Racconti 2010 - cidac scafati

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Racconti 2010 - cidac scafati
1° Premio al racconto
IL VALORE DELLA LIBERTÀ
di VALERIA D’ANTUONO - Cugnoli (Pescara)
Scuola Elementare “D. Tinozzi” di Alanno (Pescara)
Motivazione:
Che valore ha la libertà? Per Giulia e Cipy essa ha le vesti del rispetto e della scoperta. Questo comporta
la perdita di un mondo conosciuto o di un amico pennuto, ma è un rischio che bisogna correre per
poterne gustare il sapore.
Giulia era una bambina di dieci anni che aveva un canarino giallo di nome Cipy, al quale era tanto affezionata. Lo
teneva in gabbia e molte volte aveva avuto la tentazione di lasciare aperto lo sportello della gabbietta, per vedere se il
suo uccellino, che sembrava felice, lo era davvero, tanto da ritornare in gabbia spontaneamente. Però le era sempre
mancato il coraggio perché pensava: « E se poi non torna più e vola lontano? ». Una mattina d’estate, accadde che lo
sportello rimase aperto per errore e Cipy ne approfittò per scappare via. Subito volò in alto e si posò sul filo della luce
che era di fronte alla casa. Per la prima volta vide l’azzurro del cielo e tanti altri uccelli colorati che cinguettavano felici
nell’aria. Per lui era un mondo nuovo a cui non era abituato e rimase sorpreso nel vedere le meraviglie della natura che
lo circondavano. Nel frattempo Giulia si accorse della fuga di Cipy e, preoccupata perché credeva che il suo piccolo
canarino non riuscisse a trovare la strada del ritorno, andò subito a prendere la gabbietta, aprì lo sportello, la mise nel
cortile e sparse tutt’intorno semini di mangime. Nel suo cuore pensava: « Vedrai Cipy, da oggi in poi sarà sempre così:
potrai uscire ed entrare quando vorrai e non soffrirai la fame, torna ti aspetto! ». Proprio in quel momento Giulia vide
Cipy passare insieme ad altri uccelli, lo riconobbe dal suo cinguettìo allegro e festoso. Lo seguì con lo sguardo fino a
quando sparì in alto nel cielo azzurro d’estate e capì che il suo piccolo canarino non sarebbe più tornato da lei. In
quell’istante avvertì una stretta al cuore, mentre una lacrima le scendeva sul viso lentamente. Poco dopo, però, Giulia
provò ad immaginare la sua vita imprigionata in una gabbia e questo la spaventò molto. Capì allora che non c’era bene
più prezioso della libertà e, guardando in alto nel cielo, fece un grande sorriso in segno di saluto al suo piccolo Cipy.
2° Premio al racconto
L’UGUALIANZA
di LUDOVICA IVIE OLIHA - Colleferro (Roma)
Scuola Elementare “Parodi-Delfino” di Colleferro (Roma)
Motivazione:
La testimonianza di un bambino che, con semplici parole, evidenzia quanto sia importante avere la
consapevolezza che siamo tutti uguali affinché ci si possa arricchire grazie agli altri e alle loro culture.
La Costituzione dice che siamo tutti uguali, qualsiasi sia il colore della nostra pelle, qualunque sia la nostra religione, se
siamo ricchi o poveri, se siamo giovani o vecchi, se siamo del sud o del nord, però, purtroppo non è sempre così nella
realtà. Noi pensiamo sempre di essere i più bravi, i migliori, i più belli, i più puliti degli altri, io invece penso che questo
non sia vero, perché, dobbiamo essere pronti ad accettare tutti, anzi dovremmo capire che da persone diverse da noi,
possiamo imparare tante cose. Io per esempio mi sento uguale a tutti i miei amici anche se la mia pelle è un po' più
scura; per me non c'è mai stato nessun problema e nessuno mi ha mai detto qualcosa che mi ha ferito. Invece, a mia
sorella, un'amichetta dell'asilo non le faceva mai fare la principessa, perché diceva che le principesse non sono nere;
allora mia sorella, di nascosto da mia madre, si metteva il borotalco per diventare bianca. Quando mia madre se ne è
accorta, le ha spiegato che siamo tutti uguali e che la bambina che non le faceva fare la principessa, non aveva ancora
capito che mia sorella era del tutto uguale a lei, anzi, aveva qualcosa in più di lei; aveva la fortuna di conoscere un'altra
cultura: la cultura Africana. Mia madre, allora, ha portato alle maestre di mia sorella delle cassette e dei libri, per
spiegare ai bambini, che cosa significava essere “diversi”. Però, io penso, che quelle cassette mia madre avrebbe dovuto
regalarle ad alcuni genitori, che non hanno fatto capire ai loro figli, che siamo tutti uguali, e che bisogna accettare le
differenze che ci sono tra di noi, non come un difetto, ma come un arricchimento. Mia sorella era rimasta molto ferita da
quello che era successo, ora però fortunatamente è felicissima di essere così! In classe ho sentito dire da alcuni bambini
che non vogliono andare in una scuola media perché lì ci sono troppi extracomunitari. A parte il fatto che non può
essere vero, e poi...... qual è il problema? Potremmo imparare da loro molte cose della loro cultura, delle loro abitudini,
della loro religione. Io penso che bisognerebbe essere più aperti ed accettare tutti, perché tutti apparteniamo ad una sola
e unica razza: “la razza umana”! Se tutti capissero la vera importanza dell'UGUAGLIANZA, vivremmo tutti in un mondo
migliore!
3° Premio al racconto
LA PENNA MANGIAERRORI
di SARA AMBROSIO - Giulianova (Teramo)
Scuola Elementare “G. Gardelli” di Mosiano Sant’Angelo (Teramo)
Motivazione:
Una penna magica che, stanca per i troppi errori commessi dagli alunni distratti, decide di dare le
dimissioni. Lo stile fresco e sincero di questo racconto illumina un mondo infantile dove s’impara a
crescere senza abbandonare la fantasia.
C’era una volta una penna magica che viveva nel borsellino della maestra Paola e da anni, ormai, “mangiava” gli errori
dei suoi alunni. La penna ogni giorno aveva da correggere tanti quaderni: c’era chi era più bravo e la penna si riposava
e chi era sbadato e la penna si stancava. Una mattina sulla cattedra c’era il quaderno di Sara e la penna, stravolta da
tutti gli errori che aveva visto, decise di non correggere più i compiti. - Uffa! Sono stanca! Non ce la faccio più! Questi
bambini sono proprio distratti! Più errori correggo e più ne fanno! Non hanno voglia di imparare! Io mi dimetto! pensò. Così disse alla maestra: - Maestra, io mi licenzio! Mi rifiuto di correggere quegli “Orrori” - e piegò la punta in
segno di protesta. L’insegnante, disperata, disse ai bambini: - Dovete stare più attenti e pensare a quello che scrivete;
senza la mia utilissima penna magica perdorò il lavoro! - I bambini, preoccupati perché volevano bene alla loro maestra,
diventarono più attenti e promisero di lavorare meglio. La penna mangiaerrori, contenta che i bambini facessero meno
sbagli, raddrizzò la sua punta e tornò al lavoro. E la maestra? La maestra fu felice di non aver perso il posto, ma
soprattutto fu soddisfatta per l’impegno e l’affetto dimostratole dai suoi alunni.
1° Premio al racconto
L’OMBRA
di COSTANZA MARIA RUSSO - Bergamo
Scuola Media “De Amicis” di Bergamo
Motivazione:
Strade contorte e buie, presenze inquietanti e la strana figura di un elegante signore pòpolano questo
racconto intrigante e scorrevole. Senza avere il tempo di capire, si è catapultati in un mondo misterioso.
Una luce e il volto di un’infermiera riportano alla realtà.
