Volume IN TRINCEA PER LA PACE
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Volume IN TRINCEA PER LA PACE
PROGETTO NAZIONALE “IN TRINCEA PER LA PACE” DATEmI IL DENARO ChE è sTATO sPEsO NELLE GuERRE E vEsTIRò OGNI uOmO, DONNA, E bAmbINO CON uN AbbIGLIAmENTO DEI quALI RE E REGINE sARANNO ORGOGLIOsI. COsTRuIRò uNA sCuOLA IN OGNI vALLE suLL’INTERA TERRA. INCORONERò OGNI PENDIO CON uN POsTO DI ADORAZIONE CONsACRATO ALLA PACE Charles Sumner PROGETTO IN TRINCEA PER LA PACE Promosso da Convitto “Cesare Battisti” di Lovere (Bg) Istituto Comprensivo “Darfo 2” di Darfo B.T. (Bs) e Liceo Linguistico “Falcone” di Bergamo Finanziato dal MIUR D.G. Studente, Integrazione e Partecipazione con fondi ex D.M. 435/201 PROGETTO NAZIONALE Dirigente: Prof.ssa Paola Abondio Prof.ssa Gloria Farisé Prof. Federico Spandre IN TRINCEA PER LA PACE Responsabile del progetto: Prof. Fabio Molinari Redazione del volume: Simone Bergamini A CuRA DI sImONE bERGAmINI FAbIO mOLINARI / 5 sOmmARIO L’ARTE NELLA GRANDE GUERRA MARIA D’INCORONATO PAG. 127 ESPERTA DI STORIA DELL'ARTE IL TEMA BELLICO ALL’INTERNO DELLA TEMPERIE ARTISTICA FUTURISTA LA vIOLENzA DEL CONFLITTO E L’IMPATTO EMOTIvO NELLE OPERE DEGLI ARTISTI TEDESChI E AUSTRIACI IL CAMBIAMENTO DI CLIMA INTELLETTUALE ED ESTETICO SALUTI SEN. FRANCO MARINI SANTO MARCIANÒ DELIA CAMPANELLI PAG. 9 INTRODUZIONE SIMONE BERGAMINI PAG. 18 2. PROGETTO “FORMAZIONE STUDENTI-GUIDE” LICEO FALCONE - BERGAMO UN SERGENTE DELLA SANTITÀ E CAPPELLANO A BERGAMO DON ANGELO RONCALLI GOFFREDO ZANCHI PAG. 199 DOCENTE PRESSO IL SEMINARIO VESCOVILE GIOVANNI XXIII DI BERGAMO PARTENzA E IMMEDIATO RITORNO A BERGAMO ATTIvITà IL PATRIOTTISMO DI RONCALLI 1. STORIA LETTERATURA ARTE NELLA GRANDE GUERRA NOI, TRE ITALIANI E LA LETTERATURA NELLA GRANDE GUERRA MASSIMO SIMONINI PAG. 223 SCRITTORE L’ITALIA NELLA PRIMA GUERRA MONDIALE ELIANA VERSACE PAG. 25 DOCENTE PRESSO L'UNIVERSITÀ LUMSA DI ROMA LE ORIGINI DEL CONFLITTO IL DIBATTITO TRA INTERvENTISTI E NEUTRALISTI IL NEUTRALISMO DEI CATTOLICI IL NEUTRALISMO LIBERALE IL PATTO DI LONDRA E L’ENTRATA IN GUERRA L’AzIONE DI PACE DI BENEDETTO Xv LA PROPAGANDA SOCIALISTA LA SvOLTA DEL 1917 LA CRISI DEGLI IMPERI CENTRALI LE TRATTATIvE DI PACE I RIFLESSI DELLA GUERRA NELLA SOCIETà ITALIANA ANTOLOGIA POETICA ITALIANA DELLA GRANDE GUERRA PAG. 73 GIOVANNI BASSETTI RELAZIONE DELL'ESPERIENZA DEGLI STUDENTI DEL LICEO FALCONE PAG. 227 3. RACCONTARE LA GUERRA NOI, TRE ITALIANI PROGETTO TEATRALE PAG. 243 A CURA DI MASSIMO SIMONINI E ASSOCIAZIONE SPERIMENTIAMO DI ROMA SACERDOTI COL FUCILE, LA CHIESA E LA GRANDE GUERRA PROGETTO DOCUMENTARISTICO PAG. 247 A CURA DI OFFICINA DELLA COMUNICAZIONE DI BERGAMO ESPERTO DI STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA PARTE PRIMA: MASSIMA LUCE GIUSEPPE UNGARETTI, UMBERTO SABA, CLEMENTE REBORA INTERMEzzO: L’ORA DEL GENIO RENATO SERRA PARTE SECONDA: COMETE vERSO L’ORIzzONTE SMERALDO GUIDO GOzzANO, PIERO JAhIER, GIACOMO NOvENTA & BIAGIO MARIN NOTE BIOBIBLIOGRAFIChE 6 | In trincea per la pace CONCLUSIONI FABIO MOLINARI PAG. 251 / 7 Sono trascorsi poco più di due anni da quando, a fine maggio del 2014, inaugurammo al Complesso del vittoriano di Roma la mostra “La prima guerra mondiale 1914 - 1918. Materiali e fonti”. Si trattava del primo appuntamento del programma messo in campo dal Comitato storico scientifico per gli anniversari di interesse nazionale in occasione del centenario della Grande Guerra, programma che è andato avanti nel tempo e si concluderà nel 2018. Da allora noi del Comitato siamo stati testimoni in qualche modo privilegiati dell’impressionante fioritura di iniziative commemorative in ogni angolo del Paese. Mostre, convegni, spettacoli teatrali, concerti e poi recupero di monumenti, concorsi scolastici, inaugurazione di vie della pace lungo gli antichi percorsi di guerra, film, prodotti audiovisivi e multimediali, nuove ricerche di carattere scientifico e valorizzazione del ricchissimo patrimonio diaristico: tutto questo, sommato alla eccezionale partecipazione che si riscontra ad ogni evento pubblico, ci dice del grande desiderio diffuso in ogni generazione di sapere e di capire. Ne sono testimonianza efficace anche il lavoro condotto dagli istituti di Bergamo e Brescia, all’interno del progetto nazionale “In trincea per la pace”, promosso dal Miur ed il presente volume che ne raccoglie ed elabora i risultati arricchiti da interessanti contributi originali. A questo proposito desidero esprimere l’apprezzamento sincero ai docenti, agli studenti ed ai curatori del volume per la qualità del lavoro svolto, per il vivo interesse e la dedizione mostrata nell’arco della ricerca e delle azioni inserite nel progetto. La Grande Guerra è stata per l’Italia, come per il resto d’Europa, una insaziabile fornace. Classi dirigenti composte da <sonnambuli>, secondo l’appropriata formula coniata dallo storico inglese Christopher Clark, provocarono non solo <l’inutile strage> ma piantarono i presupposti per l’apparizione dei totalitarismi sul suolo europeo e per la nuova de- / 9 flagrazione mondiale dopo appena due decenni. Anche per l’Italia il <mondo di ieri>, per usare l’espressione con cui lo scrittore e poeta austriaco Stefan zweig indica la società prebellica, viene spazzato via dallo scoppio della Grande Guerra. Eppure nelle trincee, nella sofferenza e nell’incredibile sforzo corale di tutto il Paese, dalle cime alpine al minuscolo comune siciliano, si completa il processo di unità nazionale. ha scritto lo storico Antonio Gibelli: <La macchina da guerra agisce come un fattore di omologazione, come un grande e terribile riduttore delle diversità. L’esperienza compiuta era stata decisiva per rendere più uniformi costumi e linguaggi. La guerra era stata un corso accelerato e forzato di inquadramento nella nazione>. Già nel 1923, Benedetto Croce riconosceva che la guerra aveva reso <più viva l’idea della patria> come si ricavava dal fatto che <non era immortalata come una volta nei soli stemmi degli edifici pubblici, nei tricolori delle bandiere, nei ritratti dei sovrani ma nei monumenti che ricordavano in ciascun luogo i caduti>. Oggi, a distanza di cento anni da quella data, non abbiamo nulla da celebrare. Perché la guerra non si celebra. Ma ricordare sì, eccome. Gli anniversari costituiscono un’occasione unica. Se ad essi affidiamo solo la missione di riproporre storie e vicende lontane nel tempo senza sforzarci di leggerle con libertà ne stiamo svuotando il senso più profondo e diamo ragione a quanti pensano che gli anniversari siano un omaggio che si rende al passato per accantonarlo. zie può tenere lontana dalle nostre comunità lo spettro dei conflitti. Proprio nei giorni in cui scopriamo che la guerra, simmetrica o meno che sia, non scompare dall’orizzonte della comunità internazionale ma continua a provocare morti e distruzione, alimentandosi di odio ingiustificato e della cieca determinazione a strappare vite innocenti anche lontano migliaia di chilometri dai campi di battaglia, è importante insistere anche sul terreno della diffusione del sapere perché così noi stessi e le nostre società diventiamo più forti e capiamo fino in fondo quanto sia importante per il destino di tutti un’Europa veramente unita e affratellata. Il sogno europeo, quell’Europa unita, pensata e avviata dai Padri fondatori, De Gasperi, Adenauer, Schuman e Monnet, rappresentava esattamente questo: l’antidoto alla tentazione di risolvere con le armi conflitti e contrasti tra gli Stati del continente. Oggi, mentre onoriamo senza alcuna incertezza chi è caduto per l’unità del nostro Paese, ancor più di ieri dobbiamo far nostro il monito che poco prima di morire, nel 1995, a quarant’anni dalla fine della seconda guerra mondiale, Mitterrand volle rivolgere al Parlamento di Strasburgo: <Sappiate, ce lo insegna la storia: l’ unica alternativa all’Europa unita è la guerra> . FRANCO mARINI Presidente del Comitato storico scientifico per gli anniversari di interesse nazionale Allora questo anniversario deve servire ad allargare la conoscenza di un evento che ha segnato indelebilmente la storia italiana e mondiale e consentire la diffusione di una cultura della pace che non vuole essere solo rifiuto dell’uso delle armi ma adesione personale e collettiva all’idea che occorrono ponti e non muri, che solo un’instancabile, quotidiana e fiduciosa azione finalizzata a superare diffidenze ed ingiusti- 10 | In trincea per la pace / 11 Ogni pagina di storia è un pagina di vita. Non bisognerebbe dimenticarlo mai, anche quando si leggono, o si scrivono, pagine di guerra. Insegna questo il Progetto “In trincea per la pace”: lo insegna con grande concretezza, attraverso una ricerca scientifica documentata, che ci fa osservare il grande orizzonte della storia e lo incarna nelle storie di vite personali, andando a fondo sul vissuto e sui sentimenti che sono alla base delle diverse espressioni dell’umano. La storia della Grande Guerra è la storia dei grandi sistemi politici e militari e, allo stesso tempo, delle singole persone, dei singoli militari dei quali, accanto all’indagine storiografica, queste pagine ci offrono la forza della testimonianza. È la storia di coloro che si trovarono nelle trincee, talora per costrizione e talora con quel senso di patriottismo del quale, oggi, val la pena di recuperare forse il profondo valore, coniugato al senso profondo della pace. Sì, le storie di coloro che hanno dovuto vivere il fantasma della guerra sono state spesso storie di uomini di pace. Tante ne racconta il Progetto che presentiamo. La pace che pervade, ad esempio, le riflessioni del giovane Montini: un amore per la Patria spalancato all’amore evangelico verso l’umanità. La pace che vibra, dentro la drammatica posizione di Benedetto Xv, nel suo imparziale ma accorato grido contro ogni guerra. La pace che è invocata, sperata, sognata nel fermento artistico che ha abitato il tempo della Guerra: nella cultura o nella scultura, nell’architettura o nella poesia, nella bellezza della letteratura o della musica… persino nelle canzoni della guerra, la cui eco ricordiamo e ci sembra quasi di percepire. E poi la pace che rimane in quelli che furono i luoghi della guerra, eloquente testimonianza e vivente esperienza che alcuni studenti, all’interno del Progetto, hanno potuto conoscere e hanno saputo trasmettere. / 13 Luoghi che parlano oggi, così come, oggi, parla l’opera teatrale e il Progetto documentaristico che affida l’insegnamento sulla Grande Guerra alle memorie dei cappellani militari. I cappellani militari furono anch’essi uomini che andavano in guerra con un sogno di pace: un sogno lontano forse, ma che si concretizzava nella vicinanza ai soldati, nel loro voler essere dove, in quel momento, si trovava una porzione di gregge della Chiesa e del popolo italiano che tanto stava soffrendo e doveva imparare a vincere, con le armi dell’amore, un odio che rischiava di distruggere il mondo. Queste storie di carità evangelica i cappellani hanno cercato di scrivere sulle pagine insanguinate dell’odio e della violenza: per tutti, le memorie di Angelo Roncalli, che forse anche il servizio al fronte, nell’ospedale militare e come cappellano, avrebbe aiutato a diventare il “Papa Buono”. Ogni pagina di storia è una pagina di vita. E ogni pagina di vita può diventare una pagina di storia, può scrivere la storia. L’augurio è che tutti, ma soprattutto i giovani, leggendo, grazie a questo Progetto, le pagine della guerra, si sentano motivati a scrivere, con la propria vita, pagine di fratellanza e misericordia, dialogo e perdono; pagine necessarie ancora oggi, in un tempo sconvolto dal terrore ma, come ogni tempo, assetato di amore, speranza e pace. sANTO mARCIANò Arcivescovo Ordinario Militare per l’Italia La storia in verità è testimone dei tempi, luce della verità, vita della memoria, maestra di vita, messaggera dell’antichità. Cicerone “De Oratore” Sono particolarmente lieta di accompagnare, con questo mio saluto, il volume “In trincea per la pace”, nato nel segno della migliore progettualità della scuola lombarda, da sempre modello per tutte le istituzioni scolastiche del territorio nazionale. In una società che fa dell’hic et nunc il paradigma dominante e in cui il sistema di valori condiviso assegna alla memoria un posto residuale, è più che mai importante restituire alla storia il suo compito civile di maestra di vita, di guida della vicenda collettiva, di orizzonte in cui collocare la riflessione sulle sfide e sulle mete dell’umanità. La conoscenza della storia è vitale quando, lontana dal nozionismo e dalla retorica di vuote rappresentazioni, esperienze e personaggi, diventa, invece, occasione di riflessione critica, via privilegiata per raggiungere consapevolezza e strumenti di interpretazione del presente. Agli studenti e a chi, docenti e dirigenti, li ha accompagnati nella realizzazione di questo progetto va il mio ringraziamento per il valore formativo dell’attività svolta e l’augurio che il viaggio compiuto attraverso la storia animi e plasmi l’attitudine e la sensibilità nel progettare e costruire percorsi di pace. DELIA CAmPANELLI Direttore Generale dell'Ufficio scolastico regionale per la Lombardia 14 | In trincea per la pace / 15 INTRODuZIONE sImONE bERGAmINI Curatore del volume L’anniversario dello scoppio della Prima guerra mondiale ha coinvolto tutti in una grande riflessione: sugli errori tragici dei nazionalismi, che stanno risorgendo dentro steccati ancora più microscopici; sull’inutilità della guerra, che non solo non ha risolto i problemi dell’Europa, ma ha contribuito a peggiorare la situazione; sulla precarietà delle alleanze, che si sfasciarono e rimescolarono strada facendo e che ancora oggi impediscono all’Occidente e all’Europa di avere una visione chiara e condivisa nell’ambito delle guerre del nuovo millennio. Tra le innumerevoli iniziative che dal 2015 si sono susseguite per commemorare e offrire spunti di riflessione sul tema, rientra a pieno titolo quella posta in essere dal MIUR attraverso il bando di concorso emanato nel mese di ottobre 2014. Il progetto In trIncea per la pace, organizzato e gestito dal Convitto Nazionale “C. Battisti” di Lovere (Bg) e dall’IC “Darfo 2” di Darfo Boario Terme (Bs), che ha anche curato la direzione scientifica di questo volume conclusivo, si è inserito in questo contesto. Finanziato e nato da un’idea del MIUR - Direzione Generale per lo Studente, l’Integrazione e la Partecipazione, esso ha rappresentato per la scuola bergamasca e bresciana l’avvio di un percorso di studio e di accompagnamento che ha suscitato un forte interesse perché ha consentito agli studenti partecipanti di avere uno sguardo critico sullo stato attuale della storiografia sulla Grande guerra, ponendo l’attenzione in particolare sui temi che appaiono più significativi nel centenario dell’evento, come la memoria pubblica, le celebrazioni, i nuovi percorsi di ricerca, in una prospettiva comparativa che intende mettere a fuoco la situazione italiana collocandola nello scenario europeo. Il progetto, strutturato in diverse Azioni, ha consentito di sviluppare negli studenti partecipanti l’educazione alla pace e al rispetto di ogni diversità, affrontando il tema della memoria collettiva attraverso l’utilizzo di supporti multimediali e perseguendo una contestualizzazione storico-geografica, oltre che linguistica, delle tematiche affrontate. Centrale è stata la valorizzazione della tutela dei diritti umani e della diversità religiosa-culturale delle minoranze etniche, nonché il potenziamento dell’educazione alla democrazia e alla pace in contrapposizione all’insorgere di sistemi totalitari vecchi e nuovi. Il progetto, realizzato con la collaborazione dell’Ufficio Scolastico Territoriale di Bergamo e dell’Ufficio Scolastico Regionale della Lombardia, è stato ulteriormente implementato dalla importante collaborazione con l’Ordinariato militare per l’Italia ed il Centro Televisivo vaticano. 18 | In trincea per la pace / 19 Il progetto si è realizzato attraverso l’azione “Formazione e Studenti Guide”, che ha visto coinvolti circa 50 studenti delle classi 4aA e 4aL del Liceo linguistico “Falcone” di Bergamo, ha consentito loro di formarsi come guide, che sono ora in grado di trasmettere le conoscenze acquisite, illustrando gli aspetti salienti della Grande guerra durante seminari ad hoc oppure, se possibile, accompagnando eventuali gruppi alla scoperta delle testimonianze sparse sul territorio e sui luoghi della Grande Guerra. I temi del percorso di formazione sono stati svariati: la percezione della Grande Guerra sul territorio nazionale, sintesi dei fatti cronologici, effetti della guerra, rapporto con i paesi Europei e nascita di nuovi Stati, memorialistica sulla guerra (epistole e scritti vari), la Guerra bianca. Dopo le attività di formazione si è svolta, a fine novembre 2015, la visita a Redipuglia e Aquileia per consentire ai partecipanti di acquisire una ancora maggiore consapevolezza sui temi del progetto. Il presente volume risulta peraltro arricchito dai contributi inediti, sulla tematica storica, sull’antologia poetica e sull’arte nella Grande Guerra, commissionati ai Prof. Eliana versace, Mara D’Incoronato e Giovanni Bassetti, i quali hanno saputo delineare tali temi in maniera innovativa ed avvincente, offrendo ulteriori spunti di riflessione. Altra iniziativa collaterale è stata poi la realizzazione del progetto teatrale “Noi, tre italiani”, liberamente ispirato al romanzo di Massimo Simonini, che già sta facendo il giro d’Italia con la produzione dell’Associazione Culturale Sperimentiamo di Roma. L’attività di formazione dell’autore con i ragazzi, si è quindi concretizzata con la rappresentazione, il 17 e il 24 ottobre 2015 a Roma e al Teatro San Filippo Neri di Darfo-Boario Terme, della rappresentazione teatrale, che ha costituito una doppia occasione per raccontare in immagini la Prima Guerra Mondiale, ricordando che la strada da fare verso l’educazione alla pace è ancora molta, ma che è possibile percorrerla se si è disposti ad ascoltare con il cuore e con la mente. IL PROGETTO IN TRINCEA PER LA PACE hA RAPPREsENTATO PER LA sCuOLA bERGAmAsCA E bREsCIANA L’AvvIO DI uN PERCORsO DI sTuDIO E DI ACCOmPAGNAmENTO ChE hA susCITATO uN FORTE INTEREssE PERChé hA CONsENTITO AGLI sTuDENTI PARTECIPANTI DI AvERE uNO sGuARDO CRITICO suLLO sTATO ATTuALE DELLA sTORIOGRAFIA suLLA GRANDE GuERRA Accanto alla formazione degli studenti e ai suddetti contributi letterari, infine, il progetto “In trincea per la pace” ha visto il coinvolgimento e la partecipazione attiva dell’Ordinariato militare per l’Italia, nella persona dell’Ordinario Militare Mons. Santo Marcianò, e del Centro Televisivo vaticano, nella persona del Prefetto della Segreteria per la Comunicazione della Santa Sede Mons. Dario viganò, che ha realizzato in collaborazione con l’Officina della Comunicazione S.r.l. di Bergamo il progetto documentaristico sui Cappellani Militari. 20 | In trincea per la pace / 21 1 sTORIA LETTERATuRA E ARTE NELLA GRANDE GuERRA L’ITALIA NELLA PRImA GuERRA mONDIALE LE ORIGINI DEL CONFLITTO IL DIBATTITO TRA INTERVENTISTI E NEUTRALISTI IL NEUTRALISMO DEI CATTOLICI IL NEUTRALISMO LIBERALE IL PATTO DI LONDRA E L’ENTRATA IN GUERRA L’AZIONE DI PACE DI BENEDETTO XV LA PROPAGANDA SOCIALISTA LA SVOLTA DEL 1917 LA CRISI DEGLI IMPERI CENTRALI LE TRATTATIVE DI PACE I RIFLESSI DELLA GUERRA NELLA SOCIETÀ ITALIANA L’ITALIA NELLA PRImA GuERRA mONDIALE uN’ANALIsI sTORICA ELIANA vERsACE Docente presso l'Università LUMSA di Roma ANTOLOGIA POETICA ITALIANA DELLA GRANDE GuERRA LE ORIGINI DEL CONFLITTO L’ARTE NELLA GRANDE GuERRA IL TEMA BELLICO ALL’INTERNO DELLA TEMPERIE ARTISTICA FUTURISTA L’ESPERIENZA DIRETTA DELLA GUERRA NELLE SCELTE FIGURATIVE DEGLI ARTISTI: BALLA, CARRÀ, SEVERINI, SIRONI LA SCULTURA DI UMBERTO BOCCIONI LE IDEE ARCHITETTONICHE DI SANT’ELIA LA VIOLENZA DEL CONFLITTO E L’IMPATTO EMOTIVO NELLE OPERE DEGLI ARTISTI TEDESCHI E AUSTRIACI IL TRAUMA DELLA GUERRA: GROSZ, DIX, KIRCHNER LE INQUIETUDINI DELLA COSCIENZA: KOKOSCHKA IL CAMBIAMENTO DI CLIMA INTELLETTUALE ED ESTETICO LA NASCITA DEL MOVIMENTO DADAISTA GIORGIO DE CHIRICO E LA PITTURA METAFISICA MONDRIAN E LA RIVISTA “DE STIJL” 24 | In trincea per la pace Il 28 giugno 1914 vennero uccisi a Sarajevo l’erede al trono austro-ungarico, l’arciduca Francesco Ferdinando e la moglie Sofia. Il governo austriaco, nonostante l’attentato fosse avvenuto in Bosnia- Erzegovina, un territorio che era stato annesso all’impero asburgico nel 1908, attribuì la responsabilità dell’atto cruento alla Serbia ove, a seguito delle guerre balcaniche del 1912-1913, stavano prendendo sempre maggior consistenza i gruppi irredentisti che aspiravano a liberare le popolazioni slave della Bosnia soggette all’Austria. L’assassinio di Francesco Ferdinando d’Asburgo parve offrire all’impero austro-ungarico la possibilità di eliminare un pericoloso Paese nemico e debellarne le insidie rivoluzionarie. L’accusa dell’Austria alla Serbia fu quindi pretestuosa, ma a vienna si stabilì di “presentare alla Serbia domande tali che questa dovesse quasi certamente rifiutarle, in modo di aprire la via ad una soluzione radicale, per mezzo di un’azione militare”. Il governo di Berlino solidarizzò con l’alleato asburgico e il 23 luglio 1915, meno di un mese dopo l’attentato di Sarajevo, il governo di vienna consegnò al Paese balcanico un ultimatum nel quale richiedeva alla Serbia l’accettazione di funzionari asburgici che collaborassero nella repressione del movimento irredentista serbo e nelle indagini sull’attentato. Accettare queste condizioni avrebbe significato per la Serbia rinunciare a parte della sua sovranità e pertanto questo ultimatum venne respinto. Tale rifiuto da parte della Serbia consentiva all’Austria di realizzare il suo progetto / 25 bellico dichiarando guerra al Paese il 28 luglio 1914. Il conflitto si allargò subito, con una rapida reazione a catena, coinvolgendo altre potenze: il 1 agosto la Germania, legata all’Austria dal Patto della Triplice Alleanza, stipulato nel 1882, dichiarò guerra alla Russia, intervenuta a proteggere il Paese slavo, e il giorno successivo venne dichiarata guerra anche alla Francia. A seguito dell’invasione del Lussemburgo e del Belgio da parte delle truppe tedesche, il 4 agosto, pure l’Inghilterra, che era diventata alleata di Francia e Russia col Patto della Triplice Intesa, superando l’ostilità di parte dell’opinione pubblica contraria, inviò la sua dichiarazione di guerra alla Germania che aveva invaso il Belgio, violandone la neutralità. La guerra tra le potenze europee assunse rapidamente dimensioni mondiali quando anche il Giappone, il 23 agosto, si schierò con l’Intesa mentre la Turchia, il 1 novembre, entrò in guerra al fianco degli imperi centrali. L’Italia, pur legata all’Austria e alla Germania dall’adesione alla Triplice Alleanza, mantenne una iniziale posizione di neutralità. In tutti gli schieramenti prevaleva la convinzione che la guerra si sarebbe conclusa, seppur con duri scontri, in breve tempo. Ma già sul fronte occidentale, dopo la battaglia sulla Marna, che nell’agosto 1914 consentì ai francesi di contenere l’avanzata tedesca, le posizioni si stabilizzarono lungo le linee delle trincee situate tra la Svizzera e il Mare del Nord. Le potenze imperiali raggiunsero alcuni successi sul fronte orientale, bloccando l’avanzata dei russi in Prussia nella battaglia di Tannenberg, combattuta nell’agosto del 1914 e il mese dopo le truppe tedesche riuscirono a penetrare in Russia vincendo le forze zariste nella battaglia dei Laghi Masuri. Una nuova battaglia, sempre nei Laghi Masuri, consentì alle armate austro-tedesche di spingersi ancora più a Sud e giungere sino alla Galizia e alla Bucovina. IL DIbATTITO TRA INTERvENTIsTI E NEuTRALIsTI L’Italia, legata alle potenze degli imperi centrali dal trattato della Triplice Alleanza, espresse la sua posizione di neutralità il 2 agosto 1914. Alla base di questa dichiarazione vi era il riferimento alla clausola del trattato che vincolava i contraenti a sostenersi solo in caso di una guerra difensiva, e tale non era la situazione dell’Austria che aveva attaccato la Serbia. La scelta della neutralità inoltre poneva l’Italia in un ruolo di 26 | In trincea per la pace maggior rilievo sul piano internazionale. A prendere questa decisione fu il presidente del Consiglio, Antonio Salandra, che nel marzo di quell’anno era succeduto a Giovanni Giolitti. Salandra, che era un liberale conservatore, perseguendo una “politica nazionale” piuttosto autoritaria sul piano interno, intendeva accrescere il prestigio dell’Italia anche in campo internazionale. In realtà la scelta di una posizione di neutralità era più che altro dovuta alle condizioni del Paese, impreparato ad affrontare un conflitto di dimensioni tanto vaste. La Marina italiana, per esempio, non sarebbe stata in grado di difendere adeguatamente le lunghe coste del Paese dagli attacchi delle navi francesi e inglesi. La questione della neutralità italiana fu ampiamente dibattuta, non tanto nelle aule parlamentari (i deputati non furono convocati fino alla fine del 1914, quando, il 5 dicembre, approvarono la linea dell’esecutivo), ma dall’opinione pubblica del Paese. Giornali, comizi, manifestazioni di piazza e congressi favorirono la discussione. Nel Paese emersero le due opposte posizioni espresse dagli interventisti e dai neutralisti. Tra i primi, fautori di un rapido intervento accanto agli austriaci e ai tedeschi, si collocavano i rappresentati del gruppo nazionalista di stampo conservatore che faceva capo al quotidiano “L’Idea nazionale” e al gruppo della “Associazione nazionalistica italiana”, quasi un vero e proprio partito, sorta nel 1910 come espressione diretta del capitalismo industriale. Le riviste nazionaliste si assunsero il compito di formare nella borghesia una “coscienza di classe” e proposero il mito di un’Italia “potenza mondiale”. Nazionalisti e futuristi da tempo esaltavano il culto della “guerra per la guerra”: “la guerra è bella in sé perché ha una sua virtù moralizzatrice”scriveva in questo contesto il sociologo Scipio Sighele al letterato Enrico Corradini. Ma questo tipo di dibattito, così come la polemica bellicistica del futurista Filippo Tommaso Marinetti, non avevano molta presa sull’opinione pubblica. Nazionalisti e futuristi rappresentavano in verità l’unico gruppo effettivamente organizzato, favorevole ad un intervento a fianco degli imperi centrali. Tuttavia opinioni analoghe a favore di un intervento a fianco della Triplice Alleanza emergevano anche in altri ambienti di tendenze conservatrici e nazionalistiche, sia per motivi d’onore e di prestigio, sia per il timore che l’abbandono dell’Alleanza potesse significare un isolamento sul piano internazionale per l’Italia. Anche l’ammirazione per la Germania e per il prestigio politico e militare tedesco contribuirono a rafforzare tali tendenze interventiste. Molto più forte e deciso era invece il fronte interventista schierato a favore dell’Intesa. Tra l’autunno del 1914 e la primavera del 1915 l’Italia / 27 fu molto scossa dai dibattito pubblico che opponeva i fautori dell’intervento ai sostenitori della neutralità. Ma in questo caso la scelta interventista era prevalentemente intesa a favore di un ingresso in guerra a fianco dei Paesi dell’Intesa. L’interventismo italiano fu dunque un movimento molto variegato nel quale confluirono diversi, se non opposti, interessi ed aspirazioni. All’interno del movimento interventista si possono infatti scorgere e precisare almeno tre tendenze: quella dei nazionalisti, quella democratica ed infine quella espressa dagli esponenti del sindacalismo, che nella guerra in corso scorgevano l’opportunità di una “guerra rivoluzionaria” e quindi di un generale ribaltamento delle situazioni politiche. Gli interventisti nazionalisti trovarono principale espressione nella voce di Gabriele D’Annunzio. Tornato appositamente in Italia dalla Francia, il vate, nel maggio del 1915 tenne pubbliche arringhe nelle quali incitava la popolazione a scavalcare il Parlamento, ribaltandone la posizione neutralista, con azioni intimidatorie. “Formatevi in drappelli, formatevi in pattuglie civiche; e fate la ronda, ponetevi alla posta, per pigliarli, per catturarli. Fate la vostra lista di proscrizione senza pietà. È necessario continuava D’Annunzio, in un pubblico intervento - che oggi attorno a Montecitorio dove forse si può ancora cianciare e differire, voi siate un cerchio di volontà coercitiva, una tenaglia tremenda che non rilascia quel che ha serrato”. Un certo credito era goduto dagli interventisti nazionalisti negli ambienti studenteschi e in quelli di corte e pure tra l’esercito. Diversa era la situazione dell’interventismo di stampo democratico. Tra coloro che si dichiararono favorevoli all’intervento a fianco della Triplice Intesa vi furono socialisti irredentisti come Cesare Battisti, socialisti riformisti come Leonida Bissolati, e democratici di estrazione socialista come Gaetano Salvemini. Per i primi l’intervento a fianco dei paesi liberal-democratici poteva essere il presupposto per abbattere la potenza autoritaria tedesca e liberare le nazionalità ancora soggette all’impero austro-ungarico. Nella guerra all’Austria essi scorgevano i risorgenti fermenti mazziniani e ritenevano necessario battersi per affrancare i popoli dalla tirannide asburgica. Parlavano perciò non tanto di guerra nazionalistica, ma di una guerra “altruistica e internazionalistica”, nonostante accanto alle potenze liberali si trovasse anche la Russia zarista. Per il liberale Salvemini la guerra era necessaria per stabilire la pace in Europa ed eliminare per sempre i motivi di guerra. Si trattava per lui di combattere una “guerra per la pace”: “Bisogna che questa guerra uccida la guerra”- scriveva Salvemini. Ad appoggiare gli interventisti democra- 28 | In trincea per la pace tico liberali vi erano tutte le forze politiche italiane, tranne i socialisti, i giolittiani e i cattolici. Radicali, massoni, liberal-nazionali, social-riformisti, repubblicani, anarchici e socialisti mussoliniani sostenevano con insistenza la necessità dell’intervento. La propaganda interventista recuperò formule patriottiche e risorgimentali evocando, di volta in volta, una “quarta guerra d’indipendenza”, una “ultima guerra dell’umanità”, una guerra democratica contro il militarismo e l’autocrazia, una occasione rivoluzionaria, una catarsi nazionale. Alla vigilia dell’intervento italiano uscì su “Il Popolo d’Italia” dell’ 11 maggio 1915 un articolo di Benito Mussolini dal titolo “Abbasso il Parlamento”. Mussolini era direttore de “L’Avanti” e aveva condotto fino al luglio 1914 una dura campagna contro quella guerra, da lui definita, inizialmente, “nuovo macello di popolo” e si era espresso a favore dell’internazionalismo pacifista. Il suo radicale mutamento d’opinione a favore dell’intervento avvenne dopo dieci mesi dall’inizio della guerra, quando iniziò ad accusare il Parlamento italiano di essere un “bubbone pestifero che avvelena il sangue della nazione”, e perciò, “per la salute dell’Italia biso- / 29 gnerebbe fucilare, dico fucilare, nella schiena qualche dozzina di deputati”, coloro cioè che erano invece neutralisti. Per Mussolini sarebbe spettato alla piccola borghesia, alla quale prevalentemente si rivolgeva con i suoi proclami, “provocare con ogni mezzo l’insurrezione morale e materiale del Paese”. Gli interventisti però non furono in grado di imporre le proprie scelte sul piano politico soprattutto perché la maggior parte dei partiti politici con base popolare si schierò a favore della neutralità. Anche sulle posizioni neutraliste si radunò uno schieramento di forze molto disomogeneo. Appartenevano ad esso i liberali giolittiani, i cattolici e i socialisti. Pure essendo queste le forze numericamente più rappresentative del Paese, esse non riuscirono a formare un blocco compatto contro l’ingresso in guerra. Anche i tentativi avvenuti nel maggio del 1915 da parte dei socialisti di creare un fronte unico neutralista non ebbero seguito perché la guerra era già stata decisa; allearsi ai socialisti contro la guerra avrebbe potuto spostare l’asse politico del Paese troppo a sinistra, mentre per i socialisti, i liberali giolittiani e i cattolici restavano pur sempre dei nemici di classe. Al Partito Socialista italiano la guerra in corso appariva uno scontro tra gli Stati capitalisti europei e dunque esso assunse una posizione diversa da quella dei socialisti appartenenti all’Internazionale socialista, che avevano deciso di sostenere la guerra dei loro rispettivi Paesi, per salvaguardare gli interessi delle proprie nazioni. I socialisti di Francia, Germania e Austria si erano accodati alle decisioni dei loro governi accettando di formare delle coalizioni in nome dei superiori interessi della patria. I socialisti italiani invece confermarono il loro pacifismo, pur non riuscendo a mobilitare le masse popolari contro la guerra. La posizione del socialismo italiano apparve così piuttosto ambigua ed in essa si rispecchiavano le difficoltà dei maggiori esponenti del Partito. Emblematica in questo senso è la formula espressa da Filippo Turati per spiegare la scelta neutralista, del “non aderire, né sabotare”. Mentre nell’articolo di Benito Mussolini, che allora era direttore de “L’Avanti”, dal titolo Abbasso la guerra!, veniva espressa non solo la necessità della neutralità ma si minacciava il ricorso alla forza se il governo si fosse pronunciato a favore della guerra. Il 27 luglio del 1914 il partito approvò un ordine del giorno nel quale si ammoniva che “nessun patto segreto di coronati potrebbe trascinare il proletariato italiano ad impugnare le armi al servizio dell’alleata (Austria) per sopraffare il popolo libero”. Tuttavia, come si è detto, lo spazio politico del Partito socialista era molto diminuito anche a causa delle divisioni in seno all’Internazionale socialista con la defezione degli 30 | In trincea per la pace altri partiti europei. Ma al di là delle singole defezioni come quella di Benito Mussolini e quella dell’irredentista trentino Cesare Battisti, che però non ebbero seguito nel partito, la principale debolezza dei socialisti fu quella di conferire alla loro posizione neutralistica un valore esclusivamente difensivo. Ad indebolire ulteriormente l’azione del partito fu poi anche l’atteggiamento repressivo del governo e delle forze di polizia. Fin dall’agosto del 1914 infatti furono operati numerosi arresti a motivo della distribuzione di volantini pacifisti e, mentre veniva dato spazio alle manifestazioni a favore dell’intervento, al contrario erano perseguite quelle dei neutralisti. Spesso furono proprio gli stessi interventisti a rispondere con la forza alle manifestazioni pacifiche dei neutralisti. Il movimento interventista fu però incapace di mobilitare moralmente e politicamente le masse popolari in favore della guerra. Il fenomeno dei volontari rimase riservato prevalentemente a gruppi di élite e il fatto che uomini politici e maturi intellettuali decidessero di arruolarsi volontari come fecero Salvemini, Amendola, Bissolati e Corridoni (morto sul Carso) non ebbe grande effetto sulla popolazione. Allo stesso modo anche le rivendicazioni patriottiche di origine risorgimentale restavano estranee alle grandi masse e poca eco patriottica ebbero anche il sacrificio eroico degli irredentisti che militarono nell’esercito italiano come Cesare Battisti, Damiano Chiesa, Fabio Filzi e Nazario Sauro, catturati e poi giustiziati dagli austriaci. L’Italia infatti, oltre che per completare la sua unità nazionale, era entrata in guerra mossa anche da fini imperialistici come fu chiaro sin dalla stipula del Patto di Londra. IL NEuTRALIsmO DEI CATTOLICI La posizione neutralista del mondo cattolico presentava una varietà di sfumature al suo interno. In generale tra i cattolici non ebbero presa gli entusiasmi degli interventisti. Il fronte cattolico esprimeva posizioni di ferma neutralità richiamandosi alle dichiarazioni pacifiste chiaramente espresse dal papa Benedetto Xv, che aveva assunto un atteggiamento nettamente contrario alla guerra. vi era però tra i cattolici la tendenza a mostrarsi anch’essi cittadini leali allo Stato nazionale. Del resto, il movimento cattolico italiano non aveva ancora una sua rappresentanza politica e quindi si richiamava direttamente alle direttive della Santa Sede, e in secondo luogo, faceva riferimento a molteplici organizzazioni cat- / 31 toliche spesso a carattere locale. Allo scoppio della guerra il vaticano scelse di seguire una via diplomatica cercando di evitare l’estensione del conflitto. Il quotidiano della Santa Sede, “L’Osservatore Romano”, auspicò allora una pacifica intesa sulle questioni oggetto di controversia. La Santa Sede, temendo una ondata sovversiva, non tentò la mobilitazione delle masse cattoliche in senso pacifista e neutralista. Un fermo richiamo ai cattolici perché reagissero alle manifestazioni interventiste venne invece dai rappresentanti delle Leghe contadine, tra cui il deputato Guido Miglioli, il quale intendeva la guerra in corso come una esigenza delle classi dirigenti per rinsaldare un sistema sociale avverso al proletariato. Il neutralismo cattolico si mosse in parte sostenendo l’azione del governo e facendo così prevalere una forma di “lealismo patriottico”. E questa posizione dei cattolici, distante dal neutralismo assoluto dei socialisti così come dai vivaci movimenti interventisti, sarebbe sboccata in un sostegno all’intervento nel momento in cui il governo scelse la strada dell’entrata in guerra. Anche il giovane bresciano Giovanni Battista Montini, il futuro pontefice Paolo vI, espresse in quegli anni sentimenti di vivo patriottismo, pur nella lealtà alla Santa Sede. La generazione a cui apparteneva Montini, nata alla fine dell’Ottocento, quasi all’alba del nuovo secolo, fu l’ultima chiamata alle armi. Molti di quei giovani cattolici, soprattutto nelle regioni del Nord Italia, intesero quel conflitto - incitati i questo senso da una ovvia ed insistente propaganda nazionalistica - come se si trattasse di una quarta ed ultima guerra d’indipendenza, necessaria per completare l’Unità d’Italia e liberare le terre rimaste irredente. Giovanni Battista Montini venne dichiarato inabile al servizio militare, ma seguì con trepidazione ogni evento della guerra, commuovendosi per la conquista di Gorizia, soffrendo per la disfatta di Caporetto – annoverata da lui tra “le sventure d’Italia” - e giungendo, in alcuni momenti di sconforto, a temere anche per le sorti della sua Brescia. “Li seguo- scriveva Montini nel 1916, durante il secondo anno di guerra - li seguiamo tutti i nostri soldati e al di sopra di ogni ricreazione, in fondo ad ogni chiasso sta il pensiero di loro, pensiero d’amore, di gratitudine, di compassione, di preghiera”. Il 4 novembre 1921, nel terzo anniversario della conclusione di quel conflitto, da cui l’Italia era uscita infine vittoriosa, Montini, insieme al padre Giorgio, assistette a Roma ai solenni onori tributati alla salma del Milite Ignoto, traslata dai luoghi di battaglia e trionfalmente deposta al vittoriano e ne riportò una vivissima impressione: quella imponente manifestazione di popolo, in cui aveva ravvisato “uno spettacolo d’esalta- 32 | In trincea per la pace zione nazionale”, era stata per lui “ciò che di più grandioso si poteva immaginare”. E ancora l’anno successivo, nel dicembre del 1922, scrivendo sulle pagine de “La Fionda”- un periodico studentesco bresciano, di cui era stato tra i fondatori nel 1918 - Montini, ricordando i vinti incolpevoli di Caporetto, (“non traditori” - puntualizzava don Battista, nel frattempo divenuto sacerdote) acclamava “la dignità civile e militare” del Paese. Sembra opportuno precisare meglio quale era il reale significato e l’autentica portata di questo sincero e radicato amor di patria. È plausibile infatti cogliere in queste esperienze ed espressioni verbali i tratti di un vero e proprio patriottismo cattolico che, in ogni suo aspetto, rivela e conferma un’ acuta passione civile. In un articolo, pubblicato su “La Fionda” nel settembre del 1923, ed emblematicamente intitolato Osservazioni elementari sul patriottismo, Montini sosteneva la “necessità morale del patriottismo”, mettendo però in guardia da un distorto abuso di questo spontaneo e lodevole sentimento, e dal rischio – particolarmente evidente in quel delicato frangente storico, mentre andava consolidandosi il governo di Mussolini – di concepire la patria “come l’unica patria del mondo”. Diversamente, solo il patriota cattolico, orientato dal supremo comandamento evangelico della carità, “amando la patria” proseguiva Montini- non rinunciava “ad amare l’umanità intera e ad abbracciarla in un sentimento fraterno di unione e solidarietà”. IL NEuTRALIsmO LIbERALE Nel mondo liberale fu Giovanni Giolitti a rappresentare la più importante voce a favore dello schieramento neutralista. L’ex capo del governo si battè fino alla fine perché il Paese potesse restare fuori dalla guerra, che egli prevedeva sarebbe stata molto lunga e sanguinosa e che l’Italia, a suo parere, non sarebbe stata in grado di sostenere. Fu Giolitti a perseguire la formula di una “neutralità condizionata”. Egli incontrò a Roma l’ex cancelliere tedesco Bernhard von Bulow, interessato a conoscere l’eventuale prezzo di una Italia neutrale. Ciò convinse Giolitti che il Paese avrebbe potuto ottenere “parecchio” difendendo la sua neutralità. Il neutralismo di Giovanni Giolitti, quindi, scaturiva da una scelta responsabile dovuta alla lunga esperienza di governo e alla migliore comprensione delle forze in campo. L’Italia avrebbe potuto soddisfare le sue legittime aspirazioni nazionali senza partecipare alla guerra che, a suo / 33 giudizio, si sarebbe protratta per diversi anni, compromettendo l’economia e le strutture dell’ancor giovane nazione italiana e delle sue istituzioni politiche. La sua posizione apparve ad alcuni come dettata da pavidità e opportunismo. voltarono le spalle all’ex capo di governo tutti i suoi alleati tradizionali, come i ceti agrari e industriali che avrebbero potuto trarre maggiori vantaggi da una scelta interventista. Giolitti, che venne dileggiato presso l’opinione pubblica per la sua presa di posizione, difese la sua opinione anche nelle sue memorie. “Io avevo invece la convinzione che la guerra sarebbe stata lunghissima e tale convinzione manifestavo liberamente a tutti i colleghi della Camera coi quali ebbi occasione di discorrerne. A chi mi parlava di una guerra di tre mesi rispondevo che sarebbe durata almeno tre anni, perchè si trattava di debellare i due imperi militarmente più organizzati del mondo, che da oltre quarant’anni si preparavano alla guerra; i quali, avendo una popolazione di oltre centoventi milioni, potevano mettere sotto le armi sino a venti milioni di uomini (…) Che il nostro fronte sia verso il Carso, sia verso il Trentino, presentava difficoltà formidabili. Osservavo d’altra parte che, atteso l’enorme interesse dell’Austria di evitare la guerra con l’Italia e la piccola parte che rappresentavano gli italiani irredenti in un’ Impero di cinquantadue milioni di popolazione, si avevano le maggiori probabilità che trattative bene condotte finissero per portare all’accordo”. Giolitti spiegava nelle sue memorie anche il senso della lettera inviata all’onorevole Camillo Peano il 24 gennaio del 1915 e pubblicata il 1 febbraio successivo sulle colonne della “Tribuna”, che gli valsero allora il dileggiante appellativo di “uomo del parecchio” per l’affermazione: “credo parecchio (…) potersi ottenere senza la guerra”, poi corretta in “credo molto potersi ottenere senza la guerra”. Lo statista piemontese rivendicava la singolarità della sua posizione quando affermava: “la mia adesione al partito della neutralità assoluta. Altra leggenda. Certo io non considero la guerra come una fortuna, come i nazionalisti, ma come una disgrazia, la quale di deve affrontare solo quando è necessario per l’onore e per i grandi interessi del Paese. Non credo sia lecito portare il Paese alla guerra per un sentimentalismo verso altri popoli. Per sentimento ognuno può gettare la propria vita, non quella del Paese. Ma quando fosse necessario non esiterei ad affrontare la guerra e l’ho provato”. Nello schieramento liberale vi fu una frattura pure nella stampa: vi era una linea riformistico-moderata interpretata dal quotidiano “La Stampa” di Torino, che auspicava un ritorno di Giolitti al governo e interpretava gli interessi delle grandi industrie esportatrici allora in espansione 34 | In trincea per la pace come la Fiat - il gruppo industriale che avrebbe tratto maggior giovamento nel commercio dal mantenimento delle condizioni di neutralità - e una linea autoritaria e antigiolittiana de “Il Corriere della Sera” di Milano, diretto da Luigi Albertini. Il presidente del Consiglio, Salandra e il ministro degli Esteri, Sidney Sonnino, imboccarono la via dell’entrata in guerra dell’Italia, supportati in questo dagli antigiolittiani e incoraggiati dalla propaganda in tal senso del principale quotidiano italiano. Non erano estranee a questa scelta le pressioni di alcuni gruppi siderurgici come l’Ilva, navali come l’Ansaldo, e tessili, che vedevano nell’entrata in guerra dell’Italia una possibilità di superare la crisi che le attanagliava da anni, incrementando la loro produzione. NEL mONDO LIbERALE Fu GIOvANNI GIOLITTI A RAPPREsENTARE LA PIù ImPORTANTE vOCE A FAvORE DELLO sChIERAmENTO