"Che Guevara" - 30 July 2012

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"Che Guevara" - 30 July 2012
Il "Che Guevara"
controlacrisi.org
di 30 luglio 2012 - 30 July 2012
miogiornale.com
Eduardo Galeano: due secoli di conquiste operaie buttati nel cestino
29/07/2012 di Eduardo Galeano (Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo)
Dal suo solito tavolino del Cafè Brasilero in centro città, lasciando fuori dalla finestra il freddo dell’inverno
del sud, Eduardo Galeano continua a dire che “la grandezza dell’umanità risiede nelle piccole cose, nei gesti
quotidiani, compiuti ogni giorno da persone senza un nome che neanche sanno cosa davvero stanno facendo”.
La sua risposta si confonde con le vicende narrate nel suo ultimo libro “Los hijos de los días” nel quale 366
storie, una per ogni giorno dell’anno, raccontano molte piccole verità.
La crisi europea viene gestita dai leader politici con l’utilizzo della retorica legata al “sacrificio del
popolo”.
E’ lo stesso tipo di retorica utilizzata dagli ufficiali per mandare le reclute al massacro: c’è meno odore di
polvere da sparo ma non meno violenza.
Esiste un sistematico piano, a livello globale, che mira a buttare nel cestino due secoli di conquiste dei
lavoratori.
Un piano che vuole riportare indietro l’umanità in nome di un salvataggio nazionale.
Questo è un mondo organizzato per specializzarsi nello sterminio degli “esseri umani”.
Si va avanti condannando la violenza dei poveri, la violenza di coloro che muoiono di fame.
E la violenza contraria riceve invece plauso ed onori.
L”austerità” viene presentata come l’unica “soluzione”?
Da chi?
I banchieri che hanno causato un simile disastro erano e restano i responsabili di questo ladrocinio.
E vengono ripagati con milioni di euro…
Questo è un mondo falso e violento. L’austerità è retorica abusata in America Latina. Stiamo osservano uno
spettacolo teatrale e la prima l’abbiamo già vista e la conosciamo già.
Sappiamo tutto: le formule, le ricette magiche, l’FMI, la banca mondiale…
Considera l’impoverimento del popolo una violenza più grande?
Se ci fosse davvero una guerra al terrorismo, piuttosto che quella falsa messa in atto come pretesto per
altri scopi, attaccheremmo poster in tutto il mondo con sopra scritto: “ricercati per: rapimento di interi paesi,
sterminatori di salario sociale, assassini di posti di lavoro, trafficanti di paura”.
Sono i più pericolosi perché condannano alla paralisi.
Questo è un mondo che ti insegna ad aver paura del tuo vicino in modo che tu possa vedere solo minacce e
mai promesse.
Qualcuno, fuori di qua, ti farà del male e devi poterti proteggere.
E’ così che si giustifica “l’industria militare”, per utilizzare il nome poetico dato all’industria del crimine.
Questo è un chiarissimo esempio di violenza.
Adesso, concentrandoci sulla politica dell’America Latina: i messicani stanno ancora protestando,
nelle strade, per i risultati ufficiali delle elezioni…
La differenza di voti non è stata così ampia e quindi potrebbe essere difficoltoso dimostrare che siano stati
messi in atto dei brogli.
Nonostante questo però una frode è stata comunque compiuta, anche se più subdola e profonda.
E questa frode ha recato il più grande danno alla democrazia: la frode commessa da politici che hanno fatto
l’esatto contrario di quanto promesso in campagna elettorale.
E’ questo il modo con cui si distrugge la fiducia nelle democrazia per le generazioni future.
Rispetto all’estromissione di Fernando Lugo in Paraguay…è possibile parlare di colpo di stato se
questo si è verificato secondo le leggi del paese?
Naturalmente è un colpo di stato. E’ chiaro e semplice.
Hanno assestato un colpo contro il governo del “prete progressista” non per quello che ha fatto ma per quello
che avrebbe potuto fare.
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Non ha fatto niente di particolare. Ma aveva proposto una riforma agraria in un paese nel quale il grado di
concentrazione del potere e delle proprietà terriere risultava il più alto dell’America Latina e di conseguenza le
diseguaglianze erano tra le più ingiuste.
Aveva inoltre compiuto alcuni passi significativi, mostrando una certa dignità nazionale, contro alcune potenti
multinazionali come la Monsanto, proibendo l’ingresso di semi transgenici…
Non trova stupefacente che queste situazioni continuino a ripetersi?
