Working Papers Conflitto e mobilità: il Sudan tra guerre civili
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Working Papers Conflitto e mobilità: il Sudan tra guerre civili
Working Papers 67/2010 Conflitto e mobilità: il Sudan tra guerre civili e sfollati Irene Panozzo Novembre 2009 Via d’Aracoeli, 11 – 00186 Roma (Italia) – Tel. +3906 6990630 – Fax +3906 6784104 – e-mail: [email protected] - web: www.cespi.it INDICE INTRODUZIONE ....................................................................................................................................3 MILIZIE E “TERRA BRUCIATA”............................................................................................................5 SUD SUDAN TRA PACE, MOBILITÀ DI RITORNO E NUOVE SFIDE ..........................................................9 SFOLLATI IN DARFUR, TRA CONFLITTO E URBANIZZAZIONE ...........................................................16 CONCLUSIONI ....................................................................................................................................23 RACCOMANDAZIONI PER IL SUDAN MERIDIONALE...........................................................................27 RACCOMANDAZIONI PER IL DARFUR ................................................................................................27 BIBLIOGRAFIA ...................................................................................................................................28 2 INTRODUZIONE Il Sudan indipendente ha sempre convissuto con qualche guerra civile all’interno dei suoi confini, conflitti che inevitabilmente hanno causato lo spostamento forzato di intere comunità, costrette a lasciare le proprie case, le proprie terre, i propri villaggi per mettersi in salvo. La prima guerra civile tra Nord e Sud negli anni 1955-19721, la seconda tra il 1983 e il 2005, la guerra in Darfur iniziata nel 2003 e ancora in corso: sono questi i conflitti civili maggiori che hanno insanguinato buona parte del territorio sudanese per decenni. Ad essi, o meglio al loro interno, si sono aggiunti poi altri conflitti su scala minore ma non di minore intensità, che hanno riguardato aree particolarmente sensibili o strategiche su un arco temporale più ristretto: è stato il caso dei Monti Nuba all’inizio degli anni Novanta o delle aree petrolifere dell’Alto Nilo negli ultimi anni del secolo. Il susseguirsi di conflitti civili quasi senza soluzione di continuità2, unito allo sviluppo ineguale delle varie regioni sudanesi e a fattori climatici talvolta estremi (dalle siccità nella parte settentrionale del paese alle inondazioni di quella meridionale), ha reso il Sudan il maggior “produttore” di sfollati interni al mondo3. Le stime che riguardano gli ultimi conflitti sono vertiginose. La seconda guerra civile tra Nord e Sud Sudan, iniziata nel maggio 1983 e conclusasi il 9 gennaio 2005 con la firma del trattato di pace conosciuto con il nome di Comprehensive Peace Agreement (Cpa), oltre ad aver causato circa 2 milioni di morti, ha provocato anche la mobilità forzata di più di 4 milioni di persone, in larghissima parte sfollati interni. Allo stesso modo, il conflitto che dal febbraio del 2003 insanguina la regione più occidentale del Sudan, il Darfur, ha finora allontanato dai loro villaggi di origine circa 2,7 milioni di persone: circa 300mila hanno trovato rifugio oltre confine, nel Ciad orientale, gli altri hanno raggiunto le principali città del Darfur oppure la capitale Khartoum. E su di loro che si concentra l’analisi di questo paper, redatto a partire da una missione sul campo condotta in Sud Sudan a inizio 20094. 1 La prima guerra civile tra Nord e Sud Sudan è iniziata qualche mese prima dell’indipendenza del paese, avvenuta il 1° gennaio 1956. Il 18 agosto 1955 gli uomini dell’esercito meridionale, il Southern Corps, di stanza a Torit, in Sud Sudan, si ammutinarono in reazione alla decisione del governo di Khartoum di mandarli a Nord, ufficialmente per un periodo di addestramento. Dalla guarnigione di Torit, gli scontri si diffusero in una fiammata in tutto il Sudan meridionale, in un’insurrezione generale che nell’arco di dieci giorni avrebbe causato la morte di centinaia di persone, in larghissima maggioranza settentrionali, e che viene ancora considerata come la miccia che accese il conflitto, conclusosi poi con il trattato di pace firmato ad Addis Abeba il 27 febbraio 1972. Cfr. Irene Panozzo, Il dramma del Sudan, specchio dell’Africa, EMI, 2000, pp. 99-130. 2 Neanche durante gli anni tra il 1972 e il 1983, quando ufficialmente il Sud era in pace, gli scontri sono mancati, ad opera di frammenti della ribellione meridionale che non avevano accettato la pace di Addis Abeba. Cfr. Douglas H. Johnson, The root causes of Sudan’s civil wars, James Currey and Indiana University Press, 2003, pp. 59-61. 3 Agnes de Geoffroy, From internal to international displacement in Sudan, paper prepared for the conference “Migration and refugee movements in the Middle East and North Africa”, Cairo, 23-25 October 2007, p. 3. 4 La missione a Juba e Maridi è stata condotta dal 16 febbraio al 3 marzo 2009. Nonostante i molti tentativi, è stato impossibile ottenere il visto di entrata in Sudan per condurre l’altra parte della missione inizialmente prevista, a Khartoum e a Nyala, in Darfur. Le difficoltà incontrate sono state probabilmente causate dal nervosismo del governo di Khartoum per l’attesa della decisione del Tribunale penale internazionale (Tpi) dell’Aja sulla richiesta di mandato di cattura internazionale ai danni del presidente sudanese Omar Hassan al-Bashir, presentata dal procuratore generale del Tpi il 15 luglio 2008. I giudici dell’Aja hanno formalmente incriminato Bashir per crimini di guerra e crimini contro l’umanità il 4 marzo 2009. 3 Fig. 1: Il Sudan e i suoi 25 stati attuali Fonte: United Nations, aprile 2007 I dibatti che, sui media come in molti circoli politici internazionali, in questi ultimi anni hanno riguardato il conflitto in Darfur hanno spesso fatto riferimento alla regione come se si trattasse di un’entità indipendente. Il Darfur è invece a tutti gli effetti parte di uno Stato sovrano con una lunga 4 tradizione di guerre civili al proprio interno. Questo paper si prefigge quindi lo scopo, da un lato, di analizzare i tratti comuni che nella conduzione delle due guerre civili prese in considerazione hanno maggiormente inciso sullo sviluppo di fenomeni di mobilità forzata; dall’altro di evidenziare le differenze che permangono nella condizione degli sfollati e dei rifugiati “generati” dai due conflitti studiati. In particolare, la pace tra Nord e Sud Sudan siglata nel 2005 ha cambiato di molto il quadro di riferimento degli sfollati e dei rifugiati meridionali, dando inizio a un movimento di ritorno verso le comunità di origine che presenta nuovi pattern di mobilità e una serie di sfide per il post-conflitto che avremo cura di analizzare. Gli appuntamenti elettorali e le scadenze che il Cpa impone per i prossimi anni, al governo autonomo del Sud Sudan come a quello centrale di Khartoum, rendono particolarmente importante comprendere se, in che numeri e con quali conseguenze gli sfollati e i rifugiati meridionali siano tornati o stiano ancora tornando alle loro comunità di origine. Allo stesso tempo, sul fronte del Darfur, dove il conflitto è drasticamente calato di intensità5, nessun accordo di pace è prevedibile nel breve periodo, sia per la scarsa disponibilità del governo di Khartoum a impegnarsi in un negoziato serio, sia per l’estrema frammentazione del fronte ribelle, che impedisce qualsiasi posizione negoziale comune. La questione del futuro degli sfollati raccolti nei campi presenti nelle principali città del Darfur rimane uno dei nodi che un eventuale accordo di pace dovrà affrontare e sciogliere. MILIZIE E “TERRA BRUCIATA” Le storie e le evoluzioni del ventennale conflitto tra Nord e Sud Sudan e di quello, più recente, del Darfur sono inevitabilmente state diverse, ma presentano molti tratti in comune. Sono simili le cause che hanno portato allo scoppio delle ostilità, soprattutto per quel che riguarda i problemi, e le conseguenti recriminazioni da parte dei gruppi ribelli, di marginalizzazione economica e politica, di discriminazione etnico-culturale, di sottosviluppo e di sfruttamento delle risorse locali che, in modi diversi, il Sud e il Darfur – ma anche altre regioni del paese, come l’Est e le parti meridionali del Kordofan e del Nilo Azzurro, che, pur non essendo geograficamente parte del Sud, sono state attirate nel vortice della guerra civile a partire, rispettivamente, dall’inizio degli anni Novanta e dalla metà degli anni Ottanta – hanno sperimentato fin dall’epoca coloniale. Dall’indipendenza in poi, il leit motiv della storia sudanese è stato quindi un continuo e ancora irrisolto contrasto tra centro e periferie, che, se fino agli anni Ottanta aveva riguardato, nelle sue forme più violente, quasi esclusivamente la direttrice nord-sud, negli ultimi vent’anni si è sviluppato anche lungo quella estovest. Corollario del paradigma centro-periferia è “l’iper-dominanza”6 della capitale Khartoum e delle sue città-gemelle di Omdurman e Khartoum Nord: le Tre Città sono centro sia delle ricchezze che del potere politico, economico e culturale del paese, per lo più concentrato nelle mani di élite provenienti in larghissima maggioranza da pochi gruppi arabi che abitano nella parte più centrale della valle del Nilo, tra Khartoum e le aree più prossime alla capitale, impedendo quindi un reale accesso all’amministrazione della cosa pubblica, nel suo senso più ampio, a tutti gli altri. Non è forse un caso quindi che il maggior esponente della teoria secondo cui l’irrisolto rapporto centroperiferia sia il principale problema politico del Sudan sia stato John Garang, tra il 1983 e il 2005 teorico, leader politico e comandante in capo militare degli ormai ex ribelli meridionali del Movimento/esercito per la liberazione popolare del Sudan (Sudan’s people liberation 5 “UNAMID chief rapped behind UNSC closed doors on Darfur report”, Sudan Tribune, April 28 2009, http://www.sudantribune.com/spip.php?article31015. 