Figlie di Mami Wata - Università degli studi di Trieste

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Figlie di Mami Wata - Università degli studi di Trieste
UNIVERSITÁ DEGLI STUDI DI TRIESTE
FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA
COR SO DI LAUR EA I N SCI E NZE E TECNI C HE DELL’I NTE RCULTUR ALI TÀ
Figlie di Mami Wata
Strategie simboliche delle donne nigeriane
prostitute/tuite in Italia
TESI DI LAUREA TRIENNALE IN STORIA DELLE RELIGIONI
Relatore
Prof.ssa Ileana Chirassi Colombo
Laureanda
Chiara Pilotto
Correlatore
Dott.ssa Hermine Letonde Gbedo
Anno Accademico 2004/05
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INDICE
3
Introduzione
1. Il caso specifico: la prostituzione nigeriana in Italia
8
14
1.1 Globalizzazione, migrazione, prostituzione: l’organizzazione del
traffico dalla Nigeria
1.2 Costa degli Schiavi: una storia di partenze e contaminazioni
2. I poteri rituali: lo sforzo del “doverci essere”
25
31
2.1 Nuove disuguaglianze, nuovi poteri
2.2 Il corpo femminile oggetto di attacco
3. Mam i Wata: processi di antropo-poiesi tra modello m itico e
incarnazione
37
45
52
57
3.1 La possessione come fenomeno culturale
3.2 Mami Wata e gli spiriti delle acque
3.3 Donne nigeriane migranti: la memoria nei corpi posseduti
Appendici
62
68
72
Intervista 1
Intervista 2
Intervista 3
84
Bibliografia
2
INTRODUZIONE
L’idea di questa ricerca nasce dal tirocinio da me svolto nei mesi di marzo e aprile
2005 presso il Progetto Stella Polare di Trieste, realizzato dal Comitato per i Diritti Civili
delle Prostitute. Un servizio che si occupa di donne migranti vittime della tratta che
desiderano intraprendere percorsi di fuoriuscita da situazioni di grave sfruttamento sessuale
e lavorativo, avvalendosi dell’art.18 del D.L. 286/98 sull’immigrazione.
Il progetto parte dalla rilevata necessità di considerare i nuovi scenari della
prostituzione migrante, sviluppatasi a partire dalla metà degli anni Ottanta, nel quadro di
quel sistema-mondo caratterizzato da molteplici interdipendenze tra le diverse parti del
globo e, in particolare, dalla divisione internazionale del lavoro basata su un unico modello
di sviluppo, quello capitalista.
Di questa congiuntura storico-economica sono forse la massima espressione i
movimenti migratori che seguono la rotta dal Sud verso un Nord del pianeta considerato
simbolo di ricchezza e benessere.
La femminilizzazione del lavoro intesa in senso ampio nell’ambito delle migrazioni
solleva questioni specifiche, chiamando in causa lo sfruttamento di forza lavoro inteso
anche come sfruttamento del corpo femminile. Impone dunque una riflessione di carattere
globale sulle relazioni di genere e sulla loro organizzazione nell’immaginario simbolico di
culture differenti. E ovviamente quanto tutto questo possa rientrare nella fenomenologia
della migrazione, intesa come spostamento di individui e di gruppi per bisogno ed insieme
per scelta.
In questa prospettiva è necessario chiedersi anche quanto le migrazioni favoriscano la
costruzione di quella globalizzazione che oggi tutti viviamo come fenomeno di quella
surmodernità, definita da Augè attraverso la triplice figura dell’eccesso di tempo, di spazio
e di individualità.
Trattando proprio la sovrabbondanza spaziale del presente, Augè
scrive: «Essa
comporta modificazioni fisiche considerevoli: concentrazioni urbane, trasferimenti di
popolazione e moltiplicazione di ciò che chiamiamo “non-luoghi”, in opposizione alla
3
nozione sociologica di luogo, associata da Marcel Mauss e da tutta una tradizione
etnologica a quella della cultura localizzata nel tempo e nello spazio» (Augè 1993: 36).
La migrazione può apparire dunque come l’emblema di una cultura che sfugge ai
confini, rifiutando il concetto di cultura fissa e immutabile.
Ed è bene sottolineare come la produzione di valori, la produzione culturale che
segna ogni esperienza umana e ne permette il realizzarsi, venga attivata efficacemente
anche nel contesto di immigrazione, dove l’immigrato e l’emigrato sono figure inscindibili,
distinte solo per comodità teorica.
Sottolinea infatti Augè: «Viviamo in un mondo in cui ciò che gli etnologi chiamavano
tradizionalmente “contatto culturale” è diventato un fenomeno generale. La prima
difficoltà di un’etnologia del “qui” è che essa ha sempre a che fare con l’“altrove” senza
che lo statuto di questo “altrove” si possa costituire in oggetto singolo e distinto (esotico)»
(Augè 1993: 99-100).
In questo lavoro la prostituzione nigeriana in Italia viene inglobata in una visione
d’insieme che tenta di restituire il senso delle pratiche e dei discorsi dei soggetti coinvolti,
senza isolarli in un hic et nunc pericoloso, che limiterebbe una reale comprensione del
fenomeno. Cercheremo invece di capire il fenomeno basandoci invece su un necessario
approfondimento culturale volto a garantire l’efficacia delle metodologie pratiche
d’intervento.
La mia attenzione si è rivolta soprattutto alla rottura dei legami che la migrazione
comporta, rottura particolarmente “grave” e ricca di implicazioni se si tiene conto del fatto
che soggetti migranti sono qui giovani donne sole che vanno ad inserirsi in una situazione
difficile a livelli multipli.
Sarà importante quindi cercare di capire anzitutto il senso della loro collocazione di
genere nell’ambito della cultura del paese d’origine. Emerge chiaramente come l’impatto
con la modernità occidentale e l’economia di mercato abbiano prodotto una generale
riorganizzazione dei rapporti comunitari e familiari e una conseguente “reinvenzione della
tradizione” anche per quanto riguarda la costruzione del “sacro”, la costruzione del
simbolico di referenza come risposta culturale alla “crisi della Presenza” per usare la
terminologia di Ernesto De Martino.
4
Nel primo capitolo ho riassunto brevemente le dinamiche del traffico di donne,
mettendo in luce il suo radicamento in un sistema di socialità, definito da Latouche “logica
del dono”, nel quale gioca un ruolo fondamentale l’organizzazione dell’immaginario dei
soggetti coinvolti, chiamata a supportare le mafie locali attraverso il rimando ai poteri
rituali.
L’ipotesi di questo lavoro consiste nel considerare il debito da estinguere non soltanto
come obbligo materiale, ma soprattutto come vincolo nei confronti di una cultura e di un
sistema di appartenenze ad un mondo identificato e compiuto sul piano umano e
“extraumani”, il simbolico religioso..
Ho ritenuto quindi importante cercare di esplorare l’universo simbolico delle
popolazioni del sud della Nigeria, prendendo a modello il politeismo delle popolazioni
cosiddette yoruba che molta influenza ha avuto nell’ area della Costa degli Schiavi in
genere in tutta la zona centromeridionale dell’attuale Nigeria.
Ho avuto così l’occasione anche di cercare di chiarire il concetto di vodu, spesso
utilizzato in modo fuorviante dall’informazione di massa per parlare della prostituzione
nigeriana in Italia. Seguendo l’analisi di Marc Augé è stato dimostrato come il “dio
oggetto” contribuisca non solo a rappresentare, ma anche a generare le relazioni tra uomini,
facendo del corpo il luogo privilegiato di sperimentazione o meglio di costruzione del
sacro. La zona del resto, come molte parti dell’Africa ma in genere molta parte del Terzo e
Quarto mondo, è stata – ed in qualche misura lo è tuttora – molto ricca di movimenti di tipo
“religioso” legati a figure di leader carismatici, “profeti”, personaggi che si propongono
come mediatori tra extraumani e umano, molto ben studiati in un sempre importante testo
di Vittorio Lanternari.
L’influsso del Cristianesimo in particolare riformato nella zona ha dato origine alla
proliferazione di nuovi movimenti religiosi sincretici, centrati appunto sulla figura di un
“profeta”. In particolare i “profeti” rivitalizzano le pratiche tradizionali sul modello
salvifico e taumaturgico proposto, in particolar modo, dal Pentecostalismo angloamericano. Le “cause” vanno certamente considerate nel contesto di subordinazione
economico-politica e di “spossessamento culturale” dei nativi ai quali l’impatto con una
cultura “altra” in possesso di saperi e di poteri “dominanti”, quella dei bianchi, poteva
contribuire a delineare la prospettiva culturale “biblica” di un’Apocalisse, intesa come
5
evento assolutamente dirimente superata con l’avvento di un “Nuovo Regno”, una
situazione radicalmente nuova.
Non ci soffermeremo sulla struttura dei movimenti pentecostali ma affermiamo che il
riconoscimento dei doni dello Spirito sottolineati dai movimenti pentecostali - potere di
guarire, profezia, parlare e capire le lingue (quindi tornare nella situazione precedente
Babele) - facilità l’intreccio degli adepti delle chiese pentecostali con le pratiche
tradizionali della cosiddetta “stregoneria”
Nel capitolo secondo ho messo in luce l’importanza dei poteri rituali, considerando
soprattutto la riplasmazione dei discorsi sulla “stregoneria” in quanto risposta alle
contraddizioni che emergono dalla “modernità africana”. Quest’ultima sembra tesa, da una
parte, alla ricerca competitiva e individualistica di potere e ricchezza, dall’altra appare
impegnata a pensare i mutamenti del corpo sociale e la sua riproduzione. Ho tentato quindi
di mostrare come il corpo femminile venga reso icona delle contraddizioni sopra descritte,
per essere trasformato in oggetto d’attacco nei discorsi sulla “stregoneria”, riprodotti anche
nel contesto migratorio e sui quali sarebbe necessario un approfondimento specifico anche
per i rapporti con i movimenti cristiani pentecostali ai quali abbiamo accennato.
Nel capitolo terzo il corpo, messo al centro nell’esperienza della possessione e della
trance, viene valutato come memoria incarnata, portatore di segni che comunicano legami e
appartenenze e veicolano la necessità di estinguere un “debito simbolico” di cui il corpo
stesso è caricato.
La possessione è considerata come fenomeno culturale che chiama in causa processi
di antropo-poiesi basati sulla costruzione dell’alterità. Di tale fenomeno viene messo in
rilievo il carattere di transizionalità legato alla sfida storica tra tradizione e modernità.
In particolare l’esperienza della possessione mette in evidenza una figura centrale
dell’extraumano nigeriano che risulterà in stretto rapporto con il simbolico delle
protagoniste del nostro interesse, si tratta di Mami Wata.
A MamiWata ed alla sua presenza tra le donne nigeriane in Italia rimanda il
lavoro di Beneduce.
Il modello di Mami Wata costituisce un’ulteriore prova di come il corpo femminile
giochi un ruolo strategico nell’immaginario simbolico con notazioni che troviamo
stranamente ricorrenti anche nell’immaginario europeo.
6
Mami Wata in una proiezione che ritroviamo assolutamente presente anche
nell’immaginario culturale dell’occidente rappresenta la donna come “mostro”, metà
umana e metà pesce, ha valenze di sirena, dona ricchezze ma non discendenza . E assurge
esplicitamente a simbolo di quella rottura dei legami ormai decisa, ma continuamente
temuta che abita l’inconscio delle migranti.
Emerge da questo studio la realtà di quel mondo “magico” la cui presenza come
luogo sempre aperto di soluzione delle crisi esistenziali è stato opportunamente sottolineato
da Ernesto De Martino.
Il mondo simbolico delle prostitute riflette le strategie messe in atto per superare il
rischio di non esserci, la malattia, la morte, ma anche i bisogni incalzanti di un quotidiano
che non si gestisce, gli sconvolgimenti provocati dai cambiamenti socio-economici
Essi vengono pensati all’interno di un orizzonte simbolico attraverso il quale
reintegrare la crisi individuale nel mondo dell’intersoggettività, dei valori, della cultura.
Le interviste poste in appendice sono il risultato di una serie di colloqui avuti con
donne provenienti da Benin City: attraverso le loro esegesi individuali ho potuto
confrontare, chiarire e approfondire quanto rilevato dalla documentazione bibliografica.
7
IL CASO SPECIFICO: LA PROSTITUZIONE NIGERIANA
IN ITALIA
1.1
Globalizzazione, migrazione, prostituzione: l’organizzazione del traffico dalla
Nigeria
La prostituzione nigeriana si afferma in Italia a partire dalla metà degli anni ’80,
quando il fenomeno della tratta di esseri umani prende piede in Europa e numerose donne,
provenienti soprattutto dall’Africa, dall’America Latina e dall’Europa dell’Est, forti della
loro volontà di trovare condizioni di vita migliori e di garantire un benessere per la famiglia
lasciata nel paese d’origine, affidano il loro progetto migratorio nelle mani di mafie locali
che promettono un’occupazione sicura nel luogo di destinazione in cambio di alti costi per
il viaggio e per i documenti. E non chiariscono il tipo di occupazione ..
La recessione economica mondiale di quel decennio, accentuando i profondi squilibri
tra Nord e Sud del mondo, ha dato origine a una massiccia spinta migratoria dai paesi più
poveri, i quali hanno visto peggiorare le loro condizioni di vita già precarie e hanno dovuto
far fronte all’emergere della crisi debitoria.
In questo periodo storico la Nigeria, quinto produttore di petrolio al mondo, da cui la
sua economia dipende per il 90%, vive un momento di grandi difficoltà in seguito al crollo
dei prezzi dell’oro nero. I programmi di aggiustamento strutturale guidati dal Fondo
Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale acuiscono la crisi, dando avvio a processi
di liberalizzazione e privatizzazione con alti costi sociali.
Dal 1966, anno in cui vengono scoperti i giacimenti petroliferi nella zona del delta del
Niger a sud-est del Paese, quest’area ha assistito a un notevole sviluppo con la costruzione
di porti e di industrie volte allo sfruttamento del greggio, nel quale ha avuto preponderanza
il ruolo degli investimenti stranieri e delle società multinazionali, quali Shell e Eni. Qui
inoltre la popolazione si è addensata arrivando dalle regioni del Nord e abbandonando le
campagne, provocando una grossa crescita delle città con la proliferazione di bidonvilles.
Dall’indipendenza nel 1960, la Nigeria ha avuto una situazione politica instabile, con
frequenti colpi di stato militari e una forte corruzione. Le rivalità per assicurarsi il controllo
8
economico dell’area petrolifera hanno prodotto tensioni interetniche, che sono sfociate nel
1967 nella guerra civile del Biafra scoppiata in seguito alle rivendicazioni secessioniste
degli Ibo, abitanti della zona del Delta, e conclusasi nel 1970 con la loro sconfitta.
Nel corso di questi anni la società civile si è organizzata e continua a lottare contro gli
espropri, gli abusi e il gravissimo inquinamento provocati dalle compagnie del petrolio,
sostenute da una costante e violenta repressione poliziesca ad opera del governo nigeriano.
Nel suo rapporto del 2004 Amnesty International ha denunciato la violazione di diritti
economici e sociali, primi fra tutti il diritto alla salute1.
La storia della Nigeria si inscrive dunque in quella nuova forma di dominio e di
controllo economico e politico conosciuto come neocolonialismo.
Protettorato britannico dal 1901, la Nigeria si presenta come stato indipendente nel
1960 con l’adozione di una costituzione federale. Il modello occidentale dello Statonazione, che ha guidato la nascita dei nuovi stati mimetici nel periodo della
decolonizzazione, segna confini che racchiudono una molteplicità di popoli diversi. La
Nigeria comprende oltre un centinaio di realtà culturali molto varie fra loro, tra le quali al
Nord gli Hausa-Fulani, di religione islamica, gli Yoruba al sud-ovest e gli Ibo nella zona
deltizia. Questa suddivisione appare comunque alquanto approssimativa e non considera in
modo adeguato le numerose differenze di cui è necessario tener conto.
La modernizzazione dell’economia nigeriana, basata su un modello di sviluppo
capitalistico che trova nella crescita e nell’accumulo la sua logica fondante, ha prodotto
profondi cambiamenti nello stile di vita, nei sistemi relazionali e nei valori delle
popolazioni autoctone.
Al fine di comprendere le contraddizioni interne all’Africa postcoloniale e le
riorganizzazioni operate sul piano dell’immaginario simbolico per interrogarle, è utile
soffermarsi sulla riflessione di Serge Latouche (2000), il quale mette in rilievo la pregnanza
del legame sociale nell’esistenza della maggior parte dei popoli africani. L’autore sottolinea
come tale legame, fondato sul principio di solidarietà che contraddistingue i rapporti
intercomunitari, vada messo in relazione con una rappresentazione della povertà (distante
da quella occidentale) intesa come mancanza di sostegno da parte della collettività.
1
“Nigeria. Are human rights in the pipeline?” in http://web.amnesty.org/library/Index/ENGAFR440202004
9
I fenomeni che si avvicinano alla cosiddetta “stregoneria” appaiono come tentativi di
trovare una risposta alla minaccia dell’accumulo individualistico secondo una logica di
mercato. L’approfondimento segue.
Latouche evidenzia come lo scambio, basato sulla logica del dono1, serva al contrario
a rafforzare il legame, rendendo tutti allo stesso tempo creditori e debitori passeggeri. Il
dovere di ricambiare stringe rapporti a cui non si può venire meno e il suo senso esula dalla
mera materialità dell’oggetto e non si esaurisce con la contropartita, dato che l’attenzione è
rivolta ai beni simbolici che ne derivano: il riconoscimento sociale, il rafforzamento delle
relazioni di potere, l’affermazione di identità.
Lo scambio mercantile e l’introduzione della monetarizzazione spersonalizzano il
rapporto tra chi dà e chi riceve, l’economico ingloba totalmente il sociale.
Nonostante l’imposizione della logica del mercato concorrenziale in Africa, l’autore
sostiene che si conservi un doppio linguaggio e un doppio sistema di pratiche, che fa
coesistere la sfera oblativa e informale, marginale rispetto alla legge e all’ufficialità, con
quella dell’economico stricto sensu.
Il
mondo
dell’informale
risulta
dunque
caratterizzato
dall’incorporazione
dell’economico nel sociale. Latouche ne distingue quattro livelli, che vanno dalla società
vernacolare o oikonomia neoclanica ai traffici.
La prima consiste nei «modi in cui i naufraghi dello sviluppo producono e
riproducono la loro vita, al di fuori del campo ufficiale, mediante strategie relazionali»
(Latouche, 2000: 164); «L’economia è messa al servizio della rete, e non la rete al servizio
dell’economia» (Latouche, 2000: 165). In questo settore occupano un posto di rilievo le
donne, il cui lavoro è fondato sulla pluriattività e sul non professionalismo.
I livelli che seguono sono definiti in base a una progressiva perversione della logica
del dono.
Come ultimo Latouche distingue il modello dei traffici, intesi come il commercio
d’importazione e d’esportazione praticato ai margini della legalità. Oggetto di questo
contrabbando possono essere beni alimentari, vestiti, droga, armi, esseri umani. Questi
12
L’autore fa riferimento all’analisi di M. Mauss sul dono come scambio caratterizzato dal triplice obbligo di
dare, ricevere, ricambiare e fondato quindi sulla reciprocità. Per approfondire M. Mauss, Essai sur le don,
Paris, Presses Universitaires de France, 1950 (trad. it. Saggio sul dono, Einaudi, Torino, 2002).
10
scambi, in cui la logica del dono degenera, restano comunque legati all’organizzazione
basata su una socialità in reti.
Le frontiere della Nigeria risultano essere uno dei luoghi di smistamento dei
principali traffici in Africa.
Il traffico di donne viene gestito da mafie locali con una struttura complessa e ben
organizzata, che ha forti basi nella società nigeriana. Le ragazze avviate alla prostituzione
in Italia provengono soprattutto da Benin City, nello stato degli Edo, anche se la maggior
parte di loro ha un passato di migrazione interna dal villaggio alla città. In una prima fase,
quando il fenomeno appena sorto non era ancora conosciuto, le persone venivano reclutate
soprattutto nei grandi centri urbani e non erano coscienti dell’attività che avrebbero dovuto
svolgere nel luogo di destinazione. Oggi tutti sanno qual è la fonte di guadagno delle
ragazze che tornano ricche dall’Europa, lo stesso governo si preoccupa di organizzare
campagne per denunciare il traffico attraverso l’informazione di massa.
Da un lato le donne che partono sono quindi consapevoli di ciò che le attende, anche
se non immaginano le dure condizioni di lavoro e di sfruttamento che dovranno affrontare
per esercitare la prostituzione su strada. Dall’altro le mafie si sono spostate per il loro
reclutamento dalle città ai villaggi, dove le informazioni sono meno diffuse, con un relativo
abbassamento dell’età e del livello di scolarizzazione di chi parte.
Il reclutamento avviene tramite uno sponsor, a volte può essere la stessa donna che si
occuperà delle ragazze in Italia, e si basa su una rete amicale-parentale. Chi decide di
partire viene nella maggior parte dei casi da famiglie poligamiche, quindi molto numerose,
in cui è soprattutto femminile il ruolo di bread-winner. La scelta è sostenuta spesso dalla
famiglia che vede nei futuri guadagni della figlia un mezzo per superare le difficoltà
economiche e accrescere il proprio benessere. La stigmatizzazione sociale delle donne
partite per l’Europa non risiede tanto nell’essere riconosciute come prostitute, quanto nel
fallimento del loro progetto migratorio nel caso dell’espulsione da parte del paese di
destinazione: molte delle persone rimpatriate vengono ripudiate dalle famiglie perché si
presentano senza denaro3.
3
Il progetto ALNIMA, realizzato da COOPI, Tampep onlus, SRF e CeSPI nel 2004, è stato rivolto in Nigeria
alle donne rimpatriate, spesso abbandonate dalle famiglie, al fine di promuovere il loro reinserimento sociolavorativo nel paese d’origine, evitando in questo modo un loro ulteriore reclutamento da parte dei trafficanti.
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In Nigeria la prostituzione appare diffusa soprattutto nel sud del Paese, in
corrispondenza delle zone occupate dalle compagnie petrolifere, ma le donne che migrano
in Europa raramente hanno già avuto un passato sulla strada.
La scelta di intraprendere il viaggio è sostenuta per molte dalla speranza di realizzare
un percorso personale di autodeterminazione ed autonomia: il loro progetto migratorio ha
obiettivi chiari e concreti che mirano alla realizzazione di un miglioramento delle
condizioni di vita.
E’ necessario considerare che la società tradizionale è fondamentalmente patriarcale e
che le vie di emancipazione per la donna nigeriana sono ostacolate da condizioni
economiche difficili e dal compito di farsi carico della famiglia. L’asimmetria di genere
ancora una volta come ovunque presente è sottolineata dal fatto che sono i figli maschi ad
avere la precedenza nell’accesso all’istruzione. Inoltre si ricorda che in Nigeria è diffusa la
pratica delle mutilazioni genitali femminili e che nel nord islamico viene applicata
integralmente la sharî’a, con la tristemente nota lapidazione delle adultere.
Il costo per il viaggio e i documenti viene anticipato dai trafficanti. Il patto per la
restituzione del debito assume un carattere fortemente simbolico in quanto inserito in
un’esperienza di migrazione che porta distanza e pericolo di oblio rispetto al paese
d’origine.
Il dramma esistenziale vissuto da queste donne trova vistosi riscontri nella
costruzione del loro universo simbolico dove espresso, le pratiche di “stregoneria” e dalla
possessione, la presenza della figura extraumana Mami Wata filtrano la paura di tradire i
legami di parentela e lignaggio ma rappresentano anche i vincoli di memoria (Beneduce
2002) a una tradizione collettiva e a un passato costruiti su un’organizzazione del simbolico
che non trova più riscontro nella nuova realtà del luogo d’arrivo e chiama continuamente a
un confronto e a doveri precisi.
Il giuramento per la restituzione del debito può avvenire attraverso un contratto
sottoscritto davanti a un notaio, in cui è prevista una garanzia sotto forma di beni da parte
della famiglia.
