un altro marocco

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un altro marocco
Il Portale del Teatro Italiano
Presenta
UN ALTRO MAROCCO
CITTA', MONTAGNE, DESERTO, OCEANO, OSPITALITA' E CONTRADDIZIONI
di Francesco Rapaccioni
foto di Francesco Rapaccioni
Un altro Marocco
di Francesco Rapaccioni
Ogni bene e ogni male sono una prova: la sovranità della mente sta soltanto nel riconoscerli,
nell'affrontarli come tali, nell'attraversarli con la curiosità, segretamente indifferente, del viaggiatore.
In questo viaggio siamo in otto, in pratica una squadra di calcio a cui hanno espulso tre giocatori.
Stefania Brocco, detta "la dottoressa", è in porta, perchè con i continui e faticosissimi turni che deve
sopportare in farmacia è abituata a stare ferma tra i pali. A difesa Luca Cristini e Lucia Barzanò, perchè
giocano in coppia. Il libero è Liana Piernera Palmieri, così adattabile e serena che sa ricoprire facilmente
ogni ruolo. Il centrocampo schiera me, perchè la mia è una vita da mediano, Andrea Campana, silenzioso e
concreto e Giacomo Luchetti, leggermente arretrato, imperturbabile. Schieriamo un solo attaccante, Maria
Fabrizia Basilici, forte e decisa, la classica persona di punta.
Come un vero viaggiatore, devo mostrarmi segretamente indifferente al momento del check-in, per
riuscire ad imbarcare in cabina i bagagli di tutti, compresa la solita, piccola biblioteca che mi trascino dietro
ovunque vado nella consueta e ormai consunta borsa nera di stoffa: i libri sono una zattera di salvataggio
nell'oceano del silenzio e della tristezza e la lettura è la migliore medicina contro malumore e nervosismo.
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Un altro Marocco
di Francesco Rapaccioni
All'arrivo a Casablanca ritiriamo le due
macchine noleggiate, riesco a cambiare le Fiat
Palio con le Dacia Logan, più grandi e
confortevoli per il lungo viaggio. Appena salgo,
caccio un urlo e qualcuno si spaventa, ma è solo
perchè mi sono accorto che c'è il lettore cd e io
non ho portato la trilogia mozartiana cantata da
Pietro Spagnoli; tutti tirano un sospiro di
sollievo, perchè hanno evitato l'ascolto forzato di
"Così fan tutte", "Don Giovanni" e "Nozze di
Figaro" come alternativa alla radio marocchina
(scherzano, in verità siamo appassionati di lirica).
Autoscatto a Casablanca, da sinistra: Stefania
Brocco, Lucia Barzanò, Luca Cristini, Francesco
Rapaccioni, Giacomo Luchetti, Liana Piernera
Palmieri, Maria Fabrizia Basilici, Andrea Campana
Tanta è l'emozione di andare a Marrakech che dimentico di cambiare i soldi per la cassa comune e siamo
costretti a tornare indietro. Lungo la strada ci fermiamo per qualche foto e per comperare piccole banane,
dolcetti (sempre una priorità per me che
sono golosissimo) acqua e un pane
rotondo che Luca definisce "piattella" e
che chiameremo d'ora in poi tutti così;
mangio una banana e, subito adeguato
all'usanza del paese, apro il finestrino e
butto via la buccia in un campo. Invece
della
moderna e
veloce
autostrada
preferiamo la vecchia statale che passa in
mezzo ai paesini, molto trafficata, ma in
Un negozio lungo la statale per Marrakech
linea con il nostro stile di viaggio. Le
immagini del mondo contadino sono gli
unici punti di interesse nel piatto panorama invaso dai fichi d'india. Ci sono un sacco di posti di blocco e
pattuglie di polizia lungo la strada, come spesso accade nei paesi in cui la democrazia è più sulla carta che
non nella realtà.
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Un altro Marocco
di Francesco Rapaccioni
A Marrakech troviamo qualche difficoltà perchè non ci sono i nomi sulle vie, ma chiedendo continue
indicazioni riusciamo ad arrivare in ostello, leggermente fuori dal centro, in una zona silenziosa e tranquilla,
con camere pulite su due piani, affacciate su un patio piastrellato. La stanza comune è arredata alla
marocchina, con divani lungo le pareti. Per l'acqua calda si paga extra. Ci siamo solo noi, i ragazzi tutti
insieme in una camera al piano terra e le ragazze tutte insieme in un'altra al piano superiore. Il tempo di
sistemarci e poi subito a piedi verso la medina per sgranchirci le gambe dopo il viaggio.
La mia preoccupazione è una sola, la Djemaa el-Fna, famosa per gli incantatori di serpenti, che sono
l'unica cosa al mondo che mi terrorizza. Preoccupazione inutile, perchè in giro non se ne vedono. La piazza
è annunciata da lontano dalla colonna di fumo che si leva dai chioschi improvvisati che arrostiscono carne
di ogni tipo. A cena siamo da Chez Chegrouni, stipati in un tavolo nella stanza al secondo piano per godere
della splendida vista sulla piazza e sul suo ininterrotto andirivieni di persone. Mangio la tajine di pollo al
limone con le olive, squisita, la carne tenera, il limone caramellato, le olive acidule, tutto bollente e coperto
da una montagna di verdure e cipolle. Assaggio anche la tajine di manzo con le prugne, anch'essa buona, e
il couscous aux legumes condito con abbondanza di zafferano, una vera prelibatezza.
A conclusione il tipico tè alla menta per digerire le quantità industriali di cibo che abbiamo
ingurgitato. Poi facciamo due passi tra la piazza ed il souq, ma siamo così stanchi che presto torniamo in
ostello per un sonno ristoratore. Che però viene interrotto verso le tre, quando temo che un ladro si sia
introdotto nella nostra camera, invece è solo Giacomo che non riesce ad aprire la porta per andare al bagno
e tra sbuffi e scatorciamenti sveglia tutti. Non riesco a riaddormentarmi e ne approfitto per leggere (con la
pila sotto le coperte in modo da non svegliare gli altri) il libro che ho portato, “Guerra e pace” nell’edizione
Garzanti, la migliore traduzione in italiano, un romanzo capace di rappresentare la vita in ogni dimensione,
che mi spinge a un continuo processo di conoscenza, mettendomi di fronte ai problemi essenziali della vita.
Stanotte mi arrabbio con quello stronzo di Nicolaj, con la sua presunzione mascherata da modestia, con le
sue false promesse mascherate da rassicurazioni.
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Un altro Marocco
di Francesco Rapaccioni
La mattina facciamo colazione in ostello, tè, caffellatte e succo d’arancia, pane, burro, marmellata e
formaggini della "Vacca che ride". Il ragazzo che si occupa della reception è abilissimo a temperarmi la
matita
con
utilizzando
cui
una
prendo
lametta
appunti,
per
rasoi.
Nell'avvicinarci al centro la dottoressa è
nella mia macchina seduta davanti, al
primo incrocio viene sgridata da un
poliziotto perchè non si è messa la
cintura di sicurezza; parcheggiamo nei
pressi della Koutoubia, una moschea il
cui alto minareto è il simbolo di
Marrakech. Mi tengo alla larga dalla zona
della Djemaa el-Fna vicina all'ufficio
postale, perchè stamattina brulica di
incantatori di serpenti di tutte le
dimensioni, e, mentre gli altri seguono
divertiti i pifferai magici, io concentro la
mia attenzione sulla incredibile umanità
che la mattina presto popola la piazza.
Trovo buffi i dentisti ambulanti che
fanno estrazioni all’aperto muniti di
pinze arrugginite e vendono denti e
dentiere, ammucchiate sopra tavoli di
legno; uno mi specifica che i denti sono
Marrakech, la via davanti la medersa Ben Youssef
sia di morti che di vivi e il prezzo
cambia: i primi sono più economici.
Attraversiamo il souq per andare a visitare la medersa Ben Youssef, un luogo splendido e tranquillo,
perfetto per studiare e meditare; assaggiamo alla pasticceria Belkabir dei piccoli coni caramellati ricoperti di
sesamo e miele, deliziosi. Andiamo fino alla kasbah per visitare le tombe saadite; sui tetti nidi con le
cicogne, che schioccano rumorosamente i becchi. C'è una lunga fila per entrare nel mausoleo di Ahmed elMansour, ma ne vale la pena, perché la sala centrale ha la cupola sorretta da esili colonne in marmo di
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Carrara e decorazioni in legno, stucco e gesso che sembrano merletti. Le cicogne hanno costruito nidi
anche sulle mura della kasbah, su cui svetta il bel minareto maiolicato della moschea, chiusa ai non
musulmani come tutti gli edifici di culto in Marocco.
Quel che è certo è che a Marrakech colpiscono più le persone che i monumenti, soprattutto in quel
luogo magico che è la Djemaa el-Fna, un luogo unico al mondo in cui sembrano non solo incontrarsi
persone, ma anche incrociarsi destini. Infatti, oltre agli incantatori di serpenti e ai venditori d'acqua che
sono in cerca di qualche spicciolo e a caccia di turisti, c'è tutta un'altra umanità sorprendentemente vera. Mi
hanno colpito in particolare i guaritori, che tramandano una conoscenza antica ed empirica del corpo
umano, e i contastorie, che raccontano alle persone che
si raccolgono in cerchio storie che a me appaiono
lontane e misteriose: anche se non capisco il significato, il
suono dell'arabo e la musica che accompagna quelle
parole riescono a darmi il senso di un intero popolo, che
crede ancora nel tramandare un racconto orale, che vive
la propria quotidianità basata sul contatto personale
immediato. Marrakech è dominata da ritmi di vita e
valori che da noi sembrano perduti.
A un certo punto comincia a piovigginare e così
saltiamo i giardini di el-Menara per andare in macchina
fino a Essaouira, sull'Oceano Atlantico. Lungo la strada
mi fermo a un incrocio per comperare acqua e piattelle;
mentre aspetto di essere servito, vedo che nel tavolo
vicino stanno mangiando una tajine dall'aspetto invitante
e il cui profumo conturbante mi solletica l'appetito.
Marrakech, un guaritore nella Djemaa elFna
Faccio un cenno agli amici, che scendono, ma nel frattempo il cameriere mi fa capire che è rimasta una sola
tajine e non basta per tutti. Ecco però la leggendaria ospitalità marocchina: un ragazzo al tavolo dice al
proprietario che possiamo mangiare la loro tajine che non hanno ancora toccato (il coperchio è infatti
chiuso), calda e fumante. Io non riesco ad esprimere appieno la mia riconoscenza, in arabo so poche parole
e shukhran, che significa semplicemente grazie, non è abbastanza, anche se nel dirlo ho la mano appoggiata
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Un altro Marocco
di Francesco Rapaccioni
sul cuore e piego la testa leggermente in avanti.