– Ma che diamine! Sono già le otto meno venti! – esclamò Tullia senza riuscire a trattenersi, dopo aver lanciato
un’occhiata all’orologio sul bancone della portineria. – Tesoro, dovresti calmarti – la rimproverò la signora Marciotti, la
portinaia, con la sua solita voce mielosa – non hai fiducia in tua madre – Come mai potrei? È un’ora che l’aspetto! Sa
che finisco la lezione a quell’ora! – Era vero: seduta nella portineria del palazzo, con la custodia dell’amato Vincenzo – il
suo violino – sulle gambe, Tullia si era davvero scocciata. – Ora basta. Ho capito che non arriva più: vorrà dire che
andrò da sola; ma poteva almeno avvisarmi! – No, cara, non dovresti: è già buio là fuori, chissà che brutta gente potresti
incontrare – sussurrò la portinaia aprendo appena le grinzose labbra rosa confetto, forse un po’ troppo colorate per la
sua età. Parole sprecate: Tullia si era già alzata, e messasi il violino in spalla, si stava dirigendo al portone d’ingresso. –
Buonasera, signora – concesse prima di sparire nella nebbia cittadina. Una ventata d’aria gelida l’accolse perfida sui
gradini del palazzo, scompigliandole i capelli e costringendola a sputacchiare una ciocca, facendola così infastidire
ancora di più. Prese un respiro profondo e iniziò a camminare sul marciapiede umido di pioggia di via Monte
Napoleone. C’era solo una piccola ed insignificante questione: non aveva mai fatto quella strada a piedi, solo nell’auto
di sua madre e non era proprio certa di riuscire a orientarsi. Ricordava un tragitto intricato tra vie e viuzze, piazzette,
incroci, svolte e contro svolte, ma comunque abbastanza breve. C’è sempre una prima volta, pensò per farsi coraggio.
Proseguì per un po’ lungo il marciapiede. Intorno al lei le auto di chissà quante persone che tornavano dal lavoro
passavano veloci senza sprecare del tempo prezioso, specie nelle grandi città, nell’osservare con attenzione la bellezza
dei riflessi delle luci colorate delle insegne su questa o quella pozzanghera, mitigate e accentuate dalla nebbia avvolgente
che più che infreddolire, sembrava cullare. A un certo punto si fermò per attraversare la strada, a sobbalzò quando per
poco un auto non le venne addosso, evitandola all’ultimo con una frenata brusca e pericolosa: cadde a terra per lo
spavento, poi si rialzò subito e corse via, prima di sentire l’automobilista che scendeva per correre in suo soccorso. Corse
lontano, perché probabilmente l’autista la riteneva responsabile di quanto avvenuto ma lei aveva fretta di tornare a
casa. Aveva una leggera fitta al braccio. Continuò così per parecchio tempo fino a che, giunta sufficientemente lontano,
pensò che potesse bastare. Fu allora che il suo sollievo per essere riuscita a scampare una probabile denuncia si scontrò
con la disperazione assoluta: si era persa. Concentratasi troppo sul fuggire finché le gambe reggevano, non si era accorta
di aver svoltato troppe volte dove non doveva, smarrendosi in tal modo nei minacciosi meandri del centro storico più
antico della città, quello in cui peraltro non era mai stata: un intrico di vicoli tanto bui e stretti che non era possibile
vedere il cielo. Non che avesse intenzione di provare a orientarsi con la Stella Polare, né tantomeno col muschio che
poteva trovare sui muri dei palazzi, ma le sarebbe stato di conforto. Magnifico, pensò, solo a me poteva capitare! Ma che
ho nella testa? Ma come ad arrivare fin qui? Aveva paura: di fronte a lei si estendevano oltre cinque vicoletti diversi, uno
più sconfortante dell’altro, né tantomeno riusciva a ricordare da dove fosse arrivata. Come decidere che strada
prendere? C’era il rischio di smarrirsi ancora di più nel minoico labirinto della parte più antica della città, col rischio di
incontrare più di un feroce minotauro e senza l’aiuto di Arianna. Non aveva neppure con sé il cellulare. L’unica cosa
fattibile era camminare fino a che non avesse incontrato qualcuno per chiedere indicazioni. Ruotò su stessa di
trecentosessanta gradi, ma non vide un’ombra, anche se forse era meglio così: non erano posti raccomandabili, quelli.
Se vuoi posso aiutarti io, cara. – Fu una questione di nanosecondi: si voltò, lo vide, urlò e scivolò, cadendo così distesa
sul selciato bagnato. Come biasimarla? Di fronte a lei stava un signore anziano vestito elegantemente, con un cappello
anni venti alla “Bonny & Clyde” e un paio di baffetti chiari, da sotto i quali spuntava un sorriso amichevole. Una
presenza rassicurante, certo, ma improvvisa. Da dove era saltato fuori quel tizio? Perché non l’aveva notato né ne aveva
sentito i passi? – Su alzati, non è il caso di prendere freddo. Ti sei persa? – chiese, porgendole una mano per tirarsi su.
Tullia l’afferrò e si alzò, ma accadde una cosa strana: nel momento stesso in cui toccò la pelle grinzosa del vecchio provò
una sensazione strana, qualcosa di piacevole, che non sarebbe poi mai riuscita a spiegare con esattezza per il resto della
sua vita; quando ci ripensò qualche anno dopo, riuscì a identificarla come quella sensazione che si prova quando si
trangugia una tazza di cioccolata bollente molto densa in un freddo pomeriggio invernale, mentre fuori piove e le gocce
picchiettano sul vetro, e tu senti che la vita è bella. – La ringrazio – balbettò appena si fu ripresa, mentre osservava con
attenzione il suo interlocutore. – È stato un piacere – il vecchio sorrise – hai bisogno di una mano? – Oh no, no, mi
scusi, mi sono persa, non mi ricordo come sono arrivata qui, devo tornare subito a casa! – sputò fuori alla velocità della
luce. – Per questo posso aiutarti io, se vuoi. – rispose, porgendole il braccio. Scappa, ora! Scema che non sei altro
questo è un serial-killer!, questa era la vocina con un certo buonsenso che nella testa di Tullia urlava e sbraitava senza
riuscire a farsi sentire. – Ma non sa dove abito – replicò Tullia, prendendo il braccio del gentile signore come
ipnotizzata. – Non ha importanza. Vieni, andiamo – concluse lui, cominciando a camminare nell’ oscurità di uno dei
vicoletti. Fu allora che la ragazza vide, ma non se ne rese conto subito, che il vecchio non aveva ombra. Camminarono
per parecchio, svoltando di qua, di là, a destra e a sinistra, in un percorso tanto intricato che se Tullia avesse dovuto
percorrerlo tutta da sola, anche con la migliore cartina, si sarebbe persa alla prima svolta. Ma il vecchio, simpatico e
affabile, la intratteneva e la trascinava via velocemente dagli angoli più minacciosi. Giunti a un bivio, sempre
nell’oscurità più completa, egli si fermò un momento a riflettere. – Non ricorda la strada?- chiese timidamente la ragazza.
– Non si tratta di ricordarsi quale sia la strada, ma di scegliere quella meno … – Meno? Meno cosa? – Il vecchio si
riprese: – Nulla, nulla. Vieni, dobbiamo sbrigarci. – rispose scegliendo la strada di destra. Continuarono a camminare
molto velocemente, quasi correndo, cosa strana per quell’anziano signore. D’improvviso si fermarono, vicino a un vicolo
più buio degli altri: lì c’era qualcuno, come pensò subito Tullia. Nell’oscurità fu certa d’intravedere un ghigno; poi una
voce incredibilmente acuta parlò: – Non crederai di riuscire a portarne via un’altra, vero? – Non lo credo, infatti; ne sono
certo – rispose il signore con un tono stranamente duro all’indirizzo dell’ombra. Poi, afferrata Tullia saldamente,
cominciò a correre più veloce di prima. Mentre passavano di fretta davanti agli altri incroci, Tullia era sempre più certa
di vedere ombre dagli occhi rossi che ghignavano quando la vedevano e tendevano tentacoli di fumo verso di lei. Era
terrorizzata, ma non poteva fare altro che continuare a correre dietro al vecchio, che con un’espressione a metà tra il
preoccupato e l’ardimentoso dipinta in volto, la conduceva su e giù per ripidi vicoletti, sempre più grondanti d’ombre e
di fumo. Mai più, si ripeteva, sarebbe tornata in un posto simile; mai più sarebbe uscita dal sicuro atrio del palazzone
dove studiava musica, mai più sarebbe corsa via senza una meta. Cos’erano quelle ombre, cos’erano quei ghigni?
Come l’anziano signore l’aveva raggiunta e strappata da loro? Chi era? Lei, dov’era? Di colpo il vecchio si arrestò di
fronte ad una porta: l’aprì e Tullia vide una luce. – Entra ora! Scappa! – le disse, e la spinse dentro. Per un attimo le
sembrò di galleggiare nel vuoto, infine chiuse gli occhi e fu il silenzio. Si risvegliò in una stanza d’ospedale, come capì
alla prima occhiata, dopo chissà quanto tempo: secondi, ore, anni. Era stesa sul letto, col la testa e un braccio fasciati.
