FIltesi28.03.2010 per copisteria - Università degli Studi di Ferrara
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FIltesi28.03.2010 per copisteria - Università degli Studi di Ferrara
UNAMUNO E LA COSTRUZIONE DEL “SENTIMIENTO TRÁGICO”: RISCRITTURA DI PROGETTI ABBANDONATI E ABBOZZI AVANTESTUALI ! "! ! #! Università degli Studi di Ferrara ! DOTTORATO DI RICERCA IN "MODELLI, LINGUAGGI E TRADIZIONI NELLA CULTURA OCCIDENTALE" CICLO XXII COORDINATORE Prof. Paolo Fabbri UNAMUNO E LA COSTRUZIONE DEL “SENTIMIENTO TRA’GICO”: RISCRITTURA DI PROGETTI ABBANDONATI E ABBOZZI AVANTESTUALI Settore Scientifico Disciplinare L-LIN/05 Dottorando Tutore Dott. Tedeschi Filippo Prof. Tanganelli Paolo _______________________________ _________________________ (firma) (firma) Anni 2007/2009 ! $! ! %! INDICE Indice __________________________________________________________________ p. 5 Introduzione. Variantistica italiana e genetismo francese: due scuole a confronto ______ p. 9 Capitolo I. Dalle ‘meditazioni evangeliche’ al ‘sentimento tragico della vita’: riesumazione di progetti-fantasma__________________________________________________________ p. 31 Capitolo II. Intratestualità nel mosaico avantestuale di Del sentimiento trágico_________ p. 49 Capitolo III. Da Del sentimiento trágico de la vida al Tratado del amor de Dios________ p. 83 Appendice 1 Del sentimiento trágico de la vida _________________________________ p. 119 Appendice 2 Intratesti Tratado- Del sentimiento trágico __________________________ p. 329 Appendice 3 De religione e carte unamuniane sparse ____________________________ p. 447 Appendice 4 Catalogo degli autori (carte unamuniane) ___________________________ p. 645 Bibliografia _____________________________________________________________ p. 689 ! &! ! '! RIFLESSIONI METODOLOGICHE E CRITERI DI ANALISI Questo studio si propone di esaminare come Unamuno abbia costruito il suo ‘senso tragico della vita’, che caratterizza e condiziona non solo il pensiero, ma l’essenza più viscerale della cosmovisión unamuniana, senza con questo pretendere di indovinare le logiche e le ragioni profonde che hanno accompagnato il filosofo basco nel cammino esistenziale, che, dalla purezza della fede autentica dell’infanzia, lo ha condotto al nihilismo finisecular. Se la filologia d’autore ci insegna a non illuderci di poter afferrare il telos ultimo di ogni atto scrittorio minimo (e questo discorso vale a fortiori per la velleitaria ricerca dell’intentio auctoris), ciò non esclude che dallo studio dell’avantesto di un’opera si possano ricavare interessanti informazioni sul conto dell’usus scribendi di uno scrittore, sui meccanismi logici, ‘ideogonici’ (con questo neologismo mi riferisco ai processi che sottendono alla genesi di un concetto) e mitopoietici, studiando l’evoluzione del pensiero attraverso le diverse stesure e i vari stadi elaborativi. Certo, è bene smontare troppo facili entusiasmi che certa critique génétique ha mostrato in materia. Tuttavia, sono del parere che dalla collazione sia di stesure plurime, sia di intratesti di un mosaico avantestuale in senso più largo, si possano –spesso– avanzare ipotesi interessanti e non necessariamente infondate. Il materiale pre-redazionale che sarà qui analizzato non appartiene alla seconda categoria che si può presentare all’attenzione di un filologo d’autore: il mosaico avantestuale di Del sentimiento trágico de la vida, in particolare, è una ‘fitta boscaglia’ in cui non è affatto facile districarsi. Si cercherà, dunque, di proseguire l’indagine del pre-testo della summa filosofica di Unamuno per eccellenza avviata da Tanganelli (che per primo si per primo si è occupato di Meditaciones evangélicas, srotolando il nascosto filo rosso che unisce il Diario íntimo al Del sentimiento trágico). Più precisamente, si vaglieranno i rapporti intratestuali che collegano, o sarebbe meglio dire ‘intricano’, le Meditaciones evangélicas, l’abbozzo di un progetto abbandonato dal titolo A la juventud hispana e il Tratado del amor de Dios (definito da Unamuno stesso un «ensayo de filosofía de la muerte»). ! (! L’analisi si articolerà in due macrosezioni: la prima comprende una panoramica introduttiva sullo stato dell’arte nel campo della variantistica italiana e della genetistica francese, in cui vengono messe a confronto due realtà e due filosofie diverse, ma non incompatibili (e, forse in parte, complementari). A questa prima parte fanno eco il capitolo 1, in cui si ripercorre l’iter evolutivo che porta dalle Meditaciones a Del sentimiento, ed il capitolo 2, dove sono analizzati gli intratesti che legano inestricabilmente (e attraverso rapporti di interdipendenza) le Meditaciones, A la juventud e il Tratado a Del sentimiento; il terzo capitolo della prima macrosezione, infine, si concentra sugli intratesti del Tratado. Nella seconda parte della tesi sono, invece, riportati i cataloghi intratestuali e la trascrizione di materiale autografo unamuniano inedito, anch’esso studiato in rapporto all’avantestualità di Del sentimiento. Questi materiali sono una base importante delle osservazioni proposte nei primi tre capitoli. In particolare, la prima appendice consiste in una pseudo-edizione di Del sentimiento, corredata in apparato degli intratesti; la seconda riporta gli intratesti che il Tratado comparte con Del sentimiento; la terza corrisponde alla trascrizione delle opere inedite (De religione e alcune carte unamuniane), mentre la quarta è un catalogo di opere e autori citati proprio all’interno di queste cuartillas.! ! )! INTRODUZIONE VARIANTISTICA ITALIANA E GENETISMO FRANCESE: DUE SCUOLE A CONFRONTO ! *! ! "+! Spartiacque epocale nella storia –non solo letteraria– dell’Occidente, l’avvento della stampa (s. XV) ha gradualmente contribuito a confinare entro il ristretto campo dell’intimità e degli affetti il manoscritto, che ha così perduto l’originaria funzione di trasmettere e veicolare un’opera. Il passaggio dal Medioevo all’età moderna, tuttavia, segna anche una ‘rifunzionalizzazione’ del manoscritto, inteso come supporto dell’atto creativo. Trivializzando, si potrebbe dire che esso divenga il santuario, il sancta sanctorum del processo scrittorio. In realtà, questa affermazione non è del tutto corretta, o almeno vera solo in parte. Ab ovo il manoscritto è stato l’unico strumento fisico d’elaborazione di un testo, senza dimenticare, d’altronde, che in passato si faceva affidamento sulla memoria molto più di oggi". Ma prima di Gutenberg (e, a fortiori, prima del 21 luglio 1793, giorno che vede sancire un principio nuovo e rivoluzionario: i diritti d’autore) i materiali di scarto che venivano prodotti nella ‘fucina dello scrittore’ destavano scarso interesse, se non nullo, e non si sentiva il bisogno di raccoglierli, archiviarli, tesaurizzarli. Ciò che contava era il testo, non chi l’aveva realizzato. È innegabile che alcuni lasciti importanti ci siano stati consegnati dalla Storia (si pensi agli abbozzi autografi del Canzoniere di Petrarca), ma si tratta di eccezioni, casi isolati. Poco o niente ci è pervenuto delle stesure preparatorie, del processo redazionale del Medioevo. Sarà l’età contemporanea (e, segnatamente, i secoli XIX e XX) a consacrare una crescita esponenziale dell’interesse per gli scritti vergati di proprio pugno da un autore, nonché della loro archiviazione, in quanto testimoni della genesi di un’opera letteraria. Le cause di questa rivalutazione sono da ricercarsi in primis nel neonato concetto di proprietà letteraria e nell’emancipazione della figura dell’autore; in secondo luogo, bisogna tener ben presente la temperie culturale ed etico-politica, influenzata dai valori nazionalistici del Romanticismo, cui si rimonta e nel quale si inscrive l’archetipo dello scrittore-simbolo#. A partire da questo momento ci si preoccupa di compulsare le carte private dei vessilliferi delle letterature nazionali, per realizzare edizioni che rendano conto delle fasi redazionali precedenti il testo definitivo di un’opera. Se in Germania gli sforzi si concentrano soprattutto sul padre della Weltliteratur, Goethe (si pensi alla notevole edizione della sua opera omnia denominata “Sophien!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 1 Cfr. A. Stussi, Introduzione agli studi di filologia italiana, Bologna, il Mulino, 1994, p. 157. Cfr. A. Stussi, op. cit., p. 160. Stussi rileva due concause principali alla base dell’interesse (deflagrato ex abrupto) che l’intelligencija letteraria europea ha riservato all’esplorazione e allo studio del ‘laboratorio dello scrittore’: da una parte, il «progressivo affermarsi della nozione di autore e di proprietà letteraria che nel decreto della Convenzione del 21 luglio 1793 assume la forma d’una “declaration de droits du génie”»; dall’altra, «il risveglio delle nazionalità e quindi l’idea che anche scrittori moderni meritino grandi edizioni come gli antichi [...] ». A partire da questo momento, «d’uno scrittore-simbolo della nazione tutto è importante e in particolare proprio gli autografi [...]». # ! ""! Ausgabe”), l’Italia assisterà a una tentacolare ramificazione di studi sul padre della lingua italiana, Manzoni (ed in particolare su I promessi sposi, di cui proliferano edizioni che mostrano l’evoluzione linguistica dalla prima versione, la “ventissettana”, alla seconda, la “quarantana”)$. Prendono forma così eterogenee tradizioni di quella disciplina, che verrà battezzata “filologia d’autore”% e che Stussi definisce come «l’insieme di metodi e problemi relativi all’edizione di opere conservate da uno o più manoscritti autografi (o idiografi), oppure da stampe sorvegliate dall’autore»&. Un’opera non nasce già formata, ma richiede –per sua natura– un periodo di gestazione (spesso) lungo, nonché sofferto e travagliato. Questo si traduce in una serie di materiali preparatori su cui sedimentano i vari stadi di elaborazione, determinando una stratigrafia sovente indistinta in molti suoi punti e difficile a ricostruirsi. Il complesso di abbozzi, minute, stesure intermedie et similia che precede la redazione definitiva costituisce il cosiddetto avant-texte, neologismo introdotto da Jean Bellemin-Noël nel 1972'. L’avantesto(, secondo la definizione che ne danno Almuth Grésillon e Jean-Louis Lebrave, è «l’insieme dei documenti che vengono prodotti nel corso della genesi del testo nella ‘fabbrica’, nel ‘laboratorio’, nello ‘studio’ dell’autore») ed ha, quindi, come campo d’indagine, tanto stesure parziali quanto scritti-satellite, che intrecciano un legame col testo di cui si intende allestire l’edizione (diari, epistolari, disegni etc.), che possono fornire interessanti informazioni a latere. Nell’affrontare la ricostruzione di un’ipotesi genetico-ermeneutica a partire dall’analisi del mosaico avantestuale, la scuola filologica italiana e quella francese hanno focalizzato la propria !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 3 Vd. A. Stussi, op. cit., p. 160-163. Cfr. D. Isella, Le carte mescolate. Esperienze di filologia d’autore.Le carte mescolate., Padova, Liviana editrice, 1987. Tra le tante definizioni di ‘filologia d’autore’ che sono state proposte è, forse, il caso di menzionare anche quella di Franco Brugnolo come «critica testuale applicata a testi con varianti d’autore, e più precisamente a opere di cui si possiedono stesure d’autore plurime, ciascuna eventualmente da più fasi elaborative (testimoniate in genere da autografi con correzioni, abbozzi, rifacimenti, ecc.) [...]». F. Brugnolo, «Filologia d’autore ed ecdotica» in Filologia e critica, 17 (1992), p. 100. Si farà nuovamente riferimento a questo articolo più avanti. 5 A. Stussi, op. cit., p. 155. ' J. Bellemin-Noël, Le texte et l’avant-texte, Paris, Larousse, 1972, pp. 12-14. 4 7 Maria Corti è stata tra i primi in Italia ad adottare e a servirsi di questo termine (M. Corti, Principi della comunicazione letteraria, Milano, Bompiani, 1976, pp. 98 e 113). Questo francesismo, d’altronde. ha goduto di un successo internazionale ed è stato preso a prestito, oltre che in Italia, anche dai filologi delle aree ibero-romanze (e non solo): in Spagna e America latina, per esempio, è stato tradotto con ‘pre-texto’; in Brasile si parla di ‘proto-texto’. Cfr. A. Stussi, op. cit., p. 168. ) A. Grésillon e J.-L. Lebrave, Manuscrits-Écriture. Production linguistique, in «Langages», 69 (1983), p. 7. Cfr. A. Stussi, op. cit., p. 168. ! "#! attenzione su momenti e aspetti della scrittura in progress divergenti, spesso dicotomici, provenendo da due tradizioni parallele fortemente caratterizzate. Come ha osservato Segre*, tuttavia, si può convenire sul fatto che «gli studi condotti in Italia nel Novecento sulle varianti d’autore, e quelli francesi sulla genesi dei testi, rappresentino due àmbiti affini e complementari», ancorché si ravvisino differenze evidenti: la critica genetica si occupa principalmente delle «trasformazioni contenutistiche [...] in fasi successive nettamente differenziate nella loro globalità, o persino in movimenti elaborativi macroscopici»"+; la variantistica è, invece, orientata allo studio delle «varianti apportate a un testo, sia nel corso della sua stesura, sia attuando ritocchi migliorativi a testo terminato»"" (in poche parole, alle “trasformazioni formali”). !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 9 C. Segre, “La genesi del testo: critica delle varianti e critica genetica” in La costruzione del testo in italiano. Sistemi costruttivi e testi costrutti. Atti del Seminario Internazionale di Barcellona (24-29 aprile 1995), a cura di María de las Nieves Muñiz e Francisco Amella, Firenze, Franco Cesati Editore, 1995, p. 12. 10 Ibidem. 11 Ibidem. ! "$! La scuola italiana La filologia d’autore italiana affonda le proprie radici in una solida tradizione ecdotica di lungo corso, basata sullo studio delle varianti. Nel 1501 Pietro Bembo dà alle stampe presso Manuzio un’edizione critica del Canzoniere"# di Petrarca sulla base delle minute e delle copie in pulito che si era procurato e nel 1525 ne commenta le varianti nelle Prose della volgar lingua"$. In ambito italiano gli archivi di manoscritti che testimonino il processo scrittorio in fieri risalgono al Medioevo (basti pensare alle redazioni olografe o apografe di opere di Petrarca e Boccaccio). In seguito all’edizione aldina di Bembo, si accostarono allo studio degli autografi petrarcheschi anche Bernardino Daniello, che nella sua edizione del Canzoniere"% del 1549 accluse un “apparato d’autore”, e Ludovico Beccadelli (1559)"&. Già a partire dal XVI secolo la filologia italiana si occupa delle cosiddette varianti d’autore e nasce così la variantistica. Un secolo più tardi (1642) Federico Ubaldini pubblica le minute del Canzoniere, dando vita, con tutta probabilità, alla prima edizione genetica della storia"'. Da allora, studi sulle varianti ed edizioni genetiche “all’italiana” sono germinate e si sono moltiplicate “nel bel paese là dove ‘l sì suona”, sino ad arrivare ai giorni nostri. Ma, diversamente da quanto avvenuto in Francia (dove la nascita della genetistica si è accompagnata a una contestuale riflessione teorico-metodologica), in Italia si è dovuto attendere il secolo scorso prima che venisse avviata una sistematizzazione critica delle acquisizioni sino a quel momento raccolte lungo secoli di prassi, cercando e trovando risposte a questioni e problemi che si !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! Del Canzoniere petrarchesco si dispone di una minuta (Vat. lat. 3196) e di una copia in pulito definitiva (Vat. lat. 3195), oltreché delle fasi intermedie di elaborazione «documentate da manoscritti non autografi, ma di sicura attendibilità» (cfr. C. Segre, op. cit., p. 14). Vd. A. Romano, Il codice degli abbozzi (Vat. Lat. 3196) di Francesco Petrarca, Roma, Bardi, 1955. Si vedano in particolare C. Segre, ibidem, e G. Belloni, Laura tra Petrarca e Bembo. Studi sul commento umanistico-rinascimentale al “Canzoniere”, Padova, Antenore, 1992. "# 13 Cfr. C. Vela, Le prose della volgar lingua di PIetro Bembo 1525), in Due seminari di filologia, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1999, pp. 11-26. 14 B. Daniello, SonetTi CanZONI e TriompHi di M. Francesco Petrarca con la sposizione di Bernardino Daniello da Lucca, Venezia, Nicolini da Sabio, 1549 [seconda edizione, con aggiunte e modifiche dell'autore]. "& Cfr. C. Segre, op. cit., p. 14. Beccadelli fu autore di una biografia di Petrarca, rimasta inedita all’epoca e, poi, pubblicata a più riprese nei secoli XVII e XVIII (per esempio, da Jacopo Morelli, Verona, Giuliari, 1799). Come fa notare Giovanni da Pozzo (Storia letteraria d’Italia. Il Cinquecento, Padova: Piccin, 2006, p. 922) la figura del Beccadelli «interessa soprattutto per le osservazioni sugli originali del Petrarca, sugli argomenti e datazioni di alcune liriche, per i paralleli con altre opere, specie latine»; inoltre, recenti studi condotti sul Beccadelli hanno messo in luce come siano da attribuire a lui «alcune note e varianti derivate direttamente da autografi del poeta non tutti oggi conservati» riscontrabili nell’incunabolo I B 25926 della British Library (Petrarca, Sonetti e canzoni. Trionfi., Impressum per Antonium Zarotum Parmensem, 1473). Cfr. anche G. Frasso, Studi sui “Rerum vulgaria fragmenta” e i “Triumphi” I, Francesco Petratca e Ludovico Beccadelli, Padova, Antenore, 1983. "' ! Le rime di M. Francesco Petrarca estratte da un suo originale [...], Roma, Stamperia del Grignani, 1642. "%! sono presentati via via ai filologi, e di sciogliere i nodi teorici strettamente legati alla pratica della variantistica. Pur essendo una disciplina relativamente (e anche in senso assoluto) “giovane”, la genetistica francese si è affacciata alla problematica teorica sin dai suoi albori, mentre per quanto riguarda la variantistica italiana si dovrà attendere il XX secolo. In tal senso, non si può prescindere dal segnalare, in particolare, due date cardine: il 1934 e il 1937. Al 1934 risale la prima edizione di un’opera che segna un’epoca nel mondo della filologia neolachmanniana (o ricostruttiva): Storia della tradizione e critica del testo"( di Giorgio Pasquali, il cui ultimo capitolo, intitolato “Edizioni originali e varianti d’autore”, costituisce una pietra angolare nell’edificazione della variantistica italiana. Parenteticamente, il raggio d’azione e il campo d’interesse del Pasquali è circoscritto all’ambito della filologia classica"), dove non si può certo affermare che spesseggino le varianti d’autore o che queste possano decretarsi tali con assoluta certezza"*. Successivamente, lo stesso Pasquali mette in guardia dai troppo facili entusiasmi, che avevano indotto qualcuno ad ‘abusare’ del nuovo concetto operativo (applicandolo anche quando “le condizioni della tradizione non consentivano di usarlo legittimamente”#+) e invita ad un atteggiamento più cauto, riflessivo e meno spregiudicato#". Per quanto possa sembrare un paradosso, è proprio dall’humus della filologia classica che alligna e germoglia la filologia d’autore e, di rimando, la variantistica o critica delle varianti. Ad !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 17 G. Pasquali, Storia della tradizione e critica del testo, Firenze, Le Lettere, 1988 (I ed. 1934). È stato Pasquali il primo ad offrire una sistematizzazione organica (si veda anche la sua recensione alla Textkritik di Paul Maas in “Gnomon”, V, 1929, pp. 417-35 e 498-521). ") Proprio alla filologia classica va riconosciuto e attribuito il merito di aver avviato una ponderazione delle questioni che scaturiscono dalla determinazione delle varianti d’autore. Vd. C. Segre, op. cit., p. 13: «Occorre ricordare che il problema è stato impostato dai filologi classici, da Brandes e Lindsay, a Diels e Jachmann [...]». Cfr. D. Isella, Le carte mescolate. Esperienze di filologia d’autore, Padova, Liviana editrice, 1987, p. 3: «Le “varianti d’autore” non sono affatto sconosciute nel campo della filologia classica. Basterebbe, chi lo volesse, riandare al quadro che ne ha magistralmente delineato la Storia della tradizione e la critica del testo di Giorgio Pasquali (1934), il cui ultimo capitolo si intitola espressamente “Edizioni originali e varianti d’autore”. Ma per i testi greci e latini [...] assai rara è la possibilità di riconoscere, tra il cumulo delle altre, varianti riferibili a una diversa volontà dell’autore stesso.» "* G. Pasquali, Storia della tradizione e critica del testo, Firenze, Le Monnier, 1952 (2ª edizione riveduta e corretta, 1978), p. XXI. #+ 21 Cfr. D. Isella, op. cit., pp. 3-4. Esempi -per quanto rari- di correzioni d’autore sono attestati nel mondo classico, segnatamente in epoca tarda (è il caso di un inno epico greco a Dioniso tramandato da un papiro del III d.C. o di un componimento del poeta greco Dioscoro del VI sec.). Dati testuali e notizie storiche documentano, poi, la presenza di più esemplari e stadi redazionali di una stessa opera (si pensi alle epistole di Cicerone, Marziale, Ausonio). Di notevole interesse, poi, il carteggio tra San Girolamo e Sant’Agostino: collazionando i due epistolari (pubblicati autonomamente) è possibile riscontrare numerosi interventi e rimaneggiamenti, realizzati da San Girolamo non solo sulle proprie lettere ma anche su quelle del suo corrispondente. Si veda in proposito C. Segre, op. cit., p. 13. ! "&! ogni modo, tre anni più tardi arriverà un contributo fondamentale, anzi fondante, da un filologo e critico## d’eccezione. Nel 1937, infatti, Gianfranco Contini pubblica “Come lavorava l’Ariosto”#$, prima codificazione e riflessione sistematica intorno a questioni teoriche che scaturiscono dall’esperienza di stesure plurime di uno stesso autore o, ut ita dicam, di quel groviglio che saggiamente e a buon diritto Dante Isella#% chiama le “carte mescolate”. È, questo, il primo, solido ubi consistam. Da questo momento si comincia a parlare di “critica delle varianti”, che in tono spregiativo Benedetto Croce definirà “critica degli scartafacci”#&. La critica delle varianti è legata a doppio filo alla figura di Contini e fonde le competenze e le acquisizioni del filologo romanzo, da un lato, e del critico letterario, dall’altro. Il discrimine tra scuola italiana e scuola francese consiste nel diverso oggetto di studio: se i genetisti si prefiggono come obiettivo la scrittura in progress (ossia il processo creativo tout court), il cuore dell’indagine per i variantisti è il testo considerato nella sua dimensione evolutiva, in itinere. Di riflesso, le due correnti presuppongono due filosofie a priori antipodiche, che, tuttavia, trovano (tanto nelle teorizzazioni quanto nella pratica) punti di convergenza. L’approccio continiano allo studio delle varianti non ha preso le mosse da un preconcetto teorico a monte, ma si è andato formando nel corso degli anni, sulla base di considerazioni !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! Grazie a Contini, prende ad intercorrere tra filologia e critica un vimineo, continuo conversare, e s’instaura così un «rapporto d’identità tra i due poli del sintagma.» (Vd. D. Isella, op. cit., p. 4). ## 23 G. Contini, Come lavorava l'Ariosto [1937], in Gianfranco Contini, Esercizî di lettura, Torino, Einaudi, 1974. Sulla scia di questa riflessione teorica e metodologica sulla prassi ecdotica (e sulle ormedi alcune pioneristiche ‘prove d’artista’, di cui le edizioni leopardiane di Moroncini a partire dal 1927 ne sono un caso esemplare) >si pongono, giusto per citare alcuni esempi significativi, l’edizione della Gerusalemme liberata di Lanfranco Caretti (1957); gli apparati critici delle varianti de L’allegria, Il sentimento del tempo e Poesie disperse di Ungaretti a cura di Giuseppe De Robertis (1945); l’edizione del Giorno di Parini approntata da Dante Isella (1969); l’edizione delle Myricae pascoliane curata da Giuseppe Nava (1974); l’edizione dei Canti leopardiani di Emilio Peruzzi (1981); l’edizione delle Odi barbare di Gianni Papini (1988) e, dello stesso anno, l’edizione di Alcyone Pietro Gibellini etc. Q.v. F. Brugnolo, op. cit., pp. 105-106. 24 Cfr. D. Isella, op. cit., pp. 4-17. Isella, con perizia da cesellatore, ricostruisce ad unguem gli apporti continiani alla ‘filogenesi’ della variantistica, che cala nella fervida e dialogante temperie culturale dei decenni a cavaliere della metà del Novecento, ripercorrendo puntualmente le tappe decisive di una scienza tutta (o, perlomeno, precipuamente) italiana. #& Cfr. G. Contini, La critica degli scartafacci, in Gianfranco Contini, La critica degli scartafacci e altre pagine sparse, Pisa, Scuola Normale Superiore, 1992. L’articolo apparve nel 1948 su «La rassegna d’Italia» III. n. 10 e n. 11. Contini ivi impugna la venefica e derisoria definizione di Croce, e, risemantizzandola, la riscatta e volge in positivo. In Illusione sulla genesi delle opere d’arte documentabile dagli scartafacci degli scrittori (1947) Croce aveva criticato e contestato apertamente la posizione di Giuseppe de Robertis, che in suo articolo intitolato Nel segreto del libro (in «Risorgimento liberale», 22 settembre 1946) si ergeva ad araldo della lecita utilità della variantistica, contrapponendosi alla ferma condanna dell’edizione de Gli sposi promessi di Giuseppe Lesca (1915) da parte di Ernesto Giacomo Parodi. Il vero, velato bersaglio polemico dell’invettiva crociana, tuttavia, era proprio Contini. ! "'! pragmatiche a partire dal materiale avantestuale analizzato, sia di tradizione italiana che della letteratura francese moderna. Ne consegue che la ‘poetica’ lato sensu di Contini in fatto di ecdotica di materiali preparatori è disseminata passim nel complesso della sua produzione saggistica e critica. In Varianti ed altra linguistica (1970) e in Esercizi di lettura (1973) si offre una panoramica completa ed esaustiva degli approdi continiani. Il 1937 è una data fondamentale: Santorre Debenedetti cura l’edizione de “I frammenti autografi dell’Orlando furioso”#'. Non si tratta di una semplice edizione diplomatica, ma dell’edizione critica vera e propria di una particolare fase elaborativa intermedia del poema ariostesco, collazionata con l’edizione critica dell’opera definitiva (allestita dallo stesso Debenedetti nel 1928), che tiene conto delle tre versioni del Furioso (1516, 1521, 1532)#(. L’intento di Debenedetti è quello di mostrare un momento del processo compositivo, nonché la dinamica dialettica tra tappa intermedia e testo finale. È questa la ‘profasis’, l’occasione che dà il la alle considerazioni teoriche di Contini. Nello stesso anno, infatti, viene pubblicato “Come lavorava l’Ariosto”, commento all’edizione di Debenedetti e prima goccia nel mare magnum delle teorizzazioni continiane in materia di scrittura in progress. Proprio con questo saggio prende l’abbrivo la riflessione sul testo come prodotto di una elaborazione in divenire e sul processo stesso di gestazione di un’opera. Qui Contini osserva che esistono «due modi di considerare un’opera di poesia: v’è un modo, per così dire, statico, che vi ragiona attorno come su un oggetto o risultato, e in definitiva riesce a darne una descrizione caratterizzante; e v’è un modo dinamico, che la vede quale opera umana o lavoro in fieri, e tende a rappresentarne drammaticamente la vita dialettica». Detto altrimenti, si propongono due approcci metodologici: il modo statico valuta il proprio oggetto d’indagine in termini di sincronia; il modo dinamico in termini di diacronia. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 26 I frammenti autografi dell’Orlando furioso, a c. di S. Debenedetti, Torino, Chiantore, 1937. Già a partire dal Cinquecento le varianti del poema epico-romanzesco dell’Ariosto furono oggetto di commenti, come quelli di Simon Fòrnari (1549) e Giovan Battista Pigna (1554). Cfr. C. Segre, op. cit., p. 15. 27 ! "(! Seppure dalla prospettiva di un filologo romanzo (italiano, a tacer d’altro) interessato all’edizione critica d’un manoscritto d’autore, è fuor di dubbio che qui Contini prefiguri il concetto di scrittura in progress ed anticipi o, per così dire, preconizzi “il principio della virtualità testuale”#). E Contini prosegue così il suo ragionamento: «Il primo [il modo statico] stima l’opera poetica un “valore”; il secondo [il modo dinamico], una perenne approssimazione al “valore” [...]». La scrittura è considerata, insomma, non già come mera tensione teleologica o come streben asintotico indirizzato al raggiungimento di un optimum o dell’opus perfectum, che corrisponde a quell’inconsistente, impalpabile ectoplasma che va sotto il nome di intenzione dell’autore. Il processo scrittorio è come un torrente che lascia dietro di sé una serie di sedimenti prima di sfociare nella stesura definitiva (che, spesso, non coincide con la volontà ultima, ma finisce per essere un aleatorio compromesso dettato dal concorso di contingenze e fattori intrinseci ed estrinseci). La redazione di uno scritto di qualsiasi natura (prosa, poesia, saggio, romanzo etc.) presuppone e determina revisioni, rimaneggiamenti, emendamenti, aggiunte, rinunce et alia. A questo proposito Contini individua due momenti salienti, due operazioni all’interno della fase genetica di un testo: «In un caso, i rapporti dall’essere al non-essere poetico, l’inventio delle vecchie arti retoriche, la scoperta o rivelazione del fantasma in relazione allo stato d’attesa, la progressiva identificazione di esso (per lasciar da lato la triviale illusione che possa impararsi attraverso simili studi una tecnica evocatoria, quasi che la poesia non fosse un “valore” e perciò un dato “creato”); in un altro, le vere e proprie “correzioni”, cioè la rinuncia a elementi frammentariamente validi per altri organicamente validi, l’espunzione di quelli e l’inserzione di questi»#*. Per Contini, solo le varianti sostitutive possono essere studiate; le varianti istaurative, invece, non godono dello stesso statuto. Sono, dunque, le correzioni a circoscrivere il terreno d’indagine e a determinare l’oggetto di studio della filologia d’autore. Contini, poi, parla di “processi antialessandrini”, ossia strategie revisionali e costanti che soggiacciono alla metamorfosi della scrittura ariostesca, individuate e dimostrate attraverso una scrupolosa e attenta disamina della copiosa casistica. Il dato forse più interessante registrato da !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! #) Élida Lois, Cómo editar la literatura latinoamericana del siglo XX, Poitiers, CRLA-Archivos, 2005, p. 69. 29 G. Contini, Esercizi di lettura, Firenze, Le Monnier, 1937, pp. 311-312. ! ")! Contini (che a tal proposito chiama in causa lo stesso Croce) è che queste , per dirla con Élida Lois, “logiche di trasformazione”$+ vanno di pari passo con “la migliore descrizione caratterizzante che sia stata data fin qui della sua poesia”$". Debenedetti, da par suo, si era limitato semplicemente a sostenere l’assenza di sistematicità nell’evoluzione della scrittura dell’Ariosto a partire da un abbozzo precedente. Quattro anni più tardi, la pubblicazione di un facsimile degli abbozzi delle Rime petrarchesche come sforzo congiunto della Biblioteca Vaticana e dell’Accademia dà modo a Contini di tornare sulla questione della scrittura poetica come realtà in movimento nel suo “Saggio d’un commento alle correzioni del Petrarca volgare”$# del 1943, e di preconizzare alcune intuizioni della genetistica francese (riconoscendo in Mallarmé e Valéry i pionieri di un nuovo modo di intendere la poiesis): «La scuola poetica uscita da Mallarmé, e che ha in Valéry il proprio teorico, considerando la poesia nel suo fare, l’interpreta come un lavoro perennemente mobile e non finibile, di cui il poema storico rappresenta una sezione possibile, a rigore gratuita, non necessariamente l’ultima»$$. Dall’analisi del materiale petrarchesco Contini desume un preciso disegno, all’interno di un reticolo di costanti di cui è intessuto un processo genetico fondato su un sistema dinamico di pesi e contrappesi$%. Fermo restando che la variantistica italiana applicata a materiale preparatorio autografo non è, per così dire, una mera propaggine dell’ecdotica tout court e, di conseguenza, un apparato di varianti ‘genetico’ è –anche nella sostanza– difforme da un apparato di varianti ‘classico’; tuttavia, secondo Élida Lois$& (che adotta la prospettiva dei genetisti francesi), quando ci si trova di fronte ad avantestualità complesse, si può parlare –non a torto– di escursioni nell’ambito genetico (si propone a sostengo di questa tesi l’esempio di alcuni studi continiani dedicati a Proust$' o –e non è un caso– proprio a Mallarmé$(). !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 30 Cfr. É. Lois, op. cit., pp. 69-70. Cfr. G. Contini, op. cit., p. 321. 32 In Contini, Varianti e altra linguistica. Una raccolta di saggi (1938-1968), Torino, Einaudi, 1988, pp. 5-31. 33 Ibid. p. 5. $% Ibid. p. 30: «Sono tessere, ma di queste tessere Petrarca compone il suo mondo; come se gli fosse stato assegnato un totale fisso di materiali, e il suo lavoro si riduca a un optimum di collocazione.» 31 35 $' Cfr. É. Lois, op. cit., p. 70. G. Contini, “Introduzione alle “paperoles” [1947] in Id., Varianti e altra linguistica, cit., pp. 69-110. 37 G. Contini, Sulla trasformazione dell’«Après-midi d’un faune» [1947] in Id., Varianti e altra linguistica, cit., pp. 69110. ! "*! Cionondimeno, questa rischia di essere una generalizzazione sommaria e perniciosa, giacché numerose edizioni e studi (tra cui è doveroso citare i lavori di Isella sul Fermo e Lucia$) e alcuni articoli sul modus scribendi gaddiano$*) mostrano chiaramente come anche il versante cisalpino si sia ‘sporcato le mani’ con l’inchiostro degli intricati e indecifrabili scarabocchi della produzione currenti calamo, riesumando materiali inediti -abbandonati dall’autore- di grande interesse. Altro tassello importante nella ricostruzione delle teorie di Contini sulla scrittura in progress è il saggio “Implicazioni leopardiane”%+ (1947), dove sono indicate tre categorie o tipologie di trasformazione testuale in sede di elaborazione. Anzitutto, Contini enuclea un tipo di modificazioni legate da un palese fil rouge a passi o loci intestini, cioè presenti nella medesima stesura o opera e, dunque, riconducibili al principio dell’intratestualità; Contini, poi, individua tutte quelle emendationes connesse con il clima culturale e, da ultimo, con la produzione personale precedente (in questi ultimi due casi si tratta, di contro, di cambiamenti di carattere intertestuale)%". Nel 1948 viene pubblicato un articolo dal titolo “La critica degli scartafacci”%#, pagina importante nella storia della filologia d’autore (per diverse ragioni), in cui Contini, facendo !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 38 I promessi sposi, edizione critica diretta da Dante Isella, Prima minuta (1821-1823). Fermo e Lucia, a cura di Barbara Colli, Paola Italia, Giulia Raboni. I.1. Testo; I.2. Apparato critico, Milano, Casa del Manzoni, 2006. Vd. C. Segre, “Dante Isella, inseguire la vita oltre i testi”, Corriere della sera, 7 maggio 2009, p. 53: «Isella, molto più appassionato alla ricerca di autografi - basti pensare agli imponenti scavi per il recupero dei materiali di Gadda - e poi alla lucidissima ricostruzione delle fasi elaborative delle opere (soprattutto per il Giorno di Parini e per il Fermo e Lucia di Manzoni), sul piano teorico rimase a lungo nel perimetro disegnato da Contini, anche per quanto riguarda la stilistica, disciplina di riferimento per queste ricerche [...]». Cfr. P. Italia, Gli apparati gaddiani, in Due seminari di filologia, Alessandria, Edizioni dell’orso, 1999, pp. 51-70. Paola Italia individua “tre buone ragioni” alla base della centralità di Gadda nell’ecdotica genetica italiana. In primo luogo, la complessa vicenda editoriale di testi “pensati e scritti in decenni precedenti”, la cui reviviscenza è stata favorita, o meglio, resa possibile dal successo di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana (1946). La seconda ragione rimanda alla specificità della scrittura di Carlo Emilio Gadda, che «diventa quel mirabile congegno, solo alla fine di un percorso tortuoso e dall’andamento sincopato, con accelerazioni improvvise [...] e improvvisi arresti, ingorghi di parole»; una scrittura, quella gaddiana, che si riflette in un travagliato e opaco specchio equoreo di cassature e ripensamenti (Paola Italia parla giustamente di “pagine-geroglifici”), da cui spesso riaffiorano «doni di straordinaria felicità creativa ». Infine, la terza ‘buona ragione’ è legata alla «prassi ‘conservativa gaddiana [...] che si riverbera anche nella scrittura», e che ha prodotto, da una parte, la formazione di un corpus di materiali autografi e pre-redazionali vastissimo; dall’altra, una selva di interventi correttori-instaurativi e di fasi elaborative da cui risulta difficile districarsi. Si ricordi, che, a differenza di quanto succede in Verga, «la genesi del testo gaddiano non procede per ‘sostituzione’ [...] ma si evolve per ‘instaurazione’, per aggiunta di singoli elementi testuali, che concrescono su un nucleo originario; spesso un grezzo troncone in cui, però, è già racchiusa l’idea-guida del brano, quella che ne contiene, in sintesi, la colata di digressioni e i rivoli testuali.» $* 40 G. Contini, «Implicazioni leopardiane», in Varianti ed altra linguistica, Torino, Einaudi 1970. Ibid., p. 42. Segre interpreta le correzioni del primo tipo (quelle che per Contini “rinviano ad altri passi del medesimo componimento”) come interventi tesi ad un «miglior equilibrio stilistico [...] del testo studiato», mentre indica come scopo letante e intrinseco agli emendamenti del secondo e terzo tipo «l’omeostasi del sistema linguistico-stilistico del poeta», che «investono, nella sincronia, tutti i suoi testi.» Cfr. C. Segre, op. cit., p. 16. 42 G. Contini, La critica degli scartafacci [1948], in Id., La critica degli scartafacci e altre pagine sparse. Con un ricordo di A. Roncaglia, Pisa, Scuola Normale Superiore, 1992. 41 ! #+! ironicamente sua la spregiativa dicitura crociana, risponde alle accuse mossegli da Nullo Minissi %$ circa l’unidirezionalità delle correzioni, rendendo più duttile la nozione di “sistema”, e allontanando così dalla critica delle varianti velleità teleologiche%%. Anzitutto, le considerazioni avanzate a proposito di Leopardi vengono estese alle redazioni plurime: postulando come exemplum fictum che si abbia a che fare con due ipotetiche stesure successive (indicate con le lettere A e B), si afferma che «solo la collazione dei validi A e B può differenziare, e con ciò qualificare adeguatamente, non solo A, che per tal modo si recupera, ma B, per definizione esposto in luce quotidiana [...] sia che A possegga una validità frammentaria organizzata e superata in B [...] sia che A [...] abbia una validità organica rinunciata per l’altra pure sistematica di B.»%& Segre, nel glossare con un acutissmo scolio queste osservazioni continiane, si spinge oltre e arriva ad estendere il principio di fondo al testo, considerato singolarmente, su cui si siano stratificate più correzioni in diversi momenti elaborativi%', precisando che «la successione o sovrapposizione di testi non toglie che l’immediatezza dei passaggi permetta di considerare l’opera come unica, e soggetta a mutamenti interni costituiti dai vari testi.» Altri contributi importanti sono venuti, poi, da Cesare Segre%(. Partendo da presupposti strutturalisti (Segre mostra di apprezzare l’impianto saussuriano del discorso di Contini), propone un’analisi delle varianti che distingua due momenti: l’uno, sincronico, prende in considerazione l’ordito di tensioni e relazioni che va a formare la singola tappa testuale; l’altro, diacronico, mette in relazione le fasi succesive d’un testo in seno al tessuto ‘avantestuale’. In altre parole, si potrebbe dire che nella prospettiva di Segre la filologia d’autore preveda lo studio di una diacronia di sistemi sincronici. «Il testo» -secondo Segre- «è il risultato di uno sviluppo, di cui ci sono sottratte molte, talora tutte le fasi.»%) Non bisogna, dunque, cedere alle illusorie lusinghe di una fantafilologia che creda possibile ricostruire o recuperare in toto «i meccanismi mentali che sovrintendono alle connessioni di concetti e immagini, poi di parole e ritmi, sino alla realizzazione linguistica, e metrica», posto che sarebbe come cercar di raggiungere una fata morgana. Finiremmo per muoverci in una sorta di !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 43 N. Minissi, “Le correzioni e la critica”, Belfagor, III, gennaio 1948, pp. 95-96. Cfr. É. Lois, op. cit,, p. 71. 45 G. Contini, op. cit., p. 29. 46 C. Segre, op. cit., p. 17: «A rigore, si potrebbe dire che anche in un testo con correzioni abbiamo di fronte, in termini linguistici, successivi testi sovrapposti nel medesimo spazio e individuabili, per astrazione, come strati successivi [...] ». %( C. Segre, «Système et structure d’un ‘canzoniere’», in Recherches sur les systèmes significants. Symposium de Varsovie 1668, presenté par J. Ray Debove, La Haya-París, Mouton, 1973, pp. 373-378. 44 48 Cfr. C. Segre, “La genesi del testo: critica delle varianti e critica genetica” in La costruzione del testo in italiano. Sistemi costruttivi e testi costrutti. Atti del Seminario Internazionale di Barcellona (24-29 aprile 1995), a cura di María de las Nieves Muñiz e Francisco Amella, Firenze, Franco Cesati Editore, 1995, p. 11. ! #"! ‘palazzo incantato di Atlante’, mutatis mutandis, attraverso gli ingannevoli corridoi della supposizione non suffragata da riscontri e prove certe. In breve, a nulla ci condurrebbe inseguire quella che si può definire una chimera. Quel che ci è dato ricercare (e conoscere con un discreto margine di approssimazione) è, piuttosto, “lo sviluppo della fase scritta, quando possediamo abbozzi e prime copie, o quando l’opera è stata proposta successivamente in varie redazioni”%*. Posteriormente, Segre, accogliendo suggestioni dalla Scuola di Tartu, proporrà un vaglio dei materiali preparatori (o di genesi preredazionale) di un’opera dipanando e scindendo diversi sistemi (linguistici, stilistici, costruttivi ed ideologici)&+. Numerose edizioni critiche di testi e pre-testi sono state approntate sulla scia dell’esperienza e dell’insegnamento teorico continiani, in special modo di poeti italiani come Pascoli, Ungaretti e Campana. Riguardo a quest’ultimo val forse la pena di fare memoria di alcuni importanti ed esemplari lavori di De Robertis, come Taccuinetto faentino&" e Il più lungo giorno&#. Un organico quadro complessivo delle metodologie adottate e attuate per far fronte alle questioni ecdotiche, che discendono dalle problematiche di rappresentazione ed interpretazione delle varianti (e a maggior ragione delle invarianti), è stato delineato inter alios da Furio Brugnolo in un suo articolo intitolato “Filologia d’autore ed ecdotica”&$, in cui si restituisce un’idea chiara e documentata delle radici e delle acquisizioni della «critica testuale applicata a testi con varianti d’autore»&%, nonché degli ostacoli che essa incontra sul suo cammino nel momento in cui direziona la propria lente all’iter elaborativo di un testo (dal primo getto alla eventuale stesura definitiva), passando attraverso stadi embrionali (gli abbozzi ‘incoativi’) ed intermedi (le varie e stratificate redazioni autografe) fino –ma non necessariamente– alla versione a stampa. Brugnolo insiste in particolare sul rapporto testo-apparato critico, e sul problema della rappresentazione (e raffigurabilità) della varianza di un testo sul piano spazio-temporale, e della sua elucidazione, partendo dal presupposto che “un autografo fitto di correzioni o l’insieme delle varianti redazionali di un’opera” costituiscono –ricorrendo ad un concetto caro a Segre– un !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 49 Ibidem. Ibidem. Vedi anche C. Segre, «Critique des variantes et critique génétique», in Genesis, manuscrits, recherche, invention, nº 7, 1995, pp. 29-45. &+ 51 G. De Robertis, Taccuinetto faentino, Fidenze, Valecchi, 1960. G. De Robertis, Il più lungo giorno, Fidenze, Valecchi, 1973. 53 F. Brugnolo, op. cit., pp. 100-106. 54 Ibid., p. 100. 52 ! ##! “diasistema”&& (o coesistenza di sistemi simultanei sovrapposti e/o interrelati) in cui ogni tassello concorre a definire lo sviluppo o successione testuale nel suo complesso. Pur evidenziando l’assenza di “una unificazione dei metodi e delle procedure” (dunque, di una pratica condivisa) all’interno della filologia d’autore, e pur specificando la mancanza di una “sistematizzazione organica –nonché manualistica– della vasta materia”&', Brugnolo illustra alcuni capisaldi teorico-pratici. Riconoscendo nella recensio l’imprescindibile punto d’avvio di ogni studio di filologia d’autore, Brugnolo pone l’accento sulla precipua dissomiglianza che intercorre con la filologia che studia i testimoni di una tradizione e quella che studia, invece, le varianti redazionali: in questo caso si tratta di analizzare non solo ciò che orbita intorno ad un testo, ma anche l’insieme delle diverse fasi elaborative che lo precedono (compreso il cosiddetto “avantesto”). Si dovranno, perciò, prendere in esame tutti gli interventi autoriali «prima e dopo l’eventuale pubblicazione»&(. Brugnolo, poi, isola tre distinte situazioni che l’editore può trovarsi a dover affrontare e dirimere, per ipotesi ermeneutica in risposta alla “varia scriptio”&) dell’elaborazione testuale: un’opera giunta ad uno stadio definitivo contestualmente all’esistenza di stesure e abbozzi precedenti; la presenza di più stesure di un progetto mai addivenuto a compimento; infine, più redazioni di un testo che, una volta pubblicato (o ultimato), viene recuperato ed emendato. Tenendo conto di questo ventaglio di possibilità, Brugnolo indica una triade di modalità d’edizione genetica&*: 1) il modello testo-apparato'+ (ereditato dalla filologia classica), che si diversifica a seconda del tipo di varianti esaminate '"; 2) la trascrizione critica integrale'#; 3) !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 55 Cfr. C. Segre, La critica testuale, in AA.VV., Atti del XIV Congresso internazionale di Linguistica e Filologia romanza, Napoli 15-20 aprile 1974, Macchiaroli, 1978, vol. I pp. 493-99; Id., Critica testuale, teoria degli insiemi e diasistema, in Id., Semiotica filologica. Testo e modelli culturali, Torino, Einaudi, 1979, pp. 64-70. 56 È opportuno (e affatto supervacaneo) ricordare, tuttavia, i succitati Le carte mescolate di Isella (menzionato anche da Brugnolo accanto a G. Capovilla, Per le ‘Odi barbare’, in «Rivista di letteratura italiana», VIII 1990, pp. 337-436, a p. 18) e l’Introduzione agli studi di filologia italiana di Stussi: due pilastri ineliminabili. 57 Cfr. F. Brugnolo, op. cit., p. 102. 58 Concetto che per analogia ricalca quello di varia lectio proprio del metodo lachmanniano. Cfr. F. Brugnolo, op. cit., p. 104. 59 Detta anche ‘edizione storico-critica’ secondo la nomenclatura di ambito germanofono (historisch-kitische Ausgabe in tedesco). Cfr. G. Martens, «Historisch», «kritisch» und die Rolle des Herausgebers bei der Textokonstitution, in «Editio», 5 (1991), pp. 12-27. Giuseppe Tavani, apponendo una specificazione non trascurabile, parla di «edizione critico-genetica» (Vd. G. Tavani, L’edizione critico-genetica dei testi letterari: problemi e metodi, in Venezia e le lingue e letterature straniere, Roma, Bulzoni, 1991, pp. 323-31. Cfr. A. Stussi, op. cit., p. 189. 60 Il paradigma testo-apparato è un prestito dell’ecdotica neo-lachmanniana. Cfr. A. Stussi, op. cit., p. 189. 61 Ibidem. Brugnolo distingue tra apparato genetico (in cui si registrano le varianti “instaurative”, relative all’elaborazione del testo) e apparato evolutivo (che considera le varianti “sostitutive”, quanto a dire tutte quelle modifiche apportate al testo-base che determinano un nuovo testo). 62 Ibid., p. 103. Questo tipo di edizione può essere “eventualmente corredata da riproduzioni fotografiche degli originali”. ! #$! l’edizione “sinottica”'$. All’interno di questa suddivisione vi è, poi, un variegato spettro di sfumature tipologiche'%. I primi due tipi, di cui si avvale l’editore che si cimenti principalmente con testi in prosa, fanno capo ad un concetto più ampio di ‘rappresentazione lineare’'&: si parla di rappresenazione lineare ‘parziale’ nel caso della forma testo-apparato e di rappresentazione lineare ‘integrale’ per quanto concerne la trascrizione diplomatica''. Quanto all’ultimo tipo, esso può, ad esempio, concretarsi come ‘rappresentazione in colonna’'( o come ‘rappresentazione scalare’') (due fattispecie dell’edizione sinottica), e a livello grafico si adatta perfettamente alle esigenze della poesia. Entro questa cornice si colloca una duplice esigenza, su cui Brugnolo si sofferma in modo particolare, afferente l’edizione critica di un testo: da un lato, la restituzione quanto più organica e completa (fedeltà ricostruttiva) del processo gestatorio; dall’altro, la “fruibilità e leggibilità da parte dell’utente” del prodotto finale (economia rappresentativa). Onde evitare disproporzioni, è raccomandabile convogliare queste due istanze in un unico e temperato amalgama in cui nessuno dei due componenti prevalga sull’altro. A tale scopo, tutti quegli strumenti di critica testuale tradizionali, che Brugnolo racchiude nell’espressione “verbalizzazione”'*, devono essere accompagnati o sostituiti da espedienti(+ che rendano possibile una condensazione e sintetizzazione di informazioni senza disperdere, cammin facendo, dati fondamentali per determinare quando, dove e come si è prodotta una variante e la sua relativa esegesi a fronte di una precisa strategia revisionale che investe l’opera nella sua totalità. È, questo, un presupposto irrinunciabile per identificare il perché di una correzione e costruire (o avallare) un’ipotesi(" interpretativa. Tali !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 63 Ibidem. In questo tipo di edizione tutte le fasi elaborative “sono rappresentate in parallelo sulla pagina attraverso vari accorgimenti e formalizzazioni, tutti riconducibili al principio-base della tasposizione della successione logica in successione spaziale”; in verticale si legge “la varianza di un passo”, mentre orizzontalmente gli ‘stadi testuali’. Ciò consente di ricavare una diacronia dalle sincronie successive. 64 Cfr. A. Stussi, op. cit., pp. 187-190. 65 Un’edizione che ben si presta alla resa di testi in prosa. 66 Ibidem. 67 Ibid., pp. 187-188: Stussi definisce la rappresentazione in colonna come «un tipo di rappresentazione sinottica consistente nell’incolonnare sulla pagina le fasi attraverso le quali è passato un certo verso (o segmento di prosa), dalla più antica alla più recente che si assume come testo di riferimento». 68 Ibid., pp. 188-189. Nota in Germania come Treppenapparat e in Francia come présentation en escalier, può tornare utile in presenza di varianti immediate (Sofortvarianten). In realtà, questo modello rappresentativo è poco applicato per via dell’estrema difficoltà (se non impossibilità) di rintracciare e determinare con assoluta certezza questa tipologia di varianti. 69 Ibidem. Dal commento alla nota esplicativa, passando per l’apparato descrittivo. 70 Accorgimenti tipografici e segni diacritici. 71 Dirimenti a tal proposito le parole di Domenico De Robertis: «non si ripete mai abbastanza che un’edizione critica è uno strumento di lavoro, fondata su un’ipotesi e per servire al riconoscimento di una situazione storica: che [...] nel caso di testi a tradizione d’autore [mira] alla ricostruzione e all’interpretazione della tradizione stessa [...] rendendo conto ! #%! ricorsi grafici sono, poi, indispensabili per sceverare le varie stratigrafie elaborative: in sede ermeneutica al filologo-editore spetterà l’arduo e incerto compito di fissare (o meglio, di ‘congetturare’) come queste si concatenino e interrelino l’una con l’altra, dando conto di quegli invisibili sottendimenti da esplicitare che sono le invarianti(#. Sovente, tuttavia, i dati oggettivi e materiali a nostra disposizione non sono sufficienti a decifrare una variante e precisare come questa s’inserisca nel flusso revisionale. Si renderà, allora, necessario un salto nel vuoto, un atto esegetico soggettivo fondato sullo iudicium. Non di rado l’interprete si trova a fare i conti con grovigli grafici e genetici complessi e a dover ricorrere come ultima ratio proprio al criterio della valutazione personale, segnatamente al momento di dover discernere una variante d’autore o di fronte alla necessità di far emergere l’ombra dell’intentio auctoris dal melmoso fondale avantestuale. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! della formazione ed elaborazione dell’opera, abbia questa avuta o no compimento.» Da Nota del direttore apposta a «Studi di filologia italiana», XLVIII (1990), pp. 302-03. Cfr. A. Stussi, op. cit, p. 196. 72 Ibid., pp. 104-05. Brugnolo le definisce come “quei segmenti testuali non ripetuti dall’autore ma da riproporre al lettore per permettergli di distinguere le fasi e riconoscere nello stesso tempo il rapporto che una nuova stratificazione testuale intrattiene con la precedente”. ! #&! La scuola francese Diverse definizioni di ‘avantesto’($ sono state proposte dai genetisti francesi. La parola avant-texte(% fu coniata nel 1972 da Jean Bellemin-Noël (il primo a parlare di ‘inconscio del testo’ e a introdurre il concetto di ‘textoanalyse’, peraltro) ad indicare «una certa ricostruzione di ciò che ha preceduto un testo stabilita criticamente con un metodo specifico per creare l’oggetto d’una lettura continuata rispetto al dato definitivo». Una definizione meno fumosa e più funzionale, tuttavia, è stata plasmata qualche anno più tardi da Almuth Grésillon e Jean-Louis Lebrave, che così si esprimono: «chiamiamo avantesto l’insieme dei documenti che vengono prodotti nel corso della genesi del testo nella ‘fabbrica’, nel laboratorio, nello ‘studio’ dell’autore»(&. All’interno di questa descrizione parole chiave sono ‘genesi’ e ‘testo’. Il sintagma che vengono a comporre (‘genesi del testo’) è un compendio icastico della filosofia che sta alla base del genetismo francese. Se per i filologi italiani di formazione continiana l’oggetto dell’indagine è il testo inteso come punto d’arrivo, per i genetisti quel che conta non è tanto il risultato finale quanto la fase gestatoria di un’opera o, con le parole di Alfredo Stussi, «non lo scritto, ma la scrittura, non il prodotto, ma il processo e quindi non l’edizione del testo, ma l’identificazione dei meccanismi scrittori»('. Più tardi, proprio in virtù della centralità dei brouillons e “degli atti materiali e intellettuali della creatività verbale”(( nella dinamica diacronica dell’evoluzione di un’opera, si è cominciato a !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 73 In Italia si è molto discusso sulla validità e sulla portata di questo concetto operativo. Cesare Segre, nel ricordare che «il testo è il risultato di uno sviluppo di cui ci sono sottratte molte, talora tutte le fasi» invita alla prudenza, sottolineando come «la maturazione di un’opera avviene all’interno di quella dell’autore stesso e appare nell’insieme della sua attività coeva, con interferenze tra un testo e l’altro, o tra diversi momenti di correzione di testi diversi scaglionati nel tempo.» Si arriverebbe, allora, ad un iperbolico paradosso, poiché l’avantesto verrebbe a coincidere con «tutta l’opera di un autore sino a un momento dato; ma con scarso vantaggio terminologico.» Dunque, sarebbe inevitabile incorrere in “grandi delusioni”, «se il concetto di avantesto ambisse a indicare la produttività letteraria o poetica in opera.» Cfr. C. Segre, Avviamento all’analisi del testo letterario, Torino, Einaudi, 1985, pp. 79 e 84-85. Brugnolo, dal canto suo, non nasconde alcune riserve e perplessità sul conto del significato da attribuire alla parola ‘avantesto’, chiedendosi fino a che punto questo neologismo possa estendere il suo raggio d’azione terminologico. Nel cercare di avanzare una propria proposta, Brugnolo circoscrive l’avantesto agli abbozzi e agli appunti preparatori, escluendo le stesure plurime antecedenti quella definitiva, poiché esse «costituiscono dei “testi”, sia pure in evoluzione». Cfr. F. Brugnolo, op. cit., p. 102. In sintesi, il netto discrimine tra ‘scuola italiana’ (filologia d’autore) e ‘scuola francese’ (critica genetica) sta, in massima parte, in una diversa valutazione dell’avantesto: cuore dell’indagine per questa, utile strumento da ridimensionare per quella. 74 Il tecnicismo speculare après-texte non ha goduto dello stesso successo e della stessa diffusione. Tra le poche definizione che ne sono state tracciate si veda N. Catach, Pour une édition à géométrie variable, in Problèmes de l’édition critique, Paris, Minard, 1988, pp. 23-27, a p. 26. Cfr. A. Stussi, op. cit., pp. 168-69. 75 A. Grésillon e J.-L. Lebrave, Manuscrits-Ecriture. Production linguistique, in «Langages», 69 (1983), p. 7. 76 77 ! A. Stussi, op. cit., p. 168. A. Stussi, ibidem. #'! parlare di dossier génétique() per riferirsi all’ensemble di materiali preredazionali su cui si incardina la ricostruzione dell’elaborazione di un progetto scrittorio. In Italia si è molto discusso sulla validità e sulla portata di questo concetto operativo. Cesare Segre, nel ricordare che «il testo è il risultato di uno sviluppo di cui ci sono sottratte molte, talora tutte le fasi» invita alla prudenza, sottolineando come «la maturazione di un’opera avviene all’interno di quella dell’autore stesso e appare nell’insieme della sua attività coeva, con interferenze tra un testo e l’altro, o tra diversi momenti di correzione di testi diversi scaglionati nel tempo.» Si arriverebbe, allora, ad un iperbolico paradosso, poiché l’avantesto verrebbe a coincidere con «tutta l’opera di un autore sino a un momento dato; ma con scarso vantaggio terminologico.» Dunque, sarebbe inevitabile incorrere in “grandi delusioni”, «se il concetto di avantesto ambisse a indicare la produttività letteraria o poetica in opera.»79 Furio Brugnolo, dal canto suo, non nasconde alcune riserve e perplessità sul conto del significato da attribuire alla parola ‘avantesto’, chiedendosi fino a che punto questo neologismo possa estendere il suo raggio d’azione terminologico. Nel cercare di avanzare una propria proposta, Brugnolo circoscrive l’avantesto agli abbozzi e agli appunti preparatori, escluendo le stesure plurime antecedenti quella definitiva, poiché esse «costituiscono dei “testi”, sia pure in evoluzione»80. In sintesi, (e questo è un netto discrimine tra ‘scuola italiana’ e ‘scuola francese’) nella filologia d’autore e nella critique génétique vi è una diversa valutazione dell’avantesto: cuore dell’indagine per questa, utile strumento da ridimensionare per quella. Nell’ottica francese, un’edizione ‘genetica’ deve essere integrale e riguardare tutto l’avantesto senza distinzioni tra primi, embrionali abbozzi o liste di vocaboli da una parte, e stesure vere e proprie dall’altra. Una edizione ‘critico-genetica’ (per dirla con Tavani) italiana sul suolo transalpino verrebbe classificata come édition d’inspiration génétique e chiaramente distinta dall’édition génétique pura81 (denominata anche édition critique et génétique, édition diplomatique et génetique, édition génétique exhaustive82). Almuth Grésillon rimarca in tal senso una differenza sostanziale: dal suo punto di vista, l’edizione critica “d’ispirazione genetica” mette in secondo piano le ‘varianti’, che sono estrapolate dal proprio contesto e relegate in apparato, mentre !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 78 A. Grésillon, Eléments de critique génétique. Lire les manuscrits modernes, Paris, PUF, 1994, p. 109. Cfr. C. Segre, Avviamento all’analisi del testo letterario, Torino, Einaudi, 1985, pp. 79 e 84-85. 80 Cfr. F. Brugnolo, op. cit., p. 102. 81 Cfr. A. Stussi, op. cit., pp. 170-75. 82 Cfr. M. de Biasi, Vers une science de la littérature. L’analyse de manuscrits et la genèse de l’ œuvre, nell’Encyclopaedia universalis, suppl. II, Les enjeux, Paris, Enc, Univ. Éd., 1985, pp. 466-76. 79 ! #(! l’edizione genetica francese affida all’avantesto, «diverso rispetto all’opera, ma anche diverso rispetto al ruolo di appendice», un ruolo di più ampio respiro83. Da un punto di vista teorico, la scuola francese non accetta «l’idea che si possa parlare di due fasi d’uno stesso testo distinte dall’inserimento nella seconda di varianti rispetto alla prima»84 su cui poggia la filologia d’autore, e propugna, invece, l’autonomia di ogni singola fase redazionale (compresa una copia in pulito in cui siano state apportate modificazioni minime e non sostanziali). Se questo è un discorso inappuntabile sotto un profilo logico, è indubbio che non sempre un simile orientamento metodologico produca dei risultati ‘ideali’ a livello editoriale)&: pubblicare tutto potrebbe, infatti, rivelarsi svantaggioso in presenza di stesure plurime quasi identiche, sia per lo spreco di pagine e spazio, sia per la non immediatezza nell’individuazione dei cambiamenti apportati o dei passi ripristinati, per esempio. Concrete ragioni d’opportunità possono, tuttavia, indirizzare ad una pubblicazione separata di «testi direttamente confrontabili»)'. Al di là delle considerazioni di principio -condivisibili o meno, ma comunque opinabilil’aspetto più interessante dell’edizione critica integrale (e il suo contributo più meritevole) riguarda l’estensione dell’area d’indagine ad ambiti periferici prima trascurati e, soprattutto, la sua perfetta adattabilità a situazioni complesse)(. In particolare, la focalizzazione sull’avant-texte nella sua integrità (agevolata, oltretutto, dalla graduale diffusione della “memorizzione elettronica” o digitalizzione e dell’ipertesto))) ha favorito lo studio ‘materiale’ dei manoscritti (datazione delle pagine, autenticità, etc.) anche attraverso lo sviluppo di apposite tecnologie; inoltre, sempre in ambito francese si è fatta largo, per autografi particolarmente tormentati, l’idea di sostituire la trascrizione con una riproduzione fotografica)*, o di affiancare quest’ultima a un’edizione cosiddetta diplomatica (o !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 83 Cfr A. Grésillon, «Ralentir: travaux», in «Genesis», 1 (1992), pp. 9-31, a p. 9. Cfr. A. Stussi, op. cit., p. 170. Cfr. A. Stussi, op. cit., p. 172. 85 Cfr.G. Tavani, Metología y práctica de la edición de textos literarios contemporáneos, in Amos Segala, Littérature latino-américaine et des Caraïbes du XXe siècle; Théorie et Pratique de l Édition Critique, Roma, Bulzoni Editore, 1988 pp. 65-84, a p. 71. 84 86 Cfr. A. Stussi, op. cit., pp. 171-172. Cfr. A. Stussi, op. cit., p. 170: «Il favore di cui gode tale edizione genetica integrale dipende anzitutto da ragioni di opportunità perché di molti scrittori, soprattutto moderni e contemporanei, si conservano autografi abbondanti ed eterogenei al punto che non è possibile prenderne uno come punto di riferimento e limitarsi a segnalare in cosa differiscono da tutti gli altri [...]». 87 88 Cfr. A. Stussi, op. cit., p. 172. Il ricorso al facsimile è un’opzione risolutiva di tutti quei casi di difficile leggibilità e rappresentabilità, pur denunciando alcuni limiti, sia ‘costituzionali’ che ‘occasionali’: tanto il bianco e nero (per ovvie ragioni) quanto la riproduzione a colori (per via delle inevitabili alterazioni cromatiche in fase di stampa) implicano la perdita di alcune informazioni, talora importanti; d’altra parte, è sempre bene controllare gli originali. Cfr. A. Stussi, op. cir., p. 174. 89 ! #)! ‘superdiplomatica’), in cui, attraverso determinati accorgimenti grafici, si riporta fedelmente la topografia delle parole (e di eventuali segni accessori) sul foglio. Inoltre, la riproduzione fotografica consente di non tralasciare o perdere, -come succede, invece, nel passaggio dall’autografo alla stilizzazione trascrittoria-una serie di elementi propri della scrittura currenti calamo (grafia, iconismi, disegni, calcoli, etc.). Si pensi in questo senso alle monumentali edizioni facsimilate dei Cahiers di Paul Valery*+ o alla riproduzione dell’avantesto di Joyce*". Come ricorda Élida Lois*#, Louis Hay*$ e Jean-Louis Lebrave*% convengono sul fatto che la critica genetica nasca come “risultante di una confluenza di fenomeni culturali”, tra i quali vengono evidenziati l’evoluzione tecnologica (e la diffusione) della stampa; le grandi collezioni di manoscritti moderni; lo sviluppo della linguistica e della critica letteraria. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 90 P. Valery, Cahiers, Paris, CNRS, 1957-61, 29 voll. Cfr. A. Stussi, op. cit., p. 171. J. Joyce, The James Joyce Archive, a cura di M. Groeder e altri, New-York-London, Garland, 1963-77, 55 voll. Cfr. A. Stussi, op. cit., p. 171. 92 É. Lois, op. cit., pp. 50-51. 93 Vd. L. Hay, «Nouvelles notes de critique génétique: le troisième dimensión de la littérature» in AA.VV, I Encontro de Crítica Textual: O manuscrito e as edições, São Paulo, USP, Facultade de Filosofia, Letras e Cièncias Humanas, 1985, pp. 130-144. 91 94 Vd. J.-L. Lebrave, «La critique génétique: une discipline nouvelle ou un avatar moderne de la philologie?», Genesis 1, 1992, pp. 33-72. ! #*! ! $+! CAPITOLO I DALLE ‘MEDITAZIONI EVANGELICHE’ AL ‘SENTIMENTO TRAGICO DELLA VITA’: RIESUMAZIONE DI PROGETTI-FANTASMA ! $"! ! $#! Se nel pubblicare le Meditaciones Evangélicas*& (da ora ME) Tanganelli aveva come principale proposito quello di gettare luce su un’opera fondamentale dell’avantesto di Del sentimiento trágico de la vida (da ora STV) sino a quel momento rimasta nel buio silenzio dei manoscritti conservati presso la Casa-Museo, contestualmente la sua edizione ha avuto il merito –non secondario– di non arrestarsi al mero piano ‘archeologico’, restituendo un anello di congiunzione mancante*' tra il Diario íntimo (da ora D), redatto tra il 1897 ed il 1902*(, e STV. Analizzando gli stretti rapporti intratestuali che intercorrono tra D e ME, Tanganelli ricostruisce, da un lato, la graduale evoluzione del pensiero unamuniano in un momento topico: la crisi del 1897, mettendo in evidenza i debiti di ME rispetto a D; dall’altro –e questo è, forse, l’aspetto più interessante–, delimita i confini del variopinto mosaico avantestuale di STV. Questa operazione (segnatamente nella sua dimensione esegetico-ricostruttiva) costituisce il primo passo nella determinazione di un avantesto di per sé e per sua stessa natura molto difficile da schematizzare e da ridurre a un disegno nitido e ben definito*), rispondendo a un’esigenza di chiarezza all’interno del calderone di abbozzi e progetti abbandonati che preludono all’opera massima della filosofia spagnola primonovecentesca (o, quanto meno, di quella unamuniana). Si tratta ora di definire a quali esiti abbia dato luogo ME, tanto negli autografi posteriori (che sono in seguito riemersi in STV), quanto nello stesso STV. Con ‘autografi posteriori’ si fa preciso riferimento a quegli anelli della catena pre-testuale che non solo collegano ME e STV, ma in quanto progetti autonomi forniscono apporti nuovi e indipendenti a STV, specchi –anch’essi– in cui si riflettono momenti e manifestazioni successive dell’evoluzione di un’idea che si plasma e prende forma progressivamente (ma anche regressivamente, proprio in virtù delle recuperazioni di passi e frammenti precedenti), e che, evidentemente, non è innata, riverberando un pensiero in progress, la cui evoluzione è dettata anche da contingenze esterne. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 95 M. de Unamuno, Meditaciones Evangélicas, edición de Paolo Tanganelli, Diputación de Salamanca ediciones, Salamanca, 2006, pp. 295. 96 Significativo, in tal senso, il sottotitolo dell’introduzione all’edizione: «Las Meditaciones Evangélicas o el eslabón perdido». Ibid., p. 15. 97 M. de Unamuno, Diario íntimo, Madrid, Alianza, 1996. Cfr. M. de Unamuno, Del sentimiento trágico de la vida en los hombres y en los pueblos y Tratado del amor de Dios, edizione di N. Orringer, Madrid, Tecnos, 2005, p. 32. 98 Cfr. P. Tanganelli, «Del erostratismo al amor de Dios: en torno al avantexto de Del sentimiento trágico de la vida», in Miguel de Unamuno – Estudios sobre su obra. II, Ediciones Universidad Salamanca, Salamanca, 2005, pp. 175-94, a p. 175: «El avantexto de Del sentimiento trágico resulta muy difuminado y es asombrosamente complicado intentar delimitarlo.» ! $$! L’intento che si propone questo studio è quello di esaminare una seconda fase elaborativa, quella che ha portato da ME a STV, passando attraverso due momenti pre-redazionali fondamentali: 1) A la juventud hispana (da ora AJH), provvisorio embrione del progetto incompiuto di un saggio erostratista** databile presumibilmente intorno al 1901-1903 (stando alle informazioni ricavabili dall’Epistolario inédito pubblicato da Robles"++); 2) il Tratado del amor de Dios (da ora T), ‘trattato pseudo-ascetico’ redatto tra il 1905 e il 1908 (inedito fino al 2005)"+". Di questi due tasselli dell’avantesto di STV si è privilegiato in particolar modo T a fronte della sua più stretta vicinanza temporale e strutturale all’approdo ultimo (STV), e in ordine alla maggior quantità (e qualità più evidente) di coincidenze intratestuali, talvolta anche molto estese. Ciò non toglie che AJH ricopra un ruolo molto importante nella gestazione di STV e come cerniera tra le ME (nonché alcuni autografi ad esse riconducibili) e STV, passando nella quasi totalità dei casi per T. Tuttavia, è incontestabile che, anche solo da un punto di vista percentuale, le occorrenze di frammenti comuni (o intratesti) che vedono legato STV unicamente a T superino di gran lunga e in modo inequivocabile quelli che intrecciano AJH a STV, sempre (o, comunque, nella quasi totalità dei casi) mediati dal filtro di T, anche per la non necessariamente ovvia ragione che AJH è fase elaborativa intermedia di un progetto ‘a fondo cieco’ cui Unamuno attinge recuperando passi all’interno di un nuovo e ben più articolato ambito: T. E anche se non credo si possa parlare di una fase elaborativa anteriore di STV a proposito di T (sono due disegni progettuali indipendenti), è fuor di dubbio che le due opere intessano tra loro un dialogo serrato. Risulterà a questo punto utile soffermarsi a scopo definitorio sui principali autografi prodromici che compongono l’affollato avantesto di STV, inquadrandoli e chiarendone la posizione all’interno del percorso evolutivo e gestatorio della summa filosofica dell’intellettuale basco. Tanganelli ha tracciato a grandi linee l’itinerario che ha portato da D a STV, e ha mostrato come vi sia un “hilo conductor, un fil rouge manifiesto que une el Diario íntimo a Del sentimiento trágico de la vida” che tocca una serie di tappe intermedie (Meditaciones evangélicas, Ciencia y fe, i Diálogos filosóficos, Eróstrato, il Tratado del amor de Dios...). All’interno di questo tormentato e complesso mosaico avantestuale quattro sono, probabilmente, i tasselli su cui parrebbe opportuno concentrare maggiormente l’attenzione: D, ME, AJH e T. Vi è un progetto, una volontà filosofica di !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 99 P. Tanganelli, op. cit., pp. 176-77. M. de Unamuno, Epistolario inédito, edizione di L. Robles, Madrid, Espasa-Calpe, 1991, t. 1, pp. 115, 117 e 126. Ibidem. 101 N. Orringer, cit., p. 15. 100 ! $%! fondo mai totalmente espressa e rivelata, che sfocerà, con modalità ed apporti diversificati, in STV. Non si potrà che cominciare ab imis e, quindi, da D. In seguito all’ultima redazione di NM (primi mesi del 1896), «la crisis (biográfica) se manifiesta en toda su virulencia»"+#, e ne consegue l’abbandono, per non dire il ripudio, delle posizioni e delle idee legate alla scienza positiva, da un lato, e del socialismo militante, dall’altro. Ogni energia viene assorbita da un’unica, totalizzante preoccupazione esistenziale: «el destino post mortem de la consciencia individual»."+$ Per esorcizzare la morte e gli effetti che essa può esercitare, Unamuno, in cerca di una soluzione, si rifugia nel passato e nella immacolata fede dell’infanzia, quando sognava la santità («soñaba con ser santo»). Ma questo tentativo di un ritorno al candore religioso d’un tempo lascia intravedere ben presto un mal celato pericolo, e cioè che questo slancio sincero si trasformi in una «comedia de la conversión»."+% Da questa crisi, dunque, deriva una speranza di conversione, che però corre il rischio di (e finisce per) ricadere nella farsa, in una fallace imitatio Christi, dove riaffiora a più riprese e in modo irreprimibile lo spettro della mediazione razionale"+&: una ratio in dissoluzione che, però, continua a interferire con il desiderio di un moto (o sforzo –conatus–) volontaristico pieno, condensato nel sintagma unamuniano ‘querer creer’"+', al punto di rendere ogni tentativo vano o velato dall’ipocrisia"+(. A questa prima fase contemplativa, costituita da una insorgente speranza di conversione (nata dalla e nella angoscia simboleggiata aneddoticamente dalla notte di marzo 1897), segue, dunque, il momento della crisi poietica (l’autoaccusa di istrionismo spirituale, che si traduce nel fantomatico, o, quanto meno, dubitabile ritiro presso il convento di San Esteban)"+). Ci si aspetterebbe a questo punto, secondo uno schema circolare more geometrico, un ritorno all’angoscia iniziale, ma in D questa si trasforma in un semplice desideratum (desiderio di ritornare al tormento iniziale). Perché la voce ‘diaristica’ ricerca l’angustia, il pathos che in tutti i modi aveva cercato di fuggire? Tanganelli propone una risposta pseudo-heideggeriana: la necessità di ogni esistenza di uscire dal proprio stato abituale di inautenticità attraverso uno sguardo limpido e senza !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 102 P. Tanganelli, Unamuno fin de siglo – la escritura de la crisis, Pisa, Edizioni ETS, 2003, p. 119. Ibidem. 104 D, p. 20 e pp. 27-28. 105 D, p. 126: «O imbécil o creyente». 103 106 Cfr.STV IV, frase 216; STV VI, frasi 95 e 111; STV IX, frase 83. Sulla teatralità della crisi unamuniana “finisecular”, cfr. P. Tanganelli, Unamuno fin de siglo – la escritura de la crisis, cit., pp. 136-142. 108 Cfr. N. González Caminero, Unamuno y Ortega – Estudios, Madrid, Comillas, 1987, p. 94. 107 ! $&! filtri sulla tragedia della propria finitudine. Dal riconoscimento della propria condizione umana nasce il sogno di una salvezza possibile ‘dentro del horizonte mitológico tradicional e intrahistórico’."+* Un sogno che reclama magna cum voce di ritornare alla propria origine ‘patemica’. Ed ecco il paradosso: uscire dalla crisi restando ancorati ad essa, passando «del estancamiento contemplativo al poiético, del impasse poiético al contemplativo, en una huida interminable y desgarradora que, al cabo de unos cuantos años de reflexión y sedimentación, recibirá otro nombre: el sentimiento trágico de la vida».""+ Tra il 1897 e il 1899, in piena crisi di fine secolo (e come diretta conseguenza di questa), nel tentativo di costruire una risposta positiva Unamuno progetta diverse Meditaciones evangélicas (le si potrebbe definire come una serie di confessioni e ruminazioni neotestamentarie rivestite di una patina mitologica e cristologica), ma concretamente si dedicherà alla stesura soltanto di tre di queste: El mal del siglo (da ora EMS)"""; Jesús y la samaritana (da ora JyS)""#; e, infine, Nicodemo el fariseo (da ora N), il solo che riceverà l’onore delle stampe""$. Tanganelli""%, a partire dalle lettere di questi anni contenute nel già citato Epistolario (da ora E), ripercorre l’itinerario ‘genealogico’ seguito da questo progetto in nuce o, per così dire, di quello che sarebbe dovuto (o potuto) essere una raccolta di sermonicinanti saggi concatenati. Lasciando da parte EMS, JyS e N (questa la successione del ‘trittico iniziale’), i quali nel gennaio del 1898 erano già stati completati, basti qui ricordare che le restanti meditaciones""& non vedranno la luce e rimarranno solo in potenza. In ME la tragica cognizione del nulla si concilia con uno sforzo di ricostruzione mitologica (cristologicamente parlando). Nichilismo e mythos evangelico in questa fase della riflessione !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 109 M. de Unamuno, Meditaciones Evangélicas, edición de Paolo Tanganelli, cit., pp. 18-19. Ibid., p. 19. 111 CMU, col. 69/9. 112 CMU, col. 62/6. 113 Revista Nueva, n. 29, Madrid, 25-11-1899, pp. 241-275. Oggi, grazie alle edizioni di Laureano Robles, sono edite anche EMS e JyS (L. Robles, «El mal del siglo (texto inédito de Unamuno)», Cuadernos de la Cátedra Miguel de Unamuno, 34, 1999 [settembre 2002], pp. 99-131; «El texto inédito de Unamuno: “Jesús y la samaritana”», La Ciudad de Dios, CCXIV, 2001, pp. 579-612. Cfr. M. de Unamuno, Meditaciones Evangélicas, cit., pp. 19-21. 110 114 Ibidem. Ibidem. Si tratta di La conversión de San Dionisio poi San Pablo en el Areópago (da ora SPA-LCD | CMU, col. 79/190 e 79/231); Gamamiel (da ora G); El reinado social de Jesús (da ora RSJ | CMU, col. 69/10), El eunuco de Candace – (Hechos VIII) poi La oración de Dimas (da ora LOD | CMU, col. 79/233). Alcuni di questi sono veri e propri abbozzi attestati dalle relative minute; altri, al di là della documentata citazione, non trovano concreto riscontro tra le carte (è il caso di G). 115 ! $'! unamuniana sono due facce della stessa medaglia. I giudizi di Sánchez Barbudo""' e di Zubizarreta""( a proposito dell’incidenza dell’uno o dell’altro aspetto si rivelano parziali, giacché focalizzavano l’attenzione prevalentemente (o quasi esclusivamente) su uno soltanto dei due poli. In realtà, le due prospettive non sono autoescludenti, ma perfettamente compatibili e, anzi, complementari. Già in D si può riscontrare una consimile ambivalenza latente: «en seguida esa mirada nihilista se ve suplantada por el intento de rescatar un itinerario de conversión tradicional.»"") È presumibile che ME sia stato concepito a seguito della redazione del quarto quaderno di D, dove vengono passati in rassegna e commentati gli stessi episodi neotestamentari considerati in ME""*. D è, quindi, un antecedente fondamentale di ME come illustrano perfettamente i frammenti di D che, pressocché inalterati, sopravvivono in ME e, poi, passano a STV. Ma non solo: tra D e ME non vi è soluzione di continuità anche perché gli estremi di questo binomio sono intimamente correlati e accomunati da uno stesso movente ideale, dall’identica finalità: «hacer de la pluma un arma de combate por Cristo.»"#+ Non è difficile mostrare come questo medesimo principio di fondo si coniughi in ME (ma era così già nel quarto quaderno di D) con una prospettiva meno diaristica o intimista, e più ‘omiletica’ in senso laico"#", che declina le istanze più autobiografiche e confessionali in modo nuovo, secondo posture teatralizzanti che orientano la riflessione verso una dimensione esteriore"##. A partire da questo momento (e, forse, già con Nuevo Mundo –da ora NM–, cui Unamuno attende tra il 1895 e il 1896)"#$ vi è una reazione in un certo qual modo ‘chateaubriandesca’ alla crisi del ‘97, le cui maglie si allargano, in realtà, ad un periodo più ampio, estendendo la trama dello sconforto letterario-esistenziale ad un arco di tempo identificabile, più in generale, come finisecular. In altre parole, non è attribuibile esclusivamente ad un evento puntuale o aneddotico !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 116 A. Sánchez Barbudo, Estudios sobre Galdós, Unamuno y Machado, Madrid, ed. Guadarrama, 1968. A. Zubizarreta, Unamuno en su nívola, Madrid, ed. Taurus, 1960. 118 P. Tanganelli, op. cit., p. 17. Tanganelli connota come ‘passivo’ il nichilismo soggiacente a questo sguardo sulla realtà in ragione del fatto che al logos subentra il mythos. 119 Ibid., p. 21. 120 M. de Unamuno, Diario íntimo, Madrid, Alianza, 1996, p. 58. 117 121 P. Tanganelli (op. cit., p. 24) si spinge oltre e parla di «discurso exhortatorio urbi et orbi». Ibid., pp. 25-26. Le Meditaciones con tutta probabilità erano state pensate per essere lette davanti a un uditorio, come avvene per N il 13 novembre 1899 presso l’Ateneo di Madrid. 123 Sull’autobiografismo mitologico in NM cfr. M. de Unamuno, Nuevo Mundo, edizione a cura di P. Tanganelli, Caserta, Edizioni Saletta dell’Uva, 2005, pp. 7-27, in particolare alle pp. 9-10: «Il pensiero unamuniano potrebbe essere forse definito come un’ermeneutica della crisi imperniata anzitutto sulla costruzione di una forma di soggettività concreta. [...] E la maggior parte delle opere unamuniane, indipendentemente dal genere, quindi sia quelle finzionali che quelle filosofiche [...] mirano proprio a dare un volto –autobiografico e al contempo ‘mitologico’– di questo hombre de carne y hueso.» 122 ! $(! (come può essere la ‘notte oscura’ del 22 marzo 1897 segnata dall’attacco di pseudo-angina) la produzione posteriore, né tantomeno è possibile ascrivere ad esso la perdita delle certezze positivistiche. Nel 1897, se si vuole, raggiunge il parossismo una malattia che viene da più lontano e che è di natura filosofica, prima ancora che umana (o anímica). In N è espresso quel dualismo ‘schizofrenico’ e lacerante tra pistis e gnosis che, nella crisi, crea una dicotomia nella coscienza di Unamuno e che si estende all’uomo moderno tout court. Questo dualismo aveva già interessato l’interiorità di Eugenio Rodero in NM, dove, a un’infanzia della purezza (che, per traslato, corrispondeva a un cristianesimo primitivo), faceva da controcanto una maturità del disinganno razionale (o razionalistico). Con N il parallelismo riguarda non più soltanto il singolo, ma coinvolge l’umanità intera e acquisisce uno spessore sociale"#%. Per uscire dall’impasse cui conduce irreversibilmente l’arida ratio, Unamuno ricorre al mythos evangelico, alla ricerca di un rinnovamento spirituale e di una palingenesi (non solo personale) che liberi l’uomo dalla maschera che la storia e il mondo gli hanno imposto"#&. JyS è una ambivalente ‘confessione mitologica’: in questa meditación, infatti, Unamuno istituisce un’analogia patente tra sé e la samaritana, identificandosi con l’intellettuale che è stato ammaliato da molte teorie e correnti filosofiche, senza con ciò aderire completamente ed ‘ontologicamente’, con tutto il suo essere, a nessuna di esse. A queste valutazioni fa eco la denuncia di una viscerale delusione maturata lungo i «desiertos del intelectualismo y los yermos del racionalismo»"#' postcartesiano, che si traduce, però, in una fabulazione, il cui protagonista reale è lo stesso Unamuno che si fa personaggio. Questa fabulazione va di pari passo con una universalizzazione della prospettiva, allargata ad un noi che comprende l’io di D e cui anche Unamuno partecipa"#(. EMS è una nuova, caustica invettiva (non del tutto inedita)"#) sferrata contro il razionalismo postcartesiano proprio dell’interregno culturale fin de siècle del positivismo, e, in particolare, contro l’estetismo e il neo-misticismo chauteaubriandesco (contraltare, quest’ultimo, del primo). Ad essa fa seguito una critica anti-progressista rivolta a quel socialismo che vide Unamuno militante (si !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 124 Cfr. M. de Unamuno, Meditaciones Evangélicas, edición de Paolo Tanganelli, cit., p. 25. «Hacerse un nuevo hombre, regenerándose en la penitencia, volviéndose niño y sencillo.» D, p. 191. Cfr. M. de Unamuno, Meditaciones Evangélicas, edición de Paolo Tanganelli, cit., p. 30. 125 126 JyS, p.64. Del resto, sempre «el mythos intersubjetivo es lo que determina, desde los cimientos, toda posibilidad de autonarración», Ibid., p. 32. 128 Ibid., pp. 37-38. Frammenti di EMS furono interpolati in un articolo (un’intervista di Azorín a Unamuno) dal titolo «Charivari. En casa de Unamuno», apparso sulla rivista La Campaña del 26 febbaio 1898. 127 ! $)! affiliò alla Agrupación socialista di Bilbao nel 1894) e da cui lo stesso autore basco prende poi le distanze. Tuttavia, la questione in questi termini è, in realtà, semplificata e , forse, banalizzata. È necessario sottolineare, invece, come vi sia una contrapposizione intrinseca alla concezione unamuniana del progresso in EMS: al progresso sociale si sovrappone quello personale. L’uno ostacolerebbe l’altro, conducendo ad una ebbrezza spirituale deleteria. Il progresso, a ben vedere, non è demonizzato in sé e per sé. Unamuno sembra auspicare per l’umanità, intesa come comunità cristiana (una sorta di ‘sociedad-cenobio’), una ‘conversión universal’ informata ad un ecumenismo evangelico, recuperando così una concezione (ed un desideratum) già presente in D."#* Più che il progresso, Unamuno condanna il progressismo, nel quale scorge il pericolo incombente dell’idolatria per l’uomo e per le sue capacità (o, il che è lo stesso, una forma di egolatria sociale), che implica un aprioristico allontanamento da Dio. L’accusa efferata che Unamuno lancia contro la dottrina marxista e l’anarchismo riguarda l’assenza di una tensione escatologica che miri a trovare (o, per lo meno, cercare) una soluzione al problema della ‘caducità universale’. Questo congenito disinteresse ab origine per le sorti dell’anima, secondo il filosofo bilbaino, non può che trascinare l’uomo nel baratro nel nichilismo cosmico, ed è diretta conseguenza di quel mal du siècle rousseauniano, prima ancora che di Nordau, che si origina e scaturisce dalla «pérdida de la fe en la inmortalidad del alma, en la finalidad humana del Universo»."$+ L’immagine di un universo ‘antropomorfo’, di un Dio che ci crea a sua immagine e somiglianza, non è nemmeno contemplata dal socialismo sensu stricto, che si arrende di fronte all’oscuro abisso del post mortem, ed apre le porte ad una perniciosa cognizione del nulla. Ne deriva una percezione del progressismo contemporaneo (che pone al centro di tutto l’economia e la politica) comune a EMS e al citato Charivari. En casa de Unamuno (da ora CH), la percezione di un’ideologia, fondata su una ratio sterile, che nasconde in sé le premesse di un annichilimento totale della coscienza dell’uomo, e che conduce inevitabilmente alla noluntas vivendi, destinando l’uomo allo spleen, alla noia leopardiana e a una forma di emiplegia eticospirituale."$" Altri intratesti condivisi da EMS e CH definiscono come unica via d’uscita da questo ‘scenario nichilista’ prospettato dalla ratio (che –a un tempo- dipende da e dà adito ad una !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 129 Ibid., p. 39. STV, XII, 25. 131 Cfr. M. de Unamuno, Meditaciones Evangélicas, edición de Paolo Tanganelli, cit., p. 41. 130 ! $*! cosmovisione meccanicistica) sia il suicidio. La qoeletiano-leopardiana infinita vanità del tutto, nominata sia in EMS che in CH, rientra in questo discorso e assurge a contropartita della pars destruens del ragionamento unamuniano intorno al fallimentare portato dell’intellettualismo. Ad essa non corrisponde in CH una speculare pars costruens, che completa, invece, l’argomentazione di EMS e che ricompare, poi, in STV: il ‘sentimento tragico della vita’. Con EMS, dunque, viene gettato il seme che qualche anno più tardi germoglierà e darà i frutti della replica tragicista (immorsata nel sensus) di Unamuno alla disfatta del pensiero razionalistico, e al crollo dei valori su cui esso si fonda e che intende veicolare."$# Unamuno, poi, istituisce un parallelo tra la la decadenza del paganesimo romano e il ristagno della contemporaneità. Il poligrafo di Bilbao contrappone a questa situazione di stallo e immobilità spirituale (insitamente connaturata ai valori propugnati dalle rinunciatarie filosofie nichiliste moderne) il fervore penitenziale proprio del chiliasmo medievale, potenziale risposta e antidoto. All’arrendevolezza razionalistica si sostituisce la preghiera attiva della fede millenarista (o, per meglio dire, questa viene rivalutata con gli occhi nostalgici dell’intellettuale che, disilluso, è all’affanata ricerca di un «consuelo en la desesperación»)."$$ Passando al setaccio EMS e collazionando i frammenti che questo spartisce con STV, ci si rende immediatamente conto del fatto che una gran quantità di essi confluisce nel terzo capitolo, «El hambre de inmortalidad», spesso attraverso l’intermediazione di AJH e T. Tanganelli, in particolare, si sofferma su quei passi dove Unamuno «parece exigir de su destinatario nada menos que la enargeia o evidentia del propio proceso de nihilificación» e, quindi, descrive quell’itinerarium mentis in nihilum che, accompagnato da un costante tentativo di ritorno alla pistis, da D perviene a STV (attraverso AJH e T). Questa aspirazione, tuttavia, è immancabilmente disattesa e conduce ad una corradicata angoscia esistenziale, che fa della tensione metafisica una vana speranza. Ma se in D (e segnatamente nei primi tre cuadernos) il motivo profondo era quello della «teatralidad de su ensayo de conversión» -con conseguente crisi poietica-, nelle Meditaciones Unamuno recupera il paradigma interpretativo mitologizzante del quarto cuaderno, incardinato (precariamente) su un desiderio di rigenerazione autentico, sorgivo, che si lascia alle spalle ogni perplessità e ogni paura legate a questo stesso «proceso de radical mitologización»"$%. Certo, profonde inquietudini non smettono di attanagliare e sconcertare la coscienza del filosofo basco, ma !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 132 Ibid., pp. 44-47. Ibid., p. 46. 134 Ibid., p. 55. 133 ! %+! il dato indiscusso e incontestabile è che in ME non viene tenuta in considerazione «la arbitrariedad de la poiesis existencial»"$&. D’altro canto, l’imitatio Christi si colloca ed ha senso solo in un orizzonte mitico, perdendo la possibilità di tradursi in concreta emulazione (viene meno l’aspetto della applicatio che contraddistingueva i primi tre cuadernos di D). Ne consegue che se D configura una confessione diaristica in cui ciclicamente si alternano tre fasi (volontà espressa di seguire il modello cristologico; proiezione mitologica, ossia identità tra voler essere ed essere; ritorno alla vita e crisi poietica personale), ME costituisce una evoluzione mutila (o involuzione) di D: viene meno la centralità della componente autobiografico-esperienziale, che viene subordinata al modello mitologico. In altre parole, all’impossibilità dell’uomo di realizzare nella propria vita il mythos del modello evangelico corrisponde «la misma imposibilidad de la vida (humana) de salirse del mito.»"$' In seguito alla pubblicazione di N il piano compositivo di ME si arresta e si assiste al naufragio del «primer intento de transformar la crisis finisecular en una suerte de morada vital.»"$( Questo intendimento si reitererà negli anni a venire, prendendo la forma dapprima del saggio erostratista, che in un momento dato assumerà le fattezze di AJH (in cui si riverseranno soprattutto i passi e le riflessioni maturati in EMS) e, successivamente, del proto-trattato T (che così può essere classificato in virtù della sua incompiutezza e provvisorietà), fino ad approdare ad STV, compendio del sistema o a-sistema filosofico unamuniamo, dove torna ad essere centrale l’uomo (l’uomo «de carne y hueso») e la sua esistenza. Rivelata la sua inadeguatezza, il trascendentalismo puro è sostituito da un immanentismo che segna una vera e propria svolta nel passaggio dalle ‘glosse neotestamentarie’ di ME alle pagine nutrite di tragico esistenzialismo di STV."$) Tanganelli si è soffermato sulla ricostruzione del primo anello di questa catena avantestuale, ossia il passaggio da DI a ME, gettando, inoltre, le basi per lo studio delle fasi successive. Ci si occuperà in questo studio di determinare come e in che misura ME, AJH e T, nel confluire in STV, abbiano contribuito alla sua edificazione, ed che rapporto le leghi ME, andando a vagliare gli intratesti che, subendo più o meno evidenti modificazioni, sono stati innestati via via nell’anello(/fase) successivo/a. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 135 Ibidem. Ibid., p. 58. 137 Ibid., p. 19. 138 Ibid., pp. 58-59. 136 ! %"! Come si è detto, gli anelli successivi alle Meditaciones sono AJH e, soprattutto, T. In un certo qual modo, AJH è un trait d’union tra ME e T. AJH è un ‘borrador’ composto da diciotto fogli -vergati fronte retro- contenuti nella stessa cartella in cui si conservano le novantadue pagine numerate che formano T (corredate da altre quattordici recanti le note, poi effettivamente interpolate nei relativi intratesti di STV)"$*. Se, da un lato, è assimilabile ad una prima versione di T, dall’altro è innegabile che questa minuta sia da identificarsi con un progetto che Unamuno intendeva intitolare ora A la juventud hispana, per l’appunto, ora Mi confesión. La struttura di AJH è trimembre: ad una breve introduzione di due facciate dal titolo «Mi confesión» segue un saggio erostratista, che, infine, cede il passo all’incipit di un altro scritto, dapprima intitolato «La Ciencia» e, in un secondo momento, «Verdad y vida», che si sviluppa negli ultimi cinque fogli."%+ A margine di queste pagine figurano planes, schemi, abbozzi etc., (tanto nella carpetta delle note di T, quanto in un’altra carpetta"%" del fondo della Casa-museo) che rientrano in questo grande ‘proyecto frustrado’ in fieri, che Tanganelli riconduce ad A la juventud hispana, e che ‘fagocitò’ il saggio erostratista, anticipando le pretese di ‘obra total’, che verrano più tardi incarnate da STV (e, in parte, dallo stesso T). In una lettera indirizzata a Candamo del 2 marzo 1903"%#, Unamuno allude ad una serie di saggi concatenati fra loro («todos eslabonados»), incentrati su vari argomenti («[...] uno sobre Eróstrato o la gloria, otro sobre el patriotismo, sobre la ciencia otro, sobre la religión española [...]» che fanno tutti capo ad un «libro regularmente extenso» che intende intitolare giustappunto «A la juventud hispana». Si tratta, per lo più, di schede, annotazioni, elenchi etc., in cui sono condensate idee-guida o schematizzazioni del saggio di riferimento, ma che spesso si riducono a semplici ‘biobibliografie’, dove sono indicati autori, passi di opere, citazioni da interpolare."%$ Precisamente da questi borradores, dal progetto erostratista e da AJH, STV attingerà il proprio «biograficismo fabuloso», la propria vocazione ad una «fabulación autobiográfica»."%% Nel quadro avantestuale di STV, il disegno di AJH (provvisorio e caduco, in quanto destinato ad essere abbandonato di lì a poco) riveste un ruolo molto importante, e rappresenta un !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 139 CMU, col. 68/34. Cfr. P. Tanganelli, «Del erostratismo al amor de Dios: en torno al avantexto de Del sentimiento trágico de la vida», in Miguel de Unamuno – Estudios sobre su obra. II, Ediciones Universidad Salamanca, Salamanca, 2005, pp. 177-78. 141 CMU, col. 10/18. 142 L. Robles, cit., t. 1, p. 126. 143 P. Tanganelli, op. cit., pp. 176-77. 144 Ibid., p. 178. 140 ! %#! momento decisivo nella gestazione del trattato teo-filosofico compendiario di tutta la riflessione unamuniana precedente. In esso, infatti, confluiscono e si fondono due progetti anteriori, che daranno luogo, poi, a due elementi portanti dell’ossatura di STV: il tema dell’inestinguibile «hambre de inmortalidad» come primum movens di ogni atto e forma di vita (studio sull’erostratismo) e il feroce, belluino (e insolubile) contrappunto gnosis-pistis"%& (al quale rimanda un saggio a più riprese vagheggiato, che risponde al nome ora di Razón y fe, ora di Ciencia y religión o Religión y ciencia, o ancora di Religión o ciencia)146. In effetti, proprio «El hambre de inmortalidad» sarà il titolo del terzo capitolo di STV (cui approderanno molte suggestioni e risonanze provenienti proprio dal fermento filosofico di questi anni, filtrati da realizzazioni intermedie e parziali –ME, AJH e T–, da dove riaffioreranno a diversi stadi evolutivi, più o meno embrionali). D’altra parte, il dissidio interiore derivante dalla contraddizione tra fede e ragione percorre tutta la riflessione filosofica che sottendono STV e la graduale, radicale trasformazione che investe il pensiero e la Weltanschauung unamuniana a partire almeno dalla crisi del 1897. Di questo processo di trasformazione ed elaborazione concettuale (nonché di maturazione ideologica) il Tratado del amor de Dios (T) è l’ultimo e più vicino autografo dell’eterogeneo avantesto di STV. Unamuno intraprende il cammino che lo instraderà alla redazione di T già nel maggio del 1905147, poco prima della pubblicazione di Vida de Don Quijote y Sancho. In una lettera indirizzata a González del gennaio 1906 si fa riferimento ad un Tratado del amor de Dios, in cui Unamuno, muovendo dalla riconosciuta «inanidad lógica de las supuestas pruebas de la existencia de Dios», si mette in cerca di una nuova soluzione «por otro camino.»148 Sei anni più tardi (nell’autunno del 1911) in un’altra corrispondenza149, l’intellettuale bilbaino accosterà esplicitamente T a STV, affermando che immantinente il Tratado del amor de Dios sarebbe uscito con il titolo di Del sentimiento trágico de la vida. In questo modo, tuttavia, Unamuno dichiara implicitamente la diversità dei due trattati (che pure identifica, e assimila a un’opera unica). Come vedremo, un rapido confronto di T e STV chiarisce ipso facto l’isotopia, se così mi è concesso di appellarla, che avvicina (e, contestualmente, !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 145 Questo dualismo è testimoniato già a partire dal 1897, l’anno della crisi. Si pensi, in tal senso, al saggio «Pistis y no gnosis» in Obras completas, vol. III, p. 682. 146 Ibidem. Cfr. L. Robles, cit., t. 1, p. 117 (lettera ad Andrés Bellogín). 147 148 149 ! N. Orringer, op. cit., p. 46. M. García Blanco, «Introducción», Miguel de Unamuno, Obras Completas, vol. I, pp. 14-15. Ibid., pp. 19-20. %$! separa) i termini del paragone, non solo in forza del disequilibrio quantitativo (STV è molto più esteso, sviluppando temi non toccati in T), ma anche in ragione delle non trascurabili difformità e divergenze a livello qualitativo (i frammenti di T convogliati in STV hanno subito, nel passaggio, modificazioni, rimaneggiamenti e una sostanziale e globale redistribuzione). Unamuno si dedicò alla stesura di T tra il 1905 e il 1908, come testiomoniano –direttamente e indirettamente- una serie di rimandi, allusioni e informazioni presenti in alcune lettere scritte in questo arco di tempo e nelle stesse carte autografe di T. Orringer rileva come la pagina numerata 34 del manscritto di T rechi, al margine destro, l’annotazione «27 III 1906», e avanza l’ipotesi che si possa trattare di un’indicazione riguardante la data di composizione (o compilazione) del testo150 (intendendo con questo, probabilmente, che al 27 di marzo di questo stesso anno corrisponda quello stadio evolutivo di T). Il primo riferimento esplicito al Tratado è datato 9 maggio 1906 (lettera a Jiménez Ilundain)151. Del 17 maggio dello stesso anno è la prima di quattro lettere che fanno parte del cosiddetto ‘carteggio Ortega-Unamuno’152 (l’ultima riporta la data 14 maggio 1908). Al suo interno, don Miguel nomina integralmente il titolo dell’opera cui sta attendendo: «Ahora, además de mi Tratado del amor de Dios, hago versos.»153 Lo stile referenziale e –oserei dire– ‘aposiopetico’, calato in un contesto ellittico, lascia intendere, o, se non altro, intuire che dietro a questo richiamo a T si celi con tutta probabilità un’altra lettera, andata perduta, nella quale si accennava al Tratado. In una lettera del 2 dicembre Unamuno manifesta l’intenzione di inviare il «tratado» ad Ortega per raccomandata.154 Poche settimane più tardi (lettera del 30 dicembre)155, il ventitreenne Ortega replica, mostrandosi in un primo momento interessato alla lettura del «tratado»; tuttavia, dai righi successivi –di caustica ironia– traspare chiaramente un’avversione nei confronti di quello che l’autore de La deshumanización del arte definisce un «misticismo energuménico», che gli fa paventare il rischio per la Spagna di essere estromessa dall’Europa, cui viene tributato l’epiteto di «flor del Universo». Parallelamente, nel 1907 viene pubblicata l’enciclica antimodernista di Papa Pio X «Pascendi dominici gregis» e Unamuno abbandona il progetto di T per immergersi in appassionate !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 150 N. Orringer, op. cit., pp. 18-19, nota 4. M. García Blanco, op. cit., vol. VII, p. 12. 152 Epistolario completo Ortega-Unamuno, edizione a cura Laureano Robles, Madrid, Ediciones El Arquero, 1987. 153 Ibid., III, p. 39. 154 M. García Blanco, cit., p. 16. 155 Epistolario completo Ortega-Unamuno, cit., VIII, p. 60. 151 ! %%! letture teologiche (in particolare, la Geschichte des Pietismus di Ritschl)156. Il silenzio è rotto da una lettera del 14 maggio 1908, in cui compare l’ultima allusione a T: Unamuno mette a parte Ortega di essere tornato a occuparsi del suo «querido Tratado», comunicandogli, inoltre, che lo sta «rehaciendo».157 E proprio da questo ‘rifacimento’ prenderà vita STV. Unamuno aggiunge che è già in contatto con un potenziale editore, intenzionato a tradurre T in italiano158, «que es como aparecerá.» Ma alla fine T non vedrà la luce e rimarrà nel polveroso cassetto dell’oblio sino al 2005, anno in cui è stato pubblicato postumo nella citata edizione di Nelson Orringer. In T non resta che l’ombra diafana della dottrina erostratista originaria, non più presentata in forma di fabulazione autobiografica (cosa che, al contrario, accadeva in AJH e in minute precedenti), incorniciata all’interno di una «celebración mitológica de la ‘energía’ del paradigma de santidad»159, che scongiura il pericolo di una deriva agnostica e antireligiosa. Ecco che T mostra una doppia natura, rivelata dalla sua stessa struttura: il nucleo erostratista è innestato all’interno di un discorso più ampio, che tende a reinstaurare, in un qualche modo, una preponderante prospettiva religiosa e ‘mitologica’, fondata, cioè, sul mythos evangelico, ponendo al centro una volta di più la pistis come contravveleno alle insidie del nichilismo160. Nel passaggio da T a STV le cose cambiano notevolmente, nel senso che le parti originali di T, che circoscrivevano il nocciolo erostratista161 (trascritto da pagina 35 a pagina 58 di T, al di là di alcune minime interpolazioni alle pagine 5 e 9162), sono inserite (o conglobate) nel tessuto tragicista di STV, e, per l’esattezza, confluiscono principalmente nel settimo, nell’ottavo e nel dodicesimo capitolo163. A questo proposito, più avanti si metterà in evidenza come, dall’uno all’altro trattato, si registri una vera e propria esacerbazione o recrudescenza della componente tragica attraverso l’introduzione di aggettivi e sostantivi gravitanti intorno al campo semantico della ‘tragedia’. Un altro tratto che emergerà dalla collazione tra T e STV concerne il lento processo di scorato allontanamento da un approccio epistemologico fondato sulla gnosis, iniziato in seguito alla «crisis del 97». Questa sfiducia nella ratio e nei valori del positivismo, che, rifiutando ogni sorta di !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 156 Cfr. N. Orringer, ivi. Epistolario completo Ortega-Unamuno, cit., XIX, p. 86. 158 Federico Giolli si era interessato alla possibile pubblicazione di T. Cfr. N. Orringer, op. cit., p. 50, nota 120. 159 P. Tanganelli, op. cit., p. 178. 160 Ibid., p. 179. 161 L’armazón erostratista di T sarà ripristinato , in forma ‘edulcorata’, nel capitolo III di STV, «El hambre de inmortalidad». 162 Ibid., p. 178. 163 Ibid., p. 179. 157 ! %&! metafisica, si affidava unicamente alle scienze positive come i soli strumenti di conoscenza per l’uomo, porta Unamuno ad adottare via via una prospettiva ‘sentimentale’, in cui alla razionalità si sotituisce la sensibilità: non più la logica delle cose, ma il sentimento della vita. T rappresenta uno stadio già molto avanzato di questa maturazione del pensiero unamuniano; ciononostante, anche nell’atto finale della gestazione di STV si verificano cambiamenti e ritocchi importanti, a mio avviso riconducibili ad un preciso disegno compositivo, ad una chiara strategia revisionale. Come si vedrà, infatti, molti termini (anche in successione o in poliptoto) etimologicamente legati alla conoscenza presenti in T vengono accostati, nei passi corrispettivi di STV, a verba sentiendi, o, più in generale, da vocaboli connessi con l’idea della percezione e del sentire (talora sono rimpiazzati da questi ultimi). Il terzo dato saliente ricavabile dal confronto tra T e STV pertiene all’enfatizzazione (e la precisazione) del dolore come ‘angoscia’ mediante l’aggiunta di parole quali ‘congoja’, ‘angustia’, ‘oprimir’ etc., che concorrono a delineare, con poche pennellate, un quadro dell’esistenzialismo unamuniano e della appercezione soggettiva del «sentimento tragico della vita». La differenza preminente, tuttavia, tra T e STV (e i titoli dei due trattati non potrebbero essere più eloquenti in tal senso) riguarda il valore da attribuire alla «recuperación y resemantización de la imaginería cristiana»: se in T sopravvive un’ottica religiosa, in STV questa è soverchiata da un atteggiamento chisciottesco nei confronti della realtà e della vita. Ed il quijotismo è l’unica risposta valida e possibile, a questo punto. Insomma, «Del sentimiento trágico ya no es un tratado ascético para uso de inquietos espíritus fin de siècle.»164 Il saggio su Erostrato, passando per T, viene ad essere una parte costitutiva fondamentale del quarto, del quinto e del sesto capitolo di STV. Confrontando gli intratesti corrispondenti di AJH, T e STV, Tanganelli è giunto alla conclusione che questi materiali nel testo di arrivo (STV) siano stati riordinati secondo un preciso piano bio-bibliografico (Tanganelli parla di una «dinámica biográficolegendaria que domina Del sentimiento trágico»).165 Unamuno, se si accetta questa ricostruzione, ripercorrerebbe in questi tre capitoli –in chiave allegorica– altrettante tappe decisive della sua formazione, da un lato, e del cammino dell’umanità e della cultura europea, dall’altro (cosa che accadeva anche in N). All’infanzia della fede innocente e totale (La esencia del cristianismo) segue l’evocazione dell’adolescenza dell’abbagliante e proditorio entusiasmo razionalistico (è, questa, la tappa idealistico-positivistica incarnata dal quinto !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 164 165 ! Ibidem. Ibid., p. 182. %'! capitolo, La disolución racional); chiude il trittico il sesto capitolo (En el fondo del abismo), in cui sono riportate l’esperienza e le conseguenze della crisi filosofica ed esistenziale del 1897. Specularmente, e secondo una costruzione geometrica, i tre capitoli successivi corrispondono ad un tentativo (velleitario) di conversione, di ritorno alla purezza del messaggio evangelico e, quindi, alla spiritualità della fanciullezza (personale) e al cristianesimo delle origini (a livello universale). I capitoli VII (Amor, dolor, compasión y personalidad), VIII (De Dios a Dios) e IX (Fe, esperanza y caridad) discendono in gran parte dai frammenti (o parlerei, forse, di veri e propri blocchi testuali) di T estranei al nucleo erostratista. Tanganelli ha rilevato che tali intratesti, nel momento in cui vengono ‘iniettati’ in STV, hanno subito delle modificazioni volte ad un adeguamento consostanziale al disegno di fabulazione ‘onirico-biografica’ unamuniana, ossia del racconto, da parte del filosofo basco, della sua vita così come l’aveva intimamente sognata (Tanganelli parla di «biografía optativa»).166 Negli ultimi tre capitoli si fa strada ed apre una breccia nell’a-sistema filosofico di Unamuno il chisciottismo, che subentra all’erostratismo ed al «sueño de conversión» cristo-mitologico. Le consonanze con T si fanno sempre più rare, sino alla «Conclusión», dove il vero modello diviene il Don Chisciotte. Già nel capitolo XI all’esaltazione del «modelo de acción» cristologico si sostituisce ben presto l’ideale cervantino della lotta chisciottesca contro i mulini a vento. La rivalutazione della «Biblia nacional de la religión patriótica de España»167 e la nuova centralità del ‘cavaliere dalla triste figura’ riguardano una riflessione che affonda le proprie radici –come minimo– nei primi anni del Novecento, trovando una degna espressione in Vida de Don Quijote y Sancho (1905). All’interno di STV, in sostanza, si incontrano e coabitano le diverse riflessioni sviluppate e maturate negli anni posteriori alla crisi, che vengono ‘riesumate’ e ricontestualizzate, trovando ognuna la giusta collocazione in quella che si può definire la riproposizione, da parte di Unamuno, del proprio idearium, dell’evoluzione in fieri del suo pensiero in seno a uno schema biobibliografico ben delineato, che palesa il graduale superamento di una teoria o di una provvisoria suggestione a vantaggio di quella successiva (dal mythos di D e ME all’erostratismo di AJH e T, semplificando), fino alla grande novità rispetto agli ‘scritti-fantasma’ (cioè, non assurti al grado di opere definitive edite) precedenti: l’approdo sui lidi del quijotismo. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 166 167 ! Ibidem. M. de Unamuno, «Sobre la lectura e interpretación del “Quijote”», Obras completas, 1: 1231. %(! ! %)! CAPITOLO II INTRATESTUALITA’ NEL MOSAICO AVANTESTUALE DI ‘DEL SENTIMIENTO TRAGICO DE LA VITA’ ! %*! ! &+! I dialoghi intratestuali che STV stabilisce con ME, AJH e T riguardano il suo tessuto complessivo e sono (più o meno) equamente distribuiti nel corso dell’opera. Tuttavia, balza immediatamente all’occhio una concentrazione più massiccia in alcuni capitoli piuttosto che in altri. È bene precisare preliminarmente che l’avantesto di STV è contraddistinto da una peculiare ‘vischiosità’ scrittoria, se mi passa il termine; in altre parole, il mosaico preredazionale di STV si caratterizza per una marcata eterogeneità di materiali avantestuali, ognuno facente capo ad un diverso progetto –giunto a compimento o meno–; questi materiali indipendentemente (ed autonomamente) rispetto ad una preordinata intenzionalità autoriale passano da un abbozzo ad una prima stesura, da un’opera inedita ad una edita (e viceversa). Non si tratta, dunque, di redazioni plurime di uno stesso progetto. Indubbiamente, non può passare inosservata la quasi totale assenza di coincidenze significative tra STV e i principali tasselli del suo avantesto negli ultimi tre capitoli. Schematizzando, questo –come abbiamo visto– si spiega se si considera che la struttura di STV è organizzata secondo una ‘tassonomia’, per così dire, in cui ad ogni terzetto di capitoli si accorda una stagione della ‘biografia ottativa’ e del pensiero filosofico in fieri unamuniani. Nella fattispecie, a parte i primi due capitoli (riducibili a prolegomeni del discorso esistenzialistico di Don Miguel), si possono enucleare il terzo capitolo, in cui converge la proposta erostratista concepita in N ed EMS e passata a formare, anche attraverso AJH, lo zoccolo duro di T; il quarto, quinto e sesto capitolo, che ripercorrerebbero il camino de perfección inverso vissuto da Unamuno e dall’Europa (dall’autenticità della fides primigenia alla crisi esistenzialistica); i tre capitoli successivi, che accolgono la reazione alla Krisis ed un ultimo, estremo tentativo di rifugiarsi nell’ideale del mythos evangelico, ma all’interno di una cornice filosofica e spirituale nuova rispetto a T (vale a dire, alla parte originale di T, svincolata dal saggio su Erostrato , suo ‘antigrafo’ sensu lato). Nell’esaminare i passaggi che animano la catena evolutiva dell’avantesto di STV si citeranno i frammenti in base alla numerazione dei periodi (o frasi) che compongono i capitoli di Del sentimiento trágico riportati in appendice, e corredati del relativo apparato intratestìtuale.. Nel primo capitolo, El hombre de carne y hueso, si registrano solamente due intratesti significativi a proposito del processo evolutivo dell’avantesto di STV (entrambi provenienti da N), ma nessuno dei due presuppone la mediazione di AJH o di T: 56-57. Hegel hizo célebre su aforismo de que todo lo racional es real y todo lo real racional; pero somos muchos los que, no convencidos por Hegel, seguimos creyendo que lo real, lo realmente real, es irracional; que ! &"! la razón construye sobre las irracionalidades. Hegel, gran definidor, pretendió reconstruir el universo con definiciones, como aquel sargento de artillería decía que se construyeran los cañones: tomando un agujero y recubriéndolo de hierro. STV El vulgo, los ordinarios, los que no saben la ley, los que desconocen las incoercibles leyes que rigen al universo, los pobres ilusos que, esclavos de la apariencia, no han penetrado en el augusto determinismo de todo lo existente, ni se han sumido en el principio de que todo lo racional es real y todo lo real, racional. N (267) 122-137. Todo lo que en mí conspire a romper la unidad y la continuidad de mi vida, conspira a destruirme, y, por lo tanto, a destruirse. Todo individuo que en un pueblo conspira a romper la unidad y la continuidad espirituales de ese pueblo, tiende a destruirlo y a destruirse como parte de ese pueblo. ¿Que tal otro pueblo es mejor? Perfectamente, aunque no entendamos bien qué es eso de mejor o peor. ¿Que es más rico? Concedido. ¿Que es más culto? Concedido también. ¿Que vive más feliz? Esto ya..., pero, en fin, ¡pase! ¿Que vence, eso que llaman vencer, mientras nosotros somos vencidos? Enhorabuena. Todo esto está bien, pero es otro. Y basta. Porque para mí, el hacerme otro, rompiendo la unidad y la continuidad de mi vida, es dejar de ser el que soy, es decir, es sencillamente dejar de ser. Y esto no: ¡todo antes que esto! STV ¡Si pudiese hacerme otro!... Mas ¿cómo he de hacerme otro yo, yo mismo, que soy como soy y no de otra manera? N (82-83) Si può innanzi tutto notare come la chiastica massima hegeliana168 alla base di questo primo frammento analizzato (periodi 56-57), secondo cui «ciò che è razionale è reale; e ciò che è reale è razionale»169, figurasse già in N (anche se in STV compare il nome del filosofo, a differenza di quanto non avvenga, invece, nella meditación evangélica). Il secondo passo che STV è quello relativo ai periodi 122-137, che riprende da N il sintagma «hacerme otro» e, quindi, il tema del concepirsi come altro da sé, l’idea del divenire un altro io. Ma in STV questa idea (caldeggiata, ma ritenuta irrealizzabile in N) viene ad essere addirittura rifiutata in modo categorico, perché «dejar de ser lo que soy» implicherebbe ipso facto il ‘non essere più’ («dejar de ser»). Lo stesso discorso fatto a proposito del primo capitolo si potrebbe applicare anche al secondo, El punto de partida, con la sola precisazione che, in questo caso, uno dei due frammenti deriva direttamente da EMS: !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 168 169 ! Hegel è citato a più riprese nelle carte unamuniane (vedi p. pp. 135-36 e p. 140). Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto (Prefazione), Laterza, Bari, 1954, pag.15. &#! 91-92. Y aun digo más, y es, que si se da en un hombre la fe en Dios unida a una vida de pureza y elevación moral, no es tanto que el creer en Dios le haga bueno, cuanto que el ser bueno, gracias a Dios, le hace creer en Él. La bondad es la mejor fuente de clarividencia espiritual. STV 170 No es tanto, Nicodemo, que sean buenos los buenos porque creen, ni los malos, malos por falta de fe, cuanto que por ser buenos creen los que lo son, y por no serlo no creen los malos. N (225) 111. Y no quiero emplear aquí el yo, diciendo que al filosofar filosofo yo y no el hombre, para que no se confunda este yo concreto, circunscrito, de carne y hueso, que sufre del mal de muelas y no encuentra soportable la vida si la muerte es la aniquilación de la conciencia personal, para que no se le confunda con ese otro yo de matute, el Yo con letra mayúscula, el Yo teórico que introdujo en la filosofía Fichte, ni aun con el único, también teórico, de Max Stirner. STV 171 Los ídolos, los spuks o trasgos que decía el demoledor Max Stirner, caen a los golpes de críticos despiadados. EMS (31) Forse, proprio il frammento che proviene da EMS (periodo 111 di STV) è il più interessante: come si vede, infatti, il riferimento agli ‘spuks’172 di Max Stirner173 era già presente in EMS. La questione comincia a farsi più interessante a partire dal terzo capitolo, El hambre de inmortalidad, decisamente il capitolo in cui confluisce il maggior numero di frammenti (a diversi stadi di elaborazione) da ME, con il duplice filtro di AJH e T, oltreché da T tout court. In altri termini, tanta parte del tema dell’immortalità affrontato in STV proviene da quelle riflessioni generate nel progetto AJH e, poi, travasate e ‘incubate’ in T, dove vanno a formare il coagulo erostratista (che si sviluppa –lo ricordo ancora una volta– da pagina 35 a pagina 58, più alcuni piccoli, minimi accenni o echi alle pagine 5 e 9). Un dato molto interessante riguarda la filiazione di molti di questi passi da ME (e questo discorso vale anche, come si vedrà, per gli altri capitoli di STV), e segnatamente da N e da EMS. Passando in rassegna le catene intratestuali che collegano ME a STV attraverso AJH e T, si mostrerà ora l’iter evolutivo che ha portato all’esito finale di STV. Il primo ‘intratesto plurimo’ riguarda i periodi 13, 14 e 15: !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 170 Cfr. NM, p. 54 (fragmento 36): “Era muy bueno y muy sencillo, no porque creyera sino que creía por ser bueno...”, y D, p. 132: “En un tiempo escribí yo que si se observa fe en los buenos no es que sean buenos porque creen, sino que creen porque son buenos”. 171 Cfr. NM, p. 190: “V. Max Stirner. 150. Cuánto más personal uno más hombre, cuánto más unamunizado yo más humanizado. No por exclusión, por inclusión”. 172 In realtà, il nominativo plurale di spuk (visione, apparizione) è spuke (raro); spuks è un genitivo singolare. Unamuno traduce (o meglio, spiega) con ‘trasgo’ (folletto, spiritello, come ‘duende’). 173 Nelle carte unamuniane (p. 129) si fa riferimento all’«Ich abstracto de Stirner». ! &$! ¡O todo o nada! [...] he wants nothing of a god but eternity? STV O todo ó nada. Y qué otro sentido puede tener el «ser ó no ser!» shakespeariano, del mismo que hizo decir de Marcio en su Coriolano (V. 4) que sólo necesitaba la eternidad para ser dios (He wants nothing of a god but eternity) T (p. 38) No consigo dar otro valor al «ser ó no ser» shakespeariano sup [del mismo que dijo de Marcio en su Coriolano (V. IV) que sólo necesitaba la eternidad para ser] inf[dios (He wants nothing of a god but eternity)] AJH (p. 2v) «Ser o no ser, este es el problema,» repite el moderno Hamlet obsesionado por la sombra de su padre que le pide venganza. EMS (51) Come si può notare, il riferimento al shakespeariano ‘essere o non essere’174 procede da EMS, che in AJH, T e STV viene associato alla inappagabile brama di eternità divina che lo stesso Shakespeare attribuisce a Caio Marzio Coriolano, non a caso un personaggio sprezzante della morte e destinato a una fine tragica. E questo innesto è introdotto proprio a partire da AJH. Poco più avanti troviamo un’altra derivazione di STV da AJH e T, e precisamente al periodo 19: Gritos de las entrañas del alma [...] sueño que sueña. STV Gritos de las entrañas del alma ha arrancado á los poetas de los tiempos todos esta tremenda visión del fluir de las olas de la vida, desde el sueño de una sombra de Píndaro hasta «la vida es sueño» de Calderón y el «estamos hechos de la madera de los sueños» de Shakespeare, sentencia esta última aun más trágica que la del castellano, pues mientras en aquello sólo se declara sueño á nuestra vida, mas no á nosotros los soñadores, el inglés nos hace también á nosotros sueño, sueño que sueña. T (p. 39). Gritos de las entrañas del corazón ha arrancado á los poetas de los tiempos todos sup [The Task. I. 284 sigs Wordsworth175. Ode, pag. 313] esta tremenda vista del fluir de las olas de la vida, desde el !"#$'% !&$', sueño de una sombra, de Píndaro, al «la vida es sueño» de Calderón y el «estamos hechos de la madera de los sueños» de Shakespeare. Y ved cuan más terrible es la sentencia del inglés que no la del castellano, pues mientras éste solo declara sueño á nuestra vida, mas no á nosotros que la soñamos, aquel nos hace sueño, sueño también, sueño que sueña. AJH (p. 2v). Aborrecen la luz porque la luz trae la vigilia y les saca de su sonambulismo, de ese sueño en que viven queriéndose convencer de que están hechos de la sustancia misma de los sueños. N (241) Il topos del carattere onirico ed effimero dell’esistenza umana (in certa misura una rilettura del classico ubi sunt) si origina in N, dove è riecheggiata la sentenza ancora una volta shakesperiana «We are such stuff as dreams are made on»176; AJH amplifica questo clichè filosofico-letterario e lo !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 174 L’amletico sintagma to be or not to be compare alle pp. 92-93 e a p. 161 delle carte unamuniane. Nelle carte unamuniane (pp. 60-61) si allude a Matthew Arnold. Preface to The Poems of Wordsworth, chosen and edited by Matthew Arnold, 1879. 176 W. Shakespeare, The tempest, atto IV, scena 1, vv. 156-57. 175 ! &%! declina in chiave calderoniana («La vida es sueño»177) e pindarica (!"#$'% !&$'178, «ombre di sogno»), estendendolo, senza grosse modificazioni, prima a T e successivamente a STV. Nel passaggio da N a AJH risulta evidente la centralità del dolore esistenziale che si fa largo tra le considerazioni poste in essere da Unamuno (si pensi all’espressione «Gritos de las entrañas del corazón» o «tremenda vista del fluir de las olas de la vida»). Nel corrispondente blocco argomentativo di T si segnala un’innovazione interessante inerente all’aggettivazione: la sentenza shakesperiana da «terrible» si fa «trágica». Questa trasformazione è un indice molto significativo, che prelude al tragicismo di STV già presente –in misura più contenuta– in T, come sarà documentato più avanti. Il terzo intratesto degno di nota si riferisce al paragrafo formato dai periodi 25, 26, 27 e 28: ¡Todo pasa! [...] a la primera pareja de enamorados. STV ¡Todo pasa! Tal es el estribillo de los que han bebido de la fuente de la vida, boca al chorro, de los que han gustado del fruto del arbol de la ciencia del bien y del mal. / Ser, ser siempre, ser sin término! sed de ser, sed de ser más! hambre de Dios! sed de amor eternizante! ser siempre y serlo todo! ser Dios! «Sereis como dioses!» cuenta el Génesis (III 5) que dijo la serpiente á la primera pareja de enamorados. T (pp. 39-40) Es el estribillo de los que han >sentido< bebido en la fuente de la vida, boca al chorro, es el estribillo doloroso de los que han gustado el fruto del arbol de la ciencia del bien y del mal.” AJH, p. 3r Quisimos ser dioses por la ciencia del bien y del mal, y esta ciencia nos ha mostrado nuestra desnudez, de que nos avergonzamos ante Dios, y esa ciencia misma nos condena al trabajo y a la muerte. EMS (48) In questo caso si può notare come il tema (tratto da EMS) della sete di conoscenza, che spinge l’uomo a peccare di superbia e tracotanza (h!bris) verso Dio –allontanandosi, così, dalla Sua benevolenza–, venga accostato al ‘ritornello’ del !"#$% 'j(#' eracliteo. La prospettiva muta: nella meditación il fine riposto (o, anzi, manifesto) era semplicemente quello di mettere in cattiva luce la scienza, che «ci condanna al lavoro e alla morte», rispetto alla fede (gnosis versus pistis); da AJH in avanti, invece, l’allusione biblica («Sereis como dioses!», Gn III, 5179) si fa vera e propria citazione, o per meglio dire, quello che la critica letteraria chiamerebbe ‘estrapolazione’. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 177 Il titolo del dramma calderoniano figura nelle carte unamuniane alle pp. 60-61, 150 e 152. Contenuto nell’Ode pitica 8, epodo 5, v. 95. 179 Unamuno cita questo passo anche nelle carte unamuniane (pp. 96-97-98-99-122 e p. 154). 178 ! &&! Questo segmento testuale passerà a T e, poi, a STV, conservando la stessa idea di fondo: l’aspirazione all’eternità, la fame di immortalità che contraddistigue l’ossatura di AJH, ossia la dottrina erostratista, che, portata alle estreme conseguenze, diviene desiderio di essere Dio, al punto che il «Seréis como dioses» pronunciato dal serpente viene letto come anelito naturale, ambizione positiva. Il tutto inquadrato nel discorso sul vanitas vanitatum, che anche in STV diventa e converso il motore che conduce all’amore e a bramare un’eternità che si svincoli dalla realtà transeunte. Il periodo successivo (29) ha in due passi distinti di EMS il proprio antecedente: «Si en esta vida tan sólo hemos de esperar en Cristo, somos los más lastimosos de los hombres», escribía el Apóstol (1 Cor., XV, 19), y toda religión arranca históricamente del culto a los muertos, es decir, a la inmortalidad. STV [...] y toda religión arranca historicamente del culto á los muertos (v. James 491. 506 y 507)180 […] Mil veces y en mil tonos se ha dicho como es el culto á los muertos antepasado lo que enceta, por lo común, las religiones primitivas [...] T (p. 40) Religión basada en culto á los muertos y egotismo. v. James 491, 506 y 507 (Leuba y Bender) AJH (p. 3r) La obsesión de la muerte fue el elemento religioso que combinándose con el económico produjo las viejas civilizaciones orientales, que, como la del típico antiguo Egipcio, arrancaron de la esclavitud y del culto a los muertos antepasados. EMS (52) O se muere del todo o no, y «si en esta vida tan sólo esperamos en Cristo somos los más miserables de los hombres,» – exclamaba el Apóstol, añadiendo que «si los muertos no resucitan comamos y bebamos, que mañana moriremos» (I. Cor. XV 19 y 32). EMS (64) T chiosa la citazione paolina (1 Cor. XV, 19)181, specificando che il «culto a los muertos» equivale al culto dell’immortalità, che diviene parola-chiave, e rinviando contestualmente a William James (tale rimando lo si registra già in AJH, dove, però, il correlativo intratesto si riduce a un breve appunto). In questo modo, viene introdotto un importante elemento di novità. In AJH, inoltre, si rende esplicito il legame tra la religione, fondata sul culto degli avi, e l’egotismo, componente imprescindibile dell’erostratismo, che nasce da pulsioni egoistiche. Sempre a partire da T (AJH, in questo, caso è troppo esiguo per essere valutato) viene soppresso il richiamo al capitolo XV, versetto 32, della prima lettera ai Corinzi. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 180 Cfr. carte unamuniane: «Dice Guillermo James, >un< pensador norteamericano: “La religión para la gran mayoría de nuestra propia raza no significa de hecho, nada más que inmortalidad. Dios es el productor de inmortalidad; y á quien abrigue dudas respecto á ella se le condena como á ateo, sin más rig*“enjuiciamiento”» (pp. 96-97-98-99-122); «Esfuerzos de James etc por restablecer la inmortalidad» (p. 150) 181 Alla p. 161 delle carte unamuniane si legge: «1. Corintios XV 12-20 sobre todo el 19 “Si en esta vida solamente esperamos en Cristo los más miserables somos, de todos los hombres”». ! &'! Un altro lungo frammento proviene da EMS (dal periodo 49 al 54): Aunque al pronto nos sea congojosa [...] ¡Vanidad de vanidades! STV Aunque al pronto nos sea congojosa esta meditación de nuestra mortalidad no [sic] es al cabo corroboradora. Recójete, lector, en tí mismo y figúrate un lento deshacerte, en que la luz se te apague, se te enmudezcan las cosas y no te den sonido envolviéndote en silencio, se te derritan entre las manos los objetos asideros, se te escurra de bajo los pies el piso, se te desvanezcan como en desmayo los recuerdos y las ideas, se te vaya disipando en nada todo y tú disipándote también y ni aun la conciencia de la nada te quede, siquiera como fantástico asidero de una sombra. / He oido contar de un pobre segador muerto en una cama de hospital que al ir el cura á ungir en extrema unción las manos se resistía á abrir la diestra *con >en< que apuñaba unas sucias monedas, sin percatarse de que una vez muerto no sería su mano ya suya ni él de sí mismo. Y así cerramos y apuñamos no la mano, sino el corazón, queriendo apuñar en él al mundo. / Me confesaba un amigo que previendo en pleno vigor de salud física la cercanía de la muerte, pensaba en concentrar la vida viviéndola toda en los pocos dias que calculaba le quedaban é imaginando escribir sobre ello un libro. T (p. 42) Aunque al pronto congojosa, os será, jóvenes, al cabo meditación corroboradora el que recogiendoos en vosotros mismos os figureis un lento *deshaceros >(derretiros)<, sup [deshacimiento] en que *la luz >el sol< se os apague, se os enmudezcan los sonidos, se os derritan entre las manos las cosas vayan var var [objetos] >asideras< se os *escurra >*hunde vaya* falte< el piso, se os [desvanezcan como en desmayo] los recuerdos y las ideas, se disipe en la nada todo y ni aun la conciencia de la nada misma os quede, siquiera como fantástico asidero de una sombra. / He oido contar de un pobre segador gallego muerto en una cama de hospital que al ir el cura á ungirle en extrema unción se resistía á abrir la >m< diestra en que apuñaba unas sup[sucias] monedas, sin (percatarse) de que una vez muerto no sería su mano ya suya. Y así muchos que >en vez de la mano< sup[cierran [?] ] y apuñan no ya la mano, el >espiritu< corazón, queriendo apuñar en él al mundo. Me confesaba un amigo que previendo en pleno vigor de salud física la cercanía de la muerte, sólo pensaba en concentrar la vida, viviéndola toda en los pocos dias que calculaba le quedaban, é imaginando escribir sobre ello un libro. AJH (pp. 3r-3v) Es bueno, lector, que recogiéndote en ti pienses en que el sol se te apague, se te enmudezcan los sonidos, se te desvanezcan a la vista las formas, se te licue todo en la nada y ni aun la conciencia de la nada misma te quede. / He oído contar de un pobre segador muerto en un hospital que al ir el cura a ungirle en extrema unción se resistía a abrir la mano derecha en que aferraba una moneda, sin acordarse de que una vez muerto su mano no sería ya suya. Así hay muchos que en vez de la mano cierran el espíritu queriendo guardar en él al mundo. Me confesaba un amigo una vez que previendo en pleno vigor de salud física una muerte muy próxima sólo pensaba en concentrar la vida viviéndola toda en los pocos días que calculaba le quedarían, e imaginaba escribir un libro: «Los últimos días de mi vida.» / ¡Vaciedad de vaciedades! ¡Triste estado de paganismo el que ha descrito Renan en uno de sus dramas! EMS (59-63) L’aneddoto del ‘povero mietitore’, preceduto dall’invito a immaginare un lento affievolirsi dei sensi fino a un annullamento totale di sé (in breve, lo spettro della morte), lo si ritrova ! &(! pressocché identico a partire da EMS. Tuttavia, è bene rilevare alcune varianti emendative o innovative. Innanzi tutto, l’apostrofe diretta al lettore di EMS è sostituita in AJH –e non stupisce– dal vocativo «jóvenes», per poi essere ripristinata in T; questo intervento restaurativo sarà, quindi, trasmesso a STV. AJH, inoltre, introduce un significativo riferimento all’angoscia: «Aunque al pronto congojosa os será...», che sarà mantenuto sia in T sia in STV: «Aunque al pronto nos sea congojosa...». Si tratta del riflesso evidente di una tendenza e di un atteggiamento verso l’esistenza che troverà il suo massimo compimento in T e, soprattutto, in STV, dove la congoja è una nota dominante. Come si può notare, peraltro, rispetto a AJH si registra in T e STV il passaggio dalla seconda alla prima persona plurale. AJH introduce anche il senso del tatto («objetos asideros», «fantástico asidero de sombra») ai sensi elencati nell’accumulazione del processo dissolutivo-anestetico associato all’annullamento totale di sé cui condurrebbe la morte. A partire da AJH vi è una insistenza sempre maggiore sul tema del annichilimento della coscienza legata al post mortem, e ciò si riverbera nella sostituzione del verbo «licuar» con il verbo «disipar», cambio che si conserva fino a STV: «[...] se te licue todo en la nada [...]» EMS «[...] se disipe en la nada todo [...]» AJH. ! &)! Nel passaggio da AJH a T (e, senza stravolgimenti, a STV), poi, Unamuno amplifica il senso di nichilismo con un’aggiunta che chiama in causa e coinvolge direttamente la persona e l’anima dell’uomo: «[...] se te vaya disipando en nada todo y tú disipándote también [...]» T. Se la precisazione, innestata in AJH e in seguito abbandonata, che quello citato sia un «segador gallego» è un dato trascurabile, probabilmente lo stesso non si può dire per quanto riguarda l’espunzione del sintagma biblico (con variazione sul tema) «vaciedad de vaciedades», che, tuttavia, sarà ripristinato in STV nella forma originale «vanidad de vanidades». Nella frase successiva si può notare come Unamuno introduca una importante variante immediata in AJH rispetto a EMS, sostituendo «espíritu» con «corazón», che si manterrà anche in T e STV, a testimonianza della crescente centralità della dimensione del cuore e del sentimiento: «[...] y apuñan no ya la mano, el >espiritu< corazón, queriendo apuñar en él al mundo.» AJH. Inoltre, da AJH in poi sono stati eliminati il titolo del libro «Los últimos días de mi vida» e il riferimento al dramma di Renan182 e al paganesimo. Il periodo 55 di STV proviene da EMS, che a sua volta trova in una lettera a Jiménez Ilundain183 del 3 gennaio 1898184 e in CH i propri antecedenti: Si al morírseme el cuerpo que me sustenta [...] y el humanitarismo lo más inhumano que se conoce STV Si al morirseme el cuerpo que me sustenta y al que llamo mío para distinguirle de mí mismo, vuelve mi conciencia á la absoluta inconciencia de que brotara, y como á la mía les pasa á las de >los demás< mis hermanos *todos >míos< en humanidad, entonces no es nuestro trabajado linaje más que una fatídica procesión de fantasmas !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 182 Cfr. carte unamuniane: «“Este universo es un espectáculo que Dios se da á sí mismo. Sirvamos las intenciones del gran corega contribuyendo á hacer el espectáculo lo más brillante y lo más variado que sea posible.” Renán» (pp. 9697-98-99-122); Renan è nominato anche a p. 129. 183 Riferimenti a Jiménez Ilundain e a una sua lettera figurano nelle carte unamuniane: «Se revuelven contra quien habla de tí, (Ilundain, el anónimo de Vitoria)» (p. 121); «V. la carta de Ilundain» (p. 150). 184 Epistolario americano (1890-1936), ed. di L. Robles, Salamanca, Universidad de Salamanca, 1996. ! &*! que va de la nada á la nada, y el humanitarismo lo más inhumano que se conoce. T (pp. 42-43) Si al morirsup[seme] el cuerpo que me sustenta y al que llamo mio para distinguirle de mí mismo, si al morírseme vuelve mi conciencia á la absoluta inconciencia de que brotara, y como á la mia les pasa á las de mis >propi< hermanos todos en humanidad, sup [entonces] no es nuestro sup [trabajado] linaje otra cosa más que una fatídica procesión de fantasmas que va de la nada á la nada y el humanitarismo lo más inhumano que se conoce. AJH (p. 3v) ¿Que la muerte no es para la sociedad más que un accidente? ¿que si yo muero quedan otros? Sí, otros que morirán a su vez, y si todos morimos del todo no es el género humano más que una sombría procesión de fantasmas que salen de la nada para volver a ella. EMS (65-67) Si todos estamos condenados a volver a la nada, si la humanidad es una procesión de espectros que de la nada salen para volver a ella [...], Carta a Jiménez Ilundain del 3-I-98, EpA (p. 45) Si el pobre linaje humano es una procesión de conciencias que de la nada salen para volver a ella; si un día hecho polvo nuestro globo, no ha de quedar de nuestras conciencias nada, ¿para qué luchar? CH (p. 46). Dalla «procesión de conciencias» di CH si passa, dunque, alla «procesión de espectros» della lettera a Jiménez Ilundain e, infine, alla «sombría procesión de fantasmas» di EMS, che, a partire da AJH, diventerà una «fatídica procesión de fantasmas». La scelta dell’aggettivo fatídica rivela un incipiente ‘senso tragico della vita’, che raggiungerà la propria piena maturazione in STV. A ben vedere, AJH innesta nel tessuto dell’argomentazione per lo meno tre elementi di novità rilevanti: innanzi tutto, la distinzione tra morte corporale e morte dell’anima; secondariamente, il ragionamento di Unamuno prende le mosse dalla focalizzazione sul proprio io («si al morírseme el cuerpo»); infine, l’idea nihilista dell’insensatezza della vita e della ‘disumanità dell’umanità’ –per ricalcare l’antitesi unamuniana– trovano una nuova collocazione e acquistano un senso diverso nel riconoscimento della hermandad degli uomini. Il paragrafo formato dai periodi 57-61 di STV deriva direttamente da una riflessione contenuta in N sull’enigma della Sfinge, che, riformulata, è giunta a STV senza la mediazione di AJH e T: ¡No! El remedio es considerarlo cara a cara [...] la que nos da el amor de esperanza. STV No hay en realidad más que un gran problema, y es éste: ¿cuál es el fin del universo entero? Tal es el enigma de la esfinge; el que de un modo o de otro no le resuelve, es devorado. N (13-14) ! '+! Si prenda ora in considerazione il frammento che comprende i periodi dal 72 al 75 di STV, proveniente da EMS: «Anonadado yo, si es que del todo me muero [...] y se le llama liberadora a la muerte. STV «Anonadado yo, si del todo me muero – nos decimos – se me acabó el mundo, acabose, y ¿por que no ha de acabarse cuanto antes para que nuevas conciencias no vengan á padecer el pesadumbroso engaño de una existencia pasajera y aparencial? Si deshecha la ilusión del vivir, el vivir por el vivir mismo no nos llena el alma, ¿para qué vivimos? La muerte es nuestro remedio.» Y así es como se endecha al reposo inacabable por miedo á él, y se le llama á la muerte liberadora, ya que >hayamos de< vivamos para haber de retornar á la nada.”, T (p. 44) >«Muerto yo, si< «Anonadado yo, si del todo me muero – nos decimos se sup[me] acabó el mundo, acabose, y ¿por qué no ha de acabarse cuanto antes para que nuevas conciencias no vengan á padecer el apesadumbrador var [pesadumbroso] engaño de una existencia pasajera y >de apariencia< aparencial? Si, deshecha la ilusión del vivir, el vivir por el vivir mismo no nos llena ¿para qué vivimos? La muerte es *nuestro >el< único remedio.» sup [De perdido, al agua!] Y así es como se endecha al reposo inacabable por >terr< miedo á él, y se le llama á la muerte liberadora ya que vivamos para retornar á la nada.”, AJH, p. 4r. Siguiendo por este camino se ha llegado a predicar el suicidio universal, el anonadamiento, y ha aparecido con carácter social el nihilismo teórico. «Muerto yo, si del todo me muero – se dicen muchos – se acabó el mundo ¿por qué no ha de acabarse cuanto antes para que nuevas conciencias no vengan a sufrir la pesada broma de una existencia fenoménica y pasajera? Si hemos deshecho la ilusión de vivir y el vivir por el vivir mismo no nos satisface ¿para qué vivimos? La muerte es el único remedio.» Y así es como se ha endechado al reposo inacabable por terror a él, y se ha llamado a la muerte como a liberadora ya que vivamos para volver a la nada. Los tragos amargos apurarlos pronto y de una vez; ¡volvamos cuanto antes a la nada! EMS Al di là delle fisiologiche modifiche di carattere stilistico (aggiunte, inversioni ed espunzioni evidenziano un paziente ‘lavoro di lima’), il dato più interessante è, forse, la soppressione del riferimento al carattere sociale del nichilismo contestualmente alla sostituzione di «Muerto yo» con «Anonadado yo» attraverso una Sofortvariante operata in AJH. Sembra quasi che Unamuno voglia puntare il dito più sull’annichilimento personale che su quello universale, sebbene non vi sia, in fondo, distinzione nella prospettiva unamuniana tra male di vivere individale e pessimismo cosmico. Un’altra variante significativa è –a mio avviso– la sostituzione di «broma» (EMS) con «engaño» (AJH, T e STV): «[...] la pesada broma de una existencia fenoménica y pasajera?» EMS ! '"! «[...] el apesadumbrador var[pesadumbroso] engaño de una existencia pasajera y >de apariencia< aparencial?» AJH «[...] el pesadumbroso engaño de una existencia pasajera y aparencial? » T, STV Si tratta molto probabilmente dell’inganno estremo leopardiano185 (citato nel periodo 76 di STV, ultimo anello di questa catena intratestuale) anche se Unamuno propone, in realtà, una ‘mislettura’ di A se stesso, confondendo la perdita dell’illusione d’amare propria del poeta recanatese con l’inganno di credersi immortali: 76. Ya el poeta del dolor, del aniquilamiento, aquel Leopardi que, perdido el último engaño, el de creerse eterno / Perì l'inganno estremo / ch'eterno io mi credei, / le hablaba a su corazón de l'infinita vanitá del tutto, vio la estrecha hermandad que hay entre el amor y la muerte y cómo cuando «nace en el corazón profundo un amoroso afecto, lánguido y cansado juntamente con él en el pecho, un deseo de morir se siente». STV Ya el poeta del dolor, Leopardi, vió la estrecha hermandad que hay entre el amor y la muerte [...] T (p. 44) Háblase a sí mismo el pobre Leopardi, pide á su cansado corazón reposo, pues pereció el extremo engaño de creerse eterno [...]. Y acaba el triste, perdido el engaño, por pedirle que desprecie sup [á] la naturaleza, al torpe poder que, oculto, para daño común impera / y la infinita vanidad del todo. AJH (p. 3r) ¡Qué enseñanzas tan amargas en la obra del pobre Leopardi, empapado en la enorme noia, en el fastidio inmenso del nihilismo y pidiendo el aniquilamiento para salir de una vez de la infinita vanità del tutto, del vacío de un sombrío teatro de espectros, que divierten a los niños y entenebrecen el ánimo a los maduros! EMS (42) Più avanti in STV (periodi 78-79) figura la citazione tratta dal Fedone di Platone «&%'() *"+ , J&-#./#,)»186, che affonda le proprie radici nel Plán del Tratado (PT) e passato sia a T, sia a AJH: Trágico es el problema [...] de la apuesta de Pascal. | >Terri< Trágico es el problema, y eterno, y cuanto más queremos de él huir más vamos á dar en él. Fue el sereno Platón, hace ya veinticuatro siglos, el que en su diálogo sobre la inmortalidad del alma ó Fedón dejó escapar del alma, hablando >del riesgo< de lo dudoso de !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 185 Nelle carte unamuniane sono menzioanti il sintagma leopardiano «L’infinita vanità del tutto» da A sé stesso (p. 73) e a p. 156 sono frettolosamente appuntati i versi 2-3 dello stesso componimento («Perí l’inganno ch’io eterno me credei etc. [sic]»). 186 Questa sentenza e diversi accenni al Fedone di Platone figurano in varie pagine delle carte unamuniane: «Platón, Fedón pag. 136» (p. 34); «Al frente como lemas: Si en este mundo sólo etc. (en griego) y del Fedón principio LXIII»; «Paso del $)$&$*+% al $&,-(.'+% en Fedón» (p. 35); «/$-+% 0$' + "#&)1&+%» (pp. 132-134); «El Fedón» (p. 150). ! '#! nuestros ensueños y del riesgo de que sean vanos, aquel profundo dicho ¡hermoso es el riesgo &%'() *"+ ,J &-#./#,), hermoso es el riesgo que corremos de que se no se nos muera el alma nunca, germen esta sentencia del >fam< argumento famoso de la apuesta de Pascal. T (p. 45) A Platón, tratando en su Fedón de la inmortalidad del alma se le escapó aquel profundo dicho de ¡hermoso es el riesgo! &%'() *"+ , J&-#./#,), hermoso es el riesgo que se corre de no morirsup[senos] nunca el alma, germen de la apuesta de Pascal. AJH (p. 4v) VII / La esperanza en Dios. sup sup [este] argumento del famoso [Esperanza y belleza VII-XI La congoja. Esperanza de liberación de] Dios Padre. >Dios< Inmortalidad. Erostratismo. Dios y de liberación en El. Esperanza y belleza, &%'() *"+ , J&-#./#,) inf[Se vive por la incertidumbre.] PT (8). Nel Plan, come risulta evidente, compare il vocabolo ‘erostratismo’, accostato alla parola ‘inmortalidad’, segno e ulteriore prova della forte componente erostratista del terzo capitolo di STV. Il periodo 82 di STV (e il rispettivo intratesto di T e AJH) Yo soy el centro de mi universo [...] «¡Mi yo, que me arrebatan mi yo!» STV Yo soy el centro de mi universo, el centro del universo, y en mis angustias supremas exclamo con Michelet: «mi yo, que me arrebatan mi yo!» T (p. 45) Yo soy el centro de mi universo, el centro del universo, y con Michelet exclamo en mis angustias supremas: «mi yo, que me arrebatan mi yo!» AJH (p. 4v) Y ¡mi yo! – exclamamos con Michelet – ¡qué me arrebatan mi yo! EMS (75) aggiunge alla citazione di Michelet già presente in EMS due elementi degni di nota: da un lato, vi è una amplificatio della prospettiva egocentrica («Yo soy el centro de mi universo, el centro del universo [...]»); dall’altro, attraverso l’introduzione del termine angustias a partire da AJH si fa breccia il tema della congoja esistenzialistica che caratterizzerà STV. Questo egocentrismo sarà, poi, precisato nella sentenza del periodo 85 (invariata da AJH in avanti), tipico esempio di illuminante paradosso unamuniano, che si rimonta a EMS, dove è maggiormente articolato e inserito in un discorso i cui protagonisti sono i giovani, intimamente legati ad interessi individuali (definiti da Unamuno i veri interessi universali ed umani) che agli intereses generales, cioè sociali: Nada hay más universal que lo individual, pues lo que es de cada uno lo es de todos. STV = T (p. 46) = AJH (p. 4v) Aparente atonía tapa un vivo hervor íntimo, así como el desvío que gran parte de la juventud muestra ! '$! hacia los llamados por antonomasia intereses generales y su apartamiento de la ostensible vida pública puede ocultar tal vez una profunda obsesión por los eternos intereses individuales, que siendo de cada uno de los hombres, resultan al cabo los más universales de todos los intereses humanos. EMS (4). Il passo costituito dai periodi 87-89: Eso que llamáis egoísmo [...] Y, sin embargo, no sabemos amarnos. | Eso que llamais egoismo es el principio de la gravedad psíquica, el postulado necesario. ¡Ama á tu prójimo como á tí mismo, se nos dijo, presuponiendo que cada cual se ama á sí mismo y no se nos dijo: ámate! Y, sin embargo, no sabemos amarnos. T (p. 46) El egoismo es el principio de gravedad psíquica, el postulado necesario. Ama á tu prójimo como á tí mismo se nos dijo presuponiendo que cada cual se ama á sí mismo, y no se nos dijo: amate! AJH (p. 4v) Frente al llamado egoísmo cristiano y en su odio al potente y salvador sentimiento de la personalidad humana que conservó el pueblo escogido, predicó el funesto Schopenhauer el altruismo búdico, que con el nirvana por ideal, conduce a los pueblos a un género cualquiera de opio y a la estupidez por fin. EMS (82) vede anzitutto l’eliminazione, da AJH in poi, dell’allusione a Schopenhauer e al suo «altruismo búdico»187 mosso dall’ideale del nirvana, in contrapposizione all’egoismo che, sempre a partire da AJH, non è più aggettivato come ‘cristiano’, anche se questa espunzione è compensata dalla citazione del comandamento di Gesù di amare il prossimo come sé stessi. In seconda battuta, spicca l’aggiunta di T «Y, sin embargo, no sabemos amarnos» estesa a STV, indice di un crescente e sfiduciato pessimismo. La maggior parte degli intratesti che vincolano STV alle Meditaciones provengono da EMS, e non fa eccezione il periodo 102, in cui Unamuno riflette sulla validità dell’assunto lavoisieriano «tutto si crea e nulla si distrugge»: Y vienen queriendo engañarnos con un engaño de engaños [...] ¡y hay quien pretende darnos consuelo con esto! STV Y vienen y quieren engañarnos con un engaño de engaño y nos hablan de que nada se pierde, de que todo se trasforma, muda y cambia, que ni se aniquila el menor golpecito de fuerza, y hay quien pretende buscar en esto consuelo. T (p. 47) Quieren engañarnos con un engaño de engaño y nos hablan de que nada se pierde, !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 187 Tra le carte unamuniane compaiono alcuni richiami al buddismo schopenhaueriano: «El neobudismo.schopenhaueriano y la concepción pesimista.» (p. 129); «El nihilismo, budismo, anuncia la muerte de un pueblo. glos sov[n]187 / Schopenauer.» (p. 158). ! '%! sino todo se transforma, muda y cambia, que ni se aniquila *el menor pedacito >un (atomo)< de materia ni se desvanece inf *el menor golpecito >*empelloncito* un adarme< de fuerza, y hay quien en esto busca consuelo. AJH (p. 5r) «Nada se anula – nos dicen por vía de consuelo intelectual – todo se trasforma; ni la materia ni la fuerza se pierden. Cuanto hacemos permanece en una u otra forma.» EMS (73-74). Quello che in EMS viene indicato come un «consuelo racional» viene espressamente definito «engaño de engaño» in AJH e «engaño de engaños» in T e STV, attraverso un prezioso poliptoto esaltato dalla cornice della figura etimologica, all’interno della quale è incorniciato (««engañarnos con un engaño de engaños»). Ritorna, dunque, il concetto nihilistico dell’inganno (già analizzato in precedenza) associato alle risposte escatologiche fornite ora dalla religione, ora dalla filosofia, ora dalla scienza. L’intratesto che si andrà ad esaminare adesso deriva da due abbozzi inediti facenti capo alle Meditaciones, ossia il borrador A di «San Pablo en el Areópago» (SPA-bA) e il borrador B de «La conversión de san Dionisio» (CSD-bB) e, passando per AJH e T, giunge fino a STV: Cuenta el libro de los Hechos de los Apóstoles [...] en oír algo de más nuevo» (v. 21). STV Cuenta el libro de los Hechos de los apóstoles que á donde quiera que fuese Pablo se concitaban contra él los celosos judios y le perseguían. Fué apedreado en Iconio y en Listra, ciudades de Licaonia, á pesar de las maravillas que en la última obró, le azotaron en Filipos de Macedonia y le persiguieron sus hermanos en Tesalónica y en Berea. Pero llegó á Atenas, á la noble ciudad de los intelectuales sobre que velaba el alma excelsa de Platón, y allí disputó con epicúreos y estoicos [...] T (pp. 35-36) Cuenta el libro de los Hechos de los Apóstoles (cap. XVII) que llevado Pablo sup [á] Atenas disputaba con los estoicos y epicureos [...] AJH (6v-7r) Por donde quiera que iba Pablo el converso durante su apostolado tumultuaban al pueblo los judios de la dispersión, en cuyas sinagogas entraba á disputar, y enojabanse con él á causa de su predicación á los gentiles y de su doctrina respecto á la circuncisión. / Fué á dar al cabo en Atenas, corazón de la gentilidad helénica, ciudad llena de recuerdos de cultura y de monumentos de la más elevada belleza humana, donde esperó á Silas y Timoteo. SPA-bA (1-2) S. Pablo comparece en el Areópago. La religión ante la ciencia. Su lenguaje. Allí es donde dice el «en El somos etc» CSD-bB (23) In SPA-bA e CSD-bB si riscontrano –sotto forma di appunti– i punti focali e nodali di quella che sarà la prima sezione del commento del filosofo bilbaino alla vicenda di San Paolo ad Atene descritta negli Atti degli apostoli (At, XVII, 18-21)188. Atene è connotata da un forte valore !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 188 ! Cfr. carte unamuniane: San Pablo en Atenas [Hechos 17, 16-34] (p. 13-14). '&! simbolico: è la città di Platone, degli stoici e degli epicurei, ma anche la roccaforte degli intellettuali ellenisti, dietro il cui velame si celano, con tutta probabilità, i razionalisti e nihilisti moderni. La lettura esegetica unamuniana dell’episodio neotestamentario prosegue con il periodo di STV successivo (139), frammento ereditato da EMS e sviluppato successivamente in AJH e T (molto vicina, la stesura di quest’ultimo, a quella finale di STV): ¡Rasgo maravilloso, que nos pinta [...] para que los venideros tengan algo que contar! STV ¡Rasgo maravilloso que nos pinta á que habían venido á parar los que aprendieron en la Odisea que los dioses traman y cumplen la destrucción de los mortales para que los venideros tengan algo que cantar! T (p. 36) Ante ese terrible misterio de la mortalidad, frente á la Esfinge, (adopta) el hombre distintas posturas, y trata >de< por varios medios de consolarse de haber nacido. Y lo que primero *se >es< le ocurre es tomarlo á juego, ponerse como espectador á presenciar la comedia, ver desfilar al olvido la historia. Es el remedio estético, y fué ya formulado en la Odisea con aquellas palabras: los dioses traman y cumplen la destrucción de los hombres para que los venideros tengan algo que cantar. AJH (p. 6v) Otros, en fin, se hacen idólatras de la belleza, se embriagan en lo fenoménico tomándolo como sustancial y se acogen al esteticismo cuya fórmula desenmascarada dio Homero en su Odisea al decir que los dioses traman y cumplen la destrucción de los mortales para que los venideros tengan algo que cantar. EMS (98). Risulterà, forse, un eccesso di zelo (e di pedanteria) sottolineare come nell’elaborazione intratestuale, che da EMS porta a STV, il verbo cantar della citazione omerica diventa, nell’ultimo anello della catena evolutiva (STV), contar, con tutta probabilità in virtù della vicinanza paronomastica. Tuttavia, si potrebbe trattare più semplicemente di una cattiva lettura del tipografo non emendata dall’autore. La variante ‘contar’, peraltro, si conserva in tutte le edizioni successive di STV. Come mette in luce la collazione dei vari stadi redazionali, inoltre, l’esplicita critica nei confronti dell’estetismo e del fenomenismo presenti in EMS e AJH svaniscono in T ed STV. Nel frammento costituito dai due periodi che seguono (140-141) si chiude la narrazione del discorso di san Paolo davanti all’aeropago, in cui il santo di Tarso viene schernito o, più semplicemente, assecondato con sufficienza e falsa condiscendenza, dai ‘raffinati’ e indifferenti ateniesi (avatar degli intellettuali contemporanei), che si mostrano disponibili e interessati all’ultima novità (scientifica o filosofica), ma, non appena si parla loro di immortalità dell’anima e di religione, sono pronti a voltare le spalle: Ya está, pues, Pablo ante los refinados atenienses [...] «¡ya oiremos otra vez de esto!», con propósito de no oírle. STV Ya está Pablo ante los refinados atenienses [...]. Y alza la voz allí, en medio del Areópago y les ! ''! habla como cumplía á los cultos ciudadanos de Atenas, y todos, ansiosos de la última novedad, le oyen, mas cuando llega á hablarles de la resurrección de los muertos se sup [les] acaban la paciencia y la tolerancia y unos se burlan y otros le dicen: te oiremos de esto otra vez! T (pp. 36-37) Y comenzó Pablo un admirable sermón, mas al llegar á hablarles de la resurrección de Cristo «así que oyeron la resurrección de los muertos, unos se burlaban y otros decían: te oiremos acerca de esto otra vez» (vers. 32) No toleran var [aguantan] tales palabras los estetas, es decir, los que sólo perciben por los sentidos. AJH (p. 7r) Mas así que oyeron hablar de la resurrección... Todos los neo-misticismos son románticos, sensualistas, intelectualistas, todos tienen por base el nihilismo. No hay verdadero sentimiento religioso, de la relación personal de cada uno con un Dios personal, cuyo corolario es la inmortalidad del alma. CSD-bB (9-10) «Te oiremos acerca de esto otra vez.» Déjanos de la resurrección porque eso obliga á pensar en vivo en la muerte. La muerte. CSD-bB (22) Anche in questo caso il passo discende da CSD-bB, dove Unamuno parla esplicitamente di nichilismo come fondamento di ogni misticismo moderno, che definisce ‘intellettualistico’, oltreché ‘romantico’ e ‘sensualistico’. In AJH, tuttavia, la manifesta critica non è più indirizzata al nichilismo tout court, bensì nuovamente all’estetismo, e, come accedeva nella catena intratestuale relativa al periodo 139, in T e STV ogni riferimento a correnti di pensiero contemporanee è omesso. La parte conclusiva dell’interpretazione e meditazione di Unamuno sulla predicazione evangelizzatrice di san Paolo è contenuta nei periodi 144-145 procede direttamente da N. Ma se N offre un ironico quadretto di genere della figura degli intellettuali positivisti spagnoli189 («nuestros intelectuales»), legati alla cultura contemporanea («oliendo el olor a tinta fresca del último libro de París»), in STV Unamuno allude genericamente agli intellettuali («mis intolerables intelectuales»), accostati ai graeculos, i pensatori greci della decadenza: Sea lo que fuere de la verdad del discurso de Pablo en el Areópago [...] mis intolerables intelectuales, es de esto de lo que voy a hablaros aquí. STV Un fariseo, un intelectual seducido por la cultura helénica, fue aquel judío Saulo que empezó persiguiendo a los sencillos y que luego de despierto su corazón enseñó la buena nueva a los gentiles, descubriéndoles a aquel Dios desconocido al que alzaban aras vacías en Atenas, en aquella Atenas, donde, según el mismo Saulo, Pablo luego, se pasaban el tiempo en hablar de la última novedad, corriendo tras lo curioso. / También nuestros intelectuales se pasan el tiempo hablando de la última novedad y comentándola, oliendo el olor a tinta fresca del último libro llegado de París, mientras por el bien parecer refrenan los impulsos del corazón que les quede. También llega a interesarles, como curiosidad, el problema religioso; pero no se acercan a él con sencillez de espíritu, no se abandonan, porque allá, en su interior, lo temen. N (37-39) !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 189 Si potrebbe pensare ad una velata contumelia, ad un a fondo destinati ad Ortega y Gasset, ma non sussistono gli elementi necessari per l’identificazione. ! '(! Un altro frammento di STV procede, senza passaggi intermedi, da N, ed è il periodo 166, in cui Unamuno si pone l’enigma della sfinge, ossia la questione escatologica per antonomasia «qual è il fine del mondo»: Ante este terrible misterio de la inmortalidad [...] consolarse de haber nacido. STV No hay en realidad más que un gran problema, y es éste: ¿cuál es el fin del universo entero? Tal es el enigma de la esfinge; el que de un modo o de otro no le resuelve, es devorado. N (13-14) Per quanto riguarda il segmento seguente, formato dai periodi 167-168 di STV, l’attestazione più antica risale a D, dove si parla di «esteticismo» e di «cultura estética», di «literatos» e di «diletanti» (sic); parallelamente, in EMS e N compaiono rispettivamente i sintagmi «vano literatismo» e «diletantismo inhumano», e i vocaboli «estilo» e «bellas formas». In EMS è introdotto il tema dell’arte e della letteratura moderna come «neo-misticismo», come «religiosidad de desocupados». L’equazione arte-religione non figura (o, per lo meno, non è esplicitata), invece, in N, ma è ripresa in T, dove si descrive l’arte come religione e come «único remedio al mal metafísico». T, inoltre, introduce la citazione di Renan190: Y ya se le ocurre tomarlo a juego, y se dice, con Renán [...] la monserga del arte por el arte. STV Y se le ocurre tomarlo á juego y se dice sup[con Renán] que este universo es un espectáculo que Dios se da á sí mismo y que debemos servir las intenciones del gran corega >h< contribuyendo á hacer el espectáculo lo más brillante y lo más variado posible. Y han hecho del arte una religión y un remedio para el mal metafísico, y han inventado la monserga del arte por el arte. T (p. 52) Afectan no conmoverse por nada, toman el mundo en espectáculo, como estetas, y no les oiréis más que citar libros y autores y teorías, y barajar ideas secas, y disertar acerca del estilo y de las bellas formas. N (34) Suelen acabar los tales estetas, encharcados en el más vano literatismo, por darse al mundo en espectáculo, por cultivar un sentimentalismo adormecedor o enervante o un diletantismo inhumano, por dar cierto religiosismo de desocupados como si fuese religiosidad. De aquí ha salido ese engendro del llamado neo-misticismo, sobre que asoma la siniestra figura de aquel René191 corroído de orgullo. EMS (99-100) El instinto de la novedad, tan vivaz en la raza griega, les picó la curiosidad. Era una raza preparada por larga cultura estética. Véase, pues, para qué puede servir el esteticismo y como puede llevar !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 190 Scrive Ernest Renan: «Cet univers est un spectacle que Dieu se donne à lui-même. Servons les intentions du grand chorège en contribuant à rendre le spectacle aussi brillant, aussi varié que possible.» Passo citato da William James in Will to believe, p. 170, nota 1. Anche nelle carte unamuniane è più volte citato Renan («“Este universo es un espectáculo que Dios se da á sí mismo. Sirvamos las intenciones del gran corega contribuyendo á hacer el espectáculo lo más brillante y lo más variado que sea posible.” Renán» (pp. 96-97-98-99-122); Renan è nominato anche a p. 129. 191 ! Cfr. carte unamuniane (pp 154 e 158). ')! a oír la palabra de Dios. [...] El mundo era para hablar de él, para espectáculo y tema de conversación. Los literatos, los diletanti [sic], los esteticistas de hoy son los atenienses. D (p. 196) L’ultimo intratesto relativo al terzo capitolo di STV nato dalle Meditaciones (e che valga la pena di essere menzionato) proviene direttamente da JyS e riguarda l’ultimo capoverso di El hambre de inmortalidad (periodo 256): Esa sed de vida eterna apáganla muchos [...] a todos es dado beber de ella. | Estudiando sin prejuicio la dulce aparición que se nos muestra llenando los siglos espirituales, sentada junto a la fuente del saber, pasásenos por un momento la idea de pedirle fe para vivir tranquilos como los sencillos, y envidiamos la paz de éstos y quisiéramos caer de hinojos y adorar. Es que allá, brotando de las honduras de nuestro estudio, si es éste sincero y serio, ofrécenos Jesús el agua viva de la fe en él y sacar de la roca de nuestra razón manantial que riegue nuestra alma. JyS (24-25) In STV è ripresa l’idea di una fede autentica e sincera come fonte della religione; viene meno il riferimento a Gesù e, soprattutto, si legge tra le righe uno sconfortato pessimissimo. Se in JyS c’è ancora un barlume di speranza (anche se è già netto il senso di un’alterità rispetto ai poveri in spirito («[...] pasásenos por un momento la idea de pedirle fe para vivir tranquilos como los sencillos, y envidiamos la paz de éstos [...]»), in STV Unamuno sembra annoverarsi irreversibilemente (e inappellabilmente) tra coloro ai quali non è dato attingere alla fonte della vita eterna. Non si riscontrano rilevanti consonanze intratestuali tra ME e STV per quanto concerne il quarto capitolo, La esencia del catolicismo. Il capitolo V (La disolución racional), invece, ha ereditato da ME tre intratesti, di cui due –quanto meno– interessanti: il frammento formato dai periodi 302-304 ed il passo costituito dai periodi 312-313. Il primo frammento di STV (302-304) deriva direttamente da un passo di N, da cui Unamuno trae una riflessione sulla facoltà razionale, accostata analogicamente all’autofagia, in virtù della sua analiticità «destructiva y disolvente», che la porta a distruggere il concetto stesso di ‘verità’: ! '*! El triunfo supremo de la razón, facultad analítica, esto es, destructiva y disolvente, es poner en duda su propia validez. Cuando hay una úlcera en el estómago acaba este por digerirse a sí mismo. Y la razón acaba por destruir la validez inmediata y absoluta del concepto de verdad y del concepto de necesidad. STV 192 He llegado a conocer una enfermedad terrible semejante en el orden del espíritu a lo que en el orden de la materia sea una autofagia, un estómago ulcerado, que, destruido el epitelio, empieza a digerirse a sí mismo. N (42) Il secondo frammento (312-313) –ampiamente rimaneggiato– proviene, attraverso la mediazione di T, da JyS; da qui Unamuno recupera l’idea antipositivistica che la ricerca di conoscenza (e di verità) attraverso la scienza, non conduce alla consolazione sperata, ma trascina inesorabilmente verso il baratro dello scetticismo, della «desesperación sentimental»; don Miguel, in sostanza, confessa che l’«intelectualismo» lo ha portato, passando per un fenomenalismo radicale, all’ateismo (già in T scompare il riferimento a Gesù, incarnazione della Fede come Verità): Ni el sentimiento logra hacer del consuelo verdad, ni la razón logra hacer de la verdad consuelo; pero esta segunda, la razón, procediendo sobre la verdad misma, sobre el concepto mismo de realidad, logra hundirse en un profundo escepticismo. Y en este abismo encuéntrase el escepticismo racional con la desesperación sentimental, y de este encuentro es de donde sale una base -¡terrible base!- de consuelo. STV 193 Mis estudios y meditaciones de filosofía y teología me fueron llevando poco á poco al más radical fenomenalismo, y llegué á ser, con la razón, completamente ateo. Y entonces, cuando mi alma peregrinaba por los terribles páramos del intelectualismo, sabía decir que no debemos buscar más consuelo que la ren*verdad >razon<, llamando verdad á la razón. Pero fuí hundiéndome poco á poco en la íntima desesperación, en el abismo racional, en el sentimiento del vacío de todo lo existente, y del fondo mismo de la miseria surgió la verdad, el consuelo. T (pp. 4-5) Los que buscan hacer de la verdad consuelo se llegan un día a preguntar: el consuelo, ¿no es verdad? Vamos a estudiarlo, a descifrarlo, vamos a someter ese Jesús a los medios de nuestra investigación y al potro de nuestra crítica. ¡Hermoso problema! JyS (13) !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 192 Cfr. Carta a Arzadun del 30-X-1897, EpA, p. 41: “¡Cuánto podría decirte acerca de la terrible auto-consunción del intelectualismo! Hay una enfermedad tremenda del estómago y es aquella en que, perdido o desnaturalizado el epitelio estomacal, se digiere el estómago a sí mismo y se destruye.” y Carta a Jiménez Ilundain del 3-I-1898, EpA, p. 45: “Lo terrible en las úlceras del estómago es que empieza éste a digerirse a sí mismo destruyéndose. Así en la úlcera del intelectualismo la conciencia se devora a sí propia en puro análisis.” 193 Cfr. Carta a Jiménez Ilundain del 3-I-1898, EpA, p. 45: “Y hoy me encuentro en gran parte desorientado, pero cristiano y pidiendo a Dios fuerza y luz para sentir que el consuelo es verdad.” Incluso en la sección titulada “Nicodemo”de M. de Unamuno (“Mateo, XXIII, 5 – Juan, XI, 47 y 48 – Nicodemo”, Juventud, Madrid, 27-III-1902) se define a Nicodemo como “discípulo vergonzante”. ! (+! Nel capitolo sesto (En el fondo del abismo) figurano due intratesti interessanti: il periodo 92 e il periodo 95 di STV. Nel primo caso ci si trova di fronte ad una catena avantestuale complessa (e completa), che getta le proprie radici in PT e giunge a STV attraverso AJH e la prima pagina di T: La voluntad y la inteligencia se necesitan, y a aquel viejo aforismo de nihil volitum quin praecognitum, no se quiere nada que no se haya conocido antes, no es tan paradójico como a primera vista parece retrucarlo diciendo nihil cognitum quin praevolitum, no se conoce nada que no se haya antes querido. STV Una cosa es el amor y otra el conocimiento de Dios, aunque en realidad no quepa amar sin conocer ni conocer sin amar. El viejo aforismo de que nada puede quererse sin haberlo antes conocido debe completarse diciendo que no puede conocerse sin haberlo tras ||querido antes||, antes de conocerlo. Y es que el amor y el conocimiento se engendran el uno al otro. Hay que amar para conocer y hay que conocer para amar. / Y cual es el mejor camino? empezar por el conocimiento para ir al amor ó empezar por el amor para ir al conocimiento? El primer camino, por lo que hace á Dios, ha llevado á los hombres al endurecimiento de la desesperación. T (p. 1)194 = AJH (19r) II Que es amor. Hay que amar para conocer y conocer para amar. inf [tancialmente, compadece.] Nihil cognitum quin praevolitum. tras sup [El que conoce por dentro, sus-] [Amar es compadecer El hombre quiere ser compadecido. El pobre. No dolor como mi dolor Amar es desesperarse. Amor y muerte. Amor sexual, perpetuar el dolor.] Conoc. sin amor, lógico, pasivo. PT (3) Come risulta evidente, sin da PT è presente il paradossale rovesciamento della aforisma nihil volitum quin praecognitum, che diventa nihil cognitum quin praevolitum195: amore e conoscenza sono intimamente legati, ma in STV l’amore prende il sopravvento sulla conoscenza, la pistis sulla gnosis, dall’altro, il sentimento sulla razionalità. Il secondo intratesto del sesto capitolo corrisponde al periodo 95 di STV, che riprende il sintagma voluntarista ‘querer creer’ da un passo di JyS: Ya veremos que creer es, en primera instancia, querer creer. STV ¡Quiero creer!, he aquí el principio del creer. JyS (50) !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 194 Cfr. también STV, VIII (117-123): “Y es que al Dios vivo, al Dios humano, no se llega por camino de razón, sino por camino de amor y de sufrimiento. La razón nos aparta más bien de Él. No es posible conocerle para luego amarle; hay que empezar por amarle, por anhelarle, por tener hambre de Él, antes de conocerle. El conocimiento de Dios procede del amor a Dios, y es un conocimiento que poco o nada tiene de racional. Porque Dios es indefinible. Querer definir a Dios es pretender limitarlo en nuestra mente; matarlo. En cuanto tratamos de definirlo, nos surge la nada.” 195 Cfr. carte unamuniane (pp. 40-41 e p. 45) ! ("! Insieme al terzo capitolo (il più ricco –come si è detto– di vincoli intratestuali con ME), anche il settimo, l’ottavo e il nono capitolo di STV offrono un vasto e cospicuo campionario di frammenti riconducobili a EMS e N. Il settimo (Amor,dolor, compasión y personalidad), in particolare, riprende tre passi di EMS e due da N. Innanzi tutto, i periodi 66-67 intessono un dialogo a distanza con EMS; all’egoismo ornamental proprio della modernità e dell’estetismo imperante, quello che Unamuno chiama ‘neomisticismo’, di cui si parla in EMS (e definito in STV «el egoismo vulgar») viene contrapposta una forma di egotismo inteso in senso positivo come autocommiserazione, compassione verso sé stessi: El amor espiritual a sí mismo, la compasión que uno cobra para consigo, podrá acaso llamarse egotismo; pero es lo más opuesto que hay al egoísmo vulgar. Porque de este amor o compasión a ti mismo, de esta intensa desesperación, porque así como antes de nacer no fuiste, así tampoco después de morir serás, pasas a compadecer, esto es, a amar a todos tus semejantes y hermanos en aparencialidad, miserables sombras que desfilan de su nada a su nada, chispas de conciencia que brillan un momento en las infinitas y eternas tinieblas. STV Arrancan de refinado egotismo o egocentrismo, posiciones que encubren un groserísimo egoísmo estilizado, para emplear este término que se aplica a las hojas de planta ornamentales en arquitectura con relación a las hojas naturales, como en el acanto, y arrancando de ese egoísmo ornamental acaban en el fango de la crápula exquisita, crápula declarada cuando menos amoral e irresponsable, y no pocas veces heroica, santa y hasta divina. EMS (101) Nell’ultimo scorcio del frammento di STV esaminato, inoltre, si parla di «sombras que desfilan de su nada a su nada»: questa espressione riprende un altro passo di EMS, confluito a sua volta –come è stato evidenziato– nel terzo capitolo di STV, laddove si evoca una allegorica «procesión de fantasmas», speculum dell’umanità in un universo senza Dio, in cui non si può trovare il senso della vita. I periodi 138-141, da un lato, e 237-239, dall’altro, sono entrambi casse di risonanza dello stesso antecedente (N, 15-16), dove si propone come risposta escatologica al nichilismo il dono di sé: El positivismo nos trajo una época de racionalismo, es decir, de materialismo, mecanismo y moralismo; y he aquí que el vitalismo, el espiritualismo vuelve. ¿Qué han sido los esfuerzos del pragmatismo sino esfuerzos por restaurar la fe en la finalidad humana del Universo? ¿Qué son los esfuerzos de un Bergson, verbigracia, sobre todo en su obra sobre la evolución creadora, sino forcejeos por restaurar al Dios personal y la conciencia ! (#! eterna? Y es que la vida no se rinde. STV ¿Que no tiene fin alguno el universo? Pues démosle, y no será tal donación, si la obtenemos, más que el descubrimiento de su finalidad velada. N (15-16) Nel periodo 138-141 di STV Unamuno individua nel vitalismo controcorrente di Bergson196 una riverberazione dello slancio in direzione opposta e contraria al determinismo di stampo positivistico, slancio dettato dalla necessità di un ritorno allo spiritualismo, in un epoca materialistica e meccanicistica, e assimilabile a quell’esortazione a trovare il fine dell’universo che da N passa anche al periodo 237-239 dello stesso capitolo, anche in questo caso senza la medizione di AJH e T: Y esta personalización del todo, del Universo, a que nos lleva el amor, la compasión, es la de una persona que abarca y encierra en sí a las demás personas que la componen. / Es el único modo de dar al Universo finalidad dándole conciencia. Porque donde no hay conciencia no hay tampoco finalidad que supone un propósito. STV ¿Que no tiene fin alguno el universo? Pues démosle, y no será tal donación, si la obtenemos, más que el descubrimiento de su finalidad velada. N (15-16) Questa volta la soluzione prospettata è individuata nell’amore, o meglio nella compassione, che conduce a uscire dal proprio egoismo ‘volgare’ e divenire un’unica coscienza in Dio, determinando una «personalización del todo», dando così un senso all’Universo. Il frammento più interessante del settimo capitolo, tuttavia, è senza dubbio quello costituito dai periodi 220-226, che procede da EMS e che, con qualche piccolo ritocco in AJH e T, perviene a STV: ¿Es esto todo verdad? ¿Y qué es verdad? -preguntaré a mi vez como preguntó Pilato. Pero no para volver a lavarme las manos sin esperar respuesta. / ¿Está la verdad en la razón, o sobre la razón, o bajo la razón, o fuera de ella, de un modo cualquiera? ¿Es sólo verdadero lo racional? ¿No habrá realidad inasequible, por su naturaleza misma, a la razón, y acaso, por su misma naturaleza, opuesta a ella? ¿Y cómo conocer esa realidad !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 196 Nelle carte unamuniane è citato questo passo de L’Évolution créatrice di Hentri Bergson: «L’individualité loge donc son enemi chez elle. Le besoin même qu’elle éprouve de se perpétuer dans le temps la condamne à n’être jamais complète dans l’espace. » (p. 48). ! ($! si es que sólo por la razón conocemos?197 STV Qué es la verdad? preguntó Pilato y sin esperar respuesta se volvió á lavarse las manos para así sincesarse [sic] de la muerte de Jesús, Nuestro Señor. Y así preguntan muchos que es verdad sin ánimo alguno de >que< recibir respuesta y sólo para volverse á lavarse las manos del crimen de haber contribuido á matar á Dios en la >conci< propia conciencia ó en las conciencias ajenas. T (pp. 20-21) Pero qué es la verdad? preguntamos. Y no hagamos lo de Pilato que hecha la pregunta esta volvió la espalda á Jesús, sin esperar la respuesta. AJH (p. 16v) ¡La verdad! Y «¿qué es verdad?» preguntó Pilatos a Cristo, volviéndole la espalda enseguida sin esperar respuesta. ¿Qué es verdad? pregunta igualmente todo intelectualismo, que en rigor sólo conoce y acata la inteligencia, como si para relacionarnos con la eterna realidad viva no tuviésemos más que mera inteligencia pura. EMS (115-116)198 In EMS il tema pilatesco del quid est veritas? diviene il vessillo del relativismo etico ed epistemologico che –secondo Unamuno– sta alla base di ogni dottrina filosofica contemporanea («Qué es verdad? pregunta igualmente todo intelectualismo [...]»). In AJH l’episodio della passio Christi è solo riportato, mentre in T si introduce una riflessione sulla conciencia, parola-chiave che sarà sostituita da conocer in STV, dove Unamuno mette in dubbio la possibilità di conoscere la verità semplicemente con gli strumenti logici della ratio umana. Mutuato (e riadattato) direttamente da EMS, l’ultimo intratesto riguarda il periodo 267, che concluede il settimo capitolo di STV, dove viene ripresa l’antinomia tra il Dios lógico della scienza e il Dios cordial della Fede: Veamos ahora eso de Dios, lo del Dios lógico o Razón Suprema, y lo del Dios biótico o cordial, esto es, el Amor Supremo. STV Por Cristo, por el Cristo oculto en las almas, se sube al Dios Padre, al Dios vivo del Amor, pero del Dios abstracto y lógico del intelectualismo de la Razón Suprema, que no es sino la mera razón humana proyectada al infinito, no se saca vida, paz ni justicia. Sólo conoce al Padre el Hijo y aquél a quien el Hijo se lo revele. El corazón cristiano nos manifiesta al Dios Padre, al Dios personal y vivo, al Dios que es Amor y Amor paternal, en cuya fe reposamos y nos vivificamos; la razón deísta acaba por anegar a Dios en el mundo y disolverlo. A Dios no se prueba ni se puede probar, se le siente. Dios no es racional, es cordial. EMS (23-27)199 !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 197 Cfr. STV, IX 133-135: “Y tendremos que preguntar por Pilato: ¿qué es la verdad? / Así preguntó, en efecto, y sin esperar respuesta, volvió a lavarse las manos para sincerarse de haber dejado condenar a muerte al Cristo. Y así preguntan muchos ¿qué es verdad?, sin ánimo alguno de recibir respuesta, y sólo para volver a lavarse las manos del crimen de haber contribuido a matar a Dios de la propia conciencia o de las conciencias ajenas.” 198 Cfr. JyS, 43. 199 Cfr. STV (cap. VIII, 80; cap. VIII, 202; cap. VIII, 217-218). ! (%! Per quanto riguarda il capitolo ottavo, De Dios a Dios200, figurano sette passi riconducibili alle Meditaciones, e in massima parte provengono da EMS (cinque sul totale degli intratesti riscontrati); i due frammenti restanti derivano, invece, rispettivamente da JyS e da N. I periodi 80 e 202 di STV riecheggiano nuovamente il frammento 23-27 di EMS: si torna, infatti, a parlare del Dio logico in termini di «razón suprema» (STV, 80) e di «Razón del Universo» in antitesi al Dio del «vitalismo deísta», inteso come Coscienza, come persona, come società (STV, 202); il frammento formato dai periodi 217-218, d’altra parte, contrappone alla «Razón Suprema» il Dio vivo, cordiale, conoscibile attraverso l’amore e la fede: 80. Ni vale decir que esa razón es Dios mismo, razón suprema de las cosas. STV Por Cristo, por el Cristo oculto en las almas, se sube al Dios Padre, al Dios vivo del Amor, pero del Dios abstracto y lógico del intelectualismo de la Razón Suprema, que no es sino la mera razón humana proyectada al infinito, no se saca vida, paz ni justicia. Sólo conoce al Padre el Hijo y aquél a quien el Hijo se lo revele. El corazón cristiano nos manifiesta al Dios Padre, al Dios personal y vivo, al Dios que es Amor y Amor paternal, en cuya fe reposamos y nos vivificamos; la razón deísta acaba por anegar a Dios en el mundo y disolverlo. A Dios no se prueba ni se puede probar, se le siente. Dios no es racional, es cordial. EMS (23-27)201 202. El racionalismo deísta concibe a Dios como Razón del Universo, pero su lógica le lleva a concebirlo como una razón impersonal, es decir, como una idea, mientras el vitalismo deísta siente e imagina a Dios como Conciencia y, por lo tanto, como persona o más bien como sociedad de personas. STV Por Cristo, por el Cristo oculto en las almas, se sube al Dios Padre, al Dios vivo del Amor, pero del Dios abstracto y lógico del intelectualismo de la Razón Suprema, que no es sino la mera razón humana proyectada al infinito, no se saca vida, paz ni justicia. Sólo conoce al Padre el Hijo y aquél a quien el Hijo se lo revele. El corazón cristiano nos manifiesta al Dios Padre, al Dios personal y vivo, al Dios que es Amor y Amor paternal, en cuya fe reposamos y nos vivificamos; la razón deísta acaba por anegar a Dios en el mundo y disolverlo. A Dios no se prueba ni se puede probar, se le siente. Dios no es racional, es cordial. EMS (23-27)202 217-218. No es la razón humana, en efecto, razón que a su vez tampoco se sustenta, sino sobre lo irracional, sobre la conciencia vital toda, sobre la voluntad y el sentimiento; no: es esa nuestra razón la que puede probarnos la existencia de una Razón Suprema, que tendría a su vez que sustentarse sobre lo Supremo Irracional, sobre la Conciencia Universal. Y la revelación sentimental e imaginativa, por amor, por fe, por obra !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 200 Il titolo deriva da una sentenza di Harnack (Dogmengeschichte, vol III, p. 528), in cui è condensata la sua visione della teologia di San Tommaso. Cfr. N. Orringer, op. cit., p. 303, nota 1. 201 Cfr. STV (cap. VII, 267; cap. VIII, 202; cap. VIII, 217-218). 202 Cfr. STV (cap. VII, 267; cap. VIII, 80; cap. VIII, 217-218). ! (&! de personalización, de esa Conciencia Suprema, es la que nos lleva a creer en el Dios vivo. STV Por Cristo, por el Cristo oculto en las almas, se sube al Dios Padre, al Dios vivo del Amor, pero del Dios abstracto y lógico del intelectualismo de la Razón Suprema, que no es sino la mera razón humana proyectada al infinito, no se saca vida, paz ni justicia. Sólo conoce al Padre el Hijo y aquél a quien el Hijo se lo revele. El corazón cristiano nos manifiesta al Dios Padre, al Dios personal y vivo, al Dios que es Amor y Amor paternal, en cuya fe reposamos y nos vivificamos; la razón deísta acaba por anegar a Dios en el mundo y disolverlo. A Dios no se prueba ni se puede probar, se le siente. Dios no es racional, es cordial. EMS (23-27) Il frammento relativo al periodo 219 di STV parafrasa il passo degli Atti degli Apostoli (At XVII, 28) ripreso da EMS, dove si afferma che in ipso enim vivimus, movemur et sumus», e si parla del Dio vivo: Y este Dios, el Dios vivo, tu Dios, nuestro Dios, está en mí, está en ti, vive en nosotros, y nosotros vivimos, nos movemos y somos en El. STV [...] y creen y esperan que el postrer enemigo, la muerte, será deshecho, para que acabadas de sujetarse al Hijo las cosas todas se sujete él mismo a Aquél que le sometió todo, (1. Cor. XV, 26-28), y así sea todo en todos Dios, en quien vivimos y nos movemos y somos (Hechos de los apóstoles. XVII, 28). EMS (123) Il passo intratestuale successivo proviene direttamente da JyS, che in nuce esprime l’idea di fondo del frammento composto dai periodi 227-229, in cui si riconsidera il potere distruttivo e annichilente della ratio in quanto «fuerza analítica», già visto a proposito di un intratesto del quinto capitolo (STV, 302-304); alla scienza JyS contrappone la vita: La razón es una fuerza analítica, esto es, disolvente, cuando dejando de obrar sobre la forma de las intuiciones, ya sean del instinto individual de conservación, ya del instinto social de perpetuación, obra sobre el fondo, sobre la materia misma de ellas. La razón ordena las percepciones sensibles que nos dan el mundo material; pero cuando su análisis se ejerce sobre la realidad de las percepciones mismas, nos las disuelve y nos sume en un mundo aparencial, de sombras sin consistencia, porque la razón fuera de lo formal es nihilista, aniquiladora. Y el mismo terrible oficio cumple cuando sacándola del suyo propio la llevamos a escudriñar las intuiciones imaginativas que nos dan el mundo espiritual. STV ¡Vida, vida, vida! ¡vida y no ciencia! ¡sabiduría de vida y no ciencia de conocer! JyS (40) Ancora una volta a EMS si rimonta il passo intratestuale relativo ai periodi 233-235, dove il vanitas vanitatum dell’Ecclesiaste è associato alla razionalità (in EMS lo si fa coincidere con il fine ! ('! ultimo –e unico– della «ciencia humana») in giustapposizione alla variazione sul tema unamuniana del «plenitud de plenitudes» proprio dell’immaginazione, della fede come creazione: La razón repite: ¡vanidad de vanidades, y todo vanidad! Y la imaginación replica: ¡plenitud de plenitudes, y todo plenitud! Y así vivimos la vanidad de la plenitud, o la plenitud de la vanidad. STV El fin de la ciencia humana es el salmónico ¡vanidad de vanidades! estribillo eterno de la filosofía. EMS (43) Nell’ultimo frammento dell’ottavo capitolo (periodo 314 di STV) viene posta la questione esfíngica (Unamuno in STV identifica esplicitamente la Sfinge e la ragione) dell’esistenza di Dio e si ritrova lo stesso passo di N visto in precedenza riguardo al terzo capitolo (STV, cap. III, 57-61 e 166): Y ahora viene de nuevo la pregunta racional esfíngica -la Esfinge, en efecto, es la razón- de: ¿existe Dios? STV No hay en realidad más que un gran problema, y es éste: ¿cuál es el fin del universo entero? Tal es el enigma de la esfinge; el que de un modo o de otro no le resuelve, es devorado. N (13-14) 203 È opportuno rilevare come passando da N a STV Unamuno renda manifesta il rapporto analogico che lega la Sfinge alla ragione, che in qualche modo simboleggia. Il nono capitolo, Fe, esperanza y caridad, presenta tre intratesti che vincolano direttamente STV a N (3-5; 12-16 e 84-86), e un frammento proveniente da EMS (133-135), filtrato attraverso AJH e T. Nel primo passo (periodi 3-5 di STV) Unamuno fa precisamente riferimento a N, quando allude a un saggio di circa dodici anni prima (come si è detto, N è l’unica delle Meditaciones ad essere stata pubblicata –il 25 novembre 1899 su Revista Nueva, per l’esattezza– a parte alcuni excerpta di EMS); e proprio in N don Miguel forgia quel geniale «retruécano», che in STV suonerà «¡Creer lo que no vimos!, ¡no!, sino crear lo que no vemos»; e in questa semplice, paradossale antimetabole (o commutatio) è racchiuso tutto l’antidogmatismo di don Miguel, e si esprime il carattere ‘creativo’ e personalissimo della fede unamuniana: !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 203 ! Cfr. STV (cap. III, 57-61; cap. III, 166). ((! ¿Y qué cosa es fe? / Así pregunta el catecismo de la doctrina cristiana que se nos enseñó en la escuela, y contesta así: creer lo que no vimos. / A lo que hace ya una docena de años corregí en un ensayo diciendo: «¡Creer lo que no vimos!, ¡no!, sino crear lo que no vemos.» STV Porque no consiste tanto la fe, señores, en crear lo que no vimos, cuanto en crear lo que no vemos. Sólo la fe crea. N (18-19) I periodi 12-16 affondano le proprie radici in un altro passo di N, che tratta proprio del dogma, percepito dal filosofo di Bilbao come un ostacolo insormontabile alla fede autentica, quella che in STV è caratterizzata dall’adogmaticità (si parla di fede «pura, libre de dogmas»); si riflette qui l’influsso del modernismo religioso sulla inquieta coscienza di Unamuno, che ricusa lo scolasticismo della teologia tradizionale, il cui rigore logico crolla allorché propone di fondare metalogicamente la religione sulla fede nella fede stessa: Pero la fe, que es al fin y al cabo algo compuesto en que entra un elemento conocido, lógico o racional juntamente con uno afectivo, biótico o sentimental, y en rigor irracional, se nos presenta en forma de conocimiento. Y de aquí la insuperable dificultad de separarla de un dogma cualquiera. La fe pura, libre de dogmas, de que tanto escribí en un tiempo, es un fantasma. Ni con inventar aquello de la fe en la fe misma se salía del paso. La fe necesita una materia en que ejercerse. STV Pero los que de entre ellos se hunden en otro mundo, y rompiendo la costra de la letra descienden al espíritu, quebrantando el dogma van a la fe pura, a éstos sí que puedo preguntarles cómo se hace aquello. N (182) Della pistis, perciò, a Unamuno interessa l’aspetto «afectivo, biótico o sentimental», mentre rifugge un approccio di tipo razionale; un altro frammento di STV (periodi 84-86), che si può ricondurre allo stesso passo di N appena considerato, insiste –non a caso– sulla «potencia creativa» della fede, legata alla voluntad. La fede, per Unamuno, crea il suo stesso oggetto; con un vertiginoso cambio di prospettiva (tipicamente unamuniano), l’intellettuale basco descrive la fede come un creare Dio, che, a sua volta, ricrea continuamente sé stesso in noi: La fe es, pues, si no potencia creativa, flor de la voluntad, y su oficio crear. La fe crea, en cierto modo, su objeto. Y la fe en Dios consiste en crear a Dios y como es Dios el que nos da la fe en Él, es Dios el que se está creando a sí mismo de continuo en nosotros. STV Porque no consiste tanto la fe, señores, en crear lo que no vimos, cuanto en crear lo que no vemos. Sólo la fe crea. N (18-19) ! ()! L’ultimo frammento di STV rilevante per questa disamina (periodi 133-135) consiste in una catena intratestuale che si origina in EMS, punto d’irradiazione dal quale si dipana il processo evolutivo del passo attraverso AJH e , successivamente, T: Y tendremos que preguntar por Pilato: ¿qué es la verdad? / Así preguntó, en efecto, y sin esperar respuesta, volvió a lavarse las manos para sincerarse de haber dejado condenar a muerte al Cristo. Y así preguntan muchos ¿qué es verdad?, sin ánimo alguno de recibir respuesta, y sólo para volver a lavarse las manos del crimen de haber contribuido a matar a Dios de la propia conciencia o de las conciencias ajenas. STV 204 Qué es la verdad? preguntó Pilato y sin esperar respuesta se volvió á lavarse las manos para así sincesarse [sic] de la muerte de Jesús, Nuestro Señor. Y así preguntan muchos que es verdad sin ánimo alguno de >que< recibir respuesta y sólo para volverse á lavarse las manos del crimen de haber contribuido á matar á Dios en la >conci< propia conciencia ó en las conciencias ajenas. T (pp. 20-21) Pero qué es la verdad? preguntamos. Y no hagamos lo de Pilato que hecha la pregunta esta volvió la espalda á Jesús, sin esperar la respuesta. AJH (p. 16v) ¡La verdad! Y «¿qué es verdad?» preguntó Pilatos a Cristo, volviéndole la espalda enseguida sin esperar respuesta. ¿Qué es verdad? pregunta igualmente todo intelectualismo, que en rigor sólo conoce y acata la inteligencia, como si para relacionarnos con la eterna realidad viva no tuviésemos más que mera inteligencia pura. EMS (115-116) Come si è visto in precedenza, questo stesso paragrafo di EMS, e i relativi intratesti di AJH e STV, sono alla base anche di un passo del settimo capitolo. La domanda di Pilato «Che cos’è la verità?» è qui un espediente (o un pretesto) per imputare alle filosofie positivistiche e al nichilismo (e, più in generale all’intellettualismo della cultura contemporanea) la colpa di aver cancellato (o di aver quanto meno contribuito a farlo) Dio e ogni forma di spiritualità dalle coscienze degli uomini. Quanto ai capitoli decimo (Religión, mitología de ultratumba y apocatástasis) e undicesimo (El problema práctico) non si segnalano rapporti intratestuali di grande interesse, né per quanto riguarda ME, né per quanto riguarda AJH e T, mentre nel dodicesimo capitolo (Conclusión. Don !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 204 Cfr. STV, VII 220-226: “¿Es esto todo verdad? ¿Y qué es verdad? -preguntaré a mi vez como preguntó Pilato. Pero no para volver a lavarme las manos sin esperar respuesta. / ¿Está la verdad en la razón, o sobre la razón, o bajo la razón, o fuera de ella, de un modo cualquiera? ¿Es sólo verdadero lo racional? ¿No habrá realidad inasequible, por su naturaleza misma, a la razón, y acaso, por su misma naturaleza, opuesta a ella? ¿Y cómo conocer esa realidad si es que sólo por la razón conocemos?” ! (*! Quijote en la tragicomedia europea contemporánea) si contano soltanto due esempi, e in entrambi i casi i frammenti provengono direttamente da EMS. Al periodo 19 si fa esplicito riferimento alla figura di Brunetiére205, mentre nel corrispettivo passo di EMS si allude anonimamente all’idea della «bancarrota de la ciencia», senza indicarne la paternità. Al di là di queste puntuali considerazioni, il dato, forse, più interessante che si può ricavare dal vaglio e dalla collazione dei due stadi elaborativi di questo frammento riguarda la valutazione diametralmente opposta che Unamuno dà in EMS e in STV; nel primo caso, reputa che sia stato l’intelectualismo a implodere e non la scienza, mentre successivamente riconosce che effettivamente la scienza «bancarroteó»: Todo esto llevó a Brunetiére a proclamar la bancarrota de la ciencia, y esa ciencia o lo que fuere, bancarroteó, en efecto. STV En la amargura de la desilusión se ha llegado a culpar a la inocente ciencia, echándole en cara que ha hecho bancarrota, como si fuese ella rea del intelectualismo desecante ni de que se la declarara fin en sí. El fracaso es del intelectualismo, no de la pobre ciencia. EMS (46-47) Poco più avanti si registra il secondo (ed ultimo) frammento di STV (periodo 25) che stringe una evidente relazione di intratestualità con le Meditaciones, ed in particolare con EMS: Y la famosa maladie du siècle, que se anuncia en Rousseau, y acusa más claramente que nadie el Obermann de Sénancour, no era ni es otra cosa que la pérdida de la fe en la inmortalidad del alma, en la finalidad humana del Universo. STV Lo que más o menos disfrazado entristece a tantos espíritus modernos, el mal del siglo que denuncia Max Nordau, lo que perturba a las almas, no es otra cosa que la obsesión de la muerte total, el lúgubre pensamiento que dio un tinte tan sombrío a la decadencia romana, la edad del estoicismo, del epicureísmo, de las extravagancias religiosas y del suicidio. EMS (83) In EMS la maladie du siècle è associato alla figura di Max Nordau (autore, appunto, del romanzo Die Krankheit des Jahrhunderts206), mentre in STV il riferimento al sociologo ungherese è !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 205 Orringer ricorda che in un’opera di Harald Høffding (Philosophy of Religion, p. 376, nota 1) si accenna al fatto che in un opera declamatoria dello scrittore e storico di Tolone Ferdinand Brunetière compare il sintagma «bancarrota de la ciencias». Molto probabilmente è da qui che Unamuno trae questa informazione. Cfr. N. Orringer, op. cit., p. 474, nota 15. 206 ! Max Nordau, Die Krankheit des Jahrhunderts. Roman, Lipsia, 1889. )+! omesso; al suo posto, Unamuno menziona Rousseau207, in quanto anticipatore, e l’Obermann di Senancour208 come massima espressione del «mal del siglo», vale a dire la perdita della fede nell’immortalità dell’anima, da cui scaturiscono il nichilismo e ogni sconforto esistenziale. Secondariamente, se in EMS l’attenzione si focalizza sullo spauracchio della morte totale, in STV si affronta la questione e negativo, da una angolatura speculare, ponendo al centro il perduto senso dell’immortalità nelle coscienze moderne, che annulla e vanifica qualsiasi prospettiva o speranza escatologica per l’uomo. In conclusione, dalla collazione degli intratesti relativi alla seconda metà dell’avantesto di STV (i cui tasselli principali –lo ricordo – sono ME, AJH e T) emerge una evidente concentrazione di frammenti soprattutti nel terzo capitolo, ma anche nel settimo, nell’ottavo e nel nono. Gli ultimi tre capitoli, al contrario, sono quasi totalmente scevri da legami intratestuali sia con ME che con AJH e T, e questo conferma l’ipotesi di una loro stesura recenziore rispetto a quella dei capitoli precedenti, maturata con tutta probabilità negli anni posteriori al 1908 (anno in cui viene abbandonato il progetto di T) e a ridosso del biennio 1911-1912 (pubblicazione su rivista di STV). !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 207 208 ! Nelle carte unamuniane si dice che Rousseau (insieme a Voltaire) negò l’immortalità dell’anima (p. 158). Citato alle pagine 60-61, 127-128, 150, 151, 154 e 158 delle carte unamuniane. )"! ! )#! CAPITOLO III DAL TRATADO DEL AMOR DE DIOS A DEL SENTIMIENTO TRÁGICO DE LA VIDA: GESTAZIONE DI DUE TRATTATI ! )$! ! )%! Dal crescente interesse che ha recentemente riguardato un tassello fondamentale nell’avantesto di Del sentimiento trágico de la vida, ossia il cosiddetto Tratado del amor de Dios, nasce questo studio, che si ripropone non tanto di dare una collocazione a quella tessera nell’intricato e complesso mosaico di abbozzi, saggi, minute, prime stesure et similia, che costituisce i prodromi dell’opera d’ambito filosofico unamuniana senz’altro più conosciuta, quanto di analizzare alcuni punti di contatto e di divergenza specifici tra Del sentimiento trágico e il Tratado stesso. In un precedente studio209, a partire dalla catalogazione dei frammenti testuali comuni ai due trattati “teo-filosofici” dell’esistenzialista210 basco, si è cercato di registrare alcune costanti di base che ricorrono con una certa regolarità, per, poi, trovare (o provarci, perlomeno) una linea interpretativa che rendesse conto del come e del perché un’opera come il Tratado del amor de Dios, in sé e per sé autonoma ed autosufficiente (per quanto ancora ad uno stato “embrionale”), abbia finito per convertirsi in un lavoro destinato alle stampe tettonicamente, stilisticamente, essenzialmente nuovo. Orringer, nella sua edizione congiunta di T e STV211, si pone, accanto a due domande dalla risposta scontata212, una questione cruciale: perché il nivolista di Bilbao ha riordinato e stravolto così radicalmente T da dare vita ad un’opera così rinnovata ed ampliata da risultare estremamente !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 209 Analisi dell’avantesto di Del sentimiento trágico de la vida: l’autografo unamuniano del Tratado del amor de Dios, di Filippo Tedeschi (2006). Tale studio è strutturato sostanzialmente in due parti: ad una prima sezione in cui sono stati raccolti e ordinati gli intratesti (intratextos) e i rimaneggiamenti (refundiciones) di singole frasi o di interi blocchi narrativi comuni ai due trattati unamuniani, fa seguito uno studio delle varianti apportate in Del sentimiento trágico rispetto al Tratado del amor de Dios, corredato di un campione di esempi relativi alla plurima e molteplice tipologia o casistica di varianti, i quali, in questa sede, verranno oppurtunamente riportati e ampliati. Per “intratesto” si intende quel segmento testuale, più o meno ampio, che da un testo passa ad un altro senza subire modifiche di particolare rilievo (ad esempio, nel passaggio da un abbozzo ad una prima stesura); con il termine “rimaneggiamenti” si fa qui riferimento a quelle sezioni di testo che nel passaggio da T (Tratado) a STV (Del sentimiento trágico de la vida) hanno subito ingenti cambiamenti strutturali (grammaticali e sintattici) e stilistici ingenti, tali da renderli a prima vista irriconoscibili, pur mantenendo un legame incontrovertibilmente chiaro a livello tematico e semantico con la frase o con il blocco argomentativo di partenza (parole chiave comuni). 210 Pare oramai superata la definizione di Unamuno come “pre-esistenzialista” proposta dal Pareyson. N. Orringer, MIGUEL DE UNAMUNO – Del sentimiento trágico de la vida en los hombres y en los pueblos y Tratado del amor de Dios, Madrid, Tecnos, 2005. A partire da questo momento si indicherà, per comodità, con la sigla T il Tratado del amor de Dios e con STV Del sentimiento trágico de la vida. 211 212 “¿Por qué, al parecer, quería consignar ésta al olvido? Y si tal fuera el caso, ¿con qué fin conservó intacto el Tratado del amor de Dios con sus borradores en los archivos del Rectorado de la Universidad de Salamanca?” (pp. 1617). A tali quesiti le risposte più immediate ed ovvie paiono le più convincenti: in primis, Don Miguel conservava praticamente qualsiasi cosa fosse frutto della sua penna e del suo genio, dalla breve annotazione alla stesura definitiva, o delle sue mani (e penso qui alle sue rinomate pajaritas de papel); in seconda battuta, non pare plausibile che Unamuno abbia deliberatamente voluto “consegnare all’oblio” il Tratado: molto più semplicemente, quest’ultimo è uno dei tanti progetti che il poeta-filosofo biscaglino abbandona ad uno stadio ancora embrionale (anche se più avanzato di altri) e che, in maniera più rilevante e consistente degli altri , confluirà in STV. ! )&! diversa dalla prima? Questa questione, peraltro, è un ganglio imprescindile per la ricostruzione critico-genetica di STV, posta l’assoluta centralità del T nella fase generativa pre-testuale di quest’ultimo. La presente indagine, che parte dall’analisi esclusiva dei segmenti “intratestuali” di T e STV, senza prendere in esame i rimaneggiamenti, mira esattamente a coniugare la registrazione di interventi costanti (reiterati nell’evoluzione che ha portato il Tratado a “sfociare” nel Sentimiento e riflesso di una ben precisa strategia di revisione) e la loro interpretazione esegetica. Ad ogni modo, sta di fatto, come dato inoppugnablie e certo213, che intere sezioni e frammenti più o meno estesi del Tratado sono confluiti in Del sentimiento trágico, preponderantemente ed in maniera lampante nei primi dieci capitoli. Questo studio è incentrato proprio sull’analisi di quelle parti del Tratado confluite nel Sentimiento, ossia quelle comprese tra “El hombre de carne y hueso” (capitolo I) e “Religión, mitología de . ultratumba y apocatástasis” (capitolo X), mentre gli ultimi due capitoli (“El problema práctico”, capitolo XI, e “Conclusión. Don Quijote en la tragicomedia europea contemporánea”, capitolo XII) non sono stati presi in considerazione in quanto tali poiché capitoli nuovi, svincolati rispetto al Tratado, con il quale non hanno rapporto alcuno, o, tutt’al più, concordanze minime e irrilevanti. Sembra a questo punto inevitabile ed indispensabile tracciare a grandi linee un quadro, sintetico ed esaustivo, che dia un’idea di cosa sia effettivamente il Tratado del amor de Dios. Il Tratado è un testo autografo conservato in due distinte cartelle presso l’archivio della Casa-museo Unamuno a Salamanca.214 Nella prima (68/15) sono contenute le novantadue pagine del Tratado vero e proprio; le relative aggiunte numerate che occupano quattordici carte e che nei progetti dello scrittore avrebbero dovute essere interpolate nel Tratado stesso (le si troverà, variamente rimaneggiate, in Del sentimiento trágico215; infine, una minuta di diciotto fogli, costituente, per così dire, un “proto-tratado”, che Tanganelli identifica con un progetto assimilabile ad A la juventud hispana o Mi confesión o Eróstrato216, un blocco o coacervo di saggi in nuce facenti capo ad un disegno unitario217, che anticipa la Vida de Quijote y Sancho (1905, ma scritta !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 213 Come mostra il catalogo presente nel mio precedente studio (Tedeschi, op. cit.). La loro collocazione è rispettivamente: 68/15 e 68/34. 215 Vedi catalogo di cui alla nota 1. 216 Si tratta più esattamente di una serie di note a T (delle quali Tanganelli cita Eróstrato o Erostratismo, su cui focalizza la propria attenzione) e di alcune cuartillas sciolte che vanno sotto il titolo di Mi confesión e, in un caso, Juventud (con perspicuo riferimento a A la juventud hispana). Vedi il suo recente saggio “Del erostratismo al amor de Dios: en torno al avantexto de Del sentimiento trágico de la vida” in Miguel de Unamuno, Estudios sobre su obra. II – separata, Ediciones Universaidad Salamanca, 2005, p. 177. 214 217 A questo progetto, peraltro, Unamuno lavora presumibilmente tra la fine del 1901 e la primavera del 1903, come attesta l’Epistolario inédito, ed. da Robles, L. Madrid: Espasa-Calpe, 1991, in particolar modo nella lettera a Candamo del 2 marzo 1903 (Tanganelli, op. cit. , p. 176). T, dunque, è, a ben vedere, ! )'! già a partire dal 1904), l’opera che va a interrompere l’asse che idealmente unisce il Diario íntimo al STV (quindi opera cardine di nodale importanza). Nella seconda carpetta (68/34), per contro, sono contenuti centinaia di abbozzi di T.218 Questi ultimi, assieme all’abbozzo di “A la juventud hispana”, non sono stati presi in considerazione nel presente studio. La ricostruzione genetica di Del sentimiento trágico non è affatto un’operazione semplice e lineare; non è facile, in effetti, dirimere l’intricata matassa formata da quella complessa congerie di testi editi e inediti, che, in misura e modi diversi, hanno contribuito alla sua gestazione, a seguito della quale sarebbe finalmente venuta alla luce. A ben vedere, i contorni dell’avantesto in questione, oltretutto, sono molto labili e sfumati, come ha osservato Tanganelli: “el mismo concepto de avantexto fraguado por la llamada Filología de autor [...] resulta en este caso sumamente ineficaz y reduccionista, ya que a la hora de hablar de los antecedentes de Del sentimiento trágico habría que destacar, ante todo, que existe un hilo conductor, un fil rouge manifiesto que une el Diario íntimo a Del sentimiento trágico [...]”.219 Il Tratado del amor de Dios, fu redatto tra il 1905 ed il 1908220. Si tratta, in buona sostanza, di un trattato pseudo-ascetico221, che recupera il titolo di tanti trattati ascetici dei Secoli d’Oro (Cristóbal de Fonseca, Domingo de Soto)222. Se si pensa che Del sentimiento trágico fu edito a partire dal 1911, e che Unamuno attese alla sua stesura nei due anni precedenti, risulta immediatamente perspicuo che il Tratado del amor de Dios è, a ben vedere, il testo o progetto che più gli è prossimo diacronicamente ed idealmente: il più significativo, indubbiamente, nell’avantesto di STV. Tanta parte del Tratado, infatti, andrà a confluire, tra intratesti e rimaneggiamenti, nel Sentimiento (dovendo fornire una stima approssimativa, si potrebbe parlare di un settantacinque per cento circa che da T passa a STV). Tale percentuale si concentra segnatamente nelle prime settanta carte di T, riprese nella loro quasi totalità (anche se in modalità diverse) e riguarda anche le quattordici carte di aggiunte in clausura (più della metà, in questo caso) che fanno seguito alle novantadue carte. Complessivamente, dunque, il manoscritto autografo in questione (T) darà un apporto consistente e decisivo alla summa filosofica unamuniana per eccellenza (STV), la quale, tuttavia, oltre ad essere legata a doppio filo con altri importanti tasselli (verso i quali lo stesso Tratado è debitore), sarà ricettacolo di nuove riflessioni e segmenti testuali !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 218 Questi ultimi, assieme all’abbozzo di “A la juventud hispana”, non sono stati presi in considerazione nel presente studio. 219 Si tratta più precisamente di una serie di note tra le quali Vedi il suo recente saggio “Del erostratismo al amor de Dios: en torno al avantexto de Del sentimiento trágico de la vida” in Miguel de Unamuno, Estudios sobre su obra. II – separata, Ediciones Universaidad Salamanca, 2005, p. 176. 220 Vedi Orringer, op. cit., p. 17. 221 Tanganelli, op. cit., p. 175. 222 Ivi. ! )(! inediti, nonché frutto di una vera e propria “ristrurtturazione” compositiva. Gli intratesti e i rimaneggiamenti, attinti dal Tratado e riproposti nel Sentimiento, d’altronde, non seguono un ordine predefinito ed esatto nella loro ricollocazione all’interno dell’opera d’arrivo; al contrario, i frammenti che andranno, poi, a costituire parti più o meno rilevanti e cospicue in ognuno dei primi dieci capitoli di Del sentimiento trágico si distribuiscono caoticamente e in ordine sparso nel tessuto globale del Tratado. Dalla collazione tra i due testi risulta immediatamente evidente una sproporzione in senso quantitativo, prima ancora che qualitativo. Se la suddivisione del Tratado in nove brevi capitoli operata da Orringer223 è, se non altro, arbitraria e non suffragata da segnali e prove inequivocabilmente ed univocamente certi, vero è che i complessivi dodici capitoli di Del sentimiento trágico de la vida fanno da contraltare ad un’opera (il Tratado) molto meno estesa, più modesta. Il confronto tra le pagine destinate ai due testi all’interno della edizione bifronte dello stesso Orringer224 ci palesa un divario netto, affatto trascurabile (420 pagine contro 111). Come si spiega questo scarto così evidente? Ma soprattutto: cosa ha portato ad un aumento strutturale, ideologico e materiale di tali proporzioni nel passaggio dall’una all’altra opera? Due proposte esegetiche, distinte e complementari al contempo, sono state formulate rispettivamente da Orringer e Tanganelli per sciogliere questo ostico nodo di Gordio e sarebbe opportuno, credo, ricordarle brevemente. Orringer attribuisce a due avvenimenti particolari molta rilevanza nell’evoluzione di T in STV nel triennio 1909-1911: da una parte, l’enciclica di Papa Pio X dell’otto settembre 1907 Pascendi Dominici Gregis (De Modernistarum Doctrinis), che dovette avere un significativo impatto sulla sensibiltà e sulla coscienza dello studioso basco; dall’altra, la freddezza, per non dire la sufficienza, con cui Ortega y Gasset pare accogliere il progetto del Tratado del amor de Dios, a giudicare dal carteggio tra i due intellettuali, in special modo in quattro lettere scritte tra il maggio del 1906 e il maggio del 1908225, le uniche in cui compaiono riferimenti espliciti al Tratado. L’otto settembre 1907 Pio X pubblica l’enciclica Pascendi dominici gregis (“Sull’alimentazione del gregge del Signore”), dal titolo ufficiale De modernistarum doctrinis (“Intorno alle dottrine dei modernisti”), nella quale critica, condanna, anatemizza le dottrine dei modernisti in materia di fede !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 223 Cfr. Orringer, op. cit., pp. 12, 58. Nel Plan del Tratado del amor de Dios non vi è alcun cenno o allusione ai nove capitoli menzionati da Orringer; al contrario, si delinea una struttura dell’opera che consta di diciassette capitoli preceduti da un Prólogo. Cfr. Meditaciones Evangélicas – edición de Paolo Tanganelli, Diputación de Salamanca ediciones, 2006, pp. 179-182. 224 225 ! Vedi nota 2. Orringer, op. cit., pp. 48-50. ))! in quanto eterodosse. Questo attacco frontale al Modernismo, secondo Orringer, dovette esercitare una forte ripercussione sul Sentimiento, nel quale, tra omissioni e modifiche, si passerebbe ad una minore perentorietà da parte di Unamuno nell’affermare la propria visione della fede come pistis, e a ritrattare alcune posizioni, per adottarne altre tradizionaliste, come il dichiararsi sostenitore del Medioevo e avversatore del Rinascimento226; fautore della Chiesa Cattolica e oppositore della Riforma protestante; nemico della Rivoluzione Francese e della modernità; difensore, inoltre, dell’Inquisizione, della disciplina militare della Società di Gesù, della Controriforma, dell’Infallibilità e dell’antimodernismo del Vaticano. Gli anni compresi tra il 1909 ed il 1911, nel corso dei quali si registrano i due eventi menzionati (il serrato carteggio con Ortega e l’enciclica di Papa Pio X), dunque, segnano per Orringer una svolta, un’inversione di rotta sotto molti aspetti di quello che nei progetti dell’autore doveva essere il Tratado del amor de Dios. L’opera viene a trovarsi cambiata, snaturata, stravolta. Il testo di partenza a questo punto ha subito dei rimaneggiamenti e delle aggiunte non trascurabili, ed è, a tutti gli effetti, uno scritto nuovo, che ha sì come nucleo di base il Tratado, ma che possiede ormai una autonomia ed una fisionomia proprie. Rispondendo, con questo alla domanda che inizialmente si poneva Orringer, verrebbe fatto di pensare (o, quanto meno, supporre) che, se Unamuno non pubblicò a suo tempo (né tanto meno in seguito) il Tratado del amor de Dios, l’opera di cui aveva discusso per via epistolare con Ortega, questo lo si debba molto semplicemente a quanto avvenuto tra il 1909 ed il 1911. Ciò che avvenne in quell’arco di tempo dovette, de facto, contribuire a una trasformazione, un’evoluzione, un ampliamento dell’opera (ancora in via di sviluppo, al tempo) tali da conferire, anzi imporre al testo una facies ed una substantia decisamente nuove, sotto un profilo strutturale, stilistico e contenutistico227. Non può passare sotto silenzio che il Tratado, lo ricordiamo, è un “organismo” in sé e per sé autonomo, autosufficiente e concluso. Non dimentichiamo che cambiamenti e aggiunte sono frutto di una disamina che investe il Tratado nella sua totalità, al punto che, oltre alla modificazione di alcune frasi, si assiste al rimaneggiamento di interi segmenti testuali e !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 226 È opportuno ricordare qui che, in realtà, non è questa una novità. Unamuno, infatti, mostra di apprezzare il Medioevo ed il millenarismo già in El sepulcro de Don Quijote (pubblicato per la prima volta nel febbraio del 1906 su La España Moderna, n. 206), che è evidentemente posteriore all’enciclica papale in questione. In El sepulcro de Don Quijote ad esempio si legge: “Como tú siento yo con frecuencia la nostalgia de la Edad Media: como tú quisiera vivir entre los espasmos del milenario”. Il tema del millenarismo, d’altronde, era stato spunto di riflessione già in Diario íntimo. Vedi l’edizione delle Meditaciones Evangélicas a cura di Paolo Tanganelli, p. 47. 227 Come messo in luce dal catalogo in seno a “Analisi dell’avantesto di Del sentimiento trágico de la vida: l’autografo unamuniano del Tratado del amor de Dios”, di Filippo Tedeschi (2006).” ! )*! all’inserzione di veri e propri blocchi argomentativi, talora molto consistenti, del tutto nuovi, diversi. Per di più, non lo si trascuri, agli ultimi due capitoli di Del sentimiento trágico non fa eco nessun frammento significativo del Tratado. Sempre secondo Orringer, il capitolo undici ed il capitolo dodici, in effetti, sono in gran parte il risultato della polemica epistolare, poi resa pubblica, tra Unamuno e Ortega y Gasset228, che aveva sarcasticamente rimproverato al primo di preferire il mistico castigliano San Juan de la Cruz al padre dell’idealismo filosofico, René Descartes. Sarebbe, quindi, da ravvisarsi ed imputarsi allo scontro dialogico ed ideologico cominciato nel 1909 con Ortega (per il quale Unamuno era stato sino a quel momento una guida ideale fondamentale, o, perlomeno, un affine) molta parte dell’evoluzione che interessò il Tratado del amor de Dios. Unamuno si trovava ad osteggiare non tanto le posizioni filosofiche e scientifiche di Ortega (e in particolare la sua visione “neo-kantiana” della religione), quanto l’attacco personale a lui rivolto229. Alla critica mossagli da Ortega intorno al suo presunto allontanamento dalla scienza e dalla ragione, contestualmente all’avvicinamento a un misticismo chiuso, fine a se stesso e, in termini pragmatici ed empirici, inutile, Unamuno, in un epilogo al Tratado rimasto inedito230, replica sostenendo di non mancare affatto di “facoltà critiche” e di rendersi perfettamente conto della fragilità logica, razionale e scientifica delle idee da lui esposte nel Tratado inerentemente al primato della fede (pistis) sulla ragione (logos), ma di volere che ciò che sostiene sia vero.Orringer, in ultima analisi, propone un modello interpretativo legato a fattori estrinseci, o, se vogliamo, extratestuali. Di diverso segno è la proprosta ermeneutica di Tanganelli, che risponde con un approccio intrinseco o intra-testuale, non tanto in contrapposizione quanto in giustapposizione all’interpretazione di Orringer. Tanganelli studia gli scritti e i progetti filosofici231 cui Unamuno si dedica dal 1897 (anno della famosa “crisis”) in avanti, tra aborti di abbozzi e opere pubblicate, i quali interagiscono inter se e sono, per così dire, trágico, punto di convergenza e approdo unico, comune. In questo senso, l’assenza di consonanze intratestuali o, più semplicemente, tematiche tra il Tratado e gli ultimi due capitoli del Sentimiento non sarebbe, in fin dei conti, così sorprendente, tenuto conto del fatto che in essi confluiscono riflessioni e intratesti di prove ed opere antecedenti al 1905, e quindi al Tratado (si ricorda qui, a titolo esemplificativo, che l’ultimo capitolo di STV si !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 228 Cfr. carteggio edito da Laureano Robles. Vedi Orringer, op. cit. pp.57-69. 230 Vedi Orringer, op.cit., p. 66. 231 Tanganelli, “Del erostratismo al amor de Dios: en torno al avantexto de Del sentimiento trágico de la vida” in Miguel de Unamuno, Estudios sobre su obra. II – separata, Ediciones Universaidad Salamanca, 2005, pp. 177-178. 229 ! *+! intitola “Conclusión. Don Quijote en la tragicomedia europea contemporánea” e riprende la riflessione intorno al chisciottismo della Vida de don Quijote y Sancho del 1905), in un più ampio percorso che lega il Diario íntimo al Sentimiento, passando attraverso Nuevo mundo, La esfinge, Nicodemo el fariseo, le Meditaciones evangélicas ed Amor y pedagogía232. Tanganelli, in realtà, non tenta di definire tanto i presupposti dell’evoluzione di T in STV, quanto di ricostruire alcune linee guida del lungo e travagliato processo di gestazione di quest’ultimo: processo che, come dimostrano i suoi studi233, prende le mosse fondamentalmente dal Diario íntimo, procede, quindi, con una serie di progetti abbozzati anteriori alla stesura della Vida de Don Quijote y Sancho (Meditaciones Evangélicas234, Eróstrato, A la Juventud hispana, etc.) e riprende dopo il 1905 con il Tratado del amor de Dios. Indubbiamente, entrambe le chiavi interpretative sembrano funzionali e convincenti, anche se difficilmente si può supporre che le critiche mosse da un giovane intellettuale come l’Ortega del 1906, ancora, ut ita dicam, in erba e lungi dalla ribalta della cultura spagnola dell’epoca, come sarà, invece, quello di qualche anno dopo, autore di La deshumanización del arte (1925), abbiano potuto scalfire e sconvolgere l’interiorità di don Miguel, al punto di provocare un ripensamento così profondo del Tratado. Della lettura di Tanganelli è senz’altro interessante l’idea di una prospettiva biobibliografica che porta a ricondurre aspetti autobiografici e ideologici di STV a tessere particolari del suo avantesto (Eróstrato e Mí confesión da un lato, Ciencia y fe dall’altro, per esempio). Unamuno costruisce un’opera dall’architettura totalmente modificata, nuova, ampliata; un’opera più curata stilisticamente e formalmente; un’opera meno intimista e dai tratti più universali e impersonali, il che ha una rispondenza chiara e netta nelle strategie di innovazione stilistica da un’opera all’altra: per esempio, in molti passi si slitta da un io narrante in prima persona ad una narrazione impersonale. Un’opera in cui l’idea del sentimento tragico della vita come conseguenza del contrasto, del contrappunto obbligato tra fede e ragione acquista un posto di primo piano, in cui il tragicismo, già a partire dal titolo, acquista una importanza particolare; un’opera, infine, che abbisogna di un nuovo titolo perché è un’opera nuova. In questo modo si spiegano, da !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 232 Cfr. P. Tanganelli, El mal del siglo – La escritura de la crisis, Edizioni Ets, Pisa, 2003. In particolare, “Del erostratismo al amor de Dios: en torno al avantexto de Del sentimiento trágico de la vida” in Miguel de Unamuno, Estudios sobre su obra. II – separata, Ediciones Universaidad Salamanca, 2005 e l’introduzione di Meditaciones Evangélicas – edición de Paolo Tanganelli, Diputación de Salamanca ediciones, 2006. 234 La recente edizione delle Meditaciones, già citato nel corso di questo articolo, curata dallo stesso Tanganelli mostra, tra l’altro, quali ne siano i frammenti che, attraverso questa tortuosa catenatestuale sono giunti fino a STV. 233 ! *"! un lato, le tante parti in comune confluite dal Tratado a Del sentimiento trágico, dall’altro le altrettante parti dissimili, se non addiritura nuove. Certo, dicendo ciò non si vuol affermare che questo basti a eliminare una prospettiva autobiografica, che resta il cardine indispensabile della riflessione unamuniana sulla condizione umana, dell’uomo “de carne y hueso”. A ben vedere, in realtà, un’idea egocentrica legata al destino tragico dell’Uomo non viene, certo, negata o sconfessata, bensì reduplicata, come confermano, peraltro, alcune inserzioni o cambiamenti degni di nota235. Ma questo non toglie che l’abbandono in alcuni passi di un’ottica personale per abbracciarne una più universale (universalizzazione) sia innegabile. A testimonianza di questa tendenza si possono citare diversi esempi. Già nel primo capitolo (“El hombre de carne y hueso”, per l’appunto) l’espressione “la generalidad de los hombres” va a sostituire “el común de los mortales”. Nel secondo capitolo al sintagma “en las condiciones actuales de nuestra vida” del Tratado fa da contraltare “en las condiciones actuales de nuestro linaje” (e “linaje humano” andrà a rimpiazzare altre espressioni, come “las mentes humanas” nel terzo capitolo); l’espressione “el fundamento de la sociedad humana”, riferita a “el hambre, el instinto de conservación” si sostituisce a “el fundamento del individuo humano” e viene eliminata la distinzione tra l’istinto di conservazione del singolo e l’inìstinto di perpetuazione della società). Più avanti si registra il primo caso di trasformazione di una prima persona singolare in una plurale (“Hablaba” > “Mentábamos”). Questo tipo di modifica (stilema) nel passaggio da T a STV (non è, questo, l’unico esempio) rientra in un disegno ben preciso che si avverte chiaramente: nei relativi passi il tono, da semplicemente diaristico e intimista (ma il “yo” del Tratado è quello dei trattati auriseculares), si fa più colloquiale, dialogico, talora financo omiletico. Nel terzo capitolo si ha, invece, “Ya hablaremos de él”, che sostituisce “Hablaré de él más adelante”236. Ciò va accostato all’introduzione consistente di ulteriori vocativi rivolti, nella finzione letteraria, agli ipotetici allocutari dell’opera (“lector”237, ma anche “lectores”, “hermanos míos”238, a fronte di quella universalizzazione generale di cui si diceva). A corroborare l’idea di un tono omiletico, sermocinante di alcuni blocchi argomentativi, oltre al pluralis maiestatis ed alle allocuzioni, sono alcuni casi di anadiplosi o reduplicatio, come il “Tal vez, tal vez lo sea...” !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 235 Alcuni esempi: “«Yo, yo, siempre yo! –dirà algún lector– ; y ¿quién eres tú? [...]” (capitolo 1); “El conocimiento está al servicio de la necesidad de vivir y primariamente al servicio del instinto de conservación personal.” (capitolo 2); “[...] un lento deshacerte de tí mismo en que la luz [...]” (capitolo 3); “[...] de mí mismo, que soy yo, vuelve mi conciencia [...]” (capitolo 3); “y ¿qué será de nuestros yos [nosostros] todos?” (capitolo 3); 236 237 238 ! Si potrebbero menzionare molte altre ricorrenze di questa tipologia di trasformazione Capitolo 3: “Intenta, lector, imaginarte en plena vela [...]”. Vedi incipit del capitolo 7. *#! del terzo capitolo. Ma non basta. Nelle numerose apostrofi indirizzate all’eventuale lettore, si insiste su moduli e paradigmi caratteristici della lingua parlata, spesso del sermone, dell’omelia, ma, talora, più semplicemente del dialogo (come gli imperativi, le domande rivolte ai lettori o fatte fittizziamente indirizzare a sé stesso dal lettore, in una sorta di dialogismo239 di cui lo stesso autore è parte in causa). Del sentimiento trágico de la vida (1913) è indubitabilmente un’opera di più ampio respiro rispetto al Tratado del amor de Dios (1905-1908), e tendente ad una sistematizzazione maggiormente metodica e meticolosa dei temi filosofici trattati, non più confinati nei limiti dell’abbozzo, riconoscibili, invece, nel Tratado, il quale, per converso, indugia su toni ut ita dicam più intimi ed introversi, ossia rivolti alla sua interiorità. In sostanza, a differenza del Tratado, Del sentimiento trágico, destinato alla pubblicazione, è contraddistinto da un sermo per vocazione più colloquiale, dialogico, talora persino “omiletico”, con cui viene simulato un rapporto dialettico tra autore a livello retorico come, oltre alla seconda persona singolare, l’anadiplosi di parole su cui Unamuno vuole concentrare espressivamente l’attenzione, unitamente ad una più ampia articolazione del periodo lettore, tra mittente e destinatario, ribadito, peraltro, da alcune enfatizzazioni e all’introduzione del vocativo lector con il quale si rivolge, nella finzione letteraria, ad un ipotetico lettore, interlocutore fittizio. 240 Tutti elementi che aumentano proporzionalmente al nuovo intento e alla nuova natura di STV rispetto a T. Come si è detto, dalla collazione tra i due trattati (Tratado e Sentimiento) non si può non evincere la presenza di costanti che caratterizzano il passaggio dall’uno all’altro testo241; qui di seguito si cercherà di analizzare le varianti semantiche e stilistiche (limitatamente ai frammenti di T confluiti in STV) più significative come spie rivelatrici dei cambiamenti di maggior spicco e interesse nell’evoluzione occorsa nel trapasso dall’una all’altra opera, concentrando l’attenzione sui segmenti “intratestuali”, ossia la ripresa testuale di frammenti di T in STV. A partire dallo studio delle varianti, quindi, si cercherà di definire le strategie di revisione del testo (T) che hanno determinato l’opera definitiva (STV). Adottando, per convenzione e comodità, una linea espositiva che privilegi un ordine ben preciso delle isotopie e degli stilemi che informano e contraddistinguono STV rispetto a T (col fine !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 239 Nel passaggio da T a STV, per citare due esempi, le domande «¿Y para qué quieres ser inmortal?» e «¿En gracia a qué?» vengono precisate rispettivamente dalle sovraordinate me preguntas e preguntáis , dalle quali vengono ad essere introdotte (quasi degli a parte incidentali) e ricontestualizzate. (3.7.3 e 3.6.61). Questo, in realtà, è un espediente cui Unamuno ricorre già in T, ma in STV viene amplificato. 240 241 ! Ibidem. Ibidem. *$! ultimo di una maggiore e più funzionale chiarezza242), si analizzeranno qui di seguito gli interventi correttivi apportati e le costanti stilistiche e concettuali del mutamento concretatosi nel passaggio da T a STV. Si ricorda, inoltre, che, all’occorenza, saranno citati i frammenti di T e le relative riprese in STV (in quest’ordine), facendo riferimento, per quanto concerne il numero delle pagine da cui sono tratte le citazioni, direttamente all’autografo di T da un lato, e all’edizione approntata da Orringer243 di STV dall’altro. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 242 Il principio o precetto orteghiano secondo cui “la claridad es la cortesía del filósofo” credo sia da uniformare ed estendere al filologo. 243 N. Orringer, MIGUEL DE UNAMUNO – Del sentimiento trágico de la vida en los hombres y en los pueblos y Tratado del amor de Dios, Madrid, Tecnos, 2005. ! *%! 3.1 Sostituzione di querer a desear Unamuno, in quanto uomo (homo), anela non solo la propria conservazione individuale, ma, soprattutto, la propria perpetuazione, la propria eternizzazione totalizzante, essere gli altri e tutto il resto, senza smettere, paradossalmente, di essere sè stesso. Unamuno pone al centro di tutte le sue considerazioni filosofiche l’uomo (e, quindi, sé stesso) “in carne ed ossa”, dichiarando ab ovo nella propria trattazione definitiva (il Sentimiento) di non stimare nessun uomo a lui estraneo (nullum hominem a me alienum puto), concentrando maggiormente l’attenzione sull’uomo in sè rispetto a ciò che genericamente lo riguarda (come, invece, era nella celebre battuta terenziana, Homo sum: nihil humani alienum puto, su cui è ricalcata la massima unamuniana). Una chiara critica, questa, al soggetto astratto della filosofia post-cartesiana, cui si contrappone un uomo in carne ed ossa che vuole vivere. Il massimo anelito umano, che darebbe senso alle cose, sarebbe quello di avere il massimo di individualità e il massimo di personalità, ma al crescere della coscienza corrisponde un decrescere della materia, che tende all’annichilimento. Di qui il dramma, o meglio la tragedia del vivere, l’ineluttabilità della morte ed il mistero del post mortem. Parole chiave, tanto nel Tratado quanto in Del sentmiento trágico, sono proprio, e non a caso, conservación, perpetuación, aniquilamiento, conciencia, eternidad, infinitud, vida, muerte, nonché il basilare contrappunto dialettico fé/razón, che costituiscono il nodale punto di partenza del Tratado, ma anche un fondamento imprescindibile di Del sentimiento trágico de la vida, dove la dualità aporetica tra fides e ratio, l’insolubile dicotomia tra pistis 0e gnosis 10costituisce una premessa prodromica alla crisi di Unamuno, che per cercare l’idea di Dio resta senza Dio. Si segnala in primis che Unamuno, già nel primo capitolo sostituisce querer a desear in maniera sistematica: Cuando alguien me dice que desaría ser tal otro, le contesto siempre que eso es un absurdo. Desear ser otro es desear dejar de ser uno mismo, y como el otro ya es y no lo crea uno dejando de ser, no es desear otra cosa sino eso. (T, p. 9) En cierta ocasión, este amigo a que aludo me dijo: «Quisiera ser Fulano» (aquí un nombre), y le dije: «Eso es lo que yo no acabo nunca de comprender, que uno quiera ser otro cualquiera. Querer ser otro es querer dejar de ser uno el que es [...] ». (STV, p. 106) ! *&! Dunque, da un’idea che implica attesa si passa a un’idea più incisiva (quiero è connesso al latino quaero), più vicina ad un principio di volontà. In questo modo, l’idea o, forse, il sentimento tantalico di sete di eterno e, soprattutto, di fame d’infinito che sta alla base della dolorosa riflessione esistenzialistica unamuniana, viene acutizzato. Non a caso Unamuno affermerà in STV: «No quiero morir, no: no lo quiero, ni quiero quererlo»244, esaustivo compendio esemplificativo, questo poliptoto, con annessa anafora della negazione245 e del verbo “quiero”, della strenua vis con cui Unamuno si contrappone al problema della morte, ma anche della sua fragilità e della finitudo dell’uomo in genere. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 244 Ma l’idea di una volontà tetragona come risposta alla morte la ritroviamo ovviamente in molti altri passi, non solo di STV, ma anche di altre opere-specchio della vita di don Miguel come fabula o mito cristiani, in senso romantico (ad esempio, nel Diario íntimo Unamuno “confessa”: «Al encontrarme vuelto al hogar cristiano heme hallado con una fe que más que en creer ha consistido en querer y creer y con que volvía en bloque toda la antigua doctrina, sin detalles ni dogmas, sin pensar en ninguno de ellos en particular, con una fe inconciente.»; oppure, la ben nota risposta di Augusto Pérez all’Autore di Niebla: «Es que yo quiero vivir, don Miguel, quiero vivir, quiero vivir.». 245 ! Si noti, peraltro, l’anadiplosi che formano i due no centrali, divisi dal punto e virgola. *'! 3.2 Sostituzione o aggiunta di percibir a conocer Sicuramente questa esacerbazione, questa acutizzazione del “sentimento tragico della vita”, e, quindi, l’inasprimento, la recrudescenza dell’esistenzialismo di Unamuno, è, come suggerisce il titolo stesso del suo libro filosofico più famoso, senz’altro un tratto distintivo, caratteristico e peculiare del passaggio dall’una all’altra opera, che si traduce anche nell’allontanamento da una fiducia ciecamente positivistica nella logica e nella scienza astratta e in un avvicinamento, per contro, ad un approccio verso il mondo e la filosofia stessa più empirico. In altri termini, alcune varianti da T a STV testimoniano la sostituzione di parole gravitanti intorno alla radice di conocer con parole etimologicamente legate alla percepción, contropartita questa, in buona sostanza, di una malcelata, anzi manifesta crisi gnoseologica, e più precisamente epistemologica, del più grande poeta-filosofo della Spagna finisecular e primonovecentesca. Non è certo una novità questa, ma il dato interessante sta nell’insistenza, nella costanza con cui Unamuno preferisce in un discreto numero di occorenze, di cui si fornirà ora una icastica casistica, percibir a conocer, percepción a conocimiento. Alcuni esempi, in sostanza, mostreranno una selezione di modalità e contesti in cui tale mutamento ha avuto luogo. Si prenda, per cominciare, questo periodo estratto da un frammento di T ed il suo corrispettivo in STV: [...] es lo averiguado y cierto que en el orden aparencial de las cosas, en la vida de los seres dotados de algún conocer, más ó246 menos brumoso, ó que por sus actos parecen estar dotados de él, el conocimiento |se sobre c| nos muestra ligado á la necesidad de vivir y de procurarse sustento para lograrlo. (T, p. 22) [...] es lo averiguado y cierto que en el orden aparencial de las cosas, en la vida de los seres dotados de algún conocer o percibir, más o menos brumoso, o que por sus actos parecen estar dotados de él, el conocimiento se nos muestra ligado a la necesidad de vivir y de procurarse sustento para lograrlo. (STV, p. 123) Come si può notare, “algún conocer, más ó menos brumoso” di T diventa “algún conocer, o percibir, más o menos brumoso” in STV. Unamuno sente la necessità (o, più prudentemente, potremmo dire che ciò rispecchia una confermata, ribadita tendenza della sua intima crisi !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 246 Si ricorda qui una volta per tutte che un tratto tipico dell’usus scribendi di Unamuno, in linea con le norme ortografiche del primo Novecento, è quello di accentare tutti i monosillabi costituiti da una singola vocale (quindi á, é, ó, ú). ! *(! epistemologica) di precisare il conoscere (in quanto strumento di sopravvivenza) come percezione del mondo circostante, una forma di conoscenza comunque indicata come “brumosa”, quindi nebbiosa, indefinita, confusa, già in T. E l’accostamento di percibir a conocer non è certo condizionale o contestuale, né tanto meno casuale. Sempre nell’ambito dello stesso frammento, infatti, pochi righi più sotto, si registra una sostituzione sistematica di termini connessi alla conoscenza con termini legati alla percezione: Los seres sup[que parecen] 247 dotados de conocimiento, conocen para poder vivir, y sólo en cuanto para vivir lo necesitan, conocen. (T, p. 22) Los seres que parecen dotados de percepción, perciben para poder vivir, y sólo en cuanto para vivir lo necesitan, perciben. (STV, p. 124). I lemmi percepción, perciben e, nuovamente, perciben che troviamo in STV vanno a sostituire rispettivamente conocimiento, conocen e, infine, conocen, che avevamo, invece, in T (senza considerare in questa sede altre piccole varianti dipese dal labor limae della frase). In questo passo Unamuno parla di “esseri” (seres): se in T Unamuno sostiene che le forme di vita diverse dall’uomo dotate di una qualche forma di coscienza “nell’ordine apparente delle cose” abbisognano di conoscere per vivere, gli esseri viventi per vivere abbisognano della percezione delle cose (nella loro coseità). Ora, questo potrebbe anche essere (o apparire?) una semplice scelta lessicale di natura stilistica, ma, in ultima analisi, pare perlomeno una scelta oculata e significativa, non scevra da implicazioni semantiche e filosofiche, posto che in Del sentimiento trágico de la vida, ed il titolo lo ribadisce in maniera lampante (nomina omina!), l’elemento della percezione (e del “sentimento” per quanto riguarda l’uomo) acquista una centralità indiscussa e indiscutibile, come viatico ineludibile in prima battuta per la sopravvivenza (dimensione personale/ instinto de conservación248) e, in secondo luogo, per la perpetuazione (dimensione sociale/ instinto de perpetuación249) ed eternizzazione di sé (dimensione mistica o spirituale o universale/amor de Dios250). Al centro di tutta la speculazione “teo-filosofica” che sta alla base di Del sentimiento trágico vi è proprio una consapevolezza (e, contestualmente, un dubbio) e dell’esistenza e di Dio tragica che nasce dal !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 247 Con questo segno diacritico si è indicato nel catalogo presente in “Analisi dell’avantesto di Del sentimiento trágico de la vida: l’autografo unamuniano del Tratado del amor de Dios, di Filippo Tedeschi (2006)” una aggiunta superiore nel manoscritto originale. 248 “Istinto di conservazione”. 249 “Istinto di perpetuazione”. 250 “Amore di Dio”. ! *)! sentimento della vita e del mondo. Detto parenteticamente, poco più avanti registriamo la sostituzione dell’aggettivo predicativo “sensible” (Tratado) con “perceptible” in Del sentimiento trágico in seno alla frase “Y así cabe decir que es el instinto de conservación el que nos crea la realidad y hace la verdad del mundo sensible [...]”; insomma, vi è la volontà nel passaggio dall’una all’altra opera di distinguere anche a livello linguistico il grado e la qualità di coscienza dell’Uomo rispetto agli altri “esseri” (seres). La percezione coinvolge tutte le forme di vita (compreso l’uomo), in quanto mezzo irrinunciabile di sopravvivenza, di conservazione biologica, materiale di sé, a livello del tutto personale, individuale. Il sentimento, per contro, spetta esclusivamente agli esseri umani e a un livello di consapevolezza, di coscienza più alto e più ampio, quello sociale, che porta all’istinto di perpetuazione di sé, oltre che alla conoscenza empirica del “male di vivere”, per dirla con Montale. La conoscenza di Dio, fondata non sulla logica ma sull’amore, è la forma suprema di coscienza di sé in rapporto all’assoluto in una prospettiva krausisticamente panenteistica. La conoscenza di un Dio che è il Tutto come coscienza individuale e universale al contempo; di un Universo che è organismo onnicomprensivo. È questo l’amore di Dio. Si potrebbe inferire che l’idea di una via conoscitiva come percezione (dunque empirica) si limiti, nel trapasso da T a STV, a precisare esclusivamente la forma di conoscenza (o di coscienza) degli animali. Non è così. Facendo un passo avanti, nel capitolo 5 di STV (intitolato eloquentemente251 “La disolución racional”) si rimarca un’innovazione lessicale molto interessante: si attesta in STV l’accostamento a pensamientos252, pensar253 e pensamos254 di, nell’ordine, percepciones255, percibir256 e percibimos257, rispetto a T. Y, sin embargo, necesitamos de la lógica, de este poder terrible, para transmitir pensamientos y hasta para pensar, porque pensamos con palabras. (T, n.258 19) Y, sin embargo, necesitamos de la lógica, de este terrible poder, para transmitir pensamientos y percepciones y hasta para pensar y percibir, porque pensamos con palabras, percibimos con formas. (STV, p. 222) !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 251 Penso qui alla centralità che riveste in T la perdita di fiducia da parte di Unamuno nella Scienza, perdita della logica e della razionalità come certezza assoluta e possibile strumento per arrivare a Dio (in ottica positivistica), che confluisce in buona parte in questo capitolo (nonché nel capitolo 8) di STV. 252 “Pensieri”. 253 “Pensare”. 254 “Pensiamo”. 255 “Percezioni”. 256 “Percepire”. 257 “Percepiamo”. 258 Con “n.” si fa riferimento alle note (quattordici in totale) poste come corollario alle novantadue pagine che costituiscono il trattato vero e proprio in T. ! **! Per l’uomo, dunque, la conoscenza del mondo sensibile, del transeunte, e la sua comunicazione, interessa (e questo viene esplicitato) l’elemento percettivo, oltre a quello puramente e astrattamente logico, ineluttabile e imprescindibile. Nel settimo capitolo 7 (Amor, dolor, compasión y personalidad), poi, va sottolineato il modo in cui Unamuno ha rivisto e modificato questo segmento testuale: Me siento yo mismo al sentirme que no soy los demás; saber hasta donde soy es saber donde acabo, desde donde no soy. (T, p. 11) Me siento yo mismo al sentirme que no soy los demás; saber y sentir hasta donde soy es saber donde acabo, y desde donde no soy. (STV, p. 283) Al verbo saber viene affiancato in STV il verbo sentir259. Ciò ribadisce e comprova ulteriormente l’importanza che assume il sentimento delle cose, della vita, di sé, per la conoscenza , tanto che vengono accostati direttamente (“sapere e sentire”). Tribus verbis, acquista un valore molto importante l’elemento sentimentale accanto a quello gnoseologico, del quale, anzi, il primo diviene l’elemento fondante in STV. Per di più, non siamo di fronte ad un caso isolato. In realtà, questo segmento si inscrive in un passo più ampio nel quale l’accostamento di sentir a pensar e, più in generale, la sua aggiunta sono costanti. Si osservi come puntualmente Unamuno, passando da T a STV, introduca l’idea del sentire e del sentimento in questi excerpta tratti dal frammento in questione: 1) [...] si contemplas las cosas todas en tu conciencia [...] (T, p. 10) [...] si sientes y no ya sólo contemplas las cosas todas en tu conciencia [...] (STV, p. 281); 2) Toda conciencia es conciencia de muerte. (T, p. 10) !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 259 La frase rimaneggiata in Del sentimiento trágico in definitiva risulta questa: “saber y sentir hasta donde no soy, es saber donde acabo de ser, y desde donde no soy.” ! "++! Pues toda conciencia lo es de muerte y de dolor. Conciencia, conscientia, es conocimiento participado, es consentimiento, y con-sentir es com-padecer. (STV, pp. 281-282); 3) Tener conciencia es saberse distinto de los demás seres, y á sentir esta distinción sólo se llega por el choque, por el dolor. (T, p. 11) Porque tener conciencia de sí mismo, tener personalidad, es saberse y sentirse distinto de los demás seres, y á sentir esta distinción sólo se llega por el choque, por el dolor más o menos grande, por la sensación del propio límite. (STV, p. 283). Come si può notare, in questo blocco argomentativo Unamuno non lesina l’aggiunta di concetti legati al sentimento delle cose, che vengono accostati a lemmi vicini in qualche modo alla razionalità, a cominciare dall’esempio 1, dove all’idea della contemplazione (contemplas) si affianca il verbo sientes. Nel secondo esempio, viene addirittura inserita un’intera frase, che in T non c’era, nella quale don Miguel identifica conciencia e conocimiento, che associa a consentimiento, e, giocando con l’etimologia delle parole260, avvicina con-sentir a com-padecer. Vi è qui, a ben vedere, un duplice salto logico: da un lato, il filosofo di Bilbao individua come elemento fondante della conoscenza il sentimento, quindi il sensus; dal’altro, considera il sentire stesso come sofferenza, come passione (dal latino patior). Ecco che il consenso diventa compassione, condivisione di un dolore comune, che porta alla conoscenza. Questo pensiero è confermato dalla aggiunta sostanziale dell’esempio 3: qui, oltre all’accostamento di sentirse a saberse, già di per sé significativo e indicativo della sopraggiunta imprescinbile centralità, nel concepire la coscienza, del sentire (o di una concenzione della coscienza che collima con quella del sentimento maturata e corroborata tra il 1908 e il 1911, ma che affonda le proprie inestirpabili radici già negli anni precedenti), è da mettere in risalto, per l’appunto, la coda della frase, che è un’innovazione. Vi compaiono il verbo sentir e il sostantivo sensación: «saberse y sentirse distinto de los demás seres» è il frutto di uno shock che deriva dalla presa di coscienza della propria finitudo !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 260 ! Orringer, op. cit., p. 282 (nota 31). "+"! («la sensación del propio límite») attraverso i sensi, con cui si percepisce il dolore del vivere in termini empirici ed esistenzialistici. Ma, naturalmente, vi sono anche casi in cui già in T Unamuno ha accostato l’idea di conocer a quella di sentir (e di compadecer): Entonces se conocieron y se sintieron en su común miseria, se compadecieron, se amaron. (T, p. 7) Entonces se conocieron y se sintieron, y se con-sintieron en su común miseria, se compadecieron y se amaron. (STV, p. 276). Questo frammento consente di fare alcune riflessioni di rilievo e fornisce, altresì, una serie di conferme. Gli uomini (è questo, infatti, il soggetto sottointeso) giungono al traguardo del gnothi seautòn attraverso il sentimento di una miseria comune, che è compassione e compassione, per Unamuno, è amore. Ma, come si può notare, vi è anche qui un riverbero della traiettoria evolutiva seguita dal progetto filosofico di don Miguel: STV insiste ulteriormente sull’idea del sentire, sulla quale indugia con quel con-sintieron, che, a ben vedere, non solo ribadisce, ma precisa il modus sentiendi, ora risultato di un’esperienza comune, non semplicemente individuale, che unisce gli uomini che convivono e condividono il dolore, la fatica del loro immutabile e inappellabile destino: in una parola, com-passione. Vi è anche una maggiore enfasi dettata dalla coordinazione polisindetica, che sostituisce quella asindetica, un’enfasi che non è sterile cifra stilistica, ma contraltare e riprova della sopraggiunta deriva della crisi unamuniana. Ma, forse, più che di deriva, sarebbe opportuno parlare di comprensibile continuità con la crisi che già da anni attanagliava la coscienza dell’esistenzialista dei Paesi Baschi spagnoli, cosa, perlatro, confermata da altri segnali come questo, che verrano presi in esame più nel dettaglio successivamente (soprattutto l’esacerbazione del tragicismo a livello lessicologico e concettuale, da una parte e, dall’altra, la reduplicazione di termini ed espressioni legati all’angoscia). Anche qui Unamuno gioca con l’etimologia di con-sentir e com-padecer: sentire insieme agli altri è condividerne il dolore, specchio della natura di fondo della condizione umana, e, in ultima analisi, strumento privilegiato di conoscenza. Conoscere, attraverso il dolore, la verità che mi riguarda. ! "+#! Ad un altro frammento sempre appartenente al settimo capitolo corrisponde un’altra innovazione interessante nel passaggio da T a STV, a riprova della fondamentale rilevanza acquisita dalla prospettiva epistemo-gnoseologica in chiave sensoriale: Descendiendo desde el hombre suponemos que tienen alguna conciencia, más o menos ocura261, todos los vivientes y las rocas mismas, que también viven. (T, p. 12) Descendiendo desde nosotros mismos, desde la propia conciencia humana, que es lo único que sentimos por dentro y en que el sentirse se identifica con el serse, suponemos que tienen alguna conciencia, más o menos oscura, todos los vivientes y las rocas mismas, que también viven. (STV, p. 285). Risulta immediatamente chiaro come Unamuno delinei qui un quadro che vede, come proprio concetto di base e centro gravitazionale, nuovamente il sentire, il quale viene ad essere identificato (è proprio il caso di dirlo) con l’essere, o, piùù esattamente, con l’essersi. Nella coscienza umana, or dunque, non c’è scarto alcuno tra sentimento ed essenza, che collimano perfettamente: ciò che l’uomo si sente, è. Non si prendono in esame in questo studio i rimaneggiamenti che hanno investito alcuni segmenti intratestuali comuni a T e STV. Tuttavia, al fine di restituire una ricostruzione più ampia e complessa della casistica relativa all’aggiunta di lemmi inscrivibili nel campo semantico del sensus e, più in generale, della percezione, pare utile ricordare come, in una parte significativa dell’ottavo capitolo, quale quella in cui si afferma: Y el Dios cordial o sentido, el Dios de los vivos, es el Universo mismo personalizado, es la conciencia del Universo. (STV, p. 323), il Dio cordiale, quindi il Dio dell’amore e della sofferenza, contrapposto a quello puramente ideale e razionale, il ‘Dios vivo’ di T (pp. 30-31) viene a caratterizzarsi ora anche come un ‘Dios sentido’ (idea percettiva e umana) e non genericamente conosciuto (idea logica e astratta). È il Dio che si è fatto uomo in carne ed ossa, non il Dio aristotelico come pura, asettica perfezione, come motore immobile indifferente alle vicende, ai destini e alle sofferenze umane. È il Dio che sentiamo, non !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 261 ! Sic nell’autografo di T . "+$! quello che pensiamo. È il Dio cristologico, non il Dio noumenico, mero pensiero. Non è un caso, d’altra parte, questa aggiunta apportata a STV rispetto a T: Creer en Dios es, en primera instancia, querer que Dios exista y obrar como si existiese. (T, p. 17) Querer que exista Dios, y conducirse y sentir como si existiera. (STV, cap. IX) ! "+%! 3.3 Esasperazione del tragicismo in STV Se uno dei due fuochi attorno cui ruota STV già a partire dal titolo, ossia il sentimento, quindi la percezione, occupa un posto di rilievo nell’economia della revisione di T, non da meno è l’altro fuoco: il tragicismo. E al di là del “consuelo en la desesperación262”, ciò che balza all’occhio nella collazione tra i due scritti unamuniani è l’aggiunta in alcuni passi di STV dell’aggettivo trágico e del sostantivo tragedia o la loro sostituzione ad altri aggettivi e sostantivi, se non addirittura la comparsa del sintagma sentimiento trágico de la vida. Ripercorrendo i primi dieci capitoli di STV, si metterà qui di seguito in evidenza come e dove Unamuno abbia apportato delle modifiche o delle aggiunte che, se non sistematicamente, di certo con una certa insistenza ribattono sul senso tragico dell’esistenza maturato (o meglio rimuginato) e consolidatosi nella coscienza di don Miguel tra il 1907 e il 1911. Si precisa (per quanto possa apparire di per sé ovvio) che non siamo di fronte ad una novatio tematica tout court: già nelle pagine di T il senso del tragico è vivo e ben visibile in molte parti: ciò che ci si accinge qui a illustrare sommariamente e a titolo esemplificativo è proprio come Unamuno abbia ribadito e corroborato quest’idea (o sentimento) di un esistenzialismo fatalistico, accrescendo la portata delle occorenze in cui sono stati introdotti uno o più elementi ed espressioni gravitanti intorno al campo semantico del tragicismo. Il primo caso che incontriamo è quello relativo a questo frammento del quinto capitolo di STV (La disolución racional), ¡Trágico combate el de la verdad con la razón! (T, p. 51) Es un trágico combate, es el fondo de la tragedia, el combate de la vida con la razón. (STV, p. 221). Questa, che potremmo a buon diritto chiamare una sentenza, sintetizza perfettamente la crisi epistemologica del giovane studente di filosofia affascinato dal positivismo e, al contempo, l’idea dell’ineluttabilità del destino dell’uomo, che è, per natura, mortale. Ma l’agonia cristianoesistenzialistica dell’intellettuale diviso tra Ragione e Fede, già in germe in T, viene qui definita !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 262 ! “Conforto nella disperazione”. "+&! non più, solo e semplicemente, una lotta tragica (quindi, senza speranza), ma addirittura il “fondo della tragedia” stessa. Vi sono casi, poi, in cui da un avverbio si passa ad un aggettivo legato al tragicismo. Questo si verifica, anzitutto, nel capitolo 7 (Amor, dolor, compasión y personalidad), dove si osserva l’aggiunta di trágicos ad amores a rimpiazzare l’avverbio tragicamente263, espunto rispetto al Tratado: Y esto se siente más clara y más fuertemente aun cuando brota, arraiga y crece uno de esos amores que tienen que luchar contra la terribles leyes del Destino, uno de esos amores que nacen tragicamente, á destiempo, antes ó después del momento en que el mundo, que es costumbre, lo hubiera recibido. (T, n.7) Todo lo cual se siente más clara y más fuertemente aun cuando brota, arraiga y crece uno de esos amores trágicos que tienen que luchar contra la diamantinas leyes del Destino, uno de esos amores que nacen a destiempo, o desazón, antes o después del momento o fuera de la norma en que el mundo, que es costumbre, lo hubiera recibido. (STV, p. 276) In STV l’aggettivo trágicos, in altre parole, reintegra o, meglio, compensa l’eliminazione dell’avverbio corradicale che si aveva, invece, in T; nondimeno, questo “ritocco” morfosintattico non è da escludere che celi una visione più intensamente amara degli amori più liberi e irrazionali, quegli amori che non rientrano e non possono rientrare nei canoni statici della società, come l’amore di Paolo e Francesca. L’amore di amanti come Paolo e Francesca non semplicemente nasce in modo tragico, ma è tragico (e lo è imperscrutabilmente) esso stesso, per propria natura. Ma, facendo un passo avanti, è senz’altro inevitabile soffermarsi sulle aggiunte dei frammenti relativi al capitolo 9 (Fe, esperanza y caridad). Esempi di questo genere certo non mancano in un capitolo (il nono) fuor d’ogni dubbio cruciale, tutt’altro che marginale nell’economia della struttura dissertativa di Del sentimiento trágico. Il capitolo nel quale, del resto, è stato registrato264 il maggior numero di aggiunte, rimaneggiamenti ed intratesti, con tutta probabilità in virtù del senso “tragico” dell’esistenza nel rapporto dialogico con la Fede, la Speranza e la Carità da parte di un animo intimamente a metà tra Scienza e Fede. Fede, Speranza e Carità: le tre virtù teologali intese come cammini verso Dio, verso un Universo cosciente, umanizzato, in una !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 263 264 ! Sic nell’autografo. Si faccia riferimento al catalogo di cui alle note 1, 12, 22, 25 e 27. "+'! recherche vita natural durante tesa all’assoluto. Alla propria perpetuazione ab aeterno ed in aeternum. All’eternizzazione di sé. Verrano qui passati in rassegna ed esaminati alcuni casi concreti relativi all’aggiunta di segmenti testuali in cui sono stati introdotti termini o espressioni legati al campo semantico della “tragedia” come sentimento nel passaggio da T a STV265. Si veda, ad esempio, questo frammento: Y como el amor es doloroso, como el amor es compasión, es piedad, la belleza surge de la compasión, y no es sino el consuelo que esta se busca. Acongojados al sentir que todo pasa, que pasamos nosostros, que pasa lo nuestro, que pasa cuanto nos rodea, la congoja misma nos revela el consuelo de lo que no pasa, de lo eterno, de lo hermoso. (T, p. 60) Y como el amor es doloroso, es compasión, es piedad, la belleza surge de la compasión, y no es sino el consuelo temporal que ésta se busca. Trágico consuelo. Y la suprema belleza es la de la tragedia. Acongojados al sentir que todo pasa, que pasamos nosostros, que pasa lo nuestro, que pasa cuanto nos rodea, la congoja misma nos revela el consuelo de lo que no pasa, de lo eterno, de lo hermoso. (STV, p. 363) Qui Unamuno nel Sentimiento addiziona “Trágico consuelo. Y la suprema belleza es la de la tragedia.”, legando inestricabilmente ed indissolubilmente il dolore della tragedia esistenziale dell’uomo alla “belleza” che scaturisce dal conforto (consuelo) insitamente connaturato ad esso, esprimendo con un ossimoro incommensurabile (Tragico consuelo) la contraddizione del vivere, la vexata quaestio della Fede e della Speranza in qualcosa (Dio) sconosciuto e ineffabile, indicibile e incerto (una risposta instabile e dubitabile all’ignoto che avvolge l’aldilà), che può condurre alla carità o alla disperazione (per quanto legata alla consolazione). Un altro frammento è ragione di grande interesse: Y tiene el dolor sus grados, según se adentra, desde aquel dolor que flota en el mar de las apariencias hasta |la sobre e|266 eterna congoja que va á posarse en el fondo de lo eterno [...]. (T, p.62) !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 265 Si rammenta che il catalogo consta di due appendici, le Ápendices A e B (contenenti rispettivamente intratextos e refundiciones), nelle quali sono stati riportati i vari segmenti testuali ordinati per capitolo, numero del frammento e rigo o righi occupati in seno al medesimo. Per esempio, con la sigla numerica 3.2.27 si fa riferimento al rigo 27 del secondo frammento tratto dal capitolo 3; con la sigla 8.1.3-10, invece, ci si riferisce all’intervallo dal terzo al decimo rigo del primo frammento nel capitolo 8. ! "+(! Y tiene el dolor sus grados, según se adentra; desde aquel dolor que flota en el mar de las apariencias hasta la eterna congoja, la fuente del sentimiento trágico de la vida, que va á posarse en el fondo de lo eterno [...]. (STV, p. 365). Di peso tutt’altro che trascurabile l’aggiunta la fuente del sentimiento trágico de la vida, un sintagma che andrà, poi, a costituire il titolo (o, meglio, parte del titolo) dell’opera definitiva. E “la fonte del sentimento tragico della vita” è proprio quell’ “eterna angoscia [...] che va a posarsi nella profondità dell’eterno, e lì sveglia il conforto”267. In altre parole, l’uomo, nella sua dimensione sentimentale e animica, id est nel suo profondo, è legato a filo doppio al mondo e a Dio da una angoscia esistenziale, che è, al contempo, consolazione: il dramma dell’uomo, della sua precaria e tragica condizione, dev’essere per don Miguel, a fil di logica (ma meglio sarebbe dire, forse, “sentitamente”), motivo di “lagrimas divinas268”, motivo di dolore per Dio. Da qui il conforto nella disperazione, perché il dolore e la morte non sono un male “singolativo” (intendendo con questo termine preso a prestito dalla grammatica “vissuto individualmente da ciascuno”), bensì collettivo, anzi universale, tanto da coinvolgere Dio o, se si preferisce, l’Universo personificato, umanizzato. Ma per Unamuno il mordente che lega il conforto al dolore, la vita alla morte, l’uomo a Dio è l’amore, definito nella prima frase del capitolo 7 di Del sentimiento trágico de la vida (Amor, dolor, compasión y personalidad) come “quanto di più tragico vi sia al mondo e nella vita”269, passo270, peraltro, dal quale viene espunto rispetto al Tratado “lo más terrible”, che andava a formare una simmetrica dittologia sinonimica con l’altro sintagma “lo más 271 trágico” per l’appunto, il quale viene a trovarsi in questo modo in una posizione di maggiore evidenza, dettata dalla sua unicità e dal suo isolamento nel contesto della frase. Ci soffermeremo più avanti su un’analisi dei cambiamenti stilistici tra Tratado e Sentimiento. Un altro esempio relativo sempre al nono capitolo riguarda questo frammento: !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 266 Questo segno diacritico nel catalogo da me approntato (op. cit.) indica che l’articolo la è sovrascritto a una precedente e. 267 “[...] la eterna congoja, la fuente del sentimiento trágico de la vida, que va a posarse en lo hondo de lo eterno, y allí despierta el consuelo; [...]” 268 269 “Lacrime divine”. “Es el amor, lectores y hermanos, lo más trágico que en el mundo y en la vida hay;[...]” 270 Excerptum 7.1.1. Scelgo qui questo aggettivo perché “angoscia” (congoja) è un altro termine chiave di Del sentimiento trágico, mutuato dal Tratado del amor de Dios, e ricorrente in tutta la trattazione a descrivere lo stato d’animo esistenziale di Unamuno. 271 ! "+)! Y el amor no nos lleva á otra dicha que á la del amor mismo, que es dicha dolorosa. Desde el momento en que el amor se hace dichoso, se satisface, ya no desea y ya no es amor. (T, p. 63) Y el amor no nos lleva á otra dicha que á la del amor mismo, que es dicha dolorosa, y su trágico consuelo de esperanza incierta. Desde el momento en que el amor se hace dichoso, se satisface, ya no desea y ya no es amor. (T, p. 63) Qui, come si vede, y su trágico consuelo de esperanza incierta sostituisce que es dicha dolorosa. È patente l’incremento della componente tragicista ottenuto mediante l’innesto dell’ossimorico sintagma trágico consuelo, significativamente accostato all’idea di una speranza incerta, alla quale è doppiamente legato per via di quella costruzione chiastica (aggettivosostantivo/sostantivo aggettivo) che si sviluppa specularmente attorno alla preposizione de, introducente un complemento di specificazione inalienabile dal sostantivo (consuelo) cui si riferisce. D’altro canto, anche speranza incerta è, in certo qual modo, un ossimoro, se si considera il valore etimologico del latino spero (e la spes è, non a caso, proprio una delle tre virtù teologali che costituiscono il titolo del capitolo in questione); senza dimenticare, del resto, il duplice significato di esperar. Molto probabilmente, poi, Unamuno gioca su questa caratteristica bisemica del verbo. La forte concentrazione di ossimori (sparsi passim un po’ in tutta la trattazione e, peraltro, nell’opera omnia del poeta-filosofo di Bilbao) proprio in questo punto mette in risalto (al di là del gusto estetico letterario di Unamuno) il dissidio interiore che nasce dalla riflessione sulla morte e che, a sua volta, produce il “sentimento tragico della vita”. Un dissidio travagliato, tormentato, fatto di contrasti e inquietudini che convivono in un uomo diviso tra fede e incertezza, ateismo e speranza, di un uomo lacerato interiormente. Un dissidio per cui l’esistenza stessa è un ossimoro, o, quanto meno, quest’ultimo è la figura retorica che meglio la rappresenta; che meglio rappresenta quel mondo, quel conflitto intimo. A ben vedere, l’espressione sostituita (que es dicha dolorosa) è evidentemente un altro ossimoro; l’intento, e lo strumento adottato per perseguirlo, risultano più che giustificati e inoppugnabilmente chiari. La felicità dolorosa viene rimpiazzata dal tragico conforto di speranza incerta, cifra di una più profonda ed esplicita consapevolezza dell’ineluttabilità dell’umano destino, indi per cui la morte, “the undiscovered country, from whose bourn no traveller returns”272 un tabù dietro il quale si cela il mistero dell’esistenza e dell’Universo, mentre si rende manifesta tutta la fragilità, tutta la finitudine e l’impotenza dell’Uomo. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 272 ! W. Shakespeare, Hamlet, III.1. "+*! Nuovamente nel capitolo 9, zeppo (come si è fatto notare) di espressioni gravitanti intorno all’etimo presente nell’aggetivo trágico, nel sostantivo tragedia, et similia, è riscontrabile l’interpolazione dell’aggettivo trágico, giustappunto, all’interno di questo frammento: Y la fórmula terrible, trágica, de la vida íntima espiritual [...]. (T, n. 10) Y la fórmula terrible, trágica, de la vida íntima espiritual [...]. (STV, p. 367). Si tratta, quest’ultimo, di un caso diametralmente opposto a quello proposto precedentemente nel frammento relativo al settimo capitolo. Se in quello, infatti, osserviamo l’espunzione dell’espressione lo más terrible e la conservazione esclusiva del sintagma lo más trágico, in questo avviene l’esatto contrario: all’aggettivo terrible si accosta l’aggettivo trágica, riferiti entrambi alla formula della vita intima spirituale, che per Unamuno consiste nel raggiungere “il massimo di felicità con il minimo d’amore o il massimo d’amore con il minimo di felicità”, che, al di là del parallelismo un po’ barocco, è speculum preclaro, nonché indiscutibile della inquieta e combattuta aporia che attanaglia la coscienza insicura, vaccillante, del geniale creatore di Augusto Pérez. Una dolorosa diatriba intima per chi non sa risolversi tra l’amore, che nasce dal dolore, e la felicità, che muore nell’illusione. Tra tragico conforto e piacere doloroso. Per l’Unamuno “postcrisi del ‘97”, dalla cui mente e dal cui cuore si generano il Tratado ed il Sentimiento, amore è abbandono totale e fiducioso a Dio, o in Dio, senza più speculazioni logiche o “scolasticamente” teologiche intorno a Lui, perché queste non possono che allontanare da Dio, avvicinando all’idea che di Lui abbiamo. Questa “formula” è un compendio di tutto l’angosciato273 dissidio interiore di don Miguel. Ma accanto ad un’amplificazione della risonanza tragicista, già in germe in T, STV recupera dal manoscritto del 1908 anche altre due componenti: da un lato, la riflessione erostratista (o, se si preferisce, nihilista), che in quello occupava le pagine centrali e, di conseguenza, era, per così dire, in sordina; dall’altro, il chisciottismo, come risposta, pur parziale e illusoria, al tragico destino umano stesso. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 273 Scelgo qui questo aggettivo perché “angoscia” (congoja) è un altro termine chiave di Del sentimiento trágico, mutuato dal Tratado del amor de Dios, e ricorrente in tutta la trattazione a descrivere lo stato d’animo esistenziale di Unamuno. ! ""+! 3.4 La componente erostratista All’erostratismo, inesauribile desiderio di eternità che conduce alla distruzione di sé e degli altri, Unamuno dedicherà gran parte del terzo capitolo di STV , che, non a caso, va sotto il titolo di “El hambre de inmortalidad”, dove confluirà la maggior parte dei frammenti di T incentrati sul tema del nichilismo. A tali frammenti, dunque, vengono riservati una collocazione più eminente e maggiore spazio, ma anche (e, forse, è questo il dato più interessante) un’enfasi e un’intesità pià vivide. Don Miguel svilupperà il tema, senza variazioni, al di là dei confini del terzo capitolo: esso riaffiorerà come un fiume carsico in altri punti di STV, riflesso di una “scheggia nelle carni”, mutatis mutandis, che è punto di partenza per la ricerca del consuelo en la desesperación, di una nota dominante che non abbandonerà il filosofo nel corso di tutta la trattazione, a metà tra la fede (come “potenza creativa”) e il nulla. Già nel secondo capitolo di STV, ad esempio, non ci si può sottrarre dall’osservare queste aggiunte quanto meno significative rispetto al periodo di T: Un individuo suelto puede vivir moralmente una vida buena, sana y heroica sin creer de manera alguna en Dios [...] (T, n. 3) Un individuo suelto puede soportar la vida y vivirla buena, y hasta heroica, sin creer en manera alguna ni en la inmortalidad del alma ni en Dios [...] (STV, p. 130) Al di là della sostituzione di vivir con soportar, spia inequivocabile di una precisazione di segno stoicistico, e di altre piccole ed irrilevanti variazioni, ciò che va evidenziato è senz’altro quel ni en la inmortalidad del alma, dove compare esplicitamente una parola-chiave, inmortalidad, associato ad alma, sintagma che in ultima analisi esprime, nella sua totalità, la base di quel sentimento erostratista che informerà in particolare il terzo capitolo di STV. Passando proprio al capitolo 3, sono state registrate, infatti, aggiunte che si pongono sulla scia di una riflessione organica e sistematica all’interno del tema dell’erostratismo. La fame di immortalità di Unamuno trova riscontro non a caso in queste aggiunte disseminate precipuamente nel terzo capitolo di sostantivi ed aggettivi quali inmortalidad e inmortales o eterno e eternidad. Ecco alcuni esempi: ! """! 1) [...] y toda religión arranca historicamente del culto á los muertos [...] (T, p. 40) [...] y toda religión arranca históricamente del culto a los muertos, es decir, a la inmortalidad. (STV, p. 146); 2) [...] hablando > del[o] dudoso <274 de nuestros ensueños y del riesgo de que sean vanos [...] (T, p. 45) [...] hablando de lo dudoso de nuestro ensueño de ser inmortales [...] (STV, p. 153); 3) Ser, ser siempre, ser sin término! sed de ser, sed de ser más! hambre de Dios! sed de amor eternizante! ser siempre y serlo todo! ser Dios! (T, p. 39) ¡Ser, ser siempre, ser sin término! ¡Sed de ser, sed de ser más! ¡Hambre de Dios! ¡Sed de amor eternizante! ¡Ser siempre y serlo todo! ¡Ser Dios! (STV, p. 146); 4) El hambre de Dios, la sed de sobrevivir [...] (T, p. 44) El hambre de Dios, la sed de eternidad, de sobrevivir [...] (STV, p. 152) Sia ben chiaro: tutto il terzo capitolo è costellato di termini connessi all’etimo dell’immortalità e dell’eternità. Ciò che qui si vuole affermare è che la componente erostratista di T viene ribadita e trova conferma in STV proprio attraverso queste aggiunte, con cui Unamuno rimarca ulteriormente il contrasto tra il suo pessimismo nihilista e la sete275 tantalica di essere immortale, o meglio di avere un’anima ed un io eterni. Ma come controaltare di questa corroborata ansia di eterno, vi è una non meno rafforzata riflessione nihilista. L’erostratismo di T non si stempera, anzi: STV è teatro di una riproposizione netta, forte, intensa del senso di annichilamento che investe Unamuno in quanto uomo moderno, figlio del proprio tempo, di contro al desiderio di immortalità. E teatro di questo dualismo !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 274 Le parentesi uncinate sono segno diacritico da me adottato nel già citato studio “Analisi dell’avantesto di Del sentimiento trágico de la vida: l’autografo unamuniano del Tratado del amor de Dios”, per indicare convenzionalmente una cassatura operata da Unamuno nella stesura di T. La o tra parentesi quadre, invece, è una aggiunta. 275 Si ricorda che il termine sed, unitamente al sostantivo hambre, compare spesso nel corso del capitolo, associato proprio a inmortalidad, eterno, e Dios; d’altra parte, in alcuni passi viene ripetuto quasi ossessivamente (come nel esempio 3 a test).. ! ""#! aporetico, insolubile è proprio il terzo capitolo di STV, nel quale i due poli in questione, peraltro, vengono rimarcati da una battologia che è innovazione rispetto a T: Y ser todo yo es ser todos los demás. O todo ó nada. Y qué otro sentido puede tener el «ser ó no ser!» shakesperiano [...] (T, p. 38) Y ser todo yo, es ser todos los demás. ¡O todo o nada! // ¡O todo o nada! Y qué otro sentido puede tener el «ser ó no ser!», To be or not to be, shakesperiano [...] (STV, p. 145). O tutto o niente. E l’anadiplosi conferisce all’espressione maggiore enfasi, maggiore dicotomica drasticità: i due estremi, tutto e niente, sono proprio lo specchio dell’eternità anelata, da una parte, e, dall’altra, della totale distruzione. Questa totale distruzione, poi, viene confermata da reiterate aggiunte di sapore nihilista, in particolare mediante l’inserimento di parole quali aniquilamiento, verbigrazia quando Unamuno, nel citare i versi finali di A se stesso276, definisce Leopardi non più il “poeta del dolor” soltanto, ma anche “del aniquilamiento”: Ya el poeta del dolor vió la estrecha hermandad que hay entre el amor y la muerte [...] (T, p.44) Ya el poeta del dolor, del aniquilamiento, aquel Leopardi que, perdido el último engaño, el de creerse eterno. Perì l’inganno estremo Ch’eterno io mi credei. Le hablaba a su corazón de l’infinita vanità del tutto; vio la estrecha hermandad que hay entre el amor y la muerte [...] (STV, p. 152). Molti altri sono i punti in cui viene accentuato il senso dell’erostratismo. Per esempio, mediante una tutt’altro che trascurabile aggiunta alla domanda: !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 276 ! “Perì l’inganno estremo / ch’eterno io mi credei”; “l’infinia vanità del tutto”. ""$! [...] y qué será de nosotros todos? (T, p. 46) ¿y qué será de nuestros yos todos? ¡Vine para la Verdad, el Bien, la Belleza ! Ya veremos la suprema vanidad y la suprema insinceridad de esta posición hipócrita. (STV, p. 155) Il sostantivo “vanidad”, d’altro canto, già era stato introdotto precedentemente, quando 3.4.95 Unamuno aveva operato un’aggiunta sostanziale inserendo la iunctura biblica ¡Vanidad de vanidades!”: [...] pensaba en concentrar la vida viviéndola en los pocos dias que de ella calculaba le quedaban é imaginando escribir sobre ello un libro para escribir un libro. (T, p. 42) [...] pensaba en concentrar la vida, viviéndola en los pocos días que de ella calculaba le quedarían para escribir un libro para escribir un libro. ¡Vanidad de vanidades! (STV, p.150). ! ""%! 3.5 Congoja Un’altra costante nello “sfociamento” del Tratado nel Sentimiento riguarda la sostituzione e/o l’aggiunta di congoja277 a miseria. Congoja, come anticipato, è un termine che si ripete ricorsivamente nel corso del Sentimiento, un termine chiave espressivamente emblematico dello stato d’animo, dello spleen esistenziale che corrode da dentro i recessi più profondi dell’io umanuniano. Congoja, in altre parole, è il riflesso di una acutizzazione, di una esacerbazione del dolore personale e cosmico, o “leopardiano” (ut ita dicam), che dal Tratado del amor de Dios al Del sentimiento trágico de la vida si fa angoscia, inquietudine esistenziale. Si prendano ad esempio alcuni excerpta tratti dal capitolo nono (un capitolo prolifico dal punto di vista delle varianti di un certo rilievo e centrale in sé e per sé all’interno di Del sentimiento trágico de la vida). La frase “Porque Dios se nos revela porque sufre y porque sufrimos, porque sufre exige nuestro amor, y porque sufrimos |nos sobre o|278 da el suyo y cubre nuestra miseria con la miseria eterna é279 infinita.” viene così rimaneggiata nel Sentimiento: “Porque Dios se nos revela porque sufre y porque sufrimos; porque sufre exige nuestro amor, y porque sufrimos nos da el suyo y cubre nuestra congoja con la congoja eterna e infinita.”; come è evidente, Unamuno sostituisce miseria con congoja. Dall’infelicità, quindi, si passa all’angustia del vivere, all’opprimente inquietudine. Al frammento 9.9.7-8 del Tratado (“Y es lo más inmediato sentir y amar mi propia miseria, compadecerme de mi mismo, tener amor á280 mí mismo.”) fa eco la frase corrispettiva del Sentimiento, che, a parte qualche impercettibile assestamento stilistico, si distingue per l’aggiunta del sostantivo congoja, il quale funge da apposizione proprio a miseria, che precisa e meglio definisce. All’interno del frammento 9.19, poi, si segnala una serie di aggiunte e di precisazioni che testimoniano e rivelano con trasparenza ialina il senso di angoscia esistenziale che pervade Unamuno, angoscia figlia, in fin dei conti, della sua grande ansia vitale. Già al secondo rigo di questo frammento, difatti, il verbo duelen viene chiosato, o meglio precisato da due forme, oprimen e angustian, che vanno a definire con maggiore esattezza il tipo o la qualità del dolore attraverso cui possiamo prendere coscienza di noi e del nostro esserci in senso fisico. Si tratta di un dolore che è, !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 277 “Angoscia”. Nel catalogo di cui alla nota 1 si indica in questo modo una “correzione di grafemi”. Le barre verticali delimitano i segni che ne sono interessati nell’autografo. In questo caso una “o” è stata tramutata in “nos” mediante l’aggiunta della “n” e della “s”. 279 Cfr. nota 27. 280 Cfr. nota 27. 278 ! ""&! per l’appunto, “oppressione”, “angustia”. E, poco più avanti, nel prendere in considerazione il dolore spirituale, il solo modo attraverso cui l’Uomo può rendersi conto di avere un’anima, Unamuno nel Sentimiento reintroduce il termine angustia, nuovamente associato a dolor (in questo caso, però, espiritual). É questo, d’altronde, un passo in cui parole come angustia, congoja e derivati (presenti in entrambi i trattati, del resto, ma con un incremento esponenziale in Del sentimiento trágico rispetto al Tratado del amor de Dios) sono, direi, inflazionate. Di particolare interesse, nella fattispecie, risulta a mio avviso il fatto che una frase centrale nel Tratado (e, a fortiori, nel Sentimiento) quale è “El dolor |refleja sobre var [la congoja]281 es |la sobre el|282 que hace la conciencia [?]|283, la que se vuelva sobre sí.” divenga nel Sentimiento “Es la congoja lo que hace que la conciencia vuelva sobre sí.”. Si tratta di una frase già di per sé significativa in virtù del contenuto (l’affermazione del dolore come unico e più sicuro strumento di conoscenza di sé stessi) e della forma in cui è espressa (la sentenziosità aforistica rende molto incisivo e diretto il messaggio). Ma al di là di questo il dato che mi preme qui sottolineare è che in Del sentimiento trágico Unamuno scarta “El dolor”, al quale preferisce “la congoja”. Una volta di più don Miguel indugia sul proprio sentimento di angoscia, che campeggia incontrastato in questo passo (troviamo, inoltre, acongojado e più volte congoja, associato anche all’aggettivo espiritual ), come in tutto Del sentimiento trágico, del resto. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 281 Segno diacritico (appendice var seguita da segni grafici compresi tra parentesi quadre) con cui si indica nel catalogo, di cui alla nota 1, una variante alternativa, relativa all’autografo del Tratado del amor de Dios, collocata nell’interlinea inferiore o superiore (in questo caso superiore). Unamuno generalmente si comporta in due modi diversi per indicare una variante alternativa: o scrive direttamente la variante al di sopra o al di sotto della lezione in questione (soprattutto quando la lezione si trova nel primo o nell’ultimo rigo della cuartilla; oppure si serve di una crocetta che funge da richiamo ad un’altra, posta poco più sopra, a latere della quale scrive la variante (preferita in casi in cui non vi è molto spazio tra una parola e l’altra; questo stesso sistema è impiegato per indicare delle aggiunte, qualora non vi sia abbastanza spazio tra una parola e l’altra). In questo caso pare di poter dire senza correre il rischio di essere smentiti che siamo di fronte a quella che la Filologia d’Autore definisce variante “tardiva” (o spätkorrektur) o di una aggiunta comunque posteriore alla prima stesura, currenti calamo, dell’autografo. L’autore, infatti, indica con un richiamo la variante in questione tra le parole “dolor” ed “es”, adottando quindi, tra i metodi convenzionali di cui sopra, il secondo, riservato abitualmente alle aggiunte, in mancanza di spazio sufficiente nelle interlinee inferiore e superiore. Anche ammesso (e non concesso) che si tratti tecnicamente di una aggiunta posteriore e non di una variante tardiva (questione comunque non trascurabile da un punto di vista squisitamente filologico) il dato certo e rimarchevole è che nel passaggio dal Tratado al Sentimiento su “dolor”, che viene espunto, prevale proprio “congoja”. Per maggiori approfondimenti sulla variante tardiva si rimanda a A. Stussi, “Introduzione agli studi di filologia italiana”, il Mulino, Bologna, 1994 e a D. Isella, “Le carte mescolate – esperienze di filologia d’autore”, Liviana editrice, Padova, 1987. 282 Vedi nota 61. Vedi nota 61. Con il segno diacritico del punto interrogativo si indica nel catalogo di cui alla nota 1 un segno o un gruppo di segni grafici indecifrabili. 283 ! ""'! 3.6 Il mutamento silistico Passiamo ora ad analizzare più nel dettaglio i mutamenti di ordine stilistico nel passaggio dall’una all’altra trattazione. Ciò che maggiormente colpisce è la tendenza ad una più ampia articolazione del discorso e del periodo, unitamente alla propensione a trasporre ed estendere asserzioni e osservazioni di diversa natura da un ambito intimo e personale ad un ambito più universale. Questo è ampiamente giustificato dal tono, dal carattere più dissertatorio di Del sentimiento trágico e dal suo essere destinato alle stampe, quindi indirizzato ad un pubblico, e non più abbozzo preparatorio nel quale confluisce un monologo intimo e autoreferenziale, “diaristico”, direi, quale era, per contro, il Tratado del amor de Dios. Questo slittamento da una narrazione in prima persona ad una relativamente più impersonale e universale impone la sostituzione di molte forme della prima persona singolare con la terza persona singolare o con una prima persona plurale (o quarta persona) che comprende non più soltanto l’io di Unamuno, ma quello di tutta l’umanità nella sua interezza (si vedano a titolo esemplificativo di questa tendenza i frammenti 9.8.2-5, 9.8.2022, 9.8.36-39, 9.8.40, 9.9.11-12, 9.11). L’oggetto della trattazione non coincide più esclusivamente con il sentimento che Unamuno in quanto tale nutre nei confronti delle cose, del mondo, di Dio, ma con quello di tutti gli uomini. Azzardando un parallelismo ardito, mutatis mutandis, vi è una sorta di estensione del sentimento tragico all’umanità intera, una condivisione che potrebbe ricordare sensu lato e in modo sfumato, indefinito, la “social catena” in cui si dovrebbe stringere “l’umana compagnia” di cui parla Leopardi284. In vista della pubblicazione, d’altra parte, è fisiologico che si tenda, soprattutto in un testo di argomento filosofico, a oggettivare, ad affermare con maggiore vis, con maggiore enfesi, in maniera più categorica e incisiva. Questo, però, non implica un’astrazione asettica !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 284 “Social catena” e “umana compagnia” sono sintagmi de La ginestra o il fiore del deserto composta da Leopardi a Torre del Greco nel 1836. Il parallelo con Leopardi non vuole creare un rapporto di dipendenza e di identificazione tra i due poeti e filosofi, ma vuole essere semplicemente e modestamente un modo per ricordare quanto il pensiero di Leopardi, più che influenzare o condizionare Unamuno, sia stato da lui percepito e recepito come un pensiero condivisibile, anzi simpatetico (naturalmente all’interno di una personalità e di una sensibilità originali e singolarissime, di un ideale per certi versi parallelo, ma per altri agli antipodi rispetto a quello del poeta recanatese – si pensi, in tal senso, al Dios unamuniano e alla leopardiana natura maligna del Dialogo della Natura e di un Islandese). Per l’Unamuno del Tratado, Leopardi è il poeta del dolor ; per l’Unamuno del Sentimiento, Leopardi è il poeta non solo e semplicemente del dolor, ma anche dell’aniquilamiento. A contorno di questo discorso e a testimonianza dell’affinità tra Unamuno e Leopardi si ricorda, comunque, che l’exul immeritus euscaro, durante il suo “destierro” a Fuerteventura (1925) tra i pochi effetti personali che porterà con sé l’unico libro, a parte la Divina Commedia e il Nuovo Testamento, saranno proprio i Canti di Leopardi, che, detto incidentalmente, viene più volte ed esplicitamente citato in Del sentimiento trágico (si pensi all’espressione “hediondo orgullo”, tratta sempre da La ginestra o, per esempio, i versi con cui si apre il canto Amore e Morte “Fratelli, a un tempo stesso, Amore e Morte / ingenerò la sorte” (capitolo 7) nonché i versi “Perì l’inganno estremo / ch’eterno io mi credei” e il sintagma di ascendenza biblica (Ecclesiaste) “l’infinità vanità del tutto”, estrapolati dal componimento che chiude il ciclo dei canti di Aspasia: A se stesso. ! ""(! nell’esposizione, o meglio nell’espressione del “sentimento tragico della vita”. Il monologo si trasforma in soliloquio, in dialogo fittizio con cui Unamuno (come in molte sue opere, si pensi a Como se hace una novela, per esempio) si rivolge direttamente al lettore (o ai lettori tout court) con il vocativo lector (o lectores) e lo (li) coinvolge. In Del sentimiento trágico il tono colloquiale, talvolta finanche “omiletico”, si consolida in alcune parti ,dove viene simulato in senso letterario un rapporto dialettico tra autore e lettore, ribadito, peraltro, da alcune enfatizzazioni a livello retorico, come, oltre alla seconda persona singolare e al vocativo di cui si diceva, l’anadiplosi di parole su cui Unamuno vuole concentrare espressivamente l’attenzione, la reiterazione, insomma, di concetti chiave su cui si focalizza il discorso. Parendo pur opportuno dissuadére da conclusioni frettolose, se Del sentimiento trágico de la vida è frutto indiscutibilmente nato dall’humus del Tratado del amor de Dios, vero è che le due opere, come si è cercato di mettere in luce nel corso di questo articolo, sono due entità autonome e distinte, essendo la prima non il naturale esito o sviluppo in termini genetici della seconda, intesa come abbozzo, ma un ampliamento e una ristrutturazione nella quale le diverse parti del Tratado vengono interpolate (intratextos) e, spesso, rimaneggiate (refundiciones). Sicuramente, le novità sostanziali di maggior spicco riguardano l’introduzione e l’aumento considerevole di parole correlate al campo semantico della tragedia e dell’angoscia o angustia (accanto o in vece di miseria e dolor, che vengono così connotati con più precisione); la sostituzione, nel passaggio dall’uno all’altro trattato, di termini relativi alla percezione con termini relativi al sentimento. Non è un caso, a mio modesto parere, che da un titolo in cui le parole chiave sono amor e Dios si passi ad un titolo in cui parole chiave risultano essere proprio trágico e sentimiento, a fianco di vida. Viene spontaneo osservare (come riflesso dai rispettivi titoli) che da un’opera incentrata su Dio e sull’amor di Dio si passa ad un’opera gravitante intorno ad un “tragico” esistenzialismo catafratto da un senso di inerme fragilità che è propria dell’essere umano, e che riguarda tutti gli uomini (il titolo completo dell’opera, pubblicata per la prima volta nel 1913, significativamente recita: “Del sentimiento trágico de la vida en los hombres y en los pueblos”). I noti eventi concentrati negli anni 1909-1911 hanno, evidentemente, prodotto in don Miguel de Unamuno y Jugo, condizionandolo, una più profonda (nonché più consapevole) angoscia esistenziale, eredità, fra l’altro, della crisi cominciata negli ultimi anni dell’Ottocento (1897). Quando si confrontano il Tratado del amor de Dios e Del sentimiento trágico de la vida conviene, in ultima analisi, considerarli come due realtà collegate ma indipendenti, figlie di una gestazione che ha generato due distinte realtà. ! "")! APPENDICE 1 DEL SENTIMIENTO TRÁGICO DE LA VIDA ! ""*! ! "#+! CAPITOLO I EL HOMBRE DE CARNE Y HUESO 1 Homo sum: nihil humani a me alienum puto, dijo el cómico latino. 2Y yo diría más bien, nullum hominem a me alienum puto; soy hombre, a ningún otro hombre estimo extraño. 3Porque el adjetivo humanus me es tan sospechoso como su sustantivo abstracto humanitas, la humanidad. 4Ni lo humano ni la humanidad, ni el adjetivo simple, ni el sustantivado, sino el sustantivo concreto: el hombre. 5El hombre de carne y hueso, el que nace, sufre y muere -sobre todo muere-, el que come y bebe y juega y duerme y piensa y quiere, el hombre que se ve y a quien se oye, el hermano, el verdadero hermano. 6 Porque hay otra cosa, que llaman también hombre, y es el sujeto de no pocas divagaciones más o menos científicas. 7Y es el bípedo implume de la leyenda, el !,/'+& 2+-#*#"+v& de Aristóteles, el contratante social de Rousseau, el homo oeconomicus de los manchesterianos, el homo sapiens de Linneo o, si se quiere, el mamífero vertical. 8Un hombre que no es de aquí o de allí ni de esta época o de la otra, que no tiene ni sexo ni patria, una idea, en fin. 9Es decir, un no hombre. 10 El nuestro es otro, el de carne y hueso; yo, tú, lector mío; aquel otro de más allá, cuantos pensamos sobre la Tierra. 11 Y este hombre concreto, de carne y hueso, es el sujeto y el supremo objeto a la vez de toda filosofía, quiéranlo o no ciertos sedicentes filósofos. 12 En las más de las historias de la filosofía que conozco se nos presenta a los sistemas como originándose los unos de los otros, y sus autores, los filósofos, apenas aparecen sino como meros pretextos. 13 La íntima biografía de los filósofos, de los hombres que filosofaron, ocupa un lugar secundario. 14Y es ella, sin embargo, esa íntima biografía la que más cosas nos explica. 15 16 Cúmplenos decir, ante todo, que la filosofía se acuesta más a la poesía que no a la ciencia. Cuantos sistemas filosóficos se han fraguado como suprema concinación de los resultados finales de las ciencias particulares, en un período cualquiera, han tenido mucha menos consistencia y menos vida que aquellos otros que representaban el anhelo integral del espíritu de su autor. 17 Y es que las ciencias, importándonos tanto y siendo indispensables para nuestra vida y nuestro pensamiento, nos son, en cierto sentido, más extrañas que la filosofía. 18Cumplen un fin más objetivo, es decir, más fuera de nosotros. 19 Son, en el fondo, cosa de economía. 20 Un nuevo descubrimiento científico, de los que llamamos teóricos, es como un descubrimiento mecánico; el de la máquina de vapor, el teléfono, el fonógrafo, el aeroplano, una cosa que sirve para algo. 21Así, ! "#"! el teléfono puede servirnos para comunicarnos a distancia con la mujer amada. qué nos sirve? 23 22 ¿Pero esta para Toma uno el tranvía eléctrico para ir a oír una ópera; y se pregunta: ¿cuál es, en este caso, más útil, el tranvía o la ópera? 24 La filosofía responde a la necesidad de formarnos una concepción unitaria y total del mundo y de la vida, y como consecuencia de esa concepción, un sentimiento que engendre una actitud íntima y hasta una acción. 25Pero resulta que ese sentimiento, en vez de ser consecuencia de aquella concepción, es causa de ella. 26Nuestra filosofía, esto es, nuestro modo de comprender o de no comprender el mundo y la vida, brota de nuestro sentimiento respecto a la vida misma. 27Y esta, como todo lo afectivo, tiene raíces subconscientes, inconscientes tal vez. 28 No suelen ser nuestras ideas las que nos hacen optimistas o pesimistas, sino que es nuestro optimismo o nuestro pesimismo, de origen filosófico o patológico quizá, tanto el uno como el otro, el que hace nuestras ideas. 29 El hombre, dicen, es un animal racional. animal afectivo o sentimental. 31 30 No sé por qué no se haya dicho que es un Y acaso lo que de los demás animales le diferencia sea más el sentimiento que no la razón. 32 Más veces he visto razonar a un gato que no reír o llorar. 33 Acaso llore o ría por dentro, pero por dentro acaso también el cangrejo resuelva ecuaciones de segundo grado. 34 Y así, lo que en un filósofo nos debe más importar es el hombre. 35 Tomad a Kant, al hombre Manuel Kant, que nació y vivió en Koenigsberg, a fines del siglo XVIII y hasta pisar los umbrales del XIX. 36Hay en la filosofía de este hombre Kant, hombre de corazón y de cabeza, es decir, hombre, un significativo salto, como habría dicho Kierkegaard, otro hombre -¡y tan hombre!-, el salto de la Crítica de la razón pura a la Crítica de la razón práctica. 37 Reconstruye en ésta, digan lo que quieran los que no ven al hombre, lo que en aquélla abatió, después de haber examinado y pulverizado con su análisis las tradicionales pruebas de la existencia de Dios, del Dios aristotélico, que es el Dios que corresponde al !,/'+& 2+-#*#"+v&; del Dios abstracto, del primer motor inmóvil, vuelve a reconstruir a Dios, pero al Dios de la conciencia, al autor del orden moral, al Dios luterano, en fin. 38Ese salto de Kant está ya en germen en la noción luterana de la fe. 39 El un Dios, el Dios racional, es la proyección al infinito de fuera del hombre por definición, es decir, del hombre abstracto, el hombre no hombre, y el otro Dios, el Dios sentimental o volitivo, es la proyección al infinito de dentro del hombre por vida, del hombre concreto, de carne y hueso. 40 Kant reconstruyó con el corazón lo que con la cabeza había abatido. 41 Y es que sabemos, por testimonio de los que le conocieron y por testimonio propio, en sus cartas y manifestaciones ! "##! privadas, que el hombre Kant, el solterón un sí es no es egoísta, que profesó filosofía en Koenigsberg a fines del siglo de la Enciclopedia y de la diosa Razón, era un hombre muy preocupado del problema. 42 Quiero decir del único verdadero problema vital, del que más a las entrañas nos llega, del problema de nuestro destino individual y personal, de la inmortalidad del alma. 43El hombre Kant no se resignaba a morir del todo. 44Y porque no se resignaba a morir del todo, dio el salto aquel, el salto inmortal de una a otra crítica. 45 Quien lea con atención y sin anteojeras la Crítica de la razón práctica, verá que, en rigor, se deduce en ella la existencia de Dios de la inmortalidad del alma, y no ésta de aquélla. 46 El imperativo categórico nos lleva a un postulado moral que exige a su vez, en el orden teológico, o más bien escatológico, la inmortalidad del alma, y para sustentar esta inmortalidad aparece Dios. 47 Todo lo demás es escamoteo de profesional de la filosofía. 48 El hombre Kant sintió la moral como base de la escatología, pero el profesor de la filosofía invirtió los términos. 49 Ya dijo no sé dónde otro profesor, el profesor y hombre Guillermo James, que Dios para la generalidad de los hombres es el productor de inmortalidad. 50 Sí, para la generalidad de los hombres, incluyendo al hombre Kant, al hombre James y al hombre que traza estas líneas, que estás, lector, leyendo. 51 Un día, hablando con un campesino, le propuse la hipótesis de que hubiese, en efecto, un Dios que rige cielo y tierra, Conciencia del Universo, pero que no por eso sea el alma de cada hombre inmortal en el sentido tradicional y concreto. Dios?» 53 52 Y me respondió: «Entonces, ¿para qué Y así se respondían en el recóndito foro de su conciencia el hombre Kant y el hombre 54 James. Sólo que al actuar como profesores tenían que justificar racionalmente esa actitud tan poco racional. 55Lo que no quiere decir, claro está, que sea absurda. 56 Hegel hizo célebre su aforismo de que todo lo racional es real y todo lo real racional; pero somos muchos los que, no convencidos por Hegel, seguimos creyendo que lo real, lo realmente real, es irracional; que la razón construye sobre las irracionalidades. 57 Hegel, gran definidor, pretendió reconstruir el universo con definiciones, como aquel sargento de artillería decía que se construyeran los cañones: tomando un agujero y recubriéndolo de hierro. 285 58 Otro hombre, el hombre José Butler, obispo anglicano, qué vivió a principios del siglo XVIII, y de quien dice el cardenal católico Newman que es el hombre más grande de la Iglesia !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 56-57. Hegel hizo célebre su aforismo [...] tomando un agujero y recubriéndolo de hierro. | El vulgo, los ordinarios, los que no saben la ley, los que desconocen las incoercibles leyes que rigen al universo, los pobres ilusos que, esclavos de la apariencia, no han penetrado en el augusto determinismo de todo lo existente, ni se han sumido en el principio de que todo lo racional es real y todo lo real, racional. N (267) ! "#$! anglicana, al final del capítulo primero de su gran obra sobre la analogía de la religión (The Analogy of Religion), capítulo que trata de la vida futura, escribió es tas pequeñas palabras: «Esta credibilidad en una vida futura, sobre lo que tanto aquí se ha insistido, por poco que satisfaga nuestra curiosidad, parece responder a los propósitos todos de la religión tanto como respondería una prueba demostrativa. 59En realidad, una prueba, aun demostrativa, de una vida futura, no sería una prueba de religión. 60 Porque el que hayamos de vivir después de la muerte es cosa que se compadece tan bien con el ateísmo, y que puede ser por este tan tomada en cuenta como el que ahora estamos vivos, y nada puede ser, por lo tanto, más absurdo que argüir del ateísmo que no puede haber estado futuro.» 61 El hombre Butler, cuyas obras acaso conociera el hombre Kant, quería salvar la fe en la inmortalidad del alma, y para ello la hizo independiente de la fe en Dios. 62El capítulo primero de su Antología trata, como os digo, de la vida futura, y el segundo del gobierno de Dios por premios y castigos. 63 Y es que, en el fondo, el buen obispo anglicano deduce la existencia de Dios de la inmortalidad del alma. 64Y como el buen obispo anglicano partió de aquí, no tuvo que dar el salto que a fines de su mismo siglo tuvo que dar el buen filósofo luterano. 65 Era un hombre el obispo Butler, y era otro hombre el profesor Kant. 66 Y ser un hombre es ser algo concreto, unitario y sustantivo es ser cosa, res. 67 Y ya sabemos lo que otro hombre, al hombre Benito Spinoza, aquel judío portugués que nació y vivió en Holanda a mediados del siglo XVII, escribió de toda cosa. 68La proposición 6.a de la parte III de su Ética dice: unaquaeque res, quatenus in se est, in suo esse perseverare conatur, es decir, cada cosa, en cuanto es en sí, se esfuerza por perseverar en su ser. 69Cada cosa es cuanto es en sí, es decir, en cuanto sustancia, ya que, según él, sustancia es id quod in se est et per se concipitur; lo que es por sí y por sí se concibe. 70 Y en la siguiente proposición, la 7.a, de la misma parte añade: conatus, quo unaquaeque res in suo esse perseverare conatur nihil est praeter ipsius rei actualem essentiam; esto es, el esfuerzo con que cada cosa trata de perseverar en su ser no es sino la esencia actual de la cosa misma. 71Quiere decirse que tu esencia, lector, la mía, la del hombre Spinoza, la del hombre Butler, la del hombre Kant y la de cada hombre que sea hombre, no es sino el conato, el esfuerzo que pone en seguir siendo hombre, en no morir. 72Y la otra proposición que sigue a estas dos, la 8.a, dice: conatus, quo unaquaeque res in suo esse perseverare conatur, nullum tempus finitum, sed indefinitum involvit, o sea: el esfuerzo con que cada cosa se esfuerza por perseverar en su ser, no implica tiempo finito, sino indefinido. 73Es decir, que tú, yo y Spinoza queremos no morirnos nunca y que este nuestro anhelo de nunca morirnos es nuestra esencia actual. 74Y, sin embargo, este pobre judío portugués, desterrado en las tinieblas holandesas, no pudo llegar a creer nunca en su propia inmortalidad personal, y toda su filosofía no fue sino una consolación que fraguó para esta su falta ! "#%! de fe. 75Como a otros les duele una mano o un pie o el corazón o la cabeza, a Spinoza le dolía Dios. 76 ¡Pobre hombre! 77¡Y pobres hombres los demás! 78 Y el hombre, esta cosa, ¿es una cosa? 79Por absurda que parezca la pregunta, hay quienes se la han propuesto. 80 Anduvo no ha mucho por el mundo una cierta doctrina que llamábamos positivismo, que hizo muy bien y mucho mal. 81Y entre otros males que hizo, fue el de traernos un género tal de análisis que los hechos se pulverizaban con él, reduciéndose a polvo de hechos. 82Los más de los que el positivismo llamaba hechos, no eran sino fragmentos de hechos. 83En psicología su acción fue deletérea. 84 Hasta hubo escolásticos metidos a literatos -no digo filósofos metidos a poetas, porque poeta y filósofo son hermanos gemelos, si es que no la misma cosa- que llevaron el análisis psicológico positivista a la novela y al drama, donde hay que poner en pie hombres concretos, de carne y hueso, y en fuerza de estados de conciencia las conciencias desaparecieron. 85 Les sucedió lo que dicen sucede con frecuencia al examinar y ensayar ciertos complicados compuestos químicos orgánicos, vivos, y es que los reactivos destruyen el cuerpo mismo que se trata de examinar, y lo que obtenemos son no más que productos de su composición. 86 Partiendo del hecho evidente de que por nuestra conciencia desfilan estados contradictorios entre sí, llegaron a no ver claro la conciencia, el yo. 87Preguntarle a uno por su yo, es como preguntarle por su cuerpo. 88 Y cuenta que al hablar del yo, hablo del yo concreto y personal; no del yo de Fichte, sino de Fichte mismo, del hombre Fichte. 89 Y lo que determina a un hombre, lo que le hace un hombre, uno y no otro, el que es y no el que no es, es un principio de unidad y un principio de continuidad. 90 Un principio de unidad primero, en el espacio, merced al cuerpo, y luego en la acción y en el propósito. 91Cuando andamos, no va un pie hacia adelante, el otro hacia atrás: ni cuando miramos mira un ojo al Norte y el otro al Sur, como estemos sanos. 92En cada momento de nuestra vida tenemos un propósito, y a él conspira la sinergia de nuestras acciones. 93Aunque al momento siguiente cambiemos de propósito. 94Y es en cierto sentido un hombre tanto más hombre, cuanto más unitaria sea su acción. 95 Hay quien en su vida toda no persigue sino un solo propósito, sea el que fuere. 96 Y un principio de continuidad en el tiempo. 97Sin entrar a discutir -discusión ociosa- si soy o no el que era hace veinte años, es indiscutible, me parece, el hecho de que el que soy hoy proviene, por serie continua de estados de conciencia, del que era en mi cuerpo hace veinte años. 98 La memoria es la base de la personalidad individual, así como la tradición lo es de la personalidad colectiva de un pueblo. 99Se vive en el recuerdo y por el recuerdo, y nuestra vida espiritual no es, en el fono, sino el esfuerzo de nuestro recuerdo por perseverar, por hacerse esperanza, el esfuerzo de nuestro pasado por hacerse porvenir. ! "#&! 100 Todo esto es de una perogrullería chillante, bien lo sé: pero es que, rodando por el mundo, se encuentra uno con hombres que parece no se sienten a sí mismos. 101Uno de mis mejores amigos, con quien he paseado a diario durante muchos años enteros, cada vez que yo le hablaba de este sentimiento de la propia personalidad, me decía: «Pues yo no me siento a mí mismo, no se qué es eso.» 102 En cierta ocasión, este amigo a que aludo me dijo: «Quisiera ser fulano» (aquí un nombre), y le dije: Eso es lo que yo no acabo nunca de comprender, que uno quiera ser otro cualquiera. 103 Querer ser otro, es querer dejar de ser uno el que es. 104 Me explico que uno desee tener lo que otro tiene, sus riquezas o sus conocimientos; pero ser otro, es cosa que no me la explico. 105 Más de una vez se ha dicho que todo hombre desgraciado prefiere ser el que es, aun con sus desgracias, a ser otro sin ellas. 106 Y es que los hombres desgraciados, cuando conservan la sanidad en su desgracia, es decir, cuando se esfuerzan por perseverar en su ser, prefieren la desgracia a la no existencia. 107De mí sé decir, que cuando era un mozo, y aun de niño, no lograron conmoverme las patéticas pinturas que del infierno se me hacían, pues ya desde entonces nada se me aparecía tan horrible como la nada misma. 108 Era una furiosa hambre de ser, un apetito de divinidad como nuestro ascético dijo. 109 Irle a uno con la embajada de que se haga otro, es irle con la embajada de que deje de ser él. 110Cada cual defiende su personalidad, y sólo acepta un cambio en su modo de pensar o de sentir en cuanto este cambio pueda entrar en la unidad de su espíritu y engarzar en la continuidad de él; en cuanto ese cambio pueda armonizarse e integrarse con todo el resto de su modo de ser, pensar y sentir, y pueda a la vez enlazarse a sus recuerdos. 111 Ni a un hombre, ni a un pueblo -que es, en cierto sentido, un hombre también- se le puede exigir un cambio que rompa la unidad y la continuidad de su persona. 112 Se le puede cambiar mu cho, hasta por completo casi; pero dentro de continuidad. 113 Cierto es que se da en ciertos individuos eso que se llama un cambio de personalidad; pero eso es un caso patológico, y como tal lo estudian los alienistas. 114 En esos cambios de personalidad, la memoria, base de la conciencia, se arruina por completo, y sólo le queda al pobre paciente, como substrato de continuidad individual -ya que no personal-, el organismo físico. 115Tal enfermedad equivale a la muerte para el sujeto que la padece; para quienes no equivale a su muerte es para los que hayan de heredarle, si tiene bienes de fortuna. 116 Y esa enfermedad no es más que una revolución, una verdadera revolución. 117 Una enfermedad es, en cierto respecto, una disociación orgánica; es un órgano o un elemento cualquiera del cuerpo vivo que se rebela, rompe la sinergia vital y conspira a un fin ! "#'! distinto del que conspiran los demás elementos con él coordinados. 118Su fin puede ser, considerado en sí, es decir, en abstracto, más elevado, más noble, más... todo lo que se quiera, pero es otro. 119 Podrá ser mejor volar y respirar en el aire que nadar y respirar en el agua; pero si las aletas de un pez dieran en querer convertirse en alas, el pez, como pez, perecería. 120 Y no sirve decir que acabaría por hacerse ave; si es que no había en ello un proceso de continuidad. 121 No lo sé bien, pero acaso se pueda dar que un pez engendre un ave, u otro pez que está más cerca del ave que él; pero un pez, este pez, no puede él mismo, y durante su vida, hacerse ave. 122 Todo lo que en mí conspire a romper la unidad y la continuidad de mi vida, conspira a destruirme, y, por lo tanto, a destruirse. 123 Todo individuo que en un pueblo conspira a romper la unidad y la continuidad espirituales de ese pueblo, tiende a destruirlo y a destruirse como parte de ese pueblo. 124 ¿Que tal otro pueblo es mejor? 125Perfectamente, aunque no entendamos bien qué es eso de mejor o peor. también. 130 126 ¿Que es más rico? ¿Que vive más feliz? 131 Concedido. 128 ¿Que es más culto? Esto ya..., pero, en fin, ¡pase! vencer, mientras nosotros somos vencidos? 135 127 133 Enhorabuena. 132 129 Concedido ¿Que vence, eso que llaman 134 Todo esto está bien, pero es otro. Y basta. 136Porque para mí, el hacerme otro, rompiendo la unidad y la continuidad de mi vida, es dejar de ser el que soy, es decir, es sencillamente dejar de ser. 137Y esto no: ¡todo antes que esto! 138 ¿Que otro llenaría tan bien o mejor que yo el papel que lleno? 139 286 ¿Que otro cumpliría mi función social? 140Sí, pero no yo. 141 «¡Yo, yo, yo, siempre yo! -dirá algún lector-; y ¿quién eres tú?» 142Podría aquí contestarle con Obermann, con el enorme hombre Obermann: «para el universo nada, para mí todo»; pero no, prefiero recordarle una doctrina del hombre Kant, y es la de que debemos considerar a nuestros prójimos, a los demás hombres, no como medios, sino como fines. 143 Pues no se trata de mí tan sólo: se trata de todos y de cada uno. 144Los juicios singulares tienen valor de universales, dicen los lógicos. 145Lo singular no es particular, es universal. 146 El hombre es un fin, no un medio. hombre, a cada yo. 148 147 La civilización toda se endereza al hombre, a cada ¿O qué es ese ídolo, llámese Humanidad o como se llamare, a que se han de sacrificar todos y cada uno de los hombres? 149 Porque yo me sacrifico por mis prójimos, por mis compatriotas, por mis hijos, y éstos a su vez por los suyos, y los suyos por los de ellos, y así en serie inacabable de generaciones. 150¿Y quién recibe el fruto de ese sacrificio? 151 Los mismos que nos hablan de ese sacrificio fantástico, de esa dedicación sin objeto, suelen también hablarnos del derecho a la vida. 152 ¿Y qué es el derecho a la vida? 153Me dicen que !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 122-137. Todo lo que en mí conspire [...] Y esto no: ¡todo antes que esto! | ¡Si pudiese hacerme otro!... Mas ¿cómo he de hacerme otro yo, yo mismo, que soy como soy y no de otra manera? N (82-83) ! "#(! he venido a realizar no sé qué fin social; pero yo siento que yo, lo mismo que cada uno de mis hermanos, he venido a realizarme, a vivir. 154 Sí, sí, lo veo; una enorme actividad social, una poderosa civilización, mucha ciencia, mucho arte, mucha industria, mucha moral, y luego, cuando hayamos llenado el mundo de maravillas industriales, de grandes fábricas, de caminos, de museos, de bibliotecas, caeremos agotados al pie de todo esto, y quedará ¿para quién? 155¿Se hizo el hombre para la ciencia o se hizo la ciencia para el hombre? 156 «¡Ea! -exclamará de nuevo el mismo lector-, volvemos a aquello del catecismo. 157P ¿Para 158 quién hizo Dios el mundo? que sea hombre. 160 R. Para el hombre.» 159 Pues bien, sí, así debe responder el hombre La hormiga, si se diese cuenta de esto, y fuera persona, consciente de sí misma contestaría que para la hormiga, y contestaría bien. 161 El mundo se hace para la conciencia, para cada conciencia. 162 Una alma humana vale por todo el universo, ha dicho no sé quién, pero ha dicho egregiamente. 163 164 Un alma humana, ¿eh? No una vida. 165 La vida ésta no. 166 Y sucede que a medida que se cree menos en el alma, es decir, en su inmortalidad consciente, personal y concreta, se exagerará más el valor de la pobre vida pasajera. sensiblerías contra la guerra. 168 167 De aquí arrancan todas las afeminadas Sí, uno no debe querer morir, pero la otra muerte. 169«El que quiera salvar su vida, la perderá», dice el Evangelio; pero no dice el que quiera salvar su alma, el alma inmortal. 170O que creemos y queremos que lo sea. 171 Y todos los definidores del objetivismo no se fijan, o mejor dicho, no quieren fijarse, que al afirmar un hombre su yo, su conciencia personal, afirma al hombre, al hombre concreto y real, afirma el verdadero humanismo -fue no es el de las cosas del hombre, sino el del hombre-, y al afirmar al hombre, afirma la conciencia. 172 Porque la única conciencia de que tenemos conciencia es la del hombre. 173 El mundo es para la conciencia. 174 O, mejor dicho, este para, esta noción de finalidad, y mejor que noción sentimiento, este sentimiento teológico no nace sino donde hay conciencia. 175 Conciencia y finalidad son la misma cosa en el fondo. 176 Si el Sol tuviese conciencia, pensaría vivir para alumbrar a los mundos, sin duda; pero pensaría también, y sobre todo, que los mundos existen para que él los alumbre y se goce en alumbrarlos y así viva. 177Y pensaría bien. 178 Y toda esa trágica batalla del hombre por salvarse, ese inmortal anhelo de inmortalidad que le hizo al hombre Kant dar aquel salto inmortal de que os decía, todo eso no es más que una batalla por la conciencia. ! 179 Si la conciencia no es, como ha dicho algún pensador inhumano, nada "#)! más que un relámpago entre dos eternidades de tinieblas, entonces no hay nada más execrable que la existencia. 180 Alguien podrá ver un fondo de contradicción en todo cuanto voy diciendo, anhelando unas veces la vida inacabable, y diciendo otras que esa vida no tiene el valor que se le da. 181 ¿Contradicción? 182 184 Contradicción, naturalmente. ¡Ya lo creo! 185 creo; ayuda a mi incredulidad!»? 183 ¡La de mi corazón, que dice que sí, mi cabeza, que dice no! ¿Quién no recuerda aquellas palabras del Evangelio: «¡Señor, 186 ¡Contradicción!, ¡naturalmente! 187 Como que sólo vivimos de contradicciones, y por ellas; como que la vida es tragedia, y la tragedia es perpetua lucha, sin victoria ni esperanza de ella; es contradicción. 188 189 Se trata, como veis, de un valor afectivo, y contra los valores afectivos no valen razones. Porque las razones no son nada más que razones, es decir, ni siquiera son verdades. 190 Hay definidores de esos pedantes por naturaleza y por gracia, que me hacen el efecto de aquel señor que va a consolar a un padre que acaba de perder un hijo, muerto de repente en la flor de sus años, y le dice: «¡Paciencia, amigo, que todos tenemos que morirnos!» irritase contra semejante impertinencia? 192 191 ¿Os chocaría que este padre se Porque es una impertinencia. 193 Hasta un axioma puede llegar a ser en ciertos casos una impertinencia. 194Cuántas veces no cabe decir aquello de para pensar cual tú, sólo es preciso no tener nada más que inteligencia. 195 Hay personas, en efecto, que parecen no pensar más que con el cerebro, o con cualquier otro órgano que sea el específico para pensar; mientras otros piensan con todo el cuerpo y toda el alma, con la sangre, con el tuétano de los huesos, con el corazón, con los pulmones, con el vientre, con la vida. 196 Y las gentes que no piensan más que con el cerebro, dan en definidores; se hacen profesionales del pensamiento. 197 ¿Y sabéis lo que es un profesional? 198 ¿Sabéis lo que es un producto de la diferenciación del trabajo? 199 Aquí tenéis un profesional del boxeo. 200 Ha aprendido a dar puñetazos con tal economía, que reconcentra sus fuerzas en el puñetazo, y apenas pone en juego sino los músculos precisos para obtener el fin inmediato y concentrado de su acción: derribar al adversario. 201Un boleo dado por un no profesional, podrá no tener tanta eficacia objetiva inmediata, pero vitaliza mucho más al que lo da, haciéndole poner en juego casi todo su cuerpo. 202El uno es un puñetazo de boxeador, el otro de hombre. 204 ! 203 Y sabido es que los hércules de circo, que los atletas de feria, no suelen ser sanos. Derriban a los adversarios, levantan enormes pesas, pero se mueren, o de tisis o de dispepsia. "#*! 205 Si un filósofo no es un hombre, es todo menos un filósofo; es, sobre todo, un pedante, es decir, un remedo de hombre. 206 El cultivo de una ciencia cualquiera, de la química, de la física, de la geometría, de la filología, puede ser, y aun esto muy restringidamente y dentro de muy estrechos límites, obra de especialización diferenciada; pero la filosofía, como la poesía, o es obra de integración, de concinación, o no es sino filosofería, erudición seudofilosófica. 207 Todo conocimiento tiene una finalidad. 208 Lo de saber para saber, no es, dígase lo que se quiera, sino una tétrica petición de principio. 209Se aprende algo, o para un fin práctico inmediato, o para completar nuestros demás conocimientos. 210Hasta la doctrina que nos aparezca más teórica, es decir, de menor aplicación inmediata a las necesidades no intelectuales de la vida, responde a una necesidad -que también lo es- intelectual, a una razón de economía en el pensar, a un principio de unidad y continuidad de la conciencia. 211 Pero así como un conocimiento científico tiene su finalidad en los demás conocimientos, la filosofía extrínseca se refiere a nuestro destino todo, a nuestra actitud frente a la vida y al universo. 212 Y el más trágico problema de la filosofía es el de conciliar las necesidades intelectuales con las necesidades afectivas y con las volitivas. 213 Como que ahí fracasa toda filosofía que pretende deshacer la eterna y trágica contradicción, base de nuestra existencia. 214¿Pero afrontan todos esta contradicción? 215 Poco puede esperarse, verbigracia, de un gobernante que alguna vez, aun cuando sea por modo oscuro, no se ha preocupado del principio primero y del fin último de las cosas todas, y sobre todo de los hombres, de su primer por qué y de su último para qué. 216 217 Y esta suprema preocupación no puede ser puramente racional, tiene que ser afectiva. No basta pensar, hay que sentir nuestro destino. 218 Y el que, pretendiendo dirigir a sus semejantes, dice y proclama que le tienen sin cuidado las cosas de tejas arriba, no merece dirigirlos. 219 Sin que esto quiera decir, ¡claro está!, que haya de pedírsele solución alguna determinada. 220 ¡Solución! 221¿La hay acaso? 222 Por lo que a mí hace, jamás me entregaré de buen grado, y otorgándole mi confianza, a conductor alguno de pueblos que no esté penetrado de que, al conducir un pueblo, conduce hombres, hombres de carne y hueso, hombres que nacen, sufren, y aunque no quieran morir, mueren; hombres que son fines en sí mismos, no sólo medios; hombres que han de ser lo que son y no otros; hombres, en fin, que buscan eso que llamamos la felicidad. 223 Es inhumano, por ejemplo, sacrificar una generación de hombres a la generación que le sigue, cuando no se tiene sentimiento del destino de los sacrificados. 224No de su memoria, no de sus nombres, sino de ellos mismos. 225 Todo eso de que uno vive en sus hijos, o en sus obras, o en el universo, son vagas elucubraciones con que sólo se satisfacen los que padecen de estupidez afectiva, que pueden ser, por lo demás, personas de una cierta eminencia cerebral. 226Porque puede uno tener un gran talento, ! "$+! 227 lo que llamamos un gran talento, y ser un estúpido del sentimiento y hasta un imbécil moral. Se han dado casos. 228 Estos estúpidos afectivos con talento suelen decir que no sirve querer zahondar en lo inconocible ni dar coces contra el aguijón. 229Es como si se le dijera a uno a quien le han tenido que amputar una pierna, que de nada le sirve pensar en ello. 230Y a todos nos falta algo; sólo que unos lo sienten y otros no. 231O hacen como que no lo sienten, y entonces son unos hipócritas. 232 Un pedante que vio a Solón llorar la muerte de un hijo, le dijo: «¿Para qué lloras así, si eso de nada sirve?» 233 Y el sabio le respondió: «Por eso precisamente, porque no sirve.» 234 Claro está que el llorar sirve de algo, aunque no sea más que de desahogo; pero bien se ve el profundo sentido de la respuesta de Solón al impertinente. 235 Y estoy convencido de que resolveríamos muchas cosas si saliendo todos a la calle, y poniendo a luz nuestras penas, que acaso resultasen una sola pena común, nos pusiéramos en común a llorarlas y a dar gritos al cielo y a llamar a Dios. 236 Aunque no nos oyese, que sí nos oiría. va a llorar en común. 238 237 Lo más santo de un templo es que es el lugar a que se Un Miserere, cantado en común por una muchedumbre, azotada del destino, vale tanto como una filosofía. 239 No basta curar la peste, hay que saber llorarla. 240¡Sí, hay que saber llorar! 241Y acaso esta es la sabiduría suprema. 242¿Para qué? 243Preguntádselo a Solón. 244 Hay algo que, a falta de otro nombre, llamaremos el sentimiento trágico de la vida, que lleva tras sí toda una concepción de la vida misma y del universo, toda una filosofía más o menos formulada, más o menos consciente. 245 Y ese sentimiento pueden tenerlo, y lo tienen, no sólo hombres individuales, sino pueblos enteros. 246 Y ese sentimiento, más que brotar de ideas, las determina, aun cuando luego, claro está, estas ideas reaccionan sobre él, corroborándolo. 247 Unas veces puede provenir de una enfermedad adventicia, de una dispepsia, verbigracia, pero otras veces es constitucional. 248Y no sirve hablar, como veremos, de hombres sanos e insanos. 249Aparte de no haber una noción normativa de la salud, nadie ha probado que el hombre tenga que ser naturalmente alegre. 250 Es más: el hombre, por ser hombre, por tener conciencia, es ya, respecto al burro o a un cangrejo, un animal enfermo. 251La conciencia es una enfermedad. 252 Ha habido entre los hombres de carne y hueso ejemplares típicos de esos que tienen el sentimiento trágico de la vida. 253 Ahora recuerdo a Marco Aurelio, San Agustín, Pascal, Rousseau, René, Obermann, Thomson, Leopardi, Vigny, Lenau, Kleist, Amiel, Quental, Kierkegaard: hombres cargados de sabiduría más bien que de ciencia. 254 Habrá quien crea que uno cualquiera de estos hombres adoptó su actitud -como si actitudes así cupiese adoptar, como quien adopta una postura-, para llamar la atención o tal vez para congraciarse con los poderosos, con sus jefes acaso, porque no hay nada más menguado que el hombre cuando se pone a suponer intenciones ajenas; pero honni soit qui mal y pense. 255Y esto por ! "$"! no estampar ahora y aquí otro proverbio, este español, mucho más enérgico, pero que acaso raye en grosería. 256 Y hay, creo, también pueblos que tienen el sentimiento trágico de la vida. 257 Es lo que hemos de ver ahora, empezando por eso de la salud y la enfermedad. ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! "$#! CAPITOLO II EL PUNTO DE PARTIDA 1 Acaso las reflexiones que vengo haciendo puedan parecer a alguien de un cierto carácter morboso. 2¿Morboso? 3¿Pero qué es eso de la enfermedad? 4¿Qué es la salud? 5 Y acaso la enfermedad misma sea la condición esencial de lo que llamamos progreso, y el progreso mismo una enfermedad. 6 ¿Quién no conoce la mítica tragedia del Paraíso? 7Vivían en él nuestros primeros padres en estado de perfecta salud y de perfecta inocencia, y Yavé les permitía comer del árbol de la vida, y había creado todo para ellos; pero les prohibió probar del fruto del árbol de la ciencia del bien y del mal. 8Pero ellos, tentados por la serpiente, modelo de prudencia para el Cristo, probaron de la fruta del árbol de la ciencia del bien y del mal, y quedaron sujetos a las enfermedades todas y a la que es corona y acabamiento de ellas, la muerte, y al trabajo y al progreso. 9Porque el progreso arranca, según esta leyenda, del pecado original. 10 Y así fue cómo la curiosidad de la mujer, de Eva, de la más presa a las necesidades orgánicas y de conservación, fue la que trajo la caída y con la caída la redención, la que nos puso en el camino de Dios, de llegar a Él y ser en Él. 11 ¿Queréis una versión de nuestro origen? 12Sea. 13Según ella, no es en rigor el hombre, sino una especie de gorila, orangután, chimpancé o cosa así, hidrocéfalo o algo parecido. 14 Un mono antropoide tuvo una vez un hijo enfermo, desde el punto de vista estrictamente animal o zoológico, enfermo, verdaderamente enfermo, y esa enfermedad resultó, además de una flaqueza, una ventaja para la lucha por la persistencia. 15 Acabó por ponerse derecho el único mamífero vertical: el hombre. 16La posición erecta le libertó las manos de tener que apoyarse en ellas para andar, y pudo oponerse el pulgar a los otros cuatro dedos, y escoger objetos y fabricarse utensilios, y son las manos, como es sabido, grandes fraguadoras de inteligencia. 17 Y esa misma posición le puso pulmones, tráquea, laringe y boca en aptitud de poder articular lenguaje, y la palabra es inteligencia. 18 Y esa posición también, haciendo que la cabeza pese verticalmente sobre el tronco, permitió un mayor peso y desarrollo de aquella, en que el pensamiento se asienta. 19Pero necesitando para esto unos huesos de la pelvis más resistentes y recios que en las especies cuyo tronco y cabeza descansan sobre las cuatro extremidades, la mujer, la autora de la caída, según el Génesis, tuvo que dar salida en el parto a una criatura de mayor cabeza por entre unos huesos más duros. 20Y Yavé la condenó, por haber pecado, a parir con dolor sus hijos. ! "$$! 21 El gorila, el chimpancé, el orangután y sus congéneres deben de considerar como un pobre animal enfermo al hombre, que hasta almacena sus muertos. 22¿Para qué? 23 Y esa enfermedad primera y las enfermedades todas que le siguen, ¿no son acaso el capital elemento del progreso? 24 La artritis, pongamos por caso, inficiona la sangre, introduce en ella cenizas, escurrajas de una imperfecta combustión orgánica; pero esta impureza misma, ¿no hace por ventura más excitante a esa sangre? 25¿No provocará acaso esa sangre impura, y precisamente por serlo, a una más aguda celebración? 26 El agua químicamente pura es impotable. 27 Y la sangre fisiológicamente pura, ¿no es acaso también inapta para el cerebro del mamífero vertical que tiene que vivir del pensamiento? 28 La historia de la Medicina, por otra parte, nos enseña que no consiste tanto el progreso en expulsar de nosotros los gérmenes de las enfermedades, o más bien las enfermedades mismas, cuanto en acomodarlas a nuestro organismo, enriqueciéndolo tal vez, en macerarlas en nuestra sangre. 29¿Qué otra cosa significan la vacunación y los sueros todos, qué otra cosa la inmunización por el transcurso del tiempo? 30 Si eso de la salud no fuera una categoría abstracta, algo que en rigor no se da, podríamos decir que un hombre perfectamente sano no sería ya un hombre, sino un animal irracional. 31 Irracional por falta de enfermedad alguna que encendiera su razón. 32 Y es una verdadera enfermedad, y trágica, la que nos da el apetito de conocer por gusto del conocimiento mismo, por el deleite de probar de la fruta del árbol de la ciencia del bien y del mal. 3$v&*(% $v&.',2+# *+;& (#j)(v&$# +j'(v0+&*$# 41v!(# «todos los hombres se empeñan por 33 naturaleza en conocer». 34 Así empieza Aristóteles su Metafísica, y desde entonces se ha repetido miles de veces que la curiosidad o deseo de saber, lo que, según el Génesis, llevó a nuestra primer madre al pecado, es el origen de la ciencia. 35 Mas es menester distinguir aquí entre el deseo o apetito de conocer, aparentemente y a primera vista, por amor al conocimiento mismo, entre el ansia de probar del fruto del árbol de la ciencia, y la necesidad de conocer para vivir. 36 Esto último, que nos da el conocimiento directo e inmediato, y que en cierto sentido, si no pareciese paradójico, podría llamarse conocimiento inconsciente, es común al hombre con los animales, mientras lo que nos distingue de estos es el conocimiento reflexivo, el conocer del conocer mismo. 37 Mucho han disputado y mucho seguirán todavía disputando los hombres, ya que a sus disputas fue entregado el mundo, sobre el origen del conocimiento; mas dejando ahora para más adelante lo que de ello sea en las hondas entrañas de la existencia, es lo averiguado y cierto que en el orden aparencial de las cosas, en la vida de los seres dotados de algún conocer o percibir, más o menos brumoso, o que por sus actos parecen estar dotados de él, el conocimiento se nos muestra ! "$%! ligado a la necesidad de vivir y de procurarse sustento para lograrlo. 38 Es una secuela de aquella esencia misma del ser, que, según Spinoza, consiste en el conato por perseverar indefinidamente en su ser mismo. 39 Con términos en que la concreción raya acaso en grosería, cabe decir que el cerebro, en cuanto a su función, depende del estómago. 40En los seres que figuran en lo más abajo de la escala de los vivientes, los actos que presentan caracteres de voluntariedad, los que parecen ligados a una conciencia más o menos clara, son actos que se enderezan a procurarse subsistencia el ser que los ejecuta. 41 Tal es el origen que podemos llamar histórico del conocimiento, sea cual fuere su origen en otro respecto. 42 Los seres que parecen dotados de percepción, perciben para poder vivir, y sólo en cuanto para vivir lo necesitan, perciben. 43 Pero tal vez, atesorados estos conocimientos que empezaron siendo útiles y dejaron de serlo, han llegado a constituir un caudal que sobrepuja con mucho al necesario para la vida. 44 Hay, pues, primero la necesidad de conocer para vivir, y de ella se desarrolla ese otro que podríamos llamar conocimiento de lujo o de exceso, que puede a su vez llegar a constituir una nueva necesidad. 45 La curiosidad, el llamado deseo innato de conocer, sólo se despierta, y obra luego que está satisfecha la necesidad de conocer para vivir; y aunque alguna vez no sucediese así en las condiciones actuales de nuestro linaje, sino que la curiosidad se sobreponga a la necesidad y la ciencia al hombre, el hecho primordial es que la curiosidad brotó de la necesidad de conocer para vivir, y este es el peso muerto y la grosera materia que en su seno la ciencia lleva; y es que aspirando a ser un conocer por conocer, un conocer la verdad por la verdad misma, las necesidades de la vida fuerzan y tuercen a la ciencia a que se ponga al servicio de ellas, y los hombres, mientras creen que buscan la verdad por ella misma, buscan de hecho la vida en la verdad. 46Las variaciones de la ciencia dependen de las variaciones de las necesidades humanas, y los hombres de ciencia suelen trabajar, queriéndolo o sin quererlo, a sabiendas o no, al servicio de los poderosos o al del pueblo que les pide confirmación de sus anhelos. 47 ¿Pero es esto realmente un peso muerto y una grosera materia de la ciencia, o no es más bien la íntima fuente de su redención? 48 El hecho es que es ello así, y torpeza grande pretender rebelarse contra la condición misma de la vida. 49 El conocimiento está al servicio de la necesidad de vivir, y primariamente al servicio del instinto de conservación personal. 50 Y esta necesidad y este instinto han creado en el hombre los órganos del conocimiento, dándoles el alcance que tienen. 51El hombre ve, oye, toca, gusta y huele lo que necesita ver, oír, tocar, gustar y oler para conservar su vida; la merma o la pérdida de uno cualquiera de esos sentidos aumenta los riesgos de que su vida está rodeada, y si no los aumenta tanto en el estado de sociedad en que vivimos, es porque los unos ven, oyen, tocan, gustan o huelen ! "$&! por los otros. 52 Un ciego solo, sin lazarillo, no podría vivir mucho tiempo. 53 La necesidad es otro sentido, el verdadero sentido común. 54 El hombre, pues, en su estado de individuo aislado, no ve, ni oye, ni toca, ni gusta, ni huele más que lo que necesita para vivir y conservarse. 55 Si no percibe colores ni por debajo del rojo ni por encima del violeta, es acaso porque le bastan los otros para poder conservarse. 56Y los sentidos mismos son aparatos de simplificación, que eliminan de la realidad objetiva todo aquello que no nos es necesario conocer para poder usar de los objetos a fin de conservar la vida. 57 En la completa oscuridad, el animal que no perece, acaba por volverse ciego. 58Los parásitos, que en las entrañas de otros animales viven de los jugos nutritivos por estos otros preparados ya, como no necesitan ni ver ni oír, ni ven ni oyen, sino que convertidos en una especie de saco, permanecen adheridos al ser de quien viven. 60 59 Para estos parásitos no deben de existir ni el mundo visual ni el mundo sonoro. Basta que vean y oigan aquellos que en sus entrañas los mantienen. 61 Está, pues, el conocimiento primariamente al servicio del instinto de conservación, que es más bien, como con Spinoza dijimos, su esencia misma. 62 Y así cabe decir que es el instinto de conservación el que nos hace la realidad y la verdad del mundo perceptible, pues del campo insondable e ilimitado de lo posible es ese instinto el que nos saca y separa lo para nosotros existente. 63 Existe, en efecto, para nosotros todo lo que, de una o de otra manera, necesitamos conocer para existir nosotros; la existencia objetiva es, en nuestro conocer, una dependencia de nuestra propia existencia personal. 64 Y nadie puede negar que no pueden existir y acaso existan aspectos de la realidad desconocidos, hoy al menos, de nosotros, y acaso inconocibles, porque en nada nos son necesarios para conservar nuestra propia existencia actual. 65 Pero el hombre ni vive solo ni es individuo aislado, sino que es miembro de sociedad, encerrando no poca verdad aquel dicho de que el individuo, como el átomo, es una abstracción. 66 Sí, el átomo fuera del universo es tan abstracción como el universo aparte de los átomos. 67Y si el individuo se mantiene es por el instinto de perpetuación de aquel. 68Y de este instinto, mejor dicho, de la sociedad, brota la razón. 69 La razón, lo que llamamos tal, el conocimiento reflejo y reflexivo, el que distingue al hombre, es un producto social. 70 Debe su origen acaso al lenguaje. 71 Pensamos articulada, o sea reflexivamente, gracias al lenguaje articulado, y este lenguaje brotó de la necesidad de transmitir nuestro pensamiento a nuestros prójimos. 72Pensar es hablar consigo mismo, y hablamos cada uno consigo mismo gracias a haber tenido que hablar los unos con los otros, y en la vida ordinaria acontece con frecuencia que llega uno a encontrar una idea que buscaba, llega a darla forma, es decir, a obtenerla, sacándola de la nebulosa de percepciones oscuras a que representa, gracias a los esfuerzos que hace para ! "$'! presentarla a los demás. 74 exterior. 73 El pensamiento es lenguaje interior, y el lenguaje interior brota del De donde resulta que la razón es social y común. 75 Hecho preñado de consecuencias, como hemos de ver. 76 Y si hay una realidad que es en cuanto conocida obra del instinto de conservación personal y de los sentidos al servicio de este, ¿no habrá de haber otra realidad, no menos real que aquella, obra, en cuanto conocida, del instinto de perpetuación, el de la especie, y al servicio de él? 77 El instinto de conservación, el hambre, es el fundamento del individuo humano; el instinto de perpetuación, amor en su forma más rudimentaria y fisiológica, es el fundamento de la sociedad 78 humana. Y así como el hombre conoce lo que necesita conocer para que se conserve, así la sociedad o el hombre, en cuanto ser social conoce lo que necesita conocer para perpetuarse en sociedad. 79 Hay un mundo, el mundo sensible, que es hijo del hambre, y otro mundo, el ideal, que es hijo del amor. 80 Y así como hay sentidos al servicio del conocimiento del mundo sensible los hay también, hoy en su mayor parte dormidos, porque apenas si la conciencia social alborea, al servicio del conocimiento del mundo ideal. 81Y por qué hemos de negar la realidad objetiva a las creaciones del amor, del instinto de perpetuación, ya que se lo concedemos a las del hambre o instinto de conservación? 82Porque si se dice que estas otras creaciones no lo son más que de nuestra fantasía, sin valor objetivo, ¿no puede decirse igualmente de aquellas que no son sino creaciones de nuestros sentidos? 83¿Quién nos dice que no haya un mundo invisible e intangible, percibido por el sentido íntimo, que vive al servicio del instinto de perpetuación? 84 La sociedad humana, como tal sociedad, tiene sentidos de que el individuo, a no ser por ella, carecería, lo mismo que este individuo, el hombre, que es a su vez una especie de sociedad, tiene sentidos de que carecen las células que le componen. 85 Las células ciegas del oído, en su oscura conciencia, deben de ignorar la existencia del mundo visible, y si de él les hablasen, lo estimarían acaso creación arbitraria de las células sordas de la vista, las cuales, a su vez, habrán de estimar ilusión el mundo sonoro que aquellas crean. 86 Mentábamos antes a los parásitos que, viviendo en las entrañas de los animales superiores, de los jugos nutritivos que estos preparan, no necesitan ver ni oír, y no existe, por lo tanto, para ellos mundo visible ni sonoro. 87 Y si tuviesen cierta conciencia y se hicieran cargo de que aquel a cuyas expensas viven cree en otro mundo, juzgaríanlo acas o desvaríos de la imaginación. 88 Y así hay parásitos sociales, como hace muy bien notar Mr. Balfour, que recibiendo de la sociedad en que viven los móviles de su conducta moral, niegan que la creencia en Dios y en otra vida sean necesarias para fundamentar una buena conducta y una vida soportables, porque la sociedad les ha preparado ya los jugos espirituales de que viven. ! 89 "$(! Un individuo suelto puede soportar la vida y vivirla buena, y hasta heroica, sin creer en manera alguna ni en la inmortalidad del alma ni en Dios, pero es que vive vida de parásito espiritual. 90Lo que llamamos sentimiento del honor es, aun en los no cristianos, un producto cristiano. 91Y aun digo más, y es, que si se da en un hombre la fe en Dios unida a una vida de pureza y elevación moral, no es tanto que el creer en Dios le haga bueno, cuanto que el ser bueno, gracias a Dios, le hace creer en Él. 92 La bondad es la mejor fuente de clarividencia espiritual. 287 93 No se me oculta tampoco que podrá decírseme que todo esto de que el hombre crea el mundo sensible, y el amor el ideal, todo lo de las células ciegas del oído y las sordas de la vista, lo de los parásitos espirituales, etc., son metáforas. 94Así es, y no pretendo otra cosa sino discurrir por metáforas. 95 Y es que ese sentido social, hijo del amor, padre del lenguaje y de la razón y del mundo ideal que de él surge, no es en el fondo otra cosa que lo que llamamos fantasía e imaginación. 96De la fantasía brota la razón. 97Y si se toma a aquella como una facultad que fragua caprichosamente imágenes, preguntaré qué es el capricho, y en todo caso también los sentidos y la razón yerran. 98 Y hemos de ver que es esa facultad íntima social, la imaginación que lo personaliza todo, la que, puesta al servicio del instinto de perpetuación, nos revela la inmortalidad del alma y a Dios, siendo así Dios un producto social. 99 Pero esto para más adelante. 100 Y ahora bien; ¿para qué se filosofa?, es decir, ¿para qué se investigan los primeros principios y los fines últimos de las cosas? 101¿Para qué se busca la verdad desinteresada? 102Porque aquello de que todos los hombres tienden por naturaleza a conocer, está bien; pero ¿para qué? 103 Buscan los filósofos un punto de partida teórico o ideal a su trabajo humano, el de filosofar; pero suelen descuidar buscarle el punto de partida práctico y real, el propósito. 104¿Cuál es el propósito al hacer filosofía, al pensarla y exponerla luego a los semejantes? 105¿Qué busca en ello y con ello el filósofo? 106¿La verdad por la verdad misma? 107¿La verdad para sujetar a ella nuestra conducta y determinar conforme a ella nuestra actitud espiritual para con la vida y el universo? 108 La filosofía es un producto humano de cada filósofo, y cada filósofo es un hombre de carne y hueso que se dirige a otros hombres de carne y hueso como él. 109 Y haga lo que quiera, filosofa, no con la razón sólo, sino con la voluntad, con el sentimiento, con la carne y con los huesos, con el alma toda y con todo el cuerpo. 110Filosofa el hombre. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 91-92. Y aun digo más [...]la mejor fuente de clarividencia espiritual. | No es tanto, Nicodemo, que sean buenos los buenos porque creen, ni los malos, malos por falta de fe, cuanto que por ser buenos creen los que lo son, y por no serlo no creen los malos. N (225) ! "$)! 111 Y no quiero emplear aquí el yo, diciendo que al filosofar filosofo yo y no el hombre, para que no se confunda este yo concreto, circunscrito, de carne y hueso, que sufre del mal de muelas y no encuentra soportable la vida si la muerte es la aniquilación de la conciencia personal, para que no se le confunda con ese otro yo de matute, el Yo con letra mayúscula, el Yo teórico que introdujo en la filosofía Fichte, ni aun con el único, también teórico, de Max Stirner. 112 288 Es mejor decir nosotros. 113Pero nosotros los circunscritos en espacios. 114 ¡Saber por saber! 115¡La verdad por la verdad! 116Eso es inhumano. 117Y si decimos que la filosofía teórica se endereza a la práctica, la verdad al bien, la ciencia a la moral, diré: y el bien ¿para qué? 118 ¿Es acaso un fin en sí? 119 Bueno no es sino lo que contribuye a la conservación, perpetuación y enriquecimiento de la conciencia. 120 El bien se endereza al hombre, al mantenimiento y perfección de la sociedad humana, que se compone de hombres. qué? 123 122 121 Y esto; ¿para «Obra de modo que tu acción pueda servir de norma a todos los hombres», nos dice Kant. Bien ¿y para qué? 124Hay que buscar un para qué. 125 En el punto de partida, en el verdadero punto de partida, el práctico, no el teórico, de toda filosofía, hay un para qué. 126El filósofo filosofa para algo más que para filosofar. 127Primum vivere, deinde philosophari, dice el antiguo adagio latino, y como el filósofo, antes que filósofo es hombre, necesita vivir para poder filosofar, y de hecho filosofa para vivir. 128 Y suele filosofar, o para resignarse a la vida, o para buscarle alguna finalidad, o para divertirse y olvidar penas, o por deporte y juego. 129Buen ejemplo de este último, aquel terrible ironista ateniense que fue Sócrates, y de quien nos cuenta Jenofonte, en sus Memorias, que de tal modo le expuso a Teodota la cortesana las artes de que debía valerse para atraer a su casa amantes, que le pidió ella al filósofo que fuese su compañero de caza, !1&.('$*5%, su alcahuete, en una palabra. 130 Y es que, de hecho, en arte de alcahuetería, aunque sea espiritual, suele no pocas veces convertirse la filosofía. 131 Y otras en opio para adormecer pesares. 132 Tomo al azar un libro de metafísica, el que encuentro más a mano. 133Time and Espace. A metaphysical essay, de Shayworth H. Hodgson; lo abro, y en el párrafo quinto del primer capítulo de su parte primera leo: «La metafísica no es, propiamente hablando, una ciencia, sino una filosofía; esto es, una ciencia cuyo fin está en sí misma, en la gratificación y educación de los espíritus que la cultivan, no en propósito alguno externo, tal como el de fundar un arte conducente al bienestar de la vida.» 134 Examinemos esto. 135 Y veremos primero que la metafísica no es, hablando con propiedad properly speaking-, una ciencia, «esto es», that is, que es una ciencia cuyo fin etcétera. 136 Y esta !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 111. Y no quiero emplear aquí el yo [...] ni aun con el único, también teórico, de Max Stirner. | Los ídolos, los spuks o trasgos que decía el demoledor Max Stirner, caen a los golpes de críticos despiadados. EMS (31) ! "$*! ciencia, que no es propiamente una ciencia, tiene su fin en sí, en la gratificación y educación de los espíritus que la cultivan. 137¿En qué, pues, quedamos? 138¿Tiene su fin en sí, o es su fin gratificar y educar los espíritus que la cultivan? 139¡O lo uno o lo otro! 140Luego añade Hodgson que el fin de la metafísica no es propósito alguno externo, como el de fundar un arte conducente al bienestar de la vida. 141 Pero es que la gratificación del espíritu de aquel que cultiva la filosofía, ¿no es parte del bienestar de su vida? 142 Fíjese el lector en ese pasaje del me tafísico inglés, y dígame si no es un tejido de contradicciones. 143 Lo cual es inevitable, cuando se trate de fijar humanamente eso de una ciencia, de un conocer, cuyo fin esté en sí mismo; eso de un conocer por el conocer mismo de un alcanzar la verdad por la misma verdad. 144La ciencia no existe sino en la conciencia personal, y gracias a ella; la astronomía, las matemáticas, no tienen otra realidad que la que como conocimiento tienen en las mentes de los que las aprenden y cultivan. 145 Y si un día ha de acabarse toda conciencia personal sobre la tierra; si un día ha de volver a la nada, es decir, a la absoluta inconsciencia de que brotara el espíritu humano, y no ha de haber espíritu que se aproveche de toda nuestra ciencia acumulada, ¿para qué esta? 146Porque no se debe perder de vista que el problema de la inmortalidad personal del alma implica el porvenir de la especie humana toda. 147 Esa serie de contradicciones en que el inglés cae, al querer explicarnos lo de una ciencia cuyo fin está en sí misma, es fácilmente comprensible tratándose de un inglés que ante todo es hombre. 148 Tal vez un especialista alemán, un filósofo que haya hecho de la filosofía su especialidad, y en esta haya enterrado, matándola antes, su humanidad, explicara mejor eso de la ciencia, cuyo fin está en sí misma, y lo del conocer por conocer. 149 Tomad al hombre Spinoza, aquel judío portugués desterrado en Holanda; leed su Ética, como lo que es, como un desesperado poema elegiaco, y decidme si no se oye allí, por debajo de las escuetas y al parecer serenas proposiciones expuestas more geometrico, el eco lúgubre de los salmos proféticos. 150 Aquella no es la filosofía de la resignación, sino la de la desesperación. 151 Y cuando escribía lo de que el hombre libre en todo piensa menos en la muerte, y es su sabiduría meditación no de la muerte, sino de la vida humana -homo liber de nulla re minus quam de morte cogitat et euis sapientiam non mortis, sed vitae meditatio est (Ethice, pars. IV prop. LXVII)-; cuando escribía, sentíase, como nos sentimos todos, esclavo, y pensaba en la muerte, y para libertarse, aunque en vano, de este pensamiento, lo escribía. 152Ni al escribir la proposición XLII de la parte V de que «la felicidad no es premio de la virtud, sino la virtud misma», sentía, de seguro, lo que escribía. 153 Pues para eso suelen filosofar los hombres, para convencerse a sí mismos, sin lograrlo.154 Y este querer convencerse, es decir, este querer violentar la propia naturaleza humana, suele ser el verdadero punto de partida íntimo de no pocas filosofías. ! "%+! 155 ¿De dónde vengo yo y de dónde viene el mundo en que vivo y del cual vivo? 156¿Adónde voy y adónde va cuanto me rodea? 157 ¿Qué significa esto? 158 Tales son las preguntas del hombre, así que se liberta de la embrutecedora necesidad de tener que sustentarse materialmente. 159 Y si miramos bien, veremos que debajo de esas preguntas no hay tanto el deseo de conocer un por qué como el de conocer el para qué; no de la causa, sino de la finalidad. 160Conocida es la definición que de la filosofía daba Cicerón llamándola «ciencia de lo divino y de lo humano y de las causas en que ellos se contienen», rerum divinarum et humanarum, causarumque quibus hae res continentur; pero en realidad, esas causas son para nosotros, fines. Supremo Fin? 162 161 Y la Causa Suprema, Dios, ¿qué es sino el Sólo nos interesa el por qué en vista del para qué; sólo queremos saber de dónde venimos para mejor poder averiguar adónde vamos. 163 Esta definición ciceroniana, que es estoica, se halla también en aquel formidable intelectualista que fue Clemente de Alejandría, por la Iglesia católica canonizado, el cual la expone en el capítulo V del primero de sus Stromata. 164 Pero este mismo filósofo cristiano -¿cristiano?- en el capítulo XXII de su cuarto stroma nos dice que debe bastarle al gnóstico, es decir, al intelectual, el conocimiento, la gnosis, y añade: «y me atrevería a decir que no por querer salvarse escogerá el conocimiento el que lo siga por la divina ciencia misma: el conocer tiende, mediante el ejercicio, al siempre conocer; pero el conocer siempre, hecho esencia del conocimiento por continua mezcla y hecho contemplación eterna queda sustancia viva; y si alguien por su posición propusiese al intelectual qué prefería, o el conocimiento de Dios o la salvación eterna, y se pudieran dar estas cosas separadas, siendo como son, más bien una sola, sin vacilar escogería el conocimiento de Dios». 165 ¡Que Él, que Dios mismo, a quien anhelamos gozar y poseer eternamente, nos libre de este gnosticismo o intelectualismo clementino! 166 ¿Por qué quiero saber de dónde vengo y adónde voy, de dónde viene y adónde va lo que me rodea, y qué significa todo esto? 167Porque no quiero morirme del todo, y quiero saber si he de morirme o no definitivamente. sentido. 169 168 Y si no muero, ¿qué será de mí?; y si muero, ya nada tiene Y hay tres soluciones: a) o sé que me muero del todo y entonces la desesperación irremediable, o b) sé que no muero del todo, y entonces la resignación, o c) no puedo saber ni una cosa ni otra cosa, y entonces la resignación en la desesperación o esta en aquella, una resignación desesperada, o una desesperación resignada, y la lucha. 170 posible? «Lo mejor es -dirá algún lector- dejarse de lo que no se puede conocer.» 172 171 ¿Es ello En su hermosísimo poema El sabio antiguo (The ancient sage), decía Tennyson: «No puedes probar lo inefable (The Nameless), ¡oh hijo mío, ni puedes probar el mundo en que te mueves; no puedes probar que eres cuerpo sólo, ni puedes probar que eres sólo espíritu, ni que eres ambos en uno; no puedes probar que eres inmortal, ni tampoco que eres mortal; sí, hijo mío, no ! "%"! puedes probar que yo, que contigo hablo, no eres tú que hablas contigo mismo, porque nada digno de probarse puede ser probado ni des-probado, por lo cual sé prudente, agárrate siempre a la parte más soleada de la duda y trepa a la Fe allende las formas de la Fe!» 173Sí, acaso, como dice el sabio, nada digno de probarse puede ser probado ni des -probado. 174 for nothing worthy proving can be proven, nor yet disproven; 175 ¿Pero podemos contener a ese instinto que lleva al hombre a querer conocer y sobre todo a querer conocer aquello que a vivir, y a vivir siempre, conduzca? 176A vivir siempre, no a conocer siempre como el gnóstico alejandrino. 177 Porque vivir es una cosa y conocer otra, y como veremos, acaso hay entre ellas una tal oposición que podamos decir que todo lo vital es antirracional, no ya sólo irracional, y todo lo racional, antivital. 178Y esta es la base del sentimiento trágico de la vida. 179 Lo malo del discurso del método de Descartes no es la duda previa metódica; no que empezara queriendo dudar de todo, lo cual no es más que un mero artificio; es que quiso empezar prescindiendo de sí mismo, del Descartes, del hombre real, de carne y hueso, del que no quiere morirse, para ser un mero pensador, esto es, una abstracción. 180 Pero el hombre real volvió y se le metió en la filosofía. 181 «Le bon sens est la chose du monde la mieux partagée.» 182Así comienza el Discurso del Método, y ese buen sentido le salvó. 183 Y sigue hablando de sí mismo, del hombre Descartes, diciéndonos, entre otras cosas, que estimaba mucho la elocuencia y estaba enamorado de la poesía; que se complacía sobre todo en las matemáticas, a causa de la certeza y evidencia de sus razones, y que veneraba nuestra teología, y pretendía, tanto como cualquier otro, ganar en el cielo, et prétendais autant qu'aucun autre á gagner le ciel. 184 Y esta pretensión, por lo demás creo que muy laudable, y sobre todo muy natural, fue la que le impidió sacar todas las consecuencias de la duda metódica. 185 El hombre Descartes pretendía, tanto como otro cualquiera, ganar el cielo; «pero habiendo sabido, como cosa muy segura, que no está su camino me nos abierto a los más ignorantes que a los más doctos, y que las verdades reveladas que a él llevan están por encima de nuestra inteligencia, no me hubiera atrevido a someterlas a la flaqueza de mi razonamiento y pensé que para emprender el examinarlos y lograrlo era menester tener alguna extraordinaria asistencia del cielo y ser más que hombre». 186 Y aquí está el hombre. 187 Aquí está el hombre que no se sentía, a Dios gracias, en condición que le obligase a hacer de la ciencia un oficio -métier-para alivio de su fortuna, y que no se hacía una profesión de despreciar, en cínico, la gloria. 188 Y luego nos cuenta cómo tuvo que detenerse en Alemania, y encerrado en una estufa, poêle, empezó a filosofar su ! "%#! método. 189 En Alemania, ¡pero encerrado en una estufa! 190 Y así es, un discurso de estufa, y de estufa alemana, aunque el filósofo en ella encerrado haya sido un francés que se proponía ganar el cielo. 191 Y llega al cogito ergo sum, que ya san Agustín preludiara; pero el ego implícito en este entimema ego cogito, ergo ego sum, es un ego, un yo irreal, o sea ideal, y su sum, su existencia, algo irreal también, «pienso luego soy», no puedo querer decir sino «pienso, luego soy pensante»; ese ser del soy que se deriva de pienso no es más que un conocer; ese ser es conocimiento, mas no vida. 193 192 Y lo primitivo no es que pienso, sino que vivo, porque también viven los que no piensan. Aunque ese vivir no sea un vivir verdadero. 194 ¡Qué de contradicciones, Dios mío, cuando queremos casar la vida y la razón! 195 La verdad es sum, ergo cogito: soy, luego pienso, aunque no todo lo que es piense. conciencia de pensar, ¿no será ante todo conciencia de ser? 197 196 La ¿Será posible acaso un pensamiento puro, sin conciencia de sí, sin personalidad? 198¿Cabe acaso conocimiento puro, sin sentimiento, sin esta especie de materialidad que el sentimiento le presta? 199¿No se siente acaso el pensamiento y se siente uño a sí mismo a la vez que se conoce y se quiere? 200¿No puede decir el hombre de la estufa: «siento, luego soy»; o «quiero, luego soy»? 202 201 Y sentirse, ¿no es acaso sentirse imperecedero? Quererse, ¿no es quererse eterno, es decir, no querer morirse? 203 Lo que el triste judío de Amsterdam llamaba la esencia de la cosa, el conato que pone en perseverar indefinidamente en su ser, el amor propio, el ansia de inmortalidad, ¿no será acaso la condición primera y fundamental de todo conocimiento reflexivo o humano? 204¿Y no será, por lo tanto, la verdadera base, el verdadero punto de partida de toda filosofía, aunque los filósofos, pervertidos por el intelectualismo, no lo reconozcan? 205 Y fue además el cogito el que introdujo una distinción que, aunque fecunda en verdades, lo ha sido también en confusiones, y es la distinción entre objeto, cogito, y sujeto, sum. hay distinción que no sirva también para confundir. 208 207 206 Apenas Pero a esto volveremos. Quedémonos ahora en esta vehemente sospecha de que el ansia de no morir, el hambre de la inmortalidad personal, el conato con que tendemos a persistir indefinidamente en nuestro ser propio y que es, según el trágico judío, nuestra misma esencia, eso es la base afectiva de todo conocer y el íntimo punto de partida personal de toda filosofía humana, fraguada por un hombre y para hombres. 209 veremos cómo la solución a ese íntimo problema afectivo, solución que puede ser la renuncia desesperada de solucionarlo, es la que tiñe todo el resto de la filosofía. 210sta debajo del llamado problema del conocimiento no hay sino el afecto ese humano, como debajo de la inquisición del por qué de la causa no hay sino la rebusca del para qué, de la finalidad. ! "%$! 211 odo lo demás es o engañarse o querer engañar a los demás. 212 querer engañar a los demás para engañarse a sí mismo. 213 ese punto de partida personal y afectivo de toda filosofía y de toda religión es el sentimiento trágico de la vida. 214Vamos a verlo. ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! "%%! CAPITOLO III EL HAMBRE DE INMORTALIDAD 1 Parémonos en esto del inmortal anhelo de inmortalidad, aunque los gnósticos o intelectuales puedan decir que es retórica lo que sigue y no filosofía. 2También el divino Platón, al disertar en su Fedón sobre la inmortalidad del alma, dijo que conviene hacer sobre ella leyendas, µ1.+-+0(#'&,! 3 Recordemos ante todo una vez más, y no será la última, aquello de Spinoza de que cada ser se esfuerza por perseverar en él, y que este esfuerzo es su esencia misma actual, e implica tiempo indefinido, y que el ánimo, en fin, ya en sus ideas distintas y claras, ya en las confusas, tiende a perseverar en su ser con duración indefinida y es sabedor de este su empeño (Ethice, part. III, props. VI-IX). 4 Imposible nos es, en efecto, concebirnos como no existentes, sin que haya esfuerzo alguno que baste a que la conciencia se dé cuenta de la absoluta inconsciencia, de su propio anonadamiento. 5Intenta, lector, imaginarte en plena vela cuál sea el estado de tu alma en el profundo sueño; trata de llenar tu conciencia con la representación de la inconsciencia, y lo verás. 6 Causa congojosísimo vértigo el empeñarse en comprenderlo. 7No podemos concebirnos como no existiendo. 8 El universo visible, el que es hijo del instinto de conservación, me viene estrecho, esme como una jaula que me resulta chica, y contra cuyos barrotes da en sus revuelos mi alma; fáltame en él aire que respirar. 9 Más, más y cada vez más; quiero ser yo, y sin dejar de serlo, ser además los otros, adentrarme a la totalidad de las cosas visibles e invisibles, extenderme a lo ilimitado del espacio y prolongarme a lo inacabable del tiempo. 10 De no serlo todo y por siempre, es como si no fuera, y por lo menos ser todo yo, y serlo para siempre jamás. 11Y ser yo, es ser todos los demás. 12¡O todo o nada! 13 ¡O todo o nada! 14¡Y qué otro sentido puede tener el «ser o no ser»! 15 To be or no to be shakesperiano, el de aquel mismo poeta que hizo decir a Marcio en su Coriolano (V, 4) que sólo necesitaba la eternidad para ser dios; he wants nothing of a god but eternity? 289 16 ¡Eternidad!, !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 13-15. ¡O todo o nada! [...] he wants nothing of a god but eternity? | O todo ó nada. Y qué otro sentido puede tener el «ser ó no ser!» shakespeariano, del mismo que hizo decir de Marcio en su Coriolano (V. 4) que sólo necesitaba la eternidad para ser dios (He wants nothing of a god but eternity) T (p. 38) No consigo dar otro valor al «ser ó no ser» ! "%&! ¡eternidad! 17 Este es el anhelo: la sed de eternidad es lo que se llama amor entre los hombres; y quien a otro ama es que quiere eternizarse en él. 18Lo que no es eterno tampoco es real. 19 Gritos de las entrañas del alma ha arrancado a los poetas de los tiempos todos esta tremenda visión del fluir de las olas de la vida, desde el «sueño de una sombra» !"#$'% !&$' de Píndaro, hasta el «la vida es sueño», de Calderón y el «estamos hechos de la madera de los sueños», de Shakespeare, sentencia esta última aún más trágica que la del castellano, pues mientras en aquella sólo se declara sueño a nuestra vida, mas no a nosotros los soñadores de ella, el inglés nos hace también a nosotros sueño, sueño que sueña. 20 La vanidad del mundo y el cómo pasa, y el amor son las dos notas radicales y entrañadas de la verdadera poesía. 21 Y son dos notas que no pueden sonar la una sin que la otra a la vez resuene. 22El sentimiento de la vanidad del mundo pasajero nos mete el amor, único en que se vence lo vano y transitorio, único que rellena y eterniza la vida. 23Al parecer al menos, que en realidad... 24 Y el amor, sobre todo cuando la lucha contra el destino súmenos en el sentimiento de la vanidad de este mundo de apariencias, y nos abre la vislumbre de otro en que, vencido el destino, sea ley la libertad. 25 ¡Todo pasa! 26 Tal es el estribillo de los que han bebido de la fuente de la vida, boca al chorro, de los que han gustado del fruto del árbol de la ciencia del bien y del mal. 27 ¡Ser, ser siempre, ser sin término, sed de ser, sed de ser más!, ¡hambre de Dios!, ¡sed de amor eternizante y eterno!, ¡ser siempre!, ¡ser Dios! 28 «¡Seréis como dioses!», cuenta el Génesis (111, 5) que dijo la serpiente a la primera pareja de enamorados.290 29«Si en esta vida tan sólo hemos de esperar en Cristo, somos los más lastimosos !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! shakespeariano sup[del mismo que dijo de Marcio en su Coriolano (V. IV) que sólo necesitaba la eternidad para ser] inf [dios (He wants nothing of a god but eternity)] AJH (p. 2v) «Ser o no ser, este es el problema» repite el moderno Hamlet obsesionado por la sombra de su padre que le pide venganza. EMS (51) 19. Gritos de las entrañas del alma sueño que sueña. STV Gritos de las entrañas del alma ha arrancado á los poetas de los tiempos todos esta tremenda visión del fluir de las olas de la vida, desde el sueño de una sombra de Píndaro hasta «la vida es sueño» de Calderón y el «estamos hechos de la madera de los sueños» de Shakespeare, sentencia esta última aun más trágica que la del castellano, pues mientras en aquello sólo se declara sueño á nuestra vida, mas no á nosotros los soñadores, el inglés nos hace también á nosotros sueño, sueño que sueña. T (p. 39). Gritos de las entrañas del corazón ha arrancado á los poetas de los tiempos todos sup[The Task. I. 284 sigs Wordsworth. Ode, pag. 313] esta tremenda vista del fluir de las olas de la vida, desde el !"#$'% !&$', sueño de una sombra, de Píndaro, al «la vida es sueño» de Calderón y el «estamos hechos de la madera de los sueños» de Shakespeare. Y ved cuan más terrible es la sentencia del inglés que no la del castellano, pues mientras éste solo declara sueño á nuestra vida, mas no á nosotros que la soñamos, aquel nos hace sueño, sueño también, sueño que sueña. AJH (p. 2v). Aborrecen la luz porque la luz trae la vigilia y les saca de su sonambulismo, de ese sueño en que viven queriéndose convencer de que están hechos de la sustancia misma de los sueños. N (241) 25-28. ¡Todo pasa! [...] a la primera pareja de enamorados. | ¡Todo pasa! Tal es el estribillo de los que han bebido de la fuente de la vida, boca al chorro, de los que han gustado del fruto del arbol de la ciencia del bien y del mal. / Ser, ser ! "%'! de los hombres», escribía el Apóstol (1 Cor., XV, 19), y toda religión arranca históricamente del culto a los muertos, es decir, a la inmortalidad. 30 Escribía el trágico judío portugués de Ámsterdam que el hombre libre en nada piensa menos que en la muerte; pero ese hombre libre es un hombre muerto libre del resorte de la vida, falto de amor, esclavo de su libertad. 31 Ese pensamiento de que me tengo que morir y el enigma de lo que habrá después, es el latir mismo de mi conciencia. 32 Contemplando el sereno campo verde o contemplando unos ojos claros, a que se asome un alma hermana de la mía, se me hinche la conciencia, siento la diástole del alma y me empapo de vida ambiente, y creo en mi porvenir; pero al punto la voz del misterio me susurra ¡dejarás de ser!, me roza con el ala el Ángel de la muerte, y la sístole del alma me inunda las entrañas espirituales en sangre de divinidad. 33 Como Pascal, no comprendo al que asegura no dársele un ardite de este asunto, y ese abandono en cosa «en que se trata de ellos mismos, de su eternidad, de su todo, me irrita mas que me enternece, me asombra y me espanta», y el que así siente «es para mí», como para Pascal, cuyas son las palabras señaladas, «un monstruo». 34 Mil veces y en mil tonos se ha dicho cómo es el culto a los muertos antepasados lo que enceta, por lo común, las religiones primitivas, y cabe en rigor decir que lo que más al hombre destaca de los demás animales es lo de que guarde, de una manera o de otra, sus muertos sin entregarlos al descuido de su madre la tierra todoparidora; es un animal guardamuertos. 35¿Y de qué los guarda así? 36 ¿De qué los ampara el pobre? 37 La pobre conciencia huye de su propia aniquilación, y así que un espíritu animal desplacentándose del mundo, se ve frente a este y como distinto de él se conoce, ha de querer tener otra vida que no la del mundo mismo. 38 Y así la tierra correría riesgo de convertirse en un vasto cementerio, antes que los muertos mismos se remueran. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! siempre, ser sin término! sed de ser, sed de ser más! hambre de Dios! sed de amor eternizante! ser siempre y serlo todo! ser Dios! «Sereis como dioses!» cuenta el Génesis (III 5) que dijo la serpiente á la primera pareja de enamorados. T (pp. 39-40) Es el estribillo de los que han >sentido< bebido en la fuente de la vida, boca al chorro, es el estribillo doloroso de los que han gustado el fruto del arbol de la ciencia del bien y del mal.” AJH, p. 3r Quisimos ser dioses por la ciencia del bien y del mal, y esta ciencia nos ha mostrado nuestra desnudez, de que nos avergonzamos ante Dios, y esa ciencia misma nos condena al trabajo y a la muerte. EMS (48) 29. «Si en esta vida tan sólo hemos de esperar en Cristo, somos los más lastimosos de los hombres», escribía el Apóstol (1 Cor., XV, 19), y toda religión arranca históricamente del culto a los muertos, es decir, a la inmortalidad. | [...] y toda religión arranca historicamente del culto á los muertos (v. James 491. 506 y 507) […] Mil veces y en mil tonos se ha dicho como es el culto á los muertos antepasado lo que enceta, por lo común, las religiones primitivas [...] T (p. 40) Religión basada en culto á los muertos y egotismo. v. James 491, 506 y 507 (Leuba y Bender) AJH (p. 3r) La obsesión de la muerte fue el elemento religioso que combinándose con el económico produjo las viejas civilizaciones orientales, que, como la del típico antiguo Egipcio, arrancaron de la esclavitud y del culto a los muertos antepasados. EMS (52) O se muere del todo o no, y «si en esta vida tan sólo esperamos en Cristo somos los más miserables de los hombres,» – exclamaba el Apóstol, añadiendo que «si los muertos no resucitan comamos y bebamos, que mañana moriremos» (I. Cor. XV 19 y 32). EMS (64) ! "%(! 39 Cuando no se hacían para los vivos más que chozas de tierra o cabañas de paja que la intemperie ha destruido, elevábanse túmulos para los muertos, y antes se empleó la piedra para las sepulturas que no para las habitaciones. 40Han vencido a los siglos por su fortaleza las casas de los muertos, no las de los vivos; no las moradas de paso, sino las de queda. 41 Este culto, no a la muerte, sino a la inmortalidad, inicia y conserva las religiones. 42 En el delirio de la destrucción, Robespierre hace declarar a la Convención la existencia del Ser Supremo y «el principio consolador de la inmortalidad del alma», y es que el Incorruptible se aterraba ante la idea de tener que corromperse un día. 43 ¿Enfermedad? 44Tal vez, pero quien no se cuida de la enfermedad, descuida la salud, y el hombre es un animal esencial y sustancialmente enfermo. 45¿Enfermedad? 46Tal vez lo sea como la vida misma a que va presa, y la única salud posible la muerte; pero esa enfermedad es el manantial de toda salud poderosa. 47 De lo hondo de esa congoja, del abismo del sentimiento de nuestra mortalidad, se sale a la luz de otro cielo, como de lo hondo del infierno salió el Dante a volver a ver las estrellas (Inf., XXXIV, 139). 48 49 e quindi uscimmo a riveder le stelle. Aunque al pronto nos sea congojosa esta meditación de nuestra mortalidad, nos es al cabo corroboradora. 50Recógete, lector, en ti mismo, y figúrate un lento deshacerte de ti mismo, en que la luz se te apague, se te enmudezcan las cosas y no te den sonido, envolviéndote en silencio, se te derritan de entre las manos los objetos asideros, se te escurra de bajo los pies el piso, se te desvanezcan como en desmayo los recuerdos, se te vaya disipando todo en nada y disipándote también tú, y ni aun la conciencia de la nada te quede siquiera como fantástico agarradero de una sombra. 51 He oído contar de un pobre segador muerto en cama de hospital, que al ir el cura a ungirle en extremaunción las manos, se resistía a abrir la diestra con que apuñaba unas sucias monedas, sin percatarse de que muy pronto no sería ya suya su mano ni él de sí mismo. 52 Y así cerramos y apuñamos, no ya la mano, sino el corazón, queriendo apuñar en él al mundo. 53 Confesábame un amigo, que previendo en pleno vigor de salud física la cercanía de una muerte violenta, pensaba en concentrar la vida, viviéndola en los pocos días que de ella calculaba le quedarían para escribir un libro. 54¡Vanidad de vanidades! 291 !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 49-54. Aunque al pronto nos sea congojosa [...] ¡Vanidad de vanidades! | Aunque al pronto nos sea congojosa esta meditación de nuestra mortalidad no [sic] es al cabo corroboradora. Recójete, lector, en tí mismo y figúrate un lento deshacerte, en que la luz se te apague, se te enmudezcan las cosas y no te den sonido envolviéndote en silencio, se te ! "%)! 55 Si al morírseme el cuerpo que me sustenta, y al que llamo mío para distinguirme de mí mismo, que soy yo, vuelve mi conciencia a la absoluta inconsciencia de que brotara, y como a la mía les acaece a las de mis hermanos todos en la humanidad, entonces no es nuestro trabajado linaje humano más que una fatídica procesión de fantasmas, que van de la nada a la nada, y el humanitarismo lo más inhumano que se conoce. 292 56 Y el remedio no es el de la copla que dice: Cada vez que considero que me tengo que morir, !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! derritan entre las manos los objetos asideros, se te escurra de bajo los pies el piso, se te desvanezcan como en desmayo los recuerdos y las ideas, se te vaya disipando en nada todo y tú disipándote también y ni aun la conciencia de la nada te quede, siquiera como fantástico asidero de una sombra. / He oido contar de un pobre segador muerto en una cama de hospital que al ir el cura á ungir en extrema unción las manos se resistía á abrir la diestra *con >en< que apuñaba unas sucias monedas, sin percatarse de que una vez muerto no sería su mano ya suya ni él de sí mismo. Y así cerramos y apuñamos no la mano, sino el corazón, queriendo apuñar en él al mundo. / Me confesaba un amigo que previendo en pleno vigor de salud física la cercanía de la muerte, pensaba en concentrar la vida viviéndola toda en los pocos dias que calculaba le quedaban é imaginando escribir sobre ello un libro. T (p. 42) Aunque al pronto congojosa, os será, jóvenes, al cabo meditación corroboradora el que recogiendoos en vosotros mismos os figureis un lento *deshaceros >(derretiros)<, sup[deshacimiento] en que *la luz >el sol< se os apague, se os enmudezcan los sonidos, se os derritan entre las manos las cosas var[objetos] >asideras< se os *escurra >*hunde vaya* falte< el piso, se os vayan var [desvanezcan como en desmayo] los recuerdos y las ideas, se disipe en la nada todo y ni aun la conciencia de la nada misma os quede, siquiera como fantástico asidero de una sombra. / He oido contar de un pobre segador gallego muerto en una cama de hospital que al ir el cura á ungirle en extrema unción se resistía á abrir la >m< diestra en que apuñaba unas sup[sucias] monedas, sin (percatarse) de que una vez muerto no sería su mano ya suya. Y así muchos que >en vez de la mano< sup[cierran [?] ] y apuñan no ya la mano, el >espiritu< corazón, queriendo apuñar en él al mundo. Me confesaba un amigo que previendo en pleno vigor de salud física la cercanía de la muerte, sólo pensaba en concentrar la vida, viviéndola toda en los pocos dias que calculaba le quedaban, é imaginando escribir sobre ello un libro. AJH (pp. 3r-3v) Es bueno, lector, que recogiéndote en ti pienses en que el sol se te apague, se te enmudezcan los sonidos, se te desvanezcan a la vista las formas, se te licue todo en la nada y ni aun la conciencia de la nada misma te quede. / He oído contar de un pobre segador muerto en un hospital que al ir el cura a ungirle en extrema unción se resistía a abrir la mano derecha en que aferraba una moneda, sin acordarse de que una vez muerto su mano no sería ya suya. Así hay muchos que en vez de la mano cierran el espíritu queriendo guardar en él al mundo. Me confesaba un amigo una vez que previendo en pleno vigor de salud física una muerte muy próxima sólo pensaba en concentrar la vida viviéndola toda en los pocos días que calculaba le quedarían, e imaginaba escribir un libro: «Los últimos días de mi vida.» / ¡Vaciedad de vaciedades! ¡Triste estado de paganismo el que ha descrito Renan en uno de sus dramas! EMS (59-63) 55. Si al morírseme el cuerpo que me sustenta [...] y el humanitarismo lo más inhumano que se conoce | Si al morirseme el cuerpo que me sustenta y al que llamo mío para distinguirle de mí mismo, vuelve mi conciencia á la absoluta inconciencia de que brotara, y como á la mía les pasa á las de >los demás< mis hermanos *todos >míos< en humanidad, entonces no es nuestro trabajado linaje más que una fatídica procesión de fantasmas que va de la nada á la nada, y el humanitarismo lo más inhumano que se conoce. T (pp. 42-43) Si al morirsup[seme] el cuerpo que me sustenta y al que llamo mio para distinguirle de mí mismo, si al morírseme vuelve mi conciencia á la absoluta inconciencia de que brotara, y como á la mia les pasa á las de mis >propi< hermanos todos en humanidad, sup[entonces] no es nuestro sup [trabajado] linaje otra cosa más que una fatídica procesión de fantasmas que va de la nada á la nada y el humanitarismo lo más inhumano que se conoce. AJH (p. 3v) ¿Que la muerte no es para la sociedad más que un accidente? ¿que si yo muero quedan otros? Sí, otros que morirán a su vez, y si todos morimos del todo no es el género humano más que una sombría procesión de fantasmas que salen de la nada para volver a ella. EMS (65-67) Si todos estamos condenados a volver a la nada, si la humanidad es una procesión de espectros que de la nada salen para volver a ella [...], Carta a Jiménez Ilundain del 3-I-98, EpA (p. 45) Si el pobre linaje humano es una procesión de conciencias que de la nada salen para volver a ella; si un día hecho polvo nuestro globo, no ha de quedar de nuestras conciencias nada, ¿para qué luchar? CCU (p. 46) ! "%*! tiendo la capa en el suelo y no me harto de dormir. 57 ¡No! 58 El remedio es considerarlo cara a cara, fija la mirada en la morada de la Esfinge, que es así como se deshace el maleficio de su aojamiento. 59 Si del todo morimos todos, ¿para qué todo? 60¿Para qué? 61Es el ¿para qué? de la Esfinge, es el ¿para qué? que nos corroe el meollo del alma, es el padre de la congoja, la que nos da el amor de esperanza. 62 293 Hay, entre los poéticos quejidos del pobre Cowper, unas líneas escritas bajo el peso del delirio y en las cuales, creyéndose blanco de la divina venganza, exclama que el infierno podrá procurar un abrigo a sus miserias. 63 64 Hell might afford my miseries a shelter. Éste es el sentimiento puritano, la preocupación del pecado y de la predestinación; pero leed estas otras mucho más terribles palabras de Sénancour, expresivas de la desesperación católica, no ya de la protestante, cuando hace decir a su Obermann (carta XC): «L'homme est périssable. Il se peut; mais, périssons en résistant, et, si le neant nous est resérvé, ne faisons pas que ce soit une justice.» 65Y he de confesar, en efecto, por dolorosa que la confesión sea, que nunca, en los días de la fe ingenua de mi mocedad, me hicieron temblar las descripciones, por truculentas que fuesen, de las torturas del infierno, y sentí siempre ser la nada mucho más aterradora que él. 66 El que sufre vive, y el que vive sufriendo ama y espera, aunque a la puerta de su mansión le pongan el «¡Dejad toda esperanza!», y es mejor vivir en dolor que no dejar de ser en paz. 67 En el fondo, era que no podía creer en esa atrocidad de un infierno, de una eternidad de pena, ni veía más verdadero infierno que la nada y su perspectiva. 68 Y sigo creyendo que si creyésemos todos en nuestra salvación de la nada seríamos todos mejores. 69 ¿Qué es arregosto de vivir, la joie de vivre, de que ahora nos hablan? 70El hambre de Dios, la sed de eternidad, de sobrevivir, nos ahogará siempre ese pobre goce de la vida que pasa y no queda. 71 Es el desenfrenado amor a la vida, el amor que la quiere inacabable, lo que más suele empujar al ansia de la muerte. 72«Anonadado yo, si es que del todo me muero -nos decimos-, se me !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 57-61. ¡No! El remedio es considerarlo cara a cara [...] la que nos da el amor de esperanza. | No hay en realidad más que un gran problema, y es éste: ¿cuál es el fin del universo entero? Tal es el enigma de la esfinge; el que de un modo o de otro no le resuelve, es devorado. N (13-14) ! "&+! acabó el mundo, acabóse, ¿y por qué no ha de acabarse cuanto antes para que no vengan nuevas conciencias a padecer el pesadumbroso engaño de una existencia pasajera y aparencial? 73 Si deshecha la ilusión de vivir, el vivir por el vivir mismo o para otros que han de morirse también no nos llena el alma, ¿para qué vivir? 74La muerte es nuestro remedio.» 75Y así es como se endecha al reposo inacabable por miedo a él, y se le llama liberadora a la muerte.294 76 Ya el poeta del dolor, del aniquilamiento, aquel Leopardi que, perdido el último engaño, el de creerse eterno Perì l'inganno estremo ch'eterno io mi credei, le hablaba a su corazón de l'infinita vanitá del tutto, vio la estrecha hermandad que hay entre el amor y la muerte y cómo cuando «nace en el corazón profundo un amoroso afecto, lánguido y cansado juntamente con él en el pecho, un deseo de morir se siente». A la mayor parte de los que se 295 77 dan a sí mismos la muerte, es el amor el que les mueve el brazo, es el ansia suprema de vida, de más vida, de prolongar y perpetuar la vida lo que a la muerte les lleva, una vez persuadidos de la vanidad de su ansia. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 72-75. «Anonadado yo, si es que del todo me muero [...] y se le llama liberadora a la muerte. | «Anonadado yo, si del todo me muero – nos decimos – se me acabó el mundo, acabose, y ¿por que no ha de acabarse cuanto antes para que nuevas conciencias no vengan á padecer el pesadumbroso engaño de una existencia pasajera y aparencial? Si deshecha la ilusión del vivir, el vivir por el vivir mismo no nos llena el alma, ¿para qué vivimos? La muerte es nuestro remedio.» Y así es como se endecha al reposo inacabable por miedo á él, y se le llama á la muerte liberadora, ya que >hayamos de< vivamos para haber de retornar á la nada.”, T (p. 44) >«Muerto yo, si< «Anonadado yo, si del todo me muero – nos decimos se sup[me] acabó el mundo, acabose, y ¿por qué no ha de acabarse cuanto antes para que nuevas conciencias no vengan á padecer el apesadumbrador var[pesadumbroso] engaño de una existencia pasajera y >de apariencia< aparencial? Si, deshecha la ilusión del vivir, el vivir por el vivir mismo no nos llena ¿para qué vivimos? La muerte es *nuestro >el< único remedio.» sup[De perdido, al agua!] Y así es como se endecha al reposo inacabable por >terr< miedo á él, y se le llama á la muerte liberadora ya que vivamos para retornar á la nada.”, AJH, p. 4r. Siguiendo por este camino se ha llegado a predicar el suicidio universal, el anonadamiento, y ha aparecido con carácter social el nihilismo teórico. «Muerto yo, si del todo me muero – se dicen muchos – se acabó el mundo ¿por qué no ha de acabarse cuanto antes para que nuevas conciencias no vengan a sufrir la pesada broma de una existencia fenoménica y pasajera? Si hemos deshecho la ilusión de vivir y el vivir por el vivir mismo no nos satisface ¿para qué vivimos? La muerte es el único remedio.» Y así es como se ha endechado al reposo inacabable por terror a él, y se ha llamado a la muerte como a liberadora ya que vivamos para volver a la nada. Los tragos amargos apurarlos pronto y de una vez; ¡volvamos cuanto antes a la nada! EMS (34-39) 76. Ya el poeta del dolor, del aniquilamiento, aquel Leopardi que, perdido el último engaño, el de creerse eterno / Perì l'inganno estremo / ch'eterno io mi credei, / le hablaba a su corazón de l'infinita vanitá del tutto, vio la estrecha hermandad que hay entre el amor y la muerte y cómo cuando «nace en el corazón profundo un amoroso afecto, lánguido y cansado juntamente con él en el pecho, un deseo de morir se siente». STV Ya el poeta del dolor, Leopardi, vió la estrecha hermandad que hay entre el amor y la muerte [...] T (p. 44) Háblase a sí mismo el pobre Leopardi, pide á su cansado corazón reposo, pues pereció el extremo engaño de creerse eterno [...]. Y acaba el triste, perdido el engaño, por pedirle que desprecie sup[á] la naturaleza, al torpe poder que, oculto, para daño común impera / y la infinita vanidad del todo. AJH (p. 3r) ¡Qué enseñanzas tan amargas en la obra del pobre Leopardi, empapado en la enorme noia, en el fastidio inmenso del nihilismo y pidiendo el aniquilamiento para salir de una vez de la infinita vanità del tutto, del vacío de un sombrío teatro de espectros, que divierten a los niños y entenebrecen el ánimo a los maduros! EMS (42) ! "&"! 78 en él. 79 Trágico es el problema y de siempre, y cuanto más queramos de él huir, más vamos a dar Fue el sereno -¿sereno?- Platón, hace ya veinticuatro siglos, el que, en su diálogo sobre la inmortalidad del alma, dejó escapar de la suya, hablando de lo dudoso de nuestro ensueño de ser inmortales, y del riesgo de que no sea vano aquel profundo dicho: ¡hermoso es el riesgo! &%'() *"+ , J&-#./#,) hermosa es la suerte que podemos correr de que no se nos muera el alma nunca, germen esta sentencia del argumento famoso de la apuesta de Pascal. 80 296 Frente a este riesgo, y para suprimirlo, me dan raciocinios en prueba de lo absurda que es la creencia en la inmortalidad del alma; pero esos raciocinios no me hacen mella, pues son razones y nada más que razones, y no es de ellas de lo que se apacienta el corazón. 81 No quiero morirme, no, no quiero ni quiero quererlo; quiero vivir siempre, siempre, siempre, y vivir yo este pobre yo que me soy y me siento ser ahora y aquí, y por esto me tortura el problema de la duración de mi alma, de la mía propia. 82 Yo soy el centro de mi universo, el centro del universo, y en mis angustias supremas grito con Michelet: «¡Mi yo, que me arrebatan mi yo!» 83¿De qué le sirve al hombre ganar el mundo todo si pierde su alma? (Mat. XVI, 26). 84¿Egoísmo decís? 85Nada hay más universal que lo individual, pues lo que es de cada uno lo es de todos.297 86Cada hombre vale más que la humanidad entera, ni sirve sacrificar cada uno a todos, sino en cuanto todos se sacrifiquen a cada uno. 87Eso que llamáis egoísmo, es el principio de la gravedad psíquica, el postulado necesario. 88 «¡Ama a tu prójimo como a ti mismo!», se nos dijo presuponiendo que cada cual se ame a sí mismo; y no se nos dijo, ¡ámate! 89Y, sin embargo, no sabemos amarnos. 298 !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 78-79. Trágico es el problema [...] de la apuesta de Pascal. | >Terri< Trágico es el problema, y eterno, y cuanto más queremos de él huir más vamos á dar en él. Fue el sereno Platón, hace ya veinticuatro siglos, el que en su diálogo sobre la inmortalidad del alma ó Fedón dejó escapar del alma, hablando >del riesgo< de lo dudoso de nuestros ensueños y del riesgo de que sean vanos, aquel profundo dicho ¡hermoso es el riesgo! ! &%'() *"+ , & J -#./#,), hermoso es el riesgo que corremos de que se no se nos muera el alma nunca, germen esta sentencia del >fam< argumento famoso de la apuesta de Pascal. T (p. 45) A Platón, tratando en su Fedón de la inmortalidad del alma se le escapó aquel profundo dicho de ¡hermoso es el riesgo &%'() *"+ , & J -#./#,), hermoso es el riesgo que se corre de no morirsup[senos] nunca el alma, sup germen [este] argumento del famoso de la apuesta de Pascal. AJH (p. 4v) VII / La esperanza en Dios. sup[Esperanza y belleza VII-XI La congoja. Esperanza de liberación de] Dios Padre. >Dios< Inmortalidad. Erostratismo. Dios y de liberación en El. Esperanza y belleza, &%'() *"+ , J&-#./#,), inf[Se vive por la incertidumbre.] PT (8) 85. Nada hay más universal que lo individual, pues lo que es de cada uno lo es de todos. | STV = T (p. 46) = AJH (p. 4v) Aparente atonía tapa un vivo hervor íntimo, así como el desvío que gran parte de la juventud muestra hacia los llamados por antonomasia intereses generales y su apartamiento de la ostensible vida pública puede ocultar tal vez una profunda obsesión por los eternos intereses individuales, que siendo de cada uno de los hombres, resultan al cabo los más universales de todos los intereses humanos. EMS (4) 87-89 Eso que llamáis egoísmo [...] Y, sin embargo, no sabemos amarnos. | Eso que llamais egoismo es el principio de la gravedad psíquica, el postulado necesario. ¡Ama á tu prójimo como á tí mismo, se nos dijo, presuponiendo que cada cual se ama á sí mismo y no se nos dijo: ámate! Y, sin embargo, no sabemos amarnos. T (p. 46) El egoismo es el ! "&#! 90 Quitad la propia persistencia, y meditad lo que os dicen. 91¡Sacrifícate por tus hijos! 92Y te sacrificarás por ellos, porque son tuyos, parte prolongación de ti, y ellos a su vez se sacrificarán por los suyos, y estos por los de ellos, y así irá, sin término, un sacrificio estéril del que nadie se aprovecha. 93 Vine al mundo a hacer mi yo, y ¿qué será de nuestros yos todos? Verdad, el Bien, la Belleza! 95 94 ¡Vive para la Ya veremos la suprema vanidad, y la suprema insinceridad de esta posición hipócrita. 96 «¡Eso eres tú!» -me dicen con las Upanisadas-. 97Y yo les digo: sí, yo soy eso, cuando eso es yo y todo es mío y mía la totalidad de las cosas. 98Y como mía la quiero y amo al prójimo porque vive en mí y como parte de mi conciencia, porque es como yo, es mío. 99 100 ¡Oh, quién pudiera prolongar este dulce momento y dormirse en él y en él eternizarse! ¡Ahora y aquí, a esta luz discreta y difusa, en este remanso de quietud, cuando está aplacada la tormenta del corazón y no me llegan los ecos del mundo! 101 Duerme el deseo insaciable y ni aun sueña; el hábito, el santo hábito reina en mi eternidad; han muerto con los recuerdos los desengaños, y con las esperanzas los temores. 102 Y vienen queriendo engañarnos con un engaño de engaños, y nos hablan de que nada se pierde, de que todo se transforma, muda y cambia, que ni se aniquila el menor cachito de materia ni se desvanece del todo el menor golpecito de fuerza, ¡y hay quien pretende darnos consuelo con esto! 103 299 ¡Pobre consuelo! 104 Ni de mi materia ni de mi fuerza me inquieto, pues no son mías mientras no sea yo mismo mío, esto es, eterno. 105No, no es anegarse en el gran Todo, en la Materia o en la Fuerza infinitas y eternas o en Dios lo que anhelo; no es ser poseído por Dios, sino poseerle, hacerme yo Dios sin dejar de ser el yo que ahora os digo esto. 106 No nos sirven engañifas de monismo; queremos bulto y no sombra de inmortalidad. 107 ¿Materialismo? 108 ¿Materialismo decís? también alguna especie de materia o no es nada. 109 110 Sin duda; pero es que nuestro espíritu es Tiemblo ante la idea de tener que desgarrarme de mi carne; tiemblo más aún ante la idea de tener que desgarrarme de todo lo sensible y material, !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! principio de gravedad psíquica, el postulado necesario. Ama á tu prójimo como á tí mismo se nos dijo presuponiendo que cada cual se ama á sí mismo, y no se nos dijo: amate! AJH (p. 4v) Frente al llamado egoísmo cristiano y en su odio al potente y salvador sentimiento de la personalidad humana que conservó el pueblo escogido, predicó el funesto Schopenhauer el altruismo búdico, que con el nirvana por ideal, conduce a los pueblos a un género cualquiera de opio y a la estupidez por fin. EMS (82) 102. Y vienen queriendo engañarnos con un engaño de engaños [...] ¡y hay quien pretende darnos consuelo con esto! | Y vienen y quieren engañarnos con un engaño de engaño y nos hablan de que nada se pierde, de que todo se trasforma, muda y cambia, que ni se aniquila el menor golpecito de fuerza, y hay quien pretende buscar en esto consuelo. T (p. 47) Quieren engañarnos con un engaño de engaño y nos hablan de que nada se pierde, sino todo se transforma, muda y cambia, que ni se aniquila *el menor pedacito >un (atomo)< de materia ni se desvanece inf*el menor golpecito >*empelloncito* un adarme< de fuerza, y hay quien en esto busca consuelo. AJH (p. 5r) «Nada se anula – nos dicen por vía de consuelo intelectual – todo se trasforma; ni la materia ni la fuerza se pierden. Cuanto hacemos permanece en una u otra forma.» EMS (73-74) ! "&$! de toda sustancia. 111Si acaso esto merece el nombre de materialismo, y si a Dios me agarro con mis potencias y mis sentidos todos, es para que Él me lleve en sus brazos allende la muerte, mirándome con su cielo a los ojos cuando se me vayan estos a apagar para siempre. 112¿Que me engaño? 113¡No me habléis de engaño y dejadme vivir! 114 Llaman también a esto orgullo; «hediondo orgullo» le llamó Leopardi, y nos preguntan que quiénes somos, viles gusanos de la tierra, para pretender inmortalidad; ¿en gracia a qué? 115 ¿Para qué? 116 ¿Con qué derecho? 117 118 ¿Para qué?, ¿y para qué somos? 119 ¿En gracia a qué?, preguntáis, ¿y en gracia a qué vivimos? 120 ¿Con qué derecho? gratuito es existir, como seguir existiendo siempre. 122 ¿Y con qué derecho somos? 121 Tan No hablemos de gracia, ni de derecho, ni del para qué de nuestro anhelo que es un fin en sí, porque perderemos la razón en un remolino de 123 absurdos. No reclamo derecho ni merecimiento alguno; es sólo una necesidad, lo que necesito para vivir. 124 mí todo! ¿Y quién eres tú?, me preguntas, y con Obermann te contesto: ¡para el universo nada, para 125 ¿Orgullo? 126 ¿Orgullo querer ser inmortal? 127 ¡Pobres hombres! 128 Trágico hado, sin duda, el tener que cimentar en la movediza y deleznable piedra del deseo de inmortalidad la afirmación de ésta; pero torpeza grande condenar el anhelo por creer probado, sin probarlo, que no sea conseguidero. 129¿Que sueño...? 130Dejadme soñar; si ese sueño es mi vida, no me despertéis de él. 131 alma. qué? Creo en el inmortal origen de este anhelo de inmortalidad que es la sustancia misma de mi 132 134 ¿Pero de veras creo en ello...? 133 ¿Y para qué quieres ser inmortal?, me preguntas, ¿para No entiendo la pregunta francamente, porque es preguntar la razón de la razón, el fin del fin, el principio del principio. 135Pero de estas cosas no se puede hablar. 136 Cuenta el libro de los Hechos de los Apóstoles que a donde quiera que fuese Pablo se concitaban contra él los celosos judíos para perseguirle. 137 Apedreáronle en Iconio y en Listra, ciudades de Licaonia, a pesar de las maravillas que en la última obró; le azotaron en Filipos de Macedonia y le persiguieron sus hermanos de raza en Tesalónica y en Berea. 138Pero llegó a Atenas, a la noble ciudad de los intelectuales, sobre la que velaba el alma excelsa de Platón, el de la hermosura del riesgo de ser inmortal, y allí disputó Pablo con epicúreos y estoicos, que decían de él, o bien: ¿qué quiere decir este charlatán (!2('µ+-(0+%)?, o bien: ¡parece que es predicador de nuevos dioses! (Hechos, XVII, 18), y «tomándole le llevaron al Areópago, diciendo: podremos saber qué sea esta nueva doctrina que dices, porque traes a nuestros oídos cosas peregrinas, y queremos saber qué quiere decir eso» (versículos 19-20), añadiendo el libro esta maravillosa caracterización de aquellos atenienses de la decadencia, de aquellos lamineros y golosos de curiosidades, pues «entonces los atenienses todos y sus huéspedes extranjeros no se ocupaban de ! "&%! otra cosa sino en decir o en oír algo de más nuevo» (v. 21). 300 139 ¡Rasgo maravilloso, que nos pinta a qué habían venido a parar los que aprendieron en la Odisea que los dioses traman y cumplen la destrucción de los mortales para que los venideros tengan algo que contar! 301 140 Ya está, pues, Pablo ante los refinados atenienses, ante los graeculos, los hombres cultos y tolerantes que admiten toda doctrina, toda la estudian y a nadie apedrean ni azotan ni encarcelan por profesar estas o las otras; ya está donde se respeta la libertad de conciencia y se oye y se escucha todo parecer. 141 Y alza la voz allí, en medio del Areópago, y les habla como cumplía a los cultos ciudadanos de Atenas, y todos, ansiosos de la última novedad, le oyen, mas cuando llega a hablarles de la resurrección de los muertos, se les acaba la paciencia y la tolerancia, y unos se burlan de él y otros le dicen: «¡ya oiremos otra vez de esto!», con propósito de no oírle. 142 302 Y una cosa parecida le ocurrió en Cesarea con el pretor romano Félix, hombre también tolerante y culto, !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 136-138. Cuenta el libro de los Hechos de los Apóstoles [...] en oír algo de más nuevo» (v. 21). | Cuenta el libro de los Hechos de los apóstoles que á donde quiera que fuese Pablo se concitaban contra él los celosos judios y le perseguían. Fué apedreado en Iconio y en Listra, ciudades de Licaonia, á pesar de las maravillas que en la última obró, le azotaron en Filipos de Macedonia y le persiguieron sus hermanos en Tesalónica y en Berea. Pero llegó á Atenas, á la noble ciudad de los intelectuales sobre que velaba el alma excelsa de Platón, y allí disputó con epicúreos y estoicos [...] T (pp. 35-36) Cuenta el libro de los Hechos de los Apóstoles (cap. XVII) que llevado Pablo sup[á] Atenas disputaba con los estoicos y epicureos [...] AJH (6v-7r) Por donde quiera que iba Pablo el converso durante su apostolado tumultuaban al pueblo los judios de la dispersión, en cuyas sinagogas entraba á disputar, y enojabanse con él á causa de su predicación á los gentiles y de su doctrina respecto á la circuncisión. / Fué á dar al cabo en Atenas, corazón de la gentilidad helénica, ciudad llena de recuerdos de cultura y de monumentos de la más elevada belleza humana, donde esperó á Silas y Timoteo. SPA-bA (1-2)300 23S. Pablo comparece en el Areópago. La religión ante la ciencia. Su lenguaje. Allí es donde dice el «en El somos etc» CSD-bB (23) 139. ¡Rasgo maravilloso, que nos pinta [...] para que los venideros tengan algo que contar! | ¡Rasgo maravilloso que nos pinta á que habían venido á parar los que aprendieron en la Odisea que los dioses traman y cumplen la destrucción de los mortales para que los venideros tengan algo que cantar! T (p. 36) Ante ese terrible misterio de la mortalidad, frente á la Esfinge, (adopta) el hombre distintas posturas, y trata >de< por varios medios de consolarse de haber nacido. Y lo que primero *se >es< le ocurre es tomarlo á juego, ponerse como espectador á presenciar la comedia, ver desfilar al olvido la historia. Es el remedio estético, y fué ya formulado en la Odisea con aquellas palabras: los dioses traman y cumplen la destrucción de los hombres para que los venideros tengan algo que cantar. AJH (p. 6v) Otros, en fin, se hacen idólatras de la belleza, se embriagan en lo fenoménico tomándolo como sustancial y se acogen al esteticismo cuya fórmula desenmascarada dio Homero en su Odisea al decir que los dioses traman y cumplen la destrucción de los mortales para que los venideros tengan algo que cantar. EMS (98) 140-141. Ya está, pues, Pablo ante los refinados atenienses [...] «¡ya oiremos otra vez de esto!», con propósito de no oírle. | Ya está Pablo ante los refinados atenienses [...]