Brescia nell`Italia

Transcript

Brescia nell`Italia
Brescia nell’Italia
Con il patrocinio di:
Università degli Studi di Brescia
Università Cattolica del Sacro Cuore
Ateneo di Brescia, Accademia di Scienze Lettere ed Arti
Istituto per la storia del Risorgimento italiano – Comitato di Brescia
Brescia nell’Italia
Giornate di studio per il centocinquantesimo
anniversario dell’Unità nazionale
a cura di
Luciano Faverzani
Ateneo di Brescia
Accademia di Scienze, Lettere ed Arti
fondata nel 1802 – onlus
Supplemento ai «Commentari dell’Ateneo di Brescia»
per l’anno 2011 (issn 0375-6181)
In copertina: Giovanni Battista Lombardi, Monumento ai Martiri
delle Dieci Giornate di Brescia del 1849 (detto Bella Italia), 1864 (part.).
Brescia, piazza della Loggia (foto Rapuzzi).
© Grafo | gestione Igb Group – Ateneo di Brescia
febbraio 2015
www.grafo.it
isbn 978 88 7385 920 8
contributi di
Marcello Berlucchi
Luigi Amedeo Biglione di Viarigi
Marziano Brignoli
Bernardo Falconi
Luciano Faverzani
Piero Gibellini
Giuseppe Langella
Francesco Lechi
Terenzio Maccabelli
Sergio Onger
Pierfabio Panazza
Filippo Ronchi
Mario Taccolini
Romano Ugolini
g r a f o
Presentazione
1861-2011
Luciano Faverzani
Le celebrazioni per il 150º anniversario dell’Unità d’Italia hanno rappresentato un importante momento nella vita del nostro Paese in un periodo di grave
crisi. Innumerevoli sono state le iniziative organizzate a livello locale e nazionale
miranti a ricordare gli eventi fondanti della nostra nazione.
In questo contesto celebrativo l’Ateneo di Brescia, Accademia di Scienze,
Lettere ed Arti, in collaborazione con il Comitato di Brescia dell’Istituto per
la storia del Risorgimento italiano, con il patrocinio dell’Università statale e
dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Brescia e con l’alto patronato del
Comitato interministeriale per il 150º dell’Unità nazionale, ha voluto farsi promotore di alcuni momenti di studio che sono culminati nel convegno svoltosi
venerdì 8 aprile 2011 presso l’Auditorium di Santa Giulia.
Il convegno – presieduto nella sessione mattutina dal prof. Francesco Lechi,
presidente dell’Ateneo di Brescia, e in quella pomeridiana dal prof. Marco Belfanti, dell’Università degli Studi di Brescia – è stato aperto da una prolusione
tenuta dal prof. Umberto Levra, dell’Università degli Studi di Torino, che ha
presentato una relazione riguardante le celebrazioni per il cinquantenario (1911)
e per il centenario (1961) dell’Unità nazionale. A questa relazione hanno fatto
seguito interventi che hanno cercato di analizzare il processo unitario nazionale dal punto di vista economico, industriale, finanziario, letterario, linguistico
e culturale; quindi due contributi più strettamente legati al territorio bresciano, aventi per tema il ruolo di Brescia come città del Regno di Sardegna fra il
1859 e il 1861 e il ruolo del territorio bresciano quale terra di esilio per i patrioti
mantovani, veneti e trentini fra il 1859 e il 1866.
Il convegno è stato preceduto e seguito da due cicli di conferenze che hanno
avuto per tema: il primo, il bicentenario della nascita del conte Camillo Benso
di Cavour, uno dei principali artefici dell’Unità nazionale, e il 150º anniversario
della spedizione dei Mille, volendo così ricordare la partecipazione dei bresciani
a quell’epopea; il secondo, il centocinquantesimo anniversario dell’Unità nazio
nale con interventi legati più strettamente al territorio bresciano. Il secondo ciclo di conferenze è stato inaugurato con la presenza del prof. Romano Ugolini,
presidente nazionale dell’Istituto per la storia del Risorgimento italiano.
Un sentito ringraziamento va a tutti gli studiosi intervenuti e a coloro che
da sempre hanno a cuore la memoria di eventi così importanti per la nostra
storia nazionale.
atti del convegno
Brescia nell’Italia
Giornata di studio
per il centocinquantesimo
anniversario dell’Unità nazionale
Venerdì 8 aprile 2011
Auditorium di Santa Giulia, Brescia

Saluti e ringraziamenti
Francesco Lechi *
Un secolo e mezzo fa veniva proclamato il Regno d’Italia e Brescia, città e
provincia, come tutta la nazione veniva a farne parte. Mancavano ancora le Tre
Venezie e Roma, con il Lazio, ma il nuovo Stato italiano, la nazione unitaria,
nasceva il 17 marzo 1861, e questa è la data che ha significato.
Questa è la data che oggi, qui, si vuole ricordare come inizio del nuovo Stato
nazionale, proponendo delle ricerche storiche sugli avvenimenti di quel tempo.
L’attenzione si focalizzerà sul nostro territorio.
Ad Ateneo di Brescia, Università statale, Università Cattolica (sede di Brescia) questo è parso il modo migliore di commemorare l’avvenimento, con serietà di studi e considerando gli aspetti culturali, economici e finanziari, oltre alla
peculiarità di una città, una provincia, che ancora per alcuni anni sarebbe stata
di confine. Su questo tema verteranno molte relazioni odierne, portando a riflessioni sugli slanci, le fratture, le ricomposizioni di quel momento formante.
Altra cosa sono le commemorazioni politiche, positive se in occasione
dell’Unità uniscono gli animi.
Grazie a Sergio Onger, Mario Taccolini, ai relatori che con generosa gratuità
sono venuti a partecipare.
Benché gli interventi siano in buona parte focalizzati su temi locali, appare
opportuna una breve riflessione che inquadri l’avvenimento entro i grandi fenomeni di fondo.
L’unificazione italiana ha rappresentato certamente una netta soluzione di
continuità rispetto al passato, ma non è stata un fatto unico e si è inserita in
una tendenza generalizzata dell’Europa: il formarsi degli Stati nazionali. Essi erano già sorti in Francia, Spagna, nel Regno Unito dal ’600, in Grecia; lo
Stato nazionale stava nascendo in Germania e si sarebbe poi formato nei Paesi
slavi e balcanici.
* Presidente dell’Ateneo di Brescia.

Il formarsi degli Stati attorno al concetto di nazionalità rispondeva a richieste politiche e culturali delle società: delle élite che le guidavano, ma anche e
soprattutto degli strati sociali emergenti, quelli che stavano formandosi e rafforzandosi con lo sviluppo economico e tecnologico e che cominciavano a contare nelle scelte.
Rispetto alla società del passato in Europa si stavano diffondendo novità dirompenti e interrelate. La scienza sperimentale trascinava le innovazioni tecniche e quindi le rivoluzioni industriale e dell’agricoltura, e con esse una maggiore
e diffusa istruzione; questa comportava a sua volta la necessità di un consenso
politico più vasto e una nuova modalità di legittimazione, derivante dalla “volontà popolare”, con la caduta del principio di legittimità dinastica.
Non è un caso che i fenomeni ora indicati abbiano avuto preminenza negli
Stati unitari esistenti e che le successive unificazioni siano partite dai nuclei territoriali in cui scienza e sviluppo economico hanno avuto maggiore rilevanza
(Prussia, in Slesia e Renania; Piemonte e Liguria e presto la Lombardia). Sviluppo economico, e anche finanziario, che richiedeva un quadro istituzionale
adatto e maggiori economie di scala.
Questo per ricordare come le pur decisive scelte dei singoli siano solo parte
dei grandi movimenti storici
Entro la logica delle analisi storiche sarebbe poco razionale fare discendere
direttamente molte situazioni odierne dai fatti di 150 anni fa. Di certo quei fatti sono stati determinanti per molte scelte successive, ma da allora si sono succeduti tanti e tali altri avvenimenti che il rapporto diretto di causa ed effetto
dell’evento “Unità d’Italia” con i problemi odierni non è proponibile.
Se peraltro non va enfatizzata la relazione causale dell’avvenimento sull’oggi,
non va diminuita l’importanza del suo ricordo. Un popolo senza la memoria
degli eventi più rilevanti e fondanti della sua storia, senza una riflessione culturale corretta sul passato, è un popolo senza coscienza di sé, senza capacità di
costruire solidi valori neppure per l’oggi.
È anche per questo che si propone la giornata odierna.
Gli economisti e l’Unità d’Italia
Terenzio Maccabelli *
Questa virile età, volta ai severi
Economici studi, e intenta il ciglio
Nelle pubbliche cose
(G. Leopardi)
Premessa
In che modi la storia dell’economia politica intrecciò e si sovrappose alle vicende costitutive dello Stato italiano? Un volume non sarebbe probabilmente
sufficiente per rispondere a questa domanda, tanti sono gli aspetti a cui si dovrebbe dare rilievo per mettere a fuoco il problema. Gli economisti italiani ebbero un ruolo fondamentale nella fase di preparazione e poi nella conduzione
del nuovo Stato italiano alla fine dell’Ottocento. Insediatisi nelle diverse sedi
istituzionali – aule parlamentari, Governo, commissioni pubbliche, ecc. – e
fondamentali attori nel processo di formazione dell’opinione pubblica – grazie
alla loro attiva partecipazione ai dibattiti su riviste e quotidiani – gli economisti svolsero una funzione primaria nella messa a punto delle scelte da cui dipese
la struttura sia dello Stato sia dell’economia italiana. Dalle idee dibattute nella
nascente scienza dell’economia politica dipesero in larga parte le grandi scelte
strategiche che condizionarono il processo di unificazione.
L’Italia avrebbe dovuto essere un Paese agricolo o industriale? Specializzarsi in qualche settore dell’economia nazionale promuovendo uno sviluppo orientato verso
l’esterno o ricercare una crescita interna? Avrebbe dovuto adottare una politica liberista lasciando al mercato il potere di decidere il modello di sviluppo o implementare una strategia interventista a difesa di specifici settori? 1.
* Università degli Studi di Brescia.
1
Antonio Magliulo, Introduzione, in Antonio Scialoja, Opere, vol. II, Trattato elementare di economia sociale, Franco Angeli, Milano 2006, p.v.


Soltanto questo breve elenco di questioni dovrebbe essere sufficiente per
mostrare quanto rilievo abbia avuto, nella formazione dello Stato nazionale, il
contributo degli economisti. Ma, di fatto, questo elenco potrebbe essere ulteriormente allargato, tenuto conto che
nei loro scritti e discorsi e nella loro azione quali policy makers, gli economisti del
nostro Paese hanno affrontato in modo critico i principali nodi dell’economia e
della società italiana del tempo: […] l’andamento della finanza pubblica, i compiti e le disfunzioni della pubblica amministrazione, la questione sociale e le lotte
del lavoro, la politica doganale, l’agricoltura, il Mezzogiorno, gli assetti del sistema
creditizio e il ruolo delle politiche monetarie, i trasporti ferroviari, i porti e la marina mercantile. Un insieme di problematiche di indubbia rilevanza che sono state oggetto negli ultimi anni di studi anche pregevoli ma sulle quali molto rimane
ancora da indagare 2.
La storiografia degli ultimi decenni – soprattutto quella ispirata al canone
metodologico della storia istituzionale dell’economia politica 3 – offre indubbiamente un quadro molto articolato e puntuale su molte questioni che toccano al
cuore il rapporto tra economisti e Unità d’Italia. È altrettanto vero, tuttavia, che
manchi ancora un’interpretazione di sintesi di quelle vicende, capace di offrire
una lettura sistematica delle diverse forme di interazione tra storia dell’economia
politica e formazione dello Stato nazionale. Questo breve scritto non ambisce
naturalmente a proporsi come lettura esaustiva in merito a una questione storiografica che rimane di estrema complessità, e non si propone nemmeno come
interpretazione sistematica; cercherà piuttosto, avvalendosi dei risultati della recente storiografia, di indicare succintamente quelle che appaiono come le linee
di ricerca più promettenti, oltre ad avanzare un’ipotesi interpretativa, qui solo
abbozzata, relativa alla possibilità di leggere il rapporto tra economia politica e
Gli economisti italiani e la formazione dello Stato nazionale, Call for paper XI Convegno Aispe,
Pisa, 1-3 dicembre 2011.
3
Cfr. Massimo M. Augello, Marco Bianchini, Gabriella Gioli, Piero Roggi (a cura di), Le cattedre
di economia politica in Italia. La diffusione di una disciplina “sospetta” (1750-1900), Franco Angeli, Milano 1988; Massimo M. Augello, Marco Bianchini, Marco Enrico Luigi Guidi (a cura di), Le riviste
di economia in Italia (1700-1900). Dai giornali scientifico-letterari ai periodici specialistici, Franco Angeli, Milano 1996; Massimo M. Augello, Marco Enrico Luigi Guidi (a cura di), Associazionismo economico e diffusione dell’economia politica nell’Italia dell’Ottocento. Dalle società economico-agrarie alle
associazioni di economisti, 2 voll., Franco Angeli, Milano 2000; Massimo M. Augello, Marco Enrico Luigi Guidi (a cura di), Gli economisti in Parlamento 1861-1922. Una storia dell’economia politica
dell’Italia liberale, 2 voll., Franco Angeli, Milano 2003.
2

Stato nazionale sottolineando il ruolo degli economisti in quanto espressione
della cosiddetta “nobiltà di Stato”.
Muovendo dall’esperienza del caso italiano, si possono indicare almeno tre direzioni per indagare e approfondire il legame tra economia e Stato nazionale, storicamente in sequenza tra loro, ma con inevitabili sovrapposizioni temporali:
1) il ruolo svolto dall’economia politica nella costruzione dell’immaginario
nazionale quando ancora il sapere economico non aveva raggiunto il riconoscimento come campo autonomo e indipendente;
2) la partecipazione attiva e concreta di numerosi economisti alla fase di preparazione e poi al processo di unificazione nazionale, sia nella veste di teorici/
opinionisti che di attivi esponenti degli organi legislativi, amministrativi e di
governo;
3) la progressiva autonomizzazione del discorso economico, un percorso in
verità molto lento che produce, o almeno vorrebbe produrre, un’autonomia di
campo del sapere economico rispetto al campo politico. Questo processo spinge
molti economisti a differenziare la propria attività, a utilizzare strategie retoriche
e registri comunicativi differenti per i diversi mercati, differenziando il mercato
teorico-accademico da una parte e quello politico dall’altra. Se politica ed economia rimasero ancora per molto tempo intrecciate nel periodo risorgimentale, nei
decenni successivi all’Unità si assistette a una progressiva, anche se mai compiuta
fino in fondo, separazione. La ricomposizione dei due ordini del discorso è avvenuta, con tutti i relativi problemi di coerenza e congruenza, per gli economisti
assurti al ruolo di alti funzionari, parlamentari o organi dell’esecutivo, costretti a
mettere alla prova i dettami teorici con la realtà e la prassi delle scelte politiche.
In questo scritto non proveremo nemmeno ad articolare un discorso che voglia affrontare in tutta la loro complessità ognuno dei problemi sopra evidenziati. Nella nostra ricostruzione le tre linee di ricerca sopra evocate saranno affrontate in modo sintetico e schematico nelle due parti in cui si articola il presente
scritto, che hanno l’intento di mostrare la rilevanza dei problemi storiografici
sollevati più che offrire risposte esaustive. Nella prima parte verrà discusso il rapporto tra economia politica e immaginario nazionale, menzionando quella iniziativa del tutto peculiare rappresentata dalla raccolta Custodi dei classici italiani
di economia politica. Nella seconda parte verrà avanzata l’ipotesi, cui abbiamo
sopra accennato, di interpretare gli economisti come espressione della cosiddetta
“nobiltà di Stato”. Nel corso della ricostruzione si daranno alcuni cenni ai dibattiti economici in senso lato come luogo di formazione dell’opinione pubblica e
di quelle categorie su cui si è andata costruendo l’immagine dello Stato.

L’economia politica e l’immaginario nazionale: l’invenzione
dei classici “italiani” di economia
Per la storia dell’economia politica in Italia, il diciannovesimo secolo si apre
con un evento del tutto eccezionale: la pubblicazione, tra il 1803 e il 1805, dei 50
volumi che formano la collezione degli Scrittori classici italiani di economia politica, curata da Pietro Custodi. La coincidenza con l’anno di pubblicazione del
Traité d’economie politique di J.B. Say è una circostanza forse casuale ma non priva di suggestioni: proprio nel momento in cui si afferma la convinzione, alimentata appunto dall’economista francese, che la Wealth of Nations di Adam Smith
segni un decisivo spartiacque tra la storia e la preistoria dell’economia politica 4,
la raccolta di Custodi contribuisce a codificare l’immagine di un “classicismo
economico italiano” che non pare avere eguali negli altri paesi europei. La circostanza che la maggior parte degli autori che compongono i Classici italiani di
economia politica siano anteriori a Smith apre implicitamente le porte a un’idea
che sarà foriera di importanti ripercussioni nel dibattito economico dell’Italia
di primo Ottocento: l’ipotesi cioè che Smith non rappresenti quello spartiacque
descritto da Say, essendo al contrario la scienza economica il prodotto di una
tradizione di pensiero, quale appunto quella italiana, che si era sviluppata ben
prima e autonomamente rispetto all’economista scozzese.
Con la pubblicazione dei Classici italiani, Custodi non mostra comunque
alcun desiderio di offuscare la fama di Smith come figura determinante nello
sviluppo della moderna scienza economica. Per quanto limitati, i riferimenti allo
scozzese non sembrano mettere in discussione la posizione di privilegio guadagnata dalla Wealth of Nations nella storia dell’economia politica 5, né tantomeno
assegnare un “primato” alla tradizione italiana 6. È certo, tuttavia, che nel met «[…] il n’y avait pas d’économie politique avant Smith […] entre la doctrine des Economistes et
la sienne, il y a la même distance qui sépare le système de Ticho Brahé de la physique de Newton»
(Jean-Baptiste Say, Traité d’économie politique, Crapelet, Paris 1803, pp. xxiii-xxiv).
5
Presentando ad esempio l’economista veneziano Gian Maria Ortes, uno dei più rappresentativi
dell’intera raccolta, Custodi scrive che la sua Economia Nazionale, stampata per la prima volta a Bologna nel 1774, «per vastità di piano e precisione d’analisi può degnamente sostenere il confronto
colla grande opera di Smith sulla Ricchezza delle Nazioni» (Pietro Custodi, Scrittori classici italiani di
economia politica, Destefanis, Milano 1803-1816, vol. I, p. xx). Un giudizio che non solo testimonia
il forte apprezzamento nei confronti di Ortes ma che lascia altresì trasparire un’immagine di Smith
come indiscussa autorità nel campo della scienza economica.
6
Nelle intenzioni di Custodi, alla Raccolta degli economisti italiani avrebbero dovuto infatti fare
seguito le «separate Raccolte degli Economisti Inglesi e degli scrittori di pubblica beneficenza, e successivamente degli Economisti Francesi, Tedeschi, Spagnoli, e degli scrittori d’agricoltura» (P. Custodi, Scrittori classici italiani…, cit., vol. I, p. xxvi).
4

tere in circolazione i testi del pensiero economico italiano, assegnandogli le benemerenze della “classicità”, egli contribuisce a “inventare”, nel senso letterale
del termine, una tradizione che si dimostrerà capace di imporre una forte ipoteca allo sviluppo successivo della scienza economica in Italia 7.
Negli anni Venti dell’Ottocento scoppia in effetti la polemica sul “primato
italiano” nella scienza economica. Come detto, nelle intenzioni di Custodi non
sembra ci fosse il desiderio di mostrare tale primato: l’invenzione e la circolazione dei classici italiani di economia contribuiscono tuttavia in poco tempo ad
alimentare la convinzione di una supremazia italiana nelle questioni economiche. Alla polemica contribuisce soprattutto Gioia, che, nel rispondere ad alcuni
articoli di Say dedicati alla storia dell’economia politica, non esita a dichiarare
la priorità degli economisti italiani sugli autori francesi e inglesi (per Say i veri
fondatori della scienza economica). A parere di Gioia, la superiorità degli economisti italiani si deve alla loro impostazione statistica, totalmente assente nei
maggiori autori francesi e inglesi. A nulla valgono le precisazioni di Say sull’autonomia dell’economia teorica rispetto alla statistica. Gioia ribadisce la propria
concezione dell’economia come scienza dell’amministrazione, di cui è parte integrante la descrizione statistica del mondo produttivo e distributivo, senza la
quale non potrebbe realizzarsi il compito precipuo dell’economia che è quello
di intervenire direttamente nella realtà 8.
La presa di posizione dell’economista piacentino fa esplodere una polemica destinata a protrarsi fino alla fine dell’Ottocento, nella quale interverranno
pressoché tutti i maggiori economisti italiani, con prese di posizione talune favorevoli e talune di condanna nei confronti dell’ipotesi di “italianità” della scienza economica. «Custodi edificò […] una tradizione italiana, al cui fascino ben
pochi autori risorgimentali si sottrassero. Inventati e pubblicati i “classici”, la
vicenda secolare dell’economia politica italiana trovò un approdo, e gli scrittori successivi – almeno fino a Ferrara – un ineludibile punto di partenza» 9. Ma
sottostante a queste dinamiche, per così dire “interne” alla storia dell’economia
politica, si intravede un ulteriore aspetto, fondamentale nell’ottica del presente
scritto. La diatriba sulla cosiddetta “italianità” della scienza economica si colloca
Cfr. Roberto Romani, L’economia politica del Risorgimento italiano, Bollati Boringhieri, Torino
1994, pp. 43-45.
8
Melchiorre Gioia, Osservazioni sopra un articolo della Revue Encyclopedique intitolato: De l’objet et
de l’utilité des statistiques, in «Biblioteca Italiana», 1828, vol. IL, pp. 360-283.
9
R. Romani, L’economia politica…, cit, p. 45.
7

infatti nella millenaria storia della costruzione del concetto stesso di italianità,
una costruzione avvenuta prima di tutto sul piano dell’immaginario, cioè sul
piano letterario e linguistico.
Come noto, questa costruzione simbolica mantenne viva per secoli l’idea di un
carattere “nazionale” della letteratura italiana, attorno al quale si andrà a edificare,
negli anni risorgimentali, l’idea di una nazionalità territoriale da costruire politicamente. Tra le innumerevoli testimonianze in questa direzione, possiamo qui
ricordare quella di Luigi Settembrini, tratta da un suo scritto autobiografico.
Le guerre […] al tempo di Napoleone I […] fecero nascere un nuovo sentimento,
che da prima fu vago e non ebbe nome, poi venne determinandosi e fu sentimento nazionale. Esso, in tutti i popoli vecchi come siamo noi, comincia dalla memoria del passato, e si manifesta prima nelle opere d’ingegno degli uomini colti, poi
nei fatti della moltitudine. […] Questo sentimento era dentro a tutti i pensieri e le
opere degl’Italiani, i quali, nelle arti e nella lingua da prima, poi nelle scienze e nella politica, ristoravano l’antico e il proprio, e rifiutavano ogni elemento forestiero.
[…] Gl’Italiani unirono prima le menti nei congressi scientifici, poi le armi nella
prima e sventurata guerra nazionale 10.
Riteniamo che inserire la raccolta Custodi entro le griglie di questa travagliata storia nazionale non sia affatto blasfemo. «Io indirizzo questa Raccolta –
così recita la Dedicatoria di Custodi nel primo volume dell’opera – agli italiani
che sentono ancora stimolo d’onore e fervida brama di giovare alla comune loro patria». Ancora, in altro passo, Custodi dipinge sé stesso come «l’armaiuolo
che ha fornito d’armi un esercito».
È insomma un importante «apporto di patriottismo» 11 quello che Custodi
riuscì a realizzare con la sua raccolta dei classici italiani di economia, destinato
a estendersi ben oltre i confini del sapere economico. Prescindendo dai volumi
dei classici italiani di economia politica editi da Custodi è infatti «impossibile
cogliere le modalità di inserzione del sapere economico entro la generale dinamica culturale del Risorgimento. Quei volumi furono uno dei tanti frutti, e non
il minore, dell’autocritica rivoluzionaria» 12.
Luigi Settembrini, Ricordanze della mia vita, Alberto Morano, Napoli 1906.
Cfr. Aurelio Macchioro, Studi di storia del pensiero economico, Feltrinelli, Milano 1970; Id., La
raccolta Custodi fra la statistica e l’economia politica, in «Società e Storia», 1, pp. 123-149.
12
R. Romani, L’economia politica…, cit., p. 43. «Grazie a Custodi l’economia politica contribuì a
soddisfare il diffuso bisogno di identità civile degli “italiani”, una volta esauritesi le istanze palingenetiche e democratiche-sociali, ma una volta irrimediabilmente agitate le coscienze» (ibidem, p. 44).
L’economia politica risorgimentale si andava così colorando di un’imprescindibile funzione pedagogica e civile, esplicita nell’opera di Giuseppe Pecchio. La
sua Storia dell’economia pubblica in Italia, pubblicata nel 1829, si proponeva come agile sunto della monumentale opera di Custodi, realizzata per amplificarne
ed esplicitarne il messaggio patriottico. «I popoli e i governi d’Italia devono essere grati agli scrittori di economia pubblica», perché «l’economia politica è per
così dire la scienza dell’amor patrio». Ma quei «popoli e governi d’Italia» declinati retoricamente al plurale dovevano in realtà diventare uno, essendo l’economia agli occhi del conte Pecchio «una parte di libertà velata sotto nomi diversi».
Costretto all’esilio, Pecchio attaccò ripetutamente il governo austriaco, contribuendo a diffondere un’immagine dell’economia politica che si andava innervando sulla «lotta politica del Risorgimento» 13. «L’economia politica risorgimentale – ha sottolineato Roberto Romani – è nel segno di Pecchio: non soltanto
per aver gonfiato i petti degli italiani riprendendo la tradizione custodiana, ma
anche per aver definito un Risorgimento di matrice economica» 14.
Come noto, i maggiori frutti di questa diffusione di un sapere economico
indissolubilmente legato al patriottismo politico si ebbero nel Piemonte di Cavour. È qui che si manifestò nella sua forma più palese quella «connotazione
autenticamente “risorgimentale” e italiana dell’economia politica» più volte sottolineata da Romani. Almeno due aspetti di questa economia politica che «informò di sé il Risorgimento piemontese» vanno qui ricordati. In primo luogo,
l’immagine stessa dell’Italia che gli scrittori di cose economiche cominciavano
a dipingere: un Italia «come avrebbe dovuto essere», cioè «libera politicamente,
percorsa da ferrovie e canali, fecondata da capitali di rischio [e] aperta al commercio col resto d’Europa». E in questo quadro, la modernità stessa del sapere
economico lo rendeva un imprescindibile «vessillo di battaglia» 15. In secondo
luogo, un fatto nuovamente simbolico, legato a quella costruzione dell’immaginario nazionale su cui stiamo insistendo. Nonostante la localizzazione geografica nel Piemonte albertino, l’economia politica continuava a trasmettere
un’immagine della «penisola come un solo luogo di produzione intellettuale» 16.
Un aspetto questo a cui già Custodi aveva dato un formidabile contributo, inserendo nella sua raccolta scrittori rappresentativi di pressoché tutte le regioni
10
11

15
16
13
14
Ibidem, p. 25.
Ibidem, p. 21.
Ibidem, p. 196.
Ibidem, p. 25.

italiane; un aspetto rafforzato dalla contingenza politica, dopo che alcuni dei
più importanti economisti meridionali, come ad esempio Francesco Ferrara e
Antonio Scialoja, erano stati costretti a emigrare a Torino. Le origini palermitane di Ferrara, come quelle napoletane di Scialoja, pongono le biografie dei due
economisti al crocevia delle vicende risorgimentali che si snodano tra il nord e
il sud del Paese. Dalle loro biografie emerge con nitidezza il modo in cui la storia dell’economia sia andata ad innervarsi nelle vicende risorgimentali prima e
unitarie poi: ed emerge altresì il fondamentale ruolo avuto dall’economia politica nel processo di rinnovamento culturale «che caratterizza nella seconda metà
degli anni ’40 il regno di Sardegna».
«L’introduzione dell’insegnamento dell’economia politica nell’università di
Torino rappresentava uno dei pilastri di questo disegno» 17. La cattedra di economia, introdotta all’inizio dell’Ottocento, era stata soppressa negli anni della
Restaurazione 18, nel clima di forte avversione per l’economia politica che caratterizzò pressoché tutti i governi restaurati. In quanto disciplina sospetta, rea
«d’esser veicolo di liberalismo», il suo insegnamento venne soppresso anche in
Piemonte «a seguito della rivoluzione del 1821» 19. Il Regno di Sardegna fu il primo Stato italiano a rivedere quella decisione in un nuovo clima culturale in cui
si andavano diffondendo idee ispirate a un moderato liberismo. Si stava facendo strada «un sodalizio tutto piemontese tra economia politica e riforme, che in
modi diversi avrebbe connotato anche la fase costituzionale del regno sardo» 20.
Fin dagli anni Trenta, negli ambienti politici torinesi si cominciò a discutere
del «ruolo degli studi economici nella formazione dei funzionari della pubblica
amministrazione» 21.
Con l’approssimarsi dei decenni decisivi per l’Unità d’Italia, l’immagine
dell’economia politica comincia tuttavia a mutare. L’esperienza della raccolta
Custodi è ormai alle spalle, e l’economia cessa di essere declinata come sapere
“italiano” (ancorché sia ancora strisciante, come abbiamo anticipato, l’eco della
polemica sulla italianità della scienza economica). L’economia politica, soprat Enzo Pesciarelli, Introduzione, in A. Scialoja, Opere, vol. III, Lezioni di economia politica (Torino
1846-1854), Franco Angeli, Milano 2006, p. ix.
18
Luciano Pallini, Tra politica e scienza: le vicende della cattedra di economia politica all’Università di
Torino, 1800-1858, in M.M. Augello, M. Bianchini, G. Gioli, P. Roggi (a cura di), Le cattedre di economia politica…, cit., pp. 139-184.
19
R. Romani, L’economia politica…, cit., p. 171.
20
Ibidem, p. 162.
21
E. Pesciarelli, Introduzione, cit., p. x.
17

tutto grazie a Francesco Ferrara, incarna ora l’immagine di un sapere universale e
cosmopolita che, in quanto scientifico, non ha più alcuna connotazione “nazionale”. Nonostante questo radicale mutamento, l’economia politica continuerà
ad avere una funzione imprescindibile nella formazione dell’Italia unita, ma in
una direzione molto diversa da quella simbolica e operante sul piano dell’immaginario nazionale discusso fino a ora. Questo mutamento passa attraverso
il riconoscimento scientifico dell’economia politica, la sua istituzionalizzazione
accademica e la formazione di un corpo di specialisti in tale sapere che offrono
i loro servigi intellettuali al nascente Stato italiano. E tali servigi non sono solo
attiva presenza negli organi di governo, legislativi e amministrativi, ma anche
idee e schemi di pensiero che contribuiscono a creare lo Stato, il mercato, nonché i loro rapporti reciproci. Ma da questa prospettiva, il legame tra economia
politica e Stato nazionale ha radici più lontane, che rimandano al periodo di
formazione degli Stati nazionali europei.
Economia politica e Stato nazionale: gli economisti
come “nobiltà di Stato”
Paolo Prodi ha recentemente sottolineato come molta storiografia politica sia
viziata da un’eccessiva semplificazione nel discorso sullo Stato, spesso limitato
«al piano politico e istituzionale lasciando ai margini il tema del cameralismo
e del mercantilismo, visto soltanto come nascita di una politica economica da
parte degli Stati, finalizzata alla necessità del bilancio e del mantenimento delle strutture belliche e amministrative» 22. Forse lo stesso ammonimento, in forma speculare, potrebbe essere rivolto anche a molta storiografia economica, che
spesso assume come un dato astorico – esogeno potremmo dire – il concetto
dello Stato. È vero, e non c’è bisogno di richiamare Einaudi, che lo Stato (astrattamente inteso) e il suo ruolo in ambito economico siano da sempre argomenti
al cuore della riflessione economica, e come tali oggetti di ricerca anche per gli
storici del pensiero economico. Ed è vero che la dialettica Stato/mercato sia da
sempre uno degli snodi decisivi della riflessione economica e della storiografia
economica. Ma tanto lo Stato quanto il mercato hanno finito per diventare categorie universali in cui si è perso il dato della loro strettissima interdipendenza
nel periodo di formazione degli Stati nazionali. Come ricorda ancora Prodi, «il
Paolo Prodi, Settimo non rubare. Furto e mercato nella storia dell’Occidente, il Mulino, Bologna
2009, p. 187.
22

rapporto con il mercato fa parte integrante della politica di costruzione dello
Stato moderno nel passaggio da una “ragion di Stato” intesa come “arcano” del
potere, che domina ancora il pensiero politico da Machiavelli sino al primo Seicento, a una ragione di Stato, come ratio, come calcolo e bilancio non soltanto
delle spese dello Stato ma del benessere della società governata» 23.
Sorprende allora che lo Stato nazionale, nella sua dimensione storica e nelle sue diverse incarnazioni nazionali, sia stato raramente indagato in rapporto
all’emergere dell’economia politica. E sorprende maggiormente se è vero, come è stato autorevolmente sottolineato, che «si può simbolizzare nello Stato il
senso storico di tutti i cambiamenti – di quelli politici, nel senso più stretto del
termine, di quelli economici, giuridici, militari e perfino di quelli intellettuali e
artistici, ecc. – che si verificano in Europa durante la crisi storica che inaugura
i tempi moderni. Tutti i cambiamenti che avvengono nei secoli XV e XVII nelle diverse sfere della società e della cultura sono condizionati dalla formazione
dello Stato come forma moderna di raggruppamento politico» 24.
I principali Stati nazionali nascono in un’epoca in cui non esistevano ancora né un sapere economico autonomo né la figura dell’economista. Ma forse
si potrebbe dire che è una produzione congiunta – in cui si intrecciano dati di
realtà e dimensione simbolica – che si mette in moto a partire dalla modernità. «La scienza sociale è essa stessa, fin dalle origini, parte integrante di questo
sforzo di costruzione della rappresentazione dello Stato che fa parte della realtà
stessa dello Stato» 25.
Diverso il caso degli Stati nazionali di tardiva formazione, come l’Italia e la
Germania, nei quali il sapere economico era in avanzata fase di costituzione come campo autonomo, e dove la figura dell’economista aveva ormai acquisito
un riconoscimento sociale, come specialista di uno specifico ramo del sapere,
peraltro sancito dalla istituzionalizzazione accademica.
Il caso di economisti che abbiano assunto ruoli importanti nell’amministrazione, nel Governo o negli organi legislativi degli Stati è come sappiamo molto
frequente. La storiografia richiama spesso questo loro ruolo designandoli come
grand commis, public o civic service, o più comunemente alti funzionari dello
Stato. Qualificandoli con l’espressione “nobiltà di Stato” proponiamo un concetto per certi versi equivalente, ma per altri più generale. La scommessa è capire
se questo concetto permetta di aggiungere qualcosa alla descrizione e alla comprensione del fondamentale ruolo svolto dagli economisti nella costruzione dello Stato o se invece questo concetto si risolva in un semplice orpello retorico.
Nel seguito proveremo dunque a utilizzare la categoria di «nobiltà di Stato»
per leggere le vicende degli economisti italiani in rapporto appunto ai processi
di formazione dello Stato nazionale. Prenderemo come riferimento le biografie dei due più famosi economisti risorgimentali, Francesco Ferrara e Antonio
Scialoja, che riteniamo si prestino a essere assunte come modelli esemplari di
economisti appartenenti a questa “nobiltà di Stato”.
L’idea di nobiltà di Stato nasce come categoria descrittiva di un insieme variegato di figure sociali legate all’emergere del sistema degli Stati nazionali europei.
Nel periodo di formazione degli Stati nazionali, si formò infatti un ceto di alti
funzionari i cui poteri e privilegi non derivavano dall’eredità nobiliare in senso
stretto, ma dalla competenza, dal possesso di un particolare “capitale culturale”
e dall’appartenenza a reti sociali adeguate (naturalmente sempre elitarie). Può
essere allora utile riprendere, per sommi capi, il «processo storico alla base della
nascita di questa specifica realtà che è lo Stato», mettendo in luce i mutamenti avvenuti nella «transizione dallo Stato dinastico allo Stato burocratico, dallo
Stato circoscritto alla casa del re, allo Stato costituito come campo di forze e di
lotte orientate al monopolio della gestione legittima dei beni pubblici» 26.
La difficoltà tutta particolare della questione dello Stato nasce dal fatto che, specialmente nella fase di costruzione e di consolidamento, molti scritti sull’argomento,
mentre sembrano pensarlo, in realtà partecipano, in modo più o meno efficace e
diretto, alla sua costruzione e quindi alla sua stessa esistenza. Questo è vero in particolare per la produzione scientifica del Cinque e Seicento, che rivela tutto il suo
significato solo se si riesce a leggerla non come un contributo piuttosto atemporale alla filosofia dello Stato, […] ma come un programma di azione politica mirante a imporre una visione particolare dello Stato, conforme agli interessi e ai valori
connessi alla posizione occupata da chi lo produce nell’universo burocratico in via
di formazione 27.
Le scienze sociali – naturalmente nella loro declinazione storica, non esi-
Pierre Bourdieu, Dalla casa del re alla ragion di Stato. Un modello della genesi del campo burocratico,
in Loic Wacquant (a cura di), Le astuzie del potere. Pierre Bourdieu e la politica democratica, Ombre
Corte, Verona 2005, p. 38.
27
P. Bourdieu, Ragioni pratiche, cit., p. 93.
26
Ibidem, pp. 188-189.
24
José A. Maravall, Stato moderno e mentalità sociale, il Mulino, Bologna 1991, pp. 40-41.
25
Pierre Bourdieu, Ragioni pratiche, il Mulino, Bologna 1995, p. 93.
23


stendo ancora l’economia politica – furono, «fin dalle origini, parte integrante
di questo sforzo di costruzione della rappresentazione dello Stato che fa parte della realtà stessa dello Stato» 28. Ma più che alle riflessioni teorico-politiche
sullo Stato di filosofi e intellettuali è all’azione di una particolare categoria di
agenti che operarono nello Stato che bisogna guardare per mettere a punto
l’idea di nobiltà di Stato. E tra questi agenti, un ruolo di assoluto primo piano è svolto dai giuristi, coloro appunto che nel “pensare” le forme del diritto
contribuirono a creare lo Stato, a renderne possibile l’esistenza stessa, producendo lo Stato nell’atto stesso di descriverlo. I giuristi sono appunto gli esempi
più rilevanti della cosiddetta “nobiltà di Stato”, anche se il concetto può essere
esteso a una gamma assai più ampia di figure sociali, la cui caratteristica è appunto quella di essere «strettamente legate e interessate al […] funzionamento» dello Stato29.
In prima approssimazione, possiamo dire che il discorso sulla nobiltà di Stato
riguardi in generale quel «corpo di funzionari, chiamati “ufficiali”», che si vanno
organizzando e specializzando nelle «varie funzioni» della macchina amministrativa statuale, destinata nel XVI e nel XVIII secolo a farsi sempre più complessa 30.
Si tratta di funzionari reclutati soprattutto tra le fila del terzo stato, più che tra
la nobiltà, che elevano il loro status esercitando particolari funzioni pubbliche
per le quali è richiesto il possesso di specifiche conoscenze e abilità, soprattutto nei rami della giurisdizione, dell’amministrazione e della fiscalità dello Stato. Tutte funzioni peraltro all’origine, nella fase di formazione degli Stati, del
fenomeno della venalità degli uffici, sistema attraverso il quale il sovrano riuscì
a «legare a sé […] gran parte di quel ceto borghese che diventa così in qualche
modo azionista dello Stato» 31. L’incorporazione nel ruolo da servitori dello Stato
(civic service), porterà questo ceto a rivendicare il diritto alla trasmissione ereditaria degli uffici, pur continuando a rivendicare l’origine di questo privilegio
nel sapere e nella competenza più che nella nascita.
Ma per mettere maggiormente a fuoco la natura della nobiltà di Stato, è necessario guardare più da vicino alle trasformazioni del campo giuridico e al peso
crescente che esso assume con il progressivo differenziarsi del campo del potere 32. L’uomo di legge – nelle sue diverse vesti di teorico del diritto, di operato-
re del foro e di produttore di norme – diventa l’archetipo del “servitore dello
stato”, l’“incarnazione perfetta” di una nobiltà non più basata sul sangue ma
sul sapere e sulle competenze, derivanti dall’istruzione e dal capitale culturale.
L’espressione nobiltà di toga (o noblesse de robe in Francia) si afferma storicamente proprio per differenziare questo nuovo ceto dalla tradizionale nobiltà “di
spada” di origine signorile.
Infatti i giuristi, cioè il vertice della nobiltà di Stato accanto al potere fiscale e amministrativo, non si riproducono attraverso il sangue (anche se nella Francia del XVII
secolo alcune cariche della nobiltà di toga diverranno ereditarie), ma attraverso la
stessa cultura giuridica – esattamente come i sacerdoti si riproducono attraverso quella ecclesiastica. Il loro capitale culturale è, al contempo, simbolico e legittimante,
quindi superiore, sulla lunga durata, allo stesso potere dinastico del re. Ricavando il
loro (immenso) potere dallo Stato, questi uomini vi si consacrano, vi si identificano
senza riserve con un godimento identitario che potremmo chiamare sacerdozio della
magistratura. […] Il legame dei giuristi con la riproduzione scolastica e la loro competenza tecnica, li hanno condotti prima ad un relativo potere e poi ad una crescente
autonomia nei confronti del re, che, alla fine, “dipenderà” da loro 33.
Sono i titoli scolastici, in particolare, che consacrano la competenza e l’appartenenza alla nobiltà di Stato:
Gli esami o concorsi servono a giustificare in ragione delle divisioni, che non hanno la razionalità come principio, e i titoli che ne sanzionano i risultati, rappresentano delle garanzie di competenza tecnica attraverso certificati di competenza sociale, molto simili in questo ai titoli di nobiltà […] La funzione tecnica evidente,
fin troppo evidente, di formazione, di trasmissione di una competenza tecnica e di
selezione dei più competenti tecnicamente, maschera una competenza sociale, più
precisamente la consacrazione dei detentori statutari della competenza sociale, del
diritto di dirigere. […] Noi abbiamo così […] una nobiltà scolastica ereditaria dei
dirigenti dell’industria, fatta di grandi medici, di alti funzionari e anche di dirigen-
«In altri termini i giuristi razionalizzarono, cioè diedero rigore all’esercizio del potere sovrano; introdussero nel processo la pratica razionale dell’inquisitio, sostituendo definitivamente la logica al
giudizio di Dio, ma allo stesso tempo, grazie ad una specifica metamorfosi del pastorato, “costruirono l’idea dello Stato sul modello della Chiesa”, usando testi (da Aristotele ad Agostino passando per
l’Antico Testamento) in cui “la monarchia era concepita come una magistratura”, e di cui dunque
loro risultavano essere i veri sacerdoti, una volta eliminato il re» (Eleonora de Conciliis, Il senso del
giudizio. Bourdieu, Foucault e la genealogia del diritto, in «Kainos. Rivista on-line di critica filosofica», n. 9, http://www.kainos.it/numero9/ricerche/deconciliis-sulgiudizio.html).
33
Ibidem.
P. Bourdieu, Dalla casa del re…, cit., p. 50.
30
P. Prodi, Settimo non rubare…, cit., p. 185.
31
Ibidem.
32
P. Bourdieu, Dalla casa del re…, cit., p. 48.
28
29


ti politici, e questa nobiltà di scuola comporta una parte importante di ereditieri
dell’antica nobiltà di sangue che hanno riconvertito i loro titoli nobiliari in titoli
scolastici. Così l’istituzione scolastica di cui si è creduto, in altri tempi, ch’essa avrebbe potuto introdurre una forma di meritocrazia privilegiando le attitudini individuali in rapporto ai privilegi ereditari, tende a instaurare di fatto, attraverso questo
legame nascosto tra attitudine allo studio e l’eredità culturale, una vera nobiltà di
Stato, la cui autorità e legittimità sono garantite dal titolo scolastico 34.
Con il passaggio dallo Stato dinastico allo Stato burocratico, la nuova “nobiltà di Stato” (chiamata inizialmente nobiltà di “toga”) soppianta dunque l’antica nobiltà di “sangue”, grazie soprattutto all’intervento della scuola nei processi
di riproduzione sociale 35. Se si associa a questo fenomeno l’emergere del sistema di certificazione accademica che, attraverso la “patente scolastica”, sancisce
il possesso del sapere e delle competenze (inizialmente giuridiche), si delineano
i tratti salienti del processo di formazione della nobiltà di Stato, che può essere
generalizzato rispetto al fenomeno storicamente più circoscritto della nobiltà
di toga 36. L’idea di nobiltà di Stato, in sostanza, generalizza concettualmente il
fenomeno storicamente delimitato della nobiltà di toga. Sono i titoli scolastici
che consacrano la competenza e l’appartenenza alla nobiltà di Stato.
Si comprende in questo modo il ruolo determinante giocato dai cultori del diritto, la
cui ascesa accompagnò la nascita dello Stato: di essi si può dire che produssero lo Stato
che li produceva, o che si formarono formando lo Stato. […] Essi costituirono a poco a poco le loro istituzioni specifiche, la più importante delle quali è il Parlamento,
custode della legge (e in particolare del diritto civile che a partire dalla seconda metà
del XII secolo acquistò autonomia rispetto al diritto canonico). Dotati di risorse specifiche commisurate alle esigenze dell’amministrazione, come la scrittura e il diritto,
essi si assicurarono ben presto il monopolio delle risorse più propriamente statali 37.
Cit. in Fernando Cipriani, Introduzione alla cultura sociologica francese, https://www.yumpu.com/
it/document/view/14977077/introduzione-alla-cultura- sociologica-francese-chunich.
35
P. Bourdieu, Dalla casa del re…, cit., p. 49. «Lo stato dinastico perpetua un modo di riproduzione fondato sull’ereditarietà e sull’ideologia del sangue e della nascita, che è opposto a quello istituito
nella burocrazia statale in accordo con lo sviluppo dell’istruzione (essa stessa legata all’emergere di
un corpo di funzionari). Essa fa coesistere due modi di riproduzione che si escludono a vicenda: un
modo di riproduzione burocratico, legato al sistema scolastico, quindi alla competenza e al merito,
che tende a soppiantare il modo di riproduzione dinastico genealogico nei suoi stessi fondamenti,
nel principio stesso della sua legittimità – il sangue, la nascita» (ibidem).
36
Pierre Bourdieu, The State Nobility. Elite Schools in the Field of Power, Stanford University Press,
Stanford 1996, p. 137.
37
P. Bourdieu, Dalla casa del re…, cit., pp. 54-55.
34

I giuristi, «con un lavoro collettivo di vari secoli, hanno inventato lo Stato,
hanno potuto creare, veramente ex nihilo, tutto un insieme di concetti, di procedure, di procedimenti e di forme di organizzazione volte a servire l’interesse generale, il pubblico, la cosa pubblica, solo nella misura in cui facendo ciò facevano sé
stessi, in quanto detentori o depositari dei poteri associali all’esercizio della funzione pubblica, e potevano così assicurarsi una forma di appropriazione privata del
servizio pubblico, fondata sull’istruzione e sul merito, e non più sulla nascita» 38.
La nobiltà di Stato, che si estende fino alle attuali tecnocrazie, può pertanto
considerarsi un corpo, o un ceto, che costruendosi socialmente contribuisce alla
costruzione dello Stato 39. «La nobiltà di Stato istituendo lo Stato, e in particolare
producendo il percorso performativo sullo Stato, […] con l’aria di dire ciò è lo
Stato, lo fa esistere dicendo ciò che dovrebbe essere» 40. Essa produce, tra le altre
cose, un’organica filosofia politica del “pubblico servizio”, rivolta non più al sovrano, come nel caso della nobiltà tradizionale, ma al nuovo Stato nazionale, al
cui servizio si pone ostentando disinteresse personale e finalità universali 41.
Tra le conseguenze più rilevanti di questo processo, vi è l’emergere all’interno
del campo del potere di un ambito sempre più autonomo e differenziato – il campo burocratico – e la formazione, nella gerarchia sociale, di un “corpo” che fonda
il proprio dominio su una nuova combinazione di principi di legittimazione: il
possesso di capitale culturale, che era stato appannaggio dei chierici; l’ereditarietà
e la trasmissione della ricchezza, legittimati da una devozione al bene pubblico in
una forma per molti aspetti nuova rispetto a quella della nobiltà tradizionale 42.
Pierre Bourdieu, Meditazioni pascaliane, Feltrinelli, Milano 1988, p. 130.
«Questa potenza passa anche per il controllo sull’amministrazione del Paese da parte di un ristretto gruppo di persone appartenenti ai più alti gradi della nobiltà di toga (la “toga del Consiglio”: una
trentina di Consiglieri di Stato e 70-80 referendari che si vedono affidare, in aggiunta alle cariche
che li definiscono socialmente, degli incarichi temporanei di amministrazione, di verifica e di controllo). Non stupisce, dunque, che gli autori degli ultimi due o tre decenni abbiano analizzato questo
piccolo gruppo come una “tecnostruttura”, che non avrebbe mai smesso di controllare lo Stato sino
ai nostri giorni, quando la sua incarnazione sarebbe stata l’“enarchia” della seconda metà del XX secolo, ultimo avatar della “nobiltà di Stato” cara a Bourdieu» (Maurice Aymard, in Daniela Felisini
(a cura di), Inseparabili: lo Stato, il mercato e l’ombra di Colbert, Rubbettino, Soveria Mannelli 2010,
pp. 39-40).
40
P. Bourdieu, Ragioni pratiche, cit., p. 117.
41
P. Bourdieu, The State Nobility…, cit., p. 381.
42
Ibidem, p. 378. «“To live nobly” was “to serve the king”, “in his wars” or otherwise. If public service
is the hereditary vocation of the nobility, service to the state is the soul of the parliamentary body»
(Françoise Autrand, Naissance d’un grand corps de L’Etat, p. 267, cit. in P. Bourdieu, The State Nobility…, cit., p. 24).
38
39

La nascita del microcosmo burocratico in cui si giocano le lotte per imporre
la visione legittima, genera al tempo stesso la dimensione simbolica dell’effetto
dello Stato, la capacità dello Stato stesso di imporre le categorie di percezione
del mondo facendole diventare universali. Da questo deriva una significativa
riformulazione della nota definizione weberiana secondo cui lo Stato è quella cosa che «pretende per sé con successo il monopolio dell’uso legittimo della
violenza fisica». Lo Stato non è solo monopolio della forza, è monopolio che si
estende su una molteplicità di ambiti della vita associata, materiali e immateriali. Possiamo pensare lo Sato come il «punto di arrivo di un processo di concentrazione di diverse specie di capitale, capitale di forza fisica o di strumenti
di coercizione (esercito, polizia), capitale economico o, meglio, di informazione, capitale simbolico». La concentrazione di queste diverse specie di capitale
porta alla fine «all’emergere di un capitale specifico, propriamente statuale, che
permette allo Stato di esercitare un potere sui diversi campi e sulle diverse specie particolari di capitali» 43.
L’unificazione e l’universalizzazione relativa associata all’emergenza dello Stato sono
inseparabili dalla monopolizzazione da parte di alcuni delle risorse universali che
esso produce e procura (Weber, come Elias dopo di lui, ha ignorato il processo di
monopolizzazione di tale capitale statale e il processo di monopolizzazione di tale
capitale da parte della nobiltà di Stato che ha contribuito a produrlo, o meglio, che
si è prodotta come tale producendolo). Ma questo monopolio dell’universale può essere ottenuto solo pagando il prezzo di una sottomissione (almeno apparente) di
coloro che lo detengono alle ragioni dell’universalità, quindi a una rappresentazione universalistica del dominio. Coloro che, come Marx, rovesciano l’immagine ufficiale che la burocrazia di Stato intende dare di sé stessa e descrivono i burocrati
come usurpatori dell’universale, in quanto agiscono come proprietari privati delle
risorse pubbliche, non hanno torto. Essi ignorano, tuttavia, gli effetti pienamente
reali del riferimento obbligato ai valori di neutralità e di dedizione disinteressata
al bene pubblico che si impone con una forza crescente ai funzionari di Stato con
l’avanzare della storia del lungo lavoro di costruzione simbolica, al termine del quale
si inventa e si impone la rappresentazione ufficiale dello Stato come luogo dell’universalità e del servizio dell’interesse generale 44.
Il giurista e cancelliere francese Henri-François D’Aguesseau può essere as-
P. Bourdieu, Ragioni pratiche, cit., p. 96.
P. Bourdieu, Meditazioni pascaliane, cit., p. 131.
43
44

sunto come figura esemplare e simbolica del discorso fin qui svolto. Non richiameremo la sua vasta produzione etico-giuridica svolta tra Sei e Settecento, quanto piuttosto ricorderemo brevemente una sua rappresentazione iconografica. In
particolare, un monumento a lui dedicato nel 1810, di cui un commentatore
coevo italiano disse che trasmette «allo spettatore l’idea di una corrispondenza
perfetta tra il privato cittadino e il funzionario “sublime” dello Stato, pronto in
ogni istante “a sacrificare il proprio interesse a quello della pubblica causa”» 45.
In effetti, D’Aguesseau è raffigurato «seduto sul trono», come fosse un «sovrano che governa, mentre con un gesto regale delle mani impugna un libro e una
penna. Nello sguardo maestoso e astratto, simile a quello di un autore politico
che contempla l’ordine esistente del suo territorio, si indovina il profilo di un
edificio che misteriosamente si sta levando intorno a lui, l’opera d’arte, collettiva
e silenziosa, della macchina dello Stato e della sua amministrazione» 46.
Ma la forza simbolica del monumento non si ferma qui. Lascia intravedere
i segni di una sorta di leggenda collettiva su D’Aguesseau, «un paradossale racconto storiografico sulle origini del Code Civil», che si vorrebbe pensato dallo
stesso D’Aguesseau, un secolo prima della sua emanazione. Un ponte dunque
tra l’Antico Regime e il mondo post-rivoluzionario, che vorrebbe «appoggiare»
il codice napoleonico «alle solide fondamenta di una successione ininterrotta
di “ouvrages et traditions”» 47. E ai fini del nostro discorso, una testimonianza
preziosa della continuità della forza di rappresentazione e di autorappresentazione della nobiltà di Stato.
La Rivoluzione rappresenta senza dubbio un momento di rottura, ma nell’ottica del ragionamento qui proposto non fa che forzare (o accelerare) un processo le cui radici rimandano più indietro nel tempo: l’«ascesa progressiva dei
detentori di capitale culturale», che «dai canonisti medioevali sino agli avvocati
e ai professori del XIX secolo o ai tecnocrati contemporanei, sono giunti […]
a soppiantare l’antica nobiltà per ergersi a nobiltà di Stato», appare un processo senza soluzione di continuità, di cui la Rivoluzione, per quanto importante,
rappresenta un «semplice episodio di una lunga lotta continua» 48.
45
Luigi Zanzola, Discorsi del signor D’Aguesseau pronunciati avanti il parlamento in Parigi, Napoli
1831, pp. iii-iv, cit. in Pasquale Beneduce, Altri codici. Note su un galateo di antico regime fra estetica
della giustizia, visualità e censura di sé, http://www.ceprof.unibo.it/docs/beneduce.pdf, p. 6.
46
P. Beneduce, Altri codici…, cit., p. 7.
47
Ibidem.
48
P. Bourdieu, Meditazioni pascaliane, cit., p. 130.

Il monumento dedicato a D’Aguesseau e le evocazioni da questo suscitate
proiettano dunque nel XIX secolo il discorso sulla nobiltà di Stato, suggerendo
l’interrogativo da cui è partita la nostra ricerca: la «virile età, volta ai severi / economici studi, e intenta il ciglio / nelle pubbliche cose» produce mutamenti nella
“composizione demografica” (nell’accezione gramsciana del termine) della nobiltà
di Stato? Domanda naturalmente retorica, con la quale vorremmo provare a discutere la possibilità di estendere agli economisti la nozione di nobiltà di Stato.
Si può dire, come per i giuristi, che la parola dell’economista possieda la
proprietà performativa dell’atto magico di creare la realtà che si vuole spiegare
o descrivere? Che l’economista possiede «il potere di fare-il-mondo» (secondo
l’espressione di Nelson Goodman), cioè «la capacità di produrre la realtà mentre
si pretende soltanto di registrarla» 49? Questa domanda permette di riallacciare il
nostro discorso a un recente saggio di Paolo Silvestri, che affronta il problema
in un’ottica non molto diversa dalla nostra. Scrive Silvestri:
Cosa succede [alla] struttura giuridico-politica della legittimità quando nella sfera
pubblica emerge la classe degli economisti che, nel Parlamento e soprattutto attraverso l’amplificatore della stampa, conducono discorsi in nome della Scienza economica? Discorsi che, fra l’altro, mutuano o ereditano alcuni dei concetti fondamentali del linguaggio giuridico, nonché teologico, come ad es. quelli di “legge”,
“Legge naturale”, “fictio”, “Ordine”? 50
Silvestri suggerisce di guardare all’emersione della scienza economica anche
in un’ottica di competizione tra economisti e giuristi per il predominio nella
sfera pubblica, dove la parola possiede il potere normativo e istitutivo di creare la realtà. Giuristi ed economisti, da questo punto di vista, si contendono un
ruolo che già era stato dei chierici: «Come i chierici parlano, “in nome del” Papa, per i laici; come i giuristi parlano, “in nome dello” Stato, per i cittadini; così gli economisti parlano, “in nome della” Scienza economica, per i governanti
e i governati» 51. Nell’imporsi nella sfera pubblica, l’economista finisce insomma
con l’occupare un posto analogo a quello dei giuristi. Le convergenze tra l’ana-
Loic Wacquant, Il potere simbolico nel governo della “nobiltà di Stato”, in Id. (a cura di), Le astuzie
del potere…, cit., p. 150.
50
Paolo Silvestri, Veritas, auctoritas, lex. Scienza economica e sfera pubblica: sulla normatività del terzo, in «Il Pensiero economico italiano», a. XVIII, n. 1, 2010.
51
Ibidem.
lisi di Silvestri e la nostra paiono notevoli, nonostante le differenze della cornice filosofica di riferimento. L’idea che vi sia stato un processo riassumibile nella
formula “Dai giuristi agli economisti”, rende insomma plausibile l’idea di guardare agli economisti come nuova nobiltà di Stato.
Possiamo allora ricordare alcune delle condizioni storiche che permettono
all’economista di entrare nei ranghi della nobiltà di Stato. In primo luogo la legittimazione statuale dell’economia politica come sapere degno di consacrazione
accademica. Una legittimazione in cui la scuola e i meccanismi di riproduzione
del sapere svolgono un ruolo fondamentale, perché, come era stato per i giuristi, il possesso di competenze, a livello statuale, diventa tale quando esse sono
sancite dall’istituzione scolastica, che le tramuta in sapere “legittimo”. E come
per i giuristi, è il sapere a legittimare la loro peculiare “nobiltà”.
All’economista, nuova figura sociale sorta nel XIX secolo, questa “nobiltà”
permetterà «di esercitare le responsabilità più importanti», con tutto «ciò che
ne consegue dal punto di vista della remunerazione materiale e simbolica». Pur
continuando a pesare l’origine personale e familiare, queste posizioni saranno
legate al suo essere economista conclamato, titolare di cattedra universitaria e
appartenente a una rete di conoscenze e di potere (capitale sociale).
Volgendo ora il discorso all’Italia risorgimentale, è noto come gli economisti abbiano assunto ruoli importanti nell’amministrazione, nel Governo e negli
organi legislativi del nuovo Stato unitario, dopo essere già stati protagonisti, sia
sul piano culturale sia su quello politico, nei decenni di preparazione. Come
ricorda Faucci, «il ceto degli economisti figurò fin dall’inizio come componente qualificata della classe dirigente postunitaria, anello indispensabile fra governanti e governati, fra Stato e società civile».
Francesco Ferrara e Antonio Scialoja sono probabilmente tra le figure più
esemplari di economisti divenuti nobiltà di Stato. Le loro biografie scientifiche,
politiche e accademiche – che corrono per tutto il secolo lungo binari paralleli 52 – sono illuminanti del nuovo statuto raggiunto dal sapere economico e del
nuovo riconoscimento sociale e politico accordato alla figura dell’economista.
Affermatisi come cultori di economia rispettivamente a Napoli e a Palermo, assunsero successivamente posizioni politiche di primo piano, sia nei decenni di
preparazione sia dopo l’Unità53.
49

Pressoché coetanei, Ferrara è del 1810 e Scialoja del 1817, attraversarono da protagonisti gli anni
decisivi del Risorgimento italiano.
53
Ferrara nel 1862 è consulente del ministro delle Finanze, Quintino Sella, nel 1867 egli stesso mini52

Entrambi furono costretti ad abbandonare il Meridione in seguito alla repressione borbonica della rivoluzione del 1848, riponendo aspettative positive
– in verità non allo stesso modo – sul Piemonte di Carlo Alberto e Vittorio
Emanuele. Guadagnarono la stima di Cavour, che tuttavia gestirono in modo
diverso. In Piemonte «vennero accolti con rispetto e subito valorizzati come insegnanti d’economia politica». Nelle loro carriere si riflette il ruolo che l’economia politica ebbe nel processo di rinnovamento culturale «che caratterizza
nella seconda metà degli anni ’40 il regno di Sardegna». La cattedra fu istituita
a Torino proprio «per utilizzare la presenza di Scialoja, già docente della stessa
materia a Napoli». E «allorché questi fu eletto deputato, la cattedra passò a Ferrara», che la mantenne fino al momento della rottura con Cavour.
Ferrara e Scialoja sono peraltro rappresentativi delle diverse visioni in merito
al ruolo dello Stato nell’economia che si andavano delineando nel corso dell’Ottocento. La posta in gioco era la struttura del sistema economico italiano, in cui
erano da disegnare i confini tra Stato e mercato. E proprio su questo problema
alcuni economisti, come ad esempio Ferrara, cominciarono a stemperare l’immagine dello Stato come fautore dell’ordine sociale ed economico. Per quando
indissolubilmente legata allo Stato, l’economia nasce anche come sapere contro
lo Stato, contro le ambizioni di regolamentazione proprie di governi e sovrani.
L’economia appare allora sempre più caratterizzata da una profonda ambiguità: da una parte contrasta il processo di concentrazione delle diverse forme di
capitale nello Stato; ma dall’altra partecipa con i suoi cultori alla formazione di
una nuova nobiltà di Stato, che appunto dallo Stato stesso riceve la propria legittimazione così come era stato per i giuristi.
Dal primo punto di vista, come noto l’economia politica nasceva anche come sapere che «prometteva di fungere da limite alla follia dei governanti: “modern economics is the most effectual bridle ever was invented against the folly of despotism”; di un sapere, ancora, destinato a essere, secondo la celebre
formulazione di Smith, “a branch of the science of a statesman or legislator”.
Quasi che, all’antica tematica del “governo della legge”, inteso come limite al
“governo degli uomini”, si volesse ora sostituire il “governo delle leggi dell’economia politica” quale strumento più raffinato e affidabile per limitare l’arbitrio
dei governanti» 54.
Dal secondo punto di vista, va sottolineato il fatto che il discorso economico
sia stato a tutti gli effetti parte integrante dell’opera di costruzione di quell’artefatto storico che è lo Stato. La classica definizione weberiana del «monopolio
della violenza legittima» coglie solo una delle dimensioni in cui si è incarnato il
moderno Stato-nazione, che in verità è sorto attraverso un processo di concentrazione di diverse forme di risorse, prime fra tutte quelle simboliche. Solo un
instancabile lavorio di inusitata potenza ha permesso allo Stato di emergere come qualcosa di conosciuto e riconosciuto, grazie alla mobilitazione di forze di
diversa natura. A ciò hanno dato un contributo decisivo i giuristi – la nobiltà di
Stato per eccellenza – a cui si deve la messa in pratica di quella formidabile proprietà performativa del linguaggio consistente nel creare la realtà nell’atto stesso
del descriverla. Ma una volta creato, lo Stato è diventato esso stesso il produttore
della realtà sociale, senza necessità di ricorrere alla coercizione.
In questo senso si può parlare del mercato come di un artefatto sociale costruito in larga misura dallo Stato, e a cui hanno contribuito tutti gli autori –
non ancora economisti in senso proprio – che a diverso titolo hanno discusso
di cose economiche nell’età moderna 55. E questi proto-economisti si potrebbero
allora leggere come espressione di una nobiltà di Stato non dissimile da quella
dei giuristi o del civil service del nuovo apparato burocratico, i cui epigoni del
XIX secolo, ormai “economisti” professionali e come tali riconosciuti a livello
pubblico, continuano nell’opera di costruzione della realtà sociale che intendono descrivere 56.
In questa prospettiva acquista una luce del tutto peculiare uno dei più rile-
P. Silvestri, Veritas, auctoritas, lex…, cit.
«Le marché tel que nous le connaissons, celuti quel es économistes acceptent comme une donnée
universalle, comme une nature, est en fait un artefact construit en grand partie per l’État» (Pierre
Bourdieu, Sur l’ État. Cours au collège de France. 1989-1992, Raison d’agir, Seuil 2012, p. 357).
56
«Gli economisti liberali risorgimentali, quasi tutti impegnati nel governo o nell’amministrazione»,
riuscirono appunto ad accreditare la «professione di economista a svariati livelli della società (l’istruzione, le professioni, l’opinione)», dando un contributo decisivo alla nobilitazione della figura dell’economista (anche se con esiti non sempre positivi nell’ottica della modernizzazione del Paese (cfr. Francesco
Di Battista, Gli economisti italiani e lo Stato in una prospettiva storica: dalla ragion di Stato al fallimento
del liberalismo, in «Il pensiero economico moderno», 2008, a. XXVIII, n. 1-2, p. 20).
54
stro delle Finanze e più tardi parlamentare (cfr. Riccardo Faucci, L’economista scomodo. Vita e opere di
Francesco Ferrara, Sellerio, Palermo 1995: Id., Un economista scomodo alla Camera: Francesco Ferrara
dal 1867 al 1878, in M. Augello, M.E.L. Guidi (a cura di), Gli economisti in Parlamento…, cit., pp.
53-80). Scialoja, già ministro delle Finanze nel periodo della dittatura di Garibaldi, diventerà senatore
del Regno, presidente di sezione della Corte dei Conti, due volte ministro delle Finanze (1855-66 e
1866-67) e della Pubblica istruzione (1869-73). Guadagnata la stima di Cavour, Scialoja «si tramutò
in grand commis». Nel periodo in cui ricoprì il dicastero delle Finanze «dovette decretare il corso
forzoso e si vide respingere un ambizioso piano di riordino tributario» (R. Romani, L’economia politica…, cit., pp. 200-201).

55

vanti dibattiti economici scoppiati pochi anni dopo l’Unità d’Italia. Negli anni
Settanta dell’Ottocento, attorno all’idea di Stato e al ruolo a questi assegnato
sul terreno economico, si svolse infatti quello che divenne noto come il dibattito tra le “due scuole” di economia: la prima si rifaceva a Francesco Ferrara e
alla Società Adamo Smith, la seconda si organizzò intorno agli economisti della
scuola lombardo-veneta, come Angelo Messedaglia, Fedele Lampertico, Luigi
Luzzatti, Luigi Cossa, a cui si aggregò anche Antonio Scialoja.
A differenza dei liberisti, essi credevano nell’utilità dell’intervento pubblico in economia e in particolare appoggiarono la formazione della legislazione sociale e politiche ad hoc, come quella protezionista, per lo sviluppo del settore industriale. L’atto di nascita di questa scuola di “vincolisti” si fa coincidere con il Congresso che
si svolse a Milano nel gennaio 1875 e che sancì la costituzione della “Società per il
progresso degli studi economici” 57.
L’emergere della “questione sociale” come tema cruciale del dibattito economico e politico è senz’altro la molla che contribuisce al coagularsi attorno a figure
carismatiche come Scialoja o Luzzatti di un blocco ideologico sempre più scettico
sulle virtù autoregolatrici del mercato. Secondo Ferrara invece all’erosione dei pilastri dottrinari del «liberismo» avrebbe contribuito l’accondiscendenza mostrata da numerosi autori nostrani nei riguardi delle dottrine «social-cattedratiche»
tedesche, ree di avere appunto «gonfiato la questione sociale». Contro la ventata
di «germanesimo economico» che si sarebbe riversata in Italia, Ferrara si erge a
estremo difensore dei sacri principi della libertà, proponendosi di dimostrare come la nuova scuola «lombardo-veneta» di emuli teutonici fosse fautrice di politiche profondamente antilibertarie e autoritarie, non solo perché di stampo socialcattedratico ma addirittura perché in nuce «socialiste» tout court.
Lo sbocco della polemica è, come noto, la spaccatura all’interno della Società
di economia politica operante in Italia fino a quel momento: già nel settembre
del 1874 sono pronti i progetti di due società contrapposte di economisti, una
capeggiata da Ferrara, che invita a raccolta tutti i sostenitori del più rigido “liberismo” 58, e l’altra promossa da Luzzati per aggregare i “liberali sociali”. Questi
Cfr. Daniela Parisi Acquaviva, Congresso di economisti nel gennaio 1875 in Milano, in «Rivista Internazionale di Scienze Sociali», 1978, n. 1, pp. 308-350. Per un sintetico inquadramento di quel periodo e di quel dibattito si veda anche Riccardo Faucci, La cultura economica dopo l’Unità, in Massimo
Finoia (a cura di), Il pensiero economico italiano 1850-1950, Cappelli, Bologna 1980, pp. 51-65.
58
Cfr. Riccardo Faucci, La Società Adamo Smith, in M.M. Augello, M.E.L. Guidi (a cura di), Associazionismo economico…, cit., vol. II, pp. 279-298.
57

ultimi, benché privi di una denominazione di scuola sufficientemente condivisa, fanno sovente appello alle idee di “progresso” o “evoluzione” per qualificare le proprie concezioni, sull’assunto che i cambiamenti in atto nella società
e nell’economia impongano un adeguamento di alcuni principi della scienza
economica, primo fra tutti quello dell’agnosticismo statuale in fatto di questioni economiche. Nessun rigetto quindi dell’insegnamento smithiano, ma un
suo aggiornamento alla luce delle nuove condizioni storiche (soprattutto legate
all’emergere della “questione sociale”). A questi principi si informa la celebre
circolare di Padova dell’11 settembre 1874, firmata Antonio Scialoja, Luigi Cossa,
Luigi Luzzatti, e Fedele Lampertico, con la quale si preannuncia una prossima
riunione degli economisti italiani che vengono invitati ad associarsi per dare un
nuovo impulso agli studi economici 59.
Il supposto “statalismo” dei promotori del Congresso di Milano è stato molto
discusso. Qui basti ricordare che il progetto culturale che permette a Luzzatti di
aggregare un numero così ampio di economisti, politici e notabili provenienti da
tutta Italia si qualifica per la centralità attribuita alla dimensione pratica del sapere economico, puntello per interventi legislativi di natura sociale ed economica.
I temi prescelti per il dibattito – oltre alla controversia tra le “scuole”, il lavoro
nelle fabbriche dei fanciulli e delle donne, l’emigrazione e la promozione del risparmio popolare 60 – riflettono appunto il desiderio, a quanto pare largamente
condiviso dall’opinione pubblica italiana, di porre la scienza economica al servizio della legislazione. Inseguire i tratti della figura professionale dell’economista,
all’interno di quello che è stato definito il “primo” Congresso degli economisti,
sarebbe impresa quasi impossibile. Economisti a Milano ce ne erano senza dubbio, ricordando tuttavia quanto lo stesso Luzzatti dirà nelle sue Memorie, cioè
che «come nel Settecento chi non aveva alcun titolo si intitolava accademico» così «nell’Ottocento l’economia era divenuta in Italia […] l’occupazione di coloro
che non potevano qualificarsi per alcuna professione particolare» 61.
Il testo della circolare è riprodotto in D. Parisi Acquaviva, Congresso di economisti…, cit., e in riproduzione anastatica in Fedele Lampertico, Carteggi e diari. 1842-1906, vol. I, A-E, Marsilio, Venezia
1996. Sulle reazioni alla circolare e sulle numerosi adesioni di politici ed economisti provenienti da
ogni parte d’Italia, si veda Riccardo Faucci, Introduzione a Francesco Ferrara, Opere complete, a cura
di R. Faucci, vol. III, Articoli sui giornali e scritti politici (1857-1891), Associazione Bancaria Italiana,
Roma 1976, p. lvi; Paolo Pecorari, Luigi Luzzatti e la nascita dello “statalismo” economico nell’età della
Destra storica, Signum, Padova 1983, pp. 207-219.
60
Su cui si veda di Frediano Bof, Comitati dell’Associazione per il progresso degli studi economici in Italia
(1875-1879), in M.M. Augello, M.E.L. Guidi (a cura di), Associazionismo economico…, cit., vol. II.
61
Luigi Luzzatti, Memorie autobiografiche e carteggi, vol. I, Zanichelli, Bologna 1930, p. 402.
59

Questa annotazione ci permette una considerazione conclusiva. Ancora per
tutto l’Ottocento, quindi per tutto il periodo durante il quale si è compiuta
l’Unità d’Italia, l’economia non aveva ancora raggiunto lo status di sapere scientifico del tutto autonomo dalla politica. L’economia ottocentesca era stato un
sapere fortemente condizionato dalle domande della politica; nello stesso tempo
era stato un sapere che voleva incidere sulla politica, aspirando a trovare ascolto
nell’azione dei governanti; era in sostanza un sapere soggetto a diverse forme di
eteronomia. L’autonomia significa invece alterità rispetto sia alle contingenze
storico-politiche sia alla ricezione nell’opinione pubblica dei suoi teoremi.
Ma vi è un tratto che accomuna il sapere economico, tanto dell’epoca in
cui l’economista era partecipe degli accadimenti politici tanto dell’epoca in cui
l’economista si è ritagliato il ruolo di scienziato sociale osservatore esterno e distaccato: sempre l’economia ha messo all’opera quella proprietà performativa del
linguaggio consistente nel creare la realtà che voleva spiegare o descrivere, dando per questo un contributo formidabile a creare, nel bene e nel male 62, quelle
strutture economiche e sociali nelle quali operiamo quotidianamente.
Un giudizio molto negativo è stato espresso in proposito recentemente da Francesco Di Battista.
Egli sottolinea infatti la marcata presenza degli economisti italiani nello Stato, e il loro conclamato
riconoscimento come “nobiltà di Stato”, appunto. E tuttavia annota il «carattere ambiguo assunto
dalla posizione degli economisti italiani verso lo Stato e le sue istituzioni […]: essi vi erano presenti,
ma l’azione dello Stato non sembrava rafforzata dalla loro presenza» (F. Di Battista, Gli economisti
italiani e lo Stato…, cit., p. 31).
62

La nuova Italia alle esposizioni industriali
Sergio Onger *
Non è corretto attribuire alla Francia la primogenitura delle esposizioni industriali. Il modello francese fu certamente il precursore delle manifestazioni
universali del secondo Ottocento, ma le prime esposizioni industriali videro la
luce in Inghilterra con la fondazione della London Society of Arts nel 1751. La
società stabilì di acquistare disegni, modelli e macchine che avessero vinto dei
premi e con questi allestì nel 1756 e nel 1761 due mostre che sarebbero col tempo divenute il nucleo di un museo permanente 1. Queste prime esposizioni, che
davano ampio spazio alle innovazioni tecniche in agricoltura, erano appannaggio dei privati, senza il coinvolgimento dello Stato. L’esempio venne poi seguito
da accademie e governi in varie parti d’Europa: esposizioni di tipo industriale
si tennero a Ginevra nel 1789, ad Amburgo l’anno seguente e infine a Praga nel
1791 2. Si deve però riconoscere il merito alla Francia di aver dato particolare solennità a queste manifestazioni, codificando regole e stile, formando il linguaggio espositivo del nascente capitalismo industriale 3.
Infatti, con l’Esposizione pubblica dei prodotti nazionali inaugurata a Parigi
nel Campo di Marte il 4 settembre 1798 si diede forma al modello di un evento
che era destinato a dilagare in tutta Europa assieme alle armate napoleoniche 4.
Confluivano in questa iniziativa, voluta dal ministro dell’Interno François de
* Università degli Studi di Brescia; socio e vice presidente dell’Ateneo di Brescia.
1
Silvia Cavicchioli, Tra Settecento e Ottocento, in Le Esposizioni torinesi 1805-1911. Specchio del progresso e macchina del consenso, a cura di Umberto Levra e Rosanna Roccia, Archivio storico della
città di Torino, Torino 2003, p. 3.
2
Ibidem, p. 4.
3
Piero Bolchini, Fiere, mercati, esposizioni: l’età contemporanea, in Mercati e consumi organizzazione
e qualificazione del commercio in Italia dal XII al XX secolo. Iº Convegno Nazionale di Storia del Commercio in Italia, Reggio Emilia, 6-7 giugno 1984 - Modena, 8-9 giugno 1984, Edizioni Analisi, Bologna
1986, p. 434.
4
Pier Luigi Bassignana, Le esposizioni, in Storia di Torino, vol. 6º, La città nel Risorgimento (17981864), a cura di Umberto Levra, Einaudi, Torino 2000, p. 787.

Neufchâteau, insieme all’idea rivoluzionaria e patriottica di convocare e premiare a Parigi tutti coloro che avevano ben operato nelle industrie e nei commerci
in favore della Repubblica e alla rivalità con l’Inghilterra, i valori dell’illuminismo 5. Non soltanto nell’idea di poter classificare e giudicare tutti i prodotti, ma
anche nel desiderio di favorire la diffusione delle conoscenze, che in una pubblica manifestazione diventavano visibili a chiunque volesse provare il proprio
talento, a qualsiasi condizione sociale e collocazione professionale si trovasse.
Malgrado vi partecipassero solo 110 espositori, i 25 premi assegnati, di cui 12
medaglie d’oro, furono tra i principali motivi di successo dell’iniziativa e la ricompensa premiale diverrà anche in seguito una delle molle che incentiveranno
i produttori a intervenire a queste manifestazioni 6.
Divenuta un’iniziativa fissa delle celebrazioni della fondazione della repubblica, l’esposizione venne ripetuta nel 1801 nella corte del Louvre con 229 espositori, nel 1802, sempre al Louvre, con 540 partecipanti e nel 1806 a Les Invalides con 1.422 espositori. Nonostante il successo dell’esposizione del 1806 e la
disposizione di Napoleone di far intercorrere un intervallo di tre anni tra una
manifestazione e l’altra, il perenne stato di guerra della Francia impedì l’organizzazione di altre esposizioni durante l’età napoleonica. Nel frattempo però
l’idea si era diffusa in Europa e fra il 1800 e il 1815 Berna, Gand, Anversa, Milano, Trieste, Napoli e Torino si accodarono all’esempio parigino, chi con una
sola edizione, chi con più manifestazioni 7.
Anni di cambiamento (1851-1860)
Bisogna però attendere la Grande esposizione dell’industria di tutte le nazioni aperta a Hyde Park nel maggio 1851 per incontrare il primo evento espositivo destinato a colpire profondamente l’immaginazione popolare e a modificare radicalmente la fisionomia delle esposizioni. Per la prima volta una
manifestazione di questo tipo si apriva alla competizione internazionale: 7.531
espositori inglesi e 6.556 provenienti da altri paesi esponevano oltre centomila
articoli, suddivisi in trenta classi. Il successo di questa rassegna, che raggiunse i
sei milioni di visitatori, fu determinato dalla capacità di trasformare il progres P. Bolchini, Fiere, mercati, esposizioni..., cit., p. 434.
Pier Luigi Bassignana, Le feste popolari del capitalismo. Esposizioni d’industria e coscienza nazionale
in Europa 1798-1911, Allemandi, Torino 1997, p. 14.
7
Ibidem, pp. 15-16.
5
6

so tecnico in spettacolo. Anche il portato pedagogico e didattico dell’iniziativa veniva moltiplicato dalla spettacolarizzazione ed ebbe un’influenza enorme
sul comune visitatore, come sulle qualificate delegazioni provenienti da ogni
parte del mondo 8.
La grande esposizione di Londra vide una limitata partecipazione italiana,
infatti 273 furono gli espositori del Piemonte, del Lombardo-Veneto, della Toscana e dello Stato pontificio, mentre il Regno delle Due Sicilie era assente 9. Il
Regno di Sardegna era presente ufficialmente con un proprio stand 10 e furono
inviati 147 tra tecnici, operai e artigiani 11. Non solo, il ministro delle Finanze,
Camillo Benso di Cavour, in una circolare a tutti gli espositori del regno, li invitava a donare gli oggetti inviati alla commissione reale inglese, in vista del costituendo museo di South Kensington 12.
Inizialmente vetrina di oggetti di artigianato industriale, le esposizioni toscane registrano un salto di qualità a partire da quella del 1850 grazie all’opera del
livornese Filippo Corridi, che negli stessi mesi intraprendeva una statistica industriale dello Stato. Del resto questa manifestazione, così come quella del 1854
preparata sempre da Corridi, furono predisposte in vista degli appuntamenti
londinese del 1851 e parigino del 1855, e vennero influenzate da queste esperienze internazionali. Soprattutto dopo la partecipazione all’esposizione tenuta al
Crystal Palace, alla quale intervennero espositori e visitatori toscani, in primo
8
Ibidem, pp. 31-35. Si vedano inoltre: Maria Sica, 1851. Esposizione Universale di Londra (1 maggio 11 ottobre), in Le grandi esposizioni nel mondo 1851-1900. Dall’edificio città alla città di edifici. Dal Crystal Palace alla White City, a cura di Adriana Baculo Giusti, Stefano Gallo, Mario Mangone, Liguori,
Napoli 1988, pp. 108-115; Jeffrey A. Auerbach, The Great Exhibition of 1851: A Nation on Display, Yale
University Press, New Haven 1999.
9
Cfr. L’esposizione industriale di Londra, in «Annali universali di statistica», 1851, vol. 27º, pp. 226227. Sulle difficoltà incontrate dall’Istituto di incoraggiamento di Napoli a trovare qualche imprenditore meridionale disposto a partecipare all’esposizione di Londra del 1851 si veda Anna Dell’Orefice, Il Reale Istituto di Incoraggiamento di Napoli e l’opera sua, Droz, Ginevra 1973, p. 101.
10
Giuseppe Bracco, Dall’età cavouriana agli anni Settanta, in Le esposizioni torinesi 1805-1911…, cit.,
p. 56.
11
Linda Aimone, Le esposizioni industriali a Torino (1829-1898), in Innovazione e modernizzazione in
Italia fra Otto e Novecento, a cura di Enrico Decleva, Carlo G. Lacaita, Angelo Ventura, Franco Angeli, Milano 1995, p. 510. Sulla delegazione lombarda all’esposizione londinese si veda invece Carlo
G. Lacaita, L’intelligenza produttiva. Imprenditori, tecnici e operai nella Società d’Incoraggiamento d’Arti
e Mestieri di Milano (1838-1988), Electa, Milano 1990, pp. 83-87.
12
Linda Aimone, Carlo Olmo, Le esposizioni universali 1851-1900. Il progresso in scena, Allemandi,
Torino 1990, p. 45.

luogo Corridi in veste di rappresentante ufficiale del granducato, l’esposizione
del 1854 ne rimarrà profondamente segnata 13.
Anche in una realtà sostanzialmente refrattaria agli eventi internazionali quale quella del Regno delle Due Sicilie, l’ultima esposizione di Napoli del 1853 non
solo registrava un numero insolitamente alto di partecipanti, più di trecento, ma
vedeva pure una rilevante presenza industriale, anche se in gran parte ascrivibile a quella costellazione di attività riferibili all’impegno economico dello Stato,
dal settore tessile agli opifici metalmeccanici di Pietrarsa 14.
Le esposizioni del Regno di Sardegna degli anni Cinquanta si vollero non
soltanto come espressione di rassegna celebrativa, ma anche come occasione di
rappresentazione completa del tessuto produttivo e, quindi, di incentivo allo
sviluppo economico, con il confronto diretto, la conoscenza delle innovazioni e
la loro propagazione 15. Lo si vide all’Esposizione di Genova del 1854, voluta per
celebrare l’apertura della linea ferroviaria tra Torino e il capoluogo ligure, durante la quale Cavour non perse occasione per rafforzare il consenso tra le forze
produttive intorno al nuovo corso politico e alla nuova politica economica 16.
Per l’esposizione torinese del 1858, posticipata di due anni in quanto l’impegno organizzativo per la partecipazione piemontese all’Esposizione di Parigi del
1855 aveva assorbito gli sforzi degli enti promotori rendendo impossibile l’allestimento di quella di Torino l’anno seguente, si era giunti in un primo momento a
ipotizzare un evento mondiale. Alla fine, dismessa ogni velleità e forti dell’importanza della produzione serica dello Stato, ci si limitò a organizzare al suo interno
un’esposizione universale della seta 17. L’idea originale di una sezione campionaria a carattere internazionale registrò però una scarsissima partecipazione italiana
e straniera. Comunque, la rottura con le precedenti manifestazioni torinesi era
completa. Per la prima volta l’esposizione venne finanziata dallo Stato. Fu scelto
un unico allestitore e i criteri espositivi imposti dal regolamento denotano come la
Andrea Giuntini, La prima volta dell’Italia: l’esposizione del 1861 a Firenze, in Arti, tecnologia, progetto. Le esposizioni d’industria in Italia prima dell’Unità, a cura di Giorgio Bigatti e Sergio Onger,
Franco Angeli, Milano 2007, p. 282.
14
Giuseppe Moricola, Tra velleità e progetto: le esposizioni industriali nel Regno di Napoli, in Arti, tecnologia, progetto…, cit., pp. 186-187.
15
G. Bracco, Dall’età cavouriana agli anni Settanta, cit., p. 54.
16
Silvano Montaldo, Le esposizioni industriali nel Regno di Sardegna: suggestioni modernizzanti tra
propaganda dinastica e riforme economiche, in Arti, tecnologia, progetto…, cit., pp. 141-143. Si veda il
Catalogo della esposizione industriale in Genova, Fratelli Ferrando, Genova 1854.
17
G. Bracco, Dall’età cavouriana agli anni Settanta, cit., pp. 57-58.
mostra fosse diventata importante quanto ciò che vi si esponeva18. Dalle sette classi
del 1850 si era passati a ben diciassette, con 1.687 espositori contro i 924 della manifestazione precedente. Non vi era più una rassegna di oggetti artistici; mentre,
sull’esempio dell’Esposizione di economia domestica di Bruxelles del 1856, venne
realizzata una Galleria economica per i prodotti di uso domestico e personale, che
doveva offrire una rassegna di merci a basso costo accessibili ai ceti popolari. Alla
stregua dell’esposizione parigina, venne istituito un premio destinato agli operai
che avevano contribuito alla realizzazione dei manufatti esposti, sottolineando
così quello spirito interclassista di armoniosa coesistenza tra capitale e lavoro che
fu peculiare a tutte le esposizioni industriali del secondo Ottocento 19.
La particolare situazione politica del Regno Lombardo-Veneto, posto sotto
regime militare fino al maggio 1854, fece sì che le manifestazioni internazionali
non mettessero in crisi il vecchio modello delle esposizioni di Milano e Venezia,
riprese pressoché immutate a partire dal 1851. E questo nonostante all’Esposizione internazionale di Londra avessero partecipato alcune delle migliori menti
del mondo milanese come Luigi De Cristoforis e Antonio De Kramer, con il
compito di studiare i nuovi macchinari e i nuovi ritrovati per l’industria 20. Furono invece alcuni ambiti provinciali a farsi interpreti dei cambiamenti in atto.
Così quando nel 1853 il ministero del Commercio sollecitò gli istituti camerali
a farsi promotori di esposizioni locali, alcune Camere di commercio risposero
all’invito. In particolare la Camera di commercio di Brescia elaborava il progetto di un’esposizione «esatto inventario del nostro patrimonio economico», nella
quale si doveva apprendere «quanto fu fatto in questi ultimi anni, e quanto convenga di fare ai privati, e alle rappresentanze cittadine affinché gli anni avvenire
non volgano sterili di progresso» 21. Il regolamento fissava la classificazione degli
oggetti da esporre secondo una tassonomia che rompeva con la tradizione delle
pubbliche esposizioni dell’Ateneo di Brescia per ispirarsi alle recenti esposizioni
universali di Londra e Parigi.
13

L. Aimone, Le esposizioni industriali a Torino…, cit., p. 509.
S. Montaldo, Le esposizioni industriali nel Regno di Sardegna…, cit., pp. 148-149.
20
Cfr. Edoardo Borruso, Il giovane Colombo e la formazione dei requisiti per lo sviluppo industriale
lombardo (1857-1881), in Ricerche di storia in onore di Franco Della Peruta, vol. 2º, Economia e società,
a cura di Maria Luisa Betri e Duccio Bigazzi, Franco Angeli, Milano 1996, p. 274.
21
Archivio di Stato di Brescia (da ora ASBs), Archivio Storico dell’Ateneo di Brescia (da ora ASABs),
b. 33, Camera di commercio di Brescia, processo verbale della seduta 19 agosto 1856. Su questa esperienza espositiva si rimanda a Sergio Onger, Verso la modernità. I bresciani e le esposizioni industriali
1800-1915, Franco Angeli, Milano 2010, pp. 101-109.
18
19

A poche settimane dall’inaugurazione, il 5 luglio 1857, il milanese Giuseppe
Sacchi, collaboratore degli «Annali universali di statistica», veniva invitato a tenere all’Ateneo una pubblica lettura sull’utilità delle esposizioni provinciali. In
quell’occasione, egli definiva l’impresa bresciana «un vero atto di cittadino coraggio». Ai molti detrattori delle esposizioni locali, che proprio in questi mesi
avevano levato la loro voce 22, Sacchi rispondeva:
[…] è necessario che ogni provincia scopra per così dire i suoi ignoti tesori, e li porti
con intima fiducia nel suo palazzo di cristallo, perché tutti veggano e tutti stimino
il presente stato dei suoi prodotti naturali e manufatti, e la incoraggino e la consiglino, ove occorra, per raggiungere ogni possibile miglioramento 23.
Egli era convinto che dalle singole esposizioni provinciali sarebbe nato «spontaneo il buon pensiero di vedere un giorno associate tutte queste locali esposizioni in un’unica esposizione o lombarda o veneta […], onde si possa conoscere ed apprezzare in una sola volta tutto il tesoro delle produzioni naturali e
manufatte del paese nostro. E allora si vedrebbe come le esposizioni provinciali
riescono utili per sé stesse, e come possono preparare anche il campo ad una
grande esposizione comune» 24.
Nel Lombardo-Veneto la rassegna bresciana fu uno dei non molti casi in cui
si rispose adeguatamente alle sollecitazioni ministeriali. Nel 1855 era stata organizzata un’esposizione a Vicenza, seguita l’anno dopo dall’Esposizione provinciale veronese di agricoltura, industria e belle arti, alla quale avevano partecipato
234 espositori, di cui il 73 per cento apparteneva all’ambito agricolo-industriale 25. Pochi giorni dopo l’apertura di quella bresciana, il 26 agosto, si apriva a Bergamo l’Esposizione industriale bergamasca, promossa dalla locale Società indu Cfr. Giuseppe Sacchi, Intorno all’utilità delle esposizioni provinciali di agricoltura, di arti e di industria, in «Annali universali di statistica», 1857, vol. 15º, pp. 10-11.
23
ASBs, ASABs, b. 220, Giuseppe Sacchi, «Intorno all’utilità delle esposizioni provinciali di agricoltura, di arti e di industria», 1857, cc. 4v-5r. Concetti analoghi erano ripresi da Zanardelli nella sua
prima lettera apparsa su «Il Crepuscolo» il 25 agosto 1857, ora in Giuseppe Zanardelli, Sulla esposizione bresciana. Lettere estratte dal giornale Il Crepuscolo del 1857, Antonio Valentini, Milano [1859],
pp. 4-5.
24
ASBs, ASABs, b. 220, G. Sacchi, «Intorno all’utilità delle esposizioni provinciali di agricoltura, di
arti e di industria», cit., cc. 11v-12r.
25
Cfr. Maria Luisa Ferrari, Tra città e campagna in epoca austriaca. Aspetti dell’economia veronese sotto la dominazione asburgica (1814-1866), in Verona e il suo territorio, vol. 6º, tomo 2º, Istituto per gli
studi storici veronesi, Verona 2003, p. 194.
22

striale. L’iniziativa, che aveva faticato a decollare, era riservata al solo comparto
manifatturiero con la partecipazione di 124 espositori, in grado quindi di offrire
un panorama articolato delle principali attività industriali del Bergamasco 26.
Esaltare la nazione ed esibire il progresso (1861-1898)
Il giovane Stato italiano trovò nelle esposizioni nazionali dei primi cinquant’anni uno dei tanti modi per celebrare il proprio mito fondativo e formare
uno spirito nazionale, avvalendosi delle molte retoriche che accompagnarono i
primi decenni postunitari 27. Allo stesso tempo il mondo scientifico e imprenditoriale comprese la rilevanza del fenomeno espositivo al fine di affermare anche
da noi una cultura tecnologica e di rendere condivisi tra l’opinione pubblica i
valori del positivismo. Se le esposizioni internazionali avevano il compito di far
conoscere il giovane Stato al resto del mondo e di rivendicare un ruolo economico nel contesto europeo, quelle nazionali avevano la funzione di far incontrare gli italiani, in primo luogo imprenditori e intellettuali, ma anche artigiani,
operai e pubblici funzionari 28.
L’esaltazione dello Stato unitario è evidente nella prima esposizione nazionale di Firenze del 1861. Voluta da Quintino Sella 29, venne finanziata dallo Stato
sull’esempio di quelle francesi, con uno stanziamento complessivo di 3.527.035
lire. Del resto, nei primi anni unitari la classe dirigente dava per scontato che i
privati non avrebbero partecipato al finanziamento di tali imprese e preferì intervenire mediante la burocrazia, tentando «di espandere il suo potere e il suo
consenso riconducendo la periferia ad un sistema centrale di valori» 30. Nell’espo-
26
Cfr. Piero Bolchini, «Il lavoro fecondato dall’intelligenza...»: il caso di Bergamo (1840-1860), in Le
vie dell’industrializzazione europea. Sistemi a confronto, a cura di Giovanni Luigi Fontana, il Mulino,
Bologna 1997, pp. 835-838.
27
L. Aimone, Le esposizioni industriali a Torino…, cit., p. 514.
28
Massimo Misiti, L’Italia in mostra. Le Esposizioni e la costruzione dello Stato nazionale, in «Passato
e presente», 1996, 37, p. 40.
29
Il Governo provvisorio di Toscana, per celebrare l’annessione al Piemonte, aveva indetto con proprio decreto un’esposizione di prodotti toscani da tenersi in Firenze nel settembre 1860. Giunto a
Torino per l’approvazione, il provvedimento venne però respinto dal Parlamento subalpino e durante
il dibattito Quintino Sella si fece promotore di una Esposizione dei prodotti agricoli e industriali da
tenersi a Firenze nel 1861 che incontrò l’approvazione parlamentare. P.L. Bassignana, Le feste popolari
del capitalismo…, cit., pp. 79-80.
30
M. Misiti, L’Italia in mostra…, cit., p. 54.

sizione fiorentina lo «Stato-nazione vi era rappresentato come valore etico, politico ed economico, metro di riferimento per l’agire dei singoli e dei gruppi sociali, dell’imprenditore e del lavorante, dell’artista e dello scienziato» 31. La manifestazione presentò un quadro abbastanza esatto della produzione agricola e
industriale, mettendo in evidenza il grande rilievo che agrari e proprietari terrieri avevano nell’economia nazionale. Infatti, degli 8.533 espositori di cui 3.452
toscani, gran parte erano concentrati nel settore agro-alimentare e delle materie
prime 32. Ma la rassegna fiorentina «non fu solo la consacrazione della raggiunta
unità […], ma fu anche la malinconica e per molti tragica manifestazione della
pochezza dell’industria italiana» 33.
Dovevano trascorrere dieci anni prima che si realizzassero altre pur modeste
esposizioni di portata nazionale. Le ragioni di questo ritardo sono ascrivibili in
primo luogo ai problemi finanziari. Dopo il notevole deficit di bilancio della
manifestazione fiorentina era impensabile per lo Stato italiano, la cui già difficile
situazione finanziaria si era ulteriormente aggravata dopo la Terza guerra d’indipendenza, sostenere una seconda esposizione e d’altro canto il tessuto economico e produttivo del Paese non era certo in grado di far fronte autonomamente
al finanziamento di un tale evento. E proprio la gracilità del sistema produttivo
nazionale, emersa chiaramente a Firenze nel 1861, sconsigliava l’allestimento a
breve di una nuova rassegna 34.
Comunque, proprio la manifestazione fiorentina aveva permesso di organizzare al meglio la partecipazione italiana all’Esposizione internazionale di Londra
del 1862. Su un totale di 28.653 espositori, l’Italia con i suoi 2.503 intervenuti, di
cui 320 per le arti figurative, seguiva la Francia e si poneva largamente davanti
all’Austria e alla Prussia 35. Era questa la prima volta del nuovo Stato unitario a
Ibidem, p. 36.
Cfr. Esposizione italiana agraria, industriale e artistica tenuta a Firenze nel 1861, Catalogo officiale
pubblicato per ordine della Commissione Reale. Seconda edizione intieramente rifatta e completata con
l’aggiunta di tutti i premiati sì espositori che operai e l’indice generale dei nomi, Tipografia Barbèra, Firenze 1862. Si veda inoltre Mariantonietta Picone Petrusa, 1861. Firenze Esposizione nazionale (15 settembre - 8 dicembre), in Le grandi esposizioni in Italia 1861-1911. La competizione culturale con l’Europa
a la ricerca dello stile nazionale, a cura di Ead., Maria Raffaella Pessolano, Assunta Bianco, Liguori,
Napoli 1988, p. 78-81.
33
Roberto Romani, Le esposizioni industriali italiane. Linee di metodologia interpretativa, in «Società
e storia», 1980, 7, p. 220.
34
P.L. Bassignana, Le feste popolari del capitalismo…, cit., pp. 81-82.
35
Piero Bolchini, L’Esposizione Internazionale di Londra del 1862 e l’Italia, in «Rivista di storia economica», 1, 1986, p. 10.
31
32

una rassegna internazionale. Come scrisse Giuseppe Colombo con enfasi retorica ma cogliendo nel segno il senso di quella partecipazione:
[…] le nostre industrie non appena ebbero il tempo di riconoscersi all’Esposizione
di Firenze, quando furono invitate a figurare in un’Esposizione mondiale. La loro
comparsa a quell’Esposizione doveva avere un grande significato politico e industriale; affermando ancora una volta i nostri diritti, essa doveva nello stesso tempo
mostrare agli stranieri quanti elementi di ricchezza possegga l’Italia e qual campo
essa offre alle intraprese e ai capitali. Penetrato dell’importanza di questi intenti, il
Governo si è adoperato attivamente onde promuovere a Londra un’esposizione, che
degnamente rappresentasse le industrie italiane 36.
Sarebbe tuttavia errato considerare questo come un periodo privo di manifestazioni espositive. Sulla base delle tradizioni e della rinnovata opera di promozione delle Camere di commercio, e con il contributo di istituzioni pubbliche e private, si registrarono a livello locale diverse rassegne, spesso non circoscritte al solo
ambito provinciale o regionale 37. Basti qui ricordare, a titolo di esempio, l’Esposizione agraria e industriale bresciana del 1864, tenutasi in occasione del quindicesimo congresso dell’Associazione agraria italiana, ospitato a Brescia. Il Comizio
agrario bresciano, costituitosi nel 1861, che di quella associazione era entrato a far
parte, decise di organizzare in contemporanea un’esposizione di prodotti agricoli della provincia. Siccome l’Ateneo intendeva comunque organizzare la propria
esposizione annuale, si concordò fra i due enti di allestire una sola esposizione
dedicata sia all’agricoltura sia all’industria, e alla sua organizzazione parteciparono anche l’Amministrazione provinciale, il municipio e la Camera di commercio.
L’ampiezza data all’esposizione richiese non solo una classificazione degli oggetti
esposti in diciannove classi, ma anche l’utilizzo di altri spazi oltre alla centralissima Crociera di San Luca. I partecipanti furono 765. Di questi 63 provenivano
dal Veneto e dal Trentino, regioni sotto il dominio austriaco, e furono riuniti con
intento patriottico e senza distinzione di classi in un’apposita sezione 38.
Giuseppe Colombo, Discorso in occasione della consegna delle Medaglie e dei Diplomi agli Industriali
della Provincia di Milano premiati all’Esposizione Universale di Londra del 1862, ora in Id., Industria
e politica nella storia d’Italia. Scritti scelti: 1861-1916, a cura di Carlo G. Lacaita, Cariplo-Laterza, Milano-Bari 1985, p. 153.
37
P. Bolchini, Fiere, mercati, esposizioni…, cit., pp. 437-438.
38
Cfr. Esposizione agraria ed industriale in Brescia nell’occasione del XVº congresso agrario italiano,
Catalogo descrittivo, Tip. del giornale La sentinella bresciana, Brescia 1864. Si veda S. Onger, Verso la
modernità…, cit., pp. 193-197.
36

A dieci anni dalla manifestazione fiorentina, nel 1871, si diede vita a due rassegne dalle ambizioni nazionali a Torino e a Milano. L’Esposizione di Torino era
stata progettata per l’apertura del traforo del Fréjus, prevista per il 1872, dalla
Società promotrice dell’industria nazionale, organismo privato costituitosi fin
dal 1868. La fine anzitempo dei lavori del traforo provocò l’anticipazione della
rassegna al 1871, finendo così col coincidere con la già prevista Esposizione industriale di Milano. Vennero utilizzati gli angusti spazi del Museo industriale
– istituito nel 1862 per volontà del senatore Giuseppe De Vincenzi, commissario generale per l’Italia all’Esposizione internazionale di Londra – e proprio per
questo si dovette mutare la qualificazione della manifestazione da «nazionale»
in «campionaria», in quanto gli espositori erano invitati a esporre soltanto dei
campioni della loro produzione. Nonostante l’evento ricordasse per dimensioni le esposizioni torinesi del primo Ottocento – i partecipanti infatti erano solo
514, di cui 343 piemontesi – la manifestazione venne visitata da numerose personalità di governo convenute per l’inaugurazione del traforo 39.
Quella milanese ebbe invece un maggior successo. In primo luogo la rassegna
puntava sulla specializzazione e sull’istituzionalizzazione della mostra scientifica
e tecnologica, così come stava avvenendo in Inghilterra dopo lo scarso successo
ottenuto dall’Esposizione internazionale di Londra del 1862. L’Esposizione industriale di Milano del 1871 era infatti dedicata al settore delle costruzioni e agli
oggetti di uso quotidiano, e avrebbe dovuto far parte di un ciclo di cinque eventi programmati su temi diversi 40. La manifestazione venne promossa dall’Associazione industriale italiana presso il restaurato palazzo del Salone nei giardini
pubblici di Porta Venezia. Intervennero 1.190 espositori, di cui più della metà
di Milano città e solo 370 provenienti dal resto d’Italia. I visitatori furono circa
novantamila 41. Nonostante l’appellativo di «industriale», «l’esposizione finiva in
realtà col rispecchiare aspetti della società e della economia del tempo e delle
relative mentalità che si collocavano al di qua d’ogni fenomeno di meccanizzazione». La nozione stessa di industria «conservava la sua antica genericità, fatta
39
P.L. Bassignana, Le feste popolari del capitalismo…, cit., pp. 82-83; G. Bracco, Dall’età cavouriana
agli anni Settanta, cit., pp. 75-77. Secondo Picco gli espositori furono 517 di cui 373 piemontesi: Leila
Picco, Le esposizioni a Torino nel primo cinquantennio unitario, in Mercati e consumi…, cit., p. 530.
40
L. Aimone, C. Olmo, Le esposizioni universali 1851-1900…, cit., pp. 18-19.
41
Enrico Decleva, Milano industriale e l’Esposizione del 1881, in L’Italia industriale del 1881. Conferenze sulla esposizione nazionale di Milano, a cura di Id., Banca del Monte di Milano, Milano 1984, pp.
xvii-xxiv.

sinonimo di attività purchessia e non ancora associata in maniera più esclusiva
alla fabbrica, ai moderni processi produttivi, alle macchine» 42.
Comunque, pur nella modestia dei due eventi, nel pubblico più qualificato
si delineavano idee ben precise sulla funzione che dovevano avere queste rassegne in ambito nazionale. Stava maturando l’idea che le esposizioni «per riescire
veramente utili […] devono essere organizzate di tal maniera che sieno la fedele rappresentazione di ciò che un Paese fa realmente, piuttosto che un saggio
talora eccezionale di quello che potrebbe fare» 43.
Del progetto di una nuova esposizione nazionale si cominciò a parlare a
Milano fin dal 1878, sollecitati dall’Esposizione universale che si stava tenendo
in quei mesi a Parigi. L’anno seguente il piano venne ripreso dalla Camera di
commercio su proposta dell’industriale serico Luigi Fuzier, vicepresidente della
Società di incoraggiamento d’arti e mestieri, e nel gennaio del 1880 veniva costituito un comitato esecutivo 44. Doveva essere una mostra rigorosamente industriale, ma via via al nucleo originario si aggiunsero una mostra speciale di
agraria, una di musica e un’altra di belle arti. Inoltre, sulla scorta delle esposizioni universali sempre più inclini a diventare anche parchi dei divertimenti e
nel tentativo di spettacolarizzare l’evento e attrarre così un numero significativo di visitatori, si allestirono due gallerie, una di tutti i costumi delle province
italiane, l’altra dove operai e macchine in azione rappresentavano il lavoro industriale: una specie di messa in scena del lavoro di fabbrica, opportunamente
ripulita delle reali condizioni in cui normalmente si svolgeva 45. Anche il ballo
Excelsior, rappresentato per la prima volta alla Scala nel gennaio 1881 e ripreso
con largo successo durante l’esposizione, fu una delle occasioni di svago offerte ai visitatori, divenendo al contempo per il suo portato ideologico l’emblema
stesso della manifestazione.
42
Ibidem, p. xxiii. Si veda inoltre Fulvio Irace, Vetrine del progresso: le città delle esposizioni, in Milano
1848-1898 ascesa e trasformazione della capitale morale, a cura di Rosanna Pavoni e Cesare Mozzarelli,
Marsilio - Museo Bagatti Valsecchi, Milano-Venezia 2000, pp. 166-168.
43
Giacomo Arnaudon, Sulle esposizioni industriali con alcune considerazioni intorno alle cause che possono influire sul progresso delle industrie, Paravia, Torino 1870, p. 12.
44
Sulla composizione del comitato organizzatore e sugli interessi economici sottesi nell’individuazione dell’area espositiva si veda Giorgio Fiocca, Aspetti della contesa per l’assetto urbanistico di Milano: l’Esposizione industriale del 1881, il ruolo del mercato immobiliare e la famiglia Bagatti Valsecchi, in
Milano fin de siècle e il caso Bagatti Valsecchi. Memoria e progetto per la metropoli italiana, a cura di
Cesare Mozzarelli e Rosanna Pavoni, Guerini e Associati, Milano 1991, pp. 351-354.
45
Cfr. F. Irace, Vetrine del progresso…, cit., p. 169.