Accanto a lei c’era un’infermiera. – Ti sei svegliata finalmente! Per fortuna, sai, stavi per rimetterci la pelle . – Cos’è
successo? – chiese la ragazza, con un filo di voce, mentre l’infermiera la imbottiva di flebo, farmaci e quant’altro. – Oh, il
solito. Incidente d’auto. Sai, non è per criticare, ma voi giovani dovreste rendervi conto che i semafori non sono stati
inventati per l’estetica stradale. Grazie al cielo l’uomo che era alla guida ti ha subito portato qui. Molti non si sarebbero
sprecati. Ora aspetta un momento: chiamo il dottore. – e uscì dalla stanza. La ragazza capì: era stato solo un sogno.
Talmente reale, però. Sollevata, si alzò e si diresse alla finestra, da dove osservò un po’ la città di notte: di fianco a un
lampione vide un vecchio vestito elegante che le sorrise. Così com’era comparso, sparì nella nebbia.
2° Premio al racconto
IL CAPPIO DELLA VITA
di GABRIELE DE NARDO - Salerno
Scuola Media “T. Tasso” di Salerno
Morivazione:
Renato Rossetti appartiene ad una ricca famiglia ebrea, è un ragazzo che non conosce il sapore del
sacrificio ed il valore del denaro. Sarà l’esperienza, la sofferenza, vissuta sulla sua pelle, ad insegnargli i
valori, quelli davvero importanti, per cui vale la pena di vivere.
Mi chiamo Renato Rossetti. Ho quarantadue anni. Sono ebreo. Mio padre è morto in un campo di concentramento
durante la Seconda Guerra Mondiale. Io mi sono salvato per merito suo... E’cominciato tutto dopo il nove novembre
1938. Papà voleva emigrare in un paese neutrale non assoggettato a Hitler, ma io, che a quel tempo avevo a malapena
ventidue anni, mi ostinavo a restare, convinto che la nostra condizione sociale ci avrebbe permesso di sfuggire alla
persecuzione. Dovete infatti sapere che la mia era una famiglia molto ricca, proprietaria di varie tenute. E, in effetti,
all’inizio ci lasciarono in pace, fino al quindici agosto dell’anno dopo. Ci eravamo ritirati nella nostra villa di campagna a
Torino da qualche giorno, per evitare il caldo torrido delle zone di mare. Era una casa maestosa: un viale di cemento
circondato da un giardino fiorito conduceva al cancello dell’abitazione, che era costruita su due piani. Il clima era
favoloso: per un’intera settimana il sole aveva brillato nel cielo, accompagnato da un piacevole venticello fresco. Quel
giorno, però, il sole lasciò spazio a una fitta pioggia. – Un cattivo presagio! – commentò la nonna, guardando dalla
finestra. – Cosa state dicendo, madre, è solo un po’di pioggia. – rispose papà, divertito. – Mmm... Figlio mio, faresti
meglio ad ascoltarmi: io le capisco certe cose. – gli rimproverò lei, dopo essersi seduta sulla poltrona al centro del
soggiorno. – Ora portami qualcosa dove possa appoggiare le gambe: mi sento davvero stanca. – ordinò poi. Papà
obbedì all’istante, porgendole un poggiapiedi, poi salì al piano di sopra, lasciandola sola. Lei sorrise fra sé e sé. “Stai
davvero uscendo di testa!”si disse. Poi tornò a guardare fuori la finestra. La pioggia non dava cenno di diminuire. “Se
continua così, distruggerà completamente il giardino!” si dispiacque. Nel bel mezzo dei sui pensieri, come faceva
solitamente, si addormentò profondamente. La svegliai la sera, verso le dieci, cadendo fragorosamente per le scale. Lei
rise, maligna. Rosso dalla vergogna, imprecai fra me e me, poi mi alzai e mi diressi verso la porta di ingresso. – Esco.
Non aspettatemi sveglia. – annunciai. Nonna mi guardò. Poi mi chiese, apprensiva: – Hai avvertito tuo padre? Annuii,
mentendo. Dovete sapere che io non ero proprio un bravo ragazzo: usavo il denaro come carta igienica, frequentavo
casinò e giocavo d’azzardo. Come avrei potuto dirlo a mio padre? Perciò, la sera, aspettavo che si addormentasse e
tornavo prima dell’alba. L’unica persona che era a conoscenza di questo segreto era proprio la mia cara nonna. Nonna
sorrise, sarcastica. – Vedi almeno di non fare tardi. – mi raccomandò. – Tornerò entro le due di notte. – le risposi. Poi
uscii e entrai nella mia Volkswagen. Era una macchina molto bella, con la cappotta rimovibile, verniciata
completamente di nero. Mi diressi verso un casinò al centro di Torino, del quale ora non ricordo il nome. Non potrò mai
dimenticare, però, l’odore che si sentiva quando si entrava: un lezzo di fumo e alcol che faceva rabbrividire. Le serate
che passavo lì seguivano tutte uno schema ben preciso: perdevo qualche migliaia di lire a poker e poi cominciavo a
bere. Finiva, per lo più delle volte, che mi dovessero portare a casa addormentato. Quella sera, stranamente, non bevvi,
e fui capace di tornare a casa con le mie gambe. Trovai la porta socchiusa. Entrai e sentii delle voci che urlavano parole
incomprensibili. “Tedeschi!”pensai, impallidendo. Con molta circospezione mi diressi verso il salotto e vidi papà che
veniva percosso da due soldati. Vestivano con un’uniforme scura. Erano l’ incubo di tutti noi ebrei, erano le camicie
brune, erano le SS. Feci per intervenire in aiuto del mio caro, ma una mano mi fermò. Era la nonna. – Fermo! - mi
sussurrò. Poi fece cenno di seguirla. Salimmo le scale e entrammo nella camera da letto della mia defunta madre.
Nonna indicò il letto, poi mi disse, sempre a voce tenue: – Lì, sotto il materasso, dovresti trovare una valigetta nera. – Io
eseguii l’ordine. La valigetta c’era. La presi e l’aprii. Conteneva un centinaio di fasci di banconote per un totale di circa
cinque milioni di lire. – Questi sono tutti i guadagni di tuo padre. Noi due andremo in Svizzera e ci costruiremo una
nuova vita! – mi spiegò. Io annuii, terrorizzato. Poi mi feci forza e formulai la fatidica domanda: – E papà? Bastò un suo
sguardo per farmi capire: sarebbe rimasto. Cominciai allora a piangere. - Perché? - chiesi fra i singhiozzi. Per tutta
risposta lei mi prese per mano e scendemmo le scale. Vedemmo le due SS che continuavano a picchiare papà, poi
uscimmo dal retro. Camminammo per tutta la notte senza un attimo di sosta, fino a giungere alla stazione di Torino,
dove prendemmo il primo treno – era un treno merci – per Losanna. Viaggiammo per due giorni, ma ci sembrarono
due anni: non avevamo un goccio d’acqua né una briciola di pane. Dormire non se ne parlava: non facevo in tempo a
chiudere gli occhi che l’immagine delle SS che percuotevano mio padre mi tormentava. Allora l’unico modo per passare
il tempo era parlare. Nonna mi disse che papà si era fatto picchiare volutamente dai tedeschi per guadagnare tempo:
non avrebbe mai accettato che potessi venire deportato anch’io e mi aveva dato la possibilità di salvarmi. Poi sorrise, e
disse: – Il Signore ha fatto si che possiamo ricostruirci una vita. Ora promettimi che sarai più giudizioso, e non
sperpererai più un soldo. Io glielo promisi, senza troppa convinzione. Lei continuò: – Fa che quando non ci sarò più, e
ciò accadrà fra non molto – tu possa vivere nel benessere. Altrimenti... – Altrimenti cosa? – le chiesi. – Altrimenti l’unica
cosa che ti rimarrà sarà il cappio che si trova nella stalla della tenuta di Torino! – rispose. Quando arrivammo in Svizzera
provvedemmo subito a comprare un appartamento e nonna trovò lavoro come sarta. La nostra rimaneva quindi una
vita nel lusso e io avevo ripreso a frequentare i casinò. Spesso organizzavo anche veri e propri banchetti a casa con
nuovi amici. Sembrava che niente potesse andare storto quando, il diciotto giugno 1942, la nonna morì per una febbre
persistente. Ciò mi ferì molto: le volevo molto bene. Però continuai a giocare d’azzardo e a vivere nel lusso, senza
preoccuparmi minimamente di cercare un lavoro, e ciò mi portò sul lastrico. Pian pianino, cominciavo a perdere tutti i
miei risparmi, fino ad una sera. Era il ventidue dicembre dello stesso anno. Il mio avversario era un ottimo giocatore,
con una tattica offensiva. Arrivammo a giocarci tre milioni: era tutto ciò che mi restava. Ero certo di vincere (avevo in
mano un full), perciò rialzai ancora, giocando il mio appartamento. Lui accettò la puntata e scoprì le carte. Poker di assi!
