per mangiare un
piatto di granturco. Le donne guadagnano mezza lira al giorno e anche venticinque centesimi
quando il proprietario dà loro un piatto di granturco. E quei poveri contadini che riescono ad
avere contratti vantaggiosi, come la così detta cesa franca, che è una specie di enfiteusi
temporanea, debbono mettere a profitto le braccia dei loro figlioli per pagare il canone
gravissimo e per rimediare a stento un poco di minestra.
Onorevole colleghi, il feudo affamatore è la causa determinante di queste agitazioni pubbliche
in Ciociaria, come fu la causa determinante delle agitazioni pubbliche, e perciò degli eccidi,
ma nella mia Sicilia venti anni fa. L’altra causa è l’amministrazione comunale. Quella di
Roccagorga rispecchia un po’ il tipo di tutte le amministrazioni comunali dei paesi rurali del
Mezzogiorno. E’ la consorteria dei piccoli borghesi che si impingua nei bilanci comunali, nei
dazi di consumo, nelle esattorie, negli impieghi, in tutto ciò che può produrre un pubblico
3
In realtà il principe era diventato maggiorenne nel marzo del 1907 e il 28 dello stesso mese diventò
amministratore del suo patrimonio. Perciò questa notizia si riferisce ad una situazione superata ma, forse, si
vuole mettere in evidenza che l’amministrazione di casa Doria non era proprio del tutto chiara.
30
provento, mentre le plebi agricole sopportano balzelli gravosi, mancano d’acqua, di luce, di
strade, di scuole, spesso di medicinali, viceversa sono gravate dalla tassa focatico che è
applicata con un sistema progressivo alla rovescia.
Scusa, scusa, Pier Giulio. Puoi fermarti un attimo?, interviene Jan. Cos’è questa storia
del lavoro alle paludi? Ne volete parlare? Se ne parliamo adesso, replico a Jan,
rischiamo di perdere il filo del discorso. Però, se vuoi, abbiamo del materiale prodotto
da Giuseppe Centra e potrai leggerlo con calma dopo. Ora appesantirebbe il discorso e
ci porterebbe fuori strada. Va bene, se è così faro come dici. Me lo leggerò dopo,
risponde. Pier Giulio, vuoi riprendere la lettura, dico; e Pier Giulio riprende a leggere.
Prego la Camera di volermi ascoltare sull’eccidio di Roccagorga, perché la versione che darà
il governo è la versione delle autorità locali che hanno partecipato all’eccidio.
Dopo il comizio del 6 gennaio avvenne l’incidente della bandiera a cui ha accennato l’on.le
Bentini, incidente che produsse irritazione nella popolazione, la quale voleva rinnovare la
protesta contro l’amministrazione comunale. L’on. Falcioni sa bene che la popolazione sulla
questione del medico condotto era già stata accontentata in parte; in quanto il commissario
prefettizio aveva riconosciuto fondatissime le lagnanze della popolazione, tanto è vero che
aveva obbligato il dr. Garzia a domandare due mesi di congedo per poterlo, licenziare nelle
dovute forme legali. Poiché i due mesi di congedo non rappresentavano un nuovo favore che
l’Amministrazione comunale faceva al dottor Garzia, ma rappresentavano un preavviso di
licenziamento. E quel tale Dante Mucci, direttore della Società Savoia, l’aveva ampiamente
spiegato e illustrato, nel suo discorso alla popolazione. Senonché la popolazione non era
contenta di questa modesta soddisfazione e domandava che si colpisse la causa prima di tutte
le sue miserie, che era il Comune. Il Comune di Roccagorga rappresentava l’amministrazione
generale della casa Doria Pamphilj. Mentre quest’ultima possiede i quattro quinti del territorio
di Roccagorga, il Sindaco Rossi amministrava il comune e nello stesso tempo questi quattro
quinti del territorio di proprietà della casa Doria Pamphilj
Il Sindaco Rossi entrava fra gli interessi dei contadini e quelli del principe, da arbitro, pur
facendo il sindaco del paese; e così i contadini erano stati più volte danneggiati non soltanto
nella pubblica finanza, ma anche nei loro diritti di usi civici. Perciò la collera non era tanto
contro il medico, ma era contro l’Amministrazione Comunale. La verità dell’eccidio è questa.
L’on. le Campanozzi ricostruisce le fasi dei tafferugli, il lancio delle pietre da parte di poche
donne e di pochi ragazzi, la carica, al grido di ‘Savoia!’, della fanteria, la sparatoria sulla folla
inerme, ricordando come le indagini erano state condotte con determinata crudezza da parte
delle autorità inquirenti. Poi conclude il suo intervento così.
Una cosa ripetiamo: il Governo compie un delitto contro se stesso. Le nostre popolazioni
hanno ancora fiducia nella sua suprema giustizia. Il nome dell’onorevole Giolitti è popolare
ed amato. Ma non si può pretendere a lungo amore e fiducia con il disprezzo e con la
mitraglia. I fatti di Roccagorga possono essere solo cancellati da una immediata opera di
epurazione e di giustizia. Il loro clamore è giunto oltre i Lepini e si diffonde nelle vallate e fra
i monti”.
Interrogazione dell’on. le Eugenio Chiesa.
È un senso di angoscia che afferra alla gola quando si constatano gli effetti della micidiale
repressione di fronte alle condizioni di inferiorità civile di quella povera gente, vessata dal
padrone, dall’amministratore, dal sindaco, dal medico e dal prete, senza speranza né di
giustizia, né di redenzione.
31
Il piccolo paese di Roccagorga è e rimarrà sempre tipico esponente di tutta una condizione
tristissima della vita italiana. A cento chilometri dalla capitale siamo in piena barbarie”. L’on.
Chiesa non trascura di denunciare il pesante passivo del bilancio comunale, denuncia
l’irrisorio pagamento della tassa di famiglia da parte del Sindaco Rossi, quella del medico
Garzia: un vero scandalo ed uno dei motivi della sommossa popolare.
È in questo ambiente di dolore che si è maturata la tragedia del 6 gennaio 1913. Che nessun
malanimo esistesse nella folla lo prova il fatto che alle 10 e mezza del giorno tragico, quando
arrivò il reparto di truppa del 59 Fanteria, fu applaudito. Roccagorga è un paese dove a
memoria d’uomo non si ricorda un fatto di sangue, un popolo pecorone mi si è qualificato. Si
emigra per miseria, si ritorna per amore al paese natio e si vive da ignoranti e sottomessi. Ma
ci furono i sobillatori, dice l’autorità. Vediamoli in faccia.
L’on. Chiesa parla a questo punto della Società Agricola Savoia, del suo statuto, del direttore
Dante Mucci, della carica dei carabinieri, delle dichiarazione del delegato Rossi. Racconta del
ferimento dei soldati, della premeditazione, della responsabilità del Sindaco e del tenente
Gregori e al temine del suo intervento snocciola l’elenco dei morti e quello dei feriti. Poi così
conclude:
Ringrazio la Camera di aver ascoltato la sommaria mia esposizione. La ringrazio perché io
vorrei che nell’animo di ciascuno di noi entrasse la persuasione che occorre provvedere alla
condizione di tanti comuni d’Italia. Roccagorga avrà servito a qualche cosa, e il sangue di
quella povera gente avrà fruttificato su zolle incolte. Quanto al governo, badi al da farsi. Sono
cose che amareggiano l’animo e il cuore di tutto il popolo: ma badate che voi mettete le vostre
istituzioni in pericolo.
Interrogazione dell’on. le Ivanoe Bonomi
Onorevoli colleghi, qual è il carattere di questi tumulti di folle? La folla, appena ha la
sensazione esatta del pericolo a cui si espone, fugge e si disperde. Se la folla avesse in animo
di provocare e di iniziare una vera e propria e durevole sommossa, risponderebbe al fuoco col
fuoco, e alzerebbe contro i fucili le barricate.
Per esempio, tornando al tema luttuoso che è argomento della nostre interpellanze,
quell’ufficiale che a Roccagorga ha ordinato il fuoco contro la folla ed ha seminato di morti e
di feriti, di donne e di bambini boccheggianti le vie del paese, quell’ufficiale avrebbe potuto
benissimo ordinare alle sue truppe di sparare in alto. Nessuno noi qui dentro potrà contestarmi
che il solo rombo dei fucili, avrebbe avuto, agli effetti dell’ordine pubblico, lo stesso risultato
del fuoco diretto contro le persone.
Turati: . . il quale [sparare in alto, cioè, e non sulla folla] è proibito dal regolamento di polizia
..
[Bonomi:] Io credo piuttosto che egli abbia obbedito ad un altro sentimento non certo degno di
un soldato: alla paura, ed è questa la colpa, è questa la colpa che voi dovete presumere in
ogni conflitto, e che voi quindi dovete ricercare e punire.
Noi fedeli alle tradizioni migliori del socialismo italiano, continueremo a combattere le
riviviscenze dell’antica anima italica, intollerante, violenta, ed impulsiva; noi ‘poliziotti della
civiltà’ come ci definiva Filippo Turati, persuaderemo il popolo che esso ha nelle sue mani
l’arma più formidabile che sia consentita ad un popolo libero, il suffragio universale.
Ora, come promesso, vediamo la situazione come è ricostruita in una ricerca recente. Vi
propongo di prenderla dal libro di Allatta e De Meis. Va bene? Sì.., sì, mi rispondono.
Ma chi legge? dico rivolto ad Alessandra Gigli. Va bene, risponde, ma indicatemi le
pagine, perché qui mi sembrano troppe. Ci vorrebbe un’intera giornata. No, risponde
Lorella, comincia dal paragrafo 7 del capitolo secondo.
32
I ruoli dell’amministrazione comunale – esordisce Alessandra - erano generalmente ricoperti
da persone legate al sindaco Rossi e originarie del paese, ad eccezione del ruolo del medico e
di segretario comunale svolti dal dottor Almerindo Garzia e da Domenico Rossi.
Le incomprensioni intercorse con qualche autorevole membro dell’amministrazione comunale
avevano portato il medico a presentare le dimissioni, accolte dal Consiglio Comunale con il
voto unanime degli undici intervenuti, compreso quello del sindaco Rossi, nella seduta del 9
ottobre del 1904. Ma durante il Consiglio del 23 aprile 1905, su proposta del Consigliere
Giulio Nardacci, fu deciso di persuadere il dott. Garzia, noto per le sue ottime qualità
professionali e per la fiducia raccolta nella popolazione, a ritirare le dimissioni acquisendo
nell’anno la stabilità del posto.
Garzia assunse anche i prestigiosi incarichi di Giudice Conciliatore nel 1906 e di Presidente
della Congregazione di Carità nel 1907. Con l’esercizio delle sue molteplici funzioni di medico, di Giudice Conciliatore e di Presidente della Congregazione di Carità, il dottor Garzia
aumentò il proprio prestigio e potere, in un paese caratterizzato da immobilismo, tutela degli
interessi economici di alcune famiglie e da consuetudini radicate.
L’esercizio del ruolo di Giudice Conciliatore creò motivo di attrito tra Garzia e il Consigliere
comunale Dante Mucci che fu accusato di aver oltraggiato il medico durante le udienze del 16
e del 23 giugno del 1906 nella Sala di conciliazione di Roccagorga.
La presenza del forestiero, le sue competenze, l’estraneità alle dinamiche radicate del paese e
il suo carattere furono un elemento di rottura tra la popolazione. Il medico-giudice
conciliatore non era visto di buon occhio da parte di alcuni che si sentivano minacciati dalle
sue continue relazioni di denuncia inviate agli organi competenti per evidenziare
inadempienze e pratiche scorrette.
Lo stato di abbandono in cui versava la Congregazione di Carità, dalla negligenza nella tenuta
dei bilanci, alla mancanza dei documenti d’archivio per giungere alla scarsa trasparenza nei
rapporti con il farmacista locale, determinati dalla precedente gestione dell’Ente a cui era
legata l’economia e l’assistenza degli abitanti più poveri del paese, impediva di individuare i
beneficiari dell’opera di assistenza, il tipo di gestione attuato e la qualità dei risultati ottenuti.
In particolare il costo dei medicinali, acquistati dalla Congregazione di Carità dal farmacista
di Roccagorga, Francesco Amato, risultava eccessivo rispetto al tariffario ufficiale, prodotto
dal dottor De Angelis, farmacista di Priverno e non veniva praticato lo sconto del 25%,
previsto a favore degli Enti, riducendo così la possibilità di acquisto dei farmaci destinati ai
meno abbienti.
Dall’aumento di stipendio concesso a tutti i dipendenti comunali nel 1908 venne escluso il
medico per il quale il Comune respinse le modificazioni richieste al capitolato, generando un
contrasto con i componenti del Consiglio Comunale, sostenuti anche dal ricorso dei cittadini
inviato al Sotto-prefetto contrario alle richieste del Garzia del quale si richiedeva il
licenziamento.
Un’ispezione del medico provinciale, effettuata nel corso della controversia tra il dr. Garzia e
l’amministrazione comunale, constatò che le manifestazioni di contrarietà verso il medico
derivavano dalle sue decisioni adottate quale Giudice Conciliatore; egli infatti aveva
lamentato e reclamato contro le pessime condizioni di tenuta e di esercizio della farmacia. La
Giunta Provinciale Amministrativa, organismo di controllo degli enti locali, espresse poi
parere favorevole alla sua richiesta di miglioramenti economici, e in seguito gli fu
riconosciuto d’ufficio l’aumento di stipendio da lui reclamato.
La disposizione non impedì all’Amministrazione Comunale di Roccagorga di mantenere un
atteggiamento ostile verso il riconoscimento di diritti sanciti dal Consiglio Provinciale di
Sanità nei confronti del dottor Garzia, dimostrando un’evidente ostilità verso il medico condotto e indisponibilità a rendere trasparente il rapporto di lavoro che già soffriva per il
mancato pagamento dello stipendio nei mesi in cui era stato assente per curare le conseguenze
di una lunga malattia.
33
Agli attriti con l’amministrazione si aggiungevano le proteste della popolazione per la
trascuratezza verso i malati poveri, per la premura nei confronti solo di quanti gli elargivano
regali, per la vendita di medicinali, per la richiesta che i bambini malati fossero condotti nella
sua abitazione per essere visitati, per la fretta con cui svolgeva le visite, per la prescrizione di
farmaci senza la visita del paziente, per i modi poco educati utilizzati verso la povera gente,
per essere troppo venale e per approfittare della sua professione per tentare l’onorabilità delle
donne.
Durante l’inchiesta, effettuata per accertare gli addebiti mossi da una parte delle persone di
Roccagorga verso il medico, il commissario prefettizio Filippo Velli raccolse ventidue
dichiarazioni rese spontaneamente in Comune.
L’arroganza della gestione amministrativa si traduceva in lassismo nella gestione della cosa
pubblica e nel favoritismo verso i parenti beneficiari nell’attribuzione dei lavori disponibili
all’interno del Comune a discapito della trasparenza e rigorosità richiesta dalla popolazione,
in particolare da quanti avrebbero potuto accedere a quei ruoli. Velli rileva come “la
fisionomia del corpo rappresentativo può dirsi quella di un consesso unanimemente ligio ai
voleri del Sindaco e della Giunta, poiché, finora, la opposizione è stata rappresentata dalla
sola persona del Consigliere Mucci Dante”.
Le irregolarità riscontrate nell’inchiesta Velli erano numerose e riguardavano tutti i settori di
competenza comunale. Alle nomine del personale comunale assunto, deliberate dal Consiglio
Comunale e dalla Giunta, non fu riconosciuta la legittimità per non essere state mai sottoposte
al visto della Giunta Provinciale Amministrativa.
Per l’assunzione del fratello del sindaco in qualità di ricevitore del dazio, il Commissario
commenta: “ Mentre il Consiglio nominava il Rossi (fratello del sindaco), non si pronunciava
affatto sulle ragioni che indussero ad escludere dalla nomina il Pampanelli Orlando, che nella
domanda aveva dichiarato di prestare la propria opera, anziché per Lire quaranta, per Lire 20
mensili”.
Nella sua inchiesta Velli rileva che la gestione della cosa pubblica era del tutto “familiare”,
cosa evidente agli occhi della popolazione. Dice ancora Velli: “nel 1910 lo stipendio del Rossi
fu portato, e naturalmente anche pagato, in ragione di annue Lire 1.625” .
L’elezione del sindaco Vincenzo Rossi, confermata ininterrottamente per quattro mandati dal
1902, esprime l’equilibrio raggiunto tra gli interessi delle famiglie elettoralmente rilevanti e
l’operato del potere amministrativo.
L’incarico di amministratore locale degli interessi della famiglia Doria da parte di Rossi fu
legittimato e confermato dai suoi elettori che lo esprimevano come consigliere comunale e dai
consiglieri che lo votavano quale sindaco. Il conflitto di interessi tra il ruolo di amministratore
del feudo e il ruolo amministrativo del sindaco, entrambi svolti dalla stessa persona che
assolveva al compito di controllato e controllore, accentuò le difficoltà e le problematiche
della popolazione.
Da un lato il ceto emergente e benestante collegato all’amministrazione comunale, dall’altro
gli esclusi: il popolo non rappresentato né tutelato nella rivendicazione dei propri diritti di
legnatico, pascolo e coltivazione delle terre, previsti dalla Transazione del 1751,
approfondirono le divisioni. Gli elementi di controversia per il disconoscimento dei diritti
della Comunità e la loro restrizione produssero la reazione dei contadini con le rivendicazioni
sostenute dai maestri, dagli emigranti rientrati, dai piccoli commercianti e dai piccoli
proprietari.
Nel Censimento del 1911, l’incremento, nell’arco degli ultimi dieci anni, di sole 117 persone,
indica la difficile situazione economica della parte meno abbiente della popolazione.
Dal Censimento del 1911 la popolazione di Roccagorga risulta composta, oltre che da
contadini e braccianti, anche da qualche commerciante e piccolo borghese. I gruppi sociali
apparivano ben distinti tra loro sia per il censo che per il grado di istruzione conseguito. Gli
alfabetizzati maschi erano 368, gli aventi diritto di voto erano i ventunenni capaci del reddito
34
stabilito e in grado di provvedere al pagamento di imposte per l’ammontare fissato dalla
legge.
Solo un’esigua minoranza della popolazione esprimeva i consiglieri comunali che, a loro volta
in seno al Consiglio, decidevano chi dovesse assumere la carica di Sindaco, eletto a scrutinio
segreto tra i suoi componenti. Il mandato triennale del sindaco poteva essere sempre rinnovato
purché egli conservasse la qualità di consigliere. I consiglieri comunali inoltre sceglievano i
membri della Congregazione di Carità e spesso ricoprivano incarichi in entrambi gli enti.
Sia prima, nelle interrogazioni dei deputati, sia ora, nell’intervento letto da Alessandra,
viene nominata la Ciociaria, dice Jan a questo punto. Cos’è? Una provincia? Sì,
interviene Florian, noi che siamo venuti da poco a Roccagorga, non riusciamo a capire.
Potete aiutarci?
La Ciociaria, rispondo, è un’area del Lazio meridionale. Coincide con l’attuale
provincia di Frosinone e, allora, vi erano inclusi i comuni di Prossedi, Roccasecca dei
Volsci, Priverno, Sonnino, Maenza e Roccagorga. Questi ultimi avevano come comune
capo mandamento Priverno. Si può vedere bene su una carta geografica. Cetty, per
favore puoi far girare la carta del Lazio dove è cerchiata l’area della Ciociaria? E mentre
la carta gira, continuo: poi, con la bonifica della Paludi pontine e la fondazione delle
città nuove (le più vicine a noi sono Latina, Pontinia, Sabaudia), è stata creata nel 1934
la Provincia di Littoria – ora Provincia di Latina – e questi comuni furono aggregati alla
nuova provincia. Da allora, essi gravitano su Latina. Le relazioni con Frosinone nel
corso del tempo sono divenute meno intense, anche se, per molte cose, da Roccagorga si
preferisce arrivare a Frosinone piuttosto che a Latina.
Perciò non è difficile capire che la situazione di Roccagorga è simile a quella di altri
comuni della Ciociaria. Ora, se volete possiamo leggere la tesi di A. Schiavi dedicata
alle lotte contadine in quest’area. Lasciamo da parte, però, tutto il discorso economico.
Concentriamoci sui tentativi di organizzazione politica. Chi vuole leggere? Andrea? Sì,
è meglio che legga io, perché nel testo ci sono tante cose non ancora ben definite e le
conosco solo io. Leggendo, magari, le salto. E così comincia.
Le lotte contadine in Ciociaria all’inizio del XX secolo
Nei primi anni del Novecento non sono mancati tentativi di cerare organizzazioni politiche in
Ciociaria: ci proverà l’area socialista romana e la Camera del Lavoro di Roma, ma senza
molto successo. Risultati più duraturi ottiene invece Giuseppe Ballarati, un uomo che ha speso
tutta la sua esistenza a difesa del contadino.
Una colpa imperdonabile dei nostri contadini è la ripugnanza che essi hanno ad associarsi:
colpa che per loro è base d’ignoranza e di gravi danni. Ognuno vive per sé: lontano dagli altri
per mesi e mesi: mai tra di loro si sente un discorso di classe; difficilmente il tema si aggira
intorno allo sviluppo dei propri diritti; quanto sentono che altri parlano dei loro diritti essi si
agitano; le nuove leggi sociali, la tutela sugli infortuni, la cassa di previdenza, il diritto alla
casa, l’assistenza ospedaliera sono per loro utopie. Se i contadini capissero l’importanza
dell’organizzazione (essi che rappresentano i tre quarti della popolazione italiana)
costituirebbero una potenza a loro adesso nascosta e inimmaginabile” (Ballarati).
Possibile che milioni di contadini devono sopportare con rassegnazione le loro sventure senza
che ci sia un mezzo con il quale migliorare le loro condizioni economiche e sociali? Questo è
quello che probabilmente Giuseppe Ballarati4 pensa ogni volta che vede al lavoro i coloni nei
4
Nasce l’8 aprile 1863 a Valmontone. Figlio di Achille, un ufficiale garibaldino appartenente alla ricca classe di
proprietari terrieri del paese in seguito anche primo cittadino della città.
35
suoi terreni. È vero, Ballarati è un proprietario terriero, ma non di quella “razza” di cui ci
siamo occupati fino ad ora: i suoi lavoratori sono invidiati da tutti gli altri per come sono
trattati. Questo è il motivo che ne fa un personaggio discusso, di primo piano, estremamente
popolare. Appena chiamato alla vita amministrativa della sua città, Valmontone, inizia una
forte battaglia per rivendicare i diritti civici spettanti alla popolazione, a discapito dell’opera
di affrancazione della famiglia Doria, grande possidente locale. Una lotta lunga ed estenuante,
iniziata negli ultimi anni dell’Ottocento, che si protrae fino a dopo il primo conflitto
mondiale.
Nel 1903 si arriva a una svolta: alla popolazione di Valmontone sono ridistribuiti ben 1.400
ettari di terra per diritto di pascolo, legnatico e semina.
L’artefice di questo successo è il Ballarati: da qui, a suo avviso, deve ripartire la riscossa della
classe contadina di tutto il Lazio Meridionale. Come? In primis è necessario che l’eco di quel
risultato arrivi all’orecchio di quanti più contadini possibili. Il modo migliore per farlo è
attraverso la propaganda a mezzo stampa: La difesa del contadino5 sembra il titolo che meglio
calza ad un giornale che si prefigge questo scopo. Il primo numero vede la luce nella
tipografia Labicana-Valmontone, il 15 febbraio 1906. Sulla prima pagina del numero
inaugurale è messo in chiaro da subito lo scopo che si prefigge: aumentare la forza dei
contadini creando un blocco unitario al di sopra delle diverse ideologie politiche. Questo è il
testo originale:
Quando il nostro giornale sarà letto da tutte le migliaia di compagni nostri acquisterà
tale forza, avrà tale voce potente che si farà ascoltare e temere da tutti [...]. Ai nostri
giorni non contano più le chiacchiere, ci vuole la stampa: i discorsi sono ascoltati da
pochi che li ammirano e poi li dimenticano. Il giornale invece va per le mani di tutti ed è
letto con interesse e conservato.
Può sembrare per certi versi controproducente usare il metodo della carta stampata per
rivolgersi ad un pubblico per la stragrande maggioranza analfabeta. Al contrario in questa
scelta è insita l’altra grande battaglia del Ballarati: l’istruzione come mezzo indispensabile di
riscatto sociale e umano. Ogni volta che può, “l’avvocato” (com’è chiamato nel suo paese,
anche se non termina mai gli studi di giurisprudenza) sottolinea sempre nei suoi scritti
l’importanza di mandare i figli a scuola, anche a costo di sacrifici economici. Infatti,
nonostante la legge Coppino6 del 1877 sancisca l’obbligatorietà dell’istruzione elementare
fino ai nove anni, la scarsità delle scuole e la loro lontananza rendono difficile la frequenza,
soprattutto nelle località di campagna. Non solo, a tenere lontano i bambini dalle aule è
soprattutto la necessità per la famiglia contadina di non poter rinunciare a nessun dei suoi
membri per il lavoro nei campi, specialmente se non ci si può permettere l’assunzione di altri
braccianti. Per questi motivi l’istruzione rimane un bene non accessibile a tutti, secondario
alla necessità di poter garantire almeno la sussistenza economica della famiglia stessa. Senza
istruzione i contadini difficilmente avrebbero capito l’importanza di organizzarsi e di
5
La Difesa del Contadino, pubblicato dal 1906 al 1919, è composto da quattro pagine dalle dimensioni di cm.
54x38; inizialmente a tre colonne per poi cambiare veste grafica passando ad un numero di quattro colonne nel
secondo anno di pubblicazione, consentendo al periodico di occuparsi di una maggiore quantità di argomenti.
L’uscita del giornale rimane bimensile fino al 1911 quando, con un vero e proprio plebiscito dei lettori, diventa
settimanale. Generalmente la prima pagina si occupa delle notizie di maggiore importanza, legate sia a eventi
locali che nazionali: nelle due pagine interne compaiono diverse rubriche, di cui una dedicata agli emigranti. Ci
sono poi i racconti, il calendario, le spigolature. Nell’ultima pagina infine la posta, la pubblicità e le poesie. Il
giornale, prettamente apolitico, è finanziato dai suoi stessi lettori; dopo il primo periodo di rodaggio arriva a
collezionare 11.000 abbonamenti. La difesa del contadino riuscirà nel giro di qualche anno a raggiungere la
maggior parte delle case dei contadini a sud di Roma.
6
Emanata sotto il governo di Agostino Depretis, periodo di governo della Sinistra Storica, portava a cinque le
classi della scuola elementare; il servizio è gratuito e le spese per il mantenimento rimangono a carico dei singoli
comuni.
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associarsi: dalla miseria deriva l’ignoranza, dall’ignoranza la disorganizzazione, dalla
disorganizzazione lo sfruttamento. Un’equazione immutabile.
Secondo il Ballarati sono le stesse forze politiche, complici di questo stato di cose, a non
permettere il progresso della classe contadina, così che rimanga oggetto meglio manovrabile
per i loro scopi. Inoltre, quale enorme spreco di tempo per la classe politica occuparsi di
questo problema, visto che non se ne gioverebbe neanche da un punto di vista elettorale? Il
contadino, almeno fino alla riforma del 1912, rappresenta una percentuale irrisoria
dell’elettorato.
Se in Italia la classe dirigente post-unitaria non ha mai preso realmente in considerazione il
problema agricolo e degli agricoltori, occorre che i contadini lo facciano loro stessi. Il
Ballarati suggerisce il modo:
Si uniscano dunque i contadini, formino delle leghe forti e fiorenti… e solo allora essi
potranno migliorare le loro condizioni, e tale miglioramento si ripercuoterà sulle
condizioni dell’agricoltura italiana, sia perché le migliorate sorti dei contadini
permetteranno ad essi di lavorare più e meglio, sia anche perché, divenuta la classe dei
contadini forte, potrà pretendere una vera legislazione agraria che manca a tutto
vantaggio dell’economia nazionale…da loro stessi pensino alla loro rigenerazione
morale, materiale ed intellettuale.
Associazione, federazione, lega, consorzio, alleanza, sodalizio: trovare la formula migliore da
un punto di vista lessicale è solo un esercizio di stile. È l’obiettivo che deve essere certo,
indiscutibile, incontrovertibile: l’unione dei contadini. Un vincolo essenzialmente economico,
avulso da qualsiasi tendenza politica: in esso dovrebbe potersi trovare d’accordo il socialista,
il clericale, l’anarchico e il repubblicano. A loro il Ballarati non chiede di rigettare la propria
visione politica, ma semplicemente di allearsi per interessi “professionali”. Non mancheranno
nel corso della sua vita prese di posizione e frequentazioni in forte contraddizione con questa
pretesa di apoliticità. Come ogni uomo che vive all’interno di una società, anche il Ballarati
matura idee politiche proprie: un personaggio a metà strada tra la dottrina socialista, fedele al
collettivismo agrario, e quella a difesa della piccola proprietà come fase antecedente alla
gestione collettiva, sempre ben distante dallo statalismo imprenditoriale.
Egli persegue l’idea che i contadini debbano organizzarsi in Università Agrarie, come forma
di gestione collettiva dei terreni agricoli, arrivando a sviluppare un tessuto connettivo che
riesca nella creazione di una Federazione delle Università Agrarie. Le parole del Ballarati
trovano orecchi attenti soprattutto nel comprensorio romano, che vedrà fino al 1910 il
proliferare del fenomeno del collettivismo agrario: al congresso dell’11 dicembre 1911
tenutosi a Rocca di Papa, si registra la presenza di numerosissime università agrarie della
Sabina, del Viterbese e dell’Agro romano7. Assente l’intera area della Ciociaria che sembra,
fino al 1911, esclusa da questo processo di cui il movimento contadino romano è protagonista.
Eppure, all’inizio del XX secolo, le condizioni dei contadini ciociari non sembrano per niente
migliorate, anzi tutt’altro: i diritti civici sono dappertutto limitati, la pressione fiscale è
altissima e, con quel poco che si guadagna, si rasenta a malapena la sussistenza. Nonostante
questo, gli esattori comunali continuano a dimostrare nessuna sensibilità per i drammi umani
che la povertà comporta:
Contro l’umanità e contro la legge, i messi esattoriali sequestrano illegalmente conche e
caldarozze ai contadini contravvenendo all’art. 585 del Codice di procedura civile che
7
Sono presenti le Università agrarie di Cesano, Anguillara Sabazia, Cretone, Casape, Rignano Flaminio, Marano
Equo, Carbognano, Campagnano, Castelchiodato, Grottaferrata, Manziana, Gallicano, Mentana, Morlupo,
Moricone, Montecelio, Montelibretti, Magliano Pecorareccio, Monteflavio, Valmontone, Monterotondo,
Mazzano Romano, Olevano Romano, Labico, Oriolo, Percile, Bassanello, Riano, S. Oreste, Scrofano (oggi
Sacrofano), Civitella D’Agliano, Canino, Farnese, Ronciglione, Terrennano, Vetralla, Bassano di Sutri,
Valentano, Piglio, Cisterna, Tolfa, Cutone, Sipicciano, S. Giovanni Reatino, Ornaro, Belmonte, Sermoneta,
Roccalvecce, Lariano, Canneto, Faleria.
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recita testualmente: “non possono essere pignorati gli utensili necessari per preparare il
cibo”... I contadini sono spesso morosi per la tassa focatico e la tassa bestiame...
l’esattore spiega uno zelo brutale espropriando persino ciò che la legge obbliga a non
toccare... si è trovata una scappatoia: i messi restituiscono gli utensili solo dietro
versamento di 3 o 4 lire (rimborso spese di esecuzione) che essi intascano, guadagnando
così quello che non percepiscono dagli esattori. Ma il debito dei contadini verso il
comune del focatico, del bestiame, resta!
Seppur le manifestazioni di protesta contro le amministrazioni comunali, nel periodo dal 1905
e il 1911, manterranno un ruolo sporadico, occasionale, ciò non toglie che esse rappresentino
comunque una costante nel territorio. La differenza sostanziale di questi anni rispetto ai
precedenti viene proprio dall’apporto della figura di Giuseppe Ballarati che, divenuto il
paladino della riscossa del mondo contadino, permetterà lentamente all’opinione pubblica di
prendere seriamente coscienza del problema agrario. Sintomo di questa consapevolezza sono i
primi tentativi d’intrusione nel dibattito pubblico di quei politici ciociari che in quegli anni
cominciano a legarsi più fortemente al socialismo romano. Su tutti, il più influente, l’avv.
Domenico Marzi8. Un’ingerenza politica che mina però i propositi di apoliticità dettati dallo
stesso Ballarati: anche la sua decisione di far aderire le leghe contadine alla Camera del
Lavoro9 di Roma, trova adesioni tra gli operai ciociari, è vittima dello stesso paradosso.
Contemporaneamente le popolazioni ciociare continuano l’assedio alle case municipali,
facendo pesare la loro presenza non solo nei giorni di festa ma anche durante la settimana,
indice della priorità che il problema ha assunto. Solo però con l’avvento di nuovi protagonisti,
le leghe contadine, le loro rivendicazioni diventeranno ancor più risolute.
Primi fra tutti ad organizzarsi sono i contadini di Paliano, operativi fin dal febbraio 1905,
quando partecipano al congresso delle leghe contadine del Lazio a Roma, con un ordine del
giorno comprendente l’abolizione della legge del 1888 sulle affrancazioni. Sempre a Paliano,
l’8 maggio 1905, gli aderenti alla Lega invadono la tenuta di Collerampo, su cui gli abitanti
godono da sempre il diritto di pascolo, dopo la decisione dell’amministrazione comunale di
vendere l’erba a privati; di lì ai giorni seguenti i leghisti entrano in conflitto più volte con i
carabinieri, fino all’arresto di sei di loro. Il processo si svolge a Frosinone il 17 giugno,
quando il capolega è assolto da ogni reato e gli altri cinque sono condannati alla mite pena di
un mese di reclusione e 20 lire di multa. Gli imputati sono difesi dagli avvocati socialisti
Volpi e Marzi. Qualche anno dopo, a seguire l’esempio di Paliano, sono i contadini di Alatri,
Piglio e Serrone che partecipano come Leghe contadine organizzate al congresso laziale del
30 maggio 1909; alla fine dei lavori è votato l’ordine del giorno Ruini-Urbani che sancisce la
costituzione di un ufficio delle leghe laziali a Roma che provveda a: dirigere tecnicamente la
coltura e a impartire l’istruzione agraria ai lavoratori dei domini collettivi; favorire il sorgere
di cooperative d’acquisto, di vendita e di coltivazione collettiva curandone la direzione
amministrativa e contabile; provvedere alla costituzione delle Università Agrarie ed alla loro
integrazione col principio cooperativo, con consulenza legale alle popolazioni in materia di
diritti civici.
Nel 1910 si verifica una svolta nell’andamento delle lotte contadine della Ciociaria: dalla
resistenza spontanea si passa gradualmente all’azione organizzata. Le leghe contadine si
moltiplicano e, trovando man forte nell’opera del Ballarati e nel gruppo del suo giornale,
passano dalla difesa all’attacco. A Morolo, Alatri, Castro dei Volsci, Vallecorsa, Amaseno,
8
Nato a Priverno il 28 dicembre 1876, compie gli studi universitari a Roma; vive a Frosinone e aderisce al PSI
nel 1905, pur senza abbandonare la massoneria, alla quale è affiliato, come del resto altri numerosi socialisti. Dal
1911 fino al 1919 ricopre la carica di consigliere comunale e di assessore nel comune di Frosinone; collaboratore
de L’Avanti! è anche direttore del settimanale Il Popolano.
9
Nascono alla fine del XIX secolo come strumento di difesa della precaria situazione lavorativa di quegli anni,
segnata da sfruttamento e disoccupazione. Il loro primo congresso si svolge nel 1893 presenti 13 sedi di
tutt’Italia; esse rappresentano la base costitutiva della futura Confederazione Generale del Lavoro (CGIL).
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Patrica, Ceccano e Supino i contadini si organizzano nelle leghe: da quest’unione d’intenti
nasce, il 12 novembre 1911, la Federazione delle Leghe Ciociare, come necessità di mettere in
connessione l’opera di rivendicazione dei contadini del circondario con la solidarietà
reciproca. Quel giorno di buon mattino, i rappresentanti con i vessilli delle leghe locali si
ritrovano in piazza Garibaldi, a Frosinone, da dove muovono per raggiungere il teatro
Isabella10, luogo designato per il sorgere trionfale dell’organizzazione. Sul palco, oltre ai
rappresentanti delle leghe costituite, sono presenti il sindaco A. Vivoli, i professor Casali e
Sebastianelli, Domenico Marzi per la sezione socialista, il Ballarati e l’avv. Patriarca per La
difesa del contadino. Sono approvate pubblicamente le modalità con cui la Federazione
avrebbe da lì in poi diretto la sua battaglia:
-I contadini devono avviarsi man mano a far da sé, acquistando piena coscienza dei loro
interessi di classe e dei mezzi atti a meglio tutelarli.
-I contadini non devono lasciarsi forviare dalle insidie dei preti, proprietari e alleati dei
padroni, poiché non le leghe sono sorte con scopi anticlericali, ma i preti e i parroci hanno
invece fatto di tutto per distruggere le leghe con ogni mala arte e insidia.
-Stare in guardia perché la lega non faccia il gioco dei partiti locali, mirando invece a lottare
anche sul terreno politico-amministrativo per conto proprio, contro tutto e tutti, per il partito
della classe lavoratrice.
-Ogni contadino deve avere forte non solo il sentimento dell’organizzazione, ma anche quello
della solidarietà con gli oppressi delle altre regioni d’Italia e degli altri popoli pensando che
ognuno di essi appartiene alla grande famiglia del proletariato in lotta contro il comune
nemico.
Nella stessa seduta è decisa anche l’adesione alla Federterra11, alla CGL e sostenuta la
necessità di uno stretto rapporto collaborativo con la Camera del Lavoro di Roma: la scelta di
aderire alla Confederazione Generale del Lavoro desta perplessità tra alcuni aderenti, non solo
da un punto di vista politico, ma soprattutto per l’obbligo di versare una quota di 0,20 lire a
socio per l’adesione.
La prima battaglia reale della neonata organizzazione è la presa di posizione contro la “tassa
della vanga”, una tassa di esercizio che le amministrazioni comunali impongono ai contadini.
La Federazione assume così l’impegno di guida concreta nel cammino di lotta che la classe
contadina si accinge a fare: un risveglio che preoccupa non poco le autorità ecclesiastiche e
amministrative, in Ciociaria da sempre abituate a fare il bello e il cattivo tempo, inquietate
dall’avanzata leghista tra i contadini del circondario. Di lì alla fine dell’anno prenderanno
piede anche le leghe “bianche”: nel 1912 nel circondario di Frosinone se ne contano nove.
Nello stesso anno alla Federazione delle leghe ciociare si aggiunge quella di Sgurgola, con a
capo il cantoniere Antonio Maniccia: 128 soci ne entrano a far parte. Anche a Torrice e a
Veroli i contadini si danno un’organizzazione di classe. In una riunione tenutasi a Frosinone
l’8 aprile 1912 sono presenti i rappresentanti delle nove leghe del circondario: all’unanimità è
approvata la nomina a segretario delle Federazione di Achille Caimi.
Alza la mano Padiglione. Ora si capisce bene perché quello che fanno i contadini a
Roccagorga non è una cosa isolata. Loro fanno parte di questo movimento. Sì,
aggiunge, Giancarlo Nardacci: nel 1912 qualcuno da Roccagorga, il maestro Vittorio
Nardacci, collabora con il giornale di Ballarati, La difesa del contadino. Si capisce che
c’è un cambiamento di marcia, continua Padiglione. Puoi indicarcene gli aspetti più
importanti?, dice rivolgendosi ad Andrea.
10
Successivamente chiamato Politeama e poi cinema-Teatro Excelsior, ancora oggi esistente sebbene inattivo.
Anche Federazione nazionale fra i lavoratori della terra, è l’organizzazione sindacale fondata a Bologna nel
novembre 1901 volta al miglioramento delle condizioni dei coltivatori diretti.
11
39
In effetti, risponde Andrea, incoraggiati dalle soddisfacenti adesioni che la Federazione ha
raccolto, i contadini ciociari trovano la forza per passare al contrattacco e porsi in maniera più
incisiva all’attenzione pubblica.
A Patrica, la “lega di miglioramento” nasce il 15 ottobre 1911 con il preciso scopo della
mutualità, dell’abolizione dei patti di mezzadria imposti dai Colonna sui terreni in località
Tomacella e l’affermazione dei diritti di semina e di legnatico negli stessi appezzamenti e nei
boschi di proprietà comunale. L’obiettivo è raggiunto solo per metà: ci si accorda per i diritti
di semina ma non per il legnatico. Se il sindaco si giustifica con il bisogno impellente di
denaro per le casse comunali, i contadini, non paghi, si rivolgono direttamente alla
sottoprefettura di Frosinone, dove trovano rassicurazioni sulla risoluzione positiva della
controversia. È il 26 febbraio quando i leghisti apprendono la notizia che il sindaco ha dato
mandato agli esecutori di segare gli alberi in questione: per tutta risposta i leghisti si riversano
in massa a bloccare i lavori, per poi andare a chiedere conto al sindaco. Il municipio è difeso
da dodici carabinieri: il sindaco e i consiglieri sono assenti. Trovata un’entrata rimasta
incustodita, i leghisti entrano nell’edificio e lo occupano fino alle quattro del pomeriggio. Nel
frattempo i più esasperati hanno gettato carte, registri e qualche sedia dalla finestra: in strada
sono già pronti a farci un falò. Interviene la forza pubblica: negli scontri alcuni carabinieri
riportano contusioni. “Il municipio di Patrica è occupato militarmente”. Solo nel pomeriggio
arriva il sottoprefetto di Frosinone, messo in attesa fino all’arrivo dell’avv. Marzi. Si procede
con gli arresti: sessantasette leghisti compaiono davanti ai giudici del tribunale di Frosinone
con le accusa di aver sottratto e distrutto documenti custoditi presso la segreteria comunale, di
aver usato violenza contro gli ufficiali di pubblica sicurezza e di essersi sottratti all’arresto
con minaccia a mano armata di trincetto. La pena maggiore non supera i quarantacinque
giorni di detenzione. Le condanne non scoraggiano per niente i leghisti di Patrica: bisogna
affrontare anche la questione delle condizioni di lavoro che i proprietari impongono sui propri
terreni. Allo sciopero dei contadini patricani i Colonna rispondono impiegando dei crumiri di
Supino. Consci del danno economico che questa situazione arreca ai contadini di Patrica, il 13
marzo 1913 gli uomini della lega di miglioramento invadono le terre in questione e scacciano
i contadini supinesi. Per evitare le rimostranze di quest’ultimi, i leghisti promettono il
pagamento dei lavori di vangatura già fatti a patto che non mettano più piede in quelle
proprietà.
I supinesi ritornano così al proprio paese, dove la situazione non è certo migliore di quella di
Patrica; anzi. Il 25 agosto 1912 una grande manifestazione di massa a Supino invoca le
dimissioni della Giunta comunale: le porte del Comune sono chiuse e le chiavi consegnato
alle autorità. A sorpresa la Lega dei pastori, nata per volontà dei possidenti locali in funzione
anti-leghista, manifesta spalla a spalla con i suoi nemici dichiarati. Il clima è estremamente
teso e la tensione palpabile: immediatamente il paese è invaso da una compagnia di fanteria e
da 20 carabinieri. A settembre la situazione rimane la stessa: l’amministrazione, dopo le
dimissioni annunciate, siede ancora in consiglio e le richieste del popolo non sono tenute per
nulla in considerazione. Dalla Sottoprefettura non arriva nessuna notizia confortante per i
dimostranti che si preparano a tornare in piazza. È il 20 ottobre quando la folla torna ad
agitarsi: la forza pubblica è irrobustita fino a 180 militari. Tutta la vicenda è seguita con
estrema attenzione dal mondo politico locale, dal deputato ciociaro Vincenzo Carboni agli
esponenti socialisti Marzi e Patriarca. Negli uffici prefettizi tutto tace: non sembrano avere
intenzione di pronunciarsi per ora sullo scioglimento della Giunta. Il 10 novembre è il giorno
fissato per il terzo corteo pubblico per le strade del paese: nel frattempo la forza pubblica non
ha rilasciato il permesso perché ciò avvenga. I leghisti decidono comunque di portare il loro
vessillo in giro per il centro storico: tre persone sono immediatamente arrestate con grande
contrarietà di tutta la folla, che ne invoca il rilascio. La tensione sale e i militari imbracciano
le baionette per tenere a distanza la folla, che sembra voler passare dalle parole ai fatti. Così
succede: militari e manifestanti si scontrano, con decine di feriti da una parte e dall’altra.
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Il giorno seguente, Supino è un campo di battaglia: in strada si vedono solo militari che
entrano ed escono dai loro alloggi e vanno avanti indietro per tutto il paese in continue
perlustrazioni e sopralluoghi. Il signor Modesti, commissario di pubblica sicurezza, dirige le
operazioni sul campo. Settantadue persone sono arrestate e sottoposte a processo con l’accusa
di aver usato violenza contro agenti della forza pubblica e di aver contravvenuto all’ordine di
scioglimento dell’adunanza12. L’eco di quei giorni arriva fino alla Camera dei Deputati, dove
l’on. Eugenio Chiesa13, in occasione del dibattimento sui fatti sanguinosi di Roccagorga,
ricorda:
A Supino sa lei (riferito a Giuseppe Marcora, Presidente della Camera) cosa accadde? Il
movimento delle leghe contadine protestanti fu trattato a sciabolate. Non vi furono
morti perché si contentarono di sciabolate. Sa ella perché il 10 novembre accadde
questo? Perché era stata denunziata al magistrato provinciale l’assenza continua del
sindaco, la direzione degli affari ad un assessore e, per esso, al prete Bernardi,
condannato per diffamazione, e condotta del segretario comunale, riprovevole sotto ogni
punto di vista, querelato e arrestato il 18 gennaio 1913. Perché non fu arrestato prima?
L’abilità sta nell’evitare questi conflitti dolorosi, dove avrebbero avuto torto quei di
Supino se il comandante della forza pubblica li avesse presi a fucilate.
L’opera della Lega ha scavato un solco indelebile in paese e per questo, il 15 settembre 1912,
i leghisti ottengono la più sperata delle vittorie: la “lista contadina” ottiene la maggioranza
assoluta in consiglio comunale, 15 seggi su 15. Telemaco Sperduti diventa il primo sindaco
contadino del Lazio.
Come a Supino, anche la lega contadina di Ceccano decide di levare la propria voce per
combattere i soprusi dei signori locali: nei terreni del padrone gli agricoltori percepiscono a
malapena la metà del prodotto e sono costretti a contribuire economicamente, con le imposte,
al pagamento della sorveglianza e di alcuni prodotti per l’agricoltura. Se a questo si
aggiungono gli aumenti delle aliquote comunali sul focatico, sul bestiame, sulla vendita del
latte e il non godimento dei diritti di legnatico e pascolo, si capisce bene come i contadini
siano arrivati all’esasperazione. In loro aiuto la Federazione delle leghe ciociare organizza, il
5 maggio 1912, una grande manifestazione contadina proprio a Ceccano. Sono presenti tutti i
rappresentati del movimento contadino ciociaro: dal segretario federale Caimi al Ballarati,
dagli esponenti socialisti Marzi e Patriarca ad una rappresentanza della lega infermieri del
manicomio locale. A fare gli onori di casa Pietro Colapietro, presidente della lega contadina
locale. Si contano 3000 contadini: gli assenti fanno sentire la loro vicinanza con telegrammi e
lettere scritte. Presenti anche i contadini di Lenola che, partiti dai lontani Monti Ausoni, hanno
camminato per ore e ore pur di assistere al grande evento. Ecco il commento più significativo
di quella giornata: “Quando circa 3000 contadini accorrono da valli e monti lontani attraverso
difficoltà di ogni genere per convenire a stringere più saldamente i vincoli di fratellanza e
solidarietà, si può con piena fiducia essere sicuri del loro avvenire”.
A Vallecorsa, il presidente della lega locale, Amedeo Lombardi, contesta all’amministrazione
il metodo con cui è applicato il focatico, l’asservimento totale ai poteri forti locali, l’indolenza
per l’appropriazione di beni pubblici da parte di privati e la mancata approvazione del
bilancio comunale. La lega intera si mobilita e organizza un corteo pubblico per il 10 maggio:
quella stessa mattina, i manifestanti constatano il rafforzamento delle forze dell’ordine allo
scopo di fiaccare all’origine qualsiasi tentativo di protesta. Così avviene.
A Morolo invece c’è tensione tra i contadini locali e gli amministratori di casa Colonna:
davanti alla consueta divisione a metà dei prodotti agricoli, i contadini ne reclamano i tre
12
A causa dell’impossibile comprensione del documento (la sentenza n. 451 dell’8 luglio 1913 in ASF, TF, SP,
b. 1343) non siamo in grado né di dare notizie di eventualità elementi venuti fuori dal dibattimento giuridico né
di affermare con precisione l’esito delle condanne.
13
Tra i fondatori del Partito Repubblicano, di cui è stato anche segretario, è eletto deputato nel 1904,
mantenendo la carica dalla XXII alla XXVII legislatura.
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quarti. Il malcontento è percepibile nell’aria e il pericolo di scontri è da prendere seriamente
in considerazione. Il 9 luglio 1912 da Roma arrivano 150 soldati; raggiunge il paese anche
l’avv. Marzi per difendere la causa dei contadini morolani. Niente da fare: la contrattazione
fallisce inesorabilmente. Difensore di casa Colonna è l’avv. Carboni, eletto deputato con
l’appoggio dei socialisti, a riprova di quanto detto sul trasformismo di molti politici locali. Di
lì a qualche mese i contadini di Morolo riprenderanno la protesta: il 24 novembre la lega
morolana convoca un comizio pubblico al quale aderiscono i rappresentanti di Arnara, Patrica
e Supino, più una delegazione socialista di Frosinone, per un totale di 150 persone. Punti
all’ordine del giorno: la necessità di intensificare l’organizzazione delle leghe per conseguire
miglioramenti della classe agricola e ridiscutere della divisione dei prodotti con gli
amministratori di casa Colonna. Inoltre, a firma del presidente della Lega di Morolo, Schiavi,
è inviato al Ministro degli Interni un telegramma di denuncia per i dolorosi fatti di Supino,
protestando contro l’atteggiamento del sottoprefetto e del delegato Modesti e invocando
provvedimenti riparatori.
Ad Arnara, il 17 novembre 1912, 100 leghisti manifestano pacificamente per le strade del
paese, per poi tenere un comizio alla presenza di 300 persone; nonostante l’invio di un
delegato di Pubblica Sicurezza, Luigi Mazzuco, e il rinforzo di quindici carabinieri, non si
registrano incidenti.
In molte località della Ciociaria a innescare negli animi la rivolta si aggiungono, oltre alle
questioni agrarie, tutta una serie di problematiche non secondarie: le pessime condizioni
igieniche sono tra queste. È quello che succede a Maenza, dove gli abitanti protestano contro
le multe per la trasgressione al regolamento di polizia urbana e d’igiene, continuando a gettare
le acque di rifiuto delle case per i vicoli. Nel paese esiste, sì, un sistema fognario, fin dal
1886, ma esso servo solo le vie principali, visto che la scarsità dei fondi non ha permesso di
estenderlo in tutte le parti del paese. I rifiuti continuano ad essere gettati in strada,
perpetuando così un serio problema igienico; inoltre, alle dipendenze del Comune lavora solo
uno spazzino e non restava che sperare nella pioggia per avere la pulizia necessaria alla salute
e al decoro di abitanti e paese. Nella tornata parlamentare del 17 febbraio 1913 è sempre l’on.
