lo snodo dei libri
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lo snodo dei libri
MATILDE SILENZI LO SNODO DEI LIBRI Prefazione di Cristiana Vettori Edizioni Helicon PRONTI… PARTENZA… USA! Erano le sei del mattino, ed Erica esaminava in silenzio la moltitudine di valigie e scatole accatastate in camera sua. Aveva avuto bisogno di tutto il suo autocontrollo per non piangere quando suo padre le aveva annunciato che gli avevano affidato un lavoro in America, nella periferia di Miami. Con molta calma aveva preso i vestiti e dopo una settimana libri, borse, vestiti, scarpe e la roba di scuola erano stati accuratamente sistemati in scatole e valigie. Nessuno aveva pianto in classe all’annuncio, nessuno l’aveva salutata e quella che credeva la sua migliore amica non le parlava da una settimana. Cosa, tra l’altro, reciproca. Non era mai piaciuta a scuola. La trovavano out, la emarginavano e i maschi la trovavano bruttina perché non si truccava e metteva sempre le tute da ginnastica. Non amava curare il suo aspetto e non capiva perché le ragazze dovevano ricoprirsi letteralmente di strati di tinta, ritrovandosi poi a sudare o a non poter fare il - 19 - Matilde Silenzi PRONTI… PARTENZA… USA! bagno al mare. L’unica cosa che amava erano gli esperimenti sulle unghie, con cui passava giornate intere. Conosceva miliardi di tecniche, e aveva un’intera collezione di smalti, altra cosa di cui le compagne la prendevano in giro, e per questo veniva definita fanatica. Continuò a osservare le scatole che contenevano i suoi adorati smalti senza muoversi, e solo in quel momento si permise di piangere. Ma non piangeva per le compagne di scuola, che sotto sotto le sarebbero mancate. Piangeva per il suo migliore amico, Cristian, che sarebbe rimasto lì a Pisa, senza di lei. E lei a Miami, senza di lui. Si voltò verso l’orologio. Erano le sei e mezzo. Una luce si accese e illuminò il corridoio. Dei passi echeggiarono e si fermarono davanti alla sua porta per qualche secondo. Erica sentì il suono della maniglia che si girava, e velocemente si mise sotto le coperte e chiuse gli occhi. Sentì il cigolio della porta. Il rumore dei passi si smorzò subito sul tappeto che ricopriva la stanza. Schiuse l’occhio sinistro. La figura alta di suo padre la squadrava da lontano, in mezzo alle valigie e alle scatole di cartone. Lo richiuse di nuovo, e finse di dormire. Non voleva dare l’impressione di essere sveglia, perché era da settimane che suo padre tentava di parlarle. Ma lei non lo avrebbe mai perdonato. La figura alta si avvicinò e le diede un bacio sulla fronte. Poi le sussurrò all’orecchio. «Lo so che tieni molto a questo posto. Ma devi capi- re che lo facciamo per poter vivere meglio» Erica non ce la fece a resistere e si mise a piangere, in silenti singhiozzi. «Sii forte…» le disse il padre, prima di allontanarsi e uscire dalla camera. E mentre piangeva, Erica si addormentò, entrando in un mondo di incubi e pianti. Si svegliò che era passata solo mezz’ora, ma non aveva smesso di piangere in quel lasso di tempo. Il cuscino era mézzo di lacrime, come le sue guance paffute. Si alzò lentamente e si diresse nel bagno. Si squadrò nello specchio. I lunghi capelli castano scuro le ricadevano lisci e morbidi sulle spalle. Gli occhi castani erano rossi dal pianto e umidi, pronti a piangere di nuovo. La pelle olivastra era bagnata sulle guance. Il fisico non era perfetto, ma d’altro canto, chi lo era? Aveva la pancia un po’ gonfia, le cosce larghe, collegate a fianchi altrettanto larghi. Il seno era piatto e poco formato. Le spalle erano larghe a pari merito dei fianchi e le braccia leggermente tozze. Era abbastanza alta per la sua età. Sulle orecchie piccole, rese a sventola dai capelli voluminosi che teneva dietro le orecchie, due campanelle d’oro bianco penzolavano nascoste dalla massa castana, insieme a un orecchino sulla parte alta dell’orecchio con una stellina di diamanti. Si pettinò i capelli e li raccolse in una coda alta. Si lavò la faccia, e il rossore nei suoi occhi si attenuò un po’. Tornò poi - 20 - - 21 - Matilde Silenzi PRONTI… PARTENZA… USA! in camera e si mise la sua tuta preferita: verde fluo, con pantaloni a zampa di elefante e una felpa con cappuccio. Sotto, una semplice canottiera bianca con disegni colorati, che variavano dall’arancione al verde al rosa fucsia. Si infilò delle scarpe da ginnastica di tela e scese giù in sala da pranzo. I suoi genitori erano già scesi e stavano già facendo colazione. Si mise davanti alla tazza di latte fumante e ai biscotti senza proferir parola. Non aveva voglia di parlare. Se per i suoi genitori si trattava di un giorno importante e per loro si stava aprendo un barlume di gioia, per lei era un giorno nero, e le sembrava inadatta quella giornata di sole, anche se era maggio. Si alzò, sempre senza dire niente, e andò a lavarsi i denti. In casa c’era un’atmosfera funerea. La casa stessa sembrava piangere per loro. Andò in camera e prese il telefono, che di tanto in tanto cantava la suoneria ripetendola almeno cento volte al minuto per il fiume di messaggi che arrivavano su whatsapp. Ancora il gruppo di classe… pensò senza allegria. I suoi compagni di classe erano dei telefono-whatsapp dipendenti, tanto da incepparle il telefono con i loro messaggi. Si chiedeva perché ancora non l’avessero eliminata dal gruppo. Non era interessata alle conversazioni delle sue compagne di classe, ma aveva colto qualche barlume di conversazione, tra cui “tra quanto pensate che se ne andrà quella svitata?” e “non so, ma speriamo presto”. Le aveva fatto tristezza il fatto che tra loro ci fosse anche la sua migliore amica, Martina. Non voleva sapere se per difenderla o per unirsi semplicemente alla conversazione, ma da quel giorno non le aveva più rivolto la parola. E poi, la definivano svitata per cosa? Perché non si metteva chili di eyeliner intorno agli occhi? Perché invece di Paperino leggeva “Il giro del mondo in 80 giorni”? Perché invece di mettere magliette scollate, minigonne e anfibi metteva felpe dai colori fluo? Stava per chiudere il telefono, quando una suoneria diversa sovrastò le altre: la suoneria di Cristian. Rispose velocemente al telefono. «Pronto?» chiese. «Ciao, sono Cristian» disse la voce di Cristian con una nota triste. Un silenzio cadde tra i due. «Senti» riprese poi Cristian «So che oggi parti… Volevo chiederti se volevi venire a fare due passi… Ti va?» «Certo» «Allora a dopo… Ciao…» «A dopo…» disse, prima di chiudere la chiamata. Scese la scale. Non si erano dati un orario, ma a loro non serviva. Se uno dei due chiamava, l’altro sapeva che era già là, ad aspettarlo. E lui la aspettava sempre nel solito posto. «Esco con Cristian» annunciò, senza gioia né dolore «Torno tra poco» concluse, aspettandosi le solite rac- - 22 - - 23 - Matilde Silenzi PRONTI… PARTENZA… USA! comandazioni della madre sul fatto che tra qualche ora sarebbero partiti. Ma con suo grande stupore nessuno disse niente. Prese le chiavi e uscì da quella casa che tanto sentiva sua. La strada era così familiare. Le case, illuminate dal sole, per la prima volta le sembravano vivaci, quasi belle. I graffiti e le scritte di protesta sul distretto 42, che la accompagnarono fino alla fine della via, le parevano semplici decorazioni. Quasi opere d’arte. Si fece accompagnare dai graffiti colorati fino a Corso Italia. Non vedeva Cristian, ma sapeva dove trovarlo. Andò verso Piazza Vittorio Emanuele, e lo trovò lì, al solito posto, seduto sulle panchine in ferro sotto la pergola anch’essa di ferro. Ma una cosa non trovò. Il suo solito sorriso sbruffone, di chi l’ha appena fatta grossa ma ci scherza sopra, era sparito. Al suo