U cuntu. Un racconto dal Sud 2008-2011

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U cuntu. Un racconto dal Sud 2008-2011
Riccardo Orioles
'U cuntu
un racconto dal Sud
2008-2011
mardiponente
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Riccardo Orioles
'U CUNTU
Un racconto dal Sud
2008-2011
www.ucuntu.org
10 aprile 2008
ELEZIONI/ CHI LE VINCE CHI LE PERDE CHI NON CI STA
La mafia è unita, l'antimafia è divisa. Perché i nostri politici non riescono
a capire che sull'antimafia qui in Sicilia (e forse ormai non solo) si decide
tutto? Comunque vadano queste elezioni, cominciamo a preparare le
prossime. A partire da Zen, San Cristoforo e Librino, UCuntu nasce per
questo: antimafia + internet + politica dal basso.. Coraggio, in fondo si
tratta solo di lavorarci per qualche anno...
Chi vincerà le elezioni? Boh. Chi le perderà? Sicuramente noi, anzi le
abbiamo già perse. Il partito dell'antimafia (che una volta in Sicilia si
chiamava Pci, poi Siciliani, poi rete, poi società civile, ma in fondo era
sempre la stessa cosa) in queste elezioni non c'è. Orlando, Lumia,
Borsellino, Crocetta, Fava e tutti gli altri non sono riusciti a mettersi
insieme seriamente e noi della base, dal canto nostro, non siamo riusciti a
costringerli a farlo.
Politica tradizionale, dunque, coi faccioni “Per Un Futuro Migliore"
appesi ai muri, e la mafia tranquilla.
Dal lato di Berlusconi la mafia è una cosa simpatica, o almeno non tanto
cattiva (“Mangano è stato un eroe”).
Dal lato di Veltroni bisogna stare attenti ai “professionisti dell'antimafia"
(come dice Salvo Andò, che ha stilato il programma”). Lontanissimi i tempi
del Rita Express, della mobilitazione giovanile per Rita Borsellino.
Eppure, a Catania e a Palermo, di antimafia “politica” se ne poteva fare.
A Palermo la fine di Cuffaro è stata accelerata da una bella mobilitazione
popolare, coi giovani persino di destra schierati contro di lui. Ma nessuno
dei nostri politici se n'è accorto. A Catania è ormai il secondo anno che a
San Cristoforo e a Librino (il Gapa, la Periferica) ci sono interventi forti e
radicati. Ma nessuno, anche in questo caso, ha voluto “far politica” a partire
da questo. Si è scelto il terreno perdente (ma rimunerativo per i singoli)
della politica tradizionale.
Vincerà Berlusconi? Fascismo.
Vincerà Veltroni? Industriali.
Vinceranno tutt'e due? Certo, non è la stessa cosa avere un mafioso
dichiarato e pimpante come dell'Utri o un semplice amico di mafiosi come
Crisafulli. Però, ripetiamo, noi comunque perdiamo.
Per questo stiamo cominciando a preparare le prossime elezioni, quelle di
dopo il Duce, fin da ora. Non sappiamo se saranno elezioni tradizionali (può
darsi che le aboliscano, sostituendole con liste uniche e plebisciti) oppure
no, certo è che se qualcuno non comincia umilmente e da subito a preparare
la nuova politica niente cambierà mai.La nuova politica? Sappiamo una sola
cosa di essa, che non sta in via Ruggero Settimo o via Etnea ma a Librino, a
San Cristoforo, allo Zen.
Certo, non sarà facile tirarla fuori da lì.
Ci vorranno degli anni. Noi cominciamo ora.
E Ucuntu? Che vuol dire? Beh, potrebe essere un nuovo programma
Linux, o un pastore sardo, o una parola swaili che significa “kwelli-chenonvogliono- darla-vinta-agli-stronzi-cheprendono- per-il-kulo-la-gente”).
Oppure potrebbe significare “il racconto”, in siciliano. Racconto di che?
Beh, ce ne sono di cose, dalle parti nostre, da raccontare.
(Ah, e Casablanca? È ancora lì, momentaneamente ingrippata. La stiamo
spingendo per farla rimettere in moto, come una vecchia cinquecento che
alla fine riparte scoppiettando e ti porta dove vuoi. Certo che è un casino,
fare informazione libera qui in Sicilia.
Se gli antimafiosi fossero uniti e decisi come i mafiosi, a quest'ora
Casablanca uscirebbe ogni giorno, su carta d'oro).
1 maggio 2008
APRILE IN UNA CITTÀ DEL SUD
La maestrina, il comandante, il professore: lottarono contro i nazisti
senza averne paura. I giudici, i giornalisti, gli antimafiosi: la mafia ha
potuto ucciderli, ma non farli arretrare. Non sono in molti, in questa
stagione, a ricordarsi di loro. Non molti: però abbastanza per continuare
L'uomo che parlava, un partigiano, era molto vecchio e la voce usciva
piano dal microfono. Raccontava. La guerra, l'otto settembre, il re che
scappa, i tedeschi, la montagna. Parlava lentamente, ma senza esitazioni, e
si sentiva abbastanza bene perché, nella grande piazza, c'era un silenzio
teso.
A un certo punto ha cominciato a dire i nomi dei siciliani, di quelli che in
quel momento ci avevano reso onore. Uno era un ufficiale dell'esercito,
aveva scatenato la guerriglia e alla fine era diventato – lui, siciliano – il
comandante di tutti i partigiani del Piemonte. Una era una maestrina, una
ragazza, presa mentre portava i messaggi dei partigiani.
Torturata, ammazzata: ma non ha parlato.
Un altro un professore di liceo, morto nel lager ma mai arreso agli
aguzzini.
Il vecchio raccontava questi nomi - comandante Barbato, Graziella
Ligresti, professor Salanitro - e la voce del vecchio, senza che lui lo volesse,
si faceva più alta e più allegra. Allegra, sì: questi – diceva senza dirlo,
mentre raccontava i dolori – questi siamo noi siciliani. Noi siamo quel che
siamo, ci conosciamo benissimo, voi ed io; ma siamo anche capaci di tirar
fuori dal nostro interno, quando l'orrore sembra invincibile, della gente così:
il comandante, la maestrina, il professore.
Gente che sa resistere, che sa morire se occorre, che alla fine vince.
E questa serenità si spargeva per la piazza: non più una giornata
d'orgoglio, un tener duro, ma una giornata felice, di buon cammino, di inizio
di qualcosa.
La sera, dei giovani hanno parlato di libera informazione. Anche nel resto
d'Italia se n'è parlato, ai meeting di Beppe Grillo; ma qui eravamo in Sicilia,
nell'isola degli otto giornalisti ammazzati, e dunque qui si volava ben più in
alto.
Non c'era bisogno di urlare forte, di gridare “vaffanculo”. Bastavano i
nomi e le storie – anche queste resistenziali – per dire tutto ciò che c'era da
dire e, anche qui, per indicare una strada. Lavorare insieme, fare
informazione moderna e onesta, non mescolarsi mai coi padroni, costruire.
“Non ci sarà mai una notte così lunga che alla fine non si veda il giorno”.
E tutti hanno annuito convinti. E in realtà non servivano altre parole.
Questo è stato il nostro venticinque aprile, in una città del sud che è
Catania e in cui per il momento comandano ancora i padroni.
23 maggio 2008
LA RETE E L'ANTIMAFIA DI OGNI GIORNO
Un quarto sono soggetti alla mafia, un quarto la combattono attivamente,
gli altri non hanno ancora capito di che si tratta. Il problema della mafia –
del sistema mafioso – è sostanzialmente la disinformazione. Il lavoro
nostro, fare informazione. L'informazione non si fa nel ghetto – non serve a
niente. Si fa in rete, facendo insieme e puntando a raggiungere –
ambiziosamente - tutti
I siciliani antimafiosi, nel giorno di Falcone, fanno manifestazioni e
ricordi, dispiaciuti perché Falcone non c'è più. Sono circa un quarto della
popolazione.
I siciliani mafiosi, che sono più o meno altrettanti, festeggiano fra di loro
e ne hanno buoni motivi: è stato cancellato il principale apporto giuridico di
Falcone (l'unitarietà di Cosa Nostra, con tutto ciò che ne consegue), è stato
riportato in Cassazione il giudice che dava a Falcone del credino (il giudice
Carnevale), è stato trionfalmente eletto un governo che considera eroe,
invece di Falcone, un “uomo di panza” che ha eroicamente rispettato
l'omertà, il grande Mangano.
E i siciliani mezzi-mezzi, la maggioranza, quelli che non hanno il cinismo
di appoggiare la mafia ma neanche il coraggio di combatterla? Per loro, il
problema principale è l'ignoranza. “Mi faccio i fatti miei”. Non hanno la
minima idea di quanto il sistema mafioso gli ruba individualmente ogni
giorno, in termini di denaro. Non sospettano che potrebbero essere, se non
ricchi, almeno benestanti, in una regione ricca come questa, se non ci fosse
la mafia.
Sono onestamente convinti che mafia e antimafia siano questioni ideali (e
dunque, per la cultura paesana, irrilevanti) e non materiali. “Mi faccio i fatti
miei”.
L'informazione mafiosa, che un tempo serviva a dire “la mafia non
esiste”, adesso serve a dire che la mafia esiste sì ma è una cosa che riguarda
solo mafiosi e giudici e non la gente normale. Una cosa da diavoli o da eroi,
insomma. Buona per i dibattiti e le fiction, ma non per la vita normale.
Perciò il lavoro principale che c'è da fare oggi in Sicilia è principalmente
d'informazione. Non solo sulle notizie delle singole malefatte (il che è già
tanto, perché qui i malfattori comandano ai giornali), ma soprattutto sul
quadro generale, sull' “atmosfera”, sui problemi concreti che vivere in un
paese mafioso comporta anche per chi non pensa a ribellarsi.
Non lo si può fare alla meno peggio (raccontare una società è un lavoro
abbastanza complesso) e non lo si può fare a suon di slogan (non c'è un
prodotto da vendere ma una mentalità da trasformare). Però, quando si
riesce a farlo come Dio comanda, funziona. È stato così che a Palermo per
alcuni anni ha avuto assai peso l'antimafia e a Catania si è riusciti a
scacciare i cavalieri.
Questo lavoro, i grossi giornali non lo faranno mai: non puoi fare un
grosso giornale senza avere grosse imprese alle spalle; e nessuna grossa
impresa, ormai,può sopravvivere senza far patti col diavolo (il caso
Repubblica a Catania insegna). I giornali piccoli (come noi) possono tentare
di farlo sì, ma, salvo eccezioni, possono concludere poco (e le eccezioni si
pagano con vite umane).
E allora chi? I giornali piccoli, magari piccolissimi (tipo quello che puoi
fare anche tu, nella tua scuola o nel tuo paese) però in rete: scambiandosi le
notizie, organizzandosi insieme, e usando per tutto questo l'internet, cioè la
rete più rete di tutte. Questo richiede tempo, richiede pazienza a non finire
(tenere insieme dei siciliani, con rete o senza, è un'impresa da Giobbe,e ne
sappiamo qualcosa), però, tutto sommato, può funzionare.
In una rete di questo tipo bisogna lavorare molto: certo, è più divertente
che sotto padrone (non è mai divertente lavorare per qualcun altro) ma il
problema è che l'obbiettivo è molto alto: non si tratta di fare una cosa
simpatica per sentirsi appagati, ma di far concorrenza ai giornali dei
padroni, con l'obiettivo finale di spazzarli via dal mercato e dare
un'informazione libera alla maggior parte della gente. Non un'operazione di
nicchia (o di ghetto), insomma, ma il tentativo consapevole di costruire
un'egemonia.
Fra vent'anni, Peppino Impastato dovrà pesare molto di più di Berlusconi,
come comunicazione di massa. “Si, vabbè...” dici tu. Eppure, trent'anni fa,in
Italia le radio di base sono arrivate molto prima di Mediaset; e non erano
poche: duecentocinquanta, in tutta Italia, con una copertura globale non
indifferente.
E allora com'è che ha vinto Berlusconi?
Per tre motivi precisi: 1) erano ognuna per conto suo, e Radio Firenze –
ad esempio – non sapeva cosa faceva Radio Aut a Cinisi; 2) non parlavano
in italiano (cioè la lingua che usano gli italiani) ma in politichese, perché i
loro leader così si sentivano più importanti; 3) non capivano che stavano
usando delle radio libere – cioè una cultura e una tecnica completamente
nuove – e non dei ciclostili o dei bollettini di partito.
Così Peppino è rimasto solo.
***
Adesso la situazione è sostanzialmente la stessa. Tanti gruppi diversi
(moltissimi che stanno internet) ma ognuno per conto suo. Tanti linguaggi
“ideologici” (cioè del ceto medio acculturato) e pochissimo intervento nei
quartieri. Tanti siti, blog, giornaletti e giornali, ma tutti rassegnati alla
solitudine, ad essere voci locali e non anelli di rete.
Bene, tutto ciò non vuol dire niente, non c'è nulla d'irreparabile. Dipende
tutto da noi, esclusivamente da noi.
Certo, a volte verrebbe voglia di sbattersi la testa al muro. Casablanca
chiusa per mandanza di poche migliaia di euri, Graziella Proto lasciata sola
– dalla sinistra illustre, ma anche da un po' di società civile isolana – a
combattere la sua guerra, come se fosse stata una guerra sua personale. E
anche ora, qui a Catania, almeno due (forse tre, non si sa ancora) liste
distinte della società civile locale, ognuna per sé e Dio per tutti.
Credo che pure Giobbe bestemmierebbe.
Però, tutto sommato, avrebbe torto.
In fondo, si tratta solo di problemi di crescita. C'è molta più unità che
negli altri anni (le legnate quantomeno servono a questo); “Facciamo un
giornalerete tutti insieme” ormai suscita solo dei “Sì però” perplessi e non
dei “No!"
secchi e brutali come qualche anno prima.
Ci sono degli ottimi gruppi di quartiere, e l'ultima generazione di ragazzi
– se non la rovinano i vecchi – sta crescendo bene. Persino qui alle elezioni,
che sono la cosa più avida e avara che ci sia, è mancato solo un pelo a fare
la lista unica di base, e non è detto che la prossima volta non ci si riesca.
“Last but not least”, fra un paio di settimane Graziella raddoppia le forze,
in quanto fra poco nasce la nipotina.
Pensate: se è stata capace di far tanta battaglia da sola, con Casablanca e
col resto, che diavolo riuscirà a combinare quando le donne Proto, alla
faccia di tutto, saranno in due? State in campana, amici, mi sa che la vera
partita comincia ora. Finora abbiamo solo scherzato...
6 giugno 2008
SI VOTA NELLA CITTÀ DELLA MEZZA DEMOCRAZIA
Come si fa a votare in una città in cui di un affare in corso si dice tutto
meno il nome dell proprietario e la stampa nasconde i candidati scomodi
dicendo – come dice Ciancio per Cllaudio Fava – che li censura “per
ragioni personali”?
"Firmato a Palazzo degli Elefanti, l’accordo di transazione tra il Comune
e i proprietari dell’area di corso Martiri della Libertà. Alla cerimonia erano
presenti, oltre al commissario straordinario Vincenzo Emanuele, il
presidente della Regione Raffaele Lombardo, il prefetto Giovanni Finazzo,
il rappresentante della Questura prefetto Anzalone, l’ex sindaco Umberto
Scapagnini, l’ex vicesindaco Giuseppe Arena, l’ex assessore all’Urbanistica
Enzo Oliva, il senatore Raffaele Stancanelli, il comandante provinciale della
Guardia di Finanza Agostino Sarrafiore, l’avvocato Silvestro Stazzone in
rappresentanza della proprietà, l’avvocato Andrea Scuderi, advisor della
proprietà, rappresentanti delle altre forze dell’ordine e del mondo
imprenditoriale, economico e degli ordini professionali di Catania...".
Il comunicato stampa del Comune di Catania dà notizia del "firmato
accordo fra il Comune e i proprietari dell'area di corso Martiri della
Libertà", con annessa pubblica cerimonia. L'area in questione è l'ultimo
pezzo dello sventramento di Catania, rimasto incompleto per varie traversie
e senz'altro il più grosso boccone ancora disponibile per i costruttori
catanesi.
Il comunicato elenca diligentemente tutti i partecipanti alla cerimonia. Il
presidente, il prefetto, il senatore, il questore, il sindaco (ex), il
"rappresentante della proprietà", l'"advisor" della proprietà e i rappresentanti
"del mondo imprenditoriale, economico e degli ordini professionali di
Catania".
L'unica cosa che manca, e che non viene accennata mai neanche per
sbaglio, è *chi è* la proprietà. Ciancio?
Famiglia Rendo? Altri cavalieri?
Vaticano (come in origine)? E chi lo sa.
È come dare la locandina dell'Amleto con i nomi di tutti, meno che del
regista e di Amleto. Amletico, veramente.
Comunque, con evidenza, il Grande Affare comincia.
Sarà - come abiamo visto - clandestino, come tutti gli affari di Catania,
perché in città manca l'informazione.
Adesso, per esempio, ci sono le elezioni ma "La Sicilia" ignora
completamente alcuni e appoggia arbitrariamente altri.
Sono elezioni vere, quelle in cui i mezzi d'informazione nascondono ai
cittadini una parte dei candidati? E non succede solo stavolta, o solo per
caso. Sentiamo cosa afferma pubblicamente Ciancio, il padrone de "La
Sicilia", il 24 marzo 2007: "È vero. Il suo nome non lo pubblico [si parla di
Claudio Fava, n.d.r.] perché mi insulta ogni minuto. Nessuno mi può
obbligare a farlo. E se il giudice mi condanna, presento appello... Ma scriva
che tutto ciò accade per ragioni personali dell'editore, no, anzi, del
direttore".
Ecco. La libertà d'informazione, a Catania, è solo una "questione
personale".
Votate, ma ricordatevi che non sono elezioni libere. Sono elezioni in una
città di mezza democrazia.
18 giugno 2008
LA SINISTRA PESTATA E IL PARTITO DEI POVERI CHE NON C'È
Crolla la sinistra in Sicilia e stravincono i peggiori. Tre quarti degli
elettori votano per i successori ed emuli di Cuffaro. Moltissimi non votano
per niente. È solo una faccenda “politica”? O il guasto è ancora più in
fondo? Di chi è la colpa? E soprattutto: adesso, che cosa bisogna fare?
Io non credo che Falcone sia un cretino come dice l'autorevole giudice
Carnevale.
Mi dispiace sinceramente che l'abbiano ammazzato, e così per Borsellino,
Livatino e gli altri. Io penso che i giudici siano meglio dei mafiosi e per me
l'eroe non è Mangano ma Borsellino.
Mi dispiace che un sacco di esseri umani siano annegati in mare dalle
parti nostre (quasi quattrocento, dicono i giornali) mentre io andavo a
votare, e questo perché la legge dice che devono venire di nascosto. Mi
dispiace che fra loro c'erano così tanti bambini. Mi fa schifo la gente come
Bossi che ha detto tante cose schifose contro i meridionali, e preferirei
crepare piuttosto che allearmi con lui.
Rido in faccia a quelli del partito di Scapagnini, che prima si sono
mangiati mezza Catania (manco pagavano le bollette per i lampioni) e poi
sono venuti a cercaci il voto come se niente fosse.
Non ce l'ho con gli zingari, coi negri, con gli ebrei e coi gay, ce l'ho solo
coi delinquenti e chi gli tiene mano. Non credo che Roma sia come Kabul
da mandarci i soldati. Non credo che bisogni cancellare tutti i reati fino al
2002. Credo che bisogna dare più mezzi a polizia e carabinieri (adesso,
manco i soldi della benzina) per prendere i delinquenti davvero e non farci
chiacchiere sopra. Credo che chi fa cose sporche debba finire in galera,
piccoli e grossi, comprese le più alte autorità se fanno reati. Non ho paura
degli scippatori, ce l'ho di quelli che danno fuoco agli operai o ammazzano
la gente nelle cliniche private.
Siamo in pochi in Sicilia a pensarla così, a quanto pare. E va bene. Ma io
un domani non voglio essere confuso con tutti quegli altri siciliani che si
vedono ora. Un popolo ignorante e poverissimo, com'eravamo in Sicilia fino
all'altra generazione, giustificazioni ne aveva moltissime, finché la miseria è
durata. Ma gente coi telefonini e le automobili, coi satellitari ai balconi e le
magliette firmate, di giustificazioni non ne ha più.
Perciò ora ciascuno individualmente si prenda le sue responsabilità - io mi
prendo le mie - perché domani chi verrà dopo di noi ci giudicherà
freddamente e con attenzione.
***
In Sicilia, la sinistra non è mai stata pestata come ora. I giochi e le
stupidaggini che erano consentiti prima ora non sono possibili più. Nessuno
deve più venire a dire “io corro da solo”. Nessuno deve più dire “io sono
democratico, io sono di sinistra” per far politica a vantaggio esclusivo della
propria classe sociale, la media e a volte non tanto media borghesia.
Sinistra, come in passato, dev'essere il partito dei poveri, prima di ogni altra
cosa. Si può ripartire solo da qui. “Io l'avevo detto” non serve a niente, non
è il momento. Si può ripartire dai quartieri, dall'impegno di base,
dall'informazione.
È una strada lunga e difficile, e non per tutti. Chi vorrà prenderla, si
decida ora.
26 giugno 2008
VOTARE SEMPRE IN MASSA IL PEGGIO CHE SI PUÒ TROVARE
In Italia senza i voti dei siciliani non solo non avrebbe vinto Berlusconi,
ma neanche Andreotti sarebbe mai riuscito a diventare ciò che è diventato
(in fondo la prima Repubblica l’ha ammazzata lui)
Senza i dc siciliani (400mila negli anni ’60) la Dc sarebbe rimasta un
pacifico partito perbene guidato da Fanfani e Moro, Andreotti sarebbe
rimasto un notabile laziale e Berlusconi, più avanti, sarebbe finito in galera
per reati minori o sarebbe rimasto al massimo una specie di Ricucci con più
parlantina. E invece no. Nei momenti decisivi, i siciliani hanno votato in
massa per il peggio che si trovava, inguaiando così non soltanto se stessi ma
anche tutti gli altri italiani.
Dunque Sicilia indipendente e libera, e magari - per qualche colpo di
fortuna - via anche varesotti e veneti, i primi unitisi alla Svizzera e i secondi
alla rinata Austria-Ungheria. E quindi elezioni fra gente seria, che non si
vende il voto e non dà in escandescenze per gli immigrati. (E Roma? Boh,
nel frattempo se la potrebbe essere ripresa il papa, così alle elezioni italiane
non votano neanche loro). Milano, fra Albertini e Moratti, se la sarebbero da
tempo comprata i giapponesi: voterebbe per la prefettura di Osaka, non
certo per le elezioni italiane. Non credo che la camorra permetterebbe
elezioni tranquille a Napoli, e questo potrebbe essere il pretesto per non far
votare neanche i napoletani (e, a maggior ragione, calabresi e affini).
Ecco, a questo punto potrebbero anche vincere le sinistre, alle elezioni
italiane. Si richiamerebbe Prodi, si rimetterebbe a posto l’economia, si
tornerebbe a rivincere i mondiali di calcio, si rimanderebbe al porcile
Calderoli e si nominerebbe Zanotelli ministro degli esteri e Dario Fo
dell’istruzione. E poi, con tutto comodo, si lascerebbero tornare a casa i
secessionisti, che avrebbero avuto il tempo di girare un po' di mondo e
dunque di ricordarsi come si stava bene in Italia.
(E se, alle prime elezioni siffatte, dovesse vincere non diciamo Veltroni che fisiologicamente non può farlo - ma un altro destro di sinistra tipo
Cofferati? Beh, in tal caso tutta la brillante analisi precedente non vale un
soldo e bisognerà tristemente ritornare a Berlusconi, Andreotti e
compagnia).
26 giugno 2008
ORIOLES: “VI RACCONTIAMO CHE COSA È UCUNTU”
Cosa vuol dire fare informazione antimafia oggi?
Non permettere alla gente di adagiarsi nella normalità della mafia. La
mafia oggi è "normale". Non che tutto sia mafia (neanche ai tempi del
fascismo tutto era fascismo). Ma la mafia fa ormai parte a pieno titolo delle
basi culturali ed economiche del Paese. E politiche, ovviamente.
- Per esempio?
Per esempio, abbiamo al governo un partito che prima delle elezioni ha
pubblicamente chiesto i voti della mafia (il "Mangano eroe" di Dell'Utri è
stato trasparentemente questo). Si può far finta di non saperlo, certo, così si
dorme meglio. Anche bravissima gente come Gronchi o Croce, all'inizio,
non voleva capire che Mussolini non era la solita destra ma un'altra cosa. E
questo cambiava tutto. Cambia tutto.
- Perché è così difficile avere un giornale o una rivista che racconti la
verità in Sicilia?
Perché non la verità non è solo che si sono dei delinquenti, ma che questi
delinquenti sono indispensabili al sistema.
Perciò puoi denunciare il singolo episodio, ma non il contesto "normale"
in cui si colloca. Puoi fare "fiction" (romantica, folkloristica, comunque
"strana") ma non cronaca e analisi della normalità - Come si comporta la
politica nei confronti dell'informazione verità?
Come vuoi che si comporti. In certi casi ti sparano. In certi altri ti mettono
il bavaglio (è di questi giorni la condanna di Carlo Ruta per il suo sito).
Ti lasciano alla fame. Oppure ti comprano, se ce la fanno. Da un certo
livello in poi, la "politica" - come la chiami tu - non è mai indifferente. O ti
sostiene (ma è un caso rarissimo) o ti dà addosso.
- Sinistra compresa?
No, è una fesseria dire che sinistra e destra sono uguali. Storicamente,
l'antimafia nasce di sinistra.
Conquista uno schieramento più ampio solo negli anni Ottanta, con la
Rete. È che la sinistra di ora, degli ultimi vent'anni, è una sinistra brodosa.
Non è che Bertinotti o Veltroni non parlino bene dell'antimafia.
Ma la lasciano sola. A noi, almeno, è capitato così.
- Pensi a Casablanca, il giornale che avete fatto con Graziella Proto?
Anche. Ma Casablanca è solo l'ultimo episodio. Coi Siciliani è stato così,
con Avvenimenti... La sinistra ufficiale, quella che conta, con noi è sempre
stata amichevole, a parole. Nei fatti ci ha abbandonato. Ma lasciamo perdere
queste cose. Parliamo di ora.
- Cos'è questo UCuntu? Ho visto il sito, pare strano...
- UCuntu (www.ucuntu.org) è una sperimentazione, un progetto-pilota
che se Dio vuole nei prossimi mesi potrebbe anche diventare importante.
Ha una caratteristiche precise: comprende un giornale vero e proprio, un
magazine neanche tanto male.
- Beh, mica è l'unico, su internet...
Certo. Però il nostro non è basato sul web (anche) ma sul pdf. Un
magazine come tutti gli altri, solo che non è stampato. Lo leggi in internet
e...
- Leggo un sacco di cose, su internet...
Ok, questo però: a) lo leggi in maniera particolare, molto più semplice,
molto più naturale, grazie al formato issuu.com - guarda qua, come scorre e b) te lo puoi stampare tranquillamente a casa tua.
- Stampare?
Certo. È ottimizzato per la stampa su una laser di casa. Immagina che le
laser vengano a costare un bel po' meno di ora (che già non costano poi
tanto). Immagina che la carta da laser diventi più economica, diciamo a un
paio di euri la risma. Immagina che...
Beh, insomma immagina che a un certo punto il giornale, invece di uscire
dalla redazione, andare in tipografia, uscire dalla tipografia, prendere un
camion e correre fino all'edicola sotto casa tua, faccia il percorso più
semplice redazione-casa tua - stampante: non sarebbe tutto più semplice? E
meno costoso, anche. A questo punto persino noi poveracci ce la
giocheremmo alla pari coi Grandi Imbonitori.
- Si, ma quando?
Presto. Già tutti i grossi giornali si attrezzano con le ultimore in pdf. La
tecnologia è già abbastanza matura. Il NYTimes dice che fra cinque anni
non sa se stampa ancora in tipografia. Si muove tutto abbastanza in fretta. Io
azzarderei che la home-press (chiamiamola così, tanto per sentirci
importante) sarà al 10-15 per cento fra due anni e al 40-50 per cento fra
cinque.
- A Catania?
Dappertutto. D'altronde, il nostro progetto è nazionale; qui stiamo
semplicemente sperimentando, con le forze che abbiamo. Ma se faccende
com UCuntu cominciassero a uscire un po' dappertutto - quest'estate
prevediamo di farne spuntare una a Napoli, una in Puglia e una a Roma - la
partita comincerebbe a essere interessante.
- E tu che ci guadagni.
Niente. Un sacco. Niente soldi, un sacco di soddisfazione. È da diversi
anni che lavoriamo (non da solo, con gente come Carlo Gubitosa o
Rossomando & Feola, per esempio) a questo tipo di cose, a questo progetto.
È un progetto bello, democratico.
Permetterebbe di scrivere professionalmente a un sacco di ragazzi che ora
sono costretti o a starsene zitti o ad andarsene a fare i precari dal ciancio
della loro città. Io ho visto crescere un sacco di giovani giornalisti, a
Catania, a Napoli, a Roma... Ne vedo crescere ancora, è il mio mestiere.
Crescere e venire normalizzati o messi fuori, uno dopo l'altro, perché
disturbano i padroni. Fra qualche anno potrebbe non succedere più. Fra
qualche anno potrebbe esserci una rete di giovani giornalisti, in giro per
questo paese.
- Ma come si fa a fare un giornale come UCuntu da qualche altra parte?
Semplice: basta scriverci. Noi mandiamo le gabbie-base da riempire, e
uno ci mette quello che vuole. Il trucco è che le gabbie sono semplicissime
da utilizzare, anche un ragazzo riesce a impaginare così. Non sono XPress,
InDesign e roba del genere (che poi costano un pacco di soldi). Sono
puramente e semplicemente dei files .odt creati con un semplice word
processor, Open Office: uno dei nostri ragazzi è riuscito a trovare lo sgamo
per utilizzarlo come dtp, e funziona bene. E Open Office lo scarichi
liberamente dal suo sito, perché è free software. Fra 3-4 mesi mettiamo in
giro (gratis) il dvd con le gabbie base, Open Office, una libreria di disegni,
una di foto. A quel punto se non riesci a farti da te un buon giornale è perché
proprio non hai un cazzo da dire, non perché non si può fare...
- Bello. Ma con l'antimafia che c'entra?
C'entra tutto, perché l'antimafia, l'antimafia seria, non quella di festa, è
essenzialmente democrazia. E democrazia è essenzialmente diritto di
parlare. Non blaterare e basta, gridare viva e abbasso da qualche parte.
Parlare seriamente, autorevolmente, con cifre e dati. Professionali. Non
sono solo i padroni a poterlo fare.
Domani, fra tecnologia e creatività, potremo farlo anche noi.
- Ma la gente, l'informazione, la vuole o non la vuole? A volte pare che
invece voglia il grande fratello, le veline?
A volte lo penso anch'io. Ma vedi, non c'è niente di male: basta che sia
divertimento, e non rincoglionimento programmato. A Torino gli operai
leggevano il giornale di Gramsci, e leggevano i feuilletton di Carolina
Invernizio, per esempio. Gramsci doveva fare le corse per cercare di non
esser meno palloso del romanzetto a puntate. Quando ci riusciva, allora gli
operai mettevano in modo il cervello e nel giro di due mesi ti occupavano la
Fiat.
- Qual è il futuro dell'informazione antimafia?
Mah. Qualcosa del genere che abbiamo detto, inutile girarci attorno.
Sopravviveranno strumenti utili come Antimafia Duemila, come
Narcomafie, forse qualcun altro. Ma il grosso del lavoro (l'antimafia sociale,
dice qualcuno; e io aggiungerei: l'antimafia allegra) dovrà farlo qualcun
altro, con strumenti veramente moderni, internet più stampante di casa. Più forse - free-press di tipo nuovo; ma questo è un discorso in più, e
abbastanza complicato.
- Ma perché non c'è unione, ma parecchie voci disperse e frammentate in
Italia, che scrivono e lottano contro la criminalità organizzata?
Beh, da un lato è fisiologico, e da un certo punto di vista (nell'antimafia
gli stronzi sono pochi: quelli che non mancano magari sono quelli un po'
vanitosi...) è anche positivo. Nella sinistra dell'avvenire bisognerà stare
attentissimi ad avere tante teste diverse, tante critiche, tante idee: il
monolitismo è esattamente ciò che ci ha fottuti, e non noi solamente, nel
Novecento. Però c'è anche il fatto che non ci siamo ancora resi ben conto di
cosa sta succedendo, di cosa ci tocca fare. Oggi non stiamo più a "far lotta"
contro questo o quel singolo mafioso.
Stiamo a far lotta contro tutto un Sistema (come giustamente lo chiama
Saviano) e soprattutto stiamo a costruire un "per" qualcosa. Stavolta lo
costruiremo democraticamente e tutti insieme, senza vangeli-guida, senza
profeti.
- Che ne pensi del decreto sulle intercettazioni, sugli atti giudiziari?
Che vuoi che ne pensi. L'abbiamo detto all'inizio. È un regime. Non
credere che Mussolini abbia fatto tutto così tutt'a un tratto. Era molto
"ragionevole", all'inizio, molto "pacificatore". E il vecchio notabile ci
cascava. I ragazzi - gente come Gobetti - no. Loro hanno capito subito di
che si trattava si sono messi subito a lavorare per creare un'altra cosa.
Cerchiamo di essere all'altezza anche noi.
- Perché è così difficile avere denaro e appoggio politico per aprire un
nuovo giornale a Catania?
Devo ridere? Ma lo sai chi sono i politici, gli imprenditori, gli editori
(plurale maiestatis, visto che ce n'è uno solo) a Catania? Quel che hanno
fatto in questi vent'anni, quello che stanno facendo in questo momento, ora?
- Cosa vuol dire quella frase di Fava che dice "Il giornalismo fatto di
verità sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il
buon governo"?
Che il giornalismo è una forma forte di politica. Non di propaganda, non
di ideologia. Di politica alta, da polis, quella vera. Il giornalismo non è lo
scoop occasionale, non è l'esternazione eburnea del fighetto intellettuale. Il
giornalismo parla per tutti, soffre con tutti, appartiene a tutti, dà la parola. Il
giornalismo è il braccio armato della democrazia.
- Che differenza c'è tra un buon giornalista e un giornalista antimafia? E
quali sono le principali caratteristiche di un giornalista antimafia?
Travaglio, che è un buon giornalista, non è un militante democratico - nel
senso profondo e duro che dicevamo di sopra. Giuseppe Fava lo era.
Lottava per qualcuno e per qualcosa. Una volta, molto prima che io lo
conoscessi, fece un'inchiesta sui bambini di Palma di Montechiaro - i più
abbandonati, allora, i più poveri di tutti. C'era il primato europeo della
mortalità infantile, in questo paesino di allora. Lui fece dei buoni articoli,
dei buoni pezzi. Scriveva bene. Denunciò la questione. Questo è il buon
giornalista. Ma parlando con noi, molti anni dopo, lui ancora serrava le
mascelle al ricordo, era ancora incazzato. Non era semplicemente l'oggetto
di un'inchiesta, la miseria di quei bambini. Era un'ingiuria intollerabile,
un'offesa personale.
Questo è il giornalista antimafia, questo e niente di meno.
- Perché dai tutto per il buon giornalismo?I tuoi colleghi lo fanno?
Domanda uno, mi diverto.
Domanda due, poveretti loro.
Giuseppe Scatà
[Narcomafie]
3 luglio 2008
FACCIAMO UN VIAGGIO AL TEMPO DEGLI ORCHI?
Come verremo ricordati, quelli della nostra generazione? Non è una
domanda tanto per aria: se fossimo stati invitati a casa del signor Muller a
Berlino avremmo avuto il piacere di conoscere una persona educata e
perbene, buon padre di famiglia, ottimo lavoratore, con la sua brava
Volkswagen, i suoi marmocchi simpatici e la sua famigliola
complessivamente felice. Faremmo un giro in centro (traffico ben regolato,
molto verde, nessun mendicante) e in genere incontreremmo facce
tranquille e soddisfatte di sé. Può darsi che parleremmo di politica: ma fra
gente educata, su questo punto, non ci si accalora mai troppo. E poi, la
politica, lasciamola a chi la fa di mestiere: noi abbiamo fin troppe cose a cui
pensare. Il mutuo, il dentista, il meccanico, la pagella del bambino... Così,
sorridendo svagati, si farebbe ora di pranzo: in un locale caratteristico,
accogliente e pulito come tutto il resto.
Più tardi, quando sei ritornato nel tempo tuo, ti accorgi che hai fatto visita
alla famiglia degli orchi, nella città degli orchi, nel paese degli orchi. I
Muller infatti sono una qualunque famiglia berlinese del 1936 e in quanto
tale hanno dirette e personali responsabilità - come oggi sappiamo - nello
sterminio di milioni e milioni di esseri umani. Personali? Beh, il figlio dei
Muller è militare, ma presta servizio nella Wehrmacht, mica nelle Ss. Hans
e Annaliste sono regolarmente iscritti, è vero, alla Hitlerjugend e alla Lega
delle Ragazze: ma che fanno di male?
Campeggio, raccolta di abiti vecchi e qualche chiacchiera ogni tanto. E
tutto è così normale: lo sguardo dei bambini, la risata di Muller, le strade.
Non ci sono mendicanti, non c’è gente strana.
Noi tuttavia sappiamo - venendo da un’altra epoca ed essendo dunque
osservatori disinteressati - che il mondo del ‘36 sarebbe stato impossibile
senza il consenso dei Muller. E dunque non ci sentiamo autorizzati a
stringere le mani che ci vengono porte (borghesemente: perché i Muller,
l’abbiamo detto, non sono dei fanatici del Partito) per l’addio. Le mani
restano là, protese senza risposta a cercare una comprensione, e i visi
sfumano mentre noi torniamo nel nostro tempo.
Nel “nostro” mondo, muoiono trentamila bambini al giorno per cause
prevedibili e facilmente evitabili.
Seicento milioni di bambini sopravvivono con meno di duemila lire al
giorno. Ma questi sono numeri, non vogliono dire niente. Il fatto reale è che,
se esci di casa e invece di svoltare da una parte svolti dall’altra, ogni due o
tre bambini che incontri uno non ha mangiato. Ogni tanto - diciamo ogni tre
o quattro minuti - uno di questi bambini che stai guardando attentamente per
capirci qualcosa scivola improvvisamente per terra e non si muove più,
perché è morto.
E siamo in un sogno didascalico, ancora, dunque del tutto asettico e
pulito. Il bambino per terra, nella realtà, evacuerebbe liquidi disgustosi
prima e durante il morire. Da una parte, e tuttavia impossibilitato a
intervenire, ci sarebbe un altro essere umano per il quale il bambino
morente era il centro del mondo, e che in questi istanti sta vivendo l’orrore
puro. Ci sarebbero puzza e grida, e rumori casuali. E tutto questo sta
avvenendo davvero, in questo preciso istante, e riusciamo a tollerarlo
soltanto facendo finta che non sia così.
Ma inganniamo noi stessi. Il mondo vero è quello. Questo - quello di
questo monitor - è meno vero di esso.
Mi fermo qui, perché questo è un ragionamento impossibile da portare
avanti oltre un certo grado. Ho bisogno - come te, e come tutti - di un certo
livello di rimozione, perché altrimenti mi sarebbe difficilissimo vivere
normalmente senza diventare asociale.
Ma quelli che verranno dopo di noi - compagni posteri, diceva
Majakowskij - non avranno di questi problemi. Loro vorranno
semplicemente studiare scientificamente il nostro mondo, freddamente:
perché ormai tanto tempo sarà passato.
Studieranno di noi come noi studiamo gli assiro-babilonesi, apprezzando
al loro giusto valore tanto gli inni cosmici ad Enkhidu quanto i prigionieri
impalati. E, forse, decideranno che siamo stati più o meno la stessa roba che
i tedeschi del trentasei.
Parleranno di Olocausto, come noi ne parliamo. Si meraviglieranno
grandemente, con aria di sufficienza, per la nostra acquiescenza. “Come
hanno fatto a non ribellarsi?” diranno, senza voler sapere di noi altro che
questo.
18 luglio 2008
A CATANIA D'ESTATE RUBANO LE SCUOLE
A un mese dalle elezioni, non si capisce chi comanda a Catania: nel
senso che non hanno ancora fatto il comune, non essendo riusciti a mettersi
d'accordo. Intanto nessuno paga l'affitto delle scuole: e adesso arriva
l'ufficiale giudiziario con l'ordine di chiusura...
A Catania hanno fatto – magari alla disinvolta – le elezioni, hanno eletto
un sindaco e adesso dovrebbe dunque esserci un comune. Il comune,
l'amministrazione, però fino a questo momento non c'è perché tutti i
principali interessati (sindaco, forze politiche, destra, bidestra, centrodestra
e destra leghista) a un mese dalle elezioni non sono ancora riusciti a
mettersi d'accordo. Affari loro? In un paese civile sarebbe affare anche dei
cittadini, ma non è obbligatorio essere un paese civile e dunque tutto tira
avanti alla meno peggio, giorno dopo giorno.
Fra le cose che il comune - non essendoci – non ha fatto c'è anche il
pagamento dell'affitto alle suore Orsoline, padrone dell'unica scuola di san
Cristoforo, l'Andrea Doria (le scuole nei paesi civili non sono di proprietà
dei Comune ma Catania, abbiamo detto, fa eccezine). Le suore, giustamente
incazzate, hanno subito mandato l'ufficiale giudiziario: il quale arriverà
venerdì, di prima mattina, per notificare l'atto e annunciare dunque la
chiusura della scuola.
L'Andrea Doria nell'ultimo anno scolastico è rimasta aperta solo grazie
alla mobilitazione delle mamme del quartiere che, di fronte al
menefreghismo del comune, hanno occupato l'edificio, hanno costretto i
politici a venire lì e a fare un sacco di promesse: che l'affitto sarebbe stato
pagato, che la scuola sarebbe rimasta aperta e balle del genere. Così le
mamme hanno disoccupato la scuola, l'anno scolastico è finito in relativa
tranquillità, e finalmente è arrivata l'estate.
D'estate i politici non sono affatto andati in vacanza, ma sono rimasti “al
lavoro” e cioè a dividersi fra di loro poltrone, seggiole e scrivanie. Senza
molto successo, visto che le poltrone principali sono ancora oggetto di
“trattativa”.
Intanto le suore incalzano, gli speculatori allungano le zampe sul terreno
della scuola, e “la politica” (come si dice oggigiorno) se ne frega
completamente, non considerando importante la sopravvivenza di na povera
scuola di quartiere.
Va bene: al solito, saranno le mamme del quartiere a prendere in mano la
situazione, organizzando il presidio davanti alla scuola. Con loro ci saranno
quelli di Liberare Catania e anche tutte le associazioni, movimenti e partiti
che hanno sostenuto Liberare Catania alle ultime elezioni. “Noi non
spariremo il giorno dopo le elezioni – hanno proclamato allora – Noi siamo
la forza unita della società civile, e per essa continueremo a lavorare anche
dopo le elezioni, tutti i giorni!”.
Vedremo se è vero. Per ora bisogna dire che la loro promessa la stanno
mantenendo, visto che con le mamme del quartiere a difendere la scuola ci
stanno andando solo loro. Con il caldo che fa, non è cosa da poco.
E i politici? Beh, quelli a dividersi le poltrone. In nome della “vera
politica”, si capisce.
8 agosto 2008
UNA SCUOLA-SIMBOLO AL CENTRO DELLA CITTÀ
Come ogni estate, politici e speculatori cercano di chiudere l'unica
scuola del povero quartiere di san Cristoforo. Come ognii estate, le mamme
del quartiere si mobilitano per salvarla. Come finirà? Comunque vada,
questa storia ormai rappresenta molto di più che se stessa
Lasciamoci per ora qui, davanti a questa scuola di Catania, nel quartiere
più antico e più “mafioso”. La scuola è l'Andrea Doria, l'unica della zona, il
quartiere è san Cristoforo, militarmente occupato dagli uomini dei clan.
È un quartiere poverissimo soprattutto per questo: povero
economicamente – immaginate come può decollare l'economia di un posto
come questo – e povero socialmente, con uno smog di paura che s'insinua
dappertutto.
In questo quartiere l'Italia, il mondo moderno, l'Europa (ne parliamo
didascalicamente, deamicisiaamente, come se l'Italia esistesse ancora e la
modernità fosse quella degli anni Settanta) possiedono due roccaforti, due
sole. Uno è il centro popolare “Gapa”, il Gapannone (doposcuola, sostegno
sociale, assembleee popolari, teatro, sport); e l'altro la scuola. Quest'ultima è
Le Istituzioni, lo Stato; il Gapa la società civile.
Ci sono poche storie più miserabili, nella miserabile vita politica catanese,
della periodica chiusura dell'Andrea Doria. L'hanno già minacciata l'anno
scorso, tornano a minacciarla anche ora. È l'unica scuola del quartiere,
l'unico pezzo di Stato. Eppure, con ogni evidenza, alla Catania politica non
ne importa niente.
Il meccanismo della chiusura è il seguente: - la scuola è affittata dalle
suore Orsoline (le padrone) al comune; - il comune non paga; - le suore da
tempo sono ambite da un grosso imprenditore, che vorrebbe prendersi l'area
per specularci; - le suore mandano l'ufficiale giudiziario per sfrattare la
scuola; - le mamme del quartiere si mobilitano, insieme al Gapa, per salvare
l'unico punto di speranza dei picciriddi; - e...
È successo diverse volte, sta succedendo ancora ora.
***
Questa è Catania, questa è la Sicilia di ora. Lottare contro la mafia, lottare
contro i politici: per una scuola.
8 agosto 2008
COMPITI PER LE VACANZE
Anche Ucuntu si riposa: ci rivediamo fra due settimane. Ma non è che nel
frattempo i problemi si risolvono da soli: ce li ritroveremo davanti pari pari
al ritorno, più agguerriti di prima. Che problemi? La mafia? Ciancio? Il
fascismo? Berlusconi? Certo, sì: ma il problema dei problemi, senza cui
non si risolveranno mai tutti gli altri, consiste in noi stessi. Cioè: siamo
davvero un “noi” o siamo rimasti ancora tanti piccoli “io” impotenti? E
come pensiamo di... Beh, buone vacanze
Ehi, ci rivediamo dopo ferragosto. Mi sembra che abbiamo fatto un buon
lavoro - dodici discreti numeri in tre mesi - e un po' d'onesto riposo ce lo
siamo meritato.
Che lavoro, esattamente? Non abbiamo fatto un giornale perché un
giornale - nel senso professionale della parola - è cosa ben più ampia di
questa. Non abbiamo fatto un sito perché su ucuntu.org la cosa principale è
un "giornale" pdf, regolarmente impaginato, e stampabile quando si voglia un "cartaceo", potenzialmente.
Pensiamo, in altre parole, di aver fatto più che altro un esperimento. Ma
un esperimento molto avanzato, in linea con le tendenze "industriali" sia
della carta stampata che dell'informazione in rete. La prima sa benissimo,
ormai, di non essere più autosufficiente. Quotidiani e riviste sono ormai in
una fase di transizione - gli ultimi anni esclusivamente tipografici, gli ultimi
prima del nuovo modello di giornale.
Come sarà quest'ultimo? Sicuramente misto, con la "serietà" dei giornali e
la capillarità di internet. Avrà il suo punto di forza nella percentuale "colta"
della gente, quella che passa almeno un'ora in internet ma, grazie al versante
cartaceo (che sarà molto più leggero dell'attuale) potrebbe raggiungere
anche tutto il resto della popolazione e inserirla in un circuito virtuoso che
col tempo potrebbe anche contare più della televisione.
Questa, tecnicamente, è una tendenza ormai del tutto delineata. Ma, e i
contenuti?
Saranno i padroni dei media attuali - e dell'attuale orrenda televisione - a
gestirli?
I contenuti dei giornali, a differenza di quelli delle tv (che erano stati
disumanizzati molto prima), si stanno orwellizzando solo ora. Distrutta o
ridotta all'angolo la classe dei giornalisti, precarizzate le redazioni, sostituiti
i direttorigiornalisti con altrettanti politici, lo stile dei quotidiani italiani è
ormai assolutamente normalizzato.
Non credo che ci sia più da farsi illusioni: il giornalismo italiano ormai è
questo, se cambierà sarà in peggio e ciò che una volta si vedeva nei giornali
mafiosi di Palermo o Catania ormai è praticamente standard dappertutto. La
campagna per la "paura percepita" è stata condotta dai quotidiani liberal non
meno che dalle tv di Berlusconi; e ha funzionato.
***
Ecco: tutto questo ci porta, da giornalisti, a guardare la realtà in faccia e a
considerare che questo mestiere può vivere ormai solo fuori dai meccanismi
ufficiali.
E dunque a studiare con serietà le possibili - e sempre più indispensabili alternative. L'ottimismo ci viene dalla conoscenza della svolta di cui
dicevamo sopra, dalla transizione.
Il giornalismo del dopo-internet non sarà un giornalismo costoso. Avrà
bisogno molto più di intelligenze e competenze che di denaro. Chiederà
condizioni pesanti (chi lo eserciterà non potrà camparci su più di tanto) ma
sarà perfettamente possibile. Fra dieci anni, la maggior parte della gente
usufruirà un giornalismo di questo genere, e se ne saprà servire.
Tecnicamente, la sperimentazione di Ucuntu si poggia su due punti
precisi: il giornale sta bene in internet, è sfogliabile e (grazie a Issuu) si
vede bene; in caso di necessità (e possibilità) si può anche stampare. Il
giornale "tipograficamente" è facilissimo da produrre perché si basa su un
software elementare (e libero) come Open Office e perciò qualunque gruppo
di giovani, se ne ha testa e a voglia, se ne può fare uno.
Culturalmente, le idee su cui ci basiamo sono due: la nostra insufficienza,
e dunque l'obbligo della complementarietà, e la necessità della rete; e poi
l'assoluta incompatibilità con l'establishment ("il giornalismo borghese", lo
definì una volta Giuseppe Fava), che se prima era moderato o di parte
adesso è decisamente fascistoide o almeno ostile ai valori di una qualunque
democrazia.
In Sicilia, entrambi questi dati si moltiplicano.
Il Ministero dell'Informazione (che comprende quotidiani, tv, partiti
politici, baronati universitari e quant'altro) da noi non serve soltanto le
destre d'ogni genere, ma anche il potere mafioso. Che non è, come molti
pensano, un'escrescenza criminale esorcizzabile con cerimonie e fiction, ma
un sistema che comprende diversi bracci (militare, politico, imprenditoriale)
perfettamente armonizzati fra di loro: un regime. "Alii sparant - dicevano i
teologi del Medioevo - alii rubant, allii persuadent populum" ad accettare
tutto questo.
***
Com'è la nostra situazione adesso? Che cosa dobbiamo fare al ritorno
dalle - chiamiamole così - vacanze?
La nostra situazione per un verso è buona, perché siamo riusciti ad
arrivare fin qui, a non perdere il filo, e coi tempi che corrono vanno
ringraziati tutti gli dei per questo. Ma è meno buona dell'anno scorso,
perché allora - almeno qui a Catania - le varie realtà nuove e giovani che via
via nascevano riuscivano ancora a percepire, sia pure confusamente, il senso
di una grande battaglia difficile e la necessità di mettersi prima o poi tutti
insieme per condurla insieme.
In poco meno di un anno, e soprattutto da quando è stata messa a tacere
Casablanca, questa percezione si è di molto affievolita. I singoli gruppi
crescono ma, con l'eccezione del Gapa, non riescono assolutamente a
vedersi più come una parte di qualcosa. Questo genera debolezza comune,
insufficienza pratica, tendenza alla ritualizzazione, e chi più ne ha più ne
metta. Città Insieme, Grilli, Addiopizzo, Step1, Periferica (per citare i più
attivi), che avevano avuto una grandissima (e spesso anche unitaria)
stagione due anni fa, adesso sono arroccati ciascuno nel proprio spazio, a
difendere chi ancora può la propria valle. Nel settore dell'informazione
tendono ormai ad accettare l'esistente.
(Personalmente, mi ha colpito moltissimo che sia stato possibile chiudere
Casablanca in una città in cui folle di progressisti accorrevano a sentire
devotamente Travaglio o Grillo. Dei partiti, dei Bertinotti che regalano un
giornale al guru Fagioli e lasciano chiudere i giornali antimafiosi, dei piddì,
dei buffi "comunisti"
a corrente alternata non mi scandalizzo più. Della "società civile" invece
sì).
***
Va bene, buone vacanze a tutti. Brevi, ché c'è molto da fare, dappertutto.
Buone vacanze a Pino, a Nadia, a Carlo, alla macchina bruciata, ai su e giù
a organizzare, al sito chiuso perché parlava male dei banchieri. A Mirko, a
Max e alla sua bambina, a Leandro, a Luca con lo zaino pesante, a Pippo
con una fotocamera n Turchia, a Graziella e Rebecca, a Luciano e Fabio, a
tutta l'altra Librino, a Gianfranco, a Livio, a quel ragazzo di Step1 che non
conosco ma che però scrive bene, a me stesso, al buon Giovanni, al vecchio
Titta-Qujiote, a Lucio, a Vanessa, a Toti...
Dimentico qualcuno? Ma sì, dimentico un sacco di gente per fortuna,
sennò altro che seimila battute, ci vorrebbero altre due pagine e Luca, che
già aspetta impaziente, non riuscirebbe più a chiuderle bene stasera. Hasta
presto, companeros.
15 settembre 2008
“C'È UN GIUDICE A BERLINO...". BONU, CUMPARI: MA A
CATANIA?
Il giornaletto mandato al macero d'autorità perché criticava un notabile
cittadino. Il ragazzino tolto alla mamma e dato al padre lombardiano
ortodosso perché “se la faciva ccu i communisti”. Dovrebbe difenderci la
magistratura, come a Palermo. Ma invece...
La catastrofica decadenza della città di Catania, ormai riconosciuta da
tutti, deriva essenzialmente dal legame strettissimo, che ha più di trent'anni,
fra le strutture mafiose e quelle (talora coincidenti) dell'imprenditoria.
Subito dopo vi sono due concause che meriterebbero trattazione più
approfondita ma che si possono riassumere nell' inadeguatezza dei due
presidi fondamentali di ogni società occidentale, l'informazione giornalistica
e la magistratura.
Della prima, abbiamo scritto tante volte che sarebbe noioso ripetere.
L'unica scuola giornalistica libera, quella di Pippo Fava, è stata
consapevolmente distrutta prima con l'assassinio del fondatore e poi col
sistematico silenziamento di tutti i suoi allievi della prima e della seconda
generazione.
Quanto alla magistratura, il suo ruolo nella storia della città – salvo
benemerite, ma isolate, eccezioni – non è stato complessivamente positivo,
e men che mai paragonabile, sul piano civile, a quello di Palermo. Non solo
e non tanto per i casi di corruzione esplicita (che non sono mancati), nè di
aperto connubio col sistema di potere (vedi Grassi, oggi presidente in
Cassazione). No: quel che ha più pesato nell'infelice esito del notabilato
giudiziario in questa città è probabilmente un fattore metatecnico, più
propriamente culturale.
Molti magistrati catanesi, che pure operano “in nome del popolo” e nel
quadro di una Costituzione, non hanno mai realmente metabolizzato i
principi fondanti dell'ordinamento, né sul piano della garanzia dei diritti né
su quello della lotta alla mafia. Hanno spesso operato, e operano sovente
tuttora, come se anziché Magistrati della Repubblica in un' importante città
a forte presenza mafiosa fossero Regi Uditori borbonici in qualche borgo
dell'Ottocento. Applicando le leggi a volte poco, a volte male, a volte
svogliatamente, e spesso lasciandosi guidare dai propri personali
(notabilari) pregiudizi.
Due casi gravissimi, quest'estate. Il primo, l'inusuale invio al macero d'un
giornaletto locale che relazionava sulle attività d'un tal notabile catanese,
Fiumefreddo; la solidarietà di casta è scattata immediata col sequestro del
foglio.
Il secondo, ancora più deplorevole perché coinvolgente un minore, lo
strappo di un adolescente alla madre e la sua consegna manu militari al
padre separato (e cliente lombardiano): perché frequentava i comunisti.
Scritto nero su bianco sul rapporto di una funzionaria dei servizi sociali (che
continua a rubare la paga alla collettività per il servizio così infedelmente
svolto), che il magistrato non ha saputo, per sua insufficienza culturale,
trattare come avrebbe dovuto.
Che Catania fosse città fascista (con strade intitolate a gerarchi mandanti
di assassinio, e non a purissime eroine resistenziali) lo si sapeva, e il
sindaco s'è compiaciuto di ricordarlo apertamente appena insediato. Che
Catania fosse città mafiosa, in cui dei grandi affari non si può e non si deve
parlare, si sapeva; come pure che qui nemico il comunista Pio La Torre, e
amico invece il supportatore di mafia Cuffaro (commissario catanese
dell'Udc). Ora si sa anche che non saranno i magistrati, a Catania, coloro cui
ci si potrà affidare per contrastare tutto ciò. Se ancora esiste, dovrebbe
intervenire il Csm.
***
Sempre più si diffonde, “in tale e tanto corrotta città” l'idea di uscirne a
musiche e balli, magari al seguito di qualche notabile riciclando.
Fiumefreddo, ad esempio, ha affidato a un'agenzia di Pr l'incarico di
“costruirgli” a freddo un'immagine kennediana, antimafiosa (qualcuno
dell'antimafia-bene non manca di collaborarvi, in cambio di piccoli poteri).
È un'idea divertente. Ma davvero sono convinti che funzionerà?
29 settembre 2008
NOTIZIE VERE, NOTIZIE FALSE LA CITTÀ DEL BUCO
“Hanno cercato di rapire una bambina!”. Esce il titolone a nove colonne.
Gli zingari vengono cacciati dal loro campo. Poco tempo dopo, grazie
all'inchiesta dei giovni giornalisti di Step1, contrordine: gli zingari sono
innocenti. Chi li risarcisce ora? E quel giornale che urlava “Rapitori!”,
adeso pagherà qualcosa?
Un avviso di garanzia ai sensi dell'articolo 656 del Codice Penale è stato
inviato ieri dalla Procura di Catania al direttore del quotidiano locale La
Sicilia, Mario Ciancio. La decisione dei magistrati catanesi sarebbe
motivata dalla "notizia", pubblicata con grande evidenza dal quotidiano
catanese nel maggio scorso, di un presunto tentativo di rapimento perpetrato
da zingari all'uscita di un supermercato.
Nel particolare clima di quel momento - si osserva negli ambienti della
Procura etnea - una "notizia" del genere (per altro priva di ogni riscontro)
avrebbe potuto facilmente dar luogo a incidenti anche molto gravi,
particolarmente ai danni di elementi della comunità rom; è pertanto da
ritenersi largamente violato il disposto dell'art.636 che vieta la
"pubblicazione o diffusione di notizie false, esagerate o tendenziose, atte a
turbare l`ordine pubblico".
"La decisione della Procura di Catania - ha dichiarato poco più tardi il
Presidente dell'Ordine dei Giornalisti di Sicilia, Franco Nicastro - è
ineccepibile e abbiamo già provveduto a titolo cautelativo a sospendere
dall'Ordine il nostro iscritto Mario Ciancio. Non si pubblicano con
leggerezza notizie così gravi e completamente prive di ogni supporto
giornalistico". "A questo proposito - ha aggiunto Nicastro - voglio
congratularmi con i ragazzi del sito universitario Step1 che sono stati i soli a
comportarsi da giornalisti in quest'occasione, andando immediatamente a
cercare le fonti sul campo e denunciando quindi l'assoluta inconsistenza
dell'accusa, formalizzata adesso anche dalla piena assoluzione dei due
giovani zingari ingiustamente accusati. Bravi ragazzi, continuate così"
Di parere diverso ("Inammissibile ingerenza di una magistratura
politicizzata") il segretario dell'Associazione Siciliana della Stampa, che ha
fatto pervenire un "rispettoso e solidale" messaggio al collega Ciancio.
"Sono sempre stato il primo a difendere gli zingari e questa assoluzione è
tutto merito mio"
ha dichiarato infine, su consiglio dell'agenzia che cura la sua immagine,
l'onnipresente teatrale Antonio Fiumefreddo.
***
Perché il Cern ha improvvisamente sospeso l'esperimento? Lo so, al
pubblico hanno detto che s'era guastato un magnete o roba del genere.
Vabbè. Il pubblico va tranquillizzato. La verità è che dai primi buchi neri
creati sono cominciati a emergere pezzi dell'altro universo, che nessuno
riusciva più a distinguere da quello vero.
In Sicilia, ad esempio, è sbucata una città fra Taormina e Augusta, alle
falde dell'Etna, tutta nera e barocca e in riva al mare. Una città stranissima,
in cui la giustizia regna e vengono acchiappati subito intrallazzisti e mafiosi.
Assomiglia moltissimo, tranne qualche piccolo particolare, a una città
esistente prima del buco nero.
Ne siamo stati ingannati in molti, lo confesso, io compreso. Da ciò le
notizie incredibili, di cui molti increduli ci hanno chiesto conferma. Ma è
tutto vero: per le fregnacce sugli zingari, Ciancio è stato messo sotto
inchiesta dalla magistratura, e radiato senz'altro dall'ordine dei giornalisti.
Ma questo nel buco nero. Nella Catania antebuco tutto continua
tranquillamente come prima.
15 ottobre 2008
“PARLA, SANTAPAOLA!" ZITTO TU, FAVA!"
LA LIBERTÀ DI PAROLA SECONDO CIANCIO
“Io, Vincenzo Santapaola, vi dico...”. Uno degli ultimi contenuti de La
Sicilia di Catania, sotto forma di lettera, ma senza alcun intervento
redazionale, è un vero e proprio editoriale di un boss mafioso.
Contemporaneamente, e da oltre un anno, Ciancio vieta ai suoi cronisti di
pubblicare dichiarazioni e notizie su Claudio Fava. Un episodio
gravissimo, che segna un punto di non-ritorno. E la Magistratura? Ponzio.
E l'Ordine dei Giornalisti? Pilato
Il gravissimo episodio di Catania - un esponente mafioso che usa il
giornale di Ciancio per mandare i suoi messaggi - non ha suscitato le
risposte istituzionali che sarebbero state prontamente date in ogni altra città.
1) La Procura di Catania, che da poco ha sequestrato per inadempienze
burocratiche un povero foglio locale (“Catania Possibile”) di denuncia, non
ha ritenuto di intervenire sul ricco e potente quotidiano che ha favoreggiato
di fatto il clan Santapaola.
2) L'Ordine dei Giornalisti non ha incredibilmente preso alcun
provvedimento disciplinare - e quando , allora?
- nei confronti del favoreggiatore.
3) L'Associazione siciliana Stampa, che non è mai intervenuta in difesa di
nessuno degli otto giornalisti siciliani trucidati dai Santapaola e dagli altri
mafiosi, non ha avuto il coraggio di prendere adeguatamente posizione.
4) Il CdR de La Sicilia non ha denunciato né ha contestato (com'era suo
preciso dovere) l'operato del direttore.
4) Non se n'è dissociato, nemmeno con tempestive dimissioni, neanche il
vicedirettore, che evidentemente giudica incidente veniale la presenza di un
Santapaola nel suo giornale.
5) Le forze politiche locali hanno reagito con estrema fiacchezza
all'episodio gravissimo, che ufficializza la contiguità fra poteri e mafia (già
vista in numerosi episodi: caso Avola, censura dei necrologi Montana e
Fava, scuse al boss Ercolano, ecc.) nel campo dell'informazione.
Non è affatto una vicenda catanese.
È nazionale. È l'esempio più estremo, ma che non resterà insuperato, della
catastrofe etica dell'informazione italiana.
Saviano, parlando di giornali collusi, ha avuto torto solo nel limitare i
suoi esempi alla Campania.
***
Facciamo appello ai siti liberi locali, ai giovani che li animano con tanta
passione, a non lasciare impunita questa vergogna. A reagire apertamente e
duramente, e soprattutto tutti insieme.
Avremo nelle prossime settimane (l'inizio del laboratorio di giornalismo)
e nel prossimo mese (“Sbavaglio” numero tre) tempo e luogo per esaminare
partitamente lo stato dell'informazione a Catania e in Sicilia, e per proporre
i rimedi. Ma adesso quello che è urgente è la ripulsa istintiva, etica, morale,
nei confronti di quel “giornalismo” che insulta gli Alfano, le Cutuli, i Mario
Francese, i Giuseppe Fava.
Esprimiamo la nostra fraterna solidarietà a Claudio Fava, che i mafiosi
intendevano uccidere, per la sua attività di giornalista libero, nello stesso
luogo in cui avevano già ucciso suo padre; e nonostante questo, o forse
proprio per questo, il suo nome oggi è tabù sullo stesso giornale che
pubblica i comunicati dei Santapaola.
Faccio appello infine, personalmente e da vecchio giornalista che mai
avrebbe immaginato un tale degrado della professione, ai colleghi Lorenzo
Del Boca e Roberto Natale, Presidenti Nazionali del nostro Ordine e del
Sindacato: intervenite con tutti i vostri poteri su Catania! Difendete la nostra
professione! Non lasciate soli i giovani che, con immensa generosità e a
dispetto di tutto, qui impegnano le loro vite a fare un giornalismo di cui non
vi dobbiate vergognare.
31 ottobre 2008
SAVIANI
Anche oggi Marco ha preso il motorino, è uscito di casa e se n'è andato in
cerca di notizie. Ha lavorato tutto il giorno e poi le ha mandate in internet a
quelli che conosce. Fa anche un giornaletto (Catania Possibile) di cui
finalmente anche i lettori hanno potuto vedere un numero (il primo solo i
poliziotti incaricati di sequestrarlo in edicola) con relative inchieste.
Non ci guadagna una lira e fa questo tipo di cose da una decina d'anni. Ha
perso, per farle, la collaborazione all'Ansa, la possibilità di uno stipendio
qualunque e persino di una paga precaria come scaricatore: anche qui,
difatti, l'hanno licenziato in quanto "giornalista pacifista". Marco non ha
paura (nè della fame sicura nè dei killer eventuali) ed è contento di quel che
fa.
Anche oggi Max è contento perché è riuscito a mandare in giro un altro
numero della Periferica, il giornaletto che ha fondato con alcuni altri amici
del quartiere. Il quartiere è Librino, il più disperato della Sicilia. Se ne parla
in cronaca nera e nei pensosi dibattiti sulla miseria. Loro sono riusciti a
mettere su una redazione, a organizzare non solo il giornale ma anche un
buon doposcuola e dei gruppi locali. Non ci guadagnano niente e i mafiosi
del quartiere hanno già fatto assalire una volta una sede. Max non ha paura,
almeno non ufficialmente, ed è contento di quel che fa.
Anche oggi Pino ha finito di mandare in onda il telegiornale. Lo prendono
a qualche chilometro di distanza (la zona dello Jato, attorno a Partinico) e
contiene tutti i nomi dei mafiosi, e amici dei mafiosi, del suo paese. Non ci
guadagna niente (a parte la macchina bruciata o un carico di bastonate) ma
lui continua lo stesso, ed è contento di quel che fa.
Anche oggi Luca ha chiuso la porta della redazione, al vicolo Sanità. Il
suo giornale, Napoli Monitor, esce da un po' più di due anni e dice le cose
che i giornalisti grossi non hanno voglia di dire. È da quando è ragazzo (ha
iniziato presto) che fa un lavoro così. Non ci guadagna nulla, manco il caso
di dirlo, e non è un momento facile da attraversare.
Ma lui continua lo stesso, ed è contento di quel che fa.
Ho messo i primi che mi sono venuti in mente, così per far scena. Ma, e
Antonella di Censurati.it? Sta passando guai seri, a Pescara, per
quell'inchiesta sui padri-padroni. E Fabio, a Catania? Fa il cameriere, per
vivere, ed è giornalista (serio) da circa quindici anni. E ti sei dimenticato di
Antonio, a Bologna?
Vent'anni sono passati, da quando gli puntarono la pistola in faccia per via
di quell'inchiesta sui clan Vassallo e gli affitti delle scuole. Eppure non ha
cambiato idea. E Graziella? E Carlo Ruta, a Ragusa? E Nadia? E... Vabbè,
lasciamo andare. Mi sembra che un'idea ve la siate fatta.
C'è tutta una serie, in Italia, di piccoli giornali e siti, coi loro - seri e
professionali - redattori. Ogni tanto ne fanno fuori qualcuno, o lo
minacciano platealmente; e allora se ne parla un po'.
Tutti gli altri giorni fanno il loro lavoro così, serenamente e soli, senza
che a nessuno importi affatto - fra giornalisti "alti" e politici – se sono vivi o
no.
Eppure, almeno nel settore dell'antimafia, il novanta per cento delle
notizie reali viene da loro.
Saviano è uno di loro. Quasi tutti i capitoli di Gomorra sono usciti prima
su un sito (un buon sito, Nazione Indiana) e nessuno, salvo chi di mafia
s'interessava davvero, se l'è cagati. Poi è successa una cosa ottima, cioè che
l'industria culturale, il mercato, ci ha messo (o ha creduto di metterci) le
mani sopra.
Ne è derivato qualche privilegio, ma pagato carissimo, per lui. Ma ne è
derivato soprattutto che - poiché l'industria culturale è stupida: vorrebbe
creare personaggi mediatici, da digerire, e finisce per mettere in circolo
contenuti "sovversivi" - un sacco di gente ha potuto farsi delle idee
chiarissime sulla vera realtà della camorra, che è un'imprenditoria un po' più
armata delle altre ma rispettatissima e tollerata e, in quanto anche armata,
vincente.
***
Ci sono tre cose precisissime che, in quanto antimafiosi militanti,
dobbiamo a Saviano. Una, quella che abbiamo accennato sopra: la camorra
non è la degenerazione di qualcosa ma la cosa in sè, il "sistema". Due, che il
lato vulnerabile del sistema è la ribellione anche individuale, etica. Tre, che
lo strumento giornalistico per combattere questo sistema non è solo la
notizia classica, ma anche la sua narrazione "alta", "culturale"; non solo
"giornalismo" ma anche, e contemporaneamente, "letteratura".
(Quante virgolette bisogna usare in questa fase fondante, primordiale: fra
una decina d'anni non occorreranno più).
Dove "letteratura" non è l'abbellimento laterale e tutto sommato
folklorico, alla Sciascia, ma il nucleo della stessa notizia che si fa militanza.
Nessuna di queste cose è stata inventata da Saviano. Il concetto di
"sistema", anziché di semplice (folkoristica) "camorra" è stato espresso
contemporaneamente, e credo sempre su Nazione Indiana, da Sergio
Nazzaro (non meno bravo di Saviano: e vive vendendo elettrodomestici); e
forse prima ancora, sempre a Napoli, da Cirelli.
L'aspetto fortemente etico-personale della lotta non alla "mafia" ma al
complessivo sistema mafioso è egemone già nelle lotte degli studenti
(siciliani ma non solo) dei tardi anni Ottanta. La simbiosi fra giornalismo e
"letteratura", che è forse l'aspetto più "scandaloso" (e che più scandalizza; e
non solo a destra) di Saviano è già forte e completa in Giuseppe Fava, e
nella sua scuola.
Le "scoperte" di Saviano sono dunque in realtà scoperte non di un singolo
essere umano ma di una intera generazione, sedimentate a poco a poco,
nell'estraneità e indifferenza dell'industria culturale, in tutta una filiera di
giovani cervelli e cuori. Alla fine, maturando i tempi, è venuto uno che ha
saputo (ed ha osato) sintetizzarle; e che ha avuto la "fortuna"
di incontrare, esattamente nel momentochiave, anche l'industria culturale.
Che tuttavia non l'ha, nelle grandi linee, strumentalizzato ed è stata anzi
(grazie allo spessore culturale di Saviano, ma soprattutto dell'humus da cui
vien fuori) in un certo qual senso strumentalizzata essa stessa.
***
Questa è la nostra solidarietà con Saviano. Non siamo degli Umberto Eco
o dei Veltroni, benevoli ma sostanzialmente estranei, che raccolgano firme e
promuovano (in buona fede) questa o quella iniziativa. Siamo degli
intellettuali organici, dei militanti ("siamo" qui ha un senso profondissimo,
di collettivo) che hanno un lavoro da compiere, ed è lo stesso lavoro cui sta
accudendo lui.
Anche noi abbiamo avuto paura, spesso ne abbiamo, e sappiamo che in
essa nessuno essere umano può attendersi altro conforto che da se stesso.
Roberto, che è giovane, vedrà certo la fine di di questo orrendo "sistema" e
avrà l'orgoglio di avervi contribuito: non - poveramente - da solo ma
volando alto e insieme, con le più forti anime di tutta una generazione.
6 dicembre 2009
“QUEL GIORNALETTO DEVE CHIUDERE. SVEGLIA IL
QUARTIERE”
Della Periferica, a Librino, abbiamo già parlato. Funziona, smuove la
gente. Perciò le daranno un premio... Momento: in Sicilia, alle cose così,
non gli danno premi ma legnate. O perlomeno cercano d'imbavagliarle.
Come? Facendogli il vuoto intorno, mandando una corazzata contro la
barchetta...
La Periferica è un piccolo giornale che esce in uno delle borgate più
grosse e povere del Sud, Librino. È nato fra gli scout ed ha rapidamente
aggregato la meglio gioventù del quartiere, quelli che “un giorno anche
Librino sarà un posto normale, senza mafia, col lavoro!”.
Bene. Questa storia dura oramai da più di un anno. I ragazzi della
Periferica, che secondo le buone regole avrebbero dovuto sbandarsi dopo un
paio di mesi, invece hanno tenuto duro. Il loro giornaletto, che secondo le
regole sarebbe dovuto restare nel giro dei pochi studenti “colti” della città,
invece s'è diffuso a sorpresa fra gli abitanti del quartiere. E questi, che
secondo le regole avrebbero dovuto farsi i cazzi loro, invece l'hanno
appoggiato: il giornale diffuso nei bar, un po' di pubblicità – addirittura –
dai piccoli commercianti del quartiere.
(In mezzo a questa storia c'è anche qualche intimidazione, per esempio al
doposcuola aperto dai ragazzi nel quartiere.
Ma non ce la metto perché altrimenti si va nelle emozioni da fiction, che
agl'italiani piacciono tanto, e dunque nel folklore. Questa è una storia di
mafia, naturalmente. Ma di mafia reale, mafia quotidiana, non da
televisione).
Dov'eravamo rimasti? Ah, già.
Dunque, i ragazzi hanno “avuto successo”, per quel che si poteva, e a un
certo punto hanno anche messo su un'associazione apartitica (“Oltre la
Periferica”) per la informe ma ben promettente società civile del quartiere.
E regolarmente ci si riunisce fra redatori, si fa il palinsesto, si distribuiscono
i pezzi, si fa il giro dei negozi per la pubblicità... Insomma, una piccola ma
efficiente routine.
Finché un bel giorno un barista sorride impacciato. “Beh, stavolta il
vostro giornale qui non ve lo posso esporre...”.
E il negoziante: “Veramente la pubblicità me l'hanno già messa su
quell'altro giornale...”. “Ehi – fa una ragazza – hai visto che oggi La Sicilia
ha pubblicato una pagina straordinaria tutta su Librino?”.
Cos'è successo? Come mai l'unico (e grosso) quotidiano della città ha
improvvisamente scoperto il povero quartiere?
Semplice: Librino è 40'mila voti.
Li puoi comprare, vendere, mettere all'asta, contrattare. Se però questa
gente comincia a pensare con la sua testa (a destra, a sinistra, al centro: ma
con la testa sua) non lo puoi fare più. Diventano voti liberi, da convincere. E
come cavolo li convinci, se da vent'anni li lasci nella miseria più nera, con
fogne di fortuna e senza luce? Maledetto giornale libero, maledetti ragazzi.
È quella fabbrica di uomini, quella Periferica di pensatori, la fonte della
disgrazia.
Facciamole il vuoto attorno.
Così il barista smette di esporre, il negoziante di dare pubblicità e persino
il parroco, nella sua chiesa, s'è messo a parlare male degli “aizzapopolo”.
“Eh, bello quando stavano tutti zitti, che c'era la miseria ma si stava in
pace!”.
Quei tempi, purtroppo per chi ci marciava, non torneranno più.
Periferica resta ad uscire regolarmente, il comitato continua, la società
pulsa ancora. Ma quei ragazzi - chiedetevi – che vita fanno?
Ecco, questa sarebbe una storia sull'informazione in Sicilia. Su
Informazione E Mafia, addirittura.
Emoziona nessuno? C'è qualche solidarietà? Qualche appello? Qualche
intellettuale?
15 dicembre 2008
CHE FINE HANNO FATTO QUI LA SCIENZA E L'INFORMAZIONE
A Messina indagano il Rettore. A Catania non si sa ancora quanti giovani
ricercatori sono stati uccisi dai veleni chimici a Farmacia. Sono ancora
Università, o sono un'altra cosa? Chi provvederà a risanarle, le autorità o
gli studenti? L'informazione ufficiale, intanto, continua a essere se stessa.
Cioè omertosa
A Messina, tanto per cambiare, hanno rinviato a giudizio il rettore. In
margine all'inchiesta telefonate minatorie del tipo "Sono soltanto un
messaggero del Magnifico e con questo concorso sta scoppiando una
bomba. Questo concorso lo deve vincere Macrì". A Catania, una vittima, o
forse due, o forse dieci, o forse anche di più, per le terrificanti condizioni di
inquinamento dei laboratori di Farmacia.
Ma stiamo parlando ancora di Università?
È giusto dare ancora lo status di istituto scientifico a luoghi in cui si
perpetrano delitti così gravi?
