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a cura di
Antonella Caforio
FIGURE
FEMMINILI
PROTETTRICI
DELLA NASCITA
la baba,
la femme qui aide,
la levatrice
nella cultura
europea
Pubblicazioni dell’I.S.U. Università Cattolica
FIGURE FEMMINILI
PROTETTRICI DELLA NASCITA:
la baba, la femme-qui-aide, la levatrice
nella cultura europea
a cura di
ANTONELLA CAFORIO
Milano 2002
Testi tradotti da Roberto Caforio
© 2002
I.S.U. Università Cattolica – Largo Gemelli, 1 – Milano
http://www.unicatt.it/librario
ISBN 88-8311-200-8
Sommario
INTRODUZIONE ....................................................................................................... 7
di Antonella Caforio
LA FEMME-QUI-AIDE E LA LAVANDAIA ............................................................ 15
di Yvonne Verdier
“Assistere”......................................................................................................... 16
Fare i bambini ................................................................................................... 16
Fare i morti........................................................................................................ 22
I grandi lavaggi ................................................................................................. 26
“Colare” ............................................................................................................. 32
Al lavatoio ......................................................................................................... 35
Gaisser ............................................................................................................... 37
“LA SAPIENZA DI DIO SI RITROVA NELLE VECCHIE DONNE”.
LA LEVATRICE. I DEMONI DELLA NASCITA E I PICCOLI PANI DEI
MORTI ...................................................................................................................... 47
di Isabelle de Runz
Quelle che sanno .............................................................................................. 48
Vedere e identificare ........................................................................................ 49
Il bambino-frutto ............................................................................................. 50
Quando le babice sono numerose, il bambino deperisce .......................... 51
I quaranta giorni ............................................................................................... 53
Dare il nome ..................................................................................................... 55
Babe, vampiri e babice .................................................................................... 57
Rottura e decomposizione .............................................................................. 57
Vampiri .............................................................................................................. 59
3
Sciogliere e purificare ...................................................................................... 60
Il morto-antenato ............................................................................................. 60
Scambio di teste................................................................................................ 61
Parola di vecchie............................................................................................... 62
LE DONNE E IL SALATOIO ................................................................................... 65
di Yvonne Verdier
1) Quando si hanno le mestruazioni, nel salatoio non bisogna
andarci, perché il lardo così va a male, va a male tutto nel
salatoio, tutto è perduto. ........................................................................... 65
2) Il respiro, il sangue era qualcosa di sacro che un tempo
aveva un senso. ........................................................................................... 69
3) Delle donne dai capelli rossi non ci si fidava, si diceva:
hanno l’alito pesante. ................................................................................. 73
4) Non bisogna rifiutare nulla alle donne incinte, si teme che il
bambino ne soffra. ..................................................................................... 76
5) Tutti i miei figli sono nati normali, è questo che mi fa più
paura, l’anormalità, la peggiore delle catastrofi. ..................................... 80
6) Buon uomo, non far mai caso al grano di marzo e alla figlia
di maggio ..................................................................................................... 84
7) Tutte queste cose sono dette così per dire, ma sono vere,
dipendono dal movimento della luna, sono dei veri e propri
fenomeni. ..................................................................................................... 95
IL CORPO FEMMINILE E LE COSE NELLA POLESIA.
UN SISTEMA SIMBOLICO DELLA FINE DEL XX SECOLO.................................. 97
di Galina Kabakova
Il codice relativo al vestiario ........................................................................... 98
Il simbolismo nuziale: gli utensili della cucina ........................................... 108
Il corpo e lo spazio domestico ..................................................................... 114
4
DONNE-PIANTE E BAMBINI-FRUTTI. I FRUTTI E GLI ALBERI DA
FRUTTO NELLE RAPPRESENTAZIONI POPOLARI SERBE DEL
CONCEPIMENTO .................................................................................................. 123
di Isabelle de Runz
Regalare dei frutti e mettere al mondo ....................................................... 123
Alberi e frutti nei riti di fecondità ................................................................ 125
L’innesto dei giovani sposi ........................................................................... 127
Concepimento e contraccezione .................................................................. 128
NASCERE SOTTO I CAVOLI. UN APPROCCIO ETNOLOGICO A
QUESTO MITO CULTURALE* ............................................................................... 135
di Jocelyne Bonnet
1) Un mito culturale ..................................................................................... 135
2) Il cavolo, emblema della fecondità matrimoniale................................ 137
3) “C’è cavolo e cavolo” .............................................................................. 139
4) Sapete piantare i cavoli? .......................................................................... 140
5) Espressioni metaforiche e gesto sessuale ............................................. 142
6) Conclusione............................................................................................... 144
APPENDICE
LA GRAVIDANZA E IL PARTO NELLA CULTURA FOLCLORICA:
PRATICHE EMPIRICHE E PROTEZIONE SIMBOLICA.
IL CASO DI VENEGONO INFERIORE. ............................................................... 147
di Emanuela Cremona
1) Breve presentazione storico-sociale ...................................................... 147
2) Le persistenze folcloriche: la testimonianza del mondo
femminile ................................................................................................... 155
3) Tracce di lettura ........................................................................................ 162
4) I colloqui.................................................................................................... 200
5
Introduzione
di Antonella Caforio
Vengono qui presentati alcuni saggi di notevole spessore sul ricco
simbolismo riguardante la differenza sessuale e il tema del maschile e del
femminile scritti da antropologhe note, in particolare da Yvonne Verdier,
autrice di Façons de dire, façons de faire1, un libro veramente stimolante e per
molti versi affascinante che in Italia non è stato mai tradotto.
I contributi, che si riferiscono alle rappresentazioni e agli immaginari
riguardanti la nascita in Francia e nel mondo tradizionale slavo, sono tanto
ricchi di contenuti che diventa impossibile un riassunto veloce ed esaustivo
cosicché ognuno, leggendoli, potrà approfondire secondo i suoi interessi gli
aspetti che riterrà più rilevanti.
Ciò che a mio avviso rende particolarmente degna di attenzione la lettura
di questi studi è in primo luogo il lento delinearsi di una figura femminile,
quella della levatrice, che tutti pensiamo di conoscere e che in realtà
scopriamo pian piano nelle sue inedite caratteristiche simboliche con
meraviglia crescente quando, dai saggi, e ancor più dalla lettura del libro già
citato e da altri testi – come quello preziosissimo di Evelyne Sorlin2,
anch’esso mai tradotto in italiano – scorgiamo i tanti riferimenti simbolici a
realtà che rimangono, nonostante tutti i tentativi di distruzione operati nei
secoli (basti solo pensare alle cacce alle streghe), ancor oggi profondamente
radicate nella nostra società. In questo personaggio, infatti, possiamo in
qualche modo rivedere attualmente ciò che Gimbutas chiama il periodo della
Grande Dea. Com’è noto, la studiosa lituana sostiene che il culto della
Grande Dea ha dominato l’Europa del Neolitico Antico, tra il 7000 e il 3500
1 Cfr. Y. Verdier, Façons de dire, façons de faire La laveuse, la couturière, la cuisinière, Gallimard,
Paris, 1979.
2 Cfr. E. Sorlin, CRIS DE VIE, CRIS DE MORT Les fées du destin dans les pays celtiques, “FF
COMMUNICATIONS n. 248”, Academia Scientiarum Fennica, Helsinki, 1991.
7
a.C. Ciò che caratterizza questo periodo della storia è l’importanza data ai
concetti di rigenerazione e rinnovamento, in analogia con ciò che avviene
nella Natura, ed una visione del mondo accentrata sulla Terra e però
profondamente rispettosa dell’esistenza di qualunque forma vivente,
‘riverente’ della vita, ma di ogni vita.
In questo lungo brano, Gimbutas così ci descrive quel breve tratto della
storia umana
La Dea era, in tutte le sue manifestazioni, il simbolo dell’unità di tutte le forme di
vita esistenti nella Natura. Il suo potere era nell’acqua e nella pietra, nella tomba e nella
caverna, negli animali e negli uccelli, nei serpenti e nei pesci, nelle colline, negli alberi e nei
fiori. Di qui la percezione olistica e mitopoietica della santità e del mistero di tutto quanto
è sulla Terra. Quella cultura si deliziò dei prodigi naturali di questo mondo. Il suo popolo
non produsse armi letali né costruì fortificazioni in luoghi inaccessibili, come avrebbero
fatto i successori, anche quando conobbe la metallurgia. Invece, costruì magnifiche tombesantuari e templi, comode abitazioni in villaggi di modeste dimensioni, e creò ceramiche e
sculture superbe. Fu, quello, un lungo periodo di notevole creatività e stabilità, un’epoca
priva di conflitti. La cultura di quel popolo fu una cultura dell’arte3.
La Dea è Creatrice di Vita e nello stesso tempo Reggitrice di Morte senza
che vi sia alcuna divisione tra le due figure poiché, così come avviene nel
cosmo, la Dea della Morte non punisce gli esseri viventi, ma semplicemente
compie il suo dovere di controllo della durata del ciclo vitale. Riprendere la
vita significa quindi non esclusivamente morte, ma immediato rigenerarsi nel
corpo della Dea – la Terra – giacché l’energia vitale è in continuo
movimento.
Di questo simbolismo così arcaico, ma profondamente radicato, si può
dire di vederne dei frammenti appunto in questa figura creata dalla società
che, come la wandy homan irlandese, presiede al parto e insieme alla
sepoltura4.
M. Gimbutas, Il linguaggio della Dea Mito e culto della Dea madre nell’Europa neolitica, Neri
Pozza, Vicenza, 1997, p. 321.
4 Cfr. E. Sorlin, op. cit., pp. 121 sgg.
3
8
Come sostengono le autrici dei saggi, questo personaggio così importante
deve la sua unicità soprattutto alle particolarità biologiche del corpo
femminile.
Infatti, per prima cosa si deve riflettere sul nome: femme-qui-aide è
denominata la levatrice, quindi donna che aiuta, che assiste, o ancora baba o
babica nella forma del diminutivo, cioè nonna, quindi donna anziana, esperta,
che ‘sa’ come vanno le cose del parto. Come ricorda Verdier, in Grecia la
levatrice era denominata maia, nonna, e madre viene chiamata la femme-quiaide a Minot, il paesino francese nel quale si è svolta questa inchiesta
etnografica veramente ricca di risultati.
Gli elementi che in questi studi sembrano emergere per
contraddistinguere la femme-qui-aide sono in sostanza due: l’abilità e l’ubiquità,
anche se non possiamo dimenticarne un terzo, l’innocuità o capacità di
affrontare l’ignoto senza conseguenze pericolose.
In realtà l’abilità di cui parlano gli intervistati è qualcosa da intendersi in
maniera diversa dal solito: essa non è da interpretare tanto come destrezza,
bravura tecnica quanto come capacità e disponibilità massima a ‘lasciar fare alla
natura’. La bravura tecnica, senza dubbio, è presente nell’operato della femmequi-aide, ma non è questo l’elemento che deve caratterizzare la sua presenza.
Come è noto, nelle società occidentali, a partire dal XVIII secolo, si è avviato il
processo di medicalizzazione della nascita con il relativo trasferimento del
parto in ospedale e sappiamo anche che esso aveva come obiettivo dichiarato
in primo luogo il bisogno di salvaguardare le vite del bambino e della madre e
la loro salute5. La femme-qui-aide è, invece, colei che segue con la più profonda
attenzione tutte le fasi della natura senza interferire ed è colei che, all’interno di
un gruppo, si assume il compito di ‘accompagnare’ e ‘seguire’ il cammino di
questo essere che potremmo definire liminale, alla maniera di Turner: “gli
esseri liminali non sono né da una parte né dall’altra; stanno in uno spazio
intermedio... tra le posizioni assegnate e distribuite dalla legge, dal costume,
dalle convenzioni e dal cerimoniale”6. Essi sono fuori da ogni classificazione,
come sostiene sempre lo studioso inglese.
Cfr. J. Schlumbohm, Comment l’obstétrique est devenue une science, ACTES de la recherche en
sciences sociales, juin 2002, 143.
6 V. Turner, Il processo rituale Struttura e anti-struttura, Morcelliana, Brescia, 1972, p. 112.
5
9
La femme-qui-aide, quindi, attraverso una serie di riti con momenti dentro e
fuori del tempo e dentro e fuori della struttura sociale, inserisce e classifica nel
tempo e nello spazio quotidiani esseri che sono strutturalmente ‘invisibili’, che
hanno, cioè, una realtà fisica, ma non una realtà sociale7. Nello studio di
Isabelle de Runz, in effetti, la babica era definita anche “la ‘primalja’, quella che
riceve. Il suo primo gesto consisteva nel raccogliere il bambino prendendolo
direttamente o facendolo cadere al suolo come un frutto maturo”.
Nei saggi, infatti, si sottolinea come le femmes-qui-aident o le babice tocchino
poco il corpo della madre, mentre si preoccupano molto del neonato e in
questo caso i loro gesti sono sempre accurati, precisi, determinati ed attenti,
insomma ‘ben fatti’. Ecco qui l’abilità che noi più facilmente riconosciamo.
Lo ricorda la Verdier quando sostiene che “la vecchia femme-qui-aide è tanto
discreta, anzi quasi restia ad evocare il suo aiuto alla madre, limitandosi a
questo vago e ostinato ‘lasciavamo fare alla natura’, quanto espansiva
quando si tratta del bambino, facendo trapelare la meticolosa
preoccupazione di un intervento ben fatto, con una successione di gesti:
afferrare, lavare, vestire”. E continua in questa opera di direzione e aiuto nei
confronti del neonato anche nei giorni successivi: “il giorno dopo lei fa una
visita con uno scopo ben preciso: “vengo per allattare il bambino, ero là per
far vedere alla madre”. Torna i giorni seguenti per fargli il bagno e per
fasciarlo, fintanto che il cordone ombelicale non è caduto... il suo controllo
può procedere fin quando la ferita ombelicale non si è rimarginata... spetta a
lei battezzarlo o addirittura imporgli il nome”. E anche quando oramai il
medico si occuperà del parto, il suo ruolo continuerà ad essere quello di
accudire al bambino: “il dottore che si occupa dei parti dagli anni cinquanta
ci dice: “A me non piace vestire il marmocchio, né fargli il bagno, lo dò a
Margherita, ogni villaggio ha la sua femme-qui-aide, è qua per questo”.
Questa diversità di atteggiamenti nei confronti dei due protagonisti, la
madre e il bambino, non è casuale: la madre è un contenitore di qualcosa che
è ancora al di là dell’umanità e quindi va trattata con cura, ma anche con
molta cautela. Le forze soprannaturali possono sempre essere pericolose
7 Cfr. V. Turner, La foresta dei simboli Aspetti del rituale Ndembu, Morcelliana, Brescia, 1976,
p. 128.
10
anche per un personaggio autorizzato a manipolare realtà fuori del tempo e
dello spazio, come appunto la babica o la femme-qui-aide.
Solo subito dopo il parto, la femme si preoccupa della donna poiché da
questo momento ella ritorna ad essere membro della comunità, anche se
avrà bisogno di un lungo periodo di purificazione per non essere più
pericolosa per se stessa e per gli altri.
Ora, essere fuori dello spazio significa anche essere nel tempo
primordiale che non conosce eventi relativi al mondo effimero, alla maia di
cui parlano gli orientali. In sostanza, la babica ha una funzione prettamente
sociale e il suo compito è quello di umanizzare, rendere oggetto di parola, di
discorso e cioè ‘riconoscibile’, come sostiene Augé, ciò che è naturale e
quindi non soggetto alle ragioni e alle leggi degli esseri umani.
Per questo motivo, un’altra delle qualità necessarie alla femme-qui-aide è
l’innocuità, non solo del corpo, ma anche e soprattutto dello spirito: in
quanto essere di frontiera, ella deve essere neutrale, impermeabile ai
sentimenti che caratterizzano, invece, l’umanità così da non poter ricevere né
comunicare alcuna energia soprattutto negativa durante queste operazioni
così pericolose.
Nei momenti in cui si cerca di realizzare senza danni un delicatissimo
contatto tra due mondi molto diversi, le particolarità biologiche della donna
vengono in aiuto rimarcando nuovamente attraverso il linguaggio simbolico
la differenza tra i sessi, come rileva molto bene Isabelle de Runz quando
evidenzia l’idoneità delle donne anziane nel ruolo di babiche: “la perdita delle
funzioni procreatrici, della capacità di concepire, va di pari passo con la
cessazione dell’attività sessuale ed è precisamente questa chiusura del corpo
a tutti i movimenti o i fenomeni periodici e alternativi che si pone alla base
quale condizione necessaria per il riconoscimento della loro abilità. Le donne
anziane si inseriscono, pertanto, in un altro tempo, di là dalle oscillazioni del
ciclo mestruale e delle gestazioni, un tempo regolare senza altri fondamenti
se non quelli della morte e della nascita”.
Il saggio di Galina Kabakova risulta essere estremamente utile giacché cerca
di chiarire proprio il funzionamento del sistema simbolico al centro del quale
vi è la donna e che riguarda quelli che l’autrice chiama sottosistemi tematici o
codici comprendenti, per esempio, l’abbigliamento, e il mondo vegetale o
animale. L’analisi di questi simbolismi permette di comprendere rituali,
11
credenze o costumi altrimenti incomprensibili o definiti strani.
Comprendiamo, per esempio, il legame indissolubile tra feto e grembiule, che
diventa l’emblema della levatrice, la necessità del lavaggio del neonato e allo
stesso modo il bisogno di rivestire il bambino appena nato. Altri codici, però,
si accavallano ed assumono rilevanza: il corpo femminile è sempre collegato,
per esempio, allo spazio domestico più intimo, al focolare e alla cucina come
pratica legata alla trasformazione in sociale del prodotto naturale.
Infine, un altro campo semantico che ci permette di comprendere meglio le
rappresentazioni ideologiche relative alla donna è senza dubbio quello
concernente l’agricoltura, la coltivazione e il frutto. Come è facilmente
comprensibile, in tutte le culture è possibile trovare una serie di associazioni tra
la fecondità vegetale e quella umana. Isabella de Runz ci ricorda come il regno
vegetale giochi un ruolo privilegiato in materia di concezione tanto che la
donna, in generale, può essere equiparata ad una pianta e il bambino ad un
frutto: “il concepimento sembra essere soggetto all’azione diretta o indiretta di
un principio contenuto nei vegetali fruttiferi e la cui efficacia si basa su di un
concepimento analogico della germinazione e della gestazione”. Del resto, la
Creatrice e la Rigeneratrice di Vita, il Fato o i Tre Fati, – altri modi di chiamare
la Grande Dea – aveva tante funzioni che “riguardano la fertilità, la
moltiplicazione e il rinnovamento. Si riteneva [nel periodo della Dea
preistorica] che il processo del risveglio stagionale, la crescita, l’ingrassamento e
la morte apparentassero esseri umani, animali e piante: la gestazione di una
donna, l’ingrassamento di una scrofa, la maturazione dei frutti e dei raccolti
erano correlati e si influenzavano reciprocamente. Di nuovo si può notare che
il potenziale di nascita e crescita della terra è in tutte le cose viventi. La
gestazione o l’ingrassamento di una donna o di un animale erano sacri quanto
la gestazione della terra prima della fioritura primaverile. Ogni protuberanza
presente nella natura, sia monte o collina, su un menhir o su un corpo
femminile – ventre, glutei, seni, ginocchia – era sacra”8.
Proprio questa concezione ci fa comprendere meglio l’importanza data al
cavolo in quanto frutto simbolicamente molto rilevante, come leggiamo
nell’ultimo bell’articolo di Jocelyne Bonnet.
8
M. Gimbutas, op. cit., p. 317.
12
Infine, in appendice, l’ottimo saggio-ricerca sul campo di Emanuela
Cremona nel quale appare la levatrice-ostetrica, ultima trasformazione,
oramai al termine del suo lungo viaggio, di quella formidabile Dea il cui
culto era stato così forte durante il Paleolitico e il Neolitico. Alla fine del
XVIII secolo, infatti, il rapporto con la morte, e quindi anche con la vita,
cambia. In un saggio molto denso, Franca Ongaro Basaglia in questo modo
descrive questo momento di cambiamento profondo della storia: “non più
intesa come un destino cui l’uomo non può sottrarsi, la morte viene
gradualmente riconosciuta come il risultato di processi patologici – per la
maggior parte ancora sconosciuti – che possono cadere sotto il controllo e il
dominio dell’uomo.... Il rapporto dell’uomo con la morte si traduce, di fatto,
nel rapporto con una malattia che, diventando oggetto di conoscenza alla
stessa stregua degli oggetti naturali, diventa anche proprietà del medico, sì
che il malato – espropriato del suo incontro immediato e rituale con la
propria fine – si trova in balia di una malattia che solo il medico e la
medicina possono domare e controllare”9.
Così nasce l’ospedale come luogo terapeutico e la donna, con lo sviluppo
della scienza medica, perde ogni potere su eventi quali la vita e la morte.
Il cerchio si chiude.
E allora mi piace terminare con le parole di Marija Gimbutas
La Dea gradualmente si ritirò nel profondo delle foreste o sulle vette delle montagne, e
lì sopravvisse sino ai nostri giorni nelle credenze e nelle fiabe. Seguì l’alienazione dell’uomo
dalle radici vitali della vita terrena, e i risultati sono ben evidenti nella società
contemporanea. Ma i cicli storici non si fermano mai, ed ora vediamo riemergere la Dea
dalle foreste e dalle montagne, recandoci speranza per il futuro, e riportandoci alle nostre
più antiche radici umane10.
F. Ongaro Basaglia e G. Bignami, “Medicina/medicalizzazione”, in Enciclopedia, Einaudi,
Torino, 1979, vol. VIII, p. 1014.
10 M. Gimbutas, op. cit., p. 321.
9
13
La femme-qui-aide e la lavandaia
di Yvonne Verdier
In un villaggio francese, oggi come oggi, vi sono poche cerimonie, poche
credenze ben radicate, pochi di quei rituali sostanziosi che danno una gran
quantità di lavoro all’etnologo, ma, al contrario, esistono numerosi gesti che
si fanno perché “si fanno normalmente” o perché “si sono sempre fatti” – si
tratta di riti? Una lingua, il dialetto o più spesso un francese dialettizzato, i
modi di dire che rispecchiano le abitudini, gli aneddoti, le storie senza fine
che raccontano “che cosa è successo quella volta” – sono forse dei miti?
Infine i personaggi, vere figure di paesani, persone che vanno “verso” gli
altri o “verso” le quali si va, e che mettono in risalto con il loro
ragionamento diverse generazioni, perché se ne parla, si fanno riferimenti, si
raccontano le loro vicende anche molto tempo dopo la morte – sono degli
eroi culturali?
Questo insieme di materiale grezzo ci è sembrato la materia prima di cui
dar conto del ruolo ricoperto da una donna a Minot1, la “femme-qui-aide”2.
Questo ruolo molto presto si è ritrovato in una dimensione ben più ampia a
causa del fatto che le persone che l’avevano svolto gli avevano conferito
tutta una serie di tratti caratteristici, di qualità e difetti. Che siano dei tratti
personali o delle caratteristiche culturali? Si tratta di determinazioni
accidentali o di peculiarità di un sistema?
1 Minot (Costa d’Oro) è un villaggio che si trova nello Chatillonnais, a nord della
Borgogna, sull’altopiano di Langres, sul quale è stato svolto uno studio d’équipe con Tina
Jolas, Marie-Claude Pingaud e Françoise Zonabend. La popolazione, oggi di 360 abitanti, è
quasi rimasta invariata dagli inizi del secolo.
L’Homme, apr.-sett. 1976, (2-3).
2 L’espressione può essere tradotta con quella equivalente in italiano a “donna che
assiste”, che “aiuta”, ma è sembrato preferibile mantenerla nella lingua originale per i suoi
numerosi significati simbolici inespressi (N.d.T.)
15
“Assistere”
Madre Daniel era la donna che assiste, la chiamavano dappertutto,
andava dalle donne che partorivano, andava dai morti... Adesso è
sua figlia, Margherita, che assiste, l’unica del villaggio, quando non
ci sarà più lei ci chiediamo che cosa faremo.
Un doppio compito è affidato a colei che viene definita la femme-qui-aide:
“fare i bambini”, “fare i morti”.
Fare i bambini
“Sì, ero io che assistevo, molto spesso bisognava andare lontano a
cercare il dottore o l’ostetrica, e il bambino era già là prima del loro arrivo,
allora bisognava pur assistere”. È così che Margherita definisce innanzitutto
il suo ruolo di levatrice, di madre di tutti i bambini, in una veste modesta
quasi fosse un difetto.
La cronaca orale del ruolo a Minot risale agli inizi del secolo, e si apre
con un dramma: il tragico parto d’una giovane donna che doveva mettere al
mondo dei gemelli. “Era il primo parto per questa donna, aveva dei gemelli,
il primo è nato, ma il secondo tardava ad uscire, tribolava. Mamma Daniel, la
femme-qui-aide all’epoca, assiste impotente al parto: “Avrei voluto fare
qualcosa”. Ma non osa intervenire, e testimonia: “L’ostetrica non le ha fatto
assolutamente nulla, assolutamente nulla, nulla...”. Il medico chiamato arriva
troppo tardi; “ormai era tutto finito, la giovane donna era morta col secondo
gemello...”. “Il parto, prosegue Margherita, era avvenuto nel mese di agosto;
poco tempo dopo, quella ostetrica ha avuto come un colpo al cervello, e
dopo nel mese di gennaio è morta folle”.
Questo racconto mette bene in risalto i principali personaggi che sono
coinvolti nella nascita – il medico, l’ostetrica, la levatrice (in questo caso la
femme-qui-aide) –, e soprattutto mette ben in evidenza la loro partecipazione:
un medico che arriva troppo tardi, una ostetrica che non fa nulla, e la donna che
assiste che non osa fare nulla..., una giovane donna e un bambino che
muoiono.
16
A partire dal 1905 non ci saranno più ostetriche residenti nel villaggio e,
il più delle volte, la femme-qui-aide si troverà da sola nel momento del parto,
poiché “il tempo di preparare la carrozza per cercare l’ostetrica e il bambino
era già là”, tanto più che, si dice, i parti avvengono rapidamente: “Mia
cognata ha avuto i suoi cinque bambini qui, e l’ostetrica non è mai arrivata in
tempo”. Essi vengono considerati facili, completamente sdrammatizzati ed
inseriti nell’ambito del ritmo delle attività della vita quotidiana: “Fino alla
fine, per le quattro, ho custodito le vacche, era facile, non ho durato fatica,
passavano come una lettera nella buca, alle cinque ho munto le vacche, alle
otto erano là”. L’impiegata delle poste: “Sono stata al telefono fino all’ultimo
minuto”. E di queste attività essi sono a volte come l’amplificazione di una
semplice eco: “Non mi sentivo bene, ho fatto per prima cosa il pane, ho
scaldato il forno, ho infornato, e poi sono andata a coricarmi; mezz’ora
dopo il bambino era già là”.
Per mezzo secolo il ruolo della femme-qui-aide sarà dunque preminente:
“Mi chiamano già alle prime doglie. Arrivo con la bacinella, ha fatto il giro
del paese”. Madre Daniel e madre Carre hanno messo al mondo quasi tutti i
bambini del villaggio. Margherita, che ha seguito le orme della madre verso il
1930, ha “fatto” 43 bambini, i tre quarti dei quali senza la presenza di
un’ostetrica o di un medico. Sua nipote, Marcella, che ha ripreso il ruolo
dagli anni cinquanta al 1968, ha “fatto” 23 bambini, ma, al contrario dei
precedenti, “il medico era sempre là, tranne una volta”. Hanno l’abitudine di
chiamarlo e arriva in tempo: è motorizzato.
Ma per quel che riguarda il parto vero e proprio, è una supplente, poiché
quando l’ostetrica – o, in seguito, il medico – è là, lei l’assiste; conosce
perfino dei ‘trucchi’ per far ritardare il parto: “Davo un bicchierino
d’acquavite”. E il suo ruolo è definito essenzialmente rispetto al bambino.
Si partoriva nel letto matrimoniale, coricate, con la testa appoggiata su
grandi guanciali, e con le ginocchia sollevate. Il primo compito della femmequi-aide è il letto: “Ci voleva tutta una preparazione, si metteva l’asse del
mollettone sotto, e sopra un bello strato di carta da giornale, e poi un panno
ben pulito. Successivamente si prendevano dei panni usati da piegare in
quattro, abbastanza larghi da poter ricoprire, e se ne mettevano due, uno
sull’altro, ben sistemati e appiattiti per evitare rigonfiamenti; si rincalzavano
17
tutti e due i lati. Non appena si era concluso il parto, si toglieva il primo
panno, il giorno dopo si faceva lo stesso col secondo, e se ne rimetteva un
altro. Così si ricavava un lavoro ben fatto”.
“A quel tempo, si gridava, e come si gridava! Non so il perché, ma le
donne non gridano più adesso. Io mi ricordo di aver gridato parecchio... La
levatrice di Beneuvre diceva: “Oh, io capisco dalle grida quando sta per
arrivare...! Oh, ma io non mi disturbo prima di sentirvi...! Fintanto che una
donna non dice che sta per morire, non arriva! Le vecchie dicevano:
“Bisognava gridare abbastanza forte da farsi sentire da tutto il villaggio...”.
Se è la femme-qui-aide ad occuparsi del parto, utilizza più o meno le stesse
tecniche della levatrice: sostiene la donna – “i letti erano fatti di solo legno,
non avevano alcuna presa, i letti con le traverse sono arrivati più tardi, là ci si
poteva aggrappare” –, fa dei massaggi alla pancia, la incita a gridare, afferra la
testa del nascituro nel momento in cui passa, taglia e annoda il cordone
ombelicale. Interviene solo esternamente, non tocca troppo il corpo della
madre, teme di andare oltre: “Se gli annessi fetali c’erano, c’erano, se non
c’erano, si aspettava l’arrivo del medico; lui doveva guardarli per vedere se
c’erano tutti”. Il principio in vigore era l’astensionismo. “Si lasciava fare alla
natura, non c’era un gran che da fare”. La levatrice applica la stessa regola,
ha solo le sue mani per assistere – può inoltre fare delle iniezioni (soluzioni
di bicarbonato e di permanganato) per accelerare la fuoriuscita degli annessi
fetali ed esaminarli – ma ha le mani legate in caso di complicazioni.
Solamente il medico-chirurgo può utilizzare i ferri, e il bisturi per i parti
cesarei. La legge stabilisce esattamente questa differenza: la levatrice deve
limitarsi ai parti detti naturali.
Ancor più della levatrice, la femme-qui-aide teme la responsabilità legale di
un parto che ha cattivo esito. Ciò apparve chiaramente nel caso di un parto
difficile durante l’ultima guerra, allorché le due femmes-qui-aident del villaggio
si tirano indietro nel momento critico: “C’era la guerra, il giorno in cui sono
arrivati i tedeschi, ed ecco che Paulette ha il ‘mal di pancia”. Il sindaco,
avvisato, manda un uomo con una vettura a cercare un dottore, ma i due,
trattenuti dai tedeschi, non torneranno al villaggio se non dopo tre giorni.
“Nel frattempo, Paulette aveva partorito, ma il giorno dopo non aveva
espulso gli annessi fetali”. Il sindaco: “Ero andato a cercare le due femmes-quiaident, madre Carre: “Oh, ma io non posso intervenire”, e Margherita: “Oh,
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no, no! è troppo rischioso, se dovesse capitare qualcosa sarebbe colpa
nostra”. Non hanno voluto, né l’una, né l’altra”.
Quello che spetta di fatto e di diritto alla femme-qui-aide, è il bambino.
Come dicono a Minot, lei “fa il bambino”. Anche se la levatrice, o, in
seguito, il medico, aiutano a partorire, una volta che il cordone ombelicale è
stato sezionato e annodato, glielo si dà, le spetta. “Non appena è uscito io lo
bagno”. Questo compito non le è contestato, è la sua prerogativa. Il dottore
che si occupa dei parti dagli anni cinquanta ci dice: “A me non piace vestire
il marmocchio, né fargli il bagno, lo dò a Margherita, ogni villaggio ha la sua
femme-qui-aide, è qua per questo”. E la vecchia femme-qui-aide è tanto discreta,
anzi quasi restia ad evocare il suo aiuto alla madre, limitandosi a questo vago
e ostinato ‘lasciavamo fare alla natura’, quanto espansiva quando si tratta del
bambino, facendo trapelare la meticolosa preoccupazione di un intervento
ben fatto, con una successione di gesti: afferrare, lavare, vestire. A sentirla,
sarebbe stata derubata dei primi gesti di separazione dal medico e dalla
levatrice che, visto che si trovano lì, tagliano, annodano. Ma le piace
ricordare quei gesti se sono realizzati in loro assenza: “Tagliavo il cordone,
lo piegavo, lo legavo a tre centimetri dal corpo; c’è bisogno di un filo molto
resistente, molto solido, un filo di lino. Lo immergevo nell’alcol o nella
grappa, o in quello che c’era a disposizione”.
Il suo compito consiste soprattutto nella pulizia del nascituro: “Sono
sempre io che lo lavo. Facevo scaldare l’acqua, la tenevo pronta, e gli facevo
il bagno nella tinozza... Lo asciugavo, poi lo vestivo – gli si fascia la pancia
con una benda di tela per preservare gli organi – e dopo li si fasciava tutti”.
Il bagno è il momento decisivo di questo incarico, momento in cui si manda
a chiamare il padre, di solito rifugiatosi dal vicino. Ha avvisato: “Mi
chiamerete quando farete il bagno al bambino”.
“Il marito veniva a vedere sgambettare il bambino, ci sono sempre
abbastanza donne presenti là”.
In effetti, spesso la madre, la suocera, le zie sono presenti fin dall’inizio,
come spettatrici, ma è il padre, arrivato per il bagnetto, ad essere inviato a
scavare un grosso buco per sotterrare gli annessi fetali.
Solo dopo il parto lei si dà da fare accanto alla madre: prepara ed offre il
caffè ben caldo, a volte corretto con la grappa; si occupa inoltre di tutte le
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pulizie che sono necessarie dopo il parto: cambia i panni, mette a lavare
quelli macchiati, e lava lo sporco e il sangue.
La madre restava a letto in linea di massima ‘nove giorni’. La nonna, la
sorella maggiore, una zia si occupano delle pulizie, della cucina, mungono le
vacche; i figli sono stati affidati ai vicini, ma è la femme-qui-aide ad occuparsi
del neonato. Il giorno dopo lei fa una visita con uno scopo ben preciso:
“Vengo per allattare il bambino, ero là per far vedere alla madre”. Torna i
giorni seguenti per fargli il bagno e per fasciarlo, fintanto che il cordone
ombelicale non è caduto: “Cade di solito nel giro di cinque giorni, ma ne ho
visti alcuni cadere solo dopo venti giorni”. Cura la ferita con particolare
attenzione: “Metto un po’ d’alcol, qualcosa per non far venire delle infezioni,
un po’ di garza con un buco in mezzo e della tela”. Il giorno in cui si stacca,
getta il cordone ombelicale nel fuoco. Il suo controllo può procedere fin
quando la ferita ombelicale non si è rimarginata, e cioè fino a quando non si
è completato il distacco del bambino.
Due altri gesti completano la serie di servizi resi dalla femme-qui-aide: se il
piccolo è moribondo, spetta a lei battezzarlo o addirittura imporgli il nome –
“L’ho fatto diverse volte, così il bambino è stato sepolto in chiesa”; infine, è
lei che conduce il bambino al battesimo.
Il ruolo della femme-qui-aide alla nascita non dovrebbe essere quindi
confuso con quello della levatrice – esso è peraltro unico e specifico, lei “fa
il bambino” –, e un’ultima caratteristica distingue le due donne ed anzi le
oppone radicalmente: la femme-qui-aide non è ricompensata col denaro, non
può esserlo, la si ringrazia sempre in natura. Il suo compito è considerato
come un favore, un aiuto che può essere ricambiato solo in due modi: o con
altri favori – “Ho fatto tutti i bambini Bonot, allora approfittiamo della loro
macchina quando vanno a Digione, e tutti gli anni l’11 novembre ci invitano
alla fiera”; oppure con piccoli regali ma, a quel che pare, di natura
particolare. Le offrono articoli di drogheria o d’emporio, un paio di
pantofole, una bottiglia d’acqua di Colonia, un pacchetto di caffè, tutti
prodotti che conservano in qualche modo l’antico valore commerciale delle
spezie, ciò che a Minot più si avvicina al denaro (ciò che si compra con i
soldi e non è prodotto nella fattoria), ma che non è denaro e non pone fine
al rapporto intrapreso.
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Quest’ultimo tratto distintivo, quello economico – il denaro – bisogna
metterlo senz’altro in relazione con un tratto comportamentale generalmente
attribuito alle levatrici. Le levatrici hanno un difetto maggiore, tanto più
perché sono donne: bevono. Quando Margherita mette a conoscenza la
madre, madre Daniel, del suo desiderio di diplomarsi come ostetrica, costei
si rifiuta: “Io volevo fare l’ostetrica, era il mio desiderio da ragazza. Sono
stata a Parigi per un anno da mia sorella, e a mio cognato avevano già
richiesto la documentazione per farmi entrare in qualche posto. Poi, quando
sono tornata da Parigi, ne ho parlato a mia madre, e lei mi ha detto: “Ho già
una figlia che ha un mestiere a Parigi [la figlia maggiore, la sarta] ed ora tu te
ne vai e dopo non vi rivedrò più, e poi [argomentazione decisiva], tutte le
levatrici si ubriacano”. A dire il vero, le tre levatrici della zona bevevano...
Allora mia madre pensava che doveva essere automatica la cosa”. E quindi
Margherita resterà al villaggio dove seguirà semplicemente l’esempio della
madre in qualità di femme-qui-aide.
Ad ogni attività femminile che costringe ad andare sovente in giro,
presso altri, ed entrare nell’altrui intimità famigliare, e che, in aggiunta,
apporta del denaro – dando così un’indipendenza economica e conferendo
un movimento pari a quello maschile – viene attribuito un qualche vizio: la
levatrice beve, la cuoca ruba, la sarta è un po’ leggera, corre. Il bere e il correre
intaccano sostanzialmente le virtù femminili domestiche: “Delle donne che
bevono, oh! non è certo qualcosa che serve alla casa, per le faccende
domestiche, senza contare che è una cosa più brutta a vedersi di un uomo
che beve. Se è un uomo... ancora ancora... ma una donna che si ubriaca, che
cosa può combinare in casa!”
Di tutte le donne che vanno parecchio in giro, ‘verso’ le quali si va o che
vanno ‘verso’ gli altri, solo la femme-qui-aide conserva in apparenza intatta la
sua reputazione, non è ricompensata con il danaro, il suo raggio d’azione
non oltrepassa i confini del villaggio, sfugge a qualunque condanna morale.
Al contrario, lei è buona, brava e intelligente.
Questo era il modo in cui la femme-qui-aide faceva i bambini a Minot. Si
può comprendere la sua rabbia e frustrazione desolata quando, a partire dal
1960, per gli ultimi bambini fatti al villaggio – poco tempo dopo, a partire
dal 1968, le donne si recano in clinica a Digione –, il medico decide
bruscamente e senza alcuna spiegazione che non bisogna più fare il bagno al
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nascituro: “Non si fa più il bagno ai bambini, niente più, debbo vestirli tutti
sporchi e appiccicaticci. Lui [il medico] ha detto: “Non si fa più!” Vi rendete
conto, quei poveri piccoli...”3.
Fare i morti
In caso di morte vi è la stessa chiamata; è ancora la femme-qui-aide a ‘fare i
morti’. La famiglia, ci dicono, prova ripugnanza nel far questo lavoro, “non
lo fanno, si mettono in disparte”.
“Mi chiamano non appena sono morti. Bisogna lavare il morto, raderlo
se è un uomo, pettinarlo per bene; l’acqua di cui ci si è serviti per lavarlo va
gettata lontano, non nel lavandino, nella strada. Poi, lo vesto, normalmente
con qualcosa di pulito gli anziani hanno già pronto nell’armadio l’abito da
cerimonia, l’abito nuziale o il vestito della festa utilizzato il giorno dopo il
matrimonio. Quando il morto è pronto, ben vestito, c’è bisogno di un
uomo che lo sollevi per metterlo in poltrona fintanto che preparo il letto... Si
mette un lenzuolo pulito sul letto dal quale è stato tolto tutto tranne la rete;
bisognava prendere un lenzuolo, non uno nuovo, no, un lenzuolo che fosse
abbastanza morbido – occupa meno spazio nella bara4. Dopodiché, si
rimette il morto sul letto, gli si chiudono gli occhi, gli si chiude la bocca. Gli
si nasconde il viso con un tovagliolo o con un fazzoletto bianco; gli si
incrociano le braccia sul ventre, e gli si mette sopra un rosario con uno stelo
di bosso. Lo si ricopre successivamente con un altro lenzuolo bianco, un bel
lenzuolo, molto fine, lo si plissetta.
Per metterlo sulla bara, si toglie il lenzuolo di sopra e si ripiega sopra
quello di sotto”.
Un volta ‘ben sistemato’ il morto, la femme-qui-aide si dedica a tutte le
mansioni mortuarie: chiude le finestre, le imposte, copre lo specchio con un
panno – bianco secondo taluni, nero secondo talaltri – altrimenti questo
3 I dottori avevano appena scoperto il carattere protettivo e nutritivo della sostanza che
avvolge il bambino nel momento della nascita.
4 È così, lo vedremo più avanti, affinché il morto non rimanesse troppo impigliato nel
lenzuolo e potesse uscirne più facilmente.
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rifletterebbe, o per meglio dire tratterrebbe eternamente il viso del morto:
“Lo vedremmo per tutta la vita impresso dentro, perché lo specchio
generalmente è posto davanti al letto”. Oggi si copre ugualmente lo schermo
televisivo, la cui superficie evoca lo specchio, capta, asporta, conduce verso
mondi lontani – o forse è uno sguardo indiscreto? Vi è dunque la
preoccupazione di chiudere tutto quello che costituisce un passaggio verso
l’esterno. Nulla deve uscire dalla camera del morto, tranne quel getto
d’acqua fuori nella strada.
Lei ferma gli orologi, [li si rimette in funzione solo dopo il seppellimento]
e finisce di sistemare la camera mortuaria ricoprendo il comodino con un
centrino bianco sul quale depone un bicchiere d’acqua benedetta o bagna un
rametto di bosso. Di fianco, pone un crocefisso e accende il cero di famiglia.
Si spengono le luci elettriche, si fa luce fievolmente con la candela e non si
accende più il fuoco. Quindi impone alle donne della famiglia un arresto di
qualunque attività domestica: le parenti non devono né cucinare, né lavare,
né fare le pulizie, soprattutto nella camera del morto. Una vicina viene a
preparare i pasti, si occupa della casa, e di mungere le vacche.
Il corpo resterà così per tre giorni esposto nell’ambito famigliare...
“Bisogna, ci dicono, che ci sia sempre qualcuno con il morto, che non
rimanga solo fino alla sepoltura, ma i famigliari preferiscono non rimanere
con lui”. Durante il giorno passano i vicini, aspergono il morto con l’acqua
benedetta, coloro che desiderano vederlo un’ultima volta sollevano il
fazzoletto. La notte la femme-qui-aide organizza la veglia nella quale è
fondamentale la presenza dei vicini, che si danno il cambio per tutta la notte.
A mezzanotte fa il caffè, serve il grappino.
Oggidì ci si lamenta che siano cambiate le cose: “Ora, non c’è più la
veglia, esiste ancora un po’ in famiglia ma gli estranei non c’andrebbero più,
mentre un tempo era del tutto normale, anzi era la regola, ci si offriva per
passare un paio d’ore. La famiglia si corica, ma non ci sono più i vicini”. Il
pubblico presente si è così ristretto negli ultimi anni fino alla più semplice
espressione simbolica, la femme-qui-aide: “È rimasta quasi solo Margherita ad
andare ancora verso i morti; quando non ci sarà più lei, ci chiediamo che
cosa faremo”. Al parto si constata la stessa cosa: quando interviene il
medico, “fa andar via tutti quanti”, eccezion fatta per la femme-qui-aide.
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Così giustapposti all’inizio e alla fine della vita, i gesti che compie la
femme-qui-aide denotano la natura del suo lavoro. Lei svolge, nei due diversi
momenti, la stessa attività di pulizia, e l’aspetto fondamentale del ruolo da lei
ricoperto risiede proprio nell’atto del lavaggio: “Faccio il bagno al neonato,
lavo il morto”. Gesti di lavaggio dei corpi nel senso stretto del termine, gesti
di vestizione, gesti di appropriazione dei luoghi, anche di trambusto attorno
al letto nel quale si nasce o si muore, persino il dispiegamento di grandi
lenzuoli bianchi, di biancheria cambiata, maneggiata e lavata; gesti simmetrici
e opposti: che il neonato sia liberato dalle impurità che porta dall’aldilà, che
il morto non ne porti alcuna via (?). Di qualunque cosa si tratti, lei
comunque lava. La semplicità dei gesti, la loro discrezione – tutto avviene
intorno al letto, nella casa, non c’è nulla d’ufficiale; i semplici utensili –
qualche tinozza d’acqua, un po’ di biancheria – non potrebbero nasconderci
il carattere rituale e l’importanza della funzione svolta dalla femme-qui-aide,
poiché trovano la loro affermazione sia il carattere di pericolosità del
contatto insito nei due diversi momenti sia la sua necessità.
Infatti, i due punti di contatto: afferrare il neonato, o seppellire il morto,
suscitano lo stesso senso di terrore presso i parenti. Davanti a colui che è
appena nato, come davanti al morto, prende il sopravvento lo stesso senso
di panico, d’angoscia, per cui non si sa che cosa fare e si ha paura: “Ho
assistito al parto di mia figlia, il suo terzo figlio, abbiamo telefonato al
dottore, era a Beneuvre, ed ecco che il bambino è saltato fuori... Oh, se non
ho avuto paura! C’erano anche sua zia e sua suocera, quando vedono
arrivare il bambino, ecco che fanno per andarsene. Oh, ho detto loro: “non
lasciatemi da sola! “Ho avuto paura, ho avuto paura, ho avuto veramente
paura...”.
La paura verso i morti è ancora più spiccata: “Seppellire i morti come fa
Margherita bisogna poterlo saper fare, è un lavoro strano, e non è mica
facile, ci sono molte persone che non osano toccare i morti; sua figlia non
vuole continuare quest’opera, ha paura dei morti”.
Dunque, in entrambi i casi, è un compito pericoloso. Ciò vuol dire che il
pericolo ha la stessa origine e riguarda le stesse persone? Per quel che
riguarda il neonato, sembra che si abbia paura per lui; è lui ad essere
vulnerabile e si tratta di proteggerlo: non bisogna farlo uscire prima del
battesimo, nella quale occasione l’assistenza è strettamente famigliare. Gli
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estranei, cioè i paesani nel loro insieme, costituiscono una fonte di pericolo:
non assistono al battesimo perché sarebbe, dicono, solo “curiosità”, si teme
l’“invidia”. Pertanto, la qualità peculiare che deve mostrare la femme-qui-aide è
l’innocuità, deve essere inoffensiva5.
Per quel che riguarda il morto, i segni s’invertono, il pericolo cambia
posizione, è il morto che si teme e le persone che ruotano immediatamente
attorno diventano vulnerabili, si tratta di proteggerle da lui. La famiglia si
sente particolarmente presa di mira, si “mandano avanti” gli estranei. Essi
debbono, al contrario di ciò che accade durante il battesimo, mostrarsi
numerosi il giorno della sepoltura, costituendo in gradazioni diverse uno
schermo protettivo. La femme-qui-aide, l’unica abilitata al contatto, in questa
occasione deve mostrarsi invulnerabile.
Il compito è perciò pericoloso, ma è importante che sia svolto, ed è una
necessità a livello sociale in entrambi i casi, perché fare a meno della femmequi-aide, per colui che muore, vuol dire “morire come un cane”, e per quelle
poche donne che partoriscono da sole, comportarsi come una bestia, peggio,
una brutta bestia, “una broccaccia”, tenendo conto che le bestie a Minot
sono di solito “più belle degli umani”.
Così, “Mélie partoriva senza nessuno presente, se la squagliava la sera,
non la si vedeva, il giorno dopo tornava nei campi...È proprio una testa tutta
particolare quella lì, è una pestifera, una testa dura, bacata, una broccaccia”;
oppure, “Pierrette partoriva sempre da sola, non voleva nessuno, si chiudeva
a chiave. Quando aveva finito chiamava il suo uomo, teneva il piccino per le
gambe e gli diceva: “Passami le forbici che gli taglio il cordone ombelicale”.
Spetta dunque alla femme-qui-aide questo compito di addomesticamento e
di umanizzazione, di socializzazione: “Le era affidata questa mansione”. La
peculiarità del personaggio consiste nel fatto che costei opera
contemporaneamente nell’ambito della nascita e della morte, perché nel
momento in cui uno dei due poli viene a mancare, quando salta questa
funzione, scompare la qualifica di femme-qui-aide. Altre donne ‘assistono’ o
tentano di ‘assistere’ al villaggio, ma se accedono solo a metà del ruolo, che
Ma converrebbe qui chiedersi se questa idea della vulnerabilità del nuovo nato non sia
una trasformazione recente (un influsso delle nozioni mediche). Come si è detto, egli fa
veramente paura, perché proviene da un altro mondo.
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sia dal lato della nascita o dal lato della morte, non saranno mai considerate
come quella ‘che assiste’; se la loro azione si fraziona nello spazio o nella
gerarchia sociale (come la perpetua che “assiste” i morti dei “signori”), non
si tratta altro che di modalità ricorrenti di aiuto reciproco femminile, perché
la virtù della femme-qui-aide – che si occupa dei gesti di entrata e uscita dal
mondo – è anche quella di andare dappertutto e da tutti.
Questa virtù di mediazione a molteplici livelli si realizza agli inizi del
secolo in due donne, madre Daniel e madre Carre, di cui si conserva un
vivissimo ricordo in quanto femmes-qui-aident esemplari. Ora, tutt’e due sono
delle lavandaie, e tutto si svolge come se la femme-qui-aide, la lavandaia,
prefigurasse il destino dell’essere che viene al mondo, e gli volesse dire: “Per
due volte sarai lavato, una prima volta alla nascita, una seconda volta quando
trapasserai”.
Ci sforzeremo allora di rispondere a una doppia domanda. Innanzi tutto,
perché la tecnica della liscivia – cioè del lavare – è collegata a questo doppio
passaggio, per il neonato verso il mondo umano, per il morto verso il
mondo dei morti? In secondo luogo, la femme-qui-aide da dove prende le
proprietà particolari di cui deve dare prova nel suo operato, l’invulnerabilità
e l’innocuità? Le basta essere lavandaia?
I grandi lavaggi
Si lavavano i panni due volte l’anno, una volta in primavera, una
volta in autunno, era il tempo dei grandi corredi con gli armadi
pieni; era il cosiddetto bucato che durava almeno tre giorni, una
cerimonia tutta particolare.
“Quando si faceva il bucato, bisognava portar su la tinozza
(generalmente si trovava sotto il capannone) nella camera del forno. La si
posava su un treppiedi; era fatta di legno con bordo in ferro, la stessa
lavorazione di un barile, era come una mezza botte [80 cm di altezza per un
diametro di 1,50 m.] Vicino al fondo, di lato, vi era un foro [il pisciatoio] per
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far scolare la liscivia [l’acqua dei panni lavati], il quale veniva turato con uno
strofinaccio”.
“Il primo giorno si caricava la tinozza, si mettevano per prima cosa dei
rami, delle fascine, qualunque cosa – non troppo comunque perché poteva
macchiare – in modo che la biancheria non andasse sul fondo, e potesse
quindi scolare. Poi si stendeva sopra un grosso telo, si metteva un po’ di
cenere viva, si richiudeva il telo sulla cenere. Si mettevano da parte quante
più ceneri possibili per la liscivia, si prendeva quella che era disponibile,
senza esagerare con la quercia. Dopo, si sistemava la biancheria in strati, gli
strofinacci, le lenzuola ben stese, le camicie (c’era un ordine preciso, la roba
meno sporca sul fondo, quella più sporca di sopra), e un po’ alla volta si
riempiva la tinozza fin sopra in alto”. Di solito la biancheria veniva messa
prima in ammollo, cioè il giorno precedente era stata già pulita una volta. I
panni erano stati bagnati, e strofinate le macchie peggiori, prima di sistemarli
umidi nella tinozza.
Il giorno dopo si faceva “colare la liscivia”: “Si versava dell’acqua sulla
biancheria, si metteva un piccolo mastello davanti al foro, per raccogliere
l’acqua, che colava e colava... Si riprendeva l’acqua che era passata attraverso
la biancheria e la cenere [il ranno] con una casseruola, e la si versava in un
pentolone, quei grandi pentoloni con cui si faceva il fuoco sotto nel camino.
La si faceva scaldare e di nuovo tramite la casseruola s’innaffiava la tinozza.
Si colava la liscivia dapprima lentamente, non troppo calda, tiepida, poi la si
riscaldava sempre più a mano a mano che la si faceva scivolare di sopra; così
il ranno versato dagli ultimi pentoloni era bollente. Bisognava starci appresso
tutta la giornata”.
Le lavandaie intervenivano solo due giorni dopo: “Arrivavano con la
spazzola e la mestola una specie di battipanni. Venivano in comitiva per
fare i grandi lavaggi. Le si prenotava in anticipo, si mettevano al lavoro in
quattro o in cinque. Arrivavano la mattina presto, toglievano la biancheria
dalla tinozza, poi la portavano via nei canestri a due anse con la carriola; e
andavano al lavatoio”.
“Nel lavatoio bisognava insaponare, strofinare, spazzolare, battere i panni
per far uscire la sporcizia. Le vedo sempre, le lavandaie, avvolgevano le
lenzuola a spirale, e dopo le battevano e le battevano. Sciacquavano negli
appositi recipienti, e gettavano del turchinetto sulla biancheria piccola.
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Facevano scolare i panni sui ripiani di pietra. Si aiutavano per strizzare i
panni, perché bisogna essere in due”.
“A volte stendevano sulle siepi attorno al lavatoio, al bucato di primavera
ce n’erano fino al cimitero, oppure portavano i panni a casa loro, ma non
avevano il fil di ferro, li stendevano per terra sull’erba, tirandoli per bene,
oppure sulle siepi del giardino, dietro la casa... Quando la mamma andava a
raccogliere la biancheria la sera, saltavo dentro, mi facevo sgridare... Quando
si ritoglieva la biancheria da sopra le siepi, si vedeva modellata la forma dei
pezzi di ramo a punta nelle lenzuola, perché erano sporche...”.
Nel bucato tradizionale con la cenere si distinguono allora due fasi
successive che contrastano fortemente sul piano della tecnica: la fase della
lisciviatura o colatura – quella che designa propriamente parlando il termine
‘bucato’ – grave, lunga, quasi solenne, individuale, domestica, nella quale
svolge lentamente la sua funzione chimica la cenere; la fase dello
strofinamento e del risciacquo che raduna al lavatoio la comitiva delle
lavandaie, attive, rumorose, allegre.
Della fase della lisciviatura, si tiene a mente di primo acchito la vivida
immagine del flusso pressocché continuo e del lento rivolgimento del ranno,
del gesto infinitamente ripreso dell’annaffiamento della biancheria. Questo
gesto paziente e ripetitivo ci indica quale sia la figura principale
nell’economia tradizionale del lavaggio, ossia il rivolgimento, il circuito. Ne è
testimonianza l’utilizzo a mo’ di catena di montaggio della cenere e la
circolazione del ranno. La cenere viva presa dal focolare, una volta lisciviata
– il ceneraccio – era messa a seccare ed era riutilizzata come ingrasso,
descrivendo così un vasto circuito dove il legno, quello del legnatico,
ritornava alla terra dopo essere passato attraverso il fuoco e l’acqua, e aver
dato calore e sapone agli uomini. Questo circuito poteva assumere una
dimensione sociale allorquando si andava a cercare la cenere al forno del
fornaio. Il prezioso ranno, dopo aver attraversato mille volte la biancheria(si
lisciviava solamente questa), veniva recuperato: si mettevano a bagno i capi
colorati nelle ultime paiolate, e in mezzo alle due operazioni se ne
frapponeva a volte una terza: si capovolgeva la testa delle bambine sotto il
pisciatoio per lavare loro i capelli. Il ranno circolava così tra vicine, “lo si
conservava, lo si donava”.
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Quindi il bucato allacciava tutt’un insieme di rapporti di scambio che
fanno proprio ricordare un altro avvenimento che riguardava la vita
domestica: il sacrificio del maiale. D’altro canto, “a quel tempo, lavare era
tutta una cucina”. La liscivia aveva i suoi aromi: la filza di cipolle d’iride nel
fondo della tinozza, le radici dell’erba cabaret o il meliloto nell’armadio. Per
il colore vi era una serie di flora saponifera o tintoriale: il decotto di foglie di
edera per i pantaloni di velluto, la saponaria per gli indumenti di lana.
Ciascuno aveva dei rimedi e dei trucchi per le macchie: “Mia nonna sfregava
le macchie di grasso dei grembiuli con il sapone e li ficcava nel forno della
cucina, e dopo li lavava”. Solo le nonne più anziane possono ricordare i
grandi lavaggi biennali che venivano intrapresi dalle madri, ma loro stesse
non li hanno mai fatti, loro appartengono al periodo delle lisciviatrici. E il
bucato appare loro come il segno di un’epoca molto dura, almeno per le
lavandaie: “Madre Doucet fu una delle ultime a fare il bucato – fu durante la
prima guerra mondiale –, lo faceva due volte all’anno, aveva tutte le
lenzuola, le camicie, gli stracci sporchi a metà anno, allora le lavandaie non
potevano strofinare perché c’era lo sporco da molto tempo, non si poteva
lavare la roba così sporca! Caspita se non era difficile lavare i colli delle
camicie e i polsini!” La biancheria sporca che ci si sforzava di conservare in
un luogo arieggiato, nel fienile su delle aste, rischiava di rovinarsi, “i topi si
ficcavano dentro, la biancheria anneriva, si bucherellava”.
E quel che ci si domanda oggi nel ricordare tutto ciò è come si poteva
affrontare questo enorme compito, le decine di secchi d’acqua, le dimensioni
dell’armamentario, la stramba idea degli anziani di tesaurizzare la biancheria
sporca, che rendeva il bucato enorme, difficile, e costituiva un’impresa che
per la sua portata sfuggiva totalmente ai ritmi di vita quotidiani. Si tenta di
giustificarlo con delle motivazioni tecniche in associazione con un materiale
tessile, la canapa: “Si indossava solamente della biancheria spessa, delle
grosse camicie di tela di canapa, non le si poteva lavare altrimenti, la tela era
così sozza”; e con un periodo, “il periodo dei grandi corredi con gli armadi
pieni”, la possibilità di conservare della biancheria sporca possedendo, ben
inteso, della biancheria pulita. Ragazze e ragazzi portavano della biancheria
al matrimonio e l’avevano tutta con il proprio monogramma. Ma il corredo
delle ragazze era di molto più importante, quantitativamente parlando, e
soprattutto in quanto emblema. La biancheria sulla quale era indicato con il
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punto a croce rosso il nome di ragazza era il solo posto in cui questo veniva
conservato e si perpetuava dopo il matrimonio, poiché la vecchia tela di
canapa, molto solida, durava più a lungo della macchina per ricami, e la
biancheria ridistribuita ad ogni decesso veniva raccolta con una devozione
alquanto interessata. Oltre che dalla quantità e dalla longevità della
biancheria accumulata si rimane colpiti dal valore commerciale della stessa.
Negli inventari, il contenuto dell’armadio della biancheria ottiene una
migliore valutazione commerciale rispetto all’“armadio in legno di quercia
che si chiude a chiave” che la contiene, e il solo articolo che abbia una
valutazione simile a quella della biancheria è il contenuto della scuderia: 240
franchi per la biancheria, 60 franchi per l’armadio, 225 franchi per due
vacche “di cui l’una col pelo rosso e l’altra col pelo nero” e una giovenca6.
Il bucato parlava quindi la lingua della gerarchia sociale, e la fatica delle
lavandaie nello strofinare le vecchie macchie accumulate nel corso di sei
mesi aveva poca importanza rispetto alla forte componente di prestigio della
propria stirpe rappresentata da un corredo sufficientemente abbondante da
permettere di fare il bucato due volte l’anno. E il grande sfoggio in
primavera e in autunno su varie aree di prato e di siepi era un segno di
benessere, di ricchezza, di virtù femminile per la capacità di tesaurizzazione.
Le famiglie numerose, i piccoli coloni dovevano far girare la biancheria più
velocemente; presso i boscaioli c’era a disposizione così poca biancheria che
le donne si accontentavano di recuperare i resti del ranno al lavatoio.
Tuttavia, né le motivazioni tecniche su esposte, né le argomentazioni
socio-economiche ci sembrano tali da giustificare l’ampiezza del ritmo del
bucato, di questa concentrazione in due momenti dell’anno della
conservazione della biancheria. E non si saprebbero trovare delle vere
risposte sulle profonde risonanze e sui fondamenti di questa organizzazione
tradizionale che pongono il problema di un inserimento del lavoro
domestico nel tempo, come anche del rapporto con la pulizia e con l’acqua.
Altri atti di pulizia rivestivano questa stessa ampiezza nel raggio d’azione: le
pulizie della casa. “Si facevano le grandi pulizie due volte l’anno, una volta
per la festa inizi di giugno, si diceva: “Ecco qua la festa, bisogna lavare le
6
Secondo l’inventario con data 7 aprile 1846, dei beni di Nicolas Renard, fattore.
30
tende, bisogna fare le finestre” e poi una seconda volta prima dell’inverno,
quando erano terminati i lavori nei campi, agli inizi di novembre; del resto le
donne non avevano il tempo di fare le pulizie tutti i giorni...”; e perfino
l’igiene del corpo, poiché si può pensare che anticamente a Minot non si
facesse diversamente dai vicini morvani: “Il morvano, annota gravemente un
istitutore nel 1886, si lava un po’ il viso quando si fa la barba, ma il resto del
corpo non ha mai sentito una goccia d’acqua dalla nascita”7.
Quindi il ritmo del bucato non era isolato. Ancora meglio, il bucato si
trova nella cerniera delle stagioni come il bagno nella cerniera della vita e
della morte, così alla fine ci si pone la domanda: questo morvano non faceva
il bagno forse davvero due volte nella vita, una prima volta alla nascita, una
seconda alla morte? Del fatto che la semplice idea del bagno sia collegata
tanto con la nascita che con la morte è testimonianza la serie di commenti
che accompagnavano i vecchi ai quali, all’arrivo in ospedale, veniva fatto il
bagno e che poi non tornavano più indietro: “È stato il bagno a farlo
morire”, “è morta per il bagno”, come se farsi il bagno volesse dire giocare
con la morte.
Il lavaggio completo, il bagno completo, le pulizie complete vengono
vissuti, e il linguaggio popolare ne è testimonianza, come delle ‘vere
rivoluzioni’. L’espressione può essere compresa nel senso etimologico della
rotazione completa, del ritorno al punto di partenza, rammentando
l’immagine del vasto circuito del ranno. Il bagno, il bucato, le grandi pulizie
riportano così ad una fase di un tempo anteriore, fanno tornare le cose al
punto di partenza, dallo sporco al pulito, dalla morte alla vita. Il tempo, così
rimesso in moto, riparte da zero. Il bucato si integra e s’associa a queste
potenti metamorfosi del calendario, la primavera e l’autunno. Può darsi che
ci sia bisogno che il tempo ritorni sempre alle proprie origini, e il bucato ne
sarebbe la dimostrazione spettacolare, ricco di significato e garante
dell’avvenire – un eterno ritorno.
Lavare non è dunque un atto così prosaico come potrebbe sembrare. Il
lavaggio aveva la sua sequela di proibizioni e di credenze, e il grande bucato
era forse, oltre che una grande pulitura materiale, un grande lavaggio
7 Citato da G. THUILLIER, “Per una storia regionale dell’acqua: nel Nivernais nel XIX
secolo”, Annales, ESC, gennaio-febbraio 1968, 23 (1): 52.
31
generale e simbolico degli spiriti, delle anime, delle stagioni, il cui posto nel
calendario non è arbitrario.
“Colare”
Lo dicevo a mia nuora molto tempo fa, non bisogna lavare da
Natale a Capodanno, e lei mi diceva che nel suo villaggio era
durante la Settimana Santa. Mamma mia ci faceva attenzione,
sembra che ciò portasse sventura. La sento ancora, perfino quand’ero
sposata, veniva delle volte da me e mi diceva: “Ah beh, vuoi dunque
che io muoia nell’anno!” Sì, era proprio arrivata a questo punto, e
poi le dicevo: “Beh, mah... questa è proprio stupidità!” Io non sono
superstiziosa, ma lei, lei non si sarebbe lavata.
Esistono dappertutto dei divieti di lavaggio in certi periodi dell’anno: il
bucato è allora controindicato, ne andrebbe della vita della lavandaia – ella
laverebbe il suo sudario – o della vita di colui al quale lava la biancheria;
oppure tormenterebbe le anime del purgatorio”8. Questi periodi pericolosi
variano di paese in paese, ma se li si censisce si ritrovano, formando una
serie, l’Avvento, il periodo che va da Natale a Capodanno, la Settimana
Santa, l’Ottava dei morti. Orbene, i periodi in cui si presume che circolino
sulla terra le anime dei morti risultano essere gli stessi9.
Da un consistente numero di costumi funerari si rileva che le anime
vogliono essere lavate10, e ricordiamoci della cura con cui a Minot la femme8
P. Sébillot, Leggende e curiosità dei mestieri, Parigi, Flammarion, cap.: “Lavandaie e tintore”:
8.
9 Cfr. A. Varagnac, Civiltà tradizionali e generi di vita, Parigi, Albin Michel, 1948; A. Van
Gennep, Manuale del folclore francese contemporaneo, t. 1, vol. II: Dalla culla alla tomba (fine).
Matrimonio. Funerali, Parigi, Ed. A. e J. Picard, 1946; cf. in particolare il cap. V: “I funerali”.
10 Infatti, il primo movimento dell’anima nell’uscire dal corpo è cercare di lavarsi. Ne è
testimonianza l’uso, sconosciuto oggi a Minot ma attestato in precedenza nella Costa d’Oro,
del secchio dell’acqua: si svuotano o si coprono tutti i secchi d’acqua della casa perché si teme
che l’anima ivi precipitandosi per lavarsi possa affogare; cfr. A. Van Gennep, Il folclore della
Borgogna (Costa d’ Oro), Gap, impr. Louis Jean, 1934: 59. O, al contrario, si lascia un secchio
32
qui-aide, tramite un mastello d’acqua, lava il morto e dispone della biancheria
tutt’intorno al defunto (il sudario, i centrini sul comodino...), tutta roba
bianca che ha lo scopo di aiutare l’anima a ‘lavarsi’, a liberarsi dai suoi
peccati. Si può allora sostenere che il nero, quello utilizzato nel lutto,
indossato dai parenti, abbia la funzione di cacciatoio, e che sia proprio la
scacchiera della vita e della morte ad essere messa in atto dalla femme-qui-aide,
con i morti che cercano d’appropriarsi dei pezzi bianchi ed i vivi che si
proteggono con l’ausilio dei pezzi neri.
Le anime dei morti cercano di lavarsi, se esiste il divieto di lavare nei
periodi in cui costoro vanno in giro, ciò vuol dire che, essendo attirate dal
bucato che lava, si precipiterebbero nella tinozza che funge da purgatorio –
si dice che sarebbero tormentate –, ma allo stesso tempo, mischiandosi alla
biancheria dei vivi, li trascinerebbero nella morte. In Bretagna,
l’equiparazione del bucato al purgatorio è esplicita: “I grandi lavaggi
risultavano essere un lavoro importante per le donne. Come tutti i compiti
seri duravano tre giorni che corrispondevano, nell’ordine, al Purgatorio il
giorno del lavaggio, all’Inferno e al Paradiso”11. Del purgatorio la tinozza
offre l’immagine materiale: il grande tino, enorme, panciuto, dove si svolge
la grande operazione di chimica purificatrice; e il sacchetto con la cenere
definito come ‘carreggiatore’, dal greco cathara che significa purificazione o
anche espiazione.
Ma in quel che fa al morto la femme-qui-aide vi è qualcosa di più, perché,
ricordiamoci, lei butta via con cura l’acqua che è servita a lavarlo, gettando
così letteralmente il morto con la stessa acqua fuori per la strada, volendo
indicargli e indirizzargli l’uscita. Conviene infatti guardarsi da due pericoli:
che l’anima del morto non resti imprigionata nella stanza, ma anche che non
scappi da una qualunque uscita. È per questo che la femme-qui-aide tappa tutti
i buchi, proibisce qualunque attività domestica nella casa, dato che un
qualsiasi trambusto può distogliere l’anima dal suo percorso; infine copre lo
specchio e il televisore che, rievocando la superficie dell’acqua, la attirano
d’acqua vicino al morto con lo scopo di far fare il bagno all’anima per liberarsi dalle ultime
lordure prima di presentarsi davanti a Dio; cfr. D. Dergny, Usi, costumi e credenze o Libro delle
cose curiose, I, Le Portulan, 1885: 34 sq.
11 P.-J. Hélias, Il cavallo dell’orgoglio. Memorie di un bretone del paese dei bigouden, Parigi, Plon,
1975: 14 (“Terra umana”).
33
fungendo da trappola per le anime. Ciò avviene perché l’uscita del morto
deve essere effettuata tramite l’acqua, e l’acqua è proprio il mezzo per farlo
uscire.
Oltre ad un certo simbolismo cristiano della purificazione, il lavaggio
offre quindi l’immagine del passaggio dalla vita alla morte, passaggio del
quale l’acqua costituirebbe il mezzo, e l’immagine, come vedremo, ricopre
un doppio significato: far passare dalla vita alla morte, ma anche far venire al
mondo come se il bambino dovesse passare anche lui tramite l’acqua – “I
bambini arrivano come l’acqua”, dice la Vecchia a Yerma, la donna sterile12.
