Terza chance

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Terza chance
Terza chance
So benissimo che quello che sto per raccontarvi potrebbe essere giudicata come la storia di un pazzo
o peggio, quella di un pazzo ubriacone, ma vi assicuro che è andata proprio così, lo giuro sulla cosa
che ho più cara al mondo: la mia dignità ritrovata.
Quella notte di fine novembre faceva un freddo cane, di quelli che ti penetrano nelle ossa e che ti
fanno rizzare ogni singolo pelo che hai piantato nella pelle. La luna piena lassù era un enorme
occhio senza pupilla e sembrava fissarmi incastonata in quel cielo nero e senza nuvole. Avevo
appena lasciato i ragazzi all'angolo dopo una serata passata in un locale a bere e a sparare cazzate su
donne mai avute veramente. I due boccali di birra da un litro avevano fatto il loro dovere e le mie
gambe si muovevano incerte. Mi fermai a svuotare la vescica sopra un platano. Nonostante fossi
parecchio sbronzo, riuscii a raggiungere il mio catorcio. Era parcheggiato proprio di fianco al canale
e quando cercai di metterlo in moto, il suo caro e vecchio motore tossì un paio di volte per poi
spegnersi definitivamente. A quell'ora del lunedì quella strada di campagna era più vuota di una
biblioteca a Natale. Intanto dal canale e dai campi fradici d'acqua stava cominciando a levarsi una
leggera nebbiolina che si trasformò velocemente in una coltre fitta ed opprimente. Scesi dalla
macchina e mi accesi una sigaretta per riflettere meglio sul da farsi. Presi il cellulare. Batteria
scarica. Decisi di incamminarmi verso la strada principale che era ad un paio di chilometri. Feci al
massimo una trentina di passi, quando mi parve di sentire filtrare dal muro di nebbia alle mie spalle
il brusio di un motore. Sembrava il rumore di un camion. Oltre il rumore, dalla nebbia, cominciò a
colare anche la flebile luce di due fari. Lentamente la sagoma del mezzo cominciò a delinearsi
meglio. Non era un camion. Sembrava piuttosto un autobus, o per la precisione, un vecchio
scuolabus. Che ci crediate o no non mi chiesi minimamente il perché un simile mezzo fosse in
mezzo alla campagna intrisa di nebbia a quell'ora di notte. Quello che mi balenò in quel momento
nel cervello fu solo di chiedere un fottuto passaggio. Perciò alzai le braccia e cominciai ad agitarle
come un forsennato. Il mezzo si fermò in un assordante stridore di freni, proprio davanti a me. Le
porte idrauliche situate in coda si aprirono di scatto sbuffando aria compressa. Esitai un attimo, poi,
spinto da un qualcosa di indefinibile, salii a bordo. Dentro, la fioca luce proveniva da una serie di
lampadine che spuntavano in fila indiana, lungo tutta la parte centrale del soffitto. L'odore di muffa
era insopportabile e mi violentò le narici. Intanto le porte si erano richiuse alle mie spalle e il bus
era ripartito. Il pavimento e le pareti erano coperti qua e là di chiazze verdi. Il mezzo sembrava
completamente vuoto. Mi diressi verso la parte anteriore per parlare con l'autista. Fatti un paio di
passi udii un lamento, o meglio, un pianto sommesso. Arrivato circa a metà tragitto mi accorsi che
sulla mia destra, seduti uno di fianco all'altro c'erano tre bambini. Due maschi ed una femmina.
Indossavano tutti un grembiulino. Quello dei maschi era nero, mentre quello della bimba rosa
confetto. Tutti e tre avevano con loro una cartella di cuoio marrone. Era la bimba quella che
singhiozzava. Sul capo un enorme fiocco bianco. Le chiesi perché stava piangendo. La bimba smise
di singhiozzare e si voltò a guardarmi. I suoi occhi neri e lucidi come semi d'anguria iniziarono a
fissarmi, o meglio, a trapassarmi. Quando la bimba distolse lo sguardo da me, ricominciò a piangere,
fissando lo schienale che aveva davanti. Il senso di oppressione svanì completamente. Cercai anche
di dire qualcosa, ma era come se mi si fosse stato versato del cemento liquido in gola. Gli altri due
bambini non sembravano neanche essersi accorti della mia presenza. Riuscivo a vedere in faccia
solo uno dei due, perché l'altro mi dava le spalle. Stavano giocando tra di loro con uno spago
marrone, di quelli che si usano per chiudere i pacchi. Lo intrecciavano tra le dita e se lo passavano.