. Y alza la voz allí, en medio del Areópago y les habla como cumplía á los cultos ciudadanos de Atenas, y todos, ansiosos de la última novedad, le oyen, mas cuando llega á hablarles de la resurrección de los muertos se sup[les] acaban la paciencia y la tolerancia y unos se burlan y otros le dicen: te oiremos de esto otra vez! T (pp. 36-37) Y comenzó Pablo un admirable sermón, mas al llegar á hablarles de la resurrección de Cristo «así que oyeron la resurrección de los muertos, unos se burlaban y otros decían: te oiremos acerca de esto otra vez» (vers. 32) No toleran var[aguantan] tales palabras los estetas, es decir, los que sólo perciben por los sentidos. AJH (p. 7r) Mas así que oyeron hablar de la resurrección... Todos los neo-misticismos son románticos, sensualistas, intelectualistas, todos tienen por base el nihilismo. No hay verdadero sentimiento religioso, de la relación personal de cada uno con un Dios personal, cuyo corolario es la inmortalidad del alma. CSD-bB (9-10) 22«Te oiremos acerca de esto otra vez.» Déjanos de la resurrección porque eso obliga á pensar en vivo en la muerte. La muerte. CSDbB (22) ! "&&! que le alivió de la pesadumbre de su prisión, y quiso oírle y le oyó disertar de la justicia y de la continencia; mas al llegar al juicio venidero, le dijo espantado ((jµ4+6+% 0(&+µ(v&+%): «¡Ahora vete, te volveré a llamar cuando cuadre!» (Hechos, XXIV, 22-25). 143 Y cuando hablaba ante el rey Agripa, al oírle Festo, el gobernador, decir de resurrección de muertos, exclamó: «Estás loco, Pablo; las muchas letras te han vuelto loco» (Hechos, XXVI, 24). 144 Sea lo que fuere de la verdad del discurso de Pablo en el Areópago, y aun cuando no lo hubiere habido, es lo cierto que en este relato admirable se ve hasta dónde llega la tolerancia ática y dónde acaba la paciencia de los intelectuales. 145 Os oyen todos en calma, y sonrientes, y a las veces os animan diciéndoos: ¡es curioso!, o bien, ¡tiene ingenio!, o ¡es sugestivo!, o ¡qué hermosura!, o ¡lástima que no sea verdad tanta belleza!, o ¡eso hace pensar!; pero así que les habláis de resurrección y de vida allende la muerte, se les acaba la paciencia y os atajan la palabra diciéndoos: ¡dejadlo, otro día hablarás de esto!; y es de esto, mis pobres atenienses, mis intolerables intelectuales, es de esto de lo que voy a hablaros aquí. 303 146 Y aun si esa creencia fuese absurda, ¿por qué se tolera menos el que se les exponga que otras muchas más absurdas aún? 149 147 ¿Por qué esa evidente hostilidad a tal creencia? 148 ¿Es miedo? ¿Es acaso pesar de no poder compartirla? 150 Y vuelven los sensatos, los que no están a dejarse engañar, y nos machacan los oídos con el sonsonete de que no sirve entregarse a la locura y dar coces contra el aguijón, pues lo que no puede ser es imposible. 151 Lo viril, dicen, es resignarse a la suerte, y pues no somos inmortales, no queramos serlo; sojuzguémonos a la razón sin acongojarnos por lo irremediable, entenebreciendo y entristeciendo la vida. 152 ¡el estribillo de siempre! Esa obsesión, añaden, es una enfermedad. 154 Pues bien: ¡no! 155 153 Enfermedad, locura, razón... No me someto a la razón y me rebelo contra ella, y tiro a crear en fuerza de fe a mi Dios inmortalizador y a torcer con mi voluntad el curso de los astros, porque si tuviéramos fe como un gramo de mostaza, diríamos a ese monte: pásate de ahí, y se pasaría, y nada nos sería imposible (Mat. XVII, 20). 156 Ahí tenéis a ese ladrón de energías, como él llamaba torpemente al Cristo, que quiso casar al nihilismo con la lucha por la existencia, y os habla de valor. 157Su corazón le pedía el todo eterno, mientras su cabeza le enseñaba la nada, y desesperado y loco para defenderse de sí mismo, maldijo !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 144-145. Sea lo que fuere de la verdad del discurso de Pablo en el Areópago [...] mis intolerables intelectuales, es de esto de lo que voy a hablaros aquí. | Un fariseo, un intelectual seducido por la cultura helénica, fue aquel judío Saulo que empezó persiguiendo a los sencillos y que luego de despierto su corazón enseñó la buena nueva a los gentiles, descubriéndoles a aquel Dios desconocido al que alzaban aras vacías en Atenas, en aquella Atenas, donde, según el mismo Saulo, Pablo luego, se pasaban el tiempo en hablar de la última novedad, corriendo tras lo curioso. / También nuestros intelectuales se pasan el tiempo hablando de la última novedad y comentándola, oliendo el olor a tinta fresca del último libro llegado de París, mientras por el bien parecer refrenan los impulsos del corazón que les quede. También llega a interesarles, como curiosidad, el problema religioso; pero no se acercan a él con sencillez de espíritu, no se abandonan, porque allá, en su interior, lo temen. N (37-39) ! "&'! de lo que más amaba. 158 Al no poder ser Cristo, blasfemó del Cristo. 159 Henchido de sí mismo, se quiso inacabable y soñó con la vuelta eterna, mezquino remedio de la inmortalidad, y lleno de lástima hacia sí, abominó de toda lástima. 160 ¡Y hay quien dice que es la suya filosofía de hombre fuerte! 161No; no lo es. 162Mi salud y mi fortaleza me empujan a perpetuarme. 163¡Esa es doctrina de endebles que aspiran a ser fuertes; pero no de fuertes que lo son! 164Sólo los débiles se resignan a la muerte final, y sustituyen con otro el anhelo de inmortalidad personal. 165En los fuertes, el ansia de perpetuidad sobrepuja a la duda de lograrla y su rebose de vida se vierte al más allá de la muerte. 166 Ante este terrible misterio de la inmortalidad, cara a cara de la Esfinge, el hombre adopta distintas actitudes y busca por varios modos consolarse de haber nacido. 167 304 Y ya se le ocurre tomarla a juego, y se dice con Renán, que este universo es un espectáculo que Dios se da a sí mismo, y que debemos servir las intenciones del gran Corega, contribuyendo a hacer el espectáculo lo más brillante y lo más variado posible. 305 168 Y han hecho del arte una religión y un remedio para el mal metafísico, y han inventado la monserga del arte por el arte.306 169 Y no les basta. 170 El que os diga que escribe, pinta, esculpe o canta para propio recreo, si da al público lo que hace, miente; miente si firma su escrito, pintura, estatua o canto. cuando menos, dejar una sombra de su espíritu, algo que le sobreviva. 172 171 Quiere, Si la Imitación de Cristo es anónima, es porque su autor, buscando la eternidad del alma, no se inquietaba de la del nombre. 173 Literato que os diga que desprecia la gloria, miente como un bellaco. 174De Dante, el que escribió aquellos treinta y tres vigorosísimos versos (Purg. XI, 85-117), sobre la vanidad de la gloria mundana, dice Boccaccio que gustó de los honores y las pompas más acaso de lo que correspondía a su ínclita virtud. 175El deseo más ardiente de sus condenados es el de que se les recuerde aquí, en !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 166. Ante este terrible misterio de la inmortalidad [...] consolarse de haber nacido. | No hay en realidad más que un gran problema, y es éste: ¿cuál es el fin del universo entero? Tal es el enigma de la esfinge; el que de un modo o de otro no le resuelve, es devorado. N (13-14) 167-168. Y ya se le ocurre tomarlo a juego, y se dice, con Renán [...] la monserga del arte por el arte. | Y se le ocurre tomarlo á juego y se dice sup[con Renán] que este universo es un espectáculo que Dios se da á sí mismo y que debemos servir las intenciones del gran corega >h< contribuyendo á hacer el espectáculo lo más brillante y lo más variado posible. Y han hecho del arte una religión y un remedio para el mal metafísico, y han inventado la monserga del arte por el arte. T (p. 52) Afectan no conmoverse por nada, toman el mundo en espectáculo, como estetas, y no les oiréis más que citar libros y autores y teorías, y barajar ideas secas, y disertar acerca del estilo y de las bellas formas. N (34) Suelen acabar los tales estetas, encharcados en el más vano literatismo, por darse al mundo en espectáculo, por cultivar un sentimentalismo adormecedor o enervante o un diletantismo inhumano, por dar cierto religiosismo de desocupados como si fuese religiosidad. De aquí ha salido ese engendro del llamado neo-misticismo, sobre que asoma la siniestra figura de aquel René corroído de orgullo. EMS (99-100) El instinto de la novedad, tan vivaz en la raza griega, les picó la curiosidad. Era una raza preparada por larga cultura estética. Véase, pues, para qué puede servir el esteticismo y como puede llevar a oír la palabra de Dios. [...] El mundo era para hablar de él, para espectáculo y tema de conversación. Los literatos, los diletanti [sic], los esteticistas de hoy son los atenienses. D (p. 196) 168. Y han hecho del arte una religión [...] la monserga del arte por el arte. | El vanidad de vanidades, ¿se extenderá también a ese vencimiento de la vanidad misma? ¿Será el fin de todo ello consolar al hombre de haber nacido, y la religión un arte intensificado? N (209) ! "&(! la tierra, y se hable de ellos, y es esto lo que más ilumina las tinieblas del infierno. 176 Y él mismo expuso el concepto de la Monarquía, no sólo para utilidad de los demás, sino para lograr palma de gloria (lib. I, cap. 1). 177 ¿Qué más? 178 Hasta de aquel santo varón, el más desprendido, al parecer, de vanidad terrena, del Pobrecito de Asís cuenta los Tres Socios que dijo: adhuc adorabor per totum mundum! ¡Veréis cómo soy aún adorado por todo el mundo! (11 Celano, 1, 1). 179 Y hasta de Dios mismo dicen los teólogos que creó el mundo para manifestación de su gloria. 180 Cuando las dudas invaden y nublan la fe en la inmortalidad del alma, cobra brío y doloroso empuje el ansia de perpetuar el nombre y la fama. 181 Y de aquí esa tremenda lucha por singularizarse, por sobrevivir de algún modo en la memoria de los otros y los venideros, esa lucha mil veces más terrible que la lucha por la vida, y que da tono, color y carácter a esta nuestra sociedad, en que la fe medieval en el alma inmortal se desvanece. 182 Cada cual quiere afirmarse siquiera en apariencia. 183 Una vez satisfecha el hambre, y esta se satisface pronto, surge la vanidad, la necesidad - que lo es- de imponerse y sobrevivir en otros. 184El hombre suele entregar la vida por la bolsa, pero entrega la bolsa por la vanidad. 185Engríese, a falta de algo mejor, hasta de sus flaquezas y miserias, y es como el niño, que con tal de hacerse notar se pavonea con el dedo vendado. 186 ¿Y la vanidad qué es sino ansia de sobrevivirse? 187 Acontécele al vanidoso lo que al avaro, que toma los medios por los fines, y olvidadizo de estos, se apega a aquéllos en los que se queda. formar nuestro objetivo. 189 188 Al parecer algo, conducente a serlo, acaba por Necesitamos que los demás nos crean superiores a ellos para creernos nosotros tales, y basar en ello nuestra fe en la propia persistencia, por lo menos en la de la fama. 190 Agradecemos más el que se nos encomie el talento con que defendemos una causa, que no el que se reconozca la verdad o bondad de ella. 191 Una furiosa manía de originalidad sopla por el mundo moderno de los espíritus, y cada cual la pone en una cosa. acertar con ramplonería. 193 192 Preferimos desbarrar con ingenio a Ya dijo Rousseau en su Emilio: «Aunque estuvieran los filósofos en disposición de descubrir la verdad, ¿quién de entre ellos se interesaría en ella? 194Sabe cada uno que su sistema no está mejor fundado que los otros, pero le sostiene porque es suyo. 195No hay uno solo que en llegando a conocer lo verdadero y lo falso, no prefiera la mentira que ha hallado a la verdad descubierta por otro. género humano? distinguirse? 198 197 196 ¿Dónde está el filósofo que no engañase de buen grado, por su gloria, al ¿Dónde el que en el secreto de su corazón se proponga otro objeto que Con tal de elevarse por encima del vulgo, con tal de borrar el brillo de sus concurrentes, ¿qué más pide? 199 Lo esencial es pensar de otro modo que los demás. creyentes es ateo; entre los ateos sería creyente.» ! 201 "&)! 200 Entre los ¡Cuánta verdad hay en el fondo de estas tristes confesiones de aquel hombre de sinceridad dolorosa! 202 Nuestra lucha a brazo partido por la sobrevivencia del nombre se retrae al pasado, así como aspira a conquistar el porvenir; peleamos con los muertos, que son los que nos hacen sombra a los vivos. 203Sentimos celos de los genios que fueron, y cuyos nombres, como hitos de la historia, salvan las edades. 204 El cielo de la fama no es muy grande, y cuantos más en él entren, menos toca a cada uno de ellos. 205 Los grandes hombres del pasado nos roban lugar en él; lo que ellos ocupan en la memoria de las gentes nos lo quitarán a los que aspiramos a ocuparla. 206 Y así nos revolvemos contra ellos, y de aquí la agrura con que cuantos buscan en las letras nombradía juzgan a los que ya la alcanzaron y de ella gozan. 207 Si la literatura se enriquece mucho, llegará el día del cernimiento y cada cual teme quedarse entre las mallas del cedazo. 208El joven irreverente para con los maestros, al atacarlos, es que se defiende: el iconoclasta o rompeimágenes es un estilita que se erige a sí mismo en imagen, en icono. 209 «Toda comparación es odiosa», dice un dicho decidero, y es que, en efecto, queremos ser únicos. 210No le digáis a Fernández que es uno de los jóvenes españoles de más talento, pues mientras finge agradecéroslo, moléstale el elogio; si le decís que es el español de más talento... ¡vaya!... pero aún no le basta; una de las eminencias mundiales es ya más de agradecer, pero sólo le satisface que le crean el primero en todas partes y de los siglos todos. 211 Cuanto más solo, más cerca de la inmortalidad aparencial, la del nombre, pues los nombres se menguan los unos a los otros. 212 ¿Qué significa esa irritación cuando creemos que nos roban una frase, o un pensamiento, o una imagen que creíamos nuestra; cuando nos plagian? 213 ¿Robar? 214 ¿Es que acaso es nuestra, una vez que al público se la dimos? 215Sólo por nuestra la queremos, y más encariñados vivimos de la moneda falsa que conserva nuestro cuño, que no de la pieza de oro puro de donde se ha borrado nuestra efigie y nuestra leyenda. 216 Sucede muy comúnmente que cuando no se pronuncia ya el nombre de un escritor es cuando más influye en su pueblo desparramado y enfusado su espíritu en los espíritus de los que le leyeron, mientras que se le citaba cuando sus dichos y pensamientos, por chocar con los corrientes, necesitaban garantía de nombre. vive. 218 217 Lo suyo es ya de todos y él en todos Pero en sí mismo vive triste y lacio y se cree en derrota. 219 No oye ya los aplausos ni tampoco el latir silencioso de los corazones de los que le siguen leyendo. 220 Preguntad a cualquier artista sincero qué prefiere, que se hunda su obra y sobreviva su memoria, o que hundida esta persista aquella, y veréis, si es de veras sincero, lo que os dice. 221Cuando el hombre no trabaja para vivir, e irlo pasando, trabaja para sobrevivir. 222Obrar por la obra misma es juego y no trabajo. 223¿Y el juego? 224Ya hablaremos de él. 225 Tremenda pasión esa de que nuestra memoria sobreviva por encima del olvido de los demás si es posible. 226De ella arranca la envidia a la que se debe, según el relato bíblico, el crimen que abrió la historia humana: el asesinato de Abel por su hermano Caín. ! "&*! 227 No fue lucha por pan, fue lucha por sobrevivir a Dios, en la memoria divina. 228La envidia es mil veces más terrible que el hambre, porque es hambre espiritual. 229 Resuelto el que llamamos problema de la vida, el del pan, convertiríase la tierra en un infierno, por surgir con más fuerza la lucha por la sobrevivencia. 230 Al nombre se sacrifica no ya la vida, la dicha. 231 La vida desde luego. 232 «¡Muera yo; viva mi fama!», exclama en Las Mocedades del Cid Rodrigo Arias, al caer herido de muerte por don Diego de Ordóñez de Lara. 233 Débese uno a su nombre. 234 «¡Ánimo, Jerónimo, que se te recordará largo tiempo; la muerte es amarga, pero la fama eterna!», exclamó Jerónimo Olgiati, discípulo de Cola Montano y matador, conchabado con Lampugnani y Visconti, de Galeazzo Sforza, tirano de Milán. 235 Hay quien anhela hasta el patíbulo para cobrar fama, aunque sea infame: avidus malae famae, que dijo Tácito. 236 Y este erostratismo, ¿qué es en el fondo, sino ansia de inmortalidad, ya que no de sustancia y bulto, al menos de nombre y sombra? 237 Y hay en ellos sus grados. 238 El que desprecia el aplauso de la muchedumbre de hoy, es que busca sobrevivir en renovadas minorías durante generaciones. superposición de minorías», decía Gounod. 241 240 239 «La posteridad es una Quiere prolongarse en tiempo más que en espacio. Los ídolos de las muchedumbres son pronto derribados por ellas mismas, y su estatua se deshace al pie del pedestal sin que la mire nadie, mientras que quienes ganan el corazón de los escogidos recibirán más largo tiempo fervoroso culto en una capilla siquiera recogida y pequeña, pero que salvará las avenidas del olvido. 242 Sacrifica el artista la extensión de su fama a su duración; ansía más durar por siempre en un rinconcito, a no brillar un segundo en el universo todo; quiere más ser átomo eterno y consciente de sí mismo que momentánea conciencia del universo todo; sacrifica la infinidad a la eternidad. 243 244 Y vuelven a molernos los oídos con el estribillo aquel de ¡orgullo!, ¡hediondo orgullo! ¿Orgullo querer dejar nombre imborrable? placeres, interpretando así la sed de riquezas. 245 247 ¿Orgullo? 246 Es como cuando se habla de sed de No, no es tanto ansia de procurarse placeres cuanto el terror a la pobreza lo que nos arrastra a los pobres hombres a buscar el dinero, como no era el deseo de gloria, sino el terror al infierno lo que arrastraba a los hombres en la Edad Media al claustro con su acedía. 248Ni esto es orgullo, sino terror a la nada. 249Tendemos a serlo todo, por ver en ello el único remedio para no reducirnos a nada. nuestra memoria. 251 ¿Cuánto durará? 252 250 Queremos salvar nuestra memoria, siquiera A lo sumo lo que durase el linaje humano. 253 ¿Y si salváramos nuestra memoria en Dios? 254 Todo esto que confieso son, bien lo sé, miserias; pero del fondo de estas miserias surge vida nueva, y sólo apurando las heces del dolor espiritual puede llegarse a gustar la miel del poso de la copa de la vida. 255La congoja nos lleva al consuelo. ! "'+! 256 Esa sed de vida eterna apáganla muchos, los sencillos sobre todo, en la fuente de la fe religiosa; pero no a todos es dado beber de ella. 307 257 La institución cuyo fin primordial es proteger esa fe en la inmortalidad personal del alma es el catolicismo; pero el catolicismo ha querido racionalizar esa fe haciendo de la religión teología, queriendo dar por base a la creencia vital una filosofía y una filosofía del siglo XIII. 258Vamos a verlo y ver sus consecuencias. ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 256. Esa sed de vida eterna apáganla muchos [...] a todos es dado beber de ella. | Estudiando sin prejuicio la dulce aparición que se nos muestra llenando los siglos espirituales, sentada junto a la fuente del saber, pasásenos por un momento la idea de pedirle fe para vivir tranquilos como los sencillos, y envidiamos la paz de éstos y quisiéramos caer de hinojos y adorar. Es que allá, brotando de las honduras de nuestro estudio, si es éste sincero y serio, ofrécenos Jesús el agua viva de la fe en él y sacar de la roca de nuestra razón manantial que riegue nuestra alma. JyS (24-25) ! "'"! CAPITOLO IV LA ESENCIA DEL CATOLICISMO 1 Vengamos ahora a la solución cristiana católica, pauliniana o atanasiana, de nuestro íntimo problema vital: el hambre de inmortalidad. 2 Brotó el cristianismo de la confluencia de dos grandes corrientes espirituales, la una judaica y la otra helénica, ya de antes influidas mutuamente, y Roma acabó por darle sello práctico y permanencia social. 3 Hase afirmado del cristianismo primitivo, acaso con precipitación, que fue anescatológico, que en él no aparece claramente la fe en otra vida después de la muerte, sino en un próximo fin del mundo y establecimiento del reino de Dios, en el llamado quiliasmo. 4¿Y es que no eran en el fondo una misma cosa? 5La fe en la inmortalidad del alma, cuya condición tal vez no se precisaba mucho, cabe decir que es una especie de subentendido, de supuesto tácito, en el Evangelio todo, y es la situación del espíritu de muchos de los que hoy le leen, situación opuesta a la de los cristianos de entre quienes brotó el Evangelio, lo que les impide verlo. 6Sin duda, que todo aquello de la segunda venida de Cristo, con gran poder, rodeado de majestad y entre nubes, para juzgar a muertos y a vivos, abrir a los unos el reino de los cielos y echar a los otros a la gehena, donde será el lloro y el crujir de dientes, cabe entenderlo quiliásticamente, y aún se hace decir al Cristo en el Evangelio (Marcos IX, 1), que había con él algunos que no gustarían de la muerte sin haber visto el reino de Dios; esto es, que vendría durante su generación; y el mismo capítulo, versículo 10, se hace decir a Jacobo, a Pedro y a Juan, que con Jesús subieron al monte de la transfiguración y le oyeron hablar de que resucitaría de entre los muertos aquello de: «y guardaron el dicho consigo, razonando unos con otros sobre qué sería eso de resucitar de entre los muertos». 7Y en todo caso, el Evangelio se compuso cuando esa creencia, base y razón de ser del cristianismo, se estaba formando. 8Véase en Mateo XXII, 29-32; en Marcos XII, 2427; en Lucas XVI, 23-31; XX, 34-37; en Juan V, 24-29; VI, 40, 54, 58; VIII, 51; XI, 25, 26; XIV, 2, 19. 9Y sobre todo, aquello de Mateo XXVII, 52, de que al resucitar el Cristo «muchos cuerpos santos que dormían resucitaron». 10 Y no era esta una resurrección natural, no. 11La fe cristiana nació de la fe de que Jesús no permaneció muerto, sino que Dios le resucitó y que esta resurrección era un hecho; pero eso no suponía una mera inmortalidad del alma, al modo filosófico. 12(Véase Harnack, Dogmengeschichte. Prologómena, 5.4.) 13Para los primeros Padres de la Iglesia mismos, la inmortalidad del alma no era algo natural; bastaba para su demostración, como dice Nemesio, la enseñanza de las Divinas ! "'#! Escrituras, y era, según Lactancio, un don -y como tal gratuito- de Dios. 14 Pero sobre esto más adelante. 15 Brotó, decíamos, el cristianismo de una confluencia de los dos grandes procesos espirituales, judaico y helénico, cada uno de los cuales había llegado por su parte, si no a la definición precisa, al preciso anhelo de otra vida. 16 No fue entre los judíos ni general ni clara la fe en otra vida; pero a ella les llevó la fe en un Dios personal y vivo, cuya formación es toda su historia espiritual. 17 Yavé, el dios judaico, empezó siendo un dios entre otros muchos, el dios del pueblo de Israel, revelado entre el fragor de la tormenta en el monte Sinaí. 18Pero era tan celoso, que exigía se le rindiese culto a él solo, y fue por el monocultismo como los judíos llegaron al monoteísmo. 19Era adorado como fuerza viva, no como entidad metafísica, y era el dios de las batallas. 20Pero este dios, de origen social y guerrero, sobre cuya génesis hemos de volver, se hizo más íntimo y personal en los profetas, y al hacerse más íntimo y personal, más individual y más universal, por lo tanto. 21Es Yavé, que ama a Israel no por ser hijo suyo, sino que le toma por hijo porque le ama (Oseas XI, 1). 22 Y la fe en el Dios personal, en el Padre de los hombres, lleva consigo la fe en la eternización del hombre individual, ya que en el fariseísmo alborea, aun antes de Cristo. 23 La cultura helénica, por su parte, acabó descubriendo la muerte, y descubrir la muerte es descubrir el hambre de inmortalidad. 24No aparece este anhelo en los poemas homéricos que no son algo inicial, sino final: no el arranque, sino el término de una civilización. 25Ellos marcan el paso de la vieja religión de la Naturaleza, la de Zeus, a la religión más espiritual de Apolo, la de la redención. 26 Mas en el fondo persistía siempre la religión popular e íntima de los misterios eleusinos, el culto de las almas y de los antepasados. 27 «En cuanto cabe hablar de una teología délfica, hay que tomar en cuenta, entre los más importantes elementos de ella, la fe en la continuación de la vida de las almas después de la muerte en sus formas populares y en el culto a las almas de los difuntos», escribe Rhode. 28 Había lo titánico y lo dionisiaco, y el hombre debía, según la doctrina órfica, libertarse de los lazos del cuerpo en que estaba el alma como prisionera en una cárcel. 29 (Véase Rhode, Psyche, «Die Orphiker», 4.) 30 La noción nietzschiana de la vuelta 31 eterna es una idea órfica. Pero la idea de la inmortalidad del alma no fue un principio filosófico. 32 El intento de Empédocles de hermanar un sistema hilozoístico con el espiritualismo, probó que una ciencia natural filosófica no puede llevar por sí a corroborar el axioma de la perpetuidad del alma individual; sólo podía servir de apoyo a una especulación teológica. 33 Los primeros filósofos griegos afirmaron la inmortalidad por contradicción, saliéndose de la filosofía natural y entrando en la teología, asentando un dogma dionisiaco y órfico, no apolíneo. 34Pero «una inmortalidad del alma ! "'$! humana como tal, en virtud de su propia naturaleza y condición como imperecedera fuerza divina en el cuerpo mortal, no ha sido jamás objeto de la fe popular helénica» (Rhode, obra citada). 35 Recordad el Fedón platónico y las elucubraciones neoplatónicas. 36Allí se ve ya el ansia de inmortalidad personal, ansia que, no satisfecha del todo por la razón, produjo el pesimismo helénico. 37 Porque como hace muy bien notar Pfleiderer (Religionsphilosophie auf geschichtlicher Grundlage, 3, Berlín, 1896), «ningún pueblo vino a la tierra tan sereno y soleado como el griego en los días juveniles de su existencia histórica..., pero ningún pueblo cambió tan por completo su noción del valor de la vida. 38 La grecidad que acaba en las especulaciones religiosas del neopitagorismo y el neoplatonismo, consideraba a este mundo, que tan alegre y luminoso se le apareció en un tiempo, cual morada de tinieblas y de errores, y la existencia terrena como un período de prueba que nunca se pasaba demasiado deprisa». 39El nirvana es una noción helénica. 40 Así, cada uno por su lado, judíos y griegos, llegaron al verdadero descubrimiento de la muerte, que es el que hace entrar a los pueblos, como a los hombres, en la pubertad espiritual, la del sentimiento trágico de la vida, que es cuando engendra la humanidad al Dios vivo. 41 El descubrimiento de la muerte es el que nos revela a Dios, y la muerte del hombre perfecto, de Cristo, fue la suprema revelación de la muerte, la del hombre que no debía morir y murió. 42 Tal descubrimiento, el de la inmortalidad, preparado por los procesos religiosos, judaico y helénico, fue lo específicamente cristiano. judío fariseo helenizado. como Cristo. 45 44 43 Y lo llevó a cabo sobre todo Pablo de Tarso, aquel Pablo no había conocido personalmente a Jesús, y por eso le descubrió «Se puede decir que es, en general, la teología del Apóstol la primera teología cristiana. 46Era para él una necesidad; sustituirle, en cierto modo, la falta de conocimiento personal de Jesús», dice Weizsäcker (Das apostolische zeitalter der christlichen Kirche, Freiburg i. B., 1892). 47 No conoció a Jesús, pero le sintió renacer en sí, y pudo decir aquello de «no vivo en mí mismo, sino en Cristo». 48 Y predicó la cruz, que era escándalo para los judíos y necedad para los griegos (1, Cor.,1, 23), y el dogma central para el Apóstol convertido fue el de la resurrección de Cristo; lo importante para él era que el Cristo se hubiese hecho hombre y hubiese muerto y resucitado, y no lo que hizo en vida; no su obra moral y pedagógica, sino su obra religiosa y eternizadora. 49Y fue quien escribió aquellas inmortales palabras: «Si se predica que Cristo resucitó a los muertos, ¿cómo dicen algunos entre vosotros que no hay resurrección de muertos? 50Porque si no hay resurrección de mu ertos, tampoco Cristo resucitó, y si Cristo no resucitó, vana es nuestra predicación y vuestra fe es vana... 51Entonces los que durmieron en Cristo se pierden. 52 Si en esta vida sólo esperamos en Cristo, somos los más miserables de los hombres» (1, Cor., XV, 12-19). 53 Y puede, a partir de esto, afirmarse que quien no cesa en esa resurrección carnal de Cristo, podrá ser filocristo, pero no específicamente cristiano. 54Cierto que un Justino mártir pudo decir que ! "'%! «son cristianos cuantos viven conforme a la razón, aunque sean tenidos por ateos, como entre los griegos Sócrates y Heráclito y otros tales»; pero este mártir, ¿es mártir, es decir, testigo del cristianismo? 55No. 56 Y en torno al dogma, de experiencia íntima pauliniana, de la resurrección e inmortalidad del Cristo, garantía de la resurrección e inmortalidad de cada creyente, se formó la cristología toda. 57 El Dios hombre, el Verbo encarnado, fue para que el hombre, a su modo, se hiciese un Dios, esto es, inmortal. 58Y el Dios cristiano, el Padre de Cristo, un Dios necesariamente antropomórfico, es el que, como dice el Catecismo de la doctrina cristiana que en la escuela nos hicieron aprender de memoria, ha creado el mundo para el hombre, para cada hombre. 59 Y el fin de la redención fue, a pesar de las apariencias por desviación ética del dogma propiamente religioso, salvarnos de la muerte más bien que del pecado, o de este en cuanto implica muerte. 60Y Cristo murió, o más bien resucitó, por mí, por cada uno de nosotros. 61 Y establecióse una cierta solidaridad entre Dios y su criatura. 62Decía Malebranche que el primer hombre cayó para que Cristo nos redimiera, más bien que nos redimió porque aquel había caído. 63 Después de Pablo rodaron los años y las generaciones cristianas, trabajando en torno de aquel dogma central y sus consecuencias para asegurar la fe en la inmortalidad del alma individual, y vino el Niceno, y en él aquel formidable Atanasio, cuyo nombre es ya un emblema, encarnación de la fe popular. 64Era Atanasio un hombre de pocas letras, pero de mucha fe, y sobre todo, de la fe popular, henchido de hambre de inmortalidad. 65 Y opúsose al arrianismo, que como el protestantismo unitario y soziano amenazaba, aun sin saberlo ni quererlo, la base de esa fe. 66 Para los arrianos, Cristo era ante todo un maestro, un maestro de moral, el hombre perfectísimo, y garantía, por lo tanto, de que podemos los demás llegar a la suma perfección; pero Atanasio sentía que no puede el Cristo hacernos dioses si él antes no se ha hecho Dios; si su divinidad hubiera sido por participación no podría habérnosla participado. 67 «No, pues -decía-, siendo hombre se hizo después Dios, sino que siendo Dios se hizo después hombre para que mejor nos deificara (.(+2+#5!5) (Orat. 1, 30). 68 Atanasio conocía y adoraba. No era el Logos de los filósofos, el Logos cosmológico el que 69 Y así hizo se separasen naturaleza y revelación. 70 El Cristo atanasiano y niceno, que es el Cristo católico, no es el cosmológico ni siquiera en rigor el ético, es el eternizador, el deificador, el religioso. 71Dice Harnack de este Cristo, del Cristo de la cristología nicena o católica, que es en el fondo docético, esto es, aparencial, porque el proceso de la divinización del hombre en Cristo se hizo en interés escatológico; pero ¿cuál es el Cristo real? 72 ¿Acaso ese llamado Cristo histórico de la exégesis racionalista que se nos diluye en un mito o en un átomo social? ! "'&! 73 Este mismo Harnack, un racionalista protestante, nos dice que el arrianismo o unitarismo habría sido la muerte del cristianismo, reduciéndolo a cosmología y a moral, y que sólo sirvió de puente para llevar a los doctos al catolicismo, es decir, de la razón a la fe. 74Parécele a este mismo docto historiador de los dogmas, indicación de perverso estado de cosas, el que el hombre Atanasio, que salvó al cristianismo como religión de la comunión viva con Dios, hubiese borrado a Jesús de Nazaret, al histórico, al que no conocieron personalmente ni Pablo ni Atanasio, ni ha conocido Harnack mismo. 75 Entre los protes tantes, este Jesús histórico sufre bajo el escalpelo de la crítica mientras vive el Cristo católico, el verdaderamente histórico, el que vive en los siglos garantizando la fe en la inmortalidad y la salvación personales. 76 Y Atanasio tuvo el valor supremo de la fe, el de afirmar cosas contradictorias entre sí; «la perfecta contradicción que hay en el +µ+1!#+% trajo tras de sí todo un ejército de contradicciones, y más cuanto más avanzó el pensamiento», dice Harnack. 77 Sí, así fue, y así tuvo que ser. 78 «La dogmática se despidió para siempre del pensamiento claro y de los conceptos sostenibles, y se acostumbró a lo contrarracional», añade. 79 Es que se acostó a la vida, que es contrarracional y 80 opuesta al pensamiento claro. Las determinaciones de valor, no sólo no son nunca racionalizables, son antirracionales. 81 En Nicea vencieron, pues, como más adelante en el Vaticano, los idiotas -tomada esta palabra en su recto sentido primitivo y etimológico-, los ingenuos, los obispos cerriles y voluntariosos, representantes del genuino espíritu humano, del popular, del que no quiere morirse, diga lo que quiera la razón; y busca garantía, lo más material posible a su deseo. 82 Quid ad aeternitatem? 83 He aquí la pregunta capital. 84 Y acaba el Credo con aquello de resurrectionem mortuorum et vitam venturi saeculi, la resurrección de los muertos y la vida venidera. 85En el cementerio, hoy amortizado, de Mallona, en mi pueblo natal, Bilbao, hay grabada una cuarteta que dice: Aunque estamos en polvo convertidos, en ti, Señor, nuestra esperanza fía, que tornaremos a vivir vestidos con la carne y la piel que nos cubría, o como el Catecismo dice: con los mismos cuerpos y almas que tuvieron. 86 Apunto tal, que es doctrina católica ortodoxa la que la dicha de los bienaventurados no es del todo perfecta hasta que recobran sus cuerpos. 87 Quéjanse en el cielo, y «aquel quejido les nace -dice nuestro fray Pedro Malón de Chaide, de la Orden de San Agustín, español y vasco- de que no están enterrados en el cielo, pues sólo está allá el alma, y aunque no pueden tener pena porque ven a Dios, en quien ! "''! inefablemente se gozan, con todo eso parece que no están del todo contentos. 88Estarlo han cuando se vistieren de sus propios cuerpos». 89 Y a este dogma central de la resurrección en Cristo y por Cristo, corresponde un sacramento central también, el eje de la piedad popular católica, y es el sacramento de la Eucaristía. 90 En él se administra el cuerpo de Cristo, que es pan de inmortalidad. 91 Es el sacramento genuinamente realista, dinglich, que se diría en alemán, y que no es gran violencia traducir material, el sacramento más genuinamente ex opere operato, sustituido entre los protestantes con el sacramento idealista de la palabra. 92Trátase, en el fondo, y lo digo con todo el posible respeto, pero sin querer sacrificar la expresividad de la frase, de comerse y beberse a Dios, el Eternizador, de alimentarse de Él. 93 ¿Qué mucho, pues, que nos diga santa Teresa que cuando estando en la Encarnación el segundo año que tenía el priorato, octava de san Martín, comulgando, partió la Forma el padre fray Juan de la Cruz para otra hermana, pensó que no era falta de forma, sino que le quería mortificar, «porque yo le había dicho que gustaba mucho cuando eran grandes las formas, no porque no entendía no importaba para dejar de estar entero el Señor, aunque fuese muy pequeño el pedacito»? 94 Aquí la razón va por un lado, el sentimiento por otro. 95 ¿Y qué importan para este sentimiento las mil y una dificultades que surgen de reflexionar racionalmente en el misterio de ese sacramento? 96¿Qué es un cuerpo divino? 97El cuerpo, en cuanto cuerpo de Cristo, ¿era divino? 98 ¿Qué es un cuerpo inmortal e inmortalizador? los accidentes? 100 ¿Qué es la sustancia del cuerpo? 101 99 ¿Qué es una sustancia separada de Hoy hemos afinado mucho en esto de la materialidad y sustancialidad; pero hasta Padres de la Iglesia hay para los cuales la inmaterialidad de Dios mismo no era una cosa tan definida y clara como para nosotros. 102Y este sacramento de la Eucaristía es el inmortalizador por excelencia y el eje, por lo tanto, de la piedad popular católica. 103 Y si cabe decirlo, el más específicamente religioso. 104 Porque lo específico religioso católico es la inmortalización y no la justificación al modo protestante.105 Esto es más bien ético. 106 Y es en Kant, en quien el protestantismo, mal que pese a los ortodoxos de él, sacó sus penúltimas consecuencias: la religión depende de la moral, y no esta de aquella como en el catolicismo. 107 No ha sido la preocupación del pecado nunca tan angustiosa entre los católicos, o por lo menos, con tanta aparencialidad de angustia. 108El sacramento de la confesión ayuda a ello. 109Y tal vez es que persiste aquí más que entre ellos el fondo de la concepción primitiva judaica y pagana del pecado como de algo material e infeccioso y hereditario, que se cura con el bautismo y la absolución. 110 En Adán pecó toda su descendencia, casi materialmente, y se transmitió su pecado como una enfermedad material se transmite. 111 Tenía, pues, razón Renán, cuya educación era católica, al resolverse contra el protestante Amiel, que le acusó de no dar la debida importancia al ! "'(! pecado. 112Y, en cambio, el protestantismo, absorto en eso de la justificación, tomada en un sentido más ético que otra cosa, aunque con apariencias religiosas, acaba por neutralizar y casi borrar lo escatológico, abandona la simbólica nicena, cae en la anarquía confesional, en puro individualismo religioso y en vaga religiosidad estética, ética o cultural. 113 La que podríamos llamar allendidad, Einseitigkeit, se borra poco a poco detrás de la aquendidad, Dieseitigkeit. 114 Y esto, a pesar del mismo Kant, que quiso salvarla, pero arruinándola. 115La vocación terrenal y la confianza pasiva en Dios dan su ramplonería religiosa al luteranismo, que estuvo a punto de naufragar en la edad de la Ilustración, de la Aufklürung, y que apenas si el pietismo, imbuyéndole alguna savia religiosa católica, logró galvanizar un poco. 116 Y así resulta muy exacto lo que Oliveira Martins decía en su espléndida História da civilização iberica, libro 4.°, capítulo III; y es que «el catolicismo dio héroes y el protestantismo sociedades sensatas, felices, ricas, libres, en lo que respecta a las instituciones y a la economía externa, pero incapaces de ninguna acción grandiosa, porque la religión comenzaba por despedazar en el corazón del hombre aquello que le hace susceptible de las audacias y de los nobles sacrificios». 117 Coged una Dogmática cualquiera de las producidas por la última disolución protestante, la del nietzschiano Kaftan, por ejemplo, y ved a lo que allí queda reducida la escatología. 118Y su maestro mismo, Albrecht Ritschl, nos dice: «El problema de la necesidad de la justificación o remisión de los pecados sólo puede derivarse del concepto de la vida eterna como directa relación de fin de aquella acción divina. 119Pero si se ha de aplicar ese concepto no más que al estado de la vida de ultratumba, queda su contenido fuera de toda experiencia, y no puede fundar conocimiento alguno que tenga carácter científico. 120No son, por lo tanto, más claras las esperanzas y los anhelos de la más fuerte certeza subjetiva, y no contienen en sí garantía alguna de la integridad de lo que se espera y anhela. 121 Claridad e integridad de la representación ideal son, sin embargo, las condiciones para la comprensión, esto es, para el conocimiento de la conexión necesaria de la cosa en sí y con sus datos presupuestos. 122Así es que la confesión evangélica de que la justificación por la fe fundamental lleva consigo la certeza de la vida eterna es inaplicable teológicamente, mientras no se muestre en la experiencia presente posible esa relación de fin» (Rechtfertigund and Versóhnung, 111, capítulo VII, 52). 123Todo es muy racional, pero... 124 En la primera edición de los Loci communes, de Melanchton, la de 1521, la primera obra teológica luterana, omite su autor las especulaciones trinitaria y cristológica, la base dogmática de la escatología, y el doctor Hermann, profesor en Marburgo, el autor del libro sobre el comercio del cristiano con Dios (Der Verkehr des Christem mit Gott), libro cuyo primer capítulo trata de la oposición entre la mística y la religión cristiana, y que es, en sentir de Harnack, el más perfecto manual luterano, nos dice en otra parte refiriéndose a esta especulación cristológica -o atanasiana-, que «el conocimiento efectivo de Dios y de Cristo en que vive la fe es algo enteramente distinto. ! "')! 125 No debe hallar lugar en la doctrina cristiana nada que no pueda ayudar al hombre a reconocer sus pecados, lograr la gracia de Dios y servirle en verdad. 126 Hasta entonces (es decir, hasta Lutero) había pasado en la Iglesia como doctrina sacra mucho que no puede en absoluto contribuir a dar a un hombre un corazón libre y una conciencia tranquila». 127 Por mi parte, no concibo la libertad de un corazón ni la tranquilidad de una conciencia que no estén seguras de su perdurabilidad después de la muerte. 128«El deseo de la salvación del alma -prosigue Hermann- debía llevar finalmente a los hombres a conocer y comprender la efectiva doctrina de la salvación.» 129Y a este eminente doctor en luteranismo, en su libro sobre el comercio del cristiano con Dios, todo se le vuelve hablarnos de confianza en Dios, de paz en la conciencia y de una seguridad en la salvación, que no es precisamente y en rigor la certeza de la vida perdurable, sino más bien de la remisión de los pecados. 130 Y en un teólogo protestante, en Ernesto Troeltsch, he leído que lo más alto que el protestantismo ha producido en el orden conceptual es en el arte de la música, donde le ha dado Bach su más poderosa expresión artística. celestial! 132 131 ¡En eso se disuelve el protestantismo, en música Y podemos decir, en cambio, que la más alta expresión artística católica, por lo menos española, es en el arte más material, tangible y permanente -pues a los sonidos se los lleva el airede la escultura y la pintura, en el Cristo de Velázquez, ¡en ese Cristo que está siempre muriéndose sin acabar nunca de morirse, para darnos vida! 133 ¡Y no es que el catolicismo abandone lo ético, no! 134No hay religión moderna que pueda soslayarlo. 135Pero esta nuestra es en su fondo, y en gran parte, aunque sus doctores protesten contra esto, un compromiso entre la escatología y la moral, aquella puesta al servicio de esta. 136¿Qué otra cosa es sino ese horror de las penas eternas del infierno que tan mal se compadece con la apocatástasis pauliniana? 137Atengámonos a aquello que la Theologia deutsch, el manual mítico que Lutero leía, hace decir a Dios y es: «Si he de recompensar tu maldad tengo que hacerlo con bien, pues ni soy ni tengo otra cosa.» 138 Y el Cristo dijo: «Padre, perdónalos, pues no saben lo que se hacen», y no hay hombre que sepa lo que se hace. 139Pero ha sido menester convertir a la religión, a beneficio del orden social, en policía, y de ahí el infierno. 140 El cristianismo oriental o griego es predominantemente escatológico, predominantemente ético el protestantismo, y el catolicismo un compromiso entre ambas cosas, aunque con predominancia de lo primero. 141La más genuina moral católica, la ascética monástica, es moral de escatología enderezada a la salvación del alma individual más que al mantenimiento de la sociedad. 142 Y en el culto a la virginidad, ¡no habrá acaso una cierta oscura idea de que el perpetuarse en otros estorba la propia perpetuación? moral ascética es una moral negativa. ! 144 143 La Y, en rigor, lo importante es no morirse, péquese o no. "'*! 145 Ni hay que tomar muy a la letra, sino como una efusión lírica y más bien retórica, aquello de nuestro célebre soneto: No me mueve, mi Dios, para quererte, el cielo que me tienes prometido, y lo que sigue. 146 El verdadero pecado, acaso el pecado contra el Espíritu Santo, que no tiene remisión, es el pecado de herejía, el de pensar por cuenta propia. 147 Ya se ha oído aquí, en nuestra España, que ser liberal, esto es, hereje, es peor que ser asesino, ladrón o adúltero. obedecer a la Iglesia, cuya infalibilidad nos defiende de la razón. la infalibilidad de un hombre, del Papa? 150 149 148 El pecado más grave es no ¿Y por qué ha de escandalizar ¿Qué más da que sea infalible un libro: la Biblia, una sociedad de hombres: la Iglesia, o un hombre solo? 151 ¿Cambia por eso la dificultad racional de esencia? 152Y pues no siendo más racional la infalibilidad de un libro o la de una sociedad que la de un hombre solo, había que asentar este supremo escándalo para el racionalismo. 153 Es lo vital que se afirma, y para afirmarse crea, sirviéndose de lo racional, su enemigo, toda una construcción dogmática, y la Iglesia la defiende contra racionalismo, contra protestantismo y contra modernismo. 154 Defiende la vida. 155 Salió al paso Galileo, e hizo bien, porque su descubrimiento, en un principio, y hasta acomodarlo a la economía de los conocimientos humanos, tendía a quebrantar la creencia antropocéntrica de que el universo ha sido creado para el hombre; se opuso a Darwin, e hizo bien, porque el darwinismo tiende a quebrantar nuestra creencia de que es el hombre un animal de excepción, creado expreso para ser eternizado. 156 Y, por último, Pío IX, el primer pontífice declarado infalible, declaróse irreconciliable con la llamada civilización moderna. 157 E hizo bien. 158 Loisy, el ex abate católico, dijo: «Digo sencillamente que la Iglesia y la teología no han favorecido el movimiento científico, sino que lo han estorbado más bien en cuanto de ellas dependía, en ciertas ocasiones decisivas; digo, sobre todo, que la enseñanza católica no se ha asociado ni acomodado a ese movimiento. 159 La teología se ha comportado y se comporta todavía como si poseyese en sí misma una ciencia de la naturaleza y una ciencia de la historia con la filosofía general de estas cosas que resultan de su conocimiento científico. 160Diríase que el dominio de la teología y el de la ciencia, distintos en principio y hasta por definición del concilio del Vaticano, no deben serlo en la práctica. 161 Todo pasa poco más o menos como si la teología no tuviese nada que aprender de la ciencia moderna, natural o histórica, y que estuviese en disposición y en derecho de ejercer por sí misma una inspección directa y absoluta sobre todo el trabajo del espíritu humano» (Autour d'un petit livre, pags. 211-212). ! "(+! 162 Y así tiene que ser y así es en su lucha con el modernismo de que fue Loisy doctor y caudillo. 163 164 La lucha reciente contra el modernismo kantiano y fideísta es una lucha por la vida. ¿Puede acaso la vida, la vida que busca seguridad de la supervivencia, tolerar que un Loisy, sacerdote católico, afirme que la resurrección del Salvador no es un hecho de orden histórico, demostrable y demostrado por el solo testimonio de la historia? 165 Leed, por otra parte, en la excelente obra de E. Le Roy, Dogme et Critique, su exposición del dogma central, el de la resurrección de Jesús, y decidme si queda algo sólido en que apoyar nuestra esperanza. 166 ¿No ven que más que de la vida inmortal de Cristo, reducida acaso a una vida en la conciencia colectiva cristiana, se trata de una garantía de nuestra resurrección personal, en alma y también en cuerpo? 167 Esa nueva apologética psicológica apela al milagro mo ral, y nosotros, como los judíos, queremos señales, algo que se pueda agarrar con todas las potencias del alma y con todos los sentidos del cuerpo. 168Y con las manos y los pies y la boca si es posible. 169 Pero ¡ay! que no lo conseguimos; la razón ataca, y la fe, que no se siente sin ella segura, tiene que pactar con ella. conciencia. 171 170 Y de aquí vienen las trágicas contradicciones y las desgarraduras de Necesitamos seguridad, certeza, señales, y se va a los motiva credibilitatis, a los motivos de credibilidad, para fundar el rationale obsequium, y aunque la fe precede a la razón, fides praecedit rationem, según san Agustín, este mismo doctor y obispo quería ir por la fe a la inteligencia, per fidem ad intellectum, y creer para entender credo ut intelligam. 172 Cuán lejos de aquella soberbia expresión de Tertuliano: et sepultus resurrexit, certum est quia imposible est! «y sepultado resucitó: es cierto porque es imposible», y su excelso: credo quia absurdum!, escándalo de racionalistas. 173 ¡Cuán lejos de il faut s'abétir, de -Pascal, y de aquel «la razón humana ama el absurdo», de nuestro Donoso Cortés, que debió aprenderlo del gran José de Maistre! 174 Y buscóse como primera piedra de cimiento la autoridad de la tradición y la revelación de la palabra de Dios, y se llegó hasta aquello del consentimiento unánime. 175Quod apud multos unum invenitur non est erratum, sed traditum, dijo Tertuliano, y Lamennais añadió, siglos más tarde, que «la certeza, principio de la vida y de la inteligencia... es, si se me permite la expresión, un producto social». 176 Pero aquí como en tantas otras cosas, dio la fórmula suprema aquel gran católico del catolicismo popular y vital, el conde José de Maistre, cuando escribió: «no creo que sea posible mostrar una sola opinión universalmente útil que no sea verdadera». deducir la verdad de un principio de su bondad o utilidad suprema. 177 Esta es la fija católica; 178 ¿Y qué más útil, más soberanamente útil, que no morírsenos nunca el alma? 179«Como todo sea incierto, o hay que creer a todos o a ninguno», decía Lactancio; pero aquel formidable místico y asceta que fue el beato Enrique Suso, el dominicano, pidióle a la eterna Sabiduría una sola palabra de qué era el amor; y al ! "("! contestarle: «Todas las criaturas invocan lo que soy», replicó Suso, el servidor: «Ay, Señor, eso no basta para un alma anhelante.» 180La fe no se siente segura ni con el consentimiento de los demás, ni con la tradición, ni bajo la autoridad. 181Busca el apoyo de su enemiga la razón. 182 Y así se fraguó la teología escolástica, y saliendo de ella su criada, la ancilla theologiae, la filosofía escolástica también, y esta criada salió respondona. 183La escolástica, magnífica catedral con todos los problemas de mecánica arquitectónica resueltos por los siglos, pero catedral de adobe, llevó poco a poco a eso que llaman teología natural, y no es sino cristianismo despotencializado. 184 Buscóse apoyar hasta donde fuese posible racionalmente los dogmas; mostrar por lo menos que si bien sobrerracionales, no eran contrarracionales, y se les ha puesto un basamento filosófico de filosofía aristotéliconeo-platónica-estoica del siglo XII; que tal es el tomismo, recomendado por León XIII. 185Y ya no se trata de hacer aceptar el dogma, sino su interpretación filosófica medieval y tomista. 186No basta creer que al tomar la hostia consagrada se toma el cuerpo y sangre de Nuestro Señor Jesucristo; hay que pasar por todo eso de la transustanciación, y la sustancia separada de los accidentes, rompiendo con toda la concepción racional moderna de la sustancialidad. 187 Pero para eso está la fe implícita, la fe del carbonero, la de los que, como santa Teresa (Vida, cap. XXV, 2), no quieren aprovecharse de teologías. 188 «Eso no me lo preguntéis a mí que soy ignorante; doctores tiene la Santa Madre Iglesia que os sabrán responder», como se nos hizo aprender en el Catecismo. 189 Que para eso, entre otras cosas, se instituyó el sacerdocio, para que la Iglesia docente fuese la depositaria, depósito más que río, reservoir instead of river como dijo Brooks, de los secretos teológicos. 190«La la bor del Niceno -dice Harnack (Dogmengeschichte, II, I, cap. VII, 3)- fue un triunfo del sacerdocio sobre la fe del pueblo cristiano. Logos se había hecho ininteligible para los no teólogos. 192 191 Ya la doctrina del Con la erección de la fórmula nicenocapadocia como confesión fundamental de la Iglesia, se hizo completamente imposible a los legos católicos el adquirir un conocimiento íntimo de la fe cristiana según la norma de la doctrina eclesiástica. 193 Y arraigóse cada vez más la idea de que el cristianismo era la re velación de lo ininteligible.» 194Y así es en verdad. 195 197 Y ¿por qué fue esto? 196Porque la fe, esto es, la vida, no se sentía ya segura de sí misma. No le bastaba ni el tradicionalismo ni el positivismo teológico de Duns Escoto; quería racionalizarse. 198 Y buscó a poner su fundamento, no ya contra la razón, que es donde está, sino sobre la razón, es decir, en la razón misma. 199La posición nominalista o positivista o voluntarista de Escoto, la de que la ley y la verdad dependen, más bien que de la esencia, de la libre e inescudriñable voluntad de Dios, acentuando la irracionalidad suprema de la religión, ponía a esta en peligro entre los más de los creyentes dotados de razón adulta y no carboneros. triunfo del racionalismo teológico tomista. ! 201 200 De aquí el Y ya no basta creer en la existencia de Dios, sino que "(#! cae anatema sobre quien, aun creyendo en ella, no cree que esa su existencia sea por razones demostrables o que hasta hoy nadie con ellas la ha demostrado irrefutablemente. 202 Aunque aquí acaso quepa decir lo de Pohle: «si la salvación eterna dependiera de los axiomas matemáticos, habría que contar con que la más odiosa sofistería humana habríase vuelto ya contra su validez universal con la misma fuerza con que ahora contra Dios, el alma y Cristo». 203 Y es que el catolicismo oscila entre la mística, que es experiencia íntima del Dios vivo en Cristo, experiencia intransmisible, y cuyo peligro es, por otra parte, absorber en Dios la propia personalidad, lo cual no salva nuestro anhelo vital, y entre el racionalismo a que combate (véase Weizsäcker, obra citada), oscila entre ciencia religionizada y religión cientificada. 204El entusiasmo apocalíptico fue cambiado poco a poco en misticismo neoplatónico, a que la teología hizo arredrar. 205 Temíanse los excesos de la fantasía, que suplanta a la fe creando extravagancias gnósticas. 206 Pero hubo que afirmar un cierto pacto con el gnosticismo y con el racionalismo otro; ni la fantasía ni la razón se dejaban vencer del todo. 207Y así se hizo la dogmática católica un sistema de contradicciones, mejor o peor concordadas. 208 La Trinidad fue un cierto pacto entre el monoteísmo y el politeísmo y pactaron la humanidad y la divinidad en Cristo, la naturaleza y la gracia, esta y el libre albedrío, este con la presciencia divina, etc. 209 Y es que acaso, como dice Hermann (loco citato), «en cuanto se desarrolla un pensamiento religioso en sus consecuencias lógicas, entra en conflicto con otros que pertenecen igualmente a la vida de la religión». 210 Que es lo que le da al catolicismo su profunda dialéctica vital. 211Pero ¿a qué costa? 212 A costa, preciso es decirlo, de oprimir las necesidades mentales de los creyentes en uso de razón adulta. 213Exígeseles que crean o todo o nada, que acepten la entera totalidad de la dogmática o que se pierda todo mérito si se re chaza la mínima parte de ella. 214 Y así resulta lo que el gran predicador unitario Channing decía, y es que tenemos en Francia y España multitudes que han pasado de rechazar el papismo al absoluto ateísmo, porque «el hecho es que las doctrinas falsas y absurdas, cuando son expuestas, tienen natural tendencia a engendrar escepticismo en los que sin reflexión las reciben, y no hay quienes estén más pronto a creer demasiado (believing too much)». 215 Aquí está, en efecto, el terrible peligro, en creer demasiado. 216 ¡Aunque no!, el terrible peligro está en otra parte, y es en querer creer con la razón y no con la vida. 217 La solución católica de nuestro problema, de nuestro único problema vital, del problema de la inmortalidad y salvación eterna del alma individual, satisface a la voluntad, y, por lo tanto, a la vida; pero al querer racionalizarla con la teología dogmática, no satisface a la razón. 218Y esta tiene sus exigencias, tan imperiosas como las de la vida. 219 No sirve querer forzarse a reconocer sobrerracional lo que claramente se nos aparece contrarracional, ni sirve querer hacerse carbonero ! "($! el que no lo es. 220 La infalibilidad, noción de origen helénico, es en el fondo una categoría racionalista. 221 Veamos ahora, pues, la solución, o mejor, disolución, racionalista o científica de nuestro problema. ! "(%! CAPITOLO V LA DISOLUCIÓN RACIONAL 1 El gran maestro del fenomenalismo racionalista, David Hume, empieza su ensayo Sobre la inmortalidad del alma con estas definitivas palabras: «Parece difícil probar con la mera luz de la razón la inmortalidad del alma. 2Los argumentos en favor de ella se derivan comúnmente de tópicos metafísicos, morales o físicos. 3Pero es en realidad el Evangelio, y sólo el Evangelio, el que ha traído a la luz la vida y la inmortalidad.» 4Lo que equivale a negar la racionalidad de la creencia de que sea inmortal el alma de cada uno de nosotros. 5 Kant, que partió de Hume para su crítica, trató de establecer la racionalidad de ese anhelo y de la creencia que este importa, y tal es el verdadero origen, el origen íntimo de su crítica y de la razón práctica y de su imperativo categórico y de su Dios. 6Mas a pesar de todo ello, queda en pie la afirmación escéptica de Hume, y no hay manera alguna de probar racionalmente la inmortalidad del alma. 7Hay, en cambio, modos de probar racionalmente su mortalidad. 8 Sería, no ya excusado, sino hasta ridículo, el que nos extendiésemos aquí en exponer hasta qué punto la conciencia individual humana depende de la organización del cuerpo, cómo va naciendo, poco a poco, según el cerebro recibe las impresiones de fuera, cómo se interrumpe temporalmente, durante el sueño, los desmayos y otros accidentes, y cómo todo nos lleva a conjeturar racionalmente que la muerte trae consigo la pérdida de la conciencia. 9Y así como antes de nacer no fuimos ni tenemos recuerdo alguno personal de entonces, así después de morir no seremos. 10Esto es lo racional. 11 Lo que llamamos alma no es nada más que un término para designar la conciencia individual en su integridad y su persistencia; y que ella cambia, y que lo mismo que se integra se desintegra, es cosa evidente. pero no una sustancia. 14 13 12 Para Aristóteles era la forma sustancial del cuerpo, la entelequia, Y más de un moderno la ha llamado un epifenómeno, término absurdo. Basta llamarlo fenómeno. 15 El racionalismo, y por este entiendo la doctrina que no se atiene sino a la razón, a la verdad objetiva, es forzosamente materialista: y no se escandalicen los idealistas. 16 Es menester ponerlo todo en claro, y la verdad es que eso que llamamos materialismo no quiere decir para nosotros otra cosa que la doctrina que niega la inmortalidad del alma individual, la persistencia de la conciencia personal después de la muerte. ! "(&! 7 En otro sentido, cabe decir que como no sabemos más lo que sea la materia que el espíritu, y como eso de la materia no es para nosotros más que una idea, el materia lismo es idealismo. 18De hecho y para nuestro problema -el más vital, el único de veras vital-, lo mismo da decir que todo es materia como que es todo idea, o todo fuerza, o lo que se quiera. 19Todo sistema monístico se nos aparece siempre materialista. 20Sólo salvan la inmortalidad del alma los sistemas dualistas, los que enseñan que la conciencia humana es algo sustancialmente distinto y diferente de las demás manifestaciones fenoménicas. 21 Y la razón es naturalmente monista. 22 Porque es obra de la razón comprender y explicar el universo, y para comprenderlo y explicarlo, para nada hace falta el alma como sustancia imperecedera. 23Para explicarnos y comprender la vida anímica, para la psicología, no es menester la hipótesis del alma. 24 La que en un tiempo llamaban psicología racional, por oposición a la llamada empírica, no es psicología, sino metafísica, y muy turbia, y no racional, sino profundamente irracional o más bien contrarracional. 25 La doctrina pretendida racional de la sustancialidad del alma y de su espiritualidad, con todo el aparato que la acompaña, no nació sino de que los hombres sentían la necesidad de apoyar en razón su incontrastable anhelo de inmortalidad y la creencia a este subsiguiente. 26 Todas las sofisterías que tienden a probar que el alma es sustancia simple e incorruptible, proceden de ese origen. 27 Es más aún, el concepto mismo de sustancia, tal como lo dejó asentado y definido la escolástica, ese concepto que no resiste la crítica, es un concepto teológico enderezado a apoyar la fe en la inmortalidad del alma. 28 W. James, en la tercera de las conferencias que dedicó al pragmatismo en el Lowel Institute de Boston, en diciembre de 1906 y enero de 1907, y que es lo más débil de toda la obra del insigne pensador norteamericano -algo excesivamente débil-, dice así: «El escolasticismo ha tomado la noción de sustancia del sentido común haciéndola técnica y articulada. 29 Pocas cosas parecerían tener menos consecuencias pragmáticas para nosotros que las sustancias, privados como estamos de todo contacto con ellas. 30 Pero hay un caso en que el escolasticismo ha probado la importancia de la sustancia idea tratándola prag máticamente. concernientes al ministerio de la Eucaristía. pragmático. 33 31 Me refiero a ciertas disputas 32 La sustancia aparecería aquí con un gran valor Desde que los accidentes de la hostia no cambian en la consagración y se ha convertido ella, sin embargo, en el cuerpo de Cristo, el cambio no puede ser más que de la sustancia. 34 La sustancia del pan tiene que haberse retirado, sustituyéndola milagrosamente la divina sustancia sin alterarse las propiedades sensibles inmediatas. 35 Pero aun cuando estas no se alteran, ha tenido lugar una tremenda diferencia; no me nos sino el que nosotros, los que recibimos el sacramento, nos alimentamos ahora de la sustancia misma de la divinidad. 36 La noción de sustancia irrumpe, pues, en la vida con terrible efecto si admitís que las sustancias pueden separarse ! "('! de sus accidentes y cambiar estos últimos. 37 Y es esta la única aplicación pragmática de la idea de sustancia de que tenga yo conocimiento, y es obvio que sólo puede ser tratada en serio por los que creen en la presencia real por fundamentos independientes.» 38 Ahora bien; dejando de lado la cuestión de si en buena teología, y no digo en buena razón, porque todo esto cae fuera de ella, se puede confundir la sustancia del cuerpo -del cuerpo, no del alma- de Cristo con la sustancia misma de la divinidad, es decir, con Dios mismo, parece imposible que un tan ardiente anhelador de la inmortalidad del alma, un hombre como W James, cuya filosofía toda no tiende sino a establecer racionalmente esa creencia, no hubiera echado de ver que la aplicación pragmatica del concepto de sustancia a la doctrina de la transustanciación eucarística no es sino una consecuencia de su aplicación anterior a la doctrina de la inmortalidad del alma. 39 Como en el anterior capítulo expuse, el sacramento de la Eucaristía no es sino el reflejo de la creencia en la inmortalidad; es , para el creyente, la prueba experimental mística de que es inmortal el alma y gozará eternamente de Dios. 40 Y el concepto de sustancia nació, ante todo y sobre todo, del concepto de la sustancialidad del alma, y se afirmó este para apoyar la fe en su persistencia después de separada del cuerpo. 41Tal es su primera aplicación pragmática y con ella su origen. 42Y luego hemos trasladado ese concepto a las cosas de fuera. 43 Por sentirme sustancia, es decir, permanente en medio de mis cambios, es por lo que atribuyo sustancialmente a la gente que fuera de mí, en medio de sus cambios, permanece. 44 Del mismo modo que el concepto de fuerza, en cuanto distinto del movimiento, nace de mi sensación de esfuerzo personal al poner en movimiento algo. 45 Léase con cuidado, en la primera parte de la Summa Theologica de santo Tomás de Aquino, los seis artículos primeros de la cuestión LXXV, en que trata de si el alma humana es cuerpo, de si es algo subsistente, de si lo es también el alma de los brutos, de si el hombre es alma, de si esta se compone de materia y forma, y de si es incorruptible, y dígase luego si todo aquello no está sutilmente enderezado a soportar la creencia de que esa sustancialidad incorruptible le permite recibir de Dios la inmortalidad, pues claro es que como la creó al infundirla en el cuerpo, según santo Tomás, podía al separarla de él aniquilarla. 46Y como se ha hecho cien veces la crítica de esas pruebas no es cosa de repetirla aquí. 47 ¿Qué razón desprevenida puede concluir el que nuestra alma sea una sustancia del hecho de que la conciencia de nuestra identidad -y esto dentro de muy estrechos y variables límitespersista a través de los cambios de nuestro cuerpo? 48Tanto valdría hablar del alma sustancial de un barco que sale de un puerto, pierde hoy una tabla que es sustituida por otra de igual forma y tamaño, luego pierde otra pieza y así una a una todas, y vuelve el mismo barco, con igual forma, iguales condiciones marineras, y todos lo reconocen por el mismo. ! "((! 49 ¿Qué razón desprevenida puede concluir la simplicidad del alma del hecho de que tengamos que juzgar y unificar pensamientos? 50 Ni el pensamiento es uno, sino varios, ni el alma es para la razón nada más que la sucesión de estados de conciencia coordinados entre sí. 51 Es lo corriente que en los libros de psicología espiritualista, al tratarse de la existencia del alma como sustancia simple y separable del cuerpo, se emplee una fórmula por este estilo: Hay en mí un principio que piensa, quiere y siente... 52Lo cual implica una petición de principio. 53Porque no es una verdad inmediata, ni mucho menos, el que haya en mí tal principio; la verdad inmediata es que pienso, quiero y siento yo. 54 Y yo, el yo que piensa, quiere y siente, es inmediatamente mi cuerpo vivo con los estados de conciencia que soporta. 55Es mi cuerpo vivo el que piensa, quiere y siente. 56¿Cómo? 57Como sea. 58 Y pasan luego a querer fijar la sustancialidad del alma, hipostasiando los estados de conciencia, y empiezan porque esa sustancia tiene que ser simple, es decir, por oponer, al modo de dualismo cartesiano, el pensamiento a la extensión. 59 Y como ha sido nuestro Balmes uno de los espiritualistas que han dado fuerza más concisa y clara al argumento de la simplicidad del alma, voy a tomarlo de él tal y como lo expone en el capítulo 1 de la Psicología de su Curso de Filosofía Elemental. 60«El alma humana es simple», dice. 61Y añade: «Es simple lo que carece de partes, y el alma no las tiene. pensamiento? alma. 64 63 62 Supóngase que hay entre ellas las partes, A, B, C; pregunto: ¿Dónde reside el Si sólo en A, están de más B y C; y, por consiguiente, el sujeto simple A será el Si el pensamiento reside en A, B y C, resulta el pensamiento dividido en partes, lo que es absurdo. 65 ¿Qué serán una percepción, una comparación, un juicio, un raciocinio, distribuidos en tres sujetos?» 66Más evidente petición de principio no cabe. 67Empieza por darse como evidente que el todo, como todo, no puede juzgar. 68 Prosigue Balmes: «La unidad de conciencia se opone a la división del alma; cuando pensamos, hay un sujeto que sabe todo lo que piensa, y esto es imposible atribuyéndole partes. 69 Del pensamiento que está en la A, nada sabrán B ni C, y recíprocamente; luego no habrá una conciencia de todo el pensamiento; cada parte tendrá su conciencia especial, y dentro de nosotros habrá tantos seres pensantes cuantas sean las partes.» 70 Sigue la petición de principio; supónese, porque sí, sin prueba alguna, que un todo como todo no puede percibir unitariamente. 71Y luego, Balmes pasa a preguntar si esas partes A, B, C, son simples o compuestas y repite el argumento hasta venir a parar a que el sujeto pensante tiene que ser una parte que no sea todo, esto es, simple. 72El argumento se basa, como se ve, en la unidad de apercepcion y de juicio. 73 Y luego trata de refutar el supuesto de apelar a una comunicación de las partes entre sí. 74 Balmes, y con él los espiritualistas a priori que tratan de racionalizar la fe en la inmortalidad del alma, dejan de lado la única explicación racional: la de que la apercepción y el juicio son una resultante, la de que son las percepciones o las ideas mismas componentes las que se ! "()! concuerdan. 75Empiezan por suponer algo fuera y distinto de los estados de conciencia que no es el cuerpo vivo que los soporta, algo que no soy yo, sino que está en mí. 76 El alma es simple, dicen otros, porque se vuelve sobre sí toda entera. 77 No, el estado de conciencia A, en que pienso en mi anterior estado de conciencia B, no es este mismo. 78O si pienso en mi alma, pienso en una idea distinta del acto en que pienso en ella. 79Pensar que se piensa, nada más, no es pensar. 80 El alma es el principio de la vida. energía como principio del movimiento. 83 externas. 82 81 Sí; también se ha ideado la categoría de fuerza o de Pero esos son conceptos, no fenómenos, no realidades El principio del movimiento, ¿se mueve? 84 Y sólo tiene realidad externa lo que se mueve. 85¿El principio de la vida vive? 86Con razón escribía Hume: «Jamás me encuentro con esta idea de mí mismo, sólo me observo deseando u obrando o sintiendo algo.» 87 La idea de algo individual, de este tintero que tengo delante, de ese caballo que está a la puerta de casa, de ellos dos y no de otros cualesquiera individuos de su clase, es el hecho, el fenómeno mismo. 88La idea de mí mismo soy yo. 89Todos los esfuerzos para sustantivar la conciencia, haciéndola independiente de la extensión -recuérdese que Descartes oponía el pensamiento a la extensión-, no son sino sofísticas argucias para asentar la racionalidad de la fe en que el alma es inmortal. 90 Se quiere dar valor de realidad objetiva a lo que no la tiene, a aquello cuya realidad no está sino en el pensamiento. 91Y la inmortalidad que apetecemos es una inmortalidad fenoménica, es una continuación de esta vida. 92 La unidad de la conciencia no es para la psicología científica -la única racional- sino una unidad fenoménica. 93 94 Nadie puede decir que sea una unidad sustancial. Es más aún, nadie puede decir que sea una sustancia. 95Porque la noción de sustancia es una categoría no fenoménica. 96Es el número y entra, en rigor, en lo inconocible. 97Es decir, según se le aplique. 98Pero en su aplicación trascendente es algo en realidad inconocible y en rigor irracional. 99 Es el concepto mismo de sustancia lo que una razón desprevenida reduce a un uso que está muy lejos de aquella su aplicación pragmática a que James se refería. 100 Y no salva esta aplicación el tomarla idealísticamente, según el principio berkeleyano de que ser es percibido, esse est percipi. 101 Decir que todo es idea o decir que todo es espíritu, es lo mismo que decir que todo es materia o que todo es fuerza, pues si siendo todo bien o todo espíritu, este diamante es idea o espíritu, lo mismo que mi conciencia; no se ve por qué no ha de persistir eternamente el diamante, si mi conciencia, por ser idea o espíritu, persiste siempre. 102 Jorge Berkeley, obispo anglicano de Cloyne y hermano en espíritu del también obispo anglicano José Butler, quería salvar como este la fe en la inmortalidad del alma. 103 Desde las primeras palabras del Prefacio de su Tratado referente a los principios del conocimiento humano (A Treatise concerning the Principles of human Knowledge), nos dice que este tratado parece útil, ! "(*! especialmente para los tocados de escepticismo o que necesitan una demostración de la existencia e inmaterialidad de Dios y de la inmortalidad natural del alma. 104 En el capítulo CXL establece que tenemos una idea o más bien noción del espíritu, conociendo otros espíritus por medio de los nuestros, de lo cual afirma redondamente, en el párrafo siguiente, que se sigue la natural inmortalidad del alma. 105Y aquí entra en una serie de confusiones basadas en la ambigüedad que al término noción da. 106 Y es después de haber establecido casi como per saltum la inmortalidad del alma porque esta no es pasiva, como los cuerpos, cuando pasa en el capítulo CXLVII a decirnos que la existencia de Dios es más evidente que la del hombre. 107¡Y decir que hay quien, a pesar de esto, duda de ella! 108 Complicábase la cuestión porque se hacía de la conciencia una propiedad del alma, que era algo más que ella, es decir, una forma sustancial del cuerpo, originadora de las funciones orgánicas todas de este. 109 El alma no sólo piensa, siente y quiere, sino mueve al cuerpo y origina sus funciones vitales; en el alma humana se unen las funciones vegetativas, animal y racional. 110Tal es la doctrina. 111 Pero el alma separada del cuerpo no puede tener ya funciones vegetativas y animales. 112 Para la razón, en fin, un conjunto de verdaderas confusiones. 113 A partir del Renacimiento y la restitución del pensamiento puramente racional y emancipado de toda teología, la doctrina de la inmortalidad del alma se estableció con Alejandro Afrodisiense, Pedro Pomponazzi y otros. 114 Y en rigor, poco o nada puede agregarse a cuanto Pomponazzi dejó escrito en su Tractatus de inmortalitate animae. 115Esa es la razón y es inútil darle vueltas. 116 No han faltado, sin embargo, quienes hayan tratado de apoyar empíricamente la fe en la inmortalidad del alma, y ahí está la obra de Frederic W. H. Myers sobre la personalidad humana y su sobrevivencia a la muerte corporal: Human personality and its survival of bodily death. 117Nadie se ha acercado con más ansia que yo a los dos gruesos volúmenes de esta obra, en que el que fue alma de la Sociedad de Investigaciones Psíquicas -Society for Psychical Research- ha resumido el formidable material de datos, sobre todo género de corazonadas, apariciones de muertos, fenómenos de sueño, telepatía, hipnotismo, automatismo sensorial, éxtasis y todo lo que constituye el arsenal espiritista. 118Entré en su lectura, no sólo sin la prevención de antemano que a tales investigaciones guardan los hombres de ciencia, sino hasta prevenido favorablemente, como quien va a buscar confirmación a sus más íntimos anhelos; pero por esto la decepción fue mayor. aparato de crítica, todo eso en nada se diferencia de las milagrerías medievales. un error de método, de lógica. ! ")+! 120 119 A pesar del Hay en el fondo 121 Y si la creencia en la inmortalidad del alma no ha podido hallar comprobación empírica 122 racional, tampoco le satisface el panteísmo. Decir que todo es Dios, y que al morir volvemos a Dios, mejor dicho seguimos en Él, nada vale a nuestro anhelo; pues si es así, antes de nacer, en Dios estábamos, y si volvemos al morir adonde antes de nacer estábamos, el alma humana, la conciencia individual, es perecedera. 123Y como sabemos muy bien que Dios, el Dios personal y consciente del monoteísmo cris tiano, no es sino el productor, y sobre todo el garantiza dor de nuestra inmortalidad, de aquí que se dice, y se dice muy bien, que el panteísmo no es sino un ateísmo disfrazado. 124 Y yo creo que sin disfrazar. 125 Y tenían razón los que llamaron ateo a Spinoza, cuyo panteísmo es el más lógico, el más racional. 126 Ni salva el anhelo de inmortalidad, sino que lo disuelve y hunde, el agnosticismo o doctrina de lo inconocible, que cuando ha querido dejar a salvo los sentimientos religiosos ha procedido siempre con la más refinada hipocresía. 127Toda la primera parte, y sobre todo su capítulo V, el titulado «Reconciliación» -entre la razón y la fe, o la religión y la ciencia se entiende- de los Primeros principios de Spencer es un modelo, a la vez que de superficialidad filosófica y de insinceridad religiosa, del más refinado canto británico. 128 Lo inconocible, si es algo más que lo meramente desconocido hasta hoy, no es sino un concepto puramente negativo, un concepto de límite. 129Y sobre eso no se edifica sentimiento alguno. 130 La ciencia de la religión, por otra parte, de la religión como fenómeno psíquico individual y social sin entrar en la validez objetiva trascendente de las afirmaciones religiosas, es una ciencia que, al explicar el origen de la fe en que el alma es algo que puede vivir separado del cuerpo, ha destruido la racionalidad de esta creencia. 131 Por más que el hombre religioso repita con Schleiermacher: «la ciencia no puede enseñarte nada, aprenda ella de ti», por dentro le queda otra. 132 Por cualquier lado que la cosa se mire, siempre resulta que la razón se pone enfrente de nuestro anhelo de inmortalidad personal, y nos le contradice. 133 Y es que en rigor la razón es enemiga de la vida. 134 memoria. Es una cosa terrible la inteligencia. 136 Tiende a la muerte como a la estabilidad la Lo vivo, lo que es absolutamente inestable, lo absolutamente individual, es, en rigor, 137 ininteligible. 135 La lógica tira a reducirlo todo a entidades y a género, a que no tenga cada representación más que un solo y mismo contenido en cualquier lugar, tiempo o relación en que se nos ocurra. 138Y no hay nada que sea lo mismo en los momentos sucesivos de su ser. Dios es distinta cada vez que la concibo. intelecto. 140 139 Mi idea de La identidad, que es la muerte, es la aspiración del 141 La mente busca lo muerto, pues lo vivo se le escapa; quiere cuajar en témpanos la corriente fugitiva, quiere fijarla. 142Para analizar un cuerpo, hay que menguarlo o destruirlo. 143Para comprender algo hay que matarlo, enrigidecerlo en la mente. ideas muertas, aunque de ellas salga vida. ! 145 144 La ciencia es un cementerio de También los gusanos se alimentan de cadáveres. 146Mis ")"! propios pensamientos, tumultuosos y agitados en los senos de mi mente, desgajados de su raíz cordial, vertidos a este papel y fijados en él en formas inalterables, son ya cadáveres de pensamientos. 147 ¿Cómo, pues, va a abrirse la razón a la revelación de la vida? 148 Es un trágico combate, es el fondo de la tragedia, el combate de la vida con la razón. 149¿Y la verdad? 150¿Se vive o se comprende? 151 No hay sino leer el terrible Parménides de Platón, y llegar a su conclusión trágica de que «el uno existe y no existe, y él y todo lo otro existen y no existen, aparecen y no aparecen en relación a sí mismos, y unos a otros». 152 Todo lo vital es irracional, y todo lo racional es antivital, porque la razón es esencialmente escéptica. 153 Lo racional, en efecto, no es sino lo relacional; la ra zón se limita a relacionar elementos irracionales. 154Las matemáticas son la única ciencia perfecta en cuanto suman, restan, multiplican y dividen números, pero no cosas reales y de bulto; en cuanto es la más formal de las ciencias. 155 ¿Quién es capaz de extraer la raíz cúbica de este fresno? 156 Y, sin embargo, necesitamos de la lógica, de este poder terrible, para transmitir pensamientos y percepciones y hasta para pensar y percibir, porque pensamos con palabras, percibimos con formas. 157 Pensar es hablar uno consigo mismo, y el habla es social, y sociales son el pensamiento y la lógica. 158 Pero ¿no tienen acaso un contenido, una materia individual, intransmisible e intraductible? 159¿Y no está aquí su fuerza? 160 Lo que hay es que el hombre, prisionero de la lógica, sin la cual no piensa, ha querido siempre ponerla al servicio de sus anhelos, y sobre todo del fundamental anhelo. 161Se quiso tener siempre a la lógica, y más en la Edad Media, al servicio de la teología y de la jurisprudencia, que partían ambas de lo establecido por la autoridad. 162 La lógica no se propuso hasta muy tarde el problema del conocimiento, el de la validez de ella misma, el examen de los fundamentos metalógicos. 163 «La teología occidental -escribe Stanley-es esencialmente lógica en su forma y se basa en la filosofía. 164El teólogo latino sucedió al abogado romano; el teólogo oriental al sofista griego». 165 Y todas las elucubraciones pretendidas racionales o lógicas en apoyo de nuestra hambre de inmortalidad, no son sino abogacía y sofistería. 166 Lo propio y característico de la abogacía, en efecto, es poner la lógica al servicio de una tesis que hay que defender, mientras el método, rigurosamente científico, parte de los hechos, de los datos que la realidad nos ofrece para llegar o no llegar a la conclusión. 167Lo importante es plantear bien el problema, y de aquí que el progreso consiste, no pocas veces, en deshacer lo hecho. 168 La abogacía supone siempre una petición de principios, y sus argumentos todos son ad probandum. 169 ! Y la teología supuesta racional no es sino abogacía. ")#! 170 La teología parte del dogma, y dogma, )+v0µ$ en su sentido primitivo y más directo, significa decreto, algo como el latín placitum, lo que ha parecido que debe ser ley a la autoridad legislativa. 171 De este concepto jurídico parte la teología. 172 Para el teólogo, como para el abogado, el dogma, la ley es algo dado, un punto de partida que no se discute sino en cuanto a su aplicación y a su más recto sentido. 173 Y de aquí que el espíritu teológico o abogadesco sea en su principio dogmático, mientras el espíritu estrictamente científico, puramente racional, es escéptico, !"(2*#"!% esto es, investigativo. 174 Y añado en su principio, porque el otro sentido del término escepticismo, el que tiene hoy más corrientemente, el de un sistema de duda, de recelo y de incertidumbre, ha nacido del empleo teológico o abogadesco de la razón, del abuso del dogmatismo. 175 El querer aplicar la ley de autoridad, el placitum, el dogma, a distintas y a las veces contrapuestas necesidades prácticas, es lo que ha engendrado el escepticismo de duda. 176Es la abogacía, o lo que es igual, la teología, la que enseña a desconfiar de la razón, y no la verdadera ciencia, la ciencia investigativa, escéptica en el sentido primitivo y directo de este término, que no camina a una solución ya prevista ni procede sino a enseñar una hipótesis. 177 Tomad la Summa Theologica, de santo Tomás, el clásico monumento de la teología -esto es, de la abogacía- católica, y abridla por dondequiera. 178Lo primero la tesis: utrum... si tal cosa es así o de otro modo; en seguida las objeciones: sed contra est... o respondeo dicendum... abogacía. 180 179 Pura Y en el fondo de una gran parte, acaso de la mayoría de sus argumentos hallaréis una falacia lógica que puede expresarse more scholastico con este silogismo: Yo no comprendo este hecho sino dándole esta explicación; es así que tengo que comprenderlo, luego esta tiene que ser su explicación. 181O me quedo sin comprenderlo. 182La verdadera ciencia enseña, ante todo, a dudar y a ignorar; la abogacía ni duda ni cree que ignora. 183Necesita de una solución. 184 A este estado de ánimo en que se supone, más o menos a conciencia, que tenemos que conocer una solución, acompaña aquello de las funestas consecuencias. 185 Coged cualquier libro apologético, es decir, de teología abogadesca, y veréis con qué frecuencia os econtrareis con epígrafes que dicen: «Funestas consecuencias de esta doctrina.» 186Y las consecuencias funestas de una doctrina, probarán, a lo sumo, que esta doctrina es funesta, pero no que es falsa, porque falta probar que lo verdadero sea lo que más conviene. más que un piadoso deseo. 188 187 La identificación de la verdad y el bien no es A. Vinet, en sus Études sur Blaise Pascal, dice: «De las dos necesidades que trabajan sin cesar a la naturaleza humana, la de la felicidad no es sólo la más universalmente sentida y más constantemente experimentada, sino que es también la más imperiosa. 189 Y esta necesidad no es sólo sensitiva; es intelectual. 190No sólo para el alma, sino también para el espíritu, es una necesidad la dicha. 191 La dicha forma parte de la verdad.» 192 Esta proposición última: le bonheur fait partie de la vérité, es una proposición profundamente abogadesca, pero no ! ")$! científica ni de razón pura. 193Mejor sería decir que la verdad forma parte de la dicha en un sentido tertulianesco, de credo quia absurdum, que en rigor quiere decir: credo quia consolans, creo porque es cosa que me consuela. 194 o no. 195 No, para la razón, la verdad es lo que se puede demostrar que es, que existe, consuélenos Y la razón no es ciertamente una facultad consoladora. 196 Aquel terrible poeta latino, Lucrecio, bajo cuya aparente serenidad y ataraxia epicúrea tanta desesperación se cela, decía que la piedad consiste en poder contemplarlo todo con el alma serena, pacata posse mente omnia tueri. 197 Y fue este Lucrecio el mismo que escribió que la religión puede inducirnos a tantos males: tantum religio potuit suadere malorum. 198 Y es que la religión, y sobre todo la cristiana más tarde, fue, como dice el Apóstol, un escándalo para los judíos y una locura para los intelectuales. 199Tácito llamó a la religión cristiana, a la de la inmortalidad del alma, perniciosa superstición, exitialis superstitio, afirmando que envolvía un odio al género humano, odium generis humani. 200 Hablando de la época de estos hombres, de la época más genuinamente racionalista, escribía Flaubert a madame Roger de Genettes estas preñadas palabras: «Tiene usted razón; hay que hablar con respeto de Lucrecio; no le veo comparable sino a Byron, y Byron no tiene ni su gravedad ni la sinceridad de su tristeza. 201 La melancolía antigua me parece más profunda que la de los modernos, que sobrentienden todos más o menos la inmortalidad de más allá del agujero negro. 202 Pero para los antiguos este agujero negro era el infinito mismo; sus ensueños se dibujan y pasan sobre un fondo de ébano inmutable. 203 No existiendo ya los dioses, y no existiendo todavía Cristo, hubo, desde Cicerón a Marco Aurelio, un momento único en que el hombre estuvo solo. 204 En ninguna parte encuentro esta grandeza; pero lo que hace a Lucrecio intolerable es su física, que da como positiva. 205Si es débil, es por no haber dudado bastante, ha querido explicar, ¡concluir!». 206 Sí, Lucrecio quiso concluir, solucionar y, lo que es peor, quiso hallar en la razón consuelo. 207Porque hay también una abogacía antiteológica y un odium antitheologicum. 208 Muchos, muchísimos hombres de ciencia, la mayoría de los que se llaman a sí mismos racionalistas, lo padecen. 209 El racionalista se conduce racionalmente, esto es, está en su papel mientras se limita a negar que la razón satisfaga a nuestra hambre vital de inmortalidad; pero, pronto poseído de la rabia de no poder creer, cae en la irritación del odium antitheologicum, y dice con los fariseos: «Estos vulgares que no saben la ley, son malditos.» 210 Hay mucho de verdad en aquellas palabras de Soloviev: «Presiento la proximidad de tiempos en que los cristianos se reúnan de nuevo en las catacumbas porque se persiga la fe, acaso de una manera menos brutal que en la época de Nerón, pero con un rigor no menos refinado, por la mentira, la burla y todas las hipocresías.» ! ")%! 211 evidente. El odio antiteológico, la rabia cientificista -no digo científica- contra la fe en otra vida, es 212 Tomad no a los más serenos investigadores científicos, los que saben dudar, sino a los fanáticos del racionalismo, y ved con qué grosera brutalidad hablan de la fe. 213 A Vogt le parecía probable que los apóstoles ofreciesen en la estructura del cráneo marcados caracteres simianos; de las groserías de Haeckel, este supremo incomprensivo, no hay que hablar; tampoco de las de Büchner; Virchov mismo no se ve libre de ellas. 214 Y otros lo hacen más sutilmente. 215 Hay gentes que parece como si no se limitasen a creer que haya otra vida, o mejor dicho, a creer que no la hay, sino que les molesta y duele que otros crean en ella, o hasta que quieran que la haya. 216 Y esta posición es despreciable así como es digna de respeto la de aquel que, empeñándose en creer que la hay, porque la necesita, no logra creerlo. 217 Pero de este nobilísimo, y el más profundo, y el más humano, y el más fecundo estado de ánimo, el de la desesperación, hablaremos más adelante. 218 Y los racionalistas que no caen en la rabia antiteológica se empeñan en convencer al hombre que hay motivos para vivir y hay consuelo de haber nacido, aunque haya de llegar un tiempo, al cabo de más o menos, decenas, centenas o millones de siglos, en que toda conciencia humana haya desaparecido. 219 Y estos motivos de vivir y obrar, esto que algunos llaman humanismo, son la maravilla de la oquedad afectiva y emocional del racionalismo y de su estupenda hipocresía, empeñada en sacrificar la sinceridad a la veracidad, y en no confesar que la razón es una potencia desconsoladora y disolvente. 220 ¿He de volver a repetir lo que ya he dicho sobre todo eso de fraguar cultura, de progresar, de realizar el bien, la verdad y la belleza, de traer la justicia a la tierra, de hacer mejor la vida para los que nos sucedan, de servir a no sé qué destino, sin preocuparnos del fin último de cada uno de nosotros? 221 ¿He de volver a hablaros de la suprema vaciedad de la cultura, de la ciencia, del arte, del bien, de la verdad, de la belleza, de la justicia... de todas estas hermosas concepciones, si al fin y al cabo dentro de cuatro días o dentro de cuatro millones de siglos -que para el caso es igual-, no ha de existir conciencia humana que reciba la cultura, la ciencia, el arte, el bien, la verdad, la belleza, la justicia, y todo lo demás así? 222 Muchas y muy variadas son las invenciones racionalistas -más o menos racionales- con que desde los tiempos de epicúreos y estoicos se ha tratado de buscar en la verdad racional consuelo y de convencer a los hombres, aunque los que de ello trataron no estuviesen en sí mismos convencidos de que hay motivos de obrar y alicientes de vivir, aun estando la conciencia humana destinada a desaparecer un día. 223 La posición epicúrea, cuya forma extrema y más grosera es la de «comamos y bebamos, que mañana moriremos», o el carpe diem horaciano, que podría traducirse por «vive al día», no es, en el fondo, distinta de la posición estoica con su «cumple con lo que la conciencia moral te dicte, y ! ")&! que sea después lo que fuere». 224Ambas posiciones tienen una base común, y lo mismo es el placer por el placer mismo que el deber por el mismo deber. 225 El más lógico y consecuente de los ateos, quiero decir de los que niegan la persistencia en tiempo futuro indefinido de la conciencia individual, y el más piadoso a la vez de ellos, Spinoza, dedicó la quinta y última parte de su Ética a dilucidar la vía que conduce a la libertad y a fijar el concepto de la felicidad. 226 ¡El concepto! 227 ¡El concepto y no el sentimiento! 228 Para Spinoza, que era un terrible intelectualista, la felicidad, la beatitudo, es un concepto, y el amor a Dios un amor intelectual. 229 Después de establecer en la proposición 21 de esta parte quinta que «la mente no puede imaginarse nada ni acordarse de las cosas pasadas, sino mientras dura el cuerpo» -lo que equivale a negar la inmortalidad del alma, pues un alma que separada del cuerpo en que vivió no se acuerda ya de su pasado, ni es inmortal ni es alma- procede a decirnos en la proposición 23 que la «mente humana no puede destruirse en absoluto con el cuerpo, sino que queda algo de ella, que es eterno», y esta eternidad de la mente es cierto modo de pensar. 230Mas no os dejéis engañar; no hay tal eternidad de la mente individual. 232 231 Todo es sub aeternitatis specie, es decir, un puro engaño. Nada más triste, nada más desolador, nada más antivital que esta felicidad, esa beatitudo spinoziana, que consiste en el amor intelectual a Dios, el cual no es sino el amor mismo de Dios, el amor con que Dios se ama a sí mismo (prop. 36). 233 Nuestra felicidad, es decir, nuestra libertad, consiste en el constante y eterno amor de Dios a los hombres. 234 Así dice el escolio de esta proposición 36. 235Y todo para concluir en la proposición final de toda la Ética, en su coronamiento, con aquello de que la felicidad no es el premio de la virtud, sino la virtud misma. 237 236 ¡Lo de todos! O dicho en plata: que de Dios salimos y a Dios volvemos; lo que, traducido al lenguaje vital, sentimental, concreto, quiere decir que mi conciencia personal brotó de la nada, de mi inconsciencia, y a la nada volverá. 238 Y esa voz tristísima y desoladora de Spinoza es la voz misma de la razón. 239Y la libertad de que nos habla es una libertad terrible. 240 Y contra Spinoza y su doctrina de la felicidad no cabe sino un argumento incontestable: el argumento ad hominem. 241 ¿Fue feliz él, Baruc Spinoza, mientras para acallar su íntima infelicidad disertaba sobre la felicidad misma? 242¿Fue él libre? 243 En el escolio a la proposición 41 de esta misma última y más trágica parte de esa formidable tragedia de su Ética, nos habla el pobre judío desesperado de Amsterdam, de la persuasión común del vulgo sobre la vida eterna. 244 Oigámosle: «Parece que creen que la piedad y la religión y todo lo que se refiere a la fortaleza de ánimo, son cargas que hay que deponer después de la muerte, y esperan recibir el precio de la servidumbre, no de la piedad y la religión. 245 Y no sólo por esta esperanza, sino también, y más principalmente, por el miedo de ser castigados con terribles suplicios después de la muerte, se mueven a vivir conforme a la prescripción de la ley ! ")'! divina en cuanto les lleva su debilidad y su ánimo impotente; y si no fuese por esta esperanza y este miedo, y creyeran, por el contrario, que las almas mueren con los cuerpos, ni les quedara el vivir más tiempo sino miserables bajo el peso de la piedad volverían a su índole, prefiriendo acomodarlo todo a su gusto y entregarse a la fortuna más que a sí mismos. 246Lo cual no parece menos absurdo que si uno, por no creer poder alimentar a su cuerpo con buenos alimentos para siempre prefiriese saturarse de venenos mortíferos, o porque ve que el alma no es eterna e inmortal, prefiera ser sin alma (amens) y vivir sin razón; todo lo cual es tan absurdo que apenas merece ser refutado (quae adeo absurda sunt, ut vix recenseri mereantur).» 247 Cuando se dice de algo que no merece siquiera refutación, tenedlo por seguro, o es una insigne necedad, y en este caso ni eso hay que decir de ella, o es algo formidable, es la clave misma del problema. 248Y así es en este caso. 249Porque sí, pobre judío portugués desterrado de Holanda, sí, que quien se convenza, sin rastro de duda, sin el más leve resquicio de incertidumbre salvadora, de que su alma no es inmortal, prefiera ser sin alma, amens, o irracional, o idiota, prefiera no haber nacido, no tiene nada, absolutamente nada de absurdo. del amor intelectual y de la felicidad, ¿fue feliz? 251 250 Él, pobre judío intelectualista definidor Porque éste y no otro es el problema. qué te sirve saber definir la compunción, si no la sientes?», dice Kempis. meterte a definir la felicidad si no logra uno con ello ser feliz? 254 253 252 «¿De Y, ¿de qué te sirve Aquí encaja aquel terrible cuento de Diderot sobre el eunuco que, para mejor poder escoger esclavas con destino al harén del sultán, su dueño, quiso recibir lecciones de estética de un marsellés. 255 A la primera lección, fisiológica, brutal y carnalmente fisiológica, exclamó el eunuco compungido: «¡Está visto que yo nunca sabré estética!» 256 Y así es; ni los eunucos sabrán nunca estética aplicada a la selección de mujeres hermosas, ni los puros racionalistas sabrán ética nunca, ni llegarán a definir la felicidad, que es una cosa que se vive y se siente, y no una cosa que se razona y se define. 257 Y ahí tenemos otro racionalista, este no ya resignado y triste, como Spinoza, sino rebelde, y fingiéndose hipócritamente alegre, cuando era no menos desesperado que el otro; ahí tenéis a Nietzsche, que inventó matemáticamente (!!!) aquel remedio de la inmortalidad del alma que se llama la vuelta eterna, y que es la más formidable tragicomedia o comitragedia. 258Siendo el número de átomos o primeros elementos irreductibles finitos, en el universo eterno tiene que volver alguna vez a darse una combinación como la actual, y por lo tanto, tiene que repetirse un número eterno de veces lo que ahora pasa. 259 Claro está, y así como volveré a vivir la vida que estoy viviendo, la he vivido ya infinitas veces, porque hay una eternidad hacia el pasado, a parte ante, como la habrá en el porvenir, a parte post. 260 Pero se da el triste caso de que yo no me acuerdo de ninguna de mis existencias anteriores, ni es posible que me acuerde de ellas, pues dos cosas absoluta y totalmente idénticas no son sino una sola. ! 261 En vez de suponer que vivimos en un universo finito, de un ")(! número finito de primeros elementos componentes irreductibles, suponer que vivamos en un universo infinito, sin límite en el espacio -la cual infinitud concreta no es menos inconcebible que la eternidad concreta, en el tiempo-, y entonces resultará que este nuestro sistema, el de la Vía Láctea, se repite infinitas veces en el infinito del espacio, y que estoy yo viviendo infinitas vidas, todas exactamente idénticas. 262Una broma, como veis, pero no menos cómica, es decir, no menos trágica que la de Nietzsche, la del león que se ríe. 263 ¿Y de qué se ríe el león? 264 Yo creo que de rabia, porque no acaba de consolarle eso de que ha sido ya el mismo león antes y que volverá a serlo. 265 Pero es que tanto Spinoza como Nietzsche eran, sí, racionalistas, cada uno de ellos a su modo; pero no eran eunucos espirituales; tenían corazón, sentimiento y, sobre todo, hambre, un hambre loca de eternidad, de inmortalidad. 266 El eunuco corporal no siente la necesidad de reproducirse carnalmente, en cuerpo, y el eunuco espiritual tampoco siente el hambre de perpetuarse. 267 Cierto es que hay quienes aseguran que con la razón les basta, y nos aconsejan desistamos de querer penetrar en lo impenetrable. 268 Mas de estos que dicen no necesitar de fe alguna en vida personal eterna para encontrar alicientes de vida y móviles de acción, no sé qué pensar. 269También un ciego de nacimiento puede asegurarnos que no siente gran deseo de gozar del mundo de la visión, ni mucha angustia por no haberlo gozado, y hay que creerlo, pues de lo totalmente desconocido no cabe anhelo por aquello de nihil volitum quin praecognitum; no cabe querer sino lo de antes conocido; pero el que alguna vez en su vida o en sus mocedades o temporalmente ha llegado a abrigar la fe en la inmortalidad del alma, no puede persuadirme a creer que se aquiete sin ella. 270 Y en este respecto apenas cabe entre nosotros la ceguera de nacimiento, como no sea por una extraña aberración. 271 Que aberración y no otra cosa es el hombre mera y exclusivamente racional. 272 Más sinceros, mucho más sinceros son los que dicen: «De eso no se debe hablar, que es perder el tiempo y enervar la voluntad; cumplamos aquí nuestro deber, y sea luego lo que fuere»; pero esta sinceridad oculta una más profunda insinceridad. 273 ¿Es que acaso con decir: «De eso no se debe hablar», se consigue que uno no piense en ello? 274¿Que se enerva la voluntad?... 275¿Y qué? 276 ¿Que nos incapacita para una acción humana? 277¿Y qué? 278Es muy cómodo decirle al que tiene una enfermedad mortal, que le condena a corta vida y lo sabe, que no piense en ello. 279 Meglio operando obliare, senza indagarlo, questo enorme mistero de l'universo! ! "))! 280 «Mejor obrando olvidar, sin indagarlo, este enorme misterio del universo», escribió Carducci en su Idilio maremmano, el mismo Carducci que al final de su obra Sobre el Monte Mario nos habló de que la Tierra, madre del alma fugitiva, ha de llevar en torno al Sol gloria y dolor hasta que bajo el Ecuador rendida, a las llamadas del calor que huye, la ajada prole una mujer tan sólo tenga y un hombre, que erguidos entre trozos de montañas, en muertos bosques, lívidos, con ojos vítreos te vean sobre inmenso cielo, ¡oh, sol, ponerte! 281 ¿Pero es posible trabajar en algo serio y duradero, olvidando el enorme misterio del universo y sin inquirirlo? 282 ¿Es posible contemplarlo todo con alma serena, según la piedad lucreciana, pensando que un día no se ha de refle jar eso todo en conciencia humana alguna? 283 «¿Sois felices?», pregunta Caín en el poema byroniano a Lucifer, príncipe de los intelectuales, y este le responde: «Somos poderosos»; y Caín replica: «¿Sois felices?», y entonces el gran Intelectual le dice: «No; ¿lo eres tú?» 284 Y más adelante este mismo Luzbel dice a Adah, hermana y mujer de Caín: «Escoge entre el Amor y la Ciencia, pues no hay otra elección.» 285Y en este mismo estupendo poema, al decir Caín que el árbol de la ciencia del bien y del mal era un árbol mentiroso, porque «no sabemos nada, y su prometida ciencia fue al precio de la muerte», Luzbel le replica: «Puede ser que la muerte conduzca al más alto conocimiento. 286Es decir, a la nada.» 287 En todos estos pasajes donde he traducido ciencia, dice lord Byron Knowledge, conocimiento; el francés science y el alemán Wissenschaft al que muchos enfrentan la wisdom sagesse francesa y Weischeit alemana- la sabiduría. 288 «La ciencia llega, pero la sabiduría se retarda, y trae un pecho cargado, lleno de triste experiencia, avanzando hacia la quietud de su descanso.» 289 Knowledge comes, but wisdom lingers, and he bears a ladem, breast. Full of sad experience, moving toward the stillness of his rest, dice otro lord, Tennyson, en su Locksley Hall. 290¿Y qué es esta sabiduría, que hay que ir a buscarla principalmente en los poetas, dejando la ciencia? 291 Está bien que se diga, con Mattew Arnold -en su prólogo a los poemas de Wordsworth-, que la poesía es la realidad, y la filosofía la ilusión; la ! ")*! razón es siempre la razón, y la realidad la realidad, lo que se puede probar que existe fuera de nosotros, consuélenos o desespérenos. 292 No sé por qué tanta gente se escandalizó o hizo que se escandalizaba cuando Brunetiére volvió a proclamar la bancarrota de la ciencia. 293 Porque la ciencia, en cuanto sustitutiva de la religión, y la razón en cuanto sustitutiva de la fe, han fracasado siempre. 294 La ciencia podrá satisfacer, y de hecho satisface en una medida creciente, nuestras crecientes necesidades lógicas o mentales, nuestro anhelo de saber y conocer la verdad, pero la ciencia no satisface nuestras necesidades afectivas y volitivas, nuestra hambre de inmortalidad, y lejos de satisfacerla, contradícela. 295 La verdad racional y la vida están en contraposición. 296 ¿Y hay acaso otra verdad que la verdad racional? 297 Debe quedar, pues, sentado que la razón, la razón humana, dentro de sus límites no sólo no prueba racionalmente que el alma sea inmortal y que la conciencia humana haya de ser en la serie de los tiempos venideros indestructible, sino que prueba más bien, dentro de sus límites, repito, que la conciencia individual no puede persistir después de la muerte del organismo corporal de que depende. 298 Y esos límites, dentro de los cuales digo que la razón humana prueba esto, son 299 los límites de la racionalidad, de lo que conocemos comprobadamente. Fuera de ellos está lo irracional, que es lo mismo que se llame sobrerracional que infrarracional o contrarracional; fuera de ellos está el absurdo de Tertuliano, el imposible del certum est, quia impossibile est. 300 Y este absurdo no puede apoyarse sino en la más absoluta incertidumbre. 301 La disolución racional termina en disolver la razón misma, en el más absoluto escepticismo, en el fenomenalismo de Hume o en el contingencialismo absoluto de los Stuart Mill, este el más consecuente y lógico de los positivistas. 302 El triunfo supremo de la razón, facultad 308 analítica, esto es, destructiva y disolvente, es poner en duda su propia validez. 303 Cuando hay una úlcera en el estómago acaba este por digerirse a sí mismo. 304Y la razón acaba por destruir la validez inmediata y absoluta del concepto de verdad y del concepto de necesidad. relativos; ni hay verdad ni hay necesidad absoluta. 305 309 Ambos conceptos son 306 Llamamos verdadero a un concepto que concuerda con el sistema general de nuestros conceptos todos; verdadera a una percepción que no contradice al sistema de nuestras percepciones; verdad es coherencia. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 307 Y en cuanto al sistema 301. La disolución racional termina en disolver [...] éste el más consecuente y lógico de los positivistas. | Denomínese al fenómeno ricorso, reacción, oscilación, sístole, con el mote que se quiera, en el fondo es sencillísimo. Las generaciones que predicaron y arraigaron el positivismo agnostico han sido generaciones educadas en fé espiritualista y religiosa, y por debajo de sus negaciones y abstenciones intelectuales llevaban, como fondo vivificante, la oculta energía de la fe que abandonaron. (a) EMS (16-17) 302-304. El triunfo supremo de la razón [...] del concepto de verdad y del concepto de necesidad. | He llegado a conocer una enfermedad terrible semejante en el orden del espíritu a lo que en el orden de la materia sea una autofagia, un estómago ulcerado, que, destruido el epitelio, empieza a digerirse a sí mismo. N (42) ! "*+! todo, al conjunto, como no hay fuera de él nada para nosotros conocido, no cabe decir que sea o no verdadero. 308 El universo es imaginable que sea en sí, fuera de nosotros, muy de otro modo que como a nosotros se nos aparece, aunque esta sea una suposición que carezca de todo sentido racional. 309 Y en cuanto a la necesidad, ¿la hay absoluta? 310 Necesario no es sino lo que es y en cuanto es, pues en otro sentido más trascendental, ¿qué necesidad absoluta, lógica, independiente del hecho de que el universo existe, hay de que haya universo ni cosa alguna? 311 El absoluto relativismo, que no es ni más ni menos que el escepticismo, en el sentido más moderno de esta denominación, es el triunfo supremo de la razón raciocinante. 312 Ni el sentimiento logra hacer del consuelo verdad, ni la razón logra hacer de la verdad consuelo; pero esta segunda, la razón, procediendo sobre la verdad misma, sobre el concepto mismo de realidad, logra hundirse en un profundo escepticismo. 313 Y en este abismo encuéntrase el escepticismo racional con la desesperación sentimental, y de este encuentro es de donde sale una base -¡terrible base!- de consuelo.310 314Vamos a verlo. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 312-313. Ni el sentimiento logra hacer del consuelo verdad [...] una base -¡terrible base!- de consuelo. | Mis estudios y meditaciones de filosofía y teología me fueron llevando poco á poco al más radical fenomenalismo, y llegué á ser, con la razón, completamente ateo. Y entonces, cuando mi alma peregrinaba por los terribles páramos del intelectualismo, sabía decir que no debemos buscar más consuelo que la ren*verdad >razon<, llamando verdad á la razón. Pero fuí hundiéndome poco á poco en la íntima desesperación, en el abismo racional, en el sentimiento del vacío de todo lo existente, y del fondo mismo de la miseria surgió la verdad, el consuelo. T (pp. 4-5) Los que buscan hacer de la verdad consuelo se llegan un día a preguntar: el consuelo, ¿no es verdad? Vamos a estudiarlo, a descifrarlo, vamos a someter ese Jesús a los medios de nuestra investigación y al potro de nuestra crítica. ¡Hermoso problema! JyS (13) ! "*"! CAPITOLO VI EN EL FONDO DEL ABISMO 1 2 3 Parce unicae spei totius orbis. (TERTULLIANUS, Adversus Marcionem, 5.) Ni, pues, el anhelo vital de inmortalidad humana halla confirmación racional, ni tampoco la razón nos da aliciente y consuelo de vida y verdadera finalidad a esta. 4Mas he aquí que en el fondo del abismo se encuentran la desesperación sentimental y volitiva y el escepticismo ra cional frente a frente, y se abrazan como hermanos. 5Y va a ser de este abrazo, un abrazo trágico, es decir, entrañadamente amoroso, de donde va a brotar manantial de vida, de una vida seria y terrible. 6El escepticismo, la incertidumbre, última posición a que llega la razón ejerciendo su análisis sobre sí misma, sobre su propia validez, es el fundamento sobre que la desesperación del sentimiento vital ha de fundar su esperanza. 7 Tuvimos que abandonar, desengañados, la posición de los que quieren hacer verdad racional y lógica del consuelo, pretendiendo probar su racionalidad, o por lo menos su no irracionalidad, y tuvimos también que abandonar la posición de los que querían hacer de la verdad racional consuelo y motivo de vida. 8Ni una ni otra de ambas posiciones nos satisfacía. 9La una riñe con nuestra razón, la otra con nuestro sentimiento. 10 La paz entre estas dos potencias se hace imposible, y hay que vivir de su guerra. 11Y hacer de esta, de la guerra misma, condición de nuestra vida espiritual. 12 Ni cabe aquí tampoco ese expediente repugnante y grosero que han inventado los políticos, más o menos parlamentarios, y a que llaman una fórmula de concordia, de que no resulten ni vencedores ni vencidos. 13 No hay aquí lugar para el pasteleo. 14 Tal vez una razón degenerada y cobarde llegase a proponer tal fórmula de arreglo, porque en rigor la razón vive de fórmulas; pero la vida, que es informulable; la vida, que vive y quiere vivir siempre, no acepta fórmulas. 15Su única fórmula es: o todo o nada. 16El sentimiento no transige con términos medios. 17 Initium sapientiae timor Domini, se dijo queriendo acaso decir timor mortis, o tal vez timor vitae, que es lo mismo. 18Siempre resulta que el principio de la sabiduría es el temor. 19 20 Y ese escepticismo salvador de que ahora voy a hablaros, ¿puede decirse que sea la duda? Es la duda, sí, pero es mucho más que la duda. 21 La duda es con frecuencia una cosa muy fría, muy poco vitalizadora, y, sobre todo, una cosa algo artificiosa, especialmente desde que Descartes ! "*#! la rebajó al papel de método. 23 22 El conflicto entre la razón y la vida es algo más que una duda. Porque la duda con facilidad se reduce a ser un elemento cómico. 24 La duda metódica de Descartes es una duda cómica, una duda puramente teórica, provisional, es decir, la duda de uno que hace como que duda sin dudar. 25Y porque era una duda de estufa, el hombre que concluyó que existía de que pensaba, no aprobaba «esos humores turbulentos (brouillons) e inquietos que, no siendo llamados ni por su nacimiento ni por su fortuna al manejo de los negocios públicos, no dejan de hacer siempre en idea alguna nueva reforma», y se dolía de que pudiera haber algo de esto en su escrito. 26 No; él, Descartes, no se propuso sino «reformar sus propios pensamientos y edificar sobre un cimiento suyo propio». 27 Y se propuso no recibir por verdadero nada que no conociese evidentemente ser tal, y destruir todos los prejuicios e ideas recibidas para construirse de nuevo su morada intelectual. 28 Pero «como no basta, antes de comenzar a reconstruir la casa en que se mora, abatirla y hacer provisión de materiales y arquitectos, o ejercitarse uno mismo en la arquitectura... sino que es menester haberse provisto de otra en que pueda uno alojarse cómodamente mientras trabaja», se formó una moral provisional une morale de provision-, cuya primera ley era obedecer a las costumbres de su país, y retener constantemente la religión en que Dios le hizo la gracia de que se hubiese instruido desde su infancia, gobernándose en todo según las opiniones más moderadas. 29 Vemos, sí, una religión provisional, y hasta un Dios provisional. 30Y escogía las opiniones más moderadas, por ser «las más cómodas para la práctica». 31Pero más vale no seguir. 32 Esta duda cartesiana, metódica o teórica, esta duda filosófica de estufa, no es la duda, no es el escepticismo, no es la incertidumbre de que aquí os hablo, ¡no! 33Esta otra duda es una duda de pasión, es el eterno conflicto entre la razón y el sentimiento, la ciencia y la vida, la lógica y la biótica. 34 Porque la ciencia destruye el concepto de personalidad, reduciéndolo a un complejo en continuo flujo de momento, es decir, destruye la base misma sentimental de la vida del espíritu, que, sin rendirse, se resuelve contra la razón. 35 Y esta duda no puede valerse de moral alguna de provisión, sino que tiene que fundar su moral, como veremos, sobre el conflicto mismo, una moral de batalla, y tiene que fundar sobre sí misma la religión. 36Y habita una casa que está destruyendo de continuo y a la que de continuo hay que restablecer. 37 De continuo la voluntad, quiero decir, la voluntad de no morirse nunca, la irresignación a la muerte, fragua la morada de la vida, y de continuo la razón la está abatiendo con vendavales y chaparrones. 38 Aún hay más, y es que en el problema concreto vital que nos interesa, la razón no toma posición alguna. 39En rigor, hace algo peor aún que negar la inmortalidad del alma, lo cual sería una solución, y es que desconoce el problema como el deseo vital nos lo presenta. ! "*$! 40 En el sentido racional y lógico del término problema, no hay tal problema. 41Esto de la inmortalidad del alma, de la persistencia de la conciencia individual, no es racional, cae fuera de la razón. 42 Es como problema, y aparte de la solución que se le dé, irracional. 43Racionalmente carece de sentido hasta el plantearlo. absoluta. 45 44 Tan inconcebible es la inmortalidad del alma, como es, en rigor, su mortalidad Para explicarnos el mundo y la existencia -y tal es la obra de la razón-, no es menester supongamos ni que es mortal ni inmortal nuestra alma. 46 Es, pues, una irracionalidad el solo planteamiento del supuesto problema. 47 Oigamos al hermano Kierkegaard, que nos dice: «Donde precisamente se muestra el riesgo de la abstracción, es respecto al problema de la existencia cuya dificultad resuelve soslayándola, jactándose luego de haberlo explicado todo. 48 Explica la inmortalidad en general, y lo hace egregiamente, identificándola con la eternidad; con la eternidad, que es esencialmente el medio del pensamiento. 49Pero que cada hombre singularmente existente sea inmortal, que es precisamente la dificultad, de esto no se preocupa la abstracción, no le interesa; pero la dificultad de la existencia es el interés de lo existente: al que existe le interesa infinitamente existir. 50 El pensamiento abstracto no le sirve a mi inmortalidad sino para matarme en cuanto individuo singularmente existente, y así hacerme inmortal, poco más o menos a la manera de aquel doctor de Holberg, que con su medicina quitaba la vida al paciente, pero le quitaba también la fiebre. 51 Cuando se considera un pensador abstracto que no quiere poner en claro y confesar la relación que hay entre su pensamiento abstracto y el hecho de que él sea existente, nos produce, por excelente y distinguido que sea, una impresión cómica, porque corre el riesgo de dejar de ser hombre. 52 Mientras un hombre efectivo, compuesto de infinidad y de finitud, tiene su efectividad precisamente en mantener juntas esas dos y se interesa infinitamente en existir, un semejante pensador abstracto es un ser doble, un ser fantástico que vive en el puro ser de la abstracción, y a las veces la triste figura de un profesor que deja a un lado aquella esencia abstracta como deja el bastón. 53 Cuando se lee la vida de un pensador así -cuyos escritos pueden ser excelentes-, tiembla uno ante la idea de lo que es ser hombre. 54Y cuando se lee en sus escritos que el pensar y el ser son una misma cosa, se piensa, pensando en su vida, que ese ser que es idéntico al pensar, no es precisamente ser hombre» (Afsluttende uvidenskabelig Efterskrift, capítulo 3). 55 ¡Qué intensa pasión, es decir, qué verdad encierra esta amarga invectiva contra Hegel, prototipo del racionalista, que nos quita la fiebre quitándonos la vida, y nos promete, en vez de una inmortalidad concreta, una inmortalidad abstracta, y no concreta, el hambre de ella que nos consume! 56Podrá decirse, sí, que muerto el perro se acabó la rabia, y que después que me muera no me atormentará ya esta hambre de no morir, y que el miedo a la muerte, o mejor dicho, a la nada, es ! "*%! un miedo irracional, pero... 57Sí, pero... 58E pur si muove! 59Y seguirá moviéndose. 60¡Como que es la fuente de todo movimiento! 61 Mas no creo esté del todo en lo cierto el hermano Kierkegaard, porque el mismo pensador abstracto, o pensador de abstracciones, piensa para existir, para no dejar de existir, o tal vez piensa para olvidar que tendrá que dejar de existir. 62 Tal es el fondo de la pasión del pensamiento abstracto. 63Y acaso Hegel se interesaba tan infinitamente como Kierkegaard en su propia, concreta y singular existencia, aunque para mantener el decoro profesional del filósofo del Estado lo ocultase. 64Exigencias del cargo. 65 La fe en la inmortalidad es irracional. mutuamente. 67 66 Y, sin embargo, fe, vida y razón se necesitan Ese anhelo vital no es propiamente problema, no puede tomar estado lógico, no puede formularse en proposiciones racionalmente discutibles, pero se nos plantea, como se nos plantea el hambre. 68 Tampoco un lobo que se echa sobre su presa para devorarla, o sobre la loba para fecundarla, puede plantearse racionalmente y como problema lógico su empuje. son dos enemigos que no pueden sostenerse el uno sin el otro. 70 69 Razón y fe Lo irracional pide ser racionalizado, y la razón sólo puede operar sobre lo irracional. 71Tienen que apoyarse uno en otro y asociarse. 72Pero asociarse en lucha, ya que la lucha es un modo de asociación. 73 En el mundo de los vivientes, la lucha por la vida, the struggle for life, establece una asociación, y estrechísima, no ya entre los que se unen para combatir a otro, sino entre los que se combaten mutuamente. 74 ¿Y hay, acaso, asociación más íntima que la que se traba entre el animal que se come a otro y este que es por él comido, entre el devorador y el devorado? 75Y si esto se ve claro en la lucha de los individuos entre sí, más claro se ve en la de los pueblos. 76La guerra ha sido siempre el más completo factor de progreso, más aún que el comercio. 77 Por la guerra es como aprenden a conocerse y, como consecuencia de ello, a quererse vencedores y vencidos. 78 Al cristianismo, a la locura de la cruz, a la fe irracional en que el Cristo había resucitado para resucitarnos, le salvó la cultura helénica racionalista, y a esta el cristianismo. 79Sin este, sin el cristianismo, habría sido imposible el Renacimiento; sin el Evangelio, sin san Pablo, los pueblos que habían atravesado la Edad Media no habrían comprendido ni a Platón ni a Aristóteles. 80 Una 81 tradición puramente religiosa. Suele discutirse si la Reforma nació como dije, del Renacimiento, o en protesta a este, y cabe decir que las dos cosas, porque el hijo nace siempre en protesta contra el padre. 82 Dícese también que fueron los clásicos griegos redivivos los que volvieron a hombres como Erasmo, a san Pablo y al cristianismo primitivo, el más irracional; pero cabe retrucar diciendo que fue san Pablo, que fue la irracionalidad cristiana que sustentaba su teología católica, lo que les volvió a los clásicos. 83«El cristianismo es lo que ha llegado a ser -se dice- sólo por su alianza con la Antigüedad, mientras entre los coptos y etíopes no es sino bufonada. 84El Islam se desenvolvió bajo ! "*&! el influjo de la cultura persa y griega, y bajo el de los turcos se ha convertido en destructora incultura». 85 Salimos de la Edad Media y de su fe tan ardiente como en el fondo desesperada y no sin íntimas y hondas incertidumbres, y entramos en la edad del racionalismo, no tampoco sin sus incertidumbres. 86La fe en la razón está expuesta a la misma insostenibilidad racional que toda otra fe. 87Y cabe decir con Roberto Browning, que «todo lo que hemos ganado con nuestra incredulidad es una vida de duda diversificada por la fe, en vez de una fe diversificada por la duda». 88 All we have gained then by our unbelief Is a life of doubt diversified by faith, For once of faith diversified by doubt. 89 90 (BISHOP BLOUGRAM's APOLOGY.) Y es que, como digo, si la fe, la vida, no se puede sostener sino sobre razón que la haga transmisible -y ante todo transmisible de mí a mí mismo, es decir, refleja y consciente-, la razón a su vez no puede sostenerse sino sobre fe, sobre vida, siquiera fe en la razón, fe en que esta sirve para algo más que para conocer, sirve para vivir. 91 Y, sin embargo, ni la fe es transmisible o racional, ni la razón es vital. 92 La voluntad y la inteligencia se necesitan, y a aquel viejo aforismo de nihil volitum quin praecognitum, no se quiere nada que no se haya conocido antes, no es tan paradójico como a primera vista parece retrucarlo diciendo nihil cognitum quin praevolitum, no se conoce nada que no se haya antes querido. 93 311 «El conocimiento mismo del espíritu como tal -escribe Vinet en su estudio sobre el libro de Cousin acerca de los Pensamientos de Pascal-, necesita del corazón. 94Sin el deseo de ver, no se ve; es una gran materialización de la vida y del pensamiento, no se cree en las cosas del espíritu.» 95Ya veremos que creer es, en primera instancia, querer creer. 312 !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 92. La voluntad y la inteligencia se necesitan [...] no se conoce nada que no se haya antes querido. STV Una cosa es el amor y otra el conocimiento de Dios, aunque en realidad no quepa amar sin conocer ni conocer sin amar. El viejo aforismo de que nada puede quererse sin haberlo antes conocido debe completarse diciendo que no puede conocerse sin haberlo tras||querido antes||, antes de conocerlo. Y es que el amor y el conocimiento se engendran el uno al otro. Hay que amar para conocer y hay que conocer para amar. / Y cual es el mejor camino? empezar por el conocimiento para ir al amor ó empezar por el amor para ir al conocimiento? El primer camino, por lo que hace á Dios, ha llevado á los hombres al endurecimiento de la desesperación. T (p. 1) 311 = AJH (19r) II Que es amor. Hay que amar para conocer y conocer para amar. sup[El que conoce por dentro, sus-] inf[tancialmente, compadece.] Nihil cognitum quin praevolitum. tras [Amar es compadecer El hombre quiere ser compadecido. El pobre. No dolor como mi dolor Amar es desesperarse. Amor y muerte. Amor sexual, perpetuar el dolor.] Conoc. sin amor, lógico, pasivo. PT (3) 95. Ya veremos que creer es, en primera instancia, querer creer. | ¡Quiero creer!, he aquí el principio del creer. JyS (50) ! "*'! 96 La voluntad y la inteligencia buscan cosas opuestas: aquella, absorber al mundo en nosotros, apropiárnoslo; y esta, que seamos absorbidos en el mundo. 97 ¿Opuestas? 98 ¿No son más bien una misma cosa? 99No, no lo son, aunque lo parezca. 100La inteligencia es monista o panteísta, la voluntad es monoteísta o egotista. 101 La inteligencia no necesita algo de ella en que ejercerse; se funde con las ideas mismas, mientras que la voluntad necesita materia. 102Conocer algo, es hacerme aquello que conozco, pero para servirme de ello, para dominarlo, ha de permanecer distinto a mí. 103 104 Filosofía y religión son enemigas entre sí, y por ser enemigas se necesitan una a otra. Ni hay religión sin alguna base filosófica ni filosofía sin raíces religiosas; cada una vive de su contraria. 105La historia de la filosofía es, en rigor, una historia de la religión. 106Y los ataques que a la religión se dirigen desde un punto de vista presunto científico o filosófico, no son sino ataques desde otro adverso punto de vista religioso. 107 «La colisión que ocurre entre la ciencia natural y la religión cristiana no lo es, en realidad, sino entre el instinto de la religión natural, fundido en la observación natural científica, y el valor de la concepción cristiana del universo, que asegura al espíritu su preeminencia en el mundo natural todo», dice Ritschl (Rechtfertigung and Versoehnung, III, capítulo 4.°, § 28). 108 Ahora, que ese instinto es el instinto mismo de racionalidad. 109 Y el idealismo crítico de Kant es de origen religioso, y para salvar a la religión es para lo que franqueó Kant los límites de la razón después de haberla en cierto modo disuelto en escepticismo. 110 El sistema de antítesis, contradicciones y antinomias sobre que construyó Hegel su idealismo absoluto, tiene su raíz y germen en Kant mismo, y esa raíz es una raíz irracional. 111 Ya veremos más adelante, al tratar de la fe, cómo esta no es en su esencia sino cosa de voluntad, no de razón, como creer es querer creer, y creer en Dios ante todo y sobre todo es querer que le haya. 112 313 Y así, creer en la inmortalidad del alma es querer que el alma sea inmortal, pero quererlo con tanta fuerza que esta querencia, atropellando a la razón, pasa sobre ella. 113Mas no sin represalia. 114 El instinto de conocer y el de vivir, o más bien de sobrevivir, entran en lucha. 115El doctor E. Mach, en su obra sobre El análisis de las sensaciones y la relación de lo fisico a lo psíquico (Die Analyse der Empfindungen and das Verhtitniss des Physischen zum Psychischen), nos dice en una nota (1. L., § 12), que también el investigador, el sabio, der Forscher, lucha en la batalla por la existencia, que también los caminos de la ciencia llevan a la boca, y que no es todavía sino un ideal en nuestras actuales conDicioNes sociales el pURo iNSTinTO De cOnOceR, der ReInE !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 111. Ya veremos más adelante, al tratar de la fe, cómo [...] y sobre todo es querer que le haya.313| ¡Quiero creer!, he aquí el principio del creer. JyS (50) ! "*(! ErkenNTNIsstrieb. 116 Y así será siempre, primum vivere, deinde philosophari, o mejor acaso primum supervivere o superesse. 117 Toda posición de acuerdo y de armonía persistente entre la razón y la vida, entre la filosofía y la religión, se hace imposible. 118Y la trágica historia del pensamiento humano no es sino de una lucha entre la razón y la vida, aquella empeñada en racionalizar a esta haciéndola que se resigne a lo inevitable, a la mortalidad; y esta, la vida, empeñada en vitalizar a la razón obligándola a que sirva de apoyo a sus anhelos vitales. 119 Y esta es la historia de la filosofía, inseparable de la historia de la religión. 120 El sentimiento del mundo, de la realidad objetiva, es necesariamente subjetivo, humano, antropomórfico. 121 Y siempre se levantará frente al racionalismo el vitalismo, siempre la voluntad se erguirá frente a la razón. 122 De donde el ritmo de la historia de la filosofía y la sucesión de períodos en que se impone la vida produciendo formas espiritualistas, y otros en que la razón se impone produciendo formas materializadas, aunque a una y otra clase de formas de creer se las disfrace con otros nombres. 123 Ni la razón ni la vida se dan por vencidas nunca. 124 Mas sobre esto volveremos en el próximo capítulo. 125 La consecuencia vital del racionalismo sería el suicidio. 126Lo dice muy bien Kierkegaard: «El suicidio es la consecuencia de la existencia del pensamiento puro... 127No elogiamos el suicidio, pero sí la pasión. 128 El pensador, por el contrario, es un curioso animal, que es muy inteligente a ciertos ratos del día; pero que por lo demás, nada tiene en común con el hombre» (Afsluttende uvidenskabelig Ebterskrigt, cap. 3, § 1). 129 Como el pensador no deja, a pesar de todo, de ser hombre, pone la razón al servicio de la vida, sépalo o no. 130 La vida engaña a la razón; y esta a aquella. 131 La filosofía escolástico- aristotélica al servicio de la vida, fraguó un sistema teológico-evolucionista de metafísica, al parecer racional, que sirviese de apoyo a nuestro anhelo vital. 132 Esa filosofía, base del sobrenaturalismo ortodoxo cristiano, sea católico o sea protestante, no era, en el fondo, sino una astucia de la vida para obligar a la razón a que la apoyase. 133Pero tanto la apoyó esta que acabó por pulverizarla. 134 He leído que el ex carmelita Jacinto Loyson decía poder presentarse a Dios tranquilo, pues estaba en paz con su conciencia y con su razón. 135¿Con qué conciencia? 136¿Con la religiosa? 137 Entonces no lo comprendo. 138 Y es que no cabe servir a dos señores, y menos cuando estos dos señores, aunque firmen treguas y armisticios y componendas, son enemigos por ser opuestos sus intereses. 139 No faltará a todo esto quien diga que la vida debe someterse a la razón, a lo que contestaremos que nadie debe lo que no puede, y la vida no puede someterse a la razón. ! "*)! 140 «Debe, luego puede», replicará algún kantiano. 142 141 Y le contrarreplicaremos: «No puede, luego no debe.» Y no lo puede porque el fin de la vida es vivir y no lo es comprender. 143 Ni ha faltado quien haya hablado del deber religioso de resignarse a la mortalidad. ya el colmo de la aberración y de la insinceridad. oponiéndonos la veracidad. 146 145 144 Es Y a esto de la sinceridad vendrá alguien Sea, mas ambas cosas pueden muy bien conciliarse. 147La veracidad, el respeto a lo que creo ser lo racional, lo que lógicamente llamamos verdad, me mueve a afirmar también que no me resigno a esa otra afirmación y que protesto contra su validez. 148 Lo que siento es una verdad, tan verdad por lo menos como lo que veo, toco, oigo y se me demuestra -yo creo que más verdad aún-, y la sinceridad me obliga a no ocultar mis sentimientos. 149 Y la vida que se defiende, busca el flaco de la razón y lo demuestra en el escepticismo, y se agarra de él y trata de salvarse asida a tal agarradero. 150Necesita de la debilidad de su adversaria. 151 Nada es seguro; todo está en el aire. 152Y exclama, henchido de pasión, Lamennais (Essai sur l'indifférence en matiére de religion, III partie, chap. 67): «Qué, ¿iremos a hundirnos, perdida toda esperanza y a ojos ciegas, en las mudas honduras de un escepticismo universal? 153¿Dudaremos si pensamos, si sentimos, si somos? 154No nos lo deja la naturaleza; oblíganos a creer hasta cuando nuestra razón no está convencida. vedadas. 156 155 La certeza absoluta y la duda absoluta nos están igualmente Flotamos en un medio vago entre dos extremos, como entre el ser y la nada, porque el escepticismo completo sería la extinción de la inteligencia y la muerte total del hombre. 