Per concretizzare il mio apprezzamento a quel gesto spontaneo, ci facciamo una foto insieme e ci
scambiamo gli indirizzi di posta elettronica, non so in quale modo potremo comunicare via email, se non
altro potrò inviare a Benghanem Abdelghani quella foto. Avevo visto lungo, le tajine di carne di manzo,
verdure e uvetta sono buonissime: mangiamo tutti insieme da due tajine (che è propriamente il nome del
recipiente, ma per esteso si definisce così ogni cosa che viene cotta lì dentro, lentamente, per ore sul
fuoco), inzuppando il pane come fanno i marocchini. Il locale si chiama Cafè Restaurant Mogadour, è a
Chichaoua lungo la via principale e merita una sosta, per la qualità del cibo e la gentilezza dei proprietari.
Da qui la strada serpeggia tra dolci colline ed il paesaggio è caratterizzato da muretti a secco con sopra
frasche. Una cosa che si nota è una serie di piccole montagnette regolari, che noi chiamiamo "gianduiotti"
perchè somigliano, anche nel colore marrone dorato, ai cioccolatini; non riusciamo a capire che cosa sono e
la dottoressa (interprete ufficiale di francese della squadra) lo chiede al papà albergatore dell'ostello di
Marrakech, il quale la convince che sono fenomeni naturali. Invece sono semplicemente fienili: la paglia è
ricoperta di fango seccato. Ne troveremo in tutto il Marocco, a punteggiare e ondulare le campagne.
Essaouira, lo struscio sul bastione dei cannoni
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Un altro Marocco
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Ci siamo lasciati la pioggia alle spalle, fortunatamente; ad Essaouira facciamo una bella passeggiata
nella medina, invero un poco deludente, serrata nei bastioni portoghesi, dai quali si ha una vista
impareggiabile sull'oceano. E' sabato e il bastione dei cannoni è pieno di ragazzi e ragazze che si
corteggiano ed armeggiano coi loro cellulari.
Nel passeggiare tra i vicoli di case bianche con i tetti terrazzati ci inoltriamo in un quartiere non
turistico (anche per sfuggire alle orribili bancarelle di souvenir), quando io vengo rimorchiato da un pusher
che vende un'ottima scelta (a sentire lui) di hashish, roba di prima qualità. Non se ne fa nulla e lui mi saluta
con abbracci e pacche sulle spalle, tanto che i miei amici da lontano pensano che io abbia incontrato un
conoscente. Torniamo alla piazza Orson Welles (ha girato qui il suo Otello) per riprendere le macchine; sul
lungomare alcuni camion scaricano nell'oceano l'acqua pompata dopo l'alluvione che ieri si è abbattuta sulla
costa. Luca ha ceduto il volante alla dottoressa, che guida la seconda macchina incollata alla mia perchè non
le funzionano gli abbaglianti. Nell'uscire dal parcheggio di Essaouira il posteggiatore (una costante del
Marocco, ti guardano la macchina in cambio di pochi spiccioli) chiacchiera con un amico mentre io faccio
manovra, invece blocca il traffico e fa grandi segnali con le braccia mentre è la dottoressa a fare manovra,
evidentemente Stefania dà l'idea di minore affidabilità al volante, cosa che invece nei fatti si dimostrerà
errata.
Il viaggio di ritorno a Marrakech è faticoso perchè è buio pesto, il traffico è intenso e lungo la strada
incontriamo di tutto, persone a piedi, biciclette, cavalli, asini, carrettini. Andiamo direttamente a cena al
Cafè Toubkal. Il piano terra è più lussuoso, ma turistico; saliamo al secondo piano, dove mangiano in
prevalenza locali. Ordino un'ottima tajine di verdure ed assaggio il couscous vegetariano, più insipido di
quello di ieri sera. Ordino per tutti due porzioni di dolce, indicato nel menu come "patisserie marocaine" e
scoppiamo a ridere quando ci arrivano due sole briouats, dolci a forma cilindrica che io chiamo le dita di
Fatima: in pratica una porzione, che dovremmo assaggiare in quattro, è un solo dito di Fatima, grande
appena come il mio mignolo. Il personale è poco gentile, ma è divertente osservare che ogni cosa viene
portata dal piano inferiore da un cameriere, il quale, evidentemente stanco dal salire la rampa di scale,
appena entra nella stanza si siede ed è un altro cameriere a proseguire verso i tavoli con il vassoio. Dopo
cena facciamo una passeggiata nella Djemaa el-Fna, sempre attratti dalla incredibile umanità che vi circola e
vi staziona. Parlo con alcuni ragazzi, curioso di sapere come vivono e quello che pensano del Marocco,
dell'Europa, del fondamentalismo islamico. I miei argomenti preferiti sono la politica e la religione. Mi
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Un altro Marocco
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raccontano che il re è giovane e meno autoritario del padre ed ha intrapreso buone iniziative per
l’istruzione e i diritti della persona; sanità e trasporti pubblici sono migliorati negli ultimi anni. A Marrakech
si sentono lontani dalla vera vita, anche se l'internet c'è ovunque ed arrivano le novità di cinema e musica,
poco di letteratura. Per loro è difficile uscire dal Marocco ed interagire di persona con altri giovani.
Secondo me hanno il carattere tipico di ogni sud, maturato dal clima e dalla cultura: una illimitata pazienza,
il senso dell'umorismo, un inguaribile ottimismo e, cosa più importante, sognano un improbabile avvenire,
affettivo e lavorativo. Un po’ come me.
Ouarzazate, uomini lungo la strada
Partiamo verso sud di mattina così presto che non riusciamo a fare colazione in ostello; un giro delle
mura color ocra della medina e poi sfrecciamo verso le montagne dell'Atlante. Ci fermiamo a Taddart, in
un cafè restaurant che si chiama "La belle vue" ma la cui pulizia lascia abbastanza a desiderare, soprattutto
su sedie e tavoli di plastica bianca. Il proprietario orgogliosamente ci conduce nella cucina, in cui già
bollono sul fuoco di carboni un paio di tajine. Arrivano alcuni abitanti delle case vicine, incuriositi da noi
stranieri. Tutti sono intabarrati in lunghi mantelli con cappuccio che li fanno assomigliare a monaci o frati
cappuccini, salvo per il pugnale argentato che alcuni sfoggiano a tracolla. Noi prendiamo tè alla menta, tè
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nero, caffè, alcune merendine preconfezionate, i biscotti di marca "Tango" (simili ai nostri "Ringo") e due
pacchi di biscotti di una panetteria vicina, che sembrano dei grandi "Pavesini" (Lucia li chiama Pavesoni,
viste le dimensioni). Il carburante nelle macchine scarseggia e non si incontrano rifornimenti lungo la strada
in mezzo alle montagne; ci fermiamo da un benzinaio sperduto che vende un diesel di basso tipo, ma
almeno non rimaniamo a secco. La terra è di un rosso intenso, colonizzata da agavi e fichi d'india.
All'improvviso, inaspettata, una foresta. A momenti la pioggia battente sembra un uragano tropicale, la
radio non capta più alcun segnale. La strada corre serrata tra alte montagne, la nebbia lascia intravedere
ogni tanto le cime innevate, le curve si susseguono, interminabili, tra alberi altissimi, il valico a quasi 2.500
mt è spazzato dal vento gelido: ma siamo davvero in Marocco?
Deviamo
principale
Haddou
dalla
verso
(prima
strada
Ait
sbaglio
Ben
a
svoltare e un marocchino da
una jeep mi segnala gentilmente
che l'incrocio è più avanti) ma
la pioggia ha reso impraticabile
il guado per raggiungere la città
di fango, se non a dorso di
mulo. Così ci accontentiamo di
uno sguardo a distanza dello
ksar,
Lo ksar di Ait Ben Haddou
quasi
completamente
ricostruito in occasione di vari
set cinematografici, e ci rifugiamo in uno degli alberghi lungo la strada per andare al bagno e bere un tè alla
menta. Ma i bagni sono talmente sporchi e tutto appare così polveroso che non ce la sentiamo di bere quel
tè e ce ne andiamo alla chetichella, prima che torni il cameriere per le ordinazioni.
Ouarzazate ci accoglie con gli studios in cui vengono effettuate le riprese di molti films, una Cinecittà
nel deserto. Lasciamo i bagagli all'hotel Amlal, in cui hanno disponibilità di camere visto che turisti in giro
non se ne vedono. L'Amlal è in buona posizione centrale, in una via appartata e con il parcheggio per le
macchine davanti. Le camere hanno tutte il bagno (si allaga quando ci si lava perché non c'è cabina-doccia)
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ma sono tristi e desolate: però avere per una notte acqua calda, carta igienica e asciugamani ci sembra già
un lusso.
Lungo la valle del Draa troviamo una macchina in panne e ci fermiamo: un ragazzo ci chiede olio e
acqua, non abbiamo olio ma acqua sì. Poi ci chiede di portare un suo messaggio a Agdz e io gli offro un
passaggio nella mia macchina. Mamadu accetta e sale. Ci racconta che viene da una famiglia di nomadi del
Mali ma ha la cittadinanza del Marocco perchè la madre è marocchina e lui è nato qui; ha 23 anni, non sa
nè leggere nè scrivere ma parla abbastanza correttamente francese perchè l'ha imparato dagli amici; la sua
famiglia ha un collegamento con dromedari tra Marocco, Mauritania, Mali e Burkina Faso, viaggi lunghi
fino a tre mesi nel deserto per portare merci avanti e indietro. All'arrivo a Agdz i suoi parenti ci offrono un
tè, ma Luca, Lucia e Maria Fabrizia preferiscono fare due passi dopo che la guida di Giacomo lungo le
innumerevoli curve ha scombussolato i loro stomaci.
Sulla piazza ho appuntamento con un giovane collega, con cui ho un amico italiano in comune. Lo
riconosco per la sciarpa bianca berbera, ha il figlio in braccio, mi chiede di vedere da vicino la Nikon che
ho al collo e facciamo uno scambio: lui prende in
mano la mia Nikon e io in braccio il bambino, che
mi sorride con due occhioni immensi e fiduciosi.