Di questo doppio passaggio la lavandaia sarebbe la guida. Nei Vosgi, infatti,
è pericoloso fare il lavaggio in una casa abitata da una donna incinta, a meno
che non si prenda la precauzione di trasportare fuori la tinozza non appena
si sia ritirata la biancheria, poiché il parto può essere ritardato per un tempo
corrispondente a quello in cui nella casa rimane vuota la tinozza.
Simmetricamente, nell’Alta Bretagna, “i malati di una casa dove si fa il
bucato sono esposti alla morte”13. Far colare la liscivia vicino a una donna
incinta significa dunque affrettarle il parto, come del resto far colare la stessa
liscivia vicino a un malato vuol dire affrettargli la morte. A Minot, una delle
immagini impiegate per indicare che un bambino è appena nato è questa: “il
bambino è colato”, è passato, è nato.
Lavare sembra essere quindi, almeno nell’immagine tecnica riguardante la
fase del colare, un atto pregno di efficacia simbolica, in funzione di due
grandi passaggi: bucato psicopompo segnalato a Minot con il divieto di
lavare rimandato nel passato e definito superstizione; e, per quel che
riguarda la nascita, il semplice uso del termine ‘colare’ per indicare il
passaggio. Ma l’acqua come elemento materiale del Destino e le donne che
frequentano i lavatoi come coloro che presiedono a questo Destino, sono in
questo paese delle rappresentazioni più forti, più percepibili, legate alla
seconda fase del lavaggio, quella del risciacquo, iscritte nei luoghi stessi, al
lavatoio, alla fontana.
12
13
F. G. Lorca, Teatro II, Parigi, Gallimard, 1953: 163.
P. Sébillot, Leggende e curiosità..., op. cit.: 11.
34
Al lavatoio
Sono dei “lavatoi con bordi ad altezza delle ginocchia” quelli utilizzati a
Minot, e la casa-lavatoio serve da riparo a una società di donne che si
riuniscono presso l’acqua, dove regna uno spirito di chiesa e di clan.
Insaponare e risciacquare al lavatoio non erano atti legati esclusivamente
al ritmo dei grandi bucati. Vi erano degli insaponamenti settimanali o
addirittura quotidiani per le donne che avevano dei bambini piccoli, per
quelle che avevano pochi vestiti e molti bambini, per le lavandaie di
professione che lavavano i panni delle grandi casate, degli alberghi, del
notaio: “Madre Carre, madre Bastien, andavano tutti i giorni alla fontana per
le altre”14. Anzi, si è continuato ad utilizzare il lavatoio per molto tempo
dopo la scomparsa dei grandi bucati: con la lisciviatrice di lamiera zincata,
“bisognava andare a sciacquare ugualmente nel lavatoio”, solamente la
liscivia assume una cadenza mensile, e in seguito, per le due ultime
generazioni, settimanale.
Al lavatoio si disegna tutta una gerarchia, un’etica, degli usi, un circuito di
scambio, un linguaggio; si notano figure di grandi lavandaie, dalla lingua
sciolta, delle specie di regine, delle viragini dei lavatoi. “Il lunedì ci si
ritrovava lì tutte. Alcune avevano il posto riservato, a madre Carre non
bisognava prenderle il posto si tratta di una lavandaia di professione, lei
aveva il posto migliore, vicino allo sciacquatoio. A volte non c’era più posto,
allora bisognava aspettare. Ciascuna aveva la mestola [per battere] e la
carrozza [scatola] personali: “Madre Carre aveva un cuscino di piume, non
bisognava prenderglielo... Ci si passava l’acqua bollente, il ranno, quando ne
rimaneva a qualcuna lo si scambiava... soprattutto alle donne che avevano
molti bambini, molte calze da lavare, che non avevano molto sapone, come
le mogli dei boscaioli, si passava l’acqua bollente quando ne rimaneva”.
Il lavatoio è soprattutto, nello spazio del villaggio, l’unico luogo in cui si
teneva regolarmente un’assemblea di donne, l’equivalente femminile delle
riunioni nei bar degli uomini. Così come avviene nel bar le donne vi si
14 Aggiungiamo che i lavatoi coperti sono relativamente recenti – a partire dalla seconda
metà del XIX secolo – e si sono a lungo scambiati nello stesso punto la sorgente, la fontana,
il lavatoio e l’abbeveratoio. La lingua ha ricordato in parte questa indifferenziazione poiché si
dice che si va a lavare alla fontana piuttosto che al lavatoio.
35
ritrovano. Lì si beve: “Ci si faceva portare dei grog per le quattro, d’inverno,
per riscaldarsi”. Si litiga, si discute il giorno dopo le elezioni: “Si andava
avanti piuttosto animatamente, ci si lanciava delle frecciate”. Soprattutto ci si
parla, e il lavatoio fa da cassa di risonanza dove circolano allo stesso tempo
tanto le parole che il ranno: “Ah, le lavandaie, stavano a chiacchierare e
chiacchierare!”
Di che cosa parlano allora le lavandaie? Di tutta la vita intima del
villaggio che si legge nella biancheria. Hanno una lingua biforcuta. La
biancheria sulla quale s’imprimono tutte le sozzure del corpo si riferisce ad
un linguaggio che riguarda i costumi, l’intimità, nei vari momenti del
mantenimento, dalla scelta all’asciugatura, e le lavandaie hanno quell’occhio
da censori dei costumi cui rimanda il pettegolezzo: “Mi ricordo delle dicerie
del paese... Nel paese la biancheria la si stendeva, mi ricordo che le donne
riuscivano a capire come niente quando una era incinta, era una specialità. I
mesi in cui non vedevano la biancheria dicevano: “Oh! Ci siamo! Può farlo!”
Tutto il paese era così... Insomma io mi mettevo degli stracci sopra, facevo
in modo che non si notasse nulla...”15.
Gli uomini sono esclusi in blocco dal lavatoio. A Minot vi fanno
allusione in modo salace – “È che con le mestole quello che avrebbe voluto
andare a solleticare le lavandaie... pam! pam!”, – ed è stato appurato nel
folclore che esiste una certa aggressione verbale ed anche gestuale fra le
lavandaie e i passanti: “Un tempo i ragazzi, in molti paesi, si mettevano a
guardare le lavandaie e a designarle con il dito, quasi come se stessero a
contarle; questo gesto le rendeva particolarmente furiose e in risposta i
ragazzi ricevevano una bordata di improperi. Stessa sorte era riservata a colui
15 Si pensi ai commenti della grande Clémence nella lavanderia di Gervasia nel momento
della cernita della biancheria: “Allora, a ciascun pezzo questa grande birbona diceva parole
sconvenienti e volgarità; mostrava le meschinità dei clienti, le avventure nelle alcove, diceva
battute da caserma su tutti i buchi e tutte le macchie che le passavano per le mani (...) Mme
Putois si mordeva le labbra, trovava che fosse stupido dire queste cose davanti a Coupeau: un
uomo non ha bisogno di vedere la biancheria; son cose che non si spiattellano fra gente come si deve
(...) Nel negozio ad ogni cernita si svestiva così tutto il quartiere della Goutte-d’Or”.
(Sottolineato da noi). (Emile Zola, L’Assommoir, Parigi, Fasquelle: 161; “Le Livre de Poche”).
36
il quale poneva loro una domanda a doppio senso: “L’avete bianco?”16
Quando avevano esaurito tutta la sfilza di insulti attivi e passivi, non
[restava] loro che ricorrere a un fatto estremo, cioè mostrare, tirandolo su, il
sedere alla parte avversa”17.
Questa forma di esibizionismo, questo linguaggio sboccato rivolto a
quelli che si avvicinano troppo mettono in risalto il carattere corporativo del
gruppo delle lavandaie e il valore sociale come il carattere pericoloso della
loro attività, nella misura in cui l’insulto sboccato fungerebbe da qualità
protettrice e persino catartica, eliminazione verbale della sporcizia
rappresentata dalla biancheria che la lavandaia ha il compito di lavare.
Comunque sia, le lavandaie appaiono, nell’insieme, donne forti, in gamba e
sfacciate.
Gaisser
Che fanno le lavandaie al lavatoio? Battono, sciacquano, strizzano i
panni... Soprattutto per il risciacquo c’è bisogno dell’acqua corrente. Questa
operazione viene definita a Minot con un termine particolare: gaisser. Si
diceva: “Vai alla fontana, bisogna gaisser i panni”. Gaisser vuol dire buttare un
panno nell’acqua, farlo espandere, galleggiare, e dopo raccoglierlo. Ora,
questo gesto è uguale a quello della divinazione nelle fontane, dove l’oracolo
si interpreta per mezzo di un panno bagnato: se galleggia, la persona per la
quale si fa il consulto guarisce; se affonda la persona muore. I panni che
galleggiano servono essenzialmente per interrogare la fontana sul destino dei
neonati (si prende la fascia), sulla sorte dei malati (si prende la camicia)18.
Il termine ha anche un impiego più ristretto, più locale, poiché designa
un gesto d’offerta che si compiva ancora agli inizi del secolo, tutti gli anni
alla Candelora, alla sorgente della Coquille, una belle fonte risorgiva che
nasce in un vallone sul territorio di Etalante, un villaggio contiguo a Minot
16 Invece di lavate bianco? Nota che in francese è: “L’avez-vous blanc?” invece di “lavez-vous
blanc?” (N.d.T.).
17 P. Sébillot, Leggende e curiosità..., op. cit.: 2 – 3.
18 Cfr. P. Sébillot, Il folclore della Francia. II: Il mare e le acque dolci, Parigi, Guilmoto, 1905.
37
attraverso i boschi: “Gaisser alla Coquille voleva dire gettare la brioche nella
fonte. In questa fonte viveva un biscione (la fata Greg) che mangiava i
bambini. Un giorno che doveva divorare i bambini del castellano, il
domestico bagnò i bambini nell’acqua benedetta prima di consegnarli. La
fata quindi non li mangiò, e dopo di allora le si dona una brioche..., si gaisse”.
Gaisser, quindi, significa instaurare un dialogo, facendo qualche cerchio
nell’acqua, con coloro che vi abitano, fate o biscioni poiché in questo paese
le acque sono abitate.
Un certo numero di personaggi femminili fantastici dalle varie
denominazioni, fate, biscioni, dame, lavandaie notturne – benefiche o
malefiche – abitano le sorgenti, le fontane, i pozzi, le grotte di questo
tavolato calcareo di Langres – un autentico colabrodo, dicono i geografi –,
dove i fiumi sono fuggenti e le fonti risorgive. Ci troviamo sull’antico
territorio dei Lingoni. Secondo certe fonti sono state ritrovate delle statue di
fattura romana accompagnate da scritte latine: matres o matronae che
rappresentano le dee-madri lingoni19. Padrone del Destino, è uno strano
ruolo di traghettatrici che è stato loro attribuito; costoro presiedevano alla
nascita e, “dopo aver protetto gli uomini durante la vita terrestre, li
aiutavano a passare nell’altro mondo”. Ed è proprio nell’acqua che li
trascinavano per far compiere loro l’ultimo viaggio20. Tali apparivano le
rappresentazioni più antiche che erano associate all’acqua nella regione,
inserite nella topografia e collegate a divinità materne che presiedevano ai
due grandi passaggi.
Eredi di queste dee-madri, le abitanti fantastiche delle sorgenti e delle
fontane sembrano aver perso totalmente la loro ambiguità, poiché le
troviamo o confinate nel loro carattere funesto, come le fate che
frequentano la Fontana delle Dame ad est di Langres: “Non andateci la sera,
durante le notti placide, sennò state attente. Ci sono tre dame della fontana,
tre pallide lavandaie notturne gementi. In ginocchio, senza voltare la testa e
senza sollevare lo sguardo, queste qui strofinano, attorcono e svolgono
19 Cfr. G. Drioux, Culti indigeni dei lingoni; saggio sulle tradizioni religiose di una città gallo-romana
prima del trionfo del cristianesimo, Parigi, Picard-Langres, Impr. Champenoise, 1934.
20 Marcelle Richard, Mitologia del paese di Langres, Parigi, Ed. A. e J. Picard, 1970: 72. Cfr.
anche p. 87.
38
sempre la stessa stoffa bianca che si direbbe essere un sudario... Non
bisogna parlarci... Ce n’è una che sta a’ piagne sul tempo passato, l’atra
sull’osci e l’atra su crai (una piange sui giorni passati, l’altra sul giorno d’oggi
e la terza sui giorni futuri nota che si esprimono in dialetto21.
Oppure hanno conservato solo il carattere protettivo e benefico, come
quando si dedica la fontana alla Vergine, a Chatillon, essendo la Vergine la
Dama Buona “Colei che è la dois, la péchine – Colei che tutto cura e
monda”22.
Qui le lavandaie notturne, le dame della fontana personificano il Destino;
là la Dama Buona pulisce e purifica come se il destino si svolgesse alla
fontana, lavando. La lavandaia che gaisse alla fontana sarebbe dunque in
qualche modo al posto giusto per leggere il destino di colui al quale sciacqua
i panni (essendo l’acqua la materia stessa di questo destino), al posto giusto
anche, in ginocchio sulla carrozza (lo stesso equipaggiamento delle fate), per
comunicare con queste madri, o con le fate celate nel fondo dell’acqua.
A Minot, nessuna fontana è in particolare latrice di leggende, né è
nominatamente legata ad una di queste abitanti prestigiose o terribili;
nessuna possiede una vocazione oracolare riconosciuta, ma vi è una
diffidenza generale nei riguardi dell’acqua (quella risorgiva, del fiume, dei
pozzi, delle cisterne, delle fontane e delle fonti campestri), e le acque sono
abitate.
Tutti gli anni nel periodo delle Rogazioni il curato conduceva una
processione ai pozzi e alle fontane del villaggio; benediceva e salava l’acqua;
ci spiega il rito: “L’acqua è il riparo del demonio”.
Le acque profonde sono associate all’idea di una mangiabambini
acquatica: la madre Gaillon. Costei abita soprattutto i pozzi e le cisterne, e
tira i bambini imprudenti dalla punta del naso: “Quando andavamo verso le
cisterne ci dicevano: “Se t’avvicini c’è madre Gaillon che ti tira”. Ancora
oggi io lo dico a mia figlia”. Fra lei e le donne che, dal lato umano,
frequentano i lavatoi vi è questa radice comune: ga, lo “stagno”, donde
Ibidem: 92.
Citato da P. Lebel, Principi e metodi d’idronimia francese, Parigi, Les Belles Lettres, 1956:
158 (“ Pubblicazioni dell’Università di Digione” XIII). Bisogna capire così: “Che è la Douix”,
nome dato alle fonti perenni nello Chatillonais; la “piscine” “Colei che tutto cura”, nel senso
di pulire in profondità; e “monda”, nel senso di pulire, togliere le impurità.
21
22
39
deriva il nome Gaillon e il verbo gaisser23; fra di lei e quelle che si ritrovano ad
essere femmes-qui-aident vi è questo appellativo comune, madre: “era madre
Carre, era madre Daniel qui aidaient, buone madri che da quel lato dello
specchio dell’acqua tirano i bambini che le ‘altre’ madri vorrebbero
riprendere.
Socrate diceva che le levatrici, imprendendo il mestiere di far generare
le altre, abbandonano loro stesse il mestiere di generare; ch’egli anche,
per la qualifica di levatore che gli dei gli hanno conferito, si è
sbarazzato, nel suo amore virile e mentale, della facoltà di partorire
e si accontenta di aiutare e assistere i generanti, aprire la loro
natura, lubrificare i condotti, facilitare l’esito del parto, giudicarlo,
battezzare, nutrire, fortificare, fasciare e circoncidere: esercitando e
adoperando il suo spirito sui pericoli e i vantaggi degli altri.
MONTAIGNE, Saggi, Libro secondo, cap. XII.
La madre di Socrate era levatrice, e si sa che Socrate, prestando alle
levatrici l’immagine tecnica della maieutica, diceva di far partorire lo spirito
dei loro pensieri. Il termine maia, che designa la levatrice in greco, significava
originariamente nonna24. Or dunque, l’appellativo di “madre” che riceve la
femme-qui-aide a Minot si applica solo alle donne che abbiano concluso il ciclo
biologico, che sono in effetti nonne, hanno passato la menopausa, non
possono più generare, ed hanno terminato di allevare i propri figli. D’altro
canto, essere chiamata “madre” è un segno di forte individualizzazione, sia
nel bene che nel male, e definisce molto spesso un ruolo.
Una ragazza, una giovane donna, non possono essere femmes-qui-aident e
questo si concilia con la vulnerabilità del loro corpo instabile, sottomesso ai
turbamenti amorosi e alle alternanze tumultuose del sangue, alle variazioni
delle mestruazioni e della gravidanza. Si sa quanto è grande la vulnerabilità
all’acqua di una donna che ha le mestruazioni, vulnerabilità che è forse solo
23 Cfr. Clément-Janin, Soprannomi delle città e villaggi della Costa d’Oro. 4*parte: Arrondissement
di Chatillon, Digione, impr. Manière-Loquin, 1878: 30-31. Sono da avvicinare a ga anche i
termini gouillat: pozzanghera d’acqua fangosa, e gargouiller: sguazzare nell’acqua.
24 Cfr. Grande Dizionario universale del XIX secolo, t. 14, art. “sage-femme” (levatrice).
40
l’opposto dell’idea secondo cui lei sporcherebbe l’acqua; tali sono,
comunque, gli effetti provocati da una donna che ha appena partorito:
“fintanto che la cerimonia della purificazione della puerpera non è terminata,
la donna è esposta ed espone gli altri a numerosi inconvenienti (...) In
Francia vi è la credenza secondo la quale la puerpera che si rechi da una balia
le farà prosciugare il latte, e la sua entrata impedirà ai panni di lavarsi, inoltre
fa inacidire il vino, e si crede altresì che l’acqua dei pozzi e delle fontane da
dove attinge diventi torbida e si muti in sangue”25. Non si potrebbero
enumerare meglio tutti gli elementi negativi con cui la femme-qui-aide è in
contatto nel momento del suo operare: il latte (ricordiamoci del suo ruolo:
“Allatto il bambino”), i panni, l’acqua.
Il raggiungimento di questa stabilità corporale ci appare, al termine del
lungo cammino per circoscrivere i caratteri della femme-qui-aide, la condizione
preliminare per l’esercizio della sua funzione: invulnerabile e inoffensiva per
manipolare i morti e i neonati. Di questa stabilità l’appellativo di ‘madre’ è
una testimonianza.
Infine, l’età permette alle donne una libertà di movimento che non è
concessa alle giovani donne: le giovani che vanno in giro molto – troppo – al
di fuori del circuito ben circoscritto del parentado o del vicinato più
immediato, ‘battono’ e sono presto classificate come ‘prostitute’. Mai si
direbbe una cosa del genere a proposito di una donna di mezza età. La
femme-qui-aide deve andare dappertutto e da tutti; questa libertà di movimento,
questa disponibilità concordano dal punto di vista sociale con la pratica del
mestiere di lavandaia. Le lavandaie appartengono infatti all’ambiente delle
‘lavoratrici saltuarie’ e si muovono come quelli che lavorano ‘a giornata’.
Oltre al lavaggio, fanno il fieno, i raccolti, zappano le barbabietole,
raccolgono le patate, raccolgono il luppolo; sanno fare di tutto, e fanno un po’
di tutto, passano tutto l’anno da una tecnica di lavoro all’altra, da una fattoria
all’altra.
La loro disponibilità e mobilità è tipica delle braccianti, al contrario delle
fattore: “una volta, le donne di cultura dovevano restare a mungere le
vacche... La moglie di un boscaiolo, la moglie di un muratore o di un
25 P. Sébillot, Il paganesimo contemporaneo presso i popoli celto-latini, Parigi, Doin, 1908: 31
(“Enciclopedia scientifica”).
41
bracciante era libera”. Questa è la libertà anche delle donne che tramite il
lavoro “fanno i soldi” ed hanno una certa indipendenza economica. I loro
mariti sono piuttosto modesti. Padre Daniel sembrava molto scialbo, un
piccolo cantoniere che tutte le mattine se ne andava per la strada principale
con la gavetta; “in tutta la vita non ha mangiato neanche dieci volte a casa”,
racconta la figlia, mentre la moglie è onnipresente al villaggio. Quanto ai
mariti di madre Carre si vedrà chi sono.
Al sicuro di una proprietà del corpo, c’è dunque l’incontro fra la
lavandaia e la femme-qui-aide, che ci mostra il legame fra una tecnica – lavare –
, un ruolo mediatore – assistere – e una fase della vita biologica femminile –
la menopausa. Incontro non fortuito perché già implicito nei gesti, nelle
parole, nei luoghi, essi stessi ombre di una sacralità che i miti e i riti avevano
relegato in fondo ai pozzi. In questo contesto, sembra che a Minot si instauri
forse più in certi esseri l’alleanza fra acqua, nascita e morte che non nelle
credenze e nelle cerimonie regolamentate.
Lavandaia, quindi, madre, disponibile, tale ci appare con la sequela
d’attributi la figura ideale della femme-qui-aide, unica poi, perché si dice che
ciascun villaggio avesse la sua. Ora, agli inizi del secolo, tale personaggio si
sdoppia; infatti sono due le donne che, simultaneamente, assistono a Minot,
due lavandaie, due madri la cui presenza si accavalla a lungo, circoscrivendo
il tempo della vita entro due acque, da un lato madre Daniel, dall’altro madre
Carre.
Di madre Daniel e di madre Carre ci dicono innanzitutto: “A tutt’e due le
donne non faceva per niente effetto di andare a vestire i morti, e ad andare
dalle partorienti”. Tutt’e due ‘sapevano fare di tutto’; le loro attività, sebbene
molto diverse – cumulano i vari servizi –, sono pressocché dello stesso tipo.
Madre Daniel cucinava nei matrimoni, madre Carre di meno, “lei
preferiva piuttosto fare i piatti”; madre Daniel raccoglieva il fieno e mieteva,
madre Carre raccoglieva il luppolo e zappava le barbabietole. Tutt’e due
lavorano duramente, sono continuamente indaffarate lontano, a destra e a
manca, da uno o da un altro, e hanno quel vantaggio di muoversi che è
proprio della femme-qui-aide, come pure la preoccupazione di rendersi utili:
madre Daniel, “non c’è casa al villaggio dove lei non abbia fatto favori”;
madre Carre, “Ah! Era molto servizievole”. Tutt’e due sono nonne che
allevano i nipotini: madre Daniel fa da balia ai figli della figlia maggiore, la
42
sarta di Parigi, (dalla nascita all’età di cinque anni), la chiamano ‘mamma
Daniel’; ospita anche i bambini delle fattorie delle frazioni, troppo lontani
dalla scuola per andare e tornare tutti i giorni. Anche madre Carre alleva i
bambini delle figlie emigrate in città, prende in custodia dei bambini degli
orfanotrofi. A tutt’e due vengono riconosciute le due grandi qualità
necessarie al compito di femme-qui-aide: abilità e ubiquità.
Ma qui finiscono le somiglianze, poiché al di fuori di questa appartenenza
comune all’ambiente del bracciantato, di questa onniscienza, di questo savoir
faire riconosciuto, tutto le distingue, ed esse esprimono e manifestano tutta
l’ambiguità del ruolo, come se la funzione non potesse essere neutrale e non
potesse che precipitare da un lato verso la fata buona o dall’altro verso quella
cattiva. E l’una ha effettivamente tutto della Dama Buona, l’altra qualcosa
della strega; ed è così che dicono: “Madre Carre era un po’ una strega”.
Madre Daniel sembra avere l’aureola per tutte le virtù femminili che
possiede. È buona, è una lavoratrice, è dedita ai compiti da svolgere; ed
inoltre è allegra. Ha una reputazione senza macchia: “Oh! Era amata da tutti,
ahimè! Quanto si è pianto quando è morta...”. Abile, intelligente, discreta nel
modo di fare i favori, e fin troppo buona, come la figlia Margherita, che sarà la
femme-qui-aide dopo di lei e dirigerà l’albergo: “Era troppo buona, tutti
mangiavano e dormivano nell’albergo senza pagare, e c’era perfino chi
attingeva alla cassa...”. Madre Daniel appartiene ad una delle più antiche
famiglie del villaggio, ha un albero genealogico fra i più lunghi e i più vasti, è
apparentata con metà del paese. A ben guardare, ci si accorge che un gran
parte della clientela appartiene a questa rete: è presso i cugini lontani, che
abitano in due grandi fattorie nelle frazioni, che va a fare i grandi bucati, a
cucinare il giorno delle nozze, che si occupa dei neonati e dei morti. Con
padre Daniel, il marito cantoniere, la coppia fa da cerniera fra i boscaioli e i
coloni. Il suo sapere, che verrà trasmesso alla figlia, si tinge a partire dagli
inizi del secolo di igienismo, aperto al ‘progresso’, contro le ‘superstizioni’.
Salva il nipote che stava per morire di diarrea facendo sterilizzare il latte:
“Hanno fatto dei buchi in una pentola per mettere le bottiglie, e poi hanno
fatto bollire il tutto; nel giro di tre giorni il bambino si è salvato. Gli è stato
tolto il male come se qualcuno glielo avesse tolto con la mano. È stato un
miracolo”. L’abitudine di dare il latte di mucca sterilizzato si è diffusa nel
villaggio...
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Di primo acchito madre Carre sembra avere un sapere
contemporaneamente più sicuro, più personale e più torbido. Ricordano
purtroppo in maniera abbastanza confusa: “Era generosa in ricette da bonne
femme, aveva qualche piccola ricetta che ci regalava; per la diarrea mi aveva
detto di raccogliere il grattaculo (frutto della rosa di macchia) e di farne
un’infusione; conosceva le piante. [Di madre Daniel ci dicono: Le piante, ah
no, non era la sua specialità...!] Faceva dei cataplasmi con gli escrementi di
piccione e metteva delle ragnatele sulle ferite per arrestare le emorragie”.
Conosceva delle ‘pratiche magiche’ per aiutare a partorire e si vantava di
essere capace di far partorire “meglio delle levatrici” – esattamente il
contrario della discrezione riscontrata a questo proposito in madre Daniel e
in Margherita –, “diceva che non bisognava lasciare un moribondo su un
cuscino di piuma, perché le piume di piccione impediscono di morire”.
Chiacchierona e indiscreta – “Oh! madre Carre aveva un battipanni sacro,
aveva la mestola con tutto il suo repertorio” –, è lei che ha il posto migliore
al lavatoio, vicino allo sciacquatoio, e che lascia regalmente il cuscino nella
carrozza, sgrida le donne che glielo prendono. La temono: “Era dura,
cattiva, aveva una lingua biforcuta...”. Al contrario di madre Daniel, che ha
solide origini nel posto, lei non è del villaggio, appare un giorno dopo aver
trascorso metà della vita a Digione: “Faceva parte dell’ente assistenziale per
gli orfani, aveva trascorso la giovinezza in città, aveva avuto due figlie da
ragazza, sembra che avesse una lavanderia, che lavava a Digione per allevare
le figlie, aveva sposato Carre, e dopo aveva ‘assunto’ Perrot, un bracciante di
Minot”. Il trio con le due figlie viene a stabilirsi a Minot nel 1906. E
aggiungono: “Vi dico chi era madre Carre, era una ex prostituta di Digione,
una mezzana, una vecchia maitresse... A Minot si era messa a fare la
lavandaia, a lavorare alla giornata”. Un anno dopo il suo arrivo, padre Carre
s’impicca. Raccontano: “Lei reggeva la corda, è lei che l’ha impiccato...”. Si
mette allora assieme al suo bracciante; le due figlie Maria e Maddalena
sposeranno i due figli del suo uomo! Un albero genealogico, una rete di
alleanze la più stretta possibile!... Ugualmente forte nel lavoro come madre
Daniel, non le viene riconosciuta l’onestà, ha tutti i difetti delle donne che
vanno troppo in giro: “Compiva dei furti, rubava dei panni mentre lavava,
beveva...”. I suoi clienti erano gente povera del villaggio, famiglie di
boscaioli, manovali, parenti poveri, spesso faceva da madrina per i loro figli.
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Ma non bisogna sbagliarsi, non c’è alcun intento morale in questa
raffigurazione; il tutto viene raccontato con grande spasso, e come madre
Daniel anche madre Carre si impone con autorità, è rispettata, l’unica cosa è
che è temuta...
Questa donna muore a Minot nel 1957, a più di ottanta anni; sparisce
allora un giorno così come è arrivata, non lasciando niente di sé al villaggio
(le figlie e i generi sono emigrati altrove), portando via i suoi ‘segreti di bonne
femme’, le sue ‘pratiche’, lasciando solo il ricordo di questa “donna tarchiata
con le maniche rimboccate”: “Oh, sì che lavava quella! Era sempre vicino
alle fontane. È forse l’ultima vera lavandaia ad essere morta, madre Carre”.
Grande virago dei lavatoi, incarnazione di quella madre Gaillon immaginaria.
Al contrario, è la continuità che segnerà il destino di madre Daniel, ed è
storico il contrasto fra le due donne nel senso in cui l’intende Michelet – da
un lato la magia, dall’altro la scienza –, contrasto che si risolve in un ultimo
confronto, l’una tornando solitaria nella notte dei tempi, l’altra seguendo la
scia dei “tempi moderni”.
Il sapere di madre Daniel, che sostiene l’igiene contro la superstizione, fa di
lei una fata piuttosto infermiera; ed è trasmesso a due delle figlie: l’una sarà femmequi-aide in un villaggio vicino; l’altra, Margherita, l’unica ‘bonne mère’ di questi
ultimi anni a Minot, sta a sua volta trasmettendo il suo ruolo ad una nipote
acquisita, Marcella che, in mancanza di bambini, fa soprattutto le iniezioni (sua
figlia non vuole continuare la sua attività, ha paura dei morti). Il lavoro
deliberatamente duro e onesto di madre Daniel ha uno scopo: le figlie non
saranno braccianti agricole – “Aveva da lavorare molto; allora da noi non sono
mai state custodite le vacche, né dalle mie sorelle, né da me, e allora era un
favore, riusciva a sbrogliarsela, e poi papà, padre Daniel, aveva lo stesso la sua
paga da cantoniere”. Le figlie faranno le sarte o prenderanno un’attività, faranno
dei buoni matrimoni. Il suo pronipote è oggi sindaco del paese.
Ultimo confronto quindi, poiché i termini stessi del dialogo con l’acqua
sono stati oggi aboliti in nome dello stesso ‘progresso’. Si adegua il villaggio:
la Girarde, la fontana del centro del villaggio, è stata trasformata in toilettes
pubbliche e pensilina per autobus; si parla di colmare lo stagno per fare un
parcheggio.
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“La sapienza di Dio si ritrova nelle vecchie
donne”.
La levatrice. I demoni della nascita e
i piccoli pani dei morti*
di Isabelle de Runz
“Un tempo, erano gli uomini che mettevano al mondo. Un giorno,
un uomo salì su un pero per partorire, ma una vecchia se ne accorse,
corse velocemente sotto l’albero e tese il grembiale per acchiappare il
bambino. Dio vide tutto ciò e disse alla vecchia: ‘poiché hai avuto
paura che il bambino morisse, oramai, sarete voi, le donne, che
partorirete’. Così da allora le donne mettono al mondo”.
Ai giovani la forza,
Ai vecchi la testa.
Da una quindicina d’anni le donne della Serbia (Yugoslavia) partoriscono
tutte nelle cliniche ostetriche. La venuta al mondo del bambino è divenuta
un atto puramente ospedaliero durante il quale la donna si ritrova da sola
con il medico e l’ostetrica. Per tutto il periodo del ricovero, ella non ha
diritto di ricevere nessuna visita e può comunicare solamente attraverso la
finestra con i parenti che vogliono avere notizie sul suo stato di salute e su
quello del neonato. È un cambiamento di ordinamento, un cambiamento di
costume, ma il personaggio della babica, la levatrice tradizionale, non è
comunque scomparso. Privata del ruolo pratico al momento stesso del
parto, tocca sempre a lei ricevere per prima il bambino sulla soglia
*
CIVILISATION, vol. XXXVI, 1-2, Bruxelles, 1986.
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dell’ospedale, di fargli il primo bagno sotto il tetto famigliare, di “prenderlo
come babica”.
Esiste una distinzione netta fra questa figura femminile e quella
dell’ostetrica che assiste la madre in ospedale. Dal fatto che questa figura
persiste attualmente, è evidente che la sua funzione va ben di là da un
semplice aiuto fisico durante il parto. Uno dei ruoli di queste levatrici del
villaggio consisteva nel preservare la madre e il bambino dagli attacchi delle
loro omonime, le babice, ‘demoni’ della nascita. Così due campi semantici
apparentemente opposti fra di loro si fondono in un solo termine.
Peraltro, all’altra estremità dell’esistenza umana, intervengono altre babice,
piccoli pani rituali indispensabili per il culto dei morti. Per risalire alla catena
semantica che collega queste babice bisognerà esaminare le corrispondenze
stabilite dalla tradizione serba tra i fenomeni riguardanti la nascita e quelli
relativi alla morte.
Quelle che sanno
Quando era arrivato il momento, le donne chiamavano una anziana di
loro conoscenza per presiedere al parto. Capitava a volte che la donna,
avendo delle doglie improvvise lontano da casa, partorisse da sola. Tuttavia,
la presenza della babica era caldamente auspicata e il parto solitario era
considerato un grave errore, a mo’ di bestia. Presenza indispensabile, la
babica era scelta fra le donne molto anziane la cui idoneità era stabilita
innanzitutto in funzione del loro statuto fisiologico. Erano sempre donne
che notoriamente non avevano più partorito da molto tempo. Queste babe
(diminutivo = babica) o nonne, dovevano aver già completato il destino
biologico di donne per vedersi affidare tale ruolo. Si sceglievano di
preferenza donne i cui figli erano tutti in vita e la cui età avanzata attestava la
‘neutralità fisiologica’ (cfr. Verdier, La femme-qui-aide). Superata la menopausa,
esse si ritrovano estranee oramai ai flussi e riflussi delle mestruazioni e delle
gravidanze. La lingua popolare serba che le definisce ‘quelle che sono
passate’ (one koje su presle) riflette questa concezione. Non essendo più
sottomesse all’ebollizione periodica della loro ‘liscivia’ interna (pranje =
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liscivia e mestruazioni), sono d’ora in avanti e permanentemente ‘pulite’
(ciste).
La perdita delle funzioni procreatrici, della capacità di concepire, va di
pari passo con la cessazione dell’attività sessuale ed è precisamente questa
chiusura del corpo a tutti i fenomeni o movimenti periodici e alternativi che
si pone alla base quale condizione necessaria per il riconoscimento della loro
abilità. Le anziane s’inseriscono, pertanto, in un altro tempo, di là dalle
oscillazioni del ciclo mestruale e delle gestazioni, un tempo regolare senza
altri fondamenti se non quelli della morte e della nascita. Nei momenti in cui
si opera la delicata unione fra i due mondi, babe e babice con i gesti e con le
parole mettono in pratica il loro sapere.
Vedere e identificare
La babica toccava poco il corpo della madre, tutta la sua attenzione era
concentrata sul bambino che doveva ricevere per incarico. Era la primalja,
quella che riceve. Il primo gesto da compiere consisteva nel raccogliere il
bambino appena uscito, prendendolo direttamente o facendolo cadere al
suolo come un frutto maturo. Dopo tagliava il cordone ombelicale con una
roncola, un rasoio, un coltello o con una scheggia tagliente di una scure
conservata appositamente per lo scopo. In seguito, lo annodava con un filo
di seta bianca o di lana rossa, protezione contro il malocchio. Dopo il taglio
del cordone, separazione definitiva con la vita anteriore del feto, lo sguardo
attento della babica, la prima a vedere il bambino, rilevava i segni particolari
che sarebbero stati determinanti con il loro influsso sulla vita futura.
Così, il neonato coperto dalla kosuljica (camicia), o dal povoj (fascia), avrà il
potere di vedere gli esseri soprannaturali e diventerà stregone. Il bambino la
cui fuoriuscita è accompagnata dall’espulsione della placenta (posteljica) avrà
un carattere violento, ma la fortuna gli sorriderà. La babica notava
ugualmente le voglie che si erano potute imprimere sul corpo del feto, a
causa dei desideri alimentari non soddisfatti o delle emozioni profonde della
madre durante la gravidanza. L’attrattiva delle donne incinte per tutto quello
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che appartiene al campo vegetale, e la paura per quello che rientra nel
mondo animale si ripercuotono direttamente sul fisico o sulla psiche del loro
frutto. Prima di tutto, la levatrice esamina minuziosamente il bambino; così
facendo lo identifica e si pone quale annunciatrice.
Il bambino-frutto
A differenza dei gesti precedenti, il seppellimento del cordone ombelicale
e della camicia non spetta esclusivamente alla babica. Era spesso un’altra baba,
la donna più vecchia della casa, che s’incaricava di questo compito sotto un
albero da frutto, l’alter ego vegetale di questa nuova vita umana, la cui sorte
sarebbe rimasta strettamente collegata, la crescita dell’uno dovendosi
ripercuotere su quella dell’altro. Costei seppelliva anche la placenta, se era
stata espulsa con il bambino, oppure la gettava al riparo dagli sguardi e dagli
animali. Seppellendo il bambino nato morto sotto un alberello fertile, senza
nessun’altra cerimonia poiché era battezzato, la baba lo rimandava nella sua
condizione precedente. Da frutto incompiuto ritornava subito al regno
vegetale.
In serbo-croato, come in bulgaro, è la stessa parola plod che designa il
frutto e il feto. L’utilizzo di strumenti collegati con il legno per tagliare il
cordone ombelicale rimanda ad una serie di concordanze fra il
concepimento, la donna e gli alberi da frutto, essendo abitudine delle donne
sterili, fino a metà secolo, di mettere sotto un albero innestato un bicchiere
d’acqua ricoperto con la loro camicia. Esse passavano la notte là e, al sorgere
del sole, se la rimettevano addosso e bevevano l’acqua con la speranza di
poter concepire. Allo stesso scopo la sposa andando in chiesa portava sul
petto una ghianda di quercia o dei semi di zucca. A Homolje le donne che
desideravano avere un bambino sceglievano un ciliegio selvatico, ne
piegavano un ramo e passavano tre volte di sotto invocandolo: “come te che
non sei sterile nella tua specie, che anch’io non lo sia nella mia”.
Abbondano gli esempi in cui il germe dell’esistenza umana si trova
direttamente collegato con certi alberi o frutti.
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Dopo aver tolto il bambino dalle acque materne e averlo spogliato della
“camicia” prenatale, la babica lo faceva passare in mezzo alla catena del
focolare e lo metteva tre volte sopra il focolare acceso. All’uscita dal corpo
materno, il bambino la cui maturazione era considerata come il risultato di
un’ebollizione nell’universo chiuso e umido dell’utero, veniva sottoposto al
fuoco, veniva messo ad arrostire. La levatrice operava come ‘cuoca’ quasi
per completare l’opera di gestazione compiuta dalla madre prendendo in
prestito dagli uomini la tecnica della cottura alla griglia che è propria degli
abitanti di tutti i Balcani. Il feto giunto a maturazione doveva così essere
sottomesso all’azione indiretta del fuoco per passare definitivamente allo
stato di essere vivente (zivo), all’immagine del frutto, l’alter ego vegetale, la
cui fase finale di maturazione richiede il calore esterno del sole quale
complemento degli umori nutritivi della terra e della pianta.
L’aspetto culinario appare dunque come un mezzo che ha il dono di
facilitare una trasformazione radicale. La funzione di mediazione che è
esercitata dalla cuoca a livello alimentare spetta in questo caso alla babica,
cuoca esperta tanto sul piano domestico che su quello biologico. Forgiando
così il corpo del neonato, costei mira a cancellare tutte le tracce della vita
anteriore e a proteggerlo dalle pericolose omonime che s’aggirano attorno
alla casa.
Quando le babice sono numerose, il bambino deperisce
Il bambino sottoposto al fuoco e poi lavato dalle impurità poteva quindi
essere fasciato e messo a letto di fianco alla madre. La babica si adoperava in
seguito per togliere dalla stanza le tracce di sporcizia e di sangue che attirano
con quel loro forte odore le temibili babice. Come tutti gli esseri malefici,
queste non vengono nominate, sono designate, come in romeno, da un
pronome femminile. Questi ‘demoni’ sono dei personaggi simili alle streghe,
delle vecchie ripugnanti dai capelli lunghi sparsi e tutte vestite di nero. Si
raggruppano di notte attorno alla casa per cercare di introdurvisi e divorare
completamente o in parte il bambino, avvelenarlo assieme alla madre,
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trasmettere loro malesseri quali le vertigini o il mal di testa, che peraltro sono
attribuiti alle mestruazioni.
Le babice imperversano per una quarantina di giorni dopo il parto: “40
giorni dopo la nascita la donna ha un piede nella tomba”, dice il detto. I
primi sette giorni sono i più pericolosi; li chiamano ‘giorni brutti’ (necisti dani)
o’innominati’ (nekrsteni). La madre e il bambino, impregnati ancora di
sostanze e odori fetidi che sono una conseguenza del parto, sono quindi i
più vulnerabili. Durante tutta quella settimana, nessun altro oltre alla
levatrice o a qualche vecchia della casa poteva entrare in camera. Essendo
già impregnata delle impurità del sangue del parto, la babica era la sola
persona in grado di rivaleggiare in potenza con le babice ghiotte di tale
nutrimento. La vecchia donna metteva in pratica tutte le sue conoscenze per
assicurare la protezione di queste due vite in piena evoluzione.
Costei veniva ogni giorno per far fare il bagno, di cui rafforzava la virtù
purificatrice con un gambo di basilico, pianta sacra per gli ortodossi, e
qualche goccia d’acqua benedetta messa assieme con questo scopo. Per
mezzo della medesima acqua purificava il bambino, la madre e se stessa, e
poi tutta la camera, non appena si era concluso il parto. Ricorreva anche a
strumenti appuntiti (roncola, scure, rasoio), gli stessi che servivano a tagliare
il cordone ombelicale, e a utensili e oggetti per la lavorazione tessile (carde,
pettini, filaccia, fuso, filo) che metteva intorno al bambino e alla madre per
allontanare li demoni sanguinari. Con i primi rafforzava la frattura col
mondo precedente la nascita, con i secondi intensificava i legami necessari al
mantenimento delle due esistenze.
Come tutte le vecchie ‘che sanno’, la babica dimostrava di conoscere le
piante, ponendo ai piedi del bambino dell’erba a scopa (poljska metla) al
rovescio, e vicino alla testa degli spicchi d’aglio. Il fatto di aver messo la
prima pianta all’inverso – le streghe la cavalcano abitualmente al dritto –
doveva servire a disorientare le figure demoniache. Quanto all’aglio, pianta
prediletta contro il malocchio, esso ha il potere, grazie all’odore potente e al
persistere della radice che si dice sia in grado di ricrescere eternamente, di
mettere in fuga tutti gli esseri che errano fra cielo e terra, vittime
consenzienti o occasionali di una metamorfosi incompiuta o effettuata
prematuramente, fuori tempo.
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Tuttavia, il mezzo più sicuro per allontanare le babice consisteva nella
fumigazione effettuata con stracci, catrame e pezzi di opanci (scarpe
tradizionali in pelle di bue). Il cattivo odore che ne scaturiva doveva coprire
le esalazioni putride della madre e del neonato e doveva disgustare le babice,
costrette così ad abbandonare il luogo. Questa protezione si realizzava per
sovrabbondanza di odori forti e cessava non appena terminavano le
esalazioni di ‘carne putrefatta’ (pokvareno meso) provenienti dalla sozzura del
corpo della puerpera. Ciò stava a significare che la madre si era
definitivamente messa fuori della portata delle babice.
I quaranta giorni
Nei quaranta giorni successivi al parto, il corpo della madre si trova
dunque in uno stato di putrefazione identico a quello delle vivande sotto sale
‘andate a male’ (pokvareno) per la presenza delle mestruazioni. D’altra parte, la
puerpera è soggetta alle stesse proibizioni di contatto che si riscontrano nel
periodo delle mestruazioni. In entrambi i casi, le donne non mettono piede
in chiesa, evitano di toccare tutto ciò che ha a che fare, direttamente o
indirettamente, con la fecondità animale, vegetale o umana che
rischierebbero di compromettere. Il sangue che sgorga a causa del parto
possiede così un potere di perturbazione e di dissociazione simile negli
effetti a quello delle mestruazioni. Ma queste sostanze pericolose, latrici di
una forza ammorbante, debbono sfuggire allo sguardo, altrimenti coloro che
le producono sono passibili di ritorsioni. Attirate dall’odore della nascita, le
babice sono causa di malattie inerenti alle mestruazioni, ed appaiono come
personificazioni dell’impurità femminile nel momento in cui, la più attiva,
segna il passaggio di un essere da un mondo all’altro.
Al termine dei quaranta giorni, la madre deve aver ritrovato l’equilibrio
fisiologico. Il suo nuovo stato di nutrice si sostituisce oramai a quello di
partoriente fetida.
Or dunque, quaranta giorni sono, secondo C. Gaignebet, l’equivalente di
un ciclo lunare e mezzo, ossia il periodo che va dalla luna nuova alla luna
piena del ciclo seguente, essendo i due punti estremi contrassegnati da una
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diversa posizione dell’astro. La prima settimana delle babice, quando il corpo
della madre e del bambino sono in piena evoluzione, corrisponderebbe
allora alla fase nera della luna nuova, peraltro già tradizionalmente associata
alle mestruazioni. Alla fine dei sette giorni, si presume che il cordone
ombelicale cada, e con esso viene meno il segno di ricongiungimento del
bambino con il suo universo anteriore.
Bisogna che si compia un ciclo lunare intero che da una parte all’altra è
caratterizzato dalla stessa fase, questa volta piena, affinché il neonato sia
definitivamente inserito nel movimento ondulatorio dell’esistenza umana,
cioè della sessualità e della generazione, il tempo della mortalità.
Dovendo adeguarsi alle due lune piene, il settimo o il quarantesimo
giorno, si imbandisce un pranzo fra donne presso la nuova puerpera, è la
cosiddetta povojnica, il dono delle fasce. Parenti prossime e vicine, tutte
sposate e madri di famiglia, portano ciascuna alla giovane madre una pogaca
(pane rotondo e piatto), una gallina arrosto, delle uova sode e un pezzo di
formaggio fresco. La puerpera deve mangiucchiare ciascuna di queste
focacce per avere e conservare il latte. Questo rito alimentare sottolinea
l’influsso che è attribuito alla luna piena, rappresentata in questo caso dai
pani, sulla fecondità in generale. La gallina, le uova bollite e il formaggio
rievocano la stessa idea di fertilità. Con questi prodotti che rientrano in un
trattamento culinario esclusivamente femminile, le donne celebrano e
consacrano la fecondità della madre. Se fossero mestruate non potrebbero
partecipare a questo pranzo.
È la babica che deve recare la povojnica (da povoj = fascia), in origine una
lunga striscia di lana tessuta, guarnita di un filo rosso a protezione, la cui
estremità cucita contiene del basilico per la salute, una moneta per la fortuna,
aglio e incenso contro gli spiriti malefici. Offrendo ritualmente queste prime
fasce, surrogato terrestre della camicia (povoj), la babica si assume il compito
di vincolare. La povojnica e il primo bagno rituale sono l’attuale testimonianza
del ruolo che ricopriva in passato.
Per tutto il tempo delle babice, la levatrice doveva fungere da protettrice, e
lo faceva di persona nei primi tre o sette giorni. Aveva l’abitudine di dormire
vicino alla madre e al bambino nelle tre notti successive alla nascita per
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comprendere il destino che era loro riservato dalle Sudenice, le Sorti,
svolgendo ancora il ruolo di mediatrice. Dopo i primi giorni, e fino al
termine dei quaranta, costei lasciava sul bambino il proprio grembiale che ne
faceva le veci. Tutto il suo potere, dunque, tutta la sua forza magica si
trovavano concentrati nel segno distintivo della sua abilità in materia di
nascita e di cottura. Il grembiule è sempre oggigiorno un attributo esclusivo
delle donne, sposate e madri, che lo indossano in qualunque occasione. Le
anziane non se ne separano mai, perfino quando lasciano alle nuore il
compito di far le cuoche. Il grembiule fa parte di quegli indumenti con cui si
vestono le donne per il seppellimento, e si trova obbligatoriamente fra gli
abiti offerti in commemorazione delle defunte.
Elemento di testimonianza del compimento del loro destino e della loro
competenza, il grembiule delle anziane diventa un oggetto di potere nel
momento in cui riceve il bambino.
Dare il nome
La levatrice, che è all’altezza di reggere la visione e di stabilire il primo
contatto con un essere venuto dall’aldilà, possiede ugualmente la facoltà di
dargli un nome. Il nome è infatti una misura protettiva efficace contro le
babice che affrontano preferibilmente i bambini senza nome. Per evitare
questo rischio supplementare, la babica dava provvisoriamente un nome al
bambino, subito dopo il parto, mentre lo aspergeva con acqua benedetta. Il
battesimo vero e proprio ha luogo più tardi, dopo i quaranta giorni; ad esso
presiede il kum, il compare, il solo detentore di quello che sarà il nome
definitivo che nessuno dovrà conoscere prima della cerimonia pubblica. Nei
casi disperati la stessa levatrice poteva svolgere il ruolo di kum, essendo
considerata la morte di un bambino senza nome un errore gravissimo,
gravità che poteva essere eguagliata solo a quella riscontrata nel caso in cui ci
fosse disaccordo fra un lignaggio e il proprio compare.
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Il kum è la sola persona che detiene il nome del bambino prima della
nascita. Come tutti coloro i quali sono in grado d’identificare gli esseri che
non appartengono a questo mondo, il kum funge da stregone. Egli ha, al pari
della levatrice, un ruolo di mediatore. Il giorno del battesimo la madre e la
babica accompagnano il kum in chiesa, la prima portando con sé il bambino.
Davanti all’edificio la babica prende il figlioccio per affidarlo al kum. Le due
donne si tengono poi in disparte per evitare di sentire il nome che sarà
rivelato pubblicamente solo nel corso del pranzo seguente. All’uscita dalla
chiesa, il bambino fa il giro inverso passando dalle mani del kum a quelle
della babica e della madre. La rivelazione del nome corrisponde al momento
cruciale in cui il kum stabilisce il contatto con il sacro: “Dapprima Dio, poi il
kum”, dicono i serbi. Rappresentante dei vivi di una stirpe presso i morti e le
divinità, il kum, dando il nome al bambino, gli dona un posto nel lignaggio e
lo rende gradito nell’altro mondo. Ciononostante, la presenza della babica gli
è indispensabile.
Avendo sostenuto un contatto con l’aldilà nel momento in cui si è
addossata l’impurità della nascita, solamente quest’ultima può fungere da
legame (nel senso religioso del termine, religere) fra il nuovo individuo, la sua
famiglia e colui che risulta il mandatario accreditato.
Il potere di kum e quello di babica, lontani dall’essere equivalenti, si
completano; ciascuno effettua una mediazione ma in un senso diverso: il
kum assicura le transazioni fra i vivi e l’altro mondo, la babica stabilisce il
collegamento, il contatto fra questo mondo e l’aldilà. L’intervento del kum è
sempre successivo a quello della levatrice che è incaricata di far sparire
l’alterità del feto. Il kum può allora eseguire la gran volta della nascita
presentando il bambino vivo e con il nome agli antenati.
Se costui ha il potere di dare il nome, la babica vi aggiunge quello del
grembiule. Maestra nell’arte del mescolare e del cucinare, ella fa opera di
creazione nell’introdurre il bambino, liberato dal pericolo delle babice e
divenuto mortale, in uno spazio e in un gruppo famigliare. Avendo
cancellato ogni traccia di appartenenza anteriore, la babica può riprendersi il
grembiule nel momento in cui le omonime ritornano nell’aldilà.
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Babe, vampiri e babice
Superando la soglia della menopausa, le nonne lasciano alle nuore la
prerogativa dei fornelli. Giacché ogni perdita deve essere seguita da una
contropartita, queste babe, divenute ‘quelle che sanno’, saranno investite di
una funzione religiosa di capitale importanza che riguarda i morti. Esse sono
le maestre del rituale, questa volta pubblico, dei funerali e delle molteplici
commemorazioni dedicate ai defunti, le dace (da dati = donare) o pomen
(ricordo).
Come la babica al momento della nascita, le babe concentreranno tutta la
loro attenzione sui riti di separazione e di unione: i primi debbono facilitare
un cambiamento di stato e una partenza, i secondi il mantenimento dei
legami e del ricordo.
Rottura e decomposizione
Le loro prime incombenze mirano a favorire la decomposizione del
cadavere e, pertanto, la liberazione dell’anima, condizioni necessarie per una
partenza verso ‘quel mondo’. Si tratta di evitare principalmente il
trasferimento dell’anima (dusa) il cui primo slancio consisterà nell’introdursi
in qualunque cosa che abbia un’impronta vitale, o di movimento o di riflesso
che si trovi vicino al cadavere. Se dovesse riuscirci sarebbe condannata a
rimanere prigioniera del suo nuovo domicilio; bisogna quindi mantenerla il
più vicino possibile al corpo. Per questo motivo bisogna vegliare il morto un
giorno e una notte interi, con una candela accesa senza soluzione di
continuità sul comodino poiché la mancanza di luce condannerebbe l’anima
a vagare in maniera insopportabile. Per impedirle di fuggire al calare della
sera, si ricorre ad una preventiva misura protettiva affumicando gli ultimi
vestiti indossati dal moribondo e poi compiendo un cerchio magico attorno
alla casa con gli stessi vestiti, a mo’ di schermo protettivo. Le vecchie
ricorrono in questo caso alla stessa tecnica dell’affumicatura utilizzata contro
le babice, ma, questa volta, è la fuoriuscita dell’anima ad essere impedita.
Si getta tutta l’acqua contenuta nei recipienti, si rovesciano i vasi e i
secchi, si coprono gli specchi, si nasconde tutto quello che è suscettibile di
57
riflesso in modo da non permettere all’anima smarrita di essere assorbita. Si
spegne il focolare per evitare che l’anima che esala dal corpo sotto forma di
un impercettibile fumo sottile non venga attirata. Le babe vegliano acciocché
nessun animale salti sopra il cadavere. Se dovesse verificarsi questa
evenienza, esse annullano il rischio di trasferimento procedendo per
inversione e facendo ripassare nel senso inverso l’animale.
Si ritiene che l’anima separata dal corpo resti padrona di sensazioni
fisiche alla stessa stregua dei vivi: ha freddo, teme l’oscurità, è terribilmente
affamata e assetata.
Per affrettare la rottura con la vita precedente, è compito delle donne
anziane impedire che vi sia una qualunque possibilità di soddisfare tali
esigenze fintanto che il cadavere rimane in casa. Le donne non cucinano,
sono le vicine o delle parenti prossime che se ne occupano, sia che preparino
il cibo a casa loro sia che cucinino nel cortile, all’esterno. Il divieto di
cucinare s’accompagna al divieto di consumare: nessun membro della
famiglia deve assumere il cibo che si trova all’interno fino alla sepoltura del
morto. Il pane e il lievito messi a fermentare vengono gettati via.
Questi divieti momentanei inducono ad escludere in realtà quei processi
fin troppo simili al processo di decomposizione che si compie sul cadavere.
Si tratta, detto in altre parole, di impedire la vicinanza spaziale di un
processo che, da vicino o da lontano, ricordi la fermentazione, la digestione
o la putrefazione. Così, le donne incinte debbono evitare qualunque contatto
con un defunto, pena la procreazione di un bambino morto o sprovvisto di
vitalità, e quindi cadaverico. Per tenersi al riparo da questi effetti, si
annodano al polso il filo rosso protettivo, lo stesso che serve a proteggere il
bambino dalle babice o dal malocchio.
La sola presenza del cadavere rappresenta una minaccia per tutto quello
che, in rapporto con la fecondità e la riproduzione, è soggetto a
trasformazione. Il corpo in decomposizione ha così lo stesso potere di
dissociazione e di perturbazione che ha il sangue del parto e delle
mestruazioni.
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Vampiri
Il morto cattivo, quello la cui materia corporale rimane viva e attiva, non
può giungere al termine della decomposizione. Non appartiene né alla
categoria del ‘vivo-crudo’ (ziv = vivo e crudo per gli alimenti), né a quella del
secco (sotto forma di osso o di polvere), ma si colloca decisamente dal lato
della putrefazione. È, come dicono i serbi, colui che ‘è andato a male’
(pokvario se = povampirio se) secondo lo stesso termine attribuito al corpo della
puerpera e alle carni che lo sguardo velenoso della donna mestruata fa
imputridire. È il vampiro il cui sangue viziato si mette a ribollire di una
nuova vita temibile.
Impossibilitato a varcare definitivamente la soglia che separa ‘questo
mondo’ da ‘quel mondo’, raggiunge il corteo lamentevole e minaccioso degli
esseri intermedi. Né morto, né vivo, ha perso la sua identità. Diviene
innominabile come i suoi compagni erranti, come il bambino nato morto,
preda delle babice, innominato, non battezzato, che la babica non passa al
fuoco. Vampiro in seguito ad una partenza mal riuscita, il primo è incapace
di lasciare questo mondo, il secondo di entrarvi. L’uso di esporre un’ultima
volta il corpo al sole, prima di condurlo al cimitero, risponde alla stessa
esigenza del gesto della levatrice che mette al fuoco il bambino nato-vivo. In
un caso come nell’altro si tratta di rimarcare una partenza (il nato morto non
è mai partito), un cambiamento di stato (il nato morto non ha mai cambiato
natura). Il bambino diventa vivo, il morto ridiventa feto. Il primo raggiunge
‘questo mondo’, il secondo lo lascia.
Non sorprenda quindi il fatto che, dopo la morte e per quaranta giorni, si
ripresenta lo stesso periodo pericoloso che si è osservato dopo la nascita. È
il periodo di transizione necessario durante il quale la minaccia vampiresca è
onnipresente. Tutto si svolge affinché venga assicurato il passaggio
completo.
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Sciogliere e purificare
Gli ultimi gesti della donna più vecchia della casa, la domacica (padrona di
casa), si congiungono direttamente con quelli della babica quando il neonato
giunge nel mondo dei vivi. Nel momento del seppellimento, tagliando e
sciogliendo sulla stessa tomba tutti i legami che figurano sugli abiti dei morti,
costei compie un atto di rottura. In seguito cancella ogni traccia
d’appartenenza anteriore allo scopo di evitare il rischio di un ritorno
facendo, di nuovo, intervenire il segno distintivo del suo potere di
mediatrice: scendendo nella tomba, questa vecchia baba pulisce il fondo con
il grembiale, mentre dice: “io pulisco la tua casa, ma tu non pulire la mia”.
Dopo aver reciso i legami che possono trattenere il morto, bisogna
purificare l’anima che parte, allontanarla progressivamente dall’impurità del
corpo in decomposizione con delle purificazioni quotidiane che
corrispondono a quelle effettuate sul bambino e sulla madre durante i
quaranta giorni delle babice. Ogni mattina una ragazzina impubere viene a
rovesciare un recipiente d’acqua davanti alla casa del defunto. Questo
avviene per quaranta giorni consecutivamente e ad ogni commemorazione
(daca), che ha luogo dopo sette giorni, quaranta giorni, sei mesi e un anno
dopo il decesso. Le reiterate offerte d’acqua per mano di un corpo vergine e
neutro dissetano l’anima facilitando così l’avvicinamento all’aldilà. Alla
nascita come alla morte il passaggio da un mondo all’altro si effettua tramite
l’acqua, in due riprese: l’una segna una partenza, un’uscita (liquido amniotico
– acqua versata, che simboleggia il superamento dell’acqua corrente, tappa
obbligatoria del viaggio nell’aldilà), l’altra cancella le tracce dell’appartenenza
anteriore (il bagno del morto e del neonato). Così si rispetta perfettamente la
simmetria.
Il morto-antenato
Alla fine dei quaranta giorni, il cadavere si è decomposto, l’anima si è
liberata, il rischio di ritornare sparisce. Il viaggio propriamente detto
comincia allora. Per alcuni si conclude nel giro di un anno, per altri ci
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vogliono tre o sette anni. Ciononostante, tutti sono d’accordo sulla
irreversibilità della partenza alla fine del primo anno e non sussiste alcun
dubbio sul fatto che il defunto raggiunga i morti che appartengono al suo
lignaggio. Poco a poco il ricordo del morto si cancella, perde la sua
individualità per fondersi alla fine nel gruppo degli antenati e continuare a
vivere attraverso tale gruppo. Si onorerà la sua memoria solo con le
commemorazioni collettive.
Questo ritorno all’ancestralità è rievocato tramite la piantatura di un
alberello da frutto giusto vicino alla tomba, il giorno dei funerali, i cui frutti
saranno oggetto di un rigoroso divieto alimentare. Il morto che si identifica
tra i vivi tramite un nome diventa latore di una genealogia simboleggiata
dall’albero i cui frutti futuri rappresentano le generazioni a venire. La morte
appare come la provocazione diretta ma ritardata di una nascita, lo
spostamento temporale che risulta come condizione necessaria. Solo il
morto divenuto antenato, quello di cui non si rammenta più il nome, può
incarnarsi di nuovo. Il bambino nato morto e senza nome assolve questa
condizione per il fatto di aver fallito la partenza: raggiunge quell’ambiente
che non ha mai lasciato, è egli stesso un antenato. Così si comprende perché
viene sepolto sotto un albero già piantato e pieno di frutti se i genitori
desiderano altri bambini, sotto un albero da frutto essiccato nel caso
contrario.
Scambio di teste
La legge di compensazione così messa in evidenza rimanda al principio
dello scambio secondo il quale ‘bisogna restituire’ l’equivalente di ciò che è
stato donato. Ed è qui che intervengono le altre babice, i piccoli pani dei
morti.
Il giorno dei funerali, come in ogni commemorazione, le vecchie babe si
dedicano a delle vere e proprie composizioni di pane intorno alle quali
dispongono cibo e bevande varie. Ogni cumulo (gomila) così costituito forma
una ‘testa’ (glava) il cui elemento principale sono le babice, piccoli pani rotondi
con su scritta la ‘parola’ (slovo = J. H., Jesus Hristos). Una ‘testa’ viene
61
donata al defunto il giorno del seppellimento, generalmente sono tre nelle
altre commemorazioni: una per la divinità (Bog), una per il giorno in
questione e una per il defunto. La domacica, la più vecchia della casa, svolge il
ruolo di officiante. Soltanto a lei spetta il diritto di parola ai morti. Accende
le candele, poi, incensando l’insieme che è a forma di testa, attira l’attenzione
del defunto che è da lei invocato: “Che ciò sia visto dal mio Bogdan in
presenza e per la sua anima” (“Da se vidi mojom Bogdanom pred i za dusu”), tutti
gli astanti rispondono assieme: “Che Dio lo perdoni” (Bog da prosti). Per tre
volte di seguito la domacica destina al morto (nameniti = destinare, donare
invocando) le vivande che saranno subito dopo disperse per il pasto
successivo.
Queste offerte alimentari non mirano solo a colmare l’appetito dei
defunti che a quel che si dice si nutrirebbero con la sola vista e con
l’odorato, ma hanno valore di controdono. In cambio di queste ‘teste’, i
morti debbono assicurare prosperità alla famiglia e fertilità ai raccolti. Si
dedicano loro le primizie prima di poterle gustare. Garanti della fecondità
umana, vegetale e animale, i morti esigono dalle anziane, che ricevono i
neonati, la contropartita culinaria dei feti sotto forma di babice. Dato che
ciascuna parte dona una testa per una testa l’equilibrio è così mantenuto da
una parte e dall’altra.
Parola di vecchie
Per essere graditi dai defunti esigenti questi doni devono essere ‘puliti’
(ciste), altrimenti tutta la cerimonia viene a essere contaminata e i destinatari
restano offesi e pronti a vendicarsi.
Sono le cuoche che determinano, secondo il loro stato fisiologico, la
purezza degli alimenti. Se sono mestruate, insozzano col loro contatto.
Perciò, le anziane in questa occasione riprendono il posto davanti ai fornelli
per preparare in piena neutralità i piatti che esse stesse destineranno in
seguito. Se una donna si trova costretta a cucinare durante le mestruazioni, si
deve lavare, rivestire con abiti puliti e si deve cingere con un panno
immacolato a guisa di schermo protettore. Ma, in nessun caso, potrà
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profferire parole d’invito e d’offerta ai defunti. Le sfugge la padronanza del
respiro, in quanto il suo è latore di una forza perturbatrice. Pur detenendo le
conoscenze necessarie in materia di cucina e maternità, costei non è ancora
‘fatta’ fisiologicamente per accedere al potere della parola che stabilisce gli
scambi fra i due mondi.
Spetta alle donne vecchie, dal respiro neutralizzato per l’età, il potere
della parola. Le babe che ricevono e ‘cuociono’ i bambini, destinando delle
babice rimandano all’aldilà i prodotti della loro cucina. Invocando i morti,
costoro li nutrono col ricordo. Nella società serba, come nell’insieme dei
Balcani, la parola spetta alle donne, con l’età, quando sopraggiunge la
saggezza.
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Le donne e il salatoio*
di Yvonne Verdier
1) Quando si hanno le mestruazioni, nel salatoio non bisogna andarci,
perché il lardo così va a male, va a male tutto nel salatoio, tutto è
perduto1.
In quei giorni è lo sposo che scende nel salatoio: “Io so che non andavo
mai nel salatoio quando ero in quello stato, ci mandavo mio marito”. È
un’esigenza stessa dell’uomo che bada a proteggere il lardo dai poteri
malefici della moglie: “Se mio marito avesse saputo che ero stata nel salatoio
a ficcare il naso in quei momenti, avrebbe brontolato; del resto, in quel
periodo, portava solo quello che serviva per il pasto, affinché non dovessi
toccarlo di nuovo poiché non si sarebbe conservato; altrimenti si andava al
salatoio solo una volta”.
Tale potere si esercita su tutto quello che viene conservato come il lardo
in salamoia: “Perfino per i fagioli salati, io lo dico sempre alle nuore, di non
andare in quei giorni”. Così periodicamente le donne sono costrette a
rispettare dei veri e propri divieti: divieto di scendere in cantina dove sono
depositati – nella frescura umida e nel silenzio della notte – i vasi di
cetriolini, i vasi di fagioli salati, la grande giara di ceramica o la botte in cui si
conserva il lardo, le botti di vino, di grappa: “Io ne ho conosciute al paese,
ETHNOLOGIE FRANÇAISE, 1976, VI, 3-4.
Le testimonianze sulle quali si basa questo studio sono state raccolte presso gli abitanti
di Minot (Costa d’Oro), un paese dello Chatillonnais. L’intero studio è stato condotto
collegialmente nell’ambito del Laboratorio di Antropologia Sociale da Tina Jolas, MarieClaude Pingaud, Yvonne Verdier e Francoise Zonabend.
*
1
65
mica poche, di queste donne che non facevano altro che andare a vedere le
botti di grappa, ebbene è andato tutto a male”.
Si tratta di un potere che è causa di putrefazione: “Oltre al lardo salato si
faceva attenzione nel caso in cui si intendeva uccidere il maiale, non lo si
uccideva in quel periodo, perché tutta la carne sarebbe andata a male
facilmente, non solo il lardo, ma anche la carne stessa da mangiare, senza
salarla, gli arrosti, le costolette, i sanguinacci non si sarebbero conservati a
lungo, ma per preparare da mangiare subito si preparava là da mangiare”. In
queste condizioni era impossibile riuscire a realizzare delle conserve, in
particolar modo le conserve in salamoia: “Non me ne sono mai accorta per
quel che riguarda il formaggio e il burro, ma per le conserve non è il
momento di mettere della carne, neanche un pezzetto, lo sapete, non si
conserverà se la persona è così”. “È lo stesso per i cetriolini, vanno a male,
diventano molli e appiccicaticci”. Lo stesso vale per il vino: “Se mettete del
vino in bottiglia quando siete così potete stare sicure che andrà a male”.
La minaccia costituita dalle donne indisposte fa distinzione fra ciò che si
cuoce, da una parte, e le conserve e le bevande fermentate, dall’altra, tutte
preparazioni in cui non interviene quale agente di trasformazione il fuoco.
Esse fanno anche andare a male il miele, ed è loro proibito avvicinarsi agli
alveari. In compenso, niente impedisce la preparazione o la manipolazione
ulteriore del ‘secco’, frutti conservati per essiccazione ai raggi del sole o
passati e ripassati nel forno nel calore non elevato successivo all’infornata.
Niente impedisce di salire nel solaio dove seccano i mazzi di fagioli attaccati
al chiodo, i ciuffi di fiori per tisane allineati sulla corda.
Si può cucinare se si mangia subito, “questo non disturba”, eccezion fatta
per alcuni tipi di preparazioni culinarie: “I dolci, le creme, non è possibile
farli! Una donna non farà neanche una maionese né monterà dei bianchi a
neve, non prenderebbero”. Le donne guastano anche certe salse: “Ho già
notato, un civet di coniglio, in quel periodo, non riuscivo mai a farlo come ci
sono riuscita dopo, la salsa non si conservava per niente. Nel civet si mette
del sangue, e poi del vino, allora la salsa non sarebbe durata due giorni che
già si vedeva che cominciava a bollire fermentare”. Sono in questione solo
le preparazioni culinarie che prevedono mescolanze o emulsioni in cui non
intervenga la mediazione del fuoco. Si sa infatti che le emulsioni o fusioni in
cui ci sono uova o sangue si ottengono senza l’ausilio del fuoco e devono
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‘prendere’ per riuscire. I rischi nel preparare le salse, e in particolar modo la
maionese2, sono messi ben in evidenza nelle nostre tradizioni culinarie che ci
hanno trasmesso tutti i trucchi e i modi di sbattere possibili e immaginabili
per riuscire in queste delicate operazioni.