Aperta dal 6 maggio al primo novembre 1881 tra i giardini pubblici di Porta
Venezia e Villa Reale, l’Esposizione nazionale di Milano imitò il modello inglese nel sistema misto di finanziamenti tra imprenditori e pubbliche amministrazioni, registrando entrate per 3.800.000 lire (con un residuo attivo di 135 mila
lire) e un milione e mezzo di visitatori 46. Gli espositori furono 7.139, di cui 2.872
lombardi. Seguivano, ma a una certa distanza, i piemontesi (1.059), i toscani
(812), i veneti (527), le province emiliane (362) ancora distinte dalle romagnole
(292), la Sicilia (314), la Campania (241) 47. L’industria milanese e lombarda era
certamente la più rappresentata e questa sua presenza si accentuava ulteriormente tra gli espositori dal profilo propriamente industriale. Ciononostante, la
rassegna riuscì ad assumere un carattere effettivamente nazionale e, nel nuovo
clima di parziale protezionismo doganale, le possibilità di consolidamento di
settori come quello siderurgico, che mostravano evidenti segni di arretratezza,
sembravano essere una meta raggiungibile 48.
La rassegna diede un contributo rilevante nel creare l’immagine fondativa di
Milano “capitale morale” d’Italia, forse il più potente mito identitario espresso
dalla borghesia industriale italiana 49. E, nonostante le contraddizioni e i ritardi,
ben evidenti fin dall’architettura degli edifici effimeri realizzati in legno, quando le esposizioni internazionali fin dalla costruzione nel 1851 del Crystal Palace
di Joseph Paxton erano rigorosamente in metallo, l’esposizione milanese «segna
una data importante nella storia dello sviluppo economico del Paese» 50.
Sui contributi pubblici all’esposizione milanese si veda la puntuale ricostruzione fatta da Elisabetta Colombo, Come si governava Milano. Politiche pubbliche nel secondo Ottocento, Franco Angeli,
Milano 2005, pp. 151-175.
47
E. Decleva, Milano industriale e l’Esposizione del 1881, cit., p. lxii.
48
Enrico Decleva, L’Esposizione del 1881 e le origini del mito di Milano, in Dallo Stato di Milano alla Lombardia contemporanea, a cura di Silvia Pizzetti, Cisalpino-Goliardica, Milano 1980, p. 198. Su
questa esposizione si vedano inoltre: Esposizione Nazionale di Milano 1881: documenti e immagini 100
anni dopo, a cura di Guido Lopez, Comune di Milano, Milano 1981; C.G. Lacaita, L’intelligenza produttiva…, cit., pp. 141-149; Milano 1881, a cura di Carla Riccardi, Sellerio, Palermo 1991.
49
Cfr. Vittorio Spinazzola, “La capitale morale”. Cultura milanese e mitologia urbana, in «Belfagor»,
maggio 1981, fasc. III, p. 317; C.G. Lacaita, L’intelligenza produttiva…, cit., p. 141; Giorgio Bigatti,
Per una “benintesa conservazione”. Municipio e città negli anni dell’Esposizione internazionale del 1906,
in Milano 1906. L’Esposizione internazionale del Sempione. La scienza, la città, la vita, a cura di Pietro
Redondi e Paola Zocchi, Guerini e Associati, Milano 2006, p. 224. Più in generale sulla costruzione
di questo mito si veda Giovanna Rosa, Il mito della capitale morale. Letteratura e pubblicistica a Milano fra Otto e Novecento, Edizioni di Comunità, Milano 1982.
50
Giuseppe Colombo, L’industria delle macchine all’Esposizione di Milano, in Id., Industria e politica
nella storia d’Italia…, cit., p. 239.
46

Con la rassegna del 1881 si innescava anche in Italia quell’isteria espositiva che
ha interessato l’Europa della seconda metà dell’Ottocento. Nei pochi anni che
mancavano al compimento del secolo si succedettero altre quattro manifestazioni a intervalli che andavano da un minimo di due a un massimo di sette anni.
A promuovere l’Esposizione generale di Torino del 1884 fu ancora una volta la
Società promotrice dell’industria nazionale, l’associazione di privati che, con non
molta fortuna, aveva organizzato la rassegna torinese del 1871. Anche in questo
caso, come per la manifestazione milanese del 1881 che si intendeva emulare, il
sistema di finanziamento fu misto tra privato e statale e l’iniziativa chiuse con un
importante attivo. Dal punto di vista organizzativo la rassegna seppe coinvolgere
migliaia di persone e associazioni, mentre l’amministrazione rimase saldamente
nelle mani del comitato generale presieduto dall’avvocato Tommaso Villa, politico di successo e consigliere comunale, vero demiurgo dell’evento 51.
Questa esposizione rappresenta il primo sforzo completamente riuscito di
costruire un’immagine dell’Italia unificata. In essa venne offerta la possibilità
di un viaggio immaginario non solo nello spazio, ma anche nel tempo, secondo il cosiddetto principio retrospettivo che si venne affermando a partire dagli
anni Ottanta. Infatti vennero riprodotti un borgo e un castello medievale, con
relativi figuranti, rimasti poi come architetture permanenti, momento ludico e
pedagogico al tempo stesso 52.
Villa, che attribuiva a queste rassegne un ruolo cruciale nei processi di costruzione del consenso e nella pedagogia sociale, volle celebrare il Risorgimento nazionale attraverso una mostra. Tutte le città e le province del regno furono
invitate a inviare cimeli e testimonianze e la risposta fu superiore a ogni aspet-
Linda Aimone, Francesca B. Filippi, 1884. La nazione italiana al lavoro, in Le esposizioni torinesi
1805-1911…, cit., pp. 82-86. Su questa esposizione si vedano inoltre: Leila Picco, Le esposizioni a Torino…, cit., pp. 531-536; Mariantonietta Picone Petrusa, 1884. Torino Esposizione nazionale (26 aprile - 20 novembre), in Le grandi esposizioni in Italia…, cit., pp. 92-95; Linda Aimone, Nel segno della
continuità. Le prime esposizioni nazionali a Torino (1884 e 1898), in Tra scienza e tecnica…, cit., pp.
147-167; Ead., L’esposizione del 1884 al Valentino, in Storia illustrata di Torino, a cura di Valerio Castronovo, vol. 5º, Torino nell’Italia unita, Elio Sellino Editore, Milano 1993, pp. 1221-1240.
52
Alexander C.T. Geppert, Città brevi: storia, storiografia e teoria delle pratiche espositive europee, 18512000, in «Memoria e Ricerca. Rivista di storia contemporanea», 2004, 17, p. 14. Sui viaggi nel tempo e nello spazio offerti dalle esposizioni si vedano inoltre: Paolo Brenni, Le meraviglie del progresso.
Le esposizioni universali e i musei tecnico-scientifici, in Storia delle scienze, V, Conoscenze scientifiche e
trasferimento tecnologico, Einaudi, Torino 1995, pp. 174-177; Alexander C.T. Geppert, Luoghi, città,
prospettive: le esposizioni e l’urbanistica fin-de-siècle, in «Memoria e Ricerca. Rivista di storia contemporanea», 2003, 12, p. 129.
51

tativa, tant’è che il materiale raccolto dovette essere ospitato in un apposito padiglione di 1.200 metri quadrati 53.
L’esposizione venne organizzata in otto categorie: Belle arti, Produzioni
scientifiche e letterarie, Didattica, Previdenza e assistenza pubblica, Industrie
estrattive e chimiche, Industrie meccaniche, Industrie manifatturiere, Agricoltura e materie alimentari. A esse si aggiunsero mostre speciali che toccavano alcuni temi della ricerca positiva di cui Torino era il principale centro italiano.
Tra queste la Galleria del lavoro, dotata di una rete di impianti e di macchine
in movimento che producevano oggetti in vendita 54. Oppure la Mostra internazionale di elettricità, allestita nella sezione della meccanica di precisione applicata alle scienze, con il coinvolgimento dell’inventore Galileo Ferraris. Tra i
141 espositori della mostra, di cui 57 erano stranieri, emergeva chiaramente il
ritardo produttivo e tecnologico nazionale 55.
La sezione dedicata all’Assistenza e alla previdenza pubblica, comparsa per la
prima volta in un’esposizione nella rassegna parigina del 1878 e presente anche
a Milano nel 1881, sanciva il rilievo raggiunto in Italia dalle società di mutuo
soccorso e si apriva alle scienze di rilevanza sociale quali la demografia, l’antropometria, la topografia sanitaria e l’igiene, potendo contare su personalità come Luigi Pagliani, primo professore di igiene dell’Università di Torino e futuro estensore della legge Crispi sulla tutela dell’igiene e della sanità pubblica del
1888 56. Con 14.237 espositori e circa tre milioni di visitatori, l’esposizione del
1884 fu quella fin qui più riuscita.
L’idea di tenere la quarta esposizione nazionale a Palermo venne lanciata dal
«Giornale di Sicilia» il 13 maggio del 1888 e subito fatta propria da Francesco
Crispi. L’evento avrebbe dovuto dimostrare i vantaggi del sistema protezionistico generale introdotto nel 1887 per lo sviluppo economico nazionale 57. È significativo che tra i promotori non ci fossero imprenditori. Del resto la stessa Camera di commercio venne coinvolta solo successivamente e i finanziamenti alla
manifestazione furono prevalentemente pubblici. La stessa verifica dei risultati
Cfr. Esposizione generale italiana di Torino, 1884, Catalogo degli oggetti esposti nel padiglione del
Risorgimento italiano. I. Medagliere. II. Oggetti. III. Documenti. IV: Bibliografia, Fratelli Dumolard
Editori, Milano 1888.
54
L. Aimone, Le esposizioni industriali a Torino…, cit., p. 516.
55
Ibidem, pp. 517-518.
56
L. Aimone, F.B. Filippi, 1884…, cit., p. 96.
57
Romualdo Giuffrida, Introduzione, in Esposizione nazionale Palermo 1891-1892. Catalogo generale,
Accademia nazionale di scienze, lettere e arti, Palermo 1991, p. XIV.
53

economici successivi alle nuove tariffe doganali doveva condurre alla constatazione del danno prodotto nel Meridione dal regime protezionistico 58.
La mostra, progettata dal giovane Ernesto Basile e aperta dal 15 novembre
1891 al 7 giugno 1892, era articolata in dodici divisioni con settemila espositori,
molti dei quali siciliani 59. L’unico tentativo riuscito di una città del Sud d’Italia
di inserirsi nelle grandi kermesses ottocentesche, di fatto ebbe un carattere prevalentemente regionale.
Le Esposizioni riunite tenute a Milano nel 1894 furono il prodotto di undici
diverse esposizioni, alcune nazionali e altre internazionali, organizzate autonomamente e coordinate tra di loro da un comune comitato esecutivo. Vennero
allestite nel Castello sforzesco, divenuto in quegli anni di proprietà comunale e
trasformato dall’architetto Luca Beltrami, e nel parco del Sempione che si stava realizzando nell’attigua Piazza d’Armi 60. Il carattere specialistico e non generale della rassegna veniva indicato dagli organizzatori come un punto di forza della manifestazione. In realtà le varie esposizioni erano più il frutto di una
gemmazione continua, piuttosto che il prodotto di una scelta ponderata. Non
mancavano comunque delle novità assolute per l’Italia, come le esposizioni internazionali di pubblicità e di fotografia. Ma la tanto auspicata Esposizione internazionale di elettricità, idea inizialmente accolta con favore dagli industriali
milanesi, non venne realizzata 61. Con circa 45 mila mq espositivi, più di seimila
espositori e oltre due milioni di visitatori, la classe dirigente milanese dimostrava ancora una volta capacità organizzativa, riuscendo nell’impresa con il solo
finanziamento privato 62.
L’Esposizione generale di Torino del 1898, che chiude questo contributo,
non celebrò solamente il cinquantenario della promulgazione dello Statuto albertino, ma anche l’effettivo progresso industriale della nazione e il ruolo che
Mariantonietta Picone Petrusa, Cinquant’anni di esposizioni industriali in Italia 1861-1911, in Le
grandi esposizioni in Italia…, cit., p. 16.
59
Cfr. Mariantonietta Picone Petrusa, 1891-’92. Palermo Esposizione nazionale (15 novembre ’91 - 7
giugno ’92), in Le grandi esposizioni in Italia…, cit., pp. 100-103.
60
Mariantonietta Picone Petrusa, 1894. Milano Esposizioni riunite (6 maggio - 6 novembre), in Le
grandi esposizioni in Italia…, cit., pp. 100-103.
61
Irene Piazzoni, Milano e le esposizioni universali (1860-1900), in Innovazione e modernizzazione…,
cit., p. 563.
62
Cfr. Rosanna Pavoni, Ornella Selvafolta, Milano 1894. Le Esposizioni Riunite, in Milano 1894. Le
Esposizioni Riunite, a cura di Rosanna Pavoni e Ornella Selvafolta, Amilcare Pizzi, Milano 1994, pp.
7-20.
58

la città di Torino aveva in questo processo 63. L’idea della manifestazione maturò all’interno della società di previdenza «La Libertà», presieduta dall’industriale Battista Diatto che in seguito prese la presidenza del comitato esecutivo
dell’esposizione, e il 5 novembre 1895 venne resa pubblica nelle sale della Società
promotrice dell’industria nazionale 64. Concepita con largo anticipo e finanziata
prevalentemente con l’emissione di azioni redimibili, la rassegna venne allestita
nel Parco del Valentino con un gigantismo che aspirava ad emulare le manifestazioni internazionali.
In essa fu organizzata la seconda Mostra internazionale di elettricità tenuta
in Italia. Tra i 180 espositori prevalevano nettamente i tedeschi, mentre i pochi
espositori italiani erano concentrati nel settore ferroviario (Officine di Savigliano) e in quello degli strumenti di precisione (Tecnomasio di Milano e Olivetti di Ivrea) 65. Inoltre, come stava accadendo nelle esposizioni internazionali, lo
spazio e l’attenzione riservati alle gallerie della marina e della guerra erano ormai pari a quelli per la galleria del lavoro. Così come la sempre maggiore rilevanza della meccanica applicata ai mezzi di trasporto venne testimoniata dalla
gara internazionale per automobili e motocicli svoltasi il 17 luglio sul percorso
Torino-Asti-Alessandria e ritorno66.
Con circa ottomila espositori, 43 congressi nazionali e internazionali e tre
milioni e mezzo di visitatori, la manifestazione registrò un grande successo, e
questo nonostante nelle prime settimane di apertura l’instabilità del clima politico sfociata nell’insurrezione di Milano avesse limitato l’affluenza di pubblico. Alla fine si ebbe così un largo attivo, le azioni furono rimborsate e si fece a
meno dell’intervento finanziario del Governo.
63
Cfr. Silvano Montaldo, Patria e religione nel 1898, in Le esposizioni torinesi 1805-1911…, cit., p. 118.
Su questa esposizione si vedano inoltre: Mariantonietta Picone Petrusa, 1898. Torino Esposizione nazionale (1 maggio - 20 novembre), in Le grandi esposizioni in Italia…, cit., pp. 104-107; Maria Cristina
Buscioni, Esposizioni e “Stile nazionale” (1861-1925). Il linguaggio dell’architettura nei padiglioni italiani delle grandi kermesses nazionali ed internazionali, Alinea Editrice, Firenze 1990, pp. 154-158; P.L.
Bassignana, Le feste popolari del capitalismo…, cit., pp. 92-97.
64
Cfr. L. Picco, Le esposizioni a Torino…, cit., p. 536.
65
L. Aimone, Le esposizioni industriali a Torino…, cit., p. 519; Ead., Scienza e tecnica alle esposizioni
torinesi (1884, 1898, 1911), in I produttori alle esposizioni, Archivio Storico Amma, Torino 1995, pp.
13-14.
66
L. Aimone, Le esposizioni industriali a Torino…, cit., p. 520.

Conclusioni
Le esposizioni hanno rappresentato il processo di industrializzazione: ne sono state la vetrina, ne hanno favorito l’emulazione e permesso il trasferimento
di conoscenze. Ma nel processo di trasformazione cui le esposizioni andarono
incontro nella seconda metà dell’Ottocento il ruolo dell’Italia fu marginale. Le
condizioni di arretratezza economica, i problemi posti dall’unificazione, l’esigenza prioritaria di portare a compimento l’unità del Paese, furono gli ostacoli
maggiori. Nonostante ciò l’Italia partecipò a tutte le esposizioni internazionali
del tempo 67.
Al proprio interno, le esposizioni furono un campo di competizione fra le
diverse città italiane e in particolare tra Milano e Torino, le uniche due che potevano veramente contare su un apparato produttivo, un sistema finanziario e
un ceto dirigente in grado di far fronte ai rischi organizzativi. Del resto queste
manifestazioni erano di per sé stesse un’attività economica e in caso di successo
potevano rivelarsi fonte di guadagno per i promotori 68.
Cfr. P.L. Bassignana, Le feste popolari del capitalismo…, cit., p. 79.
Cfr. L. Picco, Le esposizioni a Torino…, cit., p. 531.
67
68

La letteratura del Risorgimento e l’Unità nazionale
Giuseppe Langella *
La letteratura ha avuto una funzione decisiva nella promozione dei valori risorgimentali: è stata l’anima e la forza trainante degli eventi 1. Nei decenni cruciali
che vanno dalla Repubblica Cisalpina all’impresa dei Mille, poeti e scrittori hanno
saputo generare una diffusa coscienza patriottica e suscitare nella gioventù colta
del Paese, con le loro parole infiammate, frementi «amor di patria» come «l’ossa»
di Alfieri nei Sepolcri foscoliani, il desiderio pungente di battersi per l’Italia, fino
a dare la vita per farla risorgere, libera e indipendente, a nuovo splendore.
Una delle prime sintetiche formulazioni del ruolo ideologico e propulsivo
che i letterati si assunsero nell’età del Risorgimento si trova già nel celeberrimo Giorno verrà, tornerà il giorno, sonetto conclusivo del Misogallo alfieriano 2.
Com’è noto, per la sua sferzante satira antifrancese, l’opera, dedicata «alla passata, presente, e futura Italia», poté uscire, postuma, solo nel 1814, dopo la caduta
di Napoleone. A far infiammare d’amor patrio i suoi connazionali avrebbero
provveduto, a detta di Alfieri, due «sproni ardenti»: le straordinarie «opre de’
lor Avi» e i «carmi» del poeta «Vate», ispirati proprio dalla «virtù prisca». Così,
celebrando un passato glorioso di splendore politico e di valor militare, il poeta,
benché «in pravi / secoli nato», si sarebbe fatto profeta della redenzione futura
della Penisola, accelerando l’avvento di nuove «sublimi età» 3.
* Università Cattolica del Sacro Cuore.
1
A renderle questo merito, con ampio corredo di prove, è stato – si badi – non uno storico della
letteratura ma uno storico del Risorgimento come Alberto Mario Banti, autore di un libro, La nazione del Risorgimento. Parentela, santità e onore alle origini dell’Italia unita, Einaudi, Torino 2000,
davvero illuminante.
2
Vittorio Alfieri, Il Misogallo, in Id., Scritti politici e morali, a cura di Clemente Mazzotta, Casa
d’Alfieri, Asti 1984 (Edizione Nazionale delle Opere di Vittorio Alfieri, 5), t. III, p. 411.
3
Proprio in riferimento a questo sonetto, Guido Santato ha scritto giustamente che «l’Alfieri ben
difficilmente avrebbe potuto essere il poeta-vate di una vicenda storica che avesse un corso positivo
[…]: offriva però uno specchio eroico ed una suggestione profetica perfettamente funzionali ad una
situazione storica che vivesse di attese, speranze, vigilie. L’Alfieri fu il nume tutelare di questa attesa,

Tutta la letteratura del Risorgimento si sarebbe sentita chiamata ad assolvere
a questo preciso mandato: risvegliare negli italiani, intorpiditi da secoli di divisioni e di servaggio, le passioni civili e il sentimento patriottico, richiamando
con forte pathos, in toni accesi e convulsi, le pagine più esaltanti della nostra
storia nazionale, per suscitare nelle nuove leve il fermo proposito di emulare le
eroiche virtù degli antenati 4. Ce ne offre un esempio a suo modo mirabile la
quarta strofe del nostro inno nazionale, che pone in risalto le mai sopite virtù
civili dei nostri progenitori, la loro difesa a oltranza dell’onore italiano e l’insofferenza per ogni dominazione straniera. E si ricordi che a concepirlo, nel 1847,
era stato un ragazzo non più che ventenne, che avrebbe trovato la morte, appena due anni dopo, nell’estrema difesa della Repubblica romana:
Dall’Alpi a Sicilia
dovunque è Legnano,
ogn’uom di Ferruccio
ha il core, ha la mano,
i bimbi d’Italia
si chiaman Balilla,
il suon d’ogni squilla
i Vespri suonò 5.
Mettendo insieme quattro insurrezioni contro altrettanti gioghi stranieri
(tedeschi, spagnoli, austriaci e francesi), avvenute in quattro secoli diversi e in
quattro distinte regioni della penisola (Lombardia, Toscana, Liguria, Sicilia),
Goffredo Mameli mostrava che tutti gli italiani avevano sempre nutrito un fermissimo spirito d’indipendenza.
il creatore di un mito letterario e politico proiettato verso un futuro glorioso e improbabile: il poeta dell’Italia futura»: Guido Santato, Un padre per la patria: Alfieri e il mito della “futura Italia”, in
L’identità nazionale nella cultura letteraria italiana, Atti del III Congresso nazionale dell’Associazione degli Italianisti Italiani (Lecce-Otranto, 20-22 settembre 1999), a cura di Gino Rizzo, Congedo
Editore, Galatina (Lecce) 2001, vol. I, p. 280.
4
Donde, ad esempio, la fortuna del romanzo storico, che ribolle delle «passioni civili e morali del
nostro Risorgimento. V’era pur un’intima necessità, da parte dei romanzieri romantici, a scegliere
un dato argomento di storia, un’epoca da rappresentare, e nasceva dal bisogno di trovare un rapporto continuo e operante tra la storia che stavano vivendo e quella del passato»: Giorgio Petrocchi, Il
romanzo storico nell’800 italiano, ERI, Torino 1967, p. 46. In particolare, i «romanzi del Guerrazzi
sono quasi un “pamphlet” patriottico, onde efficacemente spronare il lettore alla causa dell’italianità» (p. 53).
5
Goffredo Mameli, Fratelli d’Italia, in Id., Poesie, con Introduzione e Note di Francesco Luigi Mannucci, Paravia, Torino-Milano-Firenze-Roma-Napoli-Palermo 1927, p. 88.

Ma per tornare alla profetica chiusa del Misogallo, quando parlava di «Avi» e
di «virtù prisca», Alfieri pensava – non c’è dubbio – agli antichi romani. Il mito
della Roma repubblicana era stato rilanciato, del resto, dalla stessa Rivoluzione
francese, che ne aveva riesumato perfino riti, fogge e linguaggio. Al repertorio
storico-leggendario degli eroi e degli episodi di quella Roma avrebbero attinto,
tra gli altri, il giovanissimo Manzoni “giacobino” del Trionfo della Libertà (1801)
e, in tempi già di restaurazione asburgica, il Leopardi del Bruto minore (1821),
per dare amaro sfogo a tutto il suo “pessimismo storico”. Se per la Francia rivoluzionaria la Roma dei consoli e dei tribuni rappresentava anzitutto un modello di perfezione sociale, ovvero di virtù politica e di senso civico, dove la sanità dei costumi e la fortezza dei caratteri venivano fatti discendere direttamente
dagli ordinamenti democratici dello Stato, i poeti italiani dell’età risorgimentale
avrebbero avuto buon gioco ad additare senza esitazione nei Bruti, nei Collatini,
negli Scevola, nei Cocliti, nelle Lucrezie, nelle Clelie, negli Scipioni, nei Gracchi
e nei Catoni i nostri lontani progenitori. La prima unificazione d’Italia, d’altronde, era avvenuta proprio in quei secoli d’oro, con l’estensione della cittadinanza romana a tutti gli abitanti della Penisola. Tirare in ballo, perciò, personaggi
e vicende dell’antica Roma ebbe sempre, nella letteratura del Risorgimento, un
significato identitario: volle essere un richiamo alle origini della nazione italiana,
che affondava le radici in un passato così straordinariamente glorioso.
Può sorprendere, perciò, che buona parte dei romanzi storici e della lirica
patriottica di età risorgimentale, dalla Battaglia di Benevento (1828) di Francesco
Domenico Guerrazzi al Duca d’Atene (1837) di Niccolò Tommaseo, dal Marco Visconti (1834) di Tommaso Grossi alla Margherita Pusterla (1838) di Cesare
Cantù, dai Lombardi alla prima Crociata (1826) dello stesso Grossi alle Fantasie
(1829) di Giovanni Berchet, invece che all’antica Roma, si sia rifatta all’epopea
medievale. La deviazione su questo periodo storico dei motivi politici cari ai padri del Risorgimento si spiega, tuttavia, abbastanza agevolmente, ricordando la
fortuna incontrata dal Medioevo in area romantica e preromantica. Il gusto per
gli scenari gotici, scendendo dalle letterature nordiche, penetrò, infatti, in mezza
Europa, contagiando vistosamente anche l’Italia. Ma, al di là delle suggestioni
contingenti di una moda letteraria, la scelta della materia medievale, da parte
dei nostri autori, si prestò magnificamente a veicolare i grandi ideali destinati
ad alimentare le battaglie risorgimentali. Il Medioevo, infatti, era stato un’epoca
caratterizzata da passioni civili e smanie di libertà, spentesi solo più tardi, sotto i
regimi principeschi. Esattamente intorno a questa tesi Sismondi aveva costruito
quell’Histoire des Républiques Italiennes du Moyen Âge cui attinsero a piene mani

un po’ tutti gli scrittori del Risorgimento, lasciandosi guidare anche nell’interpretazione eroica dell’età comunale 6. Nella sua opera monumentale, infatti, lo
storico ginevrino aveva voluto dimostrare che «sous les empereurs [romains], la
perte de toutes les vertus fut la conséquence des progrès du despotisme» e che
«il ne fallut rien moins que cinq autres siècles de barbarie» per restituire alle popolazioni italiane l’antica energia, «l’amour de la patrie et de la liberté»: allora,
«dans les villes toutes libres et républicaines» si erano sprigionate «des passions
plus vives» e tanto maggiori prove «de vertus, de courage et de vraie grandeur»
di quante ne sarebbero potute allignare sotto qualsiasi monarchia 7.
Se, dunque, per i popoli nordici l’età di mezzo rappresentava l’epoca del
primo costituirsi delle rispettive nazioni barbariche, sicché tornare a quei tempi voleva dire prender coscienza di sé risalendo alle proprie origini, la fortuna
del Medioevo nella nostra letteratura romantica rispose piuttosto alla volontà
di additare come attributo permanente del carattere autenticamente italiano il
vivo interesse per la politica e un fiero attaccamento alla libertà, sulla scia gloriosa della Roma repubblicana. Diversamente, infatti, da altre regioni d’Europa, l’Italia non aveva dovuto aspettare le invasioni barbariche per costituirsi in
nazione. Semmai, l’arrivo dei barbari nella Penisola, a ondate successive, aveva
avviato quel processo di disgregazione di cui essa pativa ancora le conseguenze
in termini di frazionamento politico, debolezza e soggezione allo straniero 8.
La storia italiana del Medioevo venne fruita, insomma, dai nostri scrittori risorgimentali nella misura in cui si prestava a fungere da ponte di collegamento
tra le civiche virtù degli antichi romani e quelle che si rendevano necessarie per
portare a compimento la redenzione della patria; tanto più che, non di rado, i
liberi comuni avevano dovuto difendere, con le unghie e coi denti, franchigie
e indipendenza dalle pretese o dalla cupidigia d’imperatori o principi stranieri. Il Medioevo, quindi, servì alla causa risorgimentale come tempo della rinata
libertà, in continuità di spiriti con la Roma antica. Gli eroi del romanzo storico e della lirica patriottica, anche quando indossarono abiti medievali, furono
«All’importanza» rivestita dall’opera sismondina in età risorgimentale, «come contributo alla fondazione di una nazione italiana rinnovata da liberi istituti civili e politici», ha già dato il giusto rilievo
Giulio Bollati nel suo L’Italiano. Il carattere nazionale come storia e come invenzione, Einaudi, Torino
1996, pp. 84-87.
7
Jean-Charles-Léonard Simonde De Sismondi, Histoire des Républiques Italiennes du Moyen Âge,
chez H. Nicolle, Paris 1809, t. I, pp. vii-viii, xiii.
8
Per questo aspetto sia consentito rinviare a Giuseppe Langella, Amor di patria. Manzoni e altra
letteratura del Risorgimento, Interlinea, Novara 2005, pp. 209-210.
6

palesemente ricalcati sul modello del civis romanus fissato da Cicerone nel De
officiis, presentando una sorprendente aria di famiglia con certe figure della Roma repubblicana immortalate da Tito Livio, che avevano parimenti anteposto i
superiori interessi o l’onore della patria agli stessi più profondi affetti familiari.
Nei liberi comuni dell’Italia medievale i letterati dell’Ottocento videro restaurati i costumi che avevano fatto la grandezza di Roma e riportati alla luce i tratti
più fulgidi e più veri del carattere nazionale.
In un quadro tanto promettente, e perfino invidiabile, la rovina delle repubbliche italiane era stata provocata dalle discordie, a monte delle quali c’era stata
la mancanza di una coscienza nazionale. La perdita della libertà era dipesa proprio dal non aver saputo ravvisare la patria al di fuori delle mura cittadine. Prive di qualsiasi spirito unitario, avvezze, anzi, a considerarsi mortali nemiche, le
città avevano finito, alla lunga, per consegnarsi ostaggio nelle mani dei prìncipi.
La diagnosi di Cantù, nella Margherita Pusterla, era chiara e inoppugnabile:
[…] invece di maturare un concorde sentimento di nazionalità, dal quale soltanto
potevano sperare frutti per l’avvenire, combattevansi e contrariavansi l’una l’altra:
patria riguardavano l’angolo dove ciascuno era nato; forestieri od avversari tutti
quelli d’altra terra, tanto più accaniti quanto più vicini 9.
E Foscolo, prima di lui, per bocca dell’Ortis era uscito in questo lamento:
[…] noi tutti Italiani siamo fuorusciti e stranieri in Italia: e lontani appena dal nostro territoriuccio, né ingegno, né fama, né illibati costumi ci sono di scudo […].
Sbanditi appena dalle nostre porte, non troviamo chi ne raccolga. Spogliati dagli
uni, scherniti dagli altri, traditi sempre da tutti, abbandonati da’ nostri medesimi
concittadini, i quali, anziché compiangersi e soccorrersi nella comune calamità,
guardano come barbari tutti quegl’Italiani che non sono della loro provincia – dimmi, Lorenzo, quale asilo ci resta? 10
Ben diversa storia sarebbe toccata ai nipoti di quei fieri cittadini, se al culto
della libertà essi avessero saputo associare la prospettiva di una solidarietà nazionale. Ancora Jacopo Ortis, giunto a Ventimiglia, salutando in una celebre let-
Cesare Cantù, Margherita Pusterla, a cura di Fabio Pittorru, Rizzoli, Milano 1965, p. 263.
Ugo Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis, edizione critica a cura di Giovanni Gambarin, Le
Monnier, Firenze 1955 (Edizione Nazionale delle Opere di Ugo Foscolo, 4), pp. 232-233. Il brano è
estratto dalla lettera datata «Firenze, 25 settembre».
9
10

tera i «confini» naturali della Penisola, apostrofava così l’Italia: «Nulla ti manca
se non la forza della concordia» 11. Mentre plaudivano, per un verso, al vivissimo
desiderio di libertà che aveva pungolato gli eroi dell’età dei comuni, gli scrittori
risorgimentali non esitarono a rendere manifesta la vanità delle più belle virtù
cittadinesche quando esse fossero scompagnate da una visione unitaria. In questo modo, le vicende narrate assumevano una duplice valenza pedagogica, contemplando al tempo stesso l’esempio da emulare e l’errore da fuggire.
La spinta unitaria degli uomini del Risorgimento, letterati in testa, nacque
dalla constatazione dei frutti nefasti di tante divisioni e lotte intestine: la debolezza congenita di un Paese ridotto a terra di conquista, percorso in lungo e
in largo da eserciti rapaci, e la sua frantumazione politica in una serie di Stati
regionali, per giunta quasi sempre asserviti a potenze straniere. Lo denunciava
a chiare note il giovane Mameli in un’altra strofe del suo inno, invitando, proprio per questo, i «fratelli d’Italia» a stringersi «a coorte», a raccogliersi sotto
«un’unica / bandiera»:
Noi siamo da secoli
calpesti, derisi,
perché non siam popolo,
perché siam divisi 12.
Era questa la tragica lezione che si poteva ricavare dalla storia: come puntualmente Manzoni aveva denunciato fin dal 1820 nel Conte di Carmagnola,
con accenti perfino accorati nel celeberrimo coro della battaglia di Maclodio: «i
fratelli hanno ucciso i fratelli: / questa orrenda novella vi do» 13.
Ecco perché, fin dal 1815, in appoggio al disperato e velleitario tentativo di
Gioacchino Murat, spodestato re di Napoli, di opporsi alla restaurazione degli anciens régimes decretata dal Congresso di Vienna, mettendosi alla testa del
movimento patriottico italiano, lo stesso Manzoni scrisse chiaro e tondo, nella canzone Il proclama di Rimini, «liberi non sarem se non siam uni» 14. Si noti:
l’unità non era il fine supremo delle battaglie risorgimentali, ma il mezzo indi Ibidem, p. 260.
G. Mameli, Fratelli d’Italia, cit., p. 87.
13
Alessandro Manzoni, Il Conte di Carmagnola, edizione critica a cura di Giovanni Bardazzi, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano 1985, atto II, Coro, vv. 87-88, p. 458.
14
Alessandro Manzoni, Il proclama di Rimini, in Id., Tutte le poesie (1797-1872), a cura di Gilberto
Lonardi, commento e note di Paola Azzolini, Marsilio, Venezia 1992, p. 175.
11
12

spensabile per conseguire la meta che stava veramente a cuore, ovvero la libertà. Qual era, infatti, l’ostacolo maggiore alla conquista della libertà? Il dominio,
diretto o indiretto, dell’Austria su gran parte del territorio italiano. Per ottenere
la libertà, dunque, era necessario scrollarsi di dosso il giogo asburgico. Ma, così
divisi, non era pensabile guadagnarsi l’indipendenza: occorreva unire le forze,
altrimenti sarebbe toccato in sorte agli italiani di essere «ai men forti» di loro
«gregge dispetto» 15. Il Manzoni patriota per lunghi decenni non fece altro che
inseguire questo sogno, guardando prima a Murat, poi al piccolo ma autonomo
Regno di Sardegna, nelle persone, soprattutto, di Carlo Alberto e di Vittorio
Emanuele II, infine a Garibaldi, l’eroe dei due mondi 16; sempre attendendo un
condottiero liberatore che raccogliesse «da terra» «le sparse verghe» dell’«itala
fortuna», stringendole in un sol «fascio» nella sua mano 17.
Il medesimo ideale unitario sarebbe tornato ad affacciarsi, più risoluto e convinto che mai, nelle Fantasie dell’esule Berchet, pubblicate a Londra nel 1829 e
dedicate – si badi – alla grande epopea della Lega Lombarda contro Federico
Barbarossa, dal giuramento di Pontida del 1167 alla pace di Costanza del 1183.
L’autore avrebbe sottolineato, nell’introduzione al poema, che i protagonisti di
quella storia erano stati i «primi» a parlare «di concordia dove non era che risse» e a concepire «l’alto disegno dell’indipendenza nazionale» 18. E questo era il
testamento lasciato, in punto di morte, da uno degli eroi della gloriosa battaglia di Legnano:
Non la siepe che l’orto v’impruna
è il confin dell’Italia, o ringhiosi;
sono i monti il suo lembo: gli esosi
son le torme che vengon di là 19.
Ibidem, p. 175.
Sull’ammirazione del poeta per il condottiero cfr. Giuseppe Langella, Garibaldi e Manzoni, nel
catalogo della mostra Garibaldi. Le immagini del mito nella collezione Tronca, a cura di Francesco Paolo Tronca, Grafo, Brescia 2007, pp. 37-41.
17
A. Manzoni, Il proclama di Rimini, cit., p. 175. Sulla prospettiva unitaria del patriottismo manzoniano cfr. Giovanni Bognetti, L’unità d’Italia nel pensiero di A. Rosmini e di A. Manzoni, negli Atti
dell’incontro di studio su Manzoni e Rosmini (Milano, 2 ottobre 1997), Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, Milano 1998, pp. 113-205.
18
Giovanni Berchet, Le Fantasie, in Id., Poesie, seguite dalla Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliuolo, a cura di Gerolamo Lazzeri, Vallardi, Milano 1936, p. 185.
19
Ibidem (III, vv. 325-328), pp. 211-212.
15
16

Gli uomini del Risorgimento furono sempre sorretti da una fede incrollabile
circa la risoluzione positiva del moto nazionale. Le Confessioni d’un Italiano di
Ippolito Nievo, pubblicate postume nel 1867, ma scritte dal giovane garibaldino alla vigilia della Seconda guerra d’indipendenza e della spedizione dei Mille, si aprono, emblematicamente, con questo atto di fede: «Io nacqui veneziano ai 18 ottobre del 1775, giorno dell’evangelista Luca; e morrò per la grazia di
Dio italiano quando lo vorrà quella Provvidenza che governa misteriosamente il
mondo» 20. Il Dio che aveva liberato con braccio potente gli ebrei dalla schiavitù d’Egitto avrebbe sicuramente affrancato anche il nostro popolo: «Dio rigetta
la forza straniera» – si legge nei martellanti decasillabi di Marzo 1821 –, perché,
«Padre di tutte le genti», «non disse al Germano giammai: / va, raccogli ove
arato non hai; / spiega l’ugne; l’Italia ti do» 21. Questa fede nel prossimo compimento di un destino provvidenziale dettò a Manzoni, nella medesima ode, il
famoso adynaton dei fiumi 22:
Chi potrà della gemina Dora,
della Bormida al Tanaro sposa,
del Ticino e dell’Orba selvosa
scerner l’onde confuse nel Po;
chi stornargli del rapido Mella
e dell’Oglio le miste correnti,
chi ritogliergli i mille torrenti
che la foce dell’Adda versò,
quello ancora una gente risorta
potrà scindere in volghi spregiati,
e a ritroso degli anni e dei fati,
risospingerla ai prischi dolor 23.
In questo paragone è adombrato il cammino irreversibile della storia d’Italia
verso uno sbocco unitario, in senso identitario non meno che politico. Collettore di affluenti che via via riversano le loro acque nel suo bacino, il Po dell’ode
manzoniana assurge ad allegoria della fusione tra i popoli della penisola, immancabile traguardo del travagliato processo risorgimentale. Con l’adynaton dei
fiumi Manzoni vuol farci capire, insomma, che, non diversamente dal corso naturale dei fiumi, il cui destino è quello di scendere a valle e mescolare le proprie
acque, anche le vicende italiane marciavano verso lo sbocco obbligato dell’unificazione nazionale 24. Pensare, perciò, di tornare a dividere l’Italia, a separarla,
a scinderla in «volghi spregiati», era un’eventualità impossibile, un mettersi in
testa di frenare la marcia irreversibile della storia. Credere di poter andare «a ritroso degli anni e dei fati», di riuscire a percorrere la storia al contrario, sarebbe
stato altrettanto assurdo che ordinare all’acqua di un fiume di tornare a separarsi
dalle altre e di risalire di nuovo fino alla sorgente, sovvertendo ogni legge della fisica. La forza dell’ideale risorgimentale sta tutta qui: nel vivere un processo
storico dai contorni quanto mai problematici e dagli esiti tutt’altro che scontati
come qualcosa, invece, di fatale, d’indubitabile, e prossimo alla meta.
Una delle prime compiute formulazioni dell’idea risorgimentale di nazione
è il distico, divenuto proverbiale, di Marzo 1821: «una d’arme, di lingua, d’altare, / di memorie, di sangue e di cor» 25. A voler esaminare un po’ da vicino questi fattori identitari, balza all’occhio la loro forte componente volontaristica 26: a
smentire, ad esempio, l’esistenza pregressa di un’unità d’arme aveva provveduto
Manzoni stesso scrivendo Il Conte di Carmagnola, tragedia delle guerre fratricide combattute dai soldati di ventura; mentre sappiamo che la mancanza di una
lingua comune costituì a lungo, per l’autore dei Promessi sposi, un cruccio e un
assillo; per non parlare dell’unità di sangue, di quel fattore genetico, cioè, che
fu il vero punctum dolens di un’identità come la nostra, stanti le impurità e le
differenze razziali che si erano andate accumulando, a forza di innesti, in tanti
secoli di invasioni, di frazionamento politico e di dominazioni straniere.
Così annota Walter Boggione nel suo eccellente commento all’ode manzoniana: «l’adynaton conferisce al processo di unificazione italiana il sigillo dell’irreversibilità»: in Alessandro Manzoni, Poesie
e tragedie, a cura di Walter Boggione, Utet, Torino 2002, p. 247.
25
Vv. 17-28; in A. Manzoni, Tutte le poesie…, cit., p. 198.
26
Sul carattere assai più “volontaristico” che “genetico” dell’idea di nazione su cui fecero leva gli
apostoli dell’unità d’Italia ebbe a scrivere pagine memorabili Federico Chabod in L’idea di nazione
[1943-1944], a cura di Armando Saitta, Ernesto Sestan, Laterza, Roma-Bari 2002 13, p. 70 sgg. Quella
suggestiva interpretazione dell’ideologia risorgimentale è stata però parzialmente corretta, in epoca
più recente, da A.M. Banti, La nazione del Risorgimento…, cit., p. 56 sgg.
24
Ippolito Nievo, Le confessioni d’un Italiano, a cura di Marcella Gorra, Mondadori, Milano 1981,
p. 3.
21
Alessandro Manzoni, Marzo 1821, vv. 54, 69-72; in Id., Tutte le poesie…, cit., p. 199.
22
Cfr. Giuseppe Langella, Il corso irreversibile della storia: l’adynaton dei fiumi in “Marzo 1821”, in
Letteratura e oltre. Studi in onore di Giorgio Baroni, a cura di Paola Ponti, Fabrizio Serra Editore, Pisa-Roma 2012, pp, 126-130; e Mario D’Addio, Manzoni politico, Marco Editore, Lungro di Cosenza
2005, p. 33.
23
A. Manzoni, Marzo 1821, vv. 17-28; in Id., Tutte le poesie…, cit., p. 198.
20


Nel definire l’identità degli italiani sarebbe stato, quindi, difficile prescindere dalla lunga vicenda di particolarismi che aveva segnato la storia del nostro
Paese, dal crollo dell’impero romano d’occidente in avanti. Durante il Risorgimento, tuttavia, quando più pressante si fece la spinta unitaria, la percezione delle varietà regionali tra gli abitanti della Penisola scomparve quasi del tutto. Emblematico il caso del fortunatissimo Ettore Fieramosca, romanzo storico
stampato nel 1833, uno dei maggiori best sellers della letteratura risorgimentale,
dove Massimo d’Azeglio, per far trionfare l’onore italiano, toglie ai tredici campioni della celebre disfida di Barletta ogni caratterizzazione regionale. Egli non
manca, beninteso, di sottolineare la diversa provenienza dei nostri valenti cavalieri, ma la spinta unitaria è talmente forte nel sistema ideologico del romanzo,
che le peculiarità d’indole o d’aspetto attribuite a questo o a quel personaggio
non sono mai riconducibili a varianti somatiche o psicologiche geograficamente localizzate. Lo studiato assortimento di eroi messi in campo da d’Azeglio è
combinato apposta perché a difendere il prestigio delle armi italiane concorrano
idealmente tutte le province. Non per nulla Prospero Colonna, padrino della
squadra, passati in rivista i suoi cavalieri, bardati e pronti per il fiero cimento, li
arringa brevemente facendo leva sulla comune nazionalità: «vedo fra voi Lombardi, Napoletani, Romani, Siciliani. Non siete forse tutti figli d’Italia ugualmente? Non sarà ugualmente diviso fra voi l’onore della vittoria? Non siete voi
a fronte di stranieri che gridan gl’Italiani codardi?» 27.
Bisognerà aspettare il compimento dell’unificazione nazionale, perché si
colgano le differenze tra italiani. Ma in ogni caso nella letteratura post-unitaria
ispirata ai valori del Risorgimento, dai Miei ricordi (1867) di d’Azeglio a Cuore
(1886) di De Amicis, le varietà regionali non saranno avvertite come elementi di debolezza o fattori di disgregazione, bensì, convogliate nel progetto della
grande nazione, verranno salutate come risorse vantaggiose per tutti. Si faccia
mente locale ai nove racconti mensili di Cuore che costellano il diario del piccolo Enrico: De Amicis ha cura di scegliere la provenienza dei suoi giovanissimi
eroi da altrettante regioni d’Italia. Non di rado l’indicazione geografica compare
addirittura nel titolo, come nel Piccolo patriotta padovano, nella Piccola vedetta
lombarda, nel Piccolo scrivano fiorentino, nel Tamburino sardo o in Sangue romagnolo. Campano è invece L’infermiere di tata, piemontese il protagonista di
Valor civile, siciliano quello di Naufragio, ligure, infine, l’intrepido ragazzo che
viaggia Dagli Appennini alle Ande per ritrovare sua madre.
De Amicis tiene conto delle specifiche caratteristiche etniche di ciascun fanciullo, attribuendo, giustamente, a un napoletano la forza viscerale dei legami
familiari, a un romagnolo l’ardimento focoso, a un genovese, concittadino di
Cristoforo Colombo, l’inclinazione ad affrontare il mare aperto e ad esplorare
il mondo ignoto. Ma quella cui assistiamo, alla fine, è solo una nobile gara di
coraggio, di abnegazione, di altruismo, di generosità, di sacrificio, che impegna
i migliori rappresentanti di tutte le contrade d’Italia a compiere il gesto più ammirevole di eroismo. Senza più smentire la molteplicità degli apporti regionali,
il De Amicis di Cuore li accoglie, coerentemente col principio unitario del Risorgimento, nella prospettiva di un arricchimento reciproco, di una grandezza
maggiore 28. La nazione capace di esprimere dal suo seno, fin dalla più tenera
età, tanti simili atti di valore, in frangenti di guerra come in tempi di pace, non
può che andarne orgogliosa e guardare con fiducia all’avvenire.
Massimo d’Azeglio, Ettore Fieramosca, ossia La disfida di Barletta, in Id., Romanzi, a cura di Alberto Maria Ghisalberti, Mursia, Milano 19692, p. 195.
28
27

Cfr. Giuseppe Langella, De Amicis e la pedagogia nazionale: i racconti mensili di “Cuore”, in «Italianistica», 2011, n. 2, pp. 117-126.

Tra lingua e dialetto: letteratura e identità nazionale
Piero Gibellini *
Chi può negare alla Storia della letteratura italiana di Francesco De Sanctis
il titolo di capolavoro? Certo, se molte sue pagine reggono meravigliosamente a
distanza di tempo, l’aggiornamento recato da tanti contributi settoriali e anche
da una impostazione policentrica – quella rilanciata da Carlo Dionisotti con
la sua Geografia e storia della letteratura italiana (1967) – datano, come si suol
dire, quel testo e ci ricordano che l’opera pubblicata nel 1870 era destinata alle
scuole e compariva all’indomani della conseguita Unità nazionale, quando, fatta l’Italia, occorreva fare gli Italiani. Come stupirsi dunque che in quella Storia,
che sottolineava e retrodatava l’aspirazione al tricolore fin dal secolo delle tre
corone antiche (Dante, Petrarca, Boccaccio) e maturata dalla rigenerazione civile delle tre corone dell’Italia nascitura e ormai nascente (la verità di Goldoni,
la moralità di Parini, la libertà di Manzoni), mancassero gli scrittori dialettali,
che pure comparivano nelle storie letterarie pre-desanctisiane: Quadrio, Ginguené, Corniani, Ugoni, Emiliani Giudici.
Provate invece a scorrere il manuale del De Sanctis: tutti assenti! Neppure di
Goldoni si dice che compose commedie in veneziano, come accade per Ruzante e Calmo citati di corsa nelle pagine sul teatri del Cinquecento, mentre Carlo
Porta è nominato solo in una lista secca di seguaci della scuola romantica, senza
altra specifica. Il Balestrieri è nominato solo come Accademico Trasformato; che
non vi figurasse Belli è comprensibile, poiché solo da poco era uscita la censurata antologia Salviucci (1865-66) e stava uscendo la silloge dei Duecento sonetti (Barbèra, 1870) curata da Luigi Morandi che solo nel 1886-9 avrebbe messo
fuori l’edizione complessiva condotta sugli autografi (dai Sonetti belliani avrebbero però tratto stimolo scrittori e critici della generazione scapigliata e verista,
Dossi,Verga, Settembrini, Imbriani). Unica eccezione, Teofilo Folengo cui De
Sanctis dedicava un intero capitolo, proprio perché i soluti dialettali lombardi
erano sciolti nel solvente latino.
La parola dialetto, in vero, non manca del tutto nella Storia; ma De Sanctis
* Università Ca’ Foscari di Venezia; socio e consigliere dell’Ateneo di Brescia.

la usa solo per caratterizzare le coloriture municipali di testi delle origini, non
ancora filtrati ed elevati ad altezza di lingua. De Sanctis sembra opporre i dialetti circoscritti a un volgare che li trascenderebbe, e ch’egli chiede di ravvisare
nel Contrasto di «Ciullo», alias Cielo d’Alcamo, mentre avverte vivaci sapori
dialettali nel Sacchetti, nel Poliziani (sic), in Lorenzo, Alberti. Anche nel Cinquecento i pochi impieghi del termine “dialetto” servono a caratterizzare solo
scrittori toscani inclini a un linguaggio fresco, vicino al parlato popolaresco:
Lasca e Berni. Un cenno volante alle idee linguistiche del Settecento, aperte al
francese e al dialetto nel trattato di Cesarotti, nella scrittura dei Verri e del Baretti. Tutto qui, ed è davvero poco.
La storiografia letteraria, dopo De Sanctis, ha fatto naturalmente progressi:
se Benedetto Croce, scopritore del talentuoso Basile e del melodioso Di Giacomo, offriva strumenti teorici per demolire il pregiudizio sulla presunta inferiorità estetica del dialetto, Gianfranco Contini levando lo sguardo anche oltre frontiera poteva affermare che la letteratura italiana è l’unica in cui la parte
dialettale faccia «visceralmente corpo» con quella in lingua, sicché asportare gli
autori in dialetto comporterebbe mutilazioni assai gravi. Porta e Belli, due giganti della stagione romantica, figuravano però ancora fra i Minori della Letteratura nel 1961 e dovettero aspettare la grande Letteratura garzantiana di Cecchi e Sapegno, per essere ospitati in due capitoli tutti loro, beneficiando di un
privilegio riservato a pochi loro contemporanei: Monti, Foscolo, Leopardi,
Manzoni, Tommaseo. La prima antologia per le scuole superiori che recepiva
quella svolta fu Lo spazio letterario (1989), stesa da Gianni Oliva, da Giovanni
Tesio e dal sottoscritto, concordi nel fissare il poker d’assi della stagione Porta,
Belli, Manzoni e Leopardi (Monti e Foscolo erano invece collocati da protagonisti nel capitolo sul neoclassicismo). Del progressivo ingresso dei dialettali
nelle antologie scolastiche e di cultura, nella seconda metà del Novecento, davo conto nel capitolo che Lucio Felici volle figurasse nei due volumi di prosecuzione e aggiornamento alla garzantiana, nella boa del millennio (Scenari di
fine secolo, 2001); capitolo steso in collaborazione con un’amica troppo presto
mancata, Marisa Strada.
E visto che sono caduto due volte nel malvezzo dell’autocitazione e che non
c’è due senza tre, avverto che le considerazioni che seguono sono riprese con
qualche ritocco da un articolo apparso su una rivista francese («Peuple» et «Nation»: notes sur la littérature dialectale italienne à l’époque romantique, in «Romantisme» 37, 1982). Popolo e Nazione, infatti, sono le due direttrici dell’impegno
risorgimentale: quella sociale e quella politica; le due vie, talora parallele ma più

spesso divergenti, si rispecchiano nel confronto fra lingua e dialetto. Campioni
di quella stagione sono Porta e Belli, due poeti che mi accadde di definire «senza Italia», ché lo sguardo di Porta indaga verticalmente la stratigrafia sociale che
separa i ceti privilegiati dei nobili e del clero dagli strati popolari, e se si stende
orizzontalmente non varca i confini del regno d’Italia napoleonico, con i tre distretti di Milano, Brescia e Bologna, mentre Belli, nel triplice anello delle patrie
care al suo amato Dante (Firenze, Italia, Impero, i tre sfondi del sesto canto di
ciascuna cantica, la trilogia politica della Commedia), privilegia i due poli estremi della città e del mondo, consoni alla sua sentita e risentita appartenenza romana, a un’Urbe che è anche centro dell’Orbe del cattolicesimo.
Oggi nessuno disconosce in Porta e Belli due nitide vette che si stagliano
nel paesaggio della poesia del loro tempo, e non solo: come gli alpinisti, i critici vengono attratti da quei vertici, col rischio di dimenticare il paesaggio da cui
quei vertici si elevano, ma sul quale pur poggiano.
In verità, l’accento particolare che la stagione romantica pose sul rapporto
letteratura-popolo potrebbe indurre aprioristicamente a considerare il primo
Ottocento come un momento particolarmente e naturalmente favorevole alla
fioritura letteraria in dialetto, in un linguaggio cioè carico di implicanze “popolari” (le virgolette sono d’obbligo, dato che il termine include ancora borghesia
e plebe, terzo e quarto Stato la cui separazione si verrà accentuando nei decenni
seguenti, fino a sfociare in dura antitesi). Le cose sono in realtà più complesse,
e basta spostare lo sguardo dalle ragioni della qualità a quelle della quantità per
rilevare, non senza sorpresa, che il diagramma della letteratura dialettale segna,
negli anni che preparano e poi concretamente avviano il Risorgimento, una
certa flessione rispetto al contiguo Settecento, secolo di fitta e spesso decorosissima produzione, e in confronto col secondo Ottocento, che darà un vigoroso
impulso alla poesia e soprattutto al teatro dialettale.
Per renderci conto di questa situazione in apparenza anomala, è necessario
toccare lo sfaccettato e spesso ambiguo concetto di popolo quale venne formandosi e modificandosi nel periodo che collega due secoli «l’un contro l’altro
armati», rimanendo consapevoli che la poesia dialettale non è necessariamente popolare, e viceversa, ma avvertendo altresì che, a dispetto delle acquisizioni
critiche aggiornate e a dispetto talvolta degli stessi intenti degli autori, la poesia
dialettale fu soprattutto intesa nell’età del Risorgimento come interprete di un
sentimento popolare di protesta: l’aneddoto che vuole Cesare Correnti gridare
agli austriaci in fuga da Milano in rivolta, nel 1848, «Giovannin Bongee è vendicato!», ha un suo significato; in modo non dissimile furono le file dei mazzi
niani a propiziare la diffusione clandestina dell’antimazziniano Belli, il cui ingresso effettivo nella cultura italiana avviene nel 1870, imminente Porta Pia, con
la ricordata antologia che Luigi Morandi, garibaldino e futuro deputato del Regno, dedica «ai Romani che vendicheranno l’onte nuove del vecchio servaggio».
Non disponendo allora degli autografi belliani, Morandi non esita a dichiarare
irrilevante la questione; poiché la versione orale può «superare in naturalezza
l’originale», tanto più che «il popolo, accettando e variando i versi a modo suo,
li ha fatti più consonanti al proprio linguaggio e al proprio genio».
La stretta connessione fra vicende letterarie e storia civile è, del resto, una
nozione che viene decisamente sviluppandosi nella critica e nella storiografia letteraria dell’età romantica, da Corniani a Scalvini, da Ugoni a Foscolo e
all’antifoscoliano Tommaseo, preparando la via ai traguardi di De Sanctis e di
Settembrini. In effetti, è arduo trovare una stagione in cui gli eventi letterari si
intrecciano così strettamente coi fatti politico-ideologici come accade nel periodo che corre da Marengo a Lipsia, dalla fiduciosa attesa dei lumi d’Oltralpe alla deludente esperienza napoleonica fino al ritorno d’Astrea, di un’Austria
che aveva però convertito il volto amabile di Maria Teresa e di Giuseppe II nei
tratti duri e sospettosi della Restaurazione, giù giù fino allo scossone del Quarantotto: un anno che divenne subito, nei vivi linguaggi dell’uso, sinonimo di
rivoluzione.
Ma di ben altri lumi brillavano le baionette francesi, e il passaggio dall’ottimistica fiducia nell’aria nuova che spirava di Francia a un più cauto atteggiamento o a un irriducibile misogallismo è un capitolo che accomuna la parte più
avvertita e rappresentativa dell’intelligencija italiana: in modi e con gradi diversi,
fra uomini di diverse generazioni, quell’esperienza tocca Verri, Beccaria, Alfieri,
Foscolo, Monti, il giovane Manzoni… La letteratura dialettale non poteva non
prenderne atto. È anzitutto da registrare che, alla base della svolta che separa
con una più netta, marcata, polemica civile la poesia dialettale del nuovo secolo
da quella del Settecento, sta la vigorosa fioritura di “bosinate” politiche, specie a
ridosso della reazione austro-russa: tra le quali, almeno nelle aree meno insondate (Lombardia, Piemonte…), i testi di parte conservatrice sembrano prevalere per iniziativa e frequenza, secondo l’appello agli strati più umili del popolo
che venne ovunque lanciato contro i giacobini (si veda al riguardo la raccolta
del Misogallo romano, che non include solo testi romaneschi). Ma, nel campo
avverso, spicca la parabola breve ed esemplare di Edoardo Calvo.
Egli, che aveva drasticamente osannato all’impiccagione dei nobili in una
violenta canzone in piemontese (Passport d’ij aristocrat, 1798-99), già nel 1802-03

affidava alle sue Faule in terzine l’amara denuncia del malgoverno francese. Altrettanto eloquente è l’improperio che Carlo Porta lancia nel 1814 ai francesi in
fuga («Paracarr che scappee de Lombardia…»): certo, essi lasceranno il posto ad
altri forestieri altrettanto avidi di roba e danaro; ma tali sono state le loro ruberie e prepotenze che i milanesi non possono rimanere indifferenti neppure nella
scelta del boia che li scanna. Figlio di una generazione successiva, Belli porrà in
bocca ai suoi popolani un giudizio più complesso e contraddittorio: denuncerà
sì, e con vigore, la politica reazionaria di papa Gregorio sempre pronto a valersi
dell’«arisorta der todesco»; ridicolizzerà chi cerca di addossare al passato dominio francese le colpe dell’attuale malgoverno pontificio, ma d’altro lato registrerà la generale diffidenza della plebe verso monzù e giacubbinacci: «Un po’ ppiù
cche ddurava Napujjone / co quell’antri monzù scummunicati, / Roma veniva
a ddiventà Ffrascati, / Schifanoia, o Ccastel-Formicolone…».
Nei suoi versi Belli fotografa una situazione oggettiva: a Roma, come e soprattutto a Napoli, l’atteggiamento della plebe verso le prime forme repubblicane e poi durante il regime napoleonico era stato di assoluta passività o di sanguinosa ostilità. Prendere atto di quel naufragio fu un’acquisizione decisiva per
lo sviluppo delle vicende politiche, prima che intellettuali, di quei lustri cruciali.
Dionisotti, tracciando la Geografia e storia della letteratura italiana, poteva affermare che «fenomeno tipicamente piemontese e lombardo è il romanticismo
italiano» (potremmo aggiungere che settentrionale fu anche la poesia dialettale
dichiaratamente romantica, poiché Belli, pur detestando gli eccessi del classicismo purista, mai si volle chiamare romantico). In ciò si conferma, prosegue
lo studioso, «il quadro di una letteratura che durante tutta la seconda metà del
Settecento, e oltre, sempre più si appoggia sulle sole regioni settentrionali d’Italia», al centro della quale si colloca quella «Milano capitale di una Repubblica
Italiana, di un Regno Italico».
La nostra cultura settecentesca aveva invidiato la condizione di Londra e di
Parigi, ben comprendendo quale importanza rivestisse per una moderna nazione
quella capitale che in Italia mancava (si pensi alle pagine di un Bettinelli, di un
Galiani). Ora, nella città che da mezzo secolo si va decisamente guadagnando il
ruolo di capitale culturale ed economica, e che per un tratto breve ma intenso
è stata anche capitale politica, portano il loro contributo d’idee e d’esperienza
personaggi come Francesco Lomonaco e, soprattutto, Vincenzo Cuoco. Egli ha
visto morire i rivoluzionari partenopei per le mani stesse dei “lazzaroni”, di quel
popolo cioè che la Rivoluzione avrebbe dovuto sottrarre alla miseria e all’ignoranza cui pareva condannarlo l’Antico Regime. Attraverso il supporto dello sto
ricismo di Vico e della critica del giudizio di Kant (del cui pensiero Napoli è
ricettacolo precoce e centro di irraggiamento), Cuoco coglie nell’«astrattezza»
degli aristocratici napoletani, intenti a imporre dall’alto una radicale riforma
desunta acriticamente da modelli stranieri, la causa del loro tragico fallimento.
Cuoco (la cui opera Belli conobbe a fondo) non manca di misurare anche col
metro linguistico l’abisso che separa l’élite dalla massa: «Le vedute de’ patrioti e
quelle del popolo non erano le stesse» egli scrive nel Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, «essi avevano diverse idee, diversi costumi e finanche
due lingue diverse».
Calarsi nella situazione nazionale, fare insomma i conti col popolo, costruirsi da soli il proprio riscatto: questa è la linea portante che, dalla crisi dell’internazionalismo giacobino e napoleonico, anima il pensiero e la lotta politica
italiana, dalla stagione delle società segrete a quella dei più larghi consensi ricercati, con accenti e per vie diverse, dal pensiero mazziniano e da quello giobertiano. Il contributo così offerto, attraverso Cuoco, dalla lezione vichiana alimenta il romanticismo italiano, che, settentrionale, quel contributo rielabora e
restituisce, per ricchezza di dibattito, a misura europea. E se europea era stata
l’intellettualità settentrionale negli anni del «Caffè», per vocazione cosmopolita
e amor di viaggi, europea sarà l’esperienza della generazione del «Conciliatore». D’altronde, lo stretto rapporto fra popolo, fantasia e poesia formulato dal
Vico, non consuona forse con gli accenti sulla “popolarità” della poesia che veniva offrendosi alla riflessione dei romantici dalle letterature d’Oltralpe, e specialmente dalla tedesca?
Non è un caso che la lista delle auctoritates allegata alla Lettera semiseria del
Berchet si apra col nome di Vico e si chiuda col Platone in Italia di Cuoco.
Preoccupato sopra ogni cosa della «massima della popolarità della poesia», di
quella poesia il cui sentimento percorre ogni uomo «da Adamo in giù, fino al
calzolaio che ci fa i begli stivali», Berchet distingueva il popolo da due opposti estremi presenti in ciascuna nazione: i rozzi Ottentotti (e «Huettentotti» già
parevano al Genovesi i plebei napoletani), privi di «tendenza poetica» a causa
della «inerzia della fantasia e del cuore», e i troppo raffinati Parigini negati alla
poesia in quanto troppo inclini a «paragoni» e «raziocinj» e stanchi invece nel
cuore e nella fantasia. Sono, queste, nozioni che rivelano molte tangenze coi
concetti esposti dal Belli nell’Introduzione ai suoi Sonetti. Dopo aver affacciato
l’idea che «in qualche parte della Germania» esista il popolo forse più disposto
alla poesia, Berchet conclude il suo manifesto affermando «come la vera poesia
sia la popolare».

Ma definito il concetto di popolo con una genericità comune a molti autori del primo Ottocento, di cui fu giustamente sottolineata l’ambiguità nell’uso
quasi sinonimico dei termini nazione e popolo, la Lettera del Berchet non procede a una circostanziata analisi delle implicazioni linguistiche e letterarie del
suo assunto, solo limitandosi a distinguere che la tendenza alla poesia è «passiva» nei più, «attiva» in pochi; e indicando così implicitamente ai nuovi scrittori l’esistenza di un potenziale pubblico più vasto, che sarà ben presto percepita
dall’editoria, specialmente milanese. Quanto però ai temi, ai modi, al linguaggio, poco troviamo anche nel dibattito fra classicisti e romantici che accompagna la vita breve del «Conciliatore». E tuttavia rimarchevole è quanto Pietro Borsieri scrive nelle Avventure letterarie di un giorno (1816), là dove coglie nei dialetti
non meno che nelle lingue l’«immagine fedelissima delle abitudini, dei costumi,
delle idee e delle passioni predominanti dei popoli che li parlano» (e sembrano
parole del Belli), consigliandone anzi l’uso «per diffondere più facilmente una
certa coltura nel volgo» sì da condurlo man mano «a un maggior grado di simiglianza colla pura favella» (e siamo agli antipodi del Belli).
Attaccati dai classicisti e dai puristi anche in nome dell’amor di patria, criticati per la soggezione alle mode d’Oltralpe, i teorici del romanticismo non
poterono approfondire più di tanto la dialettica fra lingua nazionale-letteraria
e linguaggi locali-popolari. Sarebbe toccato a tempi e a ingegni più maturi riprendere la questione toccata da Borsieri: Carlo Tenca, e soprattutto Carlo Cattaneo, che nello scritto Sui milanesi e il loro dialetto (1856) rivendicava nel nome
di Porta l’attitudine della poesia vernacola «non solo a rappresentare l’intimo
spirito degli uomini e dei tempi ma benanco a dargli spinta e direzione», seguendo la via dell’amico Giuseppe Ferrari che nel 1839-40 aveva per primo affacciato l’ipotesi della poesia dialettale come gran ribellione contro i valori della
letteratura ufficiale (ipotesi poi contrastata da Croce con eccessivo rigore). Ora,
se gli acuti interventi di Carlo Tenca sui Proverbi toscani del Giusti (1852) e sui
Canti popolari del Tigri (1856) ci conducono nel campo demologico, e in anni
che debordano dal periodo da noi considerato, va detto però che Carlo Cattaneo, pronto nel rilevare il vernacolismo deteriore di certi toscanismi sparsi dal
Tommaseo in Fede e bellezza, e avverso alla forma «toscana» dei Promessi sposi
sciacquati in Arno, cui preferiva la veste «italiana» del 1827, anticipava gli strali
lanciati da un Carducci contro il «manzonismo degli stenterelli» e soprattutto
le obiezioni che Graziadio Isaia Ascoli avrebbe mosso nel proemio dell’«Archivio glottologico» (1873) al centralismo normativo della soluzione manzoniana,
in favore di un processo più lento ma necessario: la «densità» della cultura. La

linea (milanese) Cattaneo-Tenca-Ascoli nasceva comunque intorno a un’idea
sociale, e non solo politico-geografica, di “nazione”: una linea che negli anni
fervidi che corrono da Waterloo al ’48 non può dirsi dominante.
Il vessillo dell’unità nazionale (in senso culturale, non politico) sventola del
resto tra le file di molti avversari di quei romantici che pur godevano fama di
patrioti e di sovversivi. È ormai superato lo schema storiografico, passionalmente manicheo, che vedeva nei puristi solo degli irriducibili conservatori di
fede austriacante. Così Vincenzo Monti, che nella Proposta di alcune correzioni
ed aggiunte al Vocabolario della Crusca (che assieme al contatto diretto col Perticari è alla base dell’antipurismo belliano) contrastava vivacemente il purismo
estremo di Antonio Cesari, vagheggiava una «lingua non Fiorentina, non Senese, non Pistoiese, ma Italiana», una lingua comprensibile «dall’uomo di lettere
all’uom di bottega, dalla matrona fino alla sgualdrinella», poiché «se parleremo
ciascuno i diversi nostri dialetti, il Genovese sarà barbaro al Milanese, a questi
barbaro il Romagnolo, al Romagnolo barbaro il Veneziano, al Veneziano il Napoletano, e via discorrendo».
Quando nel 1816 le poesie di Domenico Balestrieri inaugurano la Collezione
delle migliori opere scritte in dialetto milanese promossa da Francesco Cherubini, che in dodici volumi raccoglierà la letteratura meneghina dal Cinquecento
al Porta, la polemica di un classicista di sicura fede illuministica e patriottica
come Pietro Giordani investe il problema nella sua generalità: «Domando» egli
scrive «quanto sia veramente utile a ciascun Paese in particolare, e a tutta l’Italia
universalmente il porre cura ne’ dialetti. Io già non li disprezzo; né antepongo
l’uno all’altro; tutti li credo o belli, o brutti quasi ugualmente; tutti sufficienti
all’uso domestico; tutti inetti anzi nocivi alla civiltà e all’onore della nazione».
Paragonando poi il dialetto alla moneta di rame, d’uso municipale («oro ed argento bisognano al Milanese per trafficare col Genovese, o col Veneziano, o col
Romano»), Giordani ne denuncia l’angustia geografica ma anche contenutistica, poiché «a comunicare coi prossimi le idee più basse e triviali basta a ciascuno l’idioma nativo» mentre nella «nobile lingua comune d’Italia […] sogliamo
spiegare i sani e utili concetti» (ed è una convinzione che si ritrova in Belli). Né
certo per motivi religiosi Giordani, laicissimo abate, deplora l’abitudine dei sacerdoti genovesi di piegare al dialetto la predica e il catechismo, privando così
«la povera plebe dell’unico soccorso per divenire un poco civile e italiana» (e
si pensi alla cospicua fioritura della letteratura religiosa in dialetto, almeno dal
Sei all’Ottocento).
Alle critiche di Giordani, Carlo Porta poteva muovere forti obiezioni nei

Dodes sonitt all’Abaa Don Giavan: la presunzione dell’avversario di parlare in
nome della storia e dei posteri; il suo dispregio verso una tradizione ricca di nomi quali Maggi, Tanzi, Parini, Balestrieri; il pregiudizio che «moral» e «ziviltaa»
siano prerogativa degli arcadi toscani e dei petrarchisti; e poi la sovrabbondanza
di una letteratura toscana libresca, cartacea, buona per il pescivendolo; e ancora: si disconosce la dignità del comico; non si comprende che, se il popolo non
è analfabeta, leggerà il milanese come il toscano; non si calcola che il potenziale pubblico milanese supera quello cui poteva rivolgersi Dante ai tempi suoi
(«che almanch da cent vint milla semm capii»); né forestiero vuol dire nemico.
Terminando la sua requisitoria con un lungo elenco di glorie milanesi, Porta
vi includeva anche letterati in lingua, da Castiglioni al cardinal Borromeo, da
Berchet a Manzoni, storici, medici, anatomi e chirurghi, studiosi d’antichità,
fisici, meccanici, argentieri, incisori, architetti, scultori, pittori giurisperiti, politici (Verri, Beccaria…), matematici e astronomi, militari, musicisti, diplomatici, teologi, artigiani: insomma, Porta, come già il gruppo del «Caffè» e come
sarà poi della cerchia dei «Conciliatore», a tacer del «Politecnico», non accorda
un particolare privilegio alle belle lettere, viste come uno tra gli aspetti del progresso civile, secondo un’idea pedagogica dell’arte tipica della cultura lombarda, da Parini a Manzoni.
Ma proprio Manzoni, che pur tante tangenze aveva con l’opera del Porta
(dall’idea di una letteratura impegnata nel proprio tempo e calata nella storia
al proposito di un fermo riscatto degli “umiliati e offesi”), sapeva cogliere ad
un tempo la grandezza della sua poesia e i limiti posti a lei dal dialetto, annunciando la morte precoce del Porta all’amico d’Oltralpe: «Son talent admirable,
et qui se perfectionnait de jour en jour, et à qui il n’a manqué que de l’exercer
dans une langue cultivée pour placer celui qui le possédait absolùment dans les
premiers rangs le fait regretter par tous ses concitoyens…». Un genio, dunque,
che non aveva saputo imboccare, linguisticamente, la via necessaria in un momento storico tutto teso alla conquista dell’Unità nazionale. Per usare il concetto reso celebre da Gramsci, ma già accennato da Gioberti nel 1851 («Invero
una letteratura non può essere nazionale se non è popolare, perché, se bene sia
di pochi il crearla universale deve esserne l’uso e il godimento»), il programma
“nazional-popolare” di Manzoni mirava a conciliare la “popolarità” della scelta
portiana con la “nazionalità” del modello giordaniano. Tutta la maturità della
sua vita intellettuale è dedicata alla rielaborazione linguistica dei Promessi sposi e
alla riflessione sulla questione della lingua: la meta cui arrivò, la lingua d’uso dei
fiorentini colti, rappresenta la geniale mediazione fra l’unità della lingua lette
raria e la vitalità dei dialetti; erano finalmente evitati Scilla e Cariddi, le secche
della lingua morta fermata dalla Crusca e gli scogli municipali che insidiavano
anche il formidabile veliero del Porta. Nel 1821, l’anno stesso in cui dava inizio
al Romanzo, Manzoni vagheggiava l’Italia «una d’arme, di lingua, d’altare, / di
memorie, di sangue e di cor».
Anche rinnovando la rinuncia al Vocabolario della Crusca già pronunciata da Alessandro Verri, anche aprendosi ai “barbarismi” e agli “idiotismi” della
lingua viva, i romantici non potevano abdicare all’idea di unità linguistica invocata dai loro stessi avversari. Neppure gli studi folklorici, che nell’età romantica hanno il loro sostanziale avvio, trascurano del resto l’idea di nazione; la
stessa denominazione con cui allora si designano, antiquités vulgaires, risponde
alla persuasione che nel popolo sopravvivano tradizioni antiche perdutesi nelle
classi colte per la “corruzione” della civiltà, o dell’«incivilimento», per dirla con
Belli. Preservata dalla «civilisation» pareva la plebe di Roma anche a Stendhal,
che vi riconosceva depositate qualità attribuitele anche dal Belli (il «naturel», la
«passion», l’«énergie»). E sarà solo casuale l’aneddoto riferito dal Morandi, che
tra i primi cultori belliani d’Oltralpe figurasse Teodoro Mommsen, il formidabile storico di Roma antica?
Il Platone in Italia del Cuoco, ripigliando l’intento del De antiquissima italorum sapientia, proiettava sul piano romanzesco il mito di un “primato” italiano di antichissima data. La moda rovinista, già campo aperto al patetismo o
alla meditazione sulla vanità delle umane glorie, si viene aprendo a risonanze
politiche; e come Manzoni nel coro dell’Adelchi rappresenta lo smarrito popolo
latino fra gli atri muscosi e i fori cadenti, così il ritorno degli italiani alla gloria
di Scipione diventa un luogo obbligato dalla retorica risorgimentale. Lo stesso
Belli, presentando i suoi sonetti come «monumento» della plebe di Roma, cioè
(anche) come thesaurus folclorico, ravvisava nei suoi rozzi trasteverini i figli di
una città «di sempre solenne ricordanza». Ma preciseremo più innanzi i modi
speciali dell’intento belliano.
Non diversamente, il Medioevo rivisitato dal romanzo storico si andava
spesso atteggiando ad allegoria politica del presente; e come tale sarà inteso il
melodramma, il genere più “popolare” nell’Italia dell’Ottocento, a dispetto del
linguaggio aulico dei suoi libretti. Si trattava di un Medioevo costituito, certamente, di “piccole patrie”, ma in cui, dietro il gran dramma delle passioni individuali, si agitava in tutta la sua forza simbolica la lotta fratricida, la contesa
fra il libero comune e il tiranno (la grande fortuna che la Gerusalemme liberata
conobbe nelle versioni dialettali a gara col poema del “padre” Dante, induce a

riflessione). Anche sotto tale aspetto la posizione del Belli è appartata. Nondimeno andrà ricordata la sua ammirazione per Manzoni, che con le sue tragedie
e il suo romanzo aveva tracciato, proiettandole nel passato, trasparenti allegorie
della situazione politica presente e di quella sociale futura: nel Carmagnola la
separazione fratricida degli italiani, nell’Adechi la loro soggezione agli stranieri,
nell’incompiuto Spartaco la questione sociale poi affidata alla storia secentesca
dei due paesani promessi sposi vessati dal signorotto. Ma con quel Verdi che per
Manzoni comporrà la Messa da requiem e il cui nome viene interpretato come
l’auspico di Vittorio Emanuele re d’Italia («Viva Verdi!»), Belli è pure collegato
da Jacopo Ferretti; e non va trascurata la forza unificante esercitata dal melodramma che grazie alla musica aggirava tante difficoltà linguistiche; e va forse
rivalutata la capacità dei libretti di familiarizzare larghi strati della popolazione
con un lessico talvolta classicheggiante, ma non lontano dal parlato, specie per
la sintassi semplificata.
Avverso al gusto goticista dei romantici, lettore del romanzo storico italiano e dello Scott prevalentemente per una curiosità di folclorista, Belli tocca raramente il Medioevo nei Sonetti: per evocare la favolosa Papessa Giuvanna; un
solo cenno a Cola di Rienzo, di tagliente minaccia, sì, ma temperata dall’ironia
verso il personaggio che ne sogna la resurrezione.
Che la ricerca delle tradizioni locali, nel passaggio dall’erudizione settecentesca alla nuova temperie, non obbedisca più a un’ottica municipale ben lo indicano le Tradizioni italiane uscite tra il 1847 e il 1850 a cura di Angelo Brofferio.
Attento ai «civili rivolgimenti» rispecchiati nelle leggende raccolte, Brofferio le
trascriveva in una «favella comune, viva, parlata», ma insomma italiana: con un
metodo, dunque, e un intento diversi da quelli con cui Bernardino Biondelli
incastonava reliquie dialettali nel suo fondamentale Saggio sui dialetti gallo-italici
(1853), pietra miliare d’una disciplina destinata a fiorire nell’età positivista, che
poi in Italia è l’età della crisi postunitaria, dunque di una meditata riconsiderazione dei problemi regionali. E, se vogliamo, rivalutazione di radici celtiche
come segno di disorientamento di fronte alle differenze mentali e diciamo pure
alle manchevolezze etiche che la nuova Patria, che avrebbe spostato la capitale
da Torino a Roma, veniva mostrando e che avrebbe a lungo provocato discutibili ma non incomprensibili istanze autonomiste.
Lo stesso Tommaseo non rimproverava forse certo filologismo di sapor germanico ai Canti piemontesi del Nigra? Ma nel Tommaseo (Canti popolari toscani, corsi, illirici, greci, 1841-42) come nel Berchet (traduttore di Vecchie romanze
spagnole, dei Nibelungi, di Canti popolari danesi) la “popolarità” è sentita come

nutrimento dell’invenzione poetica dell’artista (posizione relativamente analoga a quella che Belli manifesta nell’Introduzione ai suoi Sonetti, non mimesi dei
«popolari discorsi», ma svolgimento di quelli nella sua propria poesia, come egli
precisa): lungi da ritagliare “piccole patrie” in opposizione alla comune Madre,
ne varcano semmai i confini, in una sorta di internazionalismo poetico che, nel
vecchio Tommaseo, assumerà le tinte utopiche d’una federazione politico-religiosa fra i popoli.
L’era dell’Unità segna anche tra i folcloristi lo stesso iato tra una concezione
centralista e una regionalista: così, mentre Costantino Nigra indica lo stacco fra
almeno due Italie demologiche, cogliendo nelle regioni settentrionali una forte
affinità con l’area francese e provenzale, Alessandro D’Ancona sottolinea il carattere unitario del nostro folclore ricorrendo alla teoria della monogenesi siciliana dei canti popolari, poi rielaborati e irradiati dalla Toscana alle altre regioni,
e cogliendo gli elementi comuni fra le singole tradizioni. (Non diversamente,
a ben vedere, Manzoni scopriva nel contatto tra il milanese «matt de ligà» e il
toscano «matto da legare», in opposizione al «pazzo da catena» registrato sui dizionari puristici, la piattaforma per un nuovo e vivo italiano; a quel medesimo
traguardo ancora incitava con vigore polemico Luigi Morandi, aprendo l’uso
toscano al confronto dialettale, nello scritto su Belli e Manzoni premesso all’antologia belliana del 1911). Quanto al Sud, che in ragione della sua più arcaica
struttura sociale conosce una grande fioritura di studi etnografici nell’età dei
Pitré e dei Crocioni, l’annessione all’Italia sembra aumentare lo scarto fra Paese
reale e legale, fra “popolo” e “nazione” (si pensi a Verga, lettore di Belli, e al suo
Luca Malavoglia che muore a Lissa combattendo dei nemici «che nessuno sapeva nemmeno chi fossero»): ed è quel Sud che offre nelle pagine sullo Stato delle
persone in Calabria (1864-65) del prete liberale Vincenzo Padula l’esempio forse
più originale di un uso letterario-documentario dei canti popolari dialettali.
Certamente, in un secolo di ancor prevalente economia agricola e di ancor
vivi fervori fisiocratici, il populismo contadino offre al Nord frutti letterari precoci e relativamente fitti: nel momento in cui la vita cittadina prende il sopravvento (è tutto urbano il mondo di Belli, di Porta, e l’operaio Renzo Tramaglino
venderà la vigna per farsi imprenditore), il conflitto città/campagna, che già Parini aveva trasformato da topos arcadico in attualissimo problema etico-politico,
acquista profondità nuova. Rovesciando il secolare atteggiamento derisorio verso il “villano”, si tende ora a cogliere nei poveri ceti rurali i portatori di una sanità morale cui deve rivolgersi l’attenzione degli intellettuali: almeno nelle aree
di più vive speranze riformiste. Tale è il programma dei moderati toscani, o di

autori come i milanesi Giulio Carcano e Cesare Correnti, o i friulani Ippolito Nievo e Caterina Percoto, che sono poi i principali artefici di quel racconto campagnolo che, pigliando a modello l’opera di Georges Sand, conosce nei
decenni centrali del XIX secolo una notevole fioritura, offrendo, nel Carliseppe
della Coronata di Emilio De Marchi, il frutto tardivo di un piccolo capolavoro.
Scrivendo “per” il popolo (si diffondono gli almanacchi popolari) o scrivendo
“sul” popolo, il problema del linguaggio non viene fatto oggetto di particolari riflessioni, né aperto, se non in certe venature furlane del primo Nievo o nei
bozzetti della Percoto, alle risorse dialettali.
Ma con la Percoto, come col Padula, siamo negli anni dell’avvenuta Unità:
quando, fatta l’Italia, quell’Italia, ci si poteva accorgere che non eran fatti gli italiani, misurando tutto lo scarto tra “popolo” e “nazione”, tra Paese reale e Paese
legale. La reazione ai caratteri moderati e borghesi della nuova Italia si sarebbe
espressa, sul piano della lingua letteraria, ora con una scelta aristocratica e classicista (Carducci, D’Annunzio), ora con un nuovo impiego delle risorse dialettali mescidate in quella scrittura espressionista che fa degli scapigliati programmaticamente antiborghesi e almeno inizialmente antimanzoniani, e di Dossi in
particolare, un tramite di quella «eterna funzione-Gadda» (Contini) che affonda
le radici nel macaronico folenghiano e nel plurilinguismo “verticale” dei dialettali Maggi e Porta. Inserti dialettali ornano, a scopo mimetico o come barbarica preziosità, le prose affatto antidialettali di un Fogazzaro e di un D’Annunzio: l’antitesi, insomma, della straordinaria dialettalità fatta lingua del grande
Verga (tra i rari, con gli scapigliati Imbriani e Dossi, che capirono la profetica
genialità realistica di Belli). Quanto alla letteratura schiettamente dialettale del
tardo Ottocento, la poesia doveva riscoprire nel vernacolo la lingua vergine atta a una liricità pura che Di Giacomo e i pascoliani avrebbero avviato all’esito
dominante nella fiorente e squisita produzione in versi del Novecento, mentre
il dialetto come linguaggio colorito e schietto di un popolo ignorato dalla storia doveva alimentare soprattutto il teatro, pronto a scendere nel «ventre sconosciuto» delle grandi metropoli (la Milano di Bertolazzi e Ferravilla, la Napoli
di Bracco, Russo, Viviani) o nelle piaghe rusticane (Capuana, Martoglio). Ma
il tricolore del Regno d’Italia apre un capitolo nuovo della storia e della letteratura, chiudendone uno avviato coll’ammainarsi del tricolore del Regno Italico:
tra la fioritura magnificamente provinciale di una settecentesca “repubblica delle
lettere” e la nuova fioritura in un’Italia fatta nazione ma non popolo, si colloca
quella letteratura dialettale che, intorno ai grandi nomi di Porta e Belli, conviene ora rapidamente osservare.

Si nota innanzitutto una generale obbedienza alla norma tradizionale che
vuole il dialetto costitutivamente votato a un uso retoricamente “basso”. Predomina, crocianamente parlando, una letteratura riflessa che, da quella in lingua, mutua soprattutto generi e temi “umili”: l’epigramma (si pensi al genovese
Piaggio, al piemontese Rosa, al napoletano Caccavone), la satira dei costumi,
la favola, l’ode anacreontica; si traducono Fedro e Orazio, ma anche Ariosto e
Tasso; si predilige la canzonetta arcadica; e a una visione sostanzialmente arcadica rimonta, quasi luogo obbligato (Beatus ille qui procul negotiis…), l’elogio
della campagna. Lo stesso Calvo pizzica la corda idillica, mentre i piemontesi Peyron e Buniva indulgono all’acquerello urbano, cui s’applicano, bozzettisti per eccellenza, i napoletani (Cossovich, Bolognese). Un pallido riflesso delle Quattro stagioni vivaldiane percorre l’opera del veneziano Lamberti o quella
del forse troppo celebrato Zorutti, che nei suoi almanacchi legati al ritmo della campagna rinnova l’antica tradizione friulana. Favolista morale, neppure il
Meli si sottrae a un gusto tipicamente arcadico, che alimenta la grazia d’una
campagna descritta con amorosa precisione. E sono i napoletani (De Lauzières,
D’Arienzo) che nelle loro canzoni, spesso destinate alla musica ma già intrinsecamente meliche, traggono dalla grazia settecentesca frutti che Di Giacomo
non ignorerà. Squisitamente riflessa, ancorché calata nei canti popolari, questa
poesia sarebbe stata rapidamente attraversata e subito rinnegata dal Belli: «Fior
de limone» e «Fiore de menta» sono attacchi sperimentati quasi solo nella fase
dell’apprendistato giovanile.
Codificata quest’arcadia in zoccoletti, non meno codificata, fino al più rigido
manierismo, la poesia oscena, cui incauti studiosi tributano un ruolo alternativo
o eversivo rispetto ai valori della cultura egemone, e che invece adempie piuttosto una funzione di complemento. I veneziani Baffo e Buratti, il siciliano Tempio, il calabrese Ammirà, il romano Giraud ci offrono registri e livelli diversi: ma
comune presupposto della poesia osée è la nozione del dialetto come lingua cui
è consentito l’approccio a una materia interdetta alla letteratura ufficiale, “pura”
nella forma non meno che nei soggetti («volgare» pareva ad Alessandro Verri anche il milanese educato del Balestrieri). Alfieri impiega il dialetto solo nel genere
ingiurioso: ma i suoi due sonetti astigiani, contro i detrattori delle sue tragedie
e contro gli italiani «de potia», sono prova tuttavia d’uno stile “alto”, a dispetto
dei ritmi semplici delle sue canzoni e dell’odio verso gli aristocratici; un lessico
aristocratico emerge qua e là nei testi del Calvo come, più tardi, negli inni patriottici del Brofferio. E questo difficile rapporto tra «natura» e «arte» verrà colto dal Belli come punto critico della poesia dialettale romanesca, tradizionale e

contemporanea. In Piemonte, del resto, il ceto conservatore difende i valori di
una tradizione solida: ne è prova il dibattito che si accende tra Pansoya, Peyron,
Buniva e Bussolino sull’impiego «alto» del dialetto. È dunque per persuadere
una società gelosa delle sue tradizioni che i poeti risorgimentali adottano il dialetto, cercando di identificare l’amore della Piccola e della Grande patria: sotto
la stella del Piemonte, scrive Brofferio, è l’Italia che si riunisce: e Norberto Rosa,
mentre incita i piemontesi a liberare l’Italia, esalta il loro buon senso conservatore, il loro carattere rustico e la loro diffidenza verso il progresso.
Considerazioni in parte analoghe si potrebbero fare per la poesia risorgimentale veneta: di un Carrer, di un Foscarini, di un Dall’Ongaro; ma la lingua dei
dogi, nella città del Goldoni, ma da cui Goldoni s’era finalmente esiliato, aveva
dato la sua ultima fiammata in una Serenissima un po’ decaduta a provincia ma
con un blasone ancor fresco, nella stagione che muore a Campoformio: ed ora,
nei patrioti, quella lingua si fa dialetto, ammiccando al popolo.
Comune, ai poeti che siamo venuti sparsamente citando, è l’attitudine ad
abbigliare coi panni semplici del dialetto una poesia che risale a una tradizione
“illustre”; meno spesso, essi si rifanno ai temi e ai toni di una poesia popolare
o popolareggiante, quanto mai monotona e codificata. È dunque notevole che
l’eccezionalità di un Porta e di un Belli si manifesti anche nell’immagine cui conformano il proprio operare poetico: Porta rifiuta con disdegno di essere confuso
con gli improvvisatori di bosinate, e Belli non esita ad affermare che il popolo
«poesia propria non ha» (se non in qualche stornello, dei cui echi si giova quasi
solo nel tirocinio giovanile) e che, se la cerca, non perviene che a una goffa imitazione dell’arte accademica. E tuttavia “popolare” può ben dirsi la loro poesia,
poiché ha saputo rappresentare una società viva, esprimendo il linguaggio e la
Weltanschauung del popolo e sigillandoli col timbro del proprio genio personale: in ciò accomunati da una grandezza solitaria, nell’età loro.
Due poeti “senza Italia”
Perché, se i due sono accomunati e isolati in virtù della loro forza poetica, su
cui è arduo dir parola, lo sono altrettanto nel più effabile terreno dell’orizzonte
ideologico. Tra i due corni del dilemma che si pose alla cultura del tempo loro, nazione e popolo, essi non esitarono. I due grandi poeti dialettali del primo
Ottocento possono così ben definirsi poeti senza Italia. Suddito d’una repubblica e poi di un regno che si chiamò italico, Porta rimase insomma e pur sempre idealmente cittadino di una patria cisalpina, o semmai cisalpino-europea,

nell’utopica speranza di vederne garantita e promossa un’autentica autonomia
entro un’orbita francese, e poi magari austriaca, se l’Austria tornata dopo Lipsia
non fosse stata quella dura e impaurita della Restaurazione. Il fronte delle sue
aspirazioni non era volto allo spazio, ma al tempo: allo spirito del tempo nuovo che doveva scrollare la resistenza dell’Antico Regime. Né italiana può dirsi la
prospettiva di quel Belli che nelle sue poesie in lingua sempre volle dirsi «romano»; e che nei Sonetti si chiamò «cristiano», giocando sull’ambiguità o sull’ambivalenza semantica di quel termine nel romanesco, dove vale anche semplicemente, ecumenicamente, «uomo». A riprova di una almeno iniziale disposizione
patriottica del Belli si sogliono citare le canzoni italiane su Bellosguardo e Per la
dissensione degli accademici di Roma: ma nella prima (1824) egli si limita a lodare,
in loco, le corone toscane che ingentilirono l’italo idioma, mentre nella seconda
(stampata nel 1825 dal tipografo che l’anno innanzi aveva impresso la Canzone
All’Italia del Leopardi), ispirata da una futile discordia fra letterati, la «patria»
nominata è da intendersi Roma; che poi, spedendo il testo ad Amalia Bettini
nel 1836, Belli parlasse delle discordie d’Italia, e dichiarasse suo antico intento
quello di aver occultato sotto l’occasione «più sublimi verità, non concesse dai
tempi a libero esame», va ricondotto al flirt ideologico intrapreso dal poeta con
l’attrice milanese che in nome dell’Italia lo stimolava a un più esplicito impegno di scrittore. Certo è che le simpatie o le speranze liberali, non perciò necessariamente patriottiche in senso risorgimentale, svanirono con la delusione per
la Monarchia di Luglio e i fatti del ’31 (l’anno in cui veramente prende corpo
l’idea dei Sonetti): è in quel torno di tempo che Belli rinuncia a registrare i documenti del dibattito politico, annoiato com’è di «catalogizzare tanti scritti resi
dagli eventi mere coglionerie».
È pur vero, tuttavia, che la nostalgia o il culto di Roma antica rappresentano
un motivo costante della vicenda risorgimentale, dalla celebrazione delle virtù
repubblicane o imperiali dell’età giacobina e napoleonica all’invocazione delle medesime, col medesimo dilemma tra Bruto e Cesare, nella nuova Italia, attraverso tutta una produzione in cui si esorta la patria a cingersi la testa dell’elmo di Scipio, ad afferrar la chioma della vittoria che Dio creò schiava di Roma.
Goffredo Mameli si ritrova fra i combattenti per la Repubblica Romana di quel
Mazzini che alla «terza Roma» (terza dopo la città dei cesari e dei papi) affidava
una missione sovranazionale, da realizzarsi però passando per la via della nazione. Ma se per altri, specie non romani, riconoscersi romani era e fu un modo di
riconoscersi italiani, non così per il Belli. Egli, come fu osservato dal Vighi, della gloriosa storia di Roma antica non ricordò nei Sonetti che il fratricidio di Ro
molo, il suicidio di Lucrezia, la crudeltà di Nerone, qualche evento leggendario
passibile di critica o di canzonatura; il compendio de L’istoria romana? «Basta sapè cc’oggni donna è pputtana, / e ll’ommini una manica de ladri, / ecco imparata l’istoria romana». Pure il motivo delle rovine che era stato declinato, nell’età
romantica, sul versante dell’esortazione politica anche dal giovane Leopardi (altro è il rovinismo della Ginestra che Belli, possessore dei Canti 1831, non dovette
conoscere), viene dal nostro ricondotto al nucleo tradizionale barocco e preromantico, dell’ubi sunt, della umana caducità: «Allora tante stragge e ttanto lutto,
/ e adesso tanta pasce! Oh avventi umani! / Cos’è sto monno! Come Cammia
tutto!» (Rifressione immorale sur Culiseo). Gli archeologi, i maniaci delle «anticajja e pietrella», quelli che «arinegheno Cristo pe Nnerone», sono costantemente
posti in burla, nei Sonetti. V’è un fastidio nei confronti di chi si perde chinando
il capo verso il passato, o levandolo, come Lo stroligo, verso il cielo a decifrare i
segni immaginari di un improbabile futuro: Belli volge lo sguardo attorno a sé,
al vivo presente degli uomini, al documento del reale, «monumento di quello che
oggi è la plebe di Roma».
Accennammo sopra alla nozione di antichità volgari insita nell’idea folklorica del tempo; ma il complesso rapporto schizzato nell’Introduzione fra la rozza
plebe e la città di sempre «solenne ricordanza», di cui essa è pur parte, è svolto
nei Sonetti sì da segnare più l’incolmabile divario che la tenue eredità: la quale forse non a torto la monografia di Ernest Bovet, essenzialmente demopsicologica, coglieva nella continuità di certi tratti crudeli e sostanzialmente pagani
(non rivive Virginio nel trasteverino che lava col sangue l’onore macchiato?).
Né, a rigore, possiamo pronunciarci con certezza sull’opposizione belliana al
potere temporale della Chiesa. Un appunto suona anzi perentorio: «Totale separazione della Chiesa dallo Stato! Tolgasi l’insufficienza dell’ordine spirituale
sopra il temporale, e accadrà come nell’ordine fisico allorché s’impedisce l’azione dell’anima sopra il corpo, il quale è forzato a spegnersi, a cadere in Corruzione». L’appunto è purtroppo acrono: rilevantissimo se anteriore al trauma del
’49, un catalizzatore che fece precipitare in violenta reazione antimazziniana i
sospesi umori del Belli, l’appunto proietta una luce problematica anche sui Sonetti, dove fitta e radicale è la denunzia della mondanità della Chiesa (si pensi
a Er Governo der temporale, a La casa de Ddio, all’aneddotica contro «papa Grigorio» e il suo entourage), sicché tale denunzia si orienta ora sui modi retrivi e
inefficienti della prassi politica, ora sulla degenerazione simoniaca del clero, senza però opporre al principio ideale dello Stato teocratico un altro e laicamente
moderno progetto politico.

No, riconoscendosi romano, Belli non si sentiva cittadino della capitale di
una “piccola patria” (oltre le mura non c’è che «er deserto») e neppure di una
pur virtuale nazione. Parimenti indebite sono, al riguardo, le prime tentate appropriazioni dell’opera sua: quella del Morandi, che nell’antologia del ’70 cerca
di annettere i Sonetti alla causa di Roma italiana, e quella – di segno opposto
– di Ciro Belli e dei curatori dell’edizione Salviucci, che tendono a collocare il
nome del Belli, pariteticamente, insieme a «quelli del Meli, del Porta, del Regina, del Calvo, del Genoino, del Burati e di quanti altri illustrarono il patrio
loro dialetto». Belli si sentiva figlio di una città affatto speciale, che era incommensurabilmente di meno e di più del capoluogo d’una piccola o grande patria: si sentiva figlio di un caput mundi immiserito in borgo, di un’urbe-orbe
dove il minimo accadimento può caricarsi di una significazione quasi cosmica
o, specularmente, il gesto rivolto ai lontani orizzonti della cristianità immiserirsi nel rito abitudinario, nel retrobottega, nella sacrestia. Le due modernissime
facce dell’audace poesia belliana, “il sublime dal basso” e il “basso dal sublime”,
sono il riflesso stilistico di una condizione ideologica specialissima: dell’una o
dell’altra Belli riconosceva in Roma la matrice determinante, l’indelebile imprinting mentale.
Economia, società e istituzioni nell’azione dei cattolici
bresciani negli anni dell’unificazione nazionale
Mario Taccolini *
1. Nel messaggio rivolto al presidente della Repubblica italiana per il centocinquantesimo dell’unificazione politica della Penisola, Benedetto XVI ha affermato, senza alcuna esitazione, che «il cristianesimo ha contribuito in maniera
fondamentale alla costruzione dell’identità italiana attraverso l’opera della Chiesa, delle sue istituzioni educative ed assistenziali», di singoli cristiani protagonisti
in alcuni casi di incisive «esperienze di santità» 1.
Distinguendo poi nitidamente tra costruzione dell’identità nazionale e formazione dello Stato unitario, anche in questo caso papa Benedetto ha attestato
l’esistenza di un apporto originale e fecondo recato dai cattolici sia in termini
di pensiero che di azione. Riferendosi inoltre agli anni immediatamente successivi all’unificazione (1861), ha riconosciuto lo schiudersi di un conflitto tra
Chiesa e Stato in relazione alla cosiddetta “questione romana”, che «ebbe effetti
dilaceranti nella coscienza individuale e collettiva dei cattolici italiani, divisi tra
gli opposti sentimenti di fedeltà nascenti dalla cittadinanza da un lato e dall’appartenenza ecclesiale dall’altro». Tuttavia – ha osservato ancora il papa – «anche negli anni della dilacerazione i cattolici hanno lavorato all’unità del Paese.
L’astensione dalla vita pubblica, seguente il “non expedit”, rivolse le realtà del
mondo cattolico verso una grande assunzione di responsabilità nel sociale: educazione, istruzione, assistenza, sanità, cooperazione, economia sociale, furono
ambiti di impegno che fecero crescere una società solidale e fortemente coesa».
In questo contesto si inserisce l’esperienza complessiva del cattolicesimo sociale
italiano del XIX secolo, profondamente radicato anche e soprattutto nel territorio bresciano, con riferimento sia alla città sia alla provincia 2.
* Università Cattolica del Sacro Cuore; socio dell’Ateneo di Brescia.
1
Benedetto XVI, «Messaggio al presidente della Repubblica italiana on. Giorgio Napolitano per i
150 anni dell’Unità d’Italia», 16 marzo 2011.
2
Secondo lineamenti oggi sintetizzati nel saggio: Mario Taccolini, Chiesa, economia e società tra secondo Ottocento e primo Novecento, in La risposta femminile ai nuovi bisogni dell’età borghese. La rinascita delle compagnie e degli istituti religiosi delle Orsoline fra Ottocento e primo Novecento, Centro
Mericiano, Brescia 2012, pp. 25-40.