Facciamo una veloce chiacchierata, il mio tempo è
poco. Mi racconta dell’impegno del re per
modernizzare il Marocco, ribadito in un discorso
di pochi giorni fa in Parlamento contro
corruzione e fondamentalismo. Mi aiuta a
percepire, identificare e decifrare le contraddizioni
Un incontro sulla piazza di Agdz
della sua terra; ripete che siamo fortunati a
viaggiare in un momento di assenza di turisti in
"un altro Marocco", dopo un'alluvione epocale. Verso la democrazia. Mi invita a guardare con attenzione
intorno: la piazza di Agdz è uno dei luoghi più veri e suggestivi del sud, in cui l'arrivo della corriera è
salutato come un avvenimento, dove il mercato dei datteri ha oltre 40 varietà di questi frutti. La sua Agdz è
un mondo polveroso in cui la distanza dall'Occidente non è misurabile in chilometri, ma in secoli.
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Un altro Marocco
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Andiamo a visitare una kasbah, caratteristica cittadella fortificata costruita con fango e paglia. La
deviazione per Tamnougalt è inondata e le macchine non riescono a passare. Le lasciamo lungo la strada,
dopo avere dato l'incarico a uno degli onnipresenti ragazzini di tenerle d'occhio. A piedi, lungo campi che
sembrano risaie e tratti di strada sterrata e allagata in mezzo a palme, arriviamo alla kasbah, dove oggi
vivono poche famiglie. I ragazzi giocano una partita di calcio subito fuori dalle mura. Ci accompagna un
giovane del luogo, una bella visita guidata tra il mellah (il ghetto ebraico, con una sinagoga diruta) e il
quartiere musulmano; entriamo in una casa che stanno ristrutturando, con le donne che scappano in ogni
dove per non farsi vedere nell'intimità domestica. Tutto è costruito con fango e paglia, le decorazioni solo
incisioni geometriche: l'essenzialità berbera si confronta con il fasto delle madrase e delle moschee delle
città imperiali. Le fisionomie delle persone sono cambiate, i berberi sono completamente diversi dai
marocchini, la pelle più scura, gli occhi intensi, il naso schiacciato, lo sguardo deciso e profondo, gli abiti
colorati, l'approccio con gli stranieri più diffidente. Un tramonto rossastro accompagna il nostro rientro. Ai
lati della strada persone accovacciate aspettano un mezzo di trasporto o forse una svolta del destino.
Ad Ouarzazate cerchiamo
un ristorante famoso per le
zuppe, ma è chiuso. Allora
decido per La Fibule, lungo la
via principale, pulitissimo, con
un apprezzabile tentativo di
eleganza etnica e un manichino
di donna berbera a guardia del
bagno.
Mangio
una
buona
zuppa (che riempio di pane) e le
brochette, prelibati spiedini di
carne
cotti
alla
griglia,
la
Una kasbah sulla strada per Er Rachidia
specialità del posto. Poi ci
concediamo una passeggiata lungo la via pedonale, deserta e desolante, come la piazza principale, a cui fa
da ingresso uno scenografico arco di trionfo, finto come gli studios cinematografici realizzati nella periferia,
che però danno lavoro a tutta la zona, tanto che a Ouarzazate la disoccupazione è pressochè inesistente,
un'altra contraddizione del Marocco.
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Un altro Marocco
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Torniamo in albergo presto, per addormentarci presto e prepararci alle due consuete sveglie nel
cuore della notte, quando i muezzin intonano Allah o-Akhbar, Dio è grande, verso le tre del mattino e poi
intorno alle sei. In particolare il muezzin di Ouarzazate è anche stonato, per cui dopo la sveglia non riesco
a riaddormentarmi. Allora esco per una visita perlustrativa, poichè l'hotel non offre colazione (in verità non
ci siamo accordati sul prezzo) ed io debbo cercare una soluzione alternativa. Il forno pasticceria Les
Habouss è dietro la piazza principale ed è una meraviglia, per la pulizia e la quantità di prelibatezze esposte.
Assaggio un pezzetto di bahlawa (che rimane sempre il mio dolce preferito, nelle infinite varianti che ho
mangiato in tutti i paesi musulmani e in Grecia) mentre stanno aprendo e lavando il pavimento con
abbondante acqua saponata, spiego che tornerò più tardi con i miei amici. Passo in hotel per caricare i
bagagli nelle Dacia e recuperare gli altri, poi tutti insieme in pasticceria, come in un paradiso. Mi faccio
preparare una enorme confezione da asporto con: lamchaouak (biscotti di pasta di mandorle), dita di
Fatima, minuscoli panieri di pasta con dentro uvetta e noci, kakh mankouche (con ripieno al sapore di fiori
d’arancia), m’hanchates (con ripieno al sapore di acqua di rose), piccole eliche alle mandorle, feqqas al
cocco, chamia di varie forme al miele, makrout ai datteri, bahlawa (ogni porzioncina ha sopra una
mandorla) e infine le “corna di gazzella” (ripiene con mandorle e fiori d’arancia) che noi chiameremo
sempre, in dialetto marchigiano, “recchie” (orecchie), per la loro forma a mezzaluna simile alle orecchie di
pecora. Insomma, una summa della pasticceria marocchina, quasi un chilo di golosità. Ognuno poi prende
qualcosa da mangiare lì con il tè alla menta o il caffelatte, seduti sui tavolinetti all’aperto, sotto i portici. Io
ho scelto un dolcetto di pasta
frolla con sopra mandorle e
amlou, una crema deliziosa
fatta con mandorle, miele ed
olio di noce di argania. Il
servizio è al solito, senza
fretta, rilassato, rilassante.
A Ouarzazate visitiamo
la
kasbah
di
Taourirt,
parcheggiando le macchine
nel retro di una stazione di
Ouarzazate, la kasbah di Taourirt
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polizia.
Sorprendente
il
Un altro Marocco
di Francesco Rapaccioni
palazzo principale, affiancato da torri merlate e restaurato in occasione di un set cinematografico, come
molte strutture della zona: il governo locale e quello centrale non hanno abbastanza fondi. Rispetto alla
kasbah di ieri, questa è meno sontuosa ma è ancora completamente abitata. Oggi percorriamo la valle del
Dades, chiamata strada delle kasbah per la tipologia costruttiva degli edifici. Tutta la zona è stata
particolarmente colpita dalla fortissima alluvione, per cui le strade sono piene di fango ed i fiumi enormi e
limacciosi appaiono una minaccia in ogni guado che dobbiamo attraversare. A El-Kelaa il fango è talmente
tanto che per toglierlo dalla strada utilizzano un mezzo meccanico tipo spazzaneve, mentre i bambini
giocano inzaccherandosi con la melma e gli anziani guardano increduli, seduti davanti alle loro abitazioni.
In questa parte del Marocco la vita si svolge ancora sulla strada ed è fatta di conversazioni, una tradizione
di oralità da noi persa da tempo. Ancora oggi le case qui si costruiscono con il fango, usando la tipologia e i
colori di quelle di una volta; la manutenzione è continua perchè ogni pioggia ne compromette la stabilità.
Le recinzioni che delimitano le proprietà sono alti muri di fango; le decorazioni sono sempre bianche,
cornici marcapiano e elementi geometrici intorno alle finestre che spiccano nell'ocra e nel marrone delle
murature; le finestre hanno sempre le inferriate. La strada attraversa città turrite e brulicanti di vita, case
con l'aspetto di piccoli castelli per difendersi dai predoni; in una un gruppo di donne "scartoccia", cioè
pulisce pannocchie di granturco. Attraversiamo Tinerhir, dove le donne indossano dei preziosi mantelli di
pizzo bianco. Ci infiliamo nella stretta valle percorsa dal fiume Todra, nonostante alcuni ragazzini ci
ripetono che la strada è chiusa.
Tinerhir, oasi del Todra
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Un altro Marocco
di Francesco Rapaccioni
Subito facciamo una sosta perchè la strada sale di quota e la vista sull'oasi è un'emozione irripetibile,
le rocce rossastre, il verde intenso del palmeto fittissimo, l'erba lucente, come un tappeto appoggiato su una
superficie estranea. L'uomo non vive solo di emozioni dell'anima, quasi tutti dobbiamo andare in bagno,
ma evidentemente in giro non ce ne sono; così decidiamo che un masso enorme di fianco alla strada
fungerà da un lato da gabinetto per gli uomini, dall'altro per le donne. Proseguendo, la carreggiata si
restringe, ci sono punti in cui è faticoso transitare, dopo una decina di chilometri bisogna attraversare il
greto del Todra.
Riesco a scendere nel fiume, ad attraversarlo, ma non ce la faccio a risalire la ripida scarpata dall'altra
riva. Desistiamo. Torniamo indietro e ci fermiamo a Tinejdad in un cafè, dove ordino tè alla menta per tutti
e organizzo una specie di festa di compleanno per mangiare i dolci che ho comperato al mattino: in otto
quasi un chilo, regalandone anche alle bambine che ci guardano con occhi acquosi e profondi. Sono
timorose ed educate, non fanno come altri in Marocco che chiedono sempre soldi; loro prendono
garbatamente i dolci dalla scatola, ripetono all'infinito shukhran, grazie, e prima di mangiarli leccano il miele
che li ricopre.
Il paesaggio è ora più
aperto, caratterizzato da un
altopiano orlato da montagne
brulle, la strada è rettilinea e
corre affiancata dai pali della
luce, luoghi a metà tra Asia
centrale e ovest degli Stati
Uniti. Da qui proseguiamo con
una formazione insolita: in una
macchina io sono al volante e
tutti i passeggeri sono uomini,
nell'altra Stefania è al volante e
Guadando il Gheris in piena
tutti i passeggeri sono donne.
Lasciamo la strada principale,
diretti verso il deserto e il confine con l'Algeria, a tutt'oggi contestato da entrambe le nazioni, una spina nel
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Un altro Marocco
di Francesco Rapaccioni
fianco del Marocco, meno fastidiosa però dell’altra, l’ex Sahara occidentale, ancora occupato militarmente
dalle truppe di Rabat. Incontriamo un branco di dromedari con una bambina ad accudirli; quando ci
fermiamo per fare una foto lei si avvicina, scalza e piena di moccio che cola dal naso, sporca e affamata; le
lasciamo qualcosa da mangiare (che idioti siamo stati a pensare di portare penne a questi bambini che in
genere non sanno nè leggere nè scrivere) e non riesco a tranquillizzarmi per le urla silenziose che si levano
nella mia anima, le urla della miseria e della fame. Abbiamo diversi oued (fiumi) da attraversare, qui i ponti
non esistono. Il secondo è particolarmente impegnativo e sulla sponda un ragazzo ci invita a non
proseguire: se siamo diretti ad Arfoud la strada sarebbe chiusa; io faccio per partire e lui per convincerci
mostra la carta di identità e dice che è un musicista, non una guida. Sono stanco della sua insistenza, che si
è fatta pesante, blocco le portiere dell'auto, chiudo il finestrino e mi avvio verso il fiume, sperando che
l'acqua non sia troppo alta. Innesto la prima marcia e a passo d'uomo mi infilo nell'acqua rossa e
tumultuosa, che invero è alta non più di venti centimetri, per cui passo agevolmente, seguito a minima
distanza dalla dottoressa, che sfoggia per l'occasione un paio di occhiali da sole all'ultima moda e
l'immancabile canottiera (per cui prima o poi finiremo tutti nei guai, lei non si rende conto che è
decisamente sconveniente per i costumi di questi luoghi, le dobbiamo ripetere in continuazione "copriti,
copriti"), sicura al volante come Nuvolari. Come sempre, l'avvertimento è un finto avvertimento e non
corrisponde a verità: le quattro volte che guadiamo il Gheris lo facciamo abbastanza facilmente, seguendo
una Peugeot francese.