157 Pero no le es dado anonadarse; hay en él algo que resiste invenciblemente la destrucción, yo no sé qué fe vital, indomable hasta para su voluntad misma. 158Quiéralo o no, es menester que crea, porque tiene que obrar, porque tiene que conservarse. 159Su razón, si no escuchase más que a ella, enseñándole a dudar de todo y de sí misma, la reduciría a un estado de inacción absoluta; perecería aun antes de haberse podido probar a sí mismo que existe.» 160 No es, en rigor, que la razón nos lleve al escepticismo absoluto, ¡no! 161 La razón no me lleva ni puede llevarme a dudar de que exista; adonde la razón me lleva es al escepticismo vital; mejor aún, a la negación vital; no ya a dudar, sino a negar que mi conciencia sobreviva a mi muerte. 162 El escepticismo vital viene del choque entre la razón y el deseo. 163 Y de este choque, de este abrazo entre la desesperación y el escepticismo, nace la santa, la dulce, la salvadora incertidumbre, nuestro supremo consuelo. 164 La certeza absoluta completa, de que la muerte es un completo y definitivo e irrevocable anonadamiento de la conciencia personal, una certeza de ello como estamos ciertos de que los tres ángulos de un triángulo valen dos rectos, o la certeza absoluta, completa, de que nuestra conciencia personal se prolonga más allá de la muerte en estas o las otras condiciones haciendo sobre todo entrar en ello la extraña y adventicia añadidura del premio o del castigo eternos, ambas certezas nos ! "**! harían igualmente imposible la vida. 165 En un escondrijo, el más recóndito del espíritu, sin saberlo acaso el mismo que cree estar convencido de que con la muerte acaba para siempre su conciencia personal, su memoria, en aquel escondrijo le queda una sombra, una vaga sombra de sombra de incertidumbre, y mientras él se dice: «ea, ¡a vivir esta vida pasajera, que no hay otra!», el silencio de aquel escondrijo le dice: «¡quién sabe!...». 166 Cree acaso no oírlo, pero lo oye. 167 Y en un repliegue también del alma del creyente que guarde más fe en la vida futura, hay una voz tapada, voz de incertidumbre, que le cuchichea al oído espiritual: «¡quién sabe!...». 168Son estas voces acaso como el zumbar de un mosquito cuando el vendaval brama entre los árboles del bosque; no nos damos cuenta de ese zumbido y, sin embargo, junto con el fragor de la tormenta, nos llega al oírlo. 169 ¿Cómo podríamos vivir, si no, sin esa incertidumbre? 170 El «¿y si hay?» y el «¿y si no hay?» son las bases de nuestra vida íntima. 171 Acaso haya racionalista que nunca haya vacilado en su convicción de la mortalidad del alma, y vitalista que no haya vacilado en su fe en la inmortalidad; pero eso sólo querrá decir, a lo sumo, que así como hay monstruos, hay también estúpidos afectivos o de sentimiento, por mucha inteligencia que tengan, y estúpidos intelectuales por mucha que su virtud sea. 172 Mas en lo normal no puedo creer a los que me aseguren que nunca, ni en un parpadeo el más fugaz, ni en las horas de mayor soledad y tribulación se les ha aflorado a la conciencia ese rumor de la incertidumbre. 173No comprendo a los hombres que me dicen que nunca les atormentó la perspectiva del allende la muerte, ni el anonadamiento propio les inquieta; y por mi parte no quiero poner paz entre mi corazón y mi cabeza, entre mi fe y mi razón; quiero más bien que se peleen entre sí. 174 En el capítulo IX del Evangelio, según Marcos, se nos cuenta cómo llevó uno a Jesús a ver a su hijo preso de un espíritu mudo, que dondequiera le cogiese le despedazaba, haciéndole echar espumarajos, crujir los dientes e irse secando, por lo cual quería presentárselo para que lo curara. 175 Y el Maestro, impaciente de aquellos hombres que no querían sino milagros y señales, exclamó: «¡Oh, generación infiel! 176¿Hasta cuándo estaré con vosotros? 177¿Hasta cuándo os tengo de sufrir? 178¡Traédmele!» (v. 19), y se lo trajeron; le vio el Maestro revolcarse por tierra, preguntó a su padre cuánto tiempo hacía de aquello, contestóle este que desde que era su hijo niño, y Jesús le dijo: «Si puedes creer, al que cree todo es posible» (v. 23). 179 Y entonces el padre del epiléptico o endemoniado contestó con estas preñadas y eternas palabras: «¡Creo, Señor, ayuda mi incredulidad!» 3#!*(1v,, /1v'#(, 6+5v.(#, *5v $j2#!*#v$ µ+1 (v. 24). 180 ¡Creo, Señor: socorre a mi incredulidad! 181 Esto podrá parecer una contradicción, pues si cree, si confía, ¿cómo es que pide al Señor que venga en socorro de su falta de confianza? 182Y, sin embargo, esa contradicción es lo que da todo su más hondo valor humano a ese grito de las entrañas del padre del endemoniado. ! 183 Su fe es una fe a base de incertidumbre. #++! 184 Porque creer, es decir, porque quiere creer, porque necesita que su hijo se cure, pide al Señor que venga en ayuda de su incredulidad, de su duda de que tal curación puede hacerse. 185Tal es la fe humana; tal fue la heroica fe que Sancho Panza tuvo en su amo el caballero Don Quijote de la Mancha, según creo haberlo mostrado en mi Vida de Don Quijote y Sancho, una fe a base de incertidumbre, de duda. 186Y es que Sancho Panza era hombre, hombre entero y verdadero y no era estúpido, pues sólo siéndolo hubiese creído, sin sombra de duda, en las locuras de su amo. 187Que a su vez tampoco creía en ellas de ese modo, pues tampoco, aunque loco, era estúpido. mi susomentada obra creo haber mostrado. 189 188 Era, en el fondo, un desesperado, como en esa Y por ser un heroico desesperado, el héroe de la desesperación íntima y resignada, por eso es el eterno dechado de todo hombre cuya alma es un campo de batalla entre la razón y el deseo inmortal. 190Nuestro señor Don Quijote es el ejemplar del vitalista cuya fe se basa en incertidumbre, y Sancho lo es del racionalismo que duda de su razón. 191 Atormentado Augusto Hermann Francke por torturadoras dudas, decidió invocar a Dios, a un Dios en que no creía ya, o en quien más bien creía no creer, para que tuviese piedad de él, del pobre pietista Francke, si es que existía. 192Y un estado análogo de ánimo es el que me inspiró aquel soneto titulado «La oración del ateo», que en mi Rosario de sonetos líricos figura y termina así: Sufro yo a tu costa, Dios no existente, pues si tú existieras existiría yo también de veras. 193 Sí, si existiera el Dios garantizador de nuestra inmortalidad personal, entonces existiríamos nosotros de veras. 194¡Y si no, no! 195 Aquel terrible secreto, aquella voluntad oculta de Dios que se traduce en la predestinación, aquella idea que dictó a Lutero su servum arbitrium y da su trágico sentido al calvinismo, aquella duda en la propia salvación, no es en el fondo sino la incertidumbre, que aliada a la desesperación forma base de la fe. 196 La fe -dicen algunos- es no pensar en ello; entregarse confiadamente a los brazos de Dios, los secretos de cuya providencia son inescudriñables. pero también la infidelidad es no pensar en ello. 198 197 Sí, Esa fe absurda, esa fe sin sombra de incertidumbre, esa fe de estúpidos carboneros, se une a la incredulidad absurda, a la incredulidad sin sombra de incertidumbre, a la incredulidad de los intelectuales atacados de estupidez afectiva, para no pensar en ello. 199 ¿Y qué sino la incertidumbre, la duda, la voz de la razón era el abismo, el gouffre terrible ante que temblaba Pascal? 200 Y ello fue lo que le llevó a formular su terrible sentencia: il faut s'abétir, ¡hay que entontecerse! ! #+"! 201 Todo el jansenismo, adaptación católica del calvinismo, lleva este mismo sello. 202 Aquel Port Royal que se debía a un vasco, el abate de Saint-Cyram, vasco como Iñigo de Loyola, y como el que estas líneas traza, lleva siempre en su fondo un sedimento de desesperación religiosa, de suicidio de la razón. 203También íñigo la mató en la obediencia. 204 Por desesperación se afirma, por desesperación se niega, y por ella se abstiene uno de afirmar y de negar. 205Observad a los más de nuestros ateos, y veréis lo que son por rabia, por rabia de no poder creer que haya Dios. 206 Son enemigos personales de Dios. 207 Han sustantivado y personalizado la Nada, y su no Dios es un Antidiós. 208 Y nada hemos de decir de aquella frase abyecta e innoble de «si no hubiera Dios habría que inventarlo». 209 Esta es la expresión del inmundo escepticismo de los conservadores, de los que estiman que la religión es un resorte de gobierno, y cuyo interés es que haya en la otra vida infierno para los que aquí se oponen a sus intereses mundanos. 210 Esa repugnante frase de saduceo es digna del incrédulo adulador de poderosos a quien se atribuye. 211 No, no es ese el hondo sentido vital. 212 No se trata de una policía trascendente, no de asegurar el orden -¡vaya un orden!- en la tierra con amenazas de castigos y halagos de premios eternos después de la muerte. 213Todo esto es muy bajo, es decir, no más que política, o si se quiere ética. 214Se trata de vivir. 215 Y la más fuerte base de la incertidumbre, lo que más hace vacilar nuestro deseo vital, lo que más eficacia da a la obra disolvente de la razón, es el ponernos a considerar lo que podría ser una vida del alma después de la muerte. 216Porque aun venciendo, por un poderoso esfuerzo de fe, a la razón que nos dice y enseña que el alma no es sino una función del cuerpo organizado, queda luego el imaginar nos que pueda ser una vida inmortal y eterna del alma. 217En esta imaginación las contradicciones y los absurdos se multiplican y se llega, acaso, a la conclusión de Kierkegaard, y es que si es terrible la mortalidad del alma, no menos terrible es su inmortalidad. 218 Pero vencida la primera dificultad, la única verdadera, vencido el obstáculo de la razón, ganada la fe, por dolorosa y envuelta en incertidumbre que esta sea, de que ha de persistir nuestra conciencia personal después de la muerte, ¿qué dificultad, qué obstáculo hay en que nos imaginemos esa persistencia a medida de nuestros deseos? 219 Sí, podemos imaginárnosla como un eterno rejuvenecimiento, como un eterno acrecentarnos e ir hacia Dios, hacia la Conciencia Universal, sin alcanzarle nunca, podemos imaginárnosla... 220 ¿Quién pone trabas a la imaginación, una vez ha roto la cadena de lo racional? 221 Ya sé que me pongo pesado, molesto, tal vez tedioso; pero todo es menester. 222 Y he de repetir una vez más que no se trata ni de policía trascendente, ni de hacer de Dios una gran juez o guardia civil; es decir, no se trata de cielo y de infierno para apuntalar nuestra pobre moral ! #+#! mundana, ni se trata de nada egoísta y personal. 223No soy yo, es el linaje humano todo el que entra en juego; es la finalidad última de nuestra cultura toda. 224Yo soy uno, pero todos son yos. 225 ¿Recordáis el fin de aquel Cántico del gallo salvaje, que en prosa escribiera el desesperado Leopardi, el víctima de la razón, que no logró llegar a creer? 226«Tiempo llegará -diceen que este Universo y la Naturaleza misma se habrán extinguido. 227 Y al modo de grandísimos reinos e imperios humanos y sus maravillosas acciones que fueron en otra edad famosísimas, no queda hoy ni señal ni fama alguna, así igualmente del mundo entero y de las infinitas vicisitudes y calamidades de las cosas creadas no quedará ni un solo vestigio, sino un silencio desnudo y una quietud profundísima llenarán el espacio inmenso. 228 Así este arcano admirable y espantoso de la existencia universal, antes de haberse declarado o dado a entender, se extinguirá y perderáse.» 229A lo cual llaman ahora, como un término científico y muy racionalista, la entropía. ¿no? 231 230 Muy bonito, Spencer inventó aquello del homogéneo primitivo, del cual no se sabe cómo pudo brotar heterogeneidad alguna. 232 Pues bien; esto de la entropía es una especie de homogéneo último, de estado de perfecto equilibrio. 233Para una alma ansiosa de vida, lo más parecido a la nada que puede darse. * 234 He traído aquí al lector que ha tenido la paciencia de leerme al través de una serie de dolorosas reflexiones, y procurando siempre dar a la razón su parte y dar también su parte al sentimiento. 235 No he querido callar lo que callan otros; he querido poner al des nudo, no ya mi alma, sino el alma humana, sea ella lo que fuere y esté o no destinada a desaparecer. 236 Y hemos llegado al fondo del abismo, al irreconciliable conflicto entre la razón y el sentimiento vital. 237 Y llegado aquí os he dicho que hay que aceptar el conflicto como tal y vivir de él. 238Ahora me queda el exponeros cómo, a mi sentir y hasta a mi pensar, esa desesperación puede ser base de una vida vigorosa, de una acción eficaz, de una ética, de una estética, de una religión y hasta de una lógica. 239 Pero en lo que va a seguir habrá tanto de fantasía como de raciocinio; es decir, mucho más. 240 No quiero engañar a nadie ni dar por filosofía lo que acaso no sea sino poesía o fantasmagoría, mitología en todo caso. 241 El divino Platón, después que en su diálogo Fedón discutió la inmortalidad del alma -una inmortalidad ideal, es decir, mentirosa- lanzóse a exponer los mitos sobre la otra vida, diciendo que se debe también mitologizar. 242 Vamos, pues, a mitologizar. 243 El que busque razones, lo que estrictamente llamamos tales, argumentos científicos, consideraciones técnicamente lógicas, puede renunciar a seguirme. 244 ! En lo que de estas reflexiones sobre el sentimiento trágico resta, voy a pescar la atención del #+$! lector a anzuelo desnudo, sin cebo; el que quiera picar que pique, mas yo a nadie engaño. 245Sólo al final pienso recogerlo todo y sostener que esta desesperación religiosa que os decía, y que no es sino el sentimiento mismo trágico de la vida, es, más o menos velada, el fondo mismo de la conciencia de los individuos y de los pueblos cultos de hoy en día, es decir, de aquellos individuos y de aquellos pueblos que no padecen ni de estupidez intelectual ni de estupidez sentimental. 246 Y es ese sentimiento la fuente de las hazañas heroicas. 247 Si en lo que va a seguir os encontráis con apotegmas arbitrarios, con transiciones bruscas, con soluciones de continuidad, con verdaderos saltos mortales del pensamiento, no os llaméis a engaño. 248 Vamos a entrar si es que queréis acompañarme en un campo de contradicciones entre el sentimiento y el raciocinio, y teniendo que servirnos del uno y del otro. 249Lo que va a seguir no me ha salido de la razón, sino de la vida, aunque para transmitíroslo tengo en cierto modo que racionalizarlo. 250 Lo más de ello no puede reducirse a teoría o sistema lógico, pero como Walt Whitman, el enorme poeta yanqui, os encargo que no se funde escuela o teoría sobre mí. 251 I charge that there be no theory or school founded out of me. 252 253 Ni son las fantasías que han de seguir mías, ¡no! (MYSELF AND MINE.) 254 Son también de otros hombres, no precisamente de otros pensadores, que me han precedido en este valle de lágrimas y han sacado fuera su vida y la han expresado. 255 Su vida, digo, y no su pensamiento sino en cuanto era pensamiento de vida; pensamiento a base irracional. 256 ¿Quiere esto decir que cuanto vamos a ver, los esfuerzos de lo irracional por expresarse, carece de toda racionalidad, -de todo valor objetivo? 257 No; lo absoluto, lo irrevocablemente irracional e inexpresable, es intransmitible. 258Pero lo contrarracional, no. 259Acaso no hay modo de racionalizar lo irracional; pero lo hay de racionalizar lo contrarracional y es tratando de exponerlo. 260 Como sólo es inteligible, de veras inteligible, lo racional; como lo absurdo está condenado, careciendo como carece de sentido, a ser intransmitible, veréis que cuando algo que parece irracional o absurdo logra uno expresarlo y que se lo entiendan, se resuelve en algo racional siempre, aunque sea en la negación de lo que se afirma. 261 Los más locos ensueños de la fantasía tienen algún fondo de razón, y quién sabe si todo cuanto puede imaginarse un hombre no ha sucedido, sucede o sucederá alguna vez en uno o en otro mundo. 262 Las combinaciones posibles son acaso infinitas. es posible. ! #+%! 263 Sólo falta saber si todo lo imaginable 264 Se podrá también decir, y con justicia, que mucho de lo que voy a exponer es repetición de ideas, cien veces expuestas antes y otras cien refutadas; pero cuando una idea vuelve a repetirse, es que, en rigor, no fue de veras refutada. 265 No pretendo la novedad de las más de estas fantasías, como no pretendo tampoco, ¡claro está!, el que no hayan resonado antes que la mía voces dando al viento las mismas quejas. 266Pero el que pueda volver la misma eterna queja, saliendo de otra boca, sólo quiere decir que el dolor persiste. 267 Y conviene repetir una vez más las mismas eternas lamentaciones, las que eran ya viejas en tiempo de Job y del Eclesiastés, y aunque sea repetirlas con las mismas palabras, para que vean los progresistas que eso es algo que nunca muere. 268 El que, haciéndose propio el vanidad de vanidades de Eclesiastés, o las quejas de Job, las repite aun al pie de la letra, cumple una obra de advertencia. 269Hay que estar repitiendo de continuo el memento mori. 270 ¿Para qué? -diréis -. Aunque sólo sea para que se irriten algunos y vean que eso no ha muerto, que eso, mientras haya hombres, no puede morir; para que se convenzan de que subsisten hoy, en el siglo XX, todos los siglos pasados y todos ellos vivos. 271Cuando hasta un supuesto error vuelve, es, creédmelo, que no ha dejado de ser verdad en parte, como cuando uno reaparece es que no murió del todo. 272 Sí, ya sé que otros han sentido antes que yo lo que yo siento y expreso; que otros muchos lo sienten hoy, aunque se lo callan. 273 ¿Por qué no lo callo también? 274 Pues porque lo callan los más de los que lo sienten; pero aun callándolo, obedecen en silencio a esa voz de las entrañas. 275Y no lo callo porque es para muchos lo que no debe decirse, lo infando -infandum-, y creo que es menester decir una y otra vez lo que no debe decirse. 276 ¿Que a nada conduce? 277 Aunque sólo condujese a irritar a los progresis tas, a los que creen que la verdad es consuelo, conduciría a no poco. 278 A irritarles y a que digan: ¡lástima de hombre!, ¡si emplease mejor su inteligencia!... 279 A lo que alguien acaso añada que no sé lo que digo, y yo le responderé que acaso tenga razón -¡y tener razón es tan poco!-, pero siento lo que digo y sé lo que siento, y me basta. 280Y es mejor que le falte a uno razón que no que le sobre. 281 Y el que me siga leyendo verá también cómo de este abismo de desesperación puede surgir esperanza, y cómo puede ser fuente de acción y de labor humana, hondamente humana, y de solidaridad y hasta de progreso, esta posición crítica. justificación pragmática. 283 282 El lector que siga leyéndome verá su Y verá cómo para obrar, y obrar eficaz y moralmente, no hace falta ninguna de las dos opuestas certezas, ni la de la fe ni la de la razón, ni menos aún -esto en ningún caso- esquivar el problema de la inmortalidad del alma o deformarlo idealísticamente, es decir, hipócritamente. 284 El lector verá cómo esa incertidumbre, y el dolor de ella y la lucha infructuosa por salir de la misma, puede ser y es base de acción y cimiento de moral. ! #+&! 285 Y con esto de ser base de acción y cimiento de moral el sentimiento de la incertidumbre y la lucha íntima entre la razón y la fe y el apasionado anhelo de vida eterna, quedaría, según un pragmatista, justificado tal sentimiento. 286 Mas debe constatar que no le busco esta consecuencia práctica para justificarlo, sino porque la encuentro por experiencia íntima. 287 Ni quiero ni debo buscar justificación a ese estado de lucha interior y de incertidumbre y de anhelo; es un hecho, y basta. 288Y si alguien encontrándose en él, en el fondo del abismo, no encuentra allí mismo móviles e incentivos de acción y de vida, y por ende se suicida corporal o espiritualmente -o bien matándose o bien renunciando a toda labor de solidaridad humana-, no seré yo quien se lo censure. 289Y aparte de que las malas consecuencias de una doctrina, es decir, lo que llamamos malas, sólo prueban, repito, que la doctrina es para nuestros deseos mala, pero no que sea falsa, las consecuencias dependen, más aún que la doctrina, de quien las saca. 290Un mismo principio sirve a uno para obrar y a otro para abstenerse de obrar; a este para obrar en tal sentido y a aquel para obrar en sentido contrario. 291 Y es que nuestras doctrinas no suelen ser sino la justificación a posteriori de nuestra conducta, o el modo como tratamos de explicárnosla para nosotros mismos. 292 El hombre, en efecto, no se aviene a ignorar los móviles de su conducta propia, y así como uno a quien habiéndosele hipnotizado y sugerido tal o cual acto, inventa luego razones que lo justifiquen y hagan lógico a sus propios ojos y a los de los demás, ignorando, en realidad, la verdadera causa de su acto, así todo otro hombre, que es un hipnotizado también, pues que la vida es sueño, busca razones de su conducta. 293 Y si las piezas del ajedrez tuviesen conciencia es fácil que se atribuyeran albedrío en sus movimientos, es decir, la racionalidad finalista de ellos. 294 Y así resulta, que toda teoría filosófica sirve para explicar y justificar una ética, una doctrina de conducta que surge en realidad del íntimo sentimiento moral del autor de ella. 295Pero de la verdadera razón o causa de este sentimiento, acaso no tiene clara conciencia el mismo que lo abriga. 296 Consiguientemente a esto creo poder suponer que si mi razón, que es en cierto modo parte de la razón de mis hermanos en humanidad, en tiempo y en espacio, me enseña ese absoluto escepticismo por lo que al anhelo de vida inacabable se refiere, mi sentimiento de la vida, que es la esencia de la vida misma, mi vitalidad, mi apetito desenfrenado de vivir y mi repugnancia a morirme, esta mi irresignación a la muerte, es lo que me sugiere las doctrinas con que trato de contrarrestar la obra de la razón. 297 ¿Estas doctrinas tienen un valor objetivo? -me preguntará alguien-; y yo responderé que no entiendo qué es eso del valor objetivo de una doctrina. 298 Yo no diré que sean las doctrinas más o menos poéticas o infilosóficas que voy a exponer las que me hacen vivir; pero me atrevo a decir que es mi anhelo de vivir y de vivir por siempre el que me inspira esas doctrinas. 299Y si con ellas logro corroborar y sostener en otro ese mismo anhelo, acaso desfalleciente, habré hecho obra humana, y sobre todo, habré vivido. ! #+'! 300 En una palabra, que con razón, sin razón o contra ella, no me da la gana de morirme. 301Y cuando al fin me muera, si es del todo, no me habré muerto yo, esto es, no me habré dejado morir, sino que me habrá matado el destino humano. 302Como no llegue a perder la cabeza, o mejor aún que la cabeza, el corazón, yo no dimito de la vida; se me destituirá de ella. 303 Y nada tampoco se adelanta con sacar a relucir las ambiguas palabras de pesimismo y optimismo, que con frecuencia nos dicen lo contrario que quien las emplea quiso decirnos. 304Poner a una doctrina el mote de pesimista, no es condenar su validez, ni los llamados optimistas son más eficaces en la acción. 305 Creo, por el contrario, que muchos de los más grandes héroes, acaso los mayores, han sido desesperados, y que por desesperación acabaron sus hazañas. 306 Y que aparte esto y aceptando, ambiguas y todo como son, esas denominaciones de optimismo y pesimismo, cabe un cierto pesimismo trascendente engendrador de un optimismo temporal y terrenal; es cosa que me propongo desarrollar en lo sucesivo de este tratado. 307 Muy otra es, bien sé, la posición de nuestros progresistas, los de la corriente central del pensamiento europeo contemporáneo; pero no puedo hacerme a la idea de que estos sujetos no cierran voluntariamente los ojos al gran problema y viven, en el fondo de una mentira, tratando de ahogar el sentimiento trágico de la vida. 308 Y hechas estas consideraciones, que son a modo de resumen práctico de la crítica desarrollada en los seis primeros capítulos de este tratado, una manera de dejar asentada la posición práctica a que la tal crítica puede llevar al que no quiere renunciar a la vida y no quiere tampoco renunciar a la razón, y tiene que vivir y obrar entre esas dos muelas contrarias que nos trituran el alma, ya sabe el lector que en adelante me siga, que voy a llevarle a un campo de fantasías no desprovistas de razón, pues sin ella nada subsiste, pero fundadas en sentimiento. 309Y en cuanto a su verdad, la verdad verdadera, lo que es independientemente de nosotros, fuera de nuestra lógica y nuestra cardiaca, de eso, ¿quién sabe? ! ! ! ! ! ! ! ! #+(! CAPITOLO VII AMOR, DOLOR, COMPASIÓN Y PERSONALIDAD 1 Caín: Let me, or happy or unhappy, learn. To anticipate my inmortality. Lucifer. Thou didst before I came upon thee. Caín. How? Lucifer. By suffering. (LORD BYRON: Caín, act. II, scene 1.) 2 Es el amor, lectores y hermanos míos, lo más trágico que en el mundo y en la vida hay; es el amor hijo del engaño y padre del desengaño; es el amor el consuelo en el desconsuelo, es la única medicina contra la muerte, siendo como es de ella hermana. 3 Fratelli, a un tempo stesso, Amore e Morte Ingeneró la sorte, como cantó Leopardi. 4 El amor busca con furia a través del amado algo que está allende este, y como no lo halla, se desespera. 5 Siempre que hablamos de amor tenemos presente a la memoria el amor sexual, el amor entre hombre y mujer para perpetuar el linaje humano sobre la tierra. 6Y esto es lo que hace que no se consiga reducir el amor, ni a lo puramente intelectivo, ni a lo puramente volitivo, dejando lo sentimental o, si se quiere, sensitivo de él. 7Porque el amor no es en el fondo ni idea ni volición: es más bien deseo, sentimiento; es algo carnal hasta en el espíritu. 8Gracias al amor sentimos todo lo que de carne tiene el espíritu. 9 El amor sexual es el tipo generador de todo otro amor. 10 En el amor y por él buscamos perpetuarnos, y sólo nos perpetuamos sobre la tierra a condición de morir, de entregar a otro nuestra vida. 11Los más humildes animalitos, los vivientes ínfimos se multiplican dividiéndose, partiéndose, dejando de ser el uno que antes eran. ! #+)! 12 Pero agotada al fin la vitalidad de ser que así se multiplica dividiéndose de la especie, tiene de vez en cuando que renovar el manantial de la vida mediante uniones de dos individuos decadentes, mediante lo que se llama conjugación en los protozoarios. más brío a dividirse. 14 16 Únense para volver con Y todo acto de engendramiento es un dejar de ser, total o parcialmente, lo que se era, un partirse, una muerte parcial. morir. 13 15 Vivir es darse, perpetuarse, y perpetuarse y darse es Acaso el supremo deleite del engendrar no es sino un anticipado gustar la muerte, el desgarramiento de la propia esencia vital. 17 Nos unimos a otro, pero es para partirnos; ese más íntimo abrazo no es sino un más íntimo desgarramiento. 18En su fondo, el deleite amoroso sexual, el espasmo genésico, es una sensación de resurrección, de resucitar en otro, porque sólo en otros podemos resucitar para perpetuarnos. 19 Hay sin duda, algo de trágicamente destructivo en el fondo del amor, tal como en su forma primitiva animal se nos presenta, en el invencible instinto que empuja a un macho y una hembra a confundir sus entrañas en un apretón de furia. 20Lo mismo que les confunde los cuerpos, les separa, en cierto respecto, las almas; al abrazarse se odian tanto como se aman, y sobre todo luchan, luchan por un tercero aún sin vida. 21 El amor es una lucha, y especies animales hay en que al unirse el macho a la hembra la maltrata, y otras en que la hembra devora al macho luego que este la hubo fecundado. 22 Hase dicho del amor que es un egoísmo mutuo. 23 Y de hecho cada uno de los amantes busca poseer al otro, y buscando mediante él, sin entonces pensarlo ni proponérselo, su propia perpetuación, que es el fin, ¿qué es sino avaricia? 24 Y es posible que haya quien para mejor perpetuarse guarde su virginidad. 25Y para perpetuar algo más humano que la carne. 26 Porque lo que perpetúan los amantes sobre la tierra es la carne de dolor, es el dolor, es la muerte. 27El amor es hermano, hijo y a la vez padre de la muerte, que es su hermana, su madre y su hija. 28 Y así es que hay en la hondura del amor una hondura de eterno desesperarse, de la cual brotan la esperanza y el consuelo. 29 Porque de este amor carnal y primitivo de que vengo hablando, de este amor de todo el cuerpo con sus sentidos, que es el origen animal de la sociedad humana, de este enamoramiento surge el amor espiritual y doloroso. 30 Esta otra forma del amor, este amor espiritual, nace del dolor, nace de la muerte del amor carnal; nace también del compasivo sentimiento de protección que los padres experimentan ante los hijos desvalidos. 31Los amantes no llegan a amarse con dejación de sí mismos, con verdadera fusión de sus almas, y no ya de sus cuerpos, sino luego que el mazo poderoso del dolor ha triturado sus corazones remejiéndolos en un mismo almirez de pena. 32 El amor sensual confundía sus cuerpos, pero separaba sus almas, manteníalas extrañas una a otra; mas de ese amor tuvieron un fruto de ! #+*! carne, un hijo. 33 Y este hijo engendrado en muerte, enfermó acaso y se murió. 34 Y sucedió que sobre el fruto de su fusión carnal y separación o mutuo extrañamiento espiritual, separados y fríos de dolor sus cuerpos, pero confundidas en dolor sus almas, se dieron los amantes, los padres, un abrazo de desesperación y nació entonces de la muerte del hijo de la carne, el verdadero amor espiritual. 36 35 O bien, roto el lazo de la carne que les unía, respiraron con suspiro de liberación. Porque los hombres sólo se aman con amor espiritual cuando han sufrido juntos un mismo dolor, cuando araron durante algún tiempo la tierra pedregosa uncidos al mismo yugo de un dolor común. 37 Entonces se conocieron y se sintieron, y se consintieron en su común miseria, se compadecieron y se amaron. 38 Porque amar es compadecer, y si a los cuerpos les une el goce, úneles a las almas la pena. 39 Todo lo cual se siente más clara y más frecuentemente aún cuando brota, arraiga y crece uno de esos amores trágicos que tienen que luchar contra las diamantinas leyes del Destino, uno de esos amores que nacen a destiempo o desazón, antes o después del momento o fuera de la norma en que el mundo, que es costumbre, los hubiera recibido. 40Cuantas más murallas pongan el Destino y el mundo y su ley entre los amantes, con tanta más fuerza se sienten empujados el uno al otro, y la dicha de quererse se les amarga, y se les acrecienta el dolor de no poder quererse a las claras y libremente, y se compadecen desde las raíces del corazón el uno del otro, y esta común compasión, que es su común miseria y su fidelidad común, da fuego y pábulo a su vez a su amor. 41Y sufren su gozo gozando su sufrimiento. 42 Y ponen su amor fuera del mundo, y la fuerza de ese pobre amor sufriente bajo el yugo del Destino les hace intuir otro mundo en que no hay más ley que la libertad del amor, otro mundo en que no hay barreras porque no hay carne. 43Porque nada nos penetra más de la esperanza y la fe en otro mundo que la imposibilidad de que un amor nuestro fructifique de veras en este mundo de carne y de apariencias. 44 Y el amor maternal, ¿qué es, sino compasión al débil, al desvalido, al pobre niño inerme que necesita de la leche y del regazo de la madre? 45Y en la mujer todo amor es maternal. 46 Amar en espíritu es compadecer, y quien más compadece más ama. 47 Los hombres encendidos en ardiente caridad hacia sus prójimos, es porque llegaron al fondo de su propia miseria, de su propia aparencialidad, de sus naderías, y volviendo luego sus ojos así abiertos, hacia sus semejantes, los vieron también miserables aparenciales, anonadables, y los compadecieron y los amaron. 48 El hombre ansía ser amado, o, lo que es igual, ansía ser compadecido. 49El hombre quiere que se sientan y se compartan sus penas y sus dolores. 50 Hay algo más que una artimaña para obtener limosna en eso de los mendigos que a la vera del camino muestran al viandante su llaga o su gangrenoso muñón. 51La limosna, más bien que socorro para sobrellevar los trabajos de la vida, ! #"+! es compasión. 52 No agradece el pordiosero la limosna al que se la da volviéndole la cara por no verle y para quitárselo de al lado, sino que agradece mejor que se le compadezca no socorriéndole a no que socorriéndole no se le compadezca, aunque por otra parte prefiera esto. 53Ved, si no, con qué complacencia cuenta sus cuitas al que se conmueve oyéndoselas. 54Quiere ser compadecido, amado. 55 56 El amor de la mujer, sobre todo, decía que es siempre en su fondo compasivo, es maternal. La mujer se rinde al amante porque le siente sufrir con el deseo. 57Isabel compadeció a Lorenzo, Julieta a Romeo, Francisca a Pablo. 58La mujer parece decir: «¡Ven, pobrecito, y no sufras tanto por mi causa!» 59Y por eso es su amor más amoroso y más puro que el del hombre y más valiente y más largo. 60 La compasión es, pues, la esencia del amor espiritual humano, del amor que tiene conciencia de serlo, del amor que no es puramente animal, del amor, en fin, de una persona racional. 61El amor compadece y compadece más cuanto más ama. 62 Invirtiendo el nihil volitum quin praecognitum, os dije que nihil cognitum quin praevolitum, que no se conoce nada que de un modo o de otro no se haya antes querido, y hasta cabe añadir que no se puede conocer bien nada que no se ame, que no se compadezca. 63 Creciendo el amor, esta ansia ardorosa de más allá y más adentro, va extendiéndose a todo cuanto ve, lo que va compadeciendo todo. 64Según te adentras en ti mismo y en ti mismo ahondas, vas descubriendo tu propia inanidad, que no eres todo lo que eres, que no eres lo que quisieras ser, que no eres, en fin, más que nonada. 65 Y al tocar tu propia nadería, al no sentir tu fondo permanente, al no llegar ni a tu propia infinitud ni menos a tu propia eternidad, te compadeces y te enciendes en doloroso amor a ti mismo, matando lo que se llama amor propio, y no es sino una especie de delectación sensual de ti mismo, algo como un gozarse a sí misma la carne de tu alma. 66 El amor espiritual a sí mismo, la compasión que uno cobra para consigo, podrá acaso llamarse egotismo; pero es lo más opuesto que hay al egoísmo vulgar. 67 Porque de este amor o compasión a ti mismo, de esta intensa desesperación, porque así como antes de nacer no fuiste, así tampoco después de morir serás, pasas a compadecer, esto es, a amar a todos tus semejantes y hermanos en aparencialidad, miserables sombras que desfilan de su nada a su nada, chispas de conciencia que brillan un momento en las infinitas y eternas tinieblas. 68 314 Y de los demás hombres, tus semejantes, pasando por los que más semejantes te son, por tus convivientes, vas a compadecer !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 66-67. El amor espiritual a sí mismo [...] en las infinitas y eternas tinieblas. | Arrancan de refinado egotismo o egocentrismo, posiciones que encubren un groserísimo egoísmo estilizado, para emplear este término que se aplica a las hojas de planta ornamentales en arquitectura con relación a las hojas naturales, como en el acanto, y arrancando de ese egoísmo ornamental acaban en el fango de la crápula exquisita, crápula declarada cuando menos amoral e irresponsable, y no pocas veces heroica, santa y hasta divina. EMS (101) ! #""! a todos los que viven y hasta a lo que acaso no vive pero existe. 69Aquella lejana estrella que brilla allí arriba durante la noche se apagará algún día y se hará polvo, y dejará de brillar y de existir. 70Y como ella, el cielo todo estrellado. 71¡Pobre cielo! 72 Y si doloroso es tener que dejar de ser un día, más doloroso sería acaso seguir siendo siempre uno mismo, y no más que uno mismo, sin poder ser a la vez otro, sin poder ser a la vez todo lo demás, sin poder serlo todo. 73 Si miras al universo lo más cerca y lo más dentro que puedes mirarlo, que es en ti mismo; si sientes y no ya sólo contemplas las cosas todas en tu conciencia, donde todas ellas han dejado su dolorosa huella, llegarás al hondón del tedio de la existencia, al pozo de vanidad de vanidades. 74Y así es como llegarás a compadecerlo todo, al amor universal. 75 Para amarlo todo, para compadecerlo todo, humano y extrahumano, viviente y no viviente, es menester que lo sientas todo dentro de ti mismo, que lo personalices todo. 76 Porque el amor personaliza todo cuanto ama, todo cuanto compadece. 77Sólo compadecemos, es decir, amamos, lo que nos es semejante y en cuanto nos lo es y tanto más cuanto más se nos asemeja, y así crece nuestra compasión, y con ella nuestro amor a las cosas a medida que descubrimos las semejanzas que con nosotros tienen. 78 O más bien es el amor mismo, que de suyo tiende a crecer, el que nos revela las semejanzas esas. 79Si llego a compadecer y amar a la pobre estrella que desaparecerá del cielo un día, es porque el amor, la compasión, me hace sentir en ella una conciencia, más o menos oscura, que la hace sufrir por no ser más que estrella y por tener que dejarlo de ser un día. 80 Pues toda conciencia lo es de muerte y de dolor. 81 Conciencia, conscientia, es conocimiento participado, es consentimiento, y con-sentir es com-padecer. 82 El amor personaliza cuanto ama. 83Sólo cabe enamorarse de una idea personalizándola. 84Y cuando el amor es tan grande y tan vivo y tan fuerte y desbordante que lo ama todo, entonces lo personaliza todo y descubre que el total Todo, que el Universo es Persona también, que tiene una Conciencia, Conciencia que a su vez sufre, compadece y ama, es decir, es conciencia. 85 Y a esta Conciencia del Universo, que el amor descubre personalizando cuanto ama, es a lo que llamamos Dios. 86 Y así el alma compadece a Dios y se siente por Él compadecida, le ama y se siente por Él amada, abrigando su miseria en el seno de la miseria eterna e infinita, que es al eternizarse e infinitarse la felicidad suprema misma. 87 Dios es, pues, la personalización del Todo, es la Conciencia eterna e infinita del Universo, Conciencia presa de la materia y luchando por libertarse de ella. 88 Personalizamos al Todo para salvarnos de la nada, y el único misterio verdaderamente misterioso es el misterio del dolor. ! #"#! 89 El dolor es el camino de la conciencia y es por él como los seres vivos llegan a tener conciencia de sí. 90 Porque tener conciencia de sí mismo, tener personalidad, es saberse y sentirse distinto de los demás seres, y a sentir esta distinción sólo se llega por el choque, por el dolor más o menos grande, por la sensación del propio límite. 91 La conciencia de sí mismo no es sino la 92 conciencia de la propia limitación. Me siento yo mismo al sentirme que no soy los demás; saber y sentir hasta dónde soy, es saber dónde acabo de ser, y desde dónde no soy. 93 ¿Y cómo saber que se existe no sufriendo poco o mucho? 94¿Cómo volver sobre sí, lograr conciencia refleja, no siendo por el dolor? 95 Cuando se goza olvídase uno de sí mismo, de que existe, pasa a otro, a lo ajeno, se enajena. 96Y sólo se ensimisma, se vuelve a sí mismo, a ser él en el dolor. 97 Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice nella miseria, hace decir el Dante a Francesca de Rimini (Inferno, V 121-123); pero si no hay dolor más grande que el de acordarse del tiempo feliz en la desgracia, no hay placer, en cambio, en acordarse de la desgracia en el tiempo de prosperidad. 98 «El más acerbo dolor entre los hombres es el de aspirar mucho y no poder nada» (2+--$ 4'+&(v+&*$ µ5)(&+;% 7'$*(v(#&) como según Heródoto (lib. IX, cap. 16), según dijo un persa a un tebano en un banquete. 99Y así es. 100 Podemos abarcarlo todo o casi todo con el conocimiento y el deseo, nada o casi nada con la voluntad. contemplación significa impotencia. 102 101 Y no es la felicidad contemplación, ¡no!, si esa Y de este choque entre nuestro conocer y nuestro poder surge la compasión. 103 Compadecemos a lo semejante a nosotros, y tanto más lo compadecemos cuanto más y mejor sentimos su semejanza con nosotros. 104 Y si esta semejanza podemos decir que provoca nuestra compasión, cabe sostener también que nuestro repuesto de compasión, pronto a derramarse sobre todo, es lo que nos hace descubrir la semejanza de las cosas con nosotros, el lazo común que nos une con ellas en el dolor. 105 Nuestra propia lucha por cobrar, conservar y acrecentar la propia conciencia, nos hace descubrir en los forcejeos y movimientos y revoluciones de las cosas todas una lucha por cobrar, conservar o acrecentar conciencia, a la que todo tiende. 106 Bajo los actos de mis más próximos semejantes, los demás hombres, siento -o consiento más bien- un estado de conciencia como es el mío bajo mis propios actos. 107Al oírle un grito de dolor a mi hermano, mi propio dolor se despierta ! #"$! y grita en el fondo de mi conciencia. 108 Y de la misma manera siento el dolor de los animales y el de un árbol al que le arrancan una rama, sobre todo cuando tengo viva la fantasía, que es la facultad de intuimiento, de visión interior. 109 Descendiendo desde nosotros mismos, desde la propia conciencia humana, que es lo único que sentimos por dentro y en que el sentirse se identifica con el ser, suponemos que tienen alguna conciencia, más o menos oscura todos los vivientes y las rocas mismas, que también viven. 110 Y la evolución de los eres orgánicos no es sino una lucha por la plenitud de conciencia a través del dolor, una constante aspiración a ser otros sin dejar de ser lo que son, a romper sus límites limitándose. 111 Y este proceso de personalización o de sujetivación de todo lo externo, fenoménico u objetivo, constituye el proceso mismo vital de la filosofía en la lucha de la vida contra la razón y de esta contra aquella. 112 Ya lo indicamos en nuestro anterior capítulo, y aquí lo hemos de confirmar desarrollándolo más. 113 Juan Bautista Vico, con su profunda penetración estética en el alma de la Antigüedad, vio que la filosofía espontánea del hombre era hacerse regla del universo guiado por instinto d'animazione. 115 114 El lenguaje, necesariamente antropomórfico, mitopeico, engendra el pensamiento. «La sabiduría poética, que fue la primera sabiduría de la gentilidad -nos dice en su Scienza Nuova-, debió de comenzar por una metafísica no razonada y abstracta, cual es la de los hoy adoctrinados, sino sentida e imaginada, cual debió ser la de los primeros hombres... 116 Esta fue su propia poesía, que les era una facultad connatural, porque estaban naturalmente provistos de tales sentidos y tales fantasías, nacida de ignorancia de las causas, que fue para ellos madre de maravillas en todo, pues ignorantes de todo, admiraban fuertemente. 117 Tal poesía comenzó divina en ellos, porque al mismo tiempo que imaginaban las causas de las cosas, que sentían y admiraban sin ser dioses... 118 De tal manera, los primeros hombres de las naciones gentiles, como niños del naciente género humano, creaban de sus ideas las cosas... 119 De esta naturaleza de cosas humanas quedó la eterna propiedad explicada con noble expresión por Tácito al decir no vanamente que los hombres aterrados fingunt simul creduntque.» 120 Y luego Vico pasa a mostrarnos la era de la razón, no ya de la fantasía, esta edad nuestra en que nuestra mente está demasiado retirada de los sentidos, hasta en el vulgo, «con tantas abstracciones como están llenas las lenguas», y nos está «naturalmente negado poder formar la vasta imagen de una tal dama a que se llama Naturaleza simpatética, pues mientras con la boca se la llama así, no hay nada de eso en la mente, porque la mente está en lo falso, en la nada». 121«Ahora añade Vico- nos está naturalmente negado poder entrar en la vasta imaginación de aquellos ! #"%! primeros hombres.» 122 Mas ¿es cierto? 123 ¿No seguimos viviendo de las creaciones de su fantasía, encarnadas para siempre en el lenguaje, con el que pensamos, o más bien el que en nosotros piensa? 124 En vano Comte declaró que el pensamiento humano salió ya de la edad teológica y está saliendo de la metafísica para entrar en la positiva; las tres edades coexisten y se apoyan, aun oponiéndose, unas en otras. 125 El flamante positivismo no es sino metafísico cuando deja de negar para afirmar algo, cuando se hace realmente positivo, y la metafísica es siempre, en su fondo, teología, y la teología nace de la fantasía puesta al servicio de la vida, que se quiere inmortal. 126 El sentimiento del mundo, sobre el que se funda la comprensión de él, es necesariamente antropomórfico y mitopeico. 127 Cuando alboreó con Tales de Mileto el racionalismo, dejó este filósofo al Océano y Tetis, dioses y padres de dioses, para poner al agua como principio de las cosas, pero esta agua era un dios disfrazado. 128 Debajo de la naturaleza, 42!#%, y del mundo "(!µ+%, palpitaban creaciones míticas, antropomórficas. 130 129 La lengua misma lo llevaba consigo. Sócrates distinguía en los fenómenos, según Jenofonte nos cuenta (Memorabilia, i. I. 6-9), aquellos al alcance del estudio humano y aquellos otros que se han reservado los dioses, y execraba de que Anaxágoras quisiera explicarlo todo racionalmente. 131Hipócrates, su coetáneo, estimaba ser divinas las enfermedades todas, y Platón creía que el Sol y las estrellas son dioses animados, con sus almas (Phileb. c, 16. Leyes X), y sólo permitía la investigación astronómica hasta que no se blasfemara contra esos dioses. 132 Y Aristóteles en su Física, nos dice que llueve Zeus, no para que el trigo crezca, sino por necesidad, (j8$j&$v075%. 133Intentaron mecanizar o racio nalizar a Dios, pero Dios se les rebelaba. 134 Y el concepto de Dios, siempre redivivo, pues brota del eterno sentimiento de Dios en el hombre, ¿qué es sino la eterna protesta de la vida contra la razón, el nunca vencido instinto de personalización? 135¿Y qué es la noción misma de sustancia, sino objetivación de lo más subjetivo, que es la voluntad o la conciencia? 136Porque la conciencia, aun antes de conocerse como razón, se siente, se toca, se es más bien como voluntad, y como voluntad de no morir. 137De aquí ese ritmo de que hablábamos en la historia del pensamiento. 138 El positivismo nos trajo una época de racionalismo, es decir, de materialismo, mecanismo y moralismo; y he aquí que el vitalismo, el espiritualismo vuelve. 139 ¿Qué han sido los esfuerzos del pragmatismo sino esfuerzos por restaurar la fe en la finalidad humana del Universo? 140 ¿Qué son los esfuerzos de un Bergson, verbigracia, sobre todo en su obra sobre la evolución creadora, sino forcejeos por restaurar al Dios personal y la conciencia eterna? 141Y es que la vida no se rinde. 315 !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 138-141. El positivismo nos trajo una época de racionalismo [...] Y es que la vida no se rinde. | ¿Que no tiene fin alguno el universo? Pues démosle, y no será tal donación, si la obtenemos, más que el descubrimiento de su finalidad velada. N (15-16) ! #"&! 142 Y de nada sirve querer suprimir ese proceso mitopeico o antropomórfico y racionalizar nuestro pensamiento, como si se pensara sólo para pensar y conocer, y no para vivir. 143 La lengua misma, con la que pensamos, nos lo impide. 144La lengua, sustancia del pensamiento, es un sistema de metáforas a base mítica y antropomórfica. 145 Y para hacer una filosofía puramente racional habría que hacerla por fórmulas algebraicas o crear una lengua -una lengua inhumana, es decir, inapta para las necesidades de la vida- para ella, como lo intentó el doctor Ricardo Avenarius, profesor de filosofía en Zurich, en su Crítica de la experiencia pura (Kritik der reinen Erfahrung), para evitar los preconceptos. 146 Y este vigoroso esfuerzo de Avenarius, el caudillo de los empiriocriticistas, termina en rigor en puro escepticismo. 147 Él mismo nos lo dice al final del prólogo de la susomentada obra: «Ha tiempo que desapareció la infantil confianza de que nos sea dado hallar la verdad; mientras avanzamos, nos damos cuenta de sus dificultades, y con ello del límite de nuestras fuerzas. 148 ¿Y el fin?... 149 ¡Con tal de que lleguemos a ver claro en nosotros mismos!» 150 ¡Ver claro!... ¡ver claro! 151 Sólo vería claro un puro pensador, que en vez de lenguaje usara álgebra, y que pudiese libertarse de su propia humanidad, es decir, un ser insustancial meramente objetivo, un no ser, en fin. 152Mal que pese a la razón, hay que pensar con la vida, y mal que pese a la vida, hay que racionalizar el pensamiento. 153 Esa animación, esa personificación va entrañada en nuestro mismo conocer. 154 «¿Quién llueve?», «¿quién truena?», pregunta el viejo Estrepsiades a Sócrates en Las nubes, de Aristófanes, y el filósofo le contesta: «No Zeus, sino las nubes.» 155 Y Estrepsiades: «pero ¿quién sino Zeus las obliga a marchar?», a lo que Sócrates: «Nada de eso, sino el Torbellino etéreo.» 156«¿El Torbellino? -agrega Estrepsiades -, no lo sabía... 157No es, pues, Zeus, sino el Torbellino el que en vez de él rige ahora.» 158Y sigue el pobre viejo personificando y animando al Torbellino, que reina ahora como un rey no sin conciencia de su realeza. 159 Y todos, al pasar de un Zeus cualquiera a un cualquier torbellino, de Dios a la materia, verbigracia, hacemos lo mismo. 160 Y es porque la filosofía no trabaja sobre la realidad objetiva que tenemos delante de los sentidos, sino sobre el complejo de ideas, imágenes, nociones, percepciones, etc., incorporadas en el lenguaje y que nuestros antepasados nos transmitieron con él. 161 Lo que llamamos el mundo, el mundo objetivo, es una tradición social. 162Nos lo dan hecho. 163 El hombre no se resigna a estar, como conciencia, solo en el Universo, ni a ser un fenómeno objetivo más. 164 animado al Universo todo. Quiere salvar su subjetividad vital o pasional haciendo vivo, personal, 165 Y por eso y para eso han descubierto a Dios y la sustancia, Dios y sustancia que vuelven siempre en su pensamiento de uno o de otro modo disfrazados. ! #"'! 166 Por ser conscientes nos sentimos existir, que es muy otra cosa que sabernos existentes, y queremos sentir la existencia de todo lo demás, que cada una de las demás cosas individuales sea también un yo. 167 El más consecuente, aunque más incongruente y vacilante idealismo, el de Berkeley, que negaba la existencia de la materia, de algo inerte y extenso y pasivo que sea la causa de nuestras sensaciones y el sustrato de los fenómenos externos, no es en el fondo más que un absoluto espiritualismo o dinamismo, la suposición de que toda sensación nos viene, como la causa, de otro espíritu, esto es, de otra conciencia. Schopenhauer y Hartmann. 169 168 Y se da su doctrina en cierto modo la mano con las de La doctrina de la Voluntad del primero de estos dos y la de lo Inconsciente del otro, están ya en potencia en la doctrina berkeleyana, de que ser es ser percibido. 170 A lo que hay que añadir: y hacer que otro perciba al que es. 171 Y así el viejo adagio de que operari sequitur esse, el obrar se sigue al ser, hay que modificarlo diciendo que ser es obrar y sólo existe lo que obra, lo activo, y en cuanto obra. 172 Y por lo que a Schopenhauer hace no es menester esforzarse en mostrar cómo la voluntad que pone como esencia de las cosas, procede de la conciencia. 173 Y basta leer su libro sobre la voluntad en la naturaleza, para ver cómo atribuía un cierto espíritu y hasta una cierta personalidad a las plantas mismas. 174Y esa su doctrina le llevó lógicamente al pesimismo, porque lo más propio y más íntimo de la voluntad es sufrir. 176 175 La voluntad es una fuerza que se siente, esto es, que sufre. Y que goza, añadirá alguien. 177Pero es que no cabe poder gozar sin poder sufrir, y la facultad de goce es la misma que la del dolor. 178El que no sufre tampoco goza, como no siente calor el que no siente frío. 179 Y es muy lógico también que Schopenhauer, el que de la doctrina voluntarista o de personalización de todo, sacó el pesimismo, sacara de ambas que el fundamento de la moral es la compasión. 180 Sólo que su falta de sentido social e histórico, el no sentir a la humanidad como una persona también, aunque colectiva, su egoísmo, en fin, le impidió sentir a Dios, le impidió individualizar y personificar la Voluntad total y colectiva: la Voluntad del Universo. 181 Compréndese, por otra parte, su aversión a las doctrinas evolucionistas o transformistas puramente empíricas, y tal como alcanzó a ver expuestas por Lamarck y Darwin, cuya teoría, juzgándola sólo por un extenso extracto del Times, calificó de «ramplón empirismo» (platter Empirismus), en una de sus cartas a Adán Luis von Doss (de 1 marzo 1860). 182 Para un voluntario como Schopenhauer, en efecto, en teoría tan sana y cautelosamente empírica y racional como la de Darwin, quedaba fuera de cuenta el íntimo resorte, el motivo esencial de la evolución. 183 Porque ¿cuál es, en efecto, la fuerza oculta, el último agente del perpetuarse los organismos y pugnar por persistir y propagarse? 184La selección, la adaptación, la herencia, no son sino condiciones externas. 185 ! A esa fuerza íntima esencial, se le ha llamado voluntad por suponer nosotros que sea en los #"(! demás seres lo que en nosotros mismos sentimos como sentimiento de voluntad, el impulso a serlo todo, a ser también los demás sin dejar de ser lo que somos. 186 Y esa fuerza cabe decir que es lo divino en nosotros, que es Dios mismo, que en nosotros obra porque en nosotros sufre. 187 188 Y esa fuerza, esa aspiración a la conciencia, la simpatía nos la hace descubrir en todo. Mueve y agita a los más menudos seres vivientes, mueve y agita acaso a las células mismas de nuestro propio organismo corporal, que es una federación más o menos unitaria de vivientes; mueve a los glóbulos mismos de nuestra sangre. 189 De vidas se compone nuestra vida, de aspiraciones, acaso en el limbo de la subconciencia, nuestra aspiración vital. 190No es un sueño más absurdo que tantos sueños que pasan por teorías valederas el de creer que nuestras células, nuestros glóbulos, tengan algo así como una conciencia o base de ella rudimentaria, celular, globular. 191O que puedan llegar a tenerla. 192Y ya puestos en la vía de las fantasías, podemos fantasear el que estas células se comunicaran entre sí, y expresara alguna de ellas su creencia de que formaban parte de un organismo superior dotado de conciencia colectiva personal. 193Fantasía que se ha producido más de una vez en la historia del sentimiento humano al suponer alguien, filósofo o poeta, que somos los hombres a modo de glóbulos de la sangre de un Ser Supremo que tiene su conciencia colectiva personal, la conciencia del Universo. 194 Tal vez la inmensa Vía Láctea que contemplamos durante las noches claras en el cielo, ese enorme anillo de que nuestro sistema planetario no es sino una molécula, es a su vez una célula del Universo, Cuerpo de Dios. 195Las células todas de nuestro cuerpo conspiran y concurren con su actividad a mantener y encender nuestra conciencia, nuestra alma; y si las conciencias o las almas de todas ellas entrasen enteramente en la nuestra, en la componente, si tuviese yo conciencia de todo lo que en mi organismo corporal pasa, sentiría pasar por mí al Universo, y se borraría tal vez el doloroso sentimiento de mis límites. 196 Y si todas las conciencias de todos los seres concurren por entero a la conciencia universal, esta, es decir, Dios, es todo. 197 En nosotros nacen y mueren a cada instante oscuras conciencias, almas elementales, y este nacer y morir de ellas constituye nuestra vida. hacen nuestro dolor. 199 198 Y cuando mueren bruscamente, en choque, Así en el seno de Dios nacen y mueren -¿mueren?- conciencias, constituyendo sus nacimientos y sus muertes su vida. 200 Si hay una Conciencia Universal y Suprema, yo soy una idea de ella, y ¿puede en ella apagarse del todo idea alguna? 201Después que yo haya muerto, Dios seguirá recordándome, y el ser yo por Dios recordado, el ser mi conciencia mantenida por la Conciencia Suprema ¿no es acaso ser? 202 Y si alguien dijese que Dios ha hecho el Universo, se le puede retrucar que también nuestra alma ha hecho nuestro cuerpo tanto más que ha sido por él hecha. 203Si es que hay alma. ! #")! 204 Cuando la compasión, el amor, nos revela al Universo todo luchando por cobrar, conservar y acrecentar su conciencia, por concientizarse más y más cada vez, sintiendo el dolor de las discordancias que dentro de él se producen, la compasión nos revela la semejanza del Universo todo con nosotros, que es humano, y que nos hace descubrir en él a nuestro Padre, de cuya carne somos carne; el amor nos hace personalizar al todo de que formamos parte. 205 En el fondo lo mismo da decir que Dios está produciendo eternamente las cosas, como que las cosas están produciendo eternamente a Dios. 206 Y la creencia en un Dios personal y espiritual se basa en la creencia en nuestra propia personalidad y espiritualidad. 207 Porque nos sentimos conciencia, sentimos a Dios conciencia, es decir, persona, y porque anhelamos que nuestra conciencia pueda vivir y ser independiente del cuerpo, creemos que la persona divina vive y es independientemente del Universo, que es su estado de conciencia ad extra. 208 Claro es que vendrán los lógicos, y nos pondrán todas las evidentes dificultades racionales que de esto nacen; pero ya dijimos que, aunque bajo formas racionales, el contenido de todo esto no es, en rigor, racional. 209Toda concepción racional de Dios es en sí misma contradictoria. 210La fe en Dios nace del amor a Dios, creemos que existe por querer que exista, y nace acaso también del amor de Dios a nosotros. 211 La razón no nos prueba que Dios exista, pero tampoco que no pueda existir. 212 Pero más adelante, más sobre esto de que la fe en Dios sea la personalización del Universo. 213 Y recordando lo que en otra parte de esta obra dijimos, podemos decir que las cosas materiales en cuanto conocidas, brotan al conocimiento desde el hambre, y del hambre brota el Universo sensible o material en que las conglobamos, y las cosas ideales brotan del amor, y del amor brota Dios en quien esas cosas ideales conglobamos, como en Conciencia del Universo. 214Es la conciencia social, hija del amor, del instinto de perpetuación, la que nos lleva a socializarlo todo, a ver en todo sociedad, y nos muestra, por último, cuán de veras es una Sociedad infinita la Naturaleza toda. 215 Y por lo que a mí hace he sentido que la Naturaleza es sociedad, cientos de veces, al pasearme en un bosque y tener el sentimiento de solidaridad con las encinas que de alguna oscura manera se daban sentido de mi presencia. 216 La fantasía que es el sentido social, anima lo inanimado, lo antropomorfiza todo; todo lo humaniza, y aun lo humana. 217 Y la labor del hombre es sobrenaturalizar a la Naturaleza, esto es: divinizarla humanizándola, hacerla humana, ayudarla a que se concientice, en fin. 218 La razón, por su parte, mecaniza o materializa. 219 Y así como se dan unidos y fecundándose mutuamente el individuo -que es, en cierto modo, sociedad- y la sociedad -que es también un individuo-, inseparables el uno del otro, y sin que ! #"*! nos quepa decir dónde empieza el uno para acabar el otro, siendo más bien aspectos de una misma esencia, así se dan en uno el espíritu, el elemento social que al relacionarnos con los demás, nos hace conscientes, y la materia o elemento individual e individuante, y se dan en uno fecundándose mutuamente la razón, la inteligencia y la fantasía, y en uno se dan el Universo y Dios. * 220 222 ¿Es esto todo verdad? 221 ¿Y qué es verdad? -preguntaré a mi vez como preguntó Pilato. Pero no para volver a lavarme las manos sin esperar respuesta. 223 ¿Está la verdad en la razón, o sobre la razón, o bajo la razón, o fuera de ella, de un modo cualquiera? 224 ¿Es sólo verdadero lo racional? 225 ¿No habrá realidad inasequible, por su naturaleza misma, a la razón, y acaso, por su misma naturaleza, opuesta a ella? 226 ¿Y cómo conocer esa realidad si es que sólo por la razón conocemos? 316 227 Nuestro deseo de vivir, nuestra necesidad de vida quisiera que fuese verdadero lo que nos hace conservarnos y perpetuarnos, lo que mantiene al hombre y a la sociedad; que fuese verdadera agua el líquido que bebido apaga la sed y porque la apaga, y pan verdadero lo que nos quita el hambre porque nos la quita. 228 Los sentidos están al servicio del instinto de conservación, y cuanto nos satisfaga a esta necesidad de conservarnos, aun sin pasar por los sentidos, es a modo de una penetración íntima de la realidad en nosotros. 229 ¿Es acaso menos real el proces o de asimilación del alimento que el proceso de conocimiento de la cosa alimenticia? 230Se dirá que comerse un pan no es lo mismo que verlo, tocarlo o gustarlo; que de un modo entra en nuestro cuerpo, mas no por eso en nuestra conciencia. 231 ¿Es verdad esto? 232 ¿El pan que he hecho carne y sangre mía no entra más en mi conciencia de aquel otro al que viendo y tocando digo: «Esto es mío»? 233Y a ese pan así convertido en mi carne y sangre y hecho mío, ¿he de negarle la realidad objetiva cuando sólo lo toco? 234 Hay quien vive del aire sin conocerlo. 235Y así vivimos de Dios y en Dios acaso, en Dios espíritu y conciencia de la sociedad y del Universo todo, en cuanto este también es sociedad. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 220-226. ¿Es esto todo verdad? ¿Y qué es verdad? [...] ¿Y cómo conocer esa realidad si es que sólo por la razón conocemos? | Qué es la verdad? preguntó Pilato y sin esperar respuesta se volvió á lavarse las manos para así sincesarse [sic] de la muerte de Jesús, Nuestro Señor. Y así preguntan muchos que es verdad sin ánimo alguno de >que< recibir respuesta y sólo para volverse á lavarse las manos del crimen de haber contribuido á matar á Dios en la >conci< propia conciencia ó en las conciencias ajenas. T (pp. 20-21) Pero qué es la verdad? preguntamos. Y no hagamos lo de Pilato que hecha la pregunta esta volvió la espalda á Jesús, sin esperar la respuesta. AJH (p. 16v) ¡La verdad! Y «¿qué es verdad?» preguntó Pilatos a Cristo, volviéndole la espalda enseguida sin esperar respuesta. ¿Qué es verdad? pregunta igualmente todo intelectualismo, que en rigor sólo conoce y acata la inteligencia, como si para relacionarnos con la eterna realidad viva no tuviésemos más que mera inteligencia pura. EMS (115-116) ! ##+! 236 Dios no es sentido sino en cuanto es vivido, y no sólo de pan vive el hombre, sino de toda palabra que sale de la boca de Él (Mat. IV, 4. Deut. VIII, 3). 237 Y esta personalización del todo, del Universo, a que nos lleva el amor, la compasión, es la de una persona que abarca y encierra en sí a las demás personas que la componen. 238 Es el único modo de dar al Universo finalidad dándole conciencia. hay conciencia no hay tampoco finalidad que supone un propósito. 240 317 239 Porque donde no Y la fe en Dios no estriba como veremos, sino en la necesidad vital de dar finalidad a la existencia, de hacer que responda a un propósito. 241 No para comprender el por qué, sino para sentir y sustentar el para qué último, necesitamos a Dios, para dar sentido al Universo. 242 Y tampoco debe extrañar que se diga que esa conciencia del universo esté compuesta e integrada por las conciencias de los seres que el Universo forman, por la conciencia personal distinta de las que la componen. 243Sólo así se comprende lo de que en Dios seamos, nos movamos y vivamos. 244 Aquel gran visionario que fue Manuel Swedenborg, vio o entrevió esto cuando en su libro sobre el cielo y el infierno (De Coelo et Inferno, 52) nos dice que: «Una entera sociedad angélica aparece a las veces en forma de un solo ángel, como el Señor me ha permitido ver. 245 Cuando el Señor mismo aparece en medio de los ángeles, no lo hace acompañado de una multitud, sino como un solo ser en forma angélica. 246De aquí que en la Palabra se le llama al Señor un ángel, y que así es llamada una sociedad entera: Miguel, Gabriel y Rafael no son sino sociedades angélicas así llamadas por las funciones que llenan.» 247 ¿No es que acaso vivimos y amamos, esto es, sufrimos y compadecemos en esa Gran Persona envolvente a todos, las personas todas que sufrimos y compadecemos y los seres todos que luchan por personalizarse, por adquirir conciencia de su dolor y de su limitación? 248 ¿Y no somos acaso ideas de esa Gran Conciencia total que al pensarnos existentes nos da la existencia? 249¿No es nuestro existir ser por Dios percibidos y sentidos? 250 Y más adelante nos dice este mismo visionario, a su manera imaginativa, que cada ángel, cada sociedad de ángeles y el cielo todo contemplado de consuno, se presentan en forma humana, y que por virtud de esta su humana forma, lo rige el Señor como a un solo hombre. 251 «Dios no piensa, crea; no existe, es eterno», escribió Kierkegaard (Afsluttende uvidenskabelig Efterskrift); pero es acaso más exacto decir con Mazzini, el místico de la ciudad italiana, que «Dios es grande porque piensa obrando» (Ai giovani d'Italia), porque en Él pensar es crear y hacer existir a aquello que piensa existente con sólo pensarlo, y es lo imposible lo !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 237-239. Y esta personalización del todo, del Universo [...] no hay tampoco finalidad que supone un propósito. | ¿Que no tiene fin alguno el universo? Pues démosle, y no será tal donación, si la obtenemos, más que el descubrimiento de su finalidad velada. N (15-16) ! ##"! impensable por Dios. 252 ¿No se dice en la Escritura que Dios crea con su palabra, es decir, con su pensamiento, y que por este, por su Verbo, se hizo cuanto existe? 253¿Y olvida Dios lo que una vez hubo pensado? 254 ¿No subsisten acaso en la Suprema Conciencia los pensamientos todos que por ella pasan una vez? 255En Él, que es eterno, ¿no se eterniza toda existencia? 256 Es tal nuestro anhelo de salvar a la conciencia, de dar finalidad personal y humana al Universo y a la existencia, que hasta en un supremo, dolorosísimo y desgarrador sacrificio llegaríamos a oír que se nos dijese que si nuestra conciencia se desvanece es para ir a enriquecer la Conciencia infinita y eterna, que nuestras almas sirven de alimento al Alma Universal. 257 Enriquezco, si, a Dios, porque antes de yo existir no me pensaba como existente porque soy uno más, uno más aunque sea entre infinitos, que como habiendo vivido y sufrido y amado realmente, quedo en su seno. 258 Es el furioso anhelo de dar invalidad al Universo, de hacerle consciente y personal, lo que nos ha llevado a creer en Dios, a querer que haya Dios, a crear a Dios, en una palabra. 259¡A crearle, sí! 260Lo que no debe escandalizar se diga ni al más piadoso teísta. 261Porque creer en Dios es en cierto modo crearlo; aunque Él nos cree antes. 262Es Él quien en nosotros se crea de continuo a sí mismo. 263 Hemos creado a Dios para salvar al Universo de la nada, pues lo que no es conciencia y conciencia eterna, consciente de su eternidad y eternamente consciente, no es nada más que apariencia. 264 Lo único de veras real es lo que siente, sufre, compadece, ama y anhela, es la conciencia; lo único sustancial es la conciencia. 265 Y necesitamos a Dios para salvar la conciencia; no para pensar la existencia, sino para vivirla; no para saber por qué y cómo es, sino para sentir para qué es. 266El amor es un contrasentido si no hay Dios. 267 Veamos ahora eso de Dios, lo del Dios lógico o Razón Suprema, y lo del Dios biótico o cordial, esto es, el Amor Supremo. 318 !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 267. Veamos ahora eso de Dios, lo del Dios lógico o Razón Suprema, y lo del Dios biótico o cordial, esto es, el Amor Supremo. | Por Cristo, por el Cristo oculto en las almas, se sube al Dios Padre, al Dios vivo del Amor, pero del Dios abstracto y lógico del intelectualismo de la Razón Suprema, que no es sino la mera razón humana proyectada al infinito, no se saca vida, paz ni justicia. Sólo conoce al Padre el Hijo y aquél a quien el Hijo se lo revele. El corazón cristiano nos manifiesta al Dios Padre, al Dios personal y vivo, al Dios que es Amor y Amor paternal, en cuya fe reposamos y nos vivificamos; la razón deísta acaba por anegar a Dios en el mundo y disolverlo. A Dios no se prueba ni se puede probar, se le siente. Dios no es racional, es cordial. EMS (23-27) ! ###! CAPITOLO VIII DE DIOS A DIOS 1 No creo que sea violentar la verdad decir que el sentimiento religioso es sentimiento de divinidad y que sólo con violencia del corriente lenguaje humano puede hablarse de religión atea. 2 Aunque es claro que todo dependerá del concepto que de Dios nos formemos. 3Concepto que depende a su vez del de divinidad. 4 Convienenos, en efecto, comenzar por el sentimiento de divinidad, antes de mayusculizar el concepto de esta cualidad, y articulándola, convertirla en la Divinidad, esto es, en Dios. 5Porque el hombre ha ido a Dios por lo divino más bien que ha deducido lo divino de Dios. 6 Ya antes, en el curso de estas algo errabundas y a la par insistentes reflexiones sobre el sentimiento trágico de la vida, recordé el timor fecit deos de Estacio para corregirlo y limitarlo. 7Ni es cosa de trazar una vez más el proceso histórico por que los pueblos han llegado al sentimiento y al concepto de un Dios personal como el del cristianismo. 8Y digo los pueblos y no los individuos aislados, porque si hay sentimiento y concepto colectivo, social, es el de Dios, aunque el individuo lo individualice luego. 9La filosofía puede tener, y de hecho tiene, un origen individual; la teología es necesariamente colectiva. 10 La doctrina de Schleirmacher que pone el origen, o más bien la esencia del sentimiento religioso, en el inmediato y sencillo sentimiento de dependencia, parece ser la explicación más profunda y exacta. 11 El hombre primitivo, viviendo en sociedad, se siente depender de misteriosas potencias que invisiblemente le rodean, se siente en comunión social, no sólo con sus semejantes, los demás hombres, sino con la Naturaleza toda animada e inanimada, lo que no quiere decir otra cosa sino que lo perso naliza todo. 12No sólo tiene él conciencia del mundo, sino que se imagina que el mundo tiene también conciencia como él. 13 Lo mismo que un niño habla a su perro o a su muñeco, cual si le entendiesen, cree el salvaje que lo oye su fetiche o que la nube tormentosa se acuerda de él y le persigue. 14 Y es que el espíritu del hombre natural, primitivo, no se ha desplacentado todavía de la Naturaleza, ni ha marcado el lindero entre el sueño y la vigilia, entre la realidad y la imaginación. 15 No fue, pues, lo divino, algo objetivo, sino la subjetividad de la conciencia proyectada hacia fuera, la personalización del mundo. 16El concepto de divinidad surgió del sentimiento de ella, y el sentimiento de divinidad no es sino el mismo oscuro y naciente sentimiento de personalidad vertido a lo de fuera. ! 17 Ni cabe en rigor decir fuera y dentro, objetivo y subjetivo, cuando tal ##$! distinción no era sentida, y siendo como es, de esa distinción de donde el sentimiento y el concepto de divinidad proceden. 18 Cuanto más clara la conciencia de la distinción entre lo objetivo y lo subjetivo, tanto más oscuro el sentimiento de divinidad en nosotros. 19 Hase dicho, y al parecer con entera razón, que el paganismo helénico es, más bien que politeísta, panteísta. 20 La creencia en muchos dioses tomando el concepto de Dios como hoy le tomamos, no sé que haya existido en cabeza humana. 21 Y si por panteísmo se entiende la doctrina no de que todo y cada cosa es Dios -proposición para mí indispensable-, sino de que todo es divino, sin gran violencia cabe decir que el paganismo era politeísta. 22 Los dioses, no sólo se mezclaban entre los hombres, sino que se mezclaban con ellos; engendraban los dioses en mujeres mortales, y los hombres mortales engendraban en las diosas a semidioses. 23 Y si hay semidioses, esto es, semihombres, es tan sólo porque lo divino y lo humano eran caras de una misma realidad. 24 La divinización de todo no era sino su humanización. 25Y decir que el Sol era un dios equivalía a decir que era un hombre, una conciencia humana más o menos agrandada y sublimada. 26 Y esto vale desde el fetichismo hasta el paganismo helénico. 27 En lo que propiamente se distinguían los dioses de los hombres era en que aquellos eran inmortales. 28Un dios venía a ser un hombre inmortal, y divinizar a un hombre, considerarle como a un Dios, era estimar que, en rigor, al morirse no había muerto. 29 De ciertos héroes se creía que fueron vivos al reino de los muertos. 30Y este es un punto importantísimo para estimar el valor de lo divino. 31 En aquellas repúblicas de dioses había siempre algún dios máximo, algún verdadero monarca. 32 La monarquía divina fue la que, por el monocultismo, llevó a los pueblos al monoteísmo. 33 Monarquía y monoteísmo son, pues, cosas gemelas. 34 Zeus, Júpiter, iba en camino de convertirse en dios único, como en dios único, primero del pueblo de Israel, después de la humanidad y, por último, del Universo todo, se convirtió Yavé, que empezó siendo uno de entre tantos dioses. 35 Como la monarquía, tuvo el monoteísmo un origen guerrero. 36 «Es en la marcha y en tiempo de guerra dice Robertson Smith, The Prophets of Israel, lect. I- cuando un pueblo nómada siente la instante necesidad de una autoridad central, y así ocurrió que en los primeros comienzos de la organización nacional en torno al santuario del arca, Israel se creyó la hueste de Jehová. 37 El nombre mismo de Israel es marcial y significa Dios pelea, y Jehová es en el Viejo Testamento Iahwé Zebahãt, el Jehová de los ejércitos de Israel. 38Era en el campo de batalla donde se sentía más claramente la presencia de Jehová; pero en las naciones primitivas, el caudillo de tiempo de guerra es también juez natural en tiempo de paz.» ! ##%! 39 Dios, el Dios único, surgió, pues, del sentimiento de divinidad en el hombre como Dios guerrero monárquico y social. 40 Se reveló al pueblo, no a cada individuo. 41 Fue el Dios de un pueblo y exigía celoso se le rindiese culto a él solo, y de este monocultismo se pasó al monoteísmo, en gran parte por la acción individual, más filosófica acaso que teológica, de los profetas. 42Fue, en efecto, la actividad individual de los profetas lo que individualizó la divinidad. 43 Sobre todo al hacerla ética. 44 Y de este Dios surgido así en la conciencia humana a partir del sentimiento de divinidad, apoderóse luego la razón, esto es, la filosofía, y tendió a definirlo, a convertirlo en idea. 45 Porque definir algo es idealizarlo, para lo cual hay que prescindir de su elemento inconmensurable o irracional, de su fondo vital. 46 Y el Dios sentido, la divinidad sentida como persona y conciencia única fuera de nosotros, aunque envolviéndonos y sosteniéndonos, se convirtió en la idea de Dios. 47 El Dios lógico, racional, el ens summum, el primum movens, el Ser Supremo de la filosofía teológica, aquel a que se llega por los tres famosos caminos de negación, eminencia y causalidad, viae negationis, eminentiae, causalitatis no es más que una idea de Dios, algo muerto. 48 Las tradicionales y tantas veces debatidas pruebas de su existencia no son, en el fondo, sino un intento vano de determinar su esencia; porque como hacía muy bien notar Vinet, la existencia se saca de la esencia; y decir que Dios existe, sin decir qué es Dios y cómo es, equivale a no decir nada. 49 Y este Dios, por eminencia y negación o remoción de cualidades finitas, acaba por ser un Dios impensable, una pura idea, un Dios de quien, a causa de su excelencia misma ideal podemos decir que no es nada, como ya definió Escoto Eriugena: Deus propter excellentiam non inmerito nihil vocatur. 50O con frase del falso Dionisio Areopagita, en su epístola 5: «La divina tiniebla es la luz inaccesible en la que se dice habita Dios.» 51 El Dios antropomórfico y sentido, al ir purificándose de atributos humanos, y como tales finitos y relativos y temporales, se evapora en el Dios del deísmo o del panteísmo. 52 Las supuestas pruebas clásicas de la existencia de Dios refiriéndose todas a este Dios-Idea, a este Dios lógico, al Dios por remoción, y de aquí que en rigor no prueben nada, es decir, no prueban más que la existencia de esa idea de Dios. 53 Era yo un mozo que empezaba a inquietarme de estos eternos problemas, cuando en cierto libro, de cuyo autor no quiero acordarme, leí esto: «Dios es una gran equis sobre la barrera última de los conocimientos humanos; a medida que la ciencia avanza, la barrera se retira.» 54Y escribí al margen: «De la barrera acá, todo se explica sin Él; de la barrera allá, ni con Él ni sin Él; Dios, por lo tanto, sobra.» 55Y respecto al Dios-Idea, al de las pruebas, sigo en la misma sentencia. 56Atribúyese a Laplace la frase de que no había necesitado de la hipótesis de Dios para construir su sistema del ! ##&! origen del Universo, y así es muy cierto. 57 La idea de Dios en nada nos ayuda para comprender mejor la existencia, la esencia y la finalidad del Universo. 58 No es más concebible el que haya un Ser Supremo infinito, absoluto y eterno, cuya esencia desconocemos, que haya creado el Universo, que el que la base material del Universo mismo, su materia, sea eterna e infinita y absoluta. 59 En nada comprendemos mejor la existencia del mundo con decirnos que lo creó Dios. 60Es una petición de principio o una solución meramente verbal para encubrir nuestra ignorancia. 61 En rigor deducimos la existencia del Creador del hecho de que lo creado existe, y no se justifica racionalmente la existencia de Aquel; de un hecho no se saca una necesidad o es necesario todo. 62 Y si del modo de ser del Universo pasamos a lo que se llama orden y que se supone necesita un ordenador, cabe decir que orden es lo que hay y no concebimos otro. 63La prueba esa del orden del Universo implica un paso del orden ideal al real, un proyectar nuestra mente fuera, un suponer que la explicación racional de una cosa produce la cosa misma. 64 El arte humano, aleccionado por la Naturaleza, tiene un hacer consciente con que comprende el modo de hacer, y luego trasladamos este hacer artístico y consciente a una conciencia de un artista, que no se sabe de qué naturaleza aprendió su arte. 65 La comparación ya clásica con el reloj y el relojero, es inaplicable a un Ser absoluto, infinito y eterno. 66 Es, además, otro modo de no explicar nada. 67 Porque decir que el mundo es como es y no de otro modo porque Dios así lo hizo, mientras no sepamos por qué razón lo hizo así, es no decir nada. 69 68 Y si sabemos la razón de haberlo así hecho Dios, este sobra, y la razón basta. Si todo fuera matemáticas, si no hubiese elemento irracional, no se habría acudido a esa explicación de un Sumo Ordenador, que no es sino la razón de lo irracional y otra tapadera de nuestra ignorancia. 70 Y no hablemos de aquella ridícula ocurrencia de que, echando al azar caracteres de imprenta, no puede salir compuesto el Quijote. 71 Saldría compuesta cualquier otra cosa que llegaría a ser un Quijote para los que a ella tuviesen que atenerse y en ella se formasen y formaran parte de ella. 72 Esa ya clásica supuesta prueba redúcese, en el fondo, a hipostatizar o sustantivar la explicación o razón de un fenómeno, a decir que la Mecánica hace el movimiento, la Biología la vida, la Filología el lenguaje, la Química los cuerpos sin más que mayusculizar la ciencia y convertirla en una potencia distinta de los fenómenos de que la extraemos y distinta de nuestra mente que la extrae. 73 Pero a ese Dios así obtenido, y que no es sino la razón hipostatizada y proyectada al infinito, no hay manera de sentirlo como algo vivo y real y ni aun de concebirlo sino como una mera idea que con nosotros morirá. ! ##'! 74 Pregúntase, por otra parte, si una cosa cualquiera imaginada pero no existente, no existe porque Dios no lo quiere, o no lo quiere Dios porque no existe y respecto a lo imposible si es que no puede ser porque Dios así lo quiere, o no lo quiere Dios porque ello en sí y por su absurdo mismo no puede ser. 75Dios tiene que someterse a la ley lógica de contradicción, y no puede hacer, según los teólogos que dos más dos hagan más o menos que cuatro. sobre Él o es Él mismo. 77 76 La ley de la necesidad está Y en el orden moral se pregunta si la mentira, o el homicidio, o el adulterio, son malos porque así lo estableció o si lo estableció así porque ello es malo. 78 Si lo primero, Dios o es un Dios caprichoso y absurdo que establece una ley pudiendo haber establecido otra, u obedece a una naturaleza y esencia intrínseca de las cosas mismas independiente de Él, es decir, de su voluntad soberana; y si es así, si obedece a una razón de ser de las cosas, esta razón, si la conociésemos, nos bastaría sin necesidad alguna de más Dios, y no conociéndola ni Dios tampoco nos aclara nada. 79 Esa razón estaría sobre Dios. mismo, razón suprema de las cosas. 81 319 80 Ni vale decir que esa razón es Dios Una razón así, necesaria, no es algo personal. 82 La personalidad la da la voluntad. 83Y es este problema de las relaciones entre la razón necesariamente necesaria, de Dios y su voluntad, necesariamente libre, lo que hará siempre del Dios lógico o aristotélico un Dios contradictorio. 84 Los teólogos escolásticos no han sabido nunca desenredarse de las dificultades en que se veían metidos al tratar de conciliar la libertad humana con la presencia divina y el conocimiento que Dios tiene de lo futuro contingente y libre; y es porque, en rigor, el Dios racional es completamente inaplicable a lo contingente, pues que la noción de contingencia no es, en el fondo, sino la noción de irracionalidad. 85 El dios racional es forzosamente necesario en su ser y en su obrar, no puede hacer en cada caso sino lo mejor, y no cabe que haya varias cosas igualmente mejores, pues entre infinitas posibilidades sólo hay una que sea la más acomodada a su fin, como entre las infinitas líneas que pueden trazarse de un punto a otro sólo hay una recta. 86Y el Dios racional, el Dios de la razón, no puede menos sino seguir en cada caso la línea recta, la más conducente al fin que se propone, fin necesario como es necesaria la única recta dirección que a él conduce. divinidad de Dios es sustituida por su necesidad. libre, es decir, su personalidad consciente. 88 87 Y así la Y en la necesidad de Dios perece su voluntad 89 El Dios que anhelamos, el Dios que ha de salvar nuestra alma de la nada, el Dios inmortalizador, tiene que ser un Dios arbitrario. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 80. Ni vale decir que esa razón es Dios mismo, razón suprema de las cosas. | Por Cristo, por el Cristo oculto en las almas, se sube al Dios Padre, al Dios vivo del Amor, pero del Dios abstracto y lógico del intelectualismo de la Razón Suprema, que no es sino la mera razón humana proyectada al infinito, no se saca vida, paz ni justicia. Sólo conoce al Padre el Hijo y aquél a quien el Hijo se lo revele. El corazón cristiano nos manifiesta al Dios Padre, al Dios personal y vivo, al Dios que es Amor y Amor paternal, en cuya fe reposamos y nos vivificamos; la razón deísta acaba por anegar a Dios en el mundo y disolverlo. A Dios no se prueba ni se puede probar, se le siente. Dios no es racional, es cordial. EMS (23-27) ! ##(! 90 Y es que Dios no puede ser Dios porque piensa, sino porque obra, porque crea; no es un Dios contemplativo, sino activo. 91 Un Dios Razón, un Dios teórico o contemplativo, como es el Dios este del racionalismo teológico, es un Dios que se diluye en su propia contemplación. 92A este Dios corresponde, como veremos, la visión beatífica como expresión suprema de la felicidad eterna. 93 Un Dios quietista, en fin, como es quietista por su esencia misma la razón. 94 Queda la otra famosa prueba, la del consentimiento, supuestamente unánime, de los pueblos todos en creer en un Dios. 95 Pero esta prueba no es en rigor racional ni a favor del Dios racional que explica el Universo, sino del Dios cordial que nos hace vivir. 96 Sólo podríamos llamarla racional en el caso de que creyésemos que la razón es el consentimiento, más o menos unánime, de los pueblos, el sufragio universal, en el caso de que hiciésemos razón a la vox populi que se dice vox Dei. 97 Así lo creía aquel trágico y ardiente Lamennais, el que dijo que la vida y la verdad no son sino una sola y misma cosa -¡ojalá!-, y que declaró a la razón una, universal; perpetua y santa (Essai sur l'indifférence, IV partie, chap. XIII ). 98 Y glosó el «o hay que creer a todos o a ninguno» -aut omnibus credendum est aut nemini-, de Lactancio, y aquello de Heráclito de que toda opinión individual es falible, y lo de Aristóteles de que la más fuerte prueba es el consentimiento de los hombres todos, y sobre todo lo de Plinio (en Paneg. Trajani LXII) de que ni engaña uno a todos ni todos a uno -nemo omnes, neminem, omnes fefellerunt-. 99¡Ojalá! 100Y así se acaba en lo de Cicerón (De natura deorum, lib. III, capítulo 11, 5 y 6) de que hay que creer a nuestros mayores, aun sin que nos den razones, maioribus autem nostris, etiam nulla ratione reddita credere. 101 Sí, supongamos que es universal y constante esa opinión de los antiguos que nos dice que lo divino penetra a la Naturaleza toda, y que sea un dogma paternal, 2$v*'#+% )+v8$, como dice Aristóteles (Metaphysica, lib. VII, cap. VII); eso probaría sólo que hay un motivo que lleva a los pueblos y los individuos -sean todos o casi todos o muchos -a creer en un Dios. 102Pero ¿no es que hay acaso ilusiones y falacias que se fundan en la naturaleza misma humana? 103¿No empiezan los pueblos todos por creer que el Sol gira en torno de ellos? todos a creer lo que satisface nuestro anhelo? 105 104 ¿Y no es natural que propendamos ¿Diremos con W. Hermann (véase Christliche systematische Dogmatik, en el tomo Systematische christliche Religion, de la colección Die Kultur der Gegenwart, editada por P. Hinneberg), «que si hay un Dios, no se ha dejado sin indicársenos de algún modo, y quiere ser hallado por nosotros»? 106 Piadoso deseo, sin duda, pero no razón en su estricto sentido, como no le apliquemos la sentencia agustiniana, que tampoco es razón de «pues que me buscas, es que me encontraste», creyendo que es Dios quien hace que le busquemos. ! ##)! 107 Este famoso argumento del consentimiento supuesto unánime de los pueblos, que es el que con un seguro instinto más emplearon los antiguos, no es, en el fondo y trasladado de la colectividad al individuo, sino la llamada prueba moral la que Kant, en su Crítica de la razón práctica, empleó, la que se saca de nuestra conciencia -o más bien de nuestro sentimiento de la divinidad- y que no es una prueba estricta y específicamente racional, sino vital, y que no puede ser aplicada al Dios lógico, al ens summum, al Ser simplicísimo y abstractísimo, al primer motor inmóvil e impasible, al Dios Razón, en fin, que ni sufre ni anhela, sino al Dios biótico, al ser complejísimo y concretísimo, al Dios paciente que sufre y anhela en nosotros y con nosotros, al Padre de Cristo, al que no se puede ir sino por el Hombre, por su Hijo (véase Juan, XIV, 6), y cuya revelación es histórica, o si se quiere, anecdótica, pero no filosófica, ni categórica. 108 El consentimiento unánime -¡supongámosle así!- de los pueblos, o sea el universal anhelo de las almas todas humanas que llegaron a la conciencia de su humanidad que quiere ser fin y sentido del Universo, ese anhelo, que no es sino aquella esencia misma del alma, que consiste en su conato por persistir eternamente y porque no se rompa la continuidad de la conciencia, nos lleva al Dios humano, antropomórfico, proyección de nuestra conciencia a la Conciencia del Universo, al Dios que da finalidad y sentido humanos al Universo y que no es el ens summum, el primum movens, ni el creador del Universo, no es la Idea-Dios. 109 Es un Dios vivo, subjetivo -pues que no es sino la subjetividad objetivada o la personalidad universalizada-, que es más que mera idea, y antes que razón es voluntad. 110Dios es Amor, esto es, Voluntad. 111La razón, el Verbo, deriva de Él; pero Él, el Padre, es, ante todo, Voluntad. 112 «No cabe duda alguna -escribe Ritschl (Rechtfertigung und Versöhnung, III, cap. V) -que la personalidad espiritual de Dios es estimada muy imperfectamente en la antigua teología al limitarla a las funciones de conocer y querer. 113La concepción religiosa no puede menos de aplicar a Dios también el atributo del sentimiento espiritual. 114 Pero la antigua teología ateníase a la impresión de que el sentimiento y el afecto son notas de una personalidad limitada y creada, y transformaba la concepción de la felicidad de Dios, verbigracia, en el eterno conocerse a sí mismo, y la del odio en el habitual propósito de castigar el pecado.» 115 Sí, aquel Dios lógico, obtenido via negationis, era un Dios que, en rigor, ni amaba ni odiaba, porque ni gozaba ni sufría, un Dios sin pena ni gloria, inhumano, y su justicia una justicia racional o matemática, esto es, una injusticia. 116 Los atributos del Dios vivo, del Padre de Cristo, hay que deducirlos de su revelación histórica en el Evangelio y en la conciencia de cada uno de los creyentes cristianos, y no de razonamientos metafísicos que sólo llevan al Dios-Nada de Escoto Eriugena, al Dios racional o panteístico, al Dios ateo, en fin, a la Divinidad despersonalizada. ! ##*! 117 Y es que al Dios vivo, al Dios humano, no se llega por camino de razón, sino por camino de amor y de sufrimiento. 118 La razón nos aparta más bien de Él. 119 No es posible conocerle para luego amarle; hay que empezar por amarle, por anhelarle, por tener hambre de Él, antes de conocerle. 120 El conocimiento de Dios procede del amor a Dios, y es un conocimiento que poco o nada tiene de racional. 121Porque Dios es indefinible. 122Querer definir a Dios es pretender limitarlo en nuestra mente; matarlo. 123En cuanto tratamos de definirlo, nos surge la nada. 124 La idea de Dios de la pretendida teodicea racional, no es más que una hipótesis, como, por ejemplo, la idea del éter. 125 Éste, el éter, en efecto, no es sino una entidad supuesta, y que no tiene valor sino en cuanto explica lo que por ella tratamos de explicarnos; la luz, o la electricidad o la gravitación universal, y sólo en cuanto no se pueda explicar estos hechos de otro modo. 126Y así, la idea de Dios es una hipótesis también, que sólo tiene valor en cuanto con ella nos explicamos lo que tratamos con ella de explicarnos: la existencia y esencia del Universo, y mientras no se expliquen mejor de otro modo. 127 Y como en realidad no nos explicamos ni mejor ni peor con esa idea que sin ella, la idea de Dios, suprema petición de principio, marra. 128 Pero si el éter no es sino una hipótesis para explicar la luz, el aire, en cambio es una cosa inmediatamente sentida; y aunque con él no nos explicásemos el sonido, tendríamos siempre su sensación directa, sobre todo la de su falta, en momentos de ahogo, de hambre de aire. 129 Y de la misma manera, Dios mismo, no ya la idea de Dios, puede llegar a ser una realidad inmediatamente sentida, y aunque no nos expliquemos con su idea ni la existencia ni la esencia del Universo, tenemos a las veces el sentimiento directo de Dios, sobre todo en los momentos de ahogo espiritual. 130 Y este sentimiento -obsérvese bien, porque en esto estriba todo lo trágico de él y el sentimiento trágico de toda la vida-, es un sentimiento de hambre de Dios, de carencia de Dios. 131Creer en Dios es en primera instancia, y como veremos, querer que haya Dios, no poder vivir sin Él. 132 Mientras peregriné por los campos de la razón a busca de Dios, no pude encontrarle, porque la idea de Dios no me engañaba, ni pude tomar por Dios a una idea, y fue entonces, cuando erraba por los páramos del racionalismo, cuando me dije que no debemos buscar más consuelo que la verdad, llamando así a la razón, sin que por eso me consolara. 133 Pero al ir hundiéndome en el escepticismo racional de una parte y en la desesperación sentimental de otra, se me encendió el hambre de Dios, y el ahogo de espíritu me hizo sentir, con su falta, su realidad. 134Y quise que haya Dios, que exista Dios. 135Y Dios no existe, sino que más bien sobreexiste, y está sustentando nuestra existencia existiéndonos. 136 Dios, que es el Amor, el Padre del Amor, es hijo del amor en nosotros. 137 Hay hombres ligeros y exteriores, esclavos de la razón que nos exterioriza, que creen haber dicho algo con decir ! #$+! que lejos de haber hecho Dios al hombre a su imagen y semejanza, es el hombre el que a su imagen y semejanza se hace sus dioses o su Dios, sin reparar, los muy livianos, que si esto segundo es, como realmente es, así, se debe a que no es menos verdad lo primero. 138Dios y el hombre se hacen mutuamente, en efecto; Dios se hace o se revela en el hombre, y el hombre se hace en Dios. 139Dios se hizo a sí mismo, Deus ipse se fecit, dijo Lactancio (Divinarum institutionum, 11, 8), y podemos decir que se está haciendo, y en el hombre y por el hombre. 140 Y si cada cual de nosotros, en el empuje de su amor, en su hambre de divinidad, se imagina a Dios a su medida; y a su medida se hace Dios para él, hay un Dios colectivo, social, humano, resultante de las imaginaciones todas humanas que le imaginan. 141Porque Dios es y se revela en la colectividad. 142Y es Dios la más rica y más personal concepción humana. 143 Nos dijo el Maestro de divinidad que seamos perfectos, como es perfecto nuestro Padre que está en los cielos (Mat., V, 48), y en el orden del sentir y el pensar nuestra perfección consiste en ahincarnos porque nuestra imaginación llegue a la total imaginación de la humanidad de que formamos, en Dios, parte. 144 Conocida es la doctrina lógica de la contraposición entre la extensión y la comprensión de un concepto, y cómo a medida que la una crece, la otra mengua. 145 El concepto más extenso y a la par menos comprensivo, es el de ente o cosa que abarca todo lo existente y no tiene más nota que la de ser, y el concepto más comprensivo y el menos extenso es el del Universo, que sólo a sí mismo se aplica y comprende todas las notas existentes. 146 Y el Dios lógico o racional, el Dios obtenido por vía de negación, el ente sumo, se sume, como realidad, en la nada, pues el ser puro y la pura nada, según enseñaba Hegel, se indentifican. 147Y el Dios cordial o sentido, el Dios de los vivos, es el Universo mismo personalizado, es la conciencia del Universo. 148 Un Dios universal y personal, muy otro que el Dios in dividual del rígido monoteísmo metafísico. 149 Debo aquí advertir una vez más cómo opongo la individualidad a la personalidad, aunque se necesiten la una a la otra. 150 La individualidad es, si puedo así expresarme, el continente, y la personalidad el contenido, o podría también decir, en un cierto sentido, que mi personalidad es mi comprensión, lo que comprendo y encierro en mí -y que es de una cierta manera todo el Universo-, y mi individualidad es mi extensión; lo uno, lo infinito mío, y lo otro, mi finito. 151 Cien tinajas de fuerte casco de barro están vigorosamente individualizadas, pero pueden ser iguales y vacías, a lo sumo llenas del mismo líquido homogéneo, mientras que dos vejigas de membrana sutilísima, a través de la cual se verifica activa ósmosis y exósmosis pueden diferenciarse fuertemente y estar llenas de líquidos muy complejos. 152 Y así puede uno destacarse fuertemente de otros, en cuanto individuo, siendo como un crustáceo espiritual, y ser pobrísimo de contenido diferencial. ! #$"! 153 Y sucede más aún, y es que cuanta más personalidad tiene uno, cuanto mayor riqueza interior, cuanto más sociedad es en sí mismo, menos rudamente se divide de los demás. 154Y de la misma manera, el rígido Dios del deísmo, del monoteísmo aristotélico, el ens summum, es un ser en quien la individualidad, o más bien, la simplicidad, ahoga a la personalidad. 155La definición le mata, porque definir es poner fines, es limitar, y no cabe definir lo absolutamente indefinible. 156Carece ese Dios de riqueza interior; no es sociedad en sí mismo. 157Y a esto obvió la revelación vital con la creencia en la Trinidad que hace de Dios una sociedad, y hasta una familia en sí, y no ya un puro individuo. 158 El Dios de la fe es personal; es personal, porque incluye tres personas, puesto que la personalidad no se siente aislada. 159Una persona aislada deja de serlo. 160¿A quién, en efecto, amaría? 161Y si no ama, no es persona. 162Ni cabe amarse a sí mis mo siendo simple y sin desdoblarse por el amor. 163 Fue el sentir a Dios como al Padre lo que trajo consigo la fe en la Trinidad. 164 Porque un Dios Padre no puede ser un Dios soltero, esto es, solitario. 165Un padre es siempre padre de familia. 166 Y el sentir a Dios como padre, ha sido una perenne sugestión a concebirlo, no ya antropomórficamente, es decir, como a hombre ánthropos-, sino andromórficamente, como a varón -anér-. 168 167 A Dios Padre, en efecto, concíbelo la imaginación popular cristiana como a un varón. Y es porque el hombre, homo, $j&.',2+%, no se nos presenta sino como varón, vir, $j&3' o como mujer, mulier, 01&5v. 169A lo que puede añadirse el niño, que es neutro. 170Y de aquí, para completar con la imaginación la necesidad sentimental de un dios hombre perfecto, esto es, familia, el culto al Dios Madre, a la Virgen María, y el culto al niño Jesús. 171 El culto a la Virgen, en efecto, la mariolatría, que ha ido poco a poco elevando en dignidad lo divino de la Virgen, hasta casi deificarla, no responde sino a la necesidad sentimental de que Dios sea hombre perfecto, de que entre la feminidad en Dios. 172 Desde la expresión de Madre de Dios, .(+*("+%, deípara, ha sido la piedad católica exaltando a la Virgen María hasta declararla corredentora y proclamar dogmática su concepción sin mancha de pecado original, lo que la pone ya entre la Humanidad y la Divinidad y más cerca de esta que de aquella. 173 Y alguien ha manifestado sus sospecha de que, con el tiempo, acaso se llegue a hacer de ella algo así como una persona divina más. 174 Y tal vez no por esto la Trinidad se convirtiese en Cuaternidad. 175Si 2&(1'µ$, espíritu en griego, en vez de ser neutro fuese femenino, ¿quién sabe si no se hubiese hecho ya de la Virgen María una encarnación o humanización del Espíritu Santo? 176 El texto del Evangelio, según Lucas en el versículo 35 del capítulo I, donde se narra la Anunciación por el ángel Gabriel que le dice: «El Espíritu Santo vendrá sobre ti», 2&(1'µ$ $J0#+& (j2(-(1v!(*$# (j2#; !(; habría bastado para una encendida piedad que sabe siempre plegar a sus deseos la especulación teológica. ! #$#! 177 Y habríase hecho un trabajo dogmático paralelo al de la divinización de Jesús, el Hijo, y su identificación con el Verbo. 178 De todos modos, el culto a la Virgen, a lo eterno femenino, a la maternidad divina, acude a completar la personalización de Dios haciéndole familia. 179 En uno de mis libros (Vida de Don Quijote y Sancho, segunda parte, cap. LXVII) he dicho que «Dios era y es en nuestras mentes masculino. 180 Su modo de juzgar y condenar a los hombres, modo de varón, no de persona humana por encima de sexo; modo de Padre. 181 Y para compensarlo hacía falta la Madre, la madre que perdona siempre, la madre que abre siempre los brazos al hijo cuando huye este de la mano levantada o del ceño fruncido del irritado padre; la madre en cuyo regazo se busca como consuelo una oscura remembranza de aquella tibia paz de la inconsciencia que dentro de él fue el alba que precedió a nuestro nacimiento y un dejo de aquella dulce leche que embalsamó nuestros sueños de inocencia; la madre que no conoce más justicia que el perdón ni más ley que el amor. 182 Nuestra pobre e imperfecta concepción de un Dios con largas barbas y voz de trueno, de un Dios que impone preceptos y pronuncia sentencias, de un Dios Amo de casa, Pater familias a la romana, necesitaba compensarse y completarse; y como en el fondo no podemos concebir al Dios personal y vivo, no ya por encima de rasgos humanos; mas ni aun por encima de rasgos varoniles, y menos un Dios neutro o hermafrodita, acudimos a darle un Dios femenino, y junto al Dios Padre hemos puesto a la Diosa Madre, a la que perdona siempre, porque como mira con amor ciego, ve siempre el fondo de la culpa y en ese fondo la justicia única del perdón... » 183 A lo que debo ahora añadir que no sólo no podemos concebir al Dios vivo y entero como solamente varón, sino que no le podemos concebir como solamente individuo, como proyección de un yo solitario, fuera de sociedad, de un yo en realidad abstracto. 184 Mi yo vivo es un yo que es en realidad un nosotros; mi yo vivo, personal, no vive sino en los demás, de los demás y por los demás yos; procedo de una muchedumbre de abuelos y en mí lo llevo en extracto, y llevo a la vez en mí en potencia una muchedumbre de nietos, y Dios, proyección de mi yo al infinito -o más bien, yo proyección de Dios a lo infinito- es también muchedumbre. 185Y de aquí, para salvar la personalidad de Dios, es decir, para salvar al Dios vivo, la necesidad de fe -esto es, sentimental e imaginativa- de concebirle y sentirle con una cierta multiplicidad interna. 186 El sentimiento pagano de divinidad viva obvió a esto con el politeísmo. de sus dioses, la república de estos lo que constituye realmente su Divinidad. 188 187 Es el conjunto El verdadero Dios del paganismo helénico es más bien que Zeus Padre (Júpiter), la sociedad toda de los dioses y semidioses. 189 Y de aquí la solemnidad de la invocación de Demóstenes cuando invocaba a los dioses todos, a todas las diosas: *+#\% .(!#\% (1j7+µ$# 2$'!# "$#; 2$v!#%. 190Y cuando los razonadores ! #$$! sustantivaron el término dios, .((%, que es propiamente un adjetivo, una cualidad predicada de cada uno de los dioses, y le añadieron un artículo, forjaron el dios -o .((% - abstracto o muerto del racionalismo filosófico, una cualidad sustantivada y falta de personalidad por lo tanto. 191 Porque el dios no es más que lo divino. 192Y es que de sentir la divinidad en todo no puede pasarse, sin riesgo para el sentimiento, a sustantivarla y hacer de la Divinidad Dios. 193 Y el Dios aristotélico, el de las pruebas lógicas, no es más que la Divinidad, un concepto y no una persona viva a que se pueda sentir y con la que pueda por el amor comunicarse el hombre. 194 Ese Dios que no es sino un adjetivo sustantivado, es un dios constitucional que reina, pero no gobierna; la Ciencia es su carta constitucional. 195 Y en el propio paganismo grecolatino, la tendencia al monoteísmo vivo se ve en concebir y sentir a Zeus como padre, 2$*3' que le llama Homero, Iu-piter, o sea Iu-pater entre los latinos, y padre de toda una dilatada fami lia de dioses y diosas que con él constituyen la Divinidad. 196 De la conjunción del politeísmo pagano con el monoteísmo judaico, que había tratado por otros medios de salvar la personalidad de Dios, resultó el sentimiento del Dios católico, que es sociedad, como era sociedad ese Dios pagano de que dije, y es uno como el Dios de Israel acabó siéndolo. 197Y tal es la Trinidad, cuyo más hondo sentido rara vez ha logrado comprender el deísmo racionalista, más o menos impregnado de cristianismo, pero siempre unitario o sociniano. 198 Y es que sentimos a Dios, más bien que como una conciencia sobrehumana, como la conciencia misma del linaje humano todo, pasado, presente y futuro, como la conciencia colectiva de todo el linaje, y aún más como la conciencia total e infinita que abarca y sostiene las conciencias todas, infrahumanas, humanas y acaso sobrehumanas. 199La divinidad que hay en todo, desde la más baja, es decir, desde la menos consciente forma viva, hasta la más alta, pasando por nuestra conciencia humana, la sentimos personalizada, consciente de sí misma en Dios. 200 Y a esa gradación de conciencias, sintiendo el salto de la nuestra humana a la plenamente divina, a la universal, responde la creencia en los ángeles con sus diversas jerarquías, como intermedios entre nuestra conciencia humana y la de Dios. 201Gradaciones que una fe coherente consigo misma ha de creer infinitas, pues sólo por infinito número de grados puede pasarse de lo finito a lo infinito. 202 El racionalismo deísta concibe a Dios como Razón del Universo, pero su lógica le lleva a concebirlo como una razón impersonal, es decir, como una idea, mientras el vitalismo deísta siente e imagina a Dios como Conciencia y, por lo tanto, como persona o más bien como sociedad de ! #$%! personas. 203 320 La conciencia de cada uno de nosotros, en efecto, es una sociedad de personas; en mí viven varios yos, y hasta los yos de aquellos con quien vivo. 204 El Dios del racionalismo deísta, en efecto, el Dios de las pruebas lógicas de su existencia, el ens realissimum y primer motor inmóvil, no es más que una Razón suprema, pero en el mismo sentido en que podemos llamar razón de la caída de los cuerpos a la ley de la gravitación universal, que es su explicación. 205 Pero dirá alguien que esa que llamamos ley de la gravitación universal, u otra cualquiera ley o un principio matemático, es una realidad propia e independiente, es un ángel, es algo que tiene conciencia de sí y de los demás, ¿que es persona? 206No, no es más que una idea sin realidad fuera de la mente del que la concibe. 207Y así ese Dios Razón o tiene conciencia de sí o carece de realidad fuera de la mente de quien lo concibe. 208 Y si tiene conciencia de sí, es ya una razón personal, y entonces todo el valor de aquellas pruebas se desvanece, porque las tales pruebas sólo probaban una razón, pero no una conciencia suprema. 209 Las matemáticas prueban un orden, una constancia, una razón en la serie de los fenómenos mecánicos, pero no prueban que esa razón sea consciente en sí. 210 Es una necesidad lógica, pero la necesidad lógica no prueba la necesidad teológica o finalista. 211Y donde no hay finalidad no hay personalidad tampoco, no hay conciencia. 212 El Dios, pues, racional, es decir, el Dios que no es sino Razón del Universo, se destruye a sí mismo en nuestra mente en cuanto tal Dios, y sólo renace en nosotros cuando en el corazón lo sentimos como persona viva, como Conciencia, y no ya sólo como Razón impersonal y objetiva del Universo. 213 Para explicarnos racionalmente la construcción de una máquina nos basta conocer la ciencia mecánica del que la construyó; pero para comprender que la tal máquina exista, pues que la Naturaleza no las hace y sí los hombres, tenemos que suponer un ser consciente constructor. 214Pero esta segunda parte del razonamiento no es aplicable a Dios, aunque se diga que en Él la ciencia mecánica y el mecanismo constructores de la máquina son una sola y misma cosa. identificación no es racional-, mente sino una petición de principio. 216 215 Esta Y así es como la razón destruye a esa Razón Suprema en cuanto persona. 217 No es la razón humana, en efecto, razón que a su vez tampoco se sustenta, sino sobre lo irracional, sobre la conciencia vital toda, sobre la voluntad y el sentimiento; no: es esa nuestra razón la que puede probarnos la existencia de una Razón Suprema, que tendría a su vez que sustentarse sobre lo Supremo Irracional, sobre la Conciencia Universal. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 218 Y la revelación sentimental e 202. El racionalismo deísta concibe a Dios [...] como persona o más bien como sociedad de personas. | Por Cristo, por el Cristo oculto en las almas, se sube al Dios Padre, al Dios vivo del Amor, pero del Dios abstracto y lógico del intelectualismo de la Razón Suprema, que no es sino la mera razón humana proyectada al infinito, no se saca vida, paz ni justicia. Sólo conoce al Padre el Hijo y aquél a quien el Hijo se lo revele. El corazón cristiano nos manifiesta al Dios Padre, al Dios personal y vivo, al Dios que es Amor y Amor paternal, en cuya fe reposamos y nos vivificamos; la razón deísta acaba por anegar a Dios en el mundo y disolverlo. A Dios no se prueba ni se puede probar, se le siente. Dios no es racional, es cordial. EMS (23-27) ! #$&! imaginativa, por amor, por fe, por obra de personalización, de esa Conciencia Suprema, es la que nos lleva a creer en el Dios vivo. 321 219 Y este Dios, el Dios vivo, tu Dios, nuestro Dios, está en mí, está en ti, vive en nosotros, y nosotros vivimos, nos movemos y somos en Él. tenemos, por el anhelo, haciéndose apetecer. 221 220 322 Y está en nosotros por el hambre que de Él Y es el Dios de los humildes, porque Dios escogió lo necio del mundo para avergonzar a los sabios, y lo flaco para avergonzar a lo fuerte, según el Apóstol (I Con, I, 27). 222Y es Dios en cada uno según cada uno lo siente y según le ama. 223«Si de dos hombres -dice Kierkegaard reza el uno al verdadero Dios con insinceridad personal, y el otro con la pasión toda de la infinitud reza a un ídolo, es el primero el que en realidad ora a un ídolo, mientras que el segundo ora en verdad a Dios.» quien se reza y se anhela de verdad. 225 224 Mejor es decir que es Dios verdadero Aquel a Y hasta la superstición misma puede ser más reveladora que la teología. 226El viejo Padre de luengas barbas y melenas blancas, que aparece entre nubes llevando la bola del mundo en la mano, es más vivo y más verdadero que el ens realissimum de la teodicea. 227 La razón es una fuerza analítica, esto es, disolvente, cuando dejando de obrar sobre la forma de las intuiciones, ya sean del instinto individual de conservación, ya del instinto social de perpetuación, obra sobre el fondo, sobre la materia misma de ellas. 228 La razón ordena las percepciones sensibles que nos dan el mundo material; pero cuando su análisis se ejerce sobre la realidad de las percepciones mismas, nos las disuelve y nos sume en un mundo aparencial, de sombras sin consistencia, porque la razón fuera de lo formal es nihilista, aniquiladora. 229 Y el mismo terrible oficio cumple cuando sacándola del suyo propio la llevamos a escudriñar las intuiciones imaginativas que nos dan el mundo espiritual. 230 323 Porque la razón aniquila y la imaginación entera, integra o totaliza; la razón por sí sola mata y la imaginación es la que la vida. 231 Si bien es cierto que la imaginación por sí sola, al darnos vida sin límites nos lleva a confundirnos con todo, y en cuanto individuos, nos mata también, nos mata por exceso de vida. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 217-218. No es la razón humana, en efecto [...] es la que nos lleva a creer en el Dios vivo. | Por Cristo, por el Cristo oculto en las almas, se sube al Dios Padre, al Dios vivo del Amor, pero del Dios abstracto y lógico del intelectualismo de la Razón Suprema, que no es sino la mera razón humana proyectada al infinito, no se saca vida, paz ni justicia. Sólo conoce al Padre el Hijo y aquél a quien el Hijo se lo revele. El corazón cristiano nos manifiesta al Dios Padre, al Dios personal y vivo, al Dios que es Amor y Amor paternal, en cuya fe reposamos y nos vivificamos; la razón deísta acaba por anegar a Dios en el mundo y disolverlo. A Dios no se prueba ni se puede probar, se le siente. Dios no es racional, es cordial. EMS (23-27) 219. Y este Dios, el Dios vivo [...] nos movemos y somos en El. | [...] y creen y esperan que el postrer enemigo, la muerte, será deshecho, para que acabadas de sujetarse al Hijo las cosas todas se sujete él mismo a Aquél que le sometió todo, (1. Cor. XV, 26-28), y así sea todo en todos Dios, en quien vivimos y nos movemos y somos (Hechos de los apóstoles. XVII, 28). EMS (123) 227-229. La razón es una fuerza analítica, esto es, disolvente [...] las intuiciones imaginativas que nos dan el mundo espiritual. STV ¡Vida, vida, vida! ¡vida y no ciencia! ¡sabiduría de vida y no ciencia de conocer! JyS (40) ! #$'! 232 La razón, la cabeza, nos dice: ¡nada!; la imaginación, el corazón, nos dice: ¡todo!, y entre nada y todo, fundiéndose el todo y la nada en nosotros, vivimos en Dios, que es todo, y vive Dios en nosotros, que sin Él somos nada. 233La razón repite: ¡vanidad de vanidades, y todo vanidad! 234Y la imaginación replica: ¡plenitud de plenitudes, y todo plenitud! 235 Y así vivimos la vanidad de la plenitud, o la plenitud de la vanidad. 324 236 Y tan de las entrañas del hombre arranca esta necesidad vital de vivir un mundo ilógico, irracional, personal o divino, que cuantos no creen en Dios o creen no creer en Él, creen en cualquier diosecillo, o siquiera en un demoniejo, o en un agüero, o en una herradura que encontraron por acaso al azar de los caminos, y que guardan sobre su corazón para que les traiga buena suerte y les defienda de esa misma razón de que se imaginan ser fieles servidores y devotos. 237 El Dios de que tenemos hambre es el Dios a que oramos, el Dios del Pater noster, de la oración dominical; el Dios a quien pedimos, ante todo y sobre todo, démonos o no de esto cuenta, que nos infunda fe, fe en Él mismo, que haga que creamos en Él, que se haga Él en nosotros, el Dios a quien pedimos que sea santificado su nombre y que se haga su voluntad -su voluntad, no su razón-, así en la tierra como en el cielo; mas sintiendo que su voluntad no puede ser sino la esencia de nuestra voluntad, el deseo de persistir eternamente. 238 Y tal es el Dios del amor, sin que sirva el que nos pregunten cómo sea, sino que cada cual consulte a su corazón y deje a su fantasía que se lo pinte en las lontananzas del Universo, mirándole por sus millones de ojos, que son los luceros del cielo de la noche. 239Ese en que crees, lector, ese es tu Dios, el que ha vivido contigo en ti, y nació contigo y fue niño cuando tú eras niño, y fue haciéndose hombre según tú te hacías hombre, y que se te disipa cuando te disipas, y que es tu principio de continuidad en la vida espiritual, porque es el principio de la solidaridad entre los hombres todos y en cada hombre, y de los hombres con el Universo y que es como tú, persona. 240Y si crees en Dios, Dios cree en ti, y creyendo en ti te crea de continuo. 241 Porque tú no eres en el fondo sino la idea que de ti tiene Dios; pero una idea viva, como de Dios vivo y consciente de sí, como de Dios Conciencia, y fuera de lo que eres en la sociedad no eres nada. 242 ¿Definir a Dios? 243Sí, ese es nuestro anhelo; ese era el anhelo del hombre Jacob, cuando luchando la noche, toda, hasta el rayar del alba, con aquella fuerza divina, decía: «¡Dime, te lo ruego, tu nombre!» (Gén., XXXII, 29). 244 Y oíd lo que aquel gran predicador cristiano, Federico Guillermo Robertson, predicaba en la capilla de la Trinidad, de Brighton, el 10 de junio de 1849, diciendo: «Y esta es nuestra lucha -la lucha-. 245 Que baje un hombre veraz a las profundidades de !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 233-235 La razón repite: ¡vanidad de vanidades, y todo vanidad! [...] o la plenitud de la vanidad. | El fin de la ciencia humana es el salmónico ¡vanidad de vanidades! estribillo eterno de la filosofía. EMS (43) ! #$(! su propio ser y nos responda: ¿cuál es el grito que le llega de la parte más real de su naturaleza? 246 ¿Es pidiendo el pan de cada día? seguridad, conservación. 248 247 Jacob pidió en su primera comunión con Dios esto; pidió ¿Es acaso el que se nos perdonen nuestros pecados? 249 Jacob tenía un pecado por perdonar; mas en éste, el más solemne momento de su existencia, no pronunció una sílaba respecto a él. 250 ¿O es acaso esto: "santificado sea tu nombre"? 251No, hermanos míos. 252 De nuestra frágil, aunque humilde humanidad, la petición que surja en las horas más terrenales de nuestra religión puede ser esta de: ¡Salva mi alma!; pero en los momentos menos terrenales es esta otra: ¡Dime tu nombre! 253 »Nos movemos por un mundo misterioso, y la más profunda cuestión es la de cuál es el ser que nos está cerca siempre, a las veces sentido, jamás visto -que es lo que nos ha obsesionado desde la niñez con un sueño de algo soberanamente hermoso y que jamás se nos aclara-, que es lo que a las veces pasa por el alma como una desolación, como el soplo de las alas del Ángel de la Muerte, dejándonos aterrados y silenciosos en nuestra soledad -lo que nos ha tocado en lo más vivo y la carne se ha estremecido de agonía, y nuestros afectos morales se han contraído de dolor-, que es lo que n os viene en aspira ciones de nobleza y concepciones de sobrehumana excelencia. 254 ¿Hemos de llamarle Ello o Él? 255 (It or He?) presentimientos de inmortalidad y de Dios, ¿qué son? tomadas por algo vivo fuera de mí? 260 256 259 ¿Qué es Ello? 257 ¿Quiénes Él? 258 Estos ¿Son meras ansias de mi propio corazón no ¿Son el sonido de mis propios anhelos que resuenan por el vasto vacío de la nada? 261¿O he de llamarlas Dios, Padre, Espíritu, Amor? 262¿Un ser vivo dentro o fuera de mí? 263 Dime tu nombre, tú, ¡terrible misterio del amor! 264 Tal es la lucha de toda mi vida seria.» 265 Así Robertson. 266A lo que he de hacer notar que: ¡dime tu nombre!, no es en el fondo otra cosa que: ¡salva mi alma! 267 Le pedimos su nombre para que salve nuestra alma, para que salve el alma humana, para que salve la finalidad humana del Universo. 268 Y si nos dicen que se llama Él, que es o ens realissimum o Ser Supremo o cualquier otro nombre metafísico, no nos conformamos, pues sabemos que todo su nombre metafísico es equis, y seguimos pidiéndole su nombre. 269Y sólo hay un nombre que satisfaga a nuestro anhelo, y este nombre es Salvador, Jesús, Dios es el amor que salva. 270 For the loving worm within its clod, Were diviner than a loveless God Amid his worlds, I will dare to say. ! #$)! 271 «Me atreveré a decir que el gusano que ama en su terrón sería más divino que un dios sin amor entre sus mundos», dice Roberto Browning (Christmaseve and Easterday). 272 Lo divino es el amor, la voluntad personalizadora y eterniza dora, la que siente hambre de eternidad y de infinitud. 273 274 Es a nosotros mismos, es nuestra eternidad lo que buscamos en Dios, es que nos divinice. Fue ese mismo Browning el que dijo (Saul en Dramatic Lyoies): «This the weakness in strenght, that I cry for! my flesh that I seek In the Godhead!» 275 «¡Es la debilidad en la fuerza por lo que clamo; mi carne lo que busco en la Divinidad!» 276 Pero este Dios que nos salva, este Dios personal, Conciencia del universo que envuelve y sostiene nuestras conciencias, este Dios que da finalidad humana a la creación toda, ¿existe? 277 ¿Tenemos prueba de su existencia? 278 Lo primero que aquí se nos presenta es el sentido de la noción esta de existencia. 279¿Qué es existir y cómo son las cosas de que decimos que no existen? 280 Existir en la fuerza etimológica de su significado es estar fuera de nosotros, fuera de nuestra mente: ex-sistere. 281 ¿Pero es que hay algo fuera de nuestra mente, fuera de nuestra conciencia que abarca a lo conocido todo? 282 Sin duda que lo hay. 283 La materia del conocimiento nos viene de fuera. 284¿Y cómo es esa materia? 285Imposible saberlo, porque conocer es informar la materia, y no cabe, por tanto, conocer lo informe como informe. 286 Valdría tanto como tener ordenado el caos. 287 Este problema de la existencia de Dios, problema racionalmente insoluble, no es en el fondo sino el problema de la conciencia de la ex-sistencia y no de la in-sistencia de la conciencia, el problema mismo de la existencia sustancial del alma, el problema mismo de la perpetuidad del alma humana, el problema mismo de la finalidad humana del Universo. 288 Creer en un Dios vivo y personal, en una conciencia eterna y universal que nos conoce y nos quiere, es creer que el Universo existe para el hombre. 289 Para el hombre o para una conciencia en el orden de la humana, de su misma naturaleza, aunque sublimada, de una conciencia que nos conozca, y en cuyo seno viva nuestro recuerdo para siempre. 290 Acaso en un supremo y desesperado esfuerzo de resignación llegáramos a hacer, ya lo he dicho, el sacrificio de nuestra personalidad si supiéramos que al morir iba a enriquecer una Personalidad, una Conciencia Suprema, si supiéramos que el Alma Universal se alimenta de nuestras almas y de ellas necesita. 291 Podríamos tal vez morir en una desesperada resignación o en una desesperación resignada entregando nuestra alma al alma de la humanidad, legando nuestra ! #$*! labor, la labor que lleva el sello de nuestra persona, si esa humanidad hubiera de legar a su vez su alma a otra alma cuando al cabo se extinga la conciencia sobre esta Tierra de dolor de ansias. 292 ¿Pero y si no ocurre así? 293 Y si el alma de la humanidad es eterna, si es eterna la conciencia colectiva humana, si hay una Conciencia del Universo y esta es eterna, ¿por qué nuestra propia concien cia individual, la tuya, lector, la mía, no ha de serlo? 294 En todo el vasto Universo, ¿habría de ser esto de la conciencia que se conoce, se quiere y se siente, una excepción unida a un organismo que no puede vivir sino entre tales y cuales grados de calor, un pasajero fenómeno? 295No es, no, una mera curiosidad lo de querer saber si están o no los astros habitados por organismos vivos animados, por conciencias hermanas de las nuestras, y hay un profundo anhelo en el ensueño de la transmigración de nuestras almas por los astros que pueblan las vastas lontananzas del cielo. 296 El sentimiento de lo divino nos hace desear y creer que todo es animado, que la conciencia, en mayor o menor grado, se extiende a todo. 297 Queremos no sólo salvarnos, sino salvar al mundo de la nada. 298Y para esto Dios. 299Tal es su finalidad sentida. 300 ¿Qué sería un Universo sin conciencia alguna que lo reflejase y lo conociese? sería la razón objetivada, sin voluntad ni sentimiento? 302 301 ¿Qué Para nosotros lo mismo que la nada; mil veces más pavoroso que ella. 303 Si tal supuesto llega a ser realidad, nuestra vida carece de valor y de sentido. 304 No es, pues, necesidad racional, sino angustia vital, lo que nos lleva a creer en Dios. 305Y creer en Dios es ante todo y sobre todo, he de repetirlo, sentir hambre de Dios, hambre de divinidad, sentir su ausencia y vacío, querer que Dios exista. Universo. 307 306 Y es querer salvar la finalidad humana del Porque hasta podría llegar uno a resignarse a ser absorbido por Dios si en una Conciencia se funda nuestra conciencia, si es la conciencia el fin del Universo. 308 «Dijo el malvado en su corazón: no hay Dios.» 309Y así es en verdad. 310 Porque un justo puede decirse en su cabeza: ¡Dios no existe! 311Pero en el corazón sólo puede decírselo el malvado. 312 No querer que haya Dios o creer que no le haya, es una cosa; resignarse a que no le haya, es otra, aunque inhumana y horrible; pero no querer que le haya, excede a toda otra monstruosidad moral. 313 Aunque de hecho los que reniegan de Dios es por desesperación de no encontrarlo. 314 Y ahora viene de nuevo la pregunta racional esfíngica -la Esfinge, en efecto, es la razón- de: ¿existe Dios? 315 325 Esa persona eterna y eternizadora que da sentido -y no añadiré humano, porque no hay otro - al Universo, ¿es algo sustancial fuera de nuestra conciencia, fuera de nuestro anhelo? !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 314. Y ahora viene de nuevo la pregunta racional esfíngica -la Esfinge, en efecto, es la razón- de: ¿existe Dios? | No hay en realidad más que un gran problema, y es éste: ¿cuál es el fin del universo entero? Tal es el enigma de la esfinge; el que de un modo o de otro no le resuelve, es devorado. N (13-14) ! #%+! 316 He aquí algo insoluble, y vale más que así lo sea. 317 Bástele a la razón el no poder probar la imposibilidad de su existencia. 318 Creer en Dios es anhelar que le haya y es además conducirse como si le hubiera; es vivir de ese anhelo y hacer de él nuestro íntimo resorte de acción. 319 De este anhelo o hambre de divinidad surge la esperanza; de esta, la fe, y de la fe y la esperanza, la caridad; de ese anhelo arrancan los sentimientos de belleza, de finalidad, de bondad. 320 Veámoslo. ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! #%"! CAPITOLO IX FE, ESPERANZA Y CARIDAD 1 Sanctiusque ne reverentius visum de actis deorum credere quam scire. (TÁCITO, Germania, 34.) 2 A este Dios cordial o vivo se llega, y se vuelve a Él cuando por el Dios lógico o muerto se le ha dejado, por el camino de la fe y no de convicción racional o matemática. 3 ¿Y qué cosa es fe? 4 Así pregunta el catecismo de la doctrina cristiana que se nos enseñó en la escuela, y contesta así: creer lo que no vimos. 5 A lo que hace ya una docena de años corregí en un ensayo diciendo: «¡Creer lo que no vimos!, ¡no!, sino crear lo que no vemos.» 6Y antes os he dicho que creer en Dios es, en primera 326 instancia al menos, querer que le haya, anhelar la existencia de Dios. 7 La virtud teologal de la fe es, según el apóstol Pablo, cuya definición sirve de base a las tradicionales disquisiciones cristianas sobre ella, «la sustancia de las cosas que se esperan, la demostración de lo que no se ve»: 4j-2#9+µ(v&,& 2+v!*$!#%, 2'$0µ$v*,& (j-(07+% +1 6-(2+µ(v&,& (Hebreos, XI, T). 8 La sustancia o más bien el sustento o base de la esperanza, la garantía de ella. 9Lo cual conexiona, y más que conexiona subordina, la fe a la esperanza. 10Y de hecho no es que esperamos porque creemos, sino más bien que creemos porque esperamos. 11Es la esperanza en Dios, esto es, el ardiente anhelo de que haya un Dios quegarantice la eternidad de la conciencia la que nos lleva a creer en Él. 12 Pero la fe, que es al fin y al cabo algo compuesto en que entra un elemento conocido, lógico o racional juntamente con uno afectivo, biótico o sentimental, y en rigor irracional, se nos presenta en forma de conocimiento. 13Y de aquí la insuperable dificultad de separarla de un dogma cualquiera. 14 La fe pura, libre de dogmas, de que tanto escribí en un tiempo, es un fantasma. 15 Ni !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 3-5. ¿Y qué cosa es fe? [...] «¡Creer lo que no vimos!, ¡no!, sino crear lo que no vemos.» | Porque no consiste tanto la fe, señores, en crear lo que no vimos, cuanto en crear lo que no vemos. Sólo la fe crea. N (18-19) ! #%#! con inventar aquello de la fe en la fe misma se salía del paso. ejercerse. 17 16 La fe necesita una materia en que 327 El creer es una forma de conocer, siquiera no fuese otra cosa que conocer nuestro anhelo vital y hasta formularlo. 18Sólo que el término creer tiene en nuestro lenguaje corriente una doble y hasta contradictoria significación, queriendo decir por una parte el mayor grado de adhesión de la mente a un conocimiento como verdadero, de otra parte una débil y vacilante adhesión. 19Pues si en un sentido creer algo es el mayor asentimiento que cabe dar, la expresión «creo que sea así, aunque no estoy de ello seguro», es corriente y vulgar. 20 Lo cual responde a lo que respecto a la incertidumbre, como base de la fe, dijimos. 21 La fe más robusta, en cuanto distinta de todo otro conocimiento que no sea pístico o de fe -fiel como si dijéramos-, se basa en incertidumbre. 22 Y es porque la fe, la garantía de lo que se espera, es, más que adhesión racional a un principio teórico, confianza en la persona que nos asegura algo. 23La fe 24 supone un elemento personal objetivo. promete o asegura esto o lo otro. 25 Más bien que creemos algo, creemos a alguien que nos Se cree a una persona y a Dios en cuanto persona y personalización del Universo. 26 Este elemento personal o religioso, en la fe es evidente. 27La fe, suele decirse, no es en sí ni un conocimiento teórico o adhesión racional a una verdad, ni se explica tampoco suficientemente en esencia por la confianza en Dios. 28«La fe es la sumisión íntima o la autoridad espiritual de Dios, la obediencia inmediata. 29Y en cuanto esta obediencia es el medio de alcanzar un principio racional es la fe una convicción personal.» 30Así dice Seeberg. 31 La fe que definió san Pablo, la 2-!*#%, pistis griega, se traduce mejor por confianza. 32La voz pistis, en efecto, procede del verbo 2(-.,, peitho, que si en su voz activa significa persuadir, en la media equivale a confiar en uno, hacerle caso, fiarse de él, obedecer. procede del tema fid -de donde fides, fe, y de donde también confianza-. pith- y el latino fid parecen hermanos. 35 34 33 Y fiarse, fidare se, Y el tema griego 2#. - Y en resolución, que la voz misma fe lleva en su origen implícito el sentido de confianza, de rendimiento a una voluntad ajena, a una persona. confía en las personas. 37 36 Sólo se Confíase en la Providencia, que concebimos como algo personal y consciente, no en el Hado, que es algo impersonal. 38 Y así se cree en quien nos dice la verdad, en quien nos da la esperanza; no en la verdad misma directa o inmediatamente, no en la esperanza misma. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 12-16. Pero la fe, que es al fin y al cabo [...] La fe necesita una materia en que ejercerse. | Pero los que de entre ellos se hunden en otro mundo, y rompiendo la costra de la letra descienden al espíritu, quebrantando el dogma van a la fe pura, a éstos sí que puedo preguntarles cómo se hace aquello. N (182) ! #%$! 39 Y este sentido personal o más bien personificante de la fe, se delata en sus formas más bajas, pues es el que produce la fe en la ciencia infusa, en la inspiración, en el milagro. 40Conocido es, en efecto, el caso de aquel médico parisiense que al ver que en su barrio le quitaba un curandero la clientela, trasladóse a otro, al más distante, donde por nadie era conocido, anunciándose como curandero y conduciéndose como tal. 41Y al denunciarle por ejercicio ilegal de la medicina, exhibió su título, viniendo a decir poco más o menos esto: «Soy médico, pero si como tal me hubiese anunciado, no habría obtenido la clientela que como curandero tengo; mas ahora, al saber mis clientes que he estudiado medicina y poseo título de médico, huirán de mí a un curandero que les ofrezca la garantía de no haber estudiado, de curar por inspiración.» 42 Y es que se desacredita al médico a quien se le prueba que no posee título ni hizo estudios, y se desacredita al curandero a quien se le prueba que los hizo y que es médico titulado. 43 Porque unos creen en la ciencia, en el estudio, y otros creen en la persona, en la inspiración y hasta en la ignorancia. 