Il mondo, oggi, è abbastanza stupefacente.
La maggior parte dei paesi europei, apparentemente vaccinati contro i colpi di stato, adesso viene governata
da tecnocrati selezionati con cura da Goldman Sachs ed altre corporation finanziarie. E nessuno li ha votati.
Anche il linguaggio riflette questa realtà: le nazioni, che si suppone dovrebbero essere sovrane e indipendenti,
devo fare i propri compiti come se fossero bambini portati a comportarsi male ed i tecnocrati sono insegnanti
arrivati a tirare le orecchie.
Eduardo Galeano è uno scrittore uruguayano .
L’intervista originale è stata pubblicata su BBC Mundo il 23 luglio .
Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo
Fonte originale: Mr.zine
Traduzione di Fabio Sallustro
Traduzione © 2012 – ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY NC-SA 3.0
In Spagna popolari perdono il 15%. Cresce la Sinistra Unita
29/07/2012 (ansa)
Effetto Syriza anche in Spagna. I tagli approvati dal governo spagnolo non sono piaciuti ai votanti del
Partido Popular. Secondo un sondaggio di Metroscopia, la formazione di Mariano Rajoy ha perso dalle elezioni
di novembre il 14,6% dei suoi votanti. Chi piu cresce non sono i socialisti di Psoe oramai screditati, ma
partiti con minor rappresentazione in Parlamento come Izquierda Unida. Izquierda Unida come Syriza, e
come il PCF appartiene assieme a Rifondazione Comunista alla Sinistra Europea. Un raggruppamento di forze
anticapitaliste che si collocano ovunque all'opposizione dei governi "socialisti" e "popolari".
L’oscuramento
29/07/2012 di Alberto Burgio (il manifesto)
Immaginiamo che al tempo della disputa tra geocentrici ed eliocentrici esistesse già un sistema
dell’informazione simile all’attuale (televisioni, quotidiani e rotocalchi). E supponiamo che dalla vittoria degli
uni o degli altri dipendessero le condizioni di vita della gente che da quelle televisioni e da quei giornali veniva
informata. Come giudicheremmo, in questa ipotesi, una informazione che avesse sistematicamente nascosto la
disputa e, per esempio, rappresentato la realtà sempre e soltanto sulla base della teoria geocentrica? Di
questo, a mio modo di vedere, si tratta nella lettera sul “Furto d’informazione” che abbiamo inviato a molte
agenzie di stampa e ad alcuni giornali nei giorni scorsi e che il manifesto (soltanto il manifesto) ha pubblicato
integralmente in prima pagina. Il tema della nostra denuncia è l’«ordine del discorso pubblico» sulla crisi. Un
tema concretissimo e materiale, produttivo di fatti altrettanto concreti, che recano nomi illustri: senso comune,
ideologia, consenso.
Naturalmente la crisi è fatta di dinamiche economico-finanziarie, alla base delle quali operano, sul piano
nazionale e «globale», determinati assetti di potere e una determinata struttura dei processi di produzione e
circolazione. Su questo terreno si sono verificate, a partire dal 2007, le vicende che hanno innescato la
tempesta finanziaria. Ma la questione che subito si pone – basta un attimo per comprenderlo – è che qualunque
cosa si dica a questo riguardo è frutto di interpretazioni. Soltanto persone faziose, intolleranti come Giuliano
Ferrara possono pretendere che un’opinione (la loro) sia «oggettiva» e inoppugnabile. Chiunque altro converrà
che ogni narrazione implica assunzioni teoriche, ipotesi e, appunto, interpretazioni.
Nel caso della crisi, semplificando al massimo, si fronteggiano due schemi interpretativi. Il primo, mainstream e
prevalente sul piano politico, riconduce la crisi a due cause: la crisi fiscale (dovuta a un eccesso di spesa
pubblica – i cosiddetti sprechi – in materia di welfare e di pubblico impiego) e la sproporzione tra retribuzioni e
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produttività del lavoro. Da qui fa discendere, a catena, la crisi dei debiti sovrani, i severi verdetti delle agenzie
di rating e le decisioni dei mercati finanziari. Dopodiché la terapia è scontata: essa impone una «rigorosa»
politica di tagli (santificata nel fiscal compact), licenziamenti e blocco delle assunzioni, deflazione salariale,
privatizzazioni e alienazione del patrimonio pubblico, riduzione delle tutele e dei diritti del lavoro dipendente.