Avevo perso. - Hai imbrogliato! - lo accusai, accecato dalla rabbia, e mi gettai su di lui, colpendolo ripetutamente al
volto. Ci separò un carabiniere fuori servizio, che si trovava di passaggio nel casinò. Mi portò in carcere con l’accusa di
aggressione. Rimasi lì due mesi (non avevo i soldi per pagare la cauzione) e quando uscii di galera non avevo più un
posto dove andare. Nessuno dei miei amici volle saperne di ospitarmi. Così fui costretto a vivere per strada e chiedere
elemosina ai passanti. Il mio obbiettivo era racimolare una quantità di denaro sufficiente per tornare in Italia. Forse papà
aveva lasciato qualche altro risparmio, o forse lui stesso era tornato. Riuscii a realizzare presto il mio sogno (con l’aiuto
di un generoso signore che mi donò trecentocinquanta lire) e, il ventinove gennaio 1943 ero tornato a Torino. Percorsi
la strada per la tenuta, con il cuore in gola. Camminai per il boschetto che s’ imboccava per accedere al viale, ma con
mio immenso stupore, esso era sparito. Anche la villa non c’era più: rimanevano solo delle macerie carbonizzate e un
piccolo edificio in legno. “Devo avere sbagliato posto.” pensai. Di lì, in quel momento passava un contadino. Io lo
fermai tempestivamente. – Mi scusi, può indicarmi dove si trova la tenuta dei Rossetti? – gli chiesi. – Era qui fino a circa
quattro anni fa, quando i Nazisti la bruciarono. – mi rispose. – La ringrazio. – gli dissi con un filo di voce. Lui sorrise e si
allontanò. Allora mi gettai per terra, piangente. L’ultima mia speranza di ricominciare a vivere in maniera dignitosa era
svanita. “Forse c’è più onore nella morte...”dissi tra me e me. Il mio sguardo cadde sull’edificio di legno e,
all’improvviso, lo riconobbi: era la stalla. Allora ricordai le parole di nonna “ ...ti rimarrà solo il cappio della stalla...” e
seppi cosa fare. A passo ciondolante mi diressi verso l’edificio. Era la prima volta che ci entravo. Nonostante non ci
fossero più animali, il tanfo di letame restava evidente. Al centro della stalla pendeva il cappio. Presi uno sgabello che
un tempo era servito a mungere le vacche e salii sopra di esso, portandomi all’altezza del cappio. Lo afferrai e lo misi
attorno al collo. Poi, con un energico calcio, lanciai via lo sgabello. La pressione del cappio attorno al collo mi fece quasi
perdere i sensi. “Padre, madre, nonna... sto per raggiungervi!” pensai. Invece successe una cosa davvero strana: il
soffitto cedette, il cappio si staccò assieme ad una trave e io mi fracassai sul pavimento. Ma la cosa realmente strana fu
che dal soffitto caddero dei soldi, un mucchio di soldi, circa sei milioni. Allora capii: nonna sapeva che avrei perso tutto
il denaro e aveva messo i soldi dove sapeva che sarei andato per farla finita. Lacrime di gioia scesero dai miei occhi. Grazie nonna, ti voglio bene! - sussurrai tra i singhiozzi. Da quel giorno non ho mai più toccato una carta né organizzato
festini. Ho vissuto la vita che voleva mia nonna: una vita dignitosa.
3° Premio al racconto
LA RAGAZZA CHE GUARDA IL CIELO
di ANNA CHIARA DI MAIO - Scafati (Salerno)
Ist. Compr. Scuola Media “T. Anardi” di Scafati (Salerno)
Motivazione:
Crescere non è una cosa semplice. Lasciare ciò che si conosce per esperienze nuove ed ignote, spaventa.
Anna Chiara questo lo sa, lo sta vivendo, ma lo affronta con coraggio, senza smettere di guardare il cielo.
Anna Chiara schiaccia la punta del naso, rosso per il freddo, contro la finestra. Una nuvoletta di vapore si forma
all’altezza della sua bocca; lei si scosta in fretta per poter pulire il vetro con la manica della maglietta e ritornare a
guardare i monti bluastri che sovrastano, in lontananza, la terra scura dei campi dei contadini. È sul punto di spalancare
gli infissi, quando si ricorda di avere soltanto una maglietta leggera addosso. Le braccia ritornano stese lungo i fianchi,
mentre il vento, lì fuori, scuote le chiome scure degli alberi per qualche secondo. La ragazza guarda il cielo, coperto da
uno strato di nuvole grigie che proprio non vogliono lasciare spazio alla luce. – E dai! – borbotta, accigliata. – È quasi
primavera! Che fine hanno fatto i pomeriggi tiepidi e assolati? – Le nubi non si muovono, quasi a volerle fare un
dispetto; Anna è quasi sicura che vogliano prenderla in giro. – Fate tanto le spavalde perché sapete che io non posso
raggiungervi. Ma se potessi… – minaccia, con l’indice alzato. Le capita spesso di parlare con oggetti o cose che
tecnicamente non saprebbero comunicare con gli altri, ed i monologhi che ne escono fuori farebbero impazzire anche
un computer. Ma lei è fatta così, è proprio strana. E, a sua detta, strano è bello. Anna Chiara sguscia via dalla tenda e
cammina fino a raggiungere il suo letto. Ci si siede, sovrappensiero. Più volte le è capitato di pensare che è diventata
grande, che sta cambiando. Si guarda i piedi mentre arriccia le dita e poi le distende, muove i talloni, tende le punte.
Percorre con gli occhi le gambe non molto lunghe ed arriva alle mani, poggiate sulle cosce, strette l’una nell’altra. La
ragazza sospira sonoramente e si stende, chiudendo gli occhi. Sì, sta crescendo, sta cambiando. In positivo? In negativo?
Bah, chi può dirlo. Allunga il braccio accanto a sé e, con le palpebre ancora ostinatamente serrate, tasta il materasso alla
ricerca di un cuscino da mettere in faccia. La sua mano scorre prima sul copriletto, poi sulla testa di qualche peluche ed
alla fine arriva alla meta. Anna sorride, soddisfatta. Con un movimento rapido di polso piazza il guanciale proprio sugli
occhi, dimenticandosi delle lenti da vista che si ritrovano ad implorare pietà, soffocate dalla stoffa imbottita. Le ignora.
Che bella cuscinata. Chissà quante me ne daranno quando andremo in gita, pensa, esalando un altro sospiro sonoro.
Che strano, però. Non è stata lei a pensarci volontariamente, è stata la sua classe a emergere tra i mille pensieri della sua
testolina, come un foglio che scivola via dalle altre scartoffie chiuse di un cassetto e ti arriva di fronte. E tu non puoi fare
a meno di raccoglierlo e leggere quello che c’è scritto dentro. La terza B… la classe che dopo quest’anno dovrà lasciare.
È triste lasciarsi, soprattutto dopo che hai vissuto tre anni della tua vita con le persone che poi dovrai vedere allontanarsi
da te. Perché come sta crescendo lei, come sta cambiando lei, cambieranno tutti. – Ma non è da me buttarsi giù così! urla Anna, lanciando via il cuscino e sollevando il busto di scatto. No, questo non lo accetta. È romantica, è
malinconica, forse anche un po’ pessimista, ma non fino a questo punto. Si alza, risoluta, e a passo di marcia raggiunge
una sedia e si sistema al computer. Preme con stizza il bottone d’accensione e comincia a borbottare qualcosa riguardo
alle lacrime di coccodrillo. Ma sotto sotto sa che tutto può cambiare, tranne i ricordi. E scriverà qualcosa per tenere vivo
il ricordo dell’Anna Chiara studentessa di terza media. Per loro, solo ed esclusivamente per loro. Poggia le mani sulla
tastiera con leggerezza, senza ancora fare pressione su nessun bottone, mentre la schermata del desktop si carica
pigramente. – Tutto cambia, ma il ricordo no – il borbottìo sconnesso di prima si trasforma in una frase di senso
compiuto. Ed Anna comincia a scrivere.
1° Premio al racconto
ALBERO
di LETIZIA GUERRA - Lugo (Ravenna)
Liceo Scientifico “G. Ricci Curbastro” di Lugo (Ravenna)
Motivazione:
Gli alberi, amici silenziosi che avvolgono paure e dolori. Una confessione che diventa preghiera tra i rami
e le foglie, una ferita profonda dilania ancora il petto e rende faticoso il respiro, eppure gli alberi
ricordano che la primavera ritorna sempre.
