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Lei mi traduce: Sotto ragazzi, eccetera. […] Il testo dice: Come on boys. Capisce? Lei mi ha invertito il significato. Come on boys vuol dire venite su ragazzi. Lei mi mette l’opposto, cioè non su, ma sotto. E ancora, più avanti, dove
descrive l’alzabandiera a bordo. Lei ha tradotto, mi pare, i marinai si scoprirono, sì, si scoprirono, ha tradotto lei, mentre il testo inglese diceva: The crew
raised their hats. Vede l’inglese come è preciso? La ciurma alzò i loro cappelli.
Alzò, capisce, come a salutare la bandiera sul pennone».
“
dall'intervento di Luciana Bianciardi alla serata-omaggio "Luciano Bianciardi, un anarchico della scrittura tra Grosseto e Milano", Udine, 1° febbraio 1997.
Una sera che erano tutti intorno a un tavolo delle riunioni, verso le sei del pomeriggio arriva il Giaguaro [Giangiacomo Feltrinelli] fresco di doccia, appoggia
il suo bellissimo cappotto di cammello di fianco a quello del Bianciardi, voltato
e rivoltato tre-quattrocento volte, e comincia a parlare di giustizia sociale e
lotta di classe, per due ore. Mio padre non ne può più, alla fine si alza – gelo,
perché non ci si poteva alzare quando parlava il padrone – guarda quel suo
cappotto liso, batte la mano sul tavolo, prende il cappotto del Feltrinelli, se lo
infila, si pavoneggia un attimo, si volta, poi alza il pugno e dice: viva la lotta di
classe, ed esce. È andato avanti per un paio d’anni con questo cappotto bellissimo e gli amici, che sapevano le sue condizioni economiche, gli chiedevano: ma come hai fatto, Luciano, a comprarti un cappotto così bello? No, non
me lo sono comprato, me l’ha regalato il Feltrinelli perché lui alla lotta di classe ci crede veramente.
Nel 2005, in polemica con la Mondadori che, nei “Meridiani” non aveva ancora trovato
spazio per le opere di Bianciardi, la figlia Luciana, che ha già una propria casa editrice
(la Excogita), decide di pubblicare un “Antimeridiano” con tutte le opere del padre. Il
primo volume, uscito appunto nel 2005, costa 69 euro. Un secondo uscirà con gli altri
scritti. Questa scelta viene contestata dall’altro figlio di Bianciardi, Ettore, che, con
Marcello Baraghini, editore di Stampa Alternativa, ha deciso di rendere l'opera del
padre accessibile a tutti attraverso i «bianciardini», libricini dal prezzo simbolico di un
centesimo. “I bianciardini -, scrive Ettore, - sono la continuazione della lotta di Luciano
per una vera cultura popolare, quella cultura cioè che vuole arrivare a tutti gli uomini e
le donne, superando le barriere economiche, sociali e culturali”
Prossimo libro:
La fotografia è di proprietà di Ettore Bianciardi
Altro (oltre Bianciardi)
”
l’autore
Bianciardi nasce a Grosseto nel 1922, da padre cassiere di banca e madre maestra elementare.
A cavallo della seconda guerra mondiale, alla quale partecipa come interprete per
gli eserciti alleati, si laurea alla Scuola Normale Superiore di Pisa in Filosofia con
tesi su Dewey. Diviene Direttore della Biblioteca Comunale Chelliana di Grosseto,
sconvolta dai bombardamenti e dall'alluvione del 1944.
Inizia frattanto la sua attività di pubblicista sulla stampa locale toscana e prende ad
interessarsi alle lotte operaie del tempo, soprattutto alla vita dei minatori delle miniere del grossetano.
Nel 1954 si trasferisce a Milano, deciso a partecipare all'industria culturale che in
tale città stava nascendo.
Le biografie ufficiali scrivono che Bianciardi si trasferì a Milano per fare lo scrittore:
la piccola città descritta ne «Il lavoro culturale» gli stava stretta ma il figlio Ettore
assicura che essere lontano era anche un modo per poter tenere la famiglia lontana e meglio gestire la relazione che aveva intrapreso con Maria Iatosti, descritta
nel romanzo che gli diede il successo nel 1962: "La vita agra", da cui Carlo Lizzani
trasse l'omonimo film con Ugo Tognazzi.
E poi, a Milano, Bianciardi sperava di incontrare gli operai e portare avanti il suo
progetto rivoluzionario, negli occhi la recente tragedia di Ribolla, il paesino del
grossetano dove nel 1954 rimasero uccisi 43 lavoratori in un incidente sul lavoro.
