IL PIÙ BEL CASTELLO ANZI LA PIÙ BELLA TERRA DEL FRIULI.
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IL PIÙ BEL CASTELLO ANZI LA PIÙ BELLA TERRA DEL FRIULI.
I racconti dei “Battuti” IL PIÙ BEL CASTELLO ANZI LA PIÙ BELLA TERRA DEL FRIULI. di Fabio Metz a cura del CENTRONOVE Circolo Aziendale di San Vito al Tagliamento n. 9 - Dicembre 2016 San Vito. Il più bel Castello anzi la più bella Terra del Friuli (Girolamo Cesarino, Dell’origine del Castello di S.Vito, 1580/1583) Fabio Metz Per provare a ricostruire un paesaggio (in parte) perduto Sono dell’idea che il recupero di un’immagine - di qualunque immagine s’abbia a trattare – passi attraverso plurimi percorsi. Che si fanno sempre più complicati stante, di questi tempi, il feroce moltiplicarsi delle “figure” a seguito della pletora di sedicenti fotografi, registi, artisti, fino ai più modesti selfies. Ricoperti tutti da giustificazioni e scuole di lettura di critici di ogni scuola e tendenza estetica e quindi riletti da una pletora di psicologi di tutte le tendenze possibili ed immaginabili che sono venuti dichiarando la necessità di sovrapporre ad un presunto dato oggettivo il fardello delle memorie personali, delle esperienze di vita associata, del trascorrere faticoso e, spesso, faticato dei riti e ritmi del vivere quotidiano. Devo confessare che, a motivo della mia oramai attardata età, sono tematiche che mi coinvolgono solamente in forma marginale. Con gli antichi, da qualche tempo, mi succede di andare ricercando prima di tutto un colloquio similare se non simile a quello che si potrebbe instaurare tra vecchie conoscenze. Ed, in merito - ovviamente ed ampiamente mutatis mutandis - mi ritorna alla mente quanto Nicolò Machiavelli il 10 dicembre 1513 scriveva all’amico Francesco Vittori, residente in Roma relazionando sulla propria attività di ricerca storica. Venuta la sera, mi ritorno a casa e nel mio scrittoio (…) ed entro nelle antique corti delli antiqui huomini, dove da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio (…); dove io non mi vergogno parlare con loro e domandarli la ragione delle loro azioni, e quelli per loro humanità mi rispondono; e non sento per quattro hore di tempo alcuna noia, dimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi trasferisco in loro. E dunque tra i memorialisti del passato, di qualunque livello essi siano, mi vengo ricercando compagni di viaggio, prima di tutto, amici con cui, appunto, camminare, mano nella mano, fuori dalle aule accademiche, cercando di assommare le loro memorie alle mie. Amici con cui, al modo del Machiavelli, dialogare. Vediamo, con un pochino di pazienza, provare a cominciare. Della più remota San Vito non ci sono, ovviamente, immagini fotografiche. Ci sono “descrizioni” in verbis ed altre in oculis come a dire “descrizioni” da leggere ed altre da vedere. E poi - il che è la fatica maggiore tentare di analizzare ed interpretare. Le più remote descrizioni pare possano essere collocate all’interno di una precisa funzionalità giustificata dall’urgenza, da parte della Serenissima, di avere una conveniente mappatura di quella Patria del Friuli, già dominio del patriarca di Aquileia, che nel 1420 era entrato a far parte dei domini della Serenissima. Scriveva in merito Gian Carlo Menis Il 19 luglio 1420 il primo luogotenente veneto della Patria del Friuli, Roberto Morosini, entrava in Udine. Il suo compito era quello di rapresentare la signoria veneta, cui doveva rendere conto del suo operato, e sostituire nel governo civile il patriarca. Per il resto la struttura politico-amministrativa del vecchio stato patriarcale doveva rimanere inalterata (come una “regione a statuto speciale” nell’ambito della Repubblica); il paese doveva essere amministrato secondo i suoi antichi statuti. Ci furono tuttavia un progressivo riassetto delle cariche governative e giudiziarie ed una riforma delle competenze, soprattutto del parlamento, cui venne sotratta ogni ingerenza nella politica estera La moneta veneziana ebbe corso legale. Anche le circoscrizioni giurisdizionali della Patria subirono mutamenti. E proprio per sistemare una serie di non facili problematiche di natura politicoamministrativa si addiveniva nel 1445 ad un faticato “concordio” tra l’allora patriarca di Aquileia Lodovico Trevisan e la Serenissima in virtù del quale il primo avrebbe garantito alla Signoria veneziana tutti i suoi diritti civili sulla Patria e quest’ultima invece avrebbe riconosciuto al prelato tutte le giurisdizioni, diocesane e metropolitane, e la giurisdizione feudale diretta sulle Terre di Aquileia, San Vito e San Daniele. Operazione nella quale, sconsolato, il Menis leggeva – e giustamente - la fine “di diritto dello stato friulano patriarcale” di cui, appunto, rimanevano a pallido ricordo le appena ricordate tre Terre. Marin Sanudo (Sanuto) nel 1483, intraprendendo una sorta di ricognizione in quella Patria del Friuli di recente conquista, forse poi che a questo modo consigliato od incricato dalle autorità veneziane, redigeva una sorta di diario di bordo – accompagnato in qualche caso anche da veloci schizzi relativi ad alcune località - che avrebbe potuto tornar utile a quanti, dopo di lui, avessero deciso di far viaggio in quelle zone. Della sosta di due giorni in San Vito a questo modo il buon Marino stendeva relazione Et intramo in San Vito, el qual è castello soto il Patriarcha di Aquileja; vi erra Cap.° Thomaso Romano. Quivi alozamo in una bellissima caxa dil conte Antonio et Handrico, conti di Valvarolo, et visto dito palazo ch’è bellissimo, tuto depynto etc. Questo castello di San Vido è bello, et ha belli borgi; qui è uno palazo anticho, dove habita il Cap.