Quello che caratterizza il traffico di donne dalla Nigeria è il juju compiuto per
ottenere una forma di controllo sulla persona a cui è rivolto. Il juju avviene raccogliendo
elementi del corpo della ragazza, come capelli, unghie, peli pubici, o anche abbigliamento
12
intimo, i quali si crede continuino ad essere parte della persona stessa e vengono utilizzati
come mezzo di ricatto e minaccia di sventura, malattia, morte. Viene di solito effettuato da
un babalawo in Nigeria il quale, su richiesta della madame, si appella alla forza del proprio
vodu per caricare di potere l’insieme degli elementi.
La figura della madame è un altro elemento che distingue la prostituzione nigeriana.
Investita di un ruolo ambiguo che la vede benefattrice e sfruttatrice insieme, è la donna che
compra le ragazze dai trafficanti, di solito uomini, e alla quale deve essere pagato il debito,
che oggi sembra ammontare a una cifra che va dagli 80.000 ai 120.000 euro e che di solito
riesce ad essere estinto in due o tre anni di lavoro. La madame è spesso un’ex prostituta con
una storia simile a quella delle donne su cui ha il controllo. Vive insieme a loro, le avvia al
mestiere e richiede una quota dei loro guadagni come contributo per la casa e per il joint, il
posto di lavoro sulla strada. Si instaura così un rapporto verticale tra lei e le ragazze, che
devono assicurarle rispetto e lealtà. Nello stesso tempo diventa il punto di riferimento
principale per affrontare la nuova vita in un paese estraneo.
Le rappresentazioni del corpo e della malattia, che caratterizzano la zona dell’Africa
occidentale qui considerata, attivano nel contesto della prostituzione un linguaggio basato
su segni fisici, sofferenze, infermità, i quali costituiscono i sintomi di angosce e paure
dovute alla rottura di un rapporto con il proprio paese e all’abbandono delle diverse
appartenenze al mondo umano o sovrumano. Le donne nigeriane in Italia raccontano
frequentemente del loro legame con Mami Wata, il cui culto è diffuso nel sud del paese ed
è connotato dall’esperienza della possessione e della trance.
Questi aspetti dell’immaginario delle ragazze provenienti da Benin City, che qui sono
stati solamente accennati e che verranno approfonditi nei capitoli seguenti, determinano una
reazione di diffidenza o di disinteresse nei confronti delle possibilità di fuoriuscita dalla
prostituzione previsti in Italia dall’art.18 del D.L.286/98, come rilevano i servizi che se ne
occupano.
I panegirici centrati sulla “paura del vodu”, alla cui diffusione concorrono i mass
media, non migliorano la comprensione dell’universo simbolico di queste donne: esse
risultano essere sempre oggetto di discorsi altri e vengono dipinte esclusivamente come
vittime o schiave passive..
13
La complessità del fenomeno e il suo intrecciarsi con componenti religiose, culturali,
storiche ed economiche globali, rende necessario riconsiderarle invece come soggetti di
pratiche simbolizzate che costituiscono un linguaggio: da un lato, per riuscire ad operare
nella direzione di un incontro che favorisca la promozione dei diritti e contribuisca
all’eliminazione di ogni tipo di sfruttamento, dall’altro, per restituire dignità a tutte coloro
che investono in maniera attiva su un progetto di miglioramento di sé e della propria vita.
1.2 Costa degli Schiavi: una storia di partenze e contaminazioni
L’indagine sull’immaginario simbolico delle donne nigeriane in Italia deve
necessariamente cominciare con uno sguardo alla dimensione culturale del loro luogo
d’origine.
La zona della Costa degli Schiavi comprende la parte meridionale del Togo, del
Benin e della Nigeria ed è stato il territorio occupato per secoli dagli Yoruba, che oggi si
trovano concentrati soprattutto in Nigeria. In questo lavoro si prende a modello
l’organizzazione del simbolico propria degli Yoruba, in quanto essa ha influenzato ed è
stata a sua volta condizionata dagli altri gruppi occupanti il territorio dell’attuale Nigeria,
dando origine a un’omogeneità culturale riconosciuta da tutti coloro che si sono occupati di
studiare quest’area4.
Il termine Yoruba ha una storia complessa che riflette quella delle popolazioni che sta
a designare. Come riportato in un libro del capitano Clapperton del 1826, esso sembra
essere stato usato per la prima volta in un manoscritto in lingua araba del sultano degli
Hausa, del regno di Sokoto, per indicare il popolo di Oyo. L’estensione del nome sembra
dovuta allo sforzo di evangelizzazione dei missionari nei primi decenni del XIX secolo e fu
utilizzata dall’amministrazione britannica in funzione dell’unificazione dei diversi regni
sotto l’autorità del sovrano di Oyo.
«Il nome yoruba si applica a un gruppo linguistico di più milioni di persone [...],
oltre al loro linguaggio comune, gli Yoruba sono uniti da una stessa cultura e dalla
tradizione della loro origine comune dalla città di Ife, ma non sembra che abbiano mai
4
Vedi, ad esempio, Métraux 1971 e Verger 1982.
14
costituito un’unica entità politica e c’è da dubitare che, prima del XIX secolo, si
chiamassero gli uni gli altri con uno stesso nome»5.
I regni yoruba erano caratterizzati da una cultura agricola e urbana sviluppata già nel
periodo precoloniale e, nonostante fossero legati da deboli rapporti non sempre pacifici,
l’identità yoruba venne unificata nel mito attraverso una comune discendenza dall’antenato
“mitico” Odoudoua, fondatore della città di Ife.
Oyo costituiva il regno più potente, a cui molti degli altri erano legati da una
relazione di dipendenza: dovevano mostrare fedeltà e fare omaggio al re, in cambio della
sua protezione. Questo regno era inoltre al centro di una rotta carovaniera trans-sahariana
che lo inseriva nelle reti commerciali provenienti dall’Africa Settentrionale e lo metteva in
contatto con il mondo mediterraneo.
Furono proprio i mercanti a promuovere il processo di islamizzazione che, dalla fine
del XVIII e per tutto il XIX secolo, venne incrementato da una serie di jihad sviluppatesi
contro la penetrazione europea e contro le popolazioni non ancora convertite. Queste
probabilmente contribuirono alla fine di Oyo, individuabile intorno al 1830.
All’inizio del XVIII secolo i Portoghesi registrarono scontri tra Oyo e il re del
Dahomey: quest’ultimo nel 1727 distrusse il piccolo regno di Uidah, il cui porto divenne il
luogo di imbarco degli schiavi venduti agli Europei e reclutati tra i suoi nemici.
La religione yoruba riflette la complessità della struttura politica: è la religione degli
orisha, un modello simbolico avanzato, un politeismo costituito da un articolato pantheon di
divinità legate da complicati rapporti genealogici e gerarchici. Il famoso africanista di
Francoforte Leo Frobenius così illustrava il simbolico religioso yorouba agli inizi del XX
secolo «La religione yoruba, tale e quale si presenta in questo momento (1910), non è
diventata omogenea che gradualmente. La sua uniformità è il risultato dell’adattamento e
dell’amalgama progressivi di credenze venute da differenti direzioni»6.
Pierre Verger fa notare che il pantheon degli orisha non è sempre unico e identico in
tutte le parti del territorio considerato yoruba, ma dipende dalla storia delle città di cui
ciascuna divinità è protettrice. Per esempio Odoudoua, fondatore di Ife, ha mantenuto un
5
S. O. Biobaku cit. in Verger 1982. Per approfondire vedi S.O. Biobaku, Sources of Yoruba history, Oxford,
1973.
6
L. Frobenius cit. in Verger 1982. Per approfondire vedi L. Frobenius, Mythologie de l’Atlantide, Paris, 1949.
15
carattere più temporale che divino, com’è evidente dal fatto che nel suo culto le persone
incaricate di invocarlo non sperimentano la trance di possessione.
L’orisha è in principio un antenato divinizzato che può controllare le forze della
natura, come il tuono, il vento, le acque dolci o salate, o può rappresentare un’attività
precisa, quali la caccia, la lavorazione dei metalli, la conoscenza e l’uso delle piante. Ogni
orisha contribuisce a difendere la dinastia del re o il potere del capo assicurando stabilità e
continuità, nello stesso tempo il sovrano ha carattere sacro, in quanto discendente della
divinità. La religione yoruba è dunque legata alla nozione di famiglia, una famiglia estesa,
derivante da un antenato mitico comune ed ingloba i vivi e i morti. I miti narrano che la
metamorfosi da uomo a dio sia avvenuta in un momento di profonda agitazione, rabbia o
rimpianto: la materia scompare, rimane solo il potere, chiamato àse, forza immateriale che
esiste in sé e rappresenta l’orisha come essere potente. La forza dell’orisha può essere
raccolta in un vaso piantato nel terreno che si pone come base concreta e tangibile della
potenza alla quale affidare le offerte e sulla quale viene versato il sangue degli animali
sacrificati.
Oltre all’oggetto, anche il corpo dell’uomo funge da mezzo attraverso il quale l’orisha
può tornare sulla terra e ricevere le dimostrazioni di reverenza e rispetto dei discendenti che
lo hanno invocato. Sull’elégùn, la persona prescelta, l’àse si cala durante la trance di
possessione. I prescelti, sia maschi che femmine, sono definiti “donne dell’orisha”, per
indicare il rapporto di sottomissione e dipendenza dell’uomo nei confronti del dio. Durante
la sua performance umana, ogni dio presenta una forte caratterizzazione e si differenzia
dagli altri per la complessa personalità e i suoi attributi: Ogun, dio della guerra e del ferro,
si mostra aggressivo e violento; Shango, dio del fulmine, porta una doppia ascia in mano (è
interessante notare lo stesso simbolo di Zeus nel pantheon greco) e appare energico e
autorevole; Yémaja, dea dei fiumi, è protettrice e talvolta arrogante. Le cerimonie in cui il
dio viene invocato durano per giorni e seguono uno schema ben definito di pratiche rituali,
che consistono in offerte e sacrifici e trovano il loro momento centrale nella trance di
possessione, accompagnata da un complesso musicale di danze con ritmi differenziati in
rapporto a ciascun orisha.
Ogni lignaggio ha il proprio dio, che riserva i suoi benefici al solo gruppo familiare e
diventa ereditario in senso patrilineare: i figli seguono quindi l’orisha del padre, anche se il
16
culto di un’altra divinità può essere indicato per divinazione. Con la divinazione effettuata
da un sacerdote, detto babalawo, viene anche designato l’elégùn, il quale dovrà compiere
un percorso di iniziazione che comincia in tenera età.
Il babalawo è il portavoce di Orunmila, il quale custodisce la conoscenza dei destini
individuali, ma non può essere considerato un vero e proprio orisha. L’iniziazione del
babalawo non comporta una perdita di coscienza, come quella degli elégùn nel momento in
cui vengono posseduti, ma il suo apprendistato consiste nell’imparare i miti e i saperi
tradizionali, raccolti in 256 odu (segni). Ogni individuo è legato a uno di questi, il quale
serve a conoscerne l’identità profonda. La divinazione permette di individuare la causa di
un problema e il sacrificio per la sua risoluzione. Il babalawo ha anche il ruolo di guaritore
e riceve suggerimenti da Orunmila sulle radici e le piante da usare. E’ praticata
l’oniromanzia per ottenere informazioni sulla volontà di un dio o per predire il futuro. La
causa di malattia, morte e sventure viene solitamente imputata al fenomeno della
“stregoneria”, legata soprattutto al mondo femminile, i cui poteri possono essere trasmessi
da madre a figlia.
L’influenza degli Yoruba è stata enorme sui popoli con cui sono entrati in contatto:
dal punto di vista religioso c’è stata tolleranza e apertura, tanto da portare alla costituzione
di pantheon in cui le divinità di origini diverse venivano integrate nella struttura
tradizionale del regno che si espandeva. Lo stesso è avvenuto per i vicini orientali del regno
di Benin, gli Edo o Bini, che costituiscono oggi il gruppo etnico maggioritario delle donne
che arrivano in Italia con il traffico.
Il termine vodu, utilizzato molto spesso per parlare del sistema simbolico di
quest’area, è una parola di origine fon e yoruba che rimanda letteralmente al significato
generico di “divinità”.
Nonostante ciò, il suo uso sembra riferirsi specificamente al “dio oggetto”, secondo la
definizione data da Marc Augé, ovvero alla raffigurazione antropomorfa della divinità sotto
forma di immagini e statuette in legno o in pietra, a cui vengono attribuiti i poteri e lo
spirito del dio. Come scrive Métraux, «...un vodu è un “dio”, uno spirito, la sua
“immagine”, tutto quello che gli Europei designano con il nome di “feticcio”» (Métraux
1971: 23). Non a caso la parola feticcio7 fu introdotta dai primi colonizzatori portoghesi
7
Per feticcio intendiamo un oggetto, considerato carico di poteri, che l’uomo stesso fabbrica per venerare.
17
dell’Africa Occidentale per indicare gli “idoli” che qui venivano adorati, anche se essi ne
estesero l’uso per contrassegnare oggetti di culto di tipo diverso.
E’ interessante sottolineare la comparazione che ne fa Augé, riprendendo
un’osservazione avanzata da Vernant, con il kolossós greco, doppio del morto, «come il
morto stesso è un doppio del vivo»8, anche se il kolossós rimanda al mistero e all’ignoto
dell’aldilà, mentre il vodu sottolinea la dimensione di familiarità tra dei e uomini.
Scrive Augé che «quasi anticipando lo sforzo dell’etnologo, essi (i sacerdoti e gli
indovini) hanno sempre saputo che il linguaggio degli dei serve solo a esplicitare la
pratica degli uomini e hanno provato a esplorare un mondo in cui le parole non sono
superate dalle cose, né le parole e le cose dagli dei, ma in cui l’individualità umana,
incapace di identificarsi totalmente con le parole, con le cose o con gli dei, si riflette
continuamente per meglio comprendersi » (Augé, 2002: 14).
Viene sollevata quindi la questione dell’identità, umana in primo luogo, ma anche del
singolo, la quale chiama necessariamente in causa il suo rapporto con l’alterità. La prima
forma di alterità con cui l’uomo entra in rapporto è quella della natura, la materialità bruta
che costituisce l’impensabile che è necessario pensare e interpretare. La relazione è ciò che
dà senso a questa materia, e la materia è la base sulla quale questa relazione può
rappresentarsi.
Attraverso il simbolo, che mette in rapporto realtà o esseri, ma anche sistemi
simbolici differenti9, questa relazione non viene solo rappresentata, ma viene generata.
Il “dio oggetto” è propriamente un simbolo, che tenta di rispondere alla triplice domanda alla base di ogni dispositivo simbolico: Che cosa sono? Chi sono? Che cos’è l’altro?
Tale dispositivo simbolico trova il proprio fondamento nella vita sociale, è il linguaggio che
ne permette la stessa esistenza e la produce.
8
J.-P. Vernant cit. in Augè 2002:12. Per approfondire vedi J.-P. Vernant, Mythe et pensée chez les Grecs.
Études de psychologie historique, Maspero, Paris, 1965 (trad.it. Mito e pensiero presso i Greci, Einaudi, Torino).
9
«Ogni cultura può essere considerata come un insieme di sistemi simbolici in cui, al primo posto, si collocano il linguaggio, le regole matrimoniali, i rapporti economici, l’arte, la scienza, la religione. Tutti questi sistemi tendono a esprimere taluni aspetti della realtà fisica e della realtà sociale e, ancor di più, le relazioni che
intercorrono tra questi due tipi di realtà e quelle che intercorrono tra gli stessi sistemi simbolici» cit. in Augé
2002: 44. Per approfondire vedi C. Lévi-Strauss, “Introduction à l’oeuvre de Marcel Mauss” in M. Mauss,
Sociologie et anthropologie, Puf, Paris, 1950).
18
Così, per esempio, ogni vodu ordina il gruppo, nel duplice senso di rappresentarlo (si
è visto il legame di ogni divinità con il lignaggio, a partire dalla dinastia reale) e di organizzare al suo interno le differenze sociali, mettendole all’opera attraverso la pratica: i semplici
fedeli si distinguono dai sacerdoti, gli iniziati dai non iniziati.
La materia prima di questa relazione è il corpo, che diventa significante e significato
insieme: corpo degli dei in rapporto al corpo degli uomini, corpo in rapporto all’oggetto.
Il “dio oggetto” si presenta con sembianze antropomorfe, ha fame e sete, può essere
rappresentato un infinito numero di volte eppure rimane uno, quel dio. Il nome gli conferisce un’identità precisa che viene mantenuta, la sua moltiplicazione rispecchia quella della
discendenza, come lo stesso accade per il sovrano che incarna l’antenato divinizzato. Viceversa, il corpo umano si avvicina all’oggetto, tende a confondersi con la pura materialità: è
la morte, che è necessario ritualizzare. Allo stesso tempo il corpo umano è segnato dal dio,
come dimostrano le scarificazioni durante un'iniziazione, o la trance di possessione in cui
viene messo al centro e si fa mezzo della manifestazione della divinità, o ancora la malattia
e la morte: esso stesso assurge quindi a simbolo. Questi segni significano la relazione tra sistemi simbolici diversi, messi in luce, resi trasparenti, dagli “specialisti della chiaroveggenza”.
Gli “dei oggetto” diventano quindi i mediatori che traducono linguaggi differenti,
permettendo di passare da un sistema all’altro. Sono dunque oggetti sociali totali, come
Augé li definisce parafrasando Mauss: «Il dio oggetto è l’istanza e il luogo per i quali è necessario passare per andare da un individuo all’altro, da un punto a un altro o da un ordine simbolico a un altro, ma anche da sé a sé poichè l’intimità e l’interiorità individuali
sono plurali. L’oggetto simbolo e feticcio afferma e nega la frontiera; più esattamente ne
afferma la realtà dando la possibilità ed esplicitando la necessità di varcarla: riafferma in
ogni istante la frontiera, moltiplicando eventualmente i divieti, per suggerire la possibilità
e la necessità del passaggio» (Augé 2002: 136). L’autore sottolinea l’importanza delle esegesi individuali che danno di uno stesso pantheon e di una medesima mitologia varianti diverse e interpretazioni a volte divergenti: da questi racconti personali è necessario iniziare
una comparazione, in quanto essi riformulano continuamente i problemi riguardanti l’essere, l’identità e la relazione.
19
La parola vodu è passata ad indicare la religione sincretica di Haiti che ebbe origine
in seguito all’interazione e alla fusione di elementi yoruba, fon e congo, i gruppi maggioritari vittime della tratta, con le istanze del cattolicesimo. Altri sincretismi ebbero luogo nel
nuovo mondo con la deportazione delle popolazioni del Golfo di Guinea, come il candomblè brasiliano e la santería cubana.
Le numerose divinità del pantheon originario sono state accostate ai santi cattolici, la
trance di possessione è rimasta al centro delle pratiche rituali, l’organizzazione sacerdotale
si è mantenuta, i riti di iniziazione danno accesso a quelle che sono diventate delle “microsocietà” (Bastide 1990), slegate dall’organizzazione familiare e che si configurano come
sette o confraternite indipendenti.
I culti tradizionali sono serviti come elemento di coesione e come piattaforma sulla
quale gli schiavi deportati hanno potuto ricostruire un’identità collettiva che permettesse la
loro sopravvivenza nel nuovo mondo. Scrive Métraux che «il culto degli spiriti e degli dei,
così come la magia, furono per lo schiavo contemporaneamente un rifugio e una forma di
resistenza all’oppressione» (Métraux, 1971: 29). Il vodu haitiano fu il sostegno alle prime
rivolte contro i bianchi e alle rivendicazioni d’indipendenza a cavallo tra il XVIII e XIX secolo.
In tutto il mondo colonizzato l’urto con la cultura occidentale e l’acculturazione favorita dall’attività missionaria hanno prodotto riorganizzazioni all’interno dei sistemi simbolici tradizionali, rispondendo alla necessità di pensare le nuove congiunture storiche e di recuperare un modo dell’essere nel mondo, minacciato dal dominio dei bianchi. Nuovi movimenti religiosi profetici, spesso scaturiti nella formazione e proliferazione di chiese, sono
sorti in Africa.
In generale, l’influenza della tradizione escatologica giudaico-cristiana ha dato origine a queste “tecnologie del sacro” (Balandier 1990) messianiche e millenariste che profilano l’avvento di nuovi regni di pace e giustizia per rispondere all’insicurezza generata dalla
colonizzazione e proseguita con la decolonizzazione e la formazione di élites locali e di
nuovi governi occidentalizzati.
Questi movimenti hanno carattere sincretico. Oltre a riguardare il processo di cristianizzazione che ha coinvolto gran parte dell’Africa nera, si verificano anche all’interno del
quadro islamico, come nel caso del Mahadismo (Mahdi è il messia) diffusosi in Somalia,
20
Senegal, Sudan e nei sultanati hausa del nord della Nigeria, dove nel 1923 è stata anche introdotta, a Lagos e a Ibadan, la setta islamica degli Ahmadiyya, fondata in India, la quale
prende il nome dall’atteso profeta Ahmad.
Il complesso mitico-rituale tradizionale viene rielaborato e riadattato, mantenendo alcune delle strutture tipiche dell’organizzazione sociale, come la poligamia, in contrasto con
l’insegnamento cristiano.
Tutti i nuovi movimenti religiosi sembrano d’altro canto sostenere la lotta antifeticista
e antistregonica, che rompe solo formalmente con il complesso tradizionale. L’occupazione
europea ha infatti contribuito al sorgere di gravi problemi per le popolazioni autoctone, interpretati come gli effetti di un’azione malefica: malattie sconosciute, disagio sociale, corruzione dei costumi e dei valori morali che fondavano il gruppo, rottura dei legami comunitari. Questi pericoli vengono reinterpretati come interventi del diavolo, “forze sataniche”,
producendo parallelismi tra la tradizionale “stregoneria” o il culto di vodu e un concetto di
Male, fondato sull’opposizione dualistica di tradizione giudaico-cristiana, fino ad allora
estraneo a quei popoli.
Balandier sottolinea come la nascita dei nuovi movimenti religiosi risalga alla vecchia
colonizzazione e non debba essere considerata esclusivamente una risposta culturale ai processi di modernizzazione: nei primi anni del ‘700 si afferma in Congo la “setta degli antoniani”, sorta in seguito alle rivelazioni ricevute da Donna Beatrice, che annuncia l’avvento
di un’età dell’oro in cui i nativi potranno godere degli stessi beni dei bianchi.
In Africa si devono distinguere due modalità di risoluzione della crisi attraverso l’innovazione religiosa, in corrispondenza allo specifico tipo di sfruttamento coloniale avvenuto nella parte occidentale del continente.
Nelle zone dell’Africa orientale, centrale e meridionale le nuove chiese hanno carattere emancipazionista e anticolonialista e sono sorte come risposta al problema delle terre da
cui i nativi erano stati espropriati e usati come manodopera per le piantagioni degli europei.
Lo sfruttamento coloniale diretto ha portato a una politica di segregazione, della quale l’esempio più noto è il caso del Sudafrica con il Native Land Act del 1913 e l’Urban Act del
1923. Qui sono nate le chiese di tipo etiopista e sionista, che hanno trovato nell’Antico Testamento, e in particolare nella figura di Mosè, il modello da adattare alla propria ideologia
di liberazione dalla schiavitù dei bianchi. La reinterpretazione della Bibbia viene intesa in
21
senso nazionalista e pararivoluzionario: sono chiari i contenuti politici e sociali di questi
movimenti che lottano contro l’oppressione bianca e ne rifiutano i modelli e gli stili di vita.
La setta dei Mau Mau in Kenya e il movimento Kimbangista in Congo hanno lo stesso carattere irredentista. Quello che li accomuna è anche l’innesto di pratiche rituali tradizionali sul modello della liturgia cristiana: la possessione ad opera di Dio, il battesimo
come rito di purificazione, la confessione. Dopo l’acquisizione dell’indipendenza questi
movimenti sono passati a posizioni integriste e hanno assunto la forma di chiese evangeliche.