Sui giornali ufficiali sia di Messina che di Catania è già uscita (sempre
con grande evidenza) più d'una lettera di studenti e studentesse che
dichiarano di sentirsi vittime della stampa del nord. “Ci criminalizzano
perché siamo siciliani”, “Cercano lo scoop a tutti i costi”, “Perché non
parlano delle cose buone che facciamo qui?”. Lettere vittimistiche,
giustificazionistiche, omertose.
Ecco: la lunga agonia delle università di Messina e Catania sta
producendo effetti gravissimi non solo materialmente, ma anche in quello
che dovrebbe essere il principale terreno dell'università, la formazione
umana.
Avremo laureati bestie (avendo studiato con professori raccomandati),
irresponsabili, queruli, omertosi. Certamente non tutti (ci mancherebbe!) ma
una parte sì, sul modello preciso della classe dirigente attuale. E allora?
Forse sarebbe il caso di dare un segnale forte, di sospendere i corsi per un
anno.
Oppure di avere, per un intero anno accademico, una presenza fortissima
della contestazione studentesca nelle facoltà.
Nell'uno e nell'altro caso, non sarebbe – e non dovrebbe essere – un anno
accademico normale. Perché “normale”, qua al sud, oramai vuol dire
un'altra cosa. Ed è ipocrita entusiasmarsi sul libro di Saviano se poi si
accetta, anche in minima parte, questa normalità.
***
“Com'è finita con la Periferica?” ci chiedono, non solo dalla Sicilia, in
tanti.
Bene, direi. Continua a lavorare, il numero nuovo è in edicola, il 5
gennaio – probabilmente – sarà al centro di un evento che coinvolgerà non
solo le testate di base siciliane (che stiamo invitando fin d'ora, sulla
tradizione di “Sbavaglio”) ma anche organismi nazionali come Libera
Informazione. È tutt'altro che isolata, insomma, e rischia anzi di diventare
un modello esemplare per tutti gli altri ragazzi – che non son pochi – che
vogliono far cose utili per il quartiere o la borgata in cui stanno.
Attorno alla Periferica, però, continuano ad accadere cose strane. Per
esempio, la Caritas di Catania ha appena annunciato l'apertura di un
“giornale di strada” anche qui. Nel farlo, però: - ha ignorato completamente
i redattori della Periferica, che sono tecnicamente i più preparati nel settore
(non fosse che per l'esperienza fatta finora così bene e a lungo, e proprio a
fianco della Caritas); - ha invece invitato in prima fila un grosso politico
locale, Castiglione, la cui valutazione da parte dell'opinione pubblica (e
siamo in Sicilia) non è precisamente entusiastica o cristallina.
Sembra che Castiglione, che è presidente della Provincia, stanzierà una
grossa somma a favore della Caritas catanese.
Va bene: tutto ciò qui è normale. Mi chiedo però che cosa ne avrebbero
detto, per esempio, padre Greco o don Milani.
30 dicembre 2008
TUTTI QUEI SITI E GIORNALI DIVISI NELLA CITTÀ DI GIUSEPPE
FAVA
Gli amici di Ciancio? Siamo noi. Facciamo ottimi siti, giornaletti e
giornali, avremmo le forze per fare un'informazione non inferiore alla sua
(specie ora che c'è internet), ma ci ostiniamo a restare ognuno per sé, senza
osar fare il salto di qualità, il “tutti insieme” che ci consentirebbe di
cambiare Catania da così a così
Stiamo dando una mano a Ciancio. Chi?
Noi qui, intanto: e poi tutti gli altri giornali giornaletti siti e contrositi
“alternativi” di Catania. Che sono tanti, in realtà, e ancora ne vengono fuori.
“C'è spazio per tutti”, dice qualcuno.
Ecco, il problema forse è proprio questo.
Di spazio ce n'é quanto ne vogliamo, se ci contentiamo – e ci contentiamo
– di essere la nicchia “contro”, la “voce alternativa” e tutto il resto. Invece
ce n'è di meno, o almeno bisogna conquistarselo a caro prezzo, se l'idea è di
fare alternativa davvero, cioè di raggiungere e superare il peso di Ciancio
nell'informazione catanese.
Ma questo è un obiettivo che, giorno dopo giorno, ormai nessuno si pone
più. Se l'era posto Giuseppe Fava, e poi i suoi continuatori fino al tentativo
di quotidiano nel '93. Da allora, tanta generosità ma anche tanta implicita
rassegnazione.
Giornali – e siti sono venuti avanti più per testimonianza che sperando di
farcela davvero. Coraggiosi tutti, e spesso anche di buon livello; a volte
anche di prestigio nazionale, come Casablanca. Ma con un minoritarismo d
fondo, ormai profondamente introiettato.
E questo, naturalmente, a generato a sua volta tutta un'ideologia, e dei
comportamenti conseguenti. Ciascuno ha fatto per sé, considerandosi di
fatto autosufficiente.
Casablanca è stata lasciata affogare – ed era costata sacrifici terribili,
soprattutto a Graziella Proto – nella più scettica indifferenza.
Non s'è mai stabilito un rapporto qualunque, e neanche in ggenerale ci si è
provato, fra testate del web e testate stampate. Non c'è mai stato
coordinamento, e quel poco s'è dissolto subito, coi videomakers che per un
momento sono stati la cosa più interessante della Sicilia. Le inchieste sono
state condotte quasi sempre separatamente e si potrebbe dire anche, a volte,
con gelosia.
Ci sono responsabilità precise, nomi e cognomi, in tutto questo. Ma non
hanno importanza. Non è importante sapere se era Toro Seduto che non
voleva mettersi d'accordo con Nuvola Rossa o viceversa.
Importante, e catastrofica, era la cultura diffusa per cui ciascuna tribù si
difende la sua valle, e al diavolo tutto il resto. Un solo errore, semplice e
condiviso da tutti: ed è bastato.
Basterà anche qui, se non ci diamo una mossa. Bisogna integrare subito le
varie testate e i siti – oppure chiuderle tutte subito, ché non servono a
niente.
C'è stato un fattore importante, quest'anno, anch e se quasi nessuno se n'è
accorto.
Ed è che il baricentro dell'informazione “altra” s'è spostato, con la
Periferica e i Cordai, nei quartieri. In entrambi i casi, supportato e
accompagnato da una serie di attività concrete di base, di intervento sociale,
da un un circuito virtuoso, di mutuo rafforzamento, che può diventare
modello dappertutto.
Ecco, di questo vorremmo parlare quando si parla di Giuseppe Fava. Non
servono a molto le commemorazioni, e neanche le presenze occasionali, di
nostalgia (il gruppo “storico” dei Siciliani, salvo poche eccezioni, manca
ormai da Catania da molti anni: e non è solo un'assenza fisica). No, qui c'è
proprio da mettersi a lavorare professionalmente, e tutti insieme.
L'esperienza dei Siciliani, a partire da Giuseppe Fava ma anche dopo, ha
mostrato che con organizzazione e volontà si possono ottenere dei risultati.
Io penso che è il momento di riprovare. Catania, fra le sue tante disgrazie,
ha sempre avuto – almeno – una buona minoranza di giovani non banali.
Questo potrebbe riessere un momento loro.
30 dicembre 2008
1984/2009 - NON È FINITA LA LOTTA DI GIUSEPPE FAVA
LAVORI IN CORSO
Si può fare un giornale nella periferia più disgraziata di Catania, dando
finalmente una voce a chi non ha parlato mai? Si può fare un
quasiquotidiano in rete, con una redazione tutta di studenti? E una radio
libera, in rete? E nel quartiere cosiddetto "mafioso", quello che la città
perbene considera perduto, può esserci uno spazio anchéesso libero, e un
giornale?
E che cosa ci vuole per impaginarlo?
Programmi costosissimi e complicati, oppure esistono anche modi facili
ed economici? O ancora la free-press, quella distribuita gratis ogni
settimana: non è possibile a Catania, davvero? E un magazine di qualità, a
colori, con firme di tutt'Italia: è vero che qui non si può proprio fare?
Tanti anni dopo la morte di Giuseppe Fava, è davvero finita la storia dei
Siciliani? Del giornalismo che Fava ci ha insegnato, insieme coi ragazzi che
hanno creduto in lui?
Davvero non ci sarà mai altro che bavaglio, nella città dove Giuseppe
Fava ha inventato il giornalismo di domani?
Catania, sembrerebbe, è una città senza Giuseppe Fava. C'è un giornale
soltanto, e non è amico suo (nè della verità, nè dei cittadini). Anche il
giornale "del continente" qui viene censurato: non solo "La Sicilia" tace su
tante cose, ma anche "Repubblica" esce senza cronaca siciliana, per non
dare fastidio. Eppure...
Eppure, alle domande di sopra, qualcuno ha già iniziato a rispondere.
"La Periferica" esce da più di un anno, e trova persino pubblicità fra i
negozianti di Librino (non a caso ora stanno tentando di strangolarla: ma
ormai è troppo tardi). "Step1", il giornale degli studenti in rete, è una
palestra di giornalismo innovativa nel panorama italiano. A San Cristoforo
c'è un giornale libero, "I Cordai", e un grande spazio di ritrovo, il
"Gapannone".
Un giornale oggi si può impaginare in modo svelto e facile, e senza una
lira: l'ha dimostrato il gruppo di "UCuntu", e come loro si può fare
dappertutto. C'è un settimanale gratuito, si chiama "Catania Possibile"
e pubblica inchieste che non ci sono altrove. Un rivista di qualità, di
prestigio nazionale? Si può fare anche quella, e l'ha dimostrato
"Casablanca".
E "Girodivite", e "Isola Possibile"? E l'elenco potrebbe continuare ancora.
Vogliamo che tutte queste risposte comincino a interagire fra loro.
Abbiamo lavorato moltissimo, in questi due anni. Adesso, cominceremo a
coordinarci. Chi ha fatto cose buone venga e le insegni agli altri, ed impari
da loro. Scambiamoci le esperienze, questa è la strada. Chi ha detto che non
si può fare informazione a Catania?
Noi l'abbiamo fatta, la facciamo ogni giorno, ognuno nel settore suo.
Quando saremo tutti insieme, saremo più forti di qualsiasi bavaglio. Il 5 è
solo l'inizio della strada: c'incontreremo ancora diverse volte, in questo
mese.
Vogliamo ricordarlo così, Giuseppe Fava. Senza grandi parole, credendo
in quel che ha detto, facendo il suo mestiere.
La Periferica, I Cordai, Step1, UCuntu, Casablanca, Catania Possibile,
Isola Possibile, Girodivite, Itacanews, Argo, Liberainformazione
9 gennaio 2009
E COME OGNI CINQUE GENNAIO CIANCIO DICE: “FAVA NON
ESISTE”
Da venticinque anni, il cinque gennaio è la datasimbolo degli antimafiosi
catanesi. Per gli altri, è il giorno in cui lanciare messaggi. Una volta i
mafiosi dissero: “Claudio Fava? Uccideremo anche lui”. Adesso Ciancio
dice: “Claudio Fava? Non esiste, lo taglio via”
Ciancio non è uno sciocco, ha hobby intelligenti (ad esempio
numismatica antica) ed è molto meno grezzo del personale che usa.
D'altronde essere diventato il primo imprenditore in Sicilia, aver comprato
l'intera classe dirigente catanese, aver preso senza scossoni il posto che a
suo tempo fu dei famosi Quattro Cavalieri non è impresa da poco.
Perciò sorprendono a volte la puerilità, l'autolesionismo e il sicuro effetto
boomerang di alcune delle sue uscite. L'altra volta era stato l'editoriale
affidato, sotto forma di lettera, a un esponente del clan Santapaola.
Adesso una storia ancor più grottesca, e cioè la maldestra censura della
figura di Claudio Fava, tagliata via da una foto in maniera plateale e aperta,
con un ginocchio lasciato lì a mezzo.
Catania, come Ciancio sa, non è l'Italia intera e queste cose, ogni volta, lo
rendono ridicolo e odioso. Persino la prudentissima Federazione della
Stampa, che per venticinque anni - in Sicilia - è rimasta neutrale di fronte a
tutto, ha dato segni di vita. Un autogol dopo l'altro. Eppure l'uomo è un
politico, sa fare diplomazia quando occorre.
Ma di fronte a Claudio Fava, e a Claudio Fava il 5 gennaio, perde
sempicemente le staffe. Almeno, questa è la prima impressione.
Il cinque gennaio, che è una scadenza popolare e non dipendente da
nessuno (furono gli studenti di Catania, e non un'autorità qualunque, a
istituirla), negli ambienti mafiosi - nel Sistema - fa ancora paura. È il
simbolo di una lotta che non s'è mai fermata.
Di questa giornata Claudio Fava fa parte non solo come figlio di
Giuseppe Fava e come militante storico dei Siciliani, ma anche come
vittima designata. È il 5 gennaio di vent'anni fa che il clan Santapaola
voleva ucciderlo, e proprio davanti alla lapide, come un esempio.
L'assassinio fallì per caso. Ma il messaggio era chiaro.
È chiaro il messaggio anche oggi, e sempre il 5 gennaio: “Io, Claudio
Fava lo cancello. Il tempo passa, tante cose sono cambiate. Ma di questo
potete essere sicuri, che per me Claudio Fava, i Siciliani, il movimento
antimafioso, sono e resteranno dei nemici”.
Questo è il messaggio che ha mandato Mario Ciancio, e che manda ogni
cinque gennaio: con queste censure esplicite, questi tagli di foto. Ma a chi lo
manda? E perché lo manda? Lo manda spontaneamente, o perché costretto?
Dopo quelli - visibili - degli anni '80 e '90, quali sono ora i rapporti fra
Mario Ciancio primo imprenditore catanese e gli eredi dei gruppi che hanno
dominato questa città?
Questa curiosità per ora è nostra e la firmiamo - assumendocene la
responsabilità – soltanto noi. Ma, storicamente, molte nostre curiosità e
interrogativi hanno finito per diventare interrogativi di molti, e infine delle
istituzioni preposte. Vedremo quanto tempo ci vorrà stavolta.
***
Quanto al resto, del cinque gennaio catanese c'è ben poco da dire. È nata
un'altra leva di giovani, che noi abbiamo visto crescere da due anni in qua e
altri riescono a vedere solo ora. Tranquillamente e con forza, senza
cerimonie inutili e senza grandi parole, essi attendono adesso all'obbiettivo
fondamentale di Giuseppe Fava, di cui sono i continuatori e gli eredi:
costruire l'informazione indipendente a Catania e con questo strumento
liberare la città. Non sarà un lavoro facile, e lo sanno, ma è un lavoro
possibile. A condizione di essere uniti, di non nutrire povere ambizioni
individuali ma solo una altissima e collettiva, e di non mollare mai.
Li aspettavamo, eravamo certi che sarebbero arrivati e non abbiamo alcun
dubbio su di loro. Non c'è altro da dire.
7 febbraio 2009
UN RAGAZZO SICILIANO
Nato ad Agrigento il 18 /10/1986, residente a Campobello di Licata (AG),
cittadino libero. Ho voluto specificare il mio “status”, per combattere il
servilismo che ogni giorno di più avvolge il nostro Paese. Ho scelto di
rimanere in Sicilia, di non andare via anche se vivere qui è duro,
durissimo...".
Così si presentava sul suo blog Giuseppe Gatì, morto mentre lavorava in
campagna aiutando suo padre. Un siciliano d'altri tempi: fiero, lavoratore,
affezionato alla famiglia, coraggioso e buono.
Sulla stampa perbene ha avuto quattro misere righe, da morto sul lavoro.
Qualcuno, di sfuggita, ha ricordato che aveva contestato Sgarbi in Sicilia:
ma questo certamente non basta a farne un personaggio mediatico, ci
mancherebbe. Ha lavorato, ha studiato, ha fatto la sua breve utile vita:
lontano dai palazzi, completamente estraneo al mondo artificiale e
spregevole dei Vip.
Un pezzo di questo mondo, con la consueta arroganza, a un certo punto è
piombato in Sicilia, con le fattezze di Sgarbi, chissà perché. I "cappeddi", i
notabili, i nobili culo-a-ponte di Agrigento e Salemi si sono affrettati a
servirlo, a riverirlo abiettamente, a strisciargli ai piedi.
Giuseppe, ragazzo siciliano, invece no: gli si è piantato davanti e "Viva
l'antimafia! - gli ha urlato in faccia - Viva Caselli!".
I servi guardaspalle siciliani, fra le urla degli altri servi e gli applausi del
pubblico servo, l'hanno afferrato e portato via. Ma là, per un istante, s'è
udita la voce vera della Sicilia, ed era una voce giovane, senza paura.
Sbava, Sgarbi, strisciate, servi, ringhiate la vostra rabbia quanto volete: la
voce vi azzera tutti, è più forte di voi. Viva Caselli, viva la nostra antimafia,
viva sempre Giuseppe ragazzo siciliano.
27 febbraio 2009
“VOGLIO FARE IL GIORNALISTA". BELLO. PERÒ...
Sandro fa il liceo e “da grande” vuol fare il giornalista. Però quello che
sente in giro non lo rassicura molto: sempre più precariato e sempre meno
certezze, in questo lavoro.Come si fa? Fare il giornalistaburocrate al
Ministero dell'Informazione, o provare a cercare una strada nuova? Eh,
alla fine, decidi tu...
Ho 15 anni, frequento il primo anno di liceo classico e ho un sogno: “da
grande” vorrei fare il giornalista. Il Barbiere [www.ilbarbieredellasera. com,
un sito di giornalisti, ndr] in questo mi aiuta molto, perché mi permette di
leggere opinioni di “gente del mestiere” e di avvicinarmi in qualche modo a
questo “mondo”. Però ogni tanto vado un po' in depressione, pensando al
mio futuro, che è il vostro presente. Qui sul Barbiere è sempre attivo il
dibattito sui posti di lavoro. Tutti (o quasi) ce l’hanno un po' su con gli
stagisti e i praticanti, che però sono anche loro sfruttati in quanto fanno
mansioni che non gli competono.
Ma non è colpa loro.
Qualcuno propone di chiudere l’accesso ai registri di praticantato per due
anni, perché il mercato è saturo. Poi c’è Sandra che ce l’ha su con le Scuole
di Giornalismo, e vorrebbe chiuderle, sempre per il problema dei posti di
lavoro. Luigi, invece propone di “dissuadere l’aspirante giornalista”. E poi
ci sono le sostituzioni estive. Nessuno ne trova, perché gli editori “per
questioni di budget” usano gli stagisti. Terronzio è andato in tutte le
redazioni Rai a cercare una sostituzione estiva, ma gli è stato chiesto se
conosceva qualcuno. Chen il Cinese, disoccupato da mesi, ha chiesto di fare
lo scaffalista notturno in un grande magazzino.
La situazione è così catastrofica? Io vorrei fare il giornalista, ma il mondo
del giornalismo è ridotto poi così male? Devo aspettarmi di essere
disoccupato a vita, di fare lo stagista e prendere due lire e poi non trovare
più lavoro, di fare il cococo sottopagato o di diventare un “redattore da 5
euri al pezzo”? È sempre così?
Io non lo so, mi piacerebbe che qualcuno mi dicesse se la situazione è
veramente così tragica. Io so solo che, se nei prossimi anni vorrò ancora
fare il giornalista, non mi lascerò spaventare da tutta questa serie di cose. Io
ci proverò, ce la metterò tutta per darmi da fare e trovare lavoro, e se
proprio “il giornalismo"
non mi vorrà, beh, allora forse cambierò strada.
Insomma, qualcosa farò. Però ci proverò. Sandro
***
Bello. Però attento, il giornalista ormai non si fa più nei giornali e nelle
Tv ma fuori. Devi diventare editore di te stesso, farti il tuo "giornale".
Cosa sarà un "giornale" fra dieci anni (quando tu ne avrai 25)? Non lo so.
Un blog con un aspetto web e uno su carta? Una serie di clip?
Una specie di...
Boh. Non lo so, ormai nessuno sa più cosa succederà nel nostro settore fra
due anni.
Comunque qualcosa di buono, perché la tecnologia è "democratica" e la
gente può parlare sempre di più.
Il tuo lavoro nei prossimi tre anni consiste dunque nel prepararti
culturalmente e come mentalità a cavalcare qualunque mutamento.
Comincia subito. Dovrai informare ed essere onesto coi lettori. Ma come
farlo, devi prepararti a impararlo daccapo ogni due-tre anni.
Questo sarà il tuo lavoro. Dovrai farlo da solo, come imprenditore di te
stesso o con amici nelle tue stesse condizioni, perché le grandi testate ormai
servono a creare consenso e non c'entrano affatto più col giornalismo.
Evita i "corsi di giornalismo", dentro e fuori l'università, perché sono
truffe. Evita le grandi testate, per il motivo che ti ho detto. Impara qualcosa
dai giornalisti, ma sappi che i giornalisti con meno di quarant'anni in Italia
ormai non sono giornalisti, ma un'altra cosa.
Non per ragioni etiche, ma perché ogni centoduecento anni il giornalismo
cambia completamente e la versione vecchia di solito si trasforma in
propaganda del re.
Insomma, fà il giornalista ma non l'impiegato.
È bello. Può darsi che quando sarai grande tu ci si potrà anche campare.
Segui fin d'ora blog (impara a scegliere accuratamente i blog; non farne tu
ancora, per non essere banale) in almeno due-tre lingue.
Leggi: "Uno yankee alla corte di re Artù"; "I Siciliani"; "La fattoria degli
Animali"; "Siciliani/ Giovani"; qualunque cosa di Kapucinskij e quasi
qualunque di Hemingway; Erodoto; "Avvenimenti" 1989-93; "L'Alba"; "La
Catena di san Libero". Per leggerli devi trovarli, e questa è già una prima
ricerca che puoi fare.
Buon lavoro, fratellino.
Riccardo
8 marzo 2009
BANALITÀ DEL MALE E CORAGGIO DI ESSERE CITTADINI
Che cosa sta succedendo in Italia? La “politica”, lo sappiamo tutti, è
andata a puttane. Ma solo di “politica” si tratta? E la “gente”? E perché
in questo paese le donne sono tornate cittadini minori? Cosa vuol dire
questo? Di che cosa è sintomo? Che “politica” (vera) ci può salvare?
Se si avesse il coraggio, che non c'è, di chiedersi cosa veramente accade
nel nostro Paese, non sarebbe difficile trovare le risposte vere. Rumeni
violentano italiane. Italiani violentano rumene. Italiani violentano italiane, e
rumeni rumene. Il popolo dei Bandar-Log ne fa dibattito, accusa gli altri,
invoca nuove leggi. Tutti gridano forte, con la voce roca: tutto ciò che se ne
ode dall'esterno è un confuso ringhiare, una cacofonia che difficilmente
s'associerebbe alle voci di un qualunque aggregato umano.
Le domande reali sono queste: - È vero o non è vero che, dalla provincia
di Como a quella di Palermo, si è avuta una recrudescenza di violenze
carnali anche fra adolescenti, a volte addirittura tredicenni?
- È vero o non è vero che molti casi di violenza sono stati portati a
termine grazie all'indifferenza dei passanti (“Nessuna macchina s'è
fermata”, “L'hanno strappata via dall'autobus”, “Nessuno ha telefonato”)?
- È vero o non è vero che tutta la pubblicità e buona parte della televisione
presentano ormai le ragazze esclusivamente come merce scopabile e basta?
Di recente c'è stata una campagna - legalissima - della Relish, con manifesti
in tutte le principali città, che inneggiava direttamente allo stupro; l'anno
scorso ce n'era stata una analoga di Dolce & Gabbana).
C'è qualcosa di patologico, nella nostra società ormai post-capitalistica.
Gli antichi romani sono potuti andare avanti per secoli con la
spettacolarizzazione dell'omicidio (i ludi gladiatorii erano il principale
entertainment di quella civiltà): c'è voluto un capovolgimento totale
dell'etica per accorgersi di quanto questo spettacolo fosse patologia. E gli
atzechi, e i nazisti, e le culture schiavistiche del Vecchio Sud: tutte società
moderne, rispetto ai loro tempi, tutte senza eccezioni basate sul consenso. E
tutte catastroficamente finite male, quando l'accumularsi degli elementi
patogeni (e “normali”) è finalmente ed “improvvisamente” esploso.
Non sono stati i barbari a portarci dal di fuori la violenza, nemmeno a noi.
Essa cresce tranquillamente ogni giorno nelle nostre scuole, nelle nostre
ovvietà, nella nostra cultura.
Le donne,adesso, non sono affatto pari agli uomini, nel nostro mondo. Gli
uomini, una forte minoranza degli uomini, confonde ancora moltissimo fra
potere e sesso.
Le ronde non sono che la rappresentazione ritualistica (interessante per
l'antropologo, e per ogni altro verso infantile) di ciò a cui da tempo abbiamo
rinunciato: il coraggio di difendere le donne quotidianamente e
concretamente (la piccola offesa sull'autobus, il “complimento"
insultante, la frase greve) che un tempo suscitavano la reazione degli
uomini - da persone normalmente perbene, non certo da “rondisti” - e ora
passano via nel silenzio e nel voltare gli occhi dall'altra parte.
Questa, anche se non sembrerebbe, è la reale politica. Mentre la “politica”
che si considera tale, ogni giorno che passa, è sempre più rumore di fondo.
***
Oggi è passato un anno, se ben ricordo, da quando non esce più
“Casablanca”. Un piccolo ma indispensabile giornale di società e di
antimafia con al centro di tutto (ma guarda un po') il protagonismo civile
delle donne: a partire dalla direttrice, Graziella Proto, una donna con
venticinque anni di lotta antimafia alle spalle e capace ancora di impegnarsi
fino all'ultimo respiro e fino all'ultimo soldo per portarloavanti.
“Casablanca” è in silenzio nell'indifferenza di Veltroni, di Bertinotti, di
Vendola, di Di Pietro. Per me è uno sforzo difficile, per questo preciso
motivo, prenderli sul serio ancora. E anche questo è otto marzo.
18 aprile 2009
“LAVORI IN CORSO": OPERATIVA L'ASSOCIAZIONE. E ORA,
ALLA FASE 2
Lamentarsi che Ciancio è Ciancio può essere gratificante, ma non è che
poi serva a molto. Meglio provare a costruire qualcosa di alternativo a lui
– ma con quali forze? Tutti insieme.È su questa base che un gruppo di
giovani catanesi lavora da alcuni mesi (o da molti anni), raccogliendo a
poco a poco esperienze e forze per fare, nei prossimi mesi, un salto di
qualità. La prima tappa è terminata ora, con la costituzione formale di
“Lavori in Corso”
Dopo Report di Sigfrido Ranucci (2009) o dopo Il Caso Catania di Joe
Marrazzo (1983) Catania improvvisamente si sveglia, scopre che c'è la
mafia e che ci sono loschi affari (Catania “di sinistra”, naturalmente: alla
Catania di destra non gliene importa un bel niente). L'indignazione dura per
diverse settimane, si fanno dibattiti, si discute. I progressisti esprimono la
più sentita solidarietà ai giornalisti scesi in Sicilia a fare - finalmente!
- delle inchieste. Rettori e presidi osservano che sì, c'è qualcosa di vero
ma non bisogna esagerare.
Risorge il patriottismo catanese: i principali intellettuali s'indignano per le
calunnie contro questa città che avrà tanti difetti ma ha il sole, il mare,
l'Etna, il calore umano.
Da Barcellona (filosofo ultramarxista, un po' a sinistra di Mao) a
Buttafuoco (fascista “uomo-di-mondo”, elegantissimo, fra il repubblichino e
il gagà) si fiondano le articolesse in difesa di Catania calunniata e, già che ci
siamo, anche di Ciancio.
E i giovani? Restano lì perplessi, percepiscono vagamente che forse
Catania non è una città come le altre e che probabilmente bisognerebbe fare
qualcosa. Vanno ai dibattiti e scrivono su qualche blog, fiduciosamente.
I Siciliani, nel frattempo, non trovano una lira di pubblicità (nell'83) e
tirano avanti per come possono, a forza di volontà.
Pubblicità non ce n'è neppure per Casablanca (nel 2009), e quindi
diandare in edicola non se ne parla. Le inchieste si continuano a fare,
magari su web: ma non sembra che la città sia particolarmente interessata ad
esse, tranne una minoranza “illuminista"
fra i 15 e i 25enni.
***
Ecco questa è l'informazione a Catania, senza farsi illusioni, trent'anni
dopo le prime inchieste (le nostre e le “forestiere”) degli anni Ottanta. Non è
una situazione cattiva - una minoranza civile c'è - a patto di guardarla in
faccia e di non cadere nella trappola degli entusiasmi. Infatti gli entusiasmi
non servono. Che cosa serve allora? Una cosa semplicissima: il lavoro.
Lavoro costante, serio, senza illusioni inutili ma senza pessimismi. Perché
si può arrivare alla fine, se si lavora - seriamente e insieme - abbastanza a
lungo.
Sulla parola “insieme” a Catania si potrebbe già scrivere un trattato. La
sintesi sarebbe che lavorare insieme è meglio che lavorare ciascuno per
conto suo. Un giorno anche questa scoperta arriverà fin quaggiù, e sarà la
precondizione di tutto il resto.
***
Va bene. Pensando più o meno a queste cose, il 15 abbiamo costituito
formalmente l'Associazione “Lavori in Corso”: s'era cominciato a parlarne,
ricorderete, nel giorno di Pippo Fava il 5 gennaio.
Da allora siamo avanti tranquillamente, con i seminari e gli incontri ogni
settimana, e con la produzione di Ucuntu, che è questa faccenda qui che
vedete. “Lavori in Corso"
sarà presentato l'otto e nove maggio, insieme a Libera Informazione, con
Morrione.
I “leader” (ma da noi sono semplicemente quelli che portano lo zaino più
pesante) sono Luca Salici, Max Nicosia, Sonia Giardina e Claudia
Campese. Lavorano a Ucuntu, Periferica, Cordai e Step1 e hanno poco più
di cent'anni fra tutti quanti.
Altre scadenze importanti: il primo maggio nelle terre confiscate ai
mafiosi (un percorso che qui parte molti anni dopo che a Palermo, ma
finalmente parte); il sedici alla manifestazione di Addiopizzo (finora è una
manifestazione “contro la mafia” e “di Addiopizzo”: noi speriamo di farla
diventare una manifestazione contro tutti i poteri mafiosi, informazione
compresa, e di tutti i movimenti antimafiosi, tutti insieme).
Che altro dire? Buon lavoro. Lavoro serio e unità, non ci vuol altro. E mai
fermarsi, e mai accettare compromessi.
4 maggio 2009
“ORDINE, GIORNALISTI!". IL CASO MANIACI
Bisogna mettere ordine nel giornalismo in Sicilia: a cominciare da gente
come Pino Maniaci, che si permette di fare inchieste brillantissime, di farsi
minacciare e di aggredire dai mafiosi senza neanche avere uno straccio di
tesserino “professionale” in tasca. E quelli che si sono accordati coi
mafiosi per pubblicargli i messaggi o intimidire i cronisti irrispettosi? Per
loro non c'è Ordine? O l'ordine magari c'è, ma lo dà chi comanda?
“Il direttore dell'emittente televisiva Telejato di Partinico (Palermo), Pino
Maniaci, è stato rinviato a giudizio per esercizio abusivo della professione
di giornalista. Il processo è stato fissato all'otto maggio prossimo. Secondo
l'accusa, Maniaci, "con più condotte, poste in essere n esecuzione del
medesimo disegno criminoso", avrebbe esercitato abusivamente l'attività di
giornalista in assenza della speciale abilitazione dello Stato, conducendo
ogni giorno il tg di Telejato...”. La tv più volte minacciata, querelata e
contestata da boss e notabili della zona di Partinico.
***
Otto giornalisti sono stati ammazzati in Sicilia per aver fatto onestamente
il loro mestiere. Tre (Mauro De Mauro, Mario Francese, Giuseppe Fava)
erano giornalisti professionisti, tre (Cosimo Cristina, Giuseppe Spampinato,
Beppe Alfano) erano semplici corrispondenti locali, e due (Mauro Rostagno
e Peppino Impastato) non erano in alcun modo iscritti all'Ordine, pur
lavorando a una precisa attività d'informazione.
Solo tre su otto, dunque, dall'Ordine erano riconosciuti giornalisti in senso
pieno.
Ma tutti si caratterizzavano per le inchieste, ben condotte, sui poteri
mafiosi: che viceversa trovavano pochissimo spazio sull'informazione
“ufficiale”.
Questa si trovava, e si trova tuttora, in regime di monopolio (Ardizzone a
Palermo, Ciancio nel rimanente): un monopolio talmente forte da riuscire a
impedire la pluralità dell'informazione anche nei confronti di testate
nazionali (Repubblica a Catania è costretta a uscire senza cronaca).
L'informazione sui temi potenzialmente “pericolosi” - i poteri mafiosi
anzitutto - restava quindi affidata o alle precarie testate d'opposizione
(L'Ora, I Siciliani) o a piccoli gruppi locali (Radio Aut, ad esempio) o a
singoli giornalisti isolati. Questo contesto, dagli anni '50 ad oggi, non è
cambiato affatto. E infatti i giornalisti colpiti dalla mafia si ripartiscono
quasi alla pari nei vari decenni.
In questa situazione, assolutamente eccezionale in Europa, non sembra
che l'Ordine dei giornalisti locale (e meno ancora la locale Associazione
della stampa) si sia in qualche modo distinto per eccesso d'impegno.
Nessuna delle otto vittime è stata in alcuna maniera sostenuta – e alcune
erano in manifesto e immediato pericolo di vita – prima delle aggressioni,
che dunque colpivano individui isolati. Quanto al dopo, non sono mai
mancate le commemorazioni, le cerimonie, le commosse eulogie. Ma solo
queste.
***
L'Ordine siciliano non è intervenuto neanche in presenza di episodi
gravissimi sul piano dell'etica professionale. La linea del quotidiano La
Sicilia, ad esempio, fu direttamente influita da esponenti importanti di Cosa
Nostra in almeno due precise occasioni, nel '93 (intimidazione di un cronista
da parte di Giuseppe Ercolano) e nel 2008 (pubblicazione di messaggi di
Vincenzo Santapaola). In nessuno dei due casi l'Ordine ritenne di adottare
una qualsivoglia sanzione a carico dei giornalisti coinvolti, specialmente del
direttore-editore Mario Ciancio. Non sarebbe stato senza costi, del resto,
visto che per Ciancio lavora buona parte dei più cospicui colleghi siciliani,
dentro e fuori Ordine e Associazione.
Meno ancora s'intervenne su violazioni latu sensu “politiche”, come la
vera e propria campagna del Giornale di Sicilia di Palero contro il pool
antimafia, o il rifiuto a Catania di pubblicar necrologi di vittime della mafia,
o le intimidazioni – su La Sicilia - contro i “pentiti” di mafia che
minacciavano di tirar dentro imprenditori.
improvvisamente l'Ordine dei giornalisti di Sicilia si scopra una
vocazione ai regolamenti, e che debba scoprirla proprio nei confronti di
Maniaci. Letta da fuori Sicilia, parrebbe un'iniziativa autolesionistica e
perdente. E indubbiamente lo è, o perlomeno non è che porti qualche
vantaggio al vecchio Circolo dei Civili che bene o male rappresenta il
giornalismo siciliano. E allora perché si sono messi in questo pasticcio?
Voi ed io ci spiegheremmo facilmente la cosa con le caratteristiche
fisiologiche - età non verde, orecchio duro, sonnolenza - di questi
rispettabili colleghi. Ma un osservatore più smaliziato, uno come Andreotti
ad esempio (“a pensar male si fa peccato però a volte ci s'azzecca”), non
mancherebbe di far notare che il trambusto su Maniaci copre molto
opportunamente un'altra faccenda antipatica che s'annunciava, anch'essa –
normalmente - di competenza dell'Ordine: i guai di Ciancio con Report,
dopo quelli col Santapaola, dopo quelli con Repubblica E che c'entra
Ciancio che è di Catania con l'Ordine che sta a Palermo?, direte voi. Io non
saprei che dirvi. Ma il divo Giulio, che ne sa più di me, vi guarderebbe
ironico e ghignerebbe: Eh...”.
Non c'è molto altro da dire, su questa storia.
Mi spiace per i colleghi che ci son rimasti coinvolti (non Maniaci,
naturalmente: quelli che hanno votato per silenziarlo) perché per la maggior
parte sono gente perbene, senza velleità eroiche ma anche senza voglia di
far del male; non certamente mafiosi né complici della mafia e tuttavia
capacissimi in questo caso - come don Abbondio con l'Innominato - di
favorirla così per pigrizia, senza neanche rendersene conto.
“E non avendo il tesserino, lo scaricaste?
Così, davanti ai suoi nemici mafiosi?”.
“Ma forse non mi sono spiegato abbastanza, monsignore... m'hanno
intimato di non far quel matrimonio”.
“E quando avete scelto questo mestiere, non sapevate che esso
v'imponeva di sapere andare oltre le carte, di scegliere che la verità va
difesa ad ogni costo?”.
“Torno a dire, monsignore... avrò torto io... Il coraggio, uno non se lo può
dare”.
Va bene, finiamola qui. È una storia buffa, tutto sommato. Maniaci rischia
la pelle, la rischia (ora che l'hanno isolato) anche un po' di più. Ma noi tutti
speriamo che lui abbia fortuna. Speriamo che questa storia resti così. Una
buffa storia divertente, siciliana.
***
SCHEDA/ TUTTO IN ORDINE
La Regione Siciliana possiede una struttura d'informazione superiore a
quella di tutte le altre Regioni messe insieme: ben ventitré giornalisti,
reclutati senza concorso con la qualifica di redattore capo (3.800 euro al
mese). Venti di queste ventitré assunzioni sono state messe sotto inchiesta
dalla Corte dei Conti, che addebita a Cuffaro e Lombardo (“assunzioni
ingiustificate e il mantenimento in servizio senza motivo”) un danno
erariale di quattro milioni di euri. La Corte si chiede fra l'altro chi mai
possano capeggiare se sono tutti redattori capo.
Fino al 2004 la Regione aveva solo quattro giornalisti per le varie
mansioni. Nel 2006 ne vennero assunti altri quindici (fra cui tutti i
portaborse degli assessori regionali). Altri ancora vennero assunti nel 2007.
Attualmente la Regione Sicilia ha alle proprie dirette dipendenze un po'
meno giornalisti del Corriere della Sera e un po' più di Telejato. Ma rutti
rigorosamente
13 maggio 2009
SE NON CI FOSSE GOEBBELS QUA SCOPPIEREBBE UNA
RIVOLUZIONE...
Nessuno se ne vuol accorgere, ma nel giro di un anno se n'è già andato
un quarto della produzione industriale. La crisi tocca già un italiano su
due. Ma allora come mai niente barricate? Primo, perché sono obsolete. E
secondo, perché il potere oggi sa come rispondere: distogliere l'attenzione
mediante capri espiatori. Altrimenti a che servirebbero stampa e tv?
Secondo l'Istat “la produzione industriale nel primo trimestre 2009 ha
perso il 9,8% rispetto al trimestre precedente” ed “è calata del 23 per cento
rispetto al marzo 2008”.
In Italia, cioè, nel giro di un anno abbiamo prodotto un quarto di cose in
meno. Meno prodotti, meno fabbriche, meno soldi che girano, meno tutto.
Questo è quel che succede fuori dal mondo ovattato della tv. Un italiano
su due sta già subendo personalmente la crisi, e la tendenza è a peggiorare.
La soglia di povertà sfiora sempre più gente (in Sicilia almeno un terzo) e se
fossimo nell'Ottocento le strade sarebbero già chiuse dalle barricate.
E come mai non ci sono? Primo, perché tecnicamente obsolete:è molto
più semplice, in una società post-novecento, fare le barricate politiche e non
reali (in America, per esempio, eleggendo Obama). E secondo perché, come
già fecero i nazisti con gli ebrei, i politici hanno provveduto per tempo a
trovare un buon capro espiatorio su cui scaricare tutte le paure.
Linciare uno zingaro (cosa che ormai accade abbastanza spesso) è più
facile che prendersela coi manager. Picchiare a freddo una marocchina
rimuove un attimo l'impotenza della disoccupazione. Annegare degli
emigranti, o riconsegnarli al loro dittatore, dà un senso di potenza collettivo
che a un popolo non più bonario né giovane fa più o meno l'effetto di un
viagra.
La responsabilità della stampa “mainstream"
(per dirla in americano: noi paesanamente diremmo “padronale”) in tutto
questo è tremenda, ancora più terribile che nell'edulcorare i politici e nel
nascondere i fatti. La comunicazione, con poche eccezioni, oggi è di nuovo
Goebbels. Se non si vede subito è perché la misuriamo col Goebbels di
allora e non con quel che Goebbels sarebbe con le tecnologie di oggi.
Ma la funzione è identica, e identico tende a esserne il costo in vite
umane. Il mestiere di giornalista, che prima richiedeva serietà e coraggio,
adesso – per chi non tradisce – richiede una tensione quasi religiosa.
***
Di buoni giornalisti ce ne sono tuttavia ancora, e molti altri ne crescono
dopo di loro. Dei giovani, penso a Claudia e agli altri ragazzi di Catania
che, fregandosene di tutti quanti, hanno salvato due poveri zingari dal
linciaggio. Dei vecchi, penso a gente come Pino di Telejato – ne abbiamo
parlato l'altra volta – che a sessant'anni ancora riesce non solo a rischiare la
pelle ma anche a sorriderci su ironicamente.
Maniaci in particolare, a quanto pare, se l'è cavata ancora una volta. I
giornalisti siciliani, o i loro legali tutori, che volevano fargli scontare la vita
di collega libero, hanno dovuto (almeno per ora) far marcia indietro e
contentarsi di guardarlo storto da lontano.
La cosa bellissima (pure le cose belle accadono, nonostante tutto) è che
stavolta a difendere Maniaci non siamo stati i soliti quattro disperati, ma il
Sindacato e l'Ordine in persona, quelli veri. Si sono schierati, per una volta,
senza se e senza ma con Maniaci.
Hanno difeso il giornalista minacciato e onesto, senza mezze misure.
Hanno detto quel che di loro pensavano ai colleghi siciliani (certo con
diplomazia, ma non poi tanta) e li hanno obbligati a comportarsi, volenti o
no, da persone per bene.
Mi pare quindi giusto di segnalare dei nomi: Enzo Iacopino dell'Ordine,
Roberto Natale della Federazione e in aggiunta, unico fra i “politici”, Beppe
Giulietti. È la prima volta, in quasi trent'anni di mestiere, che faccio nomi
della corporazione per lodare e non per rimproverare. Sarà una debolezza
senile, ma ne sono contento.
(E altri giornalisti, e giornali? No, nomi di altri colleghi non ne posso
fare. Sul caso Maniaci tutta la stampa italiana, compresa quella progressista,
ha osservato un silenzio bronzeo, senza sbavature. “Giornalista in Sicilia? hanno detto il Corriere e Repubblica – Nenti vitti. Nenti sacciu. Nenti
vogghiu sapiri”).
13 maggio 2009
“C'È CHI PUÒ E CHI NON PUÒ. NOI PUÒ”
Rispettosi del fondamentale impegno istituzionale e civile
dell'Associazione della Stampa siciliana, sempre in prima linea nella lotta
contro la mafia e nella difesa dei giornalisti minacciati, rispettosamente e
doverosamente pubblichiamo il recente comunicato della medesima sulla
drammatica storia di venti giornalisti siciliani
“Sebbene si tratti di un atto dovuto, suscita comunque sconcerto la
decisione della Procura di Palermo di iscrivere nel registro degli indagati i
venti giornalisti dell’ufficio stampa della Presidenza della Regione
siciliana".
L’ipotesi di reato (concorso in abuso in atti di ufficio) lascia intendere che
sulla vicenda delle nomine dei giornalisti aleggi un che di misterioso e
inquietante, così come sulla qualifica di redattore capo prevista dal contratto
di lavoro giornalistico.
In realtà l’ufficio stampa e documentazione presso la Presidenza della
Regione venne istituito oltre trenta anni addietro con un’apposita legge
regionale, poi seguita da un accordo sindacale recepito dal governo
regionale, che prevedeva per i giornalisti proprio il riconoscimento del
trattamento giuridico ed economico di redattore capo.
Per altro in Sicilia, nel pieno rispetto della legge 150, il contratto
nazionale di lavoro e le relative qualifiche da applicare ai giornalisti che
operano negli uffici stampa delle pubbliche amministrazioni sono stati
recepiti da un accordo sindacale. L’intesa, firmata da Fnsi e Associazione
della Stampa con l’assessorato alla Presidenza, e ratificata da un decreto
assessoriale pubblicato sulla Gazzetta ufficiale, fissando i profili
professionali e il relativo trattamento economico dei giornalisti, di fatto ha
messo ordine in ragione delle osservazione della Corte Costituzionale.
La Suprema Corte aveva cassato quelli parti delle leggi regionali
riguardanti proprio le qualifiche contrattuali dei giornalisti degli uffici
stampa delle pubbliche amministrazioni sottoposte al controllo della
Regione, stabilendo che le stesse qualifiche non possono essere attribuite
per legge ma solo per contrattazione tra le parti. Contrattazione che è infatti
avvenuta creando un collegamento organico tra le prime norme che
riguardano la Regione e il sistema contrattuale che riguarda il territorio”.
***
SCHEDA/ DI CHE SI TRATTA
Palermo. L'ex presidente Cuffaro, il suo successore Lombardo e venti
giornalisti dell'ufficio stampa della presidenza assunti con contratto di
redattori capo nel 2004 per chiamata diretta sono stati iscritti nel registro
degli indagati (per concorso in abuso d'ufficio) dalla Procura. Quattro sono
già stati sentiti dal Pm Petrigni.
Lo staff dei comunicatori della presidenza, composto da 4 giornalisti, fu
portato a 8 nel 2004 e a 24 nel 2006, poco prima delle elezioni.
Fra gli assunti, quasi tutti i portavoce degli assessori regionali uscenti
(Giulio Ambrosetti, Laura Compagnino, Fabio De Pasquale, Maria Pia
Ferlazzo, Enzo Fricano, Fabio Geraci, Stanislao Lauricina, Luisa Micciché,
Wlady Pantaleone, Stefania Sgarlata e Manlio Viola) e altri giornalisti vicini
a esponenti del centrodestra: Vito Orlando, portavoce di Guido Lo Porto,
Ludovico Licciardello, addetto stampa di Salvo Fleres, Luigi Sarullo, figlio
di un consulente di Schifani e Ivana Di Nuovo, figlia dell ´ex responsabile
stampa Udc. Nell' ottobre 2007 entrarono anche Guido Monastrae
Francesco Inguanti, un consulente di Cuffaro pubblicista da pochi mesi.
27 maggio 2009
E DOPO LOMBARDO?
Rissa fra i padroni (politici) della Sicilia: Lombardo, dopo Bossi e dopo
Starace, va cercando altri alleati. Non a sinistra, speriamo, e non fra le
persone perbene. E allora?
C'è aria d'inciucio – non per la prima volta – ai piani alti del
centrosinistra: i vari Cracolici e Finocchiaro rilasciano dichiarazioni di
disponibilità a “dialogare”. Sarebbe una catastrofe per la Sicilia, come tutti
gli altri inciuci precedenti, dall'operazione Milazzo ai vari patti con la Dc di
Salvo Lima.
Invece sarebbe bello se – considerando i siciliani dei cittadini, almeno
stavolta – si tornasse a votare. E se la sinistra avesse il buon senso di andare
alle elezioni tutti uniti, con una sola lista, come tre anni fa.
E se questa lista fosse non solo la lista della sinistra (anche), ma
soprattutto quella dell'antimafia.
E se il candidato presidente fosse uno come la Borsellino di allora (lei
stessa, Fava, Orlando, Lumia... uno qualunque di questi, senza primedonne,
magari tirando a sorte) e in giunta tutti gli esponenti dell'antimafia, tutti
insieme: uno ai Lavori pubblici, uno ai Giovani, uno alla Cultura, uno alla
trasparenza pubblica, uno ai Beni regionali, uno al Lavoro...
Una giunta rivoluzionaria, non solo “politica”, ma di fondazione.
Sull'unico terreno che veramente divide i siciliani, l'unico concreto e serio
qui e ora. I padroni – mafiosi – della Sicilia da un lato, e dall'altro Garibaldi
e Falcone, senza mezze misure. Molti siciliani risponderebbero, come
dicono i risultati di tre anni fa. E forse...
Sì, ma stiamo sognando. Figurarsi. Si rischierebbe di vincere, o di andarci
vicini. E a questo, nel centrosinistra di oggi, oramai non ci crede nessuno.
27 maggio 2009
MORIRE D'INFORMAZIONE O PROVARE A FARLA NOI
Continua il percorso delle testate libere catanesi per costruire insieme un
giornale che veramente racconti la città. È stata messa in funzione
l'Associazione Lavori in corso, è stata completata la prima inchiesta (vedi
pagina 8). Ma perché l'informazione, qui e ora, è così importante?
Pare che Mauro Rostagno sia stato ammazzato dai mafiosi. Dopo ventun
anni è ufficiale, sembra che anche Peppino Impastato sia stato ucciso da
loro e non (come dicevano Corriere, Repubblica, Giornale di Sicilia e
televisione) da una bomba mentre faceva un attentato.
Bene. La verità prima o poi viene a galla, qua in Sicilia. Magari - come
nel caso di Peppino - dopo dieci anni. O come per Giuseppe Fava, ucciso
dalla mafia e non - come dicevano Toni Zermo, Tino Vittorio e gli altri
pezzi grossi catanesi - per qualche storia di donne. E Borsellino, e Falcone?
Professionisti dell'antimafia, secondo i giornali isolani ma anche secondo
il nobile Corriere.
E Francese, e De Mauro, e Alfano, e quelli di Portella? La mafia, secondo
i giornalisti siciliani, non ha mai ucciso quasi nessuno. Qualcuno è morto sì,
ma perché irrispettoso o caustico o, peggio di tutto, comunista. In quasi tutti
i casi la verità vien fuori grazie a pochissime persone (Umberto Santino per
Impastato, I Siciliani per Fava, ecc.), contro la stampa “perbene” e
nell'indifferenza della maggior parte dei siciliani.
L'omertà della stampa rincretinisce sempre più i lettori, che essendo
rincretiniti vogliono una stampa sempre più omertosa. Questo circolo
vizioso, che una volta era tipicamente siciliano, adesso è felicemente
nazionale, e produce i governi. La rozza Sicilia, riducendola al proprio
livello, s'è infine così vendicata della civile Lombardia. Sicilia capta
probum victorem smerdavit.
***
La questione dell'informazione (disinformazione scientifica, propaganda)
qui e ora è la più importante di tutte, senza paragone. È lei che fa Cosa
Nostra e Berlusconi. È lei ha creato i Bossi e i Ciancimino (ma qualcuno sa
più chi era fra i politici Ciancimino? E qualcuno nota più cosa veramente
dice Bossi?), lei che accoltella o affoga in mare gli emigranti, lei che un
tempo sparava ai sindacalisti. I politici vengono dopo, si limitano a
raccogliere i frutti di ciò che l'”informazione” ha seminato.
Non è una situazione riformabile dall'interno.
L'informazione ufficiale nel suo complesso, tecnologie o non tecnologie,
può forse peggiorare (non ha ancora proposto, ad esempio, la sterilizzazione
degli zingari o il lavoro forzato nei centri-lager) ma non può migliorare
assolutamente, salvo che in individui singoli e pronti a finir male.
Perciò siamo tanto fanatici dei nostri pochi giovani e della nostra poca e
povera libera informazione. Son pochi, ma esistono. Potrebbero attraversare
il ventennio – 1994-2014: vent'anni – come fu attraversato il primo.
Debbono rafforzarsi, debbono collegarsi, debbono - Gobetti - cercare lo
scontro senza illusioni, non l'ottimismo.
***
Le cose, qui in Italia, vanno come in fondo sono sempre andate. C'è
piazza Venezia piena, c'è il duce, c'è la difesa della razza, ora c'è anche
Claretta. Che buon popolo buffo saremmo stati, se in mezzo ai gerarchi
panzoni, ai professori con tessera e ai tengo-famiglia non ci fosse anche
quel cinque-dieci per cento di nazisti fanatici, di incamiciati sbraitanti, di
assassini. Avrebbe potuto essere una commedia italiana, una delle tante: così
invece, se non succede qualcosa (ma cosa?), finirà prima o poi in dramma,
alla croata.
27 maggio 2009
L'ITALIA ALL'EPOCA DEL BAVAGLIO
Centinaia di notizie, grandi e piccole, danno l'idea di un paese che sta
diventando davvero molto strano. Ma per la maggior parte non circolano, o
circolano in maniera edulcorata e corretta, senza contesto. Forse il Grande
Fratello (quello di Orwell) è tutto qui. Un paese di plastica, che in realtà
esiste solo dentro il televisore. Mentre il paese vero, privo di idee e di
governo, tira a campare giorno per giorno sprofondando sempre di più
Palermo (Sicilia). Il giudice Roberto Scarpinato ha rivelato come il
governo abbia recentemente tolto alle procure la password per accedere ai
conti correnti, mpedendo così il sequestro di enormi capitali mafiosi.
***
Milano (Lombardia). È stata revocata con 29 voti a favore, 24 contrari e
un astenuto la Commissione antimafia recentemente istituita in seno al
Consiglio comunale.
***
Catania (Sicilia). A giudizio per bancarotta fraudolenta i padroni della
ditta Elmec di Piano Tavola. Parte civile i lavoratori, che da due anni
occupavano la fabbrica per difendere il posto di lavoro.
***
Castelfranco (Veneto). Un referendum dei lavoratori bianchi della Global
Garden ha approvato la proposta dell'azienda - che costruisce macchine da
giardino e impiega circa mille operai fra bianchi e neri - di cacciare gli
operai neri dalla fabbrica per meglio superare la crisi.
***
Catania (Sicilia). Sei ragazzi del movimento studentesco hanno ricevuto
dalla Procura una notifica, da parte "in ordine al delitto di deturpamento di
immobili perché con numerosi altri soggetti non identificati nel corso di una
manifestazione con corteo in via Etnea di Catania raggiungevano la piazza
del Duomo, dove deturpavano ed imbrattavano il palazzo muncipale
lanciando uova, pomodori e carta igienica contro il portone e la facciata".
***
Palermo (Sicilia). È stata assegnata all'Ordine dei giornalisti di Sicilia la
villa confiscata ai fratelli Sansone.
La richiesta di assegnazione di un bene confiscato alla mafia era stata
presentata da tempo dall'Ordine dei giornalisti di Sicilia, che ha espresso
"viva soddisfazione per il riconoscimento della funzione sociale svolta
dall'ordine dei giornalisti, a difesa della legalità".
In Sicilia l'Ordine regionale (vivamente contestato dall'Ordine nazionale)
ha recentemente difeso la legalità cercando di ridurre al silenzio la tv
antimafiosa Telejato.
***
Corleone (Sicilia). Per aver partecipato alla Giornata della Memoria di
"Libera"
Giovanni Labruzzo, Eugenio Provenzano ed Enrico Labruzzo, tre studenti
corleonesi, sono stati cacciati via dagli scout dal parroco Giuseppe Gentile
(lo stesso che aveva officiato le nozze della figlia di Totò Riina).
***
Trieste (Venezia Giulia). Gira armato il presidente leghista del Consiglio
regionale, Ballaman. L'arma, una 357 magnum, non viene tuttavia portata in
aula durante le Edouard riunioni.
***
Bassano del Grappa (Veneto). Diventa legale, grazie a un disegno di legge
della Lega, la produzione casalinga di grappa.
***
Catania (Sicilia). Al processo per le infiltrazioni mafiose nella festa della
patrona cittadina Sant'Agata è emerso che processione, "candelore", fermate
e festa venivano gestite, per ragioni di prestigio, dal clan cittadino dei
Santapaola.
***
Canicattì (Sicilia). Identificato dai carabinieri il responsabile della morte
del cagnolino seviziato e ucciso il 10 maggio scorso nei pressi della villa
comunale.
Si tratta di un ragazzino di nove anni il quale dopo aver ucciso il cane
impiccandolo si è fatto filmare con i cellulari da altri ragazzini di età
compresa tra i tredici e i quindici anni.
***
Scandiano (Emilia). Un quindicenne è morto per un malore mentre
nuotava nella piscina "L'Azzurra" a Scandiano, in provincia di Reggio
Emilia. Il ragazzo, che frequentava la terza media, si era sentito male, forse
per una congestione, poco dopo essersi tuffato. Inutile l'intervento del
bagnino e dei medici subito accorsi.
Alcuni degli altri bagnanti non hanno lasciato la vasca, continuando a
restare immersi durante le operazioni di soccorso a bordo piscina e
nonostante gli inviti dei responsabili della struttura.
***
Urbino (Umbria). Un anziano turista è morto d'infarto mentre con altri
faceva la fila per visitare la mostra di Raffaello a Palazzo Ducale. C'è stato
appena il tempo di ricoprire il cadavere con un lenzuolo bianco che già gli
altri turisti avevano cominciato a riprenderlo con videocamere e flash.
***
Sanremo (Liguria). Un uomo di 47 anni, Bruno Fazzini, è morto per un
ictus dopo essere rimasto in coma per circa dodici ore sul pianerottolo di
casa. Nessuno dei vicini l'ha aiutato e diversi hanno scavalcato il corpo
risalendo le scale. "Credevo fosse ubriaco" ha dichiarato uno".
***
Napoli (Campania). Sedicenne minaccia di accoltellare il fratellino
ricattando la mamma: "Cento euri o l'ammazzo".
***
Sulmona (Abruzzo). Alla Magneti Marelli (Sistemi Sospensioni spa,
Gruppo Fiat, 750 operai) occorre un permesso scritto per andare in bagno. È
un piccolo tagliando su carta intestata dal titolo "permesso interno".
***
Rosarno (Calabria). Tre imprenditori agricoli di Rosarno sono stati
arrestati perché accusati di far parte di una associazione per delinquere
finalizzata alla riduzione in schiavitù degli immigrati. Le indagini dei
carabinieri hanno portato alla luce svariate storie di induzione alla
prostituzione, estorsioni, maltrattamenti e violenze commesse approfittando
dello stato di necessità e delle precarie condizioni di vita.
***
Palermo (Sicilia). Assessore regionale indagato per rapporti con clan
mafiosi e compravendita di voti e preferenze. Accusato dai pentiti del clan
di Resuttana, l'assessore Antinoro nega le accuse.
***
Bergamo (Lombardia). Applicando un vecchio regolamento di polizia
urbana, l'amministrazione (di centrosinistra) ha comunicato che è permesso
chiedere l'elemosina per le vie del comune, ma per la durata massima di
un'ora.
***
Padova (Veneto). Scritti sulle lavagne, per ordine della preside Anna
Bottaro, i nomi dei diplomandi di origine straniera.
Lo scopo,secondo la preside, è quello di invitare quelli di loro che fossero
privi di permesso di soggiorno a "consegnarlo entro domani" prima di
sostenere l'esame.
***
Catania (Sicilia). Conferenza all'Università, insieme al rettore neo-eletto,
del politico siciliano Marcello Dell'Utri, da poco assolto per prescrizione dal
reato di "minaccia grave" ai danni di un imprenditore trapanese. Coimputato
di Dell'Utri era nell'occasione il boss trapanese Vincenzo Virga, da poco
accusato di essere il mandante dell’omicidio di Mauro Rostagno.
Argomento della conferenza "Il buongoverno dei giovani" visto da
Dell'Utri.
La successiva conferenza sarà su "Il Futurismo: avanguardia dall'Italia al
mondo", on.Gianfranco Fini, Facoltà di Lettere, Aula Magna.
4 giugno 2009
CASO MANIACI/ (QUASI) TUTTO È BENE QUEL CHE FINISCE
BENE
Grazie alle amichevoli pressioni dell'Ordine dei Giornalisti nazionale,
della Federazione della Stampa e di un bel po' d'opinione pubblica in Sicilia
e fuori, i dirigenti dell'ordine dei giornalisti siciliano hanno finalmente
concesso il tesserino di giornalista al giornalista Pino Maniaci di Telejato.
Tutto è bene quel che finisce bene.
Adesso, però, si pongono delle questioni.
Telejato è una tv d'inchiesta e Maniaci è un giornalista antimafioso, più
volte minacciato.
I giornalisti siciliani “ufficiali"
invece sono in genere tutt'altro che antimafiosi, né scrivono per giornali
d'inchiesta ma per i fogli - o gli uffici stampa - dei vari politici e
imprenditori locali. I quali naturalmente l'inchiesta la vedono come il cane
vede il bastone.
E allora? È Maniaci che deve pazientemente imparare ad adulare i politici
e a chiudere tutt'e due gli occhi sui mafiosi, o sono i giornalisti perbene che
debbono diventare indipendenti e riscoprire (o scoprire da zero) il
giornalismo vero?
Perché di qua non si scappa: Maniaci - grazie a quel tesserino – ormai è
un giornalista d'ordine siciliano, un collega perfetto, uno di loro. E mica si
può tenere nello stesso cesto frutta e calzini sporchi, non va bene. O tutti in
un modo, o tutti nell'altro.
Personalmente, preferiremmo che fosse Maniaci a diventare orbo e muto.
Intanto per farlo campare un po' meglio, coi soldi per pagarsi il telefono e
senza rischio di revolverate. E poi perché sarebbe troppo crudele, per i
colleghi dell'establishment, obbligarli a fare sul serio questo mestiere.
Ci sarebbero ulcere, inappetenze, esaurimenti nervosi e crisi coniugali.
No, no, non siamo così barbari. Continuino pure a lavorare così, come
sanno e vogliono. In compenso, però, ci facciano una cortesia: chiudano
benignamente un occhio, perlomeno ogni tanto, sulle attività del Maniaci.
Quando attacca i notabili, quando accusa i mafiosi, quando fa fatti e nomi. È
vero, non sarebbero cose che si fanno, fra professionisti tesserati e perbene.
Ma che ci volete fare, non è colpa sua: è solo la sua malattia, il suo vizio,
il giornalismo
4 giugno 2009
CHE COSA TIENE SU I SICILIANI
Tutta l'Italia andava a fondo meno la Sicilia, all'avanguardia in tutti i
campi - arte, cultura, economia, politica, società - grazie a Re Federico e al
saggio popolo siciliano. Il re aveva una sola curiosità: “Vorrei sapere che
cosa mai vi tiene a galla, voi siciliani!”. E fece tuffare il ragazzo
"Tuffati" disse lu re. 'U caruso guizzò lestamente giù diritto come un
pesce (da donde il nome) e per qualche picca di lui non rimase che il colliè
di bollicine su dall'acqua profonda. Eppoi le bollicine si ruppero e ricciuta e
ridente rivenne su la testa. "Rieccovi l'anello, maestà!".
"Bene!" sorrise il re. "Bene!" ripetè la comarca. "Adesso finalmente potrò
sapere...- il re era molto curioso: artravorta avia fatto allivari solinghi e soli
dui picciriddi allo scopo di spiare che lingua cristiana o babelica ne sortissi adesso potrò sapere che cosa, contro ogni leggi di fisica, vi tiene a galla
l'Isola".
"Maestà - disse un barone - ma già è ben noto. Le tre colonne cristalline: a
Passero, a Lilibeo e a Peloro, coi tre ciclopi che le fecero a quei tempi". "Sì
ma allora non c'era la tecnologgia!". Lu re fece un cenno e uno dei
cortigiani porse al ragazzo un attrezzo, un coso lucido piccolo e vetroso, con
un occhiuzzo in mezzo.
"Ora tu metti questa cosa appress'alla colonna. Quando l'hai messa, premi
qua.
Eppoi o resti lassotto o risali, come vuoi".
Il ragazzo afferrò la webcam, sorrise a tutto il mondo e si cataminò di
sotto: un attimo prima c'era, un attimo dopo non c'era più.
Passarono alcuni momenti, e sul dispay del sovrano si accese - come da
previsione - la lucina. Eppoi, sfocate ma riconoscibili (settantadue
puntipollice bianconero) le Gif cominciarono a scorrrere su tutti i monitor
della Rete.
"What is it?". Una valigia di cartone: e, da fuori campo, la mano del
ragazzo che la raddrizzava. "E questa?". Un'asta di bandiera, si direbbe: con
pochi filamenti attaccati ma una faucimmatteddu rugginosa ancora fissa alla
punta.
Eppoi riloggi fermi, pacchi di lettere e vaglia, fiaschi, marranzani, nache
di legno, bummuli, barde di carretto, stellette militari, coppole, e remi di
barche, e foto dei Due Amici, e cuteddi... tutta 'na massa di paccottiglia
miserabile e smancicata che invero - improvvisamente e con schifo si rese
conto il re - non era ammucchiata attorno alla colonna né adiacente alla
medesima, ma era semplicemente la colonna stessa.
Altro che colonne ciclopiche... "Ecco che cosa li teneva a galla, i fetenti!".
"Richiamo il ragazzo, maestà?". "Che richiami a fare? Lascialo nella loro
spazzatura".
Con uno sbuffo, re Federico s'alzò.
"In Germania, in Germania! Ce ne torniamo in Europa. E io che credevo
ai miti". E s'incamminò via dal salone, con tutta la comarca dei cortigiani
dietro.
Nessuno pensò a spegnere i monitor, e la webcam per quanto obsoleta era
di tipo buono. Così se passi da Messina e hai tempo da perdere ancora puoi
buttare un'occhiata sul fondamento della Sicilia in bianco e nero, sui pesci
che se lo smusano curiosi e le alghe che lo carezzano indifferenti.
Ogni tanto, entrando improvvisamente nella schermata come in un
videogame postmoderno - da su, da giù, da mancina, da dritta - appare la
figurina di un ragazzo che coglie amorosamente le vecchie cose e le rimette
dentro alla colonna: non senza averci fischiato dentro se era un flauto, o
averci mimato una mossa se un coltello.
Non pare che abbia gran voglia di risalire: e menu mali, accussì almeno
un altro poco restiamo a galla.
(omaggio a A.C.)
11 giugno 2009
QUATTRO PROPOSTE PER RIPORTARE A COMBATTERE
GRAZIELLA E GLI ALTRI
La lotta alla mafia è soprattutto lotta d'informazione. Chi la fa, chi ha
accumulato coraggio, serietà, professionalità ed esperienza per poterla
fare, è un patrimonio di tutti. Nell'interesse di tutti, non va lasciato solo.
Che cosa concretamente si può fare per aiutare (ad esempio) i giornalisti
dei Siciliani a cui – vent'anni dopo vogliono confiscare le case? Ecco delle
idee
Berlusconi, il governo, Di Pietro, Franceschini, la sinistra... Ma si può,
con tutte queste cose importanti in giro, dare la copertina a due persone
“comuni”, simpatiche ma certo non potenti, come Graziella e Pino? Certo
che si può.
Al centro di tutta la lotta politica in Italia, prima e più seriamente di ogni
altra cosa, c'è l'antimafia. Al Sud perché la mafia comanda e l'unica lotta
reale è questa, e tutto il resto è poesia. In tutta Italia perché la mafia (o il
sistema politico-imprenditoriale- mafioso, il Sistema come dice Saviano)
oramai è un modello dappertutto.
Ci sono i mafiosi dei clan anche a Milano, oramai. Ma soprattutto anch e
là ci sono i Ciancimino, i Martellucci (“la mafia non esiste”), e
probabilmente pure i Sindona e i Salvo Lima.
Il personale politico, insomma, della contiguità. Che una volta stava a
Catania e Palermo, ma ora è dilagata, sia come modo di fare che come
relazioni d'affari. Non è solo la linea della palma ad aver risalito il nord.
La lotta alla mafia – nel senso di lotta al potere mafioso, al Sistema – è
soprattutto lotta d'informazione. Informazione di base, “povera”, libera,
battagliera. Più Radio Aut che Santoro. Perché sociale, legata al territorio,
giovane, aggressiva. Rendo e Badalamenti non li hanno sconfitti i giornalisti
famosi, ma quelli – professionali ma militanti – come Peppino Impastato o
Pippo Fava.
***
Di giornalisti così ce ne sono ancora, in giro. Non moltissimi, ma qualche
decina sì.
E molti sono i ragazzi che imparano da loro. Ciascuno di questi giornalisti
è un patrimonio sociale, una risorsa insostituibile per la democrazia.
È interesse di tutti difenderli e metterli in grado di lavorare. Interesse
delle sinistre, dei sindacati, delle cooperative, delle professioni
democratiche, degli imprenditori (finalmente) antimafiosi. Sono loro la
prima linea, quelli giù di guardia nel deserto.
Se crollano loro, prima o poi crolla tutto il resto.
È dovere di tutti difendere Graziella e Pino. (Certo, non loro soli: con
Graziella, ad esempio, difendiamo Lillo Venezia, Rosario Lanza, Elena
Brancati, Claudio Fava, Antonio Roccuzzo, Miki Gambino, tutti i “vecchi”
dei Siciliani, tutti come lei chiamati a rispondere dei debiti fatti per
difendere la trincea di tutti. Qui diciamo Graziella per semplificare).
È dovere di Graziella e Pino (ma anche mio, di Fabio, di Luca, di Claudia,
di Lillo, di Piero – anche qui, usiamo un paio di nomi per semplificare),
stringere i denti, tener duro, “non mollare”, non scoraggiarsi mai e non
mollare. E soprattutto essere uniti, coordinarsi il più possibile, fare rete.
***
Ci chiedono che fare, per Graziella e per gli altri. Avrei quattro precise
idee da proporre: 1) Organizzare un grande concerto nazionale, con artisti
famosi (a cominciare dai Modena, ma non solo), e organizzarlo con la
bandiera dell'Ordine dei Giornalisti e del sindacato dei giornalisti, la Fnsi,
nazionale. Mi fido di loro, li abbiamo avuti accanto per difendere Pino. Mi
piacerebbe se prendessero questa iniziativa, e se ci fosse anche Libera di
mezzo.
2) Fare una trattenuta sullo stipendio di luglio, noi giornalisti
professionisti: cinquedieci euri a testa non li sentiremo nemmeno, perché a
luglio c'è la quattrordicesima e quest'anno ci sono anche i soldi del contratto
nuovo; 3) I parlamentari europei dell'antimafia diano il loro primo stipendio
per l'informazione antimafia, per Graziella e gli altri: 4) Voi dirigenti della
Lega delle cooperative avete un debito con noi dei Siciliani. Noi eravamo
una cooperativa della Lega, ma la Lega non ci ha salvati; ha preferito fare
gli affari con i Cavalieri. Potete saldarlo ora, questo debito, compagni di
Reggio Emilia e di Bologna. Certo, non c'è nessuno che vi obblighi; ma
sarebbe un onore grandissimo, poter dire “I nostri predecessori sbagliarono,
ma noi, noi che rispondiamo di noi stessi qui ed ora, noi siamo contro la
mafia e con i Siciliani”.
11 giugno 2009
L'ITALIA CHE NON SI VEDE MA C'È
Sono arrivate molte lettere, quando s'è saputa la storia, di gente che
vuole bene a Graziella. “Vi mando i miei risparmi”. “Voglio fare
qualcosa”. “Perché non dà una mano la Legacoop?”. Ingenue,
appassionate, profondamente civili. L'Italia non è solo Noemi e Bruno
Vespa. C'è tutto un mondo sommerso, dalle radici profonde, che vive in
questo Paese. I Siciliani, Casablanca, Ucuntu ne portano a galla un po'
Numerosi lettori hanno scritto per esprimere solidarietà a Graziella Proto
e offrire il loro appoggio. Eccone alcuni.
***
Associazione Antimafie "Rita Atria": < Dobbiamo ringraziare
costantemente questo Stato per ricordare le vittime di mafia e presentare il
conto ai vivi. Quindi la mafia ottiene un risultato pieno: uccide Pippo Fava e
distrugge la vita di Graziella Proto e di altri. Si parla di pignoramento della
casa di Graziella Proto al momento dell'omicidio Fava la presidente della
cooperativa Radar proprietaria della testata I Siciliani di Pippo Fava
(giornalista dalla mafia ucciso il 5 gennaio 1984).
Facciamo un appello a tutti affinché dalle commemorazioni si passi ai
fatti.
Quel pignoramento è un insulto alla memoria di Pippo Fava e soprattutto
è un atteggiamento inaccettabile da parte dello Stato nei confronti di chi nel
tempo con atti concreti ha saputo resistere.
Gli sconti li facciamo solo ai piloti, cantanti, etc... ma quel fallimento
doveva essere condonato per dignità. Vi preghiamo di scriverci per essere
informati sulle forme di protesta che attueremo, al momento ci stiamo
organizzando
***
mila spicola: < la notizia su graziella mi ha molto colpita, la diffondo e
inoltro a chiunque per far sì che tutti sappiano >
***
massimo mingrino: < Come possiamo aiutare Graziella concretamente,
noi semplici cittadini? Attendo fiducioso un riscontro. A presto >
***
Serena Malavasi: < Io vivo al nord ma conosco sommariamente la storia
de I Siciliani e vorrei, per quanto nelle mie possibilità, contribuire a
sostenere Graziella >
***
Lia Didero: < Ciao. qualche info in più, che magari si cerca di organizzare
qualcosa, quassù nelle marche, in sostegno di Graziella? >
***
Pia Covre: < Sono davvero straziata nel cuore per il contesto in cui siamo
immersi, e mi sento come una povera farfalla rinchiusa in un bicchiere.
Quando riusciremo a venir fuori da questo incubo che è diventato il Sistema
italiano ci vedremo attorniati da macerie proprio come i terremotati.
Si può far girare un appello a favore di Graziella per pagare i vecchi
debiti? Io sono candidata alle europee ma ho rinunciato a spendere per la
campagna e ho destinato i soldi della stampa a due onlus per bambini, ma
potrei girare qualcosa anche per quella rivista che ha avuto tanta importanza
nel costruire una coscienza antimafiosa.
Fammi sapere come posso fare >
***
Ariel Paggi: < Tenendo conto degli affari che fa in tutto il paese, Sicilia
compresa dovrebbe pagare la Uniccop >
***
natya migliori: < Ho letto di Graziella sulla Catena di San Libero e ho
proposto un pezzo a Women in the city: mi farebbe piacere contribuire nel
mio piccolo a fare un poco di casino su questa cosa che mi pare l'ennesimo
sfregio all'impegno e all'onestà intellettuale >
***
[email protected]: < Si potrebbe istituire un CC per Graziella
Proto, in modo che anche noi possiamo contribuire ed aiutarla? >
***
Associazione Capitano Ultimo: < L'associazione dei Volontari Capitano
Ultimo si stringe attorno a Graziella Proto, che si è vista arrivare il
pignoramento della casa per il fallimento della rivista "I Siciliani", giornale
fondato da Peppe Fava.
Mentre nelle commemorazioni ufficiali si parla del coraggio di questo
giornalista e della sua rivista, sottobanco viene punita Graziella Proto,
perché ha osato tentare di continuare l'opera del suo direttore tenendone in
vita la memoria tramite il suo giornale.
Per noi è importante che i morti non vengano dimenticati, ma che si
continui la loro lotta rimanendo al fianco di chi, in vita, porta avanti lo
stesso ideale di giustizia, perché, come diceva Falcone, "Si muore quando si
è lasciati soli", e noi non vogliamo essere complici di questo silenzio >
***
arci arcobaleno: < Sono Mario del Circolo Arcobaleno di Roma; ci
conosciamo per via di un abbonamento a Casablanca. La sua condotta è
l’AZIONE, e l’azione è la cosa che manca oggi in Italia.
Mentre “penso” cosa fare, se mi mandi il suo Iban le mando i miei
risparmi >
***
Giovanni Mannino: < Sono un educatore dell'Agesci Sicilia, incaricato al
Settore Pace Nonviolenza e Solidarietà, referente per Libera. Sono tra i
fondatori dei "I Briganti" rugby Librino e sono amico dei ragazzi della
"Periferica"
di Massimo Nicosia. Mi fa sempre rabbia quante cose che la gente non è a
conoscenza e quanti "topi" che si sono mangiati tutto il formaggio
amministrano Catania e le ns città siciliane da decenni... ormai! Mi sono
permesso, dopo averlo letto l'articolo su Graziella su Peacelink, di
pubblicarlo sulla pagina dell'Agesci Sicilia. Mi metto sin d'ora a
disposizione per qualsiasi azione di "lotta" civile e nonviolenta, credendo
che cose di questo genere succedono solo in Italia e doppiamente nella
nostra Sicilia.
Un forte abbraccio. I CARE ancora! >
***
Fernando Benigno: < Caro Riccardo, a nome della Scuola di formazione
politica Antonino Caponnetto, esprimo tutta la vicinanza e solidarietà
umana e professionale a Graziella. Lor Signori presentano sempre il conto,
come metodo, a chi ha scelto di parlare, o scrivere, anzicché tacere, a chi ha
scelto la libertà piuttosto che il servilismo, a chi ha scelto di avere e
difendere la dignità piuttosto che svenderla. Ci impegnamo ad essere al
vostro fianco per le iniziative che intraprenderete.
Un saldo abbraccio a tutti voi e a Graziella in particolare >
***
[email protected]: < Vorrei essere informato di eventuali iniziative per
aiutare Graziella Proto. Sia per promuovere la storia, sia per raccogliere
fondi, sia per iniziare a contribuire con una piccola somma sperando che
altri seguano >
***
Lidia Menapace: < Davvero, aprite una sottoscrizione o indicate qualche
altra cosa (una petizione, una raccolta di firme di protesta, un appello
all'Ordine dei giornalisti, che so?) per aiutare Graziella, non si può stare a
guardare >
***
[email protected]: < Aiutare Graziella Proto non significa solo
aiutare una giornalista coraggiosa, nemica della retorica e non riconducibile
ad alcuna "parrocchia" politica. Significa difendere il diritto dei cittadini ad
avere un'informazione libera e togliere dal cono d'ombra, antesignano della
morte civile, chi per amore della giustizia e della lotta alla mafia militare e
borghese, ha investito tutta la sua vita, i suoi averi, la sua faccia.Tutta questa
passione civile era per noi, che ne abbiamo fruito, tratto informazioni,
riflettuto e adesso siamo noi a dover ricambiare l'immenso debito di
gratitudine nei suoi confronti. Un grazie a , Pino Masciari e Antimafia
Duemila per aver rotto l'isolamento mediatico e pubblicato la vicenda.
