nascita della scienza in Grecia

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nascita della scienza in Grecia
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FISICA/
MENTE
LA NASCITA DELLA SCIENZA IN
GRECIA
(Ionici e Pitagorici)
Roberto Renzetti
1 - ALCUNE AVVERTENZE
Il quadro storico che segue, secondo lo schema di Pichot, servirà da sfondo necessario a
quanto dirò sulla nascita della scienza in Grecia.
A questo proposito devo dire che esistono eccellenti lavori sull'argomento. Il tema è di una
vastità incredibile e semmai l'unico problema nasce nel capire dove fermarsi e cosa trascurare.
Per quel che ho potuto studiare alcune opere si avvicinano di più al mio modo di intendere la
storia. Io ho alcune convinzioni che in breve sono: non esiste una storia lineare che va avanti
per accumulo di conoscenze, una sorta di progresso indefinito; non si può fare storia solo
interna, rifacendosi cioè ai soli fatti interni ad una disciplina senza andare a vedere quali
erano i rapporti politici, sociali ed economici esistenti. In tal senso ritengo eccellenti i lavori
di Lucio Russo (La rivoluzione dimenticata - Feltrinelli, 2001), di U. Forti (Storia della
scienza I. Dalle origini al periodo alessandrino - Dall'Oglio 1968), di Benjamin Farrington
(Scienza e politica nel mondo antico. Lavoro intellettuale e lavoro manuale nell'antica Grecia
- Feltrinelli 1976) e di Ludovico Geymonat (Storia del pensiero filosofico e scientifico Garzanti 1970). In questi libri vi sono trattazioni di altissimo livello degli argomenti che
affronterò e particolarmente il primo (Lucio Russo) è quello che nel modo più esaustivo
racconta le vicende della nascita della scienza in Grecia (con argomentate motivazioni del
perché egli situa tale nascita al III secolo a.C., contrariamente a quanto io farò).
Per quel che mi riguarda, tenterò di essere il più esauriente possibile nei limiti di una
trattazione elettronica che è faticoso leggere e che è costoso stamparsi. Si potrà intendere ciò
che scrivo come una utile guida per chi volesse approfondire questi temi, visto che vi è ancora
grande necessità di loro studio.
L'approccio è quello di chi ha avuto una formazione scientifica e storica. La parte filosofica
non è di mia competenza se non in modo del tutto marginale.
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Da ultimo avverto che seguirò, tra i possibili approcci, quello per tematiche. Naturalmente i
personaggi avranno la loro parte ma all'interno di una visione complessiva delle
problematiche al centro dell'interesse in un determinato periodo. Mi è sembrato più
rispondente all'evolvere della situazione riferirmi anche alle differenti scuole di pensiero che
avranno poi inevitabili relazioni tra loro, trascurando a volte la mera cronologia.
2 - I LUOGHI E LA STORIA.
Le cose che racconterò avranno sviluppo in quella parte del Mediterraneo, nota come
Mondo Egeo. Riporto una carta della zona in modo da poter aver sempre presenti le località
che menzionerò.
Si può facilmente apprezzare che parlare di Grecia, come farò, è limitativo geograficamente,
ma non lo è culturalmente. Il mondo greco dell'antichità classica (ellenismo classico),
interessato agli sviluppi culturali di cui mi occuperò, era costituito dalla Grecia continentale,
dalle isole dell'Egeo tra cui Creta, dal Sud d'Italia (Magna Grecia) e dalla costa dell'Asia
Minore (Ionia).
Con Pichot, c'è da notare che tutte queste zone sono a clima mediterraneo, prevalentemente
montuose e con poche pianure, tutte sul mare. E proprio attraverso il mare, gli scambi di vario
tipo, che si genera una sorta di uniformità culturale. La Grecia non esiste ancora (gli indigeni,
forse i Pelasgi, sono una popolazione di cui si sa molto poco). Intorno al 2° millennio si
registrano migrazioni di Indoeuropei che si mescoleranno con i locali del Peloponneso. Il
predominio nella zona egea è dell'isola di Creta. Questa ed anche le altre isole non sono
toccate da tali migrazioni. Creta, una potenza economica e commerciale, si era consolidata fin
da tempi remoti come una civiltà molto progredita con contatti stretti sia con l'Egitto che con
la Mesopotamia. Essa intratteneva intensi rapporti commerciali con tutti i popoli rivieraschi
fino alla Sicilia ma soprattutto con l'Egitto. Di fatto, con la sua flotta, esercitava il suo
dominio su gran parte delle isole dell'Egeo ed il suo livello culturale era elevatissimo e noto
fin dal 2° millennio a.C.. Intorno al 1400 Creta passa a dipendere da Micene (Grecia
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continentale). Intorno al 1250 re di Micene è Agamennone, il condottiero della guerra di
Troia cantata da Omero. Intorno al 1200, con l'avvento dell'età del ferro (importato dai Dori
di origine balcanica) e con la scomparsa della civiltà creto-micenea, inizia un lungo periodo di
oblio per la Grecia che, a parte l'economia del ferro, regredisce in tutti i campi (scrittura,
architettura in pietra, organizzazione sociale ed economica). Con la decadenza vi sono
svariate migrazioni, i centri abitati si autoamministrano costituendosi in piccoli regni che
debbono gestire le campagne circostanti. Fino all'VIII secolo a.C. alla decadenza si va
accompagnando la povertà.
E' solo intorno alla metà del VII secolo a.C. che inizia una ripresa in svariati campi
(architettura, navigazione, ceramica, lavorazione del ferro) e viene via via reintrodotta la
scrittura derivata da quella consonantica fenicia.
Questo processo di ripresa, cui si accompagna anche quella culturale, inizia a maturare
nelle piccole città-stato a cui abbiamo accennato. Il re di queste piccole entità aristocratiche è
anche autorità religiosa. Ma pian piano il potere deve allargare la sua base per la necessità di
difesa del territorio. Per far fronte alla difesa organizzata della città occorre il contributo della
popolazione, almeno di quella con maggiori disponibilità economiche che ha la possibilità di
equipaggiarsi con le nuove armi messe a disposizione dal ferro. Ma partecipare alla difesa
della città significa avere in cambio il potere di decidere insieme agli altri sulla gestione
medesima della città. Saranno istituite delle Assemblee, guidate da un consiglio in cui parte di
rilievo avranno i magistrati. Tali assemblee saranno formate da tutti coloro che possono
partecipare alla difesa della città e via via anche da altre categorie di cittadini (nel 594, ad
Atene, Solone aprirà l'Assemblea a tutti i cittadini).
Probabilmente la crescita demografica unita alla scarsezza di risorse e di territorio spinse ad
emigrazioni massicce da tali città (tra l'VIII ed il VII secolo). Ciò comportò la nascita di
svariate altre città in territori inizialmente gravitanti intorno al Mar Egeo, quindi sempre più
lontane. Tali città erano fondate vicino ad un porto naturale, spesso su isole o penisole, in
vicinanza di un fiume che è una strada naturale di penetrazione. Le nuove città erano
indipendenti ma erano culturalmente legate al luogo d'origine. Tra di esse iniziò una fitta
trama di scambi commerciali che sarà alla base del corpo culturale del mondo greco che
definiamo ellenismo classico (rilevante, alla fine del VII secolo, è l'invenzione della moneta,
sembra in Lidia, che si diffuse rapidamente in tutta la Grecia). Cicerone ebbe a dire: "Il
Mediterraneo non era più che un orlo greco ricamato su terre barbare", concetto che era già
stato di Platone il quale, definiva le città fondate dai greci: "ranocchi attorno ad una palude".
Ma queste espressioni potrebbero ben essere utilizzate per le colonie fenicie. Al contrario le
colonie greche seppero integrarsi e fondersi molto bene con le popolazioni indigene
apportando benessere, arte e cultura.
Eventi esterni incombono su questo mondo in intensa attività. I persiani, prima con Dario e
poi con Ciro, invadono l'Asia Minore occupando le città che si affacciano sull'Egeo (la Ionia)
ed imponendo loro tiranni a capo di esse. Vi è una ribellione aiutata e fomentata da Atene. I
persiani operano una dura rappresaglia arrivando a radere al suolo Mileto nel 494. Passano
quindi ad attaccare città nella Grecia continentale. Dario sarà sconfitto a Maratona nel 490 da
una alleanza tra le varie città guidate da Atene (Temistocle era alla guida della città di Atene e
Milziade era il capo dell'esercito greco). Dopo questa vittoria riprese la rivalità tra le varie
città e solo Atene continuò a rinforzarsi. I persiani continuarono nel tentativo di conquista
della Grecia con Serse I che, dopo la tragica battaglia delle Termopili, arrivò ad occupare e
saccheggiare Atene. Ma successivamente subirono pesanti e definitive sconfitte con la flotta
a Salamina (Temistocle dirigeva le operazioni) nel 480, a terra a Platea nel 479 (condottiero
era il re di Sparta, Pausania) ed ancora in mare a Capo Micale sempre nel 479 (flotta al
comando dell'ateniese Santippo).
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Dopo questa sconfitta del possente esercito persiano è Atene che esce rafforzata e si pone a
capo di un certo numero di città (Lega di Delo, 478). Ma qui inizieranno forti rivalità e
ribellioni che porteranno alla fine della Lega ed ad un vero e proprio impero di Atene su tutte
le isole dell'Egeo, sulla Ionia e parte della Tracia ma con il mantenimento dell'autonomia
delle singole città. Tale impero durò 50 anni nei quali Atene accrebbe potenza, prestigio e
splendore. La democrazia nacque in questa città all'epoca di Pericle (dal 450 al 431) ed Atene
si preoccupò di esportarla nelle città del suo impero. L'affermarsi della democrazia, una
migliore ripartizione delle terre, l'estensione dei diritti politici ad un numero sempre maggiore
di persone, rallentò la corrente di emigrazione.
La crisi inizia con le rivalità e le guerre tra Atene e Sparta che indeboliranno
successivamente l'impero fino a farlo cadere definitivamente nel 404. La democrazia ateniese
entra in una profonda crisi che sarà anche quella delle altre città del suo impero (a
quest'epoca, nel 399, si colloca il processo e la condanna a morte di Socrate che rappresenta
una sorta di spartiacque tra cosiddetti presocratici e postsocratici). Per oltre cinquant'anni si
vivranno crisi sempre più acute con successive egemonie di differenti città (è l'epoca in cui
opera Platone). A questa crisi corrisponde l'emergere della potenza della Macedonia che, con
Filippo II, sfrutterà le debolezze e sottometterà la Grecia nel 338. Il successore e figlio di
Filippo, Alessandro il Grande (che era stato allievo di Aristotele), in soli 13 anni conquisterà
l'Asia Minore, Babilonia, l'Iran fino al fiume Indo, l'Egitto.
Alla morte di Alessandro (Babilonia, 323) questo grande impero si dissolve con lotte tra i
vari pezzi di esso. Sarà Roma a trarne i maggiori vantaggi incorporando progressivamente
l'impero macedone e con esso la Grecia, fino alla completa sottomissione nel 146 a.C..
3 - LA SCRITTURA ALFABETICA E LA NUMERAZIONE
Dicevo più su che è solo intorno alla metà del VII secolo a.C. che viene via via
reintrodotta la scrittura derivata da quella consonantica fenicia(1). La principale differenza sta
nell'introduzione di vocali con simboli presi da consonanti fenicie deboli (Alef, Heh, Het,
Yod, 'ayin)(2) non possedute dalla lingua greca. Si tratta di una scrittura alfabetica, basata sul
primo vero alfabeto della storia. Esso sarà utilizzato, con poche differenze e varianti, da varie
città dell'Egeo e sarà adottato ufficialmente come alfabeto greco classico per tutta la Grecia da
Atene nell'anno 403, solo 4 anni prima della morte di Socrate(3).
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Da Pichot
L'utilizzo della scrittura (che come supporto aveva tavolette di legno, tavolette di cera, pelli
e papiri), e di quella alfabetica in particolare, istituisce una nuova mentalità volta a modificare
per sempre le pratiche degli uomini ad essa educati. Entro questo orizzonte, e non altrove,
s'instaura lo sguardo logico e razionale con i suoi prodotti: la filosofia e successivamente la
scienza.
Con la scrittura alfabetica è possibile mettere in moto i processi di astrazione che sono
tipici di conoscenze evolute e non ingenue. Le parole non sono più legate ad oggetti, a cose,
ma via via diventano concetti, cioè oggetto autonomo di riflessione, del tutto separato dalle
parole e dal linguaggio. E' ora possibile non solo pensare ma pensare su ciò che è stato
pensato instaurando un processo virtuoso di crescita intellettuale che non potrà essere fermato
(4).
A lato della scrittura occorre parlare del sistema di numerazione che fin dai primordi era
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decimale. Si deve tener conto di due tipi di numerazione, quella più antica, l'attica o
l'acrofonica (i suoi simboli sono le iniziali dei nomi dei numeri), utilizzante delle lettere e
quella ionica o alfabetica derivata dai fenici ed utilizzante anch'essa delle lettere, numerazioni
che sono coesistite per lungo tempo(5).
Nella numerazione attica hanno una notazione solo i numeri cardinali. I suoi simboli si
ottengono in modo fantasioso combinando graficamente le notazioni precedenti. E' un sistema
estremamente arretrato che serve solo per indicare misure, distanze ... e quantità di denaro.
I numeri da uno a quattro erano rappresentati da trattini verticali affiancati. Per il cinque si
usava la prima lettera Π (o Γ) della parola cinque, pente (all'epoca si utilizzavano solo lettere
maiuscole). Per indicare i numeri dal sei al nove, il sistema attico aggiungeva al simbolo Γ dei
trattini indicanti le unità. Per esprimere le potenze intere positive della base, venivano adottate
le lettere iniziali delle corrispondenti parole numeriche: ∆ per deca (dieci), H per hekaton
(cento), X per khilioi (mille) e M per myrioi (diecimila). Per indicare 50 e 500, i greci
scrivevano una combinazione delle lettere che indicavano 5, 10 e 100: usavano quindi
(cioè 5 volte 10) per indicare 50 e
scrivevano
riassuntivo:
per 5000 e
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(cioè 5 volte 100) per indicare 500. Analogamente
per 50000. La tabella seguente fornisce un quadro esplicativo e
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Da Pichot
Per quel che riguarda la numerazione ionica, per disporre di più simboli, si utilizzò un
alfabeto antico che comprendeva le lettere arcaiche stigma, coppa e sampi. Dopo
l'introduzione delle lettere minuscole in Grecia, l'associazione di lettere e numeri si
presentava come nella tabella seguente:
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Da Pichot
Per i primi nove multipli di mille, il sistema ionico ricorreva alle prime nove lettere
dell'alfabeto. Ma per maggior chiarezza queste lettere erano fatte precedere da un apice in
basso, per esempio , α. A partire da 10000 (miriade), la notazione ionica seguiva un principio
moltiplicativo: il simbolo di un numero intero qualsiasi da 1 a 9999, se collocato al di sopra
della lettera M, o dopo di essa, separato dal resto del numero mediante un puntino, indicava il
prodotto dell'intero per il numero 10000. Qualora si volessero rappresentare numeri ancora
più grandi, si poteva applicare lo stesso principio alla miriade doppia.
Le antiche notazioni greche per indicare i numeri interi non erano eccessivamente
ingombranti e servivano efficacemente al loro scopo. Nell'uso delle frazioni, però, si
rivelavano inadeguate. I greci, come gli egiziani, tendevano a usare frazioni con numeratore
unitario. La notazione era molto semplice: scrivevano il denominatore e lo facevano seguire
da un accento per distinguerlo dal numero intero corrispondente. Così
aveva la forma λ δ
′. Questa espressione, però, poteva essere confusa con quella del numero 30 : solo il
contesto poteva chiarire il significato. Se poi si aveva una qualche frazione con numeratore
maggiore di uno la scrittura prevedeva l'opposto di ciò che facciamo noi: si scriveva il
denominatore sovrapposto al numeratore. Per arrivare all'uso di frazioni comuni e di frazioni
sessagesimali bisognerà attendere l'influsso caldeo, arrivato tramite le tavole astronomiche,
che fece conoscere il sistema sessagesimale. Con tale sistema si poterono scrivere frazioni in
modo più semplice combinando il sistema sessagesimale di posizione con la numerazione
alfabetica.
Come si vede si aveva a che fare con qualcosa che non era all'altezza di quanto d'altro
hanno realizzato i greci: si trattava di una numerazione mal definita, confusa, equivoca e poco
versatile a conti complessi. Le cose migliorarono solo con l'opera di Diofanto ed Archimede.
Per ciò che riguarda il calcolo erano molto diffuse in Grecia tavole di calcolo, abachi e
pallottolieri. La novità, rispetto a ciò che sappiamo di Mesopotamia ed Egitto, è che in Grecia
si era in grado di scrivere le operazioni che si effettuavano ed esse si realizzavano in modo
analogo a ciò che facciamo ancora noi con le complicazioni dovute al non uso di un sistema
posizionale. In pratica era relativamente semplice realizzare addizioni e sottrazioni, più
complesso fare le moltiplicazioni (si realizzavano, come facciamo noi, dei prodotti parziali
che dovevano poi essere addizionati), quasi impossibile fare la divisione. In ogni caso degli
specialisti preparavano delle tavole da utilizzare proprio per fare conti complessi.
Ciò che è difficile capire è come sia stato possibile con questo povero apparato aritmetico
fare le cose superbe che i greci hanno fatto in geometria.