In Africa occidentale lo sfruttamento coloniale si manifesta invece in modo indiretto:
i bianchi promuovono la sostituzione dei prodotti coltivati, in funzione del mercato europeo, ma le terre rimangono di proprietà dei nativi. L’impatto più forte è dato dallo scontro
con una cultura tecnologicamente superiore che assurge a modello e incanta; nello stesso
tempo l’inurbamento porta alla disgregazione della struttura sociale tradizionale basata sulla famiglia allargata e sull’organizzazione clanica.
Questo produce una sensazione di “spossessamento culturale” (Lanternari 1983: 166)
e di minaccia per la perdita d’identità. Non trova radici il messianismo che ha caratterizzato
i nuovi movimenti religiosi nelle altre parti dell’Africa, né viene promosso l’anticolonialismo e la lotta contro i modelli occidentali. L’urgenza è quella di ricostituire le basi di una
socialità che viene a mancare, le nuove chiese hanno dunque una funzione surrogativa e
compensativa laddove lo squilibrio di forze non permetterebbe un confronto sul piano politico e militare.
I nuovi gruppi, che in un momento successivo daranno origine a vere e proprie chiese, nascono nelle città intorno a una figura carismatica che si propone come un padre o un
fratello maggiore all’interno di una “grande famiglia”, riformulando così i rapporti verticali
in seno al tradizionale sistema parentale. La maggiore influenza deriva dal pentecostalismo
anglo-americano, diffusosi attraverso le missioni occidentali nel secondo dopoguerra, il
quale costruisce la piattaforma sulla quale le chiese “spirituali” e “carismatiche” andranno a
formarsi, riprendendo la formula dei doni carismatici dello Spirito Santo: guarigione, glossolalia e profezia.
Le guarigioni attraverso la preghiera sono effettuate dal leader del gruppo, sul modello del Gesù taumaturgo, dispensatore di miracoli. Le cerimonie hanno una forte valenza
22
emotiva e si basano su canti, danze, glossolalia, possessioni collettive da parte dello Spirito
Santo, confessioni pubbliche che permettano di combattere le “evil forces” stregonesche e
diaboliche, favorendo il confronto diretto con gli altri. Il carattere terapeutico di questi movimenti si inscrive in una concezione della malattia che trova le sue origini nel comportamento umano, nell’infrazione di norme, in un conflitto all’interno della comunità: la malattia non riguarda mai solo il singolo, ma è sempre sociale. Centrali sono i sogni e le visioni
del profeta-fondatore: essi appaiono come rivelazioni e preannunciano l’avvento di un’era
di benessere e prosperità, che nell’Africa occidentale non assume connotazioni politiche,
ma è strettamente legata alla vita mondana, alla ricchezza e alla salute. Il riferimento biblico privilegiato è il Nuovo Testamento: umanitarismo universalista, miracolismo, discesa
dello Spirito Santo sono i tratti che ne vengono recepiti.
A queste caratteristiche corrisponde il filone delle “chiese di guarigione mediante preghiera”, sviluppatosi durante la prima metà del Novecento dall’esperienza nigeriana delle
chiese di “Aladura” (preghiera), nate dall’opera di ex adepti delle missioni cristiane e sviluppatesi tra i nativi immigrati nelle città.
Il modello occidentale è incoraggiato e sostenuto. Proprio questo “etnocentrismo invertito”, basato sul confronto con una cultura considerata superiore, viene accolto dalla borghesia autoctona e dai governi come spinta modernizzatrice.
Questa ricerca mimetica appare evidente all’interno del movimento di innovazione
religiosa guidato da Harris e diffusosi in Costa d’Avorio e in Costa d’Oro. La sua dottrina è
centrata sulla necessità dell’istruzione per “diventare come i bianchi”: «Se voi sarete fedeli
a quel ch’io vi dico, voi diverrete come i bianchi, mangerete sulla tavola come i bianchi,
siederete su sedie come i bianchi, avrete case con più piani come i bianchi»10.
L’atteggiamento di rigetto per la cultura nativa e di adesione totale ai modelli occidentali sembra delineare quella che Lanternari ha definito la manifestazione di «una delle
crisi più gravi e compromettenti», conseguente ad una perdita di valori non così facilmente
rimpiazzabili.
Tuttavia, la fusione sincretica degli elementi tradizionali con quelli nuovamente introdotti non riduce la complessità culturale di questi popoli a una semplice imitazione. Al contrario, essa fornisce il materiale attraverso cui delineare un nuovo orizzonte operativo.
10
cit. in Lanternari 1983: 198.
23
Il modello ciclico del tempo, l’eterno ritorno su cui si configura il complesso miticorituale tradizionale con funzione di destorificazione e risoluzione della crisi, subisce l’impatto terrorizzante con la tradizione escatologica giudaico-cristiana fondata sulla linearità
della storia da un archè a un eschaton. De Martino sottolinea come questo sia il momento
in cui il futuro diventa tema culturale, nei termini di una catastrofe imminente che segnerà
l’inizio di un mondo nuovo e salvifico.
L’apocalisse culturale dei popoli africani viene istituzionalizzata in modelli socializzati di comportamento e sottratta alla “nuda crisi” senza riscatto che sfocerebbe nella solitudine dei disturbi psicopatologici: è questo il senso della proliferazione di sette e chiese a cui
ancora oggi assistiamo in Africa.
24
2. I POTERI RITUALI: LO SFORZO DEL “DOVERCI ESSERE”
2.1
Nuove disuguaglianze, nuovi poteri
I termini “stregoneria”, “magia”, “occulto” sono espressioni utilizzate con significati
non sempre chiari e in contesti molto diversi. Essi nascono soprattutto come prodotto delle
categorie interpretative dell’osservatore esterno, anziché costituire delle realtà esistenti
nelle società osservate.
Dal punto di vista evoluzionista, le pratiche magiche sono caratterizzate da una
fondamentale irrazionalità che le colloca al livello più basso dello sviluppo dell’umanità, il
quale culmina nel pensiero scientifico. E’ Malinowski a mettere per primo in luce la
funzione pragmatica del mondo magico, volto alla risoluzione delle frustrazioni
psicologiche dell’uomo.
In questo lavoro s’intende considerare in particolar modo la posizione assunta da
Ernesto de Martino, il quale individua nel mondo magico lo «scandalo»11 della «natura
culturalmente condizionata», nella quale «vive e si esprime un dramma culturale definito».
Il mondo magico esprime infatti «il rischio di perdere la propria anima e il riscatto
relativo»: «Nel mondo magico l’anima può essere perduta nel senso che nella realtà,
nell’esperienza e nella rappresentazione essa non si è ancora data, ma è una fragile
presenza che [...] il mondo rischia di inghiottire e vanificare. Nel mondo magico
l’individuazione non è un fatto, ma un compito storico, e l’esserci è una realtà condenda.
Di qui un complesso di esperienze e di rappresentazioni, di misure protettive e pratiche,
che esprimono ora il momento del rischio esistenziale magico, ora il riscatto culturale, e
che formano, nella loro drammatica polarità, il mondo storico della magia» (De Martino
2003: 75).
Sotto l’influenza della morale cristiana che ha imposto il bipolarismo Bene/Male
come chiave di lettura di un ampio e complesso insieme di fenomeni, il termine
“stregoneria” ha assunto connotati negativi, perchè associata al concetto di “magia nera” in
11
Lo “scandalo” a cui l’autore si riferisce è, in primo luogo, la possibilità di fenomeni paranormali, quindi di
“psichicità che torna alla natura”, per un mondo, quello occidentale, che fonda il suo percorso storico e il suo
esistere sul pensiero scientifico. De Martino si propone di riflettere non solo sul mondo magico, ma anche sull’approccio occidentale ad esso, rivalutando, come primo passo, la categoria interpretativa di realtà. Vedi De
Martino 1948 (ried. 2003).
25
opposizione alla “magia bianca” a fini benefici. A partire da questa considerazione, per
evitare semplicistiche riduzioni, ci si riferisce a tali fenomeni in quanto ritual powers,
valutando il magismo (De Martino 2003) non solo come insieme di discorsi, ma anche
come sistema di pratiche, di modi d’agire sul mondo.
Lo studio di Evans-Pritchard sugli Azande del Sudan anglo-egiziano mette in luce il
carattere di razionalità e di coerenza della “stregoneria”12, che viene ricondotta a un
discorso attraverso il quale spiegare la sventura.
Evans-Pritchard elabora una distinzione teorica tra witchcraft e sorcery che andrà ad
influenzare molti lavori successivi sull’argomento.
La “stregoneria” (witchcraft) consiste in un potere psichico; essa corrisponde a una
particolare caratteristica fisica, interna al corpo dello stregone, ereditaria, tramandata da un
genitore ai figli dello stesso sesso. Sia le donne che gli uomini possono esercitare i suoi
poteri.
La “fattucchieria” (sorcery) si esercita attraverso i riti magici ed è invece un potere
acquisito.
I moventi di witchcraft e sorcery sono gli stessi: rancori personali, invidie, gelosie che
si scatenano tra individui della stessa condizione sociale. Entrambe si oppongono alla
“magia buona”, finalizzata al compimento della giustizia e legata a un ordine morale che
deve essere rispettato. Essa può essere usata come arma di vendetta dalla vittima della
“stregoneria” o della “fattucchieria”, grazie all’individuazione del responsabile ad opera di
un oracolo.
De Martino fa notare la contraddittorietà apparente del rischio di non esserci come
obiettivo dell’atto magico, ma sottolinea che «attraverso la fattura e la controfattura il
rischio di non esserci e il relativo riscatto riceve un’altra ulteriore umanizzazione e
intensificazione. L’uomo ora controlla tutti i momenti del dramma magico, non soltanto la
sua lisi, ma anche la produzione del rischio» (De Martino 2003: 109).
Accanto all’accusa contro un nemico considerato responsabile dei propri mali, Lewis
evidenzia i casi di stregoneria “introspettiva”, che consistono in autoaccuse: l’autore li
accosta alla possessione periferica per la forma comune di attacco indiretto e inscrive
entrambi in un contesto di rapporti di forza nel quale sono gli individui più deboli a cercare
12
Si riporta qui il termine “stregoneria” perchè utilizzato dall’autore stesso. L’uso delle virgolette rimanda
alla sua non completa esattezza, come chiarito più sopra.
26
voce13. L’autore sottolinea anche come possessione e “stregoneria” possano presentarsi
combinati in una medesima società: è il caso dell’Europa del XVI e XVII secolo, quando la
“stregoneria”, di cui le donne erano i soggetti più accusati, veniva imputata alla possessione
diabolica o comunque al patto con il diavolo.
Il caso della stregoneria “estroversa”, la forma di attacco diretto rappresentata dalla
fattura, sembra esistere soprattutto nei rapporti fra eguali, o come azione di un superiore nei
confronti di un suo subordinato. Essa sarebbe associata a comportamenti antisociali, ritenuti
immorali. E’ frequente che i soggetti più coinvolti siano le donne.
Lewis ritiene possibile che le due forme possano costituire anche momenti
consecutivi: una donna che ha imparato a controllare il proprio spirito può esercitare
l’attività divinatoria, acquisendo un’autorità che minaccia il potere dell’uomo: da qui
l’associazione con la “fattucchieria”, legata anche a cambiamenti socio-economici radicali.
Quello che l’autore mette in luce è il rapporto tra stregoneria (e possessione) e potere.
Negli studi postmoderni questa relazione viene riproposta alla luce dei processi di
modernizzazione delle economie e delle società africane: lungi dal porre fine ai discorsi
sulla “stregoneria”, essi sembrano avere dato origine a una loro proliferazione.
«Sorcery/witchcraft is by definition associated with inequality – that is, with power»
(Geschiere 1997: 228n). Geschiere parla esplicitamente di “modernità della stregoneria”, in
ragione del suo svilupparsi in relazione ai cambiamenti socio-politico-economici
nell’Africa coloniale e postcoloniale. Quello che viene messo in luce è il carattere
sperimentale e innovativo dei poteri rituali: essi servono a dare senso a un mondo in
mutazione per poter continuare ad agire su di esso, per dare ragione allo sforzo di
empowerment degli individui.
Alla base di questa necessità sta il confronto tra locale e globale e le sfide lanciate
alle società conosciute come “tradizionali”.
Come osservano J. e J. Comaroff (1993), il colonialismo non ha sottratto all’Africa la
capacità di agire sul mondo, né la globalizzazione è servita a rendere uniformi le culture in
funzione del mito del progresso. Le tecniche e i simboli che caratterizzano i poteri
«diventano potenti precisamente in ragione delle circostanze storiche in cui acquistano
significato; cioè dei processi che legano le culture e le comunità locali alle forze sempre
13
Rimando al capitolo 3 per un approfondimento sul tema della possessione. La possessione qui connessa alla
stregoneria è quella ad opera di spiriti periferici, non appartenenti al culto principale.
27
più globali che premono su di esse» (Comaroff 1993: xxii). I ritual powers si collocano
dunque alla frontiera tra mondi diversi, costituiscono pratiche di confine necessarie a
preservare un sistema di valori in cui riconoscersi, aprendosi contemporaneamente a nuove
possibilità di significazione.
Esemplare in questo senso è l’ambiguo rapporto élite-villaggio che si inscrive nella
“modernità africana”: la migrazione di uomini e donne verso la città provoca sentimenti di
incertezza e sospetto da parte di chi rimane nella comunità d’appartenenza, i cui confini si
disfano, diventano permeabili e non più chiaramente definiti. Le nuove ricchezze acquisite
dai lavoratori urbani non sono controllabili, non se ne conosce l’origine, appaiono
incomprensibili.
Nel suo studio sulla stampa popolare nigeriana, Bastian (1993) rileva come il
concetto Igbo di bene, mma, abbia un carattere essenzialmente attivo, in quanto produzione
di una ricchezza che va a beneficio dell’intera comunità. L’autore osserva che uno dei segni
più forti del mma consiste nell’avere dei figli, non solo per ragioni di discendenza e
riproduzione di legami, ma anche come fonte di ricchezza materiale e spirituale, dato che la
ridistribuzione materiale contribuisce all’arricchimento spirituale e rende possibile
assumere la forma umana dell’antenato morto, acquisendone i poteri.
Le immagini accostate a chi è accusato di “stregoneria” sono particolarmente
eloquenti: la trasformazione in uccello notturno, il “mangiare il cuore” della propria
vittima, le riunioni notturne durante le quali ciascuno divora la prole, rappresentano
individui che distruggono i propri discendenti e mirano ad un accumulo individualistico del
bene comune.
Per i nonresident che tornano al villaggio mostrando una nuova ricchezza, questa è
l’accusa. Essi vengono riconosciuti come presenze aliene, appartenenti alla modernità della
vita urbana, alla quale viene spesso accostata l’idea di una sessualità impropria e
dell’assenza di legami stabili14. D’altro canto, gli anziani del villaggio vengono accusati
allo stesso modo per averli esclusi dalla partecipazione alla comunità, e di conseguenza, a
quella più ampia delle forze ancestrali.
14
Bastian rimanda a uno studio di Luise White sulla prostituzione a Nairobi (“Bodily Fluids and Usufruct:
Controlling Property in Nairobi, 1917-1939”, Canadian Journal of African Studies 24). L’autore sottolinea
che anche durante la sua ricerca ad Onitsha, Nigeria, gli anziani resident si lamentavano del fatto che i loro
«nonresident brothers» credessero di poter sposare «chiunque piacesse loro» e che «loose women» (donne libere, dissolute), nelle aree urbane, tentassero di ingannare giovani uomini innocenti conducendoli al matrimonio, «o peggio» (Bastian 1993: 160n).
28
Geschiere raccomanda di non ridurre tali fenomeni a mere spinte egualitarie e
livellatrici delle diseguaglianze all’interno di una società. I poteri rituali sembrano, oggi più
che mai, insinuarsi in ogni ambiente e assumere caratteri ambigui, essendo posti anche al
servizio di chi vuole mantenere i nuovi privilegi acquisiti. L’autore riferisce di come i
politici camerunesi vantino le straordinarie doti dei loro nganga, assoldati per garantire loro
il potere e per intimorire gli avversari e invocati durante la propaganda politica.
Attraverso la ricerca sul campo svolta in Camerun agli inizi degli anni Settanta,
Geschiere rileva come i discorsi su questi poteri rituali abbiano cambiato forma e si
presentino di fatto come fenomeni nuovi, in corrispondenza delle nuove disuguaglianze
prodotte dalla globalizzazione capitalistica e dalla rottura dei legami comunitari.
Nel caso del Camerun, la competitività politico-economica ha generato conflitti
interetnici tra i Beti del centro-sud e i Bamileke che occupano le aree nord-occidentali del
Paese. I primi rappresentano l’élite al potere, mentre tra i secondi è emersa una classe di
imprenditori e uomini d’affari che controlla l’economia nazionale. I Beti vengono accusati
di “mangiare lo Stato” (evu), rimodellando la simbologia tradizionale dell’antropofagia. Di
contro, i Beti incolpano i nemici di esercitare la famla15, che non consiste più nell’uccisione
delle vittime, ma nella loro trasformazione in zombie da sfruttare come manodopera per il
loro arricchimento, usati di notte nelle “piantagioni invisibili” (Geschiere 1997). Lo stesso
accade per l’ekong delle zone sud-occidentali, intorno a Duala.
La possibilità che questi nuovi lavoratori vengano venduti richiama inoltre il passato
della tratta degli schiavi, attiva anche sulle coste del Camerun. La proprietà di nuovi beni di
consumo (una casa in muratura con televisione e frigorifero, una macchina di lusso...)
caratterizza i detentori di famla o ekong. Geschiere individua il segreto del dinamismo dei
discorsi sulla “stregoneria” nel loro legame con le nozioni di “flusso” e “apertura”: «Il
mercato mondiale rappresenta, come la stregoneria, una breccia pericolosa nella chiusura
della comunità locale» (Geschiere 2000: 26).
In Nigeria, accuse di “stregoneria” si sono diffuse con l’emergere della ricchezza
derivante dal petrolio, accompagnata dal declino dell’agricoltura, dal sovraffollamento
delle città che hanno raccolto disoccupati e nuovi poveri, e da una ridefinizione della
struttura sociale dettata dall’aumento della competitività tra i diversi gruppi.
15
Geschiere sottolinea l’inadeguatezza dei termini sorcellerie o witchcraft per parlare dei fenomeni citati, preferendo riportare le denominazioni usate dai soggetti coinvolti.
29
Secondo uno studio di Barber (1982) sulle reazioni popolari al petro-naira, il concetto
yoruba di ricchezza derivante dal lavoro è stato messo in discussione dagli enormi guadagni
petroliferi nelle mani di pochi: tra questi, il numero esiguo di nigeriani che ne hanno potuto
beneficiare sono stati uomini della classe media o funzionari governativi, grazie alla
corrotta gestione dei rapporti con le compagnie occidentali che detengono il monopolio
dello sfruttamento dei giacimenti.
Il parallelo incremento della piccola criminalità, dovuto alle condizioni di vita sempre
più difficili della popolazione, è stato definito la vera minaccia del Paese dall’opinione
pubblica, manipolata dall’élite al potere che vedeva in pericolo le sue sicurezze e le sue
proprietà.
Queste tensioni hanno dato origine all’immagine popolare del rapitore di bambini che
ne utilizza il sangue per fare medicines con cui ottenere una ricchezza senza fine,
moralmente rifiutata perchè conseguita senza sforzo e senza il consenso della comunità.
Gli esempi sopra citati pongono l’accento sulla riplasmazione creativa dei discorsi sui
poteri rituali, a partire da nozioni ed immagini legati ad elementi tradizionali che devono
essere ripensati per poter trovare risposte culturali nuove alle sfide contemporanee
dell’essere nel mondo. Questa “invenzione della tradizione”16 costituisce «...lo sforzo di
ampio respiro che gli uomini e le donne [...], tra i più esclusi dalla globalizzazione,
intraprendono per ripensare il mondo e per potersi rappresentare come attori e non come
vittime passive»17.
16
Si riprende il concetto di “invenzione della tradizione” elaborato da E. J. Hobsbawm. Lo storico sottolinea
come l’invenzione di una tradizione «...si verifichi più frequentemente quando una rapida trasformazione della società indebolisce o distrugge i modelli sociali ai quali si erano informate le “vecchie” tradizioni, producendone di nuovi ai quali queste non sono più applicabili; oppure quando le vecchie tradizioni, le loro carriere
istituzionali e i loro promotori non si dimostrano più abbastanza adattabili e flessibili, o vengono comunque
eliminati...» (Hobsbawm 2002: 7). L’autore mette in luce come la formalizzazione di nuove tradizioni non sia
limitata alle cosiddette “società tradizionali”, ma si estenda anche a quelle “moderne”.
17
B. Jewsiewicki, cit. in Geschiere 2000: 25.
30
2.2
Il corpo femminile oggetto di attacco
Analizzando i discorsi sulla “stregoneria” nella zona dell’Africa Occidentale
considerata, appaiono frequenti le accuse nei confronti delle donne, a partire
dall’ereditarietà matrilineare dei poteri, i quali sembrano costituire una qualità
“immanente” del corpo femminile, rendendo ogni donna potenziale pericolo e quindi
oggetto di sospetto.
Bastian (1993) mette in rilievo le differenze esistenti tra poteri maschili e femminili
negli Igbo della Nigeria meridionale, portando alla luce come i primi consistano in una
conoscenza potenziata, garantita dalla capacità di utilizzare medicines e acquisita
solitamente attraverso un processo di apprendimento, che si contrappone all’innata capacità
delle donne di esercitare la “stregoneria”.
Ingredienti attivi di queste medicines risultano essere spesso parti del corpo
femminile legate alla funzione riproduttiva che, secondo l’analisi di Matory (1993), sono
considerate alienabili in un contesto di mercificazione capitalistica, dove i simboli della
fertilità vengono ora usati come strumenti di potere in “money-making magic”.
Eloquenti sono anche le pratiche di autoaccusa: per le donne Igbo, la confessione
avviene in uno spazio pubblico, il mercato, e comincia con la svestizione, fino a mostrare il
corpo nudo. Bastian sottolinea come lo spogliarsi consista in un’ammissione della propria
malvagità e in una disponibilità ad essere giudicate pubblicamente dalla folla che si raduna
in queste occasioni, affermando di essere pronte per «essere pulite» (Bastian 1993: 146).
Tale gesto segnala anche la consapevolezza della propria differenza, in quanto praticato
solamente da un’altra categoria di persone, i malati di mente, che perdono così la loro
identità e i loro nomi. Allo stesso modo la “strega”, spogliandosi, rinuncia alla propria
identità separata.
Segue una confessione verbale che consiste nell’elencare i nomi delle proprie vittime
e i motivi della loro uccisione: attraverso le parole, quella che era stata un’accumulazione
individualistica viene esternata e condivisa, «proprio come la ricchezza spirituale è
ridistribuita dagli anziani attraverso i proverbi» (Bastian 1993: 147).
31
L’estirpazione del maligno richiede una partecipazione collettiva: al termine della
confessione, la folla lapida l’accusata18.
Al contrario, la confessione da parte di un uomo igbo avviene solitamente sul letto di
morte, nella propria casa e circondato dai propri famigliari. Questi sono invitati a conoscere
i suoi poteri per poterli perpetuare e, in ogni caso, non possono avere nessun interesse a
rendere pubblica l’accusa, dal momento che questa si ritorcerebbe sull’intero lignaggio.
Nel precedente paragrafo è stato evidenziato il legame tra poteri rituali e
produzione/riproduzione nell’Africa postcoloniale. In particolare è emersa l’equivalenza tra
l’acquisizione di ricchezza e potere e il consumo di vita umana, quest’ultimo spesso
connesso a un mondo esterno riconosciuto come più potente (il mondo dei bianchi che
impone la sostituzione delle colture tradizionali, guida la tratta degli schiavi, introduce
nuovi beni di consumo...).
«I corpi femminili sono metonimie delle relazioni sociali che producono attraverso il
matrimonio, la procreazione, la cura; sono inoltre metafore dell’integrità del corpo
sociale. Il loro smembramento fisico e il rapimento dei figli sono immagini omologhe di un
processo sociale ambiguo»19 (Matory 1993: 81).