Forza Graziella!!! >
11 giugno 2009
GIORNALE RADIO
"Elezioni. Il Polo della Libertà di Silvio Berlusconi batte di misura, con
poco più di due punti di vantaggio, l'Ulivo di Romano Prodi. Il Presidente
Giorgio Napolitano ha dunque incaricato oggi il dott. cav. Silvio Berlusconi
di formare il Governo".
Ma vediamo nel dettaglio i risultati delle elezioni. Forza Italia, al 35 per
cento, perde due punti (a causa soprattutto dell' astensionismo in Sicilia)
mentre la Lega (10,3 per cento) ne recupera uno grazie al successo della
campagna d'ordine nei paesi più tradizionalisti della Baviera. "Basta con
negri, ebrei, zingari, comunisti e omosessuali": uno slogan semplice ed
efficace, i cui toni gli osservatori attribuiscono alla necessità di far presa su
un target territoriale non certo composto da sofisticati intellettuali ma che
ovviamente non comporta alcun pericolo reale per le categorie così indicate.
Il risultato complessivo, 45,3 per cento, non è certo eclatante ma neanche
da disprezzare.
Difficilmente tuttavia consentirà l'attuazione del programma
(Totalmaggioranzen, Fuhrerprinzip, Reich millenario) che il Capo aveva
espresso alla vigilia delle elezioni. In fondo, in Italia - fanno notare alcuni il governo è appoggiato, tenendo conto delle astensioni, solo dal 26,2 per
cento degli elettori: "Un italiano su quattro.
E con uno su quattro si può a malapena governare, altro che fondare
regimi".
A livello di gossip c'è da notare che molti esponenti del Polo non
nascondono in privato la soddisfazione per le dure parole pronunciate a
caldo da don Angelo Bagnasco (il successore di Baget Bozzo alla guida
spirituale del Polo): "Su l'ese tegnuo serrou u scagnu ("se avesse tenuto
chiusa la bottega", ndr) gh'aviescimu faetu un cu cuscì ai cumunisti". Ma
non è detto che il Polo sarebbe riuscito a conquistare la maggioranza
assoluta anche se Noemi fosse rimasta a fare i compiti a casa sua.
Molto più frastagliato, ma non meno compatto, lo schieramento
dell'Ulivo, che ha mancato il sorpasso di soli due punti, attestandosi
comunque su un onorevole 43,1 per cento. I Democratici (guidati stavolta
da un dc combattivo e non da un "comunista"
marpione) contribuiscono col 26,2 per cento. Segue Di Pietro (o meglio
l'Italia dei Valori, visto che s'è finalmente deciso di abbandonare la
personalizzazione) con un ottimo 8 per cento. Poi la Sinistra, (Prc, Sl, Pdci,
Verdi) con un buon 6,1 per cento (un anno fa poco oltre il 4) e infine i
radicali col loro 2,4 per cento.
"Combatteremo uniti, governeremo uniti, difenderemo uniti i magistrati e
la legge di tutti" ha dichiarato subito Di Pietro.
"Certo. E uniti organizzeremo organizzeremo il primo sciopero generale
unitario di tutti i lavoratori italiani e stranieri" ha aggiunto il leader della
Sinistra, Zanotelli.
"Giusto. Da oggi c'impegneremo in una opposizione dura e pura - ha
concluso Prodi - contro questo governo piduista e razzista, per salvare
l'Italia dalla crisi facendo appello alla sua più grande risorsa umana, non i
banchieri e i manager ma il popolo dei precari e dei lavoratori. Viva l'Italia".
22 giugno 2009
GLI STUDENTI DI TEHERAN E QUELLI DEL G8
“A un certo punto decine di poliziotti ar mati sono penetrati nella scuola
dove noi manifestanti avevano messo su il centro-stampa. Hanno sprangato
a sangue tutti quelli che hanno trovato e li hanno portato via sanguinanti.
Poi si sono accaniti sui computer e li hanno fatto a pezzi”.
Siamo nella lontana Teheran, capitale del regime integralista dell'Iran.
Niente di occi dentale, naturalmente. Da noi ci sono parti ti democratici, da
loro gli ayatollah. Da noi la Chiesa non interviene delle faccende del lo
Stato, da loro c'è una Suprema Guida che parla in nome di Allah. Da noi
libere e de mocratiche “ronde”, da loro squadre fanati che di pasdaran. Da
noi soprattutto non può succedere che decine e decine di oppositori vengano
selvaggiamente picchiati, portati via e torturati in carcere subito dopo.
Qual è il problema principale del governo iraniano, in questo momento?
Far finta che tutto ciò non sia mai successo. Im porre il silenzio, censurare
(o com prare) i media, schernire la stampa straniera che non si può
controllare: “Nemici del l'Iran - dicono – Sovversivi, teppisti, pagati dal ne
mico”.
Un bel giorno, essi sperano, tutto questo sarà dimenticato; anzi,
praticamente non sarà mai avvenuto. I satrapi potranno torna re
tranquillamente a governare autoritaria mente, a rubare e a far festa fra
cortigiani e veline nei palazzi.
O forse no. Distruggere il centro-stampa di Teheran adesso non è servito a
niente. C'è Twit ter, c'è YouTube, c'è l'internet. Come si fa a sprangare anche
questi?
Mai la verità è stata così impopolare presso i satrapi – occidentali e
orientali – come adesso. Mai è stata così palesemente (le leggi anti-cronisti
qui in Italia) persegui tata in tempi moderni. Ma non è stata mai così forte,
grazie all'internet: che non si può imbavagliare.
Avremo, noi giovani, il coraggio (e la professionalità, la serietà, il fare
rete) di servircene fino in fondo? Poveri satrapi, in questo caso, poveri papi
e poveri ayatollah.
22 giugno 2009
PERCHÉ BISOGNA APPOGGIARE I SICILIANI
Chiediamo a Libera, all'Ordine dei Giornalisti, al sindacato, alla Lega
delle Cooperative di prendere pubblicamente posizione a favore dei
Siciliani e di organizzare in prima persona la solidarietà con essi. Non è
solo “aiutare i Siciliani”. E' fare tutti un passo avanti, difendere una
libertà sotto attacco per difenderle tutte
“Il clima morale della società è questo. Il potere si è isolato da tutto, si è
collocato in una dimensione nella quale tutto quello che accade fuori, nella
nazione reale, non lo tocca più e nemmeno lo offende, né accuse, né
denunce, dolori, disperazioni, rivolte. Egli sta là, giornali, spettacoli,
cinema, requisitorie passano senza far male: politici, cavalieri, imprenditori,
giudici applaudono. I giusti e gli iniqui. Tutto sommato questi ultimi sono
probabilmente convinti d'essere oramai invulnerabili”.
***
E' una città del sud - anni '80 - quella di cui ci parla Giuseppe Fava. Con
la sua mafia, la sua violenza, e soprattutto il suo stretto rapporto con poteri
politici, imperi economici e monopolio dell'informazione. Quest'ultimo è
l'anello essenziale, quello che dei vari elementi fa un Sistema. Lo sappiamo
tutti. Sappiamo come funziona Catania, come funziona il sud.
La novità è che oggi Giuseppe Fava non parla più di Catania. Parla di
tutta Italia, parla di Milano, parla di Roma. La mafia - com'era facilmente
prevedibile – ha risalito il nord. La volgarità d'un Graci o d'un Rendo
riempie oggi, con altri nomi, le chronicles from Italy della stampa
internazionale. Tutto ormai è dilagato dappertutto. Ancora una volta, il
centro è il monopolio dell'informazione. Non solo per la rimozione delle
notizie (che è ormai abituale), ma soprattutto per la decostruzione
sistematica dei pensieri comuni e la loro sostituzione con altri congrui al
sistema, non civili.
***
Come ci vorrebbe adesso un Giuseppe Fava, un Siciliani! Allora, la lotta
sua e dei suoi ragazzi fu durissima, e non priva - per quella fase - anche di
successi. Lui la pagò come sappiamo. I suoi redattori con vite durissime, ai
limiti del tollerabile, fra miseria e minacce. Eppure, nessuno tradì. Molti
continuarono. I Siciliani, in realtà, non sono finiti mai. Hanno strade
diverse, diversi nomi. Ma ci sono.
***
L'Ordine dei giornalisti, il sindacato (la corporazione insomma: nel senso
antico e tecnico, di mestiere) negli anni di Giuseppe Fava sono stati
lontanissimi da lui. Sembrava un mestiere tranquillo, una “professione”;
qualcosa che garantisse insieme uno status sociale e una funzione. Che non
ci sono più. “Giornalista”, in questi anni, è tornata ad essere una parola
ambigua, su cui fare scelte: o Ministero dell'Informazione, o militanza
civile. La nostra “corporazione”, spalle al muro, sta scegliendo ora. Alcuni
pochi tradiscono; per molti invece è l'ora della dignità.
La Lega delle Cooperative (di cui I Siciliani facevano parte) tradì
Giuseppe Fava e i suoi redattori. Preferì fare affari con gli imprenditori
collusi. Questo l'abbiamo pagato con infiniti dolori. Cosa intendono fare,
dopo un quarto di secolo, coloro che la reggono ora? Possono rimuovere,
certo, queste righe. Ma sappiamo che in questo momento le leggono. E
aspettiamo la loro risposta.
Al tempo di Giuseppe Fava, il nuovo movimento antimafia era agli albori.
Noi abbiamo contribuito a fondarlo (l'Associazione I Siciliani, Siciliani
Giovani, l'idea di distribuire i beni confiscati) ma da allora se n'è fatti di
passi su questa strada. C'è Libera di don Ciotti e dalla Chiesa, ci sono le
associazioni locali, c'è Addiopizzo. Ci sono addirittura dei politici che sono
saliti a Roma o Bruxelles grazie principalmente alle tematiche antimafiose;
ed interi partiti che si appoggiano ad esse.
***
Dall'Ordine e dal Sindacato dei giornalisti, dai dirigenti di Legacoop,
dagli esponenti dell'antimafia civile, ci aspettiamo una pubblica e
combattiva presa di posizione sul caso dei Siciliani.
La sottoscrizione è già partita (l'appello è a pagina otto) e hanno già
cominciato a rispondere i cittadini. Ma è evidente che non avrà successo
senza l'appoggio aperto e organizzato di forze ben più grandi di noi.
Servono soldi e serve appoggio politico, (forse ancora di più).
La lotta dei Siciliani è stata, e in un certo senso è ancora, una delle lotta
più dense del dopoguerra: contro il sistema mafioso, per l'informazione. E'
un caso esemplare, un modello; e come tale va usato. Schierarsi
pubblicamente coi Siciliani, qui ed ora, è la cosa più “politica" che ci sia.
3 luglio 2009
I GIORNALISTI DI PRIMA LINEA E L'ANTIFASCISMO DI OGGI
Neanche il secondo fascismo ama i giornalisti. Fra scandali e disastro
economico, come si salverebbe il regime, se la gente fosse informata?
Perciò propaganda e bavaglio a tutta forza. E noi? Noi giornalisti liberi
abbiamo il dovere di tener duro finché non arriveranno gli altri.
L'antimafia è l'antifascismo dei nostri giorni
Il Pil, secondo la Corte dei Conti, "è sceso ancora dell'uno per cento e il
debito pubblico ha raggiunto la cifra di 1663,65 miliardi, pari al 105,8% del
Pil". Il rapporto deficit/pil è salito al 9,3 per cento. Lo Stato è sotto di
almeno 34 miliardi di euri.
Il governo, se ancora esiste, non ha idea di come affrontare questa
catastrofe. Tira avanti giorno per giorno, fra uno scandalo e l'altro. Ha solo
due idee chiare: trovare un capro espiatorio - immigrati, stranieri – su cui
scatenare gli odii, esattamente il fascismo con gli ebrei; e impedire a ogni
costo che la gente sappia qualcosa. Propaganda, bavaglio, e ora anche leggi
apposta antigiornalisti, servono a questo.
Da questi due punti di vista è esattamente come ai tempi del fascismo. Le
leggi razziali ci isolano dall'Europa e portano a galla gli elementi più feroci
del regime (ieri i Farinacci, oggi i Bossi). Il blocco dell'informazione (non a
caso il governo esalta Putin e Gheddafi) produce una “democrazia"
annacquata, non abolita formalmente ma resa inutile di fatto.
***
In questo quadro, il ruolo del giornalista libero è vitale. È un'area che si
estende sempre più: non solo i resistenti singoli di un tempo, ma aree
sempre più ampie del giornalismo “ufficiale” (non ci stancheremo di
sottolineare l'importanza dello spostamento “a sinistra”, in questi mesi, di
soggetti come l'Ordine dei Giornalisti e la Federazione): anche ai tempi di
Mussolini i giornalisti “perbene” divennero in gran parte antifascisti.
Restano tuttavia decisivi i “fanti” in prima linea, quelli di guardia nel
deserto. Lasciarli soli ora è pericolosissimo, perché dietro di loro non c'è
ancora una linea di resistenza organizzata e dunque non possono cedere a
nessun costo.
Uno, come i lettori sanno, è Pino Maniaci. “C'è un piano della mafia per
eliminarmi”. “Le famiglie di Borgetto, Montelepre, Partinico, Cinisi e
Terrasini”. “Hanno dato il via libera in queste settimane”.
Non sono affermazioni da poco, dette da Pino. Ci impongono solidarietà e
attenzione - solo pochi politici ne hanno avuta: Lumia, la Borsellino, il
solito Giulietti - ma ci chiedono anche una strategia generale, di
contrattacco.
***
Poche parole ancora servono per delineare, nel fascismo-antifascismo in
cui ormai viviamo, l'obbligo della solidarietà con I Siciliani. Sono stati un
modello di lotta, di tener duro, di coerenza. E anche, nei momenti più alti,
un modello organizzativo, da imitare. Non solo giornalisticamente
(inchieste e cultura civile), ma anche politicamente, se riusciamo a dare a
dare a questa parola un senso alto, da comitato di liberazione, e non da
semplice affare di partiti.
A metà degli anni Ottanta, e poi nel '92-93, e ancora – con altri nomi –
negli anni dopo, la storia dei Siciliani (Siciliani, SicilianiGiovani,
l'Associazione I Siciliani, la prima società civile militante insomma) ha
costituito per l'antifascismo-antimafia di oggi ciò che i vari Gobetti e
Salvemini, il Partito d'Azione, il Non mollare, furono per l'antifascismo
antico. Una radice e un nucleo, provvisorio e immaturo, da migliorare; ma
solido e nettissimo, e in grado si tradursi prima o poi in resistenza generale.
Per questo bisogna studiare la storia dei Siciliani, con tutti i loro limiti ma
con le loro intuizioni; e solidarizzare col vecchio gruppo, che forse non fu
sempre all'altezza (ma neanche i primi antifascisti lo furono) ma si batté
sempre con coraggio incredibile e dedizione, spendendosi “ingenuamente"
per il bene comune.
Questo, nell'Italia di oggi, è un patrimonio prezioso, che non va sprecato.
I Siciliani appartengono a tutti, non possono essere rimossi da nessuno.
Cambiano a ogni generazione i volti e i nomi; non è neanche indispensabile
che si chiamino sempre I Siciliani, né che siano sempre incarnati dalle
stesse persone. La loro esistenza è tuttavia incontestabile, dopo un quarto di
secolo di lotte e di dolori. E questo è davvero un miracolo, una felicità da
continuare.
13 luglio 2009
DIGERIRE TUTTO
In Italia e in Zimbabwe il debito pubblico ha ormai largamente superato il
Pil e ogni giorno che passa lo Stato è sempre più vicino, finanziariamente
parlando, a eventi alquanto infelici. Nello Zimbabwe, il Presidente del
Consiglio Mugabe ha sguinzagliato le ronde con l'ordine di arrestare e
tradurre al suo cospetto il maledetto Pil, servo dell'Occidente e nemico della
rivoluzione.
In Italia, dove abbiamo un Presidente un po' più acculturato, l'ordine è
stato invece di non parlar più di Pil e di tappare la bocca a chi ci prova.
Esageriamo? Niente affatto.
Gli economisti dell'Istat hanno lanciato, nell'indifferenza generale, un
appello per difendere “la statistica ufficiale, che è un bene pubblico del
Paese”. L'Istat rischia infatti di dover sospendere per mancanza di fondi i
prossimi rilevamenti. Che erano, per Scajola e Tremonti, troppo frequenti e
tali da dare un quadro pessimistico dello stato dell'economia. Dove tutto va
invece benissimo e non c'è proprio nulla da temere.
E se, come dichiara la Consob, la piccola e media industria “è a rischio di
asfissia” perché “nei confronti delle grandi banche si riscontra lentezza nel
mettere al centro delle strategie il servizio al cliente”, ossia - per dirla in
italiano - perché le banche strozzano i piccoli imprenditori? Niente paura,
basterà non parlare più neanche di Consob. E lo struzzo-italiano restarà
tranquillo, col sedere per aria e la testa ficcata sotto un metro di sabbia. E
allegre musichette e spot rassicuranti che lo raggiungono fin sottoterra.
***
L'italiano, come lo struzzo, ormai digerisce tutto. Patti fra mafia e Stato,
trattative, per salvaguardare le quali fu assassinato – come ogni giorno che
passa emerge sempre più chiaramente – il giudice Paolo Borsellino? E chi
se ne frega.
Puttane, redattori, protettori e politici a libro-paga - paritariamente - degli
Affari Del Re, con solo qualcuna delle prime a dimostrare occasionalente
(“io certe cose non le faccio”) qualche barlume di dignità? E chi se ne frega.
Squadristi, mostri, lager, emigranti annegati, italians-musolini, italians
duce-duce, il mondo che ci ride dietro? E chi se ne frega.
“Noi tireremo diritto”. “Alalà”. “Duce a noi”. “Me ne frego”.
***
E' in queste circostanze, di questi tempi e in questo Paese che alcuni di
noi decisero di esercitare ancora, nonostante tutto, l'antico mestiere del
giornalista. Gli storici troveranno ciò molto interessante, e ancora più
interessante troveranno il fatto che non siano neanche mancati giovani
pronti a unirsi a questa avventura. Ma forse non saranno gli storici ad
occuparsi di noi in futuro ma, più sovieticamente, i manuali di psichiatria.
25 luglio 2009
MISS MAFIA E MR STATO: MATRIMONIO DIFFICILE,
FIDANZAMENTO LUNGO
L'accordo era che ciascuno si facesse i fatti suoi, senza pretendere
troppo: controllare il territorio, raccogliere un po' di voti, e soprattutto
tener buoni i contadini, cioè i “comunisti”. Poi la mafia, coi soldi
dell'eroina, è diventata troppo potente. Allora Andreotti ha cercato di tirarsi
indietro. Ma...
Lo stato, in Italia, ha sempre trattato con la mafia. Ha trattato ai tempi di
Giolitti ("camorrista" per Salvemini), di Mussolini (la fine del povero
Mori), del'Amgot (Calò Vizzini, Lucky Luciano), di Scelba (Giuliano e
Pisciotta) e, naturalmente, di Andreotti.Quest'ultimo, come si sa, si
incontrava con boss come Spatola che, con Badalamenti e Inzerillo,
formava il triumvirato della mafia di allora. Sia Spatola che Inzerillo furono
uccisi dai "Nuovi", i corleonesi. Badalamenti scappò in Brasile, e l'uomo di
cui si fidava era Tommaso Buscetta. Falcone, mediante Buscetta, aveva
l'obiettivo preciso di far parlare Badalamenti. Non ci riuscì.
Che cosa avrebbe potuto dire – e provare - Badalamenti, se Falcone fosse
vissuto abbastanza da convincerlo? Che l'onorevole Giulio Andreotti, capo
del governo italiano, aveva come interlocutori industriali, prelati, politici, e
anche i boss di Cosa Nostra. Adesso la cosa non farebbe granché scalpore,
perché è una storia vecchia, e perché l'opinione pubblica non è più quella di
prima. Ma nel '93, o anche qualche anno prima, sapere ufficialmente che un
politico aveva commesso il "reato di partecipazione all'associazione per
delinquere" Cosa Nostra, "concretamente", "fino alla primavera 1980"
avrebbe fatto saltare per aria l'Italia. Altro che Mani Pulite.
***
Per questo Falcone è morto e per questo è morto Borsellino. Ovvio che ci
siano entrati (come rozzamente si dice) "i servizi", pezzi di stato. Deviati,
ma fino a un certo punto. In certi anni, erano quasi ufficiali.
I rapporti fra Andreotti e Spatola – ossia, fuor di metafora, fra mafia e
stato – non erano finalizzati a assassinii (tranne che di comunisti, che allora
giuridicamente non erano esseri umani) , né ponevano a rischio l'autonomia
dello stato. Erano rapporti periferici, asimmetrici, localizzati. Il mafioso, ai
tempi di Spatola, al politico chiedeva cose circoscritte e locali, e il politico
gli rispondeva su questo terreno. Al massimo poteva chiedergli una strage
di contadini, seppellibili in fretta e senza troppo casino.
E' il tipo di rapporto che un ufficiale americano può avere oggi con questo
o quel warlord afgano, di cui si conoscono benissimo le atrocità, ma che
tutto sommato torna utile per tenere il territorio. "Datemi i voti – diceva alla
mafia lo stato - ammazzatemi un po' di comunisti e fate quel che cazzo
volete nella vostra isola di merda".
Poi, verso la fine degli anni '70, i signori della guerra si sono impadroniti
di testate nucleari. Cioè, oltre metafora, i mafiosi hanno messo le mani sulla
totalità del traffico mandiale di eroina e sono diventati dei grossissimi
imprenditori.
***
A questo punto i rapporti di forza si sono squilibrati. "Col cazzo che
restiamo a fare qualche affare di merda quaggiù in Sicilia! Vogliamo contare
dappertutto, vogliamo avere la nostra fetta d'Italia esattamente come tutti i
vostri imprenditori".
Si aggiunge, proprio in quegli anni, una diciamo così infiltrazione. Ad
esempio, gli ultimi 150 inscritti alla P2 stanno in Sicilia o sono siciliani.
All'estero (“golpe” Sindona) Cosa Nostra comincia a essere un interlocutore
a livello alto.
Quindi la partita cambia completamente. Quelli come Andreotti si
spaventano, cercano di tirarsi fuori. Però è un po' tardi, anche perchè se hai
aiutato il talebano a rubare una vacca e ammazzare un paio di comunisti,
quello ti ricatta per il resto della tua vita e pretende, pretende, pretende...
Mr Stato dice: va bene, adesso ti aiuto a rubare anche un paio di capre.
Miss Mafia dice: Col cazzo. Voglio il culo della regina Vittoria, se no dò al
Times le foto di te che rubi le vacche e ammazzi i comunisti insieme a me.
E il ciclo ricomincia e continua, sempre più incontrollabile e sempre più in
alto a ogni giro. Sta continuando tuttora.
10 agosto 2009
L'OTTO AGOSTO
Cronaca.
“Roma, 7 agosto. Il corpo senza vita di Fatima Aitcardi, 27 anni,
marocchina, ripescato ieri sera dal fiume Brembo a Ponte San Pietro, è stato
identificato dal fratello Mohamed che staamattina si è presentato ai
carabinieri per denunciare la scomparsa della sorella, uscita di casa ieri alle
14.
L'uomo, che invece è regolare e vive proprio a Ponte San Pietro, ha
raccontato che Fatima era disperata: era irregolare in Italia, aveva tentato in
tutti i modi di regolarizzare la sua posizione ed era terrorizzata dalla
scadenza di domani, giorno in cui la clandestinità sarebbe diventata reato.
Questo l'avrebbe portata a togliersi la vita”.
Storia.
Il giorno 8 agosto 2009 in Italia è cominciato ufficialmente il fascismo per
una parte della popolazione. La legge è stata regolarmente emanata dal
regolare governo (anche il fascismo di allora cominciò come governo
“legale”) ed è stata regolarmente firmata da Sua Maestà il Re.
Non vale per ariani e padani, non ancora.
Ma la storia su questo punto è molto chiara: nessuna dittatura è mai
rimasta a lungo parziale.
Se questa sia davvero una legge, se questo sia ancora un governo legale,
saranno gli italiani a deciderlo, ognuno nella cascienza sua.
10 agosto 2009
LE VACANZE INTELLIGENTI
"Viva l'Italia, l'Italia che è in mezzo al mare, l'Italia dimenticata e l'Italia
da dimenticare, l'Italia metà giardino e metà galera, viva l'Italia, l'Italia
tutta intera"..."
Dipende. Le puoi passare su un ponte-gru a dieci metri d'altezza nel
tentativo di difendere, in un Milano oramai pre-industriale, il tuo e dei tuoi
compagni posto di lavoro. Oppure a veder cagare dei cavalli, di cui sei
appassionato collezionista, con in tasca il milione di euri che ti hanno dato
per prossenare il giornale che fu di Montanelli. Nel primo caso sei un
operaio, e di te non vale la pena di ricordare nemmeno il nome. Nel secondo
sei il giornalista più venduto d'Italia, e hai appena finito di sputare per soldi
su Enzo Baldoni (“amico dei terroristi”) o sulla moglie obsoleta del tuo
signore e padrone. Dipende.
Puoi essere – tutto dipende – a leggere, qui o su qualche altro povero sito,
come sta andando la storia di qualche vecchio giornale, un giornale
antimafia per esempio. Una storia bellissima, per tutti gli altri: per te è la
differenza fra restare ancora a casa tua oppure, ai primi freschi d'autunno,
finire in mezzo una strada. In tal caso sei un redattore, o redattrice, dei
vecchi Siciliani. Brutto mestiere.
Oppure puoi essere in qualche posto simpatico - Hammamet per esempio
- dove la vita non è poi così cara, molto meno comunque del quartiere di
New York in cui hai appena comprato casa e al limite puoi usare anche
quella di Craxi, che hai appena finito di pubblicamente elogiare. In questo
caso. Naturalmente, se. Veltroni. Non il communista impresentabile degli
anni 'Anta ma un managger moderno e cinico, possibilmente – speri te - di
successo.
Puoi essere – te lo auguro vivamente – un figlio di qualcuno, un hijo
d'algo. Del terribile Bossi, per esempio, e in questo caso questa è la tua
prima estate tranquilla negli ultimi tre anni, la prima in cui non ti hanno
selvahhiamente bocciato all'esame di maturità. Il babbo politico, per
premiarti, ti ha promesso un Ente, alla Fiera o all'Expò, vedremo: come i
vecchi babbi diccì d'un tempo, che finite le scuole piazzavano i voraci
figliuoli da qualche parte (suscitando la giusta indignazione del bue
lombardo contro Roma Ladrona).
Va bene, questo è uno stanco articolo di mezz'agosto. Che altro volete che
vi dica? Che c'è da dire, del resto, in quest'Italia ormai anziana che di estati
ne ha viste tante (quella di Tambroni, quella di Kappler, quelle delle bombe)
sopravvivendo fortunosamente - Pertini, lo Stellone, er Poppolo 'taliano – a
tutto quanto?
E' troppo appiccicaticcia, quest'estate, troppo d'aria pesante, troppo
noiosa. Estate di vecchi film color seppia, di vacanze in colonia, di gerarchi
a Forte dei Marmi o a Fregene, di “bambini salutate tutti insieme il re e il
duce”. Che palle.
Fino a qualche anno fa l'ideale – un ideale burino, da bauscia; ma meglio
che niente – era la Milano Da Bere, il Trend, il Managment,
l'Entertainment, l'America; o una Svizzera mal riuscita, di quella che
s'incontrava già, da Bologna in su, in tutti quei posti già bellissimi, dai nomi
antichi, che erano una volta il mio Paese.
No, non è andata così. L'ideale in realtà è la sfilata, l'orbace, il capocondominio, l'ipocrisia cattolica, il portiere spia, l'odore di camerata, il “lo
sapesse il duce”. Questa è l'Italia profonda, altro che cazzi. Puoi fargli tutte
le democrazie e tutte le resistenze che vuoi, ma alla fine la faccdenda è così:
un terzo degli italiani non sono europei, non lo sono mai stati. E ora sono
quelli che ti spintonano e gridano più forte.
Ok, buone vacanze. Se venite per le vacanze quaggiù in Sicilia attenti a
non urtare un cadavere, quando fate il bagno. Ne sono annegati circa
millecinquecento, fra l'anno scorso e quest'anno, in questo nostro bel mare
di Sicilia. Africani, immigrati, negri, gente così, naturalmente: chi se ne
fotte? Viva l'Italia.
10 agosto 2009
RADICI DI UNA LUNGA STORIA. IL CORAGGIO DI LOTTARE
Perché tanti giovani, ancor oggi, dedicano tesi di laurea, studi,
solidarietà, “simpatia” ai Siciliani? Non è una storia passata, di certo
rispettabile, ma che con le cose di oggi non c'entra più? No, che non lo è.
L'”ideologia” dei Siciliani non è solo giornalismo, ma qualcosa in più:
professionalità e militanza, e “non mollare”
Sono passati molti anni da quando Giuseppe Fava fece il primo numero
dei "Siciliani" eppure decine di giovani, in tutta Italia, ancora gli dedicano
tesi di laurea, studi, "simpatia". Il fatto è che in tutti questi anni la storia
dei Siciliani (con svariati strumenti, e attraverso diverse generazioni) non s'è
mai interrotta.
Noi qui a Ucuntu, ad esempio, pensiamo di muoverci proprio sulla strada
dei Siciliani. Ma anche gente più "strana" (il piccolo giornale di quartiere in
Sicilia, il centro sociale di Napoli, l'esperto di economia di Milano) si sente
più o meno legata, e spesso effettivamente lo è, alla storia dei Siciliani.
Eppure i Siciliani erano un piccolo giornale e anche i soggetti civili che
da essi derivarono (Siciliani Giovani, l'Associazione i Siciliani, L'Alba,
ecc.), per quanto in alcuni momenti influenti, non erano dei grandi
movimenti di massa. E allora?
Forse un parallelo si potrebbe cercare nel filo che lega, ad esempio, la
storia di Piero Gobetti al Non Mollare, al primo antifascismo torinese e
fiorentino; e poi all'antinazismo militante, ormai europeo, dell'emigrazione;
e al partito d'azione, ai Rosselli; e al primo partigianato, a GL, alla
resistenza popolare e infine, in una larga misura, alla Repubblica.
Certo, fu un'esperienza "minoritaria" anche quella; eppure si rivelò utile,
per il Dna civile nel Paese, ben più di altre storie molto più "grosse".
Professionalità e militanza, estremo rigore tecnico e massima apertura ai
giovani e alle idee nuove; spirito di sacrificio ma non fanatismo; creatività e
artigianato; diffidenza (a volte snobismo) verso i partiti classici ma elogio
della politica come partecipazione civile; spirito fortemente unitario, da Cln,
ma coerenza e rigore, e mai un minimo cedimento al potere. Sarebbe stata
molto diversa, la storia d'Italia, senza il sale di quei piccoli gruppi di
cittadini.
***
Lo spirito dei Siciliani, in questo momento della storia, è più necessario
che mai. Tribalismo, mafia, prodromi di fascismo, crisi: ciascuna di queste
cose di per sé potrebbe ammazzare un Paese, e qui ci si presentano
tutteinsieme. Chi non è nel Sistema (nel senso di Saviano) ha ormai
introiettato da tempo una mentalità di sconfitta che lo rende incapace anche
solo di pensare a una reale opposizione. Gli scandali, le barzellette sui
gerarchi, le nostalgie sembrano l'unico modo di opporsi, qui ed ora. Chi si
oppone davvero – piccoli gruppi – tende a ghettizzarsi da solo
La sinistra di ora assomiglia moltissimo a quella degli anni Venti. In
piccola parte connivente o corrotta, in parte molto maggiore frastornata.
Non mancano gli urlatori, i ribelli a parole, i dannunziani. Dirigenti sempre
più incomprensibili, chiusi in se stessi, isolati; base non rassegnata ma
impotente e confusa. E però - come allora – il regime è lungi dall'avere i
plebisciti che propaganda. Lo appoggia solo un quarto della popolazione, e
non sempre; una massa circa equivalente gli è ostile. La differenza è solo di
volontà e di organizzazione.
***
Parlavamo di un giornale, e siamo finiti a parlare di queste cose. Ma che
c'entra un giornale con la politica? E' che un giornale, un giornale vero, non
può mai essere solo un giornale. La stessa ideologia “tecnica” (il buon
mestiere, la precisione, la puntualità) di un giornale è di per sé
immediatamente politica, molto più profondamente – spesso - della
“politica” ufficiale.
Lavorare, stare uniti, passar sopra alle piccole divergenze, sorridere,
essere sempre efficienti o almeno cercare di esserlo, sentirsi profondamente
parte di uno schieramento ampio e durevole e non di una semplice
avventura, non essere osservatori ma militanti. Non rassegnarsi mai a nulla,
e non illudersi mai. Governare le proprie azioni e speranze, in gruppo e
singolarmente, come se vi fosse affidata la sorte di tutto. Questa era la
cultura dei Siciliani. E questa serve ora.
10 agosto 2009
PECORELLA & C.
“Ma poi siamo sicuri che l'hanno veramente ucciso perché era contro la
camorra?
E chi lo dice? E se invece...”.
Questo sarebbe l'avvocato-politico Pecorella, ex di sinistra e ora di
Berlusconi, che parla di don Peppe Diana, il povero prete ammazzato dalla
camorra nel '94. Avvocato, fra le altre cose, di camorristi: per cui non
capisce se l'attacco a don Diana sia stata un'idea sua oppure no.
Comunque, scoppiato il casino, Pecorella ha glissato un po', poi ha fatto le
sue “scuse"
ed eccolo ancora là, presidente della Commissione Parlamentare sul ciclo
dei rifiuti, cioè sulla materia su cui la camorra fa i migliori affari. Il caso è
chiuso, torneremo a indignarci un'altra volta.
Come è chiuso il caso di Toni Zermo, che dopo la morte di Fava scriveva
un giorno sì e l'altro pure che la mafia (ma c'è mafia a Catania?) non
c'entrava, o di Tino Vittorio, che sulla non-mafiosità del delitto scrisse
addirittura un libro (“La mafia di carta”: la vera mafia? Gli antimafiosi), o
di Mario Ciancio, contro il cui monopolio Giuseppe Fava fece prima il
Giornale del Sud e poi i Siciliani.
Tanti anni dopo, Zermo fa ancora l'editorialista, Vittorio l'intellettuale
nobile da convegno, e Ciancio fa ancora Ciancio. Facile prevedere che
anche Pecorella, passato il breve infortunio, continuerà tranquillamente a
fare il suo mestiere.
È bella la solidarietà per i Siciliani, specialmente quando viene da
giornalisti, politici, pensatori e in genere da “persone importanti”. Da loro
però io preferirei avere un pensiero commosso in meno per “i ragazzi di
Fava”, e una citazione in più per coloro che, senza sparare, tentarono in tutti
i modi di eliminare Giuseppe Fava anche da morto, e sono ancora qui.
Meno lacrime per i don Diana, e più galera per i Pecorella.
19 agosto 2009
E SE DOPO L'ESTATE, COSÌ ALL'IMPROVVISO, ARRIVASSE
L'AUTUNNO?
C'è chi l'ha fatto occupando una fabbrica (addirittura in cima alla gru), il
ferragosto. Che pazzi, che disperati. Eppure, fra la sorpresa generale,
hanno vinto. Hanno salvato la loro fabbrica, alla faccia di padroni e
politici, e hanno dimostrato qualcosa che tutti si sforzano di far
dimenticare: che gli operai esistono, che sono indispensabili e tanti, e che
quando alla fine si muovono qualcosa di molto “strano” può ancora
accadere
Questi che vedete qua sopra sono esemplari rari, almeno ufficialmente,
per due motivi. Uno: prima di tutto, sono operai. Una categoria che, stando
alla tv e ai giornali, non c'è più. Esistono i bianchi, i neri, gli immigrati, i
padani, i rumeni, i laziali e tutto il resto ma quelli che fanno le cose, che
materialmente lavorano, in quanto comunità percepibile non esistono più. Il
concetto di “operai”, da un certo momento, in poi, è stato abolito dai media
e sostituito con altri più malleabili (i “popolani” di Bossi,per esempio).
Due: questi sono operai vincenti. La loro fabbrica, la Innse, nella Milano
“finanziaria” (= biscazziera) e non più industriale di questi anni, doveva
chiudere per una speculazione edilizia. La “politica” non è intervenuta, per
la buona ragione che non esiste più (la Moratti e Formigoni non sono più
politici come Aniasi o Bassetti ma semplici mediatori d'affari).
E allora? Far ronde, trovare un capo espiatorio, prendersela con qualche
zingaro o lavavetri? No. Seguendo l'antica ricetta del nonno, gli operai
dell'Innse si sono organizzati fra di loro, non hanno accettato i patti. Hanno
occupato un pezzo di fabbrica – cinque di loro si sono addirittura piazzati in
cima alla gru – e hanno passato l'estate così, lottando. Non per qualche idea
straordinaria (anche per quella, a pensarci bene) ma semplicemente per
difendere se stessi, il loro lavoro. Sapendo che se non ci pensavano loro, e
quelli come loro, non ci avrebbe pensato nessun altro.
Questo è l'evento politico dell'estate. I politicanti più abili, cioè la Lega,
hanno capito subito la pericolosità mortale, per loro, dell'evento. E hanno
subito gridato alla coartata libertà del padrone, all'indisciplina operaia,
all'orribile - all'orizzonte - lotta di classe.
E' giusto: il loro mestiere di crumiri (altro che “popolani”: loro sono
quelli che hanno lasciato smantellare le fabbriche della Lombardia
distraendo la gente con gli “al negro al negro”) li porta a capire prima degli
altri queste cose. Non a caso sono stati loro, cinque anni fa, a denunciare:
“Alla Zanussi, oltre metà sono stranieri!”.
Questo è lo scontro vero. I potenti hanno paura degli operai, come sempre
ne hanno avuta. Altro che veline e ronde: chi vive di lavoro, prima o poi,
vuole più libertà e più benessere, e - unito con gli altri – in realtà li può
ottenere. Ed ecco perché le parole “fabbrica”, “lavoro”, “operai” sono state
proibite da lor signori: difficile che le troviate sui loro giornali e sulle loro
tv.
Ma sono le nostre parole. Più soldi a chi lavora, più società nelle
fabbriche, più Marx (bestemmio?) e anzi, subito, più Keynes nel Paese. E,
qui al sud, più Italia, cioè più Stato del popolo, cioè lotta finale al Sistema
mafioso. Utopie?
Va bene. Fra poco verrà l'autunno: dici che rinfresca un po'? Anche l'
“autunno caldo”, quando io ero giovane - qualche anno fa - non se lo
aspettava nessuno. Eppure.
31 agosto 2009
L'ITALIA DI ENZO BALDONI
Ma sì, per una volta lasciamoli perdere i mafiosi, i “papi" rimbambiti e i
Calderoli. Pensiamo a persone serie, invece. Incomincia l'autunno,
incomincia bene – coi lavoratori che iniziano a difendersi dalla crisi e
votano a sinistra in Germania e in Giappone – e anche noi, qui,
cominciamolo con fiducia e allegramente. Alla maniera di Enzo. E vai!
Quanto tempo è passato dai tempi di Baldoni?
Sembrano cinque anni, ma sono molti di più. Un secolo, è passato, fra
l'Italia civile e pacifica che trottava sugli scarponi di Enzo e l'agglomerato
impaurito e feroce che vediamo ora. Di Enzo, rimane la buona e incuriosita
scrittura da "dilettante" da "viaggiatore" (parole profondissime, antiche
nella cultura italiana: ora spazzate via, coi corrispondenti concetti,
dall'assoluta non-traducibilità in italish); il sorriso mite e serio, da italiano
che ha viaggiato; e quel coraggio autoironico, da Don Camillo o Peppone,
alla "io-ci-provo" (non fu mica facile ammazzarlo: ci si dovettero mettere in
più d'uno, contro l'omone bonario che si difendeva la vita).
***
Baldoni, da questa Italia di ora, ha avuto il miglior premio che ci si
potesse aspettare: la dimenticanza.
In questo paese da barzelletta, con Milano capitale della prostituzione
minorile e della coca, con Napoli della caccia ai gay, con Roma e il suo
buffo sindaco fascista, con i nazisti al governo e il governo mezzo casino e
mezzo governo, che cosa c'entra gente come Baldoni? Ovvio che lo
cancellino, che non ne parlino più, che cerchino di farlo dimenticare.
Per noi ricordare Baldoni vuol dire due cose precise, una “cattiva” e una
buona.
Quella “cattiva”: il Feltri che ora ricatta i preti (per un milione di paga)
per conto di Berlusconi è lo stesso Feltri che allora calunniò in tutti i modi
possibili il “terrorista"
Baldoni. "Vacanze intelligenti", "Il pacifista col Kalashnikov" e infine
"Colpo in testa a Baldoni" furono allora i titoli di Feltri su Baldoni. Non
credo che allora gli dessero già un milione per fare queste cose e sarei
curioso di conoscere la cifra esatta.
***
Ma queste sono miserie. Il motivo vero per cui ricordiamo Baldoni è che
egli è uno di noi, un essere umano libero, e un giornalista.
Uno che faceva le cose, mica se ne stava a casa a piagnucolare “non si
può fare”. Se avessimo ancora spazio, diremmo che cose alla Baldoni nel
mondo, in questo momento, per chi sa vederle ci sono. Gli operai tedeschi
che votano per la sinistra combattiva. Il Giappone dove la borsa sale, sale la
disuccupazione – e la gente massicciamente vota a sinistra. L'Italia... Ma ne
riparleremo in autunno.
12 settembre 2009
GIORNALISTI IN PIAZZA PER LA LIBERTÀ
Anche noi di Ucuntu saremo alla manifestazione indetta per il 19 dalla
Federazione della stampa (il sindacato unitario dei giornalisti). È una di
quelle manifestazioni che non si dovrebbero mai fare se non in paesi come
la Russia o la Colombia, dove la libertà non esiste e il giornalismo è
vietato.
Eppure ci tocca farla in Italia, paese occidentale e “democratico”, dove
però la libertà di stampa è in pericolo ed ha bisogno urgente dell'intervento
attivo dei cittadini.
Per noi dell'antimafia, tuttavia, non è poi così importante l'appello dei
giuristi e nemmeno la cacciata di Boffo e le minacce a Repubblica. Sono
tutti episodi gravissimi ma che però, nell'Italia normale, sarebbero appunto
rimasti episodi, non paragonabili con gli assassini dei giornalisti in Sicilia o
coi trent'anni di monopolio di Ciancio o col sistematico strangolamento di
tutti i giornali siciliani d'opposizione; né con la cancellazione di intere
generazioni di giovani giornalisti, da quelli degli anni '80 a quelli delle due
ultime generazioni.
Tragedie imparagonabili, fino a poco tempo fa, alle traversie della stampa
nazionale; e che pure abbiamo dovuto affrontare da soli.
Ma quello che era il dramma privato della Sicilia - il giornalismo vietato,
l'uso della minaccia e violenza, il monopolio brutale – adesso è diventato lo
stigma dell'Italia intera.
Il fascismo mafioso, caratteristica nostra che si poteva credere locale,
adesso è nel Paese intero. Perché di fascismo si tratta – già diretto e
squadristico per le minoranze “inferiori”, ottuso e prepotente per tutti gli
altri - e non d'altra cosa.
Le cosiddette “leggi” razziali sono illegali, esattamente come lo erano nel
1938. Gli ordini impartiti a militari, di agire contro le convenzioni
internazionali e le leggi del mare, sono illegali tanto quanto quelli cui
disubbidivano, sfidando il duce, i migliori ufficiali della Regia Marina e del
Regio Esercito. La pestilenza morale – prostituzione di massa fra i giovani,
corruzione di massa fra i vecchi, vigliaccheria di massa fra i cittadini – che
sempre più segna le cronache cittadine, è quella del vecchio paese dei re e
dei duci.
Perciò scendiamo in piazza , in questo momento tragico della Nazione,
non per difendere corporazioni o vecchi senatori, ma per pietà della patria
che sta marcendo viva. È una battaglia durissima, che non ha bisogno di Vip
ma di giovani cittadini.
Non ha importanza se aderiscono o non aderiscono il famoso personaggio
mediatico o il grande scrittore. Saranno ben altri a decidere, quelli che
umilmente tengono, nel nord e nel sud del Paese, contro i delinquenti
mafiosi e contro i criminali razzisti, la prima linea dell'Italia libera,
dell'Italia civile, dell'Italia buona.
23 settembre 2009
NUESTRA REPUBLICA
Il 3 manifesteremo con tutti gli altri giornalisti per – come si dice “difendere la libertà” -. È una parola grossa. Ma a volte le parole grosse
sono adeguate. Lavoro, scuola, libertà di stampa – pilastri dell'Italia
moderna – sono minacciati
La nostra Repubblica era basata tradizionalmente su tre cose: il lavoro, la
scuola e la libertà. Lavoro diritto-dovere di tutti, cittadinanza reale, dignità.
Scuola gratis per tutti, perché nessun cucciolo, per qualunque motivo,
cadesse fuori dal branco: trasmettere le conoscenze – antichissimi istinti - e
proteggere i bambini. La libertà finalmente, la libertà spesso citata in toni
buffi o reboanti (come ad Atene, del resto) ma che tuttavia viveva nelle vie e
nei mercati. Per tre generazioni, in questa Repubblica, ognuno ha potuto
dire ciò che voleva.
I vecchi ricordavano benissimo di quando questa libertà non c'era. Si
poteva sorridere del gerarca, passarsi – con poco rischio - le barzellette sul
duce, far finta di salutare romanamente con un pigro e disimpegnato cenno
della mano. Si potevano fare tutte queste cose, ed altre ancora. Ma ciascuno
sapeva benissimo di non potere spingersi oltre, e soprattutto sapeva di non
contare un cazzo. Tre soli esseri umani contavano qualcosa in Italia: il Papa,
il Duce e il Re. Tutti gli altri, sudditi. Sudditi malcontenti, sudditi puttanieri,
sudditi tutto sommato contenti, sudditi (persino) eroici, sudditi - i più affogati nell'epica casalinga della sopravvivenza quotidiana. Ma sudditi tutti
quanti senza eccezione, minorenni tutta la vita.
Noi non vogliamo tornare a quel tempo, abbiamo lucidità sufficiente per
individuare i sintomi di quel male. Repubblica di Ezio Mauro è il Corriere
di Albertini. I giovani antimafiosi calabresi sono i socialisti di allora,
perseguitati dagli scherani del regime. I Dell'Utri e i Feltri sono i Farinacci e
i Dumini. Non sapete questi nomi? E studiateli, per Dio! Siete dei cittadini.
Scendiamo in piazza il 3 ottobre, noi di Ucuntu, per riaffermare questi
principi. Ma scendere in piazza è il meno. Per noi, che non abbiamo
scoperto la libertà oggi, quel che conta di più è il minuto e costante impegno
quotidiano. È bello annunciare che è pronta finalmente la grande inchiesta
sui giovani musicisti di una città siciliana, e che siamo in grado di dargli un
punto concreto d'incontro. C'è voluto un agosto intero di lavoro, per ottenere
questo, ma noi l'abbiamo fatto.
La civiltà del fare, del lavorare, del guadagnarsi la libertà, è quella a cui
noi orgogliosamente apparteniamo. Come i nostri amici di Modica, col loro
piccolo e agguerrito giornale “Il Clandestino”. Come i ragazzi di Locri,
ormai molto lontani dai giornali, ma che ancora sono lì. Come le decine e
centinaia di compagni che in questo stesso momento non solo sperano, non
solo pensano, ma concretamente lavorano per questa o quella piccola o
grande cosa utile a tutti. Questa è la nostra Repubblica, questa è la nostra
Costituzione viva. Questa difenderemo da chiunque con qualunque mezzo.
8 ottobre 2009
DISPERATO QUEL POPOLO CHE NON HA CITTADINI E POLITICI
MA SOLTANTO EROI
Una tragedia da terzo mondo in Sicilia. Non è la prima. E ci sono tutte le
condizioni (per esempio a Letojanni) perché non sia l'ultima. Eppure
nessuno interviene. E se qualcuno denuncia non viene ascoltato. Perché in
Sicilia i politici sono così irresponsabili, e il popolo così disattento? E'
Bangladesh o è Italia? E di chi è la colpa?
Non c'è molto da dire. Ha piovuto, tutto qua. Nel Bangladesh quando
piove più di tanto è una tragedia. Anche qui, in Europa. Almeno nel nostro
pezzo d'Europa.
“La colpa è dei politici”: certamente. A Messina c'è stato un centrosinistra
e un centrodestra, entrambi (per ragioni locali) padronali. Non sembra che
nessuno dei due abbia pensato – prima – a Giampilieri o in generale a cosa
può succedere alle borgate.
Adesso pateticamente si discolpano; alcuni, forse parecchi, in buona fede.
Chiedono, in buona fede, funerali di Stato. Saranno eletti di nuovo, alle
prossime elezioni.
E questo, qui in Bangladesh, è abbastanza normale. I politici sono notabili
che rappresentano semplicemente i più ricchi del paese, imprenditori e
costruttori. L'elettorato, del resto, non ha le risorse culturali necessarie a
controllarli. Non perché sia analfabeta; al contrario: perché è fin troppo
acculturato. “Politici? Tutti uguali”. “Io? E io che c'entro, che ci posso
fare?”. “A mia m'interessa 'u travagghiu ppi mme figghiu e basta”.
Il Bangladesh dei politici alimenta il Bangladesh culturale. Entrambi,
prima o poi, producono il Bangladesh fisico, quello che i popoli fortunati
guardano alla tivvù. Noi siciliani di solito siamo dal lato sbagliato del
televisore, quello delle vittime da intervistare in tono commosso. In gran
parte, per libera scelta nostra.
Non abbiamo politici in Sicilia, e forse non abbiamo neanche elettori.
Invero abbiamo eroi, questo sì: i Falcone, i Borsellino, i Pio La Torre; e oggi
i Simone Neri, il giovane che spontaneamente s'è gettato a salvare sei, sette
vittime – e all'ottava non è riuscito più a tornare indietro ed è morto.
Non è mai mancato il coraggio, in Sicilia. Ma sarebbe meglio se Simone
fosse ancora vivo, se non avesse mai avuto occasione di misurarsi con una
tragedia così disperata, da tempo di guerra. Sarebbe bastato poco. Ma quel
poco, qui in Sicilia, non è stato fatto. Così tocca a Simone, e agli altri come
lui.
***
Sarà la magistratura, speriamo, a dire le responsabilità dei politici, che
sono individuali, anche se infine riflettono l'intero sistema; e degli
amministratori, dei funzionari, delle varie categorie della società che
avrebbero dovuto intervenire e non l'hanno fatto.
Ma una categoria ci sentiamo, moralmente, di condannare anche subito
senza aspettare nessuno: quella dei nostri colleghi giornalisti dell'unico e
ricco quotidiano locale, la Gazzetta del Sud. Perché non hanno scritto? Non
dopo, con la commozione; ma prima, freddamente, da giornalisti. Dare
l'allarme in tempo, era loro dovere; giornalisti minuscoli (quelli di
Tempostretto, di Terrelibere, della rete No Ponte) l'hanno pur fatto.
Eppure, se a Messina incontraste un giornalista di Tempostretto o un
“politico” dei No Ponte, lo guardereste dall'alto in basso, con degnazione.
Davanti a un caposervizio della Gazzetta o a un segretario di Forza Italia o
dei Ds o di An, invece, v'inchinereste umilmente e con gran rispetto, pronti
a applaudire e a votare senza esitare un momento.
Ci sono, a Messina e altrove, giornalisti e “politici” che sono degni di
stima, di essere ascoltati. Il loro dovere, di fronte a Simone e a tutti gli altri
morti di Giampilieri, è di non scoraggiarsi mai, di essere coerenti, di stare il
più possibile uniti; e di non disprezzare mai neanche per un istante il popolo
che hanno scelto di servire. Quel popolo un giorno, forse, si sveglierà. Ma
fino a quel momento tocca a loro e soltanto a loro tenere botta, ai pochi, ai
consapevoli, ai liberi cittadini.
8 ottobre 2009
LAVORATORI... PRECARIII... PRRRRR!...
Berlusconi e Tremonti sono pentiti: non è più vero che bisogna
“mobilizzare” tutto e che il sistema “moderno” è quello senza posti di
lavoro fissi. Addirittura dicono che il sistema dei precari non funziona.
“Meglio tardi che mai”. “Oh com'è buono lei”. “Bontà sua, signor conte”.
Sì, ma allora? Mica i precari stanno meglio di prima. Mica è cambiato
qualcosa. E la sinistra? Se finalmente si svegliasse e aprisse una battaglia
seria sul precariato e sul lavoro?
"Non credo che la mobilità sia un valore. Per una struttura sociale come la
nostra, il posto fisso è la base su cui costruire una famiglia. La stabilità del
lavoro è alla base della stabilità sociale". Non lo dice uno della Fiom o dei
Cobas, ma il principale ministro (e aspirante successore) di Berlusconi. Il
quale si affretta a raddoppiare: “Precari io? Nooo... Sono perfettamente
d'accordo con Tremonti”.
I precari, in questi ultimi mesi, hanno preso pernacchie, calci nel sedere e
– spesso e volentieri – colpi di manganello in testa. E non è che nei quindici
o vent'anni precedenti le cose gli siano andate meglio. Questa, dagli anni
Novanta in poi, è stata una repubblica fondata sugli imprenditori, gli unici
autorizzati a prendere decisioni, gli unici ad avere dei diritti. Sindacato,
collocamento, salario, statuto dei lavoratori, contrattazione collettiva, posto
di lavoro: tutte cose terribili, da fannulloni, forse anche da comunisti.
Così è nato il paradiso degli imprenditori, il “libero mercato”. Che da noi
prima è stato tradotto in lavoro nero (o elegantemente “sommerso”) e poi in
“mobilità” e “modernizzazione”, ossia precariato.
In questo paradiso hanno beatamente arpeggiato tanto gli imprenditori di
destra che hanno privatizzato tutto alla maniera della scuola di Chicago
(non quella di Friedman, ma quella di Alfonso Capone) quanto quelli
“liberali” il cui liberalismo si estrinsecava soprattutto nel mandare
liberamente miliardi di euri in nero nei vari paradisi fiscali.
I bei risultati si sono visti: l'Italia, che era diventata una potenza
industriale a forza di lavoro serio, qualificato, di massa e sindacalizzato, è
scesa sotto la Spagna e scende ancora.Le industrie sono finite in Cina, gli
operai a spasso e gli industriali ai tavoli di poker o della Borsa, che è lo
stesso. L'Italia privatizzata degli anni Duemila ha molto meno benessere, in
proporzione, dell'Italia “cattocomunista” anni Sessanta.
A tutto ciò la sinistra (ma vuole ancora essere chiamata così? Bersani dice
che ogni tanto si può anche dire, e perciò mi permetto) ha contribuito
adottando sostanzialmente la mitologia del “privato è bello” e della
precarizzazione. Tocca a lei disgraziatamente, rimettere in piedi il Paese
tornando prima o poi alle ricette antiche. Per farlo dovrà tornare ad avere
dai ceti produttivi (compresi i disprezzati operai) la fiducia che aveva una
volta.
Difficilmente ci riuscirà cambiando calzini o disquisendo amabilmente
sull'eventualità di tenere o meno dentro il partito una franchista fanatica (da
Francisco Franco, capo del fascismo spagnolo e propugnatore, fra l'altro,
dell'Opus Dei) come la Binetti.
Due notizie veloci, per finire: il giorno in cui la Binetti contribuiva a
bocciare la legge per difendere i gay, nella classica Canicattì i due classici
sedicenni gay sono stati mandati all'ospedale dai classici compagni di scuola
educati - anche dalla Binetti - a pane e dagli-ai-froci.
In provincia di Parma, alla Spx di Sala Baganza, di fronte a un
normalissimo sciopero delle operaie, il padrone non solo ha confermato tutti
i licenziamenti, ma ha mandato delle guardie armate (armate di armi da
fuoco) per intimidirle.
Se l'avessero fatto gli operai si sarebbe parlato, giustamente, di
terrorismo. Invece gli imprenditori possono permettersi questo ed altro.
31 ottobre 20009
NOTIZIE DA CATANIA
Catania uno
Data: 30 ottobre 2009 07.08
Oggetto: Catania/ Ultimora
Poco fa la polizia ha sgomberato il centro popolare "Experia", un vecchio
cinema (di proprietà della Regione) che da diciassette anni costituiva uno
dei pochi posti di aggregazione dei quartieri popolari catanesi.
I ragazzi lo avevano ristrutturato completamente, trasformando il locale
fatiscente nel centro propulsore di attività civili - doposcuola, giocoleria,
sport, ecc. - che contrastavano efficacemente la presenza mafiosa nei
quartieri, dove l'Experia costituiva una delle pochissime zone libere da boss
e droga.
Le forze dell'ordine sono arrivate all'alba, caricando con violenza e senza
preavviso. Mi segnalano diversi ragazzi feriti. Lo sgombero è stato deciso
dal dottor Serpotta, magistrato catanese non particolarmente distintosi
nell'attività antimafia, e preceduto da una campagna di stampa di Alleanza
Nazionale, che a Catania governa da anni coi risultati che conosciamo.
È una giornata difficile per l'esile democrazia catanese e i giovani
dell'Experia fanno appello alla solidarietà di tutti i democratici e gli
antimafiosi.
Riccardo Orioles
***
Catania due
Siamo a Catania, si elegge il nuovo presidente della FAI, la Federazione
degli Autotrasportatori, e la scelta cade su Angelo Ercolano: l’ultimo
rampollo (incensurato) della principale famiglia mafiosa della città. Lo zio
Pippo è il reggente della cosca Santapaola (Nitto è suo cognato); il cugino
Angelo invece sta all’ergastolo per aver ammazzato Giuseppe Fava. Per
decenni la famiglia Ercolano ha investito i propri denari nella ditta di
trasporti, l’Avimec, poi confiscata per mafia. E non c’è subappalto per
movimento terra, da queste parti della Sicilia, che sia sfuggito alla premiata
ditta Ercolano.
Il vecchio boss Pippo, buon amico dell’editore Mario Ciancio, fu arrestato
proprio in un sottoscala ricavato negli uffici della sua azienda, ha già scritto
Walter Rizzo su l’Unità. E anche Nitto Santapaola da latitante si spostava
nascosto dentro i camion dell’Avimec. Adesso il nipote Angelo (fedina
penale immacolata), titolare della «Sud Trasporti s.r.l» (azienda pulita),
rappresenterà 1.500 trasportatori catanesi.
Non so come la prenderemmo se al nipote (incensurato) di Cutolo
avessero appaltato la ricostruzione de L’Aquila, o se al cugino (incensurato)
di Francis Turatello avessero affidato il Casinò di Sanremo.
Stupisce che nessuno si stupisca. E che il Giornale di Feltri distribuisca
invece un opuscoletto dal titolo “Dossier Sicilia"
sull’isola operosa e spregiudicata che tanto piace al padrone di quel
quotidiano.
In copertina c’è proprio la foto di Angelo Ercolano. La Sicilia che piace.
Claudio Fava
31 ottobre 2009
CATANIA CAPITALE! A NOI NERONE E ADOLF CI FANNO UN
BAFFO
Nel giro di ventiquattr'ore a Catania succede che: uno dei più stimati
professori dell'università viene sorpreso a ricattare una studentessa; il
giornale che proteggeva i cavalieri mafiosi si mobilita per discolparlo; la
polizia massacra a manganellate i ragazzi dell'unico luogo d'incontro dei
quartieri popolari, rei di fare antimafia e antidroga in mezzo al regno dei
boss. Altro che Norimberga del Terzo Reich: le régime, c'est nous!
Sarà violenta Napoli, sarà craavattara Milano, sarà marpiona Roma, ma
quello che trovi qui a Catania non lo trovi in nessun'altra città d'Italia.. Altro
che Marrazzo e altro che Berlusconi: qua i vecchi bavosi li mettono
direttamente a far scuola di vita all'università. “O me la dai o l'esame te lo
scordi!”. E se quella reagisce, subito arriva l'altro vecchio bavoso (questo
non professore ma pennaiuolo) e ti scatena una campagna che in confronto
Feltri è un chierichetto. “Bottana! A quel povero professore! Proposte
oscene e ribottanti, gli facesti!”.
E se invece di essere un vecchio bavoso sei una ragazza o un ragazzo
normale, amante della vita, con voglia di fare sport, di cantare, ballare, stare
allegro alla faccia dei boss? Prima o poi arriveranno le guardie a riempirti di
legnate in testa e a chiuderti a suon di botte lo spazio sociale che hai
faticosamente costruito in più dei quindici anni e che è l'unico spazio libero
del tuo quartiere, l'unico in cui boss e spacciatori non possono mettere
piede. Il che, nella città dei vecchi immafiositi e bavosi, è un gran reato. E
pertanto, giù botte.
Come sono allegri e simpatici, i giovani di Catania. Potrebbero avere il
paradiso in terra, e certe volte lo sanno. Potrebbero, se a comandare la loro
città non fossero questi vecchi incartapecoriti e feroci, gocciolanti di bile,
istintivamente nemici di tutto ciò che sia gioventù e divertimento. “Si deve
soffrire, a Catania!”, sussurrano feroci. E giù bastonate, intrallazzi, a volte
anche colpi di pistola.
***
Un “professore” come Elio Rossitto insegna regolarmente in questa
università e ne è anzi una colonna. Un “giornalista” come Toni Zermo, che
quindici anni fa aiutava i mafiosi a nascondere il delitto Fava, è ancora la
principale firma dell'unico giornale della città. Bische, bordelli, spacci di
cocaina, salotti-bene e benissimo, camere di compensazione degli appalti,
mercati di carni umane d'ogni genere prosperano tranquillamente in questa
città. I doposcuola dell'Experia, le giocolerie, le “officine popolari” di
biciclette, quelle no, non possono essere tollerate, e vengono senz'altro
distrutte d'autorità, chiuse con la fiamma ossidrica, murate col cemento.
“Anche voi poliziotti avete figli e fratelli qui nel quartiere...”. “Io, che ho
imparato lo sport al Gapa e adesso l'insegnavo ai ragazzini qui
all'Experia...”. “Non avete nemmeno portato un'ordinanza, non è legale...”.
“I quartieri hanno bisogno di sport e di giochi, non di violenza”. Seri e
civili, i poveri di Catania, gli “estremisti arrabbiati” espongono le ragioni
della civiltà contro i padroni della città. Non lasciateli soli.
27 novembre 2009
FABBRICHE CHIUSE, MAFIA NEL SISTEMA
L'ANNO DELLA RESA DEI CONTI
La crisi, da finanziaria, è diventata industriale; e tocca il massimo
adesso. Gli elementi mafiosi, da truppa di complemento, diventano
componente essenziale del sistema. Nell'economia, tornare a prima di
Keynes; nella società, tornare a prima di Falcone. Questi sarebbero gli
obiettivi di lor signori. Ma la partita, a dispetto di tutto, è ancora aperta
Le cose quando precipitano succedono tutte in una volta. Che, in bene o
male, il sistema stia andando a una decisione è evidente. Dal nostro punto di
vista – dell'antimafia sociale – gli eventi più importanti sono due: la crisi
industriale e l'integrazione ufficiale di pezzi di mafia nel sistema.
La crisi industriale (la produzione dei beni, l'occupazione, ecc.) è ormai al
suo culmine, e comincia a prendere connotati diversi dalla crisi finanziaria.
Quest'ultima, dal punto di vista delle banche, è data oramai per “superata”;
ma non lo è affatto, e tende anzi a diventare stabile, per i consumatori e i
produttori. Il sistema industriale che ne risulta, innestandosi sugli
outsourcing degli ultimi dieci anni e sulle delocalizzazioni degli ultimi
cinque, è completamente diverso da quello di prima della crisi: adesso è
puro Ottocento.
Le fabbriche occupate (con i padroni che cominciano ad attaccare le
occupazioni con squadre armate) diventano sempre più un elemento
“normale”, ancorché censurato, del panorama (qui in Sicilia, a Termini, gli
operai hanno occupato il comune e eletto un loro “sindaco”).
Rompere il silenzio dei media sulla crisi industriale è ora un obiettivo
essenziale dell'informazione dal basso. In questo senso vanno appoggiate
iniziative come quelle di CrisiTv.
L'altro elemento catastrofico, l'integrazione ormai aperta di pezzi di mafia
nel sistema, è ormai evidentissimo in una serie di fatti: la candidatura alla
regione Campania, e la difesa a oltranza su tutti i fronti, di un camorrista
accertato; la restituzione alla mafia, mediante un giro di compravendite, dei
beni sequestrati; il tentativo di abolire il concetto stesso di concorso esterno
in associazione mafiosa (fondamentale per colpire imprenditori e politici
del Sistema); il tentativo insomma aperto e dichiarato di tornare a prima di
Falcone.
***
Non è un'offensiva qualunque di una qualunque destra più o meno
rinnovata; è la resa dei conti, l'uscita programmata e cosciente dalla
democrazia.
Non si può dire che l'opposizione, nelle sue varie incarnazioni moderate o
radicali, se ne renda conto. Significativo il fatto che l'unica iniziativa
politica di massa di questi giorni (il NoB-day del 5) è nata al di fuori di
esse, direttamente da internet: questo apre una grande speranza, conferma
le previsioni dei pochi che avevamo intuito il significato politico della rete,
e assegna un significato di prefigurazione a episodi (regolarmente ignorati)
di mobilitazione dal basso via internet come il Rita Express di tre anni fa, il
cui abbandono è una delle colpe storiche della sinistra siciliana.
***
A Catania, microcosmo in cui si anticipano le tendenza del più grande
Paese, l'offensiva dei poteri contro la città è stata violenta sì ma nel
complesso bene affrontata. L'Experia, lungi dall'essere rasa al suolo senza
problemi, è diventata il caso sui cui si è aggregata un'opposizione forte e dal
basso, che minaccia di voler espandersi molto oltre l'occasione che l'ha
provocata. A Librino, le iniziative delle associazioni sociali (e anche di
qualche partito, come Rifondazione), hanno portato a una prima
acquisizione, la revoca della concessione a privati di Villa Fazio e la
possibilità di utilizzarla come centro vitale del quartiere.
***
Piccole vittorie, certo; ma che lasciano un segno. E s'inseriscono bene
nella fase immediatamente successiva, quella della Catania senza Ciancio –
la cui uscita dal mondo dell'editoria viene da sempre più fonti prevista per la
fine dell'anno venturo – in cui tutto il sistema dell'informazione subirà una
profonda trasformazione.
L'esito più probabile di quest'ultima, allo stato dei fatti, è quello di un
ciancismo senza Ciancio, coi grandi gruppi editoriali che colonizzano senza
problemi l'informazione in città, la “civilizzano” formalmente e la
dislocano, come sempre, a difesa dei grandi interessi edilizi e
imprenditoriali. “Cambiare tutto perché non cambi niente”.
Ma qui, per fortuna, anche noi giornalisti – e movimento – democratici
avremo forse qualcosa da dire. Ne parleremo fra un mese, il cinque gennaio.
Cerchiamo intanto di essere sempre di più all'altezza dei nostri compiti, che
ora possono essere decisivi.
9 dicembre 2009
DEMOCRAZIA 2.0/ DAL RITA EXPRESS AL COLORE VIOLA
IL FUTURO ABITA QUI
Internet permette di parlare (e rispondere) a tutti, e dunque permette a
tutti di organizzarsi. Non richiede Vip e non ha bisogno di ideologhi. Non è
contro i partiti, ma è molto più democratico e efficiente. Questo, mentre non
è escluso che la mafia possa trovarsi ufficialmente nel governo. Se così
fosse (saranno i giudici a dirlo) scatterebbe la disobbedienza civile e, per i
pubblici ufficiali, il rifiuto d'obbedienza
30 settembre 2007. Lorenzo wrote: < Ciao R. Sono uno studente
universitario di 24 anni, vivo tra Castelfranco Veneto e Padova. Ho letto il
commento in cui parli di sciopero dei precari organizzato su Internet. Vorrei
saperne un po' di più, la cosa mi interessa e sono prontissimo a dare una
mano >
< Guarda che sei tu che lo devi organizzare. Non hai bisogno di me, e
nemmeno di Beppe Grillo. Basta che trovi un paio di centinaia di precari
come te (nell'internet li trovi facilmente) e cominciate ad allargarvi (con
l'internet è facile) su un obiettivo preciso (sull'internet è facile fare brain
storming per individuare obiettivi) >
***
Beh, se avete passato gli ultimi anni a prevedere le ricadute politiche di
internet è probabile che dal cinque dicembre in qua vi sentiate un po' meno
utopisti e molto meno isolati. E' stata la prima manifestazione grossa
interamente organizzata su internet, senza Vip - gli organizzatori si sono
dimessi tutti appena fatto il loro lavoro) e senza politici di mestiere.
La prima, veramente, no: un paio d'anni fa, col Rita Express, molti
studenti s'erano organizzati su internet per organizzare manifestazioni per la
Borsellino; funzionò benissimo, ma nessuno (nè Rita) ci fece caso.
Adesso siamo molto più avanti, le dimensioni sono ben altre e siamo
abbastanza vicini alla massa critica. E' una svolta nella politica, una svolta
vera. Non è “contro i partiti” (goffi i tentativi di usarla in tal senso, tutto
sommato dentro il Palazzo) ma, più drammaticamente, “dopo i partiti”.
I quali infatti, se vogliamo guardarci negli occhi, da tempo brutalmente
non esistono più. Ce ne sono residui e surrogati, e caricature. Ma come
l'Ottocento (l'industria, il socialismo) rese obsolete le logge e i club e
“inventò” i partiti, così questi nostri anni (la comunicazione globale,
l'interattività) rendono obsoleti i partiti verticistici e inventano, sotto i nostri
occhi, qualche altra cosa.
Io credo che questo “qualcosa”, di cui non conosciamo ancora
esattamente i confini, ma che già cominciamo a odorare e tastare, sia
qualcosa di bello e (parlando da liceale) di ateniese. E' questa la nostra
frontiera. Ed è significativo che il prodromo, la versione 1.0, il Rita Express
insomma, si sia verificato all'interno del movimento giovanile antimafioso.
***
Il processo Dell'Utri, con la manifestazione targata internet,
apparentemente non c'entra niente. In realtà ne è l'esatto complemento,
l'altro polo. Dal processo Dell'Utri sapremo se è vero che Cosa Nostra (dire
Dell'Utri è dire tout-court Berlusconi) è andata anche ufficialmente al
governo. Se la presenza di Cosa Nostra in questo nostro regime – o, per
usare Saviano: questo Sistema – fosse ufficiale, allora non sarebbe più
questione di opposizione e men che mai di “regole del gioco” ma solo di
disobbedienza civile, di rifiuto d'obbedienza – per tutti i pubblici ufficiali
patrioti – e infine di restaurazione della Repubblica, nei modi che i tempi di
internet possono suggerire. Essi comprendono sia Obama che gli studenti di
Teheran,. Non toccherà a noi decidere quale di queste due strade ci toccherà
seguire.
UN EROE DEL NOSTRO TEMPO
Gianfranco Miccichè, sottosegretario alla presidenza: «Non mi sento di
escludere che Spatuzza voglia rifarsi un'immagine. E non escludo che sia
pagato, magari da magistrati, o da terzi».
Va bene. Proviamo a “non escludere” pure noi. Micciché comincia negli
anni '70, con Lotta Continua. A differenza di Rostagno o Impastato, cambia
idea ben presto. Nel 1984, con Dell'Utri, diventa capo di Publitalia a
Palermo; nel '93 coordinatore di Forza Italia in Sicilia. Nel gennaio '88,
sospettato di spaccio, "Non sono uno spacciatore - risponde - ma solo un
assuntore di cocaina".
L'8 agosto 2002 un'informativa dei Carabinieri ipotizza che si faccia
recapitare cocaina al ministero delle Finanze, dov'è viceministro. Ciò dopo
indagini sulle visite che il presunto corriere Alessandro Martello faceva
presso il ministero pur non essendovi accreditato. Lui smentisce.
27 dicembre 2009
I NOSTRI PROGETTI PER L'ANNO NUOVO
Beh, questo sarebbe il numero 60. Festeggiare? Mah: coi bicchieri di
plastica, magari. Ma poi considerarlo solo una fase riuscita di un
esperimento, che ci autorizza (prudente mente) a passare alla fase
successiva. Al solito, non da soli
A Catania qualcosa si muove. Tante persone sentono sempre viva
l'esperienza di Pippo Fava, credono nell'informazione come forza
indispensabile di una società democratica. Raccontano i misfatti della
mafia, le vite di quartiere, il sottobosco di interessi economici che
definiscono gli scenari politici. Non sono tutti “giornalisti professionisti”
ma dimostrano ogni giorno, al di là dei tesserini, che cos'è il giornalismo
fatto di verità.
I Cordai a San Cristoforo, La Periferica a Librino, Catania Possibile e
testate online, come Ucuntu, Girodivite, Argo, Step1, sono le principali
esperienze nate a Catania negli ultimi anni.
Il 5 gennaio 2009 abbiamo lanciato il progetto di lavorare assieme, di
aggregare le forze positive del giornalismo castanese (e non solo) per
combattere il monopolio della disinformazione e di quella pseudoinformazione che devia l'attenzione dai problemi reali. È nata così
l'Associazione “Lavori in corso”.
Da gennaio a oggi abbiamo lavorato assieme, ci siamo mossi in sinergia
mettendo in campo e valorizzando le risorse di ogni realtà e le competenze
di ciascuno. Abbiamo creato una rete tra le testate di base coinvolgendo
chiunque fosse interessato alla costruzione di un'informazione libera.
Assieme abbiamo condotto tre inchieste sfociate in tre dossier:
“Munnizzopoli” sulla gestione dei rifiuti, “Toccata e fuga” sulle band
emergenti e adesso “Case” sul disagio abitativo.
L'informazione non può continuare ad essere controllata da pochi che la
manipolano in tutti i modi pur di realizzare i propri interessi. Questi
meccanismi appartengono ai regimi autoritari e uccidono lo sviluppo
democratico della società.
***
Continueremo quindi a lavorare assieme, a raccogliere nuove forze, ad
allargare la nostra rete a Catania e non solo. Continueremo a raccontare ciò
che la stampa ufficiale omette, a fare inchieste e denunce, e soprattutto
lavoreremo alla creazione di un quotidiano indipendente fatto da chi vuole
portare avanti quell'etica di giornalismo definita così da Pippo Fava quasi
trent'anni fa:
“Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la
violenza la criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili, pretende
il funzionamento dei servizi sociali, tiene continuamente allerta le forze
dell’ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici
il buon governo. Se un giornale non è capace di questo, si fa carico anche di
vite umane. Un giornalista incapace - per vigliaccheria o calcolo - della
verità si porta sulla coscienza tutti i dolori umani che avrebbe potuto
evitare, e le sofferenze, le sopraffazioni, le corruzioni, le violenze che non è
stato capace di combattere. Il suo stesso fallimento! La verità! Dove c’è
verità, si può realizzare giustizia e difendere la libertà!”
Sonia Giardina
***
L'ANNO DEL DOPO-CIANCIO
L'esperimento di Ucuntu è andato avanti finora in modo soddisfacente:
sessanta numeri, diversi dossier, una visibilità nazionale e così via. Tutto
questo lavoro vien fatto su base volontaria, comporta fatica e stanchezza e
dunque fisiologicamente l'istinto sarebbe di contentarsi di ciò che si fa, e
magari gloriarsene, non certo di accelerare; visto che già è difficile tenere il
ritmo di ora.
Ma ci sono tre dati precisi che ci spingono invece ad accelerare la corsa:
1) il concept del prodotto (Pdf da Open Office, pensato sia per web che per
carta) è stato testato per quasi due anni e funziona; 2) gli interlocutori
nazionali ci sono: nell'area del giornalismo libero e altrove c'è interesse e
persino voglia di coordinarsi; 3) sono sempre più frequenti le voci di
cambiamenti radicali nel monopolio in Sicilia; l'anno che viene potrebbe
anche essere il primo a terminare senza Ciancio.
Perciò dobbiamo muoverci. Fermi restando i concetti “politici” di base
(centrare sulle periferie e sui quartieri; nessun compromesso coi poteri
attuali; promozione dell'unità fra tutti i soggetti virtuosi, sia “moderati” che
“radicali”), adesso cercheremo di fare un salto di qualità: essenzialmente
una specie di “Ucuntu” quotidiano (ristilato in tal senso), lavorato ogni
giorno con diversi altri siti e soggetti nazionali. Questo lavoro è già in corso
e attualmente la scadenza operativa per il numero zero è il 21 marzo.
Ciò potrebbe avere anche ricadute specificatamente catanesi: un
web/paper legato al concept di cui sopra potebbe anche trovare un suo
spazio di mercato. Al solito, non vogliamo lavorarci da soli.
Elogio dell'insufficienza, 'assemblamento delle risorse, impegno
“politico” e tecnico per la progettazione comune, unità.
R.O.
3 gennaio 2010
LA MEMORIA DIFFICILE E LE COSE DA FARE
Un altro anno è finito, un altro anno da fare. E così da tanti anni, da
quanti ce ne possiamo ricordare. E' lunga, questa strada. Difficile capire
quanto, se non ci cammini su
Ventisei anni fa. come questi giorni, in cui le persone normalmente sono
impegnate a guardare dentro le proprie cose, come nei giorni di fine anno.