4 - LE FONTI
Prima di iniziare è utile fornire un quadro di riferimento temporale e cronologico. Si è
soliti suddividere la storia della Grecia in quattro periodi, ciascuno dei quali lungo circa 3
secoli:
- il periodo ellenico che va dal 600 fino al 300 a.C. (da Talete alla morte di Alessandro
Magno, con i primi discepoli di Aristotele). Esso è caratterizzato dallo sviluppo libero ed in
autonomia delle città greche;
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- il periodo ellenistico o alessandrino comprendente i tre secoli successivi (fino alla conquista
romana dell'Egitto nel 30 a.C.), periodo in cui si ellenizza tutto il mondo orientale a seguito
della conquista macedone; il centro culturale diventa Alessandria (fondata da Alessandro
Magno nel 331 a.C.) sulle foci del Nilo governata dalla dinastia dei Tolomei; tale centro si
manterrà fino al 145-144 a.C., quando Tolomeo VIII fece sterminare tutti gli studiosi di
origine greca (sembra in accordo con la politica di espansione di Roma);
- il periodo greco-romano che occupa i primi tre secoli dell'Era volgare e che vede gli ultimi
scienziati e filosofi di alto livello (Lucrezio, Galeno, Strabone, Pappo, Diofanto) a seguito
dell'evidente disinteresse di Roma per la scienza e la filosofia;
- il periodo dei commentatori o della decadenza che va dal 300 al 600 d.C. (fino al 529
quando l'imperatore Giustiniano decretò la chiusura della scuola di Atene confiscandone i
beni con la conseguenza che gli ultimi filosofi che lì insegnavano si trasferirono in Persia) in
cui finisce ogni tradizione scientifica e non si produce più niente di originale ma solo racconto
delle cose precedentemente fatte in commentari contenenti notizie via via più lacunose.
A questa suddivisione temporale si può aggiunge la cronologia dei maggiori filosofi greci.
Ad essi si dovranno affiancare scienziati puri come Archimede, Aristarco, Apollonio, Erone,
Eratostene e vari altri (anche se, nell'economia del lavoro, non potrò occuparmi di tutti). Ed a
proposito dei lavori
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Da Pichot
di tutti questi grandi, vi è una fondamentale osservazione da fare ed è relativa alle fonti
documentali a cui attingere per delineare le elaborazioni di determinati filosofi. Per lo studio
della filosofia antica, agli albori della scienza, il problema delle fonti sulle quali si basa la
nostra conoscenza è fondamentale. Lo storico della filosofia antica e quello della scienza si
trova di fronte a problemi peculiari, in primo luogo dovuti alla carenza di materiale.
Disponiamo qui di molti meno documenti di quanti se ne hanno per studiare la civiltà
mesopotamica e quella egizia. Il periodo presocratico, definito come quello di tutti i pensatori
antecedenti a Socrate fino a Democrito (nonostante sia un contemporaneo di Socrate), è un
periodo di piccole città povere tecnicamente e con molti meno mezzi degli imperi a cui
accennavo. Non ci si potevano permettere, ad esempio, gli scribi che documentassero la vita
civile. Così i più antichi testi greci originali risalgono alla dinastia Tolemaica dell'Egitto (a
partire dal III secolo a.C.) mentre le opere fondamentali della civiltà greca di cui disponiamo
ci sono giunte (quando i cristiani non hanno pensato di distruggerle) tramite copie successive
che spesso travisavano il testo. Riguardo ai testi dei primi filosofi e scienziati, secondo Pichot,
vi devono essere anche motivi diversi da quelli suddetti. Uno potrebbe essere il superamento
delle dottrine precedenti da parte di nuovi filosofi, come Platone ed Aristotele, che rendevano
inutile conservare cose obsolete e quindi non le facevano ulteriormente copiare. Questa
eventualità potrà dispiacere lo storico ma introduce l'aspetto evolutivo delle conoscenze tipico
di una società dinamica e diverso dalle culture mesopotamiche ed egizie. Vi è poi l'aspetto
non istituzionale dei pensatori presocratici che operavano in situazioni non paragonabili
all'Accademia di Platone o al Liceo di Aristotele. Ma un altro motivo della perdita di opere
importanti può risiedere in quanto racconta Forti: fu Platone, per motivi politici, ad incitare
alla distruzione delle opere di Democrito. Si può immaginare che chi era ai confini della
conoscenza dell'epoca potesse dispiacere a qualche tiranno e quindi essere cancellato
attraverso la distruzione delle sue opere. Un ultimo motivo di perdita di opere è richiamato da
Russo. Ho già accennato in altro lavoro, al fatto che alcune opere ci sono state tramandate
dagli arabi che le avevano conservate mentre i cristiani le bruciavamo. Quel conservare, sia
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nel caso degli arabi che di chiunque altro lo abbia fatto, non deve intendersi come conservare
tutto. La selezione che è stata fatta dai posteri ha privilegiato le compilazioni, le cose
comprensibili a coloro che le dovevano curare e conservare, comprensibili cioè a persone di
altre epoche con preparazione culturale generalmente povera. Si sono preferite le opere
divulgative, a volte le introduzioni ad opere complesse, poi trascurate proprio perché difficili.
Per ciò che riguarda la scienza si devono registrare le maggiori perdite proprio per il carattere
generalmente più ostico dei libri che ne trattano. Così, mentre disponiamo di bellissime ed
importantissime raccolte di opere letterarie, di nulla di simile possiamo disporre in campo
scientifico: non disponiamo dell'opera completa di Archimede (pur essendo relativamente
recente), neppure di quella di Apollonio, abbiamo l'opera di Filone di Bisanzio sugli
esperimenti dimostrativi di pneumatica ma non il suo lavoro teorico a monte, la bella opera di
Lucrezio ma non quella di Stratone di Lampsaco che sembra trattasse della natura delle cose,
e così via.
In ogni caso nella filosofia antica vi sono importanti autori dei quali non abbiamo più le
opere o disponiamo solo di pochi frammenti. L'importanza di certi filosofi potrebbe apparire
spropositata rispetto al poco che si è conservato del loro pensiero o addirittura per chi non ha
scritto nulla, come Pitagora o Socrate, e ha comunque acquisito una posizione di primo piano
nella storia del pensiero. Si tratta dunque in primo luogo di avere ben presente di quali autori
ci sono rimaste opere intere, di quali no e quali problemi sono legati alle opere così come oggi
le leggiamo. Ad esempio molti filosofi li conosciamo per testimonianze indirette spesso poco
attendibili, da loro scritti riportati da altri filosofi o da dossografi (studiosi che raccoglievano
le dottrine dei vari filosofi classici) o da biografi. Non conosciamo spesso il contesto ed è
quindi lecito porsi qualche dubbio. E' il caso delle molteplici citazioni che sia Platone che
Aristotele fanno e che è una delle fonti a cui generalmente si attinge. Ma anche dei vari
commentatori del periodo della decadenza che non disponendo dei testi originali, fornivano
notizie di seconda mano per tutti gli autori antecedenti ad Euclide. Tra questi commentatori è
importante Proclo (410-485 d.C.) che ci fornisce una breve storia della matematica, indicata
come Riassunto storico, da Talete ad Euclide. Qui abbiamo anche probabili notizie delle fonti
di Proclo. Sembra che questi abbia attinto in parte a tal Gemino (I secolo a.C.), che scrisse
una importante Storia delle matematiche (andata perduta), ed in parte al neoplatonico Porfirio
(III secolo d.C.) che aveva iniziato a scrivere un commento all'opera di Euclide. Questi due
commentatori avrebbero attinto, a loro volta, ad Eudemo (fine IV secolo a.C.), allievo di
Aristotele, che scrisse una Storia della Geometria e dell'astronomia della quale ci resta titolo
e qualche frammento. Altri commentatori che forniscono varie notizie, sempre di seconda
mano ed oltre, sono Pappo (tra il III ed il IV secolo d.C.); Eutocio d'Ascalona (tra il V ed il VI
secolo d.C.) che scrisse i Commentari ad Archimede; Simplicio (VI secolo d.C.) che scrisse i
Commentari ad Aristotele ed il Commento ad Euclide (perduto).
Vi sono poi altri problemi di carattere più generale ed interno alle cose che discuterò. La
qualifica di filosofo o scienziato, che ho già assegnato e continuerò a distribuire, è puramente
accessoria e risponde solo ad una sorta di economia di pensiero all'alba di un mondo di
conoscenze. Ogni studioso si occupa di tutto lo scibile ed è proprio dal crescere del cumulo e
della varietà di conoscenze che si sente l'esigenza di suddividere e specializzarsi, esigenza che
emergerà nel periodo ellenistico quando vi saranno scienziati che faranno solo gli scienziati.
La filosofia è, alla sue origini, un tema multidisciplinare che rappresenta la voglia di
conoscere e di capire il mondo in tutti i suoi risvolti, dalla sua essenza materiale fino al
problema dell'essere che sarà presto affrontato.
E' notevole, in Grecia, l'acquisizione di un nuovo spirito religioso che si potrebbe definire
laico. Quel Paese ha ereditato molto materiale dalle culture mesopotamiche ed egiziane ma
tale materiale è ora visto sotto una luce del tutto differente(6). Il greco non è più meramente
succube del determinismo magico e delle causalità apparenti di divinità irraggiungibili e
statiche. Egli inizia a resistere agli dei e ad opporre ad essi la propria volontà, innanzitutto di
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capire. In poche parole, come già accennato, non vi è più rassegnazione rispetto al mondo
naturale ma, attraverso la novità del pensiero, la voglia di razionalizzarlo.
L'opera di Omero già ci presenta delle figure divine antropomorfe, più umane e più
dialoganti di quelle distanti, malvagie, imprevedibili e oscuramente magiche delle culture
precedenti. Gli stessi miti primitivi vengono riportati a catene causali (cielo, terra, notte,
mare) che hanno il fine di giustificare l'origine naturale e la successiva evoluzione dal caos. Il
dinamismo di quella società comporta la repressione di elementi magici e la ricerca di
sistematicità. Ci si rese conto che ponendosi domande sul presente, ricercando la spiegazione
di ciò che accade, si potevano porre domande anche sul passato andando ad indagare sempre
più indietro fino all'origine ed alla natura delle cose. Nascono da qui le ipotesi sul primo
generatore, sul principio primo che ha innescato il mondo che conosciamo e che non era come
è. Anche la spiegazione quindi prevede cambiamento ed evoluzione a partire da un principio,
da una arché (αρχ•). Non più un mondo dato, statico e sul quale, oltre al non essere lecito, è
addirittura inutile porsi domande. Inoltre non ci si accontenta più di acquisire un qualche
sapere ma di coordinare i dati acquisiti, di rendere ragione delle apparenze e di ridurre i fatti
ad un piccolo numero di principi. Ora si va ben al di là dell'uso pratico perché, oltre
all'utilizzazione ed alla pur importante previsione, c'è ora la volontà di comprendere i fatti, di
spiegarli, di ridurli a pochi principi, di giungere all'essenza delle cose. E' il passaggio dal mito
alla scienza. Per essere più chiari è pur vero che, ad esempio, a Mileto molte concezioni
sviluppate avevano reminiscenze di miti antichi ma è altrettanto vero che esse prescindevano
da forze soprannaturali. E scienza è anche il saper distinguere il naturale dal soprannaturale, il
riconoscere che i fenomeni naturali non nascono dal caso o dal volere capriccioso di una
qualche divinità ma da una successione di cause ed effetti che è possibile accertare. E' inoltre
vero che la gran maggioranza dei pensatori ellenici erano devoti anche a molte divinità ma è
altrettanto vero che tali divinità non erano mai reclamate in modo esplicativo(7). Una scienza
che si presenta sotto la forma di ragionamenti fondati su principi generali piuttosto che un
insieme di esempi desunti da determinati problemi tecnici. E' la fondazione di un metodo che
sarà fecondo di risultati anche perché inaugurerà il dibattito, il contraddittorio, tra gli
scienziati-filosofi. E la cosa non è secondaria. Nell'antico Egitto, come ricorda Lloyd, vi erano
diverse teorie sul come era sostenuto il cielo. Ma il raccontarne una non implicava il
confutare l'altra. Nessuno, che si sappia, si era mai occupato del fatto che alcune teorie
potessero essere incompatibili tra loro. Non si cercavano cioè argomenti o prove per sostenere
una teoria piuttosto che un'altra. Ciò comportava una staticità delle affermazioni che si
potevano accumulare a piacere senza che nessuno le discutesse per tentare di falsificarle.
Passando alla Grecia, il sostenere una teoria diventa alternativo ed in diretta competizione con
il sostenerne un'altra che si occupasse della stessa problematica. Ciò implica la necessità di
trovare sempre migliori argomentazioni, di mettere d'accordo la teoria con i principi invocati
a suo sostegno, di sviluppare logica e ragionamento, in una espressione: di articolare il
pensiero, pratica che è propria della scienza. Ed a questo punto occorre introdurre un
elemento ben chiarito da Russo, ed è quello del perché la scienza in senso stretto si sviluppi
ed affermi soprattutto in periodo alessandrino, sul perché i caratteri del periodo ellenico sono
scientifici in senso lato. Abbiamo discusso della base di conoscenze provenienti da Egitto e
Mesopotamia ma occorre specificare di più. Mentre nel periodo ellenico si viene a contatto
con le nuove culture indirettamente, attraverso conoscenze trasferite da viaggiatori, da
commercianti e comunque non coesistenti nei luoghi in cui venivano importate, è la conquista
di Alessandro Magno di quei territori che porta a diretto contatto di quelle culture i greci già
formatisi con le prime elaborazioni in epoca ellenica. Lo stretto contatto, la diretta
sovrapposizione tra le due culture, quelle millenarie e stratificate e ricche di dati empirici di
Egitto e Mesopotamia con quella razionale recentemente costruitasi nel Mondo Egeo, sarà
uno dei fattori fondanti l'esplosione della scienza. I greci, con il loro bagaglio di razionalità si
trasferiscono nei nuovi territori al seguito di Alessandro per gestire e controllare economie e
tecnologie più avanzate ed in gran parte note solo per sentito dire, questa intersezione deve
essere stata la molla per il passaggio dalle intuizioni elleniche alla grande scienza ellenistica
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in cui assistiamo all'esplosione del metodo scientifico, consistente nell'elaborazione di molte
diverse "teorie scientifiche", intese come modelli del mondo reale basati su sistemi di
assunzioni esplicitamente individuate. [...] Sembra suggestiva la congettura [che
l'applicazione del metodo scientifico] sia stata favorita nei territori appartenuti all'impero di
Alessandro, dalla contemporanea presenza di due culture e dall'abilità sviluppata dai Greci
immigrati di usarle entrambe ai propri scopi, in particolare inquadrando nei propri schemi
concettuali il gran numero di conoscenze empiriche trasmesse nelle culture egiziana e
mesopotamica. [Russo]
E' quindi in Grecia che nasce la scienza come sapere autonomo da religione e magia che si
innalza sopra le tecniche.
5 - LA SCUOLA DI MILETO
Mileto è una città ionica a più intimo contatto con le antiche civiltà e certamente grandi
furono le influenze in questa città di Egitto e Babilonia. Era una importante e ricca città,
manifatturiera nel settore tessile e commerciale, del Mediterraneo ed al suo porto arrivavano
navi commerciali sia dalla Grecia continentale che dalla Fenicia e dall'Egitto. Mentre i
rapporti con Babilonia nascevano tramite le rotte delle carovane commerciali dirette all'Est. In
questa città, come nelle altre sotto del mondo ellenico, era vivo il dibattito sulle forme di
governo da dover adottare e qui più che nelle città mesopotamiche o egizie ogni cittadino si
sentiva o era in qualche modo partecipe alle sorti del governo medesimo. Questa dialettica e
libero scambio di opinioni fu anche delle teorie in campo scientifico ed il contributo più
importante dei filosofi-scienziati di Mileto alla nascita della scienza fu proprio l'introduzione
nella discussione delle cose naturali di un forte e fecondo spirito critico unito alla comune
repulsione di ogni spiegazione soprannaturale dei fenomeni naturali. Si inizia a creare
l'immagine di un uomo che agisce in modo razionale di fronte ai fenomeni naturali, che non
ha soggezione nell'indagarla, che ha fiducia di scoprirne le leggi, che si libera pian piano dalla
superstizione dll'animismo.
Purtroppo dei filosofi-scienziati di tale scuola (chiamati anche fisiologi perché studiosi
della phýsis (ϕυσις), della natura), come del resto di tutti i presocratici, non conserviamo
documenti e scritti di sorta. Conosciamo poco di questi personaggi e solo attraverso le
citazioni di altri filosofi e compilatori posteriori con tutte le difficoltà che ciò comporta ed alle
quali ho accennato. Ritengo inutile fare grandi discussioni ipotetiche su cosa avrebbe voluto
dire tale personaggio. Preferisco riportare le cose che sembrano accertate, anche attraverso le
citazioni di cui disponiamo.
5.1 - L'ORIGINE DELLE COSE. COSMOGONIA E COSMOLOGIA
Si suole indicare come primo naturalista dell'antichità classica Talete (circa 625 a.C.-550 a.
