Amarcord

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Amarcord
rubriche
di
Stefano Cantadori
te
te
M
i dissero: “Guarda, la
paga non è un granché,
si tratta solo di andare a
fare delle registrazioni
durante le prove del gruppo. Per
quanto riguarda vitto e alloggio,
dormirai dove dormono loro e
mangerai con loro. Roba di una
settimana neanche e poi torni a
casa. Il materiale è già sul posto:
un mixer a otto canali (che per i
tempi era la misura standard) un
Revox e due casse con una bassa
da 200 W”.
La “bassa”, caro lettore, era il termine gergale in elettronica per
“amplificatore di bassa frequenza”. Gli altri amplificatori, quelli
nobili, erano per radio, radar e televisione. Alta frequenza, appunto. Già allora avrei dovuto capire
che mi stavo infilando nella porta
sbagliata della tecnologia e dello
show biz.
Sennonché io vado dove la ditta
mi dice di andare e faccio quello
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novembre/dicembre 2010 - n.86
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Chi lavora nello spettacolo spesso
può trovarsi in mezzo ad eventi
rilevanti anche dal punto di vista
sociale e storico. A volte senza
rendersene conto. È quello che
accadde nel 1976, alla tenera età di
17 anni, a Stefano Cantadori. Ecco il
suo racconto.
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Parco Lambro e
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l’esproprio proletario
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che mi dicono di fare. Credo che questa sia l’essenza di avere un lavoro, anche se da quasi ribelle, quanto poteva esserlo fare il tecnico del suono nel 1976.
Partii quindi in treno per Roma, pronto a spendere l’inizio delle mie vacanze estive di studente di buona famiglia,
come tecnico a ore per uno sconosciuto gruppo di musica
popolare, il Canzoniere del Lazio.
Arrivato a Roma, mi portarono fuori città, sulla Cassia, non
lontano dal Poggio delle Rose. Il gruppo più che suonare
cazzeggiava, usciva e rientrava dalla sala prove in questa
stupenda corte di campagna. Mixer, registratore e casse erano nella stessa sala dove suonavano, ovviamente non erano
in grado di monitorare alcunché e di conseguenza fu impossibile registrare qualcosa con una pretesa di mixaggio. Mi
ero portato da casa una cuffia, ma non servì a nulla.
Scoprii che si dormiva in un’affascinante costruzione non
lontana dal Colosseo. Non c’erano ascensori (e neanche letti) ma lunghe scalinate di pietra che si svolgevano in un irreale edificio completamente deserto, fino alle ultime esili
aeree e vacillanti passerelle in legno.
Lo sterminato sottotetto, retto da secolari travi a vista, era
popolato da barbuti abbigliati in modo casual-socialista e
simpatiche individue in sottane colorate: quel genere di
persone che campano vendendo nastrini e collanine. Hai
presente una comune?
Pagai il primo scotto alla mia educazione borghese dopo
tre giorni di insalate e miglio; confessai di avere assoluta
necessità di una bistecca. Fecero una colletta e finalmente
potei recarmi in trattoria. Aspettai in piedi in disparte sino a
che l’orda dei turisti sciamasse via, quasi solitario ospite, con
il sole estivo che mi martellava la testa, occupai un tavolino
di fronte al Colosseo. La bistecca ovviamente la negoziai,
perché i soldi all’epoca non bastavano ma, e con solidarietà complice, il cameriere mi rimediò anche una porzione di
patatine fritte.
Nel 1976 la Corte di Cassazione, unica al mondo, condannò
Ultimo Tango a Parigi: ne venne vietata la proiezione e lo
Stato Italiano ne bruciò tutte le copie. Ah, i venti di libertà
della cultura ufficiale. Erano ahimé anche i tempi delle Brigate Rosse e l’anno del terremoto nel Friuli.
