Piano Fiat

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Piano Fiat
PIANO FIAT
Il tanto atteso piano FIAT è stato presentato ufficialmente; come già si sapeva dalle indiscrezioni
filtrate in precedenza, non ci sono decisioni fondamentali come la vendita del settore auto, ma
soltanto ipotesi di miglioramenti operativi supportate da un aumento di capitale di 1.8 miliardi: è
improbabile che tale piano riuscirà a creare valore per gli azionisti.
L’ing. Morchio è certamente uno dei migliori manager italiani; il fatto che leghi il suo nome ad un
piano “politically correct” ma non vincente lascia perplessi; evidentemente gli sono stati imposti
fortissimi vincoli dall’azionista di controllo, dalle banche finanziatrici e dal governo, tutti più
interessati a mantenere le attuali posizioni che alla migliore (relativamente) valorizzazione dei
singoli business.
Gli elementi essenziali del piano industriale sono: insistere con gli investimenti in tutti i settori e
particolarmente nell’auto, abbandonare l’idea di vendere i business, focalizzarsi sull’efficienza e
sull’orientamento al cliente, rifocalizzarsi geograficamente. Tutte affermazioni lodevoli, ma che
vanno contro le regole che governano il business o che sono insufficienti a sovvertire le tendenze
negative: vediamo perché.
E’ ampiamente dimostrato che per creare valore occorre, nei business di massa, arrivare ad avere
una quota di mercato relativa maggiore di quella dei concorrenti (calcolata in termini di fatturato e
non di numero pezzi). In un mercato globalizzato ciò è possibile con una presenza significativa e
omogenea non solo in Europa e Brasile, ma anche in Nordamerica ed in Asia; inoltre, la gamma dei
prodotti deve essere competitiva in ogni segmento di presenza. Mentre i business del trasporto
pesante e delle macchine agricole possono aspirare a tale traguardo (ovviamente con ulteriori
aggregazioni), quelli dell’auto, del movimento terra e della componentistica sono irrimediabilmente
tagliati fuori (con l’eccezione del COMAU e di alcuni settori di Marelli); per creare valore devono
essere venduti ad operatori di maggiori dimensione e copertura mondiale. Comunque, la politica di
ricercare aggregazioni anche a costo di perdere il controllo vale per tutti i business; ogni vincolo
interno, quale è quello di mantenere il controllo, che viene inserito nelle logiche di business porta ad
una perdita di competitività e alla distruzione di valore.
In particolare, la speranza di rilanciare l’auto, almeno per essere fra qualche anno in una posizione
negoziale migliore per vendere il business, è una illusione tipicamente italiana. I consumatori degli
altri paesi europei hanno ormai deciso che è squalificante, oltreché antieconomico, comprare vetture
della FIAT, in ciò sobillati dai concorrenti che ne denigrano le qualità ed il valore dell’usato, in
particolare per i prodotti di maggior prezzo. Tali consumatori possono anche avere torto, ma è
impossibile farglielo capire dato che la stragrande maggioranza non considera a priori i modelli di
casa FIAT nelle scelte di acquisto, e che comunque tali scelte accadono ogni 3-4 anni; se anche
fosse possibile produrre e vendere immediatamente vetture comparabili a quelle dei concorrenti,
soprattutto nella fascia alta, occorrerebbero decenni prima di veder aumentare significativamente la
quota di mercato europea. Nell’auto, quando si sparge la convinzione che una casa sia sull’orlo del
fallimento, s’innesca una spirale negativa che tende a far diventare vera tale percezione: i casi
SEAT, SIMCA, SKODA, SAAB ne sono la testimonianza. Nemmeno colossali investimenti nel
prodotto e nel marketing sono in grado di sovvertire tali tendenze, in quanto la quota di mercato
europeo (a valore) è e rimarrà sub-critica; insistere con tali investimenti, che non danno un ritorno
netto superiore al costo del capitale, rappresenta una distruzione di valore per gli azionisti.
