In bilico tra climi e dialetti

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In bilico tra climi e dialetti
In bilico tra climi e dialetti
Primo giorno, dove la Topolino si perde nelle strade del silenzio e incontra la zuppa di
fagioli, il bonarda e il formaggio.
Comincia tra le nubi che salgono dal mare il viaggio dalla Liguria alle porte della Sicilia,
lungo la spina dorsale del nostro Paese. "Turchino, si veleggia. Sotto di noi c' è la costa, il
caos" "Dopo 100 chilometri la foto di Coppi, e le premiate distillerie"
Dopo una curva il cielo sparisce, inghiottito da un fiume di nubi che sale dal mare, mille
metri sotto. Il trabiccolo blu trema, squassato dal vento, pare un aliante in una turbolenza;
schizza odore di ferro, benzina e vernice, s'infila come un furetto nello squarcio tra la
brughiera viola, l'asfalto nero-catrame e la muraglia grigia che tuona arrampicandosi verso
le creste. Ha trovato il suo corridoio aereo nella linea di scontro tra climi. E' un varco di
solitudine così perfetta, che posso fermarmi in mezzo alla strada, uscire, fotografare,
rientrare, mentre lui aspetta ronfando con le lucette accese. Tanto, non c'è nessuno.
Poco oltre, nel tunnel grigio, scompare improvvisamente ogni rumore: cigolii, spifferi,
sferragliamenti, raffiche, scricchiolìo della ghiaia. Muore anche il cellulare, il viaggio
diventa un film muto. In che anno siamo? E dove? In Cornovaglia? Sulla strada per Lima
sotto una perturbazione del Pacifico? No, siamo in Italia, sul Passo del Faiallo, quota 1061,
sopra Genova. Sotto, la costa più affollata del mondo tace, è una massa di nubi che ribolle
come una caldiera. E la macchinina è una pazza Topolino del 1953.
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Appennino, si comincia. Davanti a noi tre, forse quattromila chilometri. La distanza
dall'Italia all'Iran, ma col triplo dei dislivelli e il quintuplo di curve. Un altro mondo.
Pontinvrea, sole e praterie, case a spioventi alti da vecchia Borgogna, un ristorante "Aquila
d'oro", un pieno di benzina da sette euro con mezzo paese che guarda. Sassello, il paese
degli amaretti, intatto con le vie in selciato, la grande chiesa barocca, le case panciute da
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inverni lunghi, il mercato in piazza e la macelleria "Giacobbe". Al bar "Gina" puoi farti una
piadina e un calice di rosso in compagnia di un carabiniere gentile e una suora dai capelli
neri a caschetto. Che senso ha stare sulla costa se esiste un'Italia simile.
Ecco Masone, paese piovoso di gente cupa, con un vento in poppa così forte che andiamo
senza motore. Al Passo del Turchino quasi veleggiamo nelle raffiche verso il Piemonte; ci
dicono che qui, con la corrente contraria, basterebbe allargare il valico e la nebbia padana
colerebbe sulla costa liberando il Nord dalla sua pestilenza grigia. Al Turchino, più che a
Cadibona, iniziano gli Appennini. Qui la catena perde la sua solidità alpina, diventa un'altra
cosa, un mondo instabile, sismico, in bilico tra dialetti, climi e profumi.
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Dopo cento chilometri lasciamo riposare il mulo meccanico sui prati delle Capanne di
Marcarolo, locanda "Agli Olmi", un posto di cinghiali e cacciatori, con la foto di Coppi e il
manifesto di premiate distillerie. Fuori, l'unica voce è il cuculo nella foresta. Il mio
compagno di viaggio si diverte a calcolare il nostro peso, come fossimo un cavallo
all'ippodromo. Auto 600, passeggeri 190, bagaglio e pezzi di ricambio 60, benzina 20;
totale 870. E' Albano Marcarini, milanese, il miglior ufficiale di rotta su piazza. Conosce le
strade d'Italia a memoria: chilometri, dislivelli, toponomastica. Legge favolose guide
ottocentesche. Non fotografa, disegna. Matita e acquarello. Tocca a lui dirigere l'ouverture
di questa traversata italiana. "Sia ben chiaro - m'ha avvertito alla partenza a Savona - il
nostro è un viaggio alla ricerca delle strade perdute". E così, quando abbiamo preso la
Provinciale 29 dal mare a Cadibona, inizio geografico dell'Appennino, per lui era sempre la
Statale 29. Marcarini ignora la svendita del patrimonio nazionale travestita da federalismo.
Ignora rondò, sensi unici e viadotti; segue la vecchia pista come un bracco, sostiene che
dietro ogni rettilineo c'è un imbroglio. Ha ragione: già al paese di Altare, dopo 20
chilometri, una perfida circonvallazione ha cercato di depistarci. Ma lui ha mangiato la
foglia e s'è infilato nel bivio giusto verso il Grande Inizio: una fortezza napoleonica coperta
di muschio e una cantoniera dimenticata, in località - sentite che nome - "Bocca d'Orso
Sagattaro".
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Ora la dorsale galoppa con saliscendi nervoso da ciclisti, prolunga la sua gobba verso
Oriente, e la Topolino prende le misure del terreno, cerca il suo sentiero mohicano
nell'Italia del silenzio. Prime discese, primo freno-motore, primi tacco-punta, con i piedi
che manovrano freneticamente i pedali, ti trasformano in organista, un Kappellmeister che
preme ansimando sui valvoloni dei mantici sotto la tastiera. La mobilitazione muscolare è
totale: è come andare a cavallo, anche le chiappe lavorano. E ogni chilometro è un
compromesso tra te e il mezzo che ti porta. Dopo le gole del Gorzente, arriviamo a
Voltaggio con un guado, tra applausi di bambini; poi è la confluenza con un altro fiume e
un ponte medievale gobbo come quello di Mostar. Si va con la capote spalancata, i nomi
cantano la loro storia: Molini, Pian dei Grilli, Castagneto. La casa natale di Coppi non è
lontana, le sue strade cercano quota verso il mare in un'onda lunga di praterie
controvento. E a Nord, oltre la linea verdescura del Monferrato, lontanissima, la pianura.
Sul passo dei Giovi si ingolfano ferrovie, strade, elettrodotti, tutto il traffico della MilanoGenova, ma noi filiamo alla chetichella, sordi al frastuono, invisibili tra piloni di
calcestruzzo, gallerie e scali merci. Apparteniamo già a un altro mondo, abbiamo le nostre
vie di fuga. Luce radente di poppa, l'automobilina sale tra villaggi a precipizio fino al colle
di San Fermo, con chiesetta sulla sommità e una vista senza fine. Gli Appennini sono una
mandria in fuga. Meraviglia, meraviglia, meraviglia.
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Tramonto mandarino su Dova superiore, provincia di Alessandria, 18 abitanti e una
locanda gestita dal parroco. Don Luciano porta zuppa di fagioli, bonarda e formaggio con i
grilli, un micidiale impasto marrone che ha già digerito i propri vermi. Parla dei lunghi
inverni, dei bambini che non nascono più, dei villaggi svuotati come da una pestilenza,
rimasti lì con i letti vuoti e le stoviglie nei cassetti. Qui solo i preti tengono duro: Luciano
viaggia come un matto per dir messa in undici parrocchie, ma rischia di non farcela più.
"Tutto è cominciato nel '52, quando hanno fatto la strada". Doveva portare la ricchezza, e
invece è arrivata la fine. L'asfalto ha risucchiato la gente quasi per gravità, come un
maledetto piano inclinato. Un bidone aspiratutto che ha spazzato via un mondo.
Cinquant'anni come un millennio. Capisco che la mia Topolino appartiene all'Italia di ieri, è
l'anello di congiunzione fra il dopoguerra e la modernità. Forse, è una lucciola di Pasolini.
Forse noi due pazzi stiamo davvero viaggiando a cavallo di una lucciola, nell'Italia degli
autogrill.
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La Tv sulla credenza parla di scandali italiani, ma è un ronzìo lontano, sembra che
trasmetta dalla Luna. Accanto, montagne di bollette, pubblicità, posta inevasa proveniente
dalle galassie. "Il potere non sa nulla di noi", racconta il parroco. "Un giorno un assessore
piemontese ci ha ricevuti pensando che fossimo liguri". L'Appennino, s'arrabbia, non sa
difendersi come le Alpi. Non ha i Messner, i Mauro Corona. "Noi siamo ai margini del
Piemonte, della Liguria, dell'Emilia e della Toscana. Unite, queste quattro periferie
diverrebbero centro. Ritroverebbero la loro identità. Ma nessuno lo vuole". Il torrente
scroscia sotto le stelle. "Quando si gonfiava - racconta Luciano - i mulattieri lo passavano
con i trampoli, poi dall'altra riva con la corda tiravano la badessa, la capofila della mandria.
Così la carovana seguiva docilmente". Il buio si popola di ombre, tornano gli abitanti dei
villaggi estinti, Reneuzzi, Casoni, Ferrazzi. Torna Gaetano di Corrego, che portava armadi
interi sulle mule agghindate come spose, con colorate gualdrappe, fiocchi, bardature e
sonagli. Alla fine, ci porta via un sonno da camionisti.
(31 luglio 2006)
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In Valtrebbia l'ombra d'Annibale
Secondo giorno, dove la Topolino viaggia tra ladri, imperatori e bivacchi di sbandati. Fino a
incontrare la rabbinica barba
Proprio qui il 25 dicembre 213 a. C. si consumò durante una tempesta di neve la prima
grande sconfitta di Roma. "Razza italiana? Le facce raccontano un'altra storia" "La notte
porcilaie e zanzare, erba umida e grilli"
La giornata dei briganti, disertori, sbandati stupratori di femmine, comincia alle Capanne di
Còsola, valico in capo al mondo a quota 1493, dopo una salita da bestie, col mulo
meccanico surriscaldato, un birrino e una strana locanda dal bancone in Emilia, i tavoli in
Piemonte e la terrazza in Lombardia. Un posto che a ottobre si riempie di pifferi e
cornamuse, una specie di stati generali dei fiati appenninici. Comincia con lo sconforto di
fronte alla complessità caucasica di un mondo dove è passato di tutto: cartaginesi, svevi,
legioni romane, lanzichenecchi, leghe lombarde, partigiani russi e slavi, angloamericani,
tedeschi della Wehrmacht e bande irregolari di ogni tipo. La discesa in Val Boreca,
affluente della Trebbia, è una forra da imboscate, stretta, senza parapetto, dove il frenomotore tiene solo in prima, urla come la sega di un tagliaboschi. Nell'aria strane presenze.
Un'auto arrogante di oggi non le sentirebbe. La nostra invece fiuta qualcosa, si inchioda
come un fox terrier davanti a un cartello che indica il paese di "Zerba", e poi davanti a una
targa, oltre il fiume, col nome di "Tàrtago". I nomi hanno sempre un segreto, e Albano,
l'impareggiabile navigatore che conosce ogni angolo del Paese, li svela. "Pare che dietro ci
siano Djerba e Cartagine. Per via dei cartaginesi che si sarebbero nascosti qui, dopo la
seconda guerra punica"
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Hannibal. Siamo davanti alla prima grande ombra appenninica. "Forse è fantasia - sorride
il passeggero - ma che importa". Quello che importa è che in val Trebbia il 25 dicembre
213 avanti Cristo si consumò, in una tempesta di neve, la prima grande sconfitta di Roma.
E importa che dopo 22 secoli, la valle rivendichi tuttora un favoloso lignaggio punico. Per
gli indigeni è un modo di dire: siamo diversi da Roma dominante.
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Per noi, è il primo segno che stiamo entrando in un viaggio parallelo, popolato di
trapassati. Re e anarchici, soldati e uomini-contro. Il cui ricordo diventa spesso mito
fondativo per le comunità.
Razza italiana? Sarà. La mappa dice altrimenti. A Mandrogne, paese di rottamai sotto
Alessandria, la gente ha la faccia scura e si dice discenda da pirati arabi in fuga dai
genovesi. Idem per Sassalbo e Succiso, villaggi di legnaioli ai due lati del passo del
Cerreto. A Barbagelata, sopra Chiavari, la gente è sul metro e ottanta per via di un
manipolo di lanzichenecchi transitati dopo una razzìa. A Teruzzi, sopra Piacenza, hanno la
faccia asiatica; e nella vicina Rabbini, ex zona ebraica, trovi nasi e barbe da Medio Oriente.
Sopra Massa, nelle Apuane, c'è un villaggio dove usano ancora l'alto-tedesco. A Taverne,
nell'alto Piacentino, una caserma di dragoni ha elevato di 20 centimetri l'altezza media dei
locali. E a Bardi, sul crinale parmense, perfino i cavalli rivendicano ascendenza punica. Da
perdersi.
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A Ponte Organasco, più a valle sulla Trebbia, sbuca un'altra ombra, quella del Barbarossa.
E' una storiaccia del 1167 che di nuovo il mio bravo passeggero-cartografo conosce a
memoria. L'imperatore, di ritorno da Roma, si ritrova il passo della Cisa sbarrato dai
Lumbard. Ripiega su Pontremoli e, per raggiungere la sua Pavia, deve imbarcarsi in un
periplo infinito in orride valli laterali sotto la guida del margravio Obizzo Malaspina. Allibito
dalla povertà dei luoghi, chiede al conte di cosa viva la gente, e quello risponde: "Che
volete, in siffatti paesi che nulla producono, bisogna pur vivere di rapina".
"C'era il bandito Gurcio Tignoso da queste parti", ci avvertono in una locanda sul fiume. E
poi il famigerato Bagnagatta, che assaliva anche gli imperiali e per questo fu messo alla
forca con un piede in meno, amputatogli al momento della cattura. Il pericolo era
ovunque, tanto che la stessa imperatrice, Beatrice di Borgogna, dovette cavalcare armata
di spada. E quando a Ponte Organasco, la valle della Trebbia gli dischiuse la via della
Padania, il barbuto imperatore era così furente che annunciò il perdono a tutti i ribelli del
Nord, tranne a coloro che l'avevano obbligato a una trasferta così orribile.
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"Lo vedi quel filare di gelsi?" mi chiede il rude amico Franco Sprega scodellandomi una
mestolata di tortelli nella sua veranda ai bordi della pianura, frazione di San Protaso in
quel di Fiorenzuola. "Lo chiamano Camp dei Rus. E' per via dei cosacchi. Fecero tali
disastri tra i contadini dopo aver sconfitto i napoleonici nel 1799, che la gente cominciò a
farli secchi appena si ubriacavano. Li seppellivano con tutte le armi, per cancellare le
prove. E molti li abbiamo trovati lì". Non c'è solo Annibale con gli elefanti in zona Trebbia.
Franco lo sa bene, che della storia di quelle valli sa tutto e di più. Albano, il compagno di
viaggio, s'è appena imbarcato su un autobus per Milano, e San Protaso è il luogo perfetto
per bivaccare e fare il pieno di storie prima di tornar sui monti. L'auto tira il fiato sotto un
gelso, è l'ora del vino freddo, un Trebbianino bianco con le bollicine. Il Camp dei Rus,
dunque. Nessuno, racconta Sprega, ricordava più il senso di quel nome. Poi negli anni
Cinquanta vennero gli aratri a motore, la terra fu rivoltata nel profondo, emersero sciabole
e bottoni con strane scritte cirilliche, e solo allora la memoria riprese corpo. Apriamo un
vecchio libro pieno di donne violentate, stragi di maialini, dita mozzate con tutto l'anello,
chiese depredate di aurei candelabri. Erano sconvolti i parroci del "diabolico furore" dei
"moscoviti ladri per natura", giunti a "bottinare in qualsiasi luogo", "dilapidanti tartareis
moscovia milites", russi dal "barbarico ululato". Che némesi: quei "satrapi" del
cristianissimo re delle Russie erano assai peggio dei francesi mangiapreti.
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Attorno a noi, nei fumi del vino, è tutto uno strepito di archibugiate, urla, comandi militari,
scalpitar di zoccoli. Poi, nient'altro che i "laceri avanzi del furor moscovita".
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Ma è lì, verso le 23, che sbucano a sorpresa dalla steppa padana gli ultimi sbandati di
questo giorno interminabile di battaglie, agguati, imboscamenti e imperatori in fuga. Sono
gli ultimi barbari resistenti della piana ipermercata, ombre partigiane erranti tra i treni
della notte e i canali. Li guida Vinicio Capossela, il cantautore dalla barba rabbinica, che mi
ha beccato ai bordi del suo feudo emiliano. Dietro, gli amici di scorribanda. "Benzina",
alchimista dei motori. "Pepe", suonatore di bandoneon. Il "Negro Dum-dum", dal volto
truculento, abitatore di una torre piezometrica. E Luca, inventore di un locale dove i treni
della Milano-Bologna fanno tremare il palcoscenico e pare investano gli spettatori.
Mi portano via, i briganti, tra porcilaie e zanzare, nell'odore di erba umida e i grilli, fino a
un gran fuoco acceso ai margini di un bosco con le ultime lucciole sopravvissute allo
sterminio. E' un convegno segreto, in località "Chiavicone", repubblica autonoma della Val
d'Enza, ultima trincea indipendente nel totalitarismo padano. Si finisce alle quattro, con
cotolette di maiale celtico e bottiglie di rosso Gutturnio - lo stesso che Annibale avrebbe
dato ai suoi per scaldarli prima della battaglia - con Vinicio che si fa calare in un pozzo
assieme a una fisarmonica e attacca, dal profondo, uno straziante rebetico, roba greca da
alcolisti disperati ultimo stadio.
Rebetico, dal turco "Rebet": soldato allo sbando, anarchico solitario e imboscato. Il conto
torna fino alla fine. Fino al risveglio antelucano della via Emilia, quando le ombre turrite
degli elefanti cartaginesi si dileguano, spaventate dall'urlo degli autoarticolati, e la folle
energia del Grande Nord ricomincia a divorare se stessa. E' questa l'ora della fuga
silenziosa verso le montagne. In fretta sulla mia strada, prima che la notte finisca e il
sogno si perda.
(1 agosto 2006)
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Nella campagna dell'uomo estinto
Terzo giorno, dove la Topolino incontra elefanti, orsi e balene di montagna
Canticchiando mazurche triestine in pseudo-tedesco
"In Africa, in pieno deserto, c'è sempre qualcuno Qui no" "La gente scappa, va via e non
sa che cosa si perde" In terra di Val D'Arda riposa un antico leviatano tra fossili di pesci
quaternari Ecco perché le vigne di qui hanno il profumo del mare
Una trattoria con pergola e vino gelato dei colli. Intorno zanzare, ciclisti in fuga, rombo di
camion verso la piana operosa. Accanto, quattro avventori che battono carte a "conchino"
e sembra parlino uzbeco. Sullo sfondo, Castell'Arquato, turrito guardiano della Val d'Arda.
L'auto non va bene, tossisce, fatica a ripartire, ha le batterie scariche. Uno degli indigeni,
in canottiera regolamentare, si tuffa felice in quel motore arcano, armeggia, spiega che la
dinamo non ricarica e io rischio di restare "col culo per terra". Diavolo, chi si ricordava
della dinamo. E' un marchingegno estinto, oggi c'è l'alternatore. Un magnifico nome di una
volta. Contiene un mondo perduto, muscolare, privo di carenature e microchip. Evoca i
corridori di Olimpia, il fascio littorio e le squadre di calcio ex comuniste di Kiev e Zagabria,
la meccanica del ferro. La corazzata Yamamoto, Marinetti, le ardite campate del viadotti,
Nowa Huta e il sol dell'avvenir. Sul pianale posteriore ho la valigia con i ricambi. Albero
motore, differenziale, frizioni, pulegge, chiavi inglesi, guarnizioni. E anche la dinamo,
ovviamente d'epoca. Arriva il meccanico, mi racconta la storia della sua vita, dice che in
mezza giornata è fatta. Penso: mezza giornata, se continuo così arrivo in Calabria fra un
anno. Intanto, alla spicciolata, affluisce mezzo paese a godersi la scena. Sono già le
undici, mi prende lo sconforto, non sono ancora entrato nel fatalismo del nomade. Non ho
ancora capito che le soste forzate, ignote ai contemporanei, sono la benedizione del
viaggiatore.
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Difatti è lì, nello scenario franoso dei colli piacentini, che incontro la Signora delle Balene.
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Mentre l'auto è sotto i ferri, mi si para davanti in pantaloni alla turca gonfi di vento, sotto
un filare di pioppi, capelli neri corti e un'allegra follia padana nel gesto e nella voce.
Claudia Losi, artista antropologa, mi porta a vedere le ossa della balena appenninica,
sospesa proprio lì con i suoi costoloni vecchi di milioni di anni sui calanchi di
Castell'Arquato, tra fossili di pesci quaternari.
"Lo sai? Le nostre vigne traggono sapore da un immenso cimitero marino". Dopo
l'elefante, ecco un altro gigante uscito dal tempo per arenarsi nel nostro mondo. Sto
entrando in un bestiario allegorico? L'idea mi insegue da Bobbio, in Val Trebbia. Accanto
alla cripta di San Colombano, c'era un favoloso - e tuttora inspiegato - mosaico medievale
con chimere a due teste, draghi, centauri e ovviamente elefanti. E poi, più a valle, il
ritorno dei pachidermi annibalici nello stemma del comune di Gossolengo, sulle praterie
dell'ecatombe. "La prima balena vera l'ho vista da bambina, era esposta in un container
da circo. Puzzava di formaldeide, era viscida, nera, illuminata da orrende luci arancione. Il
suo occhio sbarrato mi perseguita da allora. Poi qui a Castell'Arquato, davanti a queste
ossa, ho scoperto perché il leviatano dorme nell'immaginario delle mie terre. E allora ho
deciso di costruirmi una balena di stoffa, in grandezza naturale, e di portarla in giro nel
mondo". Oggi il cetaceo è chiuso in un capannone di Fiorenzuola, ti guarda nel semibuio
dopo aver valicato oceani, stupito persino gli indios delle Ande a 4000 metri di quota. "I
grandi animali affascinano perché ognuno può riempirli del suo significato. Sono archetipi
di qualcosa di perduto. Figurarsi qui, in una terra di stratificazioni, spartiti musicali, animali
fossili. Qui vicino hanno trovato un fegato etrusco in bronzo, con le istruzioni per gli
aruspici. L'Appennino è pieno di animali divini".
***
Il topo meccanico, di nuovo in piena forma, risale la Val d'Arda alla ricerca dell'Arca
perduta. L'Appennino è una fattoria degli animali, lo capisci dai nomi di luogo. Capracotta,
passo del Cifalco, colle dell'Agnello, Cantalupo, Orsomarso, Caniparola, Gole della Gatta,
Vaccarizza, perfino Strangolagalli. Ho davanti una penisola di montagne che raglia,
grugnisce, abbaia, ulula, bela, fa chicchirichì. L'immaginario si popola di cori animali,
genera araldiche sovrapposizioni di mammiferi e uccelli come il mostro dei musicanti di
Brema.
Marco Rigolli, sindaco di Morfasso, paesone in mezzo a montagne di carbonai, partigiani e
cacciatori, racconta che sul monte Soglio il capo delle guardie forestali quest'anno ha visto
una pantera nera come l'inferno, fuggita da una villa di milionari imbecilli. E poi cinghiali, a
migliaia, ovunque. E lupi, di passaggio verso la Francia. Manca un solo animale: l'uomo.
Ieri l'emigrazione, oggi la fuga in pianura. I sentieri, che formicolavano di tagliaboschi,
pellegrini, carovane di mercanti, mulattieri, emigranti, pastori, contadini e soldati, oggi
sono quasi deserti. "Se vuole, la porto da uno che ha conosciuto i domatori di orsi", dice
Rigolli. Ci mancava l'orso, dopo la balena e l'elefante. La giornata dei giganti appenninici è
completa. Andiamo da Vittorio Biffi, classe 1919, una vita di lavoro all'estero, un fenomeno
di simpatia. Lui l'ha visto il Corradi Luigi, morto nel '33, cui l'orso - che lui guidava a piedi
fino in Polonia - aveva amputato un dito. E il Casali Domenico, domatore che parlava
russo. O altri, che compravano i bestioni in Slovenia per andare fino in Russia a farli
ballare. Parla in dialetto stretto, il sindaco traduce. "Poveracci, non facevano soldi,
puzzavano, la gente gli rovesciava pitali di piscio dalle finestre, dormivano vicino alla
bestia ed erano pieni di pidocchi... solo i più bravi divennero gelatai... gli altri erano
disperati...". Ride, gesticola, strabuzza gli occhi, ansima, riprende fiato. "Gh'era uo che el
naua a fè balà la sumia, ce n'era anche uno che andava a far ballare le scimmia...
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Dio quanta fame c'era, quanta fatica, quanto lavoro dei nostri emigranti... Siamo partiti
così giovani che non abbiamo fatto in tempo a fare i partigiani. Nel '43 eravamo già
inglesi, americani, sbarcavamo in Normandia... Alcuni finirono a El Alamein a sparare
contro i compaesani, per la guerra voluta da un idiota... Mi fa male ricordare, ho il cuore
debole... E poi sa, mi fanno tenerezza stè rumene, stè ucraine che vengono qui, magari
sono laureate e puliscono il culo a noi vecchi... Basta prendersela con i forestieri! Dicono
che sono ladri... ma noi cosa eravamo? Sa quanti imbroglioni abbiamo in Italia? Chi se la
prende con gli immigrati non ha memoria".
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"Zwanzig Personen / in Automobil / das ist zuviel / das ist zuviel". La strada verso Bardi è
così solitaria che per vincere l'angoscia mi sgolo con una vecchia canzone triestina in
pseudo-tedesco. Tempo mazurca, allegro con brio.
"In eine Svolten / Auto se volten / zwanzig Personen / sind alle kaputt". Ah, magari
guidassi un'auto con venti persone, qui la notte si avvicina con un buio pieno di balene che
ti entra nell'anima, e la Topo, piccolina, con le sue lucette, è solo un "mouse" che esplora
l'immensità. In Africa, anche in pieno deserto, c'è sempre qualcuno sulla strada. Qui no.