Chiesa a rilevare le precarie condizioni igieniche del centro lepino:
… è tale lo stato di sporcizia delle strade che si dura fatica ad attraversarle anche
quando il sole splende nel suo maggior fulgore; tanto restano bagnate dalle acque di
rifiuto che vengono buttate fuori dalle case nelle vie pubbliche, e tanto quell’altro
materiale di rifiuto che dovrebbe avere il proprio sfogo in quelle fogne che mancano! E
le amministrazioni, abituate ad una vita routinière che si risolve nella continua voluttà
del comando, dormono e della grossa!
In questo non aiuta neanche l’assistenza sanitaria offerta dall’amministrazione, poco incline
ad ascoltare i consigli del medico condotto. Sullo sfondo, sempre presente la questione degli
usi civici: fino allora i contadini avevano potuto esercitarli liberamente nel territorio
comunale, ad eccezione dei quarti erbatici che erano assegnati in appalto dal Comune
garantendo una minima forma di sostentamento economico. Adesso, con la politica di
affrancazione in atto, le dispute tra Comune e privati aumentano a dismisura,
compromettendo il godimento di quello che fino ad allora era un bene della comunità. La
contesa personale tra il medico condotto Giuseppe Del Duca, persona rispettata e benvoluta
da tutta la popolazione, e il sindaco Celestino Doria, è il casus belli che serve alla popolazione
per scendere in massa in strada e manifestare contro l’amministrazione.
È la sera del 4 marzo 1911 quando il corteo con in testa un gruppo di donne a bandiera
innalzata raggiunge il municipio con l’intenzione di dargli fuoco: il cordone di sicurezza è di
troppo inferiore nei numeri e l’unico modo per far desistere i rivoltosi è l’arresto di alcuni di
loro. Per tutta risposta dalla folla parte una fitta sassaiola sulla caserma e le urla per il rilascio
degli arrestati sono assordanti: la protesta va avanti per tutta la notte. Il giorno dopo arrivano
sul luogo da Frosinone il procuratore del Re e il giudice istruttore per dare avvio all’indagine:
42
nelle stesse ore da Roma arriva un consistente rafforzamento di truppa agli ordini del
commissario di pubblica sicurezza Ripandelli e del delegato Grippo. Sono immediatamente
arrestati e trasferiti nelle carceri mandamentali di Priverno: Isaia Macci, per mancato omicidio
con un colpo di revolver contro il carabiniere Pietro Soldani; Gaudenzio Macci; Antonio e
Pietro Paolo Coco; Domenico Salvagni; Giuseppe Soprani, per possesso di arma bianca. Nei
giorni seguenti si allungherà di molto la lista dei denunciati e degli arrestati. Non tanto
l’arrivo massiccio di soldati quanto le dimissioni del sindaco e della Giunta placano l’ira dei
maentini: ma si tratta solo di una vittoria di Pirro. Nella seduta del 27 maggio, a elezioni già
avvenute, Celestino Doria è di nuovo confermato sindaco; l’atto di rielezione, oltre a
confermare la fiducia in sede di Consiglio di un personaggio controverso come il Doria,
rimarca più che mai il reale scollamento tra la rappresentanza cittadina e i rappresentati
amministrativi, quale elemento innegabile e qualificativo di tutto il panorama della Ciociaria.
Il duro colpo della riconferma del sindaco si aggiunge a quello di cinque giorni prima, quando
il tribunale di Frosinone, in data 22 maggio 1911, ha condannato Gaudenzio Macci, Pierpaolo
Coco, Tommasina e Maddalena D’Onofrio, Rosa Nardacci e Isaia Macci a dieci mesi di
reclusione. Nonostante il ripristino dello status quo amministrativo e le condanne giudiziarie
partorite a Frosinone, la classe contadina è decisa a non fermarsi: nasce anche a Maenza la
Lega Contadini Operai, presieduta da Rocco Taggi che sarà eletto sindaco di Maenza nella
tornata elettorale del 1914.
L’intervento di Andrea ci fa capire bene che Roccagorga è parte di un movimento. I
comuni nominati: Morolo, Supino, Patrica, Sgurgola sono dietro le montagne che vedete
là, tra la Difesa e Maenza. Maenza, poi, confina con noi. Qualcosa dev’essere arrivato
qui.
Jan si inserisce nel discorso e osserva che in quasi tutte le lotte narrate si ritrova la
stessa struttura. Manifestazione in piazza e marcia verso la sede del comune. Infatti,
aggiunge Padiglione, se si guarda al ruolo delle donne durante le manifestazioni si
capisce che la scena di Albina Sacchetti che, con la bandiera in alto, guida il gruppo
verso il comune, sembra la Marianne di Delacroix14.
Eugène Delacroix, La liberté guidant le peuple, Parigi, Musée du Louvre
14
Jan si riferisce al dipinto di Eugène Delacroix, La libertà che guida il popolo esposto al Museo del Louvre.
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Chiedo poi a Carlo Felice Casula, storico del mondo moderno, di darci un suo
contributo per interpretare meglio quello che finora abbiamo narrato.
Con piacere - esordisce Carlo. Credo che dobbiamo inserire gli eventi di Roccagorga
nell’ambito delle lotte contadine del Lazio meridionale. Dobbiamo poi tenere conto di due
processi storici: se ricordate, dopo l’Unità d’Italia e soprattutto dopo il 1870, con la presa di
Roma da parte dello stato italiano, vi fu il non expedit; cioè la proibizione per i cattolici da
parte della Chiesa (per la precisione nel 1868 e poi ribadita nel 1874) di partecipare alla vita
pubblica. Qualcosa però, con Leone XIII, il Papa di Carpineto Romano, comune vostro
confinante, è cambiato. I cattolici, anche se ancora il divieto contenuto nel non expetit non è
stato ancora abrogato, cominciano a partecipare, certo tra indecisioni e contraddizioni, alla
vita politica italiana. Se ora considerate la figura del Ballarati e la sua storia, potete
sicuramente interpretarla come una prova di questo cambiamento nel mondo cattolico.
L’altro punto da considerare è l’evoluzione generale della società italiana. La fase della
repressione selvaggia delle lotte contadine e, soprattutto, operaie entra in crisi dopo i moti di
Milano (1898) repressi dalle truppe regie comandate dal generale Bava Beccaris. Negli anni
successivi si instaura un clima nuovo. Non si tratta, ovviamente, di una rivoluzione ma solo di
un non intervento sistematico del governo in favore degli imprenditori. In questo clima nuovo
crescono al nord i sindacati dei lavoratori; al centro e al sud si respira un clima nuovo di
mobilitazione, contrastato dalle forze conservatrici locali ma non sempre dal governo centrale.
Il garante di questa svolta è stato Giovanni Giolitti. Questo clima, però, durò circa 6-8 anni
(1903-1909). Poi vi fu una svolta neo-autoritaria nelle classi dirigenti: comincia in questa
nuova fase il colonialismo italiano con l’occupazione della Libia (1911). Giolitti incarna
anche questa nuova fase con il suo quarto governo (1911-1914). La repressione delle lotte
della Ciociaria e l’eccidio di Roccagorga appartengono a questa ultima fase dell’epoca
giolittiana.
Ora si capisce meglio quello che è accaduto a Roccagorga, dice una voce dal fondo: è
Angelino Bevilacqua, detto Pelucca. Poi aggiunge: Professo’!, però se le cose stanno
così, come mai i liberali si vantano di essere il partito della libertà e ancora oggi alcuni
si dicono liberal per indicare una forza politica favorevole alle libertà civili e politiche
delle popolazioni?
Carlo, che si stava sedendo, con una certa riluttanza si mette di nuovo dritto e risponde:
Quello che dici è la dimostrazione che non basta definirsi “liberali” per esserlo. Inoltre, la
situazione italiana è caratterizzata da una strana alleanza tra forze liberali capitalistiche al
nord e forze sociali che vivono sul latifondo al sud. Queste forze sono in contrasto tra loro,
ma si uniscono di fronte al pericolo rappresentato dai contadini e dagli operai. Così per fare
un esempio un po’ grossolano possiamo dire che Giolitti è liberale e anche in certa misura
democratico a confronto dei conservatori meridionali di Salandra; ma diventa autoritario e
conservatore a confronto delle istanze liberali e democratiche rappresentate dal Partito
Socialista Italiano, da Turati per intenderci, e dai sindacati dei lavoratori, dal movimento
delle leghe contadine, bianche o rosse che siano.
Grazie Carlo. Credo che ora il quadro sia più chiaro. S’è fatto un po’ tardi. Sono quasi le
otto. Che vogliamo fare? Forse potremmo continuare domani, suggerisce Padre
Aleandro. Siamo in ferie e dovremmo essere liberi.
Getto un rapido sguardo in giro e constato che la proposta piace. Allora domando: Va
bene così? Ci vediamo domani vero le nove sulla piazzetta del bar di Miani? Sì, mi
rispondono. Eros però alza le mani dicendo “un attimo!, un attimo! Forse dovremmo
stabilire di cosa parliamo domani! Così prepariamo il materiale”.
Ottima proposta, rispondo. Cosa vogliamo fare? Potremmo parlare dei processi di
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Frosinone e Milano e poi dedicare un po’ di tempo a conoscere i protagonisti principali
dell’eccidio.
Sì, sì, dice Eros facciamo così. E piano piano ci sparpagliamo commentando quello che
è stato detto nel pomeriggio.
Noi (Jan, Eveline, Pupa ed io) ce ne torniamo a casa un po’ mestamente. Jan mette in
luce la forza e la determinazione dei contadini durante le lotte; le donne mettono invece
l’accento sulla brutale e violenta repressione di ogni movimento di liberazione da
condizioni di vita già allora giudicate “inumane”.
SECONDA GIORNATA
Mattino
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Il giorno appresso verso le nove – anzi un po’ prima – sono già in Piazza con Jan,
Eveline, mia moglie e il nostro nipotino Luca Martino. Prendiamo un caffè nella
loggetta del bar Miani. Alla spicciolata arrivano quasi tutti: Padiglione, Casula,
Vincenzo Vuri, Eros, Peppe Aiello, rientrato ieri dal matrimonio di suo figlio; Padre
Aleandro scende direttamente dalla Chiesa. Insomma arrivano tutti quelli del giorno
prima e, mi pare, anche qualcuno in più.
Allora - esordisco – bongiorno a tutte e a tutti. Bongiorno, bongiorno, mi rispondono.
Come abbiamo detto ieri sera, questa mattina cominciamo parlando delle indagini delle
autorità e del processo di Frosinone. Abbiamo più di un testo che ne parla. Prenderei, se
siete d’accordo, il testo di Allatta e De Meis. Legge qualcuno o lo fanno gli autori?
Forse è meglio che lo facciamo noi, dice Lorella, ci sono troppe questione tecniche e
sarebbe meglio che le spiegassimo durante la lettura. Bene, dico, d’accordo. Comincia!
Le indagini della Procura di Frosinone
Al sanguinoso evento consumatosi il 6 gennaio del 1913 sulla piazza di Roccagorga,
seguirono gli arresti dei manifestanti compiuti dai carabinieri. La traccia degli inquirenti è
quella riportata nel telegramma del tenente Catalano inviato nella tarda mattinata al Ministero
degli Interni e al Comando divisione militare di Roma.
Nel telegramma si comunicava che, alle ore 11.00, circa 800 persone riunite nella piazza di
Roccagorga al termine di un comizio, con l’intenzione di raggiungere il municipio per
occuparlo, avevano reagito violentemente al respingimento da parte dei carabinieri e dei
soldati.
L’ufficiale indicava nell’aggressiva opposizione della folla alle forze dell’ordine la causa del
ferimento di due militari del 59° fanteria per colpi di rivoltella: Alfonso De Simone, colpito al
braccio destro, e Giuseppe Squillaci, colpito all’addome. Segnalava inoltre il ferimento in
forma lieve di altri soldati e carabinieri colpiti da sassate. Il tenente Catalano con il
telegramma informava infine del ferimento di quattro dimostranti e della morte di un bambino
per colpi d’arma da fuoco.
La rappresentazione della dinamica dei fatti data dall’ufficiale, in particolare l’indicazione
della grave ferita all’addome, riportata dal militare, avrebbero indotto i destinatari ad
immaginare lo scontro tra un gruppo di persone armate e gli addetti al mantenimento
dell’ordine pubblico. La notizia del reato più grave, dell’uccisione del bambino per colpi
d’arma da fuoco, fu invece trasmessa quasi al termine della comunicazione.
Le informazioni contenute nel telegramma del tenente Catalano al Ministero sulla decisione di
procedere agli arresti determinarono il percorso giudiziario della vicenda. Non vi furono
indagini a tutto campo. Tutto l’iter del processo istruttorio fu caratterizzato dal convincimento
della colpevolezza esclusiva dei manifestanti.
Per dare seguito alla repressione esemplare e su larga scala richiesta da Giovanni Giolitti nel
suo telegramma in risposta a Catalano, fu necessario l’incremento del numero dei militari di
rinforzo a quello già presente in paese. Tale incremento della presenza della forza pubblica si
rese necessario per svolgere il controllo delle persone e delle abitazioni del paese. L’8
gennaio, il Prefetto di Roma trasmise al Ministero dell’Interno un fonogramma pervenutogli
dal Sottoprefetto di Frosinone con cui si comunicava che la notte del 7 gennaio erano state
effettuate perquisizioni nelle case di altre persone indicate come responsabili dei fatti del 6.
Le ricerche non produssero alcun risultato, non era stato trovato nessuno e dalle indagini
risultò che le persone ricercate erano riuscite ad allontanarsi dal paese per sottrarsi all’arresto.
L’autorità giudiziaria venne informata della loro latitanza perché rilasciasse i mandati di
cattura, qualora lo avesse ritenuto opportuno. Il Sottoprefetto riteneva che tra queste persone
si trovassero i principali istigatori dei moti e che esse si aggirassero nei territori di Sezze e
Carpineto, ma che avrebbero tentato di emigrare in America passando per la via di Chiasso.
La conoscenza del territorio favorì la latitanza dei contadini e l’appoggio nei loro confronti da
parte dei familiari, mentre l’estraneità all’ambiente creò difficoltà ai militari durante la
ricerca. Le indagini degli inquirenti si estesero agli avvenimenti avvenuti prima del comizio.
A loro avviso vi erano sati reati anche nella fase preparatoria della manifestazione. Al termine
delle perquisizioni furono contestati altri dodici reati che portarono ad altrettante denunce
emesse contro dodici persone.
Da Frosinone le indagini passano a Roma
Il dieci gennaio c’è un cambiamento: la titolarità delle indagini passa per competenza dal
Tribunale di Frosinone al Pubblico ministero presso la Sezione d’Accusa della Corte di
Appello di Roma.
Gli atti istruttori consentono di conoscere delle sessantasei persone indagate, la loro residenza,
la tipologia delle accuse e la condizione di libertà o detenzione per ogni accusato come
riportato nella sentenza di rinvio a giudizio.
La Sezione di Accusa analizzò le accuse a carico degli imputati: cinquantadue imputati - ai
quali si devono aggiungere Basilico Antonio, Basilico Alberto Teodoro, Pacifici Egidio,
Bevilacqua Arcangelo, Nalli Igino, Ciotti Virgilio, Trani Giovanni, Briganti Evangelista,
Ferrarese Giuseppe Agostino, Ettorre Erminio e Ferrarese Luigi – furono accusati di aver
agito, nel numero superiore a cinque, in primo luogo, per aver usato violenza e minacce con
armi contro i pubblici ufficiali ed agenti della forza pubblica per impedire loro di adempiere ai
doveri del proprio ufficio, a cui si aggiungeva l’aver procurato lesioni volontarie con il lancio
di sassi, senza che se ne conoscano i precisi autori, al brigadiere Rea Vincenzo, ai carabinieri
Palumbo Giuseppe, Bruzzichini Luigi, Ranieri Domenico, Vadalà Giuseppe, Silenzi Giulio, e
ai soldati Squillace Giuseppe, Apolloni Fausto, Quaggia Giovanni, Donnice Francesco.
Ferma! Ferma un attimo, per favore, esclama Peppe Aiello. E Dante Mucci che fine ha
fatto?
Beh, continua Lorella, l’istruttoria lo concia per le feste. La posizione di Dante Mucci, infatti,
aveva assunto un particolare rilievo: era accusato di aver istigato gli altri imputati sia a
commettere il reato di violenza e minacce contro pubblici ufficiali ed agenti della forza
pubblica, sia a compiere lesioni volontarie mediante scaglio di sassi contro i carabinieri e i
soldati.
A Dante Mucci erano inoltre attribuite responsabilità anteriori al 6 gennaio, per aver
pubblicamente istigato a delinquere (art. 246 C. P.). Queste imputazioni furono estese anche
ai membri della Società Agricola Savoia: Basilico Antonio, Basilico Alberto Teodoro, Pacifici
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Egidio, Bevilacqua Arcangelo, Nalli Igino, Ciotti Virgilio, Trani Giovanni, Briganti
Evangelista, Ferrarese Giuseppe Agostino, Ettorre Erminio e Ferrarese Luigi e al maestro De
Angelis Ferdinando, che partecipava alle attività della Società senza esserne membro.
Erminio Ettorre e Luigi Ferrarese avevano l’imputazione più grave: di aver, cioè, sparato
colpi di rivoltella a breve distanza contro i militari di truppa De Simone Alfonso e Squillace
Giuseppe al fine di uccidere e di non essere riusciti nell’intento solo per cause indipendenti
dalla loro volontà causando ai militari lesioni guaribili dagli otto ai quindici giorni.
Il tenente dell’esercito, Gregori Giovanni, in qualità di comandante la truppa in servizio di
pubblica sicurezza di aver ordinato ai soldati di fare fuoco contro i dimostranti causando in tal
modo la morte di Salcani Carlo, Restaini Erasmo, Ferrarese Salvatore, Ciotti Fortunata,
Babbo Vincenza, Mancini Vincenzo e Restaini Pietro.
Le accuse avrebbero dovuto essere sostenute da puntuali verifiche e riscontri soprattutto per i
reati più gravi attribuiti ai manifestanti. In particolare, per la circostanza degli spari contro i
militari emersero anche le versioni contraddittorie ed incerte fornite dai soldati, dai carabinieri
e dalla Pubblica Sicurezza nell’indicare il punto dal quale i colpi sarebbero stati sparati. Ma in
fase istruttoria questo aspetto non fu chiarito. Infatti, durante l’istruttoria il Pubblico Ministero
non chiese che fossero effettuati gli accertamenti necessari per verificare la traiettoria ed il
punto d’impatto dei proiettili sparati dai carabinieri verso la finestra dalla quale il presunto
sparatore avrebbe tirato sui soldati. La scelta di non appurare la veridicità delle dichiarazioni
rese dai carabinieri, condizionò ancora una volta l’attendibilità delle indagini.
Scusa… fermati un attimo, per favore! chiede Vincenzo Padiglione. Siccome questo
punto è fondamentale, sarà meglio chiarirlo. Tu stai dicendo che non vi è prova che i
carabinieri spararono alla finestra da dove - come dicono gli inquirenti – furono sparati
i colpi di rivoltella verso i soldati? Sì, risponde Lorella. E poi propone a Benito di
continuare lui che ha studiato gli aspetti balistici della situazione. Dice Benito:
I sette carabinieri spararono nove colpi di fucile verso la finestra dalla quale si sarebbe fatto
fuoco sui soldati, da una distanza di sessantasette metri. Nessuno di loro, pur essendo dei
professionisti, sarebbe stato capace di colpire un bersaglio come la finestra, grande almeno
novanta centimetri per centotrenta, con il moschetto modello 91, impiegando sette proiettili a
pallottola e due a mitraglia. I proiettili non raggiungendo il bersaglio, si dispersero altrove e
poterono colpire qualsiasi persona o cosa.
L’avvocato Volpi condusse una propria indagine su questo aspetto: non vi era alcun segno di
colpi verso la finestra e, se gli inquirenti avessero fatto questo accertamento, sarebbe caduta la
motivazione secondo la quale il tenente Gregori avrebbe ordinato il fuoco sulla folla dopo
aver udito i colpi da sparo provenienti dal vicino il Municipio.
Al momento in paese vi erano contemporaneamente il Sostituto Procuratore del Re, il
Sottoprefetto, il Commissario di PS, il Delegato di PS, il Maggiore dei Carabinieri ed un
Maggiore dell’esercito con sei ufficiali al seguito. Non aver fatto questa verifica gettò fin da
allora un’ombra sull’operato della Magistratura. Se si fosse appurato che non vi era stato
nessun civile che sparò verso i soldati, allora sarebbero stati ingiustificati gli spari sulla
finestra da parte dei carabinieri prima e dei soldati sulla folla poi.
L’indagine sulla traiettoria dei colpi avrebbe fatto emergere in modo inequivocabile le
responsabilità delle forze dell’ordine. I carabinieri, il Tenente dell’esercito e il Delegato di PS
sarebbero diventati, inevitabilmente, imputati di reati gravissimi. La scelta di non accertare
con precisione la traiettoria dei colpi, produsse molteplici conseguenze: protesse le forze
dell’ordine dall’accusa di aver reso dichiarazioni false sulla dinamica dei fatti; mantenne la
responsabilità degli incidenti sui manifestanti; evitò accuse gravissime ai responsabili
dell’ordine pubblico; legittimò la modalità in cui lo Stato represse la protesta popolare.
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I giudici si limitarono a valutare solo il comportamento del Tenente dell’esercito Gregori,
anche alla luce del Regolamento allora vigente che stabiliva le mansioni e le attribuzioni alla
truppa e ai comandanti ad essa preposti, quando fosse adibita ed impiegata in funzioni di
pubblica sicurezza.
Gli spari dei carabinieri presenti nella loggetta del Municipio, al comando del brigadiere
Zucchi, furono considerati dalla Corte quasi contemporanei, se non di qualche secondo
precedenti, del fuoco dei soldati. Ridurre a quasi contemporanei gli spari dei carabinieri con
quelli dei soldati tese a giustificare il Tenente Gregori. Infatti, in questo caso egli avrebbe dato
l’ordine mosso da uno stato di necessità.
Nel rinvio a giudizio degli imputati la Corte d’Appello di Roma, dopo una breve esposizione
dei fatti accaduti il 6 gennaio, prima di vagliare le singole responsabilità, rilevò che le
violenze e minacce contro pubblici ufficiali ed agenti della forza pubblica e le lesioni
personali aggravate costituissero due reati distinti e separati, ma tra loro concorrenti: erano
avvenuti in momenti diversi, per quanto a breve distanza tra loro e ciascuno di essi aveva una
diversa obbiettività materiale e quindi giuridica. I magistrati ritennero che nella prima fase vi
furono atti di violenza e di resistenza attiva per impedire agli agenti della forza pubblica di
adempire ai doveri del proprio ufficio che in quel momento si sostanziavano nel far svolgere il
comizio autorizzato, al termine del quale i dimostranti avrebbero dovuto terminare ogni forma
di protesta.
In una seconda fase invece i manifestanti, infastiditi per non aver potuto raggiungere il
Municipio, perché ostacolati dagli agenti della forza pubblica, presero a scagliare i sassi
contro gli stessi e contro i militari, molti dei quali rimasero feriti. Per questo i manifestanti
vennero accusati di un altro reato e di una ulteriore violazione della legge penale.
I reati compiuti dai manifestanti, riconosciuti dai magistrati, furono due: quello della
colluttazione e di resistenza (art. 190 C.P.) e quello di lesioni aggravate dovuto al lancio dei
sassi.
Nella conclusione di rinvio a giudizio, invece, fu considerato solo il reato di colluttazione e
resistenza e abbandonato quello di aver procurato lesioni aggravate mediante al lancio dei
sassi.
Il comportamento dei militari venne riconosciuto come adeguato dai magistrati: i soldati non
avrebbero ecceduto nella reazione e si sarebbero mantenuti nei limiti delle loro attribuzioni.
L’istruttoria avrebbe fornito elementi più che sufficienti ai magistrati per sostenere che gli
arrestati in quasi flagranza di reato avessero commesso il delitto di resistenza. Gli arrestati in
quasi flagranza di reato erano: Lombardi Mattia, Rossi Giovanni fu Domenico, Agostini
Franco Amato, Bevilacqua Pietro, De Nardis Francesco, Bonanni Ernesto, Campoli Vincenzo,
Orsini Cleto, Ciotti Antonio fu Domenico, Rossi Benedetto Fortunato, Minarchi Angelo,
Morelli Luigi, Rossi Primo, Ciotti Emilio, Ciotti Antonio fu Giacinto, Ciotti Francesco, Rossi
Francesco Erasmo fu Lorenzo, Rossi Giuseppe fu Vincenzo, De Nardis Giuseppe, Morelli
Quirino, Minarchi Guglielmo, Palombi Luigi di Erasmo, Asci Costantina, Cipriani
Tomassina, Fusco Maria, Coia Loreta, Scachetti Albina, Agostini Teresa, Frateschi Antonia,
Scacchetti Tomassina, De Meis Luisa e gli imputati a piede libero: Morelli Vittorio, Briganti
Augusta, De Meis Vittoria, De Meis Cesira, Ciotti Giovanni, Frateschi Vittoria, De Nardis
Augusto, Cantarano Nicola, Foglietta Maria, Spaziani Giacinto, Cammaroni Luigi, Cotesta
Maddalena.
Secondo i magistrati durante la fase istruttoria erano emersi indizi sufficienti per ritenere che
avessero commesso il reato di lesioni (art. 378), i seguenti imputati detenuti:
Lombardi Mattia, De Nardis Francesco, Bonanni Ernesto, Orsini Cleto, Ciotti Antonio fu
Domenico, Rossi Benedetto Fortunato, Morelli Luigi, Ciotti Antonio fu Giacinto, Ciotti
Francesco, Rossi Francesco Erasmo fu Lorenzo, Rossi Giuseppe, Antonelli Guiseppe, De
Nardis Giuseppe, Morelli Quirino, Cipriani Tomassina, Fusco Maria, Coia Loreta, Scacchetti
Albina, Agostini Teresa, Frateschi Antonia, Scacchetti Tomassina, De Meis Luisa, e gli
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imputati a piede libero: Morelli Vittorio, Briganti Augusta, De Meis Vittoria, De Meis Cesira,
Ciotti Giovanni, Frateschi Vittoria, De Nardis Augusto, Cantarano Nicola, Foglietta Maria,
Spaziani Giacinto.
Per entrambi i reati, secondo i magistrati, non erano emersi indizi di responsabilità nei
confronti degli arrestati: Rossi Erasmo fu Raffaele e Scacchetti Carlo e per le persone a piede
libero: Restaini Quirino, De Simone Maria, Lombardi Gabriella, Fusco Alberta, Battisti
Domenico, Basilico Antonio, Basilico Alberto Teodoro, Pacifici Egidio, Bevilacqua
Arcangelo, Nalli Igino, Ciotti Virgilio, Trani Giovanni, Briganti Evangelista, Ferrarese
Giuseppe Agostino, Ettorre Erminio, Ferrarese Luigi.
Inoltre indizi di reità non erano emersi nei confronti di: Rossi Giovanni fu Domenico,
Agostini Franco Amato, Bevilacqua Pietro, Campoli Vincenzo, Minarchi Angelo, Rossi
Primo, Ciotti Emilio, Ciotti Francesco, Minarchi Guglielmo, Palombi Luigi, Asci Costantina,
Cammaroni Luigi e Cotesta Maddalena.
Per Arcangelo Rossi, il ragazzo appena undicenne, la Corte affermò che “non era risultato che
avesse agito con capacità di discernere”.
La testimonianza del maresciallo dei Carabinieri Piazzola, che affermò di averlo sentito
gridare nel momento della colluttazione: “Avanti, coraggio ammazzateli, scannateli tutti
carabinieri e soldati”, valse a fare attribuire a D. Mucci la responsabilità di aver incitato i
dimostranti alla resistenza prima e la sassaiola poi. I consigli di calma e di fiducia che erano
stati espressi dal Mucci, durante il comizio, furono riconosciuti dalla Corte e appaiono in
contraddizione con il comportamento che gli era stato attribuito subito dopo.
Le responsabilità per l’incitamento a commettere reato prima della manifestazione del 6
gennaio non venne riconosciuta da parte della Corte a nessuno degli imputati. La Corte
ritenne, in termini di diritto, che per l’istigazione in ogni caso mancasse uno degli estremi
essenziali perché si sostanziasse: la pubblicità. Quindi, non solo non si erano organizzate e
preparate azioni delittuose contro l’Amministrazione durante gli incontri nella sede della
Società Agricola Savoia, ma di esse non erano state diffuse notizie a nessun livello. Ciò
concorre a far ritenere che l’occupazione del Municipio non fosse stata organizzata dai
componenti della Società Agricola Savoia, ma che al termine del comizio il dirigersi verso la
Casa comunale da parte dei manifestanti fu un moto spontaneo, durante il quale, l’incidente
della bandiera, rinforzò la loro determinazione.
Gli imputati prosciolti dall’aver commesso il reato di istigazione a delinquere (art. 246 CP)
prima del 6 gennaio furono: Mucci Dante, De Angelis Ferdinando, Basilico Antonio, Basilico
Alberto Teodoro, Pacifici Egidio, Bevilacqua Arcangelo, Nalli Igino, Ciotti Virgilio, Trani
Giovanni, Briganti Evangelista, Ferrarese Giuseppe Agostino, Ettorre Erminio e Ferrarese
Luigi.
Rispetto all’imputazione di mancato omicidio addebitato ad Ettorre Erminio e Ferrarese
Luigi, la Corte riconobbe l’esistenza materiale e obiettiva della sussistenza del fatto, in
quanto, colpi esplosi in via Venti Settembre ferirono i soldati De Simone Alfonso e Squillace
Giovanni. La Corte ammise nello stesso tempo che, durante la fase istruttoria, fu impossibile
procedere con opportuni atti di ricognizione. Gli inquirenti avrebbero dovuto chiarire la
dinamica esatta dell’esplosione dei colpi inferti ai soldati. Ma tutto questo non avvenne.
Il tentato omicidio fu il reato più grave contestato e attribuito ai manifestanti e appare
incongruente che proprio sul reato maggiore non si sia proceduto agli opportuni atti di
ricognizione. Questa ricognizione era necessaria proprio perché questa presunta sparatoria
avrebbe scatenato la reazione dei militari sulla piazza.
La rivoltella rinvenuta in casa dell’Ettorre durante la perquisizione aveva il bossolo di un
proiettile nel tamburo e secondo gli inquirenti da essa era stato sparato un colpo da poco
tempo. La Corte invece respinse la loro ipotesi perché non era stato possibile stabilire
esattamente da quanto tempo l’arma avesse sparato. La Corte riconobbe, inoltre, che gli
elementi identificativi dello sparatore, il cappello bianco e l’età approssimativa di trent’anni,
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sarebbero potuti corrispondere genericamente a quelli dell’Ettorre e in parte a quelli del
Ferrarese.
L’impossibilità della ricognizione e la mancanza di indicazioni sui connotati dello sparatore,
comportò il proscioglimento del Ferrarese e dell’Ettorre dall’accusa di mancato omicidio ed
anche dall’accusa minore di porto di rivoltella senza licenza.
Per l’imputazione rivolta al Tenente Gregori la Corte ritenne che l’esame dovesse vertere sui
limiti dell’uso delle armi da parte della truppa adibita ed impiegata in servizio di pubblica
sicurezza per tutelare o ristabilire l’ordine pubblico minacciato o turbato.
La Corte giustificò i comportamenti adottati dai carabinieri che intervennero opponendosi alle
donne che avanzavano con la bandiera e dai soldati perché i disordini erano continuati
nonostante fossero stati dati inutilmente i consigli e le intimazioni di sciogliersi, con ripetuti
squilli di tromba e la carica alla baionetta. La Corte giustificò l’operato del Gregori che aveva
dato gli ordini per respingere una violenza ritenuta ingiusta e concreta, e per difendere
l’integrità fisica propria e dei soldati che comandava.
Secondo la Corte il tenente aveva applicato le disposizioni del Regolamento, dando prima
l’ordine di carica alla truppa che utilizzò il fucile con la baionetta innastata, poi giunto sulla
piazza, alla notizia dei due soldati che sarebbero stati feriti da arma da fuoco, avrebbe
ordinato, legittimamente, di sparare.
Tutti i reati contestati vennero riconosciuti di competenza del Tribunale penale di Frosinone e
pertanto la Corte rinviò dinanzi ad esso gli imputati perché fossero giudicati, specificando che
gli arrestati dovessero restare detenuti. Le domande di libertà provvisoria che erano state
presentate furono quindi respinte perché queste non potevano essere accolte data la natura del
reato di resistenza.
Questa l’istruttoria della Corte d’appello di Roma. Se non avete osservazioni o
commenti da fare si potrebbe passare a vedere come andò il processo a Frosinone. Che
ne dite?
Sì, è meglio, aggiunge Eros. Poi, semmai, faremo un commento unico.
Allora – continuo – sarebbe meglio però darsi un cambio nella lettura. Vuoi leggere tu,
Pier Giulio?
Sì, sì, risponde. Però si dovrebbe ridurre un poco perché vi sono delle ripetizioni che
possono annoiare.
No, leggi – dico - i tagli li abbiamo già fatti.
Se è così, vado.
Il processo d Frosinone
I quarantacinque manifestanti di Roccagorga rinviati a giudizio dalla Sezione d’Accusa della
Corte d’Appello di Roma, dovettero affrontare una lunga detenzione in attesa del processo
che si celebrò nel Tribunale di Frosinone. Solo dopo circa nove mesi, infatti, gli imputati
videro svolgersi nel capoluogo ciociaro il processo che li riguardava. Il Tribunale di
Frosinone il primo settembre del 1913, emise la sentenza a loro carico.
I giudici di Frosinone ripercorsero gli avvenimenti seguendo l’impianto accusatorio degli
investigatori e dei giudici della Sezione di Accusa della Corte d’Appello di Roma. Ritennero
che vi fossero indizi più che sufficienti a carico di:
Lombardi Mattia, ritenuto come uno dei più attivi nell’opporre resistenza e scagliare sassi; De
Nardis Francesco, Bonanni Ernesto, Orsini Cleto, Ciotti Antonio fu Domenico, Rossi
Benedetto Fortunato, che fu indicato come uno dei più attivi rivoltosi; Morelli Luigi,
riconosciuto per uno di coloro che tenendosi dietro la folla delle donne scagliava sassi; Ciotti
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Antonio fu Giacinto, Rossi Francesco Erasmo, anche lui indicato per uno dei più attivi
rivoltosi, Rossi Giuseppe, Antonelli Giuseppe, De Nardis Cornelio, Morelli Quirino, Coia
Loreta Scacchetti Albina, Agostini Teresa, in modo concorde riconosciuta per una delle più
accanite rivoltose, Frateschi Antonia, Scacchetti Tomassina, De Meis Luisa, Morelli Vittorio,
De Meis Vittoria, De Meis Cesira e Ciotti Giovanni.
La colpevolezza di altri imputati non fu riconosciuta completamente e pertanto i giudici
ritennero di prosciogliere: Cipriani Tomassina, Fusco Maria, Briganti Augusta, Ciotti Vittoria,
De Nardis Augusto, Cantarano Nicola, Foglietta Maria, Spaziani Giacinto, Rossi Giovanni,
Agostini Franco Amato, Bevilacqua Pietro, Campoli Beniamino, Minarchi Angelo, Rossi
Primo, Ciotti Emilio, Ciotti Francesco, Minarchi Guglielmo, Palombi Luigi, Asci Costantina,
Cammaroni Luigi, Cotesta Maddalena.
La responsabilità di Dante Mucci fu invece considerata dai giudici sia sotto il profilo morale
che materiale. Il Tribunale non gli riconobbe motivazioni di carattere politico, ma lo comparò
al Sindaco Rossi, definendo entrambi “le due figure tristi del processo. Le quali pur stando in
antitesi tra di loro vengono ad accomunarsi in ciò che nella presente causa forma la ragione
morale del luttuoso avvenimento”.
Il Tribunale sentì come teste anche il Sindaco Rossi di cui tracciò il seguente profilo:
Il Rossi è la persona pretenziosa che tutti ed ognuno vuole sommessi a sé, e per cui tiene
per anni ed anni il sindacato irradiato dalle influenze locali di amici e parenti; non è
seriamente contestabile che vennero mosse innanzi alla giustizia del Tribunale in
confronto del Rossi non poche e gravi circostanze, che a volerle seriamente vagliare
darebbero luogo a ben gravi sollecitazioni. Di esse la più grave è quella certamente che
il Rossi non abbia inteso in alcun momento della sua Sindacatura la evidente
incompatibilità della sua funzione con quella di amministratore del Principe Doria,
proprietario di oltre la metà del territorio di Roccagorga; e perciò in un possibile e facile
conflitto il Rossi nella duplice rappresentanza.
All’accertamento di “non poche e gravi circostanze” da parte del Tribunale o da parte di chi
ne avesse la competenza, non fecero seguito azioni per definirle in termini penali. Si sorvolò
sulla condotta del Rossi verso cui non si procedette.
Il Tribunale colse come fosse avvenuto anche a Roccagorga il risveglio per rintracciare gli
“usi civici per cui da più anni nel Lazio” si è estesa una propaganda a favore degli abitanti del
Comune.
Il tribunale, quando, durante l’udienza, ascoltò dire da parte del Sindaco Rossi “che non
esist[o]no a Roccagorga usi civici a carico del Principe e a favore dei comunisti”, ritenne che
in tal modo avesse dato la miglior prova della incompatibilità della sua duplice funzione di
pubblico e privato amministratore.
I giudici di Frosinone furono più vicini alla realtà territoriale, riconoscendo i rapporti e le
dinamiche presenti tra la cittadinanza e gli amministratori del paese. Compresero come non
fosse verosimile che il Sindaco non avesse percepito l’insofferenza della popolazione verso la
sua duplice funzione, così come verso il comportamento del medico condotto. Il malcontento
popolare, secondo i giudici, sarebbe stato utilizzato ma non creato dal Mucci, come invece
voleva dare ad intendere il Sindaco Rossi.
Inoltre, l’avocazione dell’istruttoria da parte della sezione d’Accusa della Corte d’Appello di
Roma aveva escluso di fatto il Tribunale di Frosinone che, forse, avrebbe meglio potuto
cogliere gli aspetti relazionali, il contesto culturale e sociale in cui si svolsero i fatti. La
posizione espressa dal Tribunale sulla questione degli usi civici ne è una prova.
La direzione tracciata dalla sezione d’Accusa di Roma influenzò in grande parte l’impostazione del processo. Vi era stata notevole superficialità nella conduzione delle indagini e,
soprattutto era la mancata volontà di effettuare i rilevamenti dovuti. La tesi della Corte
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d’accusa della Corte d’Appello di Roma era che tutto era successo per i rancori personali
esistenti tra Dante Mucci e Cencio Rossi, eludendo così la ricerca di motivazioni più profonde
e responsabilità più ampie.
Infatti, nella sentenza il Tribunale di Frosinone delineò un profilo negativo di Dante Mucci
posto sullo stesso piano del Sindaco. Entrambi avrebbero capeggiato le opposte fazioni: quella
della Società Agricola Savoia contro quella dell’Amministrazione. La rappresentazione
negativa da parte del Tribunale di Frosinone si estese poi al maestro De Angelis e a Pio Ciotti.
Questi e tutti gli altri componenti della Società Agricola Savoia sarebbero stati manipolati da
Mucci. Egli sarebbe stato il regista del piano di conquista del Comune.
Nella rievocazione degli eventi, il Tribunale valutò condivisibile la versione fornita dal
Commissario Prefettizio Velli in merito all’adeguatezza dei provvedimenti che egli aveva
adottato prima degli incidenti. L’allontanamento del medico per due mesi, l’arrivo di un altro
medico per la sua sostituzione, l’assunzione di più scopini che avevano cominciato a ripulire
il paese e le dimissioni del Segretario comunale, furono ritenute misure sufficienti per calmare
la popolazione.
La continuazione dell’agitazione sarebbe stata invece promossa da Mucci, il quale avrebbe
mantenuto, da un lato, un comportamento deferente verso l’Autorità, dall’altro, un
comportamento da sobillatore nei confronti dei contadini. Il Tribunale riconobbe la
responsabilità penale degli imputati per i quali era stata riscontrata l’esistenza di prove. Per i
contadini tenne conto delle attenuanti per la fondatezza delle motivazioni che li avevano
indotti alla protesta, l’incuria sotto l’aspetto igienico, medico e amministrativo del paese,
nonché per la manipolazione cui erano stati sottoposti da Dante Mucci.
Mucci fu riconosciuto dal Tribunale responsabile di quanto gli era stato contestato; il Collegio
stimò di applicare la condanna a sette mesi di reclusione per ognuno dei due reati che gli
erano stati contestati. Per effetto del cumulo la condanna si ridusse a mesi dieci e giorni
quindici.
La pena inflitta dal Tribunale agli altri imputati fu considerata modesta: tre mesi per il reato di
resistenza e tre mesi e giorni quattro per procurate lesioni. Quest’ultima per effetto del cumulo
fu ridotta a un mese e a diciassette giorni. La pena complessivamente venne quindi cumulata
in mesi quattro e giorni diciassette. Essa dovette essere poi diminuita di un sesto per i
maggiorenni, di un altro sesto ancora per i minori di anni ventuno, e di un mezzo per i minori
di diciotto anni.
Nel complesso il Tribunale dichiarò:
Lombardi Mattia, De Nardis Francesco, Bonanni Ernesto, Orsini Cleto, Ciotti Antonio,
Rossi Benedetto Fortunato, Morelli Luigi, Ciotti Antonio fu Giacinto, Rossi Francesco
Erasmo, Rossi Giuseppe, Antonelli Giuseppe, De Nardis Cornelio di anni 18, Morelli
Quirino di anni 19, Coia Loreta, Scacchetti Albina, Agostini Teresa, Frateschi Antonia
di anni 16, Scacchetti Tomassina, De Meis Luisa, Morelli Vittorio, De Meis Vittoria, De
Meis Cesira, Ciotti Giovanni
1° colpevoli del delitto di cui agli artt. 63 e 190 CP pp. per aver in Roccagorga, il 6
gennaio 1913 in correità fra loro usato violenza contro pubblici ufficiali ed agenti della
forza pubblica per opporsi a che questi adempissero ai doveri del proprio ufficio.
2° del delitto di cui agli articoli 372 pp. 373, 365 n. 2 e 378 CP. per avere nelle suddette
circostanze di tempo e di luogo, partecipato alla esecuzione di lesioni volontarie
mediante scaglio di sassi senza che se ne conoscano i precisi autori in danno di agenti e
soldati, di cui al capo di imputazione col beneficio delle attenuanti generiche visti ed
applicati gli art. 190 CP 372, 373, 365 n. 2, 378 CP e 568 CP e 558 CPP.
Condanna tutti alla pena della reclusione per mesi tre e giorni ventiquattro e riduce tale
pena nei riguardi di De Nardis Cornelio, Morelli Quirino e De Meis Vittoria a mesi tre e
giorni cinque; e a mesi uno e giorni ventisette per Frateschi Antonia.
Condanna tutti costoro al pagamento in solido delle spese del giudizio.
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Ordina sospendersi l’esecuzione della pena per Morelli Vittorio, De Meis Vittoria, De
Meis Cesira e Ciotti Giovanni per anni 5.
Il Tribunale dichiara inoltre non provata la reità di Cipriani Tomassina, Fusco Maria,
Briganti Augusto, Ciotti Vittoria, De Nardis Augusto, Cantarano Nicola, Foglietta
Maria, Spaziani Giacinto, Rossi Giovanni, Agostini Maria, Bevilacqua Pietro, Campoli
Beniamino, Minarchi Angelo, Rossi Primo, Ciotti Emilio, Ciotti Francesco, Minarchi
Guglielma, Palombi Luigi, Asci Costantina, Cammaroni Luigi e Cotesta Maddalena; e li
assolve.
Riassumendo: degli atti del 6 gennaio 1913 furono imputate sessantacinque persone;
quarantacinque furono rinviate a giudizio; ventiquattro furono condannate; quattro dei
condannati, inoltre, ottennero la sospensione condizionale della pena; per quarantuno persone
non vi furono sufficienti indizi di colpevolezza nei vari momenti processuali
La discrepanza numerica tra arrestati, denunciati e condannati conferma l’adesione delle
Autorità a quell’ordine inviato da Giolitti con cui aveva espresso la volontà politica di arresti
eseguiti su larghissima scala e di una repressione esemplare. Tutti gli imputati detenuti,
escluso il Mucci che ebbe la pena più elevata, trascorsero in prigione in attesa del giudizio un
periodo di tempo di gran lunga superiore a quello della condanna riportata.
L’appello contro la sentenza di Frosinone e il proscioglimento di tutti gli imputati
Contro la sentenza del tribunale di Frosinone, però, fu presentato appello. Come andò a
finire? Vogliamo vederlo brevemente. Puoi continuare la lettura, dico rivolgendomi a
Pier Giulio. E lui così continua:
Contro la sentenza emessa dal Tribunale di Frosinone fu presentato appello dalle persone
condannate. Le motivazioni dell’appello erano tre: inesistenza di reato, non provata reità ed
eccesso di pena. L’appello fu esposto ed articolato in otto argomenti.
La Corte di Appello di Roma, chiamata a giudicare l’appello era la Quarta Sezione penale,
composta dal Presidente Capriolo Ferdinando e dai Consiglieri Nuitta Vincenzo e Santafilia
Giuseppe. La Corte sentì la relazione della causa esposta dal Presidente Ferdinando Capriolo,
gli appellanti che si erano presentati, il difensore e il Pubblico Ministero e, per ultimi,
nuovamente gli appellanti presenti che ebbero la parola. Alla lettura della sentenza erano
presenti solo quattro degli imputati: Quirino Morelli, Dante Mucci, Maria Foglietta ed Emilio
Ciotti.
Il 15 gennaio del 1915, la Corte emise la sentenza che riguardava tutti i quarantacinque
imputati del processo di Frosinone.
Nella valutazione del fatto e del diritto, la Corte ritenne che i motivi presentati non dovessero
essere esaminati perché ostava il decreto di amnistia del 29 dicembre 1914 n. 1408 art. 1
lettera b, poiché tutti gli imputati si trovavano nelle condizioni indicate dal beneficio concesso
. . . per la sovrana indulgenza. Per questi motivi la Corte d’Appello di Roma dichiarò estinta
l’azione penale a carico di tutti i condannati per effetto del decreto di amnistia. Il decreto
concesse l’amnistia per una serie di reati, escludendo quelli più gravi di omicidio volontario,
falso, rapina, associazione a delinquere, estorsione o ricatto.
Commenti
Ora possiamo fare qualche osservazione, dico. Chi vuole prendere la parola? Mi fa
cenno Carlo Casula.
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Nel valutare questa sentenza – afferma – non si può tenere conto del tempo. Nella fase
istruttoria, non a caso avocata dalla Corte d’Appello di Roma, il problema è politico nel senso
più stretto del termine. Occorreva dare una lezione ai contadini di Roccagorga ma questa
doveva essere compresa da tutti gli altri. E il senso della lezione era che le classi dominanti
non avrebbero subito un cambiamento dei rapporti politici nel paese. Insomma: dai una
lezione ad uno perché tutti gli altri intendano. Nel processo di Frosinone il gioco si è
allargato. Il Tribunale condanna alcuni imputati a pene non gravi, peraltro, e manda liberi la
maggior parte. Con questo tenta di ridurre la questione ad un affare ristretto. Vi è un gruppo di
manipolatori, da un lato, e dall’altro la massa informe incapace di ragione e che si fa portare
di qua e di là dal più capace dei sobillatori. Questa è la premessa per affermare, poi, che il
tutto è dovuto alle rivalità tra il Mucci e il Rossi. Nello stesso tempo, però, il Tribunale
ammette che esistono ragioni oggettive – come diremmo oggi – che spingono i contadini a
ribellarsi. E queste ragioni sono individuate nella questione della distribuzione della terra,
nella negazione di fatto delle disposizioni della Legge 4 agosto 1894, n. 397 riguardante
l’Ordinamento dei domini collettivi nelle Province dell'ex Stato Pontificio. In un certo qual
modo il Tribunale censura il Rossi – lo abbiamo appena visto – per non aver applicato una
legge dello Sato favorevole ai contadini. Nella terza fase, infine, siamo già in piena guerra.
Non si può chiedere ai giovani contadini meridionali di andare a combattere per la patria e
condannarli per essersi ribellati ai soprusi dei loro sfruttatori. La sentenza della Corte
d’Appello prende atto della legge di amnistia intervenuta nel frattempo per ridurre il solco e la
diffidenza esistente tra lo Stato e le masse operaie e contadine. (Sia detto tra parentesi: questa
separazione non sarà superata neppure nelle trincee.)
Avete accennato alla rivalità tra Cencio Rossi e Dante Mucci. Io mi chiamo Rossi (non
ho niente a che fare con Sor Cencio; non mi guardate storto!), dice Merico de Schiera.
Quando ero bambino per via Venti Settembre, dove abitavo, ogni tanto si raccontava
questa storia delle rivalità tra i due. Pensavo che fosse così. Ora voi dite il contrario. Ma
non è normale che due persone combattano per avere il potere? Non avviene così pure
oggi?
Bella domanda, commento a bassa voce. Poi con tono più alto domando: c’è qualcuno
che vuole affrontare questa questione?
Penso sia il punto più delicato, dice Vincenzo Vuri. Posso provare a dire qualcosa.
Certo, aggiungo. E lui continua:
Nella storia non si può prescindere dagli individui. In fondo sono loro che agiscono, sono loro
che hanno progetti, bisogni e desideri. Però devono fare i conti con le condizioni. Per
esempio, tu puoi avere tutti i desideri che ti pare, per esempio comprarti una Ferrari, ma se
non hai i soldi necessari per comprarla il tuo rimane un sogno, una velleità. Oppure, tu puoi
avere il desiderio di vivere in un certo modo, diciamo per esempio: fare una certa dieta. Però
se hai i soldi e sul mercato non sono disponibili i prodotti necessari per farla, non puoi
soddisfare quel tuo desiderio. Quello che voglio dire è che le azioni degli individui sono
sempre inserite in una situazione concreta. Se in quella situazione certe possibilità non ci
sono, non riesci a fare tutto quello che vuoi e che, per certi versi, tu saresti in condizione di
fare. Un altro punto: non è che gli individui sono dei burattini nelle mani della storia. I fatti
sono sempre il risultato delle azioni degli individui e delle condizioni della storia. Perciò, è
vero che esisteva la rivalità tra i due. Però, se non ci fossero state tutte le condizioni sociali,
economiche e politiche che sono state descritte finora, questa rivalità non avrebbe avuto
l’importanza che invece ha avuto. Quanti sono oggi che si contendono il potere? O una
donna? Oppure un uomo? Perché le loro rivalità sono “normali”, come ha detto Americo?
Perché o sono questioni private oppure ci sono delle regole del gioco che si impongono ai
rivali.
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Il processo di Milano
Da una delle file più lontane vedo mio fratello, Angelotto, che alza la mano per chiedere
di parlare. Sì, gli faccio cenno. Ma non ci fu un altro processo?, domanda, e come andò
a finire?
Mi guardo intorno per cercare aiuto. Come vogliamo rispondere?, chiedo a quelli che
hanno scritto di recente sull’eccidio. Non vedo farsi avanti nessuno. Allora – dico –
propongo di leggere la ricostruzione abbreviata che ne ha fatto Mario Ferrarese. In
questo modo, tra l’altro, abbiamo pure l’occasione di ricordare un concittadino che ha
dedicato tanto del suo tempo allo studio della nostra storia.
Nel suo libro, La repressione liberale, Mario Ferrarese ha dedicato molte pagine al
processo contro i giornalisti de L’Avanti! che, fin dal giorno dopo (il 7 gennaio 1913),
chiamarono Assassinio di Stato quanto era avvenuto a Roccagorga.