L’idea-base di questa visione (coerente col discorso sulle «compatibilità» che da venticinque anni fa proseliti
anche a sinistra) è che da mezzo secolo viviamo (più precisamente: la massa dei lavoratori dipendenti vive)
«al di sopra delle nostre possibilità». La speranza che la informa è che il «risanamento» della finanza pubblica
«rassicuri» i mercati e plachi la fame degli speculatori. O meglio: che questi scelgano altri obiettivi, posto che
speculare è la loro ragion d’essere.
L’altra interpretazione della crisi, familiare ai lettori di questo giornale, rovescia la prospettiva. Sostiene che
la crisi sia figlia dell’assenza di regole al movimento del capitale industriale (delocalizzazioni) e finanziario
(speculazione), della povertà dei corpi sociali (provocata proprio dalle «terapie» propugnate dalla prima
ipotesi) e della socializzazione delle perdite dei privati (a cominciare dalle banche, alle quali gli Stati hanno
regalato migliaia di miliardi di euro, 4600 nella sola eurozona). Afferma che, lungi dall’essere giudici imparziali,
le agenzie di rating lavorano per la privatizzazione delle democrazie (in quanto i governi obbediscono alle loro
decisioni), oltre a spianare la strada alla speculazione. Ritiene che le politiche adottate dai governi servano
soltanto a drenare enormi ricchezze verso le oligarchie finanziarie. CONTINUA | PAGINA 5
E suggerisce misure di tutt’altro segno: regolazione dei mercati (non c’è bisogno di essere in tutto d’accordo
con Lenin per avere una buona opinione degli accordi di Bretton Woods); una riforma della Bce che ne faccia
una vera banca centrale (come la Fed e la Bank of England, che dal 2008 acquistano massicciamente i
rispettivi titoli di Stato); incremento dell’occupazione (a cominciare dal settore ambientale, dal welfare e dalla
formazione) e riduzione dell’orario di lavoro per accrescere la domanda aggregata; equità fiscale (anche per
mezzo di prelievi strutturali su patrimoni e rendite); drastica riduzione della spesa militare. Sottesa a questa
prospettiva è la tesi enunciata di recente da Amartya Sen, secondo il quale questa crisi non è il sintomo
del fallimento degli Stati, bensì l’effetto del fallimento del mercato, che gli Stati hanno provveduto a salvare.
Quanto alle proposte (da tempo avanzate da autorevoli studiosi, tra cui Luciano Gallino, Giorgio Lunghini e
Guido Rossi), esse dimostrano come la stucchevole litania che ne lamenta l’assenza rientri nella sistematica
disinformazione che abbiamo denunciato. Ora, poniamo che questa pedestre sintesi sia accettabile: che cosa
ne discende riguardo alle questioni poste dalla nostra lettera? Una conseguenza molto semplice che, come
ha osservato Carlo Freccero, chiama in causa direttamente i compiti dell’informazione e, indirettamente, la
qualità della nostra democrazia e le relazioni pericolose tra potere economico e potere politico al tempo
della «neoliberismo globalizzato». Se è vero che esistono due letture della crisi, di entrambe queste letture
la stampa ha il dovere di tenere conto. Questo dovere incombe in primo luogo sul servizio pubblico (in Italia,
la Rai) e sulle maggiori testate indipendenti, sempre che esse intendano assolvere una funzione nazionale e
non operare come partiti politici. Tenere conto della presenza di due posizioni contrapposte significa, in questo
caso, non presentare quelle dei governi europei e delle istituzioni comunitarie come risposte obbligate, bensì,
se non altro, spiegare che si tratta di scelte coerenti con una di queste posizioni, e da essa imposte. Quando un
governo decide di tagliare ancora le pensioni, di cancellare l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, di «rivedere la
spesa» riducendo posti di lavoro e servizi, di aumentare la pressione fiscale sul lavoro dipendente e di alienare
il patrimonio pubblico, la stampa libera di un paese democratico ha il preciso dovere di spiegare al pubblico
dei non addetti ai lavori che ciò non avviene perché «c’è la crisi», ma perché questo governo considera
indiscutibile la sovranità dei mercati e ritiene giusto subordinarle ogni altro interesse. Dopodiché tutto il
dibattito su chi è tecnico e chi politico andrebbe, come merita, dritto in archivio. Ognuno vede che – fatte
pochissime eccezioni – l’informazione non assolve questo dovere, che probabilmente nemmeno riconosce. La
nostra lettera ha denunciato tale stato di cose, sottolineandone la rilevanza sul terreno democratico. E proprio
perché siamo convinti del nesso che lega informazione e democrazia, abbiamo chiamato in causa anche le
massime autorità dello Stato, che a nostro giudizio rischiano di venir meno all’obbligo di imparzialità nella
misura in cui offrono il proprio incondizionato sostegno alle scelte politiche del governo, sposandone, per
ciò stesso, le legittime ma discutibili opzioni teoriche. Siamo ingenui? Ignoriamo che tutto ciò non avviene
per caso? È probabile che ogni denuncia sconti un po’ d’ingenuità, ma saremmo imperdonabili qualora
ritenessimo che un appello all’onestà intellettuale possa risolvere ogni problema. Vi è tuttavia un eccesso
di realismo in chi ritiene inevitabile che la stampa («l’avversario») sia reticente o faziosa. Non è scritto
che il servizio pubblico debba condurre battaglie di parte, e comunque non è accettabile e va denunciato.