La vita è altrove. L'uomo pare esitinto come l'elefante di Annibale. Viaggio in uno spazio
incomparabilmente più ancestrale e arcano delle Alpi. Queste non sono montagnebomboniera. Niente alberghi a cinque stelle, niente gerani alle finestre. Solo locande anni
Cinquanta con Bartali in fotografia, il manifesto dell'assemblea dei cacciatori, e qualcosa di
balcanico nell'aria. La notte m'inghiotte in un villaggio di nome Noveglia, con un
maledetto vento di mare che rimesta temporali. Davanti alla locanda "Geppetto", un cuoco
che gli somiglia mi accoglie così: "Benvenuto nel posto dove il mondo finisce". Sembra un
sinistro avvertimento. Invece è il prologo di un'accoglienza da re. "La gente scappa da qui
e non sa cosa perde", spiega scodellando una pizza al pesto. "Io vengo dall'inferno
romagnolo e qui ho ritrovato la vita. Sa cosa le dico? Pianura mai più". Come la balena,
sembra uscito anche lui dalla storia di Collodi. E tu ti senti, fatalmente, Pinocchio.
(2 agosto 2006)
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Le signore degli anelli
Quarto giorno, dove la Topolino incontra donne e greggi mentre nella notte percorre
l'invisibile autostrada dei lupi
"Niente da fare, queste sono terre di eroici disertori" "A Favale l'ultimo processo del
Regno per delitto di fede" Non più Liguria, non ancora Toscana. Ecco dunque la Lunigiana
delle valli perdute e delle montagne silenziose
Il macinino ansima in prima, rivela di sé le vibrazioni più intime, soffi, scricchiolii,
raschiamenti, tintinnar di stoviglie. Sale così piano, e su strade così deserte, che può
concedersi di andare a zig zag per schivare le rughe sull'asfalto. Profumo di Versilia che
sale dal Tirreno; ramarri immobili dietro i paracarri, all'erta come velociraptor. Intorno,
boscaglia fitta, senza segni di presenza umana, con nell'aria una sottile angoscia. La
sensazione che se finisci in una scarpata, qui ti ritrovano dopo seimila anni, come la
mummia del Similaun. Afghanistan? No, l'avventura comincia in Lunigiana, sulle valli
perdute
sopra
Pontremoli,
dove
abitano
le
Signore
degli
Agnelli.
"Sul crinale che porta in Liguria troverai greggi pascolate da donne", m'avvertono già in
paese, come per indicarmi la favolosa Arcadia dei greci. Più in alto, a Rossano,
nell'affollata trattoria "Da Adolfo", il cameriere serve un piatto di ravioloni in dose da
camionista e conferma. "Cerca di Patrizia o Cinzia, oppure di Valentina, quella che tosa
ancora con le forbici, in località Formentara", e indica verso Occidente un complesso
arcipelago di pascoli in quota. Le valli di Zeri. "Zeri veste del proprio pelo e mangia del
proprio pane", dice. Il pelo sono le pecore d'Appennino, il pane la farina di castagne. Un
mondo blindato, che però ha nascosto e nutrito centinaia di militari alleati in fuga dalla
prigionia dopo l'8 settembre, consentendo loro di costruire - con la Resistenza - una
micidiale base avanzata alle spalle della Linea Gotica. Britannici, americani, polacchi,
jugoslavi, olandesi, russi, belgi e francesi. E con loro una sessantina di paracadutisti
inglesi, spediti a preparare l'offensiva finale.
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I locali hanno subito per questo feroci rappresaglie, ma non hanno mai smesso di dare agli
stranieri il pane e il pelo delle loro montagne. Fino alla Liberazione.
Patrizia s'è ripulita, profumata, agghindata a festa. Ha appena finito la battaglia campale
della tosatura, e si regala il lusso di una pausa. Nella sua fresca casa in pietra, narra la
sfida raccolta dal suo gruppo, governato da una solida maggioranza di femmine. "Stavamo
perdendo le tradizioni dei padri, non sapevamo che le nostre bestie erano uniche, avevano
la carne più dolce e più chiara di quella dell'agnello sardo. Non sapevamo che il loro latte
conteneva più grasso, e che la loro lana poteva infeltrirsi meglio di qualunque altra. Poi è
venuta l'università di Pisa, ci ha detto che l'agnello zerasco era frutto di una selezione
unica, abbiamo capito di avere in mano un tesoro e ci siamo consorziate".
E' la Resistenza che continua, 60 anni dopo, e contro nemici più infidi: l'indifferenza della
politica, le invidie della gente, la stupida vergogna italiota del passato contadino, la grande
distribuzione commerciale che stermina le diversità. Pat parla come un libro stampato,
sarebbe a suo agio anche nella reggia di Schoenbrunn a Vienna o a un ricevimento di gala
a New York. Fuori, il vento accarezza le praterie della sua Roncisvalle. Si sente la voce di
Cinzia che arriva con le altre. E' lei la più autorevole, è da lei che tutto è cominciato. E'
stanca, si siede su un muretto, forma inconsapevolmente col resto del gruppo un quadro
familiare di Piero della Francesca. Sorride: "Con tanta fatica, stiamo facendo le profetesse
in patria. Ci siamo attaccate con forza al passato che meglio poteva aprirci un futuro
giusto, e abbiamo avuto ragione. Oggi Slow Food e i migliori ristoranti sanno che il nostro
prodotto è imbattibile e ci vengono a cercare".
***
Frazione Valditermine, stelle cadenti, silenzio. Sopra di noi l'orlo nero delle montagne dove
Liguria, Toscana ed Emilia si toccano. La Topo dormicchia su una radura. Le bestie sono
all'ovile, ansimano in piedi strette le une alle altre, appoggiandosi tra loro. Nessun belato.
Ma se una soltanto si muove, oscillano tutte insieme come un unico animale, e allora lo
scampanellìo, il respiro e persino il calore si propagano come un'onda. Valentina abita
quassù, è la più tosta di tutte. Sa tosare le pecore da sola: le rincorre una per una, le
chiama per nome, le immobilizza con le gambe e poi parte con le forbici.
Per tenere d'occhio il lupo, che transita sul passo dei due Santi, sopra casa sua, Valentina
è capace di dormire col gregge. Quassù del lupo hanno rispetto reverenziale. "E'
difficilissimo vederlo, ma se lo vedi l'impressione è tale che la vita ti cambia. E' come aver
visto uno spettro". Il lupo è una presenza sovrannaturale. Non ha peso, viaggia come un
overcraft, galleggia nell'aria. E s'è salvato dallo sterminio proprio così: smaterializzandosi,
imparando l'assoluto silenzio, riducendo la consistenza dei branchi, muovendosi di notte o
nell'ora delle ombre lunghe, alba e tramonto. "E' capace di seguirti per giorni e colpire il
gregge al tuo primo momento di distrazione", sorride Patrizia. "Ma almeno uccide con
professionalità. Non fa danni collaterali e non lascia traccia. I cani liberi e i cinghiali,
invece, passano come ruspe e devastano tutto". I cani maremmani sono nervosi, fiutano
presenze. Sopra la casa di Valentina c'è la pista dei lupi. Un'autostrada invisibile. I branchi
seguono sempre la corrente. Viaggiano dall'Abruzzo verso Nordovest, sono arrivati da
qualche anno in Francia, nelle Alpi Marittime, e alcune avanguardie sono già in Svizzera.
Fra qualche anno, dicono, avremo un evento epocale: l'incontro tra i lupi italiani e quelli
dei Balcani, che non si toccano da secoli. Allora, per legge di natura, le due specie daranno
vita, accoppiandosi, a ibridi di vitalità superiore. Lupi imbattibili. Un cane abbaia
furiosamente, altri rispondono, il monte Gòttero ne rimanda l'eco. Buio assoluto. Siamo a
trenta chilometri da La Spezia ma sembrano i Carpazi.
11
"Non siamo liguri e nemmeno toscane", dice Cinzia accanto al fuoco e m'accorgo che ha
ragione: ha l'occhio romanesco lampeggiante, corpo di morbidezza ciociara. Ma allora,
chiedo, cosa siete? "Sannite", risponde come fosse la cosa più ovvia del mondo. "L'esercito
di Roma non riusciva a domare solo due popoli italici: i Liguri apuani di queste terre e i
Sanniti, tra Frosinone e il Molise. Tostissimi, irriducibili entrambi. Allora hanno pensato di
deportarli, trasferendo gli uni nella terra degli altri". Chissà, mi chiedo, che la resistenza di
questa gente non nasca allora. Da una ferita di duemila anni fa. Riecco le montagnecontro, gli Appennini dei disertori e degli sbandati. Mi dicono che a Favale di Màlvano,
poco a Ovest, sopra Rapallo, dei cantastorie si convertirono alla confessione valdese per
insofferenza verso i parroci e nel 1862 subirono per questo l'ultimo, crudele processo per
"delitto di fede" del regno d'Italia. Con lo stesso spirito ribelle, Favale ospitò migliaia di
disertori della Grande Guerra, su un monte dal nome ribelle di Caucaso. Vi si nascosero
per anni, protetti dal silenzio della gente. Sulle Apuane uno di loro è rimasto fino alla
morte, negli anni Sessanta, sempre in latitanza. Orlando si chiamava, e il vignaiolo Nanni
Barbèro di Sarzana se lo ricorda bene. Rubava galline e la gente lasciava fare. Entrava nei
negozi a far questua, diceva con dignità "Sono venuto a riscuotere l'affitto", e tutti stavano
al gioco. Appennini, montagne del silenzio. Sono quattro giorni, dalla partenza a Savona,
che non vedo un supermercato, un autogrill, un vucumprà o un manager gesticolante con
telefonino. Sento ululare, lontano, verso il crinale della Val di Taro. Una parabola sonora
appena avvertibile, che muore nel buio come una stella cadente. Guardo la carta
appenninica, la dorsale che va a Sudest fra i due mari, e m'accorgo che la mia capretta
meccanica sta facendo meticolosamente, al contrario, la stessa strada dei lupi.
(3 agosto 2006)
12
Dentro la cava del fantasma
Quinto giorno, dove la Topolino incontra badanti ucraine, macchine di fiori e memorie di
carabinieri disarmati dai ribelli "In posti così capisci il senso della parola forestiero" "Se
stanotte vuoi dormire, lascia stare i Buioni" Le chiamano Alpi, ma che importa? Le Apuane
sono buie, fatte di faggi e di castagni, e raccontano storie dure come il marmo
Quando vedi un bell'hotel nei boschi d'Appennino, prima di chiedere una camera accertati
che non sia una casa di riposo. E' facile sbagliare perché ne trovi ovunque, e sono pure
identiche agli alberghi. Alla reception cerca di avere risposte definitive, per evitare
malintesi: se hai la barba bianca e sei lessato dal viaggio, magari ti dicono che è il posto
perfetto per te e l'imbroglio continua. Non farti fregare da nomi come Beatitudini, Pace
delle vette, Perla, Oasi, propiziatori di favolose dormite. Soprattutto non ti inganni un certo
andirivieni di donne, alte e rassicuranti, tra l'albergo medesimo e i paesi intorno. Sono
badanti. Individuare le badanti è la cosa più facile del mondo. Sono le uniche creature a
camminare sulla strada. In Italia solo gli stranieri lo fanno. Lo fa anche Nina, bielorussa,
che imbarco in mezzo alle Apuane, in un bosco di castagni più buio dell'inferno. Ha
trent'anni, grandi occhi liquidi come neve sciolta e lavora in un ospizio, giusto sulla mia
rotta. Sale senza commenti sulla strana auto che la mena a destinazione con accelerate
pirotecniche, cambi frenetici e curve da ottovolante. Sbarca dopo dieci minuti davanti a un
cartello che indica, con identica grafia, vette, chiese e ospizi. Come in un giallo di
Duerrenmatt.
L'Appennino è un cronicario, e senza le dolci signore dell'Est sarebbe un cimitero. I
vecchietti ci sono sempre, anche se non li vedi. Magari li hanno rinchiusi nel seminterrato
del tuo albergo e tu non lo sai. M'è capitato sulla strada del passo del Cerreto, sopra
Reggio Emilia. L'ascensore portava in cantina solo con la chiave e la porta del fondo scale
era inchiodata. Chiesi come mai ed ebbi risposte evasive. Poi seppi che dentro vi avevano
murato i superstiti dell'ex manicomio di Reggio. Quaranta "psico-geriatri", un eufemismo
per dire vecchi dementi. Non un reparto a esaurimento, ma una catacomba per inquilini
sempre nuovi. Ombre relegate in cantina, come nella fiaba di Barbablù.
13
E sopra c'era l'arcigna Pietra di Bismatova; quella - per capirsi - che diede all'Alighieri l'idea
del Purgatorio.
Nel negozio di alimentari di Monzone, solido paesone con campanile romanico, ci mettono
dieci minuti a prepararmi un panino al salame solo per capire - con sorrisi e domande
insistenti - da dove vengo, dove vado e perché uso quel diavolo di macchinina. A Monte dè
Bianchi, che traverso in un fortissimo profumo di forno a legna, l'arrivo del viaggiatore è
un evento che attira mezzo villaggio. La Topo è teneramente battezzata "Piccina". In posti
così capisci il senso della parola "forestiero": sei colui che "esce dalla foresta". E intanto la
piramide del Pizzo d'Uccello si svela sopra un curvone. Scintilla, sembra un dentone che
sfonda la gengiva della scorza terrestre.
E poi, Ugliancaldo, con quel nome da druidi, le ombre degli indomabili Liguri e le fontane
di pietra che paiono menhir. Posti dove Roma imperiale e l'unità d'Italia furono eventi
trascurabili. Apuane: se i luoghi hanno un'energia segreta, è impossibile evitare queste
cime che emergono come pezzi di banchisa scovolti dalla corrente, oltre l'onda lunga
verdescura dello spartiacque Tirreno-Adriatico. Dicono storie dure di cavatori e scalpellini,
anarchici e partigiani, cinghiali e bracconieri. Si chiamano Alpi? Che importa. L'ostacolo è
irrilevante. Se ci sono Alpi che si chiamano "Pennine", le Apuane potranno pur rubare il
marchio d'origine alla più rinomata catena del Grande Nord.
***
Gorfigliano, birra alla pizzeria "Al Cavatore", con i sottopiatti decorati da parole crociate e
un vecchio rugoso come un Navajo che mi osserva. Fuori, la montagna sbancata incombe
con pareti marmoree, abbacinanti. Sono in una storica tana di anarchici. Con la dinamite
delle cave a disposizione, il loro passaggio alla Resistenza fu automatico. Ma il bello venne
dopo: il paese rimase ostile al potere anche dopo il '45, un'isola ribelle come le Krajine
dell'ex Jugoslavia. "Alla fine, mandarono cento Carabinieri per ridurci alla ragione",
racconta il Navajo. "Era il '52, Coppi e Bartali correvano ancora, come la sua macchinina".
Successe che i CC si trovarono di fronte a duecento donne inermi, le quali, arretrando
furbe, li attirarono in trappola. I militari vennero circondati e ignomignosamente disarmati.
Ma lo Stato, spiega il vecchio, non poteva perdere la faccia. Fu mandato un deputato a
parlamentare. "Uno in gamba, Leonetta Amadei si chiamava, oggi non ne trovi più così".
Fu lui a fare l'accordo: gli operai sarebbero stati accontentati nelle loro richieste. Ma uno,
uno solo di loro, avrebbe dovuto pagare. Così le maestranze tirarono a sorte il nome
dell'uomo da consegnare agli sbirri. Da allora, per dodici anni, fino alla sua uscita di
galera, si sarebbero tassati per garantire lo stipendio a colui che aveva pagato per tutti.
***
"Attento ai Buioni; i fantasmi che abitano nella pancia della Apuane", avverte con studiata
voce di tenebra lo speleologo Andrea Gobetti. Mi aspetta sull'Alpe per un giro a piedi verso
il Monte Pigliònico e una grotta ventosa detta "Tana che urla". Sessantottino affabulatore,
dinoccolato e di buona fiasca, vive arroccato tra gli ulivi della Lucchesia. "Se vuoi dormire
in pace, i Buioni devi lasciarli al buio, altrimenti le tue notti si popolano di incubi".
Racconta che lì, sotto il lago artificiale di Vagli, passa l'antica via Vandelli, con la storia
terribile del suo progettista, suicidatosi per aver fallito lo scavalco, troppo ripido, delle
Apuane. Ogni dieci anni svuotano il bacino per ripulirlo dai fanghi, e allora sentieri e
villaggi riemergono, con le loro creature di tenebra.
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Troviamo uno scorpione e una vipera sulla soglia della casa abbandonata di Fosco Maraini,
che raggiungiamo tra i faggi giganteschi dell'Alpe Sant'Antonio. Anche loro sono guardiani
di un'ombra. L'esploratore è morto da due anni soltanto, ma i gerani sono già morti, l'orto
recintato s'è coperto di erbe matte. Solo la legnaia ha qualcosa di vivo, con i ceppi
accatastati in ordine perfetto, e divisi per dimensioni. Un'ora dopo finiamo con i piedi nel
torrente, a mangiar pane e pomodorini, conditi con birra scura di Pilsen. Sopra di noi, cavi
ad alta tensione che cantano per vibrazione eolica. Verso la scarpata, l'odore fortissimo di
un muflone.
Lucciole tra gli ulivi di casa Gobetti a Matraia, perfetto caravanserraglio per viaggiatori.
Nerina è parcheggiata accanto a Kowalski, una leggendaria Opel 2000 trasformata in serra
per fiori. Con due aperitivi in corpo, a pancia all'aria tra i grilli, Andrea mi indottrina sulle
tre dimensioni del tempo. Quello celeste, costruito su orbite. Quello marino, fatto di onde.
E quello ipogeo, popolato di bivii del destino. Anche il tempo di questo viaggio, a pensarci,
è fatto di incroci: un procedere da sommergibilista nella pancia del tempo. Sotto di noi, la
pianura ronza in un mare di luci.
A cena apriamo la carta delle meraviglie, con le meticolose indicazioni del viaggio. A tavola
c'è anche l'attore Giuseppe Cederna, dai grandi occhi miti, che vuol sapere tutto di questo
viaggio fuori rotta. Quella mappa, ormai lo so, ha poteri taumaturgici, eccita la fantasia,
scatena memorie, induce ai consigli più strampalati. "Vai a Terrinca - già s'infervora Gildo,
il vicino di Andrea, pozzo di arcane storie garfagnine - lassù per secoli gli uomini hanno
fatto un solo mestiere, i preti". "E le donne avevano le tette alte" ride un commensale.
"Vai anche a Seravezza" intima un altro. "Sulle Apuane sopra Forte dei Marmi, dove si
arrostiscono i notai di Forza Italia, c'è un parroco che nelle prediche manda tutti i ricchi
all'inferno e ha la canonica accanto alla sede di Rifondazione". Ancora nomi, indirizzi, punti
d'appoggio. L'Italia s'allunga, ora pare il Sudamerica. E la Calabria Capo Horn.
(4 agosto 2006)
15
Quando il passo è falso
La strada dell'Abetone e del Brennero si addentra nella brigantesca gola del Serchio,
infestata dai Tir e dagli spericolati (oltre che bestemmiatori) ciclisti della Lucchesia. Qui è
assolutamente vietato forare: la strada è schiacciata fra fiume e montagna e non
contempla piazzole d'emergenza. Sopra la capote aperta della Topolino, intanto, la dorsale
appenninica lievita, diventa compatta come una cordigliera. Sto tornando in Emilia, con la
fastidiosa sensazione di andare all'indietro, in un viaggio che s'avvita su se stesso.
Gli Appennini sono un dannatissimo affare. Non hanno strade di cresta. Non sono fatti per
essere percorsi, ma solo per essere traversati in diagonale. Vie del sale, di pellegrinaggio o
di commerci, strade di eserciti, tunnel autostradali, alte velocità ferroviarie, piste di
bracconieri: tutto passa trasversalmente e niente in longitudine. La densità di passi è
pazzesca, ce n'è uno ogni cinque chilometri. Cisa, Futa, Radici, Furlo: è lì che si concentra
la storia d'Italia. Pazienza che ti ritrovi a sbandare come un ubriacone da un varco all'altro
della muraglia. Poiché in questo slalom tra i due versanti non hai belle strade a
mezzacosta, ma un sistema a pettine di profonde valli parallele, per andare dall'una
all'altra devi imbarcarti in un tormentone di saliscendi supplementari. A quel punto perdi
l'orientamento, il tuo slalom gigante si complica, l'andatura si spezza in dislivelli tremendi,
e ti scopri intrappolato come un insetto nel mantice plissettato di una fisarmonica.
Sbagliare passo, come ora vedremo, può essere una catastrofe.
***
Si narra che quando il duca di Modena e la duchessa di Lucca ebbero collegato i loro
dominii con una nuova, acrobatica strada attraverso il passo di Foce a Giovo, i due si
incontrarono sul crinale per inaugurare la grande opera, e che la duchessa toscana,
scoprendo la calvizie galoppante del suo nobile dirimpettaio, disse, con perfido giro di
parole: "caro amico, quanta neve sul monte". Al che il duca, gelido: "Amica cara, se c'è
neve al monte, le vacche vadano al piano". Una battuta che, a distanza di secoli, ancora fa
ridere i garfagnini. Sono storie così che orientano i viaggi. Il mio si orienta fatalmente sul
passo di Foce a Giovo, del quale già pregusto l'aria fine e le cime dai nomi leggendari:
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Alpe delle Tre Potenze, Monte Albano, Sasso Tignoso. Niente Abetone dunque: troppo
trafficato e banale per un viaggio fuori rotta.
Al bivio i Tir finiscono, ed è subito grano, ciliegi, arnie nella prateria. Un'ouverture
morbida, quasi austriaca, che inganna. Subito la strada s'avvita in tornanti tra villaggi a
picco, abeti enormi, muraglie di roccia rossastra. Poi pascoli, vacche, torrenti, campanacci.
E ringhiosi cani pastori che mi impediscono di uscir dall'auto. L'asfalto si crepa, diventa
sterrato. Lontano, oltre il monte "perché i Pisan veder Lucca non ponno", brilla un pezzo di
Tirreno. Oltre un rifugio, qualcuno ha scritto su un cartello: "Cosa aspettate a chiuderla
questa strada? Aperta serve solo ai bracconieri, che votano Berlusconi". Per terra rami
spezzati di faggio, persino un tronco. Devo scendere a spostarli per proseguire. La
carreggiata è un tappeto di foglie, pigne, sassi, rigagnoli e fango. Il trabiccolo ondeggia
sotto pareti di roccia instabile. Vai Nerina, vai, ormai sei in ballo.
***
La cima. Ora, penso, sono nell'efficientissima Emilia, e la discesa sarà un nastro d'asfalto
ripulito. Invece no: subito dietro l'angolo, eccoti un nevaio sulla strada. Compatto e duro,
insuperabile. Spengo il motore, mi vien da ridere. Sento dei passi: è un escursionista.
Scende da un sentiero che porta all'ancor più sconosciuto "Passo di Annibale", la pista
dove il nostro avrebbe iniziato la calata su Roma dopo lo sfondamento sulla Trebbia. Gli
chiedo della strada. "Te tu non ci vai. Quella in Toscana non l'è nulla a paragone di
questa in Emilia. L'ho fatta in Enduro, era un casino anche con l'Enduro" Di dove sei?
"Prato. E tu?". Trieste. "Ah, lì non vi mancano le montagne, che ci vieni a fare in
Appennino?" Di Alpi ne ho fin sopra la testa. "Allora te tu devi provare col passo della
Croce Arcana". Che roba è? "Ti porta sparato in Emilia senza fare l'Abetone. Passa tra il
Corno alle Scale e il Libro Aperto. Lì tu ci hai uno sterrato che l'è meglio di codesto. Superi
la Doganaccia e sei a Fanano". L'hai fatta in Enduro? "In Enduro e a piedi". Ma io non ho
l'Enduro. Ho una Topolino. "Te tu sei matto, ma ce la fai, ce la fai di sicuro, quella lì sale
per i muri. E ci ha il culo alto". Grazie. Come ti chiami? "Paolo". Anch'io. Buon
proseguimento. Il tosco riparte, mi lascia in un silenzio da marmotte. Solo, con quei nomi
irresistibili. Libro Aperto, Doganaccia, Croce Arcana. Confronto all'Abetone non c'è storia:
anche stavolta la scelta è obbligata. Ridiscendo al piano, come le vacche della duchessa di
Lucca, e sulla discesa trovo solo pastori, cani e forestali, tutti muti e diffidenti come lontre.
Maledetti, non mi hanno detto niente mentre salivo. Che si tengano la loro strada chiusa.
***
Locanda "da Michele" a Tereglio, sul discesone, infrattata come nella foresta di Sherwood.
Un posto all'antica: pasta al ragù fatta in casa, baccalà in umido con pomodoro e
rosmarino, gran sorrisi della cameriera. Accanto, tre avventori impegnati in una
discussione sulle tasse e il fallimento garantito del governo Prodi. Tira aria di destra.
Faccio un po' i conti col fatto che salendo ho visto, su un tornante, l'ex casa del fascio di
Tereglio, bombardata nel '44 dai partigiani della sovrastante Montefegatesi. Chissà, penso,
magari
tra
i
due
paesi
non
corre
tuttora
buon
sangue.
"Ma com'è Montefegatesi?" provoco. "Ci sono passato, c'era gente strana". E quelli del
tavolo vicino: "Ah, Montefegatesi l'è un'altra cosa". Insisto: "Sono diversi da voi, sorridono
di meno". Loro: "Montefegatesi l'è Montefegatesi". E cioè? "Loro ci hanno fregato sempre
perché stanno di sopra. Trecento metri più in alto". E che possono fare da lì, bombardarvi?
"Certo che possono. L'hanno già fatto. Noi si aveva la terra più ricca e loro ci hanno tirato
con gli obici". Com'è strana la memoria degli italiani.
17
Non una parola su guerra e Resistenza. Tutto si riduce a un regolamento di conti. Alla
fiaba di Esopo sul lupo e l'agnello.
***
Ben mi sta. Anche la Croce Arcana, dove arrivo due ore dopo, è sbarrata dalla neve. Ho
già fatto un centinaio di chilometri alla cieca e non ho ancora valicato lo spartiacque. Ma
perdersi ha i suoi vantaggi. Sotto il passo, trovo Jack, un forestale in pensione che mi
passa un'altra bella storia. Proprio qui gli alleati sfondarono la Linea Gotica nell'inverno del
'45. "Era una banda di matti. Gli americani avevano la decima divisione Mountain, la stessa
di oggi in Afghanistan, e per stemma un cobra con la pipa, disegnato apposta da Walt
Disney. Con loro c'erano brasiliani, che impazzirono di gioia vedendo cadere dal cielo per
la prima neve in vita loro. Tra gli sciatori c'erano anche Indios dell'Amazzonia. E i
partigiani avevano una Topolino come la sua". In un diluvio improvviso ridiscendo alla mia
personale Canossa, l'Abetone. M'accorgo che gocciola dalla capote. La temperatura è
scesa a otto gradi, il passo è presidiato da motociclisti tedeschi, l'acqua ruscella sulla
piramide con su inciso "Petrus Leopoldus Archidux Austriae Magnus Etruriae Dux,
MDCCLXXVIII". Intorno, boschi di faggeti patriarcali. Sulla discesa, scritte antagoniste:
"Silvio porco" e "Basta mortadella". Ponti medievali, capannoni, brutte case moderne, Tir
pieni di tronchi. Un Appennino meno autentico di quello toscano. Un barista di
Pievepélago, cui chiedo dettagli sulla Linea Gotica, risponde alzando le spalle: "Conosco
solo la linea del tortello".