Su siffatta esperienza è stato ampiamente e copiosamente scritto nel corso del secondo Novecento. Dopo gli studi pionieristici e poliedrici di Antonio
Fappani, Ottavio Cavalleri, Luigi Fossati, avviatisi tra gli anni Sessanta e Settanta, si articolavano le successive iniziative ad esempio di Mario Faini 3 e più
compiutamente del Centro di documentazione (Cedoc), fino a una più recente
proliferazione di contributi – negli ultimi vent’anni – ai quali pare opportuno
fare cenno in questa sede 4, così da rilevare le evidenze che tali lavori hanno mostrato rispetto al ruolo svolto dai cattolici bresciani nella costruzione dell’Italia
contemporanea, prima e dopo l’Unità.
Mentre dunque iniziava il declino della categoria prevalente e topica di movimento cattolico 5, più in particolare la citata produzione scientifica si concentrava sul profilo di alcune personalità di spicco, sul tema del carisma educativo
e pedagogico caratterizzante la terra bresciana, sulle esperienze assistenziali e
caritative costruite negli anni considerati, sull’impegno istituzionale promosso
in alcuni ambiti specifici dell’economia e della società locali. Tutto ciò dando
storiografico respiro alle lucide considerazioni con le quali Giacomo Canobbio
identificava il percorso bresciano di evangelizzazione compiuto soprattutto in
età contemporanea:
La Chiesa di Brescia, negli ultimi due secoli non si è mai sottratta al dovere di annunciare il vangelo: la preoccupazione di formare predicatori efficaci, di trasmettere la dottrina cristiana a tutti, anche dando origine alla “scuola di catechismo” per i
fanciulli e i ragazzi, di rendere i cristiani adulti maggiormente consapevoli della loro
fede mediante la pratica degli esercizi spirituali o le missioni popolari, costituisce
un Leitmotiv della vita ecclesiale. Ma si può constatare che l’intento di evangelizzazione si è pure esposto in forma massiva sulla vita sociale: le iniziative educative,
assistenziali, economiche, si sono proposte come espressione di una concezione globale della salvezza cristiana; se la Chiesa ha il compito di far sperimentare salvezza
alle persone umane, non può limitarsi ad annunciarla con la parola del vangelo, né
può rinchiudersi nella celebrazione liturgica dei santi misteri: deve misurarsi con
le condizioni sociali, e rendersi presente là dove le persone patiscono diminuzione
di vita umana. Del resto è questo il modo di porsi di Gesù, il quale non si limita
ad annunciare l’avvento della Signoria di Dio, ma opera per farlo sperimentare a
coloro che sono soggiogati dal male. A fronte di una organizzazione statuale molte
volte preoccupata anzitutto di far quadrare i bilanci o protesa a imporre una ideologia mortificante, i cattolici bresciani danno vita a istituzioni, in parte suppletive
delle assenze dello Stato (e più in generale della società civile), in parte originalissime, con la finalità di far crescere persone umane secondo la visione evangelica, che
comporta integrità fisica e soprattutto “spirituale” 6.
2. Per quanto concerne il primo nucleo tematico, pare opportuno evidenziare
dapprima la figura di Clemente Di Rosa (1767-1850), sempre più nitidamente
rappresentato come personalità che storicamente precorre le espressioni del cattolicesimo sociale maturo, rivelando così l’ineludibilità di una riflessione relativa
anche a ciò che accompagna il risorgimento nazionale sotto il profilo del ruolo
dei cristiani svolto sul territorio, non considerando esclusivamente il problema
dell’orientamento politico e sociale del clero e della gerarchia in generale 7. In
questa direzione, quindi, Di Rosa si mostra davvero quale personaggio bresciano del tutto originale ed eclettico, sul quale vale la pena indugiare.
Versatile e intraprendente, addirittura definito da Edoardo Bressan «figura
chiave della società bresciana e di un laicato cattolico in via di organizzazione» 8,
Clemente Di Rosa opera in un tempo in cui il nuovo assetto lombardo-veneto
tendeva a ricomporre equilibri fortemente incrinati tra il 1797 e il 1814. In tale
contesto si rendeva di fatto possibile un rinnovato municipalismo, corrispondente alla efficace permanenza della parrocchia, non solo in ragione della fine
di una continua emergenza bellica, ma anche alla luce di un mutato quadro
legislativo che concludeva definitivamente la stagione della retorica “nazionalgiacobina”. Nonostante i ben noti limiti e soprattutto nonostante il tramonto
di quelle forme di autogoverno popolare consentite dall’ordinamento veneto,
gli organismi rappresentativi dei comuni e della provincia parevano offrire un
terreno fertile all’operosità economica e civile delle élite locali. Il municipalismo,
Giacomo Canobbio, Introduzione, in Mario Taccolini (a cura di), A servizio del vangelo. Il cammino storico dell’evangelizzazione a Brescia. 3. L’età contemporanea, La Scuola, Brescia 2005, pp. 12-13.
7
In questa direzione si è mosso ad esempio il volume a cura di Fausto Formentini: Giovanni Battista Rota, Memorie di Chiari 1856-1889, La compagnia della stampa, Roccafranca 2009.
8
Per queste considerazioni generali si veda Mario Taccolini, Mutamenti economico-sociali e iniziative assistenziali nel Bresciano tra XVIII e XIX secolo: la personalità e l’opera di Clemente Di Rosa, in Vera Zamagni (a cura di), Povertà e innovazioni istituzionali in Italia. Dal Medioevo ad oggi, il Mulino,
Bologna 2000, pp. 469-485.
6
Giovanni Gregorini (a cura di), Mario Faini tra lavoro e politica, Cedoc, Brescia 2009.
Per un recente inquadramento generale della produzione storiografica bresciana si veda oggi Mario Taccolini, Giovanni Gregorini, La storiografia bresciana sull’età contemporanea negli ultimi quarant’anni, forthcoming.
5
Fulvio De Giorgi, Il significato storico della figura e dell’opera di Tovini, in «L’autonomia. Quaderni
di cultura politica», aprile-giugno 2009, n. 2, pp. 98-104.
3
4


che ebbe nel nobile Clemente Di Rosa un sostenitore ed uno degli operatori
più instancabili, rappresenterà inoltre l’ambiente vitale in cui un ceto dirigente
cattolico, radicato sul territorio, potrà impegnarsi a fondo in campo amministrativo, economico, assistenziale e sociale. La ricca e copiosa documentazione,
costituita da carteggi, epistolari, registri contabili, memorie e relazioni, atti testamentari, appartenente all’archivio Cantoni Marca Di Rosa, e conservata presso
l’archivio storico della Congregazione delle suore Ancelle della carità di Brescia,
come pure le carte individuate presso l’archivio della Congrega della carità apostolica, l’Archivio di Stato, l’Archivio storico civico, la Biblioteca civica Queriniana, l’Archivio storico diocesano, l’archivio di Casa d’industria, rappresentano le fonti più pertinenti per un approfondimento della singolare operosità del
nobile bresciano, la cui famiglia, originaria del Comasco, dopo aver risieduto a
Gandino nel Bergamasco, approda a Brescia nel XIII secolo 9.
Dopo gli studi giovanili presso i padri barnabiti a Monza, proseguiti in Toscana e conclusi all’Università di Bologna, dove conseguì la laurea in Giurisprudenza, il giovane Di Rosa maturò una solida formazione intellettuale intessuta
di studi economici e letterari. Antigiacobino, nel corso della Repubblica bresciana e cisalpina, come pure nella stagione napoleonica, si astenne dalla partecipazione alla vita pubblica e amministrativa locale, prevalentemente dedito
alla conduzione delle sue vaste proprietà nella pianura bresciana sud-occidentale. Restauratosi il governo austriaco, si dedicò con assiduità e competenza alla vita amministrativa, partecipando alla ricostruzione del suo Dipartimento e
dal 1816, anno in cui già cinquantenne venne nominato deputato alla Congregazione provinciale e membro della Congregazione municipale, al 1850, anno
della sua morte a Brescia, si fece promotore di innumerevoli iniziative volte a
promuovere lo sviluppo sociale, economico, culturale di Brescia e del suo territorio. Sposato dal 1806 con la contessa Camilla Albani, appartenente al patriziato bergamasco, ebbe nove figli, tra cui Paola Francesca, fondatrice delle Ancelle della carità di Brescia.
Tra politica, amministrazione, economia e cultura, i convincimenti e le iniziative di Clemente Di Rosa meritano davvero di essere ricostruiti analiticamente, oltre gli sporadici interessi storiografici sin qui realizzati. In effetti, tra municipalismo, antigiacobinismo, lealtà critica verso l’Austria, progressivo e attestato
Mario Taccolini, Da Clemente a Paola Di Rosa: mutamenti economico-sociali e iniziative assistenziali a Brescia tra XVIII e XIX secolo, in Marco Bona Castellotti, Edoardo Bressan, Camillo Fornasieri,
Paola Vismara (a cura di), Cultura, religione e trasformazione sociale. Milano e la Lombardia dalle riforme all’unità, Franco Angeli, Milano 2001, pp. 409-428.
9

senso della nazione, si evidenziava nel corso della prima metà del XIX secolo
una posizione cattolica autonoma, libera e responsabile, rispetto alle prospettive evolutive della società locale, rispetto alle quali bisognava pragmaticamente
operare soprattutto a fronte dei forti disagi espressi a livello popolare, conservando la provincia italiana ai valori del cristianesimo fondativi di una autentica
società solidale 10.
Diverse vicende storiografiche, in parte anche legate ai percorsi ecclesiali previsti per la canonizzazione sancita dalla Chiesa cattolica, hanno poi portato a
un ampio approfondimento delle conoscenze di per sé già acquisite su altre figure del cristianesimo nel Bresciano, attive intorno agli anni dell’Unità d’Italia.
In questo novero spicca senza dubbio Giuseppe Tovini, anche come dinamico
modello paradigmatico del cattolicesimo locale nell’accezione storiografica sviluppata dagli studi realizzati e coordinati da chi scrive 11.
In questo quadro si inseriscono anche altre figure alle quali si può fare cenno, figure di santità sociale indagate con studi seri e attendibili, attive nel cuore del XIX secolo bresciano: Giovanni Battista Piamarta 12, Geltrude Comensoli 13, Annunciata Cocchetti 14, Mosè Tovini 15. Insieme contribuivano a delineare i
contorni di quel “modello bresciano” di presenza cattolica nella società locale.
Un modello strutturato attorno a due linee essenziali:
Innanzitutto la linea educativa. Si trattava cioè di abbandonare la strategia dell’intransigentismo rigido e chiuso, che si esprimeva nell’arroccata e polemica difesa contro tutte le espressioni della modernità: la strategia cioè dello steccato, della barricata, dello scontro, della crociata e della riscossa (come suonava il titolo della rivista dei
fratelli Scotton). Si trattava invece di promuovere una strategia nuova che, senza rese
M. Taccolini, Mutamenti economico-sociali…, cit., passim.
Per una valutazione complessiva al riguardo si veda Mario Taccolini, Un secolo di storiografia toviniana, in Giuseppe Tovini tra memoria storica e attualità, Cedoc, Brescia 1998, pp. 34-52 (saggio poi
riprodotto anche in Mario Taccolini, Un secolo di storiografia toviniana, in «Brixia Sacra. Memorie
storiche della diocesi di Brescia», 1998, a. III, n. 3, terza serie, pp. 18-29).
12
Antonio Fappani (a cura di), Lettere di p. Giovanni Piamarta e dei suoi corrispondenti, Queriniana,
Brescia 1994; Pier Giordano Cabra, Piamarta, Queriniana, Brescia 2000.
13
Giovanni Gregorini, Caterina Geltrude Comensoli. Una santa tra storia e storiografia, in «Brixia sacra. Memorie storiche della diocesi di Brescia», 2009, n. 3-4, pp. 801-818.
14
Anna Zucchetti, Il pane sul muricciolo. Beata Annunciata Cocchetti fondatrice delle suore Dorotee di
Cemmo, Ancora, Milano 1990.
15
Franco Frassine, Mosè Tovini. La santità nel quotidiano, Fondazione civiltà bresciana, Brescia
2006.
10
11

allo Stato liberale e borghese, puntasse sull’educazione. Interessanti ed emblematiche furono le discussioni sulle caratteristiche che avrebbe dovuto avere la rivista per
gli insegnanti (quella che sarebbe stata «Scuola italiana moderna»): non polemica,
non identitaria, non bandiera di scontro ideologico, come insistevano gli intransigenti rigidi, ma più serena, più pensosa, più puntata sul merito dell’educazione, così
da penetrare in più vasti ambienti: fermentare dall’interno, con l’educazione; non
abbattere e radere al suolo dall’esterno con un “fuoco ideologico” violento e astioso.
Ciò portava a recuperare pienamente – come infatti avvenne fin dalle prime annate
di «Scuola italiana moderna» – accanto a Manzoni, la pedagogia cattolica del Risorgimento: Rosmini, Tommaseo, Lambruschini, Aporti, Capponi.
In secondo luogo si poneva la linea «della socialità legale. Cioè la valorizzazione della società (casse rurali, banche, società operaie, scuole libere, cucine economiche, giornali) non contro ma insieme alle istituzioni (a partire dalle amministrazioni locali, ma guardando in prospettiva al livello nazionale, per incidere
sulla legislazione, in senso sociale, e sull’attività di governo, a favore del popolo)» 16. È proprio su questo piano, peraltro, che si sarebbero sviluppati fecondi
percorsi relazionali, diretti o indiretti, come quello inquadrabile tra Giuseppe
Tovini e Giuseppe Toniolo, meritevole di ulteriori approfondimenti e sviluppi
di ricerca rispetto a quanto documentato inizialmente da Antonio Cistellini.
3. Un secondo argomento citato in esordio concerne il carisma educativo
espresso anche nel lungo Ottocento dalla Chiesa e dai cattolici bresciani. Sotto
questo profilo nuovo interesse ha destato negli ultimi tempi il tema della storia degli oratori 17. Come ha sostenuto recentemente Goffredo Zanchi, la ricerca storica più avveduta
ha messo in evidenza la vitalità che nel corso dell’Ottocento ha caratterizzato le
Chiese di Lombardia, in modo particolare il triangolo formato da Milano, Bergamo e Brescia. L’educazione della gioventù è stata sicuramente una delle preoccupazioni più avvertite, all’origine di una serie impressionante di iniziative, che, avviate
da diverse istituzioni di antica e recente fondazione, si è gradualmente sviluppata
fino a conferire un’impronta di indiscussa originalità all’intera attività pastorale. La
fondazione dell’oratorio di massa, cioè aperto a tutta la gioventù, ne rappresenta
F. De Giorgi, Il significato storico…, cit., p. 103.
Per le note che seguono di veda soprattutto Giovanni Gregorini, Gli oratori, atti di convegno, forthcoming.
16
17

forse l’espressione più alta sia in termini di contenuti, che di risultati raggiunti. Il
ricco patrimonio di esperienze accumulatosi nel corso di due secoli costituisce ancora oggi un punto fermo per ogni parrocchia lombarda, che avverte come grave
l’assenza o il carente funzionamento del proprio oratorio, avendone fatto lo strumento privilegiato della pastorale giovanile. A dispetto di questa centralità è quanto
meno sorprendente la rarità di indagini sulla storia dell’oratorio, qualora si rifletta
che esso ha rappresentato il normale strumento di formazione per intere generazioni di cattolici lombardi 18.
In quest’ottica il contributo offerto alla storia dell’educazione – e quindi della formazione di una coscienza civile nella diocesi di Brescia – dal movimento
oratoriano è stato senza dubbio consistente ed esteso 19. Gli oratori parrocchiali,
infatti, hanno costituito e per taluni versi costituiscono ancora «uno strumento essenziale all’interno della pastorale della Chiesa locale. In modo particolare
nel corso dell’Ottocento (ma anche del Novecento) essi hanno rappresentato un
momento decisivo di educazione religiosa, di formazione umana e di impegno
sociale, al punto che non è pensabile una ricostruzione storica e una descrizione
attuale delle diocesi lombarde che non ne tenga conto» 20. In questa direzione
si sono allora mossi gli studi recenti di Luciano Caimi 21, Giovanni Gregorini 22
e soprattutto di Gioacchino Barzaghi 23, il quale fa risalire l’origine del progetto
educativo e istituzionale dello stesso Giovanni Bosco alle suggestioni ricevute
dalle sue frequentazioni lombarde, in particolare bresciane.
Come noto, la feconda tradizione bresciana degli oratori affonda le proprie
radici in un corrispondente e parallelo percorso quanto meno di dimensione re Goffredo Zanchi, Presentazione, in Gioachino Barzaghi, Don Bosco e la Chiesa lombarda. L’origine
di un progetto, Glossa, Milano 2004, p. xix.
19
Anche se solo in tempi recenti questa realtà ha meritato un autonomo interesse editoriale con la
pubblicazione della monografia di Franco Frassine, Riverisco, sior cùrat. Appunti per un iter storico
sull’oratorio bresciano nel XX secolo, COB, Brescia 2002; in precedenza ci si poteva riferire al lavoro di
Faustino Cabra, La pastorale giovanile nella diocesi di Brescia dagli inizi del secolo fino al 1960, Brescia
1972 come pure al saggio di Marco Agosti, La tradizione pedagogica bresciana nei secoli XIX e XX, in
Storia di Brescia, vol. IV, Morcelliana, Brescia 1964, pp. 783-879.
20
Giorgio Vecchio, Gli oratori milanesi negli anni della ricostruzione: tradizione e novità, in «Bollettino dell’Archivio per la storia del movimento sociale cattolico in Italia», 1994, a. XXIX, n. 3, p. 390.
21
Luciano Caimi, Cattolici per l’educazione. Studi su oratori e associazioni giovanili nell’Italia unita,
La Scuola, Brescia 2006.
22
Giovanni Gregorini, Gli oratori, in M. Taccolini (a cura di), A servizio del Vangelo…, cit., pp. 293314.
23
G. Barzaghi, Don Bosco e la Chiesa lombarda…, cit.
18

gionale lombarda, a sua volta contemporaneo o addirittura precedente a quello
avviato a Roma dai Filippini. Le origini degli oratori, infatti, risalgono in Lombardia al secolo XVI e anzi perfino al tardo secolo XV. Ora, la nascita del primo oratorio a Brescia deve ricondursi alla presenza religiosa regolare in città,
nel cuore del XVI secolo, con singolare riferimento alla società di vita apostolica
detta dei Padri della Pace. Un’altra valida descrizione attribuisce invece «al ven.
Alessandro Luzzago, amico di S. Filippo, la fondazione dell’oratorio di S. Caterina, particolarmente per giovani studenti o dell’aristocrazia che dal 1592 viene
animato dai Gesuiti», anche se pure in questo caso si riconosce che «il primo
oratorio per la gioventù, sul tipo di quello aperto a Roma da S. Filippo Neri,
sembra sia stato aperto nel 1608 nella cripta ricavata sotto il coro della chiesa di
S. Maria della Purificazione (poi S. Gaetano), dai Padri della Pace che nel 1597
avevano deciso di aderire alla congregazione filippina di Roma» 24.
Pure a Brescia quindi, come nel resto della Lombardia, dopo una comprensibile stagione di crisi vissuta a cavallo tra Settecento e Ottocento 25, in relazione
alla politica ecclesiastica seguita dal giuseppinismo prima e dal giacobinismo
poi, gli oratori conobbero successivamente un periodo di notevole fioritura.
Durante gli anni della Restaurazione austriaca, infatti, «nel contesto – tipico
del tempo – di ripresa dello spirito religioso e di nascita di nuove organizzazioni e congregazioni religiose, anche gli oratori registrarono significativi e positivi sviluppi, pur mantenendo ancora dei confini alquanto labili tra le diverse
iniziative e giungendo pertanto ad unificare le attività propriamente sociali ed
assistenziali con quelle più direttamente catechistiche» 26.
In questa fase l’impulso nel Bresciano alla diffusione dell’esperienza oratoriana fu impresso da alcune figure carismatiche – ancora una volta religiosi regolari – quale il «padre barnabita Fortunato Redolfi, ispiratore di diversi oratori in diocesi, anche in campo femminile. Restava inoltre sempre efficace l’iniziativa dei padri della Pace. A tutto ciò si unirono ora anche gli sforzi di varie
congregazioni religiose femminili. Nel 1815 apparve così il primo oratorio per le
ragazze, cui ne seguirono altri anche grazie al successivo intervento soprattutto
delle madri Canossiane. Nel frattempo Massimiliano Averoldi (1794-1847) vara24
Oratori maschili, in Enciclopedia bresciana, a cura di Antonio Fappani, vol. XI, La Voce del Popolo, Brescia 1994, p. 69; ulteriori notizie si trovano in Oratorio della Pace, ibidem, pp. 72-73.
25
A. Fappani, Associazioni e oratori bresciani…, cit., pp. 23-24.
26
G. Vecchio, Gli oratori milanesi…, cit., p. 391; Mario Taccolini, La Chiesa bresciana nei secoli XIX
e XX, in Adriano Caprioli, Antonio Rimoldi, Luciano Vaccaro, Diocesi di Brescia, La Scuola, Brescia
1992, pp. 95-102.

va la sua formula oratoriana, comprendente una scuola di religione, un teatro,
un giardino e iniziative di tipo socio-assistenziale» 27: quest’ultimo aspetto rappresentava già in questi anni un tratto distintivo caratteristico del movimento
oratoriano bresciano. Altro indiscusso protagonista di questa decisiva stagione
della storia oratoriana bresciana era Pietro Antonio Guzzetti (1770-1818), il cui
profilo biografico è stato evidenziato di recente nei suoi studi anche da Gioacchino Barzaghi 28.
Non è possibile, dunque, non far cenno al singolare e ben noto apostolato
educativo svolto a Brescia da Lodovico Pavoni (1784-1849), il quale proprio a
partire dal 1818 radunava in città, nell’oratorio festivo da lui avviato, oltre duecentocinquanta giovani «dei quali più d’una metà sorpassanti il diciottesimo
anno». A ben vedere si trattava di un numero particolarmente consistente, in
una città che in quegli anni superava di poco i trentamila abitanti. Pavoni, ordinato sacerdote il 21 febbraio 1807, dopo cinque anni assumeva l’incarico di
segretario del vescovo Nava, di modo che la spiccata personalità del presule, le
sue molteplici iniziative, la sua capacità di governo pastorale e la sua apertura ai
tempi nuovi trovarono nel giovane sacerdote piena corrispondenza. In seguito,
il 16 marzo 1818 veniva nominato canonico, e il 1º luglio prendeva in custodia,
per conto del demanio e su proposta vescovile, la chiesa di San Barnaba e una
piccola parte dell’ex convento annesso. Per cui, nel giugno del 1821, attivava il
nuovo Istituto di San Barnaba per i «poveri figli orfani e abbandonati», di cui
la storiografia anche recente si è occupata con dovizia di particolari 29.
Sempre nel cuore del XIX secolo una menzione merita infine di essere dedicata agli oratori promossi per l’educazione delle ragazze e delle giovani 30. Infatti,
anche e soprattutto nel contesto bresciano, accanto agli oratori maschili ebbero progressivo sviluppo quelli femminili, alla cui direzione vennero sempre più
G. Vecchio, Gli oratori milanesi…, cit., p. 394; Averoldi Massimo, in Enciclopedia bresciana, a cura
di Antonio Fappani, vol. I, La Voce del Popolo, Brescia s.d. [1974], pp. 68-69.
28
Per il contesto si veda: Mario Taccolini, Le iniziative educative della Chiesa a Brescia e a Bergamo,
in Luciano Pazzaglia (a cura di), Chiesa e prospettive educative in Italia tra Restaurazione e unificazione, La Scuola, Brescia 1994, p. 418; Luciano Caimi, Brescia e il suo “carisma” pedagogico. Figure ed
esperienze educative tra Ottocento e Novecento, prolusione anno accademico 1998/99, Università Cattolica del Sacro Cuore di Brescia, 16 febbraio 1999.
29
M. Taccolini, Le iniziative educative della Chiesa…, cit., pp. 421-422; gli ultimi studi su questa
figura si trovano in Ermenegildo Bandolini (a cura di), L’eredità del beato Lodovico Pavoni. Storia e
sviluppo della sua fondazione nel periodo 1849-1949, atti del Convegno di studi (Brescia, 13 ottobre
2007), Ancora, Milano 2009.
30
Oratori femminili, in Enciclopedia bresciana, vol. XI, cit., pp. 68-69.
27

frequentemente chiamate donne religiose (Figlie della carità - Canossiane, Suore maestre di Santa Dorotea, Suore Dorotee di Cemmo, Figlie del sacro cuore,
Ancelle della carità, ecc.) e laiche consacrate (Figlie di Sant’Angela Merici).
Come ha efficacemente documentato Antonio Fappani, il percorso di evoluzione degli oratori bresciani si intensificava negli anni immediatamente precedenti e
ancor più dopo l’Unificazione. Deprecandone la diffusione, essendo ritenuti «sette
antipatriottiche e reazionarie», il sottoprefetto di Verolanuova segnala nel 1864 la
presenza nel suo circondario degli oratori di Verolanuova, Cadignano, Leno, Verolavecchia e Quinzano. Da ciò si evince che il fenomeno è ben più diffuso di quanto
i documenti oggi conosciuti rivelino. Infatti sappiamo dell’esistenza di altri oratori
come quelli di Pontevico e di Desenzano (rifondato nel 1850 da don Pietro Signori). Dominano la scena oratoriana cittadina figure di grandi educatori e direttori di
oratori quali il can. Lorenzo Pintozzi, fondatore dell’Oratorio dei discoli, don Luigi Apollonio che poi nel 1861 trasformerà l’oratorio da lui promosso nell’Istituto
derelitti, il can. Fabio Testori, animatore dell’oratorio di S. Zanino 31.
Iniziava quindi a proporsi una generazione di preti secolari diocesani, sempre
più orientati alla diffusione dello strumento oratoriano in ciascuna parrocchia,
a servizio delle esigenze educative e di evangelizzazione del territorio.
Un’attenzione ulteriore e specifica, peraltro, è stata poi riservata alle iniziative
promosse in favore della formazione tecnica e professionale, sia con riferimento
all’ambito artigianale-manifatturiero che a quello agricolo. Nel primo caso spicca la produzione storiografica promossa dai Figli di Maria Immacolata, i Pavoniani 32, come pure quella degli Artigianelli di padre Giovanni Battista Piamarta 33. Nel secondo è la Colonia agricola di Remedello Sopra, attivata ancora dai
religiosi della Sacra Famiglia di Nazareth, ad essere stata approfonditamente in-
Oratori maschili, cit., p. 70.
Lodovico Pavoni. Un fondatore e la sua città, Ancora, Milano 2000; Il beato Lodovico Pavoni e la
sua opera a Brescia, Ancora, Milano 2003; Giovanni Gregorini, I Pavoniani a Brescia tra Ottocento e
Novecento, in E. Bandolini (a cura di), L’eredità del beato Lodovico Pavoni…, cit., pp. 173-209; Giovanni Gregorini, Economia e gestione di un istituto d’istruzione nella prima metà del XIX secolo: il caso
del Collegio d’arti “San Barnaba” a Brescia tra ascesa e declino, in Angelo Bianchi (a cura di), L’istruzione in Italia tra Sette e Ottocento. Da Milano a Napoli: casi regionali e tendenze nazionali. I. Studi,
La Scuola, Brescia 2012, pp. 315-330.
33
Andrea Salini, Educare al lavoro. L’Istituto Artigianelli di Brescia e la Colonia agricola di Remedello
Sopra tra ’800 e ’900, Franco Angeli, Milano 2005.
31
32

dagata 34. In questo caso, nei contenuti proposti dagli studi citati, una volta di più
educazione e ragioni dello sviluppo economico si incontravano, caratterizzando
ulteriormente il profilo del cattolicesimo bresciano, anche in un senso imprenditoriale. Come è stato sostenuto opportunamente, riferendosi al caso specifico
di Piamarta e della sua condivisione di ideali con Giovanni Bonsignori:
[…] l’educazione all’intraprendenza e alla creatività erano un tratto comune dell’insegnamento piamartino. Convinzione sia del direttore dell’Istituto Artigianelli sia
di quello della Colonia agricola era l’intuizione dell’importanza dell’impresa, vista
nel suo ruolo di motore dello sviluppo economico e sociale, con il primato del momento produttivo rispetto a quello distributivo. Lo sviluppo economico e sociale
era così per Piamarta strettamente legato al ruolo del fattore umano e a tutto ciò che
rende il capitale umano maggiormente produttivo. La polemica di fine Ottocento sul futuro economico dell’Italia vedeva il sacerdote bresciano interessato a porre
come tema di fondo, non tanto la scelta tra vocazione agricola o industriale del Paese, quanto l’investimento sul capitale umano, sulla risorsa uomo, non solo e non
innanzitutto come risorsa produttiva, ma in senso pieno e integrale 35.
4. Il terzo ambito tematico evocato in esordio attiene alle iniziative di assistenza, di beneficenza e, più in generale, di intervento caritatevole attivate nel capoluogo e in provincia intorno alla metà dell’Ottocento. Sotto questo profilo davvero corposa si è rivelata anzitutto la produzione storiografica dedicata all’opera svolta dalle congregazioni religiose soprattutto femminili. A ben vedere in generale
l’economia degli istituti religiosi nell’Italia dell’età contemporanea si pone ormai
sempre di più al centro di poliedrici interessi storiografici i quali, dal canto loro,
richiamano anzitutto i rilevanti temi dello sviluppo economico e sociale locale in
relazione alle cosiddette istituzioni intermedie, del rapporto Stato-Chiesa a livello centrale ma anche e soprattutto periferico, dell’assistenza e della carità legale
nelle diverse regioni della Penisola, del profilo patrimoniale come pure gestionale
e quindi manageriale espresso all’interno degli istituti stessi, con ricadute esterne
sul territorio sempre più consistenti nella considerazione degli studiosi.
In questa prospettiva appare ancor più evidente il legame storico e causale
che unisce la storia delle nuove congregazioni religiose di voti semplici femminili e maschili – sorte in Italia sull’onda di un generale movimento europeo che si
34
La Colonia agricola di Remedello Sopra. Studi per il centenario (1895-1995), Queriniana, Brescia
1998.
35
A. Salini, Educare al lavoro…, cit., pp. 18-19.

è affermato tra XIX e XX secolo – con taluni caratteri dello sviluppo economico e sociale nazionale in età contemporanea, potendosi quindi sostenere in via
preliminare che «le congregazioni religiose, in genere ma soprattutto in alcune
aree del Paese, hanno avuto una rilevanza economica e sociale che merita di essere analizzata e narrata in sé e agli effetti dello sviluppo locale. E hanno avuto
questa rilevanza in quanto tali, cioè non come riflesso inconsapevole e imprevisto, ma per il tipo di presenza che di fatto hanno inteso istituzionalmente svolgere» “a servizio” dello stesso sviluppo36.
Sul piano scientifico, a sostegno della menzionata tesi storiografica, per il Bresciano si sono succeduti negli ultimi anni alcuni studi monografici37 insieme a saggi
in volumi collettanei e riviste 38, come pure interventi e comunicazioni a convegni
internazionali 39, nazionali e locali 40. Tutti questi contributi hanno peraltro arricchi Sergio Zaninelli, Premessa, in Mario Taccolini (a cura di), A servizio dello sviluppo. L’azione economico-sociale delle congregazioni religiose in Italia tra Otto e Novecento, Vita e pensiero, Milano 2004,
p. ix.
37
Alessandro Colombo, Congregazioni religiose e sviluppo in Lombardia tra Otto e Novecento. Il caso
delle suore di Maria Bambina, Vita e pensiero, Milano 2004; A. Salini, Educare al lavoro…, cit.; Giovanni Gregorini, Per i bisogni dei “non raggiunti”. L’Istituto Suore delle Poverelle tra Lombardia orientale e Veneto (1869-1908), Vita e pensiero, Milano 2007.
38
Come nel caso dei contributi di Maurizio Romano, Andrea Salini e Giovanni Gregorini in M. Taccolini (a cura di), A servizio dello sviluppo…, cit.; inoltre si intende fare riferimento agli studi contenuti in: Mario Taccolini, L’altro movimento cattolico: le congregazioni religiose tra Otto e Novecento, in
Identità italiana e cattolicesimo. Una prospettiva storica, a cura di Cesare Mozzarelli, Carocci, Roma
2003, pp. 309-329; Giovanni Gregorini, Le invenzioni della carità e il movimento sociale cattolico, in
Università Cattolica del Sacro Cuore, Dizionario di dottrina sociale della Chiesa. Scienze sociali e Magistero, Vita e pensiero, Milano 2004, pp. 836-850; Maurizio Romano, Risorse finanziarie e attività
assistenziali: la congregazione delle Suore di carità a Bergamo e Brescia dal 1914 al 1932, in «Bollettino
dell’Archivio per la storia del movimento sociale cattolico in Italia», 2001, a. XXXVI, n. 3, pp. 317382; Giovanni Gregorini, La gatta e il lardo. Amministrazioni comunali, finanza locale e donazioni in
Val Camonica nel XX secolo: il caso di Bienno, in Studi di storia moderna e contemporanea in onore di
monsignor Antonio Fappani, a cura di Sergio Onger e Mario Taccolini, Grafo, Brescia 2003, pp. 5772; Giovanni Gregorini, Le nuove congregazioni religiose, in M. Taccolini (a cura di), A servizio del
Vangelo…, cit., pp. 185-205.
39
In tal senso del tutto coerente si rivela la ricerca complessiva perseguita da tempo dal Kadoc, presso l’Università Cattolica di Lovanio, cui ha collaborato anche Giovanni Gregorini giungendo alla
pubblicazione del seguente saggio, che riporta significativi cenni alla vicenda bresciana: The organization and economics of religious congregations in North Italy (1861-1929), in The economics of providence
/ L’economie de la providence. Management, finances and patrimony of religious orders and congregations
in Europe, 1773 - ca. 1930 / Gestion, finances et patrimoine des orders et congregations en Europe, 1773 ca. 1930, a cura di Maarten Van Dijck, Jan De Maeyer, Jeffrey Tyssens, Jimmy Koppen, Leuven University Press, Lovanio 2012, pp. 323-342.
40
Giovanni Gregorini, Carità, sviluppo dei sistemi locali e congregazioni religiose tra Bergamo e Bre36

to, completandolo, il profilo dell’approccio con il quale sino a pochi anni fa ci si
era prevalentemente avvicinati al tema relativo alla storia della presenza delle congregazioni religiose nella società italiana, sulla scorta dei fondamentali studi di Nicola Raponi, Giancarlo Rocca, Fulvio De Giorgi, Pietro Stella e Roberto Sani. Per
cui, essendo ormai sempre più valorizzata in ambito storiografico la rilevanza del
radicamento territoriale dello sviluppo economico e sociale, è proficuo soffermarsi nella descrizione dei lineamenti evolutivi di un soggetto istituzionale moderno
(quale si dimostra la congregazione religiosa) per come è stato capace di contribuire all’equilibrato dinamismo dei sistemi spaziali regionali, dando respiro, in questo
modo, a un corretto approccio eclettico e multivariato con cui è davvero possibile
arricchire la riflessione scientifica sulla complessiva “riscoperta del locale” 41.
Più in particolare gli studi relativi alle Ancelle della carità 42 e quelli condotti
sulle Suore di carità hanno posto in luce la rilevanza economica dell’intervento
da loro profuso sul territorio provinciale con riferimento ad eclettici ambiti di
presenza e di azione concreta: scuole dell’infanzia, iniziative attuate con l’associazione per la Protezione della giovane, ospedali civili, case di salute, ambulatori, ricoveri di mendicità, brefotrofi, manicomi, assistenza ai rachitici, orfanotrofi, scuole di lavoro, e infine gestione dei convitti per operaie 43. A quest’ultimo riguardo ulteriormente interessanti sono i risultati delle ricerche condotte
da Giovanni Gregorini riguardanti la diffusione delle Suore delle Poverelle nel
Bresciano, con singolari riferimenti dedicati alla gestione finanziaria delle case
filiali attivate per la gestione dei suddetti servizi a Villanuova sul Clisi, Lumezzane, Ponte Zanano, Chiari, Cellatica, Volciano, Botticino Sera, Saiano, Orzivecchi, Provaglio d’Iseo, Virle Treponti, per restare solo sul secondo Ottocento 44. È doveroso infine segnalare l’assiduità con la quale i Figli di Maria Imma-
scia nel XIX secolo, in «Civiltà bresciana», ottobre 2008, n. 3, pp. 121-132; G. Gregorini, I Pavoniani
a Brescia…, cit., pp. 173-209.
41
Sergio Conti, Paolo Giaccaria, Verso una teoria istituzionalista dello sviluppo locale, in Il capitale
nello sviluppo locale e regionale, a cura di Lucio Malfi, Dino Martellato, Franco Angeli, Milano 2002,
pp. 52-54.
42
Augusta Nobili, L’impegno religioso delle Ancelle della carità (1840-1990), in Alberto Monticone,
Antonio Fappani, Augusta Nobili, Una intuizione di carità. Paola Di Rosa e il suo istituto tra fede e
storia, Ancora, Milano 1991, pp. 83-265.
43
Maurizio Romano, «Per guadagnare tutti a Dio»: la carità operosa delle Suore di carità nell’Italia
settentrionale tra Ottocento e Novecento, in M. Taccolini (a cura di), A servizio dello sviluppo…, cit.,
pp. 101-161.
44
G. Gregorini, Per i bisogni dei “non raggiunti”…, cit., passim.

colata, fondati da Lodovico Pavoni, hanno contribuito alla storia della presenza
dei cattolici a Brescia negli anni dell’Unificazione nazionale soprattutto grazie
soprattutto agli studi compiuti da Roberto Cantù 45.
A delineare i contorni del dinamico e intraprendente cattolicesimo sociale
nel Bresciano si sono aggiunti alcuni importanti studi compiuti negli ultimi anni sulla Congrega della carità apostolica, con riferimento all’età moderna 46 e a
quella contemporanea, compresi gli anni dell’unificazione nazionale 47. Su questo
terreno di studio molta strada resta ancora da percorrere, come linea evolutiva di
ricerca per il futuro. Sin da ora è possibile però riconoscere la rilevanza dell’ente
in termini di assistenza e beneficenza costantemente aggiornate e garantite, di
relazionalità sociale alimentata, di libera partecipazione alle sorti della nuova nazione nella prospettiva della più autentica sussidiarietà, senza indulgenze per uno
strumentale localismo. Una prospettiva anch’essa peculiarmente bresciana.
5. L’ultimo nucleo di studi dedicati alla presenza dei cattolici bresciani nella
società locale, a servizio – per così dire – dell’unificazione nazionale, attiene al
ruolo svolto nella promozione e nel funzionamento di istituzioni operanti in diversi ambiti dell’economia e della società civile, in via esclusiva o talvolta insieme
con altri soggetti ed enti, non avendo come finalità unica o primaria l’orientamento verso il mercato ovvero la ricerca di margini di redditività economica.
Si tratta di un profilo caratteristico della brescianità radicato e variamente
indagato, ma soprattutto opportunamente introdotto con le seguenti, chiare e
illuminanti espressioni da Giacomo Canobbio:
Nonostante non si riscontrino per la maggior parte di questi due secoli i dibattiti
teologici, che scoppieranno vivaci negli anni ’70 del secolo XX, circa il rapporto tra
evangelizzazione e promozione umana, è dato constatare che nella nostra Chiesa è
stata vissuta di fatto l’unità tra i due aspetti della evangelizzazione. Nella consapevolezza che il vangelo passa nella vita delle persone non semplicemente attraverso
45
Roberto Cantù, La figura del fratello religioso laico caratteristica della nuova congregazione religiosa
fondata dal beato Lodovico Pavoni, in L’eredità del beato Lodovico Pavoni…, cit., pp. 21-70.
46
Marco Dotti, Relazioni e istituzioni nella Brescia barocca. Il network finanziario della Congrega della
carità apostolica, Franco Angeli, Milano 2010.
47
Michele Busi, La Congrega della carità apostolica di Brescia, Congrega, Brescia 2005; Mario Taccolini (a cura di), Dalla beneficenza alla cultura del dono. Studi in memoria del conte Gaetano Bonoris,
Congrega, Brescia 2012.

l’annuncio, ma attraverso l’ethos collettivo, i cattolici bresciani creano strutture organizzative capaci di produrre “cultura” – il sistema simbolico nel quale le persone
possano interpretare e modellare la propria esistenza – a volte alternativa a quella
dominante. Non meraviglia, al riguardo, che pensino anche istituzioni finanziarie
finalizzate a sostenere le iniziative educative e assistenziali. In tal senso mostrano di
accettare le sfide provenienti da una società in alcuni momenti ostile alla Chiesa.
Ciò non vuol dire che i fedeli bresciani si sentano estranei alla vita sociale; piuttosto
intendono resistere ai “regimi culturali” che si succedono, e non solo per se stessi,
bensì per tutto il territorio della provincia e per tutto il Paese 48.
L’evocata creatività istituzionale dei cattolici bresciani trovava modo di esprimersi in maniera costruttiva e diffusiva, ad esempio, attraverso il movimento cooperativistico, ricostruito nei suoi tratti essenziali e generali in alcuni qualificati
studi 49. Allo stesso modo la fatica della rappresentanza sindacale dei lavoratori
nel corso del secondo Ottocento è stata ulteriormente delineata con riferimento alle Unioni del lavoro e alle loro premesse postunitarie 50.
La copiosa storia della banca bresciana si è poi espressa anche riferendosi al
ruolo svolto nel sociale, oltre che nell’economico, dagli istituti di credito sorti
nel Bresciano sia con attinenza al credito cooperativo 51 sia al novero degli istituti di credito ordinario, con particolare riguardo alla Banca di Valle Camonica 52,
alla Banca San Paolo di Brescia 53, al Banco Ambrosiano di Milano 54. In questo
ambito feconda è stata la coniazione della categoria di «modello creditizio toviniano», più volte richiamato nella letteratura storiografica relativa 55. Non si di G. Canobbio, Introduzione, cit., p. 13.
Enzo Pezzini, Franco Gheza, Le cooperative a Brescia dalle origini al 1926, Edizioni di storia Bresciana, Brescia 1985; Luigi Trezzi, Franco Gheza, Un secolo di cooperazione a Brescia, Fondazione civiltà
bresciana, Brescia 1992.
50
Paolo Tedeschi, Economia e sindacato nel Bresciano tra primo dopoguerra e fascismo: le Unioni del
lavoro (1918-1926), Franco Angeli, Milano 1999.
51
Pietro Cafaro, La solidarietà efficiente. Storia e prospettive del credito cooperativo in Italia (1883-200),
Laterza, Roma-Bari 2001.
52
Oliviero Franzoni (a cura di), Banca di Valle Camonica. 140 anni di storia, Ubi-Banca di Valle Camonica, Breno 2012.
53
Gabriele Archetti (a cura di), Attività creditizia e impegno sociale. Storia e prospettive nel decennale
della Fondazione Banca San Paolo di Brescia, Fondazione Banca San Paolo di Brescia, Brescia 2008.
54
Mario Taccolini, Pietro Cafaro, Il Banco Ambrosiano. Una banca cattolica negli anni dell’ascesa economica lombarda, Laterza, Roma-Bari 1996, pp. 3-94.
55
Mario Taccolini, Le origini del Banco Ambrosiano: 1895-1896, in M. Taccolini, P. Cafaro, Il Banco
Ambrosiano…, cit., pp. 3-94.
48
49

mentichi in particolare che nel 1988, ricorrendo il centenario della fondazione
della Banca San Paolo, l’istituto creditizio di matrice cattolica decideva di pubblicare due monografie diversamente ricostruttive della storia della banca, una
più qualitativa a cura di Mario Taccolini e Gian Ludovico Masetti Zannini 56,
l’altra più quantitativa, redatto da Florio Gradi 57. Parallelamente, il 21 ottobre
1988 si svolgeva l’importante convegno economico dal titolo Aree di sviluppo e
banche locali: contributi storici e prospettive 1992 58.
Da ultimo, un cenno merita d’essere rivolto a una prospettiva di indagine
adottata solo recentemente, ma feconda di preziosi sviluppi. Si tratta di alcune
ricerche introduttive dedicate al tema dell’assistenza agli anziani promossa nel
territorio provinciale tra età moderna e contemporanea 59. In questa prospettiva
trovano spazio le singole vicende degli istituti di ricovero per «vecchi inabili»,
spesso promosse per iniziativa dei cattolici presenti a livello locale; i percorsi degli enti, anche religiosi, coinvolti nel loro funzionamento e mantenimento (spesso ancora le congregazioni religiose femminili); l’evolutivo coinvolgimento del
laicato cattolico nell’amministrazione della cosa pubblica a livello locale, come
peraltro insegnano le peculiari e originali attività svolte dalle congregazioni di
carità sull’intero territorio provinciale 60.
Gian Ludovico Masetti Zannini, Mario Taccolini, Banca San Paolo di Brescia. Una tradizione per
il futuro 1888-1988: note storiche, La Scuola, Brescia 1988.
57
Florio Gradi, Banca San Paolo di Brescia. Profilo economico e statistico, Cedoc, Brescia 1989.
58
I cui atti confluivano nel numero speciale monografico del «Notiziario economico bresciano», n.
41 speciale.
59
Giovanni Gregorini, Anziani e assistenza nel Bresciano in età contemporanea: note e documenti per
una storia, in «Società e storia», 2013, n. 1, pp. 115-139; Giovanni Gregorini, Welfare, società, istituzioni: elementi per una storia dell’assistenza agli anziani nel Bresciano in età contemporanea, atti di convegno, forthcoming.
60
Giovanni Gregorini, La storiografia sull’assistenza a Brescia tra età moderna e contemporanea. Contributo per un dibattito, in «Civiltà bresciana», 2007, n. 4, pp. 227-238.
56

Brescia città del Regno di Sardegna (1859-1861)
Luigi Amedeo Biglione di Viarigi *
Una rapida, ma necessaria premessa. A Brescia fu particolarmente accentuato
nel corso dei decenni, dalla fine del Settecento all’Unità, l’evolversi di situazioni che si manifestarono attraverso esperienze assai significative e che lasciarono
una coinvolgente e animata eredità. Pensiamo alle molteplici presenze bresciane
negli eventi civili e militari dell’età rivoluzionaria e napoleonica, come la Repubblica Bresciana del 1797, all’importanza culturale dei soggiorni del Foscolo a
Brescia nel 1807, anno in cui il poeta vi pubblicò i Sepolcri, al processo bresciano,
stralcio di quello milanese avvenuto in seguito alle cospirazioni anti-austriache
del 1821, al conseguente scompaginamento della cultura, causato dalle condanne o dalle emigrazioni dei patrioti, al 1848, quando la città si trovò a poche decine di chilometri dalla linea del fronte sul Mincio, divenendo, prima, centro
di raccolta e di smistamento dei volontari provenienti da varie regioni italiane e
quindi mobilitatasi generosamente per l’assistenza ai militari piemontesi feriti,
oltre che negli ospedali, anche in famiglie private, al 1849, con le Dieci giornate, ai processi di Mantova, con il sacrificio di Tito Speri.
Attivi laboratori politici, nel primo Ottocento, anche a Brescia, dopo quello
della Carboneria, si costituirono con il diffondersi del Mazzinianesimo, dell’Albertismo, del Giobertismo, posizioni successivamente soggette spesso a un fecondo intersecarsi di motivi, come, alla vigilia del ’59, l’adesione fra il pensiero
cavourriano e la prassi garibaldina, che diede origine alla Società Nazionale.
Dopo le incalzanti vicende del 1859, che portarono Brescia ad entrare a far
parte del Regno di Sardegna, vediamo come la città abbia vissuto il nuovo momento della sua storia, da una parte, nei fatti in sé, con il recupero stimolante
della memoria del recente passato, che aveva messo in atto le nuove situazioni,
e preparando, dall’altra, in modo solerte e produttivo, il suo futuro nell’ambito
della nuova dimensione unitaria e nazionale.
Brescia fu subito pienamente cosciente dell’esistenza generalizzata di una
* Socio e consigliere dell’Ateneo di Brescia; consigliere dell’Istituto per la storia del Risorgimento
italiano (Isri).

marcata linea spartiacque fra il passato e il presente e che l’avrebbe proiettata
verso un futuro radicalmente inedito.
A proposito di continuità (e di connessioni) fra passato, presente e futuro,
non possiamo non ricordare, relativamente all’annessione al Regno di Sardegna (sia pure in un ben diverso contesto), come questo evento fosse stato proposto fin dal 1848.
Filippo Ugoni, uno dei patrioti del 1821 ed esule per lunghi anni, il 15 aprile, agli
inizi della Prima guerra d’indipendenza, aveva, infatti, rivolto un appello ai suoi
concittadini, riferendosi, in quei tempi, alla proposta di una Confederazione Italica, con uno Stato Settentrionale, cui la città sarebbe stata destinata. E scriveva allora l’Ugoni: «Se mai proclameremo Carlo Alberto a Re Costituzionale, usciremo
presto dal provvisorio, ci troveremo presto forti di tutta la forza piemontese» 1.
Riteniamo utile ricordare l’esposizione cronologica particolareggiata dei fatti, perché pensiamo che, soprattutto in momenti della storia caratterizzati da
connotazioni veramente epocali come questi di cui stiamo trattando, il succedersi incalzante degli eventi faciliti, di per se stesso, l’acquisizione delle coordinazioni e delle contestualizzazioni delle vicende e, di volta in volta, degli stati
d’animo dei contemporanei, con le loro attese, le apprensioni e, nel nostro caso, anche degli entusiasmi.
Già nel corso della Seconda guerra d’indipendenza, il 26 maggio 1859, da
parte della Commissione Cesare Giulini della Porta, su sollecitazione di Minghetti e di Farini, era stato approvato «Il progetto politico amministrativo per
la Lombardia». L’8 giugno, da Milano, Vittorio Emanuele II emanava le nuove
leggi civili per il popolo lombardo, mentre un paio di giorni dopo, nella notte
fra il 10 e l’11 giugno, presero possesso del Castello di Brescia i patrioti Domenico
Chinca, Enrico Contini e Giuseppe Borghetti. L’11, Carlo Cocchetti su «L’Alba»
scriveva: «Esulta, esulta o Brescia! I tuoi ceppi cadono infranti».
Il 13 entrava nella città, da porta San Giovanni, Garibaldi, che rivolgeva un
proclama alla cittadinanza e, a sua volta, il 14, «La Gazzetta provinciale di Brescia» salutava la liberazione della città: «È alfin giunta anche per la nostra Brescia l’ora ansiosamente aspettata».
Garibaldi, il giorno 15, si impegnò nel combattimento avvenuto nel territorio
di Virle Treponti, per trasferirsi poi nelle valli bresciane, ove, a Breno, in Valcamonica, lo colse l’inaspettata notizia dell’armistizio di Villafranca. Il 17 entrò a
Brescia Vittorio Emanuele II, che il giorno dopo andò ad accogliere Napoleone
III a porta San Nazzaro (l’attuale piazza della Repubblica).
Subito dopo la caduta del potere austriaco, venne nominato pro-sindaco il conte Diogene Valotti che, con la collaborazione del conte Lodovico Bettoni Cazzago
e Luigi Arici, resse la città nel passaggio al nuovo Regno. Da quel giugno 1859, con
l’inizio di una nuova storia, ebbe termine in Italia, a cominciare dalla Lombardia, il
sistema politico e territoriale sancito dal Congresso di Vienna di 45 anni prima.
Pochi giorni dopo l’armistizio di Villafranca, il 14 luglio, venne soppressa la
linea doganale fra Lombardia e Piemonte. Da Torino, governatore della città fu
nominato, prima, l’intendente generale Feraldo, quindi Agostino Depretis, il
futuro presidente del Consiglio dei ministri.
In una visita in Lombardia – di carattere privato, perché il passaggio della
regione al Regno di Sardegna non era stata ancora ufficializzata (il che sarebbe
avvenuto con la pace di Zurigo del successivo mese di novembre) – Vittorio
Emanuele II soggiornò anche a Brescia, tra il 12 e il 13 agosto. Leggiamo nel Comandini, in un testo che ci riporta a tutto il sapore e al calore dei tempi: il giorno 12, «Alle 11 p. fra grande entusiasmo con tutta la città illuminata, arriva da
Bergamo a Brescia il Re che è coperto di fiori» 2. E relativamente al giorno 13:
Il Re parte da Brescia alle 2.45 pom. dopo aver visitato varii dei sedici ospedali,
raccoglienti circa 3.500 feriti e malati, accompagnato dal ministro Gabrio Casati,
dal direttore delle ferrovie conte Ercole Oldofredi. Al momento della partenza gli
è consegnato indirizzo firmato da 327 deputati comunali: la sera la città, i ronchi
sono festosamente illuminati 3.
Il 23 ottobre 1859 il ministro dell’Interno, Rattazzi, predispose per la provincia di Brescia sei circondari: Brescia, Chiari, Breno, Salò, Castiglione, Verolanuova. Ritornava alla Provincia di Brescia la Valcamonica e vi veniva aggregata
la parte nord occidentale della riva destra del Mincio.
Nell’Archivio Lechi, in Brescia, si conservano di quell’estate 1859, agli inizi
del passaggio di Brescia al Regno di Sardegna, due lettere assai interessanti, perché sono documenti utili per comprendere i dibattiti, le attese, le ipotesi relativi
a tempi caratterizzati da così spiccate evoluzioni. Sono lettere che riguardano
(come sempre gli epistolari e i diari) eventi che per noi posteri si riferiscono, ov Alfredo Comandini, L’Italia nei Cento Anni del secolo scorso XIX, III, Giorno per giorno, Illustrata
1850-1860, Antonio Vallardi, Milano 1907-1918, p. 1232.
3
Ibidem, p. 1234.
2
Arsenio Frugoni, 48 e 49 bresciani, in L’Ateneo di Brescia, Fondazione da Como, 48 e 49 Bresciani,
Tipografia Morcelliana, Brescia 1949, p. 20.
1


viamente, a un passato già acquisito, mentre per gli autori di questi documenti
altro non erano che momenti ancora intrisi di incertezze, forieri di alternative
e, di conseguenza, di dubbi tormentosi.
Nella prima lettera, datata 4 agosto 1859, Filippo Ugoni, scrivendo all’amico
conte Luigi Lechi, già presidente nel 1848 del Governo provvisorio di Brescia
e per anni presidente dell’Ateneo, esprime, in un momento di transizione così delicato, le sue preoccupazioni e affronta le situazioni connesse all’annessione della Lombardia al Piemonte 4. La seconda lettera, in data 28 dicembre 1859,
è del generale Zaverio Griffini (che aveva comandato i volontari lombardi e li
aveva raccolti in Brescia, dopo la sconfitta di Custoza del 1848, lasciando poi la
città verso la metà di agosto, alcuni giorni prima che vi rientrassero le truppe
austriache) ed è diretta al conte Teodoro Lechi, generale napoleonico che nel
1848 era stato al comando delle truppe del Governo provvisorio di Lombardia.
In tale lettera Griffini manifesta al Lechi alcuni suoi pareri di carattere politico
e amministrativo 5.
È assai significativa anche una lettera, inedita, dello stesso Cavour in data 27
dicembre 1859, al sindaco Diogene Valotti, in risposta ai suoi auguri, proprio
alla fine dell’anno della Seconda guerra d’indipendenza: «Auguro di tutto cuore a Lei come a me di veder compiersi fra breve l’opera dell’italiano risorgimento così felicemente iniziata in quest’anno e non dubito che i suoi concittadini
rinnoverebbero all’uopo le prove già date da essi di patriottismo» 6. Osserviamo
come l’espressione cavourriana relativa all’«italiano risorgimento» richiami il
titolo del giornale «Il Risorgimento», fondato dallo stesso Cavour e da Cesare
Balbo nel dicembre del 1847.
Nel solco del suo recente passato e agli inizi della nuova situazione politica
nazionale, anche a Brescia si evidenziano gli orientamenti politici, quello cavourriano e quello della sinistra democratica. Appartenevano al primo, con un
circolo politico e il giornale «La Sentinella bresciana», uscita dal 1º settembre
dello stesso 1859, Luigi Lechi, Ercole Oldofredi Tadini, Diogene Valotti, Ippolito
Fenaroli. Al secondo, Giuseppe Zanardelli, Filippo Ugoni, Francesco Cuzzetti,
Federico Odorici, Bernardo Maggi, Gerolamo Monti, con il giornale «Gazzetta Provinciale», successivamente divenuta, dal primo novembre 1869, «L’Indicatore bresciano».
Conservata nell’Archivio dei conti Lechi, in Brescia.
Ibidem.
6
Ibidem.
4
5

È da ricordare, il 22 febbraio 1860, la visita di Cavour a Brescia, nell’ambito
di una sua presenza in Lombardia. Negli inizi di quell’anno, la città affrontò le
prime elezioni della sua storia: le comunali, le provinciali e, il 25 marzo, le politiche, avvenute nel Regno di Sardegna e nelle regioni a esso già annesse, per
quello che sarebbe stato il primo Parlamento di carattere unitario-nazionale,
inaugurato a Torino il 2 aprile.
Proprio il giorno prima, con una grande manifestazione patriottica, Brescia
celebrò l’undicesimo anniversario delle Dieci giornate, il primo ricordo ufficiale della Decade bresciana, dato che negli anni precedenti la città era governata
dalle autorità austriache. La folla si radunò nell’allora piazza Vecchia (ora della
Loggia) e si snodò in un lungo corteo fino al cimitero Vantiniano, ove tenne un
discorso don Antonio Bazzoni.
In quei primi mesi del 1860, anche a Brescia si visse il clima di preparazione e di reclutamento dei volontari che avrebbero seguito Garibaldi nell’impresa
verso la Sicilia e il Meridione. La città e la provincia presero parte alla raccolta
a favore dell’operazione detta «per il milione di fucili», promossa dal generale:
vi aderirono il Comune, la Camera di commercio, l’Ateneo, oltre alla Deputazione provinciale che erogò la sua offerta allo stesso Garibaldi.
Dopo la cessione, insieme alla Savoia, di Nizza alla Francia, Brescia si distinse, fra le prime città, nel conferire al generale la cittadinanza onoraria, quasi a
risarcirlo delle perdite della sua località di nascita.
Per la raccolta dei volontari destinati alla temeraria impresa (detta poi dei
Mille), Garibaldi inviò a Brescia l’amico bresciano Giuseppe Guerzoni. I volontari bresciani assommarono a 77, se enumeriamo anche coloro che provenivano dai centri del Mantovano e del Cremonese, che si trovavano allora in
provincia di Brescia. I volontari specificamente di Brescia città e della sua provincia erano 64 e appartenevano alle più svariate classi sociali. L’attesa in città
era grande, tanto che la notizia della partenza di Garibaldi per la sua spedizione apparve sulla «Sentinella» del 10 maggio con un lapidario inizio: «Garibaldi è partito».
Venne costituito un Comitato di soccorso per la Sicilia, al quale aderirono
conservatori e progressisti e, in modo assai significativo, esso ebbe la sua sede
presso quella del Comitato dell’emigrazione veneta, una ben eloquente manifestazione di sentimenti (e di auspici) unitari e nazionali.
Alla spedizione dei volontari partiti da Quarto, il 5 maggio, seguirono,
nell’estate, e fino all’autunno, altre spedizioni, per un totale di sette.
Dopo l’annessione di Brescia al Regno di Sardegna, Vittorio Emanuele II no
minò senatori i patrioti bresciani Luigi Lechi, Ippolito Fenaroli, Giovanni Martinengo Cesaresco ed Ercole Oldofredi Tadini. Frattanto la cultura e la politica
bresciana pensavano al futuro: in campo industriale, scolastico, così come in
quello giudiziario, con l’auspicio dell’istituzione in città della Corte d’appello.
Il 27 gennaio 1861 si svolsero anche a Brescia le elezioni politiche per il Parlamento che si sarebbe riunito a Torino il 18 febbraio e che sancì il 14 marzo,
dopo l’approvazione del 26 febbraio al Senato, il decreto che attribuiva a Vittorio Emanuele II il titolo di Re d’Italia. Il decreto divenne esecutivo il 17 marzo,
con la sua pubblicazione sul primo numero della «Gazzetta Ufficiale del Regno
d’Italia».
A Brescia, nei primi mesi del 1861 il Comune, retto da Diogene Valotti, emanò due significativi provvedimenti: l’erogazione della pensione vitalizia alla madre di Tito Speri e la sottoscrizione per una spada a Garibaldi. Brescia con tali provvedimenti, insieme con la ricordata commemorazione dell’anniversario
delle Dieci giornate, sentiva fortemente e doverosamente l’esigenza, nei giorni
esaltanti dell’Unità, di richiamare i momenti e le tante dolorose tappe che ne
caratterizzarono il cammino.
Al fine di studiare lo spirito e la cultura che animarono Brescia negli anni
relativi al passaggio dal governo austriaco a quello del Regno di Sardegna (dal
1861 Regno d’Italia), testimonianza immediata e diretta è quella dell’Ateneo,
Accademia di Scienze, Lettere ed Arti di Brescia, attraverso i suoi «Commentari», quello concernente, ad esempio, gli anni 1858-1861 7 e quello relativo agli
anni 1862-1864 8.
L’Ateneo, asse portante della cultura di Brescia lungo tutta l’età risorgimentale, con l’Unità usciva da un periodo difficile e spesso drammatico della sua storia, che era iniziata ufficialmente nel 1802, con il primo Statuto dell’Accademia,
all’epoca della Repubblica italiana, in età napoleonica. A proposito delle sue difficili e patriottiche vicende sotto il governo austriaco della Lombardia, si pensi ai
soci cospiratori nel 1821, alcuni condannati, altri esuli, ai patrioti del 1848, come
il conte Luigi Lechi, presidente dell’Ateneo e contemporaneamente presidente
del Governo provvisorio della città (agli inizi e durante la Prima guerra di indipendenza) e, successivamente, alla sospensione delle sedute dell’Istituzione dal
dicembre 1851 al febbraio del ’55, decisa dal Comando militare, poiché le autorità continuavano a vedere con sospetto il sodalizio culturale bresciano.
Nell’intervento del presidente Lechi, tenuto il 30 dicembre 1860, alcuni mesi
dopo l’annessione di Brescia al Regno di Sardegna, leggiamo parole significative
e insieme anche molto forti. Parlò, infatti, Lechi della «felicissima patria» 9 e del
contributo che anche le società scientifiche sarebbero state «presto chiamate a
portare […] alla civiltà federativa d’Europa» 10. E continuò rievocando le sofferenze del recente passato e, al tempo stesso, il generoso comportamento della
cittadinanza nei drammatici momenti della sua più vicina storia:
Che se, fra gli artigli del lurido uccello, [alludeva chiaramente all’aquila bicipite
n.d.r.] le mene di rozzi ministri non seppero al tutto uccidere questo nostro istituto,
che anche straziato mantenne alcuna traccia dell’antica fama, non sarà ora mestieri
ch’io dica che cosa si aspetti dai figli di una città generosa, che insieme resistè dieci
giorni ad un esercito feroce, aperse ai feriti di Solferino quaranta spedali, improvvisò una guardia nazionale modello […] 11.
Ricordi tristi e gloriosi, ma, poi, anche le prospettive e le speranze: «Dimani,
[cioè il 31 dicembre, n.d.r.] o Colleghi, compiesi il miracoloso sessanta! Esso ci
è mallevadore oggimai, che il successivo ne sarà degno continuatore» 12.
Nella sua relazione, il segretario Giuseppe Gallia, egli pure patriota di antica data, parlò di un Ateneo «rinnovato nella felice redenzione della patria nostra» 13. In un altro intervento, Gallia parlò delle «nuovi sorti della patria» 14, (associandovi quelle dell’Accademia) e durante la storia di essa, del «prorompere
improvviso a dissipare il sogno de’ tiranni, a suscitare le lotte più sante, le glorie
più splendide, che vestono di pari luce la spezzata corona di Carlo Alberto e la
generosa e felice spada del Figlio di lui» 15.
Assai a proposito (stanti i rapporti di amicizia e di stima che intercorrevano o
erano intercorsi fra l’autore dei Promessi sposi e alcuni amici bresciani, quali Luigi
«Commentari dell’Ateneo di Brescia per gli anni 1858-1861», cit., p. I.
Ibidem.
11
Ibidem, pp. I-II
12
Ibidem, p. III.
13
Ibidem, p. 1.
14
Ibidem, p. 245.
15
Ibidem, p. 246.
9
10
«Commentari dell’Ateneo di Brescia per gli anni 1858-1861», Brescia, Tipografia Apollonio,
M.DCCC.LXII.
8
«Commentari dell’Ateneo di Brescia per gli anni 1862-1863-1864», Brescia, Tipografia Apollonio,
M.DCCC.LXVI.
7


Lechi, Giovan Battista Pagani, Camillo Ugoni e gli studi su di lui del grande critico ed esule Giovita Scalvini) ricordò anche la «parca, severa e veneranda musa
di Alessandro Manzoni, che suonò quasi profetica banditrice di prossima redenzione» 16. Con queste parole, possiamo pensare che Gallia si riferisse in particolare
all’ode Marzo 1821, e specificamente ai versi: «una d’arma, di lingua, d’altare, di
memorie, di sangue e di cor» 17. Non dimentichiamo, del resto, che Manzoni era
socio dell’Ateneo di Brescia dal 1820, il quale Ateneo, aggiungeva Gallia, «in tempi
infelicissimi mantenne pur sempre accesa nel proprio seno la sacra favilla» 18.
Nel citato volume dei «Commentari dell’Ateneo» per il 1858-61 significativa
è la presenza dell’Aleardi, del quale, trasferitosi nel settembre del 1859 a Brescia
dopo essere da poco ritornato dal carcere austriaco di Jo­sephstadt, vengono presentati alcuni «Versi politici» 19. Ricordiamo anche gli interventi del socio Ettore
Quaranta, del vice-presidente monsignor Pietro Emilio Tiboni e l’ampia biografia di Camillo Ugoni (morto nel 1855, patriota, letterato, esule, presidente
per due tornate, prima e dopo l’esilio, dell’Accademia bresciana) scritta dal fratello Filippo, una fonte di primaria importanza per conoscere la vita e le opere
di uno dei bresciani più illustri del primo Ottocento 20.
Di Filippo Ugoni è anche assai importante l’intervento dal titolo Guida al
Governo rappresentativo, presentato così all’Ateneo dal segretario Gallia:
Ora alla vigilia dell’apertura del Parlamento, alla vigilia delle prime elezioni dei deputati lombardi, l’egregio nostro socio, vissuto molti anni per amore della patria
in liberi paesi, offrì a’ suoi concittadini il frutto della propria esperienza e de’ proprii studi 21.
Gallia allude qui ai lunghi anni di esilio trascorsi nei vari paesi europei da
Filippo Ugoni, un’esperienza simile a quella del fratello Camillo, e prosegue riferendo i concetti politici di Filippo Ugoni nel suo saggio, come, ad esempio,
l’affermazione che «Conforme il dettato dello statuto» debba «essere il popolo chiamato ad usare in beneficio della patria tutte le libertà a lui assicurate» 22,
Ibidem, p. 248.
Alessandro Manzoni, Marzo 1821, vv. 31-32.
18
«Commentari dell’Ateneo di Brescia per gli anni 1858-1861», cit., p. 248.
19
Ibidem, pp. 248-258.
20
Ibidem, pp. 307-324.
21
Ibidem, p. 280.
22
Ibidem, p. 281.
cosi come il fatto che il deputato vada ricercato fra «tali uomini i cui interessi
materiali non solo, ma l’educazione, la moralità, le virtù politiche li portino ad
essere difensori di tutta la popolazione, e, più che dei ricchi, dei poveri» 23, raccomandando i valori da tener presente, quali: «intelligenza, coscienza, indipendenza» 24. Seguono quindi parole virgolettate, cioè riferite direttamente dall’autore: «Il Parlamento è l’istituzione essenziale d’una nazione; ove se ne forma il
nucleo; ove rivelansi tutte le virtù, e cercansi le mancanze per rimediarvi» 25.
Ugoni si richiamò anche al valore unitaristico della lingua in senso manzoniano: «Ivi [cioè sempre nel Parlamento, n.d.r.] la lingua, fondamento prima e
cemento della nazionalità, si arricchisce e purifica» 26. E continuava:
La libertà i nostri eroici soldati ce l’hanno data: tocca a noi difenderla ed assicurarla. Libertà vuol dire azione coscienziosa di tutti; azione nell’istruirci, nel meditare,
nell’adempiere ai doveri di cittadino. Chi non contribuisce al movimento sociale e
non entra a formarne l’anima, lo disconosce, e rimane schiavo 27.
Da quanto abbiamo detto, nell’ambito dell’inserimento di Brescia nel Regno di Sardegna possono essere individuati alcuni interessanti motivi di studio:
quelli, ad esempio, riguardanti il confronto e l’adeguamento della città e della
provincia in rapporto alle altre situazioni italiane; la trasformazione dei patrioti risorgimentali dallo stato di cospiratori a quello di liberi uomini politici, con
tutte le responsabilità connesse in un campo diversamente operativo; l’evoluzione dei movimenti ideali in partiti, essi pure divenuti ormai palesemente efficienti in una nazione costituzionale e parlamentare.
Specificamente, per quanto riguarda l’Ateneo, non possiamo non considerare il grande beneficio che esso acquisì (dallo stesso 1859) dal fatto di operare
avendo strutturalmente amiche le pubbliche autorità. Sono a tal proposito assai interessanti gli interventi tenuti all’Accademia negli anni successivi all’Unità,
a cominciare dall’allocuzione iniziale del nuovo presidente, monsignor Pietro
Emilio Tiboni, in data 19 gennaio 1862 28.
16
17

Ibidem.
Ibidem.
25
Ibidem, p. 286.
26
Ibidem.
27
Ibidem.
28
«Commentari dell’Ateneo di Brescia per gli anni 1862- 1863-1864», cit., pp. V-XIII.
23
24

Gli esuli d’oltremincio e trentini dal 1859 al 1866
Luciano Faverzani *
Il territorio bresciano, tra la fine del XVIII e l’inizio del XX secolo, fu terra
di confine e per tale motivo divenne anche terra di esilio per quei patrioti veneti, mantovani e trentini che cercavano un rifugio dalle persecuzioni alle quali
erano sottoposti 1.
Una prima ondata di esuli fu accolta nel Bresciano fra il 1797 e la fine dell’età
napoleonica. Dopo il 1814 ebbe inizio un processo inverso che portò molti bresciani a lasciare le proprie case per rifugiarsi principalmente in Svizzera e in Piemonte. Questo processo raggiunse il suo culmine fra il 1848 e il 1859, quando
alcuni protagonisti del Risorgimento bresciano lasciarono la provincia e fra questi i fratelli Ugoni, Giovita Scalvini, il generale Teodoro Lechi. Con il 1859 e la
liberazione di Brescia e del suo territorio dall’occupazione austriaca assistiamo
da un lato al rientro in patria degli esuli bresciani, dall’altro all’arrivo nel no* Presidente del Comitato di Brescia dell’Isri; socio e consigliere dell’Ateneo di Brescia.
1
Per un approfondimento si veda: Ugo Baroncelli, Dalla Restaurazione all’Unità d’Italia, in Storia di
Brescia, Brescia 1964, vol. IV, pp. 115-403; Id., L’emigrazione veneta a Brescia dal 1859 al 1866, in Aspetti
di vita pubblica e amministrativa nel Veneto intorno al 1866, Atti del Convegno di Studi Risorgimentali nel centenario dell’Unione del Veneto al Regno d’Italia (Vicenza, 8-9-10 giugno 1966), Vicenza
1969, pp. 195-243; Raffaello Barbiera, Gli emigrati veneti e la diplomazia (con documenti inediti), in
«Rassegna Storica del Risorgimento», 1917, pp. 458-502; Alberto Cavalletto, Una pagina della storia
dell’emigrazione veneta, in «Rivista Storica del Risorgimento Italiano», vol. I, 1896, pp. 240-258; Roberto Cessi, Il problema veneto dopo Villafranca (1859-1860), in Studi sul Risorgimento nel Veneto, Liviana, Padova 1965, pp. 265-359; Adolfo Colombo, L’emigrazione veneta in Lombardia e in Piemonte negli anni 1859-1860, in Atti del XXIV Congresso di Storia del Risorgimento Italiano (Venezia, 10-14
settembre 1936), Vittoriano, Roma 1941, pp. 213-253; Antonio Fappani, Ai confini del Mantovano tra
due guerre (1859-1866), in Notizie e testimonianze sulla campagna del 1866 nel Bresciano, Supplemento
ai «Commentari dell’Ateneo di Brescia per l’anno 1967», Brescia 1968; Emanuele Librino, Agostino
De Pretis – Governatore di Brescia, in «Rassegna Storica del Risorgimento», 1931, pp. 529-561; Piero
Pieri, Storia Militare del Risorgimento, Torino 1962; Italo Raulich, Un documento dell’emigrazione veneta contro l’Austria, in «Rassegna Storica del Risorgimento», 1916, fascicolo 1-2, pp. 157-159; Giuseppe Solitro, L’emigrazione veneta dopo Villafranca (con documenti inediti), in «Rassegna Storica del
Risorgimento», 1925, pp. 824-850.

stro territorio di numerosi esuli veneti, mantovani e in minor quantità trentini;
territori che con l’armistizio di Villafranca e la successiva stipula della pace di
Zurigo restavano ancora saldamente nelle mani dell’Impero austriaco.
La guerra del 1859, con la liberazione della Lombardia, portò a un ampliamento della provincia di Brescia con la restituzione della Valcamonica, sino ad
allora parte della provincia di Bergamo, e con l’unione della parte nord occidentale della provincia di Mantova al di qua del Mincio. Con il 1859 il territorio bresciano risultò quindi la provincia più orientale del Regno di Sardegna,
divenendo la sentinella del Regno non solamente lungo il confine montano dal
Tonale al Caffaro, ma aggiungendo il controllo dei confini sul Garda e sul Mincio: non solo per tenere controllato un confine dal quale potevano venire nuovi problemi da parte dell’esercito austriaco, ma anche per dare aiuto agli esuli
del Veneto e del Mantovano che – attraverso il lago e il Mincio – cercavano la
libertà dopo la delusione dell’armistizio di Villafranca con il quale le province
venete e il Mantovano erano rimasti sotto il giogo austriaco.
Brescia diveniva così nuovamente terra di confine, «sentinella avanzata
dell’Italia libera», protesa verso i fratelli veneti oppressi. Vivi erano i legami di
molti giovani bresciani che avevano studiato a Padova e che l’8 febbraio 1848
avevano partecipato ai moti universitari; o di coloro che, come Legnazzi, parteciparono alla difesa di Venezia.
Non dobbiamo inoltre dimenticare i legami famigliari che, in seguito a eredità cospicue, avevano portato, nei decenni precedenti, numerose famiglie venete a prendere stabile dimora nella nostra città, come i Salvadego, i Pancera
di Zoppola, i Morando, gli Emilii, gli Sparavieri, tutte famiglie che non solo
continuavano a mantenere rapporti con le terre di origine ma che si erano già
distinte in passato per il loro patriottismo. Saranno proprio membri di queste
famiglie, come Alessandro Morando, Niccolò Panciera di Zoppola, Pietro Salvadego, Pietro degli Emilii, a farsi promotori di iniziative di beneficenza a favore
dei sempre più numerosi veneti che varcavano clandestinamente il Mincio e il
Garda per cercare asilo nel Regno di Sardegna. Il loro operato era ampiamente condiviso dalle autorità locali e governative, e anche dall’intera popolazione;
non bisogna dimenticare l’importante ruolo ricoperto dai giornali bresciani, la
«Gazzetta Provinciale» e la «Sentinella», che divennero portavoce delle sofferenze dei patrioti veneti e mantovani.
La «Gazzetta Provinciale» aveva fra i suoi collaboratori l’esule trentino Gioacchino Prati, nato a Stenico nel 1790, che morì a Brescia nel 1863, e Giuseppe Guerzoni, nato a Calcinato, che trasferì poi la propria residenza a Castel Goffredo e
che morì a Montichiari nel 1886. Fin dal luglio 1859 la «Gazzetta» pubblicò ampie

corrispondenze dal Veneto, articoli di Niccolò Tommaseo, poesie di Dall’Ongaro
e di altri autori ignoti, articoli su Daniele Manin, dando anche ampio risalto alla
visita a Brescia dei famigliari del patriota veneziano.
Per dare aiuto e sostegno a costoro il 22 settembre 1859 il Circolo nazionale,
nell’anniversario della morte di Daniele Manin, si fece promotore di una grande manifestazione commemorativa che portò alla raccolta di oltre mille franchi
per un sussidio all’emigrazione veneta. La commemorazione vide la partecipazione dell’abate Antonio Salvoni che tenne il discorso ufficiale, del canonico
Giovanni Maria Rossa che celebrò la messa e del maestro Costantino Quaranta
che compose delle musiche per l’occasione.
Grande rilevanza fu data alla notizia dell’arrivo a Brescia di Aleardo Aleardi,
sfuggito a un nuovo arresto da parte delle autorità austriache.
Il giornale dei moderati, «La Sentinella», nel secondo numero del 3 settembre
1859 pubblicò un lungo articolo nel quale venne presentato il programma del
giornale. Nell’articolo, dal titolo Chi siamo?, si scriveva: «Noi siamo anzitutto una
sentinella che vigila il posto e difende il terreno; coll’arma in braccio noi osserviamo costantemente il confine, che, sguernito di baluardi, vuol essere dall’occhio
immobile sorvegliato e difeso dai petti sempre pronti»; e più avanti:
Collocati troppo vicini ai nostri fratelli del Veneto per non sentirne il fremito e i
singhiozzi, noi saremo l’eco delle loro preghiere e della loro disperazione […] Popoli e governi saranno assordati, ci si perdoni l’espressione, dai nostri lugubri clamori
finché sia fatta giustizia: ai popoli anzi tutto e più di tutto noi ci volgeremo, consci
che ai giorni nostri si governa per essi e con essi, e che all’ultimo è onnipotente la
loro volontà. Ai popoli liberi e felici noi ricorderemo incessantemente che nel piano d’Italia vive ancora una gente flagellata dalla più feroce tirannide […] Ai popoli
oppressi e sventurati noi diremo: costanza e fede, o fratelli nostri.
Al programma espresso in questo articolo il giornale restò sempre fedele pubblicando sin dai primi numeri continue e ampie corrispondenze dal Veneto e
dal Trentino, informando dell’arrivo di nuovi esuli, della costituzione dei primi
Comitati di soccorso, pubblicando gli elenchi dei patrioti veneti arrestati.
Gli esuli che giungevano nella nostra provincia non di rado raggiungevano
l’Emilia per arruolarsi nel Regio esercito venendo inquadrati nella brigata Bologna e nella brigata Reggio, al comando della quale vi era il generale Giuseppe
Garibaldi; oltre agli esuli italiani bisogna ricordare che la nostra provincia accolse anche molti disertori dell’esercito imperiale, specialmente ungheresi, che
proseguivano poi per la Toscana.

Per chi restava, perché anziano o inabile al servizio militare, i problemi di
sussistenza erano di notevole portata: si venne così a creare la necessità di raccogliere fondi in loro favore. La generosità dei singoli non era però sufficiente
per far fronte a tutte le necessità degli esuli, ed ecco allora la nascita, nell’ottobre
1859, di un Comitato di sussidio per l’emigrazione, voluto dal Circolo nazionale
della sinistra del quale facevano parte il conte Pietro degli Emilii, il conte Girolamo Fenaroli, il dott. Lucio Fiorentini, Francesco Glisenti, il dott. Antonio
Legnazzi, il conte Alessandro Morando, l’ing. Nicola Sedaboni e il conte Nicola
Zoppola. Questo Comitato di sussidio ben presto si scisse in due distinti comitati: il Comitato politico, che era in rapporti con il Comitato centrale di Torino ed era guidato da esuli veneti come Pietro degli Emilii, Pietro Salvadego, il
conte Sparavieri, Angelo Piloto e Vincenzo Mela; e il Comitato dei sussidi che
era invece gestito dai bresciani, Sedaboni, Legnazzi e Glisenti.
Sicuramente nella gestione delle problematiche legate all’emigrazione il ruolo primario fu svolto dal Comitato dei sussidi, promotore di raccolte di fondi
che nell’arco di poco tempo portarono nelle sue casse grandi quantità di denaro. Queste raccolte non ottennero però il successo che avrebbero potuto avere a
causa delle innumerevoli altre sottoscrizioni che in quegli stessi momenti venivano promosse (fra tutte ricordo quella per «il milione di fucili»).
Numerose furono anche le manifestazioni patriottiche in favore dell’emigrazione come, per esempio: il ballo offerto il 9 gennaio 1860 dagli ufficiali della
IV divisione Cialdini, con l’aiuto della contessa Clotilde Morando AttendoloBolognini; il veglione mascherato al Teatro Grande organizzato nel febbraio del
1860, che fruttò al Comitato circa 8.000 lire: i giornali posero in risalto come
i biglietti del veglione fossero stati acquistati, pur non partecipando alla festa,
da parecchi sacerdoti; o la tombola di beneficenza organizzata il 18 febbraio del
medesimo anno.
Somme notevoli furono raccolte anche in provincia, a Volta Mantovana, a
Lonato e a Desenzano. Anche il Comune di Brescia non volle essere da meno
e deliberò «un sussidio mensile di L. 500 all’emigrazione, aumentabile in caso
di bisogno fino a Lire 4.000».
Ringraziamenti alla città di Brescia furono pubblicati sui giornali piemontesi
dal Comitato politico veneto di Brescia e dal Comitato politico centrale veneto.
Un notevole aiuto all’emigrazione nel Bresciano fu dato da Agostino Depretis che dal 7 gennaio 1860 era a Brescia con l’incarico di governatore. Depretis, coadiuvato dal conte Morando, da Piloto e da altri membri del Comitato
veneto, si adoperò affinché il Governo fosse messo al corrente della situazione

riguardante gli emigrati veneti, riuscendo a ottenere aiuti anche dal neo ministro degli Interni Luigi Carlo Farini. Depretis ebbe modo di esporre a Cavour,
durante la sua visita a Brescia il 22 febbraio 1860, lo stato doloroso del Veneto
ricevendone parole di sostegno e di impegno. In una lettera a Costantino Nigra, Cavour scriveva riguardo al suo viaggio a Brescia:
Due momenti del mio viaggio mi hanno toccato. L’uno è stato il discorso del Vescovo di Brescia che ha plaudito alla politica nazionale del Governo del Re con un
calore che non abbiamo mai incontrato fra i suoi confratelli; l’altro è l’incontro che
ho avuto con una Deputazione di Veneti. Profondamente colpito per lo stato deplorevole delle Venezie, ho risposto al discorso che i membri della deputazione mi
hanno rivolto con qualche parola con la quale ho cercato di far capire che il martirio di Venezia non resterà sterile; che sopportare con dignità il giogo dello straniero, affrontare le vessazioni crescenti degli Austriaci, è servire alla causa dell’Italia, in
maniera assai onorabile e anche utile, che difenderla sul campo di battaglia.
Confortato dall’appoggio di Cavour, Depretis trasmise a Farini alcune richieste di aiuti a favore di esuli benemeriti verso la Patria; richieste che furono prontamente accolte. In una lettera del 22 aprile 1860, nella quale si parla
dell’operato del Comitato di Brescia, si afferma che questo Comitato aveva già
diretto verso l’armata circa 4.000 giovani e che solamente con la carità dei privati aveva raccolto circa 40 mila franchi.
In quelle settimane aumentava in maniera considerevole il numero dei giovani che affluivano dal Veneto verso il Bresciano, anche sulla scia delle notizie
che giungevano dalla Sicilia a proposito di una probabile insurrezione, e delle
voci che volevano il generale Giuseppe Garibaldi in procinto di porsi a capo di
una spedizione che aveva quale fine la liberazione del Sud Italia.
Anche a causa di questo, Depretis si dimise dalla carica di governatore di
Brescia e al suo posto fu inviato il marchese Massimo Cordero di Montezemolo. Le dimissioni di Depretis furono causate – oltre che dalla sua opposizione
alla politica governativa, che aveva portato alla cessione di Nizza alla Francia –
anche dalle critiche che gli erano state mosse riguardo al mancato appoggio ai
candidati governativi bresciani nelle elezioni appena tenute.
Nelle prime elezioni svoltesi a Brescia, infatti, nelle sedici circoscrizioni in
cui era suddivisa la provincia furono eletti due mantovani, Guerrieri Gonzaga
e Melegari, tre veneti, Aleardo Aleardi, Giovan Battista Giustinian e Alberto
Cavalletto, e un trentino, Antonio Gazzoletti, la cui elezione non fu però convalidata dalla Camera dei deputati.

Ben presto fu posta sul tappeto la questione dell’Italia meridionale. Il generale Garibaldi era pronto a correre in aiuto dei siciliani che avevano ormai dato
inizio all’insurrezione contro il dominio borbonico. Garibaldi, recatosi a colloquio da Vittorio Emanuele II, chiese al sovrano di poter portare in Sicilia la brigata Reggio costituita dal 45º Reggimento, composto in prevalenza da vicentini,
e dal 46º al comando del quale vi era Sacchi, suo antico compagno d’armi in
America latina. Le richieste del generale non furono accolte dal re su suggerimento di Cavour che non riteneva opportuno che reparti regolari dell’esercito
Regio partecipassero a un’impresa non voluta dal re e dal Governo. Garibaldi
si trovò così costretto ad affidarsi ai volontari, e del loro reclutamento incaricò
Benedetto Cairoli, Francesco Nullo e Giuseppe Guerzoni.
Quest’ultimo giunse a Brescia con il preciso incarico di reclutare non più
di 100 uomini da inviare a Genova. Guerzoni prese contatto con il Comitato dell’emigrazione veneta e in particolare con Legnazzi, Sedaboni e Glisenti, i
quali si adoperarono per raccogliere i fondi necessari per l’equipaggiamento e le
spese di viaggio dei cento volontari. Il Comitato riuscì a mettere a disposizione
del Guerzoni ben 3.000 lire. Queste operazioni non potevano certo essere rese
pubbliche, poiché la nascita di uno specifico Comitato non sarebbe passata inosservata alle autorità governative. Solamente dopo la partenza della spedizione,
il 5 maggio dallo scoglio di Quarto, «La Sentinella» e la «Gazzetta Provinciale»
di Brescia comunicarono alla cittadinanza la partenza di gruppi di volontari da
Brescia alla volta di Genova.
L’8 maggio 1860 fu costituito in Brescia il Comitato di soccorso per la Sicilia
ad opera del Circolo nazionale. A capo di quel Comitato furono eletti Pietro
degli Emilii, il dott. Antonio Legnazzi, il dott. Camillo Guerini, Clemente di
Rosa, Francesco Glisenti, l’ing. Nicola Sedaboni, l’avv. Piccino Violini; questi
ultimi tre fecero da collante fra gli esuli veneti e il Comitato di soccorso per la
Sicilia, al quale il Comitato per l’emigrazione veneta offrì l’uso comune della
propria sede, al n. 1911 del cantone degli Stoppini, e della propria caserma detta
del Fontanino per l’addestramento dei volontari.
Il Comitato bresciano di soccorso per la Sicilia raccolse 164.687,19 lire, contribuendo così per più di un quinto ai fondi raccolti in tutta Italia dal Comitato nazionale che ammontarono a 851.735,28 lire.
È difficile sapere quanti veneti e mantovani partirono da Brescia, anche perché molti di loro avevano raggiunto Genova non con il gruppo arruolato da
Guerzoni o con le ondate di volontari successive, ma da soli. Si può però ipotizzare – anche sulla base dei dati raccolti in vari documenti ufficiali del Comu
ne di Brescia e di corrispondenze private fra gli esponenti del Comitato come
Mela, Piloto e Cavalletto – che il numero si aggirasse fra 450 e 523 volontari
veneti, dati che però non tengono conto della provincia di Brescia. Secondo i
calcoli del Comitato veneto di Brescia, il numero totale dei veneti partiti per
l’Italia meridionale si aggirava attorno alle 5.200 unità.
Nella seduta del 6 novembre 1860 il Consiglio comunale di Brescia, su proposta di Antonio Legnazzi, deliberò di estendere a tutti gli emigrati veneti che
da Brescia erano partiti per la Sicilia il sussidio precedentemente concesso ai
bresciani che avevano partecipato alla spedizione dei Mille. Aiuti dei quali gli
emigrati veneti poterono usufruire anche in altre circostanze, ad esempio nel
marzo del 1861 in occasione della proclamazione del Regno d’Italia. Non solo
la città di Brescia si fece promotrice di queste iniziative ma anche alcuni paesi
della provincia concessero sussidi speciali agli esuli veneti; fondi furono inoltre
raccolti da comitati spontanei come quello delle signore bresciane o in occasione di spettacoli presso il Teatro Grande in città.
Nonostante i continui e generosi sforzi attuati dalla città di Brescia nel sostenere gli esuli veneti, numerosi erano coloro che conducevano una vita di stenti.
Questa situazione era resa ancora più critica dalla decisione presa dal Comitato
centrale veneto di Torino di escludere il Comitato bresciano dalla ripartizione di
300 mila lire concesse dal Governo a favore dell’emigrazione veneta. Di fronte a
tale situazione i membri del Comitato bresciano minacciarono di dimettersi in
massa; ciò non avvenne solo grazie all’assicurazione, nel luglio 1860, che i fondi
sarebbero giunti anche a Brescia. Purtroppo, però, quando i rappresentanti dei
vari comitati furono convocati a Torino il Comitato di Brescia ne fu escluso.
Pietro Salvadego e Angelo Piloto presentarono immediatamente un memoriale nel quale si riaffermavano le benemerenze del Comitato bresciano. Inoltre il
vicegovernatore di Brescia volle scrivere una lettera accompagnatoria: a questo
punto venne decisa la concessione di 1.000 lire.
L’esclusione di Brescia da questi provvedimenti fu motivata con la constatazione che la città era terra di confine e che il Governo intendeva allontanare
gli emigrati dalla nostra provincia internandoli in altre, per paura che gli emigrati si rendessero protagonisti di provocazioni lungo i confini o peggio ancora di tentativi di insurrezioni oltreconfine. Il Comitato bresciano replicò che,
proprio perché si trovava ad operare in una terra di confine, doveva garantire i
beni di prima necessità a coloro che a rischio della vita attraversavano il Mincio
per raggiungere le terre libere bresciane. In seguito il Comitato centrale veneto
accolse le domande del Comitato bresciano e il Governo elargì altre 2.000 lire.

Il Comitato bresciano continuò comunque a raccogliere la parte maggiore dei
sussidi fra i privati: fino al mese di agosto aveva distribuito 47.296 lire e alla fine di ottobre la sola città di Brescia elargì ai soccorsi per la migrazione veneta
52.149 lire. Baroncelli avanzava l’ipotesi che il Governo, trovandosi in difficoltà
nel reperimento di fondi, cercasse di fare economia proprio nei confronti dei
comitati operanti nelle zone in cui la generosità privata era più alta.
A poco più di un anno e mezzo dalla sua costituzione, sul finire del 1860 il
Comitato bresciano dell’emigrazione veneta entrò in crisi: accuse nei confronti
del suo operato erano mosse anche dai giornali di Torino i quali – dopo una critica generica rivolta a tutti i comitati, ai quali si rimproverava di non avere più
l’energia dei primi tempi – rivolgevano accuse specifiche al Comitato di Brescia.
I punti principali, ripresi dalla «Sentinella Bresciana» del 30 ottobre 1860, riguardavano sia il Comitato di sussidio, al quale si rimproverava di operare solamente
per sopperire allo stretto necessario e per i bisogni più urgenti, sia il Comitato
politico, riguardo al quale si evidenziava che tutto il peso della gestione pesava
solamente sulle spalle del vicentino Angelo Piloto. Quest’ultimo inviò una lettera alla «Sentinella Bresciana» nella quale volle confutare tutte le accuse.
La crisi che colpiva i comitati fu affrontata nell’assemblea generale dell’11
novembre 1860. Si chiese al Governo la riorganizzazione dei vari comitati e una
riforma del sistema di distribuzione dei sussidi. Lo stesso 11 novembre il Comitato di Brescia, sotto la presidenza di Pietro degli Emilii, nominò il nuovo
consiglio nel quale, oltre a degli Emilii, furono riconfermati il conte Sparavieri,
Vincenzo Mela, Angelo Piloto e Pietro Salvadego. Il successivo 20 gennaio 1861
l’assemblea fu chiamata all’elezione del rappresentante del Comitato di Brescia
presso quello centrale di Torino. La votazione diede la maggioranza ad Angelo
Piloto ma, a causa di vistosi brogli, l’elezione fu ripetuta e fu eletto a maggioranza Vincenzo Mela.
Questo momento di crisi non fiaccò l’opera del Comitato veneto di Brescia.
La generosità non solo dei veneti più abbienti ma anche dei bresciani non diminuì: anzi la loro partecipazione alle numerose sottoscrizioni patriottiche ebbe un notevole successo.
Numerose furono le occasioni commemorative alle quali fu massiccia la partecipazione degli esuli veneto-mantovani: ricordiamo la cerimonia di traslazione
delle ossa dei martiri bresciani delle Dieci giornate al cimitero Vantiniano, avvenuta il 1º aprile 1861. Al funerale, celebrato in cattedrale dal vescovo Girolamo
Verzeri, fece seguito una solenne processione verso il cimitero; per l’occasione
gli esuli veneti Giovanni Fontebasso e Giovanni Mella avevano scritto le paro
le e la musica di un inno che fu però censurato e non eseguito per non creare
inutili polemiche, a causa degli accenni non benevoli alla figura del pontefice
Pio IX, in occasione di una così solenne cerimonia cittadina.
Motivi di attrito fra l’emigrazione veneta a Brescia si ebbero nuovamente in
occasione delle elezioni per la Camera dei deputati alla VIII Legislatura: scontri politici, legati alle lotte tra uomini di destra e di sinistra e in qualche caso
all’intervento più o meno velato degli organi governativi in favore dei candidati moderati.
L’operato del Comitato di Brescia, pur tra mille difficoltà specialmente economiche, proseguì nei mesi e negli anni successivi in stretto rapporto con il
Comitato di Torino, che sollecitava i comitati periferici ad attuare una stretta
sorveglianza nei confronti dei singoli esuli. Non mancavano infatti esuli dalla
condotta morale e politica non limpida, o persone che varcavano le frontiere in
accordo con le autorità austriache così da potersi infiltrare nelle file dell’emigrazione veneta. In quegli anni si registrarono anche casi di emigrazione dall’Italia
al Veneto: disoccupati modenesi raggiunsero il Veneto andando a ingrossare il
piccolo esercito dello spodestato duca di Modena; dopo il 1861 numerosi furono i napoletani e i calabresi che disertarono dall’esercito regio per raggiungere
il Veneto sperando in una protezione delle autorità austriache, le quali però si
limitavano a concentrare costoro a Venezia per imbarcarli poi alla volta dello
Stato pontificio e farli passare nell’Italia del Sud a ingrossare le file delle bande
che per lunghi anni operarono nell’ex-Regno delle Due Sicilie contro l’esercito italiano.
La morte di Cavour, avvenuta nel 1862, diede nuova linfa al mazziniano Partito d’azione che voleva, con la forza, risolvere non solo la questione romana,
ma anche creare incidenti lungo i confini con il Trentino e il Mantovano, così
da costringere il Governo italiano a intervenire contro l’Austria.
Nell’aprile e nel maggio 1862 il generale Garibaldi fu nel Bresciano, dove visitò numerosi paesi anche lungo il confine trentino, accolto sempre da un grande
entusiasmo; manifestazioni alle quali partecipavano anche gli esuli veneti.
Grave preoccupazione si diffuse fra le autorità governative alla notizia che si
stavano raccogliendo volontari per un tentativo di invasione nel Trentino. Queste voci portarono all’arresto del colonnello Cattabeni a Trescore e di Francesco
Nullo, di Ambiveri, di Luigi di Chiara e del mantovano Giuseppe Pasquali a
Palazzolo: tutti furono trasferiti nelle carceri di Brescia. L’arresto di costoro fu
causa di gravi disordini a Brescia e per colpa anche dell’imprudenza del prefetto Natoli, che non mobilitò la Guardia nazionale, si ebbero dei morti fra i di
mostranti provocati dal corpo di guardia alle carceri che, persa la testa, sparò
sulla folla.
Queste azioni portarono il Comitato centrale di Torino a temere che volontà del Governo fosse quella di «internare tutti i Veneti residenti a Brescia» ma,
grazie ad alcune lettere di Piloto e di Maluta, nelle quali si dimostrava la completa estraneità dei veneti a quelle vicende, e alla stessa Questura di Brescia che
segnalò al ministero il «calmo e dignitoso contegno degli emigrati veneti», il
progettato internamento non ebbe esecuzione.
Nel biennio 1863-64 l’attività del Comitato veneto in Brescia si concentrò
sulle sottoscrizioni per gli emigrati ungheresi, per i patrioti della Carnia e del
Cadore – che avevano tentato un’insurrezione nelle loro terre – e le loro famiglie, e sull’attività di propaganda per l’elezione del conte Michele Corinaldi, di
origini pisane, quale deputato di Leno.
Nel 1864 si ebbe il tentativo di Ergisto Bezzi di portare la rivoluzione nel Trentino con l’attiva partecipazione di repubblicani bresciani, guidati da Antonio Frigerio; tentativo stroncato dalle truppe italiane che arrestarono i rivoluzionari in
Val Trompia nei pressi di San Colombano di Collio, nell’imminenza dell’operazione. Nonostante la partecipazione di qualche esule veneto, non si ebbero da
parte del Governo provvedimenti contro l’emigrazione veneta in Brescia.
Il fallimento di questi moti portò alla crisi del Comitato veneto centrale
per l’accusa rivolta dal Partito d’azione a Cavalletto, di essersi disinteressato del
movimento e non aver fatto nulla per sostenerlo. Il presidente nazionale Sebastiano Tecchio rassegnò le dimissioni aprendo così la crisi che venne a coinvolgere anche gli altri comitati, compreso quello bresciano. La situazione si risolse
dopo accesi contrasti il 1º gennaio 1865, quando il Comitato bresciano elesse
a proprio presidente Giuseppe Ruffoni e quale rappresentante presso il Comitato centrale il garibaldino Giovanni Chiassi. Con le loro elezioni anche per il
Comitato veneto bresciano finiva una stagione e si nominavano esponenti avversi a Cavalletto.
L’attività del Comitato veneto bresciano per il 1865 fu assai modesta, mentre
nel 1866, come possiamo ben immaginare, ogni pensiero degli esuli veneti ma
anche dei bresciani fu rivolto alla guerra. In quei mesi il numero degli emigrati aumentò, anche a causa dell’elevato numero di giovani che sottraendosi alla
coscrizione austriaca accorrevano a ingrossare le file dei volontari; nel mese di
giugno giunsero nel Bresciano anche i veneti espulsi dall’Austria.
Il 5 maggio 1866 il Comitato per l’emigrazione politica di Brescia deliberò
che:

1. qualora venga dal Governo autorizzato l’arruolamento dei Volontari, verranno
diffidati gli Emigrati residenti nella provincia di Brescia ad ingaggiarsi sia nelle file
del Regio Esercito, sia nei corpi speciali dei Volontari; 2. Tutti gli emigrati abili al
servizio militare e che ad esso si rifiutassero non potranno più percepire sussidio di
sorta; 3. Resta autorizzato fin d’ora il Comitato di Patronato a prendere nota degli emigrati di buona condotta politico morale che dichiareranno essere disposti
ad arruolarsi.
Ancora una volta i giornali bresciani fornirono resoconti dettagliati non solo sulla sfortunata guerra, ma anche sui nomi dei veneti feriti e ricoverati negli
ospedali bresciani o sulle bande armate che operavano nel Veneto. Il 22 agosto
1866 «La Sentinella Bresciana» diede notizia dell’incontro a Recoaro fra il Molon
e il principe Umberto; lo stesso giorno fu comunicata la nomina di Sebastiano
Tecchio a primo presidente della Corte d’appello di Venezia.
Il 14 ottobre il municipio di Brescia inviò a quello di Venezia questo telegramma: «Nel giorno memorabile in cui il Veneto è restituito all’Italia, Brescia
manda a Venezia un fraterno saluto, lieta che l’antica comunanza di affetti e di
fortune si rinnovi e conforti nella potente unità della Patria». La risposta di Venezia fu: «La città di Venezia all’eroica Brescia, modello di carità cittadina e di
gentilezza. Venezia redenta dal giogo straniero ricambia il fraterno saluto, lieta
di rafforzare colle antiche compagne di sventure il vincolo che da lungo tempo
la congiungeva all’Italia».
La presenza di esuli nella città di Brescia fu di tale portata che quando, dopo il 1866, essi fecero ritorno nelle loro terre d’origine, a Brescia si verificò una
diminuzione notevole della popolazione. Significativa è l’analisi sulla popolazione bresciana presentata nell’«Almanacco Bresciano» del 1870, dalla quale si
evince che nel 1867 la popolazione era di 36.139 abitanti, mentre nel 1861 era
stata di 40.499. Nell’«Almanacco» si spiegava che «la diminuzione della popolazione verificatasi nel 1867 dipendeva in parte dalla maggior mortalità dovuta
al colera e in parte all’emigrazione di molte famiglie dopo la liberazione delle
province venete».
Dopo la liberazione del Veneto numerosi furono gli esuli che andarono a
ricoprire cariche pubbliche nei consigli comunali e provinciali delle loro terre
d’origine; così come alcuni di loro ebbero l’onore di rappresentare le loro terre
nel Parlamento italiano, ove riaffermarono gli ideali per i quali avevano combattuto e sofferto.

ciclo di conferenze
Bicentenario
della nascita del conte
Camillo Benso di Cavour
(1810-2010)
novembre-dicembre 2010
Cavour e la guerra di Crimea
Marcello Berlucchi *
Per inquadrare meglio i complessi problemi storici collegati con l’argomento, conviene delineare prima il problema della questione d’Oriente (come veniva chiamata dalle Cancellerie europee) e poi passare al ruolo che vi ebbero il
Piemonte e Cavour.
Alla base della questione d’Oriente c’erano motivi storici antichissimi e pressioni politiche molto recenti. Apparteneva senza dubbio ai primi il problema
dei pellegrini cristiani nei luoghi santi. Dopo la riconquista di Gerusalemme
da parte del Saladino (1231, battaglia dei Corni di Hatting e caduta del regno di
Gerusalemme con la morte di re Baldovino, il re lebbroso delle ballate dei trovatori), tutta la Palestina era entrata a far parte dell’Impero ottomano. In termini amministrativi, dipendeva dal pascià di Damasco e, tutto sommato, l’accesso
dei pellegrini cristiani ai luoghi santi non si era interrotto, come testimoniano
i numerosi resoconti di viaggio nei secoli successivi. Il regime ottomano non
proibiva l’accesso ai luoghi santi, anche se proibiva le manifestazioni pubbliche
di culto, limitandosi a far pagare ai pellegrini un’apposita tassa.
Si può dire, un po’ sbrigativamente ma con fondamento, che la situazione dei
pellegrinaggi cristiani ai luoghi santi dipendeva molto dalla persona che sedeva
sul trono del pascià di Damasco, nel senso che piccole o grandi angherie potevano
essere esercitate a danno dei pellegrini ma raramente per ordini dall’alto, molto
spesso per la normale vischiosità dei rapporti amministrativi e di polizia.
A metà del XIX secolo, proprio intorno al 1850, successe una di queste crisi
dovuta, per vero, più alla litigiosità delle varie sette cristiane che non all’islam.
Infatti (come sanno ancora oggi i pellegrini in Terra Santa) vi è una incredibile
commistione di responsabilità e possesso dei diversi luoghi santi, ove frequentemente la chiave di accesso è nelle mani di una confessione cristiana (cattolica o
protestante che sia) mentre altre parti del medesimo fabbricato spettano all’amministrazione di soggetti diversi (per esempio armeni o ortodossi). Successe allo* Socio dell’Ateneo di Brescia; consigliere del Comitato di Brescia dell’Isri.

ra che i cattolici volevano deporre una grande stella d’oro a Betlemme, nella basilica della Natività, sul luogo ove la tradizione voleva che sorgesse la mangiatoia
del Presepio. Sorse una immediata lite con gli ortodossi i quali vantavano a loro
volta diritti sul luogo sacro. Non era certo la prima volta che contrasti del genere sorgevano, ma normalmente si esaurivano in poco tempo. Quella volta, invece, le liti degenerarono in parapiglia furibondi con l’intervento necessario delle
forze dell’ordine turche. Non si sa bene se ci furono morti o meno, comunque
le cancellerie delle grandi potenze intervennero subito secondo lo schieramento tradizionale: il cristianissimo re di Francia difendeva i cattolici unitamente
all’Impero d’Austria, lo zar di tutte le Russie assicurava la difesa degli ortodossi.
Si deve ripetere che l’Impero turco c’entrava poco in tutta questa faccenda, se
non per una normale questione di ordine pubblico. Da notare l’assenza, tra le
prese di posizione delle grandi potenze, dell’Inghilterra, evidentemente dimentica delle gesta di Riccardo Cuor di Leone durante le Crociate.
Un secondo punto della questione d’Oriente era molto più concreto e delicato e riguardava la questione degli stretti, cioè la regolazione dei Dardanelli
per l’accesso al Mar Nero.
Non si trattava qui solo di una questione che interessava l’Impero russo e la
Sublime porta, gli unici due stati con accesso diretto al mar Nero, perché l’Inghilterra era molto interessata a questo problema di libera navigazione di tutti
i mari, oltre che ad arrestare la dilagante potenza zarista che aspirava da sempre
ai mari caldi, come il Mediterraneo, accessibili soltanto attraverso il Bosforo.
Una terza questione del pari delicata, perché di contenuto territoriale, riguardava i cosiddetti principati transdanubiani, cioè quelle terre (Valacchia, Bessarabia, ecc.) che nominalmente appartenevano tuttora all’Impero turco, ma su
cui si esercitavano le attenzioni della Russia e dell’Impero austriaco. Come vedremo, fu proprio l’invasione da parte dei cosacchi di questi principati oltre il
Danubio a determinare il casus belli contro la Russia.
Da ultimo vi era la questione della libera navigazione sul Danubio e in genere
dei principi della libera navigazione non solo fluviale, tema da sempre all’attenzione dell’Ammiragliato britannico che disponeva allora della più imponente
flotta del mondo.
Questi quattro punti furono riassunti in un promemoria delle cancellerie
proprio sotto il nome di “questione d’Oriente” e costituirono la base politica
dei successivi sviluppi militari.
Si noti che lo zar, forse perché conscio della debolezza della propria posizione con l’invasione dei principati transdanubiani, assunse posizioni intransi
genti e difficilmente giustificabili proprio a proposito della tutela dei pellegrini
ortodossi nei luoghi santi, giungendo fino a esigere dalla Sublime porta il riconoscimento di un proprio protettorato su tutti gli ortodossi esistenti all’interno
dell’Impero turco. Fu così che, a fronte dell’ultimatum delle potenze europee
alla Russia, lo zar orgogliosamente non rispose sicché il 27-28 marzo 1854 si ebbe
la dichiarazione di guerra di Londra e Parigi a San Pietroburgo. Non si è parlato finora se non di sfuggita della posizione turca perché in verità la Turchia era
già in stato di guerra con la Russia dal momento dell’invasione dei principati
transdanubiani (giugno 1853). C’erano già stati sviluppi militari importanti fra
i due grandi imperi, fra cui una vittoria turca sul Danubio e la disfatta della
flotta ottomana nella baia di Sinope (costa anatolica sul mar Nero), con gravi
perdite dei turchi in uomini e navi.
Ma quali erano le posizioni delle grandi potenze su questa importante svolta
della politica europea, che stava uscendo dal trentennio di immobilismo dopo
il congresso di Vienna del 1815?
In Francia Napoleone III era da poco salito al trono con il colpo di Stato del
2 dicembre 1852, dopo essere stato per tre anni presidente della seconda Repubblica nata dalla rivoluzione del ’48.
I sentimenti francesi verso la Russia erano tutt’altro che amichevoli, anche
perché non era facile dimenticare l’invasione fallita di Napoleone nelle steppe
russe, che aveva dato origine al crollo del grande Corso; in più, nel trentennio
dopo il trattato di Vienna lo zar si era presentato come il principale sostenitore
dell’autocrazia e il suo intervento a Vienna e Budapest nel 1848 per reprimere
i moti dell’Impero austriaco ne costituiva l’ultima prova. Perciò, per un regime come quello di Napoleone III, fautore del principio di nazionalità e quindi
avversario delle autocrazie, era evidente il desiderio di un assetto nuovo della
politica europea.
All’interesse di Londra per gli aspetti navali e marittimi della questione
d’Oriente si è già accennato più sopra. Vale la pena di aggiungere un argomento, ignorato dagli storici di casa nostra ma ben presente nella storiografia d’oltre Manica. Da pochi anni si era conclusa, tragicamente per gli inglesi, la prima
guerra anglo-afgana con un disastro da ritenere il più grande mai capitato a una
potenza europea in una campagna coloniale. Nel 1842, infatti, un corpo di spedizione britannico di 6.000 uomini partito dalle basi nord dell’India e arrivato
fino a Kabul, venne distrutto fino all’ultimo uomo dagli afgani. Ritornò soltanto un medico militare britannico, macilento, per raccontare la tragedia di tutti
gli altri. All’epoca l’India non era ancora sotto il dominio diretto della Corona

britannica, ma era gestita dalla famosa Compagnia delle Indie, nel cui consiglio
d’amministrazione sedevano però i nomi più illustri dell’aristocrazia britannica.
Nel corso della disastrosa spedizione a Kabul, successe che un drappello di cosacchi, alla guida di un giovane ufficiale russo, attraversò il territorio chiedendo
addirittura ai colleghi ufficiali inglesi la strada per arrivare a Herat (nome che ancora oggi risuona nelle cronache). Si scoprì allora che la piccola spedizione russa
doveva portare allo scià di Persia un messaggio dello zar che appoggiava le pretese
persiane sull’intera provincia di Herat, confinante con l’Impero persiano.
Quando la notizia giunse a Londra (ancor prima di quella sull’esito disastroso della spedizione), Lord Palmerston capì subito che si trattava dell’inizio
di quello che, cinquant’anni dopo, Rudyard Kipling avrebbe battezzato «The
Big Game», cioè la lotta mortale fra l’orso russo e il leone britannico per il possesso dell’India. È evidente perciò che negli anni Cinquanta del secolo questo
motivo non era l’ultimo a spingere White Hall su posizioni antirusse. La posizione dell’Impero austriaco sulla questione d’Oriente era indubbiamente più
sfumata e contraddittoria. Da un lato la Ball Platz non nascondeva il suo interesse sui principati transdanubiani, sulla scia di quel movimento verso l’oriente (Drang Nach Osten) tradizionale nella politica estera austriaca fin dal secolo XVIII. Dall’altro lato il giovane imperatore Francesco Giuseppe, che si era
assunto la gestione diretta della questione, era fortemente imbarazzato rispetto
allo zar Nicola I che solo pochi anni prima (1848) era intervenuto pesantemente con le sue truppe per reprimere i moti di Vienna e Budapest, salvando così
il trono austriaco. Di conseguenza, risultava molto difficile, se non impensabile
per Vienna, assumere una posizione contro la Russia.
La Prussia, che stava ancora leccandosi le ferite del trattato di Olmutz che aveva segnato un’umiliazione nei confronti dell’Austria, voleva soltanto stare fuori
dall’intera questione. La posizione dei due regni germanici risultò così del tutto
defilata dall’alleanza principale franco-inglese, col risultato che nessun corpo militare austro-prussiano andò in Crimea anche se (per assurdo) fu proprio l’Impero
austriaco a trarre effettivi vantaggi sul punto dei principati transdanubiani.
Per arrivare a questa complessa composizione di interessi si dovette passare
attraverso una serie di contatti e accordi, soprattutto fra Vienna e Parigi, di cui
si ebbe un’eco in un celebre articolo apparso sul «Moniteur» del 22 febbraio 1854
che garantiva la solidarietà delle armi francesi all’Austria, non solo in oriente ma
anche in Italia. Lo scritto suscitò gravi preoccupazioni a Torino, ove fu letto come un appoggio esplicito alla permanenza austriaca nel Lombardo-veneto e nei
ducati padani, tanto che si chiesero chiarimenti ufficiali a Parigi.

Fu qui che, probabilmente, Cavour cominciò a pensare alla questione
d’Oriente non più come un affare di pertinenza solo delle grandi potenze europee, ma anche con riflessi che potevano risultare altamente pericolosi per il
Piemonte. Se dobbiamo prestare fede al braccio destro del conte, il bravo Costantino Nigra, ci fu anche un episodio diretto che risvegliò l’attenzione del
primo ministro. Durante un pranzo al famoso ristorante Il Cambio di Torino,
dove era sempre riservato un tavolo al primo ministro, si presentò un giovane
ufficialetto di artiglieria, di nome Domenico Farini, che con molta improntitudine snocciolò a Cavour il suo pensiero sulla questione d’Oriente. Forse per
la sua innata simpatia verso i giovani, o forse perché egli stesso aveva prestato
servizio militare nell’artiglieria, Cavour stette a sentire le parole del giovane Farini, certo non immaginando il futuro importante del giovane (che sarebbe poi
divenuto addirittura presidente della Camera e del Senato e commissario straordinario per l’annessione dell’Emilia Romagna, che era la sua regione essendo
lui modenese).
Vi fu però un altro elemento decisivo nella questione e fu il colloquio con il
ministro plenipotenziario della Corte di San Giacomo a Torino, Lord Hudson,
che aveva fatto presente l’assoluta necessità dell’esercito britannico in Crimea
di poter disporre di 10-15 mila «buone baionette» per rinsanguare le proprie file decimate dal colera (più che non dai cannoni russi). Occorre dire che questa
prassi di acquisire soldati stranieri nell’esercito inglese non era affatto straordinaria e anzi tipica del pragmatismo britannico: naturalmente l’appoggio non
sarebbe stato gratuito ma finanziato da Londra. Basti pensare alle diverse coalizioni anti-napoleoniche, i cui eserciti erano stati largamente e ufficialmente finanziati da Londra. Per le ragioni dette e soprattutto per il suo intuito politico,
Cavour colse a volo l’occasione e rispose per iscritto a Londra (12-13 aprile 1854)
chiarendo la disponibilità di Torino a fornire fino a 18 mila uomini alle condizioni precisate: non naturalmente al soldo degli inglesi, anche se un finanziamento era pur necessario per le spese di guerra, ma sotto forma di prestito, con
indipendenza di comando e (soprattutto) con diritto del Piemonte a partecipare alle trattative di pace.
Occorre aggiungere a quanto detto che in quel 1854 le preoccupazioni di Cavour erano ben altre. Eletto primo ministro da due anni, si era trovato alle prese
con le disastrose condizioni finanziarie del Piemonte, dopo le spese per la Prima
guerra di indipendenza, e si era gettato a corpo morto nell’opera di ministro delle Finanze, da un lato rinegoziando le onerose condizioni dei prestiti inglesi della
banca Rotschild e dall’altro cominciando a impiantare un fisco moderno.