Roma era un crogiuolo di eventi artistici e musicali, piccole cose legate a chi voleva cambiare il mondo. Mi trovavo
immerso nel più straordinario e creativo periodo musicalculturale che si possa desiderare.
Trascinavo il mixer e le due piccole casse della ditta in giro
per Roma, al seguito dei miei nuovi amici. Mi trovai un paio
di volte a mixare al Folk Studio: “Ah, lei è il signor Toquinho? Ciao, io sono Stefano”. C’era nell’aria un fermento di
speranza, vita, ideali, credevamo davvero in un mondo migliore, una combinazione irripetibile che non ha più avuto
uguale.
Intanto il gruppo fu invitato a Milano, a Parco Lambro, per
il Festival di Re Nudo. Chiesi istruzioni alla Wilder e mi dissero di seguire i clienti e di fare inoltre assistenza al mixer
Davoli sullo studio mobile su cui operava Gaetano Ria: due
piccioni con una fava (io ero la fava).
Partimmo in treno con gli strumenti come “bagaglio appresso”, non potendo pagare il vagone merci. Il capotreno
ci diede manforte e i suggerimenti del caso, avvertendo i
suoi colleghi delle tratte successive. Arrivati a Milano, combinammo tre taxi stracarichi con le nostre cianfrusaglie. Mi
giocai così gli ultimi soldini. Gli altri in autobus.
Dentro il parco fu difficoltoso spiegare il borghese utilizzo
del taxi, “ce volevano menà”, ma riuscimmo a raggiungere
il palco con i taxi, sotto scorta del servizio d’ordine. Probabilmente Katanga, e non mi riferisco al ramo sorgentifero di
sinistra della Tunguska Pietrosa.
La prima cosa che accadde sotto il palco fu che mi fregarono
democraticamente la valigia e rimasi con quel che avevo indosso. Mi guardai intorno da quella posizione sopraelevata
e vidi centomila persone immerse nel fango, una scena alla
Woodstock. Dopo essermi accreditato presso il “mobile”,
era ancora mattina, mi misi a girovagare. C’era un gruppo
di maschi con lunghi e lisci capelli bianco titanio, la metà
sinistra del corpo dipinta di verde metallizzato, la metà destra argentea, sembravano appena usciti dalla sala trucco.
Veri alieni. Forse indiani metropolitani, ma chi può dirlo?
C’erano gruppi di persone che litigavano, altri con lo sguardo perso nel vuoto, gente riunita in macchie attorno a suonatori di chitarra, bonghetti e poi ancora bonghetti ad ogni
piè sospinto, ratat tat tat. Dibattiti nelle zone più defilate
di fianco al palco, femministe con gli zoccoli incazzate con
il mondo,“io cioè, in quanto donna”. Ebbi modo di cogliere, nel corso della giornata, occasionali comunicazioni per
megafono che spesso avevano senso sì e no per lo speaker.
Cioè, in quanto qualcosa.
Capii, in pochi minuti di osservazioni, che la sinistra extraparlamentare non aveva futuro politico. Ma era una situazione elettrizzante e andava vissuta in pienezza. Era un
evento di portata storica ed io c’ero.
Da mangiare invece no. Il camion frigorifero che portava
i polli per la mensa, reo di avere sul cassone la borghese
scritta “Motta”, fu preso d’assalto e svaligiato dagli stessi
frequentatori del festival, perfetto esempio di auto-sabotaggio. Decine di fuocherelli improvvisati carbonizzarono i
pollastri ancora congelati. Il resto andò velocemente in putrefazione e nel parco, a macchia di leopardo, aleggiava un
certo tanfo. E non c’era più nulla da mangiare. L’acqua da
bere era cosa preziosa. Il rifornimento idrico era stato negato dal Comune di Milano. O era venuto a mancare. Non
vi saprei dire.
Il meglio doveva ancora accadere, ma il resto di questa incredibile avventura tecnico-proletaria ve lo racconterò nel
prossimo numero.
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