C.) che sembra fosse di Mileto, fiorente città della Ionia, nella quale venne messo a punto
quell'alfabeto di cui ho detto. Sembra da vari racconti, che egli fosse un uomo d'affari, che
faceva viaggi avendo contatti con egizi e caldei, e che si dedicava anche ad osservare il
mondo naturale circostante. Fu il primo che cercò spiegazioni naturali per i fatti naturali. I
fenomeni che più sembra interessassero erano quelli relativi alla materia ed alle sue
trasformazioni. Vi sono osservazioni empiriche elementari che mostrano un mondo materiale
in continua trasformazione con alterazioni dei corpi, con alcuni che sembrano andare distrutti
ad esempio nel fuoco, con altri che sembrano trasmutare. I dati empirici fanno vedere acqua
che esce da una pietra, terra che affonda nell'acqua, acqua che diventa vapore, vapore che
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diventa nuvole, nuvole che rilasciano acqua, acqua che diventa "pietra" (cioè: ghiaccio),
acqua che spegne il fuoco, fuoco spento dall'acqua che diventa terra, fuoco che s'innalza
nell'aria, aria che affiora dall'acqua in bollicine ... Ma anche acqua che vivifica i campi, che li
rende fertili, che è necessaria alla germinazione, ... A quanto ci risulta fu Talete il primo che
tentò di trovare una qualche entità che fosse all'origine di tutte le cose proprio a partire da
questi dati elementari. I dati a disposizione erano molti e Talete li intersecò con uno dei miti
dell'antichità: l'acqua. Il mito era quello del diluvio che fu elaborato in Mesopotamia fin dal
2000 a.C. nell'Epopea di Gilgamesh(8), quello della "a" che nella lingua sumera significa
acqua ma anche generazione, quello di Nun che per gli Egizi è la dea del mare, l'oceano
primordiale che ricopriva tutto prima che nascesse il mondo e quindi sorgente di tutte le
forme di vita. D'altra parte l'acqua è il mito più evidente per le due civiltà fluviali, Egitto e
Mesopotamia, è la fonte della vita per quelle popolazioni. Ma il mito non interviene nelle
spiegazioni, è solo lì, nello sfondo, un ricordo di una cultura antica che serve solo da
confronto con i fatti concreti. Ed è l'acqua il principio cosmogonico che richiama Talete,
come ci dice Aristotele nella Metafisica A (983 b 6 sgg.)(9):
La maggior parte di coloro che primi filosofarono pensarono che princípi di tutte
le cose fossero solo quelli materiali. Infatti essi affermano che ciò di cui tutti gli
esseri sono costituiti e ciò da cui derivano originariamente e in cui si risolvono
da ultimo, è elemento ed è principio degli esseri, in quanto è una realtà che
permane identica pur nel trasmutarsi delle sue affezioni. E, per questa ragione,
essi credono che nulla si generi e che nulla si distrugga, dal momento che una
tale realtà si conserva sempre [...] infatti deve esserci qualche realtà naturale (o
una sola o piú di una) dalla quale derivano tutte le altre cose, mentre essa
continua ad esistere immutata [...] Talete, iniziatore di questo tipo di filosofia,
dice che quel principio è l’acqua (per questo afferma anche che la Terra
galleggia sull’acqua), desumendo indubbiamente questa sua convinzione dalla
constatazione che il nutrimento di tutte le cose è umido, e che perfino il caldo si
genera dall’umido e vive nell’umido. Ora, ciò da cui tutte le cose si generano è,
appunto, il principio di tutto. Egli desunse dunque questa convinzione da questo
fatto e dal fatto che i semi di tutte le cose hanno una natura umida e l’acqua è il
principio della natura delle cose umide [ ... ]. Ci sono alcuni secondo i quali
anche gli antichissimi [ ... ] cantarono che Oceano e Tetide sono gli autori della
generazione [delle cose] e che il giuramento degli dèi è sull'acqua.
L'acqua, come abbiamo letto, è anche sostegno della Terra ed anche qui in accordo con le
cosmologie sia egizie che mesopotamiche. E la cosa è confermata da Seneca che, a proposito
della teoria dei terremoti di Talete, dice (nat. quaest. III 14):
Talete [ ... ] ammette che la terra è sostenuta dall'acqua, che è trascinata come
un'imbarcazione e che, quando si dice che trema [per il terremoto], allora essa
fluttua per il movimento dell'acqua.
Le questioni astronomiche trattate da Talete e che conosciamo, si ricollegano alla sua
cosmogonia e cosmologia. Questo mondo, come abbiamo letto, doveva essere piatto e
galleggiante sull'acqua; doveva inoltre essere contenuto in una sorta di bolla semisferica. Gli
astri che si trovano nella parte superiore di questa semisfera sono intesi non più come dèi ma
come gli altri fenomeni naturali che appartengono al cielo (fulmini, nuvole, arcobaleno, ...) di
modo che astronomia e meteorologia sono la medesima cosa. Gli astri, che non sono più dèi,
hanno la stessa natura della terra ma sono infuocati
Talete, Pitagora e i suoi discepoli hanno diviso la sfera dell'intero cielo in cinque
parti che chiamano zone. Una di queste è chiamata artica ed è sempre visibile:
un'altra è quella del tropico estivo: la terza è l'equinoziale: la quarta quella del
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tropico d'inverno e l'ultima è l'antartica, mai visibile [queste zone non
corrispondono a quelle che noi oggi così definiamo, specialmente per i circoli
artico e antartico, ndr]. Obliquo alle tre centrali si stende il cosiddetto zodiaco,
che le tocca tutt'e tre. (Aezio, n 12,1 - Dox.340)
Talete credeva che gli astri fossero pietrosi ma infocati. (Ibid., II 13,1 - Dox. 341)
A questo punto abbiamo attribuzioni di scoperte che molto verosimilmente non sono di
Talete. Il fatto che la Luna non ha luce propria ma la riceve dal Sole e che le eclissi di sole
sono provocate dalla Luna che si interpone tra Terra e Sole, sono attribuibili ad Anassagora
che affermerà tali cose un secolo dopo Talete. Riguardo infine alla predizione dell'eclissi (non
si sa bene quale con eventuali retrodatazioni della nascita di Talete) o del 610 o del 585 vi
sono seri dubbi e probabilmente l'informazione sarebbe potuta provenire dai caldei:
Talete per primo disse che il sole si eclissa quando la Luna, di natura terrosa, gli
passa sotto perpendicolarmente. Allora la sua immagine, stando sotto il disco
solare, si vede riflessa. (lbid. II 24,1 - Dox. 353)
Talete per primo disse che la luna è illuminata dal sole (Ibid., II 27,5 - Dox. 358)
Eudemo nella Storia dell'astronomia [ ... ] dice che Talete predisse l'eclissi di
sole che avvenne quando si scontrarono in battaglia tra loro i Medi e Lidi,
essendo re dei Medi Ciassare, padre di Astiage, e dei Lidi Aliatte padre di Creso:
si era intorno alla 50a olimpiade (580-577 a.c.). (Clemente Alessandrino, strom.
I 65 [Il 41])
E' certamente poco per costruirvi sopra commenti elaborati. Si può certamente dire che, di
fronte alla possibilità fino allora praticata di attribuire tutte le cose al capriccio di un qualche
dio ad una qualche eventualità magica, per la prima volta assistiamo alla ricerca di un'origine
naturale, di una arché che deriva da semplici osservazioni empiriche. E' una importante
operazione intellettuale quella di sfidare la consuetudine con la ragione. Le spiegazioni sono
certamente ingenue ma, questa come quelle che seguono, vanno lette non tanto per quello che
dicono, quanto per ciò che, affermando, escludono e cioè le spiegazioni soprannaturali,
metafisiche e magiche.
Si tratta di una prima teoria che si mette in campo pronta per essere negata, falsificata,
sostituita. E' il primo passo fondamentale di un lungo cammino.
Questa ricerca di un qualche principio ordinatore di tutti i fenomeni che ci circondano era
la ricerca (ancor oggi perseguita) di un qualche invariante in mezzo a qualcosa che ha
l'apparenza del caos. Sulla strada aperta da Talete, la ricerca dell'arché, si mossero subito
anche altri.
Anassimandro (circa 610 a.C.-545 a.C.) era d'altra opinione. Anch'egli di Mileto e
contemporaneo di Talete (e probabilmente interlocutore del primo), era anch'egli sostenitore
di un principio unico all'origine di tutte le cose, ma sosteneva che tale principio fosse
l'àpeiron (•πειρον), quella condizione primordiale della realtà in cui tutti gli elementi non
sono ancora distinti e condividono uno stesso stato indefinito e imprecisato, un qualcosa di
intermedio tra infinito ed illimitato, un indefinito quantitativo e qualitativo, che comprende in
sé sia l'acqua sia qualunque altro elemento, dal quale i cieli ed i mondi in esso esistenti
provengono (il caos ?). Contrariamente a Talete, che aveva indicato un elemento naturale, e
quindi attuale e definibile, ad origine del mondo, Anassimandro teorizza un'origine da un
qualcosa che tutto comprende in sé ma con caratteristiche di indeterminatezza che lo
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differenzino dagli elementi attuali. Non sembri questo un ritorno al passato perché non vi
sono qui creazioni successive realizzate da un'entità superiore ma una natura (phýsis), che si
autogenera, cresce e diviene perché la natura è in sé un qualcosa che simultaneamente è e
diviene. Leggiamo di seguito la dossografia che riguarda il nostro fisiologo:
Anassimandro, figlio di Prassiade, milesio, successore e discepolo di Talete, ha
detto che principio ed elemento degli esseri è l'apeiron, avendo introdotto per
primo questo nome del principio. E dice che il principio non è né l'acqua né un
altro dei cosiddetti elementi, ma un'altra natura infinita dalla quale tutti i cieli
provengono e i mondi che in essi esistono: da dove infatti gli esseri hanno
l'origine, ivi hanno anche la distruzione secondo necessità: poiché essi pagano
l'uno all'altro la pena e l'espiazione dell'ingiustizia secondo l'origine del tempo, e
l'ha espresso con vocaboli poetici. È chiaro che avendo osservato il reciproco
mutamento dei quattro elementi (terra, aria, acqua, fuoco, ndr) ritenne giusto di
non porne nessuno come sostrato, ma qualcos'altro oltre questi. Secondo lui,
quindi, la nascita delle cose avviene non in seguito ad alterazione dell'elemento,
ma distacco dei contrari a causa dell'eterno movimento (Simplicio - Phys. 24,13)
Anche in Anassimandro, dunque, come in Talete, vi è la ricerca dell'arché (ed abbiamo ora
letto che sarebbe stato Anassimandro il primo a ricercare tal cosa), di un qualcosa che sia
all'origine delle trasformazioni, delle modificazioni, dell' essere e del divenire. Tale origine,
come si può leggere alla fine del brano di Simplicio, sembra risiedere non tanto in una materia
che si modifica, perché tutti gli elementi preesistono nell'apeiron in opposizione cioè nel
disordine, quanto nella separazione di tali opposizioni(10) e quindi nell'organizzazione di un
ordine(11). Ed anche in Anassimandro vi è il tentativo di organizzare il mondo in una
cosmologia che per quanto ingenua, si sgancia dalle cosmologie metafisiche. L'apeiron
originale genera il mondo a partire dalla separazione del caldo e del freddo; il caldo divenne
una sfera di fuoco che circondò l'aria che circonda la Terra; a sua volta la sfera di fuoco si
ruppe in modo tale da originare gli astri che consistono in anelli di fuoco disposti intorno
all'aria, dappertutto occultati da un involucro opaco che li contiene meno che nei punti da
dove vediamo provenire luce (fori nell'involucro opaco che, quando si chiudono, originano le
eclissi); il freddo rimase invece in basso dove risiedono la terra, l'acqua e l'aria.
[Anassimandro] diceva che principio delle cose era una certa natura
dell'Illimitato, dalla quale si producono i cieli e l'ordinamento che v'è in essi.
Essa è eterna e insenescente e abbraccia tutti i mondi. [...] (Costui) ha per primo
indicato il nome del principio: che inoltre è eterno e per esso di conseguenza si
formano i cieli. Secondo lui la terra è librata in alto, non è sostenuta da niente e
rimane sospesa perché ha uguale distanza da ogni cosa. La sua forma è rotonda,
sferica, simile a una colonna di pietra: delle sue superfici [di base, ndr] l'una è
quella sulla quale noi ci muoviamo, l'altra sta dalla parte opposta. Le stelle sono
sfere di fuoco staccatesi dal fuoco del cosmo avvolte nell'aria: hanno degli
sfiatatoi, una sorta di nubi a forma di aula, da cui appaiono le stelle. Di
conseguenza, quando tali sfiatatoi sono otturati, si hanno le eclissi. Così la luna
talvolta appare piena, talvolta scema, in rapporto alla chiusura o apertura di tali
tubi. Il cerchio del Sole è ventisette volte più lungo di quello della Luna, e 19
volte quello della Luna. Nella zona più alta è il sole, in quella più bassa le sfere
delle stelle fisse. (Ippolito ref. I 6,1-7 - Dox. 559)
Dice che la terra ha forma cilindrica e altezza corrispondente a un terzo della
larghezza. Dice che che l'elemento il quale, a partire dall'eternità, produce caldo
e freddo si separò alla nascita di questo mondo e che da esso una sfera di fuoco
si distese intorno all'aria che avvolgeva la terra, come corteccia intorno
all'albero: spaccatasi poi questa sfera e separatasi in taluni cerchi, si formarono
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il sole, la luna e gli astri. (Pseudo-Plutarco, strom. 2 - Dox. 579)
[Gli astri sono] involucri spessi d'aria a forma di ruota, pieni di fuoco, che in
una parte dalle aperture spirano fiamme. (Aezio, II 13,7 - Dox. 342)
Anassimandro dice che [il sole] è una sfera ventotto volte la terra, molto simile
alla ruota di un carro, col cerchio incavato e pieno di fuoco, che in una parte
attraverso l'apertura mostra il fuoco, come attraverso la canna di un aulo. (lbid.,
II 20,1 - Dox. 348)
Anassimandro dice che il sole ha le stesse dimensioni della terra, ma che il
cerchio dal quale ha la sua espirazione e dal quale è trascinato è ventisette volte
la terra. (lbid., II 21,1 - Dox. 348)
Anassimandro dice che [la luna] è una sfera 19 volte la terra, simile a (ruota) di
carro, che ha il cerchio incavato e pieno di fuoco come quello del sole, è posta in
posizione obliqua al pari di quello, ed è munita di uno sfiatatoio, simile alla
canna di un aulo. (lbid., II 25,1 - Dox. 355)
In definitiva la Terra, nel suo insieme cilindrica, è al centro dell'universo e non è equilibrata
proprio dal suo essere equidistante da tutte le cose. Intorno ad essa vi sono vari anelli di fuoco
(dei quali noi riusciamo a vedere solo il punto in cui è forata la cappa opaca che circonda la
Terra). L'anello degli astri fissi è il più vicino alla Terra, poi viene l'anello della Luna, poi
quello del Sole. Il diametro degli anelli è valutato in 9 volte quello della Terra per gli astri
fissi, 18 (o 19) volte quello della Terra per l'anello della Luna, 27 (o 28) volte quello della
Terra per il Sole (sembrerebbe qui di intravedere niente altro che multipli di 3). Così che il
Sole
Il cosmo di Anassimandro
risulta essere l'anello più distante dalla Terra. Si osservi che, per quanto si inizi a ipotizzare un
centro intorno a cui ruota qualcosa in cerchio, sembra manchino le conoscenze dei pianeti
distinti dalle stelle fisse.
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Probabile mappa della Terra come concepita da Anassimandro
A questo punto resta solo da vedere(12) come è concepita la meteorologia che si inizia a
differenziare dall'astronomia in quanto la prima offre fenomeni casuali mentre la seconda
inizia ad essere pensata come ciclica. Le spiegazioni, ancora ingenue e fantasiose, dei vari
fenomeni sono quelle delle dossografie e non meritano commenti di sorta:
[ ... ] dapprima tutta la zona intorno alla terra era umida, ma poi fu seccata dal
sole e la parte evaporata [ ... ] produsse i venti, le rivoluzioni del sole e della
luna, mentre quella che rimase fu il mare; perciò [ ... ] il mare [diventa] sempre
più piccolo e alla fine sarà tutto secco. (Aristot., meteor. 8 1.355 b 6)
Riguardo ai tuoni, alle folgori, ai lampi, ai turbini, ai tifoni. Per Anassimandro
tutti questi fenomeni sono prodotti dal vento: infatti quand'esso, racchiuso in una
nuvola spessa, riesce, per sottigliezza e leggerezza delle sue parti, a fuoriuscire
con violenza, allora la rottura della nuvola produce il fragore, mentre la
dilatazione della massa nera il chiarore. (Aezio, II 3,1 - Dox. 367)
Anassimandro dice che il vento è una corrente d'aria provocata dalle particelle
più leggere ed umide in essa contenute, che, sotto l'azione del sole, si mettono in
movimento o evaporano. (lbid. III 7,1 - Dox. 374)
Le piogge [sono provocate] dal vapore che sotto l'azione del sole s'innalza dalla
terra; i fulmini poi quando il vento, piombando sulle nuvole, le squarcia.
(Ippolito, ref I 6,7 - Dox. 559)
Altra ulteriore origine del mondo è quella individuata dall'altro milesio, Anassimene (circa
588 a.C.-527 a.C.). Il nome che le dà il nostro fisiologo è apeiron e sembrerebbe la stessa
entità individuata da Anassimandro. In realtà, leggendo quel poco di cui disponiamo, ci
accorgiamo che con apeiron Anassimene torna ad una sostanza più vicina ai nostri sensi e più
in linea con Talete. Il principio universale è, per il nostro, l'aria. Egli sostiene la sua teoria con
osservazioni empiriche: l'aria raffreddandosi si condensa e diventa prima acqua e poi terra
(condensazione), riscaldandosi invece si dirada e diventa fuoco (rarefazione). Leggiamo cosa
scrivono i dossografi:
Anassimene anch'egli di Mileto, figlio di Euristrato, disse che il principio è l'aria
infinita e che da essa vengono le cose che si producono, quelle che sono
prodotte e quelle che si produrranno, gli dèi e le cose divine, mentre le altre cose
vengono da ciò che è suo prodotto. L'aspetto dell'aria è questo: quand'è tutta
uniforme, sfugge alla vista, mentre si mostra col freddo e col caldo, con l'umido e
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il movimento. E si muove sempre perché, se non si muovesse, tutto quel che si
trasforma non si trasformerebbe. Condensata e rarefatta appare in forme
differenti: quando si dilata fino ad essere molto leggera diventa fuoco, mentre
poi condensandosi diviene vento; dall'aria si producono le nuvole per
condensazione e se la condensazione cresce, l'acqua, se cresce ancora, la terra e
all'ultimo grado le pietre. Sicché i contrari fondamentali per la generazione sono
il caldo e il freddo. (Ippolito, ref I l 7 - Dox. 560)
Anassimene, figlio di Euristrato, milesio, sostenne che l'aria è il principio delle
cose: dall'aria tutto deriva e in essa poi tutto si risolve. Come l'anima nostra egli dice - che è aria, ci tiene insieme, così il soffio e l'aria abbracciano tutto il
mondo. (Aezio, I 3,4 - Dox. 278)
E l'aria, impercettibile ed indefinita quando è immobile, diventa materiale e sensibile solo
quando è soggetta ad un qualunque canbiamento e genera la terra per solidificazione. La terra
poi, essendo piatta, è mantenuta sospesa dall'aria stessa. Lo stesso accade per tutti gli astri. Gli
astri, tra cui Sole e Luna, sono della stessa natura della Terra; il Sole è infuocato a causa del
suo rapido movimento.