Poi c’era il macigno delle leggi eversive o sulla manomorta con cui i maligni dicevano che il Governo volesse farsi pagare i debiti di guerra coi soldi delle
proprietà ecclesiastiche. Era stata una battaglia parlamentare durissima, durata sei mesi, ove il primo ministro si era visto contro non solo gli avversari politici e alcuni del suo partito (il famoso “Connubio” con Urbano Rattazzi) ma
tutte le organizzazioni cattoliche, compresi intellettuali del calibro di Antonio
Rosmini. Addirittura il fratello di Cavour, marchese Gustavo, grande amico di
Rosmini e di Manzoni, aveva votato contro in Senato, dopo un discorso ove
era facile riconoscere i suggerimenti del grande abate di Rovereto, la cui fama
filosofica lo stesso marchese Gustavo aveva diffuso in Europa con un articolo
sulla «Revue des Deux Mondes».
Un ultimo riflesso di questa questione «di frati e di preti» (come diceva Cavour) si ebbe nella crisi del dicembre quando il re Vittorio Emanuele, che aveva
pienamente sposato l’idea di una partecipazione piemontese vista come rivincita
d’armi dopo Novara, minacciò apertamente il suo primo ministro di sostituirlo
se non fosse riuscito a concludere rapidamente gli accordi per la spedizione. Il
collegamento con le leggi eversive è dato dal fatto che il re fece sapere alla stampa
di avere convocato a palazzo un alto prelato, latore di un’offerta per temperare gli
effetti delle leggi eversive, e insieme il conte Thaon di Revel (nonno dell’ammiraglio che avrebbe guidato la flotta italiana nella Prima guerra mondiale), esponente del partito fedele al re e designato primo ministro nel caso in cui Cavour
non fosse riuscito a risolvere il problema. Il quale problema era realmente molto
complicato perché Londra rispose positivamente all’offerta del contingente militare ma negativamente sulla questione che stava più a cuore a Cavour, cioè la
presenza e la partecipazione alle trattative di pace. Occorre ricordare che il trattato di Vienna del 1815, nel dare un nuovo assetto stabile all’Europa post-napoleonica, aveva stabilito regole formali molto precise per i rapporti fra le grandi
potenze (Austria, Prussia, Russia, Inghilterra, Francia) alle quali spettava il diritto di interloquire su ogni problema politico europeo. Le potenze minori invece, fra cui rientrava sicuramente il Piemonte, potevano al più interloquire su
questioni che le riguardassero direttamente, ma non potevano certo pretendere
di sedere allo stesso tavolo e con eguali poteri delle grandi potenze.
Per superare questa grossa difficoltà servì l’appoggio formale di Napoleone
III il quale cominciò da qui a manifestare la sua evidente simpatia per la causa
d’Italia, che avrebbe trovato poi ben più ampio spazio nella Seconda guerra di
indipendenza.
Degli altri punti relativi alle condizioni per l’adesione del Piemonte, quello

relativo al comando delle forze piemontesi restò nel vago, anzi con un equivoco
perché il generale Alfonso Lamarmora, designato subito da Cavour come comandante del contingente, attraverso contatti con lo Stato maggiore francese, si
era convinto che le proprie forze sarebbero state aggregate a quelle di Napoleone
III (impressione probabilmente favorita dalla lingua comune, essendo notorio
che in Piemonte si parlava correntemente il francese). D’altronde la questione
del comando dell’intero corpo di spedizione alleato rimase parimenti nel vago,
perché francesi e inglesi erano indipendenti fra di loro, anche se concertavano
le diverse mosse sul terreno. Quanto al finanziamento, Cavour trattò direttamente un prestito di due milioni di sterline con la banca Hambro al 3%, volendo svincolarsi dai Rotschild che invece avevano finanziato la Prima guerra
d’indipendenza. Questo prestito fu assunto poi dallo Stato italiano che terminò
il pagamento nel 1902.
Il discorso di Cavour in Parlamento, ove si discuteva appunto dell’autorizzazione ad accendere il mutuo con gli inglesi (non si discuteva direttamente della
guerra, perché per lo Statuto albertino questa era una prerogativa del re), il 6
febbraio 1855 fu all’altezza della fama. Il primo ministro assegnava alla guerra il
compito di mostrare all’Europa come i figli d’Italia (si noti, non del Piemonte)
sapessero combattere da valorosi sui campi della gloria nella certezza che in tal
modo avrebbero giovato al Paese più di tutte le congiure e i moti incomposti del
passato e più di coloro che finora avevano operato soltanto con declamazioni o
scritti. L’accenno critico alle posizioni del partito repubblicano e di Mazzini era
più che evidente. La votazione del 10 febbraio 1855 alla Camera diede 101 voti
favorevoli e 60 contrari a scrutinio palese. Il regolamento consentiva, per gli argomenti più delicati, anche la richiesta di voto a scrutinio segreto: il risultato fu
quasi analogo (95 sì e 64 no). Al Senato il passaggio fu più semplice anche per
la ragione che un terzo dei senatori era di nomina regia e tutti conoscevano il
parere decisamente favorevole del re nei confronti della spedizione in Oriente.
Questa fu indubbiamente una grande vittoria parlamentare dell’ostinazione di Cavour che superò brillantemente le molte difficoltà collegate con il varo
della spedizione. Si può aggiungere che la posizione di Mazzini era stata pesantemente negativa. Sul giornale «Italia e Popolo» apparve una lettera indirizzata
al conte di Cavour con parole molto pesanti. Mazzini parlava di «abdicazione
morale dell’unico principato su cui potevano fondarsi le speranze italiane» e
proseguiva dicendo che «si è mercanteggiato l’onore e la vita dei soldati e della
Nazione». Carlo Cattaneo, di sentimenti mazziniani ma certamente dotato del
buon senso lombardo, commentò questa posizione di Mazzini con una frase

significativa: disse che Mazzini «reputa vittorie anche i disastri purché in qualche modo si combatta». Garibaldi invece era logicamente su posizioni diverse e
molto vicine a quelle del primo ministro. All’amico Valerio, in una lettera del
novembre ’54, scrisse: «È bene ricordare ogni giorno ai nostri vicini come noi
sappiamo menare le mani e come le meneremo nelle nostre faccende», e poi
ancora: «Spero di gettare il mio granellino nell’edificio italiano». Propose addirittura al re di unire al contingente in partenza da Genova altri 10 mila uomini
da sbarcare in Sicilia – chiaro preannuncio della spedizione dei Mille di qualche
anno dopo. A cose fatte (febbraio 1857) scrisse a Jesse White Mario:
In Piemonte vi è un buon esercito di 40.000 uomini e un re giovane e ambizioso.
Quelli sono elementi di iniziativa e di successo a cui crede oggi la maggioranza degli
italiani. Che l’amico vostro [Mazzini] ci mostri lo stesso e un po’ più di buon senso che non ebbe per il passato e noi lo benediremo seguitandolo con fervore. Che
altri si accinga alla santa guerra, ma non con insurrezioni da ridere e voi troverete
il vostro fratello che vi scrive sui campi di battaglia.
Si trattò a questo punto di costituire il contingente piemontese sotto la guida del generale Lamarmora, come si è detto. Furono scelte forze delle guarnigioni ultra montane, Savoia e Aosta, nonché altri reggimenti dell’esercito, oltre
a otto reggimenti di bersaglieri sotto la guida del loro creatore, cioè Alessandro
Lamarmora, fratello del comandante in capo (che sarebbe morto di colera in
Crimea). Oltre alle brigate Savoia (1º e 2º rgt. ftr.) e Aosta (5º e 6º rgt. ftr.) si
ebbero il 9º e 10º (brigata Regina) e l’11º e 12º (brigata Casale) e un reggimento
di cavalleria composto da squadroni tratti da Novara, Aosta e Saluzzo e 3 bgt.
di artiglieria da campagna con 36 pezzi. A ciò dovevano aggiungersi 2.000 marinai per le navi sardo-piemontesi, anche se la maggior parte dei trasporti erano
navi inglesi fornite dall’ammiragliato britannico.
La partenza avvenne dal porto di Genova ai primi di maggio del 1855 e il
convoglio seguì due rotte diverse. Le navi piemontesi costeggiarono l’Italia fino
a Messina per attraversare poi lo stretto; le navi inglesi invece circumnavigarono la Sicilia dirette a Malta, grande base della Home Fleet. Poi tutti si diressero
attraverso l’Egeo fino a Costantinopoli, prima tappa di riunione della flotta. Il
viaggio durò due settimane e per la gran parte dei soldati piemontesi, che scendevano dalle montagne innevate e probabilmente non avevano mai visto il mare, si trattò di un’esperienza notevole.
Quando i piemontesi arrivarono sul Bosforo, molte cose erano già successe
nell’anno di guerra trascorso.

Per quanto può interessare qui, si può ricordare la grande battaglia del fiume Alma del 20 settembre 1854 (che gli inglesi chiamano battaglia di Balaklava)
ove si ebbe l’episodio famoso del 92º Highlander scozzese con la «sottile linea
rossa» cioè con lo schieramento dei fucilieri britannici su due sole file, la prima in ginocchio e la seconda in piedi, che riuscirono ad arrestare l’impeto delle truppe russe del principe Menscikoff. I francesi completarono l’opera con la
loro fanteria, formata per lo più da truppe coloniali (la prima divisione dei Tirailleurs d’Algerie, quelli che nel ’59 sarebbero stati chiamati da noi gli Zuavi, e
la seconda divisione di Goumiers tunisini e marocchini). A proposito della cavalleria, si devono ricordare i reparti francesi (Chasseurs d’Afrique montati su
piccoli cavalli berberi), mentre gli inglesi avevano due formazioni destinate a
entrare nella leggenda, la brigata pesante e soprattutto la brigata leggera (quella della carica dei 600). L’artiglieria era molto presente e sviluppata, particolarmente quella francese dotata di pezzi da campagna e d’assedio a canna rigata,
quindi con maggiore precisione di tiro e penetrazione dei proietti.
Al comando del contingente britannico c’era un personaggio, Lord Raglan,
con un glorioso passato al servizio del duca di Wellington, che aveva perduto
un braccio nella battaglia di Waterloo. Di conseguenza si faceva confezionare
divise non con le maniche strette degli altri ufficiali, ma con le maniche di foggia più ampia, passate alla storia della moda col nome di maniche alla raglan.
Altro personaggio di spicco era Lord Cardigan, al comando della brigata leggera
di cavalleria, protagonista del famoso episodio della carica dei 600. Anch’egli è
passato alla storia della moda per i maglioni a maniche lunghe abbottonati sul
davanti che indossava nei momenti di riposo, chiamati anche oggi “cardigan”.
Vale la pena di ricordare solo in breve il più celebre episodio della carica di
cavalleria nella valle della Morte di Balaklava (25 ottobre 1854), cantata nei versi
della ballata di Alfred Tennyson che tutti gli scolari britannici da allora studiarono a memoria. Si tratta di un episodio narrato in centinaia di libri e film, dovuto
all’errore di interpretazione di un ordine poco chiaro, con la conseguente carica
dissennata della brigata leggera (XVII Lancieri, IV Dragoni leggeri, II Dragoni,
I Dragoni reali e XI Ussari, guidati da Lord Cardigan) contro le batterie di cannoni russe. Su circa 700 uomini che parteciparono alla carica, le perdite furono
di oltre 500. Un ufficiale della cavalleria francese che assisteva da lontano disse
la celebre frase: «C’est magnifique, mais n’est pas la guerre».
Lamarmora, a bordo della nave piemontese “Governolo”, entrò nel porto di
Balaklava l’8 maggio del 1855 e subito simpatizzò con il comando inglese, col quale
i rapporti dovevano essere molto più stretti che non con i francesi. Il comandante

piemontese fece ottima impressione a Lord Raglan che in una lettera alla moglie lo
definì «un bel vecchio di nobile e degno carattere». Il contingente sardo cominciò
ad attrezzarsi per l’accantonamento ed ebbe modo di ammirare l’organizzazione
dell’Intendenza francese che disponeva addirittura di baracche prefabbricate.
Occorre dire che la guerra di Crimea fu la prima a divenire oggetto di reportage fotografici. Il giornalista Roger Fenton del Times scattò oltre 600 lastre
riprendendo molti aspetti del conflitto, e queste immagini sono ancor oggi perfette e molto precise nella documentazione. Un altro elemento di modernità fu
l’uso del telegrafo. Napoleone III, una volta tramontata la sua idea iniziale di
partecipare direttamente alle operazioni belliche, si fece impiantare una linea
telegrafica collegata da Parigi a un monastero vicino a Balaklava, e così poté seguire direttamente le operazioni tempestando di telegrammi i poveri comandanti francesi (prima il generale Canrobert e poi il rude Pélissier detto “l’Africain” perché si era guadagnato larga fama di efficienza e crudeltà nella conquista
d’Algeria del 1830. I due saranno nominati marescialli al termine del conflitto).
Un’ultima innovazione che comparve sui campi di battaglia per la prima volta
fu quella delle navi corazzate. Furono i francesi a rivestire le fiancate di alcuni
loro piroscafi, a vela e vapore, con lastre di ferro a riparo dalle cannonate e dagli
speronamenti. Pochi anni più tardi, durante la guerra civile americana, il principio delle navi corazzate avrebbe avuto ben altro sviluppo.
Lamarmora e il corpo di spedizione piemontese (che gli inglesi chiamavano in realtà “sardo” com’era giusto, posto che il titolo di Vittorio Emanuele era
“Re di Sardegna”) erano ansiosi di avere il battesimo del fuoco, per il quale dovettero aspettare tre mesi.
Dopo la battaglia dell’Alma il comando alleato capì che occorreva cingere
d’assedio Sebastopoli, fortezza munita di potenti bastioni e difesa da centinaia
di pezzi d’artiglieria. Tuttavia non c’erano uomini sufficienti per circondare in
ogni parte la fortezza, sicché le trincee d’assedio furono scavate da due lati soltanto, quello inglese e quello francese, cui era annesso il contingente turco, alla
guida di Enver Pascià.
Nel frattempo i russi, che subivano perdite gravissime per gli incessanti
bombardamenti dell’artiglieria alleata, decisero di fare una sortita in massa per
alleggerire la pressione, sotto la guida del principe Gorchakov, comandante in
capo. Fu così che, avuto notizia dei preparativi nemici, gli alleati assunsero uno
schieramento difensivo a cavallo del torrente Cernaja, varcato da un ponte in
pietra in località Traktir (che secondo i francesi diede il nome allo scontro, noto da noi come “della Cernaja”).

Lamarmora dispose un avamposto oltre il torrente, difeso da un battaglione
di formazione, composto da elementi del 9º, 15º, 16º rgt. di fanteria al comando del maggiore Corporandi, e poi un cospicuo rinforzo con i bersaglieri dietro
il corso d’acqua. Il 16 agosto le due ali dell’esercito zarista, guidate dai generali
Read e Liprandi e forti di 18 mila uomini, si mossero verso il fiumiciattolo che
deve il nome alle sabbie nere del suo letto (Cernaja è il femminile di Cern, nero). L’avamposto resistette finché poté e poi si ritirò ordinatamente nelle linee,
ma quando i russi furono investiti dal fuoco dell’artiglieria francese e piemontese i bersaglieri passarono al contrattacco con uno slancio e un ordine tattico
che impressionò anche W.H. Russell, corrispondente del «Times», che ne parlò
espressamente sul giornale. Nel contrattacco caddero il generale conte Gabrielli di Montevecchio, che comandava una delle due brigate impegnate, il tenente Biaggini (del 15º) e il sottotenente Andreis (del 9º), mentre tra i feriti ci fu
il maggiore Raffaele Cadorna, futuro conquistatore di Porta Pia. I reggimenti
russi si ritirarono con gravissime perdite (dovute soprattutto al fuoco devastante dell’artiglieria) mentre da parte piemontese si ebbero una trentina di morti
(fra cui un generale e due ufficiali) e un centinaio di feriti.
L’eco di questo fatto d’armi a Torino fu assolutamente sproporzionato al
suo reale contenuto bellico. Questo scontro di avamposti, o poco più, infiammò la stampa e la società piemontese. Cavour scrisse una lettera osannante
alla contessa Lamarmora, ove trascrisse il telegramma, per vero molto equilibrato, del comandante in capo («il telegrafo vi dirà se i piemontesi sono degni di battersi al fianco dei francesi e degli inglesi»). Il primo ministro scrisse poi al generale, riferendogli i complimenti di tutti e del re (definito da lui
«enchentè»).
A questo punto, dopo il ritiro dei russi sconfitti (dai franco-piemontesi) alla
Cernaja, il comando inter-alleato (ma soprattutto il generale Pélissier, dopo la
morte di Lord Raglan per colera) decise l’attacco decisivo ai forti di Sebastopoli
a cominciare dal 5 settembre, dopo una lunga preparazione di artiglieria.
Stavolta i piemontesi di Cialdini erano aggregati agli inglesi e dovevano intervenire in seconda schiera dopo la presa del bastione Inkerman, mentre i francesi assaltavano il ridotto Malakov. Tre giorni durò il terribile bombardamento
alimentato dalle oltre 800 bocche da fuoco alleate, con perdite spaventose fra i
difensori (come testimoniato, fra gli altri, dal giovane tenente dell’artiglieria russa Lev Nikolàevič Tolstoi nel suo bellissimo Racconti di Sebastopoli, ove il futuro
grande scrittore fece le prove delle grandi scene belliche che avrebbe dipinto in
Guerra e pace). Ma mentre i francesi, pur a prezzo di gravi perdite, riuscirono a

piantare il Tricolore sugli spalti, l’attacco inglese fallì e così Cialdini e i suoi restarono nelle trincee di partenza.
Dopo la caduta di Sebastopoli, o meglio delle fortificazioni e bastioni antemurali, perché la città rimase in mano russa ancora per mesi, la guerra subì un
rallentamento totale e nulla più di importante successe se non forse una spedizione anfibia anglo-francese nella parte retrostante della penisola di Crimea.
Si giunse così all’armistizio nel marzo 1856, mentre il 25 febbraio si era aperta a
Parigi la conferenza di pace, il vero traguardo della politica cavouriana.
Le modalità con cui si giunse alla pace allarmarono moltissimo il Governo
di Torino perché l’Austria che si era tenuta rigorosamente fuori dalle operazioni
belliche in Crimea, utilizzando a proprio favore una clausola ambigua dell’alleanza, si fece parte diligente verso lo zar mandando un proprio ambasciatore
con le proposte di pace. Il nuovo zar Alessandro II, succeduto al padre Nicola
I (morto di morte naturale nel frattempo), accettò le condizioni imposte e permise al ministro plenipotenziario austriaco di tornare trionfante a Vienna con
in mano la pace. Cavour temeva così che l’Austria, la quale con grande opportunismo si era esclusa dalla guerra, potesse ora presentarsi nel concerto delle
grandi potenze con un ruolo ancor più importante.
Il congresso di pace costituì la vetrina del III Impero e fece di Parigi la città
più importante del mondo. Il 16 marzo 1856 le batterie di Parigi spararono 101
colpi di cannone in onore del piccolo Napoleone Eugenio, erede di Napoleone
III, mentre all’Opera trionfava La Favorita di Donizetti, con i più celebri cantanti italiani dell’epoca. Le grandi Avenues di Parigi, aperte dai giganteschi lavori del barone Haussmann, furono battezzate con i nomi delle grandi vittorie
della Crimea: Sebastopoli, Alma, Malakoff e Bosquet (il generale conquistatore
del bastione Malakoff, poi nominato maresciallo). Sulle prime Cavour non era
convinto di partecipare di persona al congresso di pace e pensò di affidare l’incarico a Massimo d’Azeglio il quale per altro rifiutò sdegnosamente (erano noti i pessimi rapporti fra il gentiluomo scrittore e pittore e il conte, che il primo
definiva correntemente «il mio sleale avversario»).
La parte del Piemonte nel congresso di pace era, in ogni evidenza, molto piccola e infatti Cavour ebbe poco spazio per intervenire sulle questioni oggetto
del trattato di pace, dal problema dei principati ultra danubiani alla navigazione negli stretti e nel mar Nero, alla difesa dei pellegrini cristiani a Gerusalemme. La Russia era rappresentata da un personaggio leggendario, il conte Andrej
Orlov, consigliere dello zar Alessandro e discendente del suo famoso antenato,
favorito della zarina Caterina di Russia e conquistatore della Crimea. Il conte

Orlov, alto quasi due metri, rappresentava bene l’idea dell’orso russo, l’immagine con cui si raffigurava la Russia zarista. L’Austria era rappresentata dal conte Buol che, come diceva Cavour, «per fortuna è molto antipatico a tutti» e in
particolare al rappresentante russo che diceva: «Guardate costui, parla come se
fossero stati i soldati austriaci a conquistare Sebastopoli!».
I risultati finali del congresso di pace furono modesti, tanto da giustificare
l’opinione di molti storici sulla sostanziale inutilità della sanguinosissima guerra di Crimea. Peraltro, secondo altri, quella guerra fu la cosa più simile a una
guerra mondiale europea mai verificatasi fino ad allora.
Mentre Cavour fremeva, le giornate del congresso volgevano alla fine e si
era ben lungi dal poter introdurre il discorso sull’Italia che tanto stava a cuore
al primo ministro di Torino. Nell’ultimo giorno del congresso, l’8 aprile 1856,
il presidente conte Walevski, ministro degli Esteri francese, disse all’assemblea
che era il caso di trattare gli argomenti residui (qualcosa di simile alle «varie ed
eventuali» che leggiamo sempre negli ordini del giorno delle assemblee). Prese
per primo la parola Lord Clarendon, rappresentante della Corte di San Giacomo, il quale fece una grande tirata contro il Regno di Napoli e il suo regime
carcerario definito «vergogna d’Europa», espressione che tornerà nella pubblicistica risorgimentale. Inoltre il rappresentante di Sua Maestà britannica si scagliò contro l’Austria per i presidi militari da essa mantenuti nei ducati padani
(Modena, Reggio, Piacenza, ecc.) malgrado, secondo i princìpi del congresso di
Vienna, avrebbero dovuto essere rimessi sul trono i legittimi regnanti.
Le parole del rappresentante inglese suonarono dolcissime alle orecchie del
conte di Cavour che, quando fu il suo turno, espose le ragioni del Piemonte in
termini più pacati: minaccia militare austriaca col corpo d’armata mantenuto
in armi sul confine del Ticino, questione dei ducati padani e questione del sequestro dei patrimoni dei patrioti lombardo-veneti emigrati a Torino dopo il
’49. L’intervento del ministro austriaco Buol fu abbastanza fiacco perché, dopo
aver eccepito che non si poteva trattare di questioni relative agli assenti, come il
Regno di Napoli, rispose a Cavour che le precauzioni militari sul Ticino erano
ben giustificate da quello che era successo sette anni prima, mentre si stupiva
di sentir parlare di guarnigioni straniere in Italia in un luogo come Parigi che
manteneva una sua guarnigione a Roma fin dal 1849. Così finì questa breve seduta il cui resoconto diede origine a un’ultima contestazione sollevata dal rappresentante austriaco il quale diceva che non valeva la pena di prendere nota di
queste considerazioni, neppure all’ordine del giorno.
Una volta di più Cavour dovette dire grazie agli inglesi perché Lord Claren
don si alzò sdegnato dicendo di non avere mai sentito che le parole pronunziate
da un gentiluomo in rappresentanza di Sua Maestà britannica non fossero degne di essere annotate. Così fu stesa quella mezza paginetta di verbale ove erano
concentrate tutte le speranze del Piemonte.
Cavour si rese subito conto degli scarsi risultati che poteva portare a Torino
e disse al fedele Costantino Nigra: «Abbiamo fatto quello che potevamo». La
risposta del collaboratore fu molto più illuminata: non solo il conte aveva fatto
quello che poteva, ma aveva fatto parlare del problema italiano in tutta Europa
e soprattutto aveva rinsaldato i vincoli d’amicizia con Napoleone III. Quando
andò in Parlamento a dare notizia sugli esiti del congresso di pace, Cavour fu
naturalmente più eloquente sottolineando da un lato la bella prova militare (pur
senza i fanatismi che erano nati a Torino) ed evidenziando il ruolo preparatorio
dell’intervento nella questione d’Oriente in vista di sviluppi futuri.
Forse si può dire qualcosa di più, col senno di poi. Dal diario di un giovane
sottotenente della brigata Aosta apprendiamo questo bell’episodio. Durante il
viaggio per mare, all’altezza dello Stretto di Messina, un giovane trombettiere
della brigata corse sottocoperta a prendere il suo strumento col quale intonò la
Marcia Reale, fra lo stupore dei presenti. Qualcuno gli chiese perché mai si fosse messo a suonare e il trombettiere candidamente rispose che voleva far sentire
anche agli italiani di quaggiù (disse proprio così) la nostra marcia reale perché
anche loro potessero conoscere e apprezzare il nostro re galantuomo.
La risposta, nella sua ingenuità, ha valore perché mostra che la spedizione in
Oriente aveva contribuito a far sorgere nell’animo dei valligiani di Aosta il barlume di un senso unitario di appartenenza nazionale.
In questi termini (e solo in questi termini) Cavour non era poi così distante da Mazzini.
La partecipazione dei bresciani
alla spedizione dei Mille
Luciano Faverzani *
La spedizione dei Mille, della quale si celebrano quest’anno i 150 anni dalla sua
realizzazione, avvenne circa dieci mesi dopo che l’imperatore francese Napoleone
III, alleato del re di Sardegna, aveva firmato, con l’imperatore d’Austria, l’armistizio di Villafranca che aveva posto fine alla Seconda guerra d’indipendenza. Con
questo armistizio si riconosceva al Regno di Sardegna l’unione della Lombardia,
tranne il territorio di Mantova che, con il Veneto, restava saldamente nelle mani
dell’Austria. Già nel maggio 1859 le popolazioni dei Ducati di Modena e Reggio,
di Parma e Piacenza, del Granducato di Toscana e delle Legazioni pontificie della Romagna si erano ribellate ai propri governi e avevano chiesto l’annessione al
Regno di Sardegna. Quindi nel 1860 la penisola italiana era suddivisa in tre stati:
il Regno di Sardegna, lo Stato pontificio e il Regno delle due Sicilie, più l’Austria
che manteneva il controllo del Veneto e del Mantovano.
Nella preparazione della spedizione un importante ruolo fu svolto dai quadri dirigenti dei moti rivoluzionari meridionali del 1848; fra di loro, un ruolo
di primaria importanza fu svolto da Rosolino Pilo e da Francesco Crispi che,
dopo il 1848, erano espatriati a Torino.
Garibaldi, sollecitato proprio da Rosolino Pilo ad attuare un intervento militare in Sicilia, riteneva che solamente con il contributo delle popolazioni locali
e con l’appoggio del Piemonte si potesse attuare una spedizione senza correre il
rischio di un fallimento, così come era avvenuto in precedenza con i tentativi
rivoluzionari messi in atto dai fratelli Bandiera e da Carlo Pisacane. A tal fine
Rosolino Pilo fu inviato in Sicilia per prendere contatti con le più importanti
famiglie dell’isola, assicurandosi così l’appoggio di quei baroni proprietari terrieri che avrebbero garantito la partecipazione delle popolazioni locali al corpo
di spedizione garibaldino.
Cavour era però molto scettico nei confronti della progettata spedizione di
Garibaldi nell’Italia meridionale poiché la riteneva dannosa per i rapporti con
* Presidente del Comitato di Brescia dell’Isri; socio e consigliere dell’Ateneo di Brescia.


la Francia; nonostante tutto, anche a causa delle critiche a lui rivolte per la cessione di Nizza e Savoia che venivano a minare il suo prestigio, non volle prendere apertamente posizione contro la progettata spedizione di Garibaldi. Un
ostacolo fu anche la popolarità della quale godeva il generale. Garibaldi inoltre, nonostante le sue posizioni repubblicane, da anni si era avvicinato a casa
Savoia. Le contingenze del momento erano tali che lo stesso Mazzini scriveva:
«Non si tratta più di repubblica o monarchia: si tratta dell’unità nazionale…
d’essere o non essere».
A causa di questa situazione Cavour decise di assumere un atteggiamento
attendista e osservare l’evolversi degli avvenimenti, in modo da poter profittare
di eventuali sviluppi favorevoli al Piemonte: solo quando le probabilità di un
esito positivo della spedizione apparvero considerevoli, Cavour appoggiò apertamente l’iniziativa.
Il 18 aprile Cavour inviò in Sicilia due navi da guerra, il Governolo e l’Authion, ufficialmente per proteggere i cittadini piemontesi presenti sull’isola che
potevano essere in pericolo a causa dei moti anti-borbonici scoppiati in quei
giorni. In realtà il compito delle due navi era di valutare la consistenza delle
forze degli opposti schieramenti; inoltre il primo ministro piemontese riuscì,
attraverso Giuseppe La Farina (che sarà inviato in Sicilia, dopo lo sbarco, per
controllare e mantenere i contatti con Garibaldi), a seguire tutte le fasi preparatorie della spedizione, finché egli stesso, il 22 aprile, non si recò a Genova per
rendersi conto di persona della situazione.
Il 5 maggio, dopo laboriosi preparativi, la spedizione poteva avere inizio: la
sera di quel giorno 1.162 uomini salparono dallo scoglio di Quarto, nei pressi di Genova, a bordo dei piroscafi Piemonte e Lombardo di proprietà dell’armatore Rubattino. Erano male armati e male equipaggiati, e, dopo il mancato
incontro con alcune imbarcazioni che avrebbero dovuto rifornire la spedizione
di armi e munizioni, il 7 maggio Garibaldi decise di fermarsi a Talamone dove
recuperò, oltre alle munizioni, anche tre vecchi cannoni e un centinaio di buone carabine presso la guarnigione dell’esercito del Regno di Sardegna di stanza
nel forte toscano.
Durante la sosta sulle coste toscane, Garibaldi ordinò al colonnello Callimaco Zambianchi e a 64 volontari di distaccarsi dalla spedizione e tentare un’insurrezione nello Stato pontificio. Cavour, preoccupato per l’eventuale reazione
della Francia, alleata dello Stato pontificio, dispose il 10 maggio l’invio di una
nave nelle acque della Toscana e ordinò l’arresto di Zambianchi.
Per non far nascere il sospetto che il Regno di Sardegna appoggiasse aperta
mente la spedizione di Garibaldi, fra il 7 e l’8 maggio il comandante della marina sarda Carlo Pellion di Persano aveva ricevuto l’ordine, da parte del Governo piemontese, di arrestare la spedizione solo se i due piroscafi avessero fatto
scalo in un porto della Sardegna, ma di non inseguirli se fossero stati incrociati
in mare aperto.
Finalmente l’11 maggio il Piemonte, al comando di Giuseppe Garibaldi, e il
Lombardo, al comando di Nino Bixio, fecero il loro ingresso nel porto di Marsala dando così inizio alla spedizione in Sicilia.
Il contingente di volontari era così organizzato: al comando vi era il generale
Giuseppe Garibaldi; suo segretario era Giovanni Battista Basso. Lo Stato maggiore era composto da: Giuseppe Sirtori, Francesco Crispi, Giorgio Manin, Salvatore Calvino, Achille Majocchi, Giacomo Griziotti, Giacinto Bruzzesi. Aiutanti di campo erano: Stefano Türr, Guglielmo Cenni, Francesco Montanari,
Giuseppe Bandi, Pietro Stagnetti. L’intendenza era al comando di: Giovanni
Acerbi, Paolo Bovi, Francesco Maestri, Carlo Rodi. Le compagnie erano poste
al comando dei seguenti ufficiali: Nino Bixio per la I Compagnia; Vincenzo Orsini per la II Compagnia; Francesco Stocco per la III Compagnia; Giuseppe La
Masa per la IV Compagnia; Francesco Anfossi per la V Compagnia; Giacinto
Carini per la VI Compagnia; Benedetto Cairoli per la VII Compagnia; Antonio Mosto per i Carabinieri genovesi.
Il 14 maggio 1860, a Salemi, Giuseppe Garibaldi dichiarò di assumere la dittatura della Sicilia in nome di Vittorio Emanuele II. La conquista della Sicilia
fu completata fra il 27 e il 28 luglio, quando capitolarono la città di Messina e le
fortezze di Siracusa e Augusta. Garibaldi iniziò allora i preparativi per il passaggio sul continente, nominando Agostino Depretis prodittatore della Sicilia. Il 19
agosto Garibaldi sbarcò alla testa di un esercito di circa ventimila uomini a Melito Porto Salvo. Il 7 settembre poté fare il proprio ingresso in Napoli dopo che
re Francesco II si era portato con l’esercito fra le fortezze di Gaeta e Capua.
Fra il 26 settembre e il 2 ottobre si ebbe la decisiva battaglia del Volturno, dove circa 50 mila soldati borbonici furono sconfitti dai garibaldini. Nei giorni immediatamente successivi alla battaglia giunse il corpo di spedizione sardo, sceso
attraverso le Marche e l’Umbria papalini (dove aveva sconfitto l’esercito pontificio alla battaglia di Castelfidardo), l’Abruzzo e il Molise borbonici. L’impresa dei
Mille si poté considerare terminata con lo storico incontro tra Giuseppe Garibaldi e Vittorio Emanuele II del 26 ottobre 1860 nei pressi di Teano.
Quattro mesi dopo, il 17 marzo 1861, il Parlamento di Torino proclamava
Vittorio Emanuele II re d’Italia.

I garibaldini bresciani
Nell’imminenza della spedizione Giuseppe Garibaldi inviò a Brescia il calcinatese Giuseppe Guerzoni, suo uomo di fiducia, con lo scopo di arruolare in
gran segreto in città e in provincia un centinaio di uomini disposti all’impresa.
Guerzoni, finanziato dal Comitato degli esuli veneti (diretto dai patrioti Francesco Glisenti, Nicola Sedaboni e Antonio Legnazzi) con 3.000 lire, riuscì la
sera del 3 maggio a partire in ferrovia da Brescia verso Genova con al seguito
un centinaio di volontari bresciani, tra i quali figuravano anche una decina di
veneti. Il successivo 30 maggio Guerzoni era di nuovo a Brescia e ne ripartì il
5 giugno con altri 137 uomini, che salparono da Genova con Giacomo Medici
diretti a Palermo.
La spedizione di Enrico Cosenz partì invece ai primi di luglio in due scaglioni ed era formata da altrettanti volontari che salparono sempre dal porto
di Genova.
La quarta colonna, forte di 200 uomini, partì il 16 luglio al comando di
Gaetano Sacchi. I bresciani della seconda e della terza spedizione si distinsero
nella presa di Milazzo.
La quinta colonna, di 200 uomini, lasciò Brescia il 7 agosto e la sesta, sempre formata dallo stesso numero di volontari, il 1º settembre. Questi garibaldini
riuscirono a partecipare all’ultima fase della campagna combattendo a Caiazzo
e nella battaglia del Volturno.
I 140 volontari dell’ultimo contingente continuarono ad affluire al porto di
Genova a piccoli scaglioni anche dopo la battaglia del Volturno, fino agli ultimi giorni di ottobre, ossia alla fine della guerra.
Complessivamente il Comitato bresciano inviò a sostegno delle truppe garibaldine impegnate nell’Italia meridionale circa 1.200 uomini, dei quali circa 3 o
400 provenienti dal Veneto. Il contributo finanziario fu altrettanto rilevante, il
Comitato raccolse 43 mila lire, delle quali 17 mila furono impiegate nell’addestramento, equipaggiamento, sussistenza e trasporto dei volontari combattenti,
e 26 mila lire furono invece versate al Comitato centrale. Altre 49 mila lire furono versate dai Comuni di Brescia, Desenzano, Asola e Orzinuovi al Comitato
di Genova. Rimanevano inoltre circa 90 mila lire raccolte, ma non versate, al
fondo per «un milione di fucili» promosso da Garibaldi. In totale Brescia diede
come contributo finanziario alla spedizione in Sicilia quasi 165 mila lire.
La maggior parte dei bresciani, come scrive Giuseppe Cesare Abba (Cairo
Montenotte, 6 ottobre 1838 - Brescia, 6 novembre 1910) in Da Quarto al Volturno. Noterelle di uno dei Mille, furono incorporati nella 4ª compagnia:

La quarta toccò a Giuseppe La Masa, siciliano di Trabia, antico all’esilio, già quarantenne. Era un singolarissimo uomo. Biondo quasi ancora come un giovinetto e di
carnagione che doveva essere stata rosea, finissimo nei lineamenti del volto, più che
un siciliano sembrava uno scandinavo. Certo aveva nelle vene sangue normanno.
Poeta improvvisatore, giureconsulto, agitatore d’idee, s’era fatto mandar via presto
dall’isola natia, e a Firenze nel ’47 aveva stretto amicizia col fiore dei patriotti. Doveva aver sentito di sé grandi cose e grandissime averne agognate; e fino a un certo
segno le aveva conseguite.
Si diceva che nel gennaio del ’48 avesse decretato lui la rivoluzione di Palermo, per
il 12 di quel mese preciso, genetliaco del Re, firmando audacemente un proclama
di sfida col proprio nome per un Comitato che non esisteva. Ma non era vero. Però
la rivoluzione era scoppiata, ed egli nella guerra che n’era venuta tra Napoli e la sua
Sicilia era stato Capo dello Stato maggiore dell’esercito. In un intermezzo di quella
aveva condotto i Cento Crociati isolani alla guerra di Lombardia; poi, finita male
ogni cosa nell’isola come altrove, si era rifugiato in Piemonte, aveva scritto libri di
guerra, infaticabile. Pochi giorni avanti la spedizione dei Mille, quando Garibaldi esitava a fare la impresa, egli si era offerto di condurla, e l’avrebbe condotta con
grande animo, se non forse con grande fortuna. Però non lo avevano voluto lasciar
fare neppure i siciliani. Pareva ambizioso. Un po’ di quell’avversione che poi lo tribolò, già gli si manifestava contro, e forse per questa non ebbe sotto di sé in quella
sua compagnia ufficiali di nome.
Ma aveva nel quadro de’ suoi sott’ufficiali dei giovani eminenti. Vi aveva Adolfo
Azzi da Trecenta, di ventitré anni, che con Simone Schiaffino si era diviso l’onore
di far da timoniere a Bixio; vi aveva l’avvocato Antonio Semenza, monzasco, che
nell’animo aveva tutta l’opera di Mazzini, e Francesco Bonafini, di Mantova, che
riassumeva in sé tutta la vigorosa gentilezza della sua regione. E nella compagnia
s’erano concentrati quasi tutti i bresciani, forse perché del bresciano egli aveva preso
qualche cosa. Nel ’57 aveva sposata la duchessa Felicita Bevilacqua sua fidanzata fin
da prima del ’48, donna che lo aveva fatto signore del proprio destino, delle proprie
ricchezze sterminate, quasi fatto re d’un piccolo regno. Ora egli abbandonava quegli splendori, per tornare all’amore della sua terra. Ed era un prezioso elemento, e
doveva presto mostrarlo in Sicilia, dove raccolse le squadre paesane dei Picciotti, e
le tenne ordinate per Garibaldi.
I bresciani che fra il maggio e l’ottobre del 1860 si arruolarono volontari per
partecipare alla campagna nell’Italia meridionale furono 66; a questi dobbiamo aggiungerne altri 12 nativi di Asola, Casalmoro, Castelgoffredo, Castiglione delle Stiviere, Medole e Viadana nel Mantovano, e di Ostiano e Acquanegra
Cremonese nel Cremonese, paesi che all’epoca erano parte della provincia di
Brescia. Altri 10 non risultano negli elenchi ufficiali, ma i loro nomi sono incisi

sulla lapide che ricorda la partecipazione bresciana alla spedizione, posta sotto
i volti di palazzo Loggia.
Questi volontari erano alla loro prima esperienza militare. Gli studenti primeggiavano sui negozianti, pochi provenivano da famiglie agiate mentre i più
appartenevano a ceti medio-bassi. Al termine della spedizione si conteranno 7
garibaldini bresciani caduti o dispersi in combattimento e 13 feriti gravemente.
Di seguito riportiamo l’elenco in ordine alfabetico, con alcune note biografiche, dei volontari bresciani che parteciparono alla spedizione dei Mille 1.
1. Di Giovanni Amistani (Brescia, 7 aprile 1831 - Verona, 5 gennaio 1907) nelle brevi note apparse sulla «Provincia di Brescia» del 5 gennaio 1907 si legge: «A
Verona è morto alla tarda età di anni 76 un valoroso bresciano: Giovanni Amistani dei Mille […] Giovinetto pugnò alle barricate, poi cospirò contro l’Austria
dominatrice […] Venuti i giorni splendidi della riscossa del 1859, seguì Garibaldi
sempre eroicamente combattendo […] Corse tra i Mille gloriosi in Sicilia, e via
via per Marsala, Calatafimi, Palermo, Milazzo, al Volturno ove venne nominato
Ufficiale». Nel 1873 si trasferì a Napoli e successivamente a Verona, dove morì.
2. Stefano Antonelli (Rodengo Saiano, 2 settembre 1841 - 24 aprile 1867) durante la spedizione dei Mille fu inquadrato nella 4ª compagnia e partecipò a innumerevoli combattimenti venendo ferito nello scontro di Calatafimi.
3. Giovanni Maria Archetti (Iseo, 13 gennaio 1840 - 17 giugno 1912), nacque
in un’agiata famiglia iseana. Nel 1859 era studente di legge a Pavia; allo scoppio
della Seconda guerra d’indipendenza il giovane abbandonò gli studi e corse ad
arruolarsi nei Cacciatori delle Alpi al comando di Giuseppe Garibaldi. Distintosi durante la campagna, fece successivamente ritorno agli studi a Pavia dove
entrò in amicizia con i fratelli Cairoli. Quando Garibaldi chiamò nuovamente i suoi per la spedizione nell’Italia meridionale, Archetti insieme ai compagni Giuseppe Barboglio e Carlo Bonardi si portò a Genova dove venne arruolato. Sbarcò a Marsala l’11 maggio 1860. L’11 settembre prestava servizio nel 6º
battaglione Eber con il grado di sergente, ottenendo il successivo 22 ottobre il
Le notizie biografiche sono tratte da: I Bresciani dei Mille, Fratelli Geroldi, Brescia 1960; Enciclopedia bresciana, ad vocem, Edizioni La Voce del Popolo, Brescia 1972-2007; Dizionario Biografico degli
Italiani, ad vocem, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1961-in corso; Michele Rosi, Dizionario
del Risorgimento Nazionale, voll. IV, Vallardi, Milano 1931-1937; Enciclopedia Militare, voll. 6, Il Popolo d’Italia, Istituto Editoriale Scientifico, Milano 1931-1933.
1

grado di sottotenente. Partecipò a tutta la campagna distinguendosi per l’impegno e al Volturno venne promosso sul campo tenente. Conclusasi la campagna nell’Italia meridionale, Archetti passò nelle file dell’esercito e partecipò alla
Terza guerra d’indipendenza agli ordini del generale Cialdini. All’età di 26 anni
riprese gli studi interrotti a Pavia laureandosi in legge e diplomandosi notaio
senza però esercitare la professione. Sposò Erminia Rosa, figlia di Gabriele Rosa per il quale fu il «figlio più devoto e ne confortò la veneranda canizie», così
scrisse la «Provincia di Brescia». In conclusione dell’articolo in sua memoria, la
«Provincia» così ne ricordava la figura: «Una bella, severa, nobilissima figura di
soldato e di patriota è scomparsa, un cuore d’oro ha cessato di battere, un carattere adamantino del quale vien meno alle crescenti generazioni l’esempio che
solo nelle cronache e nella storia potrà ormai essere ricordato».
4. Crescenzio Baiguera (Gardone Val Trompia, 6 settembre 1822 - Calatafimi, 15 maggio 1860) fu tra i garibaldini bresciani che sacrificarono la loro vita in
combattimento durante la spedizione dei Mille. Così Giuseppe Bandi scriveva
dei funerali: « […] le belle esequie che si fecero nella chiesa dei Francescani ad
Alcamo al povero compagno nostro Baiguera da Brescia, morto in que’ giorni
per la ferita che ebbe a Calatafimi. Il morto vestito della sua camicia rossa, giaceva sopra il catafalco in mezzo a una infinità di grossi ceri; intorno al catafalco, stavamo noi e stavano tre o quattro siciliani armati, e poi tutti gli uomini e
le donne della città, poveri e ricchi».
5. Angelo Baldassari (Sale Marasino, 9 marzo 1832 - Brescia, 5 aprile 1864) nel
1859 lasciò la famiglia e si arruolò nell’esercito sardo prendendo parte alle battaglie di Magenta e di San Martino. Nel 1860 fu volontario nei Carabinieri genovesi della spedizione dei Mille. A Palermo fu congedato a causa delle infermità
causategli dalla campagna e fece ritorno a Brescia dove morì all’ospedale civile
in conseguenza dei «disagi sofferti in Sicilia».
6. Girolamo Baracchi (Brescia, 20 marzo 1831 - Palermo, 27 maggio 1860),
caporale della 4ª compagnia, morì colpito da una fucilata alle barricate di Palermo il 27 maggio 1860.
7. Fortunato Bernardo Barbetti (Brescia, 24 gennaio 1827 - 18 aprile 1904),
all’età di 21 anni partecipò agli eventi del 1848 e del 1849. Partecipò alla spedizione dei Mille nella 4ª compagnia.
8. Innocente Barbieri (Brescia, 21 dicembre 1840 - Gavardo, 9 maggio 1922),
studente, dopo aver partecipato alla guerra del 1859 al comando di Giuseppe
Garibaldi, si arruolò per la spedizione dei Mille prestando servizio come solda
to nella 4ª compagnia e ottenne il grado di sottotenente per essersi distinto nel
combattimento di Villa Gualtieri.
9. Giuseppe Barboglio (Brescia, 3 settembre 1838 - 20 settembre 1919) in una
nota autobiografica parlando di sé scriveva: «Mi arruolai nel 1859 nel IX Battaglione Bersaglieri. Poi, congedato, passai a Pavia come studente di legge, legandomi alla famiglia dei fratelli Cairoli, coi quali partii il 4 maggio per Genova ove
m’imbarcai nella notte sul “Piemonte” e così presi parte allo sbarco a Marsala
come soldato nella VIIª compagnia. Ferito a Calatafimi, raggiunsi poi il Reggimento Medici come Ufficiale e presi parte alla battaglia e presa di Milazzo, e
al Volturno. Sciolti i corpi garibaldini, passai all’Università di Pisa. Di là passai
a Zurigo, ove coabitai con Giuseppe Nathan. Nell’ottobre 1867, inviato da G.
Nathan, mi recai presso Mazzini a Lugano; e di là per suo ordine partii il 5 novembre per recarmi presso Garibaldi con incarico di fargli firmare un proclama
rivoluzionario. Ma impedito di proseguire a Livorno, mi giunse l’annuncio della
battaglia di Mentana. Dopo di che ritornai a casa».
Con queste parole Marziale Ducos lo ricordava dalle colonne della «Sentinella Bresciana»: «Questo caro, dolce vecchio, così giovane tra i giovani ancora
sino a pochi mesi orsono, così fervido di patriottismo, così ardente di fede, romantico in tutta la sua grande passione per l’Italia, francescano per l’altruismo
e la voluttà del donare, immune da ambizioni, indifferente alle lusinghe della
ricchezza, sino a commuovere chiunque lo conoscesse davvero, nella vita semplice, nel pensiero sereno, nell’animo lieto, era rimasto sempre garibaldino».
10. Giuseppe Antonio Bassani (Chiari, 26 giugno 1838 - 15 marzo 1903), di professione domestico, combatté da Calatafimi al Volturno con il grado di sergente della 18ª divisione. Nel combattimento di Maddaloni ottenne una medaglia
d’argento al Valor militare.
11. Giuseppe Bellandi (16 dicembre 1833 - Brescia, 15 novembre 1910) all’età
di quindici anni si arruolò nella Milizia per l’indipendenza italiana quale tamburino del 1º reggimento bresciano della Guardia mobile lombarda. Nel 1859
fu arruolato nei Cacciatori delle Alpi e l’anno successivo seguì Garibaldi nella
spedizione dei Mille, come soldato della 4ª compagnia. Per essersi distinto negli
scontri di Villa Gualtieri fu promosso sottotenente. Partecipò alla Terza guerra
d’indipendenza con il grado di tenente nell’8º reggimento volontari.
12. Giovanmaria Berardi (Brescia, 17 dicembre 1840 - Bologna, 9 marzo 1879)
di professione armaiolo, partecipò con questo ruolo alla spedizione. Finita la
guerra tornò al suo lavoro stabilendosi a Bologna.

13. Francesco Bollani (Carzago, 20 settembre 1840 - 23 novembre 1882) fu volontario della 7ª compagnia dei Mille. Fu poi soldato della 15ª divisione Türr.
Ottenne per il valore dimostrato una medaglia al Valor militare.
14. Carlo Bonardi (Iseo, 7 novembre 1837 - Calatafimi, 15 maggio 1860) fu
studente nel collegio Baldoni e poi in quello Sugheri di Brescia. Così scriveva
il senatore Bonardi, nei «Commentari dell’Ateneo di Brescia», di Carlo Bonardi: «Mostrava vivido ingegno e generoso cuore, talché nel 1857 si iscrisse alla
facoltà di Giurisprudenza in Padova. Di forti sentimenti mazziniani Bonardi
conduceva la sua propaganda fra gli umili pescatori e contadini di Montisola
dove si recava tutte le estati con la famiglia. Nel 1859, allo scoppio delle ostilità, il fratello Eugenio si arruolò nei cacciatori delle Alpi, mentre Carlo fece ritorno ad Iseo, dopo che l’Università di Pavia, dove egli si era trasferito, venne
chiusa. Nonostante la giovane età, aveva solo 17 anni, Carlo Bonardi partecipò
attivamente alla Guardia Nazionale ed a tutti gli eventi che in quelle settimane
interessarono anche Iseo, come il soccorso ai feriti di Solferino e San Martino.
Il 15 luglio il Generale Garibaldi scendendo da Lovere raggiunse Iseo da dove
poi voleva continuare per Brescia dove voleva incontrare il Generale La Marmora. Fu Carlo Bonardi che condusse il generale a Brescia con la propria carrozza. Quando fece ritorno a casa la sua dedizione per il Generale Garibaldi era
totale. Ormai era sua convinzione, così come del fratello e dell’amico Archetti, che al primo richiamo loro dovere era raggiungere Garibaldi ovunque egli
fosse. Fu così che appena giunse notizia dell’appello di Garibaldi per la spedizione, Carlo e l’amico Archetti, raggiunsero Genova da dove partirono con i
Mille. La marcia di Bonardi al fianco di Garibaldi si concluse a Calatafimi; con
queste parole Pier Giuseppe Bresciani scrisse ai parenti della morte del congiunto: “Il 15 maggio a Calatafimi, all’attacco della prima terrazza che si stendeva a
valle del colle ove stava il grosso dei borbonici, Garibaldi ordinò di appoggiare
a sinistra. Avanzammo. Mi trovai dal lato destro il compagno Carlo Bonardi,
e mentre mi diceva ‘Adesso ci siamo’, una palla lo colpì alla testa ed egli cadde
bocconi. Il momento stringeva e l’ordine dell’attacco non dava sosta dal poterlo
soccorrere. Finalmente la vittoria fu nostra. Sconfitto il nemico, corsi dapprima
sul corpo del mio cugino Cadei che aveva il cranio fracassato da una pioggia
di palle nemiche, indi mi diressi al luogo ove era caduto Carlo Bonardi. Ma il
povero Carlo non c’era più e seppi poscia che il costui corpo non fu trovato né
morto né vivo”. Più avanti cercò di dare una risposta scrivendo: “La mia supposizione, condivisa altresì dai commilitoni, fu ed è tuttora che l’ottimo Carlo
Bonardi, il quale recava il tabarro ad armacollo, l’orologio con la catena d’oro

ed una cintura con dentro il denaro, sia stato raccolto già cadavere da qualche
sciacallo in forma d’uomo».
5º reggimento Granatieri. Su sua richiesta fu congedato il 21 agosto 1862. Secondo Quarenghi si trasferì in America.
15. Francesco Alessandro Boni (Brescia, 3 dicembre 1841 - 29 luglio 1884), volontario della spedizione dei Mille, sbarcò a Marsala con il grado di caporale furiere. Il 15 maggio fu ferito a Calatafimi. Padre di sei figli, ebbe l’onore di avere
il generale Garibaldi quale padrino del suo primogenito.
22. Battista Secondo Calzoni (Bione, 17 giugno 1840 - ?, 3 giugno 1919), orefice, si arruolò volontario nel corpo dei Cacciatori delle Alpi partecipando alla
campagna del 1859. L’anno successivo partecipò alla spedizione dei Mille con il
grado di sergente furiere. Dopo il combattimento di Napoli, ferito, fu promosso da Garibaldi luogotenente.
16. Eugenio Bonsignori (Montirone, 30 agosto 1826 - Milano, 26 aprile 1871)
allo scoppio della Seconda guerra d’indipendenza si arruolò volontario nei Cacciatori delle Alpi. Fu ferito nella battaglia di Virle Treponti ottenendo una menzione onorevole. Nel 1860 partì per la Sicilia con il grado di sottotenente della
5ª compagnia. Nel 1866 partecipò alla Terza guerra d’indipendenza.
17. Giuseppe Rinaldo Bontempo (Orzinuovi, 10 agosto 1830 - Palermo, 27
maggio 1860), perseguitato politico in conseguenza della sua partecipazione ai
fatti del 1848, fu costretto a emigrare in Piemonte. Nel 1860 partì per la Sicilia
come soldato della 2ª compagnia. Ferito a Calatafimi, morì il 27 maggio durante gli scontri di Palermo.
18. Giovanni Battista Botticella (Salò, 12 gennaio 1834 - Palermo, 27 maggio
1860) partecipò alla Seconda guerra d’indipendenza e arruolatosi, nel 1860, nelle
file garibaldine morì nei combattimenti di Palermo.
19. Carlo Caccia (Monticelli d’Oglio, 13 ottobre 1838 - Milano, 8 febbraio
1885) come volontario partecipò alla Seconda guerra d’indipendenza, inquadrato nel 1º reggimento Granatieri di Sardegna. Nel 1860 partecipò alla spedizione dei Mille. Il 14 giugno ottenne il grado di sergente e il successivo 1º ottobre
quello di sottotenente. Disciolti i reparti garibaldini, restò nell’esercito e fu destinato al 44º reggimento fanteria. Partecipò alla Terza guerra d’indipendenza
durante la quale ottenne una «menzione onorevole al valor militare pel coraggio
e sangue freddo dimostrato durante il combattimento nella battaglia di Custoza». Lasciò l’esercito nel 1872. Si trasferì a Milano dove morì nel 1885.
20. Pietro Calabresi (Corteno, 4 agosto 1837 - 6 febbraio 1918) partecipò alla
campagna del 1859 nei Cacciatori delle Alpi e l’anno successivo fu soldato nella
4ª compagnia dei Mille.
21. Giovanni Calcinardi (Brescia, 20 marzo 1833 - ?, 27 maggio 1905) durante la spedizione dei Mille fu commissario di guerra provvisorio a Milazzo per la
brigata Milbitz. Il 24 settembre fu nominato con decreto dittatoriale capitano
di Stato Maggiore nell’Esercito dell’Italia meridionale. Nel 1862 fu capitano nel

23. Giuseppe Capuzzi (Bedizzole, 27 novembre 1825 - Brescia, 28 giugno 1891)
partecipò, nel biennio 1848-49, alle operazioni militari contro l’Austria. Successivamente, perseguitato politico, fu costretto ad emigrare. Non convinto dell’alleanza stretta dal Piemonte con la Francia di Napoleone III, decise di non partecipare alla campagna del 1859, ma nel 1860 all’appello di Garibaldi rispose con
grande entusiasmo, raggiungendo Genova e imbarcandosi sul “Lombardo”. A
Palermo per il valore dimostrato fu nominato ufficiale e dopo il combattimento
del Volturno Nino Bixio ne elogiò l’operato. Nel 1866, allo scoppio della Terza
guerra d’indipendenza, accolse nuovamente l’invito di Garibaldi combattendo
in Trentino dove ottenne la promozione a capitano. Tornato a Brescia si occupò
di giornalismo, divenendo per molti anni redattore della «Provincia di Brescia» e
successivamente direttore dell’«Avamposto». Divenne vice-segretario del Comune di Brescia dove fu molto stimato. Giuseppe Capuzzi morì il 28 giugno 1891
e con queste parole fu ricordato nel numero unico «2 Giugno – Brescia 1900»:
«Con lui passò uno dei tipi più duri, più belli, più disinteressati del patriottismo italiano […] La città tutta partecipò ai suoi funerali».
24. Michele Caravaggi (Chiari, 29 settembre 1832 - Brescia, 30 settembre
1865), panettiere, partecipò alla spedizione dei Mille come soldato della 4ª compagnia.
25. Lino Conti (Brescia, 23 settembre 1825 - Milano, 2 marzo 1879), inquadrato nella 7ª compagnia dei Mille, combatté da Calatafimi al Volturno e raggiunse
il grado di capitano. Il 19 settembre rimase ferito sotto Capua e fu decorato di
medaglia d’argento al Valor militare.
26. Giambattista Crescini (Ludriano, 15 aprile 1838 - Brescia, 12 febbraio 1881).
Di lui così scrive Quarenghi: «Fu uno dei Mille di Marsala e si guadagnò la menzione onorevole al valor militare a Maddaloni». Nino Bixio, dopo la battaglia
«Ai ponti della Valle», lo promosse sottotenente. Nel 1866 con lo stesso grado
prestò servizio nel 9º reggimento Volontari.

27. Ernesto Della Torre (Adro, 26 marzo 1844 - Portici (Na), 6 dicembre 1913)
a soli quindici anni, nel 1859, si arruolò nei Cacciatori delle Alpi partecipando
alla Seconda guerra d’indipendenza. Nel 1860 partì con Garibaldi alla volta della Sicilia; combatté a Calatafimi e a Palermo dove fu nominato sottotenente sul
campo di battaglia a soli sedici anni. Nel 1862 fu trasferito nell’11º reggimento
Fanteria, reparto che scrisse una delle più belle pagine nella lotta al brigantaggio
nell’Italia meridionale, combattendo ai Ponti della Valle. Congedatosi, nel 1866
non seppe resistere al richiamo di Garibaldi e partecipò alla campagna nel Tirolo. Nel 1867 partecipò allo sfortunato tentativo di Garibaldi di liberare Roma;
fatto prigioniero, fu rinchiuso prima a Civitavecchia e successivamente a Castel
Sant’Angelo dove fu condannato a morte. Liberato per volontà di Napoleone
III, fece ritorno alla vita privata. Trasferitosi a Napoli nel 1885, fondo il «Vesuvio», settimanale dei comuni vesuviani. Costituita a Napoli l’Associazione dei
superstiti delle patrie battaglie ne fu presidente effettivo. Nel 1911, in occasione
delle celebrazioni per il cinquantenario della proclamazione del Regno d’Italia,
fu promotore a Napoli della commemorazione dell’ingresso di Garibaldi nella città partenopea nel 1860. Alla morte di Della Torre, a Portici, a Napoli e in
tutti i comuni vesuviani fu proclamato il lutto cittadino.
28. Basilio Emilio Desiderati (Mantova, 1840 - 8 gennaio 1866), mantovano
di nascita, è da considerare bresciano a tutti gli effetti poiché si trasferì a Brescia
in tenera età e trascorse buona parte della sua vita in questa città. Partecipò alla
spedizione dei Mille arruolandosi nella 4ª compagnia.
29. Pietro Donegani (Brescia, 13 dicembre 1831 - 23 aprile 1900) prese parte,
nel 1849, alla difesa di Venezia e si batté eroicamente al forte di Marghera. Nel
1859, arruolato nell’esercito austriaco, disertò per arruolarsi nell’esercito di Sardegna. Nel 1860 seguì Garibaldi nella spedizione dei Mille arruolandosi nella
4ª compagnia. Coerente con il suo credo politico, dispose che i suoi funerali
fossero celebrati in forma civile.
30. Giovan Battista Facchetti (Brescia, 14 giugno 1841 - Torino, 11 gennaio
1906). Di lui non si hanno grandi notizie. Si arruolò fra i garibaldini venendo
inquadrato nella 4ª compagnia; combatté da Calatafimi al Volturno.
31. Giovanni Marsilio Feriti (Brescia, 5 novembre 1841 - 12 febbraio 1866) nel
1859 si arruolò volontario nei Cacciatori delle Alpi partecipando alla Seconda
guerra d’indipendenza e guadagnando la medaglia francese. Nel 1860 si arruolò
nella 4ª compagnia dei Mille. Successivamente fu arruolato come soldato nel
18º Fanteria (1862), venendone definitivamente congedato nel 1864.

32. Paolo Ferrari (Brescia, 2 luglio 1820 - 18 agosto 1901), volontario nella 4ª
compagnia dei Mille, combatté da Calatafimi al Volturno, ove perdette un braccio in combattimento. Raggiunto il grado di sottotenente passò nell’esercito regolare il 27 marzo 1862, destinato al 66º reggimento Fanteria. L’anno successivo
venne pensionato con il grado di tenente. Morì a S. Eufemia per il ribaltamento
del carro sul quale viaggiava. Il suo nome non era compreso negli elenchi degli
imbarcati sui vapori “Piemonte” e “Lombardo”.
33. Nella sua Relazione degli scontri di Calatafimi Giuseppe Dezza, poi generale dell’esercito italiano, scriveva di Pietro Ferrari (Brescia, 20 marzo 1836 - 27
settembre 1863): «Montammo rapidamente sul colle di Calatafimi e ci trovammo proprio all’altezza del cannone di sinistra dei borbonici. Sortì un colpo che
prese in pieno petto Ferrari che era Tenente di fanteria e s’era dimesso per venire con noi». Non si è certi che il Ferrari citato da Dezza fosse il nostro, certo è
che morì nel 1863 per le ferite riportate durante quei combattimenti. Quarenghi ricorda che Pietro Ferrari fu «escluso dall’onore di fregiarsi della medaglia
dei Mille e dal diritto alla annessavi pensione per patita condanna criminosa.
Giustificatosi, veniva poi riammesso».
34. Giovanni Foresti (Pralboino, 18 aprile 1842 - Milano, 4 maggio 1915) partecipò alla spedizione dei Mille arruolato nella 7ª compagnia, guadagnandosi
i gradi di sottotenente. Congedatosi continuò gli studi, ma nel 1862 fu nuovamente con Garibaldi in Aspromonte. Trasferitosi in Brianza, divenne direttore
tecnico delle Ferrovie dello stato.
35. Guglielmo Fumagalli (Brescia, 3 gennaio 1841 - 6 maggio 1908), di professione negoziante, si unì ai Mille e durante la campagna fu promosso ufficiale
per merito di guerra.
36. Carlo Guazzoni (Brescia, 17 aprile 1841 - 11 febbraio 1905). Di lui non si
hanno grandi notizie se non che svolgeva la professione di caffettiere e che fu
volontario fra i Mille.
37. Giuseppe Guerzoni (Calcinato, 27 febbraio 1835 - Montichiari, 25 novembre 1886), laureato in legge, nel 1859 si arruolò volontario-furiere nei Cacciatori
delle Alpi combattendo valorosamente a San Fermo. Su incarico di Garibaldi
si portò a Brescia come arruolatore raggiungendo poi Quarto da dove s’imbarcò anch’egli per la Sicilia. Agli ordini di Zambianchi sbarcò a Talamone con il
compito di far insorgere il Lazio e creare così una manovra diversiva. Partecipò
alla campagna con il grado di capitano; alla battaglia del Volturno fu promosso
per merito al grado di maggiore. Seguì nuovamente Garibaldi in Aspromon
te. Nell’estate del 1863, con Giacinto Bruzzesi, fu a Bucarest in rappresentanza
del Partito d’azione, dove svolse una missione come emissario mazziniano, nel
tentativo di convincere i rivoluzionari romeni a una intesa con gli ungheresi.
Tra il 1863 e il 1865 Giuseppe Mazzini gli indirizzò da Londra quattro lettere,
insieme ad altre inviate a Garibaldi (di cui Guerzoni era segretario) nel periodo in cui entrambi visitarono l’Inghilterra, dal 3 al 28 aprile 1864. Partecipò alla
campagna garibaldina del 1866 durante la Terza guerra di indipendenza, assegnato inizialmente in fase di mobilitazione come maggiore del 2º reggimento
del Corpo volontari italiani, poi allo Stato Maggiore di Garibaldi, e ai fatti del
1867 durante i quali poté essere testimone della ritirata garibaldina nel corso
della battaglia di Mentana contro le truppe francesi e pontificie armate degli
efficienti fucili Chassepot: «Un combattimento tra gente che fuggiva e gente
che non avanzava». Fu deputato dal 1865 al 1874, anno in cui ebbe la cattedra
di letteratura italiana presso l’Università di Palermo, da dove passò poi a quella
di Padova. Scrisse fra le innumerevoli opere anche due biografie: La vita di Nino Bixio: con lettere e documenti, Barbera, Firenze 1875; Garibaldi: con documenti
editi e inediti, Barbera, Firenze 1882.
38. Giuseppe Gussago (Brescia, 31 maggio 1842 - 17 ottobre 1913) si arruolò fra
i Mille e venne ferito nella battaglia di Calatafimi. Nel 1866, sempre al seguito
di Garibaldi, partecipò alla Terza guerra d’indipendenza combattendo a Vezza
d’Oglio al comando di Nicostrato Castellini.
39. Francesco Locatelli (Brescia ? - Volturno 1860) dopo aver partecipato alla
Seconda guerra d’indipendenza si arruolò fra i Mille. Fu tra coloro che sbarcarono a Talamone con la compagnia Zambianchi, raggiungendo successivamente
Garibaldi in Sicilia. Fu ucciso nella battaglia del Volturno.
40. Giovan Battista Manenti (Chiari, 26 novembre 1840 - Milano, 26 agosto
1892) inquadrato nella 4ª compagnia restò ferito a un piede a Reggio Calabria
e in seguito a questo gli fu amputata una gamba.
41. Giacomo Marelli (Bagnolo Mella, 19 giugno 1838 - Brescia, 8 ottobre 1906)
partecipò alla spedizione con il grado di caporale della 4ª compagnia. Congedato nel 1860, si arruolò nei Reali Carabinieri a piedi nei quali prestò servizio
dal 1861 al 1869, presso la Legione di Napoli.
42. Giosuè Molinari (Calvisano, 21 novembre 1838 - Brescia, 24 agosto 1901),
fedelissimo di Garibaldi, partecipò alla spedizione dei Mille. Nel 1862 fu in
Aspromonte e nel 1870 nei Vosgi.

43. Virginio Cesare Moretti (Brescia, 11 agosto 1843 - 3 luglio 1911), figlio
dell’ing. Paolo patriota nel 1848-49, fu profugo in Piemonte. Con i due fratelli
partecipò alla campagna del 1859. All’età di diciassette anni si arruolò nei Mille
partecipando a tutta la campagna. Arruolato con il grado di sergente, fu promosso sottotenente per essersi distinto negli scontri di Villa Gualtieri il 1º ottobre 1860. Confermato nel grado nel Corpo volontari italiani, fu destinato al
deposito d’Ivrea (agosto 1861). Successivamente passò al 10º reggimento Fanteria e con il grado di luogotenente partecipò alla campagna del 1866 al comando
del generale Cialdini. Nel marzo 1873 fu luogotenente nella Milizia provinciale,
prestando servizio al 61º Distretto militare. Nel 1882 ebbe il grado di capitano
della Milizia mobile.
44. Marco Antonio Moro (Brescia, 26 ottobre 1832 - 6 febbraio 1910). Nessuna
notizia si ha di lui se non che fu inquadrato nella 4ª compagnia dei Mille.
45. Bortolo Mottinelli (Brescia, 10 giugno 1833 - Bornato, 12 marzo 1891) durante la Seconda guerra d’indipendenza disertò dall’esercito austriaco e riparò
in Piemonte ove si arruolò nella 4ª compagnia della brigata Regina, con numerosi altri bresciani. Nel necrologio pubblicato sulla «Provincia di Brescia» fu
scritto: «Fece bravamente il suo dovere nella campagna del 1859, convinto che
alla Patria si deve tutto sacrificare». Partecipò nel 1860 alla spedizione dei Mille
distinguendosi nella campagna di Sicilia. Dispose che la sua medaglia dei Mille
fosse consegnata al Museo del Risorgimento di Brescia.
46. Lorenzo Panzerini (Cedegolo, 30 aprile 1835 - Sellero, 2 febbraio 1913)
all’età di tredici anni partecipò all’insurrezione delle Cinque giornate di Milano, combattendo sulle barricate della Colonna di San Lorenzo. Nel 1859 si arruolò nei Cacciatori delle Alpi partecipando a tutti i combattimenti. Nel maggio del 1860 si imbarcò a Quarto prendendo così parte alla spedizione dei Mille. Fu fra coloro che deviarono a Talamone; proseguendo la navigazione verso
sud fu catturato nei pressi di Gaeta e imprigionato per quaranta giorni sino a
quando fu liberato da Nino Bixio che, a bordo del “Torino”, lo portò a Milazzo. Da questo momento partecipò a tutte le operazioni militari al comando di
Nino Bixio e di Menotti Garibaldi. Tornato in Valle Camonica fu un attivo organizzatore dei tentativi di invasione del Trentino attuati dal Partito d’azione.
Nel 1866 partecipò alla Terza guerra d’indipendenza, nuovamente tra le file dei
Cacciatori delle Alpi, al comando di Menotti Garibaldi. Promosso tenente per
volere di Garibaldi, ricevette anche due menzioni onorevoli per atti di eroismo.
Nello stesso anno si laureò in ingegneria e, dopo un breve ritorno a Cedegolo,

emigrò in Argentina, dove diventò direttore dei lavori di costruzione di numerose ferrovie. Tornato in Italia alla fine del 1912, si stabilì definitivamente a Cedegolo dove morì pochi mesi dopo.
47. Pietro Pianeri o Raneri (Lograto, 10 ottobre 1828 - Palermo, 27 maggio
1860) morì durante i combattimenti a Palermo.
48. Giovan Battista Plona (Brescia, 2 maggio 1818 - Brescia, 31 agosto 1863) fu
arruolato, come gli altri bresciani, nella 4ª compagnia dei Mille.
49. Luigi Prignacchi (Fiesse, 26 maggio 1840 - ?), studente a Pavia, si arruolò
nell’esercito sardo e partecipò alla campagna del 1859. Nel 1860 si arruolò nelle Guide di Garibaldi e partecipò alla spedizione dei Mille inquadrato nella 7ª
compagnia al comando di Cairoli. Passò poi nell’artiglieria al comando del colonnello Orsini. Nel combattimento di Palermo fu ferito al capo e venne amorevolmente curato da una famiglia palermitana. In «La Provincia di Brescia» G.C.
Abba scrisse: «Poi, Luigi Prignacchi volle vagare lontano; e solo, quasi consunto, cominciò il ritorno finché finì a Montpellier, sorriso dalla madre che in viso
recava il saluto della Patria».
50. Don Domenico Bondioli, parroco di Salò, scrisse nel 1960 di Enrico
Richiedei (Salò, 4 settembre 1833 - Palermo, 28 maggio 1860): «Preferì l’esilio
all’aborrita divisa dello straniero. Nel 1859, impaziente di libertà, si arruolò nei
cacciatori delle Alpi. A Varese fu ferito alla coscia destra, combattendo da valoroso. Nel 1860 salpò da Quarto con i Mille. A Calatafimi si guadagnò le spalline
da Capitano, e a Palermo mentre incuorava i suoi per l’ultimo assalto presso ai
Quattro Canti». Ippolito Nievo scrisse della morte di Richiedei: «Dopo esserci
stati compagni nelle varie fatiche e nei molteplici pericoli della campagna, dopo
aver pugnato nelle prime file a Calatafimi ed a Palermo, giacquero insieme (Enrico Uziel di Venezia) estinti dall’ultima palla lanciata dalle artiglierie napoletane, ed ora dormono insieme l’eterno sonno nella chiesa dello Spasimo, ricordo
dolce insieme ed amaro ai colleghi superstiti, cagione di lacrime alle famiglie
lontane, novello vanto d’Italia, ed esempio di valore ai suoi figli».
51. Luigi Rizzardi (Brescia, 22 aprile 1835 - 6 giugno 1892). Di lui nello stringato necrologio apparso sulla «Provincia di Brescia» è scritto: «Fece parte del
Corpo dei Cacciatori delle Alpi e fu uno dei Mille».
52. Filippo Ronzoni (Brescia, 13 ottobre 1836 - 24 dicembre 1864) partecipò
alla spedizione inquadrato nella 4ª compagnia.
53. Giovanni Sartori (Corteno, 27 febbraio 1836 - Genova, 7 febbraio 1917)

allo scoppio della Seconda guerra d’indipendenza si arruolò nella 4ª compagnia
dei Cacciatori delle Alpi. Alla chiamata di Garibaldi accorse a Genova dove si
imbarcò per la Sicilia. Dopo la fine della spedizione fece ritorno a Brescia e divenne un attivo propagandista di materiale mazziniano; per la sua attività venne segnalato dalla Prefettura di Brescia alle autorità di polizia. Si trasferì poi nel
Genovese dove morì presumibilmente a Costena.
54. Il 24 ottobre 1910, dalle colonne del giornale «La Provincia di Brescia»,
Giuseppe Cesare Abba con queste parole ricordava la figura di Cesare Scaluggia
(Cogozzo di Villa Carcina, 6 dicembre 1837 - Brescia, 6 maggio 1866): «Mi compiaccio di ricordare come quell’esercito improvvisato garibaldino, i cui Mille
avevano le armi più nei petti che nelle mani, possedesse un corpo d’artiglieria
che fu messo insieme dal siciliano Orsini quando a Talamone Garibaldi ebbe
quattro pezzi, tre cannoni e un’antichissima colubrina arrugginita. Nel formare
questo corpo l’Orsini, oltre allo scegliere dei vecchi artiglieri, volle anche una
decina di giovani ingegneri o studenti di ingegneria. Il bresciano Cesare Scaluggia […] fu uno di questi; insieme con un suo compagno, quell’Antonio Plevani
di Tirano, un mistico che morì frate a Lovere, alla vigilia di partire missionario
per l’India; insieme ad un altro ingegnere della Bassa Lombardia, Luigi Daccò,
mistico anche lui, finito frate missionario nella Patagonia. Ma la formazione di
quel corpo d’artiglieria era troppo lenta per un irrequieto come lo Scaluggia, e
ben presto egli passò nel corpo dei Carabinieri di Genova, vera aristocrazia del
valore e dell’intelligenza, a far parte della quale occorrevano titoli speciali. Con
questa divisa Cesare Scaluggia combatté il resto della campagna attraverso la
Calabria, a Napoli, fino al Volturno; e si trovò il 2 ottobre presso la Fanteria regolare e un battaglione di Bersaglieri che catturarono una colonna di Borbonici
e li accompagnarono prigionieri a Napoli». Continuava: «Finita la campagna,
sciolto l’Esercito Meridionale, Cesare Scaluggia, conseguita a Napoli la laurea
in matematica, si restituiva alla famiglia […] Ma alla Patria egli aveva dato troppo; i disagi, le privazioni, le fatiche sostenute avevano seriamente scossa la sua
fibra». Così concludeva: «Mentre i volontari italiani correvano alla chiamata di
Garibaldi per la guerra nel Veneto, Cesare Scaluggia, pur sentendo l’impulso
di rispondere all’appello, s’accorse di non essere più atto a brandire la spada. Il
giorno stesso che gli amici triumplini gli annunciavano la partenza per la guerra, quasi fosse rampogna di non unirsi a loro, fece olocausto della sua vacillante
esistenza gettandosi nei vortici dell’ingrossato rapido Mella».
55. Di Michelangelo Scarpari (Botticino Sera, 13 aprile 1813 - Brescia, 3 settembre 1875), nelle colonne della «Sentinella Bresciana» così viene scritto: «Era

uno della schiera dei Mille di Marsala, di quella schiera che divise con Garibaldi i primi onori della più audace ed eroica impresa de’ tempi nostri […] Soldato semplice, si distinse sui campi di battaglia per indomito coraggio e tra lo
schianto delle artiglierie e il grandinare delle palle si conquistò le spalline e la
spada d’Ufficiale»; e ancora: «E la sua non fu avventatezza giovanile o il facile
entusiasmo di giovane animo; egli aveva nel 1860 già quarant’otto anni e conosceva il prezzo di quella vita di cui faceva così buon mercato». Tornato a Brescia, Scarpari andò ad abitare sui Ronchi dove gestì una trattoria all’insegna di
Garibaldi, trattoria che, come scrisse don Angelo Galatti, «divenne rinomata
[…] ed esiste ancora» (1960).
56. Vincenzo Gaetano Scarpari (Brescia, 7 settembre 1817 - 3 settembre 1867)
nel 1849 partecipò alle Dieci giornate di Brescia e nel 1860 si arruolò nella 4ª
compagnia dei Mille.
57. Giuseppe Taschini (Brescia, 12 maggio 1829 - 17 maggio 1865) nel 1848-49
combatté nelle file dell’esercito austriaco. Emigrato in Piemonte, allo scoppio
della Seconda guerra d’indipendenza si arruolò nei Cacciatori delle Alpi. Nel
1860 partì per la Sicilia inquadrato nella 5ª compagnia. Ebbe il grado di capitano e fu comandante dei bresciani a piedi.
58. Luigi Tavella (Brescia, 27 novembre 1843 - Bagnolo Mella, 12 luglio 1883)
non ancora diciassettenne partì volontario fra i Mille combattendo in Sicilia e
in Italia meridionale, guadagnandosi il grado di sottotenente. Nel 1862 seguì
Garibaldi in Aspromonte. Nel 1866 prestò servizio nel 4º reggimento volontari durante la Terza guerra d’indipendenza, nella quale venne fatto prigioniero a
Bezzecca il 31 luglio. Tornato alla vita civile si trasferì a Bagnolo Mella e al suo
nome fu titolata la scuola elementare.
59. Giacomo Terzi (Capriolo, 7 luglio 1843 - Brescia, 14 maggio 1864) si arruolò con gli amici e compagni di studio, Moretti e Tavella, fra i Mille. Tornato a Brescia morì pochi anni dopo in conseguenza delle fatiche sofferte dopo
la spedizione.
60. Angelo Tommasi (Siviano, 29 settembre 1839 - Bergamo, 6 settembre 1878)
poco più che ventenne si arruolò con il fratello Bortolo nei Mille. Venne inquadrato nell’8ª compagnia, comandata da Bassani. A Calatafimi riportò una ferita
e malgrado questa continuò la campagna. Il 27 maggio, giunto a Palermo, fu
nuovamente ferito. Nel 1866 partecipò con il grado di sottotenente alla Terza
guerra d’indipendenza.

61. Bortolo Tommasi (Siviano, 3 maggio 1830 - Bergamo, 29 marzo 1902) all’età
di trent’anni partì con i Mille. Nel volume Le 180 biografie dei Bergamaschi dei
Mille, con queste parole viene presentata la sua figura: «Il suo coraggio era semplice e sincero, frutto di una convinzione profonda che si univa alla sua forza fisica di popolano temperato ai disagi e alla fatica […] Come seppe sfidare il fuoco
nemico a Calatafimi e a Marsala, così non esitò a sfidare le fiamme dell’incendio
che distruggeva il convento dei Sette Angeli a Palermo; salvare delle vite umane
innocenti era pur dovere di un buon soldato di Garibaldi». Fu promosso sottotenente e compì la campagna sino al Volturno. Nel 1866 al richiamo di Garibaldi si
arruolò nel Corpo dei Volontari guadagnandosi nella battaglia di Monte Suello la
medaglia d’argento al Valor militare e la promozione a sottotenente. Congedato,
fece ritorno a Bergamo dove continuò a esercitare la sua professione.
62. Achille Tonni Bazza (Volciano, 17 luglio 1837 - Preseglie, 8 agosto 1863)
lasciati gli studi si arruolò nei Mille partendo per la Sicilia come soldato della
7ª compagnia. Nella battaglia di Calatafimi fu ferito, a Palermo fu decorato per
il valore dimostrato, e portò a termine tutta la campagna combattendo anche
nella battaglia del Volturno. Laureatosi, fu nominato sottoprefetto di Salò, ma
a causa degli strapazzi della guerra morì pochi anni dopo, compianto da molti
e ricordato da Garibaldi e dallo storico volcianese Federico Odorici.
63. Pietro Valentini (Brescia, 14 luglio 1830 - Lucca, 16 gennaio 1873), di professione fotografo, si arruolò volontario fra i Mille venendo inquadrato nella
4ª compagnia.
64. Lorenzo Viola (Brescia, 4 febbraio 1836 - 9 settembre 1872) partecipò alle
campagne del 1859, del 1860 come caporale della 4ª compagnia, e del 1866.
65. Emilio Zasio (Pralboino, 25 marzo 1831 - Vigevano, 23 dicembre 1869),
nato in una famiglia aristocratica, nel 1848, si arruolò nel corpo degli Studenti
lombardi combattendo gli austriaci. Nel 1849, con la prosecuzione della guerra,
riprese le armi incorporato nei Bersaglieri volontari. Laureato in legge, riparò in
Piemonte fino al 1859, quando si arruolò nei Cacciatori delle Alpi distinguendosi per il coraggio tanto da essere decorato della medaglia francese al Valore e
alla Disciplina. Nel 1860, come sottotenente, seguì Garibaldi in Sicilia, nel corpo delle guide a cavallo. Nominato capitano, fu decorato dell’Ordine militare
di Savoia. Passato nell’esercito regolare italiano nel reggimento Savoia cavalleria
prima, nel 6º reggimento granatieri poi, nel 1862 si congedò scrivendo le sue memorie sulla campagna dei Mille. Fu amico di Alberto Mario che lo paragonava
all’ariostesco Medoro, mentre Giuseppe Cesare Abba lo definiva «elegante».

66. Francesco Ziliani (Travagliato, 12 febbraio 1832 - 13 febbraio 1895), di professione medico, nel 1859 si arruolò quale ufficiale medico nelle file dei Cacciatori delle Alpi. Nel 1860 partecipò alla spedizione dei Mille, come medico
di divisione. Nel 1866 partecipò alla Terza guerra d’indipendenza. Nel 1867 ottenne la medaglia quale benemerito della salute pubblica. Di famiglia facoltosa, esercitò la professione medica gratuitamente e solo per i poveri. Si impegnò
politicamente e fra il 1890 e il 1893 fu sindaco di Travagliato. In un saloncino di
palazzo Verduro a Travagliato, da lui abitato, fece decorare il soffitto con medaglioni celebranti il Risorgimento e la spedizione dei Mille.
Sotto i volti di Palazzo della Loggia è posta una lapide che celebra i caduti bresciani morti durante la spedizione dei Mille. I nomi riportati nella lapide
non sono però tutti presenti negli elenchi ufficiali dei partecipanti alla spedizione garibaldina.
Nell’elenco di seguito riportato, Da Ponte e Nullo non parteciparono alla spedizione dei Mille propriamente detta ma erano, come vedremo, arruolati nelle file dell’esercito piemontese, partecipando alla campagna nelle Marche
che portava l’esercito piemontese verso il sud con il preciso intento di fermare
l’avanzata di Garibaldi verso Roma e che si concluse con l’incontro di Teano.
Gli altri sono combattenti che invece parteciparono alla spedizione dei Mille;
alcuni però raggiunsero l’Italia meridionale con le successive ondate di volontari.
Di Girolamo Baracchi e di Giovanni Botticella, anch’essi riportati nella lapide,
si vedano le note biografiche riportate più sopra.
1. Giovanni Bertazzi: di lui non si conoscono le date di nascita e di morte.
Di umili origini e di professione operaio, nonostante una grave menomazione
fisica ottenne di far parte delle truppe combattenti. Nella battaglia del Volturno si distinse alla guida del suo battaglione.
2. Pasquale Botti, bresciano, nel 1859 emigrò in Piemonte arruolandosi
nell’esercito sardo. Il 24 giugno partecipò alla battaglia di San Martino e Solferino. L’anno successivo partecipò alla spedizione garibaldina morendo in combattimento nello scontro di Maddaloni.
3. Cesare Da Ponte (Brescia, 19 marzo 1834 - Banco, 2 febbraio 1861), di nobili
origini, ancora giovinetto si distinse per l’attività patriottica. Nel 1859 raggiunse
il Piemonte dove si arruolò nell’esercito sardo; frequentò il Collegio militare di
Ivrea uscendone con il grado di sottotenente. Nel 1860 partecipò alla campagna delle Marche e dell’Umbria. Con il grado di luogotenente del 3º Granatie
ri partecipò alla repressione del brigantaggio in Terra di Lavoro restando ferito
in combattimento in località Banco; morì dopo tre giorni di agonia. Per il suo
eroismo fu decorato con la medaglia d’argento al Valor militare. La salma fu
condotta a Brescia e seppellita nel cimitero. Sulla sua tomba fu posta una lapide con iscrizione composta da Luigi Lechi.
4. Giovanni Martinazzi, volontario garibaldino, fu inquadrato nella divisione Eberhardt e morì combattendo nella battaglia di Ponte della Valle, sul Volturno (1 ottobre).
5. Giovanni Nullo (Iseo, 8 maggio 1826 - Castelfidardo, Ancona, 8 settembre
1860) partecipò alla Prima guerra d’indipendenza. Arruolatosi nell’esercito nazionale, dove raggiunse il grado di capitano, partecipò alla campagna dell’Italia
centrale morendo in combattimento a Castelfidardo, alla guida della 104ª compagnia di Bersaglieri nel tentativo di conquistare due cannoni nemici.
6. Alessandro Sora (Brescia, 1831 - Napoli, 15 ottobre 1860) nel 1848 si arruolò nei Cacciatori Bresciani e partecipò alla campagna nel Trentino. L’anno successivo, durante le Dieci giornate, fu tra i primi ad arruolarsi nelle bande al comando di don Boifava partecipando ad audaci operazioni militari come quella
di S. Eufemia. Nel 1851 entrò a far parte del Comitato insurrezionale divenendo stretto collaboratore di Tito Speri. Dopo l’arresto di Tito Speri riuscì, grazie anche al sacrificio dell’amico, a salvarsi; negli anni successivi non cessò la
sua attività cospirativa, sino a quando nel 1857 emigrò con alcuni compagni in
Brasile. Allo scoppio della Seconda guerra d’indipendenza fece ritorno in Italia,
dove giunse solamente quando era già stato firmato l’armistizio di Villafranca.
Arruolatosi volontario fu assegnato al 46º reggimento di Fanteria al comando
del colonnello Sacchi. Nel 1860 cercò di partire con i Mille, riuscendo ad arruolarsi nella spedizione Medici. Giunto in Sicilia ottenne di essere arruolato nei
Carabinieri Genovesi. Qui ritrovò il colonnello Sacchi che lo volle suo aiutante
di campo. Ferito alla testa, secondo alcuni durante il combattimento di Caiazzo (19 settembre) e secondo altri durante quello del Volturno (1 ottobre), morì
in ospedale a Napoli il 15 ottobre.
7. Gaetano Spadari morì colpito al cuore nel combattimento di Villa San
Giovanni (1860).
8. Carlo Agostino Torre (Brescia ? - Napoli, 3 gennaio 1861) partecipò alla spedizione garibaldina inquadrato nella brigata Eberhardt con il grado di sottotenente. Morì nell’ospedale della Marina a Napoli per le ferite riportate durante
il combattimento di Capua (1 ottobre).

9. Pietro Antonio Vigliani, volontario garibaldino, raggiunse il grado di furiere. Morì nella battaglia di Mileto (21 agosto 1860).
10. Anacleto Zuali (Brescia ? - Ponte della Valle, Volturno, 1 ottobre 1860) nel
1859 raggiunse il Piemonte dove si arruolò nell’esercito sardo partecipando alla
Seconda guerra d’indipendenza. Nel 1860 si arruolò volontario nei Mille, inquadrato nella brigata Sacchi. Morì in conseguenza di una ferita alla gola riportata
durante il combattimento del Ponte della Valle nei pressi del Volturno.
Infine, come già ricordato in apertura, riportiamo l’elenco dei volontari garibaldini originari di quei paesi del Mantovano e del Cremonese che, nei primi
anni del Regno, facevano parte della provincia di Brescia. Di alcuni di essi purtroppo non abbiamo recuperato notizie biografiche.
1. Giovanni Acerbi (Castelgoffredo, Mantova, 11 novembre 1825 - Firenze, 4
settembre 1869), nipote dell’esploratore e diplomatico Giuseppe Acerbi, svolse
fin dalla giovinezza un’intensa attività cospirativa. Fu arrestato per propaganda mazziniana nel 1847 a Pavia, dove frequentava la facoltà di Giurisprudenza.
Liberato nel corso delle Cinque giornate di Milano, partecipò alla difesa di Venezia e successivamente fu fra i cospiratori di Mantova (1850), essendone uno
degli iniziali fondatori, se non addirittura il vero e proprio istitutore. Quando
per sfuggire alla cattura dovette lasciare il Regno Lombardo-Veneto, era con don
Enrico Tazzoli e Attilio Mori uno dei tre membri del Comitato direttivo della
cospirazione. Fu l’unico tra i congiurati condannati in contumacia a non essere
mai amnistiato dall’Austria. A Genova collaborò con Mazzini alla preparazione del moto milanese del 1853. Nel 1860 fu uno dei Mille e assunse le funzioni,
con Ippolito Nievo come vice, d’intendente generale della spedizione garibaldina: tale incarico gli venne rinnovato anche in occasione della Terza guerra di
indipendenza italiana (1866), a cui partecipò sempre al fianco di Garibaldi come
colonnello comandante dell’Intendenza e del 2º reggimento Volontari italiani
dopo il defenestramento del tenente colonnello Pietro Spinazzi, e nella spedizione nell’agro romano dell’anno successivo. Nel corso di quest’ultima campagna garibaldina del 1867 proclamò la prodittatura a Torre Alfina, una frazione
di Acquapendente, e occupò Viterbo. Fu deputato, militando nelle schiere della
sinistra, per il collegio di Lendinara (Ro) nel periodo 1865-67 e successivamente
per quello di Gonzaga (Mn), fino alla morte causata da un incidente di carrozza
a Firenze all’età di 44 anni.
2. Gaetano Benedini (Asola, Mantova, 28 dicembre 1830 - Firenze, 31 mag
gio 1868), di professione medico chirurgo, nel 1859 emigrò in Piemonte dove
si arruolò nei Cacciatori delle Alpi. Nel 1860 partecipò alla spedizione dei Mille come volontario della 6ª compagnia. Nella campagna del 1866 fu medico di
battaglione nel 1º reggimento Volontari. Per il comportamento tenuto nella battaglia di Monte Suello, dove curava i feriti incurante del fuoco nemico, meritò
una medaglia d’argento al Valor militare.
3. Giovanni Buzzacchi (Medole, Mantova, 15 ottobre 1836 - 21 gennaio 1900)
prese parte alla spedizione dei Mille combattendo a Calatafimi e a Palermo. Nel
1862, passato nell’esercito regolare, si distinse nella repressione del brigantaggio.
Nel 1866 partecipò alla Terza guerra come medico di battaglione al quartier generale di Garibaldi. Fu presidente dell’Associazione medica mantovana e chirurgo primario dell’Ospedale di Mantova.
4. Giuseppe Fattori (Ostiano, Cremona, 2 luglio 1837 - 8 marzo 1920) partecipò alla spedizione dei Mille inquadrato nella 7ª compagnia. Per il suo valore
fu promosso ufficiale sul campo. Finita la campagna tornò alla sua professione
di maestro.
5. Goffredo Ghirardini (Asola, Mantova, 27 febbraio 1841 - Mantova, 1 ottobre 1913).
6. Giovan Battista Lusiardi (Acquanegra Cremonese, Cremona, 22 luglio
1831 - 3 agosto 1875) si arruolò volontario fra i Mille venendo assegnato alla 6ª
compagnia.
7. Ulisse Martinelli (Viadana, Mantova, 31 ottobre 1839 - Vignale ?).
8. Luigi Moratti (Castiglione delle Stiviere, Mantova, 26 dicembre 1818 - Ceresara, Mantova, 14 gennaio 1877).
9. Giuseppe Nodari (Castiglione delle Stiviere, Mantova, 25 gennaio 1841 23 marzo 1899).
10. Luigi Premi (Casalmoro, Mantova, 8 gennaio 1838 - 16 febbraio 1905),
ingegnere civile e architetto, nel 1859 emigrò in Piemonte. Nel 1860 partì con
i Mille, prestando servizio nell’artiglieria con il grado di tenente. Fu decorato
di medaglia d’argento al Valor militare per essersi distinto nei fatti di Corleone
e Maddaloni il 1º ottobre 1860. Congedato, passò nell’esercito regolare con il
grado di sottotenente nello Stato Maggiore. Nel 1862 fu con il grado di tenente in servizio presso il 2º reggimento Artiglieria. Nel 1866 partecipò alla Terza
guerra d’indipendenza. Nel 1868 fu promosso capitano, nel 1882 maggiore, nel
1887 tenente colonnello e nel 1896 colonnello. Nel 1898 fu posto a riposo. Fu

decorato della croce di Cavaliere dei Santi Maurizio e Lazzaro e della croce di
ufficiale della Corona d’Italia.
11. Pietro Scaratti (Medole, Mantova, 24 dicembre 1840 - 14 gennaio 1912)
partecipò alla spedizione dei Mille inquadrato nella 7ª compagnia al comando di Cairoli, raggiungendo il grado di sottotenente. Congedato, passò con il
medesimo grado al Deposito di Ivrea. Sottotenente nel 63º Fanteria, brigata
Cagliari (1862). Nel 1866 passò al 61º Fanteria con il quale partecipò alla Terza
guerra d’indipendenza. Richiamato in servizio nel settembre 1870, fu promosso tenente nel 1875 e destinato alla Milizia mobile con residenza a Mantova. Fu
collocato a riposo su sua domanda nel settembre 1883.
12. Giacomo Tassani (Ostiano, Cremona, 8 marzo 1819 - 4 giugno 1878) partecipò volontario alla spedizione, inquadrato nella 4ª compagnia, passando poi
nelle file della 9ª compagnia al comando di Nino Bixio.
Cavour e l’Unità d’Italia
Marziano Brignoli*
Concluso nell’aprile del 1856 il congresso di Parigi, che aveva posto fine alla
guerra di Crimea, il 7 e il 10 maggio successivi rispettivamente la Camera dei
Deputati e il Senato piemontesi approvarono, quasi all’unanimità, la condotta
dei rappresentanti sardi nel consesso parigino.
Quali i risultati?
1. Si ruppe il fronte delle potenze conservatrici per l’ostilità insorta fra l’Impero asburgico e la Russia che rimproverava all’Impero di non essere intervenuto in suo aiuto in occasione della guerra di Crimea.
2. Per il Piemonte in particolare: Cavour capì che non avrebbe mai avuto
l’aiuto dell’Inghilterra in una guerra contro l’Austria, poiché quest’ultima costituiva un importante punto d’appoggio inglese sul continente in funzione antirussa. Apparve chiaro che il Piemonte avrebbe potuto contare soltanto sulla
Francia, anzi su Napoleone III.
Ciò appariva tanto più rilevante in quanto stavano peggiorando le relazioni
austro-piemontesi. A Vienna si riteneva il Piemonte un focolaio di rivoluzione,
tendente all’egemonia sugli altri Stati italiani. Non tardarono le manifestazioni
di questa ostilità fra Vienna e Torino. Il 10 febbraio 1857 una vibrante protesta
partì da Vienna, diretta a Torino, contro le fortificazioni che si andavano costruendo a difesa della piazzaforte di Alessandria. Per rinforzare con 100 cannoni l’armamento di quella fortezza fu promossa una sottoscrizione nazionale che
ebbe un larghissimo successo e anche contro questa eloquente manifestazione
l’Austria ritenne di dover protestare.
Il 27 febbraio 1857 Torino rispose alle proteste austriache in modo adeguato,
ribadendo le insopprimibili caratteristiche costituzionali dello Stato sabaudo.
Nel successivo mese di aprile Austria e Sardegna ruppero le relazioni diplomatiche. In questo difficile frangente, Cavour e il Governo subalpino non si muovevano soltanto sul piano diplomatico internazionale. Cavour si prefiggeva anche
altri obiettivi, primo fra tutti l’isolamento dell’estrema sinistra del movimento
* Storico del Risorgimento; socio corrispondente dell’Ateneo di Brescia († 31 luglio 2013).


patriottico, attirando su più moderate posizioni coloro che mal si trovavano in
collocazioni estreme.
Il proposito di Cavour si realizzò con la fondazione a Torino nel 1857 della
Società nazionale. Si ebbe così un fronte unitario fra repubblicani e monarchici moderati per raggiungere il comune scopo di fare l’Italia libera e unita sotto
la dinastia sabauda. Promotori della Società nazionale furono Daniele Manin,
Giorgio Pallavicino-Trivulzio e altri patrioti ma il fondatore fu Giuseppe La Farina, la cui intesa con Cavour permise allo statista di fare della Società nazionale
la guida del mo­vimento patriottico italiano.
Cavour e La Farina realizzarono una sinergia piena di significato perché contemperarono due diversi modi di sentire in vista di un comune, altissimo scopo. La loro intesa serviva anche a tranquillizzare l’Europa sui fini e sui mezzi del
movimento nazionale italiano; soprattutto serviva a tranquillizzare Napoleone
III che durante il congresso di Parigi aveva chiesto a Cavour che cosa potesse
fare per l’Italia. Una do­manda che aveva i presupposti nel desiderio di Napoleone di dare al secondo impero un’affermazione politica o militare e l’Italia, lo
sappiamo, costituiva da sempre una meta dell’espansionismo francese. Ma c’era
anche di più. Sappiamo come nell’imperatore dei francesi fosse forte la tradizione bonapartista e come egli avesse vivissimo il desiderio di distruggere l’opera
del congresso di Vienna e di riportare la Francia nel ruolo di “nazione guida”,
anche a costo di combattere contro le potenze che dell’ordine stabilito a Vienna si erano fatte vigili custodi, cioè la Russia, la Prussia e l’Austria. Già l’intesa
austro-russa si era compromessa in occasione della guerra di Crimea ma occorreva che la Francia, tornata napoleonica, spezzasse clamorosamente quel fronte
conservatore, custode dell’assetto di Vienna. Per queste aspirazioni Napoleone
III venne a trovarsi a fianco di quei popoli che, per desiderio di liberta e di indipendenza, erano avversari delle potenze conservatrici. Sotto questo aspetto
il secondo impero napoleonico fu l’elemento rivoluzionario che diede avvio a
un’era di conflitti armati dai quali sarebbe scaturita una nuova sistemazione territoriale e politica dell’Europa.
Si realizzava pertanto una unità di scopi con la politica italiana del Regno di
Sardegna, guidata da Cavour, tendente a mantenere la leadership della rivoluzione nazionale italiana. Occorreva agire presto perché l’Austria, nel LombardoVeneto, il granduca in Toscana e il Papa nello Stato Pontificio avevano avviato
una politica di pacificazione e di intesa con i loro sudditi, diretta a impedire
agli stessi di guardare a Torino come alla città dalla quale sarebbe partita la loro
liberazione. Si imponeva pertanto, al fine di non deludere le correnti patriotti
che che guardavano al Piemonte, una pronta azione per bloccare ogni eventuale
tentativo mazziniano e per neutralizzare gli effetti della politica di conciliazione
austro-granducal-papalina. Così pensava anche Napoleone III, ansioso di realizzare i propri obbiettivi di rivalsa contro l’assetto politico-territoriale stabilito
a Vienna quasi cinquant’anni prima, aiutando nel contempo gli italiani a darsi
una patria. Né lo distolse da questo suo divisamento l’attentato contro la sua
vita compiuto il 14 gennaio 1858 dal rivoluzionario italiano Felice Orsini. Anzi,
quel gesto fu considerato da Cavour, che di ciò persuase lo stesso imperatore
dei francesi, un motivo per agire rapidamente al fine di anticipare un’eventuale
azione rivoluzionaria in Italia.
Cominciò allora una serie di contatti, di collegamenti, di comunicazioni
molto riservate tra Napoleone III e Cavour, il quale, dal canto suo, teneva costantemente informato il re Vittorio Emanuele II. Da ultimo, verso la fine del
maggio 1858, un messagge­ro di Napoleone III – ossia il suo medico personale,
Enrico Conneau – passando da Torino avvertì Cavour che l’imperatore avrebbe
gradito vederlo il 21 luglio successivo a Plombiéres, una località termale nei Vosgi, per un colloquio. Noi sappiamo che quel colloquio fu decisivo per la guerra contro l’Austria. I circoli politici e diplomatici parigini erano però contrari
a questa ormai probabile guerra, della quale non comprendevano le ragioni, e
cercavano di distogliere l’imperatore dall’intraprenderla. In Napoleone III, però, era più che mai viva e operante la vocazione rivoluzionaria, almeno in politica estera.
L’incontro fra Napoleone III e Cavour, il 21 luglio 1858 a Plombiéres, produsse accordi che ebbero una capitale importanza per il nostro riscatto nazionale e anche per la storia dell’Europa del XIX secolo. Ecco, in breve, le pattuizioni di Plombiéres:
1. Napoleone avrebbe portato in Italia una forza di circa 100 mila uomini, se
il regno di Sardegna fosse stato attaccato dall’Impero asburgico.
2. La guerra avrebbe portato alla costituzione di un Regno dell’alta Italia,
esteso dalle Alpi all’Adriatico, sotto la corona di Vittorio Emanuele II.
3. Il Regno di Sardegna avrebbe ceduto alla Francia la Savoia e la contea di
Nizza.
4. Il re avrebbe acconsentito al matrimonio della propria figlia Maria Clotilde con il principe Girolamo Napoleone.
5. Si sarebbe creato un regno dell’Italia centrale.
6. Si sarebbe eventualmente sostituito a Napoli il re Ferdinando II di Borbone con un principe Murat.

7. Al Papa sarebbe stato lasciato il Lazio come territorio sul quale esercitare
la propria sovranità temporale, e inoltre gli sarebbe stata conferita la presidenza
della Confederazione che i tre Stati italiani avrebbero costituito.
Queste pattuizioni, uscite dai colloqui di Plombiéres, costituivano certamente un elemento di rottura dell’egemonia conservatrice erede del sistema di
Vienna, ma rispecchiavano anche quella che si può definire una costante storica della politica francese verso l’Italia: i confini alle Alpi, la distruzione dell’egemonia austriaca in Italia, sostituita dall’egemonia francese. Queste condizioni
potevano non piacere e certamente non piacquero al re e a Cavour, ma era indispensabile accettarle per avere l’aiuto della Francia.
Cominciarono presto a spirare sull’Europa venti di guerra.
Il giorno di Capodanno del 1859, alle Tuillèries convennero gli ambasciatori
accreditati a Parigi per porgere gli auguri di buon anno all’imperatore; all’ambasciatore d’Austria, barone Alexander von Hübner, Napoleone III rivolse parole
che suscitarono allarme. Egli espresse infatti il proprio rincrescimento perché i
rapporti austro-francesi non erano più quelli di un tempo, assicurando però che
i proprî sentimenti verso l’imperatore Francesco Giuseppe restavano immu­tati.
Pochi giorni dopo, il 10 gennaio 1859, durante il discorso per l’inaugurazione
della sessione del Parlamento subalpino, il re Vittorio Emanuele II disse: «Mentre rispettiamo i trattati non siamo insensibili al grido di dolore che da tante parti d’Italia si leva verso di noi». Parole che avevano un rimbombo di battaglia.
La guerra era dunque imminente? Non proprio.
Nel seguente mese di febbraio sembrò che l’imperatore Napoleone III non
volesse più la guerra, mentre dalla Russia si avanzava la proposta che, per discutere e possibilmente risolvere i problemi politici che assillavano l’Europa, si
riunisse un apposito congresso. Sorse il dubbio che la proposta russa fosse stata
suggerita dallo stesso imperatore dei francesi; in ogni caso, l’Inghilterra – contraria a una guerra in Europa che coinvolgesse l’Austria – accolse immediatamente l’idea del congresso. Anche il Regno di Sardegna, partecipe della crisi
europea in atto, dichiarò di accettare il congresso, purché, ovviamente, il Regno
fosse invitato a parteciparvi. Non mancò, a questo punto, la tradizionale faute
autrichienne, come si diceva allora nel mondo politico-diplomatico per definire
i non infrequenti errori della diplomazia imperiale, poiché Vienna pose il veto alla partecipazione del Regno di Sardegna all’indicendo congresso. Come si
potesse escludere da un congresso sulla situazione europea uno Stato il quale,
ancorché di non cospicue dimensioni, vi era direttamente interessato, bisognava chiederlo ai geniali diplomatici asburgici.

Lo chiese certamente Cavour all’imperatore Napoleone, incontrato il 26
marzo 1859, facendogli capire che il Piemonte non avrebbe mai accettato i deliberati di un congresso del quale non fosse partecipe. Ne seguirono proposte,
controproposte e così via, senza nulla concludere.
C’era una ragione precisa all’origine dell’avversione di Cavour al congresso
proposto: non era certo per amore della guerra ma perché capiva che sol­tanto
rompendo in guerra contro l’Austria poteva trattenere nell’ambito delle istituzioni liberali e monarchiche quei patrioti che si riconoscevano nella Società nazionale. Qualunque soluzione negoziata del problema italiano sarebbe stata respinta, e
non solo dalla Società nazionale, a tutto vantaggio delle correnti estremiste. Ciò
che Cavour, e tutti coloro che la pensavano come lui, non volevano.
Tra la fine di marzo e gli inizi di aprile 1859 si ebbe un’intensa attività diplomatica in Europa, tesa a evitare la guerra. Si formularono molte proposte, dirette soprattutto a ottenere la partecipazione del Regno di Sardegna al sempre
indicendo congresso “pro pace”. Non vi fu nulla da fare perché Vienna restò irremovibile nel negare la partecipazione del Regno sabaudo al congresso.
Questa ripulsa fu inaccettabile anche per l’Inghilterra, pur fervida sostenitrice, come sappiamo, di una soluzione pacifica della crisi. Sorse allora l’idea di
un disarmo generale, che dovesse precedere il divisato congresso. Napoleone III
accettò l’idea, forse per un’ultima esitazione, consigliando al Piemonte di fare
altrettanto. Furono ore, giornate, notti angosciose per Cavour che vedeva crollare una politica condivisa da tanti patrioti italiani. Era la fine di tante speranze
non solo per Cavour ma per l’Italia intera, che vedeva stroncata ogni aspirazione alla libertà e all’indipendenza. Ma Vienna rifiutò anche l’idea del disarmo
preventivo, e il 23 aprile 1859 volle mandare un ultimatum a Torino intimando
l’immediato disarmo che, in caso di rifiuto, sarebbe stato imposto con le armi.
Metternich – giunto agli ultimi mesi di vita, ma assai più intelligente del ministro degli Esteri imperiale allora in carica, Carlo Ferdinando von Buol-Schauenstein – non si stancava di raccomandare di non mandare ultimatum. Ma l’intimazione austriaca al Piemonte arrivò a Torino il 23 aprile 1859, portata da due
diplomatici imperiali; vi era un tempo di tre giorni per accettare o respingere il
documento imperiale.
L’ingiunzione austriaca permise che si realizzassero le condizioni perché entrasse in vigore il trattato franco-sardo sottoscritto il 14 marzo 1859, che aveva
carattere difensivo. L’ultimatum di Vienna a Torino fu respinto e cominciò così
la seconda guerra per l’indipendenza italiana, guerra che si qualificò subito non
solo come conflitto fra Stati ma anche guerra di popolo per la libertà.