(5 agosto 2006)
18
Quell'Emilia americana
Il ritorno di Felix Pedro, alias Felice Pedroni, il più grande cercatore d'oro della storia, si
consuma assolutamente per caso, alle cinque della sera, nella bottega del barbiere di
Fanano, nell'alto Modenese, un paesone dal tipico aspetto emiliano di premiata colonia
estiva. Fanano, cosa può dirmi un posto di nome Fanano, penso parcheggiando il
trabiccolo in piazza. Niente. Sono cotto dal viaggio, devo trovar da dormire, lo specchietto
retrovisore mi rimanda l'immagine imbarbarita di un camionista o di un mulattiere. Occhi
rossi, faccia ispida, da insaponare immediatamente.
In piazza c'è il monumento al fante della Grande Guerra, il Banco - pensate - dei Santi
Giminiano e Prospero, profumo di caffè buono, lampioni, aria fresca che scende dal monte
dove, dicono, passa l'estate Pavarotti. Più Italia di così si muore. Ma intanto la prima
donna cui chiedo del barbiere, mi risponde con accento polacco. M'accorgo che intorno è
pieno di straniere. Russe, serbe, rumene. Di italiani, invece, neanche l'ombra. Nulla è ciò
che sembra, in Appennino.
***
"Ne avete di forestieri" dico all'uomo col rasoio. Lui: "Saranno il sessanta per cento, per
strada fatichi a sentir parlare italiano. Che vuole, qui c'è lavoro: la maialaia, il macello sul
fiume, l'acciaieria, gli alberghi. E un mare di vecchi". Chiedo: ma una volta com'era?
"Scappavano tutti, qui era terra di gozzo e pellagra. Mezzo paese è emigrato in America.
Vada a vedere la casa di Felice Pedroni: un secolo fa, in Alaska, ha scoperto la più grande
miniera d'oro del mondo". Chi? "Pedroni Felice, una leggenda. Dicono sia morto
avvelenato dalla moglie. C'è anche la tomba". E' fatta. Mi scopro con un baffo più corto
dell'altro, ma che importa, ho una bella storia. E' sempre così. Quando non sai niente di un
posto, fatti una chiacchierata col barbiere. Se ha voglia di raccontare, rimedi qualcosa di
sicuro; l'Italia minore è una miniera.
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"Pedroni ha fondato la città di Fairbanks e la sua vena d'oro continua a produrre un
miliardo di dollari l'anno" conferma l'assessore ai Lavori pubblici di Fanano, Alessandro
Fogliani, che becco la mattina dopo in un corridoio del municipio. E' un tipo entusiasta:
m'imbarca subito sul furgone per scarrozzarmi tra le colline con curve da Gran Premio.
"Pensa, in America era un eroe, il suo nome stava nei libri di storia, e noi, fino a 30 anni
fa, non ne sapevamo niente. La storia è saltata fuori per caso". Ecco la casa natale, a
Trignano, frazione sperduta nel punto di sfondamento della Linea Gotica. Sopra l'ingresso,
la lapide col nome. Poco lontano, un palco in allestimento per i reduci del 1945. Ci saranno
alleati e tedeschi insieme, con la banda del paese. Corsa all'oro e guerra mondiale: la
grande storia passa spesso per posti dimenticati.
Andiamo al cimitero, dove la tomba di Felix - Italia ingrata - non è un monumento ma un
loculo qualsiasi. Come molti di nome Felice, il mitico scopritore di Pedro Creek - torrente
più aurifero del Pianeta - ebbe vita triste. Lo sa bene Giorgio Comaschi da Bologna, che ha
appena finito di scriverci su un libro e una sceneggiatura. Pedroni emigrò a 30 anni, e
l'idea dell'oro in lui nacque per caso, da una chiacchierata tra emigranti alla fame. Lui
poteva andare in California, ma scelse il freddo. Era imbattibile sulla neve, gli altri cercatori
lo capirono presto e cominciarono a seguirlo. Ma lui non lasciava fuochi accesi, cancellava
le tracce. Un cane da tartufi.
"Nel 1906 tornò, ricco, al paese. Corteggiò una maestrina che lo rifiutò. Allora tornò in
Alaska per sposare una ballerina da saloon. Un'irlandese, tosta come lui, una che
succhiava soldi ai minatori esattamente come le veline di oggi fanno con i calciatori. Morì
presto, e di lui si persero le tracce". Ma nel 1970 un notaio di Pavullo scoprì la storia,
dopo mille ricerche rinvenne la tomba a San Francisco, e nel '72 organizzò il trasporto del
corpo in Italia. "Ma quando il feretro arrivò a Fanano - racconta Comaschi - si scatenarono
i "si dice". Per esempio che la moglie l'aveva fatto fuori, con uno spillone nel collo. Oggi
abbiamo riesumato il corpo, ma non abbiamo trovato tracce di omicidio".
***
La Topo rosicchia un paesaggio grasso, ordinato, quasi bavarese. Impossibile immaginare
la fame di un secolo fa, medito guidando verso Porretta Terme, la terra di Francesco
Guccini. Penso proprio a lui, Guccini. M'è tornata in mente "Amerigo", la canzone
dell'emigrante d'Appennino. Contiene molte chiavi per capire la storia di Pedroni
l'alaskano. Le "parole dure al padre", la "tradizione di fame e fughe". Amerigo, quello col
"cinto d'ernia che sembrava una fondina per la pistola", e che "tornò come fan molti, due
soldi e giovinezza ormai finita". Guccini non abita in una villa con piscina, ma in una casa
antica dai muri spessi, schiacciata fra la Statale 64, il fiume Limentra e il ponte della
Venturina alla confluenza col Reno. E' la casa del padre mugnaio, che lo lega a questa
terra grama di castagne e polenta. Lo trovo nella vecchia cucina piena di pentole e libri,
che smaltisce un'abbuffata, consumata il giorno prima con amici romagnoli. Racconta e
fuma. "Porca miseria - brontola - ad Amerigo non ho chiesto abbastanza cose: quanto
guadagnava, quali orari di lavoro, perché era finito a Pittsburgh. E' morto nel '66, mentre
ero militare a Trieste, e non mi diedero nemmeno la licenza per il funerale".
"Si emigrava fino agli anni Cinquanta, fino ai tempi di quella Topolino, per togliere via una
bocca alla famiglia. Conosci Laetitia Casta, l'attrice francese? Anche la sua famiglia partì
dalla valle del Reno. Qui l'emigrazione ha segnato persino il dialetto. Capo si dice "boss", e
litigare si dice "faitare", dall'inglese "fight". In compenso chi è rimasto in America non sa
più l'italiano.
20
Ci scrive lettere tradotte al computer, col risultato che si capiscono meno dell'inglese".
Le donne stavano sui campi fino al nono mese, mollavano un attimo solo per partorire. Gli
uomini scendevano dal monte "con sacchi di castagne da un quintale e mezzo sulla
schiena, larghi così, e fascine grandi due volte un uomo". Pelare e macinar castagne era
bestiale.
Dovevi seccarle a fuoco lento per quaranta giorni. "Ci si dava il turno, per star svegli si
giocava a "cencio moio". Ci si guardava fissi, e a chi rideva per primo si buttava in faccia
uno straccio bagnato. Poi bisognava pressare la farina nei cassoni perché non entrassero
le farfalle".
***
Franco sbarca dal treno alla stazione di Porretta con l'aria felice di chi ha schivato
un'assemblea condominiale. Da ragazzi, a Trieste, abbiamo sistematicamente smantellato
le nostre Cinquecento in paurosi testacoda sul ghiaino del lungomare. Ora faremo insieme
un pezzo di strada verso l'Italia Centrale. Franco è identico a se stesso dal tempo del liceo,
ha su di me uno straordinario effetto ansiolitico. Inoltre guida benissimo, dunque ho
finalmente qualcuno cui mollare il volante per prendere appunti in pace.
Sfidiamo a tortelli e vino la malinconia termale del luogo, nella fresca trattoria di Pellegrino
Castelli, inesauribile baricentro anedottico dell'estate porrettana. Pellegrino, detto "Pelle",
corporatura volitiva e mascella pure, è un destro di quelli d'una volta, ma frequentato e
amato dalla sinistra padana, che viene a rimpinzarsi da lui. Dario Fo, Cofferati, Guccini.
Gridano, ridono, si sfottono, un gioco delle parti senza il quale Porretta non sarebbe
Porretta.
All'ora dei grilli, il bardo Francesco chiude in ottava rima i suoi racconti sulla miseria.
"Racconterò la vita strapazzata / di chi alla macchia va per lavorare. Vita tremenda e vita
disperata / chi non la prova non la può insegnare / credo all'inferno un'anima dannata /
non possa così tanto tribolare / e non lo provi spasimo e dolore / come fa il carbonaio e il
tagliatore". Il vino è finito, fuori non c'è che il rumore del fiume.
(6 agosto 2006)
21
Tra acque e memorie perdute
Ottavo giorno, dove la Topolino attraversa il Mugello. E scopre che i torrenti sono stati
inghiottiti dai lavori per l'Alta velocità. Si scollina a Predappio, meta di pellegrinaggio per i
nostalgici del Duce. Mentre a Meldola si rievocano gli orrori delle torture fasciste
Conca del Mugello, notte fonda e uno strano silenzio attorno al podere Macerata, località
San Giorgio di Luco. Un silenzio che tiene svegli. Contro la finestra aperta c'è il profilo del
mio compagno di viaggio che sibila regolare nel letto. Fuori, il bosco di castagni, il fienile
col trattore, la Topolino coperta con un telo, il roseto. Ha piovuto nel pomeriggio, il
Mugello ha un profumo umido di campagna vera, fieno e letame, niente a che fare col
Chianti griffato dei ristoranti su prenotazione. Canto di grilli, stormir di fronde, ma alla
notte manca qualcosa.
Al mattino, Federico e Annamaria, padroni del posto, danno un volto alla mia inquietudine.
Il Mugello ha perso i suoi torrenti. I greti sono asciutti. Gli abeti disidratati. I fiumi
desaparecidos. I pozzi a secco. Una catastrofe, consumatasi in pochi anni, da quando la
"talpa" dell'alta velocità ferroviaria ha bucato la pancia dell'Appennino risucchiandone le
acque profonde, gli immensi laghi sotterranei, le falde e le risorgive. Mi portano a vedere:
il pozzo è vuoto, il marroneto a secco, il torrente ridotto a un rigagnolo, il terreno accanto
addirittura sprofondato di qualche metro.
Sulla mappa trovi acque dai nomi favolosi. Ma prova a evocarle: non ti risponderanno.
Fonte al Ciliegio! Assente. Fonte della Canina! Assente. Fonte Frassineta! Assente. Fonte di
Fosso Lupaio! Assente. Torrente Bagnone! Assente. Fiume Rovigo! Assente. Qui ogni casa
aveva la sua sorgente. Ma poiché ogni sorgente aveva il suo santo protettore, ora
senz'acqua anche i santi se ne sono andati. Dei in esilio. Persino la Madonna dei Tre Fiumi,
sulla strada per Marradi, ha perso il senso del nome. S'affaccia su un territorio senza voce.
22
Angelo Paoli faceva l'idraulico. Ora che è in pensione va a caccia di acque perdute. Le
annota con precisione notarile. Torrente Veccione, sotto la badia di Santa Maria di
Moscheta, scomparso. Torrente Carpine, scomparso. Torrente Erci, ricco di gamberi,
scomparso. Torrente Rampolli, dalle acque classificate a salmonidi, scomparso. Torrente
Bosso, dai sette leggendari mulini, scomparso pure lui. Mi mostra un serpente boa di
plastica nera che traversa i boschi del Poggio Rotto. È il tubo con cui fino a ieri la Tav ha
pompato acqua per tenere in vita i torrenti. Oggi è lì, contorto e abbandonato. Nessuno
pompa più niente.
Vengono le università, arrivano i soloni con i politici e i cortei di auto, si fanno conferenze
e consulti milionari sull'acqua che non c'è, ma nessuno fa l'unica cosa necessaria: una
valutazione d'impatto ambientale. La fregatura è che non hai un nemico con cui
prendertela. La Toscana è di sinistra, il Mugello pure. La Tav neanche parlarne, tutta di
sinistra anche lei, nata sotto il governo Amato. Incontro Piera Ballabio, combattente antiTav da prima linea. Racconta: "Me li ricordo bene i sindaci contrari. Li chiusero in stanze
separate al ministero e uno a uno li costrinsero a firmare".
***
"E vaaaaa la vita vaaa, la bicicletta l'è una gran comodità", Franco canta a squarciagola,
capote spalancata verso i picchi del Falterona, anche la Topo va, terza-seconda-terza,
s'arrampica sull'ex Statale 67, cerca di nuovo il crinale tra epici paracarri d'anteguerra.
"Fuoco di Vesta che fuor dal tempio irrompi, con ali e fiamme la giovinezza va...". Non so
cosa ci ha preso di andare a Predappio a dare un salutino al Duce. C'è che la macchinina è
nata nel '36, anno della conquista d'Etiopia e apogeo del consenso al regime. E c'è che
vogliamo, anche, capire come diavolo l'estetica del granito abbia prodotto un'utilitaria così
"coquette", tutta musetto e culo. Sensuale e femminile.
Ex Statale 9 Ter, il sole a picco, il sasso fischia, il nome squilla, sul passo dei Tre Faggi
Franco si scatena: "Duce Duce chi non saprà morir? Il giuramento chi mai rinnegherà?".
Non è fascista, canterebbe l'Internazionale arrivando in Piazza Rossa. L'Italia cialtrona
scompare col segnale del cellulare. Finito tutto: Michele Cocuzza, Cristina Parodi, l'Isola dei
famosi. A noi basta un pediluvio nel Rabbi, limpido tra prati verticali disseminati di cavalli e
mucche bianchissime. Al Touring devono essere matti, la carta al 200 mila non svela gli
incantesimi di questa valle. Neanche un segno di nota per Premilcuore, splendida, con le
case a picco sul fiume.
***
A mezzogiorno Predappio sonnecchia, deserta. Quello mussoliniano è un Appennino
rettificato, romanizzato, deprivato della sua magia. Viali infuocati a novanta gradi, la piana
centuriata che invade la collina. Nella cripta del Duce solo due giovanotti tatuati con due
gnocche dall'ombelico in mostra. Com'è strano il rispetto della Destra. Intanto nel registro
le firme crescono al ritmo di cento pagine al mese. Leggo: "Da Mestre con onore". "In
questo momento avremmo bisogno di te". "Brigata nera Stefano Rizzardi, Bologna". Ma la
più straordinaria è la federazione dell'Msi di Verona, che si data "LXXXIV, anno 84° dell'era
fascista". Vorremmo aggiungere: "Berlusconi mai più", ma lasciamo perdere.
Toh, al bar in paese sento discorsi di sinistra. Sinistra tosta. "Peccato - dicono - che non
abbiano fatto presidente della Repubblica D'Alema. Così ce lo toglievamo dai coglioni".
Chiedo: "Ma Fini non l'avete più visto da queste parti?". E loro: "No, dopo Fiuggi niente.
23
Oggi è più facile che venga Veltroni. O Napolitano. Abbiamo appena buttato a mare l'uomo
che ride, e già ci fanno discorsi di riconciliazione... Ah, nulla ci sarà risparmiato... Saluto al
Duce, camerata triestino!". Ridono i compagni, e la pianura è un risucchio, una vampa
africana che sale da Forlimpopoli. Emilia-Romagna basta, ci siamo dentro da troppi giorni.
In serata vogliamo entrare nelle Marche, attraverso le colline del Montefeltro.
A Meldola, paese di rosse logge e bianchi selciati poco oltre Predappio, stanno giusto
rievocando la vita e la morte del partigiano Antonio Carini, massacrato dai fascisti sul
ponte lì vicino nel marzo del '44. C'è una cosa solenne in teatro, col sindaco Loris Venturi e
l'attrice Roberta Biagiarelli, una brava assai, che ha appena prodotto "Resistenti", uno
monologo documentatissimo sui partigiani del Piacentino, la stessa terra di Carini. Racconti
terribili, raccolti dagli ultimi testimoni vivi. Da imporre per decreto alle sinistre smemorate
di oggi.
Figlio di un barcaiolo del Po, Carini emigra in Argentina a vent'anni, ad aiutare i
campesinos. Poi va alla guerra di Spagna, dove lo feriscono tre volte. Nel '43 diventa
commissario politico nelle brigate della zona di Bologna, poi passa a Forlì dove lo
catturano. Infieriscono su di lui per una settimana con ferri roventi, dentro la Rocca delle
Caminate, villa mussoliniana trasformata in prigione. Chi ne uscì vivo ricorda: le sue urla si
sentivano nei corridoi, c'era odore di carne bruciata, il corpo sanguinolento e vivo era
mostrato agli altri prigionieri, per convincerli a parlare.
Alla fine lo pugnalarono sul ponte di Meldola e lo buttarono giù, perché tutto il paese
vedesse. E poiché non era ancora morto, lo finirono a colpi di pietra sul greto. Dopo la
guerra, la storia del nuovo eroe dei due mondi entrò nella leggenda del Forlivese. "Finire
nelle mani dei fascisti era peggio che esser presi dai "tudòsc"" conferma il piacentino
Giuseppe Scapuzzi, 80 anni, nome di battaglia Franz. "I "tudòsc" erano cattivi quando
c'era da esser cattivi, ma non si perdevano in vendette personali. I fascisti invece ti
torturavano anche per invidia, questioni di soldi o di donne".
Sotto il ponte dell'orrore sul fiume Bidente nuotano felici i bambini. Dovrebbe essere tutto
finito: invece ce ne andiamo con in bocca il sapore di qualcosa di non digerito, qualcosa
che può succedere ancora. Hanno pagato gli assassini di Carini? Mah. Romagna addio,
l'Italia di Mezzo comincia.
(7 agosto 2006)
24
Nella gola del gigante
Nono giorno, dove la Topolino finisce nel monsone, si inzuppa e infine prende il
sopravvento sul pilota Circumnavigando il Sasso Simone, in 40 km esci dalle Marche
quattro volte ed entri in Toscana per altrettante
Il Sasso chiamato Simone naviga sotto le stelle, sul confine tra Marche e Toscana, solitario
tra i grilli e un mare di querce nel vento. Sembra una portaerei, con gigantesche murate e
una lunga pista sulla sommità. I toscani fortificarono questo bastione naturale per tenere a
bada i signori del Montefeltro e le loro rocche di San Marino, Sant'Agata e San Leo. Ma
presto lo abbandonarono, per assenza di sorgenti e strade, e oggi la foresta s'è mangiata
tutto, le pietre sono appena visibili nell'erba alta. Sul paese-fantasma è rimasta solo una
gran croce in ferro, perfetto acchiappafulmini nei giorni di temporale.
Al mattino dopo l'auto sale nella boscaglia sopra Pennabilli in un forte odore di aglio
selvatico. Sui tornanti, paracarri tozzi, quasi megalitici. In fondo, il Sasso, in un'aria liquida
che lo avvicina come una lente d'ingrandimento. A un curvone proseguiamo a piedi su una
traccia fangosa, devastata dai fuoristrada e dal passaggio di cavalli, con un surreale
cartello "Velocità massima 30 orari". Incontriamo solo due tedeschi, in quasi un'ora di
strada tra piante rampicanti e sfasciumi, finché l'ombra del Sasso ci si allunga sopra, con
grigie pareti coperte di licheni. Sasso Simone è la boa di una regata. Persino i confini gli
fanno ressa intorno. Emilia-Romagna, Umbria, Toscana e Marche qui disegnano tali
labirinti che, circumnavigando la montagna in senso antiorario, in 40 chilometri esci dalle
Marche per quattro volte ed entri in Toscana per altrettante. Sulla mappa troviamo persino
un'enclave - un pazzesco Nagorno Karabak toscano - attorno a una frazione di nome Cà
Raffaello.
***
Ma il cielo si oscura, governo ladro. Dopo una gola franosa fra dirupi, facciamo in tempo a
vedere un fronte di nubi nero-inchiostro arrivare a tutta velocità da Occidente.
25
Il vento spazza le praterie verde elettrico, scuote la più grande foresta di cerri d'Italia, e il
Sasso Simone pare uno scoglio in un vortice di tempeste. Tuona, la temperatura è scesa di
quindici gradi, piove sottile, poi a dirotto suì ruderi e i dirupi, e il canalone diventa uno
scivolo di fango.
Riparo con Franco sotto uno strapiombo, ma la pioggia diventa monsone, il bosco è
percorso da nubi sfilacciate come il fumo di un incendio. La discesa dura mezz'ora in una
mota argillosa come plastilina, e al capolinea - quando pensiamo di essere al riparo scopriamo che anche la Topolino gronda acqua. La capote non tiene.
Mettiamo in moto alla cieca, col parabrezza appannato e il tergicristallo anni Cinquanta che
fa quello che può, un giro cigolante ogni quattro, cinque secondi. Il passeggero è sotto
una cascatella, gli tocca asciugare il pavimento con la spugna di dotazione.
***
La spugna, ecco a cosa serviva quella dannata spugna sotto il sedile di destra. Chiamo il
proprietario dell'auto, devo gridare forte per superare il rumore dell'acqua. Gli chiedo
come devo regolarmi in casi simili. "Semplice - fa lui - ti fermi". Ah. Ora lo so, gli amatori
delle auto d'epoca si dividono in due categorie: i restauratori e i conservatori. I primi
impermeabilizzano, verniciano, chiudono ogni fessura, rendono tutto più felpato e
confortevole. Gli altri lasciano tutto com'è. Bene, ora abbiano capito che il proprietario
della Topo appartiene alla seconda confraternita. "Se avessi impermeabilizzato le fessure gracchia al telefono il Righi Roberto mentre ormai mi piove nelle mutande - l'auto avrebbe
perduto la cosa fondamentale: l'odore. Non sarebbe più la Topolino".
Viaggiamo alla cieca in boschi totalmente deserti, poi, al passo della Cantoniera, ecco una
luce accesa e un camino che fuma. Oltre la cascata leggo a malapena "locanda Capinera".
Il posto è perfetto, ma il diluvio è tale che il parcheggio riesce solo aprendo le portiere.
Dentro è strapieno di ciclisti: un plotone di belgi alle prese con le tagliatelle al ragù e
posseduti da un'insana allegria. Ci accolgono con pacche tremende sulle spalle, mentre dai
tavoli si alzano cori per l'arrivo dello spezzatino, e un tipo alla ispettore Clouzot con la
maglietta del "Crédit Mutuel" solleva di peso il cuoco appena uscito dalla cucina. Fa
freddo, il vento squassa gli alberi, raffiche di pioggia mitragliano le vetrate. E noi si va di
grappa con i belgi festanti, come con un'orda di lanzichenecchi papalini.
***
Non resta che tornare alla base. Nell'auto più niente di asciutto. Nemmeno i documenti.
Nemmeno le carte geografiche. In albergo a Pennabilli cerchiamo di recuperare con
l'asciugacapelli almeno il libretto di circolazione, e in breve la stanza si riempie di fogli
appesi con le mollette. Franco scende sotto la tettoia del parcheggio, apre la capote e le
porte del trabiccolo per ventilare la tappezzeria fradicia. Ormai Nerina ha preso il
sopravvento. Ci domina. Noi pensiamo prima ad asciugare lei che le nostre mutande.
Mi sfiora persino l'idea demente di sostituire l'"io" narrante con il "noi", nel senso di Nerina
e io. E' il segno che la "Topo" ha invaso anche il racconto. Eppure il proprietario mi aveva
avvertito: "Attento, è come una donna. Se ce l'hai la maledici, se la perdi ti manca, se ti
frega ci perdi l'anima". Franco, esausto, russa come un facocero, e il ronfo, abbinandosi al
richiamo di una civetta fuori dalla terrazza, diventa nel dormiveglia il raglio di un animale
mitologico spaventoso.
26
Dopo cena il cielo si apre e, tra i lumini dei villaggi e gli ulivi fruscianti, la turrita Pennabilli
dal doppio cocuzzolo - Penna e Billi - si svela un'acropoli perfetta, un formidabile luogo
dell'anima.
Scalpiccìo, rondini, gente che parla a bassa voce; la Toscana ribalda e il divertimentificio
romagnolo sono già un altro mondo. Se esiste un luogo dell'identità appenninica, ce
l'abbiamo davanti.
Chissà dov'è la casa del grande vecchio, il poeta Tonino Guerra. "Eccola lassù, ma tanto lui
non c'è" risponde una donna col fazzoletto nero in testa. "E' partito per la Russia con la
moglie". Qui tutti sanno tutto dei movimenti del più illustre inquilino del Montefeltro.
"Tonino ha una stella rossa in testa - ride un tipo al bar - gliel'ha messa anni fa il chirurgo
sovietico che l'ha operato al cervello". "Quello lì ha sette vite, come un cosacco",
aggiunge, e tenta di ricordare una sua poesia in romagnolo, scritta dopo il lager in
Germania.
"Tante volte sono stato felice in vita mia... ma specialmente lo sono stato... quando la
prima volta ho visto una farfalla senza... aver voglia di mangiarla".
***
La mattina il cielo è una meraviglia, il vento spazza i pensieri. Anche il macinino è
pimpante, persino ipercinetico, parte come un segugio a caccia di marmotte, scava verso
la pancia del Paese. Il paesaggio si fa più umbro, morbido. Tutto è ricurvo: dalle colline ai
solchi della arature, dai meandri dei fiumi al limitare dei boschi. Traversiamo gioielli come
Belforte all'Isauro, Sant'Angelo in Vado, Cagli, Sorbètolo, Pian di Meleto. Valli sconosciute:
il Candigliano, il Metauro, il Bosso. L'Italia "è" questi luoghi fuori rotta. Per trovarli basta
fare slalom tra buche e qualche merda di vacca, rinunciando alla pestilenza del rettilineo.