NEuTRALIsTA. L’Ex CAPO DEL GOvERNO sI bATTè FINO ALLA FINE PERChé IL PAEsE POTEssE REsTARE FuORI DALLA GuERRA, ChE EGLI PREvEDEvA sAREbbE sTATA mOLTO LuNGA E sANGuINOsA E ChE L’ITALIA, A suO PARERE, NON sAREbbE sTATA IN GRADO DI sOsTENERE / 35 IL PATTO DI LONDRA E L’ENTRATA IN GuERRA Il governo italiano proseguì i contatti con la Triplice Alleanza fino al febbraio del 1915. Il rifiuto di vienna di compensare l’Italia, rinviando ogni eventuale soluzione al termine della guerra, spinse l’esecutivo a intavolare trattative con i Paesi dell’Intesa. Queste si svolsero tra il 4 marzo e il 26 aprile tramite il governo inglese ed ebbero come base un memorandum inviato dal ministro degli Esteri, Sonnino nel febbraio precedente. La più importante novità di questo testo riguardava gli acquisti territoriali richiesti dall’Italia. Alle zone già rivendicate del Trentino, dell’Alto Adige, di Trieste, e le contee di Gorizia e di Gradisca con l’Istria e fino al Carnaro, si aggiungeva la richiesta “della provincia di Dalmazia, secondo l’attuale sua delimitazione amministrativa”, comprese le “isole giacenti a nord e a ovest della Dalmazia stessa” e “gli scogli vicini”. Questo articolo, inserito per volontà di Sonnino, suscitò l’opposizione della Russia, creando difficoltà anche a Francia e Inghilterra. All’Italia venne comunque promesso circa metà del territorio dalmata comprendente zara, e la maggior parte delle isole della Dalmazia. Il 26 aprile del 1915 si giunse alla firma del Trattato di Londra. Con tale accordo l’Italia entro un mese avrebbe aperto le ostilità contro l’impero asburgico ottenendo in cambio la promessa, a guerra conclusa, di acquisire i territori del Trentino e del Sud Tirolo fino al Brennero, di Trieste, dell’Istria e di parte della Dalmazia, oltre al riconoscimento della sua occupazione di valona in Albania e delle isole greche del Dodecanneso. A decidere la stipula del trattato furono sostanzialmente Antonio Salandra e Sidney Sonnino, insieme al Re d’Italia, vittorio Emanuele III. Infatti il Parlamento e l’opinione pubblica furono tenuti all’oscuro di tutto e gli stessi membri del governo conobbero solo in parte i termini precisi del Trattato, il cui testo completo fu reso noto solo nel marzo del 1920. Agli inizi di maggio gli interventisti promossero una serie di manifestazioni per incitare alla guerra, mentre Giolitti, accanito sostenitore della neutralità, veniva quasi fatto oggetto di un linciaggio morale da parte dell’opinione pubblica favorevole all’intervento. La maggior parte della popolazione sembrò invece rimanere indifferente ed inerte rispetto al dibattito in corso. In questo clima, il Parlamento il 20 maggio concedette poteri straordinari al governo di Salandra, il quale la settimana precedente aveva presentato a Re le proprie dimissioni a causa della posizione neutralista espressa dalla maggioranza dei deputati. L’Italia dun- 36 | In trincea per la pace que entrò in guerra il 24 maggio del 1915 aprendo le ostilità contro l’Austria. Tra i più accesi sostenitori dell’entrata in guerra, in quelle “radiose giornate di maggio”, come furono definite con enfasi retorica dai nazionalisti, vi fu Benito Mussolini, espulso dal Partito socialista, che dirigeva ora un nuovo quotidiano da lui fondato “Il Popolo d’Italia” . L’esercito italiano entrato in guerra dovette assestarsi sul fronte militare della III guerra d’indipendenza, conclusa nel 1866. Si trattava di un lunghissimo perimetro di quasi 800 chilometri, che, assumendo quasi la forma di una grande S, andava dalle Alpi venete alle montagne del Trentino e dell’Isonzo, comprendendo tutto il settore della Carnia. Gli italiani erano in prevalente superiorità numerica, ma con un armamento arretrato e una notevole impreparazione delle truppe. Gli austriaci, al contrario, erano meglio addestrati e occupavano posizioni dominanti. Nei primi mesi la guerra venne combattuta in particolare sull’Isonzo e sul Carso, dove tra giugno e dicembre del 1915 furono lanciate alcune offensive che portarono alla conquista di importanti postazioni (il Monte Nero, il Monte Sei Busi e il Monte San Michele). In Trentino venne invece mantenuta una condotta prevalentemente difensiva. Il generale Luigi Cadorna, comandante in capo, aveva adottato una tattica di logoramento che però comportava il sacrificio di moltissimi soldati; egli era infatti convinto che bisognasse stancare il nemico attaccandolo continuamente più che conquistare terreno e alla guerra di movimento preferiva intraprendere una guerra di posizione. Cadorna era allora considerato pessimo psicologo, ma grande organizzatore. Invece la flotta italiana riuscì a bloccare quella austriaca nell’Adriatico, pur subendo alcune perdite. Tra il maggio e il giugno del 1916 l’esercito italiano subì una pesante sconfitta causata dalla Strafexpedition (spedizione punitiva) sull’altipiano dei Sette Comuni, che si concluse con l’occupazione austriaca di Asiago. Dopo esser riuscito a contenere l’avanzata nemica, Cadorna contrattaccò sull’Isonzo, conquistando, tra l’agosto e il settembre del 1916, l’altopiano della Bainsizza. Già alla fine di luglio Cadorna aveva rafforzato notevolmente la III armata alla quale affidò il compito di conquistare la testa di ponte austriaca sulla destra dell’Isonzo, davanti Gorizia. Il comandante della III armata, il Duca d’Aosta, cugino del Re d’Italia, volle estendere l’attacco al Monte San Michele, sulla sinistra dell’Isonzo. L’attacco italiano cominciò il 6 agosto ed ebbe il suo momento culminante nella conquista del Monte Sabotino, nella quale si distinse particolarmente il colonnello Pietro Badoglio, che aveva preparato quell’impresa e che a seguito di questa venne promosso generale per meriti di / 37 guerra. Gli austriaci, che tentarono la resistenza nei settori di Oslavia e Podgora, l’8 agosto abbandonarono la testa di ponte. Il generale Luigi Capello, comandante del vI corpo d’armata, stabilì di passare l’Isonzo e conquistare Gorizia. Le truppe italiane entrarono così a Gorizia il 9 agosto 1916 e iniziarono l’attacco dalle nuove posizioni. Gli austriaci opposero una tenace resistenza dalle alture a est della città costringendo Cadorna a ordinare il 16 agosto la sospensione dell’offensiva. La battaglia di Gorizia, detta anche vI battaglia dell’Isonzo, provocò nell’esercito italiano 21630 morti e 52940 feriti mentre furono catturati oltre 18000 prigionieri. La presa di Gorizia però contribuì a risollevare gli animi depressi dalle precedenti e vittoriose offensive austriache e venne salutata con grande entusiasmo nel Paese. Il successo militare fu quindi importante per rialzare il morale dei combattenti e della popolazione e rinsaldò la fiducia in Cadorna, ma ebbe sul piano strategico dei risultati limitati perché le truppe poste oltre il confine dell’Isonzo, su una linea lunga molti chilometri, si trovarono di fronte ad un nuovo e compatto fronte di resistenza nemica. La guerra di posizione voluta da Cadorna però colse impreparati i grandi capi militari. Nonostante l’uso di nuove e potenti armi quali mitragliatrici, bombe a mano, gas venefici, carri armati e aerei, la vita di guerra che si svolgeva prevalentemente nelle trincee aveva portato ad un radicale peggioramento delle condizioni dei soldati. La stessa trincea era resa insicura dalla presenza continua del nemico, dall’attesa dell’attacco avversario, dai bombardamenti che provocarono un logoramento anche di carattere psicologico. Le gravi perdite umane portarono poi al bisogno di arruolare nuove classi di soldati e diminuire le esenzioni. Tutto ciò però conduceva ad una minor disponibilità di manodopera industriale in un frangente nel quale si rendeva necessario l’aumento della produzione. Più favoriti dalle vicende belliche furono i gruppi industriali privati che con le commesse belliche incrementarono la loro produzione e il commercio. Ma, mancando i controlli da parte del governo, molti industriali fornirono il materiale bellico a prezzi altissimi. Le difficoltà di approvvigionamento diventarono dunque sempre più rilevanti nel proseguimento della guerra. Le potenze dell’Intesa, che si trovarono avvantaggiate dalla consistente superiorità navale inglese, determinarono un assedio economico, violando le norme sulla libertà dei mari e compromettendo in tal modo i rifornimenti della Germania (vennero infatti bloccate anche le navi di paesi neutrali come Olanda e Danimarca, che erano però paesi fornitori dei tedeschi). 38 | In trincea per la pace Il protrarsi della guerra compromise anche la situazione dei governi dei Paesi in conflitto. Alle insorgenti difficoltà sul piano militare, lo scoraggiamento delle truppe e il malumore della popolazione, si rispose con una rafforzata concentrazione del potere nelle mani dei governi, esautorando i parlamenti da molte funzioni. In Francia e in Inghilterra vennero costituiti dei governi di unione nazionale, guidati rispettivamente dai primi ministri Aristide Briand e Lloyd George. In Italia Salandra fu costretto a lasciare il potere dopo la disastrosa Strafexpedition austriaca. Lo sostituì l’anziano Paolo Boselli che nel giugno del 1916 divenne capo di un governo al quale partecipavano tutte le forze politiche tranne i socialisti i quali continuavano a mantenere una posizione di neutralità. Per la prima volta, anche un deputato cattolico, il milanese Filippo Meda, entrò a far parte del governo del Paese. Difficili restavano però i rapporti tra il governo e i comandi militari. Ciò era dovuto in particolare al carattere, eccessivamente autoritario e sospettoso, di Cadorna, che continuava a condurre la guerra con metodi spesso crudeli e privi di sensibilità per le condizioni fisiche e umane dei soldati. Cadorna ricorse frequentemente ad un uso sommario della giustizia militare, improntando processi per codardia e tradimento e disponendo la decimazione dei reparti per disobbedienza agli ordini militari. La disciplina che lo aveva forgiato nei lunghi anni di carriera aveva acuito in lui anche la sfiducia e lo scetticismo nei confronti delle capacità dei suoi sottoposti. Gli uomini impegnati nell’esercito erano da lui considerati come “un’accolta improvvisata di grandi masse, in buona parte ineducate ai sentimenti militari, anzi educate dai partiti sovversivi ai sentimenti antimilitaristi”. Riteneva dunque suo compito rieducarli. I giudizi negativi riguardavano anche i suoi stessi ufficiali, come avrebbe scritto lo stesso generale, alcuni anni dopo: “Come sarebbe stato possibile sottoporre ad una cultura intensiva di educazione militare le enormi masse ineducate che provenivano dal Paese? E con quali educatori, poiché molti dei migliori ufficiali caddero nei primi mesi di guerra, e si dovettero improvvisare ufficiali a diecine di migliaia in breve tempo, e perciò necessariamente inesperti? In tale condizione non rimaneva che far intendere la necessità della disciplina mediante una relativa severità; la qual cosa è senza dubbio assai meno efficace della lenta educazione del tempo di pace, ma la sola possibile in quelle circostanze”. La repressione di Cadorna fu compiuta anche attraverso esecuzioni sommarie, imposte per atti di grave insubordinazione compiuti nei confronti dei superiori e atti di viltà, in presenza del nemico. Il Comandante, come si 40 | In trincea per la pace è detto, non esitò a ricorrere alle “decimazioni”, che non distinguevano tra colpevoli e innocenti: era una antica norma, priva di umanità, ma in uso nell’esercito per reprimere rapidamente la mancanza di disciplina e lo sbandamento dei reparti. I primi episodi di decimazione si ebbero nell’esercito italiano un anno dopo l’entrata in guerra, nel maggio del 1916, a seguito dello sfondamento delle linee italiane sull’altipiano di Asiago. Le disposizioni di Cadorna sull’uso di questa pratica militare furono inflessibili e prescritte anche ai comandi inferiori. Il Capo di Stato maggiore non esitò a reprimere anche ogni tentativo dei soldati italiani che per sfuggire alle decimazioni provavano a darsi prigionieri al nemico. Per essi - scriveva- doveva aprirsi “implacabile giustiziere, il fuoco delle nostre artiglierie e delle nostre mitragliatrici”. Nell’esercito italiano vi erano molte insufficienze e la cosa era nota sin dal 1914. Gli esperti militari avevano spiegato al presidente Salandra come queste carenze avrebbero potuto rivelarsi disastrose. Era stato calcolato che per una mobilitazione completa sarebbero stati necessari almeno 13500 soldati in più, mentre i 15000 effettivi avevano una preparazione scadente. Cadorna descriveva i suoi quadri come “abbastanza buoni in basso, ma invecchiati e sfiduciati nei gradi inferiori e medi in alto - insieme con parecchi buoni ed ottimi - altri non pochi insufficienti”. Fu la guerra ad imporre interventi di carattere straordinario per preparare gli eserciti. Nei mesi della neutralità vennero tenuti corsi per l’addestramento degli ufficiali e, dopo l’entrata in guerra, questi corsi vennero ripetuti a ritmo costante. Circa la metà dell’esercito era composta da contadini. Su un totale di 5 milioni e 750 mila combattenti chiamati complessivamente durante il conflitto, 2 milioni e 600 mila erano contadini e quasi tutti appartenevano alla fanteria, che sarebbe stata la più colpita e sacrificata durante la guerra, arrivando a subire da sola il 95% delle perdite. All’inizio della guerra tra i fanti vi furono anche operai, studenti, impiegati, Ma al termine del conflitto si contò che su un totale dei 345mila orfani di guerra, quelli dei contadini furono più della metà, pari al 63% del totale. Nelle prime linee si trovarono anche i molti ufficiali dell’esercito. In maggior parte anziani e ormai abituati alla vita borghese, essi si trovarono in difficoltà spesso più dei fanti, abituati a vite di sacrificio e di grandi disagi. L’istruzione militare ricevuta nelle accademie non era adatta di fronte ad una guerra completamente diversa e combattuta con tecniche nuove e spesso sconosciute. In questo contesto anche il sentimento patriottico veniva molto affievolito. / 41 Molto dura era anche la vita di trincea, con le rischiose perlustrazioni notturne, le operazioni difensive contro reticolati e trincee nemiche. Padre Agostino Gemelli, analizzando la situazione psicologica di molti soldati annotava: “alcuni individui intellettuali si dimostrano incapaci di vivere la vita militare; sono poveri infelici che vivono immersi nell’antico mondo al quale appartenevano, inadatti al nuovo. Essi sono perciò dei pessimi soldati ed anche soldati poco eroici”. In Russia la guerra accelerò il processo di dissoluzione del regime zarista. Ma voci pacifiste si levarono da più parti. Tra di esse si distinguevano coloro che erano favorevoli ad una soluzione diplomatica del conflitto da quelli che prevedevano una soluzione rivoluzionaria. Nella prima direzione si mossero il presidente degli Stai uniti Woodrow Wilson e il pontefice Benedetto Xv, che promosse diverse iniziative riservate tese a raggiungere la pace. La guerra fece riscoprire forti sentimenti di umanità, solidarietà e fraternità. Un giovane intellettuale arruolatosi volontario, il poeta Giuseppe Ungaretti ci ha lasciato, con le sue poesie scritte al fronte, una intensa testimonianza di tali sentimenti. In “San Martino del Carso”, dell’agosto 1916, il poeta ci descrive la desolazione del suo cuore, il luogo più straziato dal conflitto, mentre in “Soldati”, del luglio 1918, Ungaretti testimonia il senso di precarietà che attanagliava i combattenti. Il pontificato di Benedetto Xv, che durò dal settembre 1914 al gennaio 1922, ha avuto come sfondo e come oggetto principale della sua azione proprio gli anni della I guerra mondiale, con il tormentato seguito delle difficili trattative per la pace. Il cardinale Giacomo Della Chiesa, eletto Papa il 3 settembre 1914, sin dal suo primo messaggio, inviato l’8 settembre successivo, parlò della guerra come di uno “spettacolo mostruoso” e un “flagello dell’ira di Dio”. E nella sua prima enciclica “Ad Beatissimi”, del 1 novembre 1914, definì ancora la guerra in corso come “spettacolo atroce e doloroso” e “tremendo fantasma”. Anche dopo l’entrata in guerra dell’Italia, il 24 maggio del 1915, il Papa tornò a denunciare i funesti effetti del conflitto che stava riducendo il mondo in “ossario e ospedale”. Rivolgendosi con una lettera al cardinale vicario di Roma, Benedetto Xv descrisse la guerra in corso come un “suicidio dell’Europa” e la “più fosca tragedia dell’odio umano e della demenza”. Ma la più conosciuta e ripetuta definizione della guerra fu quella espressa nella “Nota di Pace” del 1 agosto 1917, nella quale parlò del I conflitto mondiale come di una “inutile strage”. Il valore dell’espressione “inutile strage” non offriva solo una valutazione etico- politica molto negativa sulla guerra, ma rappresentava anche un realistico invito a considerare come si fosse ormai arrivati ad una condizione di stallo, in cui si dovevano compiere grandi offensive con quarantamila o cinquantamila morti per conquistare pochi metri di terreno. La posizione di Benedetto Xv nei confronti della guerra è stata definita di “neutralità”, mentre sarebbe più corretto parlare di “imparzialità”, atteggiamento che presuppone una generale condanna di ogni guerra, senza volersi ergere ad arbitro e giudice dei motivi dei singoli popoli. Nei confronti della posizione del Papa vennero espresse, soprattutto dagli organi di stampa e dai membri di alcuni governi, accuse di demoralizzazione e vi fu chi arrivò a paragonare l’opera di Papa Della Chiesa a quella di Pilato. Scrivendo ad Achille Ratti, allora prefetto della Biblioteca vaticana, che sarebbe diventato suo successore come Pio XI, Benedetto Xv, consapevole di queste accuse, ribadiva: “vogliono condannarmi al silenzio. Il vicario di Cri- Lo scrittore Emilio Lussu, combattente nella Brigata Sassari, rievocò invece nel suo libro “Un anno sull’altipiano” quello che definiva “il dramma corale”, vissuto da interi reparti di fanti sull’altipiano di Asiago, dall’estate del 1916 a quella del 1917. Le rivendicazioni patriottiche svanivano di fronte alla dura vita delle trincee: in mezzo al fango e tra innumerevoli disagi i soldati desideravano solo la più rapida conclusione della guerra e il ritorno alle loro case. Nelle pagine di Lussu viene descritto il disagio e i tormenti di coscienza di chi, nel nemico che si trova di fronte, riconosceva comunque un uomo. “Forse, era quella calma completa che allontanava il mio spirito dalla guerra. Avevo di fronte un ufficiale, giovane, inconscio del pericolo che gli sovrastava. Non lo potevo sbagliare. Avrei potuto sparare mille colpi a quella distanza senza sbagliarne uno. Bastava che premessi il grilletto: egli sarebbe stramazzato al suolo. Questa certezza che la sua vita dipendesse dalla mia volontà mi rese esitante. Avevo di fronte un uomo. Un uomo! Un uomo!” L’AZIONE DI PACE DI bENEDETTO xv Anche negli imperi centrali si manifestò una situazione di conflitto tra potere militare e politico. Mentre, sotto la spinta dell’indipendentismo slavo e cecoslovacco, si temette la dissoluzione dell’impero asburgico, l’imperatore Carlo I d’Asburgo succeduto nel 1916 allo zio Francesco Giuseppe, promosse una iniziativa di pace separata che venne respinta. 42 | In trincea per la pace / 43 sto non dovrebbe invocare la pace. Non riusciranno mai a sigillare il mio labbro. La paternità universale di cui sono investito mi fa un dovere preciso: di invitare alla pace i figli che dalle opposte barricate si trucidano a vicenda. Sono e mi sento il padre spirituale dei combattenti nell’uno e nell’altro campo. Nessuno potrà impedire al Padre di gridare ai propri figli: Pace, Pace, Pace”. L’opera del Papa non si limitò a queste pubbliche deplorazioni e agli appelli alla pace. La diplomazia della Santa Sede lavorò sempre, anche in maniera segreta, per cercare uno spiraglio che avesse potuto condurre al termine del conflitto. Con la “Nota di Pace” il Papa invitava le parti in guerra a cercare la pace sulla base di alcuni punti fondamentali. Nella “Nota”, ai fini di una pace giusta e durevole, venivano contemplati il disarmo simultaneo e reciproco, rafforzato da garanzie internazionali; la libertà dei mari e il reciproco condono dei danni di guerra; la restituzione dei territori occupati; la soluzione delle questioni territoriali, tenendo conto delle aspirazioni dei popoli. Il direttore del “Corriere della Sera”, Albertini, mosse una critica serrata al documento del Papa, mentre “La Stampa”, che si manteneva vicina ai liberali giolittiani, assunse un atteggiamento più benevolo. Il generale Cadorna proibì che tra le truppe circolasse il testo pontificio che, dopo la sconfitta militare di Caporetto, fu considerato disfattista al pari della propaganda pacifista dei socialisti, e venne annoverato tra le cause della sconfitta militare italiana. Anche Benito Mussolini criticò la “Nota” dalle colonne de “Il Popolo d’Italia”, definendola “una manifestazione di propaganda banale e criminosa contro la guerra”, un incitamento al disfattismo e al tradimento, mentre, al contrario, ne furono soddisfatti i socialisti. Pure il presidente americano Wilson respinse la “Nota” del Papa, in quanto, pur riconoscendo “la forza dei motivi umani e generosi” che l’avevano ispirata, essa sembrava ignorare le responsabilità del popolo tedesco il quale, “avendo concepito in segreto di dominare il mondo”, aveva sferrato i suoi colpi feroci senza arrestarsi davanti a nessuna barriera “né di legge, né di pietà”, provocando in Europa una ondata di sangue. Per il presidente americano, accettare la “Nota” così come era stata preparata, avrebbe significato solamente ripristinare le condizioni che avevano determinato la guerra. Invece i torti subiti “da un intero continente” avrebbero dovuto essere riparati, non tanto a spese del popolo tedesco, vittima di un “governo irresponsabile” e di “uno spietato padrone”, ma guardando alle esigenze dei popoli, unici garanti di una pace basata sulla “giustizia, sull’onestà e sui diritti comuni dell’umanità”. 44 | In trincea per la pace L’intervento del Pontefice quindi non ebbe successo, ma nonostante le diffidenze, i rifiuti e gli impedimenti, il Papa proseguì tenacemente la sua azione. In una lettera inviata da Benedetto Xv all’imperatore d’Austria Carlo d’Asburgo, dopo aver constatato il fallimento del suo tentativo di pacificazione definendolo “un’ora, forse la più amara della nostra vita”, insistette ancora perché si cercasse ogni occasione di arrivare ad una “pace mediante compensi e senza umiliazioni”, anche per evitare “quelle agitazioni politichesi cui nessuno poteva prevedere la portata”. Agitazioni che proprio in quei giorni si stavano moltiplicando in Russia. L’azione della Santa Sede durante la guerra non si limitò agli inviti alla pace e ai tentativi per realizzarla. Tramite i normali canali diplomatici, e attraverso vie più confidenziali, ci si adoperò per lo scambio dei prigionieri ammalati, creando e gestendo un ufficio informazioni sui dispersi e una rete per lo scambio della corrispondenza tra i prigionieri e le loro famiglie. I credenti furono poi invitati a pregare in maniera intensa e speciale per la pace: una particolare orazione in tal senso fu composta dallo stesso Benedetto Xv nel gennaio del 1915 e venne tradotta nelle lingue dei paesi belligeranti in modo che i combattenti sui diversi fronti potessero leggere la stessa invocazione di pace. Sempre nello stesso anno vennero regolate le disposizioni per proclamare il canto del Te Deum in occasione di vittorie militari, mentre veniva esteso a tutte le diocesi del mondo il privilegio di poter celebrare tre messe al giorno, in suffragio dei caduti. Nel 1917 venne infine aggiunta alle litanie lauretane alla Madonna, l’invocazione, voluta dal Pontefice, di “Regina Pacis”. Alla fine della guerra, dopo la firma dei trattati di versailles, Benedetto Xv in una allocuzione concistoriale, si soffermò a deprecare quanto ancora sopravviveva della guerra (il blocco marittimo, la detenzione dei prigionieri vinti, gli odi perduranti tra i popoli) e scongiurò le nazioni ad associarsi tra loro con i vincoli della “carità cristiana”. Nel maggio del 1920, nell’enciclica Pacem Dei Munus, il Papa ricordava agli uomini e agli Stati che “se quasi dappertutto la guerra era finita ed erano stati sottoscritti dei trattati di pace, erano tuttavia rimasti i segni delle antiche discordie”, per cui bisognava fare in modo che, “rimosse per quanto possibile le cause dei dissidi, e fatte salve le ragioni di giustizia, i popoli reintegrino tra loro l’unione e l’amicizia”. Pochi giorni prima di morire, nel gennaio del 1922, Benedetto Xv ricevette da parte della Società delle Nazioni il riconoscimento “della sua più alta e rispettosa considerazione per il Papa e della sua riconoscenza più sincera per la generosa iniziativa, nuova prova delle sue premure nel sollevare tutti i dolori umani”. / 45 LA PROPAGANDA sOCIALIsTA LA svOLTA DEL 1917 In seno al movimento socialista si parlava invece di una possibile “soluzione rivoluzionaria” della guerra. Dopo le iniziali posizioni di appoggio alle scelte militari dei governi nazionali, tra i militanti si rafforzarono le posizioni pacifiste. Le drammatiche vicende del conflitto suscitarono un ampio dibattito sulle posizioni del socialismo in rapporto alla politica degli stati borghesi. Tra il 1915 e il 1916, furono convocate due conferenze a zimmenrwald e a Kienthal, in Svizzera, alle quali parteciparono le minoranze pacifiste dei partiti socialisti europei (solo quello italiano fu ufficialmente rappresentato). In tali occasioni furono ripresi i principi dell’autodeterminazione dei popoli posti a fondamento di una pace duratura; ma vennero espresse anche tesi più radicali ad opera degli esponenti del bolscevismo russo, guidati da Lenin, per i quali la guerra avrebbe dovuto essere trasformata in rivoluzione, altrimenti “sarebbero venute ben presto altre guerre”. Sempre più frequenti tra le masse operaie e popolari si facevano le manifestazioni contro la guerra, spesso guidate dalle donne, come a Torino, nel 1917. Si trattò in questo caso del più grande episodio di protesta durante tutto il periodo bellico. Dal mancato rifornimento della farina si originò una vasta manifestazione e ben presto alle rivendicazioni sul pane si aggiunsero quelle per la pace dalle quali trapelava il profondo malcontento della popolazione. Il Partito socialista italiano si trovò però impreparato e non in grado di gestire o sfruttare a suo vantaggio la situazione di protesta. L’entrata in guerra degli Stati Uniti. Il 1917 segnò una decisiva svolta nelle sorti della guerra. In quell’anno infatti l’ingresso degli Stati Uniti nel conflitto al fianco delle forze dell’Intesa confermò la definitiva ascesa della nuova potenza americana; allo stesso tempo, la caduta dell’impero zarista, per secoli protagonista della storia europea, fu seguito dall’affermazione al potere in Russia della parte bolscevica del Partito socialdemocratico russo. Successivamente a questi avvenimenti, in meno di un anno, gli altri tre imperi sui quali si era retto l’equilibrio europeo (asburgico, ottomano e tedesco) crollarono col precipitare degli eventi bellici. In un biennio, tra il 1917 e il 1918, vennero completamente ridefiniti i confini geografici dell’Europa e la situazione mondiale mutò in maniera tanto radicale quanto improvvisa. sEmPRE PIù FREquENTI TRA LE mAssE OPERAIE E POPOLARI sI FACEvANO LE mANIFEsTAZIONI CONTRO LA GuERRA, sPEssO GuIDATE DALLE DONNE, COmE A TORINO, NEL 1917 46 | In trincea per la pace All’inizio del guerra gli Stati Uniti erano rimasti neutrali, mentre il prolungarsi del conflitto aveva stimolato la produzione industriale del Paese, grazie alle commesse belliche inglesi, francesi e italiane. Il presidente repubblicano Woodrow Wilson, in carica tra il 1913 e il 1921, tentò di svolgere un’opera di mediazione e pacificazione tra i paesi belligeranti. Ciò non impedì agli Stati Uniti di inviare notevoli aiuti economici alle potenze dell’Intesa con le quali vi erano maggiori affinità politiche ed interessi economici in comune. La scelta americana fu quindi quella di una “neutralità belligerante” a favore dei Paesi dell’Intesa, ma il 2 aprile 1917 - a seguito dei danni economici causati dalla guerra sottomarina tedesca che impediva il commercio bellico degli Usa, danneggiandone fortemente l’economia - il Congresso americano votò l’ingresso in guerra della nazione al fianco delle potenze dell’Intesa, non come Paese alleato, ma come “associato”. Gli Usa, nelle intenzioni del Presidente Wilson, avrebbero dovuto battersi non per scopi di conquista ed espansione territoriale, ma per altri fini più nobili che il presidente, l’anno seguente, avrebbe sintetizzato in “Quattordici punti”, con i quali intendeva qualificare il carattere democratico e non imperialistico dell’intervento americano in guerra, auspicando una pace che punisse le colpe dei governi, senza colpire le popolazioni ad essi soggette. Il programma di Wilson, incentrato sul rispetto delle nazionalità e sul diritto dei popoli all’autodeterminazione, richiedeva tra l’altro la libertà dei mari e la riduzione degli armamenti e, nell’ultimo punto, prefigurava / 47 la costituzione di un organismo, la Società delle Nazioni, che avrebbe dovuto dirimere le controversie internazionali. In Italia alcuni punti del messaggio di Wilson suscitarono delle apprensioni in quanto al punto 9 era espressamente dichiarato che “la sistemazione delle frontiere dell’Italia dovrà essere effettuata secondo le linee di nazionalità chiaramente riconoscibili”; mentre al punto 10 veniva data garanzia ai popoli dell’Austria-Ungheria “il cui posto desideriamo vedere tutelato e garantito tra le Nazioni”. Tali affermazioni contrastavano in parte con le richieste italiane sottoscritte nel Patto di Londra e le nuove frontiere europee, a guerra conclusa, avrebbero potuto essere tracciate “secondo le linee di nazionalità” . Il ritiro della Russia. L’ulteriore evento epocale che segnò le sorti della guerra fu lo sconvolgimento della società russa col crollo dell’impero zarista. Nicola II reggeva le sorti dell’impero dal 1894 e aveva ereditato un governo autocratico, concentrato quasi esclusivamente nelle sue mani e privo di controllo parlamentare, mentre la struttura dello Stato era rimasta immutata dai tempi di Pietro il Grande. Una rigida e cristallizzata burocrazia statale permetteva il controllo e la repressione delle rivolte agrarie come anche delle sommosse provocate dalle nuove forze politiche. Nel 1898 era stato fondato in Russia il Partito socialdemocratico, di estrazione marxista, il quale pochi anni dopo, nel 1903, si scisse in due correnti. Alla prima, quella bolscevica (maggioritaria), apparteneva vladimir Il’ic Ulianov, più conosciuto con lo pseudonimo di Nicolaj Lenin, che sosteneva la fondazione di un partito di militanti ai quali sarebbe spettata la guida delle masse popolari attraverso una organizzazione centralizzata che avrebbe condotto alla caduta dell’impero grazie all’opera del ceto operaio. La seconda corrente, menscevica (minoritaria), prefigurava un partito di massa che avrebbe potuto dare maggiori garanzie di partecipazione alla base popolare del grande Paese, in una repubblica democratica e costituzionale, mentre per i bolscevichi bisognava realizzare una dittatura del proletariato. Sarebbe stata la guerra a mettere in crisi tutto il sistema russo e permettere ai bolscevichi di rovesciare le istituzioni giungendo al potere. La gran massa di soldati, composta in maggior parte da contadini, privi di equipaggiamento e anche di armamentario, fu inviata ad affrontare il nemico con attacchi frontali che causarono la perdita di circa due milioni e trecentomila soldati. Già dopo i primi mesi di guerra nell’esercito russo si erano moltiplicati i fenomeni di diserzio- 48 | In trincea per la pace ne, mentre diventavano ardue e insostenibili le condizioni del proletariato urbano. I primi scioperi si ebbero nel febbraio del 1917 a Pietrogrado, accompagnati da cortei organizzati dai socialisti bolscevichi. Il drammatico e improvviso rivolgimento degli eventi avvenne quando lo zar diede ordine di porre termine alle manifestazioni e l’uccisione di 40 manifestanti causò la rivolta dei militari che fraternizzarono con i ribelli e gli operai. Nella mattina del 12 marzo 1917 un lungo corteo di rivoltosi riuscì ad entrare nel Palazzo d’Inverno, simbolo del potere del governo, ed issarvi una bandiera rossa, sancendo con questo gesto la fine del potere imperiale. Lo zar Nicola II abdicò e fu costituito un governo provvisorio, che non riuscì a corrispondere alle attese del popolo russo mostrandosi incapace anche di gestire l’ordine pubblico, mentre accanto alla Duma assumevano sempre maggior potere i Soviet (consigli di operai, soldati e contadini) che rappresentavano una specie di “governo popolare diretto”. Il governo provvisorio non riuscì a rispondere alle attese della popolazione che chiedeva l’uscita dalla guerra e la riforma agraria e così alla rivoluzione di febbraio seguì quella di ottobre con l’insediamento di un governo rivoluzionario dominato da Lenin il quale riuscì a portare il Paese fuori dalla guerra stipulando nel marzo 1918 il Trattato di Brest – Litovsk. Con questo i russi dovettero abbandonare la Polonia, la Lituania, l’Estonia e la Finlandia, liberando così tutto il territorio occupato tra il Baltico e l’Ucraina, e quest’ultima fu costituita in repubblica indipendente sotto il controllo tedesco. L’abbandono della Russia rappresentò un colpo durissimo per le potenze dell’Intesa sia sul piano militare che su quello politico. In Italia si ebbero diversi moti di rivolta guidati dagli operai, mentre in Francia si verificarono ammutinamenti nelle truppe, e pure Berlino dovette affrontare una serie di scioperi e manifestazioni. Anche in Inghilterra, nel 1917, si diffuse il malcontento per la guerra in corso mentre gli obiettori di coscienza subivano controlli e restrizioni, e lo stesso filosofo Bertrand Russel venne arrestato con l’accusa di propaganda pacifista e allontanato dalla sua cattedra presso il Trinity College di Oxford. Più lenti si manifestarono invece gli effetti positivi dell’entrata in guerra degli Stati Uniti per la Triplice Intesa e, tra la fine del 1917 e l’inizio del 1918, proprio a seguito dell’abbandono della Russia, si verificarono gli eventi più sfavorevoli per le potenze occidentali: esse subirono dure sconfitte inflitte dagli imperi centrali sia sul fronte italiano, a Caporetto, che su quello francese con la riconquista del confine della Marna. / 49 La disfatta di Caporetto. La disfatta dell’esercito italiano, avvenuta a Caporetto il 24 ottobre 1917, fu determinata anche all’aumentato contingente delle truppe austro-tedesche ritirate dal fronte orientale. Gli eserciti degli imperi centrali riuscirono ad operare uno sfondamento delle linee italiane nel piccolo villaggio di Caporetto, posto alle pendici del Monte Nero, sul confine sloveno, penetrando nelle valli fino ad aggirare le posizioni delle truppe italiane che si mossero in ritirata sino a raggiungere la linea del Piave. Dopo la disfatta di Caporetto, e ancora nell’immediato dopoguerra, la causa principale della sconfitta italiana fu individuata nel cedimento morale dei combattenti. Lo stesso Cadorna attribuì subito la responsabilità della rotta dell’esercito alla propaganda contraria alla guerra, definita allora “disfattista”. In realtà, come è stato documentato dalla maggior parte della storiografia, la sconfitta di Caporetto fu determinata da ragioni principalmente militari. Le truppe erano molto provate e affaticate dalla lunga permanenza nelle trincee e a causa delle battaglie sanguinose che erano state impegnate a combattere. Ma lo stato d’animo dei soldati, stanchi e provati, era noto ai comandi dei corpi d’armata. La classe militare addusse allora come motivo della sconfitta dapprima la viltà dei soldati e in seguito il sentimento disfattista ormai diffuso nel Paese, che aveva contagiato anche i combattenti al fronte. Il desiderio di pace delle truppe in ritirata si era espresso anche con delle insolite esclamazioni, come “W il Papa”, (autore qualche mese prima della Nota di pace) e “W Giolitti”, (da sempre sostenitore della neutralità). Un iniziale comunicato di Cadorna parlava di “mancata resistenza dei reparti, vilmente ritiratisi senza combattere o ignominiosamente arresisi al nemico”. Anche in seguito lo stesso comandante avrebbe ripetuto che “l’esercito cede, vinto non dal nemico esterno, ma dal nemico interno”. Con tali espressioni Cadorna intendeva imputare il disastro militare alla debolezza morale e politica dell’intera nazione. Ma che vi fossero stati gravi errori militari lo ritenevano anche i comandi delle potenze alleate, che comunicarono al capo del governo italiano la loro sfiducia nel Comando italiano. Il primo ministro inglese Lloyd George chiese ufficialmente il siluramento di Cadorna e dell’intero Stato maggiore, ritenuto colpevole per lo sbandamento dell’esercito italiano avvenuto “non per difetto di valore - si riteneva - ma soltanto perché dal loro Comando furono poste condizioni insostenibili”. Anche nell’opinione pubblica italiana si venne formando l’idea che all’origine della sconfitta di Caporet- 50 | In trincea per la pace to vi fossero stati gravi errori militari e così fu creata una commissione d’inchiesta per chiarire le responsabilità tra gli altri anche di Cadorna e di Pietro Badoglio, allora comandante del corpo d’armata che subì lo sfondamento di Caporetto. L’inchiesta portò a conclusioni ambigue perché, pur mettendo in evidenza gli errori strategici compiuti, non si vollero lanciare precisi atti d’accusa, lasciando spazio a nuove polemiche. Negli anni successivi, durante il regime fascista, sembrò più utile alla propaganda governativa addossare le colpe di Caporetto all’azione degli avversari politici (cattolici, giolittiani, socialisti), rivalutando l’operato dei comandi militari, tanto che Badoglio e Cadorna saranno promossi eroi nazionali per meriti fascisti. Nei giorni precedenti l’attacco delle truppe austro-tedesche Cadorna si era pure accertato dello stato morale delle truppe mandando uomini di fiducia a visitare i vari reparti. I rapporti pervenuti erano improntati all’ottimismo. Si può infatti leggere in alcune di queste relazioni riguardanti le truppe coinvolte nella disfatta come Badoglio si ritenesse “soddisfatto dello stato morale delle truppe”; e ancora come “nei soldati l’idea che avrebbero avuto di fronte i germanici pareva avesse rianimato il loro spirito combattivo”. Con queste valutazioni i comandanti militari pensavano di presentare un quadro positivo dei propri reparti. Si sapeva che anche i soldati austriaci erano stanchi e stremati ancor più degli italiani e, alla vigilia della battaglia di Caporetto, nell’ottobre del 1917, tutto l’esercito, da Cadorna ai fanti, era convinto che non sarebbe successo più niente di militarmente rilevante fino alla primavera successiva. Infatti, generalmente, al termine dell’autunno, la guerra subiva un rallentamento, fin quasi a fermarsi, per poi riprendere con lo sciogliersi delle nevi a primavera. A molti contingenti di truppe era già stata concessa la licenza invernale e il 20 ottobre circa 120mila militari si trovavano in licenza; soprattutto le Brigate Enna e Caltanissetta del Iv corpo d’armata che controllavano la zona del fronte dal quale passarono gli austro tedeschi erano in quei giorni “depauperate numericamente in misura anormale”, perché il comando supremo aveva dato ordine di inviare in licenza molti militari siciliani. L’offensiva del 24 ottobre quindi non era attesa dai comandi italiani e questo spiega i numerosi errori che permisero alle truppe austrotedesche di sfondare il fronte e costringere gli italiani alla ritirata. Eppure erano giunte sia a Cadorna che al presidente del consiglio vittorio Emanuele Orlando, che era succeduto all’ottuagenario Boselli, notizie precise e dettagliate, da parte del servizio informazioni e dai prigionieri / 51 austriaci, di un prossimo attacco nemico sul fronte dell’Isonzo. Alle 2 e 30 del mattino del 24 ottobre 1917 l’artiglieria austro-tedesca avviò un fuoco intenso contro le posizioni italiane utilizzando numerose granate a gas. L’artiglieria italiana, colta di sorpresa, rispose in modo fiacco e sporadico. Ciò dipendeva dalla poca chiarezza e dal sovrapporsi degli ordini dati dal comando militare e, per quanto riguarda il XXvII corpo d’armata, dalle disposizioni date da Badoglio all’artiglieria di attendere un suo ordine prima di rispondere al fuoco. L’ordine però non poteva più essere trasmesso a causa dell’interruzione delle linee telefoniche causate dal fuoco nemico e per la nebbia che rese impossibili anche le comunicazioni con segnali ottici. Le penetrazioni nemiche avvenute nel fondovalle, proprio a causa della fitta nebbia, non furono avvistate in tempo. La velocità dell’attacco austro-tedesco e il fatto che molti reparti italiani rimasero isolati rallentarono molto le comunicazioni, facendo giungere le notizie al comando supremo con notevole ritardo, con errori e imprecisioni. Solo nella notte del 27 ottobre Cadorna ordinò la ritirata generale della II e III armata fino alle sponde del Tagliamento, mentre comunicò alla Iv armata schierata in Cadore di tenersi pronta ad una ulteriore ritirata sul Monte Grappa. Nel pomeriggio del 17 ottobre gli austriaci occuparono Cividale del Friuli e il Comando supremo italiano lasciava il quartier generale di Udine per rifugiarsi a Padova, mentre Cadorna e i suoi collaboratori si fermarono a Treviso. Nella notte tra il 2 e il 3 novembre gli austriaci riuscirono a passare il Tagliamento, sul ponte di Cornino non fatto saltare dagli italiani e da Cadorna giunse l’ordine a tutte le truppe di ritirarsi sulla linea del Piave - Monte Grappa- Altipiani. La mancata resistenza italiana si dovette alla sorpresa e alla conduzione dell’attacco nemico compiuto con l’uso di gas venefici piuttosto che con armi da fuoco. Le truppe austro-germaniche, incoraggiate dal successo dell’attacco, superiore alle loro stesse aspettative, dilagarono, imperversando sino a costringere l’intero contingente italiano ad una ritirata che assunse presto l’aspetto di una fuga disordinata. Infatti l’esercito italiano andò retrocedendo dalla linea dell’Isonzo, fino al Tagliamento, per giungere infine sulla linea del Piave, quindi per oltre 140 km, lasciando nelle mani dei nemici circa 300 mila prigionieri, 3136 cannoni, 300 mila fucili e enormi quantità di munizioni e viveri. vi furono circa 40mila tra morti e feriti, gli sbandati furono 350 mila, i profughi oltre 400 mila mentre l’intero Friuli fu perduto. 