Salgo sull’albero: un bellissimo ciliegio. La primavera è da poco incominciata e i suoi bianchi fiori sono nel pieno della
loro vita breve. Sta scendendo la sera, così le api che fino a pochi minuti fa ronzavano qui attorno sono ormai altrove,
mentre il sole mi manda i suoi raggi più tenui ma più ricchi di magia, prima di nascondersi. Sono un po’ impacciata
perché le scarpe da ginnastica mi stringono e non ho più sensibilità nei piedi, ma riesco comunque a mettermi a cavallo
di un grosso ramo. Prendo contatto abbracciandolo. Appoggio la guancia contro la corteccia ruvida ma delicata, la
mano accarezza il tronco e incontra qualche residuo di resina secca , la presenza di qualche formica non mi turba.
Continuo ad ammirare la vita che mi circonda, la luce giallina si scontra con i fiori, con le ali trasparenti degli insetti che
danzano nell’aria. Tutto sembra surreale. Mi sento tanto amata, lontana dal resto,tra i fiori di ciliegio. Trovo
fondamentale l’esistenza degli alberi. Non solo perché sono i “polmoni” del mondo, per me valgono molto di più. Me ne
accorsi qualche mese fa, mentre ammalata stavo stesa per ore sul divano guardando fuori dalla finestra. Ciò che vedevo
era solo qualche ramo spoglio che ondeggiava mosso dal vento. Fu allora che la mia testa scottante cominciò a pensare
agli alberi. Queste figure che ci sono da sempre, dove nascono, lì muoiono, lì vivono. Saggi e pazienti. Ombra e riparo.
Dopo tutto è questo quello che cercavo venendo qui, su questo ramo, in questa giornata di aprile: riparo. Riparo dal
mondo e dalla gente. Credo che tutti ne siamo costantemente alla ricerca. Io sono alla ricerca di molte cose e ho solo
diciassette anni. Una sicuramente non la ritroverò mai più: mia sorella Elisa. Quante ciliegie mangiate assieme sotto
questi alberi. Dei tre ciliegi che avevamo solo questo è rimasto. Le dispiacerebbe saperlo. È successo l’anno scorso.
Bicicletta contro automobile; vince la seconda. Posso sentire il nero dolore della notizia in ogni momento, basta il
ricordo e la morte ribussa al cuore. Ma non è stato quello il giorno più difficile, né quello del funerale. È tutto il futuro
che incomincia a farti schifo per principio. Mi tolgo le scarpe faticosamente, mi scende una lacrima. Non vedo dove
cade. Non pretendevo che il vuoto si colmasse, ma questo vuoto ora sta facendo sprofondare nel buio anche quello che
prima era pieno e colorato. Lei era la figlia maggiore. Non ero mai andata a scuola da sola. Scendeva sempre con me,
tranne per quelle rare volte in cui era ammalata. Ma sapevo che sarebbe guarita. La prima volta ho raggiunto a fatica le
scale e salirle è stato peggio, mi sentivo indifesa. All’inizio ho cercato di essere forte aggrappandomi ad una forza che
non mi apparteneva e alla fine sono precipitata nel silenzio. Ho chiesto svariate volte al mio cuore di fermarsi,
fortunatamente non mi ha mai dato retta. Mi sono isolata e ho impedito alle persone di amarmi, a me stessa di essere
amata e di amare. Che senso poteva avere per me continuare a lottare per la felicità? Non capivo che la vita è un
cerchio. Un equilibrio tra energia e spirito. Così come gli alberi in inverno perdono tutte le foglie e diventano nudi, noi
ci copriamo e ci riempiamo di indumenti. Al contrario d’estate, loro si caricano di foglie e noi ci spogliamo. Se fosse
altrimenti tutto sarebbe troppo pieno o eccessivamente vuoto. E’ tutta una questione di equilibrio. È per questo che non
nutro molta simpatia per i sempreverdi: non vedo l’evolversi delle stagioni e il trascorrere del tempo, una cosa per me
vitale e piena di fascino. Càpita che quando mi siedo sul prato a guardare i fili di grano che si muovono come archi di
violino diretti dal vento, desidero diventare tutt’uno con la natura, con la terra. La scorsa primavera io ed Elisa
andammo nel campo di uno dei nostri vicini attempati a raccogliere dei fiori di Tarassaco con i quali nostra madre
faceva un dolcificante naturale. Non appena arrivate tra i filari di pruni il mio cuore si riempì di una gioia improvvisa e
inaspettata. Gli alberi non erano ancora stati potati, i rami pendevano senza logica in ogni direzione e ci mostravano
orgogliosi i loro fiori bianchi, nascondendo qualche giovane foglia. L’erba era alta e i fiori gialli di Tarassaco spiccavano
tra il verde, più vivaci degli altri. C’era la stessa magica luce che c’è qui ora. Subito pensai di essere arrivata in un altro
mondo, dimenticammo la ragione che ci aveva portate lì e ci stendemmo su un morbido letto. Qui parlammo di noi, dei
nostri desideri e dei nostri problemi, con la sincerità che nessun’altra amica ti può dare. Non potevo chiedere di più.
Pensavo alla fortuna che avevo ad avere così tanto: una sorella così, un’altra di tre anni, due bravi genitori. Ignoravo
che quello era l’ultimo bel momento che passavo con Elisa. La mattina dopo ce l’avrebbero portata via. Ricordo ogni
dettaglio di quel giorno, ogni cosa fatta o non fatta che avrebbe potuto salvarle la vita. Che rabbia! È incredibile come la
morte possa togliere senza che tu avverta niente nell’istante in cui accade. Ho imparato oramai a discernere la realtà
dalle credenze. Credevo perfino che non ci fosse più mistero in niente. E invece il mistero è in tutto! Negli alberi in
rapporto alla vita, in ogni cosa rapportata ad essa. A volte vorrei essere una quercia secolare così forte e sicura da essere
abbracciata con divertimento e ammirazione dai passanti. Altre volte un salice piangente, che mostra senza paura o
vergogna il suo dolore. Molte persone invece mi hanno detto che se avessero dovuto scegliere quale albero,pianta o
fiore essere, sarebbero state una rosa. Riflettendo su una possibile spiegazione mi è subito venuta in mente la
descrizione che Antoine de Saint Exupéry ne fa ne “Il Piccolo Principe”: essere unico al mondo per qualcuno, così bello,
contraddittorio, fragile, che possiede solo poche spine per difendersi. Come Lara, la mia sorellina. Così debole… la vedo
guardare tutto con gli occhi puri e veritieri di un bambino, ascolto la sua voce così fresca. Mi commuovo, ma non riesco
ad accompagnarla nella scoperta della vita. Il dolore è stato troppo. Ho paura che non sarò mai per Lara la sorella che
tu sei stata per me. So che sto sbagliando ad allontanarmi da tutto e che in questo modo mi sto uccidendo! Aiutami
Elisa… ci eravamo promesse che la nostra vita sarebbe stata differente da quella degli altri. Voglio mantenere questa
promessa. Mi hai insegnato che essere diversi non è un male. Che provare pensieri profondi è bello. Che l’originalità
nasce dal cuore, non dall’armadio. Che è ad essere se stessi che si è e non si appare. Che quando crediamo di non
trovare più la felicità è perché abbiamo smarrito la forza di cercarla. Che prima di stare con gli altri dobbiamo imparare
a stare con noi stessi. Che la vita è bella. Che possiamo cambiare le cose. Che l’amore e i sogni sono il meglio di noi. Ed
è in base a questo, a ciò che mi hai dato che devo continuare a scrivere la mia storia, con te nel mio cuore e in ogni
fiore che incontrerò. Ora vado: Lara e i nostri genitori hanno bisogno di me… e io di loro. Scendo dall’albero.
2° Premio al racconto
NOTE D’ACQUA
di CHIARA CUCINOTTA - Reggio Calabria
Liceo Scientifico “Leonardo da Vinci” di Reggio Calabria
Motivazione:
Una casa misteriosa, un viale che è un pentagramma e note lontane che risuonano nell’aria. Note
d’acqua. L’importanza di aprirsi al mondo e alle emozioni senza chiudersi nel guscio del cinismo, il
coraggio di danzare sulle note della vita.
La musica. E all’improvviso silenzio. Le sue dita accarezzano i tasti bianchi e neri con inutile bramosia. Vorrebbero
riprendere la melodia ma le note terminano lì. Affrante, si ritirano e dirigono il loro moto verso il palmo, chiudendosi
come fiori al tramontar del sole. Gli occhi chiusi rincontrano la luce. Alcuni attimi per riabituarvisi e tornano a voltarsi.