°. Visto una chiesia fano fabricar questi Conti di Valvarolo, chiamata di Santo Christoforo [=San Lorenzo]; et questo Haldrigo à per moglie madonna Marina, sorela di Antonio Avogadro dotor trivisano. Or qui dormito et ben alzato, partimo per Udene ch’è mia 15; et uno mio lontan si passa l’aqua dil Taiamento a guazo e di giara più di un mio. Nel 1553? o 1565? Jacopo Valvason di Maniago nella sua Descrizione dei passi e delle fortezze che si hanno a fare nel Friuli, con le distanze dei luoghi (tratta principalamente dal codice 1316 della Raccolta Cicogna), pubblicato nel 1876 a cura di C. Combi, veniva ricordando: “San Vito grossa terra murata, che in altro dominio si chiamerebbe e sarebbe una città”, ornata di belle case e palazzi, di giardini e di acque sorgive, ricca di selvaggina e quindi frequentata da cacciatori appartenenti alla più distinta nobiltà friulana. Vi si poteva ammirare “un palagio assai antico, detto il Castello”. Nel 1567, illustrando la Patria del Friuli «con l’utile che cava il Serenissimo Principe e con le spese che fa», Girolamo di Porcia scriveva: S. Vido. Castello bellissimo con mura, fosse ed aqua attorno, ben popolato ed abitato da diversi castellani, che vi hanno bonissime e belle case, cioé il sig. Nicolò Savorgnano, li conti di Salvarolo e altri cittadini onorati. Ha bella piazza e bella chiesa, è posto di là del Tagliamento verso ponente, lontano da Udine miglia 18. Ha sotto si sè le infrascritte ville: Azzano, Baiedo [=Basedo], Taiedo, Bania [=Bannia], Settimo, Villotta e Villafranca, le quali ville non fanno alcuna fazione con la Patria. Monsignor Reverendissimo Patriarca vi mette un suo Capitanio, il quale insieme con due delle nobili famiglie come Malacrea, Zani, Cesarini ed un del popolo giudicano nelle cause civili insieme, le appellazioni si devolvono al reverendissimo vicario patriarcale in Udine, poi a Monsignor Illustrissimo Patriarca: in criminale giudica il Consiglio, di poi vanno in appellazione a chi vengano da Monsignor Illustrissimo delegate. Ha sotto di sè Monsignor Illustrissimo Patriarca. Giusto un anno dopo, nel 1568, il conte Jacopo Valvasone di Maniago con maggiore abbandono al carattere illustrativo e traguardando oltre il rinsecchito orizzonte burocratico-amministrativo del di Porcia, dichiarava: San Vito è posto in larga e dilettevole pianura lungi dal Tagliamento non meno d’un miglio, castello che già da DCCCC passa uno de’ principali c’habbia non solo la Patria ma anco la Marca Trivigiana, sì per haver le strade ben intese come per i vaghi suoi giardini, ma più per li palagi e belle case de’ cittadini e per li molti sorgivi d’acque che lo circondano d’ogni parte, nel mezzo del quale è fabbricata una torre alta da XXVIII passa con la chiesa di San Vito ch’è di assai buona grandezza, officiata da due vicarii et sette cappellani, la quale è ricca di pianette d’oro et di vasi d’argento, et nell’uno de’ borghi vi è il picciol monasterio di San Lorenzo, assegnato ai frati di San Domenico. Dall’altra parte vedesi un palagio assai antico detto “il castello”, stanza comoda per li Patriarchi d’Aquilegia, patroni di essa Terra, et li ministri loro, con una spaziosa stalla di cavalli tutta a volto, et un giardino de’ più belli et maggiori di tutta questa Patria, le entrate del quale spettano ai detti Patriarchi che sono di due mila et più ducati per ciascun anno, siccome i dacii a quella comunità che rendono da CCC ducati all’anno e sono dispensati col volere del suo Consiglio. Il sito col territorio è fertile di biade et vini, allegro e piacevole per le belle campagne et comodo per il Tagliamento et per alcuni fiumicelli vicini, abbondanti di trutte et temoli di tutta bontà et d’altri buoni pesci, dove per le molte fontane si trovano guazzi d’ogni intorno commodi per la caccia del falcone, anzi è riviera sì famosa che spesse volte i principi d’Italia et altri segnalati gentiluomini vi sogliono mandare i suoi falconieri, sì come oggidì fa Ferdinando Re de’ Romani et Massimigliano suo figliuolo, Re di Boemia, perilché è cosa veramente notabilissima il veder ad un tempo il paragone di tanti pellegrini et eccellenti uccelli; a i quali stranieri sta sempre aperta la casa di Giacomo Codroipi, nobile udinese, cavaliere et vassallo di sua Maestà; e quello che per natura et per sangue è cortese et che frequenta questa caccia come propria de’ suoi antecessori. Dalle cui maestà egli è stato honorato di due vasi grandi d’argento dorati et di bellissimo la[vo] ro. In questa terra sono otto famiglie di cittadini nobili, cioè Altani, Sbroiavacca, Cesarini, Malacredi et Lodovichi, che vennero da Milano, Linterii, Rialti, Colossi et Lonani, dalle quali si creano sei consiglieri con sei dell’ordine popolare et altrettanti de’ rurali, li quali per un anno esercitano la giurisdizione criminale insieme col capitano che tiene il Patriarca, al quale anco appartiene il civile insieme con due giudici detti Astanti et creati dal sopradetto Consiglio con le appellationi al Patriarcato. [...]. Et al presente fassi nominare nelle pitture Parigino [=Pomponio] Amaltheo, degno alievo del Pordenone suo socero, si come anco nelle poesie Ottaviano [=Ottavio] Minisini [=Menini], dottor di leggi di buona riuscita. In questo territorio s’hanno ritrovato tegole in luochi et musaici di commesso, et non è gran tempo una sepoltura nella quale erano riposte l’ossa d’un gigante con un lume eterno di dentro, il quale scopertosi all’aere di subito, come vien detto, s’estinse. Hassi per fama che quivi sia stato il castello di Venere, rovinato da Attila re degli Unni. Ville suddite VII: Azzano, dove già era un castello, hora spianato, che fu disfatto già molti anni sono: Bania [=Bannia], Basendo [Basedo], Villalta [=Villotta], Taieto [=Taiedo], Settimo e Villa Franca. Nel 1604, Ettore Partenopeo, nella sua Descrittione della nobil.ma Patria del Friuli, con l’origine de i popoli, della Città, delle Castella, et di molti altri luoghi, che in essa si ritrovano, Udine, Giovanni Battista Natolini, venendo a trattare di San Vito, tratteggiando un rapidissimo panorama di natura storica probabilmente degni di maggiore attenzione rispetto a quella che sinora gli è stata prestata, scriveva: Grisolfo Duca del Friuli edificò l’honorevole Terra di S. Vito, per havere in tal giorno ottenuta una segnalata vittoria contro i suoi nemici et, havendola circondata di mura, et di fossa, la diede ad habitare ad alcuni soldati vecchi, et a certe famiglie furlane. Onde, assegnado a gli habitatori il territorio circonvicino, il quale per le guerre, et per la peste, che allora haveva infettato molto il paese de’ Veneti, et quasi tutta l’Italia, era inculto, et abbandonato. Questa Terra poi si mantenne ogni hora più crescendo d’habitatori sino al tempo di Marino Grimani Patriarca di Aquileia, et Cardinale, il quale essendo di essa Signore, come sono tutti i Patriarchi di Aquileia per essere quella con San Daniele patrimonio della Chiesa Aquileiese, procurò d’ampliarla. Et perciò instituì alcuni giorni, ne i quali si facesse la fiera, astringendo i sudditi