Questa lista di malefici tiene conto dell’esperienza in materia delle donne
di Minot. Potremmo allungarla all’infinito prendendo degli esempi dalla
letteratura. Plinio3 riporta in dettaglio in due capitoli le “meraviglie del flusso
mestruale “che non sono limitate ai soli cibi: “il solo sguardo – della donna
indisposta – appanna gli specchi, smussa la lama degli utensili, spegne la
brillantezza dell’avorio”... “Al contatto, il lino messo a bollire annerisce... il
rame assume un odore fetido e si arrugginisce...”. Più vicino a noi si può
andare a spigolare presso i folcloristi i fatti seguenti4: “Nel Limousin, nel
periodo della raccolta del miele, nessuna donna col mestruo deve avvicinarsi
agli alveari... Nella Gironde se una donna va a raccogliere dei porcini nei
giorni del mestruo non ne farà più crescere almeno per un anno nel bosco
dove li ha raccolti; costei fa appassire e morire tutti quelli che si trovano
nella foresta quando vi entra... Nel XVI secolo si diceva: la donna che ha le
sue cose mensili e passeggia fra aiuole di poponi, zucche e cetrioli li fa
seccare e morire; il frutto che se ne ricava sarà amaro”.
Quel che dobbiamo dire è che, come si riconosce a Minot, le donne
indisposte affrettano una scadenza naturale, la putrefazione, che con le
tecniche di conservazione si tende appunto a ritardare, ad annullare o a
controllare. Nel caso delle bevande fermentate, esse accelerano
eccessivamente il processo della fermentazione; nel campo delle attività
culinarie ostacolano le emulsioni e le fusioni che debbono avvenire
rapidamente. Oppure impediscono di far prendere, o ancora fanno prendere
troppo rapidamente.
La fragilità della maionese probabilmente dipende da un difficile equilibrio della
temperatura fra i diversi elementi che la compongono. Per recuperarla si consiglia di solito di
aggiungere una cucchiaiata d’acqua calda se si ritiene che gli ingredienti siano troppo freddi,
una cucchiaiata di acqua fredda nel caso siano troppo caldi.
3 Plinio, Histoire naturelle, Paris, Les Belles Lettres, 1962; Livre VII, ch. 13-15 e Livre
XXVIII, ch.23.
4 P. Sebillot, Le folklore de France, tome III, Paris, 1906, pp. 320 e 461.
2
67
Questi ultimi preparati si fanno solo quando si hanno degli ospiti, anzi in
tal caso sono obbligatori: “Quando si ha gente non si può fare la potée piatto
di carni lessate e verdura, si fa il pollo o il coniglio in salsa; per dessert
bianco d’uovo montato a neve, latte alla portoghese”. Così, rovinando le
salse o fallendo nella preparazione della pasticceria, le donne rischiano
d’intralciare pesantemente gli obblighi sociali e famigliari. Minacciando,
peraltro, il salatoio mettono in pericolo l’intero edificio dell’economia
domestica e rischiano di affamare la famiglia: “Un maiale perso è una cosa
drammatica, bisognava nutrirne di nuovo un altro e per avere un maiale di
cento chili ci vogliono almeno sei mesi”. Le donne si ritrovano
periodicamente bloccate in tutti i sensi nell’esercizio delle loro funzioni sia
nutritive che di legame sociale, tutti ruoli che pur appartengono a loro a
prima vista.
A partire da questo divieto e da questa invalidità parziale che limita le
donne, si mette in moto tutto un discorso su un destino biologico femminile
carico di mistero, un discorso veemente, appassionato; e si sprigiona tutto
un sistema di rappresentazioni in riferimento ai loro poteri.
Ma, è tanto con una meraviglia quasi estatica, abbastanza confusa che le
donne rievocano questa loro incapacità temporanea a far prendere le salse, la
maionese o i bianchi sbattuti a neve – si può sempre eludere il destino
arrangiandosi fra donne, e si conoscono tanti aneddoti piuttosto buffi
sull’argomento come quello della cuoca indisposta che cerca per tutto il
giorno delle nozze qualcuno che possa montare i bianchi a neve – quanto,
nel momento in cui si rovinano i salatoi, con un tono che diviene tragico,
patetico, che ci si accorge della sanzione magica che ha avuto luogo
forzatamente per l’avvenuta trasgressione del divieto. Vi si mescolano tante
emozioni contraddittorie: sentimenti di paura, di vergogna, d’indignazione di
fronte a una potenza pericolosa e misteriosa che tuttavia non fa che
aureolare le fomentatrici di disordine, tutti sentimenti che danno a questo
divieto un carattere singolare ed irriducibile che associamo di solito alla
nozione di tabu. Non si può far altro che notare l’indignazione, l’orrore
suscitato dallo spettacolo di un salatoio andato in rovina: “Il lardo è andato a
male, puzza, è incredibile!” “È andato a male, s’è rovinato, è immangiabile!”
“La salamoia è grigia, fa la pellicina”. “Il lardo diventa verde, è rosso, è
giallo, assume un sapore di rancido, diventa acido”. Uno spettacolo
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innominabile, insopportabile che aggredisce tutti i sensi, la vista, l’odorato, il
gusto5.
2) Il respiro, il sangue era qualcosa di sacro che un tempo aveva un senso.
A livello di meccanica degli effetti, la donna indisposta divide il potere
putrefacente con un fenomeno meteorologico, il temporale. Stessi effetti
sulle stesse cose.
Il temporale, una pentola umida d’aria calda, soffio d’aria, vento e
pioggia, è soprattutto la chiarella estiva, esito dell’incontro di due nuvole
cariche di fulmini, portate da due venti contrari, l’uno proveniente dal nord,
l’altro dall’ovest, che scoppia nei giorni di grande calura. Fa andare a male la
carne, il vino e la maionese nelle stesse condizioni delle mestruazioni
femminili. Le mestruazioni del resto vengono percepite a Minot come una
sorta di grande temporale biologico: “Pare che a guardar bene all’interno del
corpo della donna quando ha le mestruazioni ci si trovi di fronte a una cosa
spaventosa, un disordine, un’agitazione indescrivibile, non si può definirla”.
I termini utilizzati come l’orrore fanno ugualmente pensare un po’ al salatoio
andato a male.
Le donne sarebbero quindi ad immagine del tempo, e quindi più o meno
pericolose per certi preparati alimentari, particolarmente tempestose e agitate
durante le mestruazioni, ed esalano un calore cattivo che ammorba tutto,
trasmettendo all’esterno la loro agitazione interna. Agiscono come degli
elementi naturali e come questi possiedono una forza negativa sui processi
culinari grezzi (senza l’ausilio del fuoco). Ma, allo stesso tempo, sono
sensibili, trasparenti a certi fenomeni atmosferici, in particolar modo ai
temporali che sono il loro riflesso. Il temporale le tormenta: “Il temporale
irrita, fa innervosire”; “il temporale mi agisce sui nervi”. Quando arriva il
temporale, nel periodo della mungitura, le donne scappano nei cortili con il
secchio sulla testa.
Nel periodo delle mestruazioni aumenta la vulnerabilità. L’acqua, l’acqua
fredda, può provocare un arresto prematuro e doloroso del flusso mestruale:
5
La carne di maiale è salata sempre dagli uomini, ed è questo che le donne guastano.
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“Non c’è niente di peggio che mettere le mani nell’acqua fredda, ciò può far
bloccare tutto, ciò irrita”. Così queste donne vivono un gioco irto di
contrarietà tra ciò che esse ostacolano e ciò che le irrita. Da questo emerge
un’etica della donna indisposta, che limita i contatti col mondo.
Non possono fare il bucato: “Fa male”. Il pericolo che si corre può
essere mortale, l’acqua può provocare un arresto totale della circolazione del
sangue. Si ritiene che il sangue si possa coagulare: “Diamine, ho preso il
sacco per pulirsi i piedi davanti alla porta, sono andata a sbatterlo nello
stagno, ho creduto di morire”. Bisogna stare ad ascoltare la veemenza con
cui parlano degli effetti dell’acqua fredda, è come versare l’acqua sul fuoco,
del freddo sul caldo.
Bisogna evitare il freddo, bisogna ingerire cibi caldi; mangiare un gelato,
ad esempio, irrita moltissimo. Non si può andare dal parrucchiere, le messe
in piega non “prenderebbero”, non “terrebbero”. Si raccomanda di non
lavare, e neanche di lavarsi, il che, lo si nota facilmente, darebbe libero sfogo
a tutti gli effluvi corporali dagli effetti devastanti.
Le donne avvertono tutte queste proprietà del corpo come una
limitazione alle proprie attività; la loro vulnerabilità, come il potere della
putrefazione, le isola. Così sono automaticamente escluse dai grandi giri che
fanno gli uomini tutti gli anni sulle coste della Borgogna: “Ebbene anche
quest’anno presso quei vignaioli viene proibito l’accesso alle donne.
Quest’anno più che mai, poiché l’anno scorso una donna è voluta andare a
vedere e l’intera partita di vino bianco è andata in malora, allora le donne
protestavano perché non avevano il diritto di andare a vedere, non c’era
neanche una donna all’interno”.
Ciononostante, le donne parlano fra di loro dei loro poteri, delle loro
limitazioni parziali e temporanee. La proibizione dei salatoi è nota a tutti, ma
l’effetto è un’esperienza individuale ed è discussa: “Io ho fatto andare a male
un intero salatoio, è la verità. Non ci ho pensato, avevo le mestruazioni e
sono andata nel salatoio. Quando sono andata a riprendere il lardo, era tutto
verde. Lo sapevo, eppure non ci ho prestato attenzione. Bisogna esserne
colpite per sapere che è vero”.
Altre affermano di aver avuto un’esperienza contraria: “Dico che non è
vero, perché quest’anno, quando hanno ammazzato il maiale, non bisognava
farlo toccare a Josiane. E Germaine mi dice che neanche lo si doveva
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prendere per metterlo in congelatore. E poi, io ero proprio indisposta, allora,
quando ho visto che Josiane lo toccava, non ho detto nulla e l’ho toccato
anch’io. Il giorno dopo ho aiutato Maurice a salare e ho detto vedremo
proprio se è vero oppure se non è vero. Siamo state in due a toccarlo, e il
lardo è ancora buono”.
La loro vulnerabilità non è ben condivisa: “A me l’acqua non m’ha mai
dato fastidio, ho sempre lavato”. “Io non ci ho mai fatto caso all’acqua, ho
sempre fatto il mio bucato”.
In questa logica di causa e effetto, l’effetto è più o meno virulento a
seconda delle persone, e il confronto delle singole esperienze contraddittorie
non è altro che, per le donne, la prova del fatto che la “natura non è fatta per
tutti allo stesso modo”. In realtà, ciascuna è stata portata ad esaminare
l’effetto della propria natura, e vi è una certa malizia in ognuna nel tentare il
diavolo e una grande sottigliezza nel giocare con il potere di putrefazione.
Siffatto potere non risulta essere distribuito in egual misura, talune sono
più virulente di talaltre, certune sono addirittura velenose sempre: “Vi sono
persone che non possono affatto recarsi nel salatoio, neanche in tempi
normali, non appena si presentano va tutto a male”. “La mamma non può
fare i cetriolini, neanche durante la normalità, ciò le è impossibile, vanno a
male, allora fa sempre in modo di farli fare a me. Io li faccio i cetriolini, e
non vanno mica a male”. Presso certaltre vien fatto il vaglio degli elementi ai
quali sono di minaccia, la cui ragione resta un mistero: “Per quel che
riguarda la maionese, potrei ancora battere la maionese, ma non farei
montare a neve il bianco d’uovo; per Yvette, mia figlia, è invece la maionese:
oh, mamma, non posso fare la maionese...”.
È il respiro che, a detta di tutte, è l’elemento conduttore di questo
singolare potere; conclusione che s’impone alla mente, poiché tutte si
guardano dal toccare il lardo, evitano persino di guardarlo. Colei che ha fatto
andare a male tutto il salatoio spiega: “Eppure non toccavo con le mani,
bensì usavo una forchetta. Quindi ciò avviene tramite il respiro, solo da
questo. Non ci si può turare il naso in un salatoio per forza e non respirare”.
Da qui la raccomandazione: “Non bisogna mai ansimare in un salatoio6, il
6 Il respiro rimanda anche a dei gesti precisi che si compiono quando si cucina il maiale:
le donne soffiano nelle budella, le gonfiano per verificare che non ci siano dei buchi. Se
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respiro fa dei danni”. Da qui anche il gesto preventivo quando si va in un
salatoio, oppure quando si cerca nonostante il cattivo presagio di montare a
neve il bianco, cioè girare la testa: “Io giro sempre la testa dall’altra parte,
eppure, non c’è niente da fare”. Bisogna trattenere il respiro e tacere7, che il
fiato non passi attraverso le labbra: “Arriva tutto da lì – dal respiro – perché
durante le mestruazioni l’alito non è lo stesso, è più pesante”. Ma, come
mostrano gli esempi precedenti, ci sarebbero delle donne il cui alito sarebbe
sempre pesante.
“Ci sono persino delle persone, non necessariamente delle donne, il cui
alito non si confà, ci sono degli uomini che non possono neanche loro
preparare cibi sotto sale, coloro che hanno l’alito pesante, sgradevole”. È il
caso di colui che ha la febbre: “Quando si ha la febbre – caldo – è lo stesso,
è come quando si hanno le mestruazioni. I miei figli hanno preparato due
cose sotto sale che hanno messo in cantina, è mio cognato che li ha
preparati, aveva avuto un panereccio, aveva il dito fasciato, un po’
d’infezione, forse aveva anche un po’ di febbre... in ogni caso ha preparato
sotto sale. Ebbene, quindici giorni dopo, mio genero va a prendere del lardo,
e allora il lardo aveva un aspetto strano, era tutto molle, e in più puzzava”.
Questa deviazione si attua in tutti e due i sensi, poiché se ci sono degli
uomini – caldi –, che non sono capaci di preparare i salatoi, ci sono anche
delle padrone di casa – fredde – che cercano loro stesse di preparare i
salatoi, come questa donna: “Sono io che salo il salatoio, sono io che
preparo alla bell’e meglio il maiale; insomma oggi non c’è più nulla da
temere, alla mia età, ma l’ho sempre fatto, vi dico che non ci ho mai fatto
caso!”
Tornando a quelle che durante le mestruazioni sono calde e hanno l’alito
pesante, sono tanto più virulente quanto più giovani e sollecite. Quando si
comincia a riuscire a fare la maionese, se di solito non si è capaci, vuol dire
che si sta invecchiando un po’. Vale la seguente testimonianza tra moglie e
marito: Lei – “La scorsa settimana, ebbene, ero indisposta, ho voluto
qualche donna ha le mestruazioni non le è permesso farlo, farebbe strappare le budella. In
cambio, le donne in questo stato possono cucinare molto bene il sanguinaccio.
7 R. Pujol, Une bonne éducation, Paris, Gonthier, 1965, pp. 83-84. L’autore racconta come
venivano educate le ragazze in un collegio di religiose intorno agli anni trenta. Davanti a una
certa porta, quella del salatoio, le ragazze venivano fermate con un “in punta di piedi, ssshhh!”.
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preparare la maionese, e allora, ha funzionato, è andata bene, come ho
notato.
Lui – È che ora incomincia a calmarsi, comunque è meno adesso di
quando aveva vent’anni o trent’anni”. E tutti scoppiano a ridere.
È evidente che quanto più ci si riferisce a mestruazioni copiose in
gioventù tanto più si fa allusione al maggior ardore sessuale che le
accompagna.
Non sembra essere un caso il fatto che le donne che fanno facilmente
andare a male i salatoi o la maionese abbiano delle caratteristiche sessuali
particolari, sono cioè rinomate per la leggerezza dei loro costumi, sono
molto feconde, oppure a livello di coppia c’è una profonda intesa sessuale.
Tutto sembra ruotare sulla passione amorosa da cui dipenderebbe
l’integrità dei salatoi. Le mestruazioni svolgono il ruolo di manifesto della
sessualità. L’odore pesante che è associato al sangue mestruale e che passa
attraverso il respiro diventa così una manifestazione della forza del desiderio
della donna e attizza il desiderio dell’uomo. Questo legame è stato messo in
evidenza dal medico Groddeck8 che si è avvalso di studi sull’argomento:
“L’abbraccio, l’ardore lubrico, il desiderio sessuale della donna è in questi
giorni di sanguinamento notevolmente accresciuto; e come gli animali – che
non sono certo inferiori agli esseri umani – in questo periodo la donna attira
in qualche modo l’uomo. Che sia effettivamente così è dimostrato da un
fatto curioso: più dei tre quarti degli stupri vengono effettuati durante le
mestruazioni”. Il doppio potere delle mestruazioni, forza di seduzione e allo
stesso tempo forza infettiva, trova la sua espressione culturale nelle credenze
sulle donne dai capelli rossi.
3) Delle donne dai capelli rossi non ci si fidava, si diceva: hanno l’alito
pesante.
Se il potere di corrompere proviene da un alito pesante, che è più
accentuato e più caldo durante le mestruazioni, le donne dai capelli rossi, di
cui si dice che “puzzino abbastanza”, che hanno un cattivo odore e un alito
8
G. Groddeck, Le livre du ça, Paris, Gallimard, p. 120.
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potente, e questa è una condizione permanente, sono in particolar modo
virulente. A tal punto da attribuire all’essere rosso i danni causati dalla
levatrice rossa di un villaggio vicino: l’ombelico dei bambini che metteva al
mondo non riusciva a cicatrizzarsi, rimaneva purulento. La stessa levatrice
avrebbe, una volta, infettato addirittura la puerpera: “Quella levatrice aveva
l’alito talmente pesante e aveva anche un cattivo odore dappertutto; ebbene,
ha fatto contrarre quasi un’epidemia a mia sorella con l’alito. Mia sorella ha
avuto la febbre puerperale, è stata per quarantott’ore tra la vita e la morte”.
Le rosse che ‘puzzano’ sono anche più sensibili ai fenomeni atmosferici,
il freddo, la pioggia, l’acqua che spengono i fuochi. Essendo donnebarometro, la pioggia ne esalta gli odori: “Quando piove hanno un cattivo
odore”, come dicono: “dopo la pioggia9 la terra fermenta”. Si può segnalare
a questo proposito un uso scientifico di questa proprietà sensitiva: i
meteorologi che si servono di igrometri a capelli, apparecchi che misurano il
grado di umidità dell’aria utilizzando le proprietà di contrazione e di
allungamento dei capelli, impiegano sempre dei capelli rossi.
Le donne dai capelli rossi sono rosse, rosse del colore del sangue. La
credenza popolare riferisce che il bambino dai capelli rossi è stato concepito
durante il periodo delle mestruazioni della madre10. Così tutto si svolge
come se la donna rossa fosse afflitta dall’odore, dall’alito e dalla ricettività
che sarebbero la manifestazione di uno stato mestruale permanente; oppure
di una spiccata aperiodicità delle stesse mestruazioni. È una donna che ha
perso il bilanciere interno, un essere senza equilibrio, senza legge. Possiede
tutte le virtù della donna indisposta, ma in maniera costante.
C’è una contropartita positiva all’alito e al cattivo odore, ossia la
valorizzazione della loro sensualità. Essendo considerate ardenti e passionali
in amore, non lasciano mai indifferenti, o sono molto ricercate dagli uomini
per le loro qualità, o al contrario per le stesse ragioni si rendono
insopportabili. Le altre donne le temono o le invidiano come ha ben detto
Groddeck che ricorda “la credenza nelle giovani e belle streghe, questi esseri
Una forte pioggia si dice “rousse” (= rossa).
G.J. Witkowski, Histoire des accouchements chez tous les peuples, Paris, 1887, 2° vol., p. 163:
“Burnotte cita il caso di tre bambini rossi nati da padre e madre bruni, perché concepiti
durante il periodo mestruale”.
9
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senza fede e senza legge, dalla capigliatura rossa, che nascono dall’odio delle
madri incanutite per queste figlie ardenti, passionali, appena mestruate, cioè
dai capelli rossi”.
Questa reputazione amorosa le rosse la condividono con le zoppe che
sono squilibrate sul piano fisico: “le zoppe sono delle buone chiavatrici”. Ci
si rammenta di Gervaise, la zoppa, soprannominata con cattiveria dai parenti
acquisiti “la Banban” [la rullatrice] e delle riflessioni di Mme Lerat il giorno
delle nozze: “Madame Lerat sempre traboccante d’allusioni spinte definiva la
gamba della piccola un birillo amoroso; e aggiungeva che molti uomini ne
andavano matti, senza voler aggiungere nient’altro”11. Si attribuiscono le
stesse virtù alle gobbe. Essere rosse è come avere una malformazione, ma
sul piano della periodicità.
“Tempo fa vi era una sorta di razzismo verso le persone dai capelli rossi.
A Bures – villaggio confinante con Minot –, c’era un giovane dai capelli
rossi, proveniente da una famiglia di rossi. Una vecchia mi diceva: “Non
attardarti con un rosso, poiché se ti morde, non guarisci più!” I rossi hanno
un rapporto privilegiato con il sangue, essendo concepiti nel sangue lo
propagano, lasciano le ferite aperte, sanguinanti – tale era l’effetto della
levatrice rossa sull’ombelico dei bambini di cui abbiamo parlato in
precedenza, non essendo il loro sangue della stessa natura di quello degli altri
uomini. Di un uomo rosso a Minot si dice: “L’Augusto ha il sangue troppo
liquido”. Pur essendo negativi come le rosse, loro sono tuttavia
completamente e doppiamente segnati. Infatti anch’essi sono maleodoranti,
ma di quel calore femminile associato alle mestruazioni. Quindi sono degli
esseri ambigui in riferimento al sesso, e l’uomo rosso è accostato alla donna
barbuta nella diffidenza dello stesso rifiuto, come è attestato dal proverbio12:
Uomo rosso, donna barbuta
Da trenta passi ti saluta,
Con in pugno tre pietre è una rogna
E. ZOLA, L’assomoir, Paris, Livre de poche, p. 86.
T. H. Gaster, Myth, Legend and Custom in the Old Testament, New York, Harper and Row
Publishers, 1969. In un capitolo riguardante Esaù, rosso funesto, l’autore riprende questo
detto francese del XVII secolo, p. 368, n. 7.
11
12
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Da cui pararsi alla bisogna.
Nei loro confronti non vi è alcuna compensazione sul piano erotico, ma
una forte accusa di violenza, aspetto mascolino del rapporto col sangue e
della violenza sessuale. Li si associa di buon grado ai crimini di sangue. Una
ragazzina fu assassinata nel villaggio agli inizi del secolo, violentata.
L’inchiesta avanzò lentamente, si organizzarono delle battute, e in fin dei
conti “tutto è ricaduto sulle spalle di un uomo rosso”.
Bisognerebbe raccontare la storia tragica di questa giovane donna che il
giorno successivo alle nozze scopre che il marito ha i capelli rossi. Furiosa,
accusa tutti i parenti di lui, soprattutto la suocera, di averle nascosto la vera
identità del marito. Teme di avere un figlio coi capelli rossi, si ritrova
attorniata da persone rosse, tutti i parenti acquisiti. Divenuta madrina di una
nipote dai capelli rossi, la subissa di consigli per sbiadire la rossezza, e le
offre un pettine di piombo per farle passare la brillantezza dei capelli.
4) Non bisogna rifiutare nulla alle donne incinte, si teme che il bambino ne
soffra.
C’è un tempo in cui anche le donne perdono il bilanciere interno; ciò
avviene quando le mestruazioni cessano completamente, allorché sono
incinte. Nel periodo della gestazione, esse non rischiano di far marcire
checchessia – “oh, non c’è pericolo” –, non vengono sminuite in nessuna
maniera. Anzi al contrario, sembra che tutto sia loro permesso, lo stato
biologico è per loro fonte di diritti e per gli altri di doveri nei loro confronti.
Le donne incinte hanno delle voglie, e la varietà e la possanza di tali voglie
è un segno positivo e perfino emblematico del loro stato.
La voglia è un desiderio imperioso che travolge in maniera imprevedibile
e che bisogna soddisfare immantinente: “Quando la donna incinta dice che
qualcosa è bello, ci si affretta a donarglielo”. Se ci si rifiuta di soddisfare
questo gusto capriccioso della donna incinta s’innesca una sanzione magica.
Il bambino che verrà al mondo porterà sul corpo l’impronta indelebile
76
dell’oggetto concupito dalla madre. La macchia impressa sul corpo del
bambino assume anch’essa il nome di voglia.
Essendo incinte, le donne si trovano nella condizione di esercitare quasi
un diritto di requisizione su tutto ciò che le attira, finanche su quello che
appartiene agli altri. Ed è evidente che usano questo privilegio non senza
una qualche forma di malizia, esercitando a volte un vero e proprio ricatto,
come quella donna che, vedendo un giorno i vicini che preparavano il
sanguinaccio, ne chiede loro un po’. Essi rifiutano e lei risponde: “Non
vorrete mica che mio figlio nasca con il segno del sanguinaccio sul viso!”
In realtà il desiderio della donna incinta deve essere prevenuto da chi le
sta attorno, bisogna prevederlo. Ella parla con la presenza e con lo sguardo
ed è doveroso interpretarne il significato, bisogna accordarle quelle cose che
lei stessa designa con gli occhi. “Si desidera qualcosa, ma per niente al
mondo la si chiederebbe, ci si aspetta che qualcun altro ce la regali”. –
“C’erano delle rose che oltrepassavano il muro, erano così belle, avevano un
bel profumo, le desideravo. Avrei potuto coglierle, non volevo chiederle,
non volevo che dicessero che le avevo prese, avrei voluto che me le
donassero”. – “Condividevamo metà del giardino con un vicino, dalla sua
parte c’erano dei magnifici lamponi, erano belli, li volevo. Mi domandavo,
come devo fare a prenderli? La vicina è in grado di sorvegliare, come devo
fare? Mi è rimasta la voglia e Colette è nata con il segno di lampone
sull’incavo della gamba”. La manifestazione del desiderio è causa di
risoluzione del contratto sociale per cui viene riconosciuto il diritto di
rubare: “Capisco se una donna incinta ruba”.
Questo diritto di questua esercitato come un appello silenzioso tramite lo
sguardo può essere paragonato a quello in voga presso le maschere che
vanno di casa in casa a Carnevale. Stereotipate, inespressive, mute, le
maschere non forniscono alcuna spiegazione sulla loro presenza e
purtuttavia bisogna accontentarle13. Così facendo, la donna incinta, come
loro, si fregia di tutti quegli attributi misteriosi e tutti incominciano a
tremare.
13 Tutto il gioco – pericoloso – del silenzio a Carnevale consiste nel cercare di far parlare
le maschere per poterle riconoscere; queste invece devono resistere e mantenere il silenzio.
77
La donna incinta porta a volte quella che viene definita maschera, delle
chiazze scure sul viso che lasciano presagire la nascita di una figlia. Le voglie
sarebbero, dicono, più frequenti, più forti per le figlie, e i bambini nati con la
voglia di cui ci hanno raccontato la storia sono tutti, a Minot, in realtà
femmine. Che sia forse questa un’ulteriore prova della maggiore vulnerabilità
delle ragazze?
Non si danno spiegazioni sulle voglie, semplicemente si attribuisce loro
un’origine misteriosa, soprannaturale, la donna è come se fosse posseduta:
“Quando ti prende la voglia, non è una cosa che si sceglie, è terribile. Mi
volevo trattenere, ma ero spinta. Mia cugina mi diceva: Non ti nascondere,
che ci vuoi fare, è così, non diremo nulla, diremo solo che hai una voglia”.
Le voglie più comuni sono d’ordine alimentare e, in particolar modo, si
tratta spesso di un gusto appassionato e insaziabile per i sapori periferici,
cioè situati ai limiti del gusto, come ad esempio l’aspro e l’acido: “Di voglie
ne ho avute alcune molto forti. Per la mia ultima figlia sono state le pere
verdi. Andavo nei campi per le vacche mattina e sera. Custodivamo le
vacche a Basignerolles, avevamo delle terre da quella parte. C’era un campo
sulla destra con un pereto del signor Clément quindi un pereto che
apparteneva a un altro coltivatore e che in nessun’altra circostanza si sarebbe
potuta permettere di saccheggiare, stavo sempre lì appresso. Ma quella più
terribile è stata quando aspettavo Nadine, sono stati i cetriolini, e bevevo
l’aceto. Le voglie si portano, costituiscono una forma. Ebbene, Nadine, ha
sulle reni una macchia dalla nascita, è a forma di cetriolino”.
L’aspro, l’acido, sono delle categorie periferiche limite nella sensibilità
alimentare di Minot. Essendo grezzi, veraci, tali sapori, collocati al di fuori
dell’ambiente culinario, sono anch’essi periferici, nella misura in cui vengono
utilizzati come condimento. Apprezzati solo in questa forma, non sono
tollerati come sapori centrali14, sapori che, invece, rientrano nella sfera
culinaria. Sono così estremi da ricordare al limite l’andato a male che
rappresenta la fase ultima dell’asprezza e dell’acidità, e sfociano
nell’intollerabilità. Le voglie si collocano anche in una gamma di sapori che
vengono definiti maschili, destinando così la donna che non ha più le
14 La voglia non è portata mai dai sapori centrali dell’alimentazione quotidiana, né dai
sapori più femminili come i sapori dolci, zuccherati.
78
mestruazioni a un comportamento gustativo aberrante: “È terribile pensare a
tutti quei bicchieri di cetriolini sottaceto che ho trangugiato, è come un
uomo che beve, e tutte quelle pere che mi son pappata”. Di solito alle donne
è vietato comportarsi in una maniera così esagerata, cioè cedere alle voglie,
alla passione; ciò attiene alla sfera dell’uomo preso dal bere, degli uomini che
cadano nelle ‘imboscate’ e si fanno delle frittate di quaranta uova...
L’attrazione si sposta così sul rosso; tutta una serie di macchie alla nascita
sono in dipendenza di frutti dal color rosso: fragole, lamponi, ciliegie, more.
Attrazione fuori stagione15, gusto verso ciò che è troppo acerbo o troppo
maturo, verso i frutti aspri o mezzi, verso ciò che dà fastidio ai denti. In
questo contesto la voglia diventa stravagante, testimonia un gusto strambo,
bizzarro, addirittura pervertito. Essendo temporaneamente privi del
bilanciere interno, i sensi delle donne perdono ogni equilibrio.
Vi è un disorientamento ed anche un inasprimento dei sensi, come è
dimostrato dagli eccessi nell’altro verso che si manifestano a volte agli inizi
della gravidanza, ossia un intenso disgusto, nausea e vomito provocati
dall’estrema sensibilità agli odori che sono come moltiplicati. Ma questo
aspetto della sensibilità16 è molto meno frequente a Minot dove la voglia si
L’esempio classico in tutti i luoghi è quello della voglia di fragole a Natale.
Possono essere toccati tutti i sensi. Qui si tratta soprattutto del gusto e dell’odorato,
ma abbiamo rilevato altrove dei casi di donne incinte che manifestavano improvvisamente
una violenta avversione o una grande passione per certe melodie. Così è stato per una donna
che non sopportava più d’ascoltare la canzone infantile “A la volette”.
Jean Pouillon ci ha riferito a questo proposito una storia, che ha saputo da Boris Vian, e
che illustra la sensibilità auditiva: “Un uomo si trova un giorno in metropolitana e osserva qualcuno che,
con un grande cappello in testa, cerca di dissimulare delle orecchie da coniglio. L’uomo si avvicina e gli chiede
che cosa gli sia capitato. L’altro risponde: “Queste orecchie mi sono venute a causa di un trauma subito da
mia madre incinta. Mio padre era un grande cacciatore, un fanatico. Un giorno, mia madre che era incinta di
sei o sette mesi si riposava in camera, quando mio padre arriva dalla caccia, e, pazzo di gioia, getta sul letto i
quattro conigli che aveva appena uccisi. Mia madre ne fu talmente sorpresa e scioccata che sono nato con delle
orecchie da coniglio. Ecco la spiegazione” – Sapete, gli risponde il primo, non c’è determinismo in questi casi.
Una donna incinta può anche essere molto scioccata senza che si noti nulla sul bambino. Così io, mio padre
era melomane, adorava la musica, c’erano dischi dappertutto in casa. Un giorno, mia madre che era incinta di
me, apre un armadio per prendere della biancheria, una pila di dischi le sfugge e si rompe con grande fracasso.
Mia madre ha avuto molta paura, ma vedete, non mi è rimasto nulla, io sono completamente normale,
completamente normale, completamente normale, normale, normale, normale, normale...”. Certe donne
15
16
79
manifesta soprattutto in maniera positiva, o come fissazione stabile su una
categoria alimentare eccentrica in rapporto alle categorie abituali, o come
gusto capriccioso e instabile – “di voglie ne ho avute a bizzeffe” – il che è
prova di estrema volubilità, di un’oscillazione costante del desiderio.
Nei due casi vi è un disorientamento dei sensi che proverrebbe dalla
perdita della funzione periodica delle mestruazioni, di questo bilanciere
interno che dà il giusto equilibrio alla donna. È come se le donne, avendo
perduto il principio d’alternanza, s’impossessassero dei contrari17 o si
stabilizzassero sugli estremi. Il risultato è che, nel campo delle categorie del
gusto, si verifica quello che accade nella sfera culinaria allorquando la donna
si ritrova indisposta, si crea uno spirito sovversivo che porta ad una
situazione di rottura. La donna incinta, pazza di desiderio, tiranneggia su
tutti.
5) Tutti i miei figli sono nati normali, è questo che mi fa più paura,
l’anormalità, la peggiore delle catastrofi.
La mancanza di equilibrio nei sensi va di pari passo con l’estrema
vulnerabilità. La stessa donna incinta, che può causare una sorta di terrore
nell’ambiente circostante, è soggetta agli shock, alle emozioni e in particolar
modo allo sgomento o alla sorpresa che provoca la vista d’uno spettacolo
spaventoso. L’oggetto emotivo, che è causa di forte irritazione, s’imprime
come voglia sul corpo del bambino. Il bambino porterà una macchia nel
posto in cui la madre si sarà toccata nel momento dello spavento. Ma questa
non è una condizione per forza necessaria: a volte basta uno sguardo
affinché un bambino sia irrimediabilmente segnato in una parte del corpo.
In particolare, le cause delle emozioni traumatiche di cui il bambino
porta il segno sono, a Minot, per gran parte correlate con animali da pelliccia
e spesso con la foresta, e forniscono una spiegazione dell’origine dei
provano anche una vera e propria allergia a certi colori: “Avevo un cuscino verde e un cuscino viola
su un divano, non potevo più vederli!”.
17 Un desiderio congiunto di “ice-cream and pickles”(gelato e sottaceti) nel bel mezzo della
notte, opposti estremi, è un classico segno di gravidanza presso gli americani.
80
melanomi villosi. La storia drammatica della macchia natale della signora
Autardet, la vecchia sarta nata alla fine del secolo scorso, ossessiona
l’immaginazione di tutti ed è un punto di riferimento comune sull’argomento
a Minot. Ce l’ha raccontata lei stessa dopo averci detto che “i dottori non ci
credono, ma io ci credo”. Sua madre, essendosi sposata giovane perché
incinta di lei, aveva un porcellino d’India cui voleva molto bene. La suocera,
che invece lo odiava, prese un giorno il porcellino e lo lasciò nel bosco. A
causa del dolore per la scomparsa dell’animale, la donna si portò la mano al
viso, così la bambina nacque con un’enorme macchia villosa sul viso.
Circolano delle varianti della stessa storia, tutte quante riferiscono di un
animale da pelliccia, variano solo le circostanze: “La madre della signora
Autardet, incinta di lei, era andata a Echalot – un villaggio raggiungibile
tramite il bosco –; durante il tragitto vide uno scoiattolo, cercò di
acchiapparlo, ma non ci riuscì. Per la disperazione si portò la mano al viso e
si mise a piangere. La bambina nacque con la chiazza pelosa sul viso”.
Abbiamo raccolto una terza versione: “C’era una donna a Minot, era incinta,
ha avuto tanta paura quando ha visto un porcellino d’India da rimanerne
sconcertata! Per la paura si è portata la mano al viso e la bambina è nata con
il segno del porcellino d’India sulla fronte e sull’occhio, con i peli e tutto il
resto”. La macchia si trasmette con questo gesto tradizionale che appartiene
al passato, portare la mano al viso: “Quando si era corso, quando si aveva
paura, sotto la sferza emotiva, d’istinto si portava la mano al viso. È un gesto
che oggigiorno non si fa più”. Il tocco viene a localizzare la macchia; per
questo motivo si raccomanda per tradizione alle donne incinte di non
grattarsi, poiché qualunque oggetto che rientri nel campo visivo rischia di
imprimersi sul corpo del bambino. La stessa precauzione è rigorosamente
consigliata nel caso in cui la donna abbia una qualche voglia.
L’attrazione pericolosa che le donne incinte provano verso gli animali da
pelliccia è riconosciuta come tale, e la storia di Mme Autardet serve da
esempio. Si cerca di eludere il destino allontanando le fonti di pericolo: “Ero
incinta, avevo una volpe addomesticata; il maestro l’aveva presa in trappola e
me l’aveva regalata. Le volevo molto bene, obbediva solo a me. Mia suocera
mi diceva: bisogna che tu te ne liberi o ti porterà sventura. Non volli
ucciderla, la donai a mia cognata e dopo, vedete, il bambino è nato
81
normale”. In molte storie come questa l’intervento della suocera lascia
sicuramente il segno, tanto nel bene che nel male.
A volte infine il destino decide da solo che il bambino non rimarrà
segnato: “Mia zia mi ha raccontato che un piccolo mendicante invalido, con
due moncherini al posto delle mani, passava ogni anno da sua cugina.
Questa rimase incinta e tutti quanti non facevano che avvisarla: Mi
raccomando che Marthe non lo veda!, per paura che il bambino nascesse
senza le mani. Or dunque, un giorno la giovane donna si trovava in cucina
con la finestra aperta. Che cosa non vide arrivare sul davanzale della
finestra? Due moncherini. Eccola tutta sconvolta. Fu una lunga e faticosa
attesa fino al parto. Ma il bambino nacque con tutt’e due le mani, con grande
sollievo di tutti quanti”.
“Mia nonna raccontava che quando era incinta aveva un coniglio che
improvvisamente le scappò. Gli corse appresso, ma non riuscì a prenderlo e,
per la stanchezza, la disperazione e l’affanno, portò la mano al viso. Da quel
momento fino al parto visse nell’angoscia, temendo che il figlio avrebbe
portato una traccia del suo gesto, una macchia con i peli bianchi sul viso”.
Il tema della bella e della bestia ricorre a Minot in questo tipo di
avventure. Gli animali minacciosi sono selvatici, e li si incontra nella foresta,
oppure sono domestici, oggetto di un’amicizia e di una tenerezza tutte
particolari. Sono tutte categorie animali troppo vicine o troppo lontane per
essere consumate, e sono eccentriche come le categorie alimentari sulle quali
si manifestano le voglie.
Tutti questi eventi hanno delle gravi conseguenze a lungo termine
sull’esito della gravidanza. Sono in gioco le stesse caratteristiche umane,
perché vi è il pericolo reale di mettere al mondo un piccolo mostro, per
sempre segnato da tracce di tipo animale o vegetale, il bambino fragola,
lampone, pera o cetriolino, il bambino villoso, scoiattolo, porcellino d’India,
coniglio.
La vecchia sarta rievoca con voce sommessa un destino peggiore del suo:
“Ho sentito parlare di una donna che ha partorito una vipera”.
Coloro che nascono ‘macchiati’, che sono quindi ambigui sia per quel che
riguarda il colore – sono pezzati – sia per quel che riguarda la classificazione
naturale, si aggiungono alla coppia di esseri ambigui che abbiamo già
incontrata, l’uomo dai capelli rossi e la donna barbuta. Il proverbio che
82
associa già quei due personaggi si estende infatti per mettere nello stesso
sacco quest’ultimo personaggio: “Diffida dell’uomo dai capelli rossi, della
donna barbuta e di colui che ha una macchia sul viso”18. Mme Autardet, la
sarta di cui abbiamo a lungo raccontato la storia, con la voglia di porcellino
d’India sul viso, ha avuto il suo destino segnato da una macchia che ha
cercato a qualunque costo di far sparire. Ha rifiutato tutti i partiti per
sposare, senza amore, il cugino “perché lavorava a Parigi”. Lì si diede da fare
per fare la conoscenza di un farmacista, poi di un medico, quindi di un
chirurgo che la liberasse dalla macchia maledetta. Al villaggio, lascia un
ricordo di donna che ha sempre da dire la sua, che è cattiva, malevola, quindi
una cattiva lingua, e questo ricordo non si è mai potuto cancellare.
Sembra che il corpo delle donne sia ricetto di una doppia proprietà: la
vulnerabilità agli elementi di un universo esterno e la pericolosità che
contemporaneamente esse stesse esercitano verso questi elementi le rende
quindi di volta in volta minacciose e minacciate nel corpo. Fra quei due
momenti particolari della propria vita biologica, il momento in cui una
donna ha le mestruazioni e quello in cui si trova incinta, quelle due proprietà
si trovano divise come da una diversa polarità: quando ha le mestruazioni
presenta il lato minaccioso, quando è incinta si espone al lato vulnerabile.
Nel primo caso vi è l’inquinamento delle riserve alimentari, di cui il salato
dei salatoi rappresenta l’elemento più simbolico; nel secondo, l’attesa del
figlio nel corpo della madre.
La donna incinta è un essere che ha perduto i propri confini, come se i
limiti improvvisamente ingranditi e smisurati del corpo dilatato non
l’assicurassero più di niente, bensì inghiottissero tutto l’universo in virtù di
una comunicabilità intensa. Essendo incinta, una donna è paradossalmente
aperta in maniera completa all’universo, invece quando perde sangue è come
avesse uno schermo posto fra lei e il mondo, e si tratta di uno schermo
inquinante. A causa degli odori eccessivi, la donna indisposta rimane isolata,
per difetto, la donna incinta si ritrova in uno stato di permeabilità;
deodorata, ha perso il proprio asse. In rapporto alla giusta alternanza dei
periodi femminili, le rosse e le donne incinte si trovano in una posizione
simmetricamente inversa. Tutt’e due sono aperiodiche, ma l’una è sempre in
18
T.H. Gaster, op. cit., p. 368, n. 7.
83
periodo di mestruazioni, l’altra sempre senza mestruazioni. La prima è
troppo spinta a livello erotico, la seconda a livello alimentare.
6) Buon uomo, non far mai caso al grano di marzo e alla figlia di maggio
Questi grandi ritmi fisiologici che hanno sede nell’organismo femminile
non sono un dono primario, tutti a Minot riconoscono che essi rispondono
al ritmo cosmico di un astro, la luna. Il ciclo mestruale è ricalcato sul ciclo
lunare, la gravidanza dura per un numero fisso di lunazioni, il parto ha luogo
nel momento in cui vi è un cambiamento lunare: “La luna è cambiata il 19,
ed io ho partorito il 20”. La luna è la grande levatrice e dirige tutti i
movimenti d’entrata e di uscita nelle cliniche ostetriche: “Nella clinica di
Dijon le infermiere mi hanno detto: andrete via sabato, perché cambia la
luna, ritorna”. La fase della luna in cui si situa il parto interviene a lungo
termine; poiché, secondo la credenza, se la luna cambia nei tre giorni
successivi alla nascita, il sesso del prossimo bambino sarà diverso; se non
cambia, il bambino successivo avrà lo stesso sesso di quello che lo ha
preceduto.
Non solamente la periodicità femminile si adatta sottilmente al ciclo
lunare, ma per di più i poteri di cui sono investite le donne durante le
mestruazioni sono senz’altro paragonabili a quelli della luna in alcune sue
fasi. Tuttavia i poteri lunari poggiano su di una gamma molto più vasta che li
include tutti.
Gli influssi lunari assumono un doppio aspetto. Vi è la credenza secondo
cui in primo luogo la luna esercita un’azione su tutto ciò che cresce sulla
terra, sia nel regno vegetale che in quello animale e umano. In secondo
luogo, le condizioni atmosferiche legate al suo tragitto si ripercuotono sul
futuro, e l’interpretazione delle stesse condizioni è alla base di tutta una
meteorologia la cui periodicità più estesa non va oltre la sfera annuale.
Nella fase crescente – luna ascendente o luna nuova – la luna favorisce la
crescita in altezza e la moltiplicazione quantitativa di tutto ciò che germoglia
al suolo. Nella sua fase decrescente – luna calante o luna vecchia – essa
ostacola quegli stessi movimenti di crescita e favorisce invece la vita
84
sotterranea, “attecchiscono le radici dappertutto”, ed anche l’aumento
volumetrico “dappertutto si produce”. Così al momento della semina si
semina ciò che deve crescere con la luna nuova, cioè ‘i piccoli semi’, il
trifoglio, la lupinella, l’erba medica. La luna li ‘tira’, favorisce fiori e semi: “Si
seminano i piselli affinché siano sempre in fiore e formino baccelli più
grossi”. Bisogna seminare il resto con la luna vecchia, sia le piante di cui ci si
aspetta uno sviluppo volumetrico della radice, sia le patate e gli altri frutti
polposi come i cetriolini. Allo stesso modo, si seminano i cavoli e l’insalata
con la luna vecchia, per farli arrotondare. Se piantata nel senso contrario,
l’insalata cresce, le patate sono sempre in fiore, i fiori dei cetriolini si
diramano come l’erbaccia. La luna nuova induce alla moltiplicazione, quella
vecchia alla fruttificazione.
Si sperimentano così le proprietà relative alla crescita: “Mio marito non
ha voluto credere a tutte queste storie sulla luna, così un anno ha fatto
un’esperienza, ha seminato un campetto di trifogli nel momento sbagliato,
con la luna vecchia, ebbene, il trifoglio non è cresciuto”. Alcuni conoscono
queste leggi cosmiche meglio di altri: “Il cugino sa tutto questo e mi avverte
quando debbo piantare qualche cosa”. “Maddalena mi ha appena chiesto: Si
può piantare questo o quello? Dice: dovresti scriverlo, quando non ci sarai
più, ci saranno un mucchio di cose che non sapremo più”.
Il regno animale subisce gli stessi influssi: “La lepre con la luna nuova si
avvia, con la vecchia resta nella tana” – Quando si conduce la coniglietta dal
maschio con la luna nuova nascono i piccoli in maggior quantità”. Ciò vale
anche per gli uomini: con la luna nuova le malattie interne si risvegliano, i
bambini che hanno dei vermi sono più agitati. Se si tagliano i capelli, le
unghie, i calli ai piedi con la luna nuova, questi cresceranno più in fretta,
mentre accadrà il contrario con la luna vecchia.
Quel che è sottinteso in queste credenze è la presupposta esistenza di un
rapporto fra la linfa degli alberi e delle piante, gli umori e il sangue umano e
tutti i tipi di umidità esistenti sulla terra; la rugiada che spunta dal suolo è
una sua emanazione; essa condiziona per giunta l’alta marea. Quando è
nuova la luna favorisce tutti questi liquidi vitali ed anche la crescita ed il
ribollimento. Così quando bisogna raccogliere è necessario di solito agire
con la luna vecchia perché la linfa delle piante rischierebbe con la luna nuova
di continuare ad agitarsi, a fermentare e non potrebbe essere conservata.
85
Allo stesso modo, si spacca la legna a dicembre e gennaio, nel periodo di
bassa linfa e sempre con la luna vecchia, doppia precauzione, altrimenti la
legna non seccherebbe, ma marcirebbe. La luna nuova imprime dunque un
movimento di fermento ed agitazione dalle conseguenze nel complesso
alquanto negative, aumento di volume smisurato all’inizio del ciclo vegetale,
cattiva conservazione dei prodotti raccolti. La luna vecchia esercita un’azione
più moderata, più stabile. Agendo da bilanciere della vita agraria, le fasi della
luna dividono il tempo in periodi di diversa durata con impatti che si
oppongono fra loro in maniera alternata; la luna nuova esercita un’azione
particolarmente virulenta fintanto che è a forma cornuta, vale a dire fino al
primo quarto, la luna vecchia invece ha inizio dalla luna piena. In particolare,
i luoghi in cui i poteri della luna si fanno sentire di più, quando i precetti che
ne conseguono vengono seguiti alla lettera, sono la foresta nella quale
l’abbattimento degli alberi si fa sempre con la luna vecchia, e gli spazi
domestici, i giardini, le canapaie, i cortili, campi in cui si esercita l’attività
femminile. Nel cuore stesso dell’economia domestica – tra i maiali –, i due
poteri, quelli della donna e quelli della luna convergono: la luna quando è
nuova ha gli stessi effetti di corruzione della donna indisposta e ciò avviene
sulle cose stesse. Con la luna nuova non bisogna uccidere il maiale (non
darebbe il lardo, non si conserverebbe), né si deve fare il sanguinaccio (le
budella cederebbero), né tantomeno si deve imbottigliare il vino
(inaciderebbe). Le salature, le bevande fermentate, le conserve sono protette
dalle donne indisposte non soltanto dai divieti di cui abbiamo a lungo
commentato, ma anche disponendole al buio, in cantina, alcuni ritengono di
sottrarle in questo modo all’azione nefasta dei raggi lunari19. Così si afferma
un’equivalenza, almeno per quel che riguarda gli effetti, fra mestruazione
femminile e luna nuova, avendo i raggi lunari lo stesso potere dello sguardo
della donna indisposta, ma a livello termico le loro azioni sono contrapposte,
in quanto l’una si esercita nel freddo, l’altra nel caldo. La luna è un astro
19 George Ewart Evans, The Pattern under the Plough, New York, Faber and Faber, 1966,
p. 147: “I contadini americani degli inizi del secolo immagazzinavano le scorte di cibo sotto
terra, in un buco, credendo così di favorire la conservazione tenendole al riparo dalla luce
della luna. Nel 1903, il Servizio meteorologico degli Stati Uniti dichiarava: ‘È certo che i raggi
della luna producono certe reazioni chimiche. È risaputo che il pesce e certi tipi di carne si
alterano o si avariano se sono esposti alla luce della luna’”.
86
freddo, “quando è ascendente è fredda, quando ha le punte cornute in aria –
cioè quando è luna appena nuova –, è maggiormente fredda”. È messa in
relazione ai principali agenti atmosferici che creano la pioggia e il bel tempo,
i venti, le piogge, le gelate, di volta in volta auspicate e temute, e
l’osservazione di tali fasi è alla base di tutta la meteorologia popolare. È
questo il secondo aspetto della luna, aspetto fondamentale della concezione
del tempo dei contadini per i quali non è importante tanto contare quanto
prevedere. Un rapporto di alternanza dei contrari allaccia queste due fasi
relativamente alle previsioni meteorologiche: “Quando la luna rientra da
montone esce da leone, e viceversa”, è con il cambiamento della luna che si
opera il cambiamento del tempo. Le donne che, come abbiamo visto,
patiscono le mestruazioni come una grande tempesta interna e che sono
sempre sensibili agli elementi naturali, alla pioggia, al temporale, hanno come
la luna dei poteri meteorologici, ma più diretti. Riferisce Plinio20: “La
grandine, i mulinelli vengono ricacciati dalla donna che si denuda durante le
mestruazioni davanti ai lampi stessi; è così che si allontana la collera celeste,
e durante la navigazione le tempeste, anche se le donne non hanno le
mestruazioni, denudandosi”. In Serbia si fa lo stesso uso del potere
femminile: “In tempo di tempesta una donna nuda, aggrappata allo steccato
della propria casa, espone il sesso al furore celeste e il fulmine s’allontana”.
L’alternanza regolare delle fasi della luna non prosegue di continuo per tutto
l’anno, vi sono dei periodi in cui si interrompe: la luna perde la periodicità
binaria, e domina il carattere ben spiccato di una sola fase su tutta la durata
della lunazione. A Minot si riconoscono così tre lunazioni in qualche modo
sfasate, fuori tempo, la luna di marzo, la luna di agosto e la luna rossa. La
luna di marzo, che comincia con l’ultima luna nuova del mese di marzo, ha
una lunazione completamente segnata dal freddo della luna nuova. È
annunciata da venti secchi, i venti di marzo: “Ci sono giornate di vento forte
e dopo non piove, questa cosa fa seccare la terra”. È una sciagura per le
sementi: “Con la luna di marzo non va bene piantare”. Questa luna include
sempre la Pasqua e la Settimana Santa dal tempo grigio e uggioso. Un’altra
lunazione le succede un po’ più avanti durante l’anno, ma questa porta con
sé i benefici della luna vecchia, la luna di agosto che teoricamente si colloca
20
Plinio, op. cit., Livre XXVIII, ch. 23.
87
fra le due Madonne, cioè dal 15 agosto all’8 settembre. È preceduta, come
per la luna di marzo, da forti venti, i venti di San Lorenzo, il 10 agosto: “È la
stessa cosa, si tratta di venti aridi e senza pioggia”. Ma al contrario della luna
di marzo che si comporta come una costante luna nuova cattiva, la luna di
agosto è una costante luna vecchia buona: con i suoi raggi è il caso di
piantare l’insalata invernale affinché si arrotondi, di tagliare le spine in modo
che non ricrescano più, di conservare le uova per renderle incorruttibili. La
terza luna sfasata è la luna rossa, quella più tristemente nota. Siccome inizia
con l’ultima luna nuova di aprile, segue alla luna di marzo ed è la più
virulenta con tutte le caratteristiche nefaste della luna nuova per tutto il
ciclo, come le donne rosse che amplificano al massimo le caratteristiche delle
donne indisposte; ma il potere della luna si esercita con un freddo che
brucia, il potere delle donne con un caldo che putrefà. La luna rossa è infatti
molto fredda ed è accompagnata da gelate che strinano o addirittura
‘bruciano’ i piccoli germogli e la germogliazione in generale. Queste gelate
sono collegate ai santi gelati che inaugurano la lunazione, San Giorgio il 23
aprile, San Marco il 25, la Santa Croce il 3 maggio, e si temono soprattutto i
danni per i giardini. Per tutto il periodo in questione è perfettamente inutile
piantare, poiché “la luna rossa è sterile”.
Il primo maggio, come per gran parte del mese, vi è quasi sempre la luna
rossa, almeno teoricamente21. Considerati alla luce della luna rossa i rituali
del primo maggio ed anche certe credenze e certi usi che caratterizzano il
periodo, i quali formano secondo l’espressione di A. Van Gennep un ciclo
cerimoniale periodico, s’illuminano di una luce nuova. Innanzi tutto, sotto
gli auspici della luna rossa, luna aperiodica, lo stesso svolgimento del tempo
è perturbato, le fasi della luna non si alternano come dovrebbero, cosicché vi
è disequilibrio nel tempo che perde i soliti contrappesi e che diventa volubile
e capriccioso, la natura non rispetta le sue stesse leggi. Il tempo torna
indietro: un po’ d’inverno s’infila in questo inizio estate, si crea il gelo. Non
si può più fare affidamento sulle fasi lunari per le previsioni e si può notare
come nelle processioni delle Rogazioni si facciano puntuali tentativi per
Vedere il calendario stabilito da C. Gaignebet alla fine del libro, C. Gaignebet e M. C.
Florentin, Le Carnaval, Paris, Payot, 1974. Allo stesso modo i calcoli della data delle lunazioni
ripresi da J. Ph. Chassany, op. cit., p. 192.
21
88
rimediare al profondo sfasamento. Queste processioni che mirano infatti a
proteggere i campi dalle intemperie sono infarcite di presagi meteorologici,
giorno dopo giorno e non già fase lunare dopo fase lunare. Il tempo del
primo giorno della processione sarà riferito al fieno, il secondo alla mietitura,
il terzo alla vendemmia se vi è la vigna. Questo tempo disordinato cui si
tenta di rimediare corrisponde a un passaggio importante del calendario
stagionale, la fase di passaggio tra l’inverno e l’estate. “Si contavano sei mesi
invernali, da novembre al primo maggio e sei mesi estivi”. Lo stesso sussulto
temporale si presenta sei mesi dopo quando si passa dall’estate all’inverno
con l’estate di San Martino che affiora nel bel mezzo del mese di novembre.
Maggio si annuncia nel cambiamento, con un grande scompiglio. Il giorno di
San Giorgio e il primo maggio sono le date di passaggio tradizionali della
ridistribuzione delle attività, si passa da una stagione all’altra, da un luogo di
attività a un altro. A partire dal primo maggio non è più lecito tagliare la
legna, i boscaioli rientrano al villaggio. Per l’affinazione della ghisa si
cambiano i bagli il giorno di San Giorgio. Tuttavia, è ancora la stagione
ristretta, il grano è in ascesa, germoglia, la semina è già terminata. “Di San
Giorgio si semina l’orzo, di San Marco è troppo tardi”. È su queste
promesse di raccolti, di germogli, di fiori che la luna rossa avanza le sue
minacce. Al contrario, sembra che sia del tutto propizia ai prodotti collegati
alla fecondità e alla sessualità animali. Le galline depongono di nuovo le
uova, le vacche escono dalla stalla il giorno di San Giorgio mentre i bambini
escono dalla scuola, e tornano nei campi sotto la loro guida. Producono così
un latte particolarmente cremoso e abbondante. Maggio è il mese delle
conserve di burro: “Per il latte il mese di maggio è il momento migliore, per
forza, perché le vacche sono rinfrescate, vanno all’erba, allora rifanno il latte;
in quel periodo si faceva molto burro, lo si faceva struggere per conservarlo.
Il lattaio è in questo periodo che vende più latte, addirittura ci fa degli sconti
sul burro, lo vende per pani di cinque chili a prezzo ridotto e così facciamo
le conserve di burro fuso”. Ma in quei giorni i serpenti si risvegliano e
bisogna aver paura della serpe22, che ruba il latte e si avvolge attorno alle
zampe posteriori delle vacche e succhia loro le mammelle, la vacca una volta
che le è stato succhiato il latte, chiama la serpe. Si teme così per gli animali
22
A Minot, il serpente è una figura femminile chiamata la sarpen.
89
anche la rugiada di maggio che rende cattiva l’erba: “Bisogna aver cura di far
pascolare gli animali quando è evaporata la rugiada, altrimenti ingerendo
graminacee umide rischiano di avere la colite23. – “È nel periodo tra aprile e
maggio che l’erba è più forte, è il periodo più pericoloso, bisogna sorvegliare
i pascoli, vedere se le pecore non si girano sulla schiena, perché nel giro di
un’ora o due, con la fermentazione, muoiono”. All’ovest la rugiada di
maggio serve a tutta una magia dei latticini, gli stregoni la utilizzano come
una calamita per volgere a loro profitto il latte o la crema degli altri:
trascinano un cencio nella rugiada della prima notte di maggio, lo passano
sulle mammelle delle vacche di cui bramano il latte, poi sulle mammelle delle
proprie vacche; le vacche del vicino si inaridiscono, le proprie raddoppiano
la produzione.
Nel giorno di San Giorgio, all’umidità e alla fermentazione della terra è
ancora abbinato l’arrivo dei funghi più ambiti dell’anno, le gambesecche di San
Giorgio, e l’arrivo delle prime lumache. La raccolta di questi due prodotti dà
luogo ad una corsa appassionata attraverso i campi che porta ciascuno ai
limiti estremi del territorio, nei terreni incolti, in cerca di distese di
gambesecche dagli anelli blu; presso siepi e muriccioli a caccia di lumache. Si
possono riconoscere qui gli effetti del violento fermento della luna rossa.
Maggio è dunque caratterizzato da totale ambiguità, da una parte è
“Cattivo mese di maggio, quando annuncerai la fine della luna rossa?”24, e
dall’altra parte Ecco il bel mese di maggio delle canzoni, di ritrovamenti sul
terreno, tempo in cui una sorta di fermento – la rugiada, i funghi che nascono
dalla fermentazione – investe la terra, in cui le mammelle delle vacche si
gonfiano mentre sale la luna rossa. È per i ragazzi e le ragazze il mese degli
amori iniziati dal rituale del maggio.
Nella notte fra il 30 aprile e il 1° maggio, i ragazzi di Minot vanno nella
foresta comunale a tagliare dei giovani carpini coperti di foglie novelle.
Fissano queste piante – i maggi – sulla soglia dell’uscio di casa delle ragazze
da sposare e si dissolvono nel silenzio della notte senza farsi riconoscere. I
maggi parlano d’amore, i carpini distribuiti sono generalmente dichiarazioni
23
24
Taillemagre, La vie aux champs, Paris, Stock, 1973, p. 23.
J.Ph. Chassany, op. cit., p. 199.
90
d’amore simboliche: “Si mettono dei carpini per dire: sono rimasto
invischiato dal tuo fascino”.
Questo linguaggio può anche essere ingiurioso: alle zitellone si mettono
una capra o delle serenelle, cioè dei lillà che stanno a significare per il gioco
delle assonanze rimani là, alle ragazze dal brutto caratteraccio delle spine o
dei cardi, a quelle che sono leggere, un mucchio di letame. E i maggi
costituiscono un giudizio pubblico del gruppo di ragazzi sulla virtù e sul
potere di seduzione di ciascuna ragazza. La scelta rimane una cortesia e non
conduce apparentemente a nulla, i ragazzi non acquisiscono alcun diritto
individuale sulle ragazze, non si forma nessuna coppia, anzi il contrario.
L’indisponibilità in amore mette fuori gioco il ragazzo che frequenta
ufficialmente la ragazza, è solo imbrogliando, piantando in asso gli altri nel
corso della messa in atto del rituale dei maggi, che un ragazzo può tentare di
rendere peculiare il suo maggio, di esprimere garbatamente il proprio
messaggio con un segno, un nastro, un mazzo aggiunto al ramo di carpine,
ma la regola vuole l’anonimato: Marcellina si ricorda d’aver ricevuto un
maggio con una rosa e un cuoricino inciso, si chiede vent’anni dopo se non è
stato per caso il suo futuro marito ad averlo posato alla sua porta.
In cambio, le ragazze sono tenute solamente ad innaffiare i maggi, cioè a
pagare da bere ai ragazzi, collettivamente: fanno una colletta e li invitano al
bar la domenica successiva al rituale o alcune settimane dopo, nel corrente
mese. In quell’occasione i ragazzi disfano il maggio, conchiudendo il periodo
in cui le ragazze sono omaggiate. Passato questo termine, i maggi seccano e i
ragazzi si vendicano privando le ragazze del loro maggio l’anno seguente.
La disponibilità in amore è quindi uno dei criteri essenziali per la
costituzione di gruppi di adolescenti che collocano e ricevono i maggi. Il
maggio è per le ragazze un segno per l’accesso alla vita amorosa che coincide
con la pubertà: “Si riceve il proprio primo maggio verso i 14 anni, una volta
che si è terminata la scuola”, dopo il tirocinio durato per tutto l’inverno dalla
sarta. Al di fuori di qualunque convenzione abituale, si sostituisce il
linguaggio pragmatico dell’alleanza che accoppia terre e famiglie col
linguaggio diretto, naturale delle piante. A maggio si afferma la libera scelta –
A maggio fa come ti va – si affermano i giochi temporanei dell’amore di cui
sono testimonianza le numerose canzoni collegate a questo mese; ma tutto
ciò avviene al di fuori delle relazioni matrimoniali. Maggio è considerato un
91
mese nefasto per i matrimoni, vi si trovano dissociati matrimonio ed
erotismo.
Nel XVIII secolo la chiesa ha confermato il divieto, consacrando il mese
di maggio alla Vergine ed organizzando il gruppo delle ragazze puberi,
costituito dal rituale del primo maggio, nel gruppo delle giovani della
Vergine, il che non soffoca per nulla quel qualcosa che aleggia nell’aria: “A
maggio, era il mese di Maria, la chiesa era aperta tutte le sere, c’era la
benedizione, un’estasi per me, ero sempre tra la mamma e la bambinaia,
c’era un non so che di misterioso”. La prima comunione, che costituisce
socialmente il rito di passaggio verso l’adolescenza, è fissata il giorno di
Pentecoste e consacra un legame molto stretto fra le ragazze di una certa
classe, il legame fra compagne di comunione. Questo legame equivale a
quello di coscritto esistente fra i ragazzi, che segna presso di loro la
conclusione dell’adolescenza allorché per le ragazze ne segna l’inizio. “La
compagna di comunione la si invita il giorno del matrimonio, non è una
qualunque, è la ragazza con cui si cammina fianco a fianco nel corteo delle
comunicande che entra in chiesa ed è frutto di una scelta”. Si preferisce
rimandare l’anno della comunione piuttosto che rimanere da sola, senza
compagna. Se ci si ritrova in tre, è un dramma perché “quella che si trovava
in mezzo durante la processione e la cerimonia non aveva fortuna, ciò era
causa di sciagura, si diceva per giunta che sarebbe morta entro l’anno”. Il
legame di compagna di comunione garantisce una fortuna biologica, ed
intorno alla cerimonia soffia un vento di maggio, indocile e gioioso: “La
comunione è attualmente una grande festa di famiglia, si canta, si balla, si va
a spasso”. – “Ora si fanno i vespri prima del pasto perché la gente era tutta
eccitata, si parlava e si scherzava in chiesa”. – “Il giorno della vigilia ci si
recava in campagna a raccogliere i fiori per decorare la chiesa, tutti dovevano
comporre una corona di fiori per offrirla alla Vergine il pomeriggio nel corso
dei vespri”.
Infine si faceva il ritiro spirituale sotto la guida del curato, in un luogo tra i
più selvaggi, tra i più cupi, tra i più isolati che si conoscano nei dintorni,
l’abbazia della Val-des-Choux, nel bel mezzo della grande foresta di
Chatillon. Non si potrebbe vedere in questo ritiro di qualche giorno nel
cuore della foresta il periodo di isolamento che, in numerose società,
caratterizza i riti della pubertà femminile? In altre parole quel che si farebbe
92
a maggio, di cui abbiamo già spiegato l’accostamento con la luna rossa,
sarebbero i festeggiamenti delle mestruazioni delle ragazze; questa tappa
della vita individuale si inserirebbe nel calendario in un periodo propizio,
con la luna rossa.
I folcloristi hanno rivelato lo statuto particolare delle ragazze nel mese di
maggio, il carattere erotico che impregna i rituali. Per A. Van Gennep, “il
carattere principale di questo ciclo è di tipo agrario... ma altri atteggiamenti
collettivi sono entrati in gioco nella costituzione delle cerimonie di maggio,
in particolare un elemento sessuale ben visibile”25; e per A. Varagnac: “Il
mese di maggio è considerato in tutta Europa come il mese degli amori e
delle passioncelle, da cui si è sviluppato un accentuato folclore di tipo
sessuale ed erotico”26. Se è possibile, secondo la teoria dei riti di passaggio di
tipo stagionale di A. Van Gennep, rendere conto della marginalità del tempo
in questo periodo, il semplice passaggio da una stagione all’altra non basta
per comprendere lo statuto particolare cui sono soggette le ragazze.
Accostando il maggio delle ragazze al maggio giuridico in uso in alcune
regioni, A. Varagnac deduce che la collocazione delle piante sull’uscio di casa
delle ragazze ne proclama l’autonomia invocando come spiegazione di
questa indipendenza il fatto di essere consacrate agli spiriti, gli spiriti dei
morti. Di qualunque cosa si tratti, ci contenteremo di seguire la logica lunare
che ci suggerisce un accostamento fra il ritratto della ragazza a maggio, le sue
qualità di seduzione che tuttavia si contrappongono ad una sessualità
procreatrice, ed il ritratto, ugualmente carico d’erotismo, della ragazza che ha
le mestruazioni o meglio della ragazza dai capelli rossi, poiché il periodo
considerato ricopre un’intera lunazione.
Una volta l’anno la luna è rossa, quindi questa luna avrebbe una sorta di
mestruazioni, e delle mestruazioni prolungate – la rugiada di maggio sarebbe
l’equivalente del sangue mestruale lunare – le ragazze soggette a tale ciclo
sarebbero allora investite di tutti gli attributi delle rosse. Equiparando lo
statuto rituale delle ragazze di maggio a quello delle rosse diventano chiari
diversi costumi e diverse credenze. Si comprende meglio quindi perché le
A. Van Gennep, Manuel de folklore français contemporain, Paris, Picard, 1949, tome I, vol.
4°, p. 1421.
26 A. Varagnac, Civilisation traditionelle et genres de vie, Paris, Albin Michel, 1948, p. 178.
25
93
ragazze dal fascino accattivante siano purtuttavia escluse dal matrimonio. La
ritrosia a sposarsi nel mese di maggio si ricollega, infatti, essenzialmente alla
paura di concepire. Tra centinaia di riferimenti locali, A. Van Gennep rileva
che i bambini che dovessero nascere da queste nozze sarebbero “idioti o
bighelloni, avrebbero gli occhi rossi, sarebbero matti o epilettici,
morirebbero prematuramente”27. O ancora, si ritiene comunemente che tali
unioni siano sterili: “I matrimoni di maggio non fioriscono mai”. Ora tutti
questi caratteri, la sterilità o l’anormalità della prole sono proprio la
conseguenza di un’unione con una donna che ha le mestruazioni o con una
rossa.
A maggio aumenta la sensibilità delle ragazze ai malefici dell’acqua, e la
vulnerabilità, come il potere a fior di pelle delle rosse, si ritrova per tutta la
durata del mese nei divieti che colpiscono certe attività femminili. Così,
lavare durante il mese o solamente in certi giorni del mese a seconda delle
regioni, attira la morte verso la lavandaia o verso suo marito, cucinare il pane
durante i tre giorni delle Rogazioni, o a volte in certi altri giorni del mese in
questione, sarebbe cosa nefasta perché ammuffirebbe durante tutto l’anno.
La rugiada lunare e il sangue mestruale hanno le stesse virtù magiche ed
esercitano lo stesso tipo di attrattiva. Come il sangue mestruale estirpa le
verruche, così la rugiada di maggio elimina le imperfezioni della pelle, le
efelidi, le pitiriasi, le verruche, dando alle ragazze una carnagione color latte.
La rugiada è impiegata in tutta una magia amorosa che rimanda al potere
d’attrazione collegato con le mestruazioni: “Nell’Isère i ragazzi che si
rotolavano nudi in quella rugiada erano sicuri che sarebbero stati amati”28.
27
28
A. Van Gennep, op. cit., t. I., vol. 2°, p. 380.
Ibid., p. 1438.
94
7) Tutte queste cose sono dette così per dire, ma sono vere, dipendono dal
movimento della luna, sono dei veri e propri fenomeni29.