Nell’Africa postcoloniale il corpo femminile è diventato oggetto di nuovi attacchi:
«la modernizzazione [...] ha creato una nuova categoria di streghe nelle “femmes libres”
urbanizzate» (Austen 1993 : 100-101).
Per comprendere la reinvenzione dei discorsi sulla “stregoneria” nel mondo
contemporaneo, è necessario dare uno sguardo alla specifica organizzazione dei rapporti di
genere nel contesto delle comunità tradizionali delle popolazioni che abitano il sud della
Nigeria.
La famiglia poliginica, in cui si generano rivalità e gelosie fra mogli di uno stesso
uomo, costituisce il luogo privilegiato dello scatenarsi delle accuse. E’ stato osservato che il
18
La lapidazione, riportata da Bastian, non è sicuramente l’unico modo di punire la donna che si autoaccusa.
Si veda l’intervista 3 in appendice, nella quale la mia informatrice racconta di aver assistito a una confessione
pubblica dopo la quale l’accusata fu costretta a mangiare il cuore di una capra.
Si ricorda che la lapidazione è prevista dall’ortoprassi ebraica, espressa in particolare nel Levitico e nel Deuteronomio,testi fondamentali del Pentateuco come atto formale di messa a morte in seguito all’accusa di adulterio (e in casi precisati di stupro, condannando sia l’uomo che la vittima). Tale pratica punitiva è stata recepita dalla sharî’a islamica, applicata nel diritto islamico il fiq ,come risulta tra l’altro tutt’oggi proprio nel nord
della Nigeria.
19
Tutte le citazioni di questo paragrafo sono state tradotte da chi scrive.
32
disagio aumenta per le donne inserite in un sistema poligamico non musulmano, perchè
costrette a provvedere da sole a se stesse e ai propri figli, solitamente molto numerosi.
Differentemente nel diritto islamico vige il dovere del mantenimento delle mogli da parte
del marito.
L’organizzazione virilocale prevede l’introduzione della nuova sposa nella casa
dell’uomo. Per essere ammessa a pieno titolo nella famiglia del marito, la donna deve dargli
dei figli. La sterilità viene spesso imputata all’intervento dei poteri delle altre mogli. La
rivalità si fonda inoltre su un sistema ereditario sbilanciato a favore del genere maschile,
scatenando ostilità tra i fratellastri. Una credenza diffusa è quella di impedire ai propri figli
di mangiare il cibo preparato dalle altre mogli, dato che l’avvelenamento della
“stregoneria” passa soprattutto attraverso l’ingestione.
Bastian sottolinea inoltre come la mobilità femminile all’interno del sistema
virilocale predisponga maggiormente al contatto con “evil forces”.
Oltre ad avere la funzione di moglie e madre, la donna si occupa di vendere al
mercato i prodotti ricavati dall’attività agricola del marito. Tra gli Yoruba, le donne si
organizzano in associazioni (egbé) che servono a raccogliere le risorse, organizzare gli
scambi e concedere piccoli crediti a rotazione. L’egbé è rappresentata da un capo, la
Íyálóde. Le diverse associazioni sono predisposte a networks regionali, in modo da
estendere la propria attività anche in altre città.
La partecipazione allo spazio pubblico del mercato contrasta con il ruolo domestico
della donna: tale esposizione viene spesso associata ad una corruzione di costumi, distante
dalla “purezza” della casa. «Queste attività femminili producevano l’indebitamento dei
mariti verso le mogli; l’accumulazione di una maggiore liquidità di denaro rispetto ai
propri uomini, attraverso la quale le madri “influenzavano” i figli; il trascurare gli
obblighi domestici e riproduttivi per inseguire il profitto lontano, per cui le donne erano
rappresentate come “prostitute”» (Apter 1993: 117-118).
Le piccole commercianti iniziano a mettere in discussione il dominio maschile sia
nell’ambito privato che in quello pubblico: esse sabotano la riproduzione del corpo umano
e sociale20.
20
Matory (1993) analizza la riplasmazione, nel corso della storia, dell’immagine del “mounting” che caratterizza il rapporto di sottomissione tra dio e uomo (durante la possessione) e tra il re e le sue “mogli”, con la
funzione di perpetuare il potere di Shango, sovrano ancestrale del regno di Oyo. L’autore mette in luce la descrizione delle Íyálóde, definite da alcuni storici yoruba come “childless”, “antireproductive”, “without a nor33
Il loro potere economico viene rappresentato dal sangue mestruale, considerato
capace di inibire la potenza maschile e simbolo, allo stesso tempo, di fertilità e di
impossibilità momentanea di concepimento, la cui periodicità può essere associata alle
riunioni mensili degli egbé.
Inoltre, le “streghe” sono considerate in grado di sottrarre all’uomo i suoi fluidi vitali,
rendendolo impotente; minano le relazioni pubbliche degli uomini, organizzandosi in
società, anch’esse chiamate egbé, a cui si può accedere donando un membro della famiglia
che verrà diviso e consumato collettivamente.
Apter osserva che l’intervento coloniale, volto all’incremento dell’attività agricola a
sostegno della coltivazione di prodotti destinati al mercato occidentale, fa proliferare le
piccole commercianti indipendenti, che riescono a gestire un esiguo capitale da riservare
alle figlie (così come ereditari in senso matrilineare sono i poteri della “stregoneria”).
L’autore nota come «lo sviluppo dell’economia di cacao intensificò l’eziologia esistente
della stregoneria» (Apter 1993: 120).
In questo contesto storico-economico si colloca la comparsa del movimento Atinga.
Esso ha avuto origine nel sud della Costa d’Oro, ma a metà degli anni ’40 si è diffuso,
arrivando una decina d’anni dopo nella Nigeria occidentale, in territorio yoruba, dove si è
affermato in coincidenza della salita vertiginosa dei prezzi del cacao sul mercato mondiale.
Apter sostiene che questo movimento antistregonico sia nato dall’esigenza di trovare
risposte alle insostenibili contraddizioni generate dall’economia del cacao e afferma
l’opportunità di metterlo in relazione coi fenomeni simili verificatisi in seguito alla scoperta
del petrolio in Nigeria21.
Il culto si organizzava in danze pubbliche, durante le quali uomini e donne, posseduti
dallo spirito Atinga, acquisivano il potere di individuare le “streghe”. I suoi seguaci
preparavano “antiwitchcraft medicines” da vendere a chi volesse ottenere una sorta di
immunità.
mal domestic life”. Esse, in quanto commercianti e finanziatrici di guerre, sono capaci di influenzare le istituzioni reali e sovvertono la logica del “mounting”:
«...invece di rappresentare il palazzo, rappresentano se stesse e le altre donne nelle azioni collettive e nei consigli di stato» (Matory 1993: 67).
21
Vedi Barber 1982.
34
Era l’élite commerciale emergente a sostenere il movimento, formata da uomini
ricchi ed influenti che miravano ad introdursi nella sfera commerciale dominata dalle
donne.
Uno dei tratti che caratterizzava il movimento Atinga consisteva nella pratica di
distruggere i templi e gli altari degli orisha, risparmiando quelli delle divinità maschili con
funzione antistregonica: le sacerdotesse yoruba detenevano infatti poteri rituali positivi e
importanti per la comunità, predicendo il futuro e conferendo forza al re contro i nemici e le
sventure. Esse venivano temute e rispettate. Il culto degli orisha permetteva di placare e
canalizzare le potenze distruttive della “stregoneria”, presenti in ogni corpo femminile e
mai del tutto estirpabili, verso un comune beneficio. Il movimento Atinga riportava
l’identificazione tra culto degli orisha e “stregoneria” in termini esclusivamente negativi.
Apter sottolinea come «chiaramente, uno scontro di genere stava prendendo forma,
asserendo l’ascendenza del potere maschile su quello femminile nella sfera rituale, sociale,
economica» (Apter 1993: 121).
E’ interessante notare come il movimento Atinga sia stato trasversale, raccogliendo
seguaci anche tra cristiani e mussulmani. Si può ipotizzare che d’impianto cristiano, sul
modello battesimale, sia stata la pratica del lavare l’accusata con l’acqua contenuta nel
“sacrificial pot”, in seguito alla sua confessione e alla consegna degli oggetti legati al suo
potere.
Apter insiste sul fatto che «dobbiamo considerare il culto Atinga in relazione
all’imporsi dell’economia di mercato. Entrambi sono di origine straniera, il primo
costituisce un mezzo attraverso il quale le contraddizioni prodotte dal secondo possono
essere esplorate» (Apter 1993: 121).
Il corpo femminile viene attaccato in quanto metafora di una circolazione di beni non
controllabile, di un’accumulazione nascosta che minaccia la logica produttiva e riproduttiva
del gruppo. Esso viene quindi immobilizzato nei tribunali pubblici in attesa della sua
purificazione.
Beneduce mette chiaramente in luce il riattualizzarsi di queste rappresentazioni
nell’immaginario delle donne nigeriane prostitute/tuite in Italia: «le accuse di stregoneria
sono [...] estremamente frequenti. Esse si situano evidentemente all’interno di uno
scenario sociale ed economico dove s’intrecciano variabili numerose e complesse: una
35
competitività feroce, la possibilità di esercitare una libertà e un potere sconosciuti, ai quali
si accompagnano però invidie e gelosie, la paura per le conseguenze connesse alla loro
attività (infezioni, infertilità ecc.), l’ossessione di guadagnare soldi a sufficienza per
pagare il debito contratto nel corso dell’emigrazione clandestina e per inviare denaro alla
famiglia nel paese d’origine, lo stato di marginalità e precarietà sociale nel paese ospite
dove sono oggetto di una massiccia stigmatizzazione morale...» (Beneduce 2002: 175n).
36
3. MAMI WATA: PROCESSI DI ANTROPO-POIESI TRA MODELLO MITICO E
INCARNAZIONE
3.1 La possessione come fenomeno culturale
Nel continente africano il fenomeno della possessione è presente nei complessi
mitico-rituali di molte culture, caratterizzate da differenti organizzazioni del simbolico, ed è
stato mantenuto e riattualizzato nonostante l’espansione delle religioni monoteistiche,
Cristianesimo e Islam, trovandosi spesso al centro delle liturgie dei nuovi movimenti e delle
nuove chiese.
La possessione è intesa come discesa della divinità nel corpo di una persona la cui
identità viene sostituita con quella del suo ospite, del suo “cavallo”, secondo la metafora
più usata, risultando essere il posseduto la sua “cavalcatura”, la sua “montatura”,
definizioni queste che rappresentano il carattere asimmetrico del rapporto e la condizione di
subordinazione e dipendenza dell’uomo nei confronti dell’essere sovrumano.
La possessione della divinità o dello spirito avviene attraverso la trance, termine al
quale ci riferiamo per ogni stato alterato di coscienza che comporta un contatto diretto con
l’extraumano e una forma potenziata di conoscenza. Erica Bourguignon si è occupata di
distinguere la trance come fenomeno generale dalla trance di possessione, sottolineando
come quest’ultima sia possibile solo in quei contesti culturali che prevedono la discesa
della divinità come modello esplicativo per determinati comportamenti e disturbi. Inoltre
Bourguignon mette in luce la partecipazione prevalentemente femminile alla trance di
possessione e il suo manifestarsi soprattutto nell’Africa sub-sahariana e nord-orientale22, in
seguito riorganizzata nel contesto rituale delle culture afro-americane.
Il Cristianesimo rifiuta la possibilità di possessione da parte del dio in ragione della
sua trascendenza e ammette esclusivamente la possessione diabolica e la conseguente cura
terapeutica a carattere esorcistico.
22
Per approfondire vedi E. Bourguignon, Psychological Anthropology. An Introduction to Human nature and
Cultural Difference, Holt, Rinehart and Winston, New York, 1979 (trad. it. Antropologia psicologica, Laterza, Roma-Bari, 1983).
37
Nel mondo islamico tale fenomeno è considerato possibile solo ad opera degli jnoun
(sing. jinn), “spiritelli” riconosciuti dal Corano e costituiti di vapore e fuoco, che
presentano una connotazione ambigua, non esclusivamente negativa.
Durante il processo di islamizzazione la presenza di queste figure ha favorito
l’interazione con le modalità del simbolico di quelle culture extraislamiche che
prevedevano pratiche di sperimentazione del sacro volte ad un contatto diretto con gli esseri
sovrumani, come la possessione.
Scrive Lewis che «...nella misura in cui le credenze tradizionali possono essere
adattate in modo da rientrare in uno schema musulmano nel quale l’assolutezza di Allâh
rimane indiscussa, l’islam non chiede ai nuovi aderenti di abbandonare la loro abituale
fiducia in tutte le loro forze mistiche. Lungi da ciò. Nel voluminoso magazzino di angeli,
jinn e diavoli, il cui numero costituisce una legione, molte di queste forze tradizionali
trovano una casa ospitale; e sono citati passi coranici per giustificare la loro esistenza
come fenomeni reali»23.
Tale sincretismo è favorito dalla diffusione capillare del sufismo nell’Africa
occidentale, in seguito al contatto con i mercanti berberi provenienti dal Maghreb, che
promuove la formazione di nuove confraternite (turuk, sing. tarîqa), come la murudiyya
fondata da Amadu Bamba in Senegal alla fine del XIX secolo.
Le turuk costituiscono la forma di organizzazione principale del misticismo islamico,
caratterizzate da una precisa gerarchia, con a capo il maestro (shaykh) che funge da
mediatore tra dio e gli uomini, in quanto detentore e dispensatore della baraka. Il concetto
di baraka è di derivazione preislamica e ancora oggi sta a designare una forza benefica, non
individuabile in qualche entità precisa. Nel contesto islamico è passata ad indicare la grazia
distribuita dai marabutti, trasmessa ereditariamente.
L’importanza della baraka dà origine al culto dei “santi” (walî), fortemente sentito
nell’ambito delle confraternite, i cui membri compiono pellegrinaggi alla tomba del “santo”
fondatore, sperando di partecipare al suo potere24. Da queste visite spesso ci si aspetta
guarigioni da malattie o sterilità, tanto che l’islam ortodosso rifiuta queste pratiche,
23
cit. in W. Ende e U. Steinbach (a cura di) 1993: 206-207. Per approfondire Lewis I. M. (a cura di), Islam in
Tropical Africa, London, 1966.
24
Tali pellegrinaggi (ziyârât, sing. ziyâra) talvolta vengono considerati di uguale valore, dunque sostituivi,
dell’hajj alla Mecca. La baraka è ritenuta essere presente in tutto ciò che rientra nel luogo di sepoltura del
santo: la terra, pezzettini della coperta posta sul sepolcro e altri oggetti possono essere utilizzati come protezione dalle forze maligne.
38
definendole shirk (idolatria) in quanto non finalizzate alla comunicazione con dio. Di fatto
gli stessi capi delle confraternite hanno funzione anche di guaritori, oracoli e medium. Essi
possono vedere gli jnoun che causano malattie e morti e talvolta possono averli come servi,
acquisendo in questo modo i loro segreti.
Il rituale liturgico delle turuk prevede danze estatiche (hadra)25 a carattere
terapeutico, volte a placare lo spirito e derivanti da una cultura mediterranea preislamica e
precristiana. Ricorrendo alla potenza mediatrice del santo, il rito ha carattere esorcistico, in
quanto l’obiettivo finale resta quello di espellere gradualmente gli jnoun sconosciuti. Al
contrario, presso la confraternita marocchina Hamadsha il rituale di possessione ha valore
adorcistico, stabilendo un’alleanza perenne con lo spirito (Beneduce 2002).
Esempi di possessione nel contesto islamico africano sono rappresentati dal culto
bori tra gli Hausa, dai geni holey e hawka in ambiente songhay, da quelli zar (sar, zahr)
nell’Africa orientale (Somalia, Etiopia, Sudan, Egitto).
L’appartenenza del fenomeno della possessione al mondo mediterraneo è evidenziata
da Ernesto De Martino, il quale nel corso del suo studio sul tarantismo salentino ne
individua gli antecedenti storici nella vita religiosa greca, a cui la Puglia partecipò come
parte della Magna Grecia. De Martino ipotizza un complesso arcaico protomediterraneo che
avrebbe determinato le strutture del coribantismo, la possessione sperimentata dalla
comunità dei Coribanti nella Grecia del V secolo a.C. e di cui riporta testimonianza Platone
nell’Eutidemo e nello Ione in relazione al complesso coreutico-musicale a fini terapeutici.
Le stesse strutture presentano, secondo l’etnologo, il tarantismo pugliese, i culti africani zar
e bori e i loro derivati afro-americani, in particolare il vodu haitiano. Osservando la
specificità femminile del menadismo e in generale dei culti orgiastici greci, l’autore rileva
che «...è nozione “psicologica” sin troppo elementare – e non occorre certo la psicanalisi
per venirne in possesso – che proprio la aspra pressione sociale esercitata sul mondo
femminile in una società di tipo androcratico comporta il ritorno del represso sotto forma
25
«Il termine hadra significa letteralmente “presenza”. Presso i primi sufi, la nozione designava la presenza
divina in un momento preciso dell’unione estatica. Nel sufismo popolare, in particolare presso gli Hamdacha,
si chiama hadra una liturgia che comporta delle danze estatiche e una musica rituale strumentale, designando
così tale termine anche la seconda parte del rituale, consapevoli che la prima parte del rituale è costituita da
canti intonati invece da seduti» (Aouattah, cit. in Beneduce 2002: 180n). Per approfondire vedi A. Aouattah,
Ethnopsychiatrie maghrébine. Représentations et thérapies traditionnelles de la maladie mentale au Maroc,
L’Harmattan, Paris, 1993.
39
di sintomi nevrotici cifrati incompatibili con qualsiasi ordine culturale e richiedenti perciò
un adeguato trattamento preventivo e risolutivo...» (De Martino 2002: 206) e continua:
«...nel menadismo e in altri culti orgiastici femminili, l’aspetto “fuga” della crisi [...]
appare riplasmato e orientato per entro un orizzonte mitico-rituale: onde la fuga come
sintomo chiuso, cifrato, irrelato non è, nel menadismo, “ripetuta” nella sua immediatezza
critica, ma ripresa e dischiusa ad un significato, fatta defluire e regolata sino al suo
termine risolutivo» (De Martino 2002: 207).
La relazione tra la condizione di subordinazione e le pratiche di possessione è
teorizzata da I. M. Lewis, padre di quello che è stato definito il “paradigma della
marginalità”, e lo stesso Métraux, per il vodu haitiano, mette in luce «il piacere che
procura a gente schiacciata dalla vita il diventare centro di attenzione e il sostenere una
parte soprannaturale e rispettata»26.
Lewis distingue tra due forme di possessione: quella periferica, a differenza della
possessione centrale, non serve a sostenere il codice morale dominante della società e
concerne quelle “creature periferiche” (come le donne in moltissimi casi) che vivono una
situazione di isolamento e frustrazione, escluse dal potere. In esse l’invasione dello spirito
si manifesta sotto forma di una crisi individuale che favorisce l’espressione dei loro
desideri e lamentele, altrimenti senza voce. La malattia che affligge chi è posseduto
costituisce, secondo l’autore, una forma di attacco indiretto perchè subìto dal soggetto
stesso, in contrasto con la stregoneria come forma di offensiva diretta verso un altro
individuo. La risoluzione di tale crisi consiste in una cura catartica a carattere esorcistico,
mentre nella possessione centrale la discesa dello spirito nel corpo viene invocata
ritualmente e apporta un accrescimento dello status sociale dell’individuo che ne è
protagonista27.
26
cit. in De Martino 2002: 193.
Lewis non accoglie la distinzione operata da altri autori tra possessione e sciamanesimo. De Heusch
(Pourquoi l’épouser? Et autres essais, 1971) specifica che nella prima si assiste alla discesa della divinità nel
corpo di un individuo, il quale non può controllarla, mentre lo sciamano decide volontariamente di intraprendere il viaggio di salita verso l’extraumano. Il carattere volontario dell’estasi sciamanica è messa in luce da
Eliade (Le chamanisme et les tecniques arcaiques de l’extase, 1968). Dopo la fase di crisi iniziale, determinata dalla scelta dello spirito e definita “malattia iniziatica”, lo sciamano acquista all’interno della società un
ruolo di rilievo, conferitogli dal rapporto privilegiato che egli intrattiene con le potenze soprannaturali. Lo
sciamanesimo è connesso alle culture nord-asiatiche ed è stato esteso all’area nord-americana, nella quale
sono stati evidenziati i suoi caratteri terapeutici, considerando lo sciamano come medicine man. Lewis definisce lo sciamano una persona che ha imparato a dominare gli spiriti e può introdurli intenzionalmente nel proprio corpo, ma individua questo fenomeno anche nel continente africano, distaccandosi dalle interpretazioni
precedenti (vedi The Shaman’s Quest in Africa, Cahiers d’Etudes africaines, 1997). La dicotomia possessio27
40
La perifericità della possessione è segnata anche dal legame tra la marginalità
dell’individuo che viene colpito e una sua maggiore vicinanza all’estraneo, all’Altro.
Scrivendo del culto songhay degli spiriti holey, studiato da Jean Rouch28, Lewis nota che
«...alcuni sono associati con popolazioni confinanti (come gli Hausa ed i Tuareg), ed altri
con animali. Un’aggiunta moderna a questa moltitudine di spiriti è quella dei folletti
europei, che con sempre maggiore frequenza si presentano non chiamati, alle sedute in cui
le donne giocano una parte così importante» (Lewis 1993: 65) e aggiunge più avanti come
«...molti degli spiriti [...] debbano rappresentare e riflettere il contatto periferico con
popoli stranieri ed un’esposizione tangenziale alle nuove esperienze» (Lewis 1993: 72).
Gli studi sulla possessione hanno da sempre sottolineato il carattere psicopatologico
dei sintomi che identificano la crisi di possessione, in particolare ricondotti ad attacchi di
isteria, disturbo di personalità multipla e dissociazione. Beneduce (2002)29 parla di
“sovrainterpretazione terapeutica”30 mettendo in luce la difficoltà, da parte occidentale, di
pensare la possessione e affermando il bisogno di riconoscere la “confusione dei generi”
che le è consustanziale31.
La
necessità
di
considerare
l’aspetto
religioso,
liberandolo
da
questa
sovrainterpretazione medica, è espressa da De Martino all’inizio della sua ricerca
etnografica sul tarantismo: la sua ipotesi di lavoro si fonda sulla valutazione della
possessione in Puglia come fenomeno culturale, caratterizzato da una propria autonomia
simbolica e determinato da condizionamenti storici, economici, sociali, religiosi. Anche
Métraux afferma chiaramente che «la possessione non può essere spiegata unicamente in
termini di psicopatologia» (Métraux 2001: 132) e ne sottolinea il carattere di teatralità,
mascheramento e rappresentazione.
ne-sciamanesimo viene messa in discussione da altri autori, che da un lato ne sottolineano la continuità e la
familiarità, considerandoli differenti modalità di sperimentare la trance o fasi consecutive di una medesima
esperienza di contatto con l’extraumano, dall’altro mettono in primo piano la necessità di riflettere sulla specificità dei contesti culturali, senza voler a tutti i costi ricondurre tali fenomeni a una tipologia chiara o a un unico modello, i quali risulterebbero essenzialmente etic (Beneduce 2002).
28
Vedi J. Rouch, La religion et la magie songhay, PUF, Paris, 1960.
29
Vedi anche Beneduce e Taliani 2001.
30
Per approfondire vedi, ad esempio, J.-P. Olivier de Sardan, Possession, affliction et folie: les ruses de la
thérapisation, “L’Homme”, 1994.
31
«...i culti di possessione fanno e dicono molte cose ad uno stesso tempo in virtù della poliedricità strutturale
del loro dispositivo: ciò che è comune a tutti i riti ma che, in questo caso, si estende ben oltre il tempo rituale.[...] I generi operanti nei rituali di possessione (ed usiamo il termine “genere” nel senso proprio che assume
nella retorica), più che rischiare di essere “confusi”, sono pertanto esposti al rischio di essere trascurati...»