posto, un’espressione, un misto tra tristezza e serietà, era dipinta sul suo volto abbronzato. Alzò lo sguardo, e improvvisò un sorriso verso di lei. Erica si avvicinò a lui. «Ciao» disse. «Ciao…» rispose. Erica gli squadrò meglio gli occhi neri come la pece. Erano contornati da venature rosso sangue. Aveva pianto. Cristian si alzò rivelando la sua bassa statura. Arrivava alla spalla di Erica, ma i suoi ricci neri lo alzavano di qualche centimetro. «Ti va di camminare un po’?» chiese. «Certo» Per loro camminare un po’ era l’equivalente di camminare chilometri, tentando di dimenticare, rilassandosi o semplicemente sdrammatizzando la situazione con quel movimento delle gambe che aveva aiutato per secoli gli uomini nomadi del Paleolitico. Ma le loro bocche non si aprivano. Nemmeno per tossire. Gli unici suoni che li accompagnarono verso il Duomo furono il rumore delle loro scarpe e le voci della gente. Giunsero al Duomo e si sedettero sul prato davanti alla Torre. E lì ad Erica tornò in mente il periodo delle medie, quando andavano al Duomo e “davano il cinque” alla gente che faceva la foto “sorreggendo” la Torre. E ricordava di quando lei gli chiedeva aiuto coi problemi di cuore. Come può finire tutto così di punto in bianco? Come può tutto cambiare all’improvviso? Erica lo guardava, e ricordava quando lui era triste e con uno sguardo lei poteva leggerlo come un libro aperto. Ricordava le sue battute per prenderla in giro, a cui alla fine ridevano insieme. E si chiedeva come avrebbe fatto, senza i suoi consigli, le sue rassicurazioni, il suo sorriso sbruffone e la sua mania di fare battute e ridere di fronte alla serietà di lei. Erica lo guardò negli occhi, e dopo un po’, lasciando che le lacrime scorressero di nuovo, finalmente parlò. «Ti voglio bene…» - 24 - - 25 - Matilde Silenzi PRONTI… PARTENZA… USA! «Anche io…» le rispose, anche lui piangendo. Si abbracciarono, sotto la Torre, tentando di soffocare le lacrime ognuno nel dolore dell’altro. Perché l’amore non è solo fatto di baci. Ma anche di lacrime che vengono soffocate nel dolore degli altri. Durò forse ore, forse secondi quell’abbraccio, sta di fatto che fecero l’una del pomeriggio. Era l’ora di separarsi. Per sempre. Presero la stessa strada e, a differenza della partenza, parlarono di tutto, sorridendo in modo sempre più deciso. Erano decisi a trascorrere più tempo possibile insieme. Con loro somma disperazione, la porta della casa di Erica divenne visibile. Era ora di andare, ma sul serio stavolta. Si abbracciarono per un’ultima volta. Si avviarono verso la porta di casa mano nella mano. Erica tirò fuori dalla tasca le chiavi di casa, e le ci volle tutto il suo autocontrollo per dominare il braccio tremante e contemporaneamente non piangere. «Buon viaggio… e ricorda di insegnare agli americani le mie battute!» le disse Cristian una volta che ebbe aperto la porta. Per poco non le venne da piangere. Annuì. Cristian le prese il volto tra le mani e le sorrise. «Ricorda che per quanto idioti o cattivi saranno i tuoi compagni di scuola, i tuoi parenti o anche i tuoi colleghi, io sarò sempre con te, che tu sia in Cile, America o Africa. Io sono con te. Prometti di ricordarlo?» Erica annuì piangendo. Avrebbe voluto ringraziarlo, dirgli che lo avrebbe ricordato per sempre, ma i singhiozzi le bloccavano anche il fiato. Lo abbracciò, entrò in casa e chiuse la porta, abbandonando Cristian in via Giordano Bruno. Da quel momento in poi la sua vita cambiava. Non ebbe tempo di entrare, che già i suoi la richiamavano fuori, con valigie e scatoloni. Erica aiutò a sistemare le scatole e le valigie dentro il bagagliaio. A testa china, per non fare vedere gli occhi lucidi e rossi. Salì in macchina, prese il suo MP3 e si lasciò cullare durante il viaggio verso l’aeroporto da Daniel Powter. Dopo pochi minuti arrivarono all’aeroporto di