Ciò apparve chiaramente in Toscana dove il 27 aprile 1859 si manifestò un
movimento di popolo, ben preparato dalla Società nazionale, che obbligò il
granduca regnante ad abbandonare Firenze e la Toscana. Si costituì a Firenze
un Governo provvisorio che chiese e ottenne per l’ex-granducato il protettorato del re di Sardegna, rappresentato a Firenze da un commissario. La rivoluzione nazionale italiana aveva varcato l’Appennino, in una zona non prevista negli accordi di Plombiéres. Intanto il conflitto franco-sardo-austriaco si svolgeva
favorevole agli eserciti napoleonico e sabaudo. Dopo la vittoria di Magenta, i
regnanti a Parma e a Modena e i funzionari pontifici nelle Romagne furono costretti ad allontanarsi da movimenti insurrezionalisti che diedero vita a governi
provvisori mentre Vittorio Emanuele II ne assumeva il richiesto protettorato,
facendosi rappresentare da commissari.
Il 24 giugno 1859 i franco-sardi riportarono la grande vittoria di Sol­ferino
e San Martino, che sembrò consentire loro di operare oltre il Mincio, verso il
Veneto. Ciò non avvenne perché, per diversi motivi, Napoleone III l’8 agosto
1859 offrì all’imperatore Francesco Giuseppe un armistizio, accettato e sottoscritto l’11 successivo. Molte circostanze concorsero a convincere Napoleone III
a interrompere la guerra, fino ad allora vittoriosa: certamente influirono sulla
decisione dell’imperatore gli sviluppi della situazione nell’Italia centrale. Quei
moti dimostravano come il movimen­to patriottico italiano avesse assunto uno
sviluppo che usciva largamente dalle pattuizioni di Plombiéres.
Vittorio Emanuele dovette subire la decisione dell’imperatore dei francesi e,
di conseguenza, richiamare i propri commissari da Firenze, Bologna, Modena
e Parma. Napoleone, dal canto suo, rinunciò a Nizza e alla Savoia (si sarebbe
accontentato del rimborso delle spese di guerra) e se ne tornò in Francia. Grande fu l’ira di Cavour per l’interruzione della guerra. A Monzambano ebbe un
tempestoso colloquio col re, quasi un alterco. Cavour vedeva crollare il progetto
politico che aveva elaborato con patriottismo, intelligenza e pazienza. Parlò al
re in termini non consueti per i regnanti ma in quel momento sapeva di essere
la più importante personalità politica italiana, e lo fece notare al suo interlocutore. Uscito da quel burrascoso incontro, il grande ministro si fermò a discutere ancora sulla piazza del paese con i propri più stretti collaboratori. Cavour si
dimise da presidente del Consiglio e nella carica gli successe il generale Alfonso
Lamarmora, che ebbe quale ministro degli Interni Urbano Rattazzi.
Prima di continuare l’esposizione siano lecite due osservazioni. La prima:
quell’armistizio di Villafranca, che tanto aveva inquietato Cavour, aveva pur
significato la vittoria dell’Europa delle nazionalità contro l’Europa dei tratta
ti dinastici e illiberali di Vienna. La seconda: dalla sconfitta austriaca del 1859
comincio la lunga decadenza dell’impero asburgico, che si concluse 60 anni
dopo, a Villa Giusti. Certamente tutto questo lo vediamo noi oggi, nella prospettiva storica, poiché i contemporanei, nel pieno dell’azione, non potevano
percepire l’onda lunga degli avvenimenti del 1859: ma noi abbiamo il dovere di
ricordare le conseguenze di quelle gloriose battaglie, da Montebello a Solferi­
no e San Martino.
L’armistizio dell’11 agosto aveva creato una situazione piena di pericoli in
Emilia, nelle Romagne e in Toscana. In conseguenza di quell’armistizio, sottoscritto anche da Vittorio Emanuele, erano stati ritirati i commissari regi da
quelle regioni che pertanto restavano abbandonate a se stesse ed esposte al pericolo di una restaurazione degli antichi sovrani, il che avrebbe rappresentato un
colpo molto grave per la rivoluzione nazionale italiana. Fortunatamente ciò non
avvenne. Quelle regioni si diedero subito un’organizzazione politica e militare,
sotto la guida di uomini capaci ed energici, quali Luigi Carlo Farini in Emilia
Romagna e Bettino Ricasoli in Toscana. Questi uomini e le popolazioni erano
risoluti a impedire il ritorno degli antichi sovrani, anche combattendo. In tale circostanza, tuttavia, come un po’ in tutta la storia del nostro Risorgimento,
non bisogna ignorare la rilevanza che ebbe la politica delle potenze europee, in
questo caso l’Inghilterra. A Londra non si era vista con molto favore la guerra
franco-sarda in Italia, poiché si temeva che essa avrebbe provocato un aumento
dell’influenza francese in Italia, cioè nel Mediterraneo, settore cui la Gran Bretagna era particolarmente sensibile. Ritiratesi le forze francesi dalla penisola,
Londra era diventata favorevole alla rivoluzione italiana, nella prospettiva della
creazione di un grande Stato italiano destinato non a subire ma ad equilibrare
la presenza francese nel Mediterraneo. Una situazione obbiettivamente difficile
che occorreva giocare su due piani, quello interno con le forze politiche dentro
e fuori dal Parlamento, e quello nel campo diplomatico internazionale.
Per risolvere la complicata situazione, il re richiamò al potere Cavour il 16
gennaio 1860. Il conte si mise al lavoro, facendo fallire in pochi mesi i progetti
di restaurazione dei principi spodestati. Guadagnò l’assenso dì Napoleone III
all’unione dei ducati di Parma e Modena al Regno di Sardegna valendosi della necessità, in cui l’imperatore dei francesi si trovava, di presentare all’opinione pubblica, come compenso ai sacrifici della guerra, l’acquisizione alla Francia di Nizza e della Savoia, cui Napoleone aveva rinunciato ma che costituivano pur sempre una considerevole attrattiva per il re francese. La conseguente
trattativa fu avviata con sollecitudine e si concluse con un accordo franco-sar
do che sarebbe stato consacrato da un plebiscito delle popolazioni interessate.
Analogo plebiscito avrebbe sanzionato l’annessione al Regno di Sardegna
dell’Emilia e della Romagna. Sorse così un grande Stato che si estendeva dal
nord al centro dell’Italia e che nel marzo del 1860 prese il nome di Regno dell’Italia settentrionale e centrale. Era un gran passo verso l’unità della nazione che,
senza ombra di dubbio, si dovette alla volontà, all’abilità, al patriottismo sincero e operante del conte di Cavour.
La politica cavouriana fu confortata dal consenso elettorale. Nelle elezioni
politiche che si tennero il 25 e il 29 marzo 1860 per la nuova Camera dei deputati la destra clericale e la sinistra più radicale furono sconfìtte. Era, in fondo, la
vittoria della Società nazionale, quella efficace sintesi, voluta da Cavour, tra forze
politiche diverse ma che avevano la comune méta dell’Italia libera e unita.
Restava il problema del sud, del Regno delle Due Sicilie, il più grande Stato
italiano. Dopo un breve momento costituzionale nel 1848, nel regno borbonico si era restaurato il regime assoluto, con la conseguente repressione di ogni
aspirazione a liberi ordinamenti. Processi, carceri, esili non furono risparmiati
ai patrioti liberali del sud, che non erano pochi. Nel 1859 Cavour aveva proposto al giovane re delle Due Sicilie, Francesco II di Borbone, appena succeduto
al padre Ferdinando II, di concedere la Costituzione e di allearsi con lo Stato
sabaudo ma Francesco II aveva respinto la proposta, mostrandosi avverso alle
idee dì libertà e nazionalità ben presenti nel movimento patriottico italiano.
In questo quadro politico sorse l’idea della spedizione che poi sarà detta
“dei Mille”, un’impresa schiettamente mazziniana nell’ispirazione anche se garibaldina nell’esecuzione, come erano state mazziniane le spedizioni dei fratelli Bandiera e di Carlo Pisacane. Un presupposto ideologico in contrasto con il
pensiero e con l’agire di Cavour e dei cavouriani. Questa impresa di Garibaldi
fu una sorpresa per molti e suscitò emozione specialmente in Piemonte perché
pensata e attuata al di fuori delle istituzioni, cioè della monarchia, e questo suscitava preoccupazioni.
Come reagì Cavour? Il conte aveva, in fondo, una sola, ancorché cospicua,
preoccupazione, ossia che l’impresa garibaldina potesse assumere uno schietto
carattere repubblicano, per influenza dei non pochi mazziniani che stavano vicini a Garibaldi. Per ogni evenienza mandò navi della flotta sarda nelle acque
napoletane, a sorvegliare lo svolgersi degli avvenimenti. Non erano prevedibili
interventi stranieri, dato l’atteggiamento assunto dal governo inglese il quale,
persuaso che l’Italia si avviava a costituirsi in Stato unitario, favoriva palesemente l’impresa garibaldina. Il che, ammesso che ne avesse avuto l’intenzione, bloc
cava qualunque iniziati­va filo-borbonica di Napoleone III. Quanto all’Austria,
non poteva certo pensare a Napoli poiché l’impero asburgico era travagliato da
una grave crisi, soprattutto finanziaria.
Ma non mancavano a Cavour altre preoccupazioni, originate dalla spedizione
garibaldina. Garibaldi, che il 7 settembre 1860 era trionfalmente entrato in Napoli, aveva infatti espresso chiaramente la propria intenzione di spingersi fino a
Roma, eventualità che sarebbe stata assai pericolosa per quell’Italia che si andava facendo. Cavour si convinse che era necessario fermare Garibaldi, occupando con le truppe dell’esercito regio una parte dello Stato pontificio allo scopo di
impedire che le forze garibaldine potessero scontrarsi con quelle francesi poste a
difesa del Papa, il che avrebbe avuto conseguenze imprevedibili ma sicuramente disastrose per l’Italia. Deciso l’intervento, Cavour agì rapidamente. L’esercito,
non più piemontese ma non ancora italiano entrò nello Stato del Papa, sconfisse
i pontifici a Castelfidardo il 18 settembre 1860; il 27 successivo ca­deva la fortezza
di Ancona. L’esercito di Vittorio Emanuele poté così entrare nel territorio dell’ex
Regno delle Due Sicilie mentre Garibaldi stroncava un tentativo di riscossa borbonica nella grande battaglia del Volturno dell’1-2 ottobre 1860.
L’intervento dell’esercito regio impedì a Garibaldi di agire su Roma per evitare quella che sarebbe stata una guerra fra patrioti, micidiale per il Paese che
andava verso l’unificazione. Garibaldi indisse i plebisciti per l’annessione dell’ex
Regno delle Due Sicilie alla monarchia di Vittorio Emanuele per il 21-22 ottobre 1860, deponendo la propria dittatura nelle mani del re che incontrò a Teano il successivo 26 ottobre. A Teano si incontrarono due grandi italiani: non
c’è dubbio che Garibaldi sacrificò i propri sentimenti repubblicani perché capì
che quel sacrificio rendeva possibile per l’Italia essere libera e unita; il re, a sua
volta, comprese che la monarchia sabauda, se voleva regnare sul grande Paese
che si stava unificando, non poteva non essere una monarchia costituzionale,
anche se a Vittorio Emanuele non mancavano vocazioni contrarie.
Cavour fu il grande protagonista dell’incontro di due opposti ideali, monarchia e repubblica, entrambi praticati da uomini probi e valorosi: egli capì che
solo un’antica monarchia come quella sabauda poteva dare alla nuova Italia il
biglietto di ingresso fra gli Stati europei. Anche in questo senso si può leggere
l’incontro di Teano. Tre giorni prima, il 23 ottobre, si erano incontrati a Varsavia lo zar, l’imperatore d’Austria e il re di Prussia per discutere della situazione
europea, in relazione agli avvenimenti d’Italia. Ai tre regnanti, ultima e pallida
immagine di quelle che erano state definite le tre corti reazionarie del nord, il
re Vittorio Emanuele, incontrando Garibaldi, pareva voler dire: «Non temete,

non ci saranno repubbliche, non ci saranno rivoluzioni egualitarie né sconvolgimenti sociali. Lo garantisco io, erede di una dinastia sovrana da quasi mille
anni e ben decisa a restarlo».
Tuttavia, qualche gesto di protesta vi fu. Lo zar richiamò il proprio rappresentante a Torino e la Prussia elevò proteste. Prima che la situazione potesse farsi
più difficile intervennero Napoleone III e il governo inglese. L’imperatore dei
francesi persuase lo zar a non muoversi e fece capire all’Austria che non avrebbe
avuto difficoltà a mandare ancora truppe francesi in Italia, se a Vienna si fosse
voluto agire offensivamente contro il Regno di Sardegna, che ormai comprendeva quasi tutta l’Italia. L’Inghilterra, dal canto suo, esercitò un’azione frenante
sulla Prussia. Così, grazie al responsabile comportamento di Vittorio Emanuele
II e di Garibaldi, e all’autorevole intervento di Parigi e di Londra, non si produsse quella che avrebbe potuto essere una gravissima crisi europea.
Esistevano certamente problemi all’interno dell’Italia, quasi unita. Per il
Mezzogiorno liberato vi era il problema di promuoverne il miglioramento morale e materiale, di crearvi e farvi funzionare istituzioni liberali. Cavour non si
nascondeva le molte e non lievi difficoltà di armonizzare le due Italie, quella
del nord e quella del cen­tro-sud. Cito da Autunno del Risorgimento di Giovanni
Spadolini (Firenze 1971):
È il dramma interiore e profondo dello statista piemontese che si trova a contatto
con la realtà, così diversa e così impenetrabile, delle terre meridionali; è il dramma
che si identifica con la difesa del metodo liberale contro le tentazioni autoritarie.
E ancora:
Non dispero affatto delle cose di Napoli. Confido nell’efficacia di un buon sistema
di go­verno e di libere istituzioni. Nessuna legge speciale, nessuna misura d’emergenza potrebbero mai sostituire la forza irresistibile del suffragio universale che sola
può rovesciare l’antico diritto patrimoniale delle Monarchie, che sola può imporre
all’Europa la nuova realtà, giuridica e politica, dello Stato italiano.
Cavour era convinto – ricorda ancora Spadolini – che solo attraverso la normalizzazione amministrativa, l’emanazione di buoni codici, il controllo delle urne si sarebbero create le condizioni per il progresso, per la sicura ripresa
dell’intero Mezzogiorno. Forse lo statista pensava a un sistema di autonomie
locali che correggesse il marcato accentramento della rattazziana legge comunale e provinciale del 23 ottobre 1859; forse non è un caso che un progetto di

ordinamento regionale, ispirato al decentramento amministrativo, fosse quasi
contemporaneamente apprestato da due eminenti uomini politici, quali erano
Luigi Carlo Farini e Marco Minghetti, entrambi molto vicini a Cavour. Come
è noto, questo progetto fu bocciato in sede parlamentare, soprattutto per opera
del Depretis, leader della Sinistra. E non se ne parlò più.
Il 27 gennaio e il 3 febbraio 1861 si celebrarono le elezioni politiche. Dei 443
deputati eletti in tutta Italia, una larga maggioranza era cavouriana, restando
isolate la Sinistra estrema e la Destra clericale e reazionaria. Il Parlamento, Senato del Regno e Camera dei deputati, nelle sedute rispettivamente del 28 febbraio e del 14 marzo 1861 procedettero a quella che, molto impropriamente, si
continua a definire la proclamazione del Regno d’Italia. Molto impropriamente
perché in quelle due adunanze parlamentari non fu proclamato nulla. Fu solo
approvata per acclamazione una legge, consistente in un solo articolo, che recitava: «Il re Vittorio Emanuele assume per sé e i suoi successori il titolo di re
d’Italia». La legge, pubblicata il 17 marzo 1861, non conteneva nessuna proclamazione di un Regno d’Italia; si trattava soltanto dell’assunzione da parte del
re di Sardegna del titolo di re d’Italia, da unire a quelli che già vantava di re di
Cipro e di Gerusalemme.
Per non esasperare una situazione già difficile e non scevra di pericoli, si presentò il fatto rivoluzionario dell’Italia unita come poco più, o poco meno, di
una titolazione araldica. Si spiega così la numerazione dinastica del re Vittorio
Emanuele. A rigor di logica, egli avrebbe dovuto essere il primo ma il re conservò la numerazione quale re di Sardegna, solo aggiungendo un titolo ai circa
40 che gli competevano. Non mancarono, sull’argomento, vivaci polemiche: si
volle vedere nella numerazione dinastica mantenuta la volontà di accentuare la
soluzione monarchica del Risorgimento, ignorando che si imponevano anche
esigenze internazionali, anzi, più puntualmente, di diritto internazionale. La
proclamazione di un Regno d’Italia avrebbe creato un nuovo soggetto di diritto
internazionale, il che avrebbe interrotto la continuità nei rapporti con gli altri
Stati. Si sarebbe in questo modo prodotto un momento di vuoto nei rapporti
diplomatici del nuovo Stato, un vuoto carico di pericoli e di incognite. La conservazione della numerazione dinastica da parte di Vittorio Emanuele permetteva una tal quale legittimità internazionale, prima di arrivare al riconoscimento formale da parte degli altri Stati che, in quel momento, non poteva essere né
sicuro né sollecito. Poterono così restare accreditati presso il re Vittorio Emanuele II anche i rappresentanti di quegli Stati avversi all’ordine costituzionale e
politico in­staurato in Italia.

Fu così superato un ostacolo non da poco per l’entrata dell’Italia unita, anche se non completamente, in quello che allora si chiamava “il concerto europeo”. Restava un altro ostacolo e non lieve, ossia quella che si definiva la “questione romana”, intendendosi con questa espressione la costituzione di Roma
come capitale d’Italia e i conseguenti rapporti con la Chiesa cattolica. Sui rapporti italo-vaticani, Cavour parlò alla Camera il 25 marzo 1861. In quella sede,
il grande statista disse tra l’altro:
Roma è la sola città d’Italia che non abbia memorie esclusivamente municipali; tutta la storia di Roma dal tempo dei Cesari al giorno d’oggi è la storia di una città la
cui importanza si estende infinitamente al di là del suo territorio, di una città, cioè,
destinata ad essere la capitale di un grande Stato.
Cavour precisava quindi come l’Italia dovesse andare a Roma, in accordo
con la Francia e che, in nessun caso, la riunione di Roma all’Italia dovesse essere interpretata come un segnale di assoggettamento della Chiesa cattolica allo
Stato italiano.
Non è possibile riportare in questa sede per intero quel lungo discorso di
Cavour. Possiamo soltanto ricordare come le parole che il grande ministro pronunciò in quella occasione esprimessero il più sincero patriottismo e, insieme,
il massimo rispetto per la Chiesa, la cui libertà non avrebbe corso nessun pericolo. Egli affermava:
Noi riteniamo che l’indipendenza del pontefice, la sua dignità e l’indipendenza
della Chiesa possano tutelarsi mercé la separazione dei due poteri, mercé la proclamazione del principio di libertà applicato lealmente, largamente ai rapporti della
società civile colla religiosa.
E concludeva:
Io nutro fiducia che, quando la proclamazione dei principi che ora ho fatta e quando la consacrazione che voi ne farete, saranno rese note al mondo e giungeranno
a Roma nelle aule del Vaticano, io nutro fiducia, dico, che quelle fibre italiane che
il partito reazionario non ha ancora potuto svellere interamente dall’animo di Pio
IX, queste fibre vibreranno ancora e si potrà com­piere il più grande atto che popolo mai abbia compiuto. E così sarà dato alla stessa generazione di avere risuscitato
una nazione […] e di avere firmata la pace fra la Chiesa e lo Stato, fra lo spirito di
religione e i grandi principi della libertà.

Su Roma capitale, Cavour parlò ancora alla Camera il 27 marzo, rimarcando la necessità di comporre il dissidio con la Chiesa. Questo nuovo inter­vento
cavouriano ritornava sull’argomento dei rapporti fra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica richiamando due ar­gomenti già trattati ma sui quali il conte voleva
evidentemente insistere: Roma doveva essere la capitale d’Italia; in nessun caso la riunione di Roma all’Italia avrebbe potuto nuocere all’indipendenza della
Chiesa. Egli ripeteva che il rapporto Stato-Chiesa riposava sicuro sul principio
più volte enunciato: «Libera Chiesa in libero Stato».
Un terzo discorso su questo tema fu pronunciato da Cavour il 9 aprile 1861,
non alla Camera ma al Senato del Regno. Alcuni passi di questo discorso sono
particolarmente illuminanti riguardo al pensiero cavouriano sul rapporto StatoChiesa, ad esempio il seguente:
Non vi ha dubbio che questa specie di antagonismo [fra lo Stato e la Chiesa] il quale non si può, a mio credere, apporre a colpa del Governo, serve ai partiti estremi
a Napoli, serve ai malcontenti, agli ambiziosi per creare gravi difficoltà al Governo,
per mantenere l’agitazione nel Paese.
Dal che si deduce che il conflitto Stato-Chiesa poteva essere alimentato da
varie fonti e strumentalizzato per motivi che non avevano nulla a che vedere
con il magistero religioso della Chiesa. Osservava quindi Cavour che il principio della separazione fra lo Stato e la Chiesa era stato accolto con molto favore
dall’opinione pubblica liberale, «ma è forza altresì che la parte moderata ed illuminata della Società Cattolica riconosca la grande verità di questo principio,
accetti il grande principio della libertà». E ancora:
Io sono profondamente convinto della verità di quanto ho avuto l’onore di esporvi
e del vantaggio immenso che la Chiesa deve ricavare dall’adozione dei principi sui
quali noi vogliamo stabilire un perfetto accordo e nutro ferma speranza che questa
convinzione a poco a poco andrà spargendosi nella società cattolica e a ciò contribuirà non poco la discussione pubblica e la manifestazione di sentimenti nazionali.
Il grande uomo concludeva con una invocazione:
Santo Padre, accettate i patti che l’Italia fatta libera vi offre, accettate i patti che devono assicurare la libertà della Chiesa, crescere il lustro della sede ove la Provvidenza v’ha collocato, aumentare l’influenza della Chiesa e nello stesso tempo portare a
compimento il grand’edificio della rigenerazione dell’Italia.

Questo, forse, fu l’ultimo importante discorso che Cavour pronunciò davanti a un ramo del Parlamento italiano. Meno di due mesi dopo, il 6 giugno 1861,
Camillo di Cavour lasciava questo mondo. Noi lo ricordiamo e ne onoriamo la
memoria, con rimpianto.
Bibliografia
La bibliografia cavouriana è copiosissima. Si
elencano di seguito solo le opere consultate per
la redazione di questo lavoro, a loro volta ricche
di citazioni bibliografiche e documentarie.
Camillo Benso di Cavour, Discorsi per Roma capitale, Donzelli, Roma 2010.
Nicomede Bianchi, Il conte Camillo di Cavour,
Unione tipografico-editrice, Torino 1863.
Nicomede Bianchi, La politica del conte di Cavour dal 1851 al 1861, Unione tipografico-editrice, Torino 1885.
Ruggero Bonghi, Camillo Benso di Cavour,
Unione tipografico-editrice, Torino 1861.
Michelangelo Castelli, Ricordi (1847-1875), Tip.
Roux e C. Edit., Torino 1888.
Franco Catalano, Ruggero Moscati, Franco Valsecchi, L’Italia nel Risorgimento, Mondadori, Milano 1964, pp. 717-842.
Francesco Cognasso, Cavour, Dall’Oglio, Milano 1974.
William de la Rive, Il conte di Cavour, Istituto
geografico De Agostini, Novara 1964.
Luigi Ghiaia, Il conte di Cavour. Ricordi di Michelangelo Castelli, Torino 1886.
Arturo Carlo Jemolo, Libera Chiesa in libero
Stato, in Cavour 1861-1961, Bottega d’Erasmo,
Torino 1962.
Umberto Marcelli, Cavour diplomatico. Dal
Congresso di Parigi a Villafranca, A. Forni, Bologna 1961.
Leopoldo Marchetti, Il conte di Cavour, Vallardi, Milano 1943.
Adolfo Omodeo, L’opera politica del conte di Cavour, La Nuova Italia, Firenze 1941.
Carlo Pischedda, Problemi dell’unificazione italiana, Mucchi, Modena 1963.
Rosario Romeo, Vita di Cavour, Laterza, RomaBari, 1984.
Luigi Salvatorelli, Spiriti e figure del Risorgimento, Le Monnier, Firenze 1961.
Giovanni Spadolini, Autunno del Risorgimento,
Le Monnier, Firenze 1972.
Giuseppe Talamo, L’Italia di Cavour. Guerra e
Rivoluzione: l’Unità, in AA.VV., Storia d’Italia,
Einaudi, Torino 1961, vol. IV, pp. 107-171.
Franco Valsecchi, Il Risorgimento e l’Europa: l’alleanza di Crimea, A. Mondadori, Milano 1948.
Franco Valsecchi, L’Italia del Risorgimento e l’Europa delle nazionalità, Giuffrè, Milano 1978.
Gli anni giovanili di Cavour
e il suo Diario (1833-1843)
Luigi Amedeo Biglione di Viarigi*
Cavour entrò in modo ufficiale nella vita politica del suo Paese tra la fine del
1847 e l’inizio del 1848, quando già contava circa 38 anni e aveva nel suo passato un lungo periodo di studi e di esperienze intense e importanti, sia per l’ampiezza dei suoi interessi sia per l’alta qualità delle relazioni da lui frequentate in
quegli anni, in patria e all’estero. Di tale periodo vogliamo trattare in questa
relazione, anche perché il Cavour successivo – per 13 anni, fino alla morte nel
1861, presidente prima del Consiglio del Regno di Sardegna e quindi del nuovo
Regno d’Italia – poté indubbiamente mettere a frutto le varie e vaste cognizioni
in precedenza attinte in campo nazionale e internazionale.
Preziose fonti della sua (nel tempo) elaborata formazione, che evidenzia una
complessa storia di studi, di riflessioni e di impegni, sono quelle costituite dai
suoi stessi scritti autobiografici, come il Diario (1833-1843) pubblicato da Domenico Berti nel 1888 1, il quale lo aveva utilizzato nel suo studio Il conte di Cavour
avanti il 1848 2, uscito due anni prima. Più recentemente, nel 1941, il Diario fu
pubblicato da Luigi Salvatorelli tradotto dall’originale in lingua francese: è l’edizione cui facciamo riferimento in questa nostra esposizione 3.
Cavour, nato nel 1810, visse da giovane, insieme al grande e incessante entusiasmo per gli studi e le sempre nuove esperienze, anche momenti di scontentezza per la sua non piena indipendenza economica. Soggiornò a Ginevra, a
Parigi, a Londra, in un reticolo di contatti, facilitati dalle parentele e dalle aderenze familiari, divenendo precocemente uomo di stampo europeo, grazie alle
sempre più ampie possibilità di conoscere personaggi e istituzioni, e alle vaste
* Socio e consigliere dell’Ateneo di Brescia; consigliere dell’Isri.
1
Domenico Berti, Diario inedito con note autobiografiche del conte di Cavour, Roma-Voghera 1888.
2
Domenico Berti, Il conte di Cavour avanti il 1848, Roma-Voghera 1886.
3
Diario (1833-1843) del conte di Cavour, introduzione e note di Luigi Salvatorelli, Rizzoli e C. Editori, Milano-Roma 1941, traduzione dal francese di Marco Cesarini. Il Sofà delle Muse, Collezione
diretta da Leo Longanesi, vol. 10.


letture, sorrette dalla sua acuta intelligenza e da una forte volontà di realizzarsi
nel mondo a lui contemporaneo. Affrontò problemi politici, economici, e quelli
relativi ai rapporti fra le varie classi sociali, alla giustizia, alla distribuzione delle
ricchezze e dei beni.
Sul «Corriere della Sera» del 9 settembre 1941, con il suggestivo titolo Cavour avanti lettera, appariva, a firma Panfilio, una recensione del sopra ricordato Diario pubblicato a cura di Salvatorelli. Il testo terminava con parole molto
significative: «Ma anche se, disgraziatamente, i tempi non fossero venuti incontro all’uomo, o, se tutto Camillo Cavour fosse rimasto in queste annotazioni
giovanili, il diario sarebbe documento prezioso di una giovinezza inespressa ma
sempre eccezionale» 4. Il Diario si dimostra, quindi, via via, un vero e proprio
illuminante itinerario intellettuale, morale, politico e sul campo del pensiero
sociale di Cavour relativamente a molti ambienti, dal Piemonte, a Ginevra, alla
Francia e all’Inghilterra, in anni caratterizzati da grandi problemi, da più o meno sotterranee proteste e da movimenti di varia natura culturale ed editoriale.
Ai fini della formazione di Cavour sono anche importanti le sue ampie parentele internazionali. Il padre, Michele, era legato alla corte reale ed ebbe la
carica di vicario di polizia di Torino; la nonna apparteneva ai de Sales, la famiglia di San Francesco di Sales; la madre, Adele, alla famiglia patrizia dei Sellon,
oriunda di Nimes, ma stabilitasi poi a Ginevra. I Sellon erano calvinisti, ma la
madre di Cavour si convertì al cattolicesimo. Parenti dei Sellon erano i ginevrini De la Rive, di origine italiana.
Cavour entrò giovanissimo, nel 1820 (quindi a 10 anni), nell’Accademia militare di Torino e ne uscì nel 1826 con il grado di sottotenente del Genio, con
destinazione Torino. Sulla sua permanenza all’Accademia militare saranno utili
alcune informazioni per descrivere il suo animo negli anni dell’adolescenza. Il
fratello Gustavo, quando lo andava a trovare all’Accademia, era solito leggergli i
giornali, tanto Camillo era desideroso di notizie politiche, mentre, ad esempio,
nel 1825, avendogli il professore di matematica consigliato di specializzarsi in
questa disciplina, egli rispose che era meglio l’economia politica e che sperava di
vedere il Regno di Sardegna retto con una Costituzione. Dal 1824 al ’26 fu paggio di Carlo Alberto, allora principe di Carignano, ma non si sentiva a suo agio
in questa incombenza. Nel 1829 fu inviato per servizio a Exilles, un forte della
Val d’Oulx, e poco dopo a Şesseillon, nei pressi di Modane. Nel ’29 è a Torino,
nel ’30 a Genova, città in cui si trovava più a suo agio per la presenza di una società più viva, attiva e ricca di possibilità di incontri con forestieri.
A Genova mostrò tutta la sua simpatia per la Rivoluzione francese del luglio
1830 e alla fine dell’anno venne richiamato a Torino, da dove, non facendo mistero delle sue idee, fu confinato nel forte di Bard, in Val d’Aosta, per otto mesi,
dal marzo al novembre 1831. Scrive Domenico Berti in Cavour avanti il 1848:
Ventimiglia, Exilles, Sesseillon, Bard, ecco i luoghi principali dove il Conte di Cavour visse quattro anni meditando, studiando e scrivendo. La solitudine delle Alpi
tenprò maggiormente il suo ingegno ed il suo animo, rafforzando il primo nella
sua originalità nativa, e mantenendo viva e vigorosa nel secondo la fede nel rinnovamento politico e sociale dell’Italia 5.
Alla fine del 1831, Cavour si dimise dall’amministrazione militare. Ed ecco il
ritorno all’altro polo della sua esistenza, la casa paterna, impegnato nella conduzione delle tenute di Grinzane (nei pressi di Alba) di cui fu sindaco. A Torino frequentò ambienti diplomatici, entrando soprattutto in contatto con l’ambasciatore di Francia, barone di Barante, e dei suoi segretari, il che fu per lui
una scuola politica di liberalismo moderato. Nell’agosto 1833 si recò in Svizzera
e in data 16 agosto iniziò il Diario che tenne, abbiamo visto, sia pure con interruzioni, fino al 1843 e caratterizzato, negli ultimi due anni, da più sintetiche
«Note autobiografiche» 6.
Nel Diario prende nota di tutto quanto lo colpisce. Lo inizia a Ginevra, un
centro di vita assai varia. Il 26 agosto del ’33, dopo aver letto un articolo apparso
sulla Revue d’Edimbourg riguardante gli alti indici di lettura delle classi povere
della Gran Bretagna, commenta: «Questo fatto rappresenta la risposta migliore
a quanti sostengono che le masse si interessano solo di scandali, calunnie e violenze» 7. Sono idee che chiaramente dimostrano una spontanea fiducia di Cavour nelle popolazioni: convinzioni confermate dopo una visita effettuata con
De la Rive a un penitenziario, in seguito alla quale annota che quasi tutti i detenuti avevano dei libri. Rende visita al celebre storico ed economista ginevrino Sismonde de Sismondi e scrive il 27 agosto ’33 che questi, pur biasimando
l’«entusiasmo teorico e pratico» dei redattori della Giovine Italia, riconosceva
Domenico Berti, Il conte di Cavour avanti il 1848, a cura di Franco Bolgiani, Fonte, Collana di
storie, memorie, documenti diretta da Cesare Spellanzon, 2, Fasani, Milano 1945, p. 129.
6
Diario, cit., pp. 9 e 271.
7
Ibidem, p. 43.
5
Panfilio, Cavour avanti lettera. Anche gli sfoghi di un giovane un po’ scapestrato illuminano la preparazione di un grande statista, in «Corriere della Sera», Milano, 9 settembre 1941.
4


«in loro sentimenti generosi ed elevati», aggiungendo: «Buon Sismondi! Quanto
intensamente s’intona il suo animo con quello degl’infelici italiani!» 8.
Il 5 settembre del 1833, dopo aver letto, ancora sulla Revue d’Edimbourg, un
articolo sulla commutazione delle imposte indirette in imposta sui capitali e
sui redditi, scrive:
[…] non potendo l’imposta sui capitali basarsi sopra una valutazione che si avvicini
al vero, bisognerebbe (come si fa a Ginevra) ricorrere a dichiarazioni volontarie che
ogni individuo sarebbe tenuto a fare, sotto giuramento, su tutto il suo avere 9.
Sull’imposta sui redditi, fa notare: «La valutazione esatta dei redditi è difficile quanto quella dei capitali […] Bisognerebbe tener conto non soltanto del
guadagno assoluto, ma anche della sua probabile durata» 10. Ricordiamo che nel
1851 Cavour, già ministro dell’Agricoltura e del Commercio nel ministero d’Azeglio, ne divenne anche ministro delle Finanze.
Il 21 settembre ’33 esprimeva le sue idee sugli Stati Uniti d’America e paragonava in modo assai interessante la società americana a quella europea:
e di economia. Nel settembre 1833 compie una gita sul lago di Losanna, in battello, e ci colpisce – in un uomo tanto dedito agli studi economici, politici e
sociali, con i loro specifici e dottrinari linguaggi – la descrizione squisitamente
letteraria che ne lascia nel Diario, descrizione che dimostra una sua indubbia
sensibilità e una naturale capacità descrittiva anche in campo strettamente letterario. Scrive infatti:
Il panorama che vi si gode è sublime e severamente melanconico. La grandiosità dei
ghiacciai, la severità delle rocce aride e spoglie, la tranquillità imponente del lago,
le ridenti colline voluttuosamente ombrose, formano un tutto armonico che risveglia nell’animo i sentimenti più delicati e più alti, tingendoli insieme d’una certa
tristezza piena d’intimi incanti che svanirebbero se si fosse costretti a condividerli
con esseri indifferenti. Per sentire veramente tutta la poesia di questa scena bisognerebbe avere l’amore di Saint-Preux o la disperazione di lord Byron 15.
Tra la fine del 1833 e per buona parte del ’34 Cavour attraversò alcuni momenti di particolari riflessioni psicologiche. Leggiamo quanto scrive il 19 ottobre del ’33:
In Europa e in America, abbiamo due condizioni sociali diverse, l’una basata sulla
dipendenza dell’uomo dai suoi simili (principio temperato da istituzioni e idee opposte, ma sempre vivo ed attivo); l’altra basata sull’indipendenza assoluta dell’uomo di fronte all’uomo 11.
Era molto tempo che non passavo una giornata in completa solitudine morale. E
quanto bene mi ha fatto! Mi sento più calmo, questa sera, più raccolto, direi quasi
migliore; il mio animo è tranquillo, la mia mente s’è spogliata delle passioni che la
ottenebrano quando lavoro in mezzo al frastuono della folla. La solitudine è veramente salutare; l’anima snervata dai continui contatti col mondo si ritempra, la volontà aumenta. Dopo esser stato qualche tempo con me stesso mi sento capace di
compiere cose più grandi. Se vivessi a lungo in questa solitudine calma e silenziosa,
forse a poco a poco la sensibilità di una volta si svilupperebbe di nuovo in me. Quella sensibilità è stata quasi soffocata dalle lotte che ho dovuto sostenere perché il mio
carattere non si alterasse fin dalla prima giovinezza. Forse proverei di nuovo tutte le
dolci emozioni di cui ero capace, ma che, soffocate nelle continue lotte, mi hanno
esacerbato e indurito il cuore. Ma a me simile felicità non è riservata. L’effetto salutare di alcuni giorni di solitudine si annullerà ben presto nell’atmosfera del mondo
in cui vivo sempre in ostilità con molte persone che dovrebbero essermi care 16.
Pone, di seguito, la domanda: «Quale dei due principi è più alto, più nobile,
più vicino alle massime sublimi del Vangelo?» 12. E aggiunge: «Lascio la risposta
ad ogni uomo imparziale» 13. Ma precisava: «Dopo questo confronto, bisogna
esaminare gli inconvenienti, le esagerazioni, le conseguenze spiacevoli, assurde,
funeste o ridicole che quei due principi comportano» 14.
A Ginevra, Cavour scrive anche, sulla Biblioteque universelle, di agricoltura
Ibidem, p. 47.
Ibidem, p. 53.
10
Ibidem, p. 54.
11
Ibidem, p. 64.
12
Ibidem.
13
Ibidem.
14
Ibidem.
8
9

Alcuni passi ci offrono un Cavour insolito, romantico, si direbbe “leopar-
Ibidem, pp. 67-68 e n. 1 p. 68.
Ibidem, p. 81.
15
16

diano”. Il 1834 è di fatto per lui un periodo psicologicamente difficile. Scrive il
28 gennaio: «Sono ritornato a casa annoiato e disgustato della vita. Non avevo
per consolarmi che il ricordo di un passato senza interesse e la prospettiva di un
avvenire senza scopo, senza speranze e senza desideri» 17.
Osserviamo che questo «avvenire senza scopo, senza speranze e senza desideri» richiama il v. 5 di A se stesso di Leopardi: «Non che la speme. Il desiderio
è spento». Continua di seguito Cavour, il 28 gennaio:
sono indispensabile alla sua felicità. Nei bambini essa ha trovato qualcosa a cui affezionarsi e dedicarsi. Io, col mio amore melanconico, sono quasi un ostacolo alla
sua felicità 21.
E dice degli amici:
Non parlo dei miei amici. Molte persone hanno stima e benevolenza per me. Tutti
quelli che mi conoscono mi vogliono bene, ma io non sono necessario ad alcuno.
Al massimo sono utile a uno o due 22.
Mi restava ancora un’illusione; quella dell’amicizia, o per esser più esatti, quella
dell’ascendente che la superiorità del mio spirito poteva esercitare sopra i miei amici e della loro conseguente dedizione. Essa è passata, completamente passata, più di
tutte le altre illusioni di vanità e di gloria che mi hanno per tanto tempo dominato.
Amici del cuore, non ne ho più che uno; ma come è diminuita la sua affezione! 18
Ma va oltre. C’è l’avvenire, il suo futuro:
L’avvenire, lungi dal sorridermi, mi offre soltanto un progressivo e continuo aggravarsi di affanni. Che sarà di me a trent’anni? Piuttosto che figlio di famiglia come
ora, preferisco mille volte non esser più a questo mondo 23.
E si osservi con quale acutezza egli si esamina:
Di giorno in giorno il mio spirito si è chiuso in un cerchio sempre più ristretto; le
mie facoltà, invece di svilupparsi e di produrre ciò che promettevano, hanno dato
soltanto risultati ordinari e comuni. Sono un uomo di mondo appena spiritoso.
Questa misera qualità, unico resto di più brillanti speranze, è sufficiente a mantenere
il mio amico nella sua illusione? Impossibile. L’incanto è stato spezzato 19.
Era per lui assai doloroso constatare (o supporre) (10 maggio 1834): «tutte le
strade che la mia intelligenza potrebbe aprirmi sono ermeticamente chiuse» 24.
Insiste il 29 luglio 1834:
Ma val la pena cercare di sforzarsi a farmi rinunciare ad una parte politica se tra poco
non sarò più buono a niente? In politica per me tutto è finito. Sono invecchiato in
pochi anni senza acquistare una sola attitudine o una sola cognizione di più. Sarebbe ridicolo conservare ancora le illusioni di grandezza e di gloria che hanno cullato
i miei giovani anni. Bisogna fare di necessità virtù, e rassegnarsi per tutta la vita ad
essere solo un onesto e pacifico borghese di Torino. Ah! Se fossi inglese, a quest’ora
sarei già qualcuno e il mio nome non sarebbe sconosciuto. Ma sono piemontese,
e visto che non posso cambiarmi, devo almeno cercare di non rendermi ridicolo 25.
Disserta anche, nella stessa lettera, dei rapporti familiari e del problema della
sua esigenza di affermarsi attraverso una posizione personale:
Anche i miei rapporti familiari non vanno bene. Amo moltissimo la mia indipendenza; ma sono il più legato degli uomini. Sono un figlio di famiglia in tutta la forza
del termine. Ho volontà ardente e tormentata, ma nessun modo di esercitarla 20.
Coinvolge, nel suo particolare stato d’animo, anche la madre:
Mia madre mi ama ancora. Credo anzi che mi ami ancora molto. È così buona mia
madre, così tenera nel suo amore, e io lo merito tanto poco. Ma in fondo io non
«Sono invecchiato in pochi anni» dunque scrive, e non ne aveva ancora compiuti nemmeno 24! I suoi ampi orizzonti si scontravano con i limiti ristretti di
uno Stato piccolo come il Piemonte, di fronte alle grandi potenze europee. Da
Ibidem.
Ibidem.
23
Ibidem, p. 123.
24
Ibidem, p. 134.
25
Ibidem, p. 150.
21
Ibidem, p. 120.
18
Ibidem.
19
Ibidem, p. 121.
20
Ibidem, p. 122.
17

22

qui nasce il suo sofferto problema, insieme di uomo e di cittadino. Ma pensiamo
che sarebbe stato proprio lui, alcuni anni dopo, da primo ministro del Regno
di Sardegna, a porre il suo Paese al centro della politica che avrebbe permesso
all’Italia di diventare uno Stato nazionale unitario. Le parole che abbiamo sopra
citato: «In politica per me è tutto finito», erano indubbiamente frutto di uno
sconforto momentaneo, così come quando, il 21 agosto 1834, non ritrovandosi
nella linea politica di Carlo Alberto, scriveva con molta efficacia che per lui non
ci sarebbe stata «altra carriera che piantare cavoli e coltivare vigne» 26. Ironia della sorte, fu proprio Carlo Alberto che, concedendo nel 1848 lo Statuto, avrebbe
permesso a Cavour di sviluppare il suo successivo itinerario politico.
Cavour era anche convinto (26 agosto 1834) che: «Per essere un abile uomo
di Stato bisogna innanzi tutto possedere il senso del possibile» 27. Questa osservazione probabilmente lo aiutò a superare, con energia, gli stati di abbattimento
che abbiamo sopra menzionato, anche perché egli non era certo un uomo che
si potesse arrendere di fronte a posizioni irrazionali. Ed eccolo, nel 1835, a Parigi, attento a quello che veramente lo interessava, per carattere e per cultura: gli
aspetti della società, quali le classi popolari, le industrie, le professioni, le carceri, gli ospedali e i più svariati risvolti politici e culturali, assistendo anche alle
riunioni dell’Assemblea nazionale francese. Era convinto che la società si stesse
dirigendo verso la democrazia, pur non prevedendo sotto quali forme.
Nel 1835 va pure a Londra e amplia nella capitale inglese le sue cognizioni e
i suoi reali interessi: ancora i problemi connessi con le scuole, le carceri, le classi più deboli, l’industria, addirittura il sistema della distribuzione del gas, «raccolto in immensi gassometri» 28 (25 maggio 1835), le strade ferrate, come quella,
in costruzione, per Birmingham. Pensiamo quanto Cavour abbia poi operato
per i trasporti ferroviari (la linea Torino-Genova, per esempio) durante la sua
presidenza del Governo.
Nel 1836 compì un viaggio a Villach, in Austria, e al confine del Ticino ebbe qualche noia con la polizia austriaca a causa di alcune informazioni che lo
riguardavano, nelle quali si diceva che egli avesse fama di essere un esaltato e
che pareva essersi compiaciuto per la Rivoluzione francese del 1830. In seguito
a queste informazioni erano state date disposizioni ai posti di frontiera perché
gli fosse impedito l’ingresso in Austria. Tuttavia il problema fu superato e Ca Ibidem, p. 155.
Ibidem, p. 160.
28
Ibidem, p. 195.
vour poté proseguire il viaggio. Ma commenta (2 aprile 1836): «queste inutili
vessazioni rendono odioso il governo austriaco agli stranieri e ai sudditi» 29. Fu
questo il primo contatto diretto che Cavour ebbe con il potere austriaco. Ritornò una decina di giorni dopo, passando da Trieste, ove prese contatti con
vecchi e nuovi amici. E qui entriamo in un aspetto meno noto della futura politica di Cavour: il suo interesse per la Venezia Giulia, che, come il Trentino,
non faceva parte del Lombardo-Veneto, ma della Confederazione germanica,
in qualità di terre dell’Impero d’Austria, fatto che non impedì al primo ministro del Regno di Sardegna di tenere, prima del 1859, rapporti anche con esuli
di quelle provincie.
Ricordiamo che nel 1843, quando l’uomo politico piemontese si interessò del
primo progetto delle linee ferroviarie del Piemonte, manifestò il parere che tali
comunicazioni avrebbero dovuto allacciarsi con quelle del Lombardo-Veneto,
per giungere fino alla Venezia Giulia. Nel 1837, a Parigi, proprio nel fervore delle
nascenti strade ferrate, manifesta nel Diario tutto il suo entusiasmo dopo aver
effettuato un tragitto in ferrovia:
20 agosto [1837] Sono andato a Saint-Germain in ferrovia; era la seconda volta che
provavo questo nuovo mezzo così comodo e rapido. Il mio gusto per questo nuovo
modo di viaggiare è aumentato. Seduto sull’imperiale vedevo fuggirmi dinanzi le
cose che mi circondavano. Niente può rendere la sensazione che si prova passando
con la rapidità del lampo sotto i ponti che attraversano la strada. Sembra che si scuotano perfino le rotaie. Con me c’erano Portula, Vacchetta, Martini e un medico di
Moncalieri, entusiasti della novità dello spettacolo, di cui erano spettatori ed attori.
Il medico in principio ha avuto un po’ paura, ma ha ritrovato presto la calma 30.
È ancora a Parigi nel 1838 e nel 1842. Nel 1841 va in Svizzera, nel 1843, a Londra. Nel 1847 è uno dei fondatori e degli animatori del giornale Il Risorgimento (il cui primo numero uscì a Torino il 15 dicembre), un titolo indubbiamente
indovinato e suggestivo: da allora possiamo datare, appunto, l’inizio della vita
pubblica e ufficiale di Cavour.
26
27

Ibidem, p. 237.
Ibidem, pp. 260-261.
29
30

ciclo di conferenze
Centocinquantesimo
anniversario
dell’Unità d’Italia
(1861-2011)
ottobre 2011
Riflessione sul 150º dell’Unità nazionale
Romano Ugolini*
Si sono ormai spenti i riflettori sulle celebrazioni per il centocinquantenario dell’Unità d’Italia e siamo già al lavoro per ricordare le tappe della Grande
Guerra che costituisce uno snodo di grande importanza nel percorso iniziato nel
1861. È quindi da un lato possibile tracciare un bilancio sereno sulle iniziative
del 2011 mentre dall’altro è necessario fissare alcuni punti fermi del processo di
unificazione, per rintracciarne i punti critici e le prospettive che hanno portato
alla prima grande crisi del ventesimo secolo.
Le manifestazioni per il centocinquantesimo anniversario della nascita del
nostro Stato sono partite un po’ in sordina per diverse ragioni. Pesava, da un
punto di vista sociale, la convinzione di una generale disaffezione verso la patria,
la scarsa conoscenza del nostro processo di unificazione, la caduta degli ideali
che avevano animato i padri fondatori. Vi sono state poi le “nubi nere” che una
ricorrente storiografia ha voluto addensare sull’età del Risorgimento, considerata come pericolosa elaboratrice di miti non sostenuti dalla realtà, e vista come
precorritrice diretta, se non addirittura artefice, del fascismo. Un altro timore
era infine legato al quadro politico degli ultimi anni, all’ipotesi di una possibile
disgregazione dello Stato unitario sotto le spinte convergenti di forze presenti
nel nord come nel sud d’Italia. L’accusa, in questo caso, era quella di aver creato
uno Stato forzatamente accentrato, con un’amministrazione pubblica completamente dipendente dalla capitale, che non ha saputo comprendere necessità e
peculiarità locali, e che ha duramente represso radicate vocazioni federaliste e
autonomiste presenti in diverse parti del Paese.
Ma proprio la mancanza di riferimenti, le contraddizioni del presente e l’incertezza sul futuro hanno più fortemente convogliato l’interesse sul momento
fondante della nostra realtà nazionale. Sono emersi studi scientifici di indubbio
valore che hanno colmato lacune storiografiche, si sono organizzati convegni,
conferenze e tavole rotonde che hanno presentato e dibattuto i risultati delle ricerche; istituzioni pubbliche e private hanno promosso manifestazioni e mostre
* Presidente nazionale dell’Isri.

in ogni parte d’Italia. La risposta degli studiosi e del pubblico è stata superiore
a ogni aspettativa: si è evidenziato un grande interesse verso i temi trattati, una
curiosità, prevalentemente costruttiva, soprattutto da parte dei giovani. Il Paese
ha dimostrato l’esigenza di riscoprire le proprie radici, la consapevolezza di essere una solida nazione, e la volontà di mantenersi tale.
In tale contesto, che è oggi una realtà radicata, vi è stato e vi è ogni spazio possibile di discussione critica sui caratteri dell’unificazione italiana, sulle
modalità con cui fu portata a compimento e sulla comprensione delle ragioni
dei “vinti”. È infatti indiscutibile che gli ideali e gli obiettivi nazionali abbiano leso posizioni e interessi particolaristici, e sarebbe miope negare alcune critiche ai primi governi unitari, formulate anche da parte di diversi protagonisti
del processo di unificazione: basterà ricordare l’amarezza di Giuseppe Garibaldi, espressa a volte in maniera violenta, soprattutto negli ultimi anni. Va detto
che la “poesia” eroica è spesso accecante mentre la “prosa” della quotidianità è
sempre messa sotto la lente del microscopio; ma non si può non considerare
che nel decennio in cui prese corpo e si consolidò lo Stato nazionale, il mondo
cambiò repentinamente. L’Europa cercava nuove affermazioni, Paesi quasi avvolti nel mistero, dal Nord America al Giappone, diventavano realtà operanti
nello scacchiere europeo, e la penisola poteva sopravvivere e incidere nel nuovo
corso storico soltanto unita.
Un pericolo incombente sulle celebrazioni del 2011 poteva essere, per altro
verso, che l’affermazione della nostra identità nazionale sfociasse, paradossalmente, in un nazionalismo senza senso, fuori dall’afflato europeo e umanitario
che aveva ispirato Garibaldi, Cavour, Mazzini e anche Vittorio Emanuele. Per
questo motivo è utile sottolineare l’inscindibile legame tra l’Unità d’Italia e il
contesto europeo di riferimento, e mettere in evidenza come il fattore di nazionalità che trionfa nella penisola rappresenti un elemento determinante del
futuro equilibrio internazionale, molto più di quanto lo abbia riconosciuto la
storiografia tradizionale.
Il Regno d’Italia nasce con una visione europea, affermando contemporaneamente il principio universale della nazionalità, come conclusione di un percorso che attraversa tutto il Risorgimento ma che trova gli elementi necessari
alla sua realizzazione e la sua sintesi tra il 1859 e il 1861, quando i nodi interni
e internazionali che ne avevano impedito l’espressione, sembrano sciogliersi in
quello che in molti hanno definito un “miracolo”.
La prima questione era quella di definire che cosa si intendesse per Italia.
Non è un caso che sia divenuta celebre, anche eccessivamente, l’espressione di

Metternich 1, «L’Italie est un nom géographique». La frase, di solito completamente decontestualizzata, era inserita in una nota al conte Dietrichstein, ministro plenipotenziario austriaco a Londra, del 2 agosto 1847 2, nella quale si parlava della situazione degli Stati preunitari e delle agitazioni in alcuni di essi, e
non aveva in sé una valenza critica. L’espressione rimane però calzante: esisteva
un’Italia geografica di lunghissima data, storicamente accertata fin dal terzo secolo avanti Cristo, e i cui confini coincidevano ancora, con poche variazioni,
con quelli enunciati da Mazzini nel 1831, all’interno dell’Istruzione generale per
gli affratellati nella Giovine Italia 3.
Esisteva anche un’Italia dal punto di vista culturale, più giovane di quella
geografica, ma con una tradizione di tutto rispetto che si poteva far risalire a
Dante Alighieri. Basterà ricordare i noti versi del IV Canto del Purgatorio: «Ahi
serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta» 4. Vi fu poi
la Canzone di Petrarca All’Italia, e via via un prestigioso cammino letterario che
all’alba del Risorgimento vibrava ancora dei versi di Alfieri.
Mancava un’Italia politica, abbozzata per la prima volta da Mazzini nel programma della Giovine Italia nel 1831, con estrema chiarezza: «L’organizzazione
politica destinata a rappresentar la Nazione in Europa dev’essere una e centrale» 5. Tale dichiarazione, che entusiasmò molti proseliti, fu comunque ritenuta
essenzialmente un’aspirazione, o una vera e propria utopia, in quanto non vi
erano i presupposti per realizzarla: gli ostacoli che tale traguardo imponeva di
superare apparivano, e in sostanza allora erano, insormontabili.
Sulla nota figura di Clemens Wenzel Lothar von Metternich-Winneburg, si veda Franz Herre,
Metternich: Staatsmann des Friedens, Kiepenhauer und Witsch, Köln 1983; Guillaume de Bertier de
Sauvigny, Metternich, Fayard, Paris 1986; Clemens von Metternich, Memorie, a cura di Gherardo
Casini, Bonacci, Roma 1991.
2
Per il testo completo della nota rinviamo ad Archivio triennale delle cose d’Italia dall’avvenimento
di Pio IX all’abbandono di Venezia, serie I, vol. I, Tipografia elvetica, Capolago 1850, pp. 11-12. Sul
tema vedi anche Fausto Brunetti, «L’Italia è un’espressione geografica». Trasfigurazione di un nome, in
«Rassegna storica del Risorgimento», a. LXXXVIII (2001), f. II, pp. 265-268.
3
Mazzini, all’art. 2, scriveva: «L’Italia comprende: 1º L’Italia continentale e peninsulare fra il mare
al sud, il cerchio superiore dell’Alpi al nord, le bocche del Varo all’ovest, e Trieste all’est; 2º le isole dichiarate italiane dalla favella degli abitanti nativi, e destinate ad entrare, con un’organizzazione
amministrativa speciale, nell’unità politica»; in Scritti editi e inediti di Giuseppe Mazzini, edizione
diretta dall’autore, vol. I, G. Daelli, Milano 1861, p. 108.
4
Vv. 76-77. Dante preconizza anche il ruolo di Roma alla quale, nel Convivio, attribuiva uno «spezial nascimento» ma anche uno «spezial processo» (IV, 13).
5
Scritti editi e inediti…, cit., p. 113.
1

I problemi fondamentali, di cui ho avuto modo di parlare più volte nel corso delle celebrazioni 6, erano essenzialmente tre.
Il primo era rappresentato dall’egemonia austriaca in Italia, che il congresso
di Vienna del 1815, con la sua politica di equilibrio, aveva considerevolmente rafforzato 7. L’unica potenza in grado di rimuovere tale predominio era la Francia,
ma un suo eventuale intervento non avrebbe risolto il problema, perché avrebbe meramente sostituito un’egemonia straniera con un’altra. La nascita di uno
Stato italiano, incuneato nel Mediterraneo, avrebbe comportato poi l’ostilità
della Gran Bretagna. L’asse Londra-Vienna si reggeva anche sui diversi interessi
delle due potenze, la prima proiettata sul mare, la seconda lungo il Danubio:
un nuovo grande Stato con una secolare tradizione marinara poteva costituire
una seria minaccia per la corona britannica. La creazione di uno Stato italiano
imponeva quindi di scacciare Vienna dalla penisola, di avere abbastanza forza
per impedire l’ingresso di Parigi e di riuscire a tranquillizzare la Gran Bretagna
ottenendone almeno la neutralità. Il quadro degli equilibri europei, sancito nel
1815, faceva apparire il disegno del tutto impraticabile.
Un’altra questione, che non sembrava poter avere una soluzione, era rappresentata dallo Stato pontificio. Costituiva sicuramente un’anomalia la presenza
del Papa, ovverossia di un sovrano che deteneva nelle sue mani il potere temporale in un territorio che attraversava il centro della penisola dal Tirreno all’Adriatico, e quello spirituale nei confronti di milioni di fedeli in Italia e nel mondo.
Fin dall’Allocuzione del 29 aprile 1848, Pio IX aveva asserito che il potere temporale gli era necessario per garantirsi il libero esercizio della sua autorità religiosa 8.
Tale determinazione aveva un profondo significato politico: essa subordinava il
governo temporale a quello spirituale, rendendo di fatto il primo indissolubile
dal secondo. Era quindi evidente che Pio IX non avrebbe mai guidato una lotta
della nazione per diventare Stato, ma, soprattutto, avrebbe impedito ai propri
sudditi di partecipare a un qualsiasi progetto nazionale.
Si veda tra gli altri Romano Ugolini, Giuseppe Garibaldi e l’Unità d’Italia. Dalla Nazione all’Umanità, in «Rassegna storica del Risorgimento», a. XCVII (2010), pp. 325-338.
7
Sulla Restaurazione in Italia si veda l’ancora fondamentale volume La Restaurazione in Italia. Strutture e ideologie. Atti del XLVII Congresso di storia del Risorgimento italiano (Cosenza, 15-19 settembre 1974), Istituto per la storia del Risorgimento italiano, Roma 1976.
8
Pio IX, sottolineando che la sua opera doveva essere rivolta al regno di Cristo, affermava che il
«civile Principato, del quale la divina provvidenza volle fornita la santa Sede» serviva «per la sua dignità, e per difendere il libero esercizio del supremo apostolato». Si veda la Allocuzione di Sua Santità papa Pio IX ai cardinali nel Concistoro segreto del 29 Aprile 1848, in Franco Mistrali, Da Novara a
Roma. Istoria della rivoluzione italiana. Documenti, Società editrice, Bologna 1863, p. 26.
6

Nei fatti, la politica della Santa Sede rimase vincolata alla difesa di due capisaldi: il possesso dello Stato pontificio aveva una sua derivazione divina, e,
dunque, il Papa non poteva né alienare i suoi territori, né affrancarsi dal potere civile; i suoi sudditi, inoltre – secondo caposaldo – erano votati a garantire
unicamente il libero esercizio dell’autorità religiosa del Sommo Pontefice. Per
di più, non essendoci alcun vincolo tra il territorio pontificio e i suoi abitanti,
la protezione da esercitarsi verso Pio IX per assicurargli un libero esercizio del
potere spirituale spettava ai fedeli, del suo Stato quanto di altri. Tale principio
si espresse, come è noto, già nel 1849 contro la Repubblica romana con l’intervento di ben quattro eserciti di potenze cattoliche, per restaurare il potere del
pontefice. In seguito, le truppe francesi a Roma e quelle austriache a Bologna e
ad Ancona rimasero a testimoniare la svolta politica e dottrinaria maturata dalla Santa Sede nel biennio 1848-49. Anche questo secondo ostacolo, che univa
aspetti territoriali a quelli politici e religiosi, appariva del tutto insuperabile rispetto a un processo di unificazione italiana.
Se una lucida analisi delle problematiche interne e internazionali rendeva
“tecnicamente” improponibile l’dea nazionale, ciò non di meno poteva essere
almeno cullata l’idea di “poter fare da sé”, di trovare una spinta eroica verso il
risultato ambito: ma qui ci imbattiamo nel terzo problema, probabilmente il
più sentito dai patrioti. In diverse parti d’Italia, già nei primi anni della Restaurazione, si erano verificate rivolte e insurrezioni, ma tutte rapidamente soffocate. Anche nel 1848 e nel 1849, tanto l’intervento di un esercito regolare come
quello piemontese quanto le esperienze di governi democratici sorti a Roma,
Firenze e Venezia, avevano palesato l’inesistenza di una guida militare carismatica, capace, al di là degli ostacoli oggettivi, di coagulare le forze animate dal
sogno nazionale, di spronarle alla battaglia, di dar loro speranza, e guidarle alla
vittoria contro le truppe straniere. Fin dal 1815 aleggiava sulla penisola il mito
del “Generale”, e i maggiori pensatori, sia moderati, sia democratici, evocavano
la necessità dell’avvento di tale figura militare come trasposizione in veste nazionale italiana del mito napoleonico 9. Già dal 1846 l’attenzione si concentrò sulla
Ricordiamo, ad esempio, il moderato Cesare Balbo, che in un saggio del 1847, dal titolo Del coraggio e dell’educazione militare, scrisse: «potessimo avere tre o quattro Volta, tre o quattro Alfieri o
Manzoni, o anche Danti, od altrettanti Michelangeli o Raffaelli, senza contare i Rossini e Bellini; io
li darei, e meco ogni viril cuore italiano li darebbe tutti quanti per un capitano che si traesse dietro
dugento mila Italiani, a vincere, od anche a morire, a provare in qualunque modo, in qualsivoglia
guerra, l’esistenza presente efficace del coraggio italiano». Il saggio è pubblicato in Lettere di politica e letteratura, edite ed inedite di Cesare Balbo, precedute da un discorso sulle rivoluzioni del medesimo
autore, Le Monnier, Firenze 1855, p. 439.
9

figura di Giuseppe Garibaldi: era giunta in Italia la notizia che il comandante
italiano, insieme a suoi connazionali, aveva vinto a San Antonio del Salto, in
Uruguay, l’8 febbraio, una grande battaglia, con forze impari, dimostrando il
coraggio, le doti di comando e di incitamento degli uomini che si andavano da
tanto tempo cercando. La ricostruzione degli avvenimenti, sicuramente eroici,
era comunque esagerata, ma dimostrava con quanta intensità si desiderasse un
condottiero italiano.
La fama che accompagnò Garibaldi al suo ritorno dall’America Latina e l’impatto che ebbe sui giovani volontari, consolidarono il suo mito. Ma i primi due
ostacoli che abbiamo esaminato rimanevano ancora troppo forti: dopo il 1849
l’equilibrio europeo sancito nel 1815 appariva saldamente ripristinato e il papa,
attraverso il suo “triumvirato rosso” e l’intervento straniero, aveva riaffermato
la sua politica. Non vi era più spazio neppure per Garibaldi, costretto a un secondo esilio: egli rimase indomito in attesa di una nuova occasione, ma in Italia
sembrò nuovamente svanire il sogno accarezzato per poco più di un anno.
All’inizio degli anni Cinquanta mancavano ancora tutte le premesse per il
conseguimento dell’unificazione italiana, e non si poteva neppure immaginare
che i nodi si sarebbero sciolti nel giro di pochi mesi tra il 1859 e il 1861. Quello
che avvenne in quel breve lasso di tempo, anche se la tradizione ce lo ha tramandato, come abbiamo già accennato, nei termini di “miracolo”, fu in realtà
il risultato dell’abile strategia di Cavour, del rientro del “Generale” e di qualche
errore di valutazione sul piano internazionale; altri tre aspetti che meritano di
essere analizzati attentamente, e che qui cercheremo di sintetizzare.
Il primo: Cavour, fin dalla sua ascesa alla guida del Governo del Regno di
Sardegna, riuscì progressivamente a far convergere su Torino l’attenzione e le
simpatie di tutti coloro che aspiravano a una prosecuzione, meno velleitaria e
più realistica, del discorso nazionale. La strategia cavouriana ebbe un salto di
qualità con il congresso di Parigi del 1856 10. La guerra di Crimea contro la Russia era stata vinta e l’armata si era battuta con onore; Cavour sedeva, anche se in
silenzio, al tavolo delle trattative di pace. Il Regno di Sardegna aveva in qualche
misura annullato l’ombra lunga che pesava sull’esercito dopo l’onta di Novara e
aveva ritrovato i suoi naturali alleati in Parigi e Londra, rompendo il pericoloso
isolamento del 1848-49. Cavour aveva ottenuto, come compenso dell’alleanza,
di poter parlare l’8 aprile della questione italiana in una seduta suppletiva del
congresso. Non era gran cosa dal punto di vista diplomatico, ma l’avvenimento
divenne oggetto di una propaganda capillare e tambureggiante del Partito nazionale italiano, l’organizzazione capeggiata da Manin, con la quale Cavour aveva
stipulato un secondo “connubio”, e che riuscì a trasformare un avvenimento,
volutamente circoscritto nelle intenzioni delle grandi potenze, in un grandioso successo personale del presidente del Consiglio. Al congresso Cavour pose il
problema della nazionalità, non solo italiana, come nuovo fattore da affrontare
e da risolvere nel quadro del mantenimento della pace nell’equilibrio europeo,
offrendo a Napoleone III un elemento chiave per poter prefigurare una guerra
all’Austria e scardinare gli equilibri scaturiti dal congresso di Vienna, progetto
che aveva accarezzato fin dalla sua ascesa al potere.
Il risultato fu, come è noto, l’accordo segreto del luglio 1858 a Plombières
tra Napoleone III e Cavour, dove il primo apparve come il vero ideatore del
“progetto” mentre il secondo assunse per la prima volta la veste del giocatore
dell’azzardo politico 11. Non entriamo nel merito delle tappe che portarono l’anno successivo alla guerra perché note e affrontate più volte anche nel corso delle
celebrazioni del centocinquantenario; ci preme soltanto precisare alcuni punti,
che costituiscono il terzo aspetto – sul secondo, Garibaldi, torneremo poi – che
permise il rapido superamento degli ostacoli all’unità italiana, quello degli errori degli altri attori sulla scena.
Un errore fatale fu certamente quello compiuto da Francesco Giuseppe nel
non accettare l’invito inglese e russo a un congresso dedicato alla soluzione della
questione italiana, che non prevedeva la partecipazione del Regno di Sardegna.
L’intento inglese era quello di riuscire a mantenere gli assetti del 1815, scongiurando la guerra e impedendo le pretese espansionistiche francesi. L’Austria però
non accettò la “mano tesa” britannica e inviò l’ultimatum al Regno di Sardegna,
un atto del tutto sproporzionato alla reale consistenza dei problemi sul tappeto,
e sicuramente controproducente. A condizionare tale posizione fu anche un precedente fallo della diplomazia pontificia che, paradossalmente al pari di Cavour,
osteggiò con tutti i mezzi possibili la realizzazione di tale congresso, non comprendendo le negative conseguenze che una tale posizione poteva arrecarle.
D’altra parte anche Napoleone III, ottenuta la guerra, si dimostrò del tutto
impari a perseguire i fini che si era prefissato: in realtà la falla nella sua strategia
fu aperta dal comportamento del cugino, il principe Napoleone, che in Tosca-
Sull’argomento si veda Rosario Romeo, Cavour e il suo tempo, vol. III, 1854-1861, Laterza, RomaBari 1984.
11
10

Si veda Romano Ugolini, Cavour e Napoleone III nell’Italia centrale. Il sacrificio di Perugia, Istituto
per la storia del Risorgimento italiano, Roma 1973.

na si fece irretire nel gioco ostruzionistico cavouriano fino a perdere la pazienza
e ad abbandonare quei territori – Toscana e parte dello Stato pontificio – dei
quali, per gli accordi precedenti, era stato indicato come nuovo sovrano. L’imperatore, come è noto, fu poi costretto, dopo la cruenta vittoria di Solferino,
a interrompere a Villafranca la sua azione in Italia, in quanto si era reso conto
che stava favorendo una reale affermazione del principio di nazionalità, mentre
il suo intento era quello di sostituire l’egemonia austriaca in Italia con quella
francese, stringendo il preconizzato Regno dell’Alta Italia, affidato ai Savoia, in
una morsa pressoché mortale. Anche un altro tassello della strategia napoleonica era venuto meno: l’imperatore aveva infatti ritenuto che la Santa Sede, posta
di fronte alle sconfitte austriache, avrebbe ricercato la protezione francese, cosa
che di fatto non avvenne. In Pio IX prevalse la profonda irritazione verso il terzo Bonaparte, e rimase anche nella sconfitta al fianco dell’Austria, creando così
i presupposti di una forte opposizione cattolica alla politica imperiale.
La situazione, dopo la stipula del trattato di Zurigo del 10 novembre 1859,
appariva complessa e foriera di pericolose evoluzioni. Il principio di nazionalità
si stava affermando senza tuttavia ancora avere una sua configurazione concreta, l’equilibrio sancito a Vienna nel 1815 era ormai obsoleto, senza la prospettiva
di una nuova stabilità. Il mondo tedesco cominciava a muoversi e iniziarono in
tale crisi a evidenziarsi scenari bellici continentali.
È proprio questo il momento in cui entra in gioco l’ultimo elemento che
abbiamo evidenziato, ovvero la capacità di iniziativa politica di Garibaldi, che
comprese bene che in quel momento si doveva tentare il tutto per tutto in
quanto, come egli stesso osservava, se si perdeva l’occasione «miracolosamente» creata, sarebbero passate almeno altre due generazioni prima di ritrovare le
condizioni per un’azione nazionale. Fu questa la spinta dell’impresa dei Mille
che ebbe inizio nella notte fra il 5 e il 6 maggio del 1860 dalle sponde liguri 12.
Si trattava certamente di un rischio, ma il rapido disfacimento del Regno delle
Due Sicilie e la fulminea avanzata di Garibaldi verso Napoli imposero alle potenze europee di accogliere con favore il male minore, ovverossia governare la
crisi circoscrivendola a una rapida soluzione del problema italiano. Si evitava
così il rischio di uno scontro a livello europeo che né la Gran Bretagna, né la
Prussia, né la Russia volevano, anche perché nessuna di esse era in grado di valutarne gli esiti e le future ripercussioni.
La tela tessuta da Cavour, l’abilità e la prontezza di Garibaldi e, bisogna aggiungere, anche la politica di Vittorio Emanuele II, che seppe abilmente sfruttare, separatamente, le doti dei primi due, portarono in pochi mesi all’agognato
obiettivo dell’unità nazionale. Non bisogna tuttavia dimenticare che al conseguimento di tale fine contribuirono in maniera non trascurabile gli errori commessi dai governi di Parigi, di Vienna e di Roma, ai quali abbiamo già accennato; tali errori ebbero come principale conseguenza il portare la Gran Bretagna
a favorire la nascita dello Stato italiano che, agli occhi di Londra, nasceva con
una chiara impostazione tanto antifrancese quanto antiaustriaca e quindi tendenzialmente disponibile a una stretta subordinazione alla politica inglese.
Nasceva quindi il Regno d’Italia, in maniera rapida e impensata solo pochi
mesi prima, ma tale evento portava con sé l’affermazione di un nuovo principio
– il principio di nazionalità – come fattore di equilibrio nella politica internazionale. Non era un principio di poco conto, e ciò spiega l’attenzione con la quale
il Risorgimento italiano è stato immediatamente riguardato come esempio da
tutte quelle nazionalità che pensavano di avere gli stessi problemi nel costituirsi come Stato. Il fatto poi che il nuovo Stato italiano nascesse anche nel giusto
equilibrio interno fra tradizione (per grazia di Dio) e modernità (volontà della
nazione) 13 costituiva anche un modello per quelle nazioni già Stato, dove vigeva
ancora il principio assoluto del potere sovrano.
Lo Stato italiano che muoveva i primi passi nel 1861 poteva contare, come
abbiamo ricordato all’inizio, su una millenaria tradizione in quanto entità geografica, e su una storia secolare in quanto ad unità culturale, ma l’Italia politica
e amministrativa, nata quasi all’improvviso, per i motivi che abbiamo appena
delineato, aveva davanti a sé un difficile percorso: dalla pacificazione dei territori acquisiti alla mediazione con le peculiarità locali, fino al riconoscimento e
all’affermazione internazionale. Nessuno pensava allora che sarebbe stato facile
o rapido creare un senso di appartenenza allo Stato e una forma di omologazione di tutta la nazione: il percorso è stato accidentato, con slanci e fratture, ma
l’unità ha retto anche in momenti tragici come quello della Grande Guerra, e
anche nelle crisi più recenti. La risposta alle celebrazioni del 2011 è stata intensa
e corale: si sono impegnati studiosi, istituzioni, scuole; hanno partecipato addetti ai lavori, nostalgici e tanti giovani; abbiamo riscoperto o approfondito temi
Le due espressioni, coniate per definire l’origine del potere del primo Napoleone, furono sancite
nella Legge n. 1 del neonato Regno, del 21 aprile 1861, «sulla intitolazione degli Atti», nei quali doveva figurare sotto il nome del re «per grazia di Dio e per volontà della nazione Re d’Italia».
13
Sull’argomento si veda Romano Ugolini, Garibaldi, Cavour e la spedizione dei Mille, in «Studi garibaldini», 10 (2012), pp. 65-74.
12


peculiari della nostra storia, abbiamo “raccontato” il nostro Risorgimento a chi
ancora non ne aveva neppure sentito parlare. Ci sono state anche polemiche,
sono usciti lavori di “anti-risorgimento”, ma anche questi sono parte dell’interesse per la nostra patria, un modo per misurarsi con essa e, consapevolmente
o meno, per riconoscerla.
Particolarmente interessante è stato anche l’“orgoglio” municipale emerso
durante le celebrazioni: tantissime città italiane hanno riscoperto, fatto conoscere, celebrato e valorizzato il loro patrimonio storico, fatto di uomini, cimeli
e tradizioni. Brescia si è distinta in questo percorso potendo vantare anche la
medaglia d’oro di «benemerita del Risorgimento nazionale», guadagnata per il
suo fondamentale contributo al processo di unificazione, dalle note Dieci giornate del 1849, al sacrificio di Tito Speri, fino alle centinaia di volontari che, in
più spedizioni, raggiunsero Garibaldi nell’epica impresa dei Mille. Brescia ha
comunque sempre conservato la sua memoria che ancora oggi offre alla città e agli studiosi attraverso il suo Museo del Risorgimento, uno dei primi nati
nell’Italia unita.
L’iconografia dei Dandolo
Un secolo di ritratti tra destinazione privata e intento celebrativo*
Bernardo Falconi **
…Ahi! sugli estinti non sorge
fiore, ove non sia d’umane lodi
onorato e d’amoroso pianto 1.
Ugo Foscolo
Il 31 gennaio 1904, Ermellina Maselli di Figino (Casoro, Canton Ticino,
1827 - Adro, 1908), vedova del conte Tullio Dandolo (Biumo di Varese, 1801 Urbino, 1870), stendeva il proprio testamento, legando al Comune di Adro il
palazzo appartenuto alla prima moglie di Tullio, Giulietta Pagani (Adro, 1806 Padova, 1835), figlia adottiva e unica erede del conte Cesare Bargnani (Brescia,
1757-1825), che si era distinto in campo amministrativo in età rivoluzionaria e
napoleonica, raggiungendo la carica di direttore generale delle Dogane del Regno italico. Ultima rappresentante della famiglia, Ermellina volle tributare un
estremo omaggio alla memoria dei congiunti, disponendo che i ritratti Dandolo, Maselli e Bargnani fossero «riuniti e appesi in apposita sala del palazzo medesimo, per essere ivi convenientemente custoditi» 2.
* La prima versione di questo studio è stata pubblicata nel catalogo della mostra I Dandolo e il loro
ambiente. Dall’epopea rivoluzionaria allo stato unitario, Adro (Brescia), Palazzo Bargnani Dandolo,
21 settembre - 16 dicembre 2000, a cura di Bernardo Falconi, Valerio Terraroli. Per maggiori approfondimenti si rimanda alle schede di catalogo delle singole opere, redatte da Bernardo Falconi, Umberto Perini, Valerio Terraroli, Anna Maria Zuccotti Falconi.
**Socio dell’Ateneo di Brescia; socio e consigliere del Comitato di Brescia dell’Isri
1
Emilio Dandolo nel dare alle stampe nel 1850 la sua opera I Volontari ed i Bersaglieri Lombardi,
dedicata alle eroiche, sfortunate campagne militari del 1848-49, culminate con la morte del fratello
Enrico nel corso della difesa della Repubblica romana, volle riprodotti sul frontespizio questi versi
(Dei Sepolcri, vv. 88-90).
2
Testamento di Ermellina Maselli ved. Dandolo, Adro, 31 gennaio 1904. Brescia, Archivio Notarile
Distrettuale, Notaio Vincenzo Peri, n. 814/615, 28.01.1908.


Poco più di cento anni erano passati da quando, nel 1797, il farmacista veneziano Vincenzo Dandolo (Venezia, 1758 - Varese, 1819), presidente della Municipalità provvisoria della città lagunare, aveva trovato rifugio in Lombardia,
dopo la cessione, con il trattato di Campoformido, delle province venete all’Austria. Diverse effigi dell’irriducibile giacobino, stimatissimo da Napoleone e da
lui creato conte del Regno italico, apprezzato autore di testi di chimica, agronomia e zootecnia, del figlio Tullio, instancabile poligrafo, animato a un tempo
dalla fede cattolica e dal fervente patriottismo, e dei nipoti Enrico (Varese, 1827
- Roma, 1849) ed Emilio (Varese, 1830 - Milano, 1859), nati dal matrimonio di
Tullio con Giulietta Bargnani – celebrato a Brescia, nella chiesa di Santa Maria della Pace, il 22 agosto 1826 – eroici protagonisti dell’epopea risorgimentale, pervennero pertanto, assieme a quelle dei familiari, nel 1908, dopo la morte
della contessa Ermellina, al Comune di Adro.
È stato così possibile, muovendo dallo studio di questa raccolta, tracciare
un percorso iconografico attraverso ritratti di diversa tipologia, commissionati,
in un arco temporale compreso tra l’età rivoluzionaria e napoleonica e il primo
Novecento, per assolvere diverse funzioni, da quelle legate agli affetti domestici
a quelle ispirate da esigenze celebrative.
In un tableau purtroppo disperso 3, nel quale sono stati inseriti alcuni ritrattini di famiglia, troviamo le prime testimonianze iconografiche relative a Vincenzo
Dandolo, affidate a due miniature. La prima, di formato ovale, destinata alla moglie, Marianna Grossi (Varese, 1781 - Adro, 1855), lo raffigura in tenero atteggiamento paterno accanto al figlio Tullio, ancora in fasce. L’età dimostrata dal bambino, nato il 2 settembre 1801, induce a ipotizzare che l’opera sia legata all’imminenza
della partenza di Vincenzo, chiamato nel dicembre dello stesso anno a intervenire
ai Comizi di Lione. La seconda, di formato rettangolare, immortala l’ex rivoluzionario in veste di provveditore generale della Dalmazia. Sul volume che l’effigiato
mostra allo spettatore è chiaramente visibile l’eloquente iscrizione «La Dalmazia
/ 1806 - 1807 - 1808 / Stato suo», mentre sull’ara sono leggibili la data, «ZARA /
Nov. 1809», e la citazione dai Carmina di Orazio «Non omnis / moriar».
Il tableau, già conservato nella “Camera dell’alcova” di palazzo Bargnani-Dandolo, è stato trafugato nel 1988 (Umberto Perini, Adro. Territorio e vicende storiche, Comune di Adro, Brescia 1989, p.
221). Precedentemente alcune delle miniature ivi contenute erano state pubblicate in G. David Bambergi di Cittiglio, Varese, i Dandolo e i Morosini, in «Calandari do ra Famiglia Bosina par or 1984»,
pp. 79-92. Il tableau è riprodotto in I Dandolo e il loro ambiente. Dall’epopea rivoluzionaria allo stato
unitario, catalogo della mostra, Adro (Brescia), Palazzo Bargnani Dandolo, 21 settembre - 16 dicembre 2000, a cura di Bernardo Falconi, Valerio Terraroli, Skira, Milano 2000, p. 14.
3

I successivi ritratti di Vincenzo Dandolo, realizzati a stampa, sono collegati
alla grande fortuna editoriale delle sue opere di chimica, agronomia e zootecnia. Tra questi, solamente due sono stati pubblicati mentre era in vita. Si tratta di incisioni a bulino, che lo raffigurano con le onorificenze di cavaliere della
Corona di ferro e della Legion d’onore, l’una a mezzo busto, l’altra a figura intera, realizzate, rispettivamente, da Aurelio Colombo (Varese, 1785 - post 1836)
nel 1812 4, e da Giovanni Antonio Sasso (Milano, notizie 1809-1818), su disegno
di Vincenzo De Marchi 5, per il terzo tomo, edito nel 1818, della monumentale
opera in più volumi, edita a Milano da Batelli e Fanfani, Serie di vite e ritratti
de’ famosi personaggi degli ultimi tempi.
Alla morte di Vincenzo, avvenuta nel 1819, il figlio Tullio volle onorare la sua
memoria, facendo erigere un monumento nella proprietà di Varese, con l’«immagine coronata» del padre tra Flora e Pomona 6. Sono probabilmente da mettere in rapporto con la scultura, andata purtroppo dispersa, un’incisione al tratto
con il profilo di Vincenzo entro una ghirlanda allegorica, in antiporta all’opera
Sulle cause dell’avvilimento delle nostre granaglie, edita postuma a cura di Tullio,
nel 1820 7, e un piccolo bassorilievo in gesso con il solo profilo 8.
Pochi anni dopo, nel 1824, il veneziano Marco Comirato (Venezia, 1800 circa - 1869) realizza un’incisione per la serie iconografica Galleria dei letterati et
artisti illustri delle Provincie Veneziane nel secolo decimottavo 9, desunta da quella eseguita dodici anni prima da Aurelio Colombo 10. Nel 1835, Tullio Dandolo, nella sua pubblicazione Reminescenze e fantasie di un solitario 11, inserisce un
ritratto del padre, a mezza figura, di ignoto autore 12, poi ripreso da Gaetano
Guadagnini (Bologna, 1800-1860), con un taglio più ravvicinato 13, per l’opera
Storie e ritratti di uomini utili, benefattori della Umanità, edita a Bologna nello
stesso anno, e più volte replicato anche sulla stampa periodica del tempo. Due
I Dandolo e il loro ambiente…, cit., cat. I.26.
Ibidem, cat. I.29.
6
Tullio Dandolo, Ricordi, 7 voll., Assisi 1867-70, III (terzo periodo, 1824-1835), 1868, p. 306.
7
I Dandolo e il loro ambiente…, cit., cat. I.30.
8
Ibidem, cat. I.6.
9
Ibidem, cat. I.31.
10
Ibidem, cat. I.26.
11
Ibidem, cat. II.45.
12
Ibidem, cat. I.33.
13
Ibidem, cat. I.34.
4
5

altri ritratti incisi di Vincenzo, entrambi di profilo, il primo in abiti contemporanei, il secondo “all’antica”, vedono la luce nel 1839, realizzati, rispettivamente,
su disegno di M.me Augustine Fauchery (Parigi, 1803 - ?) e inciso da Jean Denis Nargeot (Parigi, 1795 - post 1865) per la quinta edizione in lingua francese
di una sua opera dedicata alla bachicoltura 14, e su disegno di Leo Mecco, per la
biografia a lui dedicata dall’amico Matthieu Bonafous, Eloge historique de Vincent Dandolo 15. Chiude la serie dell’iconografia a stampa di Vincenzo Dandolo
un ritratto realizzato dalla Premiata Litografia Pagani, in antiporta all’opera di
Antonio Cattaneo Cenni su la vita di Vincenzo Dandolo, edita nel 1840, dove
l’effigiato, ancora di profilo, è ripreso con piglio romantico 16.
Alla commissione del figlio è dovuto un busto “togato” di Vincenzo, dello
scultore Giovanni Strazza (Milano, 1818-1875), eseguito, con l’ausilio della maschera funebre, entro il 1848, che va probabilmente identificato con l’esemplare
a noi noto solo attraverso una riproduzione fotografica 17.
Dovrebbe risalire al decennio successivo la realizzazione della vetrata per lo
scalone di palazzo Bargnani Dandolo ad Adro, attribuita da Valerio Terraroli a
Giuseppe Bertini (Milano, 1825-1898), dove, al centro di una scenografica composizione allegorica, campeggia il profilo di Vincenzo 18 (fig. 1).
A un intento celebrativo risponde anche il rilievo in marmo, raffigurante
Vincenzo Dandolo nell’uniforme di alto funzionario napoleonico, scolpito nel
1879 da Michelangelo Molinari (Clivio, 1839-1899), per la lapide inaugurata
il 26 ottobre a Varese, sua città adottiva, per iniziativa della Società agraria di
Lombardia e del locale Comizio agrario. Il monumento, che rispondeva a una
volontà espressa dalla Congregazione municipale sin dal 1852, ma allora non
concretizzatasi per l’opposizione dell’Imperial regio delegato provinciale, viene
Ibidem, cat. I.35.
Ibidem, cat. I.36.
16
Ibidem, cat. I.37.
17
Riprodotto in I Dandolo e il loro ambiente…, cit., p. 15. La commissione dell’opera è documentata
in una lettera inedita di Tullio Dandolo, segnalatami da Umberto Perini: «Al Signor Strazza, egregio
scultore a Roma […] Io ne avrei una mezza intenzione di fare scolpire il busto di mio padre di grandezza al naturale, ed è ben naturale che pensassi a voi: lo ambirei togato. Se mi dite nella franchezza
che sta bene tra amici se poteste incaricarvene, da compiersi entro il 1848, e per qual prezzo. Io vi
manderei, nel caso, un busto in gesso, che è la maschera del defunto […]». Il busto è riprodotto in
G. Tornatore, Volti e miraggi dell’Ottocento nella vita e nelle opere del Dandolo, in «Insubria», a. III,
n. 8, agosto 1926, pp. 5-11.
18
I Dandolo e il loro ambiente…, cit., cat. I.38.
14
Fig. 1. Giuseppe
Bertini e bottega,
Vetrata dedicata
al conte Vincenzo
Dandolo, 185060 (particolare),
vetri policromi in
un’intelaiatura in
piombo e grata in
ferro battuto, Adro,
Palazzo Comunale
“Bargnani
Dandolo”.
dapprima collocato sul muro di cinta dell’antica dimora di famiglia – allora di
proprietà Venino Berra, oggi Oppliger –, e poi, nel 1884, spostato nel portico
terreno del palazzo comunale 19.
L’ultimo omaggio iconografico a Vincenzo Dandolo è dovuto alla nuora, Ermellina Maselli, che agli inizi del Novecento commissiona a un anonimo pittore – forse identificabile con Arturo Bianchi (Brescia, 1856 - Adro, 1939) 20 – un
dipinto a olio desunto dalla miniatura che lo raffigura come provveditore generale della Dalmazia 21; la tela veniva da lei legata, assieme al Ritratto di Napoleone
I di Andrea Appiani 22 e ai «cimeli storici e letterari» della famiglia Dandolo, al
Museo del Risorgimento di Milano, dov’è tuttora conservata 23.
Di Marianna Grossi, moglie varesina di Vincenzo Dandolo, possediamo un
ritratto a olio, collocabile, per i particolari dell’abbigliamento, tra la fine dell’Impero e gli inizi della Restaurazione 24. A pochi anni dopo risale la miniatura in-
15

Devo le informazioni relative alle vicende della lapide monumentale dedicata a Vincenzo Dandolo a Piero Mondini, responsabile dell’Archivio storico comunale di Varese.
20
Umberto Perini, Arturo Bianchi. Paesaggi, figure, impressioni 1856-1939, Skira, Milano 2007, p. 245,
cat. 303.
21
Riprodotta in I Dandolo e il loro ambiente…, cit., p. 14.
22
Ibidem, cat. I.17.
23
Diversamente da questo dipinto e dal Ritratto di Napoleone I di Andrea Appiani, i «cimeli storici
e letterari» sono andati distrutti nel corso dei bombardamenti subiti da Milano nel 1943.
24
I Dandolo e il loro ambiente…, cit., cat. I.24.
19

serita nel tableau 25, in pendant con il ritratto della nuora, Giulietta Bargnani 26. I
due ovatini, d’identico formato, fattura e dimensione, erano probabilmente racchiusi in un unico medaglione, fatto eseguire da Tullio per conservare l’mmagine
della madre accanto a quella della donna amata. L’occasione per la realizzazione
del gioiello sentimentale, legato a privatissimi riti famigliari, dovrebbe risalire al
momento del matrimonio, celebrato, come si è visto, nel 1826. L’ultima immagine di Marianna, ormai vicina alla sessantina 27, è fissata in un bellissimo disegno
(fig. 2), in serie con quelli raffiguranti il figlio Tullio e i nipoti Enrico ed Emilio 28, eseguiti durante il soggiorno romano della famiglia, nel biennio 1838-39,
dal pittore bergamasco Francesco Coghetti (Bergamo, 1802 - Roma, 1875).
Nel 1827, a un anno dal loro matrimonio, Tullio e Giulietta venivano ritratti dall’amica Ernesta Legnani Bisi (Milano, 1788 - Cormeno, 1859). Le opere,
documentate nei Ricordi di Tullio Dandolo 29, sono purtroppo disperse, ma dovevano certo essere di piccolo formato, dato che la pittrice, allieva dell’incisore
Giuseppe Longhi, era specializzata nel ritratto in miniatura su avorio e all’acquerello su carta o cartoncino.
Tra il 1831 e il 1834, il padovano Antonio Sorgato (Padova, 1802-1875) esegue
i ritratti a matita e pastelli su carta dei giovani sposi 30 e di molti dei loro amici 31, destinati a essere conservati nell’intimità dello studio di Giulietta, in una
sorta di piccolo pantheon domestico. Il poeta friulano Francesco Dall’Ongaro,
reduce da un soggiorno di due mesi ad Adro, scrivendo alla padrona di casa da
Venezia nel dicembre 1834, ce ne ha lasciato una deliziosa descrizione, che ben
si addice, in particolare, all’effigie disegnata da Sorgato (fig. 3):
Mi par di vedervi accanto al Vostro Tullio, con quell’elegante gorgerette color dell’alba, che dà una grazia quasi aerea al vostro volto, con quel color di porpora che la
contentezza, la ripienezza del cuore vi diffonde sulle guance 32.
Ibidem, p. 14.
Ibidem.
27
Ibidem, cat. II.51.
28
Ibidem, cat. II.50, II.52, II.53.
29
T. Dandolo, Ricordi, cit., III, p. 208.
30
I Dandolo e il loro ambiente…, cit., cat. II.13-II.16.
31
Ibidem, cat. II.17-II.26.
32
Ibidem, cat. II.14.
25
26

Fig. 2. Francesco Coghetti, Ritratto della
contessa Marianna Grossi Dandolo, 1838-39,
matita, penna e inchiostro acquerellato su
carta, 20 x 18,5 cm, Adro, Palazzo Comunale
“Bargnani Dandolo”.
Fig. 3. Antonio Sorgato, Ritratto della
contessa Giulietta Bargnani Dandolo, 1831
circa, matita e pastelli su carta, 23,9 x 19 cm,
collezione privata.
Databile a questo periodo, per i particolari dell’abito da sera, con le ampie
maniche à gigot, e l’estrosa acconciatura “alla giraffa”, è anche una miniatura
raffigurante Giulietta, inserita nel disperso tableau 33. Nel 1835, nei mesi successivi alla sua morte, all’età di soli ventinove anni, avvenuta a Padova il 1º agosto,
Tullio dedica alla sfortunata giovane moglie l’opera Reminescenze e fantasie di
un solitario, pubblicando in antiporta un suo ritratto, inciso da Johann Knolle
(Brunswick, 1807-1877) 34. Alla stessa epoca dovrebbe risalire la commissione di
un olio, probabilmente dovuto a un artista di ambito veneto, dove Giulietta,
ripresa davanti a un paesaggio al crepuscolo, pare voler instaurare un affettuoso
dialogo con i familiari, in un’atmosfera venata di malinconia e di rimpianto 35.
Un acquerello su carta, fedelmente copiato dal dipinto 36, testimonia l’importanza a esso assegnata dal marito, desideroso di possederne una riproduzione
Ibidem, p. 14.
Ibidem, cat. II.45.
35
Ibidem, cat. II.43.
36
Ibidem, cat. II.44.
33
34

di piccolo formato da portare facilmente con sé. Molti anni più tardi, nel 1868,
Tullio, dando alle stampe il terzo volume dei suoi Ricordi, dedicato agli anni felici del matrimonio con Giulietta, inserirà in antiporta un suo ritratto, eseguito
da Alessandro Venanzi (Ponte S. Giovanni, 1838 - Assisi, 1916) 37, ispirato al già
citato ritratto in miniatura inserito nel disperso tableau 38.
A due pittori di primo piano del panorama artistico italiano dell’epoca, il bergamasco Francesco Coghetti e il modenese Adeodato Malatesta (Modena 18061891), si devono due ritratti di Tullio Dandolo eseguiti nel corso del suo soggiorno
romano, nel biennio 1838-39. Coghetti ci ha lasciato il bellissimo disegno 39, facente parte della citata serie eseguita probabilmente nel corso delle giornate domenicali, quando la casa romana dei Dandolo si apriva a letterati e artisti. Malatesta,
con il quale Tullio Dandolo mantenne stretti rapporti d’amicizia per un trentennio (una sua Madonna col Bambino su tavola, giunta ad Adro nel 1863, sarà poi
legata da Ermellina Dandolo alla Parrocchia di Adro 40), ha invece dipinto una
tela di maggiore impegno, destinata a celebrare la figura del prolifico scrittore 41.
Diciassette anni più tardi, nel 1856, il pittore modenese esegue per l’amico un
secondo ritratto 42 (fig. 4), esposto con successo a Brera, che Tullio vuole tradotto
in litografia, su disegno di Roberto Focosi (Milano, 1806-1862), per inserirlo in
antiporta all’opera Monachesimo e leggende, edita nello stesso anno 43.
Risalgono agli anni Sessanta una piccola effigie di Tullio disegnata da Giuseppe Bertini 44; un ritratto a stampa chiaramente desunto da una fotografia realizzato da Alessandro Venanzi 45, e pubblicato nel primo tomo della sua opera
Roma cristiana nei primi secoli, edito nel 1865, e l’anno seguente in Roma Pagana; e, infine, un ritratto a olio eseguito dal nipote, Giacomo Martinetti (Barbengo, Canton Ticino, 1842 - Firenze, 1910) 46, ricordato dall’effigiato nel suo
Ibidem, cat. IV.9.
Ibidem, p. 14.
39
Ibidem, cat. II.50.
40
Ibidem, cat. IV.4.
41
Ibidem, cat. II.47.
42
Ibidem, cat. III.45.
43
Ibidem, cat. III.46.
44
Bernardo Barbieri, I Dandolo nella storia del Risorgimento e nelle opere di beneficenza, Tip. Queriniana, Brescia 1926, p. 12.
45
I Dandolo e il loro ambiente…, cit., cat. IV.8.
46
Ibidem, cat. IV.1.
37
38

Fig. 4. Adeodato Malatesta, Ritratto del conte
Tullio Dandolo, 1856, olio su tela, 75 x 60,5
cm, Adro, Palazzo Comunale “Bargnani
Dandolo”.
testamento olografo, redatto nel 1865, cinque anni prima della morte, avvenuta
a Urbino, dov’egli si era recato per incarico della Congregazione del Pantheon
per consegnare il calco del cranio di Raffaello, in occasione delle commemorazioni del 350º anniversario della morte del pittore. Risulta invece disperso il
busto di Tullio scolpito da Luigi Maioli (Ravenna, 1819 - Roma, 1897), legato
dalla vedova, Ermellina Maselli, al Museo del Risorgimento di Milano, e andato verosimilmente distrutto, assieme all’archivio e alla gran parte dei cimeli di
famiglia, durante i bombardamenti del 1943. A queste effigi va aggiunta, infine, una terracotta modellata da Giovanni Biggi (Roma 1847-1913), facente parte
di una serie di piccoli busti commemorativi di protagonisti del Risorgimento
nazionale, passata sul mercato antiquario milanese alcuni anni or sono 47, della quale si conosce una versione in bronzo conservata nelle raccolte del Museo
Centrale del Risorgimento (Roma).
L’iconografia del primogenito di Tullio e Giulietta, Enrico, precedente i drammatici eventi del biennio 1848-49, è affidata al delizioso ritrattino che lo raffigura
bambino, disegnato a Roma nel 1838-39 da Coghetti 48, e a un olio di ridotte dimensioni databile a ridosso delle gloriose Cinque giornate milanesi del 1848, in
Riprodotto in Umberto Perini, Libri, letture, meditazioni di Casa Dandolo e il ritorno di Tullio alla
Religione, in Id., Memorie storiche di Adro, Adro 2010, pp. 394-401, in particolare p. 397.
48
Ibidem, cat. II.52.
47

pendant con quello del fratello Emilio, firmato dall’amica Antonietta Bisi (Milano, 1813-1866) 49. Alla madre di quest’ultima, Ernesta Bisi Legnani, si deve invece
un acquerello con l’iscrizione «Enrico Dandolo – Ernesta Bisi la sera del 16 8bre
1848» 50, che lo raffigurava nell’uniforme di capitano del battaglione dei Bersaglieri
lombardi, formato in Piemonte da Luciano Manara solo quindici giorni innanzi.
Agli anni 1848-49 dovrebbero risalire anche un disegno non firmato che ci restituisce l’immagine del giovane eroe sul campo di battaglia 51, verosimilmente eseguito da uno dei “pittori soldati” accorsi alla difesa della Repubblica romana, tra
i quali si annoverano Girolamo Induno, Carlo Manicini ed Eleuterio Pagliano
– tutti e tre amicissimi dei fratelli Dandolo –, e una caricatura che lo raffigura
in abiti civili, firmata da Eleuterio Pagliano (Casale Monferrato, 1826 - Milano,
1903) 52. Le ulteriori immagini di Enrico sono tutte successive alla sua eroica morte, avvenuta nel corso della difesa della Repubblica romana, nella giornata del 3
giugno 1849, a villa Corsini – quand’egli contava solamente 22 anni – e rispondono a un intento commemorativo, affidato per lo più a riproduzioni litografiche. Fanno eccezione due identici ritrattini a olio su cartoncino, dovuti ancora
ad Antonietta Bisi, dove la pittrice riprende fedelmente le sembianze di Enrico
da lei fissate in precedenza 53, sostituendo però gli abiti civili con l’uniforme di
capitano dei Bersaglieri lombardi. I due dipinti, destinati a ricordare il giovane
eroe nell’intimità delle pareti domestiche, furono eseguiti rispettivamente per i
Dandolo 54 (fig. 5) e per i familiari dell’amico Emilio Morosini (Milano, Museo
del Risorgimento), caduto anch’egli durante la difesa di Roma.
Il primo ritratto a stampa di Enrico Dandolo, realizzato dal litografo Doyen
di Torino, su disegno di De Carri, è dovuto alla commissione del fratello Emilio per la sua opera I Volontari ed i Bersaglieri lombardi, pubblicata nel 1850 55.
Nel 1860, a un anno dalla morte di Emilio, il padre Tullio, dando alle stampe la seconda edizione dello stesso lavoro, inserisce una litografia di Bertotti 56,
Ibidem, cat. III.5.
Il ritrattino, facente parte del lascito di Ermellina Maselli Dandolo al Museo del Risorgimento di
Milano, è andato purtroppo disperso.
51
I Dandolo e il loro ambiente…, cit., cat. III.29.
52
Riprodotta in Antonio Monti, Quarantotto romantico ed eroico. Manara, Dandolo, Morosini, Sansoni, Firenze 1948 (tav. non num.), e in I Dandolo e il loro ambiente…, cit., p. 16.
53
I Dandolo e il loro ambiente…, cit., cat. III.5.
54
Ibidem, cat. III. 30.
55
Ibidem, cat. III. 38.
56
Ibidem, cat. III.54.
49
50

Fig. 5. Antonietta Bisi, Ritratto del conte
Enrico Dandolo in uniforme di capitano
dei Bersaglieri Lombardi, 1849-50, olio
su cartone, 24,5 x 18,5 cm, Adro, Palazzo
Comunale “Bargnani Dandolo”.
ispirata al ritratto di Enrico in uniforme dipinto da Antonietta Bisi 57, e l’anno
seguente, nell’opera Lo spirito della imitazione di Gesù Cristo, una litografia di
Roberto Focosi 58, direttamente ripresa dal citato ritatto di Enrico in abiti civili,
pure di Antonietta Bisi 59. La litografia di Rossetti 60, probabilmente eseguita in
epoca successiva, è un esempio della vasta produzione a stampa edita, a partire
dalla liberazione della Lombardia sino alla fine del secolo, per celebrare i protagonisti del risorgimento nazionale.
Il percorso iconografico relativo a Emilio Dandolo si interseca inevitabilmente con quello del fratello Enrico. Tra il ritrattino disegnato a Roma da Francesco Coghetti negli anni 1838-1839 61 e il piccolo olio dipinto una decina d’anni
più tardi da Antonietta Bisi 62 si collocano due altri ritratti di formato ridotto:
alla matita dell’amica Giuseppina “Peppina” Morosini (Lugano, 1824 - Milano,
Ibidem, cat. III. 30.
Ibidem, cat. III. 56.
59
Ibidem, cat. III.5.
60
Ibidem, cat. III.57.
61
Ibidem, cat. II.53.
62
Ibidem, cat. III.6.
57
58

Fig. 6. Antonietta Bisi, Ritratto del
conte Emilio Dandolo, 1850 circa, olio su
cartone, 35,5 x 24,5 cm, Milano, Museo del
Risorgimento.
1909) – poi contessa Negroni Prati, una delle sorelle dello sfortunato Emilio,
caduto assieme a Enrico Dandolo e Luciano Manara nella difesa della Repubblica romana – è dovuto un profilo di Emilio datato 1847 63; mentre ad Antonietta Bisi un mezzo busto, eseguito probabilmente a pastelli 64, collocabile cronologicamente alla stessa epoca. Nel fatidico 1849, Peppina Morosini firma un
profilo a matita di Emilio con il cappello da bersagliere 65, e in un’epoca di poco
posteriore ancora Antonietta Bisi esegue un suo ritrattino a olio, dov’egli è rappresentato in abiti civili, con folti favoriti, a tre quarti di figura 66 (fig. 6).
Sono da collocare all’ultima fase della breve vita di Emilio diverse fotografie
di anonimo autore che lo ritraggono da solo 67 o con gli amici 68; mentre un di-
segno firmato da Pietro Bouvier (Milano, 1839-1927) e datato 1859 69, precede di
poco la sua morte, avvenuta il 20 febbraio di quell’anno. Sempre nel 1859, da
uno dei suoi ritratti fotografici è tratta una litografia pubblicata in antiporta ai
versi di Guido Castelli, Sulla tumulazione di Emilio Dandolo 70, mentre l’anno
successivo un’altra sua effigie a stampa desunta da una fotografia compare in
antiporta alla biografia dedicatagli dall’amico Giulio Carcano 71. Roberto Focosi disegna, infine, due ritratti litografici di Emilio, entrambi desunti dai dipinti di Antonietta Bisi 72, inseriti rispettivamente nell’edizione del 1860 dell’opera
I Volontari ed i Bersaglieri lombardi 73 e nel lavoro dedicato l’anno seguente da
Tullio Dandolo ai suoi due eroici, sfortunati figlioli, Lo spirito della imitazione
di Gesù Cristo 74.
L’iconografia della nuova famiglia formata da Tullio Dandolo nel 1844, a nove anni di distanza dalla morte della prima moglie, Giulietta, sposando la diciassettenne ticinese Ermellina Maselli di Figino (Casoro, Canton Ticino, 1827
- Adro, 1908), è costituita in parte da immagini realizzate con la rivoluzionaria
tecnica fotografica che vanno a integrare la scarna serie dei ritratti eseguiti, tra
la metà dell’Ottocento e gli inizi del secolo successivo, con le tradizionali tecniche pittoriche.
Ermellina è riconoscibile nella giovane donna che indossa un austero abito
da casa in tessuto scozzese, effigiata in una delle miniature contenute nel tableau 75, databile, per i particolari dell’abbigliamento, intorno al 1850. Una fotografia del bresciano Giacomo Rossetti, collocabile tra il 1860 e il 1870 (Adro,
palazzo comunale), la ritrae in età ancora relativamente giovanile. Risale invece ai suoi ultimi anni una fotografia, riprodotta in diversi formati, dalla quale
il pittore locale Arturo Bianchi deriverà nel 1932 un ritratto a olio destinato a
essere conservato nell’Ospedale Casa di riposo Del Barba-Maselli-Dandolo 76.
Immediatamente dopo la sua morte, avvenuta nel 1908, all’età di ottantun anni, la Provincia di Brescia commissionava allo scultore Emilio Vincenzo Magoni
Ibidem, cat. III.51.
Ibidem, cat. III.52.
71
Ibidem, cat. III.55.
72
Ibidem, cat. III.39 e cat. III.6.
73
Ibidem, cat. III.53.
74
Ibidem, cat. III.56.
75
Ibidem, p. 14.
76
U. Perini, Arturo Bianchi…, cit., p. 244, cat. 299.
69
70
Riprodotto in A. Monti, Quarantotto romantico…, cit. (tav. non num.).
Ibidem.
65
Ibidem.
66
I Dandolo e il loro ambiente…, cit., cat. III.39.
67
Ibidem, cat. III.50.
68
Ibidem, cat. III.49.
63
64


(Brescia, 1867-1922) una sua effigie commemorativa in bronzo, che veniva portata a compimento nel gennaio 1909. Il busto veniva donato nel 1924 al Comune di Adro dall’Amministrazione provinciale per essere collocato sulla sommità
del monumento eretto nel Parco delle rimembranze, progettato dall’architetto
Giovanni Tagliaferri 77; una seconda fusione in bronzo veniva collocata presso
la Scuola di agricoltura “Vincenzo Dandolo” di Bargnano 78, fondata per volontà testamentaria dell’effigiata, grazie al lascito alla Provincia di Brescia di vaste
proprietà fondiarie. Si conosce anche un’esemplare in gesso del busto – forse
identificabile con il modello originale modellato da Magoni –, donato al Comune di Adro da Antonio Pelizzari, uomo di fiducia e agente della contessa Ermellina Maselli Dandolo, e quindi, per volontà della testatrice, amministratore
del lascito Dandolo 79 (fig. 7).
La memoria dell’infanzia dei due figli nati dal matrimonio di Tullio ed Ermellina, Maria (Varese, 1848 - Algeri, 1871) ed Enrico detto “Gin” (Adro, 18501904), era fissata in miniature eseguite agli inizi degli anni Cinquanta, da Ernesta Bisi Legnani, e montate in una spilla 80, ricordata anche nelle “memorie” di
Tullio Dandolo. A pochi anni più tardi risale un doppio ritratto fotografico dei
fratelli, mentre altre fotografie li riprendono in età adulta. Maria, andata sposa
allo zio materno Costantino Maselli, morta in seguito al primo parto, nel 1871
ad Algeri – dove il marito architetto si era con lei trasferito per lavoro – è ricordata in un dipinto tratto da una fotografia commissionato da Ermellina, dopo
la scomparsa della figlia, all’amico pittore Luigi Chialiva (Caslano, Canton Ticino, 1842 - Parigi, 1914) 81 (fig. 8).
Il fratello Enrico “Gin”, rimasto celibe – liberale moderato, consigliere e segretario della Provincia di Brescia –, è ritratto invece in un pastello firmato nel
1889 dal senese Antonio Salvetti (Colle Val d’Elsa, 1954-1931) 82 (fig. 9). Nel 1909
Fig. 7. Emilio Vincenzo Magoni, Ritratto
della contessa Ermellina Maselli Dandolo,
1908-09, gesso, 64 x 50 x 33 cm, Adro,
Palazzo Comunale “Bargnani Dandolo”.
Fig. 8. Luigi Chialiva, Ritratto della contessa
Maria Dandolo Maselli, 1870-75, olio su
tela, 67 x 52 cm, Adro, Palazzo Comunale
“Bargnani Dandolo”.
Fig. 9. Antonio Salvetti, Ritratto del conte
Enrico “Gin” Dandolo, 1889, pastelli su
carta, 63 x 46 cm, Adro, Palazzo Comunale
“Bargnani Dandolo”.
Umberto Perini, È di Emilio Magoni il busto di Ermellina, in Id., Memorie storiche di Adro, cit.,
pp. 497-500.
78
Riprodotto in La Serenissima, i Dandolo e l’istruzione agraria dall’Unità d’Italia a oggi, atti del convegno, Adro e Bargnano, sabato 21 maggio 2011, Fondazione civiltà bresciana, Brescia 2011, tav. non
num.
79
I Dandolo e il loro ambiente…, cit., cat. IV.29 (con errata attribuzione a Domenico Ghidoni).
80
«Lascio alla mia nipote Amalia Capeletti Solari la spilla coi ritratti in miniatura della mia povera
Maria e del mio povero figlio Gin, dipinti dalla povera Bisi quand’erano piccoli i miei figli». Testamento di Ermellina Maselli ved. Dandolo, cit., Codicillo, Adro, 11 luglio 1904.
81
I Dandolo e il loro ambiente…, cit., cat. IV.10.
82
Ibidem, cat. IV.21.
77


– a cinque anni dalla sua morte – veniva collocato in sua memoria nell’Ospedale Casa di riposo Del Barba-Maselli-Dandolo un busto modellato in gesso dallo scultore Alessandro Clandestini (Bergamo, 1867-?) 83, mentre nel 1932 veniva
posta nella stessa sede una sua effigie dipinta a olio dall’adrense Arturo Bianchi
quale pendant del ritratto materno 84.
Gli ultimi anni della contessa Ermellina Dandolo furono segnati dal dolore per la morte, nel volgere di pochi mesi, tra il 1903 e il 1904, prima del figlio
di Maria – il suo unico nipote, Emilio Maselli – e poi del figlio Enrico “Gin”.
Rimasta la sola erede e unica depositaria delle memorie di famiglia, in un codicillo al suo testamento, precisava quanto segue:
Voglio che i ritratti di mio Marito, della sua prima moglie Giulietta Bargnani, del
conte Vincenzo Dandolo, di sua moglie, del povero Enrico Dandolo, Emilio Dandolo, mio figlio Enrico, Emilio Maselli Dandolo, i miei, di Pio Maselli, di Costantino Maselli, miei ritratti che sono sparsi a Casoro, a Milano, al Deserto, ad Adro,
siano appesi tutti nella biblioteca di Adro ed altra sala del palazzo, conservati con
cura, tra questi ritratti ve ne sono di molto valore. Raccomando il ritratto della povera mia figlia Maria appeso nella mia camera da letto 85.
Umberto Perini, Breve storia dell’Ospedale - Casa di Riposo “Del Barba-Maselli-Dandolo”, in Id.,
Memorie storiche di Adro, cit., pp. 533-543, in particolare p. 539.
84
U. Perini, Arturo Bianchi…, cit,. p. 244, cat. 298.
85
Testamento di Ermellina Maselli ved. Dandolo, cit., Codicillo, Adro, 31 gennaio 1904.
83

Per una storia metallica del Risorgimento a Brescia
Pierfabio Panazza*
La ricorrenza del 150º anniversario dell’Unità d’Italia e le celebrazioni che
anche le realtà bresciane hanno voluto dedicare, a livelli diversificati, a questo
tema centrale per la storia del Paese, fanno da sfondo ideale a questa proposta
di ricostruzione del nostro Risorgimento attraverso lo studio di quelle medaglie
che, in città e provincia, hanno accompagnato la ricerca dell’indipendenza e ne
hanno in tempi successivi esaltata e perpetuata la memoria.
Il tema, anche se non completamente originale, soprattutto in considerazione delle numerose iniziative volte in altre città a commemorare il 150º dell’Unità nazionale 1, è ricco di interesse, sia per i risvolti più propriamente storici ad
esso sottesi sia per le implicazioni storico artistiche che alcune medaglie riservano in modo significativo.
In senso più locale la ricerca è stata indubbiamente favorita dagli studi sulla
medaglia bresciana operati da Enzo Castelli e da Vincenzo Pialorsi 2, grazie ai
quali si sono potuti individuare e radunare i diversi materiali che qui vengono
riproposti in ordine strettamente cronologico. Per completare il quadro è utile
fare riferimento a quelle medaglie conservate presso i Civici musei di Brescia
che costituiscono degli insiemi di particolare suggestione, perché intimamente
* Socio e consigliere dell’Ateneo di Brescia; docente presso il Liceo artistico Olivieri di Brescia.
1
A questo proposito, oltre alla mostra romana del novembre 2010 («La memoria del metallo. 150
anni dell’Unità d’Italia», Roma, Università e Nobil Collegio degli Orefici Gioiellieri e Argentieri dell’Alma Città di Roma, Chiesa di S. Eligio degli Orefici, 14-27 novembre 2010; per il catalogo
dell’esposizione si veda il periodico della Biblioteca Apostolica Vaticana «Historia mvndi», 2, 2010),
basti citare il lavoro sulle medaglie torinesi e la mostra di Udine (Mario Ambroso, Il Risorgimento
Medaglie Storiche dell’Unità d’Italia, L’Artistica Editrice, Torino 2011; Il Risorgimento. Celebrazione e
memoria nelle medaglie delle collezioni numismatiche (1848-1870), Udine, Castello, 17 marzo-26 giugno
2011). Infine, doverosa menzione necessita il recente studio, denso di notizie interessanti, di Adolfo
Modesti, Mario Traina, Le medaglie e le monete che hanno fatto l’Italia (1846-1871), Roma 2011.
2
Vincenzo Pialorsi, Medaglie relative a personaggi, avvenimenti e istituzioni a Brescia e provincia (parte III, sec. XIX), in «Medaglia», 26 [1990], pp. 33-91; Enzo Castelli, Vincenzo Pialorsi, Medaglie di
Brescia e provincia (1900-1922), Edizioni La Numismatica, Brescia 1999.

legati alle vicissitudini del Risorgimento locale, come il medagliere dei Veterani bresciani, o a personaggi che diedero particolare lustro alla città, come per
esempio Giuseppe Cesare Abba e Giovanni Ferrari.
A questo proposito, giova spendere qualche parola sui limiti temporali entro
i quali ci si è mossi, che vanno dalla restaurazione alle soglie della Prima guerra
mondiale. Pur non mancando materiali di altissima qualità che documentano
momenti epocali per le vicissitudini e gli sviluppi storici più strettamente bresciani – basti citare fra tutti la medaglia con la presa del Broletto del 1797 che
sancisce la fine della plurisecolare dominazione della Serenissima 3 – si è preferito focalizzare l’attenzione sulla fase successiva agli eventi ricollegabili all’epopea
napoleonica e che videro in seguito la Repubblica bresciana entrare a far parte
di quella cisalpina, seguendone le sorti fino all’annessione all’impero asburgico nel 1815 4.
Il limite temporale più basso di questa indagine viene suggerito dalle celebrazioni, tutte bresciane, per il cinquantenario delle battaglie che hanno segnato, anche nella nostra provincia, la Seconda guerra d’indipendenza. Si tratta, in
sostanza, di un arco temporale di circa novant’anni, documentato da una sessantina di medaglie e che è stato uno dei nuclei tematici principali intorno al
Coniata da Joseph (Giuseppe) Salvirch (o Salwirck, Salwirch) in oro (1 esemplare), argento (4
esemplari), rame (400 esemplari) e metallo bianco, rappresenta uno dei più interessanti esempi di
medaglia neoclassica italiana e sicuramente il migliore prodotto dell’attività dell’artista, medaglista
di origine tedesca che entrò nel 1782 nella zecca di Milano, divenendone poi capo incisore (Vincenzo Pialorsi, La medaglia per la presa del Palazzo del broletto di Brescia nel 1797, in «Rivista Italiana di
Numismatica e scienze affini», 90, Milano 1988, pp. 591-599).
4
Sulle vicende bresciane che caratterizzarono quei momenti si vedano: 1797, il punto di svolta. Brescia e la Lombardia veneta da Venezia a Vienna, 1780-1830, atti del convegno in occasione del 200º
della rivoluzione bresciana, Brescia, 23-24 ottobre 1997, a cura di Daniele Montanari, Sergio Onger,
Maurizio Pegrari, Morcelliana, Brescia 1999; Alle origini del Risorgimento. La Repubblica bresciana
dal 18 marzo al 20 novembre 1797, atti della giornata di studio, Brescia, 18 marzo 1997, a cura di Luigi
Amedeo Biglione di Viarigi, Ateneo di Brescia, Brescia 2000; Luciano Faverzani, Un decennio di trasformazioni a Brescia. 1797-1807, in «Commentari dell’Ateneo di Brescia», Brescia 1996, pp. 453-460;
Napoleone Bonaparte. Brescia e la Repubblica Cisalpina, 1797-1799, a cura di Elena Lucchesi Ragni,
Renata Stradiotti, Carlo Zani, catalogo della mostra, Brescia, nov. 1997-gen. 1998, vol. I, Skira, Milano 1997; Napoleone Bonaparte. Brescia e la Repubblica Cisalpina, 1797-1799, a cura di Ida Gianfranceschi, Elena Lucchesi Ragni, Carlo Zani, catalogo della mostra, Brescia, 15 nov. 1997-25 genn. 1998,
vol. II, Skira, Milano 1998; La rivoluzione francese e i suoi riflessi a Brescia dal 1797 al 1815, catalogo
della mostra allestita al Monte Nuovo di Pietà dal 20 maggio al 18 giugno 1989, Comune di Brescia,
Squassina, Brescia 1989; Gianfranco Porta, Suoni, musiche e canti della Rivoluzione nella Brescia del
1797-1799, in «Brescia musica», XII (1997), 59, pp. 1-3; Id., Suoni, musiche e canti della Rivoluzione
nella Brescia del 1797-1799, in «Brescia musica», XIII (1998), 60, pp. 1, 14-15.
quale era organizzato il Civico museo del Risorgimento, inaugurato in Castello a coronamento del secolare anniversario dell’annessione di Brescia al regno
sabaudo 5.
La rassegna inizia con la medaglia premio che l’Accademia di Scienze Lettere e Arti di Brescia ha istituito nel 1822 per le persone meritevoli che avevano
prodotto una memoria scritta nelle sezioni di letteratura, scienze e belle arti 6. Le
ragioni di tale scelta sono molteplici e vanno ricercate nella ormai bicentenaria
storia dell’Accademia bresciana, luogo privilegiato di incontro e confronto per
tanti fra quei personaggi le cui idee e azioni diedero impulso non piccolo agli
ideali e ai fatti del Risorgimento locale 7. Del resto, anche questa coniazione si
inserisce, cronologicamente e concettualmente, in quella “strategia premiale”
che costituisce uno degli assi portanti alla base dell’origine stessa delle accademie
come la nostra, indirizzata a incoraggiare, fin dall’inizio, i più svariati campi di
indagine e di attività, compresi quelli volti all’industria, alle arti (da intendersi
nel suo significato più esteso di “artigianato”) e ai mestieri 8.
Nel corso della descrizione dei singoli pezzi si forniscono, quando reperiti,
i riferimenti relativi alle misure del diametro (o dell’altezza e della larghezza),
espressi in millimetri, e quelli relativi al peso, espressi in grammi.
3

5
Sul Museo del Risorgimento di Brescia si vedano, in particolare: Il Museo del Risorgimento, breve
guida a cura della Direzione, Apollonio, Brescia 1959; Gaetano Panazza, Il Museo del Risorgimento
di Brescia, in 1859 bresciano, a cura del Comitato bresciano per il centenario del 1859, La nuova cartografica, Brescia [1959], pp. 109-110; Alberto Morucci, Guida del Museo del Risorgimento di Brescia,
Squassina, Brescia 1993. Le civiche collezioni del Museo sono state sottoposte, in tempi recenti, a un
processo di revisione storica e critica, sfociato in alcune esposizioni di carattere tematico: La grande
battaglia, l’ immenso ospedale. Materiali per un Museo del Risorgimento, a cura di Ida Gianfranceschi,
Renata Stradiotti, Apollonio, Brescia 2006; Cara Italia! La Restaurazione e le Dieci giornate di Brescia, a cura di Ida Gianfranceschi, Elena Lucchesi Ragni, Comune. Museo del Risorgimento, Brescia
2007; Napoleone III a Brescia e a Solferino. La Vittoria celebrata 1859-2009, catalogo della mostra a cura
di Elena Lucchesi Ragni, Maurizio Mondini e Francesca Morandini (Brescia, Santa Giulia-Museo
della città, 20 giugno - 20 settembre 2009), Cinisello Balsamo 2009; L’ Italia degli italiani: 1861-1878.
Brescia dopo l’Unità, a cura di Elena Lucchesi Ragni e Maurizio Mondini, Comune di Brescia, Brescia 2010.
6
Vincenzo Pialorsi, Medaglie coniate a cura dell’Ateneo di Brescia, in «Commentari dell’Ateneo di
Brescia per l’anno 1970», Brescia 1971, pp. 361-364.
7
Luciano Faverzani, L’Ateneo fra dibattito politico e storiografico, in L’Ateneo di Brescia. 1802-2002, atti
del convegno storico per il bicentenario di fondazione (Brescia, 6-7 dicembre 2002), a cura di Sergio
Onger, Brescia 2004, pp. 195-226.
8
Erica Morato, L’Ateneo nell’Italia pre-unitaria, in L’Ateneo di Brescia. 1802-2002, cit., pp. 58-64.