Altrimenti perché indignarsi per le censure e la disinformazione che spesso, a ragione, gli imputiamo? E perché
cercare di impedirle? Quanto alla stampa indipendente, anch’essa ha qualche problema di legittimazione, e
non potrebbe rivendicare apertamente il diritto di nascondere ai propri lettori una parte significativa della
verità. Tra l’ingenuità e un iperrealismo che rischia di regalare alibi alla disinformazione, preferiamo credere
che il confronto delle idee comporti una sfida impegnativa per tutti. Non per caso il silenzio (quello di chi
semplicemente preferisce ignorare tutta questa discussione) resta la via più comoda, anche se di certo non la
più nobile.
Teoria e pratica di un contagio. Ovvero come in Spagna gli impiegati pubblici e il
15M cominciano a mescolarsi
28/07/2012 di MADRILONIA.ORG (Uninomade 2.0)
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Nell’ultima settimana stiamo vivendo una situazione inedita, sconosciuta e imprevedibile: da giorni lavorartici
e lavoratori del settore pubblico bloccano le strade ed eccedono l’organizzazione sindacale ormai superata da
forme di organizzazione inconsuete. I concentramenti e i presidi si convertono in blocchi delle strade, i blocchi
in manifestazioni che bloccano il centro della città e che si estendono per ore. Senza più bandiere ma cartelli
improvvisati e/o uniformi da lavoro, in un miscuglio di rabbia, senso di legittimità e potenza hanno aperto una
nuova onda di espressione del malessere con “forme 15M” ma anche “oltre” le strutture formali del 15M.
In più questo processo sta aiutando a disattivare l’idea del “funzionario conformista” che, data la sua posizione
privilegiata lotterebbe solo per mantenere le proprie condizioni personali e non per difendere ciò che è di tutti,
ovvero i servizi pubblici.
0. Cocktail di passioni
La tormenta perfetta si crea attraverso una combinazione di elementi dispersi che si accumulano in forma
di emozioni (empatia, disillusione, rabbia) e che si concentrano in esplosioni della potenza collettiva. In
primo luogo, l’intensa mobilitazione dei lavoratori delle miniere ha avviato l’energia collettiva e riaperto
l’immaginario sulle necessità di fare di più di quello che si stava già facendo. Il secondo detornatore è stato il
pacchetto di misure approvato dal governo (sono stati prestati 100 milioni di € a Rajoy per riscattare Bankia
e il giorno dopo si annuncia l’aumento dell’IVA e il taglio ai sussidi di disoccupazione prima di aver firmato il
memorandum), un attacco gravissimo al 99% per poter far fronte, con il memorandum, alle condizioni imposte
dalla Troika. Il terzo elemento è stata la dichiarazione di Andrea Fabra, deputata del PP, che ha dedicato un
“che si fottano” alla popolazione in generale, una scintilla sul terreno sociale molto meglio organizzato di quello
che pensava il governo e che ha sorpreso tutti quanti.
A tutto questo va aggiunta l’opposizione più “persa” della storia della democrazia, mentre i sindacati sembrano
non credere a quello che sta succedendo.
