IL PIÙ BEL CASTELLO ANZI LA PIÙ BELLA TERRA DEL FRIULI.

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IL PIÙ BEL CASTELLO ANZI LA PIÙ BELLA TERRA DEL FRIULI.
I racconti
dei “Battuti”
IL PIÙ BEL CASTELLO
ANZI LA PIÙ BELLA
TERRA DEL FRIULI.
di Fabio Metz
a cura del CENTRONOVE
Circolo Aziendale
di San Vito al Tagliamento
n. 9 - Dicembre 2016
San Vito. Il più bel Castello
anzi la più bella Terra del
Friuli
(Girolamo Cesarino, Dell’origine del Castello di
S.Vito, 1580/1583)
Fabio Metz
Per provare a ricostruire un
paesaggio (in parte) perduto
Sono dell’idea che il recupero di
un’immagine - di qualunque immagine
s’abbia a trattare – passi attraverso plurimi
percorsi. Che si fanno sempre più complicati
stante, di questi tempi, il feroce moltiplicarsi
delle “figure” a seguito della pletora di
sedicenti fotografi, registi, artisti, fino
ai più modesti selfies. Ricoperti tutti da
giustificazioni e scuole di lettura di critici di
ogni scuola e tendenza estetica e quindi riletti
da una pletora di psicologi di tutte le tendenze
possibili ed immaginabili che sono venuti
dichiarando la necessità di sovrapporre ad
un presunto dato oggettivo il fardello delle
memorie personali, delle esperienze di vita
associata, del trascorrere faticoso e, spesso,
faticato dei riti e ritmi del vivere quotidiano.
Devo confessare che, a motivo della
mia oramai attardata età, sono tematiche
che mi coinvolgono solamente in forma
marginale. Con gli antichi, da qualche tempo,
mi succede di andare ricercando prima di
tutto un colloquio similare se non simile a
quello che si potrebbe instaurare tra vecchie
conoscenze. Ed, in merito - ovviamente ed
ampiamente mutatis mutandis - mi ritorna
alla mente quanto Nicolò Machiavelli il 10
dicembre 1513 scriveva all’amico Francesco
Vittori, residente in Roma relazionando sulla
propria attività di ricerca storica.
Venuta la sera, mi ritorno a casa e nel mio scrittoio
(…) ed entro nelle antique corti delli antiqui huomini,
dove da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel
cibo che solum è mio (…); dove io non mi vergogno
parlare con loro e domandarli la ragione delle loro
azioni, e quelli per loro humanità mi rispondono; e non
sento per quattro hore di tempo alcuna noia, dimentico
ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la
morte: tutto mi trasferisco in loro.
E dunque tra i memorialisti del passato,
di qualunque livello essi siano, mi vengo
ricercando compagni di viaggio, prima di
tutto, amici con cui, appunto, camminare,
mano nella mano, fuori dalle aule
accademiche, cercando di assommare le loro
memorie alle mie. Amici con cui, al modo del
Machiavelli, dialogare.
Vediamo, con un pochino di pazienza,
provare a cominciare.
Della più remota San Vito non ci sono,
ovviamente, immagini fotografiche. Ci sono
“descrizioni” in verbis ed altre in oculis come
a dire “descrizioni” da leggere ed altre da
vedere. E poi - il che è la fatica maggiore tentare di analizzare ed interpretare.
Le più remote descrizioni pare possano
essere collocate all’interno di una precisa
funzionalità giustificata dall’urgenza, da parte
della Serenissima, di avere una conveniente
mappatura di quella Patria del Friuli, già
dominio del patriarca di Aquileia, che nel
1420 era entrato a far parte dei domini della
Serenissima.
Scriveva in merito Gian Carlo Menis
Il 19 luglio 1420 il primo luogotenente veneto della
Patria del Friuli, Roberto Morosini, entrava in Udine. Il
suo compito era quello di rapresentare la signoria veneta,
cui doveva rendere conto del suo operato, e sostituire
nel governo civile il patriarca. Per il resto la struttura
politico-amministrativa del vecchio stato patriarcale
doveva rimanere inalterata (come una “regione a
statuto speciale” nell’ambito della Repubblica); il paese
doveva essere amministrato secondo i suoi antichi
statuti. Ci furono tuttavia un progressivo riassetto delle
cariche governative e giudiziarie ed una riforma delle
competenze, soprattutto del parlamento, cui venne
sotratta ogni ingerenza nella politica estera La moneta
veneziana ebbe corso legale. Anche le circoscrizioni
giurisdizionali della Patria subirono mutamenti.
E proprio per sistemare una serie di non
facili problematiche di natura politicoamministrativa si addiveniva nel 1445 ad un
faticato “concordio” tra l’allora patriarca di
Aquileia Lodovico Trevisan e la Serenissima
in virtù del quale il primo avrebbe garantito
alla Signoria veneziana tutti i suoi diritti civili
sulla Patria e quest’ultima invece avrebbe
riconosciuto al prelato tutte le giurisdizioni,
diocesane e metropolitane, e la giurisdizione
feudale diretta sulle Terre di Aquileia, San
Vito e San Daniele. Operazione nella quale,
sconsolato, il Menis leggeva – e giustamente
- la fine “di diritto dello stato friulano
patriarcale” di cui, appunto, rimanevano a
pallido ricordo le appena ricordate tre Terre.
Marin Sanudo (Sanuto) nel 1483,
intraprendendo una sorta di ricognizione in
quella Patria del Friuli di recente conquista,
forse poi che a questo modo consigliato od
incricato dalle autorità veneziane, redigeva
una sorta di diario di bordo – accompagnato in
qualche caso anche da veloci schizzi relativi
ad alcune località - che avrebbe potuto tornar
utile a quanti, dopo di lui, avessero deciso
di far viaggio in quelle zone. Della sosta di
due giorni in San Vito a questo modo il buon
Marino stendeva relazione
Et intramo in San Vito, el qual è castello soto il
Patriarcha di Aquileja; vi erra Cap.° Thomaso Romano.
Quivi alozamo in una bellissima caxa dil conte Antonio
et Handrico, conti di Valvarolo, et visto dito palazo
ch’è bellissimo, tuto depynto etc. Questo castello di
San Vido è bello, et ha belli borgi; qui è uno palazo
anticho, dove habita il Cap.°. Visto una chiesia fano
fabricar questi Conti di Valvarolo, chiamata di Santo
Christoforo [=San Lorenzo]; et questo Haldrigo à per
moglie madonna Marina, sorela di Antonio Avogadro
dotor trivisano. Or qui dormito et ben alzato, partimo
per Udene ch’è mia 15; et uno mio lontan si passa
l’aqua dil Taiamento a guazo e di giara più di un mio.
Nel 1553? o 1565? Jacopo Valvason di
Maniago nella sua Descrizione dei passi
e delle fortezze che si hanno a fare nel
Friuli, con le distanze dei luoghi (tratta
principalamente dal codice 1316 della
Raccolta Cicogna), pubblicato nel 1876 a
cura di C. Combi, veniva ricordando:
“San Vito grossa terra murata, che in altro
dominio si chiamerebbe e sarebbe una città”,
ornata di belle case e palazzi, di giardini e di
acque sorgive, ricca di selvaggina e quindi
frequentata da cacciatori appartenenti alla
più distinta nobiltà friulana. Vi si poteva
ammirare “un palagio assai antico, detto il
Castello”.