Lo sguardo alla finestra aperta. È quasi estate. Il cielo mostra la chiara volontà di volersi vestire del suo manto notturno
e l’aria, profumata di salsedine, va ad accendere la prima stella della sera. Di nuovo le mani incontentabili si ridestano
dal loro apparente riposo e, sfiorando silenziosamente il legno, accompagnano da brave dame l’alzarsi del pianista. La
sua figura si muove felina nella penombra della stanza. Si avvicina alla finestra. Uno sguardo al nuovo cielo, uno
sguardo al cupo mare. Per un tetto che si veste dell’eleganza della sera, un pavimento che si incupisce e, da lontano,
suscita tristezza. Era in un posto isolato la grande Casa della Musica. La chiamavano così le persone in paese. Restava
così, anonima, da anni; nessuno aveva visto mai chi o cosa producesse quella musica. Tutto quel che sapevano è che
era una musica bellissima. I giovani innamorati dal cuore ancora tenero di sogni rosa, avevano per meta il lungo viale
bianco che attorniava la villa. Lì, sulle panchine di ferro, sempre umido per via del vicino mare, solevano sostare per
concludere nella tranquillità di quel silenzio una giornata fin troppo rumorosa. Il viale era formato da grandi lastre di
pietra bianca rettangolari, le quali contornavano tutto il confine della Casa della Musica. Era un caso, forse un segno del
destino, forse semplicemente lo scherzo di qualche architetto burlone, ma se si guardava il viale dall’alto, le fughe tra le
lastre sembravano delineare le cinque linee del pentagramma. Era un posto fuori dal comune. Non era difficile credere
che potesse essere saltato via dalla tela di qualche pittore o dal racconto di qualche scrittore. Le bambine che passavano
di lì al mattino, strette nelle mani delle madri, sognavano di essere principesse e di abitare in quella casa. Gli uomini,
solitari o tristi o angosciati che passavano di là alla sera, acceleravano il passo, perché quell’atmosfera un po’ tetra
incupiva ancor di più il cuore. I genitori non permettevano che i figli si avvicinassero troppo a quell’edificio. Non era
apprensione o eccessiva preoccupazione. Nient’altro che umana paura. D’altra parte si sa, le cose che non sono ben
note spaventano. E di quella casa non si sapeva nulla. Attorno ad essa gli anziani si divertivano a ricamare le più folli
leggende. Folli, chi può dirlo? Alcuni dicevano che un tempo vi abitavano gli aristocratici signori del posto che,
decaduti, avevano abbandonato lo stabile. I più diffidenti o increduli non si ponevano il problema del chiarire da dove
provenisse la musica. Poteva giungere da una casa vicina, oppure poteva essere il divertimento di un qualche
buontempone che aveva iniziato a mettere su della musica per scherzo e adesso non faceva altro che alimentare la
leggenda. Altri dall’animo più romantico solevano narrare che quella casa nei suoi anni di gloria era stato nido di un
amore clandestino, finché lei non era sparita nel nulla. Dal giorno della scomparsa della giovane, il suo amante continua
a suonare il piano incessantemente, sperando che lei sentendo quelle note faccia memoria dei bei tempi di passione e
torni tra le sue braccia. Fandonie per molti, possibili verità per altri. La Casa della Musica non era rinomata se non entro
i confini del paese, per cui che le leggende avessero o meno qualcosa del vero poco importava. C’erano, perfino, taluni
che affermavano di non aver mai sentito neanche l’eco della più flebile nota provenire da quella casa. Costoro erano di
solito i più rinomati per il cuore arido, disincantato. Uomini e donne dalle cui labbra non nacque mai un sorriso né era
fuoriuscito mai alcunché di gentile. Purtroppo non erano in pochi, per lo più uomini anziani, dal cuore forgiato dagli
anni. Vi erano però anche tante donne, massimamente sole, per lo più vedove o tradite, ferite in qualsiasi modo,
succubi della vita di paese, dove le vite private erano alla mercé dei più e chi non sa, non sa perché non vuole udire o
trattar degli affari altrui, non di certo perché realmente non ha avuto notizia alcuna. A rendere ancor più prezioso
quell’angolo di mondo, assieme alla casa, al viale pentagrammato, ai giovani innamorati sotto il buio delle stelle e alla
misteriosa melodia, c’era il mare. Molte città lo hanno vicino, per questo potrebbe non sembrar nulla di speciale. Ma
quel mare lo era. Era diverso al di là del paesaggio, al di là del colore della sabbia del fondale, al di là del colore del
cielo. Era un tesoro palese al punto che era ignorato da tutti. O quasi. Alcuni anni addietro vi era stato di fatti in paese
un ragazzino, un bambino vispo come tutti i giovinetti della sua età. Era figlio di bottegai, senza fratelli né altri parenti.
Egli viveva coi genitori e li assisteva talvolta nelle attività di negozio. Si chiamava Claude. Un giorno, giocando da solo
come sempre, si era avvicinato alla riva. Recuperati alcuni ciottoli, aveva iniziato a lanciarli sulla superficie marina per
farli saltare. Ogni volta che il sasso aveva sfiorato l’acqua, era nato un suono singolare che lo aveva divertito e
affascinato. C’era tornato per lungo tempo ad ascoltare la magia di quei suoni. Per lui, il mare aveva significato
qualcosa di più della nota meta vacanziera nei caldi mesi estivi. Il mare, come tutto il resto, può avere più o meno
importanza a seconda di chi lo vive. Alcuni eventi condizionano la sua vita di un uomo più di quanto egli si renda conto.
Il suo stato d’animo, il suo retroterra, le sue esperienze, il suo modo di concepire la vita, il suo essere se stesso… tutto
ciò lo induce a dare un significato squisitamente personale a tutto ciò che lo circonda. Così il mare può essere inteso
come una grande pozza d’acqua, come può essere inteso come via di fuga, fonte di ispirazione, sede eterna di un
mondo che racchiude l’essenza del tutto, nel quale è possibile rifugiarsi quando se ne sente più bisogno. In fondo è
quello che fanno i giovani amanti al chiaro di luna nel bianco viale pentagrammato. Fuggono dal caos quotidiano,
abbandonati al loro amore, al buio della discreta melodia che accompagna il paese nel suo sonno ogni notte. Coloro
che affermano con presunzione di non aver mai udito alcuna nota uscire dalla villa, non dicono il vero. Per meglio dire,
dicono ciò di cui si sono voluti convincere. Ogni abitante di quel paese ha conosciuto il suo periodo di sogni e speranze,
ha conosciuto la sua melodia. La vita poi fa il resto, indurendo i cuori e cancellando ogni ricordo di un tempo felice ma
passato. Se dimenticato, è più facile non soffrire più. Non se ne abbiano a male allora coloro che si ritrovano davanti
una o più di queste persone; il chiudersi in se stessi è un buon modo che i più fragili adottano per sopravvivere. Le
stelle, testimoni silenziose dello scenario che ha ammaliato e ammalia i cuori di tutti, continuano instancabili a guardare
a terra anime leggere, rosa e azzurre, fondersi con la brezza marina e perdersi tra le correnti più alte, su nel cielo, più
vicine ai loro corpi celesti. Continuano a sorridere ai racconti dei più anziani che, con l’età, riacquistando il loro essere
bambini e sognatori, riascoltano le melodie della loro vita. Le stelle, spille di diamante per il manto notturno del cielo,
lucidi riflettori di luci pallide, si specchiano sul dorso del mare, custodi del grande segreto. Le stelle si offrono cortesi
ascoltatrici delle melodie più svariate, palpiti d’amore di un uomo dalle mani leggere, che unendo cuore e fantasia,
ricordi e futuro, ha deciso di vivere là, nella villa isolata, al riparo dal mondo. Là dalla finestra osserva il cielo vestito da
sera e il mare tinto di notte. E tornano le sue mani a sfiorare i tasti bianchi e neri, stavolta felici di riprendere un nuovo
viaggio alla ricerca di quel suono che un cuore un giorno ha ascoltato. Su una panchina umida due innamorati si
tengono per mano,i cuori infiammati dalla carezzevole melodia. Il loro amore ora vola tra le stelle, accompagnato dalla
brezza marina; I loro cuori danzano su una melodia di note d’acqua.
3° Premio al racconto
LE ULTIME PAROLE
di ALESSANDRO SISTO - Napoli
Istituto Tecnico Industriale “G. Ferraris” di Napoli
Motivazione:
Basta un attimo per sconvolgere tutto il mondo. Una lite, una morte improvvisa, la possibilità di dire
addio a chi si ama, la certezza di un amore eterno, il tutto raccontato con toni dolci e commoventi.