44 «Hay una distinción en la geografía del mundo que se nos presenta cuando establecemos los diferentes pensamientos y deseos de los hombres respecto a su religión. 45Recordemos cómo el mundo todo está en general dividido en dos hemisferios por lo que a esto hace. 46 Una mitad del mundo, el gran Oriente oscuro, es místico. 47Insiste en no ver cosa alguna demasiado clara. 48Poned distinta y clara una cualquiera de las grandes ideas de la vida, e inmediatamente le parece al oriental que no es verdadera. 49Tiene un instinto que le dice que los más vastos pensamientos son demasiado vastos para la humana mente, y que si se presentan en forma de expresión que la mente humana puede comprender, se violenta su naturaleza y se pierde su fuerza. 50Y por otra parte, el Occidente exige cla ridad y se impacienta con el misterio. 51Le gusta una proposición definida tanto como a su hermano del Oriente le desagrada. 52 Insiste en saber lo que significan para su vida personal las fuerzas eternas e infinitas, cómo han de hacerle personalmente más feliz y mejor y casi cómo han de construir la casa que le abrigue y cocerle la cena en el fogón... 53 Sin duda hay excepciones; místicos en Boston y San Luis, hombres atenidos a los hechos en Bombay y Calcuta. 54 Ambas disposiciones de ánimo no pueden estar separadas una de la otra por un océano o una cordillera. 55 En ciertas naciones y tierras, como, por ejemplo, entre los judíos y en nuestra propia Inglaterra, se mezclan mucho. 56 Pero en general, dividen así el mundo. 57 El Oriente cree en la luz de luna del misterio; el Occidente, en el mediodía del hecho científico. 58 El Oriente pide al Eterno vagos impulsos; el Occidente coge el presente con ligera mano y no quiere soltarlo hasta que le dé motivos razonables, inteligibles. en gran parte le desprecia. mundo todo.» ! 61 60 59 Cada uno de ellos entiende mal al otro, desconfía de él, y hasta Pero ambos hemisferios juntos, y no uno de ellos por sí forman el Así dijo en uno de sus sermones el reverendo Philips Brooks, obispo que fue de #%%! Massachusetts, el gran predicador unitariano (Ver The Mistery of Iniquity and Other Sermons, sermón XII). 62 Podríamos más bien decir que en el mundo todo, lo mismo en Oriente que en Occidente, los racionalistas buscan la definición y creen en el concepto, y los vitalistas buscan la inspiración y creen en la persona. 63Los unos estudian el Universo para arrancarle sus secretos; los otros rezan a la Conciencia del Universo, tratan de ponerse en relación inmediata con el Alma del mundo, con Dios, para encontrar garantía o sustancia a lo que esperan, que es no morirse, y demostración de lo que no ven. 64 Y como la persona es una voluntad, y la voluntad se refiere siempre al porvenir, el que cree, cree en lo que vendrá, esto es, en lo que espera. 65No se cree, en rigor lo que es y lo que fue, sino como garantía, como sustancia de lo que será. 66Creer el cristiano en la resurrección de Cristo, es decir, creer a la tradición y al Evangelio -y ambas potencias son personales - que le dicen que el Cristo resucitó, es creer que resucitará él un día por la gracia de Cristo. 67 Y hasta la fe científica, pues la hay, se refiere al porvenir y es acto de confianza. 68El hombre de ciencia cree que en tal día venidero se verificará un eclipse de sol, cree que las leyes que hasta hoy han regido al mundo seguirán rigiéndolo. 69 Creer, vuelvo a decir, es dar crédito a uno, y se refiere a persona. 70Digo que sé que hay un animal llamado caballo, y que tiene estos y aquellos caracteres, porque lo he visto, y que creo en la existencia del llamado jirafa u ornitorrinco, y que sea de este o del otro modo, porque creo a los que aseguran haberlo visto. 71Y he aquí el elemento de incertidumbre que la fe lleva consigo, pues una persona puede engañarse o engañarnos. 72 Más, por otra parte, este elemento personal de la creencia le da un carácter afectivo, amoroso y sobre todo, en la fe religiosa, el referirse a lo que se espera. 73 Apenas hay quien sacrificara la vida por mantener que los tres ángulos de un triángulo valgan dos rectos, pues tal verdad no necesita del sacrificio de nuestra vida; mas, en cambio, muchos han perdido la vida por mantener su fe religiosa, y es que los mártires hacen la fe más aún que la fe los mártires. 74Pues la fe no es la mera adhesión del intelecto a un principio abstracto, no es el reconocimiento de una verdad teórica en que la voluntad no hace sino movernos a entender; la fe es cosa de la voluntad, es movimiento del ánimo hacia una verdad práctica, hacia una persona, hacia algo que nos hace vivir y no tan sólo comprender la vida. 75 La fe nos hace vivir mostrándonos que la vida, aunque dependa de la razón, tiene en otra parte su manantial y su fuerza, en algo sobrenatural y maravilloso. 76 Un espíritu singularmente equilibrado y muy nutrido de ciencia, el del matemático Cournot, dijo ya que es la tendencia a lo sobrenatural y lo maravilloso lo que da vida, y que a falta de eso, todas las especulaciones de la ! #%&! razón, no vienen a parar sino a la aflicción de espíritu (Traité de d'enchainement des idées fondamentales dans les sciences et dans l'histoire, § 329). 77Y es que queremos vivir. 78 Mas, aunque decimos que la fe es cosa de la voluntad, mejor sería acaso decir que es la voluntad misma, la voluntad de no morir, o más bien otra potencia anímica distinta de la inteligencia, de la voluntad y del sentimiento. 79Tendríamos, pues, el sentir, el conocer; el querer y el creer, o sea crear. 80Porque ni el sentimiento, ni la inteligencia, ni la voluntad crean, sino que se ejercen sobre la materia dada ya, sobre materia dada por la fe. 82 hombre. 81 La fe es el poder creador del Pero como tiene más íntima relación con la voluntad que con cualquiera otra de las potencias, la presentamos en forma volitiva. 83Adviértase, sin embargo, cómo querer creer, es decir, querer crear, no es precisamente creer o crear, aunque sí es comienzo de ello. 84 La fe es, pues, si no potencia creativa, flor de la voluntad, y su oficio crear. 85La fe crea, en cierto modo, su objeto. 86Y la fe en Dios consiste en crear a Dios y como es Dios el que nos da la fe en Él, es Dios el que se está creando a sí mismo de continuo en nosotros. 328 87 Por lo que dijo san Agustín: «Te buscaré, Señor, invocándote, y te invocaré creyendo en Ti. 88Te invoca, Señor, mi fe, la fe que me dice, que me inspiraste con la humanidad de tu Hijo, por el misterio de tu predicador» (Confesiones, lib. I, cap. I). 89 El poder de crear un Dios a nuestra imagen y semejanza, de personalizar el Universo, no significa otra cosa sino que llevamos a Dios dentro, como sustancia de lo que esperamos, y que Dios nos está de continuo creando a su imagen y semejanza. 90 amor. 91 Y se crea a Dios, es decir, se crea Dios a sí mismo en nosotros por la compasión, por el Creer en Dios es amarle y tenerle con amor, y se empieza por amarle aun antes de conocerle, y amándole es como se acaba por verle y descubrirle en todo. 92 Los que dicen creer en Dios, y ni le aman ni le temen, no creen en Él, sino en aquellos que les han enseñado que Dios existe, los cuales, a su vez con harta frecuencia, tampoco creen en Él. 93 Los que sin pasión de ánimo, sin congoja, sin incertidumbre, sin duda, sin la desesperación en el consuelo, creen creeren Dios, no creen sino en la idea de Dios, mas no en Dios mismo. 94 Y así como se cree en Él por amor, puede también creerse por temor, y hasta por odio, como creía en Él aquel ladrón Vanni Fucci, a quien el Dante hace insultarle con torpes gestos desde el Infierno (Inf., XXV, I, 3). 95Que también los demonios creen en Dios y muchos ateos. 96 ¿No es acaso una manera de creer en Él esa furia con que le niegan y hasta le insultan los que no quieren que le haya, ya que no logran creer en Él? 97Quieren que exista como lo quieren los creyentes; pero siendo hombres débiles y pasivos o malvados, en quienes la razón puede más que la !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 84-86. La fe es, pues, si no potencia creativa [...] es Dios el que se está creando a sí mismo de continuo en nosotros. | Porque no consiste tanto la fe, señores, en crear lo que no vimos, cuanto en crear lo que no vemos. Sólo la fe crea. N (18-19) ! #%'! voluntad, se sienten arrastrados por aquella, bien a su íntimo pesar, y se desesperan y niegan por desesperación, y al negar, afirman y creen lo que niegan, y Dios se revela en ellos, afirmándose por la negación de sí mismo. 98 Mas a todo esto se me dirá que enseñar que el tal objeto no lo es sino para la fe, que carece de realidad objetiva fuera de la fe misma; como por otra parte, sostener que le hace falta la fe para contener o para consolar al pueblo, es declarar ilusorio el objetivo de la fe. 99Y lo cierto es que creer en Dios es hoy, ante todo y sobre todo, para los creyentes intelectuales, querer que Dios exista. 100 Querer que exista Dios, y conducirse y sentir como si existiera. 101 Y por este cambio de querer su existencia, y obrar conforme a tal deseo, es como creamos a Dios, esto es, como Dios se crea en nosotros, como se nos manifiesta, se abre y se revela a nosotros. 102 Porque Dios sale al encuentro de quien le busca con amor y por amor, y se hurta de quien le inquiere por fría razón, no amoroso. 103Quiere Dios que el corazón descanse, pero que no descanse la cabeza, ya que en la vida física duerme y descansa a veces la cabeza, y vela y trabaja arreo el corazón. 104Y así, la ciencia sin amor nos aparta de Dios, y el amor, aun sin ciencia y acaso mejor sin ella, nos lleva a Dios; y por Dios a la sabiduría. 105¡Bienaventurados los limpios de corazón, porque ellos verán a Dios! 106 Y si se me preguntara cómo creo en Dios, es decir, cómo Dios se crea en mí mismo y se me revela, tendré acaso que hacer sonreír, reír o escandalizarse tal vez al que se lo diga. 107 Creo en Dios como creo en mis amigos, por sentir el aliento de su cariño y su mano invisible e intangible que me trae y me lleva y me estruja, por tener íntima conciencia de una providencia particular y de una mente universal que me traba mi propio destino. 108Y el concepto de la ley -¡concepto al cabo!- nada me dice ni me enseña. 109 Una y otra vez durante mi vida heme visto en trance de suspensión sobre el abismo; una y otra vez heme encontrado sobre encrucijadas en que se me abría un haz de senderos, tomando uno de los cuales renunciaba a los demás, pues que los caminos de la vida son irreversibles, y una vez y otra vez en tales únicos momentos he sentido el empuje de una fuerza consciente soberana y amorosa. 110Y ábresele a uno la senda del Señor. 111 Puede uno sentir que el Universo le llama y le guía como una persona a otra, oír en su interior su voz sin palabras que le dice: ¡Ve y predica a los pueblos todos! 112 ¿Cómo sabéis que un hombre que se os está delante tiene una conciencia como vosotros, y que también la tiene, más o menos oscura un animal y no una piedra? 113Por la manera como el hombre, a modo de hombre, a vuestra semejanza, se conduce con vosotros, y la manera como la piedra no se conduce para con vosotros, sino que sufre vuestra conducta. 114Pues así es como creo que el Universo tiene una cierta conciencia como yo, por la manera como se conduce conmigo humanamente, y siento que una personalidad me envuelve. ! #%(! 115 Ahí está una masa informe; parece una especie de animal, no se le distinguen miembros; sólo veo dos ojos, y ojos que me miran con mirada humana, de semejante, mirada que me pide compasión, y oigo que respira. 116Y concluyo que en aquella masa informe hay una conciencia. 117Y así, y no de otro modo, mira al creyente el cielo estrellado, con mirada sobrehumana, divina, que le pide suprema compasión y amor supremo y oye en la noche serena la respiración de Dios que le toca el cogollo del corazón, y se revela a él. 118Es el Universo que vive, ama y pide amor. 119 De amar estas cosillas de tomo que se nos van como se nos vinieron sin tenernos apego alguno, pasamos a amar las cosas más permanentes y que no pueden agarrarse con las manos; de amar los bienes pasamos a amar el Bien; de las cosas bellas, a la Belleza; de lo verdadero, a la Verdad; de amar los goces, a amar la Felicidad, y, por último, a amar al Amor. 120Se sale uno de sí mismo para adentrarse más en su Yo supremo; la conciencia individual se nos sale a sumergirse en la Conciencia total de que forma parte, pero sin disolverse en ella. 121Y Dios no es sino el Amor que surge del dolor universal y se hace conciencia. 122 Aun esto, se dirá, es moverse en un cerco de hierro, y tal Dios no es objetivo. 123 Y aquí convendría darle a la razón su parte y examinar qué sea eso de que algo existe, es objetivo. 124 ¿Qué es, en efecto, existir, y cuándo decimos que una cosa existe? 125 Existir es ponerse algo de tal modo fuera de nosotros, que precediera a nuestra percepción de ello y pueda subsistir fuera cuando desaparezcamos. 126 ¿Y estoy acaso seguro de que algo me precediera o de que algo me ha de sobrevivir? 127¿Puede mi conciencia saber que hay algo fuera de ella? 128Cuanto conozco o puedo conocer está en mi conciencia. 129No nos enredemos, pues, en el insoluble problema de otra objetividad de nuestras percepciones, sino que existe cuanto obra, y existir es obrar. 130 131 Y aquí volverá a decirse que no es Dios, sino la idea de Dios, la que obra en nosotros. Y diremos que Dios por su idea, y más bien muchas veces por sí mismo. 132 Y volverán a redargüimos pidiéndonos pruebas de la verdad objetiva de la existencia de Dios, pues que pedimos señales. 133Y tendremos que preguntar por Pilato: ¿qué es la verdad? 134 Así preguntó, en efecto, y sin esperar respuesta, volvió a lavarse las manos para sincerarse de haber dejado condenar a muerte al Cristo. 135Y así preguntan muchos ¿qué es verdad?, sin ánimo alguno de recibir respuesta, y sólo para volver a lavarse las manos del crimen de haber contribuido a matar a Dios de la propia conciencia o de las conciencias ajenas. 329 !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 133-135. Y tendremos que preguntar por Pilato [...] de la propia conciencia o de las conciencias ajenas. | Qué es la verdad? preguntó Pilato y sin esperar respuesta se volvió á lavarse las manos para así sincesarse [sic] de la muerte de Jesús, Nuestro Señor. Y así preguntan muchos que es verdad sin ánimo alguno de >que< recibir respuesta y sólo para volverse á lavarse las manos del crimen de haber contribuido á matar á Dios en la >conci< propia conciencia ó en las conciencias ajenas. T (pp. 20-21) Pero qué es la verdad? preguntamos. Y no hagamos lo de Pilato que hecha la pregunta esta volvió la espalda á Jesús, sin esperar la respuesta. AJH (p. 16v) ¡La verdad! Y «¿qué es verdad?» preguntó Pilatos a Cristo, volviéndole la espalda enseguida sin esperar respuesta. EMS (115) ! #%)! 136 ¿Qué es verdad? 137 Dos clases hay de verdad, la lógica u objetiva, cuyo contrario es el error, y la moral o subjetiva a que se opone la mentira. 138 Y ya en otro Ensayo he tratadO De dEmostrar cómo el eRrOr eS Hijo de La mEntira. 139 La verdaD moral, cAmino para llEgar a la otra, también moral, nos enseña a cultivar la ciencia, que es ante todo y sobre todo una escuela dE sinceridad y de huMildad. 140 La ciencia nos enseña, en efecto, a someter nuestra razón a la verdad y a conocer y a jUzgar Las cosas como ellas son; es decir, como ellas quieren ser, y no como noSotros qUereMos que ellas sean. 141 En unA investIgacióN religiosamente cieNtífIca, son los dAtos mis-os de la realidad, son las peRcepciones que del mundo recibimos las que en nuestra mente llegan a forMularse en ley, y no somos nosotros los que en nosotros hacen matemáticas. 142 Y es la ciencia la más recogida escuela de resignación y de humildad, pues nos enseña a doblegarnos ante el hecho, al parecer, más menudo. 143 Y es pórtico de la religión: pero dentro de esta, su función acaba. 144 Y es que así como hay verdad lógica a que se opone el error y verdad moral a que se opone la mentira, hay también verdad estética o verosimilitud a que se opone el disparate, y verdad religiosa, o de esperanza, a que se opone la inquietud de la desesperanza absoluta. 145 Pues ni la verosimilitud estética, la de lo que cabe expresar con sentido, es la verdad lógica, la de lo que se demuestra con razones, ni la verdad religiosa, la de la fe, la sustancia de lo que se espera, equivale a la verdad moral, sino que se le sobrepone. 146El que afirma su fe a base de incertidumbre, no miente ni puede mentir. 147 Y no sólo no se cree con la razón ni aún sobre la razón o por debajo de ella, sino que se cree contra la razón. es contrarracional. 148 149 La fe religiosa, habrá que decirlo una vez más, no es ya tan sólo irracional, «La poesía es la ilusión antes del conocimiento; la religiosidad, la ilusión después del conocimiento. sabiduría del vivir. 151 150 La poesía y la religiosidad suprimen al vaudeville de la mundana Todo individuo que no vive o poética o religiosamente es tonto.» 152 Así nos dice Kierkegaard (Afsluttende uvidenskabelig Efterskrift, cap. 4 secc. 11, A § 2), el mismo que nos dice también que el cristianismo es una salida desesperada. 153 Y así es, pero sólo mediante la desesperación de esta salida podemos llegar a la esperanza, a esa esperanza cuya ilusión vitalizadora sobrepuja a todo conocimiento racional, diciéndonos que hay siempre algo irreductible a la razón. 154Y de esta, de la razón, puede decirse lo que del Cristo, y es que quien no está con ella, está contra ella. 155Lo que no es racional, es contrarracional. 156Y así es la esperanza. 159 ! 157 Por todo este camino llegamos siempre a la esperanza. 158 El misterio del amor, que lo es de dolor, tiene una forma misteriosa, que es el tiempo. Atamos el ayer al mañana con eslabones de ansia, y no es el ahora, en rigor, otra cosa que el #%*! esfuerzo del antes por hacerse después; no es el presente, sino el empeño del pasado por hacerse porvenir. 160El ahora, es un punto que no bien pronunciado se disipa, y, sin embargo, en ese punto está la eternidad toda, sustancia del tiempo. 161 Cuanto ha sido no puede ser ya sino como fue, y cuanto es no puede ser sino como es; lo posible queda siempre relegado a lo venidero, único reino de libertad y en que la imaginación, potencia creadora y libertadora, carne de la fe, se mueve a sus anchas. 162 El amor mira y tiende siempre al porvenir, pues que su obra es la obra de nuestra perpetuación; lo propio del amor, el esperar, y sólo de esperanzas se mantiene. 163Y así que el amor ve realizado su anhelo, se entristece y descubre al punto que no es su fin propio aquello a que tendía, y que no se lo puso Dios sino como señuelo para moverle a la obra; que su fin está más allá, y emprende de nuevo tras él su afanosa carrera de engaños y desengaños por la vida. 164 haciendo recuerdos de sus esperanzas fallidas, y saca de esos recuerdos nuevas esperanzas. Y va 165 La cantera de las divisiones de nuestro porvenir está en los soterraños de nuestra memoria; con recuerdos nos fragua la imaginación esperanzas. 166Y es la humanidad como una moza henchida de anhelos, hambrienta de vida y sedienta de amor, que teje sus días con ensueños, y espera, espera siempre, espera sin cesar al amador eterno, que por estarle destinado desde antes de antes, desde mucho más atrás de sus remotos recuerdos, desde allende la cuna hacia el pasado, ha de vivir con ella y para ella, después de después, hasta mucho más allá de sus remotas esperanzas, hasta allende la tumba, hacia el porvenir. 167 Y el deseo más caritativo para con esta pobre enamorada es, como para con la moza que espera siempre a su amado, que las dulces esperanzas de la primavera de su vida se le conviertan, en el invierno de ella, en recuerdos más dulces todavía y recuerdos engendradores de esperanzas nuevas. 168 ¡Qué jugo de apacible felicidad, de resignación al destino debe dar en los días de nuestro sol más breve el recordar esperanzas que no se han realizado aún, y que por no haberse realizado conservan su pureza! 169 El amor espera, espera siempre sin cansarse nunca de esperar, y el amor a Dios, nuestra fe en Dios, esante todo, esperanza en Él. siempre. 171 170 Porque Dios no muere, y quien espera en Dios, vivirá Y es nuestra esperanza fundamental, la raíz, y tronco de nuestras esperanzas todas, la esperanza de la vida eterna. 172 Y si es la fe la sustancia de la esperanza, esta es a su vez la forma de la fe. 173 La fe antes de darnos esperanza es una fe informe, vaga, caótica, potencial; no es sino la posibilidad de creer, anhelo de creer. 174Mas hay que creer en algo, y se cree en lo que se espera, se cree en la esperanza. 175 Se recuerda el pasado, se conoce el presente, sólo se cree en el porvenir. 176Creer lo que no vimos es creer lo que veremos. 177La fe es, pues, lo repito, fe en la esperanza; creemos lo que esperamos. ! #&+! 178 El amor nos hace creer en Dios, en quien esperamos, y de quien esperamos la vida futura; el amor nos hace creer en lo que el ensueño de la esperanza nos crea. 179 La fe es nuestro anhelo a lo eterno, a Dios, y la esperanza es el anhelo de Dios, de lo eterno, de nuestra divinidad, que viene al encuentro de aquella y nos eleva. Dios por la fe, y le dice: «Creo, ¡dame, señor, en qué creer!» esperanza en otra vida para que crea en ella. 182 181 180 El hombre aspira a Y Dios, su divinidad, le manda la La esperanza es el premio a la fe. Sólo el que cree espera la verdad, y sólo el que de la verdad espera, cree. 183 No creemos sino lo que esperamos, ni esperamos lo que creemos. 184 Fue la esperanza la que llamó a Dios Padre, y es ella la que sigue dándole ese nombre preñado de consuelo y de misterio. 185El padre nos dio la vida y nos da el pan para mantenerla, y al padre pedimos que nos la conserve. 186 Y si el Cristo fue el que a corazón más lleno y a boca más pura llamó Padre a su Padre y nuestro, si el sentimiento cristiano se encumbra en el sentimiento de la paternidad de Dios, es porque en el Cristo sublimó el linaje humano su hambre de eternidad. 187 Se dirá tal vez que este anhelo de la fe, que esta esperanza es, más que otra cosa, un sentimiento estético. 188Lo informa también acaso, pero sin satisfacerle del todo. 189 En el arte, en efecto, buscamos un remedo de eternización. 190 Si en lo bello se aquieta un momento el espíritu, y descansa y se alivia, ya que no se le cura la congoja, es por ser lo bello revelación de lo eterno, de lo divino de las cosas, y la belleza no es sino la perpetuación de la momentaneidad. 191 Que así como la verdad es el fin del conocimiento racional, así la belleza es el fin de la esperanza, acaso irracional en su fondo. 192 Nada se pierde, nada pasa del todo, pues que todo se perpetúa de una manera o de otra, y todo, luego de pasar por el tiempo, vuelve a la eternidad. 193 Tiene el mundo temporal raíces en la eternidad, y allí está junto al ayer con el hoy y el mañana. 194Ante nosotros pasan las escenas como en un cinematógrafo, pero la cinta permanece una y entera más allá del tiempo. 195 Dicen los físicos que no se pierde un solo pedacito de materia ni un solo golpecito de fuerza, sino que uno y otro se transforman y transmiten persistiendo. forma alguna, por huidera que sea? 197 196 ¿Y es que se pierde acaso Hay que creer -¡creerlo y esperarlo!-que tampoco, que en alguna parte quede archivada y perpetuada, que hay un espejo de eternidad en que se suman, sin perderse unas en otras, las imágenes todas que desfilan por el tiempo. 198 Toda impresión que me llegue queda en mi cerebro almacenada, aunque sea tan hondo o con tan poca fuerza que se hunda en lo profundo de mi subconsciencia; pero desde allí anima mi vida, y si mi espíritu todo, si el contenido total de mi alma se me hiciera consciente, resurgirían todas las fugitivas impresiones olvidadas no bien percibidas, y aun las que se me pasaron inadvertidas. 199 Llevo dentro de mí todo cuanto ante mí desfiló y conmigo lo perpetúo, y acaso va todo ello en mis gérmenes, y viven en mis ! #&"! antepasados todos por entero, y vivirán, juntamente conmigo, en mis descendientes. 200Y voy yo tal vez, todo yo, con todo este mi universo, en cada una de mis obras, o por los menos va en ellas lo esencial de mí, lo que me hace ser yo, mi esencia individual. 201 Y esta esencia individual de cada cosa, esto que la hace ser ella y no otra, ¿cómo se nos revela sino como belleza? 202 ¿Qué es la belleza de algo sino es su fondo eterno, lo que une su pasado con su porvenir, lo que de ello reposa y queda en las entrañas de la eternidad? 203¿O qué es más bien sino la revelación de su divinidad? 204 Y esta belleza, que es la raíz de eternidad, se nos revela por el amor, y es la más grande revelación del amor de Dios y la señal de que hemos de vencer al tiempo. 205 El amor es quien nos revela lo eterno nuestro y de nuestros prójimos. 206 ¿Es lo bello, lo eterno de las cosas, lo que despierta y enciende nuestro amor a ellas, o es nuestro amor a las cosas lo que nos revela lo bello, lo eterno de ellas? 207¿No es acaso la belleza una creación del amor, lo mismo que el mundo sensible lo es del instinto de conservación y el supersensible del de perpetuación y en el mismo sentido? 208 ¿No es la belleza, y la eternidad con ella, una creación del amor? 209«Nuestro hombre exterior -escribe el Apóstol, 11 Cor., IV, 16- se va desgastando, pero el interior se renueva de día en día.» 210El hombre de las apariencias que pasan se desgasta, y con ellas pasa; pero el hombre de la realidad queda y crece. 211 «Porque lo que al presente es momentáneo y leve en nuestra tribulación, nos da un peso de gloria sobremanera alto y eterno» (vers. 17). 212 Nuestro dolor nos da congoja, y la congoja, al estallar de la plenitud de sí misma, nos parece consuelo. 213 «No mirando nosotros a las cosas que se ven, sino a las que no se ven; porque las coas que se ven son temporales, mas las que no se ven son eternas» (vers. 18). 214 215 consuelo. busca. 216 Este dolor da esperanzas, que es lo bello de la vida, la suprema belleza, o sea, el supremo Y como el amor es dolor, es compasión y no es sino el consuelo temporal que esta se Trágico consuelo. 217 Y la suprema belleza es la de la tragedia. 218 Acongojados al sentir que todo pasa, que pasamos nosotros, que pasa lo nuestro, que pasa cuanto nos rodea, la congoja misma nos revela el consuelo de lo que no pasa, de lo eterno, de lo hermoso. 219 Y esta hermosura así revelada, esta perpetuación de la momentaneidad, sólo se realiza prácticamente, sólo vive por obra de la caridad. 220La esperanza en la acción es la caridad, así como la belleza en acción es el bien. * 221 La raíz de la caridad que eterniza cuanto ama y nos saca la belleza en ello oculta, dándonos el bien, es el amor a Dios, o si se quiere, la caridad hacia Dios, la compasión a Dios. 222El ! #&#! amor, la compasión, lo personaliza todo, dijimos; al descubrir el sufrimiento en todo y personalizándolo todo, personaliza también el Universo mismo, que también sufre, y nos descubre a Dios. 223 Porque Dios se nos revela porque sufre y porque sufrimos; porque sufre exige nuestro amor, y porque sufrimos nos da el suyo y cubre nuestra congoja con la congoja eterna e infinita. 224 Éste fue el escándalo del cristianismo entre judíos y helenos, entre fariseos y estoicos, y este, que fue su escándalo, el escándalo de la cruz, sigue siéndolo y lo seguirá aún entre cristianos; el de un Dios que se hace hombre para padecer y morir y resucitar por haber padecido y muerto, el de un Dios que sufre y muere. 225Y esta verdad de que Dios padece, ante la que se sienten aterrados los hombres, es la revelación de las entrañas mismas del Universo y de su misterio, la que nos reveló al enviar a su Hijo a que nos redimiese sufriendo y muriendo. 226 Fue la revelación de lo divino del dolor, pues sólo es divino lo que sufre. 227 Y los hombres hicieron dios al Cristo, que padeció, y descubrieron por él la eterna esencia de un Dios vivo, humano, esto es, que sufre -sólo no sufre lo muerto, lo inhumano-, que ama, que tiene sed de amor, de compasión, que es persona. 228 Quien no conozca al Hijo jamás conocerá al Padre, y al Padre sólo por el Hijo se le conoce; quien no conozca al Hijo del hombre, que sufre congojas de sangre y desgarramientos del corazón, que vive con el alma triste hasta la muerte, que sufre dolor que mata y resucita, no conocerá al Padre ni sabrá del Dios paciente. 229 El que no sufre, y no sufre porque no vive, es ese lógico y congelado ens realissimum, es el primum movens, es esa entidad impasible y por impasible no más que pura idea. no sufre, pero tampoco vive ni existe como persona. una idea impasible? 232 231 230 La categoría ¿Y cómo va a fluir y vivir el mundo desde No sería sino idea del mundo mismo. 233 Pero el mundo sufre, y el sufrimiento es sentir la carne de la realidad, es sentirse de bulto y de tomo el espíritu, es tocarse a sí mismo, es la realidad inmediata. 234 El dolor es la sustancia de la vida y la raíz de la personalidad, pues sólo sufriendo se es persona. 235Y es universal, y lo que a los seres todos nos une es el dolor, la sangre universal o divina que por todos circula. 236Eso que llamamos voluntad, ¿qué es sino dolor? 237 Y tiene el dolor sus grados, según se adentra; desde aquel dolor que flota en el mar de las apariencias, hasta la eterna congoja, la fuente del sentimiento trágico de la vida, que va a posarse en lo hondo de lo eterno, y allí despierta el consuelo; desde aquel dolor físico que nos hace retroceder el cuerpo hasta la congoja religiosa, que nos hace acostarnos en el seno de Dios y recibir allí el riego de sus lágrimas divinas. 238 La congoja es algo mucho más hondo, más íntimo y más espiritual que el dolor. 239 Suele uno sentirse acongojado hasta en medio de eso que llamamos felicidad y por la felicidad misma, a la que no se resigna y ante la cual tiembla. ! 240 Los hombres felices que se resignan a su aparente #&$! dicha, a una dicha pasajera, creeríase que son hombres sin sustancia, o, por lo menos, que no la han descubierto en sí, que no se la han tocado. 241 Tales hombres suelen ser impotentes para amar y ser amados, y viven, en su fondo, sin pena ni gloria. 242 No hay verdadero amor sino en el dolor, y en este mundo hay que escoger o el amor, que es el dolor, o la dicha. 243Y el amor no nos lleva a otra dicha que a las del amor mismo, y su trágico consuelo de esperanza incierta. 244 Desde el momento en que el amor se hace dichoso, se satisface, ya no desea y ya no es amor. 245Los satisfechos, los felices, no aman; aduérmense en la costumbre, rayana en el anonadamiento. 246 Acostumbrarse es ya empezar a no ser. 247 El hombre es tanto más hombre, esto es, tanto más divino, cuanto más capacidad para el sufrimiento, o mejor dicho, para la congoja, tiene. 248 Al venir al mundo, dásenos a escoger entre el amor y la dicha, y queremos -¡pobrecillos!- uno y otra: la dicha de amar y el amor de la dicha. 249 Pero debemos pedir que se nos dé amor y no dicha, que no se nos deje adormecernos en la costumbre, pues podríamos dormirnos del todo, y, sin despertar, perder conciencia para no recobrarla. 250 Hay que pedir a Dios que se sienta uno en sí mismo, en su dolor. 251 ¿Qué es el Hado, qué la Fatalidad, sino la hermandad del amor y el dolor, y ese terrible misterio de que, tendiendo el amor a la dicha, así que la toca se muere, y se muere la verdadera dicha con él? 252El amor y el dolor se engendran mutuamente, y el amor es caridad y compasión, y amor que no es caritativo no es tal amor. 253Es el amor, en fin, la desesperación resignada. 254 Eso que llaman los matemáticos un problema de máximos y mínimos, lo que también se llama ley de economía, es la fórmula de todo movimiento existencial, esto es, pasional. 255 En mecánica material y en la social, en industria y economía política, todo el problema se reduce a lograr el mayor resultado útil posible con el menor posible esfuerzo, lo más de ingresos con lo menos de gastos, lo más de placeres con lo menos de dolores. 256Y la fórmula, terrible, trágica, de la vida íntima espiritual, es: o lograr lo más de dicha con lo menos de amor o lo más de amor con lo menos de dicha. 257 Y hay que escoger entre una y otra cosa. 258 Y estar seguro de que quien se acerque al infinito del amor, al amor infinito, se acerca al cero de la dicha, a la suprema congoja. 259 Y en tocando a este cero, se está fuera de la miseria que mata. 260«No seas y podrás más que todo lo que es», dice el maestro fray Juan de los Ángeles en uno de sus Diálogos de la conquista del reino de Dios (Diál. III, 8). 261 Y hay algo más congojoso que el sufrir. 262 Esperaba aquel hombre, al recibir el temido golpe, haber de sufrir tan reciamente como hasta sucumbir al sufrimiento, y el golpe le vino encima y apenas si sintió dolor; pero luego, vuelto ! #&%! en sí, al sentirse insensible, se sobrecogió de espanto, de un trágico espanto, del más espantoso, y gritó ahogándose en angustia: «¡Es que no existo!» 263¿Qué te aterraría más: sentir un dolor que te privase de sentido al atravesarte las entrañas con un hierro candente, o ver que te las atravesaban así, sin sentir dolor alguno? 264¿No has sentido nunca el espanto, el horrendo espanto, de sentirte sin lágrimas y sin dolor? 265El dolor nos dice que existimos, el dolor nos dice que existen aquellos que amamos; el dolor nos dice que existe y que sufre Dios; pero es el dolor de la congoja, de la congoja de sobrevivir y ser eternos. 266La congoja nos descubre a Dios y nos hace quererle. 269 267 Creer en Dios es amarle, y amarle es sentirle sufriente, compadecerle. 268 Acaso parezca blasfemia esto de que Dios sufre, pues el sufrimiento implica limitación. Y, sin embargo, Dios, la conciencia del Universo, está limitado por la materia bruta en que vive, por lo inconsciente, de que trata de libertarse y de libertarnos. 270Y nosotros, a nuestra vez, debemos de tratar de libertarle de ella. 271 Dios sufre en todos y en cada uno de nosotros; en todas y en cada una de las conciencias, presa de la materia pasajera, y todos sufrimos en Él. 272La congoja religiosa no es sino el divino sufrimiento, sentir que Dios sufre en mí, y que yo sufro en Él. 273 El dolor universal es la congoja de todo por ser todo lo demás sin poder conseguirlo, de ser cada uno el que es, siendo a la vez todo lo que no es, y siéndolo por siempre. 274La esencia de no ser no es sólo un empeño en persistir por siempre, como nos enseñó Spinoza, sino, además el empeño por universalizarse; es el hambre y sed de eternidad y de infinitud. 275 Todo ser creado tiende no sólo a conservarse en sí, sino a perpetuarse, y además a invadir a todos los otros, a ser los otros sin dejar de ser él, a ensanchar sus linderos al infinito, pero sin romperlos. 276 No quiere romper sus muros y dejarlos todos en tierra llana, comunal, indefensa, confundiéndose y perdiendo su individualidad, sino que quiere llevar sus muros a los extremos de lo creado y abarcarlo todo dentro de ellos. 277 Quiere el máximo de in dividualidad con el máximo también de personalidad, aspira a que el Universo sea él, a Dios. 278 Y ese vasto yo dentro del cual quiere cada yo meter al Universo, ¿qué es sino Dios? 279Y por aspirar a Él le amo, y esa mi aspiración a Dios es mi amor a Él, y como yo sufro por ser Él, también Él sufre por ser yo y cada uno de nosotros. 280 Bien sé que a pesar de mi advertencia, de que se trata aquí de dar forma lógica a un sistema de sentimientos alógicos, seguirá más de un lector escandalizándose de que le hable de un Dios paciente, que sufre, y de que aplique a Dios mismo en cuanto a Dios, la pasión de Cristo. 281El Dios de la teología llamada racional excluye, en efecto, todo sufrimiento. 282Y el lector pensará que esto del sufrimiento no puede tener sino un valor metafórico aplicado a Dios, como le tiene, dicen, cuando el Antiguo Testamento nos habla de pasiones humanas del Dios de Israel. 283Pues no caben cólera, ira y venganza sin sufrimiento. 284Y por lo que hace que sufra atado a la materia, se me diría, ! #&&! con Plotino (Eneada segunda, IX, 7), que el alma del todo no puede estar atada, por aquello mismo -que son los cuerpos o la materia- que está por ella atado. 285 En esto va incluso el problema todo del origen del mal, tanto del mal de culpa como del mal de pena, pues si Dios no sufre, hace sufrir, y si no es su vida, pues que Dios vive, un ir haciéndose conciencia total cada vez más llena, es decir, cada vez más Dios, es un ir llevando las cosas todas hacia sí, un ir dándose a todo, un hacer que la conciencia del todo que es Él mismo, hasta llegar a ser Él todo en todos 2"&*$ (j& 2$'!# según la expresión de san Pablo, el primer místico cristiano. 286Mas de esto, en el próximo ensayo sobre la apocatástasis o unión beatífica. 287 Por ahora, digamos que una formidable corriente de dolor empuja a unos seres hacia otros, y les hace amarse y buscarse, y tratar de completarse, y de ser cada uno él mismo y los otros a la vez. 288En Dios vivetodo, y en su padecimiento padece todo, y al amar a Dios amamos en Él a las criaturas, así como al amar a las criaturas y compadecerles, amamos en ellas y compadecemos a Dios. 289El alma de cada uno de nosotros no será libre mientras haya algo esclavo en este mundo de Dios, ni Dios tampoco, que vive en el alma de cada uno de nosotros, será libre mientras no sea libre nuestra alma. 290 Y lo más inmediato es sentir y amar mi propia miseria, mi congoja, compadecerme de mí mismo, tenerme a mí mismo amor. 291Y esta compasión, cuando es viva y superabundante, se vierte de mí a los demás, y del exceso de mi compasión propia, compadezco a mis prójimos. 292La miseria propia es tanta, que la compasión que hacia mí mismo me despierta se me desborda pronto, revelándome la miseria universal. 293 Y la caridad, ¿qué es sino un desbordamiento de compasión? 294 ¿Qué es sino dolor reflejado, que sobrepasa y se vierte a compadecer los males ajenos y ejercer caridad? 295 Cuando el colmo de nuestro compadecimiento nos trae a la conciencia de Dios en nosotros, nos llena tan grande congoja por la miseria divina derramada en todo, que tenemos que verterla fuera, y lo hacemos en forma de caridad. dolorosa del bien. 297 296 Y al así verterla, sentimos alivio y la dulzura Es lo que llamó «dolor sabroso» la mística doctora Teresa de Jesús, que de amores dolorosos sabía. 298 Es como el que contempla algo hermoso y siente la necesidad de hacer partícipes de ello a los demás. 299 Porque el impulso a la producción, en que consiste la caridad, es obra de amor doloroso. 300 Sentimos, en efecto, una satisfacción en hacer el bien cuando el bien nos sobra, cuando estamos henchidos de compasión, y estamos henchidos de ella cuando Dios, lle nándonos el alma, nos da la dolorosa sensación de la vida universal, del universal anhelo a la divinización eterna. 301Y es que no estamos en el mundo puestos nada más junto a los otros, sin raíz común con ellos, ni nos es su suerte indiferente, sino que nos duele su dolor, nos acongojamos con su congoja, y sentimos ! #&'! nuestra comunidad de origen y de dolor aun sin conocerla. 302Son el dolor, y la compasión que de él nace, los que nos revelan la hermandad de cuanto de vivo y más o menos consciente existe. 303 «Hermano lobo», llamaba san Francisco de Asís al pobre lobo que siente dolorosa hambre de ovejas, y acaso el dolor de tener que devorarlas, y esa hermandad nos revela la paternidad de dios, que Dios es Padre y existe. 304Y como Padre ampara nuestra común miseria. 305 Es, pues, la caridad el impulso a libertarse y a libertar a todos mis prójimos del dolor y a libertar a Dios que nos abarca a todos. 306 Es el dolor algo espiritual y la revelación más inmediata de la conciencia, que acaso no se nos dio el cuerpo sino para dar ocasión a que el dolor se manifestase. sufrido, poco o mucho, no tendría conciencia de sí. 308 307 Quien no hubiese nunca El primer llanto del hombre al nacer es cuando entrándole el aire en el pecho y limitándole, parece como que le dice: ¡tienes que respirarme para poder vivir! 309 El mundo material o sensible, el que nos crean los sentidos, hemos de creer con la fe, enseñe lo que nos enseñare la razón, que no existe sino para encarnar y sustentar al otro mundo, al mundo espiritual o imaginable, al que la imaginación nos crea. 310 La conciencia tiende a ser más conciencia cada vez, a concientizarse, a tener conciencia plena de toda ella misma, de su contenido todo. 311En las profundidades de nuestro propio cuerpo, en los animales, en las plantas, en las rocas, en todo lo vivo, en el Universo todo, hemos de creer con la fe, enseñe lo que nos enseñare la razón, que hay un espíritu que lucha por conocerse, por cobrar conciencia de sí, por serse -pues serse es conocerse-, por ser espíritu puro, y como sólo puede lograrlo mediante el cuerpo, mediante la materia, la crea y de ella se sirve a la vez que de ella quede preso. 312 Sólo puede verse uno la cara retratada en un espejo, pero del espejo en que se ve queda preso para verse, y se ve en él tal y como el espejo le deforma, y si el espejo se le rompe, rómpesele su imagen, y si se le empaña, empáñasele. 313 Hállase el espíritu limitado por la materia en que tiene que vivir y cobrar conciencia de sí, de la misma manera que está el pensamiento limitado por la palabra, que es su cuerpo social. 314Sin materia no hay espíritu, pero la materia hace sufrir al espíritu limitándolo. 315 Y no es el dolor, sino el obstáculo que la materia pone al espíritu, es el choque de la conciencia con lo inconciente. 316 Es el dolor, en efecto, la barrera que la inconciencia, o sea la materia, pone a la conciencia, al espíritu; es la resistencia a la voluntad, el límite que el Universo visible pone a Dios, es el muro con que toca la conciencia al querer ensancharse a costa de la inconciencia, es la resistencia que esta última pone a concientizarse. 317 Aunque lo creamos por autoridad, no sabemos tener corazón, estómago o pulmones mientras no nos duelen, oprimen o angustian. 318Es el dolor físico, o siquiera la mo lestia, lo que nos ! #&(! revela la existencia de nuestras propias entrañas. 319Y así ocurre también con el dolor espiritual, con la angustia, pues no nos damos cuenta de tener alma hasta que esta nos duele. 320 Es la congoja lo que hace que la conciencia vuelva sobre sí. 321 El no acongojado conoce lo que hace y lo que piensa, pero no conoce de veras que lo hace y lo piensa. piensa, y sus pensamientos son como si no fuesen suyos. 323 322 Piensa, pero no Ni él es tampoco de sí mismo. 324 Y es que sólo por la congoja, por la pasión de no morir nunca, se adueña de sí mismo un espíritu humano. 325 El dolor, que es un deshacimiento, nos hace descubrir nuestras entrañas, y en el deshacimiento supremo, el de la muerte, llegaremos por el dolor del anonadamiento a las entrañas de nuestras entrañas temporales, a Dios, a quien en la congoja espiritual respiramos y aprendemos a amar. 326 Es así como hay que creer con la fe, enséñenos lo que nos enseñare la razón. 327 El origen del mal no es, como ya de antiguo lo han visto muchos, sino eso que por otro nombre se llama inercía de la materia, y en el espíritu pereza. 328Y por algo se dijo que la pereza es la madre de todos los vicios. 329 Sin olvidar que la suprema pereza es la de no anhelar locamente la inmortalidad. 330 La conciencia, el ansia de más y más, cada vez más, el ha mbre de eternidad y sed de infinitud, las ganas de Dios, jamás se satisfacen; cada conciencia quiere ser ella y ser todas las demás sin dejar de ser ella, quiere ser Dios. 331Y la materia, la conciencia, tiende a ser menos, cada vez menos; a no ser nada, siendo la suya una sed de reposo. 332 El espíritu dice: ¡quiero ser!, y la materia le responde: ¡no lo quiero! 333 Y en el orden de la vida humana el individuo, movido por el mero instinto de conservación, creador del mundo material, tendería a la destrucción, a la nada, si no fuese por la sociedad que, dándole el instinto de perpetuación, creador del mundo espiritual, le lleva y empuja al todo, a inmortalizarse. 334Y todo lo que el hombre hace como mero individuo, frente a la sociedad, por conservarse aunque sea a costa de ella, es malo, y es bueno cuanto hace como persona social, por la sociedad en que él se incluye, por perpetuarse en ella y perpetuarla. 335Y muchos que parecen grandes egoístas y que todo lo atropellan por llevar a cabo su obra, no son sino almas encendidas de caridad y rebosantes de ella, porque su yo mezquino lo someten y soyugan al yo social que tiene una misión que cumplir. 336 El que ata la obra del amor, de la espiritualización de la liberación, a formas transitorias e individuales, crucifica a Dios en la materia; crucifica a Dios en la materia todo el que hace servir el ideal a sus intereses temporales o a su gloria mundana. 337Y el tal es un deicida. ! #&)! 338 La obra de la caridad, del amor a Dios, es tratar de libertarle de la materia bruta, tratar de espiritualizarlo, concientizarlo, o universalizarlo todo; es soñar en que lleguen a hablar las rocas y obrar conforme a ese ensueño; que se haga todo lo existente consciente, que resucite el Verbo. 339 No hay sino verlo en el símbolo eucarístico. 340 Han apresado al Verbo en un pedazo de pan material, y lo han apresado en él para que nos lo comamos, y al comérnoslo nos lo hagamos nuestro, de que nuestro cuerpo en que el espíritu habita, y que se agite en nuestro corazón y piense en nuestro cerebro y sea conciencia. 341Lo han apresado en ese pan para que enterrándolo en nuestro cuerpo, resucite en nuestro espíritu. 342 Y es que hay que espiritualizarlo todo. 343 Y esto se consigue dando a todos y a todo mi espíritu que más se acrecienta cuanto más lo reparto. 344Y dar mi espíritu es invadir el de los otros y adueñarme de ellos. 345 En todo esto hay que creer con la fe, enséñenos lo que nos enseñare la razón... * 346 Y ahora vamos a ver las consecuencias prácticas de todas estas más o menos fantásticas doctrinas, a la lógica, a la estética, a la ética sobre todo, su concreción religiosa. 347Y acaso entonces podrá hallarlas más justificadas quienquiera que a pesar de mis advertencias, haya buscado aquí el desarrollo científico o siquiera filosófico de un sistema irracional. 348 No creo excusado remitir al lector una vez más a cuanto dije al final del sexto capítulo, aquel titulado «En el fondo del abismo»; pero ahora nos acercamos a la parte práctica o pragmática de todo este tratado. 349 Mas antes nos falta ver cómo puede concretarse el sentimiento religioso en la visión esperanzosa de otra vida. ! #&*! CAPITOLO X RELIGIÓN, MITOLOGÍA DE ULTRATUMBA Y APOCATÁSTASIS 1 "$#; 0"' #v! ,% "$#; µ"-#!*$ *'52(#!! µ5--+&*$ (j"(#!( $j2+)5µ(#& )#$!"+2(#|& *( "$#;, µ1.+-+0(#|& 2('#v *5% 2+)5µ#v$% (j"(#|, 2+#v$& *#&$ $1j*5;& +#j+µ($ (#|&$#. 2 3 (PLATÓN, Fedón.) El sentimiento de divinidad y de Dios, y la fe, la esperanza y la caridad en él fundadas, fundan a su vez la religión. 4De la fe en Dios nace la fe en los hombres, de la esperanza en Él la esperanza en estos, y de la caridad o piedad hacia Dios -pues como Cicerón, De natura deorum, libro 1, capítulo XII, dijo, est enim pietas iustitia adversum deos- la caridad para con los hombres. 5 En Dios se cifra no ya sólo la Humanidad, sino el Universo todo, y éste espiritualizado e intimado ya que la fe cris tiana dice que Dios acabará siendo todo en todos. 6Santa Teresa dijo, y con más áspero y desesperado sentido lo repitió Miguel de Molinos, que el alma debe hacerse cuenta que no hay sino ella y Dios. 7 Y a la relación con Dios, a la unión más o menos íntima con Él, es a lo que llamamos religión. 8 ambas? ¿Qué es la religión? 9¿En qué se diferencia de la religiosidad y qué relaciones median entre 10 Cada cual define la religión según la sienta en sí más aún que según en los demás la observe, ni cabe definirla sin de un modo o de otro sentirla. 11Decía Tácito (Hist., V, 4) hablando de los judíos, que era para estos profano todo lo que para ellos, para los romanos, era sagrado, y a la contraria entre los judíos lo que para los romanos impuro: profana illic omnia quae apud nos sacra, rursum conversa apud illos quae nobis incesta. 12Y de aquí que llame él, el romano, a los judíos (V 13), gente sometida a la superstición y contraria a la religión: gens superstitioni obnoxia, religionibus adversa, y que al fijarse en el cristianismo, que conocía muy mal y apenas si distinguía del judaísmo, lo reputa una perniciosa superstición, existialis superstitio, debida a odio al género ! #'+! humano, odium generis humani (Ab. excessu Aug., XV, 44). 14 13 Así Tácito y así muchos con él. Pero ¿dónde acaba la religión y la superstición?, o tal vez: ¿dónde acaba esta para empezar aquella?, ¿cuál es el criterio para discernirlas? 15 A poco nos conduciría recorrer aquí, siquiera someramente, las principales definiciones que de la religión, según el sentimiento de cada definidor, han sido dadas. 16La religión, más que se define se describe, y más que se describe se siente. 17 Pero si alguna de esas definiciones alcanzó recientemente boga, ha sido la de Schleiermacher, de que es el sencillo sentimiento de una relación de dependencia con algo superior a nosotros y el deseo de entablar relaciones con esa misteriosa potencia. 18Ni está mal aquello de W. Hermann (en la obra ya citada), de que el anhelo religioso del hombre es el deseo de la verdad de su existencia humana. 19 Y para acabar con testimonios ajenos citaré el del ponderado y clarividente Cournot, al decir que «las manifestaciones religiosas son la consecuencia necesaria de la inclinación del hombre a creer en la existencia de un mundo invisible, sobrenatural y maravilloso, inclinación que ha podido mirarse, ya como reminiscencia de un estado anterior ya como el presentimiento de un destino futuro» (Traité de l'enchainement des idées fondamentales dans les sciences et dans l'histoire, § 396). 20Y estamos ya en lo del destino futuro, la vida eterna, o sea la finalidad humana del Universo, o bien de Dios. 21A ella se llega por todos los caminos religiosos, pues que es la esencia misma de toda religión. 22 La religión, desde la del salvaje que personaliza en el fetiche al Universo todo, arranca, en efecto, de la necesidad vital de dar finalidad humana al Universo, a Dios, para lo cual hay que atribuirle conciencia de sí y de su fin, por lo tanto. 23Y cabe decir que no es la religión, sino la unión con Dios, sintiendo a este como cada cual le sienta. 24Dios da sentido y finalidad trascendentes a la vida; pero se la da en relación con cada uno de nosotros que en Él creemos. 25Y así Dios es para el hombre tanto como el hombre es para Dios, ya que se dio al hombre haciéndose hombre, humanizándose, por amor a él. 26 27 Y este religioso anhelo de unirnos con Dios no es ni por ciencia ni por arte, es por vida. «Quien posee ciencia y arte, tiene religión; quien no posee ni una ni otra, tenga religión», decía en uno de sus muy frecuentes accesos de paganismo Goethe. 28 Y, sin embargo, de lo que decía, ¿él, Goethe...? 29 Y desear unirnos con Dios no es perdernos y anegarnos en Él; que perderse y anegarse es siempre ir a deshacerse en el sueño sin ensueños del nirvana; es poseerlo, más bien que ser por Él poseídos. 30Cuando, en vista de la imposibilidad humana de entrar un rico en el reino de los cielos, le preguntaban a Jesús sus discípulos quién podrá salvarse, respondiéndoles el Maestro que para con los hombres era ello imposible, mas no para con Dios, Pedro le dijo: «He aquí que nosotros lo ! #'"! hemos dejado todo siguiéndote, ¿qué, pues, tendremos?» 31Y Jesús les contestó, no que se anegarían en el Padre sino que se sentarían en doce tronos para juzgar a las doce tribus de Israel (Mat., XIX, 23-28). 32 Fue un español, y muy español, Miguel de Molinos, el que en su Guía espiritual que desembaraza al alma y la conduce por el interior camino para alcanzar la perfecta contemplación y el rico tesoro de la paz interior, dijo (§ 175): «que se ha de despegar y negar de cinco cosas el que ha de llegar a la ciencia mística: la primera, de las criaturas; la segunda, de las cosas temporales; la tercera, de los mismos dones del Espíritu Santo; la cuarta, de sí misma; y la quinta se ha de despegar del mismo Dios». 33Y añade que «esta última es la más perfecta, porque el alma que así se sabe despegar es la que se llega a perder en Dios, y sólo la que así se llega a perder es la que se acierta a hallar». 34 Muy español Molinos, sí, y no menos española esta paradójica expresión de quietismo o más bien nihilismo -ya que él mismo habla de aniquilación en otra parte-, pero no menos, sino acaso más españoles los jesuitas que le combatieron volviendo por los fueros del todo contra nada. 35Porque la religión no es anhelo de aniquilarse, sino de totalizarse, es anhelo de vida y no de muerte. 36La «eterna religión de las entrañas del hombre..., el ensueño individual del corazón, es el culto de su ser, es la adoración de la vida», como sentía el atormentado Flaubert (Par les champs et par les gréves, VII). 37 Cuando a los comienzos de la llamada Edad Moderna, con el Renacimiento, resucita el sentimiento religioso pagano, toma este forma concreta en el ideal caballeresco con sus códigos del amor y del honor. 38Pero es un paganismo cristianizado, bautizado. 39«La mujer, la dama –la donnaera la divinidad de aquellos rudos pechos. 40Quien busque en las memorias de la primera edad ha de hallar éste ideal de la mujer en su pureza y en su omnipotencia: el Universo es la mujer. 41Y tal fue en los comienzos de la Edad Moderna en Alemania, en Francia, en Provenza, en España, en Italia. 42 Hízose la historia a esta imagen; figurábanse a troyanos y romanos como caballeros andantes, y así los árabes sarracenos, turcos, el soldán y Saladino... 43En esta fraternidad universal se hallan los ángeles, los santos, los milagros, el paraíso, en extraña mezcolanza con lo fantástico y lo voluptuoso del mundo oriental, bautizado todo bajo el nombre de caballería.» 44 Así, Francesco de Sanctis (Storia della letteratura italiana, II), quien poco antes nos dice que para aquellos hombres, «en el mismo paraíso el goce del amante es contemplar a su dama -Madonna-y sin su dama ni querría ir allá». 45¿Qué era, en efecto, la caballería que luego depuró y cristianizó Cervantes en Don Quijote, al querer acabar con ella por la risa, sino una verdadera monstruosa religión híbrida de paganismo y cristianismo, cuyo Evangelio fue acaso la leyenda de Tristán e Iseo? 46 ¿Y la misma religión cristiana de los místicos -estos caballeros andantes a lo divino -, no culminó acaso en el culto a la ! #'#! mujer divinizada, a la Virgen Madre? 47¿Qué es la mariolatría de un san Buenaventura, el trovador de María? 48Y ello era el amor a la fuente de la vida, a la que nos salva de la muerte. 49 Mas avanzando el Renacimiento, de esta religión de la mujer se pasó a la religión de la ciencia; la concupiscencia terminó en lo que era ya en su fondo, en curiosidad, en ansia de probar del fruto del árbol del bien y del mal. 50Europa corría a aprender a la Universidad de Bolonia. 51A la caballería sucedió el platonismo. 52Queríase descubrir el misterio del mundo y de la vida. 53Pero era en el fondo para salvar la vida, que con el culto a la mujer quiso salvarse. 54 Quería la conciencia humana penetrar en la Conciencia Universal, pero era, supiéralo o no, para salvarse. 55 Y es que no sentimos e imaginamos la Conciencia Universal -y este sentimiento e imaginación con la religiosidad- sino para salvar nuestras sendas conciencias. 56¿Y cómo? 57 Tengo que repetir una vez más que el anhelo de la inmortalidad del alma, de la permanencia, en una u otra forma, de nuestra conciencia personal en individual, es tan de la esencia de la religión corno el anhelo de que haya Dios. 58 No se da el uno sin el otro, y es porque en el fondo los dos son una sola y misma cosa. 59Mas desde el momento en que tratamos de concretar y racionalizar aquel primer anhelo, de definírnoslo a nosotros mismos, surgen más dificultades aún que surgieron al tratar de racionalizar a Dios. 60 Para justificar ante nuestra propia pobre razón el in mortal anhelo de inmortalidad, hase apelado también a lo del consenso humano: Permanere animos arbitratur consensu nationum omnium, decía, con los antiguos, Cicerón (Tuscul. Quaest., XVI, 36); pero este mismo compilador de sus sentimientos confesaba que mientras leía en el Fedón platónico los razonamientos en pro de la inmortalidad del alma, asentía a ellos; mas así que dejaba el libro y empezaba a resolver en su mente el problema, todo aquel asentimiento se le escapaba, assentio omnis illa illabitur (cap. XI, 25). 61 Y lo que a Cicerón, nos ocurre a los demás, y le ocurría a Swedenborg, el más intrépido visionario de otro mundo, al confesar que quien habla de la vida ultramundana sin doctas cavilaciones respecto al alma o a su modo de unión con el cuerpo, cree, que después de muerto, vivirá en goce y en visión espléndidas, como un hombre entre ángeles; mas en cuanto se pone a pensar en la doctrina de la unión del alma con el cuerpo, o en hipótesis respecto a aquella, súrgenle dudas de si es el alma así o asá, y en cuanto esto surge, la idea anterior desaparece (De coelo et inferno, § 183). 62Y, sin embargo, «lo que me toca, lo que me inquieta, lo que me consuela, lo que me lleva a la abnegación y al sacrificio, es el destino que me aguarda a mí o a mi persona, sean cuales fueren el origen, la naturaleza, la esencia del lazo inasequible, sin el cual place a los filósofos decidir que mi persona se desvanecería», como dice Cournot (Traité..., § 297). 63 64 ! ¿Hemos de aceptar la pura y desnuda fe en una vida eterna sin tratar de representárnosla? Esto es imposible; no nos es hacedero hacernos a ello. #'$! 65 Y hay, sin embargo, quienes se dicen cristianos y tienen poco menos que dejada de lado esa representación. 66Tomad un libro cualquiera del protestantismo más ilustrado, es decir, del más racionalista, del más cultural, la Dogmatik, del doctor Julio Kaftan, verbigracia, y de las 668 páginas de que consta su sexta edición, la de 1909, sólo una, la última, dedica a este problema. 67Y en esa página, después de asentar que Cristo es así como principio y medio, así también fin de la Historia, y que quienes en Cristo son alcanzarán la vida de plenitud, la eterna vida de los que son en Cristo, ni una sola palabra siquiera sobre lo que esa vida puede ser. 68A lo más cuatro palabras sobre la muerte eterna, esto es, el infierno, «porque lo exige el carácter moral de la fe y de la esperanza cristiana». 70 carácter religioso, pues este no sé que exija tal cosa. 69 Su carácter moral, ¿eh?, no su Y todo ello de una prudente parsimonia agnóstica. 71 Sí, lo prudente, lo racional, y alguien dirá que lo piadoso, es no querer penetrar en misterios que están a nuestro conocimiento vedados, no empeñarnos en lograr una representación plástica de la gloria eterna como la de una Divina Comedia. 72La verdadera fe, la verdadera piedad cristiana, se nos dirá, consiste en reposar en la confianza de que Dios, por la gracia de Cristo, nos hará, de una o de otra manera, vivir en Este, su Hijo; que, como está en sus todopoderosas manos nuestro destino, nos abandonemos a ellas seguros de que Él hará de nosotros lo que mejor sea, para el fin último de la vida, del espíritu y del Universo. 73 Tal es la lección que ha atravesado muchos siglos, y, sobre todo, lo que va de Lutero hasta Kant. 74 Y, sin embargo, los hombres no han dejado de tratar de representarse el cómo puede ser esa vida eterna, ni dejarán nunca, mientras sean hombres y no máquinas de pensar, de intentarlo. 75 Hay libros de teología -o de lo que ello fuere- llenos de disquisiciones sobre la condición en que vivan los bienaventurados, sobre la manera de goce, sobre las propiedades del cuerpo glorioso, ya que sin algún cuerpo no se concibe el alma. 76 Y a esta misma necesidad, verdadera necesidad de formarnos una representación concreta de lo que pueda esa otra vida ser, responde en gran parte la indestructible vitalidad de doctrinas como las del espiritismo, la metempsícosis, la transmigración de las almas a través de los astros, y otras análogas doctrinas que cuantas veces se las declara vencidas ya y muertas, otras tantas renacen en una u otra forma más o menos nueva. 77 ellas y no buscar un meollo permanente. Y es insigne torpeza querer en absoluto prescindir de 78 Jamás se avendrá el hombre al renunciamiento de concretar en representación esa otra vida. 79 ¿Pero es acaso pensable una vida eterna y sin fin después de la muerte? 80¿Qué puede ser la vida de un espíritu desencarnado? 81 ¿Qué puede ser un espíritu así? conciencia pura, sin organismo corporal? 83 82 ¿Qué puede ser una Descartes dividió el mundo entre el pensamiento y la extensión, dualismo que le impuso el dogma cristiano de la inmortalidad del alma. ! #'%! 84 ¿Pero es la extensión, la materia, la que piensa o se espiritualiza, o es el pensamiento el que se extiende y materializa? 85Las más graves cuestiones metafísicas surgen prácticamente -y por ello adquieren su valor dejando de ser ociosas discusiones de curiosidad inútil al querer darnos cuenta de la posibilidad de nuestra inmortalidad. 86Y es que la metafísica no tiene valor sino en cuanto trate de explicar cómo puede o no puede realizarse ese nuestro anhelo vital. 87 Y así es que hay y habrá siempre una metafísica racional y otra vital, en conflicto perenne una con otra, partiendo la una de la noción de causa, de la sustancia la otra. 88 Y aun imaginada una inmortalidad personal, ¿no cabe que la sintamos como algo tan terrible como su negación? 89 «Calipso no podía consolarse de la marcha de Ulises; en su dolor, hallábase desolada de ser inmortal», nos dice el dulce Fenelón, el místico, al comienzo de su Telémaco. 90¿No llegó a ser la condena de los antiguos dioses, como la de los demonios, el que no les era dado suicidarse? 91 Cuando Jesús, habiendo llevado a Pedro, Jacobo y Juan a un alto monte, se transfiguró ante ellos volviéndosele como la nieve de blanco resplandeciente los vestidos, y se le aparecieron Moisés y Elías que con él hablaban, le dijo Pedro al Maestro: «Maestro, estaría bien que nos quedásemos aquí haciendo tres pabellones, para ti uno y otros dos para Moisés y Elías», porque quería eternizar aquel momento. 92Y al bajar del monte les mandó Jesús que a nadie dijesen lo que habían visto sino cuando el Hijo del Hombre hubiese resucitado de los muertos. 93 Y ellos, reteniendo este dicho, altercaban sobre qué sería aquello de resucitar de los muertos, como quienes no lo entendían. 94Y fue después de esto cuando encontró Jesús al padre del chico presa de espíritu mudo, el que le dijo: «Creo, ¡ayuda mi incredulidad!» (Marcos, IX, 24). 95 Aquellos tres apóstoles no entendían qué sea eso de resucitar a los muertos. 96Ni tampoco aquellos saduceos que le preguntaron al Maestro de quién será mujer en la resurrección la que en esta vida hubiese tenido varios maridos (Mat., XXII, 23-32), que es cuando él dijo que Dios no es Dios de muertos, sino de vivos. 97Y no es, en efecto, pensable otra vida sino en las formas mismas de esta terrena y pasajera. 98 Ni aclara nada el misterio todo aquello del grano y el trigo que de él sale con que el apóstol Pablo se contesta a la pregunta de: «¿cómo resucitarán los muertos?, ¿con qué cuerpo vendrán?» (1 Cor., XV, 35). 99 ¿Cómo puede vivir y gozar de Dios eternamente un alma humana sin perder su personalidad individual, es decir, sin perderse? por oposición a tiempo? 102 100 ¿Qué es gozar de Dios? ¿Cambia el alma o no cambia en la otra vida? 101 ¿Qué es la eternidad 103 Si no cambia, ¿cómo vive? 104Y si cambia, ¿cómo conserva su individualidad en tan largo tiempo? 105Y la otra vida puede excluir el espacio, pero no puede excluir el tiempo, como hace notar Cournot, ya citado. ! #'&! 106 Si hay vida en el cielo hay cambio, y Swedenborg hacía notar que los ángeles cambian, porque el deleite de la vida celestial perdería poco a poco su valor si gozaran siempre de él en plenitud y porque los ángeles, lo mismo que los hombres, se aman a sí mismos, y el que a sí mismo se ama, experimenta alteraciones de estado, y añade que a las veces los ángeles se entristecen, y que él, Swedenborg, habló con algunos de ellos cuando estaban tristes (De coelo et inferno, § 158, 160), en todo caso, nos es imposible concebir vida sin cambio, cambio de crecimiento o de mengua, de tristeza o de alegría, de amor o de odio. 107 Es que una vida eterna es impensable y más impensable aún una vida eterna de absoluta felicidad, de visión beatífica. 108 ¿Y qué es esto de la visión beatífica? acción, suponiendo algo pasivo. conciencia? 111 110 109 Vemos en primer lugar que se llama visión y no Y esta visión beatífica, ¿no supone pérdida de la propia Un santo en el cielo es, dice Bossuet, un ser que apenas se siente a sí mismo, tan poseído está de Dios y tan abismado de su gloria... 112 No puede uno detenerse en él porque se le encuentra fuera de sí mismo, y sujeto por un amor inmutable a la fuente de su ser, y de su dicha (Du culte qui est dú á Dieu). 113 Y esto lo dice Bossuet el antiquietista. 114 Esa visión amorosa de Dios supone una absorción en Él. 115Un bienaventurado que goza plenamente de Dios no debe pensar en sí mismo, no acordarse de sí, ni tener de sí conciencia, sino que ha de estar en perpetuo éxtasis (j"!*$!#%- fuera de sí, en enajenamiento. 116 Y un preludio de esa visión nos describen los místicos en el éxtasis. 117 El que ve a Dios se muere, dice la Escritura (Jueces, XIII, 22); y la visión eterna de Dios, ¿no es acaso una eterna muerte, desfallecimiento de la personalidad? 118 Pero santa Teresa, en el capítulo XX de su Vida, al descubrirnos el último grado de oración, el arrobamiento, arrebatamiento, vuelo o éxtasis del alma, nos dice que es esta levantada como por una nube o águila caudalosa, pero «veisos llevar y no sabéis dónde», y es «con deleite», y «si no se resiste, no se pierde el sentido, al menos estaba de manera en mí que podía entender era llevada», es decir, sin pérdida de conciencia. 119 Y Dios «no parece se contenta con llevar tan de veras el alma a sí, sino que quiere el cuerpo aun siendo tan mortal y de tierra tan sucia». 120 «Muchas veces se engolfa el alma, o la engolfa el Señor en sí, por mejor decir, y teniéndola en sí un poco, quédase con sola la voluntad», no con sola la inteligencia. 121 No es, pues, como se ve, visión, sino unión volutiva, y entretanto «el entendimiento y memoria divertidos... como una persona que ha mucho dormido y soñado y aún no acaba de despertar». 122Es «vuelo suave, es vuelo deleitoso, vuelo sin ruido». 123Y es vuelo deleitoso, es con conciencia de sí, sabiéndose distinto de Dios con quien se une uno. 124Y a este arrobamiento se sube, según la mística doctora española, por la contemplación de la Humanidad de Cristo, es decir, de algo concreto y humano; es la visión del Dios vivo, no de la idea ! #''! de Dios. 125Y en el capítulo XXVIII nos dice que «cuando otra cosa no hubiere para deleitar la vista en el cielo, sino la gran hermosura de los cuerpos glorificados, es grandísima gloria, en especial ver la Humanidad de Jesucristo Señor nuestro»... 126«Esta visión -añade-, aunque es imaginaria nunca la vi con los ojos corporales, ni ninguna, sino con los ojos del alma.» 127 Y resulta que en el cielo no se ve sólo a Dios, sino todo en Dios; mejor dicho, se ve todo Dios, pues que Él lo abarca todo. 128 Y esta idea la recalca más Jacobo Boehme. 129 La santa, por su parte, nos dice en las Moradas séptimas, capítulo II, que «pasa esta secreta unión en el centro muy interior del alma, que debe ser adonde está el mismo Dios». 130Y luego que «queda el alma, digo el espíritu de esta alma, hecho una cosa con Dios...»; y es «como si dos velas de cera se juntasen tan en extremo, que toda la luz fuese una o que el pábilo y la luz y la cera es todo uno; mas después bien se puede apartar la una vela de la otra, y quedar en dos velas o el pábilo de la cera». 131 Pero hay otra más íntima unión, que es «como si cayendo agua del cielo en un río o fuente, adonde queda hecho todo agua, que no podrán ya dividir ni apartar cuál es el agua del río o la que cayó del cielo; o como si un arroyito pequeño entra en la mar, que no habrá remedio de apartarse; o como si en una pieza estuviesen dos ventanas por donde entrase gran luz, aunque entra dividida, se hace toda una luz». 132¿Y qué diferencia va de esto a aquel silencio interno y místico de Miguel de Molinos, cuyo tercer grado y perfectísimo es el silencio del pensamiento? (Guía, cap. XVII, § 129). 133 ¿No estamos cerca de aquello de que es la nada el camino para llegar a aquel estado del ánimo reforzado? (cap. XX, § 186). 134¿Y qué extraño es que Amiel usara hasta por dos veces de la palabra española nada en su Diario íntimo, sin duda por no encontrar en otra lengua alguna otra más expresiva? 135 Y, sin embargo, si se lee con cuidado a nuestra mística doctora, se verá que nunca queda fuera el elemento sensitivo, el del deleite, es decir, el de la propia conciencia. 136 Se deja el alma absorber de Dios para absorberlo, para cobrar conciencia de su propia divinidad. 137 Una visión beatífica, una contemplación amorosa en que esté el alma absorta en Dios y como perdida en Él aparece, o como un aniquilamiento propio o como un tedio prolongado a nuestro modo natural de sentir. 138 Y de aquí ese sentimiento que observamos con frecuencia y que se ha expresado más de una vez en expresiones satíricas no exentas de irreverencia y acaso de impiedad, de que el cielo de la gloria eterna es una morada de eterno aburrimiento. 139Sin que sirva querer desdeñar estos sentimientos así, tan espontáneos y naturales, o pretender denigrarlos. 140 Claro está que sienten así los que no aciertan a darse cuenta de que el supremo placer del hombre es adquirir y acrecentar conciencia. 142 141 No precisamente el de conocer, sino el de aprender. En conociendo una cosa, se tiende a olvidarla, a hacer su conocimiento inconsciente, si cabe decir así. 143El placer, el deleite más puro del hombre, va unido al acto de aprender, de enterarse: de adquirir conocimiento, esto es, a una diferenciación. ! #'(! 144 Y de aquí el dicho famoso de Lessing, ya citado. 145Conocido es el caso de aquel anciano español que acompañaba a Vasco Núñez de Balboa, cuando al llegar a la cumbre del Darién, dieron vista a los dos océanos, y es que cayendo de rodillas exclamó: «Gracias, Dios mío, porque no me has dejado morir sin haber visto tal maravilla.» 146Pero si este hombre se hubiese quedado allí, pronto la maravilla habría dejado de serlo, y con ella, el 147 placer. Su goce fue el del descubrimiento, y acaso el goce de la visión beatífica sea, no precisamente el de la contemplación de la Verdad suma, entera y toda, que a esto no resistiría el alma, sino el de un continuo descubrimiento de ella, el de un incesante aprender mediante un esfuerzo que mantenga siempre el sentimiento de la propia conciencia activa. 148 Una visión beatífica de quietud mental, de conocimiento pleno y no de aprensión gradual, no es difícil concebir como otra cosa que como un nirvana, una difusión espiritual, una disipación de la energía en el seno de Dios, una vuelta a la inconsciencia por falta de choque, de diferencia, o sea de actividad. 149 ¿No es acaso que la condición misma que hace pensable nuestra eterna unión con Dios, destruye nuestro anhelo? 151 150 ¿Qué diferencia va de ser absorbido por Dios a absorberle uno en sí? ¿Es el arroyito el que se pierde en el mar o el mar en el arroyito? 152Lo mismo da. 153 El fondo sentimental es nuestro anhelo de no perder el sentido de la continuidad de nuestra conciencia, de no romper el encadenamiento de nuestros recuerdos, el sentimiento de nuestra propia identidad personal concreta, aunque acaso vayamos poco a poco absorbiéndonos en Él, enriqueciéndole. 154¿Quién a los ochenta años se acuerda del que a los ocho fue, aunque sienta el encadenamiento entre ambos? 155Y podría decirse que el problema sentimental se reduce a si hay un Dios, una finalidad humana al Universo. 156 Pero ¿qué es finalidad? 157 Porque así como siempre cabe preguntar por un por qué de todo por qué, así cabe preguntar también siempre por un para qué de todo para qué. 158Supuesto que haya un Dios, ¿para qué Dios? 159Para sí mismo, se dirá. 160Y no faltará quien replique: ¿y qué más da esta conciencia de la no conciencia? 161Mas siempre resultará lo que ya dijo Plotino (Enn., II, IX, 8), que el por qué hizo el mundo, es lo mismo que el por qué hay alma. 162O mejor aún que el por qué, )#$v *#, el para qué. 163 Para el que se coloca fuera de sí mismo en una hipotética posición objetiva -lo que vale decir inhumano-, el último para qué es tan inasequible y en rigor tan absurdo, como el último por qué. 164 ¿Que más da, en efecto, que no haya finalidad alguna? 165¿Qué contradicción lógica hay en que el Universo no esté destinado a finalidad alguna, ni humana ni sobrehumana? 166 ¿En qué se opone a la razón que todo esto no tenga más objeto que existir, pasando como existe y pasa? 167 Esto, para el que se coloca fuera de sí, pero para el que vive y sufre y anhela dentro de sí... para este es ello cuestión de vida o muerte. ! #')! 168 ¡Búscate, pues, a ti mismo! propia nada? 170 169 Pero al encontrarse, ¿no es que se encuentra uno con su «Habiéndose hecho el hombre pecador buscándose a sí mismo, se ha hecho desgraciado al encontrarse», dijo Bossuet (Traité de la concupiscente, cap. XI). 171 «¡Búscate a ti mismo!», empieza por «¡conócete a ti mismo!». 172A lo que replica Carlyle (Past and present, book III; chap. XI): «El último evangelio de este mundo es: ¡conócete tu obra y cúmplela! 173¡Conócete a ti mismo!... 174Largo tiempo ha que este mismo tuyo te ha atormentado; jamás llegarás a conocerlo, me parece. 175No creas que es tu tarea la de conocerte, eres un individuo inconocible, conoce lo que puedes hacer y hazlo como un Hércules. 176Esto será lo mejor.» 177Sí; pero eso que yo haga, ¿no se perderá también al cabo? 178Y si se pierde, ¿para qué hacerlo? 179Sí, sí; el llevar a cabo mi obra -¿y cuál es mi obra?- sin pensar en mí, sea acaso amar a Dios. 180¿Y qué es amar a Dios? 181 Y por otra parte, el amar a Dios en mí, ¿no es que me amo más que a Dios, que me amo en Dios a mí mismo? 182 Lo que en rigor anhelamos para después de la muerte es seguir viviendo esta vida, esta misma vida mortal, pero sin sus males, sin el tedio y sin la muerte. 183 Es lo que expresó Séneca, el español, en su Consolación a Marcia (XXVI); es lo que quería, volver a vivir esta vida: ista moliri. 184 Y es lo que pedía Job (XIX, 25-27), ver a Dios en carne, no en espíritu. 185 ¿Y qué otra cosa significa aquella cómica ocurrencia de la vuelta eterna que brotó de las trágicas entrañas del pobre Nietzsche, hambriento de inmortalidad correcta y temporal? 186 Esa visión beatífica que se nos presenta como primera solución católica, ¿cómo puede cumplirse, repito, sin anegar la conciencia de sí? 187¿No será como en el sueño en que soñamos sin saber lo que soñamos? 188 ¿Quién apetecería una vida eterna así? piensa, no es sentirse a sí mismo, no es serse. 190 189 Pensar sin saber lo que se Y la vida eterna, ¿no es acaso conciencia eterna; no sólo ver a Dios, sino ver que se le ve, viéndose uno a sí mismo a la vez y como distinto de Él? 191El que duerme, vive, pero no tiene conciencia de sí; ¿y apetecerá nadie su sueño así eterno? 192Cuando Circe recomienda a Ulises que baje a la morada de los muertos, a consultar al adivino Tiresias, dícele que este es allí, entre las sombras de los muertos, el único que tiene sentido, pues los demás se agitan como sombras (Odisea, X, 487-495). a la muerte? 195 194 193 Y es que los otros, aparte de Tiresias, ¿vencieron ¿Es vencerla acaso errar así como sombras sin sentido? Por otra parte, ¿no cabe acaso imaginar que sea esta nuestra vida eterna respecto a la otra como es aquí el sueño para con la vigilia? despertar? 197 ¿Pero despertar a qué? 198 196 ¿No será ensueño nuestra vida toda, y la muerte un ¿Y si todo esto no fuese sino un sueño de Dios, y Dios despertara un día? 199¿Recordará su ensueño? 200 Aristóteles, el racionalista, nos habla en su Ética de la superior felicidad de la vida contemplativa -6-+% .(,'5*#"+v%-, y es corriente en los racionalistas todos poner la dicha en el ! #'*! conocimiento. 201 Y la concepción de la felicidad eterna, del goce de Dios, como visión beatífica, como conocimiento y comprensión de Dios, es algo de origen racionalista, es la clase de felicidad que corresponde al Dios idea del aristotelismo. 202 Pero es que para la felicidad se requiere, además de la visión, la delectación, y esta es muy poco racional y sólo conseguidera sintiéndose uno distinto de Dios. 203 Nuestro teólogo católico aristotélico, el que trató de racionalizar el sentimiento católico, santo Tomás de Aquino, dícenos en su Summa (primae, secundae partis, quaestio IV, art. l.°) que «la delectación se requiere concomitante». 205 204 Pero ¿qué delectación es la del que descansa? Descansar, requiescere, ¿no es dormir y no tener siquiera conciencia de que se descansa? 206«De la misma visión de Dios, se origina la delectación», añade el teólogo. 207Pero el alma, ¿se siente a sí misma como distinta de Dios? 208 «La delectación que acompaña a la operación del intelecto no impide esta, sino más bien la conforta», dice luego. 209 ¡Claro está! Si no, ¿qué dicha es esa? 210 Y para salvar la delectación, el deleite, el placer que tiene siempre, como el dolor, algo de material, y que no concebimos sino en un alma encarnada en cuerpo, hubo de imaginar que el alma bienaventurada esté unida a su cuerpo. 211 Sin alguna especie de cuerpo, ¿cómo el deleite? 212 La inmortalidad del alma pura, sin alguna especie de cuerpo o periespíritu, no es inmortalidad verdadera. 213 Y en el fondo, el anhelo de prolongar esta vida, esta y no otra, esta de carne y de dolor, esta de que maldecimos a las veces tan sólo porque se acaba. 214Los más de los suicidas no se quitarían la vida si tuviesen la seguridad de no morirse nunca sobre la tierra. 215 El que se mata, se mata por no esperar a morirse. 216 Cuando el Dante llega a contarnos en el canto XXXIII del Paradiso cómo llegó a la visión de Dios, nos dice que como aquel que ve soñando y después del sueño le queda la pasión impresa, y no otra cosa, en la mente, así a él, que casi cesa toda su visión y aún le destila en el corazón lo dulce que nació de ella. 217 Cotal son io, che quasi tutta cesa mia visione, ed ancor mi distilla nel cuor lo dulce che nacque da essa, no de otro modo que la nieve se descuaja al sol Cosí la neve al Sol si disigilla. 218 Esto es, que se le va la visión, lo intelectual, y le queda el deleite; la passione impressa, lo emotivo, lo irracional, lo corporal, en fin. ! #(+! 219 220 Una felicidad corporal, de deleite, no sólo espiritual, no sólo visión, es lo que apetecemos. Esa otra felicidad, esa beatitud racionalista, la de anegarse en la comprensión, sólo puede... no digo satisfacer ni engañar, porque creo que ni le satisfizo ni le engañó a un Spinoza. 221 El cual, al fin de su Ética, en las proposiciones XXXV y XXXVI de la parte quinta, establece que Dios se ama a sí mismo con infinito amor intelectual; que el amor intelectual de la mente de Dios es el mismo amor de Dios con que Dios se ama a sí mismo; no en cuanto es infinito, sino en cuanto puede explicarse por la esencia de la mente humana considerada en respecto de eternidad, esto es, que el amor intelectual de la mente hacia Dios es parte del infinito amor con que Dios a sí mismo se ama. 222 Y después de estas trágicas, de estas desoladoras proposiciones, la última del libro todo, la que cierra y corona esa tremenda tragedia de la Ética, nos dice que la felicidad no es premio de la virtud, sino la virtud misma, y que no nos gozamos en ella por comprimir los apetitos, sino que por gozar de ella podemos comprimirlos. 223 ¡Amor intelectual!, ¡amor intelectual! 224 ¿Qué es eso de amor intelectual? 225Algo así como un sabor rojo, o un sonido amargo, o un color aromático o más bien, algo así como un triángulo enamorado o una elipse encolerizada, una pura metáfora, pero una metáfora trágica. 226 Y una metáfora que corresponde trágicamente a aquello de que también el corazón tiene sus razones. 228 227 ¡Razones de corazón!, ¡amores de cabeza!, ¡deleite intelectivo! ¡Intelección deleitosa!, ¡tragedia, tragedia y tragedia! 229 Y, sin embargo, hay algo que se puede llamar amor intelectual y que es el amor de entender, la vida misma contemplativa de Aristóteles, porque el comprender es algo activo y amoroso, y la visión beatífica es la visión de la verdad total. 230 ¿No hay acaso en el fondo de toda pasión la curiosidad? 231¿No cayeron, según el relato bíblico, nuestros primeros padres por el ansia de probar el fruto del árbol de la ciencia del bien y del mal, y ser como dioses, conocedores de esa ciencia? 232 La visión de Dios, es decir, del Universo mismo en su alma, en su íntima esencia, ¿no apagaría todo nuestro anhelo? 233Y esta perspectiva sólo no puede satisfacer a los hombres groseros que no penetran el que el mayor goce de un hombre es ser más hombre, esto es, más dios, y que es más dios cuanta más conciencia tiene. 234 Y ese amor intelectual, que no es sino el llamado amor platónico, es un medio de dominar y de poseer. 235No hay, en efecto, más perfecto dominio que el conocimiento; el que conoce algo, lo posee. 236El conocimiento une al que conoce con lo conocido. 237«Yo te contemplo y te hago mía al contemplarte»; tal es la fórmula. 238Y conocer a Dios, ¿qué ha de ser sino poseerlo? 239El que a Dios conoce, es ya Dios él. 240 Cuenta B. Brunhes (La Dégradation de l'Energie, IVe partee, chap. XVIII, E. 2) haberle contado M. Sarrau, que lo tenía del padre Gratry, que este se paseaba por los jardines de Luxemburgo departiendo con el gran matemático y católico Cauchy, respecto a la dicha que ! #("! tendrían los elegidos en conocer, al fin, sin restricción ni velo, las verdades largo tiempo perseguidas trabajosamente en el mundo. 241 Y aludiendo el padre Gratry a los estudios de Cauchy sobre la teoría mecánica de la reflexión de la luz, emitió la idea de que uno de los más grandes goces intelectuales del ilustre geómetra sería penetrar en el secreto de la luz, a lo que replicó Cauchy que no le parecía posible saber en esto más que ya sabía, ni concebía que la inteligencia más perfecta pudiese comprender el misterio de la reflexión mejor que él lo había expuesto, ya que había dado una teoría mecánica del fenómeno. 242 «Su piedad -añade Brunhes-, no llegaba hasta creer que fuese posible hacer otra cosa ni hacerla mejor.» 243 Hay en este relato dos partes que nos interesan. 244 La primera es la expresión de lo que sea la contemplación, el amor intelectual o la visión beatífica para hombres superiores, que hacen del conocimiento su pasión central, y otra la fe en la explicación mecanicista del mundo. 245 A esta disposición mecanicista del intelecto va unida la ya célebre fórmula de «nada se crea, nada se pierde, todo se transforma», con que se ha querido interpretar el ambiguo principio de la conservación de la energía, olvidando que para nosotros, para los hombres, prácticamente energía es la energía utilizable, y que esta se pierde de continuo, se disipa por la difusión del calor, se degrada, tendiendo a la nivelación y a lo homogéneo. 246Lo valedero para nosotros, más aún, lo real para nosotros, es lo diferencial, que es lo cualitativo; la cantidad pura, sin diferencia, es como si para nosotros no existiese, pues que no obra. 247 Y el Universo material, el cuerpo del Universo, parece camina poco a poco, y sin que sirva la acción retardadora de los organismos vivos y más aún la acción consciente del hombre, a un estado de perfecta estabilidad, de homogeneidad (véase Brunhes, obra citada). 248 Que si el espíritu tiende a concentrarse, la energía material tiende a difundirse. 249 ¿Y no tiene esto acaso una íntima relación con nuestro problema? 250 ¿No habrá una relación entre esta conclusión de la filosofía científica respecto a un estado final de esta estabilidad y homogeneidad y el ensueño místico de la apocatástasis? 251 ¿Esa muerte del cuerpo del Universo no será el triunfo final de su espíritu de Dios? 252 Es evidente la relación íntima que media entre la exigencia religiosa de una vida eterna después de la muerte, y las conclusiones -siempre provisionales- a que la filosofía científica llega respecto al probable porvenir del Universo material o sensitivo. 253 Y el hecho es que así como hay teólogos de Dios y de la inmortalidad del alma, hay también los que Brunhes (obra citada, cap. XXVI, § 2) llama teólogos del monismo, a los que estaría mejor llamar ateólogos, gentes que persisten en el espíritu de afirmación a priori; y que se hacen insoportables -añadeeuando abrigan la pretensión de desdeñar la teología. 254 Un ejemplar de estos señores es Haeckel, ¡que ha logrado disipar los enigmas de la Naturaleza! ! #(#! 255 Estos ateólogos se han apoderado de la conservación de la energía, del «nada se crea y nada se pierde, todo se transforma», que es de origen teológico ya en Descartes, y se han servido de él para dispensarnos de Dios. 256 «El mundo construido para durar -escribe Brunhes-, que no se gasta, o más bien repara por sí mismo las grietas que aparecen en él; ¡qué hermoso tema de ampliaciones oratorias!; pero estas mismas ampliaciones, después de haber servido en el siglo XVII para probar la sabiduría del Creador, han servido en nuestros días de argumentos para los que pretenden pasarse sin él.» 257 Es lo de siempre: la lla mada filosofía científica, de origen y de inspiración teológica o religiosa en su fondo, yendo a dar en una ateología o irreligión, que no es otra cosa que teología y religión. 258Recordemos aquello de Ritschl, ya citado en estos ensayos. 259 Ahora la última palabra de la ciencia, más bien aún que de la filosofía científica, parece ser que el mundo material, sensible, camina por la degradación de la energía, por la predominancia de los fenómenos irreversibles, a una nivelación última, a una especie de homogéneo final. 260Y este nos recuerda aquel hipotético homogéneo primitivo de que tanto usó y abusó Spencer, y aquella fantástica inestabilidad de lo homogéneo. 261 Inestabilidad de que necesitaba el agnosticismo ateológico de Spencer para explicar el inexplicable paso de lo homogéneo a lo heterogéneo. 262 Porque ¿cómo puede surgir heterogeneidad alguna, sin acción externa, del perfecto y absoluto homogéneo? 263 Mas había que descartar todo género de creación, y para ello el ingeniero desocupado, metido a metafísico, como lo llamó Papini, inventó la inestabilidad de lo homogéneo, que es más... ¿cómo lo diré?, más místico y hasta más mitológico, si se quiere, que la acción creadora de Dios. 264 Acertado anduvo aquel positivista italiano, Roberto Ardigó, que, objetando a Spencer, le decía que lo más natural era suponer que siempre fue como hoy, que siempre hubo mundos en formación, en nebulosa, mundos formados y mundos que se deshacían; que la heterogeneidad es eterna. 265Otro modo, como se ve, de no resolver. 266 ¿Será esta la solución? 267Mas en tal caso, el Universo sería infinito, y en realidad no cabe concebir un Universo eterno y limitado como el que sirvió de base a Nietzsche para lo de la vuelta eterna. 268 Si el Universo ha de ser eterno, si han de seguirse en él, para cada uno de sus mundos, períodos de homogeneización, de degradación de energía, y otros de heterogeneización, es menester que sea infinito; que haya lugar siempre y en cada mundo para una acción de fuera. 269Y de hecho, el cuerpo de Dios no puede ser sino eterno e infinito. 270 271 Mas para nuestro mundo parece probada su gradual nivelación, o si queremos, su muerte. ¿Y cuál ha de ser la suerte de nuestro espíritu en este proceso? 272¿Menguará con la degradación de la energía de nuestro mundo y volverá a la inconsciencia, o crecerá más bien a medida que la energía utilizable mengua y por los esfuerzos mismos para retardarlo y dominar a la Naturaleza, que ! #($! es lo que constituye la vida del espíritu? 273¿Serán la conciencia y su soporte extenso dos poderes en contraposición tal que el uno crezca a expensas del otro? 274 El hecho es que lo mejor de nuestra labor científica, que lo mejor de nuestra industria, es decir, lo que en ella no conspira a destrucción -que es mucho-, se endereza a retardar ese fatal proceso de degradación de la energía. 275 Ya la vida misma orgánica, sostén de la conciencia, es un esfuerzo por evitar en lo posible ese término fatídico, por irlo alargando. 276 De nada sirve querernos engañar con himnos paganos a la Naturaleza, a aquella a que con más profundo sentido llamó Leopardi, este ateo cristiano, «madre en el parto, en el querer madrastra», en aquel su estupendo canto a la retama (La Ginestra). 277 Contra ella se ordenó en un principio la humana compañía; fue horror contra la limpia Naturaleza lo que anudó primero a los hombres en cadena social. 278Es la sociedad humana, en efecto, madre de la conciencia refleja y del ansia de inmortalidad, la que inaugura el estado de gracia sobre el de Naturaleza, y es el hombre el que, humanizando, espiritualizando a la Naturaleza con su industria, la sobrenaturaliza. 279 El trágico poeta portugués, Antero de Quental, soñó, en dos estupendos sonetos a que tituló Redención, que hay un espíritu preso, no ya en los átomos o en los iones o en los cristales, sino -como a un poeta corresponde en el mar, en los árboles, en la selva, en la montaña, en el viento, en las individualidades y formas todas materiales, y que un día, todas esas almas, en el limbo de la existencia, despertarán en la conciencia, y cerniéndose como puro pensamiento, verán a las formas, hijas de la ilusión, caer deshechas como un sueño vano. 280Es el ensueño grandioso de la concientización de todo. 281 ¿No es acaso que empezó el Universo, este nuestro Universo -¿quién sabe si hay otros?-, con un cero de espíritu -y cero no es lo mismo que nada- y un infinito de materia, y marcha a acabar en un infinito de espíritu con un cero de materia? 282¡Ensueños! 283 ¿No es acaso que todo tiene su alma, y que esa alma pide liberación? 284 «¡Oh tierras de Alvargonzález / en el corazón de España, / tierras pobres, tierras tristes, /tan tristes que tienen alma!», canta nuestro poeta Antonio Machado (Campos de Castilla). ¿está en ellos o en nosotros que los contemplamos? una alma individual en un mundo de la materia? 288 286 285 La tristeza de los campos, ¿No es que sufren? 287 Pero ¿qué puede ser ¿Es individuo una roca o una montaña? 289 ¿Lo es un árbol? 290 Y siempre resulta, sin embargo, que luchan el espíritu y la materia. Espronceda al decir que: Aquí, para vivir en santa calma, o sobra la materia o sobra el alma. ! #(%! 291 Ya lo dijo 292 ¿Y no hay en la historia del pensamiento, o si queréis, de la imaginación humana, algo que corresponda a ese proceso de reducción de lo material, en el sentido de una reducción de todo a conciencia? 293 Sí, la hay, y es del primer místico cristiano, de san Pablo de Éfeso, del apóstol de los gentiles, de aquel que por no haber visto con los ojos carnales de la cara al Cristo carnal y mortal, al ético, le creó en sí inmortal y religioso, de aquel que fue arrebatado al tercer cielo donde vio secretos inefables (II, Cor., XIII). 294Y este primer místico cristiano soñó también en un triunfo final del espíritu, de la conciencia, y es lo que se llama técnicamente en teología la apocatástatis o reconstitución. 295 Es en los versículos 26 al 28 del capítulo XV de su primera epístola a los Corintios donde nos dice que el último enemigo que ha de ser dominado será la muerte, pues Dios puso todo bajo sus pies; pero cuando diga que todo le está sometido, es claro que excluyendo al que hizo que todo se le sometiese, y cuando le haya sometido todo, entonces también Él, el Hijo, se someterá al que le sometió todo para que Dios sea en todos: #j&$ 5/ +J .((% 2$&*$ (j& 2$!#. 296 Es decir, que el fin es que Dios la Conciencia, acabe siéndolo todo en todo. 297 Doctrina que se completa con cuanto el mismo apóstol expone respecto al fin de la historia toda del mundo en su Epístola a los efesios. 298Preséntanos en ella, como es sabido, a Cristo -que es por quien fueron hechas las cosas todas del cielo y de la tierra, visibles e invisibles (Col., I, 16)-, como cabeza del todo (EL, I, 22), y en él, en esta cabeza, hemos de resucitar todos para vivir en comunión de santos y comprender con todos los santos cuál sea la anchura, la largura, la profundidad y la altura, y conocer el amor de Cristo, que excede a todo conocimiento (EL, III, 18, 19). 299Y a este recogernos en Cristo, cabeza de la Humanidad, y como resumen de ella, es a lo que el Apóstol llama recaudarse, recapitularse o recogerse todo en Cristo, $j&$"(4$-$#,!$!.$#, *$ 2$v&*$ (j& :'-!*,/. 300Y esta recapitulación $j&$"(4$-$-,!#%, anacefaleosis-, fin de la historia del mundo y del linaje humano, no es sino otro aspecto de la apocatástasis. 301 Esta, la apocatástatis, el que llegue a ser Dios todo en todos, redúcese, pues, a la anacefaleosis, a que todo se recoja en Cristo, en la Humanidad, siendo por lo tanto la Humanidad el fin de la creación. apocatástasis, esta humanación o divinización de todo, ¿no suprime la materia? 303 302 Y esta ¿Pero es que suprimida la materia, que es el principio de la individuación principium individuationis, según la Escuela , no vuelve todo a una conciencia pura, que en pura pureza, ni se conoce así, ni es cosa alguna concebible y sensible? 304Y suprimida toda materia, ¿en qué se apoya el espíritu? 305 Las mismas dificultades, las mismas impensabilidades, se nos vienen por otro camino. 306 Alguien podría decir por otra parte, que la apocatástasis, el que Dios llegue a ser todo en todos, supone que no lo era antes. ! 307 El que los seres todos lleguen a gozar de Dios, supone que #(&! Dios llegue a gozar de los seres todos, pues la visión beatífica es mutua, y Dios se perfecciona con ser mejor conocido, y de almas se alimenta y con ellas se enriquece. 308 Podría en ese camino de locos ensueños imaginarse un Dios inconsciente, dormitando en la materia, y que va a un Dios consciente de todo, consciente de su divinidad; que el Universo todo se haga consciente de sí como todo y de cada una de las conciencias que le integran, que se haga Dios. 311 309 Mas, en tal caso, ¿cómo empezó ese Dios inconsciente? 310 ¿No es la materia misma? Dios no sería así el principio, sino el fin del Universo; pero ¿puede ser fin lo que no fue principio? 312¿O es que hay fuera del tiempo, en la eternidad, diferencia entre el principio y el fin? 313 «El alma de todo no estaría atada por aquello mismo (esto es: la materia) que está por ella atado», dice Plotino. (Enn., H, IX, 7.) 314 ¿O no es más bien la Conciencia del Todo que se esfuerza por hacerse de cada parte, y en que cada conciencia parcial tenga de ella, de la total conciencia? 315¿No es un Dios monoteísta o solitario que camina a hacerse panteísta? 316Y si no es así, si la materia y el dolor son extraños a Dios, se preguntará uno: ¿para qué creó Dios el mundo? 317 ¿Para qué hizo la materia e introdujo el dolor? 318¿No era mejor que no hubiese hecho nada? 319¿Qué gloria le añade al crear ángeles u hombres que caigan y a los que tenga que condenar a tormento eterno? acaso el mal para curarlo? todos, su designio? 323 322 321 320 ¿Hizo ¿O fue la redención, y la redención total y absoluta, de todo y de Porque no es esta hipótesis ni más racional ni más piadosa que la otra. En cuanto tratamos de representarnos la felicidad eterna, preséntasenos una serie de preguntas sin respuesta alguna satisfactoria, esto es, racional, sea que partamos de una suposición monoteísta o de una panteísta o siquiera panenteísta. 324 Volvamos a la apocatástais pauliniana. 325 Al hacerse Dios todo en todos, ¿no es acaso que se completa, que acaba de ser Dios, conciencia infinita que abarca las conciencias todas? 327 326 ¿Y qué es una conciencia infinita? Suponiendo, como supone, la conciencia, límite, o siendo más bien la conciencia conciencia de límite, de distinción, ¿no excluye por lo mismo la infinitud? 328 ¿Qué valor tiene la noción de infinitud aplicada a la conciencia? 329¿Qué es una conciencia toda ella conciencia, sin nada fuera de ella que no lo sea? 330 ¿De qué es conciencia la conciencia en tal caso? 331 ¿De su contenido? 332 ¿O no será más bien que nos acercamos a la apocatástasis o apoteosis final sin llegar nunca a ella a partir de un caos, de una absoluta inconsciencia, en lo eterno del pasado? 333 ¿No será más bien eso de la apocatástasis, de la vuelta de todo a Dios, un término ideal a que sin cesar nos acercamos sin haber nunca de llegar a él, y unos a más ligera marcha que otros? 334 ¿No será la absoluta y perfecta felicidad eterna una eterna esperanza que de realizarse moriría? 335 ¿Se puede ser feliz sin esperanza? 336Y no cabe esperar ya una vez realizada la posesión, porque esta mata la esperanza, el ansia. ! 337 ¿No será, digo, que todas las almas crezcan sin cesar, unas en #('! mayor proporción que otras, pero habiendo todas de pasar alguna vez por un mismo grado cualquiera de crecimiento y sin llegar nunca al infinito, a Dios, a quien de continuo se acercan? 338 ¿No es la eterna felicidad, una eterna esperanza, con su núcleo eterno de pesar para que la dicha no se suma en la nada? 339 Siguen las preguntas sin respuesta. 340 «Será todo en todos», dice el Apóstol. 341 ¿Pero lo será de distinta manera en cada uno o de la misma en todos? 342¿No será Dios todo en un condenado? 343¿No está en su alma? 344¿No está en el llamado infierno? 345¿Y cómo está en él? 346 De donde surgen nuevos problemas, y son los referentes a la oposición entre cielo e infierno, entre felicidad e infelicidad eternas. 347 ¿No es que al cabo se salvan todos, incluso Caín y Judas, y Satanás mismo , como desarrollando la apocatástais pauliniana quería Orígenes? 348 Cuando nuestros teólogos católicos quieren justificar racionalmente -o sea éticamente- el dogma de la eternidad de las penas del infierno, dan unas razones tan especiosas, ridículas e infantiles que parece mentira hayan logrado curso. 349 Porque decir que siendo Dios infinito la ofensa a Él inferida es infinita también, y exige, por lo tanto, un castigo eterno, es, aparte de lo inconcebible de una ofensa infinita, desconocer que en moral y no en policía humanas la gravedad de la ofensa se mide, más que por la dignidad del ofendido, por la intención del ofensor, y que una intención culpable infinita es un desatino, y nada más. 350 Lo que aquí cabría aplicar son aquellas palabras del Cristo, dirigiéndose a su Padre: «¡Padre, perdónales, porque no saben lo que se hacen!», y no hay hombre que al ofender a Dios o a su projimo sepa lo que se hace. 351 En ética humana, o si se quiere en policía humana -eso que llaman Derecho penal, y que es todo menos derecho- una pena eterna es un desatino. 352 «Dios es justo, y se nos castiga; he aquí cuanto es indispensable sepamos; lo demás no es para nosotros sino pura curiosidad.» 353Así, Lamennais (Essai, parte IV cap. VII), y así otros con él. 354 Y así también Calvino. 355 ¿Pero hay quien se contente con eso? 356 ¡Pura curiosidad! 357 ¡Llamar pura curiosidad a lo que más estruja el corazón! 358 ¿No será acaso que el malo se aniquila porque deseó aniquilarse o que no deseó lo bastante eternizarse por ser malo? 359 ¿No podremos decir que no es el creer en otra vida lo que le hace a uno bueno, sino por ser bueno cree en ella? 360¿Y qué es ser bueno y ser malo? 361Esto es ya del dominio de la ética, no de la religión. 362O más bien, ¿no es de ética el hacer el bien, aun siendo malo, y de la religión el ser bueno, aun haciendo mal? 363 ¿No se nos podrá acaso decir, por otra parte, que si el pecador sufre un castigo eterno es porque sin cesar peca, porque los condenados no cesan de pecar? ! #((! 364 Lo cual no resuelve el problema, cuyo absurdo todo proviene de haber concebido el castigo como vindicta o venganza, no como corrección; de haberlo concebido a la manera de los pueblos bárbaros. policiaco, para meter miedo en este mundo. 366 365 Y así un infierno Siendo lo peor que ya no amedrenta, por lo cual habrá que cerrarlo. 367 Mas, por otra parte, en concepción religiosa y dentro del misterio, ¿por qué no una eternidad de dolor, aunque esto subleve nuestros sentimientos? alimenta de nuestro dolor? 369 368 ¿Por qué no un Dios que se ¿Es acaso nuestra dicha el fin del Universo? con nuestro dolor alguna dicha ajena? 371 370 ¿O no alimentamos Volvamos a leer las Euménides del formidable trágico Esquilo, aquellos coros de las Furias, porque los dioses nuevos, destruyendo las antiguas leyes, les arrebataban a Orestes de las manos: aquellas encendidas invectivas contra la redención apolínea. 372 ¿No es que la redención arranca de las manos de los dioses a los hombres, su presa y su juguete, con cuyos dolores juegan y se gozan como los chiquillos atormentando a un escarabajo, según la sentencia del trágico? 373 Y recordemos aquello de: «¡Dios mío! ¡Dios mío!, ¿porqué me has abandonado?» 374 Sí, ¿por qué no una eternidad de dolor? 375 El infierno es una eternización del alma, aunque sea en pena. 376¿No es la pena esencial a la vida? 377 378 Los hombres andan inventando teorías para explicarse eso que llaman el origen del mal. ¿Y por qué no el origen del bien? 379¿Por qué suponer que es el bien lo positivo y originario, y el mal lo negativo y derivado? 380«Todo lo que es en cuanto es, es bueno», sentenció san Agustín; pero ¿por qué?, ¿qué quiere decir ser bueno? 381 Lo bueno es bueno para algo, conducente a un fin, y decir que todo es bueno, vale decir que todo va a su fin. 382 Pero ¿cuál es su fin? 383Nuestro apetito es eternizarnos, persistir, y llamamos bueno a cuanto conspira a ese fin, y malo a cuanto tiende a amenguarnos o destruirnos la conciencia. 384 Suponemos que la conciencia humana es fin y no medio para otra cosa que no sea conciencia, ya humana, ya sobrehumana. 385 Todo optimismo metafísico, como el de Leibniz, o pesimismo de igual orden, como el de Schopenhauer, no tienen otro fundamento. 386Para Leibniz este mundo es el mejor, porque conspira a perpetuar la conciencia y con ella la voluntad, porque la inteligencia acrecienta la voluntad y la perfecciona, porque el fin del hombre es la contemplación de Dios, y para Schopenhauer es este mundo el peor de los posibles, porque conspira a destruir la voluntad, porque la inteligencia, la representación, anula a la voluntad, su madre. 387 Y así Franklin, que creía en otra vida, aseguraba que volvería a vivir esta, la vida que vivió, de cabo a rabo, from its beginning to the end, y Leopardi, que no creía en otra, aseguraba que nadie aceptaría volver a vivir la vida que vivió. 388 Ambas doctrinas, no ya éticas, sino religiosas, y el sentimiento del bien moral, en cuanto valor teológico, de origen religioso también. ! #()! 389 Y vuelve uno a preguntarse: ¿no se salvan, no se eternizan, y no ya en dolor, sino en dicha, todos, lo mismo los que llamamos buenos que los llamados malos? 390 ¿En esto de bueno y de malo no entra la malicia del que juzga? 391 ¿La maldad está en la intención del que ejecuta el acto o no está más bien en la del que lo juzga malo? 392 ¡Pero es lo terrible que el hombre se juzga a sí mismo, se hace juez de sí propio! 393 ¿Quiénes se salvan? 394Ahora otra imaginación -ni más ni menos racional que cuantas van interrogativamente expuestas -, y es que sólo se salven los que anhelaron salvarse, que sólo se eternicen los que vivieron aquejados del terrible hambre de eternidad y de eternización. 395 El que anhela no morir nunca, y cree no haberse nunca de morir en espíritu, es porque lo merece, o más bien, sólo anhela la eternidad personal el que la lleva ya dentro. 396No deja de anhelar con pasión su propia inmortalidad, y con pasión avasalladora de toda razón, sino aquel que no la merece y porque no la merece no la anhela. 397Y no es injusticia no darle lo que no sabe desear, porque pedid y se os dará. 398Acaso se le dé a cada uno lo que deseó. 399Y acaso el pecado aquel contra el Espíritu Santo, para el que no hay, según el Evangelio, remisión, no sea otro que no desear a Dios, no anhelar eternizarse. 400 «Según es vuestro espíritu, así es vuestra rebusca; hallaréis lo que deseéis, y esto es ser cristiano», as is your sort of mind / so is your sort of search; you'll find / what you desire, and thats to be a Christian, decía R. Browning (Christmaseve and Easterday, VII). 401 El Dante condena en su infierno a los epicúreos, a los que no creyeron en otra vida a algo más terrible que no tenerla, y es a la conciencia de que no la tienen, y esto en forma plástica, haciendo que permanezcan durante la eternidad toda encerrados dentro de sus tumbas, sin luz, sin aire, sin fuego, sin movimiento, sin vida (Inferno, X; 10-15). 402 ¿Qué crueldad hay en negar a uno lo que no deseó o no pudo desear? 403Virgilio el dulce, en el canto VI de su Eneida (426-429), nos hace oír las voces y vagidos quejumbrosos de los niños que lloran a la entrada del infierno. 404 continuo auditae voces, vagitus et ingens infantumque animae flentes in limine primo, desdichados que apenas entraron en la vida ni conocieron sus dulzuras, y a quienes un negro día les arrebató de los pechos maternos para sumergirlos en acerbo luto. 405 quos dulcis vitae exsortes et ab ubere raptos abstulit atra dies et funere mersit acerbo. ! #(*! 406 ¿Pero qué vida perdieron, si no la conocían ni la anhelaban? 407 ¿O es que en realidad no la anhelaron? 408 Aquí podrá decirse que la anhelaron otros por ellos, que sus padres les quisieron eternos, para con ellos recrearse luego en la gloria. 409Y así entramos en un nuevo campo de imaginaciones, y es el de la solidaridad y representatividad de la salvación eterna. 410 Son muchos, en efecto, los que se imaginan al linaje humano como un ser, un individuo colectivo y solidario, y en que cada miembro representa o puede llegar a representar a la colectividad toda y se imaginan la salvación como algo colectivo también. el mérito, como algo colectivo también la culpa; y la redención. 412 411 Como algo colectivo O se salvan todos o no se salva nadie, según este -nodo de sentir y de imaginar; la redención es total y es mutua; cada hombre un Cristo de su prójimo. 413 ¿Y no hay acaso como una vislumbre de esto en la creencia popular católica de las benditas ánimas del Purgatorio y de los sufragios que por ellas, por sus muertos, rinden los vivos y los méritos que les aplican? 414 Es corriente en la piedad popular católica este sentimiento de transmisión de méritos, ya a vivos, ya a muertos. 415 No hay tampoco que olvidar el que muchas veces se ha presentado ya en la historia del pensamiento religioso humano la idea de la inmortalidad restringida a un número de elegidos, de espíritus representativos de los demás, y que en cierto modo los incluyen en sí, idea de abolengo pagano -pues tales eran los héroes y semidioses- que se abroquela a las veces en aquello de que son muchos los llamados y pocos los elegidos. 416 En estos días mismos en que me ocupaba en preparar este ensayo, llegó a mis manos la tercera edición del Dialogue sur la vie et sur la mort, de Charles Bonnefon, libro en que imaginaciones análogas a las que vengo exponiendo hallan expresión concentrada y sugestiva. 417Ni el alma puede vivir sin el cuerpo, ni este sin aquella, nos dice Bonnefon, y así no existen en realidad ni la muerte ni el nacimiento, ni hay en rigor, ni cuerpo, ni alma, ni nacimiento, ni muerte, todo lo cual son abstracciones o apariencias, sino tan sólo una vida pensante, de que formamos parte, y que no puede ni nacer ni morir. 418 Lo que le lleva a negar la individualidad humana, afirmando que nadie puede decir: «yo soy», sino más bien «nosotros somos», o mejor aún: «es en nosotros». 419Es la humanidad, la especie, la que piensa y ama en nosotros. transmiten las almas. 421 420 Y como se transmiten los cuerpos se «El pensamiento vivo o la vida presente que somos, volverá a encontrarse inmediatamente bajo una forma análoga a la que fue nuestro origen y correspondiente a nuestro ser en el seno de una mujer fecundado.» 422Cada uno de nosotros, pues, ha vivido ya y volverá a vivir, aunque lo ignore. 423 «Si la humanidad se eleva gradualmente por encima de sí misma, ¿quién nos dice que al momento de morir el último hombre, que contendrá en sí a todos los demás, no haya ! #)+! llegado a la humanidad superior tal como existe en cualquier otra parte, en el cielo?... 424Solidarios todos, recogeremos todos poco a poco los frutos de nuestros esfuerzos.» 425 Según este modo de imaginar y de sentir, como nadie nace, nadie muere, sino que cada alma no ha cesado de luchar y varias veces hase sumergido en medio de la pelea humana, «desde que el tipo de embrión correspondiente a la misma conciencia se representaba en la sucesión de los fenómenos humanos». 426 Claro es que como Bonnefon empieza por negar la individualidad personal, deja fuera nuestro verdadero anhelo, que es el de salvarla; mas como, por otra parte, él, Bonnefon, es individuo personal y siente ese anhelo, acude a la distinción entre lla mados y elegidos, y a la noción de espíritus representativos, y concede a un número de hombres esa inmortalidad representativa. 427De estos elegidos dice que «serán un poco más necesarios a Dios que nosotros mismos». 428 Y termina este grandioso ensueño en que «de ascensión en ascensión no es imposible que lleguemos a la dicha suprema, y que nuestra vida se funda en la Vida perfecta como la gota de agua en el mar. 429 Comprenderemos entonces -prosigue diciendo- que todo era necesario, que cada filosofía o cada religión tuvo su hora de verdad, que a través de nuestros rodeos y errores y en los momentos más sombríos de nuestra historia, hemos columbrado el faro y que estábamos todos predestinados a participar de la Luz Eterna. 430 Y si el Dios que volveremos a encontrar posee un cuerpo -y no podemos concebir Dios vivo que no le tenga-, seremos una de sus células conscientes a la vez que las miríadas de razas brotadas en las miríadas de soles. 431 Si este ensueño se cumpliera, un océano de amor batiría nuestras playas, y el fin de toda vida sería añadir una gota de agua a su infinito». 432 ¿Y qué es este sueño cósmico de Bonnefon sino la forma plástica de la apocatástasis pauliniana? 433 Sí, este tal ensueño, de viejo abolengo cristiano, no es otra cosa, en el fondo, que la anacefaleosis pauliniana, la fusión de los hombres todos en el Hombre, en la Humanidad toda hecha Persona, que es Cristo, y con los hombres todos, y la sujeción luego de todo ello a Dios, para que Dios, la Conciencia, lo sea todo en todos. 434Lo cual supone una redención colectiva y una sociedad de ultratumba. 435 A mediados del siglo XVIII dos pietistas de origen protestante, Juan Jacobo Moser y Federico Cristóbal Oetinger, volvieron a dar fuerza y valor a la anacefaleosis pauliniana. 436 Moser declaraba que su religión no consistía en tener por verdaderas ciertas doctrinas y vivir virtuosamente conforme a ellas, sino en unirse de nuevo con Dios por Cristo; a lo que corresponde el conocimiento, creciente hasta el fin de la vida, de los propios pecados y de la misericordia y paciencia de Dios, la alteración del sentido natural todo, la adquisición de la reconciliación fundada en la muerte de Cristo, el goce de la paz con Dios en el testimonio permanente del Espíritu Santo, respecto a la remisión de los pecados; el conducirse según el modelo de Cristo, lo cual sólo brota de la fe, el acercarse a Dios y tratar con Él, y la disposición de morir en gracia y la esperanza del juicio ! #)"! que otorga la bienaventuranza en el próximo goce de Dios y en trato con todos los santos (C. Ritschl, Geschichte der Pietismus, III, § 43). 437 El trato con todos los santos, es decir, considera la felicidad eterna, no como la visión de Dios en su infinitud, sino basándose en la Epístola a los efesios, como la contemplación de Dios en la armonía de la criatura con Cristo. 438El trato con todos los santos era, según él, esencial contenido de la felicidad eterna. Dios, que resulta así ser el reino del Hombre. 439 Era la realización del reino de 440 Y al exponer estas doctrinas de los dos pietistas confiesa Ritschl (obra citada, III, § 46) que ambos testigos adquirieron para el protestantismo con ellas algo de tanto valor como el método teológico de Spencer, otro pietista. 441 Vese, pues, cómo el íntimo anhelo místico cristiano, desde san Pablo, ha sido dar finalidad humana, o sea divina, al Universo, salvar la conciencia humana y salvarla haciendo una persona de la humanidad toda. 442A ello responde la anacefaleosis, la recapitulación de todo, todo lo de la tierra y el cielo, lo visible y lo invisible, en Cristo, y la apocatástais, la vuelta del todo a Dios, a la conciencia, para que Dios sea todo en todo. 443 ¿Y ser Dios todo en todo no es acaso el que cobre todo conciencia y resucite en esta todo lo que pasó, y que se eternice todo cuanto en el tiempo fue? 444Y entre ellos todas las conciencias individuales, las que han sido, las que son y las que serán, y tal como se dieron, se dan y se darán en sociedad y solidaridad. 445 Mas este resucitar a conciencia todo lo que alguna vez fue, ¿no trae necesariamente consigo una fusión de lo idéntico, una amalgama de lo semejante? 446 Al hacerse el linaje humano verdadera sociedad en Cristo, comunión de santos, reino de Dios, ¿no es que las engañosas y hasta pecaminosas diferencias individuales se borran, y quede sólo de cada hombre que fue lo esencial de él en la sociedad perfecta? 447 ¿No resultaría tal vez, según la suposición de Bonnefon, que esta conciencia que vivió en el siglo XX en este rincón de esta tierra se sintiese la misma que tales otras que vivieron en otros siglos y acaso en otras tierras? 448 ¡Y qué no puede ser una efectiva y real unión, una unión sustancial e íntima, alma a alma, de todos los que han sido! 449 «Si dos criaturas cualesquiera se hicieran una, harían más que ha hecho el mundo.» If any two creatures grew into one They would do more than the world has done. sentenció Browning (The flight of the Duchess), y el Cristo nos dejó dicho que donde se reúnan dos en su nombre allí está Él. 450 La gloria es, pues, según muchos, sociedad, más perfecta sociedad que la de este mundo: es la sociedad humana hecha persona. 451 Y no falta quien crea que el progreso humano todo conspira a hacer de nuestra especie un ser colectivo con verdadera conciencia -¿no es acaso un ! #)#! organismo humano individual una especie de federación de células?- y que cuando la haya adquirido plena, resucitarán en ella cuantos fueron. 452 La gloria, piensan muchos, es sociedad. sobrevivir aislado tampoco. 454 453 Como nadie vive aislado, nadie puede No puede gozar de Dios en el cielo quien vea que su hermano sufre en el infierno, porque fueron comunes la culpa y el mérito. los demás y con sus sentimientos sentimos. 456 455 Pensamos con los pensamientos de Ver a Dios, cuando Dios sea todo en todos, es verlo todo en Dios y vivir en Dios con todo. 457 Este grandioso ensueño de la solidaridad final humana es la anacefaleosis y la apocatástasis paulinianas. 458 Somos los cristianos, decía el Apóstol (1 Cor., XII, 27), el cuerpo de Cristo, miembros de él, carne de su carne y hueso de sus huesos (Efesios, V 30), sarmientos de la vid. 459 Pero en esta final solidarización, en esta verdadera y suprema cristinación de las criaturas todas, ¿qué es de cada conciencia individual?, ¿qué es de mí, de este pobre yo frágil, de este yo esclavo del tiempo y del espacio, de este yo que la razón me dice ser un mero accidente pasajero, pero por salvar al cual, vivo y sufro y espero y creo? 460Salvada la finalidad humana del Universo, si al fin se salva; salvada la conciencia, ¿me resignaría a hacer el sacrificio de este mi pobre yo, por el cual y sólo por el cual conozco esa finalidad y esa conciencia? 461 Y henos aquí en lo más alto de la tragedia, en su nudo, en la perspectiva de este supremo sacrificio religioso: el de la propia conciencia individual en aras de la conciencia humana perfecta, de la Conciencia Divina. 462 Pero ¿hay tal tragedia? 463 Si llegáramos a ver claro esa anacefaleosis; si llegáramos a comprender y sentir quevamos a enriquecer a Cristo, ¿vacilaríamos un momento en entregarnos del todo a Él? 464El arroyico que entra en el mar y siente en la dulzura de sus aguas el amargor de la sal oceánica, ¿retrocedería hacia su fuente?, ¿querría volver a la nube que nació de mar?, ¿no es un gozo sentirse absorbido? 465 Y, sin embargo... 466 Sí, a pesar de todo, la tragedia culmina aquí. 467 Y el alma, mi alma al menos, anhela otra cosa, no absorción, no quietud, no paz, no apagamiento, sino eterno acercarse sin llegar nunca, inacabable anhelo, eterna esperanza que eternamente se renueva sin acabarse del todo nunca. dolor eterno. 470 469 468 Y con ello un eterno carecer de algo y un Un dolor, una pena, gracias a la cual se crece sin cesar en conciencia y en anhelo. No pongáis a la puerta de la Gloria, como a la del Infierno puso el Dante, el Lasciate ogni speranza! 471 ¡No matéis el tiempo! 472 Es nuestra vida una esperanza que se está convirtiendo sin cesar en recuerdo, que engendra a su vez a la esperanza. ! #)$! 473 ¡Dejadnos vivir! 474 La eternidad, como un eterno presente, sin recuerdo y sin esperanza, es la muerte. 475Así son las ideas, pero así no viven los hombres. 476 Así son las ideas en el DiosIdea; pero no pueden vivir así los hombres en el Dios vivo, en el Dios-Hombre. 477 Un eterno Purgatorio, pues, más que una Gloria; una ascensión eterna. 478 Si desaparece todo dolor, por puro y espiritualizado que lo supongamos, toda ansia, ¿qué hace vivir a los bienaventurados? 479Si no sufren allí por Dios, ¿cómo le aman? 480Y si aun allí, en la Gloria, viendo a Dios poco a poco y cada vez de más cerca sin llegar a Él del todo nunca, no les queda siempre algo por conocer y anhelar, no les queda siempre un poco de incertidumbre, ¿cómo no se aduermen? 481 482 O en resolución, si allí no queda algo de la tragedia íntima del alma, ¿qué vida es esa? ¿Hay acaso goce mayor que acordarse de la miseria -y acordarse de ella es sentirla-en el tiempo de la felicidad? 483 ¿No añora la cárcel quien se libertó de ella? 484 ¿No echa de menos aquellos sus anhelos de libertad? * 485 ¡Ensueños mitológicos!, se dirá. 486 Ni como otra cosa los hemos presentado. que el ensueño mitológico no contiene su verdad? 488 487 Pero ¿es ¿Es que el ensueño y el mito no son acaso revelaciones de una verdad inefable, de una verdad irracional, de una verdad que no puede probarse? 489 ¡Mitología! de Platón. 491 490 Acaso; pero hay que mitologizar respecto a la otra vida como en tiempos Acabamos de ver que cuando tratamos de dar forma concreta, concebible, es decir, racional, a nuestro anhelo primario, primordial y fundamental de vida eterna consciente de sí y de su individualidad personal, los absurdos estéticos, lógicos y éticos se multiplican y no hay modo de concebir sin contradicciones y despropósitos la visión beatífica y la apocatástasis. 492 ¡Y sin embargo! 493 Sin embargo, sí, hay que anhelarla, por absurda que nos parezca; es más, hay que creer en ella, de una manera o de otra, para vivir. 495 494 Para vivir, ¿eh?, no para comprender el Universo. Hay que creer en ella, y creer en ella es religioso. 496 El cristianismo, la única religión que nosotros, los europeos del siglo XX, podemos de veras sentir, es, como decía Kierkegaard, una salida desesperada (Afsluttende uvidenskabelig Efferskrift, II, cap. 1), salida que sólo se logra mediante el martirio de la fe, que es la crucifixión de la razón, según el mismo trágico pensador. 497 498 ! No sin razón quedó dicho por quien pudo decirlo aquello de la locura de la cruz. Locura, sin duda, locura. 499 Y no andaba del todo descaminado el humorista yanqui -Oliver #)%! Wendell Holmes- al hacer decir a uno de los personajes de sus ingeniosas conversaciones, que se, formaba mejor idea de los que estaban encerrados en un manicomio por monomanía religiosa que no de los que, profesando los mismos principios religiosos, andaban sueltos y sin enloquecer. 500 Pero ¿es que realmente no viven estos también, gracias a Dios, enloquecidos? 501¿Es que no hay locuras mansas, que no sólo nos permiten convivir con nuestros prójimos sin detrimento de la sociedad, sino que más bien nos ayudan a ello, dándonos como nos dan sentido y finalidad a la vida y a la sociedad misma? 502 Y después de todo, ¿qué es la locura y cómo distinguirla de la razón no poniéndose fuera de una y de otra, lo cual nos es imposible? 503 Locura tal vez, y locura grande, querer penetrar en el misterio de ultratumba; locura querer sobreponer nuestras imaginaciones, preñadas de contradicción íntima, por encima de lo que una sana razón nos dicta. 504Y una sana razón nos dice que no se debe fundar nada sin cimientos, y que es labor, más que ociosa, destructiva, la de llenar con fantasías el hueco de lo desconocido. 505Y sin embargo... 506 Hay que creer en la otra vida, en la vida eterna de más allá de la tumba, y en una vida individual y personal, en una vida en que cada uno de nosotros sienta su conciencia y la sienta unirse, sin confundirse con las demás conciencias todas en la Conciencia Suprema, en Dios; hay que creer en esa otra vida para poder vivir esta y soportarla y darle sentido y invalidad. 507Y hay que creer acaso en esa otra vida para merecerla, para conseguirla, o tal vez ni la merece ni la consigue el que no la anhela sobre la razón y, si fuere menester, hasta contra ella. 508 Y hay, sobre todo, que sentir y conducirse como si nos estuviese reservada una continuación sin fin de nuestra vida terrenal después de la muerte; y si es la nada lo que nos está reservado, no hacer que esto sea una justicia, según la frase de Obermann. 509 Lo que nos trae como de la mano a examinar el aspecto práctico o ético de nuestro único problema. ! #)&! CAPITOLO XI EL PROBLEMA PRÁCTICO 1 L'homme est périssable. -II se peut; mais périssons en résistant, et, si le néant nous est reservé, ne faisons pas que ce soit une justice. 2 3 (SÉNANCOUR: Obermann, lettre XC.) Varias veces, en el errabundo curso de estos ensayos, he definido, a pesar de mi horror a las definiciones, mi propia posición frente al problema que vengo examinando; pero sé que no faltará nunca el lector, insatisfecho, educado en un dogmatismo cualquiera, que se dirá: «Este hombre no se decide, vacila; ahora parece afirmar una cosa, y luego la contraria: está lleno de contradicciones; no le puedo encasillar; ¿qué es?» 4Pues eso, uno que afirma contrarios, un hombre de contradicción y de pelea, como de sí mismo decía Job: uno que dice una cosa con el corazón y la contraria con la cabeza, y que hace de esta lucha su vida. 5Más claro, ni el agua que sale de la nieve de las cumbres. 6 Se me dirá que ésta es una posición insostenible, que hace falta un cimiento en que cimentar nuestra acción y nuestras obras, que no cabe vivir en contradicciones, que la unidad y la claridad son condiciones esenciales de la vida y del pensamiento, y que se hace preciso unificar este. 7Y seguimos siempre en lo mismo. 8Porque es la contradicción íntima precisamente lo que unifica mi vida, le da razón práctica de ser. 9 O más bien es el conflicto mismo, es la misma apasionada incertidumbre lo que unifica mi acción y me hace vivir y obrar. 10 Pensamos para vivir, he dicho; pero acaso fuera más acertado decir que pensamos porque vivimos, y que la forma de nuestro pensamiento responde a la de nuestra vida. 11Una vez más tengo que repetir que nuestras doctrinas éticas y filosóficas, en general, no suelen ser sino la justificación a posteriori de nuestra conducta, de nuestros actos. 12 Nuestras doctrinas suelen ser el medio que buscamos para explicar y justificar a los demás y a nosotros mismos nuestro propio modo de obrar. 13 Y nótese que no sólo a los demás, sino a nosotros mismos. 14El hombre, que no sabe en rigor por qué hace lo que hace y no otra cosa, siente la necesidad de darse cuenta de su razón de obrar, y la forja. Los que creemos móviles de nuestra conducta no suelen ser sino pretextos. 15La misma razón ! #)'! que uno cree que le impulsa a cuidarse para prologar su vida, es la que en la creencia de otro le lleva a este a pegarse un tiro. 16 No puede, sin embargo, negarse que los razonamientos, las ideas, no influyan en los actos humanos, y aun a las veces los determinen por un proceso análogo al de la sugestión en un hipnotizado, y es por la tendencia que toda idea -que no es sino un acto incoado o abortadotiene a resolverse en acción. 17Esta noción es la que llevó a Fouillée a lo de las ideas-fuerzas. 18Pero son de ordinario fuerzas que acomodamos a otras más íntimas y mucho menos conscientes. 19 Mas dejando por ahora todo esto, quiero establecer la incertidumbre, la duda, el perpetuo combate con el misterio de nuestro final destino, la desesperación mental y la falta de sólido y estable fundamento dogmático, pueden ser base de moral. 20 El que basa o cree basar su conducta -interna o externa, de sentimiento o de acción- en un dogma o principio teórico que estima incontrovertible, corre riesgo de hacerse un fanático, y, además, el día en que se le quebrante o afloje ese dogma, su moral se relaja. 21Si la tierra que cree firme vacila, él, ante el terremoto, tiembla, porque no todos somos el estoico ideal a quien le hieren impávido las ruinas del orbe hecho pedazos. 22Afortunadamente, le salvará lo que hay debajo de sus ideas. 23Pues al que os diga que si no estafa y pone cuernos a su más íntimo amigo, es porque teme al infierno, podéis asegurar que, si dejase de creer en este, tampoco lo haría, inventando entonces otra explicación cualquiera. 24Y esto en honra del género humano. 25 Pero al que cree que navega, tal vez sin rumbo en balsa movible y anegable, no ha de inmutarle el que la balsa se le mueva bajo los pies y amenace hundirse. 26 Este tal cree obrar, no porque estime su principio de acción verdadero, sino para hacerlo tal, para probarse su verdad, para crearse su mundo espiritual. 27 Mi conducta ha de ser la mejor prueba, la prueba moral de mi anhelo supremo; y si no acabo de convencerme, dentro de la última o irremediable incertidumbre, de la verdad de lo que espero, es que mi conducta no es bastante pura. 28No se basa, pues, la virtud en el dogma, sino este en aquella, y es el mártir el que hace la fe más que la fe al mártir. 29No hay seguridad y descanso los que se pueden lograr en esta vida, esencialmente insegura y fatigosa- sino en una conducta apasionadamente buena. 30 Es la conducta, la práctica, la que sirve de prueba a la doctrina, a la teoría. 31«El que quiera hacer la voluntad de Él -Aquel que me envió, dice Jesús- conocerá si es la doctrina de Dios o si hablo por mí mismo» (Juan, VII, 17); y es conocido aquello de Pascal de: empieza por tomar agua bendita y acabarás creyendo. 32 En esta misma línea pensaba Juan Jacobo Moser, el pietista, que ningún ateo o naturalista tiene derecho a considerar infundada la religión cristiana mientras no haya ! #)(! hecho la prueba de cumplir con sus prescripciones y mandamientos (véase Ritschl, Geschichte der Pietismus, libro VII, 43). 33 ¿Cuál es nuestra verdad cordial y antirracional? 34La inmortalidad del alma humana, la de la persistencia sin término alguno de nuestra conciencia, la de la finalidad humana del Universo. 35 ¿Y cuál su prueba moral? 36Podemos formularla así: obra de modo que merezcas a tu propio juicio y a juicio de los demás la eternidad, que te hagas insustituible, que no merezcas morir. 37O tal vez así: obra como si hubieses de morirte mañana, pero para sobrevivir y eternizarte. 38 El fin de la moral es dar finalidad humana, personal, al Universo; descubrir la que tenga -si es que la tiene- y descubrirla obrando. 39 Hace ya más de un siglo, en 1804, el más hondo y más intenso de los hijos espirituales del patriarca Rousseau, el más trágico de los sentidores franceses, sin excluir a Pascal, Sénancour, en la carta XC de las que constituyen aquella inmensa monodia de su Obermann, escribió las palabras que van como lema a la cabeza de este capítulo: «El hombre es perecedero. 40 Puede ser, más perezcamos resistiendo, y si es la nada lo que nos está reservado, no hagamos que sea esto justicia.» 41 Cambiad esta sentencia de su forma negativa en la positiva diciendo: «Y si es la nada lo que nos está reservado, hagamos que sea una injusticia esto», y tendréis la más firme base de acción para quien no pueda o no quiera ser un dogmático. 42 Lo irreligioso, lo demoniaco, lo que incapacita para la acción o nos deja sin defensa ideal contra nuestras malas tendencias, es el pesimismo aquel que pone Goethe en boca de Mefistófeles cuando le hace decir: «Todo lo que nace merece hundirse» (denn alles was entsteht ist wert dass es zugrunde geht). 43Este es el pesimismo que los hombres llamamos malo, y no aquel otro que ante el temor de que todo al cabo se aniquile, consiste en deplorar y en luchar contra ese temor. 44 Mefistófeles afirma que todo lo que nace merece hundirse, aniquilarse, pero no que se hunda o se aniquile, y nosotros afirmamo s que todo cuanto nace merece elevarse, eternizarse, aunque nada de ello lo consiga. 45La posición moral es la contraria. 46 Sí, merece eternizarse todo, absolutamente todo, hasta lo malo mismo, pues lo que llamamos malo, al eternizarse perdería su maleza, perdiendo su temporalidad. 47Que la esencia del mal está en su temporalidad, en que no se enderece a fin último y permanente. 48 Y no estaría acaso de más decir aquí algo de esa distinción, una de las más profundas que hay, entre lo que suele llamarse pesimismo y el optimismo, confusión no menor que la que reina al distinguir el individualismo del socialismo. 