1. Comunicazione 1.0, 2.0
Le reti sociali sono strumenti potenti (ci danno il potere per organizzarci e sapere che siamo in molti). Le
mobilitazioni dei lavoratori del settore pubblico hanno nuovamente dimostrato come la comunicazione sia la
materia prima per l’organizzazione politica in questa fase del conflitto. Questa volta però i protagonisti non
sono stati nè Facebook nè Twitter ma soprattutto gli SMS e le email, in particolare WhatsApp. Si è generato
un repertorio di meccanismi di comunicazione che permettevano di far arrivare le informazioni a persone con
livelli di conoscenza e uso della rete 2.0 molto diversi tra loro. In ogni caso, sia che si faccia uso di 1.0 o 2.0,
non vi tratta solamente di invitare, attraverso un’email o un account di Twitter, a una mobilitazione, ma di
sapere che i tuoi colleghi di lavoro ci stanno andando, o che la tua famiglia o i tuoi amici saranno lì.
2. La svalutazione dell’impiego pubblico
Il poco contatto con la popolazione, in termini di decisione collettiva sulle priorità e sui contenuti dei servizi
pubblici, ha fatto in modo che da una parte i cittadini non li riconoscessero come propri ma come “dello stato”,
e dall’altro che molti impiegati non lo sentissero come un servizio alla comunità ma come un lavoro in più.
Queste mobilitazioni stanno dimostrando senza ombra di dubbio che siamo ancora in molti a scommettere sui
servizi pubblici come servizi del comune per il comune. Bisogna riconoscere tuttavia che i neoliberali hanno
avuto un certo successo nell’approfondire questa spaccatura: le condizioni dell’impiego pubblico sono state
additate come “privilegi”, ovviamente occultando che questo andava messo in relazione alla precarizzazione
continua del mercato del lavoro privato. La strategia è stata quella di degradare prima un tipo di lavoro e poi
di indicare il secondo come un privilegio per creare conflitto tra le persone.
Negli ultimi anni questa storia corrisponde sempre meno alla realtà. La distanza che separa il funzionario
di carriera con il resto dei lavoratori del settore pubblico è cresciuta e contemporaneamente le figure del
settore pubblico come del settore privato si vanno tutte precarizzando, anno dopo anno. Lavoro interinale,
contratti a progetto, pensioni non pagate, licenziamenti, abbassamento del salario… si è adattato anche il
lavoro pubblico ai tempi della precarietà e dell’intermittenza. Bisogna ricordare che secondo l’Ine (Istituto
nazionale di statistica), dei tre milioni di impiegati che c’erano in Spagna nel 2011, ben 800.000 avevano un
contratto a tempo. Ossia quasi un terzo.
La domanda giusta sarebbe: quale meccanismo di dialogo possiamo avviare tra le varie forme del lavoro per
creare un conflitto che sia il più aperto e collettivo possibile?
3. Una conversazione possibile
Per ora, le mobilitazioni degli impegati provano ad affermare una loro specifica “composizione ufficiale”, come
fosse qualcosa di separato dalle altre realtà sociali, e pertanto come si trattasse di una classe sociale a
parte, con problematiche distinte. Tuttavia la gente che partecipa nelle mobilitazioni eccede la stretta cornice
dell’impiego pubblico e obbliga a pensare il problema in forma aperta, collettiva, globale.
Il rifiuto rispetto alle misure del governo è una lotta giusta, ma limitata dalla mancanza della volontà di stabilire
un dialogo con le parti sociali. I tagli sono imposti a grande velocità e per decreto, attraverso pacchetti di
misure, come le condizioni del riscatto delle banche che viene presentato come imprescindibile. Per questa
ragione, il NO, nel momento in cui né il PP né il PSOE sono disposti a scontrarsi con la Troika e l’elite finanziaria,
può dar luogo a forme di conflitto di tipo affermativo e costituente:
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- I tagli, la perdita dei diritti e i piani di austerità si giustificano con il debito pubblico e il salvataggio delle
banche. Un referendum sul riscatto può essere una esigenza condivisa per i lavoratori del settore pubblico
e i precari di ogni tipo. Anche la liquidazione di Bankia e l’Audit di tutto il debito pubblico e privato sono un
obiettivo. Possiamo richiedere che siano i cittadini a decidere che venga cancellato tutto il debito illegittimo.