Aprii gli occhi lentamente. Non avevo voglia di alzarmi e di affrontare il mondo. Diedi un’occhiata alla sveglia sul
comodino: erano le ore sei e trenta. Una luce dorata illuminava la mia camera. L’alba. Allungai una mano verso l’altro
lato del letto e mi sorpresi di trovarlo vuoto. Mi chiesi dove fosse lei. Senza indugi mi alzai, il tempo di un ultimo
sbadiglio e poi dritto in cucina. Judith era lì, indossava una vestaglia di seta bianca, una di quella corte che arrivano a
stento alle ginocchia. Seduta accanto al tavolo, sorseggiava un po’ di latte. Riconobbi subito la tazza. Era la sua, quella
rosa con disegnata una faccina sorridente dalle belle labbra carnose. La mia non era sul tavolo. Supposi che fosse
ancora arrabbiata per la lite del giorno precedente. La prima vera lite del nostro matrimonio, ad un anno di distanza
dalla cerimonia. Ci eravamo detti di tutto, però quella mattina mi ero svegliato sereno e constatai con un po’ di
amarezza che lei non fosse stata altrettanto fortunata. Mi mossi silenzioso, e in breve fui dietro di lei. Iniziai a
massaggiarle le spalle. Amava i miei massaggi, e non poté fare a meno di sussultare. Un singolo fremito e poi nulla.
Non batté ciglio. Dopo una decina di minuti fui stanco e avvicinai il mio volto al suo. « Ti piace il gioco duro… » le
sussurrai nell’orecchio. Mi ignorò completamente. Senza esitare, finì il suo latte e si alzò. “Bella” non era un termine
adeguato a definire il suo aspetto. Lei era mia. Era mia quando a letto si addormentava tra le mie braccia. Era mia
quando uscivamo di casa la mattina. Era mia quando rientravamo la sera. Era mio ogni suo sorriso, ogni sua lacrima,
ogni sua espressione. Era mio il suo cuore. Erano miei i suoi occhi. Ed io ero suo. La vidi ancheggiare armoniosamente
verso la soglia. Un movimento che forse per lei era così naturale a me appariva come la più dolce delle visioni. Le corsi
dietro e le cinsi i fianchi con le braccia. Rimasi in silenzio,aspettando che dicesse qualcosa,ma lei non si mosse. «
Scusa… ». Sussurrai tra i denti, al diavolo l’orgoglio. Volevo solo fare pace. Ad un tratto i suoi occhi si inumidirono. Lo
interpretai come un segno di cedimento ma sbagliai. Con la stessa espressione indifferente, Judith avanzò verso la porta
del bagno, senza che io la mollassi. Solo quando fummo sulla soglia, la vidi portarsi le mani al volto. « Non ce la faccio
più… ». Quelle parole mi colpirono. Stava piangendo. Pensai che forse aveva bisogno di un po’ di tempo e la lasciai
entrare. Senza lanciarmi neanche uno sguardo si chiuse la porta alle spalle ed io rimasi lì,solo coi miei sensi di colpa.
Forse avevo davvero esagerato. Mi vergognai di me stesso quando realizzai di non ricordare con precisione cosa fosse
davvero successo la sera prima. Respirai profondamente, mi diressi in soggiorno e mi accomodai sul divano.
Massaggiandomi le tempie, con gli occhi chiusi cercai inutilmente di scavare nella memoria, ma il nulla che vi trovai fu
esasperante. Era come se un grosso buco nero nella mia testa,risucchiando ogni ricordo degli avvenimenti
recenti,m’impedisse di formulare pensieri sensati. Eppure, dentro di me era viva la consapevolezza che un litigio c’era
stato, e aveva avuto delle conseguenze. Ero sul punto di arrendermi, quando un motivetto accattivante mi raggiunse
dalla camera da letto. Il cellulare di Judith. Uscendo dal salotto, notai che la porta del bagno era aperta. Alla suoneria
seguiva un sussurro pacato, tranquillo. Cercando di non fare rumore, giunsi in camera da letto. Lei era distesa sul
materasso, il cellulare appena accostato all’orecchio. C’era qualcosa di magico in ogni suo gesto, qualcosa che ispirava
un vago senso di serenità. Era girata verso il lato opposto del letto e stringeva il mio cuscino come se fosse sull’orlo di un
precipizio e quell’oggetto rappresentasse il suo unico appiglio. Non si accorse neanche del mio arrivo, e solo in quel
momento capii veramente perché. Non mi piaceva origliare ma io ero lì, ero in quella stanza e non potevo fare a meno
di sentire le sue parole. « Non ce la faccio più Mary… ». Stava parlando con la sua migliore amica, Marianne. « Tutto mi
ricorda lui… ». Qualche immagine si disegnò sfuocata nella mia mente. « A volte… Lo sento accanto a me… ». Iniziai ad
avere paura. « Insomma…. Io… ». In quel momento preciso, il passato mi raggiunse in quella stanza. « Io non ho
accettato la sua morte… ». Io? Morto? Forse era vero. Il giorno prima, nel pomeriggio, avevamo iniziato a discutere, e
pian piano il litigio era degenerato. Io,in preda alla collera, e avevo detto di essermi pentito di averla sposata e lei mi
aveva cacciato di casa. Ero uscito arrabbiato dall’appartamento, e poi? « Marianne, io lo amavo… ». E poi avevo
attraversato la strada senza guardare, illudendomi che come in un film, il mondo si fosse fermato in attesa che il
protagonista facesse pace con la propria donna. E invece non si era fermata neanche quella macchina nera. «
Marianne… scusami, ma forse è meglio che stia un po’ da sola… ». Ricordavo il freddo dell’asfalto come se fosse l’unica
sensazione vivida avvertita in quei pochi istanti. L’autista non si era neanche fermato. Ed io ero rimasto lì, a esalare
l’ultimo respiro solo, nel buio della notte. Che immagine poetica. Judith posò il cellulare sul comodino e iniziò a
piangere. Mi ero ripromesso di non farla mai piangere, né soffrire. Eppure in una notte, chissà quante lacrime aveva
versato per colpa mia. Mi stesi accanto a lei. Finalmente avevo capito perché ero rimasto sulla terra. Qualsiasi cosa fossi.
Un essere umano, o forse un’ombra, l’ombra di me stesso, adesso lo sapevo. Sapevo che i fantasmi hanno davvero un
ultimo compito da assolvere. I fantasmi esistono. Peccato che non potessi dirlo a nessuno. Le accarezzai il braccio e lei
iniziò a tremare. « Sai… », sussurrai, « Non è vero che mi sono pentito di sposarti… ». Si rannicchiò come una bambina
spaventata. « Avevo bisogno di dirtelo… anche se tu non puoi sentirmi… ». Avrei voluto che, come in uno di quei film,
accadesse qualcosa di soprannaturale e che le mie parole arrivassero comunque al suo cuore. Ma in fondo io ero lì, e un
miracolo al giorno era più che sufficiente. « Questo momento è tutto quello che ci resta… », mi avvicinai e la strinsi. Lei
trasalì. « Però sono qui… e ho combattuto l’ineluttabilità della morte, solo per dirti “Addio” ». Stavo lentamente
sparendo. Mi sentivo vuoto. La stanza intorno a me si illuminò sempre più. Chiusi gli occhi, per l’ultima volta e sorrisi. «
Ti amo Judith ». Ovunque stessi andando, paradiso o inferno, ero tranquillo. L’avrei lasciata sola e lei si sarebbe
innamorata di qualcun altro. Sarebbe rimasta intrappolata nell’intricata spirale di eventi che prende il nome di
quotidianità e mi avrebbe dimenticato. Avrebbe ricominciato a vivere. Ma forse non importava, perché, dopo la morte,
cosi come lo era stata in vita, sarebbe tornata mia. Così la salutai. Ed ero in pace.
Menzione Speciale al racconto
L’OROLOGIO
di ADELE ZOTTI - Benevento
Liceo Classico “P. Giannone” di Benevento
Motivazione:
Un ticchettio che scandisce attimi di vita. In primo piano un mondo un po’ triste e frettoloso, nascosto
sotto un manto di perché, sullo sfondo figure di pazzi in grado di guardare davvero la realtà. Dallo stile
mordace e caustico, questo racconto apre dubbiose voragini che, latenti, squarciano in velo dell’inconoscenza.
Tic. Tic. Tic. Tic. Tic. Un’interminabile serie di tic. Non esiste altro in questa stanza. Solo “tic”. Quattro pareti, bianche,
un pavimento, bianco, e una finestra, bianca. E poi ci sono io. Io che osservo tutto e mi concentro, analizzo, cerco
risposte, mi domando il perché di un susseguirsi continuo di gocce di pioggia, o dell’interminabile ciclo giorno-notte.