Mussolini, quale direttore, il giornalista Ciccotti, che aveva fatto il primo articolo da
Roma la sera del 6 gennaio, e altri furono accusati di esposizione dell'esercito all'odio e
al disprezzo della cittadinanza, di istigazione pubblica a commettere reati di omicidio,
aggravato sulle persone di pubblici ufficiali, resistenza e lesioni a pubblici ufficiali,
danneggiamento, offese alla sacra persona del re15.
Abbiamo bisogno ancora di qualcuno che legge. Chi si propone? Io non sono una
professionista - dice dalla seconda fila Luisella Benedetti, una nostra amica di Latina –
ma se volete posso farlo, anche per dare un po’ di respiro agli altri. E rivolgendosi a
Marcello, suo marito, dice: Visto com’è il testo, però, sarebbe meglio che mi
accompagnasse qualcuno. E così cominciano la lettura del processo di Milano dal libro
Quel giorno:
Il processo si basava sulla narrazione dei fatti di Roccagorga apparsa a più riprese su
L’Avanti, narrazione ritenuta criminosa e che aveva portato all’imputazione di Mussolini per i
reati di istigazione a delinquere, apologia di reato e vilipendio all’esercito. Ricordiamo che
Mussolini e i suoi redattori erano intervenuti pesantemente nella polemica nata sul massacro
del 6 gennaio. Lo stesso Mussolini aveva scritto che “alle provocazioni del governo e della
forza pubblica negli eccidi bisognava rispondere con altrettante provocazioni”, denunciando
l’inqualificabile atteggiamento dell’esercito che si era reso responsabile dell’eccidio.
La scelta degli avvocati del collegio della difesa era stata una chiara risposta allo
schieramento della Corte. Furono chiamati i migliori penalisti del tempo, quasi tutti
appartenenti all’area socialista.
In un processo così importante, le cui dimensioni politiche erano tali da catalizzare l’opinione
pubblica nazionale, occorreva contrapporre un collegio di difesa capace di sovvertire, nel
corso del dibattito, le inconcepibili conclusioni cui era giunta la Procura generale di Milano
nel rinviare a giudizio Mussolini e i suoi redattori. Non fu un processo facile da guidare.
Bisognava contrastare l’autorità governativa e l’atteggiamento inqualificabile del Procuratore
del Re, ostile a tutte le richieste della difesa. Fu tale l’ampiezza delle argomentazioni, sia
giuridiche che sociali, portate dagli avvocati difensori all’attenzione della Corte e della Giuria
popolare che quest’ultima, in Camera di Consiglio, all’atto della decisione, non fu piegata
dalle pressioni del Presidente Raimondi, che tentava di far emettere un verdetto di
colpevolezza nei confronti degli imputati.
15
Il processo si svolge a Milano perché L’Avanti! ha sede a Milano.
55
Il processo ebbe inizio il 24 marzo del 1914, quasi un anno dopo l’eccidio di Roccagorga.
L’eccidio usciva così da una circoscritta dimensione locale e assumeva un’importanza di
carattere nazionale, mettendo sotto accusa il governo Giolitti.
Siedono sul banco degli imputati Benito Mussolini, direttore de L’Avanti!, Eugenio Guarino,
Francesco Ciccotti, Silvano Fasulo, Giuseppe Scalarini, reo di aver pubblicato alcune vignette
sull’eccidio e Aurelio Galassi, gerente responsabile de L’Avanti!. Così racconta L’Avanti!:
“Oggi sarà chiamato in Corte d’Assise il processo che l’autorità politica, complice il potere
giudiziario, ha voluto ai danni del giornale del partito socialista”.
L’udienza viene aperta alle ore 10,15. Il Presidente sbriga le formalità di rito per la
composizione della Giuria. Entra, intanto, nell’aula della Corte il gruppo dei testimoni di
Roccagorga giunti a Milano dopo un lungo e tormentato viaggio.
Scrive L’Avanti!:
La maggior parte di essi, i contadini superstiti tra i fucilati di Roccagorga, veste i
tradizionali costumi della Ciociaria. Sono povere donne ignare nel cui volto è stata
impressa la maschera indelebile di stupore e di dolore. Vengono così da lontano. Quasi
un altro mondo. Talune di esse non hanno potuto lasciare a casa i figlioletti e li hanno
portati con sé. Prima un viaggio infinito. Lungi dal proprio suolo e dal proprio cielo.
Sono, dunque, questi - insiste il cronista - i campioni della violenta sommossa popolare
che ha insanguinato la piazza del piccolo paese ciociaro. Sono questi i dimostranti feroci
che si sono lanciati alle sterminio dei soldati e dei carabinieri? E qualcuno di essi
doveva avere i bimbi fra le braccia anche allora. Perché uno ne è stato mitragliato fra le
braccia del padre.
L’interrogatorio di Mussolini
Respinti alcuni incidenti procedurali sollevati dal Collegio della difesa, il Presidente
Raimondi dichiara aperta la seduta, sbriga alcune formalità di rito e dà la parola al Sostituto
Procuratore Generale del Re avv. Porri. Questi si inchina all’autorità del Presidente e dichiara
di disinteressarsi delle testimonianze dei contadini ritenute, secondo il suo giudizio,
ininfluenti nel dibattito processuale.
Viene chiamato a deporre il gerente del giornale Aurelio Galassi, che riconferma la sua
posizione e si dice completamente solidale con i suoi redattori.
Sale poi sulla pedana Benito Mussolini, direttore del giornale, che rende la sua deposizione
con voce calma e sicura:
Parlo anche a nome dei miei compagni - dice Mussolini - e brevemente. Si dice che una
prima prova del delitto sia il rimorso che turba la coscienza di chi l’ha commesso. Io
non sento rimorsi. Quindi, probabilmente, non ho commesso alcun delitto, specie di
natura ‘comune’. Sono venuto qui perché mi si informi sulla natura e la figura del
delitto che avrei commesso tredici o quattordici mesi fa. D’altra parte ritengo di non
aver diritto di spiegare la genesi di questo mio crimine e non già per difendermi, perché
non ne sento bisogno, ma piuttosto per farne ancora una volta l’apologia.
Mussolini era stato nominato da poche settimane direttore del quotidiano socialista, quando la
sera del 6 gennaio del 1913 gli giunse da Roma una telefonata nella quale veniva fatta la
cronaca dell’eccidio di Roccagorga. Nello stesso giorno s’erano verificati altri tumulti in
provincia di Parma e a Comiso, in Sicilia. L’articolo era accompagnato da un commento
politico del corrispondente romano il quale non conosceva ancora gli altri avvenimenti
luttuosi. Mussolini ampliò la nota del suo corrispondente e la titolò: Assassinio di Stato.
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Quella nota, dice Mussolini, era molto vivace, non lo nego. Ma adesso, dopo 14 mesi,
trovo che avrei potuto riscriverla più vivace perché i particolari che giunsero dopo erano
tali da giustificare qualsiasi violenza di stile e di linguaggio.
L’uditorio fu preso dalla foga straordinaria dell’oratoria mussoliniana. Egli non si addentrò
nei particolari. A questo avrebbero pensato i testimoni oculari, i protagonisti e i superstiti.
Descrisse con misurata lentezza di parole le condizioni sociali di Roccagorga nel quale la
politica era fatta da un circolo che si intitolava ‘Savoia’. “Un circolo -commentò subito -,
come vedete, realista, niente affatto rivoluzionario”.
Mussolini focalizza l’attenzione della Corte. Amplia la sua deposizione. Racconta
minuziosamente i fatti che precedettero l’eccidio, i particolari di quelle tragiche ore. Ricorda
che i contadini lasciarono nella sala del Circolo ‘Savoia’ i temperini, preceduti dalla Bandiera
Tricolore. Pare che anche le donne, mentre si recavano a portare le loro doglianze alla Casa
Comunale, gridassero: ‘Viva la Madonna’.
Tutto ciò, voi lo vedete, non è niente affatto sovversivo. Ad un certo momento questa
colonna di dimostranti nella quale erano tante donne, molti bambini, si imbatté in un
plotone di fanteria. Si ode un colpo di rivoltella che non fu sparato dai dimostranti,
assolutamente inermi. Quello fu il segnale dell’eccidio. Vennero sparati trecento colpi,
furono uccisi sette individui, fra cui una donna partoriente ed un bambino di cinque
anni.
Un eccidio feroce, atroce, assurdo. E i soldati furono mandati contro la folla al grido
‘Avanti Savoia!’. Potete immaginare che al crepitio delle fucilate micidiali tutti
fuggirono all’impazzata e non rimasero sulla piazza che i morti e i feriti. La strage era
stata compiuta dall’esercito o da una parte di esso. D’altra parte, in venti anni di
agitazioni, in venti anni di eccidi, non c’è mai stato un morto tra la forza pubblica,
perché il popolo italiano va in piazza inerme”.
C’è una pronta reazione da parte del Presidente della Corte: “Lei non sa che vi siano stati
soldati feriti, neanche a Roccagorga?”
-Mussolini: “Io lo ignoro, lo escludo”.
- Presidente: “Sentiremo più avanti”.
Quando la folla scende in piazza armata - continua l’imputato- è un problema di forza e
allora chi le prende se le prende. Si potrà esaminare se la repressione sui vinti sia stata
eccessiva. Ma in Italia niente di tutto ciò. In Italia c’è l’eccidio classico, che è anche
sintomo di questo stato di disagio, di miseria, di malessere che tormenta almeno 6000
sugli ottomila comuni del regno. In Italia l’eccidio si svolge sempre in un modo: da una
parte la truppa e gli agenti della forza pubblica che sparano; dall’altra parte la folla che
fugge terrorizzata. E la responsabilità delle classi dominanti, delle istituzioni sta
appunto in ciò che invece di attenuare gli effetti di questi eccidi fanno .... il viceversa. È
la storia di ieri. Il Governo che rappresenta il Paese, lo Stato che dovrebbe essere al di
fuori e al di sopra delle competizioni civili è pur sempre lo strumento di alcune classi
alle quali fornisce il numero e la forza dei suoi armati.
Una requisitoria dura quella di Mussolini che si riallacciava idealmente ai suoi interventi di un
anno prima quando per giorni e giorni aveva sostenuto che l’eccidio di Roccagorga e la
questione del proletariato avrebbero potuto portare ad eventuali nuovi eccidi. Il 2 febbraio del
1913 L’Avanti! pubblicava un inserto speciale dedicato completamente agli eccidi proletari
nella storia italiana, da quello di Monselice a quello di Roccagorga. Mussolini aveva dedicato
quattro articoli di fondo agli eccidi (La politica della Strage, 12 gennaio; Il Silenzio della
vergogna, il 13; Splendido Isolamento, il 17; La fatalità degli eccidi e la cuccagna dei
conservatori, il 18). Aveva scritto vari corsivi, pronunciato vari discorsi sia a Milano che a
Torino.
In un’aula attenta, Mussolini conclude:
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Noi non ci facciamo un proposito quotidiano di vilipendere l’esercito, noi non abbiamo
bisogno di vilipenderlo per indebolirlo nella sua costituzione, nelle sue funzioni, nella
sua finalità, che è base della vita, io vi ripeto, io vi dico chiaramente, cittadini giurati,
che se domani un altro eccidio si verificasse, io non vorrei scrivere con l’inchiostro, ma
col sangue. Se la vita umana deve essere rispettata, deve esserlo così in basso come in
alto. Per il momento non ho altro da aggiungere.
L’interrogatorio di Francesco Ciccotti
Segue poi l’interrogatorio di Eugenio Guarino, redattore capo, poi quello di Giuseppe
Scalarini, autore delle vignette incriminate. Poi la deposizione di Francesco Ciccotti, autore
dell’articolo Assassinio di Stato, sulla stessa linea di quella del suo direttore.
La proprietà privata - dice il Ciccotti - dei terribili crimini perpetrati con quell’articolo
mi appartiene e non capisco perché l’ottimo Com. Nicora, Procuratore Generale del Re,
abbia voluto collettivizzarli per tutti i miei coimputati. Certo quel mio scritto era assai
vivace, ma esso era anche perfettamente proporzionato alle impressioni degli atroci
delitti di Roccagorga. La folla era stata mitragliata mentre fuggiva. I morti e i feriti
furono colpiti tutti alle spalle. Furono inseguiti, anzi, fu data la caccia come ad un
branco di belve. Una donna incinta, colpita da un proiettile, cadde. Il sangue della ferita
si mescola a quello di un parto prematuro. Ella si dibatte oscenamente nel suo sangue. E
allora le si tira addosso con ‘voluttà’ feroce. Un contadino, con il suo figliolo, di cinque
anni, tenta di sottrarsi alla sparatoria e corre con lui verso casa. Si tira su di lui e gli si
uccide la creatura tra le braccia. Questa selvaggia ‘caccia grossa’ era stata preordinata.
Altro che legittima difesa.
Il Ciccotti racconta ancora:
Vi raccomando quel delizioso sindaco di Roccagorga, signori giurati. Egli era al tempo
stesso l’Amministratore di casa Doria, cioè degli usurpatori e l’Amministratore dei
derubati, cioè dei poveri contadini del paese. Un’anima di iena. All’indomani
dell’eccidio, che egli volle e pronunciò, il signor Sindaco convitò a palazzo Doria i
fucilieri. E dire che questi il giorno prima erano stati accolti festosamente dalla povera
gente, fiduciosa del loro intervento tutelatore del buon diritto.
Alla fine della sua deposizione, il Ciccotti torna a respingere le interpretazioni di cui fu
accusato.
Voi ci avete accusato di istigazione a delinquere. Ma sono questi processi, signori
giurati, che inscenando varie persecuzioni contro chi difende il buon diritto, il pane e la
vita stessa dei sopraffatti, incoraggiano i sopraffattori, i violenti, i ladri, a continuare
nelle loro gesta con la sicurezza dell’impunità.
Le testimonianze dei contadini di Roccagorga
Con la chiamata di Quirino Restaini, il primo teste dei contadini di Roccagorga, il clima
dell’aula della Corte d’Assise aumenta di intensità.
Quirino Restaini
Il processo delle schermaglie procedurali passa in presa diretta ed il racconto dei fatti si fa
agghiacciante, drammatico. Quirino Restaini viene introdotto nell’aula dal cancelliere
Lucadamo. Ha l’aspetto di un ‘cencio d’uomo’. Rende le sue generalità alla Corte e nel suo
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povero dialetto ciociaro racconta con parole accorate le varie fasi di quel tragico giorno. È il
primo teste che snocciola una verità terribile ed è il primo che apre lo scenario sull’eccidio.
Ero con mio figlio Mario, un bel giovinotto e con Francesco Mattarocci sulla piazza
pubblica quando i fantocchi ci furono immediatamente sopra. Scappiamo, scappiamo,
dicemmo subito noi. Invece a distanza di quattro metri i ‘fantocchi’ ci spararono
addosso. Il mio figlio cadde, tentò di risollevarsi. Guai a lui. Nuovi colpi lo trafissero le
carni. Io fuggii ferito alle gambe, alla spalla e al petto. E ciò nonostante mi arrestarono
e mi tennero a lungo in carcere”.
- Presidente: e poi?
- Restaini: Grazie al Signore Iddio mi assolsero in istruttoria.....
- Presidente: meno male...
- Avv. Dominioni: ma così toglievano di contro una parte lesa nel processo contro il
tenente Gregori.
La testimonianza resa dal Restaini, il cui animo era ancora sopraffatto per la morte del figlio,
fu interrotta più volte dal Presidente Raimondi, il quale cercava di far cadere in
contraddizione il povero Restaini smarrito e sbigottito da tanto clamore.
Maria Coco
Sarà una povera contadina, una certa Maria Coco, chiamata a deporre dal Presidente, ad
offrire alla Corte d’Assise una testimonianza quanto mai eloquente e drammatica. Dal suo
cuore stanco ed addolorato uscì una frase immaginosa ma possente che, a rileggerla oggi a
distanza di ottant’anni[questo testo, infatti, è del 1995], provoca ancora brividi sulla pelle.
Signori della Corte, disse la Coco, tutte le lagrime che abbiamo versato nel giorno della
strage, basterebbero a muovere una macina di un mulino. Il sangue di Fortunata Ciotti,
la trucidata che stette tre ore sulla piazza senza soccorso, se lo sono bevuto i cani. I
carabinieri sembravano ammattiti. I soldati erano ubriachi. Date anche a noi un po’ di
giustizia.
Maria Coco aveva fatto una ricostruzione commovente del massacro. Un attacco poderoso
alle speranze residue di chi tentava di far passare con un’interpretazione diversa e di comodo
l’attuazione dell’eccidio. Un attacco reso ancor più duro dal giudizio dato sul comportamento
dei carabinieri e dei fantocchî che quel giorno avevano perso letteralmente la testa.
Aniceto Maurizi.
Aniceto Maurizi, un bracciante agricolo dal volto bruciato dalla fatica, espresse in aula il suo
risentimento personale contro l’atteggiamento dell’esercito.
Mia moglie, racconta, era uscita per comperare un po’ di pane. Nel ritornare a casa
veniva inseguita dai soldati che le sparavano addosso a bruciapelo mentre il suo corpo
era metà dentro e metà fuori dalla porta di casa. Cadutami tra le braccia mi detti da fare
per soccorrerla meglio. Cercai di uscire per chiedere aiuto, ma i fantocchî non mi
lasciarono passare. Un graduato mi disse: ‘Tua moglie muore? E crepi!’
Pio Ciotti
Anche Pio Ciotti ricostruisce alla Corte, sempre più attenta allo sviluppo del processo, ma
pronta a soffocarlo, i momenti essenziali del conflitto. Il Ciotti aggiunse, dopo quanto si
sapeva, qualche particolare attorno alle soverchierie piccole o grosse del Sindaco Rossi, del
medico Garzia e del segretario Comunale. La sua testimonianza fu precisa e puntuale sino a
contestare energicamente la tesi di chi aveva affermato che alcuni dimostranti avrebbero
sparato sulla forza pubblica.
Le revolverate vennero sparate dai carabinieri. Nessuno della folla era armato, e perciò,
se il Tenente Gregori ha ordinato il fuoco preso dal panico per gli spari uditi, egli,
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soldato, ha deplorevolmente confuso le gesta dei carabinieri con quelle non compiute
dalla folla.
La testimonianza del Ciotti resa senza turbamenti ma con vigore e dignità suscita una rabbiosa
reazione del Presidente Raimondi. Per togliere il valore probatorio alla testimonianza, il
Presidente dà lettura alla Corte di alcune considerazioni contenute nella sentenza del
Tribunale di Frosinone
Nella sentenza si dice che i rapporti tra il Sindaco Rossi e Pio Ciotti erano fortemente
deteriorati, come dimostrato dalle violenti reazioni del Sindaco alle critiche aspre del Ciotti
durante il processo stesso.
L’impianto giuridico della sentenza emessa dal tribunale di Frosinone soffriva di un’aperta
partigianeria. Tutte le stranezze e tutte le forzature di quella sentenza furono colte dagli
avvocati della difesa. Nella cronaca del processo L’Avanti! scrive che ci fu un interminabile
battibecco tra gli avvocati ed il Presidente Raimondi. Solo a tumulto sedato, si poté
riprendere.
Vincenzo Martelli
Venne chiamato a deporre Vincenzo Martelli, che si presenta alla Corte vestito da
"fantocchio". Egli descrive, a richiesta, le fasi dell’eccidio e sottolinea come nessuna necessità
avesse la truppa a fare fuoco.
- Presidente: c’era molta folla?
-Martelli: macché. Inoltre vi saranno stati cinquanta metri dalla folla ai cordoni. Dalla
massa partirono sassi.
- Presidente: (zelante) ah, si tiravano sassi?
-Martelli: si scambiavano dei sassi tra carabinieri e ragazzi. Perché, sa, subito dopo le
scariche, lo Spaziani Giacinto fuggiva per la piazza disperato con il suo bambino morto
tra le braccia. Si gettò piangendo verso i soldati. Al maresciallo dei carabinieri chiese
come un pazzo che lo lasciasse passare. Egli era eccitatissimo e gli intimò di andarsene
indietro. Lo Spaziani tornò indietro. Grondava sangue da tutte le parti.
Un altro teste, non meno importante degli altri, ai fini processuali, fu Egidio Pacifici,
personaggio molto noto a Roccagorga, proprietario di quel palazzo dal cui balcone s’era
tenuto il comizio il 6 gennaio.
Egidio Pacifici
Pacifici non tarda molto ad accendere la miccia e si scaglia violentemente contro il Sindaco
Rossi. Ricorda che il Sindaco se la rideva di tutto e di tutti e ricusava ad ogni costo di
dimettersi. Il Pacifici era stato processato anche lui per i reati di istigazione e resistenza alla
forza pubblica. Ma il giorno dell’eccidio, dichiara alla Corte, si trovava a 25 chilometri di
distanza.
Giacinto Spaziani
Entra a deporre Giacinto Spaziani, il padre dello sfortunato ragazzo morto tra le sue braccia. Il
cronista descrive lo Spaziani come un ‘ometto umile, modesto, non dotato di soverchia
facondia. Ha un argomento formidabile a suo favore: un vecchio cappello bucherellato’.
- Presidente (ridendo): oh, vi han ferito il cappello?
- Avv. Caldara: già, gli hanno bucato il cappello, gli hanno stroncato una gamba,
fratturato le costole e accoppato un figlio in braccio. E quindi non c’è da ridere.
- Spaziani: c’è di più. Mi hanno anche arrestato e trattenuto in carcere per otto mesi.
- Presidente: se foste stato a casa vostra non vi sarebbe capitato nulla. Perché andare in
piazza nei momenti di tumulto con il bambino in braccio?
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-Spaziani: Santo Iddio, m’ero recato prima dal barbiere e poi ero andato a Messa. Ma i
soldati quel giorno erano come bestie inferocite. In piazza mi avevano colpito a
bruciapelo, con fuoco indemoniato, intorno a me non c’era nessuno da spaventarli. Io
venivo da un vicolo ormai deserto, ma soltanto non mi volevano far passare verso casa
per deporvi il cadavere del bimbo e far curare me. Ma ho anche visto i fantocchî che
pizzicavano per vedere s’era viva la povera Fortunata Ciotti. La quale aveva il cranio
scoperchiato e perdeva sangue per il mostruosissimo aborto.
Presidente: le vostre ferite non risultarono così gravi.
Spaziani: dapprincipio non le sentii, tanto era lo spasimo per la morte del mio figliolo
che era bello come un fiore. Ma avviato a casa, mi accorsi che ero tutto sangue.
Purpureo era il mio sangue come quello di mio figlio che era sangue mio.
L’avv. Limentani della difesa lo incalza: “è vero che il Sindaco Rossi dopo l’eccidio era stato
a casa vostra?
Si, risponde Spaziani, e mi disse che se avesse comandato lui avrebbe ordinato il fuoco due
ore prima. Successivamente suo fratello Giuseppe tornò nel mio letto di dolore per offrirmi
500 lire, in compenso della testimonianza falsa che io dovevo rendere, accusando Dante
Mucci di ‘averci sobillati’ e che perciò doveva essere ritenuto come responsabile
dell’ammazzamento del bambino”.
Centra Rosa
Anche Centra Rosa, moglie di Aniceto Maurizi, rende la sua testimonianza in un’aula che
risente dell’indignazione resa dalla deposizione dello Spaziani.
Angela Lunghi.
Segue Angela Lunghi e con tutta serenità conferma al Presidente:
Ho visto con i miei occhi il Tenente Gregori prendere a revolverate Mario Restaini e
Francesco Mattarocci che inermi gli passarono accanto per rincasare. Anzi, nei giorni
seguenti, il fratello del Sindaco avrebbe voluto che io dicessi ‘che il revolver era stato
invece adoperato dai contadini’.
Le testimonianze dei contadini di Roccagorga furono ritenute esaurienti per la Corte. Fu poi
chiamato a deporre l’ex trombettiere del plotone Rinaldo Bisconti, l’uomo che più di tutti
poteva confermare se l’ordine di aprire il fuoco gli fu impartito dal suo comandante.
Io ero il trombettiere del drappello - esordisce il Bisconti - agli ordini del tenente
Gregori nel giorno del conflitto a Roccagorga. E nego recisamente di aver avuto ordine
di suonare i tre squilli di tromba dal mio comandante.
Il giornalista Fasulo, imputato del gruppo Avanti!, interrompe l’affermazione del Bisconti e
rivela che la sera prima il Bisconti lasciò la compagnia degli altri testimoni confessando loro
che l’ex Tenente Gregori lo aveva invitato a pranzo e gli aveva offerto più conveniente
alloggio.
- Bisconti: non è vero.
- Sei tu che dici il falso, intervengono Pio Ciotti e Vincenzo Martelli. Tu ieri sera ci
hai avvisato la tua fortuna.
Commenta L’Avanti:
Per colmo di bugiarderia il Bisconti prima di essere provvisoriamente licenziato, ha dovuto
ammettere che il tenente Gregori gli ha in realtà trovato un alloggio nella caserma dell’86
Reggimento Fanteria di Milano, spergiura quello che nemmeno il Gregori dichiarerà, poi: che
l’ordine di fuoco è partito dal delegato Longhi e non dal suo ex comandante.
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L’interrogatorio del Tenente Gregori
Entra in scena il tenente Gregori, che aveva avuto un ruolo molto importante nella tragica
giornata del 6 gennaio. Annota L’Avanti!:
Eccoci al tenente Gregori, vestito di blu, teso in viso, baffi arricciati fieramente,
occhio.... quelli che siano i suoi lampi, giudicheranno i compagni. Inizia con tono quasi
spavaldo, ma grado grado poi si affloscia.
Gregori racconta di essere arrivato a Roccagorga la sera del 5 gennaio.
A distanza di poche ore dovevo ordinare il fuoco contro i contadini che, travolti i carabinieri
con una fitta sassaiola, si lanciavano all’assalto dei miei soldati, 47 per la precisione. I
dimostranti volevano, infatti, invadere la casa comunale ciò che io, per consegna ricevutane,
dovevo a qualsiasi costo impedire.
Gregori trova un collegio di difesa pronto a fare forti e precise contestazioni.
- Avv. Sarfatti: sassaiola fittissima lei ha detto. E invece la casa comunale non ha avuto
nessun vetro rotto.
- Gregori: già, perché quella gente abilissima al lancio delle pietre, mirava alla testa dei
miei soldati che io non potevo lasciar accoppare.
- Sarfatti: bene, bene. Torneremo presto in argomento. Ma frattanto ci spieghi perché lei
ha fatto dare un alloggio in caserma ad un borghese.
Gregori: per dovere di umanità.
- Sarfatti: ma il regolamento vieta di condurre in caserma chi ha nulla a che fare con il
reggimento:
- Gregori: io ho creduto di poterlo fare, giovandomi di un amico.
- Sarfatti: questo è un episodio di poco conto. Vediamo piuttosto quanti colpi furono
sparati dai suoi soldati.
- Gregori: nessuno.
- Sarfatti: c’è chi lo accusa di aver sparato contro Mario Restaini e ferito Francesco
Mattarocci:
- Gregori: falsissima accusa. Ho consegnato al mio maggiore, dopo il conflitto, i miei
caricatori intatti.
- Sarfatti: ah, si? Allora, Angela Lunghi, venite qui a smentire, se lo potete, il tenente
Gregori”.
Il confronto tra il Gregori e la Lunghi assume toni drammatici. La Lunghi, niente affatto
spaventata, sicura di sé, forte della sua verità, ribatte fermamente la sua accusa:
Sì, sì, Lei proprio è stato quegli che ha sparato la rivoltella. Lo giuro sul quel bimbo che
è in fondo a quest’aula. Sì, è stato proprio Lei...
La povera donna, vestita goffamente del costume di un altro mondo, diventa
all’improvviso la dominatrice dell’aula in tempesta. L’eroe si sente perduto, sente
l’accusa, e non scatta. I giurati hanno ascoltato anch’essi in religioso silenzio.
Ma contro il tenente Gregori c’è un documento che rivela come i fanti furono colpiti da
qualche proiettile di mitraglia, e anche con proiettile di rivoltella di ordinanza. Come a
dire: “Tenente Gregori hai sparato anche tu”. Bisognava chiarire chi aveva sparato i
colpi di rivoltella sul povero Mario Restaini. Nella piazza, secondo alcune
testimonianze, era rimasto solo il Tenente Gregori. Angela Lunghi non aveva avuto
dubbi in proposito nell’accusarlo. Del resto, la pistola d’ordinanza era in dotazione
dell’Ufficiale. L’avv. Sarfatti dichiara francamente che tra la dichiarazione del Gregori
e quella della Lunghi preferisce quella di quest’ultima che è la più veritiera. Anche i
giurati hanno sentito e maturano un loro personale convincimento.
Un ultimo teste viene chiamato a favore del tenente Gregori, il maresciallo dei
carabinieri Girolamo Piazzolla al quale viene chiesto di ricostruire i fatti che
62
precedettero l’eccidio. Piazzolla affermò, tra l’altro, che la folla di circa ottocento
persone, nella maggior parte composta da donne, tentò di disarmarlo. Egli riferisce,
inoltre, che il Maggiore di Fanteria Ricca, venuto a Roccagorga qualche giorno dopo,
gli aveva confidato:’ “In queste circostanze invece di giovanotti si dovrebbero mandare
ufficiali con i baffi e padri di famiglia”.
Alla ripresa del processo, dopo la seconda giornata, il giornalista Ciccotti anima così il
processo:
Nella udienza di ieri – disse - sono emersi elementi circa una eventuale colpevolezza del
tenente Gregori per l’uccisione di Mario Restaini e del ferimento di Francesco
Mattarocci. Ora noi che siamo imputati sentiamo il dovere, come liberi cittadini, di
domandare al Procuratore Generale se non ritenga doveroso e necessario il promuovere
la riapertura del processo a carico del Gregori acciocché sia fatta luce sull’eccidio di
Roccagorga16. Potremmo chiedere, in attesa di questo procedimento, la sospensione
dell’attuale dibattito; ma non facciamo questa richiesta, poiché abbiamo vivo l’interesse
al più presto di essere giudicati dai presenti giurati.
La richiesta del Ciccotti fu deliberatamente ignorata dalla Corte.
La testimonianza del maestro De Angelis
Un commentatore misurato, meticoloso dell’eccidio fu il Maestro elementare Ferdinando De
Angelis che sembrava uscito, come annota un cronista, da una pagina del De Amicis.
Io sono di un paese vicino a Roccagorga, di Sezze Romano. Il primo ottobre del 1912,
riuscito primo nel concorso indetto per le scuole comunali, venni ricevuto da quella
Amministrazione con tutte le facilitazioni. Mi accordarono anche l’insegnamento
superiore con aumento di stipendio. Mi usarono ogni altro riguardo. Fui invitato a
pranzo com’era consuetudine. Ma a distanza di due mesi mi dovetti fare accorto che il
Sindaco tradiva gli interessi dei cittadini per favorire la casa Doria di cui era il
rappresentante nel paese. Egli aveva in più il torto di proteggere il dr. Garzia, persona
venale e spregevole e il suo segretario comunale che non frequentava affatto il suo
ufficio. Mi staccai dai miei protettori.
- Presidente: bella gratitudine.
- Avv. Sarfatti: oh, che voleva che egli per gratitudine diventasse il complice delle male
azioni del Sindaco Rossi? Quel famoso sindaco bollato dalla sentenza di Frosinone?
- Presidente: la sentenza tratta male anche il maestro De Angelis e dice che egli è stato
un esecutore degli ordini del Mucci...
Già - continuò il De Angelis - io venni arrestato ed incarcerato, benché il giorno
dell’eccidio fossi al mio paese, per la Pasqua dell’Epifania, quantunque avessi
sconsigliato i contadini dallo scendere in piazza il 6 gennaio del 1913. Ad ogni modo il
Sindaco Rossi non è più Sindaco. Io venni assolto in istruttoria e sono ancora maestro. E
mai sono stato un pulcinella in mano altrui.
Congedato il teste, il Presidente Raimondi tenta di ricondurre il processo alle motivazioni
della sentenza del tribunale di Frosinone, dando così occasione agli avvocati della difesa di
sollevare continue eccezioni ed interruzioni, protestando contro le affermazioni grottesche di
cui era infarcita. Vi fu uno scontro molto duro tra il procuratore Porri e l’avv. Sarfatti. La
seduta fu sospesa. Alla ripresa dei lavori, però, la difesa cerca ancora di far incriminare il
tenente Gregori. Chiama perciò a testimoniare il giornalista Ciccotti.
Vediamo un po’ - disse il Ciccotti - se è possibile che resista al più lieve esame critico
l’affermazione del tenente Gregori circa le ferite d’arma da fuoco riportate dai soldati
16
Come abbiamo già visto, il tenente Gregori era stato assolto nel processo di Frosinone.
63
Squillace e De Simone. Le ‘revolverate borghesi’, dunque, sarebbero partite da una
finestra alla distanza di una cinquantina di metri. E se questo è, come si spiega allora
che le ferite stesse presentassero carattere di bruciacchiatura? È infatti universalmente
ammesso, per comuni principi di balistica che soltanto gli spari a bruciapelo
bruciacchiano le carni. Dunque, non si è sparato a distanza ma da vicino. Forse tra gli
stessi soldati. Oppure non esiste nemmeno il fatto delle revolverate né a distanza né da
vicino. Del resto come si legge negli atti processuali il soldato De Simone poté mostrare
subito le pallottole che lo avevano colpito, togliendola tra la stoffa della divisa. Ma poi è
veramente esistita la pallottola?.
Sta di fatto che gli interrogativi posti dal Ciccotti e le precisazioni fatte dall’Avv. Dominioni
non ebbero alcuna risposta.
Il racconto delle atrocità continua.
Luigia Orsini
Luigia Orsini, madre del povero bambino trucidato, viene chiamata a deporre sui fatti. Essa
racconta un suo colloquio con il sindaco Rossi, avvenuto per strada il giorno 22 dicembre del
1912, a pochi giorni dall’eccidio:
Rossi: Cosa vogliano fare i comizi? Glielo insegnerò io a questi contadinacci.
Orsini: Cosa vuole fare?
-Rossi: Cosa voglio fare? Un macello.
- Orsini: Voi? ma non siete un paesano nostro? Voi non farete nulla.
- Rossi: no, no. Io stesso mi armerò di rivoltella e cinque o sei me li beccherò io.
C’è da rimanere stupefatti e sbigottiti dinanzi alla cinica, arrogante provocazione con cui il
Sindaco Rossi si confida con la sua interlocutrice. La graduale discesa del suo prestigio
personale, l’incombente sconfitta che sentiva arrivare da parte dei suoi nemici e soprattutto da
parte degli aderenti alla Società Agricola Savoia, il timore, ormai, alle porte di perdere le
redini del potere, tutte queste cose lo facevano un personaggio sulla via del declino insieme
alla sua spavalda superbia.
Luigia Orsini continua il suo racconto:
La mattina del fatto mi fu confermato, uscendo dalla Chiesa, che quel giorno sarebbe
avvenuto un ‘macello’. La mattina stessa mio marito uscì con il bambino. Più tardi
arrivarono i soldati. Ricordandomi delle tragiche parole del Sindaco uscii di casa in
cerca dei miei. In piazza trovai donne con la bandiera. Erano quelle della Società. Le
donne furono improvvisamente investite dai carabinieri, calpestate e percosse. ‘Oh,
Sant’Antonio mio, aiutami’, gridai. Un carabiniere mi pestò sul petto, ingiuriandomi
trivialmente. Come potei liberarmi andai in cerca del mio bambino. Mi imbattei in una
fila di soldati e li vidi sparare su alcune persone. Una donna colava sangue da una mano.
Ebbi pietà e feci chiamare un uomo poco distante perché la sorreggesse. Ma quell’uomo
fu fiaccato al suolo sotto i miei occhi da una scarica di fucilate. Intanto mi sentii gridare:
‘Cosa stai qui a piangere i morti altrui? Anche tuo marito e tuo figlio sono stati
ammazzati. Caddi in ginocchio, ma trovai subito la forza di correre verso casa. Poco
dopo vidi entrare mio marito senza il bambino e con il petto squarciato. Povero il mio
uomo. Mandava sangue come una botte con la cannella. Mi parve di impazzire, di
morire. Mio figlio. Dov’era mio figlio. Era stato ammazzato in braccio a mio marito.
A pochi giorni dalla tragedia, il Sindaco mi mandò a chiamare. Dopo aver deplorato che
i morti fossero stati pochi, esclamò: “Non dite dei colpi di rivoltella, se non sapete che
‘conto vi torna’. E mi offrì cento lire che rifiutai”.
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Possiamo immaginare con quanta attenzione fosse seguita la deposizione di Luigia Orsini. Alla fine
sembrò liberarsi da un peso tremendo che si portava dentro da più di un anno.
Erasmo Pacifici
Ultimo teste del gruppo dei contadini di Roccagorga fu Erasmo Pacifici, marito della
sventurata Fortunata Ciotti, uccisa barbaramente sulla piazza. Una deposizione che recava i
segni di un dolore ancora vivo.
Dopo i colpi cercai dappertutto come un pazzo. Io ed altri tre fummo inseguiti da
fucilate per una porta. E fu di là che dovetti vedere mia moglie sanguinante al suolo,
morente. Alcuni soldati e carabinieri le stavano accanto sghignazzando, osservando che
era una bella donna. La poveretta aveva le sottane rialzate. Un cane le lambisce il
sangue. La poverina allungò la mano ad un soldato invocando aiuto. Il vigliacco le
gridò: ‘Muori!’. E la poveretta morì. Avrei voluto vedere Lei, Signor Presidente, cosa
avrebbe fatto al mio posto. Ci hanno sempre detto che noi italiani siamo fratelli e che gli
arabi sono barbari. Ma no, queste atrocità gli arabi non le fanno. Se ne vergognerebbero.
L’ultimo teste ascoltato dalla Corte fu il Segretario della Camera del lavoro di Roma il quale
disse che era giunto in paese per un’indagine sindacale ma che gli occhi gli si erano arrossati
di pianto per gli episodi strazianti cui aveva assistito nelle abitazioni delle famiglie dei feriti e
trucidati.
Mi imbattei con il Sindaco Rossi che, con ributtante cinismo, confessò alta voce ‘È capitato
poco, troppo poco. Ci voleva una lezione migliore’. Da ciò trassi dalla mia inchiesta
l’impressione che il Sindaco Rossi fosse pazzo e delinquente.
Siamo alla quarta giornata del processo, annota L’Avanti!, e ci sentiamo tranquilli abbastanza.
Il presidente Raimondi, sempre puntuale, in apertura di udienza comunica alla Corte di aver
ricevuto alcuni telegrammi, uno dei quali a firma di Vincenzo Rossi. Il cavaliere Rossi, più
volte chiamato in causa come autore morale dell’eccidio, chiedeva di essere ascoltato dalla
Corte d’Assise di Milano. L’avv. Dominioni, a nome del collegio di difesa, così commenta la
notizia:
Il signor Sindaco Rossi ha dichiarato telegraficamente d’essere disposto a contraddire in
udienza i testimoni che lo hanno accusato delle note atrocità. Orbene i testi, benché
licenziati, si mantengano a disposizione della giuria e del signor Presidente. Venga quel
figuro ed i testi confermeranno ogni circostanza già deposta. Sono stato autorizzato a far
questa dichiarazione dai testimoni medesimi. Anzi, per conto nostro, qui e fuori di qui,
siamo sempre pronti a provare le malefatte dell’ex sindaco Rossi.
- Presidente: È inutile, avvocato, che noi richiamiamo il sindaco Rossi.
- Avv. Sarfatti: v’è una sentenza che ci dice chi è.
Ma l’avv. Caldara fa chiamare per la seconda volta il teste Pio Ciotti per chiarire l’annosa
questione degli usi civici.
Mi consta - dice il Ciotti - che casa Doria si trova in conflitto con il Comune di
Roccagorga per una grossa somma da versare ad indennizzo delle tasse non pagate e
delle tasse usurpate; e mi consta pure che il commissario regio, venuto dopo lo
scioglimento dell’Amministrazione Comunale, ha sentito il dovere di rivedere i conti.
- Avv. Caldara: perfettamente. La relazione di quel commissario regio è qui, a mie
mani, e da essa risulta che mercé il proprio fattore Rossi, Sindaco dello sciaguratissimo
paese ciociaro, la casa Doria deve rimborsare almeno duecentomila lire17.
17
L’avv. Caldara si riferisce alla relazione di Vito Castellani (Ricerche sull’inosservanza del contratto del 25-101751) riguardante l’accordo tra la comunità di Roccagorga e la famiglia Orsini. La conclusione della relazione è
che la convenzione o concordia del 1751 “non solo non è stata osservata dall’Amministrazione
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Al termine degli interrogatori dei testi che avevano occupato quattro lunghe ed estenuanti
giornate, nel corso del dibattito serrato durante il quale erano emerse indicazioni precise di un
processo di sfacciata marca politica, le testimonianze dei contadini di Roccagorga avevano
dato un contributo determinante per ristabilire la verità sull’eccidio.
La conclusione del processo
La quinta giornata del processo è dedicata interamente alle arringhe degli avvocati.
L’avv. Caldara, lontano da ogni pedanteria, rilevò l’importanza morale della causa e la sua
gravità dal punto di vista giuridico. Contestò alla pubblica accusa il fatto gravissimo in un
processo politico di aver ignorato completamente il contributo delle testimonianze rese dai
contadini di Roccagorga, asserendo che le notizie pubblicate sul giornale socialista non
avevano dato il quadro esatto di quanto era accaduto a Roccagorga il 6 gennaio del 1913.
Noi vi dimostreremo - prosegue l’avv. Caldara - come ci pare di aver dimostrato che le
relazioni scritte da L’Avanti! rispondevano alla gravità dei fatti; vi dimostreremo come
gli imputati si siano mantenuti nell’orbita del diritto. I fatti stessi sono per noi e per voi
la riprova di quello che è la vita nel mezzogiorno.
L’avv. Costa preme sull’acceleratore e riferisce alla corte motivazioni sociali e giuridiche che
davano valore al processo.
Confesso - disse Costa - che in parecchi momenti, durante l’agitarsi di questo dibattito,
mi sono sentito più uomo di parte che difensore, fremendo dello stesso sdegno che
animò gli scrittori accusati: Mussolini diritto, intero, armonico; Guarino, lavoratore e
sognatore, il cui volto è irradiato da un sorriso buono ed irresistibile; Ciccotti, tenace,
baldo, schermidore; Galassi, prototipo del soldato che solidarizza sempre per la causa
del proprio partito. Ecco gli imputati. Ed essi sono accusati di reati di stampa, o meglio
di reati comuni. La dimostrazione che diede pretesto all’assassinio era pacifica, senza
armi; era una dimostrazione secondo la psicologia del paese, dove a memoria d’uomo
non si ricordava un fatto purchessia di sangue. Assassinio di Stato? Veramente. Basta
un episodio: ‘Tutte le lacrime che abbiamo versato - ha detto una teste - basterebbero a
muovere la macina di un mulino. E ha soggiunto: I carabinieri sembravano ammattiti e i
fantocchî ubriachi’. Io - continua l’oratore - non voglio infierire contro il Gregori che
provoca in noi più pietà che sdegno; ma potrei ricordare la circostanza gravissima del
ferimento di due contadini ed il fatto che egli solo avesse la rivoltella; potrei ricordare il
giuramento di Angela Lunghi: ‘Giuro sulla testa del mio bambino che voi, Tenente
Gregori, sparaste contro i due poveri infelici, con la vostra rivoltella. Su 22 colpiti concluse l’avv. Costa - ben 17 erano i feriti a tergo, mentre fuggivano e lo ha detto il dr.
Venere. La sentenza di Frosinone afferma poi che i colpi di rivoltella furono sparati da
una finestra per legittima difesa. Ma non dice da che parte. Ciccotti ha dimostrato per
contro le falsità dell’affermazione ricordando le bruciacchiature consacrate nelle perizie
ed attestanti che i colpi furono sparati a bruciapelo. Ma anche a questo proposito ne
abbiamo saputo abbastanza. ‘Dite che i colpi di rivoltella furono sparati dalla finestra ed
avrete cento lire, sobillò il cavalier Rossi alla Orsini. Se questi episodi - conclude l’avv.
Costa - non possono essere dimenticati, fate almeno, o giurati, che il dolore delle vittime
superstiti sia lenito dall’assoluzione di coloro che hanno fatto vibrare alta la protesta,
che hanno compiuto nobilmente un dovere civile.
dell’Eccellentissima Casa - cioè la casa Doria -, ma fu distrutta per la parte favorevole alla popolazione con
danno gravissimo del paese e mantenuta soltanto nella parte favorevole al principe”.
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All’arringa dell’avv. Costa seguì quella dell’Avv. Rugarli che affrontò il tema con
grandissimo rigore. Così pure l’avv. Bonavita che si sofferma ad esaminare l’articolo
sull’eccidio di Roccagorga.
Come infatti non insorgere contro i saturnali di sangue? come non levare un grido di
dolore e di pietà per le vittime per una vergogna d’Italia quali sono le troppe
Roccagorga che infestano la nostra Patria? Come non bollare a fuoco un uomo quale il
Sindaco Rossi, complice della insaziabile rapacità di quella casa Doria, che polipo
feroce aveva disteso i suoi tentacoli su quelle povere terre? Coloro che sono portati oggi
al giudizio dell’Assise, sono solo colpevoli d’aver fatto e difesa la causa dei vinti; di
aver salvato il decoro del progresso italiano. Potevano preferire la tranquillità loro
serbata dalla legge che colpisce solo il gerente; essi si presentarono invece ed offrirono
le loro persone a tutte le responsabilità. Ora non si condanna un atto di generosità e di
coraggio. Noi domandiamo che si possa dire, che se si troveranno a Frosinone
magistrati che assolsero, ma non si sono avuti a Milano giurati che hanno condannato”.
L’intervento del Procuratore Generale
Al sesto giorno del processo, prende la parola il Sostituto Procuratore Generale del Re, avv.
Porri, il quale sentite le argomentazioni serrate degli avvocati della difesa, avvertì il clima
sfavorevole della causa che era sfuggita ad un preventivo controllo.
Il Porri difese persino il tenente Gregori. Poi polemizzò con gli avvocati della difesa. Ma la
sua requisitoria non intaccò affatto l’argine che gli avvocati difensori avevano messo innanzi
nella discussione della causa.
Le conclusioni del processo furono affidate all’avv. Sarfatti che aveva due avversari da
vincere: il primo più forte, era costituito dalla gravità della causa; il secondo, meno temibile,
la replica del Procuratore Generale, al quale subito contesta:
Perché il Procuratore generale avv. Porri ha dichiarato di disinteressarsi delle
deposizioni testimoniali? E perché, invece il Presidente Raimondi ha ammesso i testi?
In sostanza il Presidente Raimondi ci ha concesso di provare la legittimità della nostra
cronaca e del nostro sdegno; la dimostrazione ci è riuscita. E noi siamo certi che, se
anche il Presidente fosse stato tra i giurati, ci avrebbe assolto.
Il collegio della difesa nutriva forti speranze sull’esito finale del processo.
Non è nuovo il fatto - continua l’avv. Sarfatti - che in processo di stampa si sia
accordata dalle autorità la prova dei fatti. Per Roccagorga abbiamo avuto la prova
provata. Il Procuratore Generale dice di non credere ai testi di difesa perché rivoltosi o
parenti di rivoltosi. Si deve allora credere ai testi di accusa che hanno interesse di non
denunciarsi per gli eventuali reati da loro commessi?
A Roccagorga il Rossi è stato sindaco per ragioni opposte. Per interessi particolari....”
L’avv. Sarfatti aveva dunque costruito il pilastro fondamentale per l’esito finale della causa.
Tutte le argomentazioni giuridiche e le riflessioni sociologiche, politiche e morali erano state
fatte, a voce alta, con logica razionalità. La strategia del collegio della difesa fu di rivolgersi
direttamente all’intelligenza e all’umanità dei giurati ai quali aveva rappresentato, con dovizia
di particolari, i passaggi più atroci del massacro di Roccagorga, e sottolineato l’importanza
delle testimonianze rese dai contadini rocchiggiani che in qualche modo avevano fatto breccia
nell’impassibile contegno dei giudici togati. Bisognava ora attendere la sentenza che avrebbe
chiuso tutte le polemiche sull’eccidio del 6 gennaio.
Mussolini, Ciccotti, Guarino e gli altri imputati furono assolti.
A Milano, l’affermazione che l’eccidio di Roccagorga fu un ‘assassinio di Stato’ non fu
punita. Fu l’unica rivalutazione morale delle vittime.
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Commenti
Ancora una volta: silenzio. Nessuno alza la mano. Vedo poca voglia di parlare.
Possiamo considerare il processo di Milano da più punti di vista, dico lentamente (è un
momento delicato e occorrono parole misurate; tra i presenti ci sono parenti, nipoti e
stranipoti delle vittime: due per tutte: Erasmo Pacifici e sua sorella Fortunata). Il
processo porta l’eccidio alla ribalta nazionale; il Partito Socialista, infatti, ha
organizzato manifestazioni di solidarietà, raccolta di fondi per le vittime di Roccagorga.
Un altro modo di guardarlo è considerarlo come una rivincita rispetto al processo di
Frosinone. Questo ora non conta più perché c’è stata l’amnistia. Ma questa è venuta
l’anno dopo. Perciò, allora, dimostrare come andarono effettivamente i fatti, poteva
influire anche sul processo d’appello a Roma. Infine, possiamo vedere nel processo la
dimostrazione del coraggio degli uomini e delle donne di Roccagorga, che, in un
contesto lontano anni luce dalla loro di vita di ogni giorno, trovano la forza di ribattere
le menzogne delle autorità. Da questo punto di vista, infatti, il processo di Milano a
Lavanti! rappresenta una riabilitazione morale.
Sì, aggiunge Vincenzo Padiglione, inserendosi nel mio discorso. Sono d’accordo, però
occorrerebbe andare un po’ più a fondo nell’interpretazione. Nel processo e,
particolarmente nel dibattimento, viene posto l’accento sull’atteggiamento di disprezzo
del presidente del tribunale e del procuratore del re. Questa è la conferma della distanza
esistente tra le classi dominanti e le classi subalterne. Non sono li sfruttano, ma li
deridono. Fatemi aggiungere una nota di tipo professionale. Come antropologo culturale
non posso non richiamare la vostra attenzione su quei gesti semplici e forti delle donne
di Roccagorga. Esprimono tutta la sacralità della loro umanità. Sembra che vogliano
dire: “Non sono le ciocie o i pennenti di corallo che fanno l’umanità; ma qualcosa di più
profondo, di sacro, che voi avete violato. Sarete maledetti per questo!”. La coscienza di
essere dalla parte giusta conferisce loro il coraggio di condannare moralmente gli
assassini: pensate alle frasi di Angela Lunghi, di Maria Coco, di Luigia Orsini! Non
sono prima di tutto una condanna all’inferno degli assassini e dei loro complici?”
Ora, però, dice a questo punto Carlo Casula, vorrei intervenire sulla prima lettura
suggerita da Vittorio. Noi, per capire bene quanto è successo a Milano, dobbiamo
considerare che già in un anno il quadro complessivo, come ho già detto prima, è
cambiato. Nel 1913 siamo al giorno dopo dell’avventura coloniale italiana in Libia. Nel
1914 – e già nei mesi in cui si celebra il processo di Milano – siamo alla vigilia della
guerra mondiale. Le forze politiche si stanno dislocando. Il nazionalismo alla fine
vincerà: il motto di Karl Marx “proletari di tutto il mondo unitevi” viene sconfitto. In
ogni paese la classe operaia e contadina segue la propria classe dirigente nazionale. A
Milano siamo forse in un momento di svolta. Gli atteggiamenti baldanzosi di Mussolini
sono certamente espressione dell’orgoglio di chi combatte una classe dirigente
spregevole ma contengono, così mi sembra, anche qualche tratto dell’avanguardismo. In
ogni caso è indubbio che il processo è stato montato incautamente dal governo e che il
campo di battaglia di questo confronto tra socialisti e governo è rappresentato
dall’eccidio di Roccagorga.