Riccardo, nella vecchia redazione de I Siciliani, sta scrivendo un volantino
per organizzare la prima manifestazione del cinque gennaio. E' rimasto solo
l'intera giornata per finire il lavoro. Le mani sporche di inchiostro, la
scrivania piena di tabacco, il telefono con cui di tanto in tanto telefona, altre
volte squilla: è Claudio da rassicurare, è il professore D'Urso con cui
prendere accordi per l'associazione, è il prete palermitano che fa proposte
d'intervento. Lui, ascolta e ritorna sul volantino. Guarda di tanto in tanto,
dalla porta a vetrate, alla stanza d'ingresso, la stanza dove si fanno anche le
riunioni dei “Siciliani giovani”.
Ventisei anni e adesso che la lotta alla mafia ci ha messo nelle vite di ora.
Riccardo è nella sua casa a Milazzo e sta lavorando alle pagine settimanali
di Ucuntu, regolarmente mi telefona per sapere a che punto siamo con i
pezzi e con il lavoro a Catania.
Mentre pensiamo a come preparare gli interventi per il cinque gennaio, ci
sono altre dieci cose da fare, in cui spesso l'azione preminente non è
scrivere ma stare semplicemente dentro il lavoro di aggregazione sociale, a
Catania come in altre parti della Sicilia. E' lavorare con il gruppo dei
"Clandestini" di Modica; è "Librino" interpretata da Luciano, ma è anche
guardare il lavoro della "Periferica", e prestare attenzione al "Centro Iqbal
Mash" e al loro lavoro ; è fare il giornale daegli insegnanti precari a
Catania, è telefonare a quei due o tre preti dell'Isola che educano la gente
alla antimafia, è chiudere il dossier sulla "Emergenza case”, senza
dimenticarsi dell'Experia; è organizzare la festa di fine anno nel quartiere a
San Cristoforo; è sentirci tra di noi, e portare avanti questa "memoria
difficile"di Pippo Fava nelle nostre vite.
Con questa memoria portiamo avanti il “lavoro in corso” e tutto il resto, il
pallone tirato ai ragazzini dei quartieri e l'informazione da passare in rete.
La nostra memoria difficile fa il suo “lavoro in corso” nella stanza di Città
Insieme a Catania in Via Siena 1 . La nostra memoria difficile si rinnova
ogni mercoledì sera alle venti e trenta quando Piero, Sonia, Luca,
Giuseppe, Luciano, Massimiliano, Sebastiano Enrico, Giorgio, Chiara
lavorano insieme.
Tutto quest'oggi e tutta questa memoria così importante e densa, ma anche
così relativa e fragile, mentre pensiamo agli sguardi e ai dubbi, e al lavoro e
alla fiducia di ognuno che porta con sè questa responsabilità di ricordare
Pippo Fava. Come un girotondo incompleto in cui stiamo aspettando di
toccare le mani degli altri compagni. Con questa “pazzia” che ci portiamo
con fierezza siamo ancora lì, in quella stanza, a trovare le parole e ad
aspettare.
Fabio D'Urso
***
IL KITSCH E LA SPERANZA
Catania è una città abbastanza kitsch, con professori settantenni che
cercano di farsi le allieve promettendo bei voti, giudici che chiamano il
comune per raccomandare le mogli e roba del genere. Parliamo della
Catania “alta”, in realtà, quella che comanda: che è esattamente quella dei
Vicerè di De Roberto o - più modestamente – dei film con Turi Ferro. Ogni
tanto, anche, ammazza; ma più spesso è grottesca; questo mix di ridicolo e
di feroce è il proprium di Catania e la differenzia - ad esempio - dalla
solennità macabra di Palermo.
Entrambe le classi dirigenti delle due città (e di altre che loro
assomigliano, come Milano o Napoli o Verona) ambiscono a farsi modello
nazionale. E in buona parte ci riescono: un Feltri, un Berlusconi, un
Prosperini, non sarebbero mai potuti esistere se non si fossero incarnati
prima, con anni e anni di anticipo, in Sicilia.
Poi c'è l'altra Sicilia, dei siciliani che stanno in basso, la gente che
s'accapiglia e che lavora. Questa ha i suoi alti e bassi, come ne hanno il
Veneto o l'Irlanda, ma nel complesso (ci vuol coraggio a dirlo in questo
momento) è un paese civile, un po' cialtrone ma umano, rozzo - specie in
politica - ma dignitoso, vittimista oltre il lecito (il suo maggior difetto) ma
buono, nelle emergenze, a sostenere i Garibaldi e i Falcone.
Così, tutto sommato, non fu sbagliata l'idea, di tanti anni fa, di chiamarci
semplicemente “I Siciliani”. Ma sì: diamo fiducia ancora, senza troppe
illusioni ma con affetto, a questo nostro popolo, alla nostra gente.
Lotteremmo lo stesso, anche se questa fiducia non l'avessimo. Ma
l'abbiamo.
R.O.
10 gennaio 2010
E IL PRIMO MARZO SCIOPERO GENERALE
“Vediamo cosa succede se per un giorno noi non lavoriamo”. Sono le
antiche parole del movimento operaio, quelle che prima o poi vengono in
mente ai poveri stanchi di prendere bastonate. Adesso, sono gli immigrati a
dirlo. I primi di loro cominciano a organizzarsi. Diamogli una mano
Sarà il primo marzo il primo sciopero organizzato in internet in Italia.
Sarà uno sciopero importante, uno sciopero che non s'era visto prima e che
però era nell'aria da diversi anni: lo sciopero dei lavoratori immigrati.
“Ventiquattr'ore senza di noi”, l'hanno chiamato le promotrici. Di cui
bisogna subito dare i nomi, che probabilmente resteranno nella storia:
Stefania Ragusa, Daimarely Quintero, Nelly Diop e Cristina Seynabou
Sebastiani: secondo le mummie una “italiana” e tre “straniere”, in realtà
quattro italiane nuove, di cui non conta più tanto la razza e il nome: come in
America, per capirci.
“La società vive col lavoro di migliaia di stranieri. L'Italia collasserebbe
subito senza di loro. E'venuto il momento di farlo capire a tutti. Vediamo
che cosa succede se per un giorno noi non lavoriamo”. Non è n'idea
originale, d'accordo. E' semplicemente l'idea del vecchio socialismo, del
movimento operaio. Allora ha funzionato.
Migliaia e migliaia di iscritti su Facebook (“Primo marzo 2010”), comitati
locali dappertutto, un primo coordinamento nazionale. Come i Viola (e
prima ancora il Rita Express), ma più preciso e più mirato. Tre anni dal Rita
Express, un paio di mesi dai Viola. Le cose vanno in fretta, di questi tempi.
“Certo, non molti lavoratori immigrati hanno internete; ma li
contatteremo lo stesso; e molti ufficialmente non lavorano, o sono in nero, o
non possono permettersi di alzare la voce; ma penseremo anche a loro.
Anche uno sciopero degli acquisti può servire.
Che altro? Aiutiamoli - ma c'è bisogno di dirlo? - con tutte le nostre forze
e con tutto il cuore.
Info: [email protected]
***
Già, e poi dovremmo parlare degli altri, dei poveri “italiani” selvaggi (a
Rosarno come a Verona), di quelli che ormai non sono più italiani da un
pezzo ma semplice white trash, come in Alabama. Non abbiamo molto da
dirgli, salvo che ci dispiace per loro, e che ci vergognamo per loro, ma che
non intendiamo assolutamente pagare per loro, sprofondare nella cloaca
insieme a loro. Non sono più calabresi, non siciliani, non sono padani, non
sono niente. Sono solo una povera morchia umana, la vittima più vittima del
razzismo (gli schiavi si liberano, ma chi si crede padrone non si libera mai),
che ormai costituisce una zavorra per il Paese.
Questa zavorra, questo dieci per cento del paese, ha un suo governo
ufficiale e un suo governo di fatto. Quest'ultimo, è evidentissimo, si chiama
mafia, 'ndrangheta e camorra. Non può essere più combattuto con mezzi
normali.
Il governo ufficiale vorrebbe rozzamente servirsene, ma ne viene usato.
La 'ndrangheta che prende in mano il potere, che esercita funzioni di polizia,
che indice i pogrom (l'aveva già fatto la camorra a Napoli, contro i rom: e
col plauso di Bossi) non può essere combattuta con mezzi democratici.
Finché si scherza si scherza, ma ora si è davvero andati troppo oltre.
E' bene che il governo vi rifletta, perché la corda è stata tirata abbastanza.
O si ricostituisce un governo, o si fa appello ai paesi civili (Rosarno
povrebbe essere presidiata dalle forze dell'Onu, come l'Uganda), o gli
italiani prenderanno in mano la situazione.
***
Le parole “italiani” e “patria”, che noi usiamo raramente e con pudore,
cominciano a chiedere prepotentemente d'essere pronunciate e messe in
pratica, come nel '43. Beppe Sini, in queste ultime pagine, parla di
insurrezione e, da buon pacifista, aggiunge “nonviolenta”: ma non tutti
possono essere sempre pacifisti.
Per intanto chiediamo a quanti hanno funzioni di responsabilità civile e
militare – funzioni che hanno assunto con giuramento – di riflettere
profondamente su quel che è oggi, e quel che potrebbe essere domani, il
loro dovere di cittadini fedeli all'Italia e al giuramento prestato.
18 gennaio 2010
NON CONSIDERIAMOLO NORMALE
La pulizia etnica di Rosarno, cioè l'allontanamento forzato, con la
minaccia delle armi e per opera della 'ndrangheta, di tutti gli individui di
pelle scura da un dato territorio della Repubblica Italiana, è stata una notizia
per due giorni. Al terzo giorno dei fatti di Rosarno si parlava: - al quinto
posto, nella gerarchia degli argomenti, su www.repubblica.it; - al sesto
posto sul www.corriere.it; - in modo analogo su tutti gli altri siti
giornalistici “ufficiali”.
Una settimana dopo le prime fucilate e sprangate contro i neri, cioè, gli
italiani erano già ridiventati “brava gente” e, la situazione era, come si dice,
tornata “sotto controllo”. A Rosarno c'è stata addirittura una manifestazione
ufficiale, gestita dalla 'ndrangheta, per dire che i rosarnesi non sono razzisti.
Uno striscione contro la mafia, portato dalle ragazze del liceo, è stato fatto
chiudere dagli organizzatori.
Nessuno degli organizzatori o partecipanti alla manifestazione eversiva,
per quanto ci risulta, è stato arrestato. Né lo è stato alcuno degli
organizzatori e esecutori del pogrom, che è stato una vera e propria
ribellione, penalmente perseguibile, contro i poteri dello Stato. Nei primi
anni Settanta, sempre in Calabria, la molle prima Repubblica mandò
poliziotti e soldati a stroncare, volente o nolente, il “boia chi molla”. Ma
erano altri tempi e c'era ancora uno Stato.
Tutto ciò è vergognosissimo per i funzionari di polizia, per gli ufficiali dei
carabinieri e per tutti coloro che, avendo giurato fedeltà allo Stato, in effetti
l'hanno tradito lasciando che il potere statale venisse violentemente
usurpato, in quei giorni e in quei luoghi, dai boss mafiosi.
A loro parziale discolpa sta il fatto che gli ordini erano quelli: il governo
non era interessato a esercitare la sua potestà, delegandola di fatto - per
clientelismo politico e solidarietà ideologica - ai mafiosi. Un piccolo otto
settembre, con tutto il suo corredo di piccole vigliaccherie, di prepotenze
senza sanzione, di “tutti a casa”. Ma anche di isolati atti di coraggio: gli
abitanti di Riace hanno invitato i perseguitati a rifugiarsi nel loro comune,
salvando col loro gesto la malridotta dignità calabrese.
Anche su Rosarno, come su tutto il resto, il popolo italiano ha iniziato il
rassicurante dibattito di rimozione. Calabresi e siciliani hanno dimenticato
gli orrori da loro portati in altri paesi (altro che qualche disordine dei neri di
Rosarno): decine di migliaia di ragazzi assassinati in tutto il mondo dalla
loro eroina; la mafia sanguinosamente introdotta in paesi, come l'Australia o
il Canadà, che mai ne avevano sentito parlare; eppure né gli australiani né i
canadesi - popoli civili - hanno cacciato siciliani e calabresi. Su questo
dovremmo meditare profondamente, e provare anche vergogna.
E' difficile in questo momento gravissimo proporsi altri obbiettivi che non
siano il ripristino dei poteri legittimi su tutto il territorio della Repubblica e
la liberazione dall'occupazione militare delle mafie: perché di questo si
tratta e non di altra cosa.
In essa, il governo è collaborazionista col nemico. E buona parte della
classe politica, o per azione o per inazione, gli tiene mano.
Non c'interessano le loro opinioni su ogni altra cosa, finché questa
situazione dura. Siamo in un'emergenza non inferiore a quella del
dopoguerra, paghiamo prezzi altissimi e più alti ancora ne pagheremo (basti
pensare al ruolo dell'Italia nella comunità delle nazioni, a quell'essere
ributtati nel ruolo dell'Italian Fascist ridicolo e feroce).
Davvero quel che chiamate politica è politica? Che problemi concreti si
stanno risolvendo, o perlomeno affrontando, uno solo? Ci sono altre forme
di politica reale, qui e ora, che non siano in un modo o nell'altro
riconducibili a una ribellione?
C'è una guerra civile a bassa intensità, dei ricchi contro i poveri e dei
poveri fra di loro. Assume nomi e colori differenti, fra nord e sud, fra
“italiani” e “stranieri”, ma è sempre sostanzialmente la stessa. Nasce
dall'abbandono della politica (sostituita da simil-politiche fittizie e da
“partiti” e “istituzioni” d'accatto) e finirà con il ritorno della politica, cioè di
noi stessi.
Accadono alcune cose politiche (lo sciopero del primo marzo è una,
l'antimafia sociale è un'altra) e cresce l'intuizione fra i giovani che bisogna
organizzarsi, fare qualcosa. Ma non abbastanza in fretta. Razzisti, leghisti,
mafiosi, piduisti, ladroni d'ogni risma e vecchi puttanieri lavorano
alacremente a divorare la Repubblica, a distruggerne l'anima, a renderci
come loro. Non consideriamolo normale. Organizziamoci di conseguenza.
27 gennaio 2010
BUONE NOTIZIE (CON MOLTE PARENTESI) DALLA POLITICA
"ALTA". E NOI FIGLI DI NESSUNO?
Vendola vince, i “viola” continuano, il primo marzo c'è lo sciopero degli
immigrati e il 12 quello della Cgil. Bersani e Di Pietro s'incontrano
(miracolo!) per dire che sono contenti di lavorare insieme. Dov'è il trucco?
Non riesco a vederlo: perciò non dico che mi fido, ma cerco almeno di
seguirli con attenzione. Fermo restando che il lavoro duro, com'è sempre
stato, toccherà farlo a noi poveri figli di nessuno...
Riepilogo delle cose belle: continua il movimento dei viola, organizzano
qualcosa il sei marzo (ma non hanno pensato a unificare la data con quella
degli immigrati); continua l'organizzazione dello sciopero dei lavoratori
immigrati, il primo marzo (ma sono due gruppi distinti che se ne occupano,
e lavorano separati); la Cgil ha indetto uno sciopero generale antitasse per il
12 marzo (vedi parentesi precedenti); Vendola ha vinto le primarie in Puglia
(ma resta vanitosissimo); Bersani e Di Pietro, per una volta, non si sono
insultati a vicenda ma si sono incontrati per elogiare la vittoria di Vendola e
dire che sono contenti di essere d'accordo nella maggior parte delle regioni.
Queste sono alcune delle buone notizie che ci vengono dalla “politica”,
quella perbene. Non sono granché, d'accordo, ma sempre megliodi prima.
La malattia della sinistra è la divisione; pochissimi ne vanno esenti e negli
ultimi tempi le maggiori cazzate in tal senso le hanno fatte esattamente gli
amici politici miei (Fava e Vendola più di Ferrero, Ferrero più di Epifani, Di
Pietro più di... beh, lasciamo andare.
La verità è che si vince solo se si va tutti insieme, da Di Pietro al Pd
passando per la sinistra dispersa (grazie a Ferrero e Vendola) che però conta
il suo bravo milione (buttato al cesso) di voti.
Su quale politica andare insieme? Beh, di sinistra; o se proprio di sinistra
vi sembra assai, allora almeno di centro-sinistra. Ma del centro-sinistra doc,
quello dei socialisti (prima di Craxi) e delle riforme, che allora erano
proprio riforme e non imbrogli.
Come il divorzio (radicali e socialisti), lo Statuto dei lavoratori
(socialisti), il voto a diciott'anni (Pci e Dc), la scuola fino a sedici anni
(sinistra Dc), l'equo canone (socialisti e Dc), gli uffici di collocamento
(socialisti e Pci), il Concilio (lo metto come Riforma perché, tre secoli dopo
Trento, questo è stato). Senza dimenticare la madre di tutte le riforme (Dc,
Pci, Psi), la Costituzione, non a caso ancora odiatissima da fascisti, vecchi
puttanieri e ladroni.
Mi sono avventurato a parlare di politica perché, dalla politica loro,
qualcosa per una volta mi ha fatto annuire. Per un tempo brevissimo perché
poi, passato l'entusiasmo per la novità e tornato a ragionare posatamente, il
Riccardo normale mi ha detto: non lasciarti gabbare, questi ora sono con le
spalle al muro e fanno le persone serie, ma appena possono muoversi
tornano come prima: guarda in Sicilia, che cosa stanno combinando proprio
in questo momento. Fidati dei ragazzi vostri e di quelli che gli assomigliano,
e di nessun altro al mondo; la vera politica è questa.
E' vero, ho risposto io ancora in pennichella, certo che hai ragione. Ma
perché, poveracci, se quelli vogliono fare le persone perbene, o addirittura i
compagni, glielo dovremmo impedire? In fondo, è anche nel loro interesse.
Perciò stiamo a guardare non dico con fiducia, ma con attenzione. Fermo
restando che il lavoro più grosso, quello di pala e pico, quello che cambia le
cose davvero (1860, '1943, '68...) al solito tocca farlo a noi poveri figli di
nessuno.
3 febbraio 2010
SANT'AGATA E I GIORNI DI RACITI
A Catania Sant'Agata è una festa importante. E' una santa storica (è
esistita davvero, fra i primi cristiani), una santa sovversiva (ce l'aveva col
prefetto e centurioni) e dunque una santa popolare. E' una santa tradita.
Non solo – com esempre a Catania – dai mafiosi, che ci hanno messo sopra
le zampe impossessandosi della gestione della festa, dei soldi che ci girano
e di tutti gli aspetti materiali (c'è un processo in corso:
www.cataniapossibile.it). Ma anche dalle persone perbene, dalle autorità e
dai politici arcivescovo in testa.
Tutti costoro, cioè la grande maggioranza della Catania garantita, non
solo hanno lasciato ridurre in schiavitù dai mafiosi quella che nominalmente
sarebbe la loro icona; ma tre anni fa, nel febbraio 2007, l'hanno usata
cinicamente (“la festa deve nontinuare!”) per normalizzare la piazza nei
giorni dell'assassinio dell'ispettore Raciti.
Filippo Raciti, ucciso da fascisti e mafiosi (che lì sono alleati) il 2
febbraio 2007 perché si ribellava al patto di buon vicinato con fascisti e
mafiosi, non ha avuto giustizia e forse, nella città di Catania, ufficialmente
non l'avrà mai (a gente perbene, in questa città, anche senza giustizia dorme
bene).
Ha avuto invece – ma forse è ancora di più – solidarietà e amicizia vera. I
giovani della città, la minoranza dei buoni (ma a volte non solo minoranza),
nei giorni di Raciti si sono ribellati. Sono scesi in piazza, hanno fatto
assemblee, hanno detto alto e forte che loro con la Catania ipocrita non ci
stanno.
Non è stata una protesta effimera, un fuoco di paglia. Da quei giorni di
lotta sono nate crescita umana e organizzazione; e molti di quei giovani
hanno continuato a lottare anche dopo (noialtri di Ucuntu, per esempio, in
un certo senso siamovenuti fuori proprio da lì). Un ruolo forte l'ha avuto, in
quei giorni di costruzione e nei mesi dopo, la sede di Casablanca (di
Graziella Proto) che in quell'occasione è stata non solo la redazione di un
giornale ma anche un centro di organizzazione, secondo la buona tradizione
dei Siciliani; di lì la fase nuova, profondamente centrata sui quartieri, e i
soggetti nuovi: Cordai, Periferica, Addiopizzo, Ucuntu, e altri ancora. La
trasmissione della fiaccola, il passaggio di generazione e la continuazione di
tutto.
Adesso ci sarebbe da parlare di cose molto più moderne e tecnologiche (le
fabbriche, internet che si organizza, le cose nuove), ma non è male, una
volta ogni tanto, ricordare da dove siamo partiti. I giorni di Raciti non sono
ancora finiti. Sant'aAata, festa “folkloristica” e arcaizzante, in realtà è un
momento di “scandalo”, nel senso forte (e evangelico) della parola. E queste
cose ci chiamano, ci indicano a modo loro dove andare.
10 febbraio 2010
IN NOME DELLA LEGGE: DIFENDI GLI IMMIGRATI?
ARRESTATO!
E' il caso di Padre Carlo, di Siracusa: da anni “tenuto d'occhio” perché
prendeva le parti dei “clandestini”: finché l'hanno arrestato. Nessuno di
quanti lo conoscono crede alle accuse contro di lui. Una sola - che non
hanno osato esprimere - è vera: quella di essere un cristiano. Aiutare i
poveri, ospitare gli stranieri, difendere i perseguitati
Non è una chiesa come le altre. Nella Chiesa di Bosco Minniti a Siracusa,
da molti anni, tutti possono trovare rifugio; gli extracomunitari, scappati per
mille ragioni diverse dai loro paesi, ci abitano, la vivono, la animano
condividendo le difficoltà quotidiane. Entrateci all’ora dei pasti: è la mensa
di tutti i popoli. Al posto dell’altare una tavolata immensa dove almeno
cento immigrati di ogni nazionalità si trovano riuniti a mangiare. Alle pareti,
simboli di diverse religioni. Qui sono stati accolti anche molti di immigrati
scappati da Rosarno e presto ci saranno, come ogni anno, quelli che
arrivano per la raccolta stagionale nei campi tra Cassibile e Pachino.
Tutto questo dà fastidio ai potenti. In un momento in cui si tenta in tutti i
modi di rendere la vita sempre più impossibile agli immigrati, si compie
l’ennesimo attacco politico, l’ennesimo tentativo di stroncare l'accoglienza e
l'integrazione.
Padre Carlo D’Antoni è ora agli arresti domiciliari insieme ad altri otto
indagati (Antonino De Carlo, un collaboratore del sacerdote, l’avvocato
Aldo Valtimora e sei immigrati), accusati di gestire il rilascio di permessi di
soggiorno falsi. Il reato ipotizzato dal Gip di Catania è associazione per
delinquere finalizzata al favoreggiamento dell'illecita permanenza di
stranieri nel territorio dello stato italiano. E poi accuse di riduzione in
schiavitù e di falso ideologico in atto pubblico e false dichiarazioni a
Pubblico Ufficiale per aver “inventato storie travagliate e commoventi” al
fine di ottenere titoli di soggiorno per motivi umanitari o di protezione
temporanea. Inventato!.
Ma se è vero che molti extracomunitari finiscono nelle maglie del
mercato illegale delle regolarizzazioni e se è vero che un traffico di
clandestini tra Siracusa e la Campania esiste, gli immigrati di Bosco Minniti
dicono che l’attacco a padre Carlo è infondato, che lui non ha nulla a che
vedere col racket dei documenti, che non ha mai commesso quei reati.
Dicono che l’esperienza di Bosco Minniti deve continuare, in una chiesa
senza frontiere, aperta a tutti, un luogo in cui si lotta per il diritto a una vita
dignitosa.
Sonia Giardina
***
Padre Carlo Dantoni è stato fra i primi a seguire il processo per il
naufragio del Natale ’96 al largo di Portopalo e l'inchiesta di Dino Frisullo
sulla holding degli schiavisti. Dopo 13 anni si è arrivati alla condanna a 30
anni dei 2 imputati, anche se in seguito alle leggi razziali e ai respingimenti
in Libia le mafie mediterranee continuano sempre più ad ingrassarsi .
Come allora esigiamo verità e giustizia nel colpire i carnefici dei
migranti , ma ci opponiamo a qualsiasi campagna di criminalizzazione di
chi si spenda nell’accoglienza, anche disobbedendo a leggi ingiuste . Un
motivo di più perché la giornata di mobilitazione antirazzista del 1° marzo a
Siracusa e in Sicilia veda scendere in piazza i migranti e chiunque si batta
contro le nuove politiche d’apartheid.
Rete Antirazzista Catanese
***
ALLE LEGGI RAZZIALI BISOGNA DISUBBIDIRE
I “reati” di padre Carlo, se anche fossero veri, non sarebbero affatto reati
nuovi: c'erano già prima. “Aiuto a schiavi evasi”, come nell'Alabama dello
Zio Tom. “Aiuto a ebrei fuggitivi”, come nell'Italia del duce.
Non sono affato reati, in verità. Sono doveri per chi è cristiano - sono
obbligo per chi è civile - sono vergogna incancellabile per chi ne ha fatto
“legge” e angheria.
Alle leggi ingiuste bisogna disobbedire. Bisogna far fuggire gli schiavi,
nascondere gli ebrei, aiutare i “clandestini”. Per noi cittadini italiani (non
padani, non mafiosi: italiani) è un dovere precisissimo che ci ordina la
nostra sovrana, la Costituzione. E' infedele quel funzionario che,
nascondendosi dietro “leggi” antiitaliane, tradisce la Repubblica e viola il
giuramento alla Costituzione. “Io eseguivo gli ordini” non è, e non è mai
stata, una giustificazione.
La Fiat ora proclama apertamente: “Al diavolo voi siciliani! Io vi licenzio
tutti quanti e porto le mie fabbriche in Cina”. Ai vecchi operai settentrionali:
“E' vero, mi avete servito per quarant'anni - dice - Mi avete permesso di
nascondere miliardi e miliardi all'estero e di governare di fatto il vostro
paese. Che importa! Al diavolo anche voi tutti. Le prossime Cinquecento le
farò in Messico o in Brasile”.
E il popolo, instupidito, tace. Fino a quando?
R.O.
19 febbraio 2010
CHE COSA CI INSEGNA QUEL RAGAZZO QUALUNQUE
"Sono nato ad Agrigento il 18/10/1986, residente a Campobello di Licata
(AG), cittadino libero. Ho voluto specificare il mio status per combattere il
servilismo che ogni giorno di più avvolge il nostro Paese. Ho scelto di
rimanere in Sicilia, di non andare via anche se vivere qui è duro...".
E' l'incipit del blog di Giuseppe Gati, morto un anno fa d'incidente mentre
aiutava suo padre al lavoro, in campagna.
Della sua breve vita, qualcuno ricorda ancora le fiere parole - “Viva
l'antimafia! Viva Caselli!” - con cui interruppe gli insulti di un servo del
potere mafioso venuto a fare il suo sporco lavoro.
Lo afferrarono le guardie e se lo portarono via. Lui ricominciò la sua
esistenza normale: organizzare l'antimafia, aiutare la famiglia, portare avanti
il blog. Il filo era diventato assai breve, tutto ciò che Giuseppe avrebbe mai
potuto dare al mondo era ormai concentrato in quei diciannove anni. Ma
abbastanza per ricordarlo, per essere orgogliosi di lui, e profondamente
grati. Servono le persone così, molto più che i grandi eroi.
La storia di Giuseppe ci è venuta provvidenzialmente davanti mentre ci
arrabbattavamo per esprimere l'indignazione per le ruberie, per le
prostituzioni, per le insolenze di piccoli e grandi mascalzoni che sono ormai
la fauna abituale di questa decadenza in cui viviamo. Difficile trovare le
parole, e trovarne soprattutto di non volgari; perché la volgarità è
contagiosa.
A furia di scrivere e raccontare di anime basse qualcosa di quel grigiore
s'insinua dentro di noi; e la mediocrità, la povertà umana, la svendita di se
stessi a un certo punto appaiono, senza accorgersene, qualcosa di riposante e
di normale.
Non puoi scrivere di Bertolaso senza diventare almeno per un
milionesimo di te stesso arrogante e servile. Non puoi attraversare le
elucubrazioni dei Di Pietro, dei Bersani o dei D'Alema senza vergognarti
impercettibilmente dei compromessi compiuti dal te stesso politico
(certamente minori e, anche qui, “a fin di bene”). E Bossi, e Berlusconi, le
due violenze, non hanno davvero nulla, per un maschio adulto italiano, di
machiavellicamente affascinante?
Ecco: a tutte queste putredini, a queste debolezze, risponde come un
soffio d'aria un essere come il nostro Giuseppe. Non ha vissuto niente di
tutto questo, Giuseppe. Non si è mai rapportato coi Vip, non ha mai voluto
esserlo e nemmeno, per un istante fugace, gli è apparso il fascino del
rifiutare (che è quasi esercitare) un potere; queste cose nel suo mondo non
sono mai esistite, semplicemente.
Così, questo ragazzo come tanti altri, semplice e buono, assolutamente
non-eroe, è quello che ci insegna di più; almeno a me. Dobbiamo
sconfiggere Berlusconi ma così, distrattamente, senza troppo
appassionarcene nè dargli maggior peso del dovuto. Combattemo il
razzismo e le altre cose disumane per quello che sono, cioè estranee alla
vita, indialogabili. Cammineremo nella storia, faremo la nostra parte, ma
senza mai prenderla sul serio più di tanto. Sapendo che la storia profonda,
quella che gl'intellettuali non vedono e che non è potere, è la più importante
di tutte.
E neanche sapremo esprimere queste cose in parole lucide, da poveri
intellettuali del Novecento; ma ci arrenderemo a questo limite, umilmente.
Infatti, basta il viso di un ragazzo buono qualunque - il viso di Giuseppe,
per esempio - per raccontare con chiarezza ciò che serve. Che altro?
27 febbraio 2010
CHE TI DICE LA PATRIA?
“E' il rapporto mafia-politica che paralizza il Sud”: lo dice la conferenza
episcopale, e certo è una bella scoperta che prima o poi doveva arrivare.
Cinquant'anni fa, per l'arcivescovo di Palermo Ruffini, si trattava invece di
“una supposizione calunniosa messa in giro dai socialcomunisti, i quali
accusano la Democrazia Cristiana di essere appoggiata dalla mafia”.
***
Fra i ladroni ci sono parecchi fascisti: Mokbel, Andrini (manager di
Alemanno) e altri ancora. Storicamente, i fascisti rubavano parecchio (Muti,
Monti, Petacci fratello ecc.). Adesso, l'estrema destra razzista - la Lega - si
distingue per le mani lunghe in Lombardia: vedi, fra i tanti, il crociato
antiimmigrati Prosperini. “Ma fare politica costa”, si giustifica lui.
***
E il monumento a Craxi, che fine ha fatto? Ora è il momento di alzarlo.
Grande, monumentale, a coprire (come suggerisce Mauro Biani) il vecchio
e ormai vagamente sovversivo Duomo.
***
«Sono solo secchiate di fango. Nessun reato emerge con certezza». Ci
sono già stati altri capi di Governo che hanno difeso i delinquenti. Almeno
due (Fujimori del Perù e Bordaberry dell'Uruguay) lo stanno scontando
nelle carceri dei rispettivi paesi, tornati democratici alla fine.
***
Satrapi. Tutti maschi. Qualche donna isolata a fare da escort, e poi basta.
Questo regime è vecchio, sclerotico e, seconddo lui, maschile.
***
Nell'album di famiglia, Bertolaso è Graziani.
***
Trattative. Nè Ciancimino, ai suoi bei tempi, era “mafioso”, nè lo è adesso
Dell'Utri. Ufficialmente e per tutti i media (rileggere il giornale di Sicilia o
il Corrierone di allora, e quelli di ora), erano semplicemente degni uomini
politici di governo che gli infami comunisti calunniavano come mafiosi.
Certo, un sindaco di Palermo o un fondatore di Forza Italia in Sicilia
mafioso dev'esserlo per forza, per esigenza di mestiere; così fu per il
quondam Ciancimino, così è ora per il povero Dell'Utri. Ma questa è una
ragione per additarli al ludibrio e al linciaggio morale? Dunque un politico
italiano, secondo voi, non può più nemmeno fare il mafioso?
***
Ma Berlusconi, poi, è davvero presidente? Davvero il cavalier Mussolini nel pieno rispetto della legge e delle modalità formali dello Statuto - era
Primo ministro, nel '36?
8 marzo 2010
LIBERTA' DI STAMPA IN SICILIA
Libertà di stampa? Certo che in Sicilia esiste, tant'è vero che state
leggendo questa cosa. Ma non è benvoluta, nè dal governo nè dalla società
(per governo in Sicilia s'intende sia quello che si vede sia quello che no).
L'indifferenza della società alla libera informazione si vede, di solito, il
giorno dopo che ammazzano qualche giornalista. Da noi ne ammazzano
molti, meno che in Colombia o in Russia ma più che in ogni altro paese. Gli
unici casi in cui la gente si sia ribellata sono stati quelli di De Mauro (grazie
ai comunisti, che allora c'erano ancora) e Fava (i ragazzi di Catania).
Alfano, Cristina, Francese, Rostagno, Spampinato e Impastato morirono
nell'indifferenza generale. A Cinisi, il paese di Impastato, la popolazione a
trent'anni di distanza è ancora dalla parte dei mafiosi (imitata, negli ultimi
tempi, dai più recenti mafiosi delle valli bergamasche).
Esiste la libertà, ma non il mercato. L'unico siciliano autorizzato (dalle
Competenti Autorità) a fare tivvù e giornali si chiama Mario Ciancio, vive a
Catania ed ha nell'harem tutti gli intellettuali cittadini, dall'elegante fascista
Buttafuoco al feroce maoista Barcellona. Non vende molti giornali (molto
meno, in proporzione, che a Istanbul) ma la cosa non ha importanza, perché
tutti gli imprenditori siciliani (compresi quelli che ultimamente hanno
smesso di essere mafiosi) fanno pubblicità solo da lui. Mai, mai, mai
leggerete un rigo di pubblicità siciliana su un giornale siciliano antimafioso.
Libertà di stampa vuol dire dunque che tu, se sei disposto a fare la fame
per i prossimi venti o trent'anni ed eventualmente prima o poi ad essere
ammazzato, puoi scrivere quello che vuoi e pubblicarlo qui, su Girodivite,
su Ucuntu.org, su Catania Possibile, su Terrelibere, sulla Periferica, sui
Cordai o su qualche altro giornale di analoghe dimensioni. Per informare la
gente, in realtà, questo potrebbe anche essere sufficiente (specialmente se
tutti questi organi prima o poi si decidessero a unirsi fra loro).
A Messina, ad esempio, l'allarme su Giampilieri era stato dato ben prima
dai giornalisti liberi, in tempo per prendere i provvedimenti opportuni e
salvare - alla faccia degli speculatori edilizi e della loro Gazzetta - coloro
che erano già in lista d'attesa per essere annegati alle prime piogge. Ma
nessuno ha preso sul serio i loro articoli. Se fossero stati giornalisti bravi ragionava il lettore messinese - avrebbero fatto i milioni al servizio dei
politici, mica avrebbero perso tempo e soldi per informare me.
Al messinese, al palermitano, al catanese, sapere la verità in realtà non
interessa. La verità è fastidiosa, la verità desta. Ed è così bello dormire! La
realtà è quel che è, cambiarla è faticosissimo, meglio sognare. Forza
Catania, evviva il Ponte, viva Palermo e Santa Rosalia.
[www.girodivite.it]
8 marzo 2010
STANNO GIÀ COMINCIANDO AD ABOLIRE LE ELEZIONI
In pratica le hanno già abolite in Lazio e in Lombardia. Addio regole
uguali per tutti, ora per forza deve vincere il partito al governo. Anche il
primo fascismo cominciò così. Difendiamo la costituzione, difendiamo la
nostra Repubblica, e creiamoci dei dirigenti nuovi e giovani, capaci non
solo di gridare forte o di fare le primedonne ma di vincere concretamente e
realmente questa lotta
Formalmente, anche sotto il fascismo si votava. Si votava ma a modo
loro, con elezioni fasulle da cui il governo usciva automaticamente
vincitore. Le elezioni, di fatto, erano state abolite, ma senza dirlo.
Oggi il governo italiano ha abolito le elezioni regionali in Lazio e in
Lombardia. Formalmente si vota ancora, ma non sono più vere elezioni,
con regole uguali per tutti. Sono “elezioni” alla Duce, alla Putin o alla
Gheddafi, di cui non a caso questo governo è l'unico amico. Esse non hanno
dunque alcun valore legale e gli “eletti” che ne risulteranno faranno bene a
evitare di arrogarsi poteri dello Stato.
In questa situazione, delicatissima e pericolosa, i cittadini debbono restare
saldi attorno alla loro Costituzione e prepararsi a difenderla in ogni caso. Le
forze politiche democratiche debbono prendere in ipotesi l'eventualità di un
“impeachment” - cioè di una messa in stato d'accusa - del capo del governo,
che ha travalicato i suoi poteri. E' sbagliato e puerile, e certamente utile al
duce, prendersela in questo momento col re, che pure certamente ha
sbagliato. L'obbiettivo di tutti dev'essere la messa sotto accusa del
responsabile formale dell'attacco allo Statuto, ieri Mussolini e oggi
Berlusconi.
***
E' difficile che la sinistra attuale, con tutte le sue buone volontà e le sue
piccinerie, sia in grado di portare avanti con successo una simile lotta, a cui
non è preparata. Qua non si tratta di gridare più forte, di sopraffarsi a
vicenda - ognuno per conto suo, e con vanità da prime donne - per poi
lasciare tutto come si trova. Si tratta di affrontare problemi come il rifiuto
d'obbedienza, la resistenza collettiva e civile agli ordini illegali e il dialogo
operativo coi funzionari lealisti, civili e militari.
Non credo che un Di Pietro, un Veltroni, un D'Alema, un Bersani, o anche
un Vemdola o un Ferrero (che hanno ancora sulla coscienza quasi un
milione di voti dispersi per puntigli infantili) possano essere i nostri leader
in questa lotta. Dobbiamo tollerarli sì, non affrontare il problema che essi
costituiscono proprio ora. Ma è chiaro che con loro non si può vincere, ma
al massimo sperare di resistere un altro poco.
***
Per fortuna, la sinistra comincia ad avere un altro filone di dirigenti,
provenienti - come dice don Ciotti - “da un'altra falda”. E sono quelli del
movimento viola (se staranno attentissimi a non produrre leaderini, e a tener
fuori i leaderoni esterni), quelli dell'antimafia (il più duraturo e il più
avanzato in termini sociali fra i movimenti degli ultimi vent'anni) e
soprattutto quelli, parte italiani vecchi e parte nuovi, che hanno organizzato
il Primo marzo.
Se tutti costoro diventeranno coscientemente e compiutamente “politici”,
se non rifuggiranno dall'assumersi le loro responsabilità (che sono sempre
più proprio “di partito”), se sapranno ispirare alle persone comuni fiducia e
ammmirazione e non paura,se sapranno dialogare coi pezzi di sinistra basati
ancora sulla lotta sociale (praticamente quasi solo il sindacato), se non
saranno né prime donne né vanitosi, se sapranno coordinarsi efficacemente
al loro interno e fra di loro, se sapranno imparare, se... - allora, amici miei,
potremo dire che un'altra sinistra, vera e vincente, è davvero nata, e che lo
sfacelo della vecchia non sia che un episodio dovuto.
***
Io sono convinto che tutto questo stia accadendo davvero, e che tutte le
caratteristiche di questi compagni nuovi (comprese quelle negative)
ricordino moltissimo quelle dei fondatori della prima sinistra, quella dei
socialisti dell'Ottocento.
E come i compagni di allora non lottavano semplicemente per i diritti ma
anche contro regimi autoritari e feroci (lo zar, il kaiser, levarie monarchie
assolute), così oggi ci troviamo davanti, fra i vari problemi, anche quello di
un assolutismo in forma nuova, di un repubblica attaccata dai nobili, di un
egoismo sociale sempre più feroce.
Eppure - poveri individualmente ma immensamente forti se ci uniamo siamo certi di farcela, assorbendo persino le debolezze e le periodiche rese
dei nostri “centrosinistri” compagni di cammino.
16 marzo 2010
CHE COSA L'ANTIMAFIA PUÒ INSEGNARE ORA
Fare un partito grosso, più moderato ma unico, per meglio contrastare una
destra aggressiva? O fare un partito di sinistra vera, responsabile ma senza
equivoci, per mettere insieme tutti coloro che vogliono cambiare le cose?
Non si può dire che le cose in Italia non si muovano. Vanno anzi a
razionalizzarsi, attorno a queste due nuove proposte che vanno rapidamente
trasformandosi in organizzazione. Quale delle due sarà giusta, l'avvenire ce
lo dirà.
Per intanto hanno in comune due cose: che da un lato dichiarano
entrambe di non voler più fare vecchia politica, e di volerne anzi una nuova,
più democratica, meno elitaria e con più partecipazione dei cittadini; e che
dall'altro non riescono esattamente a definire quale essa sia, con che prassi
concreta, con che cultura.
"No all'oligarchia, sì alla partecipazione": la domanda ormai è facile, ma
siamo appena all'inizio della lunga strada che ci porterà alla risposta.
Per il movimento antimafia ("anti" mafia, ma "per" un sacco di cose
accumulate lungo la via) questa domanda si è posta fin dalle origini, e le
risposte a poco a poco le hanno date i fatti.
Nei momenti oligarchici, verticali, ha funzionato male e prima o poi s'è
arenato; nei momenti collettivi, corali, ha funzionato bene e ha cambiato le
cose. Ha funzionato bene quando è stato articolato e reciproco, con un'ala
"moderata" e una "estremista" che si riconoscevano e si collaboravano, pur
nelle reciproche critiche, a vicenda. Ha funzionato male quando questo
autoriconoscimento s'è inceppato e ha dato luogo alle emarginazioni e ai
settarismi reciproci.
Noi dell'antimafia siamo stati costretti a imparare in fretta queste lezioni
(almeno i più maturi di noi) perché quando si combatte non c'è molto spazio
per errori. Si pagano immediatamente, e a volte molto cari. Possono litigare
Togliatti e De Gasperi, a Roma. Non possono litigare il comandante
garibaldino e quello badogliano, in montagna, perché hanno i tedeschi
davanti, e debbono per forza trovare una via di accordo.
E questo, nella prassi concreta, educa a molte cose. Alla fine l'ufficialetto
sabaudo riconoscerà senza problemi che il re ha fatto molto male a
scappare, e il communista feroce non farà fatica ad ammettere che forse la
dittatura del proletariato magari si può rimandare a un'altra volta.
L'Italia è stata fatta così, fra partigiani.
La sua coesione politica, durata oltre cinquant'anni, e della sua sinistra in
particolare, non nasce dalle varie ideologie ma dall'esperienza concreta del
lottare insieme. Quando la spinta propulsiva di quest'ultima si è esaurita,
allora è arrivato lo sbandamento e il "tutti a casa". Che dura tuttora, anche
se mascherato dai più bei discorsi e dalle più nobili ragioni.
L'antimafia è stata ed è, nei suoi momenti più alti, l'antifascismo e la
resistenza delle nostre generazioni. Non una somma di idee astratte ma
l'esperienza concreta, e umanamente profonda e spesso rischiosa, del fare
qualcosa insieme contro un potere inumano e diffuso.
Ecco: se la politica deve rinnovarsi, si rinnovi con questo. Coi ragazzi di
Locri, con quelli del liceo Meli ai tempi di Falcone, coi napoletani di
Monitor, coi SicilianiGiovani che lottarono i Cavalieri.
Con tutti quegli esseri umani, umili e non famosi, che nelle varie
situazioni fecero inconsapevolmente politica perché erano ben decisi a fare
Resistenza.
Ecco: nelle nostre radici c'è esattamente questo. Noi non siamo nati per
"politica", siamo nati perché c'era da lottare, e in questa lotta condotta
insieme ci sono state insegnate - di fatto e senza che noi lo volessimo molte cose.
Adesso dobbiamo cercare di trasmetterle, in situazioni nuove ma non
sostanzialmente diverse, e di continuare a impararne sempre di nuove.
In questo circolo di imparare/raccogliere, di forma tecnica "dura" e
montanara, libera invece e anarchica quanto a organizzazione, c'è tutto quel
che possiamo dare alla sinistra e al progresso, a qualsiasi sinistra che voglia
veramente dirsi tale.
[Casablanca”, maggio 2007]
6 aprile 2010
LE TRE ITALIE DEL DOPO-VOTO
La cosa più inportante in queste elezioni è che per la prima volta la gente
ha votato secondo criteri “etnici” e non politici: prima c'erano soprattutto
una destra e una sinistra, ora c'è soprattutto un nord e un sud. Qualcosa del
genere si era già verificato negli ultimi tempi della Jugoslavia.
La seconda cosa importante è che queste elezioni, che nessuno
formalmente ha contestato, sono elezioni fino a un certo punto, falsate sia
da irregolarità amministrative (la faccenda delle liste, ecc.) che dalla
disparità, ormai ridicola, di propaganda. Entrambe queste caratteristiche
sono ormai praticamente accettate. E' dubbio, da questo punto di vista, che
l'Italia sia ancora un paese democratico nel senso occidentale.
Dal voto sono usciti tre Paesi distinti – il Nord, il Centro con la Puglia, il
Sud – dei quali almeno due, come statuto di fatto, sono completamente fuori
dalla vecchia Costituzione. Al nord è ormai riconosciuta quasi dappertutto
l'apartheid, che nell'Italia classica non è mai esistita nè a destra nè a sinistra
nè in alcun'altra formazione; al Sud, dopo i fatti di Rosarno (ma prima
ancora di Napoli), è ormai indubbio che il reale governo del territorio è
gestito spessissimo da mafia, 'ndrangheta e camorra (il Sistema). Neanche
questo era previsto dalla precedente Costituzione.
***
La responsabilità delle varie sinistre, in tutto ciò, non è da poco. Il partito
maggiore ha quella di aver lasciato crescere Berlusconi, con una tendenza
all'inciucio (come ora in Sicilia) che sembra fare ormai parte del suo Dna. I
minori quello di essersi colpevolmente divisi (Ferrero e Vendola), di aver
navigato fra piazza e notabilato (Di Pietro), di aver trasformato giuste
istanze in pasticci utili a nessuno (Grillo).
Se si dovesse sintetizzare, il vilain più emblematico risulterebbe
Bassolino: accolto con entusiasmo da una popolazione ansiosa di cambiare,
sostenuto con lealtà e coraggio dalla massa infelice ma fiera dei napoletani
– e scivolato nel giro di pochi anni nell'arroganza, nel notabilato, nella
corruzione e infine nel tradimento politico e sociale. Nessun segretario della
sinistra sarà credibile se non farà piazza pulita, e pubblicamente, di tale
gente.
Abbiamo perso il Lazio per pochi voti e il Piemonte per la coglionaggine
(peraltro giustificata) dei grillini; ma la Campania e la Calabria li abbiamo
persi perché abbiamo malgovernato, perché non siamo stati, come la gente
ci aveva chiesto, antimafiosi.
***
Non è elevatissimo, il dibattito post-elezioni della sinistra: panico, accuse
reciproche e ambizioni si sfogano liberamente e senza alcun senso di
responsabilità. Tornano a farsi sentire i Veltroni, i D'Alema e gli altri
affossatori del vecchio modello Pci, che pure organizzativamente (e
purtroppo l'ha dimostrato Bossi) era quanto di più efficiente la sinistra
italiana avesse mai prodotto. Negli apparati, i giovani non sembrano molto
meglio dei vecchi, quanto a proclami apodittici gonfi di Io.
Alla base, per fortuna, il clima è differente. Rabbia (si è perso per
pochissimo), volontà di lottare, patriottismo. Fra i giovani soprattutto c'è
confusione, sconcerto, paura per l'avvenire ma non, o assai raramente,
rassegnazione. E questo trasversalmente, senza gran distinzioni di partito.
Chi spera in Vendola, chi in Bersani, ma in un Bersani o un Vendola visti
non come grandi leader blairiani ma come servitori seri e modesti di noi
tutti.
Il modello politico – lo ripetiamo ancora – per noi è quello dell'antimafia,
libera, responsabile, combattiva e unita. Il progetto potrebbe ripartire
dell'intervista estiva di Romano Prodi (qui a suo temo ripresa), autocritico,
anti-blairiano, irriducibilmente anti-destra, e ottimista.
6 aprile 2010
C'ERA UNA VOLTA l'ITALIA
L'Italia, che per la maggior parte della sua storia è stata un'“espressione
geografica” politicamente disgregata, è stata tuttavia sempre unitissima sul
piano della cultura e, diciamo così, sentimentale. Lo è ancora
L'Italia comincia a Formia e finisce a Sassuolo. Prima di Formia, sei in
terra di camorra (o di 'ndrangheta o mafia, secondo i casi). Dopo Sassuolo,
Parma ormai americana (coi sikh col turbante che lavorano il parmigiano) e
poi Piacenza, il Po, la Padania.
Padania parta est in partes tres, di cui la prima l'abitano i Padani
(anticamente Lombardi), l'altra è il Nordest (un tempo Veneto) e la terza il
Piemonte, unico ad aver conservato il vecchio nome. L'Italia, in queste
terre, conserva Genova, Susa, Spezia, Mantova e Aosta. Un tempo questa
regione era costellata di fabbriche (a ovest) e chiese (a est). Queste ultime
esistono ancora, per quanto vi sia cambiata la religione; ma le fabbriche
sono state quasi tutte trasferite in Cina, lasciando al loro posto vasti buchi
neri. Le autorità periodicamente li riempiono di veline, stilisti, finanzieri
d'assalto e faccendieri per evitare che gl'indigeni si accorgano che lì manca
qualcosa. Per la stessa ragione aizzano, quando lo ritengono il caso, pogrom
contro gli zingari, i miscredenti, i mori o anche i semplici stranieri.
A sud di Roma (di cui estremo avamposto è Formia) si stendono gli Stati
Criminali, cosìddetti non perché la criminalità vi sia particolarmente elevata
(lo è) ma perché vi governa. Da secoli colà pacificamente conviveva con re,
duchi, repubbliche e chiese locali. Negli ultimi vent'anni, tuttavia, ha
ritenuto di non aver più bisogno di loro e di poter prendere direttamente
nelle proprie mani le cure dello Stato; ciò che è avvenuto rapidamente e con
uno spargimento di sangue relativamente contenuto. E' stato tuttavia
mantenuta, nella maggioranza dei casi, un'apparenza di continuità (in molte
cittadine della Calabria esistono ancora le caserme dei Carabinieri),
soprattutto per riguardo ai cittadini più anziani.
Ciascuna di queste organizzazioni ha un nome pubblico (Camorra, Cosa
Nostra, 'Ndrina) che si richiama agli antichi tempi; con esso è conosciuta
all'esterno del paese; fra loro, tuttavia, si chiamano semplicemente "il
Sistema", termine più moderno e molto più adeguato alla situazione.
Da tutte queste terre l'Italia fu espulsa fra il 1982 e il 1993; nessuno dei
tentativi di riconquista attuati (ma sempre con forze insufficienti e per così
dire all'avventura) da questo o quel funzionario italiano ha avuto successo;
pertanto i maggiorenti italiani decisero, dopo matura meditazione, di
riconoscere il fatto compiuto e di concedere a quei baroni, se non il nome,
almeno la sostanza della libertà. Quelli tuttavia non se ne contentano ma
muovono arditamente, e non senza successi, alla conquista del rimanente
d'Italia. Il che se otterranno, lo vedranno i nostri nipoti.
Si eccettuano, a questo regime, alcune terre che, con gran difficoltà ma
tenendo fede, mantengono per via di mare i legami con Roma. Ed esse sono
Stromboli, Filicudi, Alicudi, le Puglie, Siracusa in Sicilia e la Basilicata.
Quanto a lungo potranno resistere, Dio lo sa. Si aggiungano, molto più
lungi, i Sardi, divisi tuttavia dall'Italia da lingua, mare e costumi. Va tuttavia
ricordato, a loro onore, che il Sistema da loro non attecchisce. Fieri e gelosi
della loro isola, ne hanno respinto mafia, camorra, 'ndrangheta e americani.
Tale lo stato della penisola italica ai nostri tempi. Dalla mia giovinezza,
come tutto è cambiato! Allora - e parlo della tarda metà dell'altro secolo,
quando le lucciole e i filobus c'erano ancora - l'Italia era un luogo
incantevole, unito dal nord al sud, diviso in tantissimi popoli che però, per
alchimia dello spirito, si completavano fra loro. Così al napoletano cialtrone
ma intelligentissimo faceva contrappunto il buon torinese serio e quadrato;
il corridore veneto ("Mama son contènto di esser arivado uno!") era
congenere del picciotto palermitano ("Bedda matri e che ffu?"); volti e
dialetti si mescolavano nel crogiolo della Fabbrica, koiné non essendo il
pidgin italish di ora ma un veneto-turìn-sicilianu comprensibile a tutti, da
tutti amato. Cessava dopo un millennio il latinorum dei preti; l'italoromanesco della Rai, ben più popolare, ne prendeva il posto ed
alfabetizzava tutta quanta l'Italia - da Nicolò Carosio al maestro Manzi - per
la prima volta nella sua lunga storia.
***
Adesso, cammini ingrugnato per piazza Maggiore. Le foto dei duemila
partigiani (modeste fototessere in bianco/nero) nella bacheca di vetro, sopra
i gradini; e frotte di ragazze e ragazzi che chiacchierano allegramente sotto
di esse. E il sindaco - il nostro sindaco - che ha appena fatto l'accordo col
fascio, per "mantenere l'ordine" e tenere lontani i lavavetri. E sei ancora a
Bologna, città civile; non sei a Verona dove il sindaco appena insediato ha
dichiarato guerra, in un'unica dichiarazione, agli zingari e alla
Sovrintendenza alle Belle Arti o a Catania dove ammazzano i poliziotti allo
stadio e ridono il giorno dopo. Non sei a Milano né a Napoli - capitali
antichissime, testa e cuore - dove scacciano i mendicanti e fanno spacciar
droga ai bambini.
L'Italia è sempre stata le Italie. Italian macaroni, mandolino. Abbiamo
sempre avuto un Nord e un Sud, e ciò ci faceva più belli. Anche Milano, per
Stendhal, era una città meridionale. Anche Napoli - Cuoco, Amendola - era
illuminismo. C'era un grandissimo poeta cattolico, Pasolini, c'era un
immenso rivoluzionario comunista, don Milani. C'era papa Giovanni e
Peppone. C'era Gassmann, Mina, le Kessler, Alberto Sordi: chi di questi era
nord e chi era sud, chi non era semplicemente italiano?
C'era la grande Inter. State a sentire: Sarti, Burgnich, Facchetti, Guarneri,
Picchi... cioè Giuliano, Tarcisio, Giacinto, Aristide, Armando... Avete visto
che nomi? Nobili, densi di storia, popolari. Nomi italiani.
Di che paese sarà la mia nipotina? Certo, sarà europea. Ma poi? Sarà
semplicemente siciliana - o nordestina, o bolognese - o sarà italiana? Ha
ancora un senso pensarlo? Altre nazioni sono sparite, o per trauma o per
noia. Non si è più austroungarici, non si è più jugoslavi. O ateniesi, o
cheyenne o polinesiani. Così sta sparendo l'Italia, o e già sparita; non già
politicamente ma proprio nel profondo, come nazione.
Di solito, quando parliamo di nazioni, pensiamo ai bei discorsi, alla patria
immortale. Roba di destra, insomma. Invece, la nazione è una cosa di
sinistra. E' ciò che sopravvive. E' popolare.
***
La nazione è il porto di Messina, con la nave che va in Australia pronta a
partire, i contadini di Caltanissetta e Favara sul ponte e i parenti sulla
banchina, tutti ridanciani e chiassosi, per dare coraggio a chi parte.
Sciolgono gli ormeggi, e la nave si stacca. E in quel preciso momento, cogli
emigranti tutti aggrumati a poppa e i parenti sulla punta del molo, che ormai
piangono liberamente perchè tanto da lontano non si vede, la banda, che
fino allora aveva suonato canzonette allegre, comincia a suonare l'inno: il
primo e l'ultimo, per la maggior parte di loro, della loro vita. Questo non
succedeva nell'Ottocento: succedeva vent'anni fa. Ci sono duemila
emigranti, nella città di Sidney, di Santa Marina Salina; a Santa Marina, ne
saranno rimasti forse mille. C'era il consolato australiano a Messina, fatto
apposta per loro. E prima quello del Belgio, per le miniere. E prima quello
argentino, quello americano...
C'è un poeta veronese, Barbarani, di cui i veneti si sono ormai dimenticati
da un pezzo; e io non ne ricordo che un verso, ma che è tutto un mondo;
siamo fra gli emigranti veneti, "seradi" all'osteria, la sera prima della
partenza: "Porca Italia!, i biastema, andemo via". Ci sono i genovesi, in
Argentina, e i lombardi, e un intero quartiere che si chiana Palermo. Ci sono
gli italiani d'America, fisici nucleari e mafiosi. Ci sono i bergamaschi, che
andavano a lavorare in Francia; e una volta la popolazione di un'intera
provincia scatenò il pogrom contro di loro e ne fece strage. C'è Bologna (il
sogno di noi siciliani di sinistra, un tempo, era che Palermo diventasse
un'altra Bologna) dove se vai a fare due passi alla Montagnola ti trovi
esattamente nel posto dove una volta c'era la fortezza papalina che
controllava la città. Quattro volte la distrussero, i bolognesi, e quattro volte
il papa la ricostruì; la quinta, restarono a vincere loro e ne fecero terra e ci
fecero su i giardinetti. Tutti insieme, questi erano gli italiani.
Ci sono pochi paesi al mondo che abbiano avuto tanto kitsch di generali e
politici come l'Italia; ma pochi che abbiano avuto, nella grandissima parte
dei cittadini, tanta storia di vita e tanta umanità. Il nostro, molto più che uno
stato, è - o era - una cultura, un modo d'esserci; un software. Facile da
sfasciare pestando a casaccio sul computer; difficilissimo, e probabilmente
impossibile, da rimettere insieme.
***
Non so se ci sarà ancora un'Italia fra dieci anni, o solo una specie di
Belgio o un'Alabama. In quest'ultimo caso, sarà un peccato per tutti: perchè
non sono molti i posti del mondo dove si sia riusciti, per tanti secoli, ad
essere poveri e tuttavia signori, e dove si sarebbe potuto essere finalmente
ricchi restando umani. Avrmmo potuto insegnare ai poveri del mondo come
si fa ad uscire dalla miseria e ai ricchi come si possono usare
dignitosamente i denari. Invece stiamo preferendo imitare pacchianamente e
maldestramente i ricchi di più antica data, e scalciare ferocemente contro i
poveri che ancora si dibattono indietro.
I tempi delle nazioni non sono quelli della cronaca, e dunque quello
attuale, chissà, potrebbe essere solo un involgarimento passeggero. Ma
potrebbe anche essere la fine definitiva di una storia che dura da più di
duemila anni. Noi non abbiamo una hispanidad sparsa nel mondo né un
commonwealth né una cultura illuministica che comunque coinvolga altri
paesi. Siamo solo noi italiani d'Italia, con la nostra lingua parlata solo da noi
stessi, con la nostra identità sofisticatissima ma delicata, con i nostri
meccanismi etologici quasi impossibili da analizzare - e tutto questo può
sparire, per incultura, demagogia e rozzezza, nel giro di una generazione.
15 aprile 2010
IL NUOVO TERRORISMO
Rachel Odiase, tredici mesi, nigeriana, figlia dell'operaio Tommy Odiase,
morta per mancanza di cure poco dopo essere stata respinta dall'ospedale di
Cernusco, Italia, è a tutti gli effetti una vittima del terrorismo.
La vita non le è stata tolta per ignoranza, o per superficialità colpevole, o
per "incidente": è stata respinta perchè non in regola coi documenti. Suo
padre da tredici anni lavorava in Italia con tutti i permessi possibili: il Pil di
noi italiani bianchi è fatto dagli anni di lavoro di operai come questo. Un
mese e mezzo fa, per la "crisi", il padrone l'aveva licenziato: il permesso di
soggiorno, che va rinnovato (e pagato) ogni sei mesi, in questi casi richiede
tutta una serie complessa di documenti, che certo a un operaio come Odiase
nessuno si cura molto di consegnare in tempo. Senza documenti del Reich,
senza accettazione, senza permesso, la piccola Rachel è stata praticamente
condannata a morte.
Questo, che noi sappiamo, è il primo caso eclatante di eliminazione legale
di un piccolo immigrato. Ma c'erano già le storie dei piccoli buttati fuori
dalle mense scolastiche, lasciati col piatto vuoto davanti ai compagnucci
dell'asilo, semplicemente perché erano poveri e non avevano pagato in
tempo la retta. E i piccolissimi zingari bruciati - anche questo è successo nelle loro tende a Opera, Lombardia; e vivi per miracolo, non certo per pietà
dei razzisti; e quelli cacciati via dalle squadracce mafiose a Rosarno, a
Poggioreale, a Milano dalla guardia civica cittadina.
Nessuno di questi episodi è casuale. Così come i piccoli ebrei, germe del
male e seme di Ubermensch, dovevano essere sradicati dalla terra per il
bene della razza ariana, così gli immigrati più piccoli vanno cacciati - o
uccisi - per primi e in fretta: prima che diventino uomini, uomini di razza
nemica.
Il terrorismo nei confronti dell'immigrazione (le "cannonate in pancia" di
Bossi, il gioco "affonda un immigrato" di suo figlio) è stato apertamente,
nel nostro silenzio colpevole, teorizzato. La strategia è di fare paura, l'Italia
deve apparire un paese terribile, da cui tenersi lontano. Non è vero,
onorevole Bossi? Non è vero, onorevole Borghezio, sindaco Tosi, sindaco
Gentilini?
In nulla si differisce il terrorismo, che ormai crea le sue vittime, di costoro
da quello dei Nar o dalle Brigate Rosse. Va contrastato a ogni costo, con
mezzi moderati se possibile, con ogni altro mezzo se occorre. Quanto a
parlare coi terroristi, a "dialogare" coi loro alleati, a cercare non dico
collaborazioni ma trattative con essi, è un'idea che dovrebbe far vergognare
chi anche lontanamente ce l'abbia in mente.
15 aprile 2010
L'INFORMAZIONE E LA SPERANZA/
UN DIBATTITO
Un giovane giornalista siciliano emigrato a Milano nterviene sul sito di
Step 1 (il sito universitario catanese) con un post molto interessante
intitolato “L'informazione e la speranza”. Ma non è giunto il momento – si
chiede il ventitreenne Salvo Catalano – di creare uno spazio d'informazione
nuovo? Ne viene fuori, con un suo collega più anziano, un dibattito che
forse potrebbe interessare anche altri
Salvo Catalano wrote: ...Potrei non voltarmi più indietro se non fossi
caduto dentro a un sogno collettivo: fare il mio mestiere nella mia città. Un
redattore di Step1, da quest'autunno a Milano per frequentare una scuola di
giornalismo crede che sia venuto il momento di credere nel "senso della
possibilità" .
Ma la possibilità di che cosa? Di creare uno spazio dell’informazione
nuovo. Non controinformazione, che rischia di rimanere sempre chiusa in
ambiti ristretti. Ma semplicemente informazione libera, in grado di abituare
i cittadini alla libertà, di formarli con l’idea che i diritti non si elemosinano
ma si pretendono. Che non serve e non conviene essere clienti a vita. Penso
che questo sia uno dei compiti del giornalismo, il più urgente per chi fa
informazione ai piedi dell’Etna.
Resta un dato: nessuna città italiana, grande e importante come Catania,
ha un solo giornale.
Non esiste una free press che copra in modo capillare la nostra città. E chi
sostiene di tutti, ma anche privata perché appartiene ad ognuno di loro.
Questo significa creare reti tra i cittadini, e tra i cittadini e il territorio.
Significa responsabilizzare una generazione, cominciare ad instillare il
principio che la città è ‘cosa proprià.
***
riccardo orioles wrote: Noi lavoriamo da anni alla speranza che tu scopri
ora. Perché non lavorare insieme?
Voi catanesi siete tribali, in questo. Ognuno di voi all'alba guarda il sole
sinceramente ammirato e pensa: "minchia, ch'è beddu!
guarda che bedda scoperta fici!"- Senza minimamente sospettare che altri
nello stesso omento possano guardare la stessa aurora.
Sentiamoci, se vuoi. Mi piacerebbe se voi di Step, una volta o l'altra,
riusciste a credere veramente all'idea di un progetto comune.
(Nè i vostri vari articoli di questi giorni nè l'ultimo vangelo di Lo Vecchio
contengono - se non sbaglio - la parola "Ciancio". Tecnicamente, è una
parola necessaria per cominciare anche solo a discutere di informazione
seriamente, qui e ora) (Io non ho aerei da prendere, nè per Milano nè per
altrove. Io sono qui in Sicilia, per mia scelta. Un po' perché conto - nei
momenti d'ottimismo - nei giovani come te.
Un po' - nei momenti di ragionevolezza - perché voglio salvare la mia
dignità anche da solo. Ma se fossimo tutti uniti potremmo persino vincere.
Ed è sapere questo che mi danna).
***
L.G. wrote: PS per Riccardo. Vecchio e non Lo Vecchio.
Un giornalista deve stare molto attento a non storpiare i nomi di persona!
Se lavorate da anni a un qualcosa senza esserci riusciti, non potrebbe darsi
che quel progetto debba essere in parte modificato?
***
riccardo orioles wrote: intanto hai ragione per Vecchio. Il fatto è che
scrivo quasi senza vederci (glicemia, vista bassissima) e quindi vado spesso
a memoria. Me ne scuso. Ma scrivo per rispondere alla tua (sensata)
osservazione: "Se lavorate da anni a un qualcosa senza esserci riusciti, non
potrebbe darsi che quel progetto debba essere in parte modificato?".
Naturalmente, nessun progetto è eterno, ogni progetto va sempre
continuamente aggiornato, ed è quello che cerco di fare. Però non è esatto
che non siamo riusciti a niente.
Elenco alcuni punti: - I Siciliani sono stati, dopo l'Ora, la principale
esperienza giornalistica della Sicilia.
Sono durati molto a lungo e in un certo senso durano tuttora.
- Nel '93, i Siciliani quotidiano è stato a un pelo dall'uscire (solo la vittoria
di Berlusconi, che non dipendeva da noi, ha indotto i finanziatori a ritirarsi).
- Avvenimenti è stata la principale, e senz'altro la più popolare (e libera)
rivista della sinistra (quando c'ero io superava le 60mila copie e non
dipendeva da nessun partito).
- I Cavalieri a Catania non ci sono più, in parte grazie ai giudici ma
soprattutto grazie ai movimenti (Siciliani, SicilianiGiovani, Associazione
Siciliani, Città Insieme, ecc.).
- Ancora negli ultimi anni, abbiamo sviluppato, e più ancora creato le
condizioni per farli crescere, tutta una serie di soggetti giovani e combattivi.
Casablanca, Ucuntu, i Cordai e il Gapa, la Periferica, lo stesso Addiopizzo
Catania, e soprattutto Lavori in Corso, sono tutte realtà, coi loro limiti, vive
e combattive e potrebbero essere il nucleo di qualcosa di veramente nuovo.
- In tutti questi anni abbiamo sempre e coerentemente individuato il vero
punto debole dell'informazione a Catania, che è il monopolio di Ciancio.
Rimuoverlo - come fanno, certo involontariamente, Vecchio e il giovane
Catalano - è pericolosissimo, perché significa trasportare tutto il dibattito da
Catania a Stoccolma, dalla realtà dei fatti concreti a quella dei buoni
sentimenti e delle poesie.
Ecco: a me pare bello che vengano avanti idee nuove, ma non credo che
ogni volta bisogni ricominciare proprio da zero. C'è un patrimonio
ricchissimo di esperienze forti, che hanno dimostrato la loro validità e che
in parte sono ancora in corso. Uniti si vince, si diceva una volta, e io credo
fermamente che vincere sia possibile - tutti uniti - anche a Catania e anche
sul terreno dell'informazione.
Infine, un invito per Salvo: la mia mail è [email protected] e il
mio numero è 333.7295392. Puoi contattarmi quando vuoi - se ti va e se sei
pronto a metterti in discussione. Io lo sono, è il mio lavoro discutere
continuamente cose nuove. Ma sono un interlocutore abbastanza importante
per te? :-) Non sono un industriale, non sono un professore universitario...
Sono semplicemente un giornalista, uno che di giornali se ne intende e non
ha oltre a questo, alcun potere politico o economico da far valere. Questo
vale alcuni minuti (o ore, o giorni, o mesi), del tuo tempo?
Giro questa domanda, provocatoriamente, agli amici di Step1 - qua
stiamo lavorando anche e forse soprattutto per loro. "Lavori in corso", come
si dice.
18 maggio 2010
COME RUBANO ORA
NON HANNO RUBATO MAI
Quelli di Mani Pulite, al confronto, erano boy-scout. Questi sopravvivono
solo perché non c'è più l'informazione (e vogliono imbavagliare quella poca
che resiste, in internet). Così gli italiani li tollerano, o per ignoranza o
perché gli piace...
Se l'informazione fosse ancora quella dei tempi normali (non chiedo
molto: quella di vent'anni fa) l'Italia oggi sarebbe percorsa da cortei di gente
incazzata che chiederebbe conto al governo della catastrofe imminente e in
parte già in corso. Invece “tutto ok”, “tutto sotto controllo”. Se esistesse una
tv in Italia la gente assedierebbe i palazzi tempestando di monetine le auto
blu.
Altro che Mani Pulite: qua rubano infinitamente di più di tutti i ladroni di
allora messi insieme. Mario Chiesa è un boy-scout rispetto a un Bertolaso o
a un Scajola. Mariuoli? Qua si parla di gente che si compra i Feltri come
noccioline, altro che prime pagine coi cinghialoni.
“Saviano - disse il procuratore del Re Emilio Fede (nel senso che al suo re
gli procurava le tipe) - Saviano mi fa ridere, qua sono io, l'eroe!”. Una così
non s'era mai sentita, sotto Craxi. “Craxi? Uno statista, un grand'uomo!”
proclamò Sandra Milo, fedele nella catastrofe, ai reporter che la inseguivano
nei giorni della disfatta. Ma quante resteranno fedeli, in circostanze
analoghe, a Berlusconi? Diaco? Carfagna? La Noemi? E' in momenti del
genere che si vede chi fu Napoleone e chi Cagliostro.
Di ciò si potrebbe anche ridere, se alla fine non fossero soldi nostri. Soldi,
vite, dolori: il fascismo c'è già, per un quarto abbondante degli italiani
(poveri, neri, gay, disoccupati). I giovani, qua al sud, non lavorano più,
tranne gli spacciatori. La macchina maciulla-ragazzi funziona
selvaggiamente (qua comandano i vecchi, gli ultra-settantenni) e tutto
l'avanspettacolo, tutte le facce da fratelli De Rege (ma guardali una buona
volta i Bossi, i La Russa, i Bondi, i Calderoli) splende a corte.
I democristiani rubavano, ma nessuno per figli così scemi come il figlio di
Bossi. I socialisti a Milano avranno grattato un poco, ma il duomo almeno
l'hanno lasciato lì (c'è ancora? Non ci credo. Sarà un fotomontaggio).
Un ministro, Tanassi, finì ai domiciliari e poi in galera per un intrallazzo
da duecento milioni, nella vecchia Italia ladrona; un presidente, Leone, si
dovette dimettere perché forse intrallazzavanno i suoi figli. Qua circola
Bertolaso e circola Scajola. E sono ancora fra i migliori perchè nessuno (a
differenza di altri colleghi, legati a mafia camorra e 'ndrangheta) li accusa di
avere ammazzato nessuno.
Questa è l'Italia che avete, miei nobili concittadini. Non ho ancora capito
se l'accettiate per ignoranza, o perché proprio vi piace così. Nel primo caso
(io debbo credere al primo caso, perché sono italiano), il nostro mestiere è
di informarvi e qui, come in altri luoghi – per lo più eterei – facciamo il
nostro lavoro. I vostri ladri ci cercano fin qui nell'internet, per metterci il
bavaglio addosso e mantenervi ignoranti (o felici).
“A signora donna Lionora/ che cantava 'ncoppa o teatro/ mo' abballa in
mezzo o' mercato” dissero di una nostra collega che alla fine riuscirono a
imbavagliare (e a impiccare in piazza mercato), molti anni fa. I Borboni, la
plebe, l'Europa lontanissima, i Bossi e i La Russa di allora. Quanto tempo è
passato, amici miei. E' passato?
2 giugno 2010
IL PARTITO DEI NOTABILI. DI NUOVO?
“Destra, sinistra? Che ce ne frega! Mettiamoci d'accordo fra di noi” E'
sempre stata questa la tentazione dei proprietari meridionali, dal
“trasformismo” di Depretis al “milazzismo” di metà Novecento. In
italiano, si chiama inciucio. E non muore mai
A volte gli inciuci servono (l'ha detto anche il grande D'Alema) e a me
questo qua, per esempio, ha fatto guadagnare cinquemila lire. Quale? Ma
questo alla regione siciliana, naturalmente, fra il capo dei leghisti siculi
Lombardo (uno che si fa le campagne elettorali coi pacchi di pasta) e il
partito democratico siciliano. Alla giunta Lombardo, fumante di coltellate
fra peones dei vari boss, è arrivato l'appoggio esterno, sotto forma di
astensione, del Pd. Questo significa che il Pd prende un suo uomo, lo mette
- proclamando di non conoscerlo: "E' solo un tecnico" - nella giunta e va
avanti tranquillamente verso il suo destino.
Va bene, non è un argomento molto interessante, e non è d'altra parte che
io ne sia particolarmente esperto. Ma chi è il nostro uomo presso
Lombardo? Il professor Mario Centorrino. E chi è Centorrino? Ecco, adesso
vengo alla storia - per me importante - delle cinquemila lire.
Una ventina d'anni fa Centorrino - come d'altronde adesso - insegnava
all'Univrsità di Messina. Fra i suoi laureandi c'era un ragazzo un po'
anomalo, che si chiamava Antonello Mangano. L'anomalia consisteva nel
fatto che Antonello (allora a Messina c'erano studenti che facevano l'esame
con la pistola sul tavolo) non aveva nessuna voglia di chiudere occhi e
orecchi sul mondo (accademico) circostante ma voleva renderne conto,
scriverne, e addirittura dedicargli la sua tesi di laurea: "Il grado di coesione/
Borghesi e mafiosi nell'ateneo messinese".
La cosa destò scalpore. Quando Centorrino ne venne a conoscenza, ritirò
senz'altro la firma dalla tesi di Antonello, che da un momento all'altro si
trovò esposto e senza copertura in un momento in cui i guai piovevano da
tutte le parti e l'Università di Messina era un posto un po' meno sicuro di
Abilene.
Basta, la cosa finì bene perché: 1) Antonello rimase vivo; 2) Gli Editori
Riuniti gli pubblicarono la tesi in un libro, che ebbe persino un discreto
successo. Nel frattempo la situazione a Messina si aggravò ulteriormente,
con professori sparati per le strade e mafiosi che imperversavano dentro e
fuori l'università, e questo era tutta pubblicità per il libro di Antonello. Che
poi diventò giornalista, fece un ottimo sito (terrelibere.org) pieno di
inchieste, restò disoccupato quanto a stipendio ma non come lavoro utile per
la città... Ma questo è un altro discorso. E le cinquemila lire?
Ecco, quando ho saputo di questa faccenda della firma ritirata, tanto
m'imbestialii (volevo bene a Antonello) che cominciai a blaterare frasi prive
di senso: "Ma è modo di fare questo! Ma così ci si comporta con gli
studenti! Ma dov'è il senso di responsabilità? Ma questo prima o poi finisce
a fare il fascista!". E qui qalcuno m'interruppe: "Fascista, dai! Centorrino è
un democratico, un compagno... Come vuoi che finisca nei fasci uno così!".
"Vedrai che ci finisce, vedrai! Non ci credi! E scommettiamo!
Scommettiamo... scommetto cinquemila lire! Che questo prima o poi me lo
vedo in stivali e camicia nera!".
La scommessa fu accettata e passarono gli anni e Centorrino,lungi
dall'adempiere alla mia lugubre profezia, continuò la tranquilla routine
dell'intellettuale progressista. Che in Sicilia comprende editoriali per i
giornali forcaioli e di destra (la Gazzetta di Messina), articolesse sui giornali
degli imprenditori collusi (La Sicilia di Catania), ecc. ecc. E scusa, per chi
bisogna scrivere? Mica per quei pazzi dell'antimafia, che fra l'altro
nemmeno pagano i pezzi. E poi le consulenze (per Cuffaro e per gli altri),
che fanno pure brodo per il lesso.
Ma adesso, finalmente, posso dire - magari forzando un po' - di avere
vinto la scommessa. Che Lombardo sia di destra non c'è il minimo dubbio.
Una destra particolarmente odiosa, fra Achille Lauro (i pacchi di pasta) e
Calderoli (l'alleanza di ferro con la Lega). Mettigli una camicia nera
qualunque - che poi il nero è di moda - e che ottieni? Un fascista.
Pino, voglio i miei soldi. Cinquemila lire. Che fa due euri e cinquanta anzi
(se dal cambio per ricchi passiamo al cambio vero, quello per pensionati e
operai) fa cinque begli euri tondi tondi.
"Va bene, ma a me lettore che cavolo me ne frega delle scommesse tue?".
Eh, bello mio. Qua si parla d'inciucio, di un solo inciucio, inciucio siciliano.