49 Apenas cabe ya darse cuenta de qué sea eso del pesimismo. 50Hoy precisamente acabo de leer en The Nation (número de julio 6, 1912) un editorial titulado «Un infierno dramático» (A dramatic Inferno), referente a una traducción inglesa de obras de Strindberg, y en él se empieza con estas juiciosas observaciones: «Si hubiera en el mundo un ! #))! pesimismo sincero y total, sería por necesidad silencioso. 51 La desesperación que encuentra voz es un modo social, es el grito de angustia que un hermano lanza a otro cuando van ambos tropezando por un valle de sombras que está poblado de camaradas. 52 En su angustia atestigua que hay algo bueno en la vida, porque presume simpatía... 53La congoja real, la desesperación sincera, es muda y ciega; no escribe libros ni siente impulso alguno a cargar a un universo intolerable con un monumento más duradero que el bronce.» 54 En este juicio hay, sin duda, un sofisma, porque el hombre a quien de veras le duele, llora y hasta grita, aunque esté solo y nadie le oiga, para desahogarse, si bien esto acaso provenga de hábitos sociales. ¿no ruge si le duele una muela? 56 55 Pero el león aislado en el desierto, Mas aparte esto, no cabe negar el fondo de verdad de esas reflexiones. 57El pesimismo que protesta y se defiende, no puede decirse que sea tal pesimismo. 58Y desde luego no lo es, en rigor, el que reconoce que nada debe hundirse aunque se hunda todo, y lo es el que declara que se debe hundir todo aunque no se hunda nada. adquiere varios valores. 60 59 El pesimismo, además, Hay un pesimismo eudemonístico o económico, y es el que niega la dicha; le hay ético, y es el que niega el triunfo del bien moral; y le hay religioso, que es el que desespera de la finalidad humana del Universo, de que el alma individual se salve para la eternidad. 61 Todos merecen salvarse, pero merece ante todo y sobre todo la inmortalidad, como en mi anterior capítulo dejé dicho, el que apasionadamente y hasta contra razón la desea. 62 Un escritor inglés que se dedica a profeta -lo que no es raro en su tierra-, Wells, en su libro Anticipations, nos dice que «los hombres activos y capaces, de toda clase de confesiones religiosas de hoy en día, tienden en la práctica a no tener para nada en cuenta (to disregard... altogether) la cuestión de la inmortalidad». 63Y es por lo que las confesiones religiosas de esos hombres activos y capaces a que Wells se refiere, no suelen pasar de ser una mentira, y una mentira sus vidas si quieren basarlas sobre religión. 64Mas acaso en el fondo no sea eso que afirma Wells tan verdadero como él y otros se figuran. 65 Esos hombres activos y capaces viven en el seno de una sociedad empapada en principios cristianos, bajo unas instituciones y unos sentimientos sociales que el cristianismo fraguó, y la fe en la inmortalidad del alma es en sus almas como un río soterraño, al que ni se ve ni se oye, pero cuyas aguas riegan las raíces de las acciones y de los propósitos de esos hombres. 66 Hay que confesar que no hay, en rigor, fundamento más sólido para la moralidad que el fundamento de la moral católica. 67El fin del hombre es la felicidad eterna, que consiste en la visión y goce de Dios por los siglos de los siglos. 68 Ahora, en lo que marra es en la busca de los medios conducentes a ese fin; porque hacer depender la consecución de la felicidad eterna de que se crea o no que el Espíritu Santo procede del Padre y del Hijo, y no sólo de Aquél, o de que Jesús fue Dios y todo lo de que la unión hipostática, o hasta siquiera de que haya Dios, resulta, a poco que se piense en ello, una monstruosidad. ! 69 Un Dios humano -e1 único que podemos concebir- no rechazaría #)*! nunca al que no pudiese creer en Él con la cabeza, y no en su cabeza, sino en su corazón, dice el impío que no hay Dios, es decir, que no quiere que le haya. 70 Si a alguna creencia pudiera estar ligada la consecución de la felicidad eterna, sería a la creencia en esa misma felicidad y en que sea posible. 71 ¿Y qué diremos de aquello otro del emperador de los pedantes, de aquello de que no hemos venido al mundo a ser felices, sino a cumplir nuestro deber? 72(Wir sind nicht auf der Welt, um glücklich zu sein, sondern um unsere Schuldigkeit zu tun.) 73Si estamos en el mundo para algo um etwas-, ¿de dónde puede sacarse ese para, sino del fondo mismo de nuestra voluntad, que pide felicidad y no deber como fin último? 74Y si a ese para se le quiere dar otro valor, un valor objetivo que diría cualquier pedante saduceo, entonces hay que reconocer que la realidad objetiva, la que quedaría aunque la humanidad desapareciese, es tan indiferente a nuestro deber como a nuestra dicha; se le da tan poco de nuestra moralidad como de nuestra felicidad. 75No sé que Júpiter, Urano o Sirio se dejen alterar en su curso porque cumplamos o no con nuestro deber, más que porque seamos o no felices. 76 Consideraciones estas que habrán de parecer de una ridícula vulgaridad y superficialidad de dilettante, a los pedantes esos. 77(El mundo intelectual se divide en dos clases: dilettantes de un lado y pedantes de otro.) 78¡Qué le hemos de hacer! 79El hombre moderno es el que se resigna a la verdad y a ignorar el conjunto de la cultura, y si no, véase lo que al respecto dice Windelband en su estudio sobre el sino de Hölderlin (Praeludien, I). 80 Sí, esos hombres culturales se resignan, pero quedamos unos cuantos pobrecitos salvajes que no nos podemos resignar. 81No nos resignamos a la idea de haber de desaparecer un día, y la crítica del gran Pedante no nos consuela. 82 Lo sensato, a lo sumo, es aquello de Galileo Galilei, cuando decía: «Dirá alguien acaso que es acerbísimo el dolor de la pérdida de la vida, mas yo diré que es menor que los otros; pues quien se despoja de la vida, prívase al mismo tiempo de poder quejarse no ya de esa, mas de cualquier otra pérdida.» 83 Sentencia de un humorismo, no sé si consciente o inconsciente en Galileo, pero trágico. 84 Y volviendo atrás, digo que si a alguna creencia pudiera estar ligada la consecución de la felicidad eterna, sería a la creencia de la posibilidad de su realización. 85 Mas en rigor, ni aun esto. El hombre razonable le dice a su cabeza: «No hay otra vida después de esta», pero sólo el impío lo dice en su corazón. 86 Mas aun a este mismo impío, que no es acaso sino un desesperado, ¿va un Dios humano a condenarle por su desesperación? 87Harta desgracia tiene con ella. 88 Pero de todos modos, tomemos el lema calderoniano en su La vida es sueño: que estoy soñando y que quiero ! #*+! obrar bien, pues no se pierde el hacer bien aun en sueños. 89 ¿De veras no se pierde? 90¿Lo sabía Calderón? 91Y añadía: Acudamos a lo eterno que es la fama vividora, donde ni duermen las dichas ni las grandezas reposan. 92 ¿De veras lo sabía Calderón? 93 Calderón tenía fe, robusta fe católica; pero al que no puede tenerla, al que no puede creer en lo que don Pedro Calderón de la Barca creía, le queda siempre lo de Obermann. 94Hagamos que la nada, si es que nos está reservada, sea una injusticia; peleemos contra el destino, y aun sin esperanzas de victoria; peleemos contra él quijotescamente. 95 Y no sólo se pelea contra él anhelando lo irracional, sino obrando de modo que nos hagamos insustituibles, acuñando en los demás nuestra marca y cifra; obrando sobre nuestros prójimos para dominarlos, dándonos a ellos, para eternizarnos en lo posible. 96 Ha de ser nuestro mayor esfuerzo el de hacernos insustituibles, el de hacer una verdad práctica el hecho teórico -si es que esto de hecho teórico no envuelve una contradicción in adiectode que es cada uno de nosotros único e irreemplazable, de que no pueda llenar otro el hueco que dejamos al morirnos. 97 Cada hombre es, en efecto, único e insustituible; otro yo no puede darse; cada uno de nosotros -nuestra alma, no nuestra vida- vale por el Universo todo. 98Y digo el espíritu y no la vida, porque el valor, ridículamente excesivo, que conceden a la vida humana los que no creyendo en realidad en el espíritu, es decir, en su inmortalidad personal, peroran contra la guerra y contra la pena de muerte, verbigracia, es un valor que se lo conceden precisamente por no creer de veras en el espíritu, a cuyo servicio está la vida. 99Porque sólo sirve la vida en cuanto a su dueño y señor, el espíritu, sirve, y si el dueño perece con la sierva, ni uno ni otra valen gran cosa. 100 Y el obrar de modo que sea nuestra aniquilación una injusticia, que nuestros hermanos, hijos y los hijos de nuestros hermanos y sus hijos, reconozcan que no debimos haber muerto, es algo que está al alcance de todos. 101 El fondo de la doctrina de la redención cristiana, es que sufrió pasión y muerte el único hombre, esto es, el Hombre, el Hijo del Hombre, o sea el Hijo de Dios, que no mereció por su inocencia haberse muerto, y que esta divina víctima propiciatoria se murió para resucitar y ! #*"! resucitarnos, para librarnos de la muerte aplicándonos sus méritos y enseñándonos el camino de la vida. 102Y el Cristo que se dio todo a sus hermanos en humanidad sin reservarse nada, es el modelo de acción. 103 Todos, es decir, cada uno puede y debe proponerse dar de sí todo cuanto puede dar, más aun de lo que puede dar, excederse, superarse a sí mismo, hacerse insustituible, darse a los demás para recogerse de ellos. 104 Y cada cual en su oficio, en su vocación civil. 105 La palabra oficio, officium, significa obligación, deber, pero en concreto, y esto debe significar siempre en la práctica. 106 Sin que se deba tratar acaso tanto de buscar aquella vocación que más crea uno que se le acomoda y cuadra, cuanto de hacer vocación del menester en que la suerte o la Providencia, no nuestra voluntad, nos han puesto. 107 El más grande servicio acaso que Lutero ha rendido a la civilización cristiana, es el de haber establecido el valor religioso de la propia profesión civil, quebrantando la noción monástica medieval de la vocación religiosa, noción envuelta en nieblas pasionales e imaginativas y engendradoras de terribles tragedias de vida. 108¡Si se entrara por los claustros a inquirir qué sea eso de la vocación de pobres hombres a quienes el egoísmo de sus padres les encerró de pequeñitos en la celda de un noviciado, y de repente despiertan a la vida del mundo, si es que despiertan alguna vez! 109O los que en un trabajo de propia sugestión se engañaron. 110Y Lutero que lo vio de cerca y lo sufrió, pudo entender y sentía el valor religioso de la profesión civil que a nadie liga por votos perpetuos. 111 Cuanto respecto a las vocaciones de los cristianos, nos dice el Apóstol en el capítulo IV de su Epístola a los efesios, hay que trasladarlo a la vida civil, ya que hoy entre nosotros el cristiano -sépalo o no y quiéralo o no es el ciudadano, y en el caso en que él, el Apóstol, exclamó: «¡soy ciudadano romano!», exclamaríamos cada uno de nosotros, aun los ateos: ¡soy cristiano! 112 Y ello exige civilizar el cristianismo, esto es, hacerlo civil deseclesiastizándolo, que fue la labor de Lutero, aunque luego él, por su parte, hiciese iglesia. 113 The right man in the right place, dice una sentencia inglesa: el hombre que conviene en el puesto que le conviene. 114 A lo que cabe replicar: ¡zapatero a tus zapatos! que mejor conviene a cada uno y para el que está más apto? 117 ¿Lo saben los demás mejor que él? 118 116 115 ¿Quién sabe el puesto ¿Lo sabe él mejor que los demás? ¿Quién mide capacidades y aptitudes? 119 Lo religioso es, sin duda, tratar de hacer que sea nuestra vocación el puesto en que nos encontramos, y, en último caso, cambiarlo por otro. 120 Este de la propia vocación es acaso el más grave y más hondo problema social, el que está en la base de todos ellos. 121 La llamada por antonomasia cuestión social, es acaso más que un problema de reparto de riquezas, de productos del trabajo, un problema de reparto de vocaciones, de ! #*#! modos de producir. 122 No por la aptitud -casi imposible de averiguar sin ponerla antes a prueba, y no bien especificada en cada hombre, ya que para la mayoría de los oficios el hombre no nace, sino que se hace-, no por la aptitud especial, sino por razones sociales, políticas, rituales, se ha venido determinando el oficio de cada uno. 123En unos tiempos y países las castas religiosas y la herencia: en otros las guildas (gildas) y gremios; luego, la máquina, la necesidad casi siempre, la libertad casi nunca. 124 Y llega lo trágico de ello a esos oficios de lenocinio en que se gana la vida vendiendo el alma, en que el obrero trabaja a conciencia no ya de la inutilidad, sino de la perversidad social de su trabajo, fabricando el veneno que ha de ir matándole, el arma acaso con que asesinarán a sus hijos. 125 Éste, y no el del salario, es el problema más grave. 126 natal. 127 En mi vida olvidaré un espectáculo que pude presenciar en la ría de Bilbao, mi pueblo Martillaba a sus orillas no sé qué cosa, en un astillero, un obrero, y hacíalo a desgana, como quien no tiene fuerzas o no va sino a pretextar su salario, cuando de pronto se oye un grito de una mujer: «¡Socorro!» 128 Y era que un niño cayó a la ría. 129 Y aquel hombre se transformó en un momento, y con una energía, presteza y sangre fría admirables, se aligeró la ropa y se echó al agua a salvar al pequeñuelo. 130 Lo que da acaso su menor ferocidad al movimiento socialista agrario es que el gañán del campo, aunque no gane más ni viva mejor que el obrero industrial o minero, tiene una más clara conciencia del valor social de su trabajo. 131No es lo mismo sembrar trigo que sacar diamantes de la tierra. 132 Y acaso el mayor progreso consista en una cierta indiferenciación del trabajo, en la facilidad de dejar uno para tomar otro, no ya acaso más lucrativo, sino más noble -porque hay trabajos más y menos nobles -. 133 Mas suele suceder con triste frecuencia, que ni el que ocupa una profesión y no la abandona suele preocuparse de hacer vocación religiosa de ella, ni el que la abandona y va en busca de otra lo hace con religiosidad de propósitos. 134 Y, ¿no conocéis, acaso, casos en que uno, fundado en que el organismo profesional a que pertenece y en que trabaja está mal organizado y no funciona como debiera, se hurta al cumplimiento estricto de su deber, a pretexto de otro deber más alto? 135 ¿No llaman a este cumplimiento ordenancismo y no hablan de burocracia y de fariseísmo de funcionarios? 136 Y ello suele ser a las veces como si un militar inteligente y muy estudioso que se ha dado cuenta de las deficiencias de la organización bélica de su patria, y se las ha denunciado a sus superiores y tal vez al público -cumpliendo con ello su deber-, se negara a ejecutar en campaña una operación que se le ordenase, por estimarla de es casísima probabilidad de buen éxito, o tal vez de seguro fracaso, mientras no se corrigiesen aquellas deficiencias. 137 Merecería ser fusilado. fariseísmo... ! #*$! 138 Y en cuanto a lo de 139 Y queda siempre un modo de obedecer mandando, un modo de llevar a cabo la operación que se estima absurda, corrigiendo su absurdidad, aunque sólo sea con la propia muerte. 140Cuando en mi función burocrática me he encontrado alguna vez con alguna disposición legislativa que por su evidente absurdidad estaba en desuso, he procurado siempre aplicarla. 141Nada hay peor que una pistola cargada en un rincón, y de la que no se usa; llega un niño, se pone a jugar con ella y mata a su padre. 142 Las leyes en desuso son las más terribles de las leyes, cuando el desuso viene de lo malo de la ley. 143 Y esto no son vaguedades, y menos en nuestra tierra. 144 Porque mientras andan algunos por acá buscando yo no sé qué deberes y responsabilidades ideales, esto es, ficticios, ellos mismos no ponen su alma toda en aquel menester inmediato y concreto de que viven, y los demás, la inmensa mayoría, no cumplen con su oficio sino para eso que se llama vulgarmente cumplir -para cumplir, frase terriblemente inmoral-, para salir del paso, para hacer que se hace, para dar pretexto y no justicia al emolu mento, sea de dinero o de otra cosa. 145 Aquí tenéis un zapatero que vive de hacer zapatos, y que los hace con el esmero preciso para conservar su clientela y no perderla. 146 Ese otro zapatero vive en un plano espiritual algo más elevado, pues que tiene el amor propio del oficio, y por pique o pundonor se esfuerza en pasar por el mejor zapatero de la ciudad o del reino, aunque esto no le dé ni más clientela ni más ganancia, y sí sólo más renombre y prestigio. 147Pero hay otro grado aún mayor de perfeccionamiento moral en el oficio de la zapatería, y es tender a hacerse para con sus parroquianos el zapatero único e insustituible, el que de tal modo les haga el calzado, que tengan que echarle de menos cuando se les muera -«se les muera» , y no sólo «se muera»-, y piensen ellos, sus parroquianos, que no debía haberse muerto, y esto sí porque les hizo calzado pensando en ahorrarles toda molestia y que no fuese el cuidado de los pies lo que les impidiera vagar a la contemplación de las más altas verdades; les hizo el calzado por amor a ellos y por amor a Dios en ellos: se lo hizo por religiosidad. 148 Adrede he escogido este ejemplo, que acaso os parezca pedestre. 149 Y es porque el sentimiento, no ya ético, sino religioso, de nuestras respectivas zapaterías, anda muy bajo. 150 Los obreros se asocian, forman sociedades cooperativas y de resisten cia, pelean muy justa y noblemente por el mejoramiento de su clase; pero no se ve que esas asociaciones influyan gran cosa en la moral del oficio. 151 Han llegado a imponer a los patronos el que estos tengan que recibir al trabajo a aquellos que la sociedad obrera respectiva designe en cada caso, y no a otros; pero de la selección técnica de los designados, se cuidan bien poco. 152Ocasiones hay en que apenas si le cabe al patrono rechazar al inepto por su ineptitud, pues defienden esta sus compañeros. 153 Y cuando trabajan, lo hacen a menudo no más que por cumplir, por pretextar el salario, cuando no lo hacen mal aposta para perjudicar al amo, que se dan casos de ello. ! #*%! 154 En aparente justificación de todo lo cual cabe decir que los patronos, por su parte, cien veces más culpables que sus obreros, maldito si se cuidan ni de pagar mejor al que mejor trabaja, ni de fomentar la educación general y técnica del obrero, ni mucho menos de la bondad intrínseca del producto. 155 La mejora de este producto que debía ser en sí, aparte de razones de concurrencia industrial y mercantil, en bien de los consumidores, por caridad, lo capital, no lo es ni para patronos ni para obreros, y es que ni aquellos ni estos sienten religiosamente su oficio social. otros quieren ser insustituibles. 157 156 Ni unos ni Mal que se agrava con esa desdichada forma de sociedades y empresas industriales anónimas, donde con la firma personal, se pierde hasta aquella vanidad de acreditarla que sustituye al anhelo de eternizarse. 158 Con la individualidad concreta, cimiento de toda religión, desaparece la religiosidad del oficio. 159 Y lo que se dice de patronos y obreros, se dice mejor de cuantos a profesiones liberales se dedican y de los funcionarios públicos. 160 religiosidad de su menester oficial y público. Apenas si hay servidor del Estado que sienta la 161 Nada más turbio, nada más confuso entre nosotros que el sentimiento de los deberes para con el Estado, sentimiento que oblitera aún más la Iglesia católica, que por lo que al Estado hace, es en rigor de verdad, anarquista. 162 Entre sus ministros no es raro hallar quienes defiendan la licitud moral del matute y del contrabando, como si el que matuteando o contrabandeando desobedece a la autoridad legalmente constituida que lo prohibe, no pecara contra el cuarto mandamiento de la ley de Dios, que al mandar honrar padre y madre, manda obedecer a esa autoridad legal en cuanto ordene que no sea contrario, como no lo es el imponer esos tributos, a la ley de Dios. 163 Son muchos los que, considerando el trabajo como un castigo, por aquello de «comerás el pan con el sudor de tu frente», no estiman el trabajo del oficio civil sino bajo su aspecto económico político y, a lo sumo, bajo su aspecto estético. 164 Para estos tales -entre los que se encuentran principalmente los jesuitas - hay dos negocios: el negocio inferior y pasajero de ganarnos la vida, de ganar el pan para nosotros y nuestros hijos de una manera honrada -y sabida es la elasticidad de la honradez-, y el .gran negocio de nuestra salvación, de ganarnos la gloria eterna. 165 Aquel trabajo inferior o mundano no es menester llevarlo sino en cuanto, sin engaño ni grave detrimento de nuestros prójimos, nos permita vivir decorosamente a la medida de nuestro rango social, pero de modo que nos vaque el mayor tiempo posible para atender al o tro gran negocio. 166 Y hay quienes elevándose un poco sobre esa concepción, más que ética, económica, del trabajo de nuestro oficio civil, llegan hasta una concepción y un sentimiento estético de él, que se cifran en adquirir lustre y renombre en nuestro oficio, y hasta en hacer de él arte por el arte mismo, por la belleza. 167Pero hay que elevarse aún más, a un sentimiento ético de nuestro oficio civil que deriva y desciende de nuestro sentimiento religioso, de nuestra hambre de eternización. ! #*&! 168 El trabajar cada uno en su propio oficio civil, puesta la vista en Dios, por amor a Dios, lo que vale decir por amor a nuestra eternización, es hacer de ese trabajo una obra religiosa. 169 El texto aquel de «comerás el pan con el sudor de tu frente», no quiere decir que condenas e Dios al hombre al trabajo, sino a la penosidad de él. 170 Al trabajo mismo no pudo condenarle, porque es el trabajo el único consuelo práctico de haber nacido. 171Y la prueba de que no le condenó al trabajo mismo está, para un cristiano, en que al ponerle en el Paraíso, antes de la caída, cuando se hallaba aún en el estado de inocencia, dice la Escritura que le puso en él para que lo guardase y lo labrase (Génesis, 11, 15). 172 Y de hecho, ¿en qué iba a pasar el tiempo en el Paraíso si no lo trabajaba? 173¿Y es que acaso la visión beatífica misma no es una especie de trabajo? 174 Y aun cuando el trabajo fuese nuestro castigo, deberíamos tender a hacer de él, del castigo mismo, nuestro consuelo y nuestra redención, y de abrazarnos a alguna cruz, no hay para cada uno otra mejor que la cruz del trabajo de su propio oficio civil. 175Que no nos dijo Cristo «toma mi cruz y sígueme», sino «toma tu cruz y sígueme»: cada uno la suya, que la del Salvador él solo la lleva. 176 Y no consiste, por lo tanto, la imitación de Cristo en aquel ideal monástico que resplandece en el libro que lleva el nombre vulgar de Kempis, ideal sólo aplicable a un muy limitado número de personas, y, por lo tanto, anticristiano, sino que imitar a Dios es tomar cada uno su cruz, la cruz de su propio oficio civil, como Cristo tomó la suya, la de su oficio civil también a la par que religioso, y abrazarse a ella y llevarla puesta la vista en Dios y tendiendo a hacer una verdadera oración de los actos propios de ese oficio. 177 Haciendo zapatos, y por hacerlos, se puede ganar la gloria si se esfuerza el zapatero perfecto como es perfecto nuestro Padre celestial. 178 Ya Fourier, el soñador socialista, soñaba con hacer el trabajo atrayente en sus falansterios por la libre elección de las vocaciones y por otros medios. 179 El único es la libertad. 180 El contento del juego de azar, que es trabajo, ¿de qué depende sino de que se somete uno libremente a la libertad de la Naturaleza, esto es, al azar? 181 Y no nos perdamos en un cotejo entre el trabajo y el deporte. 182 Y el sentimiento de hacernos insustituibles, de no merecer la muerte, de hacer que nuestra aniquilación, si es que nos está reservada, sea una injusticia, no sólo debe llevarnos a cumplir religiosamente, por amor a Dios y a nuestra eternidad y eternización, nuestro propio oficio, sino a cumplirlo apasionadamente, trágicamente, si se quiere. 183 Debe llevarnos a esforzarnos por sellar a los demás con nuestro sello, por perpetuarnos en ellos y en sus hijos, dominándolos, por dejar en todo imperecedera nuestra cifra. 184La más fecunda moral es la moral de la imposición mutua. 185 Ante todo cambiar en positivos los mandamientos que en forma negativa nos legó la Ley Antigua. 186Y así, donde se nos dijo: ¡no mentirás!, entender que nos dice: ¡dirás siempre la verdad, oportuna o inoportunamente!, aunque sea cada uno de nosotros, y no los demás, quien juzgue en ! #*'! cada caso de esa oportunidad. acrecentarás! 188 187 Y donde se nos dijo: ¡no matarás!, entender: ¡darás vida y la Y donde: ¡no hurtarás!, que dice: ¡acrecentarás la riqueza pública¡ 189 Y donde: ¡no cometerás adulterio!, esto: ¡darás a tu tierra y al cielo hijos sanos, fuertes y buenos! 190Y así todo lo demás. 191 El que no pierda su vida, no la logrará. entregarte a ellos domínalos primero. 193 192 Entrégate, pues, á los demás, pero para Pues no cabe dominar sin ser dominado. alimenta de la carne de aquel a quien devora. 195 194 Cada uno se Para dominar al prójimo hay que conocerlo y quererlo. 196Tratando de imponerle mis ideas es como recibo las suyas. 197Amar al prójimo es querer que sea como yo, que sea otro yo, es decir, es querer yo ser él; es querer borrar la divisoria entre él y yo, suprimir el mal. 198 Mi esfuerzo por imponerme a otro, por ser y vivir yo en él y de él, por hacerle mío -que es lo mismo que hacerme suyo-, es lo que da sentido religioso a la colectividad, a la solidaridad humana. 199 El sentimiento de solidaridad parte de mí mismo; como soy sociedad, necesito adueñarme de la sociedad humana; como soy un producto social, tengo que socializarme y de mí voy a Dios que soy yo proyectado al Todo- y de Dios a cada uno de mis prójimos. 200 De primera intención protesto contra el inquisidor, y a él prefiero el comerciante que viene a colocarme sus mercancías; pero si recogido en mí mismo lo pienso mejor, veré que aquel, el inquisidor, cuando es de buena intención, me trata como a un hombre, como a un fin en sí, pues si me molesta es por el caritativo deseo de salvar mi alma, mientras que el otro no me considera sino como a un cliente, como a un medio, y su indulgencia y tolerancia no es en el fondo sino la más absoluta indiferencia respecto a mi destino. 201Hay mucha más humanidad en el inquisidor. 202 Como suele haber mucha más humanidad en la guerra que no en la paz. 203 La no resistencia al mal implica resistencia al bien, y aun fuera de la defensiva, la ofensiva misma es lo más divino acaso de lo humano. 204 La guerra es escuela de fraternidad y lazo de amor; es la guerra la que, por el choque y la agresión mutua, ha puesto en contacto a los pueblos, y les ha hecho conocerse y quererse. 205 El más puro y más fecundo abrazo de amor que se den entre sí los hombres, es el que sobre el campo de batalla se dan el vencedor y el vencido. depurado que surge de la guerra es fecundo. santificación del homicidio. 208 207 206 Y aun el odio La guerra es, en su más estricto sentido, la Caín se redime como general de ejércitos. 209 Y si Caín no hubiese matado a su hermano Abel, habría acaso muerto a manos de este. 210Dios se reveló sobre todo en la guerra; empezó siendo el dios de los ejércitos, y uno de los mayores servicios de la cruz es el de defender en la espada la mano que esgrime ésta. 211 Fue Caín el fratricida, el fundador del Estado, dicen los enemigos de este. aceptarlo y volverlo en gloria del Estado, hijo de la guerra. ! #*(! 213 212 Y hay que La civilización empezó el día que un hombre, sujetando a otro y obligándole a trabajar para los dos, pudo vagar a la contemplación del mundo y obligar a su sometido a trabajos de lujo. 214 Fue la esclavitud lo que permitió a Platón especular sobre la re pública ideal, y fue la guerra lo que trajo la esclavitud. Atenea la diosa de la guerra y de la ciencia. 216 215 No en vano es Pero ¿será menester repetir una vez más estas verdades tan obvias, mil veces desatendidas y que otras mil vuelven a renacer? 217 El precepto supremo que surge del amor a Dios y la base de toda moral es este: entrégate por entero; da tu espíritu para salvarlo, para eternizarlo. 218Tal es el sacrificio de vida. 219 Y el entregarse supone, lo he de repetir, imponerse. 220La verdadera moral religiosa es en el fondo agresiva, invasora. 221 El individuo en cuanto individuo, el miserable individuo que vive preso del instinto de conservación y de los sentidos, no quiere sino conservarse, y todo su hipo es que no penetren los demás en su esfera, que no le inquieten, que no le rompan la pereza, a cambio de lo cual, o para dar ejemplo y norma, renuncia a penetrar él en los otros, a romperles la pereza, a inquietarles, a apoderarse de ellos. 222 El «no hagas a otro lo que para ti no quieras», lo traduce él así: yo no me meto con los demás; que no se metan los demás conmigo. 223Y se achica y se engurruña y perece en esta avaricia espiritual y en esta moral repulsiva del individualismo anárquico: cada uno para sí. 224 Y como cada uno no es él mismo, mal puede ser para sí. 225 Mas así que el individuo se siente en la sociedad, se siente en Dios, y el instinto de perpetuación le enciende en amor a Dios y en caridad dominadora, busca perpetuarse en los demás, perennizar su espíritu, eternizarlo, desclavar a Dios, y sólo anhela sellar su espíritu en los demás espíritus y recibir el sello de estos. 226Es que se sacudió de la pereza y de la avaricia espirituales. 227 La pereza, se dice, es la madre de todos los vicios, y la pereza, en efecto, engendra los dos vicios -la avaricia y la envidia- que son a su vez fuentes de todos los demás. 228La pereza es el peso de la materia de suyo inerte, en nosotros, y esa pereza, mientras nos dice que trata de conservarnos por el ahorro, en realidad no trata sino de amenguarnos, de anonadarnos. 229 Al hombre le sobra materia o le sobra espíritu, o mejor dicho, o siente hambre de espíritu, esto es, de eternidad o hambre de materia, resignación a anonadarse. 230 Cuando le sobra espíritu y siente hambre de más de él, lo vierte y derrama fuera, y al derramarlo, se le acrecienta, con lo de los demás; y, por el contrario, cuando, avaro de sí mismo, se recoge en sí pensando mejor conservarse, acaba por perderlo todo, y le ocurre lo que al que recibió un solo talento: lo enterró para no perderlo, y se quedó sin él. 231 Porque al que tiene, se le dará; pero al que no tiene sino poco, hasta eso poco le será quitado. 232 Sed perfectos como vuestro Padre celestial lo es, se nos dijo, y este terrible precepto - terrible porque la perfección infinita del Padre nos es inasequible- debe ser nuestra suprema norma ! #*)! de conducta. 234 233 El que no aspire a lo imposible, apenas hará nada hacedero que valga la pena. Debemos aspirar a lo imposible, a la perfección absoluta e infinita, y decir al Padre: «¡Padre, no puedo: ayuda a mi impotencia!» 235Y Él lo hará en nosotros. 236 Y ser perfecto es serlo todo, es ser yo y ser todos los demás, es ser humanidad, es ser 237 universo. Y no hay otro camino para ser todo lo demás sino darse a todo, y cuando todo sea en todo, todo será en cada uno de nosotros. 238La apocatástasis es más que un ensueño místico: es una norma de acción, es un faro de altas hazañas. 239 De donde la moral invasora, dominadora, agresiva, inquisidora, si queréis. 240 Porque la caridad verdadera es invasora, y consiste en meter mi espíritu en los demás espíritus, en darles mi dolor como pábulo y consuelo a sus dolores, en despertar con mi inquietud sus inquietudes, en aguzar su hambre de Dios con mi hambre de Él. 241La caridad no es brezar y adormecer a nuestros hermanos en la inercia y modorra de la materia, sino despertarles en la zozobra y el tormento del espíritu. 242 A las catorce obras de misericordia que se nos enseñó en el Catecismo de la doctrina cristiana, habría que añadir a las veces una más, y es el de despertar al dormido. 243A las veces por lo menos, y desde luego cuando el dormido duerme al borde de una sima, el despertarle es mucho más misericordioso que enterrarle después de muerto, pues dejemos que los muertos entierren a sus muertos. llorar. 245 244 Bien se dijo aquello de «quien bien te quiera, te hará llorar» y la caridad suele hacer «El amor que no mortifica, no merece tan divino nombre», decía el encendido apóstol portugués fray Thomé de Jesús (Trabalhos de Jesús, parte primera); el de esta jaculatoria: «¡Oh fuego infinito, oh amor eterno, que si no tienes donde abraces y te alargues y muchos corazones a que quemes, lloras!» 246 El que ama al prójimo le quema el corazón, y el corazón, como la leña fresca, cuando se quema, gime y destila lágrimas. 247 Y el hacer eso es generosidad, una de las virtudes madres que surgen cuando se vence a la inercia, a la pereza. 248Las más de nuestras miserias vienen de avaricia espiritual. 249 El remedio al dolor, que es, dijimos, el choque de la conciencia en la inconciencia, no es hundirse en esta, sino elevarse a aquella y sufrir más. con más alto dolor. 251 250 Lo malo del dolor se cura con más dolor, No hay que darse opio, sino ponerse vinagre y sal en la herida del alma, porque cuando te duermas y no sientas ya el dolor, es que no eres. 252 Y hay que ser. 253 No cerréis, pues, los ojos a la esfinge acongojadora, sino miradla cara a cara, y dejad que os coja y os masque en su boca de cien mil dientes venenosos y os trague. 254Veréis qué dulzura cuando os haya tragado, qué dolor más sabroso. ! #**! 255 Y a esto se va prácticamente por la moral de la imposición mutua. 256 Los hombres deben tratar de imponerse los unos a los otros, de darse mutuamente sus espíritus, de sellarse mutuamente las almas. 257 Es cosa que da en qué pensar eso de que hayan llamado a la moral cristiana moral de esclavos, ¿quiénes? 258¡Los anarquistas! esclavo canta la libertad anárquica. 260 259 El anarquismo sí que es moral de esclavos, pues sólo el ¡Anarquismo, no!, sino panarquismo; no aquello de ni Dios ni amo, sino todos dioses y amos todos, todos esforzándose por divinizarse, por inmortalizarse. 261Y para ello dominando a los demás. 262 ¡Y hay tantos modos de dominar! 263A las veces, hasta pasivamente, al parecer al menos, se cumple con esta ley de vida. 264 El acomodarse al ámbito, el imitar, el ponerse uno en lugar de otro, la simpatía, en fin, además de ser una manifestación de la unidad de la especie, es un modo de expansionarse, de ser otro. 265 Ser vencido, o por lo menos aparecer vencido, es muchas veces vencer; tomar lo de otro es un modo de vivir en él. 266 Y es que al decir dominar, no quiero decir como el tigre. 267También domina el zorro por la astucia, y la liebre huyendo, la víbora por su veneno, y el mosquito por su pequeñez, y el calamar por su tinta con que oscurece el ámbito y huye. 268 Y nadie se escandalice de esto, pues el mismo Padre de todos, que dio fiereza, garras y fauces al tigre, dio astucia al zorro, patas veloces a la liebre, veneno a la víbora, pequeñez al mosquito y tinta al calamar. 269 Y no consiste la nobleza o innobleza en las armas de que se use, pues cada especie, y hasta cada individuo, tiene las suyas, sino en cómo las use, y, sobre todo, en el fin para que uno las esgrima. 270 Y entre las armas de vencer hay también la de la paciencia y la resignación apasionadas llenas de actividad y de anhelos interiores. 271 Recordad aquel estupendo soneto del gran luchador, del gran inquietador puritano Juan Milton, el secuaz de Cromwell y cantor de Satanás, el que al verse ciego y considerar su luz apagada, e inútil en él aquel talento cuya ocultación es muerte, oye que la paciencia le dice: «Dios no necesita ni de obra de hombre, ni de sus dones; quienes mejor llevan su blando yugo le sirven mejor; su estado es regio; miles hay que se lanzan a su señal y corren sin descanso tierras y mares, pero también le sirven los que no hacen sino estarse y aguardar.» 272 They also serve who only stand and wait. 273 Sí, también le sirven los que sólo se están aguardándole, pero es cuando le aguardan apasionadamente, hambrientamente, llenos de anhelos de inmortalidad en Él. 274 Y hay que imponerse, aunque sólo sea por la paciencia. 275 «Mi vaso es pequeño, pero bebo en mi vaso», decía un poeta egoísta y de un pueblo de avaros. 276No, en mi vaso beben todos, quiero que todos beban de él; se lo doy, y mi vaso crece, según el número de los que en él beben, y ! $++! todos, al poner en él sus labios, dejan allí algo de su espíritu. 277Y bebo también de los vasos de los demás, mientras ellos beben del mío. 278Porque cuanto más soy de mí mismo, y cuanto soy más yo mismo, más soy de los demás; de la plenitud de mí mismo me vierto a mis hermanos, y al verterme a ellos, ellos entran en mí. 279 «Sed perfectos como vuestro Padre», se nos dijo, y nuestro Padre es perfecto porque es Él, y es cada uno de sus hijos que en Él viven, son y se mueven. 280Y el fin de la perfección es que seamos todos una sola cosa (Juan, XVII, 21), todos un cuerpo en Cristo (Rom., XII, 5), y que al cabo, sujetas todas las cosas al Hijo, el Hijo mismo se sujete a su vez a quien le sujetó todo para que Dios sea todo en todos. 281 Y esto es hacer que el Universo sea conciencia; hacer de la Naturaleza sociedad, y sociedad humana. 282Y entonces se le podrá a Dios llamar Padre a boca llena. 283 Ya sé que los que dicen que la ética es ciencia, dirán que todo esto que vengo exponiendo no es más que retórica; pero cada cual tiene su lenguaje y su pasión. 284Es decir, el que la tiene, y el que no tiene pasión, de nada le sirve tener ciencia. 285 Y a la pasión que se expresa por esta retórica, le llaman egotismo los de la ciencia ética, y el tal egotismo es el único verdadero remedio del egoísmo, de la avaricia espiritual, del vicio de conservarse y ahorrarse, y no de tratar perennizarse dándose. 286 «No seas, y darás más que todo lo que es», decía nuestro fray Juan de los Ángeles en uno de sus Diálogos de la conquista del reino de Dios (Diál. III, 8); pero ¿que quiere decir eso de no seas? 287 ¿No querrá acaso decir paradójicamente, como a menudo en los místicos sucede, lo contrario de lo que tomado a la letra y a primera lección dice? 288¿No es una inmensa paradoja, un gran contrasentido trágico, más bien, la moral toda de la sumisión y del quietismo? monástica, la puramente monástica, ¿no es absurdo? 290 289 La moral Y llamo aquí moral monástica a la del cartujo solitario, a la del eremita, que huye del mundo -llevándose acaso consigo- para vivir solo y a solas con un Dios solo también y solitario; no a la del dominio inquisidor, que recorre la Provenza a quemar corazones de albigenses. 291 «¡Que lo haga todo Dios!», dirá alguien; pero es que si el hombre se cruza de brazos Dios se echa a dormir. 292 Esa moral cartujana y la otra moral científica, la que sacan de la ciencia ética -¡ oh, la ética como ciencia!, ¡la ética racional y racionalista!, ¡pedantería de pedanterías y todo pedantería!-, eso sí que puede ser egoísmo y frialdad de corazón. 293 Hay quien dice aislarse con Dios para mejor salvarse, para mejor redimirse; pero es que la redención tiene que ser colectiva, pues que la culpa lo es. 294 «Lo religioso es la determinación de totalidad, y todo lo que está fuera de esto es engaño de los sentidos, por lo cual el mayor criminal ! $+"! es, en el fondo, inocente y un hombre bondadoso, un santo.» 295 Así Merkegaard (Afsluttende, etc., II, 11, cap. IV, setc. II, A). 296 ¿Y se comprende, por otra parte, que se quiera ganar la otra vida, la eterna, renunciando a esta, a la temporal? 297 Si algo es la otra vida, ha de ser continuación de esta, y sólo como continuación, más o menos depurada de ella, la imagina nuestro anhelo, y si así es, cual sea esta vida del tiempo será la de la eternidad. 298 «Este mundo y el otro son como dos mujeres de un solo marido, que si agradas a la una, mueves a la otra a envidia», dice un pensador árabe citado por Windelband (Das Heilige, en el vol. II de Praeludien); mas tal pensamiento no ha podido brotar sino de quien no ha sabido resolver en una lucha fecunda, en una contradicción práctica, el conflicto trágico entre su espíritu y el mundo. 299 «Venga a nos el tu reino», nos enseñó el Cristo a pedir a su Padre, y no «vayamos al tu reino», y según las primitivas creencias cristianas, la vida eterna había de cumplirse sobre esta misma tierra, y como continuación de la de ella. 300 Hombres y no ángeles se nos hizo para que buscásemos nuestra dicha a través de la vida, y el Cristo de la fe cristiana no se angelizó, sino que se humanó, tomando cuerpo real y efectivo, y no apariencia de él para redimirnos. 301Y según esa misma fe, los ángeles, hasta los más encumbrados, adoran a la Virgen, símbolo supremo de la Humanidad terrena. 302 No es, pues, el ideal angélico un ideal cristiano, y desde luego no lo es humano, ni puede serlo. 303 Es, además, un ángel neutro, sin sexo y sin patria. 304 No nos cabe sentir la otra vida eterna, lo he repetido ya varias veces, como una vida de contemplación angélica; ha de ser vida de acción. 305 Decía Goethe que «el hombre debe creer en la inmortalidad; tiene para ello un derecho conforme a su naturaleza». 306Y añadía así: «La convicción de nuestra perduración me brota del concepto de la actividad. 307 Si obro sin tregua hasta mi fin, la Naturaleza está obligada -so ist die Natur verpflichtet-a proporcionarme otra forma de existencia, ya que mi actual espíritu no puede soportar más.» 308Cambiad lo de Naturaleza por Dios, y tendréis un pensamiento que no deja de ser cristiano, pues los primeros padres de la Iglesia no creyeron que la inmortalidad del alma fuera un don natural -es decir, algo racional-, sino un don divino de gracia. 309 Y lo que de gracia suele ser, en el fondo, de justicia, ya que la justicia es divina y gratuita, no natural. 310Y agregaba Goethe: «No sabría empezar nada con una felicidad eterna si no me ofreciera nuevas tareas y nuevas dificultades a que vencer.» 311 Y así es: la ociosidad contemplativa no es dicha. 312 Mas ¿no tendrá alguna justificación la moral eremítica, cartujana, la de la Tebaida? 313¿No se podrá, acaso, decir que es menester se conserven esos tipos de excepción para que sirvan de eterno modelo a los otros? 314 ¿No crían los hombres caballos de carreras, inútiles para todo otro menester utilitario, pero que mantienen la pureza de la sangre y son padres de excelentes caballos ! $+#! de tiro y de silla? 315 ¿No hay, acaso, un lujo ético, no menos justificable que el otro? 316 Pero por otra parte, ¿no es esto, en el fondo, estética y no moral, y mucho menos religión? 317¿No es que será estético y no religioso, ni siquiera ético, el ideal mo nástico contemplativo medieval? 318Y al fin los de entre aquellos solitarios que nos han contado sus coloquios a solas con Dios, han hecho una obra eternizadora, se han metido en las almas de los demás. 319 Y ya sólo con eso, con que el claustro haya podido darnos un Eckart, un Suso, un Taulero, un Ruisbroquio, un Juan de la Cruz, una Catalina de Siena, una Ángela de Foligo, una Teresa de Jesús, está justificado el claustro. 320 Pero nuestras órdenes españolas son, sobre todo, las de Predicadores, que Domingo de Guzmán instituyó para la obra agresiva de extirpar la herejía; la Compañía de Jesús, una milicia en medio del mundo, y con ello está dicho todo; la de las Escuelas Pías, para la obra también invasora de la enseñanza... 321 Cierto es que se me dirá también que la reforma del Carmelo, Orden contemplativa que emprendió Teresa de Jesús, fue obra española. 322 Sí, española fue, y en ella se buscaba libertad. 323 Era el ansia de libertad, de libertad interior, en efecto, lo que en aquellos revueltos tiempos de la Inquisición lle vaba a las almas escogidas al claustro. 324 Encarcelábanse para ser mejor libres. 325«¿No es linda cosa que una pobre monja de San José pueda llegar a enseñorear toda la tierra y elementos?», decía en su Vida santa Teresa. 326 Era el ansia pauliniana de libertad, de sacudirse de la ley externa, que era bien dura, y, como decía el maestro fray Luis de León, bien cabezuda entonces. 327 329 ¿Pero lograron libertad así? 328 Es muy dudoso que la lograran, y hoy es imposible. Porque la verdadera libertad no es cosa de sacudirse de la ley externa; la libertad es la conciencia de la ley. 330 Es libre no el que se sacude de la ley, sino el que se adueña de ella. 331 La libertad hay que buscarla en medio del mundo que es donde vive la ley, y con la ley la culpa, su hija. 332 De lo que hay que libertarse es de la culpa, que es colectiva. 333 En vez de renunciar al mundo para dominarlo -¿quién no conoce el instinto colectivo de dominación de las órdenes religiosas cuyos individuos renuncian al mundo?- lo que habría que hacer es dominar al mundo para poder renunciar a él. 334 No buscar la pobreza y la sumisión, sino buscar la riqueza para emplearla en acrecentar la conciencia humana, y buscar el poder para servirse de él con el mismo fin. 335 Es cosa curiosa que frailes y anarquistas se combatan entre sí, cuando en el fondo profesan la misma moral y tienen un tan íntimo parentesco unos con otros. 336 Como que el anarquismo viene a ser una especie de monacato ateo, y más una doctrina religiosa que ética y económica social. 337Los unos parten de que el hombre nace malo, en pecado original, y la gracia le hace luego bueno, si es que le hace tal, y los otros de que nace bueno y la sociedad le pervierte ! $+$! luego. 338 Y en resolución, lo mismo da una cosa que otra pues en ambas se opone el individuo a la sociedad, y como si precediera, y, por lo tanto, hubiese de sobrevivir a ella. 339Y las dos morales son morales de claustro. 340 Y el que la culpa es colectiva no ha de servir para sacudirme de ella sobre los demás, sino para cargar sobre mí las culpas de los otros, las de todos: no para difundir mi culpa y anegarla en la culpa total, sino para hacer la culpa total mía; no para enajenar mi culpa, sino para ensimis marme y apropiarme, adentrándomela, la de todos. 342 no hacen. 341 Y cada uno debe contribuir a curarla, por lo que otros El que la sociedad sea culpable, agrava la culpa de cada uno. 343 «Alguien tiene que hacerlo, pero ¿por qué he de ser yo?; es la frase que repiten los débiles bien intencionados. 344 Alguien tiene que hacerlo, ¿por qué no yo?, es el grito de un serio servidor del hombre que afronta cara a cara un serio peligro. 345Entre estas dos sentencias median siglos enteros de evolución moral.» 346Así dijo Mrs. Annie Besant en su autobiografía. 347Así dijo la teósofa. 348 El que la sociedad sea culpable agrava la culpa de cada uno y es más culpable el que más siente la culpa. 349Cristo, el inocente, como conocía mejor que nadie la intensidad de la culpa, era en un cierto sentido el más culpable. 350En él llegó a conciencia la divinidad humana y con ella su cul pabilidad. 351 Suele dar que reír a no pocos el leer de grandísimos santos que por pequeñísimas faltas, por faltas que hacen sonreírse a un hombre de mundo, se tuvieron por los más grandes pecadores. 352Pero la intensidad de la culpa no se mide por el acto externo, sino por la conciencia de ella, y a uno le causa agudísimo dolor lo que a otro apenas si un ligero cosquilleo. 353Y en un santo puede llegar la conciencia moral a tal plenitud y agudeza, que el más leve pecado le remuerda más que al mayor criminal su crimen. juzga y en cuanto juzga. 355 354 Y la culpa estriba en tener conciencia de ella, está en el que Cuando uno comete un acto pernicioso creyendo de buena fe hacer una acción virtuosa, no podemos tenerle por moralmente culpable, y cuando otro cree que es mala una acción indiferente o acaso beneficiosa, y la lleva a cabo, es culpable. 356 El acto pasa, la intención queda, y lo malo del mal acto es que malea la intención, que haciendo mal a sabiendas se predispone uno a seguir haciéndolo, se oscurece la conciencia. 357Y no es lo mismo hacer el mal que ser malo. 358 El mal oscurece la conciencia, y no sólo la conciencia moral, sino la conciencia general, la psíquica. 359 Y es que es bueno cuanto exalta y ensancha la conciencia, y malo lo que la deprime y amengua. 360 Y aquí acaso cabría aquello que ya Sócrates, según Platón, se proponía, y es si la virtud es ciencia. 361Lo que equivale a decir si la virtud es racional. 362 Los eticistas, los de que la moral es ciencia, los que al leer todas estas divagaciones dirán: ¡retórica, retórica, retórica!, creerán, me parece, que la virtud se adquiere por ciencia, por estudio racional, y hasta que las matemáticas nos ayudan a ser mejores. ! $+%! 363 No lo sé, pero yo siento que la virtud, como la religiosidad, como el anhelo de no morirse nunca -y todo ello es la misma cosa en el fondo- se adquiere más bien por pasión. 364 Pero y la pasión ¿qué es?, se me dirá. 365No lo sé: o, mejor dicho, lo sé muy bien, porque la siento, y, sintiéndola; no necesito definirla. 366Es más aún: temo que si llego a definirla, dejaré de sentirla y de tenerla. 367La pasión es como el dolor, y como el dolor, crea su objeto. 368Es más fácil al fuego hallar combustible que al combustible fuego. 369 Vaciedad y sofistería habrán de parecer esto, bien lo sé. 370 Y se me dirá también que hay la ciencia de la pasión, y que hay pasión de la ciencia, y que es en la esfera moral donde la razón y la vida humana se aúnan. 371 No lo sé, no lo sé, no lo sé... 372 Y acaso esté yo diciendo en el fondo, aunque más turbiamente, lo mismo que esos, los adversarios que me finjo para tener a quien combatir, dicen, sólo que más clara, más definida y más racionalmente. hielan y me suenan a vaciedad afectiva. ciencia virtud? 377 375 373 No lo sé, no lo sé... 374 Pero sus cosas me Y volviendo a lo mismo, ¿es la virtud ciencia? 376¿Es la Porque son dos cosas distintas. 378 Puede ser ciencia la virtud, ciencia de saber conducirse bien, sin que por eso toda otra ciencia sea virtud. puede decirse que su virtú sea virtud moral siempre. 380 379 Ciencia es la de Maquiavelo; y no Sabido es, además, que no son mejores ni los más inteligentes, ni los más instruidos. 381 No, no, no; ni la fisiología enseña a digerir, ni la lógica a discurrir, ni la estética a sentir la belleza o a expresarla, ni la ética a ser bueno. 382Y menos mal si no enseña a ser hipócrita; porque la pedantería, sea de lógica, sea de estética, no es en el fondo sino hipocresía. 383 384 Acaso la razón enseña ciertas virtudes burguesas, pero no hace ni héroes ni santos. Porque santo es el que hace el bien no por el bien mismo, sino por Dios, por la eternización. 385 Acaso, por otra parte, la cultura, es decir, la Cultura ¡oh la cultura!-, obra sobre todo de filósofos y de hombres de ciencia, no la han hecho ni los héroes ni los santos. 386 Porque los santos se han cuidado muy poco del progreso de la cultura humana; se cuidaron más bien de la salvación de las almas individuales de aquellos con quienes convivían. 387 ¿Qué significa, por ejemplo, en la historia de la cultura humana nuestro san Juan de la Cruz, aquel frailecito incandescente, como se le ha llamado culturalmente -y no sé si cultamente-, junto a Descartes? 388 Todos esos santos, encendidos de religiosa caridad hacia sus prójimos, hambrientos de eternización propia y ajena, que iban a quemar corazones ajenos, inquisidores acaso, todos esos santos, ¿qué han hecho por el progreso de la ciencia de la ética? 389¿Inventó acaso alguno de ellos el imperativo categórico, como lo inventó el solterón de Koenigsberg, que si no fue santo mereció serlo? ! $+&! 390 Quejábaseme un día el hijo de un gran profesor de ética, de uno a quien apenas si se le caía de la boca el imperativo ese, que vivía en una desolada sequedad de espíritu, en un vacío interior. 391 Y hubo de decirle: -Es que su padre de usted, amigo mío, tenía un río soterraño en el espíritu, una fresca corriente de antiguas creencias infantiles, de esperanzas de ultratumba; y cuando creía alimentar su alma con el imperativo ese o con algo parecido, lo estaba en realidad alimentando con aquellas aguas de la niñez. 392 Y a usted le ha dado la flor acaso de su espíritu, sus doctrinas racionales de moral, pero no la raíz, no lo soterraño, no lo irracional. 393 ¿Por qué prendió aquí en España el krausismo y no el hegelianismo o el kantismo, siendo estos sistemas mucho más profundos, racional y filosóficamente que aquel? 394Porque el uno nos le trajeron con raíces. 395 El pensamiento filosófico de un pueblo o de una época es como su flor, o si se quiere fruto, toma sus jugos de las raíces de la planta, y las raíces, que están dentro y están debajo de tierra, son el sentimiento religioso. 396El pensamiento filosófico de Kant, suprema flor de la evolución mental del pueblo germánico, tiene sus raíces en el sentimiento religioso de Lutero, y no es posible que el kantismo, sobre todo en su parte práctica, prendiese y diese flores y frutos en pueblos que ni habían pasado por la Reforma ni acaso podían pasar por ella. 397 El kantismo es protestante, y nosotros, los españoles, somos fundamentalmente católicos. 398Y si Krause echó aquí algunas raíces -más que se cree, y no tan pasajeras como se supone-, es porque Krause tenía raíces pietistas, y el pietismo, como lo demostró Ritschl en la historia de él (Geschichte der Pietismus), tiene raíces específicamente católicas y significa en gran parte la invasión, o más bien la persistencia del misticismo católico en el seno del racionalismo protestante. 399 Y así se explica que se krausizaran aquí hasta no pocos pensadores católicos. 400 Y puesto que los españoles somos católicos, sepámoslo o no lo sepamos, queriéndolo o sin quererlo, y aunque alguno de nosotros presuma de racionalista o de ateo, acaso nuestra más honda labor de cultura y lo que vale más que de cultura, de religiosidad -si es que no son lo mismo-, es tratar de darnos clara cuenta de ese nuestro catolicismo subconciente, social o popular. 401Y esto es lo que he tratado de hacer en esta obra. 402 Lo que llamo el sentimiento trágico de la vida en los hombres y en los pueblos es por lo menos nuestro sentimiento trágico de la vida, el de los españoles y el pueblo español, tal y como se refleja en mi conciencia, que es una conciencia española, hecha en España. 403 Y ese sentimiento trágico de la vida es el sentimiento mismo católico de ella, pues el catolicismo y mucho más el popular, es trágico. 404 El pueblo aborrece la comedia. 405 El pueblo, cuando Pilato, el señorito, el distinguido, el esteta, racionalista si queréis, quiere darle comedia y le presenta al Cristo en irrisión diciéndole: ¡He aquí el hombre!, se amotina y grita: ¡crucifícale! ! $+'! 406 No quiere comedia, sino tragedia. 407Y lo que el Dante, el gran católico, llamó comedia divina, es la más trágica comedia que se haya escrito. 408 Y como he querido en estos ensayos mostrar el alma de un español y en ella el alma española, he escatimado las citas de escritores españoles, prodigando, acaso en exceso, las de los otros país es. 409Y es que todas las almas humanas son hermanas. 410 Y hay una figura, una figura cómicamente trágica, una figura en que se ve todo lo profundamente trágico de la comedia humana, la figura de Nuestro Señor Don Quijote, el Cristo español en que se cifra y encierra el alma inmortal de este mi pueblo. 411 Acaso la pasión y muerte del Caballero de la Triste Figura es la pasión y muerte del pueblo español. resurrección. 413 412 Su muerte y su Y hay una filosofía y hasta una metafísica quijotesca y una lógica y una ética quijotesca, y una religiosidad -religiosidad católica española-quijotesca. 414 En la filosofía, es la lógica, es la ética, es la religiosidad que he tratado de esbozar y más de sugerir que de desarrollar en esta obra. 415Desarrollarlas racionalmente no; la locura quijotesca no consiente la lógica científica. 416 Y ahora, antes de concluir, y despedirme de mis lectores, quédame hablar del papel que le está reservado a Don Quijote en la tragicomedia europea moderna. 417 Vamos a verlo en un último ensayo de estos. ! ! $+(! CAPITOLO XII CONCLUSIÓN DON QUIJOTE EN LA TRAGICOMEDIA EUROPEA CONTEMPORÁNEA 1 ¡Voz que clama en el desierto! 2 3 (Isaías, XL, 3.) Fuerza me es ya concluir, por ahora al menos, estos ensayos que amenazan convertírseme en el cuento de nunca acabar. 4Han ido saliendo de mis manos a la imprenta en . una casi improvisación sobre notas recogidas durante años, sin haber tenido presentes al escribir cada ensayo los que le precedieron. 5Y así irán llenos de contradicciones íntimas -al menos aparentes- como la vida y como yo mismo. 6 Mi pecado ha sido, si alguno, el haberlos exornado en exceso con citas ajenas, muchas de las cuales parecerán traídas con cierta violencia. 7Mas yo lo explicaré otra vez. 8 Muy pocos años después de haber andado Nuestro Señor Don Quijote por España, decíanos Jacobo Boehme (Aurora, cap. XI, § 75), que no escribía una historia que le hubiesen contado otros, sino que tenía que estar él mismo en la batalla, y en ella en gran pelea, donde a menudo tenía que ser vencido como todos los hombres, y más adelante (§ 83) añade que aunque tenga que hacerse espectáculo del mundo y del demonio, le queda la esperanza en Dios sobre la vida futura, en quien quiere arriesgarla y no resistir al Espíritu. 9Amén. 10 Y tampoco yo, como este Quijote del pensamiento alemán, quiero resistir al Espíritu. 11 Y por eso lanzo mi voz que clamará en el desierto, y la lanzo desde esta Universidad de Salamanca, que se llamó a sí misma arrogantemente omnium scientiarium princeps, y a la que Carlyle llamó fortaleza de la ignorancia, y un literato francés, hace muy poco, Universidad fantasma; desde esta España, «tierra de los ensueños que se hacen realidades, defensora de Europa, hogar del ideal caballeresco», así me decía en carta no ha mucho Mr. Archer M. Huntington, poeta; desde esta España, cabeza de la Contrarreforma en el siglo XVI. 12¡Y bien se lo guardan! ! $+)! 13 En el cuarto de estos ensayos os hablé de la esencia del catolicismo. 14 Y a desesenciarlo, esto es, a descatolizar a Europa, han contribuido el Renacimiento, la Reforma y la Revolución, sustituyendo aquel ideal de una vida eterna ultraterrena por el ideal del progreso, de la razón, de la ciencia. 15O mejor de la Ciencia, con letra mayúscula. 16Y lo último, lo que hoy más se lleva, es la cultura. 17 Y en la segunda mitad del pasado siglo XIX, época infilosófica y tecnicista, dominada por especialismo miope y por el materialismo histórico, ese ideal se tradujo en una obra no ya de vulgarización sino de avulgaramiento científico -o más bien seudocientífico- que se desahogaba en democráticas bibliotecas baratas y sectarias. 18 Quería así popularizarse la ciencia, como si hubiese de ser esta la que haya de bajar al pueblo y servir sus pasiones, y no el pueblo el que debe subir a ella y por ella más arriba aún, a nuevos y más profundos anhelos. 19 Todo esto llevó a Brunetiére a proclamar la bancarrota de la ciencia, y esa ciencia o lo que fuere, bancarroteó, en efecto. 330 20 Y como ella no satisfacía, no dejaba de buscarse la felicidad; sin encontrarla en la riqueza, ni en el saber, ni en el poderío, ni en el goce; ni en la re signación, ni en la buena conciencia moral, ni en la cultura. 21Y vino el pesimismo. 22 El progresismo no satisfacía tampoco. 23 Progresar, ¿para qué? 24 El hombre no se conformaba con lo racional, el Kulturkampf no le bastaba; quería dar finalidad final a la vida, que esta que llamo la invalidad final es el verdadero !&*,% !&. 25Y la famosa maladie du siècle, que se anuncia en Rousseau, y acusa más claramente que nadie el Obermann de Sénancour, no era ni es otra cosa que la pérdida de la fe en la inmortalidad del alma, en la finalidad humana del Universo. 331 26 Su símbolo, su verdadero símbolo, es un ente de ficción, el doctor Fausto. 27 Este inmortal doctor Fausto que se nos aparece ya a principios del siglo XVII, en 1604, por obra del Renacimiento y de la Reforma y por ministerio de Cristóbal Marlowe, es ya el mismo que volverá a descubrir Goethe, aunque en ciertos respectos más espontáneo y más fresco. 28Y junto a él aparece Mefistófeles, a quien pregunta Fausto aquello de «¿qué bien hará mi alma a tu señor?» 29Y le contesta: «Ensanchar su reino.» 30 «¿Y es esa la razón por la que nos tienta así?», vuelve a preguntar el doctor, y el espíritu maligno responde: «Solamen miseris socios habuisse doloris», que es lo que mal traducido en romance, decimos: mal de muchos, consuelo de tontos. 31 «Donde estamos, allí está el infierno, y donde está el infierno, allí tenemos que estar siempre», añade !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 19. Todo esto llevó a Brunetiére a proclamar la bancarrota de la ciencia, y esa ciencia o lo que fuere, bancarroteó, en efecto. | En la amargura de la desilusión se ha llegado a culpar a la inocente ciencia, echándole en cara que ha hecho bancarrota, como si fuese ella rea del intelectualismo desecante ni de que se la declarara fin en sí. El fracaso es del intelectualismo, no de la pobre ciencia. EMS (46-47) 25. Y la famosa maladie du siècle [...] en la finalidad humana del Universo. | Lo que más o menos disfrazado entristece a tantos espíritus modernos, el mal del siglo que denuncia Max Nordau, lo que perturba a las almas, no es otra cosa que la obsesión de la muerte total, el lúgubre pensamiento que dio un tinte tan sombrío a la decadencia romana, la edad del estoicismo, del epicureísmo, de las extravagancias religiosas y del suicidio. EMS (83) ! $+*! Mefistófeles, a lo que Fausto agrega que cree ser una fábula tal infierno, y le pregunta quién hizo el mundo. 32Y este trágico doctor, torturado por nuestra tortura, acaba encontrando a Helena, que no es otra, aunque Marlowe acaso no lo sospechase, que la Cultura renaciente. 33Y hay aquí en este Faust de Marlowe una escena que vale por toda la segunda parte del Faust de Goethe. Le dice a Helena Fausto: «Dulce Helena, hazme inmortal con un beso -y le besa-. ¡mira cómo huye! 35 ¡Ven, Helena, ven; devuélveme el alma! 36 34 Sus labios me chupan el alma; Aquí quiero quedarme, porque el cielo está en estos labios, y todo lo que no es Helena escoria es.» 37 «¡Devuélveme el alma!» 38He aquí el grito de Fausto, el doctor, cuando después de haber besado a Helena va a perderse para siempre. 39Porque al Fausto primitivo no hay ingenua Margarita alguna que le salve. 40 Esto de la salvación fue invención de Goethe. 41 ¿Y quién no conoce a su Fausto, nuestro Fausto, que estudió Filosofía, Jurisprudencia, Medicina, hasta Teología, y sólo vio que no podemos saber nada, y quiso huir al campo libre -hinaus ins weite Land!- y topó con Mefistófeles, parte de aquella fuerza que siempre quiere el mal haciendo siempre el bien, y este le llevó a los brazos de Margarita, del pueblo sencillo, a la que aquel, el sabio, perdió; pero merced a la cual, que por él se entregó, se salva, redimido por el pueblo creyente con fe sencilla? 42Pero tuvo esa segunda parte, porque aquel otro Fausto era el Fausto anecdótico y no el categórico de Goethe, y volvió a entregarse a la Cultura, a Helena, y a engendrar en ella a Euforión, acabando todo con aquello del eterno femenino entre coros místicos. 43¡Pobre Euforión! 44 Y esta Helena ¿es la esposa del rubio Menelao, la que robó Paris, y causó la guerra de Troya, y de quien los ancianos troyanos decían que no debía indignar el que se pelease por mujer que por su rostro se parecía tan terriblemente a las diosas inmortales? 45 Creo más bien que esa Helena de Fausto era otra, la que acompañaba a Simón Mago, y que este decía ser la inteligencia divina. 46Y Fausto puede decirle: ¡devuélveme el alma! 47 Porque Helena con sus besos nos saca el alma. 48 Y lo que queremos y necesitamos es alma, y alma de bulto y de sustancia. 49 Pero vinieron el Renacimiento, la Reforma y la Revolución, trayéndonos a Helena, o más bien empujados por ella, y ahora nos hablan de Cultura y de Europa. 50 ¡Europa! Esta noción primitiva e inmediatamente geográfica nos la han convertido por arte mágico en una categoría casi metafísica. Europa? 52 51 ¿Quién sabe hoy ya, en España por lo menos, lo que es Yo sólo sé que es un chibolete (véase mis Tres ensayos). 53 Y cuando me pongo a escudriñar lo que llaman Europa nuestros europeizantes, paréceme a las veces que queda fuera de ella mucho de lo periférico -España desde luego, Inglaterra, Italia, Escandinavia, Rusia...- y que se reduce a lo central, a Franco - Alemania con sus anejos y dependencias. ! $"+! 54 Todo esto nos lo han traído, digo, el Renacimiento y la Reforma, hermanos mellizos que vivieron en aparente guerra intestina. 55 Los renacientes italianos, socinianos todos ellos; los humanistas, con Erasmo a la cabeza, tuvieron por,un bárbaro a aquel fraile Lutero, que del claustro sacó su ímpetu, como de él lo sacaron Bruno y Campanella. 56 Pero aquel bárbaro era su hermano mellizo; combatiéndolos, combatía a su lado contra el enemigo común. 57Todo eso nos han traído el Renacimiento y la Reforma, y luego la Revolución, su hija, y nos han traído también una nueva Inquisición: la de la ciencia o la cultura, que usa por armas el ridículo y el desprecio para los que no se rinden a su ortodoxia. 58 Al enviar Galileo al Gran Duque de Toscana su escrito sobre la movilidad de la Tierra, le decía que conviene obedecer y creer a las determinaciones de los superiores, y que reputaba aquel escrito «como una poesía o bien un ensueño, y por tal recíbalo Vuestra Alteza». 59Y otras veces le llama «quimera» y «capricho matemático». 60 Y así yo en estos ensayos, por temor también -¿por qué no confesarlo?- a la Inquisición, pero a la de hoy, a la científica, presento como poesía, ensueño, quimera o capricho místico lo que más de dentro me brota. 61Y digo con Galileo: Eppur si muove! 62Mas ¿es sólo por ese temor? 63¡Ah, no!, que hay otra más trágica Inquisición, y es la que un hombre moderno, culto, europeo -como lo soy yo, quiéralo o no-, lleva dentro de sí. más terrible ridículo, y es el ridículo de uno ante sí mismo y para consigo. 65 64 Hay un Es mi razón, que se burla de mi fe y la desprecia. 66 Y aquí es donde tengo que acogerme a mi señor Don Quijote para aprender a afrontar el ridículo y vencerlo, y un ridículo que acaso -¿quién sabe?- él no conoció. 67 Sí, sí, ¿cómo no ha de sonreír mi razón de estas construcciones seudofilosóficas, pretendidas místicas, diletantescas, en que hay de todo menos paciente estudio, objetividad y método... científico? 68¡Y, sin embargo... 69Eppur si muove! 70 Eppur si muove!, sí. 71¡Y me acojo al dilettantismo, a lo que un pedante llamaría filosofía demimondaine, contra la pedantería especialista, contra la filosofía de los filósofos profesionales. 72 Y quién sabe... 73Los progresos suelen venir del bárbaro, y nada más estancado que la filosofía de los filósofos y la teología de los teólogos. 74 ¡Y que nos hablen de Europa! 75 La civilización del Tíbet es paralela a la nuestra, y ha hecho y hace vivir a hombres que desaparecen como nosotros. 76 Y queda flotando sobre las civilizaciones todas del Eclesiastés, y aquello de «así muere el sabio como el necio» (Ec., II, 16). 77 Corre entre las gentes de nuestro pueblo una respuesta admirable a la ordinaria pregunta de «¿qué tal?» o «¿cómo va?», y es aquella que responde: «¡se vive!»... 78 Y de hecho es así; se vive, vivimos tanto como los demás. 79¿Y qué más puede pedirse? 80¿Y quién no recu erda lo de la copla? ! $""! 81 «Cada vez que considero / que me tengo que mo rir, / tiendo la capa en el suelo / y no me harto de dormir.» 82Pero no dormir, no, sino soñar; soñar la vida, ya que la vida es sueño. 83 Proverbial se ha hecho también en muy poco tiempo entre nosotros, los españoles, la frase de que la cuestión es pasar el rato, o sea matar el tiempo. 84 Y de hecho hacemos tiempo para 85 matarlo. Pero hay algo que nos ha preocupado siempre tanto o más que pasar el rato -fórmula que marca una posición estética- y es ganar la eternidad; fórmula de la posición religiosa. 86 Y es que saltamos de lo estético y lo económico a lo religioso, por encima de lo lógico y lo ético; del arte a la religión. 87 Un joven novelista nuestro, Ramón Pérez de Ayala, en su reciente novela La pata de la raposa, nos dice que la idea de la muerte es el cepo; el espíritu, la raposa, o sea virtud astuta con qué burlar las celadas de la fatalidad, y añade: «Cogidos en el cepo, hombres débiles y pueblos débiles yacen por tierra...; los espíritus recios y los pueblos fuertes reciben en el peligro clarividente estupor, desentrañan de pronto la desmesurada belleza de la vida y, renunciando para siempre a la agilidad y locura primeras, salen del cepo con los músculos tensos para la acción y con las fuerzas del alma centuplicadas en ímpetu, potencia y eficacia.» 88 Pero veamos: hombre débiles..., pueblos débiles..., espíritus recios..., pueblos fuertes..., ¿qué es eso? 89 Yo no lo sé. 90 Lo que creo saber es que unos individuos y pueblos no han pensado aún de veras en la muerte y la inmortalidad; no las han sentido, y otros han dejado de penar en ellas, o más bien han dejado de sentirlas. 91 Y no es, creo, cosa de que se engrían los hombres y los pueblos que no han pasado por la edad religiosa. 92 Lo de la desmesurada belleza de la vida está bien para escrito, y hay, en efecto, quienes se resignan y la aceptan tal cual es, y hasta quienes no quieren persuadir que el del cepo no es problema. 93Pero ya dijo Calderón (Gustos y disgustos no son más que imaginación, acto 1, sec. 4.a) que «No es consuelo de desdichas, / es otra desdicha aparte, / querer a quien las padece / persuadir que no son tales.» 94 Y además «a un corazón no habla sino otro corazón», según fray Diego de Estela (Vanidad del mundo, cap. XXI). 95 No ha mucho hubo quien hizo como que se escandalizaba de que, respondiendo yo a los que nos reprochaban a los españoles nuestra incapacidad científica, dijese, después de hacer observar que la luz eléctrica luce aquí, corre aquí la locomotora tan bien como donde se inventaron, y nos servimos de los logaritmos como en el país donde fueron ideados, aquello de: «¡que inventen ellos!». 96Expresión paradójica a que no renuncio. 97Los españoles deberíamos apropiarnos no poco de aquellos sabios consejos que a los rusos, nuestros semejantes, dirigía el conde José de Maistre en aquellas sus admirables cartas al conde Rasoumowski, sobre la educación pública en Rusia, cuando le decía que no por no estar hecha para la ciencia debe una nación estimarse menos; que los romanos no entendieron de arte ni tuvieron matemático, lo que no les impidió hacer su papel, y todo ! $"#! lo que añadía sobre esa muchedumbre de semisabios falsos y orgullosos, idólatras de los gustos, las modas y las lenguas extranjeras y siempre prontos a derribar cuanto desprecian, que es todo. 98 ¿Que no tenemos espíritu científico? 99¿Y qué, si tenemos algún espíritu? 100¿Y se sabe si el que tenemos es o no compatible con ese otro? 101 Mas al decir, ¡que inventen ellos!, no quise decir que hayamos de contentarnos con un papel pasivo, no. 102 Ellos a la ciencia de que nos aprovecharemos; nosotros, a lo nuestro. 103 No basta defenderse, hay que atacar. 104 107 Pero atacar con tino y cautela. 105La razón ha de ser nuestra arma. 106Lo es hasta del loco. Nuestro loco sublime, nuestro modelo, Don Quijote, después que destrozó de dos cuchilladas aquella a modo de media celada que encajó con el morrión, «la tornó a hacer de nuevo, poniéndole unas barras de hierro por de dentro, de tal manera que él quedó satisfecho de su fortaleza, y sin querer hacer nueva experiencia della la diputó y tuvo por celada finísima de encaje». en la cabeza se inmortalizó. 109 Es decir, se puso en ridículo. 110 108 Y con ella Pues fue poniéndose en ridículo como alcanzó su inmortalidad Don Quijote. 111 ¡Y hay tantos modos de ponerse en ridículo...! 112 Cournot (Traité de l'enchainement des idées fondamentales, etc., § 510) dijo: «No hay que hablar ni a los príncipes ni a los pueblos de sus probabilidades de muerte: los príncipes castigan esa temeridad con la desgracia: el público se venga de ella por el ridículo.» 113Así es, y por eso dicen que hay que vivir con el siglo. 114 Corrumpere et corrumpi saeculum vocatur (Tácito, Germania, 19). 115 116 Hay que saber ponerse en ridículo, y no sólo ante los demás, sino ante nosotros mismos. Y más ahora, en que tanto se charla de la conciencia de nuestro atraso respecto a los demás pueblos cultos; ahora, en que unos cuantos atolondrados que no conocen nuestra propia historia que está por hacer, deshaciendo antes lo que la calumnia protestante ha tejido en torno a ella- dicen que no hemos tenido ni ciencia, ni arte, ni filosofía, ni Renacimiento (este acaso nos sobraba), ni nada. 117 Carducci, el que habló de los contorcimenti dell'afannosa grandiositá spagnola, dejó escrito (en Mosche cochiere) que «hasta España, que jamás tuvo hegemonía de pensamiento, tuvo su Cervantes». 118¿Pero es que Cervantes se dio aquí solo, aislado, sin raíces, sin tronco, sin apoyo? 119 Mas se comprende que diga que España non ebbe mai egemonia di pensiero un racionalista italiano que recuerda que fue España la que reaccionó contra el Renacimiento de su patria. 120Y qué, ¿acaso no fue algo, y algo hegemónico en el orden cultural, la Contrarreforma que acaudilló España y que comenzó de hecho con el saco de Roma, providencial castigo contra la ciudad de los paganos Papas del Renacimiento pagano? 121Dejemos ahora si fue mala o buena la Contrarreforma, pero ¿es que no fueron algo hegemónico Loyola y el Concilio de Trento? 122Antes de este dábanse en Italia ! $"$! cristianismo y paganismo, o mejor, inmortalismo y mortalismo en nefando abrazo y contubernio, hasta en las almas de algunos Papas, y era verdad en filosofía lo que en teología no lo era, y todo se arreglaba con la fórmula de salva la fe. 123 Después ya no, después vino la lucha franca y abierta entre la razón y la fe, la ciencia y la religión. 124 Y el haber traído esto, gracias sobre todo a la testarudez española, ¿no fue hegemónico? 125 Sin la Contrarreforma, no habría la Reforma seguido el curso de que siguió; sin aquella, acaso esta, falta del sostén del pietismo, habría perecido en la ramplona racionalidad de la Aufklürung, de la Ilustración. 126 ¿Sin Carlos I, sin Felipe II, nuestro gran Felipe, habría sido todo igual? 127 130 Labor negativa, dirá alguien. 128¿Qué es eso? 129¿Qué es lo negativo?, ¿qué es lo positivo? En el tiempo, la línea que va siempre en la misma dirección, del pasado al porvenir, ¿dónde está el cero que marca el límite entre lo positivo y lo negativo? 131 España, esta tierra que dicen de caballeros y pícaros -y todos pícaros-, ha sido la gran calumniada de la historia precisamente por haber acaudillado la Contrarreforma. 132 Y porque su arrogancia le ha impedido salir a la plaza pública, a la feria de las vanidades, a justificarse. 133 Dejemos su lucha de ocho siglos con la morisma, defendiendo a Europa del mahometanismo, su labor de unificación interna, su descubrimiento de América y las Indias -que lo hicieron España y Portugal, y no Colón y Gama-, dejemos eso y más, y no es dejar poco. 134¿No es nada cultural crear veinte naciones sin reservarse nada y engendrar, como engendró el conquistador, en pobres indias siervas hombres libres? 135Fuera de esto, en el orden del pensamiento, ¿no es nada nuestra mística? 136 Acaso un día tengan que volver a ella, a buscar su alma, los pueblos a quienes Helena se la arrebatara con sus besos. 137 Pero ya se sabe, la Cultura se compone de ideas y sólo de ideas y el hombre no es sino un instrumento de ella. sombra. 138 El hombre para la idea, y no la idea para el hombre; el cuerpo para la 139 El fin del hombre es hacer ciencia, catalogar el Universo para devolvérselo a Dios en orden, como escribí hace unos años, en mi novela Amor y pedagogía. parecer, ni siquiera una idea. 141 140 El hombre no es, al Y al cabo el género humano sucumbirá al pie de las bibliotecas - talados bosques enteros para hacer el papel que en ellas se almacena-, museos, máquinas, fábricas, laboratorios... para legarlos... ¿a quién? 142Porque Dios no los recibirá. 143 Aquella hórrida literatura regeneracionista, casi toda ella embuste, que provocó la pérdida de nuestras últimas colonias americanas, trajo la pedantería de hablar del trabajo perseverante y callado -eso sí, voceándolo mucho, voceando el silencio -, de la prudencia, la exactitud, la moderación, la fortaleza espiritual, la sindéresis, la ecuanimidad, las virtudes sociales, sobre todo los que más carecemos de ellas. ! 144 En esa ridícula literatura caímos casi todos los españoles, unos $"%! más y otros menos, y se dio el caso de aquel archiespañol Joaquín Costa, uno de los espíritus menos europeos que hemos tenido, sacando lo de europeizarnos y poniéndose a cidear mientras proclamaba que había que cerrar con siete llaves el sepulcro del Cid y... conquistar África. 145Y yo di un ¡muera Don Quijote!, y de esta blasfemia, que quería decir todo lo contrario que decía -así estábamos entonces-, brotó mi Vida de Don Quijote y Sancho y mi culto al quijotismo como religión nacional. 146 Escribí aquel libro para repensar el Quijote contra cervantistas y eruditos, para hacer obra de vida de lo que era y sigue siendo para los más letra muerta. 147¿Qué me importa lo que Cervantes quiso o no quiso poner allí y lo que realmente puso? 148Lo vivo es lo que yo allí descubro, pusiéralo o no Cervantes, lo que yo allí pongo y sobrepongo y sotopongo, y lo que ponemos allí todos. 149 Quise allí rastrear nuestra filosofía. 150 Pues abrigo cada vez más la convicción de que nuestra filosofía, la filosofía española, está líquida y difusa en nuestra literatura, en nuestra vida, en nuestra acción, en nuestra mística, sobre todo, y no en sistemas filosóficos. 151Es concreta. 152¿Y es que acaso no hay en Goethe, verbigracia, tanta o más filosofía que en Hegel? 153Las coplas de Jorge Manrique, el Romancero, el Quijote, La vida es sueño, la Subida al Monte Carmelo, implican una intuición del mundo y un concepto de la vida Weltanschaung und Labensansicht. 154 Filosofía esta nuestra que era difícil de formularse en esa segunda mitad del siglo XIX, época afilosófica, positivista, tecnicista, de pura historia y de ciencias naturales, época en el fondo materialista y pesimista. 155 Nuestra lengua misma, como toda lengua culta, lleva implícita una filosofía. 156 Una lengua, en efecto, es una filosofía potencial. 157El platonismo es la lengua griega que discurre en Platón, desarrollando sus metáforas seculares; la escolástica es la filosofía del latín muerto de la Edad Media en lucha con las lenguas vulgares; en Descartes discurre la lengua francesa, la alemana en Kant y en Hegel, y el inglés en Hume y en Suart Mill. 158Y es que el punto de partida lógico de toda especulación filosófica no es el yo, ni es la repre sentación -vorstellung- o el mundo tal como se nos presenta inmediatamente a los sentidos, sino que es la representación mediata o histórica, humanamente elaborada y tal como se nos da principalmente en el lenguaje por medio del cual conocemos el mundo; no es la representación psíquica sino la pneumática. 159 Cada uno de nosotros parte para pensar, sabiéndolo o no y quiéralo o no lo quiera, de lo que han pensado los demás que le precedieron y le rodean. 160 El pensamiento es una herencia, Kant pensaba en alemán, y al alemán tradujo a Hume y a Rousseau, que pensaban en inglés y en francés, respectivamente. 161 Y Spinoza, ¿no pensaba en judeo-portugués, bloqueado por el holandés y en lucha con él? ! $"&! 162 El pensamiento reposa en prejuicios y los prejuicios van en la lengua. adscribía Bacon al lenguaje no pocos errores de los idola fori. álgebra o siquiera en esperanto? 165 164 163 Con razón Pero ¿cabe filosofar en pura No hay sino leer el libro de Avenarius de crítica de la experiencia pura -reine Erfahrung-, de esta experiencia prehumana, o sea inhumana, para ver adónde puede llevar eso. 166 Y Avenarius mismo, que ha tenido que inventarse un lenguaje, lo ha inventado sobre la tradición latina, con raíces que lleva en su fuerza metafórica todo un contenido de impura experiencia, de experiencia social humana. 167 Toda filosofía es, pues, en el fondo, filología. 168Y la filología, con su grande y fecunda ley de las formaciones analógicas, da su parte al azar, a lo irracional, a lo absolutamente inconmensurable. filosofía tampoco. 170 169 La historia no es matemática ni la ¡Y cuántas ideas filosóficas no se deben en rigor a algo así como rima, a la necesidad de colocar un consonante! 171 En Kant mismo abunda no poco de esto, de simetría estética; de rima. 172 La representación es, pues, como el lenguaje, como la razón misma -que no es sino el lenguaje interior-, un producto social y racial, y la raza, la sangre del espíritu es la lengua, como ya lo dejó dicho, y yo muy repetido, Oliver Wendell Holmes, el yanqui. 173 Nuestra filosofía occidental entró en madurez, llegó a conciencia de sí, en Atenas, con Sócrates, y llegó a esta conciencia mediante el diálogo, la conversación social. 174 Y es hondamente significativo que la doctrina de las ideas innatas, del valor objetivo y normativo de las ideas, de lo que luego, en la Escolástica, se llamó realismo, se formulase en diálogos. 175Y esas ideas, que son la realidad, son nombres, como el nominalismo enseñaba. 176 No que no sean más que nombres, flatus vocis, sino que son nada menos que nombres. 177El lenguaje es el que nos da la realidad, y no como un mero vehículo de ella, sino como su verdadera carne, de que todo lo otro, la representación muda o inarticulada, no es sino esqueleto. 178 Y así la lógica opera sobre la estética; el concepto sobre la expresión, sobre la palabra, y no sobre la percepción bruta. 179 Y esto bas ta tratándose del amor. habla, hasta que no dice: ¡Yo te amo! 181 180 El amor no se descubre a sí mismo hasta que no Con muy profunda intuición, Stendhal, en su novela La Chartreuse de Parme, hace que el conde Mosca, furioso de celos y pensando en el amor que cree une a la duquesa de Sanseverina con su sobrino Fabricio, se diga: «Hay que calmarse; si empleo maneras duras, la duquesa es capaz, por simple pique de vanidad, de seguirle a Belgirate, y allí, durante el viaje, el azar puede traer una palabra que dará nombre a lo que sienten uno por otro, y después en un instante, todas las consecuencias.» 182 Así es, todo lo hecho se hizo por la palabra, y la palabra fue en un principio. 183 El pensamiento, la razón, esto es, el lenguaje vivo, es una herencia, y el solitario de Aben Tofail, el filósofo arábigo guadijeño, tan absurdo como el yo de Descartes. 184La verdad concreta y ! $"'! real, no metódica e ideal es: homo sum, ergo cogito. pensar. 186 185 Sentirse hombre es más inmediato que Mas por otra parte, la Historia, el proceso de la cultura no halla su perfección y efectividad plena sino en el individuo; el fin de la Historia y de la Humanidad somos los sendos hombres, cada hombre, cada individuo. Unamuno. 189 188 187 Homo sum, ergo cogito: cogito ut sim Michael de El individuo es el fin del Universo. Y esto de que el individuo sea el fin del Universo, lo sentimos muy bien nosotros los españoles. 190 ¿No dijo Martin A. J. Hume (The Spanish People) aquello de la individualidad introspectiva del español, y lo comenté yo en un ensayo publicado en la revista La España Moderna? 191 Y es acaso este individualismo mismo introspectivo el que no ha permitido que brotaran aquí sistemas estrictamente filosóficos, o más bien metafóricos. 192 Y ello, a pesar de Suárez, cuyas sutilezas formales no merecen tal nombre. 193 Nuestra metafísica, si algo, ha sido metantrópica, y los nuestros, filólogos, o más bien humanistas en el más comprensivo sentido. 194 Menéndez y Pelayo, de quien con exactitud dijo Benedetto Croce (Estética, apéndice bibliográfico) que se inclinaba al idealismo metafísico, pero parecía querer acoger algo de los otros sistemas, hasta de las teorías empíricas; por lo cual su obra sufría, al parecer de Croce -que se refería a su Historia de las ideas estéticas en España-, de cierta incerteza, desde el punto de vista teórico del autor, Menéndez y Pelayo, en su exaltación de humanista español, que no quería renegar del Renacimiento, inventó lo del vivismo, la filosofía de Luis Vives, y acaso, no por otra cosa que por ser, como él, este otro, español renaciente y ecléctico. 195 Y es que Menéndez y Pelayo, cuya filosofía era, ciertamente, todo incerteza, educado en Barcelona, en las timideces del escocesismo traducido al espíritu catalán, en aquella filosofía rastrera del common sense que no quería comprometerse, y era toda de compromiso, y que tan bien presentó Balmes, huyó siempre de toda robusta lucha interior y fraguó con compromisos su conciencia. 196 Más acertado anduvo, a mi entender, Ángel Ganivet, todo adivinación e instinto, cuando pregonó como nuestro el senequismo, la filosofía, sin originalidad de pensamiento, pero grandísima de acento y tono, de aquel estoico cordobés pagano, a quien por suyo tuvieron no pocos cristianos. 197 Su acento fue un acento español, latinoafricano, no helénico, y ecos de él se oyen en aquel - también tan nuestro- Tertuliano, que creyó corporales de bulto a Dios y al alma, y que fue algo así como un Quijote del pensamiento cristiano de la segunda centuria. 198 Mas donde acaso hemos de ir a buscar el héroe de nuestro pensamiento, no es a ningún filósofo que viviera en carne y hueso, sino a un ente de ficción y de acción, más real que los filósofos todos; es a Don Quijote. ! 199 Porque hay un quijotismo filosófico, sin duda, pero también $"(! una filosofía quijotesca. 200 ¿Es acaso otra, en el fondo, la de los conquistadores, la de los contrarreformadores, la de Loyola, y, sobre todo, ya en el orden del pensamiento abstracto, pero sentido, la de nuestros místicos? 201 ¿Qué era la mística de san Juan de la Cruz sino una caballería andante del sentimiento a lo divino? 202 203 Y el Don Quijote no puede decirse que fuera en rigor idealismo; no peleaba por ideas. Era espiritualismo; peleaba por espíritu. 204 Convertid a Don Quijote a la especulación religiosa, como ya él soñó una vez en hacerlo cuando encontró aquellas imágenes de relieve y entalladura que llevaban unos labradores para el retablo de su aldea, y a la meditación de las verdades eternas, y vedle subir al Monte Carmelo por medio de la noche oscura del alma, a ver desde allí arriba, desde la cima, salir el sol que no se pone, y como el águila que acompaña a san Juan en Patmos, mirarle cara a cara y escudriñar sus manchas, dejando a la lechuza que acompaña en el Olimpo a Atena -la de los ojos glaucos, esto es, lechucinos, la que ve en las sombras, pero a la que la luz del mediodía deslumbra- buscar entre sombras con sus ojos la presa para sus crías. 205 Y el quijotismo especulativo o meditativo es, como el práctico, locura hija de la locura de 206 la cruz. Y por eso es despreciado por la razón. 207 La filosofía, en el fondo, aborrece al cristianismo, y bien lo probó el manso Marco Aurelio. 208 La tragedia de Cristo, la tragedia divina, es la de la cruz. 209Pilato, el escéptico, el cultural, quiso convertirla por la burla en sainete, e ideó aquella farsa del rey de cetro de caña y corona de espinas, diciendo: «¡He aquí el hombre!», pero el pueblo, más humano que él, el pueblo que busca tragedia grita: «¡Crucifícale, crucifícale!» 210Y la otra tragedia, la tragedia humana, intrahumana, es la de Don Quijote con la cara enjabonada para que se riera de él la servidumbre de los duques, y los duques mismos, tan siervos como ellos. 211 «¡He aquí el loco!», se dirían. 212 Y la tragedia cómica, irracional, es la pasión por la burla y el desprecio. 213 El más alto heroísmo para un individuo, como para un pueblo, es saber afrontar el ridículo; es, mejor aún, saber ponerse en ridículo y no acobardarse en él. 214 Aquel trágico suicida portugués, Antero de Quental, de cuyos poderosos sonetos os he ya dicho, dolorido en su patria a raíz del ultimátum inglés a ella en 1890, escribió: «Dijo un hombre de Estado inglés del siglo pasado, que era también por cierto un perspicaz observador y un filósofo, Horacio Walpole, que la vida es una tragedia para los que sienten y una comedia para los que piensan. 215 332 Pues bien: si hemos de acabar trágicamente, nosotros, portugueses, que sentimos, prefiramos con mucho ese destino terrible, pero noble, a aquel que le está reservado, y tal vez en un !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 214. Aquel trágico suicida portugués, Antero de Quental [...] una comedia para los que piensan. | ¡Qué elocuente es el suicidio del poeta nihilista Antero de Quental, cantor de la muerte eterna y de la vanidad y humo del todo! EMS (41) ! $")! futuro no muy remoto, a Inglaterra que piensa y calcula, el cual destino es el acabar miserable y cómicamente.» 216Dejemos lo de que Inglaterra piensa y calcula, como implicando que no siente, en lo que hay una injusticia que se explica por la ocasión en que fue eso escrito, y dejemos lo que los portugueses sienten, implicando que apenas piensan ni calculan, pues siempre nuestros hermanos atlánticos se distinguieron por cierta pedantería sentimental, y quedémonos con el fondo de la terrible idea, y es que unos, los que ponen el pensamiento sobre el sentimiento, yo diría la razón sobre la fe, mueren cómicamente, y mueren trágicamente los que ponen la fe sobre la razón. 217 Porque son los burladores los que mueren cómicamente, y Dios se ríe luego de ellos, y es para los burlados la tragedia, la parte noble. 218 Y hay que buscar, tras de las huellas de Don Quijote, la burla. 219 ¿Y volverá a decírsenos que no ha habido filosofía española en el sentido técnico de esa palabra? 220Y digo: ¿cuál es ese sentido?, ¿qué quiere decir filosofía? 221Windelband, historiador de la filosofía, en su ensayo sobre lo que la filosofía sea (Was ist Philosophie? en el volumen primero de sus Praeludien), nos dice que «la historia del nombre de la filosofía es la historia de la significación cultural de la ciencia»; añadiendo: «Mientras el pensamiento científico se independiza como impulso del conocer por saber, toma el nombre de filosofía; cuando después la ciencia unitaria se divide en sus ramas, es la filosofía del conocimiento general del mundo que abarca a los 222 demás. Tan pronto como el pensamiento científico se rebaja de nuevo a un medio moral o de la contemplación religiosa, transfórmase la filosofía en un arte de la vida o en una formulación de creencias religiosas. 223Y así que después se liberta de nuevo la vida científica, vuelve a encontrar la filosofía el carácter de independiente conocimiento del mundo, y en cuanto empieza a renunciar a la solución de este problema, cámbiase en una teoría de la ciencia misma.» 224 He aquí una breve caracterización de la filosofía desde Tales hasta Kant pasando por la escolástica medieval en que intentó fundamentar las creencias religiosas. 225 ¿Pero es que acaso no hay lugar para otro oficio de la filosofía, y es que sea la reflexión sobre el sentimiento mismo trágico de la vida tal como lo hemos estudiado, la formación de la lucha entre la razón y la fe, entre la ciencia y la religión, y el mantenimiento reflexivo de ella? 226 Dice luego Windelband: «Por filosofía en el sentido sistemático, no en el histórico, no entiendo otra cosa que la ciencia crítica de los valores de validez universal (allgemeingutigen Werten). » 227 ¿Pero qué valores de más universal validez que el de la voluntad humana queriendo ante todo y sobre todo la inmortalidad personal, individual y concreta del alma, o sea la finalidad humana del Universo, y el de la razón humana, negando la racionalidad y hasta la posibilidad de ese anhelo? 228 ¿Qué valores de más universal validez que el valor racial o matemático y el valor volitivo o teológico del Universo en conflicto uno con otro? ! $"*! 229 Para Windelband, como para los kantianos y neokantianos en general, no hay sino tres categorías normativas, tres normas universales, y son las de lo verdadero o falso, lo bello y lo feo, y lo bueno o lo malo moral. 230 La filosofía se reduce a lógica, estética y ética, según estudia la ciencia, el arte o la moral. 231Queda fuera otra categoría, y es la de lo grato y lo ingrato -o agradable y desagradable-; esto es, lo hedónico. universal, no puede ser normativo. 233 232 Lo hedónico no puede, según ellos, pretender validez «Quien eche sobre la filosofía -escribe Windelband- la carga de decidir en la cuestión del optimismo y del pensamiento, quien le pida que dé un juicio acerca de si el mundo es más apropiado a engendrar dolor que placer o viceversa, el tal, si se conduce más que dilettantescamente, trabaja en el fantasma de hallar una determinación absoluta en un terreno en 234 que ningún hombre razonable la ha buscado.» Hay que ver, sin embargo, si esto es tan claro como parece, en caso de que sea yo un hombre razonable y no me conduzca nada más que dilettantescamente, lo cual sería la abominación de la desolación. 235 Con muy hondo sentido, Benedetto Croce, en su filosofía del espíritu, junto a la estética como ciencia de la expresión y a la lógica como ciencia del concepto puro, dividió la filosofía de la práctica en dos ramas: economía y ética. 236 Reconoce, en efecto, la existencia de un grado práctico del espíritu, meramente económico, dirigido a lo singular, sin preocupación de lo universal. 237Yago o Napoleón son tipos de perfección, de genialidad económica, y este grado queda fuera de la moralidad. 238 Y por él pasa todo hombre, porque ante todo, debe querer ser él mismo, como individuo, y sin ese grado no se explicaría la moralidad, como sin la estética la lógica carece de sentido. 239 Y el descubrimiento del valor normativo del grado económico que busca lo hedónico, tenía que partir de un italiano, de un discípulo de Maquiavelo, que tan honradamente especuló sobre la virtú, la eficacia práctica, que no es precisamente la virtud moral. 240 Pero ese grado económico no es, en el fondo, sino la incoación del religioso. religioso es lo económico o hedónico trascendental. hedonística trascendental. 243 242 241 Lo La religión es una economía o una Lo que el hombre busca en la religión, en la fe religiosa, es salvar su propia individualidad, eternizarla, lo que no se consigue ni con la ciencia, ni con el arte, ni con la moral. Ni ciencia, ni arte, ni moral nos exigen a Dios; lo que nos exige a Dios es la religión. con muy genial acierto hablan nuestros jesuitas del gran negocio de nuestra salvación. sí, negocio, algo de género económico, hedonístico, aunque trascendente. 246 245 244 Y Negocio, Y a Dios no le necesitamos ni para que nos enseñe la verdad de las cosas, ni su belleza, ni nos asegure la moralidad con penas y castigos, sino para que nos salve, para que no nos deje morir del todo. 247Y este anhelo singular es por ser de todos y de cada uno de los hombres normales -los anormales por barbarie o por supercultura no entran en cuenta-, universal y normativo. ! $#+! 248 Es, pues, la religión una economía trascendente, o si se quiere, metafísica. 249 El Universo tiene para el hombre, junto a sus valores lógico, estético y ético, también un valor económico, que hecho así universal y normativo, es el valor religioso. 250 No se trata sólo para nosotros de verdad, belleza y bondad; trátase también, y ante todo, de salvación del individuo, de perpetuación, que aquellas normas no nos procuran. 251 La economía llamada política nos enseña el modo más adecuado, más económico de satisfacer nuestras necesidades, sean o no racionales, feas o bellas, morales o inmorales -un buen negocio económico puede ser una estafa o algo que a la larga nos lleve a la muerte-, y la suprema necesidad humana es la de no morir, la de gozar por siempre la plenitud de la propia limitación individual. 252 Que si la doctrina católica eucarística enseña que la sustancia del cuerpo de Jesucristo está toda en la hostia consagrada y toda en cada parte de esta, eso quiere decir que Dios está todo en todo el Universo, y que todo en cada uno de los individuos que la integran. 253 Y este es, en el fondo, un principio no lógico, ni estético, ni ético, sino económico trascendente o religioso. 254 Y con esa norma puede la filosofía juzgar del optimismo y del pesimismo. 255Si el alma humana es inmortal, el mundo es económica o hedonísticamente bueno; y si no lo es, es malo. 256 Y el sentido que a las categorías de bueno y de malo dan el pesimismo y el optimismo, no es sentido ético, sino un sentido económico o hedonístico. 257 Es bueno lo que satisface nuestro anhelo vital, y malo aquello que no lo satisface. 258 Es, pues, la filosofía también ciencia de la tragedia de la vida, reflexión del sentimiento trágico de ella. 259 Y un ensayo de esta filosofía, con sus inevitables contradicciones o antinomias íntimas, es lo que he pretendido en estos ensayos. 260 Y no ha de pasar por alto el lector que he estado operando sobre mí mismo; que ha sido este un trabajo de autocirugía y sin más anestésico que el trabajo mismo. 261El goce de operante ennoblecíame el dolor de ser operado. 262 Y en cuanto a mi otra pretensión, es la de que esto sea filosofía española, tal vez la filosofía española, de que si un italiano descubre el valor normativo y universal del grado económico, sea un español el que enuncie que ese grado no es sino el principio del religioso y que la esencia de nuestra religión, de nuestro catolicismo español, es precisamente el ser no una ciencia, ni un arte, ni una moral, sino una economía a lo eterno, o sea a lo divino; que esto sea lo español, digo, dejo para otro trabajo -este histórico-, el intento siquiera de justificarlo. 263 Mas por ahora y aun dejando la tradición expresa y externa, la que se nos muestra en documentos históricos, ¿es que no soy yo un español -y un español que apenas si ha salido de España-, un producto, por lo tanto, de la tradición española, de la tradición viva, de la que se transmite en sentimientos e ideas que sueñan y no en textos que duermen? 264 Aparéceseme la filosofía en el alma de mi pueblo como la expresión de una tragedia íntima análoga a la tragedia del alma de Don Quijote, como la expresión de una lucha entre lo que ! $#"! el mundo es, según la razón de la ciencia nos lo muestra, y lo que queremos que sea, según la fe de nuestra religión nos lo dice? 265 Y en esta filosofía está el secreto de eso que suele decirse de que somos en el fondo irreductibles a la Kultura, es decir, que no nos resignamos a ella. 266 No, Don Quijote, no se resigna ni al mundo ni a su verdad, ni a la ciencia o lógica, ni al arte o estética, ni a la moral o ética. 267 «Es que con todo eso-se me ha dicho más de una vez y más que por uno-no conseguirías en todo caso sino empujar a las gentes al más loco catolicismo.» 268 Y se me ha acusado de reaccionario y hasta de jesuita. 269¡Sea! 270¿Y qué? 271 Sí, ya lo sé, ya sé que es locura querer volver las aguas del río a su fuente, que es el vulgo el que busca la medicina de sus males en el pasado; pero también sé que todo el que pelea por un ideal cualquiera, aunque parezca del pasado, empuja el mundo al porvenir, y que los únicos reaccionarios son los que se encuentran bien en el presente. 272 Toda supuesta restauración del pasado es hacer porvenir, y si el pasado ese es un ensueño, algo mal conocido... mejor que mejor. 273 Como siempre, se marcha al porvenir, el que anda, a él va, aunque marche de espaldas. 274 ¡Y quién sabe si no es esto mejor!... 275 Siéntome con un alma medieval, y se me antoja que es medieval el alma de mi patria; que ha atravesado esta, a la fuerza, por el Renacimiento, la Reforma y la Revolución, aprendiendo, sí, de ellas, pero sin dejarse tocar el alma, conservando la herencia espiritual de aquellos tiempos que llaman caliginosos. 276 Y el quijotismo no es sino lo más desesperado de la lucha de la Edad Media contra el Renacimiento, que salió de ella. 277 Y si los unos me acusaren de servir a una obra de reacción católica, acaso los otros, los católicos oficiales... 278Pero estos en España apenas se fijan en cosa alguna ni se entretienen sino en sus propias disensiones y querellas. 279¡Y además, tienen unas entendederas los pobres! 280 Pero es que mi obra -iba a decir mi misión- es quebrantar la fe de unos y de otros y de los terceros, la fe en la negación y la fe en la abstención, y esto por fe en la fe misma; es combatir a todos los que se resignan, sea el catolicismo, sea el racionalismo, sea el agnosticismo: es hacer que vivan todos inquietos y anhelantes. 281 ¿Será esto eficaz? aparencial de su obra? segunda vez su celada. 283 282 ¿Pero es que creía Don Quijote acaso en la eficacia inmediata Es muy dudoso, y por lo menos no volvió, por si acaso, a acuchillar 284 Y numerosos pasajes de su historia delatan que no creía gran cosa conseguir de momento su propósito de restaurar la caballería andante. vivía él y se inmortalizaba? 286 285 ¿Y qué importaba si así Y debió de adivinar, y adivinó de hecho, otra más alta eficacia de aquella su obra, cual era la que ejercería en cuanto con piadoso espíritu leyesen sus hazañas. ! $##! 287 Don Quijote se puso en ridículo, ¿pero conoció acaso el más trágico ridículo, el ridículo reflejo, el que uno hace ante sí mismo, a sus propios ojos del alma? 288 Convertid el campo de batalla de Don Quijote a su propia alma; ponedle luchando en ella por salvar a la Edad Media del Renacimiento, por no perder su tesoro de la infancia; haced de él un Don Quijote interior -con su Sancho, un Sancho también interior y también heroico, al lado- y decidme de la tragedia cómica. 289 ¿Y qué ha dejado Don Quijote?, diréis. 290Y yo os diré que se ha dejado a sí mismo, y que un hombre, un hombre vivo y eterno, vale por todas las teorías y por todas las filosofías. 291 Otros pueblos nos han dejado sobre todo instituciones, libros; nosotros hemos dejado almas. 292 Santa Teresa vale por cualquier instituto, por cualquier Crítica de la razón pura. 293 Es que Don Quijote se convirtió. 294 Sí, para morir el pobre. 295Pero el otro, el real, el que se quedó y vive entre nosotros, ese sigue alentándonos con su aliento, ese no se convirtió, ese sigue animándonos a que nos pongamos en ridículo, ese no debe morir. 296 Y el otro, el que se convirtió para morir, pudo haberse convertido porque fue loco y fue su locura, y no su muerte ni su conservación, lo que lo inmortalizó mereciéndole el perdón del delito de haber nacido. culpa! 298 Y no se curó tampoco, sino que cambió de locura. 299 297 Felix Su muerte fue su última aventura caballeresca; con ella forzó el cielo, que padece fuerza. 300 Murió aquel Don Quijote y bajó a los infiernos, y entró en ellos lanza en ristre, y libertó a los condenados todos, como a los galeotes, y cerró sus puertas, y quitando de ellas el rótulo que allí viera el Dante puso uno que decía: ¡viva la esperanza!, y escoltado por los libertados, que de él se reían, se fue al cielo. 301 Y Dios se rió paternalmente de él y esta risa divina le llenó de felicidad eterna el alma. 302 Y el otro Don Quijote se quedó aquí, entre nosotros, luchando a la desesperada. 303 ¿Es que su lucha no arranca de desesperación? 304¿Por qué entre las palabras que el in glés ha tomado a nuestra lengua figura entre siesta, camarilla, guerrilla y otras, la de desperado, esto es, desesperado? 305 Este Quijote interior que os decía, consciente de su propia trágica comicidad, ¿no es un desesperado? 306Un desperado, sí, como Pizarro y como Loyola. 307Pero «es la desesperación dueña de los imposibles», nos enseña Salazar y Torres (en Elegir al enemigo, act. I), y es de la desesperación y sólo de ella de donde nace la esperanza heroica, la esperanza absurda, la esperanza loca. 308Spero quia absurdum, debía decirse, más bien que credo. 309 Y Don Quijote, que estaba solo, buscaba más soledad aún, buscaba las soledades de la Peña Pobre para entre garse allí, a solas, sin testigos, a mayores disparates en que desahogar el alma. 310 Pero no estaba tan solo, pues le acompaña Sancho, Sancho el bueno, Sancho el creyente, Sancho el sencillo. ! 311 Sí, como dicen algunos, Don Quijote murió en España y queda Sancho, $#$! estamos salvados, porque Sancho se hará, muerto su amo, caballero andante. 312 Y en todo caso, espera otro caballero loco a quien seguir de nuevo. 313 Hay también una tragedia de Sancho. 314Aquel, el otro, el que anduvo con el Don Quijote que murió no consta que muriese, aunque hay quien cree que murió loco de remate, pidiendo la lanza y creyendo que había sido verdad cuanto su amo abominó por mentira en su lecho de muerte y de conversión. 315Pero tampoco consta que murieran ni el bachiller Sansón Carrasco, ni el cura, ni el barbero, ni los duques y canónigos, y con estos es con los que tiene que luchar el heroico Sancho. 316 Solo anduvo Don Quijote, solo con Sancho, solo con su soledad. 317 ¿No andaremos también solos sus enamorados, forjándonos una España quijotesca que sólo en nuestro magín existe? 318 Y volverá a preguntársenos: ¿qué ha dejado a la Kultura Don Quijote? quijotismo, y no es poco! 319 Y diré: ¡el 320 Todo un método, toda una epistemología, toda una estética, toda una lógica, toda una ética, toda una religión sobre todo, es decir, toda una economía a lo eterno y lo divino, toda una esperanza en lo absurdo racional. 321 323 ¿Por qué peleó Don Quijote? 322 Por Dulcinea, por la gloria, por vivir, por sobrevivir. No por Iseo, que es la carne eterna; no por Beatriz, que es la teología; no por Margarita, que es el pueblo; no por Helena, que es la cultura. 324Peleó por Dulcinea, y la logró, pues que vive. 325 Y lo más grande de él fue haber sido burlado y vencido, porque siendo vencido es como vencía: dominaba al mundo dándole que reír de él. 326 ¿Y hoy? 327 Hoy siente su propia comicidad y la vanidad de su esfuerzo en cuanto a lo temporal; se ve desde fuera -la cultura le ha enseñado a objetivarse, esto es, a enajenarse en vez de ensimismarse-, y al verse desde fuera, se ríe de sí mismo, pero amargamente. 328 El personaje más trágico acaso fuese un Margutte íntimo, que, como el de Pulci, muera reventando de risa, pero de risa de sí mimo. 329 E riderá in eterno, reirá eternamente, dijo de Margutte el ángel Gabriel. 330 ¿No oís la risa de Dios? 331 Don Quijote el mortal, al morir, comprendió su propia comicidad, y lloró sus pecados, pero el inmortal, comprendiéndola se sobrepone a ella y la vence sin desecharla. 332 Y Don Quijote no se rinde, porque no es pesimista, y Pelea. 333 No es pesimista porque el pesimismo es hijo de la vanidad, es cosa de moda, puro snobismo, y Don Quijote ni es vano ni vanidoso, ni moderno de ninguna modernidad -menos modernista-, y no entiende qué es eso de snob mientras no se lo digan en cristiano viejo español. 334 No es pesimista Don Quijote, porque como no entiende qué sea eso de la joie de vivre, no entiende de su contrario. 335 Ni entiende de tonterías futuristas tampoco. 336A pesar de Clavileño, no ha llegado al aeroplano, que parece querer alejar del cielo a no pocos atolondrados. 337Don Quijote no ha llegado a la edad del tedio de la vida, ! $#%! que suele traducirse en esa tan característica topofobia de no pocos espíritus modernos, que se pasan la vida corriendo a todo correr de un lado para otro, y no por amor a aquel adonde van, sino por odio a aquel otro de donde vienen, huyendo de todos. 338 Lo que es una de las formas de la desesperación. 339 Pero Don Quijote oye ya su propia risa, oye la risa divina, y como no es pesimista, como cree en la vida eterna, tiene que pelear, arremetiendo contra la ortodoxia inquisitorial científica moderna por traer una nueva e imposible Edad Media, dualística, contradictoria, apasionada. 340 Como un nuevo Savonarola, Quijote italiano de fines del siglo XV, pelea contra esa Edad 341 Moderna que abrió Maquiavelo y que acabará cómicamente. Pelea contra el racionalismo heredado del XVIII. 342La paz de la conciencia, la conciliación entre la razón y la fe, gracias a Dios providente, no cabe. 343El mundo tiene que ser como Don Quijote quiere y las ventas tienen que ser castillos, y peleará con él y será, al parecer, vencido, pero vencerá al ponerse en ridículo. 344 Y se vencerá riéndose de sí mismo y haciéndose reír. 345 «La razón habla y el sentido muerde», dijo el Petrarca; pero también la razón muerde, y muerde en el cogollo del corazón. 346 Y no hay más calor a más luz. «¡Luz, luz, más luz todavía!», dicen que dijo Goethe moribundo. 347No, calor, calor, más calor todavía, que nos morimos de frío y no de oscuridad. 348La noche no mata; mata el hielo. 349Y hay que libertar a la princesa encantada y destruir el retablo de Maese Pedro. 350 Quijote? ¿Y no habrá también pedantería, Dios mío, en esto de creerse uno burlado y haciendo el 351 Los regenerados (Opvakte) desean que el mundo impío se burle de ellos para estar seguros de ser regenerados, puesto que son burlados, y gozar la ventaja de poder quejarse de la impiedad del mundo, dijo Kierkegaard (Afsluttende uvi denskabelig Efterskrift, II, Afsnit II, cap. IV, sect. II B). 352 ¿Cómo escapar a una u otra pedantería, o una u otra afectación, si el hombre natural no es sino un mito, y somos artificiales todos? 353 ¡Romanticismo! su impresión misma. 356 354 Sí, acaso sea esa, en parte, la palabra. otra pedantería, la pedantería sentimental? dilettante o es pedante; a escoger, pues. 360 358 Tal vez. 359 357 ¿Que él, que el romanticismo, es En este mundo un hombre culto, o es Sí, pedantes acaso René y Adolfo Obermann y Larra... El caso es buscar consuelo en el desconsuelo. 364 A la filosofía de Bergson, que es una restauración espiritualista, en el fondo mística, medieval, quijotesca, se la ha llamado filosofía demi-mondaine. mundana. ! Y nos sirve más y mejor por Contra eso, contra el romanticismo, se ha desencadenado recientemente, sobre todo en Francia, la pedantería racionalista y clasicista. 361 355 366 365 Quitadle el demi; mondaine, Mundana, sí, para el mundo y no para los filósofos, como no debe ser la química para $#&! los químicos solos. 367El mundo quiere ser engañado -mundus vult decipi-, o con el engaño de antes de la razón, que es la poesía, con el engaño de después de ella, que es la religión. 368 Y ya dijo Maquiavelo que quien quisiera engañar, encontrará siempre quien deje que le engañen. bienaventurados los que hacen el primo! 370 369 ¡Y Un francés, Jules de Gaultier, dijo que el privilegio de su pueblo, era n'étre pas dupe, no hacer el primo. 371¡Triste privilegio! 372 La ciencia no le da a Don Quijote lo que este le pide. 373«¡Que no le pida eso -dirán-; que se resigne, que acepte la vida y la verdad como son!» 374Pero él no la acepta así, y pide señales, a lo que le mueve Sancho, que está a su lado. 375 Y no es que Don Quijote no comprenda lo que comprende quien así le habla, el que procura resignarse y aceptar la vida y la verdad racionales. 376 No; es que sus necesidades efectivas son mayores. 377¿Pedantería? 378¡Quién sabe!... 379 Y en este siglo crítico, Don Quijote, que se ha contaminado de cristicismo también, tiene que arremeter contra sí mismo, víctima de intelectualismo y de sentimentalismo, y que cuando quiere ser más espontáneo, más afectado aparece. 380 Y quiere el pobre racionalizar lo irracional e irracionalizar lo racional. 381Y cae en la desesperación íntima del siglo crítico de que fueron las dos más grandes víctimas Nietzsche y Tolstoi. 382 Y por desgracia entra en el furor heroico de que hablaba aquel Quijote del pensamiento que escapó al claustro, Giordano Bruno, y se hace despertador de las almas que duermen, dormitantium animorum excubitor, como dijo de sí mismo el ex dominicano, el que escribió: «El amor heroico es propio de las naturalezas superiores llamadas insanas -in-sane-, no porque no saben -non sanno-, sino porque sobresaben -soprasanno.» 383 Pero Bruno creía en el triunfo de sus doctrinas, o por lo menos al pie de su estatua, en el Campo dei Fiori, frente al Vaticano, han puesto que se la ofrece el siglo por él adivinado, il secolo da lui divinato. 384 Mas nuestro Don Quijote, el redivivo, el interior, el consciente de su propia comicidad, no cree que triunfen sus doctrinas en este mundo porque no son de él. 385Y es mejor que no triunfen. 386 Y si le quisiera hacer a Don Quijote rey, se retiraría solo, al monte, huyendo de las turbas regificientes y regicidas, como se retiró solo al monte el Cristo cuando, después del milagro de los peces y los panes, le quisieron proclamar rey. 387Dejó el título de rey para encima de la cruz. 388 ¿Cuál es, pues, la nueva misión de Don Quijote hoy en este mundo? 389Clamar, clamar en el desierto. 390 Pero el desierto oye, aunque no oigan los hombres, y un día se convertirá en selva sonora, y esa voz solitaria que va posando en el desierto como semilla, dará un cedro gigantesco que con sus cien mil leguas cantará un hosanna eterno al Señor de la vida y de la muerte. 391 Y vosotros ahora, bachilleres Carrascos del regeneracionismo europeizante, jóvenes que trabajáis a la europea, con método y crítica... científicos, haced riqueza, haced patria, haced arte, haced ciencia, haced ética, haced o más bien traducid sobre todo Kultura, que así mataréis a la vida y a la muerte. 392¡Para lo que ha de durarnos todo!... 393Y con esto se acaban ya -¡ ya era hora!-, por ! $#'! ahora al menos, estos ensayos sobre el sentimiento trágico de la vida en los hombres y en los pueblos, o por lo menos en mí -que soy hombre- y en el alma de mi pueblo, tal como en la mía se refleja. 394 Espero, lector, que mientras dure nuestra tragedia, en algún entreacto, volvamos a encontrarnos. 395 Y nos reconoceremos. 396 Y perdona si te he molestado más de lo debido e inevitable, más de lo que, al tomar la pluma para distraerte un poco de tus ilusiones, me propuse. 397 ¡Y Dios no te dé paz y sí gloria! 398 En Salamanca, año de gracia de 1912. ! $#(! ! $#)! APPENDICE 2 INTRATESTI TRATADO-DEL SENTIMIENTO TRÁGICO ! $#*! ! $$+! LEGENDA DEI SEGNI DIACRITICI Tratado (segni diacritici interni) > < CASSATURA > < * SOSTITUZIONE PAROLA CASSATA >> << CASSATURA CONTENENTE ALTRE CASSATURE [] sup AGGIUNTA [ ] AGGIUNTA SUPERIORE inf [ ] AGGIUNTA INFERIORE ren [ ] AGGIUNTA SULLO STESSO RIGO DI SCRITTURA tras [ ] AGGIUNTA COLLOCATA IN ALTRO SPAZIO var [ ] VARIANTE ALTERNATIVA COLLOCATA NELLO SPAZIO INTERLINEARE INFERIORE O SUPERIORE glos lat [ ] GLOSSA LATERALE glos ren [ ] GLOSSA SULLO STESSO RIGO DI SCRITTURA glos sup glos inf [ ] GLOSSA SUPERIORE [ ] GLOSSA INFERIORE glos tras * inf [ ] GLOSSA IN ALTRO SPAZIO DEL FOGLIO LEZIONE SOSTITUTRICE * LEZIONE SOSTITUTRICE SCRITTA NELL’ INTERLINEA INFERIORE trasf * LEZIONE SOSTITUTRICE COLLOCATA IN ALTRO SPAZIO ren * LEZIONE SOSTITUTRICE SCRITTA NELLO STESSO RIGO DI SCRITTURA [ ? ] SEGNO ILLEGGIBILE ! $$"! [...] OMISSIONE DI SEGMENTO TESTUALE / SEPARA I PARAGRAFI tras || ... || TRASPOSIZIONE / INVERSIONE PAROLE | algo sobre otro| CORREZIONE DI GRAFEMI | espacio | SPAZIO LASCIATO VUOTO Del sentimiento trágico (segni diacritici collazione) Grassetto LA PAROLA SCRITTA IN GRASSETTO É UN’ AGGIUNTA Sottolineato LA PAROLA SOTTOLINEATA SOSTITUISCE UNA CORRISPETTIVA PAROLA DEL TRATADO esp ! | | ESPUNZIONE, CASSATURA ! ! ! ! $$#! CAPÍTULO I El hombre de carne y hueso 1.1 Cuando alguien me dice que desearía ser tal otro, le contesto siempre que eso es un absurdo. Desear ser otro es desear dejar de ser uno mismo, y como el otro ya es y no lo crea uno dejando de ser, no es desear otra cosa sino eso. (T, p. 9) En cierta ocasión, este amigo a que aludo me dijo: «Quisiera ser fulano» (aquí un nombre), y le dije: Eso es lo que yo no acabo nunca de comprender, que uno quiera ser otro cualquiera. Querer ser otro, es querer dejar de ser uno el que es. Me explico que uno desee tener lo que otro tiene, sus riquezas o sus conocimientos; pero ser otro, es cosa que no me la explico. (S, p. 15; Apéndice A) 1.2 Dios es para el común de los mortales, ha dicho un pensador (W. James) el productor de inmortalidad. (T, p. 35) Ya dijo no sé donde otro profesor, el profesor y hombre Guilliermo James, que Dios para la generalidad de los hombres es el productor de inmortalidad. (S, p. 12; Apéndice A) 1.3 Ya dije, siguiendo á Spinoza, que cada cosa se esfuerza por perseverar en su ser, que el esfuerzo con que se esfuerza por perseverar en él es su esencia misma actual y que ese esfuerzo envuelve tiempo indefinido, y que > la ment < ren*el ánimo, en fin, ya en sus ideas distintas y claras, ya en las confusas, tiende á perseverar en su ser con duración indefinida y es sabedora de este su empeño (Ethice, > prop < pars III propositiones VI-IX) (T, p. 37) La proposición 6.ª de la parte III de su Ética, dice: unaquaeque res, quatenus in se est, in suo esse perseverare conatur, es decir, cada cosa, en cuanto es en sí, se esfuerza por perseverar en su ser. Cada cosa es cuanto es en sí, es decir, en cuanto sustancia, ya que, según él sustancia es id quod in se est et per se concipitur; lo que es por sí y por sí se concibe. Y en la siguiente ! $$$! proposición, la 7.ª, de la misma parte añade: conatus, quo unaquaeque res in suo esse perseverare conatur, nihil est praeter ipsius rei actualem essentiam; esto es, el esfuerzo con que cada cosa trata de perseverar en su ser no es sino la esencia actual de la cosa misma. Quiere decirse que tu esencia, lector, la mía, la del hombre Spinoza, la del hombre Butler, la del hombre Kant y la de cada hombre que sea hombre, no es sino el conato, el esfuerzo que pone en seguir siendo hombre, en no morir. Y la otra proposición que sigue a estas dos, la 8.ª, dice: conatus, quo unaquaeque res in suo esse perseverare conatur, nullum tempus finitum, sed indefinitum involvit, o sea: el esfuerzo con que cada cosa se esfuerza por perseverar en su ser, no implica tiempo finito, sino indefinido. Es decir, que tú, yo y Spinoza queremos no morirnos nunca y que este nuestro anhelo de nunca morirnos es nuestra esencia actual. Y, sin embargo, este pobre judío portugués, desterrado en las nieblas holandesas, no pudo llegar a creer nunca en su propia inmortalidad personal, y toda su filosofía no fue sino una consolación que fraguó para ésta su falta de fe. Como a otros les duele una mano o un pie o el corazón o la cabeza, a Spinoza le dolía Dios. ¡Pobre hombre! ¡Y pobres hombres los demás! (S, pp. 13-14; Apéndice B) 1.4 Y quien eres tú? me preguntas. Y respondo con Obermann: para el universo nada, para mí todo! (T, p. 48) «¡Yo, yo, yo, siempre yo! – dirá algún lector – ; y ¿quién eres tú?» Podría aquí contestarle con Obermann, con el enorme hombre Obermann: «Para el Universo nada, para mí todo; (S, pp. 1617; Apéndice A –cfr. § 3.6.66) 1.5 No será el universo algo inconciente, pura materia, y la conciencia no más que un fenómeno pasajero, un relámpago entre dos eternidades de tinieblas? (T, p. 82) Si la conciencia no es, como ha dicho algún pensador inhumano, nada más que un relámpago entre dos eternidades de tinieblas, entonces no hay nada más execrable que la existencia. (S, p. 18; Apéndice B) ! $$%! 1.6 El alma religiosa ante el mundo se siente rodeada por la conciencia y sostenida por ella. Su concepción del universo, derivada de su sentimiento de él, es una concepción no formal, sino material; no se limita á ver las relaciones de número, posición y medida, entre las cosas, sino que siente nuestra hermandad con ellas. (T, p. 87) El mundo es para la conciencia. O, mejor dicho, este para, esta noción de finalidad, y mejor que noción sentimiento, este sentimiento teológico no nace sino donde hay conciencia. Conciencia y finalidad son la misma cosa en el fondo. (S, p. 18; Apéndice B) 1.7 La construcción ideal del Dios lógico ó aristotélico recuerda el conocido chascarro del aquel sargento de artillería que explicando á un soldado como se hacen los cañones le decía que no hay sino cojer un largo agujero. y cubrirlo de hierro. Se coje el concepto del Ser puro y supremo, que no es sino un agujero lógico, un vacío, y le se recubre de > grosero g < atributos antropomórficos. que lo desfiguran. (T, n. 4) Hegel, gran definidor, pretendió reconstruir el universo con definiciones, como aquel sargento de artillería decía que se construyeran los cañones: tomando un agujero y recubriéndolo de hierro. (S, p. 12; Apéndice B) ! ! ! ! ! ! ! ! $$&! CAPÍTULO II El punto de partida ! 2.1 Y esta verdad moral, camino para llegar á la otra, que también es moral, nos enseña á cultivar la ciencia. La ciencia es ante todo y sobre todo una escuela de sinceridad y de humildad. La ciencia nos enseña á someter nuestra razón á la verdad y á conocer y juzgar las cosas como ellas son, es decir, como ellas quieren ser y no como nosotros queremos que ellas sean. En una investigación religiosamente científica son los datos mismos de la realidad, son las percepciones que del mundo recibimos, los que en un nuestra mente llegan á formularse ley, no somos nosotros los que la formulamos. Son los números mismos los que hacen en nosotros matemáticas. La ciencia es la más recojida escuela de resignación y de humildad, pues nos enseña á doblegarnos ante el hecho al parecer más insignificante, ante el hechillo que nos pasaba más inadvertido. La ciencia es el pórtico de la religión. Y la verdad que la ciencia persigue es la verdad del conocimiento. Lo cual es inevitable, cuando se trate de fijar humanamente eso de una ciencia, de un conocer, cuyo fin esté en sí mismo; eso de un conocer por el conocer mismo, de un alcanzar la verdad por la misma verdad. La ciencia no existe sino en la conciencia personal, y gracias a ella; la astronomía, las matemáticas, no tienen otra realidad que la que como conocimiento tienen en las mentes de los que las aprenden y cultivan. (S, p. 31; Apéndice B) 2.2 Mucho han disputado, y mucho seguirán todavía disputando los hombres, ya que el mundo fué entregado á sus disputas, sobre el origen del conocimiento, más > sea lo que fuere de ello en las hondas entrañas de la existencia < dejando ahora para más adelante lo que de ello sea en las hondas entrañas de la existencia, es lo averiguado y cierto que en el orden aparencial de las cosas, en la vida de los seres dotados de algún conocer, más ó menos brumoso, ó que por sus actos parecen estar dotados de él, el conocimiento |se sobre c| nos muestra ligado á la necesidad de vivir y de procurarse sustento para lograrlo. ! $$'! Con términos en que la concreción raya en grosería > puede < ren*cabe decir que el cerebro ha brotado del estómago. En los seres que figuran > mas < en lo > bajo < más bajo de la escala de los vivientes los actos > de espontaneidad < que presentan caracteres de voluntariedad ó espontaneidad, los que parecen ligados á una conciencia más ó menos tenebrosa, son actos enderezados á procurarse subsistencia el ser que los ejecuta. Tal es el origen que podemos llamar histórico del conocimiento, sea cual fuere su origen > genet < en otro respecto. Los seres sup [que parecen] dotados de conocimiento conocen para poder vivir y sólo en cuanto para vivir lo necesitan conocen. Cierto es que en el hombre los conocimientos atesorados, que empezaron siendo útiles y dejaron de serlo, han llegado á constituir un caudal que sobrepuja con mucho el necesario para la vida, aunque > en < *por otra parte nos falten aun muchos conocimientos para mejor vivir, y ese tesoro de conocimientos heredados ha producido el ansia de saber por la satisfacción de saber y la ciencia y los lujos todos de la inteligencias, pero este hecho no nos vela el de que en su origen todo conocimiento > estuvo < brotó de la necesidad orgánica de conservarse. (T, pp. 21-22) Mucho han disputado y mucho seguirán todavía dispustando los hombres, ya que a sus disputas fue entregado el mundo, sobre el origen del conocimiento; mas dejando ahora para más adelante lo que de ello sea en las hondas entrañas de la existencia, es lo averiguado y cierto que en el orden aparencial de las cosas, en la vida de los seres dotados de algún conocer o percibir, más o menos brumoso, o que por sus actos parecen estar dotados de él, el conocimiento se nos muestra ligado a la necesidad de vivir y de procurarse sustento para lograrlo. Es una secuela de aquella esencia misma del ser, que, según Spinoza, consiste en el conato por perseverar indefinidamente en su ser mismo. Con términos en que la concreción raya en grosería, cabe decir que el cerebro, en cuanto a su función, depende del estómago. En los seres que figuran en lo más abajo de la escala de los vivientes, los actos que presentan caracteres de voluntariedad, los que parecen ligados a una conciencia más o menos clara, son actos que se enderezan a procurarse subsistencia el ser que los ejecuta. Tal es el origen que podemos llamar histórico del conocimiento, sea cual fuere su origen en otro respecto. Los seres que parecen dotados de percepción, perciben para poder vivir, y sólo en cuanto para vivir lo necesitan, perciben. Pero tal vez, atesorados estos conocimientos que ! $$(! empezaron siendo útiles y dejaron de serlo, han llegado a constituir un caudal que sobrepuja con mucho al necesario para la vida. Hay, pues, primero la necesidad de conocer para vivir, y de ella se desarrolla ese otro que podríamos llamar conocimiento de lujo o de exceso, que puede a su vez llegar a constituir una nueva necesidad. (S, pp. 25-26; Apéndices A-B) 2.3 Pero esta curiosidad, este innato deseo de conocer, sólo se despierta y obra > cu < luego que está satisfecha la necesidad de conocer para vivir; y aunque alguna vez > así < no |sucediera sobre suceda| así en las condiciones actuales de nuestra vida, si no que >e<la curiosidad se |sobrepusiera sobre sobreponga| á la necesidad y la ciencia al hambre, es el hecho que la curiosidad brotó de la necesidad. Y |este sobre esta| es el peso muerto y la grosera materia que en su seno la ciencia lleva, y es que aspirando á ser un conocer por conocer, un conocer la verdad por la verdad misma, las necesidades de la vida fuerzan y tuercen á la ciencia á que se ponga al servicio de ellas y los hombres mientras creen que buscan la verdad por la verdad misma buscan, de hecho, la vida en la verdad. Las variaciones de la ciencia dependen de las variaciones de las necesidades humanas. Los hombres de ciencia suelen trabajar, queriéndolo ó sin quererlo, concientes de ello ó no, al servicio de los poderosos ó al servicio del pueblo que les piden confirmación de sus anhelos. (T, pp. 23-24) La curiosidad, el llamado deseo innato de conocer, sólo se despierta, y obra luego que está satisfecha la necesidad de conocer para vivir; y aunque alguna vez no sucediese así en las condiciones actuales de nuestro linaje, sino que la curiosidad se sobreponga a la necesidad y la ciencia al hambre, el hecho primordial es que la curiosidad brotó de la necesidad de conocer para vivir, y éste es el peso muerto y la grosera materia que en su seno la ciencia lleva; y es que aspirando a ser un conocer por conocer, un conocer la verdad por la verdad misma, las necesidades de la vida fuerzan y tuercen a la ciencia a que se ponga al servicio de ellas, y los hombres, mientras creen que buscan la verdad por ella misma, buscan de hecho la vida en la verdad. Las variaciones de la ciencia dependen de las variaciones de las necesidades humanas, y los hombres de ciencia suelen trabajar, queriéndolo o sin quererlo, a sabiendas o no, al ! $$)! servicio de los poderosos o al del pueblo que les pide confirmación de sus anhelos. (S, p. 26; Apéndice A) 2.4 El conocimiento está al servicio de la necesidad de vivir y primariamente al servicio del instinto de conservación. Y esta necesidad y este instinto han creado en el hombre los órganos del conocimiento dándoles el alcance que tienen. El hombre ve, oye, toca, gusta y huele lo que necesita ver, oir, tocar, gustar y oler para conservar su vida; la merma ó la pérdida de uno cualquiera de esos sentidos aumenta los riesgos de que su vida está rodeado y si no los aumenta tanto en el estado de sociedad en que vivimos es porque los unos ven, oyen, tocan, gustan > y < ren*ó huelen por los otros. Un ciego solo, sin lazarillo, no podría vivir mucho tiempo. La sociedad es otro sentido, el verdadero sentido común. > El < Y el hombre, > no ve < en su estado natural y de individuo aislado, no ve ni oye ni toca ni gusta ni huele ni más ni menos de lo que necesita para vivir. Si no percibe colores simples fuera del arco iris, ni por debajo del rojo ni por encima del violeta, es, sin duda, porque no lo ha necesitado para conservarse. Y los sentidos mismos son aparatos de simplificación, que eliminan de | la sobre lo | > que percibi < realidad objetiva todo aquello que no nos es necesario conocer para poder usar de los objetos al fin de conservar la vida. (2) El conocimiento está, primariamente, sup[pues] al servicio del instinto de conservación, que más que instinto es la fuerza radical del hombre, es su esencia misma, pues conforme á la profunda sentencia de Spinoza la esencia de una cosa es aquel conato con que se esfuerza por perpetuarse en su ser mismo. > Pero el hombre no vive solo < Y así cabe decir que es el instinto de conservación el que nos crea la realidad y hace la verdad del mundo sensible, pues del campo insondable é ilimitado de lo posible es ese instinto el que nos saca y da lo > ex < para nosotros existente. Existe para nosotros todo aquello que de una ó de otra manera necesitamos conocer para poder existir nosotros; la existencia objetiva es en nuestro conocer una dependencia de nuestra propia existencia personal. Y nadie puede negar que > no < existan aspectos de la realidad desconocidos de nosotros y hasta inconocibles, porque en nada nos son necesarios para > conserv < que conservemos nuestra propia existencia. Es más, |ha sobre han| de exisitir semejante mundo desconocido > y < ren *é inconocible. Pero el hombre no vive solo, si no que forma sociedad, á la que le lleva el instinto de perpetuación, padre de ella. Y si hay una realidad que es en cuanto conocida obra del instinto ! $$*! de conservación, y sentidos al servicio de éste, hay otra realidad, no menos real que aquella, obra, en cuanto conocida, del instinto de perpetuación y al servicio de él. El instinto de conservación, el hambre, es el fundamento del individuo humano, el instinto de perpetuación, el amor en su forma más rudimentaria y casi fisiológica, es el fundamento de la sociedad humana. Y así como el hombre conoce lo que necesita conocer para conservarse, así la sociedad, ó el hombre en cuanto ser social, conoce lo que necesita conocer para perpetuarse en sociedad, para que la sociedad humana se conserve. Hay un mundo, el mundo sensible, que es hijo del hambre y hay otro mundo, el mundo ideal, que es hijo del amor. Y así como hay sentidos al servicio del conocimiento del mundo sensible, hay sentidos, hoy en su mayor parte dormidos porque el hombre apenas empieza á socializarse, al servicio del conocimiento del mundo ideal. Y ¿porqué hemos de negar realidad á las creaciones del amor, del instinto de perpetuación, ya que se la concedemos á las creaciones del hambre, del instinto de conservación individual? Por que si se dice que estas segundas creaciones no son más que creaciones de nuestra fantasía, sin valor objetivo ¿no puede decirse que aquellas otras no si no creaciones de nuestros sentidos? ¿quien nos dice que no hay un mundo invisible é intangible percibido por > el < el sentido íntimo que vive al servicio del instinto de perpetuación? La sociedad humana, como tal sociedad, tiene sentidos de que el individuo, á no ser por ella, carecería, lo mismo que este individuo, el hombre, que es, á su vez, una sociedad, tiene sentidos de que carecen las células que lo componen. >Quien sabe< Las células ciegas sup [del oido] en su oscura conciencia, ignoran la existencia del mundo visible, y si de él lo hablasen, lo estimarían creación arbitraria de las células sordas de la vista, las cuales á su vez estiman ilusión > las c < el mundo sonoro que aquellas crean. (3) Y > esos < *ese |sentido sobre sentidos| |social sobre sociales|, glos sup[Todo esto metáforas] hijo del amor, padre del lenguaje y del mundo ideal que de él surge, no es en fondo, acaso, otra cosa si no lo que llamamos fantasía o imaginación. Y la imaginación, el sentido social, es facultad de conocer y nos da realidades. Se me dirá que la imaginación fragua imágenes caprichosas y sin fundamento, pero también los sentidos y la inteligencia se equivocan, y de que la imaginación yerre no puede concluirse que no pueda alcanzar la verdad, y que no haya una verdad que sólo á la imaginación > , < se revele. ! $%+! Y esta facultad íntima, la imaginación, el sentido social hijo del amor, la que, al servicio del instinto de perpetuación, nos revela la verdad de la existencia var[inmortalidad] de Dios. Y Dios resulta así un producto social, lo mismo que el mundo sensible es un producto individual, y no en otro sentido. (T, pp. 24-27) El conocimiento está al servicio de la necesidad de vivir, y primariamente al servicio del instinto de conservación personal. Y esta necesidad y este instinto han creado en el hombre los órganos del conocimiento, dándoles el alcance que tienen. El hombre ve, oye, toca, gusta y huele lo que necesita ver, oír, tocar, gustar y oler para conservar su vida; la merma o la pérdida de uno cualquiera de esos sentidos aumenta los riesgos de que su vida está rodeada, y si no los aumenta tanto en el estado de sociedad en que vivimos, es porque los unos ven, oyen, tocan, gustan o huelen por los otros. Un ciego solo, sin lazarillo, no podría vivir mucho tiempo. La necesidad es otro sentido, el verdadero sentido común. El hombre, pues, en su estado de individuo aislado, no ve, ni oye, ni toca, ni gusta, ni huele más que lo que necesita para vivir y conservarse. Si no percipe colores ni por debajo del rojo ni por encima del violeta, es acaso porque le bastan los otros para poder conservarse. Y los sentidos mismos son aparatos de simplificación, que eliminan de la realidad objetiva todo aquello que no nos es necesario conocer para poder usar de los objetos a fin de conservar la vida. [Interpolación del fragmento 2.6] Está, pues, el conocimiemto primariamente al servicio del instinto de conservación, que es más bién, como con Spinoza dijimos, su esencia misma. Y así cabe decir que es el instinto de conservación el que nos hace la realidad y la verdad del mundo perceptible, pues del campo insondable e ilimitado de lo posible es ese instinto el que nos saca y separa lo para nosotros existente. Existe, en efecto, para nosotros todo lo que, de una o de otra manera, necesitamos conocer para existir nosotros; la existencia objetiva es, en nuestro conocer, una dependencia de nuestra propia existencia personal. Y nadie puede negar que no pueden existir y acaso existan aspectos de la realidad desconocidos, hoy al menos, de nosotros, y acaso inconocibles, porque en nada nos son necesarios para conservar nuestra propia existencia actual. ! $%"! Pero el hombre ni vive solo ni es individuo aislado, sino que es miembro de sociedad, encerrando no poca verdad aquel dicho de que el individuo, como el átomo, es una abstracción. Sí, el átomo fuera del universo es tan abstracción como el universo aparte de los átomos. Y si el individuo se mantiene es por el instinto de perpetuación de aquél. Y de este instinto, mejor dicho, de la sociedad brota la razón. La razón, lo que llamamos tal, el conocimiento reflejo y reflexivo, el que distingue al hombre, es un producto social. Debe su origen acaso al lenguaje. Pensamos articulada, o sea reflexivamente, gracias al lenguaje articulado, y este lenguaje brotó de la necesidad de transmitir nuestro pensamiento a nuestro prójimos. Pensar es hablar consigo mismo, y hablamos cada uno consigo mismo gracias a haber tenido que hablar los unos con los otros, y en la vida ordinaria acontece con frecuencia que llega uno a encontrar una idea que buscaba, llega a darle forma, es decir, a obtenerla, sacándola de la nebulosa de percepciones oscuras a que representa, gracias a los esfuerzos que hace para presentarla a los demás. El pensamiento es lenguaje interior, y el lenguaje interior brota del exterior. De donde resulta que la razón es social y común. Hecho preñado de consecuencias, como hemos de ver. Y si hay una realidad que es en cuanto conocida obra del instinto de conservación personal y de los sentidos al servicio de éste, ¿no habrá de haber otra realidad, no menos real que aquélla, obra, en cuanto conocida, del instinto de perpetuación, el de la especie, y al servicio de él? El instinto de conservación, el hambre, es el fundamento de la sociedad humana. Y así como el hombre conoce lo que necesita conocer para que se conserve, así la sociedad o el hombre, en cuanto ser social conoce lo que necesita conocer para perpetuarse en sociedad. Hay un mundo, el mundo sensible, que es hijo del hambre, y otro mundo, el ideal, que es hijo del amor. Y así como hay sentidos al servicio del conocimiento del mundo sensible los hay también, hoy en su mayor parte dormidos, porque apenas si la conciencia social alborea, al servicio del conocimiento del mundo ideal. ¿Y por qué hemos de negar realidad objetiva a las creaciones del amor, del instinto de perpetuación, ya que se lo concedemos a las del hambre o instinto de conservación? Porque si se dice que estas otras creaciones no lo son más que de nuestra fantasía, sin valor objetivo, ¿no puede decirse igualmente de aquellas que no son sino creaciones de nuestros sentidos? ¿Quién nos dice que no haya un mundo invisible e intangible, percibido por el sentido íntimo, que vive al servicio del instinto de perpetuación? ! $%#! La sociedad humana, como tal sociedad, tiene sentidos de que el individuo, a no ser por ella, carecería, lo mismo que este individuo, el hombre, que es a su vez una especie de sociedad, tiene sentidos de que carecen las células que le componen. Las células ciegas del oído, en su oscura conciencia, deben de ignorar la existencia del mundo visible, y si de él les hablasen, lo estimarían acaso creación arbitraria de las células sordas de la vista, las cuales, a su vez, habrán de estimar ilusión el mundo sonoro que aquéllas crean. [Interpolación del fragmento 2.7] No se me oculta tampoco que podrá decírseme que todo esto de que el hombre crea el mundo sensible, y el amor el ideal, todo lo de las células ciegas del oído y las sordas de la vista, lo de los parásitos espirituales, etc., son metáforas. Asì es, y no pretendo discurrir otra cosa sino discurrir por metáforas. Y es que ese sentido social, hijo del amor, padre del lenguaje y de la razón y del mundo ideal que de él surge, no es en el fondo otra cosa que lo que llamamos fantasía e imaginación. De la fantasía brota la razón. Y si se toma a aquélla como una facultad que fragua caprichosamente imágenes, preguntaré qué es el capricho, y en todo caso también los sentidos y la razón yerran. Y hemos de ver que es esa facultad íntima social, la imaginación que lo personaliza todo, la que, puesta al servicio del instinto de perpetuación, nos revela la inmortalidad del alma y a Dios, siendo así Dios un producto social. (S, pp. 26-29; Apéndice A –cfr. § 2.6 y § 2.7 ) 2.5 ¿Qué será de esta mi alma? ¿qué será de mí? (T, p. 78) ¿De dónde vengo yo y de dónde viene el mundo en que vivo y del cual vivo? ¿Adóne voy y adónde va cuanto me rodea? ¿Qué significa esto? Tales son las pregunats del hombre, así que se liberta de la embrutecedora necesidad de tener que sustentarse materialmente. (S, p. 32; Apéndice B –cfr. § 3.6.30) ! $%$! 