L'acqua del Bosso è verde, un po' Neretva, preludio di terre da lupi: quelle che portano al
Catria, bastione di millesettecento metri sopra il monastero camaldolese di Fonte Avellana.
M'accorgo che per la prima volta, dopo la Linea Gotica, la gente ci saluta. Occhiate stupite,
di meraviglia, invidia, incredulità; come se la Topolino disincagliasse qualcosa dal
sommerso della loro anima. Un automobilista lampeggia, un altro suona il clacson, un altro
ancora si sbraccia dal finestrino. Fanno una cosa che in autostrada sarebbe impossibile:
cercano gli occhi di chi guida. L'incrocio di sguardi dura un attimo, ma basta e avanza
perché sia ordinatamente archiviato dalla memoria.
(8 agosto 2006)
27
Il suono del silenzio
Decimo giorno, dove la Topolino viene sequestrata dai monaci e dalla pioggia Prima di
incontrare una bella Cinquecento beige L’eremo di Fonte Avellana è un padiglione
auricolare che cattura tuoni e rimanda litanie. Di notte, lì dentro, può accadere di tutto.
Negli anni Cinquanta don Beppe andava all'eremo di Fonte Avellana ancora a dorso di
mulo. La strada non c'era, il viaggio durava mezza giornata in una "selva oscura" di querce
e cinghiali. Oggi che ha 80 anni, Beppe a Fonte Avellana ha scelto di viverci. E' uno che
parla poco: ma stasera, davanti alla Topolino che sbuca dal temporale davanti al portone
del convento, gli torna la voglia di raccontare. Quell'auto pellegrina mandata dal destino è
un pezzo della sua vita. L'anello mancante tra il mulo e la modernità, la gioventù e la
vecchiaia. Con lei, la memoria si rimette in moto.
"Venite", intima affettuosamente, e ci guida verso la cantina attraverso corridoi secolari,
quadri di priori defunti, scale lisciate dal tempo. Lì sotto, parcheggiata su terra battuta,
nella penombra, c'è una Cinquecento beige. La macchina della sua vita. L'unica. "Eccola
qui la mia piccola. E' ancora in buono stato e posso guidarla, se voglio. E' insuperabile con
la neve. Me lo ricordo bene: le auto dei ricchi finivano di traverso, e io passavo. Sempre.
Non servivano nemmeno catene. Vedete, gli ultimi saranno sempre i primi".
***
L'eremo non lo vedi finché non ci sbatti il muso contro, nascosto com'è in una conca
rocciosa fitta di querceti. Sopra il portale una lapide dantesca dice che nei secoli poco è
cambiato. "Tra due liti d'Italia surgon sassi / e non molto distanti alla tua patria / tanto
che i tuoni assai suonan più bassi / e fanno un gibbo che si chiama Catria / di sotto al
quale è consacrato un ermo / che suol esser disposto a sola latria". E sul Catria tuona per
davvero; un brontolìo lungo, come di treno che passa su un ponte in ferro.
Il monte ci accoglie con tuoni a ripetizione, ora in tutte le tonalità e tutti i timbri possibili.
Botti secchi come di legna che arde. Una grande lamiera agitata dal vento.
28
Una frana cupa, con l'eco che la sdoppia. Un cassone trascinato da qualcuno al piano di
sopra, tra le nubi. Un ruggito rauco, sgangherato, lungo. Il vento ulula, il faggeto si agita,
si popola di demoni. Tutto è amplificato, ha un'eco speciale. Fonte Avellana è un
padiglione auricolare che cattura i tuoni e rimanda litanie.
Di notte in un convento può succedere di tutto. Anche che una donna vestita di nero, bella
come una dea, ti svegli alle tre del mattino. Una dea-madre appenninica, o forse l'icona di
un volto perduto.
E' venuta in sogno da chissà dove, ma tu credi di averla vista davvero, ferma con le spalle
al muro dello Scriptorium, accanto al portone d'ingresso. Fuori il vento è caduto, la foresta
è immobile sotto nubi diafane e poche stelle. Ora non è più una massa in movimento ma
un popolo di individui muti in ascolto. Il silenzio è ascolto, Fonte Avellana è ascolto, la sua
verde conca nascosta è un sismografo planetario, una cassa acustica che amplifica le
pulsazioni, il tamburo lento della Terra.
Un lampo violetto illumina la pendola, il muro crepato dall'ultimo terremoto, la statua di
San Giuseppe che dorme, la cella di un frate novantacinquenne che non esce mai e di cui
non so il nome. Nel corridoio di Giulio Secondo, il papa-guerriero che fu priore quando
l'eremo divenne potenza mondana, celle di trapassati col nome di Parisius, Gaudentius,
Walfardus, Raynaldus. E ancora Bononius, Thomas, Raynerius, Albertinus. Ora si sentono
solo i miei piedi scalzi e un cuculo nella foresta. Nell'era del rumore, la scelta del silenzio è
rivolta, atto di guerra, rivendicazione di libertà. Ma forse anche nell'anno mille, al tempo
del fondatore Romualdo, era la stessa cosa.
***
Nei monasteri ho trovato tanti tipi di silenzio. Quello da caserma dei ricchi benedettini
bavaresi. Quello tenebroso e triste dei monaci ortodossi in fondo alla Turchia. Il silenzio
alacre dell'Ospizio di San Bernardo, sul confine svizzero, dove la notte si popola di sospiri,
scricchiolii, ticchettii, sommesso russar di pellegrini. Qui, invece, hai il silenzio fermo del
capolinea. Fonte Avellana non ti accoglie con un caldo parquet di legno, ma con fredda
pietra. Non ti indica le vette ma l'abisso, lo stesso da cui prorompe la fonte dei noccioli.
Una dea, forse la stessa che m'ha chiamato in sogno verso lo Scriptorium.
Padre Arrigo, giovane monaco con base a Camaldoli, in Toscana, mi dice che il silenzio è
"guardiano del mistero", rende possibili "percezioni inaudite", fa del passare del tempo una
perfetta celebrazione. Ma il silenzio è anche disponibilità, accoglienza, stupore; e queste,
insiste, sono qualità al femminile. La sera, in refettorio, me ne ha lungamente parlato il
priore Alessandro. "Esiste il silenzio vuoto, totalitario, che ti schianta. E c'è il silenzio pieno,
dello spazio sacro, che ti riempie. I monaci cercano il secondo". Il greco dice già tutto.
"Erema": dolcemente, quietamente, tacitamente, lentamente. "Eremazo": sono quieto,
silenzioso, melanconico. "Eremei": sto calmo, zitto, saldo, immobile.
***
Alla cappella dove si tengono le laudi mattutine puoi arrivare a occhi chiusi, basta seguire
il canto e il ciabattare dei monaci. E' facile distinguerli a orecchio. Il priore, grandi scarpe e
passo lungo. Cesare, il bibliotecario, leggero come un hidalgo dei quadri di Velasquez. Fra
Giuseppe detto "il greco", pesante e barbuto, un lampo piratesco negli occhi. I passi
piccoli di frà Giuseppe e frà Giacomo, l'organista, curvi col rosso salterio in mano.
29
L'andatura forte del vecchio don Beppe che veniva a dorso di mulo. Don Marco da Rimini,
passo
elastico,
barba
e
riccioli
biondi
da
capitano
di
ventura.
Sette in tutto; c'è di che sentirsi soli. Dalla cappella si leva una laude monodica, triste. Il
latino non c'è più, i camaldolesi vi hanno rinunciato tra i primi nel mondo cattolico. Ma così
anche il gregoriano è scomparso, e la magia sonora delle celebrazioni s'è in parte perduta.
"Quando son venuti i rumeni a cantare da noi, era tutta un'altra cosa" ammette il
bibliotecario, come se solo con i fratelli ortodossi avesse scoperto il senso acustico del
luogo.
***
A pranzo c'è una sorpresa in refettorio: l'attore Giuseppe Cederna e sua moglie Valentina.
Li ho incontrati pochi giorni fa in casa di Piero Gobetti in Lucchesia, e ora me li ritrovo qui,
attenti come scolaretti, in ritiro spirituale. Che festa incontrarsi così per caso. Fa freddo.
M'accorgo che nell'eremo non ci sono caminetti, non ci sono mai stati. Nel medioevo si
passava l'inverno senza fuoco acceso, curvi per ore sui manoscritti, immobili nel gelo più
totale. "Era gente di un'altra tempra - ammette il bibliotecario - un'altra genetica".
Finiamo la giornata a parlare di Islam, Israele e Terrasanta, della cripta che è orientata a
Est e s'illumina esattamente all'ora delle laudi, o di questo pazzo viaggio appenninico che
si allunga come il mantice di una fisarmonica che comincia a Cadibona e finisce sullo
Stretto. La macchinina venuta da un'altra epoca è stata un catalizzatore di memorie. Ha
sbloccato qualcosa tra noi e i monaci, e ora i bravi camaldolesi non vorrebbero che ce ne
andassimo via. La pioggia aumenta, dal Catria scende una valanga di nubi grigio-piombo.
Rivedo le grandi montagne incontrate fin qui: il Penna, il Gòttero, la Pietra di Bismantova
che diede all'Alighieri l'idea del Purgatorio. E poi il Cusna, il Cimone, il Falterona, il Libro
Aperto, il Sasso Simone. I pilastri dell'Appennino.
La carta del viaggio, dispiegata sul tavolo comunitario, suscita meraviglie nella divina
brigata. "Devi assolutamente andare sugli eremi della Maiella" intima frate Cesare. "E non
dimenticare Roccaporena, dov'è nata Santa Rita, sotto i monti delle Sibille", aggiunge il
priore. Non siamo più noi che facciamo il viaggio: ora è il viaggio che si fa da sé. Dalla
cucina arriva profumo di capretto arrosto, patate e rosmarino; ora nemmeno noi abbiamo
voglia di tornare nel mondo del rumore, là dove trilla il cellulare.
(9 agosto 2006)
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Dove Dio è forestiero
Undicesimo giorno, dove nel paese dei nomi senza santi in paradiso entra in scena l’Ape e
l’uomo che si è fatto la chiesa da sé Evviva le Marche e i marchigiani Mai diffidenti e
sempre impegnati in appassionate partite a briscola
L'auto partigiana si imbosca nella Ps 16 di Sassoferrato, deserta nella pioggia, poi in una
ex Statale dal nome pazzo di "Septempedana", persa nel polpaccio d'Italia, il punto più
largo dello Stivale. Franco è ripartito in treno, l'abitacolo ricomincia a far acqua, viaggia
quasi alla cieca finché, in fondo a una gola da assalti alla diligenza, in bilico su una
cascata, appare Piòraco, sconosciuto borgo medievale che fa carta da sette secoli e la
grazia dell'Onniponente ha risparmiato dalla furia dei geometri. Le sorprese cominciano
subito.
Nel bar sento chiamare una donna "Zobeide". Poi sbuca un "Radames". Troppe, due
stranezze in una volta. "Ma come, non lo sapeva?", mi dicono. "Questo è il comune dai
nomi più pazzi d'Italia. Vuole sentirne? Brunaldo, Anarchino, Aulo. Ne vuole altri? Guelfo,
Pluvio...". Chiedo dove li hanno pescati. "Dai libri. Da dove altrimenti? Siamo un paese di
cartai, pieno di libri destinati al macero. Lì ci sono gli eroi che hanno acceso la fantasia di
generazioni... Il problema era solo convincere i preti a fare il battesimo... con quei nomi
senza santi in paradiso".
Mi raccontano che nel '44 un soldato tedesco venne ucciso a Piòraco da un partigiano
jugoslavo, e la gente, nel timore di una rappresaglia, corse dal prete a chiedere consiglio.
Quest'ultimo unì genialmente l'astuzia col dovere di buon cristiano. Allestì una camera
ardente, ci mise il corpo lavato, rivestito e composto con le armi accanto, aggiunse dei
fiori e poi avvertì personalmente il comando della Wehrmacht. Quando arrivò la pattuglia,
l'ufficiale si commosse al punto che non ci fu ritorsione alcuna.
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A Seppio riparo sotto un portico a dar di spugna al pavimento. Non posso continuare, le
previsioni sono pessime. Accanto c'è un "bar-alimentari", con un tavolo impegnato in una
briscola. I marchigiani sono incalliti battitori di carte.
Non c'è locanda, pergolato o stazione dove non ne abbia visti all'opera: alacremente,
scientificamente, passionalmente impegnati fin dalle prime ore del mattino. Con qualsiasi
tempo.
Tra una mano e l'altra mi chiedono dove vado, da dove vengo, cosa cerco. Un umbro non
chiederebbe niente. Un toscano figurarsi. Qui invece sono curiosi, oltre che privi di
diffidenza. Mi offrono da bere, si prodigano in consigli. "Vicino c'è un buon alloggio",
suggeriscono, "e presto arriva Ginetto che ti può accompagnare lassù". Non mi dicono che
Ginetto ha 83 anni e il suo mezzo di trasporto è un'Ape, il più glorioso triciclo da
combattimento della storia nazionale.
***
"Questa va dappertutto" scherza Ginetto tirando con la prima su una salita da bestie,
"l'Ape ce l'ho da quando che sò natu". Passare da una Topolino a un'Ape è una meraviglia.
L'apoteosi, il Te Deum, la celebrazione suprema della lentezza. Il vecchio ha manone da
contadino, occhi azzurro-cielo e un eloquio torrentizio. Capisco una parola sì e due no.
Lassù c'è il suo campo, lui ci va a zappare ogni giorno. Quanto a me, sono un "cristianu"
cui non si nega mai aiuto. "Cristiano", qui, non è un marchio religioso: è sinonimo di
forestiero. I marchigiani chiamarebbero così anche un arabo, cristianesimo e ospitalità
sono la stessa cosa. Viva le Marche, dove dio è straniero. E Calderoli è lontano come la
Luna.
Nel fiume di parole di Ginetto sbuca un certo "Itterle" (accento sulla "i") che deve avere
avuto un ruolo nella sua vita, molti anni fa. Itterle, chi sarà costui. "Itterle, Itterle" grida
Ginetto per superare l'urlo del motore, "Quello che gli dicevano "aile Itterle!" Capitu?", e
per fare il saluto nazista molla non una, ma entrambe le mani dal manubrio nel punto
dove la strada compie una curva pazzesca in un asfalto crivellato di buche. Hitler,
ordunque. Colui che l'ha mandato in Germania dopo l'8 settembre '43.
Ginetto narra della fame in quel "Paese senza uomini", dove tutti i maschi stavano al
fronte. "Itterle era forte - ride - le pensava tutte, i francesi gli avevano fatto la Maginotti e
lui gli ha girato attorno". Arriviamo a una frazione di tre case, dove unico abitante è la
Bice, altra vegliarda che non molla. Sta sulla finestra, ha sentito il motore, e quando senti
una macchina, qui in capo al mondo, non puoi sbagliare. Può essere solo Ginetto, Franco o
Giuseppino. Oppure Ulrich, il tedesco che abita trecento metri più sotto.
***
"Adesso ti faccio vedere la tregghia" insiste, e dio solo sa cosa sia la tregghia. Ginetto è su
di giri, finalmente ha qualcuno che lo ascolta. Mi porta sotto una tettoia, davanti a una
pesante slitta da erba e da neve. "Con questa ho portato le pietre per fare la chiesa",
spiega. E indica, poco lontano, una cappella di venti metri per dieci, in perfetto rettangolo
aureo, col campanile a vela e una finestrella rotonda sopra l'ingresso e dietro l'abside.
Fuori, una gran vista su Camerino e i Monti Sibillini. Prende un mazzo di vecchie chiavi,
apre il portone. Dentro, una meraviglia.
32
Sobrie decorazioni affrescate e una presenza arcana nella penombra. Le pietre hanno mille
anni, vengono da una chiesa medievale crollata, poco sopra il cimitero. "Ti piace? L'ho
costruita per sposarmi. Nel 1947".
Un momento. Ginetto s'è costruito una chiesa da sé. Ha scelto il posto, ha portato una per
una le vecchie pietre. Poi, a lavoro finito, ci si è sposato. Sono senza parole. Gli chiedo chi
l'ha disegnata. Lui mi guarda strano, come se gli avessi teso un trabocchetto: "Li muratori,
e chi altrimenti?". Misuro con un brivido l'apocalisse estetica nel popolo italiano. Chiedo a
che santo è dedicata la chiesa. "A Severu", risponde, e smette di sorridere, come se
nominasse qualcosa di molto importante. Ma dov'è la statua del santo? E lui, serissimo:
"Se l'è portata il prete, anni fa".
Colgo l'occasione al volo. Che nei pensi dei preti, Ginetto? "Io mi fido dei santi", fa lui
scansando la polemica. Ora è chiaro: la chiesetta ricostruita nasce da un rapporto
personale tra lui e un santo, forse quello che l'ha tenuto vivo in Germania. Severo, conta
solo lui. I preti passano, il sacro rimane: e il sacro segna da migliaia di anni la topografia
di questa terra di picchi e sorgenti. Mi mostra il paesaggio col bastone. "Dimmi se può
esserci un posto più bello", chiede.
E poi, gongolante: "Ora vengono le figlie a rifare tutto come staìa". Le figlie? Sì, le
studentesse che lavorano al restauro. Fin che c'è Ginetto mangiapreti, Dio abiterà a San
Severo.
***
Ulrich, da cui trovo da dormire, abita qui da dodici anni, con la moglie inglese Mary. Ha
pollaio e internet, orto e raffinata collezione di libri di viaggio. Nel camino arde un ceppo,
due piccoli pastori tibetani dormicchiano accanto. Racconta di suo padre che nel '22 andò
a piedi dalla Renania a Napoli; è da allora che l'Italia è entrata nei suoi desideri. Non
cambierebbe il suo paesino marchigiano con nessun altro. "Siamo stati accolti come figli, la
sola idea di tornare nel grigio del Nord ci fa orrore". Ulrich capisce anche i difetti degli
italiani. "Qui c'è un vuoto di memoria", dice. "Pensa, i nostri vicini non avevano idea di
abitare
in
un'ex
chiesa
longobarda
di
nome
San
Michele".
Tramonta, i Sibillini innevati sono un gregge in movimento, indicano l'inizio del grande
spartiacque, quello che per millenni separò le due Italie con un invalicabile muro di neve:
Adriatico e Tirreno. Mary racconta dei suoi viaggi sovietici ai tempi del Grande Freddo.
Telefona per la buonanotte alla Bice, la vegliarda sola, poi va a chiudere il pollaio, perché
la volpe passa di sicuro. Sul comodino mi ha lasciato il libro Love and war in the
Appennines, amore e guerra negli Appennini, di Eric Newby, ex soldato inglese che sposò
la donna trovata nel '44 sui monti della Lunigiana. Sento che il viaggio sta diventando una
caccia al tesoro tra eremi, boschi e sorgenti.
(10 agosto 2006)
33
Dell'ottava e ultima rima
Dodicesimo giorno, dove la Topolino scopre i maestri del poetar cantando e i fagiani che
s’innamorano dei pulcini Dopo le nevi sibilline, eccoci piombati nel buio afgano dell’Alto
Lazio Roma è lontana e “ladrona”, da fare invidia alla Padania
Il Lazio comincia con un buio compatto, quasi afgano. Strade deserte, boschi neri, villaggi
senza una luce. Come se un diserbante avesse annichilito ogni presenza umana. Che
qualcosa di oscuro si preparasse s'era capito già sui Monti Sibillini, in terra umbra, dallo
sguardo sibillino della banconiera dell'hotel "Sibilla". Un occhio fenicio, in fondo a una
penombra profumata di ragù e lenticchie, che diceva: "Attento, stai entrando in terre
arcane". Fuori c'erano le praterie della piana di Castelluccio, imbiancate di neve fresca
caduta durante la notte, ma posti come il Monte Utero, il lago di Pilato e le gole
dell'Infernaccio già parlavano di negromanzia. Ero già sull'orlo dell'abisso.
Al crepuscolo, in provincia di Rieti, le cose sono peggiorate. Un vuoto umano totale. Solo
qualche pullman di preti e pie donne in viaggio verso Cascia e Roccaporena, i mistici
luoghi di Santa Rita orrendamente cementificati. Ora, a Leonessa, un bel borgo medievale,
gli alberghi sono chiusi o "non ricettivi". La poca gente mi guarda strano, non sa come
collocare questo viaggiatore solitario, su una macchina d'altri tempi. Mi salva solo un
cartello con la scritta "agriturismo", che indica un paese di nome Villa Pulcini.
Arrivo al crepuscolo, trovo quattro case e un cane enorme in mezzo alla strada. Nessuno
in giro, anche la locanda è chiusa. Il bosco alita fin dentro le aie, promette imminenti
incursioni di volpi. Penso: meglio non essere una gallina da queste parti. Ma il mistero
aumenta davanti al monumento ai Caduti, poco sotto la chiesa. I cognomi sono solo di due
tipi: Pulcini e Fagiani. Rigorosamente. E poiché pure i nomi - Carlo, Giuseppe, Antonio - si
ripetono, accanto hanno messo il nome dei padri per evitar confusioni. Dura, per il
postino, consegnare una lettera da queste parti.
34
A un tratto, un canto corale rompe il silenzio, le porte della chiesa si spalancano, un
piccolo fiume di gente si riversa per strada. La messa è finita, andate in pace. Meno male:
non ci sono solo i morti a Villa Pulcini. Così incontro la Gina, la proprietaria della locanda.
Mi apre il locale e svela l'enigma dei cognomi. I Pulcini vengono da Ferentillo, scapparono
non si sa perché. I Fagiani arrivarono da Poggio Bustoni, il paese di Lucio Battisti, perché
un fagiano s'era innamorato di una pulcina. "E io - dice - sono la figlia del poeta". Il poeta?
"Sì, Leonardo Pulcini, uno dei grandi dell'ottava rima".
Ora ricordo! Francesco Guccini me l'aveva detto che da queste parti viveva ancora la voce
antica dell'Appennino. Sono fortunato: in locanda arriva Pietro De Acutis, uno che proprio
qui ha imparato dal nonno i segreti del poetar cantando.
Con tre avventori, mi spiega il trucco delle assonanze, delle rima baciata finale, del modo
di mettere in difficoltà gli avversari nelle pubbliche disfide. Esempio? Due avventori
scelgono un tema, i preti. Uno pro e uno contro. "Ricurvo sotto il legno del misfatto /
L'uomo divino sale al suo calvario...". La prima ottava è un'impressionante crocefissione.
Sì, riparte l'altro, ma quando il povero Cristo è lì appeso, il prete scappa, e "chi lo conforta
in tanta confusione? / Una bella puttana e un gran ladrone".
Tiriamo tardi a melanzane, pecorino e vino rosso. Fuori, sempre quel buio da paura. Come
mai questo vuoto, chiedo, se Roma è vicina? "Roma? - saltano su tutti come se avessi
nominato il diavolo - è proprio Roma il problema!". Nessuno rimane in un paese che ha
dietro l'angolo la Città Eterna. Roma fa le notti bianche? Già a Rieti, dicono, non trovi locali
aperti dopo le 22. "Eravamo Abruzzo una volta, poi Mussolini ci ha annesso al Lazio, ma lamenta Gina - non c'è convenuto per niente". E pronuncia la parola "Abruzzo" con
fierezza, come se evocasse una mito di resistenza, di fronte a una realtà di sconfitta.
Sarebbe da spiegarlo al Bossi che dire "Roma ladrona" ha più senso in Lazio che in
Padania. "Roma è un ragno - soffio sul fuoco mostrando la carta geografica - con le vie
consolari come zampe insaziabili". "Un ragno, sicuro!" s'illumina De Acutis. Ho fatto centro,
il ragno è il nuovo tema della serata in rima. "Ascolti questa. E' di Bernardino Perilli,
l'ultimo dei grandi. Saggio maestro della tessitura / il buon lavoro sempre ti accompagna /
lungo le crepe delle vecchie mura / intesse il giorno la tua tela ragna ... però lavori in
maniera un po' losca / tessi lo trabocchetto per la mosca".
***
Vado a letto quasi a tentoni in un buio compatto, in una casetta oltre la strada. Mi rode
una curiosità: esiste un rapporto tra la rima cantata e quest'incommensurabile silenzio?
Non ho forse trovato la stessa cosa sui monti tra Liguria, Toscana ed Emilia, terre
dimenticate dove però risuonano pifferi, fisarmoniche e cornamuse? Vasco Rossi,
Francesco Guccini, Lucio Battisti non vengono forse dal più recondito Appennino? Non
sono anche loro figli del silenzio?
Capita, nei viaggi, che le curiosità ti assalgano di sera. Se non le soddisfi, passi la notte in
bianco. Così chiamo al telefono Nanni Barbero, un vignaiolo della Lunigiana che sa tutto di
quello che lui chiama il "free style della poesia cantata". Lui non ha dubbi: "l'ottava rima è
figlia del silenzio dei campi. Era l'improvvisazione assoluta. L'uomo solo parlava tra sé per
passare il tempo, e le parole si combinavano spontaneamente tra loro. Il padre di Benigni
era un mostro in Ottava. Il figlio è un prodotto di questa cultura. Anche Umberto Eco lo
è".
35
Già, ma la memoria? Quella da dove viene? Mi chiedo come facessero, per esempio, a
ricordare le centinaia di quartine che componevano i "maggi", le grandi rappresentazioni
drammatiche che mobilitavano interi paesi d'Appennino. Chiamo a Parma il musicologo
Gigi Dell'Aglio, che un giorno mi ha parlato dei mirabolanti maggi rinati a Costabona, sotto
il passo del Cerreto, in Emilia.
"Senti questa", mi dice. "Anni fa una ragazza iniziò una ricerca su un maggio. Tornò da me
delusa, aveva trovato solo quattro vecchi che ne avevano sentito un'edizione da bambini,
e non ricordavano quasi nulla. Le dissi: torna, e falli ricordare assieme.
Lei tornò e i quattro, aiutandosi tra loro, ricostruirono 260 delle 340 quartine di cui era
composto il maggio. Incredibile? Niente affatto. Allora non c'era la Tv a occupare la
mente. Non c'era il rumore. Non c'era il ronzìo di fondo che ci obbliga a non pensare e a
consumare. Sai, credo che la demenza senile altro non sia che un hard disc pieno".
"Vai a trovare Fortunato Aloisi, a Terzone", mi dicono in locanda al mattino. "E' l'ultimo dei
grandi. Ha 85 anni e una memoria di ferro". Così eccomi sulla strada per Terzone, dieci
case e un fiumiciattolo, in bilico tra Umbria, Marche e Abruzzo. Al poeta ci arrivo a
orecchio, seguendo un canto in rima che mi porta a una rimessa di fronte a una casa. E'
lui, non può essere che lui. Canticchia lavorando al tornio, la schiena dritta, le mani forti di
chi ha fatto mille mestieri.