Ma che dici, altri inciuci non ne faranno? E quanti Centorrini si stanno
preparando, in questo momento, a sacrificarsi nobilmente per la
governabilità e tutto il resto?
(P.S.: Nel frattempo, a Messina, Centorrino presenta il suo “Il partito del
Sud”. Relatori? Francantonio Genovese e Domenico Nania, due pezzi della
storia politica recente: che adesso, a quanto pare, si ricompongono a unità).
2 giugno 2020
MARE MOSTRUM
Non è ancora come il Golfo Persico, ma è già uno dei mari più a rischio
del pianeta. In Grecia, nel giro di poche settimane, un tranquillo Paese
semi-agricolo è finito dentro alla macchina di triturazione. In Medio
Oriente, il vecchio Stato (laburista) di Israele non esiste più e il suo posto è
stato preso, per l'appunto, da un regime mediorientale che massacra e fa
stragi come tutti gli altri. In Italia sono stati persi trecentosettemila posti di
lavoro e un giovane ogni tre è disoccupato…
Insomma, il mondo dei sogni sta andando a pezzi. Non che prima le cose
fossero molto migliori (non si è atteso Netanyahu per fare Sabra e Chatila
né Berlusconi per far macelleria sociale), ma prima almeno erano presentate
come eccezioni. Adesso, invece, le si proclama come normalità.
Certo, non è stato facile arrivarci: c' è voluta una lunga e paziente opera
di propaganda, di fronte alla quale Goebbels e Beria erano dei dilettanti; ma
alla fine ci si è arrivati. L'uomo non è più un uomo, puoi massacrarlo alla
generale Sherman (“L'unico indiano buono...”), apertamente. L'operaio,
altro che diritti!, è una macchina punto e basta (“Prendiamo la via della
Cina!”, incita Romiti). Il gay, la donna, il bimbo del turismo sessuale,
chiunque non sia maschio adulto “regolare”, può essere violentato, o
quantomeno aggredirlo, impunemente.
Quest'opera di mutazione culturale, di riformazione freddamente studiata
del senso comune umano (è di questo che parlano quando parlano di
“riforme”) può essere e dev'essere contrastata da noi tutti. Tutti? Certo, una
mano possono darla anche i Vip, ma con riserve e limiti che prima o poi ne
offuscano – vedi il recente caso Santoro – la credibilità di fondo.
Meglio contare sulle nostre forze, sui militanti antimafia (e dunque
antifascisti, antirazzisti ecc.) vecchi e nuovi.
Facciamo due esempi specifici, tanto per non chiacchierare a vuoto. Il
primo è quello di Chiara, una giovane collega di ventitrè anni che sta
arrivando al massimo premio giornalistico coi suoi “sconosciuti” video sulle
lotte sociali catanesi (sconosciuti per Minzolini, non certo per noi di Ucuntu
o quelli dell'Experia).
Il secondo è quello di Roberto, che ha più di sessant'anni e una carriera
brillantissima alle spalle ma la vecchiaia la sta passando a formare
giornalisti antimafiosi e a scrivere su mafia e governo cose tali che ogni
paio di settimane mandano un paio di pirati ad hackerargli il sito.
Non cerchiamo altri alleati, non ce ne sono. Stiamo uniti, lavoriamo,
facciamo rete. Su questo numero di Ucuntu trovate annunci di rete per le
settimane prossime, a Catania e a Ragusa. Non siategli indifferenti, non
guardateli con estraneità: anche se voi non ci siete, sono momenti vostri.
Dovunque siate, comunque la pensiate, qualunque sia l'ingiustizia contro la
quale siete (o credete di essere) soli.
Perché la rete è l'unica che può aiutare tutti, in Sicilia, nelle fabbriche, in
tutto il nostro mondo, nel paese. La rete, l'intelligenza collettiva degli esseri
umani.
11 giugno 2010
VENDERE SOGNI O RACCONTARE REALTA'
Perché nessuno parla mai dei giornalisti calabresi? Sono i migliori
d'Italia, ma raccontano – semplicemente – la verità. L'industria del
consenso non sa proprio che farsene di loro. Sono i nostri naturali modelli,
e interlocutori. “Nostri”, di chi? Eh...
Vespa, Lerner, Santoro, Feltri, Mauro, Belpietro... Li riconoscete? “Certo
che li conosciamo! Sono i massimi giornalisti italiani, quelli che fanno le
notizie, i maestri”.
Benissimo. E ora vediamo questi: Inserra, Baldessarro, Cutrupi,
Monteleone, Mobilio, Bozzo, Pistoia, Pantano, Agostino, Rizzo, Baglivo,
Anastasi, D'Urso, Fresca. Chi sono? “Mah... una squadra di serie C? I
prossimi candidati al Grande Fratello?”.
Sono alcuni dei giornalisti calabresi minacciati dalla 'ndrangheta solo
negli ultimi tre-quattro anni. L'informazione, per quanto riguarda la
'ndrangheta, la fanno loro. E dunque la politica, i rapporti sociali e tutto il
resto. Eppure non li conosce nessuno. Né sono in molti a conoscere
(emarginati come sono) ciò che vanno scrivendo.
Ecco: il problema dell'Italia è tutto qui. Esiste un'Italia fasulla ed una
vera. Una serve ai sogni e ai consensi, e alle paure. L'altra non serve a
niente, cioè ai poveracci qualunque e alle loro banali vite.
Le due Italie si scontrano, ogni tanto: lo scontro non è però
principalmente, come rappresentazione di queste Italie, fra i Grandi Guru di
destra e quelli di sinistra (che pure non sono uguali: ci mancherebbbe) ma
fra plasmatori di sogni e cronisti di realtà. Questi ultimi, come abbiamo
visto, son pochi, son marginali e rischiano spesso la pelle, nella generale
abulìa, perché la realtà che narrano spesso è criminale. A volte, quando li
ammazzano, se ne parla.
***
Diversi dei nostri amici “realisti” (e dunque, in quanto tali, sconosciuti) in
questi giorni sono impegnati in scadenze importanti (che dunque non
interessano nessuno) del loro lavoro. Vediamo un po'.
A Catania, Lavori in Corso – sarebbe l'”editore” di questo “giornale” - sta
come al solito agucchiando faticosamente alla rete: un'assemblea di
giornalisti fra una settimana, un seminario operativo (in realtà un raduno
tipo scout in una bicocca di montagna) due giorni.
A Modica e Ragusa i ragazzi del Clandestino stanno organizzando quello
che pomposamente chiamano un Festival di Giornalismo per fine estate
(eppure, guarda un po': il Clandestino miliardario, quello di Roma, con
famosi giornalisti e grandi editori, ha chiuso baracca inseguito dalla
Finanza, mentre il Clandestino straccione, quello dei nostri ragazzi, è ancora
qua più presuntuoso che mai).
A Roma invece stasera c'è l'assemblea degli amici di Italiani.it, che
dovrebbero per l'occasione presentare le loro (apprezzabili) iniziative in rete
e il loro mensile cartaceo, bello e obsoleto come un brigantino. Fra Roma e
Bologna, i redattori di Mamma (la rivista di satira, online e anche purtroppo
– poiché costa - su carta) continuano a migliorare il loro giornale, che già
ora raggruppa disordinatamente i migliori disegnatori e satiri d'Italia.
Dimentichiamo qualcuno? Sì, per fortuna: quelli di AmmazzateciTutti in
Calabria, quelli di DaSud fra Calabria e Roma (in Calabria, come vedete, ci
sono i ragazzi più intestarditi d'Italia), quelli di Dialogos, AdEst e Zetalab
in Sicilia; e l'inaffondabile Telejato, e Step1, e Antimafia Duemila, e
Liberainformazione...
***
E cosa mandiamo a dire a questi – e ai molti altri – valenti commilitoni di
questa strana guerra? Niente, hanno tanto da fare che difficilmente
avrebbero tempo di stare a sentire chiunque altro. Le cose importanti,
comunque, sarebbero queste: 1) ogni tanto fermatevi per stare a sentire gli
altri come voi, soprattutto quelli che non conoscete ; 2) non perdete tempo a
fabbricare bei brigantini e non invidiate gli armatori dei clipper: avete già
provveduto, invece, a fare un pdf veloce? L'avete standardizzato, e con chi?
Che politica degli standard avete? E, soprattutto, quanti lettori pensate di
avere l'anno prossimo con questo pdf (opportunamente parametrato) su ebook e/o i Pad?
3) non illludetevi neanche per un attimo che i signori dell'Elenco A (vedi
inizio articolo) possano o vogliano minimamente risolvere i vostri problemi;
non considerateli dei modelli. I vostri interlocutori, e modelli, invece, sono
quelli dell'Elenco B (vedi sopra) e i loro simili. Fate rete!
24 giugno 2010
«¡QUE VIVAN LAS COMPANERAS!»
OGGI SI FESTEGGIA
Le Siciliane vincono il Premio Alpi. E non dovremmo festeggiare? Mafia,
camorra, Fiat: è tutto alla faccia vostra!
A Napoli, come sapete, si paga il pizzo. Il camorrista va dal commerciante
e gli fa: “O paghi o ti faccio saltare in aria”. Il commerciante liberamente
decide che pagare è molto meglio di saltare per aria. “Bravo – gli fa la
camorra – tu sì che sei un uomo saggio e perspicace”.
I napoletani che hanno la disgrazia di essere anche operai di fabbrica,
tuttavia, il pizzo lo pagano due volte. La prima volta alla camorra, secondo
le democratiche modalità sopra indicate. E la seconda alla Fiat, sempre in
maniera libera e nel pieno rispetto della democrazia. “O paghi – gli fa la
Fiat – e cioè mi vendi il tuo lavoro per un pezzo di pane, o ti levo la
fabbrica e ti riduco alla fame. E l'operaio – non tutti – liberamente e
democraticamente paga.
Tutto questo per dire che è anche per questo che Saviano e alcuni altri,
invece di parlare semplicemente di camorra, parlano di Sistema. Il Sistema
comprende la camorra, e comprende la Fiat. La Fiat, man mano che
ammazza Keynes, si fa camorra; e la camorra, man mano che reinveste i
soldi, si fa Fiat. Sempre più evanescenti le differenze fra l'una e l'altra, e
tendenti a sparire. Onde è saggio e scientifico considerarle come un tutto
unico, il vecchio Establishment, modernamente 'O Sistema.
'O Sistema ha un governo che caccia i giudici (vedi Caselli) minaccia
d'ammazzamento i pentiti (vedi Spatuzza), ruba ai produttori le fabbriche
(vedi Pomigliano). Tutto ciò è tuttavia secondario, non essendo ormai più da
tempo – come lucidamente previsto dal Vecchio Maggiore della Fattoria – il
governo che una specie di stanza in cui i rappresentanti della Fiat, della
camorra e degli altri poteri ogni tanto si siedono per dirimere fra amici i
loro affari.
***
E' un tempo malinconico - o forse no: di ricordi - questa fine di giugno,
per il vostro corrispondente. Trent'anni esatti - ahimè, quantum mutatus –
da quando la musa del giornalismo ci arruolò, freschi e ingenui, al suo
servizio. Venti da quando, un po' meno freschi ma non domi, si navigava
con Fracassi e la sua redazione (valorosissima) di ragazzi su Avvenimenti.
E quindici da quando è morto il nostro maestro Giuseppe D'Urso, quello
che c'insegnò le forme del potere moderno, la massomafia.
E il mio amico Fratangelo, procuratore di Avvenimenti e poi del Siciliani
quotidiano, grasso, compagno, sfottente, coraggioso? Anche lui via con
l'estate, cinque anni fa. E così pure Maoloni, il grande grafico (le pagine su
cui ci state leggendo discendono da un suo capolavoro) che accompagnò
per tanti anni, lui, grande artista, noi giornalisti pirati.
E Turone, e il buon Gnasso, e padre Balducci, e Pratesi? Tutte penne
grandissime, appuntite, ma al servizio dei poveri e non dei padroni. A tutti è
toccato dunque il premio massimo – la dimenticanza ufficiale, la damnatio
memoriae - con cui i potenti segnano chi ha fatto loro veramente paura.
***
Non volevamo scrivere di questo, ma del lavoro di ora. Pochi giorni fa i
redattori di Ucuntu si sono rinchiusi per un paio di giorni a studiare, a fare il
punto del cammino percorso e a cercar di capire quel che resta da fare. Ne
parteremo ancora, sia qui su Ucuntu che in redazione fra di noi.
Operativamente, hanno deciso di fare uno sforzo per estendere la rete,
sempre con poche chiacchiere e molti fatti: una nuova inchiesta collettiva
sui poteri mafiosi, una mappa aggiornata (sempre collettiva) delle lotte
sociali, un'inchiesta (collettiva anch'essa) sull'emigrazione africana.
Collettiva per noi vuol dire, come sempre, che non siamo autosufficienti,
che lavoriamo con altri, che insegniamo/ impariamo continuamente, che
facciamo rete.
Sono sempre le stesse due cose che s'intrecciano, da noi: da un lato una
storia fortissima, veramente alternativa (I Siciliani, Siciliani/Giovani,
Avvenimenti, l'Alba, Casablanca, poi Ucuntu, poi la rete di Lavori in corso,
poi chissà cosa, sempre nell'antimafia e nel collettivo), dall'altro una serietà
“professionale” e tecnica che ci fa scoprire prima degli altri le ricadute
pratiche (e “politiche”) di ogni tecnologia.
Se guardate l'ultimo menù di Repubblica.it, per esempio, trovate un
“giornale elettronico” (pdf, tecnica Issuu, web sfogliabile, ecc.) che è
esattamente un Ucuntu molto più in grande: ma due anni dopo...
Rete e tecnologie invadono sempre più il giornalismo, e noi non ne
abbiamo paura; anzi. Un internet di esseri umani – non di semplici
macchine, e men che mai di mercato – è quello dentro cui navighiamo. E
tanto si estenderà, grazie a noi e a tutti gli altri, che alla fine – alla faccia di
'O Sistema – cambierà il Paese.
***
Le righe che restano, le dedichiamo a festeggiare. Due nostre brave
compagne, Chiara Zappalà e Sonia Giardina (per un disguido i due nomi,
ufficialmente, son diventati uno) hanno vinto il Premio Alpi per miglior
reportage locale con “Una rovina di città”, video-inchiesta sulle periferie
catanesi. Tutto il giornalismo ufficiale d'Italia è dunque lì a bocca aperta ad
ammirare il capolavoro di queste due ragazze siciliane.
Per me, veramente, è un guaio perché i numerosi bicchieri che sto
bevendo alla loro salute (più quelli di poco fa, “di malinconia”) non mi
hanno certo fatto bene alla glicemia. Ma chi se ne frega! Viva Chiara, viva
Sonia, ¡viva las compañeras! e viva la vita che va avanti e non si ferma.
5 luglio 2010
CI VUOLE UN ALTRO PERTINI. E FORSE C'E'
Quando il gioco si fa duro i duri cominciano a giocare...
Cinquant'anni fa di questi tempi avevamo il governo più fascista che ci sia
stato fra Mussolini e Berlusconi, un centrodestra Dc-Msi che per prima cosa
provvide a “revisionare” - come si dice ora – la storia italiana facendo
occupare Genova dagli ex repubblichini di Salò.
Genova insorse e anche nel resto d'Italia ci furono manifestazioni contro il
governo. Nel sud si mescolarono con quelle per l'acqua e per l'occupazione.
La polizia, in perfetto stile sovietico (ma i “comunisti” qui erano gli
sparati) , sparò sulla folla in diverse città: a Reggio Emilia uccise cinque
operai, a Licata (Agrigento) restarono per terra venticinque manifestanti
(uno morto), a Palermo furono uccisi un anziano sindacalista, un precario
diciottenne e una donna che stava alla finestra. A Catania massacrarono un
ragazzo a manganellate (Salvatore Novembre, 19 anni) e lo lasciarono a
morire in piazza Stesicoro, dove ora la gente passeggia senza sapere.
Nei giorni successivi il governo crollò, travolto dalle proteste (allora la
gente si ribellava). Ma al sud e specialmente in Sicilia la vita rimase quelle
di prima, cioè disoccupazione e miseria e mafia per i contadini: mancava
ancora un sacco di tempo per il Sessantotto.
***
Da allora molte cose sono cambiat e alcune sono rimaste le stesse. La
polizia, dopo Falcone e gli altri, non sparerebbe più sulla folla. Ci sono più
telefonini, ma meno allegria. Lavoro continua a non essercene, e ora non
solo al sud. Invece c'è sempre la mafia, che ha ancora più amici nei partiti di
governo.
E proprio a questo proposito, c'è una differenza importantissima:
adesso,della mafia, nessuno fra i politici si accorge più. Allora i partiti di
sinistra (i “socialcomunisti” che poi si scissero, uno al governo l'altro
all'opposizione: ma sempre restando di sinistra fino a tutti gli anni'70), se
una cosa sapevano, è che con la mafia non si discute e che la mafia sempre
si combatte. Persero pià di cento compagni (un'altra cosa che ora non vi
raccontano) combattendo i mafiosi, fra il '43 e gli anni Sessanta). Avevano
mille difetti, ma non di fare compromessi coi mafiosi.
E ora? Adesso lo vedete: condannano un politico fondamentale (un
fondatore di Forza Italia, un braccio destro di Berlusconi) per mafia, e una
settimana dopo tutti se lo sono già dimenticato. Non è che non protestino,
non facciano begli articoli, non siano – per alcuni giorni – virtuosamente
indignati: ma tutto si ferma lì. Poi arriva la “politica” dei politici, e tutto
ritorna normale.
Per ora, nella sinistra “normale”, fervono le trattative e le avances
(allearsi con Fini? con Micciché in Sicilia? con Calderoli e Bossi?), con
strategie complessissime, degne di Sun Tzu o Napoleone. Peccato che
falliscano sempre. E quanto agli assetti interni: chi sarà il candidato finale,
alle elezioni? Bersani, Vendola? Di Pietro? Oppure - tocchiamo ferro – un
D'Alema o un Veltroni? O l'abilissimo Letta? E chi appoggiato da chi, che
schieramenti interni, che alleati? Manovre complicatissime, degne di Giulio
Cesare o Machiavelli.
E anche queste regolarmente finiscono col pugno di mosche in mano.
Finirà che dalla crisi verrà fuori un governo Tremonti (che in effetti c'è già)
o un Tremonti-Fini, o un Fini-Calderoli-allargato (tutto è possibile) o... E
tutto, in nome dell'emergenza, con l'appoggio pià o meno esplicito della
sinistra.
Da un canto è divertentissimo vedere gli schieramenti che si
compongono, le congiure reciproche, i tradimenti dei ras (non a caso fra
poco è venticinque luglio...), dall'altro noi popolo di ogni giorno in tutto ciò
ci guadagniamo proprio niente. Rischiamo un governo Berlusconi senza di
lui, che duri altri vent'anni e che sia sempre e altrettanto padronale. Un otto
settembre che non finisce mai.
***
Quanto a noi, che di “politica” non ne mastichiamo, abbiamo poche idee e
tutte fuori moda. Primo, coi mafiosi non si tratta, neanche per un istante.
Secondo, se governo di emergenza ha da esserci, che sia di emergenza vera,
e cioè in primissimo luogo antimafioso. Abbiamo un candidato, persino, - a
sua insaputa, ovviamente... - ed è un giudice antimafioso.
Volete un governo unitario, che gestisca il dopo-Berlusconi e prepari
(diciamo, nel giro di un anno) le elezioni? Benissimo. Eccolo qua. Caselli.
A Berlusconi (e a Dell'Utri) non va bene, ovviamente. Ma a tutti gli altri?
E' democratico. E' settentrionale. E' anche siciliano, in un certo senso. Non è
di destra. Non è di sinistra. E' più istituzionale della carta bollata. Non si è
mai immischiato di politica (a volte la politica se l'è presa con lui) e sempre
fatto seriamente ed efficacemente quel che l'Italia gli chiedeva, combattere i
terroristi o stangare i mafiosi.
E' giovane e pimpante, soprattutto, almeno quanto Pertini. E infatti
rischierebbe d'essere proprio un altro Pertini.
Chi ha paura di un altro Pertini? Chi ce lo farebbe, un pensierino?
18 luglio 2010
I PRIMI NOMI DEL NUOVO GOVERNO...
Non si può dire che abbia avuto molto successo la nostra proposta di un
governo di unità nazionale guidato da un magistrato sicuramente al disopra
delle parti e volto al superamento dell'attuale gravissima crisi, causata
principalmente dalla presenza di Mafia, Camorra e Ndrangheta in tutti i
principali centri di potere nazionali.
Contrariamente a quanto ci aspettavamo né il Presidente Napolitano né i
segretari delle varie forze politiche hanno ritenuto di convocarci per
chiederci ulteriori delucidazioni. Neanche il Presidente del Consiglio deludendoci profondamente - ha voluto trarre le conseguenze del nuovo
clima politico costituendosi alla più vicina caserma dei Carabinieri,
continuando ad alloggiare tranquillamente nei suoi vari palazzi come se non
fosse successo niente.
Sta bene. Incuranti del caldo e dell'indifferenza noi andiamo avanti
indefessamente, producendo altresì i primi nomi – visto che uno solo non è
bastato – del costituendo Governo. Il cui scopo è, lo ripetiamo per chiarezza
e perché nessuno poi dica di non essere stato avvertito, di risolvere il
principale e anzi in fondo l'unico problema del Paese, il predominio
mafioso.
Dunque: agli Affari Esteri abbiamo deciso di mettere, dopo ponderata
riflessione, l'esperto e autorevole Romano Prodi. E' l'unico che per ”estero”
intenda la Francia, la Svizzera, la Russia, l'Inghilterra e altri tradizionali
paesi. Tutti gli altri politici, chi più chi meno, considerano stranieri chi la
Padanìa, chi il Meridione, chi sta un po' più in su o un po' più in giù di loro.
E non va bene. Da Prodi (che è federalista serio, e cioè europeo) ci
aspettiamo dunque un buon lavoro, e lo preghiamo di comunicarci al più
presto la sua accettazione.
Agli Interni – sempre che voglia accettare – andrà per la prima volta una
donna, Angela Napoli. “Ma è di destra” obietteranno i miei amici, storcendo
il muso. Ebbene sì: ma vi sembra il momento di far gli schizzinosi? “Che il
gatto sia rosso o nero non importa, basta che prenda i mafiosi” disse una
volta il Presidente Mao. E dunque buona fortuna alla camerata Angela,
vediamo come se la caveranno i mafiosi contro una buona testa di ferro di
calabrese.
Alla Difesa, padre Zanotelli. Ci difenderà dai banditi, dai ladri d'acqua, da
tutti i talebani in giacca e cravatta che ammazzano più gente in un anno che
i talebani selvaggi in cento. L'esercito, naturalmente, sarà stanziato in Italia
dov'è il posto suo. Tuttavia, per rispettare i sentimenti patriottici dei patrioti,
sarà concessodi stanziarsi liberamente a Kabul (e in Mongolia, su Klingoon,
dove cazzo vorranno) alle unità di volontari che vorranno farlo: “Padania
Warriors” “Militiae Lepanti”, “Magnafoco del Labbaro” e quant'altro. Così
finalmente potranno combattere i nemici dell'Occidente e della Religione in
prima persona e non per interposti sldati. Grazie, padre Zanotelli, buon
lavoro anche a lei.
Al Lavoro ci va, naturalmente, un sindacalista. Personalmente, preferirei
il mio amico Gigi Malabarba, operaio di Arese; ma mi dicono che è troppo
estremista per un ruolo così istituzionale, e allora mettiamoci Guglielmo
Epifani. (Notate che il ministero torna del Lavoro e non del welfare, del
producing e di altre americanate. Qua siamo in Italia, grazie a Dio, e si parla
italiano). Fine parentesi e buon lavoro anche a lei, compagno Epifani.
All'Industria invece ci va un industriale, categoria rarissima oramai,
sostituita da giocatori di poker, venditori di chiacchiere e ogni tipologia di
lestofanti. Un industriale vero l'ho trovato però ed è Renato Soru, che
Tiscali se l'è fatta da solo senza farsela regalare né da Berlusconi né da
D'Alema. Mi mandi una mail, dottor Soru, ché qua il tempo passa e c'è da
fare in fretta.
Commissari alle Regioni Mafiose, con poteri adeguati, saranno i tre
generali Aurigo, Bozzo e Gualdi, coadiuvati rispettivamente dai Prefetti
Serra (già a Roma), Frattasi (Fondi) e Linares (Trapani). Prenderanno ordini
direttamente dal Presidente e mi auguro che siano già al loro posto.
Va bene. Il resto al prossimo numero, per oggi mi sembra che basti. Con
questo caldo, e con tutte le altre cose da fare, vi pare un lavoro da niente
mettere su un governo? Eppure a poco a poco ci stiamo arrivando: basta un
po' di buona volontà e si riesce a far tutto. Eppoi dicono che noi meridionali
non abbiamo voglia di lavorare.
18 luglio 2010
MISS MAFIA E MR STATO
MATRIMONIO DIFFICILE, FIDANZAMENTO LUNGO
L'accordo era che ciascuno si facesse i fatti suoi, senza pretendere
troppo: controllare il territorio, raccogliere un po' di voti, e soprattutto
tener buoni i contadini, cioè i “comunisti”. Poi la mafia, coi soldi
dell'eroina, è diventata troppo potente. Allora Andreotti ha cercato di tirarsi
indietro. Ma...
Lo stato, in Italia, ha sempre trattato con la mafia. Ha trattato ai tempi di
Giolitti ("camorrista" per Salvemini), di Mussolini (la fine del povero
Mori), del'Amgot (Calò Vizzini, Lucky Luciano), di Scelba (Giuliano e
Pisciotta) e, naturalmente, di Andreotti. Quest'ultimo, come si sa, si
incontrava con boss come Bontate che, con Badalamenti e Inzerillo,
formava il triumvirato della mafia di allora. Sia Bontate che Inzerillo furono
uccisi dai "Nuovi", i corleonesi. Badalamenti scappò in Brasile, e l'uomo di
cui si fidava era Tommaso Buscetta. Falcone, mediante Buscetta, aveva
l'obiettivo preciso di far parlare Badalamenti. Non ci riuscì.
Che cosa avrebbe potuto dire – e provare - Badalamenti, se Falcone fosse
vissuto abbastanza da convincerlo? Che l'onorevole Giulio Andreotti, capo
del governo italiano, aveva come interlocutori industriali, prelati, politici, e
anche i boss di Cosa Nostra. Adesso la cosa non farebbe granché scalpore,
perché è una storia vecchia, e perché l'opinione pubblica non è più quella di
prima. Ma nel '93, o anche qualche anno prima, sapere ufficialmente che un
politico aveva commesso il "reato di partecipazione all'associazione per
delinquere" Cosa Nostra, "concretamente", "fino alla primavera 1980"
avrebbe fatto saltare per aria l'Italia. Altro che Mani Pulite.
***
Per questo Falcone è morto e per questo è morto Borsellino. Ovvio che ci
siano entrati (come rozzamente si dice) "i servizi", pezzi di stato. Deviati,
ma fino a un certo punto. In certi anni, erano quasi ufficiali.
I rapporti fra Andreotti e Bontate – ossia, fuor di metafora, fra mafia e
stato – non erano finalizzati a assassinii (tranne che di comunisti, che allora
giuridicamente non erano esseri umani) , né ponevano a rischio l'autonomia
dello stato. Erano rapporti periferici, asimmetrici, localizzati. Il mafioso, a
quei tempi, al politico chiedeva cose circoscritte e locali, e il politico gli
rispondeva su questo terreno. Al massimo poteva chiedergli una strage di
contadini, seppellibili in fretta e senza troppo casino.
E' il tipo di rapporto che un ufficiale americano può avere oggi con questo
o quel warlord afgano, di cui si conoscono benissimo le atrocità, ma che
tutto sommato torna utile per tenere il territorio. "Datemi i voti – diceva alla
mafia lo stato - ammazzatemi un po' di comunisti e fate quel che cazzo
volete nella vostra isola di merda".
Poi, verso la fine degli anni '70, i signori della guerra si sono impadroniti
di testate nucleari. Cioè, oltre metafora, i mafiosi hanno messo le mani sulla
totalità del traffico mandiale di eroina e sono diventati dei grossissimi
imprenditori.
***
A questo punto i rapporti di forza si sono squilibrati. "Col cazzo che
restiamo a fare qualche affare di merda quaggiù in Sicilia! Vogliamo contare
dappertutto, vogliamo avere la nostra fetta d'Italia esattamente come tutti i
vostri imprenditori".
Si aggiunge, proprio in quegli anni, una diciamo così infiltrazione. Ad
esempio, gli ultimi 150 inscritti alla P2 stanno in Sicilia o sono siciliani.
All'estero (“golpe” Sindona) Cosa Nostra comincia a essere un interlocutore
a livello alto.
Quindi la partita cambia completamente. Quelli come Andreotti si
spaventano, cercano di tirarsi fuori. Però è un po' tardi, anche perchè se hai
aiutato il talebano a rubare una vacca e ammazzare un paio di comunisti,
quello ti ricatta per il resto della tua vita e pretende, pretende, pretende...
Mr Stato dice: va bene, adesso ti aiuto a rubare anche un paio di capre.
Miss Mafia dice: Col cazzo. Voglio il culo della regina Vittoria, se no dò al
Times le foto di te che rubi le vacche e ammazzi i comunisti insieme a me.
E il ciclo ricomincia e continua, sempre più incontrollabile e sempre più in
alto a ogni giro. Sta continuando tuttora.
28 luglio 2010
GANO JAGO E SANSONETTI
L'incredibile storia di un giornalista "di sinistra" in Calabria
Gano di Maganza, politico di qualche rilievo tempo addietro, aveva le sue
ragioni per odiare Orlando, Rinaldo e gli altri paladini, che pare che
l'abbiano ingiustamente scavalcato in non so che intrallazzo governativo.
Perciò, pur deprecando il tradimento con cui, alla fine, abbandonò Re Carlo
per passare all'infedele, non possiamo fare a meno di riconoscergli qualche
attenuante. Forse è stato eccessivo bollarlo come “Ganu 'u traituri”.
E Jago? Povero Jago, innamorato cotto di Desdemona e inoltre
giustamente incazzato con quel negraccio di Otello: altro che ammiraglio! a
coltivare i campi lo dovevano mettere, quei maledetti senatori veneziani
Questo nobile sentimento (che in fondo è lo stesso che il Corriere e quasi
tutti i giornali “bianchi” nutrono per Obama) sarebbe stato più che
compreso dai governanti veneti di ora. Ma allora purtroppo c'erano i dogi e
il povero Jago è stato lasciato là a macerarsi con tutta la sua invidia e
gelosia. Traditore anche lui alla fine, d'accordo: ma davvero, onestamente,
lo potete condannare?
Tutto questo per dire che siamo uomini di mondo, capiamo le umane
debolezze e siamo ben lontani da quei furori ideologici che tanto hanno
devastato il Novecento. Ma, e Sansonetti?
Piero Sansonetti, giornalista rivoluzionario, guida del proletariato ribelle e
nemico fierissimo di ogni padronato, è stato tempo fa, come sapete, al
centro di una cause célebre nel suo tremendo partito, che era Rifondazione
(ne dirigeva il giornale).
I dirigenti a un certo punto, ritenendolo non del tutto in linea col partito,
ne decisero la rimozione. Scoppiò un putiferio terribile (causa non ultima
della scissione, o meglio dell'esplosione, di quel partito) al quale in qualche
modo partecipai anch'io, indignandomi per la libertà violata di Sansonetti,
per l'autoritarismo dei suoi capi e per un sacco di altre belle cose.
Sansonetti a questo punto fondò un suo quotidiano, che ebbe vita
brevissima trasformandosi prima in un settimanale e poi in un sito, e destò
qualche interesse solo per il fatto di essere distribuito in edicola da
Mondadori, teoricamente “nemica”. Il gossip si occupò di Sansonetti anche
per un paio di partecipazioni a Porta a Porta che dai malevoli vennero
ritenute eccessivamente benevole verso Berlusconi. Ma tutto qui.
Adesso invece la notizia è tragica, e riguarda non più i salotti romani, ma
l'insanguinata Calabria, terra dove non si fa gossip ma si ammazza.
Riguarda il “dimissionamento” in tronco del direttore e di nove giornalisti
del quotidiano Calabria Ora, segnalatosi negli ultimi tempi (v. Roberto
Rossi più avanti) per varie inchieste su politici e mafiosi. Cosa non tollerata
dai proprietari, Fausto Aquino e Piero Citrigno, il secondo da pochi mesi
condannato (il 9 febbraio a Cosenza) per reati legati all'usura.
E chi chiamano, Citrigno e Aquino, a sostituire il direttore antimafia alla
testa del giornale? Chiamano Sansonetti. E cosa fa Sansonetti? Si rifiuta
indignato, s'incazza, li sfida a duello alla sciabola per la tremenda offesa?
No, accetta docile, con un sorriso. Piero Sansonetti è il nuovo direttore di
Calabria Ora, al posto di un direttore antimafioso.
Un quarto di secolo fa, il 18 giugno 1984 Piero Ostellino si installò al
Corriere (allora molto vicino alla P2) al posto di un direttore antipiduista,
Cavallari. Lo sfascio del giornalismo italiano secondo molti incominciò da
lì, da quell'obbedienza cieca e prona ai voleri di una proprietà quanto meno
oscura, che aveva appena cacciato un giornalista perbene.
Ovviamente, Sansonetti proclama ora (come allora Ostellino) la propria
indipendenza, la professionalità, la più assoluta autonomia. Va bene. Di
fatto è là, a fare – lautamente pagato – quella parte infelice.
***
Non stiamo parlando di giornalismo, ma di politica. Piero Ostellino, a
quei tempi, era un giornalista liberale e “borghese” che, con la sua pessima
azione, mise plasticamente in luce i limiti morali ed etici di quel
giornalismo “liberal”, di quella borghesia.
Ma Sansonetti è un “compagno”, a lungo riconosciuto come tale. Quella
che lui mette in luce è la crisi morale ed etica di una sinistra sempre più
molle e sbiadita, sempre più lontana. Che oggi, drammaticamente, nella sua
persona scavalca l'antimafia e il Sud, si schiera con i padroni peggiori,
tradisce.
Ciascuno deve esprimersi, su questo. Prima di tutto debbono esprimersi i
referenti politici – fra cui Vendola – di Sansonetti. Esprimersi in maniera
netta e limpida, per esempio così: “Noi del nostro partito non abbiamo più
nulla a che fare con quel mascalzone di Sansonetti”. E poi tutti gli altri.
***
E basta così, come temi politici, per oggi. Ce ne sarebbero di drammatici,
la Fiat prima di tutto, col suo attacco allo Stato – agli operai, all'Italia, alla
Costituzione vigente, alle migliaia di vite bruciate a Mirafiori – non di
molto inferiore, per gravità e insolenza, a quello dei brigatisti. Meriterebbe
una risposta non inferiore, in termini di unità e determinazione, a quella data
a costoro.
Nazionalizzare d'autorità, ai sensi dell'articolo 41 della Costituzione: non
c'è altra risposta possibile – seria – a questo attacco. Ci sono forze politiche
disposte a tanto? O tutto dev'essere sempre e solo polvere di discorsi, “por
ablandarlos”, demagogia?
8 agosto 2010
UN PARTITO
Di Tremonti ha parlato per primo, senza nominarlo, Veltroni (“governo
tecnico”) seguito subito dopo da Bersani. Il Fatto, i primi giorni, sembrava
incerto fra lui e Draghi. In realtà è una soluzione probabile, e non a caso è
quella esorcizzsata subito da Bossi e Berlusconi. Qualche rivoluzionario,
come Beppe Grillo, preferirebbe direttamente un uomo Fiat, Montezemolo.
Ma insomma si va in direzione Tremonti, non per governi “tecnici”, ma
proprio per l'assetto finale dopo le elezioni. Se ce la fanno – se cioè
Berlusconi non si ripiglia, se il centrosinistra ci casca, se non scoppia la
Grecia nel frattempo – sarà il terzo ventennio, dopo quello di Mussolini e
quello di Berlusconi. Ben diversi fra loro, i tre regimi, ma con una cosa in
comune: la Fiat. Di Fiat, praticamente, non si parla più.
***
La crisi non è politica, è industriale. Comanda Berlusconi? Comandano
Tremonti e Marchionne; che tendono a liberarsi, nello sfascio,
dall'ingombrante duce e andare avanti da sé. Giovanni Agnelli fu il
kingmaker di Mussolini. E Agnelli Gianni, quando ci fu da scegliere, fra
Prodi e Berlusconi scelse il secondo. Così nessuno, nè fra i moderati nè fra i
radicali ha minimamente citato i centrosinistri "liberal" (giolittiani...) come
Ciampi e Prodi. Sarebbe stato naturale. Ma ora implicherebbe una rottura
totale con la Fiat, che nella crisi si collloca (come nel '22) all'estrema destra.
Questa è la situazione. E' catastrofica non tanto in sé (Berlusconi ha molto
meno consenso di quel che dice) quanto perché, essendo la sinistra (tutta)
assolutamente priva di qualsiasi strategia, verrà facilmente egemonizzata
dal centro e persino dalla destra, buon pretesto fra l'altro per le componenti
peggiori del Pd per calar braghe e mutande in nome della solidarietà
nazionale.
La solidarietà è necessaria, ed è necessaria non solo l'unità di tutta
sinistra, ma addirittura un'apertura a componenti di destra. Non Fini e
Lombardo, appendice di altri poteri; bensì la destra “minore”, antipadrini
(un nome per tutti: Angela Napoli; oppure l'Azione Giovani di Palermo che
tre anni fa, non sostenuta da Fini, si ribellò a Cuffaro). Bisognerà
pazientemente disaggregarla e tenerla insieme, come coi “badogliani”
monarchici nel '43.
***
Questo non può avvenire nella “politica”, ovviamente. Ma può bene
avvenire in una Resistenza.
Ecco, il centro di tutto è proprio questo. L'unica carta possibile è volare
alto, essere e mostrarsi molto radicali, battersi apertamente per cambiamenti
di fondo.
C'è un terreno su cui ciò è possibile e naturale, ed è la lotta antimafia. I
boss mafiosi, oramai, in mezza Italia coincidono coi padroni; e sono sulla
via di diventarlo nell'altra mezza. Ieri l'affare-simbolo era Gioia Tauro, oggi
è l'Expo di Milano. Questo è ormai sotto gli occhi di tutti, e il tradimento
della Lega non riuscirà molto a lungo a nasconderlo anche al nord.
L'antimafia deve diventare il baricentro politico della sinistra, esattamente
come la lotta antifascista lo diventò, a un certo punto, per la sinistra di
allora. E' facile per dei giovani, ma non lo è affatto per i vecchi politici,
anche in buona fede. Ma anche per l'antifascismo fu così. Ci volle un salto
in avanti radicale, un modo di pensare più giovane, quello dei giovani
Gramsci e Gobetti; i vecchi della vecchia sinistra, anche buoni – i Nitti, i
Turati, i Treves – rimasero irrimediabilmente indietro e non ebbero altro
ruolo, anche se nobile, che di testimoniare una indifesa fedeltà.
***
Torniamo da un giro all'interno del nostro partito, stavolta in provincia di
Ragusa. Il "partito" a Pozzallo era costituito da ragazzi di SL, a Vittoria da
quelli del "Circolo Impastato" di Rifonda; a Ragusa invece il caporione è
uno della gioventù francescana e a Modica ci sono i ragazzi del
Clandestino, nati da non più di tre anni e su una cosa "piccola" e immediata
come la lotta locale (ma poi nazionale, e vincente) per l'acqua.
Nè Bersani né Vendola nè Di Pietro o Ferrero, che pure sono delle ottime
persone, hanno più di una vaga e lontana percezione di questi giovani, che
per noi invece sono il centro (politico, non genericamente simpatico) di
tutto, e non da oggi ma da molti anni.
Chi ci sta a fare questo partito insieme a loro? Non è uno scherzo. Oggi
come ai primordi, un “partito” non deve necessariamente avere tessere e
capi. Gli bastano un rudimentale programma (governo antimafia, nel nostro
caso) delle idee chiare sulla gravità della situazione, un quadro di poche
“semplici” cose da fare e una “ingenua” fiducia nelle vecchie virtù del
Paese.
23 agosto 2010
LA SA PIÙ LUNGA WIRED
OPPURE UCUNTU E IL CLANDESTINO?
Noi siamo quelli dei volantini, e dei giornali di quartiere per chi non ha
internet. Proprio per questo sappiamo meglio di altri a che serve, e a che
può servire, l'internet
“Internet è morto”, dicono in questi giorni in America e l'idea, coi suoi
tempi, comincia a venire fuori anche in Italia.
Chi è Internet? E' quel tizio strano – libero, senza padroni e, come le
vecchie fontanelle pubbliche, aperto a tutti – che ha tolto il monopolio dei
geroglifici ai vecchi scribi e faraoni e ha inventato di nuovo il vecchio
democratico alfabeto.
E perché è morto? Perché ora, con tutti gli apparecchietti nuovi
dell'ultimo anno (iPhone, Android e compagnia bella) la gente le cose che
prima trovava solo sull'internet le trova, ma più svelte e tascabili, su questi
supertelefonini. Però se le deve pagare, poiché questi cosi viaggiano a colpi
di proprietà, con dei programmini speciali (le “apps”) senza cui non
funziona quasi niente.
Così finalmente è morto il signor Gratis – ragionano i padroni – ed è
finita la storia che chi vuole va e naviga di testa sua, su chissà che siti e con
chissà che idee.
Purtroppo per i padroni, le cose non stanno proprio così. Intanto non è
vero che il “vecchio” web è stato scavalcato da questo nuovo sistema. La
rivista che lo sostiene, Wired, su questo punto “bara “, nel senso che
paragona arbitrariamente i contenuti dei due sistemi. Su uno viaggiano
prevalentemente notizie e opinioni, sull'altro video e intrattenimenti, che
“pesano” (come bytes) molto di più: come dire che siccome i libri
viaggiano in furgoncino e i mattoni in grossi camion, la gente legge meno
libri e più mattoni.
In secondo luogo – che è quello che ci interessa – il successo di ogni
nuova tecnologia di solito è determinato non tanto dalla tecnologia in sé,
quanto dall'uso che ne fa la gente.
L'alfabeto ha fregato i geroglifici perché con esso potevi scrivere delle
bellissime (e utili, se avevi una ragazza da corteggiare) poesie d'amore.
Gutemberg ce l'ha fatta perché poteva diffondere non solo cento bibbie
(protestanti) in più in più del papa, ma anche e soprattutto un milione di
volantini (che prima di lui non esistevano).
La vecchia Cinquecento, dal secondo modello in poi, aveva i sedili
reclinabili (e vi debbo spiegare che vuol dire questo?); l'sms originariamente
era usato dai tecnici Telecom per scambiarsi i dati. Quanto all'iPad... beh,
amici miei, c'è già chi legge il povero Ucuntu anche su questo coso.
Perciò stiamo in campana: a nuove tecnologie, contenuti migliori. Negli
ultimi trent'anni abbiamo fatto incazzare i padroni con scritte sui muri,
ciclostili, megafoni, radio, rotative, tv, fax, web, video, mail, blog, youtube
e pdf... non sarà qualche pidocchiosa multinazionale a metterci i bastoni fra
le ruote proprio ora.
'Sta storia dei libri elettronici (e giornali!) anzi sembra fatta apposta per
chi non ha tanti soldi per carta e per tipografi, ma è ricco di idee. E' un
mondo nostro.
***
Ecco, questa pagina in teoria doveva servire a fare gli auguri ai ragazzi di
Modica che stanno facendo il loro secondo jamboree, o assemblea o come si
chiama (odio la parola festival). Probabilmente sarebbe stato qualcosa di
paternalistico e un poo' solenne, del tipo della fiaccola che passa dalle
vecchie alle nuove generazioni e così via.
Invece usiamola come un solito strumento di lavoro, un promemoria per
ricordarci che quando facciamo a lungo una cosa nella stessa maniera
probabilmente stiamo diventando pigri, e che delle tecniche nuove non solo
non ci dobbiamo spaventare ma dobbiamo anche essere fra i primi (come ai
Siciliani, come ad Avvenimenti) a metterle in campo.
Perché a noi le tecniche servono per far sapere le cose, per svegliare la
gente e per dare voce. Lavoro che in questo momento è importantissimo guardate che cosa sta facendo la Fiat approfittando che la gente dorme ed è
senza voce.
Operativamente, questo significa che tutti noi dobbiamo: - preparare
prodotti per l'iPad, per Android, per gli e-book e per tutti i diavoli che li
portino; e prepararli già ora, come priorità, pensando un po' meno di prima
al ciclostile (e anche alla rotativa...); - organizzarci meglio su ciò che
facciamo già, oleare i meccanismi di rete (proprio tecnicamente, facendo
viaggiare più svelti i pezzi) e... insomma, ci siamo capiti.
Dimenticato niente? Ah, sì, gli auguri per i ragazzi del Clandestino. Va
bene, auguri. Ma mica ne avete bisogno :-)
5 settembre 2010
L'ORSACCHIOTTO IL TRIANGOLO E L'EUROPA
C'erano tre triangoli, in Europa. Uno marrone per gli zingari. Uno rosa
per gli omosessuali. E uno giallo per gli ebrei. L'Europa è cambiata da
allora, ma non completamente. E meno di tutti l'Italia. In questo paese e in
questa Europa noi lottiamo
L'orsacchiotto - quello del bel disegno di Mauro Biani - è un orsacchiotto
qualunque, potrebbe essere del tuo fratellino o tuo di quand'eri piccolo o di
qualsiasi altro bambino. Niente di complicato. Il triangolo su quel pezzo di
stoffa, travolto come il giocattolo nel vento che ora soffia in Europa, invece
ha una storia più complessa. E' – come vedi – di colore marrone. Non è un
colore qualunque ma scelto scientificamente, con tutta la scienza della civile
Europa.
In Europa, a un certo punto, si decise che alcuni tipi di esseri umani non
erano esseri umani veri e propri ma una specie di insetti, e andavano
sterminati. Non fu un'idea di pochi fanatici (certo ci vollero anche questi,
ma solo per cominciare) ma di milioni e milioni di persone perbene, ognuna
colla sua brava Volkswagen e, se li avessero già inventati, col suo bravo
bancomat e telefonino.
Questi uomini-insetti appartenevano a tre tipologie principali: gli ebrei;
gli zingari; e gli omosessuali. E il triangolo? Ecco, il triangolo serviva a
distinguerli fra di loro per stabilire ordinatamente quale doveva essere
“normalizzato” prima e quale dopo. Così, un triangolo giallo caratterizzava
gli ebrei (precedenza assoluto); uno rosa gli omosessuali; e uno marrone
infine gli zingari, anch'essi da sottoporre appena possibile al trattamento
finale.
***
Queste cose in Europa non succedono più, o almeno non più quanto
prima. E' quasi cessata la persecuzione contro gli ebrei (che hanno imparato
a difendersi); è molto diminuita quella contro gli omosessuali (qua ormai se
ne ammezzano non più di una dozzina all'anno); è rimasta abbastanza
pesante quella contro gli zingari, che sono i più antipatici e comunque non
vengono (in massa) uccisi più ma semplicemente rinchiusi.
Insomma, anche l'Europa perbene in tutti questi anni è migliorata. Ma la
cultura di fondo è rimasta la stessa, e potrebbe risaltar fuori a ogni
momento. Gli Heider, i Le Pen, i Bossi, non sono tanto più “strani” dei
vecchi Hitler e Farinacci. Sono semplicemente una normale componente
dell'Europa che può tornare a galla, e periodicamente torna, in qualsiasi
momento.
***
Scriviamo questo per due precisi motivi. Primo - da osservatori politici
quali siamo – per segnalare il più importante avvenimento politico di questo
momento, e cioè la grande manifestazione pro-zingari di pochi giorni fa.
Era stata indetta contro i provvedimenti gemelli di Sarkozy e Maroni,
eppure a Parigi hanno partecipato centinaia di migliaia di cittadini e a Roma
solo quattro o cinquecento.
Secondo – e soprattutto - per ricordarci che tutte queste belle storie
“politiche” che stiamo vivendo (la vecchiaia di Berlusconi, i fronti
“democratici”, le alleanze) si collocano in uno scenario ben preciso, quello
di un paese in cui il dieci percento della popolazione è tranquillamente
deciso a sterminare prima o poi quelli che esso considera non-umani e il
cinquanta per cento è abbastanza disposto, in questa o quella circostanza, a
lasciarglielo fare.
Esageriamo? No, non dopo gli anni Trenta. Questo è già successo una
volta, e può succedere ancora. Non è detto che la nostra crisi politica –
poiché non siamop un paese del tutto civile - finisca tranquillamente come
nei paesi civili. Potrebbe anche finire nella violenza e nel sangue, come in
Jugoslavia o a Weimar; e dobbiamo essere preparati anche a questo.
La patologia fascistoide, che da noi è molto più presente che altrove,
adesso s'intreccia sinistramente con l'ormai dilagante potere mafioso, col
golpe Fiat, e con la presenza di un partito secessionista che ormai comanda
diverse banche e regioni. Ognuna di queste componenti è in sé violenta, e
completamente esterna a qualsiasi forma di democrazia. Difficile che
l'incontro fra esse avvenga su un terreno democratico. Ciascuna di loro, e
tutte insieme, vuole semplicemente prendere il potere.
***
Questo è un promemoria per tutti noi, e soprattutto per gli amici nuovi
che abbiamo conosciuto quest'estate. E' bello vedere i ragazzi che crescono,
che pian piano – m a volte con accelerazioni inspiegabili per chi non è del
mestiere - scoprono le cose e che allegramente si organizzano, fervidi,
invincibili, immortali. Bello ma al fondo non privo di uno stringimento di
cuore.
Dove saranno questi ragazzi fra cinque anni? Li lasceranno vivere, li
lasceranno volare? Che prove riserva loro questo paese? Avranno nemici
terribili, questi ragazzi. Saranno abbastanza forti, abbastanza uniti?
Ecco, delle tecnologie parleremo un'altra volta; e così del percorso dei
prossimi mesi, per Ucuntu, Lavori in corso e gli amici nuovi. Dovremo
cambiare molto, per essere all'altezza. Ma prima la cosa importante è sapere
con precisione dove siamo, in che terreno. E poi, solamente allora, fare le
scelte.
19 settembre 2010
REGIA MARINA
Carlo Fecia di Cossato, comandante di sommergibile, operava in
Atlantico, e dunque sotto il comando dei tedeschi. I tedeschi a un certo
punto misero fuori un ordine: per nessun motivo perdere tempo a salvare i
naufraghi delle navi silurate, la guerra è una cosa seria, non una roba
sentimentale all’italiana. Cossato, come tutti gli altri comandanti italiani,
prese il cablogramma di Doenitz e ne fece carta da cesso.
Pochi giorni dopo gli capitò di silurare un cargo inglese: nessuna vittima
fra i due equipaggi, i marinai del cargo raccolti alla meno peggio su tre
scialuppe, il sommergibile pronto all’immersione.
Però l’Atlantico cresceva, mare lungo di poppa, e difficilmente – pensò
Cossato – ce l’avrebbero fatta a raggiungere una qualunque terraferma.
Allora: stop immersione, aprire i boccaporti, gettare una cima. E un’ora
dopo eccoti un sommergibile italiano, in pieno Atlantico centrale e in tempo
di guerra, che se ne va lentamente a otto nodi trascinandosi dietro la cordata
delle scialuppe gremite di “nemici”.
Questa faccenda durò tre giorni. Ogni tanto si sentiva il ronzio di un
ricognitore: allora Cossato mollava la cima e s’immergeva; passato il
pericolo, riveniva su e si rimetteva a trainare.
All’alba del quarto giorno, un’alba livida di brutto mare, Cossato si
affiancò alle scialuppe e afferrò il portavoce: «Le Azzorre a venti miglia
sulla vostra destra. Vi lascio qui. Venti miglia a ovest e buona fortuna!».
Un «God bless you» arrivò dall’altra parte. Poi gli inglesi si misero a
remare verso la foschia grigio-viola a ovest, e l’italiano s’immerse alla
svelta perché i bombardieri non scherzavano e il sommergibile era
particolarmente vulnerabile a causa della torretta di comando molto alta (nei
sottomarini italiani c’era un cesso degli ufficiali distinto da quello della
truppa, e questo secondo cesso faceva un paio di metri di sagoma emersa in
più).
Passano gli anni, e arriva l’otto settembre. Il re scappa, i generali
scappano, Cossato – che non ha fatto carriera – è di guarnigione su un'isola
con un paio di motovedette. I tedeschi mandano un paio di trasporti, scortati
da mezza dozzina di siluranti, per occupare l’isola. Cossato esce colle sue
due bagnarole, si fa sotto ai tedeschi e a uno a uno li manda giù tutti.
Passano ancora un paio di mesi e stavolta il capitano di corvetta Carlo
Fecia di Cossato, R.M., S.P.E., è in una camera d’albergo, a Napoli. Il re è
scappato, la Marina non c’è più, le strade di Napoli sono un brulichio di
puttane, borsaneristi e marinai. Cossato è un tizio semplice, non ce la fa a
fare ragionamenti complicati. Scrive un paio di lettere, una alla sua Regia
Marina e una alla moglie. E poi si spara.
Questa storia, che qui evidentemente non c’entra un cazzo, me l’ha
raccontata un casino d’anni fa un marinaio che si chiamava Walter Ghetti e
che era stato pure lui nei sommergibili a quei tempi.
Io ce la metto perché ho letto sul giornale che adesso la marina italiana,
per ordine di uno che si chiama Bossi, serve a combattere i poveracci che
vanno per mare sulle carrette alla ricerca di una terra dove campare. Così, se
qualche marinaio o ufficiale della marina di ora mi legge, saprà come
regolarsi quando dall’ Oberkommando arrivano ordini stronzi: carta da
cesso.
19 settembre 2010
PARLARE DI "POLITICA"?
BRAVO CHI CI RIESCE
Da Catania una buona notizia: qualche imprenditore si tira su i
pantaloni. E' una svolta
E' diventato impossibile parlare di “politica” perché ormai la
divaricazione fra il mondo Vip e quello nostro è tale, che pare di ragionare
con gente di pianeti diversi.
I nostri problemi (di noi di questo pianeta) sono i seguenti: 1) E' morto il
sistema industriale con cui l'Italia era uscita dal Terzo Mondo. Morto
ammazzato, con l'eliminazione di Keynes, la fine (teorizzata) del sindacato,
la riduzione (proclamata) del rapporto di lavoro a mero fatto occupazionale,
“militare”. Tutto ciò, naturalmente, ricaccerebbe in dieci anni l'Italia fuori
dell'Occidente (l'Argentina “prima” era un paese prospero e avanzato) ma ai
grandi manager non gliene frega niente perché loro – individualmente e
come ceto - non sono italiani, sono multinazionali. La Fiat, che comanda in
Italia, non è italiana affatto.
2) Il potere politico (anzitutto la finanza, e poi anche la “politica” e le
regioni) in metà del Paese è tout-court mafioso e nell'altra metà assedia le
poche roccaforti ancora indipendenti.
A questi due problemi, ciascuno dei quali basterebbe a a distruggerci
come Nazione, si aggiunge quello della Lega, cioè di un potere
dichiaratamente eversivo che siede alla pari con gli altri poteri.
Le interviste di Bossi qui non ci fanno ridere affatto; ci fanno pensare
invece a titoli del tipo “Il Presidente della Repubblica (o il sindaco di
Peretola, o l'ambasciatore del Belgio, o chi volete voi) si è incontrato ieri
col capo delle Brigate Rosse Renato Curcio” ecc.
I danni della Lega risultano per fortuna limitati dalla sua povertà
culturale. Riesce semplicemente ad assorbire e “politicizzare” inciviltà
preesistenti. In più, tradisce il nord - senza neanche accorgersene - aprendo
le porte alla mafia, che per lei è semplicemente uno dei tanti poteri con cui
far “politica” furbesca all'italiana.
(Senza accorgersene, certamente. Ma si è accorta benissimo, e l'ha portato
a fine cinicamente, del primo tradimento, quello fondativo, con cui ha
permesso la deindustrializzazione del nord svendendo cent'anni e passa di
civiltà – operaia e industriale – questa sì “padana”).
Di questi due problemi (due e mezzo) nella “politica” italiana non si
ritrova traccia, se non formale. La Fiat non ha avuto oppositori. L'Espresso
dedica una copertina molto benevola a Marchionne (e questi sono i liberal,
figuriamoci gli altri). Il resto degl'industriali s'è già accodato.
Quanto alla mafia...beh, lasciamo andare.
Soltanto nelle assemblee dei ragazzi, oramai, si trova la politica reale. Nel
paesino sperduto, alla prima assemblea antimafiosa, vengono
rudimentalmente dibattuti i problemi reali del Paese. A Roma no. Nei
convegni, nelle redazioni, nei precongressi, nei partiti si parla sempre e
disperatamente – weimarianamente – d'altro. E uno dovrebbe mettersi
seriamente a commentare il nuovo partito, o non-partito, di Veltroni, o la
precisazione di Chiamparino, o l'ultima intervista di Renzi,?
***
A Catania, una buona notizia (una notizia improvvisa, eppure attesa): è
nato un giornale nuovo, al di fuori di Ciancio, e per la prima volta non è uno
di quelli fatti da noi ma ha degli imprenditori che lo finanziano.
La notizia non è il giornale (si chiama “Sud”; il direttore, non nostro, è un
bravo ragazzo; esce ogni due settimane), la notizia sono gli imprenditori.
Per la prima volta dopo secoli degli imprenditori catanesi si son tirati su
mutande e brache e hanno timidamente iniziato a fare il loro mestiere.
Questa è una svolta. Comincia, con questa piccola storia, il dopo-Ciancio.
Ci coglie con sentimenti diversi: simpatia, diffidenza, sorrisi, scuotimenti
di testa...
Adesso, il cammino sarà in discesa. Non sarà breve o facile, ma sarà la
seconda parte della strada. La prima è durata venticinque anni.
Io spero che i colleghi di “Sud”, e persino i loro imprenditori, abbiano un
buon successo in questa impresa, che certo non sopravvaluto ma nemmeno
voglio sottovalutare. Il suo valore di segnale è indiscutibile, conferma le
nostre analisi, c'incoraggia nel lavoro; ma potrà avere anche – lo vedremo
nei prossimi mesi – un buon peso anche di per sé, giornalisticamente; ed è
ciò che auguriamo.
Quanto a noi, abbiamo avuto una fortuna grandissima in tutti questi anni
ed è stata quella di avere accanto – dopo il gruppo iniziale dei Siciliani – dei
colleghi e compagni molto superiori a quel che meritavamo. Coraggiosi,
costanti, solidali, amici: nello sfacelo generale, essi pochi hanno tenuto
duro. E sono ancora qui al loro posto, all'inizio – speriamo – di una stagione
meno dura, nata soprattutto grazie a loro
Non mi ricordo più, alle volte, qual era l'obbiettivo finale dei Siciliani.
Forse semplicemente questo: essere degni del nome, essere i Siciliani. Non
c'è dubbio che Fabio, Graziella, Piero, Giovanni, Toti, Maurizio, Luca,
Sonia, Massimiliano, Lillo, Sebastiano e tutti gli altri l'abbiano conseguito.
25 settembre 2010
PARLANDO DI NOI
Caro Gianluca e cari tutti,
mi dispiace molto di non poterci essere ora, vi seguo con attenzione e vi
auguro buon lavoro.
Buon *lavoro*, non buona commemorazione o buona autoconsolazione o
buona ripetizione delle cose che già tutti sappiamo. E nemmeno - ma questo
a voi non c'è proprio bisogno di dirlo - buona autoglorificazione, una
categoria che un tempo era quasi assente e ora ahimè è fin troppo presente
nelle occasioni pubbliche dell'antimafia.
Lavorare vuol dire non essere nè geni nè eroi, e anzi guardarsi
accuratamente dall'esserlo e considerare con diffidenza un uso troppo
frequente di queste parole. Le guerre le vincono i comuni soldati - e la
vostra è una guerra - e non i generali e neppure i cavalieri a cavallo.
Bisogna che vi abituiate subito a pensare così, per quanto fuori moda sia; a
lavorare pazientemente e modestamente, ma con serietà e con costanza,
senza grandi parole ma senza mollare mai nemmeno per un istante. Ma
questa nel caso vostro è una predica superflua, visto che vi conosco e so che
persone siete. Diciamo che è una cosa in più, un pericolo che vi segnalo.
Certo, potrà capitarvi (è capitato ad alcuni dei presenti) di dovere
affrontare situazioni durissime, momenti in cui - come si dice - non è
neanche sicuro di riportare a casa la pelle. Ma se vi toccheranno affrontatele
senza tante parole, come un muratore su un'impalcatura difficile o un
ferroviere su una linea rischiosa. Noi siamo stati così, Pippo Fava è stato
così. Se volete imitarlo - ed è bello imitare uno come Pippo Fava cominciate da questo: niente grandi parole!
E un'altra cosa vorrei dirvi, un'altra cosa un po' anomala, del Direttore:
non era un giornalista d'inchiesta. Lo era stato a suo tempo (con Liggio, con
Genco Russo, coi mafiosi di allora) ma non quando ha diretto i Siciliani. E
allora perché l'hanno ammazzato? Perchè non Claudio o me o Miki, che
invece le inchieste le facevamo proprio allora?
Perché il giornalismo d'inchiesta non è che una parte del giornalismo, e
nemmeno la parte principale. La parte principale è quella (fra virgolette)
"politica" ed è come leader politico che Pippo Fava è stato ucciso. Ma
come, i leader politici vanno in giro così, senza potere nè cravatta, senza
nemmeno un partito cui appartenere?
Proprio così. La politica veraè raccontare i dolori della gente, e le loro
speranze, e i volti dei potenti che l'opprimono, con arte, mettendoci tutti se
stessi, cervello e cuore. Allora, e soltanto allora, la verità colpisce davvero.
Tra voi in questo momento ci sono tre ottimi giornalisti - Carlo, Graziella e
Pino - che hanno pagato moltissimo per quello che hanno fatto. Hanno fatto
inchieste bellissime ma ciò che non gli è stato perdonato è stato prima di
tutto il loro ruolo "politico" e civile. Quando Graziella non solo indaga su
un episodio ma anche organizza i Siciliani, quando Carlo si fa esempio
vivente di rottura dell'omertà del notabilato locale, quando Pino non solo
denuncia i Fardazza ma li schernisce e porta la gente a ridere di loro,
ebbene, questa è politica e questi sono i nostri militanti politici, non solo e
non principalmente i nostri giornalisti. Bravi, concreti, complessivi e quindi
non digeribili in alcun modo. "Pericolosi".
E così spero si possa dire di voi, in tutti i campi. Un saluto affettuoso e
ancora buon lavoro.
3 ottobre 2010
QUA COMANDANO QUELLI DELLA TRABANT
Fare macchine che non si vendono, coi soldi dello Stato, e alla fine
accusare gli operai
La Trabant non si vende e il Partito accusa gli operai. “Dovete lavorare di
più - dice il Partito - E' che siete abituati troppo bene. Ma d'ora in poi vi
faremo vedere....”.
Tutti gli apparatnik, tutti i politici, tutti i giornali annuiscono gravemente.
Nessuno propone la soluzione più logica (nazionalizzare la Trabant e
metterla in mano agli ingegneri) anche perché, in teoria, la fabbrica è già
nazionalizzata: vive dei soldi pubblici, produce pessime macchine ed è
gestita da gente che di partito s'intende forse, ma di automobili assai meno.
Gli unici rimedi che conoscono sono: uno, più sacrifici; due, più polizia.
Esattamente la situazione della Fiat. Cacciati gl'ingegneri dai vertici
(qualcuno si ricorda ancora di Ghidella?), sostituiti dagente fida del Partito
(Romiti nell'88, adesso l'ineffabile Marchionne), le macchine vengono male
e nessuno ne vuole.
Fra tutte le consolidate auto europee, la Fiat è quella (- 26 per cento) che
va peggio. Non per colpa dei coreani o dei cinesi: soffre Psa, Volkswagen, le
europee.
Buttare fuori a calci il compagno Marchionnov? Non se ne parla
nemmeno. Sacrifici, licenziamenti e, se qualcuno protesta, polizia. E
siccome qui in Unione Sovietica c'è un partito solo, nessuno seriamente
protesta (seriamente vuol dire vendita forzata o nazionalizzazione).
***
Che fa un capo dello Stato riformista anzi semplicemente democratico
anzi, mi voglio rovinare, addirittura conservatore e di destra se il sindaco di
un paese propugna la superiorità della razza bianca locale e vuole insegnarla
per forza ai bambini innocenti delle scuole? Manda messaggi? Si appella
alla buona volontà di un minisstro? Lascia intendere che forse non va
bene?.Manda direttamenter la truppa, reparti delle Forze armate, che
disperde la folla razzista a calcio di fucile e fa ala ai bambini neri.
Non l'ha fatto Di Pietro o Vendola e nemmeno Bersani. L'ha fatto un
presidente degli Stati Uniti, il repubblicano Eisenhower,, a Little Rock
nell'Arkansas nell'autunno del '57. Pochi anni dopo, nel '62, fu Kennedy a
mandare quattrocento federali nel Mississippi, dove i razzisti locali governatore in testa – pretendevano di fare i razzisti nell'università.
Anche qui, le baionette spianate e qualche buon spintone fecero un buon
lavoro. Ad Adro, nel Quarto Reich di Brighella, il sindaco ribelle e razzista
invece è ancora lì.
***
«La vera notizia a me l'ha detta Eva, una ragazza del Centro per disabili
con cui lavoro» racconta Mauro Biani. «”Hai sentito? - mi ha detto Sakineh non l'ammazzano più, la impiccano”. Unafrase che vale più di
cento editoriali»
***
Qua in Sicilia, a Catania i giudici non hanno la tradizione di Palermo. Un
modo eufemistico per dire che negli anni 70 mettevano in galera l'ingegnere
Mignemi che denunciava scandali edilizi, negli anni '80 indagavano sui
conti di Giuseppe Fava, negli anni '90 coprivano i Cavalieri e un paio di
anni fa non si accorgevano che i Santapaola scrivevano editoriali sui
giornali di Ciancio.
Qualche giorno fa, fra la sorpresa generale, sono piombati sull'unico
giornale non di Ciancio della Città, Sud, che - a quanto avevano sentito dire
- aveva intenzione di parlar male del presidente Lombardo.
Sarebbe bellissimo se Catania prima o poi diventasse una città normale, a
cominciare dal Palazzo di Giustizia e da coloro che l'abitano. Non sembra
un momento vicino.
Ci sono magistrati borbonici (quelli cresciuti col vecchio Di Natale: il
persecutore di Fava, per intenderci), ci sono magistrati liberal (quelli del
caso Catania di qualche anno fa: i persecutori di Scidà, per intenderci).
Tutt'e due, fra di loro, si fanno a quanto pare una gran guerra, dando
notizie, negandole, incriminandosi – per interposta persona – a vicenda,
ciascuno coi suoi notabili, i suoi amici, le sue bestie nere. Noi (salva la
solidarietà coi colleghi di Sud - solo i colleghi) noi non c'entriamo, siamo
di un altro mondo, forse – ci pare a volte - di un altro pianeta.
3 ottobre 2010
SEI AMICI
Il dottore Nastasi, veterinario, s'era fatto tutta la ritirata di Russia a piedi,
con gli alpini. Mio padre aveva la rotula sinistra di metallo, completamente
ricostruita, e varie schegge non estraibili in corpo. L'altro Nastasi, quello
che insegnava ginnastica, s'era fatto Grecia, Libia e Albania. Idem Alfano e
Ruvolo, tutti in fanteria. Ghetti, un anno e mezzo nei sommergibili: ne
tornarono una decina, dei sottomarini atlantici, e "alla parata di Napoli
eravamo ottantuno". Di questi sei amici non ce n'era uno che non
bestemmiasse quando sentiva "gerarchi" e "mussolini".
Nessuno di questi sei era pacifista, nel senso che intendete voi adesso. Ma
odiavano la guerra e chiunque ne parlasse bene. "La guerra, la guerra...".
"Eh. Non potete capire, voi giovani, quant'è bella la pace". Uno sospirava,
l'altro tirava un colpo di toscano.
Non si sono mai fatti guardare, da me bambino, come eroi. Stavano anzi
molto attenti a non farlo. Di tutta la guerra, l'unica racconto che ho di mio
padre è delle sigarette che s'erano scambiati, sotto la tenda dell'ospedale da
campo, con il maggiore inglese che forse l'aveva ferito. E un'altra volta in
cui, con tutti noi bambini a naso in su davanti ai premi del tiro a segno,
dopo lunga esitazione e vergognandosi prese la carabina ad ariacompressa e
a uno a uno li buttò giu tutti. "Ero tiratore scelto" mormorò come
scusandosi, distribuendo le bambole e gli orsacchiotti di pezza.
Non so quante ferite e medaglie avessero quei sei amici, tutti insieme. Ma
mi hanno insegnato la pace, poiché erano dei soldati.
Oggigiorno un politico - culomolle, gerarca, mai stato al fuoco, mai
rischiata la pelle per il suo paese - vorrebbe invece insegnare la guerra
(peggio: giocare alla guerra) ai ragazzini. Ma mio padre e i suoi amici, nelle
loro varie e diverse idee politiche, concordemente avrebbero avuto orrore di
lui.
10 ottobre 2010
VIETATO SCRIVERE "SFRUTTATORE"?
Scandalo per una scritta contro Marchionne. E allora? C'è molta
differenza fra la protesta (in questo caso, assai giusta) e il terrorismo o la
violenza. Anche la Marcegaglia, adesso, è contro Berlu sconi. Ma questo
non vuol dire...
A Milano è successa una cosa tremenda: alcuni feroci estremisti, o
brigatisti o di Bin Laden o di chissà che banda, sono andati in via Unbria,
hanno scelto accuratamente un muro e – a caratteri enormi e, badate bene,
in rosso - vi hanno scritto d'un getto: “Marchionne sfruttatore”. Poi “Servi
dei padroni” (per Angeletti e Bonanni). Infine hanno vergato: una falce; un
martello; e una stella rossa.
Quest'ultima, a dire il vero, non era proprio quella dei brigatisti (che è
piuttosto, tecnicamente, un pentacolo) ma - piccola, fra l'estremità della
falce e quella del martello – aveva un'aria più che altro berlingueriana
(“Emblema del Partito sono la falce e il martello, simboli del Lavoro, e la
Stella d'Italia che li affianca...”).
Ma non importa: l'allarme – allarme sociale – resta; e se n'è fatta
portavoce Repubblica, con titoli convenevolmente allarmati, simili – per
dare un'idea – a quelli che userebbe se un giorno o l'altro, per assurda
ipotesi, Marchione dichiarasse che la Costituzione della Repubblica non
vale più e lo Statuto dei lavoratori è carta straccia.
Ma, filologicamente, si può dire (e scrivere) che un personaggio così
illustre come Marchionne sia con rispetto parlando uno sfruttatore? A me, e
al mio illustre collega prof Marchetti (prima delle leggi razziali si chiamava
Marx) parrebbe ovvio. Potremmo sbagliarci, s'intende: ma si va già in
galera, o si passa per brigatisti, a dirlo?
(Non sono invece d'accordo con quel “servi dei padroni” ai poveri
Angeletti e Bonanni, che sono semplicemente dei sindacalisti alquanto
incapaci: ma, anche qui, potrei sbagliarmi).
***
Siamo impegnati in una lotta ferocissima con un potere non-democratico
e corrotto, quello di Berlusconi. Contro di esso lottano anche, e con
determinazione non inferiore, anche i colleghi di Repubblica e gli
imprenditori che ne possiedono il giornale. Si tratta, com'è evidente, di
gente civile e democratica, del tutto imparagonabile con gli avversari
comuni. Sarebbe dunque sbagliato fare troppe polemiche con loro.
Ogni tanto, però, non fa male ricordarsi un attimo che sempre di interessi
si tratta, civili e democratici ma interessi; e che la Fiat in particolare, per
loro e per tutta la democrazia moderata – è stata per sessant'anni ed è tuttora
un tabù.
Possiamo pretendere, questo sì, che non confondano cazzi e lanterne
(come si dice a Parigi) e non aiutino involontariamente i brigatisti veri
attribuendo loro sentimenti che invece sono, da molte generazioni a questa
parte, delal gran maggioranza degli operai. E poi via tutti avanti a lottare
contro Caligola e Nerone, loro (senatori) da un lato e noi (schiavi e liberti)
dall'altro. Soltanto, facciano attenzione a non regalare a Nerone liberti e
schiavi, come spesso sono tentati di fare.
***
Saviano – passando ad altro – da quando ha lasciato il suo vecchio sito
Nazione Indiana non è migliorato. Ultimamente ha piantato là una gran
bischerata, occupandosi con leggerezza di Peppino Impastato e dando della
sua lotta una versione da fiction, ignorando ad esempio il ruolo decisivo che
ebbero, con gran rischio e coraggio, compagni come Umberto Santino e il
suo Centro Impastato.
Umberto (che non per la prima volta viene ingiustamente cancellato dalla
storia “ufficiale”) giustamente se n'è doluto e ha protestato. Bene. Poi, però,
ha preso carta e penna e ha fatto causa a Saviano. Male.
Io spero, e anzi mi permetto umilmente di chiedere, che questa faccenda
finisca con un sorriso reciproco e una stretta di mano. Due antimafiosi, il
più grande dei vecchi e il più famoso dei nuovi! Eppure non andrà così, lo
sento. E anche questo è un segnale.
Io ho sempre sostenuto che l'antimafia dovrebbe insegnare alla politica,
fare (vera) politica essa stessa. Ma occorre un colpo d'ali.
18 ottobre 2010
"HA DA VENI' ER TICKET"
- Eh, va là! Sessantotto!”.
- Che ti devo dire. Anche allora mica la tv se l'aspettava. Intanto...
- E chi sarebbe il capo di 'sto sessantotto? Vendola? Beppe Grillo? Di
Pietro?
- Beh, mica facile fare il sessantottino se perdi tempo con un partitino
intestato al tuo nome. E allora son stati proprio i capi, come li chiami tu, a
sfasciare tutto. Stavolta magari se ne fa a meno.
- Vabbe', le solite fantasie. E intanto Berlusconi...
- Ma intanto ridendo e scherzando ci abbiamo guadagnato un'opposizione.
Prima non c'era e ora da sabato c'è.
- Ma dai!
- Mica lo dico io. Il Corriere lo dice. Leggi qua: “La Fiom si fa partito”.,
E il Corriere, quando sente guai, se ne intende...
- E il piddì? E Bersani? Che fine fanno?
- Bersani è uno serio, e a quest'ora s'è già accordato con Vendola per fare
il ticket.
- Il ticket?
- Te lo ricordi quando c'era Prodi e Veltroni? Il vecchio e il giovane,
l'Emilia solida e la città futura, i conti in ordine e la poesia...
- E dai, Veltroni... Tocco palle a solo pensarci.
- Anch'io, e difatti Veltroni ha fatto la fine che ha fatto. Ha accoltellato il
povero Prodi fra l'altro. Ma Vendola è un'altra cosa. Vendola non tradisce.
Bersani tiene su la baracca, e lui la spinge avanti.
***
Anche per noi dell'antimafia sabato è stato un bel giorno. Noi non
abbiamo amici, in realtà. Non fino in fondo. Gli unici di cui ci fidiamo, sono
gli operai. Sono nella stessa barca con noi. Noi abbiamo addosso la mafia,
loro la Fiat. Non so qual'è peggio delle due. Ma sono nella stessa barca
anche loro, l'Italia se la dividono fra loro due, nord e sud, destra e
“moderati”.
Noi, ai Siciliani, l'abbiamo sempre saputo. Non abbiamo mai fatto
antimafia senza pensare ai poveracci. Nè abbiamo mai appoggiato uno
sciopero senza dire: “Sì, ma i veri padroni sono i Cavalieri”.
Questa è la dote che noi portiamo oggi al “movimento”, qualunque cosa
sia oggi questa parola, vecchia come tutte quelle dell'altro secolo ma come
molte altre della nostra storia (operai e padroni, destra e sinistra, “coppole”
e “cappeddi”) nella sostanza tremendamente attuale.
Per questo dobbiamo sbrigarci a fare rete. I tanti nostri piccoli (e meno
piccoli) siti e giornali non ci bastano più. Nè possiamo affidarci ai
“cappeddi” liberali, neanche quando lottano contro Re Bomba o Berlusconi.
E tanto per capirci, ecco due esempi.
***
In Calabria un giornalista antimafioso, un certo (ché tanto non lo
conoscete) Musolino. è stato trasferito d'autorità dalla direzione del suo
giornale dopo aver fatto dichiarazioni “avventate” ad Anno Zero. A fargli
questo scherzetto sono stati due padroni molto discussi, Citrigno e Aquino
(occhio, si preparano a fare un giornale “democratico” a Roma) e un
direttore “liberal”, Sansonetti. Di costui io aspetto ancora di sapere che cosa
ne pensano i miei amici liberali, compresi i più avanzati.
In Sicilia, il giornalista più in pericolo è probabilmente Pino Maniaci,
quello di Telejato, delle aggressioni in piazza e della lotta antimafia a
Partinico. Quest'estate un “collega”, tale Molino, l'ha violentemente
attaccato, usando anche calunnie (per le quali il suo avvocato ha offerto ora
una transazione amichevole, cioè soldi, a Maniaci).
Bene, vengo sapere che questo Molino, grazie a spinte molto autorevoli di
una parte (non la migliore) del Pd siciliano, è stato assunto ad Anno Zero.
Santoro non conosce il background, naturalmente. Ma Maniaci, così, è un
po' più isolato (e in pericolo) di prima.