Alt, alt, dice a questo punto Giulio Cammarone. Io ho sentito dire da qualcuno, non mi
ricordo bene chi l’ha detto o forse l’ho letto da qualche parte e non me lo ricordo, che i
socialisti avevano strumentalizzato l’eccidio. Da quello che dice il prof. Casula, allora,
devo pensare che il governo ha cercato di usare l’eccidio di Roccagorga per dare una
lezione ai socialisti. Sì, rispondo a questo punto io; lo dice esplicitamente Mario
Ferarrese. Però, su questo argomento ritorneremo.
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Mentre dico queste cose vedo un po’ di confusione. Chi si gira da una parte, chi
dall’altra; chi allunga la testa per vedere meglio. Getto lo sguardo verso la Chiesa e
capisco la ragione della confusione: escono gli sposi e si gettano confetti, grano e riso.
Vi sono applausi e mortaretti. Poi, lentamente, il corteo matrimoniale si avvia verso Via
Cristoforo Colombo tra colpi di clacson.
Sono già le dodici e mezza. Il gruppo dei lettori e commentatori, però, dopo la pausa si
ricompone. Sento dire da parte di qualcuno che, a quest’ora sarebbe meglio andare a
pranzo. Sì, commento, forse è meglio così. Se vi sta bene, però, dovremmo decidere
come procedere. È presto detto, propone Eros. Abbiamo parlato degli avvenimenti e dei
processi. Ora dovremmo parlare un po’ più approfonditamente dei personaggi principali
e poi fare un commento conclusivo. Se siete d’accordo con questa proposta – dico – ci
vediamo come ieri vero le quattro e mezzo davanti all’ex bar di Rosa. E ci avviamo alla
spicciolata verso il pranzo.
Io, però, ho un problema in più: cercare di spiegare al mio nipotino Luca Martino,
milanese, che cosa è accaduto a Milano. Ha sei anni ed è stato buono tutto il tempo con
sua nonna, ma non ha capito gran che, se non che si parlava di Milano: la sua città. A
tavola, però, comincia giocare con il suo cuginetto Francesco e si passa presto bena
altri argomenti di dibattito.
SECONDA GIORNATA
Pomeriggio
Verso le quattro e un quarto ci avviamo di nuovo verso la piazza. Non mi aspetto molte
presenze: fa un po’ caldo e, suppongo, molti ne avranno approfittato per fare un po’ di
siesta. Sono più della mattina, invece. Buon segno, mi dico. Vuol dire che la lettura
collettiva funziona.
Ci mettiamo rapidamente in circolo. Ormai ognuno sa come si svolge la faccenda. Dopo
i saluti e il benvenuto ai nuovi venuti, propongo di riprendere il racconto. L’argomento
era – vi ricordate? – i protagonisti. Se siete d’accordo io comincerei con una chicca:
l’intervista ad un protagonista, anche se non principale, degli eventi del 6 gennaio 1913.
Ma sono cent’anni, ormai – dice dalla prima un giovane con le treccine che stento a
riconoscere – dove si trova ancora in vita un protagonista?
No, non è più in vita, rispondo, ma l’ho intervistato qualche anno fa. È Cornelio De
Nardis che abbiamo già incontrato al processo di Frosinone.
Ah, mbè, volevo dire – aggiunge lui.
Se siete d’accordo allora procediamo con la lettura dell’intervista. Chi legge?
Si alza Pier Giulio. Se volete posso farlo io, dice. Ma c’è bisogno di un altro per
riprodurre la cadenza delle domande e delle risposte. Ancora una volta Luisella
Benedetti offre il suo contributo e cominciano:
69
Intervista al signor Cornelio Giuseppe De Nardis18
Hai visto questi due libri sul 6 Gennaio 191319?
I due libri sono specifici. Uno si mantiene ad un certo livello mentre quello di Ferrarese mi
sembra più elaborato, almeno questa è la mia opinione.
Tu eri membro della Società Agricola Savoia?
Sì, ero membro di questa società.
Racconta un po’ come fu costituita e guidata.
Attualmente la maggior parte delle cose sono già note, perché su questo argomento hanno già
scritto.
Chi ha preso l’iniziativa per costituire questa società?
Dante Mucci fu l’iniziatore.
Ma Dante Mucci era socialista? Aveva un rapporto politico con i socialisti?
No. Non aveva nessun rapporto con i socialisti. Non credo che avesse alcuna idea del
socialismo.
C’era qualcuno che allora, a Roccagorga, era socialista?
Sì, mio zio Beniamino Rossi era socialista ma in quel periodo non era presente perché era in
America.
Delle altre persone che erano in America, hai ricordi di Domenico Menta?20 No. Mi ricordo
di Quirino Morelli, che era mio amico di infanzia e che fu in prigione con me. C’era
Guglielmo Minarchi….
In prigione con te?
Sì, era stato in prigione con me.
Dove? In America o qui a Frosinone?
A Frosinone.
Quanti anni avevi quando si sono svolti gli avvenimenti?
Avevo diciassette anni. Facevo parte della Società Agricola Savoia.
Questa lega era composta solo da contadini o vi erano anche proprietari?
No. I proprietari di Roccagorga erano contadini che avevano un pezzetto di terreno qua e là e
non si potevano certo considerare proprietari.
C’era, allora, un certo numero di famiglie benestanti che avevano più terra, cavalli, pecore,
capre, ecc.?
La mia famiglia aveva poco più degli altri. Non avevamo molta terra ma quella che avevamo
era sufficiente per mantenerci. Non avevamo bisogno, insomma, di dipendere dalla famiglia
Rossi o dai Doria.
Facevate parte della Società Agricola Savoia più di uno in famiglia o ne facevi parte solo tu?
Come singola persona.
In famiglia questo era stato discusso o era una tua scelta personale?
18
19
L’intervista è stata effettuata da Vittorio Cotesta il 18 giugno 1982.
Trattasi di A. Restaini, Roccagorga (Roma, 1980) e di Mario Ferrarese, La repressione liberale. Roccagorga 6
Gennaio 1913 (Latina, 1981).
20
Domenico Menta, socialista, è in America quando si svolgono gli avvenimenti del 6 gennaio 1913. Egli torna
in Italia dopo i fatti, nel corso del 1913 e tiene la commemorazione dell’Eccidio il 6 Gennaio 1914. Con
Beniamino Rossi guiderà poi la prima amministrazione Rossa (Vedi V. Cotesta, Domenico Menta, Roccagorga,
1976).
70
Era una cosa mia personale.
Tu eri qui anche il giorno 6 Gennaio 1913?
Sì.
Rispetto a quello che è stato raccontato nel libro di Ferrarese, gli avvenimenti si sono svolti
proprio così o tu hai altre cose da aggiungere?
Ci sono certe cose che non sono note. Per esempio, vi sono cose che sono successe prima
dell’eccidio ma che comunque si ricollegano a questo.
Ad iniziare dall’8 Dicembre del 1912 fino al 6 Gennaio 1913 a Roccagorga successero degli
incidenti. Il sindaco si era accorto che noi eravamo in movimento. Infatti, mentre prima le
forze dell’ordine, che venivano a Roccagorga da Maenza, si facevano vedere solo
saltuariamente, in quel periodo vennero tutti i giorni.
Perché, c’era movimento nel paese?
Sì. Il sindaco aveva sentito il bisogno di avere a Roccagorga i gendarmi più stabilmente. In
quel periodo, non ricordo precisamente il giorno, ci fu un incidente, proprio all’imbocco di via
C. Colombo. Il Sindaco Rossi, come già detto, pretendeva che le forze dell’ordine fossero
stabilmente a Roccagorga. Una notte, un uomo che andava per via C. Colombo (allora
“Stradanova”)21, fu fermato, proprio all’imbocco di questa via, dalla polizia e perquisito.
L’uomo non portava niente addosso ma gli fu messo un coltello in tasca per arrestarlo.
Chi era quest’uomo?
Non ricordo. Sono passati settant’anni.
Questo era un segno di ciò che si stava preparando?
Certamente.
Tu hai detto che l’eccidio, per come è stato raccontato da Ferrarese, si avvicina molto alla
verità. A noi interessa soprattutto sapere ciò che è accaduto dopo l’eccidio, la sera, il giorno
dopo, insomma tutto quello che si è svolto fino al processo di Frosinone.
Voglio ricollegare questi fatti al momento del mio arresto.
Come e quando ti arrestarono?
Mentre si stava svolgendo la manifestazione, una donna andò sul balcone dove Dante Mucci
stava parlando, prese la bandiera e la portò in piazza. Qui i carabinieri tentarono di
togliergliela e ci fu lotta. La bandiera fu lacerata. La gente incominciò, in quel momento, ad
affluire verso le due rampe che dalla piazza portano al comune. Io rimasi nella sede della
Società Savoia perché ero il bidello. Io, infatti, prima della manifestazione, chiesi alle donne
di togliersi gli spilloni dai capelli e agli uomini di depositare presso la sede della società i
coltelli eventualmente posseduti. Così alla manifestazione nessuno portò una qualsiasi arma.
Quelli che passarono alla rampa di sinistra, arrivati davanti alla chiesa, si dice che tirarono
sassi verso le forze dell’ordine ma questo non mi risulta.
Quando io vidi la gente prendere per le due rampe, uscii dalla sede della società e mi recai da
mia nonna. Qui fui arrestato.
Ti arrestarono senza aver fatto niente….
Mi arrestarono soltanto perché facevo parte della Società Agricola Savoia.
Ti arrestarono in mattinata?
No. Fui arrestato verso le due o le tre di notte.
Dopo l’arresto dove ti portarono?
A Priverno.
Quanti giorni sei rimasto a Priverno?
Una notte.
Chi c’era con te a Priverno?
21
La via di accesso a Roccagorga fu fino alla fine del secolo passato l’attuale via Borgo Madonna. Nel 1987-88
fu aperta una nuova via, tagliando il Palazzo Milza, l’attuale via C. Colombo, chiamata “Stradanova” perché
costruita da poco.
71
Eravamo in tanti. La maggior parte degli arrestati eravamo lì. Ci misero in una stalla.
Dormivamo sul fieno.
Non ricordi quanti eravate?
No, non ricordo.
Dopo quella notte dove sei stato?
Ci portarono a Velletri e di là a Frosinone.
Quante persone eravate in viaggio?
Non ricordo… eravamo circa una quarantina.
Con voi si era messo in contatto qualcuno? Qualche avvocato, qualche rappresentante
politico?
Non potevamo parlare con nessuno.
Durante il viaggio, quindi, non avete avuto nessun contatto?
No.
Avrai saputo che la stampa si era occupata della cosa e che l’eccidio di Roccagorga era su
tutti i giornali? A Frosinone quando sei arrivato?
Siamo arrivati nella stessa giornata in cui siamo partiti da Priverno.
A Frosinone vi misero tutti insieme?
No. I minorenni con i minorenni e i maggiorenni con i maggiorenni.
E quanti eravate i minorenni?
Eravamo diciotto. Non eravamo tutti di Roccagorga. Di Roccagorga eravamo in quattro, altri
erano delinquenti comuni.
Questi ragazzi di Roccagorga che lavoro facevano?
Erano tutti contadini.
Quanto tempo sei rimasto a Frosinone?
Sono rimasto lì nove mesi.
Ma questo prima del processo….
Certamente.
Chi erano i vostri avvocati?
Erano Volpi, Marzi ed altri che non ricordo.
Marzi era un avvocato socialista di Frosinone. Era rappresentante della Lega dei contadini.
Che tu sappia, questo contatto con Marzi chi l’ha avuto?
Vorrei dire una cosa. Mentre ero in prigione, feci domanda per avere un avvocato. Me lo
mandarono e questi mi disse: “Perché vuoi un avvocato? Tra pochi giorni avrai tanti avvocati
che non saprai cosa farne”. Io chiesi da dove venissero e l’avvocato mi rispose che
provenivano da tutte le parti d’Italia. In carcere eravamo all’oscuro di tutto, non sapevamo
nemmeno degli articoli di Mussolini né degli articoli degli altri giornali.
Tu sapevi leggere e scrivere?
Sì. Avevo frequentato la terza elementare.
Leggevi qualche volta l’Avanti! Si acquistava anche in carcere?
No, perché in carcere non c’erano giornali. Si poteva prendere qualche libro dalla biblioteca.
Dopo un mese di isolamento ci fu permesso di ricevere visite. Ricevetti lettere da mio padre e
da mio zio Beniamino Rossi che erano in America. Mia madre veniva a trovarmi due volte la
settimana. Veniva a piedi. Le visite di mia madre mi permettevano di acquistare libri
all’esterno del carcere. Non potevo mangiare cibo del carcere perché nella prima settimana di
carcerazione avevo visto una cosa da far rabbrividire: nella carne che ci davano c’erano dei
vermi. Così per l’intero periodo dell’isolamento mangiai solo pane e acqua.
Il processo quando si è tenuto?
Il processo si tenne nel mese di settembre o ottobre del 1913.
Ricordi chi erano gli altri imputati e quanto tempo durò il processo?
Il processo durò un mese.
E tutti i giorni andavate al Tribunale?
72
Sì.
Degli avvocati difensori ricordi soltanto Marzi e Volpi?
Anche Treves ricordo….
Ricordi quale fu l’atteggiamento degli imputati? Come è stato, coraggioso, sottomesso,
umile…
Era umile. Io mi sentivo perduto.
Perché questo sentimento di umiltà, di paura?
Eravamo ragazzi, cosa potevamo fare? Io conoscevo appena Roccagorga, Sezze, Maenza e
Priverno. Velletri lo vidi per la prima volta quando mi trasferirono dal carcere di Priverno a
quello di Frosinone.
Durante il processo chi di voi parlava? C’era uno che parlava per tutti o ognuno parlava per
sé?
Rispondevamo soltanto a quelle poche domande che ci facevano. Interrogavano soprattutto i
testimoni ma anche questi non potevano dir molto perché altrimenti venivano eliminati.
Quali erano le ragioni per cui eliminavano i testimoni?
Il fatto è che per una ragione o un’altra i testimoni erano parenti degli imputati. La corte, visti
gli atteggiamenti favorevoli dei testimoni per gli imputati, prendeva a pretesto questo fatto per
eliminarli.
Secondo quello che ricordi, i testimoni ti sembrarono attendibili o non attendibili?
I testimoni erano attendibili. Quello che mi fece più impressione fu la testimonianza, poco
attendibile, del prete di Roccagorga. Si chiamava don Checco. Era un prete che mi piaceva ma
in quel processo fece una testimonianza in cui affermò che la Società Agricola Savoia era una
società segreta. La cosa mi diede molto fastidio perché il prete sapeva che non era così.
Un punto oscuro delle ricerche fatte fino ad ora, è stato il comportamento della Chiesa.
Adesso viene fuori questo comportamento ambiguo di don Checco. Che tu ricordi, la chiesa
appoggiò i contadini quando fu costituita la Società Savoia?
Credo che fosse neutrale.
Allora, Roccagorga, quanti preti aveva?
Erano in tre.
Però al processo di Frosinone è venuto soltanto don Checco che ha testimoniato contro di voi
dicendo che la vostra era una società segreta.
Dopo essere usciti di prigione tornammo a piedi a Roccagorga e qui in Borgo S. Antonio c’era
una gran folla ad aspettarci.
Avevano saputo della vostra liberazione?
Sì. Erano tutti contadini ad aspettarci.
Dopo che giunsi a Roccagorga non riuscivo a dormire, un po’ per l’eccitazione e un po’
perché venivano a trovarmi gli amici. Nel palazzo di fronte a casa mia abitava il parroco
Orsini, il quale un giorno affacciandosi alla finestra mi disse: “Peppino è tempo di ritornare in
Chiesa” ed io istintivamente risposi che la chiesa non l’avevo mai abbandonata. Dopo, però,
ripensando al comportamento di don Checco al processo, pensai che prima del mio ritorno in
Chiesa avrei aspettato l’evolversi degli eventi.
Torniamo al processo di Frosinone: dicevi che gli avvocati si davano molto da fare ma i
testimoni venivano sistematicamente eliminati, per la maggior parte, perché parenti degli
imputati. Ricordi se c’è stato qualche episodio di pressione sui testimoni per farli
testimoniare a vostro favore o contro di voi oppure qualche episodio di persone che, oltre don
Checco, hanno testimoniato il falso?
Precisamente non ricordo niente di particolare. Solo che don Checco, che per me era una
persona stimata e corretta, non si comportò bene.
Dopo un mese vi è stata la sentenza? Tu sei stato condannato o assolto?
Sono stato condannato a tre mesi.
Però ne avevi già scontati nove.
73
Sì.
Hai avuto qualche indennità per i mesi trascorsi in più in carcere?
No. Nessuna forma di indennità.
Fosti liberato all’istante?
Fui liberato alla fine del processo.
Quante persone furono liberate?
Credo che furono liberate 36 o 37 persone.
Chi rimase dentro?
Dante Mucci. Un altro fu liberato circa dopo due mesi.
Subì, quindi, una pena superiore alla condanna, come te?
Sì.
Dopo che sei tornato a Roccagorga, la società fu ripresa? Ci fu la possibilità di organizzare
la solidarietà fra i contadini?
Dopo quegli avvenimenti non si fece più nulla perché quando tornai dal carcere la Società
Agricola Savoia non esisteva più.
Ho letto che l’anno dopo, nel 1914, fu celebrato l’eccidio da un gruppo di socialisti che si
raccoglieva attorno a Beniamino Rossi e il discorso fu tenuto da Domenico Menta. Ricordi
quest’episodio?
No, perché non ero qui.
Mia madre aveva avuto paura. Io avevo capito l’ingiustizia patita. Conoscevo gli ambienti ed
ero sempre in compagnia di chi lottava per risolvere i problemi della povera gente.
Tua madre, allora, dove ti mandò?
Mia madre vide che ero diventato un ribelle. Non ero socialista. Diventai socialista in
America.
Quando sei partito per l’America?
Partii il 10 marzo del 1914. Mia madre mi fece il passaporto a mia insaputa ed io seppi che
dovevo partire per l’America soltanto due giorni prima.
Di questi fatti se n’è parlato in America?
Sì, se n’è parlato. Anch’io ne parlai molto. Dopo essere arrivato in America diventai socialista
e organizzai una sezione tra gli italiani.
In quale città degli Stati Uniti?
A New London nel Connecticut.
C’erano molti italiani lì? Quanti erano di Roccagorga?
Non ricordo precisamente quanti erano di Roccagorga. In tutto eravamo centocinquanta o
centosessanta.
Che lavoro facevano gli italiani?
Facevano lavori vari. Chi lavorava nelle fattorie, chi in fabbrica…io lavoravo in una fabbrica
dove si costruivano macchine per sottomarini.
Anche a New London si parlava degli avvenimenti di Roccagorga?
Sì, perché c’erano molti rocchigiani.
L’opinione qual era? Questa ribellione era considerata giusta o errata?
Si diceva che era giusta. A qualsiasi persona che si faceva questa domanda, la risposta era
sempre che la ribellione era stata giusta.
La colpa di tutto, delle morti, dei feriti, delle carceri che avete subito a chi l’attribuivate?
Le cause?
No, la colpa. Si riteneva che la responsabilità fosse di qualcuno in particolare? Alcuni
dicevano il Sindaco; altri Dante Mucci, perché era una testa calda, ecc.
L’opinione tua qual è?
La mia opinione è che tra il Sindaco e Dante Mucci c’era una rivalità ma non per questo dico
che il colpevole sia stato Mucci. Questi era molto amico dei contadini. Voleva bene a questa
gente.
74
È per questo, quindi, che aveva fondato la Società Agricola Savoia?
Certamente.
Non furono, quindi, attribuite, da parte dei contadini, responsabilità a Dante Mucci?
Io posso dire, e questa è la mia opinione, che il Sindaco e il Mucci furono entrambi
responsabili in questo senso: il Mucci perché quando si eccita la gente non si sa mai come va
a finire e il Sindaco perché faceva gli interessi dei Doria a danno della popolazione che egli
rappresentava.
Mucci era consigliere comunale, però. Di minoranza ma sempre consigliere comunale.
Sì, era consigliere comunale.
La causa degli scontri, tu pensi, fu determinata dal fatto che il Sindaco faceva gli interessi dei
Doria invece quelli della popolazione?
Sì. Tutto nacque per quella questione. Man mano che trascorreva il tempo, i contadini si
vedevano sempre più negare i propri diritti. Le donne non potevano neanche andare in
montagna a far legna. Quando venivano prese venivano multate. I pastori non potevano
pascolare sui terreni comunali. La maggior parte dei contadini avevano terre del principe
Doria e quindi dipendevano da questo. Loro coltivavano questa terra e al raccolto dovevano
dare parte di questo ai Doria. Molte volte ai contadini restava la metà della metà e forse meno.
Poi c’erano gli usurai che quando prestavano cento lire ne pretendevano dietro mille. Non si
riusciva mai a liberarsi di loro.
Tu confermi, quindi, l’opinione che la rabbia della gente fosse giusta?
Sì, penso che fosse giusta… giustissima.
Hai altre cose da aggiungere?
Non so se vale la pena di raccontarlo, ma quando fui arrestato un tenente voleva perquisirmi
ma per paura che mi mettesse qualcosa in tasca di compromettente io gli dissi che mi facesse
vedere cosa avesse in mano. Il tenente si infuriò e disse: “Ma cosa diavolo vuole questo
capraio?”
E questo perché?
Perché ripensavo all’arresto di quell’uomo avvenuto in via C. Colombo a cui fu messo un
coltello in tasca.
A te risulta che agli altri fu messo materiale compromettente in tasca?
No, eccetto quell’episodio innanzi citato, altro non mi risulta. C’è ancora un altro episodio da
raccontare. La mia famiglia aveva una vigna in località “Cavatella”. Io avevo iniziato a
piantarla. Mentre ero in prigione questa vigna venne lavorata da certi mendicanti i quali,
quando giungevano a Roccagorga, trovavano ospitalità presso mia madre. In questa vigna
c’era un canaletto, per la raccolta delle acque, che era proprio a confine con la proprietà dei
Rossi. Gli operai ripulirono questo canaletto senza chiedere alcun permesso ai Rossi. Mia
madre per questo fu multata. Io ero in prigione ed ero all’oscuro di tutto. Appena uscito di
prigione e saputo della cosa, presi il denaro per pagare la multa, lo cambiai in spiccioli e
incontrato il Sindaco in Piazza gli gettai questo denaro addosso dicendogli: “Questi sono i
soldi della multa”.
E non ti fece niente?
No. Questo fatto mi sorprese poiché avrebbero potuto arrestarmi. Questo fu anche uno dei
motivi per cui mia madre mi mandò in America.
Tu pensi che questo lavoro di ricerca che stiamo facendo, raccogliendo notizie storiche,
pubblicando libri, eccetera, stiamo preparando, addirittura, uno spettacolo teatrale
sull’eccidio, sia una cosa giusta o pensi che questi avvenimenti siano da dimenticare?
Io sono dell’opinione che l’eccidio di Roccagorga servì a migliorare le condizioni dei
contadini di tutta l’Italia e penso, quindi, che è una buona cosa che si ricordino questi
avvenimenti.
Tu sei in contatto con la gente di Roccagorga che c’è negli Stati Uniti. Non si potrebbe
tentare di ricordare questi fatti, di distribuire le nostre pubblicazioni?
75
Sì, penso proprio di sì.
Possiamo allora mandarti delle copie del libro di Ferrarese. Ci sono italiani che lo
leggeranno?
Penso che gli italiani e soprattutto i Rocchigiani siano interessati alla lettura di questo libro.
Quando ripartirai per gli Stati Uniti?
Lunedì 20 Giugno.
Tornerai a gennaio per assistere alle celebrazioni del settantenario dell’eccidio?
Non so se l’età me lo permette.
Sei d’accordo se pubblichiamo questa tua intervista?
Mi sento orgoglioso di aver contribuito a queste vostre ricerche.
Grazie, Luisella, grazie Pier Giulio, dico, e poi rivolto agli altri chiedo se ci sono
interventi.
Però, dice Vincenzo Padiglione, alzandosi in piedi, avresti potuto chiedergli di più. Per
esempio, qualcosa sulla vita di allora, sulle case, sui costumi, tutte cose che avrebbero
ampliato le nostre conoscenze partendo da una fonte diretta.
È vero, rispondo, ma devi tenere conto di due cose. Primo, De Nardis aveva una bell’età
(ottantasei anni, mi pare). E faceva una certa fatica a parlare. Secondo, molte delle cose
che tu avresti chiesto, io le sapevo già. Infatti, fino a dopo la seconda guerra mondiale,
le condizioni di vita a Roccagorga non erano gran che cambiate rispetto a trent’anni
prima. Quando leggo nei documenti o nelle ricerche la descrizione di Roccagorga del
primo decennio del secolo mi ritornano in mente le cose viste quando ero bambino.
Perciò ho sempre cercato di avere anche un occhio esterno a Roccagorga nello studio
della sua storia. Noi, certamente senza volerlo, tendiamo a sopravvalutare o a trascurare
cose che, invece, potrebbero essere importanti.
Jan, a questo punto alza la mano e, visto il mio segno di invito a parlare, aggiunge:
questa è una questione sempre aperta. Ogni verità è ciò che sappiamo in quel momento
e i condizionamenti possono essere diversi: personali, culturali, religiosi e così via.
L’importante è non ritenere assoluta la verità che abbiamo in quel momento.
Mentre mi giro intorno per vedere se ci sono altri che vogliono parlare, scorgo Vincenzo
Vuri che cerca di spiegare (così mi pare, almeno) ad un suo vicino di sedia il concetto.
Bene, concludo. Allora possiamo andare avanti. Abbiamo una riflessione di Padre
Aleandro sulle donne del 6 gennaio 1913. Vorrei pregarlo di leggerla, dico girandomi
verso di lui che sta seduto proprio vicino a me.
Io l’ho scritta, risponde Padre Aleandro, ma siccome ci sono persone che possono
leggere meglio di me, sarebbe opportuno farlo fare a loro.
Volgendomi verso Alessandra Gigli, la prego di leggere.
Alessandra prende in mano il testo di Padre Aleandro e comincia:
Le donne del 6 gennaio 1013
Io ho fatto una lettura dell’eccidio con lo sguardo al femminile, seguendo un percorso di
senso per dare voce e dignità ad una lotta che fa delle donne di Roccagorga delle protagoniste,
senza forse rendersene conto. Esse hanno scritto una lettera d’amore a più mani in cui i valori
si coniugano con l’impegno a non smettere di lottare per la giustizia e per la libertà rispettosa
del bene comune, attivando una pedagogia della memoria per riuscire a lasciare nel tempo
un’immagine evolutivamente positiva, come la scia infuocata dietro una stella cadente.
A seguito dell’Istruttoria iniziata il 10 Gennaio 1913 ed affidata alla Sezione di accusa di
Roma, 65 cittadini di Roccagorga, vengono indiziati di lesioni volontarie nei confronti dei
76
militari, mentre il Tenente Gregori (unica figura istituzionale coinvolta) viene accusato di
eccesso di legittima difesa ….
Tutti gli imputati sono accusati, “in correità tra loro, di avere usato violenza e minacce contro
pubblici ufficiali e agenti della forza pubblica, opponendosi a che questi adempissero i doveri
del proprio ufficio, e di aver preso parte alla esecuzione del delitto di lesioni volontarie
mediante scaglio di sassi, senza che se ne conoscano i precisi autori”.
Le 15 donne sono: Tommasina Cipriani (anni 27), Maria Fusco (anni 40), Loreta Coia (anni
40), Albina Scacchetti (anni 46), Teresa Agostini (anni 40), Antonia Frateschi (anni 17),
Tommasina Scacchetti (anni 22), Augusta Briganti (anni 27), Luisa De Meis (anni 26), Cesira
De Meis (anni 21), Vittoria De Meis (anni 18), Vittoria Ciotti (anni 40), Maria Foglietta (anni
48), Costantina Asci (anni 45), Maddalena Cotesta (anni 48).
I fatti ci descrivono varie fasi in cui le donne sono protagonisti. La cornice è la piazza: sono
finiti i due discorsi programmati di Antonio Basilico e di Dante Mucci. Dal balcone della casa
Pacifici, sopra la sede della “Società Agricola Savoia”, sventola la bandiera societaria, esposta
fin dalle ore 8 del mattino di lunedì 6 gennaio 1913. La manifestazione è organizzata dalla
stessa Società Agricola, costituita da alcuni contadini tornati dall’America e incoraggiata dalle
autorità locali. L’Associazione è apolitica ed ha intenti di mutuo soccorso tra contadini.
Domenica 5 gennaio 1913: i rappresentanti della Società Agricola Savoia inviano
un’informazione che il giorno successivo ci sarebbe stata una manifestazione di protesta
contro l’Amministrazione Comunale. Il Delegato del Viceprefetto di Frosinone, Longhi, ha il
sospetto che il corteo mascheri l’intenzione di invadere il Municipio, e nega l’autorizzazione,
concedendo solamente il permesso di tenere il comizio. Inoltre chiede alle autorità superiori
l’invio di cinquanta militari di truppa e di portare a trenta il numero dei carabinieri. Nella
stessa serata giungono a Roccagorga 50 soldati del 59° Reggimento di Fanteria di stanza a
Velletri, al comando del Tenente Giovanni Gregori, mentre il numero dei carabinieri presenti
è di 37.
La dimostrazione si conclude senza alcun incidente. Mucci testimonia a Frosinone: “Per
primo al comizio parlò il Basilico, ma il popolo mormorava che anche noi eravamo d’accordo
con gli altri. Allora parlai anch’io per far comprendere che non si poteva ottenere tutto in una
volta. Il popolo cominciò a reclamare la bandiera per metterla davanti alla Società: le donne
presero infatti la bandiera e scesero nelle scale” (La Stampa, 10 agosto 1913).
E appena le autorità notano che la folla non dà segnali di sciogliersi, sentono delle grida: “Al
Municipio! Fuori! Fuori! ... e nella sede della Società, la bandiera tenuta dalle donne accanto
agli oratori sul balcone, viene portata in strada” e a questo primo nucleo si forma “un
raggruppamento serrato di persone, la bandiera giunge al centro della piazza” (La Difesa del
Contadino). A questo punto parte la ‘passeggiata di protesta’: “Un gruppo numeroso di
intervenuti, comprese parecchie donne, volle recarsi sotto il Municipio e ripetere l’espressione
della volontà popolare, affermata nel comizio stesso”.
Appena fuori dal portoncino di casa Pacifici, Albina Scacchetti e altre donne si impossessano
della bandiera. Basilico e Mucci invitano alla calma, dal corteo si levano insulti, tipo:
‘venduti!’.
Il Delegato di Pubblica Sicurezza, Longhi, decide di bloccarle: un nucleo di carabinieri
raggiunge le donne con l’ordine di strappare la bandiera dalle loro mani. L’intervento causa
una colluttazione violenta: le donne si oppongono e si scatena una lotta tra carabinieri e donne
che non vogliono cedere la bandiera.
È il momento in cui le donne diventano protagoniste della rivolta: “Il popolo cominciò a
reclamare la bandiera... Io rimasi su e mi affacciai al balcone: le colluttazioni già
incominciavano. Io gridai alle donne: ‘Lasciate la bandiera, non vi rovinate, ne faremo
un’altra’. Ma le mie parole cadevano nel vuoto, il popolo era agitato ed i carabinieri dovettero
cedere all’onda della folla e fuggire” (Dante Mucci al processo di Frosinone).
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La situazione precipita e la cronaca registra: “L’apparizione del Vessillo scatena l’ira dei
Reali Carabinieri, ... e sul balcone si impegnò una violenta colluttazione per impedire che
fosse asportata la bandiera, mentre gli altri assalivano senza ragione e percuotevano la folla
rimasta in piazza” (L’Avanti!, 8 gennaio 1913).
Nel processo di Frosinone il carabiniere Giulio Gimori afferma: “Noi eravamo vicini alla
chiesa col maresciallo e col tenente. Sotto casa Pacifici vi era un mio collega che attendeva gli
ordini del Tenente. Giunsi quando il Delegato intimava lo scioglimento. Essendoci stato
ordinato di impadronirci della bandiera, avvennero serie colluttazioni ed io ricevetti un colpo.
Non è vero che siano state date delle sciabolate. La bandiera fu tolta. In quel momento, un
individuo, che si era impossessato dell’asta, stava per darmela addosso, ma io mi scansai.
Dopo avvenne un movimento verso la chiesa per sbarrare il passo; noi sguainammo le
sciabole perché ci si faceva contro una fitta sassaiola: tutti indietreggiarono” (La Stampa, 12
agosto 1913).
Il carabiniere Domenico Ceccobelli testimonia: “Io accorsi sulla piazza Vittorio Emanuele nel
momento in cui le donne si avanzavano con la bandiera sociale, il che fu impedito da un
gruppo di carabinieri con i quali avvenne una colluttazione. Alcune donne che avevano dei
bambini in braccio caddero a terra e naturalmente vi fu uno scambio di urtoni e di pugni”.
Nell’udienza del 14 agosto lo stesso carabiniere asserisce che si trattò di ‘assalto’ da parte dei
carabinieri contro “donne che sembravano belve uscite da un serraglio”.
La difesa processuale descrive i fatti: “le donne tentarono trarre la bandiera fuori dal portone
di casa Pacifici, un gruppo di carabinieri si era lanciato subito addosso a loro dando pugni e
calci in modo bestiale, gittandole a terra… aggressione violenta fino al punto da far cadere a
terra e da travolgere donne e bambini… da qui è derivata l’ira della folla, con conseguente
sassaiola” (avv. Natalino Patriarca, processo di Frosinone, Quel giorno, p. 106).
Il carabiniere Ranieri Domenico, assieme ai colleghi Rea Vincenzo e Palumbo Giuseppe,
Vona Vitale e Canonici, si impadronisce della bandiera sotto il comando del Tenente
Catalano.
Le Autorità e i Carabinieri cercano di fermare l’ardire della vessillifera, ma Albina, tra urla e
grida, aiutata da altre donne, si oppone con forza. Volano calci e anche alcuni sassi. Le donne,
alcune con bambini in braccio, resistono all’urto con pugni e spinte per non farsi togliere la
bandiera. Una donna nel tafferuglio rimane gravemente ferita. Alcune cadono a terra, e dalla
folla una voce grida contro i carabinieri: ‘ammazzateli, scannateli…’.
Il teste Ferrarese Saverio rammenta al processo di Frosinone “di aver visto i carabinieri
precipitarsi su quelli che erano intorno alla bandiera distribuendo pugni e schiaffi. Vide
Mattia Lombardi preso a pugni da alcuni carabinieri” (La Stampa, 20 agosto 1913).
Luigia Orsini descrive i fatti così:
In piazza trovai donne con la bandiera. Erano quelle della Società. Le seguii. Le donne
furono improvvisamente investite dai carabinieri, calpestate e percosse. ‘Oh
sant’Antonio mio, aiutami’, gridai. Un carabiniere mi pestò sul petto, ingiuriandomi
trivialmente.
“Varie donne erano state ferite da sciabolate e mentre una violenta sassaiola infieriva, la
truppa caricò la folla più volte colla baionetta” (Lombardi Mattia al processo di Frosinone).
Il Pubblico Ministero, però, contesta la tesi della Difesa: “La Difesa opporrà che si trattava di
donne inermi con i bambini in braccio, lattanti, ma faccio considerare che la bandiera fu
ridotta a brandelli e l’asta fu fatta a pezzi. Come la bandiera sarebbe stata ridotta in tale modo,
se non ci fosse stata resistenza? Vi è un altro argomento a favore della premeditazione della
sommossa, ed è, che si mandarono le donne ed i bambini avanti come baluardi, sistema
odioso, venuto oggi comune in Italia per organizzare dimostrazioni che recano la morte a
vittime innocenti” (La Stampa, 29 agosto 1913). L’avvocato Colini afferma a difesa: “La
bandiera fu strappata dalle mani di quelle povere donne, senza i preventivi squilli, senza le
intimidazioni di rito, senza avere osservato le prescrizioni di legge… non appena la bandiera
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si muove da casa Pacifici, cinque metri più giù i carabinieri si precipitano per pigliarla. Non
v’era alcuna ragione per fare ciò… . È chiaro ed evidente che nessuna di queste norme di
legge fu osservata dagli agenti della forza pubblica. I carabinieri con a capo Catalano,
inveirono contro quelle povere donne… l’azione, quindi, fu illegale… e, da parte
dell’autorità, un arbitrio, un eccesso, un abuso” (avv. Colini, Quel giorno, p. 143 e pp. 148149).
Da una manifestazione pacifica si scatena la rabbia e la donna diventa il simbolo della rivolta
per le condizioni di vita e per la povertà e la miseria. La donna ne resta impigliata e ne subisce
il peso fisico, morale e caratteriale. Una rivolta che ha le sue radici all’interno della società
stessa.
Albina Scacchetti, all’età di 46 anni, diventa il simbolo dell'eccidio. Come molte donne del
tempo gestisce la vita familiare da sola, suo marito, Antonio Vito Orsini, e suo figlio
Giuseppe Rossi, avuto dal primo matrimonio con Rossi Giovanni Leonardo (24 gennaio
1886), sono emigrati negli Stati Uniti per lavoro. In quell’anno 1913 vivono in casa con lei
altri tre figli: Isolina Clorinda Matilde (5 anni), Vincenzo (11 anni) e Elvira Nazzarena Maria
(13 anni), troppo piccoli per partire con il padre.
In questa situazione Albina lotta per un futuro migliore per i suoi figli: quel giorno è in piazza
a protestare. Oltre alla sua, ci sono tante bocche da sfamare: “I carabinieri allora si
slanciarono verso colei che portava il vessillo per toglierglielo dalle mani. Ma le donne
raggruppate attorno alla vessillifera difesero accanitamente la bandiera, che nella colluttazione
venne ridotta a brandelli, mentre l’asta finiva a pezzi” (Il Messaggero, 8 gennaio 1913).
Albina verrà arrestata, processata e condannata: “A detta della pubblica accusa sarebbe stata
una violenta incitatrice degli animi durante il tumulto e di essersi colluttata con la bandiera
con un carabiniere” (La stampa, 9 agosto 1913).
La memoria di Albina, resa famosa dalle cronache, viene utilizzata come simbolo
dell’eccidio. Lo stesso logo del Centenario la idealizza avvolta dalla bandiera che si dirige
verso il Municipio. Il suo volto resta nascosto, così da entrare nell’immaginario collettivo.
Di questo simbolo femminile restano poche memorie. Qualche particolare ci viene
tramandato da nipoti e parenti, attraverso semplici aneddoti, che descrivono Albina come
forte nel carattere, nello spirito e anche nel fisico. Un’imponenza che si può immaginare nel
momento della contrapposizione con i carabinieri. Forse si è posta come portabandiera
proprio per questa corporatura, consapevole di essere un buono scudo e baluardo alla
resistenza militare.
Ma Albina è anche una donna autoritaria che “non si faceva passare neppure una mosca sotto
il naso”, senza reagire con gesti precisi. A difesa personale porta sempre uno spillone nel
busto, pronto ad essere usato come arma di minaccia e di attacco.
Tra le denunce di quel tempo vi è la critica al dottor Almerindo Garzia: Albina lo affronta un
giorno senza timore, con la consapevolezza di essere una donna sola. Difatti, ammalandosi
suo figlio Vincenzo, chiama il medico. Messa in guardia da altre persone, Albina accoglie il
medico ‘in posizione di difesa’: lo scaccia con tale violenza da farlo barcollare.
La caratteristica fondamentale, però, è quella di essere una donna solare e canterina: si
accompagna percuotendo un triangolo, dandosi così un ritmo musicale.
Albina morirà la vigilia di Natale del 1953 con nella memoria questo eroico gesto della
bandiera, dando senso alla storia di un intero paese.
Delle altre donne dell’eccidio si ha memoria perché nominate nella sentenza di Frosinone,
con la quale si descrivono le accuse, senza specificare chi abbia avuto un ruolo determinante
intorno alla bandiera. Le donne coinvolte nella protesta sono: Coia Loreta, Briganti Augusta,
De Simoni Maria, Frateschi Antonia, Scacchetti Tommasina, Fusco Alberta, De Meis Luisa,
Vittoria e Cesira. Tra esse si caratterizza Agostini Teresa in quanto identificata dal Tribunale,
“in modo concorde”, una delle più accanite ‘rivoltose’ e lanciatrice di sassi.
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Le ‘donne con la bandiera’ rappresentano il fulcro di un racconto dai contorni conturbanti.
Queste donne scatenano una reazione a catena da sfociare nella tragedia.
Nella ricostruzione dei fatti, la sequenza registra un drappello di carabinieri che sta davanti la
casa Pacifici e un altro che arriva dal Municipio: essi affrontano le numerosissime persone
accalcate in piazza e circondano la bandiera, anch’essa al centro della piazza e della folla. Un
avanzamento dei carabinieri impari e forse anche imprudente per dissuadere una popolazione
esasperata. Nessuno calcola le eventuali conseguenze: c’è una specie di ritrosia a cogliere che
la miccia si fosse accesa. Difatti lo ‘strappo’ della bandiera produce un effetto scatenante:
“L’intervento brutale contro le donne, sortì l’effetto contrario da quello desiderato dalle forze
dell’ordine; la popolazione si mosse da tutte le parti della piazza per spingersi verso la casa
comunale” (Allatta, De Meis, Assassinio di Stato, p. 71).
Dalla relazione di Nino Frongia la gravità dei fatti risulta maggiore di quanto riportato in un
primo resoconto. A distanza di una settimana dell’eccidio così riassume: “Causale prima del
conflitto fu l’uscita delle donne dalla sede della società ‘Savoia’ con la bandiera. È opinione
di tutti a Roccagorga che la dimostrazione si sarebbe svolta senza alcuna conseguenza, se i
carabinieri non si fossero slanciati con troppa violenza contro le donne per strappar loro il
vessillo. Di questo primo scontro si fanno descrizioni assai vive, ma se ne può concludere che
molte delle dimostranti furono malmenate, e che alcune si difesero reagendo disperatamente.
Una di esse aveva addentato la mano di un carabiniere, il quale sfoderò la sciabola e percosse
con una piattonata il viso della donna. Allora volarono le prime sassate, e che furono molte è
anche certo” (La difesa del Contadino, 12 gennaio 1913).
Se il fulcro della vicenda dell’eccidio ha come protagoniste le donne vuol dire che esse
escono dal loro stato di sottomesse e di persone prive di parola. Assumono il comando,
s’impossessano di una bandiera e ne fanno un simbolo di rivolta. Bandiera che rappresenta lo
Stato, i Savoia e la loro Società. Un simbolo che afferma verità contrastanti: lo Stato e le sue
regole, il popolo e i suoi irrinunciabili diritti. E la bandiera sociale diventa il motivo dello
scontro: da una parte la forza dell’ordine inviata dallo Stato e dall’altra un manipolo di donne
inferocite, soprattutto nel momento in cui sono oggetto di aggressione. Una verità combattuta
e calpestata: la bandiera viene strappata dalle mani delle donne, ridotta a brandelli e l’asta
rotta. Tre o quatto carabinieri portano i resti nei locali del Municipio.
Un fermento di “una folla angariata ed oppressa” diventa ad un tratto cosciente “della sua
forza e della sua natura”, trovando la sua giustificazione “nella necessità di uscire dalle
tenebre oscuranti per essere baciata dai primi raggi della civiltà. Nell’Epifania, luce di
redenzione, osò iniziare questo movimento liberatore” (avv. Colini, Quel giorno, 150 e 154).
Le donne, perduta la bandiera, si agitano ancora di più e furibonde si dividono in due
tronconi. Seguite da molti si dirigono sulle due rampe che conducono al Comune. Una folla
inferocita, con risolutezza e veemenza, grida e avanza come un sol corpo: prima i ragazzi e le
donne, poi gli uomini.
Al processo di Frosinone il Presidente così riassume i fatti prima di passare agli interrogatori:
“La folla dei contadini, eccitata improvvisamente contro l’amministrazione comunale,
organizzò il giorno dell’Epifania di quest’anno una violenta dimostrazione cercando di
invadere il palazzo comunale, al che si opposero i funzionari, le guardie e la truppa. Furono
lanciati dalla folla sassi e furono sparati colpi di rivoltella” (La Stampa, 9 agosto 1913).
Alcuni cominciano a lanciare sassi, altri aggrediscono le forze dell’ordine per assalire la casa
comunale. Vengono gridati slogan: ‘abbasso il sindaco, via il medico condotto, si chiuda il
municipio, vogliamo le chiavi, corte nuova’.
Dalla cronaca di quei giorni si legge: “I poveri contadini tentarono di avere giustizia dalle
autorità. Ma, come al solito i ricchi ebbero ragione sui poveri,... così i contadini di
Roccagorga scesero in piazza solo dopo aver constatato che non si rendeva loro giustizia per
le vie legali, che non ci era neppure pietà per le loro atroci miserie… tocchi a noi sedere in
questo banco di delinquenti sul quale, invece, se la giustizia non fosse una commedia, nella
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nostra società, dovrebbero sedere tutti quelli che, dopo aver tolto il pane, tolsero la vita agli
infelici contadini di Roccagorga” (Francesco Ciccotti, corrispondente da Roma de L’Avanti).
Eppure “Roccagorga è un paese come ce ne sono tanti in Italia, un paese confuso fino a ieri
nell’ombra” (on. Bentini, Quel giorno, p. 155). La storia, però, la rende famosa per cause
tristi. Difatti “la vasta eco dell’Eccidio recherà al piccolo centro laziale una notorietà inedita,
quanto poco desiderata, che, su tutti gli organi di informazione del Regno d’Italia, porterà la
notizia della tragedia a contendere la prima pagina alle celebrazioni dell’annessione della
Colonia di Libia, avvenute in forma solenne all’Altare della Patria, in data 20 gennaio”
(L’Avanti!, 28 gennaio 1913).
Il Pubblico Ministero nella sua accusa dimostra che “si videro le donne, con delle grembiulate
di sassi, che facevano servizio di rifornimento ai lanciatori, sicché si rafforza sempre più la
tesi della premeditazione della sommossa. Fu suonato pure un colpo di campana a martello da
un ragazzo che era stato incaricato dai dirigenti la dimostrazione. Due forconi vennero
lanciati: uno contro i carabinieri, l’altro contro la truppa” (La Stampa, 29 agosto 1913).
“Smentisco che le donne portassero sassi nei grembiuli. Il tafferuglio della bandiera fu così
inaspettato che non è possibile che le donne avessero avuto l’idea di fornirsi di sassi.
D’altronde, lungo la via non ho trovato un punto solo disselciato! I sassi che la polizia mostra
sono certo una macchina montata. Si noti che non un vetro della casa comunale fu rotto; solo
qualche leggera scalfittura al muro municipale” (Relazione Volpi, Il Messaggero, 13 gennaio
1913, Allatta, De Meis, Assassinio di stato, p. 192).
Agostini Teresa fu Antonio e fu Orsini Agostina, 40 anni, nata il 12 gennaio 1873 a
Roccagorga, vedova di Morelli Faustino, contadina, viene arrestata e incarcerata il 7 gennaio
1913. È identificata “in modo concorde una delle più accanite rivoltose” e lanciatrice di sassi,
assieme ai maschi: Lombardi Mattia, Rossi Benedetto Fortunato, Rossi Francesco Erasmo e
Morelli Luigi, quest’ultimo riconosciuto come uno di quelli che “tenendosi dietro la folla
delle donne, scagliava sassi”.
Un gruppo di donne caratteristico è quello delle tre sorelle De Meis: Luisa, Domenica,
Giovanna di 27 anni, nata il 19 febbraio 1886, contadina, sposata con Frantilante Giovenzio;
Cesira, Silvia, Ermelinda di 22 anni, nata il 6 agosto 1891, contadina; Vittoria, Filomena,
Clelia di Costantino e di N.N., 19 anni, nata il 14 aprile 1894, contadina, sposerà Idiotosi
Roberto nel 1919.
Con loro sono da ricordare altre tre donne, le più giovani: Frateschi Antonia di Giuseppe e di
Ciotti Vittoria, 17 anni, nata il 13 giugno 1896, nubile, contadina; Scacchetti Tommasina fu
Giuseppe e di N.N., 17 anni, nata il 6 marzo 1896, contadina: arrestate ambedue il 7 gennaio
1913. Mentre Fusco Alberta di Gioacchino e di N.N., 22 anni, nata il 19 marzo 1891,
contadina, inquisita e non arrestata.
Poi c’è il gruppo delle quarantenni: Coia Loreta fu Salvatore e fu Ciotti Leonilda, nata il 29
giugno 1873, contadina, arrestata il 6 gennaio 1913. Mentre Briganti Augusta fu Luca e fu
Basilico Rosa, 37 anni, nata il 6 luglio 1876, contadina, coniugata con Antonelli Giuseppe, e
De Simoni Maria fu Achille e di Orsini Anna, 44 anni, nata l’8 maggio 1869, contadina,
moglie di Orsini Giuseppe, furono inquisite, ma non arrestate.
Queste donne aprono il corteo del 6 gennaio, assieme ai bambini. Come sempre gli inermi,
quelli considerati non colpibili per il tacito accordo del rispetto alla ‘debolezza naturale’, sono
rappresentati dalle donne e dai bambini. Sono lo schermo ideale per avanzare con l’illusione
di non essere colpiti, ma con la sfrontatezza di poter colpire. In questo movimento spontaneo,
come in ogni manifestazione non autorizzata, saltano gli schemi e le regole.
Annotazioni di cronaca registrano: dietro le donne e i bambini, gli uomini si fanno schermo e
lanciano sassi, si nascondono e aizzano le avanguardie ad andare avanti contro l’ostacolo
armato: “La folla come impazzita si spingeva sempre avanti, senza più tenere alcun conto
della barriera di baionette, con la decisione ormai presa di assaltare gli uffici comunali. Il
momento era terribile, la rivolta si era scatenata con selvaggio furore. La folla dalla ribellione
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passò all’assalto” (La Stampa, 12 gennaio 1913). In questo schema c’è un chiaro e proclamato
pronunciamento: tanto alle donne e ai bambini non possono sparare! Quegli uomini lo sanno
bene e rafforzano il coraggio di chi sta davanti. Sono uomini che sanno usare le armi, sono
stati combattenti e reduci di battaglie in Africa. Il Mucci sembra avere istruito bene i soci nel
non avere paura delle armi: non avrebbero fatto fuoco davanti a donne e bambini.
Un paese apparentemente innocuo si trasforma in una ideologia sfasata che riempie di sangue
la terra di mezzo tra la guerra e la pace. In quel momento, forse, si perde la motivazione del
raduno in piazza e del perché stanno lì. Eppure tutti sanno che era concesso il solo comizio!
L’ordine di sciogliersi non viene rispettato e alle inermi donne-bambini viene lasciato il
comando del ‘terribile gioco delle armi’.
Inizia la sassaiola: “È successo che i sassi volavano, dalla parte nostra, di qua, verso la
montagna, volavano e andavano in piazza… e in piazza quando si potevano parà, si
riparavano, quando si so visti che le pietre arrivavano forte e so caduti i soldati pe terra” (ma
chi mai aveva visto niente, p. 89).
Luigia Orsini arriva in piazza per cercare il suo bambino: “Mi imbattei in una fila di soldati e
li vidi sparare su alcune persone. Una donna colava sangue da una mano. Ebbi pietà e feci per
chiamare un uomo poco discosto perché la soccorresse. Ma quell'uomo fu fiaccato al suolo,
sotto i miei occhi da una scarica di fucilate! Intanto intesi gridare: ‘Scappa che ti
ammazzano!’. Presi l'uomo caduto per trasportarlo in un vicolo vicino. Piangevo”.