- Il “pubblico” è dissanguato da questa crisi/truffa e sia i lavoratori del settore pubblico che i precari
potrebbero approfittare per rovesciare ciò che nel tempo ha trasformato questi servizi, rendendoli sempre più
burocratici e marginali per la popolazione. Assicurare la sanità universale, ridurre il rapporto professori/alunni
o impedire attività di outsourcing: potrebbero essere questi i punti di confluenza comune. Sta già funzionando
la campagna di disobbedienza per la sanità universale: possiamo inventare altre forme di disobbedienza.
- Di fronte alla criminalizzazione e alle multe perché vengono occupate le strade, vanno attivati strumenti
concreti per la raccolta di fondi per pagare multe, sanzioni e cause: questo aspetto può essere determinante
affinché le lotte in corso possano proseguire.
- Quello che abbiamo imparato dal 15 maggio del 2011 e che uniti possiamo riuscire. Se gli impiegati pubblici
e i minatori, le persone che devono pagare il mutuo e i disoccupati rimaniamo separati la repressione e la
propaganda saranno più facili. Occupare insieme i posti di lavoro, gli edifici pubblici e le case è indispensabile
per dare visibilità alla forza del 99%.
- E per questo motivo, nonostante l’azione in sciame che stiamo facendo sia enormemente potente, dobbiamo
domandarci anche cosa faremo se, come in Grecia, né il governo né l’opposizione obbedirá ai cittadini e
proseguirà lungo lo stesso solco, senza consultarci, imponendo misure che ci ipotecano la vita. Forse solo
cambiando la cornice possiamo cambiare le cose concretamente; forse solo eliminando il bipolarismo possiamo
fermare i tagli. Anche questo potrebbe essere un obiettivo che interessa tutti: una nuova Costituzione, una
Transizione vera che costruisca una democrazia reale (ora!).
Tutto questo non è che una mappa delle prime intuizioni. L’importante è mantenere aperte le vie di
comunicazione, generando sempre più spazi di contagio.
E cospirare… che vuole dire, respirare insieme.
* Pubblicato su Madrilonia: http://madrilonia.org/2012/07/teoria-y-practica-de-un-contagio-o-de-como-losfuncionarios-y-el-15m-empiezan-a-mezclarse/
L’informazione rubata
28/07/2012 di Carlo Freccero (il manifesto)
L’interesse dell’appello “ Furto di informazione ” pubblicato sul manifesto non sta tanto, come dice il Corriere
della Sera di ieri , nell’ennesima contrapposizione tra neokeynesiani e neoliberisti, quanto nell’aver affrontato
per la prima volta il problema a priori, fuori dal puro contesto economico. L’appello è firmato da economisti ma
pone piuttosto un problema filosofico. Tra qualche anno il neoliberismo di oggi rischia di venir letto dagli storici
come il paradosso di un’epoca che impiega tutte le sue risorse a distruggere il benessere economico
guadagnato nel tempo. Da piccolo avevo un libro di favole intitolato “Il tulipano screziato”. La storia raccontava
la bolla speculativa del mercato dei tulipani nell’Olanda del ‘600.
Un unico bulbo di tulipano poteva avere un immenso valore. La storia ha fatto giustizia dei tulipani e la
farà delle nostre attuali convinzioni. Il marxismo (come teme Giuliano Ferrara) non c’entra niente. C’entra il
pensiero critico e la capacità di prendere distanza dalle cose.
Il salasso per tutti
Qualche anno fa il neoliberismo veniva chiamato “pensiero unico”, definizione che evocava la possibilità di
altri pensieri possibili. Oggi il neoliberismo si chiama semplicemente “economia” e non importa se esistono
teorici come Paul Krugman o Joseph Stiglitz che vedono le cose da un altro punto di vista. Stiamo vivendo una
crisi. Dobbiamo inchinarci alle leggi economiche e accettare i sacrifici che ci vengono imposti come dolorosi
ma necessari. Il neoliberismo non è più una tesi economica discutibile e relativamente recente, ma un dato
di natura. La crisi del 1929 è stata affrontata con politiche keynesiane ed è stata superata. La crisi attuale
viene curata con politiche neoliberiste e non fa che peggiorare. È come se a un paziente disidratato venissero
praticati salassi anziché fleboclisi: morirà. Ma per secoli il salasso è stata l’unica pratica medica accreditata per
curare ogni tipo di malattia con esiti disastrosi. Oggi noi applichiamo alla crisi un’unica forma di terapia: tagli
e sacrifici, convinti come i medici di un tempo, di non avere altre alternative a disposizione.