6 Alex de Waal, “Sudan, the turbulent State”, in: Alex de Waal (ed.), War in Darfur and the search for peace, Justice Africa and Global Equity Initiative, Harvard University, 2007, p. 4 e ss. 5 movement/army, Splm/a), che diversi studiosi sudanesi di scienze sociali originari delle periferie abbiano deciso, a un certo punto del loro percorso, di imbracciare le armi e unirsi alle ribellioni7 e che il Black book pubblicato nel 2000 da membri del regime islamista al potere sia stato la prima espressione di una critica profonda al sistema da parte di un gruppo che è poi passato a creare il Justice and Equality Movement (JEM), uno dei gruppi ribelli del Darfur. Ma le cause non sono l’unico tratto simile che accomuna le due più recenti guerre civili sudanesi. Altrettanto simili sono state anche le risposte dei governi di Khartoum alle ribellioni nelle periferie: dall’inizio della guerra tra Nord e Sud, nel maggio 1983, a oggi il paese ha vissuto la fine del regime militare del presidente Nimeiri, arrivato al potere con un colpo di stato nel 1969 e deposto con una rivoluzione popolare incruenta nel maggio 1985; il successivo interim militare del presidente Sawar al-Dhahab, che ha portato alle elezioni democratiche del 1986; tre anni di fragili governi parlamentari di coalizione, tutti guidati dal partito Umma e dal suo leader Sadiq al-Mahdi; e, dal colpo di stato militare del 30 giugno 1989, il regime islamista guidato dal presidente Omar Hassan al-Bashir, tuttora al potere8. Governi di matrice diversa, che però hanno ripetutamente fatto ricorso a strumenti simili, quando non speculari, per fronteggiare le ribellioni nelle periferie: l’utilizzo di milizie tribali e la strategia “della terra bruciata”. Di fronte all’intensificarsi delle azioni del neonato Splm/a una delle prime risposte del governo Nimeiri fu di soffiare sul fuoco delle rivalità e conflitti latenti tra diverse comunità meridionali, giocando sul fatto che lo Splm/a era da molti percepito come un movimento essenzialmente formato da dinka, la popolazione più numerosa del Sud Sudan, seminomade e dedita alla pastorizia e all’allevamento di bovini. In una società seriamente divisa lungo linee etnico-tribali, le rivalità tra le popolazioni nilotiche, in particolare i dinka, e le altre popolazioni, soprattutto quelle delle aree più meridionali della regione, aveva già segnato la vita politica sud-sudanese nei decenni precedenti. I raid contro lo Splm/a e contro la popolazione dinka dell’area di Bor, da dove l’insurrezione era partita nel maggio 1983, da parte di gruppi di autodifesa o di vere e proprie milizie su base etnica – a iniziare dai toposa, dai mundari e dai murle, tutte popolazioni dedite alla pastorizia che con i dinka (e i nuer, anch’essi fin dall’inizio parte dello Splm/a) avevano una lunghissima storia di rapporti difficili, tensioni e scontri dovuti all’accesso ai pascoli e ai punti d’acqua oltre che al possesso del bestiame9 – furono quindi immediati e quasi scontati. Il governo, pare su diretto ordine del presidente Nimeiri, approfittò della situazione fornendo armi e copertura politica10. 7 È il caso, ad esempio, di Malik Agar, ora governatore dello stato del Nilo Azzurro e uno dei vicepresidenti dello Splm e prima comandante dello Spla nella sua regione, amministrativamente appartenente al Nord, ma entrata nella guerra tra Khartoum e il Sud già a metà degli anni Ottanta. Proprio ad opera, tra gli altri, di Agar. 8 Per dettagli sulla storia politica del Sudan dall’arrivo al potere di Jaafar Nimeiri in poi, cfr. I. Panozzo, op. cit., pp. 6897. 9 Arop Madut-arop, Sudan’s Painful Road to Peace. A Full Story of the Founding and Development of SPLM/SPLA, 2006, pp. 104-111. A p. 104 l’autore, un ngok dinka di Abyei, spiega che “da tempo immemorabile, alcuni gruppi etnici del Sudan meridionale, specialmente tra le popolazioni che allevano bestiame, hanno ereditato una cultura di guerra. Questi scoppi di guerra hanno sempre compreso faide generate dall’abigeato e lotte per i pascoli e gli accessi d’acqua usati tradizionalmente. Esempi includono i dinka-dinka, nuer-dinka e nuer-nuer; dinka-murle e dinka-mundari; toposa-didinga; longarim-lotuho; e molti altri. Queste lotte erano relativamente meno distruttive perché venivano usate armi tradizionali, lance e coltelli”. 10 D. H. Johnson, op. cit., pp. 67-69. Per l’ammutinamento di Bor che segnò l’inizio della seconda guerra civile nordsud-sudanese, cfr. ibid., pp. 61-62. 6 Fig. 2: Il Sudan e le sue zone ambientali Fonte: UNEP. Con la caduta di Nimeiri, quel che era stato un appoggio strumentale e in parte casuale divenne una strategia più compiuta, a vantaggio delle milizie dei rizeiqat e dei misseriyya delle fasce più 7 meridionali, rispettivamente, del Darfur e del Kordofan, quelle a ridosso del confine con il Bahr alGhazal in larga parte abitato da dinka11. Anche rizeiqat e misseriyya, gruppi arabi nomadi, vivono di pastorizia e allevamento di bovini e, venendo da aree più aride, si muovono verso sud durante la stagione secca, incrociando e condividendo pascoli e punti d’acqua12 con le popolazioni meridionali, a iniziare proprio dai dinka. Avendo in molti casi perso parte del bestiame negli anni della grave siccità che ha colpito tutta l’area saheliana all’inizio degli anni Ottanta ed essendosi visti negare i diritti all’utilizzo della terra e dei tradizionali percorsi della transumanza dall’espansione dell’agricoltura meccanizzata nelle loro regioni di origine, rizeiqat e misseriyya furono pronti a muoversi contro lo Splm/a, spinti dalla possibilità di accedere ai loro territori e di razziare il loro bestiame. Il coinvolgimento dei murahalin rizeiqat e misseriyya nella guerra tra Khartoum e lo Splm/a fu favorito anche dal fatto che le due popolazioni arabe erano in larga parte legate al partito Umma di Sadiq al-Mahdi, che, tornato al governo dopo le elezioni del 1986 e a corto di uomini e mezzi nell’esercito regolare, decise di appoggiare, addestrare e armare le milizie arabe, dando loro carta bianca nel combattere quella che si andava sempre più delineando come una “guerra per procura”. Già in quegli anni ci fu chi, all’interno delle più alte sfere del governo e dell’esercito, vide nell’uso indiscriminato e “a briglia sciolta”, nella più totale impunità, delle forze paramilitari reclutate su base tribale un pericolo per la stabilità del paese. Nel febbraio 1989 il capo di stato maggiore scrisse a Sadiq al Mahdi per sollevare il problema. Ma pochi mesi dopo, con l’arrivo al potere del generale Bashir, reduce dal fronte meridionale dove aveva guidato l’esercito contro lo Spla prima nelle aree petrolifere di Bentiu, nell’attuale stato di Unity, e poi in quelle di Muglad, nell’attuale Kordofan meridionale13, l’utilizzo delle milizie tribali fu non solo confermato, ma istituzionalizzato con la creazione delle Forze di difesa popolare (Popular defence forces, Pdf). Secondo un rapporto del 2003 del think tank International Crisis Group, “esistono due rami principali delle milizie – meridionali e settentrionali – che rispondono a distinte ma complementari strutture di comando. La struttura di comando per le 25 milizie etniche meridionali è centralizzata sotto il controllo dell’esercito, il cui dipartimento per l’intelligence militare supervisiona le questioni operative. Il comando autonomo delle Forze di difesa popolare (Pdf) controlla le milizie che sono reclutate tra le comunità nomadi arabe conosciute come baggara (allevatori di bovini) nella zona di transizione tra Nord e Sud e i mujahidiin volontari reclutati nel Nord”14. Milizie reclutate o mobilitate, armate e addestrate in modo simile usano anche strategie simili. E come spiega Arop Madut-arop, “le animosità tradizionali tra i gruppi etnici, quando sfruttate da uno stato o da un gruppo politicizzato possono riaccendere e trasformare il livello del conflitto in uno stato di guerra totale di un gruppo etnico contro un altro”15. La copertura politica ricevuta dal centro, già con Nimeiri e con ancora maggior ufficialità sotto i governi successivi, ha fatto il resto, essendo sempre stata garanzia di impunità. Fin dalla metà degli anni Ottanta, dunque, soprattutto nel caso delle offensive dei murahalin misseriyya e rizeiqar contro i ngok dinka dell’area di Abyei 11 Ibid., pp. 81-83. Le risorse naturali e minerarie, come l’acqua, la terra e il petrolio, sono tra le molte cause di conflitti sudanesi, in modo e misura diversa da caso a caso, ma sempre rilevanti nel contribuire a scatenare la guerra. Hanno così inciso doppiamente sulla mobilità: sia direttamente, ad esempio nei casi di inondazioni o processi di desertificazione, sia indirettamente, attraverso i conflitti. Cfr. United Nations Environment Programme (UNEP), Sudan: Post-Conflict Environmental Assessment, June 2007, [http://postconflict.unep.ch/publications/UNEP_Sudan.pdf], che a p. 78 dice che “i conflitti potenziali sulle acque del Nilo, sulle risorse petrolifere e sul legname sono problemi a scala nazionale. Le tensioni sulle terre agricole alluvionali o quelle a pascolo sono invece in primo luogo locali, ma possono avere escalation ed esacerbare altre fonti di conflitto, fino a diventare questioni di scala nazionale, com’è in questo momento il caso del Darfur”. 13 A. Madut-arop, op. cit., p. 224. 14 International Crisis Group, Sudan’s Oilfields Burn Again: Brinkmanship Endangers the Peace Process, Brussels/Nairobi, 23 February 2003, [http://www.crisisgroup.org/home/index.cfm?id=1807&l=1]. 15 A. Madut-arop, op. cit., p. 104. 12 8 o contro gli altri gruppi dinka del Bahr al-Ghazal, a essere presi di mira per primi furono i civili, uomini donne e bambini senza distinzione. Lo stesso accadde nelle spedizioni di ritorsione compiute dallo Spla, soprattutto dopo che nell’agosto 1991, in seguito alla scissione dello Splm/a seguita al tentativo di defenestrazione di Garang da parte di due suoi importanti luogotenenti, Riek Machar e Lam Akol, il fronte ribelle meridionale si frantumò in diversi gruppi, l’un contro l’altro armati. Nelle parole utilizzate da testimoni e osservatori dei gruppi di tutela per i diritti umani per descrivere gli eccidi registrati nei primi due anni della guerra in Darfur (2003-2004) ad opera soprattutto, ma non solo, dei janjawiid – milizia araba formata soprattutto dai rizeiqat abbala (allevatori di cammelli) del Nord Darfur, per nulla dissimile da quelle già ricordate per la guerra civile Nord-Sud – riecheggiano le descrizioni e le immagini di distruzione che hanno riempito le pagine dei rapporti sulle violazioni dei diritti umani nelle diverse regioni del Sud e sui Monti Nuba: le milizie che arrivano a cavallo (o a dorso di cammello nel caso dei janjawiid), attaccano, bruciano e radono al suolo villaggi e campi, uccidendo indiscriminatamente uomini donne e bambini, violentando le donne e facendo prigionieri giovani e bambini di entrambi i sessi; gli Antonov dell’esercito che precedono o seguono l’attacco sganciando bombe dall’alto; gli ostacoli burocratici e i mille impedimenti creati per far ritardare o evitare del tutto la distribuzione degli aiuti umanitari; le carestie lasciate maturare ad arte, come ulteriore arma di guerra. Di fronte a questa strategia “di terra bruciata” (scorched earth) e carestia, a cui i successivi governi hanno fatto ricorso perché è lo strumento di contro-insurrezione più a buon mercato con cui combattere guerre difficili16, chi sopravviveva non aveva altra scelta che lasciare il villaggio di origine, per evitare di incappare nel raid successivo. Il Sud Sudan prima, il Darfur poi sono così diventati teatro dello spostamento disperato di milioni di persone, che nei momenti più caldi dei conflitti, quando le offensive si concentravano su una particolare zona, ha assunto i tratti di veri e propri esodi. In certi casi per trovare rifugio oltre confine, nella maggioranza dei casi andando a ingrossare le fila degli sfollati interni raccolti intorno alle principali città, in particolare a Khartoum, Omdurman e Khartoum Nord. SUD SUDAN TRA PACE, MOBILITÀ DI RITORNO E NUOVE SFIDE Riassumere qui la storia di un conflitto durato più di vent’anni, durante il quale i capovolgimenti di fronte, le scissioni e le riunificazioni di gruppi ribelli e milizie locali, le rivalità e gli eccidi sono stati molto numerosi, sarebbe inutile. Ottima e particolarmente dettagliata è la ricostruzione della guerra fatta da Douglas H. Johnson nel suo The root causes of Sudan’s civil wars17. I già ricordati raid delle milizie, sia meridionali che settentrionali, contro la popolazione civile soprattutto dinka dei primi anni del conflitto, l’offensiva del governo sui Monti Nuba negli anni 1992-1993, con il tentativo di dislocamento dell’intera popolazione nuba in “campi della pace” per annientare l’identità di un intero popolo18, o il conflitto nelle zone petrolifere dell’Alto Nilo negli anni 19982000 e poi a negoziati di pace già avviati19 sono stati solo alcune delle fasi che hanno causato maggior mobilità nei lunghi anni di guerra. 