***
Beh, parliamo un po' di cose di famiglia, ora. Oggi si laurea in
giornalismo Giorgio Ruta (22 anni; lo conoscete dal “Clandestino”) e
domani fa l'esame dell'Ordine Chiara Zappalà, un'altra dei nostri, 24 anni,
ha vinto l'Ilaria Alpi per un video con Sonia Giardina. Credo che Pippo
Fava, da qualche parte, tutto sommato stia sorridendo.
25 ottobre 2010
RICOMINCIARE DA TELEJATO
Due storie di cronisti minacciati (uno in Sicilia l'altro in Calabria) che
non riguardano solo il giornalismo ma proprio la politica: la nostra
Non è una storia importante, quella di Pino Maniaci e di TeleJato. Si
svolge in un pezzo d'Italia (Partinico e dintorni) in cui la mafia comanda da
quasi cent'anni, tollerata da Crispi, Giolitti, Mussolini, Fanfani, Andreotti e
infine Berlusconi. Non è un'Italia importante, infatti, Partinico; si può ben
delegarne il controllo, in cambio di qualche voto, a Cosa Nostra.
E tutto va avanti così, banalmente, una generazione dopo l'altra. L'Italia
civile, ogni tanto, manda giù una telecamera: un servizio, una fiction, un'ora
di folklore.
Finché, improvvisamente, ti spunta una telecamera indigena, che senza
sapere un cazzo d'informazione comincia fare informazione davvero. Cioè
ventiquattr'ore su ventiquattro, dal basso, in mezzo alla gente del luogo e
con parole locali. Ridendo e sputtanando i boss locali: “Tano Seduto!”.
“Fardazza!”.
Si chiami Peppino Impastato o Pino Maniaci, il giornalista indigeno non è
mai presi sul serio (da vivo) dai giornalisti ufficiali.
Ci volle del bello e del buono, l'anno scorso, per fare ottenere un
tesserino a Pino. Dovette fiondarsi a Palermo il presidente dell'Ordine in
persona, Iacopino, e imporlo ai riluttanti colleghi locali alcuni dei quali
(Lazzaro Dantuso e Mannisi) minacciarono di uscire dall'Ordine se vi fosse
stato accolto Maniaci.
Seguono alcuni mesi “normali” (la solita pastasciutta, le solite minacce, i
soliti tg sui Fardazza, le solite aggressioni in piazza) in cui Pino, senza far
troppo caso dei “colleghi”, continua a tirare la carretta di TeleJato paziente e
imperturbabile come un somaro.
Poi, con l'estate, arriva un bel regalo: un lbro di un collega “antimafioso”
(vedi pag.4) che dedica a TeleJato un capitolo intero: per dire che è tutta una
buffonata e che Pino è un ciarlatano.
Caselli, don Ciotti, i “vecchi” di Radio Aut e dei Siciliani, l'antimafia
insomma, si mettono pubblicamente accanto a Pino. I più intimi lo
consigliano: “Eddài, non te la prendere, sono cose che passano, continua a
fare il tuo dovere”.
E lui pazientemente riafferra le stanghe e si rimette a tirare, povero e
indifferente come prima. Il collega calunniatore intanto fa carriera e finisce
in Rai: e non da Bruno Vespa ma da Santoro. Così va il mondo.
Maniaci perde la pazienza, ma brevemente, soltanto quando l'ennesima
minaccia (che Procura e Scientifica valutano fra le più dure in assoluto)
colpisce non più solo lui, ma anche la sua famiglia. Dice alcune parole, ad
alta voce. Eppoi si rimette a lavorare. “Noi non ci fermeremo”.
***
Parlo di Pino perché sono siciliano, e mi è quindi più facile scrivere di lui.
Ma un caso abbastanza simile, quasi contemporaneamente, si è verificato in
Calabria (vedi Ucuntu 18 ottobre) dove il cronista Luigi Musolino, più volte
minacciato dalla 'ndrangheta, viene trasferito d'autorità dopo aver fatto
dichiarazioni su politici non propriamente antimafiosi. Il suo direttore è uno
“di sinistra”, Sansonetti, il cui riferimento politico, se non ho perso qualche
puntata, è addirittura Vendola. Che certo, come Santoro, non è tenuto a
occuparsi di tutti i particolari, e in particolare della sorte di un misero
cronista calabrese o siciliano.
***
Torniamo su questi due nomi, che i nostri lettori (e di non molti altri
giornali) già conoscono, perché li riteniamo importantissimi per il nostro
mestiere, per il nostro Paese, e per lo schieramento politico cui
apparteniamo, la sinistra.
Maniaci e Musolino non sono dei semplici giornalisti. Giù da noi, sono il
giornalismo.
Maniaci e Musolino non sono dei semplici giornalisti. Giù da noi sono le
sentinelle della Nazione, sono l'Italia.
Maniaci e Musolino non sono un problema della sinistra. Giù da noi sono
il problema.
Nel momento in cui (forse) riusciamo a cacciar via Berlusconi, a ridarci
un governo, saremo noi di sinistra in grado di governare meglio di prima, di
affrontare con la durezza e serietà che in passato è mancata i problemi vitali:
la mafia, l'informazione libera, la non-dignità sul lavoro?
Nei casi di Musolino e Maniaci compaiono esattamente questi temi. Con
nemici e responsabili di destra ma con un'immensa miopia - colpevole - da
sinistra.
Perciò io qui chiedo formalmente a Santoro di esprimere pubblicamente
solidarietà a Maniaci (finora non l'ha fatto) e a Vendola di prendere
pubblicamente le distanze da Sanonetti (non l'ha fatto). Insomma di
sostenere per quanto possibile la nostra antimafia povera e paesana,
scegliendo i militanti sul campo e non i cortigiani.
Mica siete obbligati, caro Michele e caro Nichi, a comportarvi così
impoliticamente.
Se non lo farete continuerò e sostenervi per disciplina e dovere, bugia
nen, come un sergente sabaudo. Se lo farete, sarete molto più che dei re (o
dei politici) per me e per quelli come me: sarete dei compagni.
1 novembre 2010
IL MURO DI SICILIA E QUELLO DI BERLINO
Qual è peggio dei due? Mah. Intanto la gente crepa su tutt'e due
Ci sono poche cose più inutili di questo numero di Ucuntu, in questo
buffo paese in cui il principale argomento di politica è il numero e l'età delle
ragazzine comprate dal rimbambito monarca. Leggetelo, se proprio volete,
come una semplice testimonianza: fra gli italiani, e siciliani, del duemila e
rotti non tutti erano del tutto privi di vergogna, non tutti prendevano atto.
Leggete questo, ora o fra vent'anni, e non confondeteci con gli altri.
Perché quel che è successo a Catania in questi giorni è, nella sua
ordinarietà, assolutamente nitido come segnale; equivalente a quello dei
buoni cittadini di Berlino o Vienna che, sorridendo distrattamente,
guardavano gli ebrei afferrati e portati via.
Succede, e anche questo è significativo, a Catania, cioè in una delle due o
tre città d'Italia in cui il potere mafioso è totalmente integrato, da tre decenni
ormai, in quello dello Stato. Succede anche in citttà, d'accordo, d'inciviltà
più recente. Ma parlino gli altri, se vogliono, delle loro vergogne; noi, delle
nostre.
***
La storia è molto semplice: più di cento profughi, di cui metà bambini,
arrivano dopo pene indicibili da noi in Sicilia, sbarcano sulla nostra terra.
Un tempo, le donne si sarebbero affrettate a portare coperte e viveri, e gli
uomini vino. Adesso, l'affare è di competenza della forza pubblica.
Rastrellano i disgraziati, li chiudono in uno stadio, inventano qualche
chiacchiera per tenere a bada i pochi cittadini accorsi, e rimandano le pecore
al lupo. Che è uno dei tanti tiranni africani, odiati dal popolo ma con una
buona polizia: tutti, da qualche anno in qua, fraterni amici dell'Italia o
almeno dei suoi governanti.
Il rapporto fra noi e l'egiziano Mubarak, o il librico Gheddafi, è infatti
chiarissimo su questo punto: l'Italia paga; essi impediscono con ogni mezzo,
comprese tortura e morte, ai loro infelici sudditi di venire e infastidire noi
ricchi.
Cento o duecento vittime, uccise mentre fuggivano dal Muro di Berlino,
disonorarono - e giustamente - i regimi orientali, concorsero al loro crollo e
furono e sono invocate come prova della disumanità e tirannia di quei
regimi. Oggi le vittime si contano a migliaia e decine di migliaia, e noi tutti
italiani – meno chi vi si oppone – ne siamo conniventi.
Vergogna, vergogna, vergogna. E vergogna maggiore su chi, come noi
sicilaini, ha conosciuto la fame, come i poveretti di ora, e ha dovuto
emigrare. Ma le angherie degli svizzeri - e dei tedeschi, e dei francesi, e dei
belgi, e di tutti quei popoli presso cui la necessità ci costringeva a emigrare
– non furono mai paragonabili a quelle che gli emigranti di ora subiscono da
noi italiani degenerati. Peggio delle violenze (che non mancano) è odiosa
l'indifferenza, e la Sicilia e l'Italia ne danno adesso - diversamente da ancora
pochi anni fa - triste prova.
***
Non saprei che altro aggiungere. E' futile, di fronte a questo, dilungarsi
sulle politiche nazionali e locali che al confronto appaiono sempre più
esercitazioni di notabili più o meno incartapecoriti; l'unico partito che fa
politica, a quanto pare, è la Fiom e tutti gli altri sono struzzi che
differiscono per il diverso livello di profondità a cui seppelliscono la testa.
Due osservazioni soltanto. La prima riguarda la quasi totale indifferenza
con cui la stampa nazionale ha accolto questa tragica vicenda, con l'unica
benemerita eccezione del (fuori moda) Manifesto.
A Catania, quasi contemporaneamente ai fatti, si svolgeva uno dei tanti
periodici dibattiti sull'informazione. Nessuno degli intervenuti ha ritenuto
opportuno mentovare i poveri emigranti che proprio in quelle ore andavano
incontro al loro tragico destino.
Né alcuno dei valorosi politici piombati giù da Roma ad aprire
nell'occasione la campagna elettorale ha perso tempo a recarsi
immediatamente allo stadio o all'aeroporto, a difendere i poveretti, che se ne
sarebbero giovati. Liberali sì ma “galantuomini”, nell'accezione veghiana.
***
L'altra considerazione riguarda invece i nostri ragazzi, i miei colleghi di
Ucuntu. Che dalle primissime ore, senza porsi il problema di cosa sia o non
sia l'informazione, si sono fiondati sul posto, a dare “copertura
giornalistica” - come si dice - all'evento, che subito avevano percepito come
importantissimo, e per solidarizzare con gli emigranti.
Fatiche e coraggio sprecati, perché dal punto di vista dei media il loro
piccolo giornale, non ripreso dai grossi, non basterà certo a mutare
l'opinione pubblica; e dal punto di vista civile le poche decine di cittadini
presenti, fra cui essi stessi, non hanno potuto fare molto di più che
richiamare i diritti e prendersi qualche spintone.in mezzo agli altri.
Non sono stati furbi per niente, i miei colleghi e amici: potevano andare ai
dibattiti, o in qualche carriera politica, invece di perdere tempo così per
niente. Salvo che per una cosa che un tempo era importante, fra di noi
siciliani: la dignità.
8 novembre 2010
LOMBARDO, FIUMEFREDDO...
MA CHE C'ENTRIAMO NOI?
“Cambiare tutto perché non cambi niente...”. Quante volte, in Sicilia. Ma
una volta, almeno, c'era chi resisteva duramente, egualmente nemico di
gattopardi e borboni
Uno dei più seri presidenti della Sicilia è stato certamente Mario
D'Acquisto, capocolonna andreottiano negli anni Ottanta. A differenza di
Cuffaro o Lombardo, infatti, non si faceva ufficialmente indagare come
mafioso, non si faceva fotografare coi cannoli, e soprattutto - cupo e letale non rideva mai, nemmeno quando piazzava i suoi uomini nella colonna
siciliana della P2. Che cosa combinò la P2, e soprattutto in Sicilia, e
soprattutto in quegli anni, sarebbe bello sapere. D'Aquisto inoltre (e questa è
la seconda differenza dai tempi nostri) non fu mai sostenuto dalla sinistra,
che allora era Berlinguer e Pio La Torre.
Il “nuovo” della politica siciliana, esteticamente parlando, è tutto qui.
Prima c'erano i tragici Lima e Ciancimino, e gl'incorruttibili nemici del Pci.
Ora ci sono macchiette (fors'anche sanguinose: ma macchiette), e ciascuna
di loro ha i propri amici e alleati nel Pd: di cui alcuni sono corrotti ma altri
persone perbene.
Fra queste ultime sicuramente c'è Beppe Lumia, che è un antimafioso
esemplare da molti anni. Perché un Lumia viene a trovarsi con un
Lombardo? O, a un livello meno drammatico, una Borsellino con un
Fiumefreddo, un Crocetta con un Toni Zermo?
Sono persone coraggiose e buone, non le si può certo accusare di
tradimento. E sono, per quel che sappiamo, sane di mente. Eppure sono
riuscite a infilarsi in un groviglio inestricabile di accordi, di controaccordi,
di equilibrismi e alleanze in confronto a cui gli inciuci di Veltroni e
D'Alema appaiono rozzi e primitivi.
Il fatto è che nè Lumia nè Crocetta nè la Borsellino, nè Orlando nè
l'Alfano nè Fava nè, a quanto pare, alcun altro come loro si sente parte di un
tutto, di un collettivo. Sono cavalieri isolati, alla Lancillotto (“Non posso
battere la mafia da solo” dichiarò tempo fa uno di loro). Mettersi insieme,
fare squadra, non gli passa neppure per la mente. Ovvio che quindi risultino,
individualmente presi, pessimisti e sfiduciati.
Il loro pessimismo nasce anche dal fatto che, salvo eccezioni momentanee
ma rimosse, non hanno mai avuto una fiducia reale nei movimenti (il
cooordinamento antimafia, i Siciliani Giovani, il Rita Express) che via via
incontravano. “Bravi ragazzi sì, ma la politica è un'altra cosa”. E hanno
puntato tutte le carte sulla politica tradizionale. Che non ha funzionato.
Da ciò, isolamento e sfiducia. Alcuni hanno reagito raddopiando gli
sforzi, persuasi che bisognasse solo insistere. Altri cercando di galleggiare
alla meno peggio. Altri ancora hanno deciso che, perso per perso, tanto
valeva - nell'interesse geneale – contrattare almeno il meno peggio,
accordarsi coi meno stronzi fra i nemici.
Ora, con Lombardo indagato e tutto il resto, cercano disperatamente una
soluzione. Ma soluzioni non ce n'è. E finiscono per trovarsi
involontariamente arruolati con questo o quel signore della guerra - i vari
Lombardo, Micciché Fiumefreddo, Castiglione e chi più ne ha più ne metta
– che, su oppeste fazioni, cercano classicamete di farsi le scarpe a vicenda
nel momento del patatrac generale.
Ce ne dispiace per Lumia, e anche per diversi nostri amici, giovani e
meno giovani, che nella fretta di colpire questo o quel singolo barone non
riescono più a percepire che la guerra in realtà è contro tutta (indivisibile) la
baronìa.
E va bene. Sono cose banali, lo sappiamo, ma ripetiamole ancora:
l'antimafia, che è politica, può farla solo l'insieme di tutti gli antimafiosi. Se
vi si intrufolano altri, non funziona. Se ci si allea con gente strana, non
funziona. Se si comincia a distinguere, non funziona. Se ci sente “isolati”,
non funziona.
Adesso funzionerebbe come noi mai, perché il nemico è confuso, perché
re e duci litigano, perché i sacrifici che esigono son diventati davvero
troppo grossi. Sarebbe automatico, e semplice, vincere in un momento come
questo. Ma forse è troppo semplice, per i complicati politici che ormai
siamo diventati.
E non parliamo più della Fiat. E ci illudiamo che il regime caschi – forse
– per una mera storia di puttane. E ci prepariamo ad accogliere tutti contenti
Fini, Draghi, Montezemolo, Lapo Elkann, Dino Grandi, Casini, chiunque i
poteri forti vogliano imporci al posto dell'ormai inusabile duce.
Facciamo motti di spirito, belle frasi, e battute indignate e ipotesi da
farmacia. E non parliamomo più di Fiat. E di mafia pochissimo. E non
parliamo mai affatto, imperdonabilmente, di sciopero antimafia e antifiat,
sciopero generale.
16 novembre 2010
LA LUNGA E PROGRAMMATA AGONIA DEL CAUDILLO
Quando Francisco Franco venne finalmente chiamato a render conto al
tribunale del Signore, fra i cortigiani si levò un'onda di paura: che sarebbe
accaduto ora? Chi avrebbe protetto più il loro regno, quell'eden di banchieri
“cattolici” e di puttane devote pazientemente costruito anno dopo anno?
Mentre il vecchio caudillo agonizzava, cortigiani e banchieri trovarono la
soluzione: “Lasciamolo agonizzare”, disse qualcuno. “Facciamolo
agonizzare più a lungo che si può. E così avremo il tempo di organizzare la
transizione”.
E così fu. L'agonia del tiranno fu spaventosa: tubi e tubicini lo tennero in
un'improbabile “vita” per mesi e mesi mentre finanzieri e vescovi
organizzavano freneticamente la successione. Le cose poi non andarono per
il giusto verso, fra il re improvvisamente democratico e gli operai fin troppo
prevedibilmente incazzati (oggi si chiamano Fiom, allora Comisiones
Obreras).
L'idea della lunga agonia però non era male, pensano – oggi, in Italia –
finanzieri e cortigiani. “Tiriamo in lungo le cose - pensano lor signori avremo tempo di trovare se non un altro Berlusconi (di quelli la
Provvidenza ne manda solo uno per secolo) almeno uno che in qualche
modo faccia il suo lavoro essenziale: far pagare la crisi ai maledetti poveri e
non ai miliardari innocenti, che saremmo noi”.
Ed ecco perché, se l'economia corre, la politica va a rilento. L'economia
va – letteralmente – a rotta di collo, alla marchionesca: produrre male,
perdere i mercati uno dopo l'altro (si stanno vendendo la Ferrari, non si sa se
ai tedeschi o ai coreani) ma intanto ristrutturare le fabbriche senza contratti
fissi e senza sindacato. Pomigliano, Torino, poi altre decine di fabbriche, poi
l'Italia intera: e senza opposizione concreta di nessuno, nè a “sinistra” nè a
destra, salvo quella – ma forte e dura, e ovviamente ignorata – degli operai.
La politica segue piano piano, con moltissimo fumo e poco arrosto. Chi
sarà il successore di Temonti (il vero primo ministro, se non ve ne siete
accorti, al capezzale del Papi lo sta facendo lui)? Il banchiere Draghi,
ufficialmente proposto da Scalfari con parole forbite? Tremonti stesso, se
Bossi finalmente si decide? Casini, Fini, Montezemolo, Carrero Blanco?
E chi lo sa. Non abbiamo la più pallida idea di quello che si discute in
quelle stanze, nè averla ci servirebbe, tanto decidono tutto loro. C'interessa
invece moltissimo che cosa si va preparando dalle parti nostre, l'opposizione
politica, la sinistra. Qui le cose, se si considera bene, non vanno male.
La sinistra, per cominciare, ha sempre più voglia di essere di sinistra (e
capirai, con 'sta crisi) e non di centrosinistra, di centro o di qualche altra
cosa. Un segnale?
Le primarie Pd di Milano, dove ha vinto non Vendola ma Berlinguer: vale
a dire il realismo, la nostalgia, il “basta con queste chiacchiere”, il
“lavoratori!”, il buon vecchio Pci dei tempi andati.
Nella base Pd questa è una minoranza (e infatti la partecipazione alle
primarie è stata abbastanza minore del previsto), ma è la minoranza politica,
l'unica che crede ancora nel partito e nella politica in generale (le
“opposizioni” dentro il Pd, Chiamparino, Veltroni o il terrificante Renzi,
contestano Bersani qualunquisticamente e da destra).
Farà in tempo questa minoranza, avrà la forza di costruire un blocco
politico (quello sociale c'è già, ed è la manifestazione Fiom del 16 ottobre)
veramente democratico, berlingueriano?
E Vendola, ce la farà Vendola - dacchè il dio dei bambini, come diceva
Luca Orlando, l'ha scelto - a essere più di Vendola, a diventare se stesso?
Non ci servono i leader, proprio per niente. Servono compagni seri e
“quadrati”, collettivi.
Vendola, non per sua colpa, non lo è (io sono ancora impaurito
dall'orrenda maniera con cui lui, Fava, Bertinotti e Ferrero riuscirono, fra
tutti, a balcanizzare Rifondazione) ma, se dà retta a se stesso, al Vendola
reale e non dei media, può diventarlo.
Non l'improbabile leader di un centrosinistra confuso ma il capo di una
sinistra organizzata e compatta che ora non c'è e che, col 10-15 per cento di
elettorato su cui può contare, diventerebbe l'arbitra della Terza Repubblica,
sia al governo che all'opposizione.
Personalmente, per fidarmi di Vendola, ho bisogno di due segnali precisi.
Primo, tolga dal suo simbolo quell'orribile “con Vendola” (“con Di Pietro”,
“con Beppe Grillo” ecc.) che è leaderistico e perciò di berlusconiano.
Secondo, scarichi pubblicamente il traditore Sansonetti che in Calabria,
dopo aver fatto il crumiro e aver licenziato i giornalisti antimafiosi, ora
esalta i fascisti e i mafiosi del Boia Chi Molla.
***
Infine. Ho molta simpatia per Saviano e quindi lo prego di smetterla di
dire cose che dette da un altro sarebbero sciocchezze e dette da lui sono
sciocchezze lo stesso.
Mi riferisco a quelle su Peppino Impastato (che non a caso hanno
suscitato la reazione, eccessiva, di Umberto Santino) e soprattutto ora su
Alfredo Galasso.
Gli addetti ai lavori sanno che le mie relazioni con lui adesso non sono
purtroppo delle migliori, ma ciò non toglie che Alfredo Galasso sia stato
uno degli eroi dell'antimafia, in momenti in cui c'erano pochi applausi e
molta solitudine, e che presentarlo (come in sostanza ha fatto Saviano)
come uno della “fabbrica del fango” sia irresponsabile, ingiusto e
profondamente sbagliato. Io, fossi in Saviano, presenterei le mie scuse. Ma
anche Saviano, forse, deve ancora imparare a diventare completamente
Saviano.
21 novembre 2010
IL PATTO
Brescia: espulsi i capi operai, liberi e trionfanti gli stragisti. Viviamo in
un Paese così. La piccola politica non basta
“Andreotti Giulio, anni dieci. Berlusconi Silvio, anni otto. Cuffaro
Salvatore detto Totò, anni sette. Lombardo Raffaele, anni due e mesi sei...”.
No, non è quello che stavate pensando. E' semplicemente il numero degli
anni in cui la Repubblica Italiana e la Regione Siciliana sono state
governate da politici ufficialmente e giudiziariamente in contatto con
mafiosi. Per un terzo della nostra storia civile, quindi, siamo stati
comandati da gente che s'intendeva coi mafiosi. Questo è il Patto.
Il Patto non esclude patti minori - anzi, li esalta - ma non coincide con
essi. Questi ultimi possono essere considerati delle patologie del sistema,
ma il Patto è una fisiologia.
Uccidere Falcone, ad esempio, può essere stata una scelta eccezionale,
una patologia. Ma se ciò è stato fatto per impedirgli di portare Badalamenti
(tramite Buscetta) a rivelare gli incontri Cosa Nostra-Governo - rivelazioni
che ora sono agli atti della Storia ma vent'anni fa avrebbero rivoluzionato il
Paese – uccidere Falcone allora non sarebbe più una decisione occasionale,
un caso estremo, ma una componente fisiologica, necessitata, del Patto. Lo
stesso per Borsellino, ucciso dalla mafia ma non per essa.
Il Patto, agli albori della Repubblica, consiste in questo: l'Italia è un paese
civile, con libere elezioni, ma fino a un certo punto. Mezza Italia resta prerepubblicana, feudo senza diritti del grande latifondo. L'altra metà è
repubblica, ma con un confine preciso: in nessun caso può andare al
governo il partito dei lavoratori dipendenti, che per ragioni storiche si
chiamava comunista.
Entro questi binari, la vita della repubblica andava avanti tranquilla. Un
nord corporativo e democratico, e tutto sommato europeo, in cui lo Stato
finanziava gli imprenditori e questi garantivano la piena occupazione. Un
sud largamente autonomo ma non ribelle, in cui i grandi proprietari terrieri
si evolvevano in “imprenditori” e i loro armati in moderni mafiosi. Due
insiemi collegati dalla Dc e dall'emigrazione.
Nei momenti di crisi (l'occupazione delle terre, l'autunno caldo)
s'interveniva con mezzi forti: Portella delle Ginestre, Piazza Fontana. Ma
erano casi estremi. A poco a poco la crisi rientrava (i contadini emigravano,
gli operai accettavano la ristrutturazione industriale) e tutto tornava nella
normalità. Che era una normalità italiana, legata al Patto.
***
Il nostro - sto parlando del Sud: ma ormai arriva a Milano - è un Paese
antichissimo, molto più antico della politica. Da noi la destra non è quella
parte del parlamento che siede alla destra dell'onorevole speaker, è proprio
il padrone feroce, nato sulla zolla; e la sinistra non è un club di gentlemen
riformisti, è generazioni infinite di contadini. La paura, la fame, muovevano
reciprocamente i due mondi.
Certo: poi venne De Gasperi, venne Togliatti; ci siamo inciviliti
parecchio, nei nostri anni belli, prima di diventare quel che siamo. Ma
l'imprinting è quello: una lotta di classe a volte umanamente “politica”, altre
volte feroce. In altri Paesi simili (la Grecia del dopo-guerra, la Spagna di
Franco) questa lotta di classe fu risolta con stragi di centinaia di migliaia di
cittadini. In Italia col Patto.
***
A Brescia, in questi giorni, sono accadute - per singolare coincidenza,
quasi insieme - due cose che ci ricordano cos'è stato in pratica, e cosa
ancora è ogni volta che gli si lascia via libera - la gestione del potere in
questo paese. Sono stati esiliati d'autorità, con un ottocentesco foglio di
polizia, i capi di una pacifica manifestazione di operai; ché tali erano i
senegalesi della gru, prima ancora che forestieri o immigrati: operai.
Ed è stata definitivamente dichiarata impunita la strage del maggio '74 di
Brescia, di trentasei anni fa. Otto italiani ammazzati, feriti più di cento: la
giustizia, impotente, alza le braccia.
Perseguitati gli operai, liberi e trionfanti gli stragisti: questo è lo stato del
mio Paese nell'anno di grazia 2010. Non sarà la politica piccola a
sollevarlo.
Maroni, spingendo Tremonti, tradisce Berlusconi in proprio o per conto di
Bossi? Chi ha spinto la Carfagna a quest'ultima storia di Bocchino?
Lombardo è più o meno mafioso di Cuffaro?
E che ce ne frega. Pensiamo alla politica seria, almeno noi. Cacciare
Berlusconi, deridere i suoi cortigiani, sberlursconizzare la sinistra: vi pare
un programma da niente?
1 dicembre 2010
DOPO PIÙ DI VENT'ANNI FINALMENTE INDAGATO MARIO
CIANCIO
"Concorso esterno in associazione mafiosa” è l'intestatazione del
fascicolo intestato dalla Procura di Catania all'imprenditore Mario
Ciancio. Da decenni al centro delle inchieste dei pochi giornalisti liberi
della città, l'editore catanese - a lungo presidente degli editori italiani - era
diventato uno degli uomini più potenti non solo della Sicilia ma di tutto un
sottobosco italiano politico-imprenditoriale. Ai suoi piedi intellettuali e
politici, mafiosi e principi del foro: vent'anni di servilismo, connivenza e
omertà
Dopo più di vent'anni, finalmente alla Procura di Catania si accorgono
che esiste un Mario Ciancio. Lo indagano, a quanto pare, per uno dei tanti
centri commerciali; si parla di concorso per associazione mafiosa, ma
alcuni sembrano anche orientati (se non cambieranno idea) a indagare sul
terrificante episodio dell'editoriale di Vincenzo Santapaola, pubblicato su La
Sicilia sotto forma di lettera al giornale.
Vent'anni di articoli sui Siciliani, sui Siciliani nuovi, su Avvenimenti,
sull'Isola Possibile, su Ucuntu e infine da qualche mese anche su altri
giornali son dunque infine serviti a qualcosa? Riusciremo a vedere, nei
prossimi vent'anni, non solo le prime indagini ma anche un po' di giustizia?
Forse il clima politico, di si-salvi-chi-può e di sfacelo generale, potrebbe
aiutare a vincere tante annose timidezze. Forse - poiché nulla è impossibile una genuina volontà di giustizia s'intrufola persino nei palazzi
tradizionalmente più lontani da essa, come - a Catania - quello di Giustizia.
Chi lo sa. In ogni caso, a caval donato non si guarda in bocca.
Descrivere tutte le imprese - in senso imprenditoriale e no - di Ciancio, i
sui incontri e rapporti con mafiosi di vario genere, i suoi intrecci politici, i
suoi interessati sostegni, di volta in volta, a tutti i politici catanesi - da Andò
a Drago, da Bianco a Scapagnini - sarebbe troppo lungo per queste pagine;
del resto l'abbiamo già scritto in tante pagine che chi ne ha voglia può
rileggersele in santa pace.
Per ora, vogliamo solo sottolineare l'estremo servilismo con cui il ceto
intellettuale e politico di questa città si è prestato a fargli da corte e a
difenderlo in ogni occasione, dall'elegante “fascista” Buttafuoco al feroce
“compagno” Barcellona. Una vergogna che sarà difficile cancellare.
Riccardo Orioles
***
“IL TERMINALE E IL GARANTE DI UN SISTEMA DI POTERE”
Per vent'anni abbiamo indicato, fatti alla mano, Mario Ciancio come il
terminale e il garante di un sistema di potere.
Per vent'anni abbiamo denunziato le menzogne dei suoi giornali, le
contiguità alla mafia, l'omissione quotidiana della verità.
Ci rincuora apprendere che esiste un giudice anche a Catania.
Claudio Fava
10 dicembre 2010
WIKILEAKS E IL PANICO DEL SISTEMA
La vera notizia è la reazione alle "rivelazioni"
Non è che poi Wikileaks abbia fatto 'ste gran rivelazioni. Le cose che
sono uscite più o meno si sapevano già prima: certo, a vederle tutte insieme
il panorama è molto più desolante che a leggerle una per una: politici bestie,
bombardamenti casuali, governi semimafiosi, guerre fatte per soldi e
compìti diplomatici che ruttano fragorosamente ai pranzi ufficiali. E allora?
Perché s'incazzano tanto?
Perché il senso di panico, a sentirsi sbattere le cose in faccia senza poterci
far niente, ha fatto letteralmente impazzire tutti quanti. “L'ha detto la
televisione”, diceva una volta la gente, e quella la puoi controllare. Ma ora:
“L'ha detto internet!”. E qua, con tutto il potere, non ci puoi far niente.
La vera notizia allora è questa: il panico da ancient régime che ha travolto
selvaggiamente tutti, dal non-occidentale Putin all'occidentalissima Clinton.
“Arrestatelo!”, “Minaccia il mondo!”, “Pena di morte!”, “Fatelo fuori alla
svelta!”. Non sono i talebani a gridarlo o i mandarini cinesi, ma proprio i
nostri civilissimi e acculturati parlamentari e ministri. La Svizzera, a un
certo punto, ha addirittura sospeso i conti del povero Asange: non l'aveva
fatto con Hitler, non lo fa coi mafiosi - lo fa con Wikileaks, cioè con
internet, che evidentemente gli fa molta più paura.
Con il che, è detto tutto: se i banchieri svizzeri, cioè il cuore del cuore del
- chiamiamolo così - Sistema hanno rinnegato se stessi, figuriamoci gli altri.
Il diritto di cronaca ufficialmente non esiste più e il giornalismo è
fuorilegge. Non solo in Iran o in Cina ma proprio qui da noi, in America e
Europa. E la libertà? E il liberismo? E chi se ne fotte.
Zoom sulla Sicilia, a Catania e Palermo, dove era già così da trent'anni (le
inchieste su Ciancio indicano solo la cattiva coscienza in tempi complicati
del Palazzo, non certo una qualunque voglia di cambiare): c'è democrazia in
Sicilia? si può fare cronaca? si può parlare liberamente?
Va bene, non si può, rispondevamo fino a poco tempo fa: ma a Milano,
ma a Roma, ma a Washington... Ecco: la novità è che si vanno
catanesizzando Roma Milano e Washington, vanno abolendo
l'informazione.
O almeno, questa sarebbe l'intenzione. Ma in realtà la gente è molto meno
malleabile di prima, non perché più colta o più civile (anzi) ma perché ha a
disposizione tecnologie che prima non aveva. Puoi impiccare Asange, ma
internet chi lo impicca?
Tanti piccoli Asange (ma no, non personalizziamo: nell'internet non si
usa) spunteranno, e in effetti già spuntano, dappertutto. E' la stessa
tecnologia che li produce: dopo Gutenberg era solo questione di tempo
perché venissero fuori tanti Luteri.
Va bene, lavoriamo per questo. Tranquillamente perché tanto il trend è
questo e non c'è nessuna ragione di eccitarsi. Stampa batte amanuense,
borghese batte vescono, Rete batte Sistema: prima o poi.
Pensare globalmente, agire localmente: è tornata ad uscire la Periferica e
questa, nel nostro piccolo, è una delle tipiche buone notizie. Sta
funzionando male la connessione Sicilia-Bologna e la Catania-Ragusa:
questi, nel nostro piccolo, sono i nostri guai. E lavoriamo da gnomi, da
formichine, senza una lira ma cantando allegramente come i Sette Nani,
perché sappiamo benissimo che sono guai risolvibili mentre le buone notizie
sono semi di alberi grandi, il cui frusciare, se tendete le orecchie, lo sentite
già.
***
E' buffa la politica, sempre la stessa: liberali e borboni si contrastano,
dentro e fuori il Circolo dei Civili, mentre in campagna e sui lontani monti i
contadini...
Due mondi lontanissimi, qualche volta s'incrociano, ma sfuggenti. E come
si chiamano i contadini oggigiorno? Ricercatori disoccupati? Precari?
Ragazze che in mancanza di meglio fanno il concorso per velina?
Metalmeccanici? Tutti questi, e altri ancora. Nell'ottocento, del resto, non
c'era solo l'Operaio Sfruttato: c'era anche il Coolie, il Professore, il
Marinaio, l'Impiegatuccio, la Fioraia... E' complicato il mondo, ma lo era
già prima.
(A proposito di politica: una volta, in tempo d'elezioni, il privilegio di
rovinare la sinistra spettava ai pezzi grossi, tipo Veltroni-D'Alema. Adesso,
a quanto pare, se lo possono permettere anche i poveri Renzi da tre soldi.
Sarà democrazia...).
22 dicembre 2010
IL POLITICO E IL RAGAZZO RUMENO
Uno vende i voti. L'altro piglia le luparate
Da Barcellona Pozzo di Gotto - ridente cittadina tirrenica, ad alto tasso
mafioso - sono giunti alle cronache due nomi. Uno, a modo suo
famosissimo, è Domenico Scilipoti, l'ultimo Giuda di quel povero cristo di
Di Pietro e anche, indirettamente, di noi tutti. Pagine e pagine ha avuto, dai
giornalisti di palazzo: ha esternato in tv le sue ragioni, ostentando disprezzo
per quei trenta denari.
L'altro nome è quello di un ragazzo rumeno di vent'anni, tale Petre Ciurar.
Stava in una baracca lungo la ferrovia, con la moglie e un bambino di nove
mesi, una di quelle baracche che periodicamente i barcellonesi più attenti
alla politica nazionale vanno a incendiare con la benzina.
Stavolta niente fiaccole, ma colpi di pistola e lupara: Petre è morto così
(era in Italia da un mese: che “sgarro” aveva potuto commettere nel
frattempo?), la donna è rimasta lievemente ferita e il piccolo, chissà come,
del tutto illeso. I carabinieri indagano, non escludono mafia, ma più che
altro pensano a un atto di “semplice” razzismo.
La notizia è stata data dal corrispondente del giornale locale - non l'ha
ripresa nessuno -, il giorno dopo è arrivata la notiziola (più breve)
dell'autopsia, e poi non se n'è parlato più. Tutto questo è successo più o
meno negli stessi giorni, e forse a pochi chilometri di distanza, in cui il buon
Scilipoti faceva alta politica col governo.
***
Ecco, di questo parliamo quando parliamo di questi giorni. Puoi morire
così, a luparate e in silenzio, come un sindacalista anni Cinquanta, se sei un
rumeno. Certo, c'è stata violenza quel giorno a Roma. Vetrine rotte, sassi
gettati e altri atti sciocchi. Ma molta di più ce n'è stata, in quei giorni, a
Barcellona. Quella contro Ciurar, sottouomo rumeno, senza diritti. E quella
contro di me, cittadino italiano, con diritti, la cui volontà elettorale è stata
venduta e comprata da Scilipoti e Berlusconi.
Di questo stiamo parlando quando parliamo di cosa fare. La violenza è
pesante, la violenza dilaga, non son tempi normali. Chi ammazzeranno, il
prossimo? Sarà un altro zingaro, o un negro? Che cosa mi ruberanno, la
prossima volta? Già comprano e vendono i voti, già non mi fanno votare.
Io i sassi miei a suo tempo li ho gettati (ma ero in compagnia ottima:
Peppino Impastato, Rostagno) e ho le idee chiarissime su quando servire
possono e quando sono solo uno sfogo. Adesso, con tutto il rispetto, non
servivano. Non credo che ci vogliano gran prediche, neanche fatte da me
che pure sono fra i più credibili perché non ho una lira in tasca.
Credo che dobbiamo invece ragionare seriamente su come si sta in piazza
nel 2010 - in questa che, per noi bianchi, non è una società repressiva ma
una società dell'imbroglio - non per “moderarsi”, per fare i bravi ragazzi, ma
proprio per fare danno, per togliere consenso e forza al Berlusconi di adesso
e ai berluschini che seguiranno subito dopo. Hutter, sul blog del Fatto, ha
detto delle cose serie. Serie perché dette da Hutter, che non è un fighetto da
dibattito ma uno che, ai tempi suoi e miei, ha affrontato i poliziotti cileni di
Pinochet.
***
Partiamo da un dato semplice: il governo è illegale. Perché? Perché
compra i voti in parlamento. Non è una battaglia politica, quella di questi
giorni – e già sarebbe nobilissima, coi ragazzini in piazza a difendere il
maestro Manzi, il mio professore di greco, le tabelline insegnate al popolo,
l'aritmetica e la grammatica, la Scuola.
E' la disperata difesa del mio Paese, l'Italia, diverso dalla Libia di
Gheddafi e dalla Russia di Putin. Per questo, non possiamo commettere
errori.
Fra loro, fra i politici, non è successo niente. “Il governo può continuare”,
“ha ragione Marchionne”, “mica vogliamo le elezioni”. Si accorderanno.
Ma noi no, per noi non continua così. Rassegnati, routinati, di nuovo a
mordicchiarsi a vicenda: così, per loro politici, è il giorno dopo. Bersani
sotto assedio, i “rottamatori” che rottamano, Veltroni che aleggia e Fini e
Montezemolo e Casini: di questo stanno parlando, questo è importante per
loro. Ma per noi no, noi non possiamo affrontare un altr'anno così.
***
“O le sassate o Casini”: questo, in estrema sintesi, ciò che ci sbattono in
faccia i gattopardi. Ma noi non vogliamo né sfogarci coi sassi né regalarci a
Marchionne sotto le vesti di Fini o Casini. Vogliamo un governo diverso,
con una maggioranza reale. Perché non siamo affatto minoranza, noi, nel
paese vero: siamo soltanto divisi. Vogliamo un governo serio, civile,
democratico, più forte della Fiat e dei veri padroni.
Non ce lo può dare il centrosinistra, non ne ha la forza da solo. Non ce lo
può dare se si allarga a destra – dovrebbe tradirci, prima. Ce la può fare solo
se si allarga sì, ma trasversalmente, saltando sopra gli apparati, unendosi
alla società civile.
Per questo ci serve una candidatura forte, una candidatura non “politica”
ma sociale. Non l'uomo forte”, il salvapopolo (ce n'è già tanti) ma un
Pertini. Non c'è lotta sociale più acuta di quella che conduciamo ogni
giorno, noi antimafiosi, contro i poteri mafiosi. Poliziotti e compagni, operai
e insegnanti, “moderati” e ribelli, qui e solo qui siamo nello stesso fronte,
siamo uniti.
Rostagno e Borsellino, La Torre e dalla Chiesa: ma non lo sentite cosa vi
dicono, insieme, questi nomi? Perché non partire da qui? Di che avete
paura? E' una cosa reale, questa, non un'utopia.
30 dicembre 2010
SCIOPERO GENERALE? SI', MA ANTIMAFIOSO
L'impresa-mafia sempre più potente
Cos'è cambiato da allora? Allora la mafia comandava a Catania, ora in
tutta Italia. Ha i suoi sottosegretari, i suoi governatori, i suoi opinion maker
riconosciuti. Questo per limitarci a quelli ufficialmente riconosciuti, se no
dovremmo aggiungere “i suoi ministri e i suoi presidenti”. E i suoi
imprenditori, naturalmente, che non è una novità.
La cosa più importante, tuttavia, non è che la mafia è forte, è che viene
imitata. Il suo modello, cioè, più o meno consciamente è diventato il
modello vincente di quasi tutta la politica e di buona parte dell'impresa. Non
più solo a Catania, ma anzi soprattutto a Roma e Milano.
Queste ultime, nei confronti di Catania, sono quel che Catania era una
volta nei confronti di Palermo: il posto dove la mafia “non esiste”, il posto
dove “non ammazzano nessuno”, il posto dove “non facciamo l'esame del
sangue agli imprenditori” e dove il boss Santapaola giocava a bridge nei
migliori circoli della città. Una mafia moderna, insomma, digeribile e
perbene. I catanesi credevano di essere ancora a Catania e invece erano già
a Corleone, a Medellin, nel terzo Mondo.
***
E noi, dove siamo adesso? Qualche esempio veloce, per capirci in fretta.
Buona parte degli affari per l'Expo di Milano (il business del decennio), e
comunque quasi tutto il movimento terra, ruotano attorno a capitali
calabresi. L'altro giorno a Vibo Valentia un tale, che aveva ruggini con una
famiglia vicina, l'ha sterminata freddamente - otto morti - in un vero e
proprio scontro fra clan tribali. L'esercito italiano, tuttavia, non pattuglia
Vibo Valentia (o Rosarno) ma Kabul.
Cacciata (grazie ai Siciliani) da Catania la Famiglia Rendo, quella di cui
parlavano Fava e dalla Chiesa, si è riciclata in America e in Est Europa.
Negli Stati Uniti una società da lei acquisita del '96, la Invision, ha ottenuto
anni fa l'appalto della security dei venti principali aeroporti nazionali. In
Ungheria, la Famiglia ha acquisito diversi quotidiani a Budapest,
ristrutturandoli a modo suo. In quel Paese, due settimane fa, hanno
approvato una legislazione sui media estremamente repressiva.
Nel Sinai, a poche ore di volo da qui, alcune centinaia di emigranti sono
stati catturati da una banda di beduini, che li ha tenuti in ostaggio per
settimane, violentando donne, uccidendo uomini e rivendendone gli organi
a cliniche clandestine. Tutto ciò nell'indifferenza del governo locale e della
comunità internazionale, che proprio in questo caso, quando avrebbe fatto
benissimo a mandar truppe, non è intervenuta.
Alcuni degli emigranti, dopo, sono stati arrestati dalla polizia egiziana per
immigrazione clandestina. I governi egiziano e, libico, infatti, sono
lautamente finanziati dai peggiori governi europei - fra cui il nostro - per
stroncare l'emigrazione in Europa con qualunque mezzo, compresi
terrorismo e tortura.
***
"Accordo storico e positivo" ha detto Berlusconi del minestra-finestra di
Marchionne. Ci mancherebbe altro. Per non lasciare equivoci, subito dopo
ha detto che ce l'ha con i “magistrati eversivi” e con gli studenti (escluse,
probabilmente, le veline).
Stupisce che di fronte a un nemico così determinato (un sindacalista ha
ricordato che l'ultimo episodio del genere risale al 1925, quando Mussolini
abolì nelle fabbri che le commissioni interne, a manganellate) la si nistra sia
così farfugliante e incerta, com preso il buon Bersani, che pure ultimamente
aveva fatto sperare bene.
Qualcuno, come Fassino (che a suo tempo elogiò Craxi e lo mise anzi fra
i padri fondatori) si schiera direttamente con Marchionne: ”Fossi un operaio
voterei per lui”. “Prova a fare l'operaio per davvero”.
***
Se tutto ciò porterà, come ci sembra logico, a uno sciopero generale, a noi
piacerebbe moltissimo che fosse anche uno sciopero generale antimafia.
Uno sciopero del genere, in realtà, di fatto non potrebbe che essere
antimafia, visto chi sono buona parte dei peggiori imprenditori: ma sarebbe
bene che lo fosse anche esplicitamente.
Lo sciopero antimafia sarebbe non un momento, ma il momento decisivo
dello scontro italiano, e bene fa la segretaria della Cgil (a proposito, avete
notato che l'unica donna importante, nella politica italiana, sta proprio alla
Cgil?) a non volerlo scagliare senza una perfetta preparazione.
Lo scontro, e questo è sempre più chiaro, molto più che politico è sociale.
Difficilmente sarà deciso dalla “politica” (con questo termine in Italia si
indica un ceto di circa duecentomila persone, che si chiamava la noblesse in
Francia nel 1788). Eppure di una politica c'è bisogno, e non improvvvisata
nè casuale.
***
“... L'incarico di formare un governo ad un uomo al di fuori dei partiti,
con una forte caratura economica e/o costituzionale.
Personaggi adeguati da un tale incarico ce ne sono in abbondanza, a
cominciare dal governatore della Banca d'Italia... (...). Per salvare la
continuità politica, il Capo dello Stato avrebbe potuto perfino affidare
l'incarico ad un eminente della maggioranza berlusconiana, del tipo di
Gianni Letta, di Pisanu, di Tremonti...”.
L'idea di una soluzione di “salute pubblica” ormai come vedete si affaccia
- questo era Scalfari - anche nella classe dirigente: che però pensa a
banchieri o a notabili illustri, magari ex (o moderatamente) berlusconiani.
Congelare tutto, e poi si vedrà
Ma la crisi è tanto urgente e tragica, soprattutto per la presenza dei poteri
mafiosi, che prendere tempo non servirebbe a niente, e men che mai
affidarsi (ancora) a banchieri e imprenditori.
Se “salute pubblica” dev'essere, lo sia davvero, non dando il potere ai
notabili ma ai resistenti con le carte in regola, sul precedente del Cln.
Governo di Resistenza, unitario ma ostile ai padronati, e con alla testa non
un imprenditore o un banchiere ma un uomo dell'antimafia, un servitore di
Stato.
Buon anno.
5 gennaio 2010
E COMINCIA UN ALTR'ANNO DEI SICILIANI
Rete, giornale di internet, ebook: gli obbiettivi
Questo numero di Ucuntu, il giornale che raggruppa i fogli e l'internet
dell'antimafia sociale, è un strumento di lavoro. Abbiamo creduto utile
infatti fornire ai nostri lettori e a tutti i simpatizzanti e militanti antimafiosi
un breve riepilogo della densissima storia dei Siciliani, non solo come
giornale ma anche (e in questo caso soprattutto) come movimento di
liberazione.
Abbiamo dunque dato particolare risalto ai momenti più “politici” (non
mai, ovviamente, di partito) di essa: fra cui SicilianiGiovani, la singolare
esperienza fra scuola di giornalismo e movimento giovanile che formò tutta
una generazione di giornalisti e militanti civili sulla via di Giuseppe Fava.
Esperienza tuttora validissima e quindi da riproporre e studiare non solo
sotto il profilo storico ma anche dell'utilità immediata.
***
A tanti anni di distanza, la storia di Giuseppe Fava è una delle pochissime
che ancora continuano ad affascinare i giovani e a dar loro un modello di
giornalismo, di politica e di vita. Fu lui a smascherare i legami fra mafia e
poteri economici e sociali; fu lui a considerare la lotta non come un
semplice “lottare contro” ma anche e soprattutto come un “lottare per”. Non
casualmente, nel primo numero dei Siciliani si parla dei cavalieri mafiosi
(era già una rivoluzione, questo associare mafia e imprenditoria) ma anche,
con pari importanza, di “donne siciliane” e di “amore”.
Amava profondamente la vita; la lotta contro i poteri disumani era per lui
solo un mezzo per liberare profondamente quello che abbiamo dentro, per
conquistare quella felicità e quella gioia che, pur contrastate e difficili, sono
il lato più nobile della condizione umana.
Su questa via ebbe intuizioni fortissime, ben più avanzate
dell'intellettualità ufficiale che lo circondava e che lui abbandonò
coscientemente per affidare tutte le sue chances a noi ragazzi. Non c'è che
Pasolini, nella cultura italiana, ad essergli paragonabile per radicalità e
umanità di pensiero; ma, molto più di Pasolini, egli fu un militante.
Moltissimo resta ancora da scoprire, della sua profondità e poesia, ai
futuri studiosi; a noi che l'abbiamo conosciuto resta la felicità dei ricordi e il
dovere di trasmetterne il più possibile - come facciamo da sempre, e non
senza risultato - ai giovani che via via si affacciano.
Spessissimo il “suo” giornale cambia di nome; eppure, in un quarto di
secolo, ritorna ancora. Siamo già alla quinta generazione (la mia, quella dei
SicilianiGiovani, quella di Avvenimenti, l'Alba e dei Siciliani Nuovi del
'93), quella dei primi anni del nuovo secolo; e questa) di ragazze e ragazzi
che incontrano, immediatamente comprendono e, ognuno alla sua maniera,
ricostruiscono il mondo di Giuseppe Fava.
Pochissimi intellettuali hanno avuto tanta ventura: di fronte alla quale
decisamente sbiadiscono la mediocrità e l'assenza della cultura e della
politica “ufficiali”
***
Questi, per noi di Lavori in corso e di Ucuntu (dei Cordai, della
Periferica, della Fandazione, di Telejato, di Libera, di AdEst, del
Clandestino...) sono giorni di lavoro duro, coi seminari e gli incontri, fra
Palazzolo e Catania, di riepilogo, di progetto, di studio operativo. Tre cose
sono mportanti quest'anno, e sono le nostre sfide.
1) continuare e concretizzare il lavoro di quest'estate a Modica: abbiamo
individuato l'obiettivo giusto - l'integrazione fra le testate, la rete - ma poi ci
siamo arenati; 2) aprire con professionalità e determinazione tutto un settore
nuovissimo (gli ebook mobi epub e pdf, il settore video, la produzione di
“giornali” e libri in questi nuovi formati) che stanno lì ad aspettare
esattamente gente come noi; 3) partire col settimanale di internet,
un'evoluzione di Ucuntu ma nazionale; se ne discute da molto, con il meglio
di internet (Gliitaliani.it, Antimafia2000, Agoravox, Liberainformazione);
siamo indietro solo per mia mancanza personale, non avendo portato a
termine (per malattie, problemi e altre cose noiose) la quota di lavoro che
dovevo fare. Me ne scuso umilmente e mi impegno a presentare il progetto
entro la fine del mese; questo ovviamente significa aprire tutta una nuova
impresa collettiva.
Il momento è ottimo: più si sviluppano le tecnologie e meno abbiamo
bisogno di imprenditori (che in trent'anni se ne sono sempre fregati sia di
Giuseppe Fava che di noi). Ma ci vuole aggressività, rete fra noi liberi,
voglia di concludere, e competenza.
***
Non so come avete passato il capodanno. Di noi, meglio di tutti uno dei
nostri redattori migliori, uno dei più giovani “allora” ma oramai uno dei
veterani: ha trovato un posto di cameriere precario per capodanno e l'ha
passato così, servendo a tavola, con pochi auguri di fretta via sms - c'era da
lavorare. Nè il giornalismo nè l'antimafia ti aiutano a sistemarti, a vivere
come quelli perbene. E anche questa è la strada di Pippo Fava, che si
vendette la casa per i Siciliani.
Ne valeva la pena? Io ritengo di si. E' bella la nostra vita, con tutti i suoi
dolori e le pene, quando la stai vivendo per qualcosa. E quale premio e che
gloria, per Giuseppe Fava, aver saputo suscitare, in così tanti anni, tanta
fedeltà! Nessun altro, o pochissimi, ha mai avuto altrettanto.
Così, buon anno a tutti, amici miei. Vogliamoci bene a vicenda, lavoriamo
insieme, guardiamo avanti, aiutiamoci. E comincia un altr'anno dei Siciliani.
13 gennaio 2011
"UN SALUTO E BUON LAVORO"
LE IDEE NUOVE DI UCUNTU 2011
Si allarga il circuito delle testate in rete. E allora...
Forum 4 gennaio a Palazzolo. Report: 1. 1. Creazione mailing list:
[email protected],
2.2. Ciclo di 4 workshop di giornalismo destinati a noi e a tutti coloro che
vogliono accostarsi al giornalismo e all'uso degli strumenti di
comunicazione multimediali.
Ecco alcune proposte dei possibili temi dei workshop: video inchiesta,
tecniche
dell’intervista,
cronaca
giudiziaria,
quadro
legale
dell’informazione, free software per l’impaginazione e per il web.
I laboratori si terranno a: Modica, Catania, Raffadari e Corleone.
Ogni testata si occuperà dell’ organizzazione del workshop che si terrà
nella propria città.
I workshop saranno di uno o più giorni in base al periodo, alla
disponibilità dei partecipanti e del coordinatore, al programma e alla
struttura dell’incontro.
Bozza di calendario: a. marzo a Corleone (Corleone Dialogos) b. 25
aprile-1 mag. a Raffadali (Ad Est) c. giugno a Catania (Lavori in corso) d.
agosto a Modica (Il Clandestino) Periodo, tema, programma e coordinatori
dei workshop devono essere definiti e comunicati entro e non oltre il 15
febbraio.
Tutte le testate devono occuparsi della pubblicizzazione nel proprio
territorio.
3.3. Raccolte di articoli-dossier. Ogni numero comprenderà due pezzi di
approfondimento scritti da ciascuna testata.
Argomenti proposti: a. sanità
b. immigrazione
c. rifiuti
Il primo numero sarà sulla sanità e sarà coordinato dal Clandestino che si
occuperà di definire il palinsesto e raccoglierà gli articoli che verranno
impaginati con Open Office. Deadline per l’invio dei pezzi al Clandestino: 5
febbraio. Il secondo dossier sarà sui rifiuti (coordinato da Corleone
Dialogos) e il terzo sull’immigrazione (coordinato da Lavori in corso).
4. Presto Luca manderà le istruzioni per la creazione della finestracontenitore di notizie che verrà ospitata in tutti i nostri siti e che raccoglierà
le principali notizie postate da ogni testata. Il sistema dei feed rss proposto a
Modica in estate presenta forti limiti dovuti all'automatismo del
meccanismo che crea una moltitudine di notizie indiscriminate e senza
criterio. Luca vi fornirà una spiegazione attenta e dettagliata delle possibili
soluzioni agli inconvenienti sinosra riscontrati.
Un saluto e buon lavoro, Sonia
***
Beh, io se fossi un imprenditore mafioso mi preoccuperei. “Guarda un
po'! - penserei - Son passati trent'anni da quando Giuseppe Fava cominciò
ad attaccarci a Catania e ancora ne saltano fuori. E questi debbono essere
giovani, fra l'altro. E almeno fossero tipi entusiasti, di quelli che gridano e
poi non fanno niente. Questi sono freddi e cattivi, tipo bolscevichi. Prenderli
per le buone? Una carriera politica, magari nei progressisti? Mi sa che
neanche ci pensano. Ma qual è il punto debole, quale?”.
***
Eh, caro mio. Di buchi ne abbiamo tanti, ma almeno non siamo superbi e
quindi sappiamo accorgercene e rimediarli. Contiamo l'uno sull'altro,
abbiamo pazienza (“dammi tempu e ti perciu”, disse alla pietra l'acqua, in
siciliano) e sappiamo fare il nostro mestiere, sia di giornalisti che di
rivoluzionari. Che più? Ma mi scusi, lei mi sta facendo perdere tempo. Se
ne tornasse a mafiare, voscenza, se crede che serva a qualcosa, ché noi qua
c'è da lavorare
***
Dunque: buone le idee di Sonia (specialmente le inchieste insieme), ma
proviamo ad aggiungerne altre per andare anche più in fretta. Una, i libri
elettronici (mobi, epub, pdf e quant'altro) che dovrebbero diventare una
routine; tutti i nostri lavori, dossier compresi, dovrebbero uscire in versione
elettronica oltre a quella “normale”.
Due: stiamo usando pochissimo Ucuntu che ormai, ridendo e scherzando,
è abbastanza diffuso e ha superato il numero cento. Dal prossimo mese,
svoltiamo: due pagine di Ucuntu le fa, colla propria testata, il Clandestino,
altre due Corleone Dialogos (sempre con la propria testata e senza smettere
ovviamente quel che già sta facendo), e così via. E' facile, basta usare le
pagine-base. Il punto di forza di Ucuntu è che, grazie a Luca e alla sua idea
di usare Open Office per impaginare, si produce velocemente e senza
problemi. Questo finora l'abbiamo sfruttato poco.
Ucuntu rinnovato non interferisce, ovviamente, col progetto “grosso” (il
giornale nazionale di internet con Agoravox GliItaliani, Liberainfo,
Antimafia2000 ecc.) che va avanti proprio in queste settimane.
Non interferisce nemmeno col tentativo di giornale citttadino unitario,
sempre con tecnologia OpenOffice, fra i siti d'informazione messinesi
(c'incontreremo a febbraio) che, se funziona, può diventare un modello
anche per altre città.
Ucuntu però può diventare il giornale unitario dei “rivoluzionari” siciliani
- è la seconda volta oggi che trovo 'sta parola e mi sta piacendo moltissimo,
dopo quarant'anni che non l'usavo :-) - e se funziona può portare a degli
sviluppi inaspettati.
Non dimentichiamo che siamo in tempo di crisi e di scombussolamento
generale, e che se si è forti e chiari si può essere ascoltati anche da molti che
in tempi normali resterebbero muti.
***
Resta pochissimo spazio per parlare del resto. Che dire? Io sono “un
cattivo maestro”, Scidà si dedica al “dossieraggio” e il povero Pino
Finocchiaro ha commesso delitti orrendi trent'anni fa. E tutto perché
abbiamo pubblicato una certa foto, su un certo giudice e un tal certo
mafioso, della quale: o è truccata, e allora querelateci; o è vera, e allora
spiegateci che cosa siete. Tutto il resto è "dibbattito" e vale zero.
Tre righe ancora: benvenuti nei Siciliani , caro scrittore Massimo Gamba
e cari (ignorati dai nobili, ma efficientissimi e combattivi) ragazzi
barcellonesi di “Gramigna”. Insieme, faremo grandi cose. No?
11 gennaio 2011
GLI AMICI DI BABA CONTRO I RAZZISTI
VENERDÌ CORTEO NEL QUARTIERE
A Roma, al Casilino, mobilitazione popolare
Apu, quello dei “Simpsons”, lo conoscete? Bene, esiste davvero, è
davvero indiano e ha davvero un locale cui dedica la vita; l'unca differenza
è' che non si chiama Apu ma Baba e non un locale a Springfield ma qua da
noantri, a Roma, in via Casilina.
Allora, è un po' di tempo che nel locale di Apu, pardon di Baba, arrivano
dei tipi strani, coatti o peggio. Siedono, magnano, bevono, e al momento di
pagare non cacciano una lira. Anzi, con le cattive, si fanno dare soldi lor da
Baba: oggi cinquanta euri, domani cento e così via. Un giorno Baba
risponde: “Non ce ne ho”. I tizi, incazzati, escono. La sera, sulla serranda,
quattro colpi di pistola.
Baba, buon cittadino, avverte la polizia. Ma non si fa vivo nessuno, dal
commissariato. Tornano invece i coatti, più inferociti di prima. Il sette
gennaio portano una tanica di benzina, in pieno giorno, con sette clienti
dentro, e danno fuoco al locale. Ancora polizia assente, ancora silenzio dei
giornali. Ci vuole l'intervento di un avvocato (Simonetta Cresci) per mettere
in moto un giudice, che per prima cosa chiede al commissariato come mai
non l'ha ancora informato.
La gente però comincia a essere stufa al Casilino, specie (ma non
soltanto) i lavoratori immigrati. 'Sti razzisti hanno proprio rotto, non se ne
può più. Così si organizza un corteo, pacifico ma deciso, per venerdì.
Appuntamento alle cinque, al locale di Baba. E poi via per la strada, tutti
assieme.
***
Prima di passarvi il testo del volantino (un (un momento, arriva) voglio
dirvi però qual è stata la scalogna di quei coatti (uno è già dentro), come
state leggendo questa pagina (mica le notizie arrivano da sole) e come là al
Casilino s'è messa in moto la gente.
C''è un amico mio, da quelle parti. un Siciliano ad honorem di Addis
Abeba. E' etiope e italiano: a vent'anni ha servito la patria in prima fila,
rischiando ogni giorno la pelle con serietà e disciplina: Palermo, servizio
scorte, scorta armata - negli anni di Falcone - dei magistrati. Si chiama Rudi
Colongo. E' uno che fa di più per l'Italia in un mese che dieci italiani
“perbene” in un anno (e cento leghisti in tutta la vita). Vive, aiuta la gente,
dirige un'associazione di immigrati (“I Blu”: che nome), è coraggioso. E,
nel caso di Baba, è intervenuto.
Se lo incontri e sei un compagno, salutalo con simpatia. Se sei poliziotto,
fagli - ché se lo merita - un bel saluto alla visiera. Se sei un italiano vecchio
e nuovo, carte in regola o senza, con la faccia di qualsiasi colore ma col
cuore rosso e l'anima sveglia - un italiano - allora stringigli la mano, amico
mio. Mani così, da stringere, ne troverai ben poche.
Bene, e ora ecco qua il volantino.
***
NO RAZZISMO!
Qui da noi l'immigrato è il capro espiatorio su cui riversare tutta
l'ipocrisia di un ingranaggio assassino: sui giornali e nelle parole dei politici
lo straniero è pericoloso, delinquente, clandestino, terrorista. Ma se c'è da
spaccarsi la schiena a costo zero, lo straniero fa comodo. Fa comodo al
padrone e al politico. Sempre più numerosi, gli immigrati abbandonano il
sud del mondo, depredato e sfruttato dai governi e dalle multinazionali, per
cercare una possibilità.
Per noi non ci sono stranieri!
L'unica cosa straniera è la logica dell'esclusione, dello sfruttamento e
della discriminazione. Tra il '98 e il 2001 Centrosinistra e Centrodestra
hanno messo a punto una legislazione che annienta la vita di ogni
immigrato. Così gli immigrati sono schiavi per legge. Vengono internati nei
Centri di Permanenza Temporanea, i lager del nuovo millennio. Umiliati,
picchiati, deportati.
Alle frontiere le polizie sparano, li fanno affondare a bordo delle loro
precarie imbarcazioni, oppure chiudono un occhio sui traffici dei mafiosi
che gestiscono i viaggi: stati e mafie, due facce dello stesso potere.
A Roma c'è una campagna continua contro gli immigrati: aggressioni,
sfruttamento, canoni in nero, negazioni di diritti. Non ultima la devastazione
del negozio di Babain via Casilina, a cui nè il municipio, nè il comune
hanno dato pronta risposta
Noi vogliamo libertà e uguaglianza, ora. Per tutte e tutti, ovunque.
Vogliamo un mondo in cui non conta il luogo in cui nasci per avere una vita
autonoma e consapevole. Vogliamo costruire una società in cui ciascuno è
libero di progettare la propria vita con gli altri e non contro gli altri.
Essere contro ogni razzismo, significa sbarazzarsi di tutte le barriere
fisiche e culturali perché è proprio su queste barriere che gli stati e i governi
fondano la loro pretesa di dominio.
Contro il razzismo per esprimere solidarietà a Baba e per la chiusura dei
Cpt.
Venerdi’ 14 ore 17 in via Casilina (fermata tram Walter Tobagi)
manifestazione antirazzista a cui sono invitate tutte le associazioni,le forze
politiche e sociali, le comunità degli immigrati dell'VIII Municipio e della
citta di Roma.
Associazione Diritti in Movimento
e Comitato Contro la Precarietà, Roma
13 gennaio 2011
APPELLO AL CSM PER LA GIUSTIZIA A CATANIA
La società civile catanese chiede al Cms e al suo Presidente di
intervenire per garantire la trasparenza dell'amministrazione della giustizia
nella drammatica situazione di Catania
L'appello che riportiamo di seguito circola in queste ore fra gli esponenti
della società civile catanese, uniti – nelle loro varie associazioni e correnti
culturali – da una legittima inquietudine circa il destino della loro città,
tormentata da un sistema politico-mafioso fra i più potenti d'Italia ma non
adeguatamente contrastato, in tutti questi anni, da un impegno giudiziario
anche lontanamente paragonabile a quello del pool palermitano.
Questa inquietudine si accresce, e trova forse un' “ultima gocccia”
decisiva, nella pubblicazione di un documento (v.pagina accanto) che ritrae
insieme un boss mafioso e il principale candidato alla Procura di Catania,
Giuseppe Gennaro.
Una simile compresenza, peraltro lungamente e formalmente negata
dall'interessato, può benissimo non avere (ed è auspicabile che non abbia)
significati penalmente rilevabili ed essere spiegata in termini accettabili e
privi di qualunque ombra. Ma essa è, qui e ora, lesiva della totale e
incondizionata fiducia che una città come Catania deve poter riporre nei
suoi Magistrati.
Il nostro mestiere di giornalisti ci impone (come già al collega Pino
Finocchiaro, il primo ad ospitarla sul suo blog) di accertare e diffondere una
notizia che non può essere negata all'opinione pubblica. Non certo per
nostra scelta, per avversioni o simpatie personali o per volere schierarsi
nelle faide che, disgraziatamente, consumano in questi tempi non solo la
classe politica, ma parte della giustizia siciliana. Ma perché non è in nostro
potere di privare i lettori del loro diritto alla verità.
Il nostro non è prevalentemente, come si dice oggigiorno, “giornalismo
investigativo” (non lo fu quello di Giuseppe Fava), né corre dietro agli
scoop; per noi l'investigazione è solo una parte di un processo complesso di
ricostruzione e racconto della realtà che al centro ha la cultura e la società.
La nostra verità, insomma, non si estriunseca mai in un “viva questo e
abbasso quello”, non grida, non cerca facili notorietà; ma cerca di
rappresentare al lettore un quadro il più possibile fedele e veritiero di un
mondo che, come i veri giornalisti sanno, è articolato e difficile e non si
lascia rinchiudere in facili ovvietà.
***
L'appello
Recenti e qualificate ricerche hanno delineato una Sicilia marchiata
dall'economia sommersa, "della complicità o dell'alleanza con le
organizzazioni criminali". Al declino della violenza esplicita mafiosa fa da
contraltare l'estensione delle mafie nell'economia formalmente legale, dove
l'accumilazione della ricchezza avviene attraverso relazioni sociali e attività
economiche costruite sulla base del coinvolgimento diretto e dei favori
scambiati con i potentati economici,politici,professionali, fino a godere
della complicità di specifici e decisivi ambiti istituzionali.
Si è creato uno spazio dove lecito e illecito finiscono per entrare in
commistione, una commistione ove le classi dirigenti sono tali in quanto
espressione degli interessi della borghesia mafiosa dominante.
Le scelte di poltica economica e finanziaria più rilevanti, dall'urbanistica
agli interventi nel settore energetico, dai servizi alla gestione dei beni
pubblici, alle grandi opere, sono ispirate da questo contesto e dal dominio
della borghesia mafiosa. Scelte che comportano gravi danni ai bisogni
sociali, alla salvaguardia dell'ambiente e del patrimonio collettivo.
In questo quadro la città di Catania viene considerata, oggi anche dal
presidente di Confindustria Sicilia, l'epicentro dell'"area grigia", dove
massimamente si compenetrano mafia ed economia legale. Una città dove,
diversamente che a Palermo o Caltanissetta o Agrigento,l'azione di contrasto
delle istituzioni delegate risulta o inefficace o largamente insufficiente.
Aggiungiamo, incapace o deliberatamente inerte nel colpire i ceti politici ed
economici dominanti della città. Emblematica ed evidente, da questo punto
di vista, è apparsa la gestione delle indagini relative al governatore
Lombardo, al fratello Angelo, a rilevanti ambienti imprenditoriali.
L'intervento del Procuratore D'Agata è apparso ai più quello del difensore
dei potentati piuttosto che quello del difensore della legalità repubblicana e
costituzionale. Ne è conferma il contenuto dell'intervista rilasciata a Toni
Zermo sul quotidiano di Mario Ciancio, anch'esso indagato, rivolto contro le
considerazioni espresse da Ivan Lo Bello.
Alla vigilia della nomina del nuovo Procuratore della Republica di
Catania,facciamo appello al Presidente della Repubblica, acchè non si ripeta
quando avvenne tre anni nel 2008 quando il Csm,allora presieduto da
Mancino,con una decisione ispirata dai Palazzi romani e dai potentati
politici ed economici catanesi, nominò D'Agata,sovvertendo l'indicazione
largamente maggioritaria della Prima Commissione favorevole ad una
figura esterna avente le caratteristiche della impermeabilità e dell'internità al
sistema di potere catanese.
La società civile catanese
Ucuntu, 28 gennaio 2011
GLI OPERAI L'ANTIMAFIA E LA NOSTRA DIGNITÀ
Dopo Cuffaro, dopo Berlusconi...
Non è una vittoria di tutti, l'arresto di Cuffaro. E' una vittoria per coloro
che, seguendo Falcone e Borsellino, hanno lottato anno dopo anno per la
dignità e per il bene di tutti. Ma questa è stata una minoranza, anche se in
certi momenti molto forte,.
Per la maggioranza del popolo siciliano, invece, l'arresto di Cuffaro è un
giorno di vergogna e - auspicabilmente - di riflessione. Per anni e anni,
tradendo il ricordo dei morti e i valori della vecchia Sicilia contadina,
abbiamo liberamente votato per un mafioso. Fra tutte le regioni italiane,
siamo quella che ha peggio usato la propria libertà e democrazia,
appoggiando gli assassini e i trafficanti di droga e chiamando “politica” ciò
che era semplicemente vigliaccheria e servilismo.
Da qui bisogna partire, senza mezze parole, se vogliamo tornare - tutti,
non solo alcuni - un popolo civile. Abbiamo una storia altissima alle spalle il movimento contadino, le rivolte, le centinaia di sindacalisti, giudici e
giornalisti ammazzati - e una gioventù che, a differenza della classe
dirigente, si è dimostrata spessissimo degna di stima. Ripartiamo da queste.
Non perdiamo un istante a guardarci indietro, non regaliamo un attimo alla
vecchia “politica” cuffariana e lombardiana, di chiunque ci abbia a che fare.
“Voi avete svergognato e distrutto la Sicilia. Noi giovani la ricostruiremo”.
***
Questo impegno a Palermo può contare, oltre che sui militanti civili, su
una scuola di giudici al servizio di verità e giustizia da generazioni, presidio
vitalissimo di democrazia e libertà. Non a Catania. Qui, nello strapotere di
un Sistema contrastato solo dai ragazzi dei movimenti, il Palazzo di
giustizia per decenni si è erto solitario e inutile a tutti se non ai potenti. E
tuttora è così.
Travagliato da scontri interni, riconducibili più che ad ansie di giustizie
alle contrastanti ambizioni di poteri superiori, conteso fra screditati
esponenti fra cui è impossibile la scelta, esso urgentemente richiede un
intervento preciso e duro dell'organo di autogoverno della Magistratura, fin
qui efficiente e attento altrove ma non sulle faccende catanesi.
Venga un buon giudice, venga finalmente un giudice a Catania; deciso
d'autorità dal Csm, dato che i concorrenti attuali danno scandalo o sono
inadeguati. Catania, coi suoi dolori e i suoi travagli, e i suoi movimenti
civili che durano da trent'anni, non merita un po' di giustizia, non merita
almeno questo? Si legga, alla fine di questo numero, il drammatico e
purtroppo attuale rapporto del più autorevole testimone catanese, e lo si
prenda finalmente a pietra di paragone.
***
Che differenza c'è fra obbligare un commerciante a “fare un regalo”
minacciandogli il negozio che è il suo posto di lavoro e obbligare un
operaio a “fare un regalo” (il lavoro, i diritti, la rinuncia al sindacato)
minacciandogli la fabbrica in cui lavora?Ricatti del genere, del resto, nel
mondo industriale sono sempre esistiti: ma mai con una tale chiarezza,
diciamo così, didascalica e insistita: “Devi pagare il pizzo, e si deve sapere
in paese”. “Devi rinunciare al sindacato e lo devono sapere tutti”. Il pizzo, o
il ricatto del lavoro, come gesto esemplare, come manifesto. I brigatisti, più
colti dei mafiosi ma meno sofisticati di Marchionne, riepilogavano
rozzamente: “Colpisci uno per educarne cento”.
Così, due mesi dopo Pomigliano, non c'è fabbrica italiana in cui i
lavoratori siano ancora sicuri dei loro diritti: che anzi, dopo le cortesie di
rito, sono praticamente spariti dall'agenda politica. Il proprietario industriale
di Repubblica “Ha proprio ragione Marchionne!” ha detto. E subito il
giornale liberal s'è adeguato.
Così, adesso gli operai sono soli, soli in mezzo alle chiacchiere come i
ragazzi antimafiosi del sud.
Che però, in fondo in fondo, soli non sono mai stati del tutto. Hanno
avuto, in taluni momenti, la capacità e la fortuna di muoversi insieme con
altri, di “fare rete”: la prepotenza e le minacce insegnano a molti la
vigliaccheria, questo è vero, ma a molti insegnano anche la buona
organizzazione e il coraggio.
Così, dallo sciopero operaio di oggi, può benissimo nascere tutta una serie
concreta di momenti unitari e civili - fino allo sciopero generale, sindacale e
antimafioso - da cui unicamente può sorgere la salvezza della Repubblica e
la sconfitta profonda, non gattopardesca, dell'attuale regime.
Non è affatto casuale - scrivevamo pochi giorni fa su Casablanca - che
questo giornale, nato come giornale antimafioso (e con radici non
superficiali nè casuali) in questo numero sia dedicato prevalentemente ai
problemi degli operai, ai diritti degli operai. E' lo stesso discorso. E quando
riusciremo a profondamente comprendere, e non solo nei dibattiti ma nelle
strade, il legame che esiste fa ingiustizia sociale e potere mafioso, allora
avremo già quasi vinto la nostra battaglia.
***
Dunque, il lavoro è questo. Difendere i diritti, la Costituzione, la legge e
quelli che ora l'incarnano, i nostri Magistrati. Difendere la vita quotidiana
delle persone “comuni”, di quelli che non vanno nei giornali ma che, nel
loro complesso, costituiscono la Nazione. Sfrondare d'ogni sovrastruttura
ideologica (ma non politica) questa lotta.
“L'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”: questo è il
nostro programma, e non ci serve altro. Ma per queste poche parole siamo
pronti a combattere, senza compromessi. Vedremo chi è disposto a
difenderle, e chi vorrà invece confonderle in un abile e vano fumo di parole.
Facciamo rete, tutti insieme. Da soli (giornali e gruppi) siamo deboli.
Insieme - ma insieme davvero, senza egoismi e ritrosie - ce la possiamo
fare.
12 febbraio 2011
IL GOLPE DI BERLUSCONI E QUELLO DI MARCHIONNE
E l'uomo di Obama in Calabria ha detto...
Stanno salvando l'Italia, ora mentre scriviamo, e stanno preparando il
dopoberlusconi. Dove? A Milano. Chi? i congressisti del nuovo partito di
Fini, i “futuristi”. A loro l'Italia perbene, giornalisti e politici, si affida. Il
capo, proprio a Milano, o almeno il portavoce, era quella Tiziana Maiolo
che, dopo brillanti e varie carriere “di sinistra”, alla fine è approdata ai
berlusconiani; e da questi ai finiani, sempre rispettatissima e riverita. E'
quella che l'altro giorno, di fronte alla morte atroce di quattro zingarelli:
“Più facile educare dei cani - ha commentato - che degli zingari bambini”.
***
Si chiamavano Raul, Fernando, Patrizia e Sebastian. Erano nella loro
baracca, morti bruciati mentre si riparavano dal freddo. Quattro bare a via
Appia Nuova. Quattro rom bambini. Attorno alle bare le famiglie. Soli da
sempre. Campi zeppi di topi. Oggi come dieci anni fa a Casilino 700,
nell'anno del Giubileo, quando era vietato raccontare le stragi dei ragazzini
nei ghetti, e quell'anno là ne morirono almeno dieci.
A Roma ci sono più case sfitte che in ogni altra città d'Europa: centomila
alloggi, dieci milioni di metri cubi di case vuote, come mille stadi di serie
A. Ma per i poveri, per i Rom non c'è posto. Ghetti, tendopoli, miseria e
spesso morte. Ma quale giornale, quale politico lo dice? Stiamo
perseguitando gli zingari esattamente come ieri perseguitavamo gli ebrei.
Ma la “politica”, a quanto sembra, è un'altra cosa.
La “politica” si affida alle Maiolo e ai Renzi, alle soluzioni indolori. ai
dopoberlusconi tranquilli, con tutto
che resta com'è salvo (forse)
Berlusconi. Chi parla più della Fiat? Chi pensa più agli operai? Eppure è
stato appena deciso (anche qui, esattamente come sotto il fascismo) che di
diritti non ne hanno più, neanche uno. Ma la “politica”, a quanto pare, è
un'altra cosa.