Cominciamo a vedere le dune di
sabbia, che in parte ostruiscono la strada,
preannunciate da cartelli di pericolo per noi
inconsueti, con su l'immagine di dune di
sabbia in movimento. Ad Arfoud pensiamo
"è fatta", ma non è così. La strada è
interrotta prima di Er Rissani perchè i due
fiumi che la costeggiano in quel tratto, lo Ziz
e il Gheris, sono esondati creando una
Arfoud, i fiumi in piena non fermano Francesco
palude enorme che ha invaso la campagna e
la strada. Lunga è la fila di macchine ferme.
Proseguo a piedi, pensando a che cosa fare per proseguire il viaggio verso il deserto. Poi mi rendo conto di
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Un altro Marocco
di Francesco Rapaccioni
qual è l'unica soluzione possibile, perchè dall'acqua sta arrivando un camion come quelli del nostro
soccorso stradale con sopra una macchina. Blocco subito l'autista e comincio con lui una contrattazione sul
prezzo che vuole per portare di là dall’acqua le mie due Logan e alla fine ci accordiamo, quando scoppia
una litigata furibonda tra lui e altri uomini che vogliono approfittare della situazione. Non mi faccio
intimorire e con fare deciso faccio manovra e carico a fatica la mia Dacia sul camion. Stefania, Liana e
Maria Fabrizia salgono con me, gli altri aspettano che il camion torni a prenderli. Sul cassone salgono
almeno una ventina di persone, attaccate ovunque come gli acini di un grappolo d’uva. Un’anziana signora
rischia di cadere e allora le afferro le mani, stringendo forte fino a che non siamo all’asciutto. Lei mi vuole
ricompensare con dei soldi che ovviamente rifiuto.
Mentre aspettiamo che il
camion torni indietro con gli
altri e la seconda macchina,
subiamo l’assalto, festoso, di un
gruppo di ragazzini curiosi, che
da Er Rissani sono venuti in
bicicletta a godere dell’insolito
spettacolo
dell’allagamento,
capitanati da un bulletto che fa
il duro con le mani in tasca e lo
sguardo spavaldo attraverso i
Ray-Ban taroccati. All’arrivo di
Luca, in cinque salgono nella
Er Rissani, la piazza nel giorno del mercato
sua Dacia, mentre nella mia,
dove sono rimaste Liana e Stefania, do un passaggio ad una famigliola, il padre, la mamma in burka rosa da
cui spuntano due occhi neri bellissimi esaltati dal kohl aswad e due bambini, il più piccolo tenuto dietro la
schiena con una fascia di stoffa. A Er Rissani il solito assalto di procacciatori di clienti, che cerchiamo di
allontanare dicendo che dormiamo all'ostello della gioventù, ma dicono che è chiuso. Io non ci credo,
perchè il papà albergatore dell'ostello di Marrakech aveva parlato al telefono con il papà albergatore
dell'ostello di Er Rissani e quando in effetti verifico che l'ostello è chiuso, lo faccio cercare da un ragazzo.
Abdellah è un vero mito, ben piazzato, faccia aperta e cordiale, colore scurissimo come i subsahariani, parla
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Un altro Marocco
di Francesco Rapaccioni
un buon inglese ed è stato l'autista di Penelope Cruz durante le riprese di un film. Subito si mette al lavoro
per riassettare l'ostello, una casetta a due piani a pochi metri dalla piazza della cittadina, ma sembra chiuso
da mesi, pieno di polvere, anche per il vento che ha spazzato per giorni la sabbia del deserto. Lucia soffre
di asma da allergia alla polvere ed è costretta a riparare con Luca nell'hotel davanti all'ostello; noi ci
sistemiamo in due camere al primo piano, io, Giacomo e Andrea in quella col terrazzino, Stefania, Liana e
Maria Fabrizia nell'altra, Abdellah dorme sui divani addossati alle pareti del soggiorno. Usciamo subito a
fare una passeggiata nel piccolo paese, un affondo nel cuore più vero del Marocco. La polvere che si
solleva dalle strade rende l'aria quasi irrespirabile, lungo le vie una teoria di mestieri da noi scomparsi, un
mondo a cui tutti guardiamo con affetto e ne sentiamo nostalgia, una dimensione in cui l'uomo conta
ancora qualcosa e il tempo non è un'incognita. Er Rissani è uno di quei pochi posti rimasti in cui hai non
l'impressione ma la certezza di essere ai confini del mondo, per quel senso di ineludibile fatalità che appare
dominare gli abitanti. In questa notte di aria immobile e calda, irreale, solo i muezzin sembrano l'unico
contatto con un altrove irraggiungibile, qui dove le strade finiscono. E il buio è totale, assorbe tutto. Anche
i pensieri. Anche i desideri. Quella sensazione misteriosa e profonda che all’improvviso invade il cuore.
Er Rissani, il mercato delle erbe
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Un altro Marocco
di Francesco Rapaccioni
Per cena scelgo il ristorante Merzouga, situato dietro l'omonimo cafè, annunciato tra i portici della
via principale da una parete di finte pietre e da vasi con terra vera in cui sono conficcati fiori vistosamente
finti, tra Pedro Almodòvar e Luis Bunhuel. La sala ristorante ha un'aria un po' claustrofobica, è quasi vuota,
oltre noi pochi uomini che bevono tè alla menta in disparte dall'altra sala dove si gioca a carte ed il troppo
fumo delle sigarette rende l'aria nebbiosa e giallastra. Non possiamo assaggiare la famosa medfouna, la
pizza del Tafilalt, un piatto ricco con carne e verdure che necessita di oltre dodici ore di preparazione. Io
seguo il consiglio di Abdellah e ordino il kalia, uno stufato buonissimo con pomodori, cipolle, carne,
prezzemolo e coriandolo. Mangiamo come sempre una quantità industriale di piattelle. Durante la cena
parliamo
di
politica
italiana,
locale e nazionale, e il discorso
mi infiamma a tal punto che mi
sembra di avere già digerito e di
sentire di nuovo la fame mentre
sto
ancora
scomodamente
a
seduto
tavola,
sulle
tipiche panche senza schienale,
via le scarpe. Usciti, giriamo
intorno a una enorme struttura
situata nei pressi, un carcere o
forse piuttosto una caserma, un
Merzouga, oasi dopo l'alluvione
codazzo di bambini a piedi o in
bicicletta con noi. In ostello non ci laviamo perchè le docce sono infrequentabili, nonostante gli sforzi di
Abdellah che ha pulito come Cenerentola. Passiamo tutta la sera in camera mia a leggere "Olive comprese",
il nuovo, divertentissimo romanzo di Andrea Vitali che ormai conosco a memoria e ci schiantiamo dalle
risate. Per l'occasione mi sono fatto un turbante in stile berbero con una sciarpa; Abdellah si diverte
quando vede la maglietta blu di Che Guevara con cui dormo. Si scopre la coincidenza che Abdellah è nato
lo stesso giorno, mese ed anno di Stefania. La notte porta un sonno ristoratore, unici suoni i grilli e i cani
randagi che scorrazzano in branchi per le vie. La sveglia è prestissimo, per andare a vedere il sole che sorge
sul deserto. Alle 6.30 partiamo per Merzouga, dove la strada asfaltata termina in un arco trionfale che dà
accesso alla piazzetta del villaggio, sterrata. Poco oltre comincia l’Erg Chebbi, il deserto, quello vero, una
distesa di altissime dune di sabbia che sembra un mare rosso, in cui l’uomo si ritrova minuscolo,
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Un altro Marocco
di Francesco Rapaccioni
insignificante. Con le macchine riusciamo a percorrere una corta pista sabbiosa che conduce alla base delle
dune e ci arrampichiamo sopra le prime, mentre una berbera va a prendere l’acqua da un pozzo con
l’asinello carico di taniche di plastica arancione. Come ragazzini ci tuffiamo sulla sabbia, scattiamo foto
all’impazzata e, nel silenzio del mattino, godiamo dell’attimo, di una luce che non ha eguali. Il confine con
l'Algeria è a meno di dieci chilometri, ma da Merzouga proseguono solo piste di sabbia. Dobbiamo tornare
indietro, tra le palme a bagno nell’acqua in oasi che dopo l’alluvione sembrano risaie. A Er Rissani ci
fermiamo per fare colazione al cafè dell'hotel Panorama, anche per ringraziare il proprietario che ieri mi ha
aiutato a rintracciare Abdellah e mentre siamo seduti godiamo di uno degli spettacoli più incredibili di
questo viaggio, l'arrivo delle persone dai dintorni per il mercato settimanale, uno dei più belli e veri del
Marocco, totalmente non turistico in questa stagione. Osserviamo incantati l'andirivieni di persone, animali,
merci, carretti, macchine. Non possiamo non perderci fra le vie del souq, ci separiamo, ognuno segue il
profumo da cui è attirato oppure uno sguardo captato di sfuggita. Io mi concentro sull'umanità
meravigliosa che affolla il mercato, è evidente che è l'unico luogo d'incontro per le popolazioni di una vasta
e remota zona. Cerco con la mia inseparabile Nikon di cogliere immagini, di trattenere sguardi, di portare
con me emozioni e sensazioni che mi hanno colmato l'anima, gli occhi pieni di meravigliato stupore. Al
punto che compero quasi nulla (solo un paio di sciarpe di cotone con cui sono abilissimo a fare turbanti),
utilizzando il tempo per girare, guardare, fotografare, salutare, stringere mani, regalare penne e caramelle,
assaggiare datteri e olive. L'emozione è così intensa che, al momento di prendere la strada verso Arfoud, mi
sembra di scappare senza guardarmi
indietro, è forte la tentazione di restare,
di
cambiare
vita.
Oppure
semplicemente di tornare.
Mi preoccupa la strada, il non
sapere se è ancora sott'acqua, anche se
ho con me il numero del cellulare di
Abdellah, da chiamare in caso di
necessità. Invece i fiumi si sono ritirati
di molto, l'acqua sopra l'asfalto è meno
Er Rissani, il mercato dei datteri
di venti centimetri e consente il transito
anche a veicoli normali. Risaliamo la valle dello Ziz, una lunga e rigogliosa oasi tra Arfoud e Er Rachidia,
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Un altro Marocco
di Francesco Rapaccioni
poi una gola rocciosa e aspra che ricorda l'Arizona; in alcuni tratti è inutile il tentativo di arginare con
strutture squadrate di legno lo spostamento delle sabbie, che invadono la strada. Dopo il tunnel dei
legionari, scavato nella roccia, si apre la vasta piana brulla e deserta di Midelt, un agglomerato di case dove
provo a cambiare i soldi per la cassa comune,
invano: le banche sono tutte chiuse. Compero
baguette (finalmente non piattelle), acqua e le
mele, tipiche di questa zona, oltre a un coltello,
che non abbiamo perchè in aereo viaggiamo solo
con il bagaglio a mano. Il venditore di mele mi
implora di aiutarlo ad entrare in Italia, che non ne
può più di raccogliere mele in Marocco, facendo
la fame, prendendo botte dal padre. Io cerco di
spiegargli che lo farei volentieri, ma che davvero
non so come, perchè in Italia c'è una legislazione
assurda sull'immigrazione, che vuole far passare
gente affamata e disperata per delinquenti e
stabilisce quote come se fosse un mercato; ad
ogni buon conto gli lascio un bigliettino con su i
miei numeri di telefono e la posta elettronica, lui
mi abbraccia e mi dice Inshallah, se Dio vuole.
A Zeida ci fermiamo a una specie di
autogrill per mangiare quello che abbiamo dietro
Fès, un tintore di pelli
e bere il solito tè alla menta, poi continuiamo
lungo la strada che attraversa il Medio Atlante, meno aspro dell'Alto Atlante. Sono i giorni della raccolta
della paglia e i camion che incrociamo hanno carichi spropositati, spesso più del doppio dell'altezza del
camion, per cui procedono a velocità bassissima lungo le strade. Particolarmente piacevole la foresta di
cedri prima di Azrou, città dove mi fermo a cambiare soldi; lungo le strade una quantità impressionante di
ragazzi usciti da scuola e questa è una cosa insolita che ha caratterizzato il viaggio, in ogni parte del
Marocco: a qualsiasi ora del giorno abbiamo visto in giro tantissimi studenti con le loro divise, per cui non
riusciamo a capire a che ora si va a scuola e a che ora si esce.
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Un altro Marocco
di Francesco Rapaccioni
Al bivio verso Ifrane facciamo gasolio, illuminati da arcobaleni. Luca si accorge che c'è
un'ammaccatura nel mio sportello, forse fatta nel corso della notte a Er Rissani. Di certo non a Azrou,
perchè mentre ero in banca Liana era rimasta dentro la macchina. Gli altri si erano fermati per fotografare
furbi babbuini nel bosco di cedri, i quali hanno rubato tutte le piattelle tra le urla di Lucia e Maria Fabrizia.
Una sorpresa è Ifrane, fondata nel 1929, un pezzo di Svizzera su sfondo marocchino, le case con tetti
fortemente spioventi di tegole rosse, villette monofamiliari a schiera allineate lungo giardini fioriti, ampi
viali alberati con i colori già dell'autunno. Qui c'è una università in lingua inglese molto famosa, di recente
istituzione ma su cui il re ha investito tanto in termini di tolleranza tra le fedi: il campus è aperto a studenti
cristiani, musulmani ed ebrei, come dice Mohammed VI "una università per tutti i figli di Abramo".
L'arrivo a Fès è nella consueta bolgia di traffico sconclusionato, con una puzza di smog che rende
l'aria irrespirabile, a cui noi non siamo più abituati. A un semaforo chiedo a un tipo su un motorino di
farmi strada fino all'ostello, che è vicino, nella ville nouvelle. La solita mancia, accordata, e i servigi di guida
per il giorno dopo, gentilmente rifiutati, e ci sistemiamo in ostello, il migliore del Marocco. Una bella casa
degli anni Venti, con un piccolo giardino sul davanti separato dalla strada da un alto muro di cinta. Uno
stretto corridoio conduce a un patio piastrellato coperto da un intreccio di canne, su cui si affacciano le
camere. Noi ne occupiamo due, una le ragazze e una i ragazzi; nella nostra io e Andrea dormiamo nel piano
superiore dei letti a castello. Tutto è pulitissimo e i bagni hanno l'odore inconfondibile di disinfettante degli
spogliatoi delle piscine, ma acqua calda solo al mattino. Ci portiamo sempre dietro lenzuola e federe, il
tempo di apparecchiare i letti (come dicono i napoletani) e poi spruzziamo una generosa quantità di
insetticida per sterminare le zanzare che infestano le due camerette. Usciamo per cena nella ville nouvelle,
lungo l'avenue Hassan II; decidiamo, su suggerimento della ragazza dell'ostello, per il Mauritania, dove
Giacomo, Luca e Andrea sperimentano la specialità di Fès, la pastilla, pasta sfoglia con pollo a pezzetti,
uovo, limone, mandorle e cannella. Io assaggio da loro e decido per un più abbordabile couscous di pollo,
poco saporito e troppo abbondante. Dopo il tè alla menta, facciamo una passeggiata fino al palazzo reale
(una sposa vestita di bianco si sta facendo ritrarre davanti alle porte dorate) e a El-Jdid, una delle due parti
del centro storico. Fès conserva, miracolosamente intatti, l'aspetto, lo spirito e l'atmosfera delle città
islamiche medioevali. In alcuni angoli mi ricorda l'Italia meridionale.
La mattina colazione in ostello è a base di dolci di pasta sfoglia, piacevolmente seduti nel patio.
L'occasione è utile per nuove direttive nella squadra: la partita è particolarmente dura, per qualcuno più di
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Un altro Marocco
di Francesco Rapaccioni
quanto si aspettava. Però ci troviamo bene in campo insieme e vogliamo tutti continuare a giocare, seppure
utilizzando... "spogliatoi separati". E allora Luca, Lucia e Maria Fabrizia vanno alla ricerca di un hotel nei
paraggi; io, Stefania, Liana, Andrea e Giacomo rimaniamo a dormire in ostello e li precediamo a piedi verso
la medina. Prima di raggiungerla incappiamo in due delle faux guide per cui la città è tristemente famosa. Io
ho deciso fermamente che voglio dimostrare e raccontare che è possibile girare Fès anche per conto
proprio, senza guide. Anche i due sono decisi a farsi assumere da noi e di fronte ai miei gentilissimi rifiuti
passano prima agli insulti, poi alle minacce, poi agli spintonamenti, dicendomi di tornarmene in albergo o
in Italia, augurandomi male cose, ma non mi faccio intimidire né spaventare, continuo a camminare e a
guardare in basso. All’improvviso vengono distratti da una macchina e noi ne approfittiamo per scappare
dalle loro grinfie, quasi correndo lungo la avenue des Français verso la medina, verso Fès el-Bali. Fès...
enorme, labirintica, caotica, infernale, emozionante, indimenticabile...
La Bab Bou Jeloud incornicia una
delle viste più belle della città, nell'arco di
mezzo appaiono i minareti di due moschee.
Abbiamo appuntamento alla medersa Bou
Inania, uno degli edifici più preziosi del
Marocco, il cui cortile è pieno di turisti,
stupiti
dalla
raffinata
decorazione
calligrafica, geometrica e floreale modellata
nel gesso, intagliata nel legno di cedro,
realizzata nei mosaici maiolicati, mentre un
Fès, la medina attraverso Bab Bou Jeloud
gatto grasso dorme placido nella sala di
preghiera. Poi trascorriamo il resto della
mattina a "perderci", curiosando svagati tra i vicoli, attenti ai numerosissimi asini e muli che costituiscono
l'unico mezzo di trasporto all'interno delle mura. Stefania mi fa notare che ho un pantalone tutto sporco e
tutti si allontanano pensando sia merda, invece per fortuna è solo terra schizzata da una pozzanghera e
basta una delle salviette profumate di Liana a pulire la mia tuta di jeans da metalmeccanico anni Settanta
che deve resistere fino alla fine del viaggio, perchè ho poco altro da indossare. Maria Fabrizia rimane
intrappolata per lunghi secondi in un vicolo laterale, perché lo sbocco sulla via principale è intasato da asini
e cavalli che procedono in direzioni opposte con grandi e sbilanciati carichi ma non riescono ad incrociarsi
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Un altro Marocco
di Francesco Rapaccioni
nell'esiguo spazio, finendo col bloccare tutto e tutti.
Riusciamo a superare il sacro
recinto intorno alla Zaouia di
Moulay Idriss e ad affacciarci
all'interno della sala di preghiera e
del mausoleo con la tomba; poi un
salto nella piazzetta en-Nejjarin, la
cui fontana è da secoli al centro
della vita di Fès. La moschea è
chiusa
per
restauri,
ma
non
saremmo potuti entrare, perchè gli
edifici di culto sono tutti vietati ai
non musulmani. Ci riposiamo nella
Fès, due gemelle nella biblioteca della moschea
piazza es-Seffarin, sulle scale blu e
verdi della biblioteca della moschea grande; io mi diverto con due gemelline appena uscite da scuola che
giocano con le figurine dei calciatori e sono espertissime nel riconoscerli. Con una mossa veloce e rapida
riusciamo ad introdurci all'interno della medersa es-Seffarin, una delle scuole coraniche ancora funzionanti,
ma il custode interviene prima che riusciamo ad avvicinare gli studenti che vediamo in giro. Dalle porte
delle stanze, aperte sui due piani del cortile, sbircio materassi, tavoli, libri, ma non riesco a fare quello che
più mi interessa, parlare con gli studenti, come invece avevo fatto in Uzbekistan, nella valle di Fergana.
Ogni volta di via, ogni angolo di case rivela una nuova Fès, tintori di lana, arrotini, mercanti di ogni genere,
tutto sembra esserci in questo labirinto di salite e discese. Un ragazzino ci accompagna sul tetto di un
negozio, da cui la vista spazia su tutta la medina, ma rimango deluso perchè il panorama è caratterizzato da
un numero enorme di parabole, in pratica una su ogni casa, così fitte che coprono quasi completamente
quello che c'è sotto. Immancabile la visita al quartiere dei conciatori, un inferno dantesco inumano,
maleodorante epperò indicibilmente affascinante, dove affido il racconto più alle immagini della mia Nikon
che alle parole, che sembrano troppe. Oppure non abbastanza. Luca, Lucia, Giacomo e Maria Fabrizia si
lanciano in una lunga trattativa per comperare delle cose in cuoio, mentre noi aspettiamo lungo la via,
riflettendo sugli enormi contrasti sociali ed economici: nella medina la lentezza degli asini, nella ville
nouvelle sfrecciano potenti e costose vetture straniere. Sono innumerevoli gli asinelli, utilizzati in gran parte
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Un altro Marocco
di Francesco Rapaccioni
per trasporto merci; spesso sono parcheggiati in fila nelle vie commerciali e guardano a terra, con gli occhi
inconsapevolmente rassegnati, che gonfiano l’animo di tristezza. Mi colpisce una casa che ha sul muro un
affresco naif con una veduta della Mecca; chiedo in giro e mi spiegano che la famiglia che vi abita è stata di
recente in pellegrinaggio.
Continuiamo lo shopping nel
vecchio mercato dell'hennè, dove
troviamo ceramiche e kohl aswad per
truccare gli occhi delle nostre amiche
rimaste a casa; Luca compera i piatti
più belli e una sacchettata di zafferano,
Maria Fabrizia un vaso elaborato,
Giacomo e Andrea datteri. Tra le cose
più curiose in vendita, un tappeto con
incorporata la bussola che indica la
direzione della Mecca. Molti negozi e
Fès, un conciatore di pelli
bancarelle
espongono
ritratti
di
Mohammed VI e Hassan II, l’attuale re e suo padre, che in alcune immagini sembrano divi dei film degli
anni Cinquanta. Lungo la Tala el-Kbira compero da un ragazzo che passa alcune economicissime "recchie",
ma non tutti si fidano a mangiarle. Assaggiamo anche le tipiche frittelle di semola che si chiamano baghrir e
prendiamo un tè alla menta in un ristorante a Bab Bou Jeloud, anche per esplorare l'ambiente in vista della
cena. Poi con tre petit taxi andiamo alla fortezza del Borj nord per ammirare la veduta della città, ma al
momento di tornare indietro i tassisti o non capiscono o fanno finta e ci fanno fare un lunghissimo giro; io
mi arrabbio come una belva e alla fine riusciamo a farci portare in ostello, dove ci riposiamo sulle sedie del
cortile, schiantati dalla stanchezza.
Io controllo le foto che ho fatto fino ad oggi e prendo appunti per il diario. Mentre finalmente
svuoto l'intestino, leggo "Guerra e pace": le vicende di Pierre Bezuchov e del principe Andrej mi
affascinano come le storie degli amici più cari; trovo sempre tempo per leggere e farlo mi aiuta a non
pensare, quando non pensare è salutare, come quando aspetti telefonate e messaggi che invece non
arrivano. Ho divorato "Guerra e pace" negli anni dell'università, mentre studiavo l'orribile esame di
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Un altro Marocco
di Francesco Rapaccioni
economia politica; da allora ho pensato che era il Libro della mia vita e mi era sempre rimasto il desiderio di
rileggerlo per verificare se era davvero così. Perché i libri sono come le persone e cambiano a seconda del
momento in cui le incontri. E chi può dire se sono loro a cambiare o se invece sei tu, che nel frattempo sei
diventato un altro?
Fès, le vasche nel quartiere dei conciatori
Per la cena siamo indecisi tra due ristoranti affrontati; decide Liana, che è la più grande. La scelta
cade su Les Jeunes, quello in cui abbiamo preso il tè nel pomeriggio e su richiesta di Maria Fabrizia
mangiamo nella sala interna invece che sul marciapiede. La zuppa di verdure è servita in tipiche coppette e
ottima, con molto coriandolo; buono anche il couscous di carne e verdure che ordino io; le tajine che gli
altri prendono e che io assaggio sono nella media, piccantissima la salsa al peperoncino servita al centro
della tavola: a me piace e ci inzuppo dentro le piattelle. Il cameriere è particolarmente gentile, corre e si
affanna per coordinare tutto ed essere efficiente e veloce, sempre sorridente.
Dopo cena beviamo il tè alla menta seduti ai tavolini fuori, con il vicino negozio di bibite che
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Un altro Marocco
di Francesco Rapaccioni
diffonde a tutto volume la musica dei Boney M, io e Stefania balliamo e i camerieri si divertono a guardarci.
Alcuni tornano in taxi a dormire, pensando che sia pericoloso attraversare di notte Fès el-Jdid; altri, tra cui
io, confidando che l’essere in gruppo ci
renda inattaccabili, a piedi. La grand
rue de Fès el-Jdid è ancora piena di
persone che vanno e vengono nei
negozi aperti; la presenza di molte
donne dimostra subito che è un posto
tranquillo anche per noi; io mi diverto
con una famigliola, saluto con la mano
il bambino in braccio alla mamma e lui
risponde sorridente, invitato a farlo dal
papà; mentre mi allontano, mi volto
Meknès, place el-Hedim
indietro e vedo ancora la sua manina
alzata che fa un segno verso di me, il papà con il volto disteso in un ampio sorriso, la mamma con i soli
occhi che sorridono, la bocca e il naso coperti da un velo.
Il giorno dopo la strada è lunga e alle sette siamo già sulla via per Meknès, che scorre monotona tra
campi coltivati e distese di ulivi, dai quali deriverebbe il nome della città; anche qui preferiamo la vecchia
statale che attraversa i paesi alla moderna
autostrada. A Meknès parcheggiamo davanti
alla Bab el-Mansour; offro qualche biscotto
al posteggiatore e prendiamo un tè in uno
dei cafè di place el-Hedim che hanno i tavoli
sotto gli ombrelloni. Facciamo un giretto
nella medina per andare fino alla medersa
Bou Inania, dalla cui terrazza si gode una
vista superba sui tetti della moschea grande,
anche se al secondo piano la puzza di piscio
di gatto è acre. Poi passiamo per il souq,
Meknès, dentro il mausoleo di Moulay Ismail
ancora chiuso e con le vie coperte da
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Un altro Marocco
di Francesco Rapaccioni
malsane lastre di eternit e visitiamo il palazzo Der Jamaï, notevole soprattutto per le stanze del primo
piano, la cui atmosfera ottocentesca è immutata. Per andare fino al mausoleo di Moulay Ismail dobbiamo
attraversare la Bab el-Mansour, in cui stanno preparando una cerimonia con suonatori e militari in divisa: è
in visita ufficiale il Presidente del Parlamento tedesco. Il mausoleo è splendido, cortili vuoti in cui la luce si
riflette nelle piastrelle a mosaico, archi arabi che creano sempre nuove prospettive, il senso del religioso
nell'abbondare di verde (il colore sacro dell'Islam), un silenzio totale, il cielo grigio piombo, le scarpe
lasciate fuori dall’ingresso. Vengo a sapere che c’è un presunto esponente di hezbollah, ma, quando mi
avvicino per parlarci, lui mostra di non comprendere né l’inglese, né lo spagnolo, né il francese e al vedere
la Nikon scappa via, mentre io innocentemente fotografo una bancarella di melagrane. Rimarrà un mistero.
Passiamo per Moulay Idriss, la città santa del Marocco, dove è sepolto il moulay Idriss I el-Akhbar, il
Grande, capostipite della prima dinastia araba e marabut più venerato del Marocco. La strada si arrampica
tra tornanti affiancati da ulivi ed enormi agavi. Ai non musulmani è vietato persino l'avvicinarsi al recinto
che circonda il mausoleo e infatti i poliziotti non mi fanno parcheggiare la macchina nella piazza principale,
obbligandomi a tornare indietro o a proseguire lungo la strada in ripida salita, cosa che faccio. In cima al
paese chiedo indicazioni per raggiungere la terrazza panoramica e seguendo una serie di piccole stradine
sterrate e piene di enormi buche arrivo a un parcheggio da cui si prosegue a piedi. Ci accompagna un
anziano del villaggio ed il solito codazzo di bambini; il panorama è l'unica cosa concessa ai non musulmani,
il santuario appare enorme e
sproporzionato per le dimensioni
del piccolo paese, le cui case
sembrano soffocare il mausoleo e
la piazza porticata in cui si
raccolgono i pellegrini. La vista
dall'alto è superba, le case affittite
intorno al colle, il santuario con i
suoi
tetti
verdi
domina
e
condiziona la vita degli abitanti.
Infatti a Moulay Idriss non ci sono
cinema, teatri e alberghi, le famiglie
Moulay Idriss, panorama col santuario di Idriss el-Akhbar
dei 20.000 residenti ospitano i
pellegrini direttamente nelle loro
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Un altro Marocco
di Francesco Rapaccioni
case. I maghrebini chiamano questo mausoleo la Mecca dei poveri, perchè cinque pellegrinaggi qui
equivalgono a uno alla Mecca, sacro comandamento per i musulmani. In cima al minareto cinque sfere
ricordano le cinque preghiere quotidiane, sul tetto verde del mausoleo tre sfere d'oro simboleggiano sale,
olio e farina, gli ingredienti del couscous, ma anche metafora di Dio, sole e patria, intesa come collettività
umana.
Tra i vicoli è nascosto il piccolo mausoleo Sidi Abdellah el-Hajjam al cui ingresso un barbiere pratica
la circoncisione ai bambini. Diverse persone passano lungo le vie reggendo in mano una tavola con sopra
del pane da cuocere; seguiamo un vecchietto e arriviamo a un forno che vende pane e dolci e cuoce il pane
degli abitanti: davvero un viaggio nel tempo, così pieno di fascino e di profumi che compero una buona
scorta di piattelle e un assaggio di tutti i dolci che hanno. Basta scendere nella valle e si è già alle rovine
romane di Volubilis, deludenti rispetto a quelle viste di recente in Libia e in Siria e il cielo grigio non aiuta.