2.6 (2) En la completa oscuridad un animal sup [si no perece] acaba por volverse ciego y si no él su prole. Los parásitos que > vi < en las entrañas de nuestros animales viven de los jugos > por es < nutritivos por estos preparados sup [ya] como no necesitan ver ni oir ni ven ni oyen, sino que, convertidos en un saco membranoso, permanecen adheridos al intestino de aquel de quien viven y absorviendo sin esfuerzo su alimento. Para estos parásitos no existe el mundo visible ni el mundo sonoro. Basta que vean y oigan aquellos que en sus entrañas los mantienen. (T, n. 2) En la completa oscuridad , el animal que no perece, acaba por volverse ciego. Los parásitos, que en las entrañas de otros animales viven de los jugos nutritivos por estos otros preparados ya, como no necesitan ni ver ni oír, ni ven ni oyen, sino que convertidos en una especie de saco, permanecen adheridos al ser de quien viven. Para estos parásitos no deben de existir ni el mundo visual ni el mundo sonoro. Basta que vean y oigan aquellos que en sus entrañas los mantienen. (S, pp. 26-27; Apéndice A –cfr. § 2.4) 2.7 (3) > Los < Hablaba antes de los parásitos que viviendo en las entrañas de animales superiores, de los jugos nutritivos que estos preparan, no necesitan ver ni oir y no existe para ellos > ni < mundo ni visible ni sonoro. Y si pudiesen tener cierta conciencia y hacerse cargo de que aquel á cuyas expensas viven ve y oye, juzgarían desvaríos de la imaginación todo lo de ese mundo que no se les alcance. Y así hay parásitos sociales, como hace notar muy bien un escritor inglés (Mr. Balfour) que recibiendo de la sociedad en que viven los móviles de su conducta moral niegan que la creencia en Dios sea necesaria para fundamentar la buena conducta, porque la sociedad les da preparados ya los jugos espirituales de que viven. Un individuo suelto puede vivir moralmente una vida buena, sana y hasta heroica sin creer de manera alguna en Dios, > pe < pero es que vive vida de parásito espiritual; una sociedad entera no puede vivirla. glos ren [El sentim del honor] Y aun digo más y es que si >> bien la >creencia< *fé en Dios << se da en un hombre la fe en Dios unida á una vida de pureza y elevación moral no es tanto que el creer en Dios le haga bueno cuanto que el ser bueno le hace creer en Dios. La bondad es la > más < mejor fuente de la clarividencia espiritual. (T, n. 3) ! $%%! Mentábamos antes a los parásitos que, viviendo en las entrañas de los animales superiores, de los jugos nutritivos que éstos preparan, no necesitan ver ni oír, y no existe, por lo tanto, para ellos mundo visible ni sonoro. Y si tuviesen cierta conciencia y se hicieran cargo de que aquel a cuyas expensas viven cree en otro mundo, juzgaríanlo acaso desvaríos de la imaginación. Y así hay parásitos sociales, como hace muy bien notar Mr. Balfour, que recibiendo de la sociedad en que viven los móviles de su conducta moral, niegan que la creencia en Dios y en otra vida sean necesarias para fundamentar una buena conducta y una vida soportables, porque la sociedad les ha preparado ya los jugos espirituales de que viven. Un individuo suelto puede soportar la vida y vivirla buena, y hasta heroica, sin creer en manera alguna ni en la inmortalidad del alma ni en Dios, pero es que vive vida de parásito espiritual. Lo que llamamos sentimiento del honor es, aun en los no cristianos, un producto cristiano. Y aun digo más, y es, que si se da en un hombre la fe en Dios unida a una vida de pureza y elevación moral, no es tanto que el creer en Dios le haga bueno, cuanto que el ser bueno, gracias a Dios, le hace creer en Él. La bondad es la mejor fuente de clarividencia espiritual. (S, pp. 28-29; Apéndice A –cfr. § 2.4) ! $%&! CAPÍTULO III El hambre de inmortalidad 3.1 Sólo cuando el hombre ha llegado á > sent < concebirse y á sentirse como no existente, como «sombra de un sueño» según la enérgica frase pindárica, es cuando está en camino de consuelo. (T, p. 5) Gritos de las entrañas del alma ha arrancado a los poetas de los tiempos todos esta tremenda visión del fluir de las olas de la vida, desde el «sueño de una sombra» !"#$'% !&$' de Píndaro, hasta el «la vida es sueño», de Calderón y el «estamos hechos de la madera de los sueños», de Shakespeare, sentencia esta última aún más trágica que la del castellano, pues mientras en aquélla sólo se declara sueño a nuestra vida, mas no a nosotros los soñadores de ella, el inglés nos hace también a nosotros sueño, sueño que sueña. (S, p. 37; Apéndice B –cfr. § 3.4) 3.2 Ya dije, siguiendo á Spinoza, que cada cosa se esfuerza por perseverar en su ser, que el esfuerzo con que se esfuerza por perseverar en él es su esencia misma actual y que ese esfuerzo envuelve tiempo indefinido y que > la ment < ren*el ánimo, en fin, ya en sus ideas distintas y claras, ya en las confusas, tiende á perseverar en su ser con duración indefinida y es sabedora de este su empeño ( Ethice > prop < pars III propositiones VI-IX) ( T, p. 37) Rercordemos ante todo una vez más, y no será la última, aquello de Spinoza de que cada ser se esfuerza por perseverar en él, y que este esfuerzo es su esencia misma actual, e implica tiempo indefinido, y que el ánimo, en fin, ya en sus ideas distintas y claras, ya en las confusas, tiende a perseverar en su ser con duración indefinida y es sabedor de este su empeño (Ethice, part. III, props. VI-IX). (S, p. 36; Apéndice A –cfr. § 1.3) ! $%'! 3.3 Cuenta el libro de los Hechos de los apóstoles que á donde quiera que fuese Pablo se concitaban contra él los celosos judios y le perseguían. Fué apedreado en Iconio y en Listra, ciudades de Licaonia, á pesar delas maravillas que en la última obró, le azotaron en Filipos de Macedonia y le persiguieron sus hermanos en Tesalónica y en Berea. Pero llegó á Atenas, á la noble ciudad de los intelectuales sobre que velaba el alma excelsa de Platón, y allí disputó con epicureos y estoicos que decían de él o bien ¿qué quiere decir este charlatán (!2('µ+-+0+%)? o bien: parece que es predicador de nuevos dioses! (Hechos XVII 18) «y tomándole le llevaron al Areópago diciendo: ¿podremos saber que sea esta nueva doctrina que dices? porque |> pones en < *traes á| nuestros oidos > unas nuevas cosas; queremos < cosas peregrinas y queremos saber que quiere ser eso» (XVII 19-20) añadiendo el libro esta maravillosa caracterización de aquellos atenienses de la > lit < decadencia, de aquellos lamineros y golosos de > [?] < curiosidades pues «entonces los atenienses todos y sus huéspedes extranjeros no se ocupaban en otra cosa sino en decir ó en oir algo de más nuevo» (|vers. sobre 2| 21) ¡Rasgo maravilloso que nos pinta á que habían venido á pasar los que aprendieron en la Odisea que los dioses traman y cumplen la destrucción de los mortales para que los venideros tengan algo que cantar! Ya está Pablo ante los refinados atenienses, ante los hombres cultos y tolerantes que admiten toda doctrina y toda la estudian y á nadie apedrean ni azotan ni encarcelan por profesar esta ó la otra, ya está donde se respeta la libertad de conciencia y se oye y se escucha todo parecer. Y alza la voz allí, en medio del Areópago y les habla como cumplía á los cultos ciudadanos de Atenas, y todos, ansiosos de la última novedad, le oyen, mas cuando llega á hablarles de la resurrección de los muertos se sup [les] acaban la paciencia y la tolerancia y unos se burlan y otros le dicen: te oiremos de esto otra vez! Y una cosa parecida le ocurrió en Cesarea con el pretor romano Felix, hombre también tolerante y culto, que le alivió de | la sobre los | pesadumbre de su prisión y quiso oirle y le oyó disertar de la justicia y de la continencia y > del ju < al llegar al juicio venidero, le dijo espantado: Ahora vete, que te volveré á llamar cuando cuadre (Hechos XXIV 22-25) (14) [Interpolación fragmento 3.14] Sea lo que fuere de la verdad |> del relato < ren*del discurso| de Pablo en el Areópago, y aun cuando no le hubiere habido, es lo cierto que en ese relato maravilloso se ve hasta donde > termina < ren*| llega sobre [?] | la tolerancia ática y donde acaba la paciencia de los intelectuales. ! $%(! Os oyen todo en calma y sonrientes y á las veces os animan diciendoos: es curioso! o bien: tiene ingenio! ó «es sugestivo!», ó: «que hermosura!» ó: lástima que no sea verdad tanta belleza!» ó: «eso hace pensar!» pero así que les hablais de la resurrección y de la vida allende la muerte, > os atajan le < se les acaba la paciencia y os atajan la palabra diciendoos: déjalo! otro dia hablarás de eso! Y de esto es, mis pobres atenienses, mis intolerantes intelectuales, de esto es de lo que ahora voy á hablaros aquí. (15) (T, pp. 35-37) Cuenta el libro de los Hechos de los Apóstoles que adondequiera que fuese Pablo se concitaban contra él los celosos judíos para perseguirle. Apedreáronle en Iconio y en Listra, ciudades de Licaonia, a pesar de las maravillas que en la última obró; le azotaron en Filipos de Macedonia y le persiguieron sus hermanos de raza en Tesalónica y en Berea. Pero llegó a Atenas, a la noble ciudad de los intelectuales, sobre la que velaba el alma excelsa de Platón, el de la hermosura del riesgo de ser inmortal, y allí disputó Pablo con epicúreos y estoicos, que decían de él, o bien: ¿qué quiere decir este charlatán (!2('µ+-+v0+%)?, o bien: ¡parece que es predicador de nuevos dioses! (Hechos, XVII, 18), y «tomándole le llevaron al Aerópago, diciendo: “podremos saber qué sea esta nueva doctrina que dices, porque traes a nuestros oídos cosas peregrinas, y queremos saber qué quiere ser eso”» (versículos 19-20), añadiendo el libro esta maravillosa caracterización de aquellos atenienses de la decadencia, de aquellos lamineros y golosos de curiosidades, pues «entonces los atenienses todos y sus huéspedes extranjeros no se ocupaban de otra cosa sino en decir o en oír algo de más nuevo» (v. 21). ¡Rasgo maravilloso, que nos pinta a qué habían venido a parar los que aprendieron en la Odisea que los dioses traman y cumplen la destrucción de los mortales para que los venideros tengan algo que contar! Ya está, pues, Pablo ante los refinados atenienses, ante los graeculos, los hombres cultos y tolerantes que admiten toda doctrina, toda la estudian y a nadie apedrean ni azotan ni encarcelan por profesar éstas o las otras; ya está donde se respeta la libertad de conciencia y se oye y se escucha todo parecer. Y alza la voz allí, en medio del Aerópago, y les habla como cumplía a los cultos ciudadanos de Atenas, y todos, ansiosos de la última novedad, le oyen, mas cuando llega a hablarles de la resurección de los muertos, se les acaba la paciencia y la tolerancia, y unos se burlan de él y otros le dicen: « ¡ya oiremos otra vez de esto!», con propósito de no oírle. Y una cosa parecida le ocurrió en Cesarea con el pretor romano Félix, hombre también tolerante y ! $%)! culto, que le alivió de la pesadumbre de su prisión, y quiso oírle y le oyó disertar de la justicia y de la continencia; mas al llegar al juicio venidero, le dijo espantado ((jµ;+6+% 0(&+µ(v&+%): «¡Ahora vete, te volveré a llamar cuando cuadre!» (Hechos, XXIV, 22-25). [Interpolación del fragmento 3.14] Sea lo que fuere de la verdad del discurso de Pablo en el Aerópago, y aun cuando no lo hubiere habido, es lo cierto que en ese relato admirable se ve hasta dónde llega la tolerancia ática y dónde acaba la paciencia de los intelectuales. Os oyen todos en calma, y sonrientes, y a las veces os animan diciéndoos: «¡Es curioso!», o bien: «¡Tiene ingenio!», o: «¡Es sugestivo!», o: «¡Eso hace pensar!»; pero así que les habláis de resurrección y la vida allende la muerte, se les acaba la paciencia y os atajan la palabra, diciéndoos: «¡Déjalo! ¡Otro día hablarás de esto!», y es de esto, mis pobres atenienses, mis intolerantes intelectuales, es de esto de lo que voy a hablaros aquí. (S, 43-44; Apéndice A –cfr. § 3.14) 3.4 Imposible no es concebirnos como no existentes, no hay esfuerzo alguno que baste á que la conciencia se dé cuenta de la absoluta inconciencia, de su propio anonadamiento. Intenta imaginarte en plena vigilia cual sea tu estado de alma en el profundo sueño, trata de llenar tu conciencia con la representación de la no conciencia, y lo verás. Causa congojoso vértigo el empeñarse en comprenderlo. No podemos concebirnos como no existiendo y es ello la tendencia dela > mente < *conciencia á perpetuarse, á no acabar jamás. El Universo visible, el que es hijo del instinto de conservación, me viene estrecho, esme como una jaula que me viene chica y contra cuyos barrotes da en sus revuelos mi alma; fáltame en él aire que respirar. Más, más y cada vez más; quiero ser yo y sin dejar de serlo ser además los otros, adentrarme la totalidad de las cosas visibles é invisibles, extenderme á lo ilimitado del espacio y prolongarme á lo inacable del tiempo. De no serlo todo y por siempre es como si no fuera, y por lo menos ser todo yo y serlo para siempre jamás. Y ser todo yo es ser todos los demás. O todo ó nada. Y qué otro sentido puede tener el «ser ó no ser!» shakespeariano, del mismo que hizo decir |de sobre á| Marcio en su Coriolano (V.4) que sólo necesitaba la eternidad para ser dios ! $%*! (He wants nothing of a god but eternity) Eternidad! eternidad! Este es el anhelo; la sed de eternidad se llama amor entre los hombres y quien á otro ama es que quiere eternizarse en él. Lo que no es eterno no es real. Gritos de las entrañas del alma ha arrancado á los poetas de los tiempos todos esta tremenda visión del fluir de las olas de la vida, desde el sueño de una sombra de Píndaro hasta «la vida es sueño» de Calderón y el «estamos hechos de la madera de los sueños» de Shakespeare, sentencia esta última aun más trágica que la del castellano, pues mientras en aquello sólo se declara sueño á nuestra vida, mas no á nosotros los soñadores, el inglés nos hace también á nosotros sueño, sueño que sueña. La vanidad del mundo y el cómo pasa y el amor son las dos notas radicales y entrañadas de la verdadera poesía. Y son dos notas que no puede sonar la una sin que resuene la otra. |El sobre La| sentimiento de la vanidad del mundo pasajero nos mete al amor, único en que se vence lo vano y lo transitorio, único que rellena y eterniza la vida. Y el amor, sobre todo cuando lucha contra el Destino, nos sume en el sentimiento de la vanidad de este mundo de apariencias y nos abre el vislumbre de otro mundo en que vencido el Destino, sea la libertad ley. ¡Todo pasa! Tal es es estribillo de los que han bebido dela fuente de la vida, boca al chorro, de los que han gustado del fruto del arbol de la ciencia del bien y del mal. Ser, ser siempre, ser sin término! sed de ser, sed de ser más! hambre de Dios! sed de amor eternizante! ser siempre y serlo todo! ser Dios! «Vereis como dioses!» cuenta el Génesis (III 5) que dijo la serpiente á la primera pareja de enamorados. «Si en esta vida tan sólo hemos de esperar en Cristo, somos los más lastimosos de los hombres» escribía el Apostol (I Cor. XV 19) y toda religión arranca historicamente del culto á los muertos (v. James 491.506 y 507) Escribía Spinoza que el hombre libre en nada piensa menos que en la muerte, pero ese hombre libre es un hombre muerto, libre del resorte de la vida, falto de amor, esclavo de su libertad. Ese pensamiento de me tengo de morir, y que habrá después? es el batir de mi conciencia. Contemplando el campo ó contemplando unos ojos á que se asome un alma hermana de la mia se me hinche la conciencia, siento la diástole del alma y me empapo en vida ambiente y creo en mi porvenir, pero al punto me dice la voz del misterio ¡dejarás de ser! me roza con el ala el Angel de la Muerte y la sístole del alma me inunda las entrañas espirituales en sangre de divinidad. ! $&+! Como Pascal no comprendo al que asegura no dársele un ardite de este asunto, y ese abandono en cosa «en que se trata de ellos mismos, de su eternidad, de su todo, me irrita más que me enternece, me asombra y me espanta,» y el que así siente «es para mí» como para Pascal, cuyas son las palabras señaladas «un monstruo». Mil veces y en mil tonos se ha dicho como es el culto á los muertos antepasados lo que enceta, por lo común, las religiones primitivas, y en rigor cabe decir que lo que más destaca tras ||al hombre de los demás animales|| es lo de que guarde, de una manera ó de otra, sus muertos sin entregarlos al descuido á su madre la tierra todoparidora; es un animal guarda-muertos. Y de qué los guarda así? de que los ampara el pobre? La pobre conciencia huye de su propia aniquilación y así que un espíritu animal, desplacentándose del mundo, se ve frente á este y como distinto de él se conoce, ha de querer tener otra vida que la del mundo mismo. Y así la tierra correría riesgo de convertirse en un vasto cementerio antes que los muertos mismos se remueran. Cuando aun no se hacía para los vivos más que chozas de tierra ó cabañas de paja que la intemperie ha destruido, se elevaban túmulos para los muertos y antes se empleó la piedra para las sepulturas que no para las habitaciones. Han vencido á los siglos por su fortaleza las casas de los muertos, no las de los vivos, no las moradas de paso, sino las de queda. Este culto no ya á la muerte sino á la inmortalidad inicia y conserva las religiones. En el delirio de la destrucción Robespierre hace declarar á la Convención francesa la existencia del Ser Supremo y «el principio consolador de la inmortalidad del alma»; el Incorruptible se aterraba á la idea de tener que corromperse un dia. Enfermedad? Tal vez, pero quien no se cuida de la enfermedad, descuida la salud. Enfermedad? Tal vez, tal vez lo sea como la vida misma á que va presa, y la única salud la muerte, pero esa enfermedad es el manantial de toda acción poderosa. De lo hondo de esa congoja del abismo del sentimiento de nuestra mortalidad se sale á la luz de otro cielo como de lo hondo del Infierno salió el Dante á volver á ver las estrellas. Aunque al pronto nos sea congojosa esta meditación de nuestra mortalidad no es al cabo corroborabora. Recójete, lector, en tí mismo y figúrate un lento deshacerte, en que la luz se te apague, se te enmudezcan las cosas y no te den sonido envolviéndote en silencio, se te derritan entre las manos los objetos asideros, se te escurra de bajo los pies el piso, se te desvanezcan como en desmayo los recuerdos y las ideas, ! $&"! |se sobre te| te vaya disipando en nada todo y tú disipándote también y ni aun la conciencia de la nada te quede, siquiera como fantástico asidero de una sombra. He oido contar de un pobre segador muerto en una cama de hospital que al ir el cura á ungir en extrema unción las manos se resistía á abrir la diestra > en < *con que apuñaba unas sucias monedas, sin percatarse de que una vez muerto no sería su mano ya suya ni él de sí mismo. Y así cerramos y apuñamos no la mano, sino el corazón, queriendo apuñar en él al mundo. Me confesaba un amigo que previendo en pleno vigor de salud física la cercanía de la muerte, pensaba en concentrar la vida viviéndola toda en los pocos dias que calculaba le quedaban é imaginando escribir sobre ello un libro. Si al morirseme el cuerpo que me sustenta y al que llamo mío para distinguirle de mí mismo, vuelve mi conciencia á la absoluta inconciencia de que brotara, y como á la mía les pasa á las de > los demás < ren*mis hermanos > mios < *todos en humanidad, entonces no es nuestro trabajado linaje más que una fatídica procesión de fantasmas que va de la nada a la nada, y el humanitarismo lo más inhumano que se conoce. Y el remedio no es el de la copla que dice Cada vez que considero que me tengo que morir, tiendo la capa en el suelo y no me harto de dormir, no! el remedio es considerarlo cara á cara, fija la mirada en la mirada de la Esfinge, que así es como se deshace el maleficio de su aojamiento. Si del todo morimos todos ¿para qué todo? ¿para qué? Es el tremendo ¿para qué? de la Esfinge, es el ¿para qué? que nos corroe el meollo del alma, es el padre de la congoja, > con_ < la que nos da el amor de esperanza. Hay entre los poéticos quejidos del pobre Cowper unas lineas escritas bajo el peso del delirio y en las cuales, creyéndose blanco de la divina venganza, exclama que el infierno puede ! $&#! procurarle un abrigo á sus miserias. Y aquí he de confesar, por dolorosa que la confesión sea, que nunca en los dias de mi fe ingenua me hicieron temblar las descripciones de las torturas del infierno y sentí siempre > mucho más < ser la nada mucho más aterradora que él. El que sufre vive y el que sufre y vive ama y espera, aunque á la puerta de la mansión del dolor le pongan el «dejad toda esperanza» y es mejor vivir en dolor que no ser en paz. (T, pp. 38-43) Imposible nos es, en efecto, concebirnos como no existentes, sin que haya esfuerzo alguno que baste a que la conciencia se dé cuenta de la absoluta inconciencia, de su propio anonadamiento. Intenta, lector, imaginarte en plena vela cuál sea el estado de tu alma en el profundo sueño; trata de llenar tu conciencia con la representación de la no conciencia, y lo verás. Causa congojosísimo vértigo el empeñarse en comprenderlo. No podemos concebirnos como no existiendo. El universo visible, el que es hijo del instinto de conservación, me viene estrecho, esme como una jaula que me resulta chica, y contra cuyos barrotes da en sus revuelos mi alma; fáltame en él aire que respirar. Más, más, y cada vez más; quiero ser yo y sin dejar de serlo, ser además los otros, adentrarme la totalidad de las cosas visibles e invisibles, extenderme a lo ilimitado del espacio y prolongarme a lo inacabable del tiempo. De no serlo todo y por siempre, es como si no fuera, y por lo menos ser todo yo, y serlo para siempre jamás. Y ser todo yo, es ser todos los demás. ¡O todo o nada! ¡O todo o nada! ¿Y qué otro sentido puede tener el «¡ser o no ser!», To be or not to be, shakespeariano, el de aquel mismo poeta que hizo decir de Marcio en su Coriolano (V, 4) que sólo necesitaba la eternidad para ser Dios: he wants nothing of a god but eternity? ¡Eternidad! ¡Eternidad! Éste es el anhelo; la sed de eternidad es lo que se llama amor entre los hombres, y quien a otro ama es que quiere eternizarse en él. Lo que no es eterno tampoco es real. Gritos de las entrañas del alma ha arrancado a los poetas de los tiempos todos esta tremenda visión del fluir de las olas de la vida, desde el «sueño de una sombra» !"#$'% !&$', de Píndaro, hasta el «la vida es sueño», de Calderón, y el «estamos hechos de la madera de los sueños», de Shakespeare, sentencia esta última aún más trágica que la del castellano, pues mientras en aquélla sólo se declara sueño a nuestra vida, mas no a nosotros, los soñadores de ella, el inglés nos hace también a nosotros sueño, sueño que sueña. ! $&$! La vanidad del mundo y el cómo pasa, y el amor son las dos notas radicales y entrañadas de la verdadera poesía. Y son dos notas que no puede sonar la una sin que la otra a la vez resuene. El sentimiento de la vanidad del mundo pasajero nos mete al amor, único en que se vence lo vano y transitorio, único que rellena y eterniza la vida. Al parecer al menos, que en realidad... Y el amor, sobre todo cuando lucha contra el destino, súmenos en el sentimiento de la vanidad de este mundo de apariencias, y nos abre el vislumbre de otro en que, vencido el destino, sea ley la libertad. ¡Todo pasa! Tal es el estribillo de los que han bebido de la fuente de la vida, boca al chorro, de los que han gustado del fruto del árbol de la ciencia del bien y del mal. ¡Ser, ser siempre, ser sin término! ¡Sed de ser, sed de ser más! ¡Hambre de Dios! ¡Sed de amor eternizante y eterno! ¡Ser siempre! ¡Ser Dios! «¡Seréis como dioses!», cuenta el Génesis (III,5) que dijo la serpiente a la primera pareja de enamorados. «Si en esta vida tan sólo hemos de esperar en Cristo, somos los más lastimosos de los hombres», escribía el Apóstol (I Cor., XV,19), y toda religión arranca históricamente del culto a los muertos, es decir, a la inmortalidad. Escribía el trágico judío portugués de Ámsterdam que el hombre libre en nada piensa menos que en la muerte; pero ese hombre libre es un hombre muerto, libre del resorte de la vida, falto de amor, esclavo de su libertad. Ese pensamiento de que me tengo que morir y el enigma de lo que habrá después, es el latir mismo de mi conciencia. Contemplando el sereno campo verde o contemplando unos ojos claros, a que se asome un alma hermana de la mía, se me hinche la conciencia, siento la diástole del alma y me empapo en vida ambiente y creo en mi porvenir; pero al punto la voz del misterio me susurra: «¡Dejarás de ser!», me roza con el ala el Ángel de la muerte, y la sístole del alma me inunda las entrañas espirituales en sangre de divinidad. Como Pascal, no comprendo al que asegura no dársele un ardite de este asunto, y ese abandono en cosa «en que se trata de ellos mismos, de su eternidad, de su todo, me irrita más que me enternece, me asombra y me espanta», y el que así siente «es para mí», como para Pascal, cuyas son las palabras señaladas, «un monstruo». Mil veces y en mil tonos se ha dicho cómo es el culto a los muertos antepasados lo que enceta, por lo común, las religiones primitivas, y cabe, en rigor, decir que lo que más al hombre destaca de los demás animales es lo de que guarde, de una manera o de otra, sus muertos sin entragarlos al descuido de su madre la tierra todoparidora; es un animal guardamuertos. ¿Y de ! $&%! qué los guarda así? ¿De qué los ampara el pobre? La pobre conciencia huye de su propia aniquilación y así que un espíritu animal, desplacentándose del mundo se ve frente a éste, y como distinto de él se conoce, ha de querer otra vida que no la del mundo mismo. Y así la tierra correría riesgo de convertirse en un vasto cementerio, antes de que los muertos mismos se remueran. Cuando no se hacían para los vivos más que chozas de tierra o cabañas de paja que la intemperie ha destruido, elevábanse túmulos para los muertos, y antes se empleó la piedra para las sepulturas que no para las habitaciones. Han vencido a los siglos por su fortaleza las casas de los muertos , no las de los vivos; no las moradas de paso, sino las de queda. Este culto, no a la muerte, sino a la inmortalidad, inicia y conserva las religiones. En el delirio de la destrucción, Robespierre hace declarar a la Convención la existencia del Ser Supremo y «el principio consolador de la inmortalidad del alma», y es que el Incorruptible se aterraba ante la idea de tener que corromperse un día. ¿Enfermedad? Tal vez, pero quien no se cuida de la enfermedad, descuida la salud, y el hombre es un animal esencial y sustancialmente enfermo. ¿Enfermedad? Tal vez lo sea, como la vida misma a que va presa, y la única salud posible, la muerte; pero esa enfermedad es el manantial de toda salud poderosa. De lo hondo de esa congoja, del abismo del sentimiento de nuestra mortalidad, se sale a la luz de otro cielo, como de lo hondo del infierno salió el Dante a volver a ver las estrellas: e quindi uscimmo a riveder le stelle [Inf. XXXIV, 139]. Aunque al pronto nos sea congojosa esta meditación de nuestra mortalidad, nos es al cabo corroboradora. Recójete, lector, en ti mismo, y figúrate un lento deshacerte de ti mismo, en que la luz se te apague, se te enmudezcan las cosas y no te den sonido, envolviéndote en silencio, se te derritan de entre las manos los objetos asideros, se te escurra de bajo los pies el piso, se te desvanezcan como en desmayo los recuerdos, se te vaya disipando todo en nada, y disipándote ! $&&! también tú, y ni aun la conciencia de la nada te quede siquiera como fantástico agarradero de una sombra. He oído contar de un pobre segador muerto en cama de hospital, que al ir el cura a ungirle en extremaunción las manos, se resistía a abrir la diestra con que apuñaba unas sucias monedas, sin percatarse de que muy pronto no sería ya suya su mano ni él de sí mismo. Y así cerramos y apuñamos, no ya la mano, sino el corazón, queriendo apuñar en él al mundo. Confesábame un amigo que, previendo, en pleno vigor de salud física, la cercanía de una muerte violenta, pensaba en concentrar la vida, viviéndola en los pocos días que de ella calculaba le quedarían para escribir un libro. ¡Vanidad de vanidades! Si al morírseme el cuerpo que me sustenta, y al que llamo mío para distinguirle de mí mismo, que soy yo, vuelve mi conciencia a la absoluta inconciencia de que brotara, y como a la mía les acaece a las de mis hermanos todos en humanidad, entonces no es nuestro trabajado linaje humano más que una fatídica procesión de fantasmas que van de la nada a la nada, y el humanitarismo, lo más inhumano que se conoce. Y el remedio no es el de la copla que dice: Cada vez que considero que me tengo que morir tiendo la capa en el suelo y no me harto de dormir. ¡No! El remedio es considerarlo cara a cara, fija la mirada en la mirada de la Esfinge, que es así como se deshace el maleficio de su aojamiento. Si del todo morimos todos, ¿para qué todo? ¿Para qué? Es el ¿para qué? de la Esfinge, es el ¿para qué? que nos corroe el meollo del alma, es el padre de la congoja, la que nos da el amor de esperanza. ! $&'! Hay, entre los poéticos quejidos del pobre Cowper, unas líneas escritas bajo el peso del delirio, y en las cuales, creyéndose blanco de la divina venganza, exclama que el infierno podrá procurar un abrigo a sus miserias. Hell might afford my miseries a shelter. Éste es el sentimiento puritano, la preocupación del pecado y de la predestinación; pero leed estas otras mucho más terribles palabras de Sénancour, expresivas de la desesperación católica, no ya de la protestante, cuando hace decir a su Obermann (carta XC): L’ homme est périssable. Il se peut; mais perissons en résistant, et, si le néant nous est réservé, ne faisons pas que ce soit une justice. Y he de confesar, en efecto, por dolorosa que la confesión sea, que nunca, en los días de la fe ingenua de mi mocedad, me hicieron temblar las descripciones, por truculentas que fuesen, de las torturas del infierno, y sentí siempre ser la nada mucho más aterradora que él. Él que sufre vive, y él que vive sufriendo ama y espera, aunque a la puerta de su mansión pongan el «¡Dejad toda esperanza!», y es mejor vivir en dolor que no dejar de ser en paz. (S, pp. 36-40; Apéndice A –cfr. § 3.13) 3.5 No hay hombre cristiano que pueda creer en una eternidad sin amor, ni hay otro infierno que la perspectiva de la nada. Si creyéramos en > la < *nuestra segura salvación todos, en ser salvados de la nada, seríamos todos mejores. Qué es ese arregosto de de vivir de que ahora nos hablan? > El a < El hambre de Dios, la sed de sobrevivir nos ahogará siempre ese pobre goce de la vida que pasa y no queda. Es el desenfrenado amor á la vida, el amor que la quiere inacabable lo que más empuja á ansiar la muerte. «Anonadado yo, si del todo me muero – nos decimos – se me acabó el mundo, acabose, y ¿por que no ha de acabarse cuanto antes para que nuevas conciencias no vengan á padecer el pesadumbroso engaño de una existencia |pasajera sobre pi| y aparencial? Si deshecha la ilusión del vivir, el vivir por el vivir mismo no nos llena el alma ¿para qué vivimos? La muerte es nuestro remedio.» Y así es como se endecha al reposo inacabable por |miedo sobre me| á él, y se le llama á la muerte liberadora, ya que > hayamos de < vivamos para haber de retornar á la nada. ! $&(! Ya el poeta del dolor, Leopardi, vió la estrecha hermandad que hay entre el amor y la muerte, y cómo cuando sup[«nace] en el corazón profundo > nace < un amoroso afecto, lánguido y cansado juntamente con él, en el pecho un deseo de morir se siente.» A la mayor parte de los que se dan á sí mismos la muerte, es el amor el que les mueve el brazo, es el ansia suprema de vida, de más vida, de prolongar y perpetuar la vida, lo que á la muerte les lleva, una vez persuadidos de la vanidad de su ansia. (T, pp. 44-45) Y sigo creyendo que si creyésemos todos en nuestra salvación de la nada seríamos todos mejores. ¿Qué es arregosto de vivir, la joie de vivre, de que ahora nos hablan? El hambre de Dios, la sed de eternidad, de sobrevivir, nos ahogará siempre ese pobre goce de la vida que pasa y no queda. Es el desenfrenado amor a la vida, el amor que la quiere inacabable, lo que más suele empujar el ansia de la muerte. «Anodadado yo, si es que del todo me muero – nos decimos –, se me acabó el mundo, acabóse; ¿y por qué no ha de acabarse cuanto antes para que no vengan nuevas conciencias a padecer el pesadumbroso engaño de una existencia pasajera y aparencial? Si deshecha la ilusión del vivir, el vivir por el vivir mismo o para otros que han de morirse también, no nos llena el alma, ¿para qué vivir? La muerte es nuestro remedio». Y así es como se endecha al reposo inacabable por miedo a él, y se le llama liberadora a la muerte. Ya el poeta del dolor, del aniquilamiento, aquel Leopardi que, perdido el último engaño, el de creerse eterno Perí l’ inganno estremo ch’ eterno io mi credei, le hablaba a su corazón de l’ infinita vanitá del tutto, vio la estrecha hermandad que hay entre el amor y la muerte y cómo cuando «nace en el corazón profundo un amoroso afecto, lánguido y cansado, juntamente con él en el pecho un deseo de morir se siente». A la mayor parte de los que se dan a sí mismos la muerte, es el amor el que les mueve el brazo, es el ansia suprema de vida, de prolongar y perpetuar la vida, lo que a la muerte les lleva, una vez persuadidos de la vanidad de su ansia. ! $&)! (S, pp. 40-41; Apéndice A) 3.6 > Terr < Trágico es el problema, y eterno, y cuanto más queremos de él huir más vamos á dar en él. glos lat [429-347] Fué el sereno Platón, hace ya veinticuatro siglos, el que en su diálogo sobre la inmortalidad del alma ó Fedón dejó escapar del alma, hablando > del[o] riesg < de lo dudoso de nuestros ensueños y del riesgo de que sean vanos, aquel profundo dicho ¡hermoso es el riesgo! "$-+% 0$' <+ "#&)1&+%, hermoso es el riesgo que corremos de que no se nos muera el alma nunca, germen esta sentencia del > fam < argumento famoso de la apuesta de Pascal. Frente á este riesgo y para |suprimirlo sobre suprimrilos| me dan raciocinios en prueba de lo absurda que es la creencia en la inmortalidad del alma, pero esos raciocinios no me hacen mella pues son razones y nada más que razones y no es de razones de lo que se apacienta mi corazón. No quiero morirme, no, no lo quiero, ni quiero quererlo; quiero vivir siempre, siempre, siempre y vivir yo, este pobre yo que me soy y me siento ser ahora y aquí y por esto me tortura el problema de la duración de mi alma, de la mia propia. Yo soy el centro de mi universo, el centro del universo, y en mis angustias supremas exclamo con Michelet: «mi yo, que me arrebatan mi yo!» ¿De qué le sirve al hombre ganar todo el mundo, si pierde su alma? (Mat. XVI 26) Egoismo decís? Nada hay más universal que lo individual, pues lo que es de cada uno lo es de todos. Cada hombre vale más que la humanidad entera; no vale sacrificar cada uno á todos si no en cuanto esto quiera decir que se sacrifican todos á cada uno. Eso que llamais egoismo es el principio de la gravedad psíquica, el postulado necesario. Ama á tu prójimo como á tí mismo, se nos dijo, presuponiendo que cada cual se ama á sí mismo y no se nos dijo: ámate! Y, sin embargo, no sabemos amarnos. Quitad nuestra propia persistencia y meditad en lo que os dicen. Sacrifícate por tus hijos! Y te sacrificas por ellos porque son tuyos, parte y prolongación de tí, y ellos, á su vez, se sacrificarán por los suyos y estos por los de ellos y así irá, sin término, un sacrificio esteril del que nadie se aprovecha. Vine al mundo á hacerme yo, á hacer mi yo, y qué será de nosotros todos? Eso eres tú! Me dicen con los Upanischad[as], y yo les digo: sí, |> eso soy yo, < ren*yo soy eso,| cuando eso es yo, y todo es mio y mia la totalidad de las cosas. Y como mia la quiero, y amo al prójimo porque vive en mí y como parte de mi conciencia, porque es como yo, es mio. Dios está en el cogollo de mis entrañas. ! $&*! Oh, quien pudiera prolongar este dulce momento y dormirse en él y en él eternizarse! Ahora, aquí, á esta luz discreta y difusa, en este remanso de quietud, cuando está aplacada la tormenta del corazón y no llegan los ecos del mundo! Duerme el deseo insaciable, y ni sueña; el hábito, el santo hábito, reina en mi eternidad; han muerto con los recuerdos los desengaños y con las esperanzas los temores. Y vienen y quieren engañarnos con un engaño de engaño y nos hablan de que nada se pierde, de que todo se trasforma, muda y cambia, que ni se aniquila el menor cachito de materia ni se desvanece el menor golpecito de fuerza, y hay quien pretende buscar en esto consuelo. ¡Pobre consuelo! Ni de mi materia ni de mi fuerza me inquieto, pues no son mias mientras no lo sea yo mismo. No, no, no es anegarme en el gran Todo, en la Materia y la Fuerza infinitas y eternas ó en Dios, lo que yo anhelo, no es ser poseido por Dios sino poseerle, hacerme yo Dios sin dejar de ser el yo que ahora os digo esto. No > me < ren *nos sirven engañifas de monismo; queremos bulto y no sombra de inmortalidad! ¿Materialismo? ¿materialismo decís? Sin duda, pero es que nuestro espíritu es también alguna materia, ó no es nada. Tiemblo ante la idea de tener que desgarrarme de mi carne, tiemblo más aun ante la idea de tener que desgarrarme de todo lo sensible y material, de toda sustancia. Sí, materialismo es esto y si á Dios me agarro con mis potencias y mis sentidos todos es para que El me lleve en sus brazos allende la muerte, mirándome con su cielo á los ojos cuando se me vayan estos á apagar para siempre. ¿Que me engaña? No me hableis ya de engaño, y dejadme vivir. Llaman también á esto orgullo; Leopardi lo llamó > fétido orgullo < ren*«hediondo orgullo» y nos dicen que quienes somos, viles gusanos de la tierra, para > prenderter < ren*pretender inmortalidad; en gracia á qué? para qué? con que derecho? «En gracia á qué?» Y en gracia á qué vivimos? «Para qué» Y para que somos? «Con qué derecho?» Y con que derecho somos? Tan gratuito es existir como seguir existiendo siempre. No hablemos de gracia, ni de para qué, ni de derecho, porque perderemos la razón en un remolino de absurdos. No reclamo derecho ni merecimiento alguno, es sólo una necesidad; lo necesito para vivir. Y quién eres tú? me preguntas. Y respondo con Obermann : para el universo nada, para mí todo! Orgullo? Orgullo querer ser inmortal? Trágico hado, sin duda, el de tener que cimentar en la > mode < ren*movediza y deleznable piedra del anhelo de inmortalidad la afirmación de esta, pero torpeza grande condenar el anhelo por creer probado, sin probarlo, el que no sea ella conseguidera. (T, pp. 45-48) ! $'+! Trágico es el problema y de siempre, y cuanto más queramos de él huir, más vamos a dar en él. Fue el sereno –¿sereno?– Platón, hace ya veinticuatro siglos, el que en su diálogo sobre la inmortalidad del alma dejó escapar de la suya, hablando de lo dudoso de nuestro ensueño de ser inmortales, y del riesgo de que no sea vano, aquel profundo dicho: «¡Hermoso es el riesgo!», &%'() *"+ , J&-#./#,), hermosa es la suerte que podemos correr de que no se nos muera el alma nunca, germen esta sentencia del argumento famoso de la apuesta de Pascal. Frente a este riesgo, y para suprimirlo, me dan raciocinios en prueba de lo absurda que es la creencia en la inmortalidad del alma; pero esos raciocinios no me hacen mella, pues son razones y nada más que razones, y no es de ellas de lo que se apacienta el corazón. No quiero morirme, no; no quiero, ni quiero quererlo; quiero vivir siempre, siempre, siempre, y vivir yo, este pobre yo que me soy y me siento ser ahora y aquí, y por esto me tortura el problema de la duración de mi alma, de la mía propia. Yo soy el centro de mi universo, el centro del universo, y en mis angustias supremas grito con Michelet: «¡Mi yo, que me arrebatan mi yo!» ¿De qué le sirve al hombre ganar el mundo todo si pierde su alma? (Mat., XVI, 26). ¿Egoísmo decís? Nada hay más universal que lo individual, pues lo que es de cada uno lo es de todos. Cada hombre vale más que la humanidad entera, ni sirve sacrificar cada uno a todos, sino en cuanto todos se sacrifiquen a cada uno. Eso que llamáis egoísmo es el principio de la gravedad psíquica, el postulado necesario. «¡ Ama a tu prójimo como a ti mismo!», se nos dijo, presuponiendo que cada cual se ame a si mismo; y no se nos dijo: «¡Ámate!» Y, sin embargo, no sabemos amarnos. Quitad la propia persistencia, y meditad lo que os dicen. ¡Sacrifícate por tus hijos! Y te sacrificas por ellos, porque son tuyos, parte y prolongación de ti, y ellos a su vez se sacrificarán por los suyos, y estos por los de ellos, y así irá, sin término, un sacrificio estéril del que nadie se aprovecha. Vine al mundo a hacer mi yo, y ¿qué será de nuestros yos todos? ¡Vine para la Verdad, el Bien, la Belleza! Ya veremos la suprema vanidad y la suprema insinceridad de esta posición hipócrita. «¡Eso eres tú!», me dicen con las Upanischadas. Y yo les digo: «Sí, yo soy eso, cuando eso es yo y todo es mío y mía la totalidad de las cosas. Y como mía la quiero y amo al prójimo porque vive en mí y como parte de mi conciencia, porque es como yo, es mío.» ¡Oh, quién pudiera prolongar este dulce momento y dormirse en él y en él eternizarse! ¡Ahora y aquí, a esta luz discreta y difusa, en este remanso de quietud, cuando está aplacada la tormenta del corazón y no me llegan los ecos del mundo! ¡Duerme el deseo insaciable y aun ! $'"! sueña; el hábito, el santo hábito, reina en mi eternidad; han muerto con los recuerdos los desengaños, y con las esperanzas, los temores! Y vienen queriendo engañarnos con un engaño de engaños, y nos hablan de que nada se pierde, de que todo se transforma, muda y cambia, que ni se aniquila el menor cachito de materia ni se desvanece del todo el menor golpecito de fuerza, y hay quien pretende darnos consuelo con esto. ¡Pobre consuelo! Ni de mi materia ni de mi fuerza me inquieto, pues no son mías mientras no sea yo mismo mío, esto es, eterno. No, no es anegarme en el gran Todo, en la Materia o en la Fuerza infinitas y eternas o en Dios lo que anhelo; no es ser poseído por Dios, sino poseerle, hacerme yo Dios sin dejar de ser el yo que ahora os digo esto. No nos sirven engañifas de monismo; ¡queremos bulto y no sombra de inmortalidad! ¿Materialismo? ¿Materialismo decís? Sin duda; pero es que nuestro espíritu es también alguna especie de materia o no es nada. Tiemblo ante la idea de tener que desgarrarme de mi carne; tiemblo más aún ante la idea de tener que desgarrarme de todo lo sensible y material, de toda sustancia. Si acaso esto merece el nombre de materialismo, y si a Dios me agarro con mis potencias y mis sentidos todos, es para que Él me lleve en sus brazos allende la muerte, mirándome con su cielo a los ojos cuando se me vayan éstos a apagar para siempre. ¿Que me engaño? ¡No me habléis de engaño y dejadme vivir! Llaman también a esto orgullo; «hediondo orgullo» le llamó Leopardi, y nos preguntan que quiénes somos, viles gusanos de la tierra, para pretender la inmortalidad; ¿en gracia de qué? ¿Para qué? ¿Con qué derecho? «¿En gracia a qué?» -preguntáis-, ¿y en gracia a qué vivimos? ¿Para qué? ¿y para qué somos? ¿Con qué derecho? ¿y con qué derecho somos?» Tan gratuito es existir como seguir existiendo siempre. No hablemos de gracia, ni de derecho, ni de para qué de nuestro anhelo, que es un fin en sí, porque perderemos la razón en un remolino de absurdos. No reclamo derecho ni merecimiento alguno; es sólo una necesidad, lo necesito para vivir. Y «¿quién eres tú?» -me preguntas-, y con Obermann te contesto: «¡Para el universo nada; para mi todo!» ¿Orgullo? ¿Orgullo querer ser inmortal? ¡Pobres hombres! Trágico hado, sin duda, el de tener que cimentar en la movediza y deleznable piedra del deseo de inmortalidad la afirmación de ésta; pero torpeza grande condenar el anhelo por creer probado, sin probarlo, que no sea conseguidero. (S, pp.41-43; Apéndice A –cfr. §§ 1.4, 3.10 y 3.11) ! $'#! 3.7 Que sueño? Dejadme soñar, si ese sueño es mi vida; no me desperteis. Creo en el inmortal origen de este anhelo de inmortalidad, que es la sustancia misma de mi alma. Y para qué quieres ser inmortal? Para qué? No entiendo la pregunta, francamente. Es preguntar la razón de la razón, el fin del fin, el principio del principio. (T, p. 48) ¿Qué sueño...? Dejadme soñar; si ese sueño es mi vida, no me despertéis de él. Creo en el inmortal origen de este anhelo de inmortalidad, que es la sustancia misma de mi alma. ¿Pero de veras creo en ello...? «¿Y para qué quieres ser inmortal?» - me preguntas-. ¿Para qué? No entiendo la pregunta, francamente, porque es preguntar la razón de la razón, el fin del fin, el principio del principio. (S, p. 43; Apéndice A) 3.8 Y vuelven los sensatos, los que no están á dejarse engañar y nos machacan los oídos con el sonsonete de que no sirve > dar < ren*entregarse á la locura y dar coces contra el agujón, pues lo que no puede > es < ser es imposible. Lo viril, dicen, es resignarse á la suerte, y pues no somos inmortales, no queramos serlo; soyuguémonos á la razón, sin acongojarnos por lo irremediable, entenebreciendo y entristeciendo la vida. glos lat [no querer hablar de ello, de mal gusto, fol 36-37] Esa obsesión, añaden, es una enfermedad... Enfermedad, locura, razón.... el estribillo de siempre! Pues bien, no, no me someto á la razón y me rebelo contra ella, y tiro á crear en fuerza de fé á mi Dios y á torcer con mi voluntad el curso de los astros, porque si tuviéremos fé como un grano de mostaza, diríamos á ese monte: pásate de ahí, y se pasaría, y nada nos sería imposible. (Mat. XVII 20) Ahí teneis á ese ladrón de energías, como él llamó neciamente al Cristo, que quiso casar el nihilismo con la lucha por la existencia, á Schopenauer con Darwin, y os habla de valor. Su corazón le pedía el todo eterno mientras su cabeza le enseñaba la nada, y desesperado y loco, para defenderse de sí mismo, maldijo de lo que más amaba. Al no poder ser Cristo, blasfemó del Cristo. Henchido de sí mismo se quiso inacabable y soñó la vuelta eterna, mezquino remedo de inmortalidad, y lleno de lástima hacia sí abominó de toda lástima. Y me decís, jóvenes, que esa es filosofía de hombres fuertes. No, no lo es. Mi salud y mi fortaleza me empujan á perpetuarme y para perpetuarme á ser piadoso. Esa es doctrina de |> débiles que < ren*endebles que| aspiran á ser fuertes, pero de fuertes que lo son no! Sólo los débiles desean desvanecerse, ansian el ! $'$! reposo sin fin, el sueño inacabable. En los fuertes el ansia de perpetuidad sobrepuja á la duda de lograrla, su rebose de vida se vierte al más allá de la muerte. (T, pp. 48-49) Y vuelven lo sensatos, los que no están a dejarse engañar, y nos machacan los oídos con el sonsonete de que no sirve entregarse a la locura y dar dar coces contra el aguijón, pues lo que no puede ser es imposible. «Lo viril –dicen– es resignarse a la suerte, y pues no somos inmortales, no queramos serlo; sujuzguémonos a la razón sin acongojarnos por lo irremediable, entenebreciendo y entristeciendo la vida. Esa obsesión –añaden– es una enfermedad.» Enfermedad, locura, razón... ¡El estribillo de siempre! Pues bien: ¡no! No me someto a la razón y me rebelo contra ella y tiro a crear, en fuerza de fe, a mi Dios inmortalizador y a torcer con mi voluntad el curso de los astros, porque si tuviéramos fe como un grano de mostaza, diríamos a este monte: «Pásate de ahí», y se pasaría, y nada nos sería imposible (Mat., XVII, 20) Ahí tenéis a ese ladrón de energías, como él llamaba torpemente al Cristo, que quiso casar el nihilismo con la lucha por la existencia, y os habla de valor. Su corazón le pedía el todo eterno, mientras su cabeza le enseñaba la nada, y desesperado y loco para defenderse de sí mismo, maldijo de lo que más amaba. Al poder ser Cristo, blasfemó del Cristo. Henchido de sí mismo, se quiso inacabable y soñó la vuelta eterna, mezquino remedo de inmortalidad, y lleno de lástima hacia sí, abominó de toda lástima. ¡Y hay quien dice que es la suya filosofía de hombres fuertes! No, no lo es. Mi salud y mi fortaleza me empujan a perpetuarme. ¡Esa es doctrina de endebles que aspiran a ser fuertes, pero no de fuertes que lo son! Sólo los débiles se resignan a la muerte final y sustituyen con otro el anhelo de inmortalidad personal. En los fuertes el ansia de perpetuidad sobrepuja a la duda de lograrla, y su rebose de vida se vierte al más allá de la muerte. (S, p. 45; Apéndice A) 3.9 Ante este terrible misterio de la mortalidad, cara á cara de la Esfinge, el hombre adopta distintas actitudes y busca por varios modos consolarse de haber nacido. Y se le ocurre tomarlo á juego y se dice sup [con Renán] que este universo es un espectáculo que Dios se da á sí mismo y que debemos servir las intenciones del gran corega > ha < contribuyendo á hacer el espectáculo lo más brillante y lo más variado posible. Y han hecho del arte una religión y un remedio para el mal metafísico, y han inventado la monserga del arte por el arte. ! $'%! Y no les basta. El que os diga que escribe, pinta, esculpe ó canta para propio recreo, si da al público lo que hace, miente, miente si firma su escrito, pintura, estatua ó canto. Quiere, cuando menos, dejar una sombra de su espíritu, algo que le sobreviva. Si la Imitación de Cristo es anónima es porque su autor, buscando la |eternidad sobre in| del alma, no se inquietaba de la del nombre. Literato que os diga que desprecia la gloria miente como un bellaco. De Dante, el que escribió aquellas treinta y tres vigorosísimos versos (Purg. XI 85-117) sobre la vanidad de la gloria mundana, dice Boccaccio que gustó |muchísimo sobre mucho| de los honores y las pompas, más acaso de los que correspondía á su |ínclita sobre inclita| virtud. El deseo más ardiente de sus condenados es que se les recuerde aquí en la tierra y se hable de ellos, y esto ilumina las tinieblas de su infierno. Y él mismo expuso el concepto de la Monarquía no sólo para utilidad delos demás, sino para lograr palma de gloria (lib 1. cap.2) Hasta de |aquel sobre q | santo hombre, el más desprendido de la vanidad terrena, el pobrecito de Asís cuentan los Tres Socios (4) que dijo: «vereis como un dia tras [Adhuc adorabor per totum mundum] seré adorado por el mundo todo» (II Celano 1,1). Y hasta de Dios dicen los teólogos que creó el mundo para manifestación de su gloria. Qué otra necesidad tenía de él? Cuando las dudas nos invaden y nublan la fe en la inmortalidad del alma, cobra brio y doloroso empuje el ansia de perpetuar el nombre, de alcanzar una sombra de inmortalidad siquiera. Y de aquí esa tremenda lucha por singularizarse, por sobrevivir de algún > [?] < modo en otros, lucha mil veces más terrible que la lucha por la vida, y lucha que da color y tono á nuestra sociedad. Cada cual quiere afirmarse, siquiera en aparencia. Una vez satisfecha el hambre, y ésta se satisface pronto, surge la vanidad, la necesidad de imponerse y sobrevivir en otros. El dicho de Maquiavelo de que el hombre antes entrega la vida que la bolsa glos lat [no hay tal dicho], cabe completarlo añadiendo que entrega la bolsa por la vanidad. Engríese, á falta de algo mejor, hasta de sus flaquezas y miserias y es como el niño que se > pavonea < ren*regocija de haberse herido pavoneándose con el dedo vendado. Y la vanidad, qué es sino ansia de sobrevivirse? Acontécele al vanidoso lo que al avaro, que toma los medios por los fines, y olvidadizo de éstos, se apega á aquellos y en ellos se queda. El parecer algo, conducente á serlo, acaba por formar nuestro objetivo. Necesitamos > creernos superiores á los demás < que los demás nos crean superiores á ellos para creernos nosotros tales y basar en > tal creencia < *ello nuestra fe en la ! $'&! propia persistencia, cuando menos en la de la fama. Agradecemos más el que se nos encomie el talento con que defendemos una causa que el que se reconozca la verdad á la bondad de ella. Una furiosa manía de originalidad sopla por el mundo moderno de los espíritus, y cada cual le pone en una cosa. Preferimos desbarrar con ingenio á acertar con ramplonería. (25) Nuestra lucha á brazo partido por la sobrevivencia del nombre se retrae al pasado, así como aspira á conquistar el porvenir; peleamos con los muertos, que nos hacen sombra á los vivos. Sentimos celos de los genios que fueron y cuyos nombres, como hitos de la historia, salvan las edades. El cielo de la fama no es muy grande y cuantos más entren en él á menos toca á cada uno de ellos. Los grandes nombres del pasado nos roban lugar en él, lo que ellos ocupen en la memoria de las gentes nos lo quitarán á los que aspiramos á ocuparla. Y así nos revolvemos contra ellos y de aquí la agrura con que cuantos buscan en las letras nombradía juzgan á los que ya la alcanzaron y de ella gozan. Si la literatura se enriquece mucho, llegará el dia del cernimiento y cada cual teme quedar entre las mallas del cedazo. El joven irreverente para con los maestros, es que al atacarlos se defiende; el iconoclasta ó rompe-imágenes es un estilita que se erige á sí mismo en imagen, en icono. «Toda comparación es odiosa» dice un dicho decidero, y es que, en efecto, queremos ser únicos. No le digais á Fernández que es uno de los jóvenes españoles de más talento, pues mientras finge agradeceroslo, le molesta el elogio; si le decís que es el español de más talento... ¡vaya! pero aun no le basta; una de las eminencias mundiales es ya más de agradecer, pero sólo le satisface que le crean el primero de todas partes y de los siglos todos. Cuanto más solo más cerca de la inmortalidad aparencial: la del nombre, pues los nombres se > matan < *menguan los unos á los otros. ¿Qué significa esa irritación cuando creemos que nos roban una frase ó un pensamiento ó una imagen que creíamos nuestra, cuando nos plagian? Robar? Es que era nuestra una vez que al público la dimos? Sólo por nuestra la queremos y más encariñados vivimos de las moneda falsa que conserva nuestro cuño que no de la pieza de oro puro de donde se ha borrado nuestra efigie y nuestra leyenda. Sucede muy comunmente que cuando no se pronuncia ya el nombre de un escritor es cuando más influye en su pueblo, desparramado y enfusado su |espíritu sobre espirítu| en los espíritus de los que le leyeron, mientras que se le citaba cuando sus dichos y pensamientos, por chocar con los corrientes, necesitaban garantía de nombre. Lo suyo es ya de todos y él en todos vive. Pero en sí mismo vive triste y lacio y se cree en derrota. No oye ya los aplausos, y no oye el batir silencioso de los corazones de los que le siguen leyendo. Preguntad á cualquier artista sincero que preferie, que se hunda su obra y sobreviva su memoria ó que hundida esta persista aquella y vereis, si es sincero, lo que os dice. Cuando el hombre no trabaja ! $''! para vivir é irlo pasando, trabaja para sobrevivir. Obrar por la obra misma es juego y no trabajo. Y el juego? Hablaré de él más adelante. Tremenda pasión esa de que nuestra memoria sobreviva sobre el olvido de los demás si fuere preciso. De ella arranca la envidia, á la que se debe, según el relato bíblico, el crimen que abrió la historia humana: el asesinato de Abel por su hermano Cain. No fué lucha por pan, fué lucha por sobrevivir en Dios, en la memoria divina. La envidia es mil veces más terrible que > toda < el hambre, porque es hambre espiritual. Resuelto el que llamamos problema de la vida la tierra se convertiría en un infierno, porque surgiría con más fuerza la lucha por la sobrevivencia. Al nombre se sacrifica no ya la vida, la dicha. La vida sin duda. «¡Muera yo, viva mi fama!» exclama en Las Mocedades del Cid Rodrigo Arias al caer herido de muerte por Don Diego Ordoñez de Lara. Se debe uno á su nombre. «¡Animo, Jerónimo, que se te recordará largo tiempo; la muerte es amarga, pero la fama eterna!» exclamó Jerónimo Olgiati, discípulo de Cola Montano, y matador, conchavado con Lampugnani y Visconti, de Galeazzo Sforza, tirano de Milán. Hay quien anhela hasta el patíbulo para cobrar fama, aunque sea infame. Y qué es ello sino ansia de inmortalidad, siquiera de nombre > [?] < y sombra? Hay en ello sus grados. El que desprecia el aplauso de las muchedumbres de hoy, es que busca sobrevivir en renovadas minorías durante las generaciones. Quiere prolongarse en tiempo más que en espacio. Los ídolos de las muchedumbres son pronto derribados por por ellas mismas y su estatua se deshace á los piés del pedestal sin que la mire nadie, mientras que quienes ganan el corazón de los escojidos > tendrán < ren*recibirán más largo tiempo fervoroso culto en una capilla siquiera, recojida y pequeña, pero que salvará las avenidas del olvido. Sacrifica el artista la extensión de su fama á su duración, ansía más durar por siempre en un rinconcito á no brillar un segundo en el universo todo, quiere más ser átomo eterno y conciente de sí mismo que momentanea conciencia del universo, sacrifica la infinitud á la eternidad.Y vuelven á molernos los oídos con el estribillo aquel de ¡orgullo! ¡hediondo orgullo! ¿Orgullo querer dejar nombre imborrable? ¿orgullo? Es como cuando se habla de sed de placeres, interpretando así la sed de riquezas. No, no es el ansia de procurarse placeres, sino el terror á la pobreza, lo que nos arrastra á los pobres hombres á buscar el dinero; no, no |era sobre es| el deseo de la gloria, sino el terror al infierno, lo que > nos mueve < ren*arrastra[ba] á los hombres al claustro en la edad media; no, no es orgullo, es miedo á la nada. Tendemos á serlo todo por ver en ello el único remedio para no reducirnos á nada. Queremos salvar nuestra memoria, siquiera ! $'(! nuestra memoria. Cuanto durará? A lo sumo lo que duren las mentes humanas. Y si salvaramos nuestra memoria en Dios? Todo esto son miserias, bien lo sé, pero del fondo de estas miserias surge vida nueva y sólo apurando las heces del dolor espiritual puede llegarse á gustar la miel del poso de la copa de la vida. La congoja nos lleva al consuelo. Esa sed de vida eterna apaganla muchos, los > , < sencillos sobre todo, en la fuente de la fe religiosa, pero no á todos les es dado beber de ella. Lleva, además, el riesgo de que cada cual se la haga á su arbitrio y medida, y con su credo corrobore sus faltas en vez de corregirlas. (T, pp. 52-58) Ante este terrible misterio de la mortalidad, cara a cara de la Esfinge, el hombre adopta distintas actitudes y busca por varios modos consolarse de haber nacido. Y ya se le ocurre tomarlo a juego, y se dice con Renan, que este universo es un espectáculo que Dios se da a sí mismo, y que debemos servir las intenciones del gran Corega, contribuyendo a hacer el espectáculo lo más brillante y lo más variado posible. Y han hecho del arte una religión y un remedio para el mal metafísico, y han inventado la monserga del arte por el arte. Y no les basta. El que os diga que escribe, pinta, esculpe o canta para propio recreo, si da al público lo que hace, miente; miente si firma su escrito, pintura, estatua o canto. Quiere, cuando menos, dejar una sombra de su espíritu, algo que le sobreviva. Si la Imitación de Cristo es anónima, es porque su autor, buscando la eternidad del alma, no se inquietaba de la del nombre. Literato que os diga que desprecia la gloria, miente como un bellaco. De Dante, el que escribió aquellos treinta y tres vigorosísimos versos (Purg. XI 85-117), sobre la vanidad de la gloria mundana, dice Boccaccio que gustó de los honores y las pompas más acaso de lo que correspondía a su ínclita virtud. El deseo más ardiente de sus condenados es el de que se les recuerde aquí, en la tierra, y se hable de ellos, y es esto lo que más ilumina las tinieblas del infierno. Y él mismo expuso el concepto de la Monarquía, no sólo para utilidad de los demás, sino para lograr palma de gloria (De Monarchia, lib. I, capítulo I). ¿Qué más? Hasta de aquel santo varón, el más desprendido, al parecer, de vanidad terrena, del pobrecito de Asís, cuentan los Tres Socios que dijo: Adhuc adorabor per totum mundum! ¡Veréis cómo soy adorado por ! $')! todo el mundo! (II Celano 1.1). Y hasta de Dios mismo dicen los teólogos que creó el mundo para manifestación de su gloria. Cuando las dudas nos invaden y nublan la fe en la inmortalidad, cobran brío y doloroso empuje el ansia de perpetuar el nombre y la fama, de alcanzar una sombra de inmortalidad siquiera. Y de aquí esa tremenda lucha por singularizarse, por sobrevivir de algún modo en la memoria de los otros y de los venideros, esa lucha mil veces más terrible que la lucha por la vida y que da tono, color y carácter a esta nuestra sociedad, en que la fe medieval en el alma inmortal se desvanece. Cada cual quiere afirmarse siquiera en apariencia. Una vez satisfecha el hambre, y ésta se satisface pronto, surge la vanidad, la necesidad –que lo es– de imponerse y sobrevivir en otros. El hombre suele entregar la vida por la bolsa; pero entrega la bolsa por la vanidad. Engríese, a falta de algo mejor, hasta de sus flaquezas y miserias, y es como el niño que, con tal de hacerse notar, se pavonea con el dedo vendado. Y la vanidad, ¿qué es sino ansia de sobrevivirse? Acontécele al vanidoso lo que al avaro, que toma los medios por lo fines y, olvidadizo de éstos, se apega a aquéllos, en los que se queda. El parecer algo, conducente a serlo, acaba por formar nuestro objetivo. Necesitamos que los demás nos crean superiores a ellos para creernos nosotros tales, y basar en ello nuestra fe en la propia persistencia, por lo menos en la de la fama. Agradecemos más el que se nos encomie el talento con que defendemos una causa, que no el que se reconozca la verdad o bondad de ella. Una furiosa manía de originalidad sopla por el mundo moderno de los espíritus, y cada cual la pone en una cosa. Preferimos desbarrar con ingenio a acertar con ramplonería. [Interpolación del fragmento 3.15] Nuestra lucha a brazo partido por la sobrevivencia del nombre se retrae al pasado, así como aspira a conquistar el porvenir; peleamos con los muertos, que son los que nos hacen sombra a los vivos. Sentimos celos de los genios que fueron y cuyos nombres, como hitos de la historia, salvan las edades. El cielo de la fama no es muy grande, y cuantos más en él entren, a menos toca cada uno de ellos. Los grandes nombres del pasado nos roban lugar en él; lo que ellos ocupan en la memoria de las gentes nos lo quitarán a los que aspiramos a ocuparla. Y así nos revolvemos contra ellos, y de aquí la agrura con que cuantos buscan en las letras nombradía ! $'*! juzgan a los que ya la alcanzaron y de ella gozan. Si la literatura se enriquece mucho, llegará el día del cernimiento, y cada cual teme quedarse entre las mallas del cedazo. El joven irreverente para con los maestros, al atacarlos, es que se defiende; el iconoclasta o rompeimágenes es un estilita que se erige a sí mismo en imagen, en icono. «Toda comparación es odiosa», dice un dicho decidero, y es que, en efecto, queremos ser únicos. No le digáis a Fernández que es uno de los jóvenes españoles de mas talento, pues mientras finge agradecéroslo, moléstale el elogio; si le decís que es el español de más talento... ¡vaya!; pero aún no le basta; una de las eminencias mundiales es ya más de agradecer; pero sólo le satisface que le crean el primero de todas partes y de los siglos todos. Cuanto más solo, más cerca de la inmortalidad aparencial, la del nombre, pues los nombres se menguan los unos a los otros. ¿Qué significa esa irritación cuando creemos que nos roban una frase, o un pensamiento, o una imagen que creíamos nuestra; cuando nos plagian? ¿Robar? ¿Es que es acaso nuestra, una vez que al público se la dimos? Sólo por nuestra la queremos, y más encariñados vivimos de la moneda falsa que conserva nuestro cuño, que no de la pieza de oro puro de donde se ha borrado nuestra efigie y nuestra leyenda. Sucede muy comúnmente que cuando no se pronuncia ya el nombre de un escritor es cuando más influye en su pueblo, desparramado y enfusado su espíritu en los espíritus de los que le leyeron, mientras que se le citaba cuando sus dichos y pensamientos, por chocar con los corrientes, necesitaban garantía de nombre. Lo suyo es ya de todos y él en todos vive. Pero en sí mismo vive triste y lacio y se cree en derrota. No oye ya los aplausos ni tampoco el latir silencioso de los corazones de los que le siguen leyendo. Preguntad a cualquier artista sincero qué prefiere: que se hunda su obra y sobreviva su memoria, o que, hundida ésta, persista aquélla, y veréis, si es de veras sincero, lo que os dice. Cuando el hombre no trabaja para vivir e irlo pasando, trabaja para sobrevivir. Obrar por la obra misma, es juego y no trabajo. ¿Y el juego? Ya hablaremos de él. Tremenda pasión esa de que nuestra memoria sobreviva por encima del olvido de los demás si es posible. De ella arranca la envidia, a la que se debe, según el relato bíblico, el crimen que abrió la historia humana: el asesinato de Abel por su hermano Caín. No fue lucha por pan, fue lucha por sobrevivir en Dios, en la memoria divina. La envidia es mil veces más terrible que el hambre, porque es hambre espiritual. Resuelto el que llamamos problema de la vida, el del pan, convertiríase la Tierra en un infierno, por surgir con más fuerza la lucha por la sobrevivencia. Al nombre se sacrifica, no ya la vida, la dicha. La vida, desde luego. «¡Muera yo, viva mi fama!», exclama en Las mocedades del Cid Rodrigo Arias, al caer herido de muerte por don Diego Ordóñez de Lara. Débese uno a su nombre. «¡Ánimo, Jerónimo, que se te recordará largo ! $(+! tiempo; la muerte es amarga, pero la fama, eterna!» , exclamó Jerónimo Olgiati, discípulo de Cola Montano y matador, conchabado con Lampugnani y Visconti, de Galeazzo Sforza, tirano de Milán. Hay quien anhela hasta el patíbulo para cobrar fama, aunque sea infame: avidus malae famae, que dijo Tácito. Y este erostratismo, ¿qué es en el fondo sino ansia de inmortalidad, ya que no de sustancia y bulto, al menos de nombre y sombra? Y hay en ellos sus grados. El que desprecia el aplauso de la muchedumbre de hoy es que busca sobrevivir en renovadas minorías durante generaciones. «La posteridad es una superposición de minorías», decía Gounod. Quiere prolongarse en tiermpo más que en espacio. Los ídolos de las muchedumbres son pronto derribados por ellas mismas, y su estatua se deshace al pie del pedestal sin que la mire nadie, mientras quienes ganan el corazón de los escojidos recibirán más largo tiempo fervoroso culto en una capilla siquiera, recojida y pequeña, pero que salvará las avenidas del olvido. Sacrifica el artista la extensión de su fama a su duración; ansía más durar por siempre en un rinconcito, a no brillar un segundo en el universo todo; quiere más ser átomo eterno y conciente de sí mismo, que momentánea conciencia del universo todo; sacrifica la infinitud a la eternidad. Y vuelven a molernos los oídos con el estribillo aquel de ¡orgullo!, ¡hediondo orgullo! ¿Orgullo querer dejar nombre imborrable? ¿Orgullo? Es como cuando se habla de sed de placeres, interpretando así la sed de riquezas. No, no es tanto ansia de procurarse placeres cuanto el terror a la pobreza lo que nos arrastra a los pobres hombres a buscar el dinero, como no era el deseo de gloria, sino el terror al infierno, lo que arrastraba a los hombres en la Edad Media al claustro con su acedia. Ni eso es orgullo, sino terror a la nada. Tendemos a serlo todo, por ver en ello el único remedio para no reducirnos a nada. Queremos salvar nuestra memoria, siquiera nuestra memoria. ¿Cuanto durará? A lo sumo, lo que dure el linaje humano. ¿Y si salváramos nuestra memoria en Dios? Todo esto que confieso son, bien lo sé, miserias; pero del fondo de estas miserias surge vida nueva, y sólo apurando las heces del dolor espiritual puede llegarse a gustar la miel del poso de la copa de vida. La congoja nos lleva al consuelo. Esa sed de vida eterna apáganla muchos, los sencillos sobre todo, en la fuente de la fe religiosa; pero no a todos es dado beber de ella. La institución cuyo fin primordial es proteger esa fe en la inmortalidad personal del alma es el catolicismo; pero el catolicismo ha querido racionalizar esa fe haciendo de la religión teología, queriendo dar por base a la creencia vital ! $("! una filosofía y una filosofía del siglo XIII. Vamos a verlo y ver sus consecuencias. (S, pp.4549; Apéndice A –cfr. § 3.15) 3.10 Yo no sólo me conozco, aunque mal, sino que me siento, me soy, mejor dicho. (T, p. 79) No quiero morirme, no, no quiero ni quiero quererlo; quiero vivir siempre, siempre, siempre, y vivir este pobre yo que me soy y me siento ser ahora y aquí, y por esto me tortura el problema de la duración de mi alma, de la mía propia. (S, p. 41; Apéndice B –cfr. 3.6.12) 3.11 Y aquí se nos vienen todas esas doctrinas hipócritas que nos hablan de nuestra persistencia impersonal, de que nada se pierde, de que persisten los elementos que me componen, quedan mis ideas, los efectos de mis obras etc. Pero si mi conciencia individual, si la conciencia de mí mismo que ata mi vida en haz de recuerdos, se desvanece algo se pierde. (T, p. 81) Quitad la propia persistencia, y meditad lo que os dicen. ¡Sacrifícate por tus hijos! Y te sacrificas por ellos, porque son tuyos, parte prolongación de ti, y ellos a su vez se sacrificarán por los suyos, y éstos por los de ellos, y así irá, sin término, un sacrificio estéril del que nadie se aprovecha. Vine al mundo a hacer mi yo, y que ¿será de será de nuestros yos todos? ¡Vive para la Verdad, el Bien, la Belleza! Ya veremos la suprema vanidad, y la suprema insinceridad de esta posición hipócrita. (S, p. 42; Apéndice B –cfr. 3.6.27-31) 3.12 Y así se nos presenta, bajo otra forma, aquella cuestión de cual es la causa de la causa, el principio del principio. (T, p. 83) ! $(#! ¿Y para qué quieres ser inmortal? –me preguntas–. ¿Para qué? No entiendo la pregunta, francamente, porque es preguntar la razón de la razón, el fin del fin, el principio del principio. (S, p. 43; Apéndice B; -cfr. 3.7) 3.13 El culto á los muertos es la forma primitiva del ansia espiritual de perpetuación, del[a] > deseo < necesidad de eternizar nuestra conciencia, única de que tenemos inmediata certeza y es, á su vez, una turbia manifestación de la necesidad, para poder querer vivir, de dar un sentido espiritual al universo todo afirmándolo para la conciencia. glos lat [La religión es el univ. visto á través anhelo y creencia inmortalidad personal.] (T, p. 85) Mil veces y en mil tonos se ha dicho cómo es el culto a los muertos antepasados lo que enceta, por lo común, las religiones primitivas, y cabe en rigor decir que lo que más al hombre destaca de los demás animales es lo de que guarde, de una manera o de otra, sus muertos sin entregarlos al descuido de su madre la tierra todoparidora; es un animal guardamuertos. ¿Y de qué los guarda así? ¿De qué los ampara el pobre? La pobre conciencia huye de su propia aniquilación, y así que un espíritu animal desplacentándose del mundo, se ve frente a éste y como distinto de él se conoce, ha de querer tener otra vida que no la del mundo mismo. Y así la tierra correría riesgo de convertirse en un vasto cementerio, antes que los muertos mismos se remueran. (S, p. 38; Apéndice B –cfr. § 3.4.56-65) 3.14 (14) Y cuando hablaba ante el rey Agripa, al oirle Festo, el gobernador, decir de resurreción de > f[?] < muertos exclamó: Estás loco, Pablo, las muchas letras te han vuelto loco (Hechos XXVI 24) (T, n. 14) Y cuando hablaba ante el rey Agripa, al oírle Festo, el gobernador, decir de resurrección de muertos exclamó: «Estás loco, Pablo; las muchas letras te han vuelto loco» (Hechos, XXVI, 24). (S, p. 44; Apéndice A –cfr. § 3.3) ! $($! 3.15 (25) Quand les philosophes seroient en état de découvrir la vérité, qui d’ entre eux prendrait intérêt á elle? Chacun soit bien que son système n’ est pas mieux fondé que les autres; mais il le soutient, parce qu’ il est à lui. Il n’y en a pas un seul qui, venant à connaître le vrai et le faux, ne préférât le mensonge qu’ il a trouvé à la vérité découverte par un autre. Où est le philosophe qui, pour sa gloire, ne tromperait pas volontiers le genre humain? Où est celui qui, dans le secret de son > couer < cœur, se propose un autre objet que de se distinguer? Pour un qu’ il > se < s’ élève au-dessus du vulgaire, pour un qu’ il efface l’ éclat de ses concurrents, que demende-t-il de plus? L’ essentiel est penser autrement que les autres. Chez les croyants il est athée; chez les athées il > est cr < seroit croyant” Rousseau. Emile. (T, n. 25) Ya dijo Rousseau en su Emilio: «Aunque estuvieran los filósofos en disposición de descubrir la verdad, ¿quién de entre ellos se interesaría en ella? Sabe cada uno que su sistema no está mejor fundado que los otros, pero lo sostiene porque es suyo. No hay uno solo que, en llegando a conocer lo verdadero y lo falso, no prefiera la mentira que ha hallado a la verdad descubierta por otro. ¿Dónde está el filósofo que no engañase de buen grado, por su gloria, al género humano? ¿Dónde el que en el secreto de su corazón se proponga otro objeto que distinguirse? Con tal de elevarse por encima del vulgo, con tal de borrar el brillo de sus concurrentes, ¿qué más pide? Lo esencial es pensar de otro que los demás. Entre los creyentes es ateo; entre los ateos sería creyente» (Libro IV). ¡Cuánta verdad hay en el fondo de estas tristes confesiones de aquel hombre de sinceridad dolorosa. (S, p.47; Apéndice A, traducción –cfr. § 3.9) ! $(%! CAPÍTULO IV La esencia del catolicismo 4.1 Y el hombre quiso hacer la ciencia religiosa ó más bien teológica y forjó la escolástica, ancilla theologiae. (T, p. 89) Y así se fraguó la teología escolástica, y saliendo de ella su criada, la ancilla theologiae, la filosofía escolástica también, y esta criada salió respondona. (S, p. 62; Apéndice B) 4.2 El cristianismo fué, en rigor, fundado por San Pablo, que no conoció personalmente al Cristo y porque no le conoció así. (T, p. 92) Pablo no había conocido personalmente a Jesús, y por eso le descubrió como Cristo. (S, p. 53; Apéndice B) ! $(&! CAPÍTULO V La disolución racional 5.1 Terrible > mal < *poder la inteligencia! La inteligencia tiende á la muerte, á la estabilidad la memoria. Lo vivo, que es lo absolutamente inestable, lo absolutamente individual, es impensable. La lógica tira á reducirlo todo á identidades y á géneros, á que no tenga cada representación más que un solo y mismo contenido en cualquier lugar > ó < tiempo sup [ó relación] que se nos ocurra. Y esto no es la verdad, pues nada hay que sea lo mismo en dos momentos sucesivos [de su ser]. Mi idea de Dios es distinta de sí misma cada vez que la > pienso < *concibo. La identidad, que es la muerte, es la aspiración del intelecto; la mente busca lo muerto, pues lo vivo se le escapa, quiere cuajar en témpanos la corriente fugitiva, quiere fijarla. Para analizar un cuerpo hay que destruirlo. Para comprender algo hay que matarlo en la mente. sup[La ciencia no es más que un cementerio de ideas muertas.] tras[Pero de la muerte sale la vida, glos sup[21] como > esta < inf*aquella de > aquella < inf *esta.] Mis propios pensamientos, tumultuosos y agitados en los senos de mi mente, desgajados de su raiz cordial, vertidos á este papel y fijados en él en formas inalterables, son ya cadáveres de pensamiento. ¿Cómo, pues, va á abrirse la razón á la revelación de la vida? ¡Trágico combate el de la verdad con la razón! Y la verdad se siente y se vive, no se comprende. (19) (T, p. 51 –cfr. § 5.2) Es una cosa terrible la inteligencia. Tiende a la muerte como a la estabilidad la memoria. Lo vivo, lo que es absolutamente inestable, lo absolutamente individual, es, en rigor, ininteligible. La lógica tira a reducirlo a entidades y a géneros, a que no tenga cada representación más que un solo y mismo contenido en cualquier lugar, tiempo o relación en que se nos ocurra. Y no hay nada que sea lo mismo en dos momentos sucesivos de su ser. Mi idea de Dios es distinta cada vez que la concibo. La identidad, que es la muerte, es la aspiración del intelecto. La mente busca lo muerto, pues lo vivo se le escapa; quiere cuajar en témpanos la corriente fugitiva, quiere fijarla. Para analizar un cuerpo, hay que menguarlo o destruirlo. Para comprender algo hay que matarlo, enrigidecerlo en la mente. La ciencia es un cementerio de ideas muertas, aunque de ellas salga vida. También los gusanos se alimentan de cadáveres. Mis propios pensamientos, tumultuosos y agitados en los senos de mi mente, desgajados de su raíz cordial, vertidos a este papel y fijados en él en formas inalterables, son ya cadáveres de pensamientos. ¿Cómo, pues, va a abrirse la razón a la revelación de la vida? Es un trágico combate, es el fondo de la tragedia, el ! $('! combate de la vida con la razón. ¿Y la verdad? ¿Se vive o se comprende? (S, p. 73; Apéndice A) 5.2 (19) á la página 51 No hay sino leer el terrible Parménides de Platón y llegar á su conclusión trágica de que «el uno existe y no existe, y él y todo lo otro existen y no existen, aparecen y no aparecen en relación á sí mismos y unos á otros.» Y añado que todo lo real es irracional y todo lo > v < racional irreal. Lo racional, en efecto, no es más que relacional; la razón se limita a relacionar elementos irracionales. Las matemáticas son la única ciencia perfecta en cuanto suman, restan, multiplican y dividen números, pero no cosas reales y de bulto. Quien es capaz de extraer la raiz cúbica de un fresno ó de un pueblo? Y, sin embargo, necesitamos de la lógica, de este poder terrible, para trasmitir pensamientos y hasta para pensarlos, porque pensamos con palabras. Pensar es hablar uno consigo mismo y el habla es social. Y social, por lo tanto, el pensamiento. Pero no tiene acaso un contenido, una materia individual, irracional, intraductible? No es esta su fuerza? (T, n. 19) No hay sino leer el terrible Parménides de Platón, y llegar a su conclusión trágica de que «el uno existe y no existe, y él y todo lo otro existen y no existen, aparecen y no aparecen en relación a sí mismos, y unos a otros». Todo lo vital es irracional, y todo lo racional es antivital, porque la razón es esencialmente escéptica. Lo racional, en efecto, no es sino lo relacional; la razón se limita a relacionar elementos irracionales. Las matemáticas son la única ciencia perfecta en cuanto suman, restan, multiplican y dividen números, pero no cosas reales y de bulto; en cuanto es la más formal de las ciencias. ¿Quién es capaz de extraer la raíz cúbica de este fresno? Y, sin embargo, necesitamos de la lógica, de este poder terrible, para trasmitir pensamientos y percepciones y hasta para pensar y percibir, porque pensamos con palabras, percibimos con formas. Pensar es hablar uno consigo mismo, y el habla es social, y sociales son el pensamiento y la lógica. Pero ¿no tienen acaso un contenido, una materia individual, intransmisible e intraducible? ¿Y no está aquí su fuerza? (S, pp. 73-74; Apéndice A) 5.3 Y la lógica? La lógica estuvo siempre, y en la edad media sobre todo, al servicio de la teología y de la jurisprudencia que partían ambas de lo establecido por autoridad. La lógica no se propuso nunca el problema del conocimiento, el examen de los fundamentos metalógicos. ! $((! «La teología occidental – dice Stanley – es esencialmente lógica en su forma y se basa en la ley; la oriental es retórica en la forma y se basa en la filosofía. El teólogo latino sucedió al abogado romano; el teólogo oriental al sofista griego.» (T, n. 21) Lo que hay es que el hombre, prisionero de la lógica, sin la cual no piensa, ha querido siempre ponerla al servicio de sus anhelos, y sobre todo del fundamental anhelo. Se quiso tener siempre a la lógica, y más en la Edad Media, al servicio de la teología y de la jurisprudencia, que partían ambas de lo establecido por la autoridad. La lógica no se propuso hasta muy tarde el problema del conocimiento, el de la validez de ella misma, el examen de los fundamentos metalógicos. «La teología occidental –escribe Stanley– es esencialmente lógica en su forma y se basa en la filosofía. El teólogo latino sucedió al abogado romano; el teólogo oriental al sofista griego». (S, p. 74; Apéndice A) ! $()! CAPÍTULO VI En el fondo del abismo 6.1 Y Dios nos dió > el < ren*un gran consuelo, un supremo consuelo, sostén íntimo de la voluntad, y es la incertidumbre, la santa incertidumbre. ¿Donde está en esto de la vida la absoluta certeza? La certeza absoluta, completa, de que es la muerte un completo y definito é irrevocable anonadamiento de toda conciencia personal, ó la certeza absoluta , completa, de que nuestra conciencia personal se prolonga más allá de la muerte, ambas certezas nos harían igualmente imposible la vida. En un escondrijo el más recóndito del espíritu, sin saberlo acaso el mismo que cree estar convencido de que con la muerte acaba para siempre su conciencia personal, en aquel escondrijo le queda una sombra, una vaga sombra, una sombra de sombra de incertidumbre, y mientras él se dice: ea! á vivir esta vida pasajera, que no hay otra! el silencio de aquel escondrijo le dice: quien sabe? Cree acaso no oirlo, pero lo oye. Y en un repliegue también del alma del creyente que guarda más fe en la vida futura, hay una voz tapada, voz de incertidumbre, que le dice: quien sabe? Son estas voces acaso como el zumbar de un mosquito cuando el vendabal brama entre los árboles del bosque; no nos damos cuenta de ese zumbido y, sin embargo, junto con el fragor de la tormenta, nos llega al oido. ¿Cómo podríamos vivir sin esa incertidumbre? (T, pp. 49-50) El escepticismo vital viene del choque entre la razón y el deseo. Y de este choque, de este abrazo entre la desesperación y el escepticismo, nace la santa, la dulce, la salvadora incertidumbre, nuestro supremo consuelo. La certeza absoluta completa, de que la muerte es un completo y definitivo e irrevocable anonadamiento de la conciencia personal, una certeza de ello como estamos ciertos de que los tres ángulos de un triángulo valen dos rectos, o la certeza absoluta, completa, de que nuestra conciencia personal se prolonga más allá de la muerte en estas o las otras condiciones haciendo sobre todo entrar en ello la extraña y adventicia añadidura del premio o del castigo eternos, ambas certezas nos harían igualmente imposible la vida. En un escondrijo, el más recóndito del espíritu , sin saberlo acaso el mismo que cree estar convencido de que con la muerte acaba para siempre su conciencia personal, su memoria, en aquel escondrijo le queda una sombra, una vaga sombra de sombra de incertidumbre, y mientras él se dice: «ea, ¡a vivir esta vida pasajera, que no hay otra!», el silencio de aquel escondrijo le dice: «¡Quién sabe!...» Cree acaso no oírlo, pero lo oye. Y en un repliegue también del alma del creyente que guarde más fe en la vida futura, hay ! $(*! una voz tapada, voz de incertidumbre, que le cuchichea al oído espiritual: «¡Quién sabe!...» Son estas voces acaso como el zumbar de un mosquito cuando el vendaval brama entre los árboles del bosque; no nos damos cuenta de ese zumbido y, sin embargo, junto con el fragor de la tormenta, nos llega al oído. ¿Cómo podríamos vivir, si no, sin esa incertidumbre? (S, p. 94; Apéndice A) 6.2 No puedo creer á los que me aseguran que nunca, ni en un parpadeo el más fugaz, ni en las horas de mayor soledad y tribulación, se les ha aflorado á conciencia ese rumor de la incertidumbre. No comprendo á los hombres que me dicen que nunca les preocupó el allende la muerte ni el anonadamiento propio les inquieta; paréceme que padecen de estupidez espiritual y quisiera inquietar á esas pobres almas sonámbulas. Por mi parte no quiero poner paz entre mi corazón y mi cabeza, entre mi fe y mi razón; quiero que se peleen y se nieguen entre sí, pues su combate es mi vida, y si me quitan mi vida ya no soy yo. (T, pp. 50-51) Mas en lo normal no puedo creer a los que me aseguran que nunca, ni en un parpadeo el más fugaz, ni en las horas de mayor soledad y tribulación se les ha aflorado a la conciencia ese rumor de la incertidumbre. No comprendo a los hombres que me dicen que nunca les atormentó la perspectiva del allende la muerte, ni el anonadamiento propio les inquieta; y por mi parte no quiero poner paz entre mi corazón y mi cabeza, entre mi fe y mi razón; quiero más bien que se peleen entre sí. (S, pp, 94-95; Apéndice A) 6.3 «Vas creciendo hacia Dios – puede decírseme – pues bien, imagínate que ese crecimiento se precipita, aumenta, que salvas la infinita distancia que del Infinito te separa y que fundes en Dios siendo por El absorvido ¿no aceptarías esta suerte? Pues ella implica la desaparición de tu personalidad. ¿No aceptarías el ir á asborverte en Dios? Pues el absorverte en El equivale á dejar de ser tú mismo. Eres un instrumento en manos del Señor, y el Señor prosigue su obra luego que de tí prescinde.» Y así puede seguir. Y á esto digo que un alma religiosa llegaría, sin duda, á renunciar á su propia inmortalidad personal poniéndose en manos de su Dios, pero es estando segura y cierta de que existe ese Dios en cuyo seno renuncia á su inmortalidad, y que ese Dios sigue viviendo y cumpliendo su obra. Pero ¿tenemos esa certeza y seguridad? Dejar de ser yo yo mismo para ir á fundirme en Dios, sí, desde luego, pero tengo la certeza de que al disolverse mi conciencia queda una Conciencia universal, una persona suprema? ! $)+! Este es uno de los más terribles círculos viciosos. Renunciaríamos á nuestra inmortalidad individual si tuviéramos la certeza de que existe una Conciencia universal y eterna que da finalidad y sentido al Universo y cumple la obra del espíritu, pero nuestra creencia en esa Conciencia universal y eterna, en Dios, brota de nuestro anhelo de perpetuación, de nuestra ansia de inmortalidad. Y se nos pide que sacrifiquemos por amor de Dios lo que es nuestra garantía de que ese amor no es un amor vano, una pura ilusión. (T, pp. 81-82) Y la más fuerte base de la incertidumbre, lo que más hace vacilar nuestro deseo vital, lo que más eficacia da a la obra disolvente de la razón, es el ponernos a considerar lo que podría ser una vida del alma después de la muerte. Porque aun venciendo, por un poderoso esfuerzo de fe, a la razón que nos dice y enseña que el alma no es sino una función del cuerpo organizado, queda luego el imaginarnos que pueda ser una vida inmortal y eterna del alma. En esta imaginación las contradicciones y los absurdos se multiplican y se llega, acaso, a la conclusión de Kierkegaard, y es que si es terrible la mortalidad del alma, no menos terrible es su inmortalidad. Pero vencida la primera dificultad, la única verdadera, vencido el obstáculo de la razón, ganada la fe, por dolorosa y envuelta en incertidumbre que ésta sea, de que ha de persistir nuestra conciencia personal después de la muerte, ¿qué dificultad, qué obstáculo hay en que nos imaginemos esa persistencia a medida de nuestros deseos? Sí, podemos imaginárosla como un eterno rejuvenecimiento, como un eterno acrecentarnos e ir hacia Dios, hacia la Conciencia Universal, sin alcanzarle nunca, podemos imaginárnosla... ¿Quién pone trabas a la imaginación, una vez que ha roto la cadena de lo racional? (S, p.97; Apéndice B) 6.4 (24) De lo que hay que distinguir cuidadosamente la religión es de la ética ó de la moral que según vió Sócrates, es ciencia, la ciencia de obrar bien. Necesidades políticas y sociales han hecho que se ponga la moral bajo la salvaguardia y amparo de la religión, haciendo depender la vida futura de nuestra vida moral presente, de la bondad ó maldad de nuestros actos morales, pero esto no es más que una confusión. La religión es el anhelo de no morirse y la fé en la inmortalidad, sea lo que fuere nuestra conducta aquí, en la tierra. Como nos conviene que otro no nos robe, ni nos pegue, ni nos engañe, ni goce á nuestra mujer, hemos dicho que á quien así delinca le esperan castigos en la otra vida, pero en rigor la inmortalidad es una cosa y el premio ó castigo es otra. La inmortalidad no se nos ha de dar como premio á nuestra conducta sino como fruto de nuestra fe. Para determinar nuestra conducta están las leyes penales. La religión no puede depender de la moral, aunque ésta dependa de aquella. ! $)"! Concibo otra vida y creo en ella, o por lo menos espero en ella, pero no bajo forma de premios y castigos. Si hay otra vida es la misma para todos. y no hay infierno. A lo sumo se aniquilan los que quieren aniquilarse y se resignan á ello, los que anhelaron virulentamente la inmortalidad, y se salvan, es decir, viven siempre, los que anhelaron vivamente vivir, los que no supieron resignarse al anonadamiento. Este no resignarse es la señal del predestinado, del que no se ha de aniquilar. Y el que se conforma á ello, el que se aviene de grado á aniquilarse y esta perspectiva no le amarga la vida es que nació ya aniquilado. Sienten su inmortalidad ó la esperan, aunque sea contra toda razón, los ya inmortales. Ve, pues, si encuentras en tí tu inmortalidad. (T, n. 24) No, no es ése el hondo sentido vital. No se trata de una policía trascendente, no de asegurar el orden –¡vaya un orden!– en la tierra con amenazas de castigos y halagos de premios eternos después de la muerte. Todo esto es muy bajo, es decir, no más que política, o si quiere ética. Se trata de vivir. (S, p, 97; Apéndice B) ! $)#! CAPÍTULO VII Amor, dolor, compasión y personalidad 7.1 El amor es lo más terrible y lo más trágico que > ex < en el mundo hay. El amor es hijo del engaño y padre del desengaño; el amor es el consuelo en el desconsuelo. El amor busca con furia > algo < á través de lo amado algo que está más allá de ello, y como no lo halla se desespera. Siempre que hablamos de amor tenemos presente sup[al espíritu] el amor sexual, el amor > de < *entre hombre y mujer, el amor que perpetúa el linaje humano sobre la tierra. Es el tipo > supre < generador de todo sup[otro] amor. En el amor buscamos perpetuarnos y sólo nos perpetuamos sobre la tierra á condición de morir, de entregar á otros nuestra vida. Los más humildes animalitos, los vivientes ínfimos, se multiplican dividiéndose, partiéndose en dos, dejando de ser el uno que antes eran. Y todo acto de engendramiento es un dejar de ser lo que se era, un partirse, una muerte parcial. Acaso el supremo deleite del engendrar no es si no un anticipado gustar la muerte, el desgarramiento de la propia esencia vital. Nos unimos á otro, pero es para partirnos; ese más íntimo abrazo no es sino el más íntimo desgarramiento. ren [En el fondo sup [[el deleite amoroso, sensual, el espasmo inf [genésico] ]] es una sensación de resurrección, de resucitar en otro porque sólo en otros podemos eternizarnos.] Hay, sin duda, algo de tragicamente disolvente en el fondo del amor en su forma primitiva y animal, en el invencible instinto que empuja á un hombre y una mujer á confundir sus cuerpos en un abrazo de furia. Lo mismo que les une los cuerpos les separa las almas; al abrazarse se odian tanto como se aman y sobre todo luchan sup [luchan por otro, por un tercero aun si vida.] El amor es una lucha. Animales hay > en < que al unirse el macho á la hembra la maltrata, y hay hembras que devoran al macho luego que éste las hubo fecundado. Se ha dicho > que < [d]el amor que es un egoismo mutuo. Cada uno de los amantes busca poseer al otro, y buscando > á través de < *mediante él, aun sin saberlo, su propia perpetuación, busca su goce. Cada uno de los amantes es un instrumento de goce inmediatamente, de perpetuación mediatamente, para el otro. Y así son tiranos y esclavos; cada uno de ellos tirano y esclavo á la vez del otro. ! $)$! Y en el fondo lo que perpetuan los amantes sobre la tierra es la carne, la carne de dolor, es el dolor, es la muerte. El amor es el hijo y á la vez el padre de la muerte, que es su madre y su hija. Hay en la hondura del amor un eterno desesperarse. Y del fondo de esta desesperación surgen la esperanza y el consuelo. De este amor de que vengo hablando, de este amor de todo el cuerpo con sus sentidos, de este enamoramiento, surge el amor espiritual y doloroso. Esta otra forma del amor, este amor espiritual, nace del dolor, nace de la muerte del amor carnal. Los amantes no llegan á amarse con dejación de sí mismos, con fusión de sus almas, si no cuando han sufrido juntos; cuando el mazo poderoso del dolor ha triturado sus corazones, remejiéndolos juntos en un mismo > vaso < ren*almirez de barro. El amor sensual confundía sus cuerpos y separaba sus almas y de ese amor tuvieron fruto, un hijo de la carne. Y este hijo, engendrado en muerte, enfermó y murió. Y sobre el lecho de muerte del fruto de su unión carnal y separación espiritual, separados sus cuerpos, frios de dolor y confundidas en el dolor sus almas, se dieron los amantes, los padres, un abrazo de desesperación y nació allí, de la muerte del hijo sup[de la carne], el amor espiritual. Los hombres sólo se aman con este amor cuando han sufrido juntos, cuando algún tiempo araron la tierra sup [pedregosa] uncidos al > yugo de>l< un mismo do < mismo yugo de un dolor común. Entonces se conocieron y se sintieron en su común miseria, se compadecieron, se amaron. Amar es compadecer. (7) Amar es compadecer. Y quien más compadece más ama. Los hombres encendidos en ardiente caridad hacia sus prójimos, es porque llegaron al fondo de su propia miseria, inf [de su aparencialidad,] de su nonada, de su no ser, y volviendo luego sus ojos á sus semejantes los vieron miserables, aparenciales, sin ser, y los compadecieron y los amaron. El hombre ansía ser amado, ansía ser compadecido. El hombre quiere que se sientan sus penas y sus dolores. Hay algo más que un[a] > artificio < ren*artimaña para obtener limosna en eso de los mendigos que á la vera del camino muestran al viandante su llaga ó su gangrenoso muñón. La limosna no es socorro para sobrellevar los trabajos de la vida; la limosna es compasión. El pordiosero no agradece la limosna al que se la da volviendo la cara por no verle y para quitárselo de encima. Agradece más que se le compadezca y no se le socorra, á no que socorriéndole no se le compadezca, aunque prefiera esto. Ved con que complacencia cuenta sus cuitas al que se conmueve oyéndoselas. Quiere ser compadecido; quiere ser amado. (13) La compasión es la esencia del amor conciente, del amor propriamente humano y no sólo animal. El amor compadece y compadece más cuanto más ama. ! $)%! Dije que hay que amar para conocer, y esto quiere decir que para conocer algo hay que compadecerlo, hay que, de un modo ó de otro, sufrir con ello. Creciendo el amor, creciendo esta ansia ardorosa de más allá y más adentro, va > extiend < extendiéndose á todo cuanto ve, lo va compadeciendo todo. Según te adentras en tí y en tí mismo ahondas vas descubriendo tu propia inanidad, que no eres todo lo que no eres, que que no eres lo que quisieras ser, que no eres nada sup [al fin]. Y al tocar tu propia nada, al sentir que no tienes fondo permanente, al no llegar ni á tu propia infinitud ni á tu propia eternidad te compadeces de todo corazón y te enciendes en doloroso amor á tí mismo, matando lo que se llama amor propio y no es sino una especie de delectación sensual de tí mismo, algo como un gozarse a sí misma la carne de tu alma. Y este doloroso amor á tí mismo, de esta íntima desesperación porque antes de nacer no fuiste y después de morir no serás, de esta compasión pasas á compadecer, á amar á todos tus semejantes, miserables sombras que desfilan de la nada á la nada, chispas > os < de conciencia que brillan un momento en las infinitas y eternas tinieblas. Y de los demás hombres, tus semejantes, pasando por los que más semejantes te son, por tus hermanos, vas á compadecer á todos los pobres vivientes y hasta á lo que no vive, á todo cuanto existe. Aquella lejana estrella que brilla allá arriba, durante la noche, se apagará algún dia y se hará polvo y dejará de brillar y de existir. Y como ella el cielo todo estrellado. ¡Pobre cielo! Y si es doloroso tener que dejar de ser un día más doloroso sería acaso seguir siendo siempre uno mismo y no más que uno mismo, sin poder ser á la vez otro, sin poder ser á la vez todo lo demás, sin poder serlo todo. (T, pp. 5-9) Es el amor, lectores y hermanos míos, lo más trágico que en el mundo y en la vida hay; es el amor hijo del engaño y padre del desengaño; es el amor el consuelo en el desconsuelo, es la única medicina contra la muerte, siendo como es de ella hermana. Fratelli, a un tempo stesso, Amore e Morte Ingeneró la sorte, como cantó Leopardi. El amor busca con furia a través del amado algo que está allende éste, y como no lo halla, se desespera. ! $)&! Siempre que hablamos de amor tenemos presente a la memoria el amor sexual, el amor entre hombre y mujer para perpetuar el linaje humano sobre la tierra. Y esto es lo que hace que no se consiga reducir el amor, ni a lo puramente intelectivo, ni a lo puramente volitivo, dejando lo sentimental o, si se quiere, lo sensitivo de él. Porque el amor no es en el fondo ni idea ni volición: es más bien deseo, sentimiento; es algo carnal hasta en el espíritu. Gracias al amor sentimos todo lo que de carne tiene el espíritu. El amor sexual es el generador de todo otro amor. En el amor y por él buscamos perpetuarnos, y sólo nos perpetuamos sobre la tierra a condición de morir, de entregar a otro nuestra vida. Los más humildes animalitos, los vivientes ínfimos se multiplican dividiéndose, partiéndose, dejando de ser el uno que antes eran. Pero agotada al fin la vitalidad de ser que así se multiplica dividiéndose de la especie, tiene de vez en cuando que renovar el manantial de la vida mediante uniones de dos individuos decadentes, mediante lo que se llama conjugación en los protozoarios. Únense para volver con más brío a dividirse. Y todo acto de engendramiento es un dejar de ser, total o parcialmente, lo que se era, un partirse, una muerte parcial. Vivir es darse, perpetuarse, y perpetuarse y darse es morir. Acaso el supremo deleite del engendrar no es sino un anticipado gustar la muerte, el desgarramiento de la propia esencia vital. Nos unimos a otro, pero es para partirnos; ese más íntimo abrazo no es sino un más íntimo desgarramiento. En su fondo, el deleite amoroso sexual, el espasmo genésico, es una sensación de resurrección, de resucitar en otro, porque sólo en otros podemos resucitar para perpetuarnos. Hay, sin duda, algo de trágicamente destructivo en el fondo del amor, tal como en su forma primitiva animal se nos presenta, en el invencible instinto que empuja a un macho y una hembra a confundir sus entrañas en un apretón de furia. Lo mismo que les confunde los cuerpos, les separa, en cierto respecto, las almas; al abrazarse se odian tanto como se aman, y sobre todo luchan, luchan por un tercero aún sin vida. El amor es una lucha, y especies animales hay en que al unirse el macho a la hembra la maltrata, y otras en que la hembra devora al macho luego que éste la hubo fecundado. Hase dicho del amor que es un egoísmo mutuo. Y de hecho cada uno de los amantes busca poseer al otro, y buscando mediante él, sin entonces pensarlo ni proponérselo, su propia perpetuación, que es el fin, ¿qué es sino avaricia? Y es posible que haya quien para mejor perpetuarse guarde su virginidad. Y para perpetuar algo más humano que la carne. Porque lo que perpetúan los amantes sobre la tierra es la carne del dolor, es el dolor, es la muerte. El amor es hermano, hijo y a la vez padre de la muerte, que es su hermana, su madre y su hija. Y así es que hay en la hondura del amor una hondura de eterno desesperarse, de la cual ! $)'! brotan la esperanza y el consuelo. Porque de este amor carnal y primitivo de que vengo hablando, de este amor de todo el cuerpo con sus sentidos, que es el origen animal de la sociedad humana, de este enamoramiento surge el amor espiritual y doloroso. Esta otra forma del amor, este amor espiritual, nace del dolor, nace de la muerte del amor carnal; nace también del compasivo sentimiento de protección que los padres experimentan ante los hijos desvalidos. Los amantes no llegan a amarse con dejación de sí mismos, con verdadera fusión de sus almas, y no ya de sus cuerpos, sino luego que el mazo poderoso del dolor ha triturado sus corazones remejiéndolos en un mismo almirez de pena. El amor sensual confundía sus cuerpos, pero separaba sus almas, manteníalas extraña una a otra; mas de ese amor tuvieron un fruto de carne, un hijo. Y este hijo engendrado en muerte, enfermó acaso y se murió. Y sucedió que sobre el fruto de su fusión carnal y separación o mutuo extrañamiento espiritual, separados y fríos de dolor sus cuerpos, pero confundidas en dolor sus almas, se dieron los amantes, los padres, un abrazo de desesperación y nació entonces de la muerte del hijo de la carne, el verdadero amor espiritual. O bien, roto el lazo de carne que les unía, respiraron con suspiro de liberación. Porque los hombres sólo se aman con amor espiritual cuando han sufrido juntos un mismo dolor, cuando araron durante algún tiempo la tierra pedregosa uncidos al mismo yugo de un dolor común. Entonces se conoocieron y se sintieron, y se consintieron en su común miseria, se compadecieron y se amaron. Porque amar es compadecer, y si a los cuerpos les une el goce, úneles a las almas la pena. [Interpolación del fragmento 7.9] Amar es compadecer, y quien más compadece más ama. Los hombres encendidos en ardiente caridad hacia sus prójimos, es porque llegaron al fondo de su propia miseria, de su propia aparencialidad, de sus naderías, y volviendo luego sus ojos así abiertos, hacia sus semejantes, los vieron también miserables aparenciales, anonadables, y los compadecieron y los amaron. El hombre ansía ser amado, o, lo que es igual, ansía ser compadecido. El hombre quiere que se sientan y se compartan sus penas y sus dolores. Hay algo más que un artimaña para obtener limosna en eso de los mendigos que a la vera del camino muestran al viandante su llaga o su gangrenoso muñón. La limosna, más bien que socorro para sobrellevar los trabajos de la vida, es compasión. No agradece el pordiosero la limosna al que se la da volviéndole la cara por no verle y para quitaserlo de al lado, sino que agradece mejor que se le compadezca no socorriéndole a no que socorriéndole no se le compadezca, aunque por otra parte prefiera esto. Ved, si no, con qué ! $)(! complacencia cuenta sus cuitas al que se conmueve oyéndoselas. Quiere ser compadecido, amado. [Interpolación del fragmento 7.10] La compasión es, pues, la esencia del amor espiritual humano, del amor que tiene conciencia de serlo, del amor que no es puramente animal, del amor, en fin, de una persona racional. El amor compadece y compadece más cuanto más ama. Invertiendo el nihil volitum quin praecognitum, os dije que nihil cognitum quin praevolitum, que no se conoce nada que de un modo o de otro no se haya antes querido, y hasta cabe añadir que no se puede conocer bien nada que no se ame, que no se compadezca. Creciendo el amor, esta ansia ardorosa de más allá y más adentro, va extendiéndose a todo cuanto ve, lo va compadeciendo todo. Según te adentras en ti mismo y en ti mismo ahondas, vas descubriendo tu propia inanidad, que no eres todo lo que no eres, que no eres lo que quisieras ser, que no eres, en fin, más que nonada. Y al tocar tu propia nadería, al no sentir tu fondo permanente, al no llegar ni a tu propia infinitud ni menos a tu propia eternidad, te compadeces de todo corazón de ti propio, y te enciendes en doloroso amor a ti mismo, matando lo que se llama amor propio, y no es sino una especie de delectación sensual de ti mismo, algo como un gozarse a sí misma la carne de tu alma. El amor espiritual a sí mismo, la compasión que uno cobra para consigo, podrá acaso llamarse egotismo; pero es lo más opuesto que hay al egoísmo vulgar. Porque de este amor o compasión a ti mismo, de esta intensa desesperación, porque así como antes de nacer no fuiste, así tampoco después de morir serás, pasas a compadecer, esto es, a amar a todos tus semejantes y hermanos en aparencialidad miserables sombras que desfilan de su nada a su nada, chispas de conciencia que brillan un momento en las infinitas y eternas tinieblas. Y de los demás hombres, tus semejantes, pasando por los que más semejantes te son, por tus convivientes, vas a compadecer a todos los que viven, y hasta a lo que acaso no vive pero existe. Aquella lejana estrella que brilla allí arriba durante la noche se apagará algún día y se hará polvo, y dejará de brillar y de existir. Y como ella, el cielo todo estrellado. ¡Pobre cielo! Y si doloroso es tener que dejar de ser un día, más doloroso sería acaso seguir siendo siempre uno mismo, y no más que uno mismo, sin poder ser a la vez otro, sin poder ser a la vez todo lo demás, sin poder serlo todo. (S, pp.104-108; Apéndice A –cfr. §§ 7.9 y 7.10) ! $))! 7.2 Si miras al universo lo más cerca que puedes mirarlo, en tí mismo; si contemplas las cosas todas en tu conciencia, donde todas > ellas < han dejado su dolorosa huella, llegarás al hondón del tedio no ya de la vida, sino de algo más, del tedio de la existencia, al hondón del vanidad de vanidades -¡tremendo!- llegarás á compadecerlo todo, al amor universal. Para amarlo todo, para compadecerlo todo, es menester que lo sientas todo dentro de tí mismo, que lo personalices todo. El amor personaliza cuanto ama, cuanto compadece. Sólo > podemos< compadecemos lo que nos es semejante y en cuanto nos lo es, y crece nuestra compasión, y con ella nuestro amor, á medida de que descubrimos las semejanzas que las cosas tienen con nosotros. Si compadezco y amo á la pobre estrella que desaparecerá del cielo un dia es porque | la sobre el | compasión, el amor, me hace descubrir en ella una conciencia, más o menos oscura, que la hace sufrir por no ser más que estrella, por no poder ser otra cosa sin dejar de ser lo que es, por tener que dejar de serlo un dia. Toda conciencia es conciencia de muerte. El amor personaliza cuanto ama, y cuando el amor es grande y vivo y lo ama todo, lo personaliza todo, personaliza al todo, descubre que el total Todo, el Universo es Persona, es Conciencia, es Conciencia que sufre, y compadece al Universo conciente, le ama y descubre á Dios. Compadece á Dios y se siente amado por Él. Abriga su miseria en el seno de la Miseria eterna é infinita. Dios es la personalización del Todo, es la Conciencia eterna é infinita del Universo, Conciencia presa de la materia y luchando por desprenderse de ella. Personalizamos el Todo para salvarnos de la nada. El único misterio verdaderamente misterioso es el misterio del dolor. El dolor es el camino de la conciencia; por el dolor es como los seres llegan á conciencia de sí. Tener conciencia es saberse distinto de los demás seres, y á sentir esta distinción sólo se llega por el choque, por el dolor. La conciencia de sí mismo no es si no la conciencia de la propia limitación. Me siento yo mismo al sentirme que no soy los demás; saber hasta donde soy es saber donde acabo, desde donde no soy. (T, pp. 10-11) Si miras al universo lo más cerca y lo más dentro que puedes mirarlo, que es en ti mismo; si sientes y no ya sólo contemplas las cosas todas en tu conciencia, donde todas ellas han dejado su dolorosa huella, llegarás al hondón del tedio de la existencia, al pozo de vanidad de vanidades. Y así es como llegarás a compadecerlo todo, al amor universal. Para amarlo todo, para compadecerlo todo, humano y extrahumano, viviente y no viviente, es menester que lo sientas todo dentro de ti mismo, que lo personalices todo. Porque el amor ! $)*! personaliza todo cuanto ama, todo cuanto compadece. Sólo compadecemos, es decir, amamos, lo que nos es semejante y en cuanto nos lo es y tanto más cuanto más se nos asemeja, y así crece nuestra compasión, y con ella nuestro amor a las cosas a medida que descubrimos las semejanzas que con nosotros tienen. O más bien es el amor mismo, que de suyo tiende a crecer, el que nos revela las semejanzas esas. Si llego a compadecer y amar a la pobre estrella que desaparecerá del cielo un día, es porque el amor, la compasión, me hace sentir en ella una conciencia, más o menos oscura, que la hace sufrir por no ser más que estrella y por tener que dejarlo de ser un día. Pues toda conciencia lo es de muerte y de dolor. Conciencia, conscientia, es conocimiento participado, es consentimiento, y con-sentir es com-padecer. El amor personaliza cuanto ama. Sólo cabe enamorarse de una idea personalizándola. Y cuando el amor es tan grande y tan vivo y tan fuerte y desbordante que lo ama todo, entonces lo personaliza todo y descubre que el total Todo, que el Universo es Persona también, que tiene una Conciencia, Conciencia que a su vez sufre, compadece y ama, es decir, es conciencia. Y a esta Conciencia del Universo, que el amor descubre personalizando cuanto ama, es a lo que llamamos Dios. Y así el alma compadece a Dios y se siente por Él compadecida, le ama y se siente por Él amada, abrigando su miseria en el seno de la miseria eterna e infinita, que es al eternizarse e infinitarse la felicidad suprema misma. Dios es, pues, la personalización del Todo, es la Conciencia eterna e infinita del Universo, Conciencia presa de la materia y luchando por libertarse de ella. Personalizamos al Todo para salvarnos de la nada, y el único misterio verdaderamente misterioso es el misterio del dolor. El dolor es el camino de la conciencia y es por él como los seres vivos llegan a tener conciencia de sí. Porque tener conciencia de sí mismo, tener personalidad, es saberse y sentirse distinto de los demás seres, y a sentir esta distinción sólo se llega por el choque, por el dolor más o menos grande, por la sensación del propio límite. La conciencia de sí mismo no es sino la conciencia de la propia limitación. Me siento yo mismo al sentirme que no soy los demás; saber y sentir hasta donde soy, es saber donde acabo de ser, y desde donde no soy. (S, pp. 108-109; Apéndice A) 7.3 Compadecemos á lo semejante y tanto más lo compadecemos cuanto más y mejor sentimos su semejanza con nosotros. Y si esta semejanza podemos decir que provoca nuestra compasión, cabe > decir < ren*sostener también que es nuestro repuesto de compasión, pronto á derramarse sobre todo, lo que nos hace descubrir la semejanza de las cosas con nosotros, y el fondo común que nos une con ellas en el dolor. ! $*+! Nuestra lucha por cobrar, conservar y acrecentar la propia conciencia nos hace descubrir en las agitaciones y movimientos de las cosas todas una lucha por cobrar, conservar y acrecentar conciencia. Bajo los actos de mis más prójimos semejantes, los demás hombres, siento – con-siento más bien – un estado de conciencia como es el mío bajo mis propios actos. Al oirle un grito de dolor á mi hermano un dolor se despierta y grita en el fondo de mi conciencia. Y de la misma manera siento el dolor de los animales y siento el dolor de un árbol al que le arrancan una rama, sobre todo cuando tengo viva la fantasía, que es la facultad de intuición, de visión interior. Descendiendo desde el hombre suponemos que tienen alguna conciencia, más o menos ocura, todos los vivientes y las rocas mismas, que también viven. La mónera al escindirse en dos debe sentir algún doloroso deleite, sensación de amor y de muerte á la vez, de muerte y de resurreción. > Porque el < Y la evolución de los seres orgánicos no es si no una lucha por la plenitud de la conciencia, á través del dolor, una constante aspiración á ser otros sin dejar de ser lo que son, á romper sus limites limitándose. ¡Terrible contradicción de la vida! glos lat [Schopenauer] (T, pp. 11-12) Compadecemos a lo semejante a nosotros, y tanto más lo compadecemos cuanto más y mejor sentimos su semejanza con nosotros. Y si esta semejanza podemos decir que provoca nuestra compasión, cabe sostener también que nuestro repuesto de compasión, pronto a derramarse sobre todo, es lo que nos hace descubrir la semejanza de las cosas con nosotros, el lazo común que nos une con ellas en el dolor. Nuestra propia lucha por cobrar, conservar y acrecentar la propia conciencia, nos hace descubrir en los forcejeos y movimientos y revoluciones de las cosas todas una lucha por cobrar, conservar o acrecentar conciencia, a la que todo tiende. Bajo los actos de mis más próximos semejantes, los demás hombres, siento – o consiento más bien – un estado de conciencia como es el mío bajo mis propios actos. Al oírle un grito de dolor a mi hermano, mi propio dolor se despierta y grita en el fondo de mi conciencia. Y de la misma manera siento el dolor de los animales y el de un árbol al que le arrancan una rama, sobre todo cuando tengo viva la fantasía, que es la facultad de intuimiento, de visión interior. Descendiendo desde nosotros mismos, desde la propia conciencia humana, que es lo único que sentimos por dentro y en que el sentirse se identifica con el ser, suponemos que tienen alguna conciencia, más o menos oscura todos lo vivientes y las rocas mismas, que también ! $*"! viven. Y la evolución de los seres orgánicos no es sino una lucha por la plenitud de conciencia a través del dolor, una constante aspiración a ser otros sin dejar de ser lo que son, a romper sus límites limitándose. (S, p. 110; Apéndice A) 7.4 glos lat [Scopenauer]En cuantas teorías evolucionistas se han propuesto quedaba siempre fuera de doctrina el íntimo resorte, el motivo esencial. Cual es la fuerza oculta que produce el perpetuarse los organismos y el pugnar por persistir y propagarse? La selección, la adaptación, todo esto son condiciones externas. A esa fuerza íntima, esencial, se le ha llamado voluntad. Es lo que sentimos como voluntad en nosotros mismos; es el impulso á serlo todo, á ser lo demás, sin dejar de ser nosotros. Esa fuerza es lo divino de nosotros, Dios que en nosotros obra. [porque en nosotros sufre.] glos lat[Berkley] (T, p. 12) Para un voluntario como Schopenauer, en efecto, en teoría tan sana y cautelosamente empírica y racional como la de Darwin, quedaba fuera de cuenta el íntimo resorte, el motivo esencial de la evolución. Porque ¿cuál es, en efecto, la fuerza oculta, el último agente del perpetuarse los organismos y pugnar por persistir y propagarse? La selección, la adaptación, la herencia, no son sino condiciones externas. A esa fuerza íntima esencial, se le ha llamado voluntad por suponer nosotros que sea en los demás seres lo que en nosotros mismos sentimos como sentimiento de voluntad, el impulso a serlo todo, a ser también los demás sin dejar de ser lo que somos. Y esa fuerza cabe decir que es lo divino en nosotros, que es Dios mismo, que en nosotros obra porque en nosotros sufre. (S, p. 115; Apéndice A) 7.5 Y esa fuerza, esa aspiración á la conciencia, la encontramos en todo. mueve y agita á los más menudos seres vivientes, mueve y agita á las células de nuestro propio cuerpo, á los glóbulos de nuestra sangre. Nuestras células, nuestros glóbulos tienen su conciencia rudimentaria, celular, globular. Y si estas células se comunicaran entre sí ó si de hecho se comunican de algún modo, y si alguna de ellas expresara su creencia de que formaban parte de un organismo superior dotado de conciencia colectiva y personal, la cosa > no < sería > más [?] < como si yo expreso mi creencia de que los hombres somos á modo de glóbulos de la sangre de un Ser Superior, de un Ser Supremo, que tiene su conciencia colectiva y personal. Tal vez la inmensa via lactea que contemplamos de noche, ese enorme anillo de que nuestro sistema todo planetario, no es si no una molécula, > es la inmen < |*es una| célula del Universo, ! $*#! Cuerpo de Dios. Las células de nuestro cuerpo conspiran con su actividad á mantener y encender nuestra conciencia, y si las conciencias de todas ellas entrasen enteramente en la nuestra, si tuviese yo conciencia de todo lo que en mi organismo corporal pasa, sentiría pasar por mí todo el Universo y se borraría la dolorosa sensación de mis limites. Y si todas las conciencias de todos los seres entran enteramente en la Conciencia Universal, Dios es perfecto y acabado. En nosotros nacen y mueren á cada instante conciencias y este nacer y morir de ellas constituye nuestra vida. Y cuando mueren bruscamente, en choque, hacen nuestro dolor. Así en el seno |de sobre del | Dios nacen y mueren conciencias constituyendo con sus nacimientos y sus muertes su vida. (T, pp. 12-13) Y esa fuerza, esa aspiración a la conciencia, la simpatía nos la hace descubrir en todo. Mueve y agita a los menudos seres vivientes, mueve y agita acaso a las células mismas de nuestro propio organismo corporal, que es una federación más o menos unitaria de vivientes; mueve a los glóbulos mismos de nuestra sangre. De vidas se compone nuestra vida, de aspiraciones, acaso en el limbo de la subconciencia, nuestra aspiración vital. No es un sueño más absurdo que tantos sueños que pasan por teorías valederas el de creer que nuestras células, nuestros glóbulos, tengan algo así como una conciencia o base de ella rudimentaria, celular, globular. O que puedan llegar a tenerla. Y ya puestos en la vía de las fantasías, podemos fantasear el que estas células se comunicaran entre sí, y expresara alguna de ellas su creencia de que formaban parte de un organismo superior dotado de conciencia colectiva personal. Fantasía que se ha producido más de una vez en la historia del sentimiento humano al suponer alguien, filósofo o poeta, que somos los hombres a modo de glóbulos de sangre de un Ser Supremo que tiene su conciencia colectiva personal, la conciencia del Universo. Tal vez la inmensa Vía Láctea que contemplamos durante las noches claras en el cielo, ese enorme anillo de que nuestro sistema planetario no es sino una molécula, es a su vez una célula del Universo, Cuerpo de Dios. Las células todas de nuestro cuerpo conspiran y concurren con su actividad a mantener y encender nuestra conciencia, nuestra alma; y si las conciencias o las almas de todas ellas entrasen enteramente en la nuestra, en la componente, si tuviese yo conciencia de todo lo que en mi organismo corporal pasa, sentiría pasar por mí al Universo, y se borraría tal vez el doloroso sentimiento de mis límites. Y si todas las conciencias de todos los seres concurren por entero a la conciencia universal, ésta, es decir, Dios, es todo. En nosotros nacen y mueren a cada instante oscuras conciencias, almas elementales, y este nacer y morir de ellas constituye nuestra vida. Y cuando mueren bruscamente, en choque, hacen ! $*$! nuestro dolor. Así en el seno de Dios nacen y mueren –¿mueren?– conciencias, constituyendo sus nacimientos y sus muertes su vida. (S, pp. 115-116; Apéndice A) 7.6 Cuando la compasión nos revela al Universo todo luchando por cobrar, conservar y acrecentar su conciencia, sintiendo el dolor de las discordancias que dentro de él se producen, la compasión nos revela la semejanza del Universo todo con nosotros, nos hace ver en él á nuestro Padre, > carne < de cuya carne somos carne, el amor nos hace personalizar el Todo de que formamos parte y nos descubre á Dios. Por qué no ha de ser así? (T, pp. 13-14) Cuando la compasión, el amor, nos revela al Universo todo luchando por cobrar, conservar y acrecentar su conciencia, por concientizarse más y más cada vez, sintiendo el dolor de las discordancias que dentro de él se producen, la compasión nos revela la semejanza del Universo todo con nosotros, que es humano, y que nos hace descubrir en él a nuestro Padre, de cuya carne somos carne; el amor nos hace personalizar al todo de que formamos parte.(S, p.116; Apéndice A) 7.7 Y vienen los razonadores, los lógicos y nos dicen: por qué ha de ser así? Todo eso no es más que ensueño de la fantasía, y no enseñanza de la razón. Quien prueba eso? Eso lo prueba la fé, la fé en Dios nacida del amor á Dios y del amor de Dios á nosotros. En cuanto á la razón basta que no pueda probarnos lo contrario. La razón no nos prueba que Dios exista, es cierto, pero no es menos cierto que tampoco nos prueba que no exista, mucho menos que no pueda existir. La razón no es sino una facultad negativa, limitadora; la facultad afirmativa, libertadora, es otra. (T, p. 14) Claro es que vendrán los lógicos, y nos pondrán todas las evidentes dificultades racionales que de esto nacen; pero ya dijimos que, aunque bajo formas racionales, el contenido de todo esto no es, en rigor, racional. Toda concepción racional de Dios es en sí misma contradictoria. La fe en Dios nace del amor a Dios, creemos que existe por que