Il cosmo di Anassimene
Tale movimento non è poi tale da occultare gli astri sotto la terra; gli astri ruotano nel cielo
con un moto che noi diremmo svolgersi in un piano parallelo al piano della terra e si
occultano dietro le parti più elevate di terra:
[ ... ] il movimento esiste dall'eternità. Egli sostiene che, solidificatasi l'aria, per
prima si forma la terra la quale è molto piatta - e pertanto a ragione si mantiene
sospesa nell'aria -: il sole, la luna, le altre stelle hanno il principio della nascita
dalla terra. Afferma infatti che il sole è terra, la quale per la rapidità del
movimento si è molto infocata ed è diventata incandescente. (Pseuudo Plutarco;
strom. 3 - Dox. 579)
La terra è piatta e si sostiene nell'aria: così pure il sole e la luna e le altre stelle
tutte, che sono di natura ignea, vengono sostenute dall'aria per la loro forma
piatta. Le stelle hanno origine dalla terra, a causa dell'umidità che da essa si
leva e che, fattasi leggera, diventa fuoco e dal fuoco sollevato in alto si formano
le stelle. Nella zona delle stelle ci sono anche corpi di natura terrosa trasportati
insieme ad esse. Dice pure che le stelle non si muovono sotto la terra, come altri
ha supposto, ma intorno alla terra, al modo che il berretto si avvolge intorno al
nostro capo. Il sole si cela ai nostri occhi non perché sta sotto la terra, ma
perché è riparato dai luoghi della terra molto alti e perché la sua distanza da noi
è molto grande. Le stelle non riscaldano a causa della grande distanza. (Ippolito,
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ref 1 7 - Dox. 560)
Dall'aria nascono anche fenomeni meteorologici come nuvole, pioggia, neve, grandine, per
compressione, condensazione e raffreddamento. Dal raffreddamento e riscaldamento violenti
della terra derivano anche i terremoti, mentre l'arcobaleno è effetto dei raggi del sole che
attraversano aria condensata. Fantasiosa è la teoria del fulmine che nascerebbe da nubi
strappate.
I venti si producono quando l'aria condensata è spinta in movimento: quando si
comprime e si condensa ancor più si formano le nuvole e così si trasforma in
acqua. Si produce la grandine quando l'acqua, scendendo giù dalle nuvole, si
gela, la neve, invece, quando questa stessa acqua che si gela contiene una forte
dose di umidità. La folgore, quando le nuvole sono squarciate dalla violenza dei
venti; squarciate queste, si forma un bagliore luminoso e infocato. L'arcobaleno,
quando i raggi del sole cadono sull'aria condensata; il terremoto, quando la
terra subisce una violenta alterazione in seguito a riscaldamento e
raffreddamento. (Ippolito, ref 1 7 - Dox. 560)
5.2 - IL DIVENIRE
Eraclito di Efeso (535 a.C.– 475 a.C.), città un poco più a nord di Mileto, è un deciso
oppositore delle teorie sviluppate dai milesi(13) pur muovendosi, anch'egli, nell'individuazione
di un principio primo da cui derivano tute le cose. Per Eraclito l'attenzione comunque deve
puntarsi non tanto sul primo elemento, che comunque egli ritiene essere il fuoco, quanto
sull'incessante cambiamento, sul continuo divenire del mondo, a seguito di conflitti tra
opposti (Anassimandro) che però non possono fare a meno l'uno dell'altro, fino al punto di
diventare l'essenza di esso. E' in quel conflitto ed interdipendenza tra gli opposti ma anche
nell'armonia tra di essi che risiede l'ordine della natura, il logos (λ•γος). Come arrivare a
comprendere fino in fondo questo logos universale ? Utilizzando quella piccola parte di cui
ciascuno di noi dispone, la ragione (tentativo di fornire una spiegazione della conoscenza
stessa). Questo logos risulta un'entità troppo astratta e, per arrivare ad essa, Eraclito passa
attraverso il fuoco che è elemento fluido e mobile che ben si presta al cambiamento e quindi
al divenire. Passando ad osservazioni empiriche (un poco zoppicanti): il fuoco produce il
vapore; questo quando si condensa, dà acqua; questa, quando solidifica, diventa terra
(ghiaccio); la terra in liquefazione produce acqua; e l'acqua fornisce di nuovo vapore che dà di
nuovo il fuoco. Questo è il ciclo che ha presente Eraclito, inteso come un ruotare continuo
degli elementi: quelli leggeri salgono e quelli pesanti scendono. Ma questo ciclo fa intendere
che il fuoco che egli ha in mente non è un mero fuoco materiale ma un qualcosa d'intelligente
che, oltre ad essere principio è anche regolatore delle trasformazioni (il logos reso sensibile).
E, a ben guardare, questa rotazione è una continua sostituzione di entità con il loro contrario;
riusciamo quindi ad intravedere la lotta tra contrari(10) come una continua sostituzione
dell'uno con l'altro; ed in realtà uno, come accennato, non può esistere senza l'altro come
dimostra il fatto che il secco diventa umido e l'umido diventa secco. Inoltre il fuoco riassume
in sé le caratteristiche della lotta tra gli opposti. Esso ora c'è, ora svanisce. Come il sole che
ora brilla ed ora non c'è più, nel continua e regolare ritmo che ci offre. Ed è questo che
interessa Eraclito: affermare il divenire ed il cambiamento ma in un ordine regolato da ritmi
ciclici e non casuale. Il fuoco è esemplificativo di questo costante divenire, di dinamicità, di
trasformazione, di identità degli opposti e di regolatore di tempo: dove c'è il fuoco c'è la vita
ma anche il suo opposto, la morte(14). Ed anche l'anima, imprigionata nel corpo, è ignea ed è
quella parte di logos di cui dicevo più su, è cioè ragione. Come già detto vi è un continuo
alternarsi di una entità con il suo opposto (notte/giorno, veglia/sonno, estate/inverno, ...);
l'esistenza di questi cicli fa immaginare ad Eraclito l'esistenza di un ciclo universale che li
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comprende tutti; tale ciclo è da lui chiamato il grande anno (numericamente formato da anni
discordanti tra vari frammenti ma con la caratteristica comune di essere multipli di 60 fatto
che dimostra una influenza mesopotamica); conclusosi il grande anno sarà il fuoco a
riprendere in mano il tutto con un grande incendio. Da questo momento tutto riprenderà in un
nuovo ciclo di grande anno. Leggiamo ora queste cose in alcune dossografie:
[Anche] Ippaso di Metaponto ed Eraclito di Efeso sostengono che unico è il
principio, in moto e limitato, ma questo principio lo identificano con il fuoco; dal
fuoco fanno derivare, per condensazione e rarefazione, tutte le cose che sono e
nel fuoco tutte le risolvono, poiché questa è l'unica natura che costituisce il
sostrato. Tutte le cose, dice Eraclito, sono trasformazioni del fuoco e introduce
anche un certo ordine e un tempo definito del mutamento del cosmo, secondo una
necessità fatale. (Simplicio, phys. 23,33)
Eraclito e Ippaso da Metaponto sostengono che principio di tutte le cose è il
fuoco ed affermano che dal fuoco nascono tutte le cose e che nel fuoco tutte
hanno fine. Man mano che il fuoco si viene estinguendo si forma l'intero cosmo:
dapprima, infatti, la parte più densa del fuoco si raccoglie in se stessa e nasce la
terra; in seguito, la terra si scioglie ad opera del fuoco e naturalmente si produce
l'acqua, che evaporando dà luogo all'aria. Di nuovo, alla fine, il cosmo e tutti i
corpi sono dissolti dal fuoco nell'incendio universale. (Aezio, strom. I 3,11 - Dox.
283)
Eraclito identifica il fuoco periodico con il dio eterno, il destino con il logos che
produce tutte le cose dall'opposizione dei contrari (Ibid., I 7, 22 - Dox. 303)
Secondo Eraclito tutto avviene secondo il destino e questo è la stessa cosa che la
necessità. (Ibid., I 27,22 - Dox. 322)
Eraclito mostrò che l'essenza del destino è il logos diffuso nella sostanza
dell'universo. Ed essa è un corpo etereo, seme della generazione universale e del
ciclo ordinato secondo misura. (Ibid., I 28,1 - Dox. 323)
[ ... ] il fuoco è l'elemento di tutte le cose e tutte le cose sono mutazioni del fuoco
[ ... ] producentisi per rarefazione e condensazione [ ... ]. Tutto accade secondo
l'opposizione e tutto scorre come un fiume; l'universo è limitato ed esiste un
unico cosmo. Esso nasce dal fuoco e di nuovo sarà arso dal fuoco secondo
periodi determinati e vicendevoli per tutta l'eternità: è il destino che determina
questo accadere. E dei contrari, quello che spinge alla nascita è chiamato guerra
e contesa, mentre quello che spinge alla distruzione ad opera del fuoco è
chiamato accordo e pace e il mutamento, secondo cui viene a nascere il cosmo,
prende il nome di via all'in su e all'in giù. (Diogene Laerzio, IX, 1-17)
Esplicitamente Eraclito afferma che l'uomo non è razionale e che solo l'involucro
celeste possiede intelligenza. (Sesto Empirico, adv. math. VIII 286)
Poiché, secondo Eraclito, assorbiamo con la respirazione questa ragione divina,
noi diventiamo intelligenti, e mentre nel sonno ne diventiamo dimentichi, al
risveglio ne abbiamo di nuovo coscienza; nel sonno infatti i pori della sensibilità
si restringono e l'intelletto che è in noi si trova separato dalla comunità che noi
intratteniamo con l'involucro celeste (resta solo, attraverso la respirazione, una
congiunzione, come una radice), ed essendo separata, perde quella capacità di
ricordare che aveva prima; al risveglio, di nuovo sporgendosi avanti attraverso i
pori sensibili, quasi fossero piccole finestre, e rientrando in comunicazione con il
cielo, riacquista la facoltà razionale. Allo stesso modo, infatti, che i carboni,
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accostati al fuoco, diventano per mutazione incandescenti e, separati, si
spengono, così anche quella parte (d'intelletto) che proviene dall'involucro
celeste e che è colta nei nostri corpi diventa, a causa della separazione [dal
fuoco celeste] quasi del tutto incapace di ragionare, mentre, in virtù del contatto
naturale attraverso la moltitudine dei pori, diviene omogenea al tutto. Questa
ragione, dunque, comune, divina, e per la quale diventiamo razionali, Eraclito
dice che è il criterio della verità (Ibid., VII 126-34 [129-31])
Il passaggio all'astronomia è piuttosto deludente e non ci fornisce nozioni originali. Gli
astri sarebbero assimilati a bracieri pieni di fuoco che camminano lungo il cielo (reminiscenza
egizia); essi sono più lontani da noi dal sole e per questo sono meno luminosi e caldi. La luna,
pur essendo l'astro più vicino a noi, non risplende e scalda come il sole perché non è fatto di
una sostanza pura. Nella loro circolazione questi catini oscillano e, nel farlo, a volte rivolgono
verso di noi meno o nessun fuoco: è perciò che osserviamo le eclissi.
La meteorologia è anch'essa poca cosa ed ha una sola dossografia.
Le esalazioni avvengono dalla terra e dal mare, e le une sono chiare e pure, le
altre oscure: mentre il fuoco [degli astri] si accresce per quelle luminose,
l'umido si accresce per le altre. Di che natura sia ciò che circonda la terra egli
non chiarisce: asserisce tuttavia che in esso si trovano [cavità a forma di] catini,
che volgono verso di noi le parti concave, nelle quali si raccolgono le esalazioni
luminose, che s'infiammano: e queste fiamme sono gli astri. La fiamma del sole è
la più luminosa e la più calda. E mentre gli astri sono molto distanti dalla terra e
per questo sono meno luminosi e meno caldi, la luna invece, che pure è la più
vicina, è meno luminosa e meno calda perché non si muove nella regione pura;
[ ... ] Le eclissi del sole e della luna sono prodotte dalla rotazione verso l'alto dei
rispettivi catini, mentre le fasi mensili della luna avvengono per il graduale ruota
re su se stesso del suo catino. I giorni, le notti, le stagioni, le piogge annuali, i
venti e tutti gli altri fenomeni dello stesso genere si producono secondo le
differenti esalazioni. L'evaporazione luminosa, infatti, incendiandosi nel cerchio
del sole, produce il giorno; quella contraria, invece, quando prevale, produce la
notte. E il caldo, accrescendosi per l'evaporazione luminosa, porta l'estate;
mentre l'umido, facendosi più intenso per l'evaporazione oscura, porta l'inverno.
(Diogene Laerzio, IX 1-17 [9-11])
Eraclito sostiene che il sole è una massa infuocata intelligente che sorge dal
mare. (Aezio, strom. n 20,16 - Dox. 351)
Secondo Eraclito [il grande anno] risulta di 10800 anni solari. (Ibid., n 32,3 Dox. 364)
Eraclito ritiene che il tuono è prodotto dai vortici di vento e di nuvole e dagli urti
dei soffi contro le nuvole; le folgori sono dovute alla combustione delle
esalazioni, i lampi [e gli uragani] all'accendersi e allo spegnersi delle nuvole.
(Ibid., In 3,9 - Dox. 369)
5.3 - LA MATEMATICA DI TALETE
Tra i pensatori scientifici che abbiamo discusso, l'unico noto per essersi occupato di
matematica è Talete. Egli viene ricordato per aver dato importanti contributi alla geometria, a
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quella parte che finalmente passa da applicazione pratica a enunciazione di teorema (Talete
non fa dimostrazioni), ma varie cose a lui attribuite non hanno riscontri storici. I teoremi che
risultano essere suoi, e sui quali vi è accordo, gli sono attribuiti da Proclo (V secolo d.C.) che
attinse ad Euclide (III secolo a.C.) il quale si riferiva a Talete (VI secolo a.C.)
"Il cerchio è dimezzato da un suo diametro qualsiasi"
"Se due rette si intersecano, gli angoli opposti tra loro sono uguali"
"Gli angoli alla base di un triangolo isoscele sono uguali"
"Un triangolo è determinato se è data la sua base ed i due angoli relativi a questa
base"
"Primo e secondo criterio di uguaglianza tra triangoli"
"L'angolo inscritto in una semicirconferenza è retto"
"La somma degli angoli interni di un triangolo è di 180° "
Si tratta di enunciati di carattere generale, di proposizioni forse dimostrate, anche se la cosa
non ha alcun riscontro, ma certamente affermate per ragioni di simmetria o piuttosto di pratica
consuetudine. Il passaggio a proposizioni generali rappresenta in sé un grande passo in avanti
rispetto a quanto si era fatto in Egitto e Mesopotamia. Da questi enunciati nascerà presto
l'esigenza della dimostrazione che comporterà la nascita del metodo deduttivo ed il completo
rivolgimento che i matematici greci apporteranno alla scienza geometrica.
I problemi che avrebbe risolto sono:
"Determinazione della distanza di una nave dalla costa"
"Determinazione dell'altezza di un obelisco od una piramide dalla misura delle
loro ombre" (proporzionalità tra ombra di obelisco/piramide con ombra uomo
rapportata ad altezza incognita di obelisco/piramide ed altezza nota uomo).
Per contro, il Teorema di Talete non sembra esser suo. Sembra che egli disponesse dei
risultati di matematici babilonesi: "la parallela al lato di un triangolo divide gli altri due in
parti proporzionali".
Come utile digressione presento ora il modo con cui Talete avrebbe risolto i due problemi
suddetti. Egli piantò un bastone nel suolo e misurò la sua altezza (A'B) e la lunghezza della
sua ombra (A'B').
Misurò poi la lunghezza (OA') dell'ombra della piramide (per farlo basta misurare la metà del
lato di base della piramide ed aggiungerlo alla lunghezza della parte di ombra che fuoriesce
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dalla piramide medesima) e, con una semplice proporzione fornì con precisione l'altezza della
piramide (OA):
A'B : A'B' = AO : OA' =>
AO = (A'B . OA')/A'B'.
Su questo problema riporto tre dossografie:
Ieronimo [ ... ] dice che [Talete] misurò anche l'altezza delle piramidi
dall'ombra, avendo osservato quando la nostra ombra ha la stessa altezza del
corpo. (Diogene Laerzio, Vite, L 22-44)
Talete di Mileto riuscì a determinare la misura dell'altezza delle piramidi,
misurandone l'ombra nel momento in cui suole essere pari al corpo che proietta.
(Plinio, Storia Naturale, XXXVI, 82)
Piantata un'asta al limite dell'ombra che la piramide proiettava, poiché i raggi
del sole investendole formano due triangoli, tu [Nilosseno si rivolge a Talete]
dimostrasti che piramide e asta stanno tra loro nella stessa proporzione in cui
stanno le loro ombre. (Plutarco, conv. VII sap., 2, p.147 A)
Per quel che riguarda la misura della distanza di una nave dalla costa, vi sono vari
procedimenti possibili, tre riportati da Pichot che si possono leggere nella figura seguente, ed
uno che racconto io.
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Da Pichot
L'altro procedimento, illustrato nella figura seguente, prevede che l'osservazione della nave
si faccia dall'alto di una torre d'avvistamento e consiste sempre nella similitudine tra triangoli.
L'osservatore si trova su una torre: in O vi sono i suoi occhi ed in H il punto in
corrispondenza del quale egli sostiene un'asta parallela al livello del mare. L'osservatore
traguarderà la nave attraverso un punto in cui la direzione del suo sguardo interseca l'asta e
ciò fornirà la lunghezza di HP. Osservando la figura si vede che disponiamo di due triangoli
OHP ed OBN che, come si può facilmente apprezzare, sono simili. Si ricava allora
BN : HP = OB : OH
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=> BN = (HP.OB)/OH.
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6 - LA SCUOLA PITAGORICA
Sulla stessa strada della ricerca di un principio unificatore si mossero, una cinquantina
d'anni dopo, Pitagora (571- 497 a.C.) e la sua scuola. Questa volta il principio unificatore
discendeva direttamente dalla matematica e, particolarmente, dall'armonia di certi numeri e
certe proporzioni.