La piazza di Roccagorga accoglie 2780 frammenti di munizioni che si dirigono sulle persone:
“Con la prima scarica, era ormai evidente a tutti i manifestanti che i soldati erano decisi ad
impiegare le armi. La reazione istintiva dei contadini, non può che essere stata quella di
allontanarsi dalla piazza, piuttosto velocemente, movimento che certo non sfuggì ai soldati e a
chi li dirigeva. Il tenente Gregori, pur potendo far cessare subito il fuoco, ormai inutile, prese
questa decisione solo dopo che erano stati sparati da ogni singolo soldato altri quattro, cinque
colpi. Attese circa altri dodici, diciassette secondi: un tempo lunghissimo” (Allatta, De Meis,
Assassinio di Stato, p.78).
Un sasso lanciato è il primitivo grilletto che fa partire il primo colpo e inizia un percorso di
cui nessuno sa come finirà. Il sasso è come il fuoco delle armi, ma con effetti diversi: produce
un disastro. L’eccidio, infatti, avviene durante lo sbandamento, dopo la carica alla baionetta
come reazione al lancio dei sassi. È la tragica conclusione di un sasso che fa scattare il
grilletto.
“All’improvviso la fanteria si dispose in linea di fuoco sulla piazza. Tre ragazzi lanciarono
sassi. Li redarguii. In quell’istante udii sei colpi e subito dopo avvenne la prima scarica di
fucileria. Vidi allora cadere per terra una donna, la Ciotti, che stava fuggendo per mettersi in
salvo. Era stata colpita alla schiena. La poveretta rimase esposta agli occhi di tutti” (Dante
Mucci al processo di Frosinone).
È questo mondo al femminile che scuote il pensiero della ‘debolezza’, rappresentata in vari
stereotipi e in detti popolari maschilisti con forme derisorie e ingiuriose, anche quando si
parla delle proprie donne. Una debolezza che sprigiona una reazione di forza aggressiva,
animalesca, tipica del mondo animale, quando si devono proteggere i cuccioli.
Un’aggressione istintiva iscritta nel dna della natura e della maternità.
Un paese in mano al ‘femminile istintivo’ che ad un certo momento non sa più come tornare
indietro. Ma queste donne non sono sole: al loro fianco ci sono bambini e dietro uomini che si
definiscono ragionevoli, capi naturali, esperti in guerriglia, portatori sani di strategia e di
come va il mondo. Uno di questi uomini è Luigi Morelli, che tenendosi dietro la folla delle
donne, “scagliava sassi”. A 47 anni è in piazza con i suoi due figli: Vittorio di 24 anni e
Quirino di 15 anni. Un nucleo familiare rivoltoso: arrestati e condannati, per essersi distinti
nelle aggressioni in piazza.
La piazza registra il fallimento della saggezza popolare e dell’equilibrio della donna portatrice
sana di vita. Da supporre che ‘il gioco’, perdendo le regole, resti in mano al prepotente che ne
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approfitta per lanciare la sfida. Forse premeditata e in qualche modo programmata: “Si è tirato
all’impazzata e si è tolta la vita ad alcune persone che curiosavano. Oltre quaranta sono i
feriti, di cui cinque gravissimi… È un fatto dolorosissimo, che poteva essere scongiurato con
maggiore oculatezza dalle autorità e con un maggior senso di responsabilità dei dirigenti della
Società Agricola Savoia” (Marzi, Quel giorno, p. 93).
Un gioco perverso e irresponsabile. Quella bandiera diventa un’arma. Quel primo sasso è un
colpo che ferisce. Quel primo sangue chiama altro sangue. Solo alla fine, nel silenzio della
piazza, la tragedia descrive le azioni di pochi minuti di comandanti civili e militari. Da quel
momento inizia l’ipocrisia delle responsabilità.
A sera, rinchiusi in casa, spaventati e addolorati, una lucerna rischiara le nebbie della follia e
non serve più avere ragione, difendersi o accusare. Solo il potere costituito sa offrire
un’immagine sicura di sé e raccogliere prove a favore del proprio operato.
Se volessimo fare una prima riflessione, dovremmo qui rilevare che la donna della bandiera e
della sassaiola è una donna sconfitta, è una donna del silenzio, una donna che viene rinchiusa
in casa e nel suo alveo apparentemente sicuro. Nella violenza, stranamente, è ancora la donna
a mediare il drammatico tempo del dopo tragedia.
Ma la donna roccociana si fa interprete dei bisogni fondamentali: la fame, la miseria, le
condizioni igieniche. Quando l’azione dell’uomo fallisce nel ricercare compromessi e
mediazioni per un miglioramento dello stile di vita, la donna si affida all’esasperata reazione,
conseguenza della sofferenza che sopporta: su di lei ricade il maggior disagio come regina e
governante di casa, come colei che dà la vita, la custodisce e si sacrifica. Fino al rischio
supremo della morte. In fondo emerge la figura tradizionale della ‘donna madre’,
biologicamente e naturalmente protesa alla vita e ad ogni espressione del vivere. A questo tipo
di ‘donna reattiva’ si risponde con la violenza delle spade, delle armi, dell’aggressione e della
crudeltà con l’irrisione della nudità.
La definizione di ‘belve fuori da un serraglio’, secondo la tragica espressione del carabiniere
Domenico Ceccobelli, è emblematica per considerare l’effetto delle ‘donne belve’ che, dopo
l’assalto, rientrano nella gabbia familiare. Ognuna di esse ha da riflettere e da curare le ferite,
piangere i morti e fare silenzio. Una donna che interpreta una forma di rivoluzione utilizzando
la violenza, pur come effetto della disperazione, ma non si rende conto delle conseguenze di
certi atti estremi: da una scintilla scaturisce una fiamma, e il fuoco investe tutti. E quando la
donna è stanca di raschiare la terra, già avara, si affida ad una rivolta irrazionale,
emotivamente drammatica.
La ‘donna belva’ si scatena nel momento dell’aggressione, anche verbale. E il fantomatico
‘gruppo di veri, autentici ed onesti cittadini di Roccagorga’ il 30 giugno dello stesso anno
pronuncerà parole vigliacche e offensive: “A voi, donne di Roccagorga che nella giornata del
6 gennaio preferiste alle tranquille faccende di casa, una partita a sassate con la truppa…. E
poiché le nobili imprese non devono dimenticarsi, vi consigliamo o schifose…” (Quel giorno,
p. 108).
La ‘donna belva’ si ribella quando viene colpita nella sua dignità di persona e di madre:
bambini in braccio che cadono a terra scatenano reazioni feroci. Nel processo di Frosinone
viene condotto anche un bambino di 11 anni, Arcangelo Rossi: non si procedette contro di lui
per “mancanza di discernimento”, cioè incapace a comprendere ciò che faceva. Anche se il
sindaco Rossi dirà che “per certa gente è stato poco quello che si è fatto” (Quel giorno, p.
113).
E la donna diventa ‘belva’ allorché si cerca di corromperla per testimoniare il falso. E la
tragedia diventa beffa nel momento in cui l’autorità, fin dalla sera stessa del 6 gennaio, cerca
di alleviare il danno con il denaro: “Il Pacifici Erasmo ebbe dal Prefetto un primo sussidio di
50 lire, in seguito il Ministro stanziò, credo 200 lire… Ho sentito dire che uno dei somari
uccisi in quel giorno venne pagato lire 175” (Delegato Longhi, 23 agosto, Quel giorno, p.
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114). E altri funzionari cercheranno con il denaro di coprire le responsabilità delle autorità
civili e militari.
La ‘donna belva’ subisce la violenza della volgarità con l’episodio di necrofilia sadica: “Negli
spasimi della morte mia moglie era rimasta scoperta: vidi i soldati che ridevano! Com’è
bianca sotto: sarebbe buona anche dopo morta” (Erasmo Pacifici, marito della Ciotti, Quel
giorno, p. 114). Durante il processo il Carabiniere Silenzi testimonia: “vidi che i soldati fra
loro si additavano i vari feriti”; e il soldato Accorsi Bruno corregge: “ricordo di una donna
ferita che rimase scoperta e che fu poi ricoperta. I soldati è vero che fecero dei gesti, ma ciò
fecero per indicare al caporalmaggiore di ordinare che qualcuno fosse andato a ricoprirla”
(udienza 12 agosto, Quel giorno, p. 113).
Belva non è solo la donna, ma la gestione di una giornata che a sera registra indignazione e
rimpianto. Non una parola di pietà viene usata nemmeno durante il processo se non qualche
appiccicoso aggettivo per definire quel giorno: luttuoso, tragico,…
La ‘donna belva’ reagisce con violenza nel momento che “l’urto fra la collettività popolare e
l’organismo esecutivo dello Stato era già avvenuto. Si eran trovati di fronte quella mala bestia
che è il popolo e l’altra non meno spaventosa, che è il potere esecutivo di polizia. L’una
colpita, frustrata, angariata, respinta sempre; l’altra – la bestia Stato – armata di fucili, di
coltelli lunghi, chiamate sciabole, che sorveglia sempre, sempre colpisce, massacra spesso la
bestia popolo… La belva di guardia comprime, limita, minaccia, azzanna, straccia, morde.
Pochi graffi dà il popolo, e fugge. Si accampa il mostro statale e uccide”. Rimangono sul
terreno della zuffa i sette morti e come segno terrificante “la cagna famelica, errante tra i
cadaveri, affrettata a saziarsi, leccando il sangue dei morti” (avv. Colini, Quel giorno, pp.
138-139).
Momento, un momento, per favore – esclama a questo punto mia moglie. Io capisco che
quella espressione: “belva”, non è di padre Aleandro. Però non può passare inosservata.
Veramente, risponde padre Aleandro, io l’ho usata proprio per mettere in luce la
violenza che viene fatta verso la donna, a partire da come viene chiamata. Bene, ribatte
mia moglie, ma sarebbe il caso di mostrare altri aspetti della condizione e del carattere
delle donne di Roccagorga. Io sono nata qui e vi ho insegnato per una trentina d’anni.
L’immagine delle donne e madri di Roccagorga è ben altra. Le donne hanno avuto un
ruolo centrale nella vita del paese: hanno dato un contributo essenziale alla sua crescita
civile. Inoltre, vorrei ricordare la dolcezza delle madri, il loro amore infinito verso i
figli. Sono state forti lottatrici per una vita migliore per sé e per i loro figli. I calli alle
mani avevano e lo sguardo fisso al futuro. Tenerezza e fermezza: questi mi sembrano le
caratteristiche delle donne di Roccagorga.
Vicino a lei, Maria Rosa Aiello – maestra anche lei – si inserisce nel discorso. Sono
d’accordo su molte delle cose che sono state dette, dice. Però vi faccio notare che
ancora una volta sono sempre gli uomini a parlare. Parlano di tutto, anche delle donne,
come se loro avessero fatto l’esperienza dell’essere donna.
Ahi, penso, il discorso ora va sul difficile. Padre Aleandro, però, non si scompone. Il
mio è solo un tentativo di riflettere su un aspetto trascurato della storia del 6 gennaio
1913. E naturalmente sono benvenute altre riflessioni …
Allora, mi inserisco io nel discorso che sta prendendo una piega difficile da gestire,
vogliamo continuare la lettura? Prego Alessandra, continua per favore…
La cronaca del 1913, riprende leggendo dal testo di padre Aleandro, registra il ‘silenzio della
piazza’, il silenzio del paese, il silenzio della coscienza: “La popolazione gorgana era
tormentata dal terrore di rappresaglie e di violenze. Gli uomini lasciarono le loro case e le loro
famiglie per darsi alla campagna e alla macchia; in paese non rimasero che pochi vecchi,
pochissime donne e uno stuolo di fanciulli, che non temevano d’essere incriminati ed
arrestati; le famiglie che piangevano i morti o feriti erano diffidenti verso chiunque cercava di
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avvicinarle. Anche la distribuzione dei soccorsi in denaro, organizzata dalla ‘Difesa’ nei
giorni successivi, diventava difficile, impossibile. In alcune famiglie il dolore era così grande
che rifiutavano persino il denaro. A Roccagorga si sentiva ripetere la frase ormai tristemente
famosa che compendiava la tragedia della povera popolazione: La carne dei nostri morti non
si vende!” (La Difesa del Contadino, 18.1.1913).
Il coprifuoco affidato al tenente Gregori mette a tacere le armi e ogni altra considerazione. La
truppa forma un quadrato e coi fucili imbracciati impedisce di attraversare la piazza e di
affacciarsi. Anzi viene ordinato di chiudere gli stessi “scuri” delle finestre.
“Questo stato d’assedio durò fino a sera e intanto si procedette al trasporto dei cadaveri e dei
feriti. Una donna fu rinvenuta più volte colpita dalla mitraglia, un’altra sventrata dalla
baionetta. Nessuno dei feriti volle però esser trasportato in altro ricovero che nella propria
casa; ove alcuni di essi sono tuttora gravissimi. Si procedette in seguito ai primi arresti, a
perquisizioni e sequestri. Gli uomini, oltre il centinaio, si diedero alla fuga” (Nino Frongia, La
difesa del Contadino, 12 gennaio 1913).
Inizia la fase delle autorità mediche e governative. Il silenzio dei bollettini, delle indagini,
delle relazioni di ogni tipo. L’unico rumore della sera e della notte è il telegramma del Primo
Ministro Giovanni Giolitti che ordina ‘una esemplare repressione’ con ‘arresti su larghissima
scala’ e con ‘la massima pubblicità affinché la popolazione comprenda … che una così
selvaggia ribellione vada impunita’.
“Il paese sembrava un campo di battaglia, tutti erano silenziosi e si udivano i gemiti dei feriti
e dei parenti dei morti. Intanto i soci mi dissero che si ritiravano e mi invitarono a fare
altrettanto, ma io dissi che sarei rimasto perché non ero un vile ed aspettavo che mi
arrestassero” (Dante Mucci al processo di Frosinone).
Quello di Roccagorga è uno degli eccidi più violenti compiuti in quegli anni. Per questo desta
un profondo dolore in tutto il Paese e rimbalza fuori dai confini locali per diventare simbolo
della protesta italiana contro la politica di repressione del governo Giolitti. Tutti i giornali
nazionali e locali fanno da cassa di risonanza.
Il giorno dopo l’eccidio, L’Avanti! titola la prima pagina Assassinio di Stato. Lo stesso Benito
Mussolini in uno dei quattro articoli scritti sull’eccidio, dirà: “Ma come nell’Italia che noi
sogniamo grande maestra di civiltà, si fucilano vecchi inermi, donne gravide, bambini
perduti? E quando gli arabi di Roccagorga chiedono fogne, acqua, luce il Governo che non ha
più milioni, manda carabinieri ed annega nel sangue la civile, santa, umana protesta del
popolo?”. E aggiunge: il Tenente Gregori, ottenuta l’autorizzazione, dà ordine ai soldati di
avanzare in piazza ‘a passo di carica’: ‘Alla baionetta!’ grida e i soldati rispondono: ‘Savoia’!
È un grido di guerra: molti soldati sono reduci dall’Africa e quell’ordine l’hanno eseguito
ogni volta che andavano all’assalto del nemico.
Callista Basilico ricorda: “Dritti ‘n mezzo alla piazza. Si mettono una fila davanti abbassati e
una fila dietro, in piedi” (ma chi mai aveva visto niente, p. 89), e fanno fuoco sopra la folla
tumultuante e inferocita. È un fuoco di plotone secco e compatto: 268 colpi! Così testimonierà
il Tenente Gregori, che ordina ai soldati di ricaricare i fucili e di tenere pronti alcuni pacchi di
pallottole di riserva. “Allora io chiappo nonno e fratemo e grido: iammicenne….
iammicenne… iammicenne… Mentre stavamo a dì così, si mittirono a sparà. E spararono:
morti …feriti” (ma chi mai aveva visto niente, p. 90).
“Ero con mio figlio Mario, un bel giovinotto e con Francesco Mattarocci sulla piazza pubblica
quando i ‘fantocchî’ ci furono immediatamente sopra. Scappiamo, scappiamo, dicemmo
subito noi. Invece a distanza di quattro metri i’ fantocchî’ ci spararono addosso. Il mio figlio
cadde, tentò di risollevarsi. Guai a lui. Nuovi colpi le trafissero le carni. Io fuggii ferito alle
gambe, alla spalla e al petto” (Quirino Restaini a Milano, Quel giorno, p. 167).
Il commento di un roccociano così sintetizza questo aspetto del dramma: “ho visto tanti morti
e feriti al fronte, non pensavo di venire colpito nella piazza del mio paese….”.
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Sono circa le ore 12,00! Lunedì 6 gennaio 1913! In 15-20 secondi si consuma la sparatoria e
la tragedia: “vittime immolate alla stupidità, prima che alla ferocia” (on. Bentini, Quel giorno,
156).
Dai registri del Comune la morte del 6 gennaio viene fissata alle ore 11 e minuti…. per Carlo
Salcani, Restaini Erasmo, Vincenza Babbo. Alle ore 15 e minuti… per Ferrarese Salvatore.
E tutti morti in casa, non in piazza! Così per Fortunata Ciotti che muore il 7 gennaio, alle ore
16,15; Mancini Vincenzo, il 10 gennaio alle ore 9 e minuti; Restaini Mario Pietro il 15
gennaio alle ore 15,30.
Al processo di Frosinone la tragedia viene così registrata: “Le scariche di fucileria avvennero
verso e le 11,3/4 antimeridiane ed i morti e i feriti furono trasportati dalla piazza Vittorio
Emanuele al più tardi verso le ore 14” (avv. Natalino Patriarca a Frosinone).
Nelle contraddizioni di quel giorno la negazione della morte in piazza è uno di quegli atti
formali che rafforzano l’intenzione delle autorità di alleviare la tragedia con la cancellazione
del sangue sparso sul selcio bianco di Roccagorga. La rimozione comincia dagli atti di morte:
la piazza viene sostituita con la casa!
Vi è un attimo di silenzio sepolcrale e poi grida laceranti ed angosciose di dolore e di terrore:
‘Aiuto, soccorso, Madonna!’. Segue lo scompiglio, il panico, il fuggi fuggi generale. La folla,
impazzita e terrorizzata, fugge imprecando contro gli sparatori. Tutti cercano di fuggire nei
vicoli.
Rimangono uccisi: un bambino di 5 anni, due donne e 4 uomini. Feriti: 15 civili e 11 militari.
Il dottor Venere Edoardo testimonia che “su 22 colpiti, ben 17 sono feriti a tergo, mentre
fuggivano”. Le perizie attestano che i colpi sono stati “sparati a bruciapelo”.
La ricostruzione di questo momento straziante enumera una serie di eventi che si possono
riassumere in breve:
- “I carabinieri spararono dalla loggetta del Municipio e, con i colpi di costoro, furono colpiti i
due militari, gli altri, i soldati, sentendo quei colpi, spararono sulla piazza, temendo, forse, che
la folla, contro di essi, facesse fuoco. Voi dite: spararono perché avevano diritto di sparare…
Noi diciamo: risposero ai sassi col fuoco… Se i colpi di rivoltella ferirono i due soldati, essi
partirono dalle armi dei carabinieri, che erano dietro i soldati, in posizione ad essi superiore”
(avv. Colini, Quel giorno, 144).
- La maggior parte dei colpi “furono tirati nella schiena delle persone che fuggivano”. I
carabinieri, ma anche i soldati, “fecero fuoco quasi contemporaneamente” (avv. Colini, Quel
giorno, 143).
- “Con i feriti e i cadaveri ancora a terra, le forze dell’ordine iniziarono le operazioni di
polizia giudiziaria per arrestare subito i “rivoltosi”, perquisendo le case e le botteghe attigue
alla piazza, in cui si erano rifugiati i manifestanti per ripararsi dai ripetuti colpi di fucile”
(Assassinio di Stato, p. 84).
- “Per terra tre persone ferite vennero fatte trasportare nelle loro abitazioni, mentre il bambino
Salcani, ormai deceduto, venne portato in Municipio. Pietro Restaini di Quirino di anni 27,
Fortunata Ciotti di Lorenzo di anni 26 e Vincenza Babbo fu Gaetano di anni 47, furono i feriti
che morirono nell’immediatezza dei fatti” (Relazione Longhi in Allatta, De Meis, Assassinio
di Stato, p.84).
- “Ai familiari fu consentito di avvicinarsi ai corpi dei manifestanti giacenti per terra solo
dopo tre ore per condurre i feriti nelle proprie abitazioni e trasportare i morti nella camera
mortuaria del cimitero” (Allatta, De Meis, Assassinio di Stato, p. 84).
Una manifestazione pacifica che sfocia in un massacro incomprensibile è l’effetto conclusivo
di una giornata storica da assurgere a «strage di stato», come scrive L’Avanti!. Gramsci,
commentando i fatti, accusa Giolitti e denuncia la sua politica: “passa per armi i contadini
meridionali che elevassero anche una protesta pacifica contro il malgoverno e le cattive
amministrazioni di tutti i governi”.
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Vedo a questo punto Marcello Ciccarelli con la mano alzata. Prego, dico rivolto verso di
lui. Come sapete, non sono di Roccagorga. Conoscevo grosso modo i fatti. Sono venuto
tante volte qui. Eppure non avevo neppure immaginato tanta crudeltà sia nel compiere la
violenza sia nel cercare di nasconderla. Direi che in un certo qual modo quello che
accade dopo è più crudele ancora di quanto sia accaduto prima. Si uccide senza pietà e
poi si vuol rovesciare la colpa sulle vittime. E che dovevano fare … eliminarsi da soli
… Padre Aleandro annuisce ed aggiunge. Questi aspetti sono ancora più chiari se
vediamo uno per uno i casi. Bene, concludo, entriamo nei particolari. Ed Alessandra
riprende la lettura:
Carlo Salcani, nato a Roma, da genitori ignoti, di anni 5 muore tra le braccia del tutore
Giacinto Spaziani. Vestito per la prima volta da ‘ometto’, viene descritto orgogliosamente
dalla madre: “era una bellezza quel bimbo, una ‘sciccheria’!”.
Carlo è felice: partecipa alla messa con il padre e attaccato alla sua mano gira per i vicoli e la
piazza: “Uscito dal comizio mi recavo dal barbiere, tenendo il bambino tra le braccia”. La
coppia esce dal vicolo di San Salvatore e si immette in via XX settembre. È un attimo: “una
palla gli attraversò il cuore”. Le fonti individuano il colpo sparato dai carabinieri. È il primo
morto dell’eccidio.
Giacinto si accorge che “mi avevano colpito a bruciapelo, con fuoco indemoniato.
Dapprincipio non sentii le ferite, tanto era lo spasimo per la morte del mio figliolo che era
bello come un fiore. Lo portai in caserma, dove avevano già portato una donna ferita. Ma
arrivato a casa, mi accorsi che ero tutto sangue. Purpureo era il mio sangue come quello di
mio figlio, che era sangue mio”. Giacinto “come un pazzo… era eccitatissimo... grondava
sangue da tutte le parti” (Quel giorno, 169). Il bambino morto intanto viene portato in
Municipio.
Luigia Orsini: “Vidi entrare mio marito, senza il bambino e con il petto squarciato. Povero il
mi’ omo. Mandava sangue come una botte con la cannella! Mi parve di impazzire, di morire.
Mio figlio! Dov'è mio figlio?”.
Carlo muore dopo le ore undici nella casa in Via Torricella 1, così viene registrato in
Comune.
Di questo bambino, diventato famoso per le cronache, non si conosce molto, se non che
proviene da un orfanotrofio di Roma. La notizia della sua morte rimbalza sui giornali e
diventa segno della pietà e della commozione nazionale. La poetessa Ada Negri ne scrive un
sonetto: “Ho quell’ore ne l’anima inchiodate:/ … Fin ch’io vivrò mi resterà nell’ossa /
quell’angoscia, quel soffio d’agonia / su gente inerme del suo sangue rossa; / e vedrò quel
fanciul senza soccorso / morente – un bimbo!... in mezzo della via, / china e intenta su lui
come un rimorso” (L’Avanguardia, 26 gennaio 1913).
Fortunata Ciotti è una donna incinta di 27 anni (nata il 28 ottobre 1886), moglie di Erasmo
Pacifici, sposato all’età di 21 anni il 20 febbraio 1908: a quel tempo Pacifici aveva 19 anni
(nato il 10 aprile 1888). In quel giorno di morte Fortunata Santa Elvira è madre di due figli:
Ines, nata nel 1909 e Paolino, nato nel 1911. Il terzo figlio è in arrivo quando abortisce a
sette/otto mesi di gravidanza in piazza. E morendo “il sangue della ferita si mescola a quello
di un parto prematuro. Ella si dibatte oscenamente nel suo sangue” (Francesco Ciccotti a
Milano, Quel giorno, 166).
Il marito, Erasmo Pacifici, ‘udite le prime fucilate’, racconta in varie fasi: “corsi in piazza per
cercare mia moglie… era uscita di casa per comprare la pasta, era sui gradini del negozio di
Faustina Pampanelli, quando fu colpita da due proiettili alla nuca, mentre scendeva dai gradini
del negozio. Io ed altri tre, inseguiti a fucilate, facemmo per riparare in una porta… e dovetti
vedere mia moglie sanguinante al suolo, morente. Mentre rantolava a terra ed abortiva, alcuni
soldati e carabinieri le stavano intorno sghignazzando, osservando che era una bella donna,
perché nel cadere era rimasta scoperta nelle parti intime. Restò due ore sulla piazza, non
vollero toglierla di lì, i cani si attripparono di sangue”.
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Erasmo Pacifici aggiunge ancora: “si voleva tirare anche contro mia cognata, Vittoria Ciotti,
cieca, sorella della morta e contro la madre Anna Maria De Angelis, che accorreva in aiuto
della ferita”. Poi Fortunata viene trasportata in casa della sorella cieca, Vittoria, in Via
Umberto I, dove muore il giorno dopo alle ore 16,15.
Una bella donna oggetto di sguardi avidi e irriverenti. È il contrasto più evidente di questa
giornata, oltre l’aborto e la morte atroce: “colpita da tre colpi sul braccio e da un quarto al
cervello”. È il volto del male più crudele e umiliante: un cranio scoperchiato!
Nessuno poteva avvicinarsi ai caduti, senza vedersi puntare addosso i fucili e la piazza è
sgombra dalla folla quando il Pacifici scorge “la sua giovine sposa stesa al suolo che
contorcendosi tutta nello spasimo mortale si componeva le vesti… Accorse su di lei onde
coprirla e sollevarla, ma ne fui impedito dai soldati che minacciarono di fucilarlo”.
Fortunata smania, grida, si difende da un destino senza nome: quello che doveva avvenire
avvenne. Sola, indolenzita, avvolta da una tristezza funerea cerca di cogliere i contorni
dell’incubo appena iniziato ed ha l’impressione di trovarsi fuori del mondo. Nemmeno
l’ondata dell’ira sale dal suo petto, ogni cosa manca di consistenza e di spessore, è dentro
l’accaduto e continua ad accadere come nel vuoto e nel silenzio. Si scuote, tenta di alzarsi,
“allunga la mano ad un soldato invocando aiuto”, chissà se ascoltò la risposta: “muori!” (Quel
giorno, p. 175).
Un sussulto di vergogna sfiora il suo viso diafano, impastato dalla violenza degli eventi del
mondo precipitata in piazza, nel suo paese. Quella piazza che attraversava ogni giorno. Il
vuoto nel ventre e il silenzio attorno sono irreali, senza sostanza, come i sogni di notte.
Fortunata muore bagnata di sangue, pensando al bambino nel suo grembo e circondata da
parole umane dissacranti: nemmeno la tragedia della morte di una donna e di un bambino in
gestazione, o di fronte al ‘mostruosissimo aborto’ pubblico, c’è un sobbalzo di attenzione. E i
cani ‘s’attripparno de sango!’.
La piazza è il libro della vita e della morte. Questa tragedia è tale nel momento in cui
Fortunata è colpita, abortisce e muoiono due vite. La piazza potrebbe essere intitolata a lei,
come simbolo della Donna Gorga ferita a morte che grida il suo dolore e invoca il Cielo per
una pioggia purificatrice. Una femminilità avvolta di contegno e di dignità nell’atto supremo
della morte. E di una morte tragica e pubblica.
È la ferita che Roccagorga si porta dentro e non è riuscita a curare e a guarire in cento anni.
Vincenza Babbo, fu Gaetano e fu Saputo Maria Teresa, entrambi contadini: di anni 46, nata
nel 1865-1867, è una casalinga e maritata a Giuseppe Bevilacqua: è ‘perseguita e trapassata’
con una mitraglia da destra a sinistra in un vicolo adiacente alla piazza, presso la casa di
Aniceto Maurizi. Muore dopo le ore undici del 6 gennaio, dopo essere stata trasportata nella
casa in Piazza Vittorio Emanuele III 13, in una stanza di Antonia Ciotti. Lascia il marito e 4
figli, di cui due appartenenti alla Società Savoia.
Vincenza abita a pochi passi di Fortunata Ciotti, in Via San Salvatore: stessa strada e stessa
povertà. Case piccole e misere, affollate di figli. Ambedue destinate ad insanguinare la Piazza
de La Rocca. Ambedue vengono trasportate ferite e muoiono nella stessa casa di Ciotti
Vittoria, sorella di Fortunata. Vincenza è ricordata come una donna dal carattere forte, sapeva
ciò che voleva, pur non sapendo né leggere né scrivere. Ma era talmente curiosa e vogliosa di
imparare che appena trovava un pezzo di carta scritto lo raccoglieva e invitava qualcuno a
leggerglielo. L’interesse alla vita e la vivacità di carattere rende Vincenza una battagliera: in
piazza non ci sta per caso.
Forse è l’unica donna che muore consapevole di fare una rivoluzione, di combattere e di
chiedere con forza il necessario per vivere. Marito e due figli fanno parte della Società Savoia
e lei stessa respira intenzioni bellicose. L’avere quattro figli non rende la sua vita tranquilla.
Con quel caratteraccio non perde tempo a lanciare sassi e ad aggredire.
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Nell’approfondire gli effetti pratici dell’eccidio, si possono mettere in luce alcuni aspetti
caratteriali e psicologici dell’ambiente paesano, di cui le donne sono le espressioni più
evidenti. Difatti il silenzio in casa e la fatica dei racconti in famiglia di quanti hanno
partecipato alla manifestazione del 6 gennaio, dopo gli effetti disastrosi con morti e feriti, con
l’assedio del paese e con l’arresto e l’incarceramento di tante persone e infine con la paura
iniettata negli uomini da darsi alla macchia per mesi, sono da considerare fatti, forse oggi
inspiegabili, ma che danno un senso giustificativo a certi comportamenti.
Un silenzio che diventa tomba di fronte allo ‘scandalo’ e alla ‘vergogna’ che sortisce
l’eccidio: la paura di essere in qualche modo tutti coinvolti. In particolare le donne: sono
‘scandalo’ per la cultura del tempo, e le loro azioni in piazza considerate ‘indegne’. La
vergogna ne è la conseguenza, anche se il partecipare alla manifestazione è un’adesione
condivisa contro l’Amministrazione comunale. Le donne non sono state ai patti
comportamentali: i soci sono solo maschili e spettava a loro esporsi pubblicamente. Esse
entrano in collisione con la forza pubblica e diventano simbolo di una azione da coprire col
silenzio.
Una ‘vergogna’ soprattutto per quegli uomini più criticati e contestati, ed ora schierati in
tribunale per ricevere una condanna. L’esposizione delle donne in tribunale e le risonanze
sulla stampa tracciano argomenti dal sapore rivoluzionario, ma per il paese resta un fatto da
coprire col silenzio. Una ‘vergogna’ che mette tutti in difesa, chi con la fuga e chi tacendo.
Parlare, infatti, è un rischio maggiore: essere ‘additato al pubblico’ e ‘usato come scambio’
per vendette o rivalse. In un paese tutti ci si conosce e ogni parola diventa pietra lanciata
contro qualcuno, senza poterne controllare gli effetti.
L’eccidio, del resto, è la dimostrazione di un crescente malumore popolare che diventa
comizio, proclama e rivendicazione. Le conseguenze sono la reazione e l’aggressione della
forza pubblica. Quello stesso Stato che è esigente e chiede rispetto della legge non sa cogliere
il disagio e non riesce a mediare l’esigere e le necessità del vivere.
Il giudizio di un tribunale amplifica il danno, soprattutto per quello che voleva significare
allora per i cittadini avere ‘la fedina penale sporca’. Il silenzio e la copertura dei fatti rientra in
quella logica paesana di ‘protezione’ e di ‘difesa del bene familiare’. E quando l’avv.
Domenico Marzi, nel deplorare la difesa fatta dal Pubblico Ministero dei funzionari e del
sindaco Rossi, dichiara questi il vero responsabile dello scempio del 6 gennaio, non gli
perdona l’offesa lanciata contro le donne di Roccagorga: a suo dire portavano i propri figli per
farsi schermo contro le baionette.
Il silenzio in paese, comunque, non copre la simbologia della «Pasqua di sangue» di
Roccagorga, divenendo segno di esaltazione, pur drammatico, delle lotte contadine nei primi
decenni del Novecento. La stampa metterà in risalto le terribili condizioni di vita dei
roccociani, braccianti e contadini, non molto dissimili alle altre popolazioni contadine
italiane: Roccagorga, per le cronache, è annoverata nel ‘profondo Sud’.
E dalla presa di Roma, 1870, fino al compimento dell’Unità Italiana, la questione e le attese
dei contadini resteranno in balia degli eventi, quindi deluse: “La situazione di Roccagorga ne
è una conferma. E la protesta dell’Epifania che si conclude con un eccidio, è solo l’ultimo di
una serie di tumulti scoppiati nella fascia dei Lepini” (Discorso del Sindaco di Roccagorga, 6
gennaio 2013).
Nel considerare i 15 feriti, 4 sono donne: Rosa Centra (di anni 32 anni, moglie di Aniceto
Maurizi, contadina, ferita alla spalla sinistra, giudicata in pericolo di vita); Chiara Franzilli
(contadina, guaribile in 15 giorni); Maria De Simone (di anni 44, moglie di Orsini Giuseppe,
contadina, guaribile in 6 giorni); Maria Foglietta (di anni 48, contadina, guaribile in 20
giorni).
Rosa Centra, 32 anni, moglie di Aniceto Maurizi con due figli, è ferita da nove colpi di arma
da fuoco (ha un braccio crivellato di palle e il polmone forato) ed è la più grave: “Mentre ero
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in casa sanguinante, mio marito provò ad uscire per cercare delle medicazioni, ma i
carabinieri glielo impedirono gridando: ‘Che muoia in casa!’”.
Aniceto Maurizi conferma: “Mia moglie era uscita a comperare un po’ di pane. Nel ritornare a
casa venne inseguita dai soldati che le spararono addosso a bruciapelo mentre era già per metà
del corpo dentro la porta e per metà fuori. Cadutami tra le braccia mi diedi un gran d'affare
per soccorrerla alla meglio. Postala a letto e notato che aveva otto ferite, cercai di uscire per
andare a comprare un po’ di vino generoso che la ristorasse. I ‘fantocchi’ non mi lasciarono
però passare; e un graduato, mi disse, ricacciandomi in casa: ‘Tua moglie muore? E crepi!’”.
Le donne testimoni
Alla tragedia in piazza si aggiunge il percorso delle inchieste e dei processi, restringendo il
campo d’azione e indicando i contadini come responsabili: si scarica ogni responsabilità sui
dirigenti della Società Agricola Savoia che sono ritenuti fomentatori e incitatori di
comportamenti illegali.
La Sezione d’Accusa della Corte d’Appello di Roma il 28 giugno del 1913 emette la sentenza
e rinvia a giudizio, presso il tribunale di Frosinone, 45 cittadini di Roccagorga, 33 dei quali
arrestati, tra cui Dante Mucci.
Il processo inizia la mattina dell’otto agosto 1913, presso l’Aula delle Assise di Frosinone,
non bastando quella del Tribunale a contenere la folla di avvocati, testimoni e curiosi. Gli
imputati che siedono alla sbarra sono 30 uomini e 15 donne.
Tra le donne sono: Coia Loreta (40 anni), Scacchetti Albina (46 anni), Agostini Teresa (40
anni), in modo concorde riconosciuta per una delle più accanite rivoltose, Frateschi Antonia
(17 anni), Scacchetti Tomassina (22 anni), De Meis Luisa (26 anni), De Meis Cesira (21
anni), De Meis Vittoria (18 anni).
Il P. M. a Frosinone afferma “non tengo conto delle imputazioni di cui all’art 373, a carico di
queste donne, perché non è provato individualmente… ci sono delle lesioni, è vero: ma
configurano soltanto il profilo della violenza e non dello attacco all’integrità personale”.
A conclusione del processo non risulta quali donne abbiano lanciato i sassi, si parla di “delitto
collettivo” in quanto il “soggetto attivo è uno solo, multanime e multiforme: la folla”.
L’avv. Colini, allora, sciorina la tesi della folla come “una massa non predisposta, né
organizzata, con idee improvvise di esecuzione, che trovano la loro sorgente nell’inconscio”.
E seguendo la teoria di Scipio Sighele, parla di “suggestione reciproca dominante” per cui la
folla è irresponsabile: “La responsabilità del singolo si confonde e si identifica con la
responsabilità collettiva. Ognuno ha commesso tutto e niente, e non sa ciò che ha commesso,
perché vi era una corrente impetuosa che trascinava – volenti o nolenti - all’azione” (Quel
giorno, p. 153).
“Letta la sentenza, gli imputati vennero immediatamente scarcerati, avendo già scontato la
pena, meno il Mucci, che dovrà fare ancora due mesi e mezzo di carcere. Tutti i condannati
hanno firmato ricorso in appello” (La Stampa, 2 settembre 1913).
Il 15 gennaio del 1915 la Corte di Appello di Roma, IV Sezione Appelli Penale, emette
l’ultima sentenza che riguarda tutti i quarantacinque imputati del processo di Frosinone, ma
sono presenti solo quattro: Maria Foglietta, Quirino Morelli, Dante Mucci e Emilio Ciotti.
Tutti sono prosciolti dalle accuse per intervenuta amnistia.
Un documento ‘verità’ sulle donne di Roccagorga è la relazione di inchiesta sul medico
condotto di Roccagorga, dottor Garzia Almerindo, considerato “ingordo di quattrini e
libertino, amico personale del Sindaco e frequentatore della tavola di casa Rossi” (Ferrarese,
La repressione liberale, pp. 70, 71, 96). Tra le otto accuse, come il trascurare l’assistenza ai
malati poveri e di essere troppo venale, vi è quella di “approfittare della sua professione per
tentare l’onorabilità delle donne” e che vi sia “un plausibile timore nel parlare, non solamente
perché si è intuita la delicatezza dell’argomento, ma anche perché qualche donna, per non
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essere posta al ridicolo (così mi si è sempre detto) ha preferito tacere anche di fronte ai suoi”
(Allatta, De Meis, Assassinio di Stato, p. 107-108).
Trentadue firmano l’esposto, tra cui 16 donne: Stirpe Rosa, Rossi Teresa, Ciotti Firmina,
Rossi Antonia, Orsini Maria Teresa, Orsini Luisa, Orsini Alessandra, Maurizia Antonia,
Macera Antonia, Rossi Eligia, Orsini Giuseppa, Palombi Giuseppa, Minarchi Sebastiana,
Briganti Teresa, Orsini Loreta, Orsini Teresa.
Il 18 gennaio 1913 il dottor Almerindo Garzia scrive una “relazione succinta sulla mia opera
durante i dieci anni di permanenza in paese nella qualità di Medico-chirurgo Condotto” al
Commissario Sotto-prefettizio di Roccagorga.
Nel ricostruire il suo operato e nel difendersi, egli ritiene di aver compiuto il suo dovere “con
scienza e coscienza” per “scuotere e demolire certe tristi abitudini” e quindi “ad urtare certi
interessi più o meno ignobili”. Riconosce che la “continua lotta per cercare d’iniziare
un’educazione igienica di questa popolazione, … ben poca cosa mi è riuscito ottenere!”, ma il
motivo della reazione contro di lui lo individua soprattutto nelle cariche ricoperte dal 1906 al
1910 nella veste di Giudice Conciliatore e di Presidente della Congregazione di Carità.
Responsabilità che creano “nemici personali”, i quali avviano una “persecuzione incivile”
alimentata da “da astio personale e da rappresaglie derivanti tutte da cause estranee al
disimpegno del mio ufficio e che risalgono a molti anni addietro”.
E il medico si scaglia soprattutto contro Dante Mucci, definendolo un uomo ‘animato da
odio’, Amato Francesco, farmacista, Ciotti Marianna, ostetrica, i fratelli Orsini Alfredo e
Filippo, alcuni contadini reduci dall’America e altri facinorosi, poveri di spirito. Da questi
partono precise denunce, ma il medico ne esce indenne.
Quando entra nel merito delle molestie alle donne, il medico definisce l’accusa una “satanica
follia”, che “nei modi e nei termini… rigetto nel fango limaccioso donde essa è uscita”. Anzi
è convinto che “la continua ed interrotta propaganda” dei suoi avversari diede forza “a tutte le
menzogne, a tutte le insinuazioni, a tutte le calunnie”, tanto da concludere: “io dico
semplicemente: la vostra calunnia non mi tange… Essa non può, non riuscirà a distruggere un
onorato e specchiato passato di vent’anni d’intemerato esercizio professionale!”.
E nel ritenerle “ridicole e insulse accuse”, conclude: “Non mi soffermo molto su ciò, perché il
disgusto che mi assale contro coloro che di tanta infamia si fecero abbiettamente sobillatori,
m’indurrebbe ad usare un linguaggio… poco riguardoso” (B. Allatta - L. De Meis, Allegato B,
Relazione Velli).
I contenuti degli esposti delle donne di fronte al Commissario e la difesa del medico Garzia,
evidenziano letture diverse della realtà paesana. Le accuse al medico appaiono insignificanti e
alquanto strumentali per l’obiettivo che si voleva raggiungere. Appare evidente lo
sfruttamento o la giustificazione dell’ignoranza delle persone: si fa leva da una parte sulla
maldicenza e sulla diffusa parentela nel paese per spostare l’asse degli interessi, e dall’altra si
può dare credito alla difesa del medico che si ritiene “un gentiluomo ed un galantuomo
meritevole di stima e rispetto”.
Nel riflettere sull’accaduto nel 1913, emerge che la vita di Roccagorga è un “sistema sociale
prevalentemente parentale assai duttile nelle aggregazioni da risentire vistosamente di
contingenze storiche, demografiche, politiche ed economiche” (villaggi di capanne, pp. 4648). E quello che succede nel 1913 rompe l’etica della solidarietà che si afferma
compiutamente tra parenti: la tragedia apre ferite su ogni fronte e il sospetto, il dubbio, il
bisbiglio dell’accusa attraversano anche la sacralità della famiglia, ponendo pietre difensive
fuori dalla porta.
La donna roccociana è figlia di una società e di uno stile che può essere sintetizzato in quel
tentativo della società Savoia, i cui soci sono per la maggior parte contadini cattolici, che
esprime, nel piccolo e ristretto mondo di Roccagorga, quella sensibilità che matura attraverso
un movimento sociale più ampio. Difatti l’associazionismo e la cooperazione come ‘mutuo
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soccorso’ sono tipiche del mondo rurale. E le intenzioni dei costituenti della Società Agricola
Savoia si esplicitano nel “rifiutare di aderire alla Lega Contadina Ciociara, manifestando
autonomia, ma anche contraddittorietà e scarsa maturità” (Quel giorno, p. 31).
In questo contesto la donna roccociana interpreta efficacemente quei comportamenti connotati
da opportunistiche scelte, finalizzate al bene personale e familiare. Anch’essa partecipa come
lavoratrice, pur non ufficialmente riconosciuta e iscritta nella società, e arde “d’una sacra
fiamma di ardire e di speranze future” (Nardacci, La società agricola, p. 30). Ma è la famiglia
che mobilita la donna a manifestare con forza e coraggio. Una donna amante e complice,
femmina e madre, sovrana e servizievole in ogni momento, pur di farsi accettare ed essere
all’altezza.
Una donna roccociana a tutto tondo che sa gestire il proprio tempo, consapevole del ruolo
specifico, secondo la cultura tradizionale e riassumibile nel triplice Dio, Patria, Famiglia,
slogan di ogni tempo e potere, soprattutto quando le tre parole sono utilizzate per stabilizzare
uno status quo della cultura della soggezione e della sottomissione a qualcuno o a qualcosa,
ritenuti ‘autorità superiore’.
Nel programma della “Società Agricola Savoia” tale cultura si riassume nel binomio: Fede e
Lavoro, Patria e Re. Scelte coraggiose che conducono allo scontro per affermare sacrosanti
diritti, tra cui quello di stare meglio, evolvendo condizioni materiali e morali considerate
‘miserevoli’.
Le donne di Roccagorga al processo di Milano
Nella ricostruzione dei fatti e spulciando gli interrogatori, soprattutto nel processo di Milano,
emergono delle figure di donne dal carattere forte e dall’espressioni tipicamente popolari. Pur
figlie di un tempo di analfabetismo, esse sanno usare un linguaggio semplice e colorito di
grande effetto sia in chi ascolta che nella comprensione del contenuto. Lo stesso uso del
dialetto, pur sconosciuto ai nordici, rende umana, credibile e affascinante la deposizione delle
donne roccociane. In modo particolare emergono alcuni nuclei familiari, coinvolti nell’eccidio
e testimoni preziosi di un giorno che lascia molte lacune nella ricostruzione e
nell’interpretazione delle responsabilità.
Quando il Pubblico Ministero invita il carabiniere Giulio Gimori a indicare, fra gli imputati, i
responsabili, dichiara: “Non posso indicare con precisione che le donne che si stringevano
attorno alla bandiera: tra esse non potei riconoscerne che due o tre. Riconobbi anche Baroni
Oreste che prese l’asta della bandiera per darmela sulla testa”.
Così pure nella sentenza di Frosinone non ci sono riferimenti precisi e mai una parola per
ricordare l’assalto dei carabinieri che travolse donne e bambini, lo strappo ingiustificato e
provocatore della bandiera, i sassi che i carabinieri lanciarono contro la folla, i feriti e i morti
rimasti oltre due ore sulla piazza e il funebre banchetto dato dal Rossi con i brindisi allusivi ai
fatti del giorno precedente (Quel giorno, p. 54). Le parole della Difesa furono considerate
“una qualsiasi accademica conclamazione” (Quel giorno, p. 53), spostando l’asse
dell’interesse sulla difesa delle forze dell’ordine. In altre parole il tribunale di Frosinone
emette una intenzionale ‘sentenza partigiana’ (Quel giorno, p. 86).
I fatti, ricostruiti nei vari processi, fanno emergere una realtà contrastante: la verità di Stato
predomina a scapito di un popolo indifeso. Anche la difesa ufficiale degli avvocati socialisti
diventa oggetto di ricatto politico, dando un ulteriore senso di delusione agli inquisiti, agli
incarcerati e ai condannati. L’ingiustizia diventa ancor più palese nel momento in cui fanno
più carcere del dovuto, senza alcun indennizzo.
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Dopo l’eccidio trascorrono mesi di terrore, una intimidazione diffusa e capillare. Roccagorga
è assediata, controllata, studiata e perquisita, alimentando quel silenzio e la chiusura nelle
proprie case, mentre gli uomini si rifugiano sulle montagne e nelle campagne.
In questo clima di paura le donne restano a presidio delle proprie case e famiglie,
salvaguardando l’onore e il bene unico dei figli. Donne che devono assumere un potere reale
nel gestire crisi ricorrenti e drammatiche.
In paese sono presenti ancora tanti soldati e carabinieri: si ha paura di tutto e di tutti. Nella
relazione di Nino Frongia si afferma: “Si sorveglia ogni nostro atto, ci si minaccia
sordamente, sentiamo che la nostra sicurezza è in continuo pericolo, poiché anche l’avvicinare
una persona può essere motivo sufficiente perché ci si privi di libertà”. Inoltre il
condizionamento reale è che “tre quarti del paese sono parenti del Sindaco o suoi sospetti per
l’azienda Doria-Pamphilj ch’egli rappresenta…” (Nino Frongia, La difesa del Contadino, 12
gennaio 1913).
Donne che devono far emergere qualità naturali femminili e qualità straordinarie di fronte al
dolore e alla morte, agli eventi sfortunati e alle aggressioni al nucleo familiare. Donne che
sanno aggredire con la parola e con gesti eclatanti, rappresentando il dramma di una vita
paesana e familiare grave e rivestita di miseria. I giornali ne descrivono alcuni aspetti: spesso
in una camera sola dimorano 5/6 persone; in molteplici casi è comune la convivenza con
animali tanto da confondere “i grugniti con i vagiti del bimbo che giace nella culla”.
Donne che a volte devono sacrificare se stesse, una specie di prostituzione più morale che
fisica, per salvaguardare la vita del proprio uomo e dei propri figli. Donne sole che devono
interpretare ruoli maschili e femminili, di fronte all’assenza di uomini emigrati, incarcerati o
datosi alla macchia per l’atavica paura di salvare la pelle e di sopravvivere ad ogni costo.
Nel processo di Frosinone molte donne sfilano di fronte ai rappresentanti della giustizia, ma
alcune non possono testimoniare perché parenti stretti degli imputati. “La piccola gabbia
riesce a stento a contenere gli imputati del processo. Le sedici donne, fra cui tre con bambini
lattanti, destano in modo speciale la pietosa attenzione di tutti” (La Stampa, 9 agosto 1913).
La prima ad essere interrogata è Cipriani Tommasina che nega di aver tirato sassi. Si era
ritirata spaventata in casa, appena aveva visto “che si tumultuava”. Lepre Modestina scagiona
Cipriani Tommasina, affermando che mentre avveniva lo strappo della bandiera era tornata a
casa con suo marito. Quindi non può aver preso parte ai tumulti. Lo stesso fa Ciotti Maria che
afferma che mentre andava a cercare un suo figliuolo in casa della Lepre, vide Tommasina
Cipriani con la madre ed il marito.
Dichiarazioni di non aver lanciato sassi le fanno Fusco Maria, Coia Loreta, Frateschi Antonia
e anche Scacchetti Albina che “a detta della pubblica accusa sarebbe stata una violenta
incitatrice degli animi durante il tumulto”, e Agostini Teresa, identificata come una
sobillatrice e lanciatrice di sassi. Tra le giustificazioni Albina afferma di essere stata in piazza
in cerca dei figliuoli e accusa il maresciallo di averla fatta cadere. È arrestata in un locale
della società, dove si era rifugiata (La Stampa, 9 agosto 1913).
Le donne ciociare a Milano si fanno onore e testimoniano con coraggio e sicurezza, non più
condizionate dallo schieramento della forza militare. Non hanno paura di affrontare un lungo
viaggio (Roccagorga-Milano-Roccagorga) per testimoniare. Certamente ne ricavarono un
vantaggio economico, ma lasciare il paese e la propria famiglia in un’avventura fuori dal
proprio territorio era consentito alla categoria maschile, poco alla donna.
Le donne, Maria Coco, Luigia Orsini, Angela Lunghi, Tommasina Cantarano, che
raggiungono Milano, portano con sé anche due figli piccolissimi, con tutti i disagi che si
possono pensare. Fondamentalmente sono da allattare e questo compito non è delegabile,
anche se nella tradizione paesana quando il latte materno è scarso soccorrono ‘le comari’ o le
vicine di casa.
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In questa scena popolare trapiantata nella città del nord, un mondo sconosciuto, dove il
popolano è un bifolco, espressione di quel sud disprezzato e non considerato nelle categorie
sociologiche cittadine. Eppure queste donne sfidano le avversità culturali e forse sono
orgogliose di essere guardate come soggetti ‘strani’. La cronaca rimarca questo stupore e
curiosità, soprattutto nei costumi ciociari e nel modo di porsi, di camminare e di scrutare
quell’universo così estraneo ai reciproci sguardi.