(Beneduce 2001: 18).
41
Beneduce sostiene che «siamo costretti a rovesciare l’assunto che definiva la
possessione come un idioma della malattia, più spesso mentale, e considerare come
altrettanto valido il suo reciproco: è la malattia a rappresentare un idioma della
possessione» (Beneduce 2002: 87).
Inoltre, l’approccio medico non ha preso in esame le differenti rappresentazioni di
persona e di corpo su cui la possessione trova il suo terreno di sperimentazione e ha finito
col considerarla una pratica tradizionale propria delle società non occidentali, occultando il
suo carattere di transizionalità «fra culture, fra mondi, fra appartenenze, fra gruppi, fra
forme e discorsi di potere, fra antropologie» (Beneduce 2001: 16).
Il riconoscimento di tale transizionalità è necessario in particolar modo nel momento
in cui la possessione viene indagata presso quelle culture che hanno vissuto un passato di
colonizzazione e un brusco confronto con la modernità. L’imporsi egemonico dei
monoteismi cristiano ed islamico non ha necessariamente prodotto la scomparsa dei sistemi
simbolici
tradizionali,
né
questi
possono
essere
considerati
oggi
delle
mere
“sopravvivenze”, essendo mutati in relazione a nuove esigenze ed aspettative.
Fa notare Augè che «i movimenti profetici in se stessi costituiscono un’anticipazione,
se non la profezia, di una situazione oggi generalizzata e condivisa da tutti: la
mondializzazione del pianeta. I popoli colonizzati sono stati i primi a farne l’esperienza
perchè sono stati i primi a subirla [...]. I soggetti colonizzati hanno fatto una triplice
esperienza che è oggi anche la nostra e che loro hanno pagato dolorosamente: l’esperienza
dell’accelerazione della storia, del restringimento dello spazio e dell’individualizzazione
dei destini»32.
In questo senso s’impone la necessità di prendere in considerazione anche l’aspetto
politico della possessione, in quanto discorso e pratica dell’identità. E’ possibile quindi
parlare di modernità della possessione?
Si è visto precedentemente come Lewis abbia messo in luce il confronto con
l’alterità che caratterizza il fenomeno. D’altra parte, tale relazione sta alla base della
definizione del sacro (das Heilige) che Rudolf Otto identifica con il “tutt’altro
ambivalente”, insieme fascinans e tremendum, che chiama l’uomo a un rapporto.
L’autonomia ontologica che Otto conferisce alla categoria del sacro, ripresa da Eliade con il
32
cit. in Beneduce 2002: 288 n.
42
concetto di ierofania, “manifestazione del sacro”, apre la strada alla comparazione delle
religioni ma rimanda a un assoluto che trascura l’indagine storica. Tale impasse sarà
superato dall’affermazione dell’origine e della costruzione umana del sacro, considerato
come genomenon, messa in rilievo da Pettazzoni e abbracciata da De Martino come punto
di partenza di tutta la sua riflessione. Il sacro inteso come prodotto dell’uomo muta in
rapporto al divenire storico, cambia a seconda degli scopi e dei bisogni che mano a mano si
presentano.
Non a caso è proprio Pettazzoni a chiarire l’origine del concetto monoteistico di dio,
rispondendo alla disputa sul presunto “monoteismo primordiale” che lo vedeva
contrapporsi al gesuita Schmidt: lo storico delle religioni italiano dimostra il significato
politico dell’invenzione del dio unico, mettendola in relazione alla costruzione identitaria
del popolo ebraico, pronto ad affermarsi Altro rispetto alle culture politeiste, “idolatre”, che
occupavano la Siro-Palestina.
Olivier de Sardan sottolinea che «le sopravvivenze fisse non sono dei fenomeni
naturali, automatici, ma il prodotto di strategie simboliche contemporanee che bisogna
spiegare. L’astoricità apparente di un culto, lungi dall’essere un’evidenza, è sempre un
enigma»33.
Sono dunque tali strategie simboliche che in questo lavoro si tenta di indagare.
Il dato fornitoci da Lewis sugli spiriti “stranieri” è riscontrabile in numerosi casi e in
tutte le parti del mondo, laddove si sono verificati rapporti di forza asimmetrici. I nomi
stessi di questi esseri li identificano come colonnelli, governatori, comandanti o schiavi, li
inseriscono in una gerarchia che riflette quella vissuta nella situazione coloniale,
l’iconografia li rappresenta con abiti e aspetto dei bianchi34.
Questa mimesi è stata interpretata da antropologi e dagli stessi colonizzatori come
forma di resistenza: di fatto è possibile ritenere che il significato di questa pratica abbia
finito con l’incorporare questa funzione, attribuitagli dall’esterno.
Tuttavia il processo mimetico non si limita a questo, né sembra corretto ricondurlo a
un mero assorbimento della visione dell’Altro, come conseguenza della deculturazione.
33
cit. in Beneduce 2002: 101.
Si vedano, un esempio fra tutti, le belle immagini del dio maya Maximón, agghindato alla maniera di un
ranchero spagnolo, nel documentario “Demoni e cristiani nel nuovo mondo” di Werner Herzog, 1999. Del resto la somiglianza tra divinità ed europei sarà motivo di rilievo nel ritratto di Mami Wata, affrontato nel prossimo paragrafo.
34
43
Piuttosto, è stato messo in luce il suo carattere trasformativo: «definirsi nel linguaggio
intellettuale dell’avversario non significa sottomettersi irrimediabilmente a lui. Ciò che
conta, in effetti, è la possibilità di esprimere significati autonomi [...], poiché [...] è
pensandosi o riflettendosi negli altri che meglio si rafforza la propria identità»35.
In questa costruzione dinamica del proprio Sé il corpo gioca un ruolo fondamentale e
viene posto al centro del rituale: Beneduce, riprendendo l’analisi svolta da Zempléni sui
rab delle popolazioni wolof e lebu36, sottolinea innanzitutto il carattere del corpo come
luogo materiale, “ricettacolo”, “altare” del dio, connesso alla logica sacrificale propria della
possessione rituale. Nel caso degli orisha yoruba o dei vodu fon, il sangue dell’animale
sacrificato viene versato sulla testa dell’elégun o del vodunsi: il corpo stesso del posseduto
diventa offerta alla divinità, un’offerta ripetuta, il cui carattere sacro non è che periodico,
deciso dall’essere sovrumano stesso. Esso esprime un debito simbolico inestinguibile «che
minaccia sempre di distruzione l’adepto. Il contratto sacrificale di fatto non associa dei
pari, il partner umano essendo originariamente debitore nei confronti di un essere al quale
egli non può che sottomettersi, e che per questa ragione assume la figura di un dio»37.
La trance di possessione costituisce una tecnica del corpo messa in atto attraverso il
rituale, il quale le conferisce una propria funzione di comunicazione sociale tramite quel
carattere di rappresentazione di cui Métraux si è occupato. Recuperando l’origine
etimologica del termine, si arriva a comprendere quel “rendere presente” che la
performance permette e legittima: «l’individuo in trance non è in alcuna maniera
responsabile dei suoi atti né delle sue parole. Egli ha cessato di esistere come persona. Un
posseduto può dunque, in tutta impunità, esprimere pensieri che, nella sua normale
condizione, esiterebbe a formulare a voce alta» (Métraux 2001: 129)38.
Questa volontà di staccarsi dal gruppo e dalle sue leggi ordinarie paradossalmente
reintegra il soggetto all’interno di un nuovo sistema di relazioni, grazie a una nuova
35
Amselle, cit. in Beneduce 2002: 102.
Per approfondire A. Zempléni, Possession et sacrifice, in Aa.Vv., De la fête à l’extase, 1986.
37
Mercier, cit. in Beneduce 2002: 131. Per approfondire J. Mercier, Corps pour corps, corps à corps. De la
régulation sacrificielle de la possession à la mise en corps du sacrifice par la possession, in “L’Homme”,
1993.
38
Come si è già visto, questo aspetto è stato messo in luce anche da Lewis (1993). E’ il caso delle donne somale, da questo autore analizzato, per le quali la possessione ad opera degli spiriti sar si configura come richiesta di oggetti di lusso che deve essere soddisfatta dagli uomini. Lewis la interpreta come deterrente a una
situazione di trascuratezza e deprivazione all’interno di una relazione coniugale sbilanciata a favore del sesso
maschile.
36
44
affiliazione al gruppo degli adepti, alla confraternita. Si è osservato che l’idioma della
possessione è per eccellenza la malattia: la sua cura consiste proprio nella socializzazione.
Per De Martino significa trascendere la situazione nel valore socialmente condiviso, nel
mondo della cultura.
Nei contesti in cui ciascuno spirito appartiene a un lignaggio preciso e allo stesso
tempo lo definisce (Augé 2002), come nel caso degli orisha yoruba, la possessione, in
quanto pratica, funziona anche come memoria condivisa e incorporata (Beneduce 2002)
che serve a riaffermare i legami di parentela, e più in generale, i legami di un gruppo. La
questione della memoria sarà affrontata nei seguenti paragrafi.
Ci basti evidenziare ora come nella memoria di un gruppo, per quanto finzionale e
costruita secondo precise strategie, la storia dell’incontro con l’Alterità giochi un ruolo
fondamentale, innestandosi nella mitologia di un popolo: la possessione si risolve allora in
un dispositivo per pensare il diverso, la propria condizione di subalternità, se stessi.
3.2
Mami Wata e gli spiriti delle acque
Il culto di Mami Wata è diffuso nell’Africa occidentale e centrale. Sembra che la sua
origine derivi dal Golfo di Guinea, da cui si sarebbe propagato, acquisendo il nome di
Mamba Muntu nell’area del Congo e dello Zambia.
La diffusione di questa divinità si considera relativamente recente, connessa al
confronto con la modernità provocato dall’introduzione dell’economia di mercato e dalla
conseguente influenza degli stili di vita e di consumo occidentali nel XX secolo39.
Tuttavia è bene tenere in considerazione come il suo culto si inserisca in quei
complessi mitico-rituali tradizionali che trovano nelle divinità delle acque figure rilevanti
dal punto di vista dell’organizzazione del simbolico. Nel pantheon yoruba numerose
divinità sono legate ai fiumi e da questi prendono il nome: Oshun, Oba, Yémaja,
quest’ultima indicata in alcune fonti come figlia di Olokun, dea del mare40. Yémaja è
39
A sostegno di questa ipotesi si veda, in particolar modo, Frank 1995.
I rapporti genealogici tra le divinità sono complessi e spesso contraddittori, come già sottolineato nel capitolo 1. Talvolta Olokun è designata, al contrario, come figlia di Yémanja. Inoltre è da ricordare l’ambiguità
sessuale che caratterizza, in particolar modo, queste divinità delle acque, a volte riportate come maschili, a
volte come femminili.
40
45
diventata una figura molto popolare nel candomblè brasiliano, spesso rappresentata in
forma di sirena e sincretizzata come Nostra Signora della Concezione (Verger 1982).
Mami Wata è il nome, in pidgin English, che sta per “Mother of Water”, anch’essa
appartenente al mondo delle acque, talvolta assimilata ad Olokun o considerata sua figlia.
Viene ritratta come una donna molto bella ed attraente, con la pelle chiara, vestita con
abiti costosi e alla moda e arricchita di gioielli. Tiene in una mano un pettine e nell’altra
uno specchio, oggetto che di frequente viene posto sugli altari a lei dedicati. Secondo
Drewal41 lo specchio rimanda alla superficie dell’acqua, che si configura come confine tra
mondo degli spiriti e mondo umano. Esso avrebbe anche il significato di passaggio dal
presente al futuro: di fatto Mami Wata conferisce ai suoi adepti il potere di divinazione. Lo
stesso autore trova nello specchio anche una metafora del processo mimetico attraverso il
quale i devoti riproducono il mondo di questa divinità sulla terra, con gli altari riempiti
degli oggetti che sempre l’accompagnano. Essi ne imitano i movimenti durante le trance di
possessione, muovendo le braccia come chi sta nuotando. Inoltre lo specchio indica la sua
vanità e costituisce un mezzo che i fedeli possono usare per attirarla.
Mami Wata viene raffigurata solitamente con metà corpo di pesce e risulta sempre
accompagnata da un serpente che le circonda i fianchi e le spalle. Questa immagine iniziò a
diffondersi in Africa a cavallo tra il XIX e XX secolo grazie a una cromolitografia,
stampata ad Amburgo, che ritraeva un’incantatrice di serpenti di origine indiana e che è
stata nel tempo considerata dagli africani l’esatto ritratto di Mami Wata. Drewal mette in
luce alcuni elementi dell’immagine che rimandano alla figura di una sirena, sostenendo che
questo simbolo sia di derivazione europea42.
Il serpente evoca l’emblema del dio yoruba Oshoumaré, o Dã nel pantheon dahomey,
messo in relazione all’arcobaleno. Dio della fecondità, esso sembra rappresentare
l’elemento acquatico nell’atmosfera, in coppia con la sirena, appartenente alle acque
terrestri. Secondo Bastian43 costituisce l’elemento virile nell’ideologia di Mami Wata.
41
Drewal pone un forte accento sul carattere creativo e trasformativo della mimesi nel culto di Mami Wata.
Non è dello stesso parere B. Siegel, che sostiene l’origine indigena del simbolismo della sirena in Africa.
Vedi
B.
Siegel,
Water
Spirits
and
Mermaids:
the
Copperbelt
Case,
2000,
in
www.ecu.edu/african/sersas/Siegel400.htm.
43
M. Bastian, Nwaanyi Mara Mma: Mami Wata, the More Than Beautiful Woman, in http://server1.fandm.edu/departments/Anthropology/mami.html.
42
4
46
La tematica del corpo femminile ricondotto all’ambiente acquatico o terrestre degli
esseri striscianti (ma anche a quello aereo degli uccelli) trova di fatto fondamento in tutta la
tradizione occidentale: dalla topografia cosmica platonico-aristotelica, passando per la
mitologia greca, il Cristianesimo organizzerà il binomio Eva-serpente, riproducendo la
negatività del femminile.
La completezza dell’umanità viene riconosciuta nello stare sulla terra, in posizione
eretta; tutte le altre forme ne costituiscono delle metamorfosi degradate. La mostruosità,
che appare solitamente dalla vita in giù, diventa anche l’indice della perversità della donna,
simbolo di riproduzione incessante di vita in quanto materia, evocatrice di un piacere che
trascina verso il basso (laddove strisciano i rettili). «Sul simbolo di Eva si incrostano così le
precipitazioni che progressivamente la cultura greca dei filosofi, da Platone in poi, aveva
accumulato intorno al corpo, dal quale l’anima nella sua parte più eletta e più nobile,
l’intelletto almeno, doveva cercare di tenersi il più possibile distaccata» (Chirassi Colombo
1986: 75).
La stessa mostruosità assume il carattere di un sapere altro, straniero, “magico”, in
contrapposizione alla conoscenza razionale, prettamente maschile.
Considerando queste caratteristiche della donna sirena o serpentiforme, riprodotte
perfettamente nell’immagine di Mami Wata, potrebbe essere fondata l’ipotesi di Drewal su
una sua possibile derivazione europea.
Inoltre, il colore chiaro della pelle di questa divinità viene connesso all’incontro coi
colonizzatori bianchi, che arrivavano dal mare. Racconta il francese Andre Brue, nel 1700,
che la sua nave fu affiancata da una canoa di neri, i quali sacrificarono un gallo agli «dei
del mare» (Drewal 1988: 161-162). Bastian modera questa interpretazione mettendo in luce
come il colore bianco possa servire ad indicare il contatto con il mondo degli spiriti, con
l’alterità extraumana, connessa con la trasparenza44.
La relazione tra il simbolismo di Mami Wata e l’arrivo degli Europei è rafforzato
anche dal potere di cui la divinità dispone in quanto dispensatrice di ricchezza e beni di
44
Beneduce sostiene che «...possiamo allo stesso tempo ipotizzare che la bianchezza rivesta, se non nei miti,
altri significati nei comportamenti di donne avviate alla prostituzione in paesi europei, ossessionate dalle
mode e dall’estetica occidentali, dal valore della bianchezza quale sinonimo di bellezza: la consuetudine di
sbiancare la pelle con prodotti cosmetici si aggiunge così a quei significati rituali e ci fa ricordare quanto scriveva Frantz Fanon relativamente ai sogni di “lattificazione” dei neri» (Beneduce 2002: 169n).
47
lusso ai suoi adepti, che devono rimanerle fedeli, pena malattie, morte e sventura. La
divinità viene descritta come uno “spiritual husband”, termine che sta ad indicare il
particolare tipo di legame coi suoi prescelti, costruito sulla base dei rapporti di genere
propri delle culture patriarcali a cui facciamo riferimento (Bastian 1997: 126). In questo
senso, dunque, la relazione si fonda sulla subordinazione e la dipendenza dell’individuo: se
questo è un uomo, la divinità esige che eviti qualsiasi contatto sessuale con le donne
“umane”; se è una donna, non può sposarsi né avere figli, ma le è lecito intrattenere più
relazioni e manifestare i suoi “capricci” agli uomini che frequenta, chiedendo soldi, gioielli,
vestiti, cosmetici (Bastian 1997: 124). La solitudine del fedele e il suo isolamento rispetto
al gruppo segnalano l’impatto dell’economia capitalistica e la nascita di nuovi stili di
consumo, che rivoluzionano il sistema dei legami sociali e di parentela fondanti la vita delle
società tradizionali.
Barbara Frank ha comparato il culto originario degli spiriti dell’acqua con quello
recente di Mami Wata presso i Ron, popolazione della Nigeria centrale, facendo emergere
il peso di economie diverse, le quali determinano la costruzione simbolica di complessi
differenziati di norme morali.
La vita dei Ron si basa su un’agricoltura di sussistenza e la famiglia è ordinata su due
livelli: la famiglia nucleare lavora i suoi campi e utilizza il raccolto per sé, mentre l’intero
lignaggio si occupa di un terreno comune, i cui prodotti vengono gestiti dal capo e servono
da riserva nei mesi difficili.
Inoltre, la scalata sociale avviene attraverso l’organizzazione di feste da parte degli
uomini che mostrano la loro generosità in questa occasione di redistribuzione delle risorse.
Il consumo o l’accumulo individuali sono considerati comportamenti antisociali,
rappresentati come atti connessi alla “stregoneria”.
Gli spiriti dell’acqua (hural) sono proprietari di ricchezza e costituiscono la
proiezione dei desideri materiali. Solo i chiaroveggenti possono interagire con loro,
chiedendo aiuto nei momenti di bisogno. L’accordo assume la forma di un contratto,
attraverso il quale gli uomini promettono una contropartita. In base al favore che viene
chiesto, l’estinzione del debito assume una portata diversa, fino al sacrificio umano nel
momento in cui l’aiuto è stato di grande rilievo.
48
All’inizio del XX secolo, il passaggio all’economia di mercato e alla
monetarizzazione degli scambi, con l’arrivo di compagnie straniere interessate allo
sfruttamento delle miniere di stagno, ha visto molti giovani uomini intraprendere percorsi
di indipendenza dal gruppo. Il denaro diventa l’emblema del guadagno che si può ottenere e
spendere individualmente, senza essere controllati da altri.
Mami Wata rappresenta questo nuovo ideale di vita. Il destino senza figli che impone
ai suoi fedeli sta ad indicare l’assenza di quella discendenza che prima fondava l’esistenza
del gruppo e determinava la priorità del legame sociale e di parentela.
I due differenti culti corrispondono, secondo l’autrice, a due diversi tipi di scambio, a
cui si associano un sistema di valori e un concetto di moralità specifici: il ciclo a lungo
termine, finalizzato alla riproduzione del gruppo, e fondato sulla logica del dono (Latouche
1997) e il ciclo a breve termine, che mira al profitto individuale45.
L’attenzione all’aspetto del patto, del contratto, che assume il rapporto tra spiriti e
uomini, è messa in luce anche da Bastian (1997) che approfondisce lo studio degli ogbanje
in relazione al culto di Mami Wata presso gli Igbo della Nigeria sud-orientale. Quest’ultimo
costituisce un modo per ripensare i rapporti di discendenza in un mondo urbanizzato in cui
la vita appare mobile e dove l’esogamia assume una forma più estrema, coinvolgendo
gruppi etnici differenti e individui stranieri (come gli Europei). Gli ogbanje (“returning
children”) sono persone considerate “married in the water”, appartenenti, prima di nascere,
al ndi otu, la comunità degli spiriti, a cui hanno giurato di tornare. Queste persone muoiono
precocemente oppure all’inizio della pubertà, talvolta anche prima del matrimonio: il loro
ritorno al ndi otu avviene, infatti, proprio in quei momenti della vita in cui è necessario
creare legami con il resto della comunità umana. Esse portano dei segni 46 che permettono di
riconoscerle e vengono trattate con particolare cura dagli esseri umani, in modo tale da
scongiurare il loro ritorno al ndi otu. Se gli ogbanje vengono meno all’alleanza sancita con
45
Questa distinzione è stata formulata da Parry e Bloch. Per approfondire vedi J. Parry e M. Bloch, Money
and the Morality of Exchange, Cambridge, 1989.
46
I segni che marcano la presenza dell’essere sovrumano sono frequenti anche nei casi di possessione ad opera di Mami Wata. Alcuni suoi adepti portano sulla fronte il bindu induista, presente anche in molte sue raffigurazioni, il quale deriva dall’influenza dei mercanti indiani sulle coste dell’Africa occidentale a partire dai
primi decenni del XX secolo (Drewal 1988). Beneduce racconta di una donna nigeriana incontrata al Centro
Frantz Fanon che mostra una cicatrice sul braccio come prova del suo essere un ogbanje (Beneduce 2001:
38n). Del resto la malattia inflitta sul corpo dei posseduti è uno dei primi sintomi dell’invasione di uno spirito.
Questi marchi sul corpo permettono di considerare la possessione come memoria incarnata.
49
il mondo degli spiriti, questi continueranno a tormentarli durante la loro esistenza sulla
terra.
Secondo Bastian, il culto di Mami Wata può essere inserito nello stesso sistema di
patti e alleanze tra entità sovrumane e individui “married in the water”.
Le donne che vengono riconosciute come “figlie” della divinità, di solito attraverso la
divinazione, non possono rompere il legame facilmente. Esse sono considerate sue
reincarnazioni e le assomigliano in tutto: sono belle, ricche e prive di legami. Per gli Igbo,
sono ritenute esse stesse ogbanje (Bastian 1997: 125). La loro appartenenza al mondo delle
acque si mostra tramite visioni e sogni o si manifesta attraverso un comportamento
inusuale, che appare disturbato. Per diventare sacerdotesse è necessario intraprendere un
percorso di apprendistato, scandito da diverse cerimonie, diviso in più fasi, durante le quali
le donne compiono offerte al fiume, si vestono di bianco e dipingono il proprio viso dello
stesso colore, perfezionano la danza e la trance, preparano il proprio altare personale
dedicato alla divinità. Alla fine è prevista un’uscita pubblica dell’iniziata, che si reca al
mercato vestita di bianco portando sulla testa un cesto di offerte. Il mercato è il luogo degli
scambi e dell’acquisizione di ricchezza: mostrandosi qui, la “figlia” di Mami Wata
comunica al resto della comunità la sua identità e la sua nuova appartenenza47.
La percezione della differenza degli ogbanje, il riconoscimento fisico, attraverso i
segni del corpo, della loro natura non totalmente umana, conduce a una riflessione sui
processi di costruzione dell’alterità e, in senso complementare, sulle modalità di “antropopoiesi” (Beneduce 2001) che sottendono questi culti e la loro riorganizzazione.