I ritmi biologici che sono propri delle donne ci fanno scoprire il rapporto
privilegiato che esse hanno con il tempo. I punti di riferimento temporali
sono ben radicati nel loro corpo; il tempo scorre dalle donne tramite delle
regolari pulsazioni mensili; esse portano con loro un campione di
misurazione doppio, quello della ripetizione e quello aperto nell’attesa che si
nutre di presagi e di desideri. Come la luna, le donne forniscono un
supporto al tempo di cui assumono l’irregolarità e i contrattempi. Il respiro
invisibile delle donne indisposte è un respiro cosmico, essendo messaggere
dell’aldilà, le tempeste interiori piegano i giorni, accorciano o accelerano il
corso delle cose; da donne incinte diventano prede; nel mese di maggio si
sottomettono al calendario.
Non sono altro che frammenti di dialogo con l’universo quello che
abbiamo potuto cogliere in questa sede. Può sembrare sottile il filo del
divieto del salatoio alla donna dai capelli rossi e alle ragazze di maggio, ma
da ciò risulta che è proprio il corpo femminile nella sua peculiarità a fornire i
termini di tale dialogo e che gli avvenimenti della vita biologica non sono
isolati né separati dalle altre realtà.
I movimenti del corpo sono per una donna i suoi eventi che colpiscono
per così dire dall’esterno, folgorazioni che la attraversano come colpi di
fulmine. Costei è forse sempre equiparata a questa chiarella, quest’orvale
gravida di piovaschi e lampi, un essere fatale attorno al quale gli elementi si
mettono in movimento, la terra si muove, gli astri perdono la rotta.
Questo acuto senso del fato anima i discorsi delle donne la cui passione,
la cui veemenza, il cui senso drammatico e il cui tono epico ci hanno colpiti.
Parola – favolosa –, che porta con la sua ricchezza tanto l’illusione che la
risata, la sicurezza, il rimedio, la rivincita.
Essendo un segno dei tempi, il divieto del salatoio perde importanza
come l’osservazione delle fasi lunari, ma gli effetti restano, ed anche l’ira del
macellatore del maiale:
29 Il termine fenomeno è impiegato qui dal nostro informatore in senso proprio,
etimologico. Cfr., Le Petit Robert: fenomeno, dal greco phainoména, fenomeni celesti.
95
La gente non prende più precauzioni, e dopo si lamenta perché trova il salatoio ormai
andato tutto a male, il maiale per intero, il prosciutto, tutto quanto. A mia suocera è
venuto un colpo, ho rovesciato i prodotti salati sullo stallatico ma gli animali non li hanno
neanche voluti mangiare. La carne è imputridita, vi garantisco che se la faceste cuocere in
casa vi sarebbe un tanfo incredibile, abbiamo cercato di darla a mangiare ai cani, ma non
è stato possibile. È stato forse a causa della luna, forse a causa della donna... ma siccome
non si fa più caso a niente, non possiamo saperlo...
96
Il corpo femminile e le cose nella Polesia.
Un sistema simbolico della fine del xx secolo*
di Galina Kabakova
Lo studio realizzato si basa sui dati raccolti nell’ambito delle ricerche
effettuate da una squadra di studiosi dell’Accademia delle Scienze e
dell’Università di Mosca negli anni 1976-1985. Nel corso di numerose
spedizioni, abbiamo esaminato oltre un centinaio di paesi; le testimonianze
raccolte si trovano attualmente negli archivi dell’Istituto di studi slavi e
balcanici a Mosca; di queste solo una minima parte è stata pubblicata finora.
È importante precisare che in questi materiali sono incluse le descrizioni dei
riti e degli usi che, o sono praticati ai nostri giorni, o erano in voga nel
passato ma di cui si conserva ancora il ricordo.
Il terreno esplorato si colloca a nord dell’Ucraina e a sud della Bielorussia
ed anche all’estremità occidentale della Russia. Questo terreno etnologico
porta il nome di Polesia e forma un’area culturale coerente la cui integrità e
stabilità hanno considerevolmente contribuito alla conservazione degli
elementi arcaici sia nella lingua che nelle usanze, nelle credenze e nelle
pratiche rituali. D’altronde, una serie notevole di elementi offre un’analogia
diretta con altre aree conservatrici del mondo slavo.
Una delle ragioni che hanno influito sulla scelta dell’area da considerare
negli studi è lo statuto storico: la maggior parte degli specialisti, storici e
linguisti, si trova d’accordo nel dire che la Polesia fu la culla della civiltà slava
da cui nei primi secoli della nostra era si propagarono vari flussi migratori
tanto all’ovest che al sud.
La nostra ricerca verte sulle rappresentazioni mitologiche della donna, le
funzioni procreatrici e l’insieme delle credenze correlate con la nascita e la
prima infanzia. Ci siamo rifiutati di seguire gli avvenimenti principali della
*
ANNALES ESC, mai-juin, 1992, 3.
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vita della donna in un ordine cronologico, come si era fatto per tradizione,
cioè le prime mestruazioni, le nozze, il concepimento, la gravidanza, il parto
ecc. Questo perché i materiali recuperati presentano troppe affinità con
quelli ricavati in altre parti del mondo. Non si tratta più di accumulare dati
grezzi anche se significativi ed arcaici. A nostro avviso, la cosa più
importante da fare è chiarire il funzionamento di un sistema simbolico al cui
centro si trova la donna. Questo sistema è costituito da diversi sottosistemi
tematici in cui i codici, a loro modo, sono soggetti ad esprimere lo stesso
contenuto. I sottosistemi annunciati includono l’abbigliamento, l’habitat, il
mondo animale e vegetale, la meteorologia, ecc. La peculiarità dei codici si
traduce nella loro implicazione in diverse dichiarazioni verbali, nella
terminologia regionale ed anche nei riti. Così, il metodo adottato integra
l’analisi etnolinguistica e quella semiotica.
Il codice relativo al vestiario
I modi di dire proverbiali in tutte le loro modalità – di glorificazione
(raramente) o di disprezzo (più frequentemente) – che riguardano la donna,
il suo corpo e il suo comportamento s’avvalgono di buon grado di un
numero limitato di oggetti consueti e di esseri animati della vita quotidiana
della donna stessa. La ripetizione costante degli stessi oggetti di paragone
induce a presupporre che tale scelta non sia frutto del caso. Non sembra che
questo universo impoverito di oggetti funzionali di nessuna importanza sia
considerato così da coloro che vivono al suo interno.
Questo perché una tale povertà conclamata viene compensata dalla
pluralità di significati attribuiti agli elementi che la compongono, dalla
moltitudine e dalla complessità dei rapporti allacciati fra i vari componenti.
Non è più necessario dimostrare che gli abiti fanno riferimento a un
codice sociale tra i più pertinenti in una qualunque società. Numerosi studi
affrontano questo argomento proponendo diversi approcci: uno sociologico,
uno semiotico e uno psicanalitico. Invece, sembra che un aspetto importante
del ruolo ricoperto dall’abbigliamento sfugga ai ricercatori che esplorano tale
campo o almeno non è mai stato studiato a fondo in tutta la sua complessità.
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Purtuttavia, rimane un aspetto di capitale importanza per la comprensione di
una società di tipo arcaico. Si tratta di valutare le connotazioni mitologiche
collegate con l’abbigliamento.
È necessario tenerne conto nel momento in cui si analizza la
distribuzione dei ruoli sociali e biologici nell’ambito di una società il cui
obiettivo primario è di assicurare l’equilibrio e la stabilità. La confusione dei
ruoli, la perdita di identità sessuale rischiano di chiamare in causa non
solamente il valore dell’individuo, ma anche inevitabilmente il
funzionamento corretto della comunità intera. Di conseguenza, le misure
preventive contro le eventuali mutazioni devono essere prese dall’inizio.
La ripartizione dei ruoli biologici si esprime nettamente attraverso i
vestiti maschili e femminili che si usano il giorno prima del concepimento il
quale, nello schema rituale, coincide con la notte nuziale. Per assicurarsi una
progenie maschile, di gran lunga più valorizzata di quella femminile, le
paraninfe mettono nel letto delle giovani spose parte degli abiti maschili: i
pantaloni o il berretto. La donna che desidera avere una bambina nasconde
sotto il guanciale il suo fazzoletto. In questo modo si cerca di esercitare un
qualche influsso sul sesso del primogenito.
Ma il momento cruciale dell’identificazione risiede fuor di dubbio all’atto
della nascita. Si presume che sia proprio la scelta delle fasce a determinare la
sorte del bambino. Se in certe località si accorda la preferenza ai vestiti
maschili indipendentemente dal sesso del nascituro nella maggior parte dei
casi si ricorre a due possibili strategie: l’utilizzo dei vestiti del genitore dello
stesso sesso oppure del sesso opposto.
I ragionamenti evocati variano: spesso si ricorre a dei ragionamenti di
tipo sentimentale (per esempio per una ragazza: “attirare l’amore del padre
verso la figlia”, “l’amore dei ragazzi nel futuro”) oppure si spera che il
bambino, con il suo primo abito, otterrà le qualità del genitore. In realtà, si
tratta di una scelta determinante: o il bambino deve ereditare dei valori del
proprio sesso, o otterrà delle “valenze” supplementari dal sesso opposto. La
seconda strategia offre i suoi vantaggi, poiché il successo col sesso opposto
garantisce il matrimonio, condizione al contempo necessaria e sufficiente per
aver successo in campo sociale. D’altronde, l’eccessiva sessualità rischia di
condurre ad una gravidanza indesiderata se non addirittura illegittima, il che
diventa un impedimento pressocché invalicabile per portare a termine un
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matrimonio. In altre parole, si presenta un dilemma tortuoso che si snoda fra
la sobrietà e l’eccezionalità dei doni.
Ci si astiene ugualmente dall’infilare la camicia del padre ad una figlia per
timore che costei non rimanga “vuota”, sterile, minaccia che peserebbe
anche sulla futura sposa nel caso in cui qualcuno inavvertitamente, o
intenzionalmente, le mettesse un berretto. Ciò detto, si ritiene che la virilità
acquisita con gli abiti che appartengono ad un uomo sia soggetta a reprimere
la fecondità che, nel sistema di valori tradizionali, viene concepita come
sinonimo di femminilità.
Invece, l’uso corretto degli abiti maschili favorisce il concepimento e la
fermentazione: una vacca asciugata con dei pantaloni sarà facilmente
montata da un toro, la pasta che viene messa nella madia fra un paio di
pantaloni ed una camicia da donna lieviterà velocemente. Questi due esempi
testimoniano il carattere universale dell’opposizione maschio/femmina che,
in tutte le realizzazioni, è alla base della creazione.
Bisogna sottolineare che nelle usanze citate si tratta solamente di oggetti
usati, poiché quelli nuovi che non sono ancora entrati in contatto con un
essere umano sono completamente neutri, o addirittura inefficaci. Si
sconsiglia l’uso di tessuti e di fasce nuove per una motivazione d’ordine
strettamente pratico: il bambino logorerà troppo velocemente i suoi abiti nel
futuro. Invece, gli stracci sporchi e la biancheria che conserva il sudore dei
genitori proteggono, a quanto si crede, il neonato dal malocchio, dalla
stregoneria malefica.
Ma il controimpiego dei vestiti, cioè l’impiego dei vestiti del sesso
opposto, è talvolta praticato in maniera completamente cosciente. Esso
tende ad influire sull’ordine delle cose, a cambiare il sesso del prossimo
figlio: si ricorre a questo procedimento nel caso in cui la donna abbia dato
alla luce solo dei bambini dello stesso sesso. È l’assenza di figli maschi che
indispettisce di più. In questo caso si preferisce avvolgere la placenta di una
ragazza in un berretto maschile prima di sotterrarla. In altre aree slave si
asserisce di ottenere lo stesso risultato cambiando le scarpe durante il
battesimo (si mette la scarpa sinistra al piede destro e viceversa), obbligando
la partoriente ad indossare la sua camicia al contrario durante i primi
quaranta giorni successivi al parto, ecc. Così, il rovesciamento di tutte le
opposizioni semantiche (destra / sinistra, diritto / rovescio, maschile /
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femminile) entra in gioco in modo da ovviare alla concatenazione
sfavorevole delle nascite.
Invece, il “travestitismo” involontario, effettuato al di fuori di un
contesto rituale rischia di avere delle conseguenze disastrose. Il bambino che
indossa per negligenza dei vestiti o della bigiotteria dell’altro sesso sarà
debole di spirito o partorirà prima del matrimonio. In generale, nella
mentalità tradizionale, il contesto – quotidiano o rituale – determina la
gerarchia dei valori. Quello che è considerato come una norma nella vita
quotidiana, si rivela l’opposto in una situazione rituale e, al contrario, quello
che è permesso durante una festa rimane inammissibile nell’ambito della vita
quotidiana. Il travestitismo carnevalesco, come è dimostrato da numerosi
studi dedicati a tale argomento, contribuisce alla stabilità dell’ordine delle
cose sebbene in maniera negativa. Ma l’utilizzo di vestiti del sesso opposto al
di fuori dell’ambito carnevalesco è il segno di un castigo per aver trasgredito
le regole morali. Tale forma punitiva veniva esercitata nel caso di
concubinaggio nella Russia centrale ancora alla fine del secolo scorso.
Dunque l’abbigliamento è rappresentato come il doppio dell’essere
umano, con i suoi indici sociali. Se questa supposizione non richiede più
alcuna prova a livello sociale grazie alle indagini di R. Barthes o di C. LéviStrauss, per non citare altri, è necessario invece fornirne a livello biomitologico. Da questo punto di vista, il simbolismo dei vestiti nelle principali
tappe della vita femminile rivela molti aspetti.
L’abito femminile o piuttosto la camicia della futura sposa nell’ambito del
rito matrimoniale è una metafora diretta della sua verginità. Il giorno
successivo alla prima notte nuziale la si porge agli ospiti per garantire loro la
castità della ragazza e, contemporaneamente, per renderli partecipi
dell’avvenuto sverginamento. Di primo acchito, la camicia sporca di sangue
diventa la bandiera da inalberare o sul tetto, o sulla punta di un’asta sotto la
cui protezione il corteo sfila per tutto il villaggio allo scopo di diffondere la
buona novella nella comunità. La camicia è occasionalmente sostituita da un
fazzoletto o da un tovagliolo che debbono essere anch’essi di un rosso
sanguigno. Nel caso in cui la ragazza non abbia saputo conservare il proprio
‘onore’ (la sua verginità), il colore della bandiera è quello del lutto – nero o
bianco.
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Sempre per esaltare la purezza della giovane sposa, che è una condizione
sine qua non per il buon esito della vita di coppia, si riempie il suo doppio
rituale – la camicia – di chicchi di grano. Inoltre, con ciò si vuole esprimere
un altro significato. È importante segnalare che la lista degli oggetti carichi di
valenze simboliche in ambito rituale (almeno se si considerano le attuazioni
relative ad un’area geografica specifica) è abbastanza ristretta. Ma la
scarsezza dei mezzi è bilanciata dalla loro polivalenza, dalla molteplicità di
varianti combinatorie sufficienti ad esprimere il messaggio desiderato. La
laconicità dei mezzi scelti va di pari passo con la sinonimia dei gesti che
mirano allo stesso scopo: dotare a qualunque costo le giovani spose della
fecondità. È per questo che vengono ricoperte di chicchi, accolte con del
pane e fatte sedere su un cappotto con sopra la pelliccia, sperando così che
la prole possa essere altrettanto numerosa quanto i chicchi o i peli della
stessa pelliccia.
La funzione della camicetta nel garantire la fecondità è più o meno
evidente a tutti coloro i quali partecipano al suddetto sistema di valori, sia a
coloro che li accettano sia a coloro che li respingono. Bruciando la camicetta
della sposa, la notte delle nozze, la coppia si condanna alla sterilità.
Evidentemente la rinunzia premeditata alla procreazione è considerata dalla
società un peccato grave che suscita uno spiccato senso di riprovazione.
Lo stesso gesto di distruzione dell’abito in altre situazioni esprime un
messaggio opposto a quello. Non lontano dalla Polesia, in Russia, la donna i
cui figli muoiono in tenera età fende l’abito con un’ascia per poi bruciarlo. In
questo modo, costei punisce la propria carne per non essere stata capace di
mettere al mondo dei figli sani e, separandosi dalle proprie sembianze
materiali, spera di iniziare una nuova vita, di porre fine alle calamità che
incombono sulla sua stessa famiglia.
I vestiti che vengono aperti tramite l’uso di ganci, bottoni o nodi fanno
riferimento sul piano simbolico alla liberazione del corpo, all’apertura del
ventre. Siccome il matrimonio implica necessariamente la tappa successiva
nella vita della donna – il parto –, tutto concorre a facilitarne il decorso. Ma
a volte il giovane sposo è costretto a strappare l’abito della moglie se non
riesce a compiere il primo obbligo – lo sverginamento. Le complicazioni si
spiegano tradizionalmente tramite i maneggi di forze malefiche che
avrebbero stregato la coppia. Esercitando il proprio potere sul simbolo
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materiale della castità, l’uomo tende a distruggere l’integrità del corpo
verginale.
D’altronde, le manipolazioni identiche ricominciano nel momento stesso
del parto. Non solo la donna deve sbottonarsi o disfare i nodi, disintrecciarsi
i capelli, ma anche tutti coloro i quali la assistono nelle fatiche del parto: il
marito, la levatrice, le parenti, i visitatori occasionali. Per far aprire il corpo si
ricorre anche al coito realizzato o fisicamente, o – e questo avviene più
frequentemente – simbolicamente sempre con l’ausilio degli abiti: la donna
scavalca per tre volte i pantaloni o la cinghia del marito messa per terra.
Il parto come il matrimonio assume facilmente una dimensione
universale, cosmica. Tutto e tutti sono costretti a prendervi parte: la gente,
gli oggetti dell’ambiente circostante, l’habitat, e persino – a livello
immaginario: il cielo. Solamente la cooperazione di questi elementi
permetterà alla partoriente di liberarsi.
Ma i genitori si sentono a volte obbligati a ricostituire, con una
messinscena, tutto il processo di ‘fabbricazione’ della nascita dall’inizio – dai
rapporti sessuali, dal concepimento del feto – fino alla fine: il buon esito del
parto. Tale necessità s’impone in caso di grave malattia del bambino, qualora
siano stati adottati tutti gli altri mezzi e i procedimenti della medicina
popolare e si siano dimostrati inefficaci. In queste condizioni, i genitori si
accoppiano di fianco al piccolo sofferente, dopo la madre lo fa passare per
tre volte attraverso la sua camicia mentre ripete una formula tradizionale:
“Come ti ho dato alla luce così io ti posso guarire”. O ancora, la madre
annuncia la sua intenzione in modo ancora più trasparente: “Dal luogo in cui
ti ho fatto nascere, da lì ti guarirò”. Imitando il parto, lei può scavalcare il
bambino o può asciugarlo con la camicia oppure con i pantaloni del
congiunto.
L’abito, in quanto doppio perfetto dell’essere umano, è diviso in
“graduazioni” di cui ciascuna possiede un significato preciso: la parte bassa
si riferisce direttamente alla sfera sessuale, mentre quella alta – la pettinatura
– determina per eccellenza lo stato sociale. Questa ripartizione è stata, a più
riprese, oggetto di discussioni teologiche. I vecchi credenti, per esempio,
rimproveravano severamente chiunque portasse una croce sotto la cintura,
poiché il contatto con gli organi genitali pareva loro come una profanazione.
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Nel contesto della cultura popolare della Polesia, il lembo di una camicia
e il grembiule rappresentano i simboli più chiari di questo campo di bassa
lega. Il giorno delle nozze il grembiule rosso con cui si adorna la madre della
giovane sposa sta a designare la verginità correttamente salvaguardata della
figlia. In caso contrario sarà biasimata spietatamente poiché le sarà
rimproverato il fatto “che il grembiule della figlia sarà stato strappato”. È per
questa ragione che le donne sconsigliano ad una giovane madre di fasciare il
neonato con un grembiule o con il lembo della camicia, altrimenti la ragazza
rischierebbe di generare un bastardo. A livello linguistico questo divieto
ricorda un’espressione russa “portare in lembo” – concepire un figlio
naturale.
Le donne incinte sono obbligate ad indossare uno, a volte addirittura due
grembiuli per due ragioni essenziali: allo scopo di mettere al riparo dal
malocchio il feto; allo scopo di proteggere tutto l’ambiente circostante dal
loro influsso considerato in certi casi come estremamente sfavorevole. Si
tratta di situazioni rituali – del matrimonio o del battesimo –, nel corso delle
quali la donna (che, si dice abbia due anime, la sua e quella del futuro
bambino) può nuocere alle persone che effettuano il passaggio da uno stato
all’altro e che sono, di conseguenza, particolarmente vulnerabili.
Ma la divergenza d’opinione riguardo alle donne incinte e ai loro sostituti
materiali a volte è ben marcata in seno ad una stessa località. Se una donna
in quello stato minaccia l’equilibrio dei giovani sposi, o di un bambino
battezzato, si dimostra molto efficace per quel che riguarda la fecondità del
bestiame (si asciuga una vacca con il grembiule) ed anche per la protezione
di un bambino dai demoni malefici (lo si spugna sempre con il grembiule).
Si cerca di favorire la fecondità delle donne che hanno difficoltà a
procreare con la manipolazione dei grembiuli o delle parti inferiori dei loro
abiti. Così, nel festino che segue al battesimo, la levatrice, dopo aver
distribuito la minestra tradizionale, rompe la pentola vuota e ne getta i cocci
sulle ginocchia degli invitati, soprattutto sulle donne sterili. Si presume che i
cocci assieme alle rimanenze della minestra risveglino la fecondità
addormentata. Un’altra usanza prevede una maggiore iniziativa da parte della
donna infeconda. Nel momento in cui la levatrice taglia il cordone
ombelicale di un neonato, deve tenere il lembo del vestito fra i denti per
impregnarsi della creatività di cui è testimone.
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Il legame indissolubile che esiste fra il grembiule e il feto portato sotto fa
sì che venga rappresentato come emblema ostetrico, segno distintivo
dell’ostetrica che viene affidato dopo la sua morte a colei che la sostituirà per
trasmetterle la competenza ed abilità della defunta. Osserviamo che un altro
simbolo di questo mestiere è un asciugamano col quale la levatrice si asciuga
le mani, che viene deposto nella bara affinché costei possa adempiere il suo
dovere onorevole nell’oltretomba.
“La mia camicia è più vicina al mio corpo”, dice il proverbio. Questa
vicinanza quasi intima spinge, come abbiamo dimostrato, ad identificare le
funzioni biologiche e i vestiti. La loro compenetrazione rende possibile
l’utilizzo degli abiti per raggiungere scopi di carattere magico. Ma se i
contesti presentati si basano su dei concetti astratti (fecondità o sterilità), la
camicia che porta le tracce del sangue catameniale costituisce una situazione
differente. Innanzitutto la lingua ne è testimonianza. Il periodo mestruale
nell’area esplorata ha dei nomi che svelano l’essenza: “sulla camicia”, “sulla
biancheria”, o “sull’abito”. Oppure le donne ricorrono alle espressioni
perifrastiche come “è capitato sulla camicia”, “si vive sulla camicia”,
“indossare sulla camicia”, “avere presso di sé”. L’essenziale dell’efflusso
mestruale viene spiegato affermando che il corpo della donna “si lava”,
espellendo la sozzura accumulata. La leggenda eziologica racconta che la
curiosità inopportuna di una donna è all’origine di questo inconveniente: ella
aveva spiegato i panni insanguinati del parto della Santa Vergine e, per
punizione, dovette purificarsi tutti i mesi col sangue che rievocava
l’emorragia della Vergine. Di conseguenza tutto il genere femminile è
obbligato ad espiare il delitto iniziale condividendo il castigo.
Le rappresentazioni mitiche delle mestruazioni abbondano dappertutto
nel mondo. Diversi procedimenti magici che mirano alla sterilità o alla
fecondità si basano sull’utilizzo del sangue catameniale. Ma in Polesia i
concetti pertinenti che determinano questa visione mitologica sono due
elementi primordiali – il fuoco e l’acqua. Questo liquido focoso è soggetto
ad “infiammare” la pelle di un neonato se la donna indisposta si avvicina a
lui. L’eruzione causata (che d’altronde a sud dell’Ucraina viene definita come
“camicia”) si guarisce solo col suo consenso sincero: entrando, la donna
deve avvisare: “sono venuta con degli invitati” (un’altra perifrasi che designa
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il suo stato). Oppure si asciuga il bambino con la camicia insanguinata della
donna.
Si ritiene che il calore delle mestruazioni che emana dal corpo femminile
sia più forte del calore del fuoco. Se tale calore è nocivo alle piante (alla
donna mestruata è vietato raccogliere), è, al contrario, opportuno per
spegnere l’incendio. D’altro canto, lo stesso dono viene attribuito al
bambino concepito durante le mestruazioni. Nei Carpazi si chiede ad una
donna di lavare la sua biancheria sporca nell’acqua per porre fine
all’inondazione.
La funzione sociale dei vestiti si manifesta in maniera molto evidente
nella regione della Polesia. Così, una delle sequenze cardinali delle nozze
tradizionali presenta il cambiamento di copricapo da parte della sposa.
Affidandole il copricapo delle donne sposate, le paraninfe la integrano nella
loro classe. Ma il primo gesto vero e proprio di socializzazione verte sul
bambino appena nato.
Abbiamo dimostrato che la scelta dei vestiti appropriati ad un dato sesso
ne determina il destino.
Ma l’ideologia dell’abbigliamento ha un’estensione più ampia. Fasciare un
bambino, procurargli il primo vestito significa in generale introdurlo nel
mondo culturale, poiché la natura lo espelle completamente nudo. È per
questo motivo che diventa obbligatorio regalare dei vestiti da parte del
padrino e della madrina. Molto di più. Il tessuto, e quello che se ne fa,
appare come un dono che si scambiano tutti i partecipanti al battesimo e al
festino che ne segue. Questi doni debbono testimoniare che il rito di
adesione è stato portato a termine correttamente.
Si costringe la partoriente ad offrire un lenzuolo alla levatrice “affinché
costei svolga il cammino del bambino”. Così, il tessuto si trasforma in una
delle metafore della vita umana, un cammino che il neonato deve percorrere.
Inoltre, un lenzuolo o un asciugamano saranno necessari, e questo in
seguito, dopo la morte, per accedere nell’oltretomba; i compaesani li
appendono sulle croci mortuarie nelle celebrazioni commemorative.
La preoccupazione quasi ossessiva di vestire il proprio bambino non
abbandona i genitori, neanche nel caso in cui il neonato non dia alcun segno
di vita. Preferiscono donargli un coprifasce che era destinato ad un altro
bambino, che viene al mondo sano e salvo, affinché lo porti per tutt’e due;
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poiché il mio, spiega la madre, è nudo nell’aldilà. La nudità postuma, di
conseguenza, è considerata un handicap grave dei nati morti, di tutti coloro
che non abbiano ricevuto il sacramento del battesimo. Secondo una
credenza largamente diffusa in Polesia, questi bambini sepolti al di fuori dei
cimiteri, sul ciglio delle strade, o nei campi, urlano giorno e notte esigendo il
battesimo. Colui che percepisce queste grida può salvare queste anime
penitenti gettando loro un fazzoletto o un pezzo di tessuto che basterà a
calmare le loro suppliche. Detto in altre parole, l’iniziazione al mondo
sociale per quanto tardiva passa attraverso il prodotto che cumula le
conquiste tecnologiche dell’umanità.
Però, l’opposizione cardinale nudo/vestito non si realizza solo come
opposizione fra naturale / sociale. In via eccezionale, la natura dà alla luce
un bambino cosiddetto “nato con la cuffia della fortuna” (= nato con la
camicia), vale a dire che conserva le membrane fetali. Nella terminologia
locale, le membrane hanno il nome di ‘camicia’, ‘berretto’, ‘tessuto’ o ‘sacco’.
Questo bambino, si crede, è fortunato, dotato per di più di numerosi talenti
magici, per esempio, di spegnere l’incendio. La sua ‘camicia’ è utilizzata nella
stregoneria amorosa, nella medicina popolare, o come portafortuna
particolarmente efficace. Solo rari giudizi contrastanti sembrano stonare con
questa approvazione pressoché unanime. Si evitano questi “fortunati” che si
suppone portino seco il malocchio e la sventura. Ma nel più ampio contesto
della cultura slava tradizionale, la contraddizione trova una migliore
spiegazione. Nei Balcani e presso i Polacchi sono considerati come stregoni,
vampiri, estremamente pericolosi per l’ambiente circostante.
La diffidenza espressa non ha niente di straordinario poiché i bambini
‘vestiti’, come tutti coloro che vengono al mondo con altri segni particolari
(peli, capelli lunghi, denti), spaventano la società come gli esseri precoci,
giunti a maturità prima della nascita. E tutte le deviazioni, tutte le mutazioni,
anche se portano felicità all’individuo, sono sospette e considerate
minacciose per la comunità. In fin dei conti ‘l’abbigliamento’ prenatale è
tanto indesiderabile quanto la nudità postuma. La natura non deve
appropriarsi delle funzioni che solo la società deve adempiere.
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Il simbolismo nuziale: gli utensili della cucina
Abbiamo mostrato che la necessità di ricorrere al linguaggio dei simboli
materiali sorga nei momenti cruciali. Gli avvenimenti fisiologici vengono
tradotti nel contesto rituale tanto con dei gesti che con delle dichiarazioni
verbali. Inoltre, la pluralità dei mezzi sinonimici che espongono lo stesso
contenuto non sembra essere mai eccessiva e crea un messaggio completo e
suggestivo. I vestiti nella loro essenza metaforica come l’abbiamo esposta
rimangono comunque neutri; come gli esseri umani di cui diventano dei
sosia perfetti, non sono né buoni né cattivi, per natura, solo il loro impiego o
controimpiego è sottomesso all’apprezzamento morale.
Invece, un altro registro metaforico, quello degli utensili da cucina,
presuppone una gradazione di significati valorizzanti, basati sulle
connotazioni indipendenti appropriate agli oggetti. Questo sistema
complesso di significati e di significanti è messo in atto nell’ambito del rito
del matrimonio, che appare il più ragguardevole del ciclo della vita, perché
conclude la tappa precedente dei partecipanti e getta le basi della loro
esistenza ulteriore. La revisione dei valori riguarda non solo i protagonisti
che effettuano il passaggio verso uno stato profondamente diverso, ma
anche le loro famiglie e di conseguenza tutta la società. Ciò avviene perché
ciascun matrimonio cambia la composizione della comunità, pur
rispettandone l’equilibrio.
Nella mentalità arcaica, i cui indici essenziali sono stati in gran misura
conservati in Polesia, la castità della futura sposa resta un valore primordiale.
Ciò garantisce la prosperità della futura vita di coppia, la corretta successione
dei beni, una sicura riproduzione della vita e la trasmissione dei valori
morali. Dunque, la prima preoccupazione della famiglia che l’accoglie in
seno consiste nel persuadersi che la nuora soddisfa questa esigenza iniziale.
Raramente il primo esame si svolge a casa dei genitori di lei. È molto più
frequente che la donna in questione sia sottoposta a tale esame nel momento
in cui giunge nella dimora del futuro marito. Scendendo dalla macchina deve
camminare o sedersi sulla madia a volte coperta da una pelliccia. La ragazza
conferma la propria purezza prestando giuramento: “Se non sono onesta
(cioè vergine), che io ci rimetta la testa prima che l’anno sia trascorso”.
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La demi-vierge s’astiene spontaneamente dal salire sulla madia, perché si
rende perfettamente conto delle sventure che subirà la famiglia in caso di
inganno. I suoi futuri figli moriranno uno dopo l’altro, il bestiame
condividerà la stessa sorte, i raccolti saranno insufficienti per sette anni di
seguito. Una volta che sia stata denunciata la corruzione della ragazza, la si
obbliga a portare dell’acqua in una madia senza fondo. Se tale prova avviene
a casa sua, la madre, a conoscenza di tale segreto infame, cerca di
rimpiazzare la madia con un altro oggetto, meno importante per la vita
famigliare, ad esempio, con una tinozza per lavare, sempre per paura di
attirare una qualche calamità. Per motivare la scelta della madia come
sacrario, bisogna ricordarsi che tutta l’economia domestica si basava prima
sulla produzione del pane che era e rimane sempre il nutrimento
fondamentale della regione, anche se oggi si compra nei negozi. Il rispetto
del pane che sta “sopra di tutto”, come dice il proverbio, viene insegnato ai
bambini in tenera età. Allora, il buon esito di questa produzione dipende
non solo dagli strumenti utilizzati ma ancora di più da quelli che li utilizzano.
È importante constatare che tale produzione era un dovere e un privilegio
delle donne. Un qualunque contatto con l’elemento maschile è di
conseguenza nocivo tanto alla pasta che all’uomo: se l’uomo si avvicina alla
madia, la cottura del pane sarà mal riuscita. E il maschio, a sua volta, subirà
delle metamorfosi assolutamente disastrose fino alla perdita dell’identità
sessuale: gli cresceranno i seni, mentre la barba e i baffi cesseranno di
crescergli.
La madia che assicura prosperità alla vita di coppia è quindi designata
quale garante per la conformità della futura moglie alle esigenze di purezza
iniziale e di purezza che deve essere rispettata per tutta la durata della vita
famigliare: non si darà mai il caso che la donna vada a letto col marito se il
giorno dopo si propone di cuocere il pane (il divieto riguarda anche altri
lavori casalinghi – lavare, pulire, macellare, seminare, ecc.). Eventualmente
anche il futuro sposo può essere messo alla prova con la madia.
La suocera e le paraninfe concedono la loro fiducia alla sposa
manipolando la madia, questo grande feticcio del focolare: la madre
accogliendo la nuora con una forma di pane, un’icona e con il coperchio
della madia fra le mani, le paraninfe cambiando il copricapo della ragazza
che in quest’occasione rimane seduta sulla madia. Le stesse paraninfe o i loro
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omologhi maschili, i paraninfi, battono vigorosamente la madia contro la
trave maestra, a volte spaccandola. Questo gesto distruttivo verrà spiegato
nel contesto di altri gesti analoghi, il nostro scopo attuale è di dimostrare
l’alto statuto che viene attribuito alla madia nell’immaginario slavo e i
riferimenti nel contesto nuziale alla verginità.
Inoltre, la suddetta madia si identifica con le viscere fertili della sposa.
L’equivalenza del corpo femminile e della madia persiste fintanto che la
donna rimane fertile. Le sue viscere, si immagina, contengono tutta la pasta
necessaria per “fabbricare” la prole. Quando il fondo si è esaurito rimane
solo qualche briciola finale da raschiare. Tale è l’immagine del parto creata
dalla lingua che attribuisce lo stesso nome di “raschiato” all’ultimogenito
come all’ultimo pezzo di pane cotto. Si ritiene che l’uso di quest’ultimo
pezzo di pane influisca sulla fertilità femminile; di conseguenza, se non si
soddisfa completamente il suo desiderio di generare, ella negherà tale pane
ad un figlio per timore che possa essere l’ultimo.
D’altro canto, questo bambino ‘raschiato’ è dotato di numerose qualità
fra cui la più importante consiste nella capacità di guarire. Diversamente da
un bambino “nato con la cuffia della fortuna”, i suoi talenti sono
unanimemente riconosciuti come benèfici, poiché il suo “sangue puro” non
può nuocere a nessuno. Inoltre, è capace di allontanare la grandine, di
raccogliere le piante medicinali, di fare le pulizie rituali del Giovedì Santo,
ecc.
Se il riferimento al pane garantisce subito un alto statuto ad un oggetto o
ad una persona, i contatti con altri tipi di nutrimento propongono
connotazioni maggiormente contraddittorie. Effettivamente, nella cultura
popolare, la pentola rappresenta un oggetto importante quanto la madia, che
è identificata di buon grado con un essere animato provvisto di una propria
biografia tanto tormentata quanto quella di un uomo. Un indovinello
racconta la sua storia nel momento dell’incrocio degli elementi costitutivi
dell’universo: “Non nacque ma fu presa dalla terra come Adamo, fu
battezzata col fuoco affinché vincesse le acque; nutriva gli affamati; si
strapazzava lavorando; nelle mani della comare-levatrice vide nuova luce;
visse in pensione fino all’altra morte; e le sue ossa furono gettate ai
crocevia”.
110
Se questo indovinello equipara la pentola alla sorte umana in generale, nel
discorso paremiologico viene costantemente menzionato nel descrivere una
donna. E questo paragone non è mai neutro, il riferimento alla pentola
comporta di per sé un giudizio umiliante (“la donna è come una pentola: ci
si versa qualunque cosa e tracima sempre”). Ci sembra che ci siano due
indici pertinenti alla base dell’analogia fra recipiente e corpo femminile: la
fermezza e la fragilità. Tutt’e due si attivano e si manifestano nel contesto
nuziale.
Fin d’ora l’orciolaio nella mitologia slava regola il destino del corpo
verginale che è fragile come la sua mercanzia. La sua presenza nel villaggio la
vigilia di Natale fa ben sperare per i matrimoni o al contrario per un
prolungamento del celibato. La comunità reagisce secondo l’interpretazione
del momento: o viene accolto calorosamente, o ci si avventa sul suo
baroccio per rompergli il vasellame.
Rompere le pentole il giorno delle nozze diviene un gesto consapevole
estraneo alla banalità quotidiana. Il futuro sposo, il giorno dopo la prima
notte, rompe una pentola in tante schegge per dimostrare innanzi tutto che
la ragazza era intatta e che ha adempiuto il suo dovere coniugale. Invece, se
la ragazza era impura, denuncia la sua corruzione esponendo i cocci di un
vaso sul tavolo a beneficio di tutti, oppure il padrino fa un buco in un
piccolo pane. Quest’ opposizione gestuale fra un recipiente correttamente
frantumato e un recipiente bucato è manifestamente chiara. Per esprimere il
proprio disprezzo alla madre della sposa che ha fallito nel compito
educativo, i mezzani le offrono del vino o della vodka in un bicchiere
sbrecciato, e del pane o delle crepes bucate.
La rottura della pentola simboleggia una transazione ben riuscita, la
separazione dallo stato verginale, e, in generale, valorizza delle metamorfosi
che solo il corpo femminile può subire. Essendo il rito del matrimonio
polisemico di natura prevede già la metamorfosi successiva. La rottura della
pentola serve anche per apprendere come sarà la prole. Il paraninfo getta
una pentola piena d’acqua e d’avena: se si spacca presagisce la nascita di un
figlio maschio; se rimane intatta, di una figlia. Un’altra variante della stessa
usanza permette una diversa interpretazione, ossia un recipiente rotto vale
come presagio di fecondità, un recipiente intatto come presagio di una
111
coppia sterile. Per ovviare a questa situazione i paraninfi lo finiscono a colpi
di bastone.
La seconda metamorfosi del corpo femminile coincide con la nascita del
primo bambino. Questo perché la sposa non è considerata come una vera
donna fintanto che non abbia adempiuto il proprio dovere biologico. Ella
non ha nemmeno il diritto di essere definita donna, poiché fino al primo
parto la si definisce ‘giovane’. La seconda, e questa volta definitiva perdita
d’integrità, è di nuovo festeggiata con la rottura della pentola, ricolma di
minestra tradizionale che avviene a coronamento della festa organizzata
dopo il battesimo in chiesa. I cocci della pentola distribuiti agli invitati,
soprattutto alle donne che non hanno mai procreato, debbono stimolare la
fecondità, altri, offerti alle ragazze, faranno avvicinare la data del loro
matrimonio.
In questo caso, si presume che il vasellame rotto stia a designare l’ultima
mutazione della donna. Diversamente dai due contesti analizzati, non
avendo quest’ultimo nessuna realtà biologica, assume un carattere piuttosto
speculativo. Durante il matrimonio si mette una pentola sulla pancia della
madre del fidanzato e la si spacca con un bastone. Appare evidente il
messaggio del rituale. Se i bambini si sposano il dovere terrestre della donna
è compiuto, non le rimane che passare in un’altra classe di età: quella delle
donne anziane, la fecondità ulteriore sarebbe contraria e opposta alle leggi
della natura.
Fra gli utensili abbracciati dal pensiero metaforico nell’ambito delle
nozze, quello meno valorizzato e più controverso è il mortaio che appare
sempre con il suo complemento inseparabile – il pestello. È importante
sottolineare che nei dialetti locali, il mortaio, per opposizione al pestello, è di
genere femminile. Questa realtà linguistica come anche le forme degli oggetti
inducono ad interpretarli come organi sessuali, la loro congiunzione come
un atto sessuale. Il riferimento a questa coppia casalinga introduce un nuovo
registro nella composizione del rito nuziale, un registro comico.
La contraddizione dei valori attribuiti coesiste con l’eterogeneità dei
contesti in cui si presentano questi oggetti. Pestello e mortaio possono
sbarrare il cammino del fidanzato che viene a cercare la futura sposa. In quel
caso dovrà conquistarsi l’accesso al focolare dei suoceri. Un’altra versione
prevede il trasferimento del mortaio dalla nuora tramite i futuri suoceri il
112
giorno successivo al matrimonio. Talvolta il trasloco del mortaio è
menzionato solo nei testi orali che commentano gli avvenimenti relativi alle
nozze con riferimento di preferenza alle metafore prese in prestito al mondo
oggettivo – gli utensili della vita famigliare, gli animali, le piante, i corpi
celesti, ecc.
Il mortaio e il pestello sono spesso offerti alla giovane coppia per fare
allusione ai rapporti sessuali che debbono condurre al parto. Regalandoli si
augura loro di “arare giorno e notte per allevare i bambini”. Oppure il corteo
nuziale rovescia il mortaio, lo rotola per terra colpendolo col pestello per
mostrare al giovane sposo come bisogna agire. Per garantirgli il successo
della prima notte, per confortare la sua virilità, si fa scivolare il pestello nel
letto della nuova coppia.
Il giorno dopo le nozze, si richiede alla coppia di dimostrare di aver
acquisito una certa complicità: sono costretti a pestare a turno nel mortaio
affinché la coppia prosperi, “batta” bene. Questi oggetti spesso fanno la loro
apparizione nell’ultima sequenza del matrimonio, nettamente comica. La
“fidanzata”, vale a dire uno degli invitati travestito da sposa, racconta le
beghe della notte precedente, quando “lei” è stata costretta a pestare e
macinare senza tregua. O ancora si riproduce, ma in maniera parodistica, il
sacramento del matrimonio, in cui i genitori che hanno sposato l’ultimo
figlio prendono il posto dei giovani sposi, il mortaio sostituisce l’altare, e il
pestello, il frutto della notte nuziale. I testi ecclesiastici sono sostituiti da
battute oscene.
Questo finale comico che ha il nome di “coda” non annulla in nessun
modo la solennità dell’avvenimento appena terminato, ma, al contrario, lo
corona con un rito approvativo. La correlazione fra diversi elementi del
matrimonio, ecclesiastici come laici, rimane un problema sufficientemente
complesso che non cercheremo di risolvere in questa sede. Ma numerose
testimonianze raccolte confermano che se, agli occhi delle autorità, il
matrimonio era legale solo dopo la cerimonia ecclesiastica (e che nelle
condizioni attuali è sostituito o piuttosto completato dalle formalità civili nel
municipio), secondo l’opinione della comunità non era neanche valido nel
caso in cui non fossero state effettuate tutte le festività tradizionali. In altre
parole, il rito del matrimonio come è concepito oggigiorno comprende
113
diversi livelli espressivi – dal sacramentale al parodistico – che non si
contestano l’un l’altro, ma si completano arricchendosi reciprocamente.
Il riferimento diretto alla sfera sessuale si traduce facilmente sul piano
semantico con la riprovazione del comportamento amorale. Il bersaglio resta
sempre la ragazza disonorata che delude le aspettative della famiglia. È
costretta a pestare nel mortaio della fuliggine con l’acqua oppure dei semi di
papavero con cui si riempiranno in seguito i dolci per annunciare così che la
ragazza è stata già ‘pestata’. In questo modo, l’espressione corrente “pestare
dell’acqua nel mortaio” che è sinonimo di vanità, inquadrata nella realtà
rituale ottiene una molteplicità di significati che vanno dalla glorificazione
della procedura sessuale del tutto onorevole se è compiuta nelle circostanze
propizie fino al disprezzo se ha luogo prematuramente.
Per concludere col pestello che implica riprovazione, citiamo una
testimonianza rara che si riferisce ad un altro tipo di nozze parodistiche, ma
al contrario di quelle già menzionate totalmente umiliante, poiché sono state
estratte dal contesto rituale, in cui tutte le sequenze sono assortite in perfetto
equilibrio. Osserviamo che la profanazione sacrilega che ne deriva proviene
dalla mescolanza degli elementi propri dei riti ecclesiastici e popolari. “C’era
una volta un gentiluomo, un certo Makmyskul sposato con una francese. A
quel tempo la legge voleva che una ragazza non potesse sposarsi senza
essere andata a letto col proprio signore. Allora costui s’innamorò di una
ragazza e si mise a vivere con lei, solo con lei, dimenticandosi
completamente di sua moglie. La sposa insistette affinché fosse sposata ad
un pestello di mortaio. E la sposarono, la ragazza e il pestello. E la signora
corse in chiesa e le strappò il copricapo obbligando la gente a metterle una
corona d’ortiche. Ma malgrado tutto, lui continuò ad andare a letto con la
ragazza e uccise la signora”.
Il corpo e lo spazio domestico
Se la prima apparenza dell’essere umano consiste nel suo abbigliamento
che non solo maschera, dissimula il corpo ma esteriorizza meglio il fisico, la
seconda consiste nel suo habitat che varie generazioni hanno accuratamente
114
adattato al loro spirito. La compenetrazione fra donna e spazio domestico è
pertinente tanto più che il focolare rimane nella cultura slava il luogo in cui
la donna si realizza di più, mentre la vita attiva, la vita professionale
dell’uomo si svolge piuttosto all’esterno – nelle foreste, nei campi o nei
terreni annessi.
Il forno, inizialmente centro costitutivo e geometrico della dimora, fu
messo da parte al termine di un’evoluzione centenaria; i cambiamenti
portarono alla bipolarizzazione dei luoghi in cui sopraggiunsero due centri
semantici: il forno o la stufa che costituiscono il perno dello spazio
femminile e dello spazio rituale (poiché la produzione del pane, la cottura
derivano dalla competenza esclusiva delle donne) e l’angolo ‘rosso’ orientato
preferibilmente ad est, di fronte all’entrata, riservato al padrone di casa
oppure agli ospiti d’onore e in cui si trova il sacrario domestico con le icone.
È attorno al focolare che si svolgono gli avvenimenti cardinali della vita
della donna. La mitologia del forno è stata analizzata nello studio corposo di
P. Caraman, il che ci dispensa dall’entrare nei dettagli. Egli dimostrò che
l’azione di avvicinamento a questo pilastro del mondo famigliare nel
contesto rituale delle nozze stava a significare non solo l’integrazione nella
famiglia, ma anche la stessa conquista del focolare. Questo perché la futura
sposa ucraina o rumena che, appena entrata nel suo nuovo domicilio, tocca
la stufa, non può più essere espulsa dalla casa. Ella ricorre a tale procedura
nel caso in cui il ragazzo che le aveva fatto la corte non si voglia sposare
oppure quando i genitori si oppongono vivamente alla volontà reciproca dei
giovani di unire i loro destini.
Inoltre, l’apparizione della giovane donna presso al focolare provoca
inevitabilmente il declino della padrona precedente, detto altrimenti, sta a
significare il passaggio dei poteri. Questa legge fondamentale della gerarchia
famigliare è dedotta non solo dagli studi giudiziari ma anche attraverso
numerose proibizioni. A titolo esemplificativo, menzioniamo il divieto di
guardare nel forno, la cui trasgressione, si dice, potrà provocare la morte
immediata della suocera. In realtà, si tratta piuttosto della sua esclusione che
equivale ad una morte simbolica, e del cambiamento degli statuti.
Le manipolazioni attorno al focolare riguardano non solo la sfera del
diritto consuetudinario, ma ancor di più la magia vitale, poiché il forno nel
pensiero metaforico è un omologo della madia, ma un omologo
115
onnipresente, che abbraccia il ciclo intero della vita produttiva della donna.
La fidanzata, che ci tiene a rimanere sterile, lasciando la casa dei genitori
getta nel focolare alcune monete e paga così la sua libertà. Ma questo
comportamento è piuttosto un’eccezione, poiché il vero scopo della coppia è
di procreare. È per questo che la suocera s’affretta a lanciare il velo della
futura sposa sulla stufa rendendo esplicita la sua intenzione: “Facci un
bambino e una bambina là, sul forno, nell’angolo”.
Qualora venga precisata la minaccia di sterilità, la donna si rivolge sempre
al forno, al suo calore e al pane, il suo prodotto essenziale, per sollecitare la
loro collaborazione: si siede sulla paletta per il pane ancora calda, mangia un
po’ di crosta di pane, ecc. Nel momento del parto si ricorre di nuovo a lui
con un incantesimo: “Mamma-forno (il forno è femminile), aiuta a partorire
la Tal dei Tali! E voi, martiri, venitele in aiuto! Porte del paradiso, apritevi,
chiavistelli, apritevi, aiutate la serva di Dio Tal dei Tali! Aiutate il bambino a
nascere, lasciatelo venire a questo mondo. Come mia madre mi ha messa al
mondo senza dolore (...). D’ora in poi, in futuro e nell’ultimo giudizio”.
L’esito del parto è riassunto nell’ambiente circostante con delle
espressioni standardizzate: “È crollato il forno” oppure “La donna è caduta
dal forno”. In generale, la lingua sostiene l’analogia a più riprese, definendo
un uomo fortunato come colui che “è nato nel forno”, dei bambini che si
rassomigliano come due gocce d’acqua, che “sono della stessa cottura”.
L’opposizione fondamentale fra crudo e cotto si realizza costantemente
attraverso usi e linguaggio: si affibbia ad uno zoticone o a un tonto un
soprannome peggiorativo quale “mal cotto” o “pasta”. Al massimo, il pane
diviene la misura stessa della vita umana e si accusa la madre il cui figlio è
morto in tenera età di aver mangiato la sua razione di pane.
La levatrice compie la ‘fabbricazione’ del bambino deponendolo davanti
al forno. In altre regioni slave, il trattamento “culinario” del neonato passa
attraverso la salatura (presso i bulgari) o attraverso la spolveratura dello
zucchero (nei Carpazi). Questo gesto rivela ancora un’altra strategia: si tenta
di presentare il nuovo membro della famiglia all’ambiente circostante
scegliendo gli oggetti più significativi.
La mediazione del forno, o addirittura del fuoco, si rivela ugualmente
necessaria nella pediatria popolare. Si guariscono i bambini “annodati”,
rachitici, colpiti, come si dice, dalla “secchezza” o dalla “vecchiaia canina”
116
infornandoli con la paletta del pane di fianco al chiusino o addirittura nel
crogiolo. Questo trattamento che considera il bambino malato come un
impasto mal cotto viene definito come “cucinare la vecchiaia” o “essiccare”.
Il forno spostato dal centro dello spazio verso la cucina cede la posizione
centrale a un oggetto molto più recente dal punto di vista storico, la tavola.
Effettivamente, essa appare come un luogo in cui si svolgono tutte le
festività famigliari dalla nascita fino alla morte, ma allo stesso modo del
forno è provvista di una dimensione simbolica che va ben oltre la sua
funzionalità. Sotto la tavola viene esposto il neonato per inaugurare la sua
venuta al mondo, sulla tavola si depone la bara per dare l’ultimo addio al
morto prima della separazione definitiva. La sacralità della tavola sostenuta
dalla lingua che la fa rimare con altare determina il comportamento
quotidiano imponendo numerose regolamentazioni; fra le quali si noti il
divieto di mettersi in piedi sulla tavola che riguarda tanto gli adulti che i
bambini: un bambino messo inavvertitamente sulla tavola non crescerebbe
più o tarderebbe a camminare. Invece, si ritiene che la stessa azione di
collocare il bambino in piedi e di fargli fare i primi passi su questo sacrario,
ma questa volta consapevolmente, nel momento propizio della Pasqua,
faccia guarire un bambino malaticcio, aiutandolo a camminare.
L’universalismo nella percezione dello spazio domestico e del suo centro
che coincide in questa circostanza con la tavola, si manifesta soprattutto nel
momento cruciale del parto. Per calmare i dolori della donna o per
accentuare le contrazioni, la levatrice la obbliga a fare tre giri attorno alla
tavola seguendo “il corso del sole”. Sacralizzando l’andatura, posa nei
quattro angoli della tavola delle manciate di sale e del pane che la donna
sofferente deve baciare. Il movimento è accompagnato dalla preghiera della
levatrice che recita a mezza voce: “Gira, Signore, gira, Signore, gira, Signore;
che il parto sia rapido; aiutala, o Signore, aiutala, Signore!”.
Questo carattere totalizzante del pensiero popolare che attraversa tutto
l’universo passando facilmente dall’habitat fino ai cieli, dalla vita individuale
alle forze cosmiche, trasferisce agevolmente il paradiso al centro della stanza
identificandolo con la tavola. Il buon esito del parto è seguito dal rito della
purificazione, durante il quale la partoriente e la sua assistente si lavano
reciprocamente le mani e si chiedono scusa. Alla fine del rituale, la levatrice,
la “nonna” nella parlata locale, conduce la madre, che porta il neonato e il
117
pane, verso la tavola. Alla domanda convenzionale delle invitate: “Dove
andate, nonna?” lei risponde senza reticenze: “In paradiso”, “Che Dio vi
aiuti, conducete anche noi in paradiso”, la supplicano. “Siate le benvenute
con noi in paradiso”, le invita la levatrice. E le donne si sistemano alla tavola
per festeggiare il ritorno della partoriente alla vita.
La struttura di qualunque spazio tiene conto contemporaneamente del
centro e dei limiti che la separano da altre strutture spaziali. Il limite della
dimora, tracciato nettamente, passa attraverso i muri esterni dell’abitazione,
ma le sue funzioni magiche si concentrano in due punti pertinenti – sulla
soglia e alla finestra. L’opposizione semantica interno/esterno determina la
scelta del destino, di conseguenza, la localizzazione centrale o periferica di
un simbolo materiale consiglia le due strategie essenziali riguardo al destino
della prole: legarla al focolare o lasciarla andare. Questa oscillazione si
verifica nell’ambito del rito della nascita in cui la madre, oppure la levatrice
in larga misura responsabile della sorte del neonato, sceglie un luogo per
sotterrare la placenta. Ciò avviene perché tali residui, alla stessa stregua degli
abiti, sono considerati come il doppio dell’essere umano.
La differenza di trattamento tiene conto del sesso del bambino. Il sistema
patrilineare della successione dei beni, il matrimonio patri- e virilocale
determinano rigorosamente la necessità da parte del ragazzo di rimanere a
casa: non potendo essere la sua partenza altro che causa di grande sventura
per la famiglia. Così, la sua placenta è sotterrata sotto il forno oppure sotto
una panca, affinché il suo proprietario sia “un buon padrone”, spiega la
gente. Per di più, l’ubicazione della placenta (che è definita “piazza”) al
centro della casa attirerà in futuro il bambino cresciuto a casa sua, là dove è
rimasta “la sua piazza”. Ancora una volta la magia delle parole è destinata ad
assicurare la magia vitale.
Se questa scelta risulta essere preponderante per il sesso maschile,
diventa più ambigua qualora si tratti di una ragazza. Evidentemente, la
madre ci tiene ad educare la figlia come una buona massaia, e tale
ragionamento la spinge anche a conservare gli annessi del parto della figliola
sotto la stufa. Per manifestare le aspettative “professionali”, la madre rimette
degli oggetti-emblemi nella placenta: un chiodo in quella del ragazzo, un ago
in quella della ragazza.
118
Ma legare la figlia per sempre al focolare paterno comporta di per sé una
contraddizione, poiché ciò presuppone fra le altre cose il voto del nubilato.
Poiché il matrimonio rimane sempre una norma di tipo sociale e il nubilato è
solo un’eccezione indesiderabile, la madre decide di intraprendere piuttosto
la strategia matrimoniale, dunque preferisce sotterrare i residui del parto
sotto la soglia, il che indicherà la direzione verso la quale dovrà dirigersi la
figlia – verso l’esterno.
Nell’ambito della stessa usanza che riguarda il secondamento, ritroviamo
un altro significato della soglia, probabilmente il più importante, quello del
contrassegno per la transizione, il cambiamento, al massimo per la rottura.
Per rallentare il ritmo delle nascite, una levatrice competente getta la placenta
sopra tre soglie in modo che la donna non generi altri figli prima di tre anni.
Procedendo alla stessa maniera, la donna può influire sul sesso del futuro
bambino: sarà diverso da quello del neonato. Il sotterramento della placenta
sotto la soglia può anche chiudere il discorso della procreazione se è
scemato il desiderio di generare altri figli.
Per mettere in rilievo il valore della soglia materiale è importante
menzionare la correlazione esistente fra questa ed alcune soglie temporali. Se
la nascita a mezzogiorno o a mezzanotte è già di cattivo augurio, il fatto di
essere nato alla fine delle lunazioni, “ai margini”, come si dice, comporta la
sopravvenienza dei più gravi pericoli: rimanere sterile fino alla fine dei propri
giorni o diventare un ermafrodito che cambia sesso ogni mese.
Tornando alla soglia, è importante costatare la presenza di numerosi
divieti rivolti alle donne incinte il cui stato è, a priori, instabile e
particolarmente vulnerabile agli influssi malefici. Vengono date tutta una
serie di motivazioni, ma il loro concetto semantico parte dalla stessa idea:
l’arresto sulla soglia si traduce sul piano simbolico con l’interruzione di un
processo, immediato o nel futuro più lontano. Invece, si sollecita la
cooperazione della soglia nei riti di passaggio quando si prova la necessità di
una rottura brusca (durante il parto, soprattutto quando sopraggiungono
delle complicazioni, alle nozze o ai funerali).
Si accentua l’importanza della soglia, in quanto frontiera, tramite degli
oggetti apotropaici (oggetti in metallo, soldi) che preservano al contempo lo
spazio domestico dall’aggressione esterna e il mondo esterno dalla sozzura
occasionale che è costituita, ad esempio, dalla puerpera. D’altra parte, si
119
valorizza la direzione dell’attraversamento quando sopravvengono delle
situazioni estreme. Si preferisce riportare dalla finestra e non dalla porta il
bambino malaticcio che è stato battezzato per “ingannare” gli spiriti malefici
che lo minacciano.
Inoltre, è giocoforza constatare che il focolare, in quanto spazio
tridimensionale, implica la dimensione verticale che, nella realtà quotidiana,
misura la crescita del bambino. Nella pediatria popolare, come nel rito del
primo taglio di capelli, si bada che le ciocche tagliate (o le unghie) siano
accuratamente nascoste nello stipite della porta ad altezza di adulto; in
questo modo il bambino sofferente vincerà la malattia e raggiungerà la
statura desiderata.
La compenetrazione fra habitat e corpo, in questo caso corpo femminile,
si manifesta attraverso la lingua come anche attraverso delle usanze rituali.
Così, le viscere della donna incinta si presentano come riparo provvisorio in
cui il bambino dorme nella sua “culla” e sul “letto materno” – i due nomi
designano la placenta. Staccati dal corpo materno, gli annessi fetali e gli altri
residui (il cordone ombelicale) vengono sotterrati sotto le fondamenta della
casa per proteggerla dalle potenziali sventure. Si procede alla stessa maniera
con il corpo di un bambino morto prima del battesimo che si ritiene possa,
anche lui, preservare l’integrità e la sicurezza del focolare e della famiglia.
L’ultima usanza rientra nella tradizione arcaica del seppellimento di tutti i
morti sotto il focolare che, di conseguenza, sono considerati spiriti familiari,
protettori del lignaggio.
***
Abbiamo scelto solo tre sistemi metaforici attraverso i quali la società
tradizionale, come esiste ancora nei luoghi rurali slavi, permette di discorrere
della donna e delle sue funzioni biologiche e sociali. Abbiamo presentato le
strutture più pertinenti, ma in realtà sono più numerose. Quelle che non
sono menzionate nello studio riguardano i campi semantici dell’agricoltura,
della flora e della fauna sia domestica sia selvatica.
La preferenza accordata dalla società agli oggetti del lavoro femminile,
quali i tessuti o gli utensili da cucina, non può costituire una sorpresa. Si
potrebbe dire che l’identificazione psicanalitica del corpo femminile con un
recipiente chiuso acquisisce una nuova prova di equivalenza. In effetti, la
percezione sessuale del recipiente rappresenta solo un aspetto – che non è
120
affatto trascurabile, ovviamente – della filosofia popolare. Il testo tessuto
attorno al recipiente va ben oltre la descrizione metaforica dell’atto sessuale,
ma abbraccia integralmente tutta la vita produttiva della donna, o addirittura
dell’essere umano, come abbiamo dimostrato nel caso della pentola e della
madia.
Invece, il focolare si rivela un luogo d’incrocio delle differenti logiche
esistenziali, il che si traduce con interpretazioni contraddittorie dello spazio
domestico. Per di più, la percezione di questo spazio, sempre in rapporto
con lo spazio esterno, rimane legata in larga misura alla funzione del tempo:
la strategia, o addirittura l’ideologia virilocale (sebbene vacillante negli ultimi
decenni) funziona fino al momento delle nozze. A partire da allora la
presenza della donna nel focolare diventa reale, mentre quella del marito
riveste una dimensione piuttosto simbolica.
Le indagini effettuate inducono a porsi un certo numero di altri
problemi. In quale misura, per esempio, le interpretazioni popolari dei
fenomeni culturali sono affidabili o utili? Se, per un lungo periodo, non è
stato loro riconosciuto un qualche valore considerandole arbitrarie e
aleatorie, oggigiorno si ritiene che costituiscano una visione del mondo
coerente e omogenea (anche se delle realtà simili implicano delle spiegazioni
contrarie) degna di essere analizzata in quanto tale.
La revisione dei metodi riguarda ugualmente la rivalorizzazione della
cosiddetta “etimologia popolare”. Essa cessa di essere disprezzata quale
sapere erroneo, ma, al contrario, fornisce nuovi argomenti per la
ricostituzione delle strutture cognitive tradizionali. Paradossalmente, la
lingua resiste di più alle trasformazioni rispetto alla vita rituale. Nei campi
specifici, vale a dire nelle parlate locali o nella terminologia professionale, la
lingua è adatta ad accogliere i termini incomprensibili, o addirittura risibili, al
di fuori di un contesto scomparso, ma questi permettono di ridare senso ai
frammenti rimasti dei sistemi antichi, per cui il rito serve a rafforzare la
solennità.
121
Donne-piante e bambini-frutti.
I frutti e gli alberi da frutto nelle
rappresentazioni popolari serbe del
concepimento*
di Isabelle de Runz
In Serbia i bambini non nascono nei cavoli, viene menzionata a volte
solo la cicogna quale portatrice di neonati. Tuttavia, il regno vegetale, gli
alberi da frutto in particolare, esercitano un ruolo privilegiato in materia di
concepimento. Un excursus sulla lingua e sulle usanze ci permetterà di far
luce sui fondamenti.
Regalare dei frutti e mettere al mondo
Si constata nella lingua serbo-croata una serie di accostamenti tra
fecondità vegetale e umana. Plod designa il frutto e il feto nell’utero, e per
estensione come in francese, il bambino. Il frutto dell’utero è così equiparato
a quello delle piante. Plodnica vuol dire donna o donna feconda, e
ugualmente placenta e ovari delle piante. La forma aggettivale plodan, (-dna
-dno) fecondo, fertile, si applica indifferentemente alle tre specie vegetale,
animale e umana.
Il termine rod indica il genere, il sesso e la specie (ljudski rod = il genere
umano), ed anche lignaggio, famiglia, parentela nel senso di consanguineità
(rod po ocu= genitore per il padre). La parola contiene dunque la doppia
*
in CIVILISATION, vol XXXVII, 2, Bruxelles, 1987
123
nozione di specificazione e di generazione1. Il plurale rodovi è sinonimo di
plod = frutti, raccolto, mietitura; doci na rod, letteralmente “arrivare al frutto”,
per una pianta, cominciare a produrre2. La polisemia di rod si ritrova nella
sua forma verbale: si ploditi e roditi significano fruttificare, portare dei frutti,
solo roditi esprime l’azione di generare, mettere al mondo. Nascere è reso dal
pronominale attivo roditi se, “mettersi al mondo”. Tuttavia, nella lingua
parlata, questo verbo è quello impiegato più correntemente sia per la donna
che partorisce che per l’albero o la pianta che danno frutti. Alla stessa
maniera, l’aggettivo rodan (-dna, -dno) è preferito a plodan per designare un
albero da frutto fertile, rodno drvo, più raramente chiamato roda.
La femmina feconda si chiama rotkinja, equivalente quindi di plodnica, cioè
potenziale portatrice di placenta; rodilja è il nome dato al parto. Bisogna
notare infine rodnica, diminutivo femminile di rodnik che denomina il fratello,
il cugino, il parente consanguineo, come denominazione della vagina. Le
radicali dei termini serbi per la placenta e la vagina sottolineano così il
passaggio del feto-frutto, plod, all’individuo sessuato e sociale iscritto in un
lignaggio, rod. Questo passaggio dall’universo prenatale, vicino a quello
vegetale, al mondo degli uomini finisce con la sezione del cordone
ombelicale, il pupak, sinonimo peraltro di pupoljak, germoglio, gemma,
germe. Per tagliare definitivamente il neonato dal mondo precedente, la
levatrice utilizza l’ascia e il ceppo che servono a fendere il legno3.
L’ombelico, pupak, è il solo luogo del corpo che conserva la traccia del
legame con il regno naturale.
La fecondità delle donne, a somiglianza delle piante da frutto, dipende
dalla buona fioritura, dovendo il fiore precedere il frutto. Cvet, il fiore,
designazione popolare delle mestruazioni, illustra questa idea. Una donna
sterile, nerotkinja, è una rosa senza fiore, ruza bez cveta, o un albero senza
frutto, drvo bez ploda. Data questa concezione, le pratiche relative alla
Roditelij = genitori nucleari; s/rodnik = agnato, cognato, persona dello stesso lignaggio, il
prefisso s segna l’origine. Il femminile roda designa la cicogna portatrice di neonati.
2 La stessa idea di abbondanza, di fruttificazione è contenuta in rodez, raccolto e in rodina,
abbondanza di frutti.
3 Sui riti della nascita e sul ruolo della levatrice tradizionale, vedere I. de RUNZ, “La
levatrice, i demoni della nascita e i piccoli pani dei morti” in Civilisations, vol. XXXVI, 1-2,
Bruxelles, 1986, pp. 101-103.
1
124
fecondità femminile faranno ricorso, preferibilmente, alle piante e agli alberi
da frutto.
In questo articolo, mi limiterò a questi ultimi. Per scrupolo di economia e
di unificazione testuale, queste pratiche saranno enunciate al presente,
prescindendo da intervalli temporali e dalla caducità di certi costumi.
Alberi e frutti nei riti di fecondità
Gli esempi seguenti sull’utilizzazione degli alberi e dei frutti nei riti
nuziali e le pratiche per favorire o impedire il concepimento non vogliono
essere esaurienti; essi illustrano quel che abbiamo detto precedentemente.
La mela (o il melo), dato il carattere fondamentalmente benefico, figura
a più riprese nel ciclo nuziale. Questo frutto, come indica Cajkanovic nel suo
dizionario delle piante, accompagna l’individuo dalla nascita alla morte
esattamente come il basilico, pianta sacra degli ortodossi. Si dona una mela
come gesto d’amicizia o d’amore, o come pegno di alleanza e di concordia, o
per deporla sulla tomba a favore dei defunti. Ci si è posti diverse volte la
questione del suo potere fecondatore nel corso del dibattito.
Lasciando la casa paterna, la sposa riceve dalla madre un uovo o una
mela rossa come pegno per una prossima maternità, gesto che sottolinea la
trasmissione delle funzioni procreatrici da una generazione all’altra4.
“Affinché il primogenito sia un maschio”, certe madri vi aggiungono persino
due noci, cosa abbastanza suggestiva se si tiene presente che noce (orah) è in
serbo di genere maschile. La sposa deve portare questi frutti alla vita durante
il matrimonio religioso e fino alla sua nuova dimora dove li condividerà e li
4 Nella società rurale serba, la giovane donna viene a stabilirsi presso i genitori dello
sposo, luogo in cui si svolgono le nozze. Durante l’anno che segue al matrimonio gli sposi
sono chiamati, come durante le nozze, mlada, la sposa, mladozenja, lo sposo. Acquisiranno il
titolo di zena e covek, che designano la donna e l’uomo adulti e sposati, solo dopo la nascita
del primo figlio, dato che la loro maturità sessuale coincide con la dimostrazione della loro
fecondità.
125
mangerà con lo sposo la sera delle nozze5. L’efficacia di questa pratica
consiste nel fatto di portare dei frutti a contatto della pelle sopra il livello
dell’ombelico, e nell’ingerirli simultaneamente poco tempo prima della
notte delle nozze. La consumazione del matrimonio succede così a una
consumazione di frutti che possono influire sulla procreazione. Tuttavia, le
spose, o la donna durante la gravidanza, debbono evitare di mangiare dei
frutti doppi per evitare che nascano dei gemelli6.
Nell’Alta Resava (la Serbia del nord-est), il giorno dopo le nozze, una
vecchia donna della famiglia veste lo sposo con una camicia di suo padre, la
sposa con una camicetta di sua madre; poi conduce gli sposi per mano nel
frutteto dove li fa girare per tre volte attorno a un melo (jabuka), a un
prugno (sljiva) o ad un altro albero da frutto di genere femminile,
augurando loro ad alta voce pace e concordia nella vita di coppia, raccolti
abbondanti e figli affettuosi e vigorosi. Nella valle del Timok (Serbia
orientale), la suocera (svekrva: la madre dello sposo) lava dopo la notte delle
nozze la camicia della nuora e versa l’acqua utilizzata ai piedi di un albero
fertile “affinché la fecondità di quest’albero si trasponga nella giovane
donna”. Questa usanza, rievocazione metonimica della membrana fetale
(kosuljica: piccola camicia), si avvicina alla lustrazione rituale delle nozze, con
l’uso di un’acqua che contiene tre mele e tre spighe di segale per trasmettere
la fecondità ai giovani sposi. Non si tratta più di ingerire ma di avere un
contatto indiretto per stabilire un legame privilegiato fra gli sposi e il frutto
o l’albero da frutto, designati in serbo con la stessa parola (jabuka = mela e
melo). In queste procedure la fertilità dell’albero, concentrata nel frutto, si
deve trasferire nella coppia, e in particolare nella donna, grazie ad un
5 Per avere un figlio la sposa colloca sopra l’ombelico una ghianda di quercia (rastov zir,
m.), una noce e una nocciola (lesnik); per avere una figlia mette una faggina di faggio (bukva) e
una pera invernale (zimkulja, f.); per avere dei figli dei due sessi prende una galla di quercia
(graniceva sisarka, f.), una ghianda e dei semi di zucca.