Nel 1567, illustrando la Patria del Friuli
«con l’utile che cava il Serenissimo Principe
e con le spese che fa», Girolamo di Porcia
scriveva:
S. Vido. Castello bellissimo con mura, fosse
ed aqua attorno, ben popolato ed abitato da diversi
castellani, che vi hanno bonissime e belle case, cioé
il sig. Nicolò Savorgnano, li conti di Salvarolo e altri
cittadini onorati. Ha bella piazza e bella chiesa, è posto
di là del Tagliamento verso ponente, lontano da Udine
miglia 18. Ha sotto si sè le infrascritte ville: Azzano,
Baiedo [=Basedo], Taiedo, Bania [=Bannia], Settimo,
Villotta e Villafranca, le quali ville non fanno alcuna
fazione con la Patria. Monsignor Reverendissimo
Patriarca vi mette un suo Capitanio, il quale insieme con
due delle nobili famiglie come Malacrea, Zani, Cesarini
ed un del popolo giudicano nelle cause civili insieme,
le appellazioni si devolvono al reverendissimo vicario
patriarcale in Udine, poi a Monsignor Illustrissimo
Patriarca: in criminale giudica il Consiglio, di poi
vanno in appellazione a chi vengano da Monsignor
Illustrissimo delegate.
Ha sotto di sè Monsignor Illustrissimo Patriarca.
Giusto un anno dopo, nel 1568, il
conte Jacopo Valvasone di Maniago con
maggiore abbandono al carattere illustrativo
e traguardando oltre il rinsecchito orizzonte
burocratico-amministrativo del di Porcia,
dichiarava:
San Vito è posto in larga e dilettevole pianura lungi
dal Tagliamento non meno d’un miglio, castello che
già da DCCCC passa uno de’ principali c’habbia non
solo la Patria ma anco la Marca Trivigiana, sì per haver
le strade ben intese come per i vaghi suoi giardini, ma
più per li palagi e belle case de’ cittadini e per li molti
sorgivi d’acque che lo circondano d’ogni parte, nel
mezzo del quale è fabbricata una torre alta da XXVIII
passa con la chiesa di San Vito ch’è di assai buona
grandezza, officiata da due vicarii et sette cappellani,
la quale è ricca di pianette d’oro et di vasi d’argento,
et nell’uno de’ borghi vi è il picciol monasterio di San
Lorenzo, assegnato ai frati di San Domenico.
Dall’altra parte vedesi un palagio assai antico
detto “il castello”, stanza comoda per li Patriarchi
d’Aquilegia, patroni di essa Terra, et li ministri loro,
con una spaziosa stalla di cavalli tutta a volto, et un
giardino de’ più belli et maggiori di tutta questa Patria,
le entrate del quale spettano ai detti Patriarchi che sono
di due mila et più ducati per ciascun anno, siccome i
dacii a quella comunità che rendono da CCC ducati
all’anno e sono dispensati col volere del suo Consiglio.
Il sito col territorio è fertile di biade et vini, allegro
e piacevole per le belle campagne et comodo per il
Tagliamento et per alcuni fiumicelli vicini, abbondanti
di trutte et temoli di tutta bontà et d’altri buoni pesci,
dove per le molte fontane si trovano guazzi d’ogni
intorno commodi per la caccia del falcone, anzi è
riviera sì famosa che spesse volte i principi d’Italia et
altri segnalati gentiluomini vi sogliono mandare i suoi
falconieri, sì come oggidì fa Ferdinando Re de’ Romani
et Massimigliano suo figliuolo, Re di Boemia, perilché
è cosa veramente notabilissima il veder ad un tempo
il paragone di tanti pellegrini et eccellenti uccelli; a i
quali stranieri sta sempre aperta la casa di Giacomo
Codroipi, nobile udinese, cavaliere et vassallo di sua
Maestà; e quello che per natura et per sangue è cortese
et che frequenta questa caccia come propria de’ suoi
antecessori. Dalle cui maestà egli è stato honorato di
due vasi grandi d’argento dorati et di bellissimo la[vo]
ro.
In questa terra sono otto famiglie di cittadini
nobili, cioè Altani, Sbroiavacca, Cesarini, Malacredi
et Lodovichi, che vennero da Milano, Linterii, Rialti,
Colossi et Lonani, dalle quali si creano sei consiglieri
con sei dell’ordine popolare et altrettanti de’ rurali, li
quali per un anno esercitano la giurisdizione criminale
insieme col capitano che tiene il Patriarca, al quale anco
appartiene il civile insieme con due giudici detti Astanti
et creati dal sopradetto Consiglio con le appellationi al
Patriarcato.
[...].
Et al presente fassi nominare nelle pitture Parigino
[=Pomponio] Amaltheo, degno alievo del Pordenone
suo socero, si come anco nelle poesie Ottaviano
[=Ottavio] Minisini [=Menini], dottor di leggi di buona
riuscita.
In questo territorio s’hanno ritrovato tegole in
luochi et musaici di commesso, et non è gran tempo una
sepoltura nella quale erano riposte l’ossa d’un gigante
con un lume eterno di dentro, il quale scopertosi
all’aere di subito, come vien detto, s’estinse. Hassi per
fama che quivi sia stato il castello di Venere, rovinato
da Attila re degli Unni.
Ville suddite VII: Azzano, dove già era un castello,
hora spianato, che fu disfatto già molti anni sono: Bania
[=Bannia], Basendo [Basedo], Villalta [=Villotta],
Taieto [=Taiedo], Settimo e Villa Franca.
Nel 1604, Ettore Partenopeo, nella sua
Descrittione della nobil.ma Patria del Friuli,
con l’origine de i popoli, della Città, delle
Castella, et di molti altri luoghi, che in essa si
ritrovano, Udine, Giovanni Battista Natolini,
venendo a trattare di San Vito, tratteggiando
un rapidissimo panorama di natura storica
probabilmente degni di maggiore attenzione
rispetto a quella che sinora gli è stata prestata,
scriveva:
Grisolfo Duca del Friuli edificò l’honorevole Terra
di S. Vito, per havere in tal giorno ottenuta una segnalata
vittoria contro i suoi nemici et, havendola circondata di
mura, et di fossa, la diede ad habitare ad alcuni soldati
vecchi, et a certe famiglie furlane. Onde, assegnado a
gli habitatori il territorio circonvicino, il quale per le
guerre, et per la peste, che allora haveva infettato molto
il paese de’ Veneti, et quasi tutta l’Italia, era inculto, et
abbandonato. Questa Terra poi si mantenne ogni hora
più crescendo d’habitatori sino al tempo di Marino
Grimani Patriarca di Aquileia, et Cardinale, il quale
essendo di essa Signore, come sono tutti i Patriarchi di
Aquileia per essere quella con San Daniele patrimonio
della Chiesa Aquileiese, procurò d’ampliarla. Et
perciò instituì alcuni giorni, ne i quali si facesse la
fiera, astringendo i sudditi non solamente a venirvi,
ma anco a condurre robbe venali; et esso assegnò il
luogo della fiera fuori della Terra nello spatioso piano:
dove fece piantare un bellissimo ordine di molti roveri,
che ancora vi sono; concedendo nuovi privilegii, et
immunità ad essi di S.Vito, accioche meglio, et in
maggior riputazione potessero conservarsi.
Et in somma tanto fece questo Patriarca per
beneficio di questa Terra, che meritamente si può
chiamare secondo conditore di essa; la quale è di sito
molto vago, et fertile.
Nel 1786 in Venezia, il medico, di probabile
origine coneglianese, Gian Paolo Garbini
operante «nell’insigne Terra di S. Vito al
Tagliamento», pubblicava, con l’acronimo
di G. D.r G. P. e per i tipi di Antonio Zatta
e figli, un’opera dal titolo «Il Medico».
All’interno del complesso lavoro redatto
in endecasillabi martelliani decisamente
mediocri ed accompagnati fortunatamente
da copiose e più interessanti annotazioni,
inseriva anche una descrizione della Terra
di sua nuova, e provvisoria, per esser egli
“medico venturiere”, residenza nella quale
lo si saprà, documentalmente, risiedere fra il
1785 e il 1786
Giace la Terra illustre in un perfetto piano,
e il Tagliamento poche miglia le sta lontano.
Colli, o scoscesi monti non sono al di lei fianco,
i quali soglion rendere il piede pigro, e stanco.
Manca ogni rea palude nociva, ed insalubre,
perciò l’aria felice respirasi, e salubre.
Non sono gli abitatori in verun tempo privi
di placidi ruscelli sempre perenni, e vivi.
Le strade dell’interno ottime sono, e almeno
asciutte le vicine, se non son terse appieno.
Molti palagi, e molti minori fabbricati
nel recinto, e nei borghi son ben architettati.
Vasta è la piazza, e comoda, in cui alta campeggia
eccelsa torre e il Tempio cospicuo vi grandeggia.
Villaggi numerosi le fan corona insigne;
il terren non è fertile, ma abbonda assai di vigne,
da alcune delle quali l’industre agricoltore
tragge un prezioso vino con studio, e con sudore:
e’ questi il Piccolitto liquor degno di Giove,
che raro qui si assaggia, se tutto passa altrove.
Ei vola, fatto antico, al Russo, al Sveco, al Dano;
in Gallia, Ispagna, ed Anglia, ed al vicin Germano.
Vin, che sua fragranza tanto ne alletta i sensi,
che al par dei più pregiati liquori in stima tiensi.
Oltre del Piccolitto vini vi son da smercio
grati, che del Paese aumentano il commercio.
Nutre l’erboso prato grassi e copiosi armenti,
dell’acqua, e anche dell’aria vi abbondano i viventi.
La annual messe dei bachi, che d’ordinario è molto
copiosa, e scelta, è un stabile ricchissimo raccolto.
In somma di ogni genere utile è ben provvista
o nativo, o straniero, che il negoziante acquista.
Merito è ciò di quelli, ch’hanno la patria in freno,
che di Pomona, e Cerere colmo le fanno il seno.
Ommetto di dir quali uomini diè all’Armi,
al Tempio, e al Foro
e quali ora le acrescano la gloria, ed il decoro.
Non parlo poi del clero graduato, e subalterno,
che a piè del Santuario felicita il Governo,
per sì sublime impresa non ho adeguato stile.
Supplisca a tanto duopo il mio silenzio umile,
e d’Esculapio il zelo felice un dì distingua,
ch’è rispetto, e non colpa, se tace la mia lingua.
Solo dirò, che il nobile, il medio, ed il minore
han l’animo ben fatto, e generoso il core.
Posto tutto in complesso, se il mio pensier non erra,
riesce al nativo, ed all’estero grata l’illustre Terra.
E molto più è lor grata, perché non la conturba,
lo Dio mercé, dei mali la molesta turba.
Onde se mai di Nestore giungo all’età gradita,
nel sano ameno loco voglio passar la vita,
mentre de’ suoi individui col medico mio zelo
spero l’amor, se prosperi le mie premure il Cielo.
C’è alla fine - recuperato grazie alle
indagini di B. Brusin - un “addio” finale: un
tantino retorico, ma, probabilmente, sincero,
a firma del poeta Giovanni Prati (18141884) che nell’ottobre 1847, congedandosi
dall’antico amico Gherardo Freschi – onde
più comprensibili diventano le citazioni di
carattere “agrario” – a questo modo salutava
San Vito
Addio vivida, industre e gentil terra,
che in mente e in cor del pellegrin ti stampi
pei fidi spirti e per quell’util guerra,
che fa l’aratro al pio seno de’ campi!
Se da procella e turbine ti scampi
chi, come gioco, i venti agita e serra,
e in te sempre quel caldo impeto avvampi
di fidar l’opera al solco che non erra,
tu in onor crescerai, piccola e cara
gemma del Tagliamento, auspice amico
fra tutti il tuo Gherardo, anima rara,
così la zolla ti protegga Iddio,
e la pace e l’onor, com’io ti dico:
gemma gentil del Tagliamento.
Tuttavia, inutile il ripeterlo. Il testo
fondamentale su cui rileggere la Terra di San
Vito rimane il “dialogo” Dell’origine del
castello di S. Vito dialogo di m. Girolamo
Cesarino con la descrizione di tutte le cose
segnalate che vi sono, arricchito di varie
annotazioni e di una epistolare dissertazione
del sig. abate Federigo Altan de’ conti di
Salvarolo l’an. 1745 quindi dato alle stampe,
dopo la morte di Federico Altan, nel 1771. Si
tratta di un testo sfortunato, sul quale in epoche
passate ed in anni recenti hanno imperversato
studiosi e commentatori con proposte di
rilettura spesso notevolmente diversificate a
cominciare dalla individuazione dell’autore,
e quindi alla proposta relativa alla data
di stesura del manoscritto, per arrivare,
siccome suggerito tra le righe da un recente
commentatore, alla possibilità che possa
trattarsi di un falso storico ad opera del
settecentesco Federico Altan.
Sono problemi e tematiche che in
questa sede affatto ci si prova ad affrontare
limitandoci ad utilizzare quelle righe
quale documento di cui si rivendica una
datazione tra gli anni 1580 e 1583 e pertanto
attestazione di una Terra di San Vito che
assisteva al chiudersi del Cinquecento e
probabilmente al periodo più splendido della
pur non breve vita dell’insediamento. Sicchè
quelle pagine pare possano essere rilette quali
il riassunto di un momemnto irrepetibile
della Terra di San Vito. Ma se ne riparlerà in
altra sede. A Dio piacendo come direbbero
le dolcissime monache del locale monastero
della Visitazione.
Proprio perche si tratta di un “dialogo” tra
una serie di messeri riuniti una sera d’inverno
attorno ad un generoso camino in casa del
conte Amilcare Altan ed in attesa della cena,
nelle riproposizioni dei testi che qui di seguito
avranno a seguire, alle volte si ritroverà la
diretta o indiretta citazione degli intervenuti
a quel nobile conversare.
Di tutto quello che quei nobili messeri
abbero a trattare, si rinuncia qui di seguito a
fare preciso riferimento. Basti una scelta di
citazioni selezionata a seguito delle diverse
tematiche.
I dintorni: il Tagliamento
S. Vito è situato quasi nel mezzo del Friuli alla
destra parte del fiume ovvero torrente Tagliamento
celebrato quasi da tutti i cosmografi antichi che scorre
discosto da noi circa 1500 passa. Questo fiume scende
rapidissimo dai monti Carni, che ricevendo nel suo letto
molti altri fiumi, e torrenti fa il suo corso per lo spazio
quasi di 100000 passi; scorre e divide il Friuli in due
parti, passa per Latisana ed indi va nel mare Adriatico
ove fa un bellissimo porto, Per questo fiume abbiamo
bella comodità di materia di legni per le fabbriche,
cioè di travi d’ogni qualità, e tavole per diversi usi, per
questo fiume già furono già condotti quei grossissimi
legni per la fabbrica del superbo tempio di San Pietro di
Roma, con li quali furno fatte quelle macchine per levar
le gran pietre all’alta fabbrica e tutti questi furno tagliati
nei detti monti de’Carni. Abbiamo anco da questo fiume
pietre per le nostre fabriche e per far perfettissima calce
ed anco arena minutissima, che a noi serve in vece della
polvere puteolana che si usa in Roma ed in Napoli, Né
scordar mi voglio di dirvi una salutifera virtù de l’acqua
di questo fiume, che conferisce molto allo stomaco e
move alla digestione e guarisce dalla rogna quelli che
là dentro si vanno a lavare.
I dintorni: la moltiplicata presenza delle acque
Quelle pure e chiare fontane sono veramente
meravigliose, ch’oltra ch’hanno l’acqua sì freddissima
la state che il vetro la entro posto si spezza, ed
all’incontro il verno sono caldissime, sono ancora
salutifere ai corpi nostri queste acque che senza farne
di loro altra deduzione ci è permesso dalli medici darle
agl’infermi. E questa sua salutifera virtù si causa, perché
elle discendono per rivi sotterranei dal Tagliamento, e
venendo a noi per un buon spazio di via purgano quella
natural torbidezza del fiume, e scaturiscono limpidissime
con abbondante vena e fanno quelli meravigliosi fonti
che ci sono quasi una conserva di salutifere acque di che
se ne serve tutta la Terra; oltre li publici e privati pozzi
che di sette piedi al più profondi sono di grandissima
comodità a tutti d’acque vive, fresche e cristalline
(…). Quivi è il principio ed origine del fiume Lemine
che passa per Portogruaro e per l’antica destrutta città
di Concordia ed indi va nell’Adriatico seno di mare
ove fa un bellissimo e securo porto per sassai gran
navigli che gl’antichi scrittori cosmografi e Plinio
specialmente chiamarono porto Romatino ovvero
Romatio. Averessimo noi qui il nostro rivo navigabile
infino presso il molino (di Portogruaro) se la morte non
s’opponeva sì tosto al bel desiderio del nostro Cardinal
Marino (Grimani) ch’egli ogn’or più procurando dì
accrescer ornamento e comodità a questo suo loco,
aveva deliberato cavar un alveo dritto che fosse almeno
comodo per picciole barche infino a Portogruaro. Il che
si saria con facilità e pochissima spesa e ci saria di utile
grandissimo e specialmente per le merci che vanno da
Venezia in Germania, massimamente quando nel tempo
dell’inverno sono le strade fangose.
Il paesaggio cittadino
La circonferenza di fuori è poco più di 1000 passi
(l’Altan precisa che i passi in realtà sono 1078), ha
quattro porte, ma tre sono le principali. L’una è detta di
S. Nicolò ovvero della Scaramuzza, qual è dalla parte
di Levante, per questa si va al Tagliamento ed Udine
città metropoli del Friuli. Quest’altra chiamiamo di S.
Lorenzo verso Ponente, onde si va a Trevigi. La terza è
porta Grimana detta, ove si vede la bella strada dritta,
per la quale si va a Portogruaro; su quella strada si suole
esercitar li cavalli al corso, qui già riuscì velocissimo
il famoso cavallo delli signori di Brazago che tanti
palii vinse per tutta Italia e fece chiaro il nome delli
Signori di Brazago. Questa porta con la via dritta fu
fatta dal detto Cardinal Marino. Onde ebbe il nome
anco da lui. Vi è un’altra porticella, qual chiamano di
Castello, che serve per comodità del molino del sig.
Gasparo Malacrea e per uso anco dell’acqua della fossa
e questa con la Grimana sono ambedue alla parte di
mezzo giorno. Le mura che circondano la Terra sono
tutte fabbricate in pietra cotta, e similmente li suoi
bastioni con giusta altezza ed ordinata distanza l’un
dall’altro lontano. Sono alle tre porte principali le sue
belle torri quadrate con bella architettura. La Terra è
tutta circondata da una profonda e larga fossa d’acqua
corrente ed anco una parte d’acqua scorre tra il Borgo
di S. Lorenzo e la Piazza: nasce e discende quest’acqua
dai nostri vicini fonti che scaturiscono lontani dalle
mura un tiro di sasso; ove fanno per poco spazio un
chiaro e cristallino rivo del quale dir si può quello che
disse il divino Petrarca nel Trionfo dell’Amore:
Rivo corrente di fontane vive
Nel caldo tempo giù per l’erba verde
Al mormorar delle dolc’aure estive.
(…) Ancorchè il Cardinal (Marino Grimani) in più
parti di questa Terra per abbellirla spinate case e distrutto
edifizii, nondimeno l’animo suo è stato sempre di farne
far dell’altre fabriche e così sono poi gl’abitatori di
tempo in tempo iti accrescendo il loco, ed ampliandolo
di varii edifizii come vediamo. E specialmente li
signori conti Altani hanno fondato fabriche diverse
e fatto grandissimo accrescimento. E li patriarchi
ancora (…) hanno più volte allargato lo circuito delle
mura d’intorno: ma più di ciascuno in vero ha fatto
il cardinal Marino che ha serrato di mura il borgo di
Taliano e similmente il borgo di S. Lorenzo e se più
anni fosse vissuto, avrebbe anco di nuovo aggrandita
questa Terra chiudendo intorno di muraglia tutta la
contrata della Levata, con una buona parte ancora della
villa di Zelia, ove già fu l’antica villa Giulia (…) della
quale antica villa non più si vede vestigio alcuno salvo
che un acquedotto fatto di tegole antiche in gran parte
della terra coperto, rotto e guasto come oggidì vedeer si
può nella via principale fra il giardino delli Lialti ed un
poderetto del sig. Gianantonio Maniaco.
Il verde tra le mura: il giardino patriarcale
Ma ritorno al Giardino del castello. Chi volesse
raccontar le tante e sì diverse piante de’ fruttiferi arbori
portati dai più celebri e famosi giardini d’Italia, saria,
come si dice, un voler annoverar le stelle del Cielo.
Solamente dirovvi che essendo quella una dell’opre di
esso cardinal Grimano, non si dee giudicar altrimenti
se non che sia in tutte le bellezze e perfezioni compita.
E se il gran re Ciro non tanto si gloriava di sue vittorie
e dei regni coll’armi acquistati, quanto di un suo ben
ordinato giardino che con le sue proprie mani s’aveva
fatto, avendo egli stesso indrizzato mirabili ordini di
fruttiferi ed eletti arbori corrispondenti all’occhio in
ogni parte, non altrimenti creder si dee che l’illustrissimo
Grimano, non tanto si vantasse d’aver posto il freno
alli potenti signorotti Peruggini e d’aver edificato la
fortissima rocca di Perugia per assicurazione dello stato
della Romana Chiesa, e d’aver oprato altre gran cose,
quanto aver con le proprie mani piantato ed ordinato il
predetto giardino.
Il verde tra le mura: i giardini privati
E che dirovvi degli altri giardini delle case private? E
del gran numero degli orti? In quella parte (gli orti) certo da
invidiar non abbiamo a qualunque altra nobile città d’Italia
e del Mondo, che oltra l’infinita copia delle varie sorte di
frutti che abbiamo, sono anco più saporosi e maggiori in
questo luoco che non sono dell’istessa specie in altri siti
e specialmente le pere imperiali e quelle che chiamiamo
zoccolini maggiori, e le bosdegane, che qui se ne producono
ben spesso di peso di una libra alla grossa e più l’uno. Delle
pera garzignole, delle poma apie, caravelle, e verdazze
(…) Ma se le frutta sono sì buone ed eccellenti, quanto più
eccellentissimi li vini che quivi si fanno? Veramente vini
eletti da porre alle seconde mense.
La pubblica loggia
Né seggi Capuano, né seggi di Nido in Napoli siano
sì belli sì per l’architettura che si vede, come anco
per la bellezza delle grosse travi de’ lerici, che come
testifica Vitruvio essendo difesi dal fuoco, e dall’acqua
si conservano per molte etadi e secoli (…) Tutti siamo
di S. Vito siamo tenuti a ringraziar voi conte Annibale
(Altan) che l’avete al presente ristorata ed aggiontovi la
bella comodità del sedere a torno
La piazza
A me pareva, disse il Lodovici, che ella non
meritasse laude alcuna non essendo lastricata: però
non mi estenderò a dirne altro, se non che con giusta
proporzione è fatta; ond’è che il più bel steccato per il
giuoco della palla di scagno di tutta Italia; per il che ne
sono di questo loco (…) molti giocatori eccellentissimi
in cotal gioco, fra i quali li più famosi sono stati don
Damiano and reuccio, Nardello Rossetto, li quali col
duca di Mantova, col principe di Salerno in Napoli e
con altri gran signori giocatori per tutta Italia hanno
giocato e per tutto portato vittoria.
Il campanile
E’ la nostra torre, o campanile, vi dico che in Roma
istessa non è di bellezza altra simile, non la torre de’
Conti, né delle Milizie, né meno il Campanile di S.
Pietro in Vaticano è sì bello, come è quello.
La chiesa grande
Ma ritornando dove si diceva sopra della nostra
chiesa ch’era bene officiata, vi dico che da molti
reverendi sacerdoti è governata, che li divini officii si
celebrano con solenni canti sempre aiutati dal suave
suono d’un buonissimo organo che dall’eccellente Gio.
Battista Scussio è suonato.
E continua la “descrizione” del buon
Cesarino toccando tutta un’altra serie di
aspetti della realtà sanvitese legati, ancora
all’ambiente naturale venendo a trattare
di caccia, di pesca, di pascoli e persino
di asparagi e di coltivazione dei campi e
delle “arti meccaniche”. Per approdare alla
celebrazione degli uomini illustri della Terra
tra cui non poteva mancare un posto di tutto
rilievo al pittore Pomponio Amalteo. Donde
la conclusione naturale ed attesa.
Ed in somma con verità possiamo dire che quivi
gl’ingegni degl’uomini nascono e riescono atti ad ogni
esercizio: non so se questo attribuir si dee al nostro
buon influsso del Cielo, ovvero pur alla nostra perfetta
temperie dell’aere che non è, come detto di sopra, né
troppo grave né troppo acuta, per il che noi non siamo
sottoposti alle gravi infermitadi e contagiose pesti, come
si è visto l’esperienza l’anno MDLXXVI ch’essendo
quella gravissima pestilenza sparsa non solamente in la
città di Venezia, ma anco in tutti questi nostri contorni
ed essendone ancora per traffico de qui passate le genti
infette di simil morbo, primo per l’aiuto divino, da poi
non che per altro che per l’aere temperatissimo siamo
sempre rimasti sicuri e salvi. Onde sempre abbiamo da
ringraziar la maestà del Sommo Iddio che di sì bei doni
e di sì buone e pregiate qualità ci ha fatto parte.
Si conclude qui questa sorta di carrellata
di immagini della Terra di San Vito. Proprio
perché affidate alla scrittura, sono tutte
redatte in verbis, affidate alle parole ed alla
conseguente capacità del lettore, con le parole
e dietro alle parole, di ricostruire i panorami
e gli orizzonti alle volte, purtroppo, perduti
oppure in diversa misura alterati. E si tratta
di esercizio che – mi si scusi la citazione
personale – mi ritorna particolarmente
piacevole e gratificante. Rispetto ad altre
cittadine “storiche” della provincia di
Pordenone, per arrivare fino a Portogruaro,
e con una qualche piccola smarginazione nel
Sacilese, mi piace ritrovarmi in San Vito nelle
ore in cui il centro è particolarmente deserto.
La Terra di San Vito, è priva di rapporti
diretti con un proprio corso d’acqua quali
Pordenone, o Sacile o Portogruaro e perfino
Spilimbergo addossata al suo Tagliamento,
e nemmeno con le pendici scabre delle
montagne come Maniago o Polcenigo o
Fanna o Meduno. La Terra di San Vito si
distende - ma forse sarebbe meglio dire: si
costruisce - sul territorio e per tale quindi si
può progettare ed articolare. Quindi le difese
se le è dovute costruire scavando le fosse per
le quali ha deviato un fiumiciattolo scaricando
quindi, a sud del giro, le acque in un “rigolo”
utilizzato, prima di vederlo perdersi nelle
campagne distese fra la Terra e la villa di
Savorgnano, per alimentare un mulino di
proprietà dei nobili Malacrida i cui resti erano
ancora visibili negli anni Cinquanta nei pressi
della facciata del vecchio ospitale civile.
I “fiumi” della Terra di San Vito – siccome
si cercherà di dire tra un momento – sono
le strade che la innervano, la percorrono, ne
costituiscono la spina dorsale. Proprio perché
“costruito” l’originario nucleo della Terra di
San Vito è compatto e molto piccolo. Da porta
a porta, da ponte a ponte, da fossa a fossa i
passi sono pochissimi. Si gira sempre attorno
al perno dell’abitato antico costituito dallo
straordinario campanile e ci si ritrova sempre
in piazza che è uno slargo particolare in cui,
pur con gli adattamenti del caso da attribuire
al colto Patriarca di Aquileia e signore feudale
della Terra di San Vito il cardinale Marino
Grimani (1523-1545), ritorna, in qualche
misura, il forum porticato romano. E proprio
perché passibile di successivi interventi
costruttivi o ricostruttivi, poi che nucleo di
natura modulare, la Terra riesce ad accogliere
e ad assorbire, amalgomandole alla facies
sostanzialmente immobile in termini di misura
e di volumetria, le iniziative costruttive di una
non indifferente successione di secoli.
Ne viene fuori, questa volta non in
verbis, ma in oculis una lettura diretta della
Terra che prima della verifica sul territorio,
è estremamente gustoso verificare sulle
mappe e sui catastici cinque-settecenteschi
che vengono riproponendo, con vivacità
di immagine e precisione di particolari in
alzato, le diverse strutture residenziali. In
elenco. Si può muovere dalla Veduta di
parte della Terra di San Vito attribuibile
al seicentesco pittore udinese Giovanni
Giuseppe Cosattini e perfettamente a
tutt’oggi verificabile – in termini immutati
– con l’affaccio dalla finestra della stanza
situata al di sopra della porta Grimani. E poi
si può nel verificare singoli segmenti abitativi
del centro e della periferia nel Catastico della
sanvitese Congregazione di San Filippo
Neri del 1761 di mano del pubblico perito
sanvitese Valentino Pantaleoni e nell’altro
Catastico della Confraternita dei Battuti,
sempre del Pantaleoni, del 1779: piccole
“fotografie” di segmenti di modeste realtà
abitative si vengono riscattando per il tramite
di una vivacità rappresentativa da riferire,
probabilmente, ai problemi psicologici del
Pantaleoni.
Sarà l’illuministico affanno setteottocentesco a premurarsi di disegnare,
centimetro per centimetro, piazze e strade
e vicoli e fosse e contrade e borghi. Con
pedissequa (ancorchè lodevole poi che
all’epoca nulla di meglio si voleva fare)
attenzione, ma appiattito risultato. Si ritrovano
quelle immagini nei mappali del Catasto
voluto da Napoleone Bonaparte a partire dal
1808 e quindi, rilucidate ed aggiornate, nel
Catasto Lombardo-Veneto (1830-1847) ed
infine riproposte, con tutti gli ovvii ritocchi
del caso in epoca post-unitaria, nel Catasto
austriaco (1847-1954). Per quanto ancora
riguarda San Vito s’avrà da aggiungere la
mappa, desunta dal Catasto Lombardo-Veneto
allegata alla stampa delle Memorie storiche
della Terra di Sanvito al Tagliamento edito
nel 1832. E poi infine nei tristissimi protocolli
dei notai sanvitesi otto-novecenteschi tutti
compravendite, transazioni, permute, liti per
successioni ereditarie ed interventi giudiziari
per dividere qualche metro quadrato di orto o
di cortile. Sunt lacrimae rerum.
Ma proprio per il fatto del rimandare
le lacrime a quella parte che ogniuno di
noi conserva nella parte più recondita
della propria esistenza, mi è successo, nel
mentre andavo redigendo queste poche
righe e rovistando nell’oramai polveroso e
ridotto archivio delle mie poche memorie
musicali, mi è accaduto di ricordarmi di
una partitura del francese Jehan di Arist
Alain purtroppo prematuramente scomparso
sotto il piombo hitleriano. Recano quelle
carte una splendida intitolazione: Le jardain
suspendu = Il giardino sospeso. Ecco: intanto
facciamo a questo modo, prima di andare
avanti: meriterebbe di essere ascoltato quel
testo musicale affidandone un’esecuzione
all’organo del duomo sanvitese al bravissimo
e puntuale maestro Luigino Favot. Un
brano di una liricità e trasparenza pittorica
debussiana straordinaria in cui la realtà si
viene mescolando e trasfigurando.
Ma poi ritorniamo subito a quel “giardino”
- che già di per sè potrebbe essere oggetto
di specifica trattazione – poi che “sospeso”.
Come la Terra di San Vito che, per un
qualche miracolo, è riuscita a conservarsi
“sospesa” tra un prezioso e lontano passato,
ed un presente che il passato, grazie a Dio,
non ha voluto o saputo cancellare. Ma che,
di più, è andata, mattone per mattone, pezzo
per pezzo, con pazienza certosina – quella
dell’eccellente architetto Paolo Zampese - è
venuta recuperando ed a tutti, con il supporto
della pubblica amministrazione, è venuta
restituendo.
E pur tuttavia, ancor che restituito
in buonissima parte grazie ai restauri e
nonostanti le riproposte iconografiche di
ottimi maestri quali Luigi Zuccheri, Federico
De Rocco, Augusto Culos, Italo Michieli,
della “sospensione” di quel “giardino”
l’unico testimone ed interprete dell’ultima
Terra di San Vito ritengo sia stato Virgilio
Tramontin. Che, con un sequenza operativa
di molti decenni, è stato in grado di restituire
una San Vito che non è mai, come tale,
esistita: eterea, delicatisima e soprattutto
fragilissima come lo sono tutti i paesaggi
dei sogni che all’alba svaniscono. Quasi che
il maestro avvertisse una sorta di pudicizia
nel ritrarne i molteplici volti e preferisse
lasciare al segno, velocissimo, gracile,
a volte appena accennato restituire, per
palpiti, l’impressione visiva. Che di volta in
volta perciò si sflilacciava, si ricompattava
e si dilatava, procedendo per accenni e
sottolineature, immerso in un silenzio di un
fascino tutto particolare e lungi dalla corposa
fisicità degli Zuccheri, De Rocco, Culos,
Michieli e, sempre che il paragone sia lecito,
nemmeno alla Terra di San Vito di Girolamo
Cesarino. In un disperato tentivo, questo del
professor Tramontin, di provare a ricostruire
quel “giardino sospeso” in cui si trovava a
vivere e che, foglio dopo foglio, incisione
dopo incisione, si provava a raggiungere.
E la ripetizione ossessiva del soggetto pare
essere letta quale attestazione della dolorosa
coscienza di non essere riuscito ancora a dar
corpo, per usare una formula, buona in sé, ma
purtroppo abusata, a quel paesaggio che si usa
definire quale paesaggio dell’anima. L’invito
è a sostare. Magari a fianco dell’Eterno che,
completata l’opera della creazione, riposa
e, riguardando quanto operato, vidit quod
esset bonum: vedeva come quanto uscito
dalle sue mani fosse davvero buono (Ge, 1,
25). E si trattava di un altro giardino, rimasto
purtroppo, quello pure, “sospeso”.
Dal quale giardino, purtroppo, occorrerà
ritornare sulla terra. Cominciando con il
dire come rimangano fuori dagli interessi
del Cesarino – ancora lui! - sostanzialmente
“descrittivi” anche se a tratti non privi di pur
generiche motivazioni, l’individuazione di
quella che, forse, è la più remota “origine
del castello di S.Vito”. Quella cioè legata ad
una vocazione viaria che vedeva, a ridosso
del piccolo spazio fortificato abbracciante,
con la fossa, il “castello”, l’incrociarsi di due
percorsi stradali di cui l’uno saliva da Motta,
attraverso l’importante castello patriarcale
di Meduna (di Livenza), verso Udine da
raggiungere guadando il Tagliamento e l’altro
che muoveva dal prospero porto fluviale di
Portogruaro per guadare a Pinzano di nuovo il
Tagliamento in direzione dell’ “Allemagna”.
Anzi converrà osservare, in merito, come
fra Due e Trecento, lasciato questo secondo
tracciato a lambire le mura cittadine,
l’ampliata cinta muraria con le sue nuove
porte venga inglobando, tra le abitazioni e
la piazza, questa strada nel nome dei traffici
e dei commerci. E poi ancora: lungo queste
vie, appena fuori delle mura, si vadano
agglomerando ulteriori nuclei abitativi che
rispondono – per usare la toponomastica
attuale - Fabbria, Fontanis, Magredo.
E le strade servono per gli spostamenti: di
uomini, animali e merci. Ma è discorso questo
che ci potrebbe portare lontano. Per modo che
converrà ripiegare su un risvolto particolare
di questo viaggiare: la necessità del ricetto
per le persone, gli animali, le merci. Senza
addentrarci in ricostruzioni storiche che per
ora possono contare su supporti archivistici e
bibliografie ancora parziali, sembra possibile
poter asserire che il viator poteva contare di
un ospizio, quanto meno duecentesco di San
Nicolò situato a mezzo dell’attuale borgo di
Magredo e dalla metà del Trecento di altro,
e più ampio, eretto, appena oltrepassata la
torre di San Nicolò, dalla fraterna dei Battuti:
un locale all’interno del quale un piatto di
minestra ed un giaciglio si poteva sempre
accattare e del, caso, anche una qualche
assistenza di carattere sanitario. Gli accordi
si prendevano con il priore e la priora che
gestivano lo stabile su delega di quei Battuti i
quali ben presto s’erano andati dimenticando
degli entusiasmi caritativi delle origini il
quali contattavano, se del caso, il “chirurgo”
e, nei casi più impegnativi, l’ “eccellentissimo
fisico”: personaggi entrambi stipendiati,
ma con notevole calo salariale nel caso del
povero chirurgo, dalle pubbliche entrate
della locale Comunità. Nei casi estremi,
pensare alla salute eterna dell’ospite toccava
al cappellano della fraterna che provvedeva
al Viatico, all’Olio Santo e alle preci finali
della “Raccomandazione dell’anima” che
terminavano con quello splendido commiato
da recitare al momento dell’agonia: Egredere
anima cristiana de hoc mundo: ora puoi
finalmente partire, anima cristiana, da questo
mondo. Alla sepoltura avrebbero dato mano,
siccome da regolamento e, di norma senza
particolare entusiasmo poi che la mancia
per i poveri non era prevista, i campanari
della vicina parrocchiale cui spettava l’onere
di scavare la fossa nella terra consacrata
abbracciante la parrocchiale.
Ma, a quanti non avessero a dimostrare
particolari problemi economici oppure
di carattere sanitario, eran di soccorso le
osterie eredi locali dell’oramai lontana
evangelica “locanda” presso la quale, giusta
la parabola del buon Samaritano, questi
avrebbe alloggiato il disgraziato incontrato
sulla strada che da Gerusalemme conduceva
a Gerico (Lc, 10, 25-37).
Anche nella Terra di San Vito, come un
poco in tutti i centri maggiori, minori e persin
minimi della Patria del Friuli, c’erano le
osterie. Purtroppo la nutrita serie di documenti
notarili sanvitesi, correlati, in diversa maniera,
a questa specifica realtà, sono stati assai poco
indagati, E però fa piacere, in argomento,
desumendo da Miriam Davide, ricordare
come nel 1437 esercitasse nella Terra di
San Vito quale oste il tedesco Pietro del fu
Pietro di Petau, tra l’altro, in rapporti di affari
con il salisburghese Pietro che però stava di
casa nella vicina Udine. Onde si riaffaccia
e trova conferma, in questo allacciarsi di
rapporti, il ruolo di, seppur ridotto, svincolo
nodale della Terra di San Vito nel cuore del
territorio della Patria per l’un verso e della
diocesi di Concordia per l’altro. Ed in merito
a quest’ultima sottolineatura non sarà da
dimenticare come Portograro, città in cui dal
XII secolo il vescovo concordiese aveva una
sua residenza, dal Duecento prosperava una
robusta colonia di tedeschi che gestivano
un proprio fondaco a controllo dei traffici
da e per l’Allemagna, avevano le proprie
abitazioni ed avevano messo in piedi una sorta
di sindacalizzato “dopo lavoro” (si direbbe
oggi), teutonicamente ordinato con tanto di
notaio che fosse in grado di rogare contratti
in tedesco e dotato, persino, il fondaco, di
una piccola biblioteca (guardata con sospetto
dall’autorità religiosa concordiese poi che
possibile ricetto di libri “heretici et luterani”).
L’osteria, proprio per la funzione
“plurima”: offrire uno spazio per gli incontri
(rigidamente maschili), un boccale di vino,
un piatto di minestra o di carne, un panetto,
una camera, e se, del caso, un’oretta di
divertimento più o meno clandestino, era
luogo da controllare quanto meno per il fatto
che non vi fossero truffe nelle “misure” e
nella “qualità” dell’offerta. Ed in tal senso si
esprimevano lo Statuto cittadino firmato nel
1528 dal Patriarca Marino Grimani del 1528
e le Regole e Capitoli emanati dal patriarca
Daniele Delfino nel 1751-1752 (rivisti e
confermati dalla Repubblica Veneta negli
anni 1773 e 1775) nei quali la vigilanza,
puntigliosa e pignola, veniva addossata ai
Giurati eletti dal Consiglio cittadino. E se il
controllo dell’osteria di natura, diciamo così,
tecnica era di spettanza dell’autorità civile, con
l’avvento della Controriforma e quindi dalla
seconda metà del Cinquecento, comincerà
quel locale ad essere oggetto di attenzione
sempre più stringente da parte dell’autorità
religiosa. Locus perditionis tuonavano i
predicatori; taberna contra tabernaculum (il
latinetto è talmente facile che non abbisogna
di traduzione veruna) si lamentavano i pievani
che, sul finire del Settecento, non riuscivano
più a convincere gli osti a chiudere le mescite
almeno durante le funzioni religiose e ad
ora conveniente in sul calar delle tenebre. E
supplicavano i vescovi diocesani, in visita
pastorale, di emanare “gagliarde provisioni”
contro quegli ostinati osti e bettolieri. Le
quali “provisioni”, una volta puntualmente
emanate, manco a dirlo, lasciavano il tempo
che trovavano. Ma in tema, per ora, ci si può
fermare a questo punto. Altro si spera di poter
dire in una prossima puntata.
Nel tentativo di resuscitare, con una
dipintura sotto il profilo letterario non
particolarmente raffinata, uno di quei locali
che costellavano, di certo, il tessuto urbano,
e soprattutto suburbano, della Terra di San
Vito si è ritenuto opportuno far citazione
di un testo, in versi, di Giovanni Battista
Donato. Il quale nasceva, figlio illegittimo,
dal patrizio veneziano Alvise Donà e da una
donna di onorevole lignaggio trevigiano nel
1534. Nel 1559-1560 è a Gruaro e farà più
mestieri: contadino in proprio, doganiere in
Portogruaro, cameraro della camera dei pegni
dell’abbazia di Sesto al Reghena, mugnaio,
maestro pubblico in quel di Caorle, notaio
e scriba. E poi anche oste, forse attorno al
1573, in Bagnara ed amico del cuore del
collega Simone Ventoruzzo che teneva
frequentata osteria in Latisana. Avremo modo
di riparlare – questi almeno sono il proposito
e la speranza - di questo messere, anche per i
suoi legami amicali e letterari con pre Alvise
Scussio organista della chiesa grande di San
Vito, in una prossima occasione. Per ora
leggiamo la sua
Lode all’osteria
Consumo ‘l dì e la notte in fantasia
qual dell’uom esser può meglior officio1
né al fin concludo altro che l’osteria.
Abbenché2 molti variano giudizio,
molti che rar o mai escon dal tetto,
chi per loro impotenza, chi per vizio,
e molti de chi el cor vive in sospetto
di adulter o di ladro, un all’avaro,
l’altro al geloso teme ira e dispetto3;
ma chi di praticar il mondo ha caro,
o gli bisogna viver con il moto4,
dirà che l’osteria è un mestier raro.
Come farebbe quell’uomo devoto
la visitazion di altar lontano5?
mal, senz’albergo, finirebbe ‘l voto!
Come farebbe ‘l nobil e ‘l villano
che, oppresso da travagli, su e giù corre ,
senza l’ospizio che ‘l tien vivo e sano6?
E come si farebbe, quando occorre
ricever car’amico in un baleno,
mancando la taverna che soccorre?
Dicasi poi che sempre sereno
e allegro stassi l’oste e riverente
a chi s’appressa pur al suo terreno7:
a ogni cenno è pronto e obediente,
né lassa mai mancar robba alla mensa
per ristorar l’afflitta e stanca gente;
e sempre di compor vivanda pensa
preziosa e tal che l’appetito assetti8,
e quella a questo e quel porge e dispensa.
Certo che l’osteria in fatti e in detti9
è uno de’ negozii più importante
che possi l’uomo far ch’all’uomo diletti10.
O osteria, magnopera11 e trionfante
opera12 di sublime qualitade,
opera non da vili, né da ignorante.
Se questo è ver vediam ch’ogni cittade
consente averne nel suo più bel sito.
e non una, non due, me in quantitade;
ogni castel convien che sia fornito
e quasi che ricchiede13 in ogni villa,
in ogni passo, alla montagna e al lito.
Di grazie e privilegii el ciel sortilla14
e la monìo15 del spirito di vino
per cui sempre sta lieta e sempre brilla.
Questa per suo voler e per destino
dà ricetto16, ad ognòr17 allegramente,
ad ogni paesan e pellegrino.
In loco prospettivo e eminente
fa di sé mostra come vogli dire:
“Io tutti abbrazzo, a tutti io son parente”.
L’arbor trionfale18, che non teme l’ire
del sommo Giove, qui s’adopra e pone
tra cibi e quivi vedesi finire:
per il che quasi tengo opinione
che le Muse, Parnaso e Elicona,
abbin nell’osteria la lor magione19.
Dunque, se pensa ben, ogni persona
vede che ‘l primo officio è quel dell’oste
in che si può acquistar laurea corona:
farsi poeta e che troppo non coste!20
Note al testo
1 – nel senso fisico di luogo.
2 – sebbene.
3 – molti che sentono di esser sospettati come adulteri
e ladri temono le ire dei mariti gelosi e degli avari.
4 – condurre una vita fuori, in movimento.
5 – il pellegrinaggio.
6 – è l’osteria.
7 – a chi va da lui.
8 – soddisfi.
9 – in fatti ed in parole.
10 – che l’uomo possa fare per far piacere all’uomo.
11 – portentosa.
12 – professione.
13 – sta, si trova.
14 – la fornì.
15 – la dotò.
16 – ospita.
17 – sempre.
18 – l’alloro.
19 – siano di casa.
20 – grazie al vino componi poesie con gran facilità.
Ci si ferma, per ora, qui. La strada è
ancora molta. Non senza però un’ultima
osservazione finale ancora una volta collegata
all’immagine della Terra di San Vito. E’ a tutti
(forse) noto come lo stemma cittadino attuale
ricalchi l’ “Arma antica” della Comunità
di San Vito – ad esempio quella fusa sulla
campana già dell’arengo o, più probabilmente,
“delle ore”, e datata al 1565 – ove compare
una torre coronata da due torricelle. E si è
posta, come fa l’archivista della Comunità
sanvitese Bernardino Bonisoli nel 1779,
in relazione quella torre con lo stemma del
patriarca Raimondo della Torre (1273-1299)
“che qui regnava nel 1275”. Ora, però, con
buona pace dei Torriani, sembrerebbe che
quella torre non faccia altro che duplicare
l’immagine del medievale palazzo patriarcale
alias il castello. Una struttura fortificata
ormai da tempo perduta ma che può essere
restituita da una veduta a volo d’uccello
del centro murato di San Vito databile, con
ogni verosimiglianza, alla seconda metà
del XVI secolo. Quell’edificio vi compare
quale compatta struttura merlata difesa alle
estremità da due torri che si ergono al di sopra
della terminazione sommitale della facciata.
Sicché vien da immaginare, ovviamente e
per ora solo quale ipotesi di lavoro, che lo
stemma vada riaggancito a quell’edificio cui
in qualche misura sarà da restituire il ruolo
di nucleo fondante della Terra di San Vito.
Giusto per tornare a parlare, con Girolamo
Cesarino, di “Origine del castello di S.Vito”.
Detto questo, ora davvero, è il momento
di fermarsi.
è il momento del congedo.
Mi tornano buone a questo punto,
abbigliandomi delle piume del pavone prese
a prestito, certe parole di Nico Naldini
Anche San Vito ha modellato il suo tipo o, meglio,
la sua bellezza. I suoi abitanti hanno colto nelle loro
fisionomie quella luminosità un poco epidermica,
quel nitore delle loro case, quell’atmosfera tersa,
ed è diventato il loro dono, la forma costante dei
loro atteggiamenti, che i padri, eredità sconosciuta,
tramandano ai figli.
Parole sante. Vivete felici!