E’ necessario inoltre prestare attenzione alla configurazione marcatamente femminile
della divinità: attraverso il dinamismo mitico-rituale viene messa in gioco prima di tutto la
definizione della natura della donna che viene relegata al mondo selvaggio della foresta e
delle acque, al di fuori dei confini del villaggio, presenza lontana dalla vita comunitaria, per
cui spesso costituisce una minaccia. In questo senso si vedrebbe riprodotto il binomio
natura/cultura in relazione all’opposizione donna/uomo. Considerando la prospettiva di
genere, ma non riducendo la complessità dei fenomeni ad essa, Remotti sottolinea che
«uomini e donne hanno da costruire l’umanità: essi lo fanno unendosi e collaborando, ma
anche separandosi e opponendosi. Quando il fare l’umanità diventa soprattutto una
47
Per un racconto approfondito delle diverse fasi dell’iniziazione si veda Nevadomsky e Rosen 1988.
50
faccenda culturale (al di là della nascita fisiologica e della biologia), la separazione e
l’opposizione tra le due forme di umanità – maschile e femminile – si manifestano in modo
pronunciato»48.
Le “figlie” di Mami Wata e i bambini ogbanje costituiscono una sorta di “terzo
genere” (Beneduce 2001): né umani né spiriti, essi formano un “cumulo di possibili” che è
necessario socializzare, in primo luogo attraverso l’attività rituale, in modo tale che
l’alterità sia portata dentro la persona e dentro il gruppo, in qualche maniera
“addomesticata”.
In questo senso si può comprendere anche il ruolo delle chiese pentecostali, le quali si
occupano spesso del riconoscimento della possessione: esso porta la persona ad accettare il
suo destino, mirando a normalizzare la relazione con l’essere sovrumano, piuttosto che
tentare di rompere il legame. Tuttavia le nuove chiese africane, sul modello cristiano,
tendono a vedere in queste possessioni il pericolo di un intervento diabolico e di forze del
male, e si offrono quindi come vie di salvezza e guarigione49.
L’atteggiamento apparentemente ambiguo del Pentecostalismo africano gioca tutto a
favore dei processi di invenzione della tradizione. Come ha messo in luce Marshall-Fratani
(2001), il suo successo risiede proprio nella capacità di saper mediare in situazioni
conflittuali e difficilmente gestibili di identificazione multipla. La conversione, il diventare
un “born-again”, attiva l’assimilazione di identità differenti dentro un sistema di pratiche e
discorsi che propone la lotta contro il passato e il locale (compresi gli antichi legami
comunitari e le “evil forces” tradizionali), in favore di una “vera vita in Cristo” segnata da
ricchezza e benessere.
È interessante notare come le problematiche sollevate dal Pentecostalismo siano le
stesse inerenti alla costruzione del modello mitico di Mami Wata e alla sua incarnazione
umana.
Tale incarnazione rimanda a una possessione estrema, permanente e identificante, che
si stacca dal modello tradizionale, caratterizzato dalla discesa temporanea del sovrumano e
da un rapporto saltuario, se pur costante, con l’umano.
48
cit. in Beneduce 2001: 31.
Vedi R. I. J. Hackett, Mermaids and End-Time Jezebels: New Tales from Old Calabar, in
http://web.utk.edu/˜rhackett/mermaids.htm
.
49
51
Le figlie di Mami Wata sono la divinità stessa: in quanto soggetti totalmente altri,
esse danno forma a quel “terzo genere” sopra citato.
Al contrario, donne afflitte da problemi di sterilità, le cui cause vengono individuate
nell’azione di Mami Wata attraverso la divinazione, devono rendere benevola la divinità
che potrà elargire fecondità, ma non porterà loro ricchezza e bellezza: queste donne non
saranno scelte per rappresentarla nel mondo degli esseri umani.
Agli uomini, Mami Wata può infliggere malattie veneree. Sottolinea Bastian che «la
connessione tra malattie veneree e prostituzione è ben conosciuta, perciò non sorprende
che donne di una bellezza eccezionale, che fanno sesso per soldi, vengano chiamate “mami
watas” in alcune zone».
Di fatto Mami Wata è anche associata a una sessualità eccessiva e smodata. Beneduce
riporta, tra i disturbi riscontrati nelle donne nigeriane incontrate al centro etnopsichiatrico
Frantz Fanon di Torino e aventi un passato di prostituzione, il sintomo frequente di vermi
che percorrono il corpo. Nella rappresentazione del corpo e della malattia di molti gruppi
etnici in Nigeria, i vermi sono «evocatori di quelle illness entities di cui parla Oliveri de
Sardan» (Beneduce 2002: 166) e vengono connessi alla sessualità sfrenata e trasgressiva di
cui si è detto sopra.
Inoltre, il tema ricorrente nei racconti popolari della “donna ribelle” portata in città da
uno straniero che si rivela essere uno spirito malvagio, mette in luce come la modernità sia
spesso rappresentata in quanto luogo non addomesticato e non addomesticabile, associato
alle acque, che è necessario socializzare.
L’accumulo individuale di ricchezza, l’ostentazione della bellezza esteriore, l’assenza
di legami e l’allontanamento dal ruolo di mogli e madri, rende le donne prostitute
incarnazione perfetta di Mami Wata, alla quale si deve rendere omaggio affinché garantisca
successo, autonomia e arricchimento.
3.3
Donne nigeriane migranti: la memoria nei corpi posseduti
I processi migratori sono una delle espressioni più controverse della globalizzazione,
nei quali trova perfetto compimento quella “individualizzazione dei destini” di cui parla
Augè: «ciascun individuo costruisce allora la sua identità all’incrocio fra spazi di
52
comunicazione diversi, oscillando lungo il crinale della differenza» (Fabietti e Matera
1999: 30).
La costruzione dell’identità si fonda necessariamente sulla memoria: essa gioca un
ruolo decisivo nella selezione di quegli elementi che servono a definire il gruppo in
opposizione a ciò che viene considerato Altro. La memoria è dunque un prodotto culturale
che coinvolge sia il ricordo che l’oblio, mira ad obiettivi specifici e a poste in gioco di
carattere politico. Secondo Augè, essa si fonda su uno spazio condiviso e temporalizzato,
caricato di valenze simboliche, che contribuisce a costituire il rapporto di ogni individuo
con se stesso (identità), con gli altri (relazione) e con un passato comune (storia).
Si è già accennato più sopra alla trance di possessione come memoria condivisa e
incorporata, tenuto conto del suo carattere assertivo e performativo.
Connerton introduce il concetto di habit-memory, inteso come capacità di riprodurre
una certa performance. Essa rimanda direttamente a quelle pratiche del corpo che mettono
in atto delle rappresentazioni, ripetute ritualmente nel tempo (Beneduce 2002). L’autore
sottolinea come la possessione, in quanto tecnica del corpo, trovi la sua efficacia nell’essere
sottratta alla consapevolezza dell’individuo. Infatti, la trance ha inizio da una perdita di
coscienza e produce un’amnesia: il posseduto, tornato in se stesso, non ricorderà più le
parole dette e i movimenti compiuti. Questo meccanismo sembra diventare canale
privilegiato per la riproduzione di una memoria sociale, in ragione di quel rappresentare
che è sempre un ricordare, rimandando a eventi e personaggi del passato di cui il gruppo
diventa testimone e spettatore.
Sottolinea Beneduce come questa memoria venga attivamente prodotta (al punto da
poter parlare di amnesia strategica) e debba essere percepita «non come mera espressione
di marginalità quanto piuttosto sua rappresentazione simbolica e, insieme, atto di
trascendenza» (Beneduce 2002: 274).
De Martino ha messo in luce l’importanza della ripetizione nel complesso miticorituale, sostenendo la sua funzione di rievocazione della crisi, la quale viene fatta
attivamente tornare e riesce ad essere padroneggiata dal soggetto: «la presenza in crisi è
esposta al rischio di non essere autentica presenza, cioè di patire il ritorno del passato non
oltrepassato, in cui si è perduta e a cui è rimasta legata: un ritorno che, in quanto crisi, ha
luogo nella forma cifrata e servile del sintomo psichico dal quale “si è agiti”. Il piano
53
dell’alterità radicale si configura pertanto come ripresa e risoluzione del simbolismo
chiuso e passivamente subito [...]. Appunto per questo il “tutt’altro ambivalente” si
articola nella ripetizione rituale di un mito: le varie crisi individuali ricorrenti in un dato
regime di esistenza sono tolte dal loro isolamento individualistico e trattate in forma
socializzata e istituzionale mediante modelli di risoluzione che attuano la reintegrazione
delle alienazioni e la pedagogia del mondo dei valori»50.
Nel caso delle donne nigeriane immigrate in Italia, questa rimemorazione collettiva
non è possibile. L’individualizzazione dei destini «porta alla necessità di pensare da soli
un nuovo rapporto con la realtà, senza più la protezione dei corpi sociali “intermedi”»
(Fabietti e Matera 1999: 30). La donna migrante sperimenta una possessione ordinaria
(Beneduce 2001, 2002), privata dell’assetto rituale e quindi non socializzata. Questa stessa
possessione costituisce insieme una risorsa e un vincolo, un arricchimento che disegna i
contorni della propria identità, dando senso al mondo, e un debito inestinguibile nei
confronti del proprio “spiritual husband”.
Sembra di riconoscere nei sintomi che le donne accusano (ma anche nelle loro parole,
nella loro eziologia, nel modo di raccontarsi) il rischio di quella “nuda crisi” che De
Martino analizza come effetto dell’assenza di ogni orizzonte simbolico capace di
reintegrare il terrore di non esserci e della mancanza di quel terreno intersoggettivo sul
quale ritrovare e ricostruire valori condivisi.
Nei racconti di molte donne nigeriane la sofferenza o la malattia, un progetto
migratorio fallito, le difficili condizioni di vita in un paese straniero, rispondono a una
precisa chiamata: è Mami Wata che, trascurata, punisce chi ha trasgredito il patto di
alleanza e l’ha tradita, o chi non ha assecondato la sua scelta ed è partita senza adempiere ai
suoi doveri di eletta. I disturbi manifestati e il destino di adepta sono situati «all’interno di
un preciso orizzonte dove confluiscono a uno stesso tempo registro tradizionale e progetti
individuali» (Beneduce 2002: 172).
Ed è ancora una volta il corpo ad essere al centro, ponte tra passato, presente e futuro;
un corpo che, nell’esperienza della prostituzione, è stato in altro modo posseduto, «o
50
E. De Martino 1961 (2002: 64). Per segnalare la rievocazione della crisi, De Martino riprende il termine
psicanalitico “abreazione” e definisce lo sciamano un abreagente professionale. La funzione della ripetizione
viene messa in luce attraverso il celebre episodio del bambino e della “madre-rocchetto” riportato da Freud
nel suo Al di là del principio di piacere (1920). Anche ne La terra del rimorso, De Martino riflette sul ritorno
del simbolismo del morso in “successive stagioni rituali”, come dimostrazione della sua autonomia culturale.
54
meglio, spossessato, preso nelle dialettiche dell’immaginario sessuale delle società ospiti,
sottoposto a ricatti e minacce o alla manipolazione che vi hanno sovrapposto il discorso
morale e quello medico, catturato dalle logiche dell’adesione mimetica, teso nella
realizzazione di sogni di ricchezza e di un potere dalle espressioni ambigue, rivolto ad
affermare desideri, identità e motivi egemonici connessi alle “questioni di genere”...»
(Beneduce 2001: 37).
I sintomi della chiamata, che parlano il linguaggio del corpo attraverso la malattia e la
sofferenza, sono l’espressione di una memoria incorporata e diventano quindi metafore
incarnate di tale memoria: essi sembrano tessere un discorso che evoca eventi passati ed
esperienze recenti, conflitti tra mondi culturali diversi, tra differenti linguaggi, tra
«prospettive morali in competizione fra loro» (Beneduce 2002: 176)51.
Ma parlare di memoria perde il suo senso nel momento in cui non vi è condivisione.
Scrive Beneduce che «il corpo può allora diventare sì luogo di memoria, ma di una
memoria ossessivamente rivisitata, interrogata senza tregua, nella solitudine, essendo
ormai lontano quel senso sociale che connota le forme di possessione [...] e ne fa “pratiche
morali” di una memoria culturale e collettiva. Corpo interrogato nei suoi più piccoli
rumori [...], alla ricerca spasmodica di un valore (anche nel senso economico del
termine...), di una risposta ai propri assilli identitari; corpo che quando disvela un
possibile senso si fa nuovamente corpo-vincolo... » (Beneduce 2001: 37).
I vincoli di memoria rimandano al legame con l’alterità e al debito inestinguibile che
ne deriva, un legame che appartiene alla vita passata e che non trova riscontro fattuale nel
luogo della nuova esistenza, un rapporto che non disegna più appartenenze, faticoso da
sostenere da sole.
E’ anche una relazione che ha segnato un modello di vita preciso, di autonomia e
arricchimento, che in un paese estraneo forse si dimostra ancora più difficile da portare a
compimento perchè dure, molto più di quanto si sia immaginato prima della partenza, sono
le condizioni per realizzarlo. I fallimenti, gli ostacoli, i disagi rafforzano il sentimento di
debito nei confronti del proprio “spiritual husband”, che va placato e reso benevolo: sono
51
In questo senso s’intenda la sensazione di vermi che percorrono il corpo, di cui si è fatto cenno nel paragrafo precedente, che rappresenta una sessualità poco controllata: di questo sintomo sembrano soffrire molte delle donne che hanno vissuto o vivono l’esperienza della prostituzione (Beneduce 2002).
55
frequenti i casi in cui le donne tornano in Nigeria per adempiere ai loro compiti, troppo a
lungo trascurati, e per riaffermare quell’alleanza propiziatoria.
56
APPENDICI
Le pagine che seguono contengono le interviste da me svolte per indagare pensieri,
credenze, opinioni, memorie e sentimenti di alcune donne nigeriane in Italia, seguendo il
modello di quella che si definisce ricerca qualitativa a fini conoscitivi.
Le donne intervistate sono state contattate prima dell’incontro e hanno quindi scelto
deliberatamente di incontrarmi.
Molte persone hanno rifiutato di fissare un appuntamento «per parlare di queste
cose», confermando un atteggiamento di diffidenza e riservatezza su questi temi, già
riscontrato da altri.
A tutte ho premesso che l’intervista avrebbe avuto come obiettivo quello di acquisire
informazioni sugli aspetti simbolico-rituali delle popolazioni della Nigeria, evitando a
priori di svolgere un’indagine sulle esperienze personali di prostituzione. Ho creduto infatti
che non fosse opportuno inasprire le difficoltà già presenti nell’interazione e che dovesse
essere rispettata la riservatezza dovuta a esperienze probabilmente dolorose, non facilmente
trattabili con un’estranea, in modo da riuscire a costruire un rapporto di fiducia e di rispetto.
Le conversazioni si sono svolte sulla base di uno schema flessibile e non
standardizzato di interrogazione, lasciando che la voce delle intervistate seguisse con libertà
il percorso tracciato dai loro pensieri e dalle loro emozioni. Il mio intervento è servito
solamente a limitare le divagazioni eccessive (che talvolta ho riassunto brevemente durante
la trascrizione delle interviste) e a stimolare la discussione sugli argomenti più pertinenti
alla mia ricerca.
A questo proposito ho scelto l’intervista non-strutturata come metodologia da
utilizzare, non presentando domande predefinite e uguali per tutte, ma tenendo a mente dei
temi molto generali che volevo fossero toccati.
In questo modo le intervistate hanno avuto la possibilità di esprimersi nella maniera
che preferivano e le loro digressioni si sono rivelate utili per l’emergere di sotto-temi non
previsti, ma ugualmente interessanti per la mia indagine.
Per non urtare pudori su argomenti che avrebbero potuto essere ritenuti tabù secondo
il codice di comportamento della cultura d’appartenenza, ho preferito cominciare ogni
intervista con domande indirette, spersonalizzando l’argomento da trattare e lasciando a
57
ciascuna la libertà di scegliere se raccontare di sé. In ogni caso, per ognuna è stato possibile
intuire il grado di coinvolgimento nei fatti narrati e il modo di organizzarli nel pensiero.
Le donne nigeriane intervistate provengono dal sud della Nigeria: G. e A. sono nate
nell’Edo State, mentre Q. proviene dal Delta State. Tutte hanno comunque un passato di
migrazione interna dal villaggio natio a Benin City, da cui sono partite per l’Italia.
Conoscono Mami Wata e hanno qualcosa di lei da raccontare, confermando con le
loro informazioni le mie ricerche bibliografiche. Due di loro si dichiarano cristiane, G.
(intervista 1) appartiene probabilmente a una chiesa pentecostale, mentre A. (intervista 3) si
dice cattolica. Q. (intervista 2) non specifica la sua appartenenza a qualche gruppo
religioso, ma accenna alle molte chiese, sicuramente protestanti, del sud della Nigeria e
sembra, fra tutte, quella che ha sperimentato più da vicino il culto di Mami Wata e degli
ogbanje, raccontando della possessione della sorella e di una sua possibile, ma ignorata,
appartenenza al mondo sovrumano.
Q. introduce spontaneamente il tema dell’emigrazione e del fallimento del progetto
migratorio della sorella, da lei connesso proprio al legame trascurato con Mami Wata, la
quale sembra vendicarsi di ciò. Nelle sue parole compare chiaramente il problema della
rottura dei rapporti con la cultura d’origine e l’insicurezza e la sofferenza che ne derivano,
acuite dal rimpatrio forzato che appare incomprensibile, in quanto evento, accaduto in un
paese estraneo di cui nulla ancora si conosce, che la costringe a tornare, chiamando in
causa quei vincoli di memoria che è necessario interrogare: «Ha pensato che le è successo
questo perché non aveva fatto i riti per calmare lo spirito» (Intervista 2). Tale rottura di
legami fonda tutta l’eziologia di Q. sulla proprie e altrui sventure: «…La mia vita non è
andata bene fino adesso. Da bambina in chiesa mi dicevano che ero posseduta» (ibid.).
La cura della relazione si mostra come necessità urgente, si presenta come ritorno al
mondo di appartenenze umane e sovrumane là, da dove si è partite, rivitalizzando quel
senso della ripetizione socializzata che è insieme ricordare e far presente, per tentare di
trovare risposte alle nuove esigenze della Presenza in crisi.
«Bisogna continuare a portare le offerte […], lo spirito riappare ogni volta che ha
bisogno di qualcosa» (ibid.), «è come uno che vuole farti un regalo e vuole qualcosa in
cambio. Lui ti porta fortuna però tu devi fare quello che vuole lui» (intervista 1): la propria
cultura d’origine, attraverso i molteplici legami stabiliti sul piano del simbolico, chiama
58
instancabilmente a un rapporto, sotto forma di un debito inestinguibile di cui non è
possibile dimenticarsi. Tutte le donne intervistate hanno messo chiaramente in luce questo
dovere di contropartita che esige continuamente di essere estinto, ma sempre si rinnova.
In questo paradossale dovere vengono inscritte anche tutte le contraddizioni che
sembrano emergere dalla “modernità africana”, travolta dalla globalizzazione, scatenando
infinite creazioni a partire dal materiale simbolico della tradizione: Ogun, dio yoruba del
ferro, diventa il responsabile degli incidenti stradali in macchina (intervista 3); Mami Wata
appare nei film americani e tenta gli esseri umani con «le cose belle tipo i soldi, i gioielli, i
vestiti belli» (intervista 1), nel blood-money le vittime umane vengono uccise per profitto (e
si accenna forse al contrabbando di organi?) e pare che un’identica minaccia sia vissuta da
chi, tornando dall’Europa, porta addosso i simboli della modernità e ne diventa il capro
espiatorio, come racconta A.: «Da Lagos alla mia città ho dovuto mettermi i vestiti di mia
madre [...]. Ho dovuto vestirmi come un’africana per non farmi riconoscere». Il
riconoscimento a cui A. allude rimanda allo scoprire un’identità cambiata, incerta, diversa
da quella che aveva prima di partire; sottolinea la sua differenza, acquisita stando lontano.
In questo quadro composto da una ricchissima varietà di elementi (dove sembra che il
vodu si coniughi addirittura con il rastafarianesimo), il confine tra alterità e identità si
mostra sempre più labile e confuso, «sono gli spiriti stessi ma non li riconosci sotto forma
umana» (intervista 2).
L’alterità, con cui continuamente si ha a che fare, dev’essere portata nel mondo della
socialità umana, dev’essere addomesticata, controllata in qualche modo. Diventa salvifica
l’azione delle chiese cristiane diffuse grazie a secoli di missioni ed evangelizzazione.
L’invenzione della tradizione gioca tutta a favore del dualismo Bene/Male che riconosce
nel Dio unico la forza benefica e potente, capace di contrastare il Satana dei vodu, degli
spiriti dell’acqua e delle divinità del fecondo pantheon originario, ma non per cancellarle,
piuttosto per sconfiggerle, quando ci riesce, in ragione di quel processo creativo di mimesi
in cui l’adesione all’Altro, in questo caso l’Occidente e il suo monoteismo, serve sempre in
qualche modo a ritrovare se stessi, a ricostituirsi come attori della storia, nella storia.
A. (intervista 3) lo spiega bene: «ci sono i pagani, loro non credono in Dio, credono
in Mami Wata, è un potere dell’acqua, è forte, però è diverso da quello di Dio, io credo che
quello di Dio sia più forte» e aggiunge il racconto di quei genitori, disperati per la morte dei
59
figli uccisi da una “strega”, che «hanno lasciato la chiesa perchè dicevano che la chiesa non
vedeva [...]. Sono andati dal vodu perchè chi li aveva uccisi doveva venire fuori».
Le chiese protestanti diventano inoltre il luogo del riconoscimento della propria
differenza, della non totale appartenenza al mondo umano: «Dava segni strani, in chiesa le
hanno detto che era posseduta» (intervista 2), «in chiesa succede per esempio che una
persona perde i sensi. [...] Nella chiesa cristiana quando si mettono a pregare è ovvio che
cadono da soli [...]. Dicono che è un potere che non puoi cancellare, che questo potere di
Mami Wata è del diavolo, non è di Dio, ed è vero questo» (intervista 3).
Nella figura di Mami Wata, tale differenza è anche quella del corpo femminile: «Una
che è ogbanje viene mandata in chiesa per disturbare, per sedurre gli uomini, anche perchè
sono molto belle. [...] Loro vanno in chiesa in minigonna, tutti si girano, tutti ti mettono gli
occhi addosso, attirano l’attenzione» (ibid.).
Ritorna l’immagine della donna non completamente antropomorfa, appartenente al
mondo acquatico e animale, il cui corpo assume caratteri di mostruosità : «non devono
andare in spiaggia da sole perchè se tu butti loro acqua addosso, è facile che cambino, non
riescono più a stare in piedi come noi, perchè hanno metà corpo di pesce» (intervista 3).
Tale mostruosità è anche il segno di una deviazione alla norma androcentrica, è il
segno di una femminilità ribelle, che ambisce a una propria autonomia e quindi diventa essa
stessa il simbolo della rottura dei legami comunitari con il mondo umano, contravvenendo
al ruolo della donna in quanto riproduttrice del corpo sociale: «loro fanno fatica a sposarsi
anche perchè un uomo per loro deve essere un servo, uno schiavo, deve fare tutto. Una sola
l’ho vista sposata però è morta. Non fanno neanche figli. [...] In Africa una donna che non
fa figli è un uomo.» (ibid.).
Infine, nella differenza dell’essere femminile si annida anche il mistero di un sapere
superiore, di un “potere magico” facilmente avvicinato alle forze ambigue della modernità
occidentale e dei suoi modelli di benessere, inevitabilmente ricondotto all’immagine della
“strega”, ma ben sottolineato anche nel ritratto di Mami Wata: «Se io fossi Mami Wata
adesso, ogni giorno mi vedresti diventare più giovane, più ricca, nonostante faccia un
lavoro di merda. Tu non riesci a capire perchè, però ti insospettisci... » (ibid.).
60
Credo sia facile immaginare, dopo queste riflessioni, come la costruzione del sacro
giochi un ruolo decisivo anche nell’esperienza di migrazione e prostituzione di molte donne
nigeriane, nelle cui parole è necessario riconoscere lo sforzo del dover essere nel mondo.
61
Intervista 1
G. è una donna edo di 26 anni. È nata in un villaggio vicino a Benin City, ma già da
bambina si è trasferita in città. Suo padre ha due mogli, da sua madre ha avuto 6 figli.