6 L’alimentazione e i desideri alimentari della donna incinta possono avere delle
ripercussioni fisiologiche o psicologiche dirette sul bambino che porta in grembo, essendo gli
eccessi, come i desideri alimentari insoddisfatti, all’origine delle voglie e dei difetti di carattere:
se la madre mangia molta paprika piccante (ljuta paprika), il bambino sarà collerico e violento
(ljut) come le spezie.
126
elemento di mediazione che ricorda l’universo simbiotico prenatale (camicia,
acqua).
La scelta degli alberi da frutto coltivati di genere femminile corrisponde
in effetti a tutti i frutti con i chicchi e con i nòccioli di cui si consuma solo la
polpa cruda o cotta (mela, prugna, ciliegia, pera, pesca, albicocca, fico,
nespola); i nòccioli e i semi designati col diminutivo koscica (kost, osso) sono
degli “ossicini” vegetali. La frutta secca, come la mandorla commestibile
liberata dal guscio, è di genere maschile (mandorla, badem; noce, orah;
nocciola, lesnik). I frutti farinosi del castagno e della quercia (kesten e zir),
cotti prima di essere consumati, rientrano in questa seconda categoria
utilizzata per avere un figlio maschio.
L’innesto dei giovani sposi
Nelle regioni orientali, il giorno delle nozze si conclude con un rito che
rievoca il procedimento dell’innesto che unisce una varietà (il portinnesto)
poco commestibile ma che offre la possibilità di far attecchire molte radici,
un tronco con il vigore della linfa, ad una seconda varietà (l’innesto), il ramoportante con i frutti che sono all’origine della riproduzione, ma che non ha
vita autonoma. Così, prima di penetrare nella camera nuziale, lo sposo
prende un astragalo di melo con il quale solleva il velo della sposa, poi la
colpisce per tre volte sulla testa, inaugurando con tale gesto la notte nuziale.
Il melo è scelto ancora una volta quale albero da frutto per eccellenza. Lo
sposo simboleggia il portinnesto, colui che dona il tronco, il patronimico, il
radicamento sociale in un suolo che è quello del suo lignaggio; la sposa,
mlada, simboleggia l’innesto (mladica, diminutivo di mlada: giovane donna o
anche germoglio, ricaccio), il ramo di recente introdotto nel lignaggio e da
cui dipendono i frutti, la discendenza.
Innestare un albero vuol dire compiere un’opera creativa, agire ad
immagine di Dio. Cajkanovic, all’articolo kalem, nota che l’innesto degli
alberi da frutto è un lavoro bogougodan i caroban, “caro a Dio e magico”. È
un’attività esclusivamente maschile che esige una purezza corporale perfetta,
vale a dire l’astinenza sessuale per tutta la durata del lavoro. Le donne,
127
soggette alle variazioni della loro fisiologia – mestruate o incinte – sono
tenute rigorosamente in disparte. Per il fatto che possiedono un’affinità
biologica con gli alberi trattati, le donne rischiano di renderli sterili o di
seccarli captando il loro principio vitale. Gli innestatori devono dunque
evitare di entrare in contatto con loro o di star loro vicino.
Le date del calendario che passano come particolarmente propizie agli
innesti coincidono con le feste primaverili della fecondità. Gli innesti che
‘prendono’ meglio sono effettuati il giorno dei Quaranta Martiri (Mladenci, il
9 marzo), dell’Annunciazione (Blagovesti, il 25 marzo) e il Venerdì Santo. I
Mladenci, letteralmente “giovani sposi”, è la festa delle coppie dell’anno; vi si
celebra la fecondità anche del bestiame con dei piccoli pani rituali bucati con
gambi di giunco, i mladencici. È la grande festa della rinascita e dell’inizio della
primavera popolare. L’Annunciazione, data del concepimento divino, e il
Venerdì Santo, discesa di Cristo tra i defunti, rimandano al calendario
liturgico. La prima annuncia una nascita, la seconda una risurrezione. Questa
tripla iscrizione nel calendario stabilisce un rapporto stretto tra fecondità
naturale, umana e divina da una parte, morte e fecondità dall’altra. Sembra
che la fecondità abbia un legame con l’aldilà sovrumano dove si
congiungono la prenascita e la postmorte. L’usanza di tingere le uova di
Pasqua il Venerdì Santo ne è una bella immagine. In questo giorno che segna
la morte di Cristo, le donne e i bambini mettono a bollire le uova in una
tintura vegetale (con bucce di cipolla) e le decorano con motivi floreali
applicandovi foglie con leggere nervature. Il mattino di Pasqua tutti i
membri della famiglia fanno cozzare le uova fra loro, prima di mangiarle,
salutandosi festosamente con un “Cristo è risorto!” La rinascita divina viene
sancita dalla rottura e dalla consumazione rituale delle uova bollite in un
bagno vegetale. Il tempo della morte diventa così il tempo dell’inizio.
Concepimento e contraccezione
Se il matrimonio non risulta essere rapidamente fecondo, la giovane
sposa va da una novella puerpera a cercare la placenta con cui bagnarsi.
Subito dopo la sotterra sotto un albero fertile del frutteto. Allo stesso modo,
128
la placenta dell’ultimogenito viene sotterrata sotto un albero prosperoso se i
genitori desiderano avere altri figli, sotto un albero sterile o secco in caso
contrario. Fra gli alberi sterili viene scelto molto spesso il pioppo, topola; la
donna si rivolge così all’albero: “che io metta al mondo un figlio quando il
pioppo avrà i suoi frutti!” (kad topola rod imala, tad i ja dete rodila). Il
trattamento della placenta risulta essere così identico a quello riservato ai
bambini nati morti o non battezzati e agli aborti, frutti incompiuti
rimandati subito al regno vegetale.
Siccome il genere d’albero influisce sul sesso del successivo figlio, si
sotterra la placenta dell’ultimogenito sotto un noce per avere un maschio,
sotto un melo o un prugno per avere una femmina7. Posando a terra, ai piedi
di un albero da frutto (plodno drvo), la placenta (plodnica) o il suo contenuto
non vitale, si sostituisce la materia simbiotica, in attesa di una nuova
germinazione. Il movimento circolare tra donna e albero, tra umano e
vegetale, col giro della placenta che fa tornare il non-nato alla terra, diventa
garanzia di un nuovo concepimento. Il feto appare così come “la
manifestazione incessante di un ritorno anonimo”8. I defunti vengono così
radicati nel suolo natale o nel territorio rustico e, come i non-nati, non
separati dal mondo dei vivi, ne costituiscono al contrario una parte
integrante latrice di fecondità.
La piantatura rituale dell’albero funerario, che è sempre un melo o un
prugno, sulla testa del defunto esprime il valore fecondatore della morte
quale ritorno all’ancestralità. L’albero funerario con i suoi prossimi frutti
rappresenta le generazioni future e simboleggia l’albero genealogico del
defunto che a poco a poco si fonde con le sue radici, con il gruppo degli
antenati indifferenziati e non sessuati. L’offerta dei frutti, delle mele rosse in
particolare, ai defunti e ai neonati quando escono per la prima volta di casa,
sottolinea l’identificazione dell’universo post-mortem e prenatale. A seguito
di questa simbiosi vegetale, le mele sono i primi frutti dell’anno che le donne
7 Il genere di certe piante assorbite nei decotti dalla donna desiderosa di concepire è
ugualmente scelto in funzione del sesso auspicato del bambino, come il bozur o peonia rossa
per i bambini, e la georgina o dalia per le bambine.
8 Cfr. A. M. LOSONCZY, “La saggezza e l’ombelico” in Civilisations, XXXVII, 1-2, 1986,
p. 262. A differenza degli Embera, non si trova presso i serbi coinvolgimento alcuno di un
gruppo primordiale già costituito.
129
dedicano ritualmente ai morti il giorno di San Pietro (Petrovdan, il 29 giugno).
Se una madre ha perso un figlio in tenera età, non consumerà questi frutti,
come avviene anche per le altre primizie, prima di averli offerti a tutti i
defunti “affinché le gustino in quel loro mondo”. Infatti, nel vasto giardino
del paradiso, pieno di alberi e fiori, le anime si nutrono principalmente di
frutti e del profumo dei fiori. Privarli delle mele sarebbe come privarli del
loro nutrimento preferito.
Riducendolo all’estremo, l’albero da frutto diventato carbone sotto
l’azione del fuoco perde le proprietà fecondatrici se viene spento
deliberatamente: le donne che non desiderano più concepire un figlio
spengono nella placenta dell’ultimogenito un numero di tizzoni ardenti pari
agli anni in cui desiderano non rimanere più incinte. In seguito appendono la
placenta nel condotto del camino proferendo il voto “che anch’io porti
(concepisca) quando questo tizzone rinverdirà e porterà dei frutti”9.
L’intervento del fuoco domestico è in questo caso negativo. L’estinzione di
un residuo del focolare collegato all’essiccazione della massa umida della
placenta agisce in maniera identica al sotterramento della placenta effettuato
sotto un albero sterile. Questi procedimenti similari mirano ad ottenere
l’estinzione metonimica del principio vitale e fecondatore contenuto nelle
sostanze dalle proprietà equivalenti. Il focolare che si spegne vuol dire anche
la morte della casa, l’estinzione del lignaggio per mancanza di discendenti.
Ma il fuoco, in particolare quello in cui brucia il ceppo di Natale, il badnjak,
possiede un potere eminentemente fecondatore.
In tutta la Serbia, la vigilia di Natale, il padrone di casa munito di guanti
taglia, con grandissima cura, un ramo di quercia (cer, hrast), di ciliegio
selvatico (tresnja) o di corniolo (dren) che lui stesso porta a casa la medesima
sera. Posa l’estremità sezionata sul fuoco domestico avendo cura di far
scoccare il maggior numero possibile di scintille mentre formula voti di
prosperità: “tanti agnelli nell’ovile, porcellini nel porcile, pulcini nel pollaio,
api negli alveari, grano nei campi, salute nella casa, tanti bambini maschi,
9 I semi di fave (bob) tostati portati alla vita dalla sposa il giorno delle nozze possiedono le
stesse virtù anticoncezionali. Nel momento in cui la giovane donna desidera avere un figlio,
semina tali semi per raccoglierne le fave che mangerà nella speranza di concepire un figlio. Il
concepimento differito risulta in questo caso dall’ingerimento di semi freschi di un cibo
flatulento che un tempo si immaginava facesse parte del nutrimento consacrato ai defunti.
130
tanta fortuna e tanto successo quante le fiamme del fuoco!”10 Tutto il potere
fecondatore contenuto nel badnjak viene così liberato tramite l’attizzamento
sotto forma di scintille.
L’efficacia di questo rito annuale strettamente domestico, d’importanza
capitale per la prosperità degli uomini, delle piante e degli animali, si basa
sulla sezione di una specie selvaggia introdotta negli spazi domestici e sulla
lenta combustione della stessa che avviene sul fuoco adibito a scopi
culinari, richiamo metaforico dei primi gesti della levatrice che passa sul
fuoco il bambino dopo avergli tagliato il cordone ombelicale. La prescrizione
che prevede di sorvegliare la notte di Natale la consumazione del badnjak (di
bdeti, vegliare) è la stessa che prevale quando vi sono delle nascite o dei
decessi. La veglia segna un cambiamento di stato che è anche un ritorno: la
festa della nascita del “piccolo dio” (Natale = Bozic, diminutivo di Bog, Dio)
è il momento del completamento di un ciclo annuale. In questa data si
aprono le porte del cielo, le anime dei morti entrano in circolazione. Quella
sera, subito dopo l’introduzione del badnjak, si gettano, secondo il rito, delle
noci nei quattro angoli della cucina per indicare la presenza degli antenati
morti che garantiscono la prosperità alla stirpe. Si consuma in loro onore un
pasto magro sulla paglia precedentemente sistemata per terra. Due giorni
dopo il padrone di casa porterà gli avanzi della cena, mischiati alla paglia e
alla cenere del badnjak, nei campi, nella vigna, nel frutteto, nella stalla, nel
porcile e nel pollaio. Questo rito di traslazione riconferma alla fine di ogni
anno il potere fecondatore degli antenati, rafforzando così quella linea di
indispensabile continuità tra i morti e i vivi della stessa stirpe.
Il termine kresanje, potatura, sbrancamento degli alberi e accensione con
scintille, rimanda precisamente alle due caratteristiche del badnjak. Per di più
l’espressione krsno ime, letteralmente “nome acceso dalle scintille”, designa la
slava (gloria, festa), cioè l’antenato eponimo protettore della stirpe, santificato
sul calendario e il cui culto invernale si trasmette per via maschile. Il badnjak
di Natale, con le sue proprietà specifiche, non sarebbe altro che la forma
vegetale, oltre a quella del calendario, dell’antenato protettore.
Questo pezzo di albero a volte è avvolto in fasce o è portato in braccio come un
lattante prima di essere depositato sul focolare, centro del culto domestico in quanto luogo in
cui si raggruppano le anime degli antenati.
10
131
Dato il suo potere eccezionale, le donne utilizzano i tizzoni del badnjak
per favorire o impedire il concepimento. Coloro che desiderano avere un
figlio ne prelevano uno ardente, lo gettano in un bicchiere d’acqua che
trangugiano subito. Per ritardare la gravidanza, spengono il tizzone facendo
il voto di rimanere incinte quando questo si riaccenderà, poi se lo cingono in
vita. Il concepimento è rimandato fintanto che esse non rimettono il tizzone
nel fuoco per farlo infiammare di nuovo. In questi procedimenti si riscontra
ancora la presenza di oggetti portati attorno all’ombelico come anche
l’assunzione dei residui di un corpo vegetale reso inattivo per estinzione.
L’ingiunzione delle donne si basa, come in precedenza, su un rapporto di
similitudine, di analogia tra la fecondazione e la riattivazione tramite il fuoco
della sostanza mediatrice.
La scintilla, esito dello sfregamento suggestivo di due legni, è concepita
come se fosse il germe dell’esistenza umana, principio operativo del
generare. Un’altra raffigurazione di questa concezione, che è stata notata da
Milicevic, risiede nella credenza secondo la quale una scintilla prodotta
tramite la frizione di tizzoni ardenti per mano degli sposi, raccolta in un
bicchiere d’acqua e dopo ingoiata dalla donna, la renderà fertile.
L’accostamento fecondo di due legni complementari, come nel caso
dell’innesto, si ritrova in questa circostanza in un contesto igneo in cui la
scintilla prende il posto del frutto.
Concluderò con due riti perfettamente simili cui si ricorre per rimediare
alla sterilità delle donne e degli alberi da frutto. Il mattino di Natale, una
parente o un’amica della donna sterile si presenta davanti alla sua abitazione
con un matterello. Costei le inveisce contro dall’esterno minacciandola:
“Partorirai? (hoces li roditi?)” “Sì! Che altro potrei volere?” risponde la donna
sterile. “Partorirai?” chiede ancora l’altra colpendola leggermente con il
matterello. “Sì!, se Iddio lo vuole!” Alla terza ingiunzione la donna esclama,
prima di sparire in casa, “sì!, lo voglio, lo devo!” Nel frutteto gli uomini
compiono un rito analogo: munito d’ascia, un uomo minaccia l’albero sterile
gridando: “darai dei frutti?(hoces li roditi?)” “Non lo tagliare, li darà!” risponde
un altro nascosto dietro l’albero. Come in precedenza, ossia nel rito
dell’innesto nuziale, la scena si ripete per tre volte di seguito.
Le donne, che assomigliano agli alberi, subiscono un trattamento
identico. Vien loro ingiunto di procreare tramite uno strumento di legno
132
caratteristico della loro attività culinaria, utilizzato per la preparazione di
paste lievitate; questo compito è loro affidato solo dopo aver assolto la
condizione di piante fruttifere. Gli alberi sono minacciati tramite ferri
taglienti riservati agli uomini ma utilizzati dalle levatrici. Segnaliamo infine
che gli alberi maggiormente soggetti a tale trattamento appartengono alla
categoria del genere femminile, alla cui produzione è riconosciuta maggior
validità ai fini dell’economia domestica. I meli e i prugni sono i primi della
lista; gli uni forniscono delle riserve invernali, gli altri i frutti necessari per la
produzione dell’alcol (rakija o sljivovica). Queste sono anche le due specie
scelte quali alberi funerari.
In tutti i fatti esposti, il concepimento sembra essere soggetto all’azione
diretta o indiretta di un principio contenuto nei vegetali fruttiferi e la cui
efficacia si basa su di un concepimento analogico della germinazione e della
gestazione. Risulta allora che l’azione del generare dipende da un fattore
diverso dall’atto sessuale propriamente detto che appare necessario ma non
sempre sufficiente. Viceversa, la sola astinenza sessuale (d’altronde mai
esplicitamente menzionata) non garantisce l’assenza della procreazione,
bensì è necessario ricorrere ad alcune pratiche basate su di una metafora
dell’estinzione. La presenza di un terzo elemento è indispensabile affinché
l’innesto ‘prenda’, affinché i rapporti siano fecondi. Questo elemento
catalizzatore predispone il corpo della donna a mettere in opera il seme
maschile. Da lui dipende come ultima risorsa la procreazione e di
conseguenza la sopravvivenza della stirpe.
Il valore fecondatore dello sperma non è mai messo in discussione: le
donne sono considerate interamente responsabili della sterilità della coppia.
Sono loro che manipoleranno con cognizione di causa, per la loro parentela
biologica, le sostanze che le renderanno fertili oppure no11. Custodi del culto
domestico, esse hanno anche l’intera responsabilità del culto dei morti il
buon esito del cui radicamento nel suolo natale o famigliare garantisce
ricchezza di messi, prosperità per la casa ed infine la loro stessa fecondità.
11 Allo stesso modo, le donne sono le uniche a manipolare delle sostanze cariche di virtù
fecondatrici come il lievito e il caglio.
133
Nascere sotto i cavoli.
Un approccio etnologico a questo mito
culturale*
di Jocelyne Bonnet
1) Un mito culturale
L’espressione “nascere nei cavoli”1, o “venire dai cavoli”, o ancora
“venire ai cavoli”, mette in evidenza la relazione di provenienza, compresa
nel verbo “nascere”, dal latino “nascor”: essere figlio di, ma di più avere
origine, provenire, risultare da”.
Il mondo tradizionale contadino ha conservato con una certa coerenza
un tessuto di relazioni analogiche, espresso con metafore mal celate che ora
considereremo.
Poniamo prima un limite, queste metafore sono culturali. I piccoli
francesi nascono sotto i cavoli. L’inchiesta sul campo su tale argomento si è
svolta nella zona nordoccidentale della pianura dell’Alsazia. È là che si
delinea la frontiera culturale. Al confine coi Vosgi, il mito popolare
riguardante la nascita dei bambini parlava di bambini nati sotto i cavoli; nelle
regioni più vicine al Reno prevaleva il modello culturale germanico, secondo
gli informatori, sotto l’influsso esercitato dalla guerra del 1870, con il
modello che prevedeva che i bambini fossero portati dalla cicogna. Rimane
da condurre un’inchiesta, o quanto meno così bisognerebbe fare, sulla
*in
CIVILISATION, vol.. XXXVII, 1987, n° 2.
L’espressione equivalente in italiano è quella di ‘nascere sotto i cavoli’ e d’ora in poi ci
atterremo a questa versione (N.d.T.).
1
135
questione dell’origine dei miti. Precisiamo, tuttavia, grazie all’intervento di
Marianne Mesnil che qui ringraziamo, che l’opposizione che si presenta nel
romeno varza san barza pone il problema dell’appartenenza culturale, con la
semplice interrogazione: “dal cavolo o dalla cicogna?” I bambini alsaziani
dell’inizio di questo secolo si interrogavano fra di loro allo stesso modo nei
corsi scolastici, per apprendere le rispettive appartenenze culturali. “Sei nato
sotto un cavolo o sei stato portato da una cicogna? “domandavano.
Questa alternativa acquista significato in una prospettiva più europea che
rimane da precisare. Sembra che il mito culturale dei bambini portati dalla
cicogna provenga dalle tradizioni balcaniche, germaniche, nordeuropee e
portoghesi. Quello relativo alla nascita sotto i cavoli corrisponde ad un’area
che include l’Europa orientale, l’Italia e la Francia.
Ma i miti si succedono anche nel tempo. Ultimamente in Alsazia, si
ritiene che, piuttosto che il cavolo o la cicogna, sia la valigetta della levatrice
a portare i bambini. Più anticamente invece si diceva che i bambini uscissero
dai pozzi dove l’anima si lamentava in attesa di un corpo in cui nascere. Da
qui sorgono i vari nomi affibbiati ai numerosi pozzi alsaziani: “pozzo dei
bambini, della levatrice, del latte...”.
I miti relativi alla Terra Mater sono universalmente diffusi, riferiscono
che gli umani sono usciti dalle viscere della loro madre tellurica. Nati dalla
terra, dall’albero, dalla roccia, dai pozzi, dai vegetali, così si esprimono le
metafore che sono tutt’altro che giochi d’immagine o delle pure spiegazioni
per bambini.
Queste espressioni e questi proverbi ricoprono una realtà complessa che
riguarda l’esperienza umana e sprigionano il senso d’appartenenza a un
luogo. Come è indicato in altro modo dal proverbio rilevato a Bessede de
Savet (Aude), che ben ha fatto a comunicarmi Daniel Fabre, “quando
eravamo vivi andavamo nelle sodaglie, ora che siamo morti andiamo nei
giardini”. Nella cultura contadina, i giardini mettono i vivi in relazione al
mondo dei morti, garanti della fertilità e della fecondità. La donna incinta in
tale esistenza non fa altro che completare l’opera della terra, madre di ogni
cosa. Il suolo natale è, in questa prospettiva, il luogo in cui si nasce dalle
viscere della terra; per questo sorge la necessità di ritrovare questo luogo per
morire e di ritornare discendendo nel seno della grande genitrice. Partorire
per terra, posare il bambino al suolo, offrire il bambino alla terra, sono
136
atteggiamenti che appartengono a questa gesto biocosmico della maternità
(tellurica).
Senza parlare del difficile problema dell’origine dei miti, l’antropogenesi
vegetale è rappresentata da numerosi miti e leggende divine che ammettono
che le donne diventano feconde se frequentano certi luoghi oppure perché
hanno toccato un albero, odorato una pianta, o ancora per l’ingerimento di
un frutto, un seme, un ortaggio.
Da una parte, queste tradizioni ci sono giunte tramite frammenti creatisi
da casi particolari, ritenuti in quanto tali dei miti. Tradizioni incomplete
queste, che non permettono di scoprire i legami con spiegazioni coerenti
riguardo alla nascita partendo da teogamie vegetali. Dall’altra, le filiazioni
umane e i riti di fecondità che le accompagnano sono tradizioni ancora
molto ricche nell’ambiente contadino. Queste chiariscono il tono
dell’antropogenesi vegetale e lo costringono in una rete di corrispondenze e
di simboli. Esaminiamo queste tradizioni contadine.
2) Il cavolo, emblema della fecondità matrimoniale
Non è passato molto tempo da quando i genitori spiegavano ai figli, con
atteggiamento serissimo, che erano nati sotto un cavolo, alle figlie a volte
che erano nate in una rosa. Tutti i riferimenti al parto restavano impliciti nel
parlare quotidiano. In Francia si nasceva nei cavoli. Prendo in prestito da
Georges Sand, che ha annotato alla fine della sua opera La Mare au Diable in
allegato la descrizione molto dettagliata di una festa di nozze campagnola.
Georges Sand era consapevole che si trattava di usanze provenienti da un
passato remoto e che lei era una delle ultime testimoni che potevano lasciare
una traccia scritta di questi veri e propri rituali. Descrive al terzo giorno dei
festeggiamenti nuziali “La cerimonia del cavolo”.
Si tratta di una recitazione di un giardiniere e una giardiniera – questi
personaggi si recano dalla sposa, in processione con tutti i festanti per
estirpare il più bel cavolo dell’orto. Questo cavolo viene in seguito collocato
in un canestro attorniato da terra fresca, da nastri e striscioni. Poi, viene
posto nel punto più alto della casa dello sposo e innaffiato col vino. La
137
stessa cerimonia ha luogo nel giardino del giovane e il secondo cavolo viene
sistemato sul tetto della casa che la ragazza ha appena lasciato. Quando si
scambiano i cavoli, gli anziani si salutano così:
“Bel cavolo, vivi e fiorisci affinché la nostra sposa abbia un figlio prima
della fine dell’anno, perché se tu morirai troppo presto ciò sarà causa di
sterilità”.
Non si può esprimere più chiaramente il ruolo magico del cavolo,
emblema di fecondità matrimoniale. Ecco una breve descrizione della
cerimonia del cavolo tratta dalle informazioni raccolte da Georges Sand:
l’augurio fatto alla sposa di avere numerosi figli era dovuto al fatto che
costoro avrebbero assicurato la mano d’opera necessaria e, quindi, la
prosperità della famiglia rurale. Ancora ai nostri giorni in Alsazia avere pochi
figli, in una famiglia di contadini, è indice di indigenza, di maledizione, di
incapacità di nutrire e allevare i figli, indica soprattutto l’approssimarsi
dell’estinzione della linea famigliare.
Peraltro, “la zuppa di cavoli” è la pietanza più rappresentativa della tavola
contadina. “L’odore della zuppa di cavoli è la vita” diceva un contadino di
Blaesheim (Alsazia), “l’odore del campo di cavoli dopo la raccolta è un
odore di morte”. È vero che se si arriva nel mese di novembre all’aeroporto
di Strasburgo, situato in un’area riservata alla coltivazione dei cavoli, non si
può non sentire un odore penetrante, pesante e persistente, dovuto alla
putrefazione delle foglie di cavolo abbandonate nei campi. Il cavolo, che
conserva la vita sulle tavole dei contadini e che partecipa alla morte vista
come opera di riciclaggio nella terra, è una pianta privilegiata dalle
rappresentazioni dell’immaginario rurale.
In questo ordine di idee, un’altra correlazione analogica rende esplicito il
simbolo. La digestione del cavolo provoca fermentazioni intestinali e come
dicono i contadini “fa ingrossare la pancia”. Ma non è soltanto il cavolo ad
essere messo in discussione; il consumo di farinacei, del mosto d’uva e di
altri prodotti che causano effluvi anali fa sì che anche questi vengano
considerati come prodotti privilegiati dall’immaginario collettivo. Considerati
pericolosi, sono anche dei mediatori tra le forze della vita e della morte. Vien
dato per certo il fatto che vacche e capre che hanno “il ventre grosso”
muoiono se non sono liberate in tempo dalla presenza di gas.
138
I cavoli e le rape: “la base per fare la zuppa”, sono dei regali vitali che si
scambiano in famiglia e fra amici, come succede ancora nella Lozère e nelle
Cevennes.
Nutrimento essenziale per la sopravvivenza, il cavolo è sempre una
piantagione importante nell’orto, anche se la zuppa di cavoli ha abbandonato
la tavola dei contadini.
3) “C’è cavolo e cavolo”
Si tratta del cavolo comune, Brassica Oleracea, classificazione di Linné
chiamato “kraut” in alsaziano, vale a dire “erba” – in opposizione ai cibi di
tipo latteo e carneo e ai farinacei. Pianta vivace indigena, il cavolo è utilizzato
da moltissimo tempo negli orti europei. Da questo sono derivati diversi tipi
di cavolo. È stato, con le diverse specie derivate, un po’ confuso, in
particolare da Plinio, con le rape, i navoni e i ravanelli; fa pensare all’ortaggio
che offre più servigi e assicura la sopravvivenza in caso di carestia. Questo
autore riferiva anche che bisognava seminarlo da nudo con tale preghiera: “è
per me e per i miei vicini che semino”.
Plinio scriveva anche che c’erano delle rape maschio e femmina. In
Alsazia i contadini osservano che per analogia di forme il cavolo è da
ritenersi piuttosto femminile, la rapa maschile. Michèle Amouroux a St. Jean
de Salces (Lozère) riferisce che il cavolo che cresce sopra è femmina e che la
rapa che cresce sotto la terra è maschio; a Cournontéral (Herault), “un utero
pieno quando la donna è in gestazione è grosso come un cavolo”. Nella
tradizione contadina un cavolo cappuccio, la lattuga o una rosa, assomigliano
per la loro forma al sesso femminile; tali informazioni sono state verificate
anche da Arianne Bruneton nei Pirenei e noi la ringraziamo per queste
precisazioni gentilmente tramesseci. In questo stesso stato d’animo, il
termine latino “caulis” si riferisce al gambo delle piante, al torsolo del cavolo
e al pene.
139
4) Sapete piantare i cavoli?
Il cavolo è anche per analogia “come un bambino a causa del quale ci si è
ingrossati”; Plinio forniva tale precisazione facendola risalire alla Germania.
In Alsazia il cavolo voluminoso di un verde molto sbiadito, chiaro,
solcato da nervature bianche, chiamato “cavolo quintale d’Alsazia”, è
raccolto in autunno dopo una gestazione di nove mesi. Esso spunta dalla
terra con la testa in avanti, a differenza degli altri ortaggi, il che lo distingue
serbandogli un posto importante nell’immaginario contadino. Viene piantato
a marzo, secondo il proverbio alsaziano: “per il giorno di Santa Gertrude (17
marzo) pianta i tuoi cavoli”.
Questi dettagli hanno la loro importanza, poiché mettono assieme i
diversi motivi che spiegano perché, nelle rappresentazioni contadine, la
nascita e il cavolo sono collegati fra loro.
È nel mese di gennaio che in Alsazia si preferiva celebrare le nozze fra i
contadini. Dopo aver consultato i registri matrimoniali del secolo scorso, ho
potuto verificare questa usanza, già segnalata da Georges Sand per il Berry,
delle nozze campagnole: “è in inverno, più o meno nel periodo di carnevale,
che si addice ed è conveniente da noi celebrare le nozze”.
Nelle regioni che ho esaminato, gennaio è risultato essere il mese
privilegiato per i matrimoni, perché era un periodo in cui non si svolgevano
lavori agricoli, e al contrario, era la fase in cui si recuperava del denaro con la
vendita del vino, del grano e per altre ragioni che non è qui il caso di stare a
considerare.
La celebrazione dei matrimoni a gennaio corrisponde, esaminando i
registri battesimali degli stessi anni, a un tetto massimo di nascite in autunno
e soprattutto nel mese di novembre; novembre è anche il periodo durante il
quale la raccolta dei cavoli raggiunge il culmine. In seguito, i cavoli
subiscono un trattamento d’immersione nella salamoia, prima fase per la
preparazione dei crauti. Altrimenti i cavoli vengono conservati in cantina, a
testa in giù, mentre le rape e altre radici vengono immesse nella torba a
livello del suolo. Nella Lozère il 18 ottobre per il giorno di San Luca, questi
ortaggi debbono essere raccolti, “chaoulégés”, perché l’inverno si trascorre in
montagna.
140
In Alsazia si dice ancora nascere sotto un cavolo o “aspettare o ricevere
un bambino nei cavoli” con riferimento a questa stagione in cui cavoli e
bambini arrivavano un tempo a maturazione dopo una gestazione di nove
mesi.
Il rituale magico menzionato da Georges Sand, le informazioni che ho
raccolte sul campo, esprimono il senso profondo di questa magia imitativa,
di questa solidarietà tra società d’agricoltori e il mondo vegetale.
C’era molta attesa per il primogenito dei figli delle coppie di gennaio, si
sperava di avere circa nove mesi più tardi nella stagione dei cavoli il figlio
maschio auspicato dalle stirpi contadine d’Alsazia, e che viene sempre
definito “Stammhalter”, cioè parola per parola, “della stirpe l’erede”.
La magia imitativa dei gesti tecnici conferma quest’uso. Quando piantano
i cavoli le vecchie genuflesse mostrano con gesti allusivi “come bisogna
piantare i cavoli”, col pollice deformato e ingrossato a causa delle tecniche di
piantatura nell’orto in cui si faceva il trapianto col pollice e non con il
cavicchio.
Nel buco fatto in terra con questo pollice teso verso il basso, con le altre
dita ripiegate, le donne introducono con l’altra mano il globo del cavolo.
Sapete piantare i cavoli? – è la vecchia canzone che fa riferimento ad un
immaginario contadino che oltrepassa largamente l’Alsazia. Essa conserva
traccia delle rappresentazioni dei rituali magici imitativi che portano fertilità
e fecondità alle comunità rurali. Si cantava allo stesso modo la piantatura
dell’avena: “Volete sapere come si pianta l’avena? Mio padre la piantava così,
poi si riposava a metà...”.
Nel periodo della raccolta dei cavoli, la magia imitativa col tramite
dell’allusione rinnova le immagini che corrispondono all’immaginario
collettivo. In autunno, in pieno raccolto, gli uomini una volta chiamavano,
con il linguaggio metaforico, ‘levatrici’ le donne occupate a raccogliere i
cavoli. I cavoli venivano sradicati facendoli girare su se stessi per rompere le
radici, poi, con l’ausilio di una roncola si sopprimevano il torsolo e le foglie
verdi spiegate per conservare solamente il grumolo.
Il turbinio impresso al cuore del cavolo situato nel cavo della mano fa
riferimento ai gesti analoghi delle levatrici che palpano la testa del bambino
nel momento del parto, e il colpo di roncola che trancia il gambo rievoca la
sezione del cordone ombelicale.
141
A questo livello di corrispondenze, bisogna collegare le usanze della
medicina simpatica che consiglia di consumare i cavoli per aumentare la
quantità di latte della futura madre e della puerpera. Per aiutare ad espellere il
feto morto, la puerpera deve consumare il gambo del cavolo crudo. Per
amor di concisione, il cavolo, panacea curativa, non sarà menzionato,
ancorché tale qualità concorra a rafforzare l’immagine del cavolo quale
simbolo vitale.
5) Espressioni metaforiche e gesto sessuale
Il cavolo, sesso della donna gravida, sesso femminile, che sbuca dalla
terra “con la testa in avanti”, al termine dei nove mesi di gestazione vegetale
(dal mese di marzo al mese di novembre), è anche l’unico vegetale che
“cresce in inverno”. Il detto lozeriano dice: “l’inverno è buono solo per il
cavolo o per rimediare un diavolo di tosse”.
Sta di fatto che c’è sempre un cavolo nella terra dell’orto, qualunque sia la
stagione; grossi cavoli bianchi o verdi, da marzo a novembre, o piccoli cavoli
a forma di germoglio, detti “cavoletti di Bruxelles” che si piantano a maggio
e si raccolgono durante tutto l’inverno fino alla primavera successiva.
Un tempo, perfino nei periodi di difficoltà quando le provviste per la
stagione fredda erano esaurite, e quando “le radici troppo dure e nodose”
per essere mangiate non permettevano di attendere i primi raccolti della
primavera, i cavoli rimanevano “le erbe ancora ben piantate nell’orto”.
La longevità di questo ortaggio, sempreverde in qualunque stagione, ne
fa il simbolo di una vitalità eterna. Il cavolo trascende il tempo delle stagioni
del giardinaggio e soprattutto il tempo invernale in cui rimane uno dei rari
vegetali consumabile fresco, e che “cresce anche col freddo”, come dicono
le contadine che notano come il freddo non nuoccia alla sua crescita.
Il cavolo, questo ortaggio popolare nell’Europa settentrionale e nella
Francia, ha captato l’attenzione degli osservatori contadini tramite le qualità
che intrattiene con il sapere analogico; il cavolo, neonato, domina anche la
morte invernale. L’inverno è la stagione tetra che è attribuita alle forze degli
esseri invisibili che, nelle tradizioni contadine, vengono temuti per le
142
maledizioni meteorologiche che si estendono dal mese di gennaio al mese di
maggio. Queste forze sono rappresentate dalle schiere invernali, i cavalieri o
i santi di ghiaccio, apportatori di morte sotto forma di raccolti devastati, di
fertilità compromessa, di stagione calda che si teme non possa più ritornare,
come precisano ancora ai giorni nostri i vari informatori.
Il cavolo, che sopravvive a tali minacce, è l’elemento immortale dell’orto
contadino.
In questa prospettiva del cavolo simbolo di continuità della vita, bisogna
ricordare che il contesto tradizionale, la magia imitativa implicita e l’analogia
tra ciclo vegetale del cavolo e ciclo del neonato suscitano ancora ai nostri
giorni espressioni metaforiche. Non si dice di un bambino che è “una bella
testa di cavolo”, o “cavolo mio, cavoletto mio, torsoletto mio”, termini
affettuosi con cui la madre si rivolge ai figlioletti (nota in francese, n.d.t.)?
Tant’è che si tratta di un vocabolario riservato alle donne, la cultura del
cavolo è un’attività che resta di loro dominio, ed è in qualche modo un parto
vegetale femminile. L’espressione “chouchouter” (= coccolare, da “chou” =
“cavolo” n.d.t.): accarezzare un bambino, e per estensione chiunque altro,
colloca queste immagini nel vocabolario quotidiano senza che se ne
comprenda più la concatenazione di rappresentazioni e simboli sottintesi. Le
montagne di “chou” (in francese “chou” oltre che cavolo significa “bignè”,
n.d.t.), torte a più piani dei dessert tradizionali nei pasti relativi alle feste di
battesimo o di matrimonio, collegano l’immagine del bambino nato o che
deve nascere col cavolo delle piantagioni delle donne. Nel suo dizionario,
Furetière precisa che il termine “chou” si applica alle “paste molto leggere e
molto gonfiate fatte a base di uova e di burro ed acqua, ricoperte di confetti.
Ci si serve di piccoli “choux aux Rois”, invece di dolci, alle Strenne si
inviano grossi “cavoli”. Le Strenne sono le feste dedicate ai bambini che
celebrano l’anno nuovo e i “Re”. Corrispondono nella liturgia cristiana alla
festa della circoncisione e alla presentazione di Cristo nel tempio, cioè al suo
battesimo. I “cavoli” della pasticceria o i cavoli vegetali si ritrovano in un
contesto di accoglienza dei neonati umani.
Le vecchie contadine alsaziane sanno in maniera implicita “perché i
bambini nascono nei cavoli”, “è così perché il cavolo è una cosa da donne”.
Infatti, si dice di un uomo che è separato dai beni o la cui moglie esercita il
dominio sulla casa: “è coperto dalla foglia di cavolo”.
143
Altre usanze, annotate da Rolland, sostituiscono il cavolo dell’orto nel
contesto delle facezie tradizionali della gaia scienza. Queste ultime liberano il
campo dalle analogie che collegano fra loro l’oggetto e le rappresentazioni
che gli si riferiscono in una maniera implicita.
Il cavolo “mille tute e gonne, cui la sarta non ha mai messo un
punto”(Liegi) è anche quella “cosa tutta rotonda, piccola o grossa, montata
su pilone” (Calais).
Se dà adito a numerose interpretazioni metaforiche, in Scozia è il simbolo
della sistemazione prossima delle ragazze, il messaggero degli Esseri
invisibili, per Samhain. “Durante l’halloween (la notte che precede il primo
novembre, giorno di Ognissanti), le ragazze si prendono per mano e se ne
vanno, a due a due, con gli occhi chiusi, nell’orto a estirpare il primo cavolo
che trovano. A seconda di come il cavolo sia grosso, piccolo, storto o diritto,
il loro futuro sarà bello, brutto, di grandi dimensioni oppure no. Se poca
terra aderisce alla radice è segno di ricchezza; se il gambo del cavolo è dolce,
il marito avrà un buon carattere; se è aspro costui brontolerà spesso”.
Il cavolo collega le giardiniere e il mondo degli Esseri invisibili nei parti
che seguiranno. È presente anche negli scherzi o nella cucina il giorno delle
nozze. “Se piove il giorno delle nozze si dice malignamente degli sposi: I l’on
mougné l’djot’o po, “hanno mangiato il cavolo nella pentola”, intendendo con
ciò che non hanno aspettato che il coperto fosse servito a tavola
regolarmente, ossia che hanno avuto dei rapporti sessuali prima del
matrimonio”. “Nella Creuse, il giorno delle nozze, il corteo porta in giro
dappertutto una gallina che la sera viene accoppata con un cavolo. Si fa
cuocere la gallina assieme al cavolo e tutt’e due vengono serviti agli sposi
quando sono a letto”.
6) Conclusione
I calendari contadini e i gesti tecnici sono ancora conservati negli orti
delle donne rustiche, protetti dall’oralità e dalla discrezione di umili compiti;
purtuttavia, i lavori di giardinaggio non sono altro che un’incursione
periodica che le donne fanno nel dominio retto dalle forze divine. Le
144
tecniche permettono di trascendere il tempo con la ripetizione magica e
stagionale dei gesti, permettono altresì di trascendere lo spazio con
l’esperienza della scienza analogica radicata nel giardino macrocosmico.
Questi frammenti di una cultura, che sfugge in tutta una serie di proposte
implicite e furtive, si riuniscono in matasse analogicamente coerenti che
tessono i legami della forma esplicita.
Ecco perché nel 1987 a Saint Jean de Salce (Lozère), si bruciano i
“troussels de caou”: i torsoli di cavolo, per il giorno di San Giovanni,
producendo una spessa fumata nera. Solo i vecchi sanno che ciò serve a
cacciare il male e la malattia e tutto quello che potrebbe intralciare la
fecondità e la fertilità, “i fuochi di San Giovanni avevano una funzione
matrimoniale”.
Le tradizioni contadine conferiscono coerenza al mito della nascita del
bambino nel cavolo. Chiariscono anche, come mi ha gentilmente
comunicato Claude Gaignebet, certe immagini che appartengono a tradizioni
vicine, per esempio quelle della tradizione ebraica orale dei Tolfdoth, in cui
Gesù appare appeso ad un cavolo gigante che cresceva al centro del tempio,
e nel giardino del giardiniere Giuda. Questo cavolo che portava semi per un
totale di cento libbre di semenza l’anno assomigliava ad una scala di
Giacobbe che trascendeva il tempo e la materia, come il cavolo del giardino
macrocosmico contadino.
Tali cavoli giganti si trovano nella Galizia spagnola: si tratta di “cavoli
cavalieri” il cui tronco raggiunge una quindicina di centimetri di diametro, e
l’altezza dai due ai tre metri quando raggiungono una certa età. Ai nostri
giorni, essi costituiscono il foraggio per gli animali, e le donne di bassa
statura prendono una scala per raccoglierne le foglie, e la semenza molto
abbondante (indagine del 1986 Loureses). Le piantagioni di cavolo vengono
rinnovate ogni due o tre anni, ma certi ceppi possono durare sette anni o
più. La radice a fittone diventa allora molto profonda e se l’albero non trova
abbastanza acqua muore disseccato, attaccato dai topi, i roditori del
sottosuolo.
Il cavolo cavaliere di Gesù, e il cavolo “a cuore di bue” che “assomiglia a
un feto”, sono delle piante privilegiate nell’immaginario. Esse assumono una
dimensione culturale e mitica.
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Le più discrete tradizioni contadine meritano la nostra attenzione, poiché
conservano nella stretta rete dell’oralità, dei divieti e delle espressioni
implicite, le immagini che danno vita e senso a ciò che appare insensato.
Nei limiti della loro area culturale, le metafore, i riti matrimoniali, le
proprietà del cavolo, la piantatura, la raccolta, il calendario della stessa
cultura, il linguaggio femminile, forniscono i legami di coerenza di questo
mito della nascita.
146
Appendice
La gravidanza e il parto nella cultura
folclorica: pratiche empiriche e protezione
simbolica. Il caso di Venegono Inferiore
di Emanuela Cremona
1) Breve presentazione storico-sociale
Venegono Inferiore, paese lombardo appartenente alla provincia di
Varese, conta oggi circa 6000 abitanti.
I primi documenti che ricordano espressamente questa località, risalgono
al secolo XI, ma le sue origini sembrano essere ben più antiche:
probabilmente era già abitata in epoca romana, come hanno dimostrato
alcuni reperti ritrovati sul territorio.
Il paese, situato a nord-ovest, ai limiti della Pianura Padana, sorge in una
ridente posizione, a 367 metri di altezza sul livello del mare, alle falde di una
serie di colline che costituiscono l’inizio delle Prealpi varesine, e che,
disposte a semicerchio, formano una sorta di altipiano; esso, cominciando da
Abbiate Guazzone e proseguendo verso Venegono Superiore, giunge a
fiancheggiare verso ponente il fiume Olona, che nasce a monte dell’abitato
della Rasa di Varese e, attraversando quarantacinque comuni, arriva a Milano
arricchito di vari affluenti.
La valle dell’Olona è stata incubatrice, fin dai primi decenni
dell’Ottocento, del processo di industrializzazione della Lombardia, grazie
allo sfruttamento della forza dell’acqua (con i primi mulini già nel Seicento) e
all’industriosità della gente, che ha lavorato nei primi cotonifici, nelle
147
tessiture, nelle concerie. “Lungo il suo corso si è sviluppata la storia della
provincia di Varese, nelle sue acque per secoli si sono specchiate le vicende
umane delle nostre popolazioni, dai confini con la Svizzera al capoluogo
lombardo”1.
Il territorio varesino è suddivisibile in tre parti: la montagna, fino alla
linea Laveno-Varese-Viggiù; la collina, compresa tra la linea pedemontana e
quella ondulata che da Somma-Gallarate giunge ad Abbiate Guazzone; la
pianura, regolare continuazione a nord della pianura lombarda.
Venegono è situato nella fascia collinare, costituita da un insieme di dossi
rocciosi e argillosi: “Lo scenario, quasi pittoresco, da molti secoli si presenta
nella sua caratteristica forma: un ampio pianoro circondato e come difeso da
ridenti colline”2. Il primo nucleo abitato sorse probabilmente intorno al XII
secolo, ai piedi della bassa collina dove sorgeva un castello, con i campi
coltivati a poca distanza, verso la zona pianeggiante; dalla linea delle colline
fino alle zone retrostanti si stendevano invece boschi e brughiere.
Il borgo, laborioso e vivace, sorse dunque in un contesto spiccatamente
agreste e attraverso i secoli rimase prevalentemente agricolo. “Le risorse
agricole, che si ricavavano dalle colture via via aumentate estensivamente e
intensivamente, erano abbastanza sufficienti per un tenore di vita piuttosto
semplice”3. La sua fisionomia moderna, consolidatasi in pochi decenni e
legata al suo rapido avvio a zona industriale, è relativamente recente. Fino
agli inizi del Novecento, Venegono rimase un paese agricolo, anche se era
già presente qualche forma di attività operaia e artigianale.
Il nome Venegono, Venegonn, rientra nella categoria dei toponimi in -onn,
di antichissima origine e tipici della Lombardia, anche se poi ha prevalso la
versione latina del nome, utilizzato dai notai del medioevo (locus de Venegono).
Anche nella letteratura italiana compare il termine Venegonno: in “Piccolo
mondo antico”, del 1888, Fogazzaro parla di Venegonno e dei suoi rinomati
marroni che, “nelle vecchie famiglie lombarde dai costumi semplici e
cordiali, venivano offerte agli ospiti, nelle sere d’inverno, come una specialità
1 MACCHIONE P., GAVINELLI M., Olona: il fiume, la civiltà, il lavoro, Macchione ed., Varese,
1998, p. 18.
2 GILLI A., Venegono Inferiore e il suo castello, Novastampa, Verona, 1976, p. 8.
3 Ibidem, p. 84.
148
gastronomica”4. I castagni venivano quasi tutti innestati, “formando dei
magnifici alberi che producevano la famosa castagna rossina, notissima in
Milano da epoca remota, ove arrivava in regalo a gente importante”5.
Luogo nullius nomini, dunque, che ha però subito gli influssi delle grandi
istituzioni milanesi fin dal Medioevo: le lotte tra comune e impero, tra nobili
e popolo, tra Sforza e Francesi, ogni grande rivolgimento storico cittadino
ed ogni avvenimento religioso, hanno avuto un’eco in questo luogo, che
faceva parte del contado del Seprio.
Nel territorio della diocesi di Milano, la storia locale è sempre stata molto
ricca e varia, ma comunque improntata ad unità: le vicende di un umile
villaggio possono così diventare paradigma per considerazioni più generali.
Venegono era legato da stretti vincoli con Castelseprio, l’antica Sibrium,
situata sull’altra sponda dell’Olona e che col nome di Castruum Seprii fu
capitale di un contado che occupava quasi tutta la parte nordoccidentale
della diocesi di Milano; fu poi distrutta nel 1287 su ordine dell’arcivescovo
Ottone Visconti. Venegono si trovava nello stesso contado e nella stessa
pieve di Castelseprio, che nel secolo X divenne contea ereditaria dei De’
Conti, che abitarono anche a Venegono. Ma dopo il 1100 la casata perse
prestigio: molti membri traducevano il ricordo della passata potenza in
irrequieto disagio; alcuni si trapiantarono a Milano, ma, caduti in rovina,
tornarono in provincia; altri si trasferirono temporaneamente a Varese,
vivendo dei redditi terrieri.
La distinzione del territorio di Venegono in due villaggi separati, risale al
XII secolo. Il primo nucleo, il più antico, sorse probabilmente a Venegono
Superiore, dove fin dal Mille sulla collina era stato eretto un grande recinto
murato, contenente alcune abitazioni e delle caneve, cioè delle costruzioni
dove, secondo la consuetudine del territorio milanese, i contadini stipavano i
prodotti della terra. Al centro del recinto c’era la domus magna castri, che
spettava al signore feudale del villaggio. Quando i due villaggi furono
distinti, a Venegono Inferiore sorse un altro castello; ai piedi della bassa
collina dove esso venne edificato, aldilà di un prato acquitrinoso, quasi a
BOGNETTI G. P., Venegono Inferiore, notizie storiche, a cura della Biblioteca comunale di
Venegono Inferiore, La Tipografia Venegonese, Venegono, 1987, p. 9.
5 CREMONA A., Venegono com’era, Moretti, Segrate, p. 10.
4
149
rispettosa distanza, si raggrupparono le poche abitazioni costituenti il nuovo
Venegono. Il castello di Venegono Inferiore fu occupato dai Castiglioni,
quello di Venegono Superiore passò ai Pusterla, per tornare ai Castiglioni nel
1425.
Il periodo compreso fra 1200 e 1600, fu segnato dall’antagonismo fra le
due casate, strettamente legate ai destini di Milano, anche se i Castiglioni
cercarono di gestire i propri territori con un “dominio in certi periodi
politicamente abbastanza libero anche di fronte al potere assorbente di
Milano”6.
Il castello di Venegono Inferiore aveva dimensioni ridotte: un
documento del 1300 lo definisce “castelletto” ed ancora nel 1500 si
presentava come un quadrilatero con una porta a sud e l’altra a nord.
Divenne poi un’abitazione civile, un cascinale pittoresco, sovrastato,
sull’opposta collina, dal Seminario. I Castiglioni nel corso del 1400
ricoprirono incarichi di prestigio alla corte dei Visconti e degli Sforza di
Milano; ma “in questi castelli ritrovavano l’istinto e il costume dei signorotti
medievali; e in queste terre, lontane dal controllo del signore di Milano,
avevano la base sicura per la propria potenza materiale d’armi e di danari”7.
Venegono Inferiore venne poi costituito in comune, retto da due consoli.
La vita religiosa era molto viva: la messa veniva celebrata nella chiesetta
campestre di San Michele, in quella di Santa Maria de’ Castro e nell’oratorio
dei Santi Antonio e Leonardo, tutte costruzioni semplici e spoglie, con un
piccolo campanile. Ma il clero che esercitava qui il proprio ministero
mostrava una certa sollecitudine, era “capace di intendere con larghezza i
bisogni di queste comunità, terribilmente gravate di imposte e di contributi
per gli alloggi militari”8. I curati e i cappellani fin dai primi decenni del 1500
“tenevano a scuola” i fanciulli del popolo.
Anche in questo territorio si verificarono però abusi e mancanze, col
cumulo dei benefici e la violazione degli obblighi di residenza: San Carlo
portò un soffio di rinnovamento anche nella Parrocchia di Venegono
Inferiore, dove giunse in visita pastorale il 24 luglio 1570. “Si era a poche
BOGNETTI G. P., op. cit., p. 18.
Ibidem, p. 19.
8 Ibidem, p. 28.
6
7
150
leghe dalla terra degli Svizzeri; nuvole nere montavano dal nord, e l’ora era
già tarda”9. Per consuetudine era stata adibito a chiesa parrocchiale l’oratorio
dei Santi Antonio e Leonardo, eretto dai De’ Conti nel centro del villaggio: il
Santo propose di incorporarla in una nuova chiesa, che il popolo stesso
avrebbe costruito. Nella vita locale si era spento ormai ogni moto ideale, si
viveva nella miseria quotidiana: la costruzione di una nuova chiesa avrebbe
istillato un rinnovato fervore nella popolazione e il grande campanile
avrebbe rivaleggiato con quello degli altri paesi. Nel 1606 la visita pastorale
del grande Federico Borromeo, campione di fascino e di serenità, diede
nuovo impulso alla costruzione della chiesa parrocchiale, dedicata ai Santi
Giacomo e Filippo, già patroni del luogo nel Medioevo: la prima pietra fu
posata il 15 aprile 1610. La grande povertà della gente causò un
rallentamento dei lavori, che terminarono solo nel 1620; il popolo guardò
sempre con particolare affetto alla propria chiesa, costata tanto impegno e
tanta fatica. “Il paese non era ricco e faceva le cose a poco a poco; ma la
costanza dell’interessamento valeva meglio dell’unico sforzo iniziale”10.
Il ramo dei Castiglioni che vivacchiava nel castello di Venegono Inferiore
si estinse nel 1684 e l’edificio decadde a cascinale; nel 1648 i rivali Pusterla
comprarono dalla Camera regia il fondo di Venegono Inferiore per £.400.
Assunsero il titolo comitale, che riservava loro la riscossione delle imposte.
L’era napoleonica segnò il passaggio dalla amministrazione feudale a
quella comunale. Nel 1773 il paese contava solo seicento anime (cinquecento
nel 1500): l’emigrazione, tipica di queste zone (a causa della scarsa resa delle
campagne), le condizioni igieniche precarie (il medico comunale apparve
solo nel 1795) e le difficili condizioni economiche, spiegano l’insensibile
aumento della popolazione.
La coltivazione della terra era affidata perlopiù a piccoli affittuari, che ne
ricavavano pochi guadagni: anche le belle vigne sulle colline appartenevano
ad un esiguo numero di proprietari.
Nella vasta zona spopolata fra Appiano, Castelnuovo, Binago, Venegono
e Tradate, collinosa e coperta di brughiera, la povertà aveva indotto a gravi
disboscamenti: alienate ai privati, le brughiere ricche di castagni e di querce
9
Ibidem, p. 30.
Ibidem, p. 35.
10
151
di rovere, che producevano ghiande vendute per l’allevamento dei maiali,
vennero lentamente coprendosi di boschi di pino e di robinie; i grandi
castagni furono abbattuti dai proprietari e ceduti alle fabbriche per la
produzione del tannino. Da quelle colline, “l’occhio, scorrendo tutto intorno
il panorama, ravvisa paesi ed edifici che rappresentano ciascuno una fase di
questa umile storia rurale e, con le loro vicende, invitano a meditare su ciò
che, nella storia, resta”11.
In seguito Venegono entrò a far parte del Regno d’Italia, istituito da
Napoleone nel 1805 e continuato fino al 1814, quando fu occupato dagli
Austriaci; in questo periodo il paese non costituiva comune autonomo, ma
era unito a Vengono Superiore, all’interno del XV circondario del
Dipartimento del Lario, con sede principale ad Appiano. Nel 1838 Vengono
Inferiore tornò ad essere comune autonomo: un locale della Casa
parrocchiale fu riservato a “scuola pubblica”, anche se di ridotte dimensioni.
Il parroco, unica autorità esistente sul territorio, assommava in sé le cariche
religiose e quelle civili; poiché la parrocchia era molto povera ed era
mantenuta solo con le elemosine del popolo, egli, per la celebrazione delle
messe, chiedeva aiuto ai frati Cappuccini di Tradate, poi soppressi con
un’ordinanza di Napoleone.
La popolazione continuava ad essere ridotta: nel 1850 si contavano circa
830 abitanti, quasi tutti contadini in misere condizioni di vita; la sistemazione
delle strade, rimaste fino ad allora in grande maggioranza viottoli di
campagna, impresse il primo segno di ammodernamento.
“La condizione di estrema povertà nella quale versava la popolazione,
spingeva qualcuno ad attuare, già allora, alcune forme di delinquenza, quali il
contrabbando, vivo ancora oggi in queste zone di confine con la Svizzera”12.
“Ci fu anche qualche malandrino. I contrabbandieri facevano deposito delle
loro merci contrabbandate dalla vicina Svizzera a Venegono e quella volta il
nascondiglio era pieno al massimo delle sue capacità. Non si sa da chi, i
carabinieri vennero a conoscenza non del deposito, ma dei contrabbandieri,
11
12
Ibidem, p. 36.
DONEDA V., Venegono nel XIX sec., in BOGNETTI G. P., op. cit., p. 42.
152
e, fatto un appostamento, li arrestarono tutti e li imprigionarono. Il
depositante, venduta la merce, scappò in America e fece fortuna”13.
Nel 1846 morì il parroco Don Pasquale Riva, il cui testamento conferma
l’estrema indigenza della gente: “Nel giorno dei miei funerali faranno
distribuire ai miei parrocchiani staia dodici di riso, dividendolo pro capite
senza distinzione e in eguali porzioni”14.
Nella zona cominciarono i lavori di costruzione del tratto ferroviario
Saronno-Malnate, che entrò in funzione nel 1885. Le più facili e rapide
comunicazioni, i più frequenti contatti con altra gente, il richiamo della città
e l’insufficiente guadagno derivante dal lavoro dei campi, inducevano a
cercare altrove nuove occupazioni. “S’impose il fenomeno della migrazione
anche all’estero, con facile passaggio alla vicina Svizzera”15.
Il secolo XX si aprì all’insegna “di una forte accelerazione dello sviluppo
economico, che determinò profonde modificazioni in campo sociale: i limiti
e gli squilibri di questa crescita furono presto evidenti e si tradussero, fra
l’altro, in un ulteriore aumento dell’emigrazione, fenomeno costante per
tutto il primo decennio del secolo”16. Molti pendolari si recavano da
Venegono a Milano: i più giovani cercarono lì un nuovo lavoro, adattandosi
a passare la trafila di bocia, poi di garzùn e infine di muradùr, che assicurava
uno stipendio piuttosto magro, ma preferibile a quello proveniente dal
lavoro in campagna.
Agli inizi del 1900 sorsero le prime attività industriali e sociali: nel 1919
entrò in funzione la Manifattura Castellanzese, situata proprio nella zona più
antica di Venegono. Nel 1921 aprì i battenti la ditta Sordelli Biffi e C.
Intanto nel 1905 era stato fondato il primo Asilo infantile e nel 1924 si
costituì la Cooperativa di consumo “La Nazionale”. Nel 1928 un decreto
regio stabilì l’unione di Venegono Inferiore e Superiore in un unico comune
denominato Venegono: solo nel 1960 i due paesi ridiventeranno comuni
autonomi.
CREMONA A., op. cit., p. 39.
Ibidem.
15 GILLI A., op. cit., p. 164.
16 LUCATO R., Venegono Superiore, cronache di vita comunale. Il Novecento, Biblioteca Comunale
di Venegono Superiore, Venegono Superiore, 2000, p. 11.
13
14
153
“Poi venne la guerra con il suo tuono macabro. Reclutati gli uomini più
validi, le donne presero il loro posto di lavoro negli stabilimenti e nelle
officine, ed i vecchi si rimboccarono le maniche per lavorare la campagna”17.
Il 24 maggio 1915 l’Italia era entrata in guerra a fianco di Francia, Inghilterra
e Russia. Venegono risentì della situazione di crisi generalizzata, ma molti
sopperivano alle difficoltà di approvvigionamento coltivando la terra e
allevando animali da cortile, perché ciò che non si produceva in casa aveva
raggiunto prezzi proibitivi.
Dopo la fine del conflitto (4 novembre 1918), il nuovo stato liberale
italiano presentò una forte instabilità: nel 1921 le nuove elezioni premiarono
i Fasci italiani di Combattimento, creati da Benito Mussolini. Durante il
regime fascista, il prezzo del grano registrò un forte aumento, a scapito delle
classi più povere. A Venegono nel 1928 venne firmata l’autorizzazione dei
lavori per la costruzione del Seminario Arcivescovile, opera che diede lavoro
a molti uomini, proprio in un momento di grave disoccupazione in seguito al
crollo della Borsa di New York e alla relativa grave crisi economica
mondiale.
Nel 1941 scoppiò la seconda guerra mondiale: i rifornimenti
scarseggiarono anche a Venegono e il Podestà ordinò il razionamento dei
consumi, con la distribuzione delle carte annonarie. Nel 1942 massicci
bombardamenti colpirono le principali città italiane. La gente cercò rifugio
nelle campagne e a Venegono arrivarono i primi sfollati. Sul territorio era
presente il Campo d’Aviazione (costituito nel 1934 come Campo
sperimentale agricolo): si resero necessarie misure di protezione antiaerea e
rifugi nelle scuole. Nel 1945 la Germania firmò l’armistizio, ma nonostante
l’imminente disfatta, fino alla metà d’aprile il Campo di volo fu mantenuto in
attività e prima di abbandonarlo i tedeschi lo resero inutilizzabile.
Dopo la Liberazione del 25 aprile, fu fondata la Repubblica italiana: la
situazione economica era incerta, con una diminuzione del potere d’acquisto
della moneta e un rialzo generale dei prezzi; la maggioranza della
popolazione di Venegono continuò a faticare e ad impegnarsi nel tentativo
di migliorare le proprie condizioni economiche, finché il boom degli anni
‘60-’70 arrivò a colpire anche questa zona, mutandone spesso il volto: si
17
CREMONA A., op. cit., p. 85.
154
verificò un notevole incremento edilizio, che incluse anche la costruzione di
un nuovo edificio comunale, delle scuole elementari e delle scuole medie.
Oggi Venegono Inferiore ha perso gran parte delle sue origini agricole: si
presenta come un paese ricco, con molte industrie fiorenti e varie attività
artigianali. Ma i pochi campi rimasti, le colline su cui sorgono il Seminario e
il vecchio Castelletto, i segni lasciati dalla pietà popolare con edicole e croci,
testimoniano un passato recente, un passato di sofferenza, di fatica, di
necessità private e collettive, ancora vivo e operante, anche se in forme
nascoste e attenuate.
2) Le persistenze folcloriche: la testimonianza del mondo femminile
La cultura tradizionale costituisce una componente non secondaria della
realtà storica e culturale della Lombardia, nonostante le trasformazioni e i
rivolgimenti che hanno interessato la regione: anche qui, dove più profondi
sono stati gli esiti della rivoluzione industriale, gli universi folklorici
testimoniano l’esistenza, “all’interno di un paesaggio all’apparenza
interamente occupato dal sistema industriale moderno, di un filo di cultura
autonoma e altra, cioè di una civiltà con una sua storia, con una sua visione
del mondo, ancora capace, pur in una drammatica condizione di crisi, di
resistere alla deculturazione e all’alienazione”18.
La Lombardia, grazie alla sua posizione geografica rispetto all’Europa, ha
rappresentato un luogo di incontro, di amalgama fra l’assetto sociale più
spiccatamente europeo gravitante nella parte nordoccidentale del continente,
e l’assetto sociale mediterraneo. Il momento unificatore della sua storia, può
essere riconosciuto in una capacità di adattamento all’ambiente da parte della
popolazione, fino a creare una costruttiva integrazione tra uomo e natura ed
una peculiare umanizzazione del paesaggio. Il territorio della regione si
articola in tre diverse realtà geografiche, cioè pianura, collina, montagna, alle
quali aderiscono altrettanti modelli di insediamento, con diversi modi di
organizzazione sociale.
18 LEYDI R. (a cura di), Trasformazioni socio-economiche e cultura tradizionale in Lombardia, in
Quaderni di documentazione regionale, 5-6, Regione Lombardia, Milano, 1973, p. 10.
155
Le circostanze storiche, ma anche la spiccata inclinazione del lombardo
alla vita attiva, alla duttilità, al dinamismo e alla concretezza, hanno permesso
nel corso del tempo il contenimento delle possibili spinte disgregatrici insite
nel rapporto fra città e campagna, tra metropoli e città minori: il graduale
assorbimento delle novità ha favorito la soluzione dei nodi sociali e le
difficoltà, affrontate con spirito pratico, hanno dato vita a risposte creative e
feconde.
La Bassa lombarda, la pianura coperta di acque stagnanti, si è rivelata
occasione di ricchezza e di simbiosi con l’ambiente; l’insediamento rurale
dell’alta pianura e della fascia collinare ha permesso una proficua
integrazione dell’uomo con il territorio, della campagna con la città, in una
varietà di coltivazioni corrispondente alla diversità del suolo: già in epoca
preindustriale si è così creato un continuum urbano-rurale, una sintesi tra
tradizione e modernità, in un ricco pluralismo il cui cardine sono le città.
Questa “singolare e feconda unità nella diversità”19, si è riverberata nelle
diverse modalità di insediamento, caratterizzate da profonde differenze nella
struttura economica, nei modi di produzione e quindi di comportamento,
pur in una condizione socio-economica, quella contadina, sostanzialmente
organica e omogenea.
La fascia collinare e pre-collinare in particolare, era caratterizzata da una
disseminazione di unità abitative varie per misura e tipologia (dalla casa
singola al piccolo borgo) e dalla rilevanza della strada come elemento
generatore dell’insediamento rurale e come mezzo per la circolazione di beni
e di informazioni. Da sempre in queste zone di brughiera, povere perché
difficili da coltivare, l’attività contadina propriamente agricola era integrata
da attività artigiane, ad uso quasi esclusivamente domestico, per assicurare al
nucleo familiare indumenti e strumenti di lavoro difficilmente acquistabili sul
mercato, a causa delle scarse risorse finanziarie. Le profonde trasformazioni
sopraggiunte nel corso del 1700, spinsero la famiglia rurale ad incrementare
questo genere di attività con il lavoro a domicilio, commissionato da un
commerciante-manifattore, per arrotondare gli scarsi proventi, peggiorando
però spesso le proprie condizioni di vita; venne adottato il contratto misto di
affitto a grano e mezzadria, con ritmi di lavoro più faticosi.
19
AA. VV., Il paese di Lombardia, Regione Lombardia, Garzanti, Milano, 1978, p. 11.
156
Nella fascia fra Varese e Brescia si verificò un notevole sviluppo della
bachicoltura e quindi della gelsicoltura, per la produzione serica.
“L’introduzione e la vasta, rapida diffusione della bachicoltura, in questo
territorio, porta modificazioni economiche di vasta portata, ma non impone
serie trasformazioni del regime agricolo, in quanto i gelsi trovano impianto
perlopiù lungo i margini dei campi, sui cigli dei fossati, nei piccoli spazi
incolti e quindi non esigono che ad essi vengano sacrificate altre colture”20.
La cura dei gelsi, affidata perlopiù a donne e bambini, non richiedeva
attenzioni particolari, ma si inseriva con facilità entro il sistema agricolo
esistente, senza alterarlo; la bachicoltura però contribuì solo in minima parte
ad innalzare le condizioni di miseria dei contadini: i proventi maggiori
finirono nelle mani dei nascenti imprenditori e commercianti.
La rivoluzione industriale del 1800 riuscì a sconnettere in gran parte
l’organicità culturale della società contadina: cambiarono le modalità di
comunicazione, di pari passo con le trasformazioni tecnologiche e
produttive, che scardinarono le antiche consuetudini e modificarono anche i
rapporti sociali. L’ubicazione della rete ferroviaria allestita nei decenni
centrali del 1800 preannunciò l’incrinarsi di un equilibrio secolare, anche se
non idilliaco: essa polarizzò “lo sviluppo industriale su un’area circoscritta a
scapito di altre, che non erano in grado di integrarsi nemmeno attivando
ruoli complementari all’attività industriale, come avveniva nelle età
anteriori...”21.
Dalla seconda metà del 1800 i fornelli domestici cedettero
definitivamente il passo a quelli industriali: sorsero le prime filande che si
innestarono nel processo di espansione capitalistica. L’area di maggior
presenza della bachicoltura, cioè quella pre-collinare e collinare, vide il
permanere di rapporti socio-economici di tipo feudale: la mezzadria
scomparve da quei luoghi solo nei primi decenni del 1900, per lasciare però
il passo ad un caotico sviluppo industriale, poggiato perlopiù su strutture
aziendali piccole e medie che si inserirono direttamente nel tessuto
contadino, spesso con effetti culturalmente devastanti.
20
21
Ibidem, p. 275.
Ibidem, p. 12.
157
Con il secondo dopoguerra gli squilibri connessi all’industrializzazione
diventarono esplosivi: Milano acquisì per la prima volta una posizione di
dominio sulle altre città lombarde e la campagna decadde ad appendice della
città, divenendo oggetto di depredazione da parte della speculazione
immobiliare. Sul territorio regionale emersero resistenze culturali e nuove
realtà, in un panorama critico lontano dagli idoleggiamenti del “pittoresco” e
del “tipico”. “La rivoluzione industriale ha dato vita ad una rivoluzione
ecologica che ha prima lacerato e poi sconvolto gli equilibri tradizionali tra
città e campagna, tra industria e agricoltura, tra il capoluogo metropolitano e
gli altri capoluoghi, tra le subaree cittadine”22.
Ma i valori di proporzione, di consistenza umana che hanno
contraddistinto la tradizione lombarda e hanno creato le condizioni
favorevoli all’avvento della moderna industrializzazione, sono sopravvissuti
alle profonde trasformazioni apportate da questa?