Il senso di oppressione di prima lasciò il posto ad un'insensata angoscia. Quei bambini... L'autobus
si fermò improvvisamente aprendo le porte. Il bimbo che mi dava le spalle prese la sua cartella e
veloce come una lepre scovata da un cane da caccia si alzò e si catapultò fuori, nell'oscurità. Non
ebbi né il tempo né la prontezza di seguirlo. O meglio, ero come incollato al pavimento. Quando
l'autobus ripartì, mi accorsi che il bimbo che era sceso aveva perso lo spago. Mi chinai a
raccoglierlo. Dovevo cercare di raggiungere il prima possibile l'autista. Con uno sforzo sovrumano
riuscii a staccare dal pavimento prima un piede e poi l'altro. Feci si e no cinque o sei passi. Mi girai
a guardare i due bambini rimasti sull'autobus. Con mia enorme sorpresa constatai che erano spariti.
Ripresi quindi a camminare. Arrivato ad un paio di metri dalla poltrona dell'autista, constatai con
terrore che anche questa era vuota. Il volante, i pedali della frizione e la leva delle marce si
muovevano da soli. Quell'autobus era lanciato in quella nebbia sempre più fitta e collosa.
All'improvviso ebbi la certezza che lì sopra c'ero già stato. E che quel bambino o meglio
quell'ombra che era scesa poco fa ero io. Capii che stavo rivivendo quarant'anni dopo quel
maledetto giorno in cui due miei compagni di classe e l'autista dell'autobus che li trasportava,
morirono annegati in quello stesso canale che correva parallelo alla strada che stavo percorrendo ora.
Anche quel giorno c'era la nebbia e il canale era colmo d'acqua. Come avevo fatto a non capirlo
subito? Per me invece il destino o qualche dio benevolo aveva deciso che io avrei dovuto continuare
ad esistere. Ma per diventare che cosa? Un fottuto ubriacone, senza uno scopo preciso nella vita.
Quel giorno di quarant'anni fa mi era stata una seconda chance ed io fino a quel momento ci avevo
sputato sopra. Forse quei bambini finiti nel canale sarebbero diventati persone importanti, oneste e
più degne di vivere del sottoscritto. Forse l'autista era stato sposato e magari aveva avuto dei figli.
Forse...Stavo riflettendo su tutto ciò quando lo scuolabus sterzò improvvisamente. Urla di bambini
alle mie spalle come echi lontani. Buio. Quando mi svegliai di colpo annaspando in cerca d'aria ero
seduto nella mia auto. Il sudore freddo mi avvolgeva come una seconda pelle. Con la manica del
giubbotto asciugai la condensa sul finestrino. Un sole smorto provava a nascere al di là del canale,
del prato, del bosco. La nebbia della notte era sparita. Guardai l'orologio. Le otto in punto. Uscii
dalla macchina sconvolto, agitato. Mi ero addormentato dopo la sbornia e avevo sognato. Sì era
stato solo un terribile incubo. Feci qualche passo costeggiando il canale. L'acqua marrone vi
scorreva lenta, placida. Mi assalì una spasmodica voglia di fumare. Presi il pacchetto di sigarette
che tenevo nel taschino del giubbotto, poi mi tastai nella frenetica ricerca dello zippo. Quel
maledetto era finito in una tasca dei jeans. Quando lo tirai fuori qualcosa mi rimase impigliato fra le
dita. Era uno spago marrone, uno di quelli che si usano per chiudere i pacchi...Terza chance.