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“ASCOLTO E MEDIAZIONE DEI CONFLITTI: LA
“ASCOLTO E MEDIAZIONE DEI CONFLITTI: LA MEDIAZIONE DEI CONFLITTI PER LA PREVENZIONE E LA RIDUZIONE DEL CONTENZIOSO NELLE AZIENDE SANITARIE DELLA REGIONE PIEMONTE” (Alessandra D’Alfonso, Alberto Quattrocolo) L’organizzazione sanitaria è un sistema complesso e adattativo in cui interagiscono un insieme di microculture e di elementi interdipendenti (persone, processi, attrezzature), il che comporta l’instaurarsi di reti di relazioni tra le persone o gruppi di persone, “stakehorlders”, che a diverso titolo intervengono nell’organizzazione; portando con sé interessi eterogenei. E dove c’è relazione inevitabilmente c’è conflitto. Il conflitto può avere diversa genesi. I conflitti interni sono quelli che si sviluppano all’interno della sfera lavorativa, quando l’insieme delle tensioni, dei fattori ansiogeni, delle responsabilità, si ripercuotono anche sulla relazione tra i membri del gruppo. All’interno delle équipe di lavoro le tensioni latenti o i contrasti aperti, spesso, non soltanto incidono negativamente sulla produttività dell’ente, ma giungono a condizionare pesantemente la serenità delle persone coinvolte, anche di coloro che non sono gli attori principali della vicenda conflittuale. Ciò nonostante, non sempre la conflittualità tra collaboratori trova una gestione adeguata, preferendo talvolta rimuoverla, coprirla o censurarla oppure tentare di risolverla con conciliazioni forzate. Un conflitto non costruttivamente gestito, però, può arrivare a compromettere la motivazione dei singoli e può perfino spaccare un’intera équipe in due o più fazioni, moltiplicando le difficoltà di gestione dell’attività sotto molteplici aspetti e generando talora l’allontanamento di professionisti validi e preparati. I conflitti esterni riguardano la relazione tra il professionista sanitario (medico, infermiere, ecc…) e la persona (paziente, familiare, altro caregiver) che si rivolge all’organizzazione quale fruitore di un servizio e sono caratterizzati da un alto grado di asimmetria di ruoli e di rapporti tra le due parti. L’operatore rappresenta per l’utente esterno il portatore di un sapere sconosciuto e inaccessibile, è colui che possiede le competenze tecniche e scientifiche, fattori che influenzano la relazione ponendo il professionista in questione in una condizione di superiorità. Il paziente al contrario versa in uno stato di fragilità e sudditanza psicologica, costretto ad esporre a medici ed infermieri le proprie nudità, quelle fisiche, come quelle psicologiche. Egli può sentirsi solo, disarmato, forzato dalla malattia o comunque da uno stato di sofferenza ad un vincolo di dipendenza che spesso mal tollera; allo stesso tempo nutre anche un bisogno di solidarietà e comprensione difficile da riconoscere e soddisfare. Quella tra professionista e paziente/caregiver, dunque, è una relazione complessa, nella quale circolano senza interruzione fiducia, paura, vissuti d’impotenza, rabbia, dolore, preoccupazione, disperazione, aspettative, speranze, delusioni e rancori. Va sottolineato, inoltre, come nei secoli si sia modificato il rapporto tra medico e paziente passando da un rapporto basato sull’ alleanza terapeutica nel modello tradizionale ippocratico, in cui il medico esercitava sul malato un potere esplicito che si reggeva sulla finalità che lo ispirava ed era esercitato per il bene del malato, al modello attuale in cui il rapporto tra il medico e il paziente è basato sulla intersoggettività e sulla contrattazione. Da un lato la modernizzazione e l’estremo tecnicismo della medicina, dall’altro l’aumentata forza contrattuale e le maggiori aspettative del cittadino nei confronti delle istituzioni hanno messo infatti in crisi il modello tradizionale e delineato la figura del cittadino competente che possiede maggiori capacità di valutare e operare scelte . L’ empowerment del cittadino, rappresentato dall’aumentata coscienza e dalla diversa percezione del cittadino del diritto alla salute, determina la pretesa di maggiori garanzie dal servizio sanitario. Da questo deriva l’incrinarsi del patto tra i cittadini e le istituzioni e del rapporto fiduciale fra le categorie coinvolte (sanitari da un lato, pazienti e loro familiari dall’altro) e la crescita delle denunce. In Italia in dieci anni le denunce dei cittadini contro i medici e gli ospedali sono aumentate del 66% e si è passati da 17mila danni segnalati nel 1996 a 28mila nel 2006. Le dirette conseguenze, ossia l’incremento esponenziale dei premi assicurativi con aggravio dei costi per le aziende sanitarie e la riduzione di garanzie, contribuiscono a creare un clima di insicurezza generale. In sintesi, si può affermare, citando Spinsanti1[1], che “ora più che mai la pratica della medicina è gravida di conflitti; tanto che l’energie impiegate nella gestione dei conflitti appaiono sottratte alla guerra contro la malattia”. In questo contesto s’inserisce il progetto “Percorso di ascolto e mediazione dei conflitti” che l’A.Re.S.S. Piemonte sta realizzando, in stretta sinergia con ME.DIA.RE, associazione no profit specializzata nella mediazione dei conflitti, all’interno delle Aziende Sanitarie piemontesi in vista di alcuni obiettivi di alto profilo, che possono essere sintetizzati in sei punti: offrire la possibilità ai cittadini e ai professionisti di essere accolti e ascoltati nelle situazioni di conflitto, così da integrare i normali percorsi di accertamento dell’evento segnalato con un’attenzione alla persona che vale, da un lato, a risolvere i vissuti di tradimento e abbandono sperimentati dal cittadino e i suoi sentimenti ostili verso l’Organizzazione e, 1[1] A. Valdambrini, La gestione dei conflitti in ambito sanitario, 2008. dall’altro, a far sentire all’operatore che l’Ente non lo lascia solo a fronteggiare una situazione critica, ma si preoccupa della sua condizione professionale/personale; ridurre l’avvio di procedure giudiziarie e di richieste di risarcimento, considerando quanto numerose sono le richieste di risarcimento improprie che occupano i percorsi legali, costituendo costi non trascurabili; risolvere quell’ostilità, sospettosità e spirito di rivalsa che impediscono spesso una soluzione concordata della vicenda; integrare un sistema di risposte che talora crea delusione e insoddisfazione nell’utente, aumentando la conflittualità; ridurre il carico gravante sulle spalle dei professionisti e dei loro responsabili, ma anche degli altri operatori che si occupano della gestione dell’evento avverso e delle relazioni con il pubblico, nel far fronte al cittadino insoddisfatto, arrabbiato e deluso; recuperare o evitare le talora gravi perdite che patiscono gli enti in termini di immagine aziendale. Da questa sintetica esposizione emerge con tutta evidenza che l’approccio prefigurato dall’A.ReS.S. da un lato, tiene conto delle criticità e della, talora, notevole drammaticità delle singole situazioni e della rilevante complessità del contesto e, dall’altro, mira a rendere disponibile per le Aziende (e per i loro operatori e utenti) una risorsa che non è finalizzata a risolvere delle “questioni tecniche” ma a recuperare una “relazione di fiducia”. PERCHÉ PROPORRE LA MEDIAZIONE IN AMBITO SANITARIO. “La mediazione definisce la propria fisionomia non tanto come supporto del modo di regolazione tipico del conflitto costituito dall’atto giurisdizionale, ma interviene come modo del tutto autonomo di regolazione del conflitto stesso; lo scopo che vuole raggiungere la mediazione è la restituzione ai soggetti protagonisti del conflitto del potere e delle responsabilità di assumere la decisione in ordine allo scontro che li oppone. Detto con parole più semplici: la mediazione si propone di ristabilire una relazione interrotta tra più parti, e non, a differenza dell’atto giudiziario, di stabilire un vincente ed un perdente, una ragione ed un torto” 2[2]. La mediazione è, infatti, una modalità di gestione del conflitto, alternativa non soltanto al processo giurisdizionale, ma anche ad altri modi di gestione del conflitto quali la conciliazione, la negoziazione o l’arbitrato. Da queste ultime si distingue proprio per l’attitudine ad una più profonda 2[2] M. Bouchard, La mediazione: una terza via per la giustizia penale, 1994. elaborazione del conflitto, in vista di una sua soluzione che sia interiorizzata dalle parti e, dunque, acquisita in modo stabile sia a livello cognitivo che sul piano emotivo. Non bastano, infatti, le decisioni dell’autorità giudiziaria a riportare serenità nel rapporto tra il medico e il paziente, divenuti parti contrapposte di un processo e tali rimasti anche dopo la sua conclusione, come non deriva un miglioramento nei rapporti tra la struttura cui il professionista appartiene e la collettività neppure dalla rilevazione di quanto siano rare, rispetto alla mole delle citazioni in giudizio, le pronunce dei tribunali che attribuiscono ai medici una responsabilità per colpa. D’altra parte la soluzione giudiziaria alle controversie tra medici e pazienti, anche in caso di condanna del professionista non vale a ripristinare nella pubblica opinione una solida fiducia verso l’ente presso cui il medico presta la propria opera; mentre in caso di sentenze favorevoli al medico restano sospetti di difese corporative e di decisioni ingiuste. Naturalmente, nella gestione giurisdizionale del conflitto, per imprescindibili ragioni di garanzia ed obiettività, la grande assente è proprio la relazione tra il paziente e il medico. Il percorso di mediazione è un processo volontario ed informale, anche se strutturato, del quale è opportuno definire meglio le sue caratteristiche e le possibilità applicative di tale strumento nell’ambito in esame. Il mediatore è un terzo neutrale che non giudica né impone delle soluzioni, egli agevola i contendenti nella ricerca di un accordo attraverso un percorso che tende a far emergere i reali bisogni delle parti. La mediazione, dunque, è un percorso che punta a riattivare i canali di comunicazione e a ricostruire la relazione tra le parti su nuove basi. Alla fine del percorso, pertanto, non vi saranno né vinti né vincitori ma persone confortate dalla consapevolezza di essere state in grado di gestire una situazione complessa, modificandola, e di aver contribuito a lenire la distruttività del conflitto, mettendone in luce i risvolti positivi. Da questo punto di vista, risultato positivo della mediazione non è il mero accordo tra le parti in conflitto, ma il ristabilirsi di una comunicazione, lo spostare la relazione su basi nuove, il responsabilizzare le parti in merito al conflitto ed alla soluzione eventualmente trovata. La mediazione tra medico e paziente costituisce, quindi, l’occasione per entrambi di incontrarsi al di là delle formalità del rito giudiziario e di confrontarsi secondo modalità che permettono di esprimere gli autentici bisogni, punti di vista, valori e sentimenti che sottendono il conflitto. Ciò non significa che nella mediazione le parti debbano abdicare necessariamente ai rispettivi ruoli, ma che possono non esserne vincolati. A differenza di altri gestori del conflitto, anch’essi terzi, neutrali ed equidistanti rispetto ai confliggenti, il mediatore non soltanto si astiene dal pronunciarsi sulla legittimità delle ragioni di questi, ma neppure propone proprie soluzioni al conflitto. Il mediatore, infatti, come non giudica, così non interpreta e non consiglia, ma accompagna. È un catalizzatore, che agevola il confronto, stimola l’espressione dei vissuti, garantisce l’esposizione di tutte le opinioni per consentire la ripresa della comunicazione tra i soggetti. Attraverso la sua attività di ascolto e di stimolo, infatti, induce le parti a realizzare come in quel contesto non valga la logica per la quale se uno è nel giusto ciò avviene necessariamente a scapito dell’altro, il quale per definizione sbaglia. Attraverso tale processo, entrambi giungono a riconoscere e comprendere le ragioni e le motivazioni dell’altro, pur continuando eventualmente a non condividerne la visione. Con la rielaborazione del conflitto le parti potranno, infine, ricostruire il senso della vicenda, attribuendo ad essa un significato condiviso, consentendo il recupero di un rapporto tra cittadino e istituzione e/o il rinnovo di una relazione di fiducia tra gli operatori sanitari (e l’organizzazione) e il paziente (o il famigliare) protagonisti delle così frequenti e numerose situazioni conflittuali che si sviluppano in tale ambito della vita sociale: concentrandosi sulla relazione interrotta (o mai costituita) tra la persona-operatore la persona-paziente, la mediazione trasformativa si muove in un’ottica che pone al centro dell’attenzione dell’èquipe dei mediatori i vissuti degli attori, fin dai primi passi del percorso (si veda più avanti la descrizione delle fasi del percorso di ascolto e mediazione), per arrivare ad offrire uno spazio neutrale e protetto in cui cittadino e operatore trovino una propria via di comunicazione e possano anche riconoscersi, al di sopra dei rispettivi ruoli, come persone. In termini riassuntivi si potrebbe definire tale mediazione come un processo attraverso il quale terze persone neutrali (i mediatori), in seguito a colloqui individuali con gli attori del conflitto, consentono loro, mediante l’organizzazione d’incontri faccia a faccia, di confrontare i propri punti di vista e di esporre i propri vissuti, cosicché sia per loro accessibile una rappresentazione più complessa degli eventi dell’uno e dell’altro, e si possa stabilire una comunicazione fondata su un ascolto reciproco, quale premessa al (ri)sorgere di un sentimento di fiducia. La prima fase, infatti, è costituita dai colloqui individuali “spazio di ascolto” offerti a ciascun attore del conflitto. Ed è proprio in questa fase che le resistenze o i moti di rifiuto che possono essere sollecitati dalla parola “mediazione” (spesso intesa come improponibile riappacificazione con un nemico temuto e detestato) vengono risolte, poiché la persona, che è stata ascoltata e ha stabilito un rapporto di fiducia con gli operatori, ha avuto la possibilità di comprendere che l’incontro con l’altro è un momento di confronto. La seconda fase, stante la spontanea adesione di entrambe all’offerta del confronto, è costituita dall’incontro tra i protagonisti del conflitto alla presenza di tre mediatori. Talvolta è sufficiente un solo incontro di mediazione, più spesso occorre replicare l’incontro per raggiungere la completa elaborazione del conflitto e il raggiungimento di una soluzione positiva della vicenda3[3]. La terza e ultima fase è costituita da un colloquio post-mediazione con ciascuna persona nell’ambito del quale si raccolgono gli effetti della mediazione compiuta, e la ricaduta di questa sul piano personale e del rapporto con l’altro. Spesso, il conflitto viene risolto già nella prima fase del percorso, poiché non è raro che, attraverso i colloqui individuali, la persona rifletta sulla propria posizione e sui relativi vissuti, superandoli e, così, ritrovando, se necessario, autonomamente un dialogo conciliativo con l’altro4[4]. Questo aspetto rinvia ancora una volta alla centralità dell’ascolto e alla sua funzione all’interno dell’intero percorso e al perché questo sia definito di “ascolto e mediazione”: infatti all’interno del colloquio individuale (che può essere preliminare ad un incontro di mediazione), la persona (cittadino o professionista), nella relazione con gli operatori che la ascoltano, deve almeno iniziare ad avvertire che l’attenzione di questi è posta su di lei, in primo luogo, in quanto persona e non per il ruolo, professionale o di altra natura, attorno al quale ruota il conflitto. Nella impostazione che si sta descrivendo non vi è un solo mediatore, ma uno staff di tre. Infatti, poiché la finalità del percorso è permettere di dare voce a quegli aspetti emotivi e cognitivi che hanno determinato una tale escalation dei sentimenti e dei comportamenti ostili, occorre che i mediatori siano in grado di ascoltare in modo attivo e soprattutto empatico i confliggenti. Per realizzare tale fine un solo mediatore, in mezzo a due o più confliggenti, incontrerebbe molte difficoltà a gestire il processo. La presenza di tre mediatori protegge i medianti e i mediatori dal prodursi di questo tipo di situazioni e offre un salvagente anche per il caso non così eccezionale in cui siano addirittura due i mediatori a perdere temporaneamente ma nello stesso momento la capacità di essere in sintonia con i medianti e neutrali rispetto al loro conflitto. L’apprendimento di queste tecniche non è così immediato, specie sotto il profilo del loro esercizio concreto: spesso questo crea, soprattutto all’inizio, difficoltà - e finanche resistenze - apparendo difforme da finalità di ricomposizione del conflitto. Per tale ragione, il percorso formativo, in atto presso l’A.ReS.S piemonte e finalizzato a formare equipé, composte da personale dipendente del Servizio Sanitario Regionale e operative presso le Aziende di appartenenza, che gestiranno “percorsi di ascolto e mediazione” per i conflitti tra cittadini e professionisti sanitari nonché tra gli stessi operatori, richiede un numero di giornate di formazione in aula (24), cui si aggiunge una fase di esperienza sul campo nelle Aziende di appartenenza. Di fatto, per i partecipanti a tale formazione si tratta di acquisire l’insieme delle competenze proprie di una professione specifica (quella del 3[3] Gaddi D, Marozzi F., Quattrocolo A. (2003) Voci di danno inascoltate: mediazione dei conflitti e responsabilità professionale medica, Rivista Italiana di Medicina Legale, XXV, anno 2, fasc.5, 2003. pp.839-856; 4[4] De Palma A., Quattrocolo A. (2009) La mediazione tra medico e paziente: un intervento imparziale sul fenomeno. mediatore) e di imparare a declinarle in maniera coerente ed efficace in relazione al contesto organizzativo, preservandone la caratteristica della neutralità (che, peraltro, costituisce la prima garanzia di efficacia) nelle più eterogenee situazioni che la realtà pone in essere di volta in volta. Sono questi alcuni dei motivi per i quali la metodologia formativa adottata è fondamentalmente attiva: i presupposti teorici presentati, infatti, non sono mai disgiunti dalla pratica, costituendo anzi momenti di accompagnamento e definizione delle implicazioni derivanti dalle esercitazioni e dai giochi d’aula compiuti. In particolare, i momenti formativi con valore interattivo più rilevante sono le esercitazioni nelle quali i discenti si sperimentano nella conduzione di colloqui individuali con singoli confliggenti e nella gestione di incontri di mediazione tra questi ultimi. Rispetto ad entrambi i tipi di esercitazione, la formazione prevede una progressione nel coinvolgimento dei discenti così da tenere conto anche delle difficoltà legate all’esigenza di “mettersi in gioco”: nelle prime giornate, le esercitazioni emotivamente più impegnative - centrate sulla gestione di relazioni conflittuali vedono i formatori prestarsi ad interpretare tali situazioni conflittuali, proponendosi come confliggenti, accolti e ascoltati di volta in volta da due/tre discenti. In seguito viene proposto a tutti i singoli discenti di sperimentarsi nel ruolo di confliggente. Tale condizione, sia nello svolgimento di colloqui individuali che nella realizzazione di incontri di mediazione, rappresenta l’occasione più importante per il singolo corsista di verificare l’efficacia - in termini di accoglienza, riconoscimento, de-escalation, ecc. – delle tecniche e delle modalità relazionali che contraddistinguono l’impostazione mediativa proposta e per rivedere criticamente le prestazioni eseguite negli esercizi in cui si operava come gestori del conflitto. Concludendo, la mediazione, nei vari settori in cui trova applicazione (coniugale e familiare, di lavoro, di vicinato, penale, ecc.), costituendo una modalità di gestione del conflitto alternativa a quella giudiziaria, e assai meno dispendiosa, offre la concreta possibilità di ridurre il contenzioso giudiziario. Tale via, infatti, su richiesta delle parti, può essere intrapresa prima che siano adite le vie legali e, quando porta ad una soluzione del conflitto, previene la manifestazione dello stesso in sede giurisdizionale. Va ancora rilevato che la mediazione può rivelarsi utile anche dopo l’esperimento dell’iter legale, quando una delle parti o entrambe si sentano insoddisfatte delle risposte ricevute dalla giustizia. La prevenzione del contenzioso giudiziario attraverso un percorso di mediazione è reso possibile dai vantaggi da questa offerti. Da tutto ciò risulta evidente come l’offerta di un servizio di mediazione rispetto alla conflittualità che interessa le organizzazioni sanitarie risponda anche all’esigenza di prevenire il contenzioso giudiziario, oltre che di colmarne le lacune, ma presenti, soprattutto, una serie di ulteriori vantaggi di portata considerevole. Tra questi vi è il ripristino della fiducia, precedentemente perduta, non soltanto verso il singolo medico, ma anche nei confronti dei servizi e delle istituzioni. L’introduzione di un servizio di mediazione laddove finora ha dominato il contenzioso può risultare significativa, quindi, in relazione a differenti obiettivi. Un primo fine può essere individuato nell’interesse del paziente, e quindi nel soddisfacimento di alcuni suoi bisogni. L’offerta della mediazione avrebbe effetti benefici anche per il medico. Al tavolo della mediazione il medico, infatti, potrà far comprendere i perché delle scelte operate, oltre che spiegare se stesso, la propria realtà di medico e di uomo e descrivere il proprio stato d’animo. L’esperienza piemontese Come già anticipato l’Agenzia Regionale per i Servizi Sanitari della Regione Piemonte facendo propria l’esigenza di disporre di una modalità operativa per la gestione dei conflitti nelle organizzazioni sanitarie al fine di prevenire il contenzioso e migliorare il clima organizzativo nelle aziende sanitarie, ricostruendo così il rapporto di fiducia non solo tra gli operatori, ma tra cittadini e istituzione, ha avviato nel 2009 un percorso formativo di 24 incontri (da marzo a dicembre 2009) per approfondire le tecniche di gestione delle controversie, porterà alla costituzione all’interno delle ASR di appartenenza di micro-equipe di professionisti “addestrati” a gestire i conflitti. La fase formativa è stata preceduta da un’indagine conoscitiva che ha avuto l’obiettivo di fotografare come vengono gestiti i conflitti nelle aziende sanitarie piemontesi. Uno step cruciale che, grazie a interviste semi-strutturate condotte in 18 delle 21 aziende regionali, ha permesso di scattare un’efficace istantanea delle scelte compiute dalle ASR. La realtà che emerge evidenzia un’equa distribuzione tra conflitti interni ed esterni. Tutte le aziende hanno più o meno gestito le situazioni conflittuali, pur mancando una struttura dedicata a percorsi codificati e condivisi. Non esistono strumenti, metodologie di mediazione, ma un po’ di improvvisazione. La maggior parte delle controversie, evidenziate dall’indagine conoscitiva realizzata da giugno a novembre 2008, sono state gestite dagli URP o dalle Direzioni Sanitarie con il supporto degli Psicologi o degli Uffici per la Qualità e la Gestione del Rischio Clinico. Il progetto avviato vede coinvolte 7 delle 21 Aziende Sanitarie: 3 Asl (To 2, No e Cn1), 3 AO (Alessandria, Oirm-Sant’Anna e Cto/Maria Adelaide) e l’Assessorato Regionale alla Tutela della Salute e Sanità. Per ciascuna Azienda Sanitaria partecipante sono coinvolti tre professionisti di diverso profilo professionale: Medici di Direzione Sanitaria, Risk Manager, personale dell’Organizzazione e Sviluppo Risorse Umane (OSRU) e dell’URP, rappresentanti del Comitato Pari Opportunità, Medici Competenti e Clinici. Si ritiene che, vista l’adesione e il favore riscosso dei partecipanti, di estendere il progetto nel 2010 alle restanti aziende piemontesi. Al termine del percorso formativo i neo-mediatori faranno ritorno alle proprie organizzazioni di appartenenza, sarà pertanto fondamentale costruire un clima favorevole affinché l’equipe si integri con l’organizzazione e crei valore aggiunto. Raggiungere questo risultato è da considerarsi un obiettivo a breve termine e agevolmente misurabile, altra cosa sarà valutare l’efficacia del modello in termini di conflitti risolti e di contenziosi prevenuti, raggiungibile solo se gli obiettivi di tutti gli attori dell’organizzazione, dalla componente strategica ai gestori del conflitto, convergano in modo univoco.