52 | In trincea per la pace TESTIMONIANZA DI UN REDUCE DI CAPORETTO Le pagine di questa storia restarono per sempre vive immagini per l’ultimo combattente italiano della Prima guerra mondiale, l’ ultimo cavaliere di Vittorio Veneto, la cui vita si è stesa su tre secoli. Èstato anche il più anziano bersagliere d’Italia Delfino Borroni, classe 1898, la penultima chiamata alle armi nel 1917, l’anno di Caporetto e della disfatta dell’esercito italiano. Il bersagliere Borroni, scomparso a 110 anni, nell’ ottobre del 2008, si trovava proprio a Caporetto, nei giorni della battaglia decisiva del 24 ottobre 1917. Novanta anni dopo quell’evento, nel novembre del 2007, ho incontrato l’anziano reduce, l’unica persona al mondo che ancora poteva raccontare quelle giornate e ripercorrere con la memoria quella che per me è storia e per lui è vita. Mentre parliamo mi stringe forte la mano, come se volesse accompagnarmi in quel mondo che è ancora vivo nei suoi occhi spenti, ormai quasi ciechi. La memoria è lucida, la voce chiara, qualche volta rotta dal pianto, il tempo dei verbi è spesso al presente. Parlare della sua guerra per lui significa riviverla, evocare volti, nomi, persone che non ci sono più, richiamare tutto in vita, trasmetterne il ricordo in modo che il tempo non se li porti via definitivamente. Il cavalier Delfino Borroni, mi conduce in un passato che per lui resta sempre presente e, per una mattina, tutto sembra rivivere. Partiamo da lontano, da quei primi anni del Novecento in cui a scuola i maestri insegnavano ai bambini ad amare il proprio Paese, così faticosamente riunito. Con le parole di Borroni, anche l’imperatore Francesco Giuseppe esce dai libri di storia e ritorna ed essere “il nostro nemico”. “A scuola ed a casa si parlava spesso della guerra del ’59 - mi racconta Delfino Borroni e, poiché stiamo parlando del 1859 e della seconda guerra d’indipendenza, intravedo in quel momento davanti a me scorci di un mondo ancora più lontano- Mio padre e il mio maestro avevano combattuto contro gli austriaci e, quando andarono via, gli austriaci saccheggiarono tutto. Io sono nato vicino Magenta e Solferino, i posti delle battaglie che abbiamo vinto contro di loro e noi bambini siamo cresciuti con la paura che gli austriaci potessero tornare a riprendersi le nostre terre”. Nelle parole di Delfino lo spirito del Risorgimento non é più retorica, ma ritorna realtà. “Molti dei miei amici- continua Borroni- si arruolarono subito, nel 1915, all’inizio della guerra. Erano i più colti, quelli che avevano continuato gli studi, che volevano andare volontari a combattere. Bisognava riprendere quello che era nostro, si andava a combattere per Trieste e per Trento. Solo così gli austriaci sarebbero andati via per sempre dalla nostra terra”. Delfino Borroni non era un volontario. Ma quando, il 7 gennaio del 1917 venne chiamato alle armi, “quattordicesimo reggimento della IV Brigata Bersaglieri”- precisa lui con immutato orgoglio- partì per il fronte perché / 53 “era un dovere di tutti difendere la Patria”. Dopo i primi mesi, tra la primavera e l’autunno del 1917, trascorsi in Veneto e in Trentino, sull’altopiano di Asiago, sul Pasubio, sul Monte Maio e sul Cismon, il 20 di ottobre “in tradotta siamo andati in Friuli, a Cividale,- continua Delfino, con una precisione che lascia stupiti- e qui, il 21, abbiamo fatto rifornimento di munizioni e di viveri. Ci hanno dato quattro gallette e due scatolette di carne, dicendoci di tenerle da parte perché non sapevano se e quando ce ne avrebbero potute dare altre. Il 23 ottobre ci mettiamo in marcia in direzione di un posto che si chiamava Caporetto”. Caporetto, quel piccolo villaggio sconosciuto, sulla riva dell’ Isonzo, che tanto avrebbe pesato sul destino dell’Italia. “Arriviamo la sera del 23, che freddo che c’è, un freddo cane e si scatena anche una tormenta, abbiamo in faccia acqua gelata, vento freddo e siamo fradici, - mi dice Delfino e, mentre parla, lui sembra essere ancora lì, in quel momento i suoi occhi ciechi stanno tornando a vedere quel campo di battaglia. “Noi bersaglieri arriviamo nella notte tra il 23 e il 24 ottobre sulla posizione che dobbiamo difendere, la sella di Luico, che domina l’Isonzo, sotto di noi vediamo Caporetto e davanti a noi si staglia il Monte Nero.” Il Monte Nero è un altro luogo simbolo di questa guerra, conquistato dagli alpini nel giugno del 1915, come narra un vecchio canto, ormai quasi dimenticato, quando “spunta l’alba del 16 giugno, comincia il fuoco l’artiglieria, il terzo alpini è sulla via, Monte Nero a conquistar”. Anche i canti raccontano un’epoca. “Una volta- mi dice Delfino- quando succedeva un grande avvenimento, bello o brutto che era, la voce della gente ne faceva un canto e anche così si diffondevano le notizie”. Ma nelle trincee no, lì non c’era molto tempo per cantare. “Era dura la vita delle trincee, avevamo fame e freddo, ma almeno lì eravamo sicuri, invece andare di pattuglia era molto più rischioso e i superiori mandavano sempre me, che ero uno dei più giovani, gli altri avevano mogli e figli.” Il giovane Borroni fu inviato in pattuglia anche a Caporetto, mentre infuocava la battaglia, iniziata alle due di notte del 24 ottobre 1917, con l’attacco nemico, portato avanti pure con l’utilizzo di gas asfissianti. Quella mattina “il mio sergente, Luigi Mosconi, che era di Como, mi ordina di andare fuori dalle trincee per vedere la situazione. Io gli chiedo perché manda a morire proprio me che sono il più giovane, gli altri almeno hanno vissuto vent’anni più di me, ma io non ho mai disubbidito agli ordini e sono uscito dalla trincea in perlustrazione”. Cosa sentivano nell’animo quei soldati, paura, incoscienza, un forte senso di precarietà? Ho la possibilità di saperlo e glielo chiedo. Lui mi risponde, semplicemente, “non c’era tempo per avere paura, non si poteva pensare ad avere paura, avevamo tante cose da fare, anche nelle trincee, si viveva la nostra vita così, giorno dopo giorno, nascevano forti amicizie, io ho pure insegnato ad un mio compagno di trincea a leggere e scrivere”. Nemmeno quel giorno a Caporetto aveva paura, mi dice con orgoglio Delfino, “mandano me ed io vado”. Mentre infuria la battaglia lui cerca di ripararsi dove capita, si fa scudo anche col corpo di due soldati tedeschi uccisi, ma le truppe nemiche sono ovunque, “io vedevo le loro sagome, che 54 | In trincea per la pace si alzavano e si abbassavano, vedevo le loro ombre e cercavo di avvisare i compagni, ma non potevo urlare per non farmi sentire dai nemici”. Il giovane bersagliere allora cerca di tornare indietro ma nella fuga viene colpito al tallone, cade, si finge morto e si salva, perché gli viene risparmiata un’altra scarica. Rotolando e zoppicando, aggrappandosi alle rocce, e respirando la polvere mossa dal fuoco incrociato, Delfino riesce a tornare dai suoi, dove ormai era dato per morto. “Il mio sergente si è commosso quando mi ha visto tornare, mi diceva che nessuno sarebbe riuscito a salvarsi, mi diceva che ero uno scoiattolo”. Ma la situazione stava precipitando per le truppe italiane. “Non c’erano più rinforzi, non avevamo più munizioni e davanti a noi c’erano i tedeschi pronti ad attaccarci”. Inizia così, anche per i bersaglieri di Delfino Borroni, la ritirata. Dopo “l’onta consumata a Caporetto”, le truppe italiane, tentando qualche strenua resistenza, si dirigono, allo sbando, verso il Tagliamento, per poi retrocedere definitivamente fino al Piave. A Cividale, Delfino viene catturato dai nemici, viene condotto prima in Austria, a piedi, e poi in Veneto, lungo le sponde del Piave a scavare trincee per gli austriaci, per un anno. Fino al 4 novembre del 1918, quando il generale Armando Diaz, nuovo comandante supremo dell’esercito italiano, dirama il Bollettino della Vittoria, oggi scolpito sui monumenti ai Caduti di tutti i comuni d’Italia. “Io ero in Veneto, com’erano belle le case imbandierate, la gente usciva per le strade a festeggiare, ci abbracciava noi soldati, a Trieste quanta festa che hanno fatto ai bersaglieri”. / 55 La rotta dell’esercito italiano. I comandi italiani, durante le fasi della tragica avanzata austro-tedesca persero completamente la testa. In una relazione dell’ufficio storico dello Stato maggiore si può leggere: “Gli stessi comandi si persero d’animo. Molti retrocedettero per sfuggire alla prigionia o per recarsi a conferire col comando superiore (…). Troppi comandanti si ritirarono prima delle truppe”. Mentre un esperto di vicende militari, nel 1920 scriveva: “Gli ufficiali, superiori e i generali, i quali per primi conobbero la situazione, disponendo si automobili, si misero senz’altro in salvamento”. Caporetto però non rappresentò solo una sconfitta militare, ma fu “accompagnata da una sorta di sciopero, dall’insubordinazione generalizzata, dalla diserzione in massa, da un diffuso spirito di rivolta”. Per lo scrittore Curzio Malaparte Caporetto era stata una “rivoluzione”: “il fenomeno di Caporetto- scriveva- è schiettamente sociale. È una rivoluzione. È la rivolta di una classe, cioè della fanteria, di una mentalità, di uno stato d’animo, contro un’altra classe, un’altra mentalità, un altro stato d’animo. È la rivolta della trincea contro gli imboscati, retoricamente patriottici e umanitari. Èuna forma di lotta di classe”. Sulla rotta di Caporetto fiorì poi una vastissima pubblicistica accompagnata da lunghe diatribe storiografiche. Già in occasione di altre sconfitte militari come Lissa e Custoza nel 1866 si accesero gravi polemiche e si cercarono capri espiatori per spiegare quelle sconfitte. Ma le dimensioni del disastro di Caporetto furono tali che, oltre allo sgomento generalizzato, l’evento suscitò una serie crescente di interrogativi sulla coesione della nazione italiana. Cadorna inizialmente avanzò l’ipotesi di un “tradimento” da parte delle truppe che a Plezzo e Tolmino si sarebbero accordate col nemico. “Io non ero presente – dichiarò il comandante- e non posso dire le cose come sono andate. Ma le immagino così. Non ci può essere stato un tradimento esteso; ma ci deve essere stato qualche tradimento parziale, che ha aperto dei varchi”. L’ipotesi di tradimento, in assenza di spiegazioni più convincenti, fu accolta da molti finché in Parlamento, il ministro della Guerra, il generale vittorio Luigi Alfieri, dichiarò che le voci di tradimento, a suo parere, erano infondate, nonostante il presidente Orlando continuasse a dire, in privato, che per spiegare il disastro di Caporetto nulla poteva essere escluso, neanche il tradimento. Fu solo in un secondo tempo che Cadorna comprese che l’ipotesi del tradimento non poteva reggere e davanti alla Commissione di inchiesta la negò con fermezza. Mentre più forza ebbe l’ipotesi che a Caporetto i fanti avessero operato una specie di “sciopero militare”. Quel giorno, il 24 ottobre, sulle rive dell’Isonzo / 57 non ci sarebbe stata una vera battaglia perché in gran parte la II armata dell’esercito italiano, si sarebbe rifiutata di combattere, retrocedendo e chiedendo la pace. Questa ipotesi sembrava avere più consistenza e poteva combinarsi sia con quella di un accordo col nemico di alcune truppe, che con ragioni propriamente militari in quanto le truppe austro-tedesche avevano conseguito il loro importante successo perché i contingenti italiani si erano in pratica rifiutati di combattere. Entrambe le ipotesi rifiutavano di riconoscere nel valore militare degli avversari la principale causa della sconfitta italiana. Il capo del governo Orlando giudicò necessario l’esonero di Cadorna il quale, il 9 novembre del 1917, fu nominato rappresentante del nuovo comitato interalleato di versailles e cedette il comando supremo delle truppe ad Armando Diaz, che fino ad allora aveva comandato il XXIII corpo della III armata, e prima era stato capo dell’ufficio operazioni del comando supremo. Diaz venne affiancato da due sottocapi anch’essi comandanti di corpi d’armata: il generale Gaetano Giardino, ministro della guerra dal 1917 e il generale Pietro Badoglio. Quest’ultimo, energico e dotato di grande preparazione militare, fu giudicato adatto ad affiancare Diaz, uomo abile e prudente, ma con minori capacità tecniche. Non si pensò in quel momento che la disfatta del fronte italiano fosse stata causata anche dagli errori commessi da Badoglio e quando, più tardi, la Commissione d’inchiesta accertò le responsabilità dei comandanti, quelle di Badoglio, per decisione del Capo del governo Orlando, furono tenute nascoste. Dopo Caporetto la guerra italiana, che per quasi due anni e mezzo era stata prevalentemente difensiva, divenne offensiva e tale rimase fino alla battaglia di vittorio veneto. Si fece molto più uso di motivi propagandistici che vertevano sulla difesa della Patria mentre gli aiuti degli alleati, di cui il Paese aveva avuto sempre bisogno sin dall’inizio del conflitto, diventarono più urgenti e indispensabili. L’Italia, all’avvio del 1918, si trovava in una situazione drammatica per carenza di viveri e armamenti (furono persi ingenti depositi di viveri durante l’avanzata nemica in veneto e lo scarso raccolto del 1917 rese fondamentale l’importazione dall’America). Inoltre servivano grandi quantità di carbone, acciaio e altre materie prime per la fabbricazione delle armi da guerra, per colmare così le perdite di munizioni subite durante la ritirata. Per tutti questi rifornimenti l’Italia dipendeva dagli Stati Uniti d’America e dall’Inghilterra che dilazionarono i crediti per i pagamenti. L’aiuto tempestivo degli alleati fu quindi per parecchio tempo una condizione di sopravvivenza per l’Italia. 58 | In trincea per la pace Le truppe italiane nonostante le difficoltà operarono una valorosa resistenza assestandosi sulle linee del Piave e del Grappa. La ritirata dell’esercito italiano dall’Isonzo al Piave si era svolta in maniera molto disordinata e caotica, causando la perdita di uomini e il disgregamento di numerose unità. Ciò era dovuto non solo alla presenza di numerosi sbandati, come fu detto inizialmente, ma anche a motivo della disorganizzazione dei comandi militari che invece di fare indietreggiare la maggior parte delle truppe, tentarono di frenarne la marcia. Cadorna inizialmente aveva infatti ordinato la resistenza ad oltranza e attese fino al 27 ottobre per ordinare la ritirata fino al Tagliamento, per poi stabilire di indietreggiare ancora fino al Piave. Gli stessi stati maggiori dell’esercito tardarono a fare eseguire gli ordini non comprendendo come dopo aver perso così tante vite per guadagnare alcuni territori sul Carso e sull’Isonzo, si dovesse ora cedere all’avversario l’intero Friuli e il Cadore. Una scelta diversa era però inattuabile perché, perso lo schieramento militare sull’Isonzo, l’esercito italiano non aveva possibilità di utilizzare riserve che mancavano o tamponare le sempre più numerose faglie, e non restava altra scelta che ritirarsi e resistere sulla linea del Piave. Questa resistenza ammirevole dell’esercito italiano di fronte ad un nemico più numeroso e rinvigorito dall’importante vittoria militare consentì alla propaganda nazionalista e patriottica di fare del Piave e del Grappa i simboli della difesa della Patria contro l’invasore. Al 1918 risalgono anche due tra i canti più popolari della I guerra Mondiale: la “Canzone del Monte Grappa” e la “Leggenda del Piave”. La prima fu scritta di getto dal generale Emilio De Bono colpito dalla frase “Monte Grappa tu sei la mia Patria”, scritta da un patriota e letta sul muro di una casa occupata dagli austriaci nella val Cismon. L’altra, più celebre, che dopo la guerra venne sempre ed è tuttora suonata nelle manifestazioni di carattere militare, fu scritta da E. A. Mario, pseudonimo di Giovanni Gaeta, nel giugno del 1918, e in ogni sua strofa sono narrati i momenti decisivi della guerra a partire dalla silenziosa avanzata “dei primi fanti il 24 maggio” del 1915. La riorganizzazione dell’esercito proseguì abbastanza rapidamente: gli sbandati di Caporetto furono raggruppati in campi di raccolta e poi nuovamente inquadrati. Le divisioni, che da 65 si erano ridotte a 38 dopo la ritirata, erano 52 al momento della decisiva battaglia del Piave, nel giugno 1918. Il governo diede nuovo impulso alla fabbricazione di armi e munizioni e in tal modo vennero colmate le perdite subite. Anche l’aviazione subì un notevole sviluppo passando da 140 a 600 apparecchi. / 59 Fu incrementata la propaganda tra le truppe, prima molto trascurata, e furono migliorate le condizioni materiali dei soldati. Nell’inverno e nella primavera del 1918 furono stampati numerosi periodici dedicati ai soldati, come “La Trincea”, “L’Astico”, “La tradotta” e vennero organizzati Uffici di propaganda guidati da intellettuali interventisti che spesso erano ufficiali di complemento. venne inoltre organizzata una propaganda contro il nemico, prima inesistente. Ai soldati furono aumentate le razioni di viveri e concessa una seconda licenza annuale di 10 giorni, oltre a quella già esistente di 15 giorni. Ad essi però non venne aumentata la paga e invariato restò anche il sussidio dei richiamati, ma per iniziativa del Ministro del Tesoro, Francesco Saverio Nitti, fu istituita una polizza gratuita di assicurazione di 500 lire per tutti i soldati. Il 1 novembre del 1917 venne costituito un ministero per l’assistenza ai militari e le pensioni di guerra che fu affidato a Bissolati. Tutti questi provvedimenti contribuirono a ravvivare il morale dei combattenti anche se non mutò l’atteggiamento delle grandi masse nei confronti della guerra che veniva combattuta e tollerata più per obbedienza passiva che per convinzione politica o passione patriottica. LA CRIsI DEGLI ImPERI CENTRALI Una decisiva svolta per le sorti della guerra si ebbe nel 1918 e si manifestò a seguito delle crisi interne dei due grandi imperi centrali. In Germania era stato creato un “gabinetto di guerra” che ben presto divenne il centro del potere, guidato dal generale Wilhelm Groener che ottenne anche l’appoggio dei gruppi industriali favoriti dal proseguimento della guerra. Nel Paese i militari stavano ormai acquisendo un potere sempre maggiore, condizionando durata ed efficienza degli esecutivi. Ma all’interno dell’impero tedesco erano molto peggiorate le condizioni dei contadini, ed essi trovavano rappresentanza soprattutto nel partito dei cattolici, il Centro, guidato dal leader Matthias Erzberger, fautore di una pace senza vincitori né vinti. Gli strati operai, anch’essi molto danneggiati dalla guerra, facevano invece riferimento al Partito socialista tedesco (SPD), alla cui sinistra si era creato un gruppo autonomo e dissenziente dalla linea ufficiale del partito, capeggiato da Rosa Luxenbourg e Karl Liebknecht, i quali avevano fondato la “Lega di Spartaco”, molto vicina alle posizioni leniniste sul carattere imperialista della guer- 60 | In trincea per la pace ra in corso. Nonostante i tentativi di repressione dell’esercito molti seguaci del movimento (detti spartachisti) riuscirono a compiere una notevole propaganda antimilitarista, raccogliendo molto seguito tra gli operai a Berlino e nelle grandi città. Anche l’impero austro-ungarico visse una grave situazione di crisi tra il 1917 e il 1918. Dopo la morte dell’imperatore Francesco Giuseppe, che sin dal 1848, per quasi settant’ anni, aveva retto l’impero asburgico, nel novembre del 1916, salì al trono il nipote Carlo I. Di temperamento molto mite e profondamente religioso (sarà proclamato beato dalla Chiesa Cattolica nel 2004), Carlo I tentò di portare avanti trattative per la pace, anche ricorrendo alla mediazione della Santa Sede, come attesta la corrispondenza da lui intrattenuta direttamente col Papa Benedetto Xv. Il monarca destituì il Capo di Stato Maggiore dell’esercito per bilanciare l’equilibrio dei poteri, cercando di contenere quello militare e riconvocò il parlamento, anche se questo divenne una semplice cassa di risonanza delle rivendicazioni delle diverse nazionalità. Da polacchi, cechi e croati sottoposti al dominio ungherese giungevano molte spinte centripete e disgregatrici. Nel luglio del 1917 il governo serbo in esilio stipulò con croati e sloveni il Patto di Corfù che prefigurava, a guerra finita, la creazione di uno stato di slavi del sud, (base della futura Jugoslavia) mentre venne costituito un governo cecoslovacco in esilio per opera di Tomas Masaryk ed Edvard Benes. Le potenze dell’Intesa sostenevano pienamente le rivendicazioni dei popoli slavi e pubblicamente il primo ministro francese ed il presidente Wilson incoraggiarono “le aspirazioni dei cechi e degli jugoslavi alla libertà”. Fu quindi infruttuoso e tardivo il tentativo di Carlo I, nell’autunno del 1918, di provare a dare all’Impero una struttura federale perché a quell’epoca il dominio asburgico era già in piena disgregazione. Nel giugno del 1918, l’esercito italiano ottenne una importante vittoria militare in quella che fu ricordata come la Battaglia del solstizio o La battaglia del Piave, che inflisse agli austriaci gravissime perdite umane e militari. Di fronte alla paura di una nuova vasta penetrazione dei nemici sul suolo italiano l’esercito si battè coraggiosamente, rinvigorito dalle nuove leve dei ragazzi appena diciottenni del 1899, “i ragazzi del Piave”, gli ultimi chiamati a combattere e che pagarono un alto tributo di sangue. La vittoria del Piave suscitò un grande entusiasmo generalizzato in Italia. Il 24 ottobre il generale Diaz diede avvio ad una controffensiva che sfondò a vittorio veneto le linee avversarie, costringendo gli austriaci / 61 a battersi in ritirata su tutto il fronte. La battaglia di vittorio veneto venne esaltata da molti come la più abile impresa compiuta dagli italiani nel corso della guerra. Per altri osservatori invece a vittorio veneto non vi fu battaglia perché gli austro-ungarici non si batterono. Il direttore del “Corriere della Sera”, Albertini, riconobbe come le truppe italiane approfittarono, avvantaggiandosi, delle ribellioni e delle diserzioni nell’esercito austriaco. La situazione delle truppe austriache, infatti, alla vigilia della battaglia di vittorio veneto erano molto precarie e ciò rese molto più facile il successo italiano. Lo spirito dei combattenti asburgici era in piena crisi e in molti reparti vi furono ammutinamenti e rivolte. Nonostante tale situazione gli austro-ungarici non rinunciarono a combattere e provarono ad opporre una valida resistenza. Ma dopo poche ore, quando le prime linee furono travolte dall’esercito italiano, non vi fu più battaglia e l’intero fronte cedette. “vittorio veneto - scrisse in proposito Giuseppe Prezzolini - è una ritirata che abbiamo disordinato e confuso; non una battaglia che abbiamo vinto. Questa è la verità che si deve dire agli italiani; la verità che gli italiani debbono lasciarsi dire”. Il 3 novembre vennero liberate Trento e Trieste e il 4 novembre il generale Diaz annunciò la vittoria con un Bollettino, poi ricordato come il Bollettino della vittoria, scolpito sui monumenti costruiti in ricordo dei caduti in tutti i paesi d’Italia, e fatto imparare a memoria a tanti scolari italiani dell’epoca. Così recitava il testo diramato il 4 novembre del 1918 dal generale Armando Diaz: “La guerra contro l’Austria-Ungheria che, sotto l’alta guida di S.M. il Re, duce supremo, l’Esercito Italiano, inferiore per numero e per mezzi, iniziò il 24 Maggio 1915 e con fede incrollabile e tenace valore condusse ininterrotta ed asprissima per 41 mesi è vinta. La gigantesca battaglia ingaggiata il 24 dello scorso Ottobre ed alla quale prendevano parte cinquantuna divisioni italiane, tre britanniche, due francesi, una cecoslovacca ed un reggimento americano, contro settantatre divisioni austroungariche, è finita. La fulminea e arditissima avanzata del XXIX corpo d’armata su Trento, sbarrando le vie della ritirata alle armate nemiche del Trentino, travolte ad occidente dalle truppe della vII armata e ad oriente da quelle della I, vI e Iv, ha determinato ieri lo sfacelo totale della fronte avversaria. Dal Brenta al Torre l’irresistibile slancio della XII, dell’vIII, della X armata e delle divisioni di cavalleria, ricaccia sempre più indietro il nemico fuggente. Nella pianura, S.A.R. il Duca d’Aosta avanza rapidamente alla testa della sua invitta III armata, anelante di ritornare 62 | In trincea per la pace vITTORIO vENETO sCRIssE IN PROPOsITO GIusEPPE PREZZOLINI è uNA RITIRATA ChE AbbIAmO DIsORDINATO E CONFusO; NON uNA bATTAGLIA ChE AbbIAmO vINTO. quEsTA è LA vERITà ChE sI DEvE DIRE AGLI ITALIANI; LA vERITà ChE GLI ITALIANI DEbbONO LAsCIARsI DIRE sulle posizioni da essa già vittoriosamente conquistate, che mai aveva perdute. L’Esercito Austro-Ungarico è annientato: esso ha subito perdite gravissime nell’accanita resistenza dei primi giorni e nell’inseguimento ha perdute quantità ingentissime di materiale di ogni sorta e pressoché per intero i suoi magazzini e i depositi. ha lasciato finora nelle nostre mani circa trecento mila prigionieri con interi stati maggiori e non meno di cinque mila cannoni. I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli, che avevano disceso con orgogliosa sicurezza. Armando Diaz”. Tra la fine di ottobre e il 12 novembre 1918 vennero proclamate l’indipendenza della Cecoslovacchia, della Jugoslavia, dei polacchi della Galizia e infine, dopo l’abdicazione di Carlo I, nacque la repubblica d’Austria. L’armistizio di villa Giusti, firmato dai comandi austriaci e da quelli italiani il 3 novembre del 1918 ed entrato in vigore il giorno seguente, segnò allo stesso tempo la sconfitta asburgica e la fine dell’Impero austro- ungarico. / 63 LE TRATTATIvE DI PACE La guerra che all’inizio in molti avevano ipotizzato di breve durata e di proporzioni limitate si era conclusa, dopo più di quattro anni, con un bagno di sangue e con oltre dieci milioni di morti. In quegli anni di guerra, eventi imprevedibili come la caduta dell’impero asburgico, la rivoluzione bolscevica, e più in generale il tracollo del sistema di potere che egemonizzava l’Europa, resero più difficile stabilire un durevole equilibrio. I Paesi vincitori nelle trattative di pace pretesero di imporre agli sconfitti una “resa senza condizioni”, accrescendo in tal modo il loro desiderio di rivalsa. Per stabilire un nuovo ordine internazionale i vincitori si richiamarono ai Quattordici punti del presidente americano Wilson, dando prioritaria importanza ai principi di nazionalità e autodeterminazione dei popoli. In questo senso la Prima guerra mondiale poteva essere effettivamente intesa come la conclusione dei molti “risorgimenti” che già nell’ Ottocento avevano infiammato il continente europeo. L’interpretazione dei principi di Wilson si scontrava però con la difficoltà di tracciare i nuovi confini europei raggruppando diversi gruppi etnici e linguistici. Alcuni dei Quattordici punti, come quelli sulla fine della diplomazia segreta e la riduzione di tutti gli armamenti al minimo indispensabile con la soppressione delle barriere doganali, difficilmente avrebbero potuto essere applicati in quel particolare momento storico. Il punto 5, riguardante le questioni coloniali, si prestava invece a molte contraddizioni poiché vi si affermava che gli interessi delle popolazioni dovevano avere uguale peso rispetto alle richieste dei governi. Altri princìpi erano molto difficili da applicare come quello di regolare i nuovi confini a vantaggio delle popolazioni interessate, ma tale vantaggio veniva inevitabilmente stabilito dalle potenze vincitrici. Nel gennaio del 1919 si riunì a Parigi la Conferenza di Pace. Ad essa non furono ammessi i rappresentanti dei paesi sconfitti, né quelli della Russia sovietica che venne isolata dagli alleati occidentali. Ciò è importante per comprendere l’instabilità del nuovo ordine europeo e il carattere impositivo delle regole di pace. Le potenze alleate affrontarono presto le questioni che creavano maggiori difficoltà e discordie tra le parti. vi furono contrasti tra la Francia e gli angloamericani sulle condizioni di pace per la Germania sconfitta e altri ne sorsero tra l’Italia e gli Stati Uniti per definire l’assetto della penisola balcanica. Si trattò in questo caso di un contrasto difficile da risolvere che causò il ritiro della delegazione italiana, capeggiata dal presidente Orlando, dal tavolo delle trattative. 64 | In trincea per la pace Ma le maggiori difficoltà si presentarono nelle trattative con la Germania che prevedevano il ritorno dell’Alsazia Lorena alla Francia e la cessione di territori tedeschi al Belgio e alla Danimarca. Sul fronte orientale venne costituita la Repubblica di Polonia, sottraendo territori alla Germania, alla Russia e all’Austria e al Paese venne dato uno sbocco sul Baltico, il cosiddetto “corridoio di Danzica”, che separava la Prussia dal resto dei territori tedeschi. La Germania subì anche la perdita di tutti i territori coloniali: le colonie africane passarono sotto il controllo di inglesi, francesi e belgi. L’Italia restò esclusa anche da questa spartizione a causa dei contrasti con gli alleati anche perché la delegazione italiana aveva abbandonato il tavolo delle trattative, come segno di protesta. Pesanti limitazioni vennero imposte al potere militare tedesco: per tutelare la Francia da futuri attacchi venne ridimensionato l’esercito e l’armamento tedesco e fu stabilita per quindici anni l’occupazione della riva sinistra del Reno. Alla Francia fu inoltre concesso lo sfruttamento, sempre per quindici anni, del bacino minerario della Saar, senza interpellare la popolazione della zona. I Paesi vincitori imposero alla Germania il pagamento, a titolo di riparazione, dell’esorbitante somma di 123 miliardi di marchi. Fu in particolare la questione delle riparazioni ad avvelenare il clima del dopoguerra. L’economista inglese John Maynard Keynes, fu presente alle riunioni parigine del Consiglio dei Quattro (Wilson, Clemenceau, Lloyd Gerorge e Orlando) in qualità di rappresentante del Tesoro britannico. In quelle circostanze egli criticò severamente l’esorbitanza delle somme richieste alla Germania, in una sorta di pace molto punitiva, e ritenne eccessivo il peso dato alle questioni dei confini. Per l’economista inglese le potenze vincitrici avrebbero ignorato le questioni connesse ad una rinascita economica dell’Europa: “È un fatto straordinario- scriveva- che il problema fondamentale di un’Europa affamata e disintegrata davanti ai loro stessi occhi, fu la sola questione alla quale non fu possibile interessare i Quattro”. Con i Trattati di Saint Germain, del settembre 1919, e del Trianon, del giugno 1920, vennero stabilite le condizioni di pace per l’Austria e l’Ungheria e si configurò un altro volto per l’Europa orientale suddivisa in nuovi stati: la Repubblica d’Austria, molto vicina alla Germania, la Repubblica della Cecoslovacchia, che pure includeva alcuni tedeschi, il Regno d’Ungheria, il Regno di Jugoslavia e la già ricordata Repubblica polacca, mentre sul mar Baltico divennero indipendenti i territori dell’ex impero russo della Lettonia, Lituania, Estonia e Finlandia. / 65 All’Italia furono concessi l’intero territorio del Trentino e dell’Alto Adige fino al Brennero, la venezia Giulia con Trieste e l’Istria, mentre il presidente americano Wilson si oppose all’attribuzione delle terre della Dalmazia, pattuite col Trattato di Londra, ormai superato dalla nascita del Regno di Jugoslavia. Tutto questo contribuì ad alimentare, nell’opinione pubblica italiana, il mito di una “vittoria mutilata” , che vedeva traditi gli accordi territoriali pattuiti dall’Italia. Col Trattato di Saint Germain quindi l’Italia definì i propri confini sul fronte del Brennero, mentre le potenze alleate lasciarono che il governo italiano precisasse successivamente in un accordo separato i confini sul fronte orientale col Regno degli slavi del Sud. La questione della Dalmazia e di Fiume rimase inizialmente irrisolta e ciò portò il vate Gabriele D’Annunzio, messosi alla guida di alcuni reparti dell’esercito, ad occupare per sedici mesi la città di Fiume e governarla con la Reggenza italiana del Carnaro. Con i trattati di Neuilly e di Sèvres venne infine firmata la pace con la Bulgaria e con la Turchia. La Bulgaria dovette cedere vasta parte dei suoi territori alla Grecia, alla Romania e alla Jugoslavia, mentre la Turchia ebbe smembrato il territorio dell’ex impero ottomano. Fu avviata allora la pratica dei “mandati” con i quali un territorio veniva affidato ad una grande potenza, che esercitava un potere quasi coloniale, in attesa che si realizzassero le condizioni migliori per l’indipendenza. In tal modo la Siria e il Libano vennero affidati alla Francia, mentre la Palestina, la Transgiordania e l’Iraq all’Inghilterra, e gli Stretti furono posti sotto controllo internazionale. Sulle macerie della guerra sorse il primo organismo internazionale, la Società delle Nazioni, creata nel 1919 a Ginevra ma già prefigurata da Wilson per regolare i rapporti tra gli Stati. L’istituzione deluse ben presto le attese dei fondatori. Il nuovo organismo non prevedeva al suo interno gli Stati più importanti: mancavano infatti la Russia comunista, la Germania sconfitta e fortemente penalizzata e anche gli Stati Uniti, dove il partito repubblicano, che aveva sconfitto Wilson, portò avanti una politica di isolazionismo nei confronti dell’Europa. Le diplomazie francese e inglese di trovarono così a gestire la Società delle Nazioni, seguendo le vecchie logiche di potenza, anche se l’unico effettivo potere che aveva l’organismo internazionale nei confronti degli stati indocili, consisteva esclusivamente nel comminare sanzioni di carattere economico, che però si riveleranno di scarsa efficacia. 66 | In trincea per la pace I RIFLEssI DELLA GuERRA NELLA sOCIETà ITALIANA Il ruolo delle donne. In Italia, i riflessi e le conseguenze della guerra, che era durata oltre le più pessimistiche previsioni, ebbero carattere di vera e propria trasformazione sociale. Nel 1914, quando scoppiò il conflitto, lo Stato italiano era ancora molto giovane, e aveva festeggiato, solo tre anni prima, il cinquantesimo anniversario dell’Unità. La guerra rappresentò una esperienza di libertà, responsabilità e autonomia senza precedenti anche per le donne. Il lavoro femminile venne valorizzato notevolmente e spesso per sostituire i mariti al fronte, al loro posto di lavoro vennero chiamate le mogli, per le quali si aprirono nuove opportunità professionali ed esse ebbero l’occasione di scoprire nuovi strumenti e nuove tecniche di lavoro. In Francia sin dall’inizio della guerra si contò un notevole incremento delle donne medico che erano quasi un centinaio, assieme a una decina di donne avvocato che ebbero la possibilità di patrocinare cause al Consiglio di Guerra. Anche le scuole di ingegneria e di commercio iniziarono ad ammettere donne ai loro corsi. La professione che maggiormente assunse carattere femminile fu quella dell’insegnante, che iniziò a godere di un migliore trattamento economico, acquisendo nuovo valore sociale. Le donne e le giovani dei ceti medio- alti, da sempre impegnate in opere caritative, a motivo della guerra intensificano il loro impegno superando in tal modo una rigida chiusura sociale, e modificando anche l’abbigliamento, che per questioni di comodità e praticità, diventò più corto e meno rigido, liberando il corpo e rendendo più liberi e sciolti i movimenti. Molte donne, di tutte le età, furono attivamente impegnate nelle attività della Croce Rossa o in altre organizzazioni di soccorso. I servizi della sanità militare accolsero in quegli anni decine di migliaia di volontarie, senza contare le salariate. In Gran Bretagna alle donne venne affidata anche la guida delle ambulanze o la direzione degli ospedali da campo. Le strutture dello Stato. Lo Stato italiano, alla fine della Guerra, aveva assunto un carattere più autoritario, con una prevalenza sistematica del potere esecutivo su quello legislativo. Il Parlamento continuò le adunanze, anche se queste divennero sempre più rare. Nel giugno del 1916 il governo di Antonio Salandra aveva dovuto lasciare il posto ad un governo di unità nazionale presieduto da Paolo Boselli che nell’ottobre del 1917, dopo Caporetto, fu sostituito da vittorio Emanuele Orlando. In questa situazione il Parlamento italiano lavorò poco e fu quasi privato / 67 di ogni potere di controllo. Nelle sue memorie, in proposito osservava Giolitti “i poteri governativi avevano di fatto soppressa l’azione del Parlamento italiano in un modo che non aveva riscontro negli altri stati alleati”. Per lo statista inoltre “ogni discussione di bilancio, ogni controllo sulle spese dello stato erano stati soppressi” e “il Parlamento era tenuto all’oscuro circa gli impegni finanziari”. Anche la stampa nazionale aveva perso libertà e spesso i giornali venivano pubblicati con intere colonne in bianco a causa della censura. Gli elementi giudicati sovversivi e disfattisti erano inviati al confino o costretti al domicilio coatto. Se pure lo stato italiano durante e dopo la guerra divenne sempre più autoritario, questo non contribuì a renderlo più forte, rigoroso ed efficiente e a rinsaldarne le istituzioni. La stessa struttura governativa, che prima degli eventi bellici era ridotta a pochi ministeri, aveva dovuto essere reimprontata. Furono così creati nuovi enti e commissariati e venne fondato anche un Comitato per la mobilitazione industriale, retto da un generale che aveva il compito di sovrintendere alla produzione di tutti gli stabilimenti impegnati nelle forniture militari. Pure il nuovo personale dirigente chiamato a controllare le nuove strutture era molto eterogeneo, composto in maggior parte da uomini della vecchia burocrazia ministeriale, da militari e capitani d’industria. Lo Stato nazionale stava quindi subendo una trasformazione in senso più autoritario ma, allo stesso tempo, diventava maggiormente esposto alle pressioni dei grandi gruppi privati. Si può anche sostenere che una vera e propria opinione pubblica nazionale si formò solo con la Prima guerra mondiale, e che questa guerra fu anche la prima grande esperienza collettiva del popolo italiano. Scriveva in proposito lo storico Procacci: “questa opinione pubblica nacque sotto il segno di una profonda lacerazione e esasperazione: d’ora in poi quando un contadino dovrà pensare alla «patria», il suo pensiero correrà spontaneamente alla sola che egli ha conosciuto, quella delle stellette e delle trincee, dei sacrifici e delle umiliazioni. Per contro, nella mente del piccolo borghese, dell’ufficiale da complemento, il concetto di Patria sarà pure con segno inverso associato con quello di guerra: l’Italia sarà per lui l’Italia di vittorio veneto, celebrata con tutti gli orpelli dalla retorica dannunziana”. La guerra aveva minato profondamente le strutture dello Stato liberale, corrodendone il prestigio, proprio mentre al fronte e nelle trincee la popolazione iniziava a sentirsi italiana. I ceti medi che avevano rappresentato l’ossatura dello Stato liberale subirono una decadenza. La guer- 68 | In trincea per la pace ra aveva infatti messo in moto nuove forze ideali e sociali. Anche il proletariato industriale aveva vissuto un processo di emancipazione dovuto alle conseguenze della rivoluzione industriale. Un ruolo importante nel dopoguerra ebbero i reduci ai quali i governi avevano fatto le maggiori promesse di compensi materiali. Dopo la retorica propagandistica del 1918 essi attendevano il sorgere di una nuova società. Alle elezioni politiche del 1919 fu presentata anche una lista di ex combattenti che però raccolsero in tutta Italia risultati molto scarsi con appena due- trecentomila voti. Tuttavia molti tra loro continuarono ad esprimere in maniera disorganizzata l’aspirazione ad un mutamento dell’ordine costituito. Essi, tra il 1921 e il 1922, furono la principale forza di sostegno al quale si appoggiò Benito Mussolini per diffondere i suoi Fasci di combattimento. Diversamente i socialisti, che sin dall’inizio avevano mantenuto posizioni neutraliste e contrarie alla guerra, non fecero alcun tentativo di recupero dei reduci e combattenti. La guerra accelerò i grandi mutamenti sociali in corso, favorendo il decollo economico dell’Italia ma, soprattutto dopo il triennio di guerra, si rese evidente ai gruppi dirigenti l’importanza del ruolo assunto dalle grandi masse popolari. Ciò mise il crisi il sistema liberale perché i vecchi governanti, abituati a rapportarsi ad un numero molto modesto di cittadini elettori, non avevano un tale legame con queste masse e non sembravano capaci di crearlo. Tra i grandi partiti di massa i socialisti non riuscirono a stringere alleanze con altre forze politiche per poter costituire una reale alternativa di potere alle forze liberali governative, mentre i cattolici, che nel 1919 si ritrovarono uniti nel Partito Popolare di don Luigi Sturzo, non avevano forza e autorità per imporsi sulla scena politica, e subivano gli effetti della non ancora risolta Questione romana. La conclusione vittoriosa della guerra non aveva dato soluzione agli annosi problemi che la società italiana si trascinava da anni, ma anzi li aveva aumentati. Anche nel più ampio contesto europeo la guerra aveva fatto trionfare in Europa le rivendicazioni di libertà degli stati nazionali, ma l’idea di nazione sfociò spesso nel nazionalismo: “C’è qualcosa di veramente duro a morire nell’Europa e nel mondo - scriveva Luigi Salvatorelli nel 1922 - ed è lo spirito del nazionalismo (…) che generò la guerra, avvelenò la pace e sta devastando il mondo del dopoguerra”. garico, tedesco e ottomano) rispose a queste dinamiche implosive. Non tutte le aspirazioni nazionali dei popoli furono soddisfatte dall’esito della guerra e dalle trattative di pace, ma il conflitto aveva inevitabilmente provocato il mutamento profondo di tutte le realtà politiche sociali economiche e culturali in maniera rapida e inattesa. Con la conclusione della guerra terminava anche la fine del primato dell’Europa centro-occidentale sul mondo e le nuove potenze che si affacciavano alla ribalta mondiale (Usa, Russia e Giappone) avrebbero esercitato la loro influenza e supremazia sulle vicende mondiali, mentre sul piano delle istituzioni politiche la guerra evidenziò la fragilità e la debolezza dei sistemi parlamentari di tipo liberale, favorendo l’organizzazione di nuove associazioni e partiti politici. Nei Paesi di solida tradizione democratica come in Inghilterra, Francia e nei Paesi scandinavi si ebbe la mutazione dei sistemi parlamentari; in altri casi come in Italia, Germania e Austria si ebbe il tracollo dei regimi politici. Il 4 novembre 1921 con la maestosa cerimonia che insediò la salma del Milita Ignoto nel complesso del vittoriano di Roma, l’Italia rese omaggio in maniera solenne alla popolazione di combattenti che sulle trincee, tra il 1915 e il 1918, era diventata veramente italiana. Una forte retorica patriottica e militarista ebbe da allora molta presa su ampi strati del popolo che considerava la guerra vittoriosa come la conclusione del processo di unificazione nazionale. “Il Carso era una prora, prora d’Italia volta all’avvenire”: con le strofe dell’Inno al Milite Ignoto, insegnate anche nelle scuole negli anni venti, gli italiani impararono ad onorare il Milite Ignoto, simbolo di tutti i caduti della Grande Guerra. Oggi le rocce del Carso, scavate e percorse dalle trincee dei soldati di allora, sono il cuore di una grande Euroregione, approvata dall’Unione Europea, nella quale cooperano i governi regionali di veneto, Friuli venezia Giulia, Carinzia e Slovenia in una stessa struttura transnazionale. Avvenimenti come questo rendono sempre più remoto il ricordo degli odi e delle battaglie che cento anni fa insanguinarono l’Europa e che ormai sembrano definitivamente consegnate ai libri di storia. La prima guerra mondiale aveva impresso un nuovo corso agli avvenimenti storici, completando quei processi sociali e culturali, iniziati circa un secolo prima e tesi ad affermare i principi di nazionalità: in questo senso anche il crollo dei quattro imperi plurinazionali (russo, austroun- 70 | In trincea per la pace / 71 FACCIO IN ARME DEI VERSI ANTOLOGIA POETICA ITALIANA DELLA GRANDE GuERRA 1915-1918 GIOvANNI bAssETTI Esperto di Storia della Letteratura Italiana beati quelli che diffondono la pace Dio li accoglie come suoi figli. (mt 5,9) INTRODuZIONE Se la Basilica di Santa Maria Maggiore in Roma non accogliesse, tra le sue inestimabili ricchezze spirituali e materiali, la statua della Madre di Dio, titolata Regina Pacis, qualcosa d’essenziale mancherebbe. voluta da Papa Benedetto Xv per scongiurare la Grande Guerra, l’inutile strage, di cui quest’anno ricorre il centenario, è un segno di speranza sempre acceso per gli uomini, che non riescono a riconoscersi e si vedono contrapposti e nemici. Si divide l‘umanità, per l’apparente (e falsa) diversità ontologica che si stabilisce esser tra i popoli, spesso velata da cause economiche, sociali, religiose, etc. L’automatizzazione tecnica del fattore umano nell’ambito delle conoscenze, operata attraverso lo sviluppo europeo della Rivoluzione industriale, ha reso questo fratricidio ancor più orribile e logicamente inspiegabile. La Prima Guerra Mondiale s’è configurata come l’evidenziazione tragica di questo processo secolare, ma non come il suo zenit, purtroppo. Altri orrori, altre carneficine hanno sconvolto il mondo, tuttora lo violentano. I mass media, figli dello stesso ideale divisivo, ci rendono familiare e seriale tutto questo. / 73 Della guerra restano i milioni di morti, le devastazioni, la distruzione ovunque. La morte diviene regina incontrastata. L’Italia entrava nel conflitto il 24 maggio 1915. Le strategie militari del passato cominciavano a rivelarsi sbagliate. I facili e rapidi successi in battaglia diventavano un’illusione. La trincea s’ergeva come funerea parola chiave; vane attese ad attendere la fine tra il fango e la neve, oppure assalti alla baionetta insensati, a rispettar un onore, spoglio ormai delle sue vestigia antiche, scheletro d’ipocrisia. Gorizia, l’Isonzo, il San Michele, il Sabotino, Caporetto, il Piave, vittorio veneto... Geografia lapidaria e nera come una scomposta tempesta, come l’imprevista grandinata che miete d’aridità e pianto contadino le perdute spighe, il disperso raccolto. vittorie e sconfitte si mescolavano in un inferno di corpi strappati al sole, al bel verde d’Italia, alle famiglie e ai cieli stellati. La maggior parte dei soldati italiani era composta da un popolo lontano dall’unità linguistica e quindi dalla stessa possibilità di corrispondere pienamente. Non si parlava, insomma, la lingua patria, l’italiano. L’atavico problema di non avere una lingua comunitaria, la differenziazione così marcata tra l’italiano scritto della bella poesia, della bella pagina, e quello orale, non esistente nel popolo, si rifletteva sui nostri poeti combattenti. Testimoni al fronte della solitudine di una lingua, quella italiana, nata per la bellezza, per la poesia, e costretta a confrontarsi con la sua antitesi più letale: la bruttezza della morte omicida. Paradossalmente, la vocazione creatrice e l’affermazione della vita, elementi costitutivi della poesia italiana, si elevavano dove sembravano bandiere definitivamente ammainate dall’orda nera dello sterminio dell’umano. Il muro alzato nei secoli tra letterati e popolo, vera matrice dei problemi italiani, si trasfigurava in un’aquila benigna e potente, che vola sola ma, con i suoi occhi che guardano lontano, indica la via del futuro a tutti. Non è vuota retorica proclamare che il cuore della pace, ovvero della vita, sia nel dettame poetico, nella bellezza palingenetica dei bei versi che restano immortali nel tempo che passa, nel loro esplicito o implicito anelare all’Assoluto, nella ricerca della realtà, nel respingere i demoni dell‘irrealtà che nella guerra paiono prevalere attraverso la cieca volontà del predominio dell’uomo sull’uomo. La presente antologia poetica è stata preparata esattamente con questo specifico obiettivo didattico-estetico. Sono stati scelti i poeti, i Felici Pochi di morantiana memoria, che hanno scelto la verità nell’inchiostro 74 | In trincea per la pace delle pagine; non le ridicole fanfare dei futuristi del furbo pifferaio Marinetti o le assurdità paraspirituali e opportunistiche di D’Annunzio, pur grande e significativo poeta italiano. Piccoli cammei identificativi e illustrativi, dell’autore e dell’opera, che non appesantiscano la lettura dei testi, ma la meglio definiscano, sono stati posti all’inizio di ogni selezione antologica. Le note biobibliografiche suggeriscono, a chi lo desidera, indicazioni e la possibilità d’ulteriori approfondimenti sui poeti che hanno lasciato maggior curiosità nell’animo. La riflessione s’è concentrata sui silenzi, sulle parole spezzate, del verso che si spezza insieme al corpo del fratello soldato che muore ammazzato “Si sta come/d‘autunno/sugli alberi/le foglie“, affresco umbratile di nuvole nere, magistralmente descritti da Ungaretti, sforate da raggi di luce solare, d’universale voglia di vivere, che rompe il cerchio dell’ottusa morte, come suggerisce Umberto Saba: Faccio in arme dei versi, / per me li ho fatti, per una gentile / donna che aspetta: guarda il mio fucile, / non ha sparato ancora sui tedeschi. Giovanni Bassetti, dottore in Lettere, con Franca Angelini, presso l’Università La Sapienza di Roma, si occupa prevalentemente di questioni inerenti i rapporti tra la Poesia Italiana e il Cattolicesimo. Per questo ha fondato, in qualità di ricercatore, nel gennaio 2005, l’Istituto di Poesia Italiana & Escatologia Mariana “Associazione Poetica Albaprotosimbolica”. Nel 2011, con la quarta di copertina firmata da Giulio Ferroni, è uscito il suo libro di Poesia Metaferroviarie. Nel 2013 ha visto la luce il suo saggio su Elsa Morante Verso Colono. Elsa Morante e il teatro (prefazione di Giovanni Dotoli). / 75 PARTE PRImA: mAssImA LuCE L’ATAvICO PRObLEmA DI NON AvERE uNA LINGuA COmuNITARIA, LA DIFFERENZIAZIONE COsì mARCATA TRA L’ITALIANO sCRITTO DELLA bELLA POEsIA, DELLA bELLA PAGINA, E quELLO ORALE, NON EsIsTENTE NEL POPOLO, sI RIFLETTEvA suI NOsTRI POETI COmbATTENTI. TEsTImONI AL FRONTE DELLA sOLITuDINE DI uNA LINGuA, quELLA ITALIANA, NATA PER LA bELLEZZA, PER LA POEsIA, E COsTRETTA A CONFRONTARsI CON LA suA ANTITEsI PIù LETALE: LA bRuTTEZZA DELLA mORTE OmICIDA 76 | In trincea per la pace GIusEPPE uNGARETTI IL SILENZIO DEL CIELO Più d’ogni altro, Ungaretti è l’immagine e il simbolo del poeta soldato italiano della Grande Guerra. I motivi dominanti su cui s’innalza la sua ricerca poetica, e l’altezza eccezionale dei suoi versi, anche quando essi sono solo trafitture del silenzio, come nei meditati spazi bianchi tra un verso e l’altro, sono la solitudine dell’individuo, la riscoperta dell’umana fraternità, l’angoscia della morte e la risposta forte di vita che a ciò fa da contraltare. La partecipazione da soldato semplice, con tutte le angustie e le difficoltà correlate a tale condizione, permette al Nostro di centrarsi immediatamente con gli aspetti fondamentali della condizione umana. Nelle ore drammatiche del combattimento e del sangue, la sincerità diventa l’unica strada percorribile. Ungaretti stesso, in un’intervista, racconta questo, offrendo indicazioni illuminanti, anche per un discorso generale e allargante sulla poesia e sulla critica: “Per essere preciso sulla mia vocazione alla poesia, è necessario che ricordi anche / 77 questo: che essa mi apparve nettamente durante l’altra guerra. Ero un soldato fra i soldati, vivevo di fronte alla morte, tutte le incrostazioni convenzionali della civiltà mi erano bruscamente sparite di dosso, ero rimasto un povero semplice uomo civile a contatto con la natura che palesava con cruda brutalità il suo prevalere. Da questo attrito è nata la mia poesia. La guerra mi fece capire inoltre che gli uomini, anche i più insigni, anche i più potenti, non erano nulla, ch’essi erano in balìa di una sorte che non dipendeva da loro, e che dovevo quindi sentire per essi una solidarietà di fratello. La guerra mi ha insegnato un’altra cosa, a non sprecare le parole. Come non essere laconici con la minaccia di morte sospesa visibilmente sul vostro capo ad ogni attimo che passa, con il timore di non arrivare a dire ciò che urgeva dire?”1. I FIUMI Cotici il 16 agosto 1916 Mi tengo abbandonato a quest’albero mutilato abbandonato in questa dolina che ha il languore di un circo prima o dopo lo spettacolo e guardo il passaggio quieto delle nuvole sulla luna Stamani mi sono disteso in un’urna d’acqua e come una reliquia ho riposato Le poesie qui proposte fanno parte delle sue opere da lui stesso raccolte sotto il titolo Vita di un uomo: L’Allegria (1931), che riunisce le due precedenti Il porto sepolto (1916) e Allegria di naufragi (1919). 1 Da E.F. Accrocca, Ritratti su misura, Sodalizio del libro, venezia 1960. 78 | In trincea per la pace non mi credo in armonia Ma quelle occulte mani che m’intridono mi regalano la rara felicità ho ripassato le epoche della mia vita Questi sono i miei fiumi L’Isonzo scorrendo mi levigava come un suo sasso Questo è il Serchio al quale hanno attinto duemil’anni forse di gente mia campagnola e mio padre e mia madre ho tirato su le mie quattr’ossa e me ne sono andato come un’acrobata sull’acqua Questo è il Nilo che mi ha visto nascere e crescere e ardere d’inconsapevolezza nelle estese pianure Mi sono accoccolato vicino ai miei panni sudici di guerra e come un beduino mi sono chinato a ricevere il sole Questa è la Senna e in quel suo torbido mi sono rimescolato e mi sono conosciuto Questo è l’Isonzo e qui meglio mi sono riconosciuto una docile fibra dell’universo Il mio supplizio è quando Questi sono i miei fiumi contati nell’Isonzo Questa è la mia nostalgia che in ognuno mi traspare ora ch’è notte che la mia vita mi pare una corolla di tenebre / 79 FRATELLI SONO UNA CREATURA vANITà vallone il 19 agosto 1917 Di che reggimento siete fratelli? mi riposo come fosse la culla di mio padre Come questa pietra del S.Michele così fredda così dura così prosciugata così refrattaria così totalmente disanimata come questa pietra è il mio pianto che non si vede D’improvviso è alto sulle macerie il limpido stupore dell’immensità PELLEGRINAGGIO Mariano il 15 luglio 1916 Parola tremante nella notte Foglia appena nata Nell’aria spasimante involontaria rivolta dell’uomo presente alla sua fragilità Fratelli2 vEGLIA valloncello di Cima il 5 Agosto 1916 La morte si sconta vivendo E l’uomo curvato sull’acqua sorpresa dal sole si rinviene un’ombra S. MARTINO DEL CARSO Cullata e piano franta Cima Quattro il 23 dicembre 1915 Un’intera nottata buttato vicino a un compagno massacrato con la sua bocca digrignata volta al plenilunio con la congestione delle sue mani penetrata nel mio silenzio ho scritto lettere piene d’amore Non sono mai stato tanto attaccato alla vita valloncello dell’Albero Isolato il 27 agosto 1916 Di queste case non è rimasto che qualche brandello di muro Di tanti che mi corrispondevano non è rimasto neppure tanto Ma nel cuore nessuna croce manca È il mio cuore il paese più straziato Questa lirica ha avuto una elaborazione complessa. La seguente è la stesura originaria: Di che reggimento siete/fratelli? /Fratello/tremante parola/nella notte/come una fogliolina/appena nata/ /Fratelli/saluto/accorato/nell’aria spasimante/implorazione sussurrata/di soccorso/all’uomo presente alla sua fragilità. 2 80 | In trincea per la pace ITALIA Locvizza il 1° Ottobre 1916 Sono un poeta un grido unanime sono un grumo di sogni Sono un frutto d’innumerevoli contrasti d’innesti maturato in una serra Ma il tuo popolo è portato dalla stessa terra che mi porta Italia E in questa uniforme di tuo soldato valloncello dell’Albero Isolato il 16 agosto 1916 In agguato in questi budelli di macerie ore e ore ho strascicato la mia carcassa usata dal fango come una suola o come un seme di spinalba Ungaretti uomo di pena ti basta un’illusione per farti coraggio Un riflettore di là mette un mare nella nebbia IMMAGINI DI GUERRA valloncello di Cima il 6 agosto 1916 Assisto la notte violentata L’aria è crivellata come una trina dalle schioppettate degli uomini / 81 ritratti nelle trincee come le lumache nel loro guscio Godere un solo minuto di vita iniziale Mi pare che un affannato nugolo di scalpellini batta il lastricato di pietra di lava delle mie strade e io l’ascolti non vedendo in dormiveglia Cerco un paese Innocente SOLDATI Bosco di Courton, luglio 1918 Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie GIROvAGO Campo di Mailly, maggio 1918 In nessuna parte di terra mi posso accasare A ogni nuovo clima che incontro mi trovo languente che una volta già gli ero stato assuefatto E me ne stacco sempre straniero Nascendo tornando da epoche troppo vissute 82 | In trincea per la pace umbERTO sAbA IL SOLDATO INNOCENTE Indipendente e estraneo alle maggiori correnti in cui venivano costituendosi nel corso del Novecento la cultura e la letteratura italiana, ma non alle problematiche reali insite in esse, Umberto Saba visse in autentica totalità la sua vocazione poetica. Il suo isolamento gli permise di comprendere con più profondità le origini e le ragioni delle sofferenze dell’uomo. La Prima Guerra Mondiale rappresenta un momento decisivo della sua avventura esistenziale. Tracce luminose, di un’inimitabile lucentezza, verde prato marino, le liriche inserite in quest’Antologia creano il paradossale effetto dell’umanità di un sorriso e della leggerezza speranzosa del bene, pur nel plumbeo orizzonte della guerra, dal Poeta risolutamente condannata. Tutte le sue poesie sono raccolte nel Canzoniere, che ha avuto nel 1961 l’edizione più completa. / 83 AUTOBIOGRAFIA: 14 SOGNAvO, AL SUOL PROSTRATO… Ritornai con la guerra fantaccino. Fui cattivo poeta e buon soldato: vorrei ben dirlo! Ma non pur bambino amavo contro il vero esser lodato. Sognavo, al suol prostrato, un bene antico. Ero a Trieste, nella mia stanzetta. Guardavo in alto rosea nuvoletta veleggiar, scolorando, il ciel turchino. Cantai di zaccaria, cantai di Nino, e d’altri figli del popolo amato. Ma non più dei miei giorni in sul mattino troppo sotto alle cose son restato. Ella in aere sfacevasi; al destino suo m’ammonivo in una poesietta. Quindi «Mamma - dicevo - io esco»; e in fretta a leggerla volavo al caro amico. A Giorgio Fano, al buon Guido voghera, ai dolci amici di Trieste andava l’anima da caserme e accampamenti. «Che fai, carogna?» E mi destò una mano: e vidi, come al cielo gli occhi apersi, tra fumo e scoppi su noi l’aeroplano. Dell’Europa - pensavo - ecco, è la sera; quella che a noi fanciulli s’annunciava per gli estremi bagliori in lei fulgenti. vidi macerie di case in rovina, correr soldati come in fuga spersi, e lontano lontano la marina. BERSAGLIO DE PROFUNDIS Del mare sulle iridescenti arene, dove in trincee si ammucchiano, mi getto; e con una repressa ansia il grilletto premo. va la terribile frustata Della tomba nell’ultimo refugio talor mi penso, alla mia terra in seno. E vedo (per non so quale pertugio) più verde il prato, il cielo più sereno, tutto della mia pace il giorno pieno e una sagoma cade. Immaginata non ho in essa una più bella che buona, non una testa che porti corona, non il nemico che più mai non viene. NINO Se qui l’occhio non falla e il colpo è certo, egli è che nel bersaglio ognor figuro l’orrore che i miei occhi hanno sofferto. Tutto che di deforme hanno veduto, di troppo ebraico, di troppo panciuto, di troppo lamentosamente impuro. 84 | In trincea per la pace Quando vedo un soldato, una garretta, un giovane soldato che con gli occhi mi segue, e splende al sol la baionetta vicina al volto della sentinella; e «coscritto» gli dicono «cappella» i compagni che fuori escono a crocchi, a bere, a passeggiare, a fare l’amore; stringe un’angoscia, un rimorso il mio cuore; penso ad un altro coscritto, a te Nino / 85 Tibaldi, che non torni a chi t’aspetta, che non torni da Monte Sabotino. Ti vidi quando già verso i confini partivano la notte i reggimenti. Non volevi la guerra; ai tuoi vicini di branda eri di risa e frizzi oggetto; qua e là balzavi, facevi il capretto, e il tuo plotone era già sull’attenti. «Tibaldi al posto, non fare il buffone - altri disse - o ti metto alla prigione». Sorrise poi, ti ammonì con amore; e sul volto ti vide ai nuovi accenti correre quasi un virgineo rossore. Non volevi la guerra; e, sì, l’hai fatta. Eri un bravo, e scrivevi: «Mamma, quando finirà questa vita disperatta?» E scrivevi ai fratelli come a figli, aspri rimbrotti, amorosi consigli. «Posso non ritornare, il babbo è un santo Per noi; vi ho dato solo che dolori; perdonatemi, cari genitori». E smaniavi, avevi in te un affanno: Pensavi a quelli che han gridato tanto «viva la guerra», e alla guerra non vanno. «Figlio - ti dice ora tua madre in sogno, che ad un bacio per via t’offre la buona guancia, la vizza guancia di cotogno io t’aspetto, e tu giri per Milano»; e nell’angoscia di quel bacio vano sembra che per picchiarti a sé ti stringa. Tu la guardi, e rispondi: «Podi minga. vengo il giorno a Milano; a notte in zona di guerra, giù in trincea devo tornare. Per me ho finito; adesso hai tu bisogno di pace, resti tu, mamma, a penare». Dice il babbo, e una lacrima ha versato, Una sola per te ch’eri il suo primo: «È morto bene, è morto da soldato». E Baldino, quel prode fanciullesco, 86 | In trincea per la pace Ch’è sempre in alto come l’uccelletto, il tuo più caro fratello Baldino, che un tempo, a chi di te lo richiedeva: «È sempre in Austria, in trincea» rispondeva; già la vita, l’oblio di te l’afferra; dimentico di chi su tutti ha amato, gioca alla guerra coi morti per terra. Ecco, nell’aria è ancora primavera, ferve nei cuori una rossa ebrietà. volevo dirti, Nino, che una sera, venuto a casa di laggiù in licenza, pian piano feci, mamma tua non senta, non senta la pedana d’un soldà; che Picco è a Col di Lana, e per te manda a Monte Sabotino una ghirlanda. Addio piccolo, ai rischi eletto e al lancio delle bombe, onde hai fatto aspra querela: «Mamma, la base principale è il rancio». MILANO 1917 Per ogni via un soldato - un fante - zoppo va poggiato pian piano al suo bastone, che nella mano libera ha un fagotto. vITA DI GUARNIGIONE Picco scrive del fronte: «Molto freddo, molti soldati, Molto rumore di cannonate». ed io son qui, sono a Casalmaggiore, e ci devo restare; devo ancora pensare alla guerra: ci penso a lungo, e dico: Aver forse paura e non fuggire, saper uccidere, saper morire, / 87 Dio sa quest’arte s’io l’apprenderò? vigilare ora devo sul nemico che ad Ala, a Redipuglia, a Doberdò i miei bravi compagni han disarmato; ne intendo i lagni, ne placo le beghe. «Wie geth’s Ihnen, Colleghe?» la parola così mi fu rivolta (un poco io ne sorrisi) da una faccia che sorrideva entro la barba folta. No, non sono pago; no, una prova manca alla mia vita, che non chiedon gli altri. «Meglio che al fronte», ed ammiccano scaltri; vita di guarnigione non li stanca, di poco onore, di nessuna pace. vino buono e a buon prezzo (a me dispiace), belle ragazze, schive coi borghesi, ma per noi militari, lungo il fiume, o in qualunque osteria, molto cortesi; molto invero disposte a far piacere a Sancio Panza, che ha messo le piume di bersagliere. Le mie mani non sono ancora rosse di sangue…son d’inchiostro ancora nere, la baionetta è nel fodero ancora. In Piazza d’Armi mi vede l’aurora, passo al Corpo di Guardia le mie sere. Ed altro mai. Perché mai altro fosse, perché ucciso dal tedio io le sia reso, dove c’è un altarino, un lume è acceso, un’immagine c’è della Madonna, prega per me una donna. Quasi ogni armato ha una donna che prega; e l’Iddio degli eserciti, il Signore, per ogni dieci in cui l’istessa brama discopre, e l’ansia onde soffri, nel cuore, una ne sceglie, a lei grazia nega. Parte allora un soldato per il fronte; le scrive: «T’amo. Siamo già sul monte… Abbi cura di te, non darti pena, fa un poco come noi, pensaci appena». 88 | In trincea per la pace Altro un giorno le scrive, un po’ più in fretta: «Sei troppo buona…se per caso…ascolta: occhio ai figli; per essi hai da campare». E «Gli austriaci perderanno le gare». Non scrive: Desto per l’ultima volta (stavo nella trincea ghiacciata e stretta come tomba, sognavo la famiglia), vidi presso la vampa alle mie ciglia, corsi al fucile…ora, chi giace giace chi vive si dia pace. Faccio in arme dei versi, per me li ho fatti, per una gentile donna che aspetta: guarda il mio fucile, non ha sparato ancora sui tedeschi; ma il soldato va dove altri lo manda, e deve il suo saluto a che comanda. Non può dire un soldato: «Mi fa freddo sui monti; anche il nemico è un valoroso, (non quanto noi); ma di più su non visto fulmina, ed io non voglio morir qui». E nemmeno può dire: «Meglio il freddo d’alta montagna, anche un pensiero sì, anche un pensiero di morte, che l’ore - lunghe a Casalmaggiore con un nemico accanto a te senz’armi, un che t’odia, e per farsi perdonare ti fa il saluto al modo dei nostri. Meglio che l’aspetto tristo di Sancio Panza; e poi con lui di guardia montar la sera, e portar zaino il giorno, meglio prender con voi senza ritorno la via di Trento; oh tu che là ti struggi d’essere a casa, e non sei meno un prode se tanto ti lamenti, e mai non fuggi!» Tante cose non può dirle un soldato; le pensa, e dura al posto che gli è dato. Ma tu, che di volermi bene dici, se del vero mio bene il tuo cuor gode; non ch’io viva o ch’io muoia; altro, o mia Lina, altro chiedi per me alla Madonnina. / 89 vOCE DI vEDETTA MORTA C’è un corpo in poltiglia Con crespe di faccia, affiorante Sul lezzo dell’aria sbranata. Frode la terra. Forsennato non piango: Affar di chi può, e del fango. Però se ritorni Tu uomo, di guerra A chi ignora non dire; Non dire la cosa, ove l’uomo E la vita s’intendono ancora. Ma afferra la donna Una notte, dopo un gorgo di baci, Se tornare potrai; Soffiale che nulla del mondo Redimerà ciò che s’è perso Di noi, i putrefatti di qui; Stringile il cuore a strozzarla: E se t’ama, lo capirai nella vita Più tardi, o giammai. CLEmENTE RèbORA LE vETRATE D’ORO Sottotenente di fanteria, nel dicembre 1915 l’esplosione ravvicinata di un pezzo d’artiglieria gli provoca un trauma cranico e uno choc prolungato; dopo una lunga degenza viene congedato. Tale è il prezzo che quest’anima nobile ha pagato al fronte. Questa esperienza accelererà il viaggio mistico, vera e propria e nostalgia spirituale, che il poeta ha sempre avuto nelle sue corde versificatrici, cosmiche liturgie, ipnotiche cadenze, quasi a segnar i passi, per nulla disperdere degli accadimenti. Cicatrici di rara intensità, come le prose liriche, che tessono il dolore delle battaglie con il Dio cercato, e che porteranno Rèbora a maturare la conversione al cattolicesimo, di cui diverrà sacerdote rosminiano. Le poesie, a cura di Gianni Mussini e vanni Scheiwiller, Garzanti, 1988, è il testo usato come riferimento bibliografico in questa Antologia. 90 | In trincea per la pace CAMMINAMENTI Piccone sordo Morder gravame, Fin che la notte resista: Galeotta pista Maciullar pietrame, Fin che nel mondo s’insista: Incomber teso Che nessuno torni Di chi fu preso, Frana di morti Su noi vivi ancora Insostituibilmente nativi. Lasciateci andare Che il pretesto irretito / 91 D’orrore è finito, Lasciateci andare Che raso d’agonia Non c’è più tempo, O morderemo Maciullerem come sia Chiunque in agio sua persona acquista, E ci tien sofferenza capace, Anonima svista. Ma questo andar non torna: Sfasciando al cuore Ch’era per dimore Tornano colpi mordenti, E in galeotta pista A morte van camminamenti. SENzA FANFARA Si va per la strada profonda spastata, ingoiata. Confusion d’ordine; file perdute: barcollii di volumi spossati ricurvi, spossati e cacciati nel buio dal flutto dei morti che non è libero ancora, che non sarà libero mai, ma non sa, non sapeva, e marcia e si posa e s’apposta, perché così vuole qualcuno o qualcosa, perché si deve, si fa, non si sa - per contro un nemico, il nemico ch’è fuori, il nemico che è noi. Si va per la strada profonda. Come grassa terra bagnata si leva ferita e si volge rovescia, perché c’è un aràtro che vuole, perché c’è qualcun che lo guida e i bovi li assilla: perché c’è infin dietro qualcosa che spinge chi spinge, i bovi, l’aràtro - qualcosa che insiem si ritrova non essere altro che i bovi e chi guida l’aràtro. Si va per la strada profonda. Brontola brontola, ma pazienza, cannone: il rancio per noi, noialtri per te. Tu bracca, veniamo: non si brontola più. Noialtri veniamo. zòccola, springa, ristride una sopravveniente ferraglia. Fatti in là, Fanteria - passa l’artiglieria! Passa, e schizza introna spurga su te. E si ride dall’alto. Non brontola ancor come quella, ma già in qualcosa ti allena. Fanteria smarrita, smagrita: ricopri la strada; è passata. Ancor si ragiona nel mondo che vive? Noialtri si va. 92 | In trincea per la pace vIATICO O ferito laggiù nel valloncello, Tanto invocasti Se tre compagni interi Cadder per te che quasi più non eri, Tra melma e sangue Tronco senza gambe E il tuo lamento ancora, Pietà di noi rimasti A rantolarci e non ha fine l’ora, Affretta l’agonia, Tu puoi finire, E conforto ti sia Nella demenza che non sa impazzire, Mentre sosta il momento, Il sonno sul cervello, Làsciaci in silenzio Grazie, fratello. STRALCIO Semicalmo imbrunire - caligine opalina in faville d’azzurro, sgocciata da un cielo a colpi di spillo: pioggerellina. Sulla terra è già mota, e si spettra. Frigge in sordina l’enorme fatica che lavora la rovina. Attender l’attesa. Le batterie sono a desinare: qualche strillo per cambiare i piatti. Azienda avviata, la guerra scientifica, coi suoi orari beneducati. Salvo nelle grandi occasioni: allora si fa un po’ i mattacchioni. Ragionato, bollato, controfirmato, tutto per il meglio, vicino e lontano procede, per il noto proverbio. Né i morti hanno urgenza, né i semivivi han guadagnato ad affrettare la morte - e perfino la gente, se digerisce, distratta ha pazienza. Così, sui giornali, c’è molta forza d’animo e calma virile. * Così, verso l’avvento. E salvo le isteriche voglie, e gli aborti, la gravidanza del tempo è garantita civile. Una nascita, dopo tanto morire, gloriosa - un feto di pace da tanto amplesso uscirà. Poi se colpa è di uno e senza colpa nessuno, maschio e / 93 femmina, gli avversari, non saran sempre sterili; la neonata verrà. Per questo, chi scrive e chi sa, s’ingegna al nome e al corredo secondo il credo e l’umore, verso il rischio del parto. Ma bombe e granate, son tutte a scavare la culla, se venga mai un bel maschiotto invece, capace alla razza; scavare, non tralasciare, fin che nasca l’aurea età dell’oro che s’è tanto perduto. La culla - e dal nostro lamento riceve il vagito e già l’ossatura dai morti. vuol dire che poi si farà sgombro e pulito. E chi vivendo n’avrà più sentore? * A ridosso, in nicchie di fango, nei rovesci e più fondo, sotto rughe merdose, noi altri stiamo alla lenza del caldo che non abbocca - ma le cimici nostre, sotto la colla dei cenci sono all’esca del corpo, che ne sente la bocca. Balbettìi tremitìi; a un guardar di spurgo è la voce, e la pasta dei morti vicina abitua un giacere. Se anche non si spera, la cosa tuttavia si avvera; non ci si può lagnare; se anche ci affonda, procede. Non manca nulla, non manca. La fronte è una gronda per l’acqua, e il copricapo n’è il tetto: c’è casa. Soltanto la vita ci manca - ma l’amarezza supina, l’ebetudine persa; la morte ci manca - ma l’agonia che nell’assurdo mistero cinico ci avviluppa e costringe e restringe; e se speranza ci manca, fame consola, e un orror bruto, che disarmato tante armi ha in consegna, non per noi, non per chi c’impegna; e se la coscienza è tranquilla in chi ci fa morire, possiamo cader per procura, in onore di ciò ch’è nessuno di noi. Eppure, ve’. Pensando alla gente, là dove ancora si gira, come vuole ciscuno, magari slanciato sul busto, se vuole - adesso che vengono le feste, una strana visione a qualcosa di terso lucente infiorato c’incuora. Chi sa mai se in ricordo dei buoi, che sparati al natale preparan tra fiori e tersezza di sfolgoranti locali: la gente a vederli si esalta. Similmente ci esalta, e guarda questa gran festa di guerra - forse un Natale che spacca la Madre per nascere, sì grande tremendo supremo è il suo fine pei secoli. TEMPO Apro finestre e porte Ma nulla non esce, Non entra nessuno: Inerte dentro, 94 | In trincea per la pace Fuori l’aria è la pioggia. Gocciole da un filo teso Cadono tutte, a una scossa. Apro l’anima e gli occhi Ma sguardo non esce, Non entra pensiero: Inerte dentro, Fuori la vita è la morte. Lacrime da un nervo teso Cadono tutte, a una scossa. Quello che fu non è più, Ciò che verrà se n’andrà, Ma non esce non entra Sempre teso il presente Gocciole lacrime a una scossa del tempo. vANNO Cade il tempo d’ogni stagione, E autunno è un nome. Salma di pioggia, Terra, e una gora In cateratta al fosso Il cielo addosso. Sotto torbido pelo La gora impigra Dove non trascina: Tra vermi e pesci Alghe patetiche, Sputi di rane Per sinuose tane, Tenaci ristagni E a ritroso sgomitanti ragni Simulano la corrente, Ma non si danno. / 95 INTERmEZZO: L’ORA DEL GENIO Minuzie le foglie Alla rovina intanto Perché non vuole in sé ciascuna vanno: Movendosi ancora Non sembran perdute; Riviere e piante Non sanno fermare; Salma di un nome, Stagioni cadute, E l’ora di tutte, son tante a passare; Crollo del tempo, Tracollo di spoglie Ingiallisce la piena, Anonimo gorgo Sull’orlo, così, rigirare Inabissano al fosso. FONTE NELLA MACERIE Gluglù, c’era una volta, e sempre c’è, l’acqua a sgorgare - e la fontana più. Dicitura dell’àmen sul paese che fu. Finestre e soglie, al fossile ritrovo delle strade - ma insegne a dettar legge son rimaste; e a dritta, a mancina, scritte di di botteghe spacciano la rovina. Al cielo spalancata ora la chiesa - breve inferno di santi; giù dalla croce, crocefisso Gesù. Obelisco del caos, il campanile muto: rincorse il suo clangor nell’aria la campana, e l’ha perduto. Risorto il cimitero - incombe - in libertà di scheletri le tombe. Gluglù, c’era una volta, e sempre c’è, nel forato silenzio l’acqua che va giù: cammino ancora a chi non sa il destino - dal curvo spillo, spruzzi dan spruzzi, cerchietti ricciuti, gocciole in gingillo, sorsate d’eco, perché? e viene e va - perché? - e sì e no - per dove è spreco non s’attinge più. 96 | In trincea per la pace RENATO sERRA Pur disappartenente al canone della poesia propriamente detto, l’Esame di coscienza di un letterato di Renato Serra si staglia come uno dei documenti più straordinari e poetici che siano mai stati composti nelle lettere italiane. Diede un contributo decisivo e drammatico alla riflessione degli intellettuali italiani circa il dibattito irrisolto tra vita e letteratura. Il Cesenate pensò di risolverlo nella trincea, fondendosi con la vita dei suoi commilitoni, cercando la morte per scrutare la vita, guardandola negli occhi, come gli accadde sul Monte Podgora (Gorizia) nel 1915, appena trentenne. Al di fuori di ogni dimensione accademica, in queste pagine si respira vivida tutta la vitalità di un giovane letterato, che usa la letteratura per riunire cielo e terra, per riscoprire la radice reale dell’essere, per attingere alla bellezza nella visione dell’istante, poiché per Serra essa era concettualmente invivibile e inaccessibile. L’immediatezza del suo com- prendere e “profetizzare” ancor oggi sorprende. Un “profetizzare” che mette in gioco innanzitutto se stesso, in quanto intellettuale occidentale educato a razionalizzare, a conquistare con l’intelletto ogni cosa, senza posa, sovvertendo alfine l’aspirazione vera della ragione, che è quella d’esser pronta ad esser sorpresa dall’esterna visione. Le orme dei movimenti e dei passaggi si sono logorate nel confuso calpestìo delle strade; e intorno, nei campi, nei solchi, fra i sassi, la vita ha continuato uguale; è pullulata dalle semenze nascoste, con la stessa forma, con lo stesso suono di linguaggi e con gli stessi oscuri vincoli, che fanno di tanti piccoli esseri divisi, dentro un cerchio indefinibile e preciso, una cosa sola; [...] Ora è certo che non può esser permesso a nessuno di prender congedo dal suo proprio angolo nel mondo di tutti i giorni; deporre sull’orlo della strada il suo bagaglio, lavoro e abitudini, sogni e amori e vizi, via tutt’insieme, come una cosa improvvisamente vuotata di sostanza e vincoli; scrollarci sopra la polvere del passaggio [...] [...] È vero che questa volta un’ondata profonda pare che abbia sollevato irresistibilmente gli strati più antichi della umanità che s’accampa nelle regioni d’Europa: non è un’avventura o un turbamento locale, ma un movimento di popoli interi strappati dalle loro radici [...] l’Europa non aveva più veduto questo da quasi duemila anni: erano i barbari d’allora, le masse della gente nuova, che tornavano a muoversi dai luoghi in cui s’eran trovate ferme alla fine, quando la marea si ritirò; e in tutto l’intervallo movimenti e sconvolgimenti parziali non le avevano più spostate in modo durevole. [...] Che cosa è che cambierà su questa terra stanca, dopo che avrà bevuto il sangue di tanta strage: quando i morti e i feriti, i torturati e gli abbandonati dormiranno insieme sotto le zolle, e l’erba sopra sarà tenera lucida nuova, piena di silenzio e di lusso al sole della primavera che è sempre la stessa? Io non faccio il profeta. Guardo le cose come sono. Guardo questa terra che porta il colore disseccato dell’inverno. Il silenzio fuma in un vapore violetto dagli avanzi del mondo dimenticato al freddo degli spazi. Le nuvole dormono senza moto sopra le creste dei monti accavallati e ristretti; e sotto il cielo vuoto si sente solo la stanchezza delle vecchie strade bianche e consumate giacere in mezzo alla pianura fosca. Non vedo le traccie degli uomini. Le case sono piccole e disperse come macerie; un verde opaco e muto ha uguagliato i solchi e i sentieri nella monotonia del campo: e non c’è né voce né suono se non di caligine che cresce e di cielo che s’abbassa; le lente onde di bruma sono spente in cenere fredda. E la vita continua, attaccata a queste macerie, incisa in questi solchi, appiattata fra queste rughe, indistruttibile. Non si vedono gli uomini e non si sente il loro formicolare: sono piccoli perduti nello squallore della terra: è tanto tempo che ci sono, che oramai sono tutt’una cosa con la terra. I secoli si sono succeduti ai secoli; e sempre questi branche di uomini sono rimasti nelle stesse valli, fra gli stessi monti: ognuno al suo posto, con una agitazione e un rimescolio interminabile che si è fermato sempre agli stessi confini. Popoli razze nazioni da quasi duemila anni sono accampate fra le pieghe di questa corsa indurita: flussi e riflussi, sovrapposizioni e allagamenti improvvisi hanno volta sommerso i limiti, spazzate le plaghe, sconvolto, distrutto, cambiato. Ma così poco, così brevemente. 98 | In trincea per la pace E alla fine tutto tornerà press’a poco al suo posto. La guerra avrà liquidato una situazione che già esisteva, non ne avrà creata una nuova. Ci saranno dei cambiamenti di tendenze politiche e di indirizzo morale; delle rettifiche e delle definizioni, così di confini geografici come di valori civili, che diminuiranno, in quel che si suol chiamare l’equilibrio mondiale [...] La storia non sarà finita con questa guerra, e neanche modificata essenzialmente; né per i vincitori né per i vinti. [...] Certi problemi non possono rimaner legati al destino di una generazione; che può anche essere fiacca, pettegola, ottusa, cieca, vile; come questa sembra. Ma l’Italia è un’altra cosa. E’ una realtà. [...] Di quali problemi si può accorger l’egoismo, che è la forza sola e la ragion di essere che ha sostenuto e mantenuto attraverso il tempo, la vitalità del branco, attaccato alla sua terra, alle sue cupidigie, al suo lavoro e al suo dolore, oggi come tremila anni fa; come sempre, fin che ci saranno viventi sotto il sole? [...] Questa Italia esiste, vive; fa la sua strada. Se manca oggi alla chiamata, risponderà forse domani; fra cinquanta anni, fra cento; e sarà ancora in tempo. Che cosa sono gli anni a un popolo? [...] Che cosa diventano i resultati, le rivendicazioni di territori o di confini, le indennità e i patti e la liquidazione ultima, sia pur piena e compiuta, di fronte a ciò? Forse il beneficio della guerra, come di tutte le cose, è in se stessa: un sacrificio che si fa, un dovere che si adempie. Si impara a soffrire, a re- / 99 sistere, a contentarsi di poco, a vivere più degnamente, con più seria fraternità, con più religiosa semplicità, individui e nazioni: finché non disimparino… Ma del resto è una perdita cieca, un dolore, uno sperpero, una distruzione enorme e inutile. [...] Il cuore, che s’è ribellato per un istante, torna presto alla quiete usata: si rassegna a questa che non è maggiore né minore di tutte le altre ingiustizie, intollerabili e tollerate, del vivere. Il mondo è pieno di cose senza compenso. Tale è la sua legge. Penso che anch’io pianto fanciullo sulle corone antiche, sui popoli scomparsi senza colpa dalla scena del mondo, su tutte le cose che si sono perdute e più di lor non si ragiona: ho letto con una lacrima negli occhi fissi, i denti stretti in silenzio, la storia delle conquiste e delle distruzioni, le vittorie dei Romani e dei barbari, le guerre degli Spagnuoli e le rivolte dei villani, le guerre dei trent’anni e le guerre di religione. Ero un fanciullo solo, e non sapevo come avrei potuto continuare a vivere. Ma ho potuto continuare. ho rinunciato a vendicare le vittime, ho dimenticato di consolare quelli che erano morti senza consolazione: ho vissuto egualmente. (ho vissuto accanto ai miei cari che sono morti. Li ho lasciati sotto terra e me ne sono andato per le strade del mondo). Posso fare così anche adesso. Questa storia, che chiamiamo presente, non è diversa da quelle, che crediamo di aver letto soltanto nei libri: partecipiamo all’una come alle altre con lo stesso titolo. vicini, ma anche così lontani! Facciano i Tedeschi e i loro amici tutto quello che vogliono e che possono. Noi abbiamo una cosa sola da offrire per compenso a tutte le ingiustizie dell’universo: ma questa ci basta, e il nostro cristianesimo, che ha perduto tutto il Dio e tutta la speranza, non ha perduto la tristezza e il gusto dell’eternità. Del resto, viviamo, poiché non se ne può fare a meno, e la vita è così. E facciamo della letteratura. Perché no? Questa letteratura, che io ho sempre amato con tutta la trascuranza e l’ironia che è propria del mio amore, che mi son vergognato di prender sul serio fino al punto di aspettarne o cavarne qualche bene, è forse, fra tante altre, una delle cose più degne. [...] Si ha voglia di camminare, di andare. Ritrovo il contatto col mondo e con gli altri uomini, che mi stanno dietro, che possono venire con me. Sento il loro passo, il loro respiro confuso col mio; e la strada salda, li- 100 | In trincea per la pace scia, dura, che suona sotto i passi, che resiste al piede che la calca. [...] Tanto, quello che conta non è la parola; è l’occhiata di complicità che ci scambiamo e che ci unisce, anche su rive opposte e con animo diverso, gente legata alla stessa sorte, che s’incontra e si riconosce. Tutte le parole son buone, quando il senso di tutte è uno solo: siamo insieme, aspettando oggi, come saremo nell’andare, domani. Fratelli? Sì, certo. Non importa se ce n’è dei riluttanti; infidi, tardi, cocciuti, divisi; così devono essere i fratelli in questo mondo che non è perfetto. E accanto a quello che brontola o si ritrae diffidente, ci son tutti quelli che si aprono a un sorriso istintivo nell’incontrarmi - sorriso semplice e lieto che ha vent’anni un’altra volta sui volti cambiati, colle pieghe fisse e la barba aspra dell’uomo già logoro -; quelli che mi stendon la mano dura con una timidezza affettuosa; quelli che posano sopra di me i loro occhi un po’ turbati con un senso d’improvvisa fiducia, come avendo ritrovata, nel momento dubbioso, la loro guida di ieri… Guida da poco: ma io andavo avanti, e loro dietro. Così si farebbe ancora. L’uomo non ha bisogno di molto per sentirsi sicuro. Purché si vada! Dietro di me son tutti fratelli, quelli che vengono, anche se non li vedo o non li conosco bene. Mi contento di quello che abbiamo in comune, più forte di tutte le divisioni. Mi contento della strada che dovremo fare insieme, e che ci porterà tutti egualmente: e sarà un passo, un respiro, una cadenza, un destino solo, per tutti. Dopo i primi chilometri di marcia, le differenze saranno cadute come il sudore goccia a goccia dai volti bassi giù sul terreno, fra lo strascicare dei piedi pesanti e il crescere del respiro grosso; e poi ci sarà solo della gente stanca che si abbatte, e riprende lena, e prosegue; senza mormorare senza entusiasmarsi; è così naturale fare quello che bisogna. Non c’è tempo per ricordare il passato o per pensare molto, quando si è stretti gomito a gomito, e c’è tante cose da fare; anzi una sola, fra tutti. Andare insieme. Uno dopo l’altro per i sentieri fra i monti, che odorano di ginestre e di menta; si sfila come formiche per la parete, e si sporge la testa alla fine di là dal crinale, cauti, nel silenzio della mattina. O la sera per le grandi strade soffici, che la pesta dei piedi è innumerevole e sorda nel buio, e sopra c’è un filo di luna verdina lassù tra le piccole bianche vergini stelle d’aprile; e quando ci si ferma, si sente sul collo il soffio caldo della colonna che serra sotto. O le notti, di un sonno sepolto nella profondità del nero cielo agghiacciato; e poi si sente tra il sonno / 101 PARTE sECONDA: COmETE vERsO L’ORIZZONTE smERALDO il pianto fosco dell’alba, sottile come l’incrinatura di un cristallo; e su, che il giorno è già pallido. Così, marciare e fermarsi, riposare e sorgere, faticare e tacere, insieme; file e file di uomini, che seguono la stessa traccia, che calcano la stessa terra; cara terra, dura, solida, eterna; ferma sotto i nostri piedi, buona per i nostri corpi. E tutto il resto che non si dice, perché bisogna esserci e allora si sente; in un modo, che le frasi diventano inutili. Laggiù in città si parla forse ancora di partiti, di tendenze opposte; di gente che non va d’accordo; di gente che avrebbe paura, che si rifiuterebbe, che verrebbe a malincuore. Può esserci anche qualcosa di vero, finché si resta per quelle strade, fra quelle case. Ma io vivo in un altro luogo. In quell’Italia che mi è sembrata sorda e vuota, quando la guardavo soltanto; ma adesso sento che può esser piena di uomini come son io, stretti dalla mia ansia e incamminati per la mia strada, capaci di appoggiarsi l’uno all’altro, di vivere e di morire insieme, anche senza saperne il perché: se venga l’ora. Può darsi che non venga mai. E’ tanto che l’aspettiamo e non è mai venuta! Che cosa ho io oggi di più sicuro a cui fidarmi, all’infuori del desiderio che mi stringe sempre più forte? Non so e non curo. Tutto il mio essere è un fremito di speranze a cui mi abbandono senza più domandare; e so che non son solo. Tutte le inquietudini e le agitazioni e le risse e i rumori d’intorno nel loro sussurro confuso hanno la voce della mia speranza. Quando tutto sarà mancato, quando sarà il tempo dell’ironia e dell’umiliazione, allora ci umilieremo: oggi è il tempo dell’angoscia e della speranza. E questa è tutta la certezza che mi bisognava. Non mi occorrono altre assicurazioni sopra un avvenire che non mi riguarda. Il presente mi basta; non voglio vedere né vivere al di là di questa ora di passione. Comunque debba finire, essa è la mia; e non rinunzierò neanche a un attimo dell’attesa, che mi appartiene. Dirai che anche questa è letteratura? E va bene. Non sarò io a negarlo! Perché dovrei darti un dispiacere? Io sono contento, oggi. 102 | In trincea per la pace GuIDO GOZZANO IL BIANCO SANGUE, / ChE RIGA SOTTILE IL vOLTO DEL vENTO Non ha ragione la critica tradizionale nel considerare Gozzano, unitamente a Corazzini, l’iniziatore della poesia cosiddetta crepuscolare. Se così fosse, i suoi versi oggi ci sembrerebbero smorzati, destoricizzati, conclusi nell’iter futile versificatorio, che delle volte annega nel lago della dimenticanza. Ma i versi del romantico Guido restano. In lui la lucida consapevolezza che l’italiano secolare della tradizione sia ormai una lingua morta, che la lingua debba aprirsi per non rimanere intrappolata nella sterilità espressiva. È un problema giunto alle estreme conseguenze nell’Italia del XXI secolo, e che il Poeta aveva bene intravisto. In queste due poesie, questa questione si intreccia con la tematica della prima guerra mondiale. / 103 Nella prima inquadrandola icasticamente nel simbolo della pace per eccellenza, la colomba, ferita a sangue, così come la poesia italiana, ferita dall’incapacità di rendere ancora la bellezza, di essere smarrita, di cercare rifugio, come la povera colomba, in altre gabbie, in altre sedi, per essere curata, ma disperatamente…. Nella seconda, si leva il grido cupo e canzonatorio della finta nobiltà della guerra moderna; l’Aquila, simbolo di altezze inusitate è qui trasformata in un’Aquila di paglia, in una menzogna. Il povero ragazzo che cerca gloria, il povero poeta che dovrebbe descriverne le gesta sublimi: tutto diventa tremendamente tragico e ridicolo, sia sotto il profilo della ricerca poetica, senza ormai più il respiro della freschezza e della ricerca insite nella lingua italiana arresa ai salotti tradizionali della maniera sia sotto il profilo storico-militare. Il povero ragazzo-soldato non possiede più la libertà dell’aria dell’eroe antico, dell’Aquila d’oro che vola profonda; questa è un’Aquila nera e sordida, che regge le fila, tetro teatrino, di una farsa d’orrore. Le poesie sono contenute all’interno delle Opere, a cura di Carlo Calcaterra e Alberto Marchi, Garzanti, Milano 1948. LA MESSAGGIERA SENzA ULIvO È giunto alle piccionaie della Società Colombofila di Milano, un colombo di Liegi, recante la targa ben nota. La bestiola, sfuggita certo a qualche piccionaia distrutta, deve aver vagato di città in città, stordita dal fragore della strage e dal rombo del cannone. Ed ha percorso non meno di duemila chilometri, prima di riparare, spennata e insanguinata, in Italia... (20 Settembre 1914 - La Donna) Bene scegliesti l’unico rifugio trepida messaggiera insanguinata! (Sangue d’amico? Sangue di nemico? Ah! Che il sangue è tutt’uno, oltre la soglia!) 104 | In trincea per la pace Palpiti esausta e sfuggi la carezza e temi il rombo…È il rombo del tuo cuore. Socchiudi gli occhi dove trema ancora lo spaventoso tuo pellegrinare. Ah! Sarcasmo indicibile! Tu sacra dai tempi delle origini alla pace la novella ci rechi - ah! Senz’ulivo! del flagello di Dio sopra la Terra. Ma non del Dio Signore Nostro: il dio feticcio irsuto della belva bionda: - Rinascono le donne ed i fanciulli, uccideremo ciò che non rinasce! E le trine di marmo, le corolle di bronzo, gli edifici unici al mondo, i vetri istoriati, i palinsesti alluminati, i codici ammirandi, ciò che un popolo mite ebbe in retaggio dalla Fede e dall’Arte in un millennio ritorna al nulla sotto i nuovi barbari: non più barbari, no: ladri del mondo! Tu non tremare, messaggiera bianca; bene scegliesti l’unico rifugio: la spalla manca della Bella Donna eretta in pace nel suo bel giardino. La riconosci? Dolce ti sorride piegando il capo sotto la corona turrita a vellicarti con la gota e con l’ulivo ti ravvia le penne. Ma tien la destra all’elsa e le pupille chiaroveggenti fissano il destino; non fu mai così forte e così bella e palpitante dalla nuca al piede. La riconosci? Non ti dico il nome troppo già detto, sacro all’ora sacra! Bene scegliesti l’unico rifugio, trepida messaggiera insanguinata! / 105 LA BELLA PREDA Fanciullo formidabile: soldato dell’Alpi e tu mi chiedi ch’io celebri il tuo gesto in versi miei! Non trovo ritmi - oimè! - non trovo rime così come vorrei al tuo gesto sublime! Ma sai tu quanto sia bello il tuo gesto, simbolica la spoglia dell’aquila regale che t’offerse l’Altissimo - redento! - a guiderdone della baldanza tua liberatrice? La vittima che dice: Terra d’Italia è questa! a consenso palese dei cieli sommi nella santa gesta? II Tu non sapevi. Solo con te stesso e coi fratelli in una forza sola, sostavi sulla gola vertiginosa, l’anima in vedetta, protetto dalla vetta signoreggiata. Il cuore batteva impaziente dell’assalto. Il cielo era di smalto cerulo, nel silenzio intatto come quando non era l’uomo ed il dolore… Era il meriggio alpino, splendeva il sole nella valle sgombra. In larghe rote s’annunciò dall’alto l’olocausto divino, la messaggiera, disegnando un’ombra. E l’aquila regale ecco immolasti sul granito alpino come sull’ara sacra alla riscossa del popolo latino. E la tua mano rossa fu del sangue ricchissimo aquilino. Battezzasti così con la tua mano, nella stretta che tutti ebbero a gara, commentando l’augurio e la bravura, battezzasti così con la tua mano tutti i compagni tuoi, dal giovinetto imperbe al capitano! Iv Sarcasmo inconsapevole! E tu mandi oggi la spoglia a noi che con bell’arte le si ridoni immagine di vita: ma quale arte iscaltrita può simulare l’irto palpitare di penne e piume, il demone gagliardo tutto rostro ed artigli e grido e sguardo nell’ora che si scaglia? Nessuna sorte è triste in questi giorni rossi di battaglia: fuorché la sorte di colui che assiste… E - sarcasmo indicibile per noi scelti ai congegni ed alla vettovaglia tu strappasti l’emblema degli eroi ed a noi mandi un’aquila di paglia!