Maria Coco
La sua testimonianza è epica: “Signori della Corte, tutte le lacrime che abbiamo versato nel
giorno della strage, basterebbero a muovere una macina di un molino. Il sangue di Fortunata
Ciotti, la trucidata che stette tre ore sulla piazza senza soccorso, se lo sono bevuto i cani. I
carabinieri sembravano ammattiti. I soldati erano ubriachi. Date anche a noi un po’ di
giustizia”.
Luigia Orsini:
“Caddi in ginocchio, ma trovai subito la forza di correre verso casa. Poco dopo vidi entrare
mio marito, senza il bambino e con il petto squarciato. Mandava sangue come una botte con la
cannella! Mi parve di impazzire, di morire. Mio figlio! Dov'è mio figlio? Era stato ammazzato
in braccio a mio marito!”.
A queste calorose e drammatiche espressioni si unisce Giacinto Spaziani, suo marito, che
drammatizza la scena del bambino, stimolando le cronache a schierarsi: “… mio figliolo era
bello come un fiore. Ma arrivato a casa, mi accorsi che ero tutto sangue. Purpureo era il mio
sangue come quello di mio figlio, che era sangue mio”.
Angela Lunghi
La testimonianza e rappresentazione di Angela Lunghi, vestita goffamente in un costume
lontano dal mondo milanese, diventa la dominatrice dell’aula nel momento di affrontare il
Tenente Gregori: forse è la scena più drammatica che lascia il fiato sospeso. Lasciato il
figlioletto nelle braccia di altri, con una gesticolazione appropriata punta ‘i suoi occhi chiari’
e, ‘scandendo le sillabe’, alza il suo dito accusatore: “Sì, sì, lei, proprio lei è stato quegli che
ha sparato la rivoltella…, sono tanto certa, che là in fondo alla sala c'è il mio bimbo. Ebbene è
sulla sua vita che io giuro. Mi possa egli morire, il mio piccolo nato, se io mento. E sul Cristo,
lo giuro”.
Angela Lunghi potrebbe rappresentare la femminilità in lotta per la giustizia. Il suo
giuramento colpisce il cuore dell’eccidio: in nome di morti e feriti che non hanno avuto
giustizia dai tribunali umani ci si appella a Cristo e ad un bimbo di pochi mesi. Due simboli
calpestati: la condanna innocente di Gesù e il mettere in gioco la vita nascente di un figlio.
Solo la disperazione fa oltrepassare la soglia delle convenienze per entrare nell’accusa
dettagliata, giurata e sfidata fino a sacrificio della vita innocente.
Il contrasto è evidente ed è più forte nella versione al femminile: una madre sacrifica un suo
figlio per la giustizia. È una testimonianza che non ha contraddittorio, se non la negazione
disperata del Tenente Gregori e il suo silenzio di fronte a quel dito e a quegli occhi puntati.
Una rivoltella morale che colpisce con parole pesanti: lei è quello che ha sparato con la
rivoltella.
Una testimonianza senza valore ai fini giudiziari, ma un inno alla verità e al sentire comune di
avere giustizia. Una disperazione e una rabbia lucida e feroce: la vita e la morte in duello. La
partita si chiude in pareggio al momento, ma la storia registra la ferocia di quella pistola e del
proprietario e pone un giudizio definitivo alla verità. Angela è il coraggio di quella giustizia
umana che a volte non trova nelle leggi una risposta e si affida alla coscienza e al giudizio
divino.
Maria Coco, nel costume delle ciociare, parla a lungo facendosi comprendere poco nel suo
stretto dialetto. “Io tremavo tutta – dice – perché i carabinieri mi parevano ‘arrabbiati’. Poco
dopo erano tutti ubriachi”.
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Suo marito, Erasmo Pacifici, ricorda: “Ero a letto con la febbre. Mia moglie uscì per
comperare i maccheroni per il pranzo, quando si svolse la dimostrazione. Nonostante avessi la
febbre, balzai dal letto ed accorsi in cerca di mia moglie. Feci appena in tempo a vederla
cadere a terra, colpita da due proiettili ad un braccio. Quella povera, donna di mia moglie,
straziata dalle ferite, e per di più incinta, era distesa al suolo, sulla pubblica strada, le vesti
sollevate, esposta così alla berlina. Mi hanno rovinato; ho una figlia. Le hanno ucciso la
madre e mi hanno fatto poi l’elemosina di ricoverarla”.
La scena più eclatante è riempita dai coniugi Giacinto Spaziani e Luigia Orsini, a motivo del
bambino ritirato dagli esposti per adottarlo, Carlo Salcani di cinque anni. Giacinto racconta:
“…tenendo il bambino tra le braccia. Una palla gli attraversò il cuore. Lo portai in caserma,
dove avevano già portato una donna ferita, alla quale i carabinieri davano pizzicotti sulle
braccia per vedere se era viva, e ai movimenti che la poveretta faceva esclamavano “Lo fa
apposta!”. Anch’io rimasi ferito da tre palle, alla spalla, al fianco e al braccio”.
A sua volta Luisa fa un racconto molto colorito dell’eccidio e degli episodi più sanguinosi:
“Qualche giorno prima il sindaco Rossi ebbe a dire: ‘molto sangue dovrà scorrere. Impugnerò
anch’io la rivoltella a sei colpi, e cinque almeno ne fredderò’. Avvertii mio marito perché non
uscisse col bimbo: ‘era una bellezza quel bimbo, una ‘sciccheria’! Volevo fuggire verso casa
ma la strada era sbarrala dalla forza. Udii sparare, ed esclamai: ‘Dio! Mio marito, povero mio
bambino’. Mi nascosi dietro un muricciolo mentre ‘li fantocchî’ si misero a sparare. Potei
vedere un uomo che aveva un braccio ferito e dal quale perdeva sangue. Improvvisamente una
voce disse: ‘Sparate contro quest’uomo’, e subito il disgraziato stramazzava al suolo. Io lo
presi per un braccio e trassi quel corpo insanguinato dietro un mucchio di terra: quando mi
avvicinò una persona che mi disse: ‘Che cosa ti occupi dei morti degli altri? Vai a vedere che
ti hanno ucciso tuo marito e tuo figlio!’. Così in ginocchio io mi buttai implorando pietà. Ma
poco dopo apprendevo che il mio povero piccino era stato squartato dai proiettili; e che anche
il mio marito era ferito. Io svenni e non so più che cosa sia successo. Mi trovai poco dopo in
casa mia e quando corsi in cerca di mio marito che avevano portato all’Ospedale, incontrai un
impiegato del Municipio, certo Ricci, il quale mi disse: ‘Ora ti arresteranno, e se vorrai essere
messa in libertà dovrai dire che hai visto sparare dalla folla i colpi di rivoltella’. Poco dopo
incontrai il sindaco il quale mi disse a sua volta: ‘hai visto che cosa è successo? te l’avevo
detto io? Mi dispiace per il tuo bambino, poveretto, ma per gli altri è stato poco: io avrei
cominciato a sparare due ore prima ed avrei ammazzato persino i gatti’”.
Il processo di Milano, pur riguardante il giornale L’Avanti! e cinque giornalisti, tra cui Benito
Mussolini, risulta quello che determina “l’unica rivalutazione morale delle vittime”
(Ferrarese, Quel giorno, p. 180).
Una storia impressionante, quella delle donne del 6 gennaio 1913. Alla fine della lettura
di Alessandra vedo infatti stupore nelle facce dei presenti. La pazienza di padre
Aleandro ci ha offerto uno sguardo nuovo sull’eccidio. Egli ha messo le une accanto
alle altre le azioni delle donne e ha fatto emergere con questa semplice operazione un
significato particolare dell’eccidio. La donna di Roccagorga combatte in ogni
condizione: sulla Piazza e in tribunale. In ogni caso mostrando dignità e fierezza.
Dopo qualche momento Alessandra, ripreso fiato dalla lunga lettura, alza la mano e
prende la parola.
Non c’è dubbio – dice con tono di voce forte e chiaro – che dalle riflessioni di padre
Aleandro emerga un ritratto delle donne di Roccagorga come soggetti forti, determinati
e combattenti. Lui mette bene in risalto i due aspetti della questione femminile, se
vogliamo usare quest’espressione. Il primo è il ruolo pubblico delle donne; l’altro la
loro condizione di soggetti discriminati sul piano giuridico, sociale e culturale. Mi
sembra di vedere un ritratto in movimento, animato da una forte spinta interiore.
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Egli sottolinea bene che le donne, indipendentemente da dove si trovano, vogliono avere
piena parità con gli uomini. E per il tempo in cui si svolgevano questi avvenimenti tutto
quello che hanno fatto è per noi – donne del XXI secolo – un grande insegnamento …
Mentre lei così dice vedo Giulia Bevilacqua che vuole intervenire. E senza che io faccia
qualcosa il dibattito va avanti…
Padre Aleandro – dice Giulia - mostra come in alcuni momenti le donne siano in prima
fila, mentre gli uomini stanno nelle retrovie per motivi tattici (è meglio mandare avanti
le donne e i bambini, perché così la forza pubblica non li attacca) e per sfuggire alla
cattura. Mi sembra anche che alla fine egli rimproveri agli uomini – soprattutto agli
organizzatori – di non aver calcolato bene le conseguenze delle loro azioni e di non
assumersene tutte le responsabilità.
Il problema è che la cosa non era stata programmata così – dice intervenendo Vincenzo
Padiglione - e le cose sono andate avanti in modo piuttosto spontaneo… Sono d’accordo
con quanto hanno detto finora le nostre amiche. Il ritratto della donna tracciato da padre
Aleandro mi sembra corrispondente alla realtà. Nelle nostre ricerche – fatte a notevole
distanza di tempo dall’eccidio del 1913 – abbiamo trovato la stessa complessità: la
donna di Roccagorga – e in questo però essa è in buona compagnia con le donne
dell’aera lepina e ciociara – vivono ancora la stessa situazione ambigua: combattenti in
privato e in pubblico, ma nonostante i progressi nella parità giuridica, la condizione
reale la vede ancora subordinata all’uomo. Certo è cambiato tutto, come ognuno può
vedere da sé, ma questo punto è ancora com’era tanto tempo fa. Fierezza e
determinazione, la contraddistinguono, come è stato già notato prima. Sul versante della
parità, però, non tutti i problemi sono risolti. E questo non riguarda solo le donne di
Roccagorga…
Sarebbe il caso di ascoltare padre Aleandro, dico rivolgendomi a lui. Un po’ ritraendosi,
però, accetta l’invito. Io sono stato per tanto tempo fuori, esordisce.
Sono andato via che ero un ragazzino e non ho potuto seguire le trasformazioni che
indubbiamente ci sono state. In queste riflessioni, e in quelle che sto scrivendo
riguardanti il periodo successivo al 1913, ho cercato di cogliere una realtà in
movimento. È bene ricordarlo: io sono un sacerdote e mi è difficile prescindere
dall’immagine della donna propria della mia religione. Detto questo mi sembra che sia
stato bene interpretato quanto volevo dire. C’è una forte tensione tra i ruoli che deve
rivestire la donna. Se va avanti nel ruolo pubblico, non per questo le viene alleviato il
lavoro nel ruolo privato. Credo che bisognerebbe trovare un punto di equilibrio più
avanzato, ove le libertà fossero garantite e non ottenute sobbarcandosi tutto il peso della
famiglia e della società. Questa in fondo mi sembrava la situazione delle donne
dell’inizio del secolo … e per molti versi è ancora così.
Noto una certa soddisfazione tra i visi. Quasi che i commenti avessero esaurito tutte le
curiosità oppure, almeno da parte degli uomini, la volontà di non approfondire un
argomento sul quale sarebbero in difficoltà … e molto, conoscendo come stanno le
cose.
Propongo perciò di continuare nella illustrazione delle figure dei protagonisti, come dal
nostro programma. Mi sembra ovvio partire da Antonio Basilico, il presidente contadino
della Società agricola di Mutuo Soccorso “Savoia”. Giancarlo Nardacci ne ha fatto
recentemente una biografia e gli domando se vuole farcene una sintesi. Mi risponde
positivamente e con il suo largo sorriso apre il suo libro e comincia a leggere:
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I protagonisti
Antonio Basilico
Antonio Basilico, nasce nel 1879.
Attraverso la mamma, che prestava servizio presso la famiglia Nardacci, stabilisce un solido
rapporto con il maestro Vittorio, che gli insegna a leggere e scrivere utilizzando la porta del
forno come lavagna.
Grazie ai lavori svolti in America, dove si era recato più volte, aveva acquistato dei terreni
non sufficienti per il fabbisogno familiare, e come la quasi totalità dei contadini di
Roccagorga, lavorava a mezzadria i terreni di proprietà del principe Doria.
Scrive il figlio di Basilico, Americo:
Amministratore del feudo era il Cav. Rossi Vincenzo (Cencio) ed era da lui che bisognava
andare ad elemosinare per avere un pezzo di terra da coltivare. (Così ricordo i fatti del 6
gennaio 1913)
E coloro che non accedevano ai terreni del feudo erano costretti a lavorare i terreni nella
Palude Pontina, in condizioni ancora più dure per l’usura imposta dai proprietari dei terreni e
per il rischio di contrarre la malaria.
I contadini venivano depredati di tutto, il salario per una giornata di lavoro era da fame, le
condizioni di lavoro e di vita per i contadini erano disumane, chi lavorava i terreni con un
contratto vantaggioso, come la “cesa franca”, doveva impegnare tutta la famiglia, dai più
vecchi ai più giovani, per pagare i canoni da strozzinaggio dei proprietari terrieri.
La gestione del potere locale impoveriva la popolazione e si occupava esclusivamente delle
attività che producevano proventi come dazio ed esattorie.
Nel paese mancava l’acqua e la luce; mancavano le strade, e quelle poche che c’erano
raccoglievano a cielo aperto le fogne dell’intero abitato; le condizioni igieniche erano
pessime, mancava una farmacia e i medicinali che necessitavano esponevano la povera gente
ad ogni forma di angheria da parte del medico condotto; si viveva dentro capanne di paglia; si
dormiva su pagliericci di foglie di granturco, in promiscuità con gli animali.
L’azione del sindaco garantiva gli interessi della aristocrazia fondiaria e della nobiltà romana,
invece di costruire i servizi igienici per garantire un minimo di vita dignitosa, e sostenere le
legittime rivendicazioni dei cittadini che chiedevano quote di terreno da lavorare per
emanciparli da condizioni di vita medioevali.
Inoltre, il peso tributario era applicato alla rovescia e gravava sulle famiglie più povere del
paese a tutto beneficio delle più agiate.
Nel libricino L’Eccidio di Rocca Gorga Alle assise di Milano si riporta la seguente
dichiarazione rilasciata durante il dibattimento del processo di Milano:
“il teste Ciotti, richiamato, risponde: - Mi consta che Casa Doria si trova in conflitto con il
Comune di Roccagorga per una grossa somma da versare ad indennizzo delle tasse non pagate
e delle tasse usurpate; e mi consta pure che il commissario regio, venuto dopo lo scioglimento
dell’amministrazione Rossi ha sentito il dovere di rivedere i conti….
Il maestro Vittorio Nardacci scrive un inno, nel giugno 1914, una delle strofe descrive meglio
di tante parole la situazione:
Molto pan ci rubò quel malvagio;
Sotto aspetto di tasse e diritti,
Di legname, pastura ed affitti,
Dalle vene l’umor ci succhiò.
Cencio Rossi rubava il pane ai più poveri, costringendo molti contadini a prendere la via
dell’America: i più giovani, i più sani, i più adatti al lavoro.
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Molti di questi apprendono, girano e conoscono le cose del mondo, la civiltà, i diritti,
producono reddito, comprano piccoli pezzi di terreni, costruiscono case più igieniche e si
emancipano.
Un dato positivo in questa situazione è – come è stato già detto – la mobilitazione dei
contadini.
Scrive Vittorio Nardacci su La Difesa del Contadino, il 3 agosto 1912:
… Sotto l’iniziativa d’un reduce d’America, un contadino di quei che sanno e che sono ascoltati dai loro
compagni di infortunio riunì alcuni compagni in una Lega sotto il titolo di Società Agricola di Mutuo
Soccorso, collo scopo di aiutarsi mutuamente nei lavori campestri in caso di malattia.
Basilico, nel 1912, con altri contadini di Roccagorga, fonda la Società Agricola “Savoia”.
In molti paesi della Ciociaria e della campagna romana, in seguito alla sospensione dei diritti ad
utilizzare i terreni per la semina, il pascolo e il legnatico, si organizzano le leghe contadine. Una
delle prime rivendicazioni delle leghe consiste nel rivedere le condizioni per la ripartizione del
raccolto, 1/3 al proprietario del terreno e non più la metà, e fissare le tariffe e gli orari per le
giornate di lavoro.
L’ispiratore delle leghe, Giuseppe Ballarati, direttore del giornale La Difesa del Contadino, cerca
di tenere le leghe organizzate fuori dalle influenze cattoliche e del sempre più organizzato partito
socialista, così scrive il 14 settembre 1912:
La Difesa pensa che per i contadini è questione di pane e di fame, più che questione di monarchia e di
repubblica, di clericalismo e di anticlericalismo.
A Patrica, il 15 ottobre 1911, viene costituita una lega contadina, con il sostegno di Ballarati
che cosi riporta la notizia su La difesa del Contadino:
Dopo un periodo di lotta tra sfruttatori e sfruttati la riscossa finalmente si tenta anche nella nostra
ciociaria e dai paesetti arrampicati per i monti superbi - simili a pecorelle smarrite - parte oggi un
grido solidale di protesta - sono i contadini - lavoratori della terra, che sentono oggi più d’ogni altra
classe, il bisogno di costituirsi in leghe di resistenza onde abolire i patti di una esosa mezzadria che li
ha resi per secoli gli umili schiavi dei potenti latifondisti.
Nel giugno 1912, sotto la guida del prof. Temistocle Velletri, si costituisce la lega di
resistenza di Sezze, che per organizzazione e per numero di iscritti è una tra le più grandi
del Lazio e dà un impulso alla costituzione delle leghe di Priverno, Roccagorga, Maenza e
Prossedi.
La combinazione di una serie di fattori porta, a mio avviso, alla costituzione della Società di
Mutuo Soccorso “Savoia”: il ruolo di Antonio Basilico e le sue esperienze americane; la
risonanza della attività delle leghe sorte sui Lepini; la forte azione di divulgazione e di
propaganda del giornale La Difesa del Contadino di Ballarati; il ruolo guida di un intellettuale
come il maestro Vittorio Nardacci, che attraverso i giornali conosceva cosa accadeva sui Lepini e
sulla Ciociaria, conosceva lo sfruttamento dei contadini di Roccagorga e le angherie alle quali
erano sottoposti.
Con l’introduzione del suffragio universale maschile, Giuseppe Ballarati, avvia una campagna
stampa per sostenere nelle elezioni politiche dell’ottobre 1913 candidati che rappresentano gli
interessi dei contadini, e fonda un partito, la Grande Armata, che ha per motto: La terra a chi
la lavora.
Inizia quindi la ricerca e la selezione di candidati da eleggere al Parlamento in rappresentanza
di una classe sempre dimenticata: i contadini.
Il 31 maggio 1913, La Difesa del Contadino riporta la notizia della possibile candidatura del
Dr. Italo Carlo Falbo per il Collegio di Ceccano. Candidatura di spessore visto il curriculum
del personaggio: medico, giornalista e direttore, nel 1910, del quotidiano Il Messaggero. Lo
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stesso giorno, 31 maggio 1913, Giuseppe Ballarati scrive a Vittorio Nardacci per avere notizie
sulla gestione dei fondi raccolti per le vittime di Roccagorga e, in merito alla scelta del
candidato Falbo, chiede:
…Nel caso trovaste di vostro interesse appoggiarlo scrivetemelo che io gli farò prima le condizioni… non
ultima il suo interessamento per i disgraziati innocenti che ancora gemono in carcere.
Ovviamente, “…i disgraziati innocenti che ancora gemono in carcere” sono i contadini di
Roccagorga, detenuti e in attesa di processo per i fatti del 6 gennaio 1913.
Il contatto tra Ballarati e Nardacci avviene nel corso del 1912, con alcuni articoli pubblicati
sul La Difesa del contadino. La relazione s’intensifica dopo l’eccidio. Ballarati, attraverso il
suo giornale, avvia una sottoscrizione in denaro per le famiglie dei morti, dei feriti e dei
carcerati di Roccagorga, denaro offerto anche da lavoratori dell’America. La gestione di
questi fondi è delegata ad una commissione costituita dallo stesso Nardacci, da Don Giuseppe
Orsini, da Antonio Basilico e dalle insegnanti Zeffira Ghiretti e Raffaella Mucci.
Il Falbo, in seguito ad una serie di accuse, riportate nel numero del 1° agosto del 1913 da La
Difesa del contadino, ritira la propria candidatura e Ballarati riprende l’idea di candidare un
contadino nel collegio di Ceccano, in aperto contrasto con il partito socialista.
Il giorno 8 agosto 1913 viene lanciata la candidatura di Antonio Basilico, così riportata dal
giornale La Difesa del Contadino:
…L’idea della Difesa di portare candidato Basilico Antonio, il Presidente della nostra Società, è stata
accolta col più grande entusiasmo, meno però dall’Onorevole Ecce homo [Basilico], il quale in principio
andava in collera al solo accennargliene. Ma quando gli fu fatto riflettere che non era Basilico Antonio,
ma la bandiera della Grande Armata che si voleva piantare in Parlamento; quando lo persuasero che egli
aveva il dovere, il dovere anche di sacrificarsi per il bene di tutti i compagni, che con la sua entrata in
Parlamento si voleva principalmente dare un colpo mortale al feudalismo assassino di Roccagorga, e a
quello che impera in ogni comune della ciociaria, causa di ogni nostro male, e che costringe il povero
contadino sfinito a cercare un pane nelle Americhe; quando gli fu fatto riflettere che il suo rifiuto avrebbe
portato un danno all’intera Classe dei contadini, l’Onorevole ecce homo visibilmente commosso, piegò il
capo e rispose in latino: Non mea sed vestra voluntas fiat.
Inizia, quindi, la campagna elettorale a sostegno del candidato contadino Basilico.
Da La Difesa del Contadino del 30 agosto 1913, a Sonnino:
…Quando Basilico Antonio incomincia a parlare si fa un gran silenzio nella folla. Egli parla con voce
chiara e sicura e in ogni parola si sente la convinzione e la fede. Riassumiamo brevemente il suo discorso:
Cari Fratelli e Compagni, egli ha detto, popolo tutto delle campagne e dei paesi dimenticati, immiseriti al
sevizio e alla soggezione di pochi signorotti medioevali, la Grande Armata, formata intorno alla nostra
amata Difesa per renderci liberi dagli sfruttatori, e per dare a ciascuno di noi un pezzo di terra, vuole
mandare le mie cioce a inaugurare il nuovo palazzo del Parlamento italiano a Roma… Vi assicuro egli
esclama che non mi dimenticherò mai né il vostro paese né nessuno di voi ... Non sono dunque, egli dice,
né un ambizioso né un esaltato. Sono un soldato che obbedisce”. E prosegue col rilevare che fino ad oggi
il contadino il pastore il bracciante l’artigiano sono stati considerati dai signori come semplici strumenti
più che persone, ed il governo se pure ha fatto qualche cosa per il Popolo l’ha fatto come quando il
padrone dà un osso al suo cane. Ma se ancora si è dato un osso al Popolo è stato a quello delle città perché
gli operai riuniti nelle fabbriche costretti a vivere nelle stesse case hanno potuto prima dei contadini
organizzarsi, chiedere migliorie, imporre la forza del loro numero. Grazie al lavoro da quindici anni fatto
dal Ballarati, egli dice, e da otto intensificato dalla Difesa, il primo ed unico giornale sorto nell’interesse
delle popolazioni rurali anche noi oggi incominciamo a comprendere la necessità di unirci, di fare da noi
stessi, d’imporre la forza del nostro numero, giacché se siamo mille non dobbiamo essere schiavi di uno e
uno non deve mangiare e distruggere il frutto del lavoro di mille. “Certo compagni miei, aggiunge, e con
robusta voce alla Camera parlerò come potrò, ma se anche non aprissi bocca la mia presenza, questo mio
vestito e queste mie cioce fra tanti signori, formerà ragione di vergogna per il governo e per i ricchi,
giacché la nostra miseria, e la nostra ignoranza provengono dall’abbandono in cui ci lasciarono. Ma io
spero di saper mostrare a quei signori che anche un contadino, quando si tratta dei suoi sacrosanti diritti,
del pane della sua famiglia e dei suoi figli sa parlare e farsi intendere. Mostrerò loro che i gattini hanno
aperto alla fine gli occhi”. E conclude con slancio dicendo: “Voi avete sentito tutti i cinque o sei candidati
99
parlare della bonifica delle paludi, parlare dei milioni che lo Stato deve dare a questa opera. Io compagni
non sono della loro idea. Lo Stato deve dare sì, milioni, ma non per bonificare ed accrescere il valore
delle terre dei Di Stefano, degli Antonelli e d’altri latifondisti pontini. Lo stato deve dare i milioni per
espropriare le terre delle paludi, bonificarle e quotizzarle a noi lavoratori.
La popolarità di Basilico, le cose che dice sulla terra, la sua credibilità per essere stato uno dei
protagonisti dello scontro del 6 gennaio, rendono la sua candidatura un pericolo per il partito
socialista, perché Basilico sottrae voti al loro candidato.
Secondo La difesa del contadino, i socialisti mettono in campo un vile ricatto attraverso gli
avvocati Volpi e Patriarca, difensori dei contadini di Roccagorga nel processo di Frosinone.
Gli avvocati, infatti, avrebbero minacciato Basilico di abbandonare la difesa degli imputati se
egli non avesse rinunciato alla candidatura.
Basilico, sotto questa pressione, scrive una lettera di rinuncia alla candidatura datata 23 agosto
1913 e pubblicata sulla Difesa il 6 settembre:
Ecco la lettera imposta e dettata al Basilico, secondo quanto afferma La difesa del contadino:
Frosinone, 23 agosto 1913.
Sig. Direttore della Difesa del Contadino,
In seguito alla proclamazione mia a candidato al Collegio di Ceccano avvenuta in Segni il 10 agosto u. s.
mi permetto osservare che per evitare scissione tra i contadini dopo l’avvenuta proclamazione del Prof.
Colasanti a Ceccano e Ceprano cui aderirono le Leghe dei Contadini del Circondario di Frosinone è
necessario che i contadini tutti in segno di solidarietà e di protesta si stringano intorno al candidato del
partito socialista che tanta opera di assistenza e di difesa assunse dopo i tristi fatti di Roccagorga del 6
gennaio u. s.
Perciò, Sig. Direttore, proprio in omaggio alla lotta intrapresa contro il governo e le camorre Comunali, io
declino la candidatura tardivamente offertami, pregando nello stesso tempo tutti i contadini a votare
compatti per il Prof. Giovanni Colasanti, candidato pel partito Socialista del collegio di Ceccano.
Con ossequio di Lei dev.mo
ANTONIO BASILICO
Ex-presidente della Società Savoia
di Roccagorga
La mattina del 24 agosto, cioè il giorno dopo la lettera rinuncia, giungeva al giornale La
Difesa, indirizzata a Giuseppe Ballarati, una cartolina firmata dal maestro Nardacci e da
Basilico, con queste dichiarazioni:
Frosinone, 23 agosto 1913.
Egregio Cavaliere,
È presente Basilico. Per non compromettere l’esito della causa, Basilico è costretto firmare una lettera di
rinuncia dettatagli e impostagli dal Monaci, Segretario della Camera del Lavoro. Però non ne tenga
nessun conto, e finito la causa egli sarà sempre il candidalo della Grande Armata. Non pubblichi nulla se
non è finito il processo, perché Basilico cede sul momento a pressioni ma sarà sempre nostro.
Saluti
VITTORIO NARDACCI
BASILICO ANTONIO.
La lettera-rinuncia di Basilico, quella del 23 agosto, come ricostruisce il giornale La Difesa,
viene trattenuta:
…4 giorni per poterla fotografare e divulgare a mezzo degli avvocati Volpi e Marzi a Frosinone, a mezzo
dell’avv. Patriarca, del Maestro De Angelis, del Prof. Colasanti ecc. a Ceprano, Ceccano e Terracina, a
Roma a mezzo del Monaci.
Cosi ricostruisce i fatti il giornale “La Difesa del contadino” nel numero del 6 settembre
1913:
…Quanto non si è dovuta tormentare torturare l’anima del povero Basilico, perché firmasse contro la sua
coscienza, contro le promesse e il giuramento fatto ai suoi compagni, la lettera di rinuncia?
100
La minaccia per più giorni gli era stata ripetuta da ciascuno dei socialisti che trovavansi in Frosinone per
il processo e gli aveva pesato sul cuore: o rinunciare o i socialisti abbandoneranno la difesa dei tuoi cari, o
non li difenderanno come potrebbero. Per il povero contadino oltre la mitraglia subdolamente fatta porre a
servizio degli interessi delle camorre locali di Roccagorga, oltre le difese gratuite, fatte per il solo ideale e
che vengono a costare ai poveri 44 imputati quasi quindici lire a testa, ad essi che hanno le famiglie che si
muoiono di fame al paese, vi è ancora l’altra minaccia, l’altra orrenda speculazione, la speculazione di un
partito che fonda sulla difesa della famiglia delle vittime la sua lotta elettorale. I candidati della banca e
del principe e degli strozzini sono stati sempre più onesti: hanno chiesto il voto in cambio del danaro.
I sostenitori della candidatura del socialista prof. Colasanti con rappresentanti della Camera di lavoro di
Roma invece contrattano voti in cambio di vendita di coscienza e di tradimento, e dove gli avvocati
socialisti avrebbero dovuto chiudersi nel più assoluto riserbo, tenersi estranei per ragione del processo
stesso da qualsiasi considerazione contro la candidatura politica in così stretta relazione con gl’imputati
che difendevano, hanno dato invece lo spettacolo più miserevole e più triste di quello che si possa fare
abusando di interessi privati per una azione politica”.
“... E torniamo ai fatti: Basilico Antonio cede alle imposizioni dei suddetti signori e scrive sotto dettato
una lettera preparata ma subito dopo liberatosi da questi, consegnata la lettera fa scrivere la cartolina
chiusa dal Maestro Nardacci e la firma lui stesso. Lettera e cartolina portano la stessa data, però la lettera
spedita raccomandata arriva in Roma 4 giorni dopo. Essi [i socialisti] non si sono accontentati di questa
lettera estorta con la violenza e che doveva figurare come una spontanea rinuncia del Basilico, ma
baldanzosi di averla alla fine spuntata contro la tenace resistenza del Basilico, si trattengono la lettera per
fotografarla. E prima ancora che essa avesse potuto pervenire al Direttore della Difesa a cui la lettera era
diretta, uno degli avvocati difensori, Patriarca Natalino, il giorno dopo domenica 24 ne da lettura a
Ceprano, come registra il Lazio Socialista del 30 Agosto e contemporaneamente si sa a Terracina; a
Ceccano la stessa domenica 24 Agosto ne parla un avvocato, di cui ci sfugge il nome. Tutto questo perché
quegli egregi signori si son detti: Se la lettera arriva a Roma prima che sia conosciuta dal pubblico, i
fautori di Basilico se ne vengono qui e lo persuadono facilmente a distruggerla, mentre invece a cosa
divulgata una smentita tardiva non ha più il suo effetto. Poveri e volgari turlupinatori del popolo, hanno
fatto i conti senza la retta coscienza di Basilico Antonio che sentì subito la necessità di smascherarli e di
smentirli nella maniera più laconica ma più spontanea e più corrispondente alla gravità dell’imposizione.
“…Si consideri poi il tenore di questa lettera di rinuncia si confrontino le date, i timbri postali, e ciascuno
potrà fare nella forma che vorrà il suo giudizio, ma esso non può essere che uno, i socialisti del processo
di Roccagorga e sostenitori della candidatura Colasanti, commisero una vera estorsione per carpire al
Candidato dei contadini Basilico Antonio la sua rinuncia a beneficio del Prof. Colasanti; con la vile
minaccia che insistendo sulla sua candidatura Basilico comprometteva il risultato del processo. La
cartolina del Basilico e del Maestro Nardacci è la più grave accusa e prova di questa estorsione,
confermataci poi da tutti i particolari dell’estorsione stessa, ritardo nel trasmettere la lettera del Basilico a
Roma, fotografia della medesima, divulgazione in vari e lontani paesi entro le 24 ore.
Ripetiamo: l’opinione pubblica deve far giustizia di questi teppisti del parlamentarismo, il partito stesso
socialista e la Camera del Lavoro dovrebbe sconfessarli, e… gli elettori del collegio di Ceccano dare una
buona lezione alle urne a tutti gli sfruttatori e i turlupinatori del popolo.
Basilico quindi cede al momento e continua la sua campagna elettorale.
La Difesa del contadino, 13 settembre 1913 a Terracina:
…Domenica e lunedì la nostra città presentò una grande animazione. Contadini pervenuti da tutte le parti
per la festa della Madonna, villeggianti e... i candidati al Collegio di Ceccano che con le loro automobili
sollevarono nuvoli di polvere e di dicerie.
Vi era la triade degli avvocati, Gregoraci, Bragaglia, Sindaci, l’on.le Mancini ma l’attesa maggiore fu per
l’arrivo di Basilico Antonio che non venne… perché, come si seppe poi, se n’era andato a zappare la
terra, e a Terracina verrà in una prossima domenica.
A Ceccano interviene Basilico:
Voi avete già sentito i vari programmi esposti anche quest’anno dai cinque o sei candidati dei principi, dei
latifondisti o dei signori e dei partiti politici - e parlare principalmente dei milioni che lo Stato deve dare
per la bonifica delle paludi. Anch’io penso che lo Stato deve dare i milioni ma non per bonificare e
accrescere il valore delle terre dei Di Stefano, degli Antonelli e di altri latifondisti pontini, ma bensì lo
Stato deve dare i milioni per espropriare le terre delle paludi, bonificarle e quotizzarle ai lavoratori. E ciò
perché siamo noi che le lavoriamo, che per coltivarle vi abbiamo preso la malaria, i dolori di ossa.
Oltre questo problema poi mi occuperò della grave questione delle tasse non equamente ripartite, giacché
oggi chi ha mille paga uno, chi ha uno paga mille, quando anche poi si facciano gravare sul popolo tasse
che non si dovrebbero pagare e che non sono in alcuna maniera giustificabile.
101
Mi occuperò inoltre per l’abolizione della tassa di esercizio, come quella sulla vanga, della abolizione
della tassa fuocatico, da sostituirsi con quella progressiva sulle rendite; e propugnerò l’estensione della
legge sul Mezzogiorno anche alla nostra provincia, esentando in tal modo dalla tassa quel lavoratore che
possiede più di cinque capi di bestiame.
Il 26 ottobre, per la prima volta, i contadini, gli artigiani, i pastori, e quanti soffrono e lavorano sono
chiamati, mercé il suffragio universale, a far sentire e valere la forza del loro numero. In passato, fino ad
oggi, i deputati sono stati eletti dai signori e dalle cricche comunali e scelti fra loro così che gravarono
sempre le tasse sulle nostre spalle. La povera gente per tanti anni ha dovuto quindi piegarsi alla volontà di
pochi, costretta a soffrire qui o a emigrare in America. Oggi è la volta dei contadini, del popolo. Il
suffragio universale dà oggi l’arma che il popolo può e deve adoperare a suo esclusivo beneficio.
La grande Armata intanto ha voluto scegliere me, suo milite, a bandiera dei lavoratori. Io non volevo
accettare, ma date le affettuose premure venutemi da ogni parte, sia come presidente di una Società che ha
più di tutte sofferto pel feudalismo imperante dei nostri paesi, sia perché non accettando avrei potuto
danneggiare gli interessi della classe degli umili, ho ceduto ben sapendo che non è per la mia persona che
mi si porta deputato, bensì per le nostre, per le vostre miserie, per le ciocie che porto, per le mie mani
incallite dal faticoso quotidiano lavoro!
Di più intendo dare tutte le mie attività, oltre che a questi e ad altri problemi che nella nuova legislatura si
dovranno risolvere a beneficio dei contadini, a far si che più generale e più accessibile a tutti diventi
l’istruzione popolare, e prometto di non fermarmi mai fino a che tutti i contadini non siano uniti sotto la
stessa bandiera indipendente e apolitica non solo in difesa e a tutela dei loro interessi morali e materiali,
ma ancora per poter creare cooperative non solo di case popolari, come quella della Difesa del Contadino
a Civitalavinia, di consumo e di produzione ma per creare una grande cooperativa fra tutti i contadini,
onde spezzare il latifondo e dare la terra a chi lavora.
Compagni lavoratori!
Questo in poche parole il programma che io intendo portare col vostro voto alla Camera come
rappresentante del Collegio di Ceccano e di tutta la classe dei contadini, dove parlerò come potrò, ma ove
anche se non aprissi bocca, la mia presenza, la presenza di un contadino, questo mio vestir, queste mie
ciocie fra tanti signori, formeranno cagione di vergogna, di riflessione e di monito per il Governo e per i
ricchi, giacché la nostra miseria, la nostra ignoranza provengono dall’abbandono in cui ci hanno sempre
lasciati.
A Vallecorsa Basilico viene osannato. Da La Difesa del contadino del 5 ottobre 1913:
…Ebbe luogo domenica scorsa a Vallecorsa una nuova grande dimostrazione ad Antonio Basilico.
Essa riuscì splendidamente per il numerosissimo concorso degli intervenuti e soprattutto per la gradita
presenza di Antonio Basilico. Ad incontrare il candidato della Grande Armata ch’era accompagnato
dall’amico nostro Giovanni Janni - si recò una folla enorme di popolo, con alla testa il Sindaco e l’intero
Consiglio comunale, seguiti dalla locale Società del tiro a segno e dalle rappresentanze di moltissime
Leghe di contadini tutte con le rispettive bandiere.
… Nuovi applausi salutarono la fine del bellissimo discorso di Janni, applausi che si fecero più che mai
scroscianti allorché, cedendo agli inviti insistenti lanciatigli degli amici, sorse a parlare Antonio Basilico.
Placidamente, con semplicità e con chiarezza mirabili, così da suscitare nell’uditorio un senso di stupore
per le singolari qualità oratorie rivelate dal rude uomo dei campi, il nostro candidato espose il suo
programma.
Poi - e a questo punto la sua parola ha quel calore e quella commozione che derivano dalla sincerità Antonio Basilico assicurò che, una volta eletto, egli darebbe tutto se stesso al trionfo degli ideali dei figli
della Ciociaria. Ed aggiunse che l’opera sua non si limiterebbe all’unione dei lavoratori del suo Collegio,
ma che egli propugnerebbe l’unione di tutti i contadini d’Italia cosi da formare una immensa forza operaia
capace di chiedere e di imporre al Governo il riconoscimento dei calpestati diritti di quella classe che è la
principale fattrice della fortuna economica della nazione. Dire dell’entusiasmo che scoppiò al termine del
forte discorso di Antonio Basilico, è impresa difficile”.
A Terracina, invece, Basilico viene offeso
…Nella visita a Terracina di Basilico Antonio avvenne un fatto che non dobbiamo tacere. Un nostro
nemico - il cui nome siamo tanto generosi di tacere - forse pagato, forse preso da un eccesso di idrofobia
nel vedere il trionfo di Basilico fra i suoi fratelli terracinesi, passandogli vicino gli ha sputato addosso.
Umberto Masei, ed altri contadini, stigmatizzarono l’atto schifoso; Basilico calmo esclamò:
- Non è alla mia persona che va l’offesa: essa colpisce tutti i contadini d’Italia! E la folla, per questa
reazione applaudì freneticamente... La risposta degna a questa offesa, contadini, dovete darla il 26
ottobre: ogni voto sarà uno sputo in faccia ai vostri nemici.
102
A Patrica:
E passato Basilico col suo maestro e padrino Nardacci Vittorio diretto a Roccagorga e tutti i contadini
gli hanno fatta una affettuosa dimostrazione e gli fu offerto un banchetto. Anche i contadini di Patrica
voteranno compatti tutti per Basilico volendo che il Collegio di Ceccano abbia per il primo l’onore di
mandare un contadino alla Camera.
Antonio Basilico scrive al giornale La Difesa del contadino, il 7 Ottobre 1913:
Sig. Direttore, mi giungono qui nelle paludi, ove mi trovo per il granturco, notizie tristissime. Povero
Sonnino, è stato distrutto dalla grandine ed i danni ricevuti dalla popolazione sono incalcolabili. Il mio
maggior dolore è che nulla posso fare per i miei disgraziati compagni. Vi prego però dir loro che se sarò
eletto deputato mi pianterò avanti il Governo e non mi muoverò fino a che non avrò ottenuto quell’aiuto
necessario che sollevi i miei disgraziati compagni.
La candidatura di Basilico suscita grande attenzione da parte di tutti i giornali d’Italia:
L’Eco della Stampa; il Giornale di Vicenza; Il Corriere della Sera; il Corriere Mercantile
di Genova; La Gazzetta di Venezia; il Cittadino di Genova; giornali agrari dell’Alta Italia e
periodici del Mezzogiorno; Il Giornale d’Italia; La Tribuna; L’Osservatore Romano; La
Vita; il Messaggero.
Ma ci sono attacchi alla candidatura Basilico addirittura dal Corriere della Sera, che lo
accusa di essere scomparso il giorno dell’eccidio e di investire denaro per la candidatura
nel collegio di Ceccano.
La Difesa del contadino, il 26 ottobre 1913 risponde così al Corriere della sera.
Al Corriere della sera
Fra le tante calunnie, fra le tante panzane che in questi ultimi giorni si vanno spargendo dai nostri
nemici - pensate: sei eserciti con sei generali, ognuno carico di fiele contro l'altro, ma tutti insieme
disperati contro Basilico e contro l'armata della miseria - fra le bugie di questi ultimi giorni una ve n'è
che va rilevata, se non altro perché è stata data a bere a giornalisti o troppo ingenui, o troppo... furbi, i
quali si sono affrettati [a] diffonderla ai quattro venti, sorprendendo la buona fede del lettori. E
principalmente dobbiamo pubblicamente rilevarlo perché pubblicata dal Corriere della Sera. Il grande
giornale di Milano, che pur vaglia a dovere ogni notizia e tiene alla sua serietà.
A parte gli apprezzamenti più o meno esatti sul nostro movimento, cosa di cui non ci lagniamo
rispettando ogni opinione, lieti anzi della discussione che diffonde in qualunque modo le idee e
l'azione dei contadini del Lazio, un'affermazione calunniosa e diffamatoria - di cui riserviamo ai
colpiti la facoltà di aver soddisfazione per le vie legali - contiene il racconto fatto sul Corriere della
Sera circa la candidatura di Antonio Basilico: quella che, dopo [aver] insinuato che Basilico il giorno
dei tragici fatti di Roccagorga “scomparve” - calunnia che il poco diligente corrispondente non può
che aver raccolto dalla bocca dei socialisti, che non perdonano a Basilico di non esser del loro partito
- dice testualmente:
“Ma qualche burlone o qualche affarista non aveva perduto d'occhio Basilico e il suo gruzzolo e gli
sussurrarono con insistenza: spendi qualche migliaio di lire, sarai deputato e ne guadagnerai seimila
l'anno. Basilico intravide un'altra America e divenne candidato politico di Ceccano”.
E più sotto ribattendo la diffamazione “Basilico ha i più accaniti avversari, e fra questi i più
avvelenati solo i suoi stessi parenti, i quali non gli vogliono ancor perdonare l'ingenuità di sciupare
così il gruzzolo, frutto delle sue fatiche”.
Ora questa è una indegna calunnia. Tutti sanno, nel Collegio di Ceccano, che Antonio Basilico non
aveva “gruzzoli” da buttare e non ha speso un centesimo per la sua elezione, tutti sanno che
l’automobile sulla quale ha voluto fare un po’ di propaganda è del signor Matteini che non ha certo
bisogno di denaro per permettersi la soddisfazione di favorire un movimento che da uomo di cuore
(che sa il lavoro e le fatiche delle campagne e che dal lavoro e dalle fatiche ha saputo trarre le sue
rendite), sa aver base nella giustizia e nella necessità di strappare i nostri contadini alla soggezione
delle camorre rosse e nere; tutti sanno che Basilico, dove non è potuto andare in automobile, è andato
a piedi, camminando di notte per chilometri e chilometri, tutti sanno che le spese per la sua
candidatura sono state racimolate soldo per soldo dai contadini del Lazio e della Ciociaria, e che le
oblazioni sono pubblicate dalla Difesa del Contadino, che pubblicherà anche il resoconto delle spese,
giornale che o b [iniziali dell’autore dell’articolo] del Corriere della Sera sembra non conoscere
nemmeno, cosa certo poco coscienziosa dovendo scrivere di un movimento che non può essere
conosciuto attraverso le diffamatorie diatribe dei socialisti implacabili nostri nemici, ma sul giornale
103
che questo movimento ha provocato e segue e spiega e documenta; tutti sanno infine che la
candidatura Basilico non è sorta per opera, come dice il Corriere con reticenza poco coraggiosa, di
burloni a affaristi ma dalla spontanea e imponente assemblea che volle questa affermazione della
volontà e della forza di una folla di disgraziati abbandonati da tutti, turlupinati da tutti i partiti, e che
non desidera sovvertimenti, ma leggi giuste e umane.
Tutti sanno questo, meno il Corriere della Sera il quale non si è fatto che eco delle banalità che sulla
piazza di Ceccano vanno strombazzando contro Basilico i socialisti rivoluzionari.
E un'offesa fatta alla serietà del giornale milanese - cosa di cui a noi poco importa - e a tutti i nostri
contadini, cosa di cui il grande giornale dovrà render conto.
Anche Basilico risponde lo stesso giorno.
Cara Difesa,
Il Corriere della Sera del 2 Ottobre 1913 afferma sul mio conto cose diffamatorie. Rilevo intanto
solo questo: non è vero che io abbia speso un sol centesimo per la mia candidatura: tutti i mezzi mi
furono dati da fratelli contadini per mezzo della Difesa.
Antonio Basilico
Ma per un cavillo la candidatura di Basilico salta. Vediamo perché dalla lettera di Vittorio
Nardacci qui appresso riportata:
Piperno 25-10-913.
Siamo giunti alla catastrofe finale.
Ieri giunsi in stazione di Piperno alle 10 ant. e non trovai che mio figlio Ignazio e Spaziani di
Terracina.
Sono troppo nervoso e faccio seguitare la lettera a mio figlio.
Il telegramma partito da Roma per chiamare Basilico non lo aveva trovato, da ciò la sua assenza.
Rimandai subito mio figlio in bicicletta per ispedire un espresso alle paludi ed in attesa del ritorno mi
occupai per l’affissione dei manifesti. Intanto avevo ricevuto da Frosinone vaglia di L. 25. Alle 5 1/2
pom. giunse Basilico, ma l’ora tarda non ci permise di occuparci dell’autenticazione delle schede e
delle procure, essendo un notaio assente, l’altro (archivista) aveva terminato l’orario e chiuso
l’ufficio. Stamattina per tempo, io, Spaziani, Gasbarroni Domenico, presidente Lega Sonnino,
Palombi Linneo e mio figlio ci siamo data tutta la premura immaginabile col notaio e col Segretario
Comunale, cortesissimo, ed erano già pronte le schede e parte delle procure, ma alle 10,30 il
Segretario ci ha fatto osservare che il tempo utile per la presentazione di questa roba scadeva colle 12
di oggi. È stato un colpo di fulmine, perché: o si doveva spedire una persona ogni comune, cioè 21,
con 21 carrozze ed altrettante procure, e tal numero era impossibile trovare tutto a Piperno o
rinunziare a tutto perché sarebbe stato impossibile altrimenti, mancandoci il tempo.
Abbiamo preferito di rinunziare a tutto. Difatti: anche volendolo fare ieri non si poteva perché le
schede non giunsero che alle 5 pom. ed anche senza queste difficoltà c’era l’altra del forte anticipo di
spese che avrebbero superato L. 500. Il solo notaio doveva avere fra schede e procure L. 172 cioè: L.
1 la prima scheda e cn. 50 per ciascuna dell’altre 59, totale 29,50; procure n. 19 a L. 7,50 l’uno, totale
L. 112,50 in tutto L. 172. Pagare 20 carrozze in media L. 15 l’una importava L. 300, e alle persone
non voleva dare in media L. 5?
Veda che le 500 lire si superavano ed erano da pagare anticipate. Dove si prendevano?
In preda al più gran dolore, con rossore della vergogna impresso sulla fronte in presenza di tutti i miei
aiutanti devo consolare Basilico di tutto ciò che soffre per l’abbandono costretto a fare di una causa
tanto santa, con un terreno tanto favorevole e con tante amicizie acquistatesi. Termino perché le idee
mi si sconvolgono e non sono buono di andare avanti.
Dev.mo
Vittorio Nardacci
Nelle elezioni del collegio di Ceccano si fronteggiano sette candidati. Vince il candidato
liberale Piccirilli e i socialisti vincono solo a Patrica e a Roccagorga, con 147 voti.
Ma, dopo la rinuncia di Basilico, vengono segnalate alcune circostanze poco chiare. La più
inquietante è riportata da La Difesa del contadino l’8 novembre 1913:
A riprova delle affermazioni nostre a riguardo di alcune circostanze poco chiare del ritiro di Basilico,
pubblichiamo integralmente questa lettera che ci giunse troppo tardi per essere riprodotta nel numero
passato.
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Camuso Giuseppe, scrutatore di Vallecorsa scrive:
Vallecorsa, 29 Ottobre 1913.
Egregio Signor Ballarati,
Rispondo alla sua pervenuta al Presidente ed annunzio quanto è avvenuto: il giorno 25 corr. un
telegramma partì da Piperno alle ore 15,10 con il seguente annunzio:
Annunziamo plaudente ritiro Basilico per Colasanti. Firmato: Ignazio Spaziani.
Ma noi, volendo combattere sulla fede, non ci scoraggiammo, restammo fermi alla nostra trincea senza
ascoltare nessuno. Cosi Basilico riportò a Vallecorsa il numero di 143 voti. Il giornale Il Messaggero
riporta voti 71, non sappiamo da qual paese l'abbia ricevuti. Il tranello non si sa da chi sia ordito, ma però
la Lega di Vallecorsa è sempre ferma senza farsi mai corrompere da nessuno.
Tanto non mi prolungo, partecipo i saluti del Presidente e con stima la saluto rinnovando i voti riportati da
Basilico a Vallecorsa di 143.
Se non erano le dicerie erano molti più.
CAMUSO GIUSEPPE
Scrutatore del Seggio
La lettera formula una accusa precisa contro Ignazio Spaziani, di Terracina, amico di Basilico,
collaboratore di Vittorio Nardacci e presente in Priverno quando Nardacci scrive la lettera
della catastrofe finale. Nell’articolo non è citato il destinatario del telegramma, cosa questa
che crea difficoltà nell’interpretazione, facendo pensare ad una macchinazione, se non
addirittura un complotto per estromettere Basilico dalla contesa elettorale, a tutto vantaggio
del partito socialista. Né la vicenda è stata chiarita, nonostante un processo a Ballarati, per gli
articoli scritti contro i socialisti, processo che si conclude con una condanna del Ballarati. Al
processo fu chiamato anche il maestro Vittorio Nardacci. Nela sua deposizione egli dichiara
che quanto scrisse gli fu ispirato dal Basilico e che in seguito molte cose non gli risultarono
vere.
A distanza di cento anni, anche da queste parziali ricostruzioni, le vicende ancora non sono
completamente chiare.
Sul ruolo di alcuni protagonisti di quel giorno, solo adesso, con ritardo, s’inizia a trovare la
documentazione che ci consente ulteriori analisi e giudizi.