Bianciardi li conosceva uno per uno poiché, in quanto direttore della biblioteca
Chelliana di Grosseto, li incontrava con il suo bibliobus. Spiega il figlio Ettore: “Era
stato un precursore anche in questo: pensò che se non erano gli operai ad andare
ai libri, dovevano essere i libri ad andare agli operai; prese in prestito un pulmino
dal comune di Grosseto e si faceva accompagnare a portare i libri nei campi e in
miniera perché non aveva la patente. Molti libri si perdevano e rischiò il licenziamento”.
A Milano Bianciardi incontra solo ragionieri e segretariette: gli operai sono a Sesto
San Giovanni, nelle periferie. Del capoluogo lombardo non gli piace niente, come
spiega in alcune interviste dell'epoca , e l'improvvisa popolarità paradossalmente
lo getta ancora più nella depressione: “Ormai mi chiamano ovunque, posso sparare qualsiasi cavolata”. Rifiuta una collaborazione offertagli da Indro Montanelli con
il Corriere della Sera, in qualità di articolista di spalla, preferendo rubriche su giornali molto popolari quali ABC, Il Guerin Sportivo, L'Automobile e riviste prettamente maschili come Le Ore e Playmen, dove si sentiva molto più libero.
Cercò di lasciare Milano, trasferendosi con la sua compagna a Sant'Anna di Rapallo, che ogni tanto lasciava per Grosseto. Alla figlia diceva di essere il “padre
prodigo”. Ma era tormentato, e depresso. Beveva.
Il professor Nuccio Lodato, suo amico di quel periodo, ha raccontato che, la domenica, Bianciardi chiamava a raccolta un buon numero di persone a casa sua per
vedere in compagnia «Quelli della domenica». Andava pazzo per Paolo Villaggio
nei panni del professor Kranz e del ragionier Fracchia, l'antesignano di Fantozzi,
forse perché vedeva, in quel piccolo borghese vittima del consumismo, la rappresentazione in chiave comica del miracolo economico dal quale egli aveva tentato
di fuggire e che lo aveva portato all'alcolismo.
Dopo la rottura con Maria Iatosti e un maldestro tentativo di riallacciare i rapporti
con la famiglia e i figli, Luciano tornò a Milano, su insistenza della compagna, nella
speranza che succedesse qualcosa, che si trovasse un rimedio. Lei chiese aiuto
agli amici, perché da sola non ce la faceva, e sembrava chiaro che lui voleva morire. Un giorno si trovò solo, non rispondeva più al telefono. Un amico, uno dei pochissimi rimasti, corse a casa sua. Chiamò l’ambulanza, ma Bianciardi morirà in
ospedale, di coma epatico, a quarantanove anni, il 14 novembre 1971.
il libro (“La vita agra”)
La vita agra, il romanzo che diede il successo a Luciano Bianciardi, è quella di
un intellettuale che vive di collaborazioni editoriali nella Milano del boom economico. Bianciardi allora era un free-lance senza mutua (ai suoi tempi non era
obbligatoria e per tutti), uno che mangiava nelle latterie e ordinava le mezze
porzioni, uno che veniva pagato se lavorava, altrimenti avrebbe saltato i pasti.
Inoltre il lavoro doveva cercarselo giorno per giorno.
C’è nel libro l’idea di un grande progetto, che poi si stempera nelle difficoltà
della vita ma c’è anche l’amore, un amore sconfinato per gli uomini veri, quelli
che il protagonista aveva conosciuto a Grosseto, e che invano si sforza di
riconoscere a Milano.
A proposito della miseria, ma anche pericolosità sociale delle masse impiegatizie, ecco un passo esemplare, dove si parla della tecnica aziendale di marcamento, utilizzata per far carriera:
La segretaria ideale dunque marca a zona, si sceglie un settore e lo fa diventare importante. Basta anche un settore umilissimo, anzi è meglio. Ho conosciuto una segretaria che sapeva soltanto leccare le buste e i francobolli, eppure diventò indispensabile, perché fece in modo che il pensamento e la stesura delle lettere diventassero attività sussidiarie del leccamento suo.
A proposito di lavoro precario, ecco che cosa è costretto a subire un giovane
traduttore, un collaboratore esterno, da parte di un’impiegata-redattrice con
posto di lavoro fisso e diritti sindacali: