Rassegna stampa 4 ottobre 2016
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Rassegna stampa 4 ottobre 2016
RASSEGNA STAMPA di martedì 4 ottobre 2016 SOMMARIO “Un libero pensiero critico sull’ideologia del gender” è il titolo del commento di Lucetta Scaraffia, sull’Osservatore Romano di oggi, alle recenti parole del Santo Padre. “Papa Francesco - osserva - gode senza dubbio del favore dei media, e talvolta ci si è quasi stupiti che le principali testate internazionali lasciassero passare senza battere ciglio frasi che, dette da altri, avrebbero suscitato attacchi indignati. Ma stavolta no, stavolta non hanno lasciato correre quando ha criticato con forza la teoria del gender. Questo rivela innanzi tutto che il gender costituisce un punto sensibile sul quale non si intende fare sconti, soprattutto se si tocca il cuore della trasmissione ideologica: l’insegnamento nelle scuole. Ma anche rivela che l’insegnamento del gender non è ciò che si dice, e cioè una necessaria preparazione dei giovani affinché non venga demonizzata l’omosessualità. Il Papa infatti ha accompagnato il suo discorso sul gender a una chiara accettazione degli omosessuali, con una apertura che nella Chiesa non si era mai manifestata con tanto coraggio. Le reazioni, poi, mostrano anche le difficoltà in cui si trovano i promotori di tale insegnamento. Non tanto a causa dei loro oppositori, ma piuttosto a motivo del buon senso e dell’esperienza quotidiana vissuta da ciascuno, che costituiscono un naturale antidoto - per nulla ideologico - a queste idee. Innanzi tutto, i critici rimproverano al Papa di avere usato il termine “teoria”, dimenticando che, da un certo punto di vista, tutto ciò che viene insegnato astrattamente è una teoria, e ancora di più il gender che, non trovando riscontro nell’esperienza concreta, è solamente uno spunto teorico. Ma, da un altro punto di vista, è vero che il gender ha provato a stabilizzarsi come teoria, e per di più come teoria scientifica - si ricordi solamente il caso notissimo del medico John Money - ma questa è svanita nel nulla davanti alle prime verifiche. Sorge allora la domanda: cos’è il gender che si insegna in alcune scuole? Non una teoria ma un’ideologia, o meglio un’ideologia utopica simile a quelle che nel Novecento hanno promesso la realizzazione del paradiso in terra se solo si fosse arrivati a una vera eguaglianza fra gli esseri umani. Anche il gender promette felicità se si cancella la differenza tra uomo e donna, con grande disprezzo per la realtà biologica, quindi per la maternità intesa non solo come procreazione, ma come creazione di un rapporto umano unico fin dal concepimento. In sostanza, l’ideologia del gender promette felicità - grazie a questa eguaglianza - a patto di scegliere la libertà di realizzare ogni desiderio, di privilegiare sempre se stessi invece della costruzione di legami umani fondati sulla realtà. E quindi minando la famiglia. Francesco ha spiegato, con grande chiarezza, che si possono amare e accogliere gli omosessuali e i transessuali senza dover ricorrere a questa scorciatoia ideologica, e in un certo senso ha smascherato gli obiettivi dell’ideologia: scardinare la famiglia, e non tanto aiutare gli omosessuali a essere accolti come eguali. Con le parole del Papa la Chiesa ancora una volta si rivela impermeabile alle utopie di eguaglianza, anche se paradossalmente è stato proprio il cristianesimo a portare nel mondo, per la prima volta, il principio dell’eguaglianza di tutti gli esseri umani. Ma l’eguaglianza predicata e praticata dal cristianesimo si fonda sulla condivisione da parte di tutti gli esseri umani della condizione di figli di Dio. È quindi un concetto flessibile, aperto alla presenza di differenze al suo interno, che non significano - o, meglio, non dovrebbero significare - diseguaglianze. Al contrario, il concetto di eguaglianza oggi in voga è molto più fragile, non si basa su principi forti e condivisi, e viene continuamente messo in crisi dalla constatazione evidente della differenza fra gli esseri umani. Di qui i tentativi di creare l’eguaglianza: per esempio, eliminando la proprietà privata (con il comunismo), la malattia (con l’eugenetica), e oggi la differenza sessuale (con il gender). Insomma, le parole di Bergoglio confermano, ancora una volta, che il punto di vista cattolico costituisce un ineludibile e libero pensiero critico nei confronti di luoghi comuni passivamente accettati”. Sullo stesso tema interviene, sempre oggi e su Avvenire, Chiara Giaccardi: “Quella che viene definita 'ideologia gender' compie esattamente questo passaggio ideologico: dal riconoscere che ogni cultura ha i propri linguaggi, usanze, modelli per rappresentare il maschile, il femminile e la loro relazione (modelli che giustamente sono stati e vanno continuamente sottoposti a critica), passa ad affermare che non c’è (anzi non ci deve essere, perché la normatività è forte) nessun legame tra la dimensione biologica e l’identità di genere, vista esclusivamente come una scelta individuale. Come se non solo il nostro corpo, ma anche i nostri legami, la nostra storia sempre plurale, le speranze di altri su di noi fossero irrilevanti. E come se bastasse un atto di volontà (che ideologicamente chiamiamo 'libera scelta') per renderli tali. Ci sono almeno due coppie di dimensioni che rendono intricata la questione: la prima è appunto individuale/sociale, laddove la nostra cultura è prigioniera di una concezione tanto assoluta quanto irrealistica del sé. Pensare al genere come pura scelta individuale, come un armadio di vestiti equivalenti, da indossare e cambiare a piacere, è possibile solo in una prospettiva di individualismo assoluto. Perfettamente funzionale, tra l’altro, allo strapotere del sistema tecno-economico. Una posizione che non solo non è realistica (piuttosto, ideologica) ma nemmeno particolarmente desiderabile, alla fine. Per cambiare continuamente bisogna essere senza qualità, oltre che senza legami, come sostengono Miguel Benasayag, Zygmunt Bauman e tanti altri lucidi interpreti della contemporaneità, certamente non accusabili di bigottismo. L’altra opposizione è astratto/concreto. La cosiddetta 'teoria gender' astrae dal legame, dalla materialità del corpo, dalla storia personale per affermare un principio astratto di autodeterminazione totale che nega ogni vincolo per affermarsi. In un modo che non può che essere irrealistico, oltre che violento per chi ci sta vicino. Perché la libertà non è cancellare i vincoli e i legami per paura che ci influenzino, ma assumerli consapevolmente e responsabilmente, per cercare di cambiare ciò che è disumano, a beneficio di tutti. Non si è mai liberi contro altri, ma sempre con e grazie ad altri. Il pendolo dell’astrazione oscilla poi verso l’accettazione incondizionata del dato di fatto, di un particolare irriducibile e non sottoponibile a critica. Ancora una volta una concezione adolescenziale della libertà: nessuno mi deve dire cosa devo fare. Papa Francesco ci mostra un modo diverso di declinare il legame tra il generale e il particolare, che non può che passare dalla concretezza. Una concretezza che non è però chiusa in sé, autosufficiente, ma connessa alle altre e al tutto (tutto è connesso, Laudato si’, n.16): un «concreto vivente» come lo definisce Romano Guardini»), sempre relazionale. Ciascuno di noi è un intero e non una somma di attributi. Si accompagna la persona solo quando la si riconosce come un intero. «Non riuscirò mai a ricomporti interamente / Con tutti i pezzi ben congiunti», scriveva la poetessa Sylvia Plath. La persona sempre eccede i suoi attributi. Accompagnare richiede l’incontro con l’altro tutto intero, che è sempre un «inizio vivo» (Guardini), un cambiamento per tutti. Accompagnare è verbo di reciprocità, non di condiscendenza. È ricordarsi sempre di partire dalla concretezza, dall’integralità, dalla verità incarnata e situata di ognuno. Che è un intero in divenire, e non può essere inchiodato d’ufficio a un’azione, una scelta, un errore: è il tema della misericordia e del perdono. Papa Francesco ci accompagna a capire la relazione complessa e delicata tra la norma generale – che rimane come riferimento essenziale – e la concretezza della vita, che non può mai essere ridotta a una norma astratta. Perché, come ha scritto nella Evangelii gaudium, la realtà supera l’idea. Non a caso dopo aver illustrato il principio generale (non si può accettare la colonizzazione ideologica) il Papa ha raccontato una storia vera, che nella sua unicità ha un tratto di universalità: è infatti nella concretezza delle vite che si può cercare di volta in volta un equilibrio – guidati dalla verità che è amore – tra la legge e l’uomo, tra il principio e la vita. Perché l’universale cattolico non è astratto ma concreto: tutto l’uomo e tutti gli uomini. E non è relativismo, tutt’altro: è realismo evangelico. Che si fonda su una costitutiva relazionalità. Accogliere, accompagnare, discernere, integrare: tutti verbi di movimento, di concretezza e di relazione. Modi per articolare la ricchezza della nostra umanità, senza sacrificarla sull’altare delle ideologie, ma anche senza aver paura delle domande. È la strada, difficile ma autentica, da cercare di percorrere insieme in questi tempi di sfide. Senza paura, perché la nostra speranza germoglia sulla promessa di una pienezza libera” (a.p.) 2 – DIOCESI E PARROCCHIE IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XII Un ponte con Lampedusa: “La storia non si ferma” di Giacinta Gimma Marghera, folla alla messa concelebrata da Francesco Montenegro, arcivescovo di Agrigento LA NUOVA Pag 17 Pastorale universitaria: in laguna per parlare di ambiente Pag 21 Facoltà di Diritto canonico, domani “lectio inauguralis” di m.a. Con Agostino Paravicini Bagliani Pag 34 Incontro di fedeli a Jesolo, abolito il tema Medjugorje di Giovanni Cagnassi Nel nuovo format, che comincerà il 16 ottobre, non si parlerà più di apparizioni. La celebrazione più attesa della giornata è la messa del patriarca Moraglia 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 1 Il tempo del Papa di g.m.v. Pag 1 Un libero pensiero critico sull’ideologia del gender di Lucetta Scaraffia Pag 4 Unica strada Durante il volo di ritorno dal Caucaso il Papa ribadisce la necessità del dialogo per risolvere i conflitti Pag 7 Come tessere un tappeto Nella messa a Baku il Pontefice ricorda che fede e servizio non si possono separare Pag 7 Non è tempo perso All’Angelus AVVENIRE Pag 3 La concretezza della vita per disinnescare il gender di Chiara Giaccardi Ideologie e antropologia, la lezione del Papa. Accanto e in relazione: ecco il realismo evangelico Pag 3 Figli senza padri, la verità nascosta di Carlo Cardia La Cassazione che riconosce due mamme Pag 9 Tanti gruppi cristiani lgbt “seguiti” in parrocchia di Luciano Moia La mappa delle presenze nel Rapporto 2016 curato dal Forum dei credenti omosessuali IL FOGLIO Pag 2 Perché il Papa vuole “accompagnare i gay” ma attacca la teoria gender di Matteo Matzuzzi Tra equilibrismi e letture pol. corr. delle sue parole Pag 2 Albacete, il prete che bastonava i laici poco laici e i cristiani senza Cristo di Emanuele Boffi I saggi del sacerdote americano editorialista del NYT Pag 2 Così chiese e sacerdoti cristiani finiscono sotto attacco anche in Italia di Andrea Bonicatti Insulti e dissacrazioni (sottovalutati) all’altare LA NUOVA Pag 37 Francesco e la “guerra mondiale di idee” che vuole distruggere la famiglia di Orazio La Rocca WWW.VATICANINSIDER.LASTAMPA.IT Il Papa e i gay: distinguere peccato da peccatore è cristiano di Andrea Tornielli La risposta di Francesco che racconta come sia sempre stato vicino alle persone omosessuali spiazza “relativisti” e “rigoristi” ma getta anche una luce interessante sulla vita della Chiesa 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA Pag 1 La sfiducia dei giovani ignorati di Dario Di Vico Quei segnali inattesi Pag 41 L’angosciante rivoluzione demografica di Ernesto Galli della Loggia Un saggio di Ugo Intini AVVENIRE Pag 1 Una lezione tedesca di Leonardo Becchetti Caso Deutsche Bank e biodiversità bancaria CORRIERE DEL VENETO Pag 2 Le riforme del lavoro. L’impatto in Veneto di Martina Zambon Mezzo miliardo di incentivi in un solo anno e 220 mila nuovo contratti: 1 su 2 non durerà 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA LA NUOVA Pag 27 Bambini e ragazzi in difficoltà, centro diurno a Villa Elena di s.b. Inaugurazione a Zelarino Pag 28 “Non date soldi a quel prete, è un truffatore” di m.a. L’appello in chiesa di don Lauro dopo le telefonate di uno sconosciuto padre Francesco 8 – VENETO / NORDEST IL GAZZETTINO Pagg 6 – 7 Referendum costituzionale, a Nordest vince l’incertezza di Natascia Porcellato e Annamaria Bacchin A due mesi dalla consultazione il 33% favorevole al sì, il 27% per il no. Ma gli indecisi sono il 40% Pag 14 Nordest sicuro, Venezia e Padova no di Mattia Zanardo Pordenone, Belluno e Treviso tra le dieci oasi più felici d’Italia CORRIERE DEL VENETO Pag 7 Abano e il No ai profughi, la parrocchia: “Razzisti” di Alessandro Maccio e Davide D’Attino Dopo le proteste, la nota del consiglio pastorale: “Facile essere ospitali solo con chi paga l’albergo” … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Così ho conosciuto i migranti sotto casa di Dacia Maraini Tra i migranti accolti sui monti d’Abruzzo Pag 29 Ungheria, Colombia, Svizzera. Gli strappi del referendum di Massimo Nava IL GAZZETTINO Pag 1 Il contratto M5S, se la politica diventa mercato di Carlo Nordio LA NUOVA Pag 1 La Shoah dei nostri tempi di Gigi Riva Pag 1 Spose bambine, lo stupro e il diritto di Ferdinando Camon Torna al sommario 2 – DIOCESI E PARROCCHIE IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XII Un ponte con Lampedusa: “La storia non si ferma” di Giacinta Gimma Marghera, folla alla messa concelebrata da Francesco Montenegro, arcivescovo di Agrigento Marghera e Lampedusa mai così vicine. I fedeli delle otto parrocchie della città giardino, domenica mattina, hanno partecipato, a migliaia, all'unica messa comunitaria in piazza Mercato e hanno guardato, malgrado i chilometri di distanza, al canale di Sicilia, diventato tomba per 28mila persone, vittime che potrebbero essere il doppio. A legare le due comunità, il cardinale Francesco Montenegro, arcivescovo di Agrigento, che ha celebrato, insieme a sacerdoti e diaconi del territorio, la funzione organizzata dal vicariato di Marghera all'insegna dell'accoglienza degli immigrati. «Chi di noi può fermare il vento? Nessuno può farlo così come - ha sottolineato don Franco, come vuole essere chiamato, lui allergico al "sua eminenza" - nessuno può fermare questa migrazione, frutto di un'ingiustizia che vede i Paesi africani derubati di risorse, pace e benessere. Un'ingiustizia di fronte alla quale dobbiamo indignarci». Ha raccontato storie di violenza, di sfruttamento, di morte, ma anche di speranza, come quella di una madre africana che ha affidato l'ultimo dei propri figli in fasce ai connazionali su un barcone, dicendo: «Se resta qui con me, è destinato a morire, lì, forse, vivrà». L'arcivescovo di Agrigento cita la previsione di 10 milioni di italiani in meno nel 2050, le 600mila aziende fondate finora in Italia da migranti, i 60mila insegnanti che sarebbero senza lavoro se le classi fossero prive dei piccoli immigrati. «Non possiamo cambiare la storia, ma un pezzettino di vita sì: come cristiani, l'unica possibilità che abbiamo è essere con loro. Forse con un buongiorno e con un sorriso possiamo ricavare uno spazio in cui io e l'altro possano trovare posto insieme. Attraverso la porta di Lampedusa, dobbiamo dire "Lui c'è"». Durante la messa, cui hanno partecipato il presidente di Marghera, Bettin, i delegati Marello e Polesel e l'assessore Venturini, il vicario generale don Angelo Pagan ha portato all'arcivescovo il saluto del patriarca Moraglia e a don Franco è giunto il ringraziamento dei fedeli, attraverso le parole del vicario don Giuseppe Volponi. A tutti, alla fine, da don Franco, un saluto alla lampedusana: «Ò scià», come a dire "Respiro mio", per portare via con sé nella sua Lampedusa un pezzo di Marghera. LA NUOVA Pag 17 Pastorale universitaria: in laguna per parlare di ambiente In laguna con la Pastorale universitaria. Un centinaio di ragazzi, accompagnati da don Gilberto Sabbadin e Vincenzo Braga, direttore della Domus civica, hanno visitato la laguna per parlare dell’enciclica sull’ambiente di Papa Francesco. Pag 21 Facoltà di Diritto canonico, domani “lectio inauguralis” di m.a. Con Agostino Paravicini Bagliani È in programma domani mattina alle 11 nell'auditorium del seminario patriarcale nel complesso della Salute, la lectio inauguralis del nuovo anno accademico della Facoltà di Diritto Canonico San Pio X di Venezia, promossa e sostenuta dal Patriarcato di Venezia e dalle Chiese del Triveneto. Nell'occasione interverrà il professor Agostino Paravicini Bagliani sul tema “Bonifacio VIII e il primo Giubileo cristiano: spiritualità, ecclesiologia, auto rappresentazione”. Paravicini Bagliani è presidente della Società Internazionale per lo Studio del Medioevo Latino (Sismel) di Firenze ed è uno dei maggiori esperti mondiali di storia medievale in Europa. I suoi studi si concentrano soprattutto su storia del papato, antropologia culturale, rapporti tra natura e società nel Medio Evo. Alle 12.30, nella Cappella della Santissima Trinità del seminario patriarcale, seguirà la messa di apertura del nuovo anno accademico presieduta dal Patriarca di Venezia e gran cancelliere della Facoltà monsignor Francesco Moraglia. A frequentare attualmente la Facoltà veneziana di Diritto Canonico sono oltre una cinquantina di allievi (tra licenza e dottorato); 21 risultano, in particolare, gli iscritti al primo anno e tra di essi ci sono sia sacerdoti (provenienti dal Triveneto e dal Nord Italia ma anche dall'estero, in particolare da vari Paesi dell'Europa dell'Est, dell'Africa e dell'Asia) sia alcuni laici, uomini e donne, impegnati per motivi professionali e di servizio (avvocati, giuristi o dipendenti di Uffici di Curia) nello studio e nell'approfondimento del Diritto canonico. Pag 34 Incontro di fedeli a Jesolo, abolito il tema Medjugorje di Giovanni Cagnassi Nel nuovo format, che comincerà il 16 ottobre, non si parlerà più di apparizioni. La celebrazione più attesa della giornata è la messa del patriarca Moraglia Jesolo. In Cammino con Maria, siamo al 6° grande incontro di preghiera al lido di Jesolo. Il giorno dell’incontro sarà il 16 ottobre al Pala Arrex di piazza Brescia che passerà dal profano al sacro senza soluzione di continuità. Prima le Miss, adesso i fedeli in raccoglimento. Dopo una stagione di duro lavoro la comunità del litorale di Jesolo ed Eraclea, ma anche di tutto l’entroterra, si raccoglie in preghiera e riflessione come ogni anno, in una giornata da oltre 3 mila presenze. E in questa edizione si attende anche la visita del patriarca di Venezia Francesco Moraglia che celebrerà la messa. Non si parla più di Medjugorje. Vietatissimo. Del santuario in Bosnia e delle apparizione della Madonna a Jesolo è vietato assolutamente proferir parola. Alle prime edizioni era stato questo il fulcro dell’iniziativa religiosa, con drappelli di veggenti direttamente dal santuario, guarigioni, confessioni, addirittura nuvole dalla inconfondibile forma di Maria fotografate nei cieli di Jesolo e postate sui social, allora agli esordi. Solo l’apparizione di Paolo Brosio era venuta a mancare. Oggi, alla luce delle incertezze del Vaticano e della Chiesa cattolica in merito alle apparizioni e i miracoli di Medjugorje, gli organizzatori hanno cambiato il format completamente. Nessun riferimento, neppure il minimo, a quell’esperienza religiosa, ma grandi ospiti, fedeli in preghiera e composti senza fanatismi. E naturalmente raccolte di fondi per i poveri e bisognosi. «Abbiamo organizzato il sesto incontro di preghiera» , spiegano laconicamente i promotori, «che si svolgerà a Jesolo il 16 ottobre. Il programma come al solito è molto vasto, con delle catechesi, testimonianze, dei canti e molto altro. Come per gli anni scorsi l’ingresso al palazzetto è libero e aspettiamo tutti numerosi». Per informazioni si può contattare Enrico al 393/9589288, Lucia 346/6259796, ore pasti. Inizio dell’ incontro alle ore 9 e ingresso dalle ore 7.30. La celebrazione più attesa è naturalmente la messa del patriarca Moraglia prevista alle ore 17.30, che quest’anno darà ampia visibilità all’evento che viene benedetto in qualche modo dalla chiesa veneziana dopo l’iniziale scetticismo dovuto soprattutto all’eccessiva enfasi. Tra gli ospiti, sono attesi anche don Francesco Quintavalle, don Antonio Mazzi, la giornalista Marina Ricci e Giada Nobile. Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 1 Il tempo del Papa di g.m.v. Il secondo viaggio nella regione caucasica ha portato il Papa in due paesi dove i cattolici sono pochissimi: in Georgia la quasi totalità della popolazione è cristiana ortodossa mentre in Azerbaigian solo poche centinaia sono i cattolici, di provenienze e lingue diverse, in un contesto interamente musulmano. E se in Georgia l’antichità della tradizione cristiana si è potuta toccare quasi con mano durante l’incontro nell’impressionante cattedrale di Svetitskhoveli a Mtskheta, dove si sono levati meravigliosi canti in aramaico, nella piccola chiesa cattolica di Baku Francesco ha celebrato per un numero di fedeli piuttosto ristretto. Che significa questa scelta? Perché viaggi lunghi e impegnativi in luoghi dove i cattolici sono minoranze talmente piccole da apparire trascurabili? Non perde forse tempo il Papa, si è chiesto lo stesso Bergoglio, improvvisando una breve riflessione dopo la messa nella minuscola parrocchia della capitale azera e dando voce all’interrogativo di alcuni. No, non lo perde il suo tempo, è stata la risposta netta e suggerita dalla Scrittura. Dove si legge che a un’altra piccola comunità, quella rinchiusa nel cenacolo, lo Spirito diede il dono delle lingue e il coraggio di uscire. Il Pontefice, che aveva appena ascoltato letture, preghiere e canti in lingue diverse, ha infatti incoraggiato i cattolici presenti a testimoniare e annunciare Gesù, sull’esempio dei suoi primi seguaci impauriti e smarriti a Gerusalemme. Come sempre privilegiando le periferie, geografiche ed esistenziali, da dove si vede meglio la realtà e che Bergoglio evocò prima del conclave che lo ha eletto quando parlò ai cardinali della gioia di annunciare il Vangelo. Muovendosi sulle tracce dei suoi predecessori, dopo il segno di Paolo VI che per primo toccò i cinque continenti arrivando fino alle isole Samoa. Il Papa dedica tempo a stare con la gente per accompagnarla. Come ha spiegato a lungo ai giornalisti, con pazienza e chiarezza. Per ribadire la centralità della famiglia e l’importanza di sostenerla, il senso del cammino ecumenico e lo scopo del dialogo con le altre religioni. O ancora la necessità di far crescere una cultura politica. Senza paura di perdere tempo. Pag 1 Un libero pensiero critico sull’ideologia del gender di Lucetta Scaraffia Papa Francesco gode senza dubbio del favore dei media, e talvolta ci si è quasi stupiti che le principali testate internazionali lasciassero passare senza battere ciglio frasi che, dette da altri, avrebbero suscitato attacchi indignati. Ma stavolta no, stavolta non hanno lasciato correre quando ha criticato con forza la teoria del gender. Questo rivela innanzi tutto che il gender costituisce un punto sensibile sul quale non si intende fare sconti, soprattutto se si tocca il cuore della trasmissione ideologica: l’insegnamento nelle scuole. Ma anche rivela che l’insegnamento del gender non è ciò che si dice, e cioè una necessaria preparazione dei giovani affinché non venga demonizzata l’omosessualità. Il Papa infatti ha accompagnato il suo discorso sul gender a una chiara accettazione degli omosessuali, con una apertura che nella Chiesa non si era mai manifestata con tanto coraggio. Le reazioni, poi, mostrano anche le difficoltà in cui si trovano i promotori di tale insegnamento. Non tanto a causa dei loro oppositori, ma piuttosto a motivo del buon senso e dell’esperienza quotidiana vissuta da ciascuno, che costituiscono un naturale antidoto - per nulla ideologico - a queste idee. Innanzi tutto, i critici rimproverano al Papa di avere usato il termine “teoria”, dimenticando che, da un certo punto di vista, tutto ciò che viene insegnato astrattamente è una teoria, e ancora di più il gender che, non trovando riscontro nell’esperienza concreta, è solamente uno spunto teorico. Ma, da un altro punto di vista, è vero che il gender ha provato a stabilizzarsi come teoria, e per di più come teoria scientifica - si ricordi solamente il caso notissimo del medico John Money - ma questa è svanita nel nulla davanti alle prime verifiche. Sorge allora la domanda: cos’è il gender che si insegna in alcune scuole? Non una teoria ma un’ideologia, o meglio un’ideologia utopica simile a quelle che nel Novecento hanno promesso la realizzazione del paradiso in terra se solo si fosse arrivati a una vera eguaglianza fra gli esseri umani. Anche il gender promette felicità se si cancella la differenza tra uomo e donna, con grande disprezzo per la realtà biologica, quindi per la maternità intesa non solo come procreazione, ma come creazione di un rapporto umano unico fin dal concepimento. In sostanza, l’ideologia del gender promette felicità - grazie a questa eguaglianza - a patto di scegliere la libertà di realizzare ogni desiderio, di privilegiare sempre se stessi invece della costruzione di legami umani fondati sulla realtà. E quindi minando la famiglia. Francesco ha spiegato, con grande chiarezza, che si possono amare e accogliere gli omosessuali e i transessuali senza dover ricorrere a questa scorciatoia ideologica, e in un certo senso ha smascherato gli obiettivi dell’ideologia: scardinare la famiglia, e non tanto aiutare gli omosessuali a essere accolti come eguali. Con le parole del Papa la Chiesa ancora una volta si rivela impermeabile alle utopie di eguaglianza, anche se paradossalmente è stato proprio il cristianesimo a portare nel mondo, per la prima volta, il principio dell’eguaglianza di tutti gli esseri umani. Ma l’eguaglianza predicata e praticata dal cristianesimo si fonda sulla condivisione da parte di tutti gli esseri umani della condizione di figli di Dio. È quindi un concetto flessibile, aperto alla presenza di differenze al suo interno, che non significano o, meglio, non dovrebbero significare - diseguaglianze. Al contrario, il concetto di eguaglianza oggi in voga è molto più fragile, non si basa su principi forti e condivisi, e viene continuamente messo in crisi dalla constatazione evidente della differenza fra gli esseri umani. Di qui i tentativi di creare l’eguaglianza: per esempio, eliminando la proprietà privata (con il comunismo), la malattia (con l’eugenetica), e oggi la differenza sessuale (con il gender). Insomma, le parole di Bergoglio confermano, ancora una volta, che il punto di vista cattolico costituisce un ineludibile e libero pensiero critico nei confronti di luoghi comuni passivamente accettati. Pag 4 Unica strada Durante il volo di ritorno dal Caucaso il Papa ribadisce la necessità del dialogo per risolvere i conflitti Durante il volo di ritorno al termine della visita nel Caucaso, nella serata di domenica 2 ottobre, la tradizionale conferenza stampa di Francesco è stata introdotta dal direttore della Sala stampa della Santa Sede, Greg Burke, al suo primo viaggio papale in questa veste. Prima di ascoltare le domande - rivoltegli in inglese e in italiano - che di seguito riassumiamo, il Papa ha prima salutato i giornalisti con queste parole: «Buonasera. E grazie tante del vostro lavoro, del vostro aiuto. È vero, è stato un viaggio breve - tre giorni - ma voi avete avuto tanto lavoro. Io sono a vostra disposizione, e vi ringrazio tanto per il lavoro. E domandate quello che volete». [Ketevan Kardava, televisione georgiana]. La foto che la ritrae con il Patriarca della Georgia è stata condivisa migliaia e migliaia di volte nei social. Dopo il suo incontro con il Patriarca, lei intravede le basi per una collaborazione futura e un dialogo costruttivo in merito alle differenze dottrinali che ci sono? Io ho avuto due sorprese in Georgia. Una è la Georgia. Mai ho immaginato tanta cultura, tanta fede, tanta cristianità. Un popolo credente; e di una cultura cristiana antichissima, un popolo di tanti martiri. E ho scoperto una cosa che io non conoscevo: le profonde radici di questa fede georgiana. La seconda sorpresa è stato il Patriarca: è un uomo di Dio, quest’uomo mi ha commosso. Io, le volte in cui l’ho incontrato, sono uscito con il cuore commosso, e con la sensazione di aver trovato un uomo di Dio. Davvero, un uomo di Dio. Sulle cose che ci uniscono e ci separano, dirò: non metterci a discutere le cose di dottrina, questo lasciarlo ai teologi, loro sanno farlo meglio di noi. Discutono e sono bravi, sono buoni, hanno buona volontà, i teologi di una parte e dell’altra. Che cosa dobbiamo fare noi, il popolo? Pregare gli uni per gli altri. Questo è importantissimo: la preghiera. E secondo, fare cose insieme: ci sono i poveri, lavoriamo insieme con i poveri; c’è questo e questo problema, possiamo affrontarlo insieme?, lo facciamo insieme; ci sono i migranti?, facciamo qualcosa insieme... Facciamo qualcosa di bene per gli altri, insieme, questo possiamo farlo. E questo è il cammino dell’ecumenismo. Non solo il cammino della dottrina, questo è l’ultima cosa, si arriverà alla fine. Ma incominciamo a camminare insieme. E con buona volontà, questo si può fare. Si deve fare. Oggi l’ecumenismo si deve fare camminando insieme, pregando gli uni per gli altri. E che i teologi continuino a parlare tra loro, a studiare tra loro. Ma la Georgia è meravigliosa, è una cosa che non mi aspettavo; una Nazione cristiana, ma nel midollo! [Tassilo Forchheimer, della radio tedesca ARD] Tra Armenia e Azerbaigian che cosa deve succedere per arrivare a una pace permanente che tuteli i diritti umani? Due volte, in due discorsi ho parlato di questo. Nell’ultimo ho parlato del ruolo delle religioni per aiutare a questo scopo. Credo che l’unica strada sia il dialogo, il dialogo sincero, senza cose sottobanco, sincero, faccia a faccia. Il negoziato sincero. E se non si può arrivare a questo, bisogna avere il coraggio di andare a un Tribunale internazionale, andare all’Aja, per esempio, e sottomettersi al giudizio internazionale. Non vedo altra via. L’alternativa è la guerra, e la guerra distrugge sempre, con la guerra si perde tutto! E inoltre, per i cristiani, c’è la preghiera: pregare per la pace, perché i cuori prendano questa via di dialogo, di negoziato, o di andare a un tribunale internazionale. Ma non si possono tenere problemi così... Pensate che i tre Paesi caucasici hanno problemi: anche la Georgia ha un problema con la Russia, non si conosce tanto... ma ha un problema, che può crescere... non si sa; e l’Armenia è un Paese senza frontiere aperte, ha problemi con l’Azerbaigian. Si deve andare al tribunale internazionale se non vanno avanti il dialogo e il negoziato: non c’è un’altra via. E la preghiera, la preghiera per la pace. [Maria Elena Ribezzo, svizzera, della rivista «La Presse»] Lei ieri ha parlato di una guerra mondiale in atto contro il matrimonio, e ha usato parole molto forti contro il divorzio; mentre nei mesi scorsi, anche durante il Sinodo, si era parlato di un’accoglienza nei confronti dei divorziati. Volevo sapere se questi approcci si conciliano e in che modo. Tutto è contenuto, tutto quello che ho detto ieri, con altre parole — perché ieri ho parlato a braccio e un po’ a caldo — si trova nell’Amoris laetitia, tutto. Quando si parla del matrimonio come unione dell’uomo e della donna, come li ha fatti Dio, come immagine di Dio, è uomo e donna. L’immagine di Dio non è l’uomo [maschio]: è l’uomo con la donna. Insieme. Che sono una sola carne quando si uniscono in matrimonio. Questa è la verità. È vero che in questa cultura i conflitti e tanti problemi non sono ben gestiti, e ci sono anche filosofie dell’«oggi faccio questo [matrimonio], quando mi stanco ne faccio un altro, poi ne faccio un terzo, poi ne faccio un quarto». È questa «guerra mondiale» che lei dice contro il matrimonio. Dobbiamo essere attenti a non lasciare entrare in noi queste idee. Ma prima di tutto: il matrimonio è immagine di Dio, uomo e donna in una sola carne. Quando si distrugge questo, si “sporca” o si sfigura l’immagine di Dio. Poi l’Amoris laetitia parla di come trattare questi casi, come trattare le famiglie ferite, e lì entra la misericordia. E c’è una preghiera bellissima della Chiesa, che abbiamo pregato la settimana scorsa. Diceva così: «Dio, che tanto mirabilmente hai creato il mondo e più mirabilmente lo hai ricreato», cioè con la redenzione e la misericordia. Il matrimonio ferito, le coppie ferite: lì entra la misericordia. Il principio è quello, ma le debolezze umane esistono, i peccati esistono, e sempre l’ultima parola non l’ha la debolezza, l’ultima parola non l’ha il peccato: l’ultima parola l’ha la misericordia! A me piace raccontare — non so se l’ho detto, perché lo ripeto tanto — che nella chiesa di Santa Maria Maddalena a Vézelay c’è un capitello bellissimo, del 1200 più o meno. I medievali facevano catechesi con le sculture delle cattedrali. Da una parte del capitello c’è Giuda, impiccato, con la lingua fuori, gli occhi fuori, e dall’altra parte del capitello c’è Gesù, il Buon Pastore, che lo prende e lo porta con sé. E se guardiamo bene la faccia di Gesù, le labbra di Gesù sono tristi da una parte ma con un piccolo sorriso di complicità dall’altra. Questi avevano capito cos’è la misericordia! Con Giuda! E per questo, nell’Amoris laetitia si parla del matrimonio, del fondamento del matrimonio come è, ma poi vengono i problemi. Come prepararsi al matrimonio, come educare i figli; e poi, nel capitolo ottavo, quando vengono i problemi, come si risolvono. Si risolvono con quattro criteri: accogliere le famiglie ferite, accompagnare, discernere ogni caso e integrare, rifare. Questo sarebbe il modo di collaborare in questa “seconda creazione”, in questa ricreazione meravigliosa che ha fatto il Signore con la redenzione. Si capisce così? Sì, se prendi una parte sola non va! L’Amoris laetitia — questo voglio dire —: tutti vanno al capitolo ottavo. No, no. Si deve leggere dall’inizio alla fine. E qual è il centro? Ma... dipende da ognuno. Per me il centro, il nocciolo dell’Amoris laetitia è il capitolo quarto, che serve per tutta la vita. Ma si deve leggerla tutta e rileggerla tutta e discuterla tutta, è tutto un insieme. C’è il peccato, c’è la rottura, ma c’è anche la misericordia, la redenzione, la cura. Mi sono spiegato bene su questo? [Joshua McElwee, del giornale statunitense «National Catholic Reporter»] Nello stesso discorso lei ha parlato della teoria del gender, dicendo che è il grande nemico. Ma vorrei chiedere cosa direbbe a una persona che ha sofferto per anni con la sua sessualità e sente che c’è un problema biologico? Lei come pastore come accompagnerebbe queste persone? Prima di tutto, io ho accompagnato nella mia vita di sacerdote, di vescovo - anche di Papa - ho accompagnato persone con tendenza e con pratiche omosessuali. Le ho accompagnate, le ho avvicinate al Signore, alcuni non possono, ma le ho accompagnate e mai ho abbandonato qualcuno. Questo è ciò che va fatto. Le persone si devono accompagnare come le accompagna Gesù. Quando una persona che ha questa condizione arriva davanti a Gesù, Gesù non gli dirà sicuramente: «Vattene via perché sei omosessuale!», no. Quello che io ho detto riguarda quella cattiveria che oggi si fa con l’indottrinamento della teoria del gender. Mi raccontava un papà francese che a tavola parlavano con i figli – cattolico lui, cattolica la moglie, i figli cattolici, all’acqua di rose, ma cattolici – e ha domandato al ragazzo di dieci anni: «E tu che cosa vuoi fare quando diventi grande?» - «La ragazza». E il papà si è accorto che nei libri di scuola si insegnava la teoria del gender. E questo è contro le cose naturali. Una cosa è che una persona abbia questa tendenza, questa opzione, e c’è anche chi cambia il sesso. E un’altra cosa è fare l’insegnamento nelle scuole su questa linea, per cambiare la mentalità. Queste io le chiamo «colonizzazioni ideologiche». L’anno scorso ho ricevuto una lettera di uno spagnolo che mi raccontava la sua storia da bambino e da ragazzo. Era una bambina, una ragazza, e ha sofferto tanto, perché si sentiva ragazzo ma era fisicamente una ragazza. L’ha raccontato alla mamma, quando era già ventenne, 22 anni, e le ha detto che avrebbe voluto fare l’intervento chirurgico e tutte queste cose. E la mamma gli ha chiesto di non farlo finché lei era viva. Era anziana, ed è morta presto. Ha fatto l’intervento. È un impiegato di un ministero di una città della Spagna. È andato dal vescovo. Il vescovo lo ha accompagnato tanto, un bravo vescovo: “perdeva” tempo per accompagnare quest’uomo. Poi si è sposato. Ha cambiato la sua identità civile, si è sposato e mi ha scritto la lettera che per lui sarebbe stata una consolazione venire con la sua sposa: lui, che era lei, ma è lui. E li ho ricevuti. Erano contenti. E nel quartiere dove lui abitava c’era un vecchio sacerdote, ottantenne, il vecchio parroco, che aveva lasciato la parrocchia e aiutava le suore, lì, nella parrocchia... E c’era il nuovo [parroco]. Quando il nuovo lo vedeva, lo sgridava dal marciapiede: «Andrai all’inferno»! Quando trovava il vecchio, questo gli diceva: «Da quanto non ti confessi? Vieni, vieni, andiamo che ti confesso e così potrai fare la Comunione». Hai capito? La vita è la vita, e le cose si devono prendere come vengono. Il peccato è il peccato. Le tendenze o gli squilibri ormonali danno tanti problemi e dobbiamo essere attenti a non dire: «È tutto lo stesso, facciamo festa». No, questo no. Ma ogni caso accoglierlo, accompagnarlo, studiarlo, discernere e integrarlo. Questo è quello che farebbe Gesù oggi. Per favore, non dite: «Il Papa santificherà i trans»! Per favore! Perché io vedo già i titoli dei giornali... No, no. C’è qualche dubbio su quello che ho detto? Voglio essere chiaro. È un problema di morale. È un problema. È un problema umano. E si deve risolvere come si può, sempre con la misericordia di Dio, con la verità, come abbiamo detto nel caso del matrimonio, leggendo tutta l’Amoris laetitia, ma sempre così, sempre con il cuore aperto. E non dimenticatevi quel capitello di Vézelay: è molto bello, molto bello. [Gianni Cardinale, del quotidiano italiano «Avvenire»] Quando farà i nuovi cardinali e a quali criteri si ispira per questa scelta? Quando andrà a trovare le popolazioni terremotate? Per la seconda, mi sono state proposte tre date possibili. Due sono dei numeri che non ricordo bene; la terza, la ricordo bene, è la prima domenica di Avvento. Io ho detto che al rientro sceglierò la data. Ce ne sono tre: devo scegliere. E la farò privatamente, da solo, come sacerdote, come vescovo, come Papa. Ma da solo. Così voglio farla. E vorrei essere vicino alla gente. Ma non so ancora come. Sui cardinali: i criteri saranno gli stessi dei due altri concistori. [Sceglierli] un po’ dappertutto, perché la Chiesa è in tutto il mondo. Sì, forse... ancora sto studiando i nomi, ma forse saranno tre di un continente, due di un altro e uno di un’altra parte, uno dell’altra, uno di un Paese... ma, non si sa. La lista è lunga, ma ci sono soltanto 13 posti. E si deve pensare di fare un equilibrio. A me piace che si veda, nel Collegio cardinalizio, l’universalità della Chiesa: non soltanto il centro - per dire - “europeo”; ma dappertutto. I cinque continenti, se si può. C’è già una data? No, perché devo studiare la lista e fare la data. Può essere la fine dell’anno, può essere all’inizio dell’anno prossimo. Per la fine dell’anno c’è il problema dell’Anno Santo, ma si può risolvere... O all’inizio dell’anno prossimo. Ma sarà prossimo. [Aura Vistas Miguel dell’emittente portoghese Rádio Renascença] La mia domanda riguarda la sua agenda di viaggi fuori d’Italia. Di sicuro, ad oggi, andrò in Portogallo, e andrò soltanto a Fátima. Ad oggi. Perché? C’è un problema. In questo Anno Santo sono state sospese le visite [dei Vescovi] ad limina; nel prossimo anno devo ricevere le visite ad limina di quest’anno e del prossimo. E c’è poco spazio per i viaggi. Ma in Portogallo ci andrò. In India e Bangladesh, quasi sicuro. In Africa, ancora non è sicuro il posto, tutto dipende sia dal clima, in quale mese, perché se è in Africa del Nordovest è una cosa e se è nel Sudovest è un’altra. E anche dipende dalla situazione politica e dalle guerre... Ma ci sono possibilità allo studio in Africa. In America, io ho detto che quando il processo di pace [in Colombia]... se esce, io vorrei andare, quando tutto sarà “blindato”, cioè quando tutto - se vince il plebiscito - quando tutto sia sicuro sicuro, che non si può andare indietro, cioè che il mondo internazionale, tutte le nazioni siano d’accordo, che non si può fare ricorso, no, è finito, se è così, potrei andare. Ma se la cosa è instabile... Tutto dipende da quello che dirà il popolo. Il popolo è sovrano. Noi siamo abituati a guardare più le forme democratiche che la sovranità del popolo, e tutte e due devono andare insieme. Per esempio, è diventata un’abitudine in alcuni continenti dove, quando finisce