Però ci siamo solo noi nel sito archeologico e ci muoviamo tra gli scavi come in un'altra dimensione, alla
ricerca dei mosaici ancora in loco, sebbene la casa più famosa, quella del corteo di Venere, sia chiusa per
lavori in corso. Trovo restaurata in modo orribile la casa delle fatiche di Ercole, i cui pavimenti sembrano
fumetti di bambini; mi piace la casa di Orfeo, soprattutto per i mosaici, davvero splendidi, e per la stanza
che si crede essere la biblioteca, con una grande apertura sul
giardino. Ripartiamo, ma il viaggio è subito rallentato da una
teoria di Mercedes beige che viaggiano pianissimo: ne
incontriamo in continuazione, sono taxi collettivi che fanno
servizio tra le città e caricano a bordo fino a otto persone, stipate
tra i sedili. A volte le persone lungo le strade in attesa di un
passaggio confondono le nostre Dacia con le Mercedes e fanno
vistosi cenni con le braccia per farci fermare.
Poco dopo il colle di Zegota sostiamo a un incrocio di
strade per un tè (e per mangiare i dolci presi a Moulay Idriss) nel
ristorante a destra, che ha una tenda rossa con le stelle verdi,
come la bandiera del Marocco. Ordiniamo il solito tè alla menta e
dell'acqua minerale, ma alla comanda il ragazzo porta acqua di
rubinetto in due bottiglie riciclate di sciroppo di melagrana, che,
ovviamente, non beviamo. Il pane è
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In attesa di un passaggio
Un altro Marocco
di Francesco Rapaccioni
ancora caldo, i dolci pesanti di grasso animale, ma la fame è tanta e mangiamo tutto, io forse troppo in
fretta, compresa qualche oliva che un camionista mi offre con le mani quando vado a pagare il conto e che
mi sembra non educato rifiutare. Durante il viaggio verso nord, lungo le curve infinite della strada che
passa per Ouezzane, ho la sensazione di stare poco bene. Però sono coinvolto dalle storie della regione,
terra di ribelli e rivoluzionari che da sempre combattono contro il governo centrale per una indipendenza
ancora fieramente e caparbiamente cercata. Ouezzane ha la più grossa comunità ebraica del Marocco e qui
vengono in pellegrinaggio gli ebrei da tutto il Maghreb. Oggi sembra che gli abitanti siano scesi tutti
contemporaneamente in piazza, tante sono le persone lungo le strade, che non si riesce a passare, perché
sono i giorni che precedono l’anniversario della Marcia Verde. La zona circostante è agricola e ovunque
vendono ceste di melagrane. Ci sono molte caserme e le strade sono già addobbate con le foto del re e le
bandiere per la ricorrenza della Marcia Verde (che cade il sei novembre), con cui il Marocco ha annesso
negli anni Settanta il territorio dell'ex Sahara occidentale, una situazione in cui si ritrova l'orgoglio nazionale
ma che a livello internazionale è ancora l'irrisolta occupazione militare del territorio saharawi e, nonostante
la presenza dell'ONU, è solo formale il cessate il fuoco nella guerra ancora in atto con il Fronte Polisario,
oggi non più sostenuto da Algeria e Libia.
Il nord è più sporco e trascurato del sud; i gianduiotti hanno una copertura di plastica, materiale che
hanno scoperto da poco e di cui fanno grande uso, ma di cui evidentemente non sanno come disfarsi,
perchè la strada è ai lati letteralmente invasa da una montagna di rifiuti plastici, soprattutto sacchetti. Per un
lungo tratto seguo un furgoncino Mitsubishi grigio, dal cui cassone un giovane con i baffi risponde al mio
saluto e con il pollice alzato mi fa capire che va tutto bene. Lasciata la strada principale, costruita di recente
per collegare il nord e il sud del Rif, la secondaria si inerpica verso Chefchaouen (che, a causa
dell’impronunciabilità del nome, Lucia simpaticamente chiama ciuf ciuf, come il treno) e la vista da lontano
è assai scenografica, con le case bianche e azzurre addossate al ripido colle come un anfiteatro. A me e
Luca ricorda Ma'alula, in Siria, anche quella terra di diversità linguistiche ed etniche giustamente difese.
Riesco a trovare un parcheggio libero nella piazzetta dove finisce la strada e, aiutati da uno del luogo, ci
avviamo verso l'hotel in cui vorremmo pernottare. L'hotel Andaluz, poco distante dalla piazza principale, è
una piacevole pensione arredata in stile moresco con le camere che danno su un cortile interno, ora
coperto in alto con un telo di plastica perchè è inverno; dalla terrazza sul tetto si gode una vista senza pari
sul paese e ci sono materassi in cui è possibile dormire in estate sotto le stelle; i bagni sono in comune al
nostro piano, mentre le docce sono a piano terra ed hanno l'acqua calda; le camere sono piccole ma
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Un altro Marocco
di Francesco Rapaccioni
pulitissime e le lenzuola fresche di bucato. Usciamo a fare due passi, l'atmosfera, piacevole e rilassata, è
quella di un paese di montagna conservato gelosamente dagli abitanti e frequentato da un turismo
decisamente particolare. Infatti ci sono un sacco di giovani "sballoni" e l'impressione è che sia un luogo di
innocente trasgressione, tanto che continuano ad offrirci hashish ad ogni angolo. Per me è la seconda volta
in pochi giorni dopo Essaouira… Però io sto poco bene, accuso una stanchezza davvero indicibile; lascio
gli altri a spasso e torno in hotel, dove vomito tutto quello che ho mangiato a pranzo. Arrivano Stefania e
Liana, preoccupate per non avermi visto in
piazza; io non ho le chiavi della mia
camera, che ho lasciato ad Andrea, allora
mi stendo sul letto delle ragazze, mentre
loro, insieme agli altri, consumano una
cena economica e poco saporita al
ristorante Chefchaouen, lungo la salita. Io
sto a letto e non ho niente da leggere,
passo il tempo al buio, abbandonandomi a
pensieri
liberi,
ascoltando
la
voce
inconfondibile di Khaled, che proviene
dalla casa dei vicini e canta “questo non è
vivere”: penso che invece per me questa è
veramente vita, in viaggio con persone a
cui voglio bene.
Al rientro degli amici mi trasferisco
in camera mia e un sonno ristoratore fa sì
che la mattina mi sveglio come nuovo al
canto di un muezzin particolarmente
bravo e toccante e al rumore della pioggia
scrosciante. Alle sette non piove più e
siamo già in giro per le vie ripide a fare
Chefchaouen, via caratteristica
fotografie e a osservare la vita che
comincia, con tanti bambini che escono
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Un altro Marocco
di Francesco Rapaccioni
dalle case per andare a scuola; in una panetteria comperiamo una scelta di melawi, dolcetti di pasta sfoglia e
miele che mangiamo a un cafè della piazza con tè alla menta e caffellatte. E' un piacere osservare la città
che si sveglia, le persone intabarrate che passano sulla Uta el-Hammam senza la fretta che ormai si è
accampata in Occidente. Respiriamo la calma e l'orgoglioso isolamento che sono componenti essenziali
degli abitanti di Chefchaouen. Le stesse cose che amo nella mia Sanseverino.
Partiamo alla volta di Tetouan, approfittando della grande fiera settimanale che oggi si tiene nella
medina. Il paesaggio è mutato ancora, dominano ulivi, la terra è scura, le cime delle montagne aspre e
rocciose digradano dolcemente verso il fiume; per strada vendono lunghe trecce di cipolle e ceramiche
sbeccate. A fatica raggiungiamo un parcheggio a ridosso delle mura in cui lasciare le macchine, poi ci
avventuriamo tra i vicoli, ma, avendo poco tempo, assoldiamo un uomo a farci da guida. Lui parla bene
spagnolo come tutti nel nord del Marocco e io comunico abbastanza agevolmente, anche se in castigliano
sono un po' arrugginito. Invero anche in francese riesco a cavarmela, ma preferisco fingere di no e mandare
avanti l'esperta dottoressa a tradurre, benchè a volte involontariamente io mi tradisca e dica qualcosa in
francese con un buon accento.
Gli uomini sono vestiti in modo elegante
con preziosi abiti bianchi per andare alla
funzione del venerdì. Parlo con uno di loro,
giovane, un bel viso aperto e comunicativo, i
capelli rasati, la lunga, folta e ispida barba nera;
lui mi conferma che in Marocco il sentimento
religioso è diffuso, ma non belligerante e la
religione è più che una fede, facendo parte
integrante dell'appartenenza culturale. Il mercato
è invaso da berberi del Rif, scesi dalle montagne
Un uomo in djellaba
per comprare, vendere, scambiare merce; gli
uomini hanno i soliti djellaba col cappuccio, le donne indossano in testa un telo di cotone celeste con sopra
un enorme cappello di paglia guarnito da cordoni e nappe azzurri. Tetouan è caratteristico, per certi versi
simile a Chefchaouen, ma, mentre là le case erano bianche e azzurre, qui sono tutte bianche e decorate da
piastrelle multicolore, come in Andalucia, poichè Tetouan era la capitale del protettorato spagnolo.
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Un altro Marocco
di Francesco Rapaccioni
Deludente la sosta a Tangeri. Ci perdiamo per la prima volta nel traffico cittadino, ci telefoniamo
(alla mia domanda "dove siete? " Liana risponde "davanti a una fontana…") e impieghiamo una buona
mezz'ora a ritrovarci al parcheggio del Grand Socco, dove, unica occasione, pago alle macchinette
automatiche e non ai posteggiatori abusivi. Sebta, porto franco, è vicina e nelle bancarelle vendono profumi
e altre cose importate illegalmente dall'Europa. Tangeri è sporca e puzzolente, pressochè priva di
monumenti di un qualche interesse: riesce difficile pensare a Ibn Battuta e alla sua infanzia a Tangeri prima
degli straordinari viaggi in Oriente narrati in un romanzo che ho letto prima di partire. Sembra impossibile
immaginare l'atmosfera cosmopolita dei primi anni del Novecento attraversando oggi la medina dal Grand
Socco al Petit Socco fino al porto e ai bastioni: tutto è arrugginito, come i cannoni inutilmente puntati
verso la Spagna, che oggi si intravede tra il velo della foschia. Ma guardando l'Europa da sud non si può
non pensare a quanti siano gli sguardi carichi di speranza rivolti verso quello che per molti africani è ancora
un nuovo mondo.