16 Alex de Waal, “Counter-insurgency on the cheap”, London’s Review of Books, 23 July 2004, [http://www.lrb.co.uk/v26/n15/waal01_.html]. 17 D. H. Johnson, op. cit., pp. 59-142. Gli anni più duri e cruenti sono raccontati e spiegati in particolare nel capitolo 7, “The Spla split, surviving factionalism”, pp. 91-110; nel capitolo 8, “The segmentation of Spla-United & the Nuer civil war”, pp. 111-126; e nel capitolo 9, “Multiple civil wars”, pp. 127-142. 18 Cfr. African Rights, Facing genocide: the Nuba of Sudan, London, 1995. 19 International Crisis Group, Sudan’s oilfields burn again: brinkmanship endangers the peace process, Brussels/Nairobi, 23 February 2003, [http://www.crisisgroup.org/home/index.cfm?id=1807&l=1]. 9 Fig. 3: Profughi sudanesi nei paesi limitrofi Fonte: UNHCR 2004. Nell’arco di vent’anni quindi più di quattro milioni di persone hanno lasciato i loro villaggi di origine. Nella maggioranza dei casi, scappando all’arrivo delle milizie o del gruppo ribelle di turno, quindi in ordine sparso e senza possibilità di organizzare e pianificare lo spostamento. La stragrande maggioranza delle persone è rimasta entro i confini nazionali, spostandosi all’interno del Sud o andando a Nord. Altri hanno invece trovato rifugio all’estero: secondo le cifre dell’Alto Commissariato Onu per i rifugiati (Acnur) si tratta di 69mila rifugiati sudanesi in Repubblica democratica del Congo, 30324 in Egitto, 661 in Eritrea, 88mila in Etiopia, 59500 in Kenya, 223mila in Uganda (fig. 3). 10 A questi vanno aggiunti “tra i tre e i quattro milioni di sfollati interni”20. Eccetto nei casi di sud-sudanesi arrivati in Egitto spesso dopo un periodo da sfollati a Khartoum o in altre città del Sudan settentrionale21, chi si è spostato oltre frontiera per lo più l’ha fatto per prossimità geografica e/o appartenenza etnica. Come era già successo durante la prima guerra civile tra Nord e Sud, le popolazioni che vivono più a ridosso dei confini del Sud Sudan hanno facilmente attraversato la frontiera, tanto più che in molti casi le linee di demarcazione degli Stati ereditate dall’epoca coloniale tagliano a metà comunità etniche omogenee. Quello che ufficialmente, quindi, risulta come “trovare rifugio all’estero” – e ricade pertanto sotto la giurisdizione dell’Acnur – è in questi casi un fare riferimento in prima battuta alla famiglia estesa, al clan o comunque a una comunità alla quale si appartiene a pieno titolo. Ciò è valso soprattutto per chi, partendo dall’Equatoria orientale e centrale (cfr. fig. 1), è rimasto in Uganda, il paese che ha accolto il maggior numero di profughi sud-sudanesi. Oppure, muovendosi dall’Equatoria occidentale e in parte dal Bahr al-Ghazal occidentale, ha trovato rifugio in Repubblica democratica del Congo o in Repubblica centrafricana. Altra destinazione scelta da un gran numero di profughi è stata Kakuma, nel Kenya nordoccidentale, sede di un sistema di campi profughi che, oltre ai sudanesi, ha accolto negli anni anche molti altri rifugiati in fuga da altre guerre della regione. In questo caso però, anche per chi arrivava dall’Equatoria orientale, hanno contato più la prossimità geografica e la certezza di campi già organizzati che i legami etnici. Tant’è vero che Kakuma è stato il porto di approdo anche per chi arrivava da altre zone del Sud Sudan, più distanti dalle frontiere. La stessa cosa è successa, soprattutto nei primi otto anni di guerra, anche per l’Etiopia: fino al 1991 molti sud-sudanesi hanno trovato rifugio nei campi allestiti soprattutto lungo il confine con l’Alto Nilo, di comune accordo tra il governo di Menghistu e lo Splm/a, protetto e finanziato da Addis Abeba. In alcuni casi, tra i campi profughi e i campi di addestramento dei plotoni dello Spla non c’era quasi soluzione di continuità e nelle fila dei rifugiati si trovavano anche le famiglie dei ribelli. In questi campi, quindi, oltre a chi era arrivato dalle aree dell’Alto Nilo, del Nilo Azzurro meridionale o dello stato di Jonglei più prossime al confine, si radunarono anche molte altre persone arrivate da zone più lontane del Sud Sudan, tra cui molti dinka in arrivo dagli stati di Jonglei, Unity e Bahr al-Ghazal22. Alla caduta del regime di Menghistu, nel maggio 1991, i campi furono chiusi dall’oggi al domani e più di centomila persone rientrarono in Sud Sudan nel pieno della stagione delle piogge, creando un’emergenza umanitaria difficile da gestire. In pochi sono però rimasti in una zona divenuta, di lì a poco, teatro dello scontro tra diverse fazioni dello Spla: la maggioranza è uscita di nuovo dal paese, tornando in Etiopia o finendo a Kakuma. Il numero dei profughi sud-sudanesi è stato però ampiamente superato da quelli degli sfollati interni, anche se avere dei dati certi in questo caso è quasi impossibile, visto che gli IDPs, come vengono indicati nell’acronimo inglese, non ricadono sotto la giurisdizione di una specifica agenzia internazionale perché si muovono solo entro i confini nazionali. Se la stragrande maggioranza degli sfollati si sono fermati nella Greater Khartoum23, ovvero l’esteso agglomerato urbano che riunisce 20 United Nations High Commissioner for Refugees, 2004 Supplementary Appeal for Sudan: Preparatory Activities for the Repatriation and Reintegration of Sudanese Refugees, [http://www.unhcr.org/partners/PARTNERS/40d301854.pdf]. 21 Interviste con sud-sudanesi al Cairo, novembre 2002, marzo-maggio 2003, maggio 2004, febbraio 2005. La maggior parte dei sud-sudanesi che hanno trovato rifugio al Cairo, dove però non esistono campi rifugiati, è arrivata a diverse ondate dopo molti anni, in certi casi quasi venti, passati da sfollati a Khartoum o in altre città del Nord. Nella grande maggioranza dei casi, l’arrivo al Cairo è stata vissuto solo come una tappa di un viaggio che, attraverso i programmi di resettlement, avrebbe potuto portare a una nuova vita negli Usa, in Canada o in Australia, ma si è trasformato in una sosta definitiva. 22 Tra loro un gran numero di minori non accompagnati, che in moltissimi casi furono arruolati a forza dello Spla, a formare lo Jaish al-ahmar, l’“esercito rosso”. La biografia di uno di questi “lost boys”, Valentino Achak Deng, è stata messa in romanzo dallo scrittore statunitense Dave Eggers e pubblicata in Italia con il titolo Erano solo ragazzi in cammino, Mondadori, 2007. Un altro, Emmanuel Jal, è diventato un famoso artista hip-hop, che canta in inglese, swahili, arabo e nuer. 23 Agnes de Geoffroy, op. cit., p. 7: “...tra il 1983 e il 1991 si stima che quasi 3 milioni di persone si siano spostate dal Sud. Entro la metà del 1991, circa 425000 tra loro avevano trovato rifugio in Uganda ed Etiopia. Il resto si è spostato verso le città meridionali, come Juba e Malakal, e circa 2,3 milioni di sud-sudanesi hanno trovato rifugio nel Nord, di 11 Khartoum, Omdurman e Khartoum Nord e le rispettive periferie, molti IDPs hanno raggiunto altre città del Nord, come Nyala, Kosti o El Obeid, grossomodo poste sulla traiettoria che da Sud e dalle Tre Aree, come sono state chiamate sia in sede negoziale che nel trattato di pace le regioni di Abyei, del Kordofan meridionale e del Nilo Azzurro24, porta verso la capitale. Una parte di IDPs è anche rimasta all’interno del Sud, spostandosi a seconda delle necessità da un luogo all’altro, sia nelle zone controllate dal governo di Khartoum (ad esempio le città di Juba e Malakal), sia in quelle “liberate” e controllate dallo Splm. Anche nel caso degli sfollati, gli spostamenti sono stati dettati in molti casi dalla geografia. Il maggior afflusso di sfollati nelle città del Nord è arrivato dalle Tre Aree o dalle zone più settentrionali del Sud Sudan: dal Bahr al-Ghazal occidentale e settentrionale in parte verso il Darfur, in parte verso le aree più centrali del paese; dalle zone dell’Alto Nilo tra Malakal e Renk verso Kosti e Khartoum, in molti casi direttamente per via fluviale; dallo stato di Unity, da Abyei e dai Monti Nuba verso El Obeid e, di qui, verso Khartoum. Gli stessi percorsi sono stati poi seguiti a ritroso da chi ha scelto di tornare (fig. 4). Diversamente dai rifugiati, gli sfollati arrivati nelle città del Nord (ma anche, a maggior ragione, quelli rimasti nel Sud) non hanno potuto usufruire di servizi ad hoc. Nella maggioranza dei casi, quindi, hanno occupato terre ai margini delle città, ormai nel deserto, andando a creare villaggi e insediamenti anche molto estesi fatti di capanne e baracche. Il caso più eclatante è certamente quello delle periferie della Greater Khartoum, dove gli sfollati costituiscono circa il 40% della popolazione totale. Si stima che circa 315mila IDPs vivano nei quattro campi sfollati ufficiali, un numero risibile rispetto agli almeno 2 milioni totali di IDPs che si pensa vivano nella capitale. Chi non sta in campi sfollati ufficiali vive o in insediamenti abusivi, di tanto in tanto rasi al suolo dalle autorità, oppure in zone ufficialmente previste per la relocation o comunque pianificate. Solo queste ultime aree possono beneficiare (o sperare di beneficiare) di un miglioramento dei servizi, dalla fornitura di acqua ed elettricità alla costruzione di strade, di scuole o di dispensari25. Fig. 4: Percorsi di ritorno degli sfollati verso il Sud e le Tre Aree cui 1,8 milioni si sono stabiliti nella Greater Khartoum”. 24 Queste tre regioni non sono amministrativamente parte del Sud, ma sono state teatro di guerra fin dalla metà degli anni Ottanta, fin da quando lo Splm/a è riuscito a portare dalla sua parte i nuba del Kordofan meridionale, i dinka ngok di Abyei e i funj e le altre popolazioni non arabe della parte più meridionale del Nilo Azzurro. In sede negoziale, quindi, le Tre Aree hanno avuto un trattamento separato rispetto al Sud. Un protocollo ha riguardato la sola area di Abyei, molto più piccola delle altre ma di grande importanza strategica: nel 2011, quando il Sud voterà per l’autodeterminazione, Abyei potrà decidere se rimanere parte del Nord, “entrando” nel Kordofan meridionale, oppure se venire assorbita nel Bahr al-Ghazal settentrionale e quindi seguire il destino del Sud. Nilo Azzurro e Monti Nuba/Kordofan meridionale sono stati invece uniti in un unico protocollo, che ha stabilito una gestione politica a rotazione tra National Congress e Splm e previsto una “consultazione popolare” nel 2011 per confermare o modificare le previsioni del Cpa. 25 Agnes de Geoffroy, op. cit., p. 11. In base a osservazioni personali (febbraio 2005, ottobre 2006 e marzo 2008), una differenza rilevante si nota già tra le periferie di Khartoum e Omdurman che, per quanto molto povere, nell’arco di vent’anni sono riuscite a darsi delle strutture e dei servizi, e quelle, ad esempio, di Kosti, dove i villaggi, quasi tutti rigorosamente monoetnici (quello dei dinka separato da quello degli shilluk e da quello dei nuer, il più lontano dalla città), non sono molto diversi, se non per la maggior aridità, da quelli delle zone rurali del Sud Sudan. 