Anticasta, l’unica critica lecita
Si dirà: questi sono temi da affrontare tecnicamente in campo economico. Non a caso il nostro è un governo di
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“tecnici”. Viviamo in uno stato di eccezione in cui le necessità economiche prevalgono sulle istanze politiche.
L’uomo comune può solo affidarsi a chi è più competente di lui come si affiderebbe a un medico in caso
di malattia. La sua critica deve essere circoscritta agli abusi e agli sprechi che impediscono al mercato
di funzionare e produrre ricchezza e benessere per tutti. Ma questo è già pensiero unico, rinuncia a ogni
alternativa possibile. Guardiamo la situazione italiana degli ultimi decenni. Avevamo un governo sedicente
liberista in cui il liberismo era mitigato e spesso stravolto dal populismo. Un’opposizione che si dichiarava più
liberista del governo ed evocava maggior rigore. Abbiamo oggi un governo tecnico sostenuto da entrambi
gli schieramenti. E l’unica alternativa è costituita da una reazione contro la politica, che viene accusata (a
ragione) di sperperi, nepotismo, privilegi. Mentre per il governo la causa della crisi è il debito pubblico e
l’azione dissennata dei governi precedenti, per i gruppi anticasta, la causa della crisi sta nella corruzione
della politica che impedisce al mercato di funzionare. Formalmente contrapposte le due tesi aderiscono nella
sostanza a un’unica tesi: questo è l’unico mondo possibile, possiamo migliorarlo ma non cambiarlo. Gli italiani
sembrano in preda a una forma di depressione che li porta a non reagire, mentre il loro mondo affonda e
il benessere costruito dal dopoguerra viene sacrificato sull’altare della necessità economica. Cos’è che ha
cambiato le nostre capacità di reazione, ha annullato il nostro spirito critico? La censura, la mancanza di
informazione, i tagli alla scuola e alla ricerca. Ci è stata instillata in questi anni la convinzione che la cultura
non conta nulla, che il pensiero è inutile, che l’unico valore è il benessere economico. E la morte del pensiero
critico non ha prodotto benessere, ma disastro e miseria. Per questo l’appello pubblicato dal manifesto sul
“furto di informazione” riguarda, prima ancora delle politiche economiche il tema dell’informazione. Una
politica economica non è “naturale ”, presuppone una scelta tra più alternative. E la scelta politica presuppone
informazione. Per questo mi sono battuto per la sopravvivenza del servizio pubblico. Una pluralità di emittenti
private non garantisce pluralismo informativo. La stessa cosa vale per le testate giornalistiche. Fino a oggi
l’editoria ha richiesto ingenti capitali. E i magnati dell’editoria che possono sostenere certi costi, difficilmente
saranno dalla parte dei ceti meno abbienti.
Il presente come sola possibilità
Ai tempi de “Il Capitale” di Karl Marx il proletariato aveva valore per il suo lavoro. Ai tempi de “La società
dello spettacolo” di Guy Debord per la sua capacità di consumo. Oggi non ci resta che il voto, per questo
l’economia globalizzata limita l’autonomia degli Stati. E per questo la politica vuole controllare l’informazione.
Dobbiamo ricreare una libertà di informazione, studiare nuovi canali e possibili veicoli di informazione perché
si rompa l’incantesimo che ci porta a considerare il presente come l’unica possibilità. Siamo realisti, chiediamo
l’impossibile .
Ci rimettono sempre
28/07/2012 di Antonio Sciotto (il manifesto)
Intervista a Maurizio Landini: “L’Ilva resti aperta ma si investa per non inquinare.”. Il sindacato ammette un
ritardo
Maurizio Landini è appena uscito dall’incontro con il nuovo presidente dell’Ilva Bruno Ferrante, mentre in
mattinata aveva partecipato a un’animatissima assemblea dei dipendenti. Propone quello che chiedono gli
operai: ovvero che finalmente l’impresa e la politica bonifichino la città e creino produzioni sostenibili, senza
perdere posti di lavoro. Nel contempo, però, il leader della Fiom ammette che i lavoratori stanno facendo un
«salto culturale», e che prima erano in ritardo sul tema ambientale. Ancora, Landini commenta lo scontro tra
l’amministratore delegato Fiat Sergio Marchionne e la Volkswagen, propendendo con evidenza a favore delle
ragioni della casa tedesca.