Il secondo difetto del piano FIAT, che dimostra le forti pressioni in favore del mantenimento dello
status quo, è la continuazione del modello del conglomerato. E’ noto che i conglomerati
distruggono valore, perché si oppongono alla cessione di ogni singolo business a quel concorrente
che più è in grado di sviluppare sinergie e competenze. La scissione di FIAT in business elementari,
ed eventualmente la fusione di ciascuno con il “best owner” sarebbe stata la scelta che avrebbe
massimizzato il valore per gli azionisti.
Il terzo problema è la speranza che attraverso una nuova gestione di vertice si riesca in poco tempo
a migliorare i costi, aumentare i ricavi e fidelizzare i clienti, anche facendo leva sul già avviato
ringiovanimento della gamma prodotti; ciò sarebbe possibile solo se in passato la FIAT avesse
avuto una massa di dirigenti incompetenti, incapaci di copiare quello che fanno i migliori
concorrenti, ma per disgrazia (paradossalmente) non è stato così. Ovviamente le piattaforme ed i
componenti comuni con GM permettono di continuare a ridurre i costi, ma la struttura dei costi è
condizionata negativamente dalla dispersione su tre marchi, di cui due marginali, e da reti di vendita
con volumi inferiori al breakeven, soprattutto per i prodotti di maggior prezzo. Inoltre, la
produzione in Italia non è competitiva con quella della Corea e, per le vetture a più alto contenuto
tecnologico, non lo è neanche con quella del Giappone, che non è certo un paese a basso costo del
lavoro. Il problema dei costi e dei ricavi non si risolve quindi con i pur necessari miglioramenti
operativi, dei quali l’ing. Morchio è maestro, ma con coraggiose decisioni strategiche di
concentrazione di linee di prodotto e di delocalizzazione produttiva, più facili da prendere con un
nuovo assetto proprietario non italiano.
Probabilmente un piano “vero” c’è ma non può essere dichiarato. L’abbandono della linea/rete
Lancia, per esempio, se dichiarato comporterebbe la fuga dei concessionari, l’impossibilità di
vendere i modelli in corso di fabbricazione o di prossimo lancio e l’azzeramento del valore degli
investimenti giù lanciati; ma prima o poi tale scelta risulterà evidente ed è già stata un po’ anticipata
chiamando “specialties” i modelli Lancia. Anche l’abbandono della formula del conglomerato
avverrà inevitabilmente, perché le ulteriori aggregazioni necessarie nei singoli business si fanno con
minori difficoltà intorno a monobusiness quotati. Una scissione fatta oggi potrebbe essere
intempestiva per la difficoltà di allocare il debito fintantoché non sarà chiaro il destino dell’auto.
E’ intorno al destino dell’auto che si gioca la partita; invece di rischiare migliaia di miliardi in un
tentativo di rilancio sarebbe stato meglio mettere subito in vendita il business, eventualmente
separando il marchio Alfa Romeo. E’ vero che la comunanza di piattaforme e componenti con GM
e di reti di vendita (fra i tre marchi della FIAT) porrebbe complicati problemi se il compratore non
fosse la stessa GM, ma nell’auto, come in qualsiasi business nel quale deve avvenire una
concentrazione, si trova sempre un compratore, ed in questo caso ce ne sono almeno sette
(sempreché il business sia ufficialmente messo in vendita). Nelle mani di una Toyota, di una
Hyundai o di una Peugeot/Citroën le reti di vendita garantirebbero ai consumatori la continuità del
prodotto, e potrebbe anche aumentare la penetrazione in quei mercati che oggi sono marginali per
FIAT.
La cartina di tornasole di un vero piano è comunque la disponibilità di investitori istituzionali esteri
a partecipare attivamente ed in un’ottica di lungo periodo, accompagnata da un innalzamento del
rating; non sembra che tali operatori professionali credano nelle prospettive di una FIAT autonoma
e rilanciata con le proprie forze. Gli investitori istituzionali italiani (famiglia Agnelli e banche) che
partecipano ai necessari aumenti di capitale danno l’impressione di partecipare più ad una “tassa”
che a un buon investimento e danno quindi al mercato finanziario un preciso messaggio: il piano
“vero” non si può dichiarare e per il momento è più importante mantenere lo status quo che avviare
una forte creazione di valore per tutti gli azionisti.
Fiat Piano 26.06.2003