il secondo mandato, chi è al governo cerca di cambiare la costituzione per averne un terzo. E questo è sopravvalutare la cosiddetta democrazia, contro la sovranità del popolo, che è nella Costituzione. Tutto dipende da quello. E il processo di pace si risolverà oggi, in parte, con la voce del popolo: è sovrano. Quello che dirà il popolo, credo che debba farsi. Fátima sarà 12 e 13 (maggio)? Finora il 13. Ma può darsi, non so... [Jean-Marie Guénois del quotidiano francese «Le Figaro»] Perché nella sua risposta sui viaggi non ha parlato della Cina? E perché qualche ora fa monsignor Lebrun, arcivescovo di Rouen, ha annunciato che lei ha autorizzato a cominciare il processo di beatificazione di padre Hamel senza tenere conto della regola dell’attesa dei cinque anni? Su quest’ultimo: ho parlato con il Cardinale Amato [Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi], faremo degli studi e lui darà la notizia ultima. Ma l’intenzione è andare su questa linea, fare le ricerche necessarie e vedere se ci sono le ragioni per farlo. Ha annunciato che era aperto il processo di beatificazione. No, che si devono cercare testimonianze per aprire il processo. Non perdere le testimonianze, questo è molto importante. Perché le testimonianze fresche, quello che ha visto la gente, poi con il tempo qualcuno muore, qualcuno si dimentica... e questo succede. In latino si dice: ne pereant probationes. La Cina. Voi conoscete bene la storia della Cina e della Chiesa: la Chiesa patriottica, la Chiesa nascosta... Ma noi siamo in buoni rapporti, si studia e si parla, ci sono commissioni di lavoro... Io sono ottimista. Adesso credo che i Musei Vaticani hanno fatto un’esposizione in Cina, i cinesi ne faranno un’altra in Vaticano... Ci sono tanti professori che vanno a fare scuola nelle università cinesi, tante suore, tanti preti che possono lavorare bene lì. I rapporti tra Vaticano e i cinesi... Si deve fissare in un rapporto, e per questo si sta parlando, lentamente... Le cose lente vanno bene, sempre. Le cose in fretta non vanno bene. Il popolo cinese ha la mia più alta stima. L’altro ieri, per esempio, c’è stato un convegno di due giorni, credo, nella [Pontificia] Accademia delle Scienze sulla Laudato si’, e c’era una delegazione cinese del Presidente. E il Presidente cinese mi ha inviato un regalo. Ci sono buone relazioni. Il Papa farà il viaggio? Ah, mi piacerebbe..., ma io non penso ancora. [Juan Vicente González Boo, del quotidiano spagnolo «Abc»] Il vincitore del Premio Nobel per la pace verrà annunciato il 7 ottobre. Ci sono più di 300 nomination. Qual è il suo candidato favorito o quali sono le persone o le organizzazioni che meritano più riconoscimento per il lavoro che fanno in favore della pace? C’è tanta gente che vive per fare la guerra, per fare la vendita delle armi, per uccidere, ce n’è tanta. Ma c’è anche tanta gente che lavora per la pace, tanta, tanta. Io non saprei dire quale scegliere fra tanta gente, che oggi lavora per la pace, è molto difficile. Lei ne ha menzionati alcuni, ce ne sono di più. Ma sempre c’è l’inquietudine di dare un premio per la pace... Io mi auguro anche che a livello internazionale, lasciando da parte il Premio Nobel per la pace, ci sia un ricordo, un riconoscimento, una dichiarazione sui bambini, sui disabili, sui minorenni, sui civili morti sotto le bombe. Credo che quello sia un peccato! È un peccato contro Gesù Cristo, perché la carne di quei bambini, di quella gente ammalata, di quegli anziani indifesi, è la carne di Cristo. Bisognerebbe che l’umanità dicesse qualcosa per le vittime delle guerre. Per quelli che fanno la pace, Gesù ha detto che sono beati, nelle Beatitudini: «Gli operatori di pace». Ma le vittime delle guerre, dobbiamo dire qualcosa e prendere coscienza! Che ti buttano su un ospedale di bambini una bomba e ne muoiono trenta, quaranta... O su una scuola... Questa è una tragedia dei nostri giorni. [John Jeremiah Sullivan, statunitense, del «New York Times Magazine», al primo viaggio] Gli Stati Uniti si stanno avvicinando alla fine di una lunga campagna presidenziale, molto brutta. Molti cattolici americani e persone di coscienza hanno difficoltà nella scelta tra i due candidati. Quale consiglio darebbe ai fedeli in America? Lei mi fa una domanda in cui descrive una scelta difficoltosa, perché secondo Lei c’è difficoltà in uno e c’è difficoltà nell’altro. In campagna elettorale io mai dico una parola. Il popolo è sovrano, e soltanto dirò: studia bene le proposte, prega e scegli in coscienza! Poi esco dal problema e vado a una “finzione” [un caso immaginario], perché non voglio parlare del problema concreto. Quando succede che in un Paese qualsiasi ci sono due, tre, quattro candidati che non risultano soddisfacenti, significa che la vita politica di quel Paese forse è troppo politicizzata ma non ha molta cultura politica. E uno dei compiti della Chiesa e dell’insegnamento nelle facoltà è di insegnare ad avere cultura politica. Ci sono Paesi - io penso all’America Latina - che sono troppo politicizzati ma non hanno cultura politica: sono di questo partito o di quell’altro o di quell’altro, ma affettivamente, senza un pensiero chiaro sulle basi, sulle proposte. [Caroline Pigozzi, del settimanale francese «Paris Match»] La testimonianza per la storia, secondo lei, è più importante del testamento di un Papa? Mi spiego: Papa Wojtyła aveva lasciato nel suo testamento che fossero bruciati molti documenti e molte lettere che si sono poi ritrovati in un libro: vuol dire che la volontà di un Papa non è rispettata? Poi vorrei sapere perché lei che stringe la mano a migliaia di persone tutte le settimane, non ha ancora una tendinite? Io ancora non sento tendiniti... La prima domanda. Lei dice: un Papa che manda a bruciare carte, lettere... questo è il diritto di ogni uomo e ogni donna, ha il diritto di farlo prima di morire. Ma non è stato rispettato con Papa Wojtyła... Ah, quello... Chi non ha rispettato quello, sarà colpevole, non so, non conosco bene il caso. Ma ogni persona, quando dice: «Questo si deve distruggere», è perché c’è qualcosa di concreto. Ma forse c’è una copia da un’altra parte, e questo lui non lo sapeva... Ma è un diritto di ogni persona fare il testamento come vuole. Ma lui non è stato rispettato. Di tanta gente non è stato rispettato il testamento... Ma il Papa è più importante. No. Il Papa è un povero peccatore, come gli altri. Grazie. Infine il direttore della Sala stampa ha ricordato che al termine della messa a Baku il Papa ha risposto a una domanda, sul perché fa questi viaggi in posti dove ci sono pochissimi cattolici. Neanche noi pensiamo di perdere tempo: facciamo questi viaggi brevi ma intensi. Però, se lei ne vuole fare uno lungo e rilassante, possiamo anche farlo... No... Dopo il primo viaggio, che è stato in Albania, mi hanno detto: «Perché Lei ha scelto di andare in Albania nel primo viaggio in Europa? Un Paese che non è dell’Unione Europea?». Poi sono andato a Sarajevo, in Bosnia Erzegovina, che non è dell’Unione Europea. Il primo Paese dell’Unione Europea nel quale sono andato è stata la Grecia, l’Isola di Lesbo: il primo. È stato il primo. Perché fare viaggi in questi Paesi? Questi tre sono caucasici. I tre Presidenti sono venuti in Vaticano a invitarmi. E con forza. E tutti e tre hanno un atteggiamento religioso diverso: gli armeni sono fieri - e questo senza offendere - fieri della loro “armenità”, hanno una storia, e loro sono cristiani, la grande maggioranza, quasi tutti cristiani apostolici, poi cristiani cattolici e un pochettino di cristiani evangelici, pochi. La Georgia è un Paese cristiano, totalmente cristiano, ma ortodosso. I cattolici sono pochi, un gruppo, ma sono ortodossi. Invece l’Azerbaigian è un Paese credo al 96-98 per cento musulmano. Non so quanti abitanti abbia, perché io ho detto due milioni, ma credo che siano venti. Circa dieci... Circa dieci, ecco. Circa dieci milioni. I cattolici sono al massimo 600: piccolini. E io, perché vado lì? Per i cattolici, per andare alla periferia di una comunità cattolica, che è proprio nella periferia, è piccolina. E oggi a Messa ho detto che mi faceva ricordare la comunità “periferica” di Gerusalemme, chiusa nel Cenacolo, in attesa dello Spirito Santo, in attesa di poter crescere, uscire... È piccola. Non è perseguitata, no, perché in Azerbaigian c’è un grande rispetto religioso, una grande libertà religiosa. Questo è vero, l’ho detto oggi nel discorso. E anche questi tre Paesi sono Paesi periferici, come l’Albania, la Bosnia Erzegovina ... E io vi ho detto: la realtà si capisce meglio e si vede meglio dalle periferie che dal centro. E per questo scelgo di andare lì. Ma questo non toglie la possibilità di andare in un grande Paese come il Portogallo, la Francia, non so... Vediamo... Grazie tante per il vostro lavoro. Adesso riposate un po’. E buona cena. Grazie. E pregate per me. Pag 7 Come tessere un tappeto Nella messa a Baku il Pontefice ricorda che fede e servizio non si possono separare Nella mattina di domenica 2 ottobre Papa Francesco si è congedato dalle autorità georgiane all’aeroporto di Tbilisi e dopo circa un’ora e mezza di volo ha raggiunto in aereo lo scalo di Baku, dove si è svolta la cerimonia di accoglienza ufficiale in Azerbaigian. Quindi in automobile il Pontefice si è recato al centro salesiano della capitale, dove ha celebrato la messa nella chiesa dell’Immacolata. Ecco la sua omelia. La Parola di Dio ci presenta oggi due aspetti essenziali della vita cristiana: la fede e il servizio. A proposito della fede, vengono rivolte al Signore due particolari richieste. La prima è quella del profeta Abacuc, che implora Dio perché intervenga e ristabilisca la giustizia e la pace che gli uomini hanno infranto con violenza, liti e contese: «Fino a quando, Signore, - dice - implorerò aiuto e non ascolti?» (Ab 1, 2). Dio, rispondendo, non interviene direttamente, non risolve la situazione in modo brusco, non si rende presente con la forza. Al contrario, invita ad attendere con pazienza, senza mai perdere la speranza; soprattutto, sottolinea l’importanza della fede. Perché per la sua fede l’uomo vivrà (cfr. Ab 2, 4). Così Dio fa anche con noi: non asseconda i nostri desideri che vorrebbero cambiare il mondo e gli altri subito e continuamente, ma mira anzitutto a guarire il cuore, il mio cuore, il tuo cuore, il cuore di ciascuno; Dio cambia il mondo cambiando i nostri cuori, e questo non può farlo senza di noi. Il Signore desidera infatti che gli apriamo la porta del cuore, per poter entrare nella nostra vita. E questa apertura a Lui, questa fiducia in Lui è proprio «la vittoria che ha vinto il mondo: la nostra fede» (1 Gv 5, 4). Perché quando Dio trova un cuore aperto e fiducioso, lì può compiere meraviglie. Ma avere fede, una fede viva, non è facile; ed ecco allora la seconda richiesta, quella che nel Vangelo gli Apostoli rivolgono al Signore: «Accresci in noi la fede!» (Lc 17, 6). È una bella domanda, una preghiera che anche noi potremmo rivolgere a Dio ogni giorno. Ma la risposta divina è sorprendente e anche in questo caso ribalta la domanda: «Se aveste fede...». È Lui che chiede a noi di avere fede. Perché la fede, che è un dono di Dio e va sempre chiesta, va anche coltivata da parte nostra. Non è una forza magica che scende dal cielo, non è una “dote” che si riceve una volta per sempre, e nemmeno un super-potere che serve a risolvere i problemi della vita. Perché una fede utile a soddisfare i nostri bisogni sarebbe una fede egoistica, tutta centrata su di noi. La fede non va confusa con lo stare bene o col sentirsi bene, con l’essere consolati nell’animo perché abbiamo un po’ di pace nel cuore. La fede è il filo d’oro che ci lega al Signore, la pura gioia di stare con Lui, di essere uniti a Lui; è il dono che vale la vita intera, ma che porta frutto se facciamo la nostra parte. E qual è la nostra parte? Gesù ci fa comprendere che è il servizio. Nel Vangelo, infatti, il Signore fa subito seguire alle parole sulla potenza della fede quelle sul servizio. Fede e servizio non si possono separare, anzi sono strettamente collegati, annodati tra di loro. Per spiegarmi vorrei utilizzare un’immagine a voi molto familiare, quella di un bel tappeto: i vostri tappeti sono delle vere opere d’arte e provengono da una storia antichissima. Anche la vita cristiana di ciascuno viene da lontano, è un dono che abbiamo ricevuto nella Chiesa e che proviene dal cuore di Dio, nostro Padre, il quale desidera fare di ciascuno di noi un capolavoro del creato e della storia. Ogni tappeto, voi lo sapete bene, va tessuto secondo la trama e l’ordito; solo con questa struttura l’insieme risulta ben composto e armonioso. Così è per la vita cristiana: va ogni giorno pazientemente intessuta, intrecciando tra loro una trama e un ordito ben definiti: la trama della fede e l’ordito del servizio. Quando alla fede si annoda il servizio, il cuore si mantiene aperto e giovane, e si dilata nel fare il bene. Allora la fede, come dice Gesù nel Vangelo, diventa potente, fa meraviglie. Se cammina su quella strada, allora matura e diventa forte, a condizione che rimanga sempre unita al servizio. Ma che cos’è il servizio? Possiamo pensare che consista solo nell’essere ligi ai propri doveri o nel compiere qualche opera buona. Ma per Gesù è molto di più. Nel Vangelo di oggi Egli ci chiede, anche con parole molto forti, radicali, una disponibilità totale, una vita a piena disposizione, senza calcoli e senza utili. Perché è così esigente Gesù? Perché Lui ci ha amato così, facendosi nostro servo «fino alla fine» (Gv 13, 1), venendo «per servire e dare la propria vita» (Mc 10, 45). E questo avviene ancora ogni volta che celebriamo l’Eucaristia: il Signore viene in mezzo a noi e per quanto noi ci possiamo proporre di servirlo e amarlo, è sempre Lui che ci precede, servendoci e amandoci più di quanto immaginiamo e meritiamo. Ci dona la sua stessa vita. E ci invita a imitarlo, dicendoci: «Se uno mi vuole servire, mi segua» (Gv 12, 26). Dunque, non siamo chiamati a servire solo per avere una ricompensa, ma per imitare Dio, fattosi servo per nostro amore. E non siamo chiamati a servire ogni tanto, ma a vivere servendo. Il servizio è allora uno stile di vita, anzi riassume in sé tutto lo stile di vita cristiano: servire Dio nell’adorazione e nella preghiera; essere aperti e disponibili; amare concretamente il prossimo; adoperarsi con slancio per il bene comune. Non mancano anche per i credenti le tentazioni, che allontanano dallo stile del servizio e finiscono per rendere la vita inservibile. Dove non c’è servizio la vita è inservibile! Anche qui possiamo evidenziarne due. Una è quella di lasciare intiepidire il cuore. Un cuore tiepido si chiude in una vita pigra e soffoca il fuoco dell’amore. Chi è tiepido vive per soddisfare i propri comodi, che non bastano mai, e così non è mai contento; poco a poco finisce per accontentarsi di una vita mediocre. Il tiepido riserva a Dio e agli altri delle “percentuali” del proprio tempo e del proprio cuore, senza mai esagerare, anzi cercando sempre di risparmiare. Così la sua vita perde di gusto: diventa come un tè che era veramente buono, ma che quando si raffredda non si può più bere. Sono certo però che voi, guardando agli esempi di chi vi ha preceduto nella fede, non lascerete intiepidire il cuore. La Chiesa intera, che nutre per voi una speciale simpatia, vi guarda e vi incoraggia: siete un piccolo gregge tanto prezioso agli occhi di Dio! C’è una seconda tentazione, nella quale si può cadere non perché si è passivi, ma perché si è “troppo attivi”: quella di pensare da padroni, di darsi da fare solo per guadagnare credito e per diventare qualcuno. Allora il servizio diventa un mezzo e non un fine, perché il fine è diventato il prestigio; poi viene il potere, il voler essere grandi. «Tra voi però - ricorda Gesù a tutti noi - non sarà così: ma chi vuole diventare grande tra voi, sarà vostro servitore» (Mt 20, 26). Così si edifica e si abbellisce la Chiesa. Riprendo l’immagine del tappeto, applicandola alla vostra bella comunità: ciascuno di voi è come uno splendido filo di seta, ma solo se sono ben intrecciati tra di loro i diversi fili creano una bella composizione; da soli, non servono. Restate sempre uniti, vivendo umilmente in carità e gioia; il Signore, che crea l’armonia nelle differenze, vi custodirà. Ci aiuti l’intercessione della Vergine Immacolata e dei Santi, in particolare di Santa Teresa di Calcutta, i cui frutti di fede e di servizio sono in mezzo a voi. Accogliamo alcune sue splendide parole, che riassumono il messaggio di oggi: «Il frutto della fede è l’amore. Il frutto dell’amore è il servizio. Il frutto del servizio è la pace» (Il cammino semplice, Introduzione). Pag 7 Non è tempo perso All’Angelus Al termine della messa domenicale, il Papa ha guidato la recita dell’Angelus introducendola con le seguenti parole. Cari fratelli e sorelle, in questa Celebrazione eucaristica ho reso grazie a Dio con voi, ma anche per voi: qui la fede, dopo gli anni della persecuzione, ha compiuto meraviglie. Vorrei ricordare i tanti cristiani coraggiosi, che hanno avuto fiducia nel Signore e sono stati fedeli nelle avversità. Come fece san Giovanni Paolo II, a voi tutti rivolgo le parole dell’Apostolo Pietro: «onore a voi che credete!» (1 Pt 2, 7; Omelia, Baku, 23 maggio 2002: Insegnamenti XXV, 1 [2002], 852). Il nostro pensiero va ora alla Vergine Maria, venerata in questo Paese non solo dai cristiani. A Lei ci rivolgiamo con le parole con le quali l’Angelo Gabriele Le recò il lieto annuncio della salvezza, preparata da Dio per l’umanità. Nella luce che risplende dal volto materno di Maria, rivolgo un cordiale saluto a voi, cari fedeli dell’Azerbaigian, incoraggiando ciascuno a testimoniare con gioia la fede, la speranza e la carità, uniti fra di voi e con i vostri Pastori. Saluto e ringrazio in modo particolare la famiglia salesiana, che si prende tanto cura di voi e promuove diverse opere di bene, e le Suore Missionarie della Carità: proseguite con entusiasmo la vostra opera al servizio di tutti! Affidiamo questi voti all’intercessione della Santissima Madre di Dio e invochiamo la sua protezione per le vostre famiglie, per i malati e gli anziani, per quanti soffrono nel corpo e nello spirito. Dopo la preghiera mariana e la benedizione finale, il Papa ha aggiunto. Qualcuno può pensare che il Papa perde tanto tempo: fare tanti chilometri di viaggio per visitare una piccola comunità di 700 persone, in un Paese di 2 milioni... Eppure è una comunità non uniforme, perché fra voi si parla l’azero, l’italiano, l’inglese, lo spagnolo...: tante lingue... È una comunità di periferia. Ma il Papa, in questo, imita lo Spirito Santo: anche Lui è sceso dal cielo in una piccola comunità di periferia chiusa nel Cenacolo. E a quella comunità che aveva timore, si sentiva povera e forse perseguitata, o lasciata da parte, dà il coraggio, la forza, la parresia per andare avanti e proclamare il nome di Gesù! E le porte di quella comunità di Gerusalemme, che erano chiuse per la paura o la vergogna, si spalancano ed esce la forza dello Spirito. Il Papa perde il tempo come lo ha perso lo Spirito Santo in quel tempo! Soltanto due cose sono necessarie: in quella comunità c’era la Madre - non dimenticare la Madre! -; e in quella comunità c’era la carità, l’amore fraterno che lo Spirito Santo ha riversato in loro. Coraggio! Avanti! Go ahead! Senza paura, avanti! AVVENIRE Pag 3 La concretezza della vita per disinnescare il gender di Chiara Giaccardi Ideologie e antropologia, la lezione del Papa. Accanto e in relazione: ecco il realismo evangelico Ancora una volta papa Francesco ha scelto un contesto informale – la conferenza coi giornalisti sull’aereo di ritorno dal Caucaso, dopo averne già accennato pubblicamente a Tbilisi – per regalare parole-guida. Perché, come un padre, non si limita a pronunciarsi in pochi momenti ufficiali, ma sa cogliere ogni occasione per trasformarla in opportunità di discernimento: una pratica, quest’ultima, che richiede la piena partecipazione individuale, ma non è mai individualistica, bensì piuttosto comunitaria. Parlando ai giornalisti il Papa non emette sentenze da riportare nei media, ma invita tutti a un cammino, accompagnandosi a vicenda e dando per primo l’esempio. Anche le parole pronunciate sulla delicata questione del gender vanno lette in questa chiave, per non travisarle forzandole in un senso o nell’altro. Accompagnare è un movimento cruciale per il rinnovamento della Chiesa, nella fedeltà alle sue origini. Non a caso nella Evangelii gaudium (al n.24), nell’indicare i cinque verbi per la missione della Chiesa, il Papa lo pone proprio al centro, come modalità che qualifica tutti gli altri (prendere