12 Fonte: IOM, gennaio 2008 13 La diversa condizione rispetto ai rifugiati ha influito anche sui pattern dei ritorni, iniziati dopo la firma del Cpa nel gennaio 2005. Se infatti l’Acnur ha predisposto dei programmi di rimpatrio volontari26 per chi risiedeva nei campi gestiti dall’agenzia, organizzando così i voli o i pullman per ricondurre nelle zone di origine chi aveva scelto di tornare e provvedendo, almeno sulla carta27, a tre mesi di sostentamento sia in prodotti alimentari che in sementi e strumenti agricoli, gli sfollati che hanno deciso di tornare nel Sud o nelle Tre Aree l’hanno fatto, nella maggioranza dei casi, spontaneamente e con mezzi propri. Questo nonostante l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) abbia concordato con le altre agenzie dell’Onu e con i governi di Khartoum e di Juba dei servizi di accompagnamento e di ritorno e reintegrazione nelle comunità originarie. Stando ai dati e alle stime raccolte dall’Oim e pubblicate in un rapporto dell’ottobre 200828, i returnees per l’intero Sud Sudan e il Kordofan meridionale sarebbero stati, al giugno 2008, 1847055. Di questi, l’Oim ha certificato l’effettivo ritorno di 677951, attraverso un assessment fatto villaggio per villaggio e che è risultato totale solo per il Kordofan meridionale, la regione con il più alto numero di returnees (298098). Dalla stima dell’Oim si deduce che la metà circa degli sfollati ha preferito non tornare nel Sud e nelle Tre Aree, quanto meno per il momento. Il totale di 1847055 rientri potrebbe però non tenere conto di una variabile importante. Secondo quanto dice il rapporto dell’Oim, il picco massimo di ritorni per il periodo 2005-metà 2008 è stato nella seconda metà del 2007. Un elemento non casuale: per il febbraio 2008 era previsto lo svolgimento del primo censimento generale del dopoguerra, che poi è slittato alla fine di aprile dello stesso anno. È altamente probabile che, quantomeno per quel che riguarda il Sud in senso stretto, molte persone si siano recate nei villaggi d’origine per farsi registrare “a casa” ed essere così sicuri di aver diritto a votare nel referendum sull’autodeterminazione del 2011, che potrebbe aprire le porte all’indipendenza della regione29. Quanti di questi siano poi effettivamente rimasti nel Sud e quanti invece abbiamo deciso di fare ritorno nelle città del Nord in cui risiedono da molti anni è invece difficile da stabilire. A far apparire come un po’ troppo ottimista la stima dell’Oim c’è anche l’impressione, che però naturalmente non ha alcun valore statistico, che si ha parlando con la gente comune a Khartoum o nel Sud Sudan. La vulgata diffusa vuole che in realtà, soprattutto dagli insediamenti della Greater Khartoum, i rientri siano stati una minoranza. Al di là delle sensazioni, quel che è certo e che è confermato anche dai funzionari dell’Oim30 è che la mancanza totale di servizi e di infrastrutture sociali (scuole, dispensari, strade, posti di lavoro e via dicendo) ha fatto sì che soprattutto chi ha meno prospettive e risorse abbia deciso di tornare. Altri elementi che giocano in favore della decisione di rientrare nel Sud è il riscoprire le proprio radici e farle conoscere a figli nati e cresciuti a Khartoum e il clima di discriminazione che molto spesso continua a caratterizzare i rapporti tra gli sfollati meridionali e nord-sudanesi. Ciononostante, e per quanto difficile e precaria possa essere la vita nelle periferie della Greater Khartoum, nell’arco dei decenni passati lì molti sfollati hanno avuto la possibilità di trovare dei lavori, dare un’istruzione ai figli, accedere a dei servizi che nelle aree rurali del Sud Sudan sono totalmente inesistenti. È difficile, ad esempio, che famiglie con figli in età scolare, soprattutto se si tratta di istruzione secondaria, ritornino in regioni dove mancano quasi totalmente scuole e altre strutture educative. Lo stesso vale per chi a Khartoum ha un lavoro o spera di ottenerlo. 26 Intervista Taylor Garrett, repatriation officer dell’Acnur a Juba, febbraio 2009. Intervista a Beatrice Aber Samson, programme manager della Southern Sudan Peace Commission, Juba, marzo 2008 e febbraio 2009. 28 International Organisation for Migration, Total Returns to South Sudan post CPA to June 2008, IOM tracking of spontaneous returns project, 25 October 2008, [http://www.reliefweb.int/rw/RWFiles2008.nsf/FilesByRWDocUnidFilename/PANA-7KQH9Rfull_report.pdf/$File/full_report.pdf]. 29 Ibid., p. 12. 30 Intervista a Inge Zorn, funzionario dell’Oim, Juba, febbraio 2009. 27 14 Alla questione del rientro e della reintegrazione degli sfollati si aggiungono così fattori derivanti dal processo di urbanizzazione le cui conseguenze sulla mobilità di ritorno non sono facili da calcolare. Può però succedere che chi decide di lasciare Khartoum o il Nord per tornare al Sud non si rechi nei villaggi di origine o lo faccia solo in prima battuta, finendo poi per scegliere di stabilirsi a Juba o a Malakal, preferendo quindi un ambiente urbano a quello rurale di origine. Il che significa però passare da una condizione di sfollato al Nord a una condizione di sfollato al Sud, in città che, per quanto in espansione, sono molto più carenti della Greater Khartoum per quel che riguarda i servizi e le infrastrutture31. Oltre ai problemi pratici legati alla totale assenza di servizi e infrastrutture, soprattutto nelle aree rurali, per chi ritorna ci sono anche difficoltà socio-culturali da affrontare, per la sovrapposizione di due diversi movimenti di ritorno: dal Nord al Sud e dalla città alla zona rurale32. Dopo vent’anni di displacement nel Nord, le generazioni più anziane si sono abituate a usare l’arabo e hanno assunto costumi e stili di vita, dall’abbigliamento all’alimentazione, diversi da quelli usati nelle zone di origine. Soprattutto hanno cambiato attività produttiva con cui guadagnarsi da vivere, abbandonando per forza di cose l’agricoltura di sussistenza o l’allevamento semi-nomade delle aree rurali del Sud Sudan. Per le generazioni più giovani, in molti casi nate e sempre vissute nel Nord dove le famiglie sono rimaste vent’anni, l’ostacolo socio-culturale, a iniziare dall’utilizzo dell’arabo come madrelingua e dalla conoscenza insufficiente o parziale delle lingue locali, diventa ancora più difficile da affrontare. Difficoltà che diventano più sentite e fonti di tensioni maggiori soprattutto nel confronto con chi, durante tutto il conflitto, non si è spostato, oppure ha vissuto per molti anni in Kenya, Uganda o Etiopia, vivendo quindi in contesti socio-culturali profondamente diversi da quello delle periferie di Khartoum (ma anche diversi tra loro). Altra fonte di tensione e possibile causa di nuovi conflitti è la questione della terra. In Sud Sudan la proprietà della terra rimane per lo più comunitaria. Chi quindi torna alla propria comunità di origine in un’area rurale incontra di solito meno problemi nell’accedere alla terra e gli eventuali scontri sono gestiti attraverso le autorità e i processi di risoluzione dei conflitti tradizionali e comunitari33. Tensioni più serie si verificano in due casi: nelle città, dove è più difficile ottenere accesso alla terra34, oppure quando una comunità occupa il territorio ancestrale di un’altra35. Questo caso è particolarmente problematico e si è registrato in diverse occasioni e in diversi luoghi del Sud Sudan: comunità, in particolare di allevatori, che rientrando dall’estero non ritornano alle loro aree di origine ma si fermano in altre zone, magari lasciate in parte libere da chi non è ancora tornato, andando a occuparne la terra. Le conseguenze di una tale situazione, sicuramente difficile da gestire in realtà in cui la terra viene assegnata dai capi con il consenso dell’intera comunità, rischiano di essere esplosive e altamente destabilizzanti, in una società dove la disponibilità e la diffusione di 31 Per i servizi e le infrastrutture della città di Juba, cfr. Sara Pantuliano, Margie Buchanan-Smith, Paul Murphy, Irina Mosel, The Long Road Home: Opportunities and Obstacles to the Reintegration of IDPs and Refugees Returning to Southern Sudan and the Three Areas (Report to Phase II), Humanitarian Policy Group, Overseas Development Institute, September 2008, [http://www.odi.org.uk/resources/download/2432.pd], pp. 21-25. 32 Intervista a Beatrice Aber Samson, Programme Manager, Southern Sudan Peace Commission, Juba, marzo 2008 e febbraio 2009; intervista a Inge Zorn, funzionario dell’Oim, Juba, febbraio 2009; Agnes de Geoffroy, op. cit., p. 15; Sara Pantuliano, Margie Buchanan-Smith, Paul Murphy, The Long Road Home: Opportunities and Obstacles to the Reintegration of IDPs and Refugees Returning to Southern Sudan and the Three Areas (Report to Phase I), Humanitarian Policy Group, Overseas Development Institute, August 2007, [http://www.odi.org.uk/resources/download/1022.pdf], pp. 46-47. 33 Intervista a Beatrice Aber Samson, Programme Manager, Southern Sudan Peace Commission, Juba, marzo 2008 e febbraio 2009; intervista a Inge Zorn, funzionario dell’Oim, Juba, febbraio 2009. 34 Per i problemi legati alla gestione della terra nella città di Juba, cfr. S. Pantuliano, M. Buchanan-Smith, P. Murphy, I. Mosel, op. cit., pp. 29-36. 35 Intervista a Beatrice Aber Samson, Programme Manager, Southern Sudan Peace Commission, Juba, marzo 2008 e febbraio 2009; e Pact Sudan & USAID, Conflict Threats & Peace Assessment: Juba, Malakal, Aweil, Kadugli, Kauda & Abyei, Enhancing people to people indigeous capacities program, June 2007. 