Gli operai difendono il loro posto, ma la questione ambientale a Taranto è urgente. Come conciliate
i due temi?
Che gli operai difendano il proprio posto mi pare legittimo. La cosa importante è che non si è ceduto a chi
credeva alla contrapposizione lavoratori-magistratura. Al contrario si chiede a tutti i soggetti coinvolti, a partire
dall’Ilva, di difendere il lavoro ma insieme anche la sicurezza e la salute, dei dipendenti e della città. Il problema
riguarda tutta l’area di Taranto, altre imprese importanti. Va anche detto che l’Ilva non è più la fabbrica di 20
anni fa: negli ultimi anni ha investito 1 miliardo contro l’inquinamento.
Ma vi sembra credibile ottenere una Ilva «pulita»? Vedendo oggi Taranto si perderebbe ogni
speranza.
Tutto il territorio è inquinato da oltre 50 anni, a causa dell’Ilva ma non solo: ci sono altri grossi impianti, e non
a caso l’accordo siglato al ministero non si riferisce all’Ilva ma a tutta l’area di Taranto.
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Ma perché non abbiamo visto negli ultimi anni gli operai in piazza per l’ambiente, e riusciamo a
vederli mobilitati soltanto oggi? Hanno dovuto aspettare la magistratura e gli ambientalisti?
Credo ci siano ragioni e responsabilità precise, non solo dei lavoratori: i passati governi, la Regione prima di
Vendola, la stessa Ilva. È passata l’idea che pur di lavorare va bene tutto. Il sindacato ha fatto alcune iniziative,
ma non faccio fatica ad ammettere che per il mondo del lavoro siamo a un passaggio culturale, e che qualche
ritardo su questo fronte prima c’è stato. Cosa, perché si produce e con quale sostenibilità, è un tema che va
rivolto a tutti i soggetti, in primis all’impresa e alla sua responsabilità sociale.
Adesso cosa vi aspettate?
Abbiamo appena incontrato il nuovo presidente Ferrante e abbiamo accolto con favore il suo impegno di
continuare a produrre, collaborando con istituzioni, governo e sindacato. Il 3 agosto c’è il riesame e vedremo,
ma il punto piuttosto è aprire un percorso vero di investimenti pubblici e privati. D’altronde non puoi fermare
le produzioni in un’acciaieria come quella, per precisi vincoli tecnologici. Se la chiudi non la riapri più.
Si potrebbe pensare però di chiudere solo il ciclo a caldo, più inquinante.
Non puoi distinguere tra ciclo freddo e caldo, devi tenerli insieme, non puoi dividerli. Sono un vero ciclo
integrato.
E sullo scontro Marchionne-Volkswagen la Fiom cosa dice?
Dico che è innanzitutto un elemento di novità il fatto che Marchionne invece di insultare la Fiom, insulta
altri. Vedo la difficoltà per la Fiat di vendere in Europa: non ha mai investito e innovato i suoi prodotti, è
preoccupante. In Italia chiederei piuttosto una politica industriale dell’auto e la mobilità, in modo da far entrare
investitori stranieri nel nostro territorio. Interi pezzi dell’industria spariscono, la Fiat non investe. Dopo due anni
e mezzo, chi ha firmato accordi con Fiat dovrebbe riflettere.
Ma perché il modello Volkswagen vince e quello Fiat crolla in Europa?
In una concessionaria Vw trovi auto da 10 mila euro a 150 mila, in tutte le gamme. Mentre alla Fiat non è così.
C’è poi un grande vantaggio competitivo e tecnologico, marchi diversi, l’acquisto di nuove piattaforme. Vw è
anche il primo costruttore di auto andato in Cina. Ma soprattutto non ha licenziato quando aveva difficoltà:
ha preferito ridurre gli orari e investire. L’Audi, tedesca, ha da poco comprato Lamborghini e Ducati Motor: in
entrambi gli stabilimenti noi della Fiom abbiamo ottimi rapporti con i capi, ma soprattutto l’80% alle elezioni.
Nonostante la Fiom vanno bene, fanno utili e investono. Audi ha comprato prima che modificassero l’articolo
18.
30 July 2012
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