Fig. 1
1. Francesco Putinati, Medaglia premio dell’Ateneo di Brescia con i busti di Ales-
sandro Bonvicino (il Moretto), Agostino Gallo, Iacopo Bonfadio e Nicolò Tartaglia (fig. 1).
D/ Rosetta A . BUONVICINO . AGOSTINO GALLO . IAC . BONFADIO . N .
TARTAGLIA. I busti dei quattro personaggi, vestiti alla maniera del XVI secolo, sono
accostati e contrapposti a coppie: a sinistra il Moretto e Agostino Gallo (con copricapo); a destra Bonfadio (con copricapo) e Nicolò Tartaglia. Sotto i busti, a sinistra: NEL
1822; a destra: PUTINATI F.
R/ ATENEO DI BRESCIA
Ghirlanda di foglie d’alloro; nel campo, in alto: A; nel campo, in corsivo su sei righe:
Al Sig. / Pres. B.e A. Sabatti / per la memoria / sull’invilimento dei / grani in Italia /
I° premio.
AR, diam. 55; peso 71,6; Civici musei di Brescia, inv. n. ME126.
Poiché diversi esemplari in bronzo hanno il campo privo della dedica ad
personam (come quello qui presentato), vuol dire che siamo di fronte a pezzi in
soprannumero rispetto alle tirature note 11, mentre una in oro fu donata all’imperatore Francesco I d’Austria in visita all’Ateneo durante il suo viaggio nel
Lombardo Veneto del 1825 12.
Francesco Putinati, nato a Verona e secondo incisore presso la zecca di Milano fino all’anno della morte nel 1848 13, ha qui riunito i busti di quattro eminenti personaggi della Brescia rinascimentale, tre dei quali spiccano anche sull’arco
del Granarolo che insiste tra i portici di via X Giornate e via Card. Bevilacqua,
in città 14.
Originale e ben calibrata la soluzione di affrontare doppi ritratti, adottata qui
da Putinati, che raddoppia l’uso già in voga nella monetazione romana antica
di collocare l’uno di fronte all’altro i busti di personalità di spicco, mentre in altre circostanze egli si limita ad affiancare solo due effigi dei personaggi celebrati nelle sue medaglie, come nel caso di Francesco IV d’Este e di Maria Beatrice
d’Austria (1831).
Anche per il gruppo di quattro medaglie che segue, tutte nate dalla sapiente
mano di Gaetano Zapparelli 15, l’implicazione con le vicende risorgimentali della città è soprattutto simbolica, piuttosto che essere legata a fatti o personaggi
di particolare rilevanza storica in senso stretto. Infatti, questi oggetti celebrano
2. Francesco Putinati, Medaglia premio dell’Ateneo di Brescia con i busti di Alessan-
dro Bonvicino (il Moretto), Agostino Gallo, Iacopo Bonfadio e Nicolò Tartaglia.
D/ Come al n. 1
R/ ATENEO DI BRESCIA
Ghirlanda di foglie d’alloro; nel campo, in alto: A; campo liscio.
AE, diam. 55; Civici musei di Brescia, inv. n. ME3415.
La medaglia, il cui conio del dritto è conservato presso i Civici musei di Brescia, fu realizzata a partire dal 1822 e consegnata nominativamente alle persone
che l’Ateneo giudicava meritevoli di premio per la presentazione di una memoria scritta o produzione nelle singole sezioni di letteratura, scienze e belle arti, e
se ne iniziò la distribuzione per i premiati del 1821 9. La medaglia venne coniata
anche in oro, a partire dal 1824, e in rame, dal 1864 10.
Oltre a Prospero Rizzini, Illustrazione dei Civici Musei di Brescia. Parte II. Medaglie. Serie pontificia,
italiane sec. XIX ed estere, Brescia 1893, p. 163, nn. 234-238, si vedano anche: V. Pialorsi, Le medaglie
coniate…, cit., pp. 361 e 367; Id., Punzoni e conii del medagliere dei Civici Musei, in «Studi e notizie.
9

Dai Civici Musei d’arte e storia di Brescia», 3, Brescia 1987, pp. 44 e 45, n. 6; Id., Medaglie relative a
personaggi…, cit., p. 42, n. 82.
10
Dalle fonti archivistiche e bibliografiche risulta anche l’emissione di una medaglia in argento (20
pezzi), di modulo inferiore che tuttavia, al momento, non è stata rintracciata (V. Pialorsi, Medaglie
relative a personaggi…, cit., p. 42).
11
Si tratta di 8 medaglie in oro, 148 in argento e 13 in rame.
12
La medaglia, del peso di 83 g, è conservata al Münzerkabinett del Kunsthistorisches Museum di
Vienna.
13
Arnaldo Turricchia, Le medaglie di Francesco Putinati, Ediprint, Roma 2002.
14
L’arco del Granarolo fu realizzato da Rodolfo Vantini nel 1822 (Itinerario di Brescia neoclassica, a
cura di Francesco Amendolagine, Firenze 1979, p. 95; Il volto storico di Brescia, 3, Grafo, Brescia 1980,
pp. 279-280; Antonio Rapaggi, Rodolfo Vantini (1792-1856), Grafo, San Zeno Naviglio (Bs) 2011, p.
42), mentre i quattro profili clipeati di Agostino Gallo, Nicolò Tartaglia, Alessandro Bonvicino e
Giammaria Mazzucchelli sono opera di Giovanni Fantoni.
15
Sull’opera di Gaetano Zapparelli (Pozzolengo 1792 - Brescia 1863), apprezzato esecutore di medaglie dedicate a personaggi e ad avvenimenti prevalentemente bresciani, ma anche abile intagliatore di cammei e incisore di punzoni, si vedano i puntuali studi di Vincenzo Pialorsi (Le medaglie di
Gaetano Zapparelli, in «Medaglia», n. 7, 1974, pp. 45-74; Aggiornamento al “corpus” delle medaglie di
Gaetano Zapparelli, in «Medaglia», n. 9, 1981, pp. 56-57).

gli avvenimenti correlati alla campagna di sterri e scavi che, fra il 1823 e il 1826,
portò al rinvenimento del Capitolium di età vespasianea e dei celebri bronzi
romani, tra cui la Vittoria alata 16. A Giovanni Labus, uno degli artefici principali della ricca e fortunata serie di scoperte archeologiche bresciane, è dedicata
la medaglia che lo ritrae all’età di quarantotto anni, datata 1823 17. La messa in
luce delle rovine del grande tempio imperiale e la contestuale scoperta della famosa statua alata in bronzo, di fatto, inserirono ben presto la città fra le nuove mete previste dal grand tour italiano e determinarono in poco tempo, come
una sorta di sinestesia iconografica, l’identificazione con esse dell’intera comunità cittadina. A questo proposito, è certamente la Vittoria alata il motivo che
ha avuto maggiore successo e fortuna anche nella medaglistica, divenendo un
emblema dal fortissimo valore evocativo, come potremo constatare attraverso
l’analisi dei pezzi coniati nei decenni successivi.
3. Gaetano Zapparelli, Scavi nella zona archeologica di Brescia romana (fig. 2).
D/ Veduta da sud-est del pronao del Capitolium di Brescia al momento del ritrovamento, sullo sfondo le pendici del colle Cidneo con alcune antiche case. Nella mensolina di
base: G. ZAPPARELLI. Cornicetta.
R/ Al centro, in caratteri piccoli: SCAVI IN BRESCIA 1823. In alto: rosetta. Cornicetta.
AE, diam. 46; Civici musei di Brescia, inv. n. ME127.
Fig. 2
più sintetici e necessariamente semplificati, la stessa veduta della zona archeologica rappresentata in un disegno e in un’acquaforte di Luigi Basiletti, datati
attorno al 1826 20. Da ciò che è dato intuire, tuttavia, l’esecuzione della medaglia è effettivamente precedente le opere di Basiletti, poiché in esse le antiche
vestigia del tempio sono ormai ripulite dal terreno dilavato dal Cidneo: nel disegno e nell’acquaforte tutta l’area centrale del pronao appare infatti sgombra
dalla massa incombente dei detriti, ancora visibile invece nella medaglia 21, la
cui esecuzione, pertanto, deve essere intervenuta mentre l’opera di sterro era
ancora in corso.
4. Gaetano Zapparelli, Giovanni Labus (fig. 3).
D/ IOANNES . LABVSIVS . – BRIXIANVS . I . C . Testa nuda di profilo a destra;
sotto il taglio del collo: G . ZAPPARELLI. Cornicetta.
R/ ANTIQVITATIBVS . PATRIAE SCITE . EXPLANATIS; entro corona d’alloro:
ANNO / MDCCCXXIII / due rosette. Cornicetta.
AE, diam. 46; Civici musei di Brescia, inv. n. ME1530 e ME50024.
Il conio del dritto, conservato presso i Civici musei d’arte e storia di Brescia 18,
è stato utilizzato da Zapparelli come rovescio per una delle medaglie dedicate
all’educatore bresciano Giuseppe Saleri 19; esso ripropone, anche se in termini
Per una sintesi delle vicende archeologiche e uno sguardo d’insieme alla vasta bibliografia sull’argomento si veda Pierfabio Panazza, Archeologia e coscienza storica. Il ruolo dell’Ateneo nella formazione dei musei cittadini, in L’Ateneo di Brescia. 1802-2002, cit., pp. 506-516. Inoltre, più recentemente,
si veda il volume dedicato al bimillenario della nascita dell’imperatore Vespasiano (Divus Vespasianus, pomeriggio di studio per il bimillenario della nascita di Tito Flavio Vespasiano imperatore romano,
Brescia, 8 dicembre 2009, atti a cura di Francesca Morandini e Pierfabio Panazza, Supplemento ai
«Commentari dell’Ateneo di Brescia per l’anno 2009», Stamperia Fratelli Geroldi, Brescia 2012).
17
Sulla figura di Giovanni Labus e sul suo ruolo di principale archeologo ed epigrafista bresciano
per tutto il secolo XIX si veda il recente contributo di Pierfabio Panazza, Giovanni Labus e l’iscrizione del Capitolium di Brescia: cronaca di una scoperta (con un’appendice numismatica), in Divus Vespasianus…, cit., pp. 1-29).
18
V. Pialorsi, Punzoni e conii…, cit., p. 46, n. 7.
19
V. Pialorsi, Medaglie relative a personaggi…, cit., p. 68, n. 121.
16

Fig. 3
La medaglia che ritrae Giovanni Labus viene inserita in questo lavoro per
rendere il doveroso omaggio all’illustre archeologo ed epigrafista, ma soprattutto perché grazie ad essa è possibile ricordare una delle figure di intellettuale
bresciano che meglio rappresenta, attraverso la sua vita e i suoi scritti, il clima
culturale e politico del periodo durante il quale il Nostro operò, dapprima confrontandosi con il crollo dell’illusione napoleonica e, successivamente, soggiacendo al forzoso abbandono della scena politica a causa dall’avvento austriaco
nel Lombardo-Veneto. Ciò nonostante Labus seppe mantenere anche negli stu-
Il volto storico di Brescia, cit., 4, Brescia 1981, pp. 191 e 197-198, G XLV 11 e G XLV 12.
Oltre a P. Rizzini, Illustrazione dei Civici Musei…, cit., p. 168, n. 278, si veda anche V. Pialorsi,
Medaglie relative a personaggi…, cit., p. 44, n. 83.
20
21

Fig. 4
di di antiquaria e di epigrafia, che hanno caratterizzato la seconda parte della
sua lunga esistenza, la stessa vis polemica che lo aveva condotto, negli anni giovanili, ad essere patriota attivo e giornalista di grido.
5. Gaetano Zapparelli, Rinvenimento della Vittoria alata durante gli scavi del
Capitolium (fig. 4).
D/ VITTORIA -- BRESCIANA. Riproduzione della Vittoria alata volta a destra con
l’aggiunta delle integrazioni, rispetto all’originale antico, del clipeo, dello stilo e dell’elmo sotto il piede sinistro; sotto la mensolina: ZAPPARELLI F. Cornicetta. Montatura
ad anello in ottone con appiccagnolo.
R/ Entro corona d’alloro: SCOPERTA / L’ANNO / MDCCCXXVI. Cornicetta.
AE, diam. 46; Civici musei di Brescia, inv. n. ME279.
La medaglia rappresenta forse una delle opere migliori di Zapparelli che, proprio per questo conio, si meritò l’assunzione stabile presso la zecca di Milano 22.
Dell’esemplare è nota anche una seconda variante che si distingue per la firma
diversa (G. ZAPPARELLI) e per alcune differenze sia per quanto riguarda il
corpo dei caratteri dell’iscrizione, sia per alcuni dettagli legati all’immagine della
Vittoria alata (panneggio del chitone, lunghezza e inclinazione dello stilo) 23. Il
motivo della statua alata bresciana, scoperta nell’area archeologica del tempio di
Vespasiano nel tardo pomeriggio del 20 luglio 1826, viene immediatamente accolto dalla medaglistica, locale, italiana e anche internazionale, come uno dei più
P. Rizzini, Illustrazione dei Civici Musei…, cit., p. 168, n. 279; Leonard Forrer, Biographical dictionary of medalists, Coin, Gem and seal-engravers, Mint-masters &c., ancient and modern (B.C. 500
- A.D. 1900), reprinted New York, B. Franklin, 1970, VI, p. 720; V. Pialorsi, Medaglie relative a personaggi…, cit., p. 45, n. 86.
23
I conî fanno parte della collezione Johnson di Milano, mentre il punzone del dritto dell’esemplare
qui presentato è conservato presso i Civici musei di Brescia (V. Pialorsi, Punzoni e conii…, cit., pp.
45-46, n. 8).
22

adatti a celebrare e commemorare eventi di carattere storico, tanto che lo stesso
Zapparelli se ne servì in seguito per approntare altre medaglie, utilizzando lo stesso punzone usato per questo pezzo oppure elaborandone nuove versioni 24.
Dopo la sconfitta di Napoleone e l’accordo delle potenze vincitrici di spartirsi
l’Europa, ratificato dal trattato di Parigi e dal congresso di Vienna, anche Brescia
e la sua provincia, di cui non faceva parte la Val Camonica (aggregata fin dal
1801 a quella di Bergamo), entrarono nel nuovo Regno Lombardo-Veneto, sotto
il dominio dell’Austria. Nonostante l’amministrazione asburgica avesse meritoriamente curato il rinnovamento della città, allo scopo di allineare soprattutto
la zona centrale urbana a criteri di “decenza” e di “decoro”, le condizioni di vita
dei ceti più popolari rimasero assai modeste e ben presto iniziò a serpeggiare un
evidente sentimento di insofferenza verso il dominio straniero.
Non è un caso che anche il ceto dirigente, costituito in prevalenza dalla nobiltà locale e da appartenenti alla classe di proprietari terrieri di estrazione altoborghese, abbia favorito presso l’Ateneo bresciano il moltiplicarsi di iniziative
volte alla ricerca e alla evocazione della “storia patria”. Se da un lato questi tentativi facilmente possono confluire nell’orientamento storicistico della cultura
romantica, dall’altro essi accompagnano il progressivo diffondersi degli ideali
propugnati prima dalla Carboneria e poi dall’azione mazziniana.
In questo contesto, ad opera di Gaetano Zapparelli, nasce la medaglia che
commemora la visita dell’imperatore Ferdinando I d’Austria compiuta in città
pochi giorni dopo la cerimonia di incoronazione a re del Lombardo-Veneto,
avvenuta a Milano il 6 settembre 1838 25.
Sulla Vittoria alata si veda il recente volume, edito a cura dell’Ateneo di Brescia e pubblicato in
occasione del centottantesimo anniversario della scoperta (in corso di stampa); inoltre, per la fortuna che la statua antica ha goduto soprattutto durante la seconda metà del XIX secolo, si vedano
anche Pierfabio Panazza, Brescia per Napoleone III: la Vittoria alata e il palazzo della Loggia, in Napoleone III a Brescia e a Solferino…, cit., pp. 59-65; Elisabeth Le Breton, La Vittoria alata nelle raccolte
del Louvre, in Napoleone III a Brescia e a Solferino…, cit., pp. 67-75 e Pierfabio Panazza, La Vittoria
alata di Brescia: repliche, calchi e fortuna iconografica nel XIX secolo, in Grandi bronzi romani dall’Italia settentrionale. Brescia, Cividate Camuno e Verona, a cura di Andrea Salcuni e Edilberto Formigli,
«Frankfurter Archäologische Schriften», 17, Bonn 2011, pp. 25-34.
25
In occasione della presenza a Brescia dell’imperatore si sarebbe dovuto pubblicare il primo volume
del Museo Bresciano Illustrato, relativo alle scoperte archeologiche del 1823-26, ma l’opera venne data
alle stampe solo nel 1844 e indirizzata a Ferdinando I dall’allora presidente Giuseppe Saleri. Alla fine
di maggio del 1845 il Governo imperiale ricambiò il dono inviando all’Ateneo i venti volumi della
Description de l’Égypte e i due tomi del Niello Antipendium (Giuseppe Cerri, L’Ateneo di Brescia e la
Description de l’Égypte, in L’Ateneo e la Description de l’Égypte, atti della giornata di studio, Brescia,
9-10 aprile 1999, a cura di Luciano Faverzani, Brescia 2003, pp. 11-16).
24

Fig. 5
Fig. 6
6. Gaetano Zapparelli, Visita a Brescia dell’imperatore Ferdinando I d’Austria
(fig. 5).
D/ IMP . REX . FERDINANDVS . I . P . F . A . Testa laureata di profilo a destra; nel
campo, a sinistra: ZAPPARELLI. Cornicetta.
R/ ADVENTVI AVGVSTI BRIXIAE CORONA . REGALI MEDIOLANI SVSCEPTA. Due fronde di alloro annodate in basso a forma di corona circoscrivono il campo
liscio. Cornicetta.
AE, diam. 43,5; coll. privata.
Di questa medaglia si conservano solo esemplari in bronzo, ma è possibile
che l’emissione prevedesse anche pezzi in argento e forse anche in oro, data l’eccezionalità del personaggio effigiato 26. Per l’occasione Zapparelli realizzò una serie di altre nove medaglie dedicate all’augusto personaggio, alla moglie e ad altri
membri della famiglia, benché in queste manchi il riferimento certo alla nostra
città 27. Inoltre il medaglista bresciano produsse anche un esemplare di formato
ridotto, destinato ad essere elargito alla popolazione.
chia annotazione che consente di individuarne la data di esecuzione e l’occasione per cui è stato emesso 28.
Nonostante il potere asburgico si sia sforzato di autocelebrarsi in occasioni
solenni e ufficiali e abbia tentato di operare una svolta significativa nell’organizzazione amministrativa e politica della città e del territorio, anche a Brescia
alcune personalità, come i liberali Giacinto Mompiani, Filippo e Camillo Ugoni, Andrea Tonelli e lo scrittore e giornalista Giovita Scalvini, entrarono ben
presto in contatto con la Carboneria e l’ambiente intellettuale milanese legato alla rivista «Il Conciliatore». Gli avvenimenti del 1821 determinarono anche
nelle nostre contrade una dura reazione poliziesca che si protrasse sino ad oltre
la metà del secolo, tanto che altissimo fu il numero di patrioti sottoposti a sorveglianza speciale (tra gli altri si ricordano in particolare Giacinto Mompiani,
Giuseppe e Luigi Lechi).
Tuttavia la medaglistica bresciana di età risorgimentale non manca di serbare ricordo anche di quella importante schiera di aristocratici locali allineati con
la dominazione asburgica e che durante la loro vita rivestirono incarichi significativi sia all’interno delle forze armate austriache sia all’interno dell’apparato
burocratico imperiale. Il caso più emblematico è rappresentato dalla medaglia
che Zapparelli coniò in onore del conte Luigi Mazzuchelli, generale al servizio
dell’imperatore, probabilmente all’epoca della sua nomina a governatore della
fortezza di Mantova (1840-1846).
8. Gaetano Zapparelli, Al conte Luigi Mazzuchelli (fig. 6).
D/ ALOISIVS . MAZZVCHELLIVS . -- COM . VIR . CLARISSIMVS; busto di profilo a sinistra in abito civile con alto bavero; nel campo, sotto il taglio del busto: ZAPPARELLI. Cornicetta.
R/ PLVRIMIS . EQQ . INSIGNIBVS . EXORNATVS. Al centro, entro una ghirlanda
di alloro chiusa: TRIBVNVS . MILITVM / PROPRIETARIVS . LEG . X / PRAEP .
MANVBALLISTARIO . / LEGATVS AVGVSTI PER / MORAVIAM ET SILESIAM;
in alto, piccola aquila; in basso, rosetta. Cornicetta.
AE, diam. 46; coll. privata.
7. Gaetano Zapparelli, Per la visita a Brescia dell’imperatore Ferdinando I d’Au-
stria.
D/ FERDINANDVS I . AVST . IMPERATOR. Testa laureata di profilo a destra; nel
campo, in basso: ZAPPARELLI. Cornicetta.
R/ Liscio. Larga cornicetta.
AE, diam. 14; Civici musei di Brescia, inv. n. ME1533.
Il pezzo qui presentato fa parte delle collezioni dei Civici musei di Brescia
e, benché escluso dal catalogo del Rizzini, esso è riconoscibile grazie a una vec-
V. Pialorsi, Medaglie relative a personaggi…, cit., p. 54, n. 101.
V. Pialorsi, Le medaglie di Gaetano Zapparelli, cit., p. 46; Id., Aggiornamento…, cit., p. 57.
26
27

La medaglia, forse commissionata a Brescia, celebra il nobile Mazzuchelli
che aveva partecipato ai moti del 1797 e aveva iniziato la sua carriera militare
con Napoleone, raggiungendo il grado di generale di divisione. Passato nel 1814
La targhetta, conservata unitamente alla medaglia, recita: «Coniata nel 1838 nell’occasione della visita fatta a Brescia dall’imperatore» (V. Pialorsi, Medaglie relative a personaggi…, cit., p. 54, n. 102).
28

in forze all’esercito austriaco, divenne tenente maresciallo e tra il 1840 e il 1846
rivestì la carica di governatore della piazza di Mantova, prima di ritirarsi a vita
privata e di trasferirsi a Vienna 29.
Nel frattempo si verificarono le prime adesioni alla Giovine Italia, ad opera
specialmente di Gabriele Rosa, nativo di Iseo e una delle pochissime personalità
di spicco del nostro Risorgimento di modesta estrazione sociale 30. In generale,
il clima politico italiano si preparava alla stagione delle riforme costituzionali,
specialmente dopo l’elezione al soglio pontificio di papa Pio IX, tanto che entro il primo trimestre del 1848 tutti gli stati italiani, ad eccezione del Lombardo-Veneto e dei ducati di Parma e Modena, potevano godere di un assetto più
liberale, sancito da uno statuto o da una costituzione.
Nei concitati mesi che vanno dal giugno 1847 alla sconfitta patita dai piemontesi a Custoza (27 luglio 1848) anche Brescia prende parte attiva alla rivoluzione che avrebbe dovuto produrre l’affrancamento dal dominio austriaco e,
contemporaneamente alla ribellione di Milano, si registrano in città episodi di
sollevazione popolare culminati nella creazione di un Governo provvisorio del
quale fu eletto presidente Luigi Lechi 31.
A questo periodo storico, convulso, ma denso di tensioni e di idealità che
sfoceranno più tardi nella eroica decade bresciana (23 marzo - 1 aprile 1849),
29
Di poco precedente il suo abbandono della città è la vendita dell’archivio di famiglia e della straordinaria collezione di medaglie del suo avo, il conte Giammaria Mazzuchelli, che venne acquistata
dal conte Camillo Brozzoni il quale successivamente (1863 ca.) la legò con munifico dono ai musei
cittadini (V. Pialorsi, Medaglie relative a personaggi…, cit., p. 62, n. 111). Su Luigi Mazzuchelli si vedano anche: Caro figlio, stimato padre. Famiglia, educazione e società nobiliare nel carteggio tra Francesco e Luigi Mazzuchelli (1784-1793), a cura di Sergio Onger, Grafo, Brescia 1998 e Sergio Onger, La
formazione di un giacobino: il caso di Luigi Mazzuchelli, in Alle origini del Risorgimento. La Repubblica bresciana dal 18 marzo al 20 novembre 1797, atti della giornata di studio (Brescia, 18 marzo 1997) a
cura di Luigi Amedeo Biglione di Viarigi, Brescia 2000, pp. 129-174.
30
Bernardo Scaglia, Sette e cospirazioni a Brescia, 1830-1850, in «Commentari dell’Ateneo di Brescia»,
Brescia 2002, pp. 185-196; Id., Correnti politiche e attività rivoluzionaria nel Risorgimento, in Brescia
1849. Il popolo in rivolta, atti del convegno in occasione del 150º delle Dieci giornate di Brescia (Brescia, 26-27 marzo 1999), a cura di Sergio Onger, Brescia 2002, pp. 31-54. In particolare, su Gabriele Rosa, si veda anche l’altro contributo di Alessandra Porati, Gabriele Rosa e la riflessione storica, in
«Commentari dell’ Ateneo di Brescia», Brescia 2002, pp. 347-371.
31
Luigi Amedeo Biglione di Viarigi, Il 1848 e il 1849 bresciani nei corrispondenti del conte Luigi Lechi
presidente dell’Ateneo e del governo provvisorio, in «Commentari dell’Ateneo di Brescia», Brescia 1997,
pp. 129-162. Per la cronistoria dettagliata delle operazioni militari connesse alle insurrezioni di Brescia e Bergamo del marzo 1848 si veda anche Francesco Antonio Marenzi, L’insurrezione di Bergamo
e di Brescia del marzo 1848. Contributo alla storia di quella guerra, a cura di Bernardo Scaglia, «Monumenta Brixiae Historica Fontes», XVIII, Brescia 2008.

Fig. 7
fanno riferimento due interessanti medaglie dedicate, rispettivamente, a Pio IX
e al Governo provvisorio istituitosi il 23 marzo 1848.
La prima fu creata dal milanese Demetrio Canzani (1815 ca. - 1887), che fin
da giovane apprese l’arte dell’incisione presso la zecca di Milano allora diretta
dal padre, in occasione del ritiro delle truppe austriache da Brescia e accompagnato dall’acclamazione del pontefice per le speranze suscitate nei patrioti italiani nel 1848.
9. Demetrio Canzani, Brescia libera; viva Pio IX.
D/ DIO È CON NOI -- VIVA PIO IX. Busto del pontefice di profilo a sinistra, con
berretto, mozzetta e stola recante il ricamo della colomba dello Spirito Santo; nel campo, in basso: D.CANZANI. Cornicetta. Appiccagnolo.
R/ BRESCIA -- LIBERA stellina. Nel campo, al centro: 22 / MARZO / 1848. Cornicetta.
AR, diam. 22; peso 3,90; Civici musei di Brescia, inv. n. ME3417.
10.Demetrio Canzani, Brescia libera; viva Pio IX (fig. 7).
D/ Come al n. 9. Forse in origine l’esemplare doveva recare l’appiccagnolo, che attualmente risulta caduto e limato.
R/ Come al n. 9.
AE dorato, diam. 22; Civici musei di Brescia, inv. n. ME3418.
Le ragioni che spinsero a emettere questa medaglietta sono da ricercarsi nel
clima di euforia che si era venuto a creare in città a seguito degli avvenimenti
sopracitati e in concomitanza all’entusiasmo suscitato dalla concessione da parte
del pontefice di alcune riforme dettate da princìpi di una certa liberalità 32.
Nella notte fra il 22 e il 23 marzo 1848 si costituiva a Brescia il Governo prov-
Degno di nota è l’evento verificatosi nel giugno del 1847 quando, presso il Teatro Grande, venne
eseguito un Inno a Pio IX (Cara Italia!…, cit., p. 59).
32

Fig. 8
visorio presieduto da Luigi Lechi con l’intento di colmare il vuoto di potere verificatosi in città a seguito della capitolazione austriaca. Il 10 maggio giunse in
città Vincenzo Gioberti, accolto da manifestazioni di simpatia. La vita del Governo bresciano fu intensa, anche se di breve durata, essendosi di fatto esaurita
la sua ragion d’essere con la formazione di un Governo provvisorio centrale che
riuniva i rappresentati delle province lombarde. Tuttavia, il rapido evolversi della situazione militare, con la sconfitta dei piemontesi a Custoza (27 luglio) e la
firma dell’armistizio di Salasco (9 agosto), comportò fra l’altro anche il ritorno
di Brescia sotto l’egemonia asburgica.
Alla breve ma esaltante esperienza di libertà del Quarantotto bresciano è dedicata la medaglia di Gaetano Zapparelli, emessa in bronzo dorato, bronzo patinato e metallo bianco.
assurgere sempre più a simbolo di valenza civica. L’immagine della statua antica affianca, se non addirittura sostituisce, il leone bresciano proprio a partire da
questo momento così delicato, tanto per il Risorgimento nazionale quanto per
quello locale, e si trasforma in metaforica esaltazione di eroiche imprese 34.
L’esemplare qui presentato appartenne, come recita l’iscrizione incisa sulla costa della montatura, a Bortolo Federici, esponente del partito liberale cavouriano e sin dal 13 aprile 1848 membro del Comitato di vigilanza istituito dal
Governo provvisorio 35.
Gli eventi legati alla Prima guerra di indipendenza indussero il Governo
provvisorio bresciano, fin dai primi giorni della sua istituzione, a predisporre
una vasta rete di iniziative mediche e umanitarie destinate al soccorso e alla cura
dei militari colpiti durante gli scontri bellici. In particolare si distinse in questa
opera caritatevole, che principalmente riguardò i soldati piemontesi e toscani
feriti nella battaglia di Curtatone e Montanara, la contessa Maria Carolina Santi Bevilacqua, la quale, dopo la perdita del figlio Girolamo durante la battaglia
di Pastrengo, con eroica dedizione e impegno costante, lasciata la dimora cittadina, si premurò con la figlia Felicita di mantenere personalmente e di dirigere
l’ospedale da campo presso Valeggio, al seguito dell’armata piemontese 36.
In segno di riconoscenza Carlo Alberto fece realizzare dall’incisore e medaglista Giuseppe Ferraris, allievo di Luigi Manfredini presso la zecca di Milano e
successore di Amedeo Lavy come capo incisore della zecca di Torino, una medaglia d’oro oggi conservata presso i Civici musei d’arte e storia di Brescia 37.
11. Gaetano Zapparelli, Governo provvisorio bresciano del 22 marzo 1848 (fig. 8).
D/ VITTORIA -- BRESCIANA. Rappresentazione della statua della Vittoria alata
vista di scorcio a destra; nel campo, sotto la mensolina: ZAPPARELLI F. Cornicetta.
Montatura con appiccagnolo e anello di sospensione; sulla costa, inciso: BORTOLO
FEDERICI.
R/ GOVERNO PROVVISORIO BRESCIANO; in basso una stellina; nel capo, entro ghirlanda chiusa di foglie d’alloro: XXII / MARZO / MDCCCXLVIII / fregio.
Cornicetta.
AE dorato, diam. 47; Civici musei di Brescia, inv. n. ME3419.
Per il conio del dritto di questa medaglia, Zapparelli si servì di quello già
approntato per ricordare la scoperta della Vittoria alata (n. 5) 33, la quale tende
ormai a trascendere il suo pur straordinario valore artistico e archeologico per
V. Pialorsi, Medaglie relative a personaggi…, cit., p. 58, n. 108.
33

Per un approfondimento relativo al significato allegorico assunto dalla Vittoria alata di Brescia fra
XIX e XX secolo si veda la nota 24.
35
Federici, nato a Esine il 5 maggio 1792 da una delle più illustri casate camune, fu anche tra i firmatari, con Longo e Ducos, di un lungo manifesto col quale si auspicava la fusione della Lombardia
al Piemonte, sotto lo scettro nazionale di Carlo Alberto (28 aprile 1848). Inoltre, nell’aprile 1849, lo
ritroviamo con padre Maurizio Malvestiti e Di Rosa in qualità di latore di una supplica presentata
dalla Municipalità al generale Haynau, per ottenere una riduzione della multa inflitta alla città dopo
le Dieci giornate. Morì a Brescia il 5 novembre 1854 (Enciclopedia Bresciana, IV, La Voce del Popolo,
Brescia 1981, p. 88).
36
Enciclopedia Bresciana, XVI, La Voce del Popolo, Brescia 2000, p. 265. Si veda anche: Elena Sodini, Il fondo Bevilacqua: un itinerario tra famiglia, patriottismo femminile ed emancipazione, in Scritture femminili e Storia, a cura di Laura Guidi, Cliopress, Napoli 2004, pp. 331-350 (particolarmente
pp 331-337).
37
V. Pialorsi, Medaglie relative a personaggi…, cit., p. 63, n. 115.
34

Fig. 9
Fig. 10
12. Giuseppe Ferraris, Carlo Alberto in onore di Maria Carolina Santi nei mar-
chesi Bevilacqua per le cure prestate ai feriti del 1848 (fig. 9).
D/ CARLO -- ALBERTO. Testa nuda di profilo a sinistra; nel campo, sul taglio del
collo: G. FERRARIS F. Cornicetta.
R/ A / MARIA CAROLINA SANTI / NEI MARCHESI BEVILACQUA / DI BRESCIA / CHE AI VALOROSI ITALIANI / FERITI NELLA GUERRA D’INDIPENDENZA / APPARECCHIANDO OSPIZIO / E CONFORTI / MERITAVA DELLA
UMANITÀ / E DELLA PATRIA / linea / MDCCCXLVIII. Cornicetta.
AU, diam. 70; peso 272,3; Civici musei di Brescia, inv. n. ME901.
In realtà la duchessa non vide mai questa medaglia, perché le proscrizioni
emanate da Radetzky al ritorno degli austriaci in Lombardia di fatto impedirono a Maria Carolina Santi Bevilacqua di rientrare a Brescia da Valeggio, dove
ella morì nel 1849. Della medaglia sono note alcune repliche in bronzo, mentre
quella d’oro è un unicum, entrato nelle collezioni museali bresciane probabilmente all’inizio del XX secolo, non essendo presente nei cataloghi di Prospero
Rizzini editi per cura dell’Ateneo tra il 1892 e il 1893.
Alle eroiche imprese dei patrioti bresciani del 1848 è dedicata una seconda medaglia caratterizzata dall’effigie di Carlo Alberto e con una interessante iscrizione
sul rovescio, incisa a mano, ma che fa esplicito riferimento alla storia locale.
Il pezzo qui presentato è assimilabile alla medaglia coniata da Giuseppe Galeazzi sin dal 1831 38, ma se ne discosta per l’iniziale del nome del sovrano e per
il diverso orientamento del ritratto sul D/. Che si tratti di un adattamento locale di un esemplare “colto” lo indicano il testo e il ductus della lunga iscrizione incisa sul R/, nella quale compaiono anche diverse improprietà lessicali e
grammaticali 39.
La situazione politico-militare fra il Piemonte e l’Austria degenerò rapidamente, tanto che il Parlamento piemontese votò la ripresa delle ostilità il 2 marzo
1849, dando di fatto avvio alla seconda fase della Prima guerra di indipendenza.
Tuttavia, nel giro di pochi giorni, la soverchiante superiorità austriaca produsse
la definitiva sconfitta dei piemontesi a Novara (23 marzo), con la conseguente
abdicazione di Carlo Alberto e la firma dell’armistizio di Vignale (26 marzo) da
parte del nuovo re del Piemonte Vittorio Emanuele e del plenipotenziario austriaco maresciallo Radetzky. Nel frattempo la città, esacerbata dalla dura amministrazione militare asburgica, si preparava a un’insurrezione popolare, memore delle Cinque giornate di Milano, della breve e sfortunata rivolta bresciana
scoppiata fra il 18 marzo e il 27 luglio del 1848 e in contemporaneità con quanto
stava accadendo a Roma e a Venezia.
Le Dieci giornate di Brescia, verificatesi tragicamente nel momento meno
opportuno della Prima guerra d’indipendenza (23 marzo - 1 aprile 1849), costituiscono di fatto l’episodio più noto del Risorgimento bresciano e uno dei momenti più cruenti ed eroici dell’epopea risorgimentale italiana 40. I fatti drammatici che si verificarono in quelle circostanze hanno in realtà resa superflua ogni
commemorazione riconducibile alla produzione di medaglie contestuali a simili
eventi e anche l’unica medaglia attualmente nota, riferita a quelle memorabili
imprese, potrebbe essere stata realizzata più tardi, addirittura in concomitanza
della Seconda guerra d’indipendenza 41.
13. Giuseppe Galeazzi, Carlo Alberto e dedica in onore dei patrioti bresciani (fig.
10).
D/ KAROLVS ALBERTVS REX SARDINIAE. Testa nuda di profilo a destra; nel campo, in basso: G. GALEAZZI F. Cornicetta.
R/ Entro corona formata da una fronda di quercia e da una d’alloro annodate in basso
con un nastro: VALETE / Cenomanum Genus / Fortissimi viri; / Quos in potestatem
/ Gratulor susceptos / VALETE / Non ego solum Brixiensibus / Sed regni Mei atque /
Animi herede prospicient / Id . Iul . Ann . / 1848. Cornicetta.
AE, diam. 55,5; coll. privata.

Rodolfo Martini, Arnaldo Turricchia, Catalogo delle medaglie delle civiche raccolte numismatiche di
Milano. V. Secoli XVIII-XIX. 3. Stati italiani (1815-1860) (Regno di Sardegna, Regno Lombardo-Veneto,
Ducato di Modena e Reggio, Ducato di Parma e Piacenza, Repubblica di San Marino, Granducato di
Toscana, Regno delle Due Sicilie), Comune di Milano, Milano 1999, p. 11, n. 1666.
39
V. Pialorsi, Medaglie relative a personaggi…, cit., p. 64, n. 116.
40
Per una recente analisi storica delle vicende e del panorama sociale e politico connessi alle Dieci
giornate, si veda soprattutto Brescia 1849…, cit. Un utile inquadramento riassuntivo è offerto inoltre da Cara Italia!…, cit., pp. 72-91.
41
V. Pialorsi, Medaglie relative a personaggi…, cit., p. 60, n. 110.
38

15.Anonimo, Al generale J. von Haynau per le sue vittorie (fig. 12).
Fig. 11
Fig. 12
14.Anonimo, Il leone di Brescia in lotta contro l’aquila austriaca (fig. 11).
D/ Anepigrafe. Leone rampante a sinistra lotta contro l’aquila bicipite in volo; in basso
a sinistra, sul terreno, una spada. Orlo liscio.
R/ Nel campo, al centro: BRESCIA / MDCCC / XLVIIII / B M. Ai lati, incise con
carattere diverso: C – C. Orlo liscio.
AE dorato, diam. 61; fusione; coll. privata.
La medaglia è stata fusa e dorata, forse da un artigiano locale, per essere donata come segno di grata riconoscenza, se l’abbreviazione costituita dalle due
lettere finali della legenda del rovescio può sciogliersi nell’espressione Bene Merenti. Invece, le due C incise a fusione ultimata, potrebbero riferirsi alle iniziali
del patriota cui venne offerto l’esemplare (per esempio: Carlo Cassola o Cesare Correnti), che risulta vistosamente ritoccato a bulino per esaltarne i rilievi e
l’effetto chiaroscurale.
Benché appaia dubbia la proposta di collocare l’esecuzione del pezzo durante
l’arroventato susseguirsi dei drammatici fatti cui esso allude, acuiti dagli scontri
per le vie della città e dal cannoneggiamento degli austriaci asserragliati sul Cidneo, esso a buon diritto può essere annoverato fra le testimonianze più antiche
rese alle Dieci giornate, cui si riferiranno molto più tardi, nel corso del XIX e
del XX secolo, altre emissioni di medaglie commemorative 42.
Al generale austriaco Julius Jacob Freiherr von Haynau, che comandò la feroce repressione del moto insurrezionale bresciano tanto da meritarsi il soprannome de la iena di Brescia, è invece dedicata una medaglia dal forte valore encomiastico databile con sufficiente certezza proprio a quella occasione 43.
Vincenzo Pialorsi, Medaglie emesse a celebrazione delle Dieci Giornate di Brescia, in Le Dieci Giornate 1849-1989, supplemento ai «Commentari dell’Ateneo di Brescia», Brescia 1989, pp. 43-55. Più in
generale, per la valenza emblematica che l’episodio delle Dieci giornate ha rivestito nel corso degli
anni successivi, si veda specialmente Gianfranco Porta, L’insurrezione di Brescia: cent’anni di uso pubblico della storia, in «Commentari dell’Ateneo di Brescia», Brescia 2002, pp. 213-273.
43
Joseph Alexander Von Helfert, Oesterreichische Münzen und Geldzeichen von den Jahren 1848 und
42

D/ JUL . FREIHR . VON HAYNAU . K . K . OEST . FELDZEUGMEISTER. Nel
campo, intorno ai lati del busto: GEB . ZU . KASSEL -- IM JAHRE 1786. Busto di
fronte, volto leggermente a destra, con lunghi baffi e divisa militare ornata di decorazioni. Cornicetta.
R/ FÜR KAISER UND GESETZ, DURCH BEHARRLICHKEIT ZUM SIEGE.
Spada verticale sopra corona di foglie di quercia con bastone di comando e due fronde d’alloro incrociate.
AR, diam. 41; coll. privata.
Gli anni che vanno dal 1849 al 1853 furono caratterizzati, a Brescia e in tutto il Lombardo-Veneto, dal perdurare dello stato di emergenza che il governo
austriaco perpetrò instaurando un vessatorio regime fiscale e poliziesco 44. Ciò
nonostante i patrioti bresciani, fra cui soprattutto Tito Speri, contribuirono a
diffondere anche in ambito locale gli ideali mazziniani e la sottoscrizione delle cartelle di finanziamento dell’Associazione nazionale italiana. I mazziniani
lombardi si resero protagonisti di due tentativi di cospirazione contro il dominio austriaco, a Mantova (1852) e a Milano (1853), che ebbero però un esito
fallimentare e contribuirono a irrigidire l’intransigenza della polizia asburgica.
L’esito più tragico di tali vicende fu la condanna a morte di molti patrioti, fra
cui lo stesso Tito Speri, già animatore principale delle Dieci giornate, che vennero impiccati nel forte di Belfiore presso Mantova 45.
Una delle dirette conseguenze di questo tremendo e difficile lustro fu la fortissima ingerenza esercitata dal governo austriaco anche sulla vita culturale cittadina. In particolare, come conseguenza immediata del clima di diffidenza e di
sospetto che pervadeva l’opprimente regime asburgico, fra il 1851 e il 1855 ven-
1849, in «Numismatische Zeitschrift», VI-VII (1874-1875), 1876, p. 335, n. 141; V. Pialorsi, Medaglie
emesse a celebrazione…, cit., p. 46, n. 2. Della medaglia è nota anche la versione coniata in bronzo
(Brescia, coll. privata).
44
Oltre ai saggi di Ugo Baroncelli e di Aldo De Maddalena, comparsi sul quarto volume della Storia di Brescia nel 1964, si veda anche il recente contributo di Filippo Ronchi, Lo sgretolarsi del potere
asburgico nel bresciano (1849-1653), in «Commentari dell’ Ateneo di Brescia», Brescia, 2002, pp. 197211. Della medaglia è nota anche la versione coniata in bronzo (Brescia, coll. privata).
45
Per una ricca serie di saggi di approfondimento sulle vicende bresciane che portarono al sacrificio
dei martiri di Belfiore (dicembre 1852 - marzo 1853) si veda Verso Belfiore. Società, politica, cultura del
decennio di preparazione nel Lombardo-Veneto, atti del convegno di studi (Mantova-Brescia, 25, 26,
27 novembre 1993), Brescia 1995. Sull’influenza esercitata da Giuseppe Mazzini nel contesto del Risorgimento bresciano si veda anche B. Scaglia, Sette e cospirazioni…, cit., pp. 194-196.

R/ Nel campo, entro una corona d’alloro a due fronde annodate in basso con un nastro:
AUTORE / DELLA STORIA / DELLA LETTERATURA / ITALIANA / NELLA
SECONDA METÀ / DEL SECOLO XVIII / fregio / NATO IN BRESCIA / L’AN.O
M.DCC.LXXXIV / MT.O NEL MD.CCC.LV. Cornicetta.
AE argentato, diam. 45; Civici musei di Brescia, inv. n. ME3511.
18. Luigi Conter, Il Municipio di Brescia al barone Camillo Ugoni.
D/ Come al n. 17.
R/ Come al n. 17.
AE, diam. 45; Civici musei di Brescia, inv. nn. ME3512 e ME3513.
Fig. 13
nero addirittura sospese le sedute dell’Ateneo, considerato ricettacolo di rivoluzionari e focolaio di insurrezione 46.
Testimone ed evocatrice di quei difficili momenti è la medaglia dedicata dalla
Municipalità cittadina al barone Camillo Ugoni, letterato, patriota e già presidente dell’Ateneo bresciano, nell’anno della sua morte, avvenuta al Campasso
di Pontevico il 12 febbraio 1855.
16. Luigi Conter, Il Municipio di Brescia al barone Camillo Ugoni.
D/ NOBILE BARONE -- CAMILLO UGONI. Testa nuda di profilo a sinistra. Nel
campo, in basso: LUI . CONTER . F . BRE . Cornicetta.
R/ Nel campo, entro una corona d’alloro a due fronde annodate in basso con un nastro:
AUTORE / DELLA STORIA / DELLA LETTERATURA / ITALIANA / NELLA
SECONDA METÀ / DEL SECOLO XVIII / fregio / NATO IN BRESCIA / L’AN.O
M.DCC.LXXXIV / MT.O NEL MD.CCC.LV. Cornicetta.
AE, diam. 45; Civici musei di Brescia, inv. nn. ME1096 e ME3420.
La medaglia, nota anche in bronzo argentato, è stata probabilmente preceduta dall’emissione di un altro esemplare in bronzo argentato e in bronzo patinato, differente per alcune varianti riguardanti l’iscrizione sul D/, le dimensioni
dei caratteri della firma oltre che la resa dei capelli del ritratto 47.
17. Luigi Conter, Il Municipio di Brescia al barone Camillo Ugoni (fig. 13).
D/ CAMILLO UGONI. Testa di profilo a sinistra. Nel campo, in basso: LUI . CONTER . F . BRE . Cornicetta.
Sull’argomento e sulle dure critiche che dalle pagine de «La Sferza» Luigi Mazzoldi rivolgeva al
gruppo di intellettuali liberali, operante in seno all’Ateneo bresciano, si vedano specialmente Roberto
Navarrini, L’Ateneo di Brescia nella cultura risorgimentale, in Brescia 1849…, cit., pp. 345-34 e Filippo
Ronchi, Il giornalismo bresciano nel ’48-’49, in Brescia 1849…, cit., pp. 376-377.
47
V. Pialorsi, Medaglie relative a personaggi…, cit., p. 70, n. 125.
Con la cessazione dello stato di assedio (1854) la città, che avrebbe dovuto
rientrare nell’alveo della normalità all’interno dell’impero asburgico, vede serpeggiare il sentimento d’insofferenza e il malcontento. L’esempio di Tito Speri
ancora aleggiava fra i congiurati che tra il luglio e l’agosto del 1856 pubblicarono
manifesti fortemente antiaustriaci; la reazione fu ancora una volta decisa e solo
alcuni patrioti, come Alessandro Sora, riuscirono a mettersi in salvo riparando
all’estero. Per gli altri, come Faustino Palazzi, la condanna non fu mite. Tuttavia,
l’amnistia promulgata in occasione della visita di Francesco Giuseppe a Milano
il 25 gennaio 1857, aprì anche per costoro le porte del carcere 48.
Nonostante i reiterati tentativi dell’Austria di adottare una politica più moderata, accompagnata da misure che attenuavano il precedente regime poliziesco, la visita della coppia imperiale nel Lombardo-Veneto fu un insuccesso e
venne accolta con gelida freddezza dalla popolazione, specialmente durante la
sosta bresciana dell’11 gennaio. La schiera degli intellettuali bresciani di stampo liberale si ritrova nel frattempo affiliata al Gabinetto di lettura, promosso
da un giovane democratico, Giuseppe Zanardelli, attorno al quale si coagulerà
la schiera di patrioti che rappresenterà la classe dirigente cittadina (e non solo)
all’indomani della definitiva e imminente liberazione 49.
L’azione diplomatica del Regno di Sardegna, programmata da Cavour fin
dalla guerra di Crimea (1855), aveva proiettato il Piemonte sulla ribalta internazionale come potenza economica e militare, riscattando la disfatta di Novara e,
in particolare, aveva avvicinato il regno sardo alla Francia. I fallimenti dei moti
di insurrezione popolare, la crisi del mazzinianesimo e la disponibilità di molti
46

Ugo Baroncelli, Il decennio di preparazione, in Storia di Brescia, IV, Brescia 1964, pp. 348-349.
Roberto Chiarini, Zanardelli grande bresciano, grande italiano. La Biografia, Compagnia della Stampa, Roccafranca (Bs) 2004, p. 35.
48
49

patrioti repubblicani ad aderire al programma cavouriano per poter giungere a
una soluzione monarchico-unitaria dell’indipendenza italiana determinarono la
nascita, nell’agosto 1857, della Società nazionale italiana. Forte di questa situazione la politica di Cavour ottenne la ratifica dell’alleanza franco-sarda a Plombières nel luglio del 1858, garantendosi l’appoggio francese in caso di attacco da
parte dell’Austria.
Nell’aprile 1859 le tensioni e le frizioni che avevano indotto Francesco Giuseppe a imporre l’ultimatum al Piemonte provocarono la dichiarazione di guerra da parte dell’imperatore (28 aprile): si apriva la sanguinosa e devastante Seconda guerra di indipendenza che avrebbe avuto come teatro di scontro fra gli
eserciti in battaglia anche il nostro territorio 50. Allo scoppio delle ostilità Giuseppe Garibaldi, che sin dal 1857 si era volto alla politica cavouriana aderendo
alla Società nazionale, ebbe il compito di sostenere l’avanzata franco-piemontese
lungo il fianco pedemontano con il corpo dei Cacciatori delle Alpi, costituito da
circa 3.000 volontari. Dopo le prime vittorie e la liberazione di Varese e Como,
i Cacciatori puntarono verso Brescia, che nel frattempo era stata abbandonata
dal presidio austriaco e dove l’avanguardia dei liberatori fece il suo ingresso il
12 giugno 1859.
Il 13 giugno Garibaldi entrò trionfalmente in città e, cinque giorni più tardi, i Cacciatori liberarono Salò per poi costituire un valido sbarramento tra le
valli bresciane e la Valtellina, onde evitare l’eventuale controffensiva austriaca
dal Tirolo. Se, da un punto di vista strettamente strategico e militare, l’apporto
garibaldino fu di secondo piano, esso rappresentò invece un momento di straordinaria popolarità per tutto il Risorgimento italiano, alimentando la leggenda
dell’invincibilità dell’Eroe dei Due Mondi.
Nel frattempo, Brescia ormai libera ospitava Vittorio Emanuele II e Napoleone III, che risedettero in città durante le operazioni che precedettero il sanguinoso e vittorioso scontro a San Martino e Solferino (24 giugno). L’arrivo in
città dei due regnanti e delle truppe al loro seguito fu vissuto con senso di vero
tripudio collettivo, tanto che le vie cittadine vennero imbandierate a festa, come testimoniano le cronache dell’epoca e alcune opere figurative 51.
La grande battaglia…, cit.; Napoleone III a Brescia e a Solferino…, cit.
51
Tra queste ultime si segnalano, in particolare, i disegni e i dipinti a olio di Angelo Inganni, particolarmente attratto dal corpo degli Zuavi a causa delle sue uniformi dal marcato carattere orientale
(sull’argomento si veda La grande battaglia…, cit., pp. 33-40 e in particolare Maurizio Mondini, A
Brescia prima di Solferino. Le cronache, le memorie, le testimonianze figurative, in Napoleone III a Brescia e a Solferino…, cit., pp. 27-43).
50

Fig. 14
La permanenza in città di Vittorio Emanuele II e di Napoleone III, alloggiati rispettivamente in palazzo Valotti (ora Lechi) in corso Magenta e in palazzo
Bettoni Cazzago (già Fenaroli Avogadro) in via Marsala 52, fu vissuta da tutta la
comunità come momento di forte esaltazione popolare e, a riprova del particolare fervore che animò lo spirito collettivo di quelle giornate, ben può figurare la piccola medaglia coniata in onore dell’imperatore dei francesi da parte
del collegio Peroni.
19.Anonimo, Collegio Peroni di Brescia plaude a Napoleone III (fig. 14).
D/ Nel campo liscio: MACTES / STVDIO / AC / MORIBVS BONIS. Cornicetta.
Appiccagnolo.
R/ COLLEGIVM PERONIANVM. Ghirlanda d’alloro e campo liscio. Cornicetta.
AR, diam. 30; peso 7,8 (con il nastro); coll. privata.
La particolarità di questo esemplare è rappresentata dal nastro, annodato
all’appiccagnolo e costituito da un lembo di stoffa rossa e verde con bordino
bianco esterno: sul lato del D/, infatti, vi è ricamata in blu una corona d’alloro e, in basso, le lettere W / N / III, sono un esplicito riferimento a Napoleone III 53.
Per celebrare l’avvenimento Gaetano Zapparelli approntò due medaglie, da
distribuire agli ufficiali e ai militari dei due eserciti liberatori.
Per una rassegna delle residenze storiche bresciane, che fecero da significativa quinta alle vicende
del Risorgimento locale, si veda Piero Lechi, I palazzi di Brescia: dalla rivoluzione del 1797 all’unità,
in Brescia e il Risorgimento. I luoghi e la memoria, ciclo di conferenze (Brescia, novembre-dicembre
2003) a cura di Luigi Amedeo Biglione di Viarigi e Luciano Faverzani, Ateneo di Brescia, Brescia
2006, pp. 97-117.
53
V. Pialorsi, Medaglie relative a personaggi…, cit., p. 74, n. 132.
52

20-21). Sulla mensolina dell’esergo: ZAPPARELLI. Cornicetta.
R/ Come al n. 20.
AE, diam. 22,5; Civici musei di Brescia, inv. n. ME2045.
Fig. 15
Fig. 16
20.Gaetano Zapparelli, La città di Brescia agli alleati franco-sardi (fig. 15).
D/ VITTORIA -- BRESCIANA. Rappresentazione della Vittoria alata di Brescia volta
a destra, con l’integrazione del clipeo, dello stilo e dell’elmo in aggiunta rispetto all’originale antico. Sotto la mensolina dell’esergo: ZAPPARELLI F. Cornicetta.
R/ Nel campo, entro una ghirlanda d’alloro: A’ / FRANCO-SARDI / OVUNQUE
VINCENTI / BRESCIA / 12 GIUGNO / 1859. Cornicetta.
AE dorato, diam. 47; Civici musei di Brescia, inv. n. ME3469.
Anche questa seconda medaglia, come del resto la precedente, denota una
certa trascuratezza di esecuzione 56, difficilmente ravvisabile nelle incisioni di
Zapparelli, ma giustificata dalla rapidità con cui evolsero gli avvenimenti in quel
concitato inizio d’estate del 1859. Più accurato e con evidenti varianti nella resa della statua antica è invece l’esemplare coniato a ricordo dell’istruttore della
Guardia nazionale A. Garone 57, anche se ribadisce in modo meccanicamente ripetitivo l’impianto generale utilizzato in precedenti occasioni. Presso le raccolte
dei Civici musei di Brescia è conservato il conio del dritto 58.
23. Gaetano Zapparelli, Il Municipio di Brescia ad A. Garone (fig. 16).
D/ Rappresentazione della Vittoria alata di trequarti verso destra. Sulla mensolina
dell’esergo: ZAPPARELLI. Cornicetta.
R/ IL MUNICIPIO DI BRESCIA. Nel campo, al centro, entro corona formata da una
fronda di quercia e da una d’alloro annodate in basso con un nastro: AD / A . GARONE / ISTRUTTORE / DELLA GUARDIA NAZ.le / 1859. Cornicetta.
AE, diam. 46; coll. privata.
21. Gaetano Zapparelli, La città di Brescia agli alleati franco-sardi.
D/ Come al n. 20.
R/ Come al n. 20.
AE, diam. 47; Civici musei di Brescia, inv. n. ME3470.
La prima di queste rare medaglie, emessa anche in bronzo con patina blu,
riporta sul rovescio la data dell’ingresso in città dei primi Cacciatori delle Alpi 54, mentre quella che si presenta qui di seguito, di modulo inferiore, ricorda la
Guardia nazionale di Brescia. Istituita dal Governo provvisorio nel 1797 e quindi
abolita da Napoleone, essa fu ricostituita come Guardia civica il 18 marzo 1848
per riprendere la primitiva denominazione solo quattro giorni più tardi; nel giugno 1859, contestualmente alla liberazione della città, venne riorganizzata sotto
la guida di Antonio Legnazzi 55.
Alla campagne d’Italie della primavera-estate del 1859 è dedicata una nota medaglia, realizzata in Francia e della quale almeno tredici esemplari figurano presso
il nostro civico gabinetto numismatico. Si tratta in realtà di un segno d’onore militare, attribuito da Napoleone III a quei soldati che si erano particolarmente distinti nelle operazioni belliche da lui comandate durante la Seconda guerra d’indipendenza 59. In particolare si presenta ora il segno d’onore appartenuto al bresciano
V. Pialorsi, Medaglie relative a personaggi…, cit., p. 74, n. 130.
Allo stato attuale delle ricerche mancano notizie relative al personaggio citato nella medaglia e anche la nota di Francesco Bettoni Cazzago sulla Guardia nazionale di Brescia («Commentari dell’Ateneo di Brescia», Brescia 1883, pp. 61-72) è priva di riferimenti specifici al Garone.
58
V. Pialorsi, Punzoni e conii…, cit., p. 47, n. 14; Id., Medaglie relative a personaggi…, cit., p. 74, n.
131.
59
Esse corrispondono ai seguenti nn. di inventario: ME720, ME960, ME1859, ME50053, ME50057,
ME50058, ME50059, ME50061, ME50065, ME50078, ME50079, ME50081 e ME50195. Per informazioni di carattere generale sulla medaglia si veda il recente studio di Aldo Tassini, Con valore e con
onore. La Storia degli italiani attraverso le medaglie e le decorazioni dal 1800 al 1945, Gaspari, Udine
2011, pp. 39-40.
56
22.Gaetano Zapparelli, La Guardia Nazionale di Brescia agli alleati franco-sardi.
D/ GUARDIA -- NAZIONALE. Rappresentazione della Vittoria alata (come ai nn.
Ibidem, p. 74, n. 129.
(Enciclopedia Bresciana, VI, La Voce del Popolo, Brescia 1985, p. 121). È interessante osservare che,
formalmente, dalla Guardia nazionale piemontese dipendevano anche i Cacciatori delle Alpi, in base alla legge emanata da Cavour (27 febbraio 1859), escogitata per ovviare all’esplicito divieto che la
convenzione militare con la Francia imponeva al Piemonte circa l’arruolamento di “corpi franchi”.
54
55

57

Fig. 17
Fig. 18
Camillo Maffezzoli, mentre quello di cui fu insignito il garibaldino Giovanni Ferrari è compreso nell’appendice dedicata ai medaglieri e ai diplomi militari. Quello
di modulo più piccolo, in rame argentato, appartenne a Giuseppe Massardi.
Dalle mani del più noto incisore francese dell’epoca nacque anche una rara
emissione in argento che lo stesso imperatore volle destinare a tutti coloro che
si erano impegnati nella meritoria e pietosa opera di assistenza ai feriti francesi
durante le operazioni militari appena concluse. Se la strage lasciata sul campo
di battaglia di Solferino fu di stimolo per la fondazione del Comitato ginevrino
di soccorso dei militari feriti, voluto nel 1862 da Jean Henri Dunant e preludio
della nascita della Croce rossa internazionale, non potevano essere dimenticati
gli sforzi incredibili grazie ai quali tanti civili bresciani cercarono di sopperire
all’inadeguatezza dei soccorsi sul campo e della medicina militare dell’epoca 60.
Oltre a Bartolomeo Gualla, insigne medico bresciano cui la Municipalità aveva
affidato il compito di coordinare la commissione per la direzione degli ospedali dove furono ricoverati oltre trentamila feriti, tra alleati e austriaci, degno
di menzione è anche il dottor Brizio Cocchi (1807-1867), all’epoca direttore
dell’ospedale Mellino Mellini di Chiari 61.
26.Albert-Désiré Barre, Al medico Brizio Cocchi direttore dell’ospedale di Chia-
ri 62 (fig. 18).
24.Albert-Désiré Barre, Campagna d’Italia di Napoleone III (segno d’onore) (fig.
D/ NAPOLEON III -- EMPEREUR. Testa di profilo a destra coronata di alloro di
Napoleone III imperatore dei francesi. Nel campo, in basso, sotto il taglio del collo:
BARRE.
R/ LES SOINS DONNÉS AUX BLESSÉS FRANÇAIS / * 1859 * /. Nel campo, al
centro, entro una ghirlanda formata da quattro fronde: A / M.B.COCCHI / MÉD.
ET DIRECT. / DE L’HOSP. MILLIMO (sic) / CHIARI.
AR, diam. 40,5; peso 37,57; Civici musei di Brescia, inv. n. ME3416.
17).
D/ NAPOLEON III -- EMPEREUR. Testa di profilo a sinistra coronata di alloro di
Napoleone III imperatore dei francesi. Nel campo, in basso, sotto il taglio del collo:
BARRE. Ghirlanda di alloro trattenuta in basso da una doppia fascia incrociata e annodata. Appiccagnolo. Nastro di seta a undici bande verticali, rosse (più larghe) e bianche (più strette).
R/ Nel campo, al centro: MONTEBELLO / PALESTRO / TURBIGO / MAGENTA
/ MARIGNAN / SOLFERINO. Ghirlanda di alloro trattenuta in basso da una doppia
fascia incrociata e annodata.
AR, diam. 30,7; peso 15,5; Civici musei di Brescia, inv. n. ME50057.
25. Albert-Désiré Barre, Campagna d’Italia di Napoleone III (segno d’onore).
D/ Come al n. 24.
R/ Come al n. 24.
Rame argentato, diam. 10,6; Civici musei di Brescia, inv. n. ME50019.
Dopo i successi militari degli alleati franco-piemontesi a San Martino e Solferino e l’inatteso armistizio di Villafranca, fortemente voluto da Napoleone III,
quasi tutta la Lombardia veniva annessa al regno sardo e anche la città di Brescia si inserì a pieno titolo nel nuovo apparato statale e burocratico 63. Ma non
altrettanto poteva dirsi per la porzione più a nord-est del suo territorio, divenuta terra di confine con l’impero austro-ungarico.
Sull’argomento una breve nota è anche in La grande battaglia…, cit., pp. 58-60.
Enciclopedia Bresciana, II, La Voce del Popolo, Brescia s.d., p. 264.
62
La stessa medaglia venne attribuita anche a J. Filippini, J. Rodolfi, M.A. Borsieri e D. Vaschini, e
i quattro esemplari sono conservati presso il gabinetto numismatico dei Civici musei di Brescia (rispettivamente inv. nn. ME685, ME686, ME687, ME688).
63
Leonida Tedoldi, Dal governo Radetzky all’Unità d’Italia. Ceti dirigenti, istituzioni e potere a Brescia
prima e dopo Solferino, in Napoleone III a Brescia e a Solferino…, cit., pp. 21-25.
60
61
La medaglia venne emessa dalla zecca di Parigi nel 1859 su progetto del suo
incisore capo, Albert-Désiré Barre, che sin dal 1855 era succeduto al padre Jacques-Jean nel prestigioso incarico. Ad Albert-Désiré si deve l’invenzione del ritratto laureato dell’imperatore, noto anche su monete e francobolli dell’epoca.


Nel 1860 il nuovo Consiglio comunale, guidato dal conte Diogene Valotti,
procedeva alla commissione di una medaglia a Gaetano Zapparelli che ricordasse la figura e l’impegno profuso nella causa del Risorgimento nazionale da
Antonio Legnazzi, patriota e capo della Guardia nazionale locale 64.
27.Gaetano Zapparelli, Il Consiglio comunale di Brescia ad Antonio Legnazzi.
D/ ANTONIO LEGNAZZI BRESCIANO. Testa di profilo a sinistra, con corti baffi
e barba. Nel campo, in basso: INCIS . -- G . ZAPPARELLI. Cornicetta.
R/ IL CONSIGLIO COMUNALE / 1860. Nel campo, al centro: MOLTO / OPERÒ E SOFFERSE / PER LA ITALICA / INDIPENDENZA. In basso, un rametto di
quercia. Cornicetta.
AE dorato, diam. 46; Civici musei di Brescia, inv. n. ME3424.
La legenda del R/ non venne tuttavia approvata perché poteva dare adito a
una incongrua interpretazione e, pertanto, questo primo tipo venne scartato 65.
Il Consiglio comunale diede mandato a Zapparelli affinché producesse una seconda variante della medaglia con diversa iscrizione su entrambe le facce.
28. Gaetano Zapparelli, Il Consiglio comunale di Brescia ad Antonio Legnazzi (fig. 19).
D/ ANTONIO LEGNAZZI BRESCIANO / IL CONSIGLIO COMUNALE. Testa
di profilo a sinistra, con corti baffi e barba. Nel campo, sotto il taglio del collo, in corsivo: Zapparelli. Cornicetta.
R/ Nel campo, al centro: MOLTO OPERÒ E SOFFERSE / PER LA ITALICA INDIPENDENZA / BRESCIA 1860. In alto, un rametto di quercia. Cornicetta.
AE, diam. 46; Civici musei di Brescia, inv. n. ME50143.
In questo secondo e definitivo tipo, tirato anche in un unico esemplare in
oro offerto a Legnazzi il 18 maggio del 1860, le differenze rispetto al precedente
non riguardano solo il testo delle iscrizioni, ma investono anche alcuni particolari della testa 66. I conî del D/ e del R/ sono conservati presso il medagliere
dei Civici musei 67.
Fig. 19
Fig. 20
Dopo le annessioni plebiscitarie di Emilia e Toscana, all’unificazione italiana
sotto la monarchia costituzionale sabauda mancavano ancora il Triveneto, lo Stato della Chiesa e il regno borbonico. A seguito del fallimento di una soluzione
armata diretta da Garibaldi contro lo Stato pontificio (novembre 1859), il generale
si risolse a organizzare una spedizione di volontari, forte dell’appoggio degli esuli
siciliani rifugiatisi a Torino e Genova e stimolato da una serie di moti scoppiati
in Sicilia (3-4 aprile 1860) contro il Regno delle Due Sicilie. Nella notte tra il 5 e
il 6 maggio 1860, da Quarto, presso Genova, concretizzando il programma “Italia e Vittorio Emanuele”, Garibaldi partiva alla guida di un corpo di volontari,
affluiti da diverse regioni italiane, e dava avvio alla spedizione dei Mille.
Anche in questa occasione i bresciani risposero con entusiasmo e, soprattutto ad opera di Giuseppe Guerzoni, confluirono a Genova un centinaio di volontari, 13 dei quali provenienti da località del Mantovano, allora in provincia
di Brescia, mentre 64 erano bresciani. Fra costoro 14 provenivano da Iseo e, a
memoria di questo contingente che operò al servizio di Garibaldi durante la
conquista della Sicilia e del Meridione d’Italia, il Consiglio comunale della città
iseana decise (28 febbraio 1860) di coniare una medaglia d’argento «del valore
intrinseco di cinque franchi».
Presso i Civici musei, oltre all’esemplare dedicato a Giovan Maria Archetti 68,
si conserva anche quello qui presentato recante il nome di Carlo Bonardi.
29.Gaetano Zapparelli, La città di Iseo ai suoi garibaldini (fig. 20).
Dopo una vita avventurosa e irta di traversie, spesa per la libertà e l’indipendenza italiana, che lo
aveva visto partecipare ai moti del 1848 e, successivamente, in stretto rapporto con Tito Speri e con
Garibaldi, Legnazzi fu eletto Cavaliere della Corona il 12 giugno 1861 e, il 27 di quello stesso mese,
entrò a far parte del Consiglio comunale di Brescia (Enciclopedia Bresciana, VII, La Voce del Popolo, Brescia 1987, p. 131).
65
V. Pialorsi, Medaglie relative a personaggi…, cit., p. 76, n. 133.
66
Ibidem, p. 76, n. 134.
67
V. Pialorsi, Punzoni e conii…, cit., p. 47, n. 15.
D/ GIUSEPPE -- GARIBALDI. Testa nuda di profilo a destra, con baffi e barba. Nel
campo, sul taglio del collo: ZAPPARELLI. Cornicetta.
R/ NELLA GUERRA PER LA LIBERTÀ D’ITALIA (N di NELLA rovesciata). Nel
campo, al centro: ALL’INVITTO / GARIBALDINO / Bonardi Carlo / ISEO / RICONOSCENTE / 1860. Cornicetta.
AR, diam. 38; peso, 24; Civici musei di Brescia, inv. n. ME50222.
64

Inv. n. ME50221.
68

Di questa medaglia, oltre ai quattordici pezzi attribuiti nominativamente 69,
l’amministrazione municipale di Iseo fece approntare altri due esemplari che
riunivano incisi i nomi di tutti i garibaldini di Iseo affinché fossero conservati,
uno presso il Comune di Iseo e l’altro presso i Civici musei di Brescia.
30.Gaetano Zapparelli, La città di Iseo ai suoi garibaldini.
D/ Come al n. 29.
R/ NELLA GUERRA PER LA LIBERTÀ D’ITALIA (N di NELLA rovesciata). Nel
campo, al centro: ALL’INVITTO / GARIBALDINO / nomi incisi dei quattordici reduci (su cinque righe) / ISEO / RICONOSCENTE / 1860. Cornicetta.
AR, diam. 38; peso, non rilevato; disperso.
Le due medaglie, tuttavia, pur essendo menzionate dalla letteratura precedente, risultano attualmente disperse 70.
La liberazione della Sicilia ad opera di Garibaldi e del suo corpo di spedizione (11-30 maggio 1860) fu celebrata dal Comune di Palermo con l’emissione di
una medaglia che, quattro anni più tardi, fu concessa anche da Vittorio Emanuele come decorazione ufficiale ai 1.072 garibaldini 71. Nelle raccolte museali
cittadine sono conservati sette esemplari in argento e due in bronzo, sciolti e
per lo più completi di nastrino rosso bordato di giallo e simbolo in argento della Trinacria appuntato al dritto, mentre solo in pochi casi, come quello di Giuseppe Cesare Abba, la Medaglia dei Mille è accompagnata dal relativo diploma
di conferimento.
31. Giuseppe Barone, Medaglia dei Mille (fig. 21).
D/ AI PRODI CUI FU DUCE GARIBALDI tre rosette. Nel campo, aquila ad ali
spiegate volta a destra che trattiene fra gli artigli un nastro con la scritta: S . P . Q . P .
Cornicetta. Appiccagnolo e nastrino di seta rosso bordato di giallo con simbolo della Trinacria in argento.
R/ MARSALA fregio CALATAFIMI fregio PALERMO stella a sei punte. Nel campo,
Per l’elenco dei volontari iseani cui fu donata la medaglia si veda V. Pialorsi, Medaglie relative a
personaggi…, cit., pp. 76-77, n. 135.
70
Per l’esemplare bresciano si veda P. Rizzini, Illustrazione…, cit., p. 169, n. 306.
71
Una completa sintesi delle vicende che riguardano questa decorazione garibaldina si trova in Carmelo Calci, La medaglia dei Mille ed altre medaglie risorgimentali, in Omaggio di Roè Volciano all’Unità d’Italia. Personaggi del Risorgimento volcianese, a cura di Antonio Tantari, Roè Volciano 2011, pp.
78-85. Si veda, inoltre, anche A. Tassini, Con valore e con onore…, cit., pp. 47-48.
69

Fig. 21
al centro entro ghirlanda d’alloro chiusa da un nastro: IL MUNICIPIO / PALERMITANO / RIVENDICATO / MDCCCLX. Cornicetta.
AR, diam. 31; peso, 15,63; Civici musei di Brescia, inv. n. ME1871
32. Giuseppe Barone, Medaglia dei Mille.
D/ Come al n. 31.
R/ Come al n. 31.
AE, diam. 31; Civici musei di Brescia, inv. n. ME1874.
Con il decreto n. 10 del 12 dicembre 1859, emanato dal senatore conte Massimo Cordero di Montezemolo, luogotenente generale del re nelle province siciliane, fu coniata a Palermo su progetto di Giuseppe Barone una seconda medaglia da attribuirsi a coloro che avevano combattuto in Sicilia. Gli esemplari
in argento vennero concessi ai mutilati e ai feriti, mentre quelli in bronzo vennero rilasciati a tutti gli altri; successivamente, l’unico pezzo coniato in oro fu
destinato allo stesso Garibaldi 72.
33. Stabilimento Johnson, Medaglia della liberazione della Sicilia (fig. 22).
D/ Stella a sei punte VITTORIO fregio EMANUELE stella a sei punte. Nel campo,
testa nuda del re di profilo a sinistra. Nel campo, sotto il taglio del collo: S.J. Cornicetta. Appiccagnolo cui si allaccia il nastro di seta a due tricolori accostati, con banda
C. Calci, La medaglia dei Mille…, cit., pp. 85-86 e A. Tassini, Con valore e con onore…, cit., p. 49.
72

Fig. 22
centrale verticale verde, più larga, e bande laterali bianca e rossa più strette.
R/ Nel campo, al centro: ITALIA / E CASA SAVOIA / LIBERAZIONE DI / SICILIA
/ rosetta 1860 rosetta. Cornicetta.
AR, diam. 30; peso, 12,74; Civici musei di Brescia, inv. n. ME1073.
34. Giuseppe Barone, Medaglia della liberazione della Sicilia.
D/ Stella a sei punte VITTORIO fregio EMANUELE stella a sei punte. Nel campo,
testa nuda del re di profilo a sinistra. Sotto il taglio del collo: BARONE F. Cornicetta.
Appiccagnolo cui si allaccia il nastro di seta a due tricolori accostati, con banda centrale
verticale rossa, più larga, e bande più strette verde, a sinistra, e bianca, a destra.
R/ Nel campo, al centro: ITALIA / E CASA SAVOIA / LIBERAZIONE DI / SICILIA
/ rosetta 1860 rosetta. Cornicetta.
AE, diam. 30; Civici musei di Brescia, inv. n. ME50016.
In particolare, la prima medaglia qui presentata venne prodotta dallo stabilimento di Stefano Johnson, ancora in attività nel 1920 73, mentre la seconda in
bronzo fu concessa a Giovanni Ferrari, per il cui medagliere si rimanda la discussione all’appendice.
Dopo l’incontro fra Garibaldi e Vittorio Emanuele a Teano (26 ottobre
1860), i plebisciti del 4 novembre e la definitiva annessione del regno borbonico allo Stato sabaudo avvenuta tra l’ottobre 1860 e il febbraio 1861, il 17 marzo
di quello stesso anno veniva proclamato il Regno d’Italia. Nonostante mancassero alla definitiva unità del Paese la provincia di Mantova, il Veneto e il Lazio,
la politica di Cavour aveva avuto il coronamento agognato, mentre Garibaldi,
150 anni di medaglie Johnson, 1836-1986, catalogo della mostra a cura di C. Johnson e M. Johnson,
Stabilimento S. Johnson, Milano 1986.
73

rifiutato il grado di generale dell’esercito piemontese, si era ritirato in isolamento a Caprera.
Infatti, il problema che stava più a cuore a Garibaldi, cioè la questione romana, era ancora irrisolto: per questo motivo nell’estate del 1862, senza l’approvazione del re, il generale organizzò una nuova spedizione che dalla Sicilia, attraverso l’Italia meridionale, doveva portarlo a Roma. Ma egli fu fermato
dall’esercito regio sull’Aspromonte e, ferito, venne incarcerato a La Spezia, fino
alla concessione di un’amnistia che liberò tutti i partecipanti alla rivolta. Con
la stipula delle Convenzioni di settembre del 1864 fra Italia e Francia si accantonò per il momento qualsiasi possibilità di risolvere la questione romana facendo sponda sull’intervento francese e, ad ulteriore garanzia da parte della dinastia sabauda di rinunciare a Roma, la capitale del regno fu spostata a Firenze su votazione del Parlamento italiano tra il 18 novembre e i primi giorni del
dicembre 1864.
Immediatamente dopo il trasferimento della capitale (1865), lo scenario diplomatico internazionale vide l’accelerarsi della situazione di contrasto tra Austria e Prussia, verso la quale, invece, si era avvicinata la posizione dell’Italia con
la firma di un’alleanza che intendeva tra l’altro costringere l’impero austriaco a
cedere Mantova e il Veneto (aprile 1866). Nonostante l’estremo tentativo austriaco di spezzare l’asse italo-prussiano, fra il 16 e il 20 giugno 1866 si aprirono
le ostilità che avviavano la Terza guerra d’indipendenza. Essa, condotta in modo insoddisfacente dal generale Alfonso La Marmora, registrò la sola vittoria
italiana a Bezzecca, dove Garibaldi sconfisse gli austriaci il 21 luglio, aprendosi
le porte per la conquista del Trentino.
Anche in questa occasione Brescia esercitò un ruolo strategico fondamentale, soprattutto per Garibaldi, che già nel 1862 era stato acclamato in città e provincia, quando dalle nostre contrade tentò di organizzare un primo tentativo di
occupare il Trentino, risoltosi però con un fallimento 74. Allo scoppio della Terza
guerra d’indipendenza, Garibaldi guidò il Corpo dei volontari italiani: partendo
da Salò si aprì la difficile strada lungo la valle del Chiese e, attraverso le Giudicarie, avrebbe potuto invadere il Trentino sud-occidentale. Tuttavia, alle porte
74
Per una sintesi efficace degli eventi bresciani legati alla Terza guerra d’indipendenza si veda L’Italia degli italiani (1861-1878). Brescia dopo l’Unità, guida alla mostra (Brescia, Museo del Risorgimento, 1 dicembre 2007), a cura di Elena Lucchesi Ragni e Maurizio Mondini, Brescia 2007, pp.
33-35 (lo stampato è consultabile on-line: http://www.museiarte.brescia.it/download/Italia-degliItaliani_guida-alla-mostra.pdf ) e anche Omaggio di Roè Volciano…, cit., pp. 70-74.

di Trento, fu raggiunto dall’ordine di ritirarsi e a quell’ingiunzione rispose col
noto telegramma: «Obbedisco».
Fra i tanti volontari garibaldini bresciani che parteciparono attivamente e coraggiosamente alle operazioni militari del 1866 in Trentino, degno di menzione
speciale è Agostino Lombardi (Brescia 1829 - Condino di Trento 1866), fervente
patriota sin dal 1848 e costretto a vivere esule a Cagliari a seguito dello sfortunato
tentativo di sollevare la Sicilia dal dominio borbonico nel 1856. Dopo aver partecipato alla Seconda guerra d’indipendenza ed essere stato protagonista valoroso
a Milazzo (20 luglio), dove guidò una carica contro la cavalleria borbonica, e al
Volturno (1º ottobre), si guadagnò il grado di maggiore e la nomina a cavaliere
dell’Ordine militare di Savoia. Trovò morte eroica a Condino, durante la battaglia sul Chiese del 16 luglio del 1866, alla testa di una compagnia sul ponte di
Cimego, azione che gli valse la medaglia d’oro al Valor militare alla memoria 75.
35.Anonimo, Medaglione dedicato alla memoria di Agostino Lombardi (fig. 23).
D/ Nel campo, scritta incisa in corsivo su nove righe: Agostino Lombardi / Bresciano /
Martire della ferocia Austriaca / Caduto con forte Animo a Condino / Il 16 Luglio 1866
/ dai suoi Amici di Cagliari / che l’amarono esule infelice / questo Ricordo / Meritava.
Cornice. Appiccagnolo e cambretta.
R/ Liscio e anepigrafe.
AE, diam. 11; peso 900; Civici musei di Brescia, inv. n. ME50037.
Si tratta di una medaglia di grande modulo, commossa testimonianza di affetto dedicata dai suoi amici cagliaritani che vollero così onorare il patriota e il
combattente, stroncato a soli 37 anni dal fuoco nemico 76.
Com’è noto, nonostante il sacrificio di Lombardi e di tante altre giovani vi Nel R.D. del 6 dicembre 1866, relativo al conferimento dell’alta onorificenza, è riportata la seguente menzione: «per essersi spinto sul ponte di Cimego alla testa di una compagnia ed avere caricato
alla baionetta il nemico che avanzava» (Gaetano Carolei, Le medaglie d’oro al valor militare dal 1848
al 1870, Roma 1987, p. 200). Per le notizie biografiche si vedano specialmente: Pio Bosi, Dizionario
storico-biografico-topografico-militare d’Italia, Tip. ed. G. Candeletti, Torino 1882, s.v.; Dizionario del
Risorgimento Nazionale. Dalle origini a Roma capitale. Fatti e persone, III, Vallardi, Milano 1933, s.v.;
Dizionario Biografico degli Italiani, 65, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2005, s.v., confluita
nella biografia consultabile on line e redatta da Fabio Zavalloni (http://www.treccani.it/enciclopedia/
agostino-lombardi_(Dizionario-Biografico)/).
76
Ad Agostino e al fratello Carlo, anch’egli patriota e combattente morto eroicamente durante la
Guerra di secessione americana, venne dedicata nel 1909 la via di collegamento tra piazza del Vescovato e via Gabriele Rosa (Franco Robecchi, Le strade di Brescia, II, Periodici locali Newton, Roma
1993, p. 429).
75

Fig. 23
Fig. 24
te, la Terza guerra d’indipendenza si concluse amaramente per il Regno d’Italia
e, dopo la sconfitta italiana a Lissa e la firma dell’armistizio (12 agosto), i successivi trattati di Praga e di Vienna stabilirono la fine delle ostilità, ma anche il
passaggio del solo Veneto alla Francia. Napoleone III avrebbe ceduto gli ex territori austriaci all’Italia solo a seguito di un pronunciamento popolare e, pertanto, la definitiva annessione si verificò formalmente solo dopo il plebiscito
del 21 ottobre. Il Trentino, come la Venezia-Giulia e l’Istria, restavano ancora
austriaci. Alla sostanziale condotta negativa della guerra si erano opposti i soli
successi dei volontari di Garibaldi e, nell’opinione pubblica, le sue doti di stratega militare e l’atteggiamento dimostrato in occasione del forzato ritiro delle
truppe dopo la vittoria a Bezzecca, non fecero altro che aumentare la popolarità dell’eroico generale.
Il mito esercitato dalla forte personalità di Giuseppe Garibaldi fu alimentato anche nella nostra città da un certo numero di attivisti che trovarono il loro
nucleo di aggregazione grazie alla fondazione della Società pel tiro al bersaglio,
inaugurata dallo stesso generale nell’aprile del 1862 e che, annualmente, organizzava delle manifestazioni e delle gare pubbliche 77.
36.R, Società di tiro a segno di Brescia (fig. 24).
D/ Nel campo, in alto: SOCIETÀ / PEL TIRO A SEGNO / IN / BRESCIA. Sotto,
due fucili decussati su altri elementi per l’armamento. Cornicetta.
R/ Nel campo, corona costituita da due fronde di alloro e di quercia annodate con un
nastro. Sotto, in basso: R. Campo liscio. Cornicetta.
AE, diam. 38; Civici musei di Brescia, inv. n. ME3425.
Per un’esaustiva sintesi della storia del sodalizio del “tiro a segno” si veda la voce relativa in Enciclopedia Bresciana, XIX, La Voce del Popolo, Brescia 2004, pp. 40-43.
77

mutuo soccorso fra i volontari garibaldini. Parallelamente, a partire dal 1869,
operava anche la Società di reduci e patrie battaglie, che annoverò tutti i veterani bresciani che avevano partecipato alle guerre del Risorgimento.
A livello ufficiale la commemorazione delle guerre risorgimentali è legata
all’emissione di una medaglia istituita con Regio Decreto del 4 marzo 1865, n.
2174, e affidata all’esecuzione di Demetrio Canzani, capo incisore della zecca di
Milano. La medaglia, in argento con appiccagnolo a sfera e anello di sospensione, si caratterizza per la presenza del nastro di seta a sei bande tricolori verticali
su cui potevano essere applicate delle fascette d’argento, decorate ad alloro e con
l’indicazione degli anni in cui il decorato aveva prestato servizio 79.
38. Demetrio Canzani, Medaglia per le guerre d’indipendenza e l’Unità d’Italia
Fig. 25
(segno d’onore) (fig. 26).
Fig. 26
D/ VITTORIO EMANUELE II RE D’ITALIA. Testa nuda del re di profilo a sinistra.
Sul taglio del collo: CANZANI. Cornicetta. Appiccagnolo. Nastro di seta a sei bande
verticali tricolori con tre fascette che recano le date, dal basso: 1859 / 1860-61 / 1866.
R/ GUERRE PER L’INDIPENDENZA E L’UNITA’ D’ITALIA Personificazione femminile dell’Italia volta a sinistra, stante, panneggiata, con corona turrita, mentre regge con la destra una lancia nascente da un cespuglio di alloro e poggia la sinistra sullo
scudo sabaudo. Cornicetta.
AR, diam. 32; peso, 17,63; coll. privata.
Oltre a questo esemplare, coniato da un anonimo incisore che si firma con
la sola iniziale del cognome (?), la Società pel tiro a segno è ricordata anche in
un’altra medaglia. Infatti, le attività che legano questo importante sodalizio bresciano alla Guardia nazionale cittadina sono testimoniate da un pezzo coniato da Gaetano Zapparelli e destinato alla premiazione per i partecipanti delle
competizioni di tiro.
37. Gaetano Zapparelli, Premio per gara di tiro al bersaglio (fig. 25).
D/ GUARDIA -- NAZIONALE / DI BRESCIA. Nel campo, stemma coronato della
città. Sotto: ZAPPARELLI. Cornicetta.
R/ Nel campo: rametto di quercia / TIRO AL BERSAGLIO / ANNO 186 / spazio liscio / PREMIO (le NN sono retroverse e manca l’ultima cifra dell’anno, da inserire di
volta in volta). Cornicetta.
AE, diam. 38; Civici musei di Brescia, inv. n. ME3473.
Di questa medaglia è nota anche una variante in ottone, destinata al terzo
premiato nella competizione di abilità con l’arma da fuoco 78.
L’associazionismo garibaldino registra anche in ambito locale una notevole
attività, grazie alla fondazione del sodalizio dei Garibaldini bresciani che raccoglieva i Cacciatori delle Alpi e i volontari che avevano preso parte alle spedizioni in Sicilia e in Trentino e che dal 1890 assunse la denominazione di Società di
Il segno d’onore in oggetto è assai diffuso sia nelle raccolte pubbliche sia in
quelle private e, in particolare, quello qui presentato fa parte del medagliere del
maggiore Gaetano Panazza, per la cui discussione completa si rimanda all’appendice.
L’ultimo atto per la definitiva unificazione del Paese si compì con la presa di
Roma, complice la guerra franco prussiana e la sconfitta francese di Sédan. Nonostante i tentativi del Governo italiano di convincere Pio IX ad accettare l’occupazione pacifica della città e le garanzie profferte per il pieno esercizio della
sua sovranità spirituale, al rifiuto del pontefice si rispose con le armi: la breccia
di porta Pia e l’ingresso dei bersaglieri in città, il 20 settembre 1870, determinarono la caduta del potere temporale del papato. Dopo l’annessione plebiscitaria
Le date che potevano comparire corrispondevano agli anni 1848, 1849, 1855-56, 1859, 1860-61 e,
successivamente, anche 1866, 1867, 1870. A causa dell’alto numero dei decorati, si moltiplicarono le
emissioni, commissionate ad altri incisori e a ditte private (C. Calci, La medaglia dei Mille…, cit.,
pp. 86-87; A. Tassini, Con valore e con onore…, cit., p. 46).
79
Sia per la medaglia in bronzo sia per quella in ottone si veda V. Pialorsi, Medaglie relative a personaggi…, cit., p. 77, n. 136.
78


del Lazio, Roma diveniva ufficialmente la capitale del regno d’Italia, sede del re
e del Governo, il 2 luglio 1871.
Se la lunga e sanguinosa “questione romana” appariva ormai chiusa, l’avvenuta
unificazione del Paese poneva ai governi della destra storica succedutisi dopo la
morte di Cavour dei grossi nodi da risolvere, come lo era stato il problema del brigantaggio fra il 1861 e il 1865 nelle regioni dell’ex regno borbonico, per adeguare le
condizioni socio economiche dello Stato unitario agli standard accettabili di una
nazione moderna. Da un lato urgeva la questione meridionale, mentre dall’altro
la situazione delle terre irredente necessitava ancora di una soluzione definitiva.
La morte di Vittorio Emanuele II e quella di Garibaldi, rispettivamente nel
1878 e nel 1882, coincisero con un momento assai delicato dal punto di vista
politico, determinato soprattutto dall’avvento al potere della sinistra storica col
primo Governo Depretis e la promulgazione di una nuova legge elettorale che
sostituiva quella del 1859.
Il nuovo re Umberto I, nel tentativo di rafforzare la propria notorietà e stimolato dalla popolarità raggiunta dal padre durante il Risorgimento, emulò
Vittorio Emanuele II istituendo con Regio Decreto del 26 aprile 1883, n. 1291,
una nuova medaglia dedicata all’Unità d’Italia 80. Coniata in argento dalla zecca di Roma su progetto del capo incisore Filippo Speranza, essa doveva venire
conferita ai militari che avevano partecipato ad almeno una delle guerre d’indipendenza e per l’Unità d’Italia fra il 1848 e il 1870.
39. Filippo Speranza, Medaglia per le guerre d’indipendenza e l’Unità d’Italia (se-
gno d’onore) (fig. 27).
D/ UMBERTO I RE D’ITALIA. Testa nuda del re con folti baffi di profilo a sinistra.
Nel campo, sotto il taglio del collo: SPERANZA. Cornicetta. Appiccagnolo. Nastro
di seta a due tricolori verticali affiancati con banda verde più larga al centro e bande
bianca e rossa ai lati.
R/ Nel campo, al centro, entro corona di alloro allacciata in basso da un nastro: UNITÀ / D’ITALIA / 1848-1870. Cornicetta.
AR, diam. 32; peso, 12,03; coll. privata.
Anche questo segno d’onore è assai frequente nei medaglieri italiani ed è noto
soprattutto nella versione incisa da Luigi Giorgi; quello qui presentato fa parte
del medagliere del maggiore Gaetano Panazza, per la cui discussione completa
si rimanda all’appendice.
C. Calci, La medaglia dei Mille…, cit., pp. 88-89; A. Tassini, Con valore e con onore…, cit., p. 59.
80

Fig. 27
Fig. 28
La seconda metà del XIX secolo si distingue per il moltiplicarsi di medaglie
omaggio, intese a ricordare personalità di spicco del Risorgimento italiano e
grazie alle quali l’apparato statale e burocratico del nuovo Regno d’Italia mirava a un’autocelebrazione che contribuisse a rafforzare l’unità nazionale da poco
raggiunta. A titolo esemplificativo si presenta qui la medaglia in bronzo eseguita da Giovanni Vagnetti per Cesare Correnti, scrittore e uomo politico milanese 81, ma che dedicò a Brescia e alle sue Dieci giornate pagine di indimenticato
vigore narrativo 82.
40.Giovanni Vagnetti, A Cesare Correnti (1883) (fig. 28).
D/ Busto di Cesare Correnti a sinistra; nel campo, in basso, sotto il taglio del collo:
GIOV . VAGNETTI FECE A ROMA NEL 1883. Cornicetta.
R/ Nel campo, al centro, scritta su dieci righe: CESARE CORRENTI / PROPUGNA-
Cesare Correnti nel primo centenario della morte, Atti del convegno tenuto a Brescia nel 1989 nel
CXL anniversario delle Dieci giornate di Brescia, Ateneo di Brescia, Brescia 1990; Assunta Trova,
Coscienza nazionale e rivoluzione democratica. L’esperienza risorgimentale di Cesare Correnti, 1848-1856,
Franco Angeli, Milano 1995.
82
Cesare Correnti, I dieci giorni dell’insurrezione di Brescia nel 1849, con una introduzione di Luca
Beltrami, in «Lettura Italiana», I, 1929, n. 7 (in aggiunta un nutrito apparato di documenti e l’elenco delle vittime alle pp. 132-160); Luigi Amedeo Biglione di Viarigi, Esame comparativo fra i testi
sulle Dieci giornate di Brescia di Giuseppe Nicolini e di Cesare Correnti, «Commentari dell’Ateneo di
Brescia», Brescia 1992 (1994), pp. 225-231. Per la medaglia si veda anche: Rodolfo Martini, Catalogo delle medaglie delle civiche raccolte numismatiche di Milano. V. Secoli XVIII-XIX. 4. Regno d’Italia
(1861-1900) (Vittorio Emanuele II. Umberto I), Comune di Milano, Milano 1999, p. 89, n. 3225.
81

TORE DEL RISCATTO NAZIONALE / CON L’OPERA L’INGEGNO LA PAROLA / DEPUTATO DELLA NATIA MILANO IN XIII LEGISLATURE / CITTADINO MINISTRO SCRITTORE / DI RARO E IMITABILE ESEMPIO / PROMOVITORE NEGLI ALTI OFFICI TENUTI / D’OGNI COSA GRANDE E GENTILE
/ MODESTO IN TANTA LUCE DI FAMA / E VAGO SOLO NELLE GIOIE
DELL’AFFETTO. Nel campo, in basso al centro: A . MAURI DETTÒ. Cornicetta.
AE, diam. 55; coll. privata.
Nello stesso tempo la classe dirigente, costituita in prevalenza da esponenti
liberali dell’aristocrazia piemontese e lombarda e dalla borghesia filo mazziniana che aveva controllato e favorito l’Unità, avviava una lunga fase di auto legittimazione attraverso un sistema articolato e assai vario di eventi e monumenti
celebrativi di tutto il periodo risorgimentale. Anche a Brescia, come altrove, si
osservano inaugurazioni di monumenti e apposizioni di targhe e lapidi commemorative 83, spesso associate all’emissione di medaglie.
Il primo ad essere elevato fu il monumento commemorativo delle Dieci giornate, voluto dallo stesso Vittorio Emanuele II durante il suo soggiorno cittadino
nel 1859 e inaugurato il 21 agosto 1864 nell’area adiacente a piazza della Loggia,
dove un tempo sorgeva la colonna con il leone alato simbolo della Serenissima.
Ventidue anni dopo, con decreto del Comune di Brescia del 17 marzo 1886, si
stabiliva di coniare una medaglia da distribuire come segno d’onore ai superstiti degli eroici fatti del 1849 84.
41.Anonimo, Medaglia del Comune di Brescia ai superstiti delle Dieci giornate
(fig. 29).
D/ Nel campo, in alto presso l’orlo: DECADE 1849. Scena di combattimento presso
porta Torrelunga: alcuni insorti sparano, uno sventola una bandiera e un altro ferito
viene soccorso da una donna. Cornicetta. Appiccagnolo. Nastro di seta bicolore a due
bande verticali azzurra e bianca.
R/ . COMUNE DI BRESCIA . / PER DECRETO 17 MARZO 1886. Nel campo due
rami di quercia a forma di corona legati in basso da un nastro. In alto, fra le punte delle
Filippo Ronchi, Monumenti e lapidi del Risorgimento bresciano, in Brescia e il Risorgimento…, cit.,
pp. 57-89. Per il coinvolgimento dell’Ateneo di Brescia in questo tipo di attività si veda anche P. Panazza, Archeologia e coscienza storica…, cit., pp. 527-530.
84
L’unico esemplare in oro fu donato a Umberto I, i cinquanta in argento vennero donati alle autorità presenti alla cerimonia ufficiale del 20 settembre 1887 e circa quattrocento medaglie in bronzo
furono destinate ai superstiti presenti, accompagnate dal relativo diploma di conferimento (V. Pialorsi, Medaglie relative a personaggi…, cit., p. 82, n. 147).
Fig. 29
due fronde: A. Nel campo, al centro la dedica incisa: Maffezzoli / Basilio. Cornicetta.
AE, diam. 39; Civici musei di Brescia, inv. n. ME50171.
L’episodio descritto sul D/ fa riferimento al combattimento che si svolse il 27
marzo 1849 presso l’attuale porta Venezia e trova significativi riscontri iconografici in una litografia edita da Isaia Alberti 85, a sua volta tratta da uno dei rilievi
del monumento alle Dieci giornate eseguito dallo scultore bresciano Giovanni
Battista Lombardi 86. I conî del D/ e del R/ sono conservati presso il medagliere dei Civici musei 87.
Nel nuovo Stato unitario la politica interna era caratterizzata dall’acceso confronto fra la parte cattolica, ancora vincolata dal non expedit di Pio IX, e la sinistra anticlericale che si riconosceva nelle posizioni di Francesco Crispi, dal 1887
ministro degli Interni nel Governo Depretis e successivamente primo ministro,
dopo la morte dell’uomo politico lombardo. Nonostante il tentativo di appianare i contrasti da parte di Crispi, incoraggiato dalle posizioni meno intransigenti
assunte da papa Leone XIII durante il concistoro del 23 maggio 1887, il tentativo
83

Cara Italia!…, cit., p. 76.
F. Ronchi, Monumenti e lapidi…, cit., p. 72 e L’Italia degli italiani, cit., p. 46.
87
V. Pialorsi, Punzoni e conii…, cit., p. 48, nn. 16 e 16.A. Per informazioni di carattere generale sulla
medaglia si veda V. Pialorsi, Medaglie relative a personaggi…, cit., p. 82, n. 147.
85
86

di riavvicinare Stato e Chiesa fallì soprattutto a causa dell’intransigenza di alcuni
ambienti ecclesiastici. Il risultato che ne conseguì portò a un inasprimento delle
posizioni anticlericali del Governo italiano, che culminò nel 1889 con l’erezione
in Campo dei Fiori a Roma del monumento a Giordano Bruno.
Anche in città e provincia i riflessi di questa aspra polemica furono determinanti per la vita politica nostrana, dibattuta fra una maggioranza di forte fede
cattolica e la corrente laica, ispirata da Giuseppe Zanardelli.
La complessa trama dei rapporti che in modo turbolento segnarono il contrasto Stato-Chiesa nell’ultimo quarto del XIX secolo fa da scenario all’emissione di un’interessante medaglia commissionata per onorare Andrea Mai, sindaco
di Travagliato. Costui, come diversi altri suoi colleghi, si era fatto promotore di
una petizione al Parlamento che favorisse il ripristino del potere temporale del
papato, ma subito era stato destituito da Crispi, ancora ministro degli Interni.
Come accadde per altri sindaci della provincia di Bergamo, grazie a una sottoscrizione diocesana si dispose di rendere omaggio con una medaglia al primo
cittadino deposto di ogni comunità.
42.Anonimo, Medaglia in onore di Andrea Mai, sindaco di Travagliato (fig. 30).
D/ Nel campo: ANDREAE MAJO / ANNIS . ABHINC XXVIII / REB . MVN
PRAEFECTO / OPT . MERITO / TRAVALEATENSES / MDCCCLXXXVIII. Cornicetta.
R/ Entro corona composta da una fronda d’alloro e da una di quercia annodate in basso con un nastro: RELIGIONIS . ET . PATRIAE / INFRACTI . AMORIS / ERGO.
Cornicetta.
AE, diam. 39; Civici musei di Brescia, inv. n. ME3463.
In provincia di Brescia, tuttavia, l’iniziativa non ebbe seguito e questo di Travagliato rappresenta l’unico caso in cui, per interessamento di alcune famiglie
del luogo, fu confezionato tale dono 88.
Dopo le forti polemiche suscitate in città a seguito dell’inaugurazione del
monumento ad Arnaldo (il 14 agosto 1882) 89, la comunità civica, rappresentata
soprattutto da moltissime società operaie e dal ceto dirigente, accolse con grande favore la proposta di erigere un monumento in onore di Garibaldi. L’opera
in bronzo, eseguita a Roma dal vincitore del concorso Eugenio Maccagnini, si
V. Pialorsi, Medaglie relative a personaggi…, cit., p. 85, n. 153.
89
Per le medaglie che furono coniate a ricordo del discusso avvenimento si veda V. Pialorsi, Medaglie relative a personaggi…, cit., pp. 78-80, nn. 141-144.
88

Fig. 30
Fig. 31
inserisce nella consueta tipologia con l’eroe a cavallo, dando del generale vittorioso l’immagine di un uomo riflessivo e sicuro 90. L’inaugurazione, con l’orazione ufficiale pronunciata da Giuseppe Cesare Abba dal balcone della Loggia,
avvenne l’8 settembre 1889 e in concomitanza si tenne anche una gara provinciale di tiro a segno: entrambi gli avvenimenti trovarono memoria nella coniazione di una medaglia incisa da Angelo Cappuccio, direttore dello stabilimento
Johnson di Milano.
43.Angelo Cappuccio, Inaugurazione del monumento equestre di Garibaldi a
Brescia; gara provinciale di tiro a segno (fig. 31).
D/ Statua di Garibaldi su cavallo al passo verso destra. Nel campo, sotto la mensola:
JOHNSON -- MILANO. Cornicetta. Appiccagnolo.
R/ GARA PROVINCIALE DI TIRO A SEGNO / stellina SETTEMBRE 1889 stellina. Entro corona composta da una fronda d’alloro e da una di quercia annodate in
basso con un nastro: AI / TIRATORI / PREMIATI. Nel campo, sotto il nodo: BRESCIA. Cornicetta.
AE, diam. 39; Civici musei di Brescia, inv. n. ME3428.
La tiratura della medaglia fu sostanzialmente limitata al numero dei partecipanti alla gara di tiro 91, ma l’evento dell’inaugurazione del monumento fu ricordato anche dall’emissione di un’altra medaglia, più piccola, venduta per le
vie della città 92.
F. Ronchi, Monumenti e lapidi…, cit., pp. 60-67 e L’Italia degli italiani, cit., p. 48.
V. Pialorsi, Medaglie relative a personaggi…, cit., p. 86, n. 154.
92
Ibidem, p. 86, n. 155.
90
91

Fig. 32
Fig. 33
44.Anonimo, Brescia ricorda Garibaldi in occasione dell’inaugurazione del suo
monumento (fig. 32).
D/ RICORDO DI BRESCIA. Busto di profilo a destra di Garibaldi con berretto. Cornicetta. Appiccagnolo.
R/ Nel campo, entro corona composta da una fronda d’alloro e da una di quercia annodate in basso con un nastro: SETTEMBRE / 1889. Cornicetta.
AE argentato, diam. 25,5; Civici musei di Brescia, inv. nn. ME2010 e ME2011.
Nel frattempo il 18 agosto di quello stesso anno si era aperta, presso la Crociera di San Luca, l’Esposizione operaia che, nelle intenzioni degli organizzatori,
avrebbe dovuto essere inaugurata contestualmente al monumento di Garibaldi
ma che, per motivi di ordine tecnico, fu ritardata di circa un mese 93. L’idea di
fondo, sottesa a entrambi gli avvenimenti, si riallacciava al tentativo di stabilire
una rinnovata concordia tra il ceto dirigente e quello produttivo in nome di un
comune sentimento patriottico. Interessante risulta anche la scelta di raffigurare, sul D/ della medaglia coniata a ricordo dell’Esposizione 94, la Vittoria alata,
sotto le cui ali si riconosceva una città dalle due anime.
Fig. 34
In un clima politico particolarmente infuocato, segnato dal rapido succedersi dei governi di Francesco Crispi e di Giovanni Giolitti e da imponenti scandali finanziari, l’Italia umbertina avvia anche una disinvolta politica coloniale
conclusasi penosamente con la disfatta di Adua (1896). In questi anni difficili,
che mettono a nudo anche nel nostro Paese la fin de siècle, periodo di decadenza ma anche momento in cui si accendono nuove speranze e nuove idealità, la
memoria dell’epopea risorgimentale trova nella nostra provincia la celebrazione più enfatica.
Tra il 1880 e il 1893, infatti, venne innalzata a San Martino della Battaglia la neogotica torre 95, progettata nell’intento di perpetuare nella storia il ricordo di Vittorio Emanuele II, uno degli artefici dell’unificazione italiana. Nell’ottobre 1893,
per commemorare il solenne avvenimento dell’inaugurazione del monumento,
si emise una medaglia ad opera dell’incisore bresciano Luigi Ciocchetti 96.
46.Luigi Ciocchetti, Torre di San Martino della Battaglia (fig. 34).
D/ MONUMENTO AL RE VITT. EMAN. II IN SAN MARTINO DELLA BATTAGLIA. Veduta di prospetto, su mensola lunga, della torre con bandiera issata alla
sommità. Nell’esergo: OTTOBRE - MDCCCXCIII. Cornicetta.
R/ OSSARI DI SOLFERINO E S. MARTINO. Veduta della facciata degli ossari di
Solferino e San Martino affiancati fra i cipressi. Nell’esergo, che riproduce un terreno
ghiaioso: L. CIOCCHETTI. Cornicetta.
AR, diam. 58; peso, 90; Civici musei di Brescia, inv. n. ME737.
45.Anonimo, Esposizione industriale operaia provinciale in Brescia (fig. 33).
D/ ESPOSIZIONE INDUSTRIALE OPERAJA PROVINCIALE / BRESCIA 1889.
Statua di tre quarti verso destra della Vittoria alata. Nel campo, a sinistra della mensola: JOHNSON. Cornicetta.
R/ Campo liscio e corona composta da una fronda d’alloro e da una di quercia annodate in basso con un nastro. Nello spazio centrale poteva essere incisa la dedica ad personam. Cornicetta.
AE, diam. 39; Civici musei di Brescia, inv. n. ME1103.
93
Sull’esposizione si veda ora lo studio recente e documentato di Sergio Onger, Verso la modernità.
I bresciani e le esposizioni industriali 1800-1915, Franco Angeli, Milano 2010, pp. 209-218.
94
V. Pialorsi, Medaglie relative a personaggi…, cit., p. 86, n. 156.