Di Pitagora si sa poco. Alcuni mettono in dubbio addirittura che sia esistito. E tutto nasce
dal fatto che egli riteneva più utile la tradizione orale che non quella scritta, con il risultato
che sembra non abbia lasciato scritti. Alcune cose, raccontateci da altri filosofi e dai
dossografi, sono state riprese da scritti dai suoi discepoli. Ma ciò confonde ancora il tutto
perché non sappiamo in realtà quale siano i suoi contributi originali e quali dei discepoli. Io
mi riferirò a Pitagora ma resta inteso che il vero soggetto è la scuola pitagorica.
Nacque a Samo, un'isola greca dell'Egeo, figlio di un ricco artigiano e commerciante (e di
una donna fenicia) che gli procurò i migliori maestri del tempo (tra gli altri, si dice Talete, ma
con la cosa non va d'accordo con le età, ed Anassimandro). Viaggiò lungo l'Asia Minore, in
Egitto ed in Mesopotamia; visitò le isole dell'Egeo fino ai suoi 40 anni quando, per sottrarsi al
tiranno Policrate, si trasferì a Crotone (Calabria) nella Magna Grecia, dove fondò la sua
scuola, una specie di setta, che assunse presto i caratteri di una religione con l'importante
caratteristica che ammetteva anche le donne e di praticare con la consegna del segreto. La
setta, una comunità esoterica per iniziati(15), era dedita alla contemplazione, alla ginnastica e
ad un insieme di attività non disgiungibili: musica, aritmetica, geometria, astronomia. Era
legata al partito aristocratico ed aveva un gran peso nelle vicende della città. Il simbolo di
riconoscimento di appartenenza alla setta era il 'pentagramma' una stella a cinque punte
inscritta in un cerchio (vedi oltre).
Verso la fine del secolo, i pitagorici, che erano diventati molti(16) ed avevano accresciuto
notevolmente il loro potere, furono cacciati dalla città da una sommossa democratica con
annessi massacri dei suoi membri. La scuola fu dispersa e Pitagora trovò rifugio a Metaponto,
una città nel Golfo di Taranto, dove insegnò per qualche anno fino alla sua morte. Alcuni
discepoli fuggirono in Sicilia, altri tornarono in Grecia, dove seguirono nei loro insegnamenti.
Leggiamo ora le cose che alcuni dossografi hanno scritto:
Pitagora di Mnesarco era, secondo Ippoboto, di Samo; secondo Aristosseno,
nella Vita di Pitagora [ ... ] e Aristarco [ ... ] e Teopompo [ ... ] tirreno; secondo
Neante [ ... ] o sirio o tirio. Per la maggior parte degli scrittori Pitagora era
dunque di stirpe barbara. (Clemente Alesssandrino, strom. I 62)
[ ... ] Eraclide Pontico tramanda che [Pitagora] diceva questo di sé, che una
volta era stato Etalide e considerato figlio di Ermes, e che Ermes gli aveva
promesso di domandargli qualunque cosa volesse, tranne l'immortalità. Egli
aveva allora domandato di poter serbare ricordo degli avvenimenti durante il
ciclo delle nascite e delle morti.
Così ricordava tutto durante la vita, e anche dopo la morte serbava il ricordo. In
seguito era tornato in vita nel corpo di Euforbo, ed era stato ferito da Menelao.
Ed Euforbo raccontava d'essere stato una volta Etalide, e d'aver avuto quel dono
[della metempsicosi] da Ermes, e diceva quali erano state le peregrinazioni della
sua anima, e in quante piante e in quanti animali era venuta, e che cosa aveva
sofferto nell'Ade, e che cosa sopportavano le altre anime.
Poi, dopo la morte di Euforbo l'anima era passata in Ermotimo [...]. Morto
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Ermotimo, era rinato come Pirro di Delo, pescatore [ ... ]. Morto Pirro, era
rinato come Pitagora, e ricordava tutta la storia ora raccontata. (Diogene
Laerzio, VIII 4-5)
[ ... ] il pitagorico Androcide, autore del libro Sui simboli e il pitagorico
Eubulide, e Aristosseno [ ... ], e Ippoboto e Neante [ ... ] che ci tramandarono
notizie su di lui, dissero che le sue incarnazioni avvennero ad intervalli di 216
anni; Pitagora rinacque dunque e rivisse, secondo che tramandano costoro, dopo
il primo sviluppo e il ritorno del cubo del 6 (63=216, ndr), numero generatore di
vita e insieme ricorrente per la sua sfericità: e ancora rinacque dopo altrettanti
anni (Pseudo Giamblico, Theol. Arithm. p. 52, 8 de Falco)
Aristosseno [ ... ] dice che [Pitagora] a quarant'anni, vedendo che la tirannide di
Policrate era troppo dura perché un uomo libero potesse sopportarne l'autorità e
la signoria, lasciò Samo e andò in Italia. (Porfirio, v. Pyth., 9)
Dicearco [ ... ] racconta che, come Pitagora giunse in Italia e si stabilì a
Crotone, tanto i Crotoniani furono attirati da lui (ch'era un uomo notevolissimo,
e aveva molto viaggiato, [ ... ]), che, dopo che egli si fu cattivato il senato con
molti e bei discorsi, i magistrati lo incaricarono di fare ai giovani dei discorsi
suasori adatti alla loro età. Parlò anche ai fanciulli, raccoltiglisi intorno appena
tornati da scuola; e quindi alle donne. Istituì anche un'assemblea delle donne.
Per tal modo s'accrebbe la sua fama ... (Ibid., 18: 19)
Quello ch'egli diceva ai suoi compagni, nessuno può dire con certezza, perché
serbavano su questo grande segreto. Ma le sue opinioni più conosciute sono
queste. Diceva che l'anima è immortale, poi ch'essa passa anche in esseri
animati d'altra specie. (Ibid., 19)
Quanto all'oggetto del suo insegnamento, i più dicono ch'egli apprese le scienze
matematiche dagli Egizi e dai Caldei e dai Fenici: ché già nei tempi antichi gli
Egizi si dedicarono allo studio della geometria, i Fenici allo studio
dell'aritmetica e della logistica, i Caldei all'osservazione degli astri. I riti intorno
agli dèi e quanto riguarda i costumi dicono che invece li apprese dai Magi.
(Ibid., 6)
Nella stessa epoca di costoro [Anassagora, Empedocle e gli atomisti], anzi
ancora prima di loro, i cosiddetti pitagorici si dedicarono per primi alle scienze
matematiche, facendole progredire; e poiché trovarono in esse il proprio
nutrimento, furono del parere che i principi di queste si identificassero con i
principi di tutte le cose. I numeri occupano naturalmente il primo posto tra tali
principi, e i pitagorici credevano di scorgere in quelli, più che nel fuoco o nella
terra o nell'acqua, un gran numero di somiglianze con le cose che esistono e
sono generate [...] e individuavano, inoltre, nei numeri le proprietà e i rapporti
delle armonie musicali e, insomma, pareva loro evidente che tutte le altre cose
modellassero sui numeri la loro intera natura e che i numeri fossero l'essenza
primordiale di tutto l'universo fisico; e, per tutte queste ragioni essi concepirono
gli elementi dei numeri come elementi di tutta la realtà, e l'intero cielo come
armonia e numero (Aristotele, Metafisica, 985b 23 sgg. Tratto da Lloyd)
I pitagorici si dedicarono alla matematica. Essi pensavano che i suoi principi
fossero il fondamento di tutte le cose. Scorgevano nei numeri molte
rassomiglianze con le cose che esistono e che vengono all'essere - una
modificazione del numero essendo la Giustizia, un'altra la Ragione, un'altra
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l'Opportunità - quasi tutte le cose essendo esprimibili numericamente. Essi
considerarono pure gli attributi e i rapporti della scala musicale come
esprimibili in numeri. Posero dunque i numeri come gli elementi di tutte le cose e
l'intero universo come una scala musicale e numerica. Lo stesso accordo dei cieli
lo riassunsero e lo inserirono nel loro schema. Cosi, poiché il 10 era ritenuto
essere perfetto e comprendere in sé la natura del numero, dissero che i corpi che
si muovono nell'universo sono in numero di dieci; ma poiché i corpi celesti
visibili sono soltanto nove, inventarono una antiterra (cfr. Filolao, p. 35. Tratto
da Simger).
6.1 - I NUMERI ALL'ORIGINE DEL MONDO
Per i pitagorici i numeri sono il principio di tutte le cose: della musica, della geometria
(anche se in questo campo incontrò difficoltà), della materia e addirittura degli stati d'animo.
L'unità fondamentale - l'atomo - dei pitagorici è il numero inteso come un'entità con
dimensioni, una monade. Per 'numeri' si intendono solo i 'numeri interi' intesi come collezioni
di unità tutte uguali tra loro. Probabilmente queste unità erano pensate come punti forniti di
realtà, di dimensioni e circondati da uno spazio vuoto (sono delle "monadi"). Mettendo
insieme più punti-unità si raggiungeva, per i pitagorici, la sintesi tra numero e figura. Da qui il
carattere simultaneamente aritmetico e geometrico delle elaborazioni pitagoriche.
Partendo dal principio che tutti gli esseri sono composti di punti-unità segue che le leggi di
formazione dei numeri costituiscono, in ultima analisi, le leggi di formazione del mondo che
ci circonda. Nelle proprietà dei numeri vanno poi ricercate le ragioni del mondo fisico e
spirituale. Vediamo un poco il senso di quest'ultima frase. Tutto ciò che ci circonda è formato
da punti materiali (le monadi) disposti in un dato ordine geometrico. La sistemazione spaziale
di questi punti nell'ordine in cui si presentava era per i pitagorici il numero. Esso quindi era,
più che un'entità matematica, un'entità fisica. Se ad esempio si avevano 10 punti disposti a
triangolo (figura 3), il 10 rappresentava un numero triangolare; se si
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avevano 16 punti sistemati su tre file di tre (figura 1), il 16 rappresentava un numero
quadrato; se si avevano 4 punti sistemati ai vertici di un tetraedro, (figura 6), il 4
rappresentava un numero tetraedrico. Ogni punto monade è uguale a ogni altro; sono solo
l'ordine e il numero dei vari punti monade che ci rendono conto della diversità degli oggetti
che la natura ci offre.
S'intravede quindi lo scopo della fisica: studiare le proporzioni, le relazioni, il numero
delle entità che costituiscono i vari corpi. Solo se si riesce a scoprire una relazione
matematica che renda conto di come sono sistemate le monadi l'una rispetto alle altre si è in
grado di conoscere la natura. Ma, oltre al numero, vi è un altro elemento alla base della
costituzione dell'universo, l'armonia. Si tratta di un insieme ordinato che, allo stesso modo
della musica, è armonico: solo certe proporzioni tra numeri, solo certe figure geometriche
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possono esistere; ed esistono solo quelle che sono armoniche e belle.
Al di là di ogni facile ironia, è la prima volta nella storia del pensiero che, alla base del
mondo, viene posta un'entità "astratta", un qualcosa che non è immediatamente riconoscibile
da una ricognizione empirica del mondo circostante.
È il primo passo sulla strada dell'interpretazione non ingenua del mondo, della
speculazione teorica. Certo le cose andarono oltre rispetto a un segno che potremmo oggi
proporci: in questa visione del mondo il primato lo avevano l'intuizione e la creazione
speculativa; nessuno spazio era concesso alla scienza empirica.
Questa visione, germe della teoria atomica di Leucippo e Democrito, prevedeva che le linee
fossero catene di punti [··········], in numero enorme ma finito, mentre le superfici fossero un
insieme di linee [:::::::::].
Conseguenza di ciò è che tutte le grandezze devono risultare tra loro commensurabili. Se si
dispone, ad esempio, di due segmenti si può sempre trovare un loro sottomultiplo comune che
poi è il punto di cui entrambi sono costituiti. Se il primo segmento contiene m punti ed il
secondo n, il rapporto m/n è un numero razionale, una coppia ordinata cioè di numeri naturali
esprimenti rispettivamente quante volte quel sottomultiplo comune è contenuto nel primo e
nel secondo segmento. Ma fu proprio la (ri)scoperta del Teorema di Pitagora (vedi più avanti)
che mostrò qualcosa di 'scandaloso': l'esistenza di grandezze incommensurabili (ad esempio
se un quadrato ha lato d, la sua diagonale misurerà d.√2. Ciò vuol dire che il rapporto tra
diagonale e lato del quadrato è √2, e cioè un numero non razionale ma irrazionale, che per la
prima volta si presenta. Quindi il lato e la diagonale di un quadrato stanno tra loro secondo un
numero che non è razionale nel senso prima detto: non si può trovare nessun sottomultiplo
comune alle due grandezze).
È oggi chiaro che questa difficoltà può essere superata solo con l'ammissione che sarà fatta
da Euclide (323-283 a.C.) di "punto privo di dimensioni". Ma, con questa scoperta, i
fondamenti dell'intera scuola crollarono e la leggenda tramanda che questo segreto (la
scoperta degli incommensurabili) fosse gelosamente custodito dai pitagorici. Si racconta che
chi lo divulgò - Ippaso - fu punito dagli dei con la morte in un naufragio (altri dicono che,
fuggendo dai condiscepoli che lo inseguivano, attraversò un campo di fave e lì morì perché
affetto da favismo. Altri ancora che, sempre fuggendo, cadde da una scogliera e lì fu
tramutato in uno scoglio, per l'eternità schiaffeggiato dalle onde). Ippaso, in altri racconti,
rivelò anche il segreto della costruzione del quinto solido regolare, il dodecaedro.
6.2 - GLI INCOMMENSURABILI
Che tipo di ragionamento dovevano aver fatto, all'epoca, i pitagorici per rendersi conto
che esistevano grandezze incommensurabili in relazione al teorema di Pitagora ? Si tratta di
una dimostrazione riportata da Aristotele (Analytica Priora, I, 29) e da Euclide (Elementi,
libro X). Sia ℓ il lato del quadrato e d la sua diagonale. Facciamo in modo di considerare d
ed ℓ come primi tra loro (si noti che questa è un'operazione che viene fatta a priori!).
Applicando il teorema di Pitagora si ha: (1) che il quadrato costruito su d è 2 volte il quadrato
costruito su ℓ. Ora d deve essere un numero pari poiché è divisibile per 2. Il numero ℓ,
primo con d, deve conseguentemente risultare dispari. Osserviamo ora che se d è pari si dovrà
avere d = 2 c e cioè: (2) che il quadrato costruito su d è 4 volte il quadrato costruito su c.
Confrontando la (1) e la (2) si deduce che il quadrato costruito su ℓè 2 volte il quadrato
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costruito su c; da dove si conclude che ℓ deve essere pari. Quindi ℓ deve essere
contemporaneamente pari e dispari. Segue allora il teorema: "Fissato il numero intero d
spettante alla diagonale, non esiste alcun intero che esprima il lato del quadrato e cioè i due
segmenti sono incommensurabili".
6.3 - RISULTATI DELLA SCUOLA PITAGORICA
Proclo (V secolo a.C.) assegna a Pitagora scoperte che, come accennato, sono della sua
scuola e probabilmente è un insieme di conoscenze che furono sistematizzate a partire dalla
scuola di Pitagora. La loro derivazione è in gran parte da Talete, dai caldei e dagli egiziani.
- Nuova dimostrazione della somma degli angoli interni di un triangolo mediante
la parallela tracciata da un vertice al lato opposto.
- Terzo criterio di similitudine tra triangoli.
- Ad angoli uguali sono opposti lati in proporzione.
- Dimostrazione del teorema omonimo.
- Studio dei quattro poliedri regolari e scoperta del quinto, il dodecaedro (che
viene dato con origine celtica o indiana o etrusca).
- Scoperta della sezione aurea e della costruzione del pentagono e del decagono
regolari inscritti in una circonferenza.
- Conoscenza delle medie 'aritmetica', 'geometrica' ed 'armonica'. Molte
conoscenze sulla teoria delle proporzioni.
- Problemi di 'applicazione delle aree' che portano alla risoluzione geometrica
delle equazioni di 2º grado.
- Scoperta dell'incommensurabilità tra lato e diagonale del quadrato a cui seguirà
come conseguenza quella delle quantità irrazionali (alogon).
6.4 - TEOREMA DI PITAGORA
Anche qui non fu Pitagora a scoprire il teorema che porta il suo nome. Abbiamo visto,
quando ci siamo occupati della matematica in Mesopotamia, che tale teorema era noto in
applicazioni pratiche. Pitagora però, come per altre cose rielaborate in Grecia, riuscì a darne
una enunciazione generale. Egli, prese le mosse dal triangolo particolare di lati 3, 4 e 5 noto
già ai babilonesi (con solo quattro terne pitagoriche, senza riferimento a triangoli, note anche
agli egizi come riportato nel papiro di Kahun della XII dinastia - 1800 a.C.), congiuntamente
ad altre proprietà note come ricette da agrimensore o da architetto. Nella terna pitagorica si
osservano coincidenze di "interesse": il quadrato dell'ipotenusa è pari al numero delle 'lettere'
dell'alfabeto egizio ed al numero di anni di vita del bue Api. Era, per altri versi, la prima terna
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pitagorica, cioè l'uguaglianza: 32 + 42 = 52, considerata come simbolo di perfezione. Si
sottolineava che l'area di tale triangolo è 6, numero che segue il 5. Si osservava che il cubo
dell'area risulta pari alla somma dei cubi dei lati: 63 = 33 + 43 + 53. Da queste considerazioni
'esoteriche' partì Pitagora per la sua dimostrazione più generale. Prima di Pitagora: un
triangolo è rettangolo ogni volta che i lati stanno tra loro in quella certa proporzione. Da
Pitagora: in ogni triangolo rettangolo (sono infiniti) i lati si comportano in modo che la
somma dei quadrati costruiti sui cateti è uguale al quadrato costruito sull'ipotenusa.
Il teorema di Pitagora negli Elementi di Euclide, Libro I, proposizione 47 (manoscritto greco del XII
secolo)
6.5 - LA MISTICA DEI NUMERI
Già abbiamo visto che ad alcune proprietà dei numeri venivano assegnate virtù
speciali. Questo aspetto era in realtà dominante in tutte le scuole di matematica dell'antichità.
Vediamo qualche proprietà assegnata a tali numeri.
- I numeri interi possono essere o pari o dispari.