Non so niente, o forse, chissà, so tutto. Forse sono l’unico a conoscere le risposte all’enigma dell’esistenza, forse. Ma ne
dubito. Cos’ho visto io per poter basare le mie idee, le mie ipotesi, le mie scoordinate teorie secondo cui la vita sarebbe
utile? Cos’ho visto? Niente e tutto. Io da qui, dalla mia finestra ho davvero visto il mondo. O forse no? Ahhh… insomma
tutto è relativo. Se per “mondo “ intendiamo un muratore su un’impalcatura che restaura la facciata di un palazzo, o un
uomo che perde tutto il denaro posseduto in 60 anni, giocando a poker, o una mamma che insegue il proprio bambino
nei suoi sogni per i primi 10 anni d’età e poi spacca, d’improvviso, quella sfera magica di desideri e speranze, oppure
ancora, un vecchio che esaurisce le proprie forze, gli ultimi respiri su un pavimento di asfalto, col cappello per
l’elemosina sgualcito e lurido, senza niente, col solo peso dei ricordi del suo stupendo Senegal… allora sì, io ho visto il
“mondo”. E devo dire: “non mi è piaciuto”. Non mi è piaciuto vedere il sole nascondersi dietro le nuvole per non
vedere lo strazio della gente; ho detestato seguire con gli occhi una bambina piena di buone intenzioni, vederla versare
un soldino in una macchinetta piena di pupazzetti e poi, scorgerla in lacrime per la delusione. No. Non mi è piaciuto lo
scontro di sguardi fulminanti tra un ebreo e un tedesco. Ho odiato sentire le lamentele di stupidi uomini delusi dalla vita,
che predicavano come filosofi, scrivevano come poeti, fondavano divine generazioni, e poi morivano di cirrosi epatica,
annegati nel loro stesso vomito d’alcool. Ho odiato sentir parlare di Dostoevskij, Tolstoj , London, Dumas, Baudelaire,
Flaubert e poi veder le stesse persone disperarsi per la “vergine cuccia”. Mi sono straziato nel leggere Hesse , girarmi e
vedere un amore di carta prendere fuoco così facilmente. E cosa provare nello scoprire un sorriso estatico al suono delle
note di Debussy sul volto di un bambino sordo dalla nascita? Tristezza. Solo una grande tristezza. Nulla mi piace in
questo “mondo”. “Mondo”. Ma è, quindi, questo il “mondo” di cui tutti parlano, di cui tutti fanno finta di conoscere i
segreti, di cui ognuno si sente padrone e creatore e servo mai? A quanto pare sì: lo scorrere lento dei giorni, giocare a
golf, imbrattare i muri di un manicomio, osservare le lancette dell’orologio per ore…passivamente. Io li vedo, non sono
felici. Non sanno dove cercarla, questa loro felicità, vagano, sbattono di qua e di là, voltandosi ogni tanto per vedere se
qualcuno si è accorto del loro tonfo, si urtano tra loro credendo di aiutarsi a vicenda e intanto si perdono nel vuoto
dell’occhio del fratello di un’altra nazionalità, perso anch’esso nel tempo indeterminato del nulla. Inseguono il bambino
che c’è in loro e poi? Niente , si perdono, esattamente come un bambino senza guida dietro a un qualcosa che
chiamano “lavoro”. Poveri e tristi. Però alcuni di loro, non si fermano qui. Capiscono. Reagiscono. Vivono, suonano,
cantano, dipingono, leggono, scrivono… ammorbidiscono la consapevolezza del dolore e dell’inutilità che li
perseguiteranno per sempre, nelle passioni. Alcuni. Ecco, loro stanno a metà strada. Sanno di non aver scampo, si
rifugiano e fanno qualcosa. Reagiscono, per l’appunto. Si divincolano, scalciano per liberarsi da quella rete di plastica
che li imprigiona, escono con la testa e pensano con il corpo e aiutano, ma con un piede restano incastrati e cadono.
Tristemente si strangolano e muoiono, come gli altri, del resto. Ne ho conosciute, di queste persone. Ho ascoltato le
loro storie. Sì, di ogni tipo d’età erano: bambini, ragazzi e vecchi. Tutti con la stessa presa di coscienza. Tutti che hanno
cercato di urlarlo. C’era un ragazzo, lo ricordo bene. Aveva letto innumerevoli libri di coloro che prima di lui avevano
capito che il mondo girava nel verso sbagliato, che forse non avrebbe dovuto girare affatto. Eppure tra tutti i grandi
colossi era quello ad avere le idee più chiare. Era l’unico a sapere. L’unico. Parlava bene, ma… non imparò mai ad
agire con la stessa eleganza delle sue parole. Aveva ricevuto un dono e lo sprecò. Il piede, appunto, rimase incastrato. E,
a poco a poco, smise di lottare. Si fece riavvolgere. E l’umanità perse l’unica salvezza. No, non mi piace affatto questo
mondo. E’ destinato a frantumarsi, ad annegare nelle sue stesse lacrime, a seguire un’inutile serie di tic. Non posso
credere che tutto sia iniziato senza un perché. Non capisco allora… perché? perché tutta questa gente si ritrova a
rincorrersi, ad uccidersi, a buttarsi da un palazzo, a stuprarsi, a ridere della caduta di un uomo, a leggere in solitudine o
a esultare per un amico trovato, o per l’amore. Che senso ha l’amore? E l’odio? E l’uomo allora, perché esiste? E se la
vita fosse solo un insieme di esperienze da annotare per poi scrivere il libro perfetto? Sì, potrebbe essere benissimo un
ammasso di parole scoordinate per la creazione di un qualcosa al di sopra di noi. O forse no, potrebbe essere
semplicemente una prova da superare. Ma sì, certo! È ovvio, vedere tutta quell’agonia, quella tristezza potrebbe essere il
modo per affrontare un essere supremo. No, non posso credere che sia realmente questo; troppo deludente e… banale.
Deve aver un senso questo pullulare di uomini e quest’uguaglianza che ci accomuna. La nascita, la crescita, la morte;
noi, gli animali, le piante, l’aria, il sole, la luna e le stelle! Oh, quel grande mistero che sono le stelle! Si vorrebbe credere
che ogni singolo punto lucente che vediamo e che potrebbe già essersi spento da anni, in realtà non sia nient’altro che
un’inutile magia, un affascinante miracolo che non ha un perché alla base della sua genesi? No. Questo non è possibile.
Non può essere così. E… la mia anima? Non se ne può restare in disparte solo per completare e guidare il mio corpo.
No, deve avere un ruolo di primo piano. Sarebbe sprecata. La mia anima... vi prego. Almeno quella, perché esiste? Per
quale assurdo motivo io sono stato messo qui? Chi mi ha costretto a scandire il tempo di tutto questo? Chi mi ha
costretto a guardare… loro. Loro che, sì, rappresentano la quintessenza; loro che hanno capito e lo nascondono, che si
sono arresi, loro che non suonano, non cantano, non dipingono, non leggono, non scrivono, non vivono; loro che sono
destinati a queste quattro sedie per sempre, a fissare queste quattro pareti bianche, ad ascoltare il mio disperato tic, a
non rivelare il segreto per nulla al mondo, a rinchiudersi in questa prigione, nell’unico posto dove tutti sono liberi di
essere se stessi, fuori dai parametri, fuori da ogni rete, al di fuori dalla “normalità”. Ridono, sì… si beffano di tutto, del
nulla che costituisce le esistenze degli uomini, piangono per noi, per la nostra tristezza, fingono di arrendersi e poi sono
gli unici a ribellarsi. Non hanno maschera. Nessun sipario si cala su di loro. Non hanno corpo. Sono fantasmi dalla
consistenza di anima. Non hanno ragione, eppure sono loro a custodire il senso di tutto questo. È la follia che li guida.
Sono pazzi. Sono sani. Sono puri. E io sono un orologio da manicomio, un semplice addobbo che ha visto. Che ha
scandito il tempo di ogni storia, di ogni rivoluzione. Che ha dato il via a tante nascite e che ha tagliato i fili di tante vite.
Che ha visto. Che ha sentito. Che ha letto. Che è rimasto sempre muto, pur sapendo. Io sono il bianco orologio di
questo bianco manicomio. Sono l’io poetante di tutto. Sono la vostra poesia e la vostra verità. Sono gli occhi di questi
pazzi, le sole parole dei loro silenzi. Io sono una serie di interminabili tic. Tic. Tic, tic…