Il golpe è questo qua, ed è bilaterale. C'è il golpe di Berlusconi, vecchio
imbecille vizioso, che minaccia e ricatta e mobilita i suoi puttani. Ma c'è
anche quello di Marchionne e soci, che vogliono fare miliardi sulla pelle dei
ragazzi. Nessuno, sotto i trent'anni, sa più come sarà il suo avvenire.
***
Ma c'è un'altra politica, quella vera. La politica che ha appena mandato
via Mubarak, senza violenza. La politica che non è affatto isolata (che dite,
ora, di Obama?) e che sa cogliere le occasioni. “Qua bisogna puntare sui
ragazzi di Ammazzateci Tutti” ha detto - secondo Wikileaks - l'uomo di
Obama in Calabria. Chi se ne è accorto? Vorrà dire qualcosa, politicamente?
Sono momenti incredibili, in cui davvero è possibile il cambiamento.
Purché sia cambiamento vero – a cominciare dallo spazzare via i mafiosi,
che sono il cuore del Sistema – e purché si sia disposti a far sul serio e non
solo balletti “politici”. Perché il mondo è cambiato. I vecchi non se ne
accorgono, ma i giovani sì. L'Egitto è un paese giovane. E ha vinto, alla
faccia di tutti.
***
Sicilia: qua tutto è lento. Ma si muove. Catania: sono bastati pochi
giornalisti e cittadini coraggiosi - ma al culmine di una catena lunghissima,
lunga trent'anni – per mettere in crisi la camera di compensazione del
Sistema locale, a Palazzo di giustizia. Vorrà dire qualcosa, politicamente?
Informazione libera e movimenti, lavorando insieme, possono sperare di
vincere, in questa città. E' già quasi successo una vita, coi Siciliani. Perché
non riprovare?
Per l'informazione, in particolare, è arrivato il momento della verità. Il
caso Procura di Catania ha fatto da cartina di tornasole: chi si è schierato e
chi si è messo da parte, chi ha detto la verità e chi l'ha nascosta. Chi se l'è
presa coi funzionari infedeli e chi coi “dossieraggi” che li smascheravano.
Adessso, bisogna scegliere. O da una parte o dall'altra.
E', finito, fra l'altro, l'equivoco di Sudpress, diviso fra l'onesta ingenuità
dei giornalisti e le grevi ambizioni dei proprietari. Ora è il momento di
riprendere la strada dei Siciliani, tutti insieme. A questo sta servendo, da tre
anni in qua, questo nostro giornale, con tutto ciò – e non è poco – che gli
vive attorno.
Non siamo, e non vorremmo essere, autosufficienti. Ma abbiamo una
storia e delle idee chiarissime e decise, le uniche che nessuno qui potrà mai
equivocare. E' un patrimonio per tutti, per tutta la comunità che ci
appartiene: cerchiamo di usarlo bene, con decisione e tutti insieme ed
essendone sempre degni.
19 febbraio 2011
NOTA EDITORIALE
Questo documento – il promemoria del Giudice Giambattista Scidà,
Presidente Emerito del Tribunale dei Minori e protagonista prestigiosissimo,
da oltre un quarto di secolo, dell'antimafia a Catania – è uno strumento
indispensabile per la comprensione di almeno una delle possibili
interpretazioni del “caso Catania”, di cui la stampa ufficiale non ritiene di
dovere dar conto al lettore. Di che si tratta?
La città di Catania, tormentata da un sistema politico-mafioso fra i più
potenti d'Italia, non ha mai potuto contare, in tutti questi anni, su un
impegno giudiziario anche lontanamente paragonabile a quello del pool
palermitano. Non è storia di oggi ma degli anni Ottanta (mancate indagini
sull'omicidio Fava), Novanta (enucleazione delle responsabilità
imprenditoriali), Duemila (privatizzazione della città da parte dei
monopoli). L'inquietudine della società civile si accresce ora, e trova forse
un' “ultima goccia” decisiva, nella pubblicazione di un documento che ritrae
insieme un boss mafioso e il principale candidato a una carica
importantissima nel Palazzo: compresenza, per quanto auspicabilmente
priva di significati penali, che non aumenta certo la fiducia dei cittadini nel
Palazzo.
Il nostro mestiere di giornalisti ci impone di accertare e diffondere una
notizia che non può essere negata all'opinione pubblica. Non certo per
avversioni o simpatie personali o per volere schierarsi nelle faide che,
disgraziatamente, consumano in questi tempi non solo la classe politica, ma
parte della giustizia siciliana. Ma perché non è in nostro potere di privare i
lettori del loro diritto alla verità.
Il nostro non è prevalentemente, come si dice oggigiorno, “giornalismo
investigativo” (non lo fu quello di Giuseppe Fava), né corre dietro agli
scoop; per noi l'investigazione è solo una parte di un processo complesso di
ricostruzione e racconto della realtà che al centro ha la cultura e la società.
La nostra verità, insomma, non si estrinseca mai in un “viva questo e
abbasso quello”, non grida, non cerca facili notorietà; ma cerca di
rappresentare al lettore un quadro il più possibile fedele e veritiero di un
mondo che, come i veri giornalisti sanno, è articolato e difficile e non si
lascia rinchiudere in facili ovvietà.
***
Questo modo di pensare, in questo momento , non è molto popolare. Le
idee del giudice Scidà non sono state contestate, sulla stampa ufficiale, ma
aggredite. Ultimamente l'attacco ha raggiunto (sempre attentamente
guardandosi dall'affrontare in qualsiasi modo la descrizione dei fatti) forme
odiose e personali e se n'è resa responsabile, nell'edizione locale,
“Repubblica”.
Il che apparrebbe incongruo, pensando all'impegno civile di cui questa
testata ha sempre dato prova a Palermo e sul piano nazionale. Ma non lo è,
purtroppo, se si considera il ruolo che questo giornale (o meglio, il suo
editore) ha sempre avuto a Catania. Aperta alleanza con Ciancio, silenzio
sugli affari, autocensura dei contenuti (fino a poco tempo fa si evitava di
distribuire la cronaca) in ossequio all'alleato. E questo non per scelte
“ideologiche” o culturali, ma banalmente per la comunanza d'affari col
piccolo Berlusconi catanese.
Hanno questi interessi un ruolo nell'attacco personale e violento a Scidà,
nella difesa dunque del Sistema catanese qui ed ora? Non lo sappiamo. Ma,
non essendo affatto arbitrario né privo di connessioni con schieramente
vecchi e nuovi, è un dubbio che dobbiamo consegnare – con tutto il resto –
al lettore.
Al quale, per l'ennesima volta, forniamo dunque non la Verità rivelata o lo
scoop maiuscolo ma, più semplicemente, un utile strumento di lavoro.
Questo è sempre stato il nostro principio e il nostro stile e questo,
sommessamente, intendiamo mantenere.
23 febbraio 2011
UNA DITTATURA DI MINORANZA
E intanto a Catania, capitale di una certa Italia...
“Buffone! Farai la fine di Ceaucescu!”. Bah. Intanto, Gheddafi rischia di
farla davvero, la fine di Ceaucescu. Chi gliel' avrebbe detto quest'estate, ai
tempi delle tende beduine (a Roma) e del bungabunga? Io, che sono un
uomo prudente, al posto di Berlusconi mi fionderei nella più vicina caserma
dei carabinieri, mi chiuderei in cella da me e come favore personale
chiederei di essere messo nella camera di sicurezza più interna: non si sa
mai. Ma lui è un tipo avventuroso, come Ceaucescu e come Gheddafi.
Speriamo che, a differenza di Gheddafi, non sia anche – quando verrà il
momento suo – un pazzo sanguinario, di quelli che buttano bombe sulla
folla. Di noi tutto sommato si usa poco: Brescia, piazza Fontana, Italicus,
Bologna... ma erano altri tempi, si dice, è cambiato tutto; persino al G8 di
Genova, dove pure c'era da stangare un bel po' di sovversivi, un po' di
torture magari, ma di bombe niente.
In compenso siamo azionisti di un bel po' delle bombe di Gheddafi: Fiat,
Berlusconi, Unicredit, Eni, Ansaldo, Impregilo, hanno tiranneggiato la Libia
(e i poveri emigranti che ci passavano) con Gheddafi. Non a caso in queste
ore a Milano la borsa trema. Ma che importa: domani è un altro giorno.
Obama ricostruisce l'America, cerca di riportarla, di riffe e di raffe, dalla
parte dei popoli, dov'era un tempo. Perché Obama è un patriota, al suo paese
ci tiene. Qua, per salvare l'Italia – di cui onestamente non ce ne frega niente
- ci affidiamo non dico a Fini ma a Luca Barbareschi.
Va bene. Gli operai non esistevano, e invece ci sono eccome, e nelle
piazze s'è visto. Non c'erano le donne, buonine fra tv e chiesa, e invece sono
state proprio loro a dare il primo scossone decisivo. Nemmeno il popolo c'è
più, contanò solo i mille Vip che “Io so' io e voi nun siete un cazzo”.
Vedremo. Lo vedremo il giorno dello sciopero generale.
Ché ormai la strada chiarissimamente è questa: bloccare ogni trattativa
(bene Flores e Camilleri: fermare il Parlamento) e fare, come la Cgil farà, lo
sciopero generale.
Contro Mubarak (cioè Berlusconi), contro i suoi finanzieri (cioè
Marchionne), contro i suoi sgherri e mercenari, cioè i mafiosi. Questo non è
più regime di massa, nessuno dei suoi gerarchi è più un interlocutore. E' una
dittatura di minoranza, sempre più impaurita: trattiamola come tale.
***
Torniamo a Catania, che io la naja la faccio qui e guai se mi beccano a
non fare bene la sentinella. Nel caso Catania – di cui sapete ormai tutto – c'è
una novità importante e forse decisiva. Mentre dieci giorni fa eravamo
ancora alle polemiche, alle denunce e alle giustificazioni, adesso siamo alla
fase degli attacchi personali e violenti, senza mediazioni.
In soldoni: il giudice A accusa il giudice B di essersi soverchiamente
intrattenuto con mafiosi. Porta prove e argomenti, e infine saltano fuori pure
le foto. Ma perchè A ce l'ha tanto con B? Per fatto personale, ovviamente. E
donde viene questo fatto personale? Perché lui, giudice A, in realtà è un
immorale, un vizioso, un mostro; l'ha detto un conoscente di un tale che l'ha
sentito dire da un talaltro; ed ecco perché attacca B inventandosi Catanie,
casi Catania, giudici e mafiosi.
Bene. E chi lo dice (in linguaggio forbito, convenevole e professionale,
poche bellissime righe da scuola di giornalismo)? Il giornale di Feltri o
quello di Belpietro? No: direttamente Repubblica. Che ha una tradizione
bellissima, di lotta per la libertà e la democrazia, in Italia, e anche contro la
mafia a Palermo; ma a Catania ha una tradizione precisa di accordi - di
contenuti e d'affari - con padron Ciancio. Queste sono notizie, amici miei, e
come tali le diamo.
Immaginate che a Milano nel 1946 il Corriere avesse attaccato - non
politicamente, ma insinuandogli qualche delitto comune - Ferruccio Parri, e
avrete un'idea di cosa stiamo vivento, in questi giorni, noi dell'antimafia a
Catania e quanto siamo incazzati e quanto determinati a fare i conti.
***
Perché a Catania, e in Sicilia, e in Italia, e dappertutto, l'antimafia esiste,
non è una barzelletta. Non “una certa antimafia”, non l'”antimafia di
carriera”, ma l'antimafia mia, di Scidà o dei militanti del Gapa - vent'anni
di dedizione totale e di battaglie, dando tutto se stessi. E anche, porco
diavolo, l'antimafia “autoreferenziale e inutile” dei ragazzi di Palazzolo, di
Modica, di Ucuntu, ai quali è stato autorevolmente e recentemente spiegato,
da qualche genio, che in realtà non servono a un cazzo.
Va bene, impariamo anche questo, ragazzi. Nel mondo c'è anche 'sta gente
ciarliera: a volte fa qualcosa di buono, ma raramente, e te lo fa pagare con
una tonnellata di cazzate per ogni grammo di cose buone. Voi non
v'impressionate, tenetevi stretto quel grammo (se riuscite a trovarlo) e per il
resto fregatevene e andate avanti.
***
Le righe che restano le dedichiamo volentieri (ma senza gridare al lupo)
alla solidarietà, in questo caso a Condorelli. Buon giornalista, perbene, alle
volte un po' ingenuo (come quando s'è lasciato usare contro l'antimafia cioè,
qui e ora, contro Scidà), ma bravo certamente, uno che prima o poi avremo
accanto; è stato licenziato ingiustamente e noi, non per la prima volta nè
perchè qualcuno ce lo chieda, stiamo con lui. Ma senza confonderci con le
“solidarietà” d'occasione di chi, in passato, s'è rifiutato per esempio di
solidarizzare con un Marco Benanti.
Noi, giornalisti sempre e non solo quando ci conviene, questa solidarietà
l'abbiamo data in passato a Benanti, a Finocchiaro, a Giustolisi, a Mirone, a
Savoca, a Rizzo, a Lavenia, a Scapellato – e chiediamo perdono a quelli
che stiamo dimenticando ora, ma che certo non abbiamo dimenticato
quando ce n'era bisogno.
Raramente ne abbiamo ricevuta noi, e mai nessuno dei nostri ragazzi. Ma
questo, per noi “professionisti dell'antimafia, fa parte del nostro mestiere.
7 marzo 2011
L'UNICO INTERLOCUTORE
POSSIBILE, QUI E ORA
In poche regioni d'Italia la “politica” è complicata e machiavellica come
in Sicilia.
In nessuna città siciliana come a Catania.
Alleanze, cordate, patti e accordi s'intrecciano e si disfano in maniera così
elaborata che ogni volta ci vuole uno studio indefesso solo per arrivare a
capire chi sta con chi e chi contro.
Lavoro inutile, del resto, perché il giorno dopo le alleanze del giorno
prima si sono già disfatte, i Borgia dai Colonnesi sono tornati ai Visconti e
Al Capone, che ieri faceva affari con Marranzano, improvvisamente s'è
unito a Frank Costello. Intanto la città affonda.
C'è un'unica cosa seria, nella politica di Catania, ed è la (vera) politica dei
quartieri.
Non mercato di voti, non potere, non disperato arraffaggio di consulenze
e poltrone.
Ma serivizio civile, antimafia e formazione di massa, coi pochissimi
mezzi di cui può disporre qui la gente perbene.
Abbandonate dallo stato, snobbate dai partiti locali, assolutamente
ignorate dai grandi agglomerati “politici” di Roma, volontari, insegnanti,
lavoratori studenti combattono qui nei quartieri poveri (cioè l'ottanta per
cento della città) la vera battaglia politica per Catania, quella senza
bandiere, con più idee (e “filosofia”) di chiunque altro ma senza bardature
inutili di bei discorsi e sonanti parole.
Il partito della Resistenza e dei poveri, senza saperlo, esiste già ed è qui.
In forma rudimentale e confusa, chiamandosi qua parrocchia e là centro
popolare, combatte faticosamente ogni giorno e fa democrazia.
È l'unico interlocutore possibile per le persone serie, qui e ora.
7 marzo 2011
IL NORD, IL SUD
E QUESTO NOSTRO MESTIERE
Ma l'informazione è ancora “Quarto Potere” o è diventata ormai
semplicemente un potere? Cosa c'entrano gli editori? Ce ne sono ancora?
E come si fa, senza editori?
Sembra che i tunisini, gli egiziani, i libici, gli arabi insomma, siano gente
come noi. Noi eravamo convinti che fossero chissà che tipi strani e fanatici,
e quindi li bombardavamo e spremevamo senza troppi rimorsi. E' chiaro
adesso che sono gente comune, come noi: moderatamente religiosi, tendenti
a un modesto benessere, scontenti del governo, inclini alla democrazia.
L'informazione ufficiale per anni e anni ce l'ha negato. Non solo
distorcendo o nascondendo (vedi Wikileaks) le vere e proprie notizie; ma
soprattutto barando sul piano culturale, costruendo a poco a poco
un'immagine di quei popoli assolutamente non veritiera. E questo in molti
altri casi.
L'informazione “borghese” (per usare un termine caro a Giuseppe Fava),
che una volta era il Quarto potere, adesso è semplicemente un potere come
gli altri, che lascia la sua missione originaria per fare un “lavoro politico” (o
finanziario) programmato.
***
Di ciò, Berlusconi è solo il modello estremo; non è che tutti gli altri siano
molto indietro. Poche settimane fa è bastato un intervento di De Benedetti
per invertire Repubblica sulla cruciale questione della Fiat. In sostanza, il
giudice onesto può contare su Repubblica; ma l'operaio onesto, nello stesso
momento, non può.
Vi sembra strano? No, non lo è, anzi è “normale”. Garibaldi libera i
contadini fra gli applausi di Scalfari (ci si passi l'anacronismo) e
contemporaneamente Bixio li fucila: liberì sì, ma senza esagerare. La storia
dell'Italia in fondo è questa, e hanno egualmente ragione tanto i “liberal”
che inneggiano a Garibaldi quanto i neoborbonici che maledicono Bixio.
Ma un altro tipo d'Italia ci fu pure, tanto quaggiù in Sicilia quanto su a
Torino: quello dei contadini ribelli e degli operai scioperanti, dei Fasci
Siciliani e della Fiom. Entrambi schioppettati egualmente dai Savoia, al
nord e al sud. E poi dai fascisti, i mafiosi, i piduisti, da tutti i potenti padroni
(sempre alleati fra loro) dei due paesi.
A Reggio Emilia e a Portella, il sangue dei poveri bagnò la terra italiana
allo stesso modo; da Piazza Fontana a Capaci, il Sistema non ha mai avuto
in realtà nè un nord nè un sud. Se li inventano i suoi politici e i suoi
giornali, quelli borboni e quelli liberali, per imbrogliare i poveri e tenerli
divisi.
***
Pensa nel mondo, agisci al tuo paese: questo discorso sull'informazione ci
porta giù giù e poi ancora più giù per l'Italia, fino addirittura a Catania.
Dove c'è un caso da studio (che i nostri lettori, a differenza di altri,
conoscono bene). Il caso, in essenza, è questo: concorrono a un posto di
giudice due funzionari; discussi entrambi, com'è normale; ma in più con dei
fattori specifici che ne rendono sconsigliabile, o perlomeno rischiosa,
l'assunzione.
Uno, per sottrarsi a un caso scomodo, s'era autoaccusato di “stancabilità,
non brillante memoria e reazioni emozionali spropositate”. L'altro era
andato a cena con dei mafiosi, negando poi (fino a smentita fotografica) il
fatto.
Trattandosi di Procura antimafia, e non della pretura di Sant'Ilario,
prudenza consiglierebbe di ringraziare e respingere, con pari cortesia, l'uno
e l'altro; e di cercare altrove un terzo candidato, magari non un Solone ma
che almeno non si sia dichiarato inabile e sia stato più attento nella scelta
dei commensali.
I catanesi, la società catanese, pendono per questa ovvia soluzione;
deciderà il Csm, o attenendosi al precedente di Messina e Reggio Calabria
di tre anni fa (dove alla fine si scelsero candidati esterni, Pignatone e lo
Forte, entrambi prestigiosi) o a quello palermitano dell'88 dove
burocraticamente si scelse l'anziano Meli anziché l'“irregolare” Falcone.
Deciderà il Csm. Noi come giornalisti dobbiamo solo segnalare i fatti
(compresi le sfumature e il contesto) nella loro interezza, senza insultare
nessuno (segno di scarso mestiere, di debolezza), senza cercare scoop
(molte delle cose “scoopate” ora le avevamo già scritte tre, cinque, a volte
vent'anni prima) e soprattutto senza risponderne assolutamente ad altri che
ai lettori. Non abbiamo padroni né occulti né regolari, come sanno tutti, e
siamo forse gli unici in quella città a non averne.
Quest'ultima affermazione non riguarda l'etica ma proprio la struttura
tecnica del nostro mestiere, almeno come si sta configurando oggigiorno.
***
Dei miei primi rapporti con Giuseppe Fava un episodio mi ha sempre
colpito, che via via che passa il tempo mi sembra sempre più degno di
riflessione. E' quando, appena arrivati, ci chiese (o meglio ci ordinò) di
imparare a usare le tastiere, i rudimentali “computer” di quei tempi. “Ma
perché? Ma non è compito dei tecnici? Non basta scrivere i pezzi a
macchina, li dobbiamo anche montare? Ma se neanche il sindacato dai
giornalisti dice che lo dobbiamo fare!”.
E lui, sorridendo: “Lo so che ci sono già i tecnici, pagati dall'editore. Ma
casomai un giorno voleste farvi un giornale da soli, un giornale vostro...”.
E andò proprio così. Né i Siciliani, né I Siciliani Nuovi, né Avvenimenti,
né SicilianiGiovani, né Casablanca, né lo stesso Ucuntu né tutte le cose che
ci son state in mezzo (e che, auspicabilmente, ci saranno domani) avrebbero
potuto esistere senza un minimo di autosufficienza tecnologica; nessuno di
essi ha mai avuto un imprenditore “regolare” (a Catania di onesti e liberi
non ce n'erano, e al di là delle chiacchiere non ce ne sono tuttora).
I Siciliani erano una cooperativa. Avvenimenti una società ad azionariato
popolare. Idem i Siciliani Nuovi. Casablanca, unica, ha avuto un “editore”
che era poi una valorosa e disinteressata militante nostra, Graziella Proto; i
Cordai, il Clandestino e la Periferica sono di libere associazioni come lo
stesso Ucuntu, che sta soprattutto in internet e non ha costi di stampa.
Il giornalismo antimafia, che pure ha sconfitto i Cavalieri e tuttora tien
duro, tecnicamente è un'impresa senza padroni, in mano ai suoi giornalisti e
ai suoi simpatizzanti e lettori. Pochissimo o nullo aiuto dalle centrali civili
(e miopi) di Roma. Ma indipendenza totale, mestiere, e ogni tanto anche
risultati incisivi.
***
Il costo però è altissimo sul piano umano. A volte s'è rinunciato a uno
“scoop” (per dirla alla moda) perché non c'erano i pochi soldi per stargli
dietro. Spessissimo si esita a accogliere un ragazzo nuovo, sapendo i
sacrifici durissimi che qui dove vuol mettersi lo attenderanno.
Sopravviviamo nelle maniere più impensate, e mai con questo lavoro.
Tranne che “andando al nord”, dove ci si aprono subito belle carriere – ma
non qui in prima linea, qui nel deserto.
Tutto questo sta bene, e non ne parliamo per sentimentalismo ma solo per
chiarire i termini tecnici della questione. Niente (e non per nostra scelta)
editori; esercito di volontari; alta qualità giornalistica per restare credibili
nonostante questo; larghe conoscenze tecnologiche per approfittare di ogni
possibile occasione; unire tutte le forze disponibili, “fare rete”.
***
Nessuno si può illudere di salvarsi da solo trovando un suo deus ex
machina, un suo “editore”. Le poche volte che c'è, è per far danno: Catania,
in questi mesi, dovrebbe avere insegnato anche questo.
Ucuntu e Lavori in Corso puntano tutto sulle tecnologie e sulla rete. Non
c'è nessun altro in Sicilia che cerchi così insistentemente di coordinarsi con
gli altri, di organizzarsi, di lavorare insieme. Nessuno così avanzato nelle
tecnologie (in alcune due anni prima di Repubblica) eppure così
consapevole della propria insufficienza.
La nostra missione non è di dare una nobile testimonianza da una nicchia,
ma di costruire insieme agli altri qualcosa che superi fra il grande pubblico
l'informazione del Sistema.
Ecco perché insistiamo tanto nei contatti operativi fra gruppi grandi e
piccoli, senza trascurarne nessuno. Ed ecco perché, per esempio, in questi
giorni organizziamo un convegno “tecnico” non su contenuti etici ma su
Linux e dintorni. Un umile strumento di lavoro, certamente. Ma senza
strumenti adatti non si riesce a comunicare un bel niente e le migliori
intenzioni restano chiuse dentro.
Il tempo gioca per noi. Le “nuove tecnologie” non sono più l'internet, su
cui già ci muoviamo. Sono i giornali elettronici, gli e-magazine, gli e-book,
l'info elettronica di seconda generazione.
E' il nostro terreno, per capacità e competenza; ha costi alti per un piccolo
gruppo come il nostro ma non per tanti gruppi messi insieme; ha un
personale già attivo, operante e - per quanto diviso - ben sperimentato. La
strada è questa, e fra due o tre anni al massimo si incontrerà (ora sì) col
mercato.
***
Il “quadro politico”, come si dice, non è bello. Le opposizioni hanno
salvato Berlusconi, puntando su Fini e Barbareschi invece, come sarebbe
stato logico, che sugli operai della Fiat.
Tanti anni fa il Manifesto scriveva “Praga è sola”. Oggi è sola la Libia.
Non solo per le complicità del governo ma per lo strano torpore dei giovani
italiani. Massacrano folle intere a pochi chilometri da noi, un Pol Pot qui
davanti: e non reagisce nessuno, non dico nei palazzi ma nelle piazze e nelle
università.
La prossima scadenza politica, l'unica vera, è lo sciopero generale indetto
dalla Cgil. Arriviamoci pronti, senza creare disordini ma sapendo che è
l'ultima occasione. La tappa dopo potrebbe essere già la disobbedienza
civile.
17 marzo 2011
L'UTOPIA DELLO STRUZZO
E CHI CI BAGNA IL PANE
Il “mercato”, il consumo e il “progresso” illimitati vanno benissimo per i
Grandi Animali, ma sono la morte per noi comuni esseri umani. “E' sempre
stato così”. Sì, ma qua finisce male
“No all'emotività! Forza, nucleare!”.
Sarebbe facile polemizzare col nostro signor governo e la nostra
confindustria che, mentre i tedeschi chiudono le centrali e i giapponesi
cercano disperatamente di salvarsi la pelle, non sanno dire altro che “E'
successo qualcosa?”.
Facile, ma in fondo ingiusto. Perché la bestialità della nostra orribile
classe dirigente, la più disumana e la più ignorante che questo disgraziato
Paese abbia mai avuto, fa leva sul nostro sogno, sulla nostra inespressa ma
convintissima utopia: che possiamo andare avanti tranquillamente così,
sfruttando sempre più la natura, picchiando chi riceve di meno e ruttando
felici in un dopo-pranzo sempre più inacidito.
Non è così. Il Giappone, molto più civile e tecnologico di noi, era
sopravvissuto a duemila anni di terremoti e tsunami: e adesso sta crepando
semplicemente perché (a dispetto di una sua cultura antichissima, bollata
come “”vecchia” e “superata”) s'è messo a costruire centrali nucleari in
mezzo alle faglie sismiche. Modernissime, “sicure”, dotate (tranne quella
mantenuta in servizio per le pressioni dei politici) della migliore tecnologia.
E sono saltate per aria.
Perché?
Per lo stesso motivo per cui si rompe un vaso in una stanza in cui si gioca
a pallone, per semplice statistica: prima o poi.
E perché, se lo sapevano, non si sono organizzati? Per semplice rimozione
mentale, come lo struzzo: per eliminare il pericolo non bastava “rendere più
sicure” le centrali (o mettere il vaso un po' più in alto), bisognava abolirle
del tutto (“Bambini, in questa stanza non si gioca a pallone”).
Ma questo avrebbe significato treni un po' meno veloci, automobili un po'
meno grosse, e così via (“Ahhh... cattiva mamma! Non ci vuoi fare
giocare!”). La gente, non solo i politici, non l'avrebbe accettato. La stessa
gente che adesso è intenta a razionarsi l'acqua e a seppellire i morti.
“Il Giappone è lontano”. No, il Giappone è qua. Intanto, perché fra un
anno probabilmente dovremo stare più attenti all'acqua che beviamo,
all'insalata che mangiamo e così via (e già c'era da stare attenti prima).
Poi perché la crisi economica (l'economia è mondiale) sarà tremenda e la
pagheremo, anche qua, noi semplici cittadini.
E poi perché il modello Giappone (con molta più rozzezza e intrallazzo,
all'italiana) è esattemente il nostro, quello in cui viviamo: comprarsi più
giocattoli, fregarsene della natura, manganellare i poveri, sedare con
chiacchiere e botte le spaventate proteste (“Che avvenire ho?”) dei nostri
figli. Illudendoci che funzioni, che vada avanti.
L'utopia dello struzzo: testa sotto la sabbia, chiappe all'aria, convinto che
il pericolo è lontano e che tutto va bene.
Non serve una “svolta politica” (certo che serve, e subito: ma non basta).
Ci vuole proprio una svolta di sistema. Socialismo, buddismo, impero
Ming? E che ne so: io voglio semplicemente salvarmi la pelle, e voglio non
essere pisciato addosso nella mia tomba da mio nipote - se sopravviverà e
se ci saranno ancora delle tombe.
Voglio che cambi parecchio, e non solo alla superficie, e anche alla svelta.
La mia vita, e quella del mio nipotino, non può restare in balia di pazzi
politici, terremoti, multinazionali ciniche ed economie senza controllo. Per i
terremoti non ci possiamo far niente. Ma per il resto sì, e dobbiamo
sbrigarci perché c'è poco tempo.
***
Che notizie stranissime (lette vent'anni fa) eppure normalissime (adesso)
sui giornali. “Tragedia in mare, 40 emigranti annegati”. Ma perché non
avevano una nave più sicura? Perché non prendevano il traghetto? Ah: ora è
vietato.
“Sta vincendo Gheddafi. Il re saudita manda i soldati contro la folla”. Ma
non stava arrivando la democrazia, anche lì? Ma non eravamo tutti contenti
per questo? Ah: però il petrolio a noi ce lo dava il re saudita e Gheddafi, e
quindi tutto sommato stiamo appoggiando loro.
“Operai Fiat. Non se ne parla più”. Ma non era la più grande industria
italiana? Ma davvero la lasciate finire all'estero così? E tutti 'sti lavoratori, e
i vostri figli, davvero debbono spaccarsi l'anima tutta la vita così, a lavorare
in caserma, senza diritti? Ah: è il management moderno, è il mondo nuovo.
***
Buone notizie? Vi do anche quelle, ma a patto che non vi servano (sotto la
sabbia) a tranquillizzarvi ma a svegliarvi un po'. Libera ora fa il suo
convegno, il 19 a Potenza, convegno nazionale da tutto il Paese. Chi ci può
andare ci vada: è un po' moscia Libera da un po' in qua, ma è pur sempre la
più grande organizzazione antimafia, il nostro - di noi antimafiosi “sindacato”: criticatela, dunque, ma fatela diventare sempre più forte e
portatela avanti, ché là dentro c'è iun pezzetto di tutti noi.
L'altro sindacato, la Cgil, ci chiama invece a raccolta per il sei maggio, lo
Sciopero Generale. Sarà una giornata importantissima; probabilmente, in
bene o in male, il giorno della svolta. Anche questa è antimafia, e speriamo
che la Cgil lo capisca. Comprendiamolo noi per intanto, con l'esperienza
che abbiamo, profondamente.
Dai giochi dei politici – per lo più in buona fede - non aspettiamoci
niente. Non è che non vogliano, è che semplicemente sono su un altro
pianeta. Dal pazzo Berlusconi all'astuto Fassino, dal generoso Vendola al
machiavellico Fini, nessuno ha mai dormito alla stazione né sa quanto costa
una scatoletta di tonno. Noi sì.
Noi non siamo col popolo. Siamo nel popolo, una parte minimissima di
esso. Con tutte le sofferenze, ma senza illusioni, dell'umanità quotidiana del
paese. Per questo “facciamo politica”, a modo nostro e con serietà, e la
facciamo bene.
Bisogna abolire la mafia. Bisogna cambiare il sistema. Bisogna pensare a
vivere diversamente, con meno giocattoli ma più felici. Bisogna pensare al
mio nipotino e a tutti gli altri Lorenzi, ché già la vita umana è difficile e non
occorre aggiungerle altri dolori. E tu forza, sorridi, amica mia: adispetto di
tutto, una volta ancora, come la natura o il dio hanno costruito, fra poco è
primavera. Aggrappiamoci a questo, lottiamo per difenderlo e farlo
continuare.
30 marzo 2011
BANALITÀ DEL BENE
E VECCHIA EUROPA
Adesso dobbiamo scegliere, un'altra volta
Scoppia la guerra, salgono le Borse. Dimenticato il Giappone. La guerra
fa volare i listini.
Cernobyl è in pieno svolgimento. Ma sta nelle ultime notizie.
“Terremoti punizione di Dio, come a Sodoma e Gomorra”.
Di tutte queste notizie (moderno, postmoderno, medioevo) non è che il
Sistema non vi informa: il Sistema non occulta più quasi niente. Ma ne
nasconde il contesto, le affoga nel flusso indistinto del villaggio globale.
Perciò, concretamente, ve le sta nascondendo.
Al tuo bambino, non a un bambino qualunque dall'altro lato dello
schermo, cominciano ad avvelenare il latte, nella “normalità”. La guerra è
soldi, non nei regimi imperiali dell'Ottocento ma ora, nel soffice lieve
mondo dei Nintendo e degli i-Pad. E Galileo Galilei (di “punizione di Dio”
parla il vicecapo degli scienziati italiani, De Mattei del Cnr) se tornasse
passerebbe i suoi guai anche oggi.
E tutte queste cose succedono, ma ormai quasi nessuno ci fa caso.
***
E' urgentissimo, è anzi la cosa più urgente e più vitale di tutte, ripristinare
almeno un minimo di informazione. L'informazione non esiste più, è quasi
tutta infotaiment o rumore di fondo. Oscura senza mentire apertamente,
mescolando accortamente le priorità e i contesti, agendo cioè non più (come
una volta) con la censura ma con una compatta egemonia culturale. (Certo,
la censura c'è ancora: internet alla cinese è il sogno di tutti i governi, nostro
compreso. Ma non è più essenziale).
Il Grande Fratello ora è una cosa “simpatica”, da “consenso”; quello
vecchio di Orwell, in confronto, era primitivo. Ma questo funziona assai
meglio, ci separa ancor più dal mondo vero, illudendoci di starci dentro. I
contenuti, in altri termini, sono sempre più “loro”.
In questa situazione non è più la singola notizia strappata, lo scoop, che fa
la differenza; né il giornalista singolo può illudersi di servire a qualcosa. Se
scopre una verità, lo applaudono e gliela usano (Saviano è un esempio) nel
contesto loro. Controllando il contesto, tutto il resto – al massimo – diventa
fiore all'occhiello.
Vi mostrerei – se fossi Philip Dick - il guerriero apache che corre
disperatamente contro il fortino, brandendo il suo arco e le frecce, con
sovrumano coraggio; e a sua insaputa lo riprende una webcam, lo mette in
rete, e un regista lo monta – a sua insaputa – nella fiction del Wild West che
va in onda ogni sera su Fox: “che romantici gli indiani!”. E cade anelante ai
piedi del fortino, felice di aver scagliato un'ultima freccia piumata, mentre
negli schermi tv la sua figura ansante già sfuma nello spot del McDonald
che chiude la puntata.
***
Non basta essere giornalisti, bisogna fare i giornali. “Giornale” oggi è una
parola larghissima, che va dall'Asahi Shinbun (il più grande quotidiano del
mondo, che decontestualizza dodici milioni di giapponesi al giorno)
all'ultimo filmato di Youtube, passando per tutti i modelli di media vecchi e
nuovi (compreso il nostro), senza che ci sia più una tecnologia egemone a
dargli un senso. “Giornale”, oggigiorno, è essenzialmente un contesto. Che
per noi è umanistico, per gli altri è commerciale.
“Ucuntu” (o un raduno di Libera, o un coro alpino) è un esempio di
contesto. “Repubblica” (o una pubblicità di McDonald, o un master in
economia aziendale) un altro. I primi son molto piccoli, “ininfluenti”; ma
hanno radici umane. I secondi sono (qui ed era) egemoni; ma sono dei
prodotti industriali. Ma nella storia è successo molte volte che dei contesti
piccoli, “isolati”, siano alla fine confluiti in un contesto nuovo, generale.
Questo è il nostro lavoro. Non diamo (solo) informazioni; apriamo
soprattutto spiragli su qualcosa che intuiamo oscuramente, di cui sappiamo
solo che è molto grande - e che è già in noi.
Per questo crediamo tanto nella rete - tanti contesti piccoli che
confluiscono in un fiume solo - e nelle tecnologie, che ci danno la
possibilità concreta ed economica di diffondere dappertutto questa idea.
Non si è mai data, nel corso della storia, una tale occasione. Non la
possiamo sprecare.
***
Così, nelle modeste cose che ci tocca ogni giorno di fare, non deve mai
smarrirsi questa prospettiva. A Catania - ad esempio - noi lottiamo in questo
momento sia per salvare le povere scuole dei bambini di quartiere (il Gapa,
l'Experia, gli scout di Librino) che per imporre ai potenti di ritirare le mani
dal Palazzo di giustizia, che di giustizia dev'essere e non di potenti.
Abbiamo storie lunghissime, su entrambi i fronti; il Gapa di San
Cristoforo lavora lì da oltre vent'anni; di una Procura estranea alla città dei
poteri un uomo come Scidà parlava già – perseguitato già allora – da metà
anni Novanta.
Due lotte diversissime, di persone diverse, tipicamente “locali”. Eppure,
vivendole insieme e collegandole alle decine di analoghe, alle centinaia e
alle migliaia di persone che in qualche parte d'Italia si battono per esse,
otterremo alla fine (e questa è l'unica via realistica, non certo quella giocata
nei palazzi) qualcosa di largo e generale; intravediamo un'Italia ben diversa;
un contesto.
***
Esseri umani disperati, a migliaia; la fame, la paura. La soluzione? "La
soluzione? Föra di ball!" sghignazza, con un gesto osceno, il politico
numero uno. “Vengano nella mia terra: noi li accoglieremo” azzarda
timidamente il politico numero due.
Chi ha ragione dei due, e in che contesto? In uno, ma a forza di bombe, si
può “mandar via”, e vivere tutti quanti nella paura. Nell'altro, con il lavoro e
la carità, si può vivere stretti all'inizio, ma in modo sempre più accettabile e
più umano.
Possono crescere, i bambini, bianchi e neri; oppure tirare a sorte (“tu sì tu
no tu no tu forse”) il loro eventuale avvenire. Fra i due contesti diversi,
l'Europa ha già dovuto scegliere altre volte. Scelga di nuovo, adesso;
sperando che stavolta possa vincere la banalità del bene.
Riccardo Orioles e Fabio D'Urso
11 aprile 2011
DOPO DACHAU
PRIMA DI AUSCHWITZ
Il regime è illegale. Traiamone le conseguenze
I tedeschi non cominciarono subito ad ammazzare gl ebrei. Prima
dichiararono che non erano cittadini come gli altri, e anzi probabilmente
neanche esseri umani. Poi cominciarono a vessarli in tutti i modo, cogliendo
qua e là le occasioni per estorcergli del denaro. Nel 1933, “per ragioni di
ordine pubblico”, istituirono dei “campi di raccolta” (Konzentration Lager)
che presto, per brevità, cominciaronmo a essere chiamati semplicemente
“campi” (Lager). Infine, sette anni dopo, esaurito tutto il dibattito e stabilita
la piena incompatibilità fra una “razza” e l'altra, fu aperto Auschwitz
(1940). Qua l'obiettivo era la “soluzione finale” del problema, visto che
tutte le altre soluzioni si erano rivelate insufficienti e, come si direbbe oggi,
“buoniste”: I campi di concentramento in Italia esistono già, e si chiamano
campi temporanei di raccolta. Le persecuzioni sono già in atto da molti
anni, e così pure la teorizzazione scientifica dell'incompatibilità di fondo fra
una razza e l'altra. L'estorsione dei soldi, fra una cosa e l'altra, non è stata
assente: il disavanzo Inps è pagato dagli immigrati, e in più di un'occasione
(per i rinnovi, per le “regolarizzazioni” e chi più che ha più ne metta) la
razza inferiore ha dovuto pagare in moneta la tolleranza della razza eletta.
Manca, finora, la “soluzione finale”. Ma già diciassettemila Untermensch
sono stati annegati (per scelta politica: in mare i bianchi viaggiano su
regolari traghetti) nel nostro bel mare. Ma, quanto a teorizzazioni, non
siamo molto lontani.
Sia Bossi che Goebbels, sia Calderoli che Herr Streicher, hanno fatto
capire in più occasioni che la cosa importante, per gli uomini-non-umani,
non è di sopravvivere, ma di togliersi di mezzo. “Foera di ball”, si dice in
tedesco. Che il resto debba seguire non è una mera ipotesi, ma ragionevolmente - una probabilità molto forte.
Il regime italiano, come quello tedesco del '36, avrà forse consenso (e nel
nostro caso è molto dubbio, visto che lo vota meno d'un quarto dei
cittadini). Ma non è sicuramente legale. Qualunque cittadino tedesco, nel
regime di Goebbels, aveva il diritto - e spesso il dovere - di non tener conto
alcuno delle ingiunzioni delle autorità, trattandosi di disposizioni illegittime,
in violazione delle costituzioni e delle leggi, e soprattutto dei comuni
principi della morale umana.
Maroni, Calderoli, Bossi, Streicher e tutti gli altri razzisti non godono di
autorità maggiore. I loro ordini non hanno peso, nessun pubblico ufficiale o
cittadino è tenuto a obbedire, ed è anzi dovere civico, e doveroso tributo
all'onor militare, boicottare apertamente gli ordini disumani. Lo fecero
carabinieri, Regia Marina, ufficiali del Re, sotto il fascismo. La loro pietà
umana, e il rispetto delle stellette, indicò loro la via del dovere, contro ogni
burocratica – ma vile e illecita “obbedienza”.
Son questi i termini della questione. Il regime è illegale, bisogna
disobbedirgli apertamente. Non per le Rudy e le Noemi, storie tristi e
grottesco che rendono ridicolo ogni italiano nei paesi normali. Ma per la
strage voluta, per la criminale teorizzazione e messa in pratica della
persecuzione sistematica di una “razza”.
In Libia, in Egitto, in Italia stessa i dittatori e i subalterni responsabili
dovranno pagare, quando la legalità sarà ristabilita. Nei Paesi feroci, come
nella Germania d'anteguerra, nulla dovrà restare impunito.
A questo nuovo nazismo dovrà corrispondere una nuova Norimberga. Una
Corte internazionale che giudichi gli stragisti e i i loro seguaci, non a
Ginevra o all'Aja ma in un paese-vittima, a Nuova Delhi, a Brasilia, in una
delle potenze democratiche dell'avvenire.
Si ebbe anni addietro un Tribunale internazionale, presieduto da Lord
Russell, per i crimini contro l'umanità in Vietnam. Bisogna che personaggi
autorevoli, gli scienziati, i Nobel, i sapienti del mondo, assumano
un'iniziativa del genere, in attesa di una vera e propria Corte Penale delle
nazioni. Nulla deve restare impunito e nulla, fin d'ora, deve restare non
denunciato. Perché la politica è finita e quella di oggi - decine di bambini
annegati, per volontà di un regime, e forse di una nazione, è un'altra cosa.
E questo è quanto. Avremmo dovuto scrivere delle ultime risultanze
giudiziarie, da cui emerge che per la seconda volta consecutiva il Governo
della Sicilia è ufficialmente colluso con la mafia. Avremmo voluto scrivere
della disperata resistenza dei quartieri poveri catanesi, della rinascita
dell'Experia (unico presidio civile, in alcuni di essi, oltre al Gapa).
Ma anche questi argomenti, per quanto importantissimi, passano in
secondo piano dinanzi alla drammaticità di questa semplice cosa: viviamo
in un regime illegale.
Non è questa o quella legge ad essere violata, lo sono tutte. Non è questo
o quel crimine di cui accusiamo il governo, il crimine è lui stesso.
Certo: è “estremistico” dirlo, è impopolare, è rozzo. Ma era impopolare
anche a Weimar, era “estremista”. Noi siamo a Weimar, fuor d'ogni dubbio.
L'eccessiva prudenza, in quegli anni, creò milioni di morti.
1 maggio 2011
PRIMO MAGGIO 2011
Di nuovo una giornata seria, uno sciopero
Grazie Renzi, grazie Moratti, grazie tutti voialtri tromboni: grazie a voi il
primo maggio, nonostante il concerto, è tornato una giornata seria, un
quarantotto, uno sciopero, un niente-di-regalato. Ai bempensanti e ai
monarchici fa di nuovo paura. “Sciopero, sempre sciopero! Approfittano
che il governo è troppo buono…”. “Glielo darei io, il primo maggio! Tutti
in Russia da Putin, li manderei!”. “Eppoi, dove sono tutti ‘sti operai,
oggigiorno? Tutti signori sono diventati, stanno meglio di noi, stanno!”. “La
verità è che non c’è più voglia di lavorare, signora mia”.
Ma sì. Aggiungi guerre di Libia, nozze di principi, contrasti diplomatici
con la vicina Francia, miliardari bavosi, corazzate, papi, pellegrinaggi: ma
siamo nell’Ottocento! Un bellissimo Primo Maggio fin-de-siècle, in cui la
Fiat non è ancora (o non è più) una Fabbrica ma una marca di cioccolatini o
un club di finanza allegra: Ottocento! Il Corriere, nell’ultimo elzeviro,
richiama pensosamente all’ordine, ché il momento è complesso; replicano i
giolittiani che bisogna pur pensare anche al progresso; Sua Maestà
ammonisce questi e quelli e in talune città, fra mille difficoltà ma tutto
sommato con sicurezza, nasce una cosa strana, il sindacato.
“Ma davvero potremmo chiedere… venti lire?”. “Ma certo! Tutti insieme,
che ci possono fare?”. “Compagni! In questa giornata noi lavoratori…”.
“Tenente! Favorisca schierare la prima fila!”. “Dammi un bacio, dai!”.
“Perché in tutta la civile Europa le otto ore…”. “Per la seconda volta,
sciogliere l’assembramento!”. “No, no… Leva le mani…”. “Francesi come
prussiani nostri fratelli…”. “In nome della legge, scioglietevi!”. “Disordini
fomentati da agitatori socialisti…”. “Gli storici interessi dell’Italia nel
Mediterraneo…”. “Ohhh….”. “E dai tanto poi ci sposiamo…”. “Tienila su!
Tieni su quella bandiera!”. “Com’è verde l’erba”. “Me la consegni!”. “No, è
nostro diritto!”.
Buio. Colori dietro le palpebre. Corpi in terra. Tempo che passa. Treni,
trincee, rumori. Tempo che passa ancora. Tempo…
***
Bene, nell’Ottocento – per amore o per forza – ci si organizzava. Lo
sciopero. Il sindacato. Il partito. I discorsi insieme. La rivoluzione.
Non si può fare più? Chiedilo alla Tunisia. E’ solo che è una cosa diversa,
un’altra cosa. Non c’è più zar nel Palazzo, è nello specchio. E’ in quel
mondo fasullo in cui ti fanno vivere fra tv e droga. Non usano più baionette
ma favole, non sono più forti di te fisicamente, sei tu che tieni fermo te
stesso con un sorriso felice sul viso assente. Se batti le mani abbastanza
forte – così, un bel “ciaff!” da bambino – magari il rumore ti sveglia.
Quello, o qualche cosa di simile: non una rivelazione o un’idea (che altro
avresti bisogno di sapere?) ma semplicemente uno svegliarti. Un momento
simbolico, basterà questo.
***
Lo sciopero generale, contro la mafia e Marchionne. Il nostro “partito”,
che è la Fiom e Libera e tutto ciò che vive intorno ad essi. Il nostro governo,
i nomi dei nostri ministri e presidenti – gente come Pertini o Caselli, non
gente elucubrata nei palazzi -, la nostra unità nazionale che è quella di Parri
e De Gasperi, del comandante Longo e del Cln. La nostra rivoluzione, coi
lavoratori e le donne in prima fila (disarmati e tranquilli, perché è una
rivoluzione e non un gioco) e le file dei carabinieri che si aprono lentamente
per lasciarli passare. Con una fucilazione di pernacchie, una grande e
liberatoria sghignazzata collettiva. Coi vecchi che si guardano allo specchio,
le puttane che arrossiscono, i procacciatori e i magnaccia che corrono a
nascondersi per un sentimento mai percepito.
Non è possibile, dici? Chiedilo ad Ahmed, a Ridah, ai nostri concittadini
tunisini. O anche a me se ti va, a me che ho visto quei venti mesi del
Sessantotto. Ci uccisero con Piazza Fontana, quella volta. Ma forse
quest’altra volta non ci riusciranno (ora, fra le altre cose, c’è Obama).
Riccardo Orioles
www.ucuntu.org
www.gliitaliani.it
18 maggio 2011
IL "PARTITO" CHE CRESCE
Lo stanno costruendo i giovani. Senza saperlo…
Forse i “moderati” sono una cosa del genere dei fondamentalisti islamici:
fanno, dichiarano, dicono, sono al centro del mondo (sui giornali) ma poi, al
momento del dunque, sono una minoranza non rilevante. L'Italia no si
divide infatti, a quanto risulta, semplicemente fra santanchisti e gente
normale: questi ultimi, a quanto pare, sono la maggioranza. E finalmente.
La gente normale, in Italia, ha sempre avuto etichette un po' stralunate:
comunisti, radicali, estremisti e chi più che ha più ne metta (io
personalmente a sedici anni ero comunista perchè mi sembrava strano che i
braccianti, giù da noi, dovessero dormire sui cannicci per terra). Ma era solo
un modo di chiamare (un po' perché les bourgeois si spaventavano, un po'
perché noi ci divertivamo molto a spaventarli) le cose che nel resto d'Europa
erano normali.
La tv serve principalmente a far sì che la gente normale e le cose normali
appaiano strane, e normale invece il pazzo che si crede Napoleone. L'Italia è
l'unico paese al mondo dove la tivvù sia andata al governo, e ci sia rimasta
per vent'anni.Questo spiega perché, ai congressi internazionali di
psichiatria, ci sia sempre qualcuno che, con gravità professorale, dice cose
spiacevoli su noi italiani. Al prossimo congresso, speriamo adesso, il suo
intervento sarà più breve, anche se ci vorrà molto tempo prima che venga
abolito del tutto.
***
La sinistra che vince – perché è la sinistra che ha vinto, non c'è il minimo
dubbio: il terzo polo è trascurabile e Fini un bluff – è una cosa stranissima, a
osservarla da fuori. Vendola, De Magistris, i grillini, la parte “buona”
(Bersani) del Pd vengono da storie diversissime, e si stupirebbero molto se
qualcuno gli dicesse che in fondo sono facce diverse della stessa cosa. La
“cosa” è la crisi della vecchia sinistra e la travagliatissima formazione di
quella nuova.
Il qualunquismo rivoltoso dei grillini, il culto della personalità dei
vendoliani, la rudimentalità dei dipietristi, la goffaggine dei “sinistri
federati”, l'ambiguità programmatica di Bersani, non sono dati politici, sono
semplicemente gli annaspamenti di gente che vorrebbe nuotare, ma non si
decide a staccare i piedi dal fondo. La storia vecchia è finita, la nuova
ognuno s'illude di trovarla da solo. Non c'è ancora esperienza di storie
collettive; l'unica cognizione comune (ma è già moltissimo, qui e ora) è che
bisogna muoversi, che il tempo dell'impotenza è finito.
In questo c'è molto Ottocento, prima dei socialisti. Sette, partiti, gruppi,
ribellioni con troppe “linee politiche” o nessuna. L'unica cosa comune (ma
non percepita) era – banalmente – l'età. “Non prenderemo nessuno – disse
uno di loro – che abbia più di quarant'anni”. A partire da questo, si potè
andare avanti.
***
E anche adesso è così. Non per la sciocchezza del sindaco giovane o del
candidato ventenne (Renzi, politicamente, è tanto anziano quanto Emilio
Fede o la Santanché) ma perché è il collante di tutto, ed è profondo.
Il grillino di Bologna, il giovane Pd di Trento o Genova, il rifondarolo di
Catania, l'attivista elettorale di Pisapia e quello di De Magistris hanno in
comune questo, al di là delle (poche) cose mature che dicono e delle (molte)
cazzate che li impacciano: essi sono una generazione. Se riusciranno a
riconoscersi, a esprimere un “partito” nei prossimi due o tre anni, l'Italia
sarà salva. Altrimenti resterà il rimpianto.
***
L'Italia, in questi vent'anni, è stata attraversata da due cose. La prima, la
ristrutturazione del sistema economico da industriale a finanziario. La
seconda, il passaggio da patologia a fisiologia delle sue componenti
mafiose. Le due cose hanno relazione fra loro. Hanno prodotto, fra l'altro, la
“seconda repubblica” (in mano non ai politici, ma agli imprenditori), la fine
del lavoro (sostituito dal precariato), l'eliminazione della proprietà pubblica
(privatizzato tutto, fino alla scuola), l'uscita dall'Occidente (Libia, Russia) e
ovviamente da Keynes.
Il punto in tutte queste cose s'intersecano, quello su cui bisogna avere le
idee chiare e chieder conto, è la Fiat. Che cosa ne pensa Beppe Grillo (e il
suo – non innocente – cervello politico, Casaleggio Associati)
dell'abolizione del sindacato? E Bersani (e i giovani di Bersani) da che parte
starà, prima o poi, con la Cgil o con Fassino?
Nella città precaria che è Napoli, De Magistris cercherà alleati a Torino o
si barricherà là dentro? Vendola impernierà la sua strategia sugli operai o
continuerà a farne solo un caso umano? I “comunisti” riusciranno a ripercepire la lotta di classe, a capire che la falcemartello, per gli edili di
Roma (che sono quasi tutti rumeni) era il simbolo sul berretto dei poliziotti
rumeni?
Da queste domande dipende tutto. Non dalle risposte che verranno date
(saranno, di necessità, ambigue e lente) ma da chi le farà. Se le faranno i
giovani, e in concordanza fra loro, trasversalmente, allora il “partito” loro
nascerà bene. Tutti i “partiti” storici – che solo raramente hanno un nome –
nascono infatti molto più dalle buone domande che dalle risposte.
***
Cos'abbiamo in comune, oltre a Berlusconi? Che cosa tutti noi abbiamo
fatto, nei momenti migliori, senza sostanziali differenze? Che cosa potrebbe
unirci, noi della nuova repubblica, come nella prima ci unì la Resistenza
antifascista e il suo ricordo?
Risposta: l'antimafia. E' il movimento antimafia il filo rosso, comune a
tutti noi, di questi due decenni. Fra ingenuità, goffaggini, e anche qualche
salotto e qualche arroganza (ma anche l'antifascismo repubblicano ne ebbe)
esso è nel suo complesso una storia giovane, sana nei suoi fondamenti e
persino nei suoi errori.
Bisogna votare subito. La Santanchè e la Lega sono minoritari nel Paese.
Vincere i referendum, e poi da Napolitano a chiedere elezioni.
Bisogna votare uniti. Al referendum è facile. Anche le elezioni politiche,
dobbiamo trasformarle in referendum. Una lista unitaria, antimafia e
antiprecariato, con un candidato unico di immenso prestigio e chiarezza, un
Pertini.
(Ucuntu sta uscendo in ritardo per mia colpa. Ma utilizzatelo tutti, è la
vostra voce)
20 maggio 2011
Roberto Morrione
UNO DI NOI
Giornalista e compagno. Giornalista perché serviva onestamente il suo
pubblico, dandogli le notizie. "Compagno" perché era della vecchia Italia
povera e popolare. In Rai (aveva cominciato con Enzo Biagi) fu l'unico a
dare l'intervista di Borsellino su Berlusconi, e a darla subito, mentre gli altri
ancora si chiedevano se fosse compatibile, dare una tale intervista, con la
carriera. Professionista fino alla fine, soprattutto alla fine. Quando finì con
la Rai non perse tempo con salotti tv e nostalgie ma si buttò a fondare un
nuovo giornale: Libera informazione, il giornale di Libera, non su carta
naturalmente ma sulla Rete.
Lo riempì di ragazzi, alla Giuseppe Fava. Molti venivano dal Rita
Express, il movimento nord-sud che rinnovò l'antimafia (e la politica) a
metà del decennio; nessuno ebbe la lucidità di prenderlo sul serio, oltre lui.
Ne fu maestro fedele e rigoroso, senza demagogie. Ne fece una redazione
agguerrita e aggressiva, pronta a fiondarsi appertutto, su ogni verità da
raccontare.
Tutti gli uomini muoiono, prima o poi, è la nostra vita. Alcuni, vip e
notabili, lasciano poco e niente: cerimonie e rumori. Altri, che credevano in
altro, lasciano cose fatte, affetti, esseri umani, e buon lavoro da continuare.
Roberto continua così, nei giovani che lo seguirono, e che sono nostri
colleghi. Hai fatto bene ad aver fiducia in loro. Il lavoro sarà continuato.
Riccardo Orioles, I Siciliani
7 giugno 2011
QUESTO REFERENDUM E' UN'ELEZIONE
Napoli, Milano, referendum: tre fasi della stessa tornata elettorale
Le maggiori società industriali quotate in Borsa a Milano hanno chiuso il
2010 (analisi R&S-Sole24Ore) con un aumento medio del margine
operativo netto del 19 per cento, e dei profitti del 29 per cento. Il margine
della Fiat sale del 108 per cento ma la sua quota di mercato è scesa, in Italia,
del 30 per cento. Marchionne, in altre parole, ha perso un terzo delle
vendite, ma ha raddoppiato i profitti.
Ecco: il dato della politica italiana è tutto qua. Questi diciassette anni non
sono stati gli anni di Berlusconi (anche), sono stati principalmente gli anni
degli imprenditori. Elegantemente col centrosinistra, rozzamente con le
varie destre, la Confindustria ha gestito il Paese ininterrottamente e a modo
suo. L'industria (che rende meno della finanza) se n'è andata; il precariato
ha sostituito il lavoro; è stato privatizzato, cioè regalato a privati, tutto il
privatizzabile tranne (finora) i carabinieri. Le principali catastrofi sono state
portate a compimento dalla destra ma cominciate, con le migliori intenzioni,
da noialtri: la “riforma” dell'università comincia negli anni '90, e allora non
c'era ancora la Gelmini.
***
Gli italiani, a Milano e a Napoli, hanno votato (o non sono andati a
votare, come hanno fatto molti elettori di destra) soprattutto su questo.
Hanno votato bene, perché i partiti e i politici non sono tutti uguali; c'è una
gran differenza fra un teppista alla Bossi e un brav'uomo come Bersani. Ma
di Fiat, nel complesso, non s'è parlato.
C'è nostalgia per la Repubblica, per tempi di minore ferocia e più civili;
gli operai vanno trattati meglio, la mafia è una cosa brutta, l'Italia deve
restare unita, non bisogna portarsi a letto le ragazzine. Ma di precarietà e di
fabbrica s'è parlato – concretamente – molto poco. A tutt'oggi nessuno ha
preso concretamente posizione contro Marchionne e se qualcuno parlasse di
nazionalizzare la Fiat (cosa che in Germania sarebbe stata probabilmente
presa in seria considerazione) verrebbe preso per matto o peggio per
comunista.
Eppure, quello è il cuore di tutto. La Fiat, nel giro di pochi mesi, ha
completamente distrutto il sistema industriale italiano, sia nei diritti che
nella produzione, e il suo esempio è stato entusiasticamente seguito da quasi
tutti. La Bialetti, poche settimane fa, ha delocalizzato non più in Cina (cosa
ormai ”normale”) ma in India: un'altra ferita che si apre, e che verrà
allargata.
Secondo una della principali società di consulenza finanziaria,l'Italia sarà
superata economicamente dall'India prima del 2030; e poco dopo dal
Brasile, e molto prima dalla Cina. Con le nostre industrie, col nostro knowhow, con i nostri capitali. Noi ci accaniamo contro gli immigrati – falso
problema – e mostriamo molta e nuova ferocia in questo; ma fra una
generazione o meno, continuando così, sui gommoni rischiamo di finirci
noi.
***
Questo referendum è una elezione politica, come le amministrative di
Napoli e Milano; è inutile nascondere la realtà con un dito. Si vota pro o
contro il governo, in primo luogo; si vota - ma solo indirettamente, per ora –
pro o contro il mantenimento del catastrofico sistema attuale, che non è più
capitalismo ma qualche altra cosa. Sarà una decisione difficile, e per
prenderla ci vorranno degli anni; ma il processo, a mio parere, è già
cominciato e la gente, anche se non ha le parole, comincia ad averne la
percezione e il sentimento.
La sinistra, per caso (per amore o per forza, a Napoli e a Milano) ha
raggiunto un assetto che a me sembra vincente, pur nella sua ambiguità
sostanziale. Il Pd fa da bastoncino dello zucchero filato, e attorno gli si
attorciglia la società: quella di Vendola, quella di Di Pietro, quella di Beppe
Grillo (sì, anche quella, alla base). Tutti questi pezzi sono vari e rozzamente
rappresentati (il personalismo dei tre suddetti, da solo, meriterebbe lunghe
meditazioni) ma nel complesso funzionano. Bersani, persona seria e non
gonfia di sé come Veltroni, ha capito il gioco e si lascia portare.
Questo significa la fine di Berlusconi, lo sfascio del suo asse sociale
(nessun candidato leghista, a Milano, ha preso più di qualche decine di
preferenze, tranne un paio di caporioni) e l'individuazione plateale, non
nascondibile, di una maggioranza nuova. Quest'altra maggioranza in parte è
di sinistra, in parte ha semplicemente paura. Su questo giocherà la
Confindustria per fare il suo governo (probabilmente Tremonti), che sarà
“d'unità nazionale”.
Ma anche Badoglio lo era. Non durò a lungo perché la sinistra d'allora
seppe mettere insieme la massima unità e “moderazione” ideologica con la
massima radicalità nella lotta (“non aspettiamo più, diamo addosso ai
tedeschi”).
Allora la sinistra era semplice, concentrata quasi tutta in un solo
(rudimentale) partito. La sinistra di ora (oh, se volete chiamarla in qualche
altro modo fate pure, è lo stesso) è complicata, è profonda, è difficile, e
soprattutto non avrà mai più un unico partito – per fortuna. In compenso, ha
l'internet. E questo dovrebbe bastare.
***
Fiat o non-Fiat, mafia o non-mafia, non sono le fantasie di qualcuno, sono
le domande profonde a cui ciascuno di noi gente comune deve ormai
rispondere, nel corso della sua vita quotidiana. La politica è sempre nata da
queste domande, in realtà. E così alla fine succederà anche ora.
22 giugno 2011
RIVOLUSSIONE…
Cos'è una rivoluzione, oggigiorno? Perché è nonviolenta, perché si può
fare
Giusto, ha vinto internet. Ormai è banale dirlo ma queste tre elezioni
(Milano, Napoli e i referendum) sono la data di nascita del “partito” nuovo,
della nuova organizzazione di massa. Il “L'avevo detto” è irrefrenabile
(penso al San Libero di dieci anni fa), ma in fondo è sciocco: non ci voleva
granché per capire che cosa si stava preparando, bastava tenersi fuori dal
ceto politico riconosciuto e, pagandone i prezzi, ragionare.
Hanno perso gli imprenditori. E' dalla “Milano da bere”, dunque dagli
anni Ottanta, che la politica si ufficializza sempre più in un pensiero: il
Paese è un'azienda, le aziende lo compongono, e tutto il resto è contorno.
Neanche il pensiero di Mao era stato così categorico e indiscusso.
I nuovi imprenditori italiani, in buona parte, sono stati – parlano i conti –
la zavorra dell'economia italiana. Hanno rosicchiato un'industria
faticosamente costruita negli anni duri, hanno mandato all'estero macchine e
mercati, ci hanno trasformato - per pura avidità, senza accorgersene – un
dignitoso paese industriale in un pastrocchio indefinibile fra postsovietico e
terzo mondo. Le magnifiche sorti e progressive.
Abbiamo sfiorato il nazismo, in questi anni, e se ne leggeranno le
cronache, anni dopo di noi, con un senso d'orrore.
***
In questo disastro, creato dai possidentes, imposto a colpi di tv e mafia
dalla destra e vaselinato dai leghisti, le colpe della sinistra sono tremende. Il
medioevo sociale di Berlusconi - precariato, privatizzazioni selvagge,
università, scuola – è cominciato col centrosinistra, che di queste “riforme”
andava fiero e orgoglioso.
Solo quando la gestione è passata alla destra, e le poche carote sono state
sostituite dai bastoni, il centrosinistra (non tutto) ha cominciato ad
accorgersi del danno fatto. La privatizzazione dell'acqua, ad esempio,
nacque anche in Sicilia, con Bianco il “riformista”, e venne portata avanti
da una lobby precisa dentro il Pds.
Adesso questo è finito, almeno ora. Bersani si è impegnato onestamente
sui referendum, ha sostenuto a spada tratta posizioni che due anni fa
avrebbero spaccato il partito, si è dimostrato coi suoi paciosi “ohè ragassi”
un leader molto più serio e affidabile dei magniloquenti e catastrofici
Veltroni e D'Alema.
Ma anche lui non osa prendere posizione sulla Fiat (qui ci si spaccherebbe
davvero, con un Fassino che sta a Marchionne come una volta Cossutta a
Breznev), persino dire “stiamo con gli operai” è troppo pericoloso, in un
partito nato esattamente dagli operai della Fiat, cent'anni fa. E va bene.
Inutile piangere sul latte versato: meglio pensare che la sinistra ufficiale
in questo momento è la meno peggio che si vede da molti anni, con ali ben
distinte fra loro ma non nemiche, con personalismi assai forti (Vendola, Di
Pietro, Grillo) ma tutto sommato controllabili, con una dura opposizione al
governo attuale - non al sistema che l'ha prodotto - e con la vaga sensazione
che forse privatizzazioni e precariato hanno qualche piccolo difetto.
Va bene, non si può chiedere troppo dalla vita: questo può darci oggi la
“politica”, ed è già tanto.
***
Al resto, dobbiamo pensarci noi, con altri mezzi. Quali? Ohè ragassi, ma
la rivolussione naturalmente!
Aaaargh! Nel duemila e passa! Queste parole orribili! Queste... queste
cose selvagge e sanguinolente! Queste cose impossibili, fuori dal tempo!
Momento. Le rivoluzioni nel duemila si possono fare, e si fanno
benissimo difatti. Vedi Egitto, vedi Tunisia e un pochino forse anche
Milano. Le rivoluzioni oggi possono essere nonviolente (debbono esserlo,
perché lo zar non ha più i cosacchi ma le televisioni) e non sono meno
rivoluzionarie per questo (chiedetelo a Obama).
Rivoluzione vuol dire uscire coscientemente dal vecchio sistema e
organizzarsi direttamente alla base, con sistemi nuovi. Discutere ma fare
anche eventi di massa. Quali sono le bastiglie oggi? I palazzi d'inverno?
Non hanno mura e cannoni, ma ci sono lo stesso; non più in una singola
piazza, ma diffusi.
Quella dozzina di liceali che organizza la lotta per l'acqua, in un paesino
della Sicilia, e solo dopo si rivolge (se si rivolge) ai partiti, è rivoluzionaria;
e alla fine vince. Quel gruppo di studenti a Milano, che parla di
informazione e, saltando i decenni, riparte da Giuseppe Fava, è
rivoluzionario; altro che Vespa e Santoro.Quella ragazza sveglia,
frequentatrice dei Siciliani anni '90, che dopo anni organizza il primo
sciopero degli immigrati, è rivoluzionaria.
Si unissero tutte queste forze fra loro, facessero corpo insieme,
sprizzassero scintille: che cosa sarebbe questo, se non una rivoluzione?
***
Cìè un unico ostacolo serio, ed è la nostra insufficienza. Insufficienza
culturale, non di forze. Stiamo perdendo tempo, stiamo perdendo occasioni.
Ricordate com'è cresciuto Berlusconi? Con un progresso tecnico,
l'emittenza locale. E' là che - per colpa nostra - ci ha battuto. Eravamo molto
più forti di lui, negli anni Settanta, in questo campo. Duecentocinquantatrè
radio libere di sinistra (una era quella di Peppino) e mezza dozzina di tv.
Queste sono state date via perché tanto c'era già il nostro spazio Rai. Quelle
non riuscivano mai a coordinarsi fra loro, neanche per un momento, e
passavano il tempo a giocare a “rradio-rrossa-alternativa”. Intanto
Berlusconi macinava.
E' quel che sta succedendo oggigiorno. Abbiamo scoperto l'internet, ci
abbiamo galoppato come i Sioux delle praterie. Ma gli altri lo colonizzano,
in compagnie e reggimenti e con l'artiglieria. E noi continuiamo a
galoppare, ognuno nella sua valle, allegramente.
***
Su che cosa sarà il prossimo referendum (è ovvio che bisogna farlo)? Sul
precariato, per caso? Ci saranno elezioni? Quando ci faranno votare?
L'accordo Confindustria-Tremonti sostituirà Berlusconi, o ci sarà spazio per
una soluzione “milanese”?
La Lega sparerà, o si limiterà alle parole? Noi saremo un “partito”, o solo
un'occasionale massa elettorale?
Quante domande, che un mese fa non esistevano... Il mondo va assai di
fretta di questi tempi. Non restiamo a guardare.
6 luglio 2011
BUONE VACANZE, ANZI NO
C'è tanto da fare, proprio ora…
Spero che siate in vacanza, tutti meno quelli che portano avanti siti, blog,
movimenti e roba varia. Siete infatti l'unica forza concreta di questo paese. I
politici, per quanto benintenzionati, sono dilettanti: Di Pietro che fa i
capricci, Vendola sì-e-no, Veltroni che vuole i referendum ma nel Pd, Grillo
che oggi è Mao e domani Fantozzi...
I cattivi, purtroppo, in vacanza non ci vanno mai. Noi abbiamo
dimenticato il G8, ma loro no, e infatti ci riprovano a ogni occasione. Noi
non riusciamo a fare una rete unita, e loro appena possono ce la strozzano
coi bavagli. Noi ci accapigliamo sul sesso dei diavoli e loro, ridendo e
scherzando, preparano golpe alla vaselina.
Gli operai, in vacanza ci vanno poco e male. Quelli più fortunati (i
polentoni, i terroni al nord e tutti gli altri “perbene”) ci vanno col cuore in
gola, non sapendo se ritroveranno la fabbrica (svanita in Cina, in India, o
semplicemente in cocaina) e se dovranno lavorare il doppio o solo qualche
ora in più.
Per tutti gli altri – callcenterine romane, neri, terroni al sud, muratori
rumeni – la parola “vacanza” è una di quelle a cui anche solo pensare è
pericoloso, come “pensione”, “contratto”, “orario” o “avvenire”.
***
Ecco, è un'estate così. Ma non stava vincendo il centro sinistra? Ma
Berlusconi non stava andando a ramengo?
Sì, nei giornali è così. Ma nella realtà non ci sono solo la destra e la
(centro)sinistra, c'è anche chi sta sopra e chi sta sotto. Lo scontro vero è
quello, anche se è maleducato parlarne. Ma tutto ciò che succede,
Berlusconi o Bersani, lega o tricolore, ha un senso solo se chi sta sotto
comincia a salire un poco, e questo non lo decide la “politica” ma altre cose.
I guai in famiglia non mancano, siamo sinceri. C'è lite fra Cgil e Fiom,
cioè fra il sindacato “politico” e quello degli operai organizzati. Noi – fra
amici si parla chiaro – diciamo che ha ragione la Fiom, pane al pane. Fa
male la Camusso a trattare su cose senza le quali né gli operai né il Paese
possono campare.
Ma non di tradimento si tratta, bensì di errore: uno dei tanti sbagli in
buonafede di cui è costellato il cammino (né sarà l'ultimo) dei lavoratori.
Non è un pranzo di gala, diceva il tale. L'importante è che almeno qualcuno
abbia le idee chiare e non si lasci scoraggiare e abbia pazienza, e poi la dura
realtà – l'unica maestra seria – farà il suo lavoro.
Ricordo quell'operaio cinquantenne, si chiamava Bastiano, il più
diffidente della fabbrica. “Sciupirari? e picchì? cca concludemu? 'A fuorza,
simpri iddi ci l'hannu!”. Eppure, quando occupammo la fabbrica, era
davanti al cancello, in prima fila: “Non si campa cchiù! Che vita è? Pissu
ppi pissu, facemu a luttacontinua tutt'insemi e quannu finisci si cunta!”.
***
Nella crisi Marchionne (su cui insistiamo moltissimo perché è il centro di
tutto, sia della “politica” che della realtà vera) c'è stato un episodio
trascurato dai media, ed anche dalla maggior parte dei blog indipendenti. E'
stato quando gli operai della Fiat serba, quella che doveva far da crumira a
Mirafiori, a un certo punto propongono ai torinesi: “Bene, allora
incontriamoci e mettiamoci d'accordo. Magari organizziamo qualcosa
insieme. Visto che il padrone è lo stesso...”
Non è che siano stati presi molto sul serio. Normale, nell'ottocento (siamo
nell'ottocento, lo sapete). Normale ma non scoraggiante – all'inizio le cose
vanno piano. Fatto sta che per la prima volta è stata messa sul tavolo,
elementare ingenuo e tutto quel che volete, l'idea di uno sciopero
multinazionale.
E' un'idea pericolosa, specie se messa insieme (e qualche operaio ci
penserà, ci puoi giurare) con l'altra di organizzarsi in rete (Tunisia, Milano)
per fare cose “politiche”, più o meno moderate. Io dico che andrà così,
prima o poi. “Uno inventa la tipografia e quegli zozzoni di operai dopo un
po' ne approfittano per farsi i volantini. Si figuri con internet, signora mia”.
***
Succedono tante cose, nel mio paese. Al Nord i volontari cattolici
spazzano via la Lega. A Parma i cittadini che due anni fa lodavano i vigili
che picchiavano i negri ora linciano il sindaco di cui hanno scoperto, poveri
innocenti, che è un po' ladrone. A Napoli, la città più “qualunquista” d'Italia
(giusto, signora mia?), dànno a De Magistris esattamente gli stessi voli di
trent'anni fa a Bassolino: traditi ma non arresi, non rassegnati affatto al “non
c'è nulla da fare”.
A Roma “consulitur”, ma Sagunto non si lascia espugnare affatto. Questo
è il clima.
***
Tutto questo si unisce in un concetto semplice: facciamo rete.
Dappertutto, e senza etichette. Abbiamo un modello vincente, è l'antimafia.
Senza etichette e chiacchiere (e quando ne ha di solito sono dannose), è il
movimento-locomotiva di tutti gli altri. Vi serve un programma politico?
Tre parole: Dalla Chiesa e Impastato.
E poi non mollate i siti, continuate a remare. Certo, ciascuno di noi è
moralmente giustificato quando non ce la fa più e molla il remo. Tutto così
pesante, nessuno a dirti bravo. Eppure dobbiamo continuare. Non siamo più
stretti in difesa ma stiamo costruendo - ora - l'alternativa.
***
Io dico “siti” perché sono vecchio e mi pare di dire chissà che modernità.
Ma in realtà le cose sono molto più avanti, e a portata di mano. Per
esempio: c'è la tv guarda-e-dormi che sta morendo, per colpa non di Santoro
ma di i programmi divertenti su YouTube (“Freaks” ha preso milioni di
accessi, e con quattro soldi). C'è la destra che è morta, e sono i gruppi FB
che l'hanno seppellita.
C'è il centrosinistra che non osa essere troppo di destra (e Dio sa se
vorrebbe) per paura di restar solo. C'è Repubblica che migra sempre più da
carta a rete (sempre restando saldamente in mano a un padrone) applicando
i suoi soldi alle nostre idee. Ma soldi non ce ne vogliono poi tanti. E noi
stiamo qui a fare (solo) il nostro sito?
(PS: A Catania Tony Zermo ha appena benedetto il nuovo sindaco, un
giovane “di sinistra” assai ragionevole. Il suo rivale – o alleato, non s'è
capito bene – è un giovane “di destra” altrettanto ragionevole. Danno
interviste insieme, fraternamente. Entrambi sono amici delle costruzioni
ragionevoli (corso Martiri, ad esempio), entrambi ragionevolmente ben
trattati da Ciancio. Auguri...)
19 luglio 2011
PERCHÉ NON TUTTI INSIEME?
RETE, TECNOLOGIE E UNITÀ
“Aiutati che Dio t'aiuta”. E certo non ci aiuteranno, in Sicilia, gli
imprenditori o i rettori...
Omen nomen: si chiamava Recca l'editore che licenziò Giuseppe Fava (e
poi me) dal Giornale del Sud, giusto trent'anni fa, in una bella estate
catanese come questa. Era un brav'uomo, tutto sommato; ma aveva a che
fare con gli uomini di Graci.
Anche il Recca di adesso, quello che come magnifico rettore ha
imbavagliato d'autorità i suoi studenti sarà una brava persona, sicuramente;
ma “il coraggio, monsignore, uno non se lo può dare”; e nel caso del Recca
contemporaneo non ce ne vorrebbe di meno, perché in mancanza d'un Graci
qua c'è da fare i conti con Ciancio; che è sempre un bell'affare.
Ma lasciamo andare. Annotiamo rapidamente che l'imbavagliata di Recca
è deplorevole non solo per il pessimo esempio ai discenti in tema di
democrazia, ma anche per la caduta d'immagine dell'università a lui affidata.
Che già prima non mancava di suscitare pettegolezzi sull'illustre
cattedratico famoso per aver pubblicato un libro di assoluzione della mafia
subito dopo l'assassinio di Fava, o su quello - non meno illustre - sputtanato
in tv mentre cercava di “esaminare” a modo suo una studentessa.
Adesso l'università di Catania non ha bisogno d'altro: dopo don Corleone
e don Giovanni, può mettere don Basilio fra i suoi luminari.