- Il numero 1 (l'unità) che genera sia i numeri pari che i dispari non è né pari né
dispari ma parimpari. L'uno rappresenta l'intelletto, semplice, immobile in se
stesso. Ma l'uno è anche molte cose in potenza: è un triangolo, un quadrato, un
cubo,
- Il numero 2 è il primo numero pari. Rappresenta l'opinione, sempre oscillante.
- Il numero 3 è il primo numero dispari. È il primo numero completo: ha
principio, mezzo e fine. Non gli manca nulla. Era perciò considerato un numero
perfetto con proprietà magiche e mistiche (si usava dire, ed abbiamo
reminiscenze nella lingua francese, "sono tre volte felice")
- Il numero 4 è con il 9 simbolo della giustizia (ancora oggi si parla di persona
quadrata) per quanto dirò al numero 9. Mentre con il tre si individua un piano, il
quattro è il primo numero che individua la terza dimensione (figura 6) e quindi lo
spazio e cioè il mondo (qui vi è forse l'allusione ai quattro elementi che saranno
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di Empedocle: terra, acqua, aria, fuoco; e forse questa considerazione influirà su
Empedocle). Il 4 ha poi altri significati (vedi Gorman). Con Pitagora se ne
trovarono 10 (includendo quelli musicali); fu Teone di Smirne che, non
rendendosi conto della bestemmia, aggiunse l'undicesimo.
- Il numero 5 rappresenta il matrimonio poiché si ottiene come somma del 2
(primo numero pari che rappresenta la donna) con il 3 (primo numero dispari che
rappresenta l'uomo). E' importante perché è la metà del 10; perché è il numero dei
5 solidi regolari (tetraedro, cubo, ottaedro, icosaedro, dodecaedro) associate
rispettivamente a fuoco, terra, aria, acqua, etere (sostanza che costituisce lo
zodiaco); perché è il numero dei pianeti (allora) conosciuti; perché è il numero
delle zone in cui Pitagora aveva diviso la Terra (artica, antartica, estiva, invernale
ed equatoriale). Questo numero è anche il primo numero automorfico:
moltiplicato per se stesso finisce sempre per Cinque (5.5=25; 25.5=125;
125.5=625; ...). Tra le figure piane, è il pentagono: la prima figura che riproduca
se stessa al proprio interno mediante le sue diagonali (che può rappresentare
anche una stilizzazione del corpo umano come mostrato nella seconda delle
figure che seguono) e per questo il pentagramma (o pentacolo o pentalpha) è
assunto come simbolo dalla scuola pitagorica (proveniente da antiche mitologie
egizie ed utilizzato da ogni esoterismo successivo, come cabala, massoneria,
magia, alchimia, ...).
- Il numero 6 era anche legato al matrimonio perché prodotto di maschio (3) e
femmina (2). Era poi originato dal prodotto dei primi tre numeri. Le potenze di 6
danno sempre numeri che terminano in 6.
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- Il numero 7 rappresenta l'opportunità e la saggezza (questo numero ha visto
cambiare il suo significato dalla Mesopotamia alla Grecia. In Mesopotamia era
un numero nefasto e da lì nacque la credenza di non lavorare il giorno 7 della
settimana, per evitare di incorrere in ogni cattiva sorte). Tale numero è anche
vergine perché non può essere generato da altro numero e generare altro numero
tra i primi 10 (non vi è una coppia di numeri tra i primi 10 che moltiplicati tra
loro generino il 7 e non può generare altro numero diverso da se stesso tra i primi
10 mediante moltiplicazione perché 7.2 = 14, al di fuori dei primi 10 numeri. Il 5,
ad esempio, non è generato ma può generare dentro al 10 perché 5.2 = 10).
Poiché il 7 è numero vergine, fu associato alla dea Atena che nacque senza
generazione dalla testa di Zeus. E' così che al 7 si associa anche la mente. Inoltre
7 erano i corpi celesti.
- Il numero 8 era significativo perché era il primo cubo propriamente detto.
Dovuto all'armonia tra le sue parti (23 = 8 e 2 + 2 + 2 + 2 = 8) fu appunto
chiamato Armonia (che era la moglie di un eroe leggendario, Kadmos, fenicio
come la madre di Pitagora). Essendo armonico, tale numero divenne simbolo
dell'amicizia e per questo fu chiamato Eros.
- Il numero 9 ebbe due nomi. Da un lato fu chiamato Okeanos con riferimento al
grande mare che circondava la terra, in quanto nove è il limite dei numeri perché
dopo di esso viene il 10; dall'altro Prometeo per la sua forza che gli permetteva di
controllare gli altri 8 numeri della decada. Era il simbolo della giustizia perché la
sua radice quadrata è 3 e perché i suoi fattori (3 e 3) all'essere uguali, sono
l'immagine adeguata della rappresaglia (la giustizia era di questo tipo).
- Il numero 10 è particolarmente venerato (fu chiamato panteleia o il tutto
perfetto). Esso si ottiene dalla somma di 1, 2, 3, 4, quindi contiene l'unità, il
primo numero pari, il primo numero dispari, il primo quadrato. Inoltre, poiché è
la somma dei primi quattro numeri, simboleggia l'insieme dei quattro elementi
primi (terra, acqua, aria, fuoco) che formavano la potente tetraktis, su cui si
giurava (la formula del giuramento era: No, io lo giuro per colui che ha
trasmesso alla nostra anima la tetractis nella quale si trovano la sorgente e la
radice dell'eterna natura). Dieci è poi la base della numerazione utilizzata. Dieci
è anche il numero delle antitesi che sono alla base del mondo: pari-dispari;
limitato-illimitato; uno-molti; destra-sinistra; luce-tenebre; maschio-femmina;
buono-cattivo; immobile-in moto; diritto-curvo; quadrato-rettangolare. Il numero
10 era poi rappresentabile mediante un triangolo equilatero (figura 3 vista prima).
Infine il 10 aveva anche importanti relazioni con il mondo dei suoni.
- I numeri hanno poi altre importanti proprietà figurative di interesse. Tali
proprietà, che li fanno essere geometrici, servono per dimostrarne alcune
caratteristiche che discendono anche dalla loro medesima rappresentazione. Essi
possono essere
●
●
lineari come 1, 2, 3, 4, ...; si tratta dei numeri primi, quelli divisibili solo
per se stessi e per l'unità (tutti gli altri numeri sono detti secondi),
rappresentabili solo con una linea (e non da una supeficie o volume) in
quanto non hanno misure, a parte se stessi e l'unità;
triangolari come il 3, il 6, il 10 ora visto, il 15, il 21, ... e sono triangolari
tutti i numeri dati dalla somma di numeri successivi pari e dispari N dati
da: N = 1 + 2 + 3 + .... + n = n(n + 1)/2;
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●
●
●
●
quadrati, originati dal prodotto di due fattori uguali, come il 4, il 9, il 16
(figura 1), e sono quadrati tutti i numeri dati dalla somma dei numeri
dispari successivi dati dalla formula N = 1 + 3 + 5 + 7 + .... + (2n - 1) = n2.
pentagonali (figura 4) e tutti i numeri pentagonali sono dati dalla formula N
= 1 + 4 + 7 + ... + (3n - 2) = n(3n - 1)/2; ...
oblunghi, originati dal prodotto di due fattori diversi, come il 6 o il 12 (vedi
figura 2) e sono oblunghi tutti i numeri dati dalla somma dei numeri pari
successivi che si ricavano dalla sequenza dei numeri pari N = 2 + 4 + 6
+ ... + 2n = n(n - 1); un numero oblungo si ottiene poi come somma di due
numeri triangolari uguali:
possono essere quindi, in genere, poligonali (come tutti i precedenti); ed i
poligoni sono generati dalle figure seguenti:
Come generare successivamente (da sinistra) triangoli, quadrati, pentagoni (se si vogliono aumentare i lati
basta aggiungere semirette e punti)
●
cubici, originati dal prodotto di tre fattori uguali, come il 27, come l'8
(vedi figura 5).
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Il numero cubico 27
●
tetraedrici come 1, 4, 10, 20, 35, 56, ...
●
conici
- Vi sono poi i numeri perfetti, ciascuno dei quali è somma dei propri divisori
(esempi: 28 = 1+2+4+7+14; 6 = 1+2+3).
- Vi sono i numeri amici, ciascuno dei quali è somma dei divisori dell'altro
(esempio: il 220 ed il 284; il primo ha per divisori 1,2,4,5,10.11,20,22,44,55,110
e la somma di questi numeri fa 284; il secondo ha per divisori 1,2,4,71,142 e la
somma di questi numeri fa 220).
- Vi sono i numeri primi (o rettilinei), divisibili per l'unità e per se stessi (ad
esempio il 7, l'11, · · · · · · ·).
- Vi sono i numeri composti (o rettangolari), ...
- I numeri dispari sono anche detti gnomoni, aventi cioè la forma di una squadra
da falegname o come l'orologio solare, (come il 3, il 5, il 7, ... rappresentati da
punti disposti su due linee perpendicolari tra loro e formanti un angolo retto). Da
questa ultima proprietà si ricava anche la regola che ogni numero dispari è la
differenza tra due quadrati e cioè che: (2n + 1) = (n + 1)2 - n2. Consideriamo ad
esempio un quadrato formato da quattro linee di quattro punti ciascuna. Lo
gnomone esterno 7 è dato dalla differenza del quadrato di lato 4 con il quadrato di
lato 3.
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- I numeri quadrati si possono ottenere con il metodo della crescita o decrescita
gnominica, aggiungendo o sottraendo cioè uno gnomone squadra che non ne
alteri la forma:
- Lo stesso vale per i numeri oblunghi:
- I numeri triangolari permettono di ricavare la nota formula che fornisce la
somma dei primi n numeri naturali. Consideriamo ad esempio un triangolo
formato da cinque linee: nella prima un punto, nella seconda due punti, nella
terza tre punti, nella quarta quattro punti e nella quinta cinque punti. Tenendo a
mente un tale triangolo si ricava subito che se l'ultima riga è n + 1 e la penultima
n, si ha: 1+2+3+ ... + n = 1/2 [n(n+1)].
- Il numero è abbondante se la somma dei suoi divisori è più grande del numero
dato (esempio: il 12 che ha per divisori 1,2,3,4,6 che danno 1+2+3+4+6>12).
- Il numero è deficiente se la somma dei suoi divisori è più piccola del numero
dato (esempio: il 14 che ha per divisori 1,2,7 che danno 1+2+7 < 14).
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- I quadrati si ottengono sommando i numeri dispari a partire dall'unità: 1 = 1 al
quadrato; 1+3 = 2 al quadrato; 1+3+5 = 3 al quadrato; 1+3+5+7 = 4 al
quadrato; ....
- I numeri si distinguono in numeri che non sono prodotti di altri numeri ossia in
numeri primi od asintetici, ed in numeri che sono prodotti o numeri composti o
sintetici. Tenendo conto dei soli numeri entro la decade, i numeri si suddivi-dono
in quattro classi: la classe dei numeri primi entro la decade che sono fattori di
numeri della decade: e sono il due (che veramente non è un numero) ma compare
come fattore del 4, del 6, dell'8 e del 10, il tre che è fattore del 6 e del 9; ed il 5
che è fattore del 10. La seconda classe è costitui-ta dai numeri primi minori del
10 che non sono fattori di numeri minori del 10, ed è costituita dal solo numero
sette. La terza classe è costituita dai numeri composti, inferiori al dieci, e che
sono fat-tori di numeri minori del dieci, ed è costituita dal solo numero quattro,
che è in pari tempo quadrato del due e fattore dell'8; la quarta classe è costituita
dai numeri composti minori del dieci che sono prodotti di altri numeri senza
essere fattori di numeri entro la decade, essa è costituita dal sei, dall'otto e dal
nove, poiché 2 . 3 = 6, 2 . 2 . 2 = 2 . 4 = 8 e 3 . 3 = 9. Non tenendo conto del 10 e
tenen-do conto del due si hanno quattro numeri primi: 2, 3, 5, 7 di cui uno solo
non produce altri numeri, e quattro numeri composti: 4, 6, 8, 9 di cui uno solo è
anche fattore.
- I quattro elementi (terra, acqua, aria, fuoco), come abbiamo accennato, oltreché
ai numeri, erano associati ai poliedri regolari: lo stabile cubo alla terra; il
pungente tetraedro al fuoco; il rotolante icosaedro all'acqua; l'ottaedro all'aria. Il
dodecaedro rappresentava invece l'intero universo.
I cinque solidi regolari
Non vado oltre ma le proprietà e le caratteristiche dei numeri sono una quantità infinita.
Credo però si sia capito che per la prima volta si tratta l'aritmetica (l'aritmetica pitagorica è
stata anche chiamata aritmo-geometria) in modo astratto, indipendentemente dalle
applicazioni; che si interseca aritmetica e geometria in un modo sorprendente che permette
poi di trovare molte proprietà geometriche ed anche di arrivare a scoprire l'esistenza di quei
numeri irrazionali (almeno la √2) tanto aborriti. Non vi fu, se non molto marginalmente,
un'applicazione dei numeri al mondo naturale (posizione opposta a quelle che abbiamo
incontrato in Egitto e Mesopotamia) ma l'intero mondo fu definito come retto dai numeri e la
cosa aprirà presto strade di grande interesse, ma ora imprevedibili, con Platone. I numeri si
costituiscono in una unità che tutto regge e, nel contempo, che necessita di essere organizzata
con dimostrazioni realizzate con il metodo deduttivo ma anche unificata nelle proposizioni e
nei teoremi. Ciò è reso possibile proprio dal riconoscimento della separatezza dei numeri
dalla natura e dal loro governo della medesima. Si può certamente parlare di nascente
razionalità mescolata però con una mistica dei numeri che è ciò che ho tentato di mostrare.
In definitiva, per la scuola pitagorica, che avrà suoi influssi fino agli inizi dell'era cristiana,
oggetto ultimo della scienza fisica è quello di riprodurre la natura per mezzo di un sistema di
entità matematiche e delle loro relazioni. Qualunque cosa l'uomo possa conoscere circa la
natura può venire espresso con il suddetto sistema di entità e relazioni matematiche. Il cosmos
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(in greco: decoro, ornamento) è una struttura ordinata e per questo, come la musica è
"armonico" (l'armonia dell'universo è "sentita" dall'occhio della mente). Si noti che il cosmos
greco diventa il mundus (ornamenti femminili) latino. Naturalmente, quanto detto prevede
una stretta connessione tra "natura (fisica) e matematica. Tutto è affidato all'intuizione ed alla
creazione speculativa: nessuno spazio è concesso alla scienza empirica.
6.6 - LE PROPORZIONI
Non poteva essere estraneo alla scuola pitagorica l'interesse per le proporzioni e sembra che
Pitagora abbia appreso i primi rudimenti del problema in Mesopotamia. Doveva conoscere: la
media aritmetica, la media geometrica, la media subcontraria(17) (successivamente detta
armonica o musicale) e la proporzione aurea (il primo di due numeri sta alla loro media
aritmetica come la loro media armonica sta al secondo di essi) su cui si basavano i babilonesi
per estrarre la radice quadrata. A queste tre medie (la proporzione aurea utilizzava due medie
già esistenti) i pitagorici ne aggiunsero altre 7 per arrivare al famoso 10. L'elenco è nella
tabella che segue, dove le prime tre sono le medie aritmetica, geometrica ed armonica. Essi
affermarono (secondo Nicomaco e Pappo) che se b è la media di a e c, con a < c, allora le tre
quantità sono legate da una delle seguenti dieci relazioni:
6.7 - LA MUSICA
I pitagorici svilupparono anche molte ricerche sperimentali in campo musicale. Con
corde tese di uguale lunghezza e con un cuneo che le fissava in un dato punto situato tra le
estremità, si conseguirono risultati che gettarono le basi della musica. Furono scoperti i tre
accordi fondamentali di ottava, di quinta e di quarta e, di seguito, tutti gli altri. I rapporti, tra
le lunghezze delle parti di corda a destra ed a sinistra del cuneo, trovati nei tre casi erano
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rispettivamente: 1:2 ; 2:3 ; 3:4, cioè i numeri della tetraktis. Allorché si studiarono altri
intervalli musicali si scoprirono altre relazioni che toccavano questioni correlate con le medie,
molto care ai pitagorici. Se si fanno vibrare tre corde con lunghezze proporzionali ai numeri
1 ; 4/5 ; 2/3 non solo si ha l'accordo perfetto maggiore (do, mi, sol) ma si riconosce subito che
quei tre numeri (riducibili agli interi15; 12; 10) formano una successione nota in aritmetica e
detta da Filolao terna armonica poiché il termine centrale è medio armonico tra gli altri due:
media armonica b = 2ac/(a+c). Sorprendentemente la stessa media armonica appare nel cubo,
dato che questo solido ha sei facce, 8 angoloidi, e 12 spigoli e "8 è medio armonico tra 6 e
12". Analogamente le lunghezze delle corde dell'accordo perfetto minore risultano essere 4; 5;
e 6; formano cioè una progressione aritmetica con il 5 medio aritmetico tra gli altri due
numeri: media aritmetica b = (a+c)/2.
6.8 - COSMOLOGIA
La musica ebbe una grande importanza nella scuola pitagorica. Essa era intesa come il
veicolo che univa uomo a cosmo. I pitagorici estesero la musica e quindi i numeri alla volta
celeste (questa operazione intellettuale avrà conseguenze profonde in futuro) ritenendo che
questa fosse appunto una scala musicale ed un numero e che i movimenti degli astri dessero
vita a suoni armoniosi anche se l'uomo non li percepisce perché è immerso da sempre in essi e
l'armonia è continua con la conseguenza che non si riesce a percepire il silenzio (questa
concezione sarà ripresa, in questi precisi termini, 2000 anni dopo da Kepler). Il silenzio
assoluto regna oltre il cosmo, dove regnano i numeri e l'Uno (che, per questo motivo, è
indicato dai pitagorici anche come silenzio). Queste analogie ed immagini furono estese alle
distanze delle sfere celesti ed alle loro velocità con lunghezze di corde e loro vibrazioni
ricavando da qui le musiche celesti. Da qui una concezione del mondo che merita un cenno.