15 armi rimangono altissime e che è ancora molto ferita dai decenni di conflitti che sono stati anche inter-tribali, all’interno dello stesso Sud Sudan. SFOLLATI IN DARFUR, TRA CONFLITTO E URBANIZZAZIONE L’inizio del conflitto in Darfur si fa comunemente risalire alla primavera 2003: il 26 febbraio un gruppo che si presenta come Darfur Liberation Front (DLF) in un comunicato annuncia di aver attaccato Golo, quartier generale distrettuale del Jebel Marra. Due mesi dopo, il 25 aprile, in un’azione congiunta il Sudan liberation movement/army (Slm/a)36 e il Justice and Equality Movement (JEM)37 attaccano la base dell’aeronautica sudanese di El Fasher, la capitale del Nord Darfur, uccidendo più di settanta persone e riducendo in cenere i sette aerei della base38. Due gruppi ribelli da un lato, con diversi orientamenti e diversa base etnica, dall’altro il governo di Khartoum e le milizie janjawiid39, in una guerra di contro-insurrezione combattuta con metodi già ampiamente sperimentati nel conflitto nel Sud e sui Monti Nuba: strategia della terra bruciata, uccisioni di massa, stupri e carestie indotte o quantomeno lasciate maturare senza fare nulla, ostacoli burocratici all’intervento delle agenzie umanitarie, governative e non40. Nell’arco di pochi mesi, dalla seconda metà del 2003 ai primi mesi del 2004, prima ancora che la comunità internazionale se ne renda bene conto e accenda sul Darfur i riflettori degli anni successivi, centinaia di migliaia di persone lasciano i villaggi rasi al suolo e cercano riparo o oltre confine, in Ciad, o nei centri urbani del Darfur, in particolare nelle tre capitali Nyala, El Fasher ed El Geneina. Nel luglio 2004 ci sono già circa 1,1 milione di sfollati nelle città più grandi della regione e più di 100mila persone hanno attraversato la frontiera e sono accolte nei campi rifugiati in Ciad41. Il numero continua a crescere negli anni successivi, anche se il conflitto cambia di intensità e strategia, con attacchi più mirati sia da parte 36 Lo Slm/a è nato innanzitutto dall’evoluzione delle milizie di autodifesa fur, nate durante il conflitto degli anni 198789. Nel 2001, la diffusione di gruppi di combattenti fur e masalit nel Darfur occidentale e meridionale è coincisa con la decisione di giovani zaghawa di ribellarsi e prendere le armi contro il governo. Lo Slm/a si è quindi formato dalla cooperazione tra queste tre diverse anime, rappresentate per lo più da giovani istruiti, a livello universitario o superiore, e da giovani professionisti, che continuavano a tornare in Darfur da Khartoum e dagli altri centri urbani del Nord Sudan per unirsi alla ribellione. 37 Fondato nel 2000 da darfuriani non arabi delusi dal movimento islamista di cui per anni avevano fatto parte, il Jem ha sempre avuto un’agenda meno chiara di quella dello Slm/a. In particolare è rimasto sempre non ben specificato il punto di vista del movimento sulla questione della religione e il fatto che, poco dopo l’inizio della guerra nel 2003, la presidenza del Jem sia stata affidata a Khalil Ibrahim, ex ministro del governo islamista e da sempre vicino a Hassan alTurabi, ha preoccupato più di un osservatore. Come lo Slm/a all’inizio, anche il Jem ha reclutato tra tutte le principali popolazioni africane del Darfur, sebbene gli zaghawa abbiano sempre costituito il nocciolo duro del movimento. 38 Per le cause, i precedenti e gli sviluppi della guerra in Darfur, cfr. A. de Waal-J. Flint, Darfur, a New History of a Long War, African Argument, Zed Books, 2008. 39 Il termine janjawiid significa “orde” e “ruffiani” e in passato è stata usata per indicare fuorilegge e banditi provenienti soprattutto dal Ciad. Ma la parola ricorda anche altri tre vocaboli arabi: jim, ovvero la lettera g dell’alfabeto, per il fucile d’assalto belga G3; jinn, ovvero diavolo; e jawad, ovvero cavallo. È per questo che i janjawiid vengono di solito chiamati anche “diavoli a cavallo”. I janjawiid stessi non si riconoscono in questo nome, proprio perché in passato usato soprattutto per indicare banditi e fuorilegge. Preferiscono farsi chiamare mujahidiin, guerrieri della fede, o fursan, cavalieri, un termine usato anche dal presidente Omar al-Beshir, quando nel dicembre 2003 ha affermato pubblicamente che il governo avrebbe usato “l’esercito, la polizia, i mujahadiin, i fursan per liberarsi della ribellione”. 40 Sono molti i rapporti delle organizzazioni di tutela dei diritti umani, in primis Amnesty International e Human Rights Watch, che a iniziare dal 2004 raccolgono testimonianze e raccontano i crimini e i soprusi commessi nelle diverse parti del Darfur. Per maggiori informazioni, cfr. la pagina sul Sudan del sito di HRW [http://www.hrw.org/en/africa/sudan] e di AI [http://www.amnesty.org/en/region/sudan]. 41 H. Young, K. Jacobsen, A. Monium Osman, Livelihoods, Migration and Conflict: Discussion of Findings from Two Studies in West and North Darfur, 2006-2007, Feinstein International Center - Tufts University, April 2009, p. 8, [http://wikis.uit.tufts.edu/confluence/download/attachments/24314925/livelihoods-migration-conflict-discussion.pdf]. 16 ribelle sia da quella governativa. La vasta offensiva di contro-insurrezione dei primi mesi e il protrarsi degli scontri e delle razzie rendono in molti casi impossibile vivere nelle aree rurali. Per la fine del 2005, il numero degli sfollati è di circa 1,6 milioni di persone, su un totale (che comprende gli IDPs nei campi, quelli in comunità miste con residenti e la popolazione, sia urbana che rurale, non dislocata) di 3,25 milioni toccati dalla guerra. All’inizio del 2005 un’ampia parte dei villaggi del Darfur risulta distrutta. Altre ondate di dislocamenti seguono negli anni successivi, in conseguenza del permanere di un clima di insicurezza generalizzata oppure di offensive e scontri – tra diversi gruppi ribelli, tra governo e ribelli, inter- e intra-tribali – geograficamente più localizzati rispetto a quelli dei primi anni. Per citare uno dei casi più recenti, basti pensare ad esempio all’offensiva del gennaio 2009 su Muhajiriyya, nel Sud Darfur, quando gli uomini del JEM hanno cercato di strappare la città a quelli dello Slm/a di Minni Minnawi, l’unico gruppo ribelle ad aver firmato il Darfur peace agreement (Dpa) nel maggio del 2006 e quindi ufficialmente alleato del governo di Khartoum. L’appoggio dell’esercito non è bastato a far rimanere Muhajiriyya nelle mani dello Slm/a di Minnawi, mentre l’intervento dell’aeronautica e delle sue bombe hanno impedito che il JEM tentasse, negli stessi giorni, di prendere el Fasher, la capitale del Nord Darfur42. Gli scontri tra JEM, gli uomini di Minnawi e l’esercito in Nord e Sud Darfur non hanno fatto un gran numero di vittime civili, ma hanno spinto molte persone a lasciare in particolare l’area di Muhajiriyya, in alcuni casi muovendosi verso sud, in altri verso nord, come illustrano le fig. 5 e 6, redatte dall’Ufficio di coordinamento per gli affari umanitari delle Nazioni Unite (UN OCHA). A partire dalla fine del 2004, la maggior parte degli sfollati trova rifugio nei campi che nascono ai margini delle città (fig. 7). Si tratta di una misura che permette alle agenzie umanitarie, governative e non, di negoziare con Khartoum le modalità di intervento e cercare di rispondere a tutte le necessità più urgenti degli IDPs (cibo, acqua, assistenza sanitaria e via dicendo). Ma la creazione di campi sfollati organizzati serve anche agli interessi del governo, che ha continuato in questi anni di conflitto a mantenere il controllo dei principali centri urbani. È l’amministrazione ad organizzare i campi e a permettere alle ong e alle agenzie internazionali di portare aiuti agli sfollati. La popolazione sfollata, nella maggioranza dei casi originaria di gruppi etnici da cui la ribellione è animata (in prima battuta fur, zaghawa e masalit, ma non solo), è così sotto il controllo dell’esercito e delle milizie janjawiid. Non tutti i nuovi arrivati dalle zone rurali finiscono però nei campi sfollati. Molti rimangono fuori, andando ad accrescere in modo consistente la popolazione delle città. 42 “Sudan army continues to bomb rebels around Darfur’s El-Fasher”, Sudan Tribune, 28 January 2009, [http://www.sudantribune.com/spip.php?article29989]. 17 Fig. 5: Movimenti di popolazione in Sud Darfur, gennaio-febbraio 2009 Fonte: UN OCHA. 18 Fig. 6: Movimenti di popolazione in Nord Darfur, gennaio-febbraio 2009 Fonte: UN OCHA. 19 Fig. 7: campi sfollati in Darfur Fonte: UN OCHA, 2007. Al processo di dislocamento forzato causato dal conflitto si intreccia quindi un processo di urbanizzazione che prima del 2003 quasi non aveva toccato il Darfur, rimasto fino a quel momento una regione essenzialmente rurale: se all’inizio del conflitto solo il 18% della regione era urbanizzato, in questi sei anni la percentuale è salita al 35%43. Ma potrebbe essere anche più alta, secondo alcune stime al 45%, se si considera che almeno un terzo dei residenti dei campi sono economicamente integrati nelle città, altri sono parzialmente integrati e molti altri ancora, che per lo più risiedono in piccoli campi spersi nelle aree rurali, basano il loro sostentamento sull’attività rurale, usando i campi solo come “dormitori”. Non solo gli sfollati hanno contribuito in questi anni al processo di urbanizzazione del Darfur. Accanto a loro c’è anche il gruppo, quasi invisibile, dei “normali” migranti urbani, formato in larga parte da arabi dislocati a causa degli attacchi dei ribelli, del clima generale di insicurezza o dagli scontri tra diversi gruppi arabi che si sono verificati in molte parti del Darfur in questi anni. Sebbene le cause della loro mobilità e le loro problematiche siano simili a quelle degli IDPs, il loro essere in larga parte arabi, come i janjawiid, ha precluso loro l’accesso ai campi sfollati. Sono quindi i gruppi potenzialmente a maggior rischio umanitario, non beneficiando delle tutele e dei consistenti aiuti umanitari che gli IDPs ricevono. Dall’inizio della guerra, quindi, il Darfur, in particolare le tre capitali, è profondamente cambiato. Particolarmente rilevante è stata la trasformazione di Nyala, la capitale del Sud Darfur, passata dall’essere una piccola cittadina nel 1960 all’avere attualmente una popolazione di 1,3 milioni di persone, che salgono a 1,6 milioni se si contano anche gli sfollati che vivono nei campi sorti in città. Ciò significa che un quarto dell’intera popolazione del Darfur risiede ormai a Nyala, che 43 A. de Waal, Do Darfur’s IDPs Have an Urban [http://blogs.ssrc.org/darfur/2009/03/31/do-darfurs-idps-have-an-urban-future/]. Future?, 31 March, 2009, 20 ospita anche più di un terzo delle attività economiche della regione. L’impatto del conflitto e del conseguente dislocamento di molte centinaia di migliaia di persone ha quindi avuto non solo l’effetto traumatico che caratterizza lo status di sfollati, ma anche una serie di conseguenze sugli assetti socio-economici della regione, legati al processo di urbanizzazione repentino e in molti casi forzato che la guerra ha portato con sé, che potrebbero facilmente rivelarsi di lunga durata. Per gli sfollati che vi risiedono da anni, uscire dai campi non è impossibile. Escono le donne per raccogliere la legna da ardere, con il costante rischio di essere stuprate e uccise appena messo piede fuori dal campo. Ma escono soprattutto gli uomini, che mantengono o instaurano legami con la città, in certi casi trovando anche dei lavori. Un primo importante cambiamento rispetto agli assetti socio-economici del passato riguarda quindi i mezzi di sostentamento (livelihoods) su cui gli sfollati fanno affidamento. Da quanto emerge da uno studio del Feinstein International Centre e della Tufts University44 sugli sfollati (sia residenti nei campi sia quelli presenti al di fuori di essi) di Kebkabiya, in Nord Darfur, e Zalingei, nel Darfur occidentale, le livelishood strategies degli IDPs nelle aree urbane sono cambiate molto rispetto a quelle tradizionalmente legate ai sistemi agricoli rurali, come conseguenza sia del dislocamento causato dal conflitto, sia alle limitate possibilità di spostamento fuori dalle città dovute all’insicurezza cronica nella regione. Dopo cinque anni da sfollati nelle aree urbane, gli IDPs hanno sviluppato varie alternative di sostentamento che vanno da quelle caratteristiche degli ambienti