In questo declassamento dell'Ateneo Recca peraltro non è solo, facendogli
buona compagnia i colleghi donabbondi (la quasi totalità del corpo
accademico) che non hanno ritenuto di esprimersi pubblicamente e
personalmente su un episodio che sarebbe stato assolutamente normale
all'università dell'Uzbekistan o del Kalahari.
Catania, come sapete, ha avuto un giornalista (che era poi siracusano e
non catanese) assassinato dai padroni della città. Ne ha avuto alcuni altri
minacciati, più o meno pubblicamente. Ne ha avuti non uno o due, ma
decine e decine emarginati, ridotti al lastrico, privati dei loro giornali,
strozzati in tutti i modi; costretti a lasciar la Sicilia o diversamente a
accettare - prezzo di libertà - una vita di durissimi sacrifici.
Non parlo per sentito dire. Per quasi trent'anni ho dovuto reclutare e
gettare nella fornace giovani coraggiosissimi e bravi, ai quali sapevo
benissimo di non poter promettere altro - finché fossero rimasti a Catania che onore e stenti.
Un vero genocidio professionale, di cui non si ama parlare: logica
conseguenza del monopolio, spietatamente esercitato, che nessuno
seriamente contrasta se non qualche veterano superstite e spesso, grazie a
Dio, una generazione di ragazzi.
La forza dell'antimafia catanese, quanto all'informazione, è insomma tutta
di volontari e poveri, e lo è sempre stata.
Né sulle istituzioni “colte” qui si può contare (il caso Step1 ne è la prova),
né su imprenditori privati, ora come ora; anche quelli che hanno deciso di
non star più con la mafia, quando si tratta d'informazione preferiscono
quella tranquilla e complice, quella ufficiale.
Giornali al di fuori di Ciancio, editori illuminati? Chiacchiere, e fin
troppo interessate. S'è visto nel caso Sudpress, con l'editore “illuminato”
risultato alla fine un politicante qualsiasi, con interessi concretissimi e grevi.
***
Ma allora non c'è niente da fare? Ce n'è moltissimo invece, e da fare in
fretta. Abbiamo un'occasione irripetibile, la seconda generazione delle
nuove tecnologie (ebook, Pdf, iPad, kindle) che acquistano sempre più
terreno, e sono relativamente economiche, o almeno non comportano la
maggior parte dei costi vivi, tipografici.
Sostituiranno la carta stampata? No: ne sostituiranno solo una parte. Ma
s'integreranno perfettamente, in un sistema misto e articolato, con la restante
parte di essa.
Staranno sul mercato? Ancora no (in Italia: ma nei paesi anglosassoni
cominciano già a superare la carta stampata), ma ci staranno benissimo fra
due o tre anni, man mano che si allargheranno i target e si svilupperanno i
sistemi (vedi Ucuntu 113) sistemi di pagamento elettronici.
Siamo in grado di farli? Da soli, noi di Ucuntu, no; ma tutti insieme sì,
benissimo e ad alto livello. Non sono le competenze che ci mancano - ci
mancano l'organizzazione e i quattrini.
Di questi, nel settore elettronico, non ce ne vogliono ora poi tanti; e
possiamo tener duro da volontari ancora un anno.
E un'organizzazione seria e professionale si può fare benissimo (non sono
le esperienze che ci mancano) se ci decidiamo a lavorare tutti insieme,
senza mezze misure e senza riserve.
Siamo ripetitivi, d'accordo. Ma il progetto, l'unico che può salvarci come
giornalisti liberi, è questo. Tecnologie e unità. Rete e giornali elettronici. Un
giro di prodotti modernissimi ma anche (dove servono), di “vecchi” giornali
di quartiere. E poi tutti insieme, a maturità conseguita, sul mercato.
Non è una faccenda semplice, non lo è professionalmente ma non lo è
soprattutto sul piano diciamo così “politico”. In altre parti d'Italia si può
giocare con le parole, essere educati e gentili. Qui, per essere appena appena
dei conservatori perbene, bisogna essere subito dei “pazzi scatenati” e degli
“estremisti”, o almeno acconciarsi a venir trattati come tali.
Qui non ci sono spazi di mediazione con il potere, ché qui il potere è
Sistema. E qui il nostro mestiere diventa una cosa maledettamente
complicata.
Ma facciamo un esempio, tanto per capirci. Ci sono due giudici in lizza
per un posto in Procura. Dei due, uno è platealmente governativo, e non può
ispirare fiducia a chiunque non sia del suo partito. L'altro, meno estremista,
ha tuttavia la disgrazia di essersi fatto beccare a cena con un mafioso.
Senza grida, senza urla, senza pretese di scoop e senza mai ingiuriare
nessuno, noi e pochi altri (all'inizio, fra i colleghi, solo Pino Finocchiaro e
Giuseppe Giustolisi) abbiamo portato avanti l'idea che ci sembrava più
logica: scegliere un terzo giudice, fuori dalla città. Apriti cielo! Siamo
“cattivi maestri”, siamo “amici di Ciancio”, siamo “intellettuali fuori dalla
realtà”.
Quel che è peggio, sono stati violentemente aggrediti i ragazzi del
Coordinamento Fava che ci avevano ospitati (“antimafiosi da strapazzo”) e
il vecchio giudice Scidà, che questa tesi portava avanti in solitudine da
molti anni. Su di lui si sono accaniti in modo particolare.
Alla fine, com'era ovvio, la logica ha avuto ragione. Un giudice
“continentale”, non chiacchierato da nessuno, verrà molto probabilmente
nominato. Gli stessi che prima difendevano (secondo le rispettive ideologie)
questo o quel candidato, adesso si dichiarano d'accordissimo sul giudice “di
fuori”. Tutti aderiscono a gara alla buona battaglia, ora che è quasi vinta.
Va bene. Le novantanove pecorelle, il vitello grasso e così via.
L'importante è che ora siamo tutti d'accordo, chi ci credeva da subito (e ne
ha pagato i prezzi) e chi si è convinto dopo.
***
Dopo queste esperienze (e tenendo conto che non solo di Procura si tratta,
e che è già in agenda la madre di tutte le speculazioni edilizie catanesi,
corso Martiri), a un poveraccio vien voglia di mandare tutti quanti a quel
paese, e di fidarsi d'ora in poi solo ed esclusivamente dei ragazzi. Da quelli
di Step1 a quelli (che ora stanno organizzando il loro jamboree a Modica)
del Clandestino, ai nostri di Lavori in corso, passando per Periferica e
Cordai.
Saremo insufficienti allo scopo, saremo “troppo giovani”, saremo anche
buffi se volete , ma almeno abbiamo le idee chiare su chi comanda in Sicilia
e sul perché deve smettere di comandare.
“Quando i giochi si fanno duri - ricordate il collega Belushi? Gran bravo
ragazzo, il Belushi - i duri cominciano a giocare”.
Bene, noi ora cominciamo a giocare sul serio. Prima che finisca l'estate:
lavori in corso. Alla prossima puntata.
2 agosto 2011
I PATRIZI, I PLEBEI
E L'IMPERATORE PAZZO
“Tremonti o Amato”, dicono i senatori...
1.647 emigranti sono morti nel Canale di Sicilia nei primi sette mesi del
2011. 5.962 dal 1994. Gli ultimi venticinque l'altro ieri, vicino a
Lampedusa. Gli emigranti superstiti, dai campi di concentramento,
protestano disperatamente da Ponte Galeria a Mineo, ma se ne sa quasi
niente perché il governo ha vietato ai giornalisti di avvicinarsi ai campi.
***
Una delle principali multinazionali del pianeta, la Foxcom (fabbrica gli
Apple, i Dell, i Sony e gran parte degli altri giocattoli di massa) prevede di
utilizzare nelle sue fabbriche novecentomila robot nei prossimi tre anni,
facendo a meno di altrettanti operai.
***
Continua la catastrofe della Fiat sotto Marchionne. 7,8 per cento di
vendite in meno nell'ultimo mese.
***
Colloqui banche-industrie-sindacati per un “governo tecnico” e un patto
sociale. Repubblica azzarda i nomi dei “tecnici”: Mario Monti, Giuliano
Amato o - il più probabile di tutti - Giulio Tremonti. Dopo l'imprenditore
Berlusconi, avremo, a quanto pare, un altro governo degli imprenditori.
***
Queste sarebbero le notizie. Il commento è scontato. La crisi italiana si
risolverà (o cercheranno di risolverla) tutta dentro al Palazzo. Dunque, non
sarà risolta.
I quaranta milioni di italiani (di più, considerando anche gl'italiani senza
identità di cui nessuno sa esattamente il numero, come per gli schiavi
dell'antica Roma) che hanno pagato questi vent'anni di Berlusconi dell'imprenditore Berlusconi, e di tutti gli altri imprenditori che l'hanno
appoggiato - non hanno voce in capitolo, non la debbono avere.
Il prossimo Berlusconi starà un po' più attento con le donne, non
racconterà barzellette idiote, sarà un po' meno ridicolo quando avrà a che
fare con presidenti e regine e questo, nelle intenzioni del Palazzo, è più che
sufficiente per noi poveracci. Contentiamoci. Giusto?
***
Parlavamo di Roma, quella senza Cristi e senza illusioni: l'impero.
Approfondiamo il paragone. Anche allora ogni tanto un imperatore
impazziva, e i proprietari del mondo - i senatori, i patrizi, coloro che
secondo se stessi erano Roma - ne avevano paura. A volte, di malavoglia, si
ribellavano.
“Forza, plebe! Seguiteci! Viva la libertà! Morte al tiranno!”.
E i plebei, che da generazioni lottavano sordamente per le loro vite, li
guardavano diffidenti: “Ma voi non eravate a corte con l'imperatore?”.
“Tempi passati! Adesso pensiamo a Roma!”. E i plebei, non del tutto
persuasi, li applaudivano.
“Quale artista muore con me!” sospirava Nerone. E già i senatori
litigavano sul prossimo imperatore e su quanti pretoriani e quanti gladiatori
sarebbero stati necessari per tener buona la plebe in avvenire.
***
L'impero alla fine cadde, perché non può durare un impero con troppo
poca tecnologia e troppi schiavi. Ma questo i senatori non lo sapevano, e
non gl'interessava saperlo.
(Intanto, fra gli schiavi, si macinava qualcosa. Tutto un mondo diverso, né
senatorio né imperiale. Un'altra cosa.)
16 agosto 2011
IL PROSSIMO PASSO, UN PO' PIÙ IN SU
Ne parleremo a Modica, al “Clandestino”
Stavolta non c'è nulla di complicato. Infuria la lotta di classe, col Capitale
(direbbe quel tale) che picchia senza scrupoli i Lavoratori. In realtà le cose
non stanno esattamente così: il “capitalismo” come l'abbiamo conosciuto
non esiste praticamente più da una ventina d'anni (è diventato automatico, e
incontrollabilmente non-umano), e sarebbe anche ora di trovargli un altro
nome.
Quanto ai lavoratori (di qualunque lavoro si tratti, alcuni assai strani), si
sfruttano in buona parte da sé medesimi, anch'essi in automatico, senza
saperlo. Marchionne non è un “padrone” (né lo è il compagno Chin-chi-lao
della Commissione Industria del Partito comunista cinese, che sempre più
gli somiglia), ed entrambi non comandano in quanto proprietari di qualcosa.
Il computer su cui scrivo, infine, in parte è ancora una “merce” e in parte
no; è merce l'hard-disk faticosamente e marxisticamente costruito dai
bambini cinesi, ma non lo è affatto il bel design, che invece è un prodotto
culturale, che però pesa - nel mercato moderno - per più della metà.
Siamo insomma contemporaneamente nel 1810 e nel Tremila, e questo
crea qualche problema nel capire le cose, abituati come siamo a ragionare
seriamente solo ogni cent'anni (Marx, Keynes, Gandhi...) e per il resto a fare
o resistenza o nostalgia.
Sarebbe ora di rimetterci a lavorare di buzzo buono su queste cose, perciò
se fra i nostri l'ettori c'è qualche piccolo Marx o Keynes potenziale (cosa
niente affatto improbabile, con la cultura di massa e dell'internet che la
spamma in giro dappertutto) lo prego di mettersi subito all'opera senza
perder più tempo con la “politica” corrente, il Nintendo e gli altri giochi.
***
Fine della parentesi. In Italia, distrutte le garenzie democratiche (e
keynesiane, che erano inseparabili da esse) si va al muro contro muro, e
prima ce ne rendiamo conto meglio è. Il fulcro non è Berlusconi ma Fiat.
Quest'ultima è il prodotto più apertamente esplicito di un sistema che ormai
comprende tranquillamente anche la mafia, in senso lato, ed ecco perché è
così importante (a parte legalità ed etica, che pure sono i nostro software di
fondo) la lotta antimafia, su cui si decide quasi tutto. Siamo all'altezza? No.
Non parlo dell'antimafia mediatica (che pure qualche rara volta ha una sua
funzione) ma proprio di noi, l'antimafia di base, quella che lavora ogni
giorno, quella reale.
Non riusciamo a “far politica” e a fare rete, non quanto occorre, e anzi in
questi mesi, nel nostro piccolo mondo (che poi tanto piccino non è) i passi
indietro sono stati più dei passi avanti. Non solo sul piano concreto, delle
cose prodotte, dei “risultati”, ma proprio nello stato d'animo, nel nostro
modo di essere, sempre più individualista e tribale e sempre meno
modernamente e coscientemente coordinato.
Non faccio esempi (per ora) per carità di tribù, ma credo che ci capiamo.
Nella rete informale di Ucuntu, che è un buon esempio per capire tutto il
resto, non c'è un solo nodo che funzioni veramente in rete; ciascuno fa quel
che deve fare per sé, e rimanda al domani (o rimuove) le cose altrettanto
importanti che dovremmo e potremmo fare insieme.
Così non ce la facciamo, o meglio ci illuderemo di farcela ma resteremo
in sostanza – per difetto di massa critica – sempre subalterni. Quando non
avremo più un Berlusconi a tenerci insieme e dovremo affrontare, al posto
suo, i gattopardi, verremo assorbiti da questi ultimi senza nemmeno
accorgercene. Perché nel mondo moderno o si è rete o si è spettatori. Non
c'è via di mezzo.
***
Un'eccezione, nella geremiade di cui sopra, è rappresentata dai ragazzi di
Liberainformazione, che affrontano con serietà e coraggio, e spirito unitario,
la solitudine in cui li ha precipitati la scomparsa del loro maestro, Morrione.
“Non siete soli in realtà, coordinate le forze” è stato l'insegnamento di
Roberto, e avendolo compreso vanno avanti.
Un'altra eccezione è quella dei ragazzi di Modica, del “Clandestino”. Non
solo hanno continuato a sviluppare lo specifico lavoro della loro zona
(questo lo fanno anche gli altri), ma hanno sempre cercato di tenersi in rete,
di sapere quel che si faceva altrove, di non considerarsi autosufficienti e
soli. Per questo il loro incontro è importante: è un modello per tutti, e va
sottolineato.
***
Modica, all'estremo Sud dimenticato, è il posto migliore - a questo punto per fare un annuncio importante, il salto di qualità a cui tendevamo in tutti
questi anni. Da settembre si apre un capitolo nuovo. Ucuntu, Lavori in
Corso, Casablanca e tutto il resto sono tappe utilissime di un viaggio che
non è finito, che non si esaurisce in nessuna di esse e che anzi deve ancora
toccare i suoi obiettivi più importanti.
Insieme, in rete, come nei momenti più alti, più avanti ancora e più in rete
ancora: a Modica, e dopo Modica, comincia un altro pezzo di strada.
UN NUOVO GIORNALE, I SICILIANI
Da Liberainformazione, il sito dei giovani giornalisti di Libera, fondato
da Roberto Morrione: « Festival del giornalismo di Modica/ Tornano i
Siciliani/ Due giudici, un sociologo e dei giornalisti per il giornale di
Giuseppe Fava »
«Trent’ anni fa venivo licenziato dal giornale per cui lavoravo e salutavo
Pippo Fava ad un bar. Oggi sono qui con voi giovani. Abbiamo vinto noi, i
mafiosi sono morti e sepolti. Ma c’è ancora molto da fare». Così il
giornalista catanese Riccardo Orioles anticipava la notizia che è stata
diffusa ieri a Modica, durante la terza edizione del "Festival del
giornalismo": ritorna la storica rivista "I Siciliani". In queste ore Orioles ha
sintetizzato in poche parole lo spirito di questo giornale: «I Siciliani hanno
un solo direttore, Pippo Fava».
La notizia era nell'aria da qualche mese. Adesso, con il sostegno del
sociologo Nando Dalla Chiesa, il procuratore di Torino Giancarlo Caselli e
il magistrato catanese Giambattista Scidà, questo progetto di vita è
diventato realtà.
D'altronde "I Siciliani" diretti da Pippo Fava, ucciso dalla mafia a Catania
nel 1984, non hanno mai chiuso (davvero) i battenti. Da quell'esperienza è
nato anche un laboratorio permanente di giornalismo, una scuola,
coordinata da Orioles e animata da tantissimi giovani, tante donne
(Graziella Proto, su tutte) che in questi anni ha continuato a editare, sotto
diverse forme da "Casablanca" a "Ucuntu", ai tanti giornali di quartiere,
quell'esperienza. Soprattutto sul web, prima di altri e più di altri.
Raccontando Catania e le battaglie per i diritti nel resto del mondo.
Adesso il ritorno de "I Siciliani" è una vittoria per tutti. Ma anche una
sfida complessa.
La notizia di questo ritorno editoriale è stata data a Modica dove è in
corso la terza edizione del "Festival del Giornalismo" organizzata dalla
redazione de "Il Clandestino", giornale di giovani siciliani che tanto ha in
comune con quell'esperienza siciliana degli anni '80.
Liberainformazione
30 agosto 2011
E' DI NUOVO IL MOMENTO
DEI SICILIANI
Disoccupati, imbavagliati, schiacciati da una ragnatela di interressi
terrificanti. E nessuno ci aiuta, e non c'è niente da fare? Ma noi stessi
dobbiamo aiutarci, volando alto. “Quando il gioco si fa duro, i duri
cominciano a giocare...”
Un ragazzo su tre, giù da noi, non ha lavoro. Sarebbe un primato europeo,
se fossimoEuropa ancora. L'economia della mafia, almeno al Sud, è metà
del totale. Il governo è fallito, ma non se ne vede a Palazzo uno nuovo. A
Palazzo si pondera: Tremonti, Montezemolo, Badoglio, Solaro della
Margherita?
E intanto lo sfascio va avanti. I sindaci democratici – che pure il popolo
ha imposto, senza problemi – non hanno, intorno al Palazzo, molti amici. Lo
sciopero generale, extrema ratio, che i capi dei lavoratori hanno infine
proclamato, dopo molte esitazioni, per dare l'allarme al Paese, non sembra,
in tv e sui giornali, un argomento centrale. Contano di più le veline.
***
Tv e giornali: quggiù in Sicilia, esemplarmente, son tutti di una stessa
persona. Da quasi quarant'anni, ben prima di Berlusconi. Quaggiù, la
tirannia è senza sfumature. Nel quartiere il mafioso, a Palazzo il politico
“amico”, e nell'informazioneil bavaglio. Noi non ci rassegnamo, noi
siciliani. Otto giornalisti uccisi. E tre generazioni di ragazzi, una di seguito
all'altra, a fare informazione povera e antimafiosa.
Cos'altro dobbiamo fare, noi siciliani?
Che cosa ha il dovere di dire, in questa disperazione e in questo dramma,
un antimafioso superstite, un “carusu di Fava” di sessant'anni? Può
restarsene zitto? Oppure, standosi zitto, vi tradirebbe?
***
Ah, non è che non si muovano, nell'Isola Felice, politici e baroni.
Degl'intrighi di corte, delle alleanze, dei tradimenti, delle alleanze
rovesciate, s'è perso il conto. Ogni tanto uno di loro s'affaccia al balcone e
“Cittadini! - proclama – Ecco la politica nuova! La vera strada! La geniale
politica che salverà il Regno!”. Noi villici, col naso all'aria, lo ascoltiamo
pazienti. Ma tutte le geniali idee dei baroni, a quanto pare, hanno come
preliminare condizione (non per avidità ci mancherebbe, ma solo
nell'interesse del regno) la distribuzione fra loro baroni - siano essi
borbonici o liberali - di seggiole, consulenze, assessorati e poltrone.
***
“Va bene, giù da voi in Sicilia...”. Altro che Sicilia, amici miei. E' di New
York che parliamo, quando parliamo di Catania o Palermo. Di New York, di
Budapest, per non dire Milano o Ravenna. Esagero? Niente affatto. A New
York già nel '96 c'era l'Invision della catanesissima Famiglia Rendo. Che a
Budapest, un paio d'anni fa, possedeva ben due quotidiani. Di questo si
parla quando si parla di Catania, non solo degli intrallazzi locali.
***
E le tv, i giornali, l'informazione? Dopo trent'anni, mi sembra ancora di
essere al punto di partenza, noi per la strada (e ora in internet) a fare i nostri
fogli poveri e loro barricati là dentro a fare il notiziario di corte.
Le ultime notizie sono le trattative fra De Benedetti e Ardizzone (cioè
Ciancio) per acquisire progressivamente al gruppo De Benedetti il Giornale
di Sicilia (cioè La Sicilia); e che in ogni caso Ciancio entro la fine dell'anno
entrerebbe nella sua orbita abbandonando la vecchia agenzia di pubblicità
Etas Kompass (Fiat) per abbracciare la Manzoni & C. (gruppo Repubblica).
Sarà un bene, sarà un male, ma di certo noi villici non c'entriamo. E
sappiamo dove va a finire ogni volta il cetriolo nella storia dell'ortolano
***
Va bene. E ora? Ci lasciamo così,dopo aver chiacchierato? E no,
santiddìo, stavolta no. Stavolta giochiamo grosso, puntiamo tutto quello che
abbiamo. Il nome, la storia, la forza dei Siciliani. Amici, rimettiamo in
campo i Siciliani. Loro hanno i killer, loro hanno i miliardi – ma noi, noi
uomini di questa terra abbiamo i Siciliani.
Scusate, fratelli miei, se tutto è stato così improvviso. Non vi offendete,
ve ne prego, non voglio imporvi (io?) essere presuntuoso. Io sono
semplicemente il compagno che s'è svegliato più presto degli altri
stamattina, che ha visto l'orizzonte in fiamme e le anime che gridano dolore,
e senza pensarci un momento (pensare, in questi casi, a che serve?) s'è
messo a urlare “Allarme! Svegliamoci! Ci vogliono i Siciliani!”.
Non è merito mio, e neanche mia colpa. Prendetevela con coloro (il
vecchio pazzo Scidà, il sovversivo Caselli, quel giacobino ostinato di dalla
Chiesa) che hanno svegliato me, per svegliare noi tutti.
E neanche vi dico “Rifacciamo i Siciliani”. No. “Facciamo i Siciliani”.
Facciamoli ora, come se uscissimo ora insieme dalla vecchia birreria. E non
per nostalgia, ma per rabbia di oggi e per amore.
E sarà dura, per noi vecchi, accettare che questo non sarà il nostro
giornale. Sarà il giornale di Norma, di Agata, di Sonia, di Giorgio, di
Morgana... Loro i ragazzi di oggi, loro i Siciliani.
SCHEDA/ ALCUNE IDEE PER I SICILIANI
1) Un magazine di 120-180 pagine, mensile di fascia alta (come I
Siciliani di Fava), che ne riprenda il ritmo e l'impostazione ma legandoli
alle ultime tecnologie (oggetti interattivi in pagina, approfondimenti
multimediali).
2) Un giornale cartaceo “da raccogliere e conservare”, ma parallelemente
un e.-book di ultima generazione, mirato a tablet, Kindle e smartphone.
3) Struttura: tre format:
- il servizio-inchiesta (non necessariamente “pesante” di 4-10 pagine;
- l'intervento di una pagina;
- l'inserto (fotografico, satirico o altro) di 8-12 pagine con grafica propria.
4): Contenuti: due segmenti distinti nel giornale:
- il primo, servizi estesi e opinioni, affidato innanzitutto ai “vecchi” :-), i
“regolari” dei Siciliani;
- il secondo, inchieste e cronache dai territori (da Modica a Milano,
passando per tutto il Paese) di giovanie gruppi di giovani locali.
5) Redazione. Nessuna per il primo anno. Quella che sarà emersa dalla
pratica a partire dal secondo o terzo anno. All'inizio si tratta “solo” di
produrre duecento ottime pagine al mese e basta un buon segretario di
redazione. I suoi compiti? Ricevere e montare i pezzi dei “vecchi”; garantire
il controllo di qualita sui pezzi dei “giovani” secondo il buon vecchio
metodo delle tre riscritture; non intervenire, in entrambi i casi, sui contenuti.
6) Organizzazione. Un palinsesto coordinato in rete, con una o due
riunioni fisiche ogni mese. Pagine montate con tecnologia Ucuntu (odt
invece di programmi dedicati) quindi spesso gestibili direttamente
dall'autore, con riduzione drastica di tempi e carichi di lavorazione.
7) Prodotti:
- entro sei mesi: il mensile (cartaceo) “I Siciliani”, l'e-book parallelo “I
Siciliani”; il sito dei Siciliani;
- dall'autunno 2012: e-book e altri elettronici di seconda generazione su
vari temi e con diversi format (libreria elettronica);
- quando e se Dio vorrà: cartacei d'altro genere;
- sempre: sponsorizzazione col marchio Siciliani delle migliori testate
“giovani”, su carta o web (esempi: Stampoantimafioso.it, Il Clandestino),
una piccola rete informale che continuamente produca materiali, idee e
persone;
- unità coi giovani di Liberainformazione ;
8) Nessuna redazione centrale. Sedi locali, col tempo, in diverse città
(Milano, Bologna, Roma, Palermo e Catania) appoggiandoci a realtà amiche
esistenti e puntando sullo spirito d'iniziativa di ogni singolo gruppo.
8) Soldi. Ne servono pochi per la fase ebook. Ne serviranno almeno
60mila per il cartaceo .
9) Stipendi. Il lavoro sarà volontario, nel primo anno e fino alla fase del
mensile inclusa. Piccoli rimborsi quando possibile, in particolare agli
specialisti tecnici (il nucleo informatico sta già lavorando al suo settore).
Punteremo moltissimo, dal secondo anno, sul mercato elettronico con tutte
le sue peculiarità.
10) Nucleo affidato a pochi personaggi, esterni al vecchio gruppo ma che
godano la fiducia di tutti, di altissimo prestigio e al di sopra di ogni anche
vago sospetto di parte. Scidà, Caselli, dalla Chiesa possiedono questi
requisiti. Ad essi aggiungeremmo due antimafiosi - un “nordico” e un
siciliano :-) - non personaggi mediatici e non primedonne ma seri e costanti
militanti della società civile. Il professor Franco Cazzola di Firenze e
Giovanni Caruso di Catania.
11) Scadenze: l'ebook potrebbe essere in rete il 22 novembre; il cartaceo
in edicola il 5 febbraio.
12) L'anima. I Siciliani di Giuseppe Fava. “I cavalieri dell'apocalisse
mafiosa” e “Le donne siciliane e l'amore”, alla pari. Non un semplice
giornale “antimafia” o “d'inchiesta” o d'investigazione, ma un condensato
felice di impegno civile, di società viva e di cultura. La vera sfida è questa e
non è detto che ce la faremo. Ma ci proveremo, umilmente e con
determinazione.
4 settembre 2011
PENATI FACCI SOGNARE
Gli interventi di Nando sul caso Penati - sul fatto Quotidiano del 2
settembre - sono "esemplari" (e vedremo avanti il senso di questa parola")
per due motivi:
1 Si spingono lucidamente al fondo della questione. Penati non è una
patologia, è una fisiologia. Non richiede indignazione ma politica. Non
genericamente da parte dei "politici" ma dalle struttura di base.
2 Non cede, neanche per un attimo, all''"indignazione". Ragiona
pacatamente, a voce piana. Quanto di più lontano possibile dalla terza
disgrazia d'Italia, il beppegrillismo.
Dico "esemplari" non per lodarlo (non ci si loda fra gente seria) ma
proprio perché è un esempio. Noi, qui nel blog e poi nell'antimafia e poi
nella sinistra e infine nella società civile, noi siamo lontanissimi da questo
esempio. Gridiamo, ci appassioniamo, applaudiamo commossi, campiamo
sopra slogan e emozioni - ma non facciamo politica, non al giusto livello.
Ho qui "L'antimafia difficile" una dozzina di interventi (stampati dal
centro Impastato) di militanti antimafiosi del 1989. Che serietà, che
freddezza, che assenza totale e volontaria di appelli al sentimento e di
grandi parole. Illuminismo militante, non emozioni. Questo s'è perso quasi
completamente, magari per motivi "buoni", ma era importante. Era una cosa
utile, e ora ci manca.
Infine. E' stato con meraviglia (my fault) che ho constatato quest'altissimo
livello "professionale" di Nando "politicien", dopo vent'anni. Possibile che
debba restare qui al chiuso, nella nostra scuola? E' come se a un certo punto
Moro si fosse limitato alla formazione della Fuci o Berlinguer a tenere i
corsi alle Frattocchie.
Noi abbiamo bisogno di politici, e ne abbiamo bisogno ora. Aggiungerei
(ma non lo faccio per non spaventarvi) che abbiamo anche bisogno di un
"partito". Da costruire, certo, e non un partito. Potrei darvi un modello
preciso, ma qui non solo vi spaventereste ma mi caccereste a sassate :-).
Perciò me ne sto zitto e ve lo trasmetto solo per telepatia. Ma c'intendiamo.
***
Quanti voti ci costò il "Consorte facci sognare", alle elezioni del 2006?
Centomila, duecentomila, un milione? Fatto sta che col caso Consorte
quelle elezioni, che stavamo vincendo, non le vincemmo più; o meglio, le
"vincemmo" con ventimila voti di scarto, con una maggioranza
risicatissima, che ci mise nelle mani di Mastella. Il quale, appena volle, fece
cascare il governo, nel gennaio 2008. Ma il governo Prodi, tecnicamente, in
realtà era già caduto prima di nascere, un momento dopo quella telefonata.
E ora? Quanti voti ci costa il caso Penati? Come li si recupera? Subito,
prima delle elezioni?
"Ma non si vota". E allora? Anche senza votare, nell'equilibrio pesano gli
X voti potenzialmente perduti; le trattative hanno più probabilità di
trasformarsi in inciuci, e Tremonti (o Montezemolo, o quell'altro banchiere)
hanno più probabilità di succedere pacificamente (e omogeneamente) a
Berlusconi. E non abbiamo un Prodi.
Tocca a noi, non a D'Alema o Veltroni o agli altri corresponsabili, tappare
questo buco.
20 settembre 2011
RAPPORTO 1/ IDEE PER UN NUOVO GIORNALE
Cominciamo a tracciare il progetto del nuovo “Siciliani”. Anzi, “Siciliani
Giovani”, tanto per capirci
1) “I Siciliani Giovani” è un giornale, su carta e in rete, che si propone di
continuare aggiornandola l'esperienza de “I Siciliani” di Giuseppe Fava e
delle varie testate che vi hanno dato seguito nel corso degli anni.
Siciliani vuol dire che nasce dal luogo dove lo scontro fra mafia e
antimafia è nato prima, dove tanti giornalisti hanno onorato in questo
scontro, a prezzo della vita, questo nostro mestiere. Non è un'indicazione
geografica ma un simbolo di lotta, da Modica a Milano, per l'intera
Nazione.
Giovani vuol dire che solo da una nuova e rinnovata generazione, questa
generazione, può venire in tanta tragedia la rinascita del nostro Paese. Non
è un giovanilismo d'accatto, un parlar d'altro: usiamo la parola giovani
nell'identico senso, e per gli stessi motivi, e con la medesima urgenza, con
cui a loro tempo la usarono Mazzini o Gobetti.
Sappiamo che il cammino è lungo e non ci facciamo illusioni; né
vogliamo crearne a chi ci verrà dietro. Ma è un cammino ragionevole, duro
ma alla fine vincente. Fidando nell'aiuto dei giovani, memori di esempi
altissimi che abbiamo avuto la fortuna d'incontrare, percorreremo questo
cammino con tutte le nostre forze e fino in fondo, da giornalisti seri e da
buoni cittadini.
***
2) “I Siciliani Giovani”, nella sua versione cartacea, è un magazine di
120-150 pagine, mensile di fascia alta come “I Siciliani” di Fava; ne
riprenda il ritmo e l'impostazione ma legandoli alle ultime tecnologie
(oggetti interattivi in pagina, approfondimenti multimediali). Un giornale
“da raccogliere e conservare”, ma parallelemente un e-book di ultima
generazione, mirato a tablet, Kindle e smartphone.
3) Il giornale è diviso in tre settori:
- un blocco di 5-6 servizi-inchieste (6-8 pagine) per circa 48 pagine
complessive, impaginato come il classico “Siciliani”;
- uninserto centrale a colori (fotografico, satirico e altro) di 24 pagine, con
grafica propria (e più “creativa”);
- un blocco di pezzi di cronaca (3-4 pagine ciascuno, per altre 48 pagine
complessive) forniti, sui rispettivi territori, da giovani testate e gruppi
(Clandestino, Periferica, Napoli Monitor, Stampo, ecc.) aderenti al progetto,
e sottoposti a un ulteriore controllo di qualità.
***
4) Al cartaceo si affianca un prodotto elettronico in formato e-book (pdf
adesso, l'anno prossimo probabilmente html5 o analoghi) che ne riprende i
contenuti, e che tecnicamente si differisce da Ucuntu e dai prodotti
successivi per una molto maggiore interattività. Ogni singolo contenuto,
infatti, sarà corredato in linea di massima a contenuti multimediali,
usufruibili su varie piattaforme, soprattutto su quelle (tablet, smartphone) di
seconda generazione.
5) Il prodotto elettronico non ha per il momento un'importanza
commerciale e servirà ora soprattutto al lancio e alla diffusione del prodotto
di carta. E' tuttavia ragionevole pensare che il mercato editoriale elettronico,
che già nei paesi anglofoni è maturo e in piena espansione, non tarderà
molto (fine 2012-inizio 2013) a presentarsi in forma matura anche in Italia.
E' probabile che a quel punto il nostro prodotto elettronico assuma
un'importanza molto maggiore, e probabilmente determinante, specie se
sostenuto da altri prodotti elettronici in formato e-book. A tale proposito,
stiamo studiando attentamente – per esempio - le esperienze (entrambe
vincenti) dei “Libri di Avvenimenti” e dei “Millelire” che a suo tempo
s'inserirono bene, con pochi mezzi, nel nascente segmento dell'editoria a
basso prezzo.
***
6) Il sito dei Siciliani (per il quale dobbiamo ringraziare la generosità di
un cittadino che, avendolo in suo possesso, ce l'ha donato) riprende in buona
parte la meccanica (non la “carrozzeria”) di Ucuntu. E' cioè un portale di
rete, in cui al prodotto principale (potenziato con le tecnulogie Issuu, che
siamo stato fra i primi a usare in Italia) si affianca tutta una serie di testate
collegate, che sono il nostro retroterra e il nostro serbatoio di giovani
giornalisti, di notizie e di idee. Il mensile si pone così, fin dalla sua struttura
allargata, come prodotto di prestigio di un circuito di testate piccole,
radicate, professionali e combattive.
7) A quelle di queste giovani testate che mostreranno un adeguato livello
professionale – e civile – concederemo il diritto di fregiarsi del nostro logo,
come un segno comune; aiutandole così a progredire e a restare visibili, e
rafforzando insieme l'impresa comune.
***
8) Redazione. Non prevediamo una redazione centrale, che in questa fase
rappresenterebbe più un peso che un reale vantaggio; il lavoro iniziale di un
mensile può essere svolto in gran parte in rete, a condizione di avere nei
vari nodi personale competente e determinato.
Anche successivamente, l'idea di una redazione centrale è probabilmente
tecnicamente obsoleta; più conveniente puntare su una struttura “stellare”,
con cinque-sei punti forti sul territorio nazionale (orientativamente: Catania,
Palermo, Napoli, Roma, Bologna e Milano) dove siamo già presenti già ora
o direttamente o con efficienti gruppi amici. In ogni città dovrebbe esserci
cioè non una sede, ma una “stanza” dei Siciliani, appoggiata su una struttura
amica già esistente e attivamente coordinata con essa. Questo assicurerebbe
una maggiore produzione di idee, una maggiore aderenza a tutti i territori,
una maggiore efficienza e una più veloce circolazione di iniziative e idee
locali.
9) Il lavoro per “Siciliani Giovani” è volontario, almeno per il primo
anno. Non deve tuttavia esserci, e non sarà tollerato, alcuno scadimento nel
dilettantismo, sotto nessuna forma. Il nostro “volontariato è quello dei
“Siciliani” storici, di Emergency, dell'antimafia organizzata, legato
all'efficienza e ai buoni risultati.
***
10) L'uscita del primo numero elettronico (non semplicemente del sito) è
previsto per la seconda metà di novembre. L'uscita in edicola del cartaceo
per i primi giorni di febbraio.
11) Sono già in lavorazione avanzata (Luca Salici, Carlo Gubitosa, Max
Guglielmino, tutti professionisti di notevole esperienza nei rispettivi settori)
il prodotto elettronico e il portale. E' in corso la progettazione grafica e
industriale del cartaceo. Il redazionamento del numero uno (elettronico)
avrà inizio il 15 ottobre, anche se già diversi contatti sono in corso sia con
“firme” affermate che con gruppi di giovani colleghi.
12) L'assetto sociale e giuridico è in corso d'allestimento e verrà
completato nelle prossime settimane, coordinato e diretto dall'avvocato
antimafioso Enza Rando.
20 settembre 2011
COME VANNO LE COSE (STORIE COSI')
Un siciliano che scappa, uno che viene a dare una mano...
Allora, il giorno dopo l'annuncio (a Modica, dai ragazzi del
“Clandestino”) nel giro di quarantott'ore sono successe due cose. Uno, la
tipografia ci ha improvvisamente aumentato il preventivo e quindi abbiamo
dovuto sbrigarci a cercarcene un'altra. Due, ci ha scritto un tale, che non
conosciamo e non sappiamo nemmeno chi sia, e qui vale la pena di fermarci
e fare una lunga disgressione, così capite subito come vanno le cose.
Allora: quello che ci ha scritto è un certo signor Scivoletto, che di
mestiere fa il titolare di siti web (roba commerciale: turismo, case, vacanze:
cose così) e che negli anni scorsi aveva registrato i siti “isiciliani”, proprio
quelli che servivano a noi. Noi, ovviamente, l'avevamo sgamato e
pensavamo di andare a trovarlo con una scusa qualunque per provare a
vedere, fra una chiacchiera e l'altra, a quanto casomai ce li vendeva:
trecento euri? Cinquecento? MILLE? Sarebbe già al di là del nostro mondo.
Insomma, francamente era un bel problema.
Bene. Poco dopo l'annuncio, a mezzanotte, ci arriva una mail che vi
riporto appresso:
< Giambattista Scivoletto
a [email protected]
data 01 settembre 2011 23:26
oggetto domini isiciliani
Gentile Riccardo,
ho letto con piacere che "I Siciliani" risorgerà.
Posseggo i domini:
isiciliani.it
isiciliani.com
Sono vostri, se volete. Un mio piccolissimo contributo
offerto con il cuore.
Saluti
Giambattista Scivoletto >
Reply:
< [email protected]
a Giambattista Scivoletto
Caro Scivoletto,
non ho parole. La ringrazio, E' bello essere siciliani.
Suo Riccardo Orioles >
Reply:
< Giambattista Scivoletto a me
Carissimo,
quando sarà il momento mi faccia contattare da chi vi
curerà il sito, li metterò in condizione di trasferirli
sui vostri server in 5 minuti.
E' bello essere uomini. Voi de "I Siciliani" avete
dimostrato di esserlo sempre.
Saluti >
***
Insomma, io qui vi dovevo fare un lungo articolo per spiegare che
succede a fare i Siciliani e che problemi s'incontano e che bisogna fare. Non
serve più. L'ha scritto già Scivoletto. Un siciliano qualunque, uno come voi
e me. Che senza chiedere niente, così tranquillo, ha preso quello che aveva e
l'ha portato dove serviva. Non ho una parola da aggiungere e non c'è altro.
Chi vuole, dia una mano. Noi siamo qua.
E l'altro siciliano, quello della tipografia? Eh. Pazienza. In trent'anni,
quanti ne abbiamo incontrati... Ma ne abbiamo incontrati molti di più, di
Scivoletti. E basteranno.
Va bene, chiuso il discorso, e andiamo avanti. (E i mafiosi? Ah, quelli non
importano. Sappiamo come trattarli).
***
Credo che sia anche superfluo parlare qui di politica. E che ci sarebbe da
dire? I giudici che lo inseguono, le puttane che lo ricattano, i bauscia che
minacciano di fargli la secessione: ma davvero dovremmo occuparci sul
serio di uno così?
E qua in Sicilia, dopo tutte le rodomontate per e contro Lombardo (con
annesso bailamme di giudici severissimi e giornalisti scooppettanti), com'è
finita? Assolto e non assolto, vince lui e vince l'altro, muori Orlando muori
Sacripante, e alla fine il puparo rimette i pupi nella scatola e tutti si sono
divertiti moltissimo e tutto è di nuovo esattamente come prima.
Perché? Perché non c'è Falcone. E' inutile girarci attorno, Falcone dal lato
Catania non ce n'è. “Pigliatene uno di fuori - direbbe qui la voce del buon
senso - se non sarà Falcone almeno non sarà uno di quelli”. Ma il buon
senso lo lapidano, dalle mie parti: il buon senso – dicono loro - è
communista. Salvo poi tutti a dire “io l'avevo detto”. Ma anche questo (qui
in Sicilia siamo esperti) fa parte dell'Opra dei Pupi, o nei casi più nobili del
Gattopardo.
E “i Siciliani” che c'entra? Non c'entra niente, assolutamente niente, è
roba di un altro pianeta. O almeno di un'altra isola: perché “i Siciliani”
stanno in Sicilia, dentro le scuole e lungo le trazzere, fra gli operai che
faticano e i ragazzi che imparano la vita; ma quei signori lì non stanno in
Sicilia, stanno negli ultimi piani dei loro palazzi, col loro piccolo mondo di
nobili, nobilucci, cortigiani e (dicono loro) giornalisti. In realtà non
esistono. Noi invece siamo vivi.
***
Bene. La notizia è che, dopo lunghe e ponderose consultazioni, abbiamo
deciso di non chiamarci più semplicemente “i Siciliani”, ma “i Siciliani
giovani”: per dire che siamo nel duemila e undici, che non facciamo reprint
e non abbiamo nostalgie. Non ce n'era bisogno, in realtà, secondo me si
capiva. Ma s'è deciso così, per più chiarezza. Per il resto è lo stesso.
***
Ci scusino tutti coloro a cui non abbiamo risposto subito – sono davvero
tanti. Non è per superbia, ovviamente, è che il lavoro è bestiale. Lavoro
proprio, non grandi elucubrazioni intellettuali. Fare un giornale è difficile,
in ogni tempo, ma ora con tutta questa roba elettronica è difficile per tre
volte, perché in pratica di giornali (fra rete e carta) ne devi fare due o tre.
Fortuna che non siamo soli: ci sono tutti gli scovoletti e scovolettini, da
Modica a Milano, che hanno le idee chiarissime e che, ciascuno dove si
trova, lavorano bene e svelti più di di noi. Allora avanti così, restiamo
sempre in vista, non ci perdiamo; ma sempre lavorando nei luoghi, andando
avanti.
(“Ero ragazzino, avevo 17 anni e mi ricordo che a Pisa mio padre
comprava e leggeva la rivista. C’era un articolo, in un numero, dedicato ai
dieci Siciliani allora più potenti, tra cui figuravano anche il cardinale di
Palermo e Pippo Baudo. Buon lavoro”)
23 settembre 2011
TELEJATO, I SICILIANI
E UN APPELLO AL PRESIDENTE
Che cosa dobbiamo aspettare ancora? L'attacco a Telejato (il doppio
attacco, quello della mafia mafiosa e quello del governo) non è certo il
primo, né tocca solo Telejato. E' trent'anni – per quanto mi riguarda – che
facciamo giornali. Ed è trent'anni che ce li strozzano, in un modo o
nell'altro, e ci lasciano in mezzo alla strada. Questa di Telejato è solo
l'ultima volta.
Può darsi che stavolta ci sia più fortuna. Può darsi che il governo che ora strozzando le piccole tv - sta chiudendo Telejato l'anno prossimo non ci sia
più, e che quello che verrà dopo di lui sia un po' più civile. Va bene: intanto,
dai candidati a questo futuro governo vorremmo sapere che cosa faranno,
allora, per Telejato, e lo vorremmo sapere ora.
Ma non è questo il punto. Il punto è che non passiamo più andare avanti
così, con loro che ogni tanto ci danno una sberla, noi che protestiamo
indignati, e a volte riusciamo a rialzarci e a volte restiamo lì per terra. Il
punto è che siamo troppo piccoli per questo mondo. E invece dovremmo
essere grandi e grossi, e restituirgli ogni volta la sberla con gli interessi.
La cosa buffa è che in realtà, tutti insieme, grandi e grossi lo saremmo.
Abbiamo i migliori giornalisti della Sicilia, i migliori autori video, i migliori
fotografi, i migliori disegnatori e anche, non sempre ma abbastanza spesso, i
migliori attivisti. Eppure restiamo qua a prender le botte.
Il problema è in quella parola “insieme”. Noi non l'abbiamo ancora capita,
quella parola. Una volta c'era l'”insieme” dei cosiddetti communisti,
quaggiù in Sicilia, del partito dei contadini che insieme dovevano stare per
forza. Ma non c'è più da secoli. E da allora l'”insieme” si è perduto.
Io sono vecchio oramai, non ce la faccio più a aspettare. L'articolo che sto
scrivendo, è un articolo sbagliato. Perché è su un giornale piccolo, che
leggeranno in pochi. Invece potrebbe essere su un giornale grossissimo (non
quelli dei padroni: a me di Repubblica e Corriere non me ne frega niente) e
allora sì che farebbe veramente danno.
Oggigiorno, con internet, non ci vogliono miliardi per fare un giornale
così. Basta mettersi “insieme”. Ai tempi di Peppino noi compagni eravamo
arrivati prima di tutti a fare le radio private e altre cose moderne. Ma non
eravamo “insieme”. Così Peppino (che era solo) l'hanno ammazzato e poi
le emittenti private se le sono fatte loro a modo loro e per i loro interessi, e
così alla fine è arrivato Berlusconi.
Ma anche stavolta deve finire così? Io dico di no. Per questo, con altri
amici, stiamo rifacendo qualcosa come i Siciliani. Un “insieme” visibile da
lontano, buono per tutti noi antimafiosi, in cui ci possono star dentro tutti. A
cominciare da Telejato.
Allora, solidarietà per Telejato, difendiamola. Ma anche, costruiamo
“insieme” una cosa più grossa. Senza la quale, anche Telejato, Ucuntu e
tutto il resto non possono resistere a lungo, è solo questione di tempo.
Ecco, la storia è questa. La stanno capendo i giovani, i vecchi – come al
solito – no.
***
Poscritto
(E Lei, signor Presidente? Caro Napolitano, Maniaci e i suoi lavorano per
il Suo Paese e rischiano ogni giorno la pelle. La meritano una medaglia? O
almeno un piccolo aiuto, tanto per continuare ad aiutarLa? O medaglie e
belle parole arrivano solo dopo il funerale, come per Falcone, Fava e tutti
gli altri? Io ci farei un pensierino, sarei anche disposto a firmarLe - se ne ha
bisogno – un appello, e credo che come me lo farebbero molti altri
intellettuali, siciliani e non, e giornalisti)
13 ottobre 2011
TELEJATO E SANTORO
Una bella notizia dal nuovo sito di Santoro, www. serviziopubblico.it: in tre
giorni hano raccolto circa 400mila euri di donazioni! Un attestato di stima,
affetto e anche di voglia di non avere bavagli, di informazione libera.
Ma l'informazione libera (e strangolata) c'è anche altrove: per esempio nel
cuore della mafia, a Partinico. La fa Pino Maniaci, con Telejato. Picchiato
dai mafiosi, minacciato sui muri ("W la mafia - sei lo schifo della terra" - e
bara accanto) e alla fine ora pure imbavagliato, colla nuova leggina antipiccole tv.
E allora? Sentiamo un lettore del Fatto, "Mario 75": < Il Fatto parteciperà
alla realizzazione del nuovo programma di Santoro. Non sarebbe una buona
idea quella di creare nell’ambito del programma una rubrica, un qualsiasi
tipo di collegamento con Telejato? >
"Mario 75" non è una persona importante, e non lo è neanche Pino Maniaci:
però l'idea non è male. Ehi, Santoro, ce lo facciamo un pensierino? Se lo
merita, il collega Maniaci, uno piccolo spazio nel servizio pubblico oppure
no? (Ma prima che lo faccianmo fuori, per favore. Non aspettiamo ogni
volta i funerali, come per Mauro, come per Peppino…).
Mauro Biani e Riccardo Orioles
14 ottobre 2011
QUESTI MESI
Si preparano i gattopardi. Ma...
A Barletta le operaie muoiono per 4 euri l'ora. A Torino, per decisione di un
tale, se ne va la Fiat. A Roma si discute di molte cose, ma non – soprattutto
– di questa. E' la classica uscita all'italiana. Dopo i Borboni, Crispi. Dopo
Mussolini, Badoglio. E dopo Berlusconi Montezemolo, Letta, un qualunque
banchiere o un qualunque imprenditore. Vent'anni di governo-imprenditore
di destra, e poi altri venti - secondo loro - di governo-imprenditore di... di
che cosa?
Esiste una maggioranza in Italia, che vince nei referendum, vince nei
sindaci e vincerebbe alla grande, se la lasciassero votare, in qualunque altra
elezione.E' una maggioranza sociale, molto prima che politica. Se la politica
si adeguerà (Pd, Idv, Sel e compagnia) bene. Se no, questa maggioranza farà
la sua politica lo stesso. La farà più lentamente, magari con più inciampi,
ma che la farà – al tempo di internet – ormai è fuori discussione.
***
Parlare dei Siciliani, in un momento come questo, ha un significato preciso.
I Siciliani sono stati una delle primissime voci, e dei primi soggetti
militanti, della società civile. Non si parlava delle troie di Berlusconi, a quel
tempo, si parlava degli imprenditori mafiosi – e cioé del potere. Se ne
parlava direttamente e senza mediazioni, muro contor muro.
Se ne parlava all'interno di un blocco sociale preciso, i giovani delle facoltà
e delle scuole, il ceto medio più civile, e – per brevi momenti – nel corpo
della plebe siciliana. Pochi operai, poche fabbriche, ma emarginazione e
miseria e un'atavica storia, non dimenticata, di ribellioni.
Non era ovvio il legame, a quel tempo, fra le fabbriche del nord e i nostri
quartieri. Gli operai siciliani in Fiat lottavano come tutti gli altri. Ma
tornando in Sicilia trovavano un altro mondo.
Da allora sono passati trent'anni. La mafia, il potere mafioso, non è più
siciliano. Sta dilagando a Milano, a Roma è nel partito di governo. La
fabbrica - Marchionne insegna - non è più la patria intangibile, ma il luogo
dell'insicurezza e del non-diritto. “Lavoratore” vuol dire, a nord e a sud,
tante cose, ma principalmente non avere un posto fisso e dei diritti legali.
Sempre più spesso, “precario” sostituisce “impiegato” e “operaio”.
***
La lotta radicalissima di trent'anni fa, contro la mafia imprenditrice e tutto il
suo potere è quindi più attuale ancora di prima. Ci manca, quella lotta. Ci
manca un'antimafia complessiva, terreno per l'unità delle forze - dei
giovani, dei precari, di tutti i non-cannibali del Paese - e per un nuovo patto
di generazione. Per un nuovo rapporto col nostro Stato, che dobbiamo
difendere ma che dev'essere nostro, com'era stato fondato. L'antimafia, la
militanza antimafia, la cultura antimafia, il governo antimafia, in questo
preciso senso sono il possibile inizio di qualcosa.
***
I Siciliani era un giornale, e anche Siciliani Giovani vuol esser tale. Ma i
Siciliani erano molto più di un giornale, erano un punto di partenza ed un
motore. E anche noi, ora, vorremmo essere tali. In Sicilia? No. Nel Paese.
Da soli? No. In rete con altri, con serietà e modestia, tutti insieme.
“Siciliani” per noi non indica un pezzo di terra, una regione, ma il simbolo
di una lotta di tutti, il luogo dove la lotta è iniziata – ma non dove sarà
decisa. A Milano come a Catania, a Modica come a Ovada, in questo siamo
tutti Siciliani.
***
E' terminata la prima fase di progettazione, e da domani cominciamo a
lavorare al numero uno di questo nuovo/antico giornale. Rinasce con la
rinascita del Paese, nelle stesse settimane e negli stessi mesi. Guarda
davanti a sé, senza voltarsi indietro. Con una parola di lotta – la Marsigliese,
i Siciliani – ed una di speranza. Quel giovani è la storia d'Italia, quante volte
tradita dai patriarchi, quante volte salvata dai giovani senza-potere.
25 ottobre 2011
“UN GIORNALISMO FATTO DI VERITÀ”
Caso Catania: cosa ci insegna oggi
“Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la
violenza e la criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili.
pretende il funzionamento dei servizi sociali. tiene continuamente allerta le
forze dell'ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai
politici il buon governo”.
Questa è la nostra idea di giornalismo, non quella degli effetti facili e del
clamore. Un giornalismo neutrale, non dipendente – neanche come favori
leciti – da alcuno, ma apertamente schierato per gli interessi essenziali dei
cittadini (fra cui una giustizia indiscussa, assolutamente al di là di ogni
sospetto) e pronto, ogni volta che occorre, a prendere posizione.
Perché al lettore va data la “notizia”, ovviamente; ma questo ancora non
basta: accanto alla notizia bisogna dare il contesto, senza di cui la notizia
resta monca e incompleta e, in taluni casi, ambigua per difetto di
completezza.
A questo ci siamo attenuti, nel “Caso Catania”, in questi anni e mesi.
Insieme con pochi colleghi (Finocchiaro, Giustolisi, Travaglio e non molti
altri) abbiamo cercato di fornire al lettore i dati essenziali della malattia
della giustizia a Catania, dove - diversamente che a Palermo – la parola
“Palazzo” ha sempre evocato complicatissime e non sempre innocenti
manovre e non una semplice e secca applicazione della legge.
E' una malattia che viene da lontano, e che non può essere curata dal suo
interno.
Perciò sempre più numerosi cittadini e soggetti della società civile si sono
via via accodati alla soluzione proposta, ormai da anni, dal vecchio e
integerrimo magistrato Scidà: chiamare un giudice terzo, uno non
intromesso; dare a un “uomo di fuori” la cura del bene essenziale, la
giustizia, che i vari locali notabili tirano ognuno a sé, privandone i cittadini;
e poi andare avanti.
Questa opinione, isolata dapprima e poi sempre più popolare, è stata da noi
sostenuta apertamente e ora, in questi giorni, verrà approvata o respinta da
chi ne ha il potere.
Il Csm, fra pochi giorni, nominerà finalmente, dopo ogni rinvio possibile, il
nuovo magistrato a Catania; e qui comincerà una stagione nuova. O
migliore dell'altra, essendovi finalmente un Palazzo efficiente; o
sprofondata nel peggio, ribadendo la prassi della giustizia come potere dei
potenti, o per atto o per omissione. In entrambi i casi, noi avremo fatto il
nostro dovere.
***
Questa storia, che non è affatto locale, serve anche per illustrare, senza
troppe parole, come intendiamo fare (rifare) i Siciliani. I Siciliani Giovani
proseguirà, semplicemente, sulla stessa strada. Informazione e servizio
pubblico, lotta ai poteri asociali e ricostruzione della società.
Non inventiamo niente, di nuovo c'è solo l'internet, col suo concetto di rete
che va ben al di là delle tecnologie e che profondamente s'inserisce (forse
più che in ogni altro caso in Italia) nella nostra storia.
Attenzione: siamo già in fase operativa, nel senso che da alcuni giorni è già
aperto il palinsesto del numero uno, quello che uscirà il primo dicembre.
Pertanto è necessaria un'accelerazione di tutto.
Finora è stato sostanzialmente il gruppo di progettazione (Salici, Gubitosa,
Guglielmino e Nicosia) a fare il lavoro di fondazione, e l'ha fatto nei tempi
previsti e bene. Ora bisogna completare il lavoro di base (siti, ezine, link,
struttura aziendale, tipografia) e farlo mentre già si comincia a lavorare sui
contenuti.
Nei prossimi giorni e settimane contatteremo quindi, nelle varie città, i
colleghi, gli amici, le testate e i gruppi che sono interlocutori e coprotagonisti di questa impresa.
Ma vorremmo che già prima, spontaneamente, essi stessi cominciassero a
fare proposte, a buttar giù idee, a mettere in cantiere servizi e iniziative.
Senza bisogno di chiedere permesso a nessuno, e meno che mai a noi stessi,
perché questa non è un'impresa nostra, ma di tutti.
Tutti coloro che lottano per una società più civile, da oggi o da trent'anni, a
Palermo o a Milano, giovani d'età o di testa, hanno il diritto di starci dentro.
Con l'obbligo di starci dentro degnamente, ché non è un gioco.
E' un momento magnifico, per mettersi in cammino. La notte sta
terminando, amici che non conosciamo ci aspettano; lo zaino è quasi pronto.
Nel buio che a poco a poco s'illumina, la strada ancora una volta ci chiama.
4 novembre 2011
VALE LA PENA, SI PUÒ FARE
Sembrava impossibile risanare il Palazzo di Giustizia. Eppure...
La statua della Giustizia a Catania fronteggia quella dei poveri pescatori, i
Malavoglia, che sono un po' il cuore nascosto della città. Loro a guadagnarsi
il pane su una barchetta, cercando di sopravvivere a mare e mafiosi – i quali
da molto tempo non hanno più la coppola ma il cappello elegante dell'uomo
d'affari o del politico in carriera. E lei a guardarli severamente, con uno
sguardo che si fa sempre più assente man mano che dalla piazza di fronte
s'inoltra nei palazzi del centro direzionale.
Ed è così da sempre, senza speranza. Mentre a Palermo il Palazzo di
giustizia si rinnovava, esprimeva i Falcone, i Chinnici, i Caponnetto, i
Borsellino, a Catania era sempre lo stesso, di trenta, di cinquanta o di
cent'anni fa. Ogni tanto polemiche, guerre ad armi cortesi, con gran
cannonate a polvere che non fanno male a nessuno. E intanto la città
moriva.
Catania è la città d'Europa con più alta criminalità minorile. Al centunesimo
posto nelle classifiche di vivibilità dei centotrè capoluoghi italiani. La mafia
più potente, i quartieri più abbandonati. La disoccupazione più alta, le
ricchezze più dilaganti. Bottegai che falliscono, e il record nazionale dei
centri comerciali. Una delle più alte storie del giornalismo italiano
(Giuseppe Fava) ma un solo giornale ammesso.
Una città che si aggrega intorno a periodici grandi affari - ieri lo
sventramento e Viale Africa, oggi Corso dei Martiri – che sono gli unici
scopi d'esistere della sua classe dirigente.
Una città assassinata, una città senza giustizia.
Eppure, in questa città, s'è combattuto e si lotta per la giustizia. La giustizia
nella società (i poveri centri sociali, l'Experia, il Gapa, i poveri preti di
quartiere, i padre Greco) la giustizia dell'istruzione (ogni decina d'anni sorge
un nuovo movimento di ragazzi), la giustizia dell'informazione libera (I
Siciliani e tutti quelli che li hanno continuati). Ma il potere rimane duro,
inossidabile, divoratore di tutto. Perché non ha mai avuto, ed è sicuro che
non avrà mai, sanzioni.
Vediamo se questo adesso cambierà. Intanto, il segnale è forte. Nel più
importante palazzo, adeso, c'è uno che non ha amici o nemici fra i baroni.
Uno che conosce Catania solo ed esclusivamente attraverso la legge. Se il
gioco – adesso – avrà delle regole, nessuno può prevedere chi vincerà.
Persino i poveri e le persone perbene potrebbero arrivare a vincere, in una
partita non truccata.
***
Ecco, si comincia ora. Ce n'è voluto, per arrivarci. La storia del giudice
esterno non era affatto scontata, si sono mobilitate le forze – per impedirla –
di tutti i poteri forti della città. Eppure, non gli è riuscita.
Il merito va a gente come il vecchio giudice Scidà, testardissimo, che da più
di dieci anni va chiedendo un procuratore estraneo ai poteri catanesi; va ai
giornalisti disinteressati che hanno avuto il coraggio di denunciare il
Palazzo (e qui è giusto far dei nomi: Finocchiaro, Giustolisi e pochissimi
altri); va alle associazioni della società civile che hanno preso posizione (chi
prima, chi dopo, ma non importa...).
Va a ragazzi come quelli della Fondazione Fava di Palazzolo, il paese di
Giuseppe Fava, che nel loro convegno a gennaio hanno avuto il coraggio di
lasciar presentare le prove fotografiche che inchiodavano il malcostume del
Palazzo.
Per questo sono stati accusati di essre degli “antimafiosi da salotto”; altri,
fra cui il sottoscritto, dei “cattivi maestri”; al più pericoloso di tutti, Scidà,
sono toccate le calunnie peggiori, mobilitando giornali grossi e giornalisti
importanti.
E tutto è scivolato via come doveva, senza lasciare traccia, impotentemente.
La verità è contagiosa, ed è un duro compito (anche se ben retribuito)
cercare di nasconderla perché non conviene.
La verità, il buon senso, l'ostinazione dei pochi, a lungo andare vincono, e
non potevano non vincere anche in questo battaglia. L'informazione povera,
e libera, l'ha affrontato da sola, senza contare su nessun potere; e alla fine è
riuscita a vincere, a fare un bel regalo alla città.
Ecco, l'insegnamento è questo: vale la pena, si può fare. Persino cose
“impossibili” – tipo i Siciliani – possono funzionare, con questo metodo.
Verità, buon senso, e forza di volontà. E fra un mese cominceremo a vedere
se è vero.
13 novembre 2011
UN MODELLO VINCENTE
Zitta zitta, la società civile segna punti a Catania…
Mi sarebbe piaciuto scrivere un bell'articolo di politica, sul governo di prima e su quello che verrà. Ma non posso farlo perché non sono più
autorizzato. Sono infatti un cittadino, o meglio un consumatore, italiano ed
è stato appena deciso che di faccende del genere non debbono occuparsi più
i cittadini (troppo ignoranti e emotivi per occuparsene) ma degli esperti
bravissimi, molto molto più bravi di me e di voi. Saranno loro a decidere
per tutti.
Questo è già successo diverse volte nella storia. In Grecia, quando è finita la
polis, a Roma, quando è arrivato Cesare, nel medioevo in Italia, quando
dopo i Comuni sono arrivate le Signorie.
Non è che la gente fosse contraria, in questi casi. Troppa chiacchiera, troppi
disordini, troppo poca abitudine - poco a poco – a uscir di casa. Meglio un
governo tranquillo, un sovrano benevolo, che pensa per tutti.
Sta succedendo in Italia, e non so se è bene o male. Certo, dopo tutto quel
Berlusconi qualcosa bisognava fare. E chi dice che gli abitanti italiani, dopo
aver creato un Berlusconi, non ne creino prima o poi qualche altro? Europa
e Germania non si sono fidate. E noi, lavorando poco (precario non è
lavorare) dipendiamo da loro.
***
Può darsi che vada bene così. Certo, non è democrazia. Ma chi la vuole
davvero? I veneti? I commercialisti? I banchieri? I boss mafiosi? I calabresi,
Catania? Gl'imprenditori del Ponte, quelli dell'Expo, la Borsa? Nessuno di
questi soggetti, che ormai sono il baricentro della Nazione, ha mai avuto
molto a che fare con la democrazia. Ovvio che si sia sfaldata così, nell'indifferenza generale, senza problemi.
E nemmeno l'Europa, così com'è, ha molto a che fare con la democrazia. E'
sorta attorno all'euro, e come primo passo andava bene. Ma è stato pure
l'ultimo, purtroppo.
L'Europa, la nostra Europa, si suicidò traumaticamente nel '14, cent'anni fa.
Stavolta si sta suicidando piano, per avarizia e noia. Senza popolo, senza
stato, con tante banche ma neanche una su maestra di scuola o un
giardiniere.
***
La crisi, come tutte le crisi, si può risolvere. Ma c'è bisogno della politica
per farlo, per fare le svolte drastiche (in termini di sistema) che ogni crisi
richiede. Ma qui di politica non ce n'è più.
Non c'è una politica di destra contrapposta a una di sinistra, o più moderata.
C'è semplicemente il rifiuto della politica, la sua abolizione in quanto
pericolosa per le idee che, en passant, potrebbe mettere in testa ai
consumatori. Niente referendum in Grecia, niente elezioni qui da noi.
Le elezioni, in Italia, sarebbero state vinte con largo margine non dal
“centrosinistra” ma (di fatto) da una vera e propria sinistra, ancorché
moderata, quella di Bersani e soci.
Avrebbe un tale governo trovato il coraggio di resistere ai precari, di
imporre ai sacrificati altri sacrifici, di lasciar mano libera per altri diciassette
anni agli imprenditori? Nel dubbio, meglio non correre il rischio e non far
votare.
***
E noi? In che cosa si traduce, qui e ora, il “pensa globalmente, agisci
localmente”? Abbiamo due esempi interessanti, qua a Catania. Il primo,
quello della mobilitazione della società civile sul tema importantissimo, e
prettamente istituzionale, di una credibile Procura; e abbiamo vinto.
Il secondo, quello della campagna – sempre delle associazioni della società
civile - per l'istituzione dei referendum comunali; e anche qui abbiamo
vinto. In entrambi i casi, senza spaccare vetrine, senza alzare la voce, con
una larga componente “moderata” (specie nel secondo caso) ma con una
carica alternativa e democratica assolutamente evidenti. E - lo ripetiamo per
la terza volta - vincenti. E' un modello.
E' il nostro modello politico, non di partito o ideologico ma civile. E' quello
cui noi ci affidiamo perché sia salvato - ma veramente - il Paese.
Esso ha una ricaduta giornalistica, di giornalismo rigorosissimo ma
impegnato. Anche qui il caso Catania fa da testo: da una parte polemica
serrata ma civile, senza urlare; dall'altra mobilitazione dei media di destra, e
anche di sedicente “sinistra” , senza remore né di verità né di stile: qualcuno
è arrivato a nascondere ai lettori l'esistenza stessa della sconfitta di Gennaro,
abolendone semplicemente il nome. E hanno vinto i civili.
Andiamo avanti così, con le forze di base, senza aspettarci regali (qualcuno
a Catania si è lamentato che il grande Santoro qui si sia appoggiato, per la
sua tv, al losco Ciancio...) perché chi può fare regali di solito ha anche i suoi
interessi. Con calma, con convinzione, senza mai entusiasmarci ma senza
mai rallentare. Il lavoro ben fatto alla fine vince. Specie quando ha alle
spalle un nome come i Siciliani.
***
Sarebbe bello pensare che - nel 2014, per esempio: cent'anni dopo – i popoli
potrebbero risvegliarsi, abbattere il muro di Bruxelles come già quello di
Berlino. Un'Europa democratica! Un'Italia europea! Una Sicilia italiana!
Una Catania senza cavalieri! Ci pensate?
Sembra impossibile, certo. Ma anche l'Urss di Breznev pareva eterna. La
nostra nomenklatura farà la stessa fine entro pochi anni.
22 novembre 2011
IL NOSTRO SCIDA'
Aiutò i ragazzi poveri. Difese la Città. Sembra che stia dormendo, e che
sorrida
Ha un lieve sorriso ironico, da ragazzo intelligente. L'aria, dalla finestra, gli
passa leggermente fra i capelli. Ne muove a volte alcuni, arruffati e bianchi.
Ed egli dorme.
Dorme, nel buio della notte, la sua città. Dorme lo scippatorello, sognando
un'infanzia normale. E' in una delle statistiche più feroci d'Europa, quella
della criminalità minorile catanese; ma i sogni sono liberi, ed egli sogna.
Dorme il politico, sognando gli appalti dell'anno prossimo, Corso Martiri,
miliardi. Dorme il padrone-editore, inquietamente. Dorme il suo giornalista,
dorme (ma più innocente) la ragazza di vita. Dormono i magistrati collusi,
digrignando i denti. Dorme il bottegaio minacciato, dormono i ragazzini di
Addiopizzo che lo difendono da soli. Passa la rara guardia notturna, passano
le ronde dei mafiosi. Questa è la sua città.
***
“Venni a Catania, giudice del Tribunale, da Palazzolo...”. La città di
Catania, a quei tempi, aveva al suo centro una grande piazza. Su un lato il
palazzo di giustizia, cieco, sull'altro i carabinieri muti. Su un altro il grand
hotel dove, settimanalmente, s'incontravano i padroni della droga. Su un
altro ancora le bische della Famiglia Santapaola-Ferrera. Al centro, un gran
monumento ai cui piedi si prostituivano i ragazzi che non avevano il
coraggio di fare, per la dose quotidiana, una rapina.
Nella città si parlava, prudentemente. Ma non si scriveva. Si amministrava
giustizia severa, contro i piccoli scippatori e ladruncoli che la miseria
generava. Ma si chiudevano entrambi gli occhi di fronte ai ricchi mafiosi e
ai loro imprenditori.
“Rendo, Graci, Costanzo, Finocchiaro!”. Furono gli studenti della città, in
quegli anni, quelli che fecero i nomi. Non certo i magistrati. Con una sola
eccezione.
“Mi concedano lor signori di esporre alcune considerazioni sullo stato della
giustizia in questa città...”. Questo era lui, Giambattista Scidà, quello che
ora dorme nella stanza accanto.
Non gli potevano dire di no: non puoi levare la parola a un magistrato,
all'inaugurazione giudiziaria, una volta all'anno. E lui era un magistrato. “In
nome del Popolo Italiano” c'è scritto sulle carte dei giudici. Lui ci credeva.
Così, garbatamente, prendeva la parola e cominciava a elencare cifre e dati.
Le cifre dei ragazzini ammazzati, divorati vivi dalla “città matrigna”. I dati
degli intrallazzi dei benestanti, magistrati compresi, comprese le mura e i
tetti delle preture. Le cifre della città indifesa, abbandonata alla mafia e ai
Cavalieri.
E passavano gli anni. Io lo conobbi per caso, da povero cronista, facendo il
mio mestiere come lui faceva il suo. Presiedeva il tribunale dei minori, cioè
il posto dove andava a finire la produzione del sistema. Ti distruggo il
quartiere, ti nego la scuola, ti butto sulla strada, non ti do' lavoro, ti lascio la
delinquenza come unica prospettiva. E poi ti ammazzo, o ti faccio
ammazzare dei mafiosi, o nel migliore dei casi ti trascino qui, nel tribunale
e in galera.
Giustizia e carceri minorili, prima di lui, erano gironi danteschi. Lì si veniva
“giudicati” in serie come numeri; qui messi coi delinquenti grandi e spesso
seviziati.
Con lui, tutto cambiò. Il tribunale diventò luogo di giustizia, dove ogni
singolo caso veniva studiato e trattato con estrema attenzione. Nessun
ragazzo fu mai abbandonato dopo. Famiglie, case-famiglia, comunità,
assistenza individuale: spessissimo a spese del giudice, sempre per sua cura.
Il giudice dei minori a Catania – l'uomo che borghesemente avrebbe dovuto
essere il principale nemico dei ragazzi di strada – veniva accolto come un
padre nelle periferie e nei mercati. La giurisprudenza minorile di Catania
divenne, e come tale fu vista, un modello per l'intera nazione.
***
Ma questa era solo una parte. Poi c'era quella “politica”; cioè di servizio alla
polis, della Città. Per vent'anni Scidà fu fra i pochissimi che combatterono,
non una volta ogni tanto ma ogni giorno, e non con mezze parole ma a
pertamente, il sistema di potere catanese. Dai Cavalieri a Ciancio,
dall'impresa e politica collusa alle infiltrazioni d'affari in tutti i palazzi:
compreso quello di Giustizia.
Lui, Fava e D'Urso furono gli eroi incorruttibili di questa guerra. Giuseppe
Fava lo ammazzarono nell'84. Scidà e D'Urso ne ripresero, coi suoi ragazzi,
la lotta. Giuseppe D'Urso morì, di malattia misteriosa, nel '96. Scidà dispersi i ragazzi di Fava, chiusi per la seconda volta i Siciliani - rimase
solo. Dunque, dovette fare per tre.
“Bisogna difendere le leggi come le mura della città”, scrive Eraclito.
Egli si piantò dinanzi a quelle mura con lancia e scudo come un guerriero
antico. Nessuno gli fece paura, non pensò mai di arretrare. Facessero
carriera gli altri, lo minacciassero pure. Non tradì la città nè i suoi ragazzi.
Dall'una lo richiamava il dovere, dagli altri una sconfinata pietà.
***
Il giornale, una volta, era sul percorso del tribunale minorile, fra gli alberi
del viale. Io uscivo prestissimo dalla stanza dove dormivo, per andare a
prendere il primo caffè; e lui, alla stessa ora, andava da casa, a piedi, al
tribunale.
Mi si affiancava in silenzio, o io a lui, a mezza strada. Camminavamo muti,
ognuno nei suoi pensieri, fino al piccolo chiosco del caffè. Da poco aveva
perso una figlia, gli parevano futili le parole. Il barista, che ci conosceva,
scaldava la macchinettà del caffè. Poi: “Buona giornata!”. “Buona giornata
a lei!”. E ognuno al suo lavoro.
A volte andavo a trovarlo, nella casa ormai vuota, fra pile disordinate di
carte e di libri antichi. Era un cultore di storia; il grande Le Goff, quando
veniva in Italia, spesso passava da lui. Così, la conversazione spesso
inavvertitamente si spostava da Catania al Siglo de oro, a Cervantes, al
lugar de la Mancha.
A volte, ma più di rado, capitava che pranzassimo assieme; di solito era
quando andavo a trovarlo al tribunale. “Pranza con me?”. “Andiamo”. E
qui c'era un intoppo.
La macchina di servizio che lo attendeva fuori (col fedelissimo autista di cui
non ricordo il nome) era un bene dello Stato; poteva imbarcare il suo
servitore Scidà dal tribunale a casa, visto che a ciò era destinata, ma tale
privilegio non poteva assolutamente estendersi agli amici personali e
privati. Non potendo far salire me (che sarebbe stato abusare), né lasciarmi
a piedi (che sarebbe stato scortese), finivamo per andarcene a piedi tutt'e
due, con l'autista che, solo in auto, ci veniva dietro. Per fortuna il clima
catanese è mite e quelle mattinate erano – almeno nel ricordo – luminose e
ridenti.
***
Cos'altro? So che dovrei parlare del caso Catania – l'ultimo – della Procura,
delle cose importanti insomma. Va bene.
Catania non ha mai avuto un Palazzo di giustizia lontanamente paragonabile
a quello palermitano. Giudici antimafia ce ne sono stati pochi, tre dei quali
(Lima, Marino e Ardita) costretti, in un modo o l'altro, a farsi da parte. Liti
fra diverse cordate, ultimamente Gennaro vs Tinebra, a parole opposte ma
di fatto equivalenti. Polveroni ogni tanto. Impunità.
E dunque proposta di Scidà: prendiamo un giudice terzo, uno di fuori.
Campagna contro Scidà dei poteri forti, cui una Procura funzionante non fa
affatto piacere. Spreco di polemiche (Ziniti, Rizzo, Condorelli, Sicilia,
Sudpress, Repubblica) contro Scidà e in sostegno di uno dei due contendenti
indigeni, per lo più Gennaro, a volte in buona fede a volte meno. Sullo
sfondo, grandi attese nel settore appalti: avremo una Procura che li controlli
oppure no?
Scidà (e con lui Giustolisi, Finocchiaro, Travaglio e Orioles) spera di sì.
Altri parlano d'altro, o alzano polverone. Alla fine, ovviamente, vince il
buon senso: il Csm nomina un procuratore esterno, che s'insedia e comincia
a esaminare le carte. Tutti applaudono, compresi coloro che l'avevano
osteggiato fino all'ultimo, o per interessi politici (vedi sopra) o per semplice
stupidità, e che a tal nobile scopo avevano fatto il possibile per linciare
Scidà. Ma invece la giustizia ha trionfato e Scidà, oplita dei poveri, ha
vinto.
***
E adesso è disteso qui, nella stanza vicina a quella in cui scrivo ed è piena
notte. Nella sua casa, come sempre, non ci sono che persone buone: il
fedelissimo Ferrera, la brava Abeba, Titta, Giuseppe, Luca... Una donna ha
portato dei fiori gialli, un'altra delle spighe di grano.
Ci sono due computer e una stampante, ma centinaia e centinaia di libri.
Braudel, Lefebvre, Verga, Guicciardini, i Canti, Mallarmé, Cervantes...
vecchi amici. C'è il suo giornale di otto anni fa, Controvento, quello che il
distributore non volle mettere in edicola perché “sennò Ciancio ci leva il
pane”. Ci sono carte e fascicoli dappertutto. Ci sono, chi addormentato in
poltrona chi su un divano, amici che gli vogliono bene. Lui, nella stanza
accanto, dorme sorridendo.
Avremmo dovuto parlare dei Siciliani, fra pochi giorni. Era fra i promotori,
proprio in questa casa ci siamo riuniti un mese fa.
“Mannaggia – penso – dovremo fare i Siciliani senza di lui”Fra poco è l'alba. Lontano, la notte s'è fatto impercettibilmente meno scura.
“Senza di lui? - pensiamo - Chissà se davvero siamo senza”.
mardiponente
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