I pitagorici consideravano l'universo diviso in tre parti sistemate in ordine gerarchico di
nobiltà e perfezione decrescente: l'Urano, ossia la Terra e la sfera sublunare; il Cosmo, ossia i
cieli mobili delimitati dalla sfera delle stelle fisse; e l'Olimpo, ossia la dimora degli dei.
L'intero universo, la Terra, il cielo, dovevano essere sferici perché la sfera era il più perfetto
dei solidi geometrici. Ogni corpo all'interno dell'universo si muoveva circolarmente in modo
uniforme, anche qui perché il cerchio era la figura geometrica perfetta, e il suo moto era tale
che esso si muoveva tanto più velocemente quanto più in basso si trovava nella scala
gerarchica. Quindi i corpi più vicini alla Terra si sarebbero dovuti muovere più velocemente
dei più lontani. L'assioma secondo cui i movimenti dei corpi celesti dovevano essere uniformi
e circolari, principio questo che doveva dominare la scienza astronomica fino all'età moderna.
Vediamo in proposito cosa dice un astronomo greco di epoca più recente, Gemino di Rodi
(ca. 70 a.C.):
Furono i Pitagorici, i primi che affrontarono queste questioni, a stabilire l'ipotesi
di un movimento circolare e uniforme per il Sole, la Luna e i pianeti. Era loro
opinione che, per quanto riguardava le cose divine ed eterne, supporre un tale
disordine per cui questi corpi dovessero muoversi ora più velocemente e ora pili
lentamente, o addirittura dovessero fermarsi in quelle che sono chiamate le
stazioni dei pianeti, fosse inammissibile. Persino nella sfera umana una simile
irregolarità è incompatibile con il comportamento ordinato di una persona bene
educata. E anche se le crude necessità della vita spesso costringono l'uomo ad
affrettarsi o a perder tempo, non si deve supporre che in tali circostanze possa
venire a trovarsi la natura incorruttibile delle stelle. Per questa ragione essi
definirono come loro problema quello di dare una spiegazione dei fenomeni sulla
base dell'ipotesi del movimento circolare e uniforme.
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Spiega Mason che
"I pitagorici non potevano però accettare il fatto che la Luna, il Sole e i pianeti
dovessero ruotare in senso contrario una volta ogni ventiquattro ore. Per superare
questa difficoltà e per dare soddisfazione al principio secondo cui i corpi ignobili
si muovevano più rapidamente di quelli nobili, Filolao avanzò !'ipotesi che la
Terra si muovesse una volta al giorno da occidente verso oriente intorno a un
fuoco situato nel centro dell'universo. I suoi movimenti erano tali che la stessa
faccia della Terra era sempre rivolta verso il fuoco centrale, allo stesso modo che
la stessa faccia della Luna era costantemente rivolta verso la Terra. La Grecia si
trovava su quella parte della Terra che si trovava all'opposto del fuoco centrale,
ma neppure sull'altra parte della Terra si poteva vedere il fuoco, giacché fra la
Terra e il fuoco si frapponeva un altro corpo, l'anti-terra, che si muoveva di pari
passo con la Terra e oscurava permanentemente il fuoco.
Il movimento diurno della Terra attorno al fuoco centrale, postulato dai
Pitagorici, spiegava l'apparente rotazione diurna del cielo intorno alla Terra, e
suggeriva che tutti i corpi in movimento nell'universo si muovevano attorno al
fuoco centrale nella medesima direzione da occidente verso oriente, e che i loro
periodi di rivoluzione erano tanto più lunghi quanto più erano nobili. La Terra, il
corpo meno nobile nell'universo, si muoveva attorno al fuoco centrale una volta
al giorno; la Luna impiegava un mese, il Sole un anno, e i pianeti periodi ancor
più lunghi, mentre la sfera delle stelle fisse era immobile. Una simile concezione
implicava che, siccome la Terra percorreva giornalmente un percorso finito, le
stelle fisse dovessero mutare le loro apparenti posizioni relative le une alle altre
dal tramonto all'alba, a meno che non si trovassero a una distanza infinita dalla
Terra. I Pitagorici sostenevano che le distanze fra i diversi corpi celesti e il fuoco
centrale avevano tra loro gli stessi rapporti numerici che esistevano fra gli
intervalli della scala musicale, proporzione questa che collocava le stelle a una
distanza finita dalla Terra. La parallasse stellare, però, ossia uno spostamento
delle apparenti posizioni relative delle stelle, non era ancora stata osservata, e
pertanto l'originario sistema pitagorico del mondo dovette essere modificato.
L'assenza della parallasse stellare implicava che l'orbita tracciata dal movimento
diurno della Terra attorno al fuoco centrale fosse molto più piccola di quanto si
era supposto precedentemente".
Si possono cogliere da questa presentazione le enormi novità a cui ci troviamo di fronte. Da
qui risulta che furono i pitagorici ad immetterci nella comprensione del sistema astronomico
così come lo conosciamo. Entriamo in un mondo in cui iniziano sfere ed orbite circolari. La
stessa Terra, da osservazioni della sua ombra sulla Luna durante le eclissi, fu riconosciuta
sferica (vi sono dubbi relativi a questa teoria: c'è chi la attribuisce a Parmenide). Inizia il moto
che, in un mondo pitagorico, non può che essere regolare. E se il moto è regolare vi è da
stabilire a che velocità ed a che distanza da cosa. E quante devono essere le velocità per i
diversi corpi celesti e per le stelle, da allora chiamate, erranti. Poiché tali velocità vennero
riconosciute diverse si ipotizzarono distanze diverse per i diversi astri. Iniziò allora
l'organizzazione del cielo a seconda dei periodi annuali dei diversi corpi celesti intorno al
centro del moto. Si partiva dal corpo che ruotava più lentamente intorno a questo centro,
Saturno e si avevano via via Giove, Marte, Sole, Venere, Mercurio, Luna (18)(in alcuni testi
viene fornito un ordine differente; il Sole risulta sistemato tra Mercurio e la Luna.
Probabilmente ciò discende dalle diverse epoche in cui sono stati scritti i resoconti dei
dossografi: in epoche diverse sono variate le conoscenze sulle posizioni del Sole, risultato più
lontano di quanto si credesse, attraverso lo studio delle fasi della Luna). Poiché poi erano
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impensabili dei pianeti appesi in cielo a distanze diverse tra loro, occorreva un sostegno.
Furono pensate delle sfere che mantenevano incastonati i pianeti e poiché tali sfere non si
vedevano, dovevano essere trasparenti e quindi cristalline. E qui, dalle misure delle velocità
di questi corpi, venne fuori quell'inaccetabilità estetica di cui parlava Mason. Tutti gli astri
mostravano di ruotare da ovest ad est mentre il cielo delle stelle ruotava con maggiore
velocità da est ad ovest. Come far ruotare tutto allo stesso modo ? E' un pregiudizio che avrà
importanti conseguenze (ed i pregiudizi hanno sempre giocato ruoli importanti
nell'osservazione della natura). Fu il pitagorico Filolao di Taranto (o Crotone), intorno al 450
a.C., che risolse il problema con un'ipotesi tanto audace quanto risolutiva. Doveva essere la
Terra a ruotare da ovest ad est intorno ad un dato punto (Fuoco Centrale o divina Hestia) e
noi, osservando dalla Terra, abbiamo la
Sistema astronomico di Filolao
sensazione di un moto della volta celeste da est ad ovest. Non è questo che un moto
apparente ! Davvero audace ed incredibile ! E' difficile riuscire a pensare un volo della mente
di questo livello. Solo in un mondo che esplodeva con le sue capacità astrattive è concepibile
una tale immensa idea. Ora poteva venir pensato un cielo immobile dentro il quale gli altri
astri si muovevano, con le loro sfere di sostegno, tutti con lo stesso ordine(19)e con velocità
che erano più elevate vicino al centro di rotazione e sempre minori procedendo verso l'esterno
fino ad arrivare alla quasi immobilità della volta delle stelle perché, come fa dire Aristotele al
pitagorico Alcmeone, tutte le cose divine si muovono). E questo paradossalmente era
possibile perché ancora non vi erano le complicazioni della dinamica a rendere difficile
immaginare il moto della Terra. Naturalmente gli serviva un qualche indizio empirico,
qualche analogia, e questa gli fu suggerita dalla Luna che gira intorno ad un punto volgendo
sempre la stessa faccia verso l'esterno (con il che, chi si trovasse da quella parte non saprebbe
che gira intorno alla Terra). Filolao aggiunse anche un altro pianeta ruotante intorno a quel
punto comune per tutti i pianeti, ma più in basso della Terra: si tratta della famosa Antiterra
della quale sappiamo pochissimo solo da un cenno di Aristotele che parla dell'invenzione
dell'Antiterra per portare i corpi celesti ruotanti intorno a quel punto centrale al famoso
numero 10. Vi era naturalmente il problema del perché questo pianeta ed il Fuoco Centrale
non si vedessero. Filolao inventò una combinazione di moti (vedi figure seguenti) che ne
rendevano conto. L’emisfero terrestre abitato è quello rivolto verso il Sole e la Terra fa un
giro in 24 ore intorno al Fuoco centrale. In tal modo, dalla Terra, l’Antiterra ed Il Fuoco
Centrale non potevano essere mai visti. Ma c'è di più. La funzione dell'Antiterra è quella di
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impedire la vista del Fuoco Centrale a chi si fosse affacciato ai confini del lato abitato (oltre
l'India) e, addirittura, a chi si fosse recato agli antipodi della Terra abitata. Inoltre, l'intero
sistema, rendeva ben conto del giorno e della notte regolando opportunamente le velocità di
Sole e Terra fino a dar anche conto della diversa durata del giorno e della notte (mentre
l'inclinazione dell' orbita del Sole, rispetto alla Terra, rendeva conto delle stagioni). Se si
riflette un istante, non si parla esplicitamente di rotazione della Terra su se stessa ma,
l'ammettere che la Terra (come l'Antiterra) faccia la sua orbita (molto piccola) intorno al
Fuoco Centrale in 24 ore in simultanea con il fatto che la Terra mostra sempre la stessa faccia
al fuoco centrale, corrisponde ad ammettere che la Terra fa un giro su se stessa in 24 ore.
D'altra parte se il suo riferimento era la Luna, le cose stanno allo stesso modo con periodi
differenti.
Terra ed Antiterra in opposizione in caso di notte e giorno
Terra ed Antiterra in congiunzione in caso di notte e giorno
Ho detto poco più su il motivo che, per Aristotele, avrebbe spinto Filolao ad inventare
l'Antiterra. Forse vi fu una componente del genere ma vi erano anche dei veri motivi
astronomici come quello di avere un pianeta che rendesse conto delle eclissi di Luna e di Sole
in un universo in cui le distanze tra corpi celesti era considerata molto grande(20) (poiché si
riscontrano circa il doppio di eclissi lunari rispetto alle solari, al fenomeno, oltre la Terra,
dava il suo contributo anche l'Antiterra). Come vedremo, Anassagora aveva già ipotizzato
l'esistenza di corpi scuri che provocavano le eclissi, e sembra che Filolao pensasse l'Antiterra
come uno di tali corpi oscuri. Secondo Filolao sia la Luna che il Sole ricevevano luce dal
Fuoco Centrale. Le eclissi di Sole potrebbero trovare giustificazione nell'interposizione tra
Sole e Fuoco Centrale di Luna, Terra o Antiterra. Vi era poi il problema già detto del non far
vedere dal lato abitato della Terra, in ogni condizione, il Fuoco Centrale. E forse altri motivi
ma noi non conosciamo né i motivi né le spiegazioni fornite da Filolao. Una cosa però va
detta. Filolao fa un'altra operazione, più di natura filosofica che non fisica, che avrà
importanti conseguenze a partire da Aristotele. Egli pensa che la sfera dell'universo sia
racchiusa da una sfera di fuoco, l'Olimpo, sede degli dei. Ragioni geometriche di tipo
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pitagorico, imponevano che il centro avesse la stessa natura della sfera esterna. E così al
centro dell'universo pose il Fuoco che era della stessa natura del fuoco dell'Olimpo che tutto
racchiudeva (al di là di questo fuoco era pensato l'apeiron, l'aria infinita da cui il mondo trae il
suo respiro). Quel Fuoco Centrale, la Hestia, era anche chiamato Focolare del tutto, torre di
guardia di Zeus, altare, vincolo e misura della natura. In questo modo il principio, l'Arché,
era sistemato al centro del mondo e questa cosa sarà ripresa alla lettera da Copernico per
giustificare il suo aver messo il Sole al centro dell'universo (e Aristotele ci dice che la Terra
non era considerata ad un livello di nobiltà tale da occupare il centro dell'universo).
E' una cosmologia fantasiosa che serve a rispondere a ragioni estetiche e di simmetria. Ma
dentro vi sono moltissimi germi che faranno progredire di molto la concezione dell'universo:
sfere planetarie che circondano la Terra; moto delle sfere intorno alla Terra; Terra in moto
intorno ad un fuoco centrale; ... Sono dei passi avanti giganteschi che si tratterà di
razionalizzare ulteriormente per metterli a buon frutto.
Vedremo nel prossimo articolo come seguiranno le elaborazioni dei greci, attraverso altre
scuole di pensiero: la eleatica, l'atomista, quella di Platone, di Aristotele ... Occorrerà un
ulteriore articolo per occuparci dell'esplosione della scienza del III secolo a.C., quando si avrà
a che fare con una scienza molto vicina nei metodi a quella che oggi conosciamo.
SEGUE ...
ALL'ARTICOLO PRECEDENTE ...
NOTE
(1) Esisteva già una scrittura a Creta ed era, analogamente all'Egitto, sia di tipo geroglifico (che non
ha nessun rapporto con quella egizia) che di tipo corsivo detto "lineare"(di derivazione da quella
geroglifica per semplificazione e schematizzazione). Con la scomparsa della civiltà creto-micenea,
andò dimenticata.
La scrittura fenicia (semitica), risalente al XII secolo a.C. e sviluppata dai trafficanti fenici per le
necessità dei loro traffici, sembra derivi da quella corsiva (ieratica) egizia. Da tale scrittura
derivarono, oltre a quella greca, quella aramaica, ebraica e probabilmente araba. La grande novità di
tale scrittura è il non essere più patrimonio di una qualche casta di scribi ma di tutti. Deve essere
fonetica, facile da apprendere, semplice, flessibile e pratica per facilitare al massimo la
comunicazione. Essa era consonantico-sillabica, cioè priva della notazione delle vocali. La notazione
sillabica fenicia aveva operato una drastica riduzione di sillabe perché raggruppava le sillabe
accomunate dalla medesima consonante iniziale (in precedenza infatti si disponeva di segni dotati di
valori fonetici corrispondenti alle sillabe, unità fonetiche pronunciabili ed empiricamente identificabili. I
"sillabari" però, dato l'elevato numero di sillabe, erano ancora difficilmente memorizzabili e poco
maneggevoli perché vi erano tante sillabe quanti oggetti da indicare con la conseguenza che le stesse
sillabe si ripetevano). Era una grande semplificazione che si pagava con l'ambiguità (il caso di parole
differenti ma con consonanti uguali è tutt'altro che raro) perché era il lettore che doveva capire quale
vocale inserire subito dopo la data consonante. [Il corsivo è in gran parte tratto da: http://www.thanx.it/
Web/Web-Writing/03-Avvento-alfabeto-greco.pdf].
La Fenicia (1100 a.C. - 500 a.C.) era una stretta striscia di terra, larga al massimo 60 Km e lunga 300
Km, situata lungo la costa della Siria, tra le montagne del Libano, della Galilea ed i monti Ansariyya
(a Est), il Mare Mediterraneo (a Ovest), la città di Ra's Nakura ed il Monte Carmelo (a Sud) e la foce
del fiume Oronte e la città di Nahr el-Kelb (a Nord). Suoi centri più importanti furono: Arad, Ugarit,
Biblio, Berito (odierna Beirut), Sidone e Tiro. Ricca di boschi di cedro il cui legno è particolarmente
adatto alla costruzione di navi, disponeva di metalli, coltivava cereali, lino, frutta e vite ma,
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soprattutto, era un Paese marittimo, un centro e crocevia di scambi fra Mesopotamia, Anatolia
(penisola che separa il Mar Egeo dal Mar Nero), isole dell'Egeo ed Egitto. La Fenicia, invasa e caduta
varie volte sotto il dominio dei grandi imperi che lo circondavano (egiziani, ittiti, popoli del mare,
assiri, babilonesi, persiani), non fu mai uno Stato ma un insieme di città Stato spesso in lotta tra loro.
L'essere troppo commercianti, impedirà ai fenici di sviluppare una cultura originale; si preferirà
riprodurre i modelli stranieri e ricercare ciò che più era richiesto sui mercati.
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I territori approssimativi (di una certa epoca) della Fenicia sovrapposti a quelli degli Stati attualmente
esistenti
(2) Le vocali greche upsilon e omega non hanno corrispettivi fenici.
(3) Furono i primi coloni greci giunti in Occidente, gli Euboici, a diffondere l'alfabeto presso gli
Etruschi, che lo adattarono alla loro lingua. Attraverso gli Etruschi o le colonie greche dell'Italia
meridionale l'alfabeto fu adottato a Roma e usato per esprimere la lingua latina. Con la diffusione di
questa lingua sulla scia delle conquiste di Roma, l'alfabeto latino soppiantò ogni altro tipo di scrittura:
infatti è questo l'alfabeto in uso per tutte le lingue moderne dell'Europa occidentale.
(4) Enrico Redaelli [http://garito.it/areastud/Ricerche/sandracolazingari_ascsrittura.htm] dice:
Soltanto con la pratica della scrittura s'instaurerà quella distanza a noi familiare tra il
nome e ciò che esso nomina.
Affinché le cose appaiano come enti "oggettivi" e "in sé", quindi separate dalle parole che
le nominano, è necessario che esse acquisiscano i caratteri della permanenza e della
stabilità, cioè che esse siano fruibili e riconoscibili universalmente e in maniera sempre
identica.