L’impatto violento e improvviso con l’industrializzazione disordinata e il
conseguente consumismo, hanno sicuramente inferto un duro colpo al
mondo contadino lombardo, che però, con dinamismo, “ha messo in opera
strumenti capaci di conservargli un’identità culturale che è garanzia della sua
stessa presenza, non soltanto storica ma anche psicologica ed esistenziale, sia
a livello individuale, sia a livello collettivo, e ha organicamente modificato i
suoi comportamenti e la sua comunicazione in rapporto al mutare delle
condizione materiali”23.
Senza rimpiangere forme arcaiche di vita e di lavoro, spesso
estremamente dure e faticose, l’analisi del mondo tradizionale può far
emergere un ricco patrimonio di valori umani, civili e religiosi, non solo da
salvare, ma da riutilizzare proficuamente: per riscoprire le nostre radici
occorre accostarsi alle tracce folkloriche con rispetto e umiltà, evitando di
considerarle come patetica sopravvivenza di un mondo ormai distante dal
nostro; anche con il riscontro della documentazione orale, ancora oggi
possiamo cogliere una potenziale capacità di “resistenza” delle tradizioni,
22
23
Ibidem.
LEYDI R., op cit., p. 167.
158
superiore a quella immaginabile, sotto la superficie di modificazioni
apparentemente radicali24.
Lo stesso scenario delineato per la Lombardia, soprattutto in relazione
alla zona pre-collinare e collinare, risulta aderente alla situazione di
Venegono Inferiore, paese oggi apparentemente lontano dal mondo
tradizionale; posto a metà strada fra campagna e centri urbani come Varese e
Milano, di cui ha subito l’influenza, porta in realtà nella sua storia e nei suoi
modi di vita i segni di un passato prettamente agricolo, poi cancellato dalla
rapida industrializzazione.
La cultura contadina, caratterizzata da una profonda simbiosi dell’uomo
con la natura e con le sue leggi, dalla fatica e dalla povertà, anche se
decorosa, della gente, dal legame con la religione e con la fede, ha permeato
la vita del paese, lasciando tracce anche nella mentalità delle generazioni
successive. L’aderenza alla tradizione non ha però escluso una forte tensione
al cambiamento, un’apertura alla novità, alla trasformazione, soprattutto da
parte delle donne, disposte a rispettare le consuetudini e le pratiche
tradizionali, ma con spirito critico, rifiutando l’accettazione passiva di regole
e abitudini.
La posizione geografica di Venegono ha contribuito a delinearne la
particolare fisionomia: la vicinanza con la Svizzera, con zone di passaggio e
di frontiera, ha favorito la coesistenza di passato e presente, in un universo
mentale dove il passato non viene dimenticato, ma piuttosto ricordato senza
nostalgia, nel tentativo di migliorare le proprie condizioni di vita, contando
sulle proprie capacità pratiche e tecniche, spesso notevoli (già agli inizi del
1900 molti abili muratori che lavoravano a Milano provenivano da
Venegono).
Le tradizioni, le credenze, le consuetudini legate ai fondamentali eventi
della gravidanza e del parto, rivelano quale concezione della vita animi una
data cultura: nella mia ricerca ho cercato di comprendere come la comunità
di Venegono Inferiore, in particolare la comunità femminile, vivesse il
momento cruciale della nascita prima e dopo i profondi cambiamenti
apportati dal boom economico degli anni ‘60, che causò squilibri e
mutamenti strutturali; è emersa a livello simbolico, all’interno di un
24
Cfr. PIANTA B., Cultura popolare, Garzanti, Milano, 1982.
159
panorama di protezione della vita e di una netta distinzione tra sfera
maschile e sfera femminile, una certa persistenza di credenze arcaiche e
primordiali, legate al mondo contadino e ai suoi ritmi di vita, che però non
contrastano con la religione cristiana molto sentita, insieme ad una vivace
propensione al cambiamento, già presente da alcune generazioni. Così nella
prassi folklorica il simbolico permane come sottofondo, convivendo con la
modernità e la novità.
Le tracce della cultura tradizionale sono rinvenibili nella storia del parto
almeno fino alla prima metà del 1900, con un’incredibile stabilità delle
condizioni della nascita, tese a realizzare una solidarietà condivisa dal gruppo
delle donne, per proteggere la partoriente e il neonato. Per delineare queste
condizioni, per analizzare le pratiche, le credenze, i riti legati alla gravidanza
e al parto, per comprendere l’universo mentale che li ha prodotti, con un
taglio antropologico volto a cogliere, al di sotto delle tappe del progresso, le
strutture che perdurano nel tempo, ho utilizzato le testimonianze di alcune
donne di Venegono Inferiore, appartenenti a diverse fasce d’età: il colloquio,
il dialogo con esse, è servito a far emergere il punto di vista delle
protagoniste, la loro esperienza diretta, senza peraltro idealizzare i sistemi di
parto tradizionali.
Ho fatto ricorso alla tecnica del colloquio guidato, proponendo alle
donne alcune domande di base, ma lasciando loro la libertà di raccontarsi e
di esprimersi: tutte le signore, contattate personalmente o con l’aiuto di mia
suocera nel giro delle conoscenze o della parentela, hanno mostrato grande
disponibilità ed anche il bisogno di condividere con un’altra donna i ricordi
legati ad un accadimento così vitale, forse per sublimare nel parlato le
possibili esperienze negative. Ho registrato le testimonianze orali su nastro
magnetico, procedendo poi alla loro trascrizione: nel compiere tale
operazione, ben consapevole che la scrittura spesso smorza le vibrazioni
della voce, ho tentato di rispettare il più possibile le pause, la struttura delle
frasi, il ritmo e l’andamento del racconto, perlopiù paratattico, inserendo la
punteggiatura dove necessario. Ho eliminato le ripetizioni, mentre ho
mantenuto le espressioni dialettali più tipiche, anche se, soprattutto per il
gruppo di donne più giovani, era evidente lo sforzo di limitarle per
esprimersi in un corretto italiano.
160
Le testimonianze orali mi hanno fornito un punto di vista diverso da
quello delle fonti folkloriche classiche, che spesso nel parlare di parto
capovolgono il rapporto tra normalità e patologia; anche se a volte non si
snodano con linearità, i colloqui, con le parole, ma anche con le esitazioni e i
silenzi, ci avvicinano alle preoccupazioni e ai desideri della gente e aprono
spiragli dove si insinuano l’immaginario e il simbolico. “Questa fascia
soggettiva è altrettanto materia di storia quanto gli avvenimenti nella loro
materialità; quello che gli informatori credono è altrettanto storia di quello
che è successo”25.
La testimonianza orale riceve il suo significato dall’inquadramento
valutativo e concettuale generale; insieme ad altre fonti svela il significato
degli eventi salienti della vita delle persone comuni, anche se con una diversa
attendibilità; può essere aderente ai fatti, ma risulta proficua anche
nell’eventualità contraria, quando lascia intravedere uno scarto, una
divaricazione, quando la memoria dà voce ai ricordi, pur discostandosi da
ciò che è realmente accaduto26.
Nel dialogare con le donne di Venegono, ho chiarito gli obiettivi della
mia ricerca, lasciando però la libertà di divagare, di fornire o meno
indicazioni anagrafiche e personali: si è creato un clima di collaborazione e di
simpatia, e per questo le ringrazio vivamente. “L’interazione che tuttavia si
stabilisce tra colui che ricerca e chi gli sta di fronte e che si sviluppa su
diversi piani, instaurando di volta in volta un clima di collaborazione, o al
contrario di diffidenza e di incomunicabilità, fa di ogni incontro, per così
dire, un episodio a sé stante. Alla capacità del ricercatore di creare una piena
sintonia con l’informatore, rendendolo partecipe del lavoro che si sta
svolgendo e quindi protagonista, è affidato l’esito degli incontri, per i quali
risulta quindi superfluo definire una normativa valida in assoluto27.
Le testimonianze fornite dai colloqui delineano un compatto sistema di
riti, di credenze, di pratiche terapeutiche legate alla nascita, nell’orizzonte di
PORTELLI S., Sulla diversità della storia orale, in Primo maggio, ottobre 1979, n° 13, p. 54.
Cfr. PASSERINI L., Sette punti sulla memoria per l’interpretazione delle fonti orali, in Italia
contemporanea, aprile-giugno 1981.
27 BETRI M. L., Fonti orali e ricerca storica: le esperienze lombarde e milanesi, in AA. VV., Mondo
popolare in Lombardia; Milano e il suo territorio, Silvana editoriale, Milano, 1985, 13, p. 397.
25
26
161
un universo mentale permeato dall’acuta percezione della “razionalità
dell’irrazionale”28.
“Molte volte noi tendiamo a vedere tutti gli altri secondo i nostri
parametri e quindi, di fatto, li riduciamo; c’è un profondo etnocentrismo, a
volte inconsapevole, specialmente quando noi ci riteniamo portatori di una
verità che non accettiamo di dialettizzare con la verità altrui... La verità è
ricerca, è messa in discussione profonda di sé, delle proprie ragioni, dei
propri parametri, del proprio ethos. È impossibile una conoscenza che non
rinvii ad un rapporto. Studiare la scienza dell’ethnos significa riflettere su cosa
l’altro ci può dire e come nell’altro noi ci possiamo rispecchiare...”29. La
complessa ricchezza delle tradizioni folkloriche relative alla gravidanza e al
parto ci permette di accostarci all’alterità, per scoprire le ragioni di un
mondo femminile diverso dal nostro, con una propria cultura, quella
terapeutica, ricca di sensibilità e attenzioni verso la vita: se molte di quelle
pratiche oggi ci appaiono anacronistiche e inutili, la totale cancellazione di
quella sensibilità costituisce una grave perdita.
3) Tracce di lettura
Le donne più anziane, nate nel primo decennio del 1900, ricordano
usanze strettamente connesse alla vita contadina, ad un mondo ancora
prettamente rurale, dove spesso la fatica di vivere e la povertà erano
compagne quotidiane, soprattutto per le donne, che continuavano a lavorare
nei campi fino a gravidanza avanzata.
“Mia sorella Rosa, per esempio, ha avuto le doglie in campagna; è corsa a
casa, le hanno tolto gli zoccoli, ha fatto in tempo a lavare appena appena i
28 PANCINO C., Il bambino e l’acqua sporca. Storia dell’assistenza al parto dalle mammane alle
ostetriche (sec. XVI-XIX), Franco Angeli, Milano, 1984, p. 214.
29 LOMBARDI SATRIANI L. M., Le ragioni della vita e gli universi simbolici nella cultura del Sud, in
SALVIONI G., CAFORIO A., GOBBI I., GUTTAGLIERE L. (a cura di), Letture per il corso di etnologia,
Vita e pensiero, Milano, 1988, pp. 80-81.
162
piedi e subito l’hanno messa a letto a partorire, assistita dall’ostetrica e dalle
altre donne che c’erano in casa”30.
“Dopo il matrimonio, incominciava la vita dura di fatiche per la donna e
per l’uomo… quanta energia indomita in quelle rudi popolazioni! E le donne
lavoravano nonostante le frequenti maternità. Si nasce in gran copia ancora
in Lombardia, ma è ancora grande la mortalità infantile… La morte di un
bambino non costituisce come per noi cittadini dalla scarsa prole, un grave
lutto… A ogni figlio che viene al mondo, dicono che corrisponda un sicuro
vantaggio economico”31. Un proverbio lombardo esprime efficacemente
questo concetto: ogni fioeu el gh’ha ‘r so cavagnoeu, cioè “ogni bambino ha il suo
cestino”, nel duplice significato “che non gli mancherà l’indispensabile e che
nel mondo troverà la sua strada”32; in un intreccio fra amore materno e fede,
si credeva che la Provvidenza fornisse il necessario per ogni nuovo nato, in
modo che non fosse un peso per la famiglia. Spesso i figli rappresentavano
un investimento per il futuro, per il lavoro e per la cura dei genitori anziani.
La vita si svolgeva scandita dal lavoro e dai ritmi naturali, le donne erano
impegnate nei campi e in casa, ad accudire i figli e spesso anche i parenti del
marito (in particolare il suocero): la famiglia allargata, formata da generazioni
diverse, si ritrovava nell’ampio spazio del cortile, presente in ogni casa
colonica, condividendo gioie e dolori. Durante il raccolto, la corte si
trasformava in aia, a disposizione dei singoli contadini.
“Allora non si badava troppo alle proprie condizioni. Io poi vivevo in
famiglia, col suocero. Così quella mattina (ero al settimo mese di gravidanza)
sono andata nei campi con la gerla. Dopo mezz’ora di cammino a piedi sono
arrivata in campagna e ho cominciato a falciare l’erba. Ho sentito i dolori.
Non c’era un’anima viva in giro. Allora ho pregato: ‘Signore, aiutatemi
almeno ad arrivare a casa’. Ho messo nella gerla la poca erba tagliata e mi
sono avviata…”33.
I segreti della nascita, le pratiche per la tutela della salute di madre e
neonato, erano interamente affidati al sapere femminile; il marito si limitava
30
31
TENTI AMBROGINA.
VISCONTI A., I Lombardi: per le scuole medie e le persone colte, L. Trevisini, Milano, 1925,
p. 76.
32
33
STADERA L., Il sale della terra, Nicolini editore, Gavirate, 1993, p. 139.
TENTI ESTER.
163
ad aiutare nei preparativi e ad andare a chiamare la levatrice, che assisteva la
partoriente dopo aver fatto uscire i giovani e i bambini.
“Il marito non era presente. Di solito era a lavorare. Ma anche quando
era in casa, non assisteva al parto. Non ne aveva il coraggio. La mentalità era
molto diversa da quella odierna”34. “L’uomo era maschio. Non si
interessava. E poi quando la donna partoriva potevano essere presenti solo
la levatrice e le comari. C’era un tabù attorno al parto”35.
“Al momento del parto tutti i giovani e i bambini venivano fatti uscire.
Cera molta rigorosità morale e la nascita allora era considerata un tabù.
Facevano tutto in camera, usando molta acqua calda… E pensare che il
parto è una cosa così bella! Noi invece pensavamo che era l’ostetrica a
portare i bambini, che prima teneva in cantina… Quando la tua nonna Rosa
doveva partorire per la prima volta, nel 1927, ha detto alla levatrice di
portarle un maschio, perché aveva già due femmine. E noi, che eravamo
ragazzine, dicevamo dopo che era nato il maschio, che poi è il tuo papà:
‘Ecco, quella signora è andato a prenderlo in cantina!’”36.
Le donne nate fra 1910 e 1930 uniscono ai ricordi sulla vita in campagna,
quelli legati al lavoro in fabbrica, svolto in genere prima del matrimonio, e
spesso hanno sperimentato entrambe le modalità di parto, quello
tradizionale e quello ospedaliero.
“Adesso chi partorisce si lamenta, ma allora noi non avevamo nessun
aiuto. Non c’era l’acqua calda e nemmeno la lavatrice. La biancheria sporca
andava bollita e poi lavata tutta quanta a mano. Io ero già fortunata, perché
avevo uno scaldabagno a legna, che aveva costruito mio marito. Noi
eravamo abituate alla fatica. Per entrambe le gravidanze ho continuato a
lavorare fino ad un mese prima del parto. Lavoravo in fabbrica, mi alzavo
molto presto e spesso, al ritorno, aiutavo nei campi. Così ero abituata a
faticare, non ci si poteva fermare. Il Signore mi ha aiutato molto: spesso
lasciavo in casa i bambini piccoli da soli, per uscire a fare spesa o per lavare.
Dicevo alla maggiore, che aveva due anni e mezzo: ‘Guarda tu i gemellini, mi
raccomando!’, e uscivo. Non è mai successo nulla, il Signore mi ha aiutato.
PREMAZZI ROSA.
TENTI VERONICA.
36 TENTI AMBROGINA.
34
35
164
Non ho mai avuto timore di non farcela. Mi scoraggiavo solo quando si
ammalava un bambino, perché poi si ammalavano anche gli altri due”37.
La levatrice spesso veniva chiamata di notte: per le urgenze si ricorreva
ad uno speciale campanello, azionato da una corda che terminava sulla
strada, con una maniglia scorrevole. La madre della partoriente, le amiche, le
cognate, le vicine offrivano il loro aiuto: il parto era vissuto come evento
altamente pericoloso, perché altissimi erano i rischi di parto prematuro, di
emorragia per la madre, di morte per lei e per il neonato; la solidarietà
femminile metteva in atto interventi codificati ed efficaci, per far sì che un
evento potenzialmente così drammatico, potesse concludersi positivamente.
“Tutte partorivano in casa. Dovevano arrangiarsi così. Molte morivano di
emorragia”38.
“Prima di avere la figlia maggiore ho avuto un aborto. Ricordo che dopo
l’aborto mi fecero un raschiamento. Era gennaio. Per evitare il rischio di
emorragia, mi misero sul ventre sacchetti pieni di neve raccolta in
giardino”39.
“L’esperienza costante della morte riguardava in larga misura la morte di
bambini piccoli: le pratiche terapeutico-scaramantiche di cui è rimasta traccia
nel folklore, testimoniano di questa ovvia e insieme temuta possibilità della
morte infantile”40.
“La levatrice preparava cotone e alcool per disinfettare. Le donne
presenti facevano bollire l’acqua in grandi pentole; l’acqua serviva per lavare
il bambino e la moltissima biancheria che si sporcava. Allora non c’era acqua
calda. Erano presenti le mie sorelle, che aiutavano nei preparativi. Ad
assistermi c’erano la levatrice e mia cognata. Quando ‘mi ammalavo’ io, era
lei a correre, quando era lei a dover partorire ero io ad assisterla”41.
“… Finalmente la bambina nacque. E allora mia mamma e le altre donne
aprirono tutti i cassettoni e… fuori tutte le lenzuola, le traverse. Poi c’era un
enorme cumulo di roba da lavare! Fecero bollire un pentolone (caldar)
d’acqua con dei fiaschetti spagliati pieni d’acqua e chiusi. Poi con l’acqua dei
NEGRI FRANCESCA.
TENTI AMBROGINA.
39 OLDRINI CANDIDA.
40 SARACENO C., Sociologia della famiglia, Il Mulino, Bologna, 1988, P. 125.
41 TENTI ESTER.
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fiaschetti mi lavarono per disinfettarmi. L’acqua, dopo la bollitura, era
sterilizzata. È una cosa che oggi può sembrare strana, ma allora si usava
così”42.
La levatrice di solito agiva senza la presenza del medico, che interveniva
solo in casi eccezionali: “Il 30 dicembre sera ho cominciato ad avere i dolori.
Avevo bisogno dei servizi, che naturalmente erano fuori, in cortile. Sono
uscita, ma, essendoci molta neve, sono rientrata in casa e mi sono coricata…
Di notte sono iniziate le doglie più regolari. Così mio marito ha chiamato la
levatrice e due cognate. La levatrice non capiva cosa non andasse. Tutto il 31
dicembre sono stata a letto ed è venuta molta gente… Il letto era in
cucina… Verso le 22.00 abbiamo chiamato la levatrice e lei ha chiamato il
dott. Castiglioni. Il medico ha capito che si trattava di un parto podalico e
con un braccio è entrato a capovolgere il bambino… Il dottore mi ha
praticato una sutura e mi ha raccomandato di rimanere sdraiata per dieci
giorni, con le gambe chiuse (me le legavano con un tovagliolo per tenerle
strette). Porto ancora oggi le conseguenze di quella sutura mal riuscita”43.
Per un lungo periodo la cultura medica e la medicina tradizionale e
popolare sono coesistite, prima del cambiamento proposto e poi pienamente
attuato dall’assistenza medica al parto. Il parto tradizionale si svolgeva in
casa, all’interno della vita familiare, con l’aiuto e la presenza di donne
conosciute e con l’assistenza della levatrice, che poteva anche battezzare i
neonati prematuri, impartendo loro un Battesimo “sotto condizione”. Il
parto in ospedale veniva vissuto in solitudine, con un senso di straniamento
e di angoscia, lontane dall’ambiente domestico e dalle persone care.
“… a mezzanotte mi hanno portato all’ospedale di Tradate. Ma lì mi
hanno fatto aspettare molto, non mi visitavano. C’erano i battesimi e così la
levatrice mi ha trascurato e mi ha fatto aspettare per ore…”44.
“Quando invece ho partorito all’ospedale, la situazione era diversa. I
famigliari portavano la donna nel reparto ‘maternità’ e poi, dopo aver chiesto
all’ostetrica quando sarebbe nato il bambino, tornavano a casa. Al massimo
OLDRINI CANDIDA.
PREMAZZI ROSA ANNUNCIATA.
44 MEREGAGLIA GEROMINA.
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166
li si avvertiva per telefono, se il parto avveniva prima del previsto. Oppure il
giorno dopo essi stessi tornavano all’ospedale”45.
Le condizioni di povertà, anche se sempre vissuta con dignità,
suggerivano rimedi empirici particolari, che tentavano di ovviare alla scarsità
delle risorse tecniche ed economiche: la vita aveva un valore altissimo e si
cercava di tutelarla in ogni modo possibile, anche se era viva la coscienza
della sua precarietà: la morte del neonato era accettata con rassegnazione.
“La bambina piangeva sempre, non mangiava. Allora avevamo la stufa a
legna. Così abbiamo messo la bimba in un po’ di cotone e poi nella stufa
spenta, per tenerla al caldo. Era bella come una bambolina, ma
piccolissima... Il farmacista mi regalò una scatola di latte Mellin, ma è stato
inutile. La piccola non mangiava. È vissuta tre mesi, ma sono bastati ad
affezionarmi a lei…”46.
Il periodo della gravidanza era ricco di prescrizioni e di consigli, che
miravano a prevedere e a influenzare l’andamento misterioso della natura,
attuando riti particolari per un così particolare momento della vita: nel parto
a poco a poco le pratiche mediche si sostituiranno a quelle tradizionali, sulla
gravidanza invece la medicina ha mantenuto il silenzio, lasciandola
all’universo femminile.
La generazione di donne nate fra 1900 e 1930 mostra allo stesso tempo
aderenza alla tradizione ma anche spirito critico e desiderio di novità: i gesti,
le osservanze prescritte per la gravidanza, sono giudicate “idee stupide” o
“superstizioni” o “credenze”, ma vengono comunque rispettate. Le pratiche
per tutelare la salute della donna e del feto (come evitare di sollevare pesi, di
svolgere lavori troppo faticosi, di bagnarsi…) sono considerate utili ed
essenziali, in un mondo dove le condizioni di vita sono precarie e dove
aleggia il rischio di morte.
La campagna sfamava tutti, ma non esisteva il superfluo: i padroni dei
campi esigevano un affitto in natura proporzionato al raccolto; i contadini
non possedevano soldi liquidi per acquistare vestiti, scarpe…; il lavoro nelle
prime fabbriche era poco remunerato. L’igiene era spesso una chimera: in
45
46
PREMAZZI ROSA ANNUNCIATA.
TENTI ESTER.
167
tutti i cortili “facevano bella mostra di sé i cumuli di letame”47. L’inverno era
lungo e rigido: cadeva molta neve che, gelata, rimaneva per le strade e nei
cortili fino a primavera. I camini scaldavano relativamente, perché si cercava
di utilizzare poca legna: per stare al caldo alla sera tutti si radunavano in
compagnia nella stalla, con gli animali, raccontando storie e aneddoti o
cucendo.
“Bisognava evitare di portare pesi (i catini erano di rame) e di lavare.
Ricordo molto bene la “nonna Centa”, che poi era la tua bisnonna. Non era
mia parente, ma nel periodo che ho vissuto nel suo cortile, durante la prima
gravidanza, mi ha aiutato molto. Mi lavava i panni, mi comprendeva. Era
una donna di carità e mi sollevava da tanti lavori pesanti. Preparava spesso
dei tortelli di zucca gialla, davvero prelibati. Me ne portava sempre un piatto.
Aveva davvero molta delicatezza”48. Ancora una volta la sensibilità
femminile aiuta a sostenere il peso di una condizione di fatica e di attesa,
condividendo risorse e supplendo con creatività alla mancanza di mezzi.
Le evitazioni e i tabù basati sulla legge della similarità o del contagio
(come non portare collane al collo, non guardare animali o persone
deformi…) a livello razionale sono perlopiù definite “sciocchezze”, marturad,
anche se a livello di immaginario collettivo si continua a credere nella loro
efficacia simbolica.
“La donna non poteva mettere collane in gravidanza… Guai se una
donna vedeva bambini brutti o handicappati!… Certe donne non avevano
riguardo e tenevano sul letto durante la gravidanza degli animali, cani o gatti.
Così il bambino nasceva con le sembianze dell’animale”49.
“Gli animali non si potevano toccare e nemmeno guardare. Ma queste
erano superstizioni”50. “Non si potevano guardare certe fotografie brutte”51.
“La donna guardava le immagini di Gesù bambino o di bambini belli,
mai di bambini brutti, altrimenti si impressionava. Erano credenze di
allora”52.
CREMONA A., op. cit., p. 85.
PREMAZZI ROSA ANNUNCIATA.
49 TENTI VERONICA.
50 TENTI AMBROGINA.
51 TENTI VERONICA.
52 TENTI AMBROGINA.
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“C’erano molte superstizioni. Non si poteva passare sotto una scala a
pioli, perché portava male. Non si potevano portare collane, perché il
bambino sarebbe nato col cordone ombelicale al collo. Erano tutte
sciocchezze (marturad), però noi le facevamo”53.
“Non si dovevano portare pesi, per non danneggiare il bambino. Poi mi
dicevano di non portare la catenina, perché il bambino sarebbe nato col
cordone ombelicale al collo”54.
“Dicevano di non passare sotto una scala, sotto dei fili o sotto le barriere
della stazione, sempre per evitare che il bambino nascesse col cordone
ombelicale attorno al collo. Tutte mi dicevano queste cose, anche le mie
coetanee. Io lavoravo a Venegono Superiore, alla C.E.F., e dovevo passare
sotto le sbarre del treno. Mi dicevano: ‘Non passare di lì ché non è bello’ (ché
l’è minga bel)”55.
Le voglie sono presentate come “superstizioni”, cioè come credenze
inutili, grazie anche al diffondersi dei primi testi ostetrici, che contenevano
consigli e informazioni sulla gravidanza; ma per la gestante esse potevano
rappresentare l’unico mezzo per mangiare cibi diversi dal solito: la scelta
degli alimenti era allora davvero limitata e il menù quotidiano era molto
povero; i prodotti della terra maggiormente utilizzati erano le verdure, le
patate, il mais, i cereali, la frutta. Primeggiava la polenta, cotta lentamente in
un paiolo di rame in gran quantità, per arrostirne poi sulla brace gli avanzi.
Alla sera il minestrone costituiva il piatto fisso, “la biada della persona”, a
volte cucinato con pezzetti di lardo; solo a Natale si uccidevano il cappone o
l’oca.
“L’annata era lunga e la distribuzione veniva effettuata dalla massaia con
molta parsimonia. A scorte esaurite tornava la solita solfa. I giorni di magro
settimanali erano il martedì e il venerdì; poi venivano i giorni di digiuno
ricorrenti per la Quaresima e prima di Natale”56. “L’equilibrio psico-fisico, in
uno stato di penuria, è molto più incerto che in una società dell’abbondanza.
OLDRINI CANDIDA.
TENTI ESTER.
55 MEREGAGLIA GEROMINA.
56 CREMONA A., op. cit., p. 83.
53
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169
Non ci si possono permettere sbagli che alterino questo precario
equilibrio…”57.
“Dicevano poi di mangiare tutto ciò di cui si aveva voglia, perché
altrimenti al bambino sarebbero uscite delle macchie… Però io non credevo
molto a queste cose. Avevo letto un libro, “Memorie di una levatrice”, che
cercava di sfatare queste idee... Dicevano ad esempio di non passare sotto
alle scale appoggiate ai muri, ma io non credevo a queste cose. Oppure mi
dicevano di non toccare gli animali. C’era ignoranza. I più si fermavano alla
terza elementare. Io ho frequentato le ‘tecniche’ e forse avevo un’istruzione
maggiore. Mi dicevano anche di non dire in giro che ero incinta, ma a me
non sembrava giusto, oppure mi dicevano di non far capire quando ero
mestruata”58.
“Mi dicevano di mangiare ciò di cui avevo voglia, perché altrimenti il
bambino avrebbe avuto delle macchie sulla pelle. Ma allora non c’era niente
da mangiare, il vino si beveva solo alla domenica. Se le voglie non potevano
essere soddisfatte, non ci si doveva toccare, soprattutto in viso”59.
Ancora negli anni Cinquanta, quando cominciava ad affermarsi
definitivamente il parto in ospedale, in gravidanza si continuavano ad
osservare, nel limite del possibile, le indicazioni tradizionali: “Ricordo solo
che non si potevano portare catenine, per evitare che il bambino nascesse
con il cordone ombelicale al collo. E poi si diceva che se una donna incinta
aveva voglia di qualcosa, doveva mangiarla, altrimenti il bambino avrebbe
avuto delle macchie. Una mia parente, vedendo del vino, ne ha chiesto un
bicchiere all’oste. Poi ne ha voluto un altro. L’oste però le ha detto: ‘Signora,
non vorrà ubriacarsi!’. Così quella donna non ha bevuto e il figlio è nato con
una macchia di vino in viso”60.
“C’erano alcune superstizioni… Non si dovevano guardare persone
handicappate o anormali. Dicevano inoltre di non concepire un figlio
quando il marito era ubriaco, perché il bambino non sarebbe nato sano”61.
LISI G., La cultura sommersa, Libreria editrice fiorentina, Firenze, 1972, p. 18.
PREMAZZI ROSA ANNUNCIATA.
59 TENTI ESTER.
60 NEGRI FRANCESCA.
61 AIROLDI CARLA.
57
58
170
“Non si dovevano guardare persone deformi, perché si pensava che il
bambino avrebbe risentito dello spavento. Ricordo di essere stata al cinema
mentre ero in stato interessante. In una scena si vedeva il gobbo di Notre
Dame che si gettava dalla cattedrale. Una mia parente, seduta vicino a me,
mi ha coperto gli occhi con una mano, dicendo che avrei potuto
spaventarmi”62.
Quindi, anche nel periodo di passaggio dal parto tradizionale al parto
medicalizzato, in un contesto che evolve dall’agricoltura all’industria,
coesistono in forme e in misure diverse cultura folklorica e cultura medica: la
mentalità analogica permea la vita quotidiana e familiare, con una consistente
presenza del simbolico, che non esclude però la tensione alla conoscenza.
Per la cultura contadina “l’accettazione delle cause naturali come uniche
cause determinanti, in assenza di strumenti atti a dominarle, avrebbe
coinciso con l’esclusione dell’uomo agricolo da ogni possibile processo
culturale”63. Solo non accettando il valore assoluto delle leggi fisiche e
cercando sul piano mitico-fantastico delle risposte diverse, l’uomo agricolo
può mantenere una creatività che sia anche in grado di mutare le cose: così
aderisce all’obiettività del nesso causa-effetto, ma nello stesso tempo non è
obbligato a soggiacere a leggi naturali sentite come contrarie ad una
possibilità di azione sulla terra. Ancora “ieri” questa era la nostra cultura; la
stessa legge che regola l’universo regola anche la vita dell’uomo, in una rete
di analogie e corrispondenze. A questo universo non interessa solo la
dimensione reale di un fatto, ma il suo significato; la conoscenza può
avvenire grazie ad un confronto, che renda analoghe a sé e fra loro le cose.
L’esperienza degli altri è accettata come racconto, come consiglio (“mi
dicevano di…”), ciò che è stato tramandato dalle precedenti generazioni può
servire a dare sicurezza, ma alla fine l’ultima parola spetta all’individuo, che
cerca di dare un ordine al mondo collegando fra loro le cose, con mezzi
empirici e simbolici.
Nel loro raccontarsi, le donne di Venegono aprono spiragli anche sul
mondo esterno, sulla campagna, sulla stalla, sulla casa: pensare significa per
loro ripercorrere non solo un sentiero interiore, ma anche reale, con il
62
63
CREMONA INNOCENTINA.
LISI G., op. cit., p. 11.
171
concreto riferimento all’occasione e ai fatti. Il mondo esterno fa parte del
mondo interiore, il reale rientra nell’universo mentale del contadino,
coincide con la sua dimensione psichica: solo oggi si verifica invece una
dicotomia fra i due ambiti. La realtà quotidiana sperimentata dalla società
contadina tradizionale è incerta, è il dominio del movente, dell’impreciso, del
più o meno, del pressappoco…64 Il senso delle cose può essere trovato solo
ricorrendo all’associazione, cioè ad un procedimento logico e intellettivo di
conoscenza che classifica il reale instaurando dei paralleli. È attraverso
questo metodo che un mondo tutto disperso nella molteplicità del
qualitativo trova una sua unità e in qualche modo si organizza.
Nella cultura folklorica grande rilievo assume la religiosità popolare, con
il suo corredo di preghiere, di immagini sacre, di devozioni che esprimono
una fede sentita e profonda, anche se semplice, spesso associata a pratiche di
tipo magico-sacrale, basate sul senso nascosto dei gesti e delle parole.
La religiosità popolare non si presenta quindi come un blocco
monolitico. “Essa appare piuttosto una complessa realtà ‘analogica’, in seno
alla quale è riconoscibile un centro ma anche una periferia, un elemento
primario accanto ad elementi secondari”65. Insieme alla pietà, generata non
dai dogmi ma da bisogni e paure, permane il substrato precristiano, spesso
affiorante in molte pratiche devozionali: nel corso dei secoli il cristianesimo
ha vagliato gli elementi del mondo pagano, selezionando i più accettabili per
rifunzionalizzarli in modo originale66. “Le terapie magico-sacrali vengono a
formarsi in un’area intermedia fra il culto e il subalterno, con scambi
continui fra l’elaborazione dotta dei sistemi terapeutici e diagnostici e il
patrimonio culturale delle plebi europee”67. Nell’ideologia del mondo prescientifico e arcaico, i meccanismi di origine e di guarigione dei mali si
situano nell’area di un mondo di potenza, variante secondo il variare delle
Cfr. KOYRÉ A., Dal mondo chiuso all’universo infinito, Feltrinelli, Milano, 1970.
BOSATRA B. M. (a cura di), Religiosità popolare, in Dizionario della Chiesa ambrosiana, NED,
Milano, 1992, V, p. 3007.
66 Cfr. CARDINI F., I processi di formazione della medicina popolare in Italia dalla tarda antichità al
XIX sec., in AA. VV., Le tradizioni popolari in Italia: medicina e magia, Banca Provinciale
Lombarda, Milano, 1989.
67 DI NOLA A. M., Le terapie magico-sacrali, in AA. VV., Le tradizioni popolari in Italia: medicina
e magia, cit., p. 91.
64
65
172
culture; ad un accertamento delle cause naturali del male si sovrappone la
ricerca delle cause soprannaturali, cui corrisponde una terapia di tipo
magico, presente nella pietà popolare in varie espressioni, come i
pellegrinaggi e la devozione ai santi.
La religiosità popolare, molto viva in Lombardia (come deduciamo dalle
lotte sostenute da San Carlo Borromeo contro gli abusi nel culto), ed anche a
Venegono Inferiore, accompagnava lo svolgersi quotidiano degli impegni e i
momenti salienti della vita. “La giornata, specie del contadino, incominciava,
salvo che nei mesi più freddi, nelle ore antelucane, prima che a oriente
sparisse la stella annunciante la giornata; al suono dell’Ave Maria il buon
cristiano elevava un pensiero a Dio e alla Madonna. Detto in fretta il Pater,
cioè le preghiere del mattino, incominciava il duro lavoro della lunga
giornata”68. Il rintocco dell’Ave Maria sanciva la fine del lavoro: alla sera,
tornati a casa, si recitava il rosario, d’inverno nella stalla e d’estate sull’aia.
Anche la nascita era circondata da varie usanze e devozioni, alcune a
sfondo religioso, altre di tipo magico-sacrale. La devozione più sentita per
proteggere la maternità e i suoi frutti era quella legata alla figura di Maria,
che, sotto vari titoli, annoverava in Lombardia diversi santuari, dove tuttora
sono vive pratiche profilattiche e di guarigione, spesso legate all’acqua69.
Le donne si dimostrano le principali fruitrici del culto mariano, la
devozione femminile alla Madonna è una costante di lungo periodo; “le
donne hanno però fatto ricorso a Maria in termini di grande immediatezza
spirituale, quasi sconfinante nella superstizione, piuttosto che cimentarsi in
una elaborazione culturale e teologica alta”70.
“Mi affidavo alla Madonna, che protegge tutti, e al Sacro Cuore. Ma per
chi ha fede tutte le preghiere vanno bene”71.
“Io sono sempre stata devota alla Madonna, in particolare la Madonna di
Re… Ero andata da una mia zia suora in Val Vigezzo e lei mi disse di
FAPPANI A., Religiosità popolare e pietà, in CAPRIOLI A., RIMOLDI A., VACCARO L. (a cura
di), Storia religiosa della Lombardia, Editrice La Scuola, Brescia, 1992, p. 393.
69 Cfr. SANGA G., SORDI I., La medicina popolare. Lombardia, in AA. VV., Le tradizioni
popolari in Italia: medicina e magia, Banca Provinciale Lombarda, Milano, 1989.
70 FATTORINI E., In viaggio dalla Madonna, in AA. VV., Donne e fede, Laterza, Bari, 1994,
p. 496.
71 TENTI ESTER.
68
173
pregare la Madonna di Re che è la Madonna della maternità perché allatta il
Bambino. Mi sono fermata a dormire qualche giorno lì e probabilmente la
mia prima figlia è stata concepita lì. Magari erano mie superstizioni, ma io ci
credevo. Forse era fede”72.
“Io pregavo la Madonna di Pompei. Avevo fatto voto di donarle un paio
di orecchini, se fosse nata una bambina. Così, quando Marina aveva otto
anni, sono andata in pellegrinaggio a Pompei e le ho donato gli orecchini”73.
Il pellegrinaggio rientra nelle complesse ritualità magico-terapeutiche,
soprattutto quello verso santuari dedicati a figure di potenza, cui è attribuito
un patronato specifico contro malattie generiche o particolari. “Il
pellegrinaggio si configura come un viaggio penitenziale verso aree sacrali,
non utile economicamente, giustificato dall’ideologia dell’origine
peccaminosa e colpevolizzante delle malattie e di altre situazioni di
esposizione esistenziale, e conserva tali caratteristiche nelle due specie
tipologiche della richiesta di guarigione e nel ringraziamento per averla
ottenuta”74. Spesso è legato alla festa, è inserito nel ciclo agrario come
momento di riposo dal faticoso lavoro dei campi, come sospensione del
quotidiano.
La cultura tradizionale attribuisce grande rilievo anche alla figura del
santo, che guarisce e protegge dalle malattie; il rapporto santo-malattia si
consolidò in Europa quando la Chiesa accolse nella propria liturgia ufficiale
figure di santi quasi sempre legati ad un precedente culto subalterno,
costituendo la categoria dei Sancti Ausiliatores o Adiutores, visti non come un
tramite per arrivare a Dio, ma come “amici” a cui rivolgersi direttamente,
con richieste spesso impositive e quasi contrattuali, come si verifica con le
offerte e i voti. “Il santo diventa per il popolo una divinità tutelare o una
divinità locale, che ha cura della salute e dei bisogni materiali dei suoi fedeli,
protegge le campagne e il bestiame, aiuta i marinai e i pescatori, e viene
perciò invocato in ogni difficile contingenza della vita”75. “La devozione ai
CANDIDA OLDRINI.
CREMONA INNOCENTINA.
74 DI NOLA A. M., op. cit., p. 96.
75 FAPPANI A., op. cit., p. 387.
72
73
174
santi affonda le sue radici nelle sofferenze, nelle sofferenze del corpo; ciò
che si chiede loro è la liberazione dal dolore e dal male”76.
Le donne più anziane di Venegono, molto religiose, si rivolgevano
soprattutto a Sant’Agata, Sant’Anna e Santa Liberata, perché propiziassero il
buon esito della gravidanza.
“Si recitava il solito rosario e poi ogni donna aveva le sue devozioni.
Forse si pregava particolarmente Sant’Agata, che era stata martirizzata al
seno e Sant’Anna, madre di Maria”77.
“In gravidanza io pregavo Santa Liberata, perché mi avevano assicurato
che aiutava ad avere un parto veloce…”78.
“In gravidanza portavamo in tasca un’immagine della Madonna come
protezione. La mia nonna mi diceva di recitare un Pater, Ave, Gloria a Santa
Liberata, che era la protettrice delle partorienti”79.
Sant’Anna appartiene alla categoria dei Santi Ausiliatori con la funzione
di protettrice delle partorienti, in rapporto al suo ruolo di madre di Maria,
nata da un parto verginale e privo di dolore. “Mentre Maria incarnava
ancora, in molti contesti, l’amore materno, sua madre, Anna, emergeva a sua
volta nell’arte sacra come guida spirituale nell’ambito della sfera
domestica”80.
Nella visione magico-sacrale si cercano le cause del male in un ambito
preternaturale o soprannaturale: allo stesso ambito vanno attribuiti i risultati
della guarigione: la mentalità prelogica rifiuta la norma aristotelica della
trama causa-effetto e cerca risposte nella trama delle potenze positive o
negative: “Diverse sono le vie percorse, anche se tutte sembrano muoversi
da un lato nella direzione indicata dal principio della simpatia, secondo cui il
simile attrae il simile, e dall’altro lato nella relazione simbolica fra la parte
evocata e la parte colpita dal male”81.
76 CORSI D., La medicina popolare, in CARDINI F. (a cura di), La cultura folklorica, Bramante
editr., Busto A., 1988, p. 280.
77 TENTI VERONICA.
78 CREMONA INNOCENTINA.
79 MEREGAGLIA GEROMINA.
80 BARZMAN K. E., Immagini sacre e vita religiosa delle donne (1650-1850), in AA. VV., Donne e
fede, cit., p. 434.
81 CORSI D., op. cit., p. 283.
175
Il martirio subito fa acquisire al Santo una specialità taumaturgica, oppure
il nome stesso del Santo ne determina la specializzazione: il ricorso
terapeutico religioso trova spiegazione nel piano del simbolico, rimandando
a quelle antiche dottrine che vedevano nelle caratteristiche concrete di un
oggetto, nome compreso, il segno esteriore delle sue specifiche proprietà:
nomen omen.
Santa Liberata, vergine di Pavia, fu sepolta nella basilica di questa città
nel 497; viene invocata perché, per analogia, libera le donne dai dolori del
parto82. In questo caso la lingua ci fornisce una suggestiva chiave di volta,
capace di svelare accostamenti apparentemente incomprensibili. “I sottili e
spesso complicati rapporti che legano le credenze religiose o superstiziose
alla espressione verbale possono rivestire aspetti tra i più vari e inattesi; anzi,
la parola può addirittura assumere una funzione catalizzatrice e perfino
demiurgica nella nascita o nella modificazione di un fatto religioso”83. Con
un chiaro esempio di determinismo verbale, vengono convogliate su un
Santo particolari proprietà terapeutiche, unicamente in virtù
dell’accostamento del suo nome con un nome assonante. Santa Liberata, con
un’interpretazione semantica utilitaristica, è invocata perché liberi dal male.
“Nelle società tradizionali la parola ha una funzione fondante, la parola è
sacrale, realizza, produce realtà. Non è la parola della chiacchiera nella quale
precipita molte volte il rumore della società contemporanea: è la parola
fondante, è la parola che produce realtà per il solo fatto di essere detta”84.
Sant’Agata, di cui vantano i natali Palermo e Catania, ebbe nell’antichità
un culto molto esteso. Visse nella prima metà del III secolo e subì il martirio
durante la persecuzione di Decio il 5 febbraio 251. Gli Atti leggendari
raccontano che, arrestata, trovò nella preghiera la forza di resistere,
dimostrando fede e tenacia. Allora fu sottoposta ad un crudele supplizio:
flagellata e percossa, le furono amputate le mammelle, ma non morì. Fu di
RIMOLDI A., Liberata, in Bibliotheca sanctorum, Istituto Giovanni XXIII nella Pontificia
Università Lateranense, Roma, 1967, VIII.
83 CORTELAZZO M., “Religio” e “Verbum” nel folklore padano, in AA. VV., La religiosità
popolare nella valle padana, Leo Olschki, Firenze, 1966, p. 193.
84 LOMBARDI SATRIANI L. M., Le ragioni della vita e gli universi simbolici nella cultura del Sud, in
SALVIONI G., CAFORIO A., GUTTAGLIERE L. (a cura di), Letture per il corso di etnologia, Vita e
pensiero, Milano, 1988, p. 87.
82
176
nuovo sottoposta a supplizio: dopo aver pregato, spirò, mentre Catania
veniva squassata da un violento terremoto85. La tradizione orale,
cristianizzando la figura di Penelope, addita in lei una tessitrice di
straordinaria bellezza; avendo resistito alle insane voglie di un re pagano, le
vennero asportate le mammelle: da qui la credenza che protegga le gestanti.
Nell’immaginario popolare è rappresentata legata ad un albero, mentre ai
suoi lati due uomini stringono delle tenaglie attorno alle sue mammelle.
La pietà popolare prevedeva anche l’uso di amuleti o brevi, ma non tutte
le donne condividevano questa usanza.
“Ricordo che mi facevano mettere in tasca durante la gravidanza tre grani
di sale, tre foglie d’ulivo e un’immaginetta o una medaglietta sacra. Si faceva
un sacchettino e lo si teneva in tasca, contro il malocchio e l’invidia della
gente. In fondo avevamo delle superstizioni. Era mia mamma a dirmi: ‘Mi
raccomando, tieni in tasca il sacchetto!’”86.
“Portavo una medaglietta sacra sulla maglia (non al collo, perché era
proibito), con l’immagine della Madonna”87.
“Io non ho mai usato amuleti. Non credevo a queste cose. Tenevo solo
un angioletto appeso alla carrozzina, dopo la nascita del bambino”88.
Nel racconto delle donne con cui ho dialogato, il ricordo di pratiche
simboliche procede in parallelo col continuo rimando alle concrete
condizioni di vita, al contesto materiale, in un clima anti-idillico e antinostalgico. I rimedi proposti possono fondarsi sull’efficacia reale o presunta
di consuetudini empiriche o di preghiere e rituali: ma sempre emerge la
richiesta di protezione, pratica e psicologica, di fronte alla straordinaria
potenza del negativo nell’esistenza quotidiana e alla scarsa presenza di
comportamenti pratici efficaci nell’arginarlo.
Le condizioni esistenziali erano davvero critiche, la resa dei campi era
scarsa e la povertà sempre presente: si ricorreva anche all’aborto, perché
spesso non si potevano sfamare troppe bocche.
85
Cfr. GORDINI G. D., APRILE R., RIGOLI A., Agata, in Bibliotheca sanctorum, cit., pp. 320-
335.
OLDRINI CANDIDA.
TENTI ESTER.
88 AIROLDI CARLA.
86
87
177
“In paese girava voce che si facevano degli aborti. Si facevano di
nascosto. Allora non ci davano l’assoluzione se non si prometteva che
avremmo avuto dei figli. La mentalità era questa… Molte donne poi non si
confessavano più… Comunque si diceva che c’erano donne che aiutavano le
giovani ad abortire. Usavano olio di ricino in forti dosi. Queste ragazze
rischiavano la vita, perché spesso l’aborto non riusciva. Gli orfanotrofi erano
pieni di bambini abbandonati”89.
“Dicevano che c’erano in paese e fuori delle ‘megere’ che praticavano
l’aborto con aghi da maglia, spesso provocando infezioni alla donna. Oppure
usavano degli infusi, almeno così si diceva in paese”90.
“C’erano anche donne di Chiesa che consigliavano di abortire. C’erano
donne che a pagamento procuravano l’aborto, usando delle erbe”91.
Spesso i figli nascevano indesiderati, anche se poi erano accettati e amati;
il più delle volte erano concepiti da dicembre in poi, quando gli uomini,
diventati muratori e artigiani, tornavano a casa dopo il lavoro stagionale.
“Le nostre mamme raccontavano che spesso i figli erano concepiti
contro la loro volontà, magari quando il marito era ubriaco. Erano tempi di
grande miseria. Oppure la mia nonna raccontava che ha concepito tutti i
suoi figli nel periodo invernale, quando il marito tornava dalla Francia dove
lavorava”92.
“Molti uomini andavano lontano a lavorare, tornavano d’inverno e allora
‘compravano’ dei figli. È naturale, dopo la lontananza. Si praticavano molti
aborti, con l’aiuto di vecchie megere. Usavano prezzemolo in forti dosi
oppure un purgante molto forte, il ‘citrato’”93.
“So di gente che ha fatto ricorso all’aborto. C’erano donne che, se volevi,
ti insegnavano ad abortire con degli aghi da maglia. Oppure si usavano infusi
molto concentrati di prezzemolo. Alcune donne si buttavano dal fienile per
perdere il bambino, soprattutto se ne avevano già molti. La mia nonna mi
diceva che si abortiva già cento anni fa”94.
TENTI ESTER.
AIROLDI CARLA.
91 NEGRI FRANCESCA.
92 CREMONA INNOCENTINA.
93 TENTI VERONICA.
94 CREMONA INNOCENTINA.
89
90
178
Già Zeno Zanetti sul finire dell’Ottocento parla così dell’aborto:
“L’aborto, specie nel nostro contado, non è temuto quanto potrebbe esserlo,
se spontaneo; e l’aborto provocato è più frequente di quanto i moralisti
potrebbero credere. Esistono anche presso di noi alcune donne, vere sagæ
dei tempi di Roma, le quali esercitano impunemente le loro arti, non meno
di quello che facessero le Canidie sotto gli Imperatori”95. “L’aborto viene
generalmente procurato dalle nostre medicone, mediante decotti di erbe che
ordinariamente sono la ruta, la celidonia, il capelvenere, la salvia”96.
Circa la preferenza accordata al sesso del nascituro, si evidenziano delle
variazioni e delle contraddizioni, tipiche nella prassi folklorica: ma il primo
figlio è sempre una benedizione.
“Il primo bambino era sempre ben accetto. Certo, se nascevano delle
femmine c’era la preoccupazione della dote. Per il papà il maschio era colui
che poteva continuare il buon nome della famiglia e che poteva aiutare nel
lavoro, sia nei campi sia fuori casa…”97.
“Di solito si desiderava come primogenita una bambina, perché avrebbe
aiutato la mamma. Un proverbio diceva: ‘Beata chèla spusa, che la prima l’è ‘na
tusa’. La vita di casa era pesante. C’era tanto lavoro. Così una figlia poteva
aiutare. Comunque il primogenito era sempre una consolazione…”98.
Il proverbio esprime con un linguaggio figurato la realtà della vita e la sua
complessità: spesso un evento si presenta con due aspetti diversi o
addirittura contraddittori. “Il proverbio coglie un aspetto, senza la pretesa di
inquadrare l’osservazione o quell’aspetto della verità in un sistema
logicamente costruito”99. “Beata chèla spusa, che la prima l’è ‘na tusa” sembra
contrastare con il tradizionale proverbio “Auguri e figli maschi”; ma forse ha
proprio uno scopo consolatorio100.
La cultura tradizionale non attribuisce un contenuto morale negativo alla
presenza di contrasti e di dislivelli, perché essi fanno parte della dialettica
ZANETTI Z., La medicina delle nostre donne, Ediclio editrice, Foligno, 1978, p. 116.
Ibidem, p. 118.
97 PREMAZZI ROSA ANNUNCIATA.
98 TENTI ESTER.
99 TOSCHI P., Tradizioni popolari italiane, ERI, Torino, 1967, p. 63.
100 Cfr. CAROZZI D., Proverbi varesotti d’altri tempi, Libreria Meravigli editrice, Vimercate,
1996.
95
96
179
della vita. L’universo naturale stesso è antitetico e contraddittorio:
“l’accadimento, nel momento del suo manifestarsi, è assoluto e
definitivo”101.
Il delicato tema dei rapporti sessuali durante la gravidanza, proposto con
discrezione, ha comunque suscitato vive reazioni: le donne me ne hanno
parlato liberamente, esprimendo pareri diversi (anche se le più anziane
hanno mostrato un certo pudore).
“Non so se c’erano rapporti sessuali, perché la mia mamma non si è mai
confidata in questo senso. Erano molto riservati su questo aspetto. Non
dicevano: ‘Ti ho fatto’, ma: ‘Ti ho comprato’; io, che ero sfacciata, ribattevo:
‘A quale mercato?’”102.
“Si avevano rapporti normali fino a pochi mesi prima. Poi stava alla
delicatezza dell’uomo capire quando la donna non desiderava averli”103.
“Durante la gravidanza si avevano rapporti regolari. Tranne negli ultimi
tempi…”104.
“Si faceva un po’ di attenzione. Io, prima di concepire la mia prima figlia,
ho avuto un aborto spontaneo, a due mesi, per uno spavento preso al
lavoro. L’ostetrica mi chiese se per caso avevo avuto rapporti con mio
marito, perché questi potevano aver causato l’aborto. Ma io non avevo avuto
rapporti. Mio marito mi rispettava, era abbastanza sensibile. Però c’erano
uomini che non avevano rispetto per la moglie incinta”105.
“Alcune dicevano che ‘l’era ‘l bun’ (era il momento buono), perché l’uomo
poteva lasciarsi andare liberamente senza paura che la moglie rimanesse
incinta. Io non la pensavo così. Poi dipendeva anche dalla sensibilità
dell’uomo”106.
“In gravidanza poi non si potevano avere rapporti sessuali completi. Era
considerato peccato. L’atto sessuale era legato solo alla procreazione. La
LISI G., op. cit., p. 65.
TENTI AMBROGINA.
103 NICOLINI MARIA.
104 OLDRINI CANDIDA.
105 NEGRI FRANCESCA.
106 MEREGAGLIA GEROMINA.
101
102
180
donna il più delle volte doveva subire”107. “Era meglio evitare i rapporti, per
non nuocere al bambino…”108.
Concorde è il ricordo sul trattamento riservato alle ragazze nubili in stato
interessante: la mentalità comune le considerava delle “peccatrici” e le
isolava.
“Erano ragazze lasciate da parte, considerate male, non come adesso”109.
“Erano segnate a dito e non aiutate”110.
“Queste donne erano giudicate in modo negativo, per cui facevano di
tutto per nascondere il loro stato. La mia collega di lavoro e mia amica ha
lasciato il lavoro il giorno prima di partorire… ma io non avevo mai capito
che fosse incinta. I vestiti erano talmente larghi e sformati, che non si poteva
capire se una donna fosse ingrassata o incinta. Lei non mi aveva confidato
nulla per vergogna”111.
La cura del neonato, il cui nome era preferibilmente scelto fra quelli dei
nonni e dei parenti più stretti, prevedeva pratiche empiriche e simboliche.
Diffuso e consolidato era l’uso delle fasce, più o meno strette, attestato fino
al 1950/60 e oltre.
“Si avvolgeva la creatura in pannolini bianchi di lino. Poi anche in una
‘pattona’ di piqué pesante, soprattutto se faceva freddo… si lasciavano fuori
solo la testa e le braccia. Fino a tre mesi poi si usava anche un cuscino, sul
quale si appoggiava il bambino già fasciato. Poi lo si fasciava una seconda
volta col cuscino incluso. Si pensava che le fasce proteggessero il bambino e
lo aiutassero a crescere ben diritto. Io ho usato le fasce per tutti i miei figli,
anche per quelli che ho partorito in ospedale. Era l’ospedale stesso a
richiedere le fasce”112.
“Li fasciavano molto stretti con delle fasce alte di piqué. Anche le braccia
venivano fasciate e i poveri bambini non potevano assolutamente muoversi
o difendersi se una mosca li importunava”113.
CREMONA INNOCENTINA.
AIROLDI CARLA.
109 TENTI ESTER.
110 NEGRI FRANCESCA.
111 OLDRINI CANDIDA.
112 PREMAZZI ROSA ANNUNCIATA.
113 TENTI AMBROGINA.
107
108
181
“La fasciatura era un po’ complicata. C’erano due cuscini. Uno era più
grande, di piuma, coi pizzi e ricamato. Poi c’era un cuscino più piccolo, su
cui si appoggiavano pattona e patello. Il bambino veniva fasciato tutto, anche
le braccia, con una fascia alta di piqué, e anche le gambe. Poi si procedeva
alla seconda fasciatura, attorno al cuscino grande, per poterlo portare in giro.
Sembravano delle mummie. Eravamo proprio indietro. La fasciatura col
cuscino si faceva fino a tre/quattro mesi. La fasciatura semplice fino a
sette/otto mesi. Quando il bambino si bagnava, si doveva disfare il tutto e
ricominciare. La fasciatura serviva a tenere caldo il bambino e ad assorbire la
pipì. Per fare i pannolini usavamo stracci o tele vecchie. Erano tutte cose
fatte da noi, anche la pattona grande, con la quale si fasciavano anche le
gambe”114.
“Si utilizzava ancora la fasciatura stretta, ma io non ho mai fasciato mia
figlia. La mia mamma mi aveva dato tutto l’occorrente: le pattone, le fasce
alte. Aveva tagliato a metà alcune delle fasce più alte (che erano quelle usate
per noi figli), ma non ho usato nemmeno quelle. Nonostante ciò la bambina
è cresciuta bene, ben diritta”115.
“C’era il cuscino di piuma, poi c’erano le pattone e poi le fasce. Il bambino
veniva fasciato tutto, con dentro le braccia e le mani e poi lo si fasciava
insieme al cuscino. Si portava in giro così. Era molto pesante. Invece, alla
seconda figlia lasciavo fuori le mani. Eravamo già più ‘civilizzati’. Il bambino
veniva fasciato con pisota e pisutin, fatti con tante pezze messe insieme e
cucite a macchina, in modo che fossero ben spesse. Si metteva prima il
pisutin a triangolo; poi si metteva la pisota tra il bambino e il cuscino e si
procedeva alla fasciatura; poi si fasciava tutto, cuscino incluso. Le fasce
erano alte e ricamate”116.
“…quando si sfasciava il bambino, gli si lasciava comunque una fascia
leggera, fino a circa un anno e mezzo, per tenerlo ben diritto. Poi gli si
fasciava la vita, finché camminava. L’altra fasciatura, quella completa, si
faceva fino a sei mesi, gambe comprese”117.
TENTI ESTER.
CREMONA INNOCENTINA.
116 OLDRINI CANDIDA.
117 AIROLDI CARLA.
114
115
182
Il corredo, quasi sempre confezionato e ricamato a mano, consisteva in
vari indumenti, utili a proteggere il neonato dal freddo: a contatto della pelle
gli si faceva indossare una pancierina, sopra una camicina di lino, infine una
maglietta e un golfino di lana, oltre alla cuffia, ai guanti e alle scarpine.
“Poi si metteva la cuffietta, per proteggere il bambino dal freddo, ma
anche perché si pensava che la cuffietta proteggesse l’intelligenza del
bimbo”118.
Sugli indumenti si fissavano medagliette sacre, per proteggere il piccolo
dall’invidia e dal malocchio.
“Anche sulla maglietta del bimbo si metteva una medaglietta, dalla parte
del cuore, per tenere lontano il malocchio”119. “Io tenevo solo un angioletto
appeso alla carrozzina, dopo la nascita del bambino”120.
Per curare le malattie del neonato si ricorreva a rimedi naturali, a erbe e
decotti, spesso consigliati da donne esperte: “Io alla nascita stavo male e non
si capiva perché. Allora la mia mamma mi ha portato da una donna, una zia,
che era… non proprio una ‘megera’… … aveva un’esperienza (‘sperienza)…
Come si potrebbe dire oggi… era una donna che ‘capiva’…; mi ha sfasciato
e ha visto che avevo una punta d’ernia sull’ombelico. Si è fatta dare una
palanca (allora erano grosse) e mi ha fasciato stretta stretta. Così sono
guarita. C’erano delle donne che conoscevano queste cose a cui ricorrere…
Se il bambino aveva male alle orecchie, si spruzzava in esse del latte della
mamma oppure di una donna che aveva ancora il latte. Erano rimedi utili,
anche se vecchi, meglio di quelli di oggi. Se il bambino aveva gli occhi rossi,
si tracciava su essi una croce”121.
L’allattamento durava il più a lungo possibile: il latte materno poteva
essere sostituito dal latte di mucca fin dai primi giorni di vita.
“Io ho allattato poco, ero magra e lavoravo molto. Così usavo il latte di
mucca. Però molte donne allattavano anche fino a nove/dieci mesi… Allora
non c’erano il riscaldamento o i fornelli. Così mettevo la bottiglia del latte sul
fuoco della stufa e a volte scoppiava tutto. Poveri noi, che vita dura!”122.
PREMAZZI ROSA ANNUNCIATA.
TENTI ESTER.
120 AIROLDI CARLA.
121 TENTI VERONICA e AMBROGINA.
122 TENTI ESTER.
118
119
183
“L’allattamento durava il più a lungo possibile, anche fino ad un anno e
più. Io però non ho mai allattato. Avevo un latte cattivo. Così ho usato latte
di mucca, che scremavo e diluivo con l’acqua gradatamente. Ai tempi di mia
mamma, se una donna aveva molto latte teneva a balia altri bambini”123.
“Quando il latte era tanto, la donna portava a casa sua dei bambini da
allattare... Sì, siccome alle donne “veniva avanti” molto latte, prendevano dei
bambini a balia. A molte donne veniva la mastite e per curarla tagliavano il
seno… Oppure legavano stretto il seno. Lo incidevano per far uscire il latte
in più”124.
Lo svezzamento incominciava tardi, con l’introduzione di pappe
semplici: si tostava la farina e la si faceva cuocere con latte o acqua e
zucchero. “Più tardi si aggiungeva il pan trito, leggermente salato. Oppure si
macinava il riso e lo si faceva cuocere a lungo con un po’ di sale e un po’
d’olio, se c’era”125.
La nascita era circondata da un alone di mistero e permeata da un
profondo senso religioso: solo nel Battesimo l’evento acquisiva totale
completezza; fino ad allora la mamma, le nonne e i familiari evitavano di
baciare il neonato, che non poteva essere portato fuori prima della
cerimonia, celebrata entro otto giorni.
“Si portava fuori il bambino molto presto per il Battesimo (i miei figli
sono stati battezzati tutti entro i primi tre giorni). Poi per i quaranta giorni
successivi al parto si evitava di portare fuori il bambino”126.
“Il bambino poteva uscire solo dopo quaranta giorni, per evitare che si
ammalasse. E poi non poteva uscire senza aver ricevuto il Battesimo, perché
era considerato ‘figlio del diavolo’, ancora macchiato dal peccato originale. Il
Battesimo veniva impartito al più presto, entro gli otto giorni se possibile. Se
il bambino si ammalava di broncopolmonite, poteva morire. Così al
momento del Battesimo, soprattutto d’inverno, si andava in chiesa con la
borsa dell’acqua calda per scaldare il bambino”127.
AIROLDI CARLA.
TENTI VERONICA e AMBROGINA.
125 PREMAZZI ROSA ANNUNCIATA.
126 Ibidem.
127 AIROLDI CARLA.
123
124
184
Il neonato veniva battezzato con un rito individuale, alla presenza dei
genitori, del padrino e della madrina. Al termine si festeggiava in famiglia
con frugalità; al bambino e alla madre si offrivano regali molto semplici.
“Il Battesimo era individuale, non come oggi. Il bambino doveva
riceverlo entro gli otto giorni. Erano presenti i genitori, il padrino e la
madrina. A casa non facevamo niente, perché non c’erano mezzi. Era un
giorno come un altro, anche perché spesso il Battesimo si svolgeva durante
la settimana, non alla domenica”128.
“… forse era un fatto più personale, meno comunitario di ora.
Partecipavano solo il padrino e la madrina. Quando ho battezzato la
primogenita, c’era la Chiesa parata a lutto, perché era morto un uomo di
cento anni. Il Battesimo si svolgeva poco dopo la nascita. Poi la donna si
recava in Chiesa a prendere la benedizione della Madonna, perché era
indegna. Io l’ho ricevuta lo stesso giorno del Battesimo, per non uscire più,
visto che era inverno”129.
“Il parroco dava il camicino e la candela, come oggi. Però tutto era più
breve”130.
“I parenti regalavano indumenti, magliette. A volte padrino e madrina
regalavano una catenina”131. “Al massimo portavano alla puerpera una
bottiglia di marsala, che dava un po’ di energia”132.
“Il bambino veniva portato in Chiesa con l’assistenza della levatrice. Se il
bambino era battezzato entro l’ottavo giorno, la madre non andava in Chiesa
e il bambino era affidato al padrino e alla madrina. Il papà assisteva solo se
era libero dal lavoro. Tornando a casa, in famiglia magari si mangiava
qualche biscotto, ma nulla di più. Al massimo erano le persone che si
recavano a far visita alla madre a portare qualche regalino, che consisteva in
magliette, golfini, oppure in una scatola di biscotti per la madre. Non si
facevano feste in grande stile come oggi. Quando ho avuto il quarto figlio, le
mie colleghe di lavoro mi hanno portato un mazzo di fiori. A casa non
TENTI ESTER.
OLDRINI CANDIDA.
130 MEREGAGLIA GEROMINA.
131 NEGRI FRANCESCA.
132 TENTI ESTER.
128
129
185
consideravano la nascita un evento eccezionale. Non era grettezza, ma
abitudine. Partorire era considerato normale”133.
Il suono delle campane accompagnava il rito battesimale ma anche i
funerali dei neonati, molto frequenti a causa dell’alta mortalità infantile. Se il
bambino moriva prima del Battesimo, lo si portava informalmente al
cimitero in una cassettina.
“Se il bambino nasceva e poi moriva gli si faceva un funerale regolare. Se
invece nasceva morto, lo si portava al cimitero in una cassettina. Se c’era
bisogno di una benedizione al momento della nascita, la levatrice o i genitori
potevano impartirla”134.
“Al Battesimo eravamo presenti noi genitori e il padrino e la madrina,
cioè mio suocero e mia mamma. Alla sera abbiamo festeggiato un po’ in casa
con una cena informale, a cui hanno partecipato anche i miei fratelli e le mie
sorelle. Il padrino e la madrina hanno regalato a mia figlia una catenina. Si
diceva che un bambino nato morto, quindi senza aver ricevuto il Battesimo,
andava al Limbo. Veniva sepolto in terra non consacrata. Se invece un
bambino moriva dopo la nascita e aveva ricevuto il Battesimo, gli si faceva
un funerale regolare. Dopo il Battesimo, la madre faceva un’offerta di
denaro in Chiesa, per ringraziamento”135.
Quando si affermò il parto in ospedale, spesso il Battesimo veniva
impartito in loco: “La mia bambina fu battezzata in ospedale, otto giorni
dopo la nascita. In quel periodo molti bambini venivano battezzati lì per
comodità”136.
Il periodo del puerperio prevedeva numerose cautele e restrizioni e
particolari attenzioni nel regime alimentare, anche per favorire l’allattamento
al seno: la quarantena, rispettata dalla madre e dal neonato, rivestiva davvero
una funzione essenziale, in un contesto materiale contraddistinto da povertà
e scarsità di mezzi.
“Ci si doveva riguardare, soprattutto nel cibo. Si mangiava molto
pancotto, latte, tanto latte (avevamo la mucca in casa). Dicevano che serviva
PREMAZZI ROSA ANNUNCIATA.
Ibidem.
135 CREMONA INNOCENTINA.
136 Ibidem.
133
134
186
per avere tanto latte. Per avere tanto latte mi dicevano anche di bere la birra.
Ma a quei tempi era troppo cara. Allora si beveva tanto latte. Adesso siamo
ricchi, non ci manca niente, ci manca solo “il sole quando non c’è”. Poi la
donna rispettava i quaranta giorni, sia per l’alimentazione sia per altre cose.
Evitava ad esempio i lavori pesanti. Dicevano che se nei quaranta giorni
avevi mal di testa, l’avresti avuto per tutta la vita. Si cercava di non lavare
troppo perché non c’era acqua calda, si doveva lavare nella fontana in cortile.
Ma la biancheria da lavare era tanta, non c’erano i pannolini come oggi. Però
si stava attente, per non ammalarsi”137.
“Soprattutto nei parti a domicilio non ci davano frutta. Mangiavamo
zuppe, minestrine molto blande. Questo per i quaranta giorni. Poi
cominciavano a dare un po’ di carne lessa o di formaggio. Dicevano di bere
molto latte per l’allattamento. ‘Latte fa latte’, mi diceva la levatrice. E così mi
dicevano anche all’ospedale. Ma a me il latte non piaceva. Eppure ho
allattato a lungo”138.
“La donna mangiava pancotto, con al massimo un uovo sbattuto, quando
c’era. Serviva per avere tanto latte. Si doveva mangiare molta verdura, tranne
le verze, perché dicevano che il latte non sarebbe stato buono. Si beveva
molto latte. Questo per quaranta giorni. Il bambino non poteva essere
portato fuori per quaranta giorni. La donna poteva uscire, ma solo avendo
riguardo, tenendo sempre la testa coperta, per non ammalarsi, anche
d’estate. Si potevano bagnare poco le mani, perché dicevano che il latte
tornava indietro, soprattutto se si usava acqua fredda. Per quaranta giorni la
donna non doveva lavare o doveva lavare poco, evitando i bagni completi.
Questo per il latte”139.
“Dopo il parto c’era la quarantena. La donna doveva evitare il freddo e
doveva vestirsi di nero perché era in peccato. Nei quaranta giorni si doveva
seguire una certa dieta, costituita da pancotto piuttosto liquido, brodo e in
seguito gallina lessa. Dicevano che c’è un’ora sola, durante i quaranta giorni,
che può essere fatale alla donna. Quindi la donna deve sempre curarsi e stare
ad un certo regime, perché non può sapere quando arriva quella specifica
TENTI ESTER.
PREMAZZI ROSA ANNUNCIATA.
139 OLDRINI CANDIDA.
137
138
187
ora. Questo era detto anche in un libro che io avevo letto, “Memorie di una
levatrice”… Ci si asteneva anche dal rapporto”140.
“Le donne dovevano allattare. Appena una donna si “sgravava”, non
c’era un trattamento di favore nel mangiare. Era costretta a mangiare
pancotto, zuppa. Non le era permesso mangiare carne. Le dicevano che solo
l’alimentazione blanda, lunga, le dava la possibilità di avere tanto latte...