Da Tangeri a Rabat corriamo veloci lungo una moderna autostrada a pedaggio, con la sorpresa di un
laghetto popolato da tantissimi fenicotteri che muovono nell'acqua le loro lunghe gambe. Le vedute
dell'oceano si alternano agli autovelox della polizia, almeno cinque, sempre presegnalati dagli automobilisti
con il sistema universale di lampeggiare con i fari. L'ingresso nella capitale dà l'impressione di una città
europea, con grandi viali alberati, aiuole fiorite, segnaletica perfetta (quando i cartelli sono solo in arabo mi
aiuta Liana, che sta facendo un corso di lingua). E' abbastanza facile raggiungere l'ostello, subito fuori le
mura della medina, una casa che sembra fortificata, con un alto muro di cinta e poche e piccole finestre al
piano superiore; invece dentro rivela un patio piacevole con un piccolo giardino dove campeggiano aranci
carichi di frutti ancora verdi. Su un lato si apre il dormitorio maschile, su un altro quello femminile; sembra
abbastanza pulito, anche nei bagni, le cui docce
però hanno solo acqua fredda. Andiamo a cena
nel vicino ristorante el-Bahia, non c'è posto nel
cortile all'aperto, affollato di locali che gustano la
zuppa tipica e ci accomodiamo nel salone al
piano superiore, arredato in stile marocchino e
con orribili quadri appesi alle pareti. Il servizio è
molto più veloce del solito e dà l'impressione di
Un venditore di frutta
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Un altro Marocco
di Francesco Rapaccioni
piatti preconfezionati che vengono solo riscaldati al momento dell'ordinazione; la zuppa è buona, invece il
couscous con la carne di agnello niente di speciale.
Dopo avere mangiato facciamo un giro nella medina, le vie strapiene, persone che mangiano agli
infiniti chioschi improvvisati che arrostiscono carne o vendono pane con le interiora, lumache fumanti,
ceci lessi; io, tanto per cambiare, ho voglia di dolci e nella pasticceria Bouiba, che è subito all'interno della
Bab el-Bouiba, compero barchette alle mandorle, i bahla (biscotti di pasta di mandole) e squisiti biscottini
secchi con sesamo e anice. Poi passeggiamo nullafacenti, osservando i negozi e le persone. Compero un cd
di Khaled che contiene “Aicha”, la canzone che ascoltavo a Chefchaouen mentre mi riprendevo
dall’indigestione e, mentre siamo lì fuori ad ascoltare
musica, scoppia una rissa nel negozio vicino, il
proprietario
prende
a
bastonate
un
avventore,
rompendogli una tavola di legno sulla schiena, i pezzi
schizzano fino a noi, Stefania e Liana si prendono un
bello spavento, ma conserviamo la calma e tutto si risolve
in pochi istanti. Dall’esagitato negoziante comperiamo
delle sciarpe nei colori che ci ricordano gli abiti variopinti
della gente di qua, realizzati con il cascame del cotone; la
dottoressa non si fa sfuggire una bella tajine, nonostante
non sia stato possibile trattare sul prezzo; Liana non
trova una teiera che le piaccia.
Vicino all’ostello attraversiamo il pulitissimo
mercato coperto, che stona nell’immondizia e nella
trascuratezza delle vie circostanti. Si vendono anche
enormi ghiande che qui mangiano come noi le castagne.
Rabat, la necropoli di Chellah
Fuori, a ridosso delle mura, c’è l’angolo degli scrivani
pubblici che lavorano sotto gli ombrelloni con antiquate
macchine per scrivere. Nell’ostello sono di nuovo costretto a leggere a letto con la pila, perché, quando
rientriamo, due ospiti già dormono nella camerata; fra le mie lenzuola mi sento protetto, come in una
cuccia.
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Un altro Marocco
di Francesco Rapaccioni
La mattina inizia con la preghiera del nostro compagno di stanza, che ha steso un piccolo tappeto nel
patio, e con una abbondante colazione seduti nel fresco cortile. La visita alla città ha come priorità la
kasbah degli Oudaia, ancora abitata e perfettamente restaurata, con i suoi vicoli pittoreschi, le case
imbiancate a calce e le superbe viste sull'oceano. Riesco a infilarmi nel giardino andaluso, in cui vivono
decine di gatti randagi, ma la residenza di Moulay Ismail è chiusa, nessuno sa dirmi perchè. Alla dottoressa
è scoppiato un febbrone e così, mentre gli altri si dedicano allo shopping negli splendidi negozi della rue
des Consuls, noi ci avviamo verso la macchina. Attraversando la medina comperiamo nella pasticceria
Bouiba alcune scatole degli squisiti biscottini al sesamo e anice da riportare in Italia e frutta per pranzo da
un venditore che dice di essere stato a San Vittore: gentilmente ci fa assaggiare uno strano frutto che
sembra un carciofo e che ha all'interno una polpa biancastra e semi grandi; siamo indecisi a che cosa
assomigli nel sapore e facciamo una tale confusione che, quando lo raccontiamo, Luca dirà che quel frutto
ha il sapore di macedonia, visto che per ognuno assomiglia a qualcosa di diverso.
Dopo una sosta alla imponente torre di Hassan e al recente mausoleo di Mohammed V, in un bel
quartiere residenziale di case bianche con giardino ed enormi buganvillee, aspettiamo Luca, Lucia e Maria
Fabrizia fuori dalla necropoli di Chellah, un luogo ameno e piacevole, più delle rovine poco significative
all'interno della poderosa cinta di mura; gli alberi sono strapieni di decine di nidi di cicogne vuoti. La
dottoressa rimane in macchina, la sua sceneggiata ha raggiunto l'acmè ed è stesa sul sedile posteriore della
mia Dacia grigia con una pezza bagnata sulla fronte, dice che servirebbe per abbassare la temperatura. Io
sono rammaricato perchè non sono riuscito a comperare un copriletto come quelli in seta verde e arancio,
assolutamente splendidi, presi da Lucia e Maria Fabrizia, senza dubbio le più esperte in shopping di qualità.
Ma in ogni viaggio bisogna lasciare qualcosa indietro, per avere un motivo per ritornare.
A metà pomeriggio proseguiamo in direzione sud, l'autostrada ci conduce rapidamente verso
Casablanca, poi in direzione Marrakech fino all'aeroporto internazionale Mohammed V, dove restituiamo le
macchine noleggiate, diventate lerce dentro e fuori, e proseguiamo in treno. Faticosamente, considerato che
i nostri bagagli sono notevolmente aumentati. In treno andiamo verso Rabat, cambiamo a Ain Sebaa per
arrivare alla stazione Casa Port, nel centro di Casablanca. L'ostello è a pochi passi, subito dentro le mura
della medina, interessato da lavori in corso per ampliarlo, ma pulito e piacevole; il receptionist è un pazzo
furioso. Ci sistemiamo tutti in una camera, tra risate a non finire, soprattutto a causa delle docce e del
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Un altro Marocco
di Francesco Rapaccioni
receptionist. Infatti abbiamo pagato il supplemento per l'acqua calda ma nei bagni maschili ci sono tre
docce: una fredda, una bollente al punto da non resistere, una che si riesce a miscelare, sotto cui c'è il
fortunato Giacomo; allora usiamo solo quella, a turno, come una catena di montaggio: il primo si bagna,
poi esce e si insapona, mentre si bagna il secondo che poi esce per insaponarsi, mentre rientra il primo per
sciacquarsi e così via. Lasciamo le docce mezze allagate a forza di entrare e uscire, ma ci siamo divertiti un
sacco. L'avventura continua perchè rimaniamo chiusi nella camera: devo affacciarmi alla finestra che dà nel
patio interno e far chiamare il pazzo che ci apre da fuori, verificando che la maniglia è rotta.
Dobbiamo finire i soldi della cassa comune e decidiamo di concederci una cena di pesce al restaurant
du port du peche, proprio all'interno del porto, dove la puzza di pesce e di acqua stagnante è veramente
insopportabile, dà il voltastomaco, al punto che usiamo le magliette a mo' di mascherine. La sala ristorante
è accogliente e pulita, ma la paella, specialità spagnola tipica anche di queste parti, fa schifo, il riso è mezzo
crudo e il condimento duro e poco saporito. Io ordino un pesce arrosto che non è niente di speciale, come
anche le tajine di pesce che gli altri scelgono. Insomma, spendiamo il doppio o il triplo delle altre sere e
mangiamo peggio.
Usciamo dal ristorante di corsa sempre in assetto da guerra batteriologica, le vie aeree filtrate da
magliette, giubbetti, salviettine profumate; passiamo alla stazione per i biglietti del treno del giorno dopo e
facciamo una lunga passeggiata su un lungomare desolato fino alla moschea nuovissima ed enorme di
Hassan II, che però non è neppure illuminata. Percorriamo le viuzze della medina, luride e puzzolenti. E' la
sera del mercato grande e sono passate migliaia di persone, i rifiuti sono ovunque e le puzze, di animali vivi,
di carne morta, di escrementi, di verdura in putrefazione, rendono l'aria satura e irrespirabile. Inoltre
l'ambiente è degradato, sia architettonicamente che umanamente e noi non possiamo fare altro che perderci
in apnea nei vicoli come in un ventre corrotto, per poi tornare a respirare fuori dalle mura. Prima di andare
a letto, anche per divagare la dottoressa febbricitante e dimenticare quelle puzze, leggiamo "La figlia del
podestà" di Andrea Vitali e ci divertiamo con Renata, Dulù e zia Rosina, le cui avventure ormai ci sono
familiari. Quando arrivo al capitolo della lezione di recitazione di Dulù con il maestro Mirabile ci
sganasciamo dal gran ridere.
La mattina la dottoressa sta meglio, facciamo un'abbondante colazione all'ostello, regaliamo la frutta
che ci è avanzata alla cuoca e ci incamminiamo verso la stazione, carichi di zaini, sacchetti e borse di ogni
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di Francesco Rapaccioni
dimensione, pesantissime. Andrea è così gentile che da giorni si trascina dietro la borsa nera di stoffa con
dentro tutti i miei libri. Rischiamo di perdere il treno, perchè è annunciato al binario 1, dove stiamo
aspettando, invece parte dal binario 4. Il treno corre verso Tangeri, perso nella nebbia del primo mattino
che si solleva dall'oceano, a Ain Sebaa cambiamo e ora sono seduto di fronte a una signora anziana che ha
un disegno elaboratissimo sulle mani fatto con l'hennè: ne abbiamo visti tantissimi, raramente così perfetti
e intricati.
Autoritratto a Chefchaouen: Francesco e l’inseparabile Nikon allo specchio
Io sprofondo nella lettura dell'adorato "Guerra e pace", sul treno, in aeroporto, in aereo. Tra un
capitolo e l'altro dell'omerica epopea si affacciano i pensieri sulle avventure appena vissute, sulle persone
incontrate, su quanto gli occhi hanno visto, sui respiri dell'anima. Tutto già nella dimensione del ricordo.
Mi chiedo se il ricordo è una cosa che hai o una cosa che hai perduto. Mai, come di ritorno da un
viaggio, mi sento placato.
26 ottobre/5 novembre 2006
FRANCESCO RAPACCIONI
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