Pisa. Erica era curva sotto il peso degli scatoloni e la sua valigia pareva non volersi muovere. Le ci vollero venti minuti buoni per portare tutta la sua roba al check-in. Una volta imbarcati i bagagli, andarono nella sala d’attesa. La sala era piena, e due lunghe file (una per la priority e una per la fila “normale”) ostacolavano il corridoio davanti al check-in Pisa-Barcellona. Erica si sedette sulla prima fila di panchine e, come al solito prima di ogni viaggio, si mise a fissare il tabellone che indicava l’orario di apertura del check-in Pisa-Parigi, e già si immaginava lei a Parigi, mentre controllava il tabellone del checkin Parigi-Miami. Dalle vetrate poteva chiaramente osservare l’aereo della Ryanair, pronto a spiccare il volo, a portarla in Francia, dove poi avrebbe preso un ae- - 26 - - 27 - Matilde Silenzi PRONTI… PARTENZA… USA! reo della Air France. Si immaginava già la sala d’attesa dell’aeroporto di Parigi. C’era già stata e si ricordava perfettamente le poltrone azzurre e grigie della grandissima sala, piena di negozi, con un enorme corridoio tappezzato da un tappeto di moquette blu. Si ricordava quanto era deserta. Quando ci erano arrivati era l’una e mezza di notte, e non c’era più nessuno. I bar erano deserti. E solo pochi negozi erano aperti. Guardò l’orologio. Le sei e mezza. Alle otto e mezza sarebbero arrivati a Parigi, nella grande sala dal corridoio azzurro. Una piccola musica stile ascensore americano invase la sala, e una voce giovanile annunciò l’apertura del check-in Pisa-Parigi. Erica e i suoi genitori si alzarono, presero i bagagli a mano e si diressero verso la fila della priority. La fila era molto corta, e in pochi secondi stavano già scendendo la scala verso l’esterno, per raggiungere l’aereo. Il sole batteva violento sull’asfalto della pista d’atterraggio. Erica trascinò la valigia fino alla scala. La sollevò, chiamando a sé tutto l’equilibrio possibile, e salì le scale barcollando. Entrò nell’aereo e cercò con lo sguardo il posto previsto: 5A, lato sinistro, accanto al finestrino. E così le venne in mente. Un sorriso le comparve sulle labbra. Nella priority non c’erano posti a sedere, sceglievi dove sederti, evitando i posti assegnati agli altri. Quello era un biglietto falso. Molto probabilmente fatto al computer dalla madre, semplicemente per farla sorridere all’idea che il fato l’avesse messa in un bel posto: in mezzo all’aereo, dove poteva osservare l’ala, e soprattutto vicino al finestrino. Ma il fato non c’entrava nulla. Così come non c’entrava nulla nel fatto che si trovava lì, a un minuto dal partire. «Scusi…» Erica venne risvegliata dalle sue fantasie. A parlarle era stata un’hostess slanciata, dalla pelle abbronzata e dai capelli castani tagliati a caschetto. Si guardò intorno, come se si fosse accorta solo ora di quel posto. Era in mezzo al corridoio. Dietro di lei, una coda di persone sbuffava, irritata dall’ingorgo. Non si era accorta che anche sua madre la chiamava. Si spostò velocemente verso il posto, e la coda riprese a scorrere. Molta gente la guardava con rimprovero o curiosità, ma decise di non farci caso. La vista dal finestrino non era ampia, ma molto chiara. Il sole penetrava in fiotti luminosi sulle gambe di Erica, riscaldandola. Erica si mise a guardare la gente che saliva nel ventre dell’aereo e, solamente guardando ogni singola persona, tentava di capire lo stile di vita, il carattere o semplicemente la provenienza e le motivazioni del viaggio. Amava molto leggere i gialli, specialmente quelli di Sherlock Holmes, il quale possedeva tale abilità che usava anche per risolvere i casi. Questa abilità la affascinava, e, appena si trovava in un luogo pubblico, non perdeva occasione per esaminare la gente. Annotava tutte le sue osservazioni in un taccuino. A casa le riesaminava, cancellava - 28 - - 29 -