G. dice di appartenere a una chiesa apostolica e di non credere al vodu, ma non sa spiegare
cos’è.
Si trova da 4 anni in Italia.
Conosci Mami Wata?
Mami Wata e i suoi figli vivono nei fiumi, perché ci sono tanti fiumi nella zona di Benin
City. Sono il diavolo.
Ma il diavolo non è una figura più legata al cristianesimo?
Quei vodu, che loro dicono vodu vodu, ci sono tanti nomi nella nostra lingua legati a quel
vodu che usano… Ci sono vodu diversi, chiese diverse anche… Ci sono tante chiese legate
a tanti nomi, non è solo una cosa in particolare.
E Mami Wata è uno di questi nomi?
Mami Wata è uno di quei nomi del vodu… Ci sono tanti che adorano Mami Wata, tanti che
adorano quell’altro che si chiama ogbanje, figlio di Mami Wata che si trova nell’acqua
come sua madre. Ci sono i figli, maschi o femmine, di Mami Wata, si chiamano ogbanje.
Mami Wata è una donna comunque...
C’è Mami Wata donna e c’è Mami Wata maschio.
E come sono raffigurati?
Come ti ho detto, io ho visto le foto, non l’ho mai vista così al naturale, ci sono tanti
americani che hanno girato questi film dove c’è Mami Wata.
È vero che Mami Wata ha la pelle bianca?
Non so.
I figli quindi stanno nell’acqua con lei?
Sì, passano la loro vita dentro l’acqua
Escono però per incontrare gli uomini?
62
Io non so, io ho guardato i film che gente ha girato, io non posso credere a un film, però
tanta gente dice che tanti film sono reali, raccontano la storia dei figli di Mami Wata che
escono dall’acqua, vengono sulla terra, si vestono come un umano normale, a convincere, a
tentare altra gente a diventare come loro.
Per farli diventare loro seguaci?
Sì seguaci, per distruggere il mondo.
Quindi sono cattivi?
Sì, cattivi, soprattutto perchè fanno parte del diavolo, perchè loro hanno quella forza del
diavolo, di maledizione…
Anche Mami Wata?
Sì.
Ma Mami Wata non porta anche fortuna, ricchezza?
Però la fortuna di Mami Wata non è fortuna di…È come uno che deve farti un regalo e
vuole qualcosa in cambio. Lui ti porta fortuna però tu devi fare quello che vuole lui.
E lei cosa vuole in cambio?
Vuole in cambio che tu diventi la sua schiava, che tu possa andare fuori, ti dà un po’ di
forza per andare a cercare altra gente… Ad ammazzare, a portare tipo le cose belle, sai che
alla gente piacciono molto le cose belle tipo i soldi, i gioielli, i vestiti belli, con tutte quelle
cose usa affittare gente, tentare la gente per farla diventare come loro…
E quindi vivono in questo mondo pieno di ricchezza… Ma perché vivono nell’acqua?
Non lo so..
Ci sono anche le sacerdotesse di Mami Wata?
Sì, c’è priestess, c’è priest… Maschi e femmine.
Io ho visto delle foto in cui loro portavano dei vestiti bianchi.
Sì, loro usano soprattutto le cose bianche.
E si dipingono anche la faccia di bianco…
Sì, loro usano… Come si chiama? Non mi ricordo.
Ci sono le feste durante le quali Mami Wata entra nel corpo delle persone che attratto a
sé…
Sì, loro fanno feste, così ho sentito, non so com’è, la mia mamma mi ha raccontato la storia.
E tu non hai mai visto queste feste?
63
Come devo fare per vedere queste feste, se non sei parte di loro non puoi vederle! Le feste
loro le fanno dentro l’acqua, a mezzanotte, quando tutti dormono. Però io non le ho mai
viste, è soltanto una storia.
Per te è solo una storia, proprio non ci credi a queste cose?
Io non credo se non vedo coi miei occhi.
Ma ti viene un po’ di paura a sentire queste storie?
Quando ero piccola piccola sì, però dopo sono cresciuta, non mi fanno paura.
Fin da piccola appartenevi a questa chiesa apostolica?
Sì.
Prima hai detto che non hai mai visto Mami Wata, solo nei film…
I film, sì, perché ci sono tanti film. Se uno vuole girare il film l’importante è incontrare i
vecchi che sanno queste storie, loro ti raccontano la storia, tu scrivi e dopo puoi usarle per
girare un film.
Però si può riuscire a vedere Mami Wata… Qualcuno la vede?
E come devo fare a vedere Mami Wata, io non lo so… Io non lo so se qualcuno l’ha vista.
Di solito chi crede a Mami Wata vive nel villaggio o nella città?
Nel villaggio.
E deve necessariamente esserci un corso d’acqua?
Perché ci sono tanti fiumi in Nigeria, soprattutto in Edo State. Mami Wata allora si trova
nei fiumi. Io sono stata al fiume solo due volte perché ho paura dell’acqua, anche del
mare… Allora gente che va al fiume ha detto che dopo le sette di sera nessuno può andare
al fiume perché dalle sette di sera se vai al fiume trovi le cose strane, trovi una persona che
da qua è corpo e da qua è pesce, forse c’è gente che ha visto, però tanti che l’hanno visto
tornano a casa che non parlano più, tanti rimangono male, stanno male perché l’hanno
vista… Tanti muoiono. Queste persone che l’hanno vista sono i bisnonni di tanti anni fa,
quando c’era proprio quella religione in Nigeria, perché adesso quella religione non esiste
più tanto come ai tempi dei miei bisnonni.
E anche nel mare c’è Mami Wata? Io ho trovato un altro nome: Olokun.
Yoruba, è di Yorubas.
Olokun è Yoruba?
64
No, Olokun non è degli Yoruba, Shango è yoruba… Gli Yoruba sono un’altra cultura in
Nigeria che forma 5-6 città che parlano questo yoruba. Sono quelli che hanno creato questo
vodu che si chiama Shango. Shango è stato nominato dai figli di Mami Wata, come
raccontano nelle storie perché io queste cose non le ho mai viste in vita mia, girano le
voci… Shango è un nome per il quale loro usano il rosso, i vestiti rossi…
E’ il dio del fulmine?
Sì, quando c’è il temporale. Una volta ho sentito che in un villaggio c’era una donna che
crede tanto a Shango, a casa sua ha tutti questi vodu di Shango.
Queste statuette?
Pittura i muri di rosso, fa queste immagini con la sabbia…
Quando dici “vodu” intendi tutte queste immagini?
Sì, perché tutti i vodu sono immagini, i vodu non parlano, non mangiano, è per quello che
io non posso credere a una cosa che non parla, che non mangia, che non ascolta né parla,
penso che sia gente ignorante… Per esempio questa cosa (prende in mano il contenitore
dello zucchero), come faccio ad adorare questo che non parla? In quel villaggio… Questa è
una cosa che noi abbiamo sentito tutti in Nigeria, che questa donna che crede tanto a
Shango aveva ospiti a casa sua, una donna ha rubato i soldi da Shango.
Dall’altare che lei aveva a casa sua?
Sì. Loro hanno fatto una festa che dura sette giorni, va tanta gente che crede a quelle cose,
ballano, cantano… Lei cercava i suoi soldi, nessuno ha detto chi ha preso i soldi. Allora lei
è andata da Shango, si è messa in ginocchio e ha pregato Shango, ha detto «Shango, io ti do
sette giorni per far venire fuori chi ha rubato i soldi di Shango». Allora dopo sette giorni
pioveva tanto, pioveva, pioveva, è cominciato questo fulmine, questo fulmine è andato
proprio a casa di quella donna, l’ha fatta rimanere in ginocchio con i soldi che aveva rubato
sul cuore, non parlava più. Poi la gente che ha visto questa cosa ha chiamato il marito di lei
e gli ha detto: «Questo è grave, lei ha rubato i soldi di Shango», perché quando ci sono i
fulmini dicono che è Shango che sta cercando chi ha rubato i suoi soldi. Purtroppo lui ha
chiamato la donna, la donna ha chiesto a loro cosa doveva portare, una capra, una gallina,
una bottiglia di champagne, una bottiglia di certe cose che loro usano per fare i sacrifici per
Shango, per chiedere a Shango di lasciare stare la donna, di non ammazzarla… E poi il
65
marito ha portato tutte quelle cose e dopo sette giorni la donna è tornata viva, normale…
Ma io non ho visto coi miei occhi, perciò non credo.
Durante i sacrifici c’è una festa?
Sì, con gente che crede come loro.
Quindi io posso scegliere la divinità che voglio adorare?
Sì, dipende dalla famiglia, dalle persone che conosci… Dai bisnonni. Viene tramandato da
generazione a generazione.
E Olokun allora?
Olokun è bianco, loro adorano Olokun col bianco, si pitturano di bianco, c’è una cosa che
loro usano, non so com’è in italiano perché ci sono tante cose in Africa che non ci sono
qua. Olokun è figlia di Mami Wata, è femmina, anche lei legata all’acqua, sta nell’acqua e
può uscire a prendere le persone come gli altri figli di Mami Wata.
E Yémaja?
E’ un nome yoruba, anche Osu e Olorun sono yoruba, perché Mami Wata, Olokun e
Shango sono nati nelle città degli Yoruba e poi sono arrivati dappertutto in Nigeria. Di
queste cose gli Yoruba sanno meglio di me, perché tanti Yoruba credono in queste cose,
loro fanno le feste e tanti anni fa loro usavano usare umani per fare i sacrifici per queste
cose. Osu è una cosa che è legata soltanto al diavolo, che parte dalle cose nere. Però tutte
queste cose sono nate dal fiume, perché sono tutti figli di Mami Wata. Mami Wata aveva
una figlia/o che si chiamava ogbanje, da ogbanje è nata Olokun, Shango…
E gli orisha?
Orisha sì, quello è un altro nome degli Yoruba.
Le donne che sono sacerdotesse di Mami Wata si possono sposare?
Sì, ma solo fra di loro, fra i seguaci.
E possono avere figli?
Di quello non ho idea.
Io so che Mami Wata può lasciarti avere figli oppure no…
Anch’io ho sentito di tanta gente che va a pregare il fiume a mezzanotte, questi genitori che
adorano Olokun, di notte loro vestono di bianco e vanno al fiume a chiedere a Mami Wata
un figlio o una figlia… Si dice che Mami Wata ti dà un figlio, lo lascia crescere e dopo
riprende suo figlio, non te lo dà così, gratis.
66
E perché se lo riprende?
Non lo so.
E’ vero che è gelosa Mami Wata?
Sì, ho sentito che è troppo gelosa.
Anche con gli uomini che ha è gelosa? Devono esserle fedeli?
Sì, è gelosa.
….
C’è tanta gente che ci crede. Penso che siano matti. Non mi interessa di loro.
Ma possono mandare delle maledizioni?
Sono una persona che non crede alle maledizioni, non credo ci sia qualcuno che può
mandare maledizioni, perché non credo che quelle cose esistano. Tanti dicono che ti
mandano maledizioni, sfortuna, ma io a queste cose non credo, io credo che in questa vita ti
possa capitare qualsiasi cosa, può capitare a qualsiasi persona. E’ che io sono nigeriana, ho
tanti dubbi nella testa perché se sai queste storie qua, non sai a quello che credi, a quello
che non credi… Finché non vedi coi tuoi occhi.
In Nigeria ci sono 150 lingue diverse, io non capisco niente delle altre, solo English e
pidgin English… Ci sono culture e modi di fare diversi.
Così tanto diversi?
Tanto tanto, per esempio gli Ibo nel sud della Nigeria, quelli credono soltanto a questa cosa
che si chiama blood-money, i soldi che si fanno col sangue, loro usano umani per farlo. La
storia degli Ibo è molto diversa dalle storie delle altre persone in Nigeria, gli Ibo credono
tanto a questi vodu, usano questi organi umani per fare soldi. Tanti dicono che è difficile
trovare un uomo ibo che si sposi con una donna yoruba, di Benin, di qualsiasi altra parte…
Si sposano fra di loro. E tanti di loro usano i loro genitori per avere soldi, li portano nella
foresta dove non c’è gente, dove si trovano gli uomini che rimangono nella foresta per
aiutarli. Quando arrivi là solo, ci sono altre persone là che si chiamano secret cot, è un
gruppo di 15-20 uomini che fa queste cose di notte, ci sono tanti tipi di secret cot, tanti
vestiti di nero, di bianco, di rosso. Quando il corpo è a letto lo spirito parte, finché non
torna lo spirito loro non ci si può svegliare.
Ho un sacco di film, tanti raccontano di gente che crede al vodu per fare maledizioni a
qualcuno o per rubare il marito alle altre donne.
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Intervista 2
Q. è una ragazza ijo di 23 anni. È nata in un villaggio nel sud-est della Nigeria, in River
State, ma nell’infanzia si è trasferita a Benin City. Suo padre ha avuto due mogli, lei è
l’ultima di 7 figli.
Durante l’intervista non si lascia registrare, sembra intimorita. Prima di incominciare la
conversazione le spiego che non voglio rivolgerle domande personali, ma all’inizio della
discussione le sue risposte vertono sempre sulla sua storia o sulle esperienze di familiari, su
cui, di conseguenza, cerco di indagare con discrezione. All’improvviso interrompe
l’intervista stizzita, dicendo che non vuole raccontare niente di sé. Tornando a domande
generali riusciamo a riprendere la conversazione. Il suo atteggiamento rimane comunque
infastidito, sembra che non abbia nessuna voglia di rispondere alle mie domande.
Se tu mi dovessi spiegare cosa significa vudu, come lo faresti?
Juju? No, non conosco il termine vodu. Juju è lo spirito, come Mami Wata, che entra nel
corpo. Devi andare al fiume dove c’è il tuo Mami Wata, prendere l’acqua, dargli da
mangiare. Quando una persona viene posseduta non è più se stessa, è comandata dal juju.
Finché non riconosce di essere posseduta, rimarrà disturbata. Per tornare in sé deve fare il
sacrificio, le offerte al juju. Può capitare a tutti, donne, uomini, bambini. Questo succede
nei posti dove ci sono fiumi, come nel Delta State. E’ capitato anche a mia sorella quando
aveva circa vent’anni. Dava segni strani, in chiesa le hanno detto che era posseduta, lei
subito non ha dato peso a quello che le dicevano.
A quale chiesa apparteneva?
In Nigeria ci sono tante chiese con tanti nomi, dove delle persone si autoproclamano
sacerdoti e hanno delle visioni. Credono al dio della Bibbia, a Gesù, a Maria… Solo in
chiesa riescono a vedere se sei posseduta. Mia sorella (figlia di mia nonna) voleva andare in
Europa, ha fatto tutti i documenti. Una volta arrivata in Germania la carta (visto
d’ingresso?) che aveva si è trasformata. E’ stata presa dalla polizia e questa ha scoperto che
la carta era falsa ed è stata rimpatriata in Nigeria. Ha pensato che le è successo questo
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perché non aveva fatto i riti per calmare lo spirito. Quando è tornata è andata a farli per
Mami Wata ed è tornata normale, così ha potuto tornare in Europa. Ha offerto un pollo e ha
raccolto l’acqua con un piatto. Loro (posseduti o sacerdoti?) sanno a che juju, a che Mami
Wata appartengono.
Tu credi a queste cose?
Io no, ma ho visto quello che è successo a mia sorella.
Come si manifestano questi disturbi?
Per esempio la mia vita non è andata bene fino adesso. Da bambina in chiesa mi dicevano
che ero posseduta. Mia madre non era con me. Ho vissuto con la nonna, lei era una
levatrice, sapeva esattamente dove stava uno spirito. Chi riesce a capirlo sono gli uomini e
le donne che sono già stati posseduti.
Quando si è calmato lo spirito con le offerte, il legame con lui finisce?
No, bisogna continuare a portare le offerte, per esempio ogni tre mesi, lo spirito riappare
ogni volta che ha bisogno di qualcosa.
E cosa vuole?
Quelli cattivi vogliono sangue e causano morti nei fiumi che nessuno sa spiegare.
Chi sono gli ogbanje?
Sono gli spiriti che possiedono le persone. Di notte quando senti rumori strani significa che
Mami Wata è uscita e sta cercando qualcosa. Se le dai qualcosa ti aiuta. Prende spesso le
donne, si trasforma in essere umano tramite il concepimento. Una donna Mami Wata non
ha mai rapporti con gli uomini perché Mami Wata ha un unico uomo che vive nell’acqua.
Quando lei si trasforma in essere umano e vuole avere rapporti con uomini, arriva il
compagno ad impedirglielo. Una volta in Senegal ho sentito che ogni volta che una donna
Mami Wata provava ad avere dei rapporti, il compagno con la forza dello spirito spingeva
via l’uomo (ride).
Le donne Mami Wata sono diverse dalle donne che sono state possedute. Le possedute
hanno meno forza, sembrano matte. Le donne Mami Wata sono più potenti e molto belle.
Non mangiano pesce.
Mami Wata infatti ha il corpo di pesce dalla vita in giù…
Quando Mami Wata arriva all’acqua si trasforma in pesce.
Mami Wata porta fortuna, ricchezza?
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Alcune Mami Wata danno ricchezza, ma a delle condizioni. Si mettono con un uomo e gli
promettono ricchezza ma a condizione che non esca con nessun altra. Se lui rispetta questo
avrà fortuna.
Le donne Mami Wata sono delle sacerdotesse?
No, sono gli spiriti stessi ma non li riconosci sotto forma umana. Non ci sono sacerdotesse.
Solo i native doctors sanno identificarli, loro si vestono di bianco. Anche il compagno di
una bella ragazza può non sapere che lei è una Mami Wata, ma può accorgersi che lei si
comporta in modo strano. Capita anche che un uomo che cerca ricchezza si rivolga a un
native doctor affinché lo metta in contatto con una Mami Wata.
Se nella tua zona gli uomini di solito hanno più di una moglie, non è strano che le unioni
con una Mami Wata siano monogamiche?
Se tu hai più mogli prima, devi lasciarle. Se ti azzardi ad avere rapporti con altre, ti
ammazza.
(Insisto sul termine vodu ma ripete di non conoscerlo).
Esiste solo Mami Wata tra gli spiriti che possiedono?
Sì, poi so che ci sono witch in Nigeria. Witch uccidono, ma sono persone cattive, non
spiriti. Si dice che è meglio non accettare cibo dalla gente. Se ti fanno visita appena hai
avuto un bambino possono fargli del male.
Perché ti fanno del male?
Per gelosia, invidia. Non vogliono il progresso, la ricchezza, non vogliono che la persona
stia meglio di loro.
Come fanno ad uccidere?
Ti uccidono pronunciando il nome di tua madre per prenderle lo spirito. O usano gli
indumenti intimi per arrivare a te.
Quindi witch è cattivo... E il juju?
Il juju è buono, non ti fa male, solo ti disturba.
Nel tuo villaggio c’erano molte persone che venivano possedute da Mami Wata?
Sì, è frequente.
Quando sei andata a vivere a Benin City hai notato delle differenze? Lì credevano a cose
diverse?
No, anche a Benin City c’erano le stesse cose.
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La vita di una donna Mami Wata com’è? Cosa fanno?
Svolgono vite normali, non si sposano, sono ricchissime, tutto quello che fanno ha
successo. Possono essere venditrici di stoffe o di olio di palma al mercato. Quando una
donna desidera un figlio può andare dal native doctor o al fiume. Nel primo caso il
bambino è buono e vivrà. Nel secondo caso non vive a lungo perché è cattivo. Se non hai
fatto quello che Mami Wata voleva, se non è contenta, può riprenderselo.
Conosci la parola “orisha”? Yémaja?
No, non so.
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Intervista 3
A. ha 29 anni e proviene da Ishan, Edo State. In Nigeria ha frequentato 2 anni di università,
iscritta a Medicina, poi ha abbandonato gli studi per partire per l’Italia, dove vive da 6 anni.
Puoi raccontarmi quello che sai di Mami Wata?
Mami Wata è metà pesce e metà persona, non ho mai visto che esista qui in Europa, però è
molto diffusa in Africa, non solo in Nigeria, anche in altri paesi, io ho un’amica ghanese
che mi ha raccontato che è uguale anche da loro. Io ho visto con i miei occhi… Perché
anche vodu è legato a questa cosa di Mami Wata. Io ho un’amica a cui è successo… Queste
persone che si chiamano Mami Wata non devono andare in spiaggia da sole perché se butti
loro acqua addosso, è facile che cambino, non riescono più a stare in piedi come noi, perché
hanno metà corpo di pesce. È successo a questa che è andata in spiaggia e io l’ho visto con i
miei occhi… Hanno dovuto portarla fuori perché non stava più in piedi, è caduta, poi
batteva i piedi, batteva… L’hanno portata a casa perché è svenuta. C’era una signora… Sai
i rasta qui in Italia, rasta in Africa è diverso, qui vedo che mettono qualcosa, non pettinano
più i capelli, invece in Africa crescono dalla nascita. Le donne che hanno i capelli così sono
molto potenti, vedono oltre, loro dicono così, oltre... Non so se è vero, io non ci credo tanto
perché sono cattolica. Allora una signora l’ha portata dal vodu, facevano delle cose perché
la ragazza era Mami Wata, dato che è stata nell’acqua è diventata metà donna e metà pesce.
Allora lei è dovuta stare sopra il vodu per 7 giorni senza mangiare, poteva mangiare solo
native chalk, non so il nome in italiano, è una polvere bianca però con sale…
Cosa intendi per “deve stare sopra il vodu”?
Non te lo posso dire, devi vedere con i tuoi occhi, sono tante cose, non so come spiegarti il
vodu… Se vedi il vodu ti spaventi anche perché vedi sangue sopra, i cibi africani che usano
per fare i sacrifici… Come le persone fatte con sabbia.
Delle statuette?
Statuette, non solo però… Ci sono quelli fissi fatti intorno a una casa perchè ci sono più
vodu, vodu può essere fatto come questa parte del bar (indica il bancone), però ci sono
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tante cose messe sopra, tipo cocco, fanta, aranciata… La barca… Simboli di tante cose…
Anche i serpenti, galline, coccodrilli…
Mami Wata è vodu?
No, non lei, lei è stata messa sopra questa cosa per non morire, per non andare via, dopo 7
giorni è guarita, è tornata con i piedi normali. E’ rimasta distesa senza fare niente, in quel
momento era Mami Wata. Non parlava neanche. Ti dico una cosa: esistono queste cose
perché le ho viste con i miei occhi, però non ci credo, nel senso che io credo in Dio. Però
queste cose sono vere.
E poi cosa è successo, dopo questi 7 giorni?
Lei è tornata persona, è cambiata, però non mi sono interessata più perché in Africa è
frequente, succede a tante persone. Normalmente in Africa succede che questa ragazza che
è svenuta, quando poi va in chiesa…
Capita in chiesa anche?
Sì, soprattutto lì, nelle chiese protestanti, non in quelle cattoliche. I miei genitori sono
protestanti, io sono l’unica cattolica. Loro quando tornano a casa raccontano. In chiesa
succede per esempio che una persona perde i sensi, solo che in spiaggia tu vedi, se uno ha il
costume, cosa succede... Vedi che chi entra nell’acqua è stata portata da altre persone.
E succede spesso in spiaggia?
Sì. A volte si dice, quando si va in spiaggia, «speriamo di non vedere Mami Wata oggi…».
Nella chiesa cristiana quando si mettono a pregare, è ovvio che cadono da soli, dicono così,
io non ho mai visto…
In quelle chiese cosa pensano di Mami Wata?
Dicono che è un potere che non puoi cancellare, che questo potere di Mami Wata è del
diavolo, non è di dio, ed è vero questo.
E’ comunque una figura positiva per qualcosa?
Sì, ci sono i pagani, loro non credono in Dio, credono in Mami Wata, è un potere
dell’acqua, è forte, però è diverso da quello di dio, io credo che quello di dio sia più forte.
La mia amica dice che in Ghana è uguale.
La donna di cui mi parlavi prima era Mami Wata dalla nascita? O Mami Wata è entrata
nel suo corpo in un preciso momento?