rurali e di quelli urbani a legami transnazionali, in particolare in riferimento alle rimesse inviate dall’estero da uno o più membri emigrati nei paesi vicini o in Europa e Stati Uniti. Se coltivare la terra rimane molto difficile a causa del protrarsi dell’insicurezza (ostacolo primo per l’82% degli sfollati di Kebkabiya e l’85% di quelli di Zalingei), per quel che riguarda le livelihoods semi-urbane, però, la ricerca rivela che le strategie sono inadeguate, insicure e poco adattabili. In molti casi si tratta di attività marginali che non garantiscono sufficiente guadagno o sufficiente cibo. Altre non sono sostenibili: è il caso ad esempio della produzione o la vendita di mattoni, che sfrutta in modo eccessivo l’acqua dei pozzi e una grande quantità di legna da ardere45. Altre ancora, come è il caso della raccolta della legna, espongono le persone a intimidazioni, persecuzioni o violenze. Ad alterare il quadro contribuiscono anche gli effetti distortivi che l’intervento della comunità internazionale e della missione di peacekeeping congiunta Unione Africana-Nazioni Unite (Unamid) ha sia sulle strategie di sostentamento degli sfollati, sia sui processi di urbanizzazione, crescita economica e cambiamento ambientale della regione: se da un lato la presenza delle operazioni umanitarie e di peacekeeping crea posti di lavoro, peraltro molto ben pagati rispetto agli standard locali, dall’altro ha aumentato la domanda per beni di lusso e di abitazioni da acquistare o affittare e di conseguenza creato un boom edilizio. Tutto ciò ha fatto salire di molto il costo della vita, com’è successo anche in altre parti del paese (ad esempio a Juba, la capitale del Sud), rendendo ancora più difficile il sostentamento di chi può contare su poche attività, peraltro incapaci di generare grandi redditi. È però vero, come sottolinea Alex de Waal46, che c’è anche un’altra dimensione, sempre legata ai fattori economici: non la distruzione del vecchio ordine ma l’adattamento al nuovo, costruito attorno alle economie urbane e alle rendite degli aiuti invece che sulle attività agricole e pastorali di un tempo. È così che molte famiglie decidono di lasciare alcuni membri nei campi mentre gli altri tornano alle attività rurali o urbane, oppure che nuclei familiari residenti in aree rurali relativamente 44 H. Young, K. Jacobsen, A. Monium Osman, Livelihoods, Migration and Conflict: Discussion of Findings from Two Studies in West and North Darfur, 2006-2007, Feinstein International Center - Tufts University, April 2009, p. 5, [http://wikis.uit.tufts.edu/confluence/download/attachments/24314925/livelihoods-migration-conflict-discussion.pdf]. 45 Cfr. in proposito il capitolo 4 (“Construction boom in Darfur’s main towns: the surge in demand for bricks”) del rapporto di UNEP, Destitution, Distortion and Deforestation: the Impact of Conflict on the Timber and Woodfuel Trade in Darfur, November 2008, [http://postconflict.unep.ch/publications/darfur_timber.pdf]. 46 A. de Waal, Do Darfur’s IDPs have an urban future?, 31 March, 2009, [http://blogs.ssrc.org/darfur/2009/03/31/dodarfurs-idps-have-an-urban-future/]. 21 tranquille, che permettono quindi le attività agricole, decidono comunque di far restare alcuni parenti nei campi, sia per avere accesso agli aiuti, sia in caso di un cambiamento della situazione che imponga il ritorno nei campi sfollati anche per chi se n’è già allontanato. Da questo punto di vista la relazione tra le città del Darfur e gli sfollati non è molto diversa da quella tra gli IDPs meridionali e Khartoum: anche in questo caso molte famiglie hanno preferito mandare in avanscoperta, nelle aree di origine, alcuni membri, per capire se e come era possibile rientrare nel Sud. E anche quando il rientro c’è stato, come abbiamo visto, in molti casi una parte di famiglia – in particolare i giovani, soprattutto se in età da scuola secondaria o formazione universitaria – è rimasta nella capitale, che offre opportunità che il Sud non è in grado di offrire. Di diverso, nelle città del Darfur, c’è l’elemento umanitario, che a Khartoum è sempre mancato: anche i più poveri tra coloro che risiedono nei campi sfollati possono godere di beni e servizi a cui in città, e men che meno nelle zone rurali, non avrebbero accesso. Inoltre, le aree urbane offrono opportunità di inventarsi dei lavori che i giovani darfuriani, solitamente considerati molto intraprendenti, non mancano di cogliere. La permanenza nei campi sfollati, ormai pluriennale e senza una reale fine in vista, non ha influito solo sui mutamenti per quel che riguarda le attività economiche e produttive degli IDPs. Ha anche riguardato le strutture e i legami sociali, in particolare per quel che concerne le leadership locali e tribali. In molti casi, infatti, in modo simile a quanto successo tra i milioni di sfollati delle periferie di Khartoum durante la guerra Nord-Sud, le vecchie autorità dei villaggi sono state sostituite da nuove leadership, da camp sheikh che basano il loro potere sul controllo della gestione e della distribuzione degli aiuti, talvolta anche su quello del commercio, della terra o della sicurezza. Alcuni dei campi più grandi non hanno una presenza governativa al loro interno e quindi si autoamministrano e auto-tassano, creando così delle opportunità economiche interessanti per i commercianti. Allo stesso tempo, in alcuni campi gli sfollati, con l’appoggio e l’addestramento fornito da Unamid, hanno organizzato community police services per sopperire all’assenza di forze di polizia, che, dipendendo da Khartoum, non possono operare nei campi47. Inoltre, il fatto che le tessere annonarie siano date alle donne garantisce loro un minimo di indipendenza socio-economica dagli uomini, che, abbinata all’allentamento delle vecchie forme di autorità sociale, fa sì che i più giovani48 possano avere un qualche grado di libertà rispetto al controllo dei genitori, ad esempio opponendosi, nel caso delle ragazze, ai matrimoni combinati. Quel che è più rilevante e che costituisce una novità anche rispetto alle esperienze degli sfollati meridionali a Khartoum49 è però l’alta politicizzazione degli IDPs del Darfur: come già accennato, i 47 Ibid. Non sempre il rapporto tra IDPs e Unamid è stato facile, anzi. In particolare, motivo di aspre critiche da parte della leadership degli sfollati è stato l’atteggiamento della missione di peacekeeping quando nell’agosto 2008 le forze governative hanno attaccato il campo di Kalma, vicino Nyala, che ospita più di 90mila persone. Nell’attacco, che Khartoum ha giustificato dicendo che Kalma è ormai un covo di banditi e criminali dediti a ogni possibile traffico illecito, 32 IDPs sono morti. Nei giorni successivi, Unamid ha rilasciato un comunicato in cui ha condannato “l’uso eccessivo della forza” da parte dell’esercito, una presa di posizione che gli sfollati hanno ritenuto insufficiente. A fine luglio 2009, una mossa distensiva: i rappresentanti dei residenti di Kalma hanno inviato una lettera a Rodolphe Adada, capo della missione di peacekeeping, per esprimere il loro apprezzamento per gli sforzi profusi da Unamid nel garantire la protezione agli sfollati e nel facilitare i dialoghi con le autorità sudanesi. Cfr. “Residents of Kalma camp praise peacekeeping efforts in Darfur”, Sudan Tribune, 24 July 2009, [http://www.sudantribune.com/spip.php?article31925]. 48 Cfr. anche Michelle Barsa, Youth power in the IDPs camps, 27 December 2008, [http://blogs.ssrc.org/ darfur/2008/12/27/youth-power-in-the-idp-camps/]. 49 Gli IDPs provenienti dal Sud o dalle Tre Aree che durante la guerra si sono stabiliti a Khartoum hanno, in larga maggioranza, sempre continuato a sostenere lo Splm (o, dopo la scissione del 1991, gli altri gruppi ribelli sorti nel Sud), ma non hanno mai avuto un ruolo politico paragonabile a quello che gli sfollati del Darfur si sono ritagliati, anche perché molto meno “visibili”, visto che il ventennale conflitto Nord-Sud non ha mai avuto la copertura mediatica di quello del Darfur e che il governo non ha mai permesso alla comunità internazionale di dare assistenza agli IDPs ammassati nelle periferie della Greater Khartoum. L’8 luglio 2005, quando dopo più di ventidue anni di conflitto John Garang, lo storico leader dello Splm, è tornato per la prima volta a Khartoum per giurare, il giorno successivo, da primo vicepresidente della repubblica, il sostegno dei meridionali (e non solo) è stato però evidentissimo: si stima che più di 22 residenti dei campi sono in larga maggioranza fur, masalit, zaghawa e appartenenti ad altri gruppi etnici più duramente colpiti dall’offensiva a tappeto del governo e dei janjawiid negli anni 20032004 e sostengono per lo più lo Slm/a di Abdel Wahid al-Nur. Di etnia fur, tra i fondatori dello Slm/a e suo primo presidente, Nur vive da anni in esilio a Parigi e, una scissione e una defezione dopo l’altra, ha perso molti pezzi dei quello che era uno dei due gruppi ribelli iniziali della guerra in Darfur. Se dal punto di vista militare Abdel Wahid ha perso forza, gli rimane comunque l’appoggio di una larga parte dei fur, la popolazione più numerosa della regione, e quello degli sfollati, le cui richieste politiche sembrano50 essere molto chiare: un livello alto di sicurezza, garantito da truppe internazionali, prima di accettare di fare ritorno alle aree di origine e una compensazione in denaro per nucleo familiare per i danni subiti a causa del conflitto. Proprio perché quanto deciso nel Dpa del maggio 2006 non soddisfaceva le richieste degli sfollati al-Nur decise di non firmare il trattato di pace. E per lo stesso motivo non ha più accettato, dopo i negoziati di Abuja che hanno portato al Dpa, di partecipare a dialoghi di pace, chiudendosi in un’intransigenza negoziale che si spiega solo comprendendo il ruolo rilevante – fondamentale per la sopravvivenza politica di Abdel Wahid – che i leader e i rappresentanti delle comunità sfollate hanno saputo ritagliarsi, rifiutandosi ad esempio di partecipare al censimento generale dell’aprile-maggio 200851. L’aver fatto muro di fronte agli intervistatori del censimento, impedendo loro di fare il loro lavoro in molti dei campi sfollati, potrebbe avere conseguenze anche sulle elezioni generali (presidenziali, legislative, amministrative) in programma per l’aprile 2010, diventando, assieme al protrarsi dell’insicurezza e dello stato di guerra, seppur a minor intensità rispetto al passato, una delle possibili ragioni per lasciar fuori il Darfur da un processo elettorale di grande importanza per il paese52. Anche in questo senso, quindi, il destino e il ruolo degli sfollati assume una dimensione politica, di cui si dovrà continuare a tenere conto. CONCLUSIONI Da quanto illustrato finora, si deduce facilmente come la questione della mobilità interna (e internazionale) indotta dai conflitti continui a essere di grande attualità nel panorama sudanese. Rimane quindi importante continuare a seguire, mappare, studiare e assistere i movimenti degli sfollati, che coinvolgono come abbiamo visto numeri di persone molto alti. Ma è forse ancor più rilevante, perché capace di influire in modo positivo o negativo a seconda degli sviluppi sulla stabilità di una data regione, trarre conclusioni da dati raccolti e mettere a punto politiche atte a rispondere alle maggiori esigenze. L’impegno della comunità internazionale sul fronte dell’assistenza agli sfollati del Darfur o quello di accompagnamento per i ritorni degli IDPs che hanno deciso in questi anni di fare rientro nelle due milioni di persone abbiano riempito le strade, le finestre, i tetti lungo tutto il tragitto che dall’aeroporto di Khartoum porta al palazzo presidenziale, accogliendo Garang (morto poi solo tre settimane dopo in un incidente aereo) con un calore che nessuno ha mai avuto, né prima né dopo. 50 Per diverso tempo sono apparsi online comunicati firmati da Abu Sharati, definito “portavoce degli IDPs”, ripresi poi da diverse testate internazionali. Pare che però l’esistenza di tale persona sia dubbiosa, così come il ruolo che dice di ricoprire. Secondo alcune ricostruzioni. cfr. [http://wrongingrights.blogspot.com/2009/10/part-i-who-is-abu-sharatiand-why-am-i.html] e [http://blogs.ssrc.org/darfur/2009/10/29/abu-sharati-storm-in-a-teacup/]) potrebbe addirittura trattarsi di un alter ego dello stesso Abdel Wahid al-Nur o comunque di qualcuno molto vicino a lui e alle sue posizioni politiche. 