Su Basilico, soprattutto, dopo l’eccidio vi sono ancora tanti misteri da chiarire e alcune
questioni ancora irrisolte.
Sul piano politico più in generale, è necessario comprendere la natura del confrontoscontro fra Ballarati e i socialisti, e capire come sia stato possibile che Ballarati abbia
ridimensionato, su quasi tutta la Ciociaria, armato solo del suo giornale, una forza politica
emergente ed organizzata come quella socialista.
Bella, veramente bella questa figura di leader contadino. Un poco ingenuo, forse – dice
Jan. Certo, certo, Basilico, se vuoi è un poco ingenuo ma quanta forza morale!,
rispondo.
E inserendosi nel discorso Carlo Casula domanda: ma chi è quel Nardacci di cui si
parla? Finora non s’era sentito nominare? E che ruolo ha in tutta la storia dell’eccidio?.
Ah, per evitare confusione - rispondo -, devo precisare che quel Nardacci non ha nulla a
che fare con il nostro G. Nardacci. Pura omonimia, come tante altre. La figura di
Vittorio Nardacci, maestro ed esponente di una delle famiglie di ceto medio del paese, è
difficile da descrivere. Da quanto pare è schierato dalla parte dei contadini ed è contro
l’amministrazione. Ma non compare quasi mai in prima persona prima del 6 gennaio
1913. Poi, invece, sembra condurre una battaglia in prima persona contro Cencio Rossi
e la sua amministrazione. Questo fino alle elezioni del 1914. Poi – credo seguendo la
meteora del Ballarati – torna di nuovo dietro le quinte della storia di Roccagorga.
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Ne abbiamo un ritratto tracciato dal suo omonimo, G. Nardacci. Leggi tu, dico
rivolgendomi a Giancarlo, oppure facciamo leggere qualche altro. Siccome nel testo vi
sono anche delle poesie, forse è meglio che legga qualcuno che sa farlo meglio di me. E
così dicendo guarda verso Alessandra Gigli. Alessandra non si fa pregare e prende in
mano i fogli di Giancarlo e comincia la lettura.
Vittorio Nardacci
Le informazioni sul 6 gennaio 1913, affidate in massima parte alle testimonianze orali e
comunque assai scarse, ci portano alla conclusione che la storia dei protagonisti, dei leaders,
non si esaurisce nella dimensione locale e personale. Su alcuni di questi protagonisti è stato
possibile trovare scampoli di informazioni soprattutto dalla lettura delle sentenze del processo
di Frosinone e di Milano. Di Vittorio Nardacci, “nuovo” protagonista dei fatti del 6 gennaio
1913, la conoscenza viene esclusivamente dagli articoli del giornale La Difesa del Contadino
e dal ritrovamento di un documento, da parte del pronipote Ignazio, che ci consente di chiarire
il rapporto tra Vittorio Nardacci e Giuseppe Ballarati.
Quest’ultimo fonda nel 1906 il giornale La Difesa del Contadino di cui diventerà direttore. Il
giornale – come è stato già detto - sarà lo strumento di azione politica per le leghe contadine e
per le Università agrarie che si costituiscono nel Lazio meridionale. Attraverso il giornale, i
contadini iniziano ad avere informazioni e conoscenze per rivendicare i loro diritti contro i
feudatari e i ricchi possidenti terrieri.
Ballarati riesce ad organizzare uno spazio politico sconosciuto e impensabile fino ad allora e
fornisce ai contadini un’organizzazione di classe con la costruzione di un proprio partito, La
Grande Armata, il cui motto, La terra a chi la lavora, sarà lo slogan per le elezioni politiche
dell’ottobre 1913, le prime a suffragio universale maschile, introdotto il 25 maggio 1912 dal
governo Giolitti.
Altro importante elemento emerso dalla lettura del giornale La Difesa è rappresentato dalla
rete di relazioni organizzata su tutta la Ciociaria. Una rete di cittadini che scrivono sul
giornale le vicende delle loro comunità. Per la prima volta si hanno informazioni direttamente
dai protagonisti dei fatti locali e spesso degli scontri che vi si svolgono, sia politici che di altra
natura. Tutta la Ciociaria è coinvolta nelle sommosse: Maenza, Norma, Supino, Sonnino,
Patrica, Anagni, Boville e Paliano. Si hanno informazioni da Sezze, Cori e Priverno.
Il seme, organizzato con pazienza per anni, incomincia a portare i frutti.
Nardacci era un nodo di questa rete. Conosceva la povertà di Roccagorga e, facendo il
maestro elementare, ne vedeva gli effetti sui bambini. Conosceva le proteste dovute alle
condizioni igienico-sanitarie e ai soprusi subiti dalle donne da parte del medico condotto,
conosceva l’enorme potere di chi amministrava il paese, persone che non tutelavano la
comunità ma la assoggettavano ai voleri e agli interessi del proprietario del feudo Doria. Egli
stesso dipendeva da questo potere poiché, essendo maestro elementare, veniva retribuito dal
comune di Roccagorga e solo a partire dal 1911 la legge Credaro trasforma la scuola
elementare in un servizio dello Stato che pagava gli stipendi ai maestri elementari. Penso che,
con questa legge, il maestro Nardacci si senta più libero, non dipendendo più
dall’amministrazione comunale. Non è un caso se proprio in concomitanza con questa sua
nuova condizione comincia a scrivere sul giornale La Difesa del Contadino.
La mia opinione è che il maestro Vittorio Nardacci sia stato un leader completamente dentro
le vicende del 6 gennaio, per vari motivi. Pochi erano coloro che sapevano leggere e scrivere.
Pochissimi potevano comprare giornali e leggerli. Ancora meno erano coloro che leggevano il
giornale La Difesa, considerate le sue posizioni in materia di usi civici e le battaglie a
sostegno delle leghe a partire dallo scontro avuto con il Principe Doria per le vicende di
Valmontone.
106
Tra coloro che leggevano il giornale La Difesa del Contadino c’era sicuramente il Sindaco
Cencio Rossi e la sua “cricca”.
Il maestro Nardacci oltre che leggere il giornale, occasionalmente vi scriveva, e scriveva delle
cose di Roccagorga, della nascente lega e delle pessime condizioni della scuola.
Comincia a delinearsi, così, la posizione di Nardacci.
Non era socialista, conosceva i disagi delle masse rurali di Roccagorga, conosceva le
condizioni di vita e i soprusi ai quali erano quotidianamente sottoposte. Dai giornali
s’informava delle rivendicazioni dei contadini della Ciociaria e dei Lepini e il fermento che
portava alla formazione delle leghe.
Non avendo documenti per fare analisi sulla posizione di Nardacci, possiamo supporre che
egli, pur non facendo riferimento ad ideali ed organizzazioni politiche come il partito
socialista, aveva compreso la spontaneità del movimento contadino e che una classe
subalterna e marginale era debole se non aveva una guida, e la guida doveva essere un loro
pari, un contadino, Antonio Basilico.
La domanda è: era o no il maestro Vittorio Nardacci il “capo”, l’ispiratore delle vicende
sfociate poi nell’eccidio?
Proviamo a rispondere.
Il maestro Nardacci vedeva il cambiamento possibile e sosteneva apertamente le
rivendicazioni dei contadini e le loro azioni, ne era il comunicatore e, visto lo stretto rapporto
che aveva con Antonio Basilico, è presumibile che insieme a quest’ultimo fosse l’ispiratore e
lo stratega dell’organizzazione dei contadini e della Società di Mutuo Soccorso “Savoia”.
Ballarati, il 31 maggio 1913, così scrive a Nardacci (documento in possesso del pronipote
Ignazio Nardacci):
Car.mo Sig. Nardacci
Il Dott. Nino Frongia allorché venne in Roccagorga dopo i luttuosi fatti, distribuì tre sussidi facendosene
fare ricevuta. Ora il detto dr. Frongia non è più a Roma e dovendo col prossimo numero abbinare il
resoconto la prego con cortese sollecitudine … dire i nomi e le somme elargite. Se ella non rammentasse i
nomi potrebbe chiederli alla moglie del C Cantoniere Pr Mosca che fu di guida in quel giorno al nostro
inviato.
Desidererei ancora saper se il residuo debbo spedirlo direttamente a Lei perché lo distribuisca ai più
bisognosi, oppure all’Arciprete o a Basilico. Attesi sempre invano l’altra nota approvata dalla
Commissione ma non solo non mi fu rimessa ma non ebbi più alcuna notizia da Roccagorga. Perché? Il
commissario ha fissato le elezioni?
Che cosa si fa?
Saluti cordiali
Affmo amico
GBallarati
P. S. Nel resoconto dato è sfuggita nessuna partita? Hanno tutti i nominati ricevuta la loro quota? Fino a
che Lei non me lo assicura conserverò sempre le ricevute vaglia.
Domenica alcune leghe proclamarono Falbo, Direttore del Messaggero loro candidato. Siccome questi
avrà l’appoggio del Governo che farà del tutto per farlo riuscire, e siccome ha promesso di sostenere gli
interessi nostri, così pensate se non vi convenga aderire anche voialtri prima dei nostri avversari.
Intelligenti pauca. Sarebbe un atto politico. Nel caso trovaste di vostro interesse appoggiarlo scrivetemelo
che io gli farò prima le condizioni … non ultima il suo interessamento per i disgraziati innocenti che
ancora gemono in carcere.
Dunque, Ballarati chiede al maestro Vittorio Nardacci se è favorevole alla candidatura di Italo
Carlo Falbo, e dalla lettera si evince come Ballarati ascolti i consigli e le valutazioni di
Nardacci, ed è presumibile che la candidatura di Basilico alle elezioni dell’ottobre 1913 venga
proposta dallo stesso maestro Nardacci.
Abbiamo già detto che Antonio Basilico impara a leggere e scrivere frequentando casa
Nardacci. La differenza di età tra i due, Basilico classe 1879 e Nardacci classe 1861, è la
differenza di età che c’è tra un bambino in età di apprendimento e un maestro che inizia il
proprio lavoro. Tra Basilico e Nardacci, nel corso del tempo, i rapporti non si sono mai
107
interrotti, né si è interrotto il ruolo di ispiratore e guida del Nardacci. Pur appartenendo a
diverse classi sociali e di estrazione culturale differente, Antonio Basilico e Vittorio Nardacci
non furono soltanto il lavoratore povero e oppresso e il piccolo-borghese colto, legati da un
forte vincolo. Essi avevano in comune, infatti, anche la causa santa dei contadini, che
rafforzò il loro legame e li rese protagonisti di una stessa grande Storia che trascendeva le loro
personali e piccole storie. Ed è plausibile che questa sia stata, in mezzo a tante atrocità, anche
una bellissima storia di amicizia e stima tra due straordinarie figure di Roccagorga.
Nardacci scrive, firmando con lo pseudonimo Vinar, nei momenti che precedono l’eccidio. Il
3 agosto 1912 annuncia la costituzione della Società Agricola Savoia. In un articolo (il
primo?) pubblicato su La Difesa del Contadino, il 3 agosto 1912 scrive:
(Nardacci V.) Era doloroso il vedere questi nostri contadini vivere immersi in un apatico letargo, abbrutiti
dalle prepotenze dei sedicenti signorotti e dalle autoritarietà di chi si sapeva imporre. E in verità sarebbe
stata una pena prendere la penna in loro difesa, perché si era sicuri che essi nel loro abbrutimento non
avrebbero trovata la forza di unirsi ai loro difensori per resistere ai carnefici. Forse anche la mancanza di
uno Spartaco che li scotesse, che facesse conoscere la loro forza incompresa, che infondesse loro lo
spirito di riscossa, era certo che restassero in questa dolorosa apatia. Ma lo Spartaco venne. Sotto
l’iniziativa d’un reduce d’America, (ed il nome di questo bravo? N. d. D.) un contadino di quei che sanno
e che sono ascoltati dai loro compagni di infortunio riunì alcuni compagni in una Lega sotto il titolo di
Società Agricola di Mutuo Soccorso, collo scopo di aiutarsi mutuamente nei lavori campestri in caso di
malattia. Tosto l’esempio fu seguito da altri contadini e in brevissimo tempo la lega diventò imponente
per numero e solidarietà; come per incanto, in pochi giorni fu fatto il vessillo sociale, preparata una sede
colla sua brava scritta: Società Agricola di Mutuo Soccorso… e… lo credereste? dal 2 di giugno che è
stata inaugurata la Lega, già i nostri bravi soci hanno agito prestando ad alcuni soci malati il loro soccorso
per i lavori campestri, e il 18 stesso mese si vide per la prima volta la comitiva ritornare dal lavoro
prestato. Fu una cosa bella e commovente; ma più bella e più indovinata è stata la scelta del loro
Presidente.
Intuendo che avrebbero avuto bisogno d’una testa che li guidasse rettamente e sicuramente al loro scopo,
e che all’uopo, sapesse difenderli dalle ingiuste prepotenze e sapesse alzare la voce contro i persecutori,
fulminandoli con la penna e colla parola, la loro scelta cadde sul sig. Dante Mucci, individuo a tutti noto
come amico della gleba.
Scrive dopo l’eccidio, l’8 agosto 1913, il giorno che inizia il processo per i fatti di
Roccagorga presso il tribunale di Frosinone. In un altro articolo su La Difesa del Contadino
dell’ 8 agosto 1913 scrive:
Cinema-Roccagorga
(Vinar). Questo paesetto, perduto fra i monti Lepini, che un giorno nessuno conosceva, e di cui forse
anche i geografi ignoravano il nome e la esistenza quieta e tranquilla, dal Dicembre scorso è divenuto
centro importante di gran movimento, tale che ci sembra di assistere ad un dramma di cinematografo di
cui ecco il:
1. quadro: Una folla di popolo urlante, preceduta da bandiera tricolore: sotto la sede municipale.
Delegato, Tenente e RR. CC. che si oppongono al suo passaggio con baionette e parole persuasive.
Oratori del popolo che si sbracciano e svociano inutilmente; atteggiamento sarcastico e provocante di
coloro, contro cui è rivolta la dimostrazione popolare.
2. quadro. Arrivo d’un Commissario sotto prefettizio occupato per un mese… al vento.
3. quadro. Appare agli occhi del pubblico una scena Italo-Turchesca, alla quale per esser più naturale, non
manca né la conquista d’una bandiera, né l’assalto alla baionetta, né il fuoco micidiale, né i prigionieri fra
i vinti.
Segue l’intermezzo fra questo e il quadro successivo sotto il cielo coperto di altre nubi, l’ampia piazza è
seminata di contadini agonizzanti e di cadaveri per più ore esposti, senza soccorso a edificazione degli
scampati alla scena cruenta e il sangue effuso è a portata della lingua dei cani, mentre che i vivi, chiusi in
casa, son lasciati fino a sera senza pane e acqua.
4. quadro. L’aspetto del paese dopo la battaglia, percorso da uniformi multicolori, rallegrato tristamente
da esercizi militari, con scambio frequente di delegati e sanitari, servizio notturno… stato d’assedio.
E dal lontano orizzonte, come al Convito di Baldassare si vede avanzare un Commissario Prefettizio colla
palma di olivo in una mano e il Mane, Thechel, Fares, nell’altra.
5. quadro. Uniformi turchine, verdi rosse di tutti i salariati municipali, con enorme visiere scimmiottando
il contegno e il saluto militare. Il paese da essi percorso, ha l’aspetto d’un ampio tappeto ricamato di
figure a vario colore ed a rompere la monotonia di questa luce rifratta attraverso un cristallo faccettato, di
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tanto in tanto compare la veneranda figura del custode di Campo Santo, tutto curvo sotto il peso degli
anni, fregiato di un berretto a larga striscia gialla.
6. quadro. Tribunale di Frosinone nel quale l’8 agosto comincerà il dibattimento agli imputati pei fatti del
6 Gennaio; gli imputati sono ridotti alla più semplice espressione e rispetto al numero e alle colpe… tutto
finirà con una assoluzione generale, per il privilegio esclusivo dei nostri tribunali che sanno ben
discernere gl’innocenti dai colpevoli.
7. quadro. Un gruppo di rosicanti che si rodono le unghie o seguono le orme dell’arcivescovo Ruggieri
pei fatti passati, presenti e prossimi futuri del suffragio Universale.
Finale. Contadini e proletari analfabeti tutti tripudianti, cui una provvida legge armò di scheda per
sostenere i propri diritti.
Il 6 settembre 1913 firma, insieme a Basilico, la lettera indirizzata a Ballarati con la richiesta
di non far pubblicare la rinuncia di Basilico e andare avanti nel sostegno al candidato
contadino. Il 25 ottobre 1913 scrive una lettera, pubblicata su La Difesa del Contadino il 2
novembre 1913, quando Basilico si ritira. Nardacci scrive in prossimità delle elezioni
amministrative. Il 25 gennaio 1914 scrive in una lettera - Che cosa si è fatto per Roccagorga
dopo l’ultimo eccidio? denuncia sulla situazione delle scuole a Roccagorga.
(Vinar). - I fatti avvenuti il 6 gennaio 1913 qui a Roccagorga sembrava che fossero stati sufficienti per
persuadere queste autorità locali, che la giustizia largita dallo Statuto di Carlo Alberto, doveva essere
estesa anche ai proletarii, che, fino a quel giorno di luttuosa memoria erano vissuti in pieno Medio Evo.
Ma da quel giorno, cioè dal 6 Gennaio 1913 ad oggi, è passato un anno, e questi 365 giorni, sull’animo
delle autorità e dei prepotenti, hanno fatto lo stesso effetto che la luce sui colori; ne hanno indebolita la
ricordanza fino a dimenticare che non s’è indebolita però la ricordanza degli oppressi lavoratori, i quali
conservano limpida la memoria dei fatti accaduti, della forza che il patrio governo ha concesso agli
analfabeti, che per questa forza il Medio Evo è abolito.
Questo popolo, composto quasi tutto di lavoratori, non intende più di stare sotto la sferza dei persecutori e
reclama ad alta voce i suoi diritti. Esso vuole la pulizia, l’acqua potabile, le scuole e i maestri a
sufficienza, perché se esso è vissuto oppresso e angariato fino ad ora, è stato appunto perché lo lasciavano
nell’ignoranza, oscurità che gli nascondeva di qual energia era egli capace e che cosa poteva giustamente
pretendere, formato com’è di carne e d’ossa come i signori, e che gli faceva parere giusta anche
l’ingiustizia di coloro che la nascondevano dietro una parvenza d’istruzione (furberia) e un’inespugnabile
fortezza, difesa da cannoni d’argento, carichi a polvere d’oro e a palle di biglietti di banca.
Signore Autorità di Roccagorga! questo il popolo ricorda, ma ricordate anche voi che esso per 4 mesi è
restato senz’acqua, dopo varii secoli che ne ha avuta a bizzeffe, e ha taciuto; che vive ancora fra le più
fetide lordure perché privo di fogne, e tace; che vegeta nell’ignoranza per insufficienza di personale
insegnante, e non fiata. Ma fino a quando?
E l’On.le Credaro colla sua Legge così bella così elaborata, così provvida per i piccoli centri, che fa?
Ignora che a Roccagorga c’è una scuola maschile frequentata da 67 alunni in un’aula di appena 123 metri
cubi, ove ci sono inzeppati banchi per 54 scolari, e che in 3 di questi banchi da 4 posti, ci stanno seduti 22
ragazzi pigiati come alici, e a 4 banchini a due posti ce ne stanno 12?
Ignora S. E. che il R. Ispettore scolastico di Velletri ha raccomandato a queste autorità di provvedere con
lo sdoppiamento della classe, e queste autorità han risposto al maestro: andate avanti al meglio e
risparmiateci fastidi?
Ignora che l’aula di questa scuola è la migliore, la più ampia e la meno frequentata, mentre ce ne sono di
più piccole con 100 alunni circa e 79 rispettivamente, e che ce ne sta un’altra di metri 4 per 4 ove
soffocano circa 40 alunni fra maschi e femmine per sei ore al giorno e dove l’insegnante non può neanche
sedersi? Se S. E. ignora tutto questo, glie lo facciamo sapere adesso.
E ciò perché accade? perché le nostre autorità non vogliono essere infastidite, perché non vogliono urtare
la suscettibilità di qualche potente locale, perché vogliono lasciare il popolo nell’antica ignoranza, perché
gli oppressori possano nel tempo avvenire esercitare la loro infame e vigliacca influenza su le masse
ignoranti come nel passato.
Signori! voi che ora occupate quel soglio, che l’oscurità, or fatta luce, del popolo vi ha procurato, signori,
io vi faccio responsabili di ciò che può accadere per le ingiustizie esercitate, per i diritti conculcati; e
allorquando il giorno della reazione mostrerà qual ira tremenda possa racchiudere un cuore amareggiato
da più secoli di torture, e che il veleno del rimorso dilanierà la vostra coscienza per i fatti da voi
provocati, allora sarete trattati come voi ora fate: senza pietà, senza misericordia.
Voi, signori, avete la nobile e santa missione di raddolcire gli animi colla giustizia, e per tenervi ligi pochi
individui inetti a spaventar i forti, opprimete il popolo per evitar fastidi!
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E la vostra prudenza, che altri direbbe paura, vi fa negare un permesso ad un artista, cultore dell’arte più
bella e più gentile, e che per semplice deferenza v’era stato chiesto perché non vi competeva, negate un
permesso, ripeto, a un artista per corteggiare un artigiano! Un’autorità tremare all’ira tremenda d’un
ignobile artigiano!
Oh! benedetta cavalleria dei tempi antichi! A quella moderna arrossirebbero tutti i cavalieri della Mancia
e tutti i Ronzinanti da carriuola del mondo. (La Difesa del Contadino, 25 gennaio 1914).
Il 7 marzo 1914 scrive per controllare la banale attività del carnevale. Il 27 giugno 1914
denuncia le malefatte elettorali e sostiene gli avversari di Vincenzo Rossi. In un articolo dal
titolo Rocca Gorga. Un comune fuori dalla legge, scrive:
(Vinar). – È cosa nauseante l’assistere qui alle palesi pressioni, corruzioni e prepotenze che si fanno agli
elettori amministrativi, massima dopo annullate le elezioni del giorno 7 corrente. Prima almeno, s’era
salvato il decoro proprio e dell’elettore, sotto la parvenza del segreto, non manifestando la lotta sicale, che
con insulti agli avvocati Patriarca e Marzi, qua venuti a proprie spese, per incoraggiare i nostri contadini
ad essere forti e compatti; ma benché questi insulti fossero seguiti da parecchie provocazioni a qualche
elettore e a qualche capo gruppo, pure sera restato lì.
Ma dal 7 ad oggi, minacce contro i comizianti, citazioni, sfratti, danari e vino a torrenti, accompagnati da
pecore uccise ed altro, sono all’ordine del giorno, dimostrando così a luce meridiana che a un signore
resta sempre comodo spendere qualche migliaio di lire per esimersi dal pagarne duecentomila (relazione
dell’ingegnere Castellani) mal percette, sotto l’aspetto di legnatico, pascolo ed altri usi civici.
E a dire che a certi poveri ignoranti non entra in testa che una sentenza di Tribunale ha reso
pubblicamente incompatibile l’incestuoso connubio di certe cariche e che sostenendo col loro voto la
candidatura di ceri rettili commettono dei veri e propri suicidi e rinunziano per sé e i loro figli al
benessere che ne avverrebbe rientrando in possesso dei loro diritti e delle 200000 lire che potrebbero
forse raddoppiarsi dopo l’esito della causa, per cui la presente amministrazione ha già notificata citazione.
Il nostro partito, agisce lealmente senza corruzione di sorta; prego la vostra cara Difesa a sacrificare un
po’ di spazio per incoraggiare e persuadere coloro che ancora vivessero nelle tenebre e a pubblicare il
seguente Inno che è stato già musicato dallo stesso autore e che ha già sparso il panico fra le fila nemiche
(La Difesa del Contadino, 21-27 giugno 1914).
Inno dei Contadini di Roccagorga
Su, fratelli corriamo compatti
A quell’urna ch’ansiosa ci aspetta;
Su, corriamo, facciamo vendetta
Con quest’arma che scheda nomiam.
Su, corriamo uniti e forti,
Vendichiamo i nostri morti,
Conquistiam quell’alto soglio
Che Fra Torso vuol per sé.
Quella terra che noi fecondiamo
Col sudor delle nostre fatiche,
Quelle terre si belle, si apriche,
Quelle terre per noi le vogliam.
Ci dà il vitto a noi la terra.
Quei tesori che rinserra,
Son per noi, pei nostri figli,
Non pei vili sfruttator.
Molto pan ci rubò quel malvagio;
Sotto aspetto di tasse e diritti,
Di legname, pastura ed affitti,
Dalle vene l’umor ci succhiò.
Su corriam baldi e forti,
Vendichiamo i nostri morti,
Il danaro il sangue nostro,
Che Fra Torso ci rapì.
Ecco il cinque, veloce s’appressa,
Portatore d’un’alba novella,
Con il Cinque, più fausta la stella
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Più fulgente per noi s’alzerà
Su, compagni, in man prendiamo,
Questa scheda, andiam, votiamo;
Là, in quell’urna sta rinchiuso
L’avvenir di libertà!
Nardacci scrive il 10 luglio 1914, cinque giorni dopo le elezioni vinte dal sindaco dell’eccidio
Vincenzo Rossi, una lettera aperta che circola in Roccagorga, pubblicata il 18 luglio 1914 su
La Difesa del Contadino. È l’ultimo documento trovato sul Maestro Vittorio Nardacci.
Roccagorga 10 Luglio 1914
Perderei tempo e mi procurerei disgusto se rispondessi all’articolo comparso nel paese nel N° 557 del 5
Luglio intitolato Cose di Roccagorga e firmato Vincenzo Rossi, giacché non si può né è civile
polemizzare con chi non può sostener polemiche con chi si è posto al di sotto di ogni uomo sensibile alle
sciagure umane! Vincenzo Rossi! Dice tutto il nome! Le illustrazioni non ne renderebbero che un’idea
vaga e indecisa! “È Lui”!
Non rispondo al prestanome di quell’articolo e nemmeno a chi si è nascosto dietro di esso per coprirlo di
ridicolo senza volerlo forse o forse anche il firmatario non è conscio delle bestialità, delle menzogne
firmate e della vacuità delle minacce rodomontesche! Scrivo per il pubblico dolorante per la nuova
sventura toccata a Roccagorga il 5 di questo mese.
I campioni, punto cavallereschi, di Vincenzo Rossi, ritorcono contro di noi le accuse che noi lanciamo
loro incessantemente, di cui qui pure i macigni son convinti e nauseati.
Quelle che voi, avversari, chiamate pressioni elettorali da parte nostra, è boicottaggio doveroso e
seguiterà fino a quando l’infamia dura contro tutti i traditori e i venduti.
Non è un maestro elementare a corto di mezzi finanziari, non i cenciosi leghisti che possono far dire “sì”
quando si crede fermamente “no” giacché non può minacciare di ritogliere chi non ha dato, non può
promettere, per adescare, chi non ha!
Comprime, purtroppo, annullando quel minimum di amor proprio che ha perfino l’ultimo
degl’incoscienti, violenta la libertà individuale, fa dire perdio che non sono stati assassini quelli che
hanno ucciso e non sono stati complici quelli che hanno fatto uccidere che son persone oneste coloro che
han rubato e galantuomo chi ha detto che è stato poco il sangue sparso, banchettando, mentre fumavano
ancora sulla piazza i cadaveri squarciati dalla mitraglia, solo chi ha la disgrazia di aver ai suoi ordini degli
schiavi e l’infelicità di non sentirne il rimorso.
I fatti eccoveli da eroici anonimi.
Alcune schede di Cencio Rossi furono annullate perché interamente cancellate! Eloquentissimo!
È la ribellione di pochi schiavi e pochi tribolati, di pochi affamati, cui bruciava le mani quella scheda che
plaudendo ai Rossi, ai Garzia, ai Gregori, frustrava il generoso sangue sparso, il nobile sforzo di tanti
compagni eroicamente lottanti su per la china aspra, colla mente e col cuore attratti dal miraggio di un’età
buona, giusta, umana, fatta di amore, di pace, di vita. Non è stata questa una rivelazione per noi, lo
sapevamo!
Bravi, poveri sconosciuti ribelli, che avete preso la scheda perché così vi consigliava la dura fame, ma
l’avete annullata e ne avete cancellato i nomi che aborrivate!
Contro lo sfruttamento e gli sfruttatori, contro il massacro e i massacratori, contro le belve ora e sempre
incessantemente contadini di Roccagorga, agitatevi! La vostra causa è santa.
“Vinar”
(Vittorio Nardacci)
A questo punto mi sembra che affermare – come ho fatto – che Vittorio Nardacci fosse ben
dentro gli avvenimenti del 6 gennaio 1913 sia pienamente giustificato da quanto ho riportato.
Finita la lettura, prima che possa fare un qualsiasi commento, Carlo Casula esclama:
Com’è strana questa storia!?, Veramente strana!.
Certo, rispondo, la vicenda della candidatura di Antonio Basilico alle elezioni
politiche dell’ottobre 1913 è veramente molto strana. Si potrebbe interpretare come
una normale competizione tra il movimento del Ballarati e il Partito Socialista
Italiano. C’è qualche elemento, però, dissonante. Perché dopo uno scontro così duro
111
tra Ballarati, Nardacci e Basilico, da una parte, e i socialisti dall’altra, alcuni mesi
dopo né Nardacci, né Basilico né lo stesso Ballarati hanno “risentimento” verso i
socialisti. Anzi, Nardacci difende gli avvocati Patriarca e Marzi venuti a Roccagorga
a fare campagna elettorale per i socialisti. Ci può essere stato un cambiamento di
linea da parte del Ballarati. E questo è un punto da approfondire. Inoltre, Nardacci e
Basilico – ma a questo punto Nardacci è venuto fuori e combatte alla luce del sole –
forse si rendono conto che hanno bisogno di appoggi esterni per condurre le loro lotte
a Roccagorga. Oppure, il fallimento della candidatura di Basilico è stato un pasticcio
organizzativo compiuto da Ballarati, Nardacci e dallo stesso Basilico. Non sappiamo
come sono andate effettivamente le cose. Sono domande aperte e argomenti di futura
ricerca storica, speriamo.
Per quanto riguarda il ruolo di Vittorio Nardacci, dice Vincenzo Vuri inserendosi nel
discorso, è chiaro che non fu secondario. Negli scritti riportati da Giancarlo si vede
un crescendo delle sue posizioni: prima prevalentemente culturali poi apertamente
politiche. Prima forse – ma questa è una mia supposizione - tramite l’azione di
Basilico, poi direttamente in prima persona. Probabilmente i due – Basilico e
Nardacci – si influenzavano l’un l’altro. Uno, però, agiva con la parola; l’altro con
l’azione pratica.
La discussione ci porterebbe lontano – aggiungo io – ma forse è meglio vedere gli
altri due personaggi della storia: Dante Mucci e Vincenzo Rossi detto “Sor Cencio”.
Chiedo, perciò, a G. Nardacci se vuole tracciare un rapido profilo di Dante Mucci. La
sua risposta non si fa attendere e il suo racconto comincia così:
Dante Mucci
Dante Mucci nasce il 29 maggio 1880. È un piccolo possidente terriero e conosce i disagi dei
contadini.
Scrive Vittorio Nardacci su La Difesa del Contadino il 3 agosto 1912:
… Sotto l’iniziativa d’un reduce d’America, un contadino di quei che sanno e che sono ascoltati dai loro
compagni di infortunio riunì alcuni compagni in una Lega sotto il titolo di Società Agricola di Mutuo
Soccorso, collo scopo di aiutarsi mutuamente nei lavori campestri in caso di malattia.
… ma più bella e più indovinata è stata la scelta del loro Presidente. Intuendo che avrebbero avuto
bisogno d’una testa che li guidasse rettamente e sicuramente al loro scopo, e che, all’uopo, sapesse
difenderli dalle ingiuste prepotenze e sapesse alzare la voce contro i persecutori, fulminandoli con la
penna e colla parola, la loro scelta cadde sul sig. Dante Mucci, individuo a tutti noto come amico della
gleba.
Dunque, Dante Mucci è insieme a Basilico una delle due teste della Società di mutuo
Soccorso, oltre che consigliere di minoranza ed unico oppositore politico in consiglio
comunale del sindaco Vincenzo Rossi.
La società Agricola di Mutuo Soccorso “Savoia” viene costituita nell’ottobre 1912 con la
redazione e l’approvazione del suo statuto. La società, però, è di fatto costituita già da giugno.
Il 2 giugno, in occasione della festa di Sant’Erasmo, patrono del paese, vi è stata l’assemblea
presso il palazzo Pacifici. In questa occasione è intervenuto anche il sindaco. È un’ipotesi
piuttosto logica ritenere che il sindaco Rossi sia intervento con l’obiettivo di portare dalla sua
parte i contadini. Ciò avrebbe significato, da un lato, controllare le richieste dei contadini e,
dall’altro, controllare il loro voto, visto che con l’introduzione del Suffragio Universale
maschile essi sarebbero diventati elettori. E, se organizzati, avrebbero potuto cambiare la
rappresentanza politica e l’intera gestione del comune.
Durante l’estate, invece, la società Agricola di Mutuo Soccorso “Savoia” elegge Dante Mucci
direttore e Antonio Basilico presidente. È da ritenersi che tra giugno e settembre vi sia stato
112
un conflitto politico, conclusosi con la vittoria di dante Mucci e di Antonio Basilico che,
scegliendo Mucci come direttore, si libera dell’influenza letale di Cencio Rossi.
Lo statuto della società, scritto da Dante Mucci, di chiara ispirazione cattolica, non impedisce
di avere relazioni con le leghe socialiste già attive nei paesi vicini.
In data 14 gennaio 1913, l’Ispettore Generale della Pubblica Sicurezza, Ildebrando Stroili, in
una relazione inviata al Ministero dell’Interno, cosi descrive Dante Mucci:
… sorse una società Agricola di Mutuo Soccorso col nome di Savoia, non legata a partito alcuno, non
avendo la politica ancora fatto breccia tra quella gente… poco dopo entrarono nel sodalizio due
persone… Il primo è Mucci Dante fu Cleto d’anni 35, che si afferma sia intelligente, di parola facile e
persuasiva… di carattere irascibile e dedito alle prediche religiose in modo piuttosto esagerato, ciò che
crebbe l’influenza sui suoi paesani.
… Il secondo eccitatore della Società Agricola è il maestro elementare De Angelis Ferdinando, fu
Germano, d’anni 25 da Sezze, discretamente istruito, giovane… costui cercò di dare alla Società Agricola
un indirizzo politico, ma non poté sopraffare il Mucci che, pel suo misticismo, era più alla portata della
mentalità degli associati.
…Per l’opera di questi due, che ai primi dello scorso dicembre, si iniziò quella agitazione, che portò alle
deplorate luttuose conseguenze… .
Nella descrizione dell’Ispettore Generale per la prima volta emerge l’ipotesi che il conflitto,
che sfocia nell’eccidio del 6 Gennaio, possa avere una natura politica, con Dante Mucci e il
maestro Ferdinando De Angelis ritenuti responsabili degli eventi. Uno d’ispirazione cattolica
e l’altro socialista.
Le due personalità, però, sono molto differenti. Il Mucci, cattolico, rivendica spazi di
rappresentanza locale per i gruppi medio-bassi, di cui è il rappresentante più autorevole,
cercando di organizzare il consenso locale e, inevitabilmente il suo “nemico” è il sindaco
Rossi. L’altro, De Angelis, socialista, interpreta la politica come organizzazione,
rivendicazione di diritti e passaggio obbligato per trasformare la società attraverso un
processo di politicizzazione e civilizzazione, svolge da maestro azione di sensibilizzazione ed
educazione, tanto che alcuni suoi allievi, a distanza di anni, ricordavano la lettura del giornale
L’Avanti!, portato in classe dal maestro.
La sentenza del Tribunale di Frosinone, in modo pilatesco sfiora i veri motivi del malcontento
che hanno provocato la rivolta e accumuna il sindaco Rossi e il consigliere di opposizione
Mucci nella responsabilità dell’eccidio:
Mucci ed il Sindaco Rossi sono le due figure tristi del processo, le quali pure stando in antitesi tra di loro
vengono ad accomunarsi in ciò che nella presente causa forma la ragione morale del luttuoso
avvenimento.
E aggiunge:
… di tale malcontento ne approfittò il suo avversario e nemico personale Dante Mucci, ma non lo creò
costui per come avrebbe voluto fare intendere il Sindaco Rossi. Ond’è che mal non s’oppone il Tribunale
dicendo il Sindaco causa morale dei fatti deplorati.
Inoltre, su Dante Mucci:
… pacifico com’è costui non era né un apostolo né un campione di principi e di ideali socialisti.
La società Savoia, secondo il tribunale di Frosinone, diventa lo strumento attraverso il quale
Mucci,
… uno spostato avido di potere, pieno di bile e di odio, facile all’ingiuria, ed alla blandizia secondo i casi,
duttile di carattere, manieroso nelle apparenze, perverso nell’animo…,
organizza il dissenso “per regolare” i conti con il sindaco Rossi e con il dott. Garzia, suoi
“nemici” personali.
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Dopo l’8 dicembre 1912, giorno della prima passeggiata di protesta, che Mucci aveva
organizzato con la Società Agricola Savoia, viene inviato a Roccagorga un Commissario
Prefettizio, il ragioniere Velli, rappresentante della sottoprefettura di Frosinone, per indagare
sia sulla condotta del medico Garzia che sull’andamento dell’Amministrazione comunale. Al
ragioniere Velli Mucci espone la situazione relativa al medico Garzia e lo stato di abbandono
del paese dal punto di vista igienico. Questioni, queste, sufficienti per una azione politica.
Il prefetto di Roma, Annaratone, fornisce però un’altra interpretazione dei fatti e dei
protagonisti della vicenda. In una relazione inviata al Ministero dell’Interno, Direzione Gen.
della Pubblica Sicurezza, in data 29 gennaio 1913, così scrive di Mucci:
… compresa l’importanza del provvedimento e convinto che il suo giuoco sarebbe stato quanto prima
scoperto, precipitò gli eventi sobillando il popolo e conducendolo alla rivolta. L’azione del sottoprefetto è
stata così troncata violentemente ed il Commissario prefettizio non ha potuto compiere l’opera sua.
Sempre nella stessa relazione, il prefetto di Roma, Annaratone, così individua i responsabili e
le cause dei fatti del 6 gennaio:
È mio convincimento che senza l’azione deleteria del Mucci, a Roccagorga non si sarebbero deplorati i
dolorosi fatti. Quali i fini reconditi del Mucci? Indubbiamente l’ambizione di assurgere a capo di
quell’Amministrazione comunale. Tale suo intendimento si manifestò per la prima volta nel comizio del
dicembre, nel quale disse che l’attuale Sindaco, asservito a Casa Doria, di cui è un agente, il popolo non
poteva sperare alcun beneficio, neppure quello della rivendicazione degli usi civici sui beni del Principe
Doria”.
Leggendo tra le righe la suddetta relazione si intuisce l’idea che le istituzioni governative
avevano della società: una società immobile, da reprimere ad ogni legittima richiesta, non
consentire a chi non ha rappresentanza politica di manifestare, ogni cittadino doveva stare al
proprio posto, non accampare pretese di qualsiasi natura, non organizzarsi attraverso iniziative
politiche per avere un ruolo e soprattutto non avere: “… l’ambizione di assurgere a capo di
quell’Amministrazione comunale”.
Il dissenso dei contadini esplode il 6 gennaio 1913, giorno della manifestazione di protesta.
Mucci e Basilico sono i due oratori che parlano dalla loggetta del palazzo Pacifici.
Nel processo di Frosinone Mucci viene accusato di aver incitato la folla alla rivolta, motivato
da rancori personali contro il sindaco e vigliacco nei comportamenti in quanto fu
… la causa, se non l’unica, quella prossima, diretta dei tristi fatti di Roccagorga privo per dippiù di
coraggio delle sue azioni, pacifico com’è che venne ritrovato nascosto dietro un pancone della cucina di
casa Pacifici….
Nonostante il prezioso lavoro di ricerca di quanti hanno lavorato sui fatti del 6 gennaio,
ancora non sono stati trovati gli atti del Processo di Frosinone e, per ricostruire le
dichiarazioni degli imputati e dei testi protagonisti dell’eccidio, è stato necessario affidarsi
alla lettura dei giornali dell’epoca.
Tra questi, La Stampa di Torino, pur avendo una politica filo governativa, fornisce preziose
informazioni e una cronaca dettagliata del processo con rendiconti quotidiani del
dibattimento.
Il 10 agosto 1913 in un articolo dal titolo I casi di Rocca Gorga al Tribunale di Frosinone il
corrispondente locale riporta, tra virgolette, le deposizioni di Dante Mucci ed è possibile da
queste ricostruire la sua posizione e la sua visione dei fatti che hanno portato all’eccidio e le
relative responsabilità. Vediamo:
L’udienza di oggi del processo per i fatti di Rocca Gorga incomincia alle 9.30 precise. Si procede
all’interrogatorio di Mucci Dante, che sarebbe stato, secondo l’accusa, l’anima della sommossa. Egli fu
condannato sei anni or sono ad una multa di lire 150 per oltraggio.
114
L’imputato maggiore
L’imputato fa, in mezzo alla viva attenzione dell’uditorio, il seguente racconto:
- Ero stato assente per quattro anni da Rocca Gorga e dovetti allontanarmi per non compromettermi col
sindaco, che è un tipo di uomo autocrate. Al mio ritorno, i contadini raccolsero l’idea della fondazione di
una società di mutuo soccorso, idea che io avevo avuta fin da prima di partire. La società doveva fondarsi
perché i contadini potessero avere nei periodi cattivi il modo di sfuggire all’usura. Il sindaco si oppose a
tale idea dicendomi che io facevo male ad aprire gli occhi ai contadini, i quali poi ci si sarebbero gettati
addosso. Al mio ritorno i contadini mi pressarono di fondare questa società; ma io dapprima mi schermii
dicendo che essi erano pusillanimi e che il sindaco avrebbe osteggiato tutto. “Rivolgetevi al sindaco dissi loro - vedrete che tutto andrà bene”. Infatti la società fu fondata, ma andava male ed i contadini si
lagnavano perché non ricevevano gli aiuti promessi. Essi insisterono presso di me ad invitarmi,
aggiungendo che se io avessi rifiutato, sarebbero venuti in corteo dinanzi a casa mia e mi avrebbero
condotto per forza nella loro società.
Presidente: - Questo fu prima del dicembre?
Il medico e il segretario
Imputato: - Sì. Questo io dicevo per dimostrare come io non cercassi la pubblicità. Ma allora accettai ed i
soci da venticinque salirono a centocinquanta. I soli pastori non aderirono, il che mi dispiacque, perché mi
veniva a mancare la possibilità di fondare la cassa rurale. Stesi uno schema di statuto, per quanto non
volessi che la Società si trasformasse in ente morale. Volevamo anche creare una cooperativa di consumo
ed incominciarono le prime rappresaglie contro di noi. Per piccole sciocchezze i soci erano posti in
contravvenzione e quando si recavano in Municipio venivano scacciati con parole ironiche a mio
riguardo.
Si lagnavano i contadini perché il medico non faceva il suo dovere. “Pel dottore - diceva - non vi è nulla?
Questo granoturco sarebbe igienico per i miei figli, questi polli, queste salsicce mi fanno gola”. Lo stesso
succedeva per la frutta: insomma era un vero ricatto. Lo stesso era del segretario che voleva essere pagato
quando compieva i doveri del suo ufficio. In quel tempo si chiuse anche la farmacia; il medico, che aveva
in casa sua aperto una specie di farmacia vendeva a caro prezzo le specialità che gli venivano mandate in
regalo dalle case produttrici. Intanto i poveri contadini si rivolsero al sindaco perché venisse aperta una
farmacia e il sindaco li rimandò indietro dicendo loro che si rivolgessero al medico. Fu allora che il mio
cuore si commosse vedendo i miei poveri malati che a cavallo di somaro si recavano a farsi curare nei
paesi vicini. Volli indire un comizio per impedire che i contadini commettessero violenze. Naturalmente
consigliai la prudenza e dissi ai contadini che quando fossero stati invitati a sciogliersi avrebbero dovuto
farlo subito. Infatti nella dimostrazione popolare tutto andava bene malgrado che il sindaco insultasse il
popolo da un balcone.
Il tumulto
Si fece il giro del paese e se il sindaco fosse stato un galantuomo, avrebbe dovuto dimettersi tante erano le
accuse che gli si facevano. Vi fu un momento in cui il popolo voleva travolgere i carabinieri ma ottenni
che gli animi si calmassero dicendo loro che non volevo che in quel giorno dovessero piangere delle
famiglie e promisi che a suo tempo, se non si fosse provveduto, si sarebbe rifatta la dimostrazione. E
pensare che mi hanno voluto dipingere come un piccolo aspirante al trono! Bel trono! In quella occasione,
come dicevo, bisognava protestare contro il medico e contro il segretario. Nessun provvedimento essendo
venuto da parte delle autorità, venne indetto un altro comizio. Intanto il delegato di Anagni che era a
Rocca Gorga, mi disse che avrebbe fatto un’inchiesta privata sul conto del dottore. Infatti risultarono cose
gravissime, impressionanti. Malgrado ciò il sindaco non faceva nulla, anzi si vide spesso a pranzo col
dottore. Figuratevi che cosa avvenne: il dottore cominciò a impaurire ed a minacciar tutti. Le cose
precipitarono con la venuta del commissario prefettizio Velli, il quale non concludeva nulla, e per tutto
provvedimento mise in congedo il dottore - che erasi reso colpevole di reati puniti dal codice penale - per
due mesi. È vero che il commissario prefettizio disse che questo provvedimento preludeva ad altri più
gravi. Bisogna notare che il commissario abitava in casa del sindaco e che solo quando il popolo protestò
contro questo atto, andò ad abitare in casa di un parente del sindaco stesso. Ripeto, avevo dato sempre
consigli di prudenza e cercai di calmare il popolo, il quale anzi incominciava a dire che lo abbandonavo e
chiaramente mi fece comprendere che per il gennaio si doveva fare la passeggiata di protesta. Fu chiesto
il permesso al delegato, il quale trovò che la domanda era redatta in forma troppo ardita: poi io redassi la
domanda in una forma più mite; tuttavia il delegato disse che il permesso non poteva concedersi perché la
domanda non era stata presentata in tempo. Solo dopo mie insistenze fu permesso che si facesse un
comizio in piazza. Per primo al comizio parlò il Basilico, ma il popolo mormorava che anche noi eravamo
d’accordo con gli altri. Allora parlai anch’io per far comprendere che non si poteva ottenere tutto in una
volta. Il popolo cominciò a reclamare la bandiera per metterla davanti alla Società: Le donne presero
infatti la bandiera e scesero nelle scale. Io rimasi su e mi affacciai al balcone: le colluttazioni già
incominciavano.
115
Io gridai alle donne: “Lasciate la bandiera, non vi rovinate, ne faremo un’altra”. Ma le mie parole
cadevano nel vuoto, il popolo era agitato ed i carabinieri dovettero cedere all’onda della folla e fuggire. Io
fui per scendere allora in piazza, malgrado gli amici mi avvertissero che era stato già disposto il mio
arresto, cosa della quale mi importava poco. I miei amici me lo impedirono ed io rimasi in casa Pacifici.
Vidi cosi la fanteria che caricava il popolo fuggente alla baionetta.
“All’improvviso la fanteria si dispose in linea di fuoco sulla piazza. Tre ragazzi lanciarono sassi. Li
redarguii. In quell’istante udii sei colpi e subito dopo avvenne la prima scarica di fucileria. Vidi allora
cadere per terra una donna, la Ciotti, che stava fuggendo per mettersi in salvo. Era stata colpita alla
schiena. La poveretta rimase esposta agli occhi di tutti”.
Insorge, a questo punto sollevando un incidente, l’avv. Collino, che grida:
- Io protesto fin d’ora contro questa cosa inumana, contro questa infamia commessa dai soldati.
P. M.: - Non facciamo colpi di scena o protesto anch’io.
Il Presidente scampanella e riesce a rimettere la calma.
Fine dell’interrogatorio
Mucci: - il paese sembrava un campo di battaglia, tutti erano silenziosi e si udivano i gemiti dei feriti e dei
parenti dei morti intanto i soci mi dissero che si ritiravano e mi invitarono a fare altrettanto, ma io dissi
che sarei rimasto perché non ero un vile ed aspettavo che mi arrestassero. Mentre stavo nella sala dove
faceva molto freddo, la famiglia vicina mi invitò ad andare a riscaldarmi. Qua mangiai un uovo sodo.
Poco dopo il tenente dei carabinieri, un maresciallo ed un delegato vennero ad arrestarmi. Il tenente
Catalano mi disse sospirando: “Vedete che cosa è accaduto!” Passando per la piazza vidi che vi era una
macchia di sangue e - dice l’imputato fra la incredulità dei presenti - fui obbligato a passarvi sopra. Alla
caserma il maresciallo aggiunse: “Vi erano tante pallottole e nessuna ha raggiunto lei”.
Il Mucci, che ha parlato molto velocemente e con molta franchezza, accenna che il sindaco avrebbe avuto
contro di lui una questione per un sussidio di 400 lire lasciato dal deputato Rasponi a beneficio dei poveri.
Queste 400 lire non furono mai divise ed il sindaco se le tenne. Vi fu una denuncia che il sindaco credette
partisse dal Mucci. Il sindaco fu poi prosciolto dalla camera di Consiglio e vi furono querele contro il
Mucci da parte del sindaco e del dottore che a quell’epoca fungeva da giudice conciliatore.
Il Mucci ha finito e l’udienza viene rinviata.
Le contestazioni
Nell’udienza pomeridiana sono state rivolte contestazioni al Mucci, il quale, a domanda del presidente,
dice che i rancori verso il Sindaco di Rocca Gorga dipendevano da suoi affari personali. Non è vero che
egli sia stato licenziato dal posto di amanuense: andò via volontariamente perché era pagato a 15 cent.
all’ora. Lasciò quell’ufficio perché era prossima la sua elezione a consigliere. Egli soggiunge che quando
si accorse che casa Doria pagava per una caciotta solo lire 5 invece che 10, disse al Rossi che i consiglieri
erano tutti fautori del Principe Doria. Dopo qualche giorno vide nuovamente il Rossi che rispondeva
freddamente al suo saluto. Gli feci osservare – disse il Mucci – che faceva male a difendere gli interessi
del Doria contro il popolo. Mi rispose che se avesse saputo, non mi avrebbe fatto eleggere consigliere.
- Presidente - la Polizia aveva proibito il comizio: l’avvertiste voi il popolo della proibizione?
- Quando si seppe della proibizione io ero al letto.
- Ma il mattino dopo?
- Il mattino dopo indicai solo il passaggio permesso al corteo dalla polizia.
- Fu vero che mandaste un ricorso al procuratore del Re?
- Sì, perché si era accusato uno dei miei compagni di portare il coltello, mentre io ogni sera lo esaminavo
se avesse armi ed infatti senza armi come avrebbe potuto ferire i soldati. Poi incitai gli animi alla calma,
tanto è vero che applaudii al passaggio dei soldati.
Presidente - Come fu che durante il tumulto voi eravate dentro i locali della società?
- Furono i miei amici che mi vi tennero perché temevano mi arrestassero.
- Presidente - Voi fungevate da direttore della società?
- Sì, benché vi fosse un presidente e questo perché il presidente vi era ma da poco tempo.
L’udienza continua con altre contestazioni all’imputato principale di secondaria importanza. Indi viene
rimandata (La Stampa, 10 agosto 1913).