Questo regime alimentare durava quaranta giorni… Durava di regola
quaranta giorni, ma poi in realtà continuava anche più a lungo, perché le
donne allattavano i figli per molto tempo. Non si usava latte di mucca o
altro, era tutto latte della donna”141.
Al termine di quel periodo, la donna si recava in chiesa per ricevere la
“benedizione della Madonna”. “Alla nascita e al Battesimo faceva da
corollario la benedizione della puerpera, che non usciva di casa prima della
‘quarantina’, cioè quaranta giorni dopo il parto, e se non dopo l’apposita
benedizione. La puerpera si presentava sulla soglia della chiesa con la
candela in mano e vi entrava solo dopo che il sacerdote le aveva imposto il
lembo della stola ed impartita una speciale benedizione”142. Quasi tutte le
donne con cui ho parlato hanno espresso perplessità e dubbi riguardo al
reale valore di questa cerimonia, a cui partecipavano senza capirne il
significato.
“La donna per quaranta giorni non poteva uscire liberamente di casa.
Cessato questo periodo, al suonare delle campane del quarantesimo giorno,
la donna poteva uscire e poteva mangiare più normalmente. Allora si recava
in Chiesa con l’offerta. Qui riceveva la benedizione del prete per essere
libera dal “peccato veniale”. Portava anche un’offerta in denaro. La donna
andava sola, per ricevere la benedizione e purificarsi… Adesso la donna
viene benedetta lo stesso giorno del Battesimo”143.
“Per i quaranta giorni la donna doveva vestirsi di nero, per rispettare il
“lutto della Madonna”; non so perché. Avremmo dovuto vestirci di bianco,
invece, perché avere un bambino è una gioia, non un peccato. Ma allora si
AIROLDI CARLA.
TENTI VERONICA e AMBROGINA.
142 FAPPANI A., op. cit., p. 394.
143 TENTI VERONICA e AMBROGINA.
140
141
188
usava così. Durante la gravidanza si portavano vestiti larghi, per permettere
al bimbo di svilupparsi bene. Oggi invece sembra che la donne non
ragionino molto: portano in gravidanza vestiti stretti e pantaloni. E poi a
volte sembra che vogliano ostentare il pancione. Noi invece portavamo
vestiti a pieghe, quando uscivamo, così la pancia era un po’ mascherata.
C’era più rispetto di oggi”144.
“Questa benedizione si chiamava ‘purificazione della Madonna’. Era una
benedizione particolare, che noi donne ricevevamo dopo il parto, recandoci
in Chiesa. Prima di questa benedizione non potevamo uscire, perché
eravamo impure. Alcune per tutta la quarantena portavano calze nere: era il
cosiddetto ‘lutto della Madonna’. Io non l’ho mai fatto, mi sembrava una
cosa stupida, anche se ero una donna di Chiesa. Era come se il parto fosse
qualcosa di brutto. C’era pudore, perfino troppo. Quando si allattava ci si
doveva coprire il seno con uno scialle. Oggi le donne allattano dappertutto.
Noi forse avevamo troppo pudore, oggi però è il contrario. Anche l’AIDS
deriva dall’immoralità. È vero, si può sbagliare, ma Dio perdona, la natura
no. Ci vuole un po’ di rispetto. Io mi sono sposata a ventinove anni, prima
passavo la mia giornata fra lavoro, casa e Chiesa. Però ero contenta. A dodici
anni ho cominciato a lavorare in fabbrica. Passavo le ferie nei campi. Si
lavorava e si cantava. Non mi pento di come ho vissuto. Eravamo contenti
così”145.
“Non ho mai capito bene cosa significasse questa benedizione. Ti
sembrava di aver commesso una colpa. Allora bisognava liberarsi dal
peccato compiuto col concepimento di un figlio. Se non si riceveva questa
benedizione, non ci si poteva più recare in Chiesa. La benedizione si
riceveva sull’altare della Madonna (solo la donna); penso che questa
benedizione fosse legata a quella ricevuta dalla Madonna dopo la nascita di
Gesù, quando Maria è andata al tempio. Il Battesimo si faceva al più presto,
massimo entro dieci giorni, per paura che il bambino morisse in peccato
originale. Ho battezzato subito anche la secondogenita: tornando
144
145
TENTI ESTER.
NEGRI FRANCESCA.
189
dall’ospedale di Tradate, ci siamo fermati in Chiesa a farla battezzare, dopo
cinque giorni dalla nascita”146.
“Entro i quaranta giorni la mamma si presentava in Chiesa davanti al
sacerdote per ricevere la benedizione post partum. Non ho mai compreso fino
in fondo il senso di questa benedizione. Comunque ritenevano che la donna
fosse impura, in stato di peccato. Legavano questa ‘purificazione’ a quella
che Maria, madre di Gesù, ricevette al Tempio dopo quaranta giorni dalla
nascita di Gesù”147.
“Si rimaneva a letto per otto giorni. Poi per quaranta giorni la donna non
poteva uscire di casa e doveva vestirsi di nero, perché in peccato. Ricordo
che ci si recava in Chiesa dal parroco a ricevere la ‘perdonanza’; prima di
aver ricevuto la ‘perdonanza’, la donna non poteva assolutamente uscire.
Non so di preciso che senso avesse questa benedizione. Eravamo impure, in
peccato. Il parroco leggeva delle preghiere e le litanie dei Santi”148. Dopo la
benedizione, la donna poteva rientrare nella vita della comunità e ricoprire il
nuovo ruolo di madre, riconosciuto dalla collettività.
Le donne nate dopo il 1930 hanno partorito negli anni Sessanta, quando
ormai la condizione femminile era molto mutata rispetto ai decenni
precedenti, influenzata dalla “rapida urbanizzazione e dallo sviluppo dei beni
di consumo”149. “Gli anni dal dopoguerra a oggi sono stati testimoni di una
radicale trasformazione nelle condizioni di vita. Nell’arco di poco più di una
generazione siamo divenuti una nazione bene o male industrializzata,
laddove all’inizio degli anni Cinquanta la maggior parte della popolazione era
ancora occupata in attività agricole”150.
La famiglia di tipo multiplo cedette pian piano il passo alla famiglia
nucleare; si verificò l’entrata in massa nel lavoro industriale, con la
conseguente uscita dal mondo dell’agricoltura; spesso le donne lavoravano
come operaie nelle fabbriche, per poi ricoprire dopo il matrimonio lo
specifico ruolo di casalinghe. Le mutate condizioni socio-economiche
OLDRINI CANDIDA.
PREMAZZI ROSA ANNUNCIATA.
148 TENTI ESTER.
149 SULLEROT E., Donna, in Enciclopedia del novecento, Treccani, Roma, 1977, vol. 2, p. 212.
150 SARACENO C., Modelli di famiglia, in AA. VV., Ritratto di famiglia degli anni ‘80, Laterza,
Bari, 1981, p. 50.
146
147
190
provocarono cambiamenti anche nelle modalità di nascita: si affermò
definitivamente il parto ospedaliero, e le migliori condizioni di vita e di
igiene, il progresso della scienza e della medicina ridussero drasticamente la
mortalità infantile. Parallelamente si assistette ad una progressiva
diminuzione delle nascite e ai primi tentativi di controllare la fertilità.
La generazione femminile nata fra 1930 e 1945 ha vissuto direttamente
l’emergere della cultura dei consumi e la trasformazioni prodotte nella vita
quotidiana dalla disponibilità di beni materiali come lavatrici, frigoriferi e
automobili, prima impensabili. “Anche l’avvento della televisione e la
crescente importanza della cultura di massa come fonte di modelli e di
informazioni fa parte delle esperienze di cambiamento di contesto
attraversate dalle donne di questa coorte”151. Ma anche in questo clima
culturale, la nascita e i suoi segreti continuano ad essere avvolti dal mistero e
dal pudore, le donne più anziane trasmettono alle più giovani consigli e
precauzioni da rispettare con scrupolo per assicurare il felice esito della
gravidanza e del parto: il simbolico è inaspettatamente e largamente
presente, nonostante il controllo ostetrico durante i mesi dell’attesa e il
ricorso al parto ospedaliero: l’universo mentale che fa da cornice è per molti
versi simile a quello delle precedenti generazioni.
Lo stato interessante è ancora sentito come tabù, come condizione da
non ostentare, anche se serpeggia una sorta di ribellione a questa visione
ristretta e negativa.
“Ricordo che si continuava a lavorare fino al sesto mese di gravidanza.
Solo al sesto mese ci si recava dall’ostetrica per una visita di controllo
richiesta dalla ditta. Poi, se era necessario, si veniva visitate una seconda
volta prima di entrare in sala parto. Non c’erano tutti i controlli e gli esami di
oggi. Tra l’altro attorno alla gravidanza c’erano molti tabù. Si aveva pudore a
parlarne persino con la mamma. Portavo dei vestiti molto larghi, per
nascondere la pancia. Avevo anche una certa vergogna a farmi vedere. Mi
dicevano: ‘Non uscire così!’. Magari il primo bambino scappava fuori a
giocare ed io, incinta, mi accingevo ad uscire per riportarlo in casa. Ma le
vicine più anziane mi dicevano: ‘Non farti vedere nelle tue condizioni,
151 SARACENO C., Pluralità e mutamento. Riflessioni sull’identità al femminile, Franco Angeli,
Milano, 1992.
191
andiamo noi!’. Mi hanno fatto provare vergogna per quattro volte, per un
evento come la gravidanza, che è invece così bello. Ricordo che a dodici
anni vidi mia mamma che cuciva una fascia. Le ho chiesto se aspettava un
bambino, ma mi ha risposto di no. Quando poi doveva partorire, mi hanno
mandato a dormire dalla nonna. Al mattino mi sono recata dal panettiere,
che mi ha detto: ‘Allora ti hanno accorciato il camicino!’. Ho pianto. Ho
odiato mia mamma, perché mi aveva nascosto per tutto quel tempo il fatto
che avrei avuto una sorella, perché poi è nata una sorella. Io sospettavo, ma
nessuno diceva nulla. Mi sono sposata sapendo ben poco sul parto. Mia
mamma aveva pudore a parlare di certe cose. Ho saputo qualcosa dalla mia
nonna. Quando dovevo partorire per la prima volta, ho chiesto qualche
spiegazione a mia mamma, ma mi ha risposto: ‘Tu va’ all’ospedale e poi là fa’
tutto quello che fanno le altre’. Pensandoci mi viene il magone, ma allora era
così”152.
“Ricordo un’altra cosa: intorno al parto c’era un clima di mistero. Avevo
già diciotto anni, ma non mi dicevano se una parente era incinta. Mi
mandavano in farmacia a comprare medicinali per mie vicine di casa incinte,
ma senza dirmi il motivo, come se fossi stupida e non potessi capire. Una
volta, passeggiando con mia mamma, vedendo una donna incinta, dissi: ‘Ma
è incinta!’. E lei mi ha dato uno scappellotto, per il fatto stesso di aver
pronunciato quella parola”153.
Si continua a credere nelle evitazioni consigliate durante la gravidanza ed
è ben vivo il tema delle voglie.
“Mi dicevano di non mettermi collane o catenine, perché il bambino
sarebbe nato col cordone ombelicale attorno al collo. Mi dicevano anche di
non saltare i fossi, perché poteva essere pericoloso. Oppure di non mettere
cinture strette in vita, perché il bambino ne avrebbe risentito. Era proibito
guardare e toccare gli animali, non solo per evitare le malattie, ma anche
perché si temeva che il bambino avrebbe assunto le sembianze dell’animale.
A Venegono si è verificato un caso simile: una donna per tutta la gravidanza
ha tenuto in braccio il cane e il bambino, nato handicappato, ha davvero dei
tratti simili a quelli di un cane. Così si dice in giro. Mi dicevano di mangiare
152
153
CREMONA ANTONIETTA.
CATTANEO MARIA CARLA.
192
tutto ciò di cui avevo voglia e se non potevo farlo, mi dicevano di non
toccarmi, perché il bambino avrebbe avuto delle macchie sulla pelle. Erano
le cosiddette ‘voglie’, o ‘macchie di caffelatte’”154.
“Ricordo che non si potevano fare alcune cose. Ad esempio era proibito
portare collane, catenine. Dicevano che quando si avevano delle voglie e non
si potevano soddisfare, non ci si doveva assolutamente toccare, altrimenti il
bambino sarebbe nato con delle macchie. Ma erano delle idee di una volta.
Le collane non si potevano portare, perché il bambino sarebbe nato col
cordone ombelicale al collo e sarebbe morto. Se il parto di una sarta non
riusciva e il bimbo moriva, davano la colpa al fatto che la sarta durante la
gravidanza aveva portato il metro al collo. Era una superstizione. Però
anch’io ci credevo. Poi dicevano di non avvicinarsi agli animali, di non
fissarli o toccarli, perché il bambino ne avrebbe assunto le sembianze. A
volte ci si poteva davvero spaventare, perché nei cortili c’erano molti animali
(buoi, mucche, cavalli) e la donna incinta poteva risentirne; però era come se
oggi tu fossi investita da una macchina, cioè il trauma era provocato dallo
spavento. Mi dicevano di guardare solo i bambini belli, così anche i miei
sarebbero nati così”155.
Nel ricordo emerge la figura della donna più anziana, spesso la nonna,
come custode del patrimonio tradizionale, composto da consigli e
informazioni sulla nascita, da lasciare alle generazioni successive.
“Mi dicevano di non portare catenine, perché il bambino sarebbe nato
col cordone ombelicale al collo. La mia nonna mi diceva anche di non
accavallare le gambe, perché l’utero poteva non svilupparsi bene… Se
avevamo delle voglie, dovevamo soddisfarle, altrimenti il bambino avrebbe
avuto delle macchie… Io ho delle ‘voglie’ di caffelatte sulla schiena, ma la
mia mamma diceva che a lei il caffelatte non piaceva. Quindi non possono
essere ‘voglie’. Saranno macchie della pelle. Allora si credeva così. Ad
esempio non si dovevano toccare gli animali. Io non li amavo molto, perciò
li evitavo. Ma la mia mamma mi raccontava che una signora qui di
Venegono ha tenuto in braccio il suo cane per tutta la gravidanza. Ha avuto
un figlio handicappato, con le sembianze di un cane. Eppure sia lei che suo
154
155
CREMONA ANTONIETTA.
CATTANEO MARIA CARLA.
193
marito erano belle persone. Così si diceva che il bambino fosse nato così per
via del cane. Ma non so se è vero. Può essere un fatto di cromosomi. Mi
dicevano di guardare solo cose belle. A mio marito piaceva andare al cinema
ed una volta hanno proiettato un film dove c’erano facce bruttissime. Io mi
sono coperta gli occhi con una mano per tutto il tempo del film, perché mi
dicevano: ‘Guarda no i facc brutt’ (‘Non guardare le facce brutte’). Io avevo una
cartolina con un bellissimo bambino con gli occhi azzurri, e la guardavo
sempre (però nessuno dei miei figli è nato con gli occhi azzurri)”156.
Permane la precisa distinzione tra mondo maschile e mondo femminile,
ognuno con i propri ambiti di intervento: il marito si limitava ad
accompagnare la moglie in ospedale per poi tornare a casa, non essendogli
permesso entrare in sala parto.
“Il marito non partecipava all’evento, anche perché in ospedale non
poteva rimanere nessun parente. E poi l’uomo non aveva la sensibilità di
oggi. Si vergognava, era impreparato ad affrontare problemi di questo tipo.
E anche la donna non osava parlargli di certe cose. Si aveva pudore”157.
“Quando ho partorito la prima volta mio marito era in casa, ma perché
era un giorno festivo. Per il secondo figlio non era a casa; pur essendo
sabato era andato al lavoro ed ha saputo di aver avuto un figlio solo alle
17.00, ma io avevo partorito alle 11.30. Lui desiderava molto un maschio.
Quando è tornato mia sorella gli ha detto: ‘È un maschio!’. È venuto da me
con una rosa, ma io avrei voluto tirargliela in faccia. In ospedale erano
severi, non volevano i parenti. E poi gli uomini avevano pudore”158.
A volte l’uomo si dimostrava attento alle condizioni della donna incinta,
aiutandola nei lavori faticosi: “Mio marito mi lavava i pavimenti”159.
Il parto ospedaliero è vissuto da queste donne con la coscienza che esso
garantisce la vita di madre e neonato: ma dai loro ricordi affiora anche il lato
traumatico di questa esperienza, spesso segnata dalla sbrigatività e dalla
rudezza del personale.
MEREGAGLIA CROCIFISSA.
CREMONA ANTONIETTA.
158 MEREGAGLIA CROCIFISSA.
159 Ibidem.
156
157
194
“Tornando al parto, ricordo che il marito arrivava a parto finito. Ai
parenti non era nemmeno permesso rimanere in sala d’attesa. Quando si
arrivava in ospedale, ti sistemavano in corsia con tutti gli altri, poi ti
portavano in sala parto, anche se non era il momento. Non c’era la sala
travaglio. Quando dovevo partorire il secondo figlio, avevo il terrore della
sala parto di notte, di cui mi era rimasto un ricordo terrificante. Era una
saletta opprimente. Era la levatrice ad assistere. Il medico interveniva solo in
casi eccezionali. Per i primi tre parti, ricordo che era sempre la stessa
levatrice ad essere presente, giorno e notte. Invece per il terzo parto (1966)
si alternavano due levatrici. Ma il medico non c’era. Quando ho partorito il
secondo figlio, si è resa necessaria una sutura. È stata la levatrice stessa a
praticarmela, a mente sana. Mi aveva fatto partorire in anticipo. Se avessi
aspettato ancora un po’, avrei partorito naturalmente. C’era anche una suora
ad assistere”160.
La gravidanza continua ad essere inserita in una rete di scambi e di aiuti
reciproci, ad essere protetta sul piano simbolico; il parto invece, interamente
gestito dalla struttura sanitaria, si configura come momento di incertezza
psicologica e di disagio, in un ambiente estraneo e non accogliente.
“Comunque all’ospedale non ci trattavano bene. Quando ho avuto mia
figlia, la levatrice mi diceva: ‘Forza, spingi!’; mi trattava male. Ero giovane,
era il primo figlio! Ero rimasta davvero male. Adesso è tutto diverso. Allora
ci tenevano a letto per otto giorni, dopo il parto. Almeno dopo il primo
parto è stato così. Così i punti si saldavano bene… La cosa più brutta era
che, dopo aver visto il bambino appena nato, tutto sporco, per ventiquattro
ore non lo potevamo più vedere. Era triste, perché dopo aver aspettato per
nove mesi ero ansiosa di vedere il mio bambino. Potevamo vederlo solo
dopo ventiquattro ore. Adesso è diverso, il marito può stare vicino alla
moglie. Allora invece tutti i famigliari venivano mandati a casa, anche
quando ho partorito io. Ci lasciavano là da sole. Io avevo paura, soprattutto
la prima volta. Ero giovane”161.
Per prevedere il sesso del nascituro, si fa affidamento al parere
dell’ostetrica, che assume sempre più rilievo, sia durante le visite in
160
161
CREMONA ANTONIETTA.
MEREGAGLIA CROCIFISSA.
195
gravidanza sia durante il parto. Si continua comunque ad attingere alle
indicazioni date dal patrimonio tradizionale, osservando la forma della
pancia, come consigliavano già le donne più anziane, con le consuete
contraddizioni.
“Secondo la levatrice, se il battito del cuore del feto era debole, sarebbe
nata una femmina. Dopo la visita durante la terza e la quarta gravidanza, a
giudizio della levatrice avrei dovuto partorire delle femmine, sentito il
battito. Invece ho avuto altri due maschi. Tiravano ad indovinare.
Guardavano la forma della pancia. Se era alta sarebbe nato un maschio, se
era bassa, una femmina. Se il viso della donna gravida era bello, senza
chiazze, sarebbe nato un maschio, altrimenti una femmina”162.
“Dicevano di guardare la forma della pancia; se era a punta sarebbe nata
una femmina, se invece era rotonda, un maschio”163.
“La mia nonna mi diceva: ‘Pancia güzza non porta cappel’, cioè se la pancia
era piuttosto appuntita, sarebbe nata una femmina. Quando ero incinta della
Elena, una mia conoscente mi diceva che, se avevo sentito il bambino per la
prima volta a destra, sarebbe nata una femmina, e così è stato. Quando
aspettavo l’Enrico, lo sentivo sempre a sinistra. Sarà anche un caso, però è
successo così. Poi quando aspettavo il maschio, avevo proprio una faccia da
uomo, non avevo più i lineamenti femminili. La mia zia mi diceva: ‘Ma che
facia da omm!’ (Ma che faccia da uomo!)”164.
In questi decenni la nascita inizia ad essere tutelata anche sul piano legale,
con il diritto a tre mesi di aspettativa prima del parto: le donne sono
consapevoli di aver migliorato le proprie condizioni di vita e non provano
nostalgia per il passato, mai mitizzato, ma presentato nella sua dura
concretezza.
“Ai miei tempi si aveva un certo riguardo. Io facevo l’operaia e ho
lavorato fino a tre mesi prima del parto. Ho avuto tre mesi di aspettativa
prima del parto, e otto mesi poi. Anche sul lavoro c’era una certa attenzione:
CREMONA ANTONIETTA.
CATTANEO MARIA CARLA.
164 MEREGAGLIA CROCIFISSA.
162
163
196
non mi facevano portare pesi o fare lavori pesanti. Invece le nostre mamme
o chi faceva vita di campagna, era più sottoposta alle fatiche”165.
“La donna incinta era rispettata. Le venivano evitati i lavori pesanti. La
donna stessa si riguardava, sapendo di portare in grembo una vita”166.
“Invece le nostre mamme non erano rispettate. Andavano in campagna
fino all’ultimo. La mia mamma è rimasta incinta di me a 39 anni. All’inizio
non era sicura di essere incinta. È andata in farmacia a Tradate e ha spiegato
di avere delle perdite di sangue. Il farmacista le ha dato un purgante molto
forte, dicendole: ‘Signora, se è incinta il bambino non si stacca, se invece è
un semplice ritardo, con questa medicina starà meglio’. Così è andata in
campagna a fare il fieno, dicendo: ‘Il farmacista mi ha detto che se è
attaccato è attaccato, se invece non lo è, passerà’. Invece era incinta, e poi
sono nata io. Non si curavano molto”167.
Dopo il parto, la puerpera rispetta la quarantena, evitando soprattutto le
fatiche fisiche e seguendo una particolare alimentazione.
“Si cercava di mangiare in bianco. Al ritorno dall’ospedale, la mia
mamma mi faceva trovare pronta la gallina lessa e mi faceva bere il brodo.
Poi mangiavo pancotto e zuppe. Anch’io ho rispettato i quaranta giorni, pur
non allattando. Per lavare mi mettevo i guanti, soprattutto d’inverno”168.
Si ricorre ancora alla “benedizione della puerpera”, ricevuta però dopo il
rito del Battesimo e non durante una cerimonia a parte come avveniva in
precedenza; ma queste donne non ne comprendono l’essenza e non
accettano che il nascere di una nuova vita sia legato ad un oscuro senso di
colpa.
“Potevamo uscire di casa solo dopo aver ricevuto la benedizione, che ci
veniva impartita il giorno del Battesimo, dopo la cerimonia. La mia mamma
mi raccontava che ai suoi tempi dopo il parto le donne dovevano vestirsi di
nero per quaranta giorni. Era il ‘lutto della Madonna’. Portavano un
grembiule nero e un foulard nero in testa… Non so bene che senso avesse
questa benedizione, anche perché non capivamo il latino. Forse eravamo
CATTANEO MARIA CARLA.
CREMONA ANTONIETTA.
167 MEREGAGLIA CROCIFISSA.
168 Ibidem.
165
166
197
impure per il fatto di aver partorito. Terminata la cerimonia del Battesimo, la
donna da sola si inginocchiava davanti all’altare e il parroco la benediceva.
Leggeva tutte le litanie dei Santi e noi ascoltavamo in ginocchio, con un velo
nero in testa”169.
“Si evitavano cibi che potevano alterare il sapore del latte. Si rispettava la
quarantena: non potevamo uscire prima dei quaranta giorni, perché si
temeva il prolasso uterino. Si evitava anche di lavare troppo. In ospedale ci
facevano alzare solo otto giorni dopo il parto. Per l’ultimo figlio le cose
erano già diverse, ci si poteva alzare prima. La quarantena andava rispettata
anche perché prima di uscire si doveva ricevere la benedizione… Il giorno
del Battesimo la donna riceveva, accostandosi all’altare, in ginocchio, questa
benedizione post partum. Serviva ad essere liberate dal peccato legato al
fatto di aver concepito un bambino. Non si poteva uscire prima di essere
state ‘segnate’”170.
La quarantena è rispettata anche per il neonato, che viene battezzato al
più presto, con una cerimonia molto semplice.
“Il bambino non poteva uscire prima del Battesimo, perché era in stato
di peccato originale. Ci si scandalizzava se qualche mamma portava fuori il
figlio prima del Battesimo. Era uno scandalo. Si rispettavano i quaranta
giorni”171.
Il Battesimo “era individuale e molto veloce, non c’erano grandi
cerimonie. In chiesa erano presenti solo i genitori e padrino e madrina. A
casa poi si faceva una piccola festa con gli altri parenti… Le varie zie che
venivano a trovarmi non portavano regali al bambino, ma il marsala per me
e mi dicevano di berlo, perché mi faceva bene: ‘Al tira su un pù’”172.
Si fa ancora ricorso alla fasciatura, come difesa dal freddo, anche se col
passare degli anni si utilizzano fasce meno alte.
“Il corredo era molto bello e la mamma lo preparava di persona. Il
bambino veniva fasciato. Si disponeva la fascia, poi la pattona, il patello e il
triangolo e si richiudeva il tutto sul bambino. Per il primo figlio ho usato
Ibidem.
CREMONA ANTONIETTA.
171 Ibidem.
172 MEREGAGLIA CROCIFISSA.
169
170
198
anche il cuscino, su cui il bambino già fasciato veniva appoggiato e poi
fasciato una seconda volta, cuscino compreso. Qualcuno chiudeva nelle
fasce anche le braccia, io no, lo chiudevo fino in vita. Per l’ultimo figlio ho
usato solo una fascia in vita. Per gli altri tre ho fasciato anche le gambe. La
fasciatura serviva a tenere caldo il bimbo (non c’erano i riscaldamenti) e poi
a tenere diritta la spina dorsale. Il cuscino si usava fino a tre mesi. La
fasciatura poteva continuare fino ai primi sei mesi, perlomeno quando il
bambino veniva messo a dormire, così se si bagnava rimaneva caldo. Sul
bambino si metteva una pancierina di lana, poi il camicino di lino a contatto
della pelle, la maglietta, il golfino e il coprifasce ricamato, fino a sette/otto
mesi, oppure più tardi si metteva il grembiulino. Si usavano anche guantini e
cuffietta, se si usciva”173.
“Si fasciavano come delle specie di salami. Si fasciavano tutti, lasciando
fuori solo le braccia. Si fasciavano così, per tenere ben dritte le gambe. Si
metteva sotto una spugna quadrata, la pattona, poi un rettangolo di stoffa e
poi un’altra spugna più piccola triangolare, che si richiudeva sul bambino. Si
piegava il tutto tenendo dentro anche le gambe e poi si fasciava, lasciando
fuori solo le braccia. Le fasce erano alte e tutte ricamate. Poi si appoggiava
tutto il fagotto su un cuscino e si fasciava tutto di nuovo”174.
Il tema dell’invidia, del malocchio è ancora operante: la religione dà
conforto e protezione, offre un orizzonte di riferimento e dà sicurezza.
“Dovevo mettere nella carrozzina, quando portavo fuori i bambini, sale,
ulivo e una medaglietta della Madonna, per tenere lontano l’invidia e le
streghe”175. “Io attaccavo le medagliette anche sul bavaglino e sotto il
cuscino del bambino mettevo la corona del rosario. Era una specie di
protezione”176.
“Dopo il Battesimo si faceva un’offerta in denaro. Io avevo fatto un voto
a San Giovanni Bosco, a cui mio marito era devoto, per avere un maschio.
Così quando è nato ho mandato un’offerta ai Salesiani. Il maschio infatti si
chiama Enrico Giovanni”177.
CREMONA ANTONIETTA.
CATTANEO MARIA CARLA.
175 Ibidem.
176 MEREGAGLIA CROCIFISSA.
177 Ibidem.
173
174
199
Le pratiche simboliche risultano quindi ancora presenti, perlopiù
consigliate dalle donne più anziane, depositarie di antiche consuetudini
legate all’universo mentale contadino. Le donne più giovani le accettano e le
rispettano, ma con distacco, perché il loro modo di pensare è ormai diverso;
l’aderenza alla tradizione non esclude il desiderio di rinnovamento e di
libertà da modelli di comportamento distanti dalla propria vita.
Indicativa è l’affermazione della signora Crocifissa, che, con sano
realismo e consapevolezza esprime apprezzamento per le positive conquiste
ottenute dalle donne, pur nel rispetto delle regole codificate e rimaste
immutate per generazioni: “Quasi sempre si rispettavano i quaranta giorni e
certo il neonato non poteva uscire prima del Battesimo, che avveniva dopo
otto/dieci giorni al massimo. Soprattutto d’inverno si rispettavano i quaranta
giorni. Faceva freddo, non c’erano le tutine imbottite come ora. Non
tornerei indietro assolutamente”.
4) I colloqui
Colloquio con le sorelle TENTI VERONICA e AMBROGINA, entrambe
nubili.
Fanno parte di una numerosa famiglia contadina. Hanno sempre vissuto
nel cortile in cui sono nate, vedendo nascere e crescere, oltre ai fratelli e alle
sorelle, cugini e nipoti di varie generazioni. Pur essendo nubili, hanno spesso
assistito le partorienti, anche perché la sig.na Veronica era l’infermiera del
paese.
Al colloquio partecipa anche la cognata, signora NICOLINI MARIA in
TENTI.
200
Che ricordi avete sulla gravidanza e sul parto, ricordi legati al periodo della vostra
giovinezza?
Ambrogina: Non c’era riguardo particolare per la donna gravida.
Continuava a mungere le mucche, ad andare in campagna, a zappare, a
lavare.
Veronica: Anzi, spesso una donna partoriva subito dopo essere ritornata
dai campi.
Ambrogina: Mia sorella Rosa, per esempio, ha avuto le doglie in
campagna; è corsa a casa, le hanno tolto gli zoccoli, ha fatto in tempo a
lavare appena appena i piedi e subito l’hanno messa a letto a partorire,
assistita dall’ostetrica e dalle altre donne che c’erano in casa. Spesso
l’ostetrica stava già seguendo un’altra partoriente.
Al momento del parto, tutti i giovani e i bambini venivano fatti uscire.
C’era molta “rigorosità” morale. La nascita era allora considerata un “tabù”.
Facevano tutto in camera, usando molta acqua calda… Quando il bambino
nasceva, veniva lavato e poi fasciato. L’ostetrica dava la benedizione al
bambino.
Com’era questa fasciatura?
Ambrogina: Li fasciavano molto stretti con delle fasce alte di piqué.
Anche le braccia venivano fasciate e i poveri bambini non potevano
assolutamente muoversi o difendersi se una mosca li importunava.
Le donne dovevano allattare. Appena una donna si “sgravava”, non c’era
un trattamento di favore nel mangiare. Era costretta a mangiare pancotto,
zuppa. Non le era permesso mangiare carne. Le dicevano che solo
l’alimentazione blanda, lunga, le dava la possibilità di avere tanto latte.
Quanto tempo durava questo regime alimentare?
Veronica: Durava quaranta giorni.
Ambrogina: Durava di regola quaranta giorni, ma poi in realtà
continuava anche più a lungo, perché le donne allattavano i figli per molto
tempo. Non si usava latte di mucca o altro, era tutto latte della donna.
Veronica: Quando il latte era tanto, la donna portava a casa sua dei
bambini da allattare (a balia).
201
Ambrogina: Sì, siccome alle donne “veniva avanti” molto latte,
prendevano dei bambini a balia. A molte donne veniva la mastite e per
curarla tagliavano il seno.
Veronica: Oppure legavano stretto il seno. Lo incidevano per far uscire
il latte in più.
C’erano dei gesti o degli accorgimenti particolari, delle usanze che la donna osservava?
Ambrogina: La donna gravida non poteva mettere collane.
Veronica: Sì, c’erano delle idee stupide, come quella di non poter
indossare collane in gravidanza.
Ambrogina: La donna non doveva guardare gli animali o delle figure
brutte.
Veronica: Guai se una donna vedeva bambini brutti o handicappati!
Ambrogina: Le donne in gravidanza avevano delle “voglie”, ma non
potevano quasi mai soddisfarle, perché c’era povertà. Perché la “voglia” non
uscisse sul viso del bambino, quando la donna ne aveva una e non poteva
soddisfarla, si metteva le mani sulle natiche o sui fianchi. Io ho una “voglia”
sulla schiena.
Veronica: Certe donne non avevano riguardo e tenevano sul letto
durante la gravidanza degli animali, cani o gatti. Così il bambino nasceva con
le sembianze dell’animale. Anche qui a Venegono c’è una donna il cui figlio
è nato handicappato, con la faccia come quella di un cane. Non esce mai di
casa, tanto fa impressione. È colpa di sua mamma che ha sempre tenuto un
cane vicino durante la gravidanza.
Ambrogina: Gli animali non si potevano toccare e nemmeno guardare.
Ma queste erano superstizioni.
Veronica: Non si potevano guardare certe fotografie brutte.
Ambrogina: Sì, la donna guardava le immagini di Gesù bambino o di
bambini belli, mai di bambini brutti, altrimenti si impressionava. Erano
credenze di allora.
Tornando alle collane, perché non si potevano indossare?
Ambrogina: Perché il bambino sarebbe nato col cordone ombelicale
attorno al collo. Ma non era vero, perché anche oggi ne nascono così.
202
Veronica: Sì, a quel tempo era così. E poi la donna partoriva sempre a
casa.
Ambrogina: Sì, tutte partorivano a casa. Dovevano arrangiarsi così.
Molte morivano di emorragia. Spesso non si capiva cosa avesse il bambino,
se si ammalava. Io per esempio alla nascita stavo male e non si capiva
perché. Allora la mia mamma mi ha portato da una donna, una zia, che
era… non proprio una “megera”…
Veronica: … aveva “un’esperienza” (“‘sperienza”).
Ambrogina: Come si potrebbe dire oggi… era una donna che
“capiva”…; mi ha sfasciato e ha visto che avevo una punta d’ernia
sull’ombelico. Si è fatta dare una palanca (allora erano grosse) a mi ha
fasciato stretta stretta. Così sono guarita. C’erano delle donne che
conoscevano queste cose a cui ricorrere.
Veronica: Se il bambino aveva male alle orecchie, si spruzzava in esse
del latte della mamma oppure di una donna che aveva ancora il latte. Erano
rimedi utili, anche se vecchi, meglio di quelli di oggi. Se il bambino aveva gli
occhi rossi, si tracciava su essi una croce.
Ambrogina: Stavo parlando prima della fasciatura. C’era il “pisutin”, più
piccolo. Poi la “pisota” grande e prima di tutto il cuscino. Si metteva prima
di tutto il cuscino, poi il “pisutin” che andava fra le gambe del bambino, poi
la “pisota” grossa in cui fasciavano anche le braccia. Poi il tutto, cuscino
compreso, era avvolto in fasce di piqué alte trenta/quaranta cm. e tutte
ricamate. Il bambino era fatto su come un salame. Restava fuori solo la
faccia. La fasciatura serviva, secondo quel che dicevano, per far rimanere
ben dritta la colonna vertebrale. Ma adesso non vedi bambini storti, anche se
non li fasciano così!
Veronica: Però sul cuscino non li mettevano proprio dritti, ma un po’ di
lato, così, se vomitavano, non sporcavano la fasciatura. Io ho fasciato e
cresciuto più di venti bambini nel mio cortile.
C’erano delle preghiere particolari che la donna recitava in gravidanza?
Veronica: No, niente di particolare. Si recitava il solito rosario e poi ogni
donna aveva le sue “devozioni”. Forse si pregava particolarmente
Sant’Agata, che era stata martirizzata al seno e Sant’Anna, madre di Maria.
203
Dopo la nascita, venivano fatte delle offerte o delle preghiere?
Ambrogina: La donna per quaranta giorni non poteva uscire
liberamente di casa. Cessato questo periodo, al suonare delle campane del
quarantesimo giorno, la donna poteva uscire e poteva mangiare più
normalmente. Allora si recava in Chiesa con l’offerta. Qui riceveva la
benedizione del prete per essere libera dal “peccato veniale”. Portava anche
un’offerta in denaro. La donna andava sola, per ricevere la benedizione e
purificarsi.
Veronica: Adesso la donna viene benedetta lo stesso giorno del
Battesimo.
Il Battesimo quando avveniva?
Ambrogina: Subito, tre o quattro giorni dopo la nascita. C’erano il
padrino e la madrina.
I bambini nati morti venivano portati al cimitero senza funerale.
Com’era il corredo?
Veronica: C’erano la maglietta di lana, i camicini di lino, i bavaglini e le
cuffiette per le orecchie. E poi c’era il cuscino con le annesse fasce.
Ambrogina: Quel tipo di fasciatura è durata a lungo. Io sono stata
fasciata così. Ha cominciato ad usarsi meno quando hanno partorito le
nostre cognate. Nei primi mesi l’ombelico veniva coperto con bendine di
lino alte tre cm. Dopo la guerra, ci si è cominciati a civilizzare un po’.
Il padre, che ruolo aveva durante la gravidanza e poi alla nascita del bimbo?
Ambrogina: Nessun ruolo particolare. Non si interessava per niente.
Veronica: Era maschio. Non si interessava. Anzi, i primi giorni dopo il
parto la donna aveva soggezione. E poi quando la donna partoriva potevano
essere presenti solo la levatrice e le comari. C’era un tabù attorno al parto.
Ambrogina: E pensare che il parto è una cosa così bella! Noi invece
pensavamo che era l’ostetrica a portare i bambini, che prima teneva in
cantina. A noi bambini e ai giovani facevano credere così. Quando la tua
nonna Rosa doveva partorire per la terza volta, nel 1927, ha detto alla
levatrice di portarle un maschio, perché aveva già due femmine. E noi, che
eravamo ragazzine, dicevamo, dopo che era nato il maschio, che è poi il tuo
204
papà: “Ecco, quella signora è andata a prenderlo in cantina!”. Pensa che cose
ci facevano credere!
L’annuncio della nascita era dato dalla suocera e dall’ostetrica. Il nome
era scelto tra quello dei parenti.
Sapete se c’erano rapporti sessuali fra i coniugi durante la gravidanza? E poi?
Ambrogina: Non so, perché la mia mamma non si è mai confidata in
questo senso. Erano molto riservati su questo aspetto. Non dicevano: “Ti ho
fatto”, ma: “Ti ho comprato”; io, che ero sfacciata, ribattevo: “A quale
mercato?”.
Veronica: Molti uomini andavano lontano a lavorare, tornavano
d’inverno e allora “compravano” dei figli. È naturale, dopo la lontananza.
Si praticavano molti aborti, con l’aiuto di vecchie megere. Usavano
prezzemolo in forti dosi oppure un purgante molto forte, il “citrato”.
A questo punto arriva la sig.ra NICOLINI MARIA in TENTI. Ha sposato uno dei
fratelli delle sorelle Tenti; si è trasferita a Venegono Inferiore nel 1941 e a Venegono ha
concepito i suoi quattro figli. Le due donne la invitano a ricordare, ad aiutarle (tutte e tre
vivono, al momento del colloquio, nello stesso cortile).
Maria: Io ho partorito all’ospedale, non in casa.
Veronica: Certo, sono stata io a consigliare questo, perché si trattava di
una cognata, di una ragazza venuta da fuori e sola. Era una responsabilità
troppo grande farla partorire in casa.
Maria: Quello che ricordo maggiormente della gravidanza sono le
“voglie”. Purtroppo avevamo poco da mangiare, le “voglie” non si potevano
soddisfare e così se ci si toccava, il bambino nasceva con una macchia.
Durante la gravidanza, mia suocera mi faceva indossare un grembiule
nero larghissimo, per nascondere la pancia, come se fosse una cosa
vergognosa.
Ricorda qualcosa riguardo ai rapporti sessuali durante la gravidanza?
Maria: Si avevano rapporti normali fino a pochi mesi prima. Poi stava
alla delicatezza dell’uomo capire quando la donna non desiderava averli.
205
C’erano cose che una donna gravida doveva evitare?
Maria: Certo. Non doveva indossare collane o cinture. C’erano queste
credenze. Poi per quaranta giorni dopo il parto la donna non poteva uscire,
per evitare malattie e seguiva un’alimentazione particolare, per avere più
latte. Io ho mangiato pancotto e brodo.
25 settembre 1991.
A casa delle due sorelle Tenti.
Siamo presenti io, le sig.ne Tenti e la cognata.
Colloquio con la signora TENTI ESTER in BROGGI
Si è sposata nel 1930. Ha avuto un figlio e due figlie (1932 – 1934 –
1938); la prima figlia è morta dopo solo tre mesi. Ha sempre vissuto a
Venegono, lavorando in casa e nei campi.
Cosa ricorda sulla gravidanza e sul parto?
Ho partorito la prima volta nel 1932. La prima gravidanza non mi ha
dato molti problemi; invece il travaglio è stato lungo. La levatrice, sig.ra Rosa
Limido, è arrivata a mezzanotte, il bambino è nato solo il mattino dopo alle
sei. Non c’erano tutti i mezzi che ci sono oggi.
Ho partorito in casa tutte e tre le volte.
Quali erano i preparativi per il parto in casa?
La levatrice preparava cotone e alcool per disinfettare. Le donne presenti
facevano bollire l’acqua in grandi pentole; l’acqua serviva per lavare il
bambino e la moltissima biancheria che si sporcava. Allora non c’era acqua
calda.
Erano presenti le mie sorelle, che aiutavano nei preparativi. Ad assistermi
c’erano la levatrice e mia cognata. Quando “mi ammalavo” io era lei a
correre, quando era lei a dover partorire ero io ad assisterla.
La prima figlia è nata prematura, di sette mesi. Allora non si badava
troppo alle proprie condizioni. Io poi vivevo in famiglia, col suocero. Così
quella mattina (ero al settimo mese di gravidanza) sono andata nei campi con
la gerla. Dopo mezz’ora di cammino a piedi sono arrivata in campagna e ho
206
cominciato a falciare l’erba. Ho sentito dei dolori. Non c’era un’anima viva
in giro. Allora ho pregato: “Signore, aiutatemi almeno ad arrivare a casa”.
Ho messo nella gerla la poca erba tagliata e mi sono avviata. Giunta in paese
mi sono fermata in portineria della ditta dove lavorava mio marito, e ho
chiesto al portinaio di mandarlo a casa, perché avevo bisogno. Sapevo che
erano necessari dei preparativi (acqua calda, lenzuola) e non c’era niente di
pronto, perché non prevedevo un parto prematuro.
Sono arrivata a casa e mi sono messa a letto. Mio marito, dopo essere
arrivato, è andato a chiamare la levatrice. Intanto mia cognata e le mie sorelle
hanno preparato l’occorrente, hanno fatto bollire l’acqua. Così la bambina è
nata, ma la levatrice diceva che forse era morta, perché non sentiva il battito
del cuore. Allora l’ha battezzata “sotto condizione”. La bimba era tutta nera
e piccolissima. Dopo il parto io ho avuto una fortissima emorragia e la
signora Carmela mi ha praticato delle iniezioni che l’hanno fermata (così non
è stato necessario chiamare il medico).
La bambina piangeva sempre, non mangiava. Allora avevamo la stufa a
legna. Così abbiamo messo la bimba in un po’ di cotone e poi nella stufa
spenta, per tenerla al caldo. Era bella come una bambolina, ma piccolissima.
Insieme a mia cognata, l’ho portata dal dott. Livraga, un bravo medico.
Abbiamo affittato una carrozza. Appena l’ha vista, ha detto: “Signora, solo
così piccola!”. Io sono rimasta male, perché ero sì ignorante, ma non stupida
e ho capito che la bambina sarebbe morta.
Il farmacista mi regalò una scatola di latte Mellin, ma è stato inutile. La
piccola non mangiava. È vissuta tre mesi, ma sono bastati ad affezionarmi a
lei. Quando passavo davanti al cimitero, andando in campagna, piangevo.
Poi c’era una signora di Venegono che diceva: “Se è campata tre mesi,
poteva campare ancora”, come se io non l’avessi curata bene. Ho sofferto
tanto per questo.
L’altra figlia è nata nel 1938. In gravidanza, ho sofferto. Essendoci il
suocero, non potevo fare come volevo. Mangiavo poco e lavoravo molto.
Dovevo tacere ed andare avanti.
La bimba poi si è ammalata, ha avuto la “tosse asinina”. Le ho dato dello
sciroppo. Il dottore mi aveva consigliato di portarla al Sacro Monte di
Varese per cambiare aria, ma non ne avevamo la possibilità. Questo parto mi
207
ha causato dei problemi. Da allora ho dovuto portare una panciera e ho
sempre faticato a digerire.
C’erano cose che una donna doveva evitare in gravidanza?
Non si dovevano portare pesi, per non danneggiare il bambino. Poi mi
dicevano di non portare la catenina, perché il bambino sarebbe nato col
cordone ombelicale al collo.
Mi dicevano di mangiare ciò di cui avevo voglia, perché altrimenti il
bambino avrebbe avuto delle macchie sulla pelle. Ma allora non c’era niente
da mangiare, il vino si beveva solo alla domenica. Se le voglie non potevano
essere soddisfatte, non ci si doveva toccare, soprattutto in viso.
Che ruolo aveva il marito al momento del parto?
Non era presente. Andava a lavorare, e se anche era in casa non assisteva
assolutamente al parto. Chiamava la levatrice e basta.
Dopo il parto cosa accadeva?
Si rimaneva a letto per otto giorni. Poi per quaranta giorni la donna non
poteva uscire di casa e doveva vestirsi di nero, perché in peccato. Ricordo
che ci si recava in Chiesa dal parroco a ricevere la “perdonanza”; prima di
aver ricevuto la “perdonanza”, la donna non poteva assolutamente uscire.
Non so di preciso che senso avesse questa benedizione. Eravamo
impure, in peccato. Il parroco leggeva delle preghiere e le litanie dei Santi.
In gravidanza recitava preghiere particolari?
Mi affidavo soprattutto alla Madonna, che protegge tutti, e al Sacro
Cuore. Ma per chi ha fede tutte le preghiere vanno bene.
Usava degli amuleti o qualcosa di simile?
Portavo una medaglietta sacra sulla maglia (non al collo, perché era
proibito), con l’immagine della Madonna. Anche sulla maglietta del bimbo si
metteva una medaglietta, dalla parte del cuore, per tenere lontano il
malocchio.
208
Dopo il parto si osservavano delle restrizioni?
Ci si doveva riguardare, soprattutto nel cibo. Si mangiava molto
pancotto, latte, tanto latte (avevamo la mucca in casa). Dicevano che serviva
per avere tanto latte. Per avere tanto latte mi dicevano anche di bere la birra.
Ma a quei tempi era troppo cara. Allora si beveva tanto latte.
Adesso siamo ricchi, non ci manca niente, ci manca solo “il sole quando
non c’è”.
Poi la donna rispettava i quaranta giorni, sia per l’alimentazione sia per
altre cose. Evitava ad esempio i lavori pesanti. Dicevano che se nei quaranta
giorni avevi mal di testa, l’avresti avuto per tutta la vita.
Si cercava di non lavare troppo perché non c’era acqua calda, si doveva
lavare nella fontana in cortile. Ma la biancheria da lavare era tanta, non
c’erano i pannolini come oggi. Però si stava attente, per non ammalarsi.
C’erano modi per capire il sesso del nascituro?
Se la pancia era “davanti” sarebbe nato un maschio, se era rotonda
sarebbe nata una femmina.
Com’era considerata una donna incinta non sposata?
Era considerata male, non come adesso. Erano ragazze lasciate da parte.
Si praticavano aborti?
In paese girava voce che si facevano degli aborti. Si facevano di nascosto.
Allora non ci davano l’assoluzione se non si prometteva che avremmo
avuto dei figli. La mentalità era questa. Quindi chi faceva un aborto, lo
faceva di nascosto. Molte donne poi non si confessavano più. So di donne
che non hanno ricevuto l’assoluzione perché, avendo già un figlio, non
promettevano di averne presto un altro.
Io sono vecchia, ma ho un po’ di esperienza. Allora forse c’era fin troppa
vergogna a parlare di certe cose, ma oggi è un disastro. I giovani non si
vogliono più sposare, perché fanno quello che vogliono: vanno in vacanza
da soli, dormono assieme. Stanno bene così. È come se fossero già sposati.
Non sono stupida, capisco queste cose. Una volta invece ci si sposava
davvero vergini.
209
Comunque si diceva che c’erano donne che aiutavano le giovani ad
abortire. Usavano olio di ricino in forti dosi. Comunque queste ragazze
rischiavano la vita, perché spesso l’aborto non riusciva. Gli orfanotrofi erano
pieni di bambini abbandonati.
Si esprimevano preferenze circa il sesso del nascituro?
Di solito si desiderava come primogenita una bambina, perché avrebbe
aiutato la mamma. Un proverbio diceva: “Beata chèla spusa, che la prima l’è ‘na
tusa”. La vita di casa era pesante. C’era tanto lavoro. Così una figlia poteva
aiutare.
Comunque il primogenito era sempre una consolazione, maschio o
femmina che fosse.
Che sorte toccava ad un bimbo nato morto?
Non avendo ricevuto il Battesimo, non gli veniva fatto il funerale. Lo si
metteva in una cassettina, lo si benediceva, e poi di solito il papà lo portava
in spalla al cimitero.
Se una donna moriva di parto, a chi era affidato il bambino?
Ai parenti disponibili, di solito dalla parte del padre.
Quanto durava l’allattamento al seno?
Io ho allattato poco, ero magra e lavoravo molto. Così usavo il latte di
mucca. Però molte donne allattavano anche fino a nove-dieci mesi. Io no.
Allora non c’erano il riscaldamento o i fornelli. Così mettevo la bottiglia
del latte sul fuoco della stufa e a volte scoppiava tutto. Poveri noi, che vita
dura!
Dopo il parto, si facevano offerte di ringraziamento?
Avrei desiderato fare un’offerta in Chiesa, ma non c’erano soldi. Mio
marito lavorava tre giorni per quindicina e in casa c’erano anche il suocero e
la cognata giovane.
Andavo avanti perché avevo fede.
210
Come si svolgeva il Battesimo?
Era individuale, non come oggi. Il bambino doveva riceverlo entro gli
otto giorni. Erano presenti i genitori, il padrino e la madrina.
A casa non facevamo niente, perché non c’erano mezzi. Era un giorno
come un altro, anche perché spesso il Battesimo si svolgeva durante la
settimana, non alla domenica.
Dopo quanto tempo il bambino poteva uscire?
Doveva rispettare i quaranta giorni e a volte anche di più, finché la donna
non usciva.
Per i quaranta giorni la donna doveva vestirsi di nero, per rispettare il
“lutto della Madonna”; non so perché. Avremmo dovuto vestirci di bianco,
invece, perché avere un bambino è una gioia, non un peccato. Ma allora si
usava così.
Durante la gravidanza si portavano vestiti larghi, per permettere al bimbo
di svilupparsi bene. Oggi invece sembra che la donne non ragionino molto:
portano in gravidanza vestiti stretti e pantaloni. E poi a volte sembra che
vogliano ostentare il pancione. Noi invece portavamo vestiti a pieghe,
quando uscivamo, così la pancia era un po’ mascherata. C’era più rispetto di
oggi.
Com’era la fasciatura?
Un po’ complicata. C’erano due cuscini. Uno era più grande, di piuma,
coi pizzi e ricamato. Poi c’era un cuscino più piccolo, su cui si appoggiavano
“pattona” e “patello”. Il bambino veniva fasciato tutto, anche le braccia, con
una fascia lunga e alta di piqué, e anche le gambe.
Poi si procedeva alla seconda fasciatura, attorno al cuscino grande, per
poterlo portare in giro. Sembravano delle mummie. Eravamo proprio
indietro.
La fasciatura col cuscino si faceva fino a tre-quattro mesi. La fasciatura
semplice fino a sette-otto mesi. Quando il bambino si bagnava, si doveva
disfare il tutto e ricominciare. La fasciatura serviva a tenere caldo il bambino
e ad assorbire la pipì.
Per fare i pannolini usavamo stracci o tele vecchie. Erano tutte cose fatte
da noi, anche la “pattona” grande, con la quale si fasciavano anche le gambe.
211
Com’era il corredo?
C’era il camicino di lino sulla pelle e poi la maglietta. Sotto una
pancierina. Per il resto il neonato era coperto, perché tutto fasciato, anche le
braccia e le gambe. Dicevano che la fasciatura aiutava anche a far crescere
diritti i bambini. Poi gli si metteva la cuffietta, sempre, anche in casa, sotto
quella di tela e sopra quella di lana.
Per il Battesimo si facevano regali al bimbo?
Nessuno, non c’erano i mezzi per farlo. Al massimo portavano alla
puerpera una bottiglia di marsala, che dava un po’ di energia.
30 ottobre 1991.
A casa della sig.ra Tenti Ester.
Siamo presenti io, la nuora (sig.ra Meregaglia Crocifissa) e la sig.ra Tenti.
Colloquio con la signora PREMAZZI ROSA ANNUNCIATA in CREMONA
Si è sposata nel 1932. Ha avuto sei figli, e ha continuato a lavorare come
impiegata fino alla nascita del quarto figlio. Ha sempre vissuto a Venegono
Inferiore.
In base alle sue esperienze, cosa ricorda sulla gravidanza e sul parto?
Ho avuto la prima figlia in casa nel 1934. Allora si usava così. Qualche
donna cominciava a partorire nelle case di cura, ma nella maggior parte dei
casi si partoriva in casa, si “ammalavano” in casa.
Per il mio primo parto è stata necessaria la presenza del medico, perché si
trattava di un parto podalico. La bambina è nata sana. Il medico poi ha
dovuto praticarmi una sutura, che però mi ha dato in seguito molti problemi,
soprattutto nei parti successivi. Probabilmente il cattivo esito dell’operazione
è stato causato dal fatto che la sutura mi è stata fatta in casa, in condizioni
igieniche non perfette.
Ho avuto tre figli in casa e tre in ospedale.
212
Chi assisteva la puerpera al momento del parto in casa?
C’erano le persone di famiglia. Nel mio caso c’erano due cognate, perché
non avevo più né i genitori né i suoceri. Ovviamente potevano alternarsi
anche le vicine o le conoscenti, che però a volte disturbavano.
C’era poi la levatrice. Alla fine della prima gravidanza l’avevo chiamata
presto. Ma inizialmente non aveva capito che si trattava di un parto
podalico. Quando poi ha intuito che il parto si presentava difficoltoso, ha
chiamato il medico. La levatrice di tutti i miei figli è stata la signora Carmela
Limido di Venegono Superiore.
Che preparativi si facevano per il parto in casa?
Preparavano una grande bacinella d’acqua calda, con cui poi la levatrice
lavava il bambino.
Prima di occuparsi del bambino, la levatrice prestava cure alla donna e
tagliava il cordone ombelicale. Poi lavava il bambino e lo fasciava. Allora si
usava fasciarli.
Mi spiega com’era la fasciatura?
Avvolgevano la creatura in pannolini bianchi di lino. Poi la avvolgevano
anche in una “pattona” di piqué pesante, soprattutto se faceva freddo. Poi
c’era una fascia lunga tre metri, con la quale si avvolgeva il bambino; si
lasciavano fuori solo la testa e le braccia. Fino a tre mesi poi si usava anche
un cuscino, sul quale si appoggiava il bambino già fasciato. Poi lo si fasciava
una seconda volta col cuscino incluso. Si pensava che le fasce proteggessero
il bambino e lo aiutassero a crescere ben diritto.
Io ho usato le fasce per tutti i miei figli, anche per quelli che ho partorito
in ospedale. Era l’ospedale stesso a richiedere le fasce.
Ho avuto sei figli: nel 1934, nel 1937, nel 1940, nel 1943, nel 1944, nel
1951. Il quarto figlio, un maschio, è morto a quattro mesi.
Chi annunciava ai famigliari la nascita del bimbo?
Era la levatrice a dare l’annuncio. Il marito, di solito, era a lavorare,
sapendo che però a casa c’era qualcuno ad assistere la moglie, appunto la
levatrice e alcune parenti.
213
Quando invece ho partorito all’ospedale, la situazione era diversa. I
famigliari portavano la donna nel reparto “maternità” e poi, dopo aver
chiesto all’ostetrica quando sarebbe nato il bambino, tornavano a casa. Al
massimo li si avvertiva per telefono, se il parto avveniva prima del previsto.
Oppure il giorno dopo essi stessi tornavano all’ospedale.
Quindi durante il parto in casa il marito non era presente, oppure sì?
No, non era presente. Di solito era a lavorare. Ma anche quando era in
casa, non assisteva al parto. Non ne aveva il coraggio. La mentalità era molto
diversa da quella odierna.
Dopo quanto tempo il bambino poteva uscire di casa?
Lo si portava fuori molto presto per il Battesimo (i miei figli sono stati
battezzati tutti entro i primi tre giorni). Poi per i quaranta giorni successivi al
parto si evitava di portare fuori il bambino.
Da cosa era costituito il corredo?
Era costituito dalle magliette, da pancierine, da camicini di lino e da
golfini di lana, da mettere sopra le fasce. Poi si metteva la cuffietta, per
proteggere il bambino dal freddo, ma anche perché si pensava che la
cuffietta proteggesse l’intelligenza del bimbo. La fasciatura sul bambino
poteva continuare anche fino al primo anno d’età, soprattutto quando lo si
metteva a dormire. La fasciatura col cuscino si faceva almeno fino ai tre
mesi, perché si diceva che così la colonna vertebrale rimaneva ben diritta.
Come si svolgeva il Battesimo?
Il bambino veniva portato in Chiesa con l’assistenza della levatrice. Se il
bambino era battezzato entro l’ottavo giorno, la madre non andava in Chiesa
e il bambino era affidato al padrino e alla madrina. Il papà assisteva solo se
era libero dal lavoro. Tornando a casa, in famiglia magari si mangiava
qualche biscotto, ma nulla di più. Al massimo erano le persone che si
recavano a far visita alla madre a portare qualche regalino, che consisteva in
magliette, golfini, oppure in una scatola di biscotti per la madre. Non si
facevano feste in grande stile come oggi. Quando ho avuto il quarto figlio, le
mie colleghe di lavoro mi hanno portato un mazzo di fiori.
214
A casa non consideravano la nascita un evento eccezionale. Non era
grettezza, ma abitudine. Partorire era considerato normale.
La donna, dopo aver partorito, riceveva una benedizione particolare?
Sì, entro i quaranta giorni la mamma si presentava in Chiesa davanti al
sacerdote per ricevere la benedizione “post partum”. Non ho mai compreso
fino in fondo il senso di questa benedizione.
Comunque ritenevano che la donna fosse impura, in stato di peccato.
Legavano questa “purificazione” a quella che Maria, madre di Gesù,
ricevette al Tempio dopo quaranta giorni dalla nascita di Gesù.
La donna incinta recitava preghiere particolari?
Ci si affidava soprattutto alla Madonna e a Sant’Anna, madre della
Madonna. Ricordo di averlo fatto soprattutto durante la mia prima
gravidanza, specialmente negli ultimi giorni.
Il primo travaglio è stato molto lungo. Ho cominciato ad avere i dolori
molto presto, il 30 dicembre sera. Avevo bisogno dei servizi, che
naturalmente erano fuori, in cortile. Sono uscita, ma, essendoci molta neve,
sono rientrata in casa e mi sono coricata. La levatrice era già stata avvertita
ed era pronta. Aveva previsto la nascita per la fine dell’anno. Di notte sono
iniziate le doglie più regolari. Così mio marito ha chiamato la levatrice e due
cognate. La levatrice non capiva cosa non andasse. Tutto il 31 dicembre
sono stata a letto ed è venuta molta gente a vedere come andavano le cose. Il
letto era in cucina.
A Venegono c’era la signora Limido Crosta, che era zia della levatrice ed
era a sua volta una levatrice. Così la levatrice si è fermata lì a dormire, per
essere più vicina in caso di necessità. Verso le 22.00 l’abbiamo chiamata e lei
ha chiamato il dott. Castiglioni. Il medico ha capito che si trattava di un
parto podalico e con un braccio è entrato a capovolgere il bambino. La
bambina è nata sana. Il dottore mi ha praticato una sutura e mi ha
raccomandato di rimanere sdraiata per dieci giorni, con le gambe chiuse (me
le legavano con un tovagliolo per tenerle strette).
Per nutrire la bambina me la appoggiavano vicino al seno, e lei succhiava
il latte sdraiata. Avevo molto latte. Porto ancora oggi le conseguenze di
quella sutura mal riuscita.
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Per quanto tempo si allattava il bimbo?
Il più possibile, finché c’era latte, fino a dieci, undici mesi, magari insieme
a qualche pappa. Si tostava la farina e la si faceva cuocere con latte e acqua e
con un po’ di zucchero. Più tardi si aggiungeva il pan trito, leggermente
salato. Oppure si macinava il riso e lo si faceva cuocere a lungo con un po’
di sale e un po’ d’olio, se c’era.
La donna, dopo il parto, doveva evitare certi cibi?
Sì, però erano tutte credenze. Soprattutto nei parti a domicilio non ci
davano frutta. Mangiavamo zuppe, minestrine molto blande. Questo per i
quaranta giorni. Poi cominciavano a dare un po’ di carne lessa o di
formaggio.
Dicevano di bere molto latte per l’allattamento. “Latte fa latte”, mi diceva
la levatrice. E così mi dicevano anche all’ospedale. Ma a me il latte non
piaceva. Eppure ho allattato a lungo.
Come si sceglieva il nome del bambino?
Si prendevano in considerazione per prima cosa i nomi dei nonni. Di
solito i primi nati prendevano il nome dei nonni paterni, anche se ancora in
vita. Oppure la madrina e il padrino manifestavano il desiderio che il bimbo
prendesse il loro nome, perché si ricordasse di loro. Ma questo solo dopo
aver rispettato le parentele più vicine. Oppure si dava il nome di un parente
particolarmente caro. Ad esempio, quando è morto il mio Pier Giorgio, le
sue sorelle hanno chiamato con nomi simili i loro figli.
In generale la donna incinta era rispettata?
In genere sì. Di solito erano tutte donne di casa, perché la donna andava
in fabbrica al massimo fino alla prima gravidanza. Poi stava in casa, magari
aiutava nei campi.
Era raro che le donne sposate lavorassero in fabbrica dopo la prima
gravidanza. Io sono stata un’eccezione, però lavoravo in ufficio. Ho lavorato
fino al quarto figlio. Erano anni di miseria, la resa dei campi era scarsa. Così
ho continuato a lavorare. Però ho incontrato molta comprensione, per il
fatto di avere quattro figli. Svolgevo il mio lavoro compatibilmente agli
216
impegni di famiglia. Ho lavorato alla “Sordelli” per diciannove anni. Ero
benvoluta e considerata.
C’erano cose che in gravidanza si dovevano evitare?
Dopo il sesto mese si avevano varie precauzioni. Bisognava evitare di
portare pesi (i catini erano di rame) e di lavare.
Ricordo molto bene la “nonna Centa”, che poi era la tua bisnonna. Non
era mia parente, ma nel periodo che ho vissuto nel suo cortile, durante la
prima gravidanza, mi ha aiutato molto. Mi lavava i panni, mi comprendeva.
Era una donna di carità e mi sollevava da tanti lavori pesanti. “Rosetta, nelle
tue condizioni non puoi fare certi lavori, lascia fare a me!”. La “nonna
Centa” preparava spesso dei tortelli di zucca gialla, davvero prelibati. Me ne
portava sempre un piatto. Aveva davvero molta delicatezza.
C’erano poi delle superstizioni. Dicevano di mangiare tutto ciò di cui si
aveva voglia, perché altrimenti al bambino sarebbero uscite delle macchie. E
non ci si doveva toccare assolutamente in viso. Le chiamavano “voglie”.
Però io non credevo molto a queste cose. Avevo letto un libro, Memorie di
una levatrice, che cercava di sfatare queste idee. In questo senso sono stata
fortunata. Leggevo il più possibile.
Dicevano ad esempio di non passare sotto alle scale appoggiate ai muri,
ma io non credevo a queste cose. Oppure mi dicevano di non toccare gli
animali.
C’era ignoranza. I più si fermavano alla 3ª elementare. Io ho frequentato
le “tecniche” e forse avevo un’istruzione maggiore.
Mi dicevano anche di non dire in giro che ero incinta (“Non dirlo perché
non è una cosa bella”), ma a me non sembrava giusto. Oppure mi dicevano
di non far capire quando ero mestruata.
Si usavano degli amuleti?
Io attaccavo una medaglietta sacra alla maglietta del bambino, per
proteggerlo.
Si ricorreva all’aborto?
Sì, alcune donne lo facevano.
217
Io ho avuto un aborto spontaneo al terzo mese di gravidanza (era la sesta
gravidanza). Ero andata in Val Vigezzo e il viaggio era stato molto
travagliato (eravamo nel 1947). Al ritorno a casa ho abortito, in casa (ho
subito un raschiamento).
Un bambino invece è morto a quattro mesi (Luigino) per un’otite
bilaterale. Eravamo nel 1943, non c’era zucchero, né latte, né sapone.
Quando poi è nato l’altro figlio l’anno dopo, finché non ha compiuto i
quattro mesi avevo “gli olii santi in tasca”. Avevo paura. Poi mi sono
tranquillizzata, anche se ci fu nel 1945 un’estate caldissima e molti bambini si
ammalavano di enterocolite.
Ai bambini nati morti si faceva o no il funerale?
Se il bambino nasceva e poi moriva gli si faceva un funerale regolare. Se
invece nasceva morto, lo si portava informalmente al cimitero in una
cassettina. Se c’era bisogno di una benedizione al momento della nascita, la
levatrice o i genitori potevano impartirla.
Che atteggiamento si aveva verso donne incinte non sposate?
Dipendeva dalla famiglia.
Se la donna moriva di parto, a chi era affidato il bambino?
Di solito alla famiglia del padre, a meno che ci fosse un buon accordo e
allora poteva essere affidato alla famiglia della madre, soprattutto se
potevano lavorare in casa e quindi curarlo. Ma generalmente il bambino era
considerato proprietà del padre e se questi si risposava il bambino restava
suo.
In gravidanza si esprimevano preferenze circa il sesso del nascituro?
Dipendeva dai casi. Il primo bambino era sempre ben accetto. Certo, se
nascevano delle femmine c’era la preoccupazione della dote.
Per il papà il maschio era colui che poteva continuare il buon nome della
famiglia e che poteva aiutare nel lavoro, sia nei campi sia fuori casa
(muratore, operaio…).
C’erano metodi per capire se sarebbe nato un maschio o una femmina?
Metodi scientifici no; si guardava la forma della pancia (acuta o piatta).
218
C’erano precauzioni particolari per il primogenito?
Per il bambino nessuna in particolare. Invece c’erano attenzioni per la
donna incinta per la prima volta, soprattutto se c’erano già stati parti difficili
in famiglia o se marito e moglie avevano legami di sangue.
Per esempio, quando ero incinta per la prima volta mi dicevano di stare
attenta, perché la moglie del fratello di mio marito aveva avuto un parto
difficile ed era morta di parto, per un’infezione. Ma non c’era motivo di
preoccuparsi. C’erano molte paure che nascevano dall’ignoranza.
Io ero un po’ a parte, non avendo frequentato la fabbrica. Forse davo
anche un po’ di soggezione. Invece fra loro si facevano molte confidenze.
17 ottobre 1991.
A casa della sig.ra Premazzi Rosa Annunciata.
Siamo presenti io e la sig.ra Premazzi.
Colloquio con la signora OLDRINI CANDIDA in POLLI.
Ha sempre vissuto a Venegono Superiore. Si è sposata nel 1946. Ha
avuto due figlie (1949-1955).
Signora Candida, cosa ricorda delle sue gravidanze?
Prima di avere la figlia maggiore, ho avuto un aborto. Così avevo paura
di non riuscire ancora a portare a termine la gravidanza. Ricordo che dopo
l’aborto mi fecero un raschiamento. Era gennaio. Per evitare il rischio di
emorragia, mi misero sul ventre sacchetti pieni di neve raccolta in giardino.
Da allora non stavo molto bene. Però pregavo per avere un bambino.
Il bambino che ho perso era un maschio. Abbiamo fatto in tempo a
battezzarlo. È nato vivo. Quando è nato, la mia mamma, vedendo che si
muoveva ancora, lo ha battezzato. Poi l’abbiamo messo in una cassettina di
legno e l’abbiamo sepolto sotto una finestra della casa, sotto la grondaia. Si
diceva che il bambino morto era una benedizione di Dio che rimaneva nella
casa. Quando ho allargato la casa, ho lasciato sotto il pavimento del nuovo
locale la cassettina. Eravamo nel gennaio del 1947.
219
Poi nel 1948 sono rimasta di nuovo incinta. Io cercavo di avere riguardo.
Però si andava a lavorare fino a due mesi prima del parto.
Mi racconti qualcosa del parto.
Ero preoccupata, perché il termine era già passato. Quel giorno non
stavo tanto bene. Ci facevano contare nove lune, ed erano già trascorse.
Passate nove lune, il bambino avrebbe dovuto nascere. Ho cominciato a
stare molto male e davo la colpa ad un uovo che avevo mangiato. Invece
stavo per partorire. Alle 19.00 ho mandato mio marito a chiamare la
levatrice. Così è arrivata la levatrice, la sig.ra Carmela, un tipo calmo… ora
che si muoveva…! La levatrice mi disse che c’era ancora da aspettare, di
stare calma e tranquilla a letto.
Essendo inverno, non tornò a casa, ma rimase a mangiare lì; mio marito
andò a prendere dei cotechini. Così, mentre io ero di sopra ad aspettare che
venisse l’ora, loro erano sotto a mangiare e bere. Quando avevo dei dolori, la
chiamavo. Ma mi ripeteva che era ancora presto e tornava giù. A mezzanotte
si decise a far chiamare il medico.