Non s'è accorto di me. Non credo alle mie orecchie: "Schifani, Bondi, chiedano a
Berlusconi / com'è andato lo sciopero fiscale? / La conta delle schede, gli sfrattoni / e
l'ultima tornata elettorale? / Finitela di rompere i bitoni / che sono pieni e già deborda il
male. / Perché vi piace tanto far di mostra / senza metterci mai la merce vostra?".
Straordinario, l'attualità politica in endecasillabi, commentata in diretta. Un bardo del terzo
millennio.
Mi vede, molla il banco da lavoro, mi stringe la mano. Spiega che le rime sono la cosa più
facile del mondo, queste gli sono venute fuori d'istinto la sera prima, guardando il
telegiornale. "L'ottava rima era come la patata col pomodoro a tavola, la usavi sempre,
ritmava la giornata. Eravamo senza luce, senza radio, senza giornali... e quelle rime
combattevano l'analfabetismo, invitavano a leggere anche in assenza di scuola. Ma lo sai
qual era il più bel regalo per un pastore? Un libro".
(11 agosto 2006)
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L'arcipelago delle nuvole
Tredicesimo giorno, dove la Topolino viene azzannata dai cani, soccorre un disperso nella
notte e infine si vendica del rettilineo Fiordi norvegesi, arcane piramidi di Cheope, tunnel
nucleari, scorci dalmati Siamo in Abruzzo, all’ombra del Gran Sasso
La prima volta ad Amatrice ci vai per un'amatriciana, ovvio. Succede che nella tua locanda
una materna cameriera con chignon ti sussurri un confidenziale "che je porto", sapendo
perfettamente la risposta, e poi ti serva con cura d'altri tempi, sotto una gigantografia di
Bartali e Coppi autografata dal primo. A me capita di avere accanto un tavolo con due
poliziotti e un altro con tre operai in tuta. La gente parla a bassa voce, ha un'amabilità
speciale. Del tipo: "Che li vole i pomodorini gratinati? Sò boni". Quando esco, la cameriera
mi rincorre con la minerale non bevuta, perché "nun se sa mai", in viaggio "pò servì". Bella
Italia.
C'è neve sui selvaggi Monti della Laga, arcane piramidi di Cheope. Campotosto è tetro
sotto le nubi, il lago accentua la sua tristezza idroelettrica, pare un fiordo norvegese. Per
strada poca gente, e quella poca con facce dure, da Erzegovina in guerra. Ogni tanto,
gruppi di cani per niente rassicuranti. Gli enormi, bianchi pastori abbruzzesi, sono tutto
sommato i meno pericolosi: basta che non ti avvicini al gregge e stan buoni. Peggio sono i
randagi scuri di taglia media, con l'occhio da killer suonato. Adottano una casa - non
importa se vuota - e la difendono da chiunque passa. In due mi azzannano i copertoni
della Topo. Non vorrei passare in bici da queste parti.
***
Al passo delle Capannelle la strada sembra perdere la direzione, smarrirsi in un mare di
onde lunghe e irregolari. Poi, oltre un ultimo dosso, cominciano i pascoli, lisci e regolari
come campi da golf. M'accorgo d'essere in quota, il viaggio assume una dimensione
aeronautica. Nel '43, qui sopra, passò l'aereo di Otto Skorzeny, il tedesco che liberò
Mussolini dall'esilio sul Gran Sasso. Ho la sensazione di essere su un dirigibile silenzioso. O
forse su una nave in viaggio per altre latitudini. Le Alpi sono pilastri fermi, gli Appennini
sono fluidi, un gregge che va, un arcipelago pellegrinante.
37
A Campo Imperatore nevica bagnato, la strada è deserta, nemmeno una luce. L'auto
naviga con lunghe curve tra rotonde gobbe erbose. Difficile credere che mille metri più
sotto, nella pancia del Re dell'Appennino, a metà del tunnel che lo buca e lo sconcia di
cemento, ci sia un laboratorio di energia nucleare, quello di Zichichi e dei suoi apprendisti
stregoni. Ma è proprio là che si celebra la sconfitta del nostro nemico numero uno, il
rettilineo. Gli uomini che sparano elettroni alla velocità della luce, all'uscita dal bunker in
galleria non possono girare a sinistra, ma solo a destra per via del senso unico. Per andare
all'Aquila devono prima uscire sull'altro versante, poi tornare indietro e rifarsi il buco nero
sotto il Gran Sasso. Che goduria.
Annotta, c'è un'ombra fradicia in mezzo alla strada. E' uno che ha bisogno di aiuto, si
sbraccia nella neve marcia con una pila accesa in mano. Rallento, apro all'incontrario la
vecchia portiera, chiedo se posso dare una mano solo per godermi lo smarrimento del
naufrago di fronte al macinino sbucato dal tempo. Difatti, quello resta a bocca aperta, non
osa mendicare aiuto a un tizio più bagnato di lui su un'auto più bisognosa della sua. Per
un attimo si sente solo il ronzìo del parabrezza. Poi l'ombra imbacuccata spiega, ma solo
per buona educazione, che gli è morta la batteria in una stradina poco sotto, e dentro
l'auto
c'è
la
sua
ragazza,
la
quale
sta
"preoccupata
assai".
Ignora, l'infedele, che la Topo, dovendo sopravvivere ai propri acciacchi, contiene un
arsenale inimmaginabile di ricambi e ammenicoli di ogni tipo.
Figurarsi se manca l'occorrente per l'emergenza elettrica. "Ho i cavi - lo soccorro con
noncuranza - non si preoccupi. Salga che andiamo a vedere". Si accomoda dubbioso sul
sedile bagnato. Quando arriviamo, la ragazza si mette a urlare alla vista del trabiccolo. E'
completamente pazza, si sente presa in giro. Lo insulta, lui la calma, inutilmente. Intanto
realizzo il ponte con flemma britannica. L'umidità fa friggere i cavi, ma funziona. "Vedi
quanto sei stronza", fa lui. Me ne vado che litigano ancora nella tempesta, col motore
acceso.
***
Smette di piovere, la torre di Santo Stefano di Sessanio sbuca tra nubi sfilacciate. Ho
telefonato per la cena a un posto che si chiama Ostello del Cavaliere, così, solo per quel
nome da viaggio anni Cinquanta. Dall'altra parte del filo c'era una certa Rosina. Ma
quando arrivo nel temporale, la porta è sbarrata. Nello spiazzo, solo cuccioli di pastore
abruzzese che si rotolano felici nelle pozzanghere. Non posso aver sbagliato. Busso:
niente. Suono, dopo un po' sento uno scalpiccìo. Apre una signora in tenuta da cuoca.
Rosina. "Ah, siete voi!", s'illumina. "Accomodatevi, prego". Magnifico, ho superato un'altra
frontiera, comincia il mondo del voi.
"Scusate, ma teniamo la porta chiusa per via del freddo". Dentro non è una casa, è una
fortezza profumata d'arrosto. Piccole finestre, muri spessi. L'idea di veranda qui è
inconcepibile. L'Abruzzo è costruito per la neve, è terra di scorte invernali. La credenza è
piena di legumi d'ogni tipo e colore, farro, ceci, lenticchie, fagioli neri. Solo al bazar di
Kabul, altra terra di pastori, ho trovato di meglio. Rosina è come una maga nell'antro
fumigante di un alchimista. Depositaria di segrete formule, regna incontrastata sui fuochi e
l'anima buia della casa. Le chiedo dove dormire. "Vai alla rocca di Calascio, c'è una coppia
con cinque figli che ha camere e buona cucina. Si sta bene". Il "voi" è già diventato "tu".
38
Calascio, novanta abitanti e un consiglio comunale di nove. Lampeggia, il maniero della
rocca che sovrasta il paese appare sull'orlo di una scarpata dantesca. Non so come
arrivarci, al bar del paese una bruna dall'occhio ispanico m'istruisce sulla strada mentre
cinque avventori maschi tacciono, in stato d'allerta. Quattro chilometri ancora. La strada
s'arrampica nel crepuscolo verso ruderi battuti dal vento. Il forte è più vecchio dell'anno
Mille, è Camelot e Golgota nello stesso tempo. O forse Mardin, la rocca turca aggrappata
al cielo, alta sulla Mesopotamia senza fine. Di nuovo, sopra il mare di nubi che ribolle a
valle, quell'impressione di galleggiare, stare a prua di un bastimento.
Susanna, la mamma-albergatrice-castellana, mi viene incontro nel buio per farmi strada
tra rocce e muri sbrecciati. Il tempo di un bicchier di vino in locanda e a valle le nubi sono
diventate un mare latteo, sotto il quale pulsano in trasparenza le luci dei villaggi. Sopra, in
uno squarcio, la Luna. Lontano, le masse nere della Majella e del Sirente. Più in là,
l'arcipelago sannitico, sulla linea dei terremoti. A Occidente, i Monti Marsicani oltre il
Pucino, il lago che non c'è. "Sono qui da dodici anni - mormora Susanna - e il posto mi
emoziona ancora". E' una regina d'inverno: non molla questo posto nemmeno con la neve.
"Ho conosciuto questa rocca anni fa, scendendo con gli sci da Campo Imperatore.
Nevicava, nubi uscivano dalle finestre vuote, non c'era rimasto più nessuno. Ma la magia
del luogo mi conquistò. Venire qui è stata la decisione più facile della mia vita. Eppure
lasciavo Roma, la mia città, una famiglia agiata, un lavoro che mi piaceva, gli amici. Per
scommettere su dei ruderi". Ora le pietre hanno ripreso vita, c'è le locanda, le stanze per
gli ospiti sistemate nelle vecchie case restaurate, i bambini, qualche famiglia che torna,
due comignoli che fumano. Sul selciato giocattoli, un secchio con malta e cazzuola.
Notte da piumino, cani che ululano verso Castel del Monte. Le cime galleggiano sullo
strato di nubi, formano un perfetto arcipelago. Una somiglia a Curzola, un'altra a Mèleda,
un'altra ancora a Brazza. Ma sì, l'Appennino è solo una Dalmazia senza il mare. Sognerò
un transatlantico pieno di orchestrine, in viaggio tra neri promontori. L'epifania dei monti
naviganti.
(12 agosto 2006)
39
Majella, la dea madre
Quattordicesimo giorno, dove la Topolino viene corteggiata da un treno, diventa Topolina
e incontra malocchio e luoi Rotonda, morbida, come le balie di una volta. Dopo le
montagne-isole abruzzesi eccoci in Molise, una Polinesia di cime minori
LE VECCHIE auto d'una volta ti impregnano del loro odore, come un bravo cavallo da
mandria. In tre settimane di sole e intemperie, la Topolino mi ha messo addosso la puzza
di un gaucho: un esotico impasto di ferro dolce e cuoio, sudore, polvere e bestiame, con
in più un mix vetero-operaio di plastica, stagno, caucciù e guarnizioni. Una mutazione
genetica. Mio figlio Andrea, che mi raggiunge in pullman sulla Tiburtina Valeria per farsi un
pezzettino del viaggio, mi sente addosso l'odore del trabiccolo prima ancora di salirci. "Una
via di mezzo - dice - tra un ranch e una balera di periferia".
Fiuta, soprattutto, il profumo dei luoghi attraversati. Un'altra Italia, dimenticata, fatta di
mandrie, greggi e pastori; estranea al mondo asettico della modernità. Annusando la
Topo, Francesco Guccini ha ritrovato l'odore dei macchinisti della ferrovia Porrettana. Una
badante polacca ha chiuso gli occhi e ha rivisto come in sogno suo nonno rincasare dalle
acciaierie di Cracovia. Una vecchia marchigiana ha ricordato i dragoni di re Vittorio e la
merda di cavallo che si lasciavano dietro.
Ognuno scopre qualcosa. La polizia sente puzza di clandestino. E i cani, da giorni, mi
annusano con troppo interesse.
***
Sera di lampi e vento forte, esco a rafforzare gli ormeggi al macinino perché l'acqua non
s'infili nelle giunture. A cena in una locanda, uomini della Forestale raccontano di un lupo
investito sulla Tiburtina, tra Sulmona e la stretta del Pescara. Succede spesso: le macchine
e i camion li beccano lì, sempre nello stesso punto. Il branco passa di notte. E a pensarci
bene è sempre di notte che la sua ombra clandestina mi appare.
40
Lo fa dalla partenza in terra ligure, da quando ho cominciato a fare contromano la sua
epica strada verso le Alpi.
I forestali mi portano a sentirli, i lupi, ai piedi del Monte Morrone. Nella pausa tra un
camion e l'altro scende un gran silenzio, e allora, a tratti, lontanissimo, ecco il lamento. "E'
il solitario cacciato dal branco", mi dicono. Da un'altra direzione arriva il canto corale del
gruppo. Poi l'ululato degli adulti, più breve, quasi soprannaturale. C'è un esemplare
malato, in quarantena, al centro della Forestale a Popoli. Lo fiuto a distanza, dall'odore
forte di carne cruda lievemente putrefatta, completamente diverso da quello del cane. Me
lo fanno vedere da uno spioncino. Dormicchia su un giaciglio di paglia, alza appena lo
sguardo. La torcia elettrica illumina due occhi fieri, indimenticabili. Un lupo malato, zoppo
e infetto, ha più nobiltà di un re. Di un uomo non se ne parla.
***
Mattina splendida, Nerina rosicchia il pendio verso le gole di Caramanico, in mezzo a
sorgenti, fontane, eremi sperduti e l'ultimo rifugio di Celestino Quinto, quello che rifiutò di
diventare Papa. Veleggiamo con la capote aperta verso la Majella imbiancata in un terreno
andaluso popolato di ulivi. "Attenti - ci hanno detto prima di partire: il Gran Sasso è
maschio, la Majella è femmina. Comincia la terra delle dee-madri". Qualcosa di vero
dev'esserci: la Majella è rotonda e morbida come le balie tettone d'una volta. Sulla strada
solo qualche motociclista e una miriade di ramarri e serpentelli in cerca di tepore.
Sul Passo di San Leonardo il paesaggio si fa austriaco, tutto prati, campanacci e
abbeveratoi. Poi è la discesa su Pacentro, una meraviglia. Torri medievali, uno stradone
che corre sul displuvio tra rumore di stoviglie e profumo di arrosto. Un negozietto con
tutto, dall'uva alle prese elettriche; una donna che mi vende un ombrello giallo con un
sorriso stupendo; un barbiere che mi tosa gratis in omaggio alla Topolino e poi mostra dal
balcone, una per una, le sorgenti attorno al paese. Sembra impossibile che la gente abbia
potuto emigrare da qui. E invece, è scappata così in fretta che ha fatto in tempo a morire
per la patria degli altri.
L'America soprattutto. Un manifesto pacifista in piazza parla di due morti in Vietnam, uno
sulle Torri Gemelle, uno in Iraq. Verso Pescocostanzo, il treno Sulmona-Casteldisangro ci si
affianca come un aereo, ci viaggia accanto sul rettilineo di un tratturo, alla stessa velocità,
a cinque metri di distanza. Un unico vagone, con una ragazza che si sporge dal finestrino
per salutarci prima che i binari si stacchino dalla strada, e cominci la discesa a precipizio
sul Molise.
***
Capracotta, quota 1400. Nubi basse, vento, per strada solo un cane, un bimbo in
bicicletta, la pantera dei Carabinieri e, sui muri, gigantografie di epici inverni con metri di
neve per strada. Oltre la chiesa, un precipizio con vista sulla valle del Sangro. In Molise il
vuoto cresce. Dopo le grandi montagne-isole dell'Abruzzo, comincia una Polinesia di cime
minori. Un perfetto luogo-rifugio per sanniti, longobardi e, si dice, cartaginesi datisi alla
macchia alla fine della guerra punica.
Il capolinea della giornata è a Carovilli, un borgo delizioso a 30 chilometri da Isernia,
risparmiato dalla peste della camorra e dello spopolamento. Intorno, luce radente
purissima su foreste e cime aguzze dal nome eloquente di Penna, Pizzo e Capa.
41
In piazza, l'orafo, il bar, la chiesa sconsacrata del Carmelo, la sede funzionante della
società del Mutuo soccorso col biliardo e il gioco della dama. In dieci minuti attorno a
Nerina c'è già un robusto capannello. "Topolina" la chiamano, teneramente. Lontano,
fischia il trenino della Pescara-Isernia-Napoli. La macchina del tempo accelera, arretra le
lancette di un secolo.
***
Nella locanda "La Grande Quercia", col vento che soffia nel camino, si finisce scherzando
sul diavolo e il malocchio, che in Molise regnano sovrani nella memoria e nei discorsi della
notte. A tavola c'è Peppe Battista, medico condotto di Isernia appassionato di
transumanze, e Nunzio Marcelli, un abruzzese che - primo in Italia - ha scelto di fare il
pastore dopo la laurea (il contrario di Gavino Ledda, che fu il primo a laurearsi dopo
essere stato pastore). E' venuto con le carte dei tratturi, per spiegarci come la nostra
strada verso Sudest difficilmente potrà evitare le autostrade delle greggi. Tutto il
paesaggio ne è segnato.
"Succedono cose strane da queste parti", cercano di impressionarci mentre fuori arriva
dalle Mainarde un'aria cruda da giaccavento. "Siamo in una terra dove il sacro è intriso di
demoniaco", ghigna Beppe. "Mia madre, quando c'erano malattie in giro, faceva fondere
l'acqua con l'olio. Recitava una formula, e ci riusciva". Mario, il locandiere, barbetta e occhi
neri da satiro, ridacchia attizzando il fuoco: "Ho imparato a vivere bene solo dopo aver
intavolato buoni rapporti con i quattro diavoli che mi accompagnano: Belfagor, Satanasso,
Lucifero e Belzebù". Con un gran gesto da gigione porta in tavola un piatto di costate
enormi.
Ed ecco il Molise riemergere dalla notte come la terra di "veneri e priapi". A Isernia, ci
spiega uno del tavolo accanto, la chiesa di San Cosma e Damiano ha un campaniletto
chiaramente fallico sul tetto. "Lì sotto gli uomini andavano a farsi benedire il sesso per
favorire la fertilità del gruppo". Roba passata, ovviamente. La Chiesa locale, oggi guidata
da un vescovo con patente di esorcista, ha abolito il rito da tempo, e gli imbarazzanti ex
voto sono stati spediti al confino nei musei o trasformati in talismani a forma di corno ("Il
corno ci dicono - è solo un fallo mascherato"). Della festa originale è rimasta solo la
processione, col trasporto di grandi ceri, allusivi ma non troppo.
Sarà un caso, ma da allora il Molise ha smesso di far figli. Crisi demografica galoppante. Di
fronte alla quale i preti, poveretti, non sanno che pesci pigliare. Sanno bene che dietro a
Cosma e Damiano c'è in agguato l'ombra dei loro antenati pagani, in esilio da due millenni
con un esercito di fauni, satiri e priapi. I fratelli greci Dioscuri, splendidi di potenza
riproduttiva, pronti a rimpiazzare i santi resi sterili per scelta clericale.
(13 agosto 2006)
42
L'autostrada degli armenti
Pioggia fine, pascoli e brughiere, la Topolino sale e scende per spazi liberi, bruca tra rocce
muschiose e rotonde, terre smeraldo da mago Merlino. Intorno, all'abbeverata, vacche
bianche sui prati. "Podoliche" le chiamano, le hanno portate secoli fa i longobardi. Pare
che i "lumbard" venuti si trovassero a meraviglia nella dolce terra del Sud dove sboccia il
gelsomino e fioriscono i limoni. Talmente bene che si fecero seppellire armati con tutto il
cavallo qui, come puoi vedere al museo di Campobasso. Piaceva l'Appennino ai nordisti. Il
tedesco Federico Secondo imperatore d'Italia vi nacque (a Jesi) e vi restò. Qui e non
altrove scelse di godersi la vita errando di castello in castello con la sua magnifica corte.
Davvero non so perché le Alpi si chiamino Alpi. L'alpeggio vero sta qui, nelle terre lucenti
del Sud. In questo viaggio è solo dalle Marche in giù che ho trovato animali al pascolo.
Greggi nel Montefeltro, mandrie sui Sibillini, orde di maiali grufolanti sotto i Monti della
Laga, di nuovo greggi sul Gran Sasso, ora di nuovo mandrie in Molise. Al Nord non ho
visto niente di simile, solo campi deserti e bestie recluse in capannoni pozzolenti
d'ammoniaca. Qui nel profondo Sud tutto cambia. Il vero latte è giallo, perché le bestie
brucano anche i fiori. Non bianco, come ci fa credere la Padania padrona per rifilarci roba
sterile fatta col fieno.
***
Metti di essere in posto dove fa freddo, la pioggia tamburella sui vetri, e in cucina si
prepara polenta e spezzatino. Un posto dove gli uomini sgobbano anche di domenica.
Metti anche, sull'architrave di un caminetto, il simbolo rotondo del sole delle Alpi. Fuori,
eco di campanacci con vacche al pascolo. Ecco: siamo arrivati in un posto così. Indovinate
dov'è? Svizzera? Baviera? Lombardia? Veneto leghista? Macché. È Molise, Italia terrona. La
casa natale dei Colantuono, grande dinastia di mandriani nella terra dei tratturi.
Impossibile ignorare i Colantuono ad Aquevive, paesino tra Isernia e Campobasso sotto i
pascoli della Montagnola, sulla via della Puglia. Cinque fratelli, tutti nati di marzo, da bravi
figli di transumanti, uomini che rientravano a casa in giugno, pronti a ingravidare le mogli
dopo aver svernato sul Tavoliere. In cucina, una grande madre vestita di nero,
dispensatrice di ordini e di cibo. Una tribù di nipoti.
43
Una
dinasty
antica,
che
parte
-
si
dice
-
dall'isola
di
Creta.
***
"Poco a mangià non sacciu fa" ride mamma Vittoria, che tra pranzo e cena scodella venti
pasti al giorno. Poi ci spinge al pasto patriarcale al cospetto del marito, il taciturno
capofamiglia Nicola - i capi veri parlano poco - di anni settanta, figlio di Colantuono Felice,
mitico conduttore di armenti tra il Gargano e le montagne del Molise. I maschi ci sono
tutti, hanno facce andaluse, occhi neri, corpi tesi da cow boy, mani grandi, l'orgoglio di un
lavoro fatto bene. Si discute come ripartire con la transumanza, bloccata nel 2002 dagli
uffici sanitari in tutto il Centro-Sud per la storia della lingua blu. Loro sanno che ripartire
non è affatto un sogno. I tratturi ci sono, basta percorrerli. Sono una strada che
appartiene per legge ai pastori. È ora di tornar fuori con le vacche e le greggi: ora basta
con la stupida vergogna italica di essere pastori cafoni. È una vergogna che fa il gioco
della
grande
produzione
del
Nord,
più
ammanigliata
col
potere.
Carmelina, la figlia femmina, serve a tavola e racconta: "Da bambina ho odiato la
transumanza. Non avevo mai vicino mio padre. Piangevo a ogni partenza della mandria.
Poi, col tempo, l'odio è diventato amore. Non sapete cosa significhi veder uscire
cinquecento mucche nel polverone, tutte smaniose di andare. Ti viene da piangere.
Quando arriva il momento, le nostre vacche non le tiene nessuno. Stanno sempre fuori,
sono allenate a camminare, per loro il trasferimento è un richiamo irresistibile, una gioia".
***
Il medico Beppe Battista ha seguito i Colantuono in un memorabile ritorno dai pascoli del
Gargano e non può dimenticare. "Dopo un viaggio simile - dice - hai le visioni. Sogni,
senti, vedi, tutto in modo diverso. Quando sono tornato non ho guidato l'auto per
settimane. Non sopportavo la tv, nemmeno il mio letto. È incredibile essere nella mandria,
con le vacche anziane che fanno strada, sanno già il percorso a memoria, e le giovani che
vanno dietro, un po' spaesate, ma mansuete nel farsi condurre. Un concerto di
campanacci che diventa musica". Ricorda metro per metro la strada, percorsa in soli
quattro giorni. Il ponte sul fiume Fortore, la lapide in latino con le tariffe del pedaggio, dal
quale sono esenti, per decreto imperiale, solo "i preti e le puttane". Il torrente Tona, Santa
Croce Magliano, Femmena Morta, Ripa di Mosani, la taverna tratturale di Torella. Le
chiesette tratturali, che un tempo erano attrezzate con una locanda per le soste, come gli
autogrill di oggi. Poi l'arrivo, con le donne che arrivavano dal paese col primo cibo caldo.
Era
qui,
in
Appennino,
l'anima
e
la
ricchezza
del
Paese.
***
Barba nera come la pece, Nunzio Marcelli, primo laureato d'Italia a scegliere la pastorizia
come mestiere, si siede come un gattone accanto al fuoco. "Gli spagnoli - brontola - hanno
capito tutto, hanno riaperto la transumanza in grande stile, la vantano come evento, fanno
passare gli armenti persino per Madrid. L'Italia invece dorme. Non capisce che questo è
uno spettacolo unico, che incarna l'identità profonda del Paese". Federico secondo
imperatore lo sapeva bene. Trasformò i tratturi in demanio reale e tolse ai baroni il diritto
di gabella. Fu come togliere i pedaggi all'autostrada: si mise in circolo una ricchezza
immensa. Qualcuno cercò di resistere, come Celano. Ma il re assediò il borgo per due anni,
poi deportò tutti gli abitanti a Pantelleria.
44
Oggi i tratturi sono protetti come beni nazionali di prim'ordine, vincolati come il Colosseo,
ma non serve a niente. Oggi c'è l'arraffa-arraffa, paesi interi hanno invaso l'autostrada
degli armenti. A Pescolanciano persino la caserma dei Carabinieri s'è fatta su terra
vincolata. Tanto, che può succedere? Lo Stato italico della devolution, a differenza
dell'impero centralista del tedesco Federico, non reprime un bel niente. E intanto, mentre
le nostre bestie sono impedite a muoversi, sopra la testa ci volano mucche straniere agli
ormoni.
***
Ancora pascoli, campanacci, faggeti secolari e una sorprendente Svizzera terrona che
digrada verso Puglia e Basilicata. L'auto prende istintivamente la direzione degli armenti,
cerca il tratturo verso gli spazi aperti del Tavoliere. E così, a Torella, prima di Campobasso,
ecco in un altro pastore speciale. Mauro Caraffa, 44 anni, campano giramondo dai mille
mestieri, ex istruttore di volo libero in California che a quarant'anni ha deciso di tornare
alla terra di casa. Nella stalla, accanto ai formaggi, dorme una decina di deltaplani nella
custodia. Poco in là, insieme agli agnelli neonati, sbadiglia il vecchio border collie "Whisp",
grande organizzatore di greggi. Può permetterselo, dopo una carriera di trentamila
chilometri. È cieco, ma corre dal padrone, risponde ancora ai comandi, parte, si blocca,
ruota su se stesso, torna indietro. "Questo brigante ha seminato figli ovunque" si
commuove il pastore. "Whisp", che bel nome. Andrebbe bene al mio trabiccolo di lungo
corso.
Sotto un enorme ombrello dal manico di legno, Mauro mi porta a ricuperare Ethan, un
giovane americano che gli guarda le pecore ed è venuto a lavorare "part time". Andiamo
insieme sotto la pioggia, e intorno il Molise è tutto un gregge in movimento. Quando
partiamo, saluta mio figlio Andrea come se lo conoscesse da una vita. "Quando un pastore
partiva, gli si diceva: t'accumpagno c'o pensiero. Bene, te lo dico anch'io: t'accumpagno
c'o pensiero". Grande anima del Sud.
(14 agosto 2006)
45
Tutti in coda dietro al santo
Sera di vento sul lago del Fortore, nero come la pece, al confine con la Puglia. A Ovest, le
luci di Pietracatella; un grumo di case attorno a una chiesa-fortezza. Ho lasciato il tratturo
che va da Campobasso al Gargano; all'altezza della stazione di Ripabottoni (che nome!) ho
visto luccicare a Sud, nel cielo di temporale, una sequenza di villaggi su un'onda lunga di
alture viola, e ho preso quella strada. La seguirò a lungo, fino al Cilento. Il Sud comincia a
Ripabottoni: sembra il titolo di un libro. Come i bivii della vita, anche la boa di un viaggio
può
essere
un
luogo
minimale,
fuori
dal
mondo.
Ormai è una settimana che fa brutto. Una settimana che mi chiedo che tempo farà
domani. Con un'auto normale non mi porrei la domanda. Con la Topolino sì, perché con la
pioggia diventa un colabrodo. Col sole o il temporale cambia tutto: andatura, itinerario,
umore, approccio col mondo. Il glorioso macinino sente il tempo con la pelle viva. Con
l'acqua, questo diario diventa una storia di interni e attese, locande e racconti della sera.
Col sole, a capote spalancata, un gioco di saluti, sguardi diretti e incontri sulla strada.
Confesso: un giorno ti ho maledetto, trabiccolo blu. Mi devastavi le tabelle di marcia, mi
obbligavi a soste nel momento sbagliato. Era intollerabile. Dopo tre giorni di pioggia ho
persino pensato di mollarti in un garage.
Ora è cambiato tutto: mi sono arreso, ho capito che quest'incertezza è un lusso, la madre
di tutti gli imprevisti, il sale del viaggio. Non potrei riabituarmi a un'auto per cui il clima
fosse una variabile ininfluente. Che noia sigillarsi in una scatola climatizzata, un involucro
che non sente le stagioni, i profumi e le voci degli uomini.
***
Sorpresa al mattino: cielo blu-maiolica e Pietracatella, lavata dalla pioggia, che scintilla
sulla collina oltre un mare di frumento. Apprendo che in paese c'è la festa di Sant'Antonio
da Padova con i botti col fischio e la benedizione del pane. "Non la perda - mi dicono vedrà i puledri in corteo, i bimbi vestiti da fraticelli e le bimbe coi fiordalisi".
46
La Topo scatta tra il grano e gli ulivi, morde tornanti lunghi, si accoda a una trebbiatrice
enorme, quasi sovietica, che arranca sul versante Nord della collina, con a bordo contadini
in canottiera che salutano. Non è Italia, è Provenza d'una volta. Andalusia.
Ma proprio allora, quando ormai fiuto latitudini mediterranee, ecco arrivare nel vento parapam parapam parapampappà - la musica più danubiana che ci sia. La Marcia
Radetzky. Non ci posso credere. Un'arietta impettita di casa mia, da sagra dell'ultimo
Nordest, ex territorio austro-ungarico, che si spande con pifferi e grancasse nelle terre
roventi del Sud. È la banda che scende dalla chiesa-madre e, dopo aver dispiegato il suo
repertorio, dà senza saperlo il benvenuto al viaggiatore sbucato dalla Mitteleuropa del
caffé crème e della Sachertorte.
Finisco in stato d'euforia in un piazzale pieno di trebbiatrici, tutte in attesa di benedizione.
Mi ci ficco: ci sarà pure un po' d'acqua santa per Nerina. Una folla di curiosi già attornia il
trabiccolo, un bambino sugli otto anni ci sale sopra, lo scruta con occhio da intenditore, mi
chiede quanto costa. "Tanto" gli dico. E lui, furbo: "Ora con la benedizione ti vale il
doppio". Intanto la processione arriva, ondeggiando, con la statua del santo portata a
braccia. Dietro, un mare di gente, e cavalli innervositi dai botti.
E lì, che ti vedo in testa al corteo, davanti al baldacchino del Santo Antonio, fra i turiboli
dei chierichetti e l'incenso? Un giovane prete color cacao, in tonaca candida e paramenti.
Un sarracino vero, niro niro, che passa con l'acqua santa tra le trebbiatrici e i mietitori che
si segnano. Dopo il benvenuto austriaco, ora sulla macchinina piove la benedizione
africana. Sull'Appennino le sorprese non finiscono mai.
***
Bar "La Sorgente", pergolato e quattro tavolini come in Grecia. Una bella mi chiede "che
volete da bere" con un rispetto inimmaginabile al Nord. E mentre sorseggio un chinotto,
un signore mi si avvicina con deferenza. Come leggendomi nel pensiero, si offre
d'accompagnarmi alla chiesa in cima al colle. "Lì troverà il segno dei fenici" mi dice con
occhio arguto. Il tipo si chiama Antonio Fratangelo e pare la sappia lunga. Mi porta nel
vento rovente verso il tempio incastrato nella roccia, sopra i tetti del paese.
"Qui tutto è fenicio" racconta salendo per stradine serpentiformi, "tutto, a partire dal nome
del luogo. Catella è Kadesh, cioé Sacro". Sulla facciata di una casa, mostra una pietra con
una svastica, il segno fenicio del sole, datata 212 avanti Cristo, stessi anni di Annibale in
Italia. Ora siamo sotto la "pietra sacra" che dà nome al paese. La chiesa, dedicata a San
Giacomo, le sta addosso come un cristallo di quarzo. Un prisma che s'impenna, puntellato
da scale ripidissime. Intorno, grano e vento. Dentro, la conferma. Un'incisione in lettere
fenice, un'urna cineraria fenicia, un corridoio tipico dei templi fenici. Troppo per non
pensare che su quel fantastico spuntone, prima del santuario a San Giacomo, non ci fosse
dell'altro.
"Se non mi sbaglio - gli dico - la battaglia di Canne si combattè poco lontano da qui, verso
Foggia". La guida ha un lampo negli occhi, mi si avvicina e scandisce, come per confidare
un segreto: "No. Noo. La battaglia fu qui sotto, sul Fortore, sul fiume ora coperto dal lago.
Sul Fortore hanno trovato le monete celebrative della vittoria annibalica. Portavano la
scritta "Nun", cioè "Luogo sul fiume". Una è finita al Fitzwilliam's Museum di Cambridge,
una al museo archeologico di Copenhagen. E una sta in casa di una contadino".
47
Torniamo fuori, l'orizzonte si dispiega a 360 gradi. "Qui è terra dei sanniti, nemici storici di
Roma. E qui, dopo Canne, i cartaginesi decisero di sciogliersi e mettere radici. Le loro
tracce? Tutte nei nomi di luogo. Pescolanciano, Pescasseroli, Pescara, non c'entrano niente
con la pesca. Vengono da "Psq", in fenicio "roccia screpolata". E poi, il Gran Sasso: ha un
centinaio di sorgenti dal nome punico, non una che sia greca o latina. Noi molisani siamo
così, come fenici e sanniti. Mai sconfitti in battaglia, ma egualmente vinti. Portiamo nel
carattere il peso di questo doppio fallimento".
***
"Statale 17, com'è lunga da far tutta / romba svelto l'autotreno / questo cielo ancor sereno
/ sembra esplodere d'estate". Sono sulla mitica Diciassette, cantata da Guccini, e non me
n'ero accorto. S'infila in un canyon tra i monti della Daunia, coronati da pale eoliche
fruscianti nel maestrale. Statale 17: traffico zero, pattuglie di rondini, case cantoniere
abbandonate, sole che picchia, vento da ultimo Far West. Case cantoniere: a proposito,
chi tutela questo straordinario patrimonio nazionale? Nessuno ovviamente. Rabbia, rabbia
contro la consorteria dei dilapidatori della cosa pubblica.
Arriva il tavoliere e la strada per Lucera, implacabilmente dritta. M'accorgo che è il primo
rettilineo. Avevo giurato: pianure mai. Era nelle regole del gioco. Avevo detto alla
partenza: solo curve e montagne. Così ora succede quello che doveva succedere: dopo
oltre duemila chilometri di zig zag, questa strada da New Mexico, dritta come una spada in
mezzo al nulla, mi dà la nausea. I Tir mi vengono addosso come per investirmi. Il rettilineo
è un luogo vuoto, arrogante e violento. Trenta chilometri senza un paese, un bar, un
distributore. Solo piccoli turbini di polvere e barattoli che rotolano nel vento.
Ripiego a Sud verso le montagne, in direzione di Melfi e delle terre felici di Federico
Secondo imperatore. Di nuovo saliscendi, di nuovo Appennino. Troia, Bovino, Sant'Agata:
com'è grande la Puglia. Il verde profondo del Molise è finito. Ora grano e ulivi hanno una
lucentezza dura, metallica, lo stesso timbro freddo. Diventano gemelli come l'oro e
l'argento.
(15 agosto 2006)
48
I falchi dell'imperatore Federico
Cima di un crinale, motore che ronfa in folle. Intorno, ruderi nel vento, porte sfondate,
finestre riempite di cespugli di rosmarino. È Aquilonia Vecchia, cancellata da un terremoto
il 23 luglio 1930. L'ultimo lembo d'Irpinia, in bilico tra Campania, Puglia e Basilicata. C'è un
silenzio perfetto in mezzo alle due file di case sventrate, tra l'erba alta e i papaveri. Mi
viene incontro un trattore; il contadino al volante pare un soldato sovietico tra le macerie
di Grozny. Nel profondo Sud il tempo fa strani scherzi. Aquilonia pare l'antica Micene.
Stessa terra bruciata, stesse capre, stessa posizione dominante. Sembrano passati più
anni fra il 1930 e oggi che fra il 1930 e l'età di Omero.
Un cartello con bandierina blu stellata dice che si stanno cominciando restauri con fondi
europei. Restauri di cosa? Come si fa a restaurare delle rovine lasciandole rovine? Già lo
vedo: ripuliranno le case dai crolli e dagli alberi di fico cresciuti nei tetti sfondati,
chiuderanno il paese al traffico e apriranno un bel "Visitor center". E dopo? Come capire lo
sconquasso da bomba nucleare che tre quarti di secolo fa s'è portato via un mondo in
dieci secondi? È lampante: senza le erbacce e le capre, il paese-fantasma avrà perso tutto
il suo fascino tremendo.
***
Carbonara si chiamava il paese, prima di sparire dalla faccia della terra. Un nome umile.
Poi il Duce volle un paese nuovo, un chilometro più in alto, e lo chiamò grandiosamente
"Aquilonia", turgido nome agli estrogeni. E poiché a valle le rovine restavano, lo smisurato
ego del regime consentì al figlio di ribattezzare il padre. Carbonara fu Aquilonia Vecchia,
con una perfetta inversione genealogica. Per un gioco del destino il cimitero si trovò a
metà altezza tra i due paesi, sulla stessa strada. E così, per andare dal mondo delle ombre
a quello dei vivi, è proprio per il cimitero che devi passare.
La città dei morti di Aquilonia è tutta sopra il livello del terreno, come accade spesso al
Sud. Linda, curatissima, con un alto muro di cinta e popolata di signore in nero uscite da
un romanzo di Silone.
49
"Nel terremoto sono morte quasi solo donne" mi dice una di loro, "successe in pieno
giorno, quando gli uomini erano tutti fuori alla trebbiatura". E tu ti perdi tra villette e
condomini di trapassati, in mezzo a aiuole, fontane, androne, viali popolati di passeri e
ranocchi. Puoi persino aprire cigolanti cancelli ed entrare nelle tombe, tra loculi
sovrapposti come letti a castello, in cerca di Vitangelo o Donato, Filomena o Vincenzina.
***
Discesa acrobatica verso la valle dell'Osento. L'asfalto ondeggia: in terra sismica le strade,
oltre alle buche, hanno improvvisi cedimenti, e la tua auto smotta come un aereo nelle
turbolenze, lasciandoti in bocca una nausea leggera. Dall'altra parte della valle c'è
Monteverde, arroccato su un colle come la schiuma del mare sulla sommità di un
frangente. E in mare ho davvero l'impressione di viaggiare, col mio trabiccolo che ogni
tanto emerge sulla vetta di una gigantesca onda anomala e per un attimo, prima di
sprofondare nuovamente, può guardare lontano. Nessuna pianura può darti un brivido
simile.
È nell'attimo dello scollinamento che si decide un viaggio. Non c'è programma che tenga di
fronte a una visione sommitale che ti schiude dei tesori. Ora vedo Monteverde, poi da lì
vedrò Melfi, poi Rionero, Ripacandida, Muro Lucano. Grumi di sillabe che ti chiamano,
rivelano gli dei che li hanno generati. Non come Aquilonia, nome posticcio pieno di nulla.
Forse un vero viaggio andrebbe fatto alla cieca, senza mappa. Così, d'istinto. Come l'amico
Roman Arens, un giornalista tedesco che qualche anno fa s'è fatto Monaco di BavieraRoma in vespino, appunto senza carta geografica, semplicemente chiedendo ai passanti la
strada per la Città Eterna. Provateci.
***
Un rapace rossiccio, con festoni di penne color crema, ondeggia a bassa quota sulle
praterie, ogni tanto si ferma controvento. Spengo il motore, il fascino ipnotico del volatile
è straordinario. Mi siedo tra l'erba, non posso fare a meno di guardarlo. Voglio sapere che
bestia è. Chiamo al telefono l'amico Paolo Zucca, veterinario triestino che va a curare i
super-falchetti alla corte degli emiri in terra arabica e ha una passionaccia per Federico
Secondo, il primo grande teorico della caccia con gli uccelli.
Nel vento, comincia un surreale bird-watching telefonico. "Com'è fatto?" gracchia Paolo
dall'auricolare. È rosso-bruno e beige, piuttosto grosso, rispondo accucciato nell'erba alta.
"Come vola?" A quattro, cinque metri, sopra la prateria. Sfrutta le correnti ascensionali.
"Allora è un falco di palude femmina, nessun dubbio". Non riesco a staccare lo sguardo...
"È l'insostenibile leggerezza dell'essere! Chi conosce i rapaci sa cosa vuol dire. Dovresti
vedere cosa fa il gheppio". Buon dio, e che fa di tanto speciale?
"Lo spirito santo. In un viaggio come il tuo sarebbe importante vederlo".
Che roba è? "È quando lui tiene la posizione da fermo sbattendo le ali come un colibrì. È il
suo modo di cacciare dall'aria. Un volo ultraterreno".
Dimmi di Federico.
"Lanciava i falchi e li faceva tornare per dimostrare al popolo il suo potere sul cielo. La
caccia col falco pellegrino era uno strumento di governo... Federico girava con una corte di
animali esotici che erano simboli viaggianti. Elefanti, cammelli... Costruì castelli da caccia
straordinari... non dimenticare Lagopèsole, è lì a due passi".
50
La rocca di Monteverde, a un tiro di schioppo da Aquilonia, è zeppa di nidi di rondine e
profuma di salsa di pomodoro. C'è una donna sulla porta di un vicolo, sulla "Topolina" ci
farebbe un giro anche subito se non dovesse scodellare il pranzo a cinque pargoli. È
incantata dal trabiccolo venuto dal Nord.
Le chiedo: ma a voi che è successo col terremoto del 1930? "Niente ci fece il terremoto".
Ma voi che santo avete? "San Rocco abbiamo". Si vede che San Rocco funziona meglio di
Vito, il santo di Aquilonia. "Si capisce di sì". Passa un invalido su autocarrozzino Guzzi
rosso fiamma. "Ah, ci avete una Topolino! Anche Beppe di Lorenzo ce l'aveva, ma adesso
è
morto".
Gli
chiedo
dove
sta
il
bar,
ho
una
sete
formidabile.
"Sta sulla strada in coppa o' santo". San Rocco? "E certo, noi San Rocco abbiamo". Al
bar trovo un vecchio arzillo, Salvatore, 84 anni. Ha passato una vita in Germania a
lavorare. Gli chiedo perché è andato all'estero. Lui: "Perché nel Nord Italia mi chiamavano
mangiasapone e mi faceva male. In Germania invece ero il benvenuto".
Le van bene i tedeschi? "Li tedeschi erano come Federico Secondo, fu il nostro re migliore.
Magari averlo oggi uno così". Esce dal bar e mostra il grano a perdita d'occhio. "Guardi
questa terra, dovrebbe dar da mangiare a tutti, invece ci facciamo del male tra noi e ci
tocca emigrare".
***
Rapone, la sera, è pieno di rondini e bambini. C'è la festa di San Vito con tappeti di fiori,
banda che suona Fratelli d'Italia, prelati col sindaco, il concerto di Orietta Berti. Ma mentre
chiacchiero con un paesano che mi offre del vino e una badante rumena di nome Doana,
chi ti vedo arrivare? Vinicio Capossela, il bardo già incontrato al Nord, nella seconda notte
di viaggio, segnata da un'indimenticabile bisboccia con fuoco, vino e salsicce in aperta
campagna.
È vestito di nero, attillato e lustro, da capo-zingaro, con Borsalino nero. S'è già infilato,
felice, nella Topolino. La concupisce, la annusa. Ignora un gruppo di ragazzine che
improvvisano sulla strada un balletto in suo onore. Recita: "Quando la sorte è amara / c'è
Rapone o Carbonara". Vuol dire: se non trovi ragazze, cercale a Rapone o Carbonara. Ma
lui è alla Topolino che dedica il vecchio detto di casa sua. Calitri, dall'altra parte della valle.
La
sua
personalissima
Macondo,
che
domani
visiteremo
con
lui.
(17 agosto 2006)
51
La macondo in terra irpina
Il folle viaggio con Vinicio Capossela, uccello notturno della canzone italiana, comincia alla
nove della sera, in fondo alla valle di casa sua, sull'Ofanto serpeggiante di brume, con la
Topolino blu che fila nel buio tra i canneti, illumina con i fari capannoni dismessi, cani
sciolti, scali merci e binari abbandonati. In alto, sulla collina, sotto le stelle dell'Orsa,
Calitri, in rotta tra i grilli come un transatlantico dai cento oblò illuminati, ammiraglia di
una flotta di paesi naviganti. "Quella è la mia Macondo" sorride Vinicio, come se indicasse
Gerusalemme
dal
Getsemani
la
notte
del
tradimento
di
Giuda.
Esce dall'automobilina, cerca tra lucciole e rovi, un po' Cristo e un po' ladrone. Trova un
varco tra gli alberi di gelso, dove la vista si apre. Da qui, i contrafforti antisismici del paese
paiono i costoloni di uno strano capodoglio, sospeso come un dirigibile sul cielo dell'Alta
Irpinia. Ah Calitri, terra di famiglia di Capossela Vinicio, nato emigrante in Amburgo e
cresciuto emigrante in Emilia, quando i terroni erano chiamati "Marucchein". Calitri dei
ritorni e degli amici. Calitri dei mandolini, avamposto campano sulla Basilicata, luccicante
tra costellazioni di paesi, rossi mozziconi nel buio.
Come nelle storie di Marquez, anche qui visibile e invisibile si sovrappongono, formano
mondi paralleli. Il sentiero della Cupa è gli angoli bui dell'anima. L'Ofanto è la valle del
Giordano, la fonte battesimale, il luogo della rigenerazione. I tornanti dal fiume fin su al
paese, l'ascensione nei meandri del tempo. Il bosco della Frascineta, lo spazio arcano del
fauno e di antiche divinità pagane alla macchia. E l'altopiano della Formicosa, dove tira
aria da tutti i lati e nulla ti protegge, è la Mancia di Don Chisciotte e dei mulini a vento.
***
Una, due luci, un sentierino di ghiaia, risate, strimpellar di mandolino. È una festa. Anzi, di
più. A Calitri la chiamano "conversazione". Roba partigiana per soli uomini, quando si
mangia in allegria e si canta in sonetti, gli stornelli del Sud. Il posto è una baracca rimessa
in ordine, con pergolato e i tavoli già apparecchiati.
52
Anche in cucina, solo maschi attorno a padelle e girarrosti: una sorpresa - o forse una
trasgressione - nella terra dove fuochi, pentoloni e fornacelle sono monopolio delle donne.
Vestali e padrone delle penombre di casa.
A tavola, ci si chiama per soprannome, all'antica. Per esempio: Spaccacipogghia,
N'trantola, o' Carnefice. Ci sono anche Tuttacreta e o' Cinese, rispettivamente
fisarmonicista e cantante; ex maestri del liscio, oggi pilastri della "Banda della Posta", così
chiamata per la tenacia con cui i suddetti piantonano l'ufficio Pt, erogatore della pensione.
Si scaldano gli strumenti, arrivano gli antipasti. E intanto il barbiere Gianni Sicuranza col
suo "cumpà" Jucci r'Bellino, pontefici massimi del sonetto, mi istruiscono sui santi
protettori della zona.
Politeismo puro. Esempio: Gerardo, santo delle partorienti. Santa Liggia, la mirabolante
protettrice dei ciucci, cioè gli asini. Ne hai per tutti i gusti, e non sai se sono santi davvero
o personaggi da commedia dell'arte. Esempio: San Martino, nume tutelare delle donne dal
seno grande, feconde dee madri del Sud. Ma il massimo è San Liborio, eh sì, San Liborio,
quello non lo si invoca mai abbastanza. Il provvidenziale Liborio, protettore dei "cornuti
volontari", che suscita ovazioni tra i commensali e tante benedette opportunità mette su
piazza.
Vinicio vola tra i tavoli come un grande pipistrello nero, è ciucco, commosso e felice. Lui,
che dovrebbe cantare, ascolta come uno scolaro. Un gruppo con violino la butta sul liriconapoletano, "Il soldato innamorato", ma poi trionfa la cantata paesana, storie di amori folli
e terreni, come "Zompa la rondinella", dove lui dice a Filomena: dai, facciamolo un'altra
volta, succeda quello che succeda, stavolta daremo fuoco al treno. "Senti? Senti che
meraviglia?" mi grida Vinicio nell'orecchio per farsi sentire nella baraonda: "Azzeccate
n'atra vota / e che ne viene viene / amm'a piccià lu treno".
***
A notte inoltrata si va sul triste, canzoni da guerra mondiale sull'aria del Trentino, al
fronte, che ha fatto cambiare i colori al povero soldato, ma poi i colori gli torneranno
"questa sera a far l'amore". Ci provo anch'io, con una di casa mia, "Val più un bicier de
dalmato", che non è nemmeno tanto facile, simula i micidiali alti e bassi dell'alcolizzato. I
mandolini vanno dietro, prima esitanti, in cerca della nota giusta, poi quasi increduli che
uno del Nord ci metta dell'anima. Ma sì l'Italia è una, viva l'Italia.
Risaliamo in paese, verso casa Zampaglione dove siamo superbamente acquartierati in
stanze con letti d'ottone, in tempo per vedere dalle nostre terrazze, oltre un mare di tetti
digradanti, la prima luce che sale dalla nobile terra di Puglia. La meraviglia non è solo la
luce pastello - verdi, blu e rossi tenui che si svegliano - ma il propagarsi dei suoni. Non s'è
ancora spento giù nell'Ofanto il mandolino di Rocco Briuolo che già sento, dall'altra parte
della valle, i galli di Rapone.
Dopo i galli, comincia il cuculo sul fiume. Poi i campanacci delle vacche verso Aquilonia.
Ma già abbaiano i cani verso Cairano, a Occidente, pazzi dietro Luna calante. Intanto la
corriera da Avellino si fa sentire sui "tornanti di Scatozza" (Vinicio li ha battezzati così nel
nome di un mitico camionista). E se non l'avessero tolto, maledette ferrovie, si sentirebbe
anche il treno sulla linea Avellino - Rocchetta Sant'Antonio. Ovunque, passeri in fregola.
Poi, in un incendio arancione, esce il sole e allora devi quasi tirarti dentro, perché le
rondini a migliaia ti fanno il pelo sul davanzale.
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A sole alto, smaltita la sbornia, con davanti un caffellatte nella veneranda sala da pranzo
di casa Zampaglione, ancora non immagino che in una giornata sola, semplicemente
circumnavigando il feudo di Calitri, farò più salite che in qualsiasi altra tappa di questo
pazzo viaggio appenninico. Infatti, non so che questo è il "paese dei coppoloni". E non so
che i coppoloni non sono solo i berretti degli uomini, ma anche le alture torreggianti, ripide
e solitarie, da dove i paesi dell'Alta Irpinia si sporgono come falchetti nel nido. Il che
comporta,
per
chi
ci
vuol
salire,
dislivelli
e
pendenze
micidiali.
Capossela è euforico, s'è ficcato in t'a capa di andare in visita pastorale ai suoi luoghi del
mito. Solo che non gli basta starci seduto, nella Topolino. Ci viaggia in piedi come il Papa
benedicente, con tutto il busto fuori dalla capote aperta. Ah, quanto gli piace la
macchinina, se la mangia con gli occhi. Traversa Calitri, saluta, firma autografi, vola verso
Bisaccia e Andretta longobarda tra praterie digradanti e masserie dai nomi misteriosi,
allarga le ali di quel cappellaccio corvino che, in lui soltanto, riassume lo zingaro e il
predicatore, un blasfemo Achab e un timorato rabbino.