… III Che pensasti nell’attimo? Colpisti. Bene colpisti. Il vortice dell’ale precipitò ventandoti sul viso. 106 | In trincea per la pace / 107 E proprio il contatto coi suoi soldati, spesso gente semplice, corrisponde a quella modalità d’onestà, che conduce al ritrovamento di alcuni valori fondamentali dell’uomo come quelli dell’uguaglianza e della solidarietà. Le poesie scelte provengono da Poesie e versi in prosa, a cura di P. Briganti, Einaudi, Torino 1983. PRIMA MARCIA ALPINA Uno per uno bastone alla mano e alla salita cantiamo Se chiedi le reni rotte alla mina se chiedi il posto della gravina se chiedi il ginocchio piegato a salire se chiedi l’amore pronto a patire: son io, l’alpino, rispondiamo e all’adunata corriamo PIERO JAhIER L’ONESTO UFFICIALE Tenente degli alpini, volontario nella prima guerra mondiale. Ufficiale devoto ai suoi soldati, guida certa, cuore impavido. Senso morale altissimo, poesia sopraffina, nel cuore della parola, che rende semplice anche l’inudibile, che converte al popolo anche le salite più ardue della lingua. Tutto questo è Piero Jahier, e forse non basta, a caratterizzarne la figura di uomo e poeta, non riconosciuto abbastanza nei suoi alti meriti. In Jahier il dovere etico è straordinario e intenso, come un fuoco verde di primavera, in giornate in cui sembra non tramontar mai il sole. La sua esigenza di sincerità si allarga dalla propria individualità, fino a toccare il cuore universale delle cose. Nessuna espressione convulsa, nessun intellettualismo di maniera, nessuna immediatezza sentimentale. 108 | In trincea per la pace *** Ma la montagna, alpino, è franata ma la tua tenda, alpino, è sparita; alpino, tutta l’acqua è seccata alpino, il vetrato gela le dita; ma la tua penna è folgorata ma la gran notte di nebbia è salita * Uno per uno corda alla mano dove non si passa, passiamo. E la balma di roccia ci ricoprirà e l’acqua di neve ci disseterà; la penna il fulmine domesticherà la nebbia il sole l’avvamperà quando l’apino passerà. / 109 * Uno per uno zaino alla mano e nei riposi ci contiamo *** Alpino, tu sei passato ma il compagno che manca è ferito la mitraglia l’ha arrivato dalla croda l’ha distaccato nella gola l’ha tranghiottito. * Dove sei, compagno caro, al paese devi tornare; se qualcuno lo potrà rivedere gliene chieder la tua mare. Ma non sei stato abbandonato ma ti veniamo a ritrovare. Sei il nostro ferito ti riprendiamo al paese ti riportiamo Tutti per uno, mano nella mano dove si muore, discendiamo. *** Tutti per uno mano alla mano dove si muore, discendiamo. Ma il tuo compagno, alpino, è spirato al paese non può tornare; ma il suo lamento è dileguato non ti chiama più a ritrovare. Sulla coltrice del nevato resterà solo a riposare. * Dove sei, compagno caro, se al paese non puoi tornare 110 | In trincea per la pace ma non sei stato abbandonato ma ti veniamo a ritrovare. Il viso bianco gli rasciughiamo il corpo stronco ricomponiamo. È il nostro morto ce lo riprendiamo alla patria lo riportiamo. Uno per uno Fucile alla mano E lo vendichiamo. Marzo, Sopracroda Ai miei soldati dell’Alpago e a ogni alpino. SILENzIO Tutto il giorno questo scansarsi reverente, tutto il giorno questi lunghi saluti: tre passi prima la mano alla visiera, quattro passi durante lo sguardo fitto in cuore. E chi sono io, superiore? Questi saluti chi li ha meritati? Ma la sera, giornata finita, traversando i cortili annerati son io che sull’attenti, rigido, la mano alla tesa tutti e ciascuno per questa notte e questa vita vi saluto, fratelli soldati. DOMANDA ANGOSCIOSA ChE TORNA quando vi guardo e voi non potete sapere: Perché alcuni son chiamati a lavorare e guadagnar sulla guerra, e altri a morire? / 111 Morire non ha equivalente di sacrificio; morire è un fatto assoluto. Se la guerra ha un valore morale: rieducare alla salute, alla mansuetudine, alla giustizia, attraverso il passaggio nella pena della privazione e distruzione, perché sopra tutto debbon portarne il peso questi che erano nella privazione e mansuetudine, e non desideravano più che la salute? Perché facevi onestamente tanti figliuoli nostra forza, gloria d’Italia più di tutti ne devi sacrificare. Perché sei sano buon sangue che cicatrizza presto sempre abile a risoffrire. Perché sei povero ora che il denaro ridicolo non compra più nulla che vale più solo il lavoro del povero che la vita è sospesa tra un raccolto e l’altro e il tuo pane scuro è diventato a tutti pane perché, santo popolo d’Italia, perché più di tutti devi morire? MARE e alla finestra mare l’à aspettato. L’ha aspettato infino alla mattina quando squilla la tromba repentina e alla sua casa non può rivare. hanno preso il suo figliolo alla mare * hanno preso il suo tosàt ànno preso quel ch’era così tanto delicato e si ritrova lontano trasportato nel bastimento sopra l’acqua acceso. Di giorno il bastimento gli cammina ma nella notte è sempre arrestato e tutte l’acque bussan per entrare dove il suo tosàtel sta addormentato. hanno preso il suo tosàt alla mare * hanno preso il suo omo ànno preso quello che la doveva accompagnare che avea giurato davanti all’altare di non lasciarla sola a questo peso. Lui coi suoi bòcia è contento di andare non si è quasi voltato a salutare Ma ànno preso il suo òmo alla mare. hanno preso il suo figliolo ànno preso quello che l’era appena rilevato e per andà non può essere andato che nel posto più brutto indifeso. E per restà non può esser restato che dove tronca la vita le granate e quando ànno finito di troncare scendono le valanghe a sotterrare. E se non scrive è che vuol ritornare e per queste notti è camminato camminato per chiedere una muta alla sua mare. La muta era ben provata al davanzale 112 | In trincea per la pace * E la mattina si è levata a solo e à messo tutte le sue filigrane; à bevarato le sue armenti chiare; à steso tutti i suoi panni a asciugare; à agganciato il più grande suo paiolo; à apparecchiato il più bel fuoco acceso e dopo si è seduta al focolare. Anche se tornano non si può alzare hanno preso ànno preso anche la mare. Parrocchia di Sargnano / 113 DIChIARAzIONE Altri morirà per la Storia d’Italia volentieri e forse qualcuno per risolvere in qualche modo la vita. Ma io per far compagnia a questo popolo digiuno che non sa perché va a morire popolo che muore in guerra perché «mi vuol bene» «per me» nei suoi sessanta uomini comandati siccome è il giorno che tocca morire. Altri morirà per le medaglie e le ovazioni ma io per questo popolo illetterato che non prepara guerra perché di miseria ha campato la miseria che non fa guerre, ma semmai rivoluzioni. Altri morirà per la sua vita ma io per questo popolo che fa i suoi figlioli perché sotto coperte non si conosce miseria popolo che accende il suo fuoco solo a mattina popolo che di osteria fa scuola popolo non guidato, sublime materia. Altri morirà solo, ma io sempre accompagnato: eccomi, come davo alla ruota la mia spalla facchina e ora, invece, la vita. Sotto, ragazzi, se non si muore si riposerà, allo spedale. Ma se si dovesse morire basterà un giorno di sole e tutta l’Italia ricomincia a cantare. GIACOmO NOvENTA & bIAGIO mARIN TRA LE NUvOLE BIANChE, E SU, ANCORA, E vERSO IL SOLE, MA ANCORA, ANCORA PIù SU, SOPRA ‘L SOLE: MARE ETERNO vERTICALE & ACQUAMARINA CON L’ALE Noventa & Marin: due poesie sulla Prima Guerra Mondiale. Una poesia scritta in un veneziano noventiano, l’altra in un gradese assoluto. Entrambe sembrano perdere quasi gli umani contorni, per toccare edifici metafisici e assoluti. Eppure entrambe sanno di terra, di mare, di cose ascoltate o dimenticate, per mancanza di silenzio. L’una parla delle giornate quotidiane della trincea, dei discorsi comuni, delle innocenti divagazioni del pensiero, l’altra della mano di Dio, che toglie dalla guerra e ridà la pace, che l’uomo si toglie. 114 | In trincea per la pace / 115 Perché non usare l’italiano? Perché affidarsi a lingue ardue alla comprensione? Per amore della lingua italiana e del suo popolo. Affidandosi a lingue-dialetti così particolari, l’eco poetica della poesia italiana ritrova la sua acqua limpida e la sua cristallina intenzione: quella di appartenere a tutti quelli che amino il bene e la pace. La sua origine riacquista senso e lancia occhiate d’amicizia alla possibile traduzione: c’è un riconoscimento familiare d’affetto, di vera coscienza, di cuore. Il gradese e il veneziano noventiano sono l’italiano, ne sono l’essenza e il primo fulgore. Le morti e il sangue della Grande Guerra ne cementano insieme e perpetuamente un legame che va oltre la formalità delle regole e della semplice tradizione: diventa Amore. Per Noventa il riferimento è Versi e poesie, a cura di F.Manfriani, Marsilio, venezia 1986, per Biagio Marin le Poesie, a cura di C. Magris e E. Serra, Garzanti, Milano 1981. CO SE GÈRA SOLDàI… GIACOMO NOvENTA Co se gera soldai dentro in trincea, O a riposo o marciando o a l’ospeal, E i compagni più veci ne diseva, E parlàsseli pur del so paese, Dei campi e dei lavori lassài là, Una storia d’amor, Gèrimo in tanti a no’ saver ancora Quel che fusse una dona, e se ascoltava, Se inventàvimo un nome, e se moriva, (Se imparava a morir…) Sia come quei soldai che ne diseva, E parlàsseli pur del so paese, Dei campi e dei lavori lassài là, Una storia d’amor. QUAND’ERAvAMO SOLDATI Quand’eravamo soldati in trincea, O a riposo, o marciando verso l’ospedale E i compagni più vecchi raccontavano, Ci parlavano del loro paese, Dei campi, e dei lavori là lasciati e Di una storia d’amore, Eravamo in tanti a non sapere ancora Com’era una donna, ascoltavamo Inventavamo un nome, si moriva (S’imparava a morir…) Oggi, leggendo come fosser qui ora Giacomo, Francesco, Dante, e altri Cari poeti, italiani e stranieri, M’è sorto un pensier: Che noi siamo come obbligati In una Grande Guerra, e che i poeti Sono come quei soldati che ci parlavano, Del loro paese, dei campi e dei lavori là lasciati, E di una storia d’Amore.3 Ancùo lesendo, come i fusse vivi, In Giacomo, in Francesco, in Dante e in altri Cari poeti, o nostrani o foresti, Ma xè vignùo un pensier: Che noialtri se sia come i coscriti In una guera granda, e che i poeti 116 | In trincea per la pace 3 Co se gèra soldai, di Giacomo Noventa, traduzione di Giovanni Bassetti. / 117 E DIO T’hA TOLTO CANTO POPOLARE BIAGIO MARIN GORIZIA E Dio t’ha tolto dai tribuli del Carso, dal mondo arso dal mal sconvolto. Per spassi iminsi de paurusi silinsi el t’ha portào a le nove zornàe al sovo eterno istàe. Là xe la pace, ninte te tormenta, a duto e duti tase; la fiama xe contenta. E DIO T’hA TOLTO E Dio t’ha tolto Dal dolore del Carso, Dal mondo arso dal male sconvolto Per spazi immensi di paurosi silenzi Lui t’ha portato a nuove giornate alla Sua eterna estate (istante soave del silenzio) La drammatica impresa bellica che si consumò per la presa di Gorizia, nell’agosto 1916, tra l’esercito italiano e quello austriaco, nella sesta battaglia dell’Isonzo, che portò alla conquista della città da parte delle truppe italiane, costò ben 20.000 morti. Un anonimo fante scrisse questo canto, che riportiamo per intero, nel suo crudo e innegabile dettato. Il rifiuto della guerra e la condanna dei governanti e dei capi militari che ci guadagnano è il tema di questo canto; importante perché è il tentativo di rendere alla Nazione una lingua comune, così oscura, così inespressa nelle sue potenzialità popolari, che pur tuttavia son le sue sorgenti, come Dante Alighieri ci insegna. Personalmente ho letto Gorizia nell’Antologia delle medie, quand’ero bambino. M’è rimasta sempre impressa, sebbene lo stile non sia quello angelico e assoluto della nostra migliore tradizione, come un semplice confronto potrà dimostrare. M‘è sembrato quindi necessario inserire il canto doloroso dei militi verso questa stupenda città, medaglia d’oro al valor militare, crocevia del mondo latino-slavo-germanico. L’auspicio è che Gorizia non sia più maledetta, ma benedetta, e che sia bandiera e modello di pace, quell’AГYIAN (pace) così cercata da un grande goriziano come Carlo Michelstaedter, così difficile da comprendere e da vivere in un’Europa che soffia gelida tra i fiumi e le valli, e che Gorizia anche oggi sente. Là è la pace, Niente ti tormenta, Tutto tace; La fiamma è contenta4 4 E Dio t’ha tolto, di Biagio Marin, traduzione di Giovanni Bassetti. 118 | In trincea per la pace / 119 GORIZIA NOTE BIOBIBLIOGRAFICHE La mattina del cinque d’agosto Si muovevano le truppe italiane Per Gorizia e le terre lontane E dolente ognun si partì. Sotto l’acqua che cadeva al rovescio Grandinavano le palle nemiche Su quei monti, colline e gran valli Si moriva dicendo così O Gorizia tu sei maledetta Per ogni cuore che sente coscienza Dolorosa ci fu la partenza E il ritorno per molti non fu. O vigliacchi che voi ve ne state Con le mogli sui letti di lana Schernitori di noi carne umana Questa guerra ci insegna a punir Voi chiamate il campo d’onore Questa terra di là dei confini, Qui si muore gridando assassini Maledetti sarete un dì Cara moglie che tu non mi senti Raccomando ai compagni vicini Di tenermi da conto i bambini Che io muoio col suo nome nel cuor O Gorizia tu sei maledetta Per ogni cuore che sente coscienza Dolorosa ci fu la partenza E il ritorno per molti non fu. Giuseppe ungaretti (1888-1970). Poeta. È considerato uno dei massimi poeti italiani del Novecento. Dopo un’infanzia trascorsa in Africa, presso Alessandria d’Egitto, frequentò nel 1912 a Parigi i maggiori letterati del tempo. Prese parte come volontario alla prima guerra mondiale, combattendo sul Carso e poi in Champagne. Le sue prime poesie apparvero nella rivista Lacerba nel 1915. Considerato il massimo esponente dell’ermetismo, nel dopoguerra collaborò alla Ronda e fu corrispondente e giornalisti in vari paesi. Nel 1936 si trasferì in Brasile, chiamato ad insegnare lingua e letteratura italiana all’Università di San Paolo (qui gli morì, nel 1939, il figlio Antonietto). Rientrò in Italia nel 1942 per ricoprire la cattedra di letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università La Sapienza di Roma. Morì a Milano. L’opera poetica completa è raccolta in Vita d’un uomo. Tutte le poesie, a cura di L.Piccioni, Mondadori, Milano 1969. Le principali edizioni sono: Il porto sepolto, Stabilimento tipografico friulano, Udine 1916; Allegria di naufragi, vallecchi, Firenze 1919; La guerre, ètablissement Lux, Parigi 1919 (ristampata come Dernièrs Jours 1919, Garzanti, Milano 1947); L’Allegria, Preda, Milano 1931 (de L’Allegria si veda ora l’ed. critica, a cura di C.Maggi Romano, Fondazione Alberto e Arnaldo Mondadori, Milano 1982; E. Chierici e A. Paradisi hanno curato le Concordanze dell’ «Allegria» di G.Ungaretti, Bulzoni, Roma 1977); Sentimento del tempo, vallecchi, Firenze 1933 e Novissima, Roma 1933); Poesie disperse, a cura di G. De Robertis, Mondadori, Milano 1945 (contiene le poesie non contenute in Allegria e Sentimento del tempo); Il dolore, ivi 1947; La terra promessa, ivi 1950; Un grido e paesaggi, ivi 1954 (prima ed. Schwarz, Milano 1952); Il taccuino del vecchio, ivi 1960; Morte delle stagioni, Fògola, Torino, 1967; Dialogo, ivi 1968 (queste ultime due, edizioni rarissime). Prose: Il deserto e dopo, Mondadori, Milano 1961; Saggi e interventi, a cura di M. Diacono e L.Rebay, ivi 1974; Invenzione della poesia moderna. Lezioni brasiliane di letteratura (1937-1942), a cura di P. Montefoschi, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1984. Importanti sono anche le traduzioni, dall’Odissea, da Gongora, Shakespeare, Mallarmé. Da ricordare la traduzione de Il matrimonio del cielo e dell’inferno di William Blake. umberto saba (1883-1957). Poeta. Triestino, di madre ebrea abbandonata dal marito prima della nascita di Umberto, che rifiutò di prendere il cognome del 120 | In trincea per la pace / 121 padre (Poli), assumendo uno pseudonimo, Saba, tributo alla sua nutrice, Peppa Sabaz. Senza concludere gli studi, lavorò come praticante in una casa di commercio triestina e come mozzo su una nave mercantile. Nel 1911 si sposa con la sua Lina. Dopo la Grande Guerra, acquistò a Trieste la Libreria Antiquaria, avamposto per poter coltivare la sua arte poetica e il lavoro quotidiano per vivere. Durante la seconda guerra mondiale, a causa delle leggi razziali fasciste, fu costretto ad abbandonare Trieste e a nascondersi a Firenze. Nel dopoguerra, visse, per vari periodi, anche a Roma e a Milano, ritirandosi poi per sempre a vivere a Trieste. Morì in una clinica a Gorizia. È opportuno sempre rimandare al Canzoniere, Einaudi, Torino 1961, per avere una visione totale della sua poesia. Ricordiamo anche le varie edizioni del Canzoniere che l’hanno preceduta: Libreria antica e moderna, Trieste 1921; Einaudi, Torino 1948; Garzanti, Milano 1951. Da segnalare l’Antologia del Canzoniere a cura di Giovanni Giudici, Oscar Mondadori, Milano 1976. Le Prose, a cura di L.Saba, Mondadori, Milano 1964, comprendono tutti i maggiori scritti del Poeta ad eccezione del romanzo incompiuto Ernesto, Einaudi, Torino 1975. Clemente Rebora (1885-1957). Poeta. Nasce a Milano da una famiglia medioborghese, di origine ligure e forte tradizione mazziniana e laicista. Dopo aver interrotto gli studi di medicina a Pavia, si laurea a Milano in Lettere presso l’Accademia Scientifico-Letteraria, con una tesi su Romagnosi. Dal 1910 insegna negli istituti tecnici governativi lombardi, e nelle scuole serali popolari; inizia la collaborazione con la Rivista d’Italia e La Voce. Nel 1913 esconi i Frammenti lirici per le edizioni della Voce. Pubblica su La Riviera ligure. Nel 1914 conosce la pianista russa Lidia Natus, con la quale inizia una storia d’amore. Dell’esperienza nella prima guerra mondiale e sulla mistica conversione al cattolicesimo abbiamo già scritto nel cammeo introduttivo di quest’Opera. E’ ordinato sacerdote nel 1936 ed esercita nei collegi rosminiani il ruolo d’insegnante. Dopo un lungo silenzio, riprende a scrivere e pubblica, a partire dal 1955, il Curriculum Vitae e i Canti dell’infermità, che raccolgono poesie composte dal ‘46. Muore a Stresa. Opere: Frammenti lirici, Libreria della voce, Firenze 1913; Canti anonimi raccolti da Clemente Rebora, Il Convegno editoriale, Milano 1922; Le poesie (1913-1947) raccolte ed edite a cura di Piero Rebora, vallecchi, Firenze 1947; Via Crucis (il gran grido), Scheiwiller, Milano 1955; Curriculum Vitae, ivi 1955; Canti dell’infermità, ivi 1956; Gesù il fedele (Il Natale), ivi 1956; Canti dell’infermità raccolti da vanni Scheiwiller, ivi 1961 (poesie e prose inedite); Le poesie (1913-1957), a cura di vanni Scheiwiller, ivi 1961; Aspirazioni e preghiere raccolte da v. Scheiwiller, ivi 1963; Ecco del ciel più grande. 7 liriche inedite, ivi 1965. Si veda poi l’edizione usata in questa Antologia: Le poesie (1913-1957), a cura di G. Mussini e v. Scheiwiller, Garzanti, Milano 1988. Renato serra (1884-1915). Critico letterario. Di Cesena, formatosi alla scuola di Carducci, col quale si laureò a Bologna, con una tesi su Petrarca (1904), ap- 122 | In trincea per la pace profondì molto i temi dell’estetica classica, influenzato dall’insegnamento di F.Acri. Dopo aver frequentato a Firenze un corso di perfezionamento presso l’Istituto di studi superiori (1907-1908), tornò nella sua Cesena, dove divenne direttore della Biblioteca Malatestiana. Collaborò con La Voce. La sua esperienza letteraria, che resta e attraversa le generazioni, riguarda il suo testo più importante, l’Esame di coscienza di un letterato, analisi lucida sul ruolo dell’intellettuale nella modernità, scritto lo stesso anno della sua morte, che avvenne il 20 luglio1915 in una trincea davanti al Monte Podgora (Gorizia), detto anche Monte Calvario. Le sue opere sono comprese nei due volumi degli Scritti, a cura di G. De Robertis e A. Grilli, Le Monnier, Firenze 1938; le lettere nell’Epistolario di R. Serra, a cura di De Robertis, Ambrosini, Grilli, Le Monnier, Firenze 1934. Guido Gozzano (1883-1916). Poeta. Nacque e visse quasi sempre a Torino, dove morì. Iscrittosi alla Facoltà di Giurisprudenza, non si laureò.Agli studi giuridici preferì presto le lezioni di Arturo Graf. Proruppe la passione per la letteratura e la poesia. Poco più che ventenne cominciò a collaborare con prose e racconti alle più importanti riviste dell’epoca, La Lettura, La Nuova Antologia, La Riviera ligure, facendo conoscere la sua capacità poetica ne La via del rifugio (1907). Il successo letterario venne con I colloqui (1911). Nel frattempo, la tubercolosi, che fu causa della morte precoce, cominciò a manifestarsi. Nello stesso arco di tempo ha una relazione sentimentale con Amalia Guglielminetti. Speranzoso di una guarigione, a trent’anni intraprese un viaggio di cura in India. Da questa esperienza uscì postumo il libro Verso la cuna del mondo. Tra il 1915 e il 1916 compose un soggetto cinematografico sulla vita di San Francesco d’Assisi. Per le Opere, suggeriamo: Opere di Guido Gozzano, a cura di Carlo Calcaterra e Alberto De Marchi, Garzanti, Milano 1948; Poesie (La via del rifugio, I colloqui, Le farfalle, Poesie sparse), revisione testuale, introduzione e commento di Edoardo Sanguineti, Einaudi, Torino 1973. Piero Jahier (1884-1966). Poeta. Genova fu il luogo natale di Jahier. Dopo il suicidio del padre, pastore evangelico, il Nostro dovette impiegarsi nelle ferrovie, abbandonando la facoltà valdese di teologia. Collaborò a La Voce, Lacerba e La Riviera ligure. Tenente degli alpini nella Grande Guerra, diresse il giornale delle trincee L’Astico. Dopo la guerra fondò Il Nuovo contadino, un periodico destinato ai reduci appartenenti alle famiglie di agricoltori. Attivo antifascista, fu perseguitato dal regime di Mussolini, e non poté pubblicare per molto tempo. Nel secondo dopoguerra, continuò l’attività di traduttore che aveva iniziato fin dal 1911. E’ morto a Firenze. Le Poesie sono custodite nel I volume delle Opere, curate dallo stesso Jahier, vallecchi, Firenze 1964; il II comprende Resultanze in merito al carattere e alla vita di Gino Bianchi, ivi 1955; il III Ragazzo e Con me e con gli alpini (ivi 1967). Consiglio il volume Poesie e versi in prosa, a cura di P. Briganti, Einaudi, Torino 1983, che raccoglie l’intera opera jahieriana. Bellissime le traduzioni di Jahier, da P. Claudel, J. Conrad, G. Green. / 123 Giacomo Noventa (1898-1960). Poeta. Giacomo Ca’ zorzi, Noventa è il cognome d’arte, derivante dal nome del suo paese di nascita, Noventa di Piave (venezia), parte volontario, giovanissimo, nella guerra del ’15 ’18. Studia a Torino, laureandosi nel 1923 in filosofia del diritto. A Torino stringe una forte amicizia con G.Debenedetti e P.Gobetti. Dal ’25 al ’35, viaggia in Europa, soggiornando spesso a Parigi. Tornato in Italia, viene arrestato nel 1935. Dopo un mese di prigione, viene scarcerato, con il divieto di risiedere in Piemonte. Fonda a Firenze la rivista La Riforma letteraria. Subisce un nuovo arresto nel 1939: gli è vietato di abitare in tutte le città che siano sedi universitarie. Anche nel dopoguerra, la sua attività di riformatore culturale della palude italiana è molto intenso, e di fatto resta emarginato. Il suo uso della lingua veneziana è un modo paradossale per affermare un’italianità più forte e vera, e al contempo marcare un confine netto e chiaro rispetto al degrado culturale italiano, che s’incominciava allora, e di cui oggi paghiamo le amare conseguenze. Il suo pensiero politico può essere collocato nell’area del cattolicesimo democratico. È morto a Milano. L’intera opera poetica di Noventa è compresa nel volume Versi e poesie, Mondadori, Milano 1975. Le sue prose saggistiche, per la loro non conformità e originalità vanno ricordate: Il vescovo di Prato, Il Saggiatore, Milano 1958; Nulla di nuovo, ivi 1960; I calzoni di Beethoven, ivi 1965; Caffè greco, vallecchi, Firenze 1969; Storia di un’eresia, Rusconi, Milano 1973. Da ricordare la pubblicazione, a cura di F. Manfriani, Versi e poesie, uscito a venezia, presso Marsilio, nel 1986. biagio marin (1891-1985). Poeta. Grado è non solo il luogo della nascita e morte di Biagio Marin, ma il riferimeto totale di tutta la sua vita, fisica e metafisica, e del suo io, e del suo oltre. Studia filosofia a vienna, anche se si laurea a Roma, con G. Gentile. Conobbe, tra gli altri, il grande goriziano Carlo Michelstaedter, e Friedrich Wilhelm Forster alla vigilia della prima guerra mondiale. Arruolatosi volontario nel 1917, contrae in guerra una grave malattia polmonare che lo costringe a una lunga degenza a Davos. ha insegnato nelle scuole medie di Gorizia, è stato anche ispettore scolastico, bibliotecario e impiegato presso le Assicurazioni Generali. Nel 1943 ha perduto in guerra il figlio Falco. La sua morte diverrà uno dei grandi motivi della sua poesia. Le principali raccolte di versi sono costituite da: I canti de l’isola, Dal Bianco, Udine 1951, contenente i precedenti libri: Fiuri de tapo, 1912; La ghirlanda de gno suore, 1922; Cansone picole, 1927. La nuova edizione de I canti de l’isola, Cassa di Risparmio, Trieste 1970, all’interno della quale sono contenute precedenti plaquettes: Sénere colde, 1953; Tristessa de la sera, 1957; L’estadela de San Martin, 1958; El fogo del ponente, 1959; Elegie istriane, 1963; Dopo la longa istae, 1965; El mar de l’eterno, 1967. Inoltre: El vento de l’Eterno se fa teso, La Editoriale Libraria Scheiwiller, Trieste-Milano 1973; A sol calao, Rusconi, Milano 1974; Pan de pura farina, Ed. San Marco dei Giustiniani, Genova 1976; Stele cagiùe, Rusconi, Milano 1977. Notevole l’Antologia La vita xe fiama, con la prefazione di P.P. Pasolini,Einaudi,Torino 1970. 124 | In trincea per la pace ULTRA MODUM FRA CENT’ANNI Da qui a cent’anni, quanno ritroveranno ner zappà la terra li resti de li poveri sordati morti ammazzati in guerra, pensate un po’ che montarozzo d’ossa, che fricandò de teschi scapperà fòra da la terra smossa! Saranno eroi tedeschi, francesi, russi, ingresi, de tutti li paesi. O gialla o rossa o nera, ognuno avrà difesa una bandiera; qualunque sia la patria, o brutta o bella, sarà morto per quella. Ma lì sotto, però, diventeranno tutti compagni, senza nessuna differenza. Nell’occhio vòto e fonno nun ce sarà né l’odio né l’amore pe’ le cose der monno. ne la bocca scarnita nun resterà che l’urtima risata a la minchionatura de la vita. E diranno fra loro:- Solo adesso ciavemo per lo meno la speranza de godesse la pace e l’uguajanza che cianno predicato tanto spesso! Trilussa 31 gennaio 19155 5 Trilussa, Lupi e agnelli, voghera, Roma 1919. / 125 L’ARTE NELLA GRANDE GuERRA mARA D’INCORONATO Esperta di Storia dell'Arte Gli anni della Prima guerra mondiale, segnati dal susseguirsi di terribili eventi bellici, rappresentano uno dei periodi più stimolanti e creativi dal punto di vista della Storia dell’Arte. Pittori, scultori, architetti e scrittori moderni si trovano nella necessità di leggere ed interpretare lo sconvolgimento in cui l’Europa cade di fronte ad un conflitto caratterizzato da dinamiche nuove, dall’utilizzo di nuove armi e di nuovi eserciti. Il 28 giugno 1914 Gavrilo Princip, rivoluzionario serbo-bosniaco, attenta alla vita di Francesco Ferdinando, arciduca d’Austria e della moglie la principessa Sophie von hohenberg, uccidendoli entrambi. L’attentatore risulta essere un membro dell’organizzazione Giovane Bosnia, l’intento della quale è ottenere l’indipendenza dell’Erzegovina dall’impero austro-ungarico e l’annessione al regno di Serbia. Un mese dopo il gesto omicida di Princip, l’Austria, dichiarando guerra alla Serbia, scatena una reazione a catena con la presa di posizione delle maggiori potenze mondiali e delle loro colonie che intervengono formando due schieramenti contrapposti; da una parte gli Imperi centrali (Germania, Impero austro-ungarico, Impero ottomano e loro alleati), dall’altra le forze dell’Intesa (Francia, Gran Bretagna, Russia e loro alleati, tra i quali, in seguito, l’Italia). In questo clima di grande disordine e sconcerto molti artisti decidono di partecipare al conflitto, non solo con le loro opere ma partendo volontariamente per il fronte. L’entusiasmo iniziale nei confronti della guerra, nasce dall’idea che quest’ultima sia il mezzo più adatto per favorire la rinascita spirituale, invocata da tempo, della società contemporanea. / 127 L’Europa dei primi del Novecento è al massimo della sua potenza, grazie ad un continuo e proficuo progresso della scienza e della tecnologia ma gli intellettuali riconoscono invece nella società specificatamente in una classe sociale, la borghesia, segni e sintomi di una profonda ed ineluttabile decadenza causata dalla schiavitù verso la logica del denaro e dalla corruzione; per evitare che tutto questo porti le comunità all’inevitabile collasso, la soluzione è una guerra capace di rigenerare le spinte vitali, ormai inesistenti o prive di forza, che possa aprire la strada ad un nuovo corso, ad una società nuova. Gli artisti delle avanguardie, quindi, invocano e promuovono l’intervento nel conflitto, intenzione molto evidente guardando alla situazione italiana. L’Italia, legata ad Austria e Germania da un patto di natura difensiva, stipulato nel 1882, resta neutrale fino al 23 maggio 1915, giorno in cui il duca di Avarna, ambasciatore italiano a vienna, consegna al ministro degli esteri dell’Impero austro-ungarico, la dichiarazione di guerra. La decisione di partecipare al conflitto schierandosi al fianco delle potenze della Triplice Intesa viene motivata anche dall’impegno preso, da parte di queste ultime, con il patto segreto di Londra, di procedere, in caso di vittoria, alla restituzione all’Italia delle regioni ancora soggette al dominio austro-ungarico. Il fronte interventista, chiaramente favorevole alla partecipazione della nazione alla guerra, schiera tra le proprie fila gli artisti del gruppo futurista. Questi ultimi si erano di fatto adoperati, con diversi strumenti di propaganda, ad incitare ed indirizzare l’opinione pubblica verso la piena consapevolezza della necessità della lotta come strumento rigeneratore. Le ragioni dell’interventismo futurista sono individuabili nel Manifesto scritto da Marinetti nel 1909 dove si legge: «Non v’è più bellezza se non nella lotta, nessuna opera che non abbia carattere aggressivo può essere un capolavoro, la poesia deve essere concepita come un violento assalto contro le forze ignote per ridurle a prostrarsi davanti all’uomo. Noi vogliamo glorificare la guerra, sola igiene del mondo, il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna»¹. L’entusiasmo per la guerra spinge molti esponenti del gruppo ad arruolarsi volontariamente e a vivere in maniera diretta l’esperienza del fronte. In Germania la Prima guerra mondiale viene salutata con la medesima eccitazione dai giovani intellettuali. Il mondo tedesco valuta il conflitto come necessario per preservare l’unità dell’Impero austro-ungarico, definire il ¹ Manifesto del Futurismo, pubblicato per la prima volta a Bologna dalla Gazzetta dell’Emilia, il 5 febbraio 1909. 128 | In trincea per la pace ruolo della Germania come predominante nel panorama delle potenze mondiali e per affermare la superiorità di una civiltà improntata sui valori dello spirito, a discapito di quella imperniata, invece, sui dettami di un materialismo decadente, propria di nazioni quali la Francia e l’Inghilterra. Gli artisti vengono influenzati dal pensiero nichilista di Nietzsche che vede nella guerra la sola possibilità di salvezza per la civiltà europea. Sulla rivista degli espressionisti berlinesi Die Aktion, nel 1912, si legge: «Il poeta deve partecipare alla politica per creare la volontà di catastrofe, per scuotere cioè le istituzioni tradizionali, demolire illusioni, creare immagini capaci di far sprigionare nuove energie spirituali dalla vita quotidiana». La distruzione è vissuta come mezzo per conoscere nuove energie creative, indagando profondamente la realtà umana, gli abissi nei quali l’uomo attraverso la guerra sta sprofondando per poi risalire a vette più alte. Lo slancio nei confronti della lotta si trasforma presto in disillusione, la guerra, quella vera, combattuta in trincea, rivela aspetti terribili e molto diversi da ciò che gli artisti avevano immaginato. Il conflitto non è breve come la Germania aveva progettato. Il tempo si ferma sui fronti di combattimento, nelle trincee si combatte per mesi, con l’obiettivo di conquistare pochi metri di terra al prezzo di orribili massacri. Nel suo diario di guerra Otto Dix scrive: «Pidocchi, ratti, filo spinato, pulci, granate, bombe, buche, cadaveri, sangue, acquavite, topi, gatti, gas, cannoni, sudiciume, pallottole, mortai, fuoco acciaio, questa è la guerra! Un vero inferno!»². La guerra non sta creando il Superuomo evocato da filosofi, intellettuali ed artisti ma un essere umano con tratti bestiali, costretto a vivere nella terra, a convivere con la paura, con l’idea della morte che può sopraggiungere ad ogni istante. Il conflitto mostra il suo vero volto ad entrambi i fronti e l’orrore è tale che l’idealismo giovanile in molti artisti, dopo il conflitto, viene sostituito da una maturità consapevole di aver subito un trauma causato dall’atrocità di quanto vissuto e visto. Nonostante la morte, il dolore e l’orrore, o forse proprio per questo, il contesto bellico riesce a proporre comunque nuovi stimoli, ad incentivare la nascita di nuove correnti artistiche, spianando in questo modo la strada ad un sostanziale cambiamento della temperie culturale ed estetica. Un gruppo di intellettuali europei si rifugia, in pieno conflitto, nella Svizzera neutrale e nel 1916 dà vita ad un nuovo movimento artistico, il Dadaismo. L’esordio ufficiale del movimento viene identificato con il gior² Gentile E., L’Apocalisse della modernità, Mondadori, Milano 2014. / 129 no in cui fu inaugurato il Cabaret voltaire, il locale che rappresenta il luogo di incontro per tutti gli artisti coinvolti nella nuova proposta artistica, il 5 febbraio 1916 . Al fine di sottoporre all’attenzione altrui un’arte innovativa e originale, le serate al Cabaret voltaire sono caratterizzate dall’intento di stupire con manifestazioni inaspettate, provocatorie, ed in questo senso sembrano molto simili a quelle organizzate dal gruppo dei futuristi, in realtà però, del tutto opposto è l’atteggiamento nei confronti della guerra. Il Dadaismo nasce, infatti, in risposta e come protesta contro la barbarie della Prima guerra mondiale, i futuristi invece caldeggiano e promuovono l’intervento diretto nel conflitto. I dadaisti spogliano degli attributi di perentorietà, mettendoli in ridicolo, valori ai quali viene dato l’attributo di “borghesi,” come l’arte, la cultura, il senso di appartenenza alla patria, poiché facilmente correlabili alla guerra e alle sue motivazioni intellettuali. Una prima connotazione al movimento viene data dal termine scelto per identificarlo, la parola Dada letteralmente non significa nulla, proprio per questo riesce a precisare le intenzioni del gruppo, il rifiuto di ogni atteggiamento razionalistico. Rinnegare la razionalità significa per i dadaisti mettere in atto una provocazione necessaria ad abbandonare consuetudini ormai desuete riguardo l’attività artistica, utilizzando atteggiamenti dissacratori ed eclatanti per giungere al loro fine ultimo che è quello di distruggere l’arte impregnata di valori borghesi per adoperarsi poi alla costruzione di un nuovo tipo di arte, pienamente conforme e coincidente con la vita stessa e non lontana da essa. Il grande cambiamento apportato dai dadaisti entra anche nel merito della pratica artistica; fino a quel momento l’artista realizza la sua opera scegliendo un modello e copiandolo con una tecnica tradizionale come la pittura, i dadaisti invece non creano un’opera ma costruiscono oggetti. Il carattere categorico dell’intento di demolire una concezione ormai obsoleta e decadente dell’arte, è la causa dell’esistenza piuttosto breve del movimento, poiché per procedere ad una funzione propositiva e non più solo distruttiva è necessario avvenga una trasformazione che avrà il suo compimento tra il 1922 e il 1924 con la scomparsa del Dadaismo e la nascita del Surrealismo. «A cosa serve mandare un artista in guerra? A niente. Meglio farlo dipingere»³. La domanda viene posta al soldato Giorgio de Chirico dal ³De Chirico a Ferrara. Metafisica e avanguardie, catalogo della mostra a cura di Paolo Baldacci, Fondazione Ferrara Arte Editore, Ferrara 2015. 130 | In trincea per la pace IL POETA DEvE PARTECIPARE ALLA POLITICA PER CREARE LA vOLONTà DI CATAsTROFE, PER sCuOTERE CIOè LE IsTITuZIONI TRADIZIONALI, DEmOLIRE ILLusIONI, CREARE ImmAGINI CAPACI DI FAR sPRIGIONARE NuOvE ENERGIE sPIRITuALI DALLA vITA quOTIDIANA DIE AKTION ORGANO DELL'ESPRESSIONISMO BERLINESE, 1912 maggiore Gaetano Boschi, medico e artefice del progetto della villa del Seminario a Ferrara, una struttura ospedaliera innovativa per il periodo e specializzata in malattie nervose causate dalla guerra; non è un caso che proprio in questo luogo vengano gettate le basi di una corrente pittorica nuova, la Metafisica. De Chirico si ritrova a Ferrara, dopo aver lasciato Parigi dove ha iniziato la sua ricerca metafisica, per entrare a far parte dell’esercito italiano; si arruola in fanteria ma viene dichiarato non idoneo alle fatiche di guerra e per questo ricoverato presso l’ospedale neurologico di villa del Seminario. La sua decisione di entrare nell’esercito italiano nasce dall’esigenza personale di affermare la sua identità e le sue origini italiane, in realtà, di fatto, considera la guerra un’enorme barbarie, la testimonianza che il mondo non è governato dalla logica ma solo dalla follia. L’orrore della Prima guerra mondiale è appena fuori le mura estensi, dentro queste ultime invece l’artista si sente al sicuro, ritrova un senso di protezione che gradualmente lo spinge a riprendere a disegnare e a fissare l’attenzione sull’osservazione intellettuale dell’irrazionalità che domina il presente. / 131 La pittura metafisica si sviluppa quindi in Italia, a Ferrara in particolare, a partire dal 1916 e rispetto alla pittura delle avanguardie e dei futuristi, si presenta come una grande novità, anche per il ritorno dei soggetti classici che ricordano l’antichità greca e romana. La parola “metafisica” racchiude ed identifica i significati e le manifestazioni del sogno, del surreale, dell’inconscio. I quadri metafisici spesso raffigurano paesaggi, piazze, personaggi rappresentati come statue greche o manichini; tutto appare realistico ma assemblato in maniera confusa, come appunto in un sogno, poiché ciò che si vuole mostrare va oltre l’apparenza fisica della realtà, al di là dell’esperienza sensoriale. Nelle opere ferraresi, però, de Chirico lascia provvisoriamente da parte la rappresentazione di piazze e statue per focalizzare l’attività figurativa sull’analisi della follia che a causa della guerra caratterizza la realtà di quel periodo; da qui la creazione dei quadri che più contraddistinguono la sua indagine metafisica, ricerca che risulterà di fondamentale importanza per molti artisti del Surrealismo. Il fermento creativo degli anni della guerra è testimoniato anche dagli stimoli provenienti dai Paesi Bassi, qui viene creato nel 1917 De Stijl, un movimento artistico che prende il nome dall’omonima rivista fondata da Theo van Doesburg e conosciuto anche con il termine Neoplasticismo usato da Piet Mondrian e dallo stesso van Doesburg nella pubblicazione del Manifesto De Stijl, per definire le caratteristiche della loro forma d’arte: l’astrazione, il ritorno all’essenziale, la geometria. I principi teorici riguardanti la pittura vengono delineati dal movimento attraverso la pubblicazione sulla rivista, da parte di Mondrian, di undici articoli, dall’ottobre 1917 allo stesso mese del 1918. Per i neoplasticisti occorre che la pittura si sviluppi obbligatoriamente all’interno dei cardini dell’astrattismo geometrico. L’artista deve, in maniera consapevole, escludere dalle proprie scelte, la rappresentazione figurativa, abbandonare le linee curve effimere e decorative a favore di linee e segmenti retti, mostrare la propria indipendenza dai valori emotivi, liberare la forma naturale da strutture espressive superflue, utilizzare esclusivamente gli elementi base del piano, della linea e dei colori primari, mediante rettangoli e blocchi cromatici. Il fine dell’arte neoplastica è di ritrovare l’equilibrio, non solo nell’arte ma anche nella società, affinché possa essere facilitata la riflessione riguardo l’ordine dell’universo, grazie ad un metodo nuovo per vedere il materiale e lo spirituale. 132 | In trincea per la pace IL TEmA bELLICO ALL’INTERNO DELLA TEmPERIE ARTIsTICA FuTuRIsTA L’esperienza diretta della guerra nelle scelte figurative degli artisti: Carrà, balla, severini, sironi L’ambiente sociale e politico italiano è in fermento negli anni immediatamente precedenti la Grande Guerra. L’Italia, in epoca giolittiana, si trova in una situazione di riassetto, caratterizzata da contrasti molto forti e dalla quale vengono fuori necessità di espansione oltremare e volontà irredentiste. Gruppi di intellettuali e personaggi appartenenti a strati sociali influenti promuovono imprese coloniali e militari che possano portare il paese a diventare una grande nazione, per rendere sicuro il confine orientale dalla minaccia asburgica, per evidenziare una gloria che non rappresenti soltanto un retaggio archeologico, per risolvere la questione di Trento e Trieste. In questo clima pieno di inquietudini il paese si trova diviso tra chi sostiene la necessità di restare neutrale e chi invece spinge per un intervento armato a fianco delle potenze dell’Intesa. Si possono annoverare tra questi ultimi gli artisti del gruppo futurista, molti dei quali partecipano in prima persona al conflitto, esperienza che segna profondamente le loro vite e di conseguenza le loro opere. Immagine riconosciuta simbolo dell’interventismo futurista è il dipinto parolibero di Carlo Carrà, Festa patriottica, pubblicato sulla rivista «Lacerba» il 1° agosto 1914, nel momento in cui la Germania dichiara guerra alla Russia. La diffusione a mezzo stampa in contemporanea con lo scoppio del primo conflitto mondiale ed il cambiamento del titolo originario in Manifestazione interventista rappresentano le motivazioni della grande fama riservata a questo dipinto e del fatto che sia diventata l’icona degli obiettivi del gruppo futurista. L’opera è da decenni associata in maniera indissolubile alla Prima guerra mondiale, per la sua datazione, infatti, viene considerata il tramite attraverso cui procacciare consensi nei confronti della causa patriottica e del militarismo, concetti connaturati e contenuti all’interno del desiderio bellico del movimento futurista, desiderio soddisfatto poi dall’inizio del terrificante conflitto; da recenti approfondimenti però sembra possibile datarla alla seconda metà del mese di giugno, in un momento in cui non si ha idea della tragedia che di lì a poco avrebbe sconvolto il mondo. Al di là delle coincidenze cronologiche fra il momento della creazione del dipinto e feste intrise di patriottismo organizzate nel giugno 1914, il significato più profondo dell’opera / 133 deve essere ricercato nella violenta volontà di azione, comune a tutti i giovani artisti futuristi, nella loro determinazione a contestare l’inerte società borghese giolittiana. Il quadro diventa un grido dinamico o come dice Carrà: «astrazione plastica del tumulto cittadino». L’opera sembra simboleggiare l’arrivo di un’era piena di entusiasmo, grazie anche alla nuova tipologia di espressione scelta per la prima volta dall’artista. Il “paroliberismo” è uno stile letterario introdotto dal Futurismo in cui il testo è composto da parole tra le quali non sono riscontrabili legami sintattici o grammaticali, non essendo strutturate in periodi e frasi; non viene utilizzata la punteggiatura, non esistono accenti e apostrofi. Le regole e i principi di questa tecnica letteraria sono state individuate e spiegate da Marinetti nel Manifesto tecnico della letteratura futurista dell’11 maggio 1912 e Carrà decide di applicarla alla pittura; subito dopo nasce una diatriba con Severini riguardo al primato di tale ideazione, fatto che testimonia quanto l’interesse degli artisti futuristi sia in questo momento focalizzato su dispute di natura puramente estetica e sulla preoccupazione che siano riconosciute le proprie ricerche al riguardo. Con lo scoppio della guerra in Europa tutto questo cambia in maniera ineluttabile, e diverso è l’argomento delle discussioni tra gli artisti futuristi, incentrate ora sull’atteggiamento neutrale del governo italiano e sulla necessità immediata di una svolta interventista, in un’attesa carica di tensione emotiva, quasi palpabile durante le manifestazioni futuriste organizzate nelle maggiori città italiane. Carrà respira questo clima carico di frenesia, condivide la consapevolezza che il gruppo futurista non ha abbastanza peso politico per essere il motore capace di portare il paese alla decisione finale dell’entrata in guerra ed è preda di sentimenti paralizzanti e orientati interamente sul pensiero della guerra, tanto che questo finisce per impedirgli di iniziare nuovi lavori. Per venir fuori da questo stallo, l’artista deve mettere mano al progetto di un libro: “Guerrapittura”. Il volume esce per le Edizioni Futuriste di “Poesia” nel marzo del 1915 e proprio questa tempestiva pubblicazione può far pensare ad una necessità propagandistica urgente da parte di Marinetti, in realtà l’intento di Carrà è un altro, vale a dire soddisfare la propria esigenza di produrre un’opera che possa guidare i lettori e gli amici in un percorso attraverso la sua attività di artista, il suo pensiero estetico e politico, per poi evidenziare il punto di arrivo dell’autore in un momento storico fondamentale, segnato dalla fatale partecipazione del paese alla guerra. 