Quindi, l’elenco delle accuse dell’imputato Mucci è lunghissimo: l’usura alla quale sono
vessati i contadini di Roccagorga; la diffidenza dei pastori che non aderirono alla Società
Savoia; il medico condotto, Garzia, che non faceva il proprio dovere, anzi in assenza di una
farmacia, taglieggiava i poveri contadini con la vendita dei medicinali che riceveva in regalo;
il delegato di Anagni, inviato dalla sottoprefettura di Frosinone, accertò cose gravissime sul
conto del dott. Garzia; l’azione, ritenuta debole, del commissario prefettizio Velli che mise in
congedo il dottore per due mesi; il dott. Garzia che impaurì i poveri contadini e minacciò tutti;
il segretario comunale, Domenico Rossi, che voleva essere pagato per compiere i doveri del
116
suo ufficio; il sindaco, Vincenzo Rossi, che non interveniva di fronte a tutto questo; infine, le
accuse al sindaco per aver “trattenuto” 400 lire, donate come sussidio dal deputato Rasponi a
beneficio dei poveri di Roccagorga.
Insomma, le accuse del Mucci sono circostanziate e sul piano della ricostruzione storica
danno l’idea delle cause dello scontro.
Le motivazioni di Mucci contro Cencio Rossi e gli altri non erano di natura personale e,
seppur in modo rozzo e solitario, Mucci utilizza il malessere e il dissenso dei contadini per
dare una spallata al gruppo di potere che in modo medievale governava Roccagorga.
Ma la sua azione è debole, priva di alleanze esterne che in quella fase solo il partito socialista
poteva garantire, visto l’attivismo di questo partito moltiplicato con l’introduzione del
suffragio universale.
Mucci, inoltre, non scrive sui giornali, poiché la sua azione aveva una dimensione
esclusivamente locale e il ruolo di comunicatore, come abbiamo visto, è gestito dal maestro
Nardacci.
Tra i condannati nel processo presso il tribunale di Frosinone Mucci è colui che subisce la
pena più pesante: 10 mesi e 15 giorni di carcere.
Nel 1919, alle prime elezioni dopo la Grande Guerra, viene eletto sindaco il socialista
Beniamino Rossi e Dante Mucci è consigliere di opposizione.
Dal racconto di alcuni parenti si apprende che Dante Mucci aveva frequentato il ginnasio a
Roma, richiamato alle armi, allo scoppio della prima guerra mondiale, viene ferito e inizia la
carriera militare fino al congedo con il grado di capitano all’età di 51 anni.
Mucci aderì in seguito al partito Nazionale Fascista, partecipò alla marcia su Roma e la sua
azione, sempre all’interno della comunità di Roccagorga, lo porta nel corso degli anni a
scontrarsi con altri fascisti, come Pio Ciotti.
Subisce l’espulsione dal Partito Nazionale Fascista nel 1925, per poi rientrarvi e ricoprirne
alcune cariche.
L’esperienza della società Agricola di Mutuo Soccorso “Savoia” si chiude con le condanne
del processo di Frosinone, tanto che il 6 gennaio 1914, un anno dopo l’eccidio, alcuni
contadini di Roccagorga fonderanno la Lega di resistenza “6 gennaio 1913” organizzata e
capeggiata dal maestro Ferdinando De Angelis con Evangelista Briganti presidente.
Si chiude così l’esperienza delle leghe apolitiche che facevano capo a Giuseppe Ballarati e al
giornale La Difesa del Contadino e si costruisce quella tradizione di sinistra, che a
Roccagorga durerà per tutto il secolo.
Giancarlo non ha ancora finito di parlare e già Jan alza la mano ed esclama: questo
soggetto è veramente molto interessante. Un vero caso di studio anche dal mio punto
di vista, aggiunge Padiglione. Sono d’accordo, dico rivolto ad entrambi. Però sarebbe
più opportuno conoscere prima l’altro dei due personaggi principali: Vincenzo Rossi
detto “sor Cencio”, sindaco di Roccagorga e amministratore del feudo della famiglia
Doria Pamphilj.
So bene che non è facile parlare di lui. Dalle autorità e dal Tribunale di Frosinone,
come abbiamo appena sentito, fu considerato, insieme con Dante Mucci, il maggiore
responsabile dell’eccidio. G. Nardacci si è avventurato nel tracciarne un profilo e
diamogli almeno la soddisfazione di ascoltarlo. È vero che è stata un’avventura,
risponde Giancarlo, ma nessuno ha voluto farlo questo. Mi sembra, però, di aver
raggiunto un buon risultato, almeno come primo approccio a questo personaggio
difficile e intrigante. Bene – aggiungo - vai avanti, e racconta cosa hai trovato:
117
Vincenzo Rossi
Vincenzo Rossi nasce il 21 marzo 1869 e guida il comune di Roccagorga a partire dal 1902.
Oltre che sindaco, Vincenzo Rossi è anche l’amministratore del Feudo, il rappresentante cioè
degli interessi della famiglia Doria.
Il doppio ruolo all’interno della comunità che amministrava fa scrivere al commissario
prefettizio, ragioniere Filippo Velli, che subentra al Rossi dopo le sue dimissioni del 14 marzo
1913, come: “il Rossi non abbia inteso in alcun momento della sua Sindacatura la evidente
incompatibilità dei due ruoli”.
Il sindaco Rossi è incompatibile perché, invece di tutelare i contadini di Roccagorga in quanto
Sindaco, è in realtà il rappresentante degli interessi dell’aristocrazia romana, proprietaria della
quasi totalità del territorio di Roccagorga, con le istituzioni politico-amministrative e in
generale tutto il potere locale di Roccagorga, asservito al volere e agli interessi del Principe
Doria.
Con Vincenzo Rossi si assiste ad una sorta di “aristocratizzazione” della carica di sindaco,
garante del Principe Doria e delle famiglie più influenti del paese ed esecutore della
restrizione dei terreni da coltivare, necessari e indispensabili per vivere per la quasi totalità dei
contadini di Roccagorga.
Il Sindaco accentra su di sé il potere economico e politico e, come un sovrano, costruisce un
sistema di potere “antico”, con un limitatissimo grado di modernità che genera ulteriori
conflitti all’interno della comunità.
Da una parte possidenti e famiglie benestanti, dall’altra il popolo, non rappresentato
politicamente e non in grado di rivendicare i propri diritti.
La comunità locale viene organizzata gerarchicamente, con una ristretta cerchia di famiglie
ricche e benestanti che esercitano il potere, organizzano la macchina comunale come
strumento per generare nuovo potere e maggiore reddito.
Producendo l’esclusione dal governo politico e amministrativo del paese di piccoli possidenti
come il Mucci, di rappresentanti di gruppi sociali medio-bassi come Antonio Basilico e di una
parte del ceto medio intellettuale come il maestro Vittorio Nardacci.
Il Commissario Prefettizio, ragioniere Filippo Velli, viene incaricato dal Sottoprefetto di
Frosinone nel dicembre 1912, dopo le prime manifestazioni, a svolgere un’inchiesta
sull’andamento amministrativo del Comune di Roccagorga. L’inchiesta viene inviata al
Sottoprefetto di Frosinone il 24 gennaio 1913 e, seppur attraverso un linguaggio ambiguo, dà
uno spaccato preciso della situazione di Roccagorga.
Il ragioniere Velli illustra nella relazione una serie infinita di illegittimità amministrative e un
sistema che palesemente ignorava le leggi, ma alcune segnalazioni sono indicative del sistema
di potere messo su dal sindaco Rossi.
Il primo gennaio 1911 assume la carica di “Ricevitore” presso il comune di Roccagorga il sig.
Rossi Giuseppe, fratello del sindaco Vincenzo, dopo un bando annunciato con un manifesto
pubblico al quale rispondono in tre, il Rossi Giuseppe, Severa Gianfrancesco e Pampanelli
Orlando.
L’8 dicembre 1910, il Consiglio Comunale si pronuncia determinando di assumere appunto il
fratello del Sindaco Rossi, e:
… non si pronuncia affatto sulle ragioni che indussero ad escludere dalla nomina il Pampanelli Orlando,
che nella domanda, aveva dichiarato di prestare la propria opera, anziché per L. 40, per L. 20 mensili”.
Il ragionerie Velli nella sua articolata relazione scrive:
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…appare evidente la trascuratezza dell’amministrazione nello espletamento delle pratiche per
l’assunzione del personale daziario. Ma più evidente appare la poca previggenza della stessa, ed in
ispecial modo del Sindaco, laddove si pensi che, la qualità della scelta del Ricevitore, in persona del sig.
Rossi Giuseppe, fratello del Sindaco, doveva per ovvie ragioni di delicatezza, consigliare almeno al
rigoroso rispetto della legge.
Il segretario comunale era il sig. Domenico Rossi, assunto dopo le dimissioni del precedente
segretario, sig. Galli Giuseppe. Lo stipendio del Segretario comunale, contesta il ragioniere
Velli, è aumentato fino a lire 1800 annue, con semplici variazioni di bilanci e senza alcuna
deliberazione. Inoltre la tolleranza dell’amministrazione a consentire al segretario di
assentarsi da Roccagorga per esercitare il patrocinio legale alla Pretura di Priverno, aumenta
l’ostilità della popolazione contro il Segretario e l’amministrazione che lo protegge, con
l’ufficio di segreteria che versa in un deplorevole abbandono.
Un’amministrazione trascurata e non rispettosa della legge: quest’era l’amministrazione di
Cencio Rossi.
In merito al servizio sanitario, poi, la relazione del Velli è altrettanto impietosa. Nell’allegato
alla relazione sul dr. Garzia Almerindo, il Velli segnala un abuso ed un’anomalia
riconducibile al sistema di potere messo in piedi dal sindaco Rossi:
Quanto invece è grave, nei rapporti del servizio sanitario, si è che si permetta in paese l’esercizio di una
farmacia abusiva, della quale ne è titolare la signora Imperatrice Casseri, sorella dell’assessore comunale
sig. Casseri Luigi.
Ed ho detto “si permetta” con la intesa di riferirmi in materia unicamente e solo all’amministrazione
comunale, che mai avrebbe dovuto tollerare un simile stato di cose, se in tempo avesse, come gliene
veniva obbligo, provveduto almeno con l’impianto di un armadio farmaceutico.
L’amministrazione Comunale di Roccagorga rappresenta: un sistema di potere che crea
ricchezza e consenso per pochi; esclude le parti più moderne della comunità
dall’amministrazione della cosa pubblica; di questo sistema il Sindaco Vincenzo Rossi era
l’ideatore, il garante e il beneficiario.
Nella sentenza del Tribunale di Frosinone il Sindaco Rossi così viene descritto:
…persona pretenziosa che tutti ed ognuno vuole sommessi a se, e per cui tiene per anni ed anni il
Sindacato, irradiato dalle influenze locali di amici e parenti.
Inoltre è possibile, dalla lettura della relazione del ragioniere Velli e dalle illegittimità e
illegalità segnalate, rappresentare gli elementi di questo sistema di potere.
In Roccagorga non esisteva un legittimo potere democratico, visto che i bisogni dell’intera
popolazione non avevano rappresentanza politica in quanto:
… La fisionomia del corpo rappresentativo può dirsi quella di un consesso unanimemente ligio ai voleri del
Sindaco e della Giunta, poiché finora, la opposizione è stata rappresentata dalla sola persona del Consigliere
Mucci Dante.
Inoltre coloro che avevano potere economico detenevano anche il potere politico tanto che il
Velli scrive:
… non deve meravigliarsi che così sia, laddove si pensi alla doppia qualità del Sindaco di discreto
possidente e di amministratore dei beni del Principe Doria, ed alla qualità dei buoni censiti degli assessori
Casseri e Milza, il quale ultimo per dippiù, è anche il titolare dell’ufficio postale e giudice conciliatore.
Il potere di chi amministrava si manifesta attraverso il “condizionamento” per i più poveri e la
“ricompensa” per coloro che, ossequiosi sudditi, si piegavano al sistema di potere del
Sindaco.
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Un tale sistema non poteva che concludersi con la “punizione”, contro coloro che, organizzati,
avevano alzato la testa.
La punizione arriva attraverso:
… Lo Stato che doveva difendere questi diritti della povera gente la lasciò spogliare dagli usurpatori. E
quando gli oppressi scesero in piazza a protestare mandò il tenente Gregori a mitragliarli”! (Francesco
Ciccotti, deposizione al tribunale di Milano).
Il tribunale di Frosinone e il processo a Mussolini ed altri in Milano, consegnano alla storia il
Sindaco Rossi come unico responsabile dell’eccidio.
Il Tribunale di Frosinone, nella sentenza dell'1 settembre 1913 per i fatti di Roccagorga,
scrive:
Non è seriamente contestabile che vennero messe innanzi alla giustizia del Tribunale in confronto del
Rossi non poche e gravi circostanze, che a volerle seriamente vagliare darebbero luogo a ben gravi
considerazioni. Di esse la più grave è quella certamente che Rossi non abbia inteso in alcun momento
della sua Sindacatura la evidente incompatibilità della sua funzione con quella di amministratore del
Principe Doria, proprietario di oltre la metà del territorio di Roccagorga, e per ciò in un possibile e facile
conflitto il Rossi nella sua duplice rappresentanza, né varrebbe opporre che i contadini di tale stato di cose
assolutamente incompatibile non gliene avessero mai fatto lagnanza; risaputo com’è che la popolazione di
Roccagorga, come tante altre dello stesso genere, sono facili a sottomettersi al predominio di uno solo,
che per poco li superi, per cultura e per dovizia, e che ben spesso ignorano quello che erano, e quello che
potessero essere.
È da ciò che è sorto anche a Roccagorga il risveglio pel rintracciamento di quei tali usi civili per cui da
più anni nel Lazio si è andata facendo una larga propaganda nell’interesse dei comunisti.
E il Tribunale aggiunge:
Un altro motivo di doverosa deplorazione per detto Sindaco il Tribunale lo riscontra nel fatto che egli, che
si venne dichiarando così attaccato all’interesse dei suoi amministrati, sapendo che costoro, in massima
parte poveri contadini e lavoratori erano fatti segno all’ingordigia di un medico Garzia alla di lui non
curante assistenza, all’ingorda speculazione sui mali di quella povera gente pretendendo di vendere ad
essi i medicinali, e per cui si oppose sempre all’apertura di un armadio farmaceutico e talvolta anche nelle
sue scostumatezze, licenzioso com’era delle donne, mai abbia inteso il bisogno di richiamare il suo
dipendente, che tale è del Comune medico Condotto, all’adempimento dei suoi doveri. Tutto ciò non
potrebbe spiegarsi o come effetto di debolezza di carattere o di soverchia compiacente amicizia per un
medico che non era degno. Né vale la risorsa dell’ultimo momento che non gli fosse pervenuto alcun
richiamo; essa non è né verosimile né attendibile. Il fomite del malcontento era il medico, e durava da
parecchio tempo, ed era per se stesso palpabile, non poteva né doveva quindi non essere conosciuto dal
Sindaco Rossi”.
L’eco dei fatti di Roccagorga dà una triste e lugubre notorietà al Sindaco Rossi, tanto che
Gaetano Salvemini, direttore del settimanale l’Unità, il 31 gennaio 1913 scrive un articolo
intitolato Da Roccagorga a Imola per attaccare i socialisti su una vicenda relativa ad un
acquedotto e chiude: “agli occhi dei contadini di Mordano e Dozza, quale differenza può
correre fra i socialisti d’Imola e il sindaco di Roccagorga?”.
Vincenzo Rossi viene rieletto Sindaco nelle elezioni del 1914.
La Difesa del Contadino del 22 agosto 1914 riporta la notizia che il sindaco, recatosi a
Frosinone per prestare giuramento, a circa:
… 20 chilometri da Roccagorga gli andarono incontro parecchi cittadini, chi a cavallo chi con carrozzini
portanti bandiere. Ripetute salve di mortai e bombe pirotecniche salutarono il rieletto Sindaco al suo
giungere in prossimità del paese, ove era atteso da numeroso stuolo di giovanetti e giovanette che,
spargendo fiori a profusione cantarono un bell’inno d’occasione sotto la direzione del sig. Paritanti
Erasmo. All'ingresso dell'abitato fu accolto da una imponente dimostrazione di popolo con bandiere ….
Morì a 64 anni, il 3 agosto del 1933, dopo essere diventato proprietario, intorno agli anni ’20,
del feudo del Principe Doria.
120
Ora, se siete d’accordo – esordisco alla fine dell’intervento di Giancarlo – possiamo fare
qualche considerazione sul senso della storia che abbiamo raccontato. Mi pare logico,
infatti, dopo averne rintracciato le ragioni, porsi la domanda: qual è il significato del 6
gennaio 1913?
Certo che siamo d’accordo, risponde Padiglione, hai rinviato le nostre osservazioni su
Basilico e su Mucci al momento conclusivo…
Allora se siete d’accordo, vorrei cominciare con qualche osservazione mia e poi
articoleremo la discussione. Vedo numerosi cenni di consenso e comincio:
Conclusioni
Prendiamo prima di tutto la tesi sostenuta dalle autorità statali intervenute a Roccagorga
subito dopo l’eccidio. Gli investigatori, in modo diretto o indiretto, sostennero che
l’eccidio di Roccagorga avesse due responsabili: Dante Mucci e Cencio Rossi.
In parte, nella sua ovvietà, questa tesi contiene una parte di verità. Infatti, Cencio Rossi
era – come abbiamo appena visto – Sindaco e nello stesso tempo Amministratore del
feudo Doria. Da lungo tempo – almeno dal 1751 – i cittadini di Roccagorga: pastori,
contadini, artigiani, avevano rivendicato i loro diritti sulle terre comunali. La
Convenzione del 1751 aveva stabilito i diritti del proprietario del feudo e dei cittadini,
anche se questi avevano dovuto subire l’accordo sfociato nella Convenzione. Allora
proprietario del feudo era la famiglia del cardinale Orsini. Poi, una novantina d’anni
dopo, il feudo passa ai Doria Pamphilj. La situazione non cambia, però; tanto che, a
metà secolo (1851), viene di nuovo sollevato il problema del rispetto della convenzione
del 1751, già poco favorevole ai cittadini. Più tardi – e sarebbe bene ricostruire questa
parte della storia - viene proposto l’acquisto del feudo da parte del comune. In questo
periodo Cencio Rossi è sindaco e amministratore del feudo Doria. Per chi tratta?
Chiunque avesse un po’ di discernimento a Roccagorga poteva comprendere che la
situazione di Cencio Rossi era insostenibile: sindaco e amministratore del feudo. Per chi
poteva trattare? Per se stesso? Per il comune?
Come non opporsi a questa presa in giro? È ciò che alcuni fecero. Tra questi Dante
Mucci. Per considerarlo responsabile al pari di Cencio Rossi, occorre nello stesso tempo
ritenere che non sia giusto ribellarsi contro questa ingiustizia.
Gli fu rimproverata inoltre la sua “ambizione” di voler diventare sindaco: quasi fosse un
delitto pensare, in quelle condizioni, di amministrare il paese meglio di quanto facesse
Cencio Rossi!
Quel che impressiona, invece, è che il Mucci fosse un individuo “dedito alle prediche
religiose in modo piuttosto esagerato”, come dice l’Ispettore Generale della Pubblica
Sicurezza, Ildebrando Stroili, nella sua relazione inviata al Ministero dell’Interno il 14
gennaio 1913. Lo stesso Ispettore generale Stroili - lo abbiamo appena visto sopra – ha
riferito del conflitto politico esistente tra la linea del maestro De Angelis, socialista, e
quella cattolica del Dante Mucci. Per comprendere bene cosa voglio dire vi ripeto
questo passaggio: “costui – cioè, De Angelis - cercò di dare alla Società Agricola un
indirizzo politico, ma non poté sopraffare il Mucci che, pel suo misticismo, era più alla
portata della mentalità degli associati”. Ci viene segnalato, cioè, che Mucci aveva una
sorta di vocazione al “misticismo”.
Cosa? Cosa? – dice a questo punto il mio amico Jan - Hai detto individuo ‘dedito alle
prediche religiose in modo piuttosto esagerato’”? Vince nel confronto con il maestro De
Angelis “pel suo misticismo” e questo “era più alla portata della mentalità degli
associati” della Società agricola? Certo, rispondo, così l’hanno definito le autorità. Ma
questo – continua Jan - consente tutta un’altra interpretazione degli eventi. Ci troviamo
121
di fronte ad un movimento ‘millenaristico’, ad un movimento di tipo religioso, di
rinnovamento palingenetico. Mi pare fondata questa nuova interpretazione, interviene a
questo punto Vincenzo Padiglione. Questa del resto non è cosa nuova per l’Italia.
Infatti, giusto alcuni decenni prima, per parlare solo dell’ultimo caso – abbiamo avuto il
‘lazzarettismo’. Ma su questo forse è bene sentire il nostro storico, Carlo Casula.
In effetti, dice Carlo, il “lazzarettismo” fu un movimento religioso e politico nato in
Toscana dalla predicazione di David Lazzaretti (184-1878). Prima mirava al
rinnovamento dello spirito religioso; poi sempre più a questioni di giustizia sociale, un
po’ socialiste. Il suo movimento venne stroncato dalle forse dell’ordine. Lui stesso morì
nel 1878, quando, proclamatosi ‘re del mondo’, doveva assumere questi poteri ad
Arcidosso, un comune dell’Amiata. Le forze dell’ordine stroncarono la manifestazione
ed uccisero il Lazzaretti. Poi, però, le aspirazioni di giustizia sociale sono state riprese
dalle masse contadine toscane e lo ‘spirito’ del lazzarettismo è sopravvissuto a lungo.
Qualcuno pensa che sia vivo ancora oggi. Spiegazione molto chiara, commento.
Conosco molto bene la storia. Un mio compagno di studi era di Arcidosso e abbiamo
parlato a lungo del 6 gennaio 1913 e del 18 agosto 1878, giorno della morte di David
Lazzaretti.
A questo punto dalla parte destra sento una voce borbottare: “sempre paroloni per non
far capire niente a noi, gli intellettuali!” e dicono che stanno dalla parte del popolo!
Insomma, che significa “palingenetico”. È la voce di Antonio Cotesta, detto
“Zampadeferro”. Hai ragione, Anto’, dico io. Però è una parola come un'altra. Si può
spiegare e capire! Palingenetico significa ‘un rinnovamento radicale’, ‘un nuovo inizio
globale del mondo’; come quando ricostruisci una casa vecchia dalle fondamenta.
Allora, ribatte, se potete parlare più facile, perché usate sempre tutti ‘sti paroloni?! Hai
ragione, concludo, è sempre opportuno dire le cose con parole semplici.
Alza la mano Jan: Io – lo ha detto ieri Vittorio – sono in realtà tedesco, non francese.
Questo tipo di rivoluzione o di movimento religioso lo abbiamo conosciuto anche noi in
Germania. Dopo la Rivoluzione protestante, capeggiata da Lutero contro la Chiesa di
Roma, alcuni gruppi cercarono di realizzare il vangelo in questo mondo, creando società
imperniate sulla fraternità e sulla proprietà comune delle terre e di tutti i beni. Furono
trucidati in poco tempo dai principi di Germania con la benedizione dello stesso Lutero.
E Padiglione a questo episodio suggerito da Jan aggiunge il caso di Gioacchino da Fiore
(1145 circa - 1202 che voleva realizzare in questo mondo il regno dello spirito.
E forse così - aggiungo io – potrebbe interpretarsi una parte del francescanesimo. Però
– continuando – sarebbe il caso di tornare al nostro argomento.
Dunque, se le autorità avessero considerato a fondo quest’aspetto della personalità del
Mucci, avrebbero potuto rendersi conto del suo stile “profetico” e del legame forte che
aveva – o cercava di avere – con le masse. Perciò, alla fine, l’eccidio del 6 gennaio 1913
è, da un lato, una delle rivolte contadine guidate da “apostoli” in cerca di giustizia e,
dall’altro, un feroce atto politico di repressione. In qualche modo, i rappresentanti delle
istituzioni si resero conto del carattere profondo della protesta di Roccagorga ma non
furono capaci né di comprenderla fino in fondo né di togliere le cause che
l’alimentavano.
Ricondurre il tutto al conflitto pur esistente tra Dante Mucci e Cencio Rossi, significa
rimanere a livello superficiale per evitare di essere chiamati a rispondere, anche
penalmente, delle proprie responsabilità.
Come è stato detto da più di qualcuno di noi, vi erano profonde ragioni di malcontento
popolare, e non solo a Roccagorga. Era in corso un conflitto di classe tra vecchi e nuovi
proprietari: una borghesia nascente che cercava di fiorire prendendosi le risorse dei beni
demaniali e delle proprietà confiscate alla Chiesa dopo il 1870. Vi era inoltre il conflitto
122
tra vecchi e nuovi proprietari contro le masse contadine. Queste ultime alzavano
finalmente la testa, trovando nelle leghe bianche o rosse che fossero, una guida e un
appoggio. A questo movimento fortemente innovatore viene data l’unica risposta che le
classi dirigenti sanno dare: la repressione violenta.
Sono passati cento anni, ormai. E potremmo consegnare alla storia l’intera vicenda. Ma
l’eccidio ha ancora un senso per noi. Lo testimonia, se non altro, l’interesse crescente
verso di esso mostrato da giovani studiosi. Non siamo più, per nostra fortuna, uno o due
che parlano ogni tanto dell’eccidio; siamo ormai un buon numero a ricordare che di quel
tempo dobbiamo ancora occuparci, se vogliamo comprendere chi siamo e perché siamo
fatti in un certo modo.
Alcuni anni fa, scrivendo con Mario Ferrarese il libro più volte citato: Quel giorno, il 6
gennaio 1913 mi sembrava fondamentale per capire l’identità collettiva e perfino
individuale degli uomini e delle donne moderne di Roccagorga. Oggi non saprei dire di
più e di meglio. Però, sarebbe il caso che leggesse il passo qualcuno. Mentre così dico
Alessandra si mette in piedi lentamente, apre il libro e legge:
Quel giorno si conclude un capitolo della storia della comunità di Roccagorga e ne inizia uno
nuovo. Si conclude la vicenda feudale, con i principi, i loro delegati, i loro complici, i loro
amici, i loro soprusi verso i contadini, ma anche verso chi osava soltanto alzare la testa. Quel
giorno nasce l'era moderna, con le sue possibilità di libertà, di lotta, di emancipazione. Quel
giorno venne pagato un forte e triste tributo alla libertà: morti, feriti, perseguitati, umiliati,
condannati, additati al disprezzo dell'opinione pubblica come "spostati" per aver osato alzare
la testa.
Quel giorno nasce Roccagorga moderna. Per molto tempo a quel giorno si sono richiamati
solo i contadini, gli operai, alcuni intellettuali, sentendosi eredi diretti di quelle donne e di
quegli uomini che osarono sfidare il potere del principe, del suo amministratore, del sindaco,
dei preti suoi complici, della varia corte. Ora tutti, o quasi, si richiamano a quel giorno. Non è
stato facile. Pian piano, però, grazie ai documenti e alle testimonianze via via messe a
disposizione della comunità, si è venuta formando una coscienza di essere tutti eredi di quelle
donne e di quegli uomini. La nostra identità non può prescindere da quell'evento.
La piazza, denominata con significativo omaggio Piazza VI Gennaio, contribuisce al ricordo,
alla conoscenza e alla riconoscenza. Sulla piazza si svolsero infatti gli avvenimenti. Non
appena le condizioni lo consentirono, gli eredi spirituali dei protagonisti della protesta
dedicarono il nome della piazza al giorno degli eventi, all'eccidio.
Più volte, con maggiore o minore impegno, siamo intervenuti per ricordare il VI Gennaio
1913. Abbiamo fatto analisi storiche, sociali; abbiamo considerato le forze in campo, le
debolezze, i vizi e le virtù degli uni e degli altri. Mancava un tassello: la sentenza del processo
di Frosinone22.
Siamo in condizione ora di mettere quest'altro tassello. È possibile interpretare oggi in
maniera più compiuta i fatti. Ognuno potrà farlo secondo i suoi mezzi culturali, le sue
prospettive, la sua coscienza.
Finisce per chiunque, però, la possibilità di minimizzare, di ricondurre i fatti alla
contrapposizione personale tra Dante Mucci e Vincenzo Rossi. È vero. I due non si amano.
L'uno (Vincenzo Rossi) è capo del blocco dominante; l'altro (Dante Mucci) cerca di mettere
insieme un blocco di opposizione. Sarebbe normale svolgimento della vita politica in un paese
democratico. Ma l'Italia di allora, Roccagorga di allora, non lo era ancora. Proprio in quegli
anni si andava discutendo - e nel corso degli anni si ebbero le conclusioni - di allargare a tutti
il suffragio elettorale. Potevano votare, come è noto, solo i possidenti con un certo reddito; gli
22
In quell’occasione pubblicammo la sentenza del processo di Frosinone. Anzi, il libro fu concepito proprio per
presentare questo documento storico.
123
altri erano esclusi. Il suffragio universale (sebbene ancora ristretto solo agli uomini) avrebbe
potuto cambiare la composizione dei governi sia a livello nazionale sia a livello locale. Non
abbiamo documenti che ce ne diano certezza, possiamo solo fare delle ipotesi. Forse, dunque,
V. Rossi appoggiò la nascita della Società Agricola Savoia per organizzare il suo dominio su
una base elettorale più ampia. Nel corso dell'estate, tuttavia, Antonio Basilico, Presidente
della Società Savoia, offre la carica di Direttore della Società stessa a Dante Mucci,
consigliere di opposizione fortemente critico verso l'amministrazione Rossi. Con la
partecipazione del Rossi alla sua costituzione la Società ottiene un avallo da parte dell'autorità
e può agire più liberamente (almeno per un po' di tempo). In prospettiva essa preparava
l'avvicendamento del gruppo dirigente del Paese. Esso in effetti avvenne, ma proprio a seguito
degli eventi del 6 gennaio. A farsi carico dei problemi, delle speranze dei contadini sono,
però, altri, in quanto i condannati al processo di Frosinone non poterono più svolgere attività
politica amministrativa. Non possiamo dire, pertanto, cosa sarebbe successo se gli eventi non
fossero precipitati. Ma se precipitarono, evidentemente, qualcuno s'era tanto impaurito di
perdere il suo potere da mobilitare tutte le sue risorse per impedirlo a qualsiasi costo….
Da sempre … la comunità di Roccagorga aveva posto al centro della sua azione la questione
del feudo e degli usi civici. Furono stipulate diverse convenzioni tra i rappresentanti della
comunità. Di fatto, ad ogni passaggio di famiglia (con i Ginnetti, con gli Orsini, con i Doria
nel 1851). La protesta dei contadini ora era diretta proprio contro lo stato di fatto descritto
dalla sentenza [del Tribunale di Frosinone]. Il risultato era stato che non appena si tendeva a
cambiare i rapporti esistenti in senso più favorevole ai "comunisti" (così erano chiamati i
membri della comunità), lo Stato si mobilitava in favore del Principe e del suo tenutario e
contro i contadini. Il 6 gennaio del 1913 era stato solo uno dei tanti episodi di questo genere.
Il Tribunale, proprio perché è andato a fondo nell'analisi, avrebbe dovuto tirare le
conseguenze e fare un altro processo. Quello contro gli autori delle morti e dei ferimenti, non
invece quello contro le vittime. Inoltre, la sentenza accoglie un luogo comune - a dire il vero
piuttosto diffuso - secondo il quale i contadini - e quelli di Roccagorga in particolare sarebbero facilmente influenzabili dai leader politici. La verità è che i contadini sono stati di
fatto esclusi dalla vita politica ed hanno esercitato il loro peso nelle forme in cui è stato loro
possibile, pagando, come nel caso di Roccagorga, un prezzo altissimo. Non è un caso che
episodi come quello di Roccagorga sono piuttosto diffusi in Italia. Altro che facilità a
"sottomettersi al predominio di uno solo". Infine, se i contadini di Roccagorga sono così
"facili a sottomettersi al predominio di uno solo", perché si ribellano contro V. Rossi che ha
dalla sua parte un intero feudo per comprare, corrompere, manipolare e seguono invece uno
“spostato avido di potere, pieno di bile e di odio, facile alla ingiuria ed alla blandizia secondo
i casi, duttile di carattere, manieroso nelle apparenze, perverso nell'animo”, come Dante
Mucci? Se Mucci fosse stato l'uomo così descritto dalla sentenza, se i contadini fossero stati
facili a sottomettersi come ritenne il Tribunale, perché il 6 gennaio 1913 andarono in “piazza
Vittorio Emanuele [così si chiamava allora piazza VI gennaio] oltre 400 persone tra donne e
ragazzi e uomini”? E perché le donne avrebbero tentato di organizzare un corteo per recarsi a
protestare in Comune? Solo per la parola suadente di Dante Mucci? L'ipotesi che i contadini
avessero delle buone ragioni per agire e che avessero ritenuto che quello era un momento
favorevole per loro, l'ipotesi che insomma i contadini potessero avere una intelligenza politica
appare assurda ai giudici. Essi infatti, come membri della classe dominante, non possono
ammettere che i contadini, incolti ed ignoranti, possano agire perché hanno dei buoni motivi,
ne abbiano coscienza, tentino di organizzarsi, anche con l'aiuto di qualcuno che sa leggere e
scrivere. Devono supporre che vi sia qualcuno che li sobilli, li manipoli, li persuada. Come i
bambini, per i giudici i contadini non hanno l'età della ragione.
Veramente, troppo poco per spiegare un evento complicato come l'eccidio di Quel giorno. A
noi, invece, piace l'idea che, se non ci fosse stata la repressione violenta delle forze
dell'ordine, i contadini di Roccagorga, i loro ragazzi, le loro donne avrebbero trovato il modo
124
di sconfiggere il sindaco Rossi adoperando l'arma non cruenta della democrazia. Ma ciò gli fu
impedito.
Che le cose stessero in modo un poco diverso da come le vide il Tribunale di Frosinone si
capisce dal processo di Milano (…). Mussolini, direttore de L'Avanti!, il giornalista F.
Ciccotti, autore dell'articolo Assassinio di stato, e altri giornalisti sono imputati di istigazione
a delinquere, apologia di reato e vilipendio dell'esercito. Gli imputati furono scagionati. Anzi,
riuscirono a celebrare un altro processo e a portare sul banco degli imputati quelli che a
Frosinone non vi comparvero. Infatti, definire le morti di Roccagorga "assassinio di stato "
non fu considerato reato. E così, quei morti ebbero dalla giuria popolare di Milano il
riconoscimento simbolico della giustizia loro negata a Frosinone….
Nel corso degli anni, quando i contadini e i lavoratori dell'industria sono stati in grado di
esprimere una propria autonoma forza politica, hanno cercato di rendere giustizia ai morti, ai
ferite, alle vittime. Finora, però, si è evitato, anche per non suscitare sensibilità dei familiari,
di rendere una giustizia, seppure simbolica, ad ognuno di essi. Ora è tempo che ognuno e tutti
insieme siano ricordati.
La memoria di loro non è per noi solo un atto di giustizia doveroso. Senza di loro, senza la
loro memoria non avrebbe molto senso la nostra identità collettiva e, forse, anche molto della
nostra identità individuale. Se siamo così come siamo, se abbiamo maturato una sensibilità
democratica, un gusto alla partecipazione politica, alla polemica e al dialogo, forse lo
dobbiamo proprio a Quel giorno, al significato che esso ha per noi.
Oggi, alla fine del secolo XX e alla soglia del III millennio, quando più forti sono i mezzi di
comunicazione e più rapida la consumazione dei simboli, è quanto mai necessario conservare
i luoghi degli eventi, dare loro nomi che possano ricordare senza sbiadire, rinnovare il ricordo,
indurre alla riflessione.
Mentre Alessandra pronuncia le ultime frasi la platea si anima. C’è una certa
stanchezza… Abbiamo quasi finito, dico a questo punto guardando intorno per vedere
se qualcuno vuole parlare. Padiglione sollevandosi leggermente dalla sedia – forse
perché fa caldo e le sedie di plastica bruciano – dice: questo è il significato che l’eccidio
ha per Roccagorga. Ne abbiamo parlato tante volte. Però i significati possono essere
anche altri. Per esempio, abbiamo cercato di inquadrare le vicende di Roccagorga nel
contesto della Ciociaria e perfino nazionale. Quale significato esse hanno considerando
questo contesto?
Penso che siamo fortunati, rispondo, abbiamo qui uno storico come Carlo e chi meglio
di lui potrebbe parlarci di questo?
In effetti, come ho accennato già più volte, l’eccidio di Roccagorga appartiene ad una fase
della storia d’Italia. Se volete – e voi conoscete quanto sto per dire – possiamo leggere il
passo dei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci. Nella rubrica Passato e presente.
Avvenimenti del giugno 1914 (Quaderno 8, § 119, p. 1010) Gramsci così scrive:
Ricordare articolo di Rerum Scriptor sulla assenza di programma di tali avvenimenti. È strano che Rerum
Scriptor non si sia accorto che quegli avvenimenti avevano un grande valore perché ravvivavano i
rapporti tra Nord e Sud, tra le classi urbane settentrionali e le classi rurali meridionali. Se il fatto che dette
origine agli avvenimenti si ebbe ad Ancona, bisogna ricordare che l’origine reale fu l’eccidio di
Roccagorga, tipicamente “meridionale”, e che si tratta|va di opporsi alla politica tradizionale di Giolitti,
ma anche dei governi di tutti gli altri partiti, di passare immediatamente per le armi i contadini
meridionali che elevassero anche una protesta pacifica contro il mal governo e le cattive amministrazioni
23
degli amici di tutti i governi.
23
Rerum Scriptor, contro cui polemizza A. Gramsci, è Gaetano Salvemini. Gli Avvenimenti del giugno 1914
sono i cosiddetti “moti di Ancona”.
125
L’eccidio di Roccagorga è il simbolo di questo conflitto profondo esistente in Italia tra le
classi dominanti e le masse popolari. Esso mi pare anche l’esempio di come, quando si tratta
di contadini, le masse popolari venissero trattate dalle classi dominanti. Infatti, nelle diverse
vicende che abbiamo sentito raccontare finora mi pare di ritrovare un filo: quello del costante
disprezzo delle classi dominanti verso i propri sottomessi. Ma – questa è almeno la mia
opinione – le lotte dei contadini mettono in discussione la società gerarchica e semifeudale del
meridione italiano. Una società a cui le lotte dei contadini di Roccagorga danno una spallata
forte. Se questa società allora non crollò, dipende da tante ragioni. Ma è certo che la sua fine è
ben tracciata dagli obiettivi di quelle lotte.
Mi sembra che ci possiamo fermare qui, dico alla fine dell’intervento di Carlo. Non
abbiamo detto tutto; né si poteva farlo in due giorni. Chi vuole, può leggere le
pubblicazioni e i documenti pubblicati sul sito del comune dedicato all’eccidio.
Quello che abbiamo sentito però apre anche una serie di problemi che la ricerca futura –
questa è almeno la speranza – potrà chiarire. E proprio mentre dico queste ultime parole,
si sentono suoni provenire dalla Rifolta. Comprendiamo che il nostro tempo è finito.
Non ci è possibile fare neppure una frettolosa chiusura ufficiale delle due giornate. La
musica è forte e coinvolgente: una marcia suonata a tempo di rock da quattro bande. È il
loro contributo ai cent’anni del 6 gennaio 1913. Come tutti, anche noi dalla piazza
andiamo verso la musica.
126
Lista delle principali opere, dei documenti, delle leggi, degli archivi e delle biblioteche consultate
Atti della Giunta parlamentare per la inchiesta agraria e sulle condizioni della classe
agricola, Vol. 11, parte I, X, Roma e Grosseto 1883, Forzoni e c., tipografia del Senato,
Arnaldo Forni Editore, Sala Bolognese, 1987.
Caffiero M., L'erba dei poveri: comunità rurale e soppressione degli usi collettivi nel Lazio,
Candeloro G., La crisi di fine secolo e l’età giolittiana, Feltrinelli, Milano, 1974.
Caracciolo A., Il movimento contadino nel Lazio: 1870-1922, Roma, Edizioni Rinascita,
1952.
Castellani T., Relazione dell’Agronomo Castellani Tito sull’inosservanza del contratto 25
ottobre 1751 a danno della popolazione di Roccagorga, ordinata dal Commissario
Prefettizio, dell’8 gennaio 1914.
Censimento della popolazione del Regno al 10 febbraio 1901: popolazione legale dei singoli
comuni del Regno a termini del regio decreto 29 dicembre 1901 e popolazione di fatto,
Ministero di agricoltura, industria e commercio, Roma, Stamperia Reale, 1901.
Censimento della popolazione del Regno al 10 giugno 1911: popolazione legale dei singoli
comuni del regno ai termini del regio decreto 5 dicembre 1912 e popolazione di fatto, Roma,
Tipografia della Mantellate, 1912.
Colonna B., Gli Orsini, Milano, Ceschina, 1955.
De Bianchi G., Giuseppe Ballarati promotore di lotte contadine nel Lazio centromeridionale, Valmontone, 1984.
De Bianchi G., La difesa del contadino di Giuseppe Ballarati. La Lega dei contadini a
Patrica, Atti del convegno, Patrica 28 ottobre 1984.
Di Cosmo C., Domenico Marzi (1876-1959): biografia politica, 2007.
Gentile E., L’Età giolittiana, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 1977.
Gramsci A., Quaderni del carcere, a cura di V. Gerrattana, Einaudi, Torino, 1975
Mussolini B., Opera Omnia, a cura di Edoardo e Duilio Susmel, vol. V (1964) e VI (1967),
La Fenice, Firenze.
Petronio U., Usi civici, Milano, Giuffrè, 1992.
Pucci A., La rivolta del 1911 a Maenza. Le condizioni di vita agli inizi del secolo. I fatti, la
cronaca e i documenti, Priverno, Artegraf, 1987
Restaini A., La Chiesa di Roccagorga e la famiglia Ginetti di Velletri, Roccagorga, Club della
Soffitta,2011.
Sarfatti G. M., DUX, Mondadori editore, Verona, 1932 - X.
Simone G., Belogi R., Grimaldi A., Il 91, editrice Ravizza, Milano, 1970.
Documenti
Inchiesta sulla ribellione di Roccagorga a cura dell’Ispettore Generale della P.S. Ildebrando
Stroili del 10 gennaio del 1913, indirizzata all’Onorevole Ministero dell’Interno, Direzione
Generale di P.S.
Lettera del Prefetto di Roma, indirizzata al Ministero dell’Interno Direzione Generale della
P.S., Oggetto: Roccagorga Ordine Pubblico del 24 aprile del 1913.
Rapporto del Maggiore Franchi Comandante la Divisione di Roma Esterna 2° della Legione
Territoriale dei Carabinieri Reali, al Prefetto della Provincia di Roma del 9 gennaio del 1913,
e allegati n. 1, n. 2 e n. 3.
127
Rapporto del Maggiore Franchi, Comandante la Divisione di Roma Esterna 2° della Legione
Territoriale dei Carabinieri Reali, al Prefetto della Provincia di Roma del 22 gennaio 1913.
Rapporto riservato del Commissario Sottoprefettizio, avv. Salvatore Caterino, sulla
Congregazione di Carità di Roccagorga, del 20 settembre 1911.
Relazione al Sotto Prefetto di Frosinone del Delegato di P.S. L. Mazzucco del 12 dicembre
del 1912.
Relazione del Commissario di P.S. Bruzzi al Questore di Roma, del 24 gennaio del 1913.
Relazione del Commissario Prefettizio ragioniere Filippo Velli al Sottoprefetto di Frosinone
del 24 gennaio 1913.
Relazione del Prefetto di Roma, dottor Annaratone, al Ministero dell’Interno, Direzione
Generale della P.S. del 29.01.1913: allegato A: Rapporto del Sottoprefetto Leggieri al Prefetto
del 25 gennaio del 1913; allegato B: Rapporto informativo del Medico Provinciale dottor
Badaloni, sul Medico condotto dottor Almerindo Garzia del 25 gennaio 1913.
Sentenza del Tribunale Penale di Frosinone del 9.08.1906.
Sentenza del Tribunale Penale di Frosinone, 1.09.1913.
Sentenza della Corte d’Appello di Roma del 15.01.1915.
Sentenza della Sezione d’Accusa della Corte d’Appello di Roma, 28.06.1913.
Telegramma del Ministro Giolitti al Sottoprefetto di Frosinone del 6 gennaio del 1913.
Telegramma del Tenente dei Carabinieri Catalano del 6 gennaio 1913 al Ministero
dell’Interno - Gabinetto del Ministro.
Leggi
Legge del 5 gennaio 1899, Appendice al Regolamento pel servizio territoriale – Impiego delle
truppe in servizio di Pubblica sicurezza.
Legge n. 397 del 4.08.1894, portante l’ordinamento del domini collettivi nelle province dello
ex Stato Pontificio.
Legge n. 474 del 21.12.1899, che provvede all’istituzione dell’armadio farmaceutico nei
Comuni e frazioni mancanti di farmacia.
Legge n. 5866 del 30.12.1888, portante disposizioni sulla emigrazione.
Legge n. 5888 del 23.12.1888, sulla pubblica sicurezza.
Legge n. 753 del 3.08.1862, sull’amministrazione delle Opere pie.
Legge n.3818 del 15 aprile 1886, che approva la costituzione legale delle società di mutuo
soccorso.
Regio Decreto n. 1408, del 29.12.1914, concedente amnistia per vari reati.
Archivi
Archivio Abbazia di Santa Scolastica, Subiaco
Archivio Centrale dello Stato
Archivio del Comune di Priverno
Archivio di Stato di Frosinone
Archivio di Stato di Latina
Archivio di Stato di Milano
Archivio di Stato di Roma
Archivio Diocesi di Terracina
Archivio Notarile di Frosinone
Archivio storico comunale di Maenza
128
Archivio storico della Camera dei Deputati
Biblioteche
Biblioteca Archiginnasio, Bologna
Biblioteca del Comune di Roccagorga
Biblioteca della Camera dei Deputati
Internet Culturale Biblioteca Digitale
129
Lista degli autori
Curatore
Vittorio Cotesta, Roccagorga (1944 -). È professore di sociologia presso l’Università degli
Studi Roma Tre.
Tra le sue pubblicazioni recenti si segnalano Prosternarsi. Piccola indagine sulla regalità
divina nelle civiltà euroasiatiche (Bevivino, Milano, 2012) Global Society and Human Rights
(Brill, Leiden, 2012); Sociologia dello straniero (Carocci, Roma, 2012); Sociologia dei
conflitti etnici (seconda edizione riveduta e ampliata, Laterza, Roma-Bari, 2009).
Autori
Benito Allatta, Catania (1959 -). Insegna nella scuola secondaria di primo grado.
Tra le sue opere: coautore con Lorella De Meis, Assassinio di Stato. Roccagorga 6 gennaio
1913. La protesta contadina. La repressione dello stato liberale. La strage. Cause,
conseguenze, epilogo attraverso la lettura dei documenti (2013); La Società di Mutuo
Soccorso Savoia (2013).
Eros Ciotti, Roccagorga (1951 -). Architetto.
Tra le sue opere “Diario di un morto ammazzato” e “A piedi nel novecento”, i copioni teatrali:
“L’Eccidio”, e “L’urlo dei poveri”. Ha diretto e prodotto il film documentario “Eroica
Roccagorga”, curato la mostra in 39 pannelli “Cent’anni fa” ed elaborato 4 bander per il
Comune di Roccagorga.
Lorella De Meis, Roccagorga (1963 -), insegna nella scuola primaria.
Ha pubblicato con Benito Allatta: La Società di Mutuo Soccorso Savoia, (2013); Assassinio
di Stato. Roccagorga 6 gennaio 1913. La protesta contadina. La repressione dello stato
liberale. La strage. Cause, conseguenze, epilogo attraverso la lettura dei documenti, (2013).
Mario Ferrarese, Roccagorga (1926-2006). Giornalista e pubblicista. È stato addetto stampa
del comune di Latina .
Ha pubblicato: La repressione liberale (1983); coautore di Quel giorno – L’eccidio del 6
gennaio 1913 di Roccagorga. Documenti, testimonianze e analisi(1995); La repressione
liberale (seconda edizione, 2000).
Giancarlo Nardacci, Roccagorga (1956 -). Lavora presso la Provincia di Latina.
Ha pubblicato In nome di dio, del re e della regina, 6 gennaio 1913 – La causa santa dei
contadini di Roccagorga (2013).
Aleandro Paritanti, Roccagorga (1946 -). Sacerdote.
Tra le sue opere ha pubblicato: Il seme del destino, dall’eccidio di Roccagorga una storia
d’amore (2013); Epifania di sangue e di gloria (2013).
Andrea Schiavi, Priverno (1987 -). Laureato in Storia contemporanea.
Tesi di laurea: Dagli assalti ai municipi alla repressione armata: storia dei movimenti
contadini in Ciociaria all’inizio del ‘900, Sapienza Università degli Studi Roma, aa. 20122013.
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PRIMA GIORNATA................................................................................................................................. 1
Mattino ...................................................................................................................................................... 5
L’arrivo in piazza e la visita dei monumenti, di V.Cotesta........................................................................ 5
L’inizio del racconto, di V.Cotesta ............................................................................................................ 7
La Società di Mutuo Soccorso Savoia, di B. Allatta e L. De Meis............................................................ 8
Autunno 2012 - Inverno 2013 ................................................................................................................. 10
PRIMA GIORNATA............................................................................................................................... 19
Pomeriggio .............................................................................................................................................. 19
Il 6 gennaio, di B. Allatta e L. De Meis................................................................................................... 21
I luoghi dell’eccidio, di B. Allatta e L. De Meis ..................................................................................... 25
L’eco dell’eccidio in Parlamento ............................................................................................................. 29
Seduta della Camera dei Deputati del 17 febbraio 1913 ......................................................................... 29
Interrogazione dell’on.le Bentini, dell’dell’on.le Chiesa e dell’on.le Bonomi: ....................................... 29
Le lotte contadine in Ciociaria all’inizio del XX secolo, di A. Schiavi ................................................. 35
SECONDA GIORNATA ........................................................................................................................ 45
Mattino .................................................................................................................................................... 45
Le indagini della Procura di Frosinone, di B. Allatta e L. De Meis ....................................................... 45
Da Frosinone le indagini passano a Roma, di B. Allatta e L. De Meis ................................................... 46
Il processo d Frosinone, di M. Ferrarese ................................................................................................. 50
L’appello contro la sentenza di Frosinone e il proscioglimento di tutti gli imputati ............................... 53
Commenti, di V. Cotesta ......................................................................................................................... 53
Il processo di Milano, di M. Ferrarese..................................................................................................... 55
L’interrogatorio di Mussolini .................................................................................................................. 56
L’interrogatorio di Francesco Ciccotti .................................................................................................... 58
Le testimonianze dei contadini di Roccagorga ........................................................................................ 58
L’interrogatorio del Tenente Gregori ...................................................................................................... 62
La testimonianza del maestro De Angelis ............................................................................................... 63
La conclusione del processo .................................................................................................................... 66
L’intervento del Procuratore Generale .................................................................................................... 67
Commenti, di V. Cotesta ......................................................................................................................... 68
SECONDA GIORNATA ........................................................................................................................ 69
Pomeriggio .............................................................................................................................................. 69
Intervista al signor Cornelio Giuseppe De Nardis ................................................................................... 70
Le donne del 6 gennaio 1013, di A. Paritanti .......................................................................................... 76
Le donne di Roccagorga al processo di Milano, di A. Paritanti .............................................................. 92
I protagonisti, di G. Nardacci .................................................................................................................. 97
Antonio Basilico .............................................................................................................................. 97
Vittorio Nardacci............................................................................................................................ 106
Dante Mucci .................................................................................................................................. 112
Vincenzo Rossi .............................................................................................................................. 118
Conclusioni, di V. Cotesta ..................................................................................................................... 121
Lista delle principali opere, dei documenti, delle leggi, degli archivi e delle biblioteche consultate ... 127
Lista degli autori .................................................................................................................................... 130
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