51 Alex de Waal, in Do Darfur’s IDPs Have an Urban Future?, op. cit., sottolinea che la stessa etichetta “IDP” è diventata “politicizzata. È un’etichetta che implica che queste persone rimangono in uno stato di suspense indefinita, non possono diventare cittadini regolari del Sudan o trasferendosi in città o migrando a Khartoum o tornando a casa”. 52 “Darfur people may be left out of Sudan elections - UN”, Reuters, 24 July 2009, [http://af.reuters.com/article/ sudanNews/idAFN2446543320090724]. 23 proprie regioni di origine nel Sud e nelle Tre Aree è stato notevole, sia in termini economici che logistico-organizzativi. È però forse giunto di tempo di rivedere ed eventualmente aggiornare alla situazione e ai bisogni attuali le misure finora adottate. Questo vale in primo luogo per il Sud e per le Tre Aree. A quasi cinque anni dalla firma del Cpa, e mentre la data del referendum della regione meridionale si avvicina sempre più, le ricadute della pace sul terreno in molti casi stentano ad arrivare e a essere visibili. Questo contribuisce da un lato a creare un clima di insofferenza che rischia di diventare facilmente infiammabile, dall’altro non favorisce l’impresa di coloro che hanno scelto di rientrare dal Nord, che in molti casi, quando se lo possono permettere, scelgono quindi di ripartire. In generale, dopo che per anni il grosso delle energie finanziarie e organizzative, della comunità internazionale come del governo del Sud Sudan (Goss) e delle amministrazioni di Kordofan meridionale e Nilo Azzurro, sono andate in direzione della facilitazione dei ritorni, è giunto il tempo di impegnarsi molto più efficacemente sul versante della reintegrazione di chi è tornato nelle comunità di origine. Per farlo, più che risorse aggiuntive serve soprattutto una ridefinizione delle finalità politiche e dei capitoli di spesa53, sia in seno all’amministrazione meridionale che da parte delle agenzie internazionali, e un maggior coordinamento tra governo e comunità internazionale, ma anche all’interno di quest’ultima. Il 27 febbraio 2009, nel dibattito seguito alla presentazione a diversi attori della comunità internazionale presenti a Juba delle rilevazioni di una missione di Refugees International in Sud Sudan54, è emerso chiaramente che il problema principale non è la mancanza di fondi o di interventi. Il Goss, è stato detto in più di un intervento, ha talmente tanti progetti bilaterali che non riesce a seguire e dare unitarietà e coerenza agli interventi. Contemporaneamente, la mancanza di coordinamento tra le diverse organizzazioni internazionali e organizzazioni non governative che operano nella regione comporta però, oltre a un’enorme dispersione di risorse, anche moltiplicazioni inutili su alcuni fronti e carenze quasi colpevoli su altri. La responsabilità politica di una gestione quanto più efficiente possibile della questione degli sfollati sud-sudanesi ricade essenzialmente sullo Splm, sia all’interno del Sud, in quanto partito di maggioranza e di governo, sia a livello nazionale, vista la sua partecipazione al governo di unità nazionale a Khartoum e l’aspirazione a mettere sempre più radici anche nel Nord, dove, non va dimenticato, continuano ad abitare molti sfollati meridionali. In vista quindi delle elezioni dell’aprile 2010, lo Splm dovrebbe fare un rilevante sforzo aggiuntivo per rispondere alle esigenze e alla crescente delusione e insofferenza di molti IDPs. Il Goss, e lo Splm che lo guida, ha anche un’altra, fondamentale, responsabilità: ripristinare e garantire la sicurezza e la stabilità nel Sud Sudan e nelle Tre Aree. Una sfida enorme, soprattutto tenendo conto del fatto che ci sono ancora molti nodi irrisolti nell’applicazione del Cpa – uno per tutti, la demarcazione sul terreno dei più di duemila km di confine tra le due parti del paese, che corrono per lo più in regioni estremamente sensibili, dove gli scontri durante la guerra sono stati più violenti e la gestione delle risorse (pascoli, acqua, petrolio) è controversa – e che nell’ultimo anno non sono mancati scontri molto cruenti che hanno generato nuovi sfollati. Prima è la volta della crisi di Abyei, dove due settimane di scontri tra eserciti settentrionale e meridionale nel maggio 2008 hanno ridotto in cenere la città e spinto 50mila persone ad andarsene. Poi, tra fine dicembre 2008 e inizio 2009, la nuova offensiva del Lord’s Resistance Army (LRA) nord-ugandese in Equatoria occidentale e centrale ha causato la morte di 120 persone e la fuga di altri 50mila sfollati, portando allo stesso tempo entro i confini sud-sudanesi almeno 17mila profughi dalla vicina 53 Nel caso dell’Acnur, per esempio, l’obiettivo principale per il 2008 e il 2009 si è spostato dai ritorni alla reintegrazione degli rifugiati. Alla linea politica però non ha fatto seguito una riallocazione dei fondi: 9 milioni di dollari continuano ad andare alle operazioni di ritorno, che peraltro si articolano solo su sei mesi, mentre per i programmi di reintegrazione rimangono “solo” 3 milioni di dollari. 54 Il rapporto di Refugees International, frutto della missione citata, è consultabile all’indirizzo [http://www.refugeesinternational.org/policy/field-report/south-sudan-urgent-action-needed-avert-collapse]. 24 Repubblica democratica del Congo. Infine, nei primi quattro mesi del 2009, una lunga serie di scontri intertribali sui pascoli e sul controllo del bestiame ha fatto più di mille morti, per lo più nello stato meridionale di Jonglei55. Gli scontri di Jonglei sono nati dai reciproci ratti di bestiame tra i murle e i lou nuer, in un vortice di vendette incrociate che però a un certo punto ha iniziato a prendere di mira anche i villaggi, le donne e i bambini, aumentando il numero dei morti e causando il dislocamento di migliaia di persone. Scontri simili, anche se di minor entità, si sono verificati nello stato dell’Alto Nilo, l’area dove la guerra civile era stata forse più cruenta, e alle porte di Juba, tra bari e mundari, anche in questo caso pare scatenati da ratti di bestiame. Riportare e mantenere la pace sul terreno è quindi una priorità da rispettare con ogni mezzo, tanto più che, come abbiamo visto, le rivalità tradizionali tra popolazioni, giocate in primo luogo sull’abigeato, hanno sempre pesato moltissimo nella storia dei conflitti sudanesi. La situazione di diffusa insicurezza, che si unisce alla profonda crisi economica del Sud Sudan, dovuta al crollo del prezzo del petrolio, sui cui proventi si basa il 98% delle entrate della regione, rende estremamente fragile l’equilibrio interno al Sudan meridionale alla vigilia di un anno, il 2010, in cui sono previste le prime elezioni generali veramente multipartitiche da vent’anni e che porterà al voto per l’autodeterminazione della regione, in calendario per il gennaio 2011. Sarà questo il vero punto di svolta sia per il Sud che per l’intero paese, in particolare se il Sudan meridionale dovesse uscire dalle urne come un nuovo Stato indipendente: senza aver sciolto in precedenza molti nodi già compresi nel Cpa ma ancora irrisolti – dalla demarcazione del confine tra Nord e Sud a una rinegoziazione delle clausole che regolano la spartizione delle risorse, in particolare del petrolio meridionale, tra le due parti del paese – l’eventuale secessione del Sudan meridionale potrebbe riportare alla guerra56. Particolarmente interessante sarà capire quale sarà l’orientamento di voto degli sfollati meridionali che per ora hanno scelto di rimanere nel Nord, ammesso che, come sembra, venga concesso loro il diritto di votare per il referendum: sceglieranno la secessione, opzione data per tendenza maggioritaria tra i sud-sudanesi ma che li renderebbe “stranieri” nel Nord Sudan, o l’unità del paese, per cui premono i partiti settentrionali, ma anche una parte non irrilevante dello stesso Splm, ormai a tutti gli effetti un partito nazionale? Prevederlo ora è molto difficile. Quale che sia la loro scelta, quanto succederà tra 2010 e primi mesi del 2011 avrà inevitabili conseguenze sui pattern di mobilità, non solo tra Nord e Sud. Un’eventuale nuova guerra tra queste due regioni, infatti, renderebbe ancora più improbabile qualsiasi soluzione per il conflitto del Darfur, che rimane comunque lontana. Mentre scriviamo non è possibile prevedere nemmeno l’avvio di negoziati seri e allargati a tutti gli (ormai numerosi) gruppi ribelli che operano in Darfur. Coinvolgere tutti i gruppi ribelli potrebbe ancora non essere sufficiente. A fine ottobre, il Consiglio per la pace e la sicurezza dell’Unione Africana ha adottato il rapporto finale57 del Panel di alto livello sul Darfur, guidato dall’ex presidente sudafricano Thabo Mbeki, che a riguardo espressamente raccomanda di includere nei negoziati anche “i partiti politici; gli IDPs e i rifugiati; i leader tradizionali; le organizzazioni della società civile; i nomadi del Darfur”. Il rapido avvio di un processo di pace serio e credibile è quanto mai urgente: il Darfur, ribadisce il rapporto dell’Aupd, “è parte integrante del Sudan” e, per permettere ai sudanesi di affrontare le 55 Queste sono le stime che circolano, fatte proprie anche dalla Missione delle Nazioni Unite in Sudan (Unmis). Ma ai microfoni di Radio Miraya, la radio gestita proprio da Unmis, il governatore di Jonglei il 9 maggio 2009 ha parlato di più di duemila morti nei precedenti tre mesi: [http://www.mirayafm.org/news/news/_200905097093/]. 56 Gli scenari per il post-2011 sono piuttosto preoccupanti. Cfr. Alan Schwartz, Scenarios for Sudan: Avoiding Political Violence Through 2011, United States Institute of Peace, agosto 2009, [http://www.usip.org/files/resources/SR228_0.pdf] e Jair van der Lijn, Sudan 2012, Scenarios for the Future, Clingendael Institute-IKV Pax Christi, settembre 2009, [http://www.clingendael.nl/publications/2009/20090914_cscp_lijn.pdf]. 57 African Union, Peace and Security Council, The Quest for Peace, Justice and Reconciliation: Report of the African Unione High-Level Panel on Darfur (AUPD), October 2009, [http://blogs.ssrc.org/darfur/wp-content/uploads/2009/10/AUPD-Report-Final-October-2009.pdf]. 