l’iniziativa, coinvolgersi, fruttificare, festeggiare). È un verbo antiindividualistico (il 'con' è costituivo) ed è un verbo di movimento, di cammino, di pazienza: non si può mai saltare direttamente alla meta. E camminando si cade: quindi, insieme ci si può aiutare a vicenda a rialzarsi. Accompagnare è un dinamismo generato dalla verità, che è amore e dunque relazione. Ed è da questa prospettiva, accanto e in relazione, che la questione del gender va affrontata. Gender non è parola demoniaca in sé. Tuttavia, come ogni voce che definisce un ambito antropologicamente delicato, si presta alle strumentalizzazioni ideologiche. Un po’ come 'popolo', che è parola preziosa, ma può venire utilizzata dai populismi e diventare mezzo di mortificazione della libertà e della dignità. Quella che viene definita 'ideologia gender' compie esattamente questo passaggio ideologico: dal riconoscere che ogni cultura ha i propri linguaggi, usanze, modelli per rappresentare il maschile, il femminile e la loro relazione (modelli che giustamente sono stati e vanno continuamente sottoposti a critica), passa ad affermare che non c’è (anzi non ci deve essere, perché la normatività è forte) nessun legame tra la dimensione biologica e l’identità di genere, vista esclusivamente come una scelta individuale. Come se non solo il nostro corpo, ma anche i nostri legami, la nostra storia sempre plurale, le speranze di altri su di noi fossero irrilevanti. E come se bastasse un atto di volontà (che ideologicamente chiamiamo 'libera scelta') per renderli tali. Ci sono almeno due coppie di dimensioni che rendono intricata la questione: la prima è appunto individuale/sociale, laddove la nostra cultura è prigioniera di una concezione tanto assoluta quanto irrealistica del sé. Pensare al genere come pura scelta individuale, come un armadio di vestiti equivalenti, da indossare e cambiare a piacere, è possibile solo in una prospettiva di individualismo assoluto. Perfettamente funzionale, tra l’altro, allo strapotere del sistema tecno-economico. Una posizione che non solo non è realistica (piuttosto, ideologica) ma nemmeno particolarmente desiderabile, alla fine. Per cambiare continuamente bisogna essere senza qualità, oltre che senza legami, come sostengono Miguel Benasayag, Zygmunt Bauman e tanti altri lucidi interpreti della contemporaneità, certamente non accusabili di bigottismo. L’altra opposizione è astratto/concreto. La cosiddetta 'teoria gender' astrae dal legame, dalla materialità del corpo, dalla storia personale per affermare un principio astratto di autodeterminazione totale che nega ogni vincolo per affermarsi. In un modo che non può che essere irrealistico, oltre che violento per chi ci sta vicino. Perché la libertà non è cancellare i vincoli e i legami per paura che ci influenzino, ma assumerli consapevolmente e responsabilmente, per cercare di cambiare ciò che è disumano, a beneficio di tutti. Non si è mai liberi contro altri, ma sempre con e grazie ad altri. Il pendolo dell’astrazione oscilla poi verso l’accettazione incondizionata del dato di fatto, di un particolare irriducibile e non sottoponibile a critica. Ancora una volta una concezione adolescenziale della libertà: nessuno mi deve dire cosa devo fare. Papa Francesco ci mostra un modo diverso di declinare il legame tra il generale e il particolare, che non può che passare dalla concretezza. Una concretezza che non è però chiusa in sé, autosufficiente, ma connessa alle altre e al tutto (tutto è connesso, Laudato si’, n.16): un «concreto vivente» come lo definisce Romano Guardini («L’opposizione polare»), sempre relazionale. Ciascuno di noi è un intero e non una somma di attributi. Si accompagna la persona solo quando la si riconosce come un intero. «Non riuscirò mai a ricomporti interamente / Con tutti i pezzi ben congiunti», scriveva la poetessa Sylvia Plath. La persona sempre eccede i suoi attributi. Accompagnare richiede l’incontro con l’altro tutto intero, che è sempre un «inizio vivo» (Guardini), un cambiamento per tutti. Accompagnare è verbo di reciprocità, non di condiscendenza. È ricordarsi sempre di partire dalla concretezza, dall’integralità, dalla verità incarnata e situata di ognuno. Che è un intero in divenire, e non può essere inchiodato d’ufficio a un’azione, una scelta, un errore: è il tema della misericordia e del perdono. Papa Francesco ci accompagna a capire la relazione complessa e delicata tra la norma generale – che rimane come riferimento essenziale – e la concretezza della vita, che non può mai essere ridotta a una norma astratta. Perché, come ha scritto nella Evangelii gaudium, la realtà supera l’idea. Non a caso dopo aver illustrato il principio generale (non si può accettare la colonizzazione ideologica) il Papa ha raccontato una storia vera, che nella sua unicità ha un tratto di universalità: è infatti nella concretezza delle vite che si può cercare di volta in volta un equilibrio – guidati dalla verità che è amore – tra la legge e l’uomo, tra il principio e la vita. Perché l’universale cattolico non è astratto ma concreto: tutto l’uomo e tutti gli uomini. E non è relativismo, tutt’altro: è realismo evangelico. Che si fonda su una costitutiva relazionalità. Accogliere, accompagnare, discernere, integrare: tutti verbi di movimento, di concretezza e di relazione. Modi per articolare la ricchezza della nostra umanità, senza sacrificarla sull’altare delle ideologie, ma anche senza aver paura delle domande. È la strada, difficile ma autentica, da cercare di percorrere insieme in questi tempi di sfide. Senza paura, perché la nostra speranza germoglia sulla promessa di una pienezza libera. Pag 3 Figli senza padri, la verità nascosta di Carlo Cardia La Cassazione che riconosce due mamme Dopo diverse manipolazioni, culturali e giuridiche, succedutesi nel tempo, la Corte di Cassazione con una sentenza dei giorni scorsi ha quasi teorizzato che la disciplina della procreazione debba ispirarsi al principio di non-verità, recependo alcuni profili deprimenti delle teorie del gender. Ha sostenuto ad esempio che «nessun divieto costituzionale» inibisce a una coppia dello stesso sesso di «accogliere e generare figli», e ha aggiunto che «la nozione di vita familiare non presuppone necessariamente la discendenza biologica dei figli, la quale non è più considerata requisito essenziale della filiazione». Di qui, la conclusione della sentenza che ha legittimato l’esistenza di due madri per un bambino, ignorando del tutto la figura del padre, ed evocando perfino l’interesse del minore ad avere due madri e nessun padre. Negli anni più recenti, insigni giuristi come Louis Joinet e Stefano Rodotà hanno teorizzato il cosiddetto «diritto alla verità», cioè il diritto di conoscere come i reali fatti storici che riguardano la collettività e le singole persone, e combattere ogni forma di occultamento della verità. Con il tempo, questo diritto s’è occultato proprio nella personalissima materia della procreazione, e s’è cominciato a negarlo al nascituro, dimenticando, o contraddicendo, princìpi fondamentali di livello costituzionale e internazionale. Dopo aver stravolto l’articolo 29 della Costituzione italiana che parla della famiglia come «società naturale», con linguaggio del tutto chiaro per l’epoca della sua elaborazione, la Cassazione ha ignorato, secondo un costume deplorevole, gli stessi princìpi delle Carte dei diritti umani. Ha dimenticato, per rimanere all’essenziale, che la Dichiarazione Universale del 1948 afferma che «uomini e donne in età adatta hanno diritto di sposarsi e di fondare una famiglia» (art. 16) e che la Convenzione sui diritti del fanciullo del 1989 prevede che il fanciullo ha diritto «a conoscere i suoi genitori ed essere allevato da essi». Se si affermasse il principio che è lecito tutto ciò che non è scritto nella Costituzione, soltanto perché allora inesistente o impossibile, avvieremmo un declino inarrestabile. Questa dimenticanza del diritto si traduce in una violazione sistemica dei diritti del minore, e determina una narrazione manipolata, non vera, dell’origine della vita, che s’impone al bambino appena nato per tutto il corso della sua vita. Si entra così nella seconda fase della applicazione delle teorie del gender alla realtà familiare. Queste diverse teorie, inaugurate tra gli altri da John Money, sostengono apertamente che in realtà noi siamo uomini e donne insieme, quasi un indistinto in cui si mischiamo geni e caratteri opposti, e per il quale va negato ogni ruolo, anche se esistente in natura. L’identità personale diventa un magma indefinito che cancella diversità e qualità di ciascuno di noi, e ciò peserà sull’intera esistenza delle persone: al minore è negato il diritto di conoscere le proprie origini, diritto che permette di ricostruire l’identità biologica e umana complessiva di un essere umano, ed è rifiutato arbitrariamente il diritto alla doppia genitorialità e alla crescita equilibrata che padre e madre possono garantire. La non-verità sull’origine della persona, teorizzata e praticata quasi sistematicamente, produce altri effetti già conosciuti o annunciati: maternità surrogata, nuovi asservimenti del corpo e della persona della donna, manipolazione dei geni per una pluralità di genitori biologici, stravolgimento della semantica su filiazione e famiglia; infine, anche l’imposizione delle teorie del gender nella scuola e nella formazione dei giovani. Le parole pronunciate da papa Francesco sabato scorso in Georgia sui rischi che le teorie del gender fanno correre all’umanità, vanno alla radice di questo declino etico e giuridico, per ristabilire la verità più semplice e grande sulla persona. Esse ci avvertono che queste teorie tendono strategicamente a colpire il matrimonio in quanto tale, e la famiglia stessa come comunità di genitori e figli che realizzano l’incontro di generazioni necessario allo sviluppo dell’umanità. Oggi, addirittura, cercano di deformare il progetto educativo per i giovani, anticipando così la soggezione dell’uomo alla pure tecnica biologica. Noi stiamo sperimentando, e vivendo, i primi danni e rischi evocati dal Papa, che colpiscono i più deboli, per favorire la soddisfazione di esigenze che i più forti fanno valere nel libero mercato dei desideri. Dobbiamo riflettere, e interrogarci se le pretese della cultura del gender possa ottenere qualche radicamento nella società moderna. Nonostante la forte pressione mediatica, l’accondiscendenza di parte del mondo politico e l’entusiasmo di alcuni ambienti intellettuali, verrebbe da dire di no per due essenziali ordini di ragioni. Perché si tratta di pretese così contrarie all’intima natura, e alle più alte aspirazioni della persona, che non riusciranno a far regredire la civiltà giuridica rispetto a conquiste maturate nei secoli, e in modo particolare nella modernità. E perché già oggi urtano e feriscono la vita reale, l’esperienza delle persone. Sempre più spesso, in diversi Paesi occidentali, i giovani nati con le tecniche procreative che occultano i genitori (e dimezzano la famiglia, con la figura dei genitori unisex) chiedono con insistenza, e si associano in gruppi per rafforzare la richiesta, di conoscere i propri veri genitori, poi di incontrarli e sapere tante cose su sé stessi. Soffermiamoci su un elemento importante. Anche solo il rispetto del diritto (già codificato) della persona a conoscere i propri genitori, vanificherebbe buona parte delle manipolazioni procreative che chiedono legittimità, dal momento che al riconoscimento dei veri genitori seguirebbe l’inevitabile assunzione di responsabilità per la crescita e i bisogni dei figli. Questa riflessione lascia intravedere che il dominio della tecnica sull’uomo non è inevitabile, trova ostacoli nel profondo della coscienza, rafforza l’impegno per fare leggi giuste sullo snodo essenziale della nascita e dell’identità della persona. Pag 9 Tanti gruppi cristiani lgbt “seguiti” in parrocchia di Luciano Moia La mappa delle presenze nel Rapporto 2016 curato dal Forum dei credenti omosessuali Accogliere, accompagnare e integrare tutte le persone che desiderano essere abbracciate dalla Chiesa, indipendentemente dalla loro condizione di vita. L’ha detto più volte Francesco e l’ha scritto in modo esplicito in Amoris laetitia, raccogliendo le indicazioni arrivate da tutta la Chiesa, attraverso due Sinodi e due questionari diffusi in tutte le diocesi del mondo. Nessuno stupore quindi per la sua nuova sottolineatura sulla necessità da parte delle comunità cristiane di «accogliere e accompagnare omosessuali e trans, perché così farebbe Gesù». Parole chiare che rappresentano una stringente indicazione pastorale. Lontano dai riflettori e al riparo dalle polemiche che alcuni indefessi defensores fidei sono pronti a scatenare non appena si accenna a proposte pastorali per le persone omosessuali, le iniziative in Italia non sono poche. Le offerte arrivano soprattutto da parrocchie, diocesi, associazioni e congregazioni religiose. L’Ufficio famiglia della Cei ha avviato nei mesi scorsi una ricognizione per fare chiarezza sulle varie iniziative e per allargarne la diffusione, «affinché coloro che manifestano la tendenza omosessuale possano avere gli aiuti necessari per comprendere e realizzare pienamente la volontà di Dio nella loro vita » (Al, 250). I risultati stanno arrivando. Nei prossimi mesi il quadro completo. Una nuova attenzione valutata positivamente anche dagli stessi gruppi di omosessuali cattolici. Nei giorni scorsi è stato presentato il Rapporto 2016 dei cristiani lgbt, curato da Giuliana Arnone dell’Università di Padova, che offre dati interessanti su 21 gruppi dei 28 esistenti (circa 600 persone in tutta Italia). Il 70% di queste realtà viene ospitato nelle parrocchie. Il 19% in strutture di ordini religiosi (missionarie di Maria, suore domenicane, gesuiti e camaldolesi). Un altro 19% in realtà legate alle Chiese valdesi e metodiste. In un solo caso (il gruppo Bethel di Genova) in edifici appartenenti a istituzioni pubbliche. Chi è ospitato in parrocchia partecipa regolarmente alla Messa, all’animazione liturgica, a veglie e ritiri. Ma anche all’attività caritativa e culturale. Cinque gruppi lgbt hanno anche un loro rappresentante nel Consiglio pastorale. L’ospitalità in parrocchia – si legge ancora nel Rapporto – è stata agevolata dalla conoscenza con un sacerdote che spesso è lo stesso parroco. In alcuni casi (Parma, Bologna, Padova) il dialogo è stato avviato con il vescovo. Quasi la metà dei gruppi (42%) è stato invitato a parlare della propria storia nelle parrocchie. «Sorprende – prosegue il documento – l’apertura di alcuni gruppi scout che hanno raccolto le testimonianze del 29% dei gruppi». Cosa spinge queste persone ad avvicinarsi a un gruppo di preghiera? Il 75% ha risposto: «Trovare un posto dove sentirsi accettati e accolti». Tra le varie motivazioni possibili – era possibile indicarne anche più di una – c’è poi un 45% che ha scelto «dare il proprio contributo al cambiamento della Chiesa e della società». Il 52% considera poi abbastanza importante «coltivare amicizie profonde e durature». È bene dire che, per quanto ben organizzata, la rete dei cristiani lgbt non esaurisce il ventaglio delle iniziative pastorali. Tra le realtà più strutturate a livello internazionale c’è l’Apostolato Courage, fondato negli Stati Uniti, presente in Italia a Roma, Torino e Reggio Emilia. Alcune diocesi hanno poi deciso di avviare percorsi specifici, con un sacerdote incaricato per l’accompagnamento delle persone omosessuali credenti ( Torino, Parma e Cremona). «La capacità di integrazione di chi mette in discussione un modello esistenziale – fa notare don Gian Luca Carrega, che ricopre l’incarico per l’arcidiocesi di Torino – non è un segno di debolezza ma di forza; dice di una Chiesa che non si deve arroccare sui valori tradizionali per sopravvivere, ma è chiamata a esprimere una disponibilità di apertura che permette di interrogarsi sul suo modo di agire e di comprenderlo più profondamente in uno spirito di verità e di carità». Don Carrega è anche l’autore dell’introduzione a un saggio che sta per arrivare in libreria, Omosessuali e trasgender alla ricerca di Dio (Effatà), in cui Adrien Bail racconta l’esperienza di Jean-Michel Dunand, fondatore a Montpellier (Francia) della comunità ecumenica Betania in cui vengono accolte persone gay e trans – ma anche eterosessuali – che vogliono interrogarsi su fede e sessualità. Un progetto di frontiera che ha il pieno sostegno della Conferenza episcopale francese. IL FOGLIO Pag 2 Perché il Papa vuole “accompagnare i gay” ma attacca la teoria gender di Matteo Matzuzzi Tra equilibrismi e letture pol. corr. delle sue parole Roma. L'ultima volta che aveva parlato in modo esplicito di gender, Francesco l'aveva definito come "l'espressione di una frustrazione". Poco prima - parlando con i giovani riuniti a Napoli, nel marzo d'un anno fa - parlò di "uno sbaglio della mente umana che fa tanta confusione". A Tbilisi, sabato, aveva usato una delle metafore più gravi nel registro che è solito usare: guerra mondiale contro il matrimonio. Conversando con i giornalisti sull'aereo che lo riportava a Roma dopo i tre giorni trascorsi nel Caucaso, ha chiarito che si riferiva "a quella cattiveria che oggi si fa con l'indottrinamento". Il Papa ha raccontato quanto gli disse un padre francese con un figlio di dieci anni: "Alla domanda 'cosa vuoi fare da grande' ha risposto: la ragazza! Il padre si è accorto che nei libri di scuola si insegnava la teoria gender, e questo è contro le cose naturali. Una cosa è la persona che ha questa tendenza, o anche che cambia sesso. Un'altra - ha aggiunto - è fare insegnamenti nelle scuole su questa linea, per cambiare la mentalità: io chiamo questo colonizzazione ideologica". Quanto detto a Tbilisi ha fatto rumore, vuoi perché s'è trattato di una frase pronunciata all'estero in un viaggio delicato e irto di ostacoli (palesati con l'assenza ben visibile della delegazione ortodossa alla messa celebrata dal Pontefice di Roma sabato mattina in Georgia), vuoi perché pronunciata a braccio e quindi carica dell'emozione che la lettura d'un discorso scritto, corretto e bilanciato non può offrire. Padre Antonio Spadaro, direttore gesuita della Civiltà Cattolica, ha spiegato tramite Twitter che il Papa "non intende attaccare teorie" bensì che "si esprime contro le ideologie, di ogni segno che colonizzano l'esperienza umana". Francesco, però, è stato ben più chiaro e diretto di quanto tentino di fare le riletture ex post che finiscono inevitabilmente per diluire nel politicamente corretto il pensiero di Bergoglio. Il Pontefice, infatti, stava rispondendo a una domanda diretta, postagli da una madre di famiglia, preoccupata dalle "nuove visioni della sessualità come la teoria gender e la marginalizzazione della visione cristiana". Come ha precisato il Papa, è necessario distinguere tra la somministrazione ideologica (che si fa anche a scuola) e le persone che "si devono accompagnare". "Nella mia vita di sacerdote - ha aggiunto Francesco - di vescovo e di Papa io ho accompagnato persone con tendenze e anche pratiche omosessuali. Li ho avvicinati al Signore e mai li ho abbandonati". Ma quando c'è stato da combattere le tante colonizzazioni ideologiche, Bergoglio spesso si è messo in prima fila, pur evitando l'arroccamento dietro fortini che ovunque si sono dimostrati facilmente espugnabili. Nel 2010, mentre in Argentina si discuteva l'approvazione del disegno di legge che legalizzava il matrimonio e le adozioni omosessuali, l'allora arcivescovo di Buenos Aires inviò una lettera a un gruppo di monache di clausura in cui esplicitava la sua posizione sul tema. "E' in gioco - scriveva - l'identità e la sopravvivenza della famiglia: padre, madre e figli. E' in gioco la vita di molti bambini che saranno discriminati in anticipo e privati della loro maturazione umana", "è un tentativo distruttivo del disegno di Dio". Non è - chiariva - "solo un disegno di legge, ma è una mossa del padre della menzogna che cerca di confondere e ingannare i figli di Dio". Non più tenero si è mostrato in relazione all'aborto e all'eutanasia, che pure trova diverse espressioni dialoganti anche all'interno della stessa chiesa cattolica. Ricevendo in Vaticano l'Associazione dei medici cattolici italiani, disse che "il pensiero dominante propone a volte una 'falsa compassione': quella che ritiene sia un aiuto alla donna favorire l'aborto, un atto di dignità procurare l'eutanasia, una conquista scientifica 'produrre' un figlio considerato come un diritto invece di accoglierlo come dono; o usare vite umane come cavie di laboratorio per salvarne presumibilmente altre". Pag 2 Albacete, il prete che bastonava i laici poco laici e i cristiani senza Cristo di Emanuele Boffi I saggi del sacerdote americano editorialista del NYT Lorenzo Albacete è stato molte cose nella sua vita. Scienziato, aveva una laurea in Scienze dello spazio e Fisica applicata, opinionista, scriveva per il New York Times e il New Yorker e appariva in tv sugli schermi della Pbs e Cnn, scrittore e oratore. Nel 1998 era con Giovanni Paolo II all'Avana e fu lui a intrattenersi con Fidel Castro al termine dello storico incontro lasciandolo di stucco con qualcuna delle sue battute, tanto che, si dice, il líder máximo si rammaricò di non aver mai incontrato durante la sua giovinezza "un prete simile". Perché certamente tra le tante cose che è stato Albacete (1941-2014), la più importante è che fu un sacerdote felice di esserlo. Stile e mole chestertoniane, Albacete è stato uno dei punti di riferimento del cattolicesimo americano a cavallo del millennio, potendo vantare una solida amicizia con Karol Wojtyla, che aveva ospitato nella sua casa di Washington negli anni Settanta, don Luigi Giussani, alla cui esperienza ecclesiale aderiva, il cardinale Sean O' Malley che, celebrando le sue esequie, non lesinò sulle iperboli per descriverne la personalità: "Graham Greene, Evelyn Waugh e García Marquéz insieme non avrebbero abbastanza immaginazione e genialità per inventarsi un personaggio come monsignor Albacete". Estroverso e pirotecnico, godeva nello stupire gli interlocutori adottando punti vista eterodossi, per poi arrivare al punto della questione argomentando spericolatamente sul filo del paradosso. Il Weekly Standard lo definì un "Erasmo da Rotterdam rivisitato da Rabelais"; lui, più modestamente, si presentava come un sacerdote tabagista, dato che "se il fumo fa male, non ci restano che le Marlboro". A circa due anni dalla scomparsa, l'editore Marietti ha mandato in stampa una raccolta di saggi e interventi pubblici ("Realtà e ragione", 91 pp., 12 euro) in cui il monsignore d'origine portoricana si mette a ragionare su due tendenze parallele della società moderna: il "laicismo senza laicità" e il "cristianesimo senza Cristo". Raccontando del proprio rapporto con i redattori delle testate liberal che ospitavano i suoi interventi, Albacete nota che "lo stesso mondo secolare ha capito che il secolarismo radicale ha fallito" e che nemmeno "l'ideologia dell'ambiguità" è adatta a "difendere la libertà contro l'intolleranza". E' per questo, argomenta, che "i miei amici secolaristi sono spaventati": si sono ormai accorti che "la verità viene a coincidere con le opinioni dei più forti" e, tuttavia, "hanno paura di desiderare e aspettarsi troppo. Perché? Perché ciò necessariamente porta alla religione, ed essi sono terrorizzati dall' intolleranza e dalla violenza che la religione ha portato nella società". D'altro canto, nemmeno il cristianesimo e i suoi rappresentanti appaiono in salute. Albacete condivide gran parte delle osservazioni esposte da Curtis White in un articolo su Harper' s Magazine a proposito della spiritualità americana, e in particolar modo del cristianesimo, definito come un "minestrone", "aria fritta", una roba "che si può vincere con i punti premio e cinque dollari". Una sorta di "eresia senza ortodossia, l'eresia come ortodossia", dove Yahweh e Ball convivono in armonia e "ognuno è libero di credere quel che vuole". Con un paradosso: "Stranamente la nostra libertà di credere ha creato la situazione che Nietzsche chiamava nichilismo, ma per una via mai immaginata prima". Mentre i nichilisti europei si limitavano a negare Dio, "il nichilismo americano è un'altra cosa. Il nostro nichilismo è la nostra capacità di credere a tutto e qualsiasi cosa allo stesso tempo. E' tutto Dio!". Alle due tendenze, Albacete oppone una descrizione del cristianesimo e della chiesa non ridotta a "richiamo moralistico, esortazione e istruzione" ma atta a recuperare il senso delle due parole che danno titolo al volume - realtà e ragione - in chiave fattuale ed esperienziale. Insomma, come di qualcosa che "accade attraverso qualcuno, in un momento dato e in un luogo dato". Altrimenti, dice, ci stiamo solo baloccando in evanescenti dispute dialettiche, ma allora sarebbe meglio ammettere che "anche Gesù ha fallito". Pag 2 Così chiese e sacerdoti cristiani finiscono sotto attacco anche in Italia di Andrea Bonicatti Insulti e dissacrazioni (sottovalutati) all’altare Roma. Siamo abituati a vedere scene di profanazione di chiese e maltrattamenti a religiosi e fedeli quasi quotidianamente nelle zone sconvolte da conflitto nel medio oriente. Nei territori controllati dall'Isis e da altri gruppi jihadisti, i luoghi di culto cristiani e i loro fedeli sono esposti a vessazioni di ogni sorta. Quest'estate si è verificato un attacco senza precedenti anche sul suolo europeo. La barbara esecuzione di padre Jacques Hamel a Rouen, in Francia, sgozzato davanti all'altare della sua parrocchia per mano di due jihadisti, ha scosso profondamente credenti e non. Mentre questi fatti eclatanti trovano ampio risalto nei mezzi di informazione, sfugge ai più una lunga serie di piccoli attacchi alle chiese sul territorio italiano. Questi prendono per lo più forma di furti, insulti o altri atti di piccola criminalità che spesso sono sbrigativamente derubricati a meri atti di vandalismo. Eppure, fatte le debite e necessarie proporzioni, si tratta spesso - anche in questo caso - di attacchi mirati alle chiese come simbolo di un'istituzione. Il caso più recente è avvenuto tra venerdì e sabato scorsi, e ha avuto come protagonista un ghanese di 39 anni. L'uomo, in meno di 24 ore, è entrato in quattro diverse chiese romane e ne ha danneggiato le statue all'interno, prima di essere arrestato dai Carabinieri e trasferito in carcere con l' accusa di vilipendio alle istituzioni religiose con l'aggravante dell' odio religioso. Nel corso dell' ultimo anno si sono verificati diversi episodi simili. Ad esempio, a luglio, il ministro dell'Interno, Angelino Alfano, ha dato esecuzione a decreti di espulsione per due marocchini. Il primo aveva scagliato a terra, danneggiandolo, un crocifisso settecentesco nella chiesa di San Geremia a Venezia. Il secondo, nel 2015, era entrato in una chiesa inveendo contro i fedeli e contro la religione cattolica. In un'altra circostanza, a Chieti, degli ignoti hanno aggredito una statua raffigurante il Cristo fuori dalla chiesa di San Francesco Caracciolo. La scultura in bronzo e marmo è stata decapitata di netto. In altre occasioni, non vi sono solo stati danni a oggetti o parole ingiuriose, ma anche furti e violenza fisica. Il 19 dicembre 2015, due uomini incappucciati sono entrati in una parrocchia nel salernitano e hanno costretto il sacerdote a rivelare dove custodisse i soldi. Avuta l'informazione, i due hanno legato il parroco a una se dia e lo hanno chiuso nel bagno della canonica, per poi darsi al saccheggio di tutti gli oggetti di valore che hanno trovato. Uno dei criminali, un albanese di 24 anni, è stato successivamente arrestato dalle forze dell'ordine. Il desiderio di trafugare i soldi delle elemosine invece ha spinto un gruppo di sei minorenni a introdursi in una parrocchia di Saluzzo nel settembre del 2015. Non avendoli trovati, hanno devastato e imbrattato la chiesa, e dato fuoco alle pagine di un messale. Ancora più inquietante sono stati gli episodi verificatisi a luglio nella chiesa di Sant' Elena, all'Annunziata. In due occasioni qualcuno è entrato causando ingenti danni. Una statua della Madonna è stata distrutta e la sua testa rubata, un tabernacolo è stato scardinato dal muro e poi danneggiato ripetutamente, le ostie contenute nella pisside sono state sparse per il pavimento, le reliquie di Sant'Elena sono state trafugate ed è stato trovato un biglietto scritto a penna indirizzato al sacerdote. Su di esso, in inglese, vi era un invito a andare all' inferno. Questi attacchi dovrebbero essere un segnale d' allarme su un fenomeno inquietante. Sono episodi che gettano luce su quella che Joseph Weiler ha chiamato la "cristofobia" nel vecchio continente. LA NUOVA Pag 37 Francesco e la “guerra mondiale di idee” che vuole distruggere la famiglia di Orazio La Rocca «È in corso una guerra mondiale di idee per distruggere la famiglia». Francesco, Papa pastorale, vicino alla gente, ai più bisognosi, amato da tutti, anche non credenti e diversamente credenti. Ma anche papa politicamente scorretto ed imprevedibile. Capace di dire le sue verità senza timore di perdere consensi e facili applausi. Come ha dimostrato nella visita in Georgia, nella prolusione pronunciata a Tiblisi, dove all’improvviso “schiaffo” ricevuto dalla delegazione ortodossa che, senza preavviso, non ha assistito alla Messa allo stadio, ha reagito con un suo personalissimo “ceffone” mollato a quanti - a suo dire - «stanno minando le fondamenta della famiglia cristiana e della tradizionale morale cattolica». Un avvertimento - destinatari non le poche migliaia di georgiani che lo stavano ascoltando - lanciato a livello planetario, al punto da sostenere che «contro la famiglia è in corso un conflitto mondiale di natura ideologica». Parole scagliate come pietre contro quanti - partiti politici, lobbi, intellettuali non in linea col verbo cristiano-cattolico - si battono, ad esempio, per il riconoscimento di unioni matrimoniali non “necessariamente” tra un uomo e una donna, diritto all’aborto e difesa della teoria gender, sostenuta da quanti teorizzano le differenze tra i sessi non su base biologica o fisica, ma su componenti di natura sociale, culturale e comportamentale. Tesi contraddette da sempre dai canoni delle gerarchie cattoliche e dai documenti papali che non si sono mai distaccati dall’insegnamento della tradizione biblica che da sempre ricorda che Dio “maschio e femmina li creò”. Come, a livello di principi generali, ha sempre fatto e detto Bergoglio sia da vescovo che da pontefice in linea con i suoi predecessori, anche se nei suoi primi tre anni di pontificato forse non è stato mai tanto esplicito come nell’intervento fatto in Georgia, dove quasi all’improvviso ha ricordato che è giunta ormai l’ora di «sanare le ferite del corpo di Cristo», già martirizzato dalle «divisioni dei cristiani», ma ora ulteriormente «massacrato» dalla «guerra mondiale in corso contro la famiglia basata sull’unione tra un uomo ed una donna, e la difesa della vita dal concepimento fino alla fine naturale». Parole che hanno fatto sobbalzare quei tanti fan bergogliani non cattolici, politicamente orientati a sinistra, ma anche cattolici cosiddetti progressisti aperti alle novità e al confronto con le nuove istanze sociali, che hanno sempre simpatizzato per il papa argentino, specialmente da quando si chiese pubblicamente «chi sono io per giudicare una persona gay che sinceramente cerca Dio?». Un interrogativo salutato con soddisfazione dalla stragrande maggioranza dell’opinione pubblica, ma con particolare entusiasmo da quei movimenti politici omosessuali i quali per la prima volta ebbero la sensazione di avere a che fare con un pontefice disposto ad ascoltare le loro esigenze senza pregiudizi e condanne preventive. Entusiasmi messi a dura prova dall’attacco sferrato da Bergoglio in Georgia agli “aggressori” della famiglia e ai «fautori delle teorie gender che - parola di papa Francesco - vogliono distruggere con le idee la cosa più bella che Dio ha creato», vale a dire l’uomo e la donna. Una “bellezza”, è stato il ragionamento del pontefice, resa palpabile dal fatto che «l’uomo e la donna che si fanno una sola carne attraverso il vincolo matrimoniale sono l’immagine di Dio». Per cui, «se si divorzia si sporca quell’immagine divina e i primi a pagarne le conseguenze sono i figli». Che dire? In Georgia papa Francesco ha messo un freno a quanti lo vedono come campione del progressismo e delle aperture sociali, a partire dai diritti alle coppie omosessuali e alle unioni gay a scapito della difesa della tradizione? In realtà, nel suo ultimo viaggio internazionale - il sedicesimo da quando è stato eletto - Francesco ha toccato tasti a cui non aveva mai rinunciato. La novità è la chiarezza di esposizione e, se vogliamo, la sorpresa. Specialmente da parte di chi confondendo la sua forza pastorale, cioè la scelta di stare da sempre accanto alle sofferenze degli ultimi (prima in Argentina, ora a Roma, dentro e fuori il Vaticano, e nelle periferie del mondo), con le verità (teologiche, morali, sociali...) a cui non ha mai rinunciato. Verità che, comunque, non gli impediscono di dialogare con tutti, ascoltare chi soffre, chi vive nel disagio al di là di orientamenti politici, religioni, scelte sociali e orientamenti sessuali. Senza rinunziare ai princìpi cardini della tradizione cristiana. WWW.VATICANINSIDER.LASTAMPA.IT Il Papa e i gay: distinguere peccato da peccatore è cristiano di Andrea Tornielli La risposta di Francesco che racconta come sia sempre stato vicino alle persone omosessuali spiazza “relativisti” e “rigoristi” ma getta anche una luce interessante sulla vita della Chiesa Le dure parole sull’«indottrinamento» gender pronunciate da Papa Francesco sabato 1° ottobre a Tbilisi, reagendo a braccio alla testimonianza di una giovane madre di famiglia, hanno fatto il giro del mondo. Non contenevano particolari novità, se non l’immagine della «guerra mondiale» contro il matrimonio: già più volte infatti il Pontefice argentino si era espresso contro le «colonizzazioni ideologiche» citando esplicitamente il gender. Chi segue da lontano certe affermazioni papali ed era rimasto a suo tempo colpito dal «chi sono io per giudicare?» ha però faticato a mettere a fuoco le affermazioni di Bergoglio dalla Georgia, quasi risvegliandosi da un sogno. Quello secondo il quale il peccato non esisterebbe più. Nel volo di ritorno da Baku, dialogando con i giornalisti, il Papa ha risposto a una domanda sul gender e sull’atteggiamento del pastore di fronte alle persone che soffrono per la loro identità sessuale. Francesco, senza modificare di una virgola le sue critiche sul gender, ha detto di aver accompagnato e «avvicinato al Signore» persone con tendenza omosessuale, persone che praticano l’omosessualità e anche transessuali. Ha detto di averlo fatto da prete, da vescovo e anche da Papa. Ancora parole che hanno colpito la sensibilità di molti. Un atteggiamento che di accoglienza, di apertura, perché Gesù «sicuramente non dirà: “Vattene via perché sei omosessuale!”, no». Qualcuno forse si sorprenderà perché non si era abituati a sentir dire questo dai Papi, ma - ancora una volta - Francesco ha semplicemente fatto il prete. La distinzione tra l’errore e l’errante, tra peccato e peccatore, non è un’invenzione bergogliana ma appartiene alla tradizione cristiana. Dovrebbe richiamare l’attenzione, piuttosto, il fatto che parole di accoglienza vengano interpretate o strumentalizzate sia dai «relativisti» che dai «rigoristi» come la fine annunciata di qualsiasi regola in materia di morale sessuale. Una bella notizia per i primi, l’apocalisse per i secondi. In entrambi i casi manca l’immedesimazione con lo sguardo di Gesù che prova compassione e usa misericordia, con la parabola del Buon Pastore che lascia le novantanove pecore per cercare quella smarrita. Per i primi ogni mezza frase del Pontefice viene ridotta a slogan e tradotta come «liberi tutti!». Per i secondi ogni accento pastorale di misericordia, ogni richiamo all’accoglienza e al discernimento delle diverse situazioni, suona come una pericolosa forma di «buonismo». L’esempio illuminante per descrivere la situazione della Chiesa contemporanea, lo ha fornito a Francesco il transessuale spagnolo Diego Neria Lejárrag. È un esempio che vale tutta l’intervista. Così lo ha raccontato il Pontefice: «Nel quartiere dove lui (il transessuale, ndr) abitava c’era un vecchio sacerdote, ottantenne, il vecchio parroco, che aveva lasciato la parrocchia… E c’era il nuovo (parroco). Quando il nuovo lo vedeva, lo sgridava dal marciapiede: “Andrai all’inferno!”. Quando trovava il vecchio, questo gli diceva: “Da quanto non ti confessi? Vieni, vieni, andiamo che ti confesso e così potrai fare la comunione”». Colpiscono questi atteggiamenti così diversi. Il prete più giovane aveva già condannato Diego. Il prete più anziano, formatosi nella Chiesa degli anni Cinquanta, cercava di avvicinarlo e di accompagnarlo. Quando era arcivescovo a Buenos Aires, a chi gli chiedeva che cosa avrebbe voluto si scrivesse sulla sua lapide, l’attuale Pontefice aveva risposto: «Jorge Mario Bergoglio. Prete». E non è difficile immaginare in quale dei due sacerdoti citati nell’esempio lui si identifichi, suggerendo agli altri di fare altrettanto. Quando si entra in contatto con le vite, le sofferenze, le esperienze talvolta drammatiche delle persone, in qualsiasi condizione queste si trovino, ha spiegato il Papa durante l’intervista in aereo, c’è da immedesimarsi con lo sguardo di Gesù. Lo faceva notare già sant’Ambrogio, nel «De Abraham»: «Dove si tratta di elargire la grazia, là Cristo è presente; quando si deve esercitare il rigore, sono presenti solo i ministri, ma Cristo è assente». L’esempio raccontato a Francesco dal transessuale spagnolo descrive bene la differenza tra quanti si dedicano a fare i «ripetitori» di dottrine astratte senza mai veramente coinvolgersi con gli uomini e le donne «feriti». E quanti, invece, non dimenticano che la Chiesa «non è al mondo per condannare, ma per permettere l’incontro con quell’amore viscerale che è la misericordia di Dio». Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA Pag 1 La sfiducia dei giovani ignorati di Dario Di Vico Quei segnali inattesi Un’indagine condotta da Acli e Cisl su un campione di ventenni romani e presentata ieri ha destato più di qualche attenzione perché, in base a un inedito «indice di arrendevolezza» predisposto dai ricercatori, ci racconta che due terzi dei giovani pur di trovare un posto di lavoro sarebbero disposti a rinunciare alle sacre conquiste dei padri e delle madri. Ferie, copertura della malattia, indennità di maternità. È la prima volta che a livello di rappresentazione collettiva emerge un orientamento così remissivo, finora un certo tipo di comportamenti eravamo abituati a rintracciarli in scelte individuali e comunque isolate. È un dato, quello romano, che di conseguenza colpisce e di cui ci sarà tempo e modo di vagliare la reale profondità. Non dobbiamo però escludere a priori l’ipotesi più drastica, ovvero che mentre noi ci accapigliavamo sull’aderenza o meno delle norme del Jobs act ai consolidati principi della cultura del welfare i nostri ragazzi, per paura, ci abbiano sconfessato e siano diventati «selvaggiamente liberisti», sulla loro pelle per di più. Battute a parte, anche i risultati che giungono da quest’ultima rilevazione di Acli-Cisl possono essere utili se ci spingono verso una doppia operazione. La prima è quella di intensificare il lavoro di ricognizione sulle tendenze giovanili, sul mutamento degli stili di vita e dei riferimenti culturali di una generazione «esclusa» per descrivere la quale siamo arrivati persino a usare - con il termine apartheid - il lessico del Sudafrica pre-Mandela. Mi è capitato più volte di dire che il tratto saliente della disuguaglianza in Italia non si concretizza tanto in un’iniqua distribuzione del reddito quanto nel fossato che divide le generazioni come mai era successo in passato, ma di questa piccola verità il sindacalismo italiano fatica a prendere atto. La seconda è un’operazione che può apparire più tradizionale e che invita a non demordere nella ricerca delle policy destinate a combattere attivamente la disoccupazione. Purtroppo in Italia si è abituati ad accogliere i dati, sovente contraddittori dell’Istat o dell’Inps, con commenti da stadio più che dolersi o comunque interessarsi del merito. Con il Jobs act il governo aveva pensato di utilizzare l’auspicata ripresa economica per stabilizzare una quota significativa del precariato e su questa opzione ha scommesso una generosa posta di bilancio. Purtroppo il ciclo economico non ha assecondato quest’indirizzo e la manovra ha prodotto dei risultati ma non quelli che avevamo sognato. Con il senno di poi si può osservare come le nuove norme avrebbero avuto bisogno di un accompagnamento più largo, di creare sinergie con le politiche attive e più in generale di dotarsi di una bussola per navigare in quella che viene definita la grande trasformazione del lavoro. È vero infatti che continuano a convivere alti tassi di disoccupazione con l’impossibilità di trovare sia saldatori italiani da assumere nell’industria cantieristica sia giovani che siano disposti a lavorare da un fabbro o più in generale a imparare i tradizionali mestieri artigianali. Ed è anche vero che un mercato alle prese con crescenti fattori di incertezza continua a richiedere flessibilità estrema fino a forzare indebitamente strumenti come i voucher, i tirocini e gli stage. Assodato quanto sia difficile mettere le briglie a un mutamento che ha carattere persino epocale, a questo punto però il rischio sembra essere un altro e assai contingente: che la politica italiana disillusa dai risultati ottenuti in materia di occupazione decida di cambiare cavallo. Di scommettere su un’altra constituency, magari elettoralmente più affidabile come sembra essere quella dei pensionati. I segnali (evidenti) ci sono e il pericolo che i grandi assenti della legge di Bilancio 2017 alla fine siano i giovani e il lavoro appare in questi giorni elevato. Andrebbe evitato invece che le politiche economiche assomigliassero a un bricolage del consenso, a un tirar fuori dal mazzo la carta giudicata più adatta per giocare la partita del momento. Pag 41 L’angosciante rivoluzione demografica di Ernesto Galli della Loggia Un saggio di Ugo Intini C’è una patologia all’apparenza inevitabile dei regimi democratici: il «presentismo». Cioè la fisiologica difficoltà dei loro governi nel prendere decisioni atte a contrastare quei fenomeni di lunga durata che richiedono contromisure sui tempi lunghi, politiche che magari durano anni e anni. Di regola, insomma, le democrazie decidono spingendo lo sguardo mai oltre la più vicina scadenza elettorale. È anche per questo che la rivoluzione demografica - cioè il forte calo della natalità che si verifica da anni in tutto l’Occidente, ma che in Italia è sempre più vertiginoso - ci trova del tutto impreparati e può manifestare tutti i suoi effetti devastanti. Sui quali si leggono ora con molto profitto le pagine intelligenti di Ugo Intini ( Lotta di classi tra giovani e vecchi? , prefazione di Giuseppe De Rita, Ponte Sisto, pp. 160, e 12), divenuto da esponente di punta del socialismo riformista italiano un appassionato saggista. Si tratta di pagine che non si leggono senza che nasca dentro un’angoscia sottile. Le cifre da sole sono impressionanti. L’Europa, che ancora nel 1900 rappresentava oltre un quarto dell’umanità, nel 2050 ospiterà sì e no il 5 per cento degli abitanti della Terra. Negli Stati Uniti si calcola che più o meno entro il 2043 i bianchi di origine europea diventeranno una minoranza. Per parlare di noi, invece, già nel 2030, cioè in pratica domani, gli ultrasessantenni costituiranno la metà della popolazione italiana, mentre del poco più di mezzo milione di bambini che sono nati nella Penisola nel 2014, un’assoluta maggioranza (398.540) aveva almeno uno dei genitori non italiano. Ma il cuore del libro di Intini si sofferma come è ovvio non tanto sulle cifre, quanto sulle conseguenze che presumibilmente esse avranno o stanno già avendo. A cominciare da un certo diffuso venir meno nei più diversi ambiti sociali di questa parte del mondo della vitalità, del coraggio di rischiare e di gettarsi in imprese nuove, della fantasia e della capacità inventiva. La vecchiaia, osserva giustamente il nostro autore, non è mai stata un motore dello sviluppo, e quella italiana è più delle altre, ormai, una società di vecchi. Lo sanno a loro spese i giovani. Al loro elevatissimo tasso di disoccupazione fa da contrappunto il fatto emblematico che nel nostro Paese le pensioni impegnano già oggi risorse quattro volte superiori a quelle della scuola, e il doppio la sanità (il cui bilancio, dal canto suo, è assorbito per il 50 per cento dall’assistenza sanitaria destinata agli anziani). Tutto si riflette come è ovvio in un impoverimento generale. Si rovesciano contemporaneamente antichi paradigmi e antiche illusioni di progresso che sembravano iscritti nella natura stessa delle cose. La scolarità decresce, decresce il numero dei laureati, mentre si profilano fenomeni per l’innanzi impensabili, come la sempre più percepibile concorrenza sul piano sessuale tra maschi anziani in grado di disporre di maggior reddito e maschi giovani più poveri, probabilmente destinati a restare tali; mentre aumenta di conseguenza il numero dei padri ultracinquantenni, nonché l’ammontare delle vendite del Viagra e dei cosmetici maschili. Ma la rivoluzione demografica e il conseguente invecchiamento, oltre il costume, cambiano ovviamente anche la politica. Società di anziani come le nostre non sono più capaci di immaginare il futuro, di fare progetti in grande, si barricano dietro politiche deflazionistiche e di austerità, per loro natura incuranti dello sviluppo che servirebbe ai giovani, e che invece garantiscono i risparmi di chi ha potuto risparmiare, e cioè in genere dei vecchi. È difficile non concludere che forse non è il profetizzato tramonto dell’Occidente: certo però è qualcosa che gli assomiglia molto. AVVENIRE Pag 1 Una lezione tedesca di Leonardo Becchetti Caso Deutsche Bank e biodiversità bancaria «Niente paura. I nostri traders sono tra i più sofisticati al mondo», ha affermato Deutsche Bank per cercare di calmare i mercati a seguito delle preoccupazioni sulla sua sostenibilità dopo la multa Usa, il minimo storico in Borsa e la fuga di alcuni hedge fund. È proprio questa dichiarazione che preoccupa. Non c’è ovviamente da gioire per i problemi della banca tedesca che è esposta in derivati per un valore che supera di 15 volte il Pil tedesco e 3 volte il Pil dell’intera Unione Europea, perché una sua eventuale crisi coinvolgerebbe tutti. E da tempo sottolineiamo – assieme ad altri autorevoli colleghi economisti – come le autorità di regolamentazione siano state troppo indulgenti in questi anni verso un istituto che ha la leva – il rapporto tra capitale proprio e capitale di debito – più squilibrata in Europa e descrive la propria condizione patrimoniale con sistemi di rating interno molto sofisticati, ma progressivamente sempre più scollati dal dato crudo del rapporto, appunto bassissimo, tra capitale proprio e capitale di debito. Con il caso Deutsche Bank il pendolo della storia dei problemi bancari rischia di essere sul punto di completare una nuova oscillazione. Siamo partiti nel 2007 con la crisi finanziaria globale scatenata dai problemi delle banche troppo grandi per fallire (Lehman in primis). Il dossier dei 'saggi' della Ue (rapporto Liikanen) facendo una rassegna della letteratura economica in materia sottolineò, allora, come oltre i 50 miliardi di attivo (livelli di una banca medio-grande, ma non grande o grandissima) non esistono economie di scala, ovvero benefici economici derivanti dalla crescita dimensionale. Eppure, dopo pochissimo tempo, il monito del rapporto Liikanen è stato silenziato dai cori che inneggiavano anche nel nostro Paese al 'risiko', al consolidamento, alla crescita dimensionale vista come panacea indiscussa dei problemi delle banche. Con il rischio di giri di valzer senza senso simili a quelli di quei calciatori che cambiano continuamente squadra a prezzi esorbitanti, arricchendo soprattutto i loro procuratori. Vengono in mente le acquisizioni non ben digerite e la mania di gigantismo della Popolare di Vicenza o l’ancora più clamorosa acquisizione di Antonveneta da parte del Monte dei Paschi che segnò l’inizio della crisi che ha distrutto la ricchezza di un territorio accumulata con il lavoro di secoli e che rappresenta ancora oggi il punto debole non ancora risolto del nostro sistema bancario. Se nessuno ai tempi del fallimento di Lehman pensò a cancellare il genere 'grande banca d’investimento' nonostante i problemi del modello (soprattutto quando la banca è anche banca commerciale), ben presto il coro della comunicazione ha spostato la sua attenzione sui limiti del modello 'banca di territorio a voto capitario' con il progetto stavolta di cancellarla dal nostro paese. Per fortuna – grazie anche all’impegno di questo giornale – ciò non è accaduto del tutto e l’obbligo di cambiare pelle è stato circoscritto (sia pure con un criterio quantitativo che non piace e non convince) agli istituti con totale dell’attivo superiore agli 8 miliardi. La situazione oggi è cambiata e comincia ad esserci consapevolezza nella nostra classe politica di quanto anche qui si afferma da tempo: lo sviluppo locale ha bisogno di banche di territorio non massimizzatrici di profitto. Così è in tutte le economie più sviluppate del mondo incluse quella americana e tedesca. Per la semplice e inconfutabile legge economica che spinge le grandi banche massimizzatrici di profitto a inseguire margini elevati per creare valore per i loro azionisti. E dunque tra tutte le attività possibili a disposizione, a sfuggire (potendo) come la peste i prestiti alle piccole imprese e alle imprese artigiane. I cui volumi infatti nel nostro Paese continuano a calare come confermano gli ultimi dati flash disponibili di Confartigianato che rielaborano le statistiche di Banca d’Italia. I sistemi economici hanno dunque bisogno di un ecosistema finanziario ricco e diversificato, fatto di grandi banche che sostengono i processi d’internazionalizzazione delle medio-grandi imprese di successo e di banche di territorio che aiutano il 'corpaccione' del Paese (imprese artigiane, piccole e medie imprese non internazionalizzate) a restare a galla e a uscire dalla crisi. L’evoluzione migliore di queste ultime è quella di banche sociali di mercato che negli ultimi tempi hanno dato ampia prova in Italia e in molti altri Stati del mondo di saper impiegare una parte molto maggiore del proprio attivo nel credito, con sofferenze più basse della media del sistema favorendo l’accesso ai prestiti a imprese razionate dal resto delle banche. Non ha senso dimenticarci di questo, magnificare soltanto le grandi imprese 'di successo' pensando che esauriscano il parco degli attori economici perché non è così e perché ogni impresa adulta 'di successo' lo è e lo può diventare (e restare) nella misura in cui ha avuto o avrà un’infanzia felice. È lecito sperare che la lezione della storia – anche se in tedesco – sia questa volta ascoltata e compresa portando a una regolamentazione (e a una comunicazione economica) che capiscano fino in fondo che la tutela della biodiversità bancaria è un valore fondamentale e va preservata con scelte regolamentari non 'a taglia unica' ma adatte a curare i limiti e le debolezze di ciascuna specie. CORRIERE DEL VENETO Pag 2 Le riforme del lavoro. L’impatto in Veneto di Martina Zambon Mezzo miliardo di incentivi in un solo anno e 220 mila nuovo contratti: 1 su 2 non durerà Venezia. Quasi mezzo miliardo di euro nel solo 2015, tanto è costato allo stato l’investimento sulla defiscalizzazione per le nuove assunzioni e le trasformazioni incentivate in Veneto. Sono stime prudenziali e perciò realistiche (Veneto Lavoro calcola che le tasse risparmiate dai datori per persona siano 8060 euro l’anno e moltiplica la cifra per i 117.000 assunti con le defiscalizzazioni. Va da sé che non tutti sono stati assunti l’1° gennaio ma nel corso dell’anno e quindi la cifra risparmiata a lavoratore scende a una media di 3700 euro). L’incentivo resiste in forma ridotta anche nel 2016 mentre il ministro Poletti ha detto che difficilmente ci saranno stanziamenti per il 2017. Ma torniamo ai dati che misurano l’impatto. Sul finire dello scorso anno gli assunti a tempo indeterminato, di cui una parte a tutele crescenti, hanno sfiorato quota 212.000 (non tutti hanno chiesto la defiscalizzazione). Subito dopo hanno iniziato una lenta e, sembra, inesorabile discesa arrivando a oggi intorno ai 140.000. Veneto Lavoro ipotizza due scenari. Il primo, più «catastrofista» ma meno probabile, dice che allo scadere delle agevolazioni contributive, di posti di lavoro veri restino solo le briciole, 10.000 circa. Il secondo scenario su cui punta l’agenzia regionale, invece, ritiene che a fine triennio ci si attesterà poco sotto i 100.000 posti. Vale a dire che un po’ meno di un neoassunto su due, manterrà il suo lavoro. Per ora, valutando il solo 2015, «resiste» l’85% dei nuovi posti di lavoro. Dall’occupazione ai macchinari. Fino all’anno scorso sul tavolo c’era la legge Sabatini che prevede una serie di sconti fiscali. Il Nordest, in cui il Veneto fa la parte del leone, è la seconda area per numero di richieste presentate: 4702 pari al 39% del totale con finanziamenti che vanno dai 100.000 fino al milione di euro. La vera svolta, però, è la norma sul super ammortamento varata esattamente un anno fa dal governo Renzi. La quota del 150% di sconto fiscale sul valore dell’acquisto ha fatto gola a molti e visto il tessuto imprenditoriale veneto la ricaduta potrebbe essere doppia: sia per gli incentivi, sia per l’aumento degli ordini di produzione. Una boccata d’ossigeno quanto mai necessaria visto che secondo l’ultimo censimento di Ucimu, l’associazione di categoria, dal 2005 al 2014 il «parco macchine» industriali del Triveneto è calato del 19,9%. L’impatto della riforma del mercato del lavoro varata dal governo Renzi col Jobs Act, insomma, è sfaccettato e, per questo, difficile da mappare. Non a caso, se si clicca su «Studi e statistiche» nell’home page del ministero del Lavoro compare una scritta laconica «not found». Armati di pazienza, spulciamo report su report. Se la parte del leone la fanno proprio i nuovi contratti di assunzione - che per il 65% sono di fatto trasformazioni nella stessa azienda di altri contratti - va esaminato anche il peso dei tirocini. Escludendo quelli curricolari legati agli studi universitari, i numeri in continua crescita sono degni di nota: 37.000 in un anno da agosto 2015 a agosto 2016. Per sapere, però, complessivamente, quanti di questi si sono trasformati in una vera esperienza lavorativa toccherà attendere un paio di mesi. Per ora ci si può basare su due indicatori: la ricollocazione media (50%) e il certosino osservatorio dell’agenzia regionale sull’andamento del Programma Garanzia Giovani in Veneto che prevede, appunto, un tirocinio finale. Dai report di monitoraggio mensili, il 67% dei tirocinanti ha poi effettivamente lavorato e, fra questi, il 31% è arrivato a superare i 6 mesi di lavoro (ovvero un quinto del totale tirocinanti). «Un aspetto interessante – rileva Tiziano Barone, direttore di Veneto Lavoro – è che il 20% dei tirocini è legato a politiche regionali mentre il resto è connesso a centri per l’impiego, fondazioni e altri soggetti. Il fatto che il tirocinio non sia spinto da politiche finanziate è positivo, si autosostiene». I termini, poi, restano gli stessi ma i contenuti cambiano col cambiare delle normative e degli strumenti: l’apprendistato, nonostante una ripresa (+14% nel secondo trimestre 2016), vive un momento di crisi. I tirocini, invece, sembrano piacere di più e funzionare meglio con oltre 19.000 aziende ospitanti nel 2015 (+31% rispetto ai due anni precedenti). Merito soprattutto del meccanismo attivato da Garanzia Giovani, che finora ha attratto ogni anno oltre 30.000 persone sotto i 30 anni e che al momento dell’adesione non studiavano e non lavoravano. E se un tempo i tirocini erano legati alle stagioni, oggi, risultano spalmati nell’arco dell’anno. Un tentativo di «rivoluzione» c’è stato e il Veneto è fra le regioni che più stanno cercando di quantificare l’impatto reale delle riforme con da un monitoraggio costante. Però di rivoluzione «zoppa» si tratta visto che la partita dei Centri per l’impiego è congelata da un anno, ovvero manca il sostegno promesso agli oltre 140.000 disoccupati in regione di cui metà con un’indennità di disoccupazione e metà senza. «Dal Jobs Act – spiega Barone – ci aspettiamo una crescita della disoccupazione senza sostegno perché i tempi della cassa integrazione si sono ridotti. In tale contesto, il ruolo delle politiche attive diventa decisivo, ma dobbiamo rilevare il ritardo nell’avvio dell’assegno di ricollocazione per i disoccupati con indennità e la stentata partenza dell’Anpal, l’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro che stiamo ancora aspettando». Rincara la dose l’assessore regionale al Lavoro Elena Donazzan: «Il rischio ora è il referendum. Se le competenze sul lavoro saranno sottratte ai territori che ne conoscono le specificità e riportate a Roma, si vanificano anni di impegno. Con Clic lavoro in Veneto abbiamo unificato tutte le piattaforme tecnologiche dei servizi: 39 centri per l’impiego e 500 sportelli degli operatori accreditati sembrano dire a Roma che noi l’Anpal ce l’abbiamo già». Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA LA NUOVA Pag 27 Bambini e ragazzi in difficoltà, centro diurno a Villa Elena di s.b. Inaugurazione a Zelarino Zelarino. La città può contare su un nuovo spazio dedicato a bambini e ragazzi: il centro diurno di Villa Elena, lungo la Castellana. Inaugurato nei giorni scorsi, è la concretizzazione di un progetto che nasce dalla collaborazione tra il Comune e l’Opera Santa Maria della Carità, che sarà coordinato da un’equipe di professionisti che lavorerà a stretto contatto con i servizi sociali del Comune. In particolare con quelli che si occupano di infanzia e adolescenza, garantendo un percorso educativo a bambini e ragazzi che vivono una situazione di fragilità personale o familiare. «Oggi più che mai abbiamo la necessità di superare le rigidità del sistema attuale di welfare locale e regionale, per individuare invece nuovi servizi più agili e flessibili in grado di dare risposta a persone ed esigenze che altrimenti resterebbero escluse da qualsiasi tipo di aiuto», ha detto l’assessore alla Coesione sociale, Simone Venturini. «In particolare è necessario potenziare gli interventi destinati ai bambini e ai ragazzi, affiancando i genitori in difficoltà. Con questa apertura il nostro territorio beneficerà di un nuovo servizio in grado di allargare la rete di intervento sociale a protezione dei nostri cittadini più piccoli». Per l'Opera Santa Maria della Carità è invece intervenuto il presidente Gianfranco Fiori che ha aggiunto: «Questo progetto è il segno di una collaborazione feconda tra l’ente pubblico e il privato sociale. Ed è la prova tangibile di che cosa vuol dire essere non solo professionali, ma anche nella dimensione dell’amore che viene dal Vangelo. È stato il patriarca Roncalli, poi Papa e oggi santo, a istituire l'Opera proprio per venire in soccorso ai minori in difficoltà. Oggi il disagio di bambini e ragazzi è cambiato, perché è cambiata la società, e questo centro diurno risponde alle nuove esigenze. Ma lo spirito di fondo è rimasto, evangelicamente, lo stesso». Pag 28 “Non date soldi a quel prete, è un truffatore” di m.a. L’appello in chiesa di don Lauro dopo le telefonate di uno sconosciuto padre Francesco Quarto. «Non date soldi a padre Francesco». Telefona nelle case dei residenti altinati, un tono amichevole, una voce calda e coinvolgente al contempo, dicendo di essere un religioso di nome Francesco, forse per richiamare al Pontefice o al Santo. È più semplice, in effetti, sbattere il telefono in faccia a un anonimo il più delle volte antipatico o a una voce automatica che svolge un’intervista preconfezionata, piuttosto che a una persona la quale si presenta come tal “padre Francesco”. Quanto meno lo si lascia proseguire. Ecco perché arrivando al dunque della telefonata, molte delle persone che l’hanno ricevuta e hanno lasciato parlare il sedicente “padre”, hanno scoperto che stringi stringi, voleva denaro. Motivo? A quanto pare per un fantomatico servizio trasporto disabili, per il quale sarebbe servita un’offerta di 20 euro. Più di qualcuno però, ha chiamato in parrocchia, per saper se il parroco, don Gianpiero Lauro, stava effettuando questa raccolta fondi, per poi scoprire che in atto non c’era nessun tipo di progetto simile. Denaro la chiesa lo sta raccogliendo, ma per i restauri, come spesso accade, tutto alla luce del sole, con tanto di pubblicazione sul foglietto parrocchiale. «Mi hanno chiamato i parrocchiani», racconta don Lauro, «domandandomi se avevo per caso dato mandato io a tale padre Francesco di chiedere denaro. Questa persona, non so con che coraggio, forse ha formulato il numero a caso senza sapere o gli è sfuggito, ha persino chiamato in parrocchia domandando denaro». A quel punto, il parroco ha messo in guardia i residenti. Prima lo ha detto durante la Festa di San Michele, poi ha appeso dei ciclostilati fuori dalla chiesa. Anche domenica, durante la messa, ha ricordato di non dare soldi a nessun “padre Francesco”. «Purtroppo le inventano tutte pur di truffare le persone, soprattutto gli anziani», conclude don Lauro. La parrocchia ha anche avvisato il comando dei vigili di Quarto. Torna al sommario 8 – VENETO / NORDEST IL GAZZETTINO Pagg 6 – 7 Referendum costituzionale, a Nordest vince l’incertezza di Natascia Porcellato e Annamaria Bacchin A due mesi dalla consultazione il 33% favorevole al sì, il 27% per il no. Ma gli indecisi sono il 40% Per ora in testa i sì (33%) sui no (27%), ma decideranno tutto gli incerti: il 40 per cento. Il 4 dicembre 2016: data indicata dal Governo per la consultazione referendaria costituzionale. Secondo i dati analizzati da Demos per Il Gazzettino e pubblicati oggi all’interno dell’Osservatorio sul Nordest, l’opinione pubblica appare piuttosto perplessa. Un nordestino su tre (33%) ha deciso di dire "sì" alla riforma della Costituzione proposta dall’esecutivo. Il 27%, invece, ritiene di dove apporre la croce sul "no" per mantenere l’attuale assetto. Il 40%, però, non si esprime sulla questione. Tra esattamente due mesi saremo chiamati a dare un giudizio sulla riforma varata dal Governo e l’attivismo sul territorio è già iniziato. Le maggiori associazioni di categoria del mondo produttivo e agricolo si sono schierate a sostegno della riforma, mentre più divisi appaiono i Sindacati. Ma se le parti sociali sembrano avere le idee già piuttosto chiare, non altrettanto possiamo dire per i cittadini. Anche guardando a chi ha già deciso di andare a votare al Referendum Costituzionale, il 39% sostiene il Sì, mentre è il 28% a opporre un rifiuto. Molto ampia (34%) la percentuale di intervistati che, pur dichiarandosi certa di recarsi ai seggi, non sa ancora come si esprimerà. Questi dati non sono lontani da quelli registrati per il complesso dei nordestini intervistati, in cui il 33% si schiera a favore della riforma, il 27% le si oppone e la maggioranza relativa (40%) si rifugia nel silenzio. Guardando al dato nazionale, il Nordest si caratterizza per la presenza di una maggiore incertezza. In Italia, infatti, gli orientamenti appaiono più delineati. A livello nazionale, coloro che non si esprimono si fermano al 30% (-10 punti percentuali rispetto a Veneto, Friuli-Venezia Giulia e Trento), il Sì raccoglie il 39% (+6 punti percentuali rispetto alle regioni nordorientali) e il No si attesta al 31% (+4% rispetto al Nordest). Il favore verso la Riforma è più ampio tra gli adulti tra i 55 e i 64 anni (40%), e gli over-65 (42%). La contrarietà rispetto alle modifiche approvate dal Parlamento, invece, appare più consistente tra quanti hanno tra i 35 e i 44 anni (32%) e tra le persone di età centrale (45-54 anni, 37%). Guardando ai più giovani, poi, emergono in maniera evidente perplessità e incertezza: tra gli under-35, infatti, circa la metà degli intervistati non risponde alla domanda. Il fattore politico, infine, delinea degli atteggiamenti che in parte ricalcano il dibattito pubblico a cui stiamo assistendo. Tra gli elettori del Pd, il Sì alla riforma raggiunge il 63%, il 27% non si esprime e appaiono più contenuti i contrari (10%). Anche la maggioranza dei sostenitori di Forza Italia si schiera a favore della Riforma (54%), i contrari raggiungono il 22% e l’area dell’indecisione raggiunge il 25%. L’avversione alle modifiche costituzionali si fa maggioritaria tra gli elettori della Lega Nord e del M5s (per entrambi: 45%). Segnaliamo che, mentre tra chi è vicino alla Lega tende ad essere più presente una certa incertezza (39%) e la quota di favorevoli è limitata al 16%, più di un sostenitore del M5s su quattro (27%) si schiera a favore del Sì e una quota sostanzialmente analoga (28%) non risponde al quesito. Quanti guardano ai partiti minori, invece, si dividono (quasi) equamente tra Sì (41%) e No (43%), mentre l’area grigia della reticenza tende a mostrare una certa perplessità non rispondendo alla domanda (60%). È un costituzionalista, ma anche e soprattutto un uomo del Nordest il professore Mario Bertolissi, docente all’ateneo patavino. E come uomo che ama e conosce la propria terra, legge ed interpreta come sempre con passione i dati che il Nordest lo raccontano. Specie quando il tema è la Costituzione. E così il risultato che più di tutti lo colpisce, quando si parla di referendum, è quella elevata percentuale di indecisi. «Un’incertezza che narra uno spirito riflessivo, un atteggiamento virtuoso: indica la morale di un popolo intelligente che non si fa catturare dall’urlo televisivo. Perché l’uomo qualunque –spiega Bertolissi- ha bisogno di pensare. Vuole capire a prescindere dagli schieramenti». Per ora sembra che a vincere sia il sì alla Riforma Costituzionale. «Per il momento è così. Ma i giochi si faranno da qui a dicembre, quando si andrà a votare. Il 40 per cento di chi "non sa" e "non risponde" potrebbe cambiare le sorti della situazione descritta nel sondaggio». Il desiderio degli elettori a Nordest sembra diverso dalla media nazionale: meno propensi al "sì" come al "no" rispetto al resto d’Italia, ma molto più indecisi. O diffidenti? «Una giusta diffidenza, direi, per chi crede che i problemi dell’Italia non risiedano nella Costituzione. Perché i disagi di oggi dipendono da una classe dirigente inadeguata priva di un alto profilo e di spessore. E di questo gli indecisi se ne sono accorti. Per quello non si fanno convincere dagli urlatori, non si fanno abbindolare da chi fa la voce più grossa, ma al contrario si fanno convincere dai toni pacati». Uno dei grandi cambiamenti previsti dalla Riforma sarà l’eliminazione del bicameralismo paritario. «Non mi pare sia la questione risolutiva del nostro Paese. Ricordiamo che dopo la guerra un’Italia distrutta e smarrita è risorta dalle sue ceneri proprio in virtù di un bicameralismo paritario. E vorrei solo ricordare come in assenza di questo equilibrio il rischio sia quello di vedere come protagonisti del potere non sempre persone connotate da elevate competenze. E basta osservare un po’ oltre i nostri confini per vederne i risultati: dal semipresidenzialismo francese con i suoi più recenti "primi" uomini: da Nicolas Sarcozy a Francois Hollande, ben lontani dalla grandezza di Charles De Gaulle; per non parlare dell’inglese David Cameron che poche affinità ha con la figura e la storia fatta da Winston Churchill. E poi c’è il Presidenzialismo statunitense che non porta certo in campo uomini come Roosvelt». Dovremmo dunque guardare con nostalgia al passato? «Dico che il più nobile degli intenti non porterà mai nulla di buono senza persone degne, e in grado di formare una vera e propria classe dirigente». Osservando i grafici che mostrano le opinioni per fasce d’età, emerge un sì alla Riforma piuttosto debole tra le nuove generazioni. «In effetti i consensi più forti per Matteo Renzi giungono dagli over 55 e ancor più dagli over 65. Strano per un giovane leader. Ed è altrettanto interessante osservare i contrari alla Riforma all’interno del Pd (appena il 10 per cento). Questo vuol dire che la vecchia guardia del partito è praticamente stata messa da parte. Ultima annotazione: anche tra i "duri e puri" della Lega c’è un 16 per cento che sostiene il ‘sì’ e nel Movimento 5 stelle raggiunge addirittura il 27 per cento». Ci sono contraddizioni piuttosto significative all’interno di alcuni partiti. E del Federalismo cosa ne sarà? «Mi spiace dirlo: fino ad oggi il Federalismo è stato solo un’ubriacatura di parole. Da sempre. E il Referendum pare non faccia che confermare, purtroppo, la tendenza». Pag 14 Nordest sicuro, Venezia e Padova no di Mattia Zanardo Pordenone, Belluno e Treviso tra le dieci oasi più felici d’Italia Alla sera, l'auto si può parcheggiare con buona garanzia di ritrovarla la mattina dopo. Così come è, tutto sommato, poco frequente l'eventualità di venir rapinati e ancor meno che si presenti qualche figuro a pretendere il pizzo. Le province del Veneto e del Nordest in generale non saranno oasi di pace, ma possono vantare un tasso tra i più ridotti d'Italia per molti tipi di reato. Pordenone, anzi, è la seconda area più sicura della penisola, mentre Belluno è al sesto posto e, tra le prime venti su 106 totali, si piazzano pure Treviso (nona) e Udine (sedicesima). Più nei guai Venezia e Padova, rispettivamente al 16mo e 34mo posto in Italia per reati ogni 100mila abitanti. Almeno stando alle statistiche delle denunce presentate nel 2015, diffuse del ministero degli Interni ed elaborate dal Sole 24 Ore. Tutt'altro discorso, naturalmente, la sicurezza percepita, che resta comunque piuttosto bassa da parte di parecchi cittadini. E senza contare gli episodi di microcriminalità che ormai non vengono neppure più riferiti alle forze dell'ordine. In riva al Noncello, in particolare, l'anno scorso risultano commessi 2.408 reati ogni centomila abitanti (con un ulteriore calo del 13,33% rispetto ai dodici mesi precedenti): solo la sarda Oristano, può vantare un rapporto migliore, a 1.995. Ben peggio, al contrario, va a Venezia, dove si sono registrati 4.956 illeciti: nonostante una flessione di oltre otto punti percentuali, si tratta della 91esima media più elevata su scala nazionale. Il record negativo spetta a Rimini, a quota 7.791. Le Dolomiti non sono certo terra per ladri d'auto: nessuna provincia tricolore può vantare meno furti di questo genere di Belluno (6,3 su centomila residenti, più che dimezzati da un anno all'altro), Bolzano segue immediatamente (14,8) e ancora Pordenone è appena ai piedi del podio (17,3). I bellunesi possono stare tranquilli anche riguardo alle rapine: l'incidenza al 2,9 è da primato, malgrado un incremento del 50% (spiegabile, peraltro, proprio dai numeri assoluti molto contenuti). Ma, in questa voce, è tutto il Triveneto a poter esibire cifre di rilievo: nona Pordenone, 11esima Rovigo, 16esima Gorizia, 17esima Udine, 18esima Treviso. La Marca eccelle nella difesa dalle estorsioni: solo 6,32 ogni centomila abitanti, con Gorizia al secondo posto. E i trevigiani subiscono pure limitate frodi informatiche: le quasi 170 denunciate, in rapporto alla popolazione, benché in aumento del 30%, valgono il 13esimo posto nella classifica nazionale. All'opposto, invece, Trieste, penultima, e, per una volta, Belluno, 96esima. Altre note dolenti risuonano per i commercianti di Venezia, alle prese con un indice di taccheggi nei negozi pari a quasi 240, ovvero 96esima peggior provincia del paese. E il massiccio via vai di turisti in laguna, evidentemente, è fertile terreno per i furti con destrezza: solo nella solita riviera riminese e a Bologna, Milano, Torino e Roma (nell'ordine) se ne commettono di più. Rovigo, con la 73esima posizione nazionale, è la piazza triveneta più colpita dai topi d'appartamento (466 furti denunciati ogni centomila cittadini nel 2015) appena una posizione sotto Venezia. Sarà, invece, la vicinanza del confine a favorire flussi di denaro poco trasparenti in quel di Gorizia? La provincia isontina occupa la casella numero 98 per casi di riciclaggio: per giunta l'incidenza, pari a 5,70, è raddoppiata rispetto al 2014. CORRIERE DEL VENETO Pag 7 Abano e il No ai profughi, la parrocchia: “Razzisti” di Alessandro Maccio e Davide D’Attino Dopo le proteste, la nota del consiglio pastorale: “Facile essere ospitali solo con chi paga l’albergo” Abano Terme. La mobilitazione ad Abano non si ferma, ma deve fare i conti con l’accusa più pesante: razzismo. Accusa che viene dal consiglio pastorale della parrocchia di Sacro Cuore, e segna l’entrata in campo della chiesa, per quanto si tratti di un organismo laico, che lancia parole durissime verso i comitati anti-profughi. È una censura senza mezzi termini delle manifestazioni in tema di accoglienza, innescate dall’ipotesi di convertire l’ex base militare del Primo Roc in un hub per i migranti. «Le proteste – si legge nel testo pubblicato domenica nel sito della parrocchia - si sono mescolate con espressioni e atteggiamenti di chiara impronta razzista, inaccettabili soprattutto in una città che, per vocazione storica, è dedita all’accoglienza. Il dramma dei profughi non diventi un comodo alibi per dimenticare i gravi problemi morali, sociali ed economici che la città possiede». Il consiglio pastorale osserva «con grande preoccupazione il degrado etico» di Abano, città termale, di alberghi, albergatori, che di ospitalità vive: «È facile essere ospitali con chi è bianco e paga l’albergo, più difficile è esserlo con il profugo che possiede un’altra cultura ed altro colore di pelle. Ma il valore dell’accoglienza non funziona a fasi alterne e considera ogni essere umano degno di rispetto». Un paese e la sua etica. Anche su questo fronte Abano fa parlare di sé da mesi, con i cittadini che questa primavera hanno votato un sindaco indagato per tangenti e che a giugno è finito in carcere. Tre settimane fa, l’ipotesi dell’hub (apparentemente congelata dalla prefettura e dal ministero dell’Interno) per profughi. Stavolta, la reazione è stata immediata: no ai migranti, che non fanno bene all’immagine di una città turistica. E anche di fronte all’accusa del consiglio pastorale, i comitati non si arrendono: «Se il parroco ci tiene tanto ai profughi, se li può portare tutti a casa lui» commenta il portavoce di “Abano dice No” Maurizio Tentori. «Non vogliamo subire un’immigrazione indiscriminata di persone senza identità – aggiunge Sabrina Talarico, di «Uno, nessuno. Stop profughi» - Senza condizioni minime di sicurezza, si rischia di convertire all’ostilità anche coloro che mai hanno pensato di essere o sono stati razzisti». Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Così ho conosciuto i migranti sotto casa di Dacia Maraini Tra i migranti accolti sui monti d’Abruzzo Pescasseroli, piccola città situata nel centro del Parco nazionale d’Abruzzo Molise e Lazio, 47 africani vivono in un albergo di 15 stanze, a poche centinaia di metri da casa mia. Li vedo passare in bicicletta e a piedi, su e giù dal paese e mi è venuta la curiosità di conoscerli. «Per quale ragione ci vuole conoscere?» mi chiede subito Narcisse, un bel giovane alto e magro, fuggito da un Camerun immiserito e incanaglito per cercare lavoro. «Perché voglio capire», gli rispondo. «Il problema dei migranti rimane astratto finché non ci si rende conto che prima di ogni questione ideologica o sociale, si tratta di persone e le persone vanno viste da vicino, conosciute e ascoltate». I ragazzi, fra i 18 e i 25 anni, sono seduti in cerchio, nella sala dell’albergo Scoiattolo che è costruito in cima a una collina e ha una vista da aereo su tutta la valle. La conversazione andrà avanti in tre lingue: l’inglese, il francese e l’arabo. Per l’inglese e il francese ce la caviamo, Eugenio Murrali che mi accompagna in questa avventura di conoscenza ed io. Per l’arabo c’è la scintillante Hala, una siriana che ha sposato un pescasserolese e ora gestisce assieme al marito Francesco una pizzeria in piazza Sant’antonio. Ci sono ragazzi che vengono dalla Somalia e mi sembra che conoscano meglio la cultura italiana, altri arrivano da Gambia, Nigeria, Ghana. Sono qui grazie alla Società Gestione Orizzonti dei fratelli Sante e Annalisa Gentile, che mette a disposizione dei migranti, assieme all’albergo e ai pasti, la presenza di una psicologa, Fabiola Petrarca che è la umanissima e molto amata responsabile del Centro, una insegnante di italiano, Francesca dell’Ova, una mediatrice culturale, Tiziana Del Gobbo, un portiere e autista, Luciano Fortini, e un cuoco che cucina tenendo conto dei tabù delle diverse etnie. Pescasseroli li ha accolti bene. Con la gentilezza un poco sospettosa di tutti i montanari abituati a centenari isolamenti, ma senza pregiudizi e ostilità. Ha subito creato una associazione, MamaAfrica, che si occupa dei ragazzi procurando loro scarpe, piumini, biciclette, organizzando gite in montagna e partite di calcio coi ragazzi del luogo. L’iniziativa nasce da Francesco Paglia, un uomo dai capelli grigi sebbene ancora giovane che i ragazzi chiamano granpà, e che gestisce un negozio di artigianato del cuoio. Oltre a lui ci sono i volontari che si chiamano Lorenza, Daniela, Carmelina, Annamaria, Francesco, Maria Grazia, Domenico, Luigina e Hala la siriana. Sono commoventi nel loro gratuito dedicarsi, giorno dopo giorno, a rendere confortevole il soggiorno di questi giovani e disorientati ospiti stranieri. La società Orizzonti si lamenta dei ritardi nell’erogazione dei fondi stabiliti. Roma fornisce 35 euro al giorno per rifugiato. Di questi 2 euro e 50 vanno alla persona, il resto serve per pagare le spese di soggiorno, vitto e alloggio. Si parla di un assottigliamento dei finanziamenti e si prospetta la chiusura di molti centri di accoglienza. I ragazzi sono preoccupati: finire per strada vuol dire fare i barboni o darsi all’accattonaggio, o cadere nelle mani della criminalità. Ma ascoltiamo le storie di alcuni di loro, come Rachid, scappato da Mogadiscio dopo che il padre è stato ammazzato dagli Shebab. «Gli Shebab sono degli affiliati alla vecchia Al Qaeda, ora sospettati di essere in rapporti con l’Isis», mi spiega Francesco. Rachid è un ragazzo pacato, che ragiona e riflette. «Facevo il pescatore come mio padre. Ma dopo che l’hanno ucciso, ho deciso di andare via. Gli Shebab stanno diventando potenti in Somalia e chi non si adegua alle loro regole o non prega a modo loro o non obbedisce ai loro ordini, è in pericolo di vita». Anche Rachid ha patito il carcere in Libia, come tanti, in condizioni terribili, dopo che gli hanno rubato tutti i soldi e quel poco di bagaglio che aveva con sé. «Cosa vorresti fare qui da noi?» gli chiedo. «Pescare, come facevo al mio paese. Anche nel lago qui vicino. Sono bravo, mi basterebbero pochi soldi ma vorrei lavorare. Qui sto chiuso e non faccio niente». Musa viene dal Gambia, e porta occhiali spessi come fondi di bottiglia. È stato operato in Africa ma ha perso un occhio. Ora è in cura presso medici italiani che forse gli salveranno l’altro occhio. Quasi tutti dicono che vogliono restare in Italia, come Assad, anche lui proveniente dalla Somalia. Porta un cespuglio di capelli ritti sopra un cranio semirasato, ha un sorriso dolce e gli occhi accesi. «Ho lasciato mia moglie in Etiopia e non so quando potremo vederci. Lei non riesce a venire in Italia e io sono bloccato qui. A Mogadiscio facevo l’operaio». Ha 22 anni, è magro come sono magri e asciutti gli abitanti dei Paesi desertici. Ruben è un tecnico nigeriano specializzato in frigoriferi. Più vecchio degli altri, parla con voce lenta e saggia. La moglie è morta, ha lasciato una figlia alla sorella, e vorrebbe farle venire in Europa. Chiede che lo prendano ad aggiustare frigoriferi. «Anche per un salario piccolo, lavorerei e manderei soldi a casa». Ruben è uno dei pochi che ha accettato l’incarico del Comune di fare volontariato pur di fare qualcosa. Habib viene dal Gambia, faceva il gommista. Il suo viaggio è stato drammatico. È stato tenuto prigioniero 9 mesi in Algeria e due mesi in Libia. È un bravissimo calciatore. «Mi vengono a chiamare i bambini di Pescasseroli perché giochi con loro» dice ridendo. Habib ha un corpo sottile e dinoccolato, due occhi furbi e una bocca che sorride su denti bianchissimi ma storti e rotti. Un altro motivo per cui alcuni ragazzi scappano è l’intolleranza di fronte all’omosessualità. In Nigeria rischiano 14 anni di carcere. In altri Paesi c’è la pena di morte. Alcuni sono musulmani. A una certa ora srotolano i tappetini per pregare. Altri sono cristiani e portano una piccola croce di plastica appesa al collo, come Blessing, nigeriana, una bella ragazza che parla con voce velata, i grandi occhi liquidi che contengono ombre dolenti, le mani che si muovono con grazia. Blessing racconta che ha rischiato di morire nel suo viaggio verso l’Italia, che è stata un mese in prigione in Libia. Tutti raccontano di queste prigioni libiche fatte di privazioni, di prepotenze, di fame, di parassiti, di freddo e di caldo, di condizioni igieniche disastrose. Najib viene da Mogadiscio. Ha 20 anni. «Mio fratello è stato ucciso dagli Shebab. Mio padre e mia madre con altri due fratelli sono scappati in Yemen, dove adesso patiscono la guerra ma non li lasciano uscire. Altri due fratelli sono dispersi». Ma la voce più dolce e gentile è quella di Bubacarr che è scappato da un Gambia feroce e assolutista. «La ringrazio per essersi interessata a noi. Spesso veniamo trattati come fantasmi. Sembrano non vederci, eppure parlano di invasione. Ma noi non vogliamo togliere il lavoro o la casa a nessuno. Vorremmo solo un incarico e una piccola paga per sopravvivere». Quando chiedi loro cosa pensano di fare in futuro si allarmano perché sentono che in Europa monta una generale intolleranza e ne sono spaventati. Cosa fare? Tornare indietro è impossibile. Andare avanti, ma dove e come? Tutti chiedono il permesso di soggiorno, anche provvisorio, che la questura dell’Aquila generosamente concede quasi subito mentre altrove ci vogliono da 7 a 8 mesi. Nel frattempo sono costretti a non fare niente, rimanendo pigiati nei centri di accoglienza, sbattuti a volte di qua e di là secondo le richieste e le intolleranze dei vari Comuni. Spesso, dopo mesi di attesa, vengono a sapere che la loro richiesta di protezione internazionale è stata bocciata. E allora cominciano i ricorsi per sfuggire al rimpatrio. I più fortunati sono quelli a cui viene accolta la richiesta di protezione e a cui viene concesso il passaporto perché finché persiste Schengen, possono andare negli altri Paesi. E per il lavoro? chiedo. Dopo due mesi che sono in Italia possono lavorare, purché abbiano le carte in regola. Molti imprenditori non lo sanno e rinunciano ad assumerli. Si lamentano che tanti italiani non vogliono più fare i lavori manuali ma non si fidano di questi ragazzi africani. «Eppure è facile - mi spiega Fabiola - sono contratti di apprendistato o tirocinio formativo. Possono lavorare con stipendi molto bassi, basta metterli in regola iscrivendoli al centro per l’impiego. Solo se guadagnano più di 400 euro al mese gli tolgono i benefici dell’accoglienza». Pescasseroli con i suoi 2.000 abitanti - che nei periodi di festa diventano 30.000 - sta dando un esempio di buona politica dell’accoglienza. Se tutte le piccole città, i paesi e i borghi italiani facessero lo stesso il problema dell’immigrazione sarebbe risolto. Penso a tutti i villaggi di montagna abbandonati. Qui vicino c’è Gioia Vecchio, un paesino senza abitanti, le cui case stanno crollando e il cui bellissimo paesaggio sta inselvatichendo, infestato da vipere, topi e cinghiali. Perché non affidarlo, sotto la guida di persone del luogo, ai tanti migranti pieni di forza e di voglia di lavorare, per riportarlo alla vita? Molti Comuni purtroppo si fanno prendere da paure ataviche. Chiudono le porte, si rifiutano di accogliere quei quindici, venti rifugiati che scappano da guerre e fame. Eppure dovrebbero sapere, per via familiare, che cosa hanno sofferto i loro progenitori che sono fuggiti da un’Italia affamata e hanno patito le pene dell’emigrazione in Paesi lontani, cercando di integrarsi come potevano. Ma oggi al problema dello spostamento dei popoli si sta aggiungendo una questione che riguarda l’identità. E con l’identità non si scherza. La paura, si direbbe, non è suscitata tanto dal numero delle persone che approdano sulle nostre coste, ma dall’incontro con religioni e abitudini che per millenni abbiamo considerato nemiche e abbiamo combattuto. Non si spiegherebbe altrimenti la tranquilla accettazione di migliaia di badanti straniere nelle nostre case. La paura di perdere la propria identità diventa nevrotica soprattutto quando il sentimento di identità è debole in partenza. Prova che non siamo più tanto sicuri dei nostri valori. Dove sta la certezza di una etica universale che supera i particolarismi? Dove stanno i partiti che porgevano spiegazioni razionali e rimedi sicuri ai mali del mondo? Dove stanno le utopie per le quali ci si sacrificava pur di raggiungere un mondo migliore? L’idealismo è sceso al suo livello più basso e questo crea un vuoto devastante che si accompagna a terrori incontrollabili, a lampi di odio e sospetto verso questi stranieri che pretendono di accamparsi in casa nostra. Ora, anche se fossimo d’accordo che non si possono ospitare tante persone di religione e costumi diversi, quale sarebbe la prassi del rifiuto? Famiglie intere arrivano ogni giorno sui barconi, in fuga dalla fame e dalla guerra, le vogliamo fare tornare indietro sapendo che moriranno in mare o cadranno nelle mani di gente che vuole solo uccidere e rapinare? Questo, come dice papa Bergoglio, non è né cristiano né umano. Non si tratta di buonismo, ma di adesione ai principi dei diritti dell’uomo. Proprio quei valori che se persi di vista ci renderanno simili ai fanatici che vogliamo combattere. Non c’è alternativa a una accoglienza umana e generosa. Salvo poi decidere tutti insieme una sistemazione futura. Le scelte possibili sono due: integrazione intelligente e organizzata o progetti a lunga scadenza che includano il ritorno ai Paesi di origine una volta pacificati, resi produttivi e vivibili. Per fare questo bisogna investire sul futuro, che non sarà solo loro ma nostro, e costerà in denaro e sacrifici. Ma non c’è scelta: il movimento dei popoli non si può fermare. Si può solo governare. Per governarlo però occorrono idee generose e creative, occorre unità di intenti e piani condivisi. Pag 29 Ungheria, Colombia, Svizzera. Gli strappi del referendum di Massimo Nava Si fa presto a esultare per la sconfitta di Viktor Orbán in Ungheria: un referendum anti immigrati naufragato per troppo assenteismo, come le povere vittime nel Mediterraneo, e lo spirito europeo salvo. La notizia contraria arriva 12 ore dopo: i cittadini della Colombia hanno bocciato l’accordo di pace con le Farc, le forze guerrigliere marxiste, che avrebbe chiuso trent’anni di massacri e strisciante guerra civile. Troppo rancore, troppi lutti, per cancellare tutto con un trattato. Anche in Colombia, tuttavia, l’assenteismo è stato elevato. Per fortuna della Colombia, le Farc hanno annunciato che non terranno conto del risultato e che si impegnano a perseguire il processo di pace. Al contrario, il messaggio dall’Ungheria resta inquietante per l’Europa e non sarà certo il leader ultranazionalista Viktor Orbán a fare un passo indietro nonostante la sconfitta: «Il 98% dei votanti (!) è con me!». Situazioni diversissime per storia e problematiche, che dovrebbero fare riflettere sul senso di consultazioni popolari condizionate dall’astensionismo e influenzate da motivazioni degli elettori che aggirano la materia referendaria per mettere nell’urna anche qualche cosa d’altro: opposizione al governo in carica, contestazione delle élite al potere e fattori emozionali e ideologici raramente accompagnati da una conoscenza approfondita della materia del contendere. È stato il caso di Brexit: la maggioranza dei no espressa da una minoranza, vittoriosa grazie all’astensionismo delle classi più giovani, alla voglia di punire il premier Cameron e all’irrazionale paura degli immigrati. L’uscita della Gran Bretagna, voluta soprattutto dalla provincia profonda e anziana e dalle classi popolari, ha conseguenze drammatiche per l’Europa e per la stessa Gran Bretagna. A ben vedere, una minoranza di inglesi (non gli scozzesi e nemmeno gli irlandesi!) ha rotto un patto condiviso da 500 milioni di europei che si sono potuti esprimere sulla materia soltanto attraverso i commenti dell’opinione pubblica. È anche il caso recente del referendum nel Canton Ticino, che fa passare una proposta contro i lavoratori italiani senza tenere in alcun conto la realtà dei rapporti economici e del mondo del lavoro transfrontaliero: un voto che colpisce gli italiani, ma danneggia soprattutto i ticinesi. E potrebbe essere il caso del referendum sulle riforme costituzionali in Italia: in questo senso vanno letti gli ultimi interventi di Napolitano e di Renzi, tesi a sgomberare il campo da condizionamenti politici per riportare gli elettori alla materia del contendere. Ma è del tutto evidente che il fronte del «no» vota in opposizione a Renzi e al governo, con un minimo interesse all’abolizione del Senato e senza tenere conto delle conseguenze sul medio e lungo periodo. È stato così anche in passato, per le consultazioni sul trattato costituzionale europeo. I francesi non votarono sul progetto di Costituzione, ma contro il presidente in carica Chirac che volle la consultazione. Olandesi e danesi fecero altrettanto, di fatto dando il primo colpo al processo federativo continentale. A ben vedere, il trattato di Lisbona fu un successivo rimedio al disastro, un rimedio inventato dai capi di Stato e di governo. Riflettere sul senso dello strumento referendario significa riflettere sul senso della democrazia diretta, mitizzata, a volte a sproposito, rispetto alla vituperata democrazia rappresentativa. Il referendum, di fatto, riduce o conferma la legittimità del governo che lo ha indetto, ma limita e sottrae la responsabilità di decidere, di scegliere, di guidare una comunità, grazie anche a competenze, conoscenza dei problemi, lungimiranza politica, qualità e titoli che non appartengono necessariamente al comune cittadino. Altra cosa è una consultazione popolare su questioni etiche, quali il divorzio o l’aborto. Nella crisi attuale dei partiti e delle classi dirigenti - in parte sorprese, ma in parte complici dell’onda lunga del populismo - l’arma del referendum colma probabilmente un vuoto di democrazia e di partecipazione ed è la risposta più semplicistica alla diffidenza verso la politica che non decide e che tradisce il mandato popolare. Ma il referendum consegna il destino di un Paese (o di un sistema di Paesi) alla volontà di una minoranza strumentalizzabile, che spesso traduce in un voto una narrazione emozionale/ideologica che non sempre rispecchia il quesito tecnico o la valutazione delle conseguenze. IL GAZZETTINO Pag 1 Il contratto M5S, se la politica diventa mercato di Carlo Nordio Quando, quindici anni fa, Berlusconi firmò davanti a milioni di telespettatori un “contratto con gli italiani”, impegnandosi ad attuare alcune riforme nello spazio di una legislatura, le opposizioni reagirono con sarcasmo, e i simpatizzanti con benevola perplessità: perché, si disse giustamente, non si può trasferire in politica un istituto di natura privatistica. In effetti la caratteristica del contratto sta nella sanzione per la sua mancata esecuzione: l’adempimento coattivo, ove possibile, altrimenti il risarcimento del danno. Ed è ovvio che chi governa non può esser costretto, e tantomeno condannato, a nessuna delle due prestazioni. Credo che l’ultimo a crederci fosse proprio il Cavaliere. Si trattò di una delle sue tante geniali ed efficaci commedie per conquistare voti. Questa commedia si sta ora ripetendo, sotto forma di farsa, nella decisione dei pentastellati di applicare una grossa multa ai propri eletti in caso di violazione del codice di comportamento: una sorta di castigo esemplare con funzione di deterrenza per eventuali tentazioni “deviazionistiche”. Che si tratti di una farsa si comprende da due ragioni. La prima, che tale sanzione confligge con il precetto costituzionale: come bene ha spiegato qui ieri l’ex presidente della Consulta, Mirabelli, gli eletti non hanno vincolo di mandato, e quindi non sono tenuti, giuridicamente, a un rendiconto nei confronti degli elettori. La seconda, e consequenziale, è che questa punizione è puramente platonica e astratta, perché nessun giudice si sognerebbe mai di irrogarla. Il contratto di Grillo, infatti, è radicalmente nullo per causa illecita: e chi l’ha proposto lo sapeva perfettamente. Tuttavia dalla farsa alla tragedia, come insegnava il filosofo, il passo è breve. E qui la tragedia rischia di presentarsi sotto due aspetti. Primo: può un movimento con aspirazioni governative surrogare la responsabilità politica dei suoi appartenenti con strumenti di natura contrattuale? In altre parole: può ridurre un impegno elettorale al rango di un debito non pagato, come se l’affidabilità politica fosse garantita da una caparra che puoi perdere quando cambi idea? Perché a questo si ridurrebbe la multa di “almeno centocinquantamila euro” minacciata ai dissidenti: una sorta di diritto di recesso, subordinato al pagamento di quella che in diritto civile si chiama “arrha poenitentialis”. Come al mercato delle vacche: se non paghi la bestia comprata, perdi la penale e morta lì. Un bel viatico per chi vuol cambiare la società. Secondo. L’assenza di vincolo di mandato - che rende nullo l’impegno del codice pentastellato - è uno dei tabù della nostra Costituzione: “la più bella del mondo”, secondo gli stessi grillini. È dunque una palese e grave contraddizione che un movimento, sempre con ambizioni governative, violi questo precetto in modo così grossolano, quando invece potrebbe, e forse dovrebbe, porre in termini seri un problema altrettanto serio e reale. Perché l’assenza di tale vincolo ha reso e continua a rendere possibile quel comportamento trasformista che, nella sua manifestazione più esasperata, si chiama del voltagabbana: quando cioè un parlamentare, eletto sulla base di un programma politico, cambia indirizzo e schieramento, e quindi tradisce la fiducia e le aspettative di chi lo ha votato. Questo prezzo, accettabile nei limiti in cui garantisce l’autonomia dell’eletto, diventa insostenibile quando diventa esodo e controesodo, precipitando il Parlamento in una confusionaria instabilità. Ma anche qui i grillini, nel loro entusiasmo palingenetico, hanno preteso di indicare la luna, fermandosi invece a guardare il dito. LA NUOVA Pag 1 La Shoah dei nostri tempi di Gigi Riva Dopo la Shoah (27 gennaio) da ieri anche i profughi morti in mare hanno un loro Giorno della memoria. I paragoni sono tutti zoppi e il parallelo non vuole scalfire l’unicità dell’Olocausto che fu pianificazione dello sterminio di un popolo. In questo caso è il massacro in massa per via di uno status e non importa l’etnia di appartenenza. Basta essere tra gli ultimi della Terra e fuggire da guerre o carestie. Ma allora come oggi tutto si consuma nell’indifferenza egoista di un Occidente che non contempla il soccorso e si segnala per omissione. Al riparo di giustificazioni ignave che chiamano in causa “i nostri problemi” o l’impossibilità di “accoglierli tutti”. Argomenti che, purtroppo, trovano terreno fertile nella propaganda miope di impresari della paura legati al loro destino elettorale di domani e svincolati da una visione prospettica. Siamo stati migranti anche noi e in misura copiosa fino a due generazioni fa. Avremo bisogno di persone che popolino il Continente invecchiato se vorremo rispettare le sacre regole del Pil. Buon senso spicciolo, quando l’anti storica chiusura nelle Heimat fa innalzare muri e fili spinati (i fili spinati...), costringe quella massa di disgraziati a tentare imprese sempre più disperate come esattamente il 3 ottobre di tre anni fa con la madre di tutti i naufragi, i 366 morti accertati (probabilmente molti di più) nel mare di Lampedusa che è all’origine della scelta simbolica della data. Ci sono state, ci saranno, polemiche stucchevoli sulla necessità della ricorrenza. Col solito argomento che la vigilanza sul tema dovrebbe durare 365 giorni. Chi ha mai detto il contrario? Però che ci sia un momento certificato per fare un punto, persino un buon uso della memoria, male non fa. Soprattutto se, come è successo ieri in molte scuole d’Italia, i ragazzi sono stati chiamati a riflettere su messaggi inversi rispetto al facile populismo degli slogan e delle chiusure. I ragazzi: la generazione futura che, piaccia o meno ai teorici delle divisioni, saranno costretti a vivere in società sempre più mescolate. È già hanno, tra i banchi, compagni con un colore della pelle diverso di cui non hanno spesso nessun timore. Perché il razzismo, guarda un po’, cresce con l’età adulta, quando si perde l’innocenza. Saranno loro, gli attuali teenagers, a dover raccogliere i cocci di un’Europa in sfacelo per cercare di ridare un senso a quei valori che pure gli adulti studiarono, ai tempi loro. Dimenticandoli, poi. Il dovere dell’accoglienza, il rispetto per il forestiero (il buon Samaritano...), i diritti individuali da tramutare in universali. Tutto è tornato in discussione sotto i colpi di una crisi economica lunghissima, di un terrorismo arrivato fin nelle nostre contrade. Cause esterne che, ben manipolate, spingono alla grettezza della chiusura come nel caso del referendum magiaro. Il governo dell’ultranazionalista Viktor Orban chiedeva ai suoi concittadini se fossero d’accordo che l’Europa imponga le quote ai Paesi membri. Il fronte del no (no all’imposizione) aveva puntato le sue carte sull’argomento che, così, si sarebbe snaturata “l’identità ungherese”. Ora, gli ungheresi sono 10 milioni, i rifugiati che l’Europa chiede a Budapest di accogliere 1.300. Milletrecento evidentemente in grado di minare la natura profonda di un popolo millenario. La consultazione non ha raggiunto il quorum ma chi alle urne ci è andato ha votato no con percentuali bulgare (d’ora in poi, percentuali ungheresi), permettendo così a entrambi gli schieramenti di cantare vittoria. Povera Ungheria se si sente minacciata da un numero così esiguo di forestieri. E povera Europa se non troverà la forza di spiegare le ragioni per cui gli sforzi dell’accoglienza vanno distribuiti, trovando finalmente un accordo su questioni che non sono economiche ma che precedono e seguono il senso di una faticosa costruzione comune. Così forse va salutata con favore la coincidenza tra il day after del referendum ungherese e il Giorno dei profughi annegati. C’è l’Europa dei governanti di Budapest che, benché senza quorum, ammoniscono a seguire la volontà di chi si è espresso col voto. E c’è l’Europa di Lampedusa che scruta il mare per fornire un’ancora di salvataggio a chi si trova in difficoltà tra le onde. Nel rispetto di una legge del mare vecchia di secoli. E che solo se si è barbari si può decidere di non rispettare. Pag 1 Spose bambine, lo stupro e il diritto di Ferdinando Camon È accaduto a Padova un fatto di rilevanza epocale e super-nazionale, che influirà, io spero, su tutto l’Occidente. C’era da aspettarselo che accadesse proprio qui. Padova è da mezzo secolo un’antenna che capta con grande anticipo le evoluzioni della nazione e dell’Occidente. Questo giornale l’ha raccontata a sufficienza, ma ora vorrei ricavare per i lettori “il senso” della vicenda. Ne ho discusso altrove e su Facebook, dove in un pomeriggio sono arrivate tre centinaia di email. Cosa significa questa notizia: «La Cassazione ha disposto che il padre di una sposa-bambina di Camposampiero, appena condannato per maltrattamenti, venga ri-processato, insieme col marito di lei, per un reato molto più grave, e cioè violenza sessuale»? Significa, e io spero che il significato influirà sui prossimi casi che verranno giudicati, che quando una bambina (in questo caso, di 14 anni) viene costretta a sposare un uomo, parente o sconosciuto, che ha il doppio o il triplo della sua età, e accettare che lui disponga di lei sessualmente, significa che questa bambina deve considerarsi stuprata, vittima di uno stupro di gruppo, e il gruppo è composto dal padre e dal marito. In altri casi, anche dai fratelli e dalla madre. Più che di gruppo, in questi casi noi parliamo di “branco”. Questo significa la decisione della Cassazione. Non ha nessun senso opporre: ma nel paese d’origine di questo gruppo (in questo caso, il Bangladesh) si usa così, quindi per il gruppo è normale. Quando il gruppo esce dal proprio paese e viene a vivere nel nostro, si sottopone al nostro Diritto. E se nel suo paese d’origine il gesto del trentenne-quarantenne che sposa (o compra, perché spesso la paga) una quattordicenne, e la costringe a far sesso usando le maniere forti, se là non è reato, è una mancanza del Diritto che vige là. Punirlo come reato non è un eccesso del nostro Diritto. Permetterlo è una mancanza del loro Diritto. Nel caso di Padova, la Cassazione chiede che vengano processati il padre e il marito, perché non è chiaro il ruolo della madre. Ma spesso la madre collabora col padre, lo aiuta a convincere e picchiare la figlia ribelle. E se c’è qualche fratello, anche lui dà una mano. La povera ragazza non ha scampo. Lo stupro è aggravato dalla minore età di lei e, per i famigliari, dal grado di parentela. Non mi si dica che un quarantenne che fa sesso con una quattordicenne può essere indotto a credere, data la sua cultura d’origine, che è una cosa “naturale”. Anche la Natura gli fa capire che è una cosa innaturale. Dolorosa, per la bambina. Un quarantenne che trae piacere dal dolore di una quattordicenne, beh, vada nella giungla, non venga a Padova. Parlare di queste cose in questi termini espone a un rischio: il rischio di venir giudicati xenofobi, nemici dell’Islam, intolleranti dell’immigrazione. È vero il contrario: se uno viene qui, e abbandona le sue usanze barbare, è un miglioramento della vita sua e della sua famiglia. Se sente come un peggioramento della vita il non far sesso con le quattordicenni, allora non può venire qui e avere la nostra cittadinanza. Non la merita. Gliel’hanno data, al padre di questa bambina? Tanti anni fa? Grave errore. L’Italia regala la cittadinanza con stupidità. Non ho dati recenti, ma quattro-cinque anni fa si calcolava che le bambine islamiche con cittadinanza italiana, che studiano in Italia, e arrivate ai 14 anni non s’iscrivono alla classe successiva, fossero circa 2mila. Dove sono sparite? Sono state rispedite in patria, a sposare qualche adulto assai più vecchio di loro, che loro neanche conoscono o comunque non amano. Eran cittadine italiane, l’Italia le abbandona. Allora, l’Italia è complice. Da oggi, la decisione della Cassazione mette paura nelle famiglie islamiche immigrate che usano questa pratica. Per questa paura passa la loro civilizzazione. Torna al sommario