Alta 74 metri, fu progettata dall’architetto Giacomo Frizzoni di Bergamo e dagli ingegneri Luigi
Fattori di Solferino, Antonio Monterumici di Treviso e Giuseppe Cavalieri di Bologna. All’ingresso è collocata la statua in bronzo di Vittorio Emanuele II fusa dallo scultore Antonio Dal Zotto,
mentre le pareti della rampa interna sono dipinte dal veneziano Vittorio Bressanin. L’Ossario di San
Martino, adiacente la torre, è invece ospitato nella cappella gentilizia già dei conti Tracagni, mentre
quello di Solferino è radunato nella chiesa di San Pietro in Vincoli.
96
V. Pialorsi, Medaglie relative a personaggi…, cit., p. 86, n. 157.
95

47.Luigi Ciocchetti, Torre di San Martino della Battaglia.
D/ Come al n. 46.
R/ Come al n. 46.
AE, diam. 58; Civici musei di Brescia, inv. n. ME738.
Di questa medaglia è nota una variante, caratterizzata dalla mensola al D/ più
corta, dalle diverse proporzioni della torre e da altri particolari. Per questa seconda versione si conoscono tipi in argento, bronzo e anche in metallo bianco 97.
48.Luigi Ciocchetti, Torre di San Martino della Battaglia.
D/ Come al n. 46.
R/ Come al n. 46.
AE, diam. 58; Civici musei di Brescia, inv. n. ME734.
Il XIX secolo si chiude, per la storia bresciana delle medaglie a valenza risorgimentale, con le emissioni celebrative del cinquantesimo anniversario delle
Dieci giornate. Su espresso interessamento di Zanardelli, che con Rudinì aveva firmato nel 1897 il decreto di concessione, il re Umberto I insignì la città di
medaglia d’oro, consegnata ufficialmente all’allora sindaco Francesco Bettoni
Cazzago il 3 aprile 1898.
49.Filippo Speranza, Medaglia d’oro di Umberto I alla città di Brescia in ricordo
delle Dieci Giornate (fig. 35).
D/ UMBERTO I -- RE D’ITALIA. Testa nuda del re di profilo a sinistra. Nel campo,
in basso: SPERANZA. Cornice. Cambretta.
R/ Nel campo, su tondo centrale entro due fronde di alloro e quercia annodate in basso con un nastro: A / BRESCIA / PER LE / DIECI GIORNATE / DEL / 1849. Cornice.
AU, diam. 50; peso, 99,3; astuccio apposito; Civici musei di Brescia, inv. n. ME1516.
Si tratta di un esemplare unico 98, coniato presso la zecca di Roma da Filippo Speranza, capo incisore della medesima fino al 1903 e autore di un numero
elevatissimo di conî di notevole efficacia, specialmente per i ritratti del D/. An Ibidem, p. 87. Nel 1916, in pieno primo conflitto mondiale, venne coniata da Pio Tailetti la medaglia di bronzo che commemorava il cinquantasettesimo anniversario della battaglia di San Martino
e Solferino (E. Castelli, V. Pialorsi, Medaglie di Brescia…, cit., p. 77, n. 69).
98
V. Pialorsi, Medaglie relative a personaggi…, cit., p. 86, n. 159.
97

Fig. 35
Fig. 36
che nel nostro caso il volto di Umberto I si segnala per una resa pittoricamente
mossa dei capelli e dei baffi che risaltano sulla serie di morbidi passaggi riservata ai piani del viso.
Presso i Civici musei d’arte e storia di Brescia si conservano anche quattro
pezzi in bronzo dorato con caratteristiche identiche all’esemplare aureo.
50.Filippo Speranza, Medaglia d’oro di Umberto I alla città di Brescia in ricordo
delle Dieci giornate.
D/ Come al n. 49.
R/ Come al n. 49.
AE dorato, diam. 50; peso, 68,4; Civici musei di Brescia, inv. nn. ME1480, ME1481,
ME1517, ME1518.
Anche il Comune di Brescia volle dare ufficialità alla speciale ricorrenza, incaricando Angelo Cappuccio, il famoso incisore capo dello stabilimento Johnson di Milano, di modellare i conî della medaglia del cinquantesimo anniversario delle Dieci giornate, così da radunare anche i nomi dei principali patrioti
che presero parte a quelle eroiche gesta.
51. Angelo Cappuccio, Cinquantesimo anniversario delle Dieci giornate (fig. 36).
D/ Entro corona d’alloro chiusa e percorsa da un nastro, stemma della città di Brescia sormontato da corona murale. Sul nastro, i nomi dei patrioti: C. CASSOLA / G
. SANGERVASIO / T . SPERI / P . BOIFAVA / P . MAURIZIO / C . ZIMA / L
. CONTRATTI. Nel campo, ai lati dello stemma: 50º . / ANNIVº . / DELLE X /
GIORNATE / -- / BRESCIA / 1849 / 1899. In basso a sinistra, in piccolo presso l’orlo
liscio: JOHNSON.
R/ Scena di combattimento presso porta Torrelunga con alcuni insorti che sparano verso destra, uno che sventola una bandiera e alcuni feriti a terra curati da delle donne. A
destra, in piccolo presso l’orlo liscio: A . C .
AR, diam. 52,5; peso, 65; Civici musei di Brescia, inv. n. ME504.

52. Angelo Cappuccio, Cinquantesimo anniversario delle Dieci giornate.
D/ Come al n. 51.
R/ Come al n. 51.
AE, diam. 52,5; Civici musei di Brescia, inv. n. ME505.
Come per la medaglia del 1886, anche in questa occasione l’episodio sul rovescio è ispirato al combattimento del 27 marzo 1849 descritto da Giovanni Battista Lombardi in una formella del monumento inaugurato presso Porta Bruciata,
adiacente a piazza della Loggia, il 21 agosto 1864. La medaglia venne distribuita
ai 171 superstiti delle Dieci giornate e fu consegnata inoltre a diverse associazioni ed enti, mentre l’unico esemplare in oro fu inviato a Umberto I 99. I conî del
D/ e del R/ sono conservati presso il medagliere dei Civici musei 100.
Cronologicamente e stilisticamente la medaglia del 50º anniversario della
Decade bresciana rappresenta una svolta importante perché, da un lato, chiude
il secolo che ha portato l’Italia a una faticosa unificazione, processo nel quale la
nostra città ha dato un contributo fondamentale a più livelli, mentre dall’altro
essa si apre alle nuove tendenze dal complesso valore decorativo che improntarono l’evoluzione del gusto in senso nuovo.
Alla essenzialità e alla nitidezza dei volumi, che avevano accompagnato la
medaglistica dall’età neoclassica a quella tardo romantica, si inizia a intravvedere un maggior interesse per le superfici mosse, dove la luce acuisce in modo
vibrante la consistenza della materia metallica. A Brescia il momento di passaggio fra Ottocento e Novecento coincide con quella che possiamo definire l’età
zanardelliana, per il ruolo assolutamente fondamentale esercitato dallo statista
triumplino in seno alla vita politica, sociale, economica e culturale della nostra
città e provincia 101.
53.Anonimo, Ai superstiti delle patrie battaglie 1820-1870 (fig. 37).
D/ SUPERSTITI PATRIE BATTAGLIE / fregio a crocetta 1820 AL 1870 fregio a crocetta. Nel campo, al centro, entro due fronde di alloro in forma di corona e annodate
in basso da un nastro, stella a cinque punte caricata dello scudetto dei Savoia. Bordo
rilevato. Appiccagnolo con nastro di seta tricolore.
Fig. 37
R/ Nel campo, entro due fronde di quercia in forma di corona e annodate in basso da
un nastro, legenda su cinque righe: G . ZANARDELLI / PRESIDENTE / ONORARIO / -- / NAPOLI / 1902. Bordo rilevato
AR, diam. 32,5; peso, 15,51; Civici musei di Brescia, inv. n. ME3396.
Questo raro esemplare 102, dedicato ai veterani delle guerre per l’unità del Paese, ricorda tra l’altro il primo viaggio compiuto da un presidente del Consiglio nelle regioni meridionali nel settembre del 1902, quando Zanardelli visitò
la Basilicata e contribuì ad accelerare il processo legislativo in favore di Napoli
e del Mezzogiorno 103.
Se le questioni relative alla produzione medaglistica legata allo statista bresciano esulano dai limiti di questa ricerca 104, un accenno specifico meritano invece quei prodotti che entro il primo decennio del XX secolo commemoravano
ancora vicende e personaggi del Risorgimento bresciano.
Sotto questo aspetto possiamo menzionare la piccola medaglia in argento coniata da Pietro Landi in occasione del raduno ciclistico di Bedizzole, in onore
dei fratelli Giovan Battista e Pietro Chiodi, coinciso con la posa della lapide in
E. Castelli, V. Pialorsi, Medaglie di Brescia…, cit., p. 16, n. 8.
R. Chiarini, Zanardelli grande bresciano…, cit., pp. 113-115.
104
Per tutte le informazioni utili al riguardo si rimanda a un’essenziale, ma fondamentale bibliografia: Vincenzo Pialorsi, Medaglie, in Brescia postromantica e liberty. 1880-1915, catalogo della mostra,
Grafo, Brescia 1985, pp. 277-291; E. Castelli, V. Pialorsi, Medaglie di Brescia…, cit., nn. 9, 19, 44, 54
e 115.
102
Ibidem, p. 89, n. 160.
100
V. Pialorsi, Punzoni e conii…, cit., pp. 48-49, nn. 17 e 17.A.
101
Oltre a R. Chiarini, Zanardelli grande bresciano…, cit., pp. 117-128, più in generale si veda anche
L’ età zanardelliana. La società bresciana negli anni dell’industrializzazione (1857-1911), catalogo della
mostra didattica a cura di Roberto Chiarini e Roberto Navarrini, Grafo, Brescia 1984.
99

103

città volle attribuire a Giuseppe Cesare Abba, cantore della spedizione dei Mille,
combattente a Bezzecca nel 1866 e cittadino onorario sin dal 1884, un significativo riconoscimento in occasione del settantesimo compleanno del letterato patriota 106. Per l’occasione venne coniata su progetto del pittore torinese Cesare Biscarra una medaglia d’oro, offerta allo stesso Abba e tuttora custodita dagli eredi.
L’esemplare qui presentato è in bronzo e appartiene a un collezionista privato 107.
55. Cesare Biscarra, A Giuseppe Cesare Abba per il suo 70º compleanno (fig. 39).
Fig. 38
D/ GIVSEPPE CESARE ABBA. Busto di tre quarti a sinistra. Nel campo, a destra, in
corsivo piccolo: C.Biscarra. Bordo liscio. Appiccagnolo.
R/ Nel campo, al centro, in una cartella con motivi decorativi vegetali: MCMVIII. In
alto veduta di Cairo Montenotte e, sopra, la data: 1838; in basso, scorcio di paesaggio
marino con lo scoglio di Quarto e, sotto, la data: 1860. Bordo liscio
AE, diam. 28; coll. privata.
Fig. 39
ricordo dei due patrioti, morti durante le Dieci giornate, murata sulla facciata
della loro casa in paese 105.
54. Pietro Landi, Convegno ciclistico di Bedizzole in onore dei fratelli Chiodi (fig.
38).
D/ Nel campo, scritta differenziata e asimmetrica su sei righe: FESTE PRO MARTIRI / F.lli CHIODI / -- / CONVEGNO / CICLISTICO / BEDIZZOLE / 8 . OTT .
1905. Busti accostati dei fratelli Chiodi emergenti da un ramo di alloro. Sotto i busti,
in piccolo: LP. Bordo liscio. Appiccagnolo aggiunto.
R/ A sinistra giovane seminudo regge una lunga bandiera a stendardo mentre con la sinistra porge un ramo di alloro a un ciclista in corsa sulla destra fra un paesaggio montuoso. Una targa posta in basso e altri elementi vegetali completano la decorazione. Sulla
sinistra, in piccolo: LANDI. Bordo liscio.
AR, diam. 35; peso, 15,5; coll. privata.
La soluzione dei due busti affiancati, adottata sul D/ dal medaglista, ha come inequivocabile modello di riferimento la targa bedizzolese, dove i due ritratti
in bronzo su mensola marmorea occupano la porzione destra con caratteri fisiognomici e particolari dell’abbigliamento puntualmente ripresi nel conio del
Landi, che da poco più di un decennio dirigeva il suo stabilimento artistico di
incisioni a Milano.
Anche l’epopea garibaldina continua ad avere un ruolo da protagonista in questa complessa e difficile fase di trasformazione per Brescia e per l’Italia e la nostra
Il 1909, nel pieno dell’età giolittiana, coincise con il cinquantenario della Seconda guerra d’indipendenza e l’anniversario fu celebrato in più occasioni, non
ultima l’Esposizione internazionale di applicazioni dell’elettricità, inaugurata in
Castello alla presenza del re e delle più alte cariche dello Stato 108. La ricorrenza
fu sottolineata naturalmente anche attraverso la dedica di numerose lapidi commemorative e la coniazione copiosa di medaglie. In particolare qui si illustrano
quei pezzi che più direttamente riguardano l’anniversario delle battaglie di San
Martino e Solferino, svoltesi nello scenario della zona morenica del basso Garda
e che furono vissute con grande intensità anche dalla popolazione civile.
56.Adolfo Apolloni e Luigi Giorgi, Cinquantenario delle battaglie di San Mar-
tino e Solferino (fig. 40).
D/ A sinistra, l’Italia armata all’antica e seduta poggia un braccio su uno scudo Savoia
e si rivolge verso destra, dove una figura virile stante reca delle bandiere mentre viene
incoronata da una vittoria alata in volo; sullo sfondo un paesaggio montuoso. In basso,
in piccolo sulla mensola: A. APOLLONI M -- L. GIORGI I. Nell’esergo: Z coronata.
Bordo circondato da una corona d’alloro.
Dino Mantovani, Il 70º anno di G.C. Abba, in «Illustrazione bresciana», anno 7 (1908), n. 123, p.
7. Per gli scritti dell’Abba si veda la pressoché completa Edizione nazionale delle opere di Giuseppe
Cesare Abba, 10 voll., Morcelliana, Brescia 1983-2010.
107
E. Castelli, V. Pialorsi, Medaglie di Brescia…, cit., p. 44, n. 36.
108
S. Onger, Verso la modernità…, cit., pp. 240-262.
106
Il testo dell’iscrizione recita: «Con indomito ardor di gioventù e di fede / accorsi all’insurrezione
di Brescia / i fratelli Pietro e Battista Chiodi / caddero nel 1849 fra le barricate / auspici eroi della
Patria redenta / memori i Bedizzolesi / ne decorarono l’avita dimora / 8 Ottobre 1905».
105


un tamburo rovesciato e una ruota; sullo sfondo, fumi e polveroni della battaglia. Nel
campo, in basso presso l’orlo: S . J. Bordo liscio.
R/ Nel campo, incusa su un’urna: 24 / GIUGNO / 1859. A destra, figura femminile dolente, inginocchiata mentre depone un ramo di palma sull’urna a sinistra; sullo sfondo
le torri di San Martino e Solferino fra alti cipressi. Bordo liscio.
AR, diam. 55; peso, 63,25; Civici musei di Brescia, inv. n. ME1417.
Fig. 40
Fig. 41
R/ Nel campo, legenda su dieci righe: PER ONORARE / LE BANDIERE DELLA
/ PATRIA DECORATE DI ME- / DAGLIE AL VALORE MILITA- / RE NELLE
BATTAGLIE DEL- / L’INDIPENDENZA E DELL’UNITÀ / PRIMO CINQUANTENA- / RIO DELLA BATTAGLIA DI / SOLFERINO . S.MARTINO / lineetta /
MDCCCLIX . MCMIX. Bordo circondato da una corona d’alloro.
AE, diam. 50; coll. privata.
La medaglia 109, coniata anche in argento da Adolfo Apolloni, famoso scultore
romano che fu presidente dell’Accademia di San Luca e sindaco della capitale,
e da Luigi Giorgi, all’epoca capo incisore della regia zecca italiana, rappresenta
un episodio artisticamente significativo fra tutte le emissioni che in quell’anno
ricordarono uno dei momenti più sanguinosi del nostro Risorgimento. Apprezzabili, infatti, risultano sia la complessa iconografia che caratterizza la scena del
D/, sia la modellazione accurata ed elegante delle figure e la resa morbida dei
molteplici piani in cui si articola l’allegoria.
La Società di San Martino e Solferino, fondata nel 1870 ad opera del senatore conte Luigi Torelli e assurta a ente morale l’anno successivo, nel corso del
tempo si è fatta promotrice di molteplici iniziative, destinate a onorare la memoria dei combattenti dei tre eserciti che avevano sostenuto lo scontro. Dopo
essersi adoperata in precedenza per la costruzione degli Ossari e l’erezione della
torre dedicata a Vittorio Emanuele II, l’anno del 50º anniversario si fece carico di commissionare allo stabilimento Johnson di Milano la coniazione di una
medaglia commemorativa della battaglia.
57.Anonimo, Società di Solferino e San Martino (Cinquantenario della battaglia).
D/ SOCIETÀ DI SOLFERINO E SAN MARTINO. Un soldato piemontese e uno
zuavo stanti e uniti al centro si stringono le destre reggendo, rispettivamente, l’asta di
una bandiera che sventola al vento e la canna di un fucile; sul terreno, fra fiori e foglie,
E. Castelli, V. Pialorsi, Medaglie di Brescia…, cit., p. 46, n. 38.
109

58. Stabilimento Johnson, Società di Solferino e San Martino (Cinquantenario
della battaglia) (fig. 41).
D/ Come al n. 57. Nel campo, in basso lungo l’orlo: S . JOHNSON. Bordo liscio.
R/ Come al n. 57.
AE, diam. 55; Civici musei di Brescia, inv. n. ME1420.
La medaglia, emessa anche in argento, peltro e in bronzo con appiccagnolo,
ma di formato minore, pur essendo priva di data è con certezza da ascrivere al
1909, mentre anonimo è l’artista autore dei conî 110. Tuttavia, soprattutto la malinconica figura di donna velata che compare nella studiata scena del R/, sembra riecheggiare nella languida posa e nella chiaroscurata evanescenza dei panneggi certe soluzioni care alla pittura e alla scultura dell’estremo Simbolismo
italiano, che anche in Lombardia ha lasciato testimonianze significative. Senza
la pretesa di indirizzare una vera e propria proposta attributiva, segnalo, a titolo esemplificativo, alcune suggestioni derivanti dagli splendidi cartoni di Gaetano Cresseri, eseguiti per l’Allegoria della Tragedia del Teatro Grande 111, senza
dimenticare che il pittore bresciano ebbe come professore all’Accademia di Brera Lodovico Pogliaghi, poliedrico artista e autore di numerose medaglie 112. Ma
ancor più evidenti mi sembrano le consonanze fra il personaggio della medaglia e lo struggente Paesaggio con figura femminile seduta della Pinacoteca Tosio
Martinengo (inv. 736), meglio conosciuto come La Notte 113, nel quale Cresseri
Ibidem, p. 47, n. 39.
Elena Lucchesi Ragni, Maurizio Mondini, Cartoni e disegni di Gaetano Cresseri presso la sezione
disegni e stampe della Pinacoteca Tosio-Martinengo, in Giornata di studi sul pittore Gaetano Cresseri
(Brescia, 1870-1933), Ateneo di Brescia, 19 novembre 2002, Atti a cura di Luciano Anelli, Ateneo di
Brescia, Brescia 2005, p. 216, fig. 3.
112
Vittorio Lorioli, Paolo Fernando Conti, Medaglisti e incisori italiani dal Rinascimento a oggi, Litostampa Istituto Grafico, Almenno S. Bartolomeo (Bg) 2004, pp. 212-213.
113
Brescia postromantica e liberty…, cit., p. 200, n. 9; Luciano Anelli, I dipinti da cavalletto: paesaggi,
figure, fiori, dipinti simbolici, figure “di genere”, in Giornata di studi sul pittore Gaetano Cresseri, cit.,
figg. 38 e 39; nel 1902 il pittore presentò l’opera come «saggio per la pensione Brozzoni» (Gli artisti
bresciani e il Concorso Brozzoni (1869-1950), a cura di Luigi Capretti e Francesco De Leonardis, «Quaderni dell’AAB», 7, Brescia 2009, p. 81, n. 56).
110
111

l’elevatissimo numero di morti e feriti ispirò a Jean Henry Dunant l’idea di
fondare la Croce rossa, è perpetuato da un’interessante medaglia appositamente
commissionata al pittore e medaglista trentino Albino Dal Castagnè dal Touring club italiano. Nel 1909, infatti, proprio per ricordare il cinquantenario di
San Martino e Solferino, l’annuale convegno generale dei soci avvenne a Desenzano.
Fig. 42
Fig. 43
armonizza le forme studiate e sensuali della donna con un’ambientazione anche qui segnata dalle irte chiome dei cipressi, in un’atmosfera gravida di suggestioni archeologizzanti.
Un’altra ricercata medaglia eseguita per il cinquantenario di San Martino e
Solferino è la seconda coniata da Adolfo Apolloni e Luigi Zorzi ed emessa dalla regia zecca sia in argento sia in bronzo 114. Rispetto all’esemplare che celebra
l’Onore alle bandiere decorate quest’ultimo ha un taglio inferiore, senza che ne
risulti sacrificato o pregiudicato il delicato rapporto tra lo sfondo e i personaggi
della scena allegorica sul D/, mentre la ricercata combinazione degli elementi
vegetali che danno vita alla corona sul R/ ha l’inconfondibile tratto di una composizione pienamente liberty.
59. Adolfo Apolloni e Luigi Giorgi, Primo cinquantenario delle battaglie di San
Martino e Solferino (fig. 42).
D/ L’Italia turrita stante sulla destra tiene in mano una Vittoria alata e con l’altra porge
un ramo d’alloro a tre figure maschili nude a sinistra. La prima si inginocchia impugnando una spada, la seconda si appoggia al fucile ed è in piedi di spalle, la terza regge
l’asta di una bandiera sventolante. Nell’esergo, ai lati dell’aquila sabauda: A . APOLLONI M -- L . GIORGI I. Bordo liscio.
R/ Entro una targa rettangolare adagiata su due rami di quercia e alloro intrecciati a
corona: PRIMO / CINQVANTENARIO / DELLA BATTAGLIA / DI SAN MARTINO / MDCCCLIX – MCMIX. In alto cartiglio liscio; in basso, a sinistra Z coronata
e a destra nodo Savoia. Bordo liscio.
AR, diam. 37; peso, 26; Civici musei di Brescia, inv. n. ME524.
Il ricordo della tragica battaglia, che per l’asprezza dei combattimenti e per
E. Castelli, V. Pialorsi, Medaglie di Brescia…, cit., p. 48, n. 40.
114

60.Albino Dal Castagnè, Touring Club Italiano (Convegno generale a Desenzano
nel cinquantenario della battaglia di San Martino e Solferino) (fig. 43).
D/ Figura femminile in piedi sostiene un soldato ferito accasciato a terra; entrambi
guardano a destra verso una carica di cavalleria al di là di un muretto ove a sinistra
compare lo stemma di Desenzano e a destra la data 1859 e il monogramma incuso A
D C. Bordo liscio.
R/ In alto, entro un semicerchio di perline: 50º ANNIVERSARIO DELLA BATTAGLIA DI S.MARTINO E SOLFERINO. Le torri di San Martino e Solferino e paesaggio sullo sfondo. In basso, entro cartella ornata di foglie: CONVEGNO GENERALE
DEL T.C.I. / DESENZANO. Nell’esergo: stemma del T.C.I. al centro, fra le scritte
GIVGNO e 1859-1909; in basso, incuso presso l’orlo: S. JOHNSON. Bordo liscio.
AE, diam. 30; Civici musei di Brescia, inv. n. ME513.
Il gruppo di medaglie commemorative delle vittorie franco-sarde del 1859 si
conclude con quella coniata per volontà del Comitato organizzatore delle celebrazioni che si svolsero a Magenta, a Solferino e a San Martino e volta specialmente a ribadire, dopo il riavvicinamento diplomatico voluto da Zanardelli, la
stretta alleanza italo-francese che aveva determinato la vittoriosa campagna di
mezzo secolo prima.
61. Stabilimento Johnson, San Martino e Solferino (50º delle vittorie italo-francesi
della II guerra d’Indipendenza) (fig. 44).
D/ Vittoria alata di fronte scende in volo poggiando il piede sinistro su una roccia, tenendo con una mano al petto una corona d’alloro e con il braccio destro sollevato una
bandiera al vento; sopra la testa splende una stella, mentre sullo sfondo gruppi di armati
con bersaglieri e zuavi attaccano verso destra In basso a sinistra: MDCCCLIX; sotto,
incuso presso l’orlo: S . J .Bordo liscio.
R/ In alto, stella raggiante; nel campo legenda su nove righe: DA MONTEBELLO A
PALESTRO / A SAN MARTINO E SOLFERINO / DELLE FRATERNE VITTORIE / ITALIA E FRANCIA / RINNOVANO LA FEDE / PER LA LIBERTA’ E LA
PACE / MCMIX. Bordo liscio.
AE, diam. 26; Civici musei di Brescia, inv. n. ME1024.

Oltre all’esemplare in bronzo qui presentato, sono note emissioni in argento, più rare e con due moduli differenti per la stessa medaglia.
Per ragioni di carattere storico e in considerazione dell’indubbio valore estetico, è giusto ricordare qui la piccola medaglia in argento – ma se ne conoscono
anche tirature in bronzo – dedicata all’inaugurazione del monumento di Davide
Calandra a ricordo di Giuseppe Zanardelli dopo la sua morte e alla concomitante Esposizione bresciana di elettricità, eventi caduti nel 1909 nel cinquantesimo anniversario dell’indipendenza.
Questa piccola medaglia rappresenta uno dei momenti più ricchi e fantasiosi del gusto liberty a Brescia e, nonostante le proporzioni limitate e l’infittirsi
dei motivi ornamentali e simbolici, combinati con le molte iscrizioni, l’autore
è riuscito a ottenere un insieme omogeneo dove la ridondanza decorativa è tenuta a freno dal curato rapporto tra pieni e vuoti. Scolari, del resto, si è dovuto
sforzare di radunare una serie di eventi che nel 1909 hanno rappresentato per la
nostra città un momento di esaltante notorietà, sia sul piano nazionale, sia su
quello internazionale 115.
Tuttavia, dopo la discussione relativa al consistente gruppo di medaglie eseguite in occasione delle celebrazioni per il cinquantenario della vittoria francopiemontese nella Seconda guerra di indipendenza, credo sia lecito e, in certo
qual modo, doveroso rendere conto anche di chi, in quelle memorabili giornate, stava dalla parte avversa, dalla parte cioè degli sconfitti. L’occasione è offerta
dal riconoscimento in una collezione privata bresciana di un notevole esemplare in bronzo, realizzato nel 1911 dal celebre medaglista e scultore austriaco Rudolf Ferdinand Marschall 116 per il barone Géza von Fejérváry, in ricordo del suo
sessantesimo anniversario di servizio militare prestato in favore dell’imperatore
Francesco Giuseppe.
62.G. Scolari, Inaugurazione del monumento a Giuseppe Zanardelli, esposizione
63. Rudolf Ferdinand Marschall, Al barone Géza von Fejérváry (fig. 46).
Fig. 44
Fig. 45
D/ G . D . I . FHRN . V . FEJERVARY ZVM 60 JHAR . DIENST . JVBILAVM /
14 . AVG . 1911. Ritratto del barone Geza von Fejervary leggermente di tre quarti, con
lunghi e folti baffi, vestito in abiti militari su cui sono appuntate alcune decorazioni.
Nel campo, a destra: FRANZ / JOSEPF / . I . Nel campo, a sinistra, sopra la spalla: R.
MARSCHALL. Bordo liscio.
R/ Scena di battaglia con il barone a cavallo che incita un gruppo di fanti armati e dà
di elettricità, 50º anniversario dell’indipendenza, Club ciclistico Leonessa d’Italia: convegno ciclo, auto e moto (Brescia 1909) (fig. 45).
D/ Medaglia dal profilo irregolare, con la parte superiore incorniciata da due fronde di
alloro e stemma della città di Brescia a sinistra. Al centro riproduzione del monumento
a Giuseppe Zanardelli e, in basso, parte superiore della sua statua. Nel campo, in basso a sinistra: ONORANZE / A / GIVSEPPE / ZANARDELLI / BRESCIA 1909: Nel
campo, a sinistra: G . SCOLARI.
R/ Profilo irregolare, come al D/, inquadrato in alto da due fronde di quercia, al centro
figura femminile seminuda e stante che regge nella destra una ruota alata e nella sinistra un ramo di alloro; sullo sfondo, a sinistra, veduta del Castello di Brescia con torre radiata e, a destra, torre di San Martino. In basso, mensola a forma di automobile
sulla cui ruota sinistra si antepone una leonessa caricata dello scudetto di Brescia con
bandiera fra le sampe, mentre sulla ruota sinistra è sovrapposto lo stemma del Touring
Club Italiano. Nel campo, in alto a sinistra, a piccole lettere incuse: ESPOSIZIONE /
ELETTRICITÀ. Nel campo, a destra, a piccole lettere incuse: 50º ANNIV . / INDIPENDENZA. In basso, sulla mensola: CLVB CICLISTICO / LEONESSA / D’ITALIA / . CONVEGNO . / CICLO – MOTO – AVTO / BRESCIA 1909. In basso, a
lato della leonessa: S.J.
AR, alt. 40; larg. 30,3; peso 19,1; coll. privata.

Oltre alle già citate inaugurazioni del monumento a Zanardelli e dell’esposizione bresciana di elettricità in Castello, si ricorda anche il circuito aereo di Montichiari che richiamò personalità del calibro
di Gabriele d’Annunzio e Franz Kafka. Per una sintesi degli avvenimenti principali che segnarono il
1909 bresciano si veda «La provincia di Brescia», anno 40 (1909). Inoltre, sul monumento cittadino
a Giuseppe Zanardelli si veda anche: Brescia postromantica e liberty…, cit., p. 172; infine, sull’esposizione di elettricità in Castello, si veda anche: Sergio Onger, Quando in Castello pulsava l’energia
del nuovo secolo. Il centenario dell’Esposizione dell’elettricità, in «AB. Atlante bresciano», n. 99, estate
2009, pp. 68-68.
116
Rudolf Ferdinand Marschall (Vienna, 3 dicembre 1873 - 24 luglio 1967) frequentò la Scuola di
Incisione diretta da Stefan Schwartz e successivamente studiò l’arte medaglistica con Josef Tautenhayn. Nel 1903 divenne il medaglista di corte dell’imperatore d’Austria e dal 1905 fu direttore della
Scuola di medaglia di Vienna. Alla esposizione di arte contemporanea a New York nel 1910 espose
41 sue creazioni.
115

seconda metà del XIX si sono “dimenticati” di attribuire allo Speri una medaglia
ad personam che ne ricordasse la figura e ne commemorasse l’eroismo 118.
Appendice (diplomi e medaglieri)
Fig. 46
ordini a due batterie di cannoni. In primo piano un soldato austriaco ferito e un bersagliere morto. Sullo sfondo il paesaggio verso San Martino. Nell’esergo, la scritta incusa:
SAN MARTINO 24 . JVNI 1859. Bordo liscio.
AE, diam. 90; coll. privata.
Questo bellissimo esemplare fa riferimento a uno dei momenti più significativi della carriera militare del barone von Fejérváry (15 marzo 1833 - 25 aprile
1914), generale di origine ungherese e che rivestì importanti cariche politiche,
divenendo più volte ministro dell’Impero austro-ungarico e ricoprendo per un
breve periodo anche la carica di primo ministro d’Ungheria durante la crisi costituzionale del suo Paese d’origine (1903-1907). Nella battaglia di San Martino
il von Fejérváry, all’epoca capitano dell’esercito di Francesco Giuseppe, si guadagnò, per l’eroismo dimostrato durante gli scontri, la croce di Maria Teresa, la
più alta onorificenza militare asburgica che orgogliosamente il generale mostra
appuntata sul petto anche nel ritratto realizzato da Marschall.
Prima di passare in rapida rassegna alcuni diplomi di conferimento di onorificenze, attribuiti a personalità bresciane che si distinsero particolarmente nelle
guerre per l’indipendenza, e alcuni medaglieri strettamente connessi al tema del
nostro Risorgimento, una notazione obbligatoria si pone a questo punto per registrare una mancanza. È decisamente anomalo che non sia stata realizzata nella nostra città una medaglia che ricordasse le gesta e commemorasse la tragica
fine dell’eroe bresciano per antonomasia, quel Tito Speri combattente durante
le Dieci giornate e martire a Belfiore. Se è vero che il 2 settembre 1888 gli venne dedicato il monumento nell’omonima piazzetta alle pendici del Castello 117 e
che il suo nome compare, con quello di altri patrioti, sulla medaglia celebrativa
della decade bresciana coniata da Angelo Cappuccio nel 1899 (nn. 50 e 51), la
comunità civica e i diversi enti che hanno operato sul territorio nel corso della
F. Ronchi, Monumenti e lapidi…, cit., pp. 73-75.
117

Fra i materiali cartacei un tempo esposti nel Museo del Risorgimento, inaugurato nei locali del Grande Miglio in Castello l’11 giugno del 1959 per celebrare il secolare anniversario della liberazione della città dagli austriaci 119, compariva anche una serie di diplomi che accompagnavano il conferimento di onorificenze militari.
Data la serialità insita in questo tipo di documenti, si è spesso privilegiata la
medaglia cui erano abbinati, il più delle volte scorporandola dall’atto di conferimento, tanto che attualmente risulta difficile, se non impossibile, ricostruirne
l’originaria unità con il corrispondente diploma. Tuttavia, fra i pochi casi fortunatamente risparmiati da questa pratica poco conforme agli attuali criteri storiografici e museografici, si segnalano i due atti completi con cui venivano assegnate a Giuseppe Cesare Abba la «Medaglia dei Mille» e quella d’argento al valor
militare per l’azione esemplare compiuta durante la battaglia di Bezzecca.
a. Senato della Città di Palermo, attestato a Giuseppe Cesare Abba per la «Medaglia dei Mille» (295 x 235) 120 (fig. 47).
In alto a sinistra, impronta di timbro circolare a inchiostro rosso con al centro l’aquila della città di Palermo, intorno la scritta: COMMISSIONE PER LA MEDALIA;
nell’esergo: DELLA SPEDIZIONE / IN / SICILIA.
In alto, a destra, impronta di timbro ellittico a inchiostro rosso con la scritta: MINISTERO DELLA GUERRA / SEGRETARIATO GENERALE / -- / COMMISSIONE
DI VERIFICA / PER I MILLE
Al centro, prestampata a inchiostro nero con inserti manoscritti, la dicitura: A voi Abba Giuseppe uno dei 1000 prodi sbar- / cati con Garibaldi a Marsala il dì 11 maggio
1860, il Senato di Palermo / questo attestato rilascia, accompagnato dalla medaglia che
L’unico esempio di medaglia che, per quanto sappia, ritrae il busto di Tito Speri è quella in argento dedicata al sommergibile della classe “Mameli” intitolato al patriota bresciano, impostato nel 1925
nei cantieri di Taranto, varato nel 1928 e consegnato l’anno successivo alla Regia Marina Italiana (V.
Pialorsi, Medaglie emesse a celebrazione…, cit., p. 50, n. 6).
119
Fra le voci bibliografiche più complete che riguardano l’allestimento museale del 1959, oltre a
quanto citato alla nota 5, si veda anche: Gaetano Panazza, La pinacoteca e i musei di Brescia, Istituto
italiano d’arti grafiche, Bergamo 1968, pp. 175-185.
120
Civici musei di Brescia, inv. n. FS 290 (L’Italia degli italiani, cit., p. 39, fig. 80 e p. 43).
118

66.Anonimo, I comuni della provincia di Modena ai loro volontari.
D/ Intorno, lungo l’orlo, separate da stelline a cinque punte: 1848 1849 1859 1860. Nel
campo, al centro su quattro righe: GUERRA / DELL’ / INDIPENDENZA / ITALIANA. Cornicetta. Cambretta. Nastro di seta a due bande verticali verde e rossa, entrambe con filetto bianco laterale. Sul nastro, ricamata in bianco, la scritta: W / V E / II. /
due rami di alloro.
R/ Nel campo, su quattro righe: AI / LORO VOLONTARI / I / COMUNI. Nel campo, intorno lungo l’orlo: DELLA PROVINCIA DI MODENA RICONOSCENTI
stellina a cinque punte. Cornicetta.
AR, diam. 23; peso, non rilevato; Civici musei di Brescia, inv. n. ME3429.
b. Regno d’Italia, attestato e medaglia d’argento al valore militare a Giuseppe
Cesare Abba (31,7 x 21,7) (fig. 48)
Fig. 47
In alto al centro: stemma dei Savoia. Sotto: Ministero della Guerra / Segretariato Generale / Gabinetto del Ministro (sezione 2.a) -- Numero d’Ordine 12616.
In basso segue il testo, prestampato a inchiostro nero con inserti manoscritti: S.M. il
Re, in data del 6 Dicembre 1866 / Visto il Regio Brevetto del 26 marzo 1833; / Vista la
Legge del 31 Dicembre 1848; / Ha conferito la Medaglia in Argento al / valor militare,
coll’annessovi soprassoldo di Lire / Cento annue al Sottotenente nel 7° Reggimento / Volontari Italiani Abba Cesare / (N ° = di Matricola) per aver con pochi animosi seguito la
/ bandiera, salvando inoltre due pezzi d’artiglieria. / (Bezzecca 21 Luglio 1866) / Il Ministro Segretario di Stato per gli Affari della / Guerra rilascia quindi al titolare il presente
certificato del confer- / togli onorifico distintivo per valersene in quanto gli occorra. /
Torino, Firenze addì 28 Marzo 1867.
In basso al centro, impronta del timbro a secco del Ministero della Guerra e, sulla destra: Per Il Ministro / Il Segretario Generale / E. Driquet.
Fig. 48
decretava la no- / stra cittadina rappresentanza e che oggi il Municipio vi conferisce /
Palermo il dì 1860.
Seguono, in basso a destra, le firme del Pretore e di otto Senatori e, in basso a sinistra,
quella del Segretario Cancelliere.
In basso, impronta di timbro circolare a inchiostro nero con al centro l’aquila della città di Palermo ad ali spiegate e cartiglio fra gli artigli con la scritta: S.P.Q.P.; in basso,
intorno lungo l’orlo, la scritta: SENATO DI PALERMO.
Sulla sinistra, al centro, è appuntata la medaglia in bronzo, completa di nastro e di simbolo della Trinacria.
64.Giuseppe Barone, Medaglia dei Mille.
In alto a sinistra è appuntata la medaglia.
67.Giuseppe Ferraris, Medaglia d’argento al valor militare.
D/ Come al n. 31.
R/ Come al n. 31.
AR, diam. 31; peso 15,42; Civici musei di Brescia, inv. n. ME50213.
D/ AL VALORE -- MILITARE. Nel campo, al centro entro due fronde di palma e d’alloro legate in basso da un nastro in forma di corona, scudetto Savoia sormontato da un
diadema. In basso, al centro: F. G. Cornicetta. Cambretta. Nastro di seta azzurro 121.
R/ Nel campo, incusa lungo l’orlo, la scritta: BATT. DI BEZZECCA (TIROLO) 21
LUGLIO 1866 PER AVER SALVATI DUE CANNONI stellina a cinque punte. Nel
Sulla destra, in alto, altre due medaglie con nastro appuntate sovrapposte.
65. Demetrio Canzani, Medaglia per le guerre d’indipendenza e l’Unità d’Italia.
D/ Come al n. 38. Sul nastro è una fascetta che reca la data 1860-61.
R/ Come al n. 38.
AR, diam. 32; peso 17,61; Civici musei di Brescia, inv. n. ME50212.

Si tratta certamente di un esemplare coniato presso la zecca di Torino, come provano le iniziali
del suo capo incisore Giuseppe Ferraris (V. Lorioli, P.F. Conti, Medaglisti e incisori italiani…, cit.,
p. 103). Per alcune notizie storiche riguardanti questo segno d’onore si veda anche A. Tassini, Con
valore e con onore…, cit., pp. 37 e 43.
121

campo, al centro, entro due fronde di alloro legate in basso da un nastro in forma di
corona, la scritta incusa su due righe: GIUS . CES . / ABBA. Cornicetta.
AR, diam. 34; peso, 15,20; Civici musei di Brescia, inv. n. ME3430.
Una considerazione particolare meritano, infine, alcuni medaglieri che, oltre
all’interesse strettamente numismatico relativo ai singoli esemplari presenti nei
diversi insiemi, offrono spunti oltremodo interessanti dal punto di vista storico
e, nei casi di medaglieri relativi a singole persone, anche da quello biografico.
Radunare ed esporre cimeli celebrativi e commemorativi di fatti e personaggi, unitamente ai segni d’onore acquisiti durante azioni militari e campagne di
guerra, è un fenomeno che ha una lunghissima tradizione, che non è qui il caso di ripercorrere. Tuttavia, proprio con il periodo post-risorgimentale, l’uso di
ordinare e di raggruppare medaglie di specifica valenza storica si diffonde capillarmente secondo modalità diversificate, anche se sostanzialmente omogenee,
che di solito prevedono la presenza del ritratto del titolare. Tali medaglieri erano destinati, dunque, alla testimonianza “eroica” delle gesta dell’effigiato o del
gruppo di ex combattenti che si era dato nel frattempo un’identità sociale, un
vessillo e uno statuto. Anche nel caso dei privati, la storia personale connessa alla
esibizione delle medaglie diveniva però un fatto pubblico, dal momento che il
potersi fregiare di uno specifico segno d’onore era regolamentato, come si è visto
in precedenza, da diplomi che ne autorizzavano e ne disciplinavano l’utilizzo.
c. Medagliere della bandiera dei Veterani bresciani 122 (fig. 49).
Pezza rettangolare di seta azzurra (49,3 x 12), con montatura metallica ed
anello di sospensione (53,3 x 14), su cui sono appuntate dodici medaglie su
quattro fila.
Dall’alto a sinistra si riconoscono:
68.Albert-Désiré Barre, Campagna d’Italia di Napoleone III (segno d’onore).
D/ Come al n. 24.
R/ Come al n. 24.
AR, diam. 31; peso non rilevato; Civici musei di Brescia, inv. n. ME50199.
Fig. 49
69.Filippo Speranza, Medaglia per le guerre d’indipendenza e l’Unità d’Italia (se-
gno d’onore).
D/ Come al n. 39. Sulla fascetta:1855-1856.
R/ Come al n. 39.
AR, diam. 32; peso non rilevato; Civici musei di Brescia, inv. n. ME50200.
70.Demetrio Canzani, Medaglia per le guerre d’indipendenza e l’Unità d’Italia
(segno d’onore).
D/ Come al n. 38. Sulla fascetta: 1859.
R/ Come al n. 38.
AR, diam. 32; peso non rilevato; Civici musei di Brescia, inv. n. ME50203.
71. Demetrio Canzani, Medaglia per le guerre d’indipendenza e l’Unità d’Italia
(segno d’onore).
D/ Come al n. 38. Sulla fascetta: 1866.
R/ Come al n. 38.
AR, diam. 32; peso non rilevato; Civici Musei di Brescia inv. n. ME50201.
72.Anonimo, Medaglia per le guerre d’indipendenza e l’Unità d’Italia (segno
d’onore).
Il medagliere, unitamente alla bandiera dei veterani bresciani delle patrie battaglie, sono stati da
poco restaurati e riproposti al pubblico nella recente mostra dedicata a Brescia dopo l’Unità (L’Italia
degli italiani, cit., p. 38, figg. 71 e 73 e pp. 42-43).
122

D/ Come al n. 38. Sulla fascetta: 1860.
R/ Come al n. 38.
AR, diam. 32; peso non rilevato; Civici musei di Brescia, inv. n. ME50202.

73. Filippo Speranza, Medaglia per le guerre d’indipendenza e l’Unità d’Italia (se-
gno d’onore).
77.Anonimo, Medaglia di benemerenza ai veterani del 1848-49 per la guardia
d’onore al Pantheon 124.
D/ Come al n. 39. Nastro di seta a sei bande tricolori verticali e fascetta: 1866.
R/ Come al n. 39.
AR, diam. 32; peso non rilevato; Civici musei di Brescia, inv. n. ME50204.
D/ Corona di alloro caricata di stella a cinque punte al cui centro è un tondo con testa
di Umberto I di profilo a sinistra. Nel campo, intorno alla testa: UMBERTO I -- RE
D’ITALIA. Sotto il taglio del collo: S.J. Cornicetta. Cambretta e nastro di seta con bande verticali più strette di colore bianco, al centro, e rosso e verde, ai lati, inframmezzate
da due più larghe di colore azzurro.
R/ Nel campo: VETERANI 1848-49 / -- / GUARDIA D’ONORE / ALLA TOMBA
DEL RE / VITTORIO EMANUELE II. Cornicetta.
AR, diam. 31; peso non rilevato; Civici musei di Brescia, inv. n. ME50208.
74.Anonimo, Medaglia del Comune di Brescia ai superstiti delle Dieci Giornate.
D/ Come al n. 41. Sulla fascetta: 1866.
R/ Come al n. 41. Nel campo: A / Colosio / Zosimo.
AE, diam. 39; Civici Musei di Brescia, inv. n. ME50205.
75.Anonimo, Stella a cinque punte del Comizio lombardo dei veterani 123.
D/ Stella a cinque punte con bottone centrato. Intorno, lungo l’orlo: COMIZIO REGIONALE LOMBARDO VETERANI; al centro: 1848 / AL / 1870. Appiccagnolo e
nastro di seta a due tricolori affiancati verticali con banda verde più larga al centro e
bande bianca e rossa ai lati.
R/ Liscio e anepigrafe.
AR, diam. 49; peso non rilevato; Civici musei di Brescia, inv. n. ME50206.
76. Giuseppe Tua, Il comitato piemontese lombardo ai veterani italiani per il cin-
78.Anonimo, Medaglia a forma di busto di Giuseppe Garibaldi.
D/ Profilo di tre quarti a sinistra del busto di Garibaldi con basco cilindrico ricamato sul capo. Appiccagnolo e nastro di seta con undici bande verticali azzurre e bianche
alternate.
R/ Liscio e anepigrafe.
AR, h. 36,5; larg. 29; peso non rilevato; Civici musei di Brescia, inv. n. ME 50209.
79.Anonimo, Medaglia per le guerre d’indipendenza e l’Unità d’Italia (segno
d’onore).
quantesimo anniversario del 1859.
D/ UMBERTO I RE D’ITALIA. Testa nuda del re con folti baffi di profilo a sinistra.
Cornicetta. Cambretta. Nastro di seta a due tricolori affiancati verticali con banda verde più larga al centro e bande bianca e rossa ai lati.
R/ Nel campo, al centro, entro corona di alloro allacciata in basso da un nastro: UNITÀ / D’ITALIA / 1848-1870. Cornicetta.
AR, diam. 32; peso non rilevato; Civici musei di Brescia, inv. n. ME50210.
D/ IL COMITATO -- PIEMONTESE LOMBARDO. L’Italia turrita, stante a destra,
poggia la sinistra sullo scudo Savoia e con la destra orna di fronde di palma e di alloro
un’ara a sinistra, con base decorata da tre cerchi intrecciati, fronte iscritta con le date
delle guerre del Risorgimento e sormontata da una stella radiata a cinque punte. Sull’ara:
1848 / 1855 / 1859 / 1860 / 1866 / 1870. In basso a destra, sotto lo scudo: TUA. Cornicetta. Cambretta e nastro di seta a due tricolori affiancati verticali con banda verde più
larga al centro e bande bianca e rossa ai lati.
R/ Nel campo: fregio caricato di una stella a cinque punte / AI VETERANI ITALIANI / A LIETO RICORDO / DELLA / CONQUISTATA UNITA’ / DELLA PATRIA
/ NEL / CINQUANT.° ANNIVERSARIO / DEL 1859 / nodo Savoia. In basso, sulla
tabella ansata che trattiene due fronde di alloro e quercia in forma di corona: SPQR.
Cornicetta.
AR, diam. 33,5; peso non rilevato; Civici musei di Brescia, inv. n. ME50207.
Al garibaldino bresciano Girolamo Serini (Brescia, 26 agosto 1824 - 4 gennaio 1887) appartiene il secondo medagliere qui presentato, che rientra nella
tipologia di quelli personali, corredati di solito del ritratto, in questo caso costituito da una fotografia del bresciano Cristoforo Capitanio. Girolamo fu tra
l’altro titolare della omonima fabbrica di fuochi d’artificio, esistente a Brescia
fin dal 1750 125.
Il Comizio lombardo dei veterani venne fondato nel 1875 con il proposito di consolidare i rapporti
fra i superstiti delle guerre del 1848-49, di essere d’aiuto morale e materiale agli iscritti e di onorare
la memoria dei commilitoni defunti. Direttori e poi presidenti furono Giuseppe Zanardelli (18751897), Luigi Carnelutti (1897), Guglielmo Carnelutti (1900, quando il Comizio fu denominato «sottocomizio») e Tancredi Peverati (1906). Queste poche notizie sono tratte da Enciclopedia Bresciana,
II, cit., p. 313.
Per l’inquadramento storico di questa rara medaglia, istituita da Umberto I il 14 luglio 1879 e la cui
esposizione venne ulteriormente regolamentata con il decreto del 1º gennaio 1880, si veda A. Tassini, Con valore e con onore…, cit., p. 132. L’esemplare qui presentato risulta emesso dallo stabilimento
Johnson di Milano, al contrario della più comune medaglia coniata da Giovanni Giani.
125
Enciclopedia Bresciana, XVII, La Voce del Popolo, Brescia 2001, p. 170.
123

124

D/ Forma irregolare con profilo che segue la composizione costituita da armi tra cui
una coppia di fucili e di sciabole decussate il tutto caricato di una corona con fronde
d’alloro e quercia annodate in basso da un nastro e desinenti in un cappello dei Cacciatori delle Alpi. Cartiglio in basso. Nel campo, al centro: REDUCI / P . B . / E / SEZ.
A[rmata] . N[azionale] . Sul cartiglio: BRESCIA . E PROV. Cambretta e nastro di seta
a undici bande verticali azzurre e bianche alternate.
R/ Cavo e, in negativo, si leggono le iscrizioni del D/.
Alluminio, h. 49; larg. 41,5; Civici musei di Brescia, inv. n. ME50214.
83.Anonimo, Medaglia a forma di busto di Giuseppe Garibaldi.
D/ Profilo di tre quarti a sinistra del busto di Garibaldi come al n. 78. Appiccagnolo e
nastro di seta due bande verticali azzurra e bianca affiancate.
R/ Iscrizione su dieci righe: RICORDO / DELL’EROE DEI / DUE MONDI, / APOSTOLO DELLA / LIBERTÀ / DE POPOLI, / DUCE DEI MILLE, / LEONE DI
CAPRERA. / N. IL 4 LUGLIO 1807 / M. IL 2 GIUGNO 1882.
AE argentato, h. 36,5; larg. 29; Civici musei di Brescia, inv. n. ME50213.
Fig. 50
d. Medagliere di Girolamo Serini 126 (fig. 50).
Gelatina a sviluppo su cartoncino rettangolare (165 x 110) corredato di quattro medaglie, di cui tre sono trattenute da una barretta metallica e l’ultima appuntata sotto
quella centrale.
Da sinistra si riconoscono:
80.Anonimo, Medaglia per le guerre d’indipendenza e l’Unità d’Italia (segno
d’onore).
D/ UMBERTO I RE D’ITALIA. Testa nuda del re con folti baffi di profilo a sinistra.
Cornicetta Cambretta. Nastro di seta a due tricolori affiancati verticali con banda verde più larga al centro e bande bianca e rossa ai lati.
R/ Come al n. 39.
AR, diam. 32; peso, 12,03; Civici musei di Brescia, inv. n. ME50211.
81.Anonimo, Medaglia per le guerre d’indipendenza e l’Unità d’Italia (segno
d’onore).
D/ VITTORIO EMANUELE II RE D’ITALIA. Testa nuda del re di profilo a sinistra. Cornicetta. Appiccagnolo. Nastro di seta a sei bande tricolori verticali. Sulla fascetta: 1866.
R/ Come al n. 38.
AR, diam. 32; peso, 17,59; Civici musei di Brescia, inv. n. ME3417.
82.Anonimo, Placca della sezione bresciana dei Reduci delle patrie battaglie.
Civici musei d’arte e storia di Brescia (inv. n. FT 216); citato anche in L’Italia degli italiani, cit., p.
42.
126

Il terzo medagliere è dedicato al maggiore Gaetano Panazza (Novara, 4 febbraio 1836 - Brescia, 23 dicembre 1894), uomo d’armi ma anche filantropo dotato di nobiltà d’animo e notevole sensibilità culturale. La sua carriera militare,
iniziata nel 1859, lo portò a partecipare agli assedi di Ancona e Gaeta, a combattere il brigantaggio negli Abruzzi, in Molise e in Lucania e a prendere parte alla Terza guerra d’indipendenza dopo la quale ottenne il grado di capitano.
Ufficiale del 36º reggimento di fanteria, di cui scrisse la storia 127, fu trasferito a
Brescia dove risiedette stabilmente a Sant’Eufemia della Fonte per essere collocato in posizione ausiliaria nel 1882 e successivamente in riserva, acquisendo il
grado di maggiore. Nel 1887 fu insignito della croce di Cavaliere della Corona
d’Italia e nel 1893 del titolo di Cavaliere dei SS. Maurizio e Lazzaro 128.
Anche in questo caso le medaglie fanno corona al ritratto fotografico in una
montatura corniciata e sotto vetro.
Gaetano Panazza, Memorie del 36º reggimento fanteria, Stab. tip. lit. F. Apollonio, Brescia 1882. A
lui si devono altri scritti (L’ore d’ozio, Stab. tip. di A. Mucci, Siena 1866), tra cui il testo della commemorazione ufficiale del dodicesimo anniversario della morte di Vittorio Emanuele II, tenuta presso
la Crociera di San Luca il 12 gennaio 1890 (Arnaldo D’Aversa, Gaetano Panazza uomo d’armi e filantropo, 113 anni fa, in Scritti in onore di Gaetano Panazza, Ateneo di Brescia - Comune di Brescia,
Brescia 1994, pp. 451-455).
128
Enciclopedia Bresciana, XII, La Voce del Popolo, Brescia 1996, p. 45.
127

R/ Croce greca patente in smalto bianco caricata di un bottone con aquila coronata in
smalto nero e scudetto Savoia in smalto rosso e bianco su fondo oro. Fra i bracci della
croce quattro nodi Savoia in oro.
AU e smalto; h. 36; larg. 34; peso, 9,51; coll. privata.
85. Albert-Désiré Barre, Campagna d’Italia di Napoleone III (segno d’onore).
D/ Come al n. 24.
R/ Come al n. 24.
AR, diam. 30,7; peso 15,9; coll. privata.
86.Anonimo, Insegna di Cavaliere dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro (ono-
rificenza) 131.
D/ Croce di san Maurizio di smalto bianco da cui fuoriescono quattro bracci in smalto
verde. Appiccagnolo e nastro di seta verde.
R/ Come al D/.
AU e smalto; h. 3,9; larg. 3,7; peso, 10, 02; coll. privata.
Fig. 51
e. Medagliere di Gaetano Panazza 129 (fig. 51).
Albumina su carta rettangolare in montatura ovale di panno in velluto rosso su cui sono appuntate tre medaglie e due onorificenze.
Oltre ai segni d’onore per le guerre d’indipendenza e l’Unità d’Italia a firma di Demetrio Canzani (n. 38) e di Filippo Speranza (n. 39) si riconoscono in
basso, da sinistra a destra, anche:
84.Anonimo, Insegna di Cavaliere dell’Ordine della Corona d’Italia (onorificen-
za) 130.
D/ Croce greca patente in smalto bianco caricata di un bottone con Corona Ferrea su
campo di smalto blu. Fra i bracci della croce quattro nodi Savoia in oro.
Collezione privata.
130
L’Ordine venne istituito da Vittorio Emanuele II il 20 febbraio 1868, da concedersi a cittadini italiani o stranieri benemeriti. Esso costituiva, di norma, premessa indispensabile per il conferimento
dell’Ordine Mauriziano e si divideva in cinque classi: Cavalieri, Ufficiali, Commendatori, Grandi
Ufficiali e Cavalieri di Gran Croce. Fu soppresso il 3 marzo 1951, ma continuò ad essere conferito
sporadicamente da Umberto II fino al 1983, anno della morte dell’ultimo re d’Italia (A. Tassini, Con
valore e con onore…, cit., p. 105).
129

L’ultimo medagliere è quello più problematico e che, in base a un’accreditata
tradizione, sarebbe dovuto appartenere a Giovanni Ferrari (Brescia 1817 - Novara
1871), già soldato nell’esercito austriaco e congedato nel 1846 come caporale. Secondo altri dati della sua biografia 132, nel 1848 riprese le armi come sottotenente
al servizio del Governo provvisorio bresciano divenendo aiutante di campo del
generale Giovanni Durando e guadagnandosi i gradi di capitano. Passato in Piemonte, prese parte alla campagna del 1849 contro gli austriaci con la divisione
lombarda nel battaglione bersaglieri comandato da Luciano Manara, col quale
partecipò alla difesa di Roma, e l’8 maggio fu ferito a Palestrina e decorato di
medaglia d’argento dal Governo della Repubblica.
Dopo l’esilio forzato, nel 1859 fu capitano del 1º Cacciatori delle Alpi, meritandosi la medaglia d’argento per la sua eroica partecipazione alla battaglia di
San Fermo. Dimessosi poco dopo aver conseguito il grado di maggiore, raggiunse nel 1860 Garibaldi nell’Italia meridionale: fu nominato luogotenente colonnello capo di Stato maggiore della 17ª divisione e prese parte al combattimento
L’Ordine è il risultato della fusione dell’Ordine Cavalleresco e Religioso di san Maurizio e dell’Ordine per l’Assistenza ai Lebbrosi di san Lazzaro avvenuta il 22 gennaio 1573 per volere del duca Emanuele Filiberto di Savoia. Nel 1831 Carlo Alberto lo aprì anche ai non nobili suddividendolo in tre
classi, poi portate a cinque da Vittorio Emanuele II nel 1855 e ridefinite due anni più tardi: Cavalieri, Ufficiali, Commendatori, Grandi Ufficiali e Cavalieri di Gran Croce (A. Tassini, Con valore e con
onore…, cit., pp. 106-107).
132
Dizionario del Risorgimento Nazionale, III, cit., s.v.; Enciclopedia Bresciana, IV, cit., p. 128.
131

di Sant’Angelo e alla battaglia del Volturno, per la quale fu decorato della croce
dell’Ordine militare di Savoia.
Entrato nell’esercito nazionale col grado di colonnello, comandò il 16º fanteria e poi la brigata Regina nella campagna del 1866. Morì a Novara, ancora in
servizio, quando rivestiva il grado di maggior generale. Fra le altre onorificenze fu insignito della medaglia d’argento dei benemeriti della salute pubblica in
occasione del colera del 1867-68 in Messina.
Tuttavia, a un esame più dettagliato delle medaglie e delle onorificenze che
seguono, si pongono in essere alcune contraddizioni. La prima riguarda il n. 91
che è in bronzo, anziché d’argento come ricordato nella citata voce del Dizionario del Risorgimento Nazionale. Inoltre, sempre dalla medesima fonte, risulta
che Ferrari sia morto a 53 anni (nel 1871), mentre sul medagliere in esame compare l’onorificenza n. 92, espressamente istituita da Umberto I dopo il 1884, cioè
tredici anni dopo la presunta scomparsa del garibaldino Al momento, risulta
difficile dirimere entrambe le questioni, forse nate da dati imprecisi a disposizione dello Schiarini quando curò la nota del Dizionario.
e. Medagliere di Giovanni Ferrari (?) 133 (fig. 52).
Entro cornice di legno (640 x 495) panno rettangolare di velluto nero (477 x 345) ricamato con un serto di foglie e fiori su cui sono appuntate sei medaglie.
Fig. 52
R/ Croce greca patente aguzzata in smalto bianco caricata di un bottone con scudetto Savoia al centro, circondato da una iscrizione in oro su campo rosso: AL MERITO
MILITARE. Fra i bracci corona d’alloro in smalto verde.
AU e smalto, h. 3,8; larg. 3,4; peso non rilevato; Civici musei di Brescia, inv. n.
ME50193 135.
Dall’alto in basso si riconoscono:
87.Anonimo, Insegna di Cavaliere dell’Ordine Militare di Savoia (onorificenza) 134.
D/ Croce greca patente aguzzata in smalto bianco caricata di un bottone con due sciabole incrociate, iniziali di Vittorio Emanuele e data in oro su campo rosso: 1855 / V -E. Fra i bracci corona d’alloro in smalto verde. Appiccagnolo e nastro di seta a bande
verticali blu, ai lati, e rossa, al centro.
Civici musei d’arte e storia di Brescia (inv. n. RS 24).
L’Ordine fu una benemerenza del Regno di Sardegna, prima, e del Regno d’Italia, poi. Nel 1855
venne riformato dal gen. Durando su incarico di Vittorio Emanuele II e, con l’ingresso nel sistema
delle onorificenze del Regno d’Italia, esso venne modificato nelle classiche cinque classi di benemerenza: Milite o Cavaliere, Ufficiale, Commendatore, Grand’ufficiale, Cavaliere di Gran Croce. La
riforma prevedeva che l’Ordine potesse venire assegnato a cittadini italiani e stranieri per fatti bellici
e, in tempo di pace, per benemerenze o servizi resi all’amministrazione militare. Si stabilì anche il
conferimento «sul campo», alla bandiera dei Reggimenti e, infine, anche all’Arma. Fu soppresso il
2 gennaio 1947 e trasformato nell’Ordine Militare d’Italia (A. Tassini, Con valore e con onore…, cit.,
pp. 104-105).
133
88.Anonimo, Medaglia dei Mille 136
D/ Come al n. 31. Nastro di seta rosso bordato di giallo con simbolo della Trinacria in
argento.
R/ Come al n. 31.
AR, diam. 31; peso non rilevato; Civici musei di Brescia, inv. n. ME50194 137.
89.Albert-Désiré Barre, Campagna d’Italia di Napoleone III (segno d’onore).
134

D/ Come al n. 24. Sulla fascetta: 1859.
L’Italia degli italiani, cit., p. 43.
Questo esemplare è stato prodotto dallo stabilimento Johnson di Milano e, a differenza di quello
di Giuseppe Barone, ha i caratteri delle scritte più grandi e la dicitura sul D/ inizia e finisce sotto il
cartiglio retto dall’aquila, anziché iniziare e terminare alla stessa altezza del medesimo.
137
L’Italia degli italiani, cit., p. 43.
135
136

R/ Come al n. 24.
AR, diam. 30,7; peso non rilevato; Civici musei di Brescia, inv. n. ME50195.
90.Demetrio Canzani, Medaglia per le guerre d’indipendenza e l’Unità d’Italia
(segno d’onore).
D/ Come al n. 38. Sulla fascetta: 1859.
R/ Come al n. 38.
AR, diam. 32; peso non rilevato; Civici musei di Brescia, inv. n. ME50196 138.
91. Attilio Silvio Motti, Medaglia di Vittorio Emanuele II ai benemeriti di salute
pubblica (segno d’onore) 139.
D/ VITTORIO EMANUELE RE D’ITALIA. Testa nuda a sinistra del re. Sotto il taglio del collo: A.M. INC. Appiccagnolo e nastro di seta cilestre bordato di nero.
R/ AI BENEMERITI DELLA SALUTE PUBBLICA. Nel campo, corona costituita da
due fronde di alloro e di quercia annodate in basso con un nastro.
AE, diam. 35; Civici musei di Brescia, inv. n. ME50197 140.
92. Carlo Moscetti, Medaglia di Umberto I ai benemeriti di salute pubblica (segno
d’onore) 141.
D/ UMBERTO I -- RE D’ITALIA. Testa nuda a destra del re. Sotto il taglio del collo:
C. MOSCETTI. Appiccagnolo e nastro di seta cilestre bordato di nero.
R/ Stellina a cinque punte AI BENEMERITI DELLA SALUTE PUBBLICA. Nel camIbidem.
A seguito dell’epidemia di colera che fra il 1866 e il 1867 aveva particolarmente colpito le regioni
meridionali, con R.D. del 28 agosto 1867 n. 3872 Vittorio Emanuele II istituì «una medaglia destinata
a premiare le persone che si rendono in modo eminente benemerite in occasione di qualche morbo
epidemico pericoloso, sia prodigando personalmente cure ed assistenze agli infermi, sia provvedendo
ai servizi igienici ed amministrativi, ovvero ai bisogni materiali e morali delle popolazioni travagliate
dal morbo, e massimamente quando non ne correva loro, per ragioni d’ufficio o di professione, un
obbligo assoluto e speciale». L’onorificenza, prevista nei tre gradi canonici (oro argento e bronzo) era
conferita «per decreto reale» sulla proposta del ministro dell’Interno, in seguito al parere d’una commissione composta dal prefetto o dal sottoprefetto, dal presidente del Tribunale civile e correzionale,
dal procuratore del re e dal sindaco di ciascun capoluogo di circondario, nonché di un delegato del
ministro dell’Interno che faceva le veci di segretario e aveva voto. Della decorazione esistono due varianti anonime di diametro leggermente più piccolo con differenze nella forma delle ghiande e dei
rami di alloro. L’altra variante conosciuta è prodotta dallo stabilimento di Stefano Johnson di Milano
e si differenzia principalmente per avere al rovescio le scritte in latino.
140
L’Italia degli italiani, cit., p. 43.
141
L’onorificenza venne istituita nel 1876, ma l’esemplare qui presentato si riferisce all’emissione del
1884. Essa fu determinata a seguito di una nuova epidemia di colera che aveva colpito in particolare Napoli e il Sud d’Italia e si avvalse della normativa vigente in base al R.D. del 28 agosto 1867 n.
3872 e al successivo dell’11 novembre 1884 n. 2773. L’epidemia fu debellata alla fine del 1887, benché
alcuni casi sporadici si siano registrati anche l’anno seguente.
138
Fig. 53
Fig. 55
po, entro corona costituita da due fronde di quercia annodate in basso con un nastro: ANNO / 1884.
AE, diam. 35; Civici musei di Brescia, inv. n. ME50198 142.
Presso le raccolte numismatiche dei Civici musei d’arte e storia di Brescia, isolate dall’insieme qui descritto, oltre alla medaglia per la liberazione della Sicilia
(n. 34), esistono altre onorificenze che risultano attribuite a Giovanni Ferrari: una
seconda copia della croce di Cavaliere dell’Ordine Militare di Savoia, la Croce di
Cavaliere della Corona d’Italia e quella di Cavaliere dei SS. Maurizio e Lazzaro.
93.Anonimo, Insegna di Cavaliere dell’Ordine Militare di Savoia (onorificenza)
(fig. 53).
139

Fig. 54
D/ Come al n. 87.
R/ Come al n. 87.
AU e smalto; alt. 3,9; larg. 3,6; peso 9,89; Civici musei di Brescia, inv. n. ME50017.
94.Anonimo, Insegna di Cavaliere della Corona d’Italia (onorificenza) (fig. 54).
D/ Come al n. 84.
R/ Come al n. 84.
AU e smalto; alt. 3,7; larg. 3,4; peso 9,51; Civici musei di Brescia, inv. n. ME50018.
95.Anonimo, Insegna di Cavaliere dell’Ordine dei santi Maurizio e Lazzaro (ono-
rificenza) (fig. 55).
D/ Come al n. 86.
R/ Come al n. 86.
AU e smalto; alt. 3,9; larg. 3,7; peso 10,63; Civici musei di Brescia, inv. n. ME50014.
L’Italia degli italiani, cit., p. 43.
142

Anche per questi pezzi mancano, al momento, dettagli documentali specifici che comprovino la loro effettiva appartenenza a Ferrari la cui personalità,
in ogni caso, mantiene un ruolo di primo piano fra i patrioti e i combattenti
bresciani per la causa italiana. È da ritenersi assolutamente improbabile, invece, l’attribuzione della croce di anzianità di servizio 143, dal momento che essa fu
istituita da Vittorio Emanuele III con R.D. dell’8 novembre 1900 a favore degli ufficiali con almeno 25 anni di servizio. In questo caso i soli dati anagrafici
eliminano qualsiasi dubbio.
Civici musei d’arte e storia di Brescia (inv. n. ME50007).
143

17 marzo 1861 a Brescia
Marcello Berlucchi*
Ci sono delle date nella storia dei popoli che si imprimono profondamente
nella memoria e non vengono facilmente dimenticate. Nessun francese dimenticherà il 14 luglio (1789) e la presa della Bastiglia, inizio della Grande Rivoluzione Illuminista; nessun americano dimenticherà il 4 luglio (1774) quando i
rappresentanti delle 13 colonie approvarono insieme, nella Sala della Town Hall
di Philadelphia, la dichiarazione di Indipendenza dalla Corona britannica.
Per venire a tempi più recenti, la Repubblica Italiana ha identificato la sua
nascita con la data del referendum del 2 giugno 1946. Quest’anno, 150º anniversario dell’Unità d’Italia, si è posto il problema di identificare l’avvenimento
con una data e si è scelta quella del 17 marzo 1861 coincidente con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale del Regno della legge più breve della nostra storia, quella costituita da un solo articolo che dice: «Il Re Vittorio Emanuele II
assume per sé e suoi successori il titolo di Re d’Italia».
Si potrebbe discutere a lungo sulla scelta, in realtà molto burocratica, di
questo giorno come simbolo dell’Unità: molto maggior titolo poteva avere, per
esempio, la data della 1ª sessione del Parlamento italiano (18 febbraio) uscito
dalle elezioni del dicembre.
Se vogliamo fare un paragone con la data del 2 giugno 1946 scelta per la nascita della Repubblica, vedremo che quella data indicava il giorno delle votazioni per il referendum, non già la data successiva di pubblicazione dell’esito dello
stesso, che come si sa fu molto travagliato.
Venendo al nostro argomento, per sapere quello che successe a Brescia nella
data fatidica del 17 marzo 1861 dobbiamo consultare i giornali dell’epoca, segnatamente la «Sentinella Bresciana» che contava ormai 13 anni di vita. I giornali
allora uscivano anche la domenica ma non nei giorni successivi alle festività. Il
17 marzo era domenica e perciò le notizie relative a quella giornata bisogna leggerle sul numero di martedì 19 marzo.
* Socio dell’Ateneo di Brescia; consigliere del Comitato di Brescia dell’Isri.

Sulla «Sentinella» di domenica 17 marzo la prima pagina era occupata integralmente da un lungo articolo (che sarebbe continuato anche sul numero successivo) del canonico Pietro Tiboni dedicato alla “Questione Romana”. Si sa
che, dopo avere vinto la scommessa sull’Unità, Cavour sapeva bene che mancavano ancora due pezzi al compimento dell’opera, cioè Roma e le Venezie (come
si diceva allora). Il grande statista piemontese non avrebbe visto la soluzione né
dell’uno né dell’altra.
L’articolo di mons.Tiboni confermava la fama di alta dottrina del sacerdote,
esponente del clero liberale bresciano, membro del Governo provvisorio del 184849 e proprio allora in procinto di diventare presidente dell’Ateneo cittadino (186264). Egli riferiva l’opinione di Bernardo di Chiaravalle, famoso monaco e filosofo
dell’XI secolo il quale, rivolgendosi a papa Eugenio III, un tempo suo discepolo,
ricordò che i romani riconoscevano nel papa il pontefice sommo ma volevano governarsi civilmente da sé, tanto che avevano creato allora i consoli e il senato.
Nella seconda parte del lungo studio mons. Tiboni ricordava l’insegnamento di san Bernardo il quale diceva che non risulta che Pietro uscisse in pubblico
ornato di gemme o vestito di seta o coperto d’oro su un cavallo bianco: per cui,
in queste usanze, si poteva dire che il papa era succeduto non a Pietro ma a Costantino imperatore, onde, concludeva il santo, «consulo tolleranda pro tempore
non affectanda pro debito» (ti consiglio che sono cose valide per un certo tempo
ma non da considerarsi debito perenne). Come si vede, l’articolo di mons.Tiboni era decisamente contro il potere temporale del papa riconfermando così
la fede liberale del suo estensore.
In quella domenica 17 marzo la «Sentinella» riportava con ampiezza un resoconto dei lavori del Parlamento, sia del Senato, ove si discuteva del progetto di
legge sull’istruzione elementare, sia della Camera, ove ci fu la richiesta e interpellanza del deputato Audinot sulla questione di Roma: il presidente del Consiglio Cavour «accetta volentieri l’interpellanza e dichiara di essere disposto a
rispondere dopo le interpellanze già fissate, venerdì o anche giovedì se ve ne sarà
tempo». Questa semplice nota è di grande interesse perché sarà rispondendo a
questa interpellanza che nel dibattito parlamentare del 25 marzo il conte di Cavour formulerà le linee direttive della politica italiana nei confronti del problema romano, sia per quanto riguarda i rapporti con la Chiesa («Libera chiesa in
libero Stato») sia nei confronti di Roma capitale (o.d.g. Boncompagni approvato all’unanimità dalla Camera, ove si auspicava che appunto Roma, capitale
acclamata dall’opinione nazionale, fosse congiunta all’Italia).
Quando si dice che l’Unità d’Italia non è stata l’invenzione di pochi ma corri
spondeva a un sentimento nazionale diffuso, si potrebbero portare come riprova
le notizie riportate dalla «Sentinella». Una corrispondenza dal Veneto informa
che a Padova il giorno 14 era previsto un affollatissimo intervento di popolo a
una messa nel santuario di Sant’Antonio, ma il comando militare austriaco che
temeva disordini fece occupare la piazza dalle truppe e pattugliare l’intera città:
inutilmente, perché «i cittadini prudenti si ritirarono alle loro case ed accorsi
alle finestre si posero a smascellarsi dalle risa per gli apprestamenti militari». Ancor più il patriottico Friuli forniva prove di italianità: nella città di Udine erano
esposte bandiere tricolori sui balconi tanto che «pareva una città redenta».
Interessanti anche le notizie di ordine militare, secondo cui molte truppe austriache erano concentrare al Po sguarnendo le posizioni del Mincio: gli ordini
del giorno all’armata «vogliono far credere ad una prossima riconquista di tutta
l’Italia ed altri siti, ma neppure il gregario crede ormai a queste fanfalucche». Vi
furono perquisizioni nelle caserme per rintracciare proclami intesi a eccitare il
sentimento delle nazionalità all’interno del crogiolo rappresentato dall’esercito
imperiale, e i giornali ungheresi, diretti ai soldati dei corpi di quella nazionalità, venivano trattenuti dalla posta. Seguendo una politica più volte applicata
dallo Stato maggiore austriaco, si parlava della fusione di reggimenti ungheresi
con reggimenti di altra nazionalità.
Vi sono notizie anche sulle elezioni amministrative nel «Tirolo italiano»,
cioè nel Trentino. Le nomine furono quasi tutte in senso liberale e a Riva del
Garda fu proclamato podestà il dott. Baruffaldi, a Rovereto il sig. Battista, ad
Arco risultarono esclusi tutti i candidati austriacanti. Anche a Trento erano attesi gli stessi risultati.
Fra le notizie diverse è interessante quella relativa a un disegno di legge da
presentarsi al Parlamento, con la disposizione di riunire e celebrare nella prima
domenica di giugno la festa dello statuto e quella della proclamazione del Regno d’Italia.
L’occupazione dell’Italia centrale e meridionale da parte delle truppe di Cialdini come conseguenza dell’impresa dei Mille era ancora in corso e la resistenza
delle guarnigioni di Messina e di Civitella del Tronto in Abruzzo continuava.
La resa della Cittadella di Messina sarebbe avvenuta pochi giorni dopo.
Divertente è l’episodio di Lord Seymour a Venezia il quale reagì bruscamente
alle visite della Finanza austriaca, sferrando un pugno al mento di uno dei doganieri e chiamandolo vile sgherro. L’offesa alla dignità del nobile Lord fece sì che
parlando ad alta voce e in perfetto italiano egli disse al commissario di polizia
«essere il governo austriaco peggiore di quello turco e non mentono i giornalisti

quando riportano le vessazioni praticate ai forestieri». Come si vede, il turismo
di classe non era particolarmente favorito dal governo austriaco.
Un settore interno del giornale contiene un paio di colonne di cronaca della provincia. Il Comune di Rezzato organizzò spari di mortaretti e falò festivi
per la festa con rivista della Guardia nazionale eseguita dal sindaco. Il dettaglio
divertente è che lo stesso sindaco, memore di aver passato la sua gioventù sotto
le gloriose bandiere dell’Impero, apprezzava e favoriva l’istituzione della milizia
cittadina. Il giorno natale di re Vittorio, 14 marzo, fu festeggiato a Chiari con
un Te Deum nella parrocchiale di San Faustino. Anche qui si tenne la rivista
della Guardia nazionale, e un appunto del giornale segnala la scarsa presenza
dei militi, domandandosi se i cittadini di Chiari non abbiano ancora compreso
«che se questo è dovere come difesa della Patria è pure diritto di ogni cittadino
come guarentigia della libertà?».
La cronaca cittadina è ancora più scarna. Vi si dà notizia del funerale di
una persona importante, Cesare Da Ponte, accompagnato da una compagnia
di truppa regolare, dal sindaco, da due bande musicali: poiché la salma veniva
da fuori, il corteo mosse dalla stazione fino alla chiesa delle Grazie. Membro di
una nota famiglia cittadina che aveva casa in fondo a via Santa Chiara, Cesare
Da Ponte era caduto eroicamente nella lotta contro il brigantaggio meridionale,
crivellato di colpi a Bauco in Terra di Lavoro, mentre guidava i suoi bersaglieri
all’assalto. Della stessa famiglia si può ricordare Giovita, cugino di Giovita Scalvini, che manifestò entusiasmo per il proclama di Rimini di Gioacchino Murat,
subendo le conseguenze di un’occhiuta attenzione della polizia austriaca, e il critico dell’arte bresciana Pietro, morto alla fine della guerra mondiale.
È interessante invece la notizia riguardante Francesco Nullo, che si occupava
di viticoltura, preoccupato per la diffusa malattia delle viti, giudicata una idropisia della pianta. Il rimedio era la paracentesi, «ossia un foro in senso obliquo
da praticarsi vicino al piede della pianta e da attuarsi non più tardi del mese di
marzo». Gli esperimenti sembra avessero avuto successo e l’autore proseguiva nei
suoi studi. Per quanto è dato capire in termini moderni, doveva trattarsi di una
malattia della parte legnosa della vite, perché la terribile peronospera o fillossera
che distrusse i vigneti di mezzo mondo non si era all’epoca ancora manifestata.
La questione dell’intervento pubblico nell’economia privata è molto antica e
ne troviamo un bell’esempio sulla «Sentinella» del giorno a proposito della materia urbanistica. Il giornale aveva lanciato l’idea della costituzione di una società
per azioni, «la qual si proponga di fabbricare le case della contrada Rossovera ed
adiacenti sopra un modello determinato per indi rivenderle, onde abbiano a di
venire case d’affitto pel popolo». A quanto pare la proposta non ebbe seguito, ma
è comprensibile il legittimo orgoglio con cui essa viene riportata sulla «Perseveranza» e riferita a Milano, ove addirittura il sindaco aveva sottoscritto dieci azioni
della istituenda società. Il giornale bresciano consigliava al Municipio di Brescia
«di farsi a imitazione di quello di Milano» promotore della società. Evidentemente i comparti e consorzi edilizi della nostra legislazione urbanistica e l’idea stessa
di edilizia economica e popolare possono vantare antecedenti secolari.
Si dà notizia anche della nuova iniziativa assunta dal cav. Riedingher per l’installazione dei cronometri elettromagnetici, cioè degli orologi pubblici. L’idea
dell’inventore era quella di approfittare degli scavi per la posa dei tubi del gas
collocando fili elettrici collegati a una batteria posta nell’officina del gas. Anche
in questo caso il giornale esortava l’imprenditore a non tardare a mettere in esecuzione la sua bella idea, «bramando vivamente che la nostra Brescia vadi fregiata
fra le prime di quanto la scienza e l’arte sa produrre a beneficio della società».
Vi sarebbero molte altre cose da aggiungere fra cui la notizia da Parigi di trattative in corso per Roma, con l’intervento dell’autorevole Revue Europeenne,
di ispirazione bonapartista, la quale definiva l’occupazione della città di Roma
(nel ’49) come un dovere d’onore che non può durare indefinitamente senza
divenire un protettorato. Questo per dire che anche a Parigi le opinioni circa la
difesa a oltranza dello Stato pontificio erano per lo meno variegate.
La rubrica dedicata al corso dei cambi dimostra chiaramente la difficoltà
di orientarsi fra le lire italiane, gli scudi e i ducati del regno borbonico e le lire
austriache. I bresciani, se volevano divertirsi, potevano andare al Teatro Grande ove si rappresentava Redenzione, «commedia nuovissima» del sig. Feuillet, il
medesimo autore dell’applaudita (e lagrimevole) produzione Il romanzo di un
giovane povero.
Sul numero successivo – di martedì 19 marzo perché, come già ricordato,
lunedì il giornale non usciva – colpisce in prima pagina la pubblicazione della
legge costituita da un articolo unico secondo cui «il Re Vittorio Emanuele II
assume per sé e suoi successori il titolo del Re d’Italia». Si può ricordare che la
legge era di iniziativa governativa perché probabilmente Cavour non voleva deviazioni pericolose per la politica estera. Nella relazione che accompagnava la
legge per la Camera, l’on. Gianbattista Giorgini aveva usato giusti toni retorici:
«Ci sono delle oasi nei deserti della storia; ci sono, nella vita delle nazioni, momenti solenni nei quali l’anima, assorta nel presente, si chiude ai rammarichi
del passato come alle preoccupazioni dell’avvenire […] qui finalmente si levi
l’aspettata fra le nazioni e dica forte io sono l’italia».

La stessa formula impiegata non andò esente da critiche in Parlamento: Lorenzo Pareto disse che sarebbe stata migliore la formula «Re degli Italiani», forse senza accorgersi del richiamo storico al «Roi des Français» utilizzato nel 1830
da Luigi Filippo. Ma Cavour rispose, con una bella frase, che l’iniziativa della
legge non era stata presa dal Governo né dal Parlamento, ma dal popolo «che a
quest’ora intende salutarlo e lo ha già salutato per sempre come Vittorio Emanuele II Re d’Italia».
La prima pagina conteneva poi la seconda parte del lungo articolo sulla
questione romana di mons. Tiboni e un’interessante anticipazione sulla prima
esposizione italiana in Firenze prevista per settembre, in relazione ai prodotti
agricoli, industriali e delle belle arti d’Italia. Vale la pena di riportare alcune frasi dell’articolo, che sottolinea il valore unificatorio di questa prima esposizione
nazionale: «I membri della gran famiglia italiana tenuti sì a lungo divisi da un
municipalismo coltivato ad arte, si troveranno allora riuniti a festa e si vedranno con quella gioia con cui si abbracciano i fratelli che spartiti da gran tempo
in lontana emigrazione un bel dì si ricongiungono tutti nel casolare paterno”.
Le rubriche parlamentari del giornale, sempre ben informate, riportano che
alla Camera continua la discussione sul progetto di legge per l’istruzione elementare, stavolta con riguardo ai territori dell’Emilia. Così risultano già approvati gli articoli iniziali che fanno obbligo ad ogni Comune di avere «almeno una
scuola maschile e una femminile per l’istruzione elementare di grado inferiore».
È interessante che tra le materie fosse compreso l’insegnamento religioso oltre a
lettura, scrittura, aritmetica elementare, lingua italiana e nozioni elementari del
sistema metrico (art. 4). Com’era prevedibile si accese una discussione accanita
sull’istruzione religiosa (art. 8) e finalmente, dopo lungo travaglio, fu adottata la formula secondo cui «il parroco ha facoltà di esaminare gli allievi e allieve
cattoliche nelle materie dell’istruzione religiosa, nel tempo e modi da stabilirsi
col sindaco». Tutto ciò che sottintende la formula faticosamente approvata dalla
Camera è intuitivo per il lettore d’oggi. Evidentemente la formula cavourriana
«libera Chiesa in libero Stato» non era poi così facile da applicare nella realtà
di ogni giorno.
Nella rubrica dedicata alle corrispondenze c’era notizia da Verona, la principale fortezza del Quadrilatero austriaco in Italia, sull’arresto di un ufficiale
ungherese avvenuto in uno dei caffè di piazza Bra perché ritenuto autore della
diffusione di una miriade di biglietti fra i soldati su cui era stampato «Viva Vittorio Emanuele e Garibaldi liberatori dell’Ungheria». In altre località del Veneto
(Conegliano) erano stati sparsi per la città cartelli con l’iscrizione «Viva Vittorio

Emanuele Re d’Italia», suscitando grande rabbia e l’intervento immediato della polizia austriaca. Addirittura a Ceneda e Serravalle (le due località che dopo
il 1918 si chiameranno Vittorio Veneto) comparvero 12 bandiere tricolori, una
grandissima di seta con ricamato sopra «Viva Vittorio Emanuele Re d’Italia» e
lo stemma di casa Savoia. Gli ignoti patrioti presero a gabbo la polizia affiggendo alcuni dei cartelli sulle mura del posto di guardia.
Le notizie dall’estero erano molte e importanti. Ancora dal Veneto (che faceva parte dell’Austria) si riportavano notizie sugli apprestamenti dell’esercito austriaco che risultavano preoccupanti. Vi fu un corpo di oltre 100 guide da campo arrivato a Verona e poi spedito sulle linee del Mincio e del Po; arrivarono da
Vienna telegrafi da campo e lanterne per le esplorazioni notturne; fu nominato
l’intendente generale d’armata come in tempo di guerra.
Nella rubrica della cronaca della città c’è una notizia importante: sabato sera (cioè il giorno 16 marzo) era partita alla volta di Torino la Deputazione del
nostro Municipio incaricata di fare a nome della città omaggio a Vittorio Emanuele re d’Italia. Era composta dal sindaco Diogene Valotti e dagli assessori dott.
Antonio Legnazzi e barone Girolamo Monti. Lunedì 18 marzo a mezzogiorno
101 colpi di cannone dal Castello annunciarono solennemente alla nostra popolazione la proclamazione del Regno italiano. Alla sera le bande musicali, seguite da una immensa folla di popolo, allietarono le principali vie della città
con i loro concerti.
Mentre si svolgevano queste giuste manifestazioni di giubilo, il neonato Regno d’Italia non era ancora riconosciuto in campo internazionale. I primi a effettuare il riconoscimento furono gli inglesi e gli svizzeri (30 marzo) poi il presidente Lincoln degli Usa (13 aprile) e infine, superate non senza fatica nuove
difficoltà sorte rispetto al problema romano, la Francia di Napoleone III (12
luglio).
La spedizione del generale Cialdini al sud era agli sgoccioli e il giornale dà
notizia che le truppe avevano avuto l’ordine di apparecchiarsi a partire per Bologna, lasciando un solo reggimento di fanteria della brigata Bergamo a presidio di Gaeta. A Londra intanto si discuteva nella Camera dei Comuni di un
argomento che stava comprensibilmente molto a cuore all’ammiragliato britannico, anche se passava un po’ sotto silenzio da noi. Si tratta del fatto che per la
conquista di Ancona Cialdini aveva mosso la flotta, che era uscita in Adriatico
bombardando la città. Alla House of Common di Londra vi furono parecchie
interpellanze su questi movimenti della flotta italiana in Adriatico e Lord Russell
smentì l’iniziativa di una spedizione in Dalmazia da parte italiana osservando

che non vi era interesse per l’Italia a compiere mosse che avrebbero certamente
causato una nuova guerra con l’Austria (cui apparteneva la Dalmazia). Continuavano ad arrivare notizie da Varsavia ove il ministro zarista Gorchakov aveva
annunciato il piano del nuovo ordinamento del regno: lo zar non aveva rifiutato
di ricevere l’indirizzo, anche se aveva osservato che Gorchakov non avrebbe dovuto riceverlo. Si deve ricordare che la Polonia era parte integrante dell’Impero
zarista dopo le due invasioni del passato prossimo (la prima delle quali nel 1830
aveva ispirato a Frederich Chopin la celebre polacca per la caduta di Varsavia).
Ma la notizia di maggior rilievo e interesse è sicuramente quella che l’Agenzia
Stefani diffonde da Washington con un resoconto molto fedele del discorso del
presidente Abramo Lincoln in occasione dell’inaugurazione del suo mandato.
Eletto nel novembre 1860, Lincoln prestò giuramento il 5 marzo 1861 e le sue
parole misero immediatamente a fuoco il più grave dei problemi che travagliava
l’Unione, cioè appunto la secessione degli Stati meridionali. Lincoln disse che
non c’era motivo di temere che l’amministrazione repubblicana eletta mettesse in pericolo la proprietà degli abitanti del sud, schiavi compresi. Non voleva
intervenire laddove esisteva l’istituzione della schiavitù perché non ne aveva il
diritto. In quanto agli schiavi fuggitivi, le leggi sarebbero state mantenute (cioè
con il diritto di ricattura degli stessi anche in altri Stati). Alcuni passaggi sono
riportati tra virgolette:
Io presto giuramento ufficiale senza secondi fini. L’Unione è formalmente attaccata:
l’Unione degli Stati è costituita è legittima e nessun Stato può svincolarsi. Le ordinanze e gli atti contrari sono rivoluzionari. Io considero l’Unione come esistente
e avrò cura che le leggi siano pienamente eseguite in tutti gli Stati. Ciò non è una
minaccia ma è la dichiarazione che l’Unione verrà costituzionalmente difesa. Operando così il sangue non sarà versato, tranne che non sia fatta violenza contro l’autorità nazionale. Impiegherò il potere per difendere le proprietà federali e riscuotere
le imposte. Otre a ciò non vi sarà né invasione né forza.
La Stefani riferisce che durante il discorso fu grande l’entusiasmo ogni volta che Lincoln alludeva all’Unione. La grande tragedia che si stava abbattendo
sull’Unione dopo il bombardamento di Forte Sumter colora sinistramente questo nobile e fermo indirizzo presidenziale che chiarisce subito come il problema
non fosse quello della schiavitù, quale invece poi fu considerato nel resto del
mondo, ma quello del mantenimento dello Stato federale nato dalla costituzione del ’74 sottoscritta dalle tredici colonie originarie. Che il presidente degli Stati Uniti, alle prese con questi terribili problemi, trovasse il modo di ma
nifestare fra le prime nazioni il riconoscimento Usa al neonato Regno d’Italia,
un mese dopo il suo giuramento alla Casa Bianca, testimonia la vicinanza fra
i due Stati che sarebbe continuata anche durante i quattro anni della terribile
guerra (non si dimentichi l’offerta a Garibaldi di un posto di responsabilità nel
comando nordista).
Sempre nel quadro della guerra civile americana che stava scoppiando, è interessante la notizia sul blocco navale che la flotta unionista intese fin da subito
applicare ai porti del sud per impedire la partenza del prezioso cotone e l’arrivo
di tutte le altre merci. Londra comunicò che, secondo le norme consuetudinarie del diritto marittimo, un blocco navale può essere riconosciuto internazionalmente solo se sia completo ed effettivo. Sembrava che anche la Francia e le
altre potenze seguissero la stessa opinione. Il blocco navale sarà una delle cause della sconfitta del sud nella guerra di Secessione proprio perché, malgrado i
generosi tentativi dei violatori di blocco e la guerra di corsa degli incrociatori
sudisti come il famoso Alabama, l’economia meridionale, già debole di per sé,
risultò strozzata dalla sostanziale abolizione del traffico navale.
Un’altra notizia dall’estero di grande importanza è quella della fine della servitù della gleba in Russia ove, a San Pietroburgo, il 17 marzo venne data lettura del manifesto per l’emancipazione dei contadini voluta dallo zar neo eletto
Alessandro II Romanov.
Anche se leggevano queste notizie dal resto del mondo, i cittadini bresciani
avevano diritto di divertirsi e al Teatro Grande era annunciata una nuova commedia del famoso autore parigino Eugène Scribe, dal titolo Una catena.
L’intitolazione della «Sentinella» era «Giornale Ufficiale per la pubblicazione
degli atti governativi e giudiziari» e ben si spiega perciò come il corposo supplemento di tre pagine contenesse i provvedimenti di vendita degli immobili sottoposti ad asta su decisione delle diverse preture. Quella di Gardone Val Trompia poneva all’asta terreni in Brozzo su istanza della fabbriceria parrocchiale; la
Pretura di Salò metteva all’asta terreni in San Felice, questa volta su istanza di
creditori privati; la Pretura di Asola (che allora faceva parte della provincia di
Brescia) annunziava l’apertura di un concorso generale dei creditori nei confronti di un certo debitore, dando così il via a questa forma di procedura concorsuale allora prevista; quella di Castiglione delle Stiviere (anch’esso allora territorio bresciano) annunciava una procedura esecutiva immobiliare a istanza del
Collegio delle Vergini di Castiglione. È interessante, fra gli annunci pubblici,
vedere l’avviso della Giunta municipale di Montechiaro (sic) per l’apertura del
concorso all’elezione di due medici chirurghi e di un chirurgo, la cui nomina

spettava al Consiglio municipale (il salario era di lire italiane 1.500 annue per il
medico chirurgo e di 850 per il chirurgo con servizio nel solo centro dell’abitato). È curioso l’impiego di termini oggi difficilmente comprensibili anche al di
là del gergo curiale degli atti giudiziari: per esempio si parla spesso, per descrivere gli immobili messi all’asta, di «pezza di terra aratoria, moronata» dove occorre comprendere il riferimento ai gelsi tipici della cultura dei bachi (moroni
in italiano antico, mur in dialetto).
Brescia aveva allora poco più di 40 mila abitanti e una ventina di comuni
della provincia di Mantova, fra cui appunto Asola e Castiglione delle Stiviere,
passarono alla provincia di Brescia per effetto del trattato di Zurigo che pose
fine alla Seconda guerra di indipendenza (Mantova invece, come fortezza del
Quadrilatero austriaco, rimase all’impero fino al 1866, quando quegli stessi comuni sarebbero tornati nella sua provincia).
A Brescia Cavour era stato l’anno prima, il 22 febbraio, ed era rimasto favorevolmente impressionato dall’atteggiamento del vescovo mons. Girolamo
Verzeri, a suo dire patriottico. La notazione è curiosa, perché nella storiografia
bresciana mons. Verzeri è sempre stato considerato austriacante, comunque non
certo patriottico. Non risulta che ci siano state a Brescia feste speciali per Cavour e per il re Vittorio, analoghe a quella sontuosissima che si svolse a Milano
nel Palazzo Reale. Nella splendida sala degli specchi, che rivaleggia veramente
con San Pietroburgo o Versailles, ci fu una festa grandiosa con tutta l’aristocrazia milanese per festeggiare il re e il suo primo ministro. Dobbiamo alla penna
di Costantino Nigra un delizioso episodio in proposito.
Il re si annoiava, non era certo un ballerino e stava brontolando con il console svizzero a Milano (non dimentichiamo che la Svizzera fu la prima, insieme
all’Inghilterra, a riconoscere il nuovo Regno d’Italia); il conte di Cavour invece nelle feste si trovava benissimo, sensibile com’era al fascino delle belle dame.
Racconta Nigra che una bella fanciulla appartenente a una delle prime famiglie
milanesi, cui il padre aveva messo l’infelice nome di Alemania (forse a riprova
dei suoi sentimenti imperiali del tempo), stava ballando e si fermò di colpo davanti al primo ministro, cui fece un inchino cominciando a parlare. Il suo cavaliere aspettava pazientemente di lato ma, poiché la storia si prolungava, sbattè i
tacchi e disse a Cavour: «Signor Conte, Lei ha appena conquistato l’Italia, non
vorrà conquistare anche l’Alemania!».
Cavour sorrise e lasciò andare la bella ammiratrice.
Il ruolo dei militari nella vita politica italiana
dal 1861 al 1943
Filippo Ronchi *
La “monarchia militare” italiana
Riguardo al tema che dà il titolo a questa relazione, è indispensabile comprendere il ruolo svolto dalla monarchia dei Savoia, perché sicuramente l’esercito dell’Italia unita ebbe una molteplice missione, occupandosi della difesa esterna, combattendo le guerre coloniali, alimentando l’“italianità”, ma soprattutto
attuò un’azione decisiva nella politica interna in piena sintonia con la Corona.
Corona ed esercito si mossero infatti su un analogo terreno simbolico e il valore dell’una si intrecciò con quello dell’altro.
Anche nell’esercito, così come nella Corona, veniva individuato un simbolo
dell’unità nazionale. «Senza milizia non vi è nazione», «l’esercito è la nazione
armata», l’esercito «filo di ferro che ha cucito insieme l’Italia», «solo cemento
del Paese»: questi slogan segnarono un’epoca. Nel casato dei Savoia, poi, l’educazione e la carriera militare ricoprivano un ruolo cruciale per la formazione
dei futuri regnanti. I principi della famiglia reale occupavano posizioni molto
elevate sia nell’esercito sia nella marina e il re era spesso coinvolto nella scelta
degli ufficiali per i gradi più alti con annesse funzioni. I Savoia generalmente
comparivano in pubblico in uniforme e amavano mettersi alla testa delle proprie truppe in caso di guerra.
Delle forze armate i re italiani si occuparono sempre assiduamente, e lo fecero assai più volentieri degli altri compiti che gli spettavano. Simmetricamente
l’esercito era di forte filiazione e devozione monarchica e le alte gerarchie militari
ricevettero incarichi politici di rilevanza. I ministri della Guerra e della Marina
del Regno d’Italia furono militari di carriera, legati per ciò stesso da un giuramento di fedeltà assoluta a un monarca nei confronti del quale si trovavano per
di più in una posizione di inferiorità gerarchica. L’influenza degli ambienti di corte nella loro scelta era fortissima e di fatto la politica militare fu sottratta al con* Socio dell’Ateneo di Brescia; socio e consigliere del Comitato di Brescia dell’Isri; docente presso
il Liceo artistico Olivieri di Brescia.


trollo dei governi: basti pensare che per vedere un civile al dicastero della Guerra
si dovette attendere il biennio 1907-09, e si trattò comunque di una parentesi.
Inoltre la riduzione delle spese militari, per quanto in più momenti della storia
del periodo liberale diventasse scottante, trovò sempre il re e la Casa reale a far
da barriera, qualunque ridimensionamento dell’apparato bellico fosse richiesto.
Quasi un terzo del Senato di nomina regia era composto, del resto, da alti
ufficiali delle forze armate. La struttura dell’esercito fra il 1861 e il 1914 rivelava, inoltre, come esso dovesse rispondere innanzitutto alla necessità di garantire
l’ordine economico-sociale esistente. Così le guarnigioni erano sparse in tutta
Italia, un fattore che in tempo di guerra ostacolava una rapida concentrazione
delle forze. Si trattava di un grande apparato fondato sulla coscrizione obbligatoria estesa a tutte le classi sociali con ferma di tre anni. L’esercito poteva disporre
di oltre 300 mila uomini proprio per l’adeguata espletazione della funzione di
mantenimento dell’ordine pubblico. Il reclutamento, non a caso, era organizzato in modo da poter fare affidamento sui soldati per garantire la sicurezza interna (ancora negli anni Novanta dell’Ottocento le forze di polizia si limitavano
a cinquemila uomini, cui si potevano aggiungere circa 25 mila carabinieri). Un
reggimento italiano era normalmente composto da reclute provenienti da due
regioni diverse e stanziato in una terza regione; inoltre era spostato periodicamente da una parte all’altra dell’Italia, in modo da spezzare ogni legame con la
popolazione. Tutto ciò comportava una minore efficacia militare e una burocrazia costosissima, ma aveva un corrispettivo nella disponibilità dei reparti per
la repressione di manifestazioni e scioperi.
L’art. 5 dello Statuto albertino
L’approccio alla storia dell’Italia unita condotto quasi esclusivamente in chiave “parlamentaristica”, economica, sociale, ha finito tuttavia per relegare ai margini del campo di studio la presenza determinante della monarchia e delle forze
armate nella vita politica del nostro Paese. Queste istituzioni occuparono invece
una posizione molto più centrale di quanto si sia ritenuto.
Le vicende italiane possono essere allora meglio decifrate tenendo presente
l’interferenza continua e talvolta il brutale intervento diretto delle forze armate nella politica interna. A favorire una simile situazione furono, d’altra parte,
le carenze strutturali del sistema politico liberale. L’assenza di partiti organizzati, il carattere fluido ed eterogeneo delle maggioranze parlamentari consentirono infatti al re e alle sue forze armate una grande libertà di manovra. Perciò se
per periodi anche lunghi la vita politica italiana poteva sembrare simile a quella

delle esperienze europee più avanzate, nei momenti decisivi di forte tensione il
potere di coercizione della Corona – espressione della volontà dei militari – si
faceva sentire in maniera determinante.
D’altronde la ristrettezza della base sociale su cui poggiò il Parlamento, almeno fino all’introduzione del suffragio universale maschile nel 1912, circoscrisse
entro limiti alquanto angusti l’area del consenso nel Paese, affievolendo così una
delle principali fonti di legittimazione delle istituzioni. Era, del resto, lo stesso
Statuto albertino che, dando origine a una monarchia costituzionale e non parlamentare, aveva lasciato un enorme spazio al campo d’azione regia. È necessario quindi analizzare alcuni articoli dello Statuto che fornivano al re amplissime
prerogative, e cogliere tutte le conseguenze e implicazioni di tali prerogative.
Partiamo dunque dall’ art. 5. Le disposizioni di tale articolo vennero applicate tra il 1861 e il 1943 in maniera tale da escludere ogni sostanziale intervento
delle Camere nelle decisioni di politica estera più rilevanti. Praticamente tutta
la vicenda coloniale fu marcata dalla teoria – elaborata dagli ambienti di corte
– secondo la quale la norma che prevedeva l’assenso del Parlamento per i trattati territoriali si riferiva esclusivamente al suolo nazionale. Conseguenza di tale
impostazione fu che il Parlamento stesso risultò non competente sugli accordi
internazionali aventi per oggetto le colonie. Solo nel 1912, con Giolitti, fu messo in grado di discutere e quindi approvare il trattato di pace con l’Impero ottomano al termine della guerra di Libia e nel farlo autorizzò il Governo a darne
esecuzione. Per il resto, la prerogativa regia si affermò integralmente. In ogni
caso, il dettato dello Statuto era così restrittivo che il «dare notizia […] unendovi le comunicazioni opportune» rispetto ai trattati conclusi non permetteva
neppure una discussione approfondita delle Camere sugli atti internazionali di
cui esse venivano informate. Questi ultimi, inoltre, qualunque fossero il giudizio e l’opinione delle assemblee, erano validi e avevano piena esecuzione, in
modo da loro indipendente, a meno che non comportassero variazioni territoriali e oneri finanziari.
Il beneficio della segretezza nella conduzione della politica estera fu sempre
rivendicato dalla Corona che sosteneva fosse in gioco la sicurezza dello Stato in
tutti gli accordi nei quali entravano in campo alleanze belliche. Dell’esistenza
della Triplice Alleanza, così, l’opinione pubblica si rese conto solo su base deduttiva, partendo da piccoli segnali (l’attribuzione di un’onorificenza, un viaggio in Germania del duca d’Aosta). Il patto stesso era stato congegnato in modo tale che «le alte parti contraenti si promettono reciprocamente il segreto sul
controllo e sull’esistenza del presente trattato». A nulla valsero le proteste dei

deputati socialisti e repubblicani che con un manifesto, nel 1891, denunciarono
l’ignoranza in cui veniva tenuto il Parlamento in merito ai contenuti del trattato stesso. Si evitò di pubblicizzare anche i particolari degli accordi conclusi
con il Patto di Londra dell’aprile 1915, altrettanto segreto della Triplice Alleanza
e rimasto tale nella sua versione integrale sino alla fine del conflitto. Quando
il Parlamento fu riunito per discuterne, la questione della segretezza ridusse al
minimo il dibattito, pur se il Patto di Londra comportava variazioni territoriali
e avrebbe quindi richiesto l’approvazione parlamentare.
Tutti questi episodi determinanti si svolsero, per altro, all’interno di un quadro dove, prima ancora che i trattati in se stessi, era segreta la maggior parte
dell’attività diplomatica, che si sviluppava attraverso persone di fiducia del re.
In particolare – e di nuovo appaiono saldati tra loro l’ambito delle relazioni internazionali e quello delle forze armate – esisteva una rete diplomatica ombra
alle dirette dipendenze del sovrano, formata dagli addetti militari all’estero. La
propensione della Corona sabauda ad alimentare questi circuiti della diplomazia segreta fu sempre molto accentuata. Così Vittorio Emanuele II trattò direttamente con Napoleone III nel 1861, nel 1866, nel 1870. La volontà di Umberto
I fu decisiva per la conclusione della Triplice Alleanza e per la guerra e la pace
con l’Abissinia. Evidente fu il ruolo giocato da Vittorio Emanuele III con i rovesciamenti delle alleanze nel 1915 e nel 1943.
Proroghe, scioglimenti del Parlamento, stati d’assedio
L’art. 9 dello Statuto fu l’altro formidabile strumento politico nelle mani della Corona. Dalla volontà del monarca dipese infatti l’effettiva possibilità di operare del Parlamento, poiché le Camere non sedevano in permanenza, ma solamente in alcuni periodi – chiamati sessioni – la cui durata era lasciata alla scelta
del sovrano. Perfino la loro convocazione non era precisata nei tempi. L’unico
punto di riferimento in proposito veniva dalla legge di contabilità, dal momento
che il ministro del Tesoro aveva l’obbligo di presentare un progetto di bilancio al
Parlamento nel mese di novembre. Ciò imponeva indirettamente una riunione
parlamentare in quel periodo, nell’ambito del quale alla Corona restava di individuare il giorno in cui fissare la convocazione. Essa poteva inoltre intervenire
in maniera molto pesante per mezzo della “proroga”, ossia sospendendo temporaneamente le sessioni delle Camere. E un ampio margine di discrezionalità
esisteva rispetto alle chiusure parlamentari. Solo occasionalmente i decreti che
interrompevano una sessione indicavano già la data di riconvocazione.