Allo stesso modo, affinché le parole acquisiscano una propria indipendenza rispetto alle
cose, è necessario che si oggettivino e si rendano visibili come tali. Ma la parola-evento del
dire originario non ha queste caratteristiche: essa non può infatti essere percepita come
presenza stabile, in quanto la sua natura sonora la rende deperibile ed evanescente. Finché
restiamo nel campo dell'oralità, dei puri suoni, le parole non hanno una propria corporeità.
Questa corporeità è invece data in dotazione alla parola dalla scrittura. E' la scrittura a far
apparire letteralmente le parole, rendendole visibili ed esperibili come se si trattasse di
oggetti. La scrittura infatti oggettiva la parola orale nella materialità del testo scritto e,
iscrivendola su un supporto stabile, le dà un corpo e un'identità indipendente.
Nello stesso tempo la scrittura, come ha notato Husserl nell'Origine della geometria, rende
pienamente "oggettive" le cose nominate che, attraverso la permanenza e la stabilità del
testo scritto, diventano fruibili in modo sempre identico non solo dalla comunità di uomini
che le nominano e che le scrivono ma, idealmente, da tutte le comunità a venire. Solo così
le cose diventano propriamente "universali", dotate di un'esistenza oggettiva e
indiscutibile. [...]
Un tale salto di astrazione sarà reso possibile soltanto dalla pratica di scrittura alfabetica.
[...]
Con l'introduzione delle vocali, l'alfabeto greco diventa, per così dire, del tutto
"indipendente" (scrittura delle cose "in sé", cioè svincolate dai contesti pratici di mondo):
non solo il lettore non deve "aggiungere" o "dedurre" alcunché, ma può anche leggere
senza comprendere (può ad esempio leggere parole il cui significato gli è sconosciuto). La
partecipazione del lettore non è più richiesta, il testo ormai autosussiste indipendentemente
dai contesti empirici e dalle pratiche di vita in cui è fruito. Prima, negli altri sistemi di
scrittura, l'uomo non aveva mai di fronte a sé un testo autonomo ("in sé"), bensì un testo
che prendeva senso se rianimato dal lettore e inscritto nel rapporto vivente, cosmologico e
sacrale Dio-Uomo, quindi un testo irriducibile ad unità astratte. Gli Ebrei, ad esempio, per
inserire le vocali giuste in una parola, dovevano dedurre il senso di quella parola dal senso
complessivo del testo, dal discorso che in esso fluiva unidirezionalmente senza possibilità di
analisi e scomposizione (possibilità che solo la scrittura fonetica permette, riproducendo i
suoni a prescindere dal contenuto - in questo senso, potremmo dire, essa è la prima
scrittura profana). [...]
I Greci, col loro alfabeto, fanno allora esperienza di un mondo (il mondo trascritto in puri
fonemi slegati da un più ampio contesto di senso) che si compone di singole unità astratte.
Ciò permette al lettore greco una serie di operazioni "analitiche" e di "astrazioni"
letteralmente "inaudite" (cioè mai udite dalla voce del mythos, quella voce che, prima della
scrittura, raccontava il mondo). Non è un caso che la filosofia (quel pensiero che utilizza i
"concetti" e procede per "astrazioni") nasca proprio in Grecia, dopo l'introduzione
dell'alfabeto.
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(5) Le due numerazioni apparvero intorno al 450 a.C.. Quella acrofonica smise di essere utilizzata
intorno al 100 a.C. mentre quella alfabetica, che si sviluppò in periodo alessandrino, venne utilizzata
in Oriente fino al Medio Evo.
(6) Leggiamo in Geymonat:
L'opinione di una tradizione orientale del pensiero greco si diffuse ampiamente nel periodo
ellenistico, in un'epoca cioè in cui la filosofia greca era diventata assai meno creativa ed
aveva spostato il suo centro in Egitto (ad Alessandria), dove era interesse della classe
sacerdotale locale trovare nella propria sapienza tradizionale l'origine della cultura greca.
E si può intendere facilmente come un'interpretazione mistico-religiosa di tutta la filosofia
e la cultura greche non dispiacesse agli intellettuali ebrei e cristiani, che cercavano di
accordarla con la rivelazione divina. Al contrario, uno dei motivi principali del rapido
fiorire della filosofia greca fu proprio la sua indipendenza dalla religione e dalla mitologia.
Infatti, mentre la sapienza orientale, patrimonio della classe sacerdotale conservatrice,
risiedeva soprattutto nel rispetto della tradizione, fu appunto contro la tradizione e
l'opinione corrente che la più antica filosofia greca condusse la sua polemica.
Su questa vicenda, su ciò che si è trasferito dalle civiltà mesopotamiche ed egizie alla Grecia, vi è un
dibattito acceso che è ben lungi da essere esaurito. Si passa da chi sostiene che in definitiva è
ininfluente ciò che proveniva dalle civiltà precedenti a chi parla di una continuità senza cesure. Per
quel che mi riguarda, al di là di ciò che dico nel testo, posso aggiungere che per certo le acquisizioni
tecniche di base (agricoltura, tessitura, metallurgia, ceramica) passarono per intero dalle culture
precedenti, con eventuali influssi da altri popoli e con interventi autoctoni, alla Grecia. Altre cose che
senza difficoltà si possono supporre trasferite sono ancora gli strumenti osservativi dell'astronomia e
la mole dei medesimi dati osservativi. Si può infine supporre che anche alcune proprietà geometriche
arrivarono in Grecia dai Paesi circostanti. Ma, e qui tutti concordano, saranno i greci ad inventare la
dimostrazione geometrica.
(7) In proposito vi è un'esemplificazione di Lloyd sulla teoria dei terremoti attribuita a Talete:
Com'è noto, questi s'immaginava che la terra poggiasse sull' acqua e che i terremoti si
verificassero quando la terra veniva scossa dai sussulti ondulatori dell'acqua su cui
galleggiava. L'idea che la terra galleggiasse sull'acqua ricorre in molti miti babilonesi ed
egiziani, ma non occorre allontanarsi dalla Grecia per trovare un mitico precursore della
teoria taletiana, poiché ivi era credenza diffusa che Poseidone, dio del mare, fosse
responsabile dei maremoti. Benché semplice, la teoria taletiana dei terremoti era una
spiegazione naturalistica, priva di riferimenti a Poseidone o a qualsiasi altra divinità.
Innanzi tutto, per dirla con Farrington, i milesi «lascian fuori gli dei »: mentre un
terremoto o un lampo descritto da Omero o da Esiodo è quasi sempre attribuito alla collera
di Zeus o di Poseidone, i filosofi escludono qualsiasi riferimento alla volontà, agli amori,
agli odi, alle passioni e ad altri moventi semiumani di personaggi divini. Secondariamente,
mentre Omero ci parla sempre di questo terremoto o di quel lampo, i milesi concentravano
la loro attenzione non su un fenomeno particolare, ma sui terremoti o sui lampi in
generale. Le loro ricerche, rivolte a classi di fenomeni naturali, evidenziano quell'aspetto
peculiare della scienza, per cui si indaga sull'universale e l'essenziale e non sul fenomeno
singolo o accidentale.
(8) L'Epopea di Gilgamesh è uno dei più antichi (forse il primo) poemi epici conosciuti e narra le gesta
di un antichissimo (forse intorno al 2600 a.C.) e leggendario re sumerico, Gilgamesh re di Uruk, alle
prese con il problema della morte e del suo impossibile superamento. Il poema ci è giunto in varie
versioni e lingue risalenti ad un epoca compresa tra il III-II millennio a.C. (oltre alle versioni in
cuneiforme, anche in documenti ittiti, scoperti ad Hattusa in Anatolia, e palestinesi, trovati a
Megiddo). Nella sua versione più lunga, fu ritrovato in 11 tavolette nella Biblioteca di Assurbanipal
(questa redazione è del VII secolo a.C.). E' da notare che nell'Epopea vi è la prima redazione nota del
diluvio universale, fatto a cui faccio riferimento nel testo.
(9) Le citazioni che farò, salvo avviso contrario, sono tratte dalle dossografie di Pichot.
(10) Gli opposti a cui si riferisce Anassimandro, saranno poi gli opposti di Aristotele. Tali coppie di
opposti sono:
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caldo-freddo;
secco-umido;
pesante -leggero;
denso-raro;
ruvido-liscio;
duro-soffice;
resistente-fragile.
(11) Il concetto che ho espresso è raccontato da Pichot nel modo seguente:
È da questo apeiron, indeterminato qualitativo e quantitativo, che tutte le cose traggono il
loro essere ed è in esso che tutte tornano a distruggersi. Come già accadeva con l'acqua di
Talete. Nondimeno, la modalità di trasformazione dell'apeiron (sempre che si possa qui
parlare di trasformazioni) è completamente diversa da quella dell'acqua. Per
Anassimandro, l'esistenza delle cose (ossia, la loro determinazione qualitativa e
quantitativa, la loro differenziazione) si comprende soltanto con lo sconfinamento di un
elemento sul suo contrario. Questo eccesso dell'uno in rapporto all'altro rompe il loro
equilibrio in seno all'indifferenziazione e provoca la determinazione qualitativa e
quantitativa, dunque l'esistenza di una cosa determinata. L'apeiron, indeterminato
qualitativo e quantitativo, si comprenderebbe allora come la mescolanza di tutte le coppie di
contrari, ciascuno di questi contrari venendo «neutralizzato» all'interno della propria
coppia dal suo opposto. La determinazione delle cose risulterebbe dalla rottura
dell'equilibrio, dall'eccesso di questi o quegli elementi sconfinanti sui loro opposti. Questo
eccesso d'un elemento sul suo contrario è concepito da Anassimandro come un'ingiustizia
dell'uno in rapporto all'altro, dunque secondo una modalità morale. La differenziazione di
cose determinate a partire dall'apeiron è allora il risultato d'una ingiustizia, se non è anzi
un'ingiustizia in sé; l'equilibrio perfetto tra i contrari è di conseguenza ritenuto come
l'espressione della giustizia - ma esso è altresì l'indeterminazione. Questa ingiustizia dovrà
essere pagata con il ritorno all'indifferenziazione, dunque con l'avanzata del contrario
deficitario che ristabilisce l'equilibrio, e il ritorno delle cose determinate in seno all'apeiron.
In Eraclito, ritroveremo questo gioco dei contrari nella determinazione delle cose, ma sarà
allora completamente diverso. Per Anassimandro, si dovrà, da un canto, sottolineare il
carattere pessimista d'una tale concezione (che riconduce ogni particolare esistenza ad una
ingiustizia) e, d'altro canto, rilevare questo impiego d'una nozione d'ingiustizia nella
spiegazione pressoché fisica del mondo. Il miglior modo di spiegarsi un simile impiego è
certamente il parallelismo che si è già istituito qui con i fattori sociopolitici: la giustizia
come equilibrio tra i contrari non manca di ricordare il principio democratico della
legittimità come equilibrio tra i diversi membri dell'assemblea (ognuno essendo l'uguale di
tutti gli altri - la legittimità risulta dall'equilibrio che preserva i diritti e gli interessi di
ognuno, più ancora che quelli della maggioranza); lo squilibrio a vantaggio di taluni è
allora un'ingiustizia. Un tale principio di equilibrio tra i diversi elementi (e specialmente tra
i contrari) nella scienza greca è una costante, soprattutto nella medicina (da Alcmeone di
Crotone sino a Ippocrate di Cos, passando per Empedocle, quanto al periodo che qui ci
interessa) dove la salute è sempre definita come l'equilibrio tra le differenti componenti del
corpo, mentre la malattia è lo squilibrio a favore di una di esse. È in Anassimandro che lo
rinveniamo per la prima volta. L'adozione di questa nozione d'ingiustizia si spiega,. da un
canto, con il fatto che la concezione di Anassimandro non è quella d'una scienza della
natura quale oggi la conosciamo, ma una filosofia (pessimista) includente uno studio della
natura; e, d'altro canto, con il fatto che la spiegazione del mondo traspone nella natura
principi che sono quelli dell'organizzazione politica greca dell'epoca.
(12) Completo il quadro di Anassimandro almeno citando le sue concezioni evolutive che sembra gli
siano derivate dalla prolungata osservazione di bambini che crescevano.
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Anassimandro sostiene che i primi viventi furono generati dall'umidità, avvolti in
membrane spinose e che col passare del tempo approdarono all'asciutto e, spezzatasi la
membrana, poco dopo mutarono genere di vita (Aezio, V 19,4 - Dox. 430)
Anassimandro di Mileto afferma che, a suo parere, dall'acqua e dalla terra riscaldata,
nacquero o dei pesci o degli animali simili a pesci; in questi concrebbero gli uomini, e i feti
vi rimasero rinchiusi fino alla pubertà. Quando questi si spezzarono, allora finalmente ne
uscirono uomini e donne che potevano già nutrirsi. (Censorino, de d. nat. 4,7)
(13) Come già detto in generale, mi interesso di tale pensatore solo dal punto di vista del pensiero
scientifico, tralasciando completamente la parte filosofica, anche perché di difficile decifrazione, come
confermato anche da Aristotele che lo definì l'Oscuro.
Osservo però che Eraclito era un aristocratico che disprezzava il popolo, o meglio, le sue capacità di
comprendere. Per il suo essere fautore entusiasta della guerra fu apprezzato da Hegel e da Nietzsche.
(14) Eraclito gioca qui con un accento sulla parola bios (βιος). Se scriviamo bíos abbiamo il significato
di vita ma se scriviamo biòs passiamo al significato di arco, strumento che dà morte.
(15) I contenuti avevano importanti affinità e le pratiche coincidevano con la setta degli Orfici che si
sviluppò in Grecia sul finire del VII secolo (in proposito si veda la pagina di Diego Fusaro in http://
www.geocities.com/diego_fusaro_2000/orfismo.html ).
La setta credeva nella metempsicosi, nella reincarnazione dopo morti in animali. Per questo motivo
era anche vegetariana, il rischio di mangiare la nonna non lo volevano correre. E la cosa non è una
boutade se pure Shakespeare ci spese un passo (Dodicesima notte, citato da Russel):
Buffone: Qual è l'opinione di Pitagora intorno alla cacciagione?
Malvolio: Che l'anima di mia nonna potrebbe per avventura abitare dentro un uccello.
Buffone: E qual è il tuo avviso su questa teoria?
Malvolio: lo ho un troppo alto concetto dell'anima per potere comunque seguire tale
opinione.
Buffone: E allora, stammi allegro: e rimaniti nella tua oscurità, che io non ti riconoscerò
guarito finché non sarai convinto della teoria di Pitagora, e, per conseguenza, non ti
farai scrupolo di uccidere una beccaccia per il timore di sfrattar di casa l'anima di tua
nonna.
Altre regole della setta di Pitagora (citate da Russel) derivavano dalle primitive concezioni dei tabù:
l) Astieniti dalle fave.
2) Non raccogliere ciò che è caduto.
3) Non toccare un gallo bianco.
4) Non spezzare il pane.
5) Non scavalcare le travi.
6) Non attizzare il fuoco con il ferro.
7) Non addentare una pagnotta intera.
8) Non strappare le ghirlande.
9) Non sederti su di un boccale.
10) Non mangiare il cuore.
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11) Non camminare sulle strade maestre.
12) Non permettere alle rondini di dividersi il tuo tetto.
13) Quando togli dal fuoco la pignatta non lasciare la sua traccia nelle ceneri, ma
rimescolale.
14) Non guardare in uno specchio accanto ad un lume.
15) Quando ti sfili dalle coperte, arrotolale e spiana l'impronta del corpo.
(16) Giamblico (III-IV secolo d.C.) fa un elenco di 218 pitagorici. Tra di essi vanno ricordati: (tra i
primi) Alcmeone di Crotone, Ippaso di Metaponto, Aristeo di Crotone; (più recenti) Filolao ed
Archita di Taranto. Quest'ultimo sarebbe stato un amico di Platone mentre Filolao gli avrebbe
venduto tre libri con lavori pitagorici dai quali lo stesso Platone avrebbe preso le mosse per scrivere il
Timeo.
(17) Il termine subcontrario, che discende da problemi musicali, sembra derivi dal fatto che i tre
termini di una media armonica danno sempre, se invertiti, una media aritmetica.
(18) I nomi dei pianeti erano i seguenti: Saturno era chiamato Phainon (apparente, paino); Giove era
chiamato Phaeton; Pyroeis era Marte (l'infocato); Phosphoros era Venere (lucifero); Stilbon era
Mercurio (scintillante). Vedremo tra poco l'Antiterra che si chiamerà Antichton.
(19) Secondo alcune fonti, Filolao avrebbe provato ad inscrivere dentro ciascuna sfera un poliedro
regolare. La cosa sarà ripresa completamente da Kepler.
(20) Secondo attendibili valutazioni la grandezza dell'universo era più o meno quella che prevedeva:
l'orbita dell'Antiterra pari a tre raggi terrestri; l'orbita della Terra pari a 9 raggi terrestri; quella
della Luna a 27; quella di Mercurio ad 81; quella di Venere a 243; quella del Sole a 729 (questo
numero è sia il quadrato di 27 che il cubo di 9: per questo motivo il Sole si chiamava quadrato-cubo);
e così di seguito in progressione geometrica fino a quella delle stelle pari a 59049 raggi terrestri. Per
ciò che riguarda la circonferenza terrestre abbiamo una valutazione di Aristotele che dice: i
matematici stimano il circolo della Terra pari a 400 mila stadi (circa 63000 Km, di più dei 40000 che
oggi sappiamo essere).
BIBLIOGRAFIA
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(2) - G. de Santillana - Le origini del pensiero scientifico - Sansoni, 1966
(3) - Hugo Dingler - Storia filosofica della scienza - Longanesi, 1949
(4) - Carl B. Boyer - Storia della matematica - Mondadori 1980
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Press, 1972
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(8) - Giancarlo Masini - Storia della matematica - SEI 1997
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(9) - Mario Rigutti - Storia dell'astronomia occidentale - Giunti 1999
(10) - René Taton (diretta da) - Storia generale delle scienze - Casini 1964
(11) - André Pichot - La nascita della scienza - Dedalo 1993
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(14) - John D. Bernal - Storia della scienza - Editori Riuniti 1965
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(20) - J. L. E. Dreyer - Storia dell'astronomia da Talete a Keplero - Feltrinelli 1980
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