134 | In trincea per la pace carlO carrà Festa patrIOttIca (ManIFestazIOne InterventIsta), 1914 teMpera, penna, pOlvere dI MIca, carte IncOllate su cartOncInO, cM 38,5 x 30. cOllezIOne GIannI MattIOlI, In depOsItO pressO la peGGy GuGGenheIM dI venezIa carlO carrà InseGuIMentO (cavallO e cavalIere), 1915 teMpera, carbOncInO e cOllaGe su cartOne, cM 39x68, cOllezIOne GIannI MattIOlI, In depOsItO pressO la peGGy GuGGenheIM dI venezIa I primi mesi del 1915 rappresentano un momento di transizione per Carrà. Comincia, infatti, ad allontanarsi dai futuristi milanesi e dal proprio stile più dinamico, per affrontare un profondo studio sui primitivi italiani ed un intensa riflessione sulle caratteristiche dell’arte popolare ed infantile; esplica in maniera chiara questo periodo, in evidenza rispetto alle altre opere di “Guerrapittura”, il collage Inseguimento. La differenza di questo collage rispetto agli altri lavori eseguiti per il libro viene spiegata dalla sua datazione, tra il gennaio ed il marzo 1915.L’opera nasce come testimonianza di uno sviluppo stilistico molto veloce, segnato da un graduale abbandono delle più tipiche istanze futuriste in favore di scelte formali più plastiche. Quando il paese entra in guerra lo studio sulla forma diventa costante e mirato ad estraniare l’opera dell’autore dalle manifestazioni del futurismo per avvicinarla alla forma come certezza costruttiva. Carrà può continuare a lavorare perché non viene mobilitato subito e quasi a voler scongiurare il dramma che si sta consumando al fronte, si dedica alla realizzazione di dipinti dai soggetti inquietanti, sebbene / 135 completamente slegati dall’iconografia bellica, dalla ricercata consistenza plastica. L’artista è poi richiamato alle armi ed inviato nel gennaio del 1917 a Pieve di Cento presso Ferrara ma per le sue cattive condizioni di salute è ricoverato per “nevrastenia” nel nosocomio di villa del Seminario, dove incontra Giorgio De Chirico. Il contatto tra i due pittori porta Carrà lungo i percorsi onirici della Metafisica, slegati dalla realtà contingente, drammaticamente lontani ed estranei dal contatto con il mondo della guerra; tutto questo compare nell’opera dell’artista, nel celebre dipinto La musa metafisica. Un altro artista partecipe degli intenti interventisti di Marinetti cambia in questo periodo il suo percorso di ricerca figurativa modificando i dettami del dinamismo futurista a favore della scelta di forme più solide e salde: Giacomo Balla, unica potente voce futurista nella Roma giolittiana, si fa portavoce degli auspici bellici dei futuristi milanesi a suo modo, attraverso gli atteggiamenti ludici ed entusiastici che gli sono propri. La vicinanza a Marinetti è testimoniata dal fatto che quest’ultimo non esita, dal canto suo, ad appropriarsi del progetto del Vetement masculin futuriste, pubblicato sotto forma di manifesto in lingua francese da Balla in data 20 maggio 1914, trasformandolo, nel settembre dello stesso anno, nel Vestito antineutrale, modificandone intimamente il significato in funzione antineutrale e bellicista con sostanziali rimaneggiamenti alla versione italiana del testo. In questo manifesto si dichiara di voler sostituire il vecchio, cupo e soffocante abbigliamento maschile con uno più dinamico, asimmetrico e colorato, che rompa con la tradizione, si adegui al concetto futurista di modernità e di progresso, faccia riferimento alla guerra e sappia rendere l’uomo più aggressivo e bellicoso. L’accostamento dei colori è studiato per produrre un vivace effetto di simultaneità che meglio si armonizza con lo spazio urbano moderno. Nel corso del 1915 la pittura di Balla, incentrata da anni sull’analisi del dinamismo, cambia punto di vista. Insieme al più giovane Depero redige il manifesto Ricostruzione futurista dell’universo in cui vengono spiegati i «complessi plastici dinamici» ideati dai due artisti e subito dopo si lascia attrarre e partecipa alla causa interventista, con la serie dedicata agli “sbandieramenti” ed alle manifestazioni di piazza; non è più il disegno di traiettorie esterne alle forme geometriche descritte ad indicare il dinamismo ma sono le forme stesse ad evocarlo, grazie a contorni definiti che descrivono volumi dinamici, con una struttura organizzata da campiture di colore piatte e solide. Gli smaglianti e festosi colori delle opere di Balla del 1915-1916 incarnano l’idea della guerra come festa, evocata 136 | In trincea per la pace carlO carra’ la Musa MetaFIsIca, 1917, OlIO su tela, cM 90 x 66 pInacOteca dI brera, MIlanO GIacOMO balla bandIere all’altare della patrIa, 1915, GallerIa nazIOnale d’arte MOderna, rOMa GIacOMO balla cOlpO dI FucIle dOMenIcale, 1918 OlIO su tela, cM 66 x 80 cOllezIOne d’arte della banca d’ItalIa / 137 dall’artista ancora alla fine del conflitto in Colpo di fucile domenicale, opera direttamente riconducibile al patriottismo bellico grazie alla scritta autografa «colpo di fucile 1918 W l’Italia» presente in un dipinto di analogo titolo presentato dall’artista alla Mostra d’arte Bragaglia dell’ottobre 1918. Aprendo il catalogo della mostra si leggono i sette punti del Manifesto del colore ed è con quest’ultimo che entriamo proprio nel clou del momento artistico di Balla ricco di lavori colorati. Dopo gli anni Dieci dove principalmente troviamo opere in bianco e nero, a partire dal momento bellico, l’artista, quasi come una risposta positiva al pessimismo del conflitto, guarda al colore. I punti del manifesto sono: 1) Data l’esistenza della fotografia e della cinematografia, la riproduzione pittorica del vero non interessa né può interessare più nessuno. 2) Nel groviglio delle tendenze avanguardiste, siano esse semi-futuriste o futuriste, domina il colore. Deve dominare il colore perché privilegio tipico del genio italiano. 3) L’impotenza coloristica e il peso culturale di tutte le pitture nordiche, impantanano eternamente l’arte, nel grigio, nel funerario, nello statico, nel monacale, nel legnoso, nel pessimista, nel neutro o nell’effeminatamente grazioso e indeciso. 4) La pittura futurista italiana, essendo e dovendo essere sempre più un’esplosione di colore non può essere che giocondissima, audace, aerea, elettricamente lavata di bianco, dinamica, violenta, interventista. 5) Tutte le pitture passatiste o pseudo-futuriste danno una sensazione di preveduto, di vecchio, di stanco, e di già digerito. 6) La pittura futurista è una pittura a scoppio, una pittura a sorpresa. 7) Pittura dinamica: simultaneità delle forze4. Nel luglio del 1914, la Prima guerra mondiale coinvolge il percorso figurativo di un altro artista appartenente al gruppo futurista: Mario Sironi. Nei giorni successivi l’attentato di Sarajevo, l’artista pubblica Le due Triplici, sedici disegni su «Noi e il mondo», rivista il cui direttore è suo cugino Lucio D’Ambra. Una delle tavole è dedicata per la prima volta al tema bellico con lunghe file allineate di soldati che marciano ma i suoi personaggi hanno un accento araldico e astratto, lontano dall’esperienza vera Il Manifesto del colore è stato pubblicato nel catalogo della mostra Personale di Balla presso la Casa d’Arte Bragaglia, nell’ottobre del 1918. 4 138 | In trincea per la pace del conflitto. La ripetizione di una stessa figura in diverse proporzioni o la replica di figure uguali, evidenziano il carattere ritmico della figurazione secondo i dettami della poetica futurista. Il tema vero dei fogli sembra la guerra ma in realtà la scelta figurativa dell’artista è focalizzata e indirizzata interamente all’interesse per la reiterazione delle forme. Le cose non cambiano con l’arrivo del 1915. Effige della guerra futurista è La ballerina, composta probabilmente il 3 gennaio 1915, data che troviamo all’interno della figurazione. L’opera è un omaggio al manifesto Sintesi futurista della guerra, scritto da Marinetti nel settembre 1914. La ballerina viene rappresentata come una giovane donna posizionata vicino al filo da equilibrista caratterizzante un tipo di locale notturno, vestita di un costume di scena molto sensuale, in realtà non sembra danzare ma prevaricare sui nemici del futurismo, vale a dire il passatismo, i critici, l’Austria, come si evince dalla scelta di evidenziare parole tratte dalla Sintesi come «guerra»,«passatismo» o «cimici+preti», quest’ultima espressione utilizzata per definire l’Impero di Francesco Giuseppe. Nel febbraio 1915 vengono pubblicate sei illustrazioni per il libro I gesti della guerra di A. Forlisi grazie al sostegno costante del cugino Lucio D’Ambra. L’artista sceglie una figurazione semplificata, nella sintesi di un disegno su direttrici diagonali nello spazio vuoto, rappresentando i soldati in diverse attività come la marcia, l’attenti, l’attacco, ma il suo intento è più il perfezionamento dello stile che la proposta di una cronaca di guerra; ne è un esempio il soldato rappresentato Nella trincea con un fucile 91 in verticale. Per la stessa rivista raffigura esponenti dell’alta società e i suoi soldati sono molto simili a questi. Un sostanziale cambiamento rispetto le illustrazioni precedenti, nel segno di un palese sentimento antitedesco, si riscontra nella prima tavola dell’artista per la rivista milanese gli «Avvenimenti». Sironi si trasferisce a Milano alla metà di marzo del 1915 ed entra nel gruppo dirigente futurista, è lo stesso Marinetti a presentarlo all’editore della rivista, Umberto Notari. I nuovi volumi della Kultur tedesca esce l’11 aprile. La Germania, con la sua cultura, la sua filosofia e il suo spirito, diventa il bersaglio di continui attacchi da parte di intellettuali ed artisti italiani a causa dello strenuo interventismo di quel periodo che porta i futuristi ad attaccare la politica di indecisione adottata dal proprio paese, l’Italia infatti a quella data non ha ancora firmato la dichiarazione di guerra. La tavola di Sironi esce proprio nel momento in cui il clima è più carico di tensione per l’aggressione, avvenuta pochi mesi prima, della Germa- / 139 MarIO sIrOnI IllustrazIOne per le due trIplIcI, nOI e Il MOndO», 1 luGlIO 1914 MarIO sIrOnI IllustrazIOne per I GestI della Guerra, «nOI e Il MOndO», 1 FebbraIO 1915 MarIO sIrOnI I nuOvI vOluMI della Kultur tedesca, 1915, chIna e teMpera su carta, 63 x 46 cM, «GlI avvenIMentI», 11 aprIle 1915, cOllezIOne prIvata, MIlanO nella paGIna precedente: MarIO sIrOnI la ballerIna, 1915 140 | In trincea per la pace / 141 nia ai danni del Belgio. Sironi raffigura un generale tedesco che con la spada fa a pezzi il nemico caduto; il contenuto pieno di violenza viene quasi messo in secondo piano dalla novità stilistica. Il suo disegno senza chiaroscuro è molto stilizzato, con una linea pura, e grazie a questo, il volume della forma risulta più evidente. Il 23 maggio 1915, giorno in cui l’Italia dichiara guerra all’Austria, Sironi con tutto il gruppo dirigente futurista milanese si arruola nel Battaglione volontari Ciclisti ed il 22 parte per il fronte. L’artista coglie l’occasione per creare, ad inchiostro, ritratti di alcuni volontari Ciclisti; nel disegno utilizza di nuovo il chiaroscuro con una tecnica a segmenti accostati, in cui le ombre vengono definite in maniera graduale. Lo stesso stile è riscontrabile in Ritratto di soldato, anch’esso probabilmente del 1915. Il battaglione viene coinvolto nella prima battaglia tra il 21 e il 24 ottobre, che si risolve con la presa di Dosso Cassina sul Monte Baldo. Il combattimento ha un bilancio relativamente positivo, sia per l’esito favorevole, che per il numero molto limitato di vittime ma si tratta comunque di un’esperienza estremamente drammatica, accentuata dal fatto che i soldati si trovano in una condizione precaria, il cibo è scarso e l’equipaggiamento estivo inadeguato per il freddo intenso. Sironi si congeda a dicembre quando il battaglione viene sciolto e torna a Milano, aspettando di essere richiamato nell’esercito regolare. Questo periodo di pausa è segnato dalla creazione di alcune opere il cui tema è immediatamente riconducibile al conflitto, come le tavole per gli «Avvenimenti», ed altre invece la cui figurazione è legata al periodo di guerra in maniera indiretta, come Il Borghese. Nella figurazione viene descritto un signore che cammina con il bastone e sta andando al concerto pubblicizzato dal ritaglio di rivista che si vede sulla destra. L’artista ironizza sull’abbigliamento e sull’aspetto, i baffi, il cappotto elegante, la cravatta sul colletto inamidato sono elementi che permettono di caratterizzare l’uomo come borghese. Si tratta però di un’ironia piena di amarezza; al mondo tranquillo, composto da serate a teatro, bastoni da passeggio ed abiti eleganti, si contrappone la situazione drammatica e tragica delle popolazioni redente, concentrate non sull’arte come passatempo mondano ma sull’amor di patria. Per questo motivo, quasi al centro della composizione, si trova l’elenco delle sottoscrizioni dei paesi friulani in favore dell’Italia. Si nasconde quindi, dietro lo sguardo ironico dell’artista, un significato più profondo: il borghese che vive la sua vita tranquilla e confortevole men- 142 | In trincea per la pace MarIO sIrOnI tenente GOrI, crOcetta trevIGIana, nOveMbre 1917 MarIO sIrOnI Il bOrGhese, 1916, cOllaGe e teMpera su carta, cM 48,5 x 34,5, studIO d’arte nIcOletta cOlOMbO, MIlanO MarIO sIrOnI capItanO FantOnI, 1918, MatIta su carta, 34 x 23,5 cM. cOllezIOne prIvata tre al fronte si combatte, rappresenta una condizione di cecità nei confronti della realtà contemporanea. Tra il 1917 e il 1918 Sironi crea numerosi disegni che rappresentano soldati ed ufficiali. A differenza delle tante illustrazioni del periodo che pagano pegno alla retorica, Sironi sceglie di ritrarre personaggi sconosciuti, il cui eroismo si manifesta nelle attività compiute in momenti di pausa: giocare a carte, suonare la chitarra, fumare una sigaretta. In questi disegni l’attenzione dell’artista è in alcuni casi rivolta esclusivamente alla resa plastica della figura, come nel Capitano Fantoni, dove nel contrasto tra luci ed ombre si perde la riconoscibilità del volto dell’ufficiale, in altri casi invece più importante per Sironi è rendere evidente l’aspetto psicologico del personaggio ritratto, come nel Tenente Gori, eseguito nel novembre 1917 a Crocetta Trevigiana, lo stesso mese in cui Diaz assume il comando dell’esercito dopo Caporetto. Il disegno è strutturato come un primo piano, la luce rivela il volto dell’uomo e la sua espressione impossibile da decifrare, vitale ed esemplificativa della sua giovi- / 143 nezza ma sulla quale sembrano influire anche sentimenti di dolore e delusione. La raffigurazione è incentrata esclusivamente sul volto, non viene caratterizzato l’ambiente e non si procede alla descrizione della figura, l’aspetto centrale ed essenziale è lo sguardo fisso nel vuoto che riporta alle parole di Ungaretti:«Nel cuore nessuna croce manca, è il mio cuore il paese più straziato». Nelle illustrazioni, l’artista utilizza toni più accesi, nei disegni invece il suo stile è più classico; non c’è teatralità ma nemmeno la cronaca della brutalità e degli elementi più terrificanti del conflitto come in Dix e Grosz. Sironi fa parte dell’vIII Corpo d’armata che è uno dei protagonisti della battaglia finale di vittorio veneto ma la guerra per l’artista, come per la maggior parte dei soldati italiani, non termina con l’armistizio; viene congedato solo nel marzo 1919. Sironi continua però a rappresentare il tema della Grande Guerra, come si vede in tante opere degli anni successivi, dove viene evocata spesso la memoria del conflitto. Poco dopo lo scoppio della Prima guerra mondiale l’artista si trasferisce a Parigi con la moglie e la figlia. La capitale francese è descritta attraverso la rievocazione di ricordi personali, riguardanti un periodo della sua vita pieno di difficoltà, a causa di numerosi fattori: dover procacciare il cibo per sé e la sua famiglia, dover far fronte alla salute malferma della figlia e dover portare avanti il proprio lavoro. Il suo intento di realizzare opere incentrate sul tema bellico viene complicato dal fatto che l’ambiente parigino è ormai artisticamente privo di stimoli ed influssi creativi. s GInO severInI canOn en actIOn (MOts en lIberté et FOrMes), 1914-15 OlIO su tela, 50 x 60 cM staedelschen KunstInstItut, FranKFurt aM MaIn MarIO sIrOnI scena dI Guerra, 1918 ca. teMpera su carta, 32 x 48 cM cOllezIOne prIvata, MIlanO s Tra i firmatari del primo Manifesto della pittura futurista (1910) e fondamentale tramite tra il gruppo futurista e l’ambiente parigino è Gino Severini. Durante l’autunno del 1914 accettando il consiglio di Marinetti di utilizzare una pittura di guerra come esortazione ad agire, Severini desiste gradualmente dal dedicarsi all’astrazione che caratterizza le opere del 1913, per concentrarsi di nuovo sulla realtà e sulla ricerca degli impulsi in essa contenuti, per introdurli nella figurazione. Dalla primavera del 1914, inserisce nei propri lavori composizioni di parole e forme che non hanno un carattere puramente geometrico e decorativo ma includono spicchi di realtà provenienti direttamente dai campi di battaglia; così avviene in Canon en action (1914-1915), dove l’immagine di due soldati intenti a far esplodere un colpo di cannone, viene resa più potente e chiara grazie alle parole ed alle onomatopee che tentano di stimolare 144 | In trincea per la pace / 145 sensazioni uditive, per accrescere la forza d’impatto dell’immagine su chi la guarda. Questa sintesi di parole e forme crea un’immagine emotivamente suggestiva che viene registrata dalla memoria dell’osservatore come una rappresentazione dinamica e quasi gioiosa della guerra. Molto diversa, sebbene il tema sia lo stesso, è la tempera Scena di guerra, eseguita due anni prima da Mario Sironi. Qui la forma viene sintetizzata, per mostrare e mettere in evidenza un‘esperienza profonda, vissuta in prima persona. Il dinamismo di Canon en action è sostituito da una struttura priva di movimento e da una pittura densa. L’opera di Severini, dinamica, rapida, sembra mostrare l’illusione della guerra immaginata dai futuristi nel 1914 mentre l’opera di Sironi, la snervante guerra di trincea, vissuta ogni giorno, nel fango, dai soldati. Severini decide di portare ad Igny, nella campagna alle porte di Parigi, la moglie e la figlia, nella speranza di poter migliorare lo stato di salute di quest’ultima. In questo periodo compie alcuni dei famosi dipinti che hanno come tema i treni militari, compreso Studio per treno blindato, la cui interpretazione però non è certa, per l’ipotesi che possa trattarsi di uno studio di soldati in trincea; lettura dell’opera che sembra sostenuta dall’immagine del fante. Nell’autunno del 1915 torna a Parigi e non smette di dedicarsi al soggetto del treno blindato, riuscendo a comporre, gradualmente, un compendio più chiaro della realtà considerata, fino ad arrivare, nelle opere compiute nell’inverno di quello stesso anno, a forme concentrate e facili da riconoscere, a rappresentare quindi un momento di ricomposizione delle immagini, un ritorno alla figurazione, come tramite per l’idea che erompe dalla mente dell’artista. Severini, meditando sui dipinti di guerra eseguiti nell’inverno del 1915, scrive: «In base a tale modo di vedere, non potevo esprimere la mia idea di “guerra” dipingendo dei campi di battaglia, con stragi di uomini, fiumi di sangue e via dicendo; mentre pochi oggetti o poche forme relative a certe realtà, comprese nel loro “stato essenziale” e in quanto “nozione pura” mi davano, condensata al massimo, l’idea-immagine ben moderna della guerra»5. Queste dichiarazioni sono da interpretare come commento alle due versioni di Synthèse plastique de l’idée: «guerre» dell’inverno 1915, quando l’artista decide di elaborare di nuovo, rimuovendo tutti gli elementi superflui in favore di una pittura concentrata in forme chiuse e nette, 5 Gino Severini, Tutta la vita di un pittore, cit., p. 176. 146 | In trincea per la pace GInO severInI synthèse plastIque de l’Idée: «Guerre», 1915 OlIO su tela, cM 92 x 73, cOllezIOne slIFKa, new yOrK GInO severInI synthèse plastIque de l’Idée: «Guerre», 1915, OlIO su tela, 60 x 50 cM, bayerIsche staats- GeMaeldesaMMlunGen, Munchen un’opera che ha lo stesso titolo, la cui genesi può essere ricondotta ad un periodo tra il 1914 e il 1915; la versione di Synthèse plastique de l’idée: «guerre» conservata oggi a Monaco di Baviera, costituisce il risultato di un percorso volto a sintetizzare la forma e ad agire nello stesso modo sulla composizione, a tal fine il colore viene consolidato perché riesca a plasmare le ombre e i volumi, rendendoli più consistenti al confronto con la versione di New York. L’opera raccoglie, in forma sintetica, una singola proiezione plastica: l’ancora di una nave a rappresentare la Marina, l’ala di un aeroplano per l’Aeronautica, la ruota di un treno e di un / 147 cannone per la Fanteria. La composizione viene alleggerita anche grazie al minore utilizzo nel quadro, della parola dipinta; nell’opera di New York si trova la scritta “EFFORT MAXIMUM” di cui è privo il dipinto di Monaco, nel quale inoltre le parole “ORDRE DE MOBILISATION GENERALE” vengono posizionate in maniera meno evidente, nell’angolo in alto a sinistra del quadro. La tela di Monaco, nonostante le dimensioni ridotte rispetto alla compagna newyorkese, diventa la massima rappresentazione di quello che Severini stesso chiama “realismo ideista”, e l’importanza di questa versione del dipinto è testimoniata dal fatto che l’artista la predilige come tavola della prima edizione delle sue memorie. Proprio nel momento in cui la guerra sul fronte italiano inizia a dare prova dei suoi aspetti più duri, queste tre opere comprovano la fine del periodo dinamico-futurista di Severini, come a ribadire che questo percorso di studio e di ricerca si è concluso, per lasciare il posto alla volontà da parte dell’artista di tornare alla creazione di forme più solide che rispecchiano una realtà più concreta, in contrasto con i sentimenti di incertezza e provvisorietà dell’esistenza molto diffusi in quel momento storico. La scultura di umberto boccioni Boccioni viene considerato uno dei più autorevoli esponenti del futurismo italiano, partecipa con Marinetti, Carlo Carrà, Giacomo Balla e Gino Severini alla stesura del Manifesto della pittura futurista (1909) e al Manifesto tecnico del movimento futurista (1910). L’11 gennaio del 1912 firma il Manifesto della scultura futurista, scrive: «Tradizionalmente, la statua si intaglia e si delinea sullo sfondo atmosferico dell’ambiente in cui è esposta. La pittura futurista ha superato questa concezione della continuità ritmica delle linee in una figura e dell’isolamento di essa dal fondo e dallo spazio avviluppante invisibile. La poesia futurista, secondo il poeta Marinetti, dopo aver distrutto la metrica tradizionale e creato il verso libero, distrugge ora la sintassi e il periodo latino. La poesia futurista è una corrente spontanea, ininterrotta di analogie, ognuna riassunta intuitivamente nel sostantivo essenziale. Dunque, immaginazione senza fili e parole in libertà. La musica futurista di Balilla Pratella infrange la tirannia cronometrica del ritmo. Perché la scultura dovrebbe rimanere indietro, legata a leggi che nessuno ha il diritto di imporle? Rovesciamo tutto, dunque, e proclamiamo 148 | In trincea per la pace l’assoluta e completa abolizione della linea finita e della statua chiusa. Spalanchiamo la figura e chiudiamo in essa l’ambiente. Proclamiamo che l’ambiente deve far parte del blocco plastico come un mondo a sé e con leggi proprie; che il marciapiede può salire sulla vostra tavola, e che la vostra testa può attraversare la strada mentre tra una casa e l’altra la vostra lampada allaccia la sua ragnatela di raggi di gesso»6. Si estrapola dallo scritto, una concezione quasi architettonica della pratica scultorea; l’opera si costruisce all’interno, da un interno che si allarga e si sviluppa per entrare in comunicazione con lo spazio reale che lo circonda, con il mondo. In questo senso bisogna leggere la formulazione del concetto di scultura d’ambiente. La scultura quindi, secondo l’artista, deve riuscire a concretizzare e a far assumere consistenza al prolungamento degli oggetti nello spazio e dar loro vita grazie all’effetto del movimento. L’oggetto è qualcosa che non ha limite, è infinito, perché si diffonde nello spazio, diventa spazio e a sua volta lo contiene, nel senso che lo spazio vive nell’oggetto. Paradigma di tutto questo è la scultura che Boccioni porta a compimento nel 1913, Forme uniche nella continuità dello spazio. La figura, senza braccia, sembra per certi versi uno studio anatomico, risulta infatti priva di involucro epidermico e si distinguono in modo preciso particolari come i polpacci, i muscoli, l’articolazione del ginocchio, per altri invece, sembra avere le fattezze dell’ingranaggio di un macchinario in movimento. L’artista riesce a creare un chiaroscuro ad intermittenza, costituito dall’avvicendamento di parti cave e in rilievo, piene e vuote, dove in maniera veloce ed improvvisa, dalla luce si passa all’ombra; un esempio di questo è il torso, visto da destra dà l’impressione di essere pieno ma girando intorno alla statua e tornando ad osservarlo da sinistra, sembra trasformarsi in una cavità vuota. Il fine è rendere evidente come la figura si plasmi a seconda dello spazio che la circonda. I contorni irregolari, con una linea elaborata come una successione di curve alternativamente concave e convesse, permettono alla figura di liberarsi dai limiti consueti ed espandersi nello spazio. L’interno della statua è percorso da fenditure e spigoli, a causa dei quali i piani sembrano spezzati come se non ci fosse una sola figura ma altre sovrapposte ad essa di continuo. La statua vista lateralmente appare lanciata energicamente in avanti ma osservata frontalmente si rileva un avvitamento delle forme nello spazio, torsione creata dall’avvolgersi della linea intorno alla figura con un movimento a spirale; la ro- 6 verdone M., Il Futurismo, Newton Compton, Roma 1994, p. 45. / 149 va quindi considerato il concetto più importante della sua poetica, quello di dinamismo. Boccioni scrive: «Dinamismo è la concezione lirica delle forme interpretate nell’infinito manifestarsi della loro relatività tra moto assoluto e moto relativo, tra ambiente ed oggetto, fino a formare l’apparizione di un tutto: ambiente + oggetto. È la creazione di una nuova forma che dia la relatività tra peso ed espansione. Tra moto di rotazione e moto di rivoluzione, insomma è la vita stessa afferrata nella forma che la vita crea nel suo infinito succedersi»7. uMbertO bOccIOnI svIluppO dI una bOttIGlIa nellO spazIO, 1912-1913 brOnzO, 38 x 59,5 x 32,3 cM MuseO del nOvecentO, MIlanO a FIancO uMbertO bOccIOnI FOrMe unIche nella cOntInuItà dellO spazIO, 1913 brOnzO, 1,11M x 88 cM MuseuM OF MOdern art, new yOrK tazione che ne risulta, coinvolgendo diversi piani, evidenzia una dilatazione ulteriore delle forme. Altra opera che risulta utile alla comprensione degli intenti di Boccioni è Sviluppo di una bottiglia nello spazio. La scultura rappresenta un soggetto raramente riscontrabile nel panorama della poetica futurista dell’artista: una natura morta, costituita da una bottiglia poggiata su un piatto. Il gioco dinamico che è fondamento dei suoi lavori, viene reso mediante la proiezione vorticosa dei due elementi, l’esterno e l’interno dei quali è indefinito. Grazie alle linee, le forme e i colori, l’oggetto prende vita; la finalità dell’artista è partire da una visione esterna di esso, per arrivare alla decodificazione di quella interna. Allo scopo di indagare e spiegare a se stesso, il metodo, la tecnica, i meccanismi d’indagine per fare della figurazione la vita stessa, intuita nelle sue trasformazioni dentro all’oggetto e non fuori da esso, nel 1914 scrive Pittura e Scultura futuriste. È da un simile punto di vista che 150 | In trincea per la pace Il primo significato dato dai futuristi al concetto di dinamismo quale semplice reiterazione meccanica del movimento, viene arricchito da Boccioni; secondo quest’ultimo infatti, l’intuizione dell’artista è in grado di misurare la continuità nello spazio delle linee-forza, per mezzo delle quali gli oggetti tendono, in ogni direzione, all’infinito. Questa tensione all’infinito dell’oggetto è definito da Boccioni «trascendentalismo fisico» ed il suo fine è quello di acquisire la capacità di riconoscere come forma unica il dinamismo dell’oggetto. Da queste premesse discendono gli altri concetti del pensiero boccioniano di «simultaneità» e di «stato d’animo plastico». L’artista è quindi in grado di fornire una sintesi della fatalità drammatica di cui è preda il mondo, che riguarda, allo stesso modo, gli uomini e tutta la realtà che li circonda. Scrive l’artista:«Noi vogliamo modellare l’atmosfera, disegnare le forze degli oggetti, le loro reciproche influenze, la forma unica nella continuità dello spazio. Questa materializzazione del fluido, dell’etereo, dell’imponderabile; questa trasposizione nel concreto di quello che si potrebbe chiamare il nuovo infinito biologico e che la febbre dell’intuizione illumina, è forse letteratura? Tutte le ricerche umane nel nostro tempo non anelano forse verso questo imponderabile che è in noi, attorno a noi e per noi? Non dimentichiamo che la vita risiede nell’unità dell’energia, che siamo dei centri che ricevono e trasmettono, cosicché noi siamo indissolubilmente legati al tutto»8. Il testo di Boccioni Pittura e Scultura futuriste è un testo fondamentale nella storia delle avanguardie artistiche del Novecento. La lettura e l’interpretazione di un simile testo non può essere compiuta senza rendersi conto del travaglio che lo precede e delle inquietudini, degli umori, delle ragioni che lo seguono. Boccioni è uno strenuo interventista e parte per la guerra, con grande fervore, insieme a Marinetti, Sant’Elia, Sironi. Le lettere dal fronte all’inizio hanno un tono entusiastico, energi7 Boccioni Umberto, Pittura e scultura futuriste, Abscondita, Milano 2006, p. 95. 8 Id., p.152. / 151 co, convinto ma nel bel mezzo dell’entusiasmo arriva la crisi all’improvviso, sconcertandolo, ed egli si rivolge allora all’unica verità rimasta per lui: l’arte. Dopo due anni di guerra il suo ardimento viene frantumato. Muore nel corso di un’esercitazione, per una caduta da cavallo. Il desiderio più pressante per Boccioni è quello di diventare, a tutti gli effetti, un artista pienamente partecipe e attivo all’interno del convulso e confuso clima della sua realtà contemporanea, constatando la necessità di un grande e profondo rinnovamento di fronte allo sfacelo dei valori ottocenteschi degenerati. Le idee architettoniche di Antonio sant’Elia Il Futurismo focalizza l’attenzione sulla metropoli contemporanea già nelle prime opere programmatiche e nelle prime figurazioni pittoriche, evidenziando l’energico, vitalità della vita metropolitana e delle macchine che vi si trovano: il tema dell’architettura futurista è quindi congenito ed inscindibile dalle idee del movimento. Architettura lineare, essenziale e funzionale per una società improntata sul dinamismo. L’architetto più coinvolto dagli intenti del movimento futurista è Antonio Sant’Elia. Ispirato, nel periodo compreso tra il 1912 e il 1914, dalle città industriali degli Stati Uniti e dagli architetti viennesi Otto Wagner e Joseph Maria Olbrich, inizia a creare una serie di disegni per una “Città Nuova”. Sant’Elia è consapevole del fatto che la sua proposta non può avere una realizzazione immediata, per questo le sue intenzioni sono precipuamente di natura propositiva come all’interno di una provocazione utopica sono da leggere le sue idee, i suoi progetti e disegni della città nuova. Le sue metropoli sono pensate per essere durature, il suo desiderio è che ogni generazione possa costruire dal nulla la propria città, in cui spazio destinato alla vita del singolo individuo e spazio collettivo si compenetrino, integrandosi. Nel Manifesto dell’Architettura futurista, scritto nel 1914, si trovano i fondamenti del suo progetto utopico. Sant’Elia immagina e disegna un’architettura che, partendo da un’ipotesi nuova, possa risolvere i problemi della casa e della città, senza rinunciare al positivo dinamismo del rinnovamento futurista. Scrive l’architetto:«Non si tratta di trovare nuove sagome, nuove marginature di finestre e di porte, di sostituire colonne, pilastri, mensole con cariatidi, mosconi, rane; non si tratta di la- 152 | In trincea per la pace antOnIO sant’elIa studIO per la cIttà nuOva, 1914 / 153 sciare la facciata a mattone crudo, o di intonacarla, o di rivestirla di pietra, né di determinare differenze formali tra l’edificio nuovo e quello vecchio; ma di creare di sana pianta la casa futurista, di costruirla con ogni risorsa della scienza e della tecnica, appagando signorilmente ogni esigenza del nostro costume e del nostro spirito, calpestando quanto è grottesco, pesante e antitetico con noi(tradizione, stile, estetica, proporzione) determinando nuove forme, nuove linee, una nuova armonia di profili e di volumi, un’architettura che abbia la sua ragione d’essere solo nelle condizioni speciali della vita moderna, e la sua rispondenza come valore estetico nella nostra sensibilità. Quest’architettura non può essere soggetta a nessuna legge di continuità storica. Deve essere nuova come è nuovo il nostro stato d’animo»9. L’antitesi tra antico e moderno è determinata da tutto quello che prima non esisteva, sostiene Sant’Elia: «Abbiamo perduto il senso del monumentale, del pesante, dello statico, ed abbiamo arricchito la nostra sensibilità del gusto del leggero, del pratico, dell’effimero e del veloce. Sentiamo di non essere più gli uomini delle cattedrali, dei palazzi, degli arengari; ma dei grandi alberghi, delle stazioni ferroviarie, delle strade immense, dei porti colossali, dei mercati coperti, delle gallerie luminose, dei rettifili, degli sventramenti salutari. Noi dobbiamo inventare e rifabbricare la città futurista simile ad un immenso cantiere tumultuante, agile, mobile, dinamico in ogni sua parte, e la casa futurista simile ad una macchina gigantesca. Gli ascensori non debbono rincantucciarsi come vermi solitari nei vani delle scale; ma le scale, divenute inutili, devono essere abolite e gli ascensori devono inerpicarsi, come serpenti di ferro e di vetro, lungo le facciate. La casa di cemento, di vetro, di ferro senza pittura e senza scultura, ricca soltanto della bellezza congenita alle sue linee e ai suoi rilievi, straordinariamente brutta nella sua meccanica semplicità, alta e larga quanto più è necessario, e non quanto è prescritto dalla legge municipale, deve sorgere sull’orlo di un abisso tumultuante: la strada, la quale non si stenderà più come un soppedaneo al livello delle portinerie, ma si sprofonderà nella terra per parecchi piani, che accoglieranno il traffico metropolitano e saranno congiunti, per i transiti necessari, da passerelle metalliche e da velocissimi tapis roulants »10. 9 Manifesto dell’architettura futurista, in Mario verdone, op. cit., pp. 92-93. 10 Id., p. 93. 154 | In trincea per la pace GIuseppe e antOnIO terraGnI MOnuMentO aI cadutI. MOnOlItO In GranItO d’alzO, alt. 30M, 1933, cOMO La nuova architettura deve avere come elementi irrinunciabili: audacia e temerarietà, elasticità e leggerezza, cemento e ferro, vetro e fibre tessili, surrogati del legno, della pietra e del mattone. Non deve quindi essere limitata dalla combinazione sterile di praticità ed utilità, ma risultante sempre da espressione e sintesi. Le abitudini, le consuetudini plastiche e lineari cadranno. Il senso di transitorietà sarà presente come positiva caratteristica dell’architettura futurista. La città sarà un cantiere sempre aperto. Sebbene guardi con simpatia alle idee socialiste, all’alba della Prima guerra mondiale Sant’Elia si schiera su posizioni interventiste, coerentemente con le idee del movimento futurista. Nel 1915 si arruola volontario nel Regio Esercito Italiano. Durante un assalto con il suo plotone ad una trincea nemica, viene colpito a morte. Da un suo disegno ad acquarello nasce il sacrario di Como, il Monumento ai caduti. Il sacrario costituito da un monolito in granito d’Arzo del peso di 40 tonnellate rivestito di diorite d’Anzola viene realizzato poi dai fratelli Terragni. Sulla facciata di fronte al lago è scolpita una frase dell’architetto: «Stanotte si dorme a Trieste o in paradiso con gli eroi». La maggior parte dei suoi progetti non furono mai realizzati, ma la sua visione futurista ha influenzato numerosi architetti e disegnatori. / 155 LA vIOLENZA DEL CONFLITTO E L’ImPATTO EmOTIvO NELLE OPERE DEGLI ARTIsTI TEDEsChI E AusTRIACI Il trauma della guerra: Dix, Grosz, Kirchner Allo scoppio della guerra Otto Dix, interventista deciso e pieno di entusiasmo, si arruola volontario nell’esercito tedesco, attratto come tanti giovani europei dalla speranza di partecipare ad eventi straordinari e dalla possibilità di dare vita ad un mondo rinnovato, sulle rovine di quello vecchio. La convinzione, resa ancora più radicata in lui dalla lettura di Nietzsche, che l’esperienza intrapresa sia necessaria e rigeneratrice, è accompagnata dalla sua grande determinazione, come è evidente nell’opera in cui decide di ritrarre se stesso: l’Autoritratto da soldato, del 1914. In questo dipinto, infatti, l’artista sceglie di utilizzare colori violenti, pennellate decise e raffigura se stesso con occhi profondi, mascelle serrate, testa rasata; ad indicare, in maniera ulteriore, i suoi sentimenti di fierezza e determinazione, l’apposizione di una firma molto grande e squadrata. Nel momento in cui la guerra moderna rivela il suo aspetto più duro, tragico, antieroico, distruttivo, il sentimento dell’artista cambia, si trasforma in disperato sconforto. In questi anni Dix realizza un diario visivo, composto di centinaia di fogli e disegni, frutto della sua esperienza nei diversi fronti del conflitto, prima in Francia, poi nelle Fiandre, in Russia e ancoOttO dIx autOrItrattO da sOldatO, 1914 ra in Francia. In quest’opera gli aspetti più OlIO su carta, 68 x 53,5 cM GalerIe der stadt stuttGart, terrificanti della guerra affiorano attraverstOccarda so la rappresentazione di paesaggi devastati come lesioni inflitte alla terra inerme e mediante l’utilizzo di immagini espressioniste di morte, di aggressione, di violenza, rafforzate dai colori puri. I commilitoni di Dix che condividono giorno dopo giorno la terribile esperienza bellica con lui non riescono a comprendere fino in fondo quelle illustrazioni perchè le trovano troppo violente ed impressionanti. In Germania alla fine della Prima guerra mondiale nasce un movimento artistico riguardante, in prima istanza, la pittura: “La Nuova Oggettività”. L’adesione di Dix al gruppo corrisponde alla sua partecipazione alla mostra d’arte, dove vengono esposte le opere dei pittori appartenenti al movimento, organizzata a Mannheim. L’intento di questi artisti è quello di utilizzare l’arte come un arma, come mezzo per rappresentare 156 | In trincea per la pace / 157 la realtà lucida e concreta delle cose, grazie alla capacità di provvedere a descrizioni amare e distaccate, alla forza di testimoniare i loro sentimenti di disillusione, rassegnazione e cinismo davanti al drammatico dopoguerra tedesco e ad una società contaminata e corrotta; questa componente emotiva è peculiare della temperie culturale tedesca. OttO dIx craterI dI bOMbe In un caMpO a dOntrIen rIschIaratO da pallOttOle traccIantI, 1924 cM 19,3 x 25,4, brItIsh MuseuM, lOndra OttO dIx FIandre, 1936 La conoscenza della grande tradizione artistica tedesca e la personale memoria di una tragedia infinita si congiungono in una serie di 50 acqueforti dal titolo Der Krieg (la guerra), realizzata nel 1924 in occasione del decennale della Prima guerra mondiale; in questo ciclo Dix si dedica al tema bellico con uno stile che richiama alla mente un’altra famosa collana di incisioni contro la guerra, i Disastri della guerra di Goya. Uno dei fogli più terrificanti della serie di Dix è il quarto (Crateri di bombe in un campo a Dontrien rischiarato da pallottole traccianti) dove la scelta di rappresentare solo un povero pezzo di terra segnato dalle esplosioni e il buio squarciato dalla luce improvvisa dei razzi, rivelatrice di un paesaggio lunare, allontana la figurazione dall’abituale retorica dell’orrore e testimonia l’accostamento di Dix ad una tecnica di incisione sviluppata nei primi anni del Cinquecento da un artista della Svizzera tedesca, Urs Graf; un procedimento in cui è previsto il capovolgimento del rapporto tra bianchi e neri, la xilografia a linee bianche. Alla fine degli anni venti Dix elabora e porta a compimento un’opera monumentale, concepita nella forma del trittico, scrive l’artista: «Quando ho dipinto il trittico La guerra non volevo suscitare sentimenti di paura. Il quadro è stato eseguito dieci anni dopo la fine della guerra mondiale. Durante quel periodo avevo realizzato molti studi, cercando di rappresentare pittoricamente l’esperienza della guerra. Nel 1928 mi sono sentito pronto ad affrontare quel grande soggetto, a cui avevo lavorato tanti anni. In quell’epoca, durante la Repubblica di Weimar, c’erano molti libri che esaltavano il senso dell’eroismo, riandando insensatamente alle azioni militari della prima guerra mondiale. Gli uomini stavano già dimenticando le terribili sofferenze che la guerra aveva portato. Il trittico è nato da queste riflessioni. ho voluto solo rappresentare, in modo sintetico e oggettivo, come se facessi un articolo su un giornale, le mie esperienze dal 1914 al 1918»11. Il Trittico della guerra viene realizzato a Dresda ed esposto a Berlino nel 1932; opera ad ulteriore testimonianza della relazione stretta di Dix con l’antica tradizione pittorica. Il trittico è una struttura arcaica, tipica degli 11 OttO dIx trIttIcO la Guerra, 1929-32 alt. cM 264, staatlIche KunstsaMMlunG, dresda La Nuova Oggettività tedesca, a cura di Elena Pontiggia, Abscondita, Milano 2002, p. 40. 158 | In trincea per la pace / 159 altari ecclesiastici e il riferimento all’arte religiosa non è fortuito, nonostante ad essere rappresentati non siano personaggi religiosi ma intollerabili crudeltà belliche, ma serve, da un lato, a riguadagnare dopo l’astrattismo, il legame con la realtà, dall’altro, risulta utile a fornire la scansione temporale della figurazione. Nel pannello a sinistra un gruppo di soldati procede in un’atmosfera tempestosa, richiamando alla memoria l’andata al calvario di Cristo. Un bombardamento tremendo, in grado di distruggere tutto e rendere scheletro l’uomo in alto, crocifisso, viene rappresentato nello scomparto centrale. All’interno di un paesaggio cupo e lunare Dix inserisce la citazione di un arco di rocce, riferimento agli sfondi paesaggistici delle madonne del Rinascimento, meravigliosi e pieni di bellezza, in contrasto stridente con uno sfondo composto da corpi massacrati e in disfacimento. Il soldato che indossa la maschera indica la minaccia di attacchi chimici. Nello scomparto destro un militare è intento a cercare invano sopravvissuti e nella predella, l’ultimo pannello, nel quale di solito la tradizione iconografica pone la raffigurazione di Cristo disteso, appaiono invece soltanto numerosi cadaveri. Non bisogna valutare l’opera solo come una delle più tormentate e terrificanti rappresentazioni della guerra ma anche come dimostrazione dell’esperienza diretta dell’artista che la vive come un’angosciosa esperienza onirica trasformatasi in realtà. I traumatici fatti vissuti, lo accompagnano anche dopo anni dalla fine del conflitto, nei suoi incubi costanti, ed è questo che Dix vuole mostrare alla vigilia di un’altra immane tragedia. L’ostilità di Dix al regime che sta organizzando un nuovo conflitto è provata dal suo ultimo dipinto di tema bellico: Fiandre del 1934-36, compiuto di nascosto, dopo il divieto impostogli dai nazisti, di esporre e di perpetuare con i suoi insegnamenti la memoria della guerra e dei suoi morti. Quest’opera come Il Trittico della guerra riporta agli esempi dei grandi artisti del passato, per esempio nello stile adottato per la figurazione del cielo e delle radici degli alberi. La volontà di Dix di schierarsi contro il nuovo regime è dimostrata anche dal fatto che il dipinto è un omaggio ad uno scrittore vietato dal Terzo Reich: Barbusse, combattente francese, membro del partito comunista francese, morto a Mosca nel 1935, autore del libro Il Fuoco. Il tema dell’opera di Dix non è più il massacro ma la reazione dei soldati, di entrambi gli schieramenti, davanti all’acqua che invade le trincee e la loro fuga per mettersi in salvo, al riparo, nella notte, dall’inondazione; il loro pensiero non è più quello di uccidersi ma quello di salvarsi e quando arriva il mattino, si ritrovano tutti vicini nello stesso luogo. 160 | In trincea per la pace Nel 1933 con la presa al potere di hitler, Otto Dix viene considerato un pittore “degenerato”, in tal modo è aggettivato dal regime qualunque artista che nelle proprie opere riveli principi o scelte estetiche contrarie alle concezioni naziste, le quali si oppongono a molte forme d’arte contemporanea dell’epoca. Non solo viene proibito quindi a Dix di esporre la propria arte ma alcune sue opere vengono confiscate e bruciate. Un altro artista tedesco, nel 1914, si arruola volontario nell’esercito, George Grosz. A causa del trauma psicologico legato all’esperienza bellica viene congedato per problemi di salute e ricoverato presso un ospedale militare. Riprende a dipingere tra il 1915 e il 1917 e al fine di rappresentare lo sfaldamento morale dopo il tracollo prussiano, decide di ridurre graficamente il segno in modo drastico; negli anni seguenti la sua produzione è caratterizzata da questo stile, nel momento in cui, per breve tempo, partecipa al movimento Dada di Berlino, giunto in quella città da zurigo nel 1918 e sceglie di aderire a ideologie politiche rivoluzionarie. Le ripercussioni psicologiche delle atrocità che l’artista si è trovato a vivere sono evidenti in un’opera del 1917, Metropolis. L’immaginazione lo porta a rappresentare in questo dipinto una città priva di ordine, caratterizzata da una confusione opprimente e dove gli uomini trascorrono le loro esistenze soffocati da un’atmosfera convulsa e violenta. Un colore prevale sugli altri, il rosso, per evidenziare il concetto della città moderna come luogo di dolore e angoscia, luogo in cui le persone vengono logorate dal traffico e dal cemento. Gli uomini, resi irriconoscibili dalle maschere, sembrano scappare da un imminente disastro, un conflitto o semplicemente il loro avvenire devastato dal progresso incontrollato e disordinato della metropoli. Le figure rappresentate nel dipinto sembrano partecipare ad un drammatico spettacolo teatrale, come se Metropolis costituisca, in realtà, una sorta di caricatura della città moderna. L’esito ultimo dell’opera, realizzata negli anni della Prima guerra mondiale, viene ineluttabilmente condizionato dalla situazione tragica in cui si trova l’artista e dalla presa di coscienza di un conflitto che diventa, giorno dopo giorno, una carneficina di massa. Il dinamismo della figurazione è meccanico e definito, da un lato il movimento delle persone che fuggono verso punti diversi, con andatura sostenuta ma disordinata, dall’altro la staticità degli edifici, come quello più importante che separa il quadro in due parti, virtualmente sorretto dalla delimitazione rappresentata dal palo opposto al centro. Tutto appare come il fotogramma di un film, una proiezione catastrofica e forse un presagio; pochi anni più tardi il nazismo sarebbe andato al po- / 161 Un’altra opera di Grosz, realizzata tra il 1917 e il 1918, si connette alla rappresentazione dell’umanità fuori controllo e vittima di corruzione e disfacimento: Il funerale. Il dipinto diventa per il pittore una valvola di sfogo, sarcastica e pessimista, per l’astio e il risentimento dell’artista nei confronti di una società borghese, rea di aver coinvolto o comunque di non aver impedito la partecipazione della Germania alla grande catastrofe della guerra mondiale. GeOrGe GrOsz MetrOpOlIs, 1916-17 OlIO su tela, 100 x 102 cM MuseO thyssen- bOrneMIsza, MadrId GeOrGe GrOsz Il Funerale. dedIcatO a OsKar panIzza, 1917-18 OlIO su tela, cM 140 x 110 staatsGalerIe, stOccarda tere e Grosz censurato per il significato e i contenuti delle sue opere. Al dipinto, conseguenza degli orrori ai quali l’artista ha assistito, appartiene uno stile segnato da una forte componente espressionista, sulla quale influiscono elementi tratti dall’estetica cubista ed in misura ancora maggiore, futurista. Caratteristico del Futurismo italiano è lo studio del dinamismo proprio della vita urbana moderna e Grosz riesce ad adattare questo principio alla propria visione del mondo. La massa di persone imprigionata senza alcuna via di scampo in un’esistenza dall’avvenire spaventoso e pieno di barbarie, si coniuga, perfettamente, con la celebrazione dell’inesorabile fatalità del destino umano, tipica degli artisti futuristi; Grosz la amplifica grazie a fondamentali linee di fuga che partono da un punto determinato immobile e grazie anche all’illuminazione dell’intera scena, assicurata dalla presenza di un infuocato sole irreale. 162 | In trincea per la pace Il quadro è dedicato ad Oskar Panizza, autore di una serie di volumi di poesie, ardite e sfrontate, per le quali viene prima arrestato ed imprigionato nel 1885 e poi internato in vari ospedali psichiatrici, dal 1901 fino alla sua morte nel 1921. Grosz consegna del dipinto un’interpretazione eccentrica, irriverente e dall’intonazione raccapricciante, come dimostrano gli edifici raffigurati sulla scena, talmente instabili da dare l’impressione di un crollo imminente la cui vittima sarebbe la folla. Al centro della composizione, l’artista dispone una bara bianca sopra la quale è seduto uno scheletro ubriaco. Sulla destra, un giovane che rigurgita le illusioni della propria esistenza. Tre figure orripilanti e spaventose, rappresentanti la sifilide, la peste e l’alcolismo si pongono davanti ad un prete che con un crocifisso bianco in mano e le braccia sollevate tenta di tenerle a bada. L’utilizzo di sfumature rosso scuro e nero per la marcia disordinata di figure distorte, tra edifici minacciosamente instabili, rende opprimente e piena di angoscia l’atmosfera del quadro, inoltre ad accentuare la sensazione di claustrofobia, la scelta della sovrapposizione di scene multiple nello spazio. L’intento di Grosz, come di altri nuovi pittori anti-borghesi della Germania, è quello di restare il più possibile fedele alla realtà, scrive nel 1921: «Tornare alla stabilità, alla costruzione, alla funzionalità: sport, ingegneria, macchine, niente più dinamismi e romanticismi futuristi. Sto provando ancora a dare un’immagine assolutamente realistica del mondo. Mi sforzo di essere comprensibile a tutti, evitando gli abissi di profondità oggi in voga, a cui si può giungere solo indossando un vero e proprio scafandro carico di metafisica e di menzogne cabalistiche. Nel tentativo di creare uno stile semplice e chiaro, si finisce senza volerlo per avvicinarsi a Carrà. Eppure tutto concorre a separarmi da un artista come lui, che aspira a una dimensione metafisica e affronta una tematica borghese. Io cerco nei miei lavori cosiddetti artistici, di costruire una base assolutamente realistica. L’uomo non è più un individuo rappresentato con un sottile scavo psicologico, ma un concetto collettivo, quasi meccanico. Il destino individuale non ha più importanza. vorrei come nell’antica Gre- / 163 cia, rappresentare dei semplici avvenimenti sportivi, comprensibili e godibili senza bisogno di chiose. Il futuro dell’arte lo vedo nell’artigianato, nelle cose fatte a mano, non nel tempio celeste. La pittura è un lavoro manuale come un altro, che può essere fatto bene o male»12. Queste premesse lo portano ad approdare, nel 1925, al movimento della “Nuova oggettività” e a partecipare alla mostra di Mannheim. La tragica situazione del dopoguerra tedesco si estrapola facilmente dai dipinti, dalle litografie e dai disegni di questo periodo. La falsità e la violenza di salotti, caserme, tuguri, strade vengono messe a nudo dallo stile caustico e amaro di Grosz. Uno spirito spiccatamente satirico è evidente in un dipinto di questi anni: i Pilastri della società, nel quale analizza, senza pietà, i personaggi destinatari del potere della società, due politici, un giornalista, un prete e dei soldati. Le sembianze delle figure sono accentuate, esagerate e i loro visi appaiono come terrificanti sogghigni derivanti da un incubo. In primo piano è raffigurato un militante, in una mano ha un boccale di birra, nell’altra una spada, sulla cravatta blu il simbolo della svastica ( simbolo che si trova in quest’opera realizzata nel 1926, nove anni prima della salita al potere di hitler), dalla sua scatola cranica fuoriesce un cavaliere armato, personificazione delle sue convinzioni bellicose; dietro questa figura quella di un politico, privo di cervello perché al posto di quest’ultimo ha solo un cumulo di escrementi, la sua obesità e mollezza ad esemplificare il suo egoismo. Il personaggio con un vaso da notte in testa a sostituire il cappello, è un giornalista e ad evidenziare le sue idee fermamente conservatrici, una penna con la piuma. A chiudere la rappresentazione, un prete con naso ed orecchie rosse e sullo sfondo, i soldati intenti a diffondere morte e distruzione con piglio caparbio. GeOrGe GrOsz I pIlastrI della sOcIetà, 1926 neue natIOnalGalerIe, berlInO L’artista caratterizza ogni figura con una forma sintetizzata ma anche con l’aggiunta di precisi dettagli, molto utili a livello di comunicazione; usa l’arma della pittura per criticare la situazione politico-sociale della Germania, attraverso una pittura brutale quanto i tempi in cui si trova a vivere. Grosz è stato un artista in grado di scorgere nella sete di potere, nell’autoritarismo politico, nel desiderio sfrenato di ricchezza, i segni della nevrosi, di una dannosa e mortale follia. La sua determinazione nella denuncia dei mali della società, rappresenta una delle motivazioni per 12 La Nuova Oggettività Tedesca, op. cit., p.19 164 | In trincea per la pace / 165 cui anche Grosz come Dix viene ritenuto dal nazismo un “artista degenerato”. Nel 1933 lascia la Germania alla volta degli Stati Uniti, tornerà in patria solo un anno prima della morte, avvenuta nel 1958. Caratterizzato da una violenta denuncia sociale è il percorso umano e figurativo di un altro artista tedesco: Ernst Ludwig Kirchner, la cui larga fama è legata al primo espressionismo tedesco. Nel 1905 nasce «Die Brucke» (Il Ponte), un movimento artistico d’avanguardia di cui l’artista è uno dei fondatori. Esaminando il momento storico caratterizzato da degradazione morale, sfruttamento e depauperazione di una classe operaia ormai alienata, sconvolgimenti e politiche disattese, il nome scelto per la nuova corrente rappresenta uno stimolo ad attraversare una sorta di ponte virtuale che porta al traguardo ultimo di un futuro promettente, rispetto alla situazione contemporanea. In quegli anni e fino al momento in cui il gruppo decide di sciogliersi nel 1913, Kirchner trova nella sua arte il modo di mettere in evidenza le sue convinzioni più radicate al fine di trasporre visivamente gli elementi della società in cui vive. Esempio di questo, sono dipinti come le Cinque donne per strada del 1913, notevole sia per il tema che per l’elaborazione. Il rapporto dell’espressionismo tedesco con la visione della realtà è segnato da uno sguardo angosciato e pieno di dolore, a differenza dei Fauves, perché generato sempre da circostanze più drammatiche. La realtà rimane celata dietro un muro di consuetudini e falsità, non è quella che sembra. L’intima conoscenza dell’animo umano è l’unico mezzo per svelare la verità dietro la sua immagine apparente avvertita dagli occhi. Per avvicinare l’uomo a ciò che l’animo percepisce, la pittura espressionista tedesca provvede alla deformazione dell’aspetto della realtà. Nelle opere di Kirchner questo è evidente nella scelta di dare una forma spigolosa e appuntita ai corpi che non irradiano calore umano ma diffondono invece una sensazione di aguzza freddezza. Le cinque donne raffigurate nel dipinto possono essere prostitute che aspettano clienti sotto un lampione oppure signore borghesi, quello che è certo non si differenziano significativamente da altre donne visibili in altri quadri dell’artista. Le fattezze appuntite, i corpi spigolosi e privi di curve, i visi pallidi ed esangui restituiscono di queste cinque figure femminili un’immagine lugubre ed infausta. L’opera non è collocata nello spazio in maniera molto nitida, anche se un incerto elemento circolare è disegnato dalla posizione delle donne in angolazioni distinte. Per creare e distinguere le cinque protagoniste dallo spazio circostante, l’artista sceglie il nero che si differenzia dalle prevalenti tonalità del verde, in un 166 | In trincea per la pace assortimento cromatico piuttosto ristretto. Lo stile pittorico è reso volontariamente più snello, quasi a voler creare un collegamento con la tecnica xilografica conosciuta ed adottata dagli artisti espressionisti del gruppo «Die Brucke» e quindi dallo stesso Kirchner. La scelta di utilizzare il colore come forma di espressione, la semplificazione dei profili, le ambientazioni drammatiche e fosche, la determinazione a voler mettere a nudo i difetti della società borghese in maniera estesa, la volontà di sovvertire il significato della bellezza come dote portata dall’arte per promuovere sentimenti rassicuranti e confortanti, sono tutti segni distintivi dell’espressionismo tedesco. Gli artisti espressionisti, infatti, rifiutano l’idea borghese dell’arte come strumento di ottimistiche e piacevoli divagazioni, e non può essere altrimenti dato che la loro arte è una denuncia sociale orientata, proprio, contro la borghesia. Nel 1913 il gruppo viene sciolto e alla stessa data viene associato il principio per Kirchner di problemi fisici e psicologici; complicazioni acuite dal fatto che l’artista decide di arruolarsi volontario, l’anno successivo allo scoppio della Prima guerra mondiale. Parte per il fronte e l’esperienza diretta del conflitto lo devasta interiormente. La convivenza con la morte, l’osservazione delle mutilazioni, le atrocità che caratterizzano la guerra di trincea ad oltranza, lo portano ad una condizione tale di abbattimento che nel 1915 viene congedato al fine di farsi curare per l’esaurimento nervoso di cui è vittima. Il trauma subito durante il conflitto si evince anche dai suoi autoritratti di questo periodo, ne è un esempio, appunto, l’Autoritratto da soldato del 1915, in cui l’artista ritrae se stesso nella sua divisa militare insieme ad una donna nuda, non imprescindibilmente legata a lui da un rapporto sentimentale, forse una prostituta. La coscienza che al fronte la morte può arrivare da un momento all’altro, inaspettata ed improvvisa, rende lo sguardo del pittore, nel dipinto, quasi inconsistente e stordito. Il moncone dal quale fuoriesce ancora sangue è la dimostrazione ed il simbolo della paura avvertita nei confronti della guerra e delle mutilazioni che quest’ultima è in grado di provocare. È la prima opera che focalizza fermamente l’attenzione sulle conseguenze terribili del conflitto sul piano anche fisico e comprova il terrore di Kirchner e degli artisti di quella generazione, verso la capacità della guerra di annientare le loro forze fisiche e creative a causa dei danni morali risultanti dalle atrocità affrontate. Il passato diventa insignificante di fronte all’amputazione subita dall’artista ed è rappresentato dalla donna. L’artista ha utilizzato più volte la figura femminile nella sua / 167 carriera, per esempio nella serie di ritratti di Marcella tra il 1908 e il 1910; Kirchner la raffigura spavalda, insolente, con uno sguardo sensuale, truccata in modo esagerato, vestita o nuda, coperta nelle parti intime e nei seni dalle braccia. Testimonianza ulteriore della devastazione interiore dell’artista provocata dalla guerra è l’Autoritratto da ammalato del 1918, che raffigura un Kirchner sconvolto, inquieto, assolutamente terrorizzato. Il paesaggio dalla finestra si manifesta in tinte di colori appariscenti, la stanza pare diventare più piccola a vista d’occhio e in primo piano il pittore dalla carnagione pallida e verdognola, angosciato dall’avvenire. Un importante periodo di successi arriva con la fine della guerra per il pittore che però, nonostante l’edizione di un suo catalogo personale e di diverse mostre monotematiche, è sempre vittima delle forti ripercussioni psicologiche ed emotive associate all’esperienza del conflitto. Nel 1937 i suoi quadri vengono esposti nella mostra voluta dai nazisti sull’ «arte degenerata». L’anno successivo Kirchner si toglie la vita. Le inquietudini della coscienza: Oskar Kokoschka ernst ludwIG KIrchner cInque dOnne per strada, 1913 OlIO su tela, 120 x 90 cM MuseO ludwIG, cOlOnIa ernst ludwIG KIrchner autOrItrattO da sOldatO, 1915 allen MeMOrIal art MuseuM, OberlIn ernst ludwIG KIrchner autOrItrattO da aMMalatO, 1918 OlIO su tela das stadel MuseuM, FrancOFOrte All’inizio del Novecento, vienna è il punto di riferimento culturale di letteratura, pittura e musica, culla della psicanalisi freudiana e città piena di fascino, borghese, lussuosa, colta, grandiosa, appariscente e sull’orlo della catastrofe in cui viene coinvolta dallo scoppio della Prima guerra mondiale. In quest’atmosfera confusa e disordinata, sviluppa il suo percorso artistico Oskar Kokoschka, un grande artista partecipe e consapevole del drammatico periodo di forti inquietudini esistenziali. Si trasferisce a Berlino nel 1910 e nel 1914 è coinvolto nel «Blaue Reiter» (il Cavaliere Azzurro), un movimento artistico nato nel 1911 a Monaco di Baviera, in attività fino all’inizio del primo conflitto mondiale che ne motiva la disgregazione. In senso temporale è il secondo dei due cardini principali dell’espressionismo tedesco dopo «Die Brucke». Non esiste un vero e proprio manifesto del gruppo ma viene prodotto un bollettino con il medesimo nome, caratterizzato, sin dal principio, in senso multidisciplinare ed universalistico. Il 22 giugno, mentre è al lavoro, Kokoschka viene a conoscenza, dagli strilloni dei giornali che proclamano un edizione straordinaria, delle notizie riguardanti l’assassinio, a Sarajevo, dell’arciduca Ferdinando e della 168 | In trincea per la pace / 169 sua consorte e prende, in quel frangente, la decisione di arruolarsi volontariamente nella cavalleria. Resta ferito sul fronte orientale e dopo essere stato ricoverato presso un ospedale militare, viene congedato per malferma salute mentale. Prima di partire per la guerra, con la cavalleria, al fine di acquistare una giumenta, decide di vendere ad un farmacista di Amburgo, il suo capolavoro appena compiuto, La sposa del vento. L’opera, conosciuta anche con il titolo La tempesta, viene eseguita a vienna alla vigilia della Prima guerra mondiale nel 1914 ed è senza ombra di dubbio, la più celebre dell’artista. L’Impero asburgico di cui vienna è capitale uscirà disgregato dal conflitto e la città, importante polo europeo di cultura, vive gli anni dell’evento bellico in un atmosfera di incertezza e quasi di consapevolezza del fatto che il mondo dorato che l’ha rappresentata sino a quel momento stia per sparire. Tutto questo trova la sua manifestazione figurativa nelle tele di Gustav Klimt, piene di ambientazioni aggraziate e delicate. La raffinatezza di Klimt, però, con le sue eleganti evasioni diventa troppo rasserenante in un clima sempre più incerto e teso e si fanno strada così altri punti di vista legati ai nuovi movimenti espressionisti che si originano in quegli anni all’interno della temperie artistica mitteleuropea. I dettami artistici devono subire un mutamento, passare dal “bello” al “brutto” perché quest’ultimo risulta più aderente alla rappresentazione della dolorosa realtà di quel preciso momento storico, trasformazione messa in atto appunto dall’espressionismo a vienna. Allievo di Klimt, Kokoschka, per la raffinatezza del tratto e per il consapevole sentimento poetico delle sue figurazioni e delle sue concezioni mantiene una certa affinità con il maestro appartenente alla Secessione viennese, pur lavorando su un registro del tutto diverso, e si allontana dallo stile più crudo e drammatico degli altri artisti espressionisti che lavorano in Germania. Il protagonista della Sposa del vento è l’uomo. Essere dubbioso per antonomasia l’uomo, che resta sveglio durante la notte per trovare l’irrealizzabile armonia tra ragione e sentimento. La donna è più serena e pacata, grazie alla sua capacità di relazionarsi alla vita e cancellare dalla sua mente i fantasmi notturni che generano inquietudini esistenziali. Tutto questo viene figurato dall’artista in maniera magistrale. L’espressione del volto e il distendersi del corpo rilassato, restituiscono della donna un’immagine quieta e tranquilla, comunicando il suo benessere fisico e psicologico. Gli occhi aperti dell’uomo sono, invece, sintomo di un conflitto interiore, un disturbo della psiche che non gli permette un 170 | In trincea per la pace sonno rilassato ma anzi altera il suo corpo in una forma spigolosa e segnata da fasci di nervi. La figurazione in Kokoschka è plasmata e strutturata dal colore che rimanda direttamente alla gestualità del pittore. Il colore riesce a richiamare alla mente atmosfere e ambientazioni con una grande efficacia di comunicazione, data dalla sua funzione di astrarre dal reale e dalla sua composizione materica. La relazione tra il paesaggio notturno composto da nuvole, montagne, dal vento e dalla luna, con l’aspetto dei due personaggi nudi, è la dimostrazione della grande ispirazione dell’artista. Il quadro diventa il riflesso delle passioni umane, all’interno di una natura quasi partecipe della drammatica esistenza dell’uomo e proiezione di significati allegorici e simbolici universali, come lo è, del resto, la rappresentazione della differenza, nella sostanza, tra uomo e donna. Nell’opera sono anche presenti tracce autobiografiche riguardanti la vita privata che in questo periodo è segnata da un rapporto sentimentale estremamente profondo con Alma Mahler, vedova del celebre musicista e compositore viennese. Indubbiamente il suo OsKar KOKOschKa la spOsa del ventO (O la teMpesta), 1914, OlIO su tela, 181 x 220 cM KunstMuseuM, basIlea / 171 da una materia disfatta dalla violenza delle pennellate, ed il calore proveniente dai corpi dei personaggi, segnato in rosso, diventa poi un azzurro tetro e glaciale. La pittura di Kokoschka è condizionata in modo profondo dai suoi tormenti interiori ed è caratterizzata da una sorta di trambusto visivo con linee fluenti e sinuose, da cui affiorano figure quasi disorganiche. I medesimi elementi sono riscontrabili in un’altra opera dell’artista, Il cavaliere errante. Il tema eroico viene trasposto in un registro tragico e come prodotto di una visione. scopo di fornire una proiezione, quanto più aderente al reale, del legame tra uomo e donna, è favorito dalla conoscenza delle dinamiche presenti in tutti i rapporti. È il 1914, la guerra è sul punto di iniziare e di sconvolgere gli animi e le vite dell’artista, della sua compagna, dei genitori, degli amici e di ogni cosa nella loro città. I periodi di tranquillità assoluta sono un lontano ricordo e tutto viene travolto dalla tensione e dalla paura per il futuro, persino una scena potenzialmente dolce e tenera. L’arte è, spesso, l’espressione del contesto nel quale viene prodotta, ne rappresenta la poetica e il linguaggio, quindi nemmeno l’amore può essere dispensato dall’inquietudine di un momento storico tanto violento. L’angoscia interiore dell’artista si trasferisce nelle sue mani e mediante un turbine di distruzione, sfalda e rende immateriali le figure che diventano inconsistenti, si sgretolano e sono parte del dolore universale intorno a loro. Le ferite dell’uomo esemplificano quelle di ogni persona nel mondo e il corpo, gravato dal peso di tante sofferenze, quasi si accartoccia su se stesso. Non fa eccezione nemmeno l’alcova che li ospita, si trasforma, infatti, in un mare burrascoso, composto OsKar KOKOschKa Il cavalIere errante, 1915 OlIO su tela, 90 x 180 cM sOlOMOn r. GuGGenheIM MuseuM, new yOrK 172 | In trincea per la pace Nell’opera, del 1915, l’artista rappresenta un paesaggio burrascoso nel quale, al centro, emerge un uomo dalle ali d’angelo, forse il pittore o forse l’immagine della morte; si distingue sulla destra una leonessa dal viso di donna e in lei probabilmente si può riconoscere Alma Mahler. Al centro del quadro possono essere identificate le lettere “E S” che sono presumibilmente legate ai versi del salmo 21 della Bibbia “Eloi, Eloi, lama sabachtani”(Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato). Kokoschka che si identifica nel cavaliere errante, in questo modo realizzerebbe un tentativo di immedesimazione con la sofferenza di Cristo. Il fatto che l’immagine del cavaliere disteso collimi con quella dell’artista stesso, rende più affascinante il tema, per la scelta appunto di una figurazione simbolica. Kokoschka è un pittore assillato dai suoi tormenti, addolorato per il suo tempestoso rapporto sentimentale e catturato, nella vienna del secondo decennio del Novecento, dagli insegnamenti di Freud. L’amore per Alma è tragicamente finito dopo l’aborto del bambino che aspettava e l’artista si ritrae sommerso, virtualmente, da un fiume di sofferenza, all’interno di un paesaggio lugubre e tetro, con le braccia allargate e gli occhi indirizzati al cielo. Un cavaliere che capitola di fronte all’enormità del dolore, fragile e sciagurato, quasi un Orlando innamorato, vittima della follia causata dalla passione. La scioltezza del tratto, l’espressione libera, l’eleganza quasi decorativa, sono tutti elementi che affiorano nella struttura figurativa, sia del personaggio che del paesaggio e possono essere riferiti, da un lato, all’arte di Klimt, per la sua elaborazione di forme raffinate, dall’altro, al percorso artistico di van Gogh, per la sua soluzione innovativa nella rappresentazione di soggetti circondati e avvolti da ondate cromatiche che si espandono davanti agli occhi dell’osservatore. Le reminiscenze infantili di Kokoschka sono indicative di un’originaria attitudine al visionario, inizia, infatti, molto presto ad essere sonnambulo, emotivamente instabile, spesso trovato a sognare un viaggio sulla luna, affacciato al davanzale della finestra. Il / 173 pittore convoglia nelle sue opere, tutto il carico delle sofferenze umane, le problematiche apportate dal vivere in una situazione storica, sociale e politica incerta, piena di contraddizioni, di paure, tensioni, emarginazione ed isolamento. IL CAmbIAmENTO DI CLImA INTELLETTuALE ED EsTETICO L’artista rende sempre intima e profonda l’indagine sugli stati d’animo e sulle emozioni delle figure ritratte, mettendo così a nudo la propria, grande, sensibilità. I personaggi deformati, i corpi, le mani, i visi, gli occhi, mai disegnati compiutamente, ribadiscono questo concetto; le deformazioni, le pose e i gesti esagerati, sono infatti un mezzo per rendere percepibili non solo i loro sentimenti ma anche i tratti psicologici. Kokoschka accresce la conoscenza della realtà mediante la sua distorsione ma rimane costantemente aderente ad essa, anzi in questo modo la glorifica. In opposizione alla temperie culturale ed ai principi che hanno condotto al conflitto bellico, nasce, proprio durante la Prima guerra mondiale, il dadaismo, un movimento artistico di protesta il cui intento è quello di scandalizzare con un’arte indirizzata alla sperimentazione di metodi di espressione innovativi, ripudiando, quindi, le norme imposte dalla consuetudine. I natali del movimento sono da ricondursi in Svizzera, a zurigo; nel momento in cui la guerra sconvolge l’Europa, una nazione neutrale e pacifista diventa riparo per rifugiati russi, tedeschi, rumeni e francesi. Si trovano tra loro artisti, attori, poeti ed emigrati politici come Tristan Tzara che nel 1916 insieme ad hugo Ball fonda il Cabaret voltaire: un caffè letterario intitolato, in maniera provocatoria, al filosofo illuminista, all’interno del quale si mettono in scena, infatti, spettacoli che hanno il fine di ridicolizzare proprio la razionalità in cui confidava tanto voltaire. Nasce da questo la rivolta degli artisti dadaisti: essi, di fatto, celebrano tutto ciò che è frutto del caso e di conseguenza insensato, promuovendo una completa libertà espressiva, togliendo così legittimazione a dogmi quali patria ed amore, moventi, almeno in parte, dell’evento bellico. Lo scopo dell’artista è proprio celebrare la realtà e, attraverso la deformazione, ricostituire un mondo per ora totalmente caotico, all’interno del quale l’uomo ha perso, in prima istanza, la sua identità. Tale è il suo apporto all’uomo moderno posto sotto assedio da tutto il male che lo minaccia. L’ARTE è, sPEssO, L’EsPREssIONE DEL CONTEsTO NEL quALE vIENE PRODOTTA, NE RAPPREsENTA LA POETICA E IL LINGuAGGIO, quINDI NEmmENO L’AmORE Può EssERE DIsPENsATO DALL’INquIETuDINE DI uN mOmENTO sTORICO TANTO vIOLENTO 174 | In trincea per la pace La nascita del movimento dadaista Dalla Svizzera il movimento si propaga in Germania, in Francia, negli Stati Uniti e diventa internazionale. I dadaisti combinando insieme teatro, danza, pittura, letteratura, musica, caldeggiano la fusione tra arte e vita; mediante azioni provocatorie, infatti, anche la vita si trasforma in un itinerario artistico. L’arte per la prima volta è costituita dall’imprevisto, dalla casualità, dalla concatenazione estemporanea di oggetti, parole e non scaturisce più soltanto dalla capacità manuale dell’artista o da un principio estetico. L’idea dell’arte come prodotto di un azione fortuita viene fatta propria, in seguito, dal movimento surrealista ed è il fondamento della costante indagine riguardo nuove tecniche come l’assemblaggio ed il fotomontaggio o procedimenti nuovi per dar vita agli oggetti, utilizzando elementi insoliti come legni spezzati o chiodi. Regole e contenuti convenzionali sono ripudiati; i dadaisti non emulano la realtà ma danno origine alla loro arte attingendo materiali da essa ed attaccandoli sul legno, carta fotografica, cartone. Il dadaismo mette quindi in discussione e sovverte le consuetudini di quel periodo storico, coinvolgendo diversi aspetti, dai dettami dell’estetica artistica e cinemato- / 175 grafica, alle convinzioni politiche, si prefigge inoltre la rinuncia alla razionalità, alla logica e l’esaltazione dell’eccentricità, della burla e dell’ironia. Gli artisti Dada sono intenzionalmente irriverenti, originali, delusi e amareggiati dalle convenzioni del passato e impegnati ad esaltare la liberazione dell’atto creativo grazie all’impiego di tutti gli elementi materiali e le forme disponibili. Bisogna aspettare il 1918 per ottenere il “Manifesto Dada” ad opera di Tristan Tzara, scrive l’artista: «Per lanciare un manifesto bisogna volere: A, B, C, scagliare invettive contro 1, 2, 3, eccitarsi ed aguzzare le ali per conquistare e diffonder grandi e piccole a, b, c, firmare, gridare, bestemmiare, imprimere alla propria prosa l’accento dell’ovvietà assoluta, irrifiutabile, dimostrare il non plus ultra e sostenere che la novità somiglia alla vita tanto quanto l’ultima apparizione di una cocotte dimostri l’essenza di Dio. Scrivo un manifesto e non voglio niente, eppure certe cose le dico, e sono per principio contro i manifesti, come del resto sono contro i principi ( misurini per il valore morale di qualunque frase). Scrivo questo manifesto per provare che si possono fare contemporaneamente azioni contraddittorie, in un unico refrigerante respiro; sono contro l’azione, per la contraddizione continua e anche per l’affermazione, non sono né favorevole né contrario e non do spiegazioni perché detesto il buon senso. Dada non significa nulla»13. I dadaisti tedeschi dopo la fine della guerra tornano in patria e lì divulgano tutte le sperimentazioni sviluppate al Cabaret voltaire. Berlino, Colonia, hannover sono i punti di coincidenza della penetrazione Dada in Germania. Berlino, rispetto all’ex Impero tedesco del periodo di Guglielmo II che andava dal mar Baltico al Reno, è ormai una capitale periferica, la nuova sede del governo tedesco viene spostata nella più centrale Weimar, dalla quale prende il nome la Repubblica omonima. Nonostante tale decadimento logistico e politico, a livello estetico e culturale Berlino rappresenta un centro fondamentale ed è per questo che il gruppo dadaista sceglie di introdurre qui le proprie istanze corrosive ed iconoclaste. È indubbiamente Raoul hausmann uno dei più celebri artisti del dadaismo berlinese e una sua opera è il simbolo delle ricerche innovative di quegli anni: Lo spirito del nostro tempo conosciuta anche come Testa meccanica. Tutte le discipline, comprese quelle umanistiche, in questo momento storico, avvertono la necessità di sistematizzare scientificamente il loro patrimonio, approfondendo l’indagine ¹ Tzara T., Manifesto del dadaismo e lampisterie, a cura di S.volta, Einaudi, Torino 1964, pp. 33-42. 176 | In trincea per la pace in ogni ambito. L’arte, da parte sua, interviene in questa analisi all’interno del sapere umano con l’esaltazione di un nuovo ideale. La macchina è scelta da molti artisti come tema prediletto, celebrata e portata in trionfo. vengono create nuove pratiche artistiche come il ready-made, l’assemblaggio e il fotomontaggio. Si preferisce utilizzare un mezzo che riesca a figurare la realtà in maniera oggettiva oppure una sua parte, scollegata violentemente dal contesto, per dare lustro anche a realtà diverse che si rifanno ad un registro che non si trova più al di sopra del reale ma è piuttosto celato sotto di esso. L’opera di hausmann è un assemblaggio che inizia da una testa per parrucchieri, alla quale sono uniti diversi oggetti tecnologici trovati: un metro per sarto, un numero stampato, meccanismi d’orologio, una custodia contenente un cilindro da stampa, un regolo. Lavoro perfettamente inserito nel panorama culturale tra le due guerre. Una situazione storica quella tra gli anni ’10 e ’20, in cui fondamentali ed innovative tecnologie, portano benefici nella vita di tutti, a fronte di numerose dispute e dissensi tra le diverse compagini nazionali, destinate a sfociare poi nel secondo conflitto. In questi anni sono pensate le prime armi di sterminio di massa, i terribili gas tossici e forse è per questo motivo che hausmann colloca sulla sua Testa anche un bicchiere telescopico, come quelli di cui sono equipaggiate le truppe al fronte. Restano aggiornate anche le avanguardie francesi riguardo le azioni del movimento Dada, grazie ai rapporti costanti mantenuti da Tristan Tzara, tramite una corrispondenza composta da poemi, riviste, scambi epistolari con artisti, critici e autori francesi. A Neuilly, tranquillo e raffinato sobborgo di Parigi, si trova lo studio di Marcel Duchamp, uno dei più illustri rappresentanti del movimento dadaista; un giorno afferra uno sgabello da cucina in legno e incardina al centro di esso, la forcella di una bicicletta con la sua ruota. In questo modo la ruota a testa in giù si trasforma ed è ora in grado di girare liberamente, senza la costrizione dell’ancoraggio al terreno, realizza così Ruota di bicicletta. Duchamp assembla un gioco o come vengono chiamate secondo tradizione le combinazioni creative insolite ed eccentriche, un “capriccio”, la cui importanza per l’artista si evince dal fatto che mette mano all’assemblaggio di una seconda versione per il suo studio di New York dove si trasferisce nel 1915; la sorella ripulisce lo studio parigino e l’originale finisce nell’immondizia. In America alla Ruota di bicicletta viene data una definizione, diventa infatti il primo ready-made, capace di smontare ogni dogma pregresso dell’attività artistica, affrancando quest’ultima da esigenze nar- / 177 rative o figurative e anche dalla destrezza tecnica dell’artista. La denominazione scelta, individua opere ideate e sviluppate con oggetti provenienti dalla realtà, non concepiti con propositi di estetica. In pratica è stato proprio Duchamp ad ideare i ready-made ed è sempre lui a fornirne la definizione che in italiano può essere tradotta in maniera approssimativa come «già fatti», «già pronti». I ready made, in realtà, non sono un prodotto diretto del movimento dadaista, dato che la prima Ruota di bicicletta è del 1913 ma divengono una delle risorse più efficaci trovate dall’estetica dadaista, al fine di demistificare ed irridere le idee convenzionali sull’arte. L’opera di Duchamp, ancorata al suo sgabello, sotto l’aspetto tecnico è un assemblaggio polimaterico, la combinazione di oggetti reali composti da differenti materiali comunemente utilizzati per altri scopi, promossi a dignità artistica per decisione dell’artista. Tutta l’arte del Novecento deve tener conto della volontà dell’artista perché il suo punto di vista sul mondo, il suo modo di riflettere sugli elementi della realtà, alternativamente con tranquillità, con violenza, con freddezza o sarcasmo rappresenta la base fondante un’opera d’arte. Il quadro o l’oggetto in sé sono proprio la manifestazione pratica di questa volontà e per di più una manifestazione riproducibile. Duchamp non si propone di mettere in mostra la Ruota di bicicletta come oggetto artistico fino al 1951, quando, deve ricostruirla perché anche la versione newyorkese, nei diversi traslochi, è andata perduta; ne sono state realizzate altre, poi, con il suo beneplacito ed in ognuna forcella e ruota sono diverse. raOul hausMann lO spIrItO del nOstrO teMpO (O testa MeccanIca), 1919 178 | In trincea per la pace Marcel duchaMp ruOta dI bIcIcletta, 1913 replIca del 1951 dell’OrIGInale perdutO MetallO e leGnO alt. 129,5 cM, dIaMetrO della ruOta 63,8 cM, new yOrK Nell’aprile del 1921 a Parigi si compie la “Stagione Dada”, che può essere riconosciuta come interessante evento anticipatore dell’arte partecipativa nello spazio pubblico. Si tratta di una serie di esplorazioni e spettacoli organizzati nelle piazze e nei luoghi abituali della città con il coinvolgimento dei parigini. Quest’iniziativa dadaista si può definire come ready-made urbano, la prima operazione artistica che non abbia carattere di scultura o monumento ma di performance ed esibizione. Un mese più tardi è organizzato e messo in scena il processo fittizio all’autore anarchico, poi diventato nazionalista, Maurice Barrès, accusato di “attentato alla sicurezza dello spirito”. Le persone del pubblico sono chiamate a far parte della giuria e la rappresentazione collettiva termina con la sentenza simbolica, di una pena per Barrès, a venti anni di lavori forzati. Questo avvenimento corrisponde anche al disgregamento del movimento dadaista, i cui promotori, Tristan Tzara per primo, ripudiano qualsiasi tipo di giustizia inclusa quella disposta da Dada. / 179 Giorgio de Chirico e la pittura metafisica Poco prima della guerra, anche al fine di sfuggire al servizio militare, Giorgio de Chirico ripara a Parigi per quattro anni, al termine dei quali, però, torna in Italia e nel 1915 prende la decisione di accettare il reclutamento nell’esercito italiano. Arruolarsi rappresenta per l’artista il mezzo per acquisire finalmente quel sentimento di appartenenza prima difficile da legittimare, per via del suo percorso di vita, la sua fanciullezza vissuta in Tessaglia, le fasi della sua educazione in Baviera, la sua attività artistica a Parigi. De Chirico entra a far parte del 27° reggimento di Fanteria dell’esercito italiano. A giugno arriva a Ferrara, abbandonando così il panorama artistico internazionale. L’adeguamento alla nuova situazione, la vita in una piccola città di provincia e l’attività di soldato, non sono condizioni facili da affrontare e per scongiurare il rischio di essere emarginato ed isolato, cerca, con tutte le sue forze, di conservare e consolidare i propri legami mediante una corrispondenza frequente e segnata da un velo di tristezza. Da questi stessi rapporti epistolari si evince, comunque, che de Chirico ha, dal primo momento, un’ottima considerazione di Ferrara come di un contesto propizio allo sviluppo del suo itinerario artistico. Un conflitto di dimensioni inimmaginabili sta avendo luogo e ogni giorno decima migliaia di uomini al fronte, nelle trincee, disintegrando la società europea e mostrando quanto in basso possa cadere il mondo, privato di buon senso e discernimento. De Chirico è chiaramente consapevole della follia di quella strage e pur concedendo qualche credito, solo apparente, alla causa nazionalista degli amici italiani, in realtà, è ben determinato a focalizzare la sua attenzione sugli aspetti concreti della realtà quotidiana. Questo è il significato della “ metafisica delle cose comuni” come viene definita la metafisica ferrarese, i cui elementi caratterizzanti sono, da un lato, la scelta di allontanarsi da contenuti imperniati su sentimenti di malinconia e nostalgia, comunque ancora parzialmente presenti ma in una dimensione circoscritta non più universale come nel periodo parigino, e dall’altro, l’analisi lucida, cosciente e approfondita della “pazzia” di cui diventa preda il cosmo intero:«Poiché la grande pazzia, che è appunto quella che non appare a tutti, esisterà sempre e continuerà a gesticolare e a far dei segni dietro il paravento inesorabile della mate- 180 | In trincea per la pace ria»14. L’artista è distante dal fronte, in un luogo dove può sentirsi temporaneamente al sicuro da rischi reali ma l’ecatombe attorno si percepisce, e Ferrara, al contrario di Parigi, dopo il trambusto del trasferimento ed il tempo necessario a far l’abitudine all’inaspettata situazione, si presenta proprio come un riparo protetto e tranquillo, con i suoi letterati ansiosi di aggiornamenti, con la sua vita quieta di città di provincia, con i suoi tanti pregi da studiare, i suoi enigmi e segreti da risolvere, il suo illustre passato di storia e di miti; lo spirito profondo e sensibile dell’artista trae grande beneficio da questo ambiente. Nel 1915 l’artista realizza un’opera esemplificativa del nuovo momento artistico, Les Projets de la jeune fille. Il dipinto è privo di complicate speculazioni allegoriche ed è interamente centrato sulla realtà. Sullo sfondo del quadro appare, con le caratteristiche torri rosse, il castello Estense che de Chirico può osservare ogni giorno dal suo ufficio di scrivano e unitamente alla scatola verde con la scritta “Ferrara A.S.S.” guida lo sguardo dell’osservatore nella reale scena raffigurata e non in uno spazio simbolico e indefinito; l’atmosfera è quella di un indolente pomeriggio d’autunno in cui la città è preda di un tedio flaccido come il guanto sulla parete. In primo piano le spole e i rocchetti di filo sono proprio i progetti della fanciulla e riportano alla mente immagini di leopardiana memoria riferite a Silvia, quando «il limitare di gioventù saliva» e «all’opre femminili intenta sedeva, assai contenta di quel vago avvenir che in mente aveva». Il guanto scombina tutto. Non è un raffinato guanto da donna di seta, a simboleggiare magari l’illusione di un sentimento d’amore inesaudito, è un guanto di fredda pelle, già utilizzato e segnato da connotati maschili, probabilmente richiamo a qualcosa di proibito, con un velo di tensione erotica. I disegni geometrici figurati nel dipinto, fanno riferimento alla particolare cabala che disciplina gli elementi dell’universo. Peculiare della metafisica ferrarese è l’ingresso della realtà naturale all’interno di una struttura iconografica ideale ed astratta, per una figurazione che sfrutta un metodo di riproduzione delle immagini estremamente preciso e minuzioso. Una sorprendente pratica pittorica quasi tributaria dell’iperrealismo, si riscontra in queste opere: attrezzi per la pesca, sugheri, tradizionali pani biscornuti ferraresi, biscotti, cioccolatini, dolci, legni con venature perfettamente delineate. La medesima 14 Pubblicato in Valori Plastici, Roma aprile- maggio 1919. / 181 contrapposizione tra reale ed irreale si ritrova ora anche nei “quadri nel quadro”, che invece negli anni di Parigi alludono sempre ed in modo esclusivo ad immagini oniriche. Fatta eccezione per le costellazioni sulle lavagne all’interno delle stanze popolate dai manichini filosofi, a Ferrara “i quadri nel quadro” e le scatole accolgono soprattutto figurazioni di elementi e di edifici tratti direttamente dalla realtà, ne è un esempio quello che si può osservare dalle finestre: parti di costruzioni e torri rinascimentali specificatamente italiane o grattacieli, icone dell’epoca nuova a cui è rivolta l’arte metafisica. Il fine precipuo di questa costante transazione tra illusione e realtà è quello di evidenziare l’enorme pazzia del mondo, esigenza che governa l’animo di de Chirico fino alla fine della guerra. Nel 1917 de Chirico viene ricoverato per alcuni mesi a villa del Seminario, dove risulta degente anche Carlo Carrà, con il quale si crea una breve collaborazione artistica. Si tratta di una struttura ospedaliera specializzata nella cura delle malattie di guerra, organizzata e diretta da Gaetano Boschi. Il programma di studio e d’indagine sulle nevrosi di guerra è considerato fondamentale: si tenta per la prima volta di differenziare, in modo elaborato, le patologie nervose causate dalla guerra dai disturbi psichiatrici propriamente detti e dagli atteggiamenti di simulazione. Le sintomatologie più ricorrenti, mostrate al fronte, sono da riferirsi a blocchi catatonici, paralisi, crisi epilettiche, perdita di sensibilità e linguaggio, gravi attacchi di panico e contratture muscolari. Il soggiorno a villa del Seminario finisce a metà agosto del 1917 e l’esperienza di de Chirico a Ferrara sta per concludersi quando realizza l’illustre ciclo di capolavori in cui diventa, di nuovo, centrale il soggetto del manichino. Il Trovatore, Ettore e Andromaca e le Muse inquietanti sono tutti collocati in un ambiente esterno. Il Trovatore, rappresentazione dell’artista nei panni di un manichino disumanizzato, è il poeta provenzale che nell’opera di Nietzsche la Gaia Scienza indica una dottrina profetica, intuitiva e lampante; la costruzione rinascimentale di colore rosso a sinistra rende evidente che la scena si svolge a Ferrara. I dipinti innegabilmente più innovativi per il contenuto scelto e per il vigore espressivo ed emotivo sono Ettore e Andromaca dell’autunno 1917 e Le Muse inquietanti del maggio 1918. Il 24 ottobre del 1917 inizia la disfatta di Caporetto e la drammatica ritirata dell’esercito italiano verso la linea del Piave che si conclude il 12 novembre. La situazione di urgenza avvicina le partenze per il fronte, sono richiamati, infatti, migliaia di uomini. Prima di