Da quando è nata, non puoi diventarlo dopo.
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E’ un ogbanje?
Sì, esistono anche gli ogbanje però gli ogbanje puoi cancellarli, Mami Wata non puoi. O va
via o resta. L’ogbanje è uno spirito, può fare quello in chiesa, quelli del vodu non possono,
perché è una di loro. Lo spirito di ogbanje o di Mami Wata è come quello del vodu nel
senso che non è un potere di dio. Ti racconto le cattiverie che fanno quando vanno in
chiesa. Una che è ogbanje viene mandata in chiesa per disturbare, per sedurre gli uomini,
anche perché sono molto belle.
Perché sono ogbanje di Mami Wata?
Sì. E’ un potere di Satana, non è di Dio… Dicono, non so se è vero, che la chiesa cattolica
non ha potenza, non sono tanto forti in preghiera, la messa dura un’oretta e basta, non
preghiamo tanto. Invece dicono che quelli che appartengono alla chiesa protestante sono
più forti, pregano di più, con la Bibbia. Non so se questo è vero perché sono loro che
dicono questa cosa. Loro vanno in chiesa in minigonna, tutti si girano, tutti ti mettono gli
occhi addosso, attirano l’attenzione.
Anche gli uomini possono essere legati a Mami Wata?
Meno, ne ho visto soltanto uno mi pare.
Io so però che Mami Wata può essere anche una figura positiva, che ti dà ricchezza,
fortuna…
Mami Wata ti dà, quelli che vengono sono ricchi, però non dura, muoiono. Perché Mami
Wata non vive per sempre, viene, diventa ricca, poi muore. Se io fossi Mami Wata adesso
sarei molto ricca, molto bella, ma la mia ricchezza non dura, la mia bellezza non dura
perché la mia bellezza non è naturale, viene dall’acqua. Se io fossi Mami Wata adesso, ogni
giorno mi vedresti diventare più giovane, più ricca, nonostante faccia un lavoro di merda.
Tu non riesci a capire perché, però ti insospettisci… C’era una che era Mami Wata ed è
morta a 31 anni, era molto molto bella. Loro fanno fatica a sposarsi anche perché un uomo
per loro deve essere un servo, uno schiavo, deve fare tutto. Una sola l’ho vista sposata però
è morta. Non fanno neanche figli.
E questo è strano per una donna in Nigeria?
Una donna che non fa tanti figli è una brutta cosa in Africa, vuol dire che Dio ti ha
maledetta. Mami Wata sa che è più forte di te, ha un potere soprannaturale, se tu sai chi è
lei…
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Come si fa a capirlo?
E’ molto difficile, dipende dai comportamenti. Ad esempio, se tu vuoi beccarli butti loro
dell’acqua addosso e viene rivelato. Possono farti male, se non sei forte in preghiera ti
possono maledire, se ti maledicono e poi muoiono, nessuno può più togliere la maledizione
dopo, tu rimani così. Non so qui perché non ho mai visto, però in Africa succede questa
cosa.
Non sai in Italia se c’è Mami Wata?
Io non so perché non frequento tanto i miei connazionali, mi faccio i fatti miei. Ho molto
lavoro, quando torno a casa sono distrutta e non ho voglia di vedere nessuno. Conosco delle
nigeriane… Stando con le amiche abbiamo parlato un paio di volte di Mami Wata, ma non
credo lo siano.
E questo “rito vodu” che viene fatto prima che le ragazze arrivino in Italia?
E’ fatto per minacciare e basta. Non è vodu, si chiama juju, siete voi italiani che lo
chiamate vodu.
Il juju non è anche uno spirito che può possederti?
Ogni tipo di vodu ha il suo nome, io non posso dirti tutto perché non mi viene più in mente,
solo qualcosa… Quello del ferro si chiama Ogun, quello del fulmine si chiama Thunder, si
chiama Shango anche, però in inglese Thunder. Se tu mandi una maledizione a qualcuno
può succedere qualcosa, non può uccidere al momento, però può rivelare la persona. Mi
diceva una mia amica un giorno che sua cognata aveva rubato i soldi al suocero, ma non era
la prima volta, i soldi continuavano a sparire. Allora lui ha iniziato a maledirla però
spogliato… Quando piove, proprio ti prende… La donna è caduta e ha iniziato a confessare
che è stata lei che ha preso i soldi. Lui era nudo al momento della maledizione perché
voleva si avverasse contro la persona che gli aveva rubato i soldi. E’ solo una cattiveria
secondo me… Perché se strappi soldi e mandi una maledizione, è ovvio che arriva.
Perché era nudo?
Quando si nasce, si viene al mondo nudi. Mandi maledizioni però con pianto, con il cuore
amareggiato, non col sorriso, perché in Africa già c’è povertà, ovvio che se tu hai 5 euro è
tanto per te… Per cui lui non l’ha fatto perché era contento, lui non voleva farlo, ma dato
che la sparizione dei soldi succedeva spesso, l’ha fatto.
Mi puoi spiegare il juju, quando ti prendono le unghie, i capelli…?
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Quella è una minaccia però. Se tu non paghi, portano queste tue parti del corpo…
Chi lo fa questo?
La madame. Lo fa in Africa.
Non lo fa il babalawo?
Allora, quello che fa il vodu si chiama babalawo. Se avessi un vodu adesso, tu vieni a casa
mia e porti le unghie, tante cose… Alcuni non si chiamano babalawo, alcuni si chiamano
Mami Wata perché alcuni che sono Mami Wata hanno il vodu loro, però quelli non
chiamano Dio, chiamano il diavolo davanti a te. Se tu sei madame, tu vieni a casa mia, e
dici che una ragazza non ti ha pagato in Italia, tu porti le unghie e tante cose e vieni da me,
allora io ti dico «cosa faccio con questa ragazza? La uccido?» e tu devi decidere cosa vuoi
fare, però io faccio quello che vuoi tu. Allora io non chiamo Mami Wata, io non ho niente a
che fare con Mami Wata, io chiamo il diavolo in persona. Altri chiamano Orunmila. Mio
padre mi aveva parlato di questo perché io ero curiosa. Il discorso è venuto fuori un giorno
mentre parlavo con mio padre e con mio cugino. La famiglia della parte di mio padre non è
tanto credente in Dio… Mio cugino si chiama Ifalui, perché suo padre era babalawo, ma è
morto. Il ragazzo faceva vodu, lui guardava suo padre come faceva, alcuni lo diventano
dopo. Invece quelli di Mami Wata no. Ti spiego perché vengono le Mami Wata. Se in
Africa non fai figli è come se ti avessero maledetta, barren si chiamano le donne che non
riescono ad averne, non come in Italia quando qualcuno decide di non fare figli perché non
c’è lavoro, non c’è speranza.
Sono sterili…
Alcuni sono sterili, alcuni non è che sono sterili, semplicemente i figli non arrivano. Vanno
nel mare, in spiaggia, a pregare, in qualsiasi modo possa arrivare il figlio, loro lo accettano.
Per questo arriva una figlia ed è problematica, perché è di Mami Wata. Questa è la causa.
Sono i figli che arrivano dall’acqua. Basta che gli altri vedano che la donna ha fatto figli,
anche se muore il giorno dopo non ha importanza. In Africa una donna che non fa figli è un
uomo, per dire che fa male. Perché è una società in cui si hanno 8-9 figli. Se non ne fai sei
uomo, però hai la faccia di una donna. Per questo loro fanno qualsiasi cosa.
Cosa succede a una donna che non ha figli?
Dio mio… Se il marito la ama la tiene. Sai che in Africa si ha più di una moglie… Ho visto
il caso di un cristiano che non si è mai sposato con un’altra, però per sbaglio ha avuto una
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storia ma è rimasto con la moglie a casa. Ma succede che un uomo si risposa perché i
genitori lo spingono, perché se tu muori così, i tuoi beni a chi li lasci? Li lasci a tua moglie
e questo non va bene, questa che non ti ha dato un figlio.
L’eredità passa solo ai maschi?
No, dividono, ma la maggioranza va ai maschi, come in Italia. Però ci sono anche quelli che
si sposano con 4, 5 mogli. C’è uno a Ishan che ha avuto 132 figli e 16 mogli… Quello era
malato secondo me, non so come faceva. Io conoscevo i figli. Però è ovvio che non è
riuscito a mantenere tutti, alcuni erano ladri, alcune facevano le prostitute.
C’è un collegamento secondo te tra Mami Wata e la prostituzione?
No, sono diversi, non c’entra… Ti stavo dicendo di Orunmila. Questo è un vodu, alcuni
chiamano Mami Wata, altri il diavolo, che nella nostra lingua si chiama Esu, Orunmila,
Shango,Ogun…
Olokun?
Olokun è Mami Wata, è “godess of the water”. Ho un’amica cubana che mi ha detto che è
uguale anche da lei. Santo Domingo, Cuba, Haiti… Questi vodu hanno lo stesso nome,
Shango, Olokun… Olokun c’è anche da loro, Orunmila… Poi agli altri hanno dato un altro
nome. Questi tre nomi lei mi ha detto che sono uguali. Non mi ricordo di Orunmila perché
sono già sei anni che sono in Italia, mi devi scusare…
Solo Orunmila viene chiamato per fare il juju?
No, anche Olokun, Shango, però Mami Wata no, non ho mai sentito… Possono chiamarla
per disturbarti.
E come ti disturba?
Non so dirti. Ringrazio il cielo che non mi sia successo mai.
Secondo te vieni disturbato attraverso un’altra persona che è Mami Wata?
Sì.
Non può succedere che io sono sola e comincio a sentirmi male, ad avere dei disturbi
anche fisici?
Mami Wata non fa questo, però forse possono chiamare il diavolo, ma a questo non ci
credo. Possono chiamare Shango a disturbarti. E’ vero che ti vengono dei disturbi. Per
Ogun puoi morire di incidente di macchina, perché è il dio del ferro. Possono mandarti
maledizioni, dato che tu non vuoi pagarmi, muori di questo. Se tu sei forte puoi anche fare
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prevenzione. Con le carte (perché ci sono anche in Africa queste cose) possono dirti che c’è
qualcuno che vuole ucciderti, allora tu chiedi cosa puoi fare per prevenzione, e questa ti
dice che sacrifici devi fare, tu li fai e amen, hai chiuso, non ti succede niente. Però molte
cattiverie ti beccano e tu rimani a letto, bloccata, ti vengono tante cose nel corpo che loro
fanno, non per ucciderti però, per disturbarti. Può venirti una malattia nel corpo, se tu non
vai a fare prevenzione non ti passa, se vai dal dottore non passa, non passa con le medicine.
Ti racconto una storia adesso. Nella famiglia di mia madre sono due sorelle. Mia zia abita a
New York, è laureata in Lettere. Mio zio faceva il pilota. Sono andati a New York insieme
da fidanzati e lì si sono sposati. Lei era incinta. Guarda, è successo a mia zia ma io non
riesco ancora a crederci, sono passati 14 anni… Non va bene mangiare nel sonno… Lui era
a New York, lui ha mangiato nel sonno, ha sognato di mangiare un cibo africano, quando si
è svegliato aveva mal di pancia. Lui è morto. E’ stato avvelenato nel sonno. Però la persona
che l’ha fatto l’ha detto dopo. I suoi genitori erano cristiani e non gli hanno creduto, hanno
detto «Eh, cosa vuoi che sia, non è vero, dai, non è vero». Mal di pancia, mal di pancia, mal
di pancia…
Qualcuno dalla Nigeria gli ha fatto questo?
Sì, però questa è una strega. Lui l’hanno portato all’ospedale per vedere se c’era qualcosa e
il dottore gli ha detto che non aveva niente, gli ha chiesto cosa aveva mangiato e lui ha
risposto: «Ho mangiato nel sonno». Hanno dovuto portarlo in Nigeria, è morto in Nigeria.
Mia zia era ancora incinta, lui prima di morire ha detto il nome della bambina al telefono.
Mia zia è tornata in Africa per il funerale. La persona ha parlato. Io non credevo nella
stregoneria, anche se mi hanno sempre parlato di streghe. Allora, la signora era la sorella
del padre di lui, e ha fatto una cattiveria così perché lui faceva il pilota, il fratello e la
sorella sono medici, tutti e tre erano negli Stati Uniti e non hanno aiutato i suoi figli, per
questo lei l’ha fatto fuori. Le hanno chiesto perché l’ha fatto, lei ha risposto per gelosia.
Però lei non aveva mai chiesto questo aiuto. Io non ho visto quando ha parlato, è andata
mia madre.
Ma vicino a casa mia una volta è successo che una signora ha ucciso dei gemelli. Dicono
che non si può uccidere i gemelli e poi andare in libertà. Li ha uccisi perché loro giocavano
coi suoi figli. I bambini in Africa giocano a calcio con il coperchio della birra. Uno ha vinto
ed è cominciato un litigio. Lei per separarli ha usato un bastone, però per lei non era un
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bastone, era più forte di questo. L’ha dato al ragazzo e il ragazzo dopo tre giorni è morto.
Lei era madre dell’altro, lei era una strega, ha confessato. Ha ucciso tutti e due (i gemelli
che non erano suoi figli). Per mangiarli lei di notte si trasforma, diventa un gufo e mangia il
cuore delle persone. Quella sera ha detto tante cose, ha detto a un ragazzo che gli aveva
bloccato la sua stella. Per picchiarla hanno usato rami di platano. Era pieno di gente perché
lei lo diceva davanti a tutti, io ho visto coi miei occhi e ho sentito con le mie orecchie, però
mio padre ci ha cacciato via dopo, eravamo ancora troppo piccoli. Poi hanno portato una
capra viva, non l’hanno uccisa, l’hanno legata viva. Io non ho guardato perché mi faceva
schifo. Hanno infilato la mano da dietro e le hanno tolto il cuore, da viva, e l’hanno dato da
mangiare alla donna. Dato che lei era riuscita a mangiare una persona, doveva mangiare
quello. L’ha mangiato ed è morta dopo sei mesi. Era una cattiva strega, dio mio. Era madre
di un amico di mio fratello, che poi se ne è andato, non voleva più stare con lei.
Perché ha accettato di mangiare il cuore della capra?
Perché altrimenti l’avrebbero uccisa.
Perché ha confessato se è così pericoloso?
Lei ha ucciso due ragazzi gemelli. I genitori hanno lasciato la chiesa perché dicevano che la
chiesa non vedeva. Dato che erano morti i loro bambini, sono andati dal vodu perché chi li
aveva uccisi doveva venire fuori. Allora lei non riusciva più a stare in pace, per questo ha
confessato. Era nervosa, era come se qualcuno la stuzzicasse.
Era un vodu che le dava la forza o era autonoma?
Lei non ha nominato nessuno, gli altri abitavano in un’altra zona. Non ha nominato gente in
zona che era in stregoneria con lei. Non era autonoma. La stregoneria non deriva da un
vodu specifico. Gli stregoni fanno il loro vodu dopo, però chiamano sempre il diavolo. Ma
se tu nasci da una madre strega, è ovvio che lo diventi perché ti danno da mangiare. Non è
come Mami Wata, è diverso. Per Mami Wata, tua madre va in mare a chiedere aiuto, la
figlia viene dalla nascita così. Nella stregoneria è diverso. Io posso essere una strega, ti
invito a casa mia, ti metto da mangiare, è ovvio che stanotte vieni con me alla riunione.
Diventi una nuova strega, devi fare i riti d’iniziazione. Puoi entrare a qualsiasi età, però
Mami Wata è diverso da questo. Anche se io sono un ogbanje, io non posso metterti dentro,
perché tu non sei nata ogbanje.
Se io sono figlia di una strega, sono strega anch’io?
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No, se tua madre non ti dà da mangiare non puoi diventarlo. Passa solo per il cibo. Se io
sono una strega e qualcuno mi picchia, io posso passare a te i dolori che sento.
Solo le donne sono streghe?
Anche gli uomini. Però mi pare che le donne siano più cattive. Mio padre mi ha parlato di
una strega che non è stata uccisa, è stata giudicata una buona strega dal re. Questa signora
aveva un figlio che si è laureato, lei proteggeva solo i suoi figli. Quando andava alle
riunioni di notte, le davano da mangiare il cuore delle persone, lei però non lo mangiava, lo
metteva da parte. Dopo anni è toccato a suo figlio e le hanno chiesto di mangiare anche lui.
Lei si è rifiutata e ha detto che poteva restituire tutti i cuori che le avevano dato, ma suo
figlio non doveva essere toccato da nessuno.
Lei quindi faceva parte di un gruppo di streghe?
Sì, però lei era quella che chiamano una “strega bianca”, invece la strega nera è cattiva,
dicono.
E la strega bianca che funzione ha?
Sono molto buone, possono proteggere. La strega nera a volte mangia suo figlio, invece per
quella buona suo figlio è suo figlio, è come se fosse se stessa. Comunque, durante questa
riunione si sono messi a litigare e il re ha chiesto che cos’era successo. E’ venuto fuori che
c’era qualcosa di segreto. Il figlio non sapeva che la madre era una strega. Io avrei voluto
avere una madre così.
I gruppi di streghe sono tutti o femminili o maschili?
Questo era di donne, ma possono essere anche misti. Ci sono delle associazioni, ognuna ha
la sua zona di controllo.
Il juju non appartiene alla stregoneria allora?
No, riguarda il vodu. Solo per chi va all’estero però. Non succedeva in Africa. E’ un tipo di
minaccia, può darsi che non ti uccido, può darsi che ti faccio male nel senso che tu cambi,
ma se tu riesci a proteggerti non ti succede niente, basta che ti costruisci una barriera.
E come si fa ad avere questa barriera?
Devi essere anche forte. Devi farti il vodu anche tu per proteggerti, essere forte nella
preghiera.
Cosa vuol dire che mi devo fare un vodu?
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Ti spiego… Io non faccio vodu, a volte vado in chiesa, a volte non ci vado, se ho impegni o
devo lavorare, non ci vado spesso… I miei genitori sono cristiani protestanti però mia
nonna ci crede, perché lei è tanto vecchia. Non so se tu riesci a credere a queste cose perché
succedono in Africa, se tu non vai lì non puoi crederci. Io sono una persona che se non vede
coi suoi occhi non crede. Sono stata in Nigeria in ottobre, la Nigeria è cambiata da quando
vivevo lì, mio padre dorme col fucile ogni notte per fare la guardia, per via dei ladri. Però
se qualcuno mi avesse detto questo, non ci avrei creduto. Io non potevo uscire, sono stata lì
9 giorni e non sono uscita a trovare nessuno, neanche davanti a casa mia. Da Lagos alla mia
città ho dovuto mettermi i vestiti di mia madre, che mio padre mi aveva portato. Ho dovuto
vestirmi come un’africana per non farmi riconoscere. Ho messo le scarpe da ginnastica,
quelle che uso per andare a lavorare in fabbrica, così non mi mettevano gli occhi addosso.
Se ti vedono vestita come sei ora cosa fanno?
Dicono: «Questa è tornata ricca! O i soldi o muori». Da sola non potevo uscire, ero
terrorizzata.
Tu vieni da una grande città, ma anche nei villaggi è così?
Non so, non sono nata in villaggio però mio padre ha una casa al villaggio e sono stata lì
prima di andare all’università, ho fatto l’esame nel villaggio. E’ diverso dalla città.
(Mi dice che vuole riprendere a studiare perché non sopporta più il lavoro che svolge in
fabbrica, è troppo pesante ed è diventato precario perché il suo contratto viene ora gestito
da un’agenzia interinale. Ha provato ad iscriversi al corso di infermeria ma ha avuto
problemi con i documenti, nonostante lei abbia un regolare permesso di soggiorno, perché
le è stato richiesto un “documento di valore” per dichiarare la sua nazionalità).
Comunque è meglio della mia vita in Africa, lì non avrei la mia autonomia, qui vivo da
sola, faccio quello che voglio, invece se stai a casa tua coi genitori devi rispettare alcune
regole.
(Riprendiamo il discorso sulla madame e il juju…).
La madame va dal babalawo, ma lui deve fare quello che dice lei, se lei vuole ucciderti o
vuole farti del male.
Tu pensi che le ragazze che vengono in Italia ci credano?
Ovvio che sì, hanno paura.
Le ragazze dunque obbediscono alla madame per questo?
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Sì, però se vengono maltrattate alcune se ne vanno via, scappano, cercano di proteggersi.
Secondo te una donna nigeriana come vive l’esperienza della prostituzione?
Male, perché vengono obbligate. Ad alcune non è stato detto in Nigeria che sarebbero
venute a fare le prostitute. Lo scoprono quando arrivano. Adesso non è più così, perché in
Nigeria ci sono tanti progetti per informare la gente che chi viene in Italia fa la
prostituzione, prima no, prima non lo sapevano, credimi.
C’è qualcuno che parte lo stesso adesso?
Se arrivano, sì. Partono perché hanno bisogno di soldi, anche laureati senza lavoro. Le
famiglie vivono in condizioni disagiate. Però una cosa che io non riesco a capire è come
possano partire lo stesso, pur sapendo che andranno a fare la prostituzione. Prima era
sfruttamento. Quelle che scappano e denunciano vengono uccise, se tornano in Africa, non
dal vodu, vanno a pagare qualcuno.
In Nigeria è diffusa la prostituzione? E’ visibile?
No, in Nigeria non è così. E’ vista molto male. Una donna che fuma in Africa è vista come
una prostituta, è una donna che va a letto con chiunque.
Dato che tu sei da tanti anni in Italia, come ti sembra il ruolo della donna nella società
italiana rispetto a quello che ha in Nigeria?
E’ diverso. Per esempio la mia sorella più piccola adesso si sta laureando, va all’università,
ha un ragazzo… Ha un carattere come me. Però per una donna che non ha studiato, che non
ha un suo lavoro, è schiava. E’ come qui, se non hai un tuo lavoro e sei sotto lo stipendio di
tuo marito, ovvio che ci sono certe parole che non devi usare. Lì è peggio perché tuo marito
può dirti che sposa un’altra, tu non puoi protestare perché alla fine è lui che ti mantiene,
invece qui è diverso, non può dire «sposo un’altra», può dirti che va via, che va a stare con
un’altra. Invece lì lui si sposa con un’altra e porta quella a casa con te.
Le donne soffrono per essere in più mogli di uno stesso uomo?
Sì che soffrono, anche se non hanno il diritto di protestare. Qui una donna che soffre può
andare in cerca di un lavoro, fare le pulizie, barista… Lì no, non si può fare. C’è gelosia fra
le mogli di uno stesso uomo, a volte si uccidono, si avvelenano, perché c’è la preferita del
marito e lui non guarda più l’altra. C’era una signora che era stata avvelenata dall’altra
moglie con la coda del gatto, non so come è morta. Questa non è stregoneria, è cattiveria
proprio, è gelosia. L’ha fatto perché quella donna aveva avuto il primo figlio. Quando
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muore il marito, la maggioranza dei beni va al primo figlio. Lei ha fatto fuori la madre e poi
voleva eliminare il figlio, ma è scappato.
Secondo te le ragazze che partono non cercano anche una loro autonomia, un lavoro
proprio, una vita per sé?
Certo, però arrivano qua ed è una botta in testa. Adesso l’idea dell’Europa è diversa, penso,
perché le persone che tornano raccontano.
(Torniamo al discorso di Mami Wata, mi dice che non sa delle donne che devo presentarsi
al mercato vestite di bianco per mostrare la loro nuova appartenenza).
Mami Wata esiste in Africa ed esiste ancora. Non ho mai sentito che Mami Wata decida di
venire in Italia.
….
Ho visto alla tv una che si è suicidata prima di un esame perché era preoccupata. Se fosse in
Africa e avesse studiato, lei si toglierebbe i vestiti, si inginocchierebbe e comincerebbe a
pregare con amarezza, con lacrime, perché questa è la sua unica speranza. E’ difficile che la
gente si suicidi in Africa, non è visto bene. E’ come una famiglia maledetta, come le donne
che non hanno figli.
Adesso le donne vanno a studiare come gli uomini, ma 50-60 anni fa stavano a casa, perché
era ritenuto una perdita di tempo per loro studiare.
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