Decolliamo in un cielo da deltaplani, incontriamo un'Ape che a vederci s'inchioda per lo
stupore, giochiamo col vento, cerchiamo quota nella ghiaia verso un'alta prateria
disseminata di pale eoliche. Sono enormi, la Topolino diventa un foruncolo blu. Ascoltate
una alla volta, fanno fof fof fof, ma tutte insieme emanano un unico possente respiro,
quieto e regolare come un'onda oceanica. Quando ci siamo sotto, per un effetto ottico, la
pala al culmine esita per un attimo, poi ci piomba addosso come una mannaia.
Salite e discese, salite e discese, la Topo urla in prima e il nostro canticchia felice. Poi è
l'apoteosi, la rampa tremenda per Cairano, l'archetipo dei coppoloni. Anzi, il coppolone per
eccellenza. Un labirinto che s'impenna fin sul precipizio, un posto da tentazione di Cristo,
con Vinicio che si lancerebbe nel vuoto col nero mantello come parapendio e magari con
tutta la Topolino. Sotto, foschia come di salsedine, e odore di legna bruciata.
(18 agosto 2006)
54
In cima alla montagna sacra
IL SUD, quello vero, ci viene incontro appena il trabiccolo blu saluta le terre di Capossela,
incrocia l'antica via Appia e oltrepassa la Sella di Conza per iniziare la discesa sul Tirreno.
Una mutazione impressionante rispetto all'Alta Irpinia e alla Basilicata appena attraversate.
Esausti cani randagi, case non finite, monti arcigni. La segnaletica diventa inattendibile,
aumentano le immondizie e l'anarchia del territorio. Palamonte, per esempio. Una
posizione superba, come l'irpina Calitri. Ma, a differenza della prima, è distrutta
dall'abusivismo. Ti mette sul "chi va là" appena arrivi.
Che succede? Succede che il Sud non ha niente a che fare con la latitudine, e il Tirreno comunque lo si guardi - è più Sud dell'Adriatico. I Romani chiamavano il primo "mare
inferiore" e il secondo "mare superiore", ed era un'intuizione corretta. Savona, per
esempio. M'è parsa subito più meridionale di Trieste. E Firenze, più mezzogiorno di
Campobasso. Ne consegue che l'Appennino, con la sua muraglia dei lunghi inverni, più che
collegare il Nord al Sud, divide lo Stivale per lungo, fra un Nord che è Adriatico e un Sud
che è Tirreno. E diventa perciò una frontiera culturale più tosta delle Alpi.
Dopo Sella di Conza la vita prorompe senza regole. Fiori enormi di bellezza esagerata,
quasi oscena. Gechi sui muri e i lampioni. Ramarri verdissimi, protervi come camaleonti.
L'aria è già quella grassa, napoletana, degli acquitrini da bufale. E le donne, soprattutto,
non sono più icone greco-bizantine. Ora s'arrotondano, sporgono, debordano, sobbalzano,
spagnoleggiano, arpionano, trionfano. Labbroni, attributi e sguardi sanciscono la definitiva
restaurazione del potere femminile rispetto al celodurismo padano. In autostrada non lo
capiresti mai.
***
La selvaggia muraglia dei Monti Alburni mi chiama verso il Cilento, oltre l'autostrada.
"Vieni" mi ha detto al telefono l'antropologo Marino Niola, che in Cilento passa l'estate,
"vieni se vuoi capire la terra delle grandi madri", e mi parla di un santuario a 1700 metri di
nome Santa Maria di Velia, in arabo Gelbison, "un'Alta Signora cui i devoti portano in
pellegrinaggio cuori di pietra e le ragazze da marito cinti fatti di candele. Si sale di notte, è
favoloso".
55
Ma passare l'ostacolo della Napoli-Reggio Calabria, proprio in quel punto, è impossibile.
Tutto - traffico, svincoli e segnaletica - è contro di te che ti ostini a rifiutare la linea del
tuono che ti sovrasta con colonne di autoarticolati in bilico su immensi piloni. Per trenta
chilometri, in quel punto, verso Sicignano, non hai alternative all'autostrada. Non c'è nulla
che le corra accanto.
Ma Nerina non si arrende. Ci mette mezz'ora per trovare un sottopasso da bracconieri
prendendo una stradina contromano. Poi, oltre il mostro di cemento, comincia il silenzio.
La valle del Tanagro, solitaria come la Cecenia, e la stradina a tornanti che s'arrampica
verso Postiglione - nome che per una Topolino è un invito a nozze - sulla dimenticata
Statale 19. Non c'è letteralmente nessuno. Potrei essere in Colombia, o sulle isole di Capo
Verde. E invece è l'Italia dura, estrema, di Carlo Levi e di Cristo che s'è fermato a Eboli.
L'Italia lucana di "Rocco e i suoi fratelli" di Luchino Visconti, e di "Tre fratelli" di Franco
Rosi. Alla radiolina, le notizie sui disastri in Medio Oriente arrivano come un'interferenza
che non disturba il pulsare del tempo.
***
A pensarci, questa storia delle dee madri mi tormenta da Norcia, alle porte del Lazio. Tutto
è cominciato in fondo a una valle cieca, in mezzo a una foresta da lupi, quando m'è
apparsa la guglia di Roccaporena dove Santa Rita avrebbe spiccato il volo verso la vita di
devozione. Fu indimenticabile. Nonostante l'orrore cementizio del piazzale, i venditori di
caciotte e l'orrida teca in vetro che violava la sommità del pinnacolo, nonostante i
telefonini, le pie donne ansimanti verso la cima e i pullman con ventole al massimo,
Roccaporena emanava una sconvolgente energia.
In cime pensai: non c'è curia o Vaticano capace di tenere a bada la potenza del sacro in
Appennino. Sul libro dei visitatori, i sopravvissuti alla scalata, in gran parte donne, non
annotavano i loro nomi o brevi preghiere ma circostanziate richieste di guarigione da
malattie, talvolta ricche di particolari intimi. Alle donne del Sud non importava tanto chi
fosse Rita e cosa fosse scritto di lei. A loro bastava che Rita fosse femmina. Solo una
donna poteva portare salute e fertilità, recapitare le loro richieste alla Grande Signora oltre
il muro dell'invisibile.
***
"Dio non esiste al Sud", esordisce a effetto Marino Niola, che incontro a Vallo di Lucania
prima del salitone alla Madonna di Velia. "Qui Dio è un concetto troppo astratto. Esistono
tanti dei, energie sacre legate a particolari luoghi o dipinti miracolosi. Quanto a Cristo, c'è:
ma deve tutta la sua importanza al fatto di essere figlio di Maria. Maria è il corpo, e qui al
Sud il sacro passa per il corpo. Maria è tutto, fertilità, famiglia, l'ordine".
Prendiamo il fresco sotto un gelso, accanto a una bottiglia imperlata di vino bianco, e
Marino naviga tranquillo per i suoi oscuri arcipelaghi. "Sai cosa m'hanno detto un giorno a
Napoli? Che Cristo è uno che ha fatto del male alla mamma, e anche per questo è morto
in croce...". Diavolo d'un Niola, in altri tempi sarebbe finito al rogo. "Persino la criminalità
organizzata - incalza - ha un lessico familiare materno. Si dice: mamma comanda e
picciotto fa. Il capo è mammasantissima. Il pizzo si chiama "olio per la madonna". E i boss
sono, a modo loro, religiosissimi".
"L'autentico vestibolo del mistero italico è qui, in Campania, al museo di Capua, nella sala
delle Madri. Monoliti anche di due tonnellate, un'assemblea terrificante di donne in pietra,
con in braccio neonati. Alcune ne hanno sei per parte.
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Ecco, lì sei di fronte all'abisso, alla potenza generatrice del sacro. E poi - incalza - nelle
contrade interne della Campania felix inizia la trasfigurazione del mondo pagano in quello
cristiano...".
Finiamo parlando dei morti che non parlano più ai vivi, perché oggi "ci sono troppe luci", e
della gente di Crotone che ha una grave allergia alle fave, proibite secoli fa - guarda caso dal loro conterraneo Pitagora "per il rischio che i trapassati risalissero in superficie dal
gambo". Basta Marino, basta, o stanotte non dormo.
***
Dura salire al santuario di Velia ignorando il richiamo della costa delle Sirene verso
Palinuro. Sono sderenato dalla Topolino, un tuffo salvifico ci starebbe. Ma non cedo. "Ave
Maria e avanti, la madonna ti aspetta" sta scritto sui tornanti, e Nerina va, ansima, tira di
prima, s'infila tra faggi tenebrosi, arriva col fiatone a quota 1700, sotto un gigantesco
monolito appoggiato sui boschi come un missile sulla rampa di lancio. In cima a tutto, una
gigantesca croce a traliccio, a sfidare i fulmini.
Orsacchiotti, gelati, trombette, ciambelle, chincaglieria d'ogni tipo. Ma in fondo alla salita,
oltre i chioschi, nella penombra del santuario, c'è Lei. Con infinita pazienza una suora apre
la teca di vetro ai pellegrini. Dentro, non un'icona rigida ma una scura bambolona paffuta,
dolce, conciliante e per nulla severa. "Sono 35 anni che sto quassù" mi dice la suora.
"Tutta la mia gioventù l'ho spesa qui". Fuori, dalla muraglia perimetrale, la vista sul
Tirreno e la schiena d'Italia che galoppa verso le Calabrie, dove finirà il viaggio.
Dalla cima, una favolosa trigonometria femminile. A Oriente il santuario della Madonna
della neve. Verso Avellino la Vergine del Monte Partenio, ex santuario della dea Cibele
narrato da Virgilio. A Ovest, verso il mare, l'Heraion di Paestum, dove si venerava la dea
del melograno, oggi Madonna del granato. Torno a valle con la certezza di avere solo
sfiorato il senso di questi luoghi.
(19 agosto 2006)
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La strada che sbuca dal passato
Se volete capire la meraviglia delle vecchie strade italiane, fate la Statale 18, dimenticata
dal traffico, tra Vallo di Lucania e il Golfo di Policastro. Rotonde virate a mezzacosta tra
gelsi e ciliegi che chiazzano di sangue l'asfalto, uliveti verde metallico nel vento. Fontane
zampillanti e paesi nel posto giusto, bar sulle curve a gomito (strepitoso quello di Montano
Attilia!) e gente che saluta come al Giro d'Italia. La Topolino è felice, morde il suo terreno
preferito, tra ginestre, felci e paracarri, si mostrifica in giochi di cambio, acceleratore e
frizione senza sfiorare mai il pedale del freno.
Incrocio un'Ape con un anziano. Davanti a un'Ape è inevitabile fermarsi: dietro c'è un
mondo. Sostiamo in mezzo alla strada per parlamentare dai finestrini aperti. Tanto siamo
perfettamente soli, in una giungla verde. "Che vulite, la campagna è abbandonata,
nessuno face niente", lamenta il nostro, che si chiama Ferdinando e va a zappare il suo
uliveto. "I cinghiali, disastro tremendo, ripuliscono tutto, faggiolo, patate, verdure; la
campagna nun è 'cchiù nostra. Bisognerebbe recintarla, ma se la vuoi chiure (chiudere,
ndr), nun te lassano chiure, qua la politica è fatta per dire de no".
Facciamo picnic sul bordo della strada, il tipo offre salame piccante, pane casereccio e un
fiasco di rosso acidulo con acqua fresca che mi disseta in un attimo. Attorno, solo silenzio
e passeri. Ah Fernando, l'Ape, la Topolino del 1953, il vino e il salame. Momenti perfetti,
che valgono un viaggio. Penso all'orrido rettilineo che risucchia gli italiani e dal profondo
mi sgorga il ringraziamento. "O autostrada, madre di tutti gli ingorghi, grazie. Hai svuotato
l'Italia, ma dietro una foresta vergine di rovi, l'hai lasciata intatta come il castello della
Bella
Addormentata".
Sì,
sulla
statale
18
il
tempo
si
è
fermato.
***
Lagonegro, Lauria, Mormanno. Che cosa sono per l'Italia gommata? Niente. Caselli
autostradali. Svincoli. E invece, appena fuori dall'autostrada, eccoti un mondo arcano di
abbazie e forti arabo-normanni. Tra il Cilento e il Pollino, nel breve lembo di Basilicata che
tocca il Tirreno, la schiena del Paese diventa pazzescamente movimentata. La strada
s'impenna, devia, s'intorcica su se stessa e non capisci mai bene verso dove. La vecchia
58
Topolino la percorre come la puntina di un grammofono su un disco a 78 giri, ti riporta
all'Italia di prima del miracolo economico. Prima di "Lascia o Raddoppia", della Seicento,
delle autostrade e degli appuntamenti di famiglia negli autogrill.
Ci ho messo un po' per capire il sesso della Topolino. Maschio o femmina? Qui mi passa
ogni dubbio. Femmina. Dai bar i giovanotti le fischiano dietro. Agli incroci perfino i camion
la lasciano passare anche senza precedenza. Gli uomini adulti la guardano con stupore
infantile e un po' d'invidia, vorrebbero giocare ancora una volta nella loro vita. Ma la
controprova sono le donne mature. La squadrano con sospetto, talvolta con fastidio.
Oppure fanno finta di non vederla. Fiutano nel trabiccolo il civettuolo magnetismo sull'altro
sesso. Sentono la sua sensualità familiare e nello stesso tempo birichina.
Da un benzinaio a Lauria spiego a due divertiti giovanotti il corretto "bon ton" per sedersi
alla guida con la portiera che s'apre al contrario. Il corpo non fa il solito mezzo giro sulla
sinistra, ma tre quarti di giro sulla destra; un leggero giro di valzer con avvitamento
elicoidale verso il basso, con morbido atterraggio di culo sulla poltroncina bassa, quasi
rasoterra. Una goduria sconosciuta ai gommati contemporanei. Sì, la Topolino è
definitivamente un nido che accoglie e consola. Una donna.
È proprio allora che mi chiamano dalla Fiat, quartier generale di Torino. Il dipartimento
auto storiche, che garantisce la manutenzione della macchinina "on the road". "Come va
col mezzo?" chiede il responsabile. "Benissimo" rispondo, e mi vien già da ridere. "Ma non
si permetta più di chiamare "mezzo" la mia auto. Prima di tutto è una signora. E la signora
batte strada a meraviglia".
***
Immagina due Carabinieri in attesa su una strada deserta. Metti la Statale 19, tra Lauria e
Mormanno, che deserta lo è da vent'anni: da quando l'autostrada, parallela e gratuita, le
ha risucchiato tutto, anche la vita, anche il nome. La Statale 19 è diventata "ex Statale
19", rifilata alla provincia di Potenza nel segno sfolgorante della devolution. Ebbene, qui
due CC vedono una Topolino blu del 1953 scendere allegramente dal passo di Prestieri
verso le Calabrie. Che fanno? La fermano. Troppa curiosità, per un posto dove non
succede niente. Dunque paletta biancorossa fuori, e segno di accostare. Il problema è che
la Topo non è in grado di fare infrazioni, va troppo piano. Non c'è straccio di motivo per
giustificare l'alt.
Momentaneo imbarazzo degli uomini in nero. "Con questo, ci parli tu", sussurra il più
timido dei due. Hanno l'aria mite, nessun segno d'arroganza borbonica. Capisco che tocca
a me toglierli dal conflitto. Tiro fuori sorridendo il libretto, che contiene mezza storia
d'Italia, un albero genealogico di proprietari. "Dovete assolutamente darci un'occhiata dico - ha cinquant'anni, non credo abbiate visto mai niente di simile". È fatta, i due
sorridono, maneggiano con infinita cura il foglio venerando segnato dal sole e dalla
pioggia, possono continuare nel gioco. Fingere che sia un controllo vero, che lo Stato
esista su questi monti da briganti, e che la Statale sia ancora Statale. Su una scarpata, il
paese di Castelluccio ci sovrasta con mille occhi. In valle, una chiesa trasmette con
altoparlanti il canto di un prete, e da lontano pare il richiamo di un muezzin.
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Statale 19, che favolosa risorsa. Gli italiani sono degli imbecilli a non saperla usare. Ma che
fa la politica? Che fa l'Anas? Se Francia e Spagna avessero strade simili, troverebbero mille
modi per valorizzarle, adattarle alla mobilità "dolce". La macchinina blu va, ronza in una
solitudine afghana. Qui potresti pattinare, ma che dico: giocare a bocce, a biliardo, berti
un Cynar contro il logorio della vita moderna su un tavolino sistemato sulla mezzeria.
Italiani che vi serve andare lontano, in Oriente? L'avventura è qui, in Appennino.
Sulla 19 passa un'auto ogni quarto d'ora e tra un'auto e l'altra scende un
incommensurabile silenzio. Con la capote aperta senti l'odore del bosco, ti prendi
un'ubriacatura d'aria e di sole così forte che scivoli in uno stato di ebete euforia. Mi
accorgo che non è solo il risucchio dell'autostrada che genera questo vuoto. È anche il
risucchio delle due coste balneari, la jonica e la tirrenica, che qui sono vicinissime e pure
equidistanti dalla statale. Una congiuntura favorevole unica. Qui sei fuori dal mondo già a
un tiro di schioppo dal mare.
Sono rotto, i muscoli della schiena pesanti come di piombo, le mani indurite. Guidare
un'auto senza servosterzo e servofreno è una fatica da camionista. Mi rendo conto di aver
fatto una cosa pazzesca. Sono su strada da tremila chilometri e 40 mila curve. Come il
Caucaso fra Georgia, Cecenia e Azerbaigian. Più della strada del Karakorum che da
Peshawar ti porta alla mitica Kashgar delle carovane, ai bordi del deserto del Taklamakan.
Un contadino in canottiera e con la zappa in mano rimane a bocca aperta a vederci
passare, immobile come la statua della libertà.
La notte, in una locanda di Mormanno piena di fotografie di notabili Dc sepolti dal tempo,
m'accorgo che anche i sogni hanno preso l'andamento altimetrico del viaggio. Valicano
montagne inaccessibili, seguono un ottovolante, imboccano neri precipizi, diventano
insondabili come abissi. Musiche si disincagliano dal fondo della memoria. Per esempio:
"Con la pio, con la pio, con la pioggia che fa / i cani non trovan padroni". L'ombra nera di
Capossela che mi segue nel buio.
(20 agosto 2006)
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Inseguiti dallo scirocco
Può essere un'impresa attraversare Mormanno, porta delle Calabrie per chi viene da Nord.
In questo paesone già greco nell'anima - ma incupito da selvagge montagne e funebri
chiese barocche - la Statale 19 diventa un budello affollato, stretto tra farmacie, bar,
negozi alimentari e auto parcheggiate di traverso. Praticamente, Calcutta. In un attimo
anche la Topolino è in trappola, ferma tra la fiancata di un autoarticolato e la porta
d'ingresso di una panetteria, dove una pattuglia di nere comari resta intrappolata per
cinque lunghi minuti.
Non so se qui la gente viva con filosofia greca, pazienza buddista o fatalismo islamico:
fatto sta che in queste Forche Caudine della Calabria nessuno protesta per gli ingorghi.
L'intasamento, al contrario, diventa spettacolo. Nei cinque minuti in cui la mia portiera
destra diventa l'unica via d'uscita del negozio (le comari potrebbero rompere l'assedio solo
passando attraverso l'abitacolo), ho tutto il tempo di farmi una chiacchierata con gli
indigeni appostati sullo stradone. Una scenetta anni Cinquanta che il mio asinello a quattro
cilindri, figlio della stessa epoca, registra con perfetta cognizione di causa.
"Buongiorno. Da dove venite?". Da Trieste. "Con questa?" Sì, con questa. "Giuseppe! Vieni
qua, questo viene da Trieste!". Trieste, che qui è come dire Capo Nord. Giuseppe arriva,
fischia alla Topolino come se avesse visto una bella donna, s'infila nello spazio millimetrico
tra il camion e il mio finestrino, incurante dell'ingorgo che ormai blocca l'intero paese, e,
senza dire una parola, sfrega il pollice e l'indice della mano destra per mimare la domanda
delle domande. Quanto costa. Intanto, l'occhio millantatore aggiunge: te la compro.
E subito.
Ovvio che devo stare al gioco e rispondere a gesti. Alzo lentamente gli occhi al cielo, apro
la bocca come per dire "aaah", e con una mano disegno una lunga spirale ritmata in
levare. Traduzione: cumpà, non avete un'idea di quanto. Aspetto la risposta, e intanto con
la coda dell'occhio vedo le donne in nero bloccate nella panetteria. Ci guardano dall'ombra
come civette sul comò.
61
Intanto tre pensionati si schiodano dal muro, dove sono parcheggiati accanto a una
Cinquecento rosso mattone. L'arrivo di Nerina è un evento da non perdere. In due entrano
nel gioco della contrattazione sul prezzo di vendita. Il terzo invece resta zitto, quasi
turbato, fino allo struggimento. Forse, vedendo la Topolino, ha ricordato qualcosa. Lo vedo
che cerca a tentoni nella memoria. Come Proust davanti al profumo del famoso biscottino.
"Madeleine" si chiamava. Un altro bel nome per la mia compagna su ruote.
***
Pauroso è l'attraversamento delle Calabrie descritto da Stanley T. Williams nel suo L'Italia
in Topolino all'inizio degli anni Cinquanta. Salite e discese senza fine, alberghi gestiti da
incapaci, colazioni che non arrivano mai. In posti simili, scrive l'americano in viaggio con la
moglie, la macchinina era "la nostra unica amica". "Entrammo e uscimmo senza rimpianto
da Lagonegro, Castelluccio, Mormanno e Morano mentre gli abitanti guardavano senza
entusiasmo la nostra auto targata Roma. In Calabria eravamo dei veri stranieri e non ero
certo che la gente provasse nei nostri confronti sentimenti amichevoli".
A me i calabresi stanno simpatici per il solo fatto che mezza Italia ti mette in guardia
contro di loro. In Campania, Puglia e Basilicata, sapendomi diretto agli Stretti, la gente mi
ha asfissiato di storie sulla fosca reputazione della regione più "arretrata" del Mezzogiorno.
In Calabria, dicevano, tutto era peggio, "persino i cani". Ma con l'esperienza ho imparato a
ignorare simili avvertimenti. Attento ai cani bulgari, mi dicevano i serbi. Occhio ai canipastori afgani, ammonivano i doganieri alla frontiera iraniana. Ovviamente incontravo ogni
volta animali mansueti che smentivano le profezie.
***
Piana del Crati, caldo da vipere, cielo schiantato dallo scirocco. A Catania l'amico Giuseppe
Lorenti, che mi raggiungerà in Aspromonte, segnala 42 gradi all'ombra e l'Etna che non
rimanda frescura nemmeno di notte. Dai tre gradi con nevischio del Gran Sasso fino a qui,
la Topo sembra avere attraversato un continente. A Spezzano Albanese, le scritte in lingua
arbresh confermano l'impressione di un safari in un continente alieno. Nel paesaggio ogni
ordine è sovvertito: all'anarchia edilizia dei villaggi si contrappone la perfetta geometria
degli uliveti, curatissime scacchiere d'argento su terra giallo ocra. E' tutto un po' strano.
Cerco un chinotto, ma non c'è un bar aperto. Compro un melone, e la commessa
dolcissima mi spiega che qui nessuno va al bar. Si mangia a casa, punto e basta.
Salita verso la Sila e il paese di San Demetrio, un nome greco che promette finalmente
bibite, frescura e tovaglie bianche, ma il caldo aumenta ancora. La strada è deserta,
profumata di origano. Unica cosa viva, una postina moracciona su Panda che mi supera, a
ogni consegna si fa superare, poi torna a passarmi davanti. Ora desidero solo un grande
solitario albero per farmi il mio melone, che a ogni curva rotola tra la portiera e l'albero di
trasmissione. In Calabria i ripari dal sole sono pochissimi, e il viaggio si riduce a una
sequenza di segmenti tra un'ombra e l'altra. Qui un leccio, lì un pino marittimo, lì un muro
sbrecciato. Non c'è abbazia o ponte romano che conti di fronte al miraggio dell'ombra.
Poi, sulla Sila, la frescura è anche troppa. Un ben di dio da non credere. Una Roncisvalle di
querce, abeti altissimi e dolci praterie. Ma anche qui, come sul Crati, qualcosa di strano.
Niente vacche, niente capre, niente pastori. Mi ritrovo a percorrere un Eden privo di vita
animale; l'esatto contrario dell'Abruzzo. E poi, apparentemente, nessuno lavora. Ovunque,
un clima da villaggio vacanze, da siesta assoluta.
62
Nei boschi, voci di allegre congreghe di soli uomini. Forestali - addetti a posto fisso della
prima azienda regionale - che se la spassano alla grande in attesa che il giorno finisca.
***
Cominicia la discesa verso le terre roventi dell'alba. Lo Jonio, sul lato di Crotone, dove
come in nessun altro luogo puoi vedere il sole sorgere dal mare. Sotto i mille metri
finiscono le foreste, cominciano gli eucalipti e nugoli di mosche annunciano strati di caldo
africano.
Il cielo è di nuovo incandescente, odora di stoppie bruciate, la Topolino diventa un forno,
puzza di cuoio, gomma e olio minerale. Comincia, anche, il tormentone della capote. Se la
apro, mi ustiono. Se la chiudo, mi cucino al forno. E i finestrini, che si aprono in
orizzontale, non lasciano un varco superiore ai venti centimetri.
San Giovanni in fiore! Nessuno penserebbe che un posto con un nome simile, al limitare
delle foreste della Sila, sia un grumo metropolitano di edifici, un inestricabile labirinto di
cemento. Invece, San Giovanni in Fiore è esattamente questo. Una tumultuosa cascata
edilizia. Il paese ha una sua paradossale, franosa coerenza, dal cimitero, in alto - un
condominio di morti sovrastato dai piloni immensi di una superstrada - fino all'abbazia in
basso, ovviamente chiusa, priva di indicazioni e nascosta da un luna park in disuso.
Alla radiolina sento una dichiarazione della presidenza regionale. Dice: stiamo perdendo il
controllo del territorio di fronte alla delinquenza organizzata. Una resa. M'accorgo che
l'Italia non si ritira solo da Nassiriya, e sta giocandosi in casa partite altrettanto toste.
Scendo a precipizio verso oriente, in un cielo senza colore, tra bei villaggi arroccati e
sconosciuti. Sono cotto di caldo e di montagne, vorrei solo levarmi la scarpe e incollare i
piedi a un fresco pavimento in pietra. Vorrei, ma non posso. L'auto ha sete, devo fermarmi
per mettere acqua nel radiatore. In questa tappa infinita ha bevuto in continuazione.
Scende la notte, per la prima volta ho paura di non farcela.
(21 agosto 2006)
63
Sulla bocca del vento
Ventiduesimo giorno, dove la Topolino beve e il viaggio rischia di finire fino a che non
interviene Santa Maria Assunta. Quaranta infuocati chilometri tra Sila e Jonio. Poi,
finalmente, arriva il decollo e siamo già nel punto più stretto d'Italia.
Il tramonto è negato agli abitanti del Crotonese. La morte del giorno è un evento
nascosto, che succede sempre "alle spalle", dietro le negre foreste della Sila. E così, in
posti come Santa Severina - una sorprendente acropoli a una decina di chilometri dallo
Jonio, dove ho trovato da dormire nella prima, infinita tappa calabrese - tutto è segnato
dall'attesa dell'aurora, il fuoco greco che arriva di corsa sulle praterie del mare, portato dal
vento di Levante. Il famigerato Levantazzo descritto da Antonio Mallardi.
Ma oggi, nella terra senza tramonto, non arriva nemmeno l'alba. Tra gli ulivi s'è acceso
solo un'aureola di luce gialla, poi bianca e infine grigia. Oggi il sole non sorge sullo Jonio, è
affogato nella foschia prima di nascere. Dove sono? Nel New Mexico? A Karachi, in
Pakistan? Ho gli occhi rossi di polvere, come il pilota di un biplano della Grande Guerra. E
dopo tremila chilometri di viaggio mi sento così lontano da casa che, facendo colazione, mi
meraviglio di sentir parlare la mia lingua nei tavoli accanto.
La notte non ho chiuso occhio. Verso l'una, esasperato dalle zanzare, ho sentito la musica
di un concertino sulle mura del castello, mi sono alzato, ho ripreso la Topolino e sono
andato a vedere. Tutto il paese era sveglio per lo struscio. All'una la vita incominciava. Era
l'ora del dopocena, le famigliole arrivavano con nonni e bambini. E la piazza, una
balconata superba fra torrioni e chiese barocche, era coperta di tavolini, giovanotti in tiro,
anziani intenti nella briscola, ragazzine al pascolo sotto gli occhi dei genitori.
Ho finito per dormicchiare su una panca in pietra, con i piedi scalzi appoggiati al marmo
fresco di una chiesa. Intorno, niente televisori, discoteche, urla sguaiate. Solo brusìo
rassicurante, tintinnìo di bicchieri, e una bastardina che mi si è accucciata accanto. Di
nuovo, la Topo m'aveva portato negli anni Cinquanta. Ero a Salamanca, Burgos. O forse
nella Grecia d'una volta.
64
Dopo quaranta infuocati chilometri tra Sila e Jonio, ho la certezza che il viaggio possa
finire così, per esaurimento, davanti al bancone del bar-gelateria "Crazy's caffè" di
Cropani, dove arrivo così disidratato che mi manca la voce per chiedere acqua. Difatti, il
colpo di grazia arriva un attimo dopo, allo sportello Bancomat del Credito Cooperativo della
Calabria, che non dà contanti ma in compenso mi accieca con un display sadicamente
orientato controsole.
Sono esausto. Il cervello è un uovo alla cocque, la Calabria uno specchio ustorio, tutta la
natura in apnea. Il radiatore beve come una spugna, ormai non distinguo più la sua sete
dalla mia. E Capo Sud, epilogo di questa demenziale Topolineide, s'allontana anziché
avvicinarsi. Maledetto Zenone - sì, il filosofo della Magna Grecia, appenninico del Cilento quel fottuto impostore che ci ha convinto che la tartaruga arriva prima di Achille! No, la
mia tartarughina non arriverà da nessuna parte. Tirerà le cuoia sullo Jonio.
Invece, il miracolo arriva. Lo fa Santa Maria Assunta, una chiesa dal cui portale esce un
inatteso torrente d'aria fredda. Dentro, i confessionali barocchi, momentaneamente
spostati dalle pareti, sembrano galleggiare nella navata. Ne scelgo uno. E' fresco e
comodo, come una barchetta. Ascolto il corpo che si raffredda e la mente che si rimette in
moto. Riesco a esprimere un pensiero: i preti la sapevano lunga, il confessionale era un
vero lettino da psicanalista.
La commessa del vicino negozio di verdure, dove compro un profumato melone, mi spiega
che Cropani è il posto più bello del mondo e lei non lo cambierebbe con nessun altro.
Gongola: "Guardi quante chiese abbiamo". Oltre all'Assunta ci sta San Giovanni, ci sta il
monastero dei Cappuccini, ci sta l'antichissima Santa Caterina, e poi la Madonna della
Catena, e poi la vecchia Sant'Anna ora sconsacrata, e poi ancora ancora ancora. Cripte,
cunicoli, campanili. E quella superba posizione alta sullo Jonio delle vele nere e dei pirati.
***
Finisco sulla costiera per assenza di alternative, e subito l'abitacolo comincia a tremare.
Vento! Improvviso e benedetto. A Roccella Jonica si spalanca un altro cielo. La Topolino è
felice; viaggia controcorrente, se potesse si alzerebbe come un deltaplano. Sono nel punto
più stretto d'Italia: tra qui e la piana di Lamezia sull'altro mare, appena trenta chilometri.
Forse per questo tra la Sila e le Serre - avanguardie d'Aspromonte - la corrente d'aria è
così forte.
"El vento xe volubile / la donna ancora pezzo / e mi che son in mezzo / no so più cossa
far". Il corpo torna a temperature umane, canta a squarciagola canzoni di casa sua.
Borgia, Girifalco, Cortale. Boschi, fontane, torrenti. D'un tratto, la Calabria gronda d'acqua.
Quanti Appennini ho incontrato in Calabria! I Carpazi (la Sila), gli Emirati arabi (Crotone),
la Grecia (la costa di Lamezia), le Prealpi francesi (il fresco spartiacque delle Serre). Tutto
in una giornata sola. E su tutto, un'inquietudine sismica scritta nel paesaggio.
A Maida, imbarco sulla Topo Antonio Milano, professore di lettere, gran zazzera brizzolata
piena di pensieri e squassata dal maestrale. Mi spiega subito perché da queste parti Eolo è
così inquieto. "Amica mio, sei sulla Bocca del vento. Il posto dove l'aria del Tirreno
accelera e plana sullo Jonio beccando le navi di sorpresa. A vucca do vientu...". E dice
"vientu" con l'accento sulla "i", alla greca, raddoppiandone l'energia cinetica.
65
Racconta Antonio che nel 414 a. C. una flotta spartana in guerra con Atene fu respinta secondo Tucidide - dal vento tirrenico e costretta a tornare a Taranto. "Impossibile"
sentenziarono gli studiosi. "Uno che naviga in Tirreno non può tornare a Taranto per un
fortunale. Troppo lontano". E così decisero che nel racconto del greco c'era un errore di
trascrizione. Poveri topi di biblioteca: non conoscevano la geografia. Non sapevano che
sull'istmo di Squillace il vento di Nordovest sconfina nell'altro mare.
***
"Quel fottuto, disgraziato, curnuto, m'ha rotto i cugghiuni". "Sì, quel traditore, ingrato, la
pagherà tutta". A cena, nella sala da pranzo dell'hotel di Serra San Bruno, c'è un solo
tavolo occupato oltre al nostro. Un tavolo con otto uomini che consumano una pubblica
condanna contro un assente. Gli anatemi rimbombano nella sala per dieci, venti minuti.
Ogni tanto la combriccola sembra trovare altri argomenti, ma solo per poco. La pioggia
d'insulti riprende per un'altra nezz'ora. Nessuna segretezza, nessun conclave. Quegli insulti
sono fatti per essere sentiti. Per costruire il vuoto attorno a qualcuno che ha sgarrato.
Di nuovo curnuto e cugghiuni, cugghiuni e curnuto. C'è un vecchio che urla più di tutti, e
quando urla lui, gli altri tacciono. E' il capofamiglia, indiscusso e indiscutibile. I camerieri
vanno e vengono, portano montagne di cibo, non fanno una piega. Come se non
vedessero niente. Il nostro imbarazzo cresce, non sappiamo più che atteggiamento
prendere. Il coro greco sull'ingratitudine raggiunge il culmine, ormai l'occupazione acustica
della sala è totale. La completano i figli piccoli della masnada, che hanno già mangiato e
giocano a nascondino urlando come fossero a casa loro.
Chiediamo da dormire, ma ci rispondono che è tutto pieno. Strano: non c'è nessuno oltre a
noi e la Banda dell'anatema. Mezz'ora dopo l'enigma si risolve. Arriva un pullman, pieno di
ragazzi sui diciotto-vent'anni, che occupano rumorosamente il resto della sala. Gita
scolastica? No, la scuola è finita. Ma allora cos'è? Lo spiega l'autista della corriera. "E' la
maturità dei privati". Cioé: gita in montagna con promozione garantita, nel premiato
diplomificio di Serra San Bruno, legalmente parificato e legalmente finanziato.
La
notte
sognerò
Pinocchio,
e
i
somari-bambini
nel
Paese
dei
balocchi.
(22 agosto 2006)
66
Tra i Mammasantissima
Il giorno peggiore, in cui la Topolino salva la pelle per miracolo, inizia all'ombra degli aceri
immensi di Serra San Bruno, dove una gran brezza notturna ci ha appena regalato una
notte da re. "Dio vi ha dato una natura stupenda" dico a un distinto signore sui settanta
che incontro presso l'ex Casa dei Giovani del Littorio, oggi proprietà della Regione
Calabria.
Lui: "Dio ci ha dato tutto, ma gli uomini se ne fottono". In che senso?
"Nel senso che nessuno lavora. Guardate la campagna come è incolta". Ma il lavoro c'è?
"Ci
sarebbe
eccome.
Però
tutti
vogliono
il
posto"
Quale
posto?
"Il
posto
fisso.
Quando
ce
l'hanno,
non
fanno
più
niente".
E' sempre stato così? "Macché, vent'anni fa la gente lavorava". Passeggiamo verso un
impressionante calvario in pietra all'uscita del paese. Chiedo della mitica certosa di San
Bruno nel bosco di faggi. Lui: "Oggi non si va più a sentir messa. Si entra solo per Natale,
Ferragosto, Pasqua, Capodanno e San Bruno". Com'erano le messe una volta?
"Tutto il paese veniva, sull'altare c'era un tramezzo tutto lavorato, oltre c'erano i frati, il
priore, i cantori, l'incenso, ma dal ballatoio potevi vedere oltre, era bellissimo".
Ora che succede nella certosa? "I frati preferiscono la pace, e forse hanno ragione, col
mondo che c'è. Lo sa che dentro s'era nascosto uno dei piloti della bomba di Hiroshima?"
Forse è una leggenda. "Nooo, c'era, c'era sul serio. Mi creda, l'hanno visto. Dicono che
solo lì abbia trovato la pace".
***
Appena scolliniamo verso lo Jonio l'inferno ricomincia e le note di viaggio si riducono a un
rapportino idrico. Del tipo: "Bevuta aranciata. Fonte sul tornante. Fiumara in secca". Già
dopo 30 chilometri - a Fabrizia, paese che si dice più povero d'Italia, ma dove passano
robusti fuoristrada - finiamo esausti davanti al bancone di un bar deserto. Dentro, solo
ronzar di mosche e un ventilatore acceso. La barista non esce, dobbiamo stanarla dal
fondo del locale. E' il ritratto della pena, ci serve un chinotto con lentezza infinita.
67
Oltre il Passo di Croce Ferrata la strada scende fra promontori bruciati verso la
sconvolgente fiumara del Torbido, porta della Locride. Si viaggia in bilico su pietrosi crinali,
sempre in vista della fornace dello Jonio, giallo e immobile come oro fuso. Alla fontanella
Cridoni, quota 790, la Topolino si succhia un litro e mezzo. Qualcosa non va, dovrò cercare
un meccanico. Ma a Grotteria le strade sono deserte. Solo due pazzi come noi possono
stare in giro col sole a picco. Mammola è schiantata dal caldo, assordata da cicale furiose.
Non mi fermerei, ma Antonio Milano magnifica da stamattina le delizie dello "stocco", lo
stoccafisso su pasta fresca o in umido con patate. "Qui si mangiava solo stocco e alici
salate, il pesce fresco non esisteva. Col levantazzo si moriva in mare, la pesca era cosa
rarissima".
Al Mulino Rosso siamo gli unici commensali, lo stocco è davvero una delizia e il pranzo si
stiracchia per due ore, solo per un po' d'aria condizionata in più. Parliamo di cibi, Antonio
spiega come si taglia il peperoncino verde fresco, prima a croce, longitudinalmente, poi
diagonalmente affetta con minuzia, "badando bene a non fregarsi gli occhi poi". Alla fine,
rabboccato il radiatore, accompagno l'amico alla prima stazione e riparto da solo verso le
terre d'Aspromonte. Sperando che il motore tenga.
***
In Italia l'auto serve a comunicare quanti soldi hai. Nel Sud serve a qualcosa in più:
ostentare il controllo del territorio. Chi parcheggia di traverso occupando mezza strada,
significa che qualcosa (o qualcuno) lo autorizza a farlo. Quel signore può essere un
"mammasantissima", e allora non si sa mai: pochissimi protestano. Anche rivendicare un
diritto può essere pericoloso. Ma in un mondo gommato dove il potere comporta
ostentazione di arroganza, la Topolino destabilizza. Me ne accorgo a Geraci, un'altra
magnifica acropoli a mezza strada tra il mare e il monte. C'è un matrimonio in piazza, vado
a vedere, parcheggio in mezzo a grosse cilindrate. Attiro subito simpatia, persino i cupi
locresi si inteneriscono di fronte alla piccolina. Si forma un capannello, il matrimonio passa
momentaneamente in secondo piano. A un tratto arriva un fuoristrada, il tipo alla guida
vede la folla, pensa che in mezzo ci sia un pezzo grosso. Invece no, c'è una minuscola
Topolino e un forestiero in braghe corte. Un'apocalissi delle gerarchie. A quel punto
comincia a sgommare, e dopo una serie di manovre dimostrative parcheggia davanti al
trabiccolo, apposta per impedirmi di uscire. Gli dico: "Guardi che sto andando via". Il tipo
mi ignora, entra in chiesa con la moglie. Vedo che nessuno ride di fronte alla reazione
spropositata e il capannello si scioglie. Solo una donna bellissima mi sorride, allargando le
braccia. Me la ricordo bene: occhi mori, pelle andalusa, capelli corti grigi riccioluti, seno
pieno e caviglie sottili. Capisco che è ora di andare. Cerco di far manovra - un pertugio c'è
- ma ci metto tre minuti. Come l'autista di Franz Ferdinand a Sarajevo, che dopo aver
sbagliato strada, ci mise troppo a ingranare la retro e diede alla fatal pallottola il tempo di
partire.
***
Mille metri, in bilico tra i due mari, con faggete immense e tappeti di foglie secche di una
regolarità inglese. Ombra e vento, mucche libere che attraversano la strada. Meraviglia.
Passa un ciclista, mi chiede dove vado.
Aspromonte,
gli
dico.
Lui:
"Piacere,
Alberto
Laganà,
Mi
presento.
"Ma
lei
è
quello
del
viaggio
in
bici
Gli dico che se potessi gli darei la Topo e continuerei in bicicletta.
di
a
Lamezia".
Istanbul!".
68
"Deve farlo, l'Aspromonte è un mondo". Non so, dico, la Sila mi ha deluso.
"La Sila? Niente è. Qua deve venire. L'Aspromonte è un'altra cosa. E' il nostro Ararat, il
Fujiama. Macchia impenetrabile, serpenti di sabbia che scorticano la montagna"
Tornerò, gli prometto, con la mia bici. "Venga e la porto con me. Faremo la Fiumara del
Buonamico.
Una
fiaba.
Il
mare
sembra
lontano
mille
chilometri".
***
Strada da Platì a Delianuova. Mentre medito che la macchinina sta scrivendo senza saperlo
un trattato di antropologia italiana, sento una botta nel cofano, poi un gran casino nel
motore, poi un silenzio da paura. Accosto. Sono assolutamente solo tra i boschi
d'Aspromonte e il burrone che precipita su Gioia Tauro. Apro il cofano, la cinghia di
trasmissione è andata. La puleggia s'è rotta, è diventata un falcetto e ha affettato il cavo.
Trovo il ricambio nel box d'emergenza sul sedile posteriore, ma non ho la più pallida idea
di come si sostituisce. Quel che è peggio, il sole tramonta. Passa un caprone, mi guarda
con l'occhio luciferino, scende a bere a una fontana. Ormai sono fermo da venti minuti è
non è passato nessuno. Il telefonino non prende. Posso solo raccomandarmi alla Madonna
di Polsi, che sta lassù tra le montagne. Se aiuta i boss, aiuterà anche me. Difatti qualcosa
succede. Vedo uscire dal bosco un tipo in pantaloni corti e zaino. Un escursionista. Mi
chiede se posso dargli un passaggio. Magari, gli dico. Ma guardi che rogna. Lui: "Sei
fortunato, ho passato l'infanzia tra i motori". Mentre armeggia in cerca delle chiavi inglesi,
noto che ha l'orecchino. E' bravissimo. In un attimo ha smontato il muso, trovato la
puleggia di ricambio, sostituito il pezzo. Dovrei ringraziare la Signora di Polsi ma ormai
sento l'Africa nell'aria e mi viene uno scherzoso "Allah è grande".
Partiamo insieme, il motore canta ristorato e felice. Il salvatore della patria si presenta:
Diego Festa, guida in montagna. Gli chiedo di portarmi domani sulla cima dell'Aspromonte.
Lui ci sta, e mi pilota verso i Piani di Carmelia, dove sta l'unico rifugio sotto la vetta. Capo
Sud è alle porte, forse ci siamo già domani sera. Dalla montagna al gran finale, ormai, è
solo discesa.
(23 agosto 2006)
69
In punta d'Italia
Compare Saro mi disse una notte: che senti nel bosco? Io dissi: o ventu sento. E lui:
scimunito, questa acqua è. Aveva ragione, c'era un torrente. E all'alba lui era lì, nel posto
giusto a pescar trote". Sono uscite le stelle e Antonio Barca, proprietario, costruttore e
gestore del rifugio di Piani di Carmelìa, quota 1260, racconta come ha imparato a
conoscere la Montagna Sacra dei calabri. L'Aspromonte, alto come un transatlantico nel
mare senza fine.
Antonio ha fatto tutto da solo. Ha trovato il terreno e costruito il rifugio con oltre venti
letti. Oggi ha la schiena rovinata dalla fatica ma non si lamenta, è felice di vivere quassù.
Ha acceso il fuoco, a tavola c'è sua moglie Marie Thérèse, c'è Diego Festa, la guida scesa
dal cielo che m'ha aggiustato la Topolino, e l'amico Giuseppe Lorenti che m'ha raggiunto
come un falchetto da Catania. La macchinina è fuori al fresco, sporca e felice.
"Mio padre e compare Saro mi hanno insegnato a conoscere la montagna, a muovermi
senza mappe di notte ascoltando il rumore dell'acqua, a trovare le tane delle martore, a
cacciare i ghiri dopo la festa dei Morti. Ah, i ghiri! Una leccardìa sono, la carne più delicata
del mondo... Ho imparato tutto da bambino: vedevo ghiande a terra e sapevo se le aveva
rosicchiate il ghiro, il topo, il moscardino o la ghiandaia. Questo è il mio mondo, la vita
mia".
Per un attimo scende il silenzio. "Ma è dura quassù, Paolo. Non sai quanto è dura. Le
colombe partono e i corvi restano. L'emigrazione è ripresa alla grande. Ma io ho detto no,
non sono partito, ho investito qui tutto quello che avevo. Questa montagna è una favolosa
risorsa per i giovani di buona volontà. Ma quasi nessuno mi aiuta. Pensa che un giorno è
venuto qui il presidente del parlamento danese, con i figli e il sacco a pelo. E' rimasto
folgorato dal luogo. Te lo vedi un politico italiano che fa la stessa cosa?".
70
La notte, nel dormiveglia, sento un cric, cric, cric, lento e regolare come un orologio a
bilanciere nel silenzio. E' la voce del tarlo. Non posso chiudere occhio. La Calabria mi pare
la quintessenza dell'Italia, cioè di quella selezione negativa della specie innescata dalla
santa alleanza dei mediocri e degli imboscati.
Troppa bella gente dimenticata. Trovo una vecchia lettera di Francesca Viscone, di
Lamezia Terme, che m'ha scritto tempo fa sulle terre infuocate dello Jonio.
"Ho conosciuto - leggo - un anziano di San Luca, nella Locride. Aveva uno sguardo intenso
pieno di interrogativi, di immagini e di incanti. Era un inventore, aveva costruito diversi
strumenti strani. Arrivò con una busta piena di queste curiose invenzioni. Ce ne diede una,
ma non voleva soldi, era solo un segno di ospitalità. Paesi come San Luca sono pieni di
intelligenze così... Una genialità sprecata, male espressa, male indirizzata... Siamo pieni di
geni trasformati in scemi del villaggio, e di uomini fieri trasformati in inetti. Di inventori
che
non
inventano
niente
e
fanno
regali
agli
sconosciuti".
Il tarlo ha smesso di rosicchiare. Un po' di vento nella foresta. Mando un sms a Roberto
Righi, proprietario della Topolino: "Nerina pronta all'ultimo balzo. Domani Capo Sud".
Premo "invio" e sparo verso le stelle.
***
Saliamo a piedi sopra la forra del torrente Ladro, il pendio è di una dolcezza svizzera fin
sulla cima del Monte Cocuzza, vetta d'Aspromonte. E' l'ultimo "Pen", l'ultima delle dee di
pietra che danno il nome alla schiena montuosa d'Italia. Un Cristo in bronzo, portato in
elicottero dalla base Usa di Sigonella, governa una vista immensa sulle Eolie, l'Etna e la
terra dei bronzi di Riace. La diversità tra i due versanti, Jonio e Tirreno, è sconvolgente. Il
primo: abbacinante, scarnificato, battuto da piogge violente e siccità africana. Il secondo:
boscoso,
verdescuro,
percorso
da
torrenti
regolari
e
piccoli
canyon.
La guida, per impressionarci, ci disegna la mappa dei sequestri di persona. "Ecco, laggiù fu
nascosto Soffiantini. Lì, un po' più a destra Casella. E lì in fondo hanno trovato, quattro
anni fa, le ossa di un fotografo fatto sparire negli anni Ottanta". In mezzo a questa
topografia ansiogena, il santuario di Polsi, nascosto tra i dirupi, dove si bivacca, si
sacrificano i capretti e dove, quest'anno, il 2 settembre, la Madonna sarà incoronata con
una festa particolarmente solenne. Fino a ieri, per la Madonna si sparava in aria. Gli
uomini d'onore della Locride facevano "pam pam" come gli Schuetzen in Sudtirolo.
***
L'arcipelago dei paesi-fantasma che costellano l'Aspromonte sul versante Sud è
annunciato, tra Delianuova e Gambarie, da una cantoniera in disfacimento abitata da
vacche libere, in condominio con una repubblica autonoma di maiali. Le bestie vanno e
vengono, grufolano e ruminano sulla Statale 183, non hanno la minima paura di noi. Ma il
bello, mi raccontano, viene dopo, con le terre nude verso Africo e Roghudi, ultimo resto di
una gloriosa terra greca che fu Magna e oggi è il monumento all'abbandono.
Anche lì le bestie hanno preso il posto degli uomini. Ad Africo i maiali in combutta con i
cinghiali hanno occupato la chiesa vuota. A Roghudi le coturnici hanno fatto il nido in
quello che fu il bar. A Pentedattilo, posto di superba bellezza, non c'è più un'anima. Da
qualche parte hanno ricominciato a fare le messe in greco, c'è padre Milo che fa il preteviaggiatore, ma serve poco. Bova si spopola a vista d'occhio. E a Gallicianò se ne sono
andati in tanti: anche Kalinera, che dava una mano al papà nell'unico bar del paese. La
bellissima Kalinera dal nome greco. Bruna come la protagonista di Mediterraneo.
71
Scendiamo verso Capo Sud nella fiumara incandescente di Melito. All'incontrario, è la
stessa strada di Garibaldi, quella presa dopo il secondo sbarco, nell'estate del 1862. La
spedizione finì subito perché l'eroe dei due Mondi fu ferito dopo Gambarie, sotto un pino
biforcuto, oggi monumento in totale e scandaloso abbandono. La Statale 183 spacca
l'Aspromonte come una mela, ti spara impeccabilmente a ore dodici verso il Sud
astronomico per consegnarti, al millimetro, nel punto più meridionale d'Italia: Melito di
Porto Salvo, contrada Lembo. Solo otto metri più a Sud di Pelizzi Marina, che sta poco
prima di Capo Spartivento.
Passi la congestione del traffico, la superstrada, la ferrovia, i fichi d'india, lo scirocco, e il
punto del secondo sbarco garibaldino è lì, segnato da un'alta stele di metallo. Impossibile
che il nostro abbia scelto per caso. Garibaldi era attento ai simboli. Non poteva ignorare
che quello era il terzo punto più meridionale d'Europa, dopo Gibilterra e Capo Matapan. La
forza magnetica del luogo è tremenda, come Capo Nord in Norvegia. Ha ragione il poeta
calabro Enzo Alampi: qui è come se vedessi nella gente mille "bussole di bronzo con le
facce orientate a Sud".
***
Sera viola con l'Etna oltremare, una birra, una tovaglia bianca, la risacca. La televisione del
bar dice che la guerra in Libano può riprendere, mi notifica che per quasi un mese ho
vissuto fuori dal tempo. Il viaggio è finito. Finiti i paracarri, gli alberi di more, le case
cantoniere, le fontanelle sui curvoni. Nerina è parcheggiata nel sotterraneo di un hotel,
domani verranno a prenderla quelli della Fiat per portarla in clinica a Maranello, in casa
Ferrari. Sarà dura fare a meno di lei. Ha trasformato le strade di casa in un'avventura, ha
visto la neve e temperature irachene, ha scoperto un'Italia pulita e senza voce.
S'è svegliato il maestrale, la punta d'Italia sembra navigare controvento verso Nordovest.
L'Etna ora è color prugna, è un dio vicinissimo. E' l'ora in cui il Tirreno si gonfia e preme
tra Scilla e Cariddi, forma un fiume che spumeggia nello Jonio. La corrente è tale che ogni
tanto strappa dal fondo pesci mostruosi per abbandonarli sulla battigia. Passa una vela al
largo. Ha la stessa velocità delle schiume. Sembra ferma.
(24 agosto 2006)
72