25 elezioni generali dell’aprile 2010 “come un’unica nazione”, “c’è urgente bisogno di assicurare una pace definitiva per il Darfur” prima di quell’appuntamento. Intanto però, con il conflitto ancora in corso, seppur a minor intensità rispetto al passato, l’attenzione della comunità internazionale e degli attori locali rimane incentrata sull’emergenza. Ma a sei anni dall’inizio della guerra è comunque possibile sollevare alcuni punti su cui sia gli operatori umanitari presenti in Darfur, sia il mondo politico sudanese potrebbero avviare una riflessione. Il primo riguarda i beneficiari degli aiuti. Il conflitto del Darfur è stato raccontato dai media internazionali e dalle star di Hollywood come si trattasse di uno scontro tra Bene e Male, creando così una distinzione netta tra chi, appartenente alle popolazioni fur, masalit, zaghawa e le altre maggiormente colpite dalle offensive degli anni 2003-2004, è stato considerato vittima a pieno titolo e chi, soprattutto gli arabi, è stato messo dalla parte dei carnefici, pagando così un’identificazione etnica con i janjawiid. Questa lettura miope, fatta soprattutto dall’esterno molto più che dagli operatori sul terreno, ha di fatto favorito una “ristrutturazione” della geografica etnica della regione, caldeggiata dal governo di Khartoum58. Gli aiuti sono infatti andati essenzialmente agli sfollati residenti nei campi59, per lo più fur, masalit e zaghawa, lasciando fuori sia gli sfollati arabi arrivati nelle aree urbane, sia tutti coloro che sono rimasti o hanno cercato di tornare alle aree rurali. Come abbiamo visto, questo favorisce il processo di inurbamento della popolazione rurale, “liberando” molte terre sia nelle aree più desertiche del Nord Darfur sia in quelle più umide del Sud Darfur, molto interessanti per le grandi aziende di agricoltura meccanizzata. Ma la questione terriera, legata al sistema tradizionale dell’hakura60, è stata uno dei fattori scatenanti del conflitto e non può essere sottovalutata in vista di un’eventuale soluzione negoziale. Il secondo punto è direttamente collegato al primo e riguarda proprio il processo di urbanizzazione in atto in Darfur. È difficile che, se anche fosse possibile raggiungere un accordo di pace definitivo e credibile a breve termine, il “nuovo ordine” socio-economico che il conflitto ha contribuito a creare o ad accelerare possa essere cancellato per tornare al vecchio. Ciò potrebbe significare che, al di là di quanto affermano le leadership politicizzate degli sfollati, una larga parte degli IDPs potrebbe decidere di non tornare alle zone di origine, rimanendo nei campi che si trasformerebbero in semplici quartieri cittadini, come è successo con gli insediamenti degli sfollati nelle periferie della Greater Khartoum. Altri sfollati potrebbero spostarsi in altre zone delle città o dividere la famiglia tra le aree urbane e quelle rurali, come già avviene in molti casi in Darfur e, ancora di più, nel Sud e nelle Tre Aree. Iniziare a pensare a come gestire il futuro degli sfollati del Darfur, evitando di concentrare tutte le risorse e gli interventi solo sui ritorni ma prestando attenzione anche alle condizioni di quelle che potrebbero diventare “solo” ampie periferie urbane, oltre che contestualizzando e facendo tesoro anche dell’esperienza e degli eventuali errori accumulati negli ultimi quattro-cinque anni sul fronte Nord-Sud, potrebbe essere quindi un esercizio rilevante sia per gli attori sudanesi che per la comunità internazionale, in vista di una pacificazione della regione che si spera non risulti essere eccessivamente lontana. 58 Crisis Monitoring Group, riunione Sudan, Roma, 12 giugno 2009. Per il rapporto del CMG sulla crisi sudanese, cfr. [http://crisismonitoring.org/index.php?option=com_docman&Itemid=56&lang=it]. 59 Ibid. Solo il Comitato internazionale della Croce Rossa ha continuato a portare aiuti anche nelle aree rurali. 60 L’hakura (concessioni, donazioni) è il sistema di possesso delle terre più importante del Darfur. Basato sul potere dei leader tribali, il sistema continua a riconoscere i diritti terrieri concessi dal sultanato Fur: con l’hakura la terra è stata affidata collettivamente alla popolazione che la occupava da prima della formazione del sultanato, andando così a costituire il suo “territorio patrio”. Nascono così i diversi dar (casa, terra) tribali (Dar Zaghawa, Dar Masalit, Dar Fur e via elencando) che non sono però territori monoetnici, ma contemplano (e regolano) la presenza di comunità appartenenti a gruppi etnici diversi. Per capire come la questione dell’hakura abbia influito sul conflitto in Darfur, cfr. Jerome Tubiana, Darfur: a War for Land?, in Alex de Waal (ed.), War in Darfur and the Search for Peace, Harvard University Press, 2007. 26 RACCOMANDAZIONI PER IL SUDAN MERIDIONALE • L’impegno della comunità internazionale, a partire dai programmi di Oim e Acnur, come quello del governo del Sud Sudan e in alcuni casi dei singoli Stati meridionali, a sostegno del processo di ritorno in Sud Sudan di rifugiati e IDPs è stato importante e deve continuare. Passata la fase del maggior numero di ritorni, è ora necessario ridefinire le priorità e i capitoli di spesa, in modo da devolvere maggiori attenzioni e risorse alla reintegrazione di chi è tornato nelle comunità di origine e ai problemi che questa comporta. • Coordinandosi maggiormente con le agenzie dell’Onu e le ong che operano nella regione, il governo del Sud Sudan deve riuscire a sopperire alle serie mancanze di infrastrutture sociali, in particolare quelle sanitarie ed educative, quasi o totalmente assenti in molte aree del Sudan meridionale. • Nel 2009 i conflitti locali interni al Sud Sudan, tra diverse comunità meridionali, hanno fatto un gran numero di vittime e di nuovi sfollati. Il governo del Sud Sudan deve impegnarsi maggiormente, con l’assistenza e la cooperazione della comunità internazionale ove necessario e praticabile, per assicurare alla regione stabilità e sicurezza. La riconciliazione a livello locale deve diventare una priorità del lavoro dei dipartimenti dei governi statali e di quello regionale, del sistema Onu e delle molte ong che operano in Sud Sudan, poiché all’interno delle singole comunità le fratture e le animosità sono numerose, serie e di lunga data. • La comunità internazionale e le diplomazie europee in particolare dovrebbero puntare al rilancio e a una veloce implementazione del Comprehensive Peace Agreement (Cpa), facendo pressione sui partner di governo affinché il 2010, anno cruciale per il paese, sia utilizzato per superare i molti ostacoli che ancora rimangono, assicurando così un clima il più positivo possibile in cui svolgere prima le elezioni generali e poi, a inizio 2011, il referendum per l’autodeterminazione del Sud e di Abyei. • In vista delle elezioni dell’aprile 2010, lo Splm, sia in quanto partito di maggioranza e di governo nel Sud che in quanto junior partner del governo di unità nazionale a Khartoum, dovrebbe fare un rilevante sforzo aggiuntivo per rispondere alle esigenze e alla crescente delusione e insofferenza di molti IDPs. • I partner di governo, Ncp e Splm, dovrebbero quanto prima varare le leggi che regoleranno lo svolgimento dei referendum del 2011, garantendo ai sud-sudanesi rimasti nel Nord il diritto di voto, che deve essere libero e regolare, e impegnandosi ad accettare e rispettare pacificamente il risultato delle urne, in modo da scongiurare l’esplosione di un nuovo conflitto tra le due parti del paese, che avrebbe conseguenze devastanti sia in Sudan che nei paesi confinanti. È consigliabile che le parti, prima del voto referendario, negozino un accordo di massima sul futuro status dei sud-sudanesi residenti nel Nord, da attuare nel caso il Sud scelga la via dell’indipendenza. RACCOMANDAZIONI PER IL DARFUR • Con il conflitto ancora in corso, l’attenzione della comunità internazionale e degli attori locali rimane incentrata sull’emergenza. I principali beneficiari degli aiuti continuano a essere gli sfollati residenti nei campi, per lo più fur, masalit e zaghawa. Quasi nessuna 27 assistenza è prevista invece per gli sfollati arabi arrivati nelle aree urbane o per tutti coloro che sono rimasti o hanno cercato di tornare alle aree rurali. Rivalutare i bisogni dei diversi gruppi, ridistribuire le risorse e ampliare il numero dei beneficiari diventa quindi importante, anche in vista di un eventuale processo di pacificazione della regione. • Con lo stesso traguardo in mente, è altresì rilevante iniziare a pensare a come gestire il futuro degli IDPs, sia di quelli che decideranno di fare ritorno nelle zone di origine, sia di coloro che sceglieranno di rimanere nelle ampie periferie urbane nate negli ultimi anni in Darfur. Attori sudanesi e comunità internazionale dovrebbero così fare tesoro e contestualizzare anche l’esperienza e gli eventuali errori accumulati negli anni scorsi sul fronte Nord-Sud. • La priorità rimane però l’avvio di un negoziato di pace serio e inclusivo, che comprenda non solo il più alto numero di formazioni ribelli, a cominciare dal JEM e dallo Slm/a di Abdel Wahid al-Nur, ma anche rappresentanti degli IDPs e degli arabi del Darfur, esclusi da tutte le iniziative di pace finora intraprese. L’inizio di un processo di pace credibile prima dell’aprile 2010 potrebbe permettere lo svolgimento delle elezioni generali anche in Darfur, campi sfollati compresi. Su questo tema come su quelli riguardanti i processi di riconciliazioni e giustizia, la comunità internazionale dovrebbe fare proprie le raccomandazioni avanzate dal rapporto finale del Panel sul Darfur dell’Unione Africana, già adottate dal Consiglio per la pace e la sicurezza dell’organizzazione continentale il 29 ottobre 2009. • Negli ultimi mesi del 2009, si è avuta notizia di un possibile avvicinamento del Lord resistance army (Lra) nord-ugandese al Darfur, partendo dalle sue basi in Repubblica centrafricana. Sue incursioni nella regione occidentale sono da scongiurare, perché contribuirebbero a destabilizzare ulteriormente una situazione già molto fragile. È necessario un impegno di tutti i governi interessati, Khartoum compresa, per impedire che lo Lra continui a provocare vittime e sfollati in una regione ormai molto ampia, che comprende la parte più occidentale del Sud Sudan, quella nord-orientale della Repubblica democratica del Congo e l’estremo est della Repubblica centrafricana. BIBLIOGRAFIA 28 African Union, Peace and Security Council (2009), The quest for peace, justice and reconciliation: Report of the African Union high-level Panel on Darfur (AUPD), October, http://blogs.ssrc.org/darfur/wp-content/uploads/2009/10/AUPD-Report-Final-October2009.pdf. De Geoffroy, Agnes (2007), From internal to international displacement in Sudan, paper prepared for the conference “Migration and refugee movements in the Middle East and North Africa”, Cairo, 23-25 October. de Waal, Alex (ed.) (2007), War in Darfur and the search for peace, Justice Africa and Global Equity Initiative, Harvard University Press. 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