Finalmente la bambina nacque. E allora mia mamma e le altre donne
aprirono tutti i cassettoni e… fuori tutte le lenzuola, le traverse. Poi c’era un
enorme cumulo di roba da lavare! Fecero bollire un caldar (pentolone)
d’acqua con dei fiaschetti spagliati pieni d’acqua e chiusi. Poi con l’acqua dei
fiaschetti mi lavarono per disinfettarmi. L’acqua, dopo la bollitura, era
sterilizzata. È una cosa che oggi può sembrare strana, ma allora si usava così.
Dopo, la levatrice veniva tutti i giorni a farmi le lavature, con l’acqua dei
fiaschetti e con alcool.
In gravidanza c’erano cose da evitare?
Sì, c’erano molte superstizioni. Non si poteva passare sotto una scala a
pioli, perché portava male. Non si potevano portare collane, perché il
bambino sarebbe nato col cordone ombelicale al collo.
Erano tutte marturad (sciocchezze), però noi le facevamo. Ce le facevano
credere.
Non si potevano guardare storpi o handicappati, perché il bambino ne
avrebbe risentito. Adesso queste cose non si fanno più, ma noi le
osservavamo.
220
Faceva preghiere particolari durante la gravidanza?
Io sono sempre stata devota alla Madonna, in particolare la Madonna di
Re; probabilmente è stata lei a farmi la grazia di avere figli dopo l’aborto.
Ero andata da una mia zia suora in Val Vigezzo e lei mi disse di pregare la
Madonna di Re che è la Madonna della maternità perché allatta il Bambino.
Mi sono fermata a dormire qualche giorno lì e probabilmente la mia prima
figlia è stata concepita lì. Magari erano mie superstizioni, ma io ci credevo.
Forse era fede.
Si aveva riguardo particolare per la donna gravida?
No. Io poi vivevo in famiglia, dovevo accudire mio padre, mia madre e
uno zio. Mangiavamo tutti le stesse cose. Si mangiava pasta in brodo,
minestra, … Solo mio marito aveva un po’ di riguardo, mi comprava ogni
tanto un po’ di prosciutto crudo per “tenermi un po’ su”, ma dovevo andare
a mangiarlo sopra, senza farmi vedere. Adesso queste cose non si fanno
più…
Che ruolo aveva l’uomo?
Di solito non si interessava più di tanto. Però mio marito al momento del
parto è rimasto con me. Andava avanti e indietro e forse ha anche bevuto un
bicchiere per tenersi su, ma è rimasto. Questo quando è nata la prima figlia.
La seconda è nata all’ospedale.
Come si svolgeva il Battesimo?
Più o meno come adesso. Forse era un fatto più personale, meno
comunitario di ora. Partecipavano solo il padrino e la madrina. Quando ho
battezzato la primogenita, c’era la Chiesa parata a lutto, perché era morto un
uomo di cento anni. Il Battesimo si svolgeva poco dopo la nascita.
Poi la donna si recava in Chiesa a prendere la benedizione della
Madonna, perché era indegna. Io l’ho ricevuta lo stesso giorno del
Battesimo, per non uscire più, visto che era inverno. Non ho mai capito
bene cosa significasse questa benedizione. Ti sembrava di aver commesso
una colpa. Allora bisognava liberarsi dal peccato compiuto col concepimento
di un figlio. Se non si riceveva questa benedizione, non ci si poteva più
recare in Chiesa. La benedizione si riceveva sull’altare della Madonna (solo la
221
donna); penso che questa benedizione fosse legata a quella ricevuta dalla
Madonna dopo la nascita di Gesù, quando Maria è andata al tempio.
Il Battesimo si faceva al più presto, massimo entro dieci giorni, per paura
che il bambino morisse in peccato originale. Ho battezzato subito anche la
secondogenita: tornando dall’ospedale di Tradate, ci siamo fermati in Chiesa
a farla battezzare, dopo cinque giorni dalla nascita.
Si ricorda come si fasciavano i bambini?
Sì, ricordo molto bene. C’era il cuscino di piuma, poi c’erano le
“pattone” e poi le fasce. Il bambino veniva fasciato tutto, con dentro le
braccia e le mani e poi lo si fasciava insieme al cuscino. Si portava in giro
così. Era molto pesante. Invece, alla seconda figlia lasciavo fuori le mani.
Eravamo già più “civilizzati”. Il bambino veniva fasciato con “pisota” e
“pisutin”, fatti con tante pezze messe insieme e cucite a macchina, in modo
che fossero ben spesse. Si metteva prima il “pisutin” a triangolo; poi si
metteva la “pisota” tra il bambino e il cuscino, e si procedeva alla fasciatura;
poi si fasciava tutto, cuscino incluso. Le fasce erano alte e ricamate.
Com’era il corredo?
C’era il camicino, la maglietta di lana sotto, il coprifasce e i bavaglini
ricamati, poi la cuffietta e i guantini. Quando il bambino era fasciato e aveva
mangiato, gli si dava la benedizione.
Cosa mangiava la donna dopo il parto?
Pancotto, con al massimo un uovo sbattuto, quando c’era. Serviva per
avere tanto latte. Si doveva mangiare molta verdura, tranne le verze, perché
dicevano che il latte non sarebbe stato buono. Si beveva molto latte. Questo
per quaranta giorni.
Il bambino non poteva essere portato fuori per quaranta giorni. La
donna poteva uscire, ma solo avendo riguardo, tenendo sempre la testa
coperta, per non ammalarsi, anche d’estate. Si potevano bagnare poco le
mani, perché dicevano che il latte tornava indietro, soprattutto se si usava
acqua fredda. Per quaranta giorni la donna non doveva lavare o doveva
lavare poco, evitando i bagni completi. Questo per il latte.
222
E per la salute del bambino?
Ricordo che, in caso di problemi intestinali (stitichezza) si usavano gambi
di prezzemolo, come clistere.
Può dirmi qualcosa riguardo ai rapporti sessuali?
Durante la gravidanza si avevano rapporti regolari. Tranne negli ultimi
tempi. Dopo il parto, per quaranta giorni dimenticavi di avere un marito. Si
dovevano fare un po’ di sacrifici. Mio marito aveva rispetto. E poi, durante
la gravidanza, sentendo il bambino muoversi, aveva forse anche un po’ di
soggezione.
Cosa ricorda ancora?
Ricordo che mi facevano mettere in tasca durante la gravidanza tre grani
di sale, tre foglie d’ulivo e un’immaginetta o una medaglietta sacra. Si faceva
un sacchettino e lo si teneva in tasca, contro il malocchio e l’invidia della
gente. In fondo avevamo delle superstizioni. Era mia mamma a dirmi: “Mi
raccomando, tieni in tasca il sacchetto!”.
In gravidanza mettevamo vestiti molto larghi, informi. Si dovevano
evitare le cinture. A volte non si capiva se una era incinta o no, tanto la
pancia era nascosta.
E poi anche all’ospedale non c’era un’assistenza adeguata. Io ho rischiato
di morire per un’infezione.
Che atteggiamento si aveva di fronte alla gravidanza di una donna non sposata?
Queste donne erano giudicate in modo negativo, per cui facevano di
tutto per nascondere il loro stato. La mia collega di lavoro e mia amica ha
lasciato il lavoro il giorno prima di partorire… ma io non avevo mai capito
che fosse incinta. I vestiti erano talmente larghi e sformati, che non si poteva
capire se una donna fosse ingrassata o incinta. Lei non mi aveva confidato
nulla per vergogna.
8 agosto 1991.
A casa della figlia, sig.ra Polli Aurelia, a Venegono Inferiore.
Siamo presenti io, la sig.ra Oldrini, e la figlia.
223
Colloquio con la signora NEGRI FRANCESCA in CASTELLI.
Si è sposata nel 1950. La prima figlia è nata nel 1952. Nel 1954 sono nati
due gemelli, un maschio e una femmina. Ha lavorato nella ditta “Sordelli”
fino al 1954. Ha sempre vissuto a Venegono Inferiore.
Cosa ricorda delle sue gravidanze e dei suoi parti?
Nel 1952 ho partorito per la prima volta. Ho avuto una bambina. Il parto
è stato molto difficile, perché la bambina si presentava con i piedi e la
placenta era doppia. Oggi mi avrebbero praticato un cesareo. Ma allora non
si usava, così mi hanno lasciato lì per ore a soffrire. Poi è intervenuto il prof.
Miganzini. Era un parto asciutto, più difficile rispetto a quando si “rompono
le acque”. La bambina ha sofferto. Per molti mesi ho dovuto portarla
all’ospedale “Gaetano Pini” di Milano, perché aveva problemi alle gambe.
Ha avuto altri figli?
Sì, nel 1954 ho partorito due gemelli, un maschio e una femmina. Il parto
è andato bene; mi ha assistito, sempre in ospedale a Tradate, solo l’ostetrica.
Si erano “rotte le acque”, quindi il parto è risultato più facile, anche se ero di
otto mesi; ho saputo quindici giorni prima del parto che si trattava di due
gemelli: l’ostetrica se n’era accorta sentendo il battito cardiaco.
Certo, una volta arrivata a casa è stato piuttosto difficile riuscire a fare
tutto. Adesso chi partorisce si lamenta, ma allora noi non avevamo nessun
aiuto. Non c’era l’acqua calda e nemmeno la lavatrice. La biancheria sporca
andava bollita e poi lavata tutta quanta a mano. Io ero già fortunata, perché
avevo uno scaldabagno a legna, che aveva costruito mio marito.
Noi eravamo abituate alla fatica. Per entrambe le gravidanze ho
continuato a lavorare fino ad un mese prima del parto. Lavoravo in fabbrica,
mi alzavo molto presto e spesso, al ritorno, aiutavo nei campi. Così ero
abituata a faticare, non ci si poteva fermare.
Il Signore mi ha aiutato molto: spesso lasciavo in casa i bambini piccoli
da soli, per uscire a fare spesa o per lavare. Dicevo alla maggiore, che aveva
due anni e mezzo: “Guarda tu i gemellini, mi raccomando!”, e uscivo. Non è
mai successo nulla, il Signore mi ha aiutato. Non ho mai avuto timore di non
farcela. Mi scoraggiavo solo quando si ammalava un bambino, perché poi si
ammalavano anche gli altri due.
224
C’erano cose che una donna incinta doveva evitare?
Ricordo solo che non si potevano portare catenine, per evitare che il
bambino nascesse con il cordone ombelicale al collo. E poi si diceva che se
una donna incinta aveva voglia di qualcosa, doveva mangiarla, altrimenti il
bambino avrebbe avuto delle macchie. Una mia parente, vedendo del vino,
ne ha chiesto un bicchiere all’oste. Poi ne ha voluto un altro. L’oste però le
ha detto: “Signora, non vorrà ubriacarsi!”. Così quella donna non ha bevuto
e il figlio è nato con una macchia di vino in viso. Se si stava mangiando e
arrivava una donna incinta, le si offriva ciò che c’era in tavola, per non
suscitarle voglie.
Erano permessi i rapporti sessuali durante la gravidanza?
Si faceva un po’ di attenzione. Io, prima di concepire la mia prima figlia,
ho avuto un aborto spontaneo, a due mesi, per uno spavento preso al
lavoro. L’ostetrica mi chiese se per caso avevo avuto rapporti con mio
marito, perché questi potevano aver causato l’aborto. Ma io non avevo avuto
rapporti. Mio marito mi rispettava, era abbastanza sensibile. Però c’erano
uomini che non avevano rispetto per la moglie incinta.
Recitava delle preghiere particolari in gravidanza?
Mi affidavo soprattutto alla Madonna.
Si faceva ricorso all’aborto?
Sì, c’erano anche donne di Chiesa che consigliavano alle donne di
abortire. C’erano donne che a pagamento procuravano l’aborto, usando delle
erbe.
Quando ho abortito spontaneamente, il dottore mi disse: “Tu piangi, ma
non hai colpa. Conosco molte donne qui a Venegono che hanno abortito
volendo farlo”.
C’era rispetto per una donna incinta?
Sul lavoro non molto. Anzi spesso dicevano che per una donna sposata,
per di più incinta, era meglio stare a casa. In casa mi aiutavano un po’. Mia
mamma mi lavava le lenzuola.
225
Come era considerata una ragazza incinta non sposata?
Era segnata a dito e poco aiutata.
Come veniva trattato il bimbo nato morto?
Si cercava di impartirgli una benedizione, anche se era già morto. Veniva
sepolto in terra non consacrata. Il mio l’hanno buttato; ero incinta da due
mesi, quindi non era ben formato.
Quanto durava l’allattamento al seno?
Il più a lungo possibile, anche fino ad un anno. Io non avevo latte. Per la
prima figlia ho usato anche latte in polvere, per i gemelli usavo latte fresco di
mucca, allungato con acqua.
Dopo il parto, la donna era sottoposta a restrizioni?
Doveva rispettare i quaranta giorni, cercando di non usare acqua fredda,
per evitare le emorragie. Si aveva riguardo anche nel cibo, mangiando cibi
leggeri e non piccanti. In ospedale si rimaneva per otto giorni. Durante i
quaranta giorni si cercava di rimanere in casa.
Si facevano offerte di ringraziamento?
Io ho fatto un’offerta in denaro il giorno della benedizione e poi dopo il
Battesimo.
Cos’è questa benedizione?
Si chiamava “purificazione della Madonna”. Era una benedizione
particolare, che noi donne ricevevamo dopo il parto, recandoci in Chiesa.
Prima di questa benedizione non potevamo uscire, perché eravamo impure.
Alcune per tutta la quarantena portavano calze nere: era il cosiddetto
“lutto della Madonna”. Io non l’ho mai fatto, mi sembrava una cosa stupida,
anche se ero una donna di Chiesa. Era come se il parto fosse qualcosa di
brutto.
C’era pudore, perfino troppo. Quando si allattava ci si doveva coprire il
seno con uno scialle. Oggi le donne allattano dappertutto. Noi forse
avevamo troppo pudore, oggi però è il contrario. Anche l’AIDS deriva
dall’immoralità. È vero, si può sbagliare, ma Dio perdona, la natura no.
226
Ci vuole un po’ di rispetto. Io mi sono sposata a ventinove anni, prima
passavo la mia giornata fra lavoro, casa e Chiesa. Però ero contenta. A dodici
anni ho cominciato a lavorare in fabbrica. Passavo le ferie nei campi. Si
lavorava e si cantava. Non mi pento di come ho vissuto. Eravamo contenti
così.
Come si sceglieva il nome del bambino?
Si tenevano presenti i nomi dei parenti morti. Io ho chiamato i miei figli
Giuditta, Luigi e Rosangela. Giuditta era il nome di mia suocera, Luigi il
nome di un cognato morto in guerra e Rosangela il nome di mia mamma.
Si preferiva un maschio o una femmina?
Di solito l’uomo voleva il maschio, per continuare la stirpe. Anche
l’eredità andava al figlio maschio.
Dopo quanto tempo il bimbo poteva uscire?
Di solito si rispettava anche per il bimbo la quarantena. Certo non poteva
uscire prima del Battesimo.
Quando avveniva il Battesimo? E come?
Entro gli otto giorni. Per la prima figlia l’ostetrica mi aveva consigliato di
farla battezzare in ospedale. Ma io ho voluto il Battesimo in parrocchia. Il
parroco ci teneva molto. Erano presenti, oltre a noi genitori e al padrino e
alla madrina, i parenti più stretti. Il Battesimo era individuale. Sia per la
prima figlia che per i gemelli, a casa poi abbiamo festeggiato un po’.
Che regali si facevano al bimbo?
I parenti regalavano indumenti, magliette, golfini. A volte padrino e
madrina regalavano una catenina.
Com’era il corredo?
Io l’ho ricamato tutto a mano. Sotto mettevo ai bimbi la pancierina, poi il
camicino di lino e sopra il coprifasce. Poi guantini e cuffietta. Inoltre li
fasciavo stretti, con lunghe fasce ricamate a mano. Si stendeva la “pattona” e
il “pisotin” per la pipì. Si appoggiava il bimbo e lo si fasciava tutto,
comprese le gambe. Io lasciavo loro fuori le braccia. Poi si appoggiava il
227
bimbo così fasciato su un cuscino, e si faceva un’altra fasciatura. Ricordo che
mettevo i due gemelli così fasciati appoggiati al divano, e davo il latte a tutti
e due insieme, per non farli piangere.
15 gennaio 1991.
A casa della sig.ra Francesca Negri.
Siamo presenti io e la sig.ra Negri.
Colloquio con le sorelle MEREGAGLIA GEROMINA in BIANCHI e
MEREGAGLIA CROCIFISSA in BROGGI
La prima si è sposata nel 1950. Ha avuto un figlio e una figlia (19521962). Vive a Venegono Inferiore, vicino alla sorella.
La seconda si è sposata nel 1959. Ha avuto una figlia e un figlio (19601965). Vive a Venegono Inferiore.
Cosa ricordate sul parto e sulla gravidanza?
Geromina: La mia prima gravidanza è stata tremenda. Non mangiavo
niente, stavo sempre male, però dovevo andare lo stesso in fabbrica. Ho
lavorato fino ai sei mesi. Poi, arrivato il termine, ho cominciato ad avere
piccoli dolori al venerdì sera e più forti di notte. Ho chiamato mia mamma
che mi ha detto di restare al caldo. Mi ha fatto bere del caffè con la grappa,
perché dicevano che aiutava, dava energia. Al sabato mattina mi sono alzata,
ho fatto i mestieri. Non avevo più dolori e non li ho avuti per tutto il giorno.
Sono ritornati verso le 20.00 e a mezzanotte mi hanno portato all’ospedale
di Tradate. Ma lì mi hanno fatto aspettare molto, non mi visitavano.
Crocifissa: È vero, allora facevano aspettare tanto.
Geromina: C’erano i Battesimi e così la levatrice mi ha trascurato e mi
ha fatto aspettare per ore. Finalmente mi hanno portato in sala parto, ma il
bambino non nasceva. Tutti i dolori erano scomparsi. Allora la levatrice si è
preoccupata e ha chiamato un’infermiera esperta. Questa mi ha schiacciato
più volte sulla pancia e finalmente il bambino è nato. Non c’era il medico
presente. C’erano la levatrice e un’infermiera.
228
Nel 1962 ho partorito per la seconda volta. Il secondo parto è stato più
veloce. Abbiamo chiamato l’autista alle 14.00, ma è arrivato solo alle 16.00,
mi ha portato in ospedale e la bambina è nata alle 18.00.
Crocifissa: Adesso è diverso, il marito può stare vicino alla moglie.
Allora invece tutti i famigliari venivano mandati a casa, anche quando ho
partorito io. Ci lasciavano là da sole. Io avevo paura, soprattutto la prima
volta. Ero giovane.
Quindi il marito non era presente?
Geromina: No, assolutamente. Quando ho avuto il secondo figlio, è
arrivato a mezzogiorno a mangiare. Io avevo già i dolori, ma facevo finta di
niente. Alle 13.30 è uscito ed io sono scoppiata a piangere. Ma mi ha detto di
non preoccuparmi, perché era ancora presto ed è andato lo stesso a lavorare.
Crocifissa: Quando ho partorito la prima volta mio marito era in casa,
ma perché era un giorno festivo. Per il secondo figlio non era a casa; pur
essendo sabato era andato al lavoro ed ha saputo di aver avuto un figlio solo
alle 17.00, ma io avevo partorito alle 11.30. Lui desiderava molto un
maschio. Quando è tornato mia sorella gli ha detto: “È un maschio!”. È
venuto da me con una rosa, ma io avrei voluto tirargliela in faccia. In
ospedale erano severi, non volevano i parenti. E poi gli uomini avevano
pudore.
Adesso racconto io come sono state le mie gravidanze. Mia figlia è nata
nel 1960. La gravidanza è stata difficile per i primi quattro mesi, perché
minacciavo di abortire. Così dovevo stare a riposo e farmi praticare delle
punture. Poi le cose sono migliorate nei mesi seguenti. Ho iniziato ad avere i
dolori verso le 17.00, ma non molto forti. Alla sera a letto sono diventati più
forti e frequenti, ma ho resistito fino alle 5.00 del mattino. Ho chiamato mia
mamma, perché mia suocera aveva una gamba ingessata. La mia mamma mi
ha portato il caffè con la grappa, perché diceva che facilitava il parto e
favoriva la dilatazione dell’utero.
Alle 9.00 mi hanno portato in ospedale. Mi hanno visitato e si sono
accorti che si trattava di un parto podalico, quindi ci voleva il medico. Mi
aveva accompagnato una mia zia, che però avevano subito mandato a casa.
Il giorno prima avevo delle perdite di sangue, ma sono uscita ugualmente
per recarmi in Chiesa. Mi dicevano: “Queste sono rose, dolori da niente;
229
verranno dopo le spine!”. E così io sopportavo. Quando sono arrivata
all’ospedale, il giorno dopo, i dolori erano fortissimi ed ero già dilatata di sei
cm. Ma visto quel che mi dicevano, pensavo che i dolori veri e propri
avrebbero dovuto essere molto più forti. Che ignoranza! Dalla visita hanno
visto che si trattava di un parto podalico. Sono entrata in sala parto alle 9.00
e ho partorito a mezzogiorno, col medico presente.
La bambina non piangeva, aveva sofferto, avevo aspettato troppo ad
andare all’ospedale. Avevo avuto paura, perché le mie sorelle, che avevano
partorito prima di me, mi raccontavano quanto fosse brutto rimanere da sole
di notte in sala parto. Così ho aspettato fino all’ultimo momento ad andare
all’ospedale. Vedendo che la bambina non respirava ho detto: “È morta”. Le
hanno subito fatto un bagno freddo e poi caldo, le hanno praticato la
respirazione artificiale e si è ripresa.
Durante la gravidanza ero tesa, perché rischiavo di abortire. Tutte e due
le gravidanze sono andate così, vissute con paura; così i miei figli sono nati
nervosi. Forse sono stata io a trasmettere loro questa agitazione quando
erano nel mio grembo.
Geromina: Una volta ci dicevano: “Cosa vuoi che capisca un bambino!”
e invece oggi si sa che già nel grembo materno il bambino sente cosa accade
intorno a lui. Le cose allora erano diverse. Ricordo che quando l’altra mia
sorella ha iniziato ad avere i dolori, alla fine della seconda gravidanza, era qui
a casa mia a bere il caffè. È tornata a casa ed ha avuto una forte emorragia.
Mio cognato è tornato indietro a chiamarmi ed io ho avvertito nostra
mamma, che però mi ha sgridato: “Sei matta, è presto, non ha ancora i
dolori!”. È rimasta in collera con me perché avevo fatto portare all’ospedale
mia sorella. Invece ho avuto ragione io, perché erano sorte delle
complicazioni, arrivava prima la placenta della bambina. Così mi disse
l’infermiera, ma io ero ignorante e non sapevo cosa fosse la placenta. Allora
l’infermiera mi ha detto: “Arriva prima la seconda”. Così ho capito. Ma mi ha
mandato a casa. Per fortuna poi la bimba è nata. Ma se fosse stato per mia
mamma, non avrebbe dovuto andare all’ospedale, perché era presto. Per
loro si doveva sopportare il dolore fino all’ultimo.
Crocifissa: Mia mamma aveva sofferto molto per tutti e quattro i suoi
parti e pensava che anche noi dovessimo soffrire così.
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Comunque all’ospedale non ci trattavano bene. Quando ho avuto mia
figlia, la levatrice mi diceva: “Forza, spingi!”; mi trattava male. Ero giovane,
era il primo figlio! Ero rimasta davvero male. Adesso è tutto diverso. Allora
ci tenevano a letto per otto giorni, dopo il parto. Almeno dopo il primo
parto è stato così. Così i punti si saldavano bene.
Geromina: È vero, ci tenevano a letto, non potevamo alzarci. Adesso
invece le puerpere si alzano subito. Invece allora ci portavano a letto con la
barella.
Crocifissa: La cosa più brutta era che, dopo aver visto il bambino
appena nato, tutto sporco, per ventiquattro ore non lo potevamo più vedere.
Era triste, perché dopo aver aspettato per nove mesi ero ansiosa di vedere il
mio bambino. Potevamo vederlo solo dopo ventiquattro ore.
C’erano cose che bisognava evitare in gravidanza?
Crocifissa: Mi dicevano di non portare catenine, perché il bambino
sarebbe nato col cordone ombelicale al collo. La mia nonna mi diceva anche
di non accavallare le gambe, perché l’utero poteva non svilupparsi bene.
Geromina: Dicevano anche di non passare sotto una scala, sotto dei fili
o sotto le barriere della stazione, sempre per evitare che il bambino nascesse
col cordone ombelicale attorno al collo.
Tutte mi dicevano queste cose, anche le mie coetanee. Io lavoravo a
Venegono Superiore, alla C.E.F., e dovevo passare sotto le sbarre del treno.
Mi dicevano: “Non passare di lì ché l’è minga bel” (“ché non è bello”).
Crocifissa: Se avevamo delle voglie, dovevamo soddisfarle, altrimenti il
bambino avrebbe avuto delle macchie. Mi raccontavano che una signora
incinta, mentre era in paese, ha avuto voglia di salame: è entrata dal
salumiere e se n’è fatta dare una fetta. Poi aveva ancora voglia, è entrata di
nuovo e se n’è fatta dare un’altra fetta. Ma la voglia non passava. Però aveva
vergogna ad entrare di nuovo. Si è toccata in viso e il figlio è nato con una
gran macchia in faccia.
Geromina: Sì, l’hanno raccontato anche a me. Però alcuni dicono che
sono cose non vere. Verso i due mesi, a mia figlia, è uscita una piccola
macchia sul viso, che poi si è ingrossata. Il dottore mi disse che era “una
fragola”, ma aggiunse: “Dicono che è una “voglia”, ma non è vero”. Poi è
andata via.
231
Crocifissa: Io ho delle “voglie” di caffelatte sulla schiena, ma la mia
mamma diceva che a lei il caffelatte non piaceva. Quindi non possono essere
“voglie”. Saranno macchie della pelle.
Allora si credeva così.
Ad esempio non si dovevano toccare gli animali. Io non li amavo molto,
perciò li evitavo. Ma la mia mamma mi raccontava che una signora qui di
Venegono ha tenuto in braccio il suo cane per tutta la gravidanza. Ha avuto
un figlio handicappato, con le sembianze di un cane. Eppure sia lei che suo
marito erano belle persone. Così si diceva che il bambino fosse nato così per
via del cane. Ma non so se è vero. Può essere un fatto di cromosomi.
Mi dicevano di guardare solo cose belle. A mio marito piaceva andare al
cinema ed una volta hanno proiettato un film dove c’erano facce bruttissime.
Io mi sono coperta gli occhi con una mano per tutto il tempo del film,
perché mi dicevano: “Guarda no i facc brutt” (“Non guardare le facce brutte”).
Io avevo una cartolina con un bellissimo bambino con gli occhi azzurri, e
la guardavo sempre (però nessuno dei miei figli è nato con gli occhi azzurri).
In generale, una donna incinta era rispettata?
Geromina: Era rispettata, più di adesso. Ed anche noi donne avevamo
più rispetto del nostro stato.
Crocifissa: Non facevamo viaggi, come fanno oggi molte donne incinte.
Stavamo a casa, per paura di perdere il bambino. Anche in casa ci davano
una mano. Mio marito mi lavava i pavimenti.
Invece le nostre mamme non erano rispettate. Andavano in campagna
fino all’ultimo. La mia mamma è rimasta incinta di me a 39 anni. All’inizio
non era sicura di essere incinta. È andata in farmacia a Tradate e ha spiegato
di avere delle perdite di sangue. Il farmacista le ha dato un purgante molto
forte, dicendole: “Signora, se è incinta il bambino non si stacca, se invece è
un semplice ritardo, con questa medicina starà meglio”. Così è andata in
campagna a fare il fieno, dicendo: “Il farmacista mi ha detto che se è
attaccato è attaccato, se invece non lo è, passerà”. Invece era incinta, e poi
sono nata io. Non si curavano molto.
Geromina: Ma anche noi non facevamo tutti gli esami che si fanno oggi,
dal ginecologo.
232
Crocifissa: Sì, è vero. Ad esempio si andava a fare la visita dal
ginecologo solo a sei mesi, per rimanere a casa dal lavoro, e poi a otto mesi,
non come oggi tutti i mesi.
Quando sono andata a fare la visita a otto mesi per la seconda
gravidanza, il ginecologo mi ha detto di fare l’esame per il fattore RH. È
risultato che io avevo l’RH negativo e mio marito l’RH positivo. Mi sono
spaventata molto. Leggevo sull’enciclopedia che cosa sarebbe potuto
capitare. Invece per fortuna il bambino era sano. Eravamo ignoranti su
queste cose. Erano i primi tempi in cui venivano fatti questi esami.
Geromina: Non sapevamo neppure cos’era l’RH. Gli esami del sangue
ce li faceva il medico.
Crocifissa: Da un lato era meglio così. Si viveva più tranquille.
Facevamo la nostra visita a otto mesi e basta. Invece oggi ci sono tantissimi
esami da fare: tutti i mesi c’è il controllo dal ginecologo.
Geromina: Per la prima gravidanza, io non ho nemmeno fatto la visita a
otto mesi. A sei mesi sono andata alla “Mutua” per chiedere l’aspettativa e
poi la levatrice mi ha visitato quando sono andata in ospedale per partorire.
Invece per la seconda gravidanza ho fatto u1na visita di controllo dal
ginecologo a otto mesi.
Si usavano amuleti o qualcosa di simile?
Crocifissa: In gravidanza portavamo in tasca un’immagine della
Madonna come protezione. La mia nonna mi diceva di recitare un Pater, Ave,
Gloria a Santa Liberata, che era la protettrice delle partorienti.
Geromina: Nella carrozzina del bambino si teneva un’immagine della
Madonna, oppure si appendeva un angioletto. Oppure attaccavamo delle
medagliette sacre sulla maglietta del bambino. Le cucivamo dalla parte del
cuore.
Crocifissa: Io attaccavo le medagliette anche sul bavaglino e sotto il
cuscino del bambino mettevo la corona del rosario. Era una specie di
protezione.
Si praticavano aborti? La donna si faceva aiutare o agiva da sola?
Crocifissa: Sì, c’erano donne che aiutavano ad abortire soprattutto le
ragazze giovani, almeno così si diceva in paese. Usavano infusi di
233
prezzemolo, oppure davano da bere il sale amaro. A volte procuravano
l’aborto con gli aghi da maglia. Così si sentiva dire.
Che atteggiamento si aveva verso le ragazze madri?
Crocifissa: Non venivano aiutate. Erano malviste. Se una ragazza si
sposava incinta non suonavano nemmeno le campane! Oggi invece diciamo:
“Meno male che non l’ha buttato via!”.
Con me alla Sordelli lavorava una ragazza non del tutto normale e un
uomo aveva approfittato di lei, mettendola incinta. Noi colleghe abbiamo
cercato di aiutarla, perché era completamente sola. Però aveva tenuto la
bambina.
Durante la gravidanza erano permessi i rapporti sessuali?
Geromina: Dicevano che erano meglio evitarli, perché il bambino
avrebbe potuto risentirne.
Crocifissa: Io evitavo di avere rapporti, perché, avendo problemi
all’utero, temevo di perdere il bambino. Però al lavoro c’erano donne che
raccontavano di avere rapporti anche durante la gravidanza.
Geromina: Anzi dicevano che “l’era ‘l bun” (era il momento buono),
perché l’uomo poteva lasciarsi andare liberamente senza paura che la moglie
rimanesse incinta. Io non la pensavo così. Poi dipendeva anche dalla
sensibilità dell’uomo.
C’erano modi per indovinare il sesso del nascituro?
Crocifissa: La mia nonna mi diceva: “Pancia güzza non porta cappel”,
cioè se la pancia era piuttosto appuntita, sarebbe nata una femmina.
Quando ero incinta della Elena, una mia conoscente mi diceva che, se
avevo sentito il bambino per la prima volta a destra, sarebbe nata una
femmina, e così è stato. Quando aspettavo l’Enrico, lo sentivo sempre a
sinistra. Sarà anche un caso, però è successo così. Poi quando aspettavo il
maschio, avevo proprio una faccia da uomo, non avevo più i lineamenti
femminili. La mia zia mi diceva: “Ma che facia da omm!” (Ma che faccia da
uomo!).
234
Si preferiva che nascesse un maschio o una femmina?
Crocifissa: Di solito l’uomo preferiva un maschio come primo figlio. Poi
andava sempre bene.
Che sorte toccava ad un bambino nato morto?
Geromina: Mi sembra che ricevesse una semplice benedizione. Non gli
si faceva il funerale. Ci dicevano che i bambini morti senza Battesimo
andavano al Limbo.
Crocifissa: Ricordo che una signora di Venegono ha avuto vari bimbi
nati già morti. Li portavano al cimitero in una cassettina, senza funerale.
Quanto durava l’allattamento al seno?
Geromina: Io ho allattato il primo figlio fino ai tre mesi, però non so
quanto mangiasse. Allora non li pesavamo dopo ogni poppata, ma una volta
ogni tanto. La bambina l’ho allattata solo fino a quaranta giorni. Ma alcune
donne allattavano anche fino ad un anno.
Crocifissa: Io non avevo latte. Comunque chi ne aveva, allattava il più a
lungo possibile.
Come si comportava la donna nei giorni successivi al parto?
Crocifissa: Potevamo uscire di casa solo dopo aver ricevuto la
benedizione, che ci veniva impartita il giorno del Battesimo, dopo la
cerimonia. La mia mamma mi raccontava che ai suoi tempi dopo il parto le
donne dovevano vestirsi di nero per quaranta giorni. Era il “lutto della
Madonna”. Portavano un grembiule nero e un foulard nero in testa.
Geromina: Io ricordo che non si poteva uscire di casa, se non dopo aver
ricevuto la benedizione. Ci dicevano anche di non lavare nei quaranta giorni
dopo il parto, anche se poi si doveva farlo per forza.
Crocifissa: Non so bene che senso avesse questa benedizione, anche
perché non capivamo il latino. Forse eravamo impure per il fatto di aver
partorito.
Terminata la cerimonia del Battesimo, la donna da sola si inginocchiava
davanti all’altare e il parroco la benediceva. Leggeva tutte le litanie dei Santi e
noi ascoltavamo in ginocchio, con un velo nero in testa.
235
Geromina: Nei quaranta giorni ci si riguardava anche nel cibo.
Bisognava evitare i cibi piccanti.
Crocifissa: Si cercava di mangiare in bianco. Al ritorno dall’ospedale, la
mia mamma mi faceva trovare pronta la gallina lessa e mi faceva bere il
brodo. Poi mangiavo pancotto e zuppe. Anch’io ho rispettato i quaranta
giorni, pur non allattando. Per lavare mi mettevo i guanti, soprattutto
d’inverno.
Dopo la nascita si facevano offerte di ringraziamento?
Crocifissa: Dopo il Battesimo si faceva un’offerta in denaro. Io avevo
fatto un voto a San Giovanni Bosco, a cui mio marito era devoto, per avere
un maschio. Così quando è nato ho mandato un’offerta ai Salesiani. Il
maschio infatti si chiama Enrico Giovanni.
Geromina: Si faceva un’offerta in denaro, secondo le proprie possibilità.
Come veniva scelto il nome del bambino?
Crocifissa: Io ho preso in considerazione il nome dei miei parenti. Una
mia zia si chiamava Enrichetta e diceva sempre: “Se muoio io, nessuno
erediterà il mio nome”. Ed io le dicevo: “Non disperare, zia, se avrò un
figlio lo chiamerò come te”. Poi è morta e l’anno dopo io sono rimasta
incinta per la seconda volta. È nato un maschio e l’ho chiamato Enrico.
Invece Elena l’ho scelto liberamente.
Geromina: Io ho chiamato mio figlio Alessandro, perché così ha voluto
mia suocera; infatti una sua sorella morta si chiamava Alessandra. La
bambina l’ho chiamata Anna Maria. A me piaceva Anna, ma ho dovuto
aggiungere Maria, il nome di mia suocera, che era ancora viva. Ma sarebbe
piaciuto anche il nome Sara, ma ho dovuto accontentare mia suocera.
Dopo quanto tempo il bambino poteva uscire di casa?
Crocifissa: Quasi sempre si rispettavano i quaranta giorni e certo non
poteva uscire prima del Battesimo, che avveniva dopo otto-dieci giorni al
massimo. Soprattutto d’inverno si rispettavano i quaranta giorni. Faceva
freddo, non c’erano le tutine imbottite come ora. Non tornerei indietro
assolutamente.
236
Com’era il corredo?
Crocifissa: Lo facevamo tutto da sole. Ricordo che soprattutto per la
figlia ho ricamato un bellissimo corredo. Era la mia passione. Ho fatto
bavaglini, camicini, coprifasce, golfini.
Sotto si metteva il camicino di lino, per non irritare la pelle, poi la
maglietta, il golfino e il coprifasce.
Geromina: Per il primo figlio io ho usato anche la pancierina.
Crocifissa: Anch’io per la Elena. Era l’ospedale stesso a richiederla.
E poi c’era la fasciatura, con fasce di piqué. Per la figlia ho usato anche il
cuscino, quindi una doppia fasciatura, invece per il maschio una fasciatura
sola. Però lasciavo fuori le braccia. Il cuscino si usava solo fino ai tre mesi,
poi si lasciava una sola fascia fino a sei – sette mesi e quando il bambino
cominciava a sgambettare si toglieva la fasciatura, ma si lasciava una piccola
fascia bassa in vita fino ad un anno. Almeno, io ho fatto così per la Elena.
Per il maschio, cinque anni dopo, le cose erano già diverse. La fasciatura
serviva a tenere diritta la spina dorsale.
Geromina: Per il primo figlio io ho usato la fasciatura completa,
fasciando anche le braccia. Per la figlia no, le lasciavo le braccia fuori.
Come si svolgeva il Battesimo?
Crocifissa: Era individuale e molto veloce, non c’erano grandi
cerimonie. In chiesa erano presenti solo i genitori e padrino e madrina. A
casa poi si faceva una piccola festa con gli altri parenti.
Geromina: Sì, il parroco dava il camicino e la candela, come oggi. Però
era tutto più breve.
Che regali si facevano al bambino?
Crocifissa: Il padrino e la madrina gli regalavano la catenina. Le mie
sorelle hanno regalato ai miei figli una spilletta.
Geromina: Invece a noi donne regalavano il marsala o una scatola di
biscotti.
Crocifissa: Sì, le varie zie che venivano a trovarmi non portavano regali
al bambino, ma il marsala per me e mi dicevano di berlo, perché mi faceva
bene: “Al tira su un po’”.
237
23 ottobre 1991.
A casa della sig.ra Meregaglia Crocifissa.
Siamo presenti io e le due sorelle Meregaglia.
Colloquio con la signora CREMONA INNOCENTINA in GUENZANI.
È la prima di quattro figli. Ha vissuto prima nel cortile della sua famiglia,
si è sposata nel 1948, abitando col suocero ed il cognato. Ha avuto una figlia
nel 1950. Da giovane ha lavorato come operaia tessile presso la ditta
“Castellanzese”.
Cosa ricorda sulla gravidanza e sul parto?
Io ho partorito in ospedale a Tradate, dove c’era da pochi anni il reparto
di maternità, assistita dall’ostetrica (Rosina) e da alcune infermiere.
Il parto ha avuto buon esito; invece ho avuto problemi per l’allattamento,
perché non avevo latte. Così ho usato latte artificiale e pappe.
C’erano pratiche particolari per tutelare la salute della donna?
In gravidanza mi dicevano di non alzare pesi, di non fare lavori pesanti.
Ma non potevo, perché vivevo in famiglia, con tre uomini: mio marito, mio
suocero e mio cognato.
Poi nei quaranta giorni dopo il parto non si doveva lavare o bagnare le
mani, per evitare i reumatismi. Ma io non potevo permettermelo.
C’erano cose che una donna incinta doveva evitare?
Sì, ad esempio mi dicevano di non portare collane o catenine, perché il
bambino sarebbe nato col cordone ombelicale attorno al collo. Poi non si
dovevano guardare persone deformi, perché si pensava che il bambino
avrebbe risentito dello spavento. Ricordo di essere stata al cinema mentre
ero in stato interessante. In una scena si vedeva il gobbo di Notre Dame che
si gettava dalla cattedrale. Una mia parente, seduta vicino a me, mi ha
coperto gli occhi con una mano, dicendo che avrei potuto spaventarmi.
So che alcune donne usavano degli amuleti, ma io non ho mai creduto a
queste cose.
238
E la fasciatura stretta era ancora utilizzata?
Sì, ma io non ho mai fasciato mia figlia. La mia mamma mi aveva dato
tutto l’occorrente: le “pattone”, le fasce alte. Aveva tagliato a metà alcune
delle fasce più alte (che erano quelle usate per noi figli), ma non ho usato
nemmeno quelle.
Nonostante ciò la bambina è cresciuta bene, ben diritta.
Da cosa era composto il corredo?
C’erano magliette di lana a manica lunga e corta, i camicini di lino, i
golfini. Poi si usava la cuffietta, e al bambino si metteva anche una
pancierina per il freddo.
Dopo quanto tempo si poteva portare fuori il neonato?
Consigliavano di farlo uscire dopo quaranta giorni. Prima lo si portava
fuori solo per il Battesimo, che veniva impartito il più presto possibile. La
mia bambina fu battezzata in ospedale, otto giorni dopo la nascita. In quel
periodo molti bambini venivano battezzati lì per comodità.
Chi era presente al Battesimo?
Noi genitori e il padrino e la madrina, cioè mio suocero e mia mamma.
Alla sera abbiamo festeggiato un po’ in casa con una cena informale, a cui
hanno partecipato anche i miei fratelli e le mie sorelle. Il padrino e la
madrina le hanno regalato una catenina.
Si diceva che un bambino nato morto, quindi senza aver ricevuto il
Battesimo, andava al Limbo. Veniva sepolto in terra non consacrata. Se
invece un bambino moriva dopo la nascita e aveva ricevuto il Battesimo, gli
si faceva un funerale regolare. Dopo il Battesimo, la madre faceva un’offerta
di denaro in Chiesa, per ringraziamento.
Durante la gravidanza si facevano preghiere particolari? E dopo il parto?
In gravidanza io pregavo Santa Liberata, perché mi avevano assicurato
che aiutava ad avere un parto veloce.
Dopo il parto, entro i quaranta giorni, al ricomparire della prima
mestruazione, ci si recava in Chiesa per ricevere la benedizione, perché la
donna era ritenuta impura. Anche nella Bibbia si dice che la donna mestruata
239
è impura. Non ci si poteva accostare ai sacramenti, prima di aver ricevuto la
Benedizione della Madonna.
Poi io pregavo la Madonna di Pompei. Avevo fatto voto di donarle un
paio di orecchini, se fosse nata una bambina. Così, quando Marina aveva
otto anni, sono andata in pellegrinaggio a Pompei e le ho donato gli
orecchini.
Come si sceglieva il nome del bambino?
Di solito in base alle parentele. Io avrei voluto chiamarla Maria Rosaria,
in onore della Madonna; poi l’abbiamo chiamata Marina Rosaria, perché mia
suocera si chiamava Marina.
Tornando alla gravidanza, ricorda qualcosa delle “voglie”?
Sì, molto bene. Mi dicevano di mangiare tutto ciò di cui avevo voglia,
perché altrimenti il bambino sarebbe nato con delle macchie sulla pelle. Non
ci si doveva toccare in faccia quando non si potevano soddisfare queste
voglie, così la macchia sul bambino non sarebbe apparsa in viso.
In gravidanza poi non si potevano avere rapporti sessuali completi. Era
considerato peccato. L’atto sessuale era legato solo alla procreazione. La
donna il più delle volte doveva subire.
C’erano delle donne che ricorrevano all’aborto?
So di gente che ha fatto ricorso all’aborto. C’erano donne che, se volevi,
ti insegnavano ad abortire con degli aghi da maglia. Oppure si usavano infusi
molto concentrati di prezzemolo. Alcune donne si buttavano dal fienile per
perdere il bambino, soprattutto se ne avevano già molti.
La mia nonna mi diceva che si abortiva già cento anni fa.
La sua nonna le ha mai raccontato qualcosa delle sue gravidanze?
Sì. Il quarto figlio è nato prematuro. Per salvarlo lo ha sistemato in una
scatola di scarpe e poi nel forno tiepido, in modo da creare una sorta di
incubatrice.
Spesso i figli nascevano indesiderati, anche se poi venivano accettati ed
amati. Le nostre mamme raccontavano che spesso i figli erano concepiti
contro la loro volontà, magari quando il marito era ubriaco. Erano tempi di
240
grande miseria. Oppure la mia nonna raccontava che ha concepito tutti i
suoi figli nel periodo invernale, quando il marito tornava dalla Francia dove
lavorava.
La donna allora non era stimata. Per la mia generazione le cose erano già
diverse; almeno, per me lo sono state. Pur non essendo particolarmente
“coccolata” durante la gravidanza, anzi, pur avendo dovuto sgobbare, ho
perlomeno concepito responsabilmente mia figlia.
29 ottobre 1991.
A casa della sig.ra Cremona Innocentina.
Siamo presenti io e la sig.ra Cremona.
Colloquio con la signora AIROLDI CARLA in BIASETTI.
Si è sposata nel 1950. Dal 1950 al 1955 ha vissuto a Palazzolo (MI), dove
ha avuto il suo primo figlio. Dal 1955 risiede a Venegono Inferiore.
Cosa ricorda sulla gravidanza e sul parto?
Le mie due gravidanze sono state abbastanza buone. Ho avuto qualche
problema al momento del parto. Ho partorito il primo figlio in casa, il
secondo invece all’ospedale di Tradate. Il primo figlio è nato nel 1952, il
secondo nel 1955.
Cosa ricorda del parto in casa?
Erano presenti mia suocera, mia cognata, una vicina di casa piuttosto
esperta e la levatrice. Mio marito ha aiutato nei preparativi.
In gravidanza c’erano cose che una donna doveva evitare? E dopo il parto?
C’erano alcune superstizioni. Dicevano di non portare catenine o collane
durante la gravidanza, perché il bambino sarebbe nato col cordone
ombelicale attorno al collo.
Non si dovevano guardare gli animali, perché il bambino ne avrebbe
assunto le sembianze. A Venegono c’è stato il caso di una donna che per
tutta la maternità ha tenuto in braccio un cane. Il bambino è nato
241
handicappato e ha le sembianze di un cane. Non si dovevano nemmeno
guardare persone handicappate o anormali. Dicevano inoltre di non
concepire un figlio quando il marito era ubriaco, perché il bambino non
sarebbe nato sano.
Dopo il parto c’era la quarantena. La donna doveva evitare il freddo e
doveva vestirsi di nero perché era in peccato. Nei quaranta giorni si doveva
seguire una certa dieta, costituita da pancotto piuttosto liquido, brodo e in
seguito gallina lessa.
Dicevano che c’è un’ora sola, durante i quaranta giorni, che può essere
fatale alla donna. Quindi la donna deve sempre curarsi e stare ad un certo
regime, perché non può sapere quando arriva quella specifica ora. Questo
era detto anche in un libro che io avevo letto, Memorie di una levatrice.
Durante la gravidanza si potevano avere rapporti sessuali?
No, era meglio evitarli, per non nuocere al bambino. E anche nei
quaranta giorni dopo il parto ci si asteneva dal rapporto.
Usava degli amuleti in gravidanza?
Io non li ho mai usati. Non credevo a queste cose. Tenevo solo un
angioletto appeso alla carrozzina, dopo la nascita del bambino.
Si esprimevano preferenze circa il sesso del nascituro?
Di solito si desiderava un maschio. Io avrei voluto una femmina, invece
ho avuto due maschi.
Come venivano considerate le donne incinte non sposate?
Molto male. Erano davvero maltrattate. Qui a Venegono c’è stato il caso
di una ragazza che è rimasta incinta. Tutti i parenti l’hanno scacciata. Poi un
istituto di suore l’ha accolta e lì ha avuto il bambino. Poi è stato il parroco
che ha cercato di sistemare la situazione, e dopo cinque anni il padre l’ha
sposata.
Si praticavano aborti?
Dicevano che c’erano in paese e fuori delle “megere” che praticavano
l’aborto con aghi da maglia, spesso provocando infezioni alla donna. Oppure
usavano degli infusi, almeno così si diceva in paese.
242
Se un bambino nasceva morto, che sorte subiva?
Veniva sepolto, ma senza funerale. Di solito era il padre a portarlo al
cimitero in una cassettina. Se invece il bimbo era stato battezzato, magari in
extremis dalla levatrice, gli si faceva il funerale.
Quali erano i preparativi per il parto in casa?
Si preparavano molte pentole d’acqua calda, per lavare il bambino e
disinfettare la donna. Mi avevano sistemato sul letto con un cuscino dietro la
testa.
Chi annunciava ai famigliari la nascita?
La levatrice e poi il padre.
Dopo quanto il bambino poteva uscire?
Dopo quaranta giorni, per evitare che si ammalasse. E poi non poteva
uscire senza aver ricevuto il Battesimo, perché era considerato “figlio del
diavolo”, ancora macchiato dal peccato originale. Il Battesimo veniva
impartito al più presto, entro gli otto giorni, se possibile.
Se il bambino si ammalava di broncopolmonite, poteva morire. Così al
momento del Battesimo, soprattutto d’inverno, si andava in Chiesa con la
borsa dell’acqua calda per scaldare il bambino.
Da cosa era composto il corredo?
C’erano la pancierina, le magliettine di lana, il camicino di lino, i golfini di
lana, la cuffietta e i guantini, di tela e di lana, e le scarpine.
Com’era la fasciatura?
Era abbastanza complicata. Per il primo figlio ho usato la doppia
fasciatura, quella sul bambino e quella attorno al cuscino su cui il bambino
era appoggiato. Mi dicevano di fasciargli anche le braccia, ma io non l’ho mai
fatto. Invece per il secondo figlio non ho usato il cuscino e ho utilizzato
fasce meno alte.
Si procedeva così: sotto si metteva la fascia molto lunga, poi la “pattona”
di piqué, il patello di tela e un’altra pezza di lana per assorbire meglio la pipì.
Tutto veniva richiuso attorno al bambino e si fasciava il tutto. Poi lo si
appoggiava così sul cuscino e lo si fasciava ancora con una fascia ricamata.
243
Quando si sfasciava il bambino, gli si lasciava comunque una fascia
leggera, fino a circa un anno e mezzo, per tenerlo ben diritto. Poi gli si
fasciava la vita, finché camminava. L’altra fasciatura, quella completa, si
faceva fino a sei mesi, gambe comprese.
Come si svolgeva il Battesimo?
In modo molto semplice. Era singolo e si svolgeva alla presenza dei
genitori, del padrino e della madrina e di qualche parente. È stato così per
entrambi i miei figli. A casa poi si faceva una piccola festa.
C’erano preghiere particolari che la donna recitava?
Durante la gravidanza ci si affidava soprattutto alla Madonna.
Dopo il parto, entro i quaranta giorni, la madre doveva recarsi in Chiesa a
ricevere la benedizione, per essere purificata dallo stato di peccato.
Si faceva qualche offerta particolare?
Si faceva in Chiesa un’offerta in denaro e poi un’offerta a Sant’Agata,
protettrice delle donne.
Che ruolo aveva l’uomo?
Allora l’uomo era un po’ rude, aveva un’altra mentalità. Mio marito però
mi è stato vicino e ha collaborato, ma solo ai preparativi per il parto in casa.
Quanto durava l’allattamento?
Il più a lungo possibile, anche fino ad un anno e più. Io però non ho mai
allattato. Avevo un latte cattivo. Così ho usato latte di mucca, che scremavo
e diluivo con l’acqua gradatamente.
Ai tempi di mia mamma, se una donna aveva molto latte teneva a balia
altri bambini.
Come si sceglieva il nome del bambino?
Di solito in base al nome dei nonni.
244
Si usava riguardo verso le donne incinte?
Sì, abbastanza. Di solito ci esoneravano dai lavori pesanti o dal lavare.
Inoltre bisognava evitare di fare il bagno, soprattutto nei primi mesi di
gravidanza, perché l’acqua troppo calda può provocare l’aborto.
Quando veniva fatto il primo lavaggio al bambino?
Appena nato la levatrice lo lavava. Poi gli si faceva il primo bagnetto
dopo otto giorni.
26 settembre 1991.
A casa della sig.ra Airoldi Carla.
Siamo presenti io, la sig.ra Airoldi e a volte il marito.
Colloquio con la signora CREMONA ANTONIETTA in PERON.
I suoi genitori sono entrambi di Venegono Inferiore. È nata a Milano,
perché allora solo in città il reparto di Maternità forniva assistenza gratuita
(nella maggior parte dei casi si partoriva ancora in casa).
Ha sempre vissuto e vive tuttora a Venegono Inferiore. Si è sposata nel
1956. Ha avuto quattro figli maschi (1956-1960-1963-1966).
Cosa ricorda sul parto e sulla gravidanza?
Ricordo che continuavo a lavorare fino al sesto mese di gravidanza. Solo
al sesto mese ci si recava dall’ostetrica per una visita di controllo richiesta
dalla ditta. Poi, se era necessario, si veniva visitate una seconda volta prima
di entrare in sala parto. Non c’erano tutti i controlli e gli esami di oggi.
Tra l’altro attorno alla gravidanza c’erano molti tabù. Si aveva pudore a
parlarne persino con la mamma.
Che ruolo aveva il marito?
Non partecipava all’evento, anche perché in ospedale non poteva
rimanere nessun parente. E poi l’uomo non aveva la sensibilità di oggi. Si
vergognava, era impreparato ad affrontare problemi di questo tipo. E anche
la donna non osava parlargli di certe cose. Si aveva pudore.
245
Ho partorito i miei quattro figli all’ospedale di Tradate, senza molte
complicazioni.
Cosa non poteva fare una donna incinta? Cosa doveva evitare?
Mi dicevano di non mettermi collane o catenine, perché il bambino
sarebbe nato col cordone ombelicale attorno al collo. Mi dicevano anche di
non saltare i fossi, perché poteva essere pericoloso. Oppure di non mettere
cinture strette in vita, perché il bambino ne avrebbe risentito.
Era proibito guardare e toccare gli animali, non solo per evitare le
malattie, ma anche perché si temeva che il bambino avrebbe assunto le
sembianze dell’animale. A Venegono si è verificato un caso simile: una
donna per tutta la gravidanza ha tenuto in braccio il cane e il bambino, nato
handicappato, ha davvero dei tratti simili a quelli di un cane. Così si dice in
giro.
Mi dicevano di mangiare tutto ciò di cui avevo voglia e se non potevo
farlo, mi dicevano di non toccarmi, perché il bambino avrebbe avuto delle
macchie sulla pelle. Erano le cosiddette “voglie”, o “macchie di caffelatte”.
Tornando al parto, ricordo che il marito arrivava a parto finito. Ai parenti
non era nemmeno permesso rimanere in sala d’attesa.
Quando si arrivava in ospedale, ti sistemavano in corsia con tutti gli altri,
poi ti portavano in sala parto, anche se non era il momento. Non c’era la sala
travaglio. Quando dovevo partorire il secondo figlio, avevo il terrore della
sala parto di notte, di cui mi era rimasto un ricordo terrificante. Era una
saletta opprimente. Era la levatrice ad assistere. Il medico interveniva solo in
casi eccezionali. Per i primi tre parti, ricordo che era sempre la stessa
levatrice ad essere presente, giorno e notte. Invece per il terzo parto (1966)
si alternavano due levatrici. Ma il medico non c’era. Quando ho partorito il
secondo figlio, si è resa necessaria una sutura. È stata la levatrice stessa a
praticarmela, a mente sana. Mi aveva fatto partorire in anticipo. Se avessi
aspettato ancora un po’, avrei partorito naturalmente. C’era anche una suora
ad assistere.
In gravidanza usava amuleti o qualcosa di simile?
Amuleti no. Tenevo appesa alla maglietta una medaglietta della Madonna
(avevo dovuto togliere la catenina dal collo).
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Recitava preghiere particolari?
Mi sono sempre affidata alla Madonna, di cui sono molto devota e che è
una mamma.
La donna incinta era rispettata o no?
Sì, molto. Le venivano evitati i lavori pesanti. La donna stessa si
riguardava, sapendo di portare in grembo una vita.
Si faceva o meno ricorso all’aborto?
In paese si sentiva dire che c’erano delle “megere” che praticavano
l’aborto. Ricorrevano a clisteri d’aceto, almeno così si diceva. Ma erano cose
nascoste. Quando poi nella famiglia di una donna che aveva abortito
volutamente accadeva qualche disgrazia, si diceva: “Ecco, il Signore l’ha
punita!”.
Che atteggiamento si aveva verso donne incinte non sposate?
Erano segnate a dito. Al massimo erano i genitori ad occuparsi di loro.
C’erano modi per indovinare il sesso del nascituro?
Secondo la levatrice, se il battito del cuore del feto era debole, sarebbe
nata una femmina. Dopo la visita durante la terza e la quarta gravidanza, a
giudizio della levatrice avrei dovuto partorire delle femmine, sentito il
battito. Invece ho avuto altri due maschi.
Tiravano ad indovinare. Guardavano la forma della pancia. Se era alta
sarebbe nato un maschio, se era bassa, una femmina. Se il viso della donna
gravida era bello, senza chiazze, sarebbe nato un maschio, altrimenti una
femmina.
Si esprimevano preferenze circa il sesso del nascituro?
No, forse il maschio era più desiderato perché poteva aiutare il papà nel
lavoro.
Come era trattato il bimbo nato morto?
Non avendo ricevuto il Battesimo, si riteneva che andasse al “Limbo”.
Quindi non gli si faceva il funerale. Il padre andava all’ospedale a prendere la
cassettina, che poi veniva portata al cimitero, ma senza il funerale.
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Segue un’interruzione, causata dall’arrivo di due amiche della sig.ra Cremona. Nasce
una discussione sulle “voglie”.
Altri ricordi?
Sì, portavo dei vestiti molto larghi, per nascondere la pancia. Avevo
anche una certa vergogna a farmi vedere. Mi dicevano: “Non uscire così!”.
Magari il primo bambino scappava fuori a giocare ed io, incinta, mi
accingevo ad uscire per riportarlo in casa. Ma le vicine più anziane mi
dicevano: “Non farti vedere nelle tue condizioni, andiamo noi!”. Mi hanno
fatto provare vergogna per quattro volte, per un evento come la gravidanza,
che è invece così bello.
Ricordo che a dodici anni vidi mia mamma che cuciva una fascia. Le ho
chiesto se aspettava un bambino, ma mi ha risposto di no. Quando poi
doveva partorire, mi hanno mandato a dormire dalla nonna. Al mattino mi
sono recata dal panettiere, che mi ha detto: “Allora ti hanno accorciato il
camicino!”. Ho pianto. Ho odiato mia mamma, perché mi aveva nascosto
per tutto quel tempo il fatto che avrei avuto una sorella, perché poi è nata
una sorella. Io sospettavo, ma nessuno diceva nulla.
Mi sono sposata sapendo ben poco sul parto. Mia mamma aveva pudore
a parlare di certe cose. Ho saputo qualcosa dalla mia nonna. Quando dovevo
partorire per la prima volta, ho chiesto qualche spiegazione a mia mamma,
ma mi ha risposto: “Tu va’ all’ospedale e poi là fa’ tutto quello che fanno le
altre”. Pensandoci mi viene il magone, ma allora era così.
Quanto durava l’allattamento al seno?
Se una donna aveva latte poteva allattare anche fino ad un anno. Era
molto importante poter allattare, perché c’era un solo latte artificiale (Guigoz)
che il bambino poteva anche rifiutare. C’era la farmacia solo a Venegono
Superiore.
Dopo il parto la puerpera era sottoposta a restrizioni?
Si evitavano cibi che potevano alterare il sapore del latte. Si rispettava la
quarantena: non potevamo uscire prima dei quaranta giorni, perché si
temeva il prolasso uterino. Si evitava anche di lavare troppo. In ospedale ci
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facevano alzare solo otto giorni dopo il parto. Per l’ultimo figlio le cose
erano già diverse, ci si poteva alzare prima.
La quarantena andava rispettata anche perché prima di uscire si doveva
ricevere la benedizione.
In che cosa consisteva questa benedizione?
Il giorno del Battesimo la donna riceveva, accostandosi all’altare, in
ginocchio, questa benedizione post partum. Serviva ad essere liberate dal
peccato legato al fatto di aver concepito un bambino. Non si poteva uscire
prima di essere state “segnate”.
Si facevano offerte di ringraziamento?
Si usava fare un’offerta in denaro per il Battesimo. Io destinavo l’offerta
per battezzare un bambino in Africa, con lo stesso nome del mio bambino.
L’ho fatto per tutti e quattro i miei figli.
Il nome del bambino era scelto liberamente oppure in base a quello dei parenti?
Di solito si sceglieva in base a quello dei nonni, se erano defunti. Io non
condividevo molto questa scelta, ma mio marito ha voluto così. Se il nome
non era molto bello, lo si dava come secondo nome.
Quando avveniva il Battesimo, e come?
Il Battesimo avveniva al più presto, entro gli otto giorni. Era individuale,
non comunitario. Si svolgeva alla presenza dei genitori, del padrino e della
madrina, al massimo erano presenti gli altri bambini, se c’erano. A casa si
festeggiava con un bicchiere di vino, ma niente di più.
Dopo quanto tempo il bimbo poteva uscire?
Mai prima del Battesimo, perché il bimbo era in stato di peccato
originale. Ci si scandalizzava se qualche mamma portava fuori il figlio prima
del Battesimo. Era uno scandalo. Si rispettavano i quaranta giorni.
Da cosa era costituito il corredo?
Era molto bello e la mamma lo preparava di persona. Il bambino veniva
fasciato. Si disponeva la fascia, poi la “pattona”, il patello e il triangolo e si
richiudeva il tutto sul bambino. Per il primo figlio ho usato anche il cuscino,
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su cui il bambino già fasciato veniva appoggiato e poi fasciato una seconda
volta, cuscino compreso. Qualcuno chiudeva nelle fasce anche le braccia, io
no, lo chiudevo fino in vita. Per l’ultimo figlio ho usato solo una fascia in
vita. Per gli altri tre ho fasciato anche le gambe.
La fasciatura serviva a tenere caldo il bimbo (non c’erano i riscaldamenti)
e poi a tenere diritta la spina dorsale. Il cuscino si usava fino a tre mesi. La
fasciatura poteva continuare fino ai primi sei mesi, perlomeno quando il
bambino veniva messo a dormire, così se si bagnava rimaneva caldo. Sul
bambino si metteva una pancierina di lana, poi il camicino di lino a contatto
della pelle, la maglietta, il golfino e il coprifasce ricamato, fino a sette-otto
mesi, oppure più tardi si metteva il grembiulino. Si usavano anche guantini e
cuffietta, se si usciva.
Che regali si davano al neonato?
Niente di particolare. Al massimo il parroco regalava un quadretto il
giorno del Battesimo, per ricordo. Chi riceveva un braccialettino d’oro era
un privilegiato.
C’erano distinzioni per il primogenito?
Al momento della nascita, no. Quando era più grande, gli si davano più
responsabilità rispetto agli altri.
Se la donna moriva di parto, a chi era affidato il bambino?
Di solito ai nonni paterni, che lo crescevano.
23 ottobre 1991.
A casa della sig.ra Cremona Antonietta.
Siamo presenti io e la sig.ra Cremona.
Per qualche minuto è stata presente anche una conoscente.
Colloquio con la sig.ra CATTANEO MARIA CARLA in AIROLDI.
Si è sposata nel 1962. Ha avuto due figli (1965-1968). Ha vissuto a
Venegono Superiore fino all’età di undici anni, poi a Venegono Inferiore,
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dove vive ancora oggi. Prima del matrimonio ha lavorato come operaia alla
ditta “Sordelli”.
Cosa ricorda delle sue gravidanze?
Ricordo che non si potevano fare alcune cose. Ad esempio era proibito
portare collane, catenine. Dicevano che quando si avevano delle voglie e non
si potevano soddisfare, non ci si doveva assolutamente toccare, altrimenti il
bambino sarebbe nato con delle macchie. Ma erano delle idee di una volta.
Le collane non si potevano portare, perché il bambino sarebbe nato col
cordone ombelicale al collo e sarebbe morto. Se il parto di una sarta non
riusciva e il bimbo moriva, davano la colpa al fatto che la sarta durante la
gravidanza aveva portato il metro al collo. Era una superstizione. Però
anch’io ci credevo.
Poi dicevano di non avvicinarsi agli animali, di non fissarli o toccarli,
perché il bambino ne avrebbe assunto le sembianze. A volte ci si poteva
davvero spaventare, perché nei cortili c’erano molti animali (buoi, mucche,
cavalli) e la donna incinta poteva risentirne; però era come se oggi tu fossi
investita da una macchina, cioè il trauma era provocato dallo spavento.
Mi dicevano di guardare solo i bambini belli, così anche i miei sarebbero
nati così.
E del parto cosa ricorda?
I miei due figli sono nati entrambi all’ospedale. Però con molte
differenze. In primo luogo l’assistenza, dal primo al secondo, era migliorata
davvero. Anche il modo in cui mi nutrivano era diverso: quando ho
partorito il primo figlio, mi hanno dato solo pastina e brodo, per il latte. Ed
ero in ospedale. Quando ho avuto il secondo figlio, il cibo era normalissimo,
mi davano la carne, la pasta, … Ricordo che chi partoriva a casa, poi si
nutriva per quaranta giorni con pastina, pancotto, latte e birra.
Nei giorni dopo il parto si dovevano rispettare alcune norme?
Dicevano di non uscire di casa finché il bambino non fosse stato
battezzato e la donna non avesse ricevuto la benedizione, per purificarsi, il
giorno stesso del Battesimo. Dopo il Battesimo, la mamma si inginocchiava
e veniva benedetta.
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Poi per quaranta giorni si doveva rispettare un’alimentazione blanda.
Ricorda altro?
Durante la gravidanza non si potevano portare cinture o cose strette, per
non far soffrire il bambino. Se comparivano macchie in viso, si diceva che
sarebbe nato un maschio.
C’erano preghiere particolari?
Che io ricordi, no. Io pregavo soprattutto la mia mamma.
Fasciava i bambini?
Sì, come delle specie di salami. Si fasciavano tutti, lasciando fuori solo le
braccia. Si fasciavano così, per tenere ben dritte le gambe.
Si metteva sotto una spugna quadrata, la “pattona”, poi un rettangolo di
stoffa e poi un’altra spugna più piccola triangolare, che si richiudeva sul
bambino. Si piegava il tutto tenendo dentro anche le gambe e poi si fasciava,
lasciando fuori solo le braccia. Le fasce erano alte e tutte ricamate. Poi si
appoggiava tutto il fagotto su un cuscino e si fasciava tutto di nuovo.
Com’era il corredo?
C’erano i camicini in lino; sotto si metteva una maglietta di lana. Poi
c’erano i golfini in lana e i coprifasce, sopra il golfino di lana. Ai piedi si
mettevano le babbucce. Si metteva la pancierina di lana, dopo che il cordone
ombelicale si era cicatrizzato. Sulle mani si mettevano i guantini, in lana o
cotone e in testa la cuffietta.
Ricorda qualcosa riguardo a parti avvenuti in casa?
Sì. Una mia cugina ha partorito in casa quando io avevo circa diciassette
anni. Ricordo che alla fine del parto le legarono le gambe, per evitare che i
punti si rompessero. Questo me lo raccontarono poi, perché quel giorno mi
tennero lontana da casa. Al ritorno fui colpita dalla gran quantità di
biancheria stesa.
Che ruolo aveva l’uomo?
Nessun ruolo. Ti portava in ospedale e andava. Non poteva entrare in
sala parto.
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Altri ricordi?
Dovevo mettere nella carrozzina, quando portavo fuori i bambini, sale,
ulivo e una medaglietta della Madonna, per tenere lontano l’invidia e le
streghe.
Che pratiche si adottavano per la salute del neonato?
Se aveva mal di pancia, si metteva una verza sopra il pancino; oppure si
usava la carta da zucchero imbevuta d’olio per togliere l’infiammazione, ad
esempio delle gengive.
Ricordo un’altra cosa: intorno al parto c’era un clima di mistero. Avevo
già diciotto anni, ma non mi dicevano se una parente era incinta. Mi
mandavano in farmacia a comprare medicinali per mie vicine di casa incinte,
ma senza dirmi il motivo, come se fossi stupida e non potessi capire. Una
volta, passeggiando con mia mamma, vedendo una donna incinta, dissi: “Ma
è incinta!”. E lei mi ha dato uno scappellotto, per il fatto stesso di aver
pronunciato quella parola.
C’era particolare riguardo per la donna incinta?
Ai miei tempi si aveva un certo riguardo. Io facevo l’operaia e ho
lavorato fino a tre mesi prima del parto. Ho avuto tre mesi di aspettativa
prima del parto, e otto mesi poi. Anche sul lavoro c’era una certa attenzione:
non mi facevano portare pesi o fare lavori pesanti.
Invece le nostre mamme o chi faceva vita di campagna, era più
sottoposta alle fatiche.
A chi era affidato il bambino se la madre moriva di parto?
Alla famiglia del padre e se questi si risposava rimaneva con lui. Per me è
stato così. La mia mamma è morta mettendomi alla luce e mio padre si è
risposato.
Cosa si regalava al neonato?
Nulla di speciale. Solo il padrino e la madrina regalavano di solito una
catenina d’oro.
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C’erano modi per indovinare il sesso del nascituro?
Dicevano di guardare la forma della pancia; se era a punta sarebbe nata
una femmina, se invece era rotonda, un maschio.
6 agosto 1991.
A casa della sig.ra Cattaneo Maria Carla.
Siamo presenti io, la sig.ra Cattaneo e a volte il marito.
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Pubblicazioni dell’I.S.U. Università Cattolica
FIGURE FEMMINILI
PROTETTRICI DELLA NASCITA
la baba, la femme qui aide, la levatrice nella cultura europea
a cura di Antonella Caforio
Pubblicazioni dell’I.S.U. Università Cattolica
www.unicatt.it/librario
ISBN 88-8311-200-8