Appare evidente dunque che all’esecutivo, di cui il re era detentore, lo Statuto dava la possibilità – per mezzo della proroga – di impedire al Parlamento di
riunirsi, escludendone il controllo sull’operato ministeriale, mettendo a tacere
l’opposizione, consentendo l’adozione di provvedimenti che altrimenti avrebbero incontrato resistenze soprattutto alla Camera dei deputati. E questa possibilità non restò teorica, perché i Savoia agirono ripetutamente in modo tale
da imporre proroghe prolungate per periodi molto estesi. Tra il 1861 e il 1900 i
dati parlano chiaro. Una sola legislatura riuscì a raggiungere la propria naturale
scadenza. L’attività del legislativo subì quindi nella sostanza forti limitazioni attraverso l’esercizio delle proroghe regie. Tanto per citare solo i due esempi più
drammatici: all’epoca di Francesco Crispi, Umberto I, d’accordo con il presidente del Consiglio, nel corso dell’intero anno 1895 consentì alle Camere di riunirsi per meno di tre mesi e nel gennaio 1896, alla ripresa dell’attività parlamentare, impose una nuova proroga rifiutando di accompagnare il decreto con
una relazione di Crispi che desse conto dei motivi che la originavano. L’ultima
fase della tragedia africana, sfociata nel disastro di Adua, si svolse così al di fuori di qualsiasi controllo del Parlamento.
Il problema si ripresentò in occasione di un altro snodo ancor più fatale
quando, nell’estate 1914, la gravissima crisi mondiale e l’uso spregiudicato della
prerogativa internazionale da parte di Vittorio Emanuele III e dei suoi ministri Salandra, Di San Giuliano e Sonnino, ben avrebbero giustificato un’attiva
vigilanza del Parlamento. Ma esso era vacante, aggiornato dall’inizio di luglio
per le vacanze estive. Sappiamo oggi – grazie a documenti d’archivio – che reiterati tentativi furono compiuti dai rappresentanti repubblicani e socialisti per
ottenere la riconvocazione della Camera. Ma le “vacanze estive” terminarono
quell’anno per deputati e senatori addirittura il 3 dicembre, in coincidenza con
gli adempimenti finanziari di fine anno!
Anche in occasione del rovesciamento delle alleanze che accompagnò l’entrata dell’Italia nel primo conflitto mondiale, l’uso disinvolto dell’istituto della
proroga impedì alla Camera di prendere parte in alcun modo agli eventi. I suoi
lavori furono infatti sospesi già il 22 marzo 1915 – su proposta del presidente del
Consiglio Salandra e ovviamente con l’avallo del re – per altre vacanze, quelle
pasquali. Il termine per la riapertura venne fissato stavolta al 12 maggio e il 7
maggio un ulteriore decreto provvide a prorogare la sessione ancora fino al 20
maggio. Il giorno 20, sotto la minaccia delle violente dimostrazioni interventiste, oltre che delle voci sulla possibile abdicazione del re, la Camera votò i pieni
poteri all’esecutivo e Salandra propose che i deputati fossero riconvocati a do
micilio. Il che in effetti avvenne, ma solo il 1º dicembre 1915 i lavori ripresero
effettivamente, con l’Italia ormai in pieno stato di guerra.
Vicende analoghe tornarono a verificarsi nel corso del conflitto. Le prerogative regie stabilite dagli artt. 5 e 9 dello Statuto, insomma, erano in grado di
per sé di frenare l’azione del Parlamento e la impedirono nei momenti cruciali
della storia dell’Italia unita tra il 1861 e il 1922. Il sovrano esercitava le sue prerogative tramite il potere di emanare decreti, garantitogli dall’art. 6 dello Statuto stesso. Qui mi soffermo su una particolare tipologia di decreto, quella che
sanciva lo stato d’assedio. Si trattava di un provvedimento giuridico eccezionale. La proclamazione dello stato d’assedio comportava infatti la sospensione
delle garanzie costituzionali, fino a giungere all’assunzione dei poteri civili e
anche giudiziari da parte dell’autorità militare. Diretta conseguenza dello stato
d’assedio era l’applicazione della legge marziale, che riduceva i diritti dei cittadini, limitava la durata dei processi e prescriveva sanzioni più severe rispetto
alla legge ordinaria, arrivando alla pena di morte. Ci si trovava, insomma, su
un terreno affine a quello della dichiarazione dello stato di guerra. Dalla proclamazione del Regno d’Italia all’avvento del fascismo lo stato d’assedio venne
dichiarato dieci volte.
L’esercito in sette snodi della storia dell’Italia unita
La dittatura militare nel Sud (1861-1865)
Il laboratorio dove si sperimentarono le tecniche dell’intervento dei militari
nella vita politica già nei primi anni dello Stato unitario fu il Mezzogiorno d’Italia. Qui, dopo la morte di Cavour personalmente contrario a qualsiasi forma
di proconsolato militare, venne instaurato un governo fondato quasi soltanto
sulla forza dell’esercito. Lo stato d’assedio scattò tra l’agosto e il novembre 1862
in Sicilia e nel resto del Meridione. Esso fu adottato dalla Corona in sintonia
con il Governo – guidato all’epoca da un uomo di fiducia del re, Urbano Rattazzi – facendo leva sui timori dell’opinione pubblica liberale sia per le reazioni
delle cancellerie europee di fronte alla nuova impresa di Garibaldi che tentava di marciare su Roma risalendo la penisola, sia per le dimensioni che andava
assumendo il fenomeno del brigantaggio. Il pericolo fu in realtà ingigantito e
lo stato d’assedio divenne l’occasione per instaurare nel Mezzogiorno un’aperta
dittatura militare, liberando ogni azione repressiva dall’osservanza delle garanzie
costituzionali, allo scopo di assoggettare le amministrazioni pubbliche e la ma
gistratura. Il controllo sociale fu così assunto direttamente dalle forze armate,
che si sostituirono all’apparato statale civile. Prefetti, sotto-prefetti e questori si
ritrovarono infatti alle dipendenze dell’autorità militare, mentre al generale La
Marmora – comandante del VI Corpo d’armata di stanza nel sud e nominato
anche prefetto di Napoli – veniva accordata la facoltà di arrestare giornalisti e
deputati dell’opposizione democratica, nonché sequestrare giornali.
Con il varo delle misure eccezionali fu sventata non solo la reazione legittimista dei briganti filo-borbonici, ma anche la formazione di qualsiasi altra opposizione, dal momento che fu vietato introdurre nel Mezzogiorno la stampa
non governativa e vennero sciolte le associazioni democratiche. A Napoli furono arrestati alcuni deputati della Sinistra con l’accusa di aver contribuito a organizzare e favorire la spedizione garibaldina. I decreti regi di istituzione dello
stato d’assedio non furono pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale, le Camere furono tenute all’oscuro delle misure decise dal Governo e il 21 agosto fu stabilita
la proroga della sessione parlamentare. Tre giorni dopo la proclamazione dello
stato d’assedio, in Sicilia il generale Cugia emanava un’ordinanza che sospendeva la libertà di stampa e l’art. 26 dello Statuto concedendo alle autorità militari
e di pubblica sicurezza di procedere all’incarcerazione di chiunque avesse stampato o distribuito fogli volanti. Ordinanza di simile tenore fu prodotta anche
da La Marmora per il Mezzogiorno continentale, mentre ogni infrazione ai divieti contenuti nei bandi riguardo all’asportazione o detenzione di armi finiva
con il comportare la fucilazione immediata. L’episodio di Aspromonte chiuse
questa prima fase della repressione. Solo alla riconvocazione delle Camere, il
Governo – che aveva revocato le misure eccezionali due giorni prima della riapertura della sessione parlamentare – chiarì le circostanze che avevano indotto
a sospendere le garanzie statutarie.
Lo stato d’assedio dunque era stato deliberato e ritirato senza concordare
niente con il Parlamento. Del resto, se molti deputati protestarono deplorando
che le garanzie costituzionali potessero sparire da un giorno all’altro, l’intimidazione era stata talmente forte che non venne avanzata nessuna proposta di
legge per disciplinare la materia e per garantirsi dal ripetersi di simili situazioni. Al contrario, la prassi seguita nel 1862 si consolidò negli anni successivi. Il
presupposto che le cosiddette “emergenze” rendessero impossibile l’esercizio dei
diritti sanciti dallo Statuto non fece altro che alimentare un principio profondamente illiberale e giuridicamente poco fondato: lo Statuto era la prima legge
dello Stato, valida tuttavia solo in periodo di pace sociale.

Le leggi di unificazione amministrativa e legislativa
Il pur brevissimo art. 65 dello Statuto conferiva al sovrano un ulteriore, forte
strumento di intervento. In base ad esso crisi governative e formazione di governi a guida militare, in coincidenza con passaggi determinanti delle vicende
dell’Italia unita, si generarono per intervento diretto della Corona, che esercitò
un peso decisivo. E che a formare un Governo dell’Italia unita nel 1864 Vittorio Emanuele II chiamasse appunto un generale, Alfonso La Marmora, primo
militare a ricevere tale incarico, significava che a un subordinato gerarchico del
sovrano veniva affidato questo compito di altissima importanza: quindi i ministeri a guida militare, sin dai loro esordi, si caratterizzarono per la marcata e
diretta influenza regia.
Il compito che aspettava il nuovo esecutivo era quanto mai essenziale: varare
l’ultima e decisiva ondata di provvedimenti di unificazione. La Marmora procedette riuscendo in sostanza a far approvare velocemente un enorme blocco
di leggi che solo in parte erano state esaminate da commissioni parlamentari o
di esperti. La Marmora impose le soluzioni da lui scelte, la discussione fu assai
sbrigativa alla Camera come al Senato e scarso fu il numero dei deputati e dei
senatori che parteciparono alle votazioni di provvedimenti destinati a condizionare la vita degli italiani, in qualche aspetto per più di un secolo.
La crisi di Mentana e i tre ministeri del generale Menabrea
Poi nel 1867, in occasione della crisi di Mentana, Vittorio Emanuele II nominò il generale Luigi Federico Menabrea, che a quell’epoca ricopriva oltretutto
il ruolo di primo aiutante di campo del re, incaricato di tenere i rapporti con i
ministeri della Guerra e della Marina, nonché di seguire le vicende dell’esercito nel suo complesso. L’incarico attribuito a Menabrea di formare il Gabinetto nell’ottobre del 1867 trascinò quindi direttamente la prima carica della Casa
militare ai più alti livelli politici.
Menabrea dette vita a un Governo sostanzialmente extra-parlamentare, che
vedeva nei vari dicasteri un altro generale, un vice-ammiraglio, due soli deputati e quattro senatori, fra i quali ultimi il gran maestro di cerimonie presso la
corte e il futuro ministro della real casa. Nei poco più di due anni coperti dai
tre consecutivi ministeri Menabrea, il sovrano e l’esercito ebbero mano libera
nell’attuare una politica che definivano «di ordine e di resistenza». Nel giugno
del 1868 furono affidati al generale Medici ampi poteri a Palermo per sedare il
fermento politico autonomista. Due mesi dopo il generale Escoffier fu nomi
nato prefetto di Ravenna per soffocare episodi di violenza che facevano intravedere il costituirsi di una forte opposizione repubblicana. Il 5 gennaio 1869 fu
dichiarato lo stato d’assedio, gestito dal generale Raffaele Cadorna, per ristabilire l’ordine nelle province di Bologna, Parma, Modena e Reggio scosse dalla
“rivolta del macinato”. Tra marzo e aprile di quello stesso anno, in occasione
di un tentativo insurrezionale – peraltro soffocato sul nascere – degli aderenti all’Associazione repubblicana universale di Mazzini, venne predisposto uno
sproporzionato apparato repressivo, con le truppe messe in allarme per marciare sulla capitale Firenze e occuparla in caso di manifestazioni. Soltanto il costituirsi in Parlamento di un fronte di opposizione mai visto prima, che andava
dalla sinistra democratica alla destra liberale piemontese, convinse il sovrano e i
suoi generali a non insistere ulteriormente nel voler imporre al Paese il governo
della Corona e dei militari.
I militari nella lunga “crisi di fine secolo” (1894-1899)
Era evidente però che la fragilità delle istituzioni rappresentative del Regno
rendeva disponibili alle manovre del re e dei militari i più ampi spazi in corrispondenza delle fasi di difficoltà che l’Italia attraversava. Ciò fu particolarmente chiaro nell’ultimo decennio dell’Ottocento, quando si ripresentarono dinamiche simili ma ancor più gravi di quelle vissute alla fine degli anni Sessanta.
Questa volta esse si vennero a innestare, infatti, nel quadro di una crisi economica molto profonda e di una situazione politica inedita.
Il numero crescente di associazioni sindacali dei lavoratori socialiste e cattoliche, il susseguirsi di manifestazioni, scioperi, cortei, venivano avvertiti dalle
gerarchie militari, dalla Corona come una minaccia allarmante. Socialisti, cattolici intransigenti, per non parlare degli anarchici, appartenevano a un mondo incomprensibile e inaccettabile. Non si poteva ammetterli come oppositori.
Al massimo si potevano tollerare la Destra e la Sinistra di derivazione risorgimentale, ma anch’esse nei periodi di calma sociale ed economica. All’esercito
si presentavano le condizioni per un ritorno massiccio sulla scena politica e un
conseguente ampliamento delle proprie responsabilità.
Sintomatico il clima che determinò la dichiarazione dello stato d’assedio in
Sicilia nel 1894 per la repressione dei Fasci dei lavoratori, di orientamento socialista. Fu in questi frangenti che emerse per la prima volta in maniera esplicita l’ideologia ispiratrice dell’intervento dei militari in politica. Di essa si fecero
portavoce due giornali, «L’ Esercito Italiano» e «L’Italia militare e marina», en
trambi semiquotidiani (uscivano a giorni alterni), che rispecchiavano le convinzioni delle gerarchie delle forze armate e si esprimevano con notevole decisione
anche su temi delicati. Ebbene, in una serie di articoli comparsi proprio nella fase culminante della crisi innescata dai Fasci siciliani, tra gennaio e giugno
1894, le due importanti pubblicazioni affermarono che la patria era stata salvata
dall’esercito, rimasto – nel discredito e disfacimento delle istituzioni – l’unico
elemento sano della vita italiana. Esso solo, infatti, esprimeva e rappresentava
il Paese vero, la vera opinione pubblica, molto più del Parlamento. Nel Paese, al grido di «viva il socialismo» si era contrapposto quello di «viva il re, viva
l’esercito»; nessuno aveva gridato «viva il Parlamento». Era giusto maltrattare e
umiliare una simile assemblea corrotta e priva di prestigio, come stava facendo
l’allora presidente del Consiglio Francesco Crispi.
La richiesta di un maggior potere ai militari veniva così a inserirsi nel gran
filone dell’antiparlamentarismo, veniva ad essere parte integrante di un’indicazione politica generale: quella dello svuotamento dell’istituto parlamentare per
affidare gli «interessi permanenti dello Stato» alle «competenze tecniche». Dinanzi alla crisi di valori e gerarchie tradizionali, sulla quale si innestava e dalla
quale scaturiva sempre più minaccioso il «pericolo socialista», si era delineata
quindi una risposta: unica garanzia era l’esercito, che andava rafforzato e a cui
dovevano essere riconosciute funzioni sempre più alte come freno alla degenerazione sociale.
L’instaurazione di un regime incardinato sull’esercito era ormai dunque ciò
cui Crispi pensava insistentemente insieme al re e ai suoi generali. Mentre lo
stato d’assedio veniva dichiarato anche a Massa e Carrara, dove erano insorti
gruppi anarchici, la Camera era chiusa. Con decreto reale furono sciolti i circoli
socialisti e alla fine del 1894 furono di nuovo sospese le sedute parlamentari per
arginare l’indignazione che stava montando fra i deputati in seguito alle rivelazioni che coinvolgevano Crispi nello scandalo finanziario della Banca Romana.
La Camera avrebbe dovuto riaprirsi il 25 gennaio 1895, ma la riapertura fu rinviata di un mese e quando infine ripresero i lavori parlamentari, il 20 febbraio,
dinanzi alle durissime critiche dei maggiori deputati della Sinistra democratica,
Crispi dichiarò che i movimenti siciliano e della Lunigiana erano parte di una
vasta cospirazione internazionale volta a smembrare l’Italia.
La crisi prolungata univa sempre più strettamente il presidente del Consiglio, il re e l’esercito, gettando quest’ultimo un’altra volta direttamente nell’arena politica. Una mentalità da stato d’assedio ossessionava la corte: i cattolici intransigenti, i socialisti e gli anarchici stavano attaccando le fondamenta stesse

dell’Italia. Occorreva reagire. La risposta fu trovata ancora una volta nella proroga della Camera e nell’ennesimo ricorso all’esercito, stavolta però scaraventato in una grande avventura africana, nel tentativo di distogliere l’attenzione
dell’opinione pubblica dai problemi interni. Ma l’auspicato trionfo in Abissinia
si tramutò nel disastro di Adua del marzo 1896.
L’anno dopo, le elezioni politiche rivelarono consistenti progressi dei partiti
dell’Estrema Sinistra. Le spettacolari azioni degli anarchici, come un attentato
alla vita di Umberto I avvenuto nel 1897, contribuirono anch’essi ad alimentare
un clima di dichiarata aspirazione dell’opinione pubblica conservatrice al pieno
dispiegarsi delle prerogative monarchiche. Tutto ciò favorì un rientro sulla scena, sempre più minaccioso e pesante, dell’esercito. Così nel 1898 l’Italia cadde
nelle mani dei generali. Si cominciò a maggio a Milano, dove il generale Bava
Beccaris, comandante del III corpo d’armata, si vide conferiti i pieni poteri per
gestire lo stato d’assedio proclamato al fine di reprimere l’ennesima presunta cospirazione socialista-anarchico-cattolica per destabilizzare l’Italia. Altri generali,
tra cui Heusch a Livorno e Malacria a Napoli, furono chiamati a mantenere l’ordine pubblico, benché la violenza della repressione non raggiungesse nelle altre
città finite sotto il tallone della legge marziale i vertici inauditi toccati a Milano.
La ferrea disciplina imposta alle truppe in questa situazione dimostrò, per altro,
che l’esercito costituiva una formidabile macchina repressiva. Su 130 mila uomini richiamati in servizio, si registrò un tasso di diserzione del 2,5% soltanto.
Durante la carneficina avvenuta a Milano, dei due militari uccisi che alla fine si
contarono, uno si sparò e l’altro fu fucilato sul posto subito dopo essersi rifiutato di aprire il fuoco sulla folla. Se vi erano simpatie per i rivoltosi, dunque, esse
non erano sufficienti per indurre i coscritti a disobbedire agli ordini.
A quel punto il re aveva in mente di affidare l’incarico di presidente del Consiglio a un generale. Trent’anni dopo l’ultima esperienza analoga, quella con Menabrea, porre un militare a capo del Governo era al tempo stesso un segno della
bancarotta del Parlamento e del desiderio del monarca di instaurare una sorta di
dittatura. L’uomo adatto alla bisogna Umberto I lo aveva individuato da tempo,
si trattava di Luigi Pelloux. Egli, oltre che generale, era anche di origini savoiarde,
quindi legato da un vincolo particolare di fedeltà alla dinastia sabauda. Nei due
governi che egli guidò, volontà regia e volontà dell’esercito marciarono all’unisono. Il suo primo ministero annoverava sei generali e ammiragli in servizio attivo che dividevano il Governo con otto civili. Il suo secondo gabinetto, nel quale
assunsero una netta prevalenza gli elementi della Destra, si formò, inoltre, al di
fuori di ogni consultazione, suscitando l’indignazione dei deputati.

La crisi dal piano economico-sociale si era trasferita a quello politico-istituzionale, e aveva proprio nella Camera l’epicentro. Nell’arco di due anni,
dall’estate 1898 all’estate del 1900, la Corona e l’esercito dipanarono infatti una
trama per imprimere al Paese una svolta autoritaria, che trovasse anche sul piano legislativo una sua duratura sistemazione. Con il generale Pelloux a capo
del Governo, una volta tolto lo stato d’assedio, tutta la manovra ruotò attorno
all’approvazione da parte del Parlamento di una serie di provvedimenti eccezionali per mandare in porto un progetto di ampio respiro, con l’obiettivo di
sradicare i principi del liberalismo. Eppure in Italia mancavano le premesse per
una politica autoritaria di stampo apertamente dittatoriale. Essa non aveva cioè
la sufficiente e indispensabile base di consenso sociale, poiché consistenti settori della borghesia liberale guidati da Giolitti e Zanardelli erano tutt’altro che
entusiasti della piega che stavano prendendo gli eventi.
Si determinò così una opposizione che andava dai socialisti fino a quella borghesia liberale che preferiva una politica di apertura democratica e riformista.
Nella discussione che si aprì alla Camera sui tanto controversi disegni di legge
restrittivi delle libertà, all’ostruzionismo dell’Estrema culminato nell’episodio
del rovesciamento delle urne al momento delle votazioni, si unì l’assenteismo
di molti deputati seguaci di Giolitti e Zanardelli, che dimostrarono in questo
modo la loro ostilità alle proposte governative. Di fronte all’impossibilità di venire a capo della situazione nell’aula di Montecitorio, Pelloux ricorse ai mezzi
estremi e tentò di dare valore esecutivo ai suoi decreti senza l’approvazione del
Parlamento. Era un vero e proprio atto di forza, che lasciava intuire una precisa intenzione del re e dell’esercito di imporre alla vita pubblica italiana una
torsione autoritaria di imprevedibili proporzioni. A questo punto il passaggio
all’opposizione della Sinistra costituzionale guidata da Giolitti e Zanardelli divenne irreversibile, riflettendo gli umori di gran parte della borghesia dell’Italia settentrionale. Stavano insomma maturando le condizioni per un epilogo in
senso antiautoritario della crisi.
Il fronte delle opposizioni si rinsaldò, Giolitti seppe abilmente rilanciare la
sua candidatura alla direzione di un vasto schieramento delle forze progressiste. Infine anche la Corte di Cassazione, chiamata a esprimersi su ricorso di un
privato, dichiarò illegittima la prassi seguita fino a quel momento dall’esecutivo. Pelloux si vide così costretto a ripartire da zero. Il Governo stavolta tentò
di preparare il terreno facendo approvare dalla Camera una riforma del regolamento che in pratica rendeva impossibile l’ostruzionismo e la riforma passò, ma
in condizioni a dir poco anomale, perché tutta l’opposizione aveva abbandona
to l’aula in segno di protesta. Seguirono altri passaggi parlamentari, al termine
dei quali, essendo evidente che il ministero non avrebbe potuto continuare a
legiferare con una Camera dei deputati praticamente dimezzata, Pelloux chiese nuove elezioni.
Il generale era fiducioso che il responso delle urne sarebbe stato a lui favorevole, convinto che la maggioranza degli elettori avrebbe fatto quadrato intorno
al re, all’esercito, al Governo. Ma i risultati delle elezioni del giugno 1900 portarono a un notevole rafforzamento dei socialisti, che raddoppiarono addirittura
la loro rappresentanza, dei radicali, dei repubblicani e della rinnovata Sinistra
costituzionale. In termini di voti lo schieramento di opposizione superò addirittura nel suo complesso quello governativo, che si salvò solo grazie al meccanismo del collegio uninominale con ballottaggio. La maggior parte dei candidati antiministeriali proveniva inoltre dalle più progredite regioni del nord Italia e dalla Toscana. A Montecitorio ripresero i lavori, ma le prime schermaglie
nell’aula facevano pensare che la maggioranza sulla quale poteva contare Pelloux
fosse ancora più esigua di quella ottenuta sulla carta con i risultati elettorali. Il
generale allora preferì rassegnare le dimissioni.
Dalla Settimana Rossa all’entrata nella Prima guerra mondiale (1914-1915)
Gli ultimi tesissimi mesi del regno umbertino – dopo sei anni trascorsi
sull’orlo del colpo di Stato – si conclusero con il regicidio. Il nuovo monarca
Vittorio Emanuele III, apprendendo dalla tragica vicenda del padre, si mostrò
molto più prudente dei suoi predecessori. Si aprì una fase, nota come “età giolittiana”, in cui il costituirsi di un massiccio blocco sociale formato dalla giovane borghesia imprenditoriale, specie del nord Italia, e dal proletariato operaio di
orientamento socialista riformista rese impraticabili altre avventure dei gruppi
dominanti tradizionali legati alla rendita fondiaria e agli ambienti militari e di
corte. Solo nel gennaio 1909 Giolitti ricorse alla proclamazione dello stato d’assedio nelle città di Messina e Reggio Calabria, ma il provvedimento non aveva
natura politica: fu preso infatti unicamente per porre un argine al dilagante fenomeno dello sciacallaggio dopo il disastroso terremoto che aveva distrutto le
due città alla fine dell’anno precedente.
Vista all’interno del quadro che andiamo delineando, l’“età giolittiana” si presenta in ogni caso come una parentesi. Quando infatti il blocco sociale e il sistema
di governo che trovavano il loro punto di riferimento nello statista piemontese
entrarono in una crisi irreversibile e riesplosero forti tensioni, i vecchi metodi ri
comparvero. Antonio Salandra, non a caso già ministro nel II Gabinetto Pelloux,
era subentrato a Giolitti nel marzo 1914. Il nuovo Governo intraprese una reazione
a tutti gli effetti militarizzata contro l’intensificarsi degli scioperi. Il clima si fece
di nuovo tesissimo. Lo si vide in occasione della Settimana Rossa, un’insurrezione
popolare che tra il 7 e il 14 giugno 1914 si estese dalle Marche alla Romagna, alla
Toscana e nelle principali città, Milano, Torino, Bologna, a Firenze, Napoli, Palermo e Roma con particolare violenza. Ancona divenne, per una combinazione
di circostanze e per la presenza di personaggi di primo piano, quali Pietro Nenni
ed Errico Malatesta, l’epicentro dove si scatenò la protesta. Essa, guidata da socialisti, repubblicani e anarchici, ebbe fin dall’inizio un carattere antimonarchico
e antimilitarista. Nei disordini, furono dapprima i carabinieri ad attuare l’intervento armato aprendo il fuoco contro i manifestanti, ma di fronte all’estendersi
della ribellione, con la comparsa di comitati rivoluzionari locali alternativi all’autorità dello Stato, lo spettro della guerra civile tornò ad essere evocato. Il Governo fece intervenire l’esercito, fu ordinata la mobilitazione, ad Ancona sbarcarono
i soldati ed entrò in azione la cavalleria. La rivolta fu così sedata.
Anche Vittorio Emanuele III riprese un ruolo determinante. Abbiamo precedentemente delineato la sua influenza decisiva sulle scelte di politica estera che
portarono all’intervento nella Prima guerra mondiale e gli ostacoli da lui frapposti, esercitando la proroga, all’attività del Parlamento in un periodo cruciale della
vita politica. Del pari decisivo, durante le ultime concitate fasi che condussero
all’entrata in guerra dell’Italia, fu l’orientamento del sovrano nel far pendere la
bilancia in favore di Salandra, interventista contrapposto al neutralista Giolitti.
Nel maggio 1915, infatti, il re confermò il Governo in carica nel momento più
delicato, respingendo le dimissioni di Salandra stesso, sempre più in difficoltà
dinanzi all’opposizione pacifista. L’altro passaggio chiave del conflitto, quello
immediatamente seguente la sconfitta di Caporetto, fu anch’esso gestito in prima persona per molti aspetti da Vittorio Emanuele III, che chiamò al governo
Orlando, rimosse Cadorna e lo sostituì con Diaz, partecipò al convegno interalleato di Peschiera in qualità di comandante supremo dell’esercito, per esporre ai capi militari alleati le attenuanti della provvisoria sconfitta, argomentare le
future strategie, spiegare i cambiamenti attuati al vertice dell’ esercito.
La “Marcia su Roma”
L’ aspirazione a un Governo forte come presupposto di una sana economia
e dello sviluppo della ricchezza; l’utopia di un’Italia regolata da un regime da

caserma, abbozzate nel primo quinquennio dello Stato unitario, fermate nel
1869, fallite nel 1898-99, alla fine si concretizzarono. E ciò accadde dapprima
durante la fase del regime straordinario imposto dalla partecipazione alla Grande Guerra, che vide imporsi il capo di Stato Maggiore generale Luigi Cadorna
fino al 1917 come una sorta di “signore della guerra” e la militarizzazione della
vita economico-sociale. Poi con l’avvento del fascismo, in una temperie storica
diversa da quelle del passato, nella quale tuttavia era possibile rintracciare i segni di un progetto che veniva da lontano.
Anche in questo nuovo contesto, rispetto al ruolo svolto dall’esercito, alcuni punti sono chiari. In primo luogo i comandi, pur senza compromettersi
apertamente, incoraggiarono la collaborazione tra ufficiali e squadre d’azione.
Al culmine della crisi politico-istituzionale, il presidente del Consiglio Facta,
liberale giolittiano, convocò ai primi di ottobre 1922 i generali Armando Diaz,
il più prestigioso esponente delle gerarchie militari, e Pietro Badoglio, all’epoca
membro del Consiglio per l’Esercito. Chiese loro se le truppe avrebbero obbedito all’ordine di opporsi al fascismo con la forza. Si sentì rispondere che l’esercito avrebbe fatto il suo dovere, ma che le simpatie verso i fascisti, all’interno
dell’esercito stesso, erano innegabili. Questo giudizio era esatto: l’esercito avrebbe obbedito se il re avesse ordinato chiaramente di difendere Roma, perché il
lealismo monarchico degli ufficiali, specialmente dei generali e dei colonnelli,
era una garanzia. Tuttavia le prese di posizione degli ambienti militari avevano
fino a quel momento insistito sulla neutralità che l’esercito doveva mantenere,
venendo di fatto a favorire i piani di Mussolini, pur senza giungere a un rifiuto
d’obbedienza al monarca.
Così se Badoglio, nel citato colloquio con Facta, si sentiva talmente sicuro del
successo di un’azione contro il fascismo da offrire di assumersene la responsabilità, dicendo che una dozzina di arresti avrebbe stroncato qualsiasi tentativo di
presa del potere da parte dei seguaci di Mussolini e che non si sarebbe trattato
di una guerra civile, ma di una semplice operazione di polizia, ben diversamente andarono le cose al momento cruciale. Infatti la notte tra il 27 e il 28 ottobre
1922, chiamati a consulto dal re sulla convenienza di affidare alle truppe la difesa del Governo legittimo decretando lo stato d’assedio, Armando Diaz e un
altro noto generale, Guglielmo Pecori Giraldi, già capo della I Armata schierata
sugli Altipiani durante la Grande Guerra, dettero la famosa risposta: «L’esercito farà il suo dovere, però sarebbe bene non metterlo alla prova». Era l’esplicitazione non del timore di ammutinamento delle truppe o della guerra civile,
bensì il segnale – probabilmente atteso dallo stesso Vittorio Emanuele III – di

una scelta politica tra Facta e Mussolini, tra liberalismo e dittatura. Da un lato,
dunque, un’obbedienza formale ai poteri costituiti, dall’altro un appoggio fondamentale al fascismo.
Rifiutando di firmare il decreto di proclamazione dello stato d’assedio il re,
da parte sua, tornava prepotentemente a riaffermare, come già i suoi predecessori avevano fatto in molte altre fatali occasioni, la propria riserva sullo scioglimento della crisi. E, se ciò non bastasse, attribuiva l’incarico di formare il nuovo
Governo a Mussolini e causava la caduta di un Governo in carica non sfiduciato
dal Parlamento! Tanto che, considerato da questo punto di vista, anche il primo
ministero Mussolini poteva essere ritenuto uno dei Gabinetti legati alla iniziativa regia – quali quelli di La Marmora, Menabrea, Pelloux – altre volte comparsi
sulla scena politica in passaggi cruciali della storia dell’Italia unita.
La crisi si chiuse dunque nel migliore dei modi per la monarchia, per l’esercito e per il fascismo, la cui collaborazione venne suggellata dalle nomine, subito
imposte da Vittorio Emanuele III, di Diaz a ministro della Guerra e dell’ammiraglio Thaon di Revel alla Marina. Questo gesto aveva tanti significati: per la
monarchia, la garanzia che le forze armate non sarebbero venute meno al loro
tradizionale legame con il trono ponendo dei limiti alle pretese dei nuovi arrivati al potere, ossia i fascisti; per l’esercito la liberazione dai ministri borghesi che
dagli inizi del Novecento erano stati sporadicamente messi a capo dei dicasteri
fino ad allora appannaggio delle alte gerarchie militari, portandovi anche velleità
di riforme democratiche; per il nuovo regime il pieno avallo dei capi militari.
Ci sono dei gesti che hanno un profondo significato simbolico e dicono più
di tante parole. Presentatosi alla Camera per il “discorso del bivacco”, Mussolini cedette il posto centrale del banco del Governo a Diaz, avendo alla sua sinistra Thaon di Revel. Il Governo fu accolto dal grido Viva il duca della Vittoria!,
proveniente da una tribuna riservata agli ufficiali e ripreso poi dalla maggioranza dell’Assemblea, che accomunò nell’ovazione Diaz e Mussolini, applauditi
anche dagli altri membri del Governo; ed era Diaz che rispondeva visibilmente commosso.
L’appoggio delle forze armate fu, insomma, decisivo, benché indiretto, nel
permettere al fascismo di salire al potere nel 1922. I continui elogi alle forze armate, la propaganda bellica esasperata, lo sfoggio delle divise, le parate militari e le fanfare, la rivendicazione dell’onore nazionale, la repressione dei movimenti antimilitaristici o semplicemente critici, in una parola l’atmosfera cara
al fascismo non era che il regime sempre sognato dai militari e per molti anni
la presenza, nel variopinto gruppo di gerarchi, della severa figura di Badoglio,

passato a più miti consigli dopo la marcia su Roma, rassicurò le classi dirigenti
sulla serietà e sulla forza della dittatura.
Dal 25 luglio all’8 settembre 1943
L’accordo tra fascismo e forze armate resse dalla marcia su Roma fino all’ingresso nella Seconda guerra mondiale. Tale accordo era incardinato attorno
ad alcuni punti fondamentali. Il regime assicurò ai militari il pieno controllo sull’esercito, senza ingerenze né critiche di sorta, anzi in Italia fu alimentato
un clima di patriottismo esaltato, in cui veniva magnificata la passata potenza
imperiale antica romana e quella presente delle armi italiane, oltre il limite del
reale. L’esercito in cambio assicurò al regime il suo appoggio nei contrasti politici civili e ne avallò la politica estera di prestigio ed espansionismo territoriale, permettendo al fascismo di tentare un ruolo internazionale con il supporto
dell’apparato bellico. Grazie alla creazione della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, tra l’altro, l’esercito si vide alleggerito dall’incombenza di tutore dell’ordine pubblico. Anche le commesse militari incisero via via sempre più
sull’economia italiana: quelle dell’esercito, pur se disperse in tanti rivoli (cannoni, camion, carri armati), ma soprattutto quelle della marina, che a partire
dagli anni Trenta ebbero un’importanza significativa per l’industria cantieristica e quelle dell’aviazione, addirittura essenziali per l’industria aeronautica, che
conobbe uno sviluppo considerevole. Ma si trattava di scelte molto pericolose,
esercito e regime si arrampicavano nel vuoto, fidando nella propaganda anziché
nella sostanza, la politica estera era assai superiore alle reali possibilità del Paese
e il nuovo conflitto mondiale mise a nudo le illusioni, i bluff su cui si basava la
visione geopolitica dell’Italia fascista.
Le forze armate, però, riuscirono ad attraversare il Ventennio senza perdere
la loro autonomia, giovandosi anche del legame diretto che sempre conservarono con la monarchia. Il rifiuto di prendere la tessera del partito fascista da parte
dei militari e il divieto per essi di partecipare in divisa a manifestazioni politiche del regime sembrarono salvaguardare l’apoliticità dell’esercito. Non era così, ma restava il fatto che, dopo lo scioglimento di tutti i partiti di opposizione,
dei sindacati e la creazione della milizia fascista, le forze armate rimanevano le
uniche che avrebbero potuto abbattere – quando se ne fosse presentata la necessità – la dittatura di Mussolini. Non a caso l’opposizione liberale aveva già
puntato nel 1923-24, nella fase che precedette e seguì il delitto Matteotti, sulla
formazione di un Governo militare per consentire un rapido ritorno dal fasci
smo al liberalismo. Una parte della grande stampa borghese («Il Mondo», «Il
Corriere della Sera», «Il Giornale d’Italia») cominciò infatti ad appellarsi all’esercito contro il fascismo, di cui denunciava le violazioni dello Statuto e le offese
alle prerogative della monarchia. Era stato individuato anche un generale come
possibile capo di una giunta militare: Enrico Caviglia, già comandante di corpi
d’armata durante la Prima guerra mondiale, poi incaricato di stroncare la ribellione dannunziana di Fiume, infine passato da un iniziale appoggio a un atteggiamento molto critico verso Mussolini proprio a causa del delitto Matteotti e
di tutto ciò che ne era derivato in ordine alle forzature statutarie. Tuttavia, c’era
in questa strategia una sottovalutazione del fatto che fino a quando Mussolini
godeva della fiducia del re aveva buon gioco nell’esigere e ricevere dall’esercito
una solidarietà piena.
Il legame tra forze armate e Corona rimase fondamentale. Prima dell’entrata
nel secondo conflitto mondiale Mussolini impostò e diresse la guerra d’Etiopia,
l’intervento a fianco dei nazionali di Franco in Spagna e l’invasione dell’Albania. Ma i ranghi delle forze armate restarono fedeli alle vecchie tradizioni monarchiche, continuando a riconoscere il sovrano come emblema. Non a caso i
primi attriti si verificarono quando, nel 1938, Mussolini avrebbe voluto creare
tutto per sé il titolo di primo maresciallo dell’Impero. Ciò fu causa della stizzita reazione di Vittorio Emanuele III, che vedeva in quel modo intaccata la
sua prerogativa di comandante supremo delle forze armate e che per questo
arrivò a minacciare l’abdicazione. La soluzione trovata fu per certi versi paradossale, poiché l’ambìto titolo venne attribuito a entrambi, monarca e capo
del Governo, con una grave incrinatura dell’immagine di maestà e di ideale
supremazia del sovrano.
Il contrasto si ripresentò nel 1940, al momento dell’entrata in guerra. Allora Mussolini intese alimentare il proprio mito ottenendo il comando supremo
delle forze armate. Di nuovo Vittorio Emanuele III non volle cederlo. Di nuovo si dovette ricorrere a un compromesso, lasciando al Duce la cosiddetta “direzione delle truppe operanti”, cioè delle concrete attività militari. Ma si trattò di
un altro duro colpo alle prerogative regie fissate dallo Statuto. Il “re soldato”, il
vincitore di Vittorio Veneto, l’erede del passato guerriero dei Savoia non avrebbe perdonato quest’altro affronto. E nel frattempo, simbolicamente, a rimarcare
il proprio ruolo, il re partì immediatamente per il fronte francese, come aveva
fatto nel 1915 recandosi sul teatro delle operazioni.
Dal 1940, con il succedersi delle sconfitte, fu lo specifico aspetto della fedeltà
delle forze armate, e in particolare dell’esercito, a diventare vitale: fedeltà a chi?

A Vittorio Emanuele o a Mussolini? Immedesimazione nella croce sabauda o
nel fascio littorio? Al momento del catastrofico epilogo della vicenda, l’esercito
ostentò devozione al monarca soprattutto per tornare a rivendicare la propria
particolarità e autonomia anche dinanzi al fascismo, con il quale aveva pienamente collaborato, ma dal quale non era stato assimilato. Ribadiamo: anche nel
regime creato dal fascismo, l’antico e saldo legame tra Corona e forze armate
non era mai venuto meno. Perciò il fattore militare fu per molti versi il fulcro
sul quale oscillarono i destini del fascismo stesso fino al 25 luglio 1943.
Contrariamente alle aspettative di Mussolini, più le sorti del conflitto si deterioravano, più il ruolo politico della Corona tornava a rafforzarsi. Già dal febbraio 1943 il capo di Stato maggiore dell’esercito Vittorio Ambrosio, conscio
dell’ impossibilità di proseguire la guerra e constatato che era inutile cercare di
convincere Mussolini a uscirne, aveva pianificato l’arresto del Duce. Il progetto era stato accantonato perché considerato dagli alti gradi militari prematuro,
ma Ambrosio aveva messo a conoscenza il re di tutti i suoi piani, mostrando
dunque di ritenere necessario per la loro attuazione l’assenso del monarca. Una
volta accettata come inevitabile la fine del Governo Mussolini, il controllo sulle forze armate fornì al re, quindi, lo strumento indispensabile per ottenere le
dimissioni del primo ministro. Così gli avvenimenti accaduti nei giorni immediatamente successivi al 25 luglio 1943 rivelarono la vitalità di una tradizione di
intervento nella politica interna da parte dell’esercito che evidentemente non
era venuta meno. Soprattutto attestarono che l’esercito aveva saputo conservare
intatta la sua macchina repressiva, rifiutando ingerenze esterne, mantenendo in
efficienza la rete degli organi territoriali, addestrando le truppe anche per operazioni di grande polizia.
In ogni momento del Ventennio, dietro le scenografiche organizzazioni fasciste, c’era insomma stato l’esercito, una sorta di ipoteca messa dalla borghesia
italiana sul regime e riscossa alla bisogna dopo il 25 luglio 1943. È azzardato definire l’operazione portata a pieno successo dalle forze armate come “colpo di
Stato”, trattandosi del rovesciamento di un dittatore che fin dalle origini aveva
fondato il suo potere su una serie di forzature e intimidazioni, ottenendo una
legittimazione con minacce e violenze. Certo però anche la decisione di trarre in
arresto Mussolini presa da Vittorio Emanuele III non dovette ispirarsi alla convinzione di esercitare correttamente le proprie prerogative costituzionali. Infatti
il re procedette alla nomina del maresciallo Badoglio a capo dell’esecutivo senza
consultare la lista che il Gran Consiglio teneva pronta proprio per le situazioni di crisi; determinò altrettanto autonomamente la composizione del nuovo

ministero, ordinò al Governo appena insediatosi la soppressione di tutte le istituzioni fasciste, realizzando di fatto un mutamento di regime. In fin dei conti,
anche il I ministero Badoglio ricordava ancora una volta le compagini ministeriali a orientamento regio dei Menabrea e dei Pelloux. Era composto infatti da
sei generali, due prefetti, sei funzionari e due consiglieri di Stato. Ne facevano
parte insomma solo uomini di fiducia della Corona o provenienti dall’apparato dello Stato, i dicasteri militari erano tutti assegnati ad alti ufficiali delle forze
armate, venivano esclusi tanto gli esponenti della fronda fascista quanto quelli
dei partiti antifascisti.
Pure i metodi ricordavano un’epoca passata. Badoglio instaurò infatti un governo tipicamente militare. Dietro suo ordine il 26 luglio il capo di Stato maggiore, generale Mario Roatta, diramò una circolare alle forze dell’ordine e ai distaccamenti dell’esercito la quale disponeva che chiunque, anche isolatamente,
avesse compiuto atti di violenza o ribellione contro le forze armate e di polizia,
o avesse proferito insulti contro le istituzioni, fosse immediatamente giustiziato. La circolare ordinava inoltre che ogni militare impiegato in servizio di ordine pubblico che avesse compiuto il minimo gesto di solidarietà con eventuali
manifestanti, o avesse disobbedito, o avesse vilipeso i superiori o le istituzioni,
venisse senz’altro fucilato. Gli assembramenti di più di tre persone andavano
parimenti dispersi facendo ricorso alle armi e senza intimazioni preventive o
preavvisi di alcun genere. Di conseguenza il 28 luglio a Reggio Emilia i soldati
spararono sugli operai delle Officine Reggiane provocando 9 morti. Nello stesso giorno a Bari si contarono 9 morti e 40 feriti. In totale nei soli 5 giorni seguenti al 25 luglio i caduti a causa di interventi di polizia ed esercito furono 83,
i feriti 308, gli arrestati 1.500.
Il passato delle forze armate italiane
Un esercito non potrà mai essere apolitico, nel senso di indifferente a quanto
lo circonda nella società. Può essere semmai apartitico, nel senso di non prendere apertamente posizione per un partito piuttosto che per un altro e di non
consentire che al suo interno si faccia propaganda partitica.
Poste queste premesse, si può quindi stendere un bilancio conclusivo delle
vicende che finora abbiamo riepilogato: dal 1861 al 1918 le forze armate dell’Italia
liberale furono neutrali, e soltanto durante i periodi di bonaccia politica, nelle
contese tra Destra e Sinistra costituzionali. Non lo furono sicuramente quando si trattò di sbarrare il passo a movimenti popolari che chiedevano soluzioni

radicali dei problemi sociali e che avevano come punto di riferimento i partiti
repubblicano e socialista. In seguito, già prima della marcia su Roma, le forze
armate fecero una scelta non solo politica, ma precisamente partitica sostenendo
il fascismo anche contro espressioni dissidenti della borghesia liberale. Durante
il Ventennio, così, le forze armate non persero un’apoliticità che non avevano
mai avuto; persero invece l’apartiticità, malgrado il rifiuto della tessera.
Ciò che le forze armate, e l’esercito in particolare, difesero sempre, perfino
contro il fascismo, fu un’altra cosa: la loro indipendenza dal potere civile, di
qualunque colore esso fosse, il loro carattere di società chiusa, autosufficiente e
autoregolata, centrata sulla caserma. Per questo, nell’ambito del regime, gli alti
gradi militari parteggiarono, fino al momento fatale dell’entrata in guerra, per
Mussolini che accettava e rispettava l’autonomia dell’esercito, pago della sua alleanza, e rifiutarono invece i velleitari tentativi compiuti da alcuni gerarchi, ad
esempio Farinacci, di “fascistizzarlo”. L’aeronautica, arma nuova, poteva essere
lasciata in balìa di ras come Italo Balbo, l’esercito e la marina no, si amministravano da sé, riconoscenti per le attestazioni d’affetto da parte del regime, gelosi
della loro autonomia.
Nota bibliografica
Ai fini della stesura di questa mia relazione, fondamentali, per una riflessione riguardo alla centralità del ruolo politico svolto dalla monarchia
sabauda nell’ottantennio 1861-1943, sono stati i
due volumi di Paolo Colombo, Il re d’Italia. Prerogative costituzionali e potere politico della Corona (1848-1922), FrancoAngeli, Milano 1999, e
Storia costituzionale della monarchia italiana, Laterza, Roma-Bari 2001. Per un inquadramento
delle radici del problema, è risultata utile anche
la lettura di Romano Paolo Coppini, Il Piemonte
sabaudo e l’unificazione, in Storia d’ Italia, vol. 1,
Le premesse dell’ Unità. Dalla fine del Settecento
al 1861, a cura di Giovanni Sabbatucci e Vittorio
Vidotto, Laterza, Bari 1994.
La storiografia militare, invece, in Italia non gode di grande fortuna, ma risultano molto validi
gli studi, pur non recentissimi, di colui che comunque è considerato la massima autorità nel
settore, ossia Giorgio Rochat, L’esercito italiano
in pace e in guerra. Studi di Storia militare, Rara,
Milano 1991 e L’esercito italiano da Vittorio Veneto
a Mussolini, Laterza, Bari 2006. È significativo,
in questo senso, che le altre più notevoli ricerche
sul tema del rapporto tra esercito e politica nel
nostro Paese siano dovute a un autore straniero,
l’inglese John Gooch, Esercito, Stato e società in
Italia (1870-1915), FrancoAngeli, Milano 1994, e
Mussolini e i suoi generali, Leg, Gorizia 2011.
Per sintetizzare i vari passaggi politico-sociali discussi in questo intervento, sui quali invece esiste
una bibliografia perfino sovrabbondante, ho scelto
di avvalermi di alcune opere che ritengo comunque esaurienti e alle quali rimando per ulteriori
approfondimenti bibliografici, ossia: per quanto concerne la situazione dell’Italia meridionale
all’indomani dell’unificazione Roberto Martucci,
Emergenza e tutela dell’ordine pubblico nell’Italia liberale, il Mulino, Bologna 1980; sull’approvazione
“a passo di carica” della legislazione amministrativa e giudiziaria durante il ministero presieduto

dal generale Alfonso La Marmora, Giorgio Candeloro, Storia dell’ Italia moderna, vol. V, Feltrinelli, Milano 1978. Per il critico periodo dei ministeri
Menabrea mi sia permesso citare Filippo Ronchi,
La vita travagliata del terzo ministero Menabrea, in
«Rassegna Storica del Risorgimento», a. LXXIII,
fasc. II, aprile-giugno 1986, Roma, mentre rispetto alle tentazioni autoritarie dell’età crispina mi è
parso tutt’ora efficace il “vecchio” ma agile libro di
Sergio Romano, Crispi. Progetto per una dittatura,
Bompiani, Milano 1973.
Sulle modalità della repressione dei Fasci siciliani, in particolare, si possono leggere con interesse Umberto Santino, Breve storia della Mafia
e dell’ Antimafia, Di Girolamo, Trapani 2011 e
Lorenzo Strik Lievers, La stampa militare di fronte alla crisi dei Fasci, in AA.VV., I Fasci Siciliani.
Nuovi contributi ad una ricostruzione storica, vol.
2, De Donato, Bari 1975.
Per l’analisi della crisi di fine secolo resta un punto di riferimento ineludibile e per molti aspetti
insuperato il lavoro di Umberto Levra, Il colpo di

Stato della borghesia 1896-1900, Feltrinelli, Milano 1982, malgrado le critiche durissime che l’autore all’epoca della pubblicazione ricevette dagli
storici di orientamento liberaldemocratico, così
come – a mio giudizio – sull’età giolittiana rimane ancor oggi validissimo, nonostante ulteriori
studi siano stati portati avanti negli anni successivi da valenti storici, Alberto Aquarone, L’Italia
giolittiana (1896-1915). 1. Le premesse politiche ed
economiche, il Mulino, Bologna 1981. Importante – per completare il panorama del periodo –
anche il saggio di Rolando Nieri, Sidney Sonnino
e il Torniamo allo Statuto, in «Rassegna Storica
del Risorgimento», a. LXXXIII, fasc. IV, ottobre-dicembre 1996, Roma.
Una delle rare ricostruzioni circostanziate sulla
Settimana Rossa è ancora quella di Luigi Lotti,
La Settimana Rossa, Le Monnier, Firenze 1965.
Sulla fase iniziale, anch’essa non molto conosciuta, del Governo Badoglio, si può consultare
Ruggero Zangrandi, 1943: 25 luglio-8 settembre,
Feltrinelli, Milano 1964.
Indice dei nomi
Abba, Giuseppe Cesare 140, 152, 153, 155,
214, 242, 255, 263, 271, 273, 274.
Acerbi, Giovanni 139, 158.
Acerbi, Giuseppe 158.
Agosti, Marco 89n.
Agostino d’Ippona 23n.
Aimone, Linda 37n, 39n, 41n, 44n, 47n,
48n, 50n.
Albani, Camilla 86.
Alberti, Isaia 253.
Alberti, Leon Battista 66.
Aleardi, Aleardo 106, 111, 113.
Alessandro II, zar di Russia 134, 295.
Alfieri, Vittorio 53, 55, 68, 78, 189.
Ambiveri, Giuseppe Roberto 117.
Ambrosio, Vittorio 315.
Ambroso, Mario 213n.
Amendolagine, Francesco 217n.
Amistani, Giovanni 142.
Ammirà, Vincenzo 78.
Andreis, Salvatore 133.
Anelli, Luciano 265n.
Anfossi, Francesco 139.
Antonelli, Stefano 142.
Apolloni, Adolfo 263, 264, 266.
Apollonio, Luigi 92.
Aporti, Ferrante 88.
Appiani, Andrea 201.
Aquarone, Alberto 318n.
Archetti, Gabriele 97n.
Archetti, Giovanni Maria 142, 143, 145,
241.
Arici, Luigi 101.
Ariosto, Ludovico 78.
Aristotele 23n.
Arnaudon, Giacomo 45n.
Ascoli, Graziadio Isaia 71, 72.
Audinot, Rodolfo 288.
Auerbach, Jeffrey A. 37n.
Augello, Massimo M. 12n, 18n, 30n,
32n, 33n.
Autrand, Françoise 25n.
Averoldi, Massimiliano 90.
Aymard, Maurice 25n.
Azzi da Trecenta, Adolfo 141.
Azzolini, Paola 58n.
Baculo Giusti, Adriana 37n.
Badoglio, Pietro 311, 312, 315, 316, 318n.
Baffo, Giorgio 78.
Baiguera, Crescenzio 143.
Balbo, Cesare 102, 191n.
Balbo, Italo 317.
Baldassari, Angelo 143.
Balestrieri, Domenico 65, 72, 73, 78.
Bambergi di Cittiglio G. David 198n.
Bandi, Giuseppe 139, 143.
Bandiera, fratelli 137, 168.
Bandolini, Ermenegildo 91n, 92n.
Banti, Alberto Mario 53n, 61n.
Baracchi, Girolamo 143.
Barante, barone di 177.
Barbetti, Fortunato Bernardo 143.
Barbiera, Raffaello 109n.

Barbieri, Bernardo 204n.
Barbieri, Innocente 143.
Barboglio, Giuseppe 142, 144.
Bardazzi, Giovanni 58n.
Baretti, Giuseppe 66.
Bargnani, Cesare 197.
Bargnani Dandolo, Giulietta 197, 198,
202, 203, 204, 205, 209, 212.
Baroncelli, Ugo 109n, 116, 231n, 233n.
Barone, Giuseppe 242, 243, 244, 272,
283n.
Barre, Albert-Désiré 238, 239, 274, 281,
283.
Barre, Jacques-Jean 238.
Baruffaldi, Luigi Antonio 289.
Barzaghi, Gioacchino 89, 91.
Basile, Ernesto 49.
Basile, Giambattista 66.
Basiletti, Luigi 219.
Bassani, Giuseppe Antonio 144, 154.
Bassignana, Pier Luigi 35n, 36n, 41n,
42n, 44n, 51n.
Basso, Giovanni Battista 139.
Bava Beccaris, Fiorenzo 307.
Bazzoni, Antonio 103.
Beccaria, Cesare 68, 73.
Belfanti, Marco 5.
Bellandi, Giuseppe 144.
Belli, Ciro 82.
Belli, Giuseppe Gioachino 65, 66, 67,
68, 69, 70, 71, 74, 75, 76, 77, 78, 79, 80,
81, 82.
Beltrami, Luca 49, 251n.
Benedetto XVI, papa 83.
Benedini, Gaetano 158.
Beneduce, Pasquale 27n.
Beolco, Angelo detto Ruzante 65.
Berardi, Giovanmaria 144.
Berchet, Giovanni 55, 59, 70, 71, 73, 75.
Bernardo di Chiaravalle 288.
Berni, Francesco 66.

Bertazzi, Giovanni 156.
Berti, Domenico 175, 177.
Bertier de Sauvigny, Guillaume de 189n.
Bertini, Giuseppe 200, 201, 204.
Bertolazzi, Carlo 77.
Betri, Maria Luisa 39n.
Bettinelli, Saverio 69.
Bettini, Amalia 80.
Bettoni Cazzago, Francesco 237n, 258.
Bettoni Cazzago, Lodovico 101.
Bevilacqua, Felicita 141, 227.
Bevilacqua, Girolamo 227.
Beyle, Marie-Henri detto Stendhal 74.
Bezzi, Ergisto 118.
Biaggini 133.
Bianchi, Angelo 92n.
Bianchi, Arturo 201, 209, 212.
Bianchi, Nicomede 174n.
Bianchini, Marco 12n, 18n.
Bianco, Assunta 42n.
Bigatti, Giorgio 38n, 46n.
Bigazzi, Duccio 39n.
Biggi, Giovanni 205.
Biglione di Viarigi, Luigi Amedeo 214n,
224n, 235n, 251n.
Biondelli, Bernardino 75.
Biscarra, Cesare 263.
Bisi, Antonietta 206, 207, 208, 209.
Bisi Legnani, Ernesta 202, 206, 210.
Bixio, Nino 139, 141, 147, 151, 160.
Boccaccio, Giovanni 65.
Bof, Frediano 33n.
Boggione, Walter 61n.
Bognetti, Giovanni 59n.
Boifava, Pietro 157, 259.
Bolchini, Piero 35n, 36n, 41n, 42n, 43n.
Bollani, Francesco 145.
Bollati, Giulio 56n.
Bolognese, Domenico 78.
Bona Castellotti, Marco 86n.
Bonafini, Francesco 141.
Bonafous, Matthieu 200.
Bonaparte, Napoleone Eugenio principe
imperiale 134.
Bonaparte, Napoleone Giuseppe Carlo
Paolo detto Girolamo 163, 193, 194.
Bonardi, Carlo 142, 145, 241.
Bonardi, Carlo (senatore) 145.
Bonardi, Eugenio 145.
Boncompagni di Mombello, Carlo 288.
Bondioli. Domenico 152.
Bonfadio, Iacopo 216.
Bonghi, Ruggero 174n.
Boni, Francesco Alessandro 146.
Bonsignori, Eugenio 146.
Bonsignori, Giovanni 93.
Bontempo, Giuseppe Rinaldo 146.
Bonvicino, Alessandro detto il Moretto
216.
Borghetti, Giuseppe 100.
Borromeo, Federico 73.
Borruso, Edoardo 39n.
Borsieri, Agostino 239n.
Borsieri, Pietro 71.
Bosco, Giovanni 89.
Bosi, Pio 246n.
Bosquet, Pierre 134.
Botti, Pasquale 156.
Botticella, Giovanni Battista 146, 156.
Bourdieu, Pierre, 20n, 21n, 22n, 24n,
25n, 26n, 27n, 31n.
Bouvier, Pietro 209.
Bovet, Ernest 81.
Bovi, Paolo 139.
Bracco, Giuseppe 37n, 38n, 44n.
Bracco, Roberto 77.
Brahe, Ticho 14n.
Brenni, Paolo 47n.
Bresciani, Pier Giuseppe 145.
Bressan, Edoardo 85, 86n.
Bressanin, Vittorio 257n.
Brofferio, Angelo 75, 78, 79.
Brozzoni, Camillo 224n.
Brudenell, James (Lord Cardigan) 131.
Brunetti, Fausto 189n.
Bruno, Giordano 254.
Bruzzesi, Giacinto 139, 150.
Buniva 78, 79.
Buol Schauenstein, Karl Ferdinand von
135, 165.
Buratti, Pietro 78, 82.
Buscioni, Maria Cristina 50n.
Busi, Michele 96n.
Bussolino 79.
Buzzacchi, Giovanni 159.
Byron, George Gordon 179.
Cabra, Faustino 89n.
Cabra, Pier Giordano 87n.
Caccavone, Raffaele Petra marchese di 78.
Caccia, Carlo 146.
Cadei, Ferdinando 145.
Cadorna, Luigi 311.
Cadorna, Raffaele 133, 305, 310.
Cafaro, Pietro 97n.
Caimi, Luciano 89, 91n.
Cairoli, Benedetto 114, 139, 152, 160.
Cairoli, fratelli 142, 144.
Calabresi, Pietro 146.
Calandra, Davide 268.
Calci, Carmelo 242n, 243n, 249n, 250n.
Calcinardi, Giovanni 146.
Calmo, Andrea 65.
Calvino, Salvatore 139.
Calvo, Edoardo 68, 78, 82.
Calzoni, Battista Secondo 147.
Candeloro, Giorgio 318n.
Canobbio, Giacomo 84, 85n, 96, 97n.
Canrobert, François Certain de 132.
Cantù, Cesare 55, 57.
Cantù, Roberto 96.
Canzani, Demetrio 225, 249, 272, 275,
280, 284.

Capeletti Solari, Amalia 210n.
Capitanio, Cristoforo 277.
Capponi, Gino 88.
Cappuccio, Angelo 255, 259, 260, 270.
Capretti, Luigi 265n.
Caprioli, Adriano 90n.
Capuana, Luigi 77.
Capuzzi, Giuseppe 147.
Caravaggi, Michele 147.
Carcano, Giulio 77, 209.
Cardigan, Lord v. Brudenell, James.
Carducci, Giosuè 71, 77.
Carini, Giacinto 139.
Carlo Alberto di Savoia 30, 59, 100, 176,
182, 227, 228, 229, 281n.
Carnelutti, Guglielmo 276n.
Carnelutti, Luigi 276n.
Carolei, Gaetano 246n.
Carrer, Luigi 79.
Casati, Gabrio 101.
Casini, Gherardo 189n.
Cassola, Carlo 230, 259.
Castelli, Enzo 213, 258n, 261n, 263n,
264n, 266n.
Castelli, Guido 209.
Castelli, Michelangelo 174n.
Castellini, Nicostrato 150.
Castiglioni, Luigi 73.
Castronovo, Valerio 47n.
Catalano, Franco 174n.
Caterina II di Russia 134.
Cattabeni, Giovan Battista 117.
Cattaneo, Antonio 200.
Cattaneo, Carlo 71, 72, 129.
Cavalieri, Giuseppe 257n.
Cavalleri, Ottavio 84.
Cavalletto, Alberto 109n, 113, 115, 118.
Cavicchioli. Silvia 35n.
Caviglia, Enrico 314.
Cavour, Camillo Benso conte di 5, 17,
30, 37, 38, 102, 103, 113, 114, 117, 123, 127,

129, 133, 134, 135, 136, 137, 138, 161, 162,
163, 164, 165, 166, 167, 168, 169, 170,
171, 172, 173, 174, 175, 176, 177, 178, 179,
180, 182, 183, 188, 192, 193, 195, 233, 234,
236n, 244, 250, 288, 291, 292, 296, 302.
Cavour, Gustavo Benso marchese di 128,
176.
Cavour, Michele Benso marchese di 176.
Cecchi, Emilio 66.
Cenni, Guglielmo 139.
Cerri, Giuseppe 221n.
Cesari, Antonio 72.
Cesarini, Marco 175n.
Cesarotti, Melchiorre 66.
Cessi, Roberto 109n.
Chabod, Federico 61n.
Cherubini, Francesco 72.
Chialiva, Luigi 210.
Chiarini, Roberto 233n, 260n, 261n.
Chiassi, Giovanni 118.
Chinca, Domenico 100.
Chiodi, Giovan Battista 261, 262.
Chiodi, Pietro 261, 262.
Chopin, Frederich 294.
Cialdini, Enrico 133, 134, 143, 151, 289,
293.
Cicerone, Marco Tullio 57.
Cielo d’Alcamo 66.
Ciocchetti, Luigi 257, 258.
Cipriani, Fernando 24n.
Cistellini, Antonio 88.
Clandestini, Alessandro 212.
Clarendon, Lord v. Villiers, George
William.
Cocchetti, Annunciata 87.
Cocchetti, Carlo 100.
Cocchi, Brizio 239.
Coghetti, Francesco 202, 203, 204, 205,
207.
Cognasso, Francesco 174n.
Cola di Rienzo 75.
Colombo, Adolfo 109n.
Colombo, Alessandro 94.
Colombo, Aurelio 199.
Colombo, Cristoforo 63.
Colombo, Elisabetta 46n.
Colombo, Giuseppe 43, 46n.
Colombo, Paolo 317n.
Colonna-Walevski, Alexandre Florian
Joseph 135.
Comandini, Alfredo 101.
Comensoli, Geltrude 87.
Comirato, Marco 199.
Conneau, Enrico 163.
Conter, Luigi 232, 233.
Conti, Lino 147.
Conti, Paolo Fernando 265n, 273n.
Conti, Sergio 95n.
Contini, Enrico 100.
Contini, Gianfranco 66, 77.
Contratti, Luigi 259.
Coppini, Romano Paolo 317n.
Cordero di Montezemolo, Massimo 113,
243.
Corinaldi, Michele 118.
Corniani, Giovanni Battista 65, 67.
Corporandi, Pietro 133.
Correnti, Cesare 67, 77, 230, 251.
Corridi, Filippo 37, 38.
Cosenz, Enrico 140.
Cossa, Luigi 32, 33.
Cossovich, Enrico 78.
Crescini, Giambattista 147.
Cresseri, Gaetano 265.
Crispi, Francesco 48, 137, 139, 253, 254,
257, 301, 306.
Croce, Benedetto 66, 71.
Crocioni, Giovanni 76.
Cugia, Efisio 303.
Cuoco, Vincenzo 69, 70, 74.
Custodi, Pietro 13, 14, 15, 16, 17, 18.
Cuzzetti, Francesco 102.
Daccò, Luigi 153.
D’Addio, Mario 60n.
D’Aguesseau, Henri-François 26, 27, 28.
Dal Castagnè, Albino 267.
Dall’Ongaro, Francesco 79, 111, 202.
Dal Zotto, Antonio 257n.
D’Ancona, Alessandro 76.
Dandolo, Emilio 197n, 198, 202, 206,
207, 208, 209, 212.
Dandolo, Enrico 197n, 198, 202, 205,
206, 207, 208, 212.
Dandolo, Enrico detto Gin 210, 211, 212.
Dandolo Maselli, Maria 210, 211, 212.
Dandolo, Tullio 197, 198, 199, 200n,
202, 203, 204, 205, 206, 209, 210.
Dandolo, Vincenzo 198, 199, 200, 201,
212.
D’Annunzio, Gabriele 77, 269n.
Dante Alighieri 65, 67, 73, 74, 189.
Da Ponte, Cesare 156, 290.
Da Ponte, Giovita 290.
Da Ponte, Pietro 290.
D’Arienzo, Nicola 78.
D’Aversa, Arnaldo 279n.
D’Azeglio, Massimo 62, 134, 178.
De Carri 206.
De Amicis, Edmondo 62, 63.
Decleva, Enrico 37n, 44n, 46n.
De Conciliis, Eleonora 23n.
De Cristoforis, Luigi 39.
De Giorgi, Fulvio 84n, 88n, 95.
Degli Emilii, Pietro 110, 112, 114, 116.
De Kramer, Antonio 39.
De la Rive, famiglia 176.
De la Rive, William 174n, 177.
De Lauzières, Achille 78.
De Leonardis, Francesco 265n.
Della Torre, Ernesto 148.
Dell’Orefice, Anna 37n.
De Maeyer, Jan 94n.
De Maddalena, Aldo 231n.

De Marchi, Emilio 77.
De Marchi, Vincenzo 199.
De Neufchateau, François 35, 36.
Depretis, Agostino 101, 112, 113, 139, 171,
250, 253.
De Sales, famiglia 176.
De Sanctis, Francesco 65, 66, 68.
Desiderati, Basilio Emilio 148.
De Vincenzi, Giuseppe 44.
Dezza, Giuseppe 149.
Diatto, Battista 50.
Diaz, Armando 310, 311, 312.
Di Battista, Francesco 31n, 34n.
Di Chiara, Luigi 117.
Dietrichstein, Joseph Franz von 189.
Di Giacomo, Salvatore 66, 77, 78.
Dionisotti, Carlo 65, 69.
Di Rosa, Clemente 85, 86, 114, 227n.
Di Rosa, Paola Francesca 86.
Di San Giuliano, Antonino Paternò
Castello marchese 301.
Donegani, Pietro 148.
Donizetti, Gaetano 134.
Dossi, Carlo 65, 77.
Dotti, Marco 96n.
Doyen, Michele 206.
Ducos, Marziale 144, 227n.
Dunant, Jean Henri 239, 267.
Durando, Giovanni 281, 282n.
Eberhardt, Ferdinand 157.
Einaudi, Luigi 19.
Elias, Norbert 26.
Emanuele Filiberto, duca di Savoia
281n.
Emiliani Giudici, Paolo 65.
Escoffier, Carlo 304.
Eugenio III, papa 288.
Facchetti, Giovan Battista 148.
Facta, Luigi 311, 312.

Faini, Mario 84.
Falconi, Bernardo 197n, 198n.
Fantoni, Giovanni 217n.
Fappani, Antonio 84, 87n, 90n, 91n, 92,
95n, 109n.
Farinacci, Roberto 317.
Farini, Domenico 127.
Farini, Luigi Carlo 100, 113, 167, 171.
Fattori, Giuseppe 159.
Fattori, Luigi 257n.
Faucci, Riccardo 29, 30n, 32n, 33n.
Fauchery, Augustine 200.
Faverzani, Luciano 214n, 215n, 221n,
235n.
Federici, Bortolo 226, 227.
Federico I detto il Barbarossa 59.
Fedro 78.
Fejérváry, Géza von 269, 270.
Felici, Lucio 66.
Felisini, Daniela 25n.
Fenaroli, Girolamo 112.
Fenaroli, Ippolito 102, 104.
Fenton, Roger 132.
Feraldo 101.
Ferdinando I d’Asburgo-Lorena,
imperatore degli austriaci 221, 222.
Ferdinando II di Borbone, re delle Due
Sicilie 163, 168.
Feriti, Giovanni Marsilio 148.
Ferrara, Francesco 15, 18, 19, 21, 29, 30,
32, 33n.
Ferrari, Giovanni 214, 238, 244, 281, 282,
285, 286.
Ferrari, Giuseppe 71.
Ferrari, Maria Luisa 40n.
Ferrari, Paolo 149.
Ferrari, Pietro 149.
Ferraris, Galileo 48.
Ferraris, Giuseppe 227, 228, 273.
Ferravilla, Edoardo 77.
Ferretti, Jacopo 75.
Feuillet, Octave 291.
Filippi, Francesca B. 47n, 48n.
Filippini, Giulio 239n.
Finoia, Massimo 32n.
Fiocca, Giorgio 45n.
Fiorentini, Lucio 112.
Focosi, Roberto 204, 207, 209.
Fogazzaro, Antonio 77.
Folengo, Teofilo 65.
Fontana, Giovanni Luigi 41n.
Fontebasso, Giovanni 116.
Foresti, Giovanni 149.
Formentini, Fausto 85n.
Formigli, Edilberto 221n.
Fornasieri, Camillo 86n.
Forrer, Leonard 220n.
Foscarini 79.
Foscolo, Ugo 57, 66, 68, 99, 197.
Fossati, Luigi 84.
Francesco Giuseppe I, imperatore
d’Austria 126, 164, 166, 193, 217, 233,
234, 269, 270.
Francesco II di Borbone, re delle Due
Sicilie 139, 168.
Francesco IV d’Este, duca di Modena e
Reggio 217.
Francisco Franco 314.
Franzoni, Oliviero 97n.
Frassine, Franco 87n, 89n.
Frigerio, Antonio 118.
Frizzoni, Giacomo 257n.
Frugoni, Arsenio 100n.
Fumagalli, Guglielmo 149.
Fuzier, Luigi 45.
Gabrielli, Rodolfo conte di
Montevecchio 133.
Gadda, Carlo Emilio 77.
Galatti, Angelo 154.
Galeazzi, Giuseppe 228, 229.
Galiani, Ferdinando 69.
Gallia, Giuseppe 105, 106.
Gallo, Agostino 216.
Gallo, Stefano 37n.
Gambarin, Giovanni 57n.
Garibaldi, Giuseppe 30n, 59, 100, 103,
104, 111, 113, 114, 117, 130, 137, 138, 139,
140, 141, 142, 143, 144, 145, 146, 147, 148,
149, 150, 152, 153, 154, 155, 156, 158, 159,
168, 169, 170, 188, 192, 193, 194, 195, 196,
234, 241, 242, 243, 244, 245, 247, 250,
254, 255, 256, 271, 277, 279, 281, 292,
295, 302.
Garibaldi, Menotti 151.
Garone, A. 237.
Gazzoletti, Antonio 113.
Genoino, Giulio 82.
Geppert, Alexander C.T. 47n.
Gheza, Franco 97n.
Ghiaia, Luigi 174n.
Ghidoni, Domenico 210n.
Ghirardini, Goffredo 159.
Ghisalberti, Alberto Maria 62n.
Giaccaria, Paolo 95n.
Gianfranceschi, Ida 214n, 215n.
Giani, Giovanni 277n.
Ginguené, Pierre-Louis 65.
Gioberti, Vincenzo 73, 226.
Gioia, Melchiorre 15.
Gioli, Gabriella 12n, 18n.
Giolitti, Giovanni 257, 299, 308, 309,
310.
Giordani, Pietro 72.
Giorgi, Luigi 250, 263, 264.
Giorgini, Gianbattista 291.
Giraud, Giovanni 78.
Giuffrida, Romualdo 48n.
Giulini della Porta, Cesare 100.
Giuntini, Andrea 38n.
Giuseppe II d’Asburgo-Lorena 68.
Giusti, Giuseppe 71.
Giustinian, Giovan Battista 113.

Glisenti, Francesco 112, 114, 140.
Goldoni, Carlo 65, 79.
Gooch, John 317n.
Goodman, Nelson 28.
Gorchakov, Mikhail Dmitrievich 132,
294.
Gradi, Florio 98.
Gramsci, Antonio 73.
Grazzini Antonfrancesco detto il Lasca
66.
Gregorini, Giovanni 84n, 87n, 88n, 89,
92n, 94n, 95, 98n.
Gregorio XVI, papa 69.
Griffini, Zaverio 102.
Griziotti, Giacomo 139.
Grossi Dandolo, Marianna 198, 201,
202, 203.
Grossi, Tommaso 55.
Guadagnini, Gaetano 199.
Gualla, Bartolomeo 239.
Guazzoni, Carlo 149.
Guerini, Camillo 114.
Guerrazzi, Francesco Domenico 54n, 55.
Guerrieri Gonzaga, Anselmo 113.
Guerzoni, Giuseppe 103, 110, 114, 140,
149, 150, 241.
Guidi, Laura 227n.
Guidi, Marco Enrico Luigi 12n, 30n,
32n, 33n.
Gussago, Giuseppe 150.
Guzzetti, Pietro Antonio 91.
Haussmann, Georges Eugène 134.
Haynau, Julius Jacob von 227n, 230,
231.
Helfert, Joseph Alexander von 230n.
Herre, Franz 189n.
Heusch, Nicola 307.
Hubner, Joseph Alexander von 164.
Hudson, Lord 127.

Imbriani, Vittorio 65, 77.
Induno, Girolamo 206.
Inganni, Angelo 234n.
Irace, Fulvio 45n.
Jemolo, Arturo Carlo 174n.
Johnson, Cesare 244n.
Johnson, M. 244n.
Johnson, Stefano 244, 284n.
Kafka, Franz 269n.
Kant, Immanuel 70.
Kipling, Rudyard 126.
Knolle, Johann 203.
Koppen, Jimmy 94n.
Labus, Giovanni 218, 219.
Lacaita, Carlo G. 37n, 43n, 46n.
La Farina, Giuseppe 138, 162.
Lamarmora, Alessandro 130.
Lamarmora (o La Marmora), Alfonso
129, 130, 131, 132, 133, 145, 166, 245, 303,
304, 312, 318n.
La Masa, Giuseppe 139, 141.
Lamberti, Anton Maria 78.
Lambruschini, Raffaello 88.
Lampertico, Fedele 32, 33.
Landi, Pietro 261, 262.
Langella, Giuseppe 56n, 59n, 60n, 63n.
Lasca v. Grazzini, Antonfrancesco.
Lavy, Amedeo 227.
Lazzeri, Gerolamo 59n.
Le Breton, Elisabeth 221n.
Lechi, Francesco 5.
Lechi, Giuseppe 223.
Lechi, Luigi 102, 104, 105, 106, 157, 223,
224, 226.
Lechi, Piero 235n.
Lechi, Teodoro 102, 109.
Legnazzi, Antonio 110, 112, 114, 115, 140,
236, 240, 293.
Leone XIII, papa 253.
Leopardi, Giacomo 11, 55, 66, 80, 81, 180.
Levra, Umberto 5, 35n, 318n.
Librino, Emanuele 109n.
Lincoln, Abraham 293, 294.
Liprandi, Pavel Petrovič 133.
Locatelli, Francesco 150.
Lombardi, Agostino 246.
Lombardi, Giovanni Battista 253, 260.
Lomonaco, Francesco 69.
Lonardi, Gilberto 58n.
Longanesi, Leo 175n.
Longhi, Giuseppe 202.
Longo, Francesco 227n.
Lopez, Guido 46n.
Lorioli, Vittorio 265n, 273n.
Lotti, Luigi 318n.
Lucchesi Ragni, Elena 214n, 215n, 245n,
265n.
Luigi Filippo di Borbone-Orléans, re dei
francesi 292.
Lusiardi, Giovan Battista 159.
Luzzago, Alessandro 90.
Luzzatti, Luigi 32, 33.
Maccagnini, Eugenio 254.
Macchioro, Aurelio 16n.
Machiavelli, Niccolò 20.
Maestri, Francesco 139.
Maffezzoli, Basilio 253.
Maffezzoli, Camillo 238.
Maggi, Bernardo 102.
Maggi, Carlo Maria 73, 77.
Magliulo, Antonio 11n.
Magoni, Emilio Vincenzo 209, 210, 211.
Mai, Andrea 254.
Maioli, Luigi 205.
Majocchi, Achille 139.
Malacria, Nestore 307.
Malatesta, Adeodato 204, 205.
Malatesta, Errico 310.
Malfi, Lucio 95n.
Maluta, Carlo 118.
Malvestiti, Maurizio 227n, 259.
Mameli, Goffredo 54, 58, 80.
Manara, Luciano 206, 208, 281.
Manenti, Giovan Battista 150.
Manfredini, Luigi 227.
Mangone, Mario 37n.
Manicini, Carlo 206.
Manin, Daniele 111, 162, 193.
Manin, Giorgio 139.
Mannucci, Francesco Luigi 54n.
Mantovani, Dino 263n.
Manzoni, Alessandro 55, 58, 59, 60, 61,
65, 66, 68, 73, 74, 75, 76, 88, 106, 128.
Maraval, José A. 20n.
Marcelli, Umberto 174n.
Marchetti, Leopoldo 174n.
Marelli, Giacomo 150.
Marenzi, Francesco Antonio 224n.
Maria Beatrice d’Asburgo-Este 217.
Maria Clotilde di Savoia 163.
Maria Teresa d’Asburgo 68.
Mario, Alberto 155.
Marschall, Rudolf Ferdinand 269, 270.
Martellato, Dino 95n.
Martinazzi, Giovanni 157.
Martinelli, Ulisse 159.
Martinengo Cesaresco, Giovanni 104.
Martinetti, Giacomo 204.
Martini, Enrico 183.
Martini, Rodolfo 229n, 251n.
Martoglio, Nino 77.
Martucci, Roberto 317n.
Marx, Karl 26.
Maselli, Costantino 210, 212.
Maselli, Emilio 212.
Maselli, Pio 212.
Maselli Dandolo, Ermellina 197, 198,
201, 204, 205, 206n, 209, 210, 211, 212.
Masetti Zannini, Gian Ludovico 98.

Massardi, Giuseppe 238.
Matteotti, Giacomo 313, 314.
Mauri, A. 252.
Mazzini, Giuseppe 80, 129, 130, 136, 138,
141, 144, 150, 158, 188, 189, 231n, 305.
Mazzoldi, Luigi 232n.
Mazzotta, Clemente 53n.
Mazzuchelli, Giammaria 224n.
Mazzuchelli, Luigi 223.
Mecco, Leo 200.
Medici, Giacomo 140, 157, 304.
Mela, Vincenzo 112, 115, 116.
Melegari, Luigi 113.
Meli, Giovanni 78, 82.
Mella, Giovanni 116.
Menabrea, Luigi Federico 304, 307, 312,
316, 318n.
Menscikoff, Aleksandr Sergeevič 131.
Messedaglia, Angelo 32.
Metternich, Klemens von 165, 189.
Minghetti, Marco 100, 171.
Misiti, Massimo 41n.
Mistrali, Franco 190n.
Modesti, Adolfo 213n.
Molinari, Giosuè 150.
Molinari, Michelangelo 200.
Molon, 119.
Mommsen, Teodoro 74.
Mompiani, Giacinto 223.
Mondini, Maurizio 215n, 234n, 245n,
265n.
Mondini, Piero 201n.
Montaldo, Silvano 38n, 39n, 50n.
Montanari, Daniele 214n.
Montanari, Francesco 139.
Monterumici, Antonio 257n.
Monti, Antonio 206n, 208n.
Monti, Gerolamo 102, 293.
Monti, Vincenzo 66, 68, 72.
Monticone, Alberto 95n.
Morandi, Luigi 65, 67, 74, 76, 82.

Morandini, Francesca 215n, 218n.
Morando, Alessandro 110, 112.
Morando Attendolo-Bolognini, Clotilde
112.
Morato, Enrica 215n.
Moratti, Luigi 159.
Moretti, Paolo 151, 154.
Moretti, Virginio Cesare 151.
Moretto v. Bonvicino Alessandro.
Mori, Attilio 158.
Moricola, Giuseppe 38n.
Moro, Marco Antonio 151.
Morosini, Emilio 206, 208.
Morosini Negroni Prati, Giuseppina
detta Peppina 207, 208.
Morucci, Alberto 215n.
Moscati, Ruggero 174n.
Moscetti, Carlo 284.
Mosto, Antonio 139.
Motti, Attilio Silvio 284.
Mottinelli, Bortolo 151.
Mozzarelli, Cesare 45n, 94n.
Murat, Gioacchino 58, 59, 290.
Mussolini, Benito 311, 312, 313, 314, 315,
317.
Newton, Isaac 14n.
Nicola I, zar di Russia 126, 134.
Nieri, Rolando 318n.
Nievo, Ippolito 60, 77, 152, 158.
Nigra, Costantino 75, 76, 113, 127, 136,
296.
Nobili, Augusta 95n.
Nodari, Giuseppe 159.
Nullo, Francesco 114, 117, 290.
Nullo, Giovanni 156, 157.
Napoleone I Bonaparte, imperatore dei
francesi 16, 36, 53, 125, 195n, 198, 221,
223.
Napoleone III Bonaparte, imperatore
dei francesi 101, 125, 128, 129, 132, 134,
136, 137, 147, 148, 161, 162, 163, 164, 165,
166, 167, 169, 170, 193, 234, 235, 237,
238, 239, 247, 274, 281, 283, 293, 300.
Nargeot, Jean Denis 200.
Nathan, Giuseppe 144.
Natoli, Giuseppe 117.
Nava, Gabrio Maria 91.
Navarrini, Roberto 232n, 260n.
Nenni, Pietro 310.
Neri, Filippo 90.
Padula, Vincenzo 76, 77.
Pagani, Giovan Battista 106.
Pagliani, Luigi 48.
Pagliano, Eleuterio 206.
Palazzi, Faustino 233.
Pallavicino-Trivulzio, Giorgio 162.
Pallini, Luciano 18n.
Palmerston, lord v. Temple, Henry
John.
Panazza, Gaetano 215n, 271n.
Panazza, Gaetano, maggiore 249, 250,
279, 280.
Panazza, Pierfabio 218n, 221n, 252n.
Panciera di Zoppola, Niccolò 110.
Panfilio 176.
Odorici, Federico 102, 155.
Oldofredi Tadini, Ercole 101, 102, 104.
Oliva, Gianni 66.
Olmo, Carlo 37n, 44n.
Omodeo, Adolfo 174n.
Onger, Sergio 9, 38n, 39n, 43n, 94n,
214n, 215n, 224n, 256n, 263n, 269n.
Oppliger, famiglia 201.
Orazio (Quinto Orazio Flacco) 78.
Orlando, Vittorio Emanuele 310.
Orlov, Andrej 134, 135.
Orsini, Felice 163.
Orsini, Vincenzo 139, 152, 153.
Ortes, Gian Maria 14n.
Pansoya, Giovanni Ignazio 79.
Panzerini, Lorenzo 151.
Pareto, Lorenzo 292.
Parini, Giuseppe 65, 73, 76.
Parisi Acquaviva, Daniela 32n, 33n.
Pasquali, Giuseppe 117.
Pavoni, Lodovico 91, 96.
Pavoni, Rosanna 45n, 49n.
Paxton, Joseph 46.
Pazzaglia, Luciano 91n.
Pecchio, Giuseppe 17.
Pecorari, Paolo 33n.
Pecori Giraldi, Guglielmo 311.
Pegrari, Maurizio 214n.
Pélissier, Aimable 132, 133.
Pelizzari, Antonio 210.
Pellion di Persano, Carlo 139.
Pelloux, Luigi 307, 308, 309, 310, 312,
316.
Percoto, Caterina 77.
Peri, Vincenzo 197n.
Perini, Umberto 197n, 198n, 200n,
201n, 205n, 209n, 210n, 212n.
Perticari, Giulio 72.
Pesciarelli, Enzo 18n.
Pessolano, Maria Raffaella 42n.
Petrarca, Francesco 65, 189.
Petrocchi, Giorgio 54n.
Peverati, Tancredi 276n.
Peyron, Amedeo 78, 79.
Pezzini, Enzo 97n.
Piaggio, Martin 78.
Pialorsi, Vincenzo 213, 214n, 215n, 216n,
217n, 218n, 219n, 220n. 222n, 223n,
224n, 226n, 227n, 229n, 230n, 231n,
232n, 235n, 237n, 240n, 242n, 248n,
252n, 254n, 255n, 256n, 257n, 258n,
260n, 261n, 263n, 264n, 266n, 271n.
Piamarta, Giovanni Battista 87, 92, 93.
Pianeri (o Raneri), Pietro 152.
Piazzoni, Irene 49n.

Picco, Leila 44n, 47n, 50n, 51n.
Picone Petrusa, Mariantonietta 42n,
47n, 49n, 50n.
Pieri, Piero 109n.
Pilo, Rosolino 137.
Piloto, Angelo 112, 115, 116, 118.
Pintozzi, Lorenzo 92.
Pio IX, papa 117, 172, 190, 191, 194, 224,
225, 249, 253.
Pisacane, Carlo 137, 168.
Pischedda, Carlo 174n.
Pitré, Giuseppe 76.
Pizzetti, Silvia 46n.
Plevani, Antonio 153.
Plona, Giovan Battista 152.
Pogliaghi, Lodovico 265.
Ponti, Paola 60n.
Porta, Carlo 65, 66, 67, 69, 71, 72, 73,
74, 76, 77, 79, 82.
Porta, Gianfranco 214n, 230n.
Portula, Angelo Melano di 183.
Prati, Gioacchino 110.
Premi, Luigi 159.
Prignacchi, Luigi 152.
Prodi, Paolo 19, 22n.
Putinati, Francesco 216, 217.
Quadrio, Francesco Saverio 65.
Quaranta, Costantino 111.
Quaranta, Ettore 106.
Quarenghi, Antonio 147, 149.
Radetzky, Johann-Joseph-Franz-Karl
conte di Radetz 228, 229.
Raffaello Sanzio 205.
Raglan, Lord v. Somerset, FitzRoy
James Henry.
Rapaggi, Antonio 217n.
Raponi, Nicola 95.
Rattazzi, Urbano 101, 128, 166, 302.
Raulich, Italo 109n.

Read 133.
Redolfi, Fortunato 90.
Redondi, Pietro 46n.
Regina 82.
Ricasoli, Bettino 167.
Riccardi, Carla 46n.
Richiedei, Enrico 152.
Riedingher 291.
Rimoldi, Antonio 90n.
Rizzardi, Luigi 152.
Rizzini, Prospero 216n, 219n, 220n, 222,
228, 242n.
Rizzo, Gino 54n.
Roatta, Mario 316.
Robecchi, Franco 246n.
Rocca, Giancarlo 95.
Roccia, Rosanna 35n.
Rochat, Giorgio 317n.
Rodi, Carlo 139.
Rodolfi, Giulio 239n.
Roggi, Piero 12n, 18n.
Romani, Roberto 15n, 16n, 17, 18n, 30n,
42n.
Romano, Maurizio 94n, 95n.
Romano, Sergio 318n.
Romeo, Rosario 174n, 192n.
Ronchi, Filippo 231n, 232n, 252n, 255n,
270n, 318n.
Ronzoni, Filippo 152.
Rosa, Erminia 143.
Rosa, Gabriele 143, 224.
Rosa, Norberto 78, 79.
Rosa, Giovanna 46n.
Rosi, Michele 142n.
Rosmini, Antonio 88, 128.
Rossa, Giovanni Maria 111.
Rossetti, Giacomo 209.
Rota, Giovanni Battista 85n.
Rubattino, Raffaele 138.
Rudinì, Antonio Starabba marchese di
258.
Ruffoni, Giuseppe 118.
Russel, John (Lord Russell) 293.
Russell, William Howard 133.
Russo, Ferdinando 77.
Ruzante v. Beolco, Angelo.
Sabbatucci, Giovanni 317n.
Sacchetti, Franco 66.
Sacchi, Gaetano 114, 140, 157, 158.
Sacchi, Giuseppe 40.
Saitta, Armando 61n.
Salandra, Antonio 301, 310.
Salcuni, Andrea 221n.
Saleri, Giuseppe 218, 221n.
Salini, Andrea 92n, 93n, 94n.
Salvadego, Pietro 110, 112, 115, 116.
Salvatorelli, Luigi 174n, 175, 176.
Salvetti, Antonio 210, 211.
Salvirch (o Salwirck, Salwirch), Joseph
(o Giuseppe) 214n.
Salvoni, Antonio 111.
Sand, Georges 77.
Sangervasio, Girolamo 259.
Sani, Roberto 95.
Santato, Guido 53n, 54n.
Santi Bevilacqua, Maria Carolina 227,
228.
Santino, Umberto 318n.
Sapegno, Natalino 66.
Sartori, Giovanni 152.
Sasso, Giovanni Antonio 199.
Say, Jean-Baptiste 14, 15.
Scaglia, Bernardo 224n, 231n.
Scaluggia, Cesare 153.
Scalvini, Giovita 68, 106, 109, 223, 290.
Scaratti, Pietro 160.
Scarpari, Michelangelo 153, 154.
Scarpari, Vincenzo Gaetano 154.
Schiaffino, Simone 141.
Schiarini, Pompilio 282.
Schwartz, Stefan 269n.
Scialoja, Antonio 11n, 18, 21, 29, 30, 32, 33.
Scolari, G. 268, 269.
Scott, Walter 75.
Scotton, fratelli 87.
Scribe, Eugène 295.
Sedaboni, Nicola 112, 114, 140.
Sella, Quintino 29n, 41.
Sellon, Adele Benso de, marchesa di
Cavour 176.
Selvafolta, Ornella 49n.
Semenza, Antonio 141.
Serini, Girolamo 277, 278.
Sestan, Ernesto 61n.
Settembrini, Luigi 16, 65, 68.
Seymour, Lord 289.
Sica, Maria 37n.
Signori, Pietro 92.
Silvestri, Paolo 28, 29, 31n.
Sirtori, Giuseppe 139.
Sismondi, Jean-Charles-Léonard
Simonde de 55, 56n, 177, 178.
Smith, Adam 14, 30.
Sodini, Elena 227n.
Solitro, Giuseppe 109n.
Somerset, FitzRoy James Henry (Lord
Raglan) 131, 132, 133.
Sonnino, Sidney 301.
Sora, Alessandro 157, 233.
Sorgato, Antonio 202, 203.
Spadari, Gaetano 157.
Spadolini, Giovanni 170, 174n.
Sparavieri, Antonio 112, 116.
Speranza, Filippo 250, 258, 259, 275,
276, 280.
Speri, Tito 99, 104, 157, 196, 231, 233,
240n, 259, 270, 271.
Spinazzi, Pietro 158.
Spinazzola, Vittorio 46n.
Stagnetti, Pietro 139.
Stella, Pietro 95.
Stendhal v. Beyle, Marie-Henri.

Stocco, Francesco 139.
Strada, Marisa 66.
Stradiotti, Renata 214n, 215n.
Strazza, Giovanni 200.
Strik Lievers, Lorenzo 318n.
Taccolini, Mario 9, 83n, 84n, 85n, 86n,
87n, 89n, 90n, 91n, 94n, 95n, 96n, 97n,
98.
Tagliaferri, Giovanni 210.
Tailetti, Pio 258n.
Talamo, Giuseppe 174n.
Tantari, Antonio 242n.
Tanzi, Carl’Antonio 73.
Tartaglia, Nicolò 216.
Taschini, Giuseppe 154.
Tassani, Giacomo 160.
Tassini, Aldo 237n, 242n, 243n, 249n,
250n, 273n, 277n, 280n, 281n, 282n.
Tasso, Torquato 78.
Tautenhayn, Josef 269n.
Tavella, Luigi 154.
Tazzoli, Enrico 158.
Tecchio, Sebastiano 118, 119.
Tedeschi, Paolo 97n.
Tedoldi, Leonida 239n.
Tempio, Domenico 78.
Temple, Henry John (Lord Palmerston)
126.
Tenca, Carlo 71, 72.
Tennyson, Alfred 131.
Terraroli, Valerio 197n, 198n, 200.
Terzi, Giacomo 154.
Tesio, Giovanni 66.
Testori, Fabio 92.
Thaon di Revel, Genova Giovanni 128.
Thaon di Revel, Paolo 312.
Tiboni, Pietro Emilio 106, 107, 288, 292.
Tigri, Giuseppe 71.
Tito Livio 57.
Tolstoj, Lev Nikolàevič 133.

Tommaseo, Niccolò 55, 66, 68, 71, 75,
76, 88, 111.
Tommasi, Angelo 154.
Tommasi, Bortolo 154, 155.
Tonelli, Andrea 223.
Toniolo, Giuseppe 88.
Tonni Bazza, Achille 155.
Torelli, Luigi 264.
Tornatore, G. 200n.
Torre, Carlo Agostino 157.
Tovini, Giuseppe 87, 88.
Tovini, Mosè 87.
Tracagni, conti 257n.
Traina, Mario 213n.
Trezzi, Luigi 97n.
Tronca, Francesco Paolo 59n.
Trova, Assunta 251n.
Tua, Giuseppe 276.
Turricchia, Arnaldo 217n, 229n.
Türr, Stefano 139.
Tyssens, Jeffrey 94n.
Ugolini, Romano 5, 190n, 193n, 194n.
Ugoni, Camillo 65, 67, 106, 109, 223,
232, 233.
Ugoni, Filippo 100, 102, 106, 109, 223.
Umberto I, re d’Italia 119, 250, 252n,
258, 259, 260, 277, 278, 280n, 281, 284,
300, 301, 307.
Uziel, Enrico 152.
Venanzi, Alessandro 204.
Venino Berra, famiglia 201.
Ventura, Angelo 37n.
Verdi, Giuseppe 75.
Verga, Giovanni 65, 76, 77.
Verri, fratelli 66.
Verri, Alessandro 74, 78.
Verri, Pietro 68, 73.
Verzeri, Girolamo 116, 296.
Vico, Giambattista 70.
Vidotto, Vittorio 317n.
Vighi, 80.
Vigliani, Pietro Antonio 158.
Villa, Tommaso 47.
Villiers, George William (Lord
Clarendon) 135.
Viola, Lorenzo 155.
Violini, Piccino 114.
Vismara, Paola 86n.
Vittorio Emanuele II di Savoia, re
d’Italia 30, 59, 75, 100, 101, 103, 104, 114,
128, 132, 139, 163, 164, 166, 167, 169, 170,
171, 188, 195, 229, 234, 235, 241, 242, 244,
250, 252, 257, 264, 277, 278, 279n. 280n,
281n, 282, 284, 286, 287, 290, 291, 292,
293, 296, 300, 304.
Vittorio Emanuele III di Savoia, re
d’Italia 300, 301, 309, 310, 311, 312, 314, 315.
Viviani, Raffaele 77.
Wacquant, Loic 21n, 28n.
Weber, Max 26.
White Mario, Jesse 130.
Zamagni, Vera 85n.
Zambianchi, Callimaco 138, 149, 150.
Zanardelli, Giuseppe 40n, 102, 233, 254,
258, 261, 267, 268, 269n, 276n, 308.
Zanchi, Goffredo 88, 89n.
Zangrandi, Ruggero 318n.
Zani, Carlo 214n.
Zaninelli, Sergio 94n.
Zanzola, Luigi 27n.
Zapparelli, Gaetano 217, 218, 219, 220,
221, 222, 223, 226, 235, 236, 237, 240,
241, 242, 248.
Zasio, Emilio 155.
Zavalloni, Fabio 246n.
Ziliani, Francesco 156.
Zima, Carlo 259.
Zocchi, Paola 46n.
Zoppola, Nicola 112.
Zorutti, Pietro 78.
Zorzi, Luigi 266.
Zuali, Anacleto 158.
Zucchetti, Anna 87n.
Zuccotti Falconi, Anna Maria 197n.
Vaccaro, Luciano 90n.
Vacchetta, 183.
Vagnetti, Giovanni 251.
Valentini, Pietro 155.
Valotti, Diogene 101, 102, 104, 240, 293.
Valsecchi, Franco 174n.
Van Dijck, Maarten 94n.
Vantini, Rodolfo 217n.
Vaschini, D. 239n.
Vecchio, Giorgio 89n, 90n, 91n.

Indice
5Presentazione. 1861-2011
Luciano Faverzani
atti del convegno
Brescia nell’Italia
9 Saluti e ringraziamenti
Francesco Lechi
11 Gli economisti e l’Unità d’Italia
Terenzio Maccabelli
35 La nuova Italia alle esposizioni
industriali
Sergio Onger
53 La letteratura del Risorgimento
e l’Unità nazionale
Giuseppe Langella
65 Tra lingua e dialetto: letteratura
e identità nazionale
Piero Gibellini
83
Economia, società e istituzioni
nell’azione dei cattolici bresciani
negli anni dell’unificazione nazionale
Mario Taccolini
ciclo di conferenze
Bicentenario della nascita del conte
Camillo Benso di Cavour (1810-2010)
123 Cavour e la guerra di Crimea
Marcello Berlucchi
137 La partecipazione dei bresciani
alla spedizione dei Mille
Luciano Faverzani
161 Cavour e l’Unità d’Italia
Marziano Brignoli
175 Gli anni giovanili di Cavour
e il suo Diario (1833-1843)
Luigi Amedeo Biglione di Viarigi
ciclo di conferenze
Centocinquantesimo anniversario
dell’Unità d’Italia (1861-2011)
187 Riflessione sul 150º dell’Unità
nazionale
Romano Ugolini
197 L’iconografia dei Dandolo
Bernardo Falconi
99 Brescia città del Regno di Sardegna
(1859-1861)
Luigi Amedeo Biglione di Viarigi
213 Per una storia metallica
del Risorgimento a Brescia
Pierfabio Panazza
109 Gli esuli d’oltremincio e trentini
dal 1859 al 1866
Luciano Faverzani
287 17 marzo 1861 a Brescia
Marcello Berlucchi
297 Il ruolo dei militari nella vita politica
italiana dal 1861 al 1943
Filippo Ronchi
319 Indice dei nomi
Finito di stampare nel febbraio 2015
da Officine Grafiche Staged, San Zeno Naviglio (Bs)