non solamente a venirvi, ma anco a condurre robbe venali; et esso assegnò il luogo della fiera fuori della Terra nello spatioso piano: dove fece piantare un bellissimo ordine di molti roveri, che ancora vi sono; concedendo nuovi privilegii, et immunità ad essi di S.Vito, accioche meglio, et in maggior riputazione potessero conservarsi. Et in somma tanto fece questo Patriarca per beneficio di questa Terra, che meritamente si può chiamare secondo conditore di essa; la quale è di sito molto vago, et fertile. Nel 1786 in Venezia, il medico, di probabile origine coneglianese, Gian Paolo Garbini operante «nell’insigne Terra di S. Vito al Tagliamento», pubblicava, con l’acronimo di G. D.r G. P. e per i tipi di Antonio Zatta e figli, un’opera dal titolo «Il Medico». All’interno del complesso lavoro redatto in endecasillabi martelliani decisamente mediocri ed accompagnati fortunatamente da copiose e più interessanti annotazioni, inseriva anche una descrizione della Terra di sua nuova, e provvisoria, per esser egli “medico venturiere”, residenza nella quale lo si saprà, documentalmente, risiedere fra il 1785 e il 1786 Giace la Terra illustre in un perfetto piano, e il Tagliamento poche miglia le sta lontano. Colli, o scoscesi monti non sono al di lei fianco, i quali soglion rendere il piede pigro, e stanco. Manca ogni rea palude nociva, ed insalubre, perciò l’aria felice respirasi, e salubre. Non sono gli abitatori in verun tempo privi di placidi ruscelli sempre perenni, e vivi. Le strade dell’interno ottime sono, e almeno asciutte le vicine, se non son terse appieno. Molti palagi, e molti minori fabbricati nel recinto, e nei borghi son ben architettati. Vasta è la piazza, e comoda, in cui alta campeggia eccelsa torre e il Tempio cospicuo vi grandeggia. Villaggi numerosi le fan corona insigne; il terren non è fertile, ma abbonda assai di vigne, da alcune delle quali l’industre agricoltore tragge un prezioso vino con studio, e con sudore: e’ questi il Piccolitto liquor degno di Giove, che raro qui si assaggia, se tutto passa altrove. Ei vola, fatto antico, al Russo, al Sveco, al Dano; in Gallia, Ispagna, ed Anglia, ed al vicin Germano. Vin, che sua fragranza tanto ne alletta i sensi, che al par dei più pregiati liquori in stima tiensi. Oltre del Piccolitto vini vi son da smercio grati, che del Paese aumentano il commercio. Nutre l’erboso prato grassi e copiosi armenti, dell’acqua, e anche dell’aria vi abbondano i viventi. La annual messe dei bachi, che d’ordinario è molto copiosa, e scelta, è un stabile ricchissimo raccolto. In somma di ogni genere utile è ben provvista o nativo, o straniero, che il negoziante acquista. Merito è ciò di quelli, ch’hanno la patria in freno, che di Pomona, e Cerere colmo le fanno il seno. Ommetto di dir quali uomini diè all’Armi, al Tempio, e al Foro e quali ora le acrescano la gloria, ed il decoro. Non parlo poi del clero graduato, e subalterno, che a piè del Santuario felicita il Governo, per sì sublime impresa non ho adeguato stile. Supplisca a tanto duopo il mio silenzio umile, e d’Esculapio il zelo felice un dì distingua, ch’è rispetto, e non colpa, se tace la mia lingua. Solo dirò, che il nobile, il medio, ed il minore han l’animo ben fatto, e generoso il core. Posto tutto in complesso, se il mio pensier non erra, riesce al nativo, ed all’estero grata l’illustre Terra. E molto più è lor grata, perché non la conturba, lo Dio mercé, dei mali la molesta turba. Onde se mai di Nestore giungo all’età gradita, nel sano ameno loco voglio passar la vita, mentre de’ suoi individui col medico mio zelo spero l’amor, se prosperi le mie premure il Cielo. C’è alla fine - recuperato grazie alle indagini di B. Brusin - un “addio” finale: un tantino retorico, ma, probabilmente, sincero, a firma del poeta Giovanni Prati (18141884) che nell’ottobre 1847, congedandosi dall’antico amico Gherardo Freschi – onde più comprensibili diventano le citazioni di carattere “agrario” – a questo modo salutava San Vito Addio vivida, industre e gentil terra, che in mente e in cor del pellegrin ti stampi pei fidi spirti e per quell’util guerra, che fa l’aratro al pio seno de’ campi! Se da procella e turbine ti scampi chi, come gioco, i venti agita e serra, e in te sempre quel caldo impeto avvampi di fidar l’opera al solco che non erra, tu in onor crescerai, piccola e cara gemma del Tagliamento, auspice amico fra tutti il tuo Gherardo, anima rara, così la zolla ti protegga Iddio, e la pace e l’onor, com’io ti dico: gemma gentil del Tagliamento. Tuttavia, inutile il ripeterlo. Il testo fondamentale su cui rileggere la Terra di San Vito rimane il “dialogo” Dell’origine del castello di S. Vito dialogo di m. Girolamo Cesarino con la descrizione di tutte le cose segnalate che vi sono, arricchito di varie annotazioni e di una epistolare dissertazione del sig. abate Federigo Altan de’ conti di Salvarolo l’an. 1745 quindi dato alle stampe, dopo la morte di Federico Altan, nel 1771. Si tratta di un testo sfortunato, sul quale in epoche passate ed in anni recenti hanno imperversato studiosi e commentatori con proposte di rilettura spesso notevolmente diversificate a cominciare dalla individuazione dell’autore, e quindi alla proposta relativa alla data di stesura del manoscritto, per arrivare, siccome suggerito tra le righe da un recente commentatore, alla possibilità che possa trattarsi di un falso storico ad opera del settecentesco Federico Altan. Sono problemi e tematiche che in questa sede affatto ci si prova ad affrontare limitandoci ad utilizzare quelle righe quale documento di cui si rivendica una datazione tra gli anni 1580 e 1583 e pertanto attestazione di una Terra di San Vito che assisteva al chiudersi del Cinquecento e probabilmente al periodo più splendido della pur non breve vita dell’insediamento. Sicchè quelle pagine pare possano essere rilette quali il riassunto di un momemnto irrepetibile della Terra di San Vito. Ma se ne riparlerà in altra sede. A Dio piacendo come direbbero le dolcissime monache del locale monastero della Visitazione. Proprio perche si tratta di un “dialogo” tra una serie di messeri riuniti una sera d’inverno attorno ad un generoso camino in casa del conte Amilcare Altan ed in attesa della cena, nelle riproposizioni dei testi che qui di seguito avranno a seguire, alle volte si ritroverà la diretta o indiretta citazione degli intervenuti a quel nobile conversare. Di tutto quello che quei nobili messeri abbero a trattare, si rinuncia qui di seguito a fare preciso riferimento. Basti una scelta di citazioni selezionata a seguito delle diverse tematiche. I dintorni: il Tagliamento S. Vito è situato quasi nel mezzo del Friuli alla destra parte del fiume ovvero torrente Tagliamento celebrato quasi da tutti i cosmografi antichi che scorre discosto da noi circa 1500 passa. Questo fiume scende rapidissimo dai monti Carni, che ricevendo nel suo letto molti altri fiumi, e torrenti fa il suo corso per lo spazio quasi di 100000 passi; scorre e divide il Friuli in due parti, passa per Latisana ed indi va nel mare Adriatico ove fa un bellissimo porto, Per questo fiume abbiamo bella comodità di materia di legni per le fabbriche, cioè di travi d’ogni qualità, e tavole per diversi usi, per questo fiume già furono già condotti quei grossissimi legni per la fabbrica del superbo tempio di San Pietro di Roma, con li quali furno fatte quelle macchine per levar le gran pietre all’alta fabbrica e tutti questi furno tagliati nei detti monti de’Carni. Abbiamo anco da questo fiume pietre per le nostre fabriche e per far perfettissima calce ed anco arena minutissima, che a noi serve in vece della polvere puteolana che si usa in Roma ed in Napoli, Né scordar mi voglio di dirvi una salutifera virtù de l’acqua di questo fiume, che conferisce molto allo stomaco e move alla digestione e guarisce dalla rogna quelli che là dentro si vanno a lavare. I dintorni: la moltiplicata presenza delle acque Quelle pure e chiare fontane sono veramente meravigliose, ch’oltra ch’hanno l’acqua sì freddissima la state che il vetro la entro posto si spezza, ed all’incontro il verno sono caldissime, sono ancora salutifere ai corpi nostri queste acque che senza farne di loro altra deduzione ci è permesso dalli medici darle agl’infermi. E questa sua salutifera virtù si causa, perché elle discendono per rivi sotterranei dal Tagliamento, e venendo a noi per un buon spazio di via purgano quella natural torbidezza del fiume, e scaturiscono limpidissime con abbondante vena e fanno quelli meravigliosi fonti che ci sono quasi una conserva di salutifere acque di che se ne serve tutta la Terra; oltre li publici e privati pozzi che di sette piedi al più profondi sono di grandissima comodità a tutti d’acque vive, fresche e cristalline (…). Quivi è il principio ed origine del fiume Lemine che passa per Portogruaro e per l’antica destrutta città di Concordia ed indi va nell’Adriatico seno di mare ove fa un bellissimo e securo porto per sassai gran navigli che gl’antichi scrittori cosmografi e Plinio specialmente chiamarono porto Romatino ovvero Romatio. Averessimo noi qui il nostro rivo navigabile infino presso il molino (di Portogruaro) se la morte non s’opponeva sì tosto al bel desiderio del nostro Cardinal Marino (Grimani) ch’egli ogn’or più procurando dì accrescer ornamento e comodità a questo suo loco, aveva deliberato cavar un alveo dritto che fosse almeno comodo per picciole barche infino a Portogruaro. Il che si saria con facilità e pochissima spesa e ci saria di utile grandissimo e specialmente per le merci che vanno da Venezia in Germania, massimamente quando nel tempo dell’inverno sono le strade fangose. Il paesaggio cittadino La circonferenza di fuori è poco più di 1000 passi (l’Altan precisa che i passi in realtà sono 1078), ha quattro porte, ma tre sono le principali. L’una è detta di S. Nicolò ovvero della Scaramuzza, qual è dalla parte di Levante, per questa si va al Tagliamento ed Udine città metropoli del Friuli. Quest’altra chiamiamo di S. Lorenzo verso Ponente, onde si va a Trevigi. La terza è porta Grimana detta, ove si vede la bella strada dritta, per la quale si va a Portogruaro; su quella strada si suole esercitar li cavalli al corso, qui già riuscì velocissimo il famoso cavallo delli signori di Brazago che tanti palii vinse per tutta Italia e fece chiaro il nome delli Signori di Brazago. Questa porta con la via dritta fu fatta dal detto Cardinal Marino. Onde ebbe il nome anco da lui. Vi è un’altra porticella, qual chiamano di Castello, che serve per comodità del molino del sig. Gasparo Malacrea e per uso anco dell’acqua della fossa e questa con la Grimana sono ambedue alla parte di mezzo giorno. Le mura che circondano la Terra sono tutte fabbricate in pietra cotta, e similmente li suoi bastioni con giusta altezza ed ordinata distanza l’un dall’altro lontano. Sono alle tre porte principali le sue belle torri quadrate con bella architettura. La Terra è tutta circondata da una profonda e larga fossa d’acqua corrente ed anco una parte d’acqua scorre tra il Borgo di S. Lorenzo e la Piazza: nasce e discende quest’acqua dai nostri vicini fonti che scaturiscono lontani dalle mura un tiro di sasso; ove fanno per poco spazio un chiaro e cristallino rivo del quale dir si può quello che disse il divino Petrarca nel Trionfo dell’Amore: Rivo corrente di fontane vive Nel caldo tempo giù per l’erba verde Al mormorar delle dolc’aure estive. (…) Ancorchè il Cardinal (Marino Grimani) in più parti di questa Terra per abbellirla spinate case e distrutto edifizii, nondimeno l’animo suo è stato sempre di farne far dell’altre fabriche e così sono poi gl’abitatori di tempo in tempo iti accrescendo il loco, ed ampliandolo di varii edifizii come vediamo. E specialmente li signori conti Altani hanno fondato fabriche diverse e fatto grandissimo accrescimento. E li patriarchi ancora (…) hanno più volte allargato lo circuito delle mura d’intorno: ma più di ciascuno in vero ha fatto il cardinal Marino che ha serrato di mura il borgo di Taliano e similmente il borgo di S. Lorenzo e se più anni fosse vissuto, avrebbe anco di nuovo aggrandita questa Terra chiudendo intorno di muraglia tutta la contrata della Levata, con una buona parte ancora della villa di Zelia, ove già fu l’antica villa Giulia (…) della quale antica villa non più si vede vestigio alcuno salvo che un acquedotto fatto di tegole antiche in gran parte della terra coperto, rotto e guasto come oggidì vedeer si può nella via principale fra il giardino delli Lialti ed un poderetto del sig. Gianantonio Maniaco. Il verde tra le mura: il giardino patriarcale Ma ritorno al Giardino del castello. Chi volesse raccontar le tante e sì diverse piante de’ fruttiferi arbori portati dai più celebri e famosi giardini d’Italia, saria, come si dice, un voler annoverar le stelle del Cielo. Solamente dirovvi che essendo quella una dell’opre di esso cardinal Grimano, non si dee giudicar altrimenti se non che sia in tutte le bellezze e perfezioni compita. E se il gran re Ciro non tanto si gloriava di sue vittorie e dei regni coll’armi acquistati, quanto di un suo ben ordinato giardino che con le sue proprie mani s’aveva fatto, avendo egli stesso indrizzato mirabili ordini di fruttiferi ed eletti arbori corrispondenti all’occhio in ogni parte, non altrimenti creder si dee che l’illustrissimo Grimano, non tanto si vantasse d’aver posto il freno alli potenti signorotti Peruggini e d’aver edificato la fortissima rocca di Perugia per assicurazione dello stato della Romana Chiesa, e d’aver oprato altre gran cose, quanto aver con le proprie mani piantato ed ordinato il predetto giardino. Il verde tra le mura: i giardini privati E che dirovvi degli altri giardini delle case private? E del gran numero degli orti? In quella parte (gli orti) certo da invidiar non abbiamo a qualunque altra nobile città d’Italia e del Mondo, che oltra l’infinita copia delle varie sorte di frutti che abbiamo, sono anco più saporosi e maggiori in questo luoco che non sono dell’istessa specie in altri siti e specialmente le pere imperiali e quelle che chiamiamo zoccolini maggiori, e le bosdegane, che qui se ne producono ben spesso di peso di una libra alla grossa e più l’uno. Delle pera garzignole, delle poma apie, caravelle, e verdazze (…) Ma se le frutta sono sì buone ed eccellenti, quanto più eccellentissimi li vini che quivi si fanno? Veramente vini eletti da porre alle seconde mense. La pubblica loggia Né seggi Capuano, né seggi di Nido in Napoli siano sì belli sì per l’architettura che si vede, come anco per la bellezza delle grosse travi de’ lerici, che come testifica Vitruvio essendo difesi dal fuoco, e dall’acqua si conservano per molte etadi e secoli (…) Tutti siamo di S. Vito siamo tenuti a ringraziar voi conte Annibale (Altan) che l’avete al presente ristorata ed aggiontovi la bella comodità del sedere a torno La piazza A me pareva, disse il Lodovici, che ella non meritasse laude alcuna non essendo lastricata: però non mi estenderò a dirne altro, se non che con giusta proporzione è fatta; ond’è che il più bel steccato per il giuoco della palla di scagno di tutta Italia; per il che ne sono di questo loco (…) molti giocatori eccellentissimi in cotal gioco, fra i quali li più famosi sono stati don Damiano and reuccio, Nardello Rossetto, li quali col duca di Mantova, col principe di Salerno in Napoli e con altri gran signori giocatori per tutta Italia hanno giocato e per tutto portato vittoria. Il campanile E’ la nostra torre, o campanile, vi dico che in Roma istessa non è di bellezza altra simile, non la torre de’ Conti, né delle Milizie, né meno il Campanile di S. Pietro in Vaticano è sì bello, come è quello. La chiesa grande Ma ritornando dove si diceva sopra della nostra chiesa ch’era bene officiata, vi dico che da molti reverendi sacerdoti è governata, che li divini officii si celebrano con solenni canti sempre aiutati dal suave suono d’un buonissimo organo che dall’eccellente Gio. Battista Scussio è suonato. E continua la “descrizione” del buon Cesarino toccando tutta un’altra serie di aspetti della realtà sanvitese legati, ancora all’ambiente naturale venendo a trattare di caccia, di pesca, di pascoli e persino di asparagi e di coltivazione dei campi e delle “arti meccaniche”. Per approdare alla celebrazione degli uomini illustri della Terra tra cui non poteva mancare un posto di tutto rilievo al pittore Pomponio Amalteo. Donde la conclusione naturale ed attesa. Ed in somma con verità possiamo dire che quivi gl’ingegni degl’uomini nascono e riescono atti ad ogni esercizio: non so se questo attribuir si dee al nostro buon influsso del Cielo, ovvero pur alla nostra perfetta temperie dell’aere che non è, come detto di sopra, né troppo grave né troppo acuta, per il che noi non siamo sottoposti alle gravi infermitadi e contagiose pesti, come si è visto l’esperienza l’anno MDLXXVI ch’essendo quella gravissima pestilenza sparsa non solamente in la città di Venezia, ma anco in tutti questi nostri contorni ed essendone ancora per traffico de qui passate le genti infette di simil morbo, primo per l’aiuto divino, da poi non che per altro che per l’aere temperatissimo siamo sempre rimasti sicuri e salvi. Onde sempre abbiamo da ringraziar la maestà del Sommo Iddio che di sì bei doni e di sì buone e pregiate qualità ci ha fatto parte. Si conclude qui questa sorta di carrellata di immagini della Terra di San Vito. Proprio perché affidate alla scrittura, sono tutte redatte in verbis, affidate alle parole ed alla conseguente capacità del lettore, con le parole e dietro alle parole, di ricostruire i panorami e gli orizzonti alle volte, purtroppo, perduti oppure in diversa misura alterati. E si tratta di esercizio che – mi si scusi la citazione personale – mi ritorna particolarmente piacevole e gratificante. Rispetto ad altre cittadine “storiche” della provincia di Pordenone, per arrivare fino a Portogruaro, e con una qualche piccola smarginazione nel Sacilese, mi piace ritrovarmi in San Vito nelle ore in cui il centro è particolarmente deserto. La Terra di San Vito, è priva di rapporti diretti con un proprio corso d’acqua quali Pordenone, o Sacile o Portogruaro e perfino Spilimbergo addossata al suo Tagliamento, e nemmeno con le pendici scabre delle montagne come Maniago o Polcenigo o Fanna o Meduno. La Terra di San Vito si distende - ma forse sarebbe meglio dire: si costruisce - sul territorio e per tale quindi si può progettare ed articolare. Quindi le difese se le è dovute costruire scavando le fosse per le quali ha deviato un fiumiciattolo scaricando quindi, a sud del giro, le acque in un “rigolo” utilizzato, prima di vederlo perdersi nelle campagne distese fra la Terra e la villa di Savorgnano, per alimentare un mulino di proprietà dei nobili Malacrida i cui resti erano ancora visibili negli anni Cinquanta nei pressi della facciata del vecchio ospitale civile. I “fiumi” della Terra di San Vito – siccome si cercherà di dire tra un momento – sono le strade che la innervano, la percorrono, ne costituiscono la spina dorsale. Proprio perché “costruito” l’originario nucleo della Terra di San Vito è compatto e molto piccolo. Da porta a porta, da ponte a ponte, da fossa a fossa i passi sono pochissimi. Si gira sempre attorno al perno dell’abitato antico costituito dallo straordinario campanile e ci si ritrova sempre in piazza che è uno slargo particolare in cui, pur con gli adattamenti del caso da attribuire al colto Patriarca di Aquileia e signore feudale della Terra di San Vito il cardinale Marino Grimani (1523-1545), ritorna, in qualche misura, il forum porticato romano. E proprio perché passibile di successivi interventi costruttivi o ricostruttivi, poi che nucleo di natura modulare, la Terra riesce ad accogliere e ad assorbire, amalgomandole alla facies sostanzialmente immobile in termini di misura e di volumetria, le iniziative costruttive di una non indifferente successione di secoli. Ne viene fuori, questa volta non in verbis, ma in oculis una lettura diretta della Terra che prima della verifica sul territorio, è estremamente gustoso verificare sulle mappe e sui catastici cinque-settecenteschi che vengono riproponendo, con vivacità di immagine e precisione di particolari in alzato, le diverse strutture residenziali. In elenco. Si può muovere dalla Veduta di parte della Terra di San Vito attribuibile al seicentesco pittore udinese Giovanni Giuseppe Cosattini e perfettamente a tutt’oggi verificabile – in termini immutati – con l’affaccio dalla finestra della stanza situata al di sopra della porta Grimani. E poi si può nel verificare singoli segmenti abitativi del centro e della periferia nel Catastico della sanvitese Congregazione di San Filippo Neri del 1761 di mano del pubblico perito sanvitese Valentino Pantaleoni e nell’altro Catastico della Confraternita dei Battuti, sempre del Pantaleoni, del 1779: piccole “fotografie” di segmenti di modeste realtà abitative si vengono riscattando per il tramite di una vivacità rappresentativa da riferire, probabilmente, ai problemi psicologici del Pantaleoni. Sarà l’illuministico affanno setteottocentesco a premurarsi di disegnare, centimetro per centimetro, piazze e strade e vicoli e fosse e contrade e borghi. Con pedissequa (ancorchè lodevole poi che all’epoca nulla di meglio si voleva fare) attenzione, ma appiattito risultato. Si ritrovano quelle immagini nei mappali del Catasto voluto da Napoleone Bonaparte a partire dal 1808 e quindi, rilucidate ed aggiornate, nel Catasto Lombardo-Veneto (1830-1847) ed infine riproposte, con tutti gli ovvii ritocchi del caso in epoca post-unitaria, nel Catasto austriaco (1847-1954). Per quanto ancora riguarda San Vito s’avrà da aggiungere la mappa, desunta dal Catasto Lombardo-Veneto allegata alla stampa delle Memorie storiche della Terra di Sanvito al Tagliamento edito nel 1832. E poi infine nei tristissimi protocolli dei notai sanvitesi otto-novecenteschi tutti compravendite, transazioni, permute, liti per successioni ereditarie ed interventi giudiziari per dividere qualche metro quadrato di orto o di cortile. Sunt lacrimae rerum. Ma proprio per il fatto del rimandare le lacrime a quella parte che ogniuno di noi conserva nella parte più recondita della propria esistenza, mi è successo, nel mentre andavo redigendo queste poche righe e rovistando nell’oramai polveroso e ridotto archivio delle mie poche memorie musicali, mi è accaduto di ricordarmi di una partitura del francese Jehan di Arist Alain purtroppo prematuramente scomparso sotto il piombo hitleriano. Recano quelle carte una splendida intitolazione: Le jardain suspendu = Il giardino sospeso. Ecco: intanto facciamo a questo modo, prima di andare avanti: meriterebbe di essere ascoltato quel testo musicale affidandone un’esecuzione all’organo del duomo sanvitese al bravissimo e puntuale maestro Luigino Favot. Un brano di una liricità e trasparenza pittorica debussiana straordinaria in cui la realtà si viene mescolando e trasfigurando. Ma poi ritorniamo subito a quel “giardino” - che già di per sè potrebbe essere oggetto di specifica trattazione – poi che “sospeso”. Come la Terra di San Vito che, per un qualche miracolo, è riuscita a conservarsi “sospesa” tra un prezioso e lontano passato, ed un presente che il passato, grazie a Dio, non ha voluto o saputo cancellare. Ma che, di più, è andata, mattone per mattone, pezzo per pezzo, con pazienza certosina – quella dell’eccellente architetto Paolo Zampese - è venuta recuperando ed a tutti, con il supporto della pubblica amministrazione, è venuta restituendo. E pur tuttavia, ancor che restituito in buonissima parte grazie ai restauri e nonostanti le riproposte iconografiche di ottimi maestri quali Luigi Zuccheri, Federico De Rocco, Augusto Culos, Italo Michieli, della “sospensione” di quel “giardino” l’unico testimone ed interprete dell’ultima Terra di San Vito ritengo sia stato Virgilio Tramontin. Che, con un sequenza operativa di molti decenni, è stato in grado di restituire una San Vito che non è mai, come tale, esistita: eterea, delicatisima e soprattutto fragilissima come lo sono tutti i paesaggi dei sogni che all’alba svaniscono. Quasi che il maestro avvertisse una sorta di pudicizia nel ritrarne i molteplici volti e preferisse lasciare al segno, velocissimo, gracile, a volte appena accennato restituire, per palpiti, l’impressione visiva. Che di volta in volta perciò si sflilacciava, si ricompattava e si dilatava, procedendo per accenni e sottolineature, immerso in un silenzio di un fascino tutto particolare e lungi dalla corposa fisicità degli Zuccheri, De Rocco, Culos, Michieli e, sempre che il paragone sia lecito, nemmeno alla Terra di San Vito di Girolamo Cesarino. In un disperato tentivo, questo del professor Tramontin, di provare a ricostruire quel “giardino sospeso” in cui si trovava a vivere e che, foglio dopo foglio, incisione dopo incisione, si provava a raggiungere. E la ripetizione ossessiva del soggetto pare essere letta quale attestazione della dolorosa coscienza di non essere riuscito ancora a dar corpo, per usare una formula, buona in sé, ma purtroppo abusata, a quel paesaggio che si usa definire quale paesaggio dell’anima. L’invito è a sostare. Magari a fianco dell’Eterno che, completata l’opera della creazione, riposa e, riguardando quanto operato, vidit quod esset bonum: vedeva come quanto uscito dalle sue mani fosse davvero buono (Ge, 1, 25). E si trattava di un altro giardino, rimasto purtroppo, quello pure, “sospeso”. Dal quale giardino, purtroppo, occorrerà ritornare sulla terra. Cominciando con il dire come rimangano fuori dagli interessi del Cesarino – ancora lui! - sostanzialmente “descrittivi” anche se a tratti non privi di pur generiche motivazioni, l’individuazione di quella che, forse, è la più remota “origine del castello di S.Vito”. Quella cioè legata ad una vocazione viaria che vedeva, a ridosso del piccolo spazio fortificato abbracciante, con la fossa, il “castello”, l’incrociarsi di due percorsi stradali di cui l’uno saliva da Motta, attraverso l’importante castello patriarcale di Meduna (di Livenza), verso Udine da raggiungere guadando il Tagliamento e l’altro che muoveva dal prospero porto fluviale di Portogruaro per guadare a Pinzano di nuovo il Tagliamento in direzione dell’ “Allemagna”. Anzi converrà osservare, in merito, come fra Due e Trecento, lasciato questo secondo tracciato a lambire le mura cittadine, l’ampliata cinta muraria con le sue nuove porte venga inglobando, tra le abitazioni e la piazza, questa strada nel nome dei traffici e dei commerci. E poi ancora: lungo queste vie, appena fuori delle mura, si vadano agglomerando ulteriori nuclei abitativi che rispondono – per usare la toponomastica attuale - Fabbria, Fontanis, Magredo. E le strade servono per gli spostamenti: di uomini, animali e merci. Ma è discorso questo che ci potrebbe portare lontano. Per modo che converrà ripiegare su un risvolto particolare di questo viaggiare: la necessità del ricetto per le persone, gli animali, le merci. Senza addentrarci in ricostruzioni storiche che per ora possono contare su supporti archivistici e bibliografie ancora parziali, sembra possibile poter asserire che il viator poteva contare di un ospizio, quanto meno duecentesco di San Nicolò situato a mezzo dell’attuale borgo di Magredo e dalla metà del Trecento di altro, e più ampio, eretto, appena oltrepassata la torre di San Nicolò, dalla fraterna dei Battuti: un locale all’interno del quale un piatto di minestra ed un giaciglio si poteva sempre accattare e del, caso, anche una qualche assistenza di carattere sanitario. Gli accordi si prendevano con il priore e la priora che gestivano lo stabile su delega di quei Battuti i quali ben presto s’erano andati dimenticando degli entusiasmi caritativi delle origini il quali contattavano, se del caso, il “chirurgo” e, nei casi più impegnativi, l’ “eccellentissimo fisico”: personaggi entrambi stipendiati, ma con notevole calo salariale nel caso del povero chirurgo, dalle pubbliche entrate della locale Comunità. Nei casi estremi, pensare alla salute eterna dell’ospite toccava al cappellano della fraterna che provvedeva al Viatico, all’Olio Santo e alle preci finali della “Raccomandazione dell’anima” che terminavano con quello splendido commiato da recitare al momento dell’agonia: Egredere anima cristiana de hoc mundo: ora puoi finalmente partire, anima cristiana, da questo mondo. Alla sepoltura avrebbero dato mano, siccome da regolamento e, di norma senza particolare entusiasmo poi che la mancia per i poveri non era prevista, i campanari della vicina parrocchiale cui spettava l’onere di scavare la fossa nella terra consacrata abbracciante la parrocchiale. Ma, a quanti non avessero a dimostrare particolari problemi economici oppure di carattere sanitario, eran di soccorso le osterie eredi locali dell’oramai lontana evangelica “locanda” presso la quale, giusta la parabola del buon Samaritano, questi avrebbe alloggiato il disgraziato incontrato sulla strada che da Gerusalemme conduceva a Gerico (Lc, 10, 25-37). Anche nella Terra di San Vito, come un poco in tutti i centri maggiori, minori e persin minimi della Patria del Friuli, c’erano le osterie. Purtroppo la nutrita serie di documenti notarili sanvitesi, correlati, in diversa maniera, a questa specifica realtà, sono stati assai poco indagati, E però fa piacere, in argomento, desumendo da Miriam Davide, ricordare come nel 1437 esercitasse nella Terra di San Vito quale oste il tedesco Pietro del fu Pietro di Petau, tra l’altro, in rapporti di affari con il salisburghese Pietro che però stava di casa nella vicina Udine. Onde si riaffaccia e trova conferma, in questo allacciarsi di rapporti, il ruolo di, seppur ridotto, svincolo nodale della Terra di San Vito nel cuore del territorio della Patria per l’un verso e della diocesi di Concordia per l’altro. Ed in merito a quest’ultima sottolineatura non sarà da dimenticare come Portograro, città in cui dal XII secolo il vescovo concordiese aveva una sua residenza, dal Duecento prosperava una robusta colonia di tedeschi che gestivano un proprio fondaco a controllo dei traffici da e per l’Allemagna, avevano le proprie abitazioni ed avevano messo in piedi una sorta di sindacalizzato “dopo lavoro” (si direbbe oggi), teutonicamente ordinato con tanto di notaio che fosse in grado di rogare contratti in tedesco e dotato, persino, il fondaco, di una piccola biblioteca (guardata con sospetto dall’autorità religiosa concordiese poi che possibile ricetto di libri “heretici et luterani”). L’osteria, proprio per la funzione “plurima”: offrire uno spazio per gli incontri (rigidamente maschili), un boccale di vino, un piatto di minestra o di carne, un panetto, una camera, e se, del caso, un’oretta di divertimento più o meno clandestino, era luogo da controllare quanto meno per il fatto che non vi fossero truffe nelle “misure” e nella “qualità” dell’offerta. Ed in tal senso si esprimevano lo Statuto cittadino firmato nel 1528 dal Patriarca Marino Grimani del 1528 e le Regole e Capitoli emanati dal patriarca Daniele Delfino nel 1751-1752 (rivisti e confermati dalla Repubblica Veneta negli anni 1773 e 1775) nei quali la vigilanza, puntigliosa e pignola, veniva addossata ai Giurati eletti dal Consiglio cittadino. E se il controllo dell’osteria di natura, diciamo così, tecnica era di spettanza dell’autorità civile, con l’avvento della Controriforma e quindi dalla seconda metà del Cinquecento, comincerà quel locale ad essere oggetto di attenzione sempre più stringente da parte dell’autorità religiosa. Locus perditionis tuonavano i predicatori; taberna contra tabernaculum (il latinetto è talmente facile che non abbisogna di traduzione veruna) si lamentavano i pievani che, sul finire del Settecento, non riuscivano più a convincere gli osti a chiudere le mescite almeno durante le funzioni religiose e ad ora conveniente in sul calar delle tenebre. E supplicavano i vescovi diocesani, in visita pastorale, di emanare “gagliarde provisioni” contro quegli ostinati osti e bettolieri. Le quali “provisioni”, una volta puntualmente emanate, manco a dirlo, lasciavano il tempo che trovavano. Ma in tema, per ora, ci si può fermare a questo punto. Altro si spera di poter dire in una prossima puntata. Nel tentativo di resuscitare, con una dipintura sotto il profilo letterario non particolarmente raffinata, uno di quei locali che costellavano, di certo, il tessuto urbano, e soprattutto suburbano, della Terra di San Vito si è ritenuto opportuno far citazione di un testo, in versi, di Giovanni Battista Donato. Il quale nasceva, figlio illegittimo, dal patrizio veneziano Alvise Donà e da una donna di onorevole lignaggio trevigiano nel 1534. Nel 1559-1560 è a Gruaro e farà più mestieri: contadino in proprio, doganiere in Portogruaro, cameraro della camera dei pegni dell’abbazia di Sesto al Reghena, mugnaio, maestro pubblico in quel di Caorle, notaio e scriba. E poi anche oste, forse attorno al 1573, in Bagnara ed amico del cuore del collega Simone Ventoruzzo che teneva frequentata osteria in Latisana. Avremo modo di riparlare – questi almeno sono il proposito e la speranza - di questo messere, anche per i suoi legami amicali e letterari con pre Alvise Scussio organista della chiesa grande di San Vito, in una prossima occasione. Per ora leggiamo la sua Lode all’osteria Consumo ‘l dì e la notte in fantasia qual dell’uom esser può meglior officio1 né al fin concludo altro che l’osteria. Abbenché2 molti variano giudizio, molti che rar o mai escon dal tetto, chi per loro impotenza, chi per vizio, e molti de chi el cor vive in sospetto di adulter o di ladro, un all’avaro, l’altro al geloso teme ira e dispetto3; ma chi di praticar il mondo ha caro, o gli bisogna viver con il moto4, dirà che l’osteria è un mestier raro. Come farebbe quell’uomo devoto la visitazion di altar lontano5? mal, senz’albergo, finirebbe ‘l voto! Come farebbe ‘l nobil e ‘l villano che, oppresso da travagli, su e giù corre , senza l’ospizio che ‘l tien vivo e sano6? E come si farebbe, quando occorre ricever car’amico in un baleno, mancando la taverna che soccorre? Dicasi poi che sempre sereno e allegro stassi l’oste e riverente a chi s’appressa pur al suo terreno7: a ogni cenno è pronto e obediente, né lassa mai mancar robba alla mensa per ristorar l’afflitta e stanca gente; e sempre di compor vivanda pensa preziosa e tal che l’appetito assetti8, e quella a questo e quel porge e dispensa. Certo che l’osteria in fatti e in detti9 è uno de’ negozii più importante che possi l’uomo far ch’all’uomo diletti10. O osteria, magnopera11 e trionfante opera12 di sublime qualitade, opera non da vili, né da ignorante. Se questo è ver vediam ch’ogni cittade consente averne nel suo più bel sito. e non una, non due, me in quantitade; ogni castel convien che sia fornito e quasi che ricchiede13 in ogni villa, in ogni passo, alla montagna e al lito. Di grazie e privilegii el ciel sortilla14 e la monìo15 del spirito di vino per cui sempre sta lieta e sempre brilla. Questa per suo voler e per destino dà ricetto16, ad ognòr17 allegramente, ad ogni paesan e pellegrino. In loco prospettivo e eminente fa di sé mostra come vogli dire: “Io tutti abbrazzo, a tutti io son parente”. L’arbor trionfale18, che non teme l’ire del sommo Giove, qui s’adopra e pone tra cibi e quivi vedesi finire: per il che quasi tengo opinione che le Muse, Parnaso e Elicona, abbin nell’osteria la lor magione19. Dunque, se pensa ben, ogni persona vede che ‘l primo officio è quel dell’oste in che si può acquistar laurea corona: farsi poeta e che troppo non coste!20 Note al testo 1 – nel senso fisico di luogo. 2 – sebbene. 3 – molti che sentono di esser sospettati come adulteri e ladri temono le ire dei mariti gelosi e degli avari. 4 – condurre una vita fuori, in movimento. 5 – il pellegrinaggio. 6 – è l’osteria. 7 – a chi va da lui. 8 – soddisfi. 9 – in fatti ed in parole. 10 – che l’uomo possa fare per far piacere all’uomo. 11 – portentosa. 12 – professione. 13 – sta, si trova. 14 – la fornì. 15 – la dotò. 16 – ospita. 17 – sempre. 18 – l’alloro. 19 – siano di casa. 20 – grazie al vino componi poesie con gran facilità. Ci si ferma, per ora, qui. La strada è ancora molta. Non senza però un’ultima osservazione finale ancora una volta collegata all’immagine della Terra di San Vito. E’ a tutti (forse) noto come lo stemma cittadino attuale ricalchi l’ “Arma antica” della Comunità di San Vito – ad esempio quella fusa sulla campana già dell’arengo o, più probabilmente, “delle ore”, e datata al 1565 – ove compare una torre coronata da due torricelle. E si è posta, come fa l’archivista della Comunità sanvitese Bernardino Bonisoli nel 1779, in relazione quella torre con lo stemma del patriarca Raimondo della Torre (1273-1299) “che qui regnava nel 1275”. Ora, però, con buona pace dei Torriani, sembrerebbe che quella torre non faccia altro che duplicare l’immagine del medievale palazzo patriarcale alias il castello. Una struttura fortificata ormai da tempo perduta ma che può essere restituita da una veduta a volo d’uccello del centro murato di San Vito databile, con ogni verosimiglianza, alla seconda metà del XVI secolo. Quell’edificio vi compare quale compatta struttura merlata difesa alle estremità da due torri che si ergono al di sopra della terminazione sommitale della facciata. Sicché vien da immaginare, ovviamente e per ora solo quale ipotesi di lavoro, che lo stemma vada riaggancito a quell’edificio cui in qualche misura sarà da restituire il ruolo di nucleo fondante della Terra di San Vito. Giusto per tornare a parlare, con Girolamo Cesarino, di “Origine del castello di S.Vito”. Detto questo, ora davvero, è il momento di fermarsi. è il momento del congedo. Mi tornano buone a questo punto, abbigliandomi delle piume del pavone prese a prestito, certe parole di Nico Naldini Anche San Vito ha modellato il suo tipo o, meglio, la sua bellezza. I suoi abitanti hanno colto nelle loro fisionomie quella luminosità un poco epidermica, quel nitore delle loro case, quell’atmosfera tersa, ed è diventato il loro dono, la forma costante dei loro atteggiamenti, che i padri, eredità sconosciuta, tramandano ai figli. Parole sante. Vivete felici!