affrontare il dolo- 182 | In trincea per la pace GIOrGIO de chIrIcO les prOjets de la jeune FIlle (I prOGettI della FancIulla), FIne 1915 OlIO su tela, cM 47,5 x 40,3 MuseuM OF MOdern art, new yOrK. lascItO dI jaMes thrall sOby, 1979. GIOrGIO de chIrIcO Il trOvatOre, 1917 OlIO su tela, cM 91 x 57 cOllezIOne prIvata GIOrGIO de chIrIcO ettOre e andrOMaca, 1917 OlIO su tela, cM 90x 60 cOllezIOne prIvata roso momento del commiato, è consuetudine tra i soldati recarsi in uno studio fotografico per un ritratto con la moglie o la fidanzata e de Chirico raffigura quest’ultima occasione di stare insieme come il leggendario ultimo incontro di Ettore e Andromaca, raccontato da Omero, pieno di previsioni funeste. Due elementi di colore rosso ai lati in funzione di quinte e un pavimento di legno, diretto in prospettiva verso un cupo tramonto, definiscono il luogo come ideale. Astratti sono anche i protagonisti del dipinto, manichini essenziali e raffinati con il loro atteggiamento quasi teatrale e ricercato. Le teste dei manichini appaiono sostenute da strutture in legno simili a quelle utilizzate dai fotografi per permettere ai modelli di adagiarvi la testa e poter in questo modo mantenere la posa per un tempo maggiore; questa sorta di impalcature lignee sono divenute caratteristiche insostituibili del manichino a livello iconografico ma sono anche il nesso imprescindibile con la realtà. L’impulso emotivo che emanano questi due personaggi, costruiti, non naturali, tocca le corde più intime dell’animo umano in maniera molto profonda e appassionata; non sarebbe possibile raggiungere tale intensità attraverso una figurazione del tutto aderente al vero perché cadrebbe facilmente e prevedibilmente vittima della retorica. L’uomo è stabilmente fermo sulle sue gambe, il busto ampio e caloroso comunica sensazioni di riverenza e insieme di fiducioso abbandono. La donna è più tenera e riservata, con un delicato richiamo al ventre e nessun altro segno che la possa caratterizzare appunto come donna, eppure nonostante questo si percepisce come tale, per la posizione aggraziata del piede sinistro e della gamba che le permette di allungarsi in modo amorevole, con un atteggiamento insieme di protezione ed invocante affetto, verso l’uomo più rigoroso e severo. Le due teste ovali si accarezzano, sfiorandosi, con profonda dolcezza. Una circostanza unica, in tutta la pittura di de Chirico, spesso percepita come poco umana. All’inizio del 1918, tra aprile e maggio, viene realizzato il dipinto Le Muse inquietanti. La struttura dell’opera è essenziale e sconcertante. Due statue probabilmente di pietra, immagini che richiamano la classicità e più propriamente le sculture antiche, con vesti scanalate in modo severo, si trovano sopra un grande pavimento di tavole che fugge in prospettiva e ricorda le grandi strade ferraresi dell’Addizione Erculea. Una delle due figure è in piedi, di spalle rispetto all’osservatore e con la sua testa allungata, rosa, somigliante ad un pallone oscillante, sembra intenta a scrutare la città in lontananza; il corpo affiora dalle pieghe del vestito, ricadenti parallelamente come le scanalature di una colonna ionica ed 184 | In trincea per la pace è fisso, assolutamente privo di movimento. L’altra è seduta su una scatola blu con le braccia sopra il grembo, è più massiccia e il suo atteggiamento sembra quello di chi è soddisfatto per la posizione ottenuta; al posto della testa ha un birillo nero di legno come nei manichini utilizzati in sartoria ed è un particolare che accorda all’immagine l’idea di una mancanza di acume. Ai suoi piedi un’altra testa ovoidale, rossa, separata da tutto il resto. In primo piano, sul pavimento, c’è un parallelepipedo a losanghe colorate e tra le due statue un esile bastoncino a spirali rosse, simile a quelli fatti di zucchero. Nell’ombra dietro, una figura sembra avanzare in direzione dell’osservatore cercando un qualche tipo di comunicazione mediante segni indecifrabili. Il pavimento di assi termina all’improvviso e sullo sfondo si ergono le immagini di Ferrara: la monumentalità del castello Estense e la sua ritmica volumetria come in un quadro cubista, le facciate degli edifici e dietro, una massiccia torre arcaica. De Chirico avverte la città come un enigma inquietante, un segreto difeso e protetto da personaggi eccentrici eppure inflessibili; per svelare l’arcano al di là delle torri e delle ciminiere è necessario passare il controllo di due guardie che danno proprio l’impressione di essere folli. L’aria è assente, non si sentono voci o rumori, tutto è statico, immobile, quasi cristallizzato dalla precisione geometrica delle ombre e delle luci eppure l’atmosfera insieme arcaica e teatrale evoca sensazioni di cupo romanticismo. Le due figure, muse del poeta, personificazioni del suo spirito e guardiane della città, sono rappresentazioni straordinarie ed introvabili all’interno dell’iconografia metafisica. Le due Muse, infatti, per la sostanza pittorica, il colore e per la materia in cui vengono composte, pietra, marmo o cartapesta, sono svincolate da tutto il resto e si uniformano soltanto alla torre arcaica che si leva dal fondo. In mezzo a questo palcoscenico teatrale, dove l’osservatore scorge la statua nell’ombra di stile ellenistico, le costruzioni rinascimentali, le case e le officine industriali moderne, le due Muse suggeriscono studi e conoscenze differenti. Per manifestare il suo convincimento che ogni cosa è soggetta all’incontenibile ed irrefrenabile pazzia del mondo e per evocare quel momento storico importante in cui Ferrara, all’epoca di Borso d’Este ed Ercole I, diventa il luogo di confluenza del classicismo rinascimentale (e delle sue credenze alchemiche ed astrologiche testimoniate dagli affreschi di palazzo Schifanoia), con le lezioni enigmatiche e mistiche della kabbalah ebraica importata dai sefarditi a fine Quattrocento, de Chirico rappresenta le Muse di Ferrara, testimoni di consuetudini / 185 e segreti magici, come essenze divine in grado di instillare nel poeta il respiro inquietante dei luoghi e sceglie di raffigurarle in modo insensato folle. Il mondo e la materia posseggono, quindi, una sorta di struttura interna, composta da forze imperscrutabili e questo permette una profonda relazione con i dettami culturali della metafisica e anche con le personali credenze superstiziose del pittore; Ferrara diventa così per l’artista, uno dei luoghi fondamentali della sua storia umana ed artistica. L’intento di de Chirico è quello di tornare a Parigi al termine della guerra ma la disfatta di Caporetto e la successiva controffensiva dell’esercito italiano e dello schieramento alleato nel 1918, fanno intuire imminente la fine del conflitto e l’artista decide di radunare le forze e di organizzarsi per esporre in Italia. Le mostre allestite a Roma del 1918 e del 1919 si rivelano però un fallimento tale dal punto di vista critico da avere gravi conseguenze anche sul suo morale. Nel 1922, con il ritorno a Parigi, de Chirico può godersi il primo vero successo con una riedizione aggiornata e brillante dello straniamento metafisico. mondrian e De stijl Tra le tendenze non figurative dell’inizio del ventesimo secolo la più originale è rappresentata dall’astrattismo di Piet Mondrian, che arriva, contemporaneamente ai primi due anni della rivista De Stijl, ad un assetto rimasto poi invariato per più di vent’anni. Il gruppo che lavora nella rivista, fondata da Theo van Doesburg nel 1917, riesce a dar vita all’ultima tra le prime avanguardie storiche, a queste congiunta per via di molteplici elementi e relazioni ma al medesimo tempo legata ai movimenti che vogliono oltrepassarle o metterle in discussione. GIOrGIO de chIrIcO le Muse InquIetantI, 1918, OlIO su tela, cM 97 x 66 cOllezIOne prIvata 186 | In trincea per la pace Nel 1915 van Doesburg propone a Mondrian il primo progetto per una rivista, così ha inizio la loro problematica amicizia. In quel momento però Mondrian ritiene che l’idea non abbia ancora fondamenta salde e circostanze favorevoli. Il primo saggio pubblicato da quest’ultimo sulla rivista a dispense mensili, tra l’ottobre 1917, quando esce il primo numero, e il dicembre 1918, da origine al termine “Neoplasticismo”, anche se non è la traduzione letterale di De nieuwe beelding; esso è coniato in francese, nel 1920, e poi utilizzato anche in olandese. Le istanze generali accolte dal gruppo De Stijl, sono spiegate in due prefazioni alla rivista, datate giugno 1917 e ottobre 1919 e nei tre manifesti: il primo del / 187 1918, firmato da van Doesburg, van’t hoff, huszàr, Kok, Mondrian, vantongerloo, Wils; il secondo del 1920, caratterizzato da un registro maggiormente letterario e da un impostazione già propriamente dadaista, firmato da van Doesburg, Mondrian e Kok; il terzo del 1921, più conciso e privo di firma. Questi fatti e le tensioni che emergono numerose da varie lettere e testimonianze, suggeriscono come il percorso formativo e le convinzioni estetiche ed esistenziali di ognuno degli artisti del gruppo siano essenzialmente ed intimamente differenti. Diverso pertanto, è anche il modo di determinare le relazioni con i dadaisti, i futuristi e anche gli espressionisti. È utile in questo senso, evidenziare la convergenza in termini cronologici, tra la creazione di De Stijl e quella del Dadaismo nel 1916. De Stijl come Dada nasce in una zona protetta e isolata rispetto a quelle coinvolte dal ciclone bellico ma non rivela apertamente la stessa tensione rivoluzionaria. Nelle due prefazioni, il gruppo tenta di fornire un compendio dell’obiettivo comune a De Stijl, quello di «ottenere che la nuova estetica plastica si riveli, come stile, in tutti gli oggetti, nascendo da nuovi rapporti tra l’artista e la società»15. Premesse essenziali si rivelano essere prima di tutto, la conoscenza dell’arte astratta e la sua comunicazione al pubblico; il rifiuto di una spiegazione unicamente incentrata sulla forma, a favore del proposito, da tutti riconosciuto, riguardo un nuovo senso estetico, un nuovo legame quindi tra arte e vita. Comunione d’intenti basata su un linguaggio universale e sulla facoltà di oltrepassare il concetto dell’artista come entità individuale; per effetto di questo dovrà chiamarsi moderno, possessore di uno spirito razionale. Del movimento devono far parte i protagonisti di tutte le arti plastiche, scrive Mondrian: «Tutte le arti si sforzano di pervenire all’espressione plastico-estetica del rapporto esistente fra l’individuale e l’universale, fra il soggettivo e l’oggettivo, fra la natura e lo spirito: dunque tutte le arti, senza alcuna eccezione, sono plastiche»16. All’interno del gruppo si rileva realmente, una transizione dalla pratica pittorica all’elaborazione di progetti architettonici e di oggetti comunemente utilizzati. Si estrapola dai manifesti anche un altro obiettivo, il desiderio cioè, di stabilire una solida rete di connessioni a livello europeo ed internazionale. L’intento di portare le loro istanze ad un registro internazionale non mira assolutamente a subordinare l’arte alla politica; il fine dell’uomo è infatti lo stile e lo stile è 15 De Micheli M., Le avanguardie artistiche del Novecento, Feltrinelli, 1988, p. 416. 16 Il Neoplasticismo, a cura di Federico Ferrari, Abscondita, Milano 2008, p. 14. 188 | In trincea per la pace una questione spirituale. Questo punto rappresenta e rende evidente l’insegnamento delle prime avanguardie e l’origine dei contrasti nelle relazioni con altri movimenti europei. La dichiarazione inserita nella prima prefazione che la rivista non nasce da teorie prestabilite e l’indispensabile rifiuto dell’artista come essere individuale sono fattori che creano perplessità riguardo la saldezza del gruppo. Questi elementi portano, infatti, allo scontro, i due artisti più rappresentativi, Mondrian e van Doesburg. Quest’ultimo viene di solito valutato, rispetto al primo, meno idealista e più disilluso, personaggio eversivo e attento divulgatore. Le motivazioni profonde del disaccordo tra i due artisti si riallacciano ad opinioni differenti riguardo proprio l’equazione arte-vita ma anche al modo diverso di avvicinarsi agli insegnamenti del Futurismo e del Dadaismo. Nel 1920 Mondrian indica il Futurismo e il Dadaismo tra i movimenti che «depurarono e demolirono il tragico nella plastica»17, approntando la vera liberazione del Neoplasticismo. Alcune istanze futuriste si riconoscono nell’itinerario artistico di Mondrian verso l’astrazione: stimoli originati non tanto dall’attività pittorica futurista quanto dall’opera letteraria di Marinetti, di cui senza dubbio l’artista olandese è a conoscenza. In particolare il concetto espresso da Marinetti nel 1914, di distruzione dell’«Io letterario perché si sparpagli nella vibrazione universale»18: quest’ultima definizione è utilizzata nel lessico spiritualistico degli ambienti letterari parigini ma in questo caso il significato preciso è il disgregamento dell’individuale, concetto diventato poi essenziale all’interno dei principi estetici di De Stijl. L’artista per Mondrian deve essere alacremente occupato dall’incessante esplorazione dell’universale che si compone di quella che lui stesso definisce “realtà pura”. La rivelazione della realtà pura viene impedita da ogni elemento individuale e non oggettivo ma anche dalla scelta di figurare la descrizione di tutti i particolari. L’astrazione diventa quindi l’unica soluzione per arrivare alla piena manifestazione della realtà pura. L’intento innovativo di Mondrian si sviluppa nel provare a rappresentare mediante la pittura l’impulso collettivo astratto non quello individuale legato alla realtà, attraverso una sola forma chiamata dall’artista “neutra”, il rettangolo; in esso infatti, la linea non possiede l’equivocità della curva ma la risolutezza della retta e le due forze antitetiche delle diffe- 17 Le Nèoplasticisme. Principe général de l’équivalence plastique, Editions de l’Effort Moderne, Paris 1920. / 189 renti direzioni della linea, quella orizzontale e quella verticale vengono bilanciate in un elemento unico, negli angoli. Il fine della pittura moderna, la Neoplastica, è fornire un senso logico, coerente, lineare, uniforme, a una realtà insensata. La pittura non deve mirare all’apparenza del rilievo ma deve disporre di due dimensioni e circoscrivere la gamma dei colori da utilizzare a quelli elementari, per sfuggire al rischio che dalla loro combinazione risulti di nuovo, la percezione della tridimensionalità. È necessario sottrarsi in maniera accorta al realismo. Un itinerario artistico in ascesa che porta l’artista a slegarsi da ciò che è materiale, per giungere alla forma della bellezza astratta, vale a dire l’assoluto. L’unico modo per arrivare alla bellezza astratta è mediante l’affrancamento del pittore da tutte le aggiunte naturalistiche superflue che contaminano il vero punto di vista sulla natura. Il concetto di Mondrian riguardo l’arte è che quest’ultima non deve essere alterata da nulla che sia soggettivo, l’obiettivo è la nitidezza, quindi la Plasticità. I piani bianchi sono attraversati dalle famose strisce nere, linee pure segnano quadrati gialli, blu, rossi dagli imprescindibili angoli retti. Il metodo rigido e la fermezza nell’applicarlo sono alcuni degli elementi che permettono di attribuire a questo artista un grande spirito volto alla modernità e all’innovazione. Convinto che solamente la nuova pittura da lui creata può penetrare e scoprire la realtà, l’armonia assoluta e la perfezione eterna, scrive l’artista: «L’arte attraverso il suo sistema diventa necessariamente individuale. Ma quanto più il sistema diventa astratto e si esprime autonomamente secondo i mezzi che gli sono propri, tanto meno l’artista può esprimere la propria individualità. Infine quando il sistema raggiunge il massimo grado di astrazione (ossia quando l’artista si serve di mezzi plastici universali in una composizione equilibrata), diviene possibile l’espressione plastica dell’immutabile, dell’universale. Soprattutto qui deve intervenire il talento puro dell’artista, per impedire che l’opera diventi“ un sistema senz’arte”. Infatti, poiché l’artista lavora a una composizione equilibrata con mezzi creativi universali, non può servirsi dei mezzi specifici del sistema naturale. L’intuizione pura, ossia la chiara visione, l’esperienza dell’universale come bellezza, deve manifestarsi attraverso un’immagine esteticamente chiara»19. Gli elementi per mezzo dei quali Mondrian costruisce la sua astrazione sono: le linee rette(orizzontali e verticali), i colori primari (rosso, blu e giallo) e i non-colori(nero, bianco e grigi intermedi), più le forme e lo spazio. Inoltre l’equilibrio delle linee e dei colori in un piano rappresenta lo spazio infinito, che tutto comprende e racchiude, fuori del tempo e affinché il colore non abbia relazione con l’apparenza naturale delle cose deve essere puro, cioè: 1) essere piano 2) essere primario 3) essere condizionato nella sua estensione, però in nessun modo limitato20. I colori devono essere puri, senza modulazioni, per annullare ogni soggettivismo da parte dell’artista e dello spettatore, questi deve trovarsi di fronte ad una unità matematicamente perfetta, oggettiva, fredda, però più reale di quelle della natura, che sono solamente realtà apparenti, ingannevoli e limitate. Secondo la teoria che lo stesso Mondrian definisce Neoplasticismo, lo scopo ultimo dell’artista consiste nel ridurre la rappresentazione alla sua funzione più elementare. I suoi lavori più noti, come Composizione con piano rosso grande, giallo, nero, grigio e blu del 1921, perseguono questo scopo. L’opera consiste, infatti, in una serie di rettangoli nei colori primari, separati da una griglia di linee nere verticali e orizzontali, indispensabili per evitare che un rettangolo dipinto suggerisca un’illusione di profondità. Il dipinto intende essere totalmente impersonale, controllato e armonioso e vuole trasmettere un senso di equilibrio che riveste un forte significato spirituale; porta l’artista a un particolare ascetismo pittorico, che lo spinge a rifiutare ogni legame con la realtà materiale, per cercare nella semplicità geometrica un’armonia e una grazia che lo conducano a contatto con l’assoluto. L’artista olandese conserverà quest’austera visione artistica per il resto della vita, sviluppando variazioni sui principi essenziali delle sue composizioni, ad esempio usando tele romboidali come base per i suoi raggruppamenti di linee e colori. Mondrian lascia il movimento nel 1925 e alla morte di van Doesburg nel 1931, la rivista De Stijl cessa le pubblicazioni, ciascun artista quindi prosegue la propria carriera in maniera autonoma. 18 Marinetti F. T., Lo splendore geometrico e meccanico e la sensibilità numerica, Direzione del Movimento Futurista, Milano 1914. 19 Il Neoplasticismo, op. cit., p. 63. 190 | In trincea per la pace 20 Id., p. 64. / 191 CONCLUSIONI pIet MOndrIan cOMpOsIzIOne cOn Grande pIanO rOssO, GIallO, nerO, GrIGIO e blu, 1921 OlIO su tela, 59,5 x 59,5 cM. Fin dall’inizio del XX secolo si assiste alla creazione continua di movimenti e correnti la cui finalità è determinare quali possa o debbano essere, all’interno della società contemporanea, le peculiari funzioni dell’arte. Diversi paesi europei, in via d’industrializzazione, diventano luogo d’origine di movimenti di avanguardia che vedono nell’arte, il mezzo per incentivare una radicale trasformazione del costume sociale e culturale. L’arte di avanguardia si prefigge di accelerare, mediante la facoltà di modificare le proprie strutture, il mutamento della società, ripudiando la mentalità e i rapporti sociali borghesi. Questo pressante impulso al cambiamento è chiaramente accentuato dallo scoppio della Prima guerra mondiale. Uno dei movimenti in questione, il Futurismo, auspica proprio che questa trasformazione possa avvenire grazie alla guerra ormai imminente, motivo per il quale, vengono prodotti manifesti e programmi interamente incentrati sul più fervente interventismo. L’entusiasmo per l’evento bellico, potenzialmente riformatore, caratterizza anche i principi della corrente espressionista, influenzata dal pensiero nichilista di Nietzsche che propone il conflitto come tramite salvifico, per la redenzione della società europea nel suo complesso. Alle correnti di avanguardia si contrappongono poi correnti di segno opposto; per queste ultime l’arte, in sostanza, resta l’unica attività propria dell’individuo in una cultura di massa e preferisce l’auto-negazione al rischio di rendersi partecipe di una temperie culturale considerata negativa. Estrema, in questo senso, è la posizione assunta dal Dadaismo; l’attività artistica non può essere altro che un’operazione priva di tecnica, senza un programma e senza uno scopo, di fronte al fatto che, all’interno della contrapposizione tra le tecniche dell’arte e le tecniche industriali, queste ultime risultano dominanti. Le due guerre mondiali acuiscono una crisi già profonda e influiscono inevitabilmente anche sull’indirizzo e l’impegno politico dell’arte contemporanea. L’avversione contro la borghesia che caratterizza le correnti artistiche avanzate dal 192 | In trincea per la pace / 193 Romanticismo in poi, dopo la Prima guerra mondiale diventa una critica e una recisa condanna del sistema; che la guerra sia una conseguenza devastante dell’economia industriale capitalistica è evidente, un errore proprio di un sistema inaccettabile e fallace, per opporsi efficacemente al sistema quindi, l’arte deve trasformarsi in puro arbitrio. Un altro movimento non aderente all’iniziativa progressista delle avanguardie, specialmente del Futurismo, è in Italia, la pittura Metafisica: all’arte che aspira ad essere attiva, dinamica e al passo con i tempi, se ne contrappone un’altra, priva di ogni legame con la realtà, distaccata ed impassibile, irreale e lucida come i sogni, indubitabilmente preludio alla poetica del Surrealismo, per cui la sfera inerente l’arte non è più quella della coscienza ma quella onirica dell’inconscio. Il panorama artistico del secolo scorso presenta, inoltre, un vero e proprio salto qualitativo, almeno nell’area della cultura occidentale, vale a dire il passaggio dalla figuratività alla non figuratività o come correntemente si definisce, all’astrazione. La pittura di Piet Mondrian, deduzione logica del Cubismo, aspira senza dubbio ad una riproduzione rigorosa dello spazio, nella quale la terza dimensione, rappresentabile soltanto in maniera illusoria, viene ritenuta impossibile da accertare, scartata e ridotta alle altre due, quindi implicata nel rapporto delle coordinate verticali ed orizzontali sul piano. Il quadro insomma diventa uno schema, un modello per mezzo del quale si ha una percezione non più emozionale ma intellettuale della realtà. In ogni caso, infine, che si chiamino futuristi, espressionisti, metafisici, dadaisti o non appartenenti ad alcuna corrente, gli artisti di questa generazione sono decisi a cambiare tutto. L’evento bellico rappresenta la concreta possibilità di sconvolgere e distruggere consuetudini e tradizioni riguardo l’arte, acquisite dalla storia ma ormai desuete; molti protagonisti della scena artistica contemporanea scelgono quindi di parteciparvi in prima persona e questo, come abbiamo visto, segna in maniera profonda e indelebile la loro vita e il loro percorso di artisti, anche dopo l’11 novembre 1918, quando la guerra finisce; crollano gli imperi e a crollare, per tanti di loro, è anche il senso della storia e la fiducia nel futuro. 194 | In trincea per la pace BIBLIOGRAFIA ARGAN G. C., Storia dell’Arte Moderna, Sansoni, Firenze 2000 BERTELLI C., BRIGANTI G., GIULIANO A., Storia dell’Arte Italiana, Mondadori, Milano 1992 BOCCIONI UMBERTO, Pittura e Scultura Futuriste, a cura di zeno Birolli, Abscondita, Milano 2006 BUSSAGLI MARCO, L’Arte e la Prima guerra mondiale, Giunti Editore, Milano 2015 De Chirico a Ferrara. Metafisica e Avanguardie, catalogo della mostra a cura di Paolo Baldacci, Fondazione Ferrara Arte, Ferrara 2016 DE MIChELI M., Le Avanguardie artistiche del Novecento, Feltrinelli, Milano 1988 GENTILE E., L’Apocalisse della modernità, Mondadori, Milano 2014 Le Nèoplasticisme. Principe général de l’équivalence plastique, Editions de l’Effort Moderne, Paris 1920 MARINETTI F.T., Lo splendore geometrico e meccanico e la sensibilità numerica, Direzione del Movimento Futurista, Milano 1914 MONDRIAN PIET, Il Neoplasticismo, a cura di Federico Ferrari, Abscondita, Milano 2008 NIGRO COvRE J., Mondrian e De Stijl, Giunti Editore, Milano 2008 PONTIGGIA E., La Nuova Oggettività Tedesca, Abscondita, Milano 2002 Sironi e la Grande Guerra. L’arte e la Prima guerra mondiale, dai futuristi a Grosz e Dix, catalogo della mostra a cura di Elena Pontiggia, Allemandi, Torino 2014 TzARA T., Manifesto del Dadaismo e lampisterie, a cura di S. volta, Einaudi, Torino 1964 vERDONE M., Il Futurismo, Newton Compton Editori, Roma 1994 MARChIONNI N., La Grande Guerra degli artisti, Pagliai Polistampa, Firenze 2005 / 195 2 PROGETTO “FORmAZIONE sTuDENTI-GuIDE” LICEO FALCONE, bERGAmO DON ANGELO RONCALLI PARTENZA E IMMEDIATO RITORNO A BERGAMO ATTIVITÀ IL PATRIOTTISMO DI RONCALLI CONCLUSIONI uN sERGENTE DELLA sANTITà E CAPPELLANO A bERGAmO: DON ANGELO RONCALLI NOI, TRE ITALIANI E LA LETTERATuRA NELLA GRANDE GuERRA REsOCONTO DELL'EsPERIENZA DEGLI sTuDENTI DEL LICEO FALCONE GOFFREDO ZANChI Docente presso il Seminario vescovile Giovanni XXIII di Bergamo PARTENZA E ImmEDIATO RITORNO A bERGAmO Il richiamo nel maggio del 1915 di don Angelo Roncalli al servizio militare – aveva già prestato il servizio di leva dal 1 dicembre 1901 al 30 novembre 1902 a Bergamo nel 73° di fanteria – presenta una nota quasi divertente per il carattere rocambolesco del suo esito. La domenica mattina del 23 maggio 1915, don Angelo, della classe del 1881, ricevette l’ordine di presentarsi alla caserma-ospedale di S. Ambrogio a Milano. Incerto sulla destinazione che lo attendeva, si affrettò a salutare i colleghi del Seminario, dove era insegnante di storia, patrologia e apologetica e nel pomeriggio si recò a Sotto il Monte per il commiato dalla famiglia. La mattina di buonora era a Milano nel luogo fissato. In trepida attesa della destinazione, un suo alunno, Pietro Personeni (1888-1962) di Bedulita, lo presentò ad un sergente che cercava personale per gli ospedali militari di Bergamo. Fu accettato immediatamente e messo in lista come sergente di sanità. Don Roncalli annota che avrebbe potuto con una mancia approfittare di quella situazione caotica, per ottenere l’incarico di cappellano militare, che gli avrebbe consentito un grado superiore con un buon stipendio e soprattutto la certezza di non partecipare ai combattimenti1. Ma Roncalli non volle ricorrere a questi mezSui privilegi del cappellano militare, che godeva del grado di tenente e riceveva un buon stipendio vedi R. MOROzzO DELLA ROCCA, La fede e la guerra. Cappellani militari e preti-soldati (1915-1919), Edizioni Studium. Roma 1980, pp. 11-13; P. MELOGRANI, Storia politica della Grande Guerra, Mondadori, Milano 2014, ristampa, pp. 123-127. 1 198 | In trincea per la pace / 199 zi sleali, volle fidarsi unicamente nella Provvidenza e questa fiducia fu ben ripagata. Dopo la visita alla tomba di S. Carlo e aver ascoltato il card. Ferrari che la sera del 25 maggio rivolse un’esortazione ai preti arruolati, fece ritorno a Bergamo a capo di circa 25 soldati. Presentatosi al capitano Gerolamo volpi, Maggiore Medico della Difesa, gli fu annunciata la destinazione al seminario di Bergamo, che era stato requisito come ospedale. Così dopo tre giorni, la sera del 26 maggio si ritrovava esattamente nel suo piccolo appartamento del seminario, mentre i colleghi avevano dovuto sgomberare il loro per far posto all’ospedale. Un don Angelo quasi divertito commentava la sua destinazione, ma riconosceva in questo la mano della Provvidenza2. ATTIvITà Nell’ospedale del seminario Roncalli fu occupato fino all’inizio di gennaio del 1916, quando gli ammalati furono trasferiti nella Pia Casa di Ricovero, detta Ricovero Nuovo, nel quartiere periferico della Clementina, costruito di recente sulla strada per Brescia che era in posizione di più facile accesso per i soldati feriti provenienti dal fronte. Gli anziani trovarono ospitalità in seminario, il quale fu diviso in due settori distinti, di cui uno riservato ai seminaristi più giovani, dato che gli alunni delle ultime classi del liceo e della teologia erano stati arruolati per la guerra3. Come sergente di sanità era agli ordini di un maresciallo responsabile e del tenente medico, a completo servizio dei militari ammalati in tutte le loro piccole e grandi esigenze, dalle disinfezioni alle vaccinazioni, dal trasporto dei malati più gravi negli ospedali cittadini alla pulizia della biancheria e dell’ambiente4. 2 A.G. RONCALLI, Il Giornale dell’anima. Soliloqui, note e diari spirituali, Edizione critica e annotazione a cura di Alberto Melloni, Istituto per le Scienze Religiose, Bologna 1987, 23 maggio 1915, p. 279: «Domani parto per il servizio militare in Sanità. Dove mi manderanno? Forse sul fronte nemico? Tornerò a Bergamo, oppure il Signore mi ha preparata la mia ora sul campo di guerra? Nulla so; questo solamente voglio, la volontà di Dio in tutto e sempre». Il medesimo atteggiamento viene espresso nella rievocazione del suo arruolamento, stesa due anni dopo, il 26 maggio del 1917 in ANGELO GIUSEPPE RONCALLI Nelle mani di Dio a servizio dell’uomo. I diari di don Roncalli, 1905-1925, Edizione critica a cura di Lucia Butturini, Istituto per le Scienze Religiose, Bologna 2008, 26 maggio 1917, pp. 284-286. 3 C. PATELLI, Uomini e vicende del Seminario di Bergamo dal 1567 al 1921, “Studi e Memorie 1”, p. 106; ANGELO GIUSEPPE RONCALLI, Fiducia e obbedienza. Lettere ai superiori del Seminario Romano 1901-1959, a cura di Carlo Badalà, San Paolo, Cinisello Balsamo 1997, Lettera a don Domenico Spolverini, 22 marzo 1917, pp. 150-151. 4 M. BENIGNI, Papa Giovanni XXIII chierico e sacerdote a Bergamo 1892-1921, Glossa, Milano 1998, p. 292. 200 | In trincea per la pace Agli inizi di marzo del 1916 fu trasferito alla Infermeria presidiaria, che ospitava 70 uomini con 20 soldati5. Su richiesta del nuovo vescovo di Bergamo mons. Luigi Maria Marelli all’Ordinario Militare mons. Angelo Bartolomasi e col sostegno della Direzione degli Ospedali di Bergamo6, fu nominato il 28 marzo 1916 cappellano militare all’ospedale chiamato Banco Sete, capace di circa 150 letti e situato presso lo stabilimento zuppinger in via Broseta7. Qui fissò la sua abitazione, coadiuvato da un gruppo di suore delle Pie Madri della Nigrizia8. Dal 1° di aprile del 1917 don Angelo iniziò la celebrazione della messa anche al nuovo ospedale dei Rachitici, dove esercitò l’assistenza fino all’ottobre del 1918, quando si trasferì al Ricovero Nuovo del quartiere della Clementina9. Sovente Roncalli parla dei suoi due ospedali, riferendosi esplicitamente al Banco Sete e ai Rachitici, che rappresentarono il principale campo della sua attività10. A partire dal 7 giugno 1917, per un periodo limitato, si impegnò anche all’assistenza presso l’ospedale ricavato nel vasto complesso dell’Orfanatrofio di S. Lucia11. L’impossibilità di provvedere adeguatamente ai circa 350 ammalati ivi ospitati12, indusse Roncalli alla richiesta di un nuovo cappellano presentata a mons. Bartolomasi alla fine di luglio del 191713. Presumibilmente fu accettata, perché non abbiamo se5 Fiducia e obbedienza, Lettera a don Spolverini, 6 marzo 1916, pp. 135-136. L’Infermeria Presidiaria era nella caserma di Piazza d’Armi, nella zona di Borgo S. Caterina. Archivio Fondazione Giovanni XXIII di Bergamo (d’ora in poi AFGBG), serie 1.6, Vita Militare, fasc. 18, Lettera della Direzione dell’Ospedale Militare di Bergamo al vescovo castrense mons. Bartolomasi, 11 dicembre 1915. 6 7 L. PELANDI, Attraverso le vie di Bergamo scomparsa, III, Il Borgo S. Leonardo, Bolis, Bergamo 1965, p. 27 ss. 8 M. BENIGNI, Papa Giovanni XXIII, pp. 295-296. 9 Nelle mani di Dio, 1 aprile1917, p. 278. Ivi, 2 febbraio 1918, p. 299; 11 febbraio 1918, p. 301; 22 marzo 1918, p. 312; 19 maggio 1918, pp. 325-326; 11 agosto 1918, p. 351; 16 agosto 1918, p. 353; 1 ottobre 1918, p. 367. Il 7 luglio 1918 ai Rachitici viene trasferita la divisione chirurgica del Ricovero Nuovo, perché questo ospedale viene riservato all’accoglienza dei prigionieri tubercolotici rilasciati dall’Austria, ivi, p. 339; Fiducia e obbedienza, Lettera a don vincenzo Bugarini, Bergamo, 4 aprile 1918, p. 162: «Presto la mia assistenza a due Ospedali non molto numerosi per verità». 10 11 Nelle mani di Dio, 7 giugno 1917, pp. 287-288. Roncalli afferma che il totale degli ammalati da assistere con l’aggiunta di quelli del Banco sete era di circa 500: GIOvANNI XXIII, Lettere ai familiari 1901-1962, I, a cura di L. Francesco Capovilla, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1968, Lettera al fratello Saverio, 6 maggio 1917, p. 48. 12 M. BENIGNI, Papa Giovanni XXIII, p. 309. Si accenna ad una lettera di Roncalli al vescovo castrense, 31 luglio 1917. Questa lettera era stata richiesta dal vescovo castrense per assegnare ufficialmente come vice cappellano in servizio all’ospedale don Remigio Negroni, che era già stato dichiarato disponibile ad assumere il compito: serie 1.6, Vita Militare, fasc. 7, Lettera dell’Ordinario militare al Cappellano Militare don Angelo Roncalli, 30 giugno 1917: «Non abbiamo ancora avuta alcuna richiesta ufficiale di Aiuto Cappellano per l’Ospedale di Bergamo. Quando questa sarà giunta all’Ufficio, ci faremo premura, come già abbiamo scritto mesi sono a Mons. vescovo di Bergamo, di designare il Rev. Negroni». Don Remigio Negroni (1879-1951) fu prevosto di Alzano Maggiore dal 1925 alla morte: Altare da cam- 13 / 201 gni di una sua regolare presenza in questo luogo14. Nel grande ospedale del Ricovero Nuovo Roncalli fu impiegato stabilmente solo per quattro mesi a partire dal 16 ottobre 191815. Il 19 luglio aveva ricevuto dal Direttore degli ospedali la richiesta di provvedere all’assistenza religiosa e morale dei soldati tubercolotici, rilasciati dall’Austria16. Roncalli aderì prontamente alla proposta, che non era priva di rischi per il pericolo di contagio, trovandola conforme «alle alte e nobili idealità del mio ministero»17. Nonostante i rischi, seppe mantenersi sereno attribuendone il merito all’aiuto divino nel quale poneva interamente la sua fiducia18. Erano più preoccupati gli altri che l’interessato, al quale veniva affidata non solo l’assistenza religiosa, ma anche quella morale del più grande ospedale di Bergamo che contava circa 1000 letti19. Iniziò il suo servizio il 16 ottobre, il giorno in cui giunse a Bergamo il primo treno con il suo triste carico di «poveri giovani sfioriti e sfiniti che tornano dalla prigionia austriaca». Poté contare sull’aiuto di un giovane prete milanese, don Alfredo Pini20 e successivamente di don Remigio Negroni, che gli permisero di svolgere numerose attività all’esterno, soprattutto per l’apertura della Casa degli Studenti in Città Alta21. Il lavoro però non mancava al Ricovero Nuovo, un lavoro triste, perché l’arrivo dei convogli si susseguiva senza sosta22 come i decessi dei giovani soldati, che Roncalli doveva accompagnare al cimitero23. Il suo impegno si prolungò fino al 7 po, chierici e sacerdoti di Bergamo al servizio della patria in armi, Associazione Nazionale Cappellani Militari d’Italia in Congedo, Sezione di Bergamo, Bergamo 1961, p. 160. Diversamente M. BENIGNI, Papa Giovanni XXIII, p. 310, ritiene che Roncalli assicurasse la presenza a tre ospedali, il Banco Sete, Rachitici e Orfanatrofio. 14 Precedentemente i suoi interventi erano stati occasionali: Nelle mani di Dio, 2 febbraio 1918, p. 299; 20 marzo 1918, pp. 311-312. 15 Questi rilasci venivano effettuati spesso attraverso la mediazione della S. Sede, vedi J. POLLARD, Il Papa sconosciuto. Benedetto XV (1914-1922) e la ricerca della pace, S. Paolo, Cinisello Balsamo 2001, pp. 132-137. “La Civiltà Cattolica” segnalava puntualmente gli scambi e il rilascio di prigionieri gravemente malati nella rubrica di G. QUIRICO, L’opera del s. padre Benedetto XV in favore dei prigionieri di guerra, “La Civiltà Cattolica”, 69,2,1918, pp. 116-129, 293-308, 398-414; 69,3, 1918, pp. 396-413; 69,4, 1918, pp. 273-284, 396-408. 16 AFGBG, serie 1.6, Vita Militare, fasc. 8, Lettera di don Angelo Roncalli al maggiore col. Roncalli cav. Franco, Bergamo, Ospedale Banco sete 19.7.1918. 17 febbraio del 1919, quando fu rilevato da don Domenico Calvi24. Fu questo l’addio definitivo alla missione di cappellano militare. Roncalli ricordò con particolare commozione anche da Papa questa esperienza che gli offrì la possibilità di accrescere la conoscenza diretta di uomini e situazioni, con grande vantaggio per quella capacità di incontrare le persone che costituisce il tratto peculiare della sua personalità25. Egli traccia le linee principali di questa attività nelle note dei Diari stese nel 1917 e 191826 ed occasionalmente in alcuni discorsi, come quello tenuto in occasione del Congresso Eucaristico Nazionale di Bergamo nel 192027. La risposta dei soldati era buona, spesso superiore alle attese del loro cappellano, che si riteneva ricompensato oltre i meriti. Scopriva che la sua presenza tra i militari costituiva un’occasione molto propizia di evangelizzazione. Dei suoi soldati diceva che «con un po’ di garbo e di grazia di Dio riesce ad aver tutto da loro»28. Incontrava grande disponibilità all’ascolto soprattutto da parte dei più giovani, nei quali scopriva imprevisti spazi di bontà29. Accenna alla morte cristianamente esemplare di molti giovani soldati30. Due i casi particolarmente 24 Ivi, 7 febbraio 1919, p. 396. Su don Domenico Calvi (1885-1973) vedi Altare da campo, p. 97. A.G. RONCALLI, Fiducia e obbedienza, Lettera a Bugarini, 4 aprile 1918, p. 162: «La guerra mi ha offerto l’occasione di avvicinare anime più assai che dapprima e di studiare le vie migliori per giungere ad esse. È dunque un’esperienza che mi ha fatto e mi fa molto bene, mi rende più buono, più disposto a compatire i difetti altrui»; GIOvANNI XXIII, Discorsi, messaggi, Colloqui del Santo Padre Giovanni XXIII, I, Poliglotta vaticana, Città del vaticano 1960, Ricordi di un sacro ministero presso i militari, p. 751 «Furono vari anni e tra i più laboriosi della sua vita; ma anche fra i più densi di esperienza, perché si avevano tante possibilità – a cominciare dal conforto dato a molti che dovettero compiere, e lo fecero con serenità, il passo supremo – di conoscere la vera anima della gioventù italiana». 25 26 Per il 1917 abbiamo note solo dal 1 gennaio al 17 giugno, eccetto una breve nota del 1° dicembre. Per il 1918 le note riguardano l’anno intero. A questo si aggiungono due brevi note relative al 23 maggio 1915 e al 4 novembre 1916. Tutto il materiale è stato pubblicato nella edizione Nelle mani di Dio, pp. 251-385. Discorso al VI Congresso Eucaristico Nazionale 9 settembre 1920, pubblicato in L.F. CAPOvILLA (a cura di) Il rosario con papa Giovanni, Camerino 1979, pp. 119-121: «Oh! Le lunghe notti vigilate tra i giacigli dei cari e valorosi soldati ad accogliere le loro confessioni e a disporli a ricevere sul mattino il Pane dei forti! Oh le belle canzoni a Maria intonate presso i semplici altari provvisori! Oh, la sublime solennità delle messe al campo, e le care e piccole feste dell’ospedale, dove si rigustava specialmente a Natale, a Pasqua, nel maggio, la poesia della chiesa del proprio paese, nel tenero ricordo delle madri e delle spose lontane nell’ansiosa aspettazione della fine del sacrificio!». 27 GIOvANNI XXIII, Lettere ai familiari 1901-1962, I, Lettera al fratello Saverio, 6 maggio 1917, p. 48. 18 Nelle mani di Dio, 19 luglio 1918, p. 343; 31 luglio, 1918, pp. 347-348. 28 19 Fiducia e obbedienza, Lettera a don Spolverini, Bergamo 4 agosto 1918, pp. 164-165. 20 Nelle mani di Dio, 16 ottobre 1918, p. 372; 31 dicembre 1918, p. 385. 21 Ivi, 6 dicembre 1918, p. 383. Lettere ai familiari 1901-1962, I, Lettera al padre, 23 giugno 1917, I, p. 52: «D’altra parte questi cari giovani soldati non si può non amarli quando si sono avvicinati una volta; e sono tanto degni di ogni cura e di ogni conforto. Per me confesso che vorrei potermi per loro sacrificare anche di più di quello che faccio». 22 Ivi, 30 ottobre 1918, p. 373; 1 dicembre 1918, p. 382. Ivi, 2 novembre 1918, p. 374: «La strada del Cimitero è diventata per me quotidiana perché vi conduco uno al giorno i miei poverini che di ritorno dall’Austria non hanno potuto trarre altro vantaggio che quello di morire in patria»; 12 dicembre 1918, p. 385; 31 dicembre 1918, p. 385. 23 202 | In trincea per la pace 29 Ivi, Lettera al fratello Saverio, 6 maggio 1917, I, p. 49: «Pensa che in un mese mi sono morti ben cinque artiglieri e tutti di polmonite. Ti so dire però che essi erano angeli veramente: ed ora mi proteggono dal Paradiso dove li ho avviati»; Nelle mani di Dio, 5 maggio 1917, p. 282; 1 ottobre 1918, p. 367; 4 ottobre 1918, p. 367; 6 ottobre 1918, p. 368. 30 / 203 commoventi rievocati da Roncalli in pagine intrise di commozione: la morte di Diani Egidio (1898-1917)31 di San Romano di Garfagnana e di Orazi Domenico (1897-1917) di Montegallo di Ascoli Piceno. Roncalli seguiva da vicino la grave malattia di questo giovane marchigiano È di Ascoli Piceno, e conta 19 anni. Umile contadino ha l’anima pura come un angelo. Gli traluce dagli occhi intelligenti dal sorriso ingenuo e buono. Stamane e stasera sentendolo ragionarmi all’orecchio mi inteneriva... «Per me, signor cappellano, morire è una ricchezza, io muoio volentieri, perché sento ancora per grazia di Dio, di aver l’anima innocente. Se morissi più vecchio, chi sa, chi sa, il sacco diverrebbe pesante. E poi morendo vecchio il distacco è più doloroso: lasciar moglie, figli, casa, campi costa molto. A me ora che cosa costa il morire?» E un momento fa mi ripeteva: «A me, signor cappellano, piacerebbe tanto di morire ora, così,... vicino a lei... in modo che sino al mio ultimo respiro io rimanga tutto del Signore». Ed io invece caro Menicuccio voglio pregare tanto il Signore perché ti lasci vivo per lunghi anni. Il mondo ha bisogno della permanenza di queste anime elette e semplici che sono tutte un profumar di fede, di purezza, di santa e fresca poesia cristiana: ed anche noi sacerdoti ne abbiamo bisogno per sentirci edificati alla virtù ed allo zelo32. Il giovane, trasportato dal Banco sete al Ricovera Nuovo per un’operazione chirurgica, morì improvvisamente il successivo 8 di aprile, giorno di Pasqua. Roncalli commentava: Il mio caro soldato Domenico Orazi è morto oggi improvvisamente al Ricovero Nuovo dove l’avevano trasportato per una operazione chirurgica […]. Finché l’Italia ha di questi figlioli che salgono al cielo non può dubitare della benedizione di Dio33. Roncalli era soddisfatto dei risultati ottenuti. Il Diario abbonda di annotazioni compiaciute per la partecipazione ai sacramenti e alla sue inizia31 Nelle mani di Dio, 19 aprile 1917, pp. 280-281; AFGBG, serie 1.6, Vita Militare, fasc. 23, Cartolina postale con ritratto di Diani Egidio e necrologio di don Angelo Roncalli: «Diani Egidio di S. Romano di Garfagnana (verrucola) distretto di Lucca, prov. di Massa, 3° Artiglieria di Montagna, classe 1898, morto di polmonite violenta e da me assistito all’Osp. Mil. Banco Sete in Bergamo la notte del 19 aprile 1917. Anima eletta e pura carattere schietto e amabilissimo era troppo degno di abitare cogli Angeli prima che i contati profani non potessero contaminare il cristiano candore. Nelle ore estreme mi promise di ricordarsi di me e delle cose mie in Paradiso: il ricordo di questa promessa tempera di soavità la mestizia lasciatami dalla sua dipartita, mentre mi è incoraggiamento e conforto». 32 Ivi, 8 marzo 1917, p. 277. Ivi, 8 aprile 1917, p. 280. Il commovente episodio, rievocato recentemente da mons. Capovilla, ha coinvolto i familiari e la comunità di provenienza del giovane soldato con il trasporto dei resti mortali dal cimitero di Bergamo a quello del paese natale nel luglio del 1994: AFGBG, serie 1.6, Vita Militare, fasc. 31-32. I documenti relativi alla rievocazione di questo soldato per interessamento di mons. Capovilla sono stati riuniti nella pubblicazione: v. DI vINCENzO, G. GhIGhI, Montegallo onora il giovane artigliere Orazi Domenico (1897-1917), Ascoli Piceno 1994. 33 204 | In trincea per la pace / 205 tive religiose34. Alta appare anche l’affluenza alla messa domenicale del soldato35. Senza dubbio la possibilità di una continua assistenza e il non eccessivo numero di assistiti facilitavano il compito del cappellano, però non si deve trascurare la sua dedizione e la capacità di ascolto, che gli permetteva di creare spesso legami non superficiali. Nonostante la maggiore facilità di apostolato negli ospedali rispetto ai reparti dislocati al fronte, non erano risultati del tutto scontati36. L’esperienza di cappellano permise incontri con miscredenti e non cattolici che misero in luce e affinarono la particolare sensibilità Roncalli. È il caso del tenente Emanuele Bufano, di confessione valdese, con il quale si avviò un dialogo di reciproco ascolto superando le barriere di ostilità che da secoli caratterizzavano le chiese cristiane. Roncalli riconosce la buona fede del tenente e la superiorità del metodo del rispetto e della dolcezza, frutto della carità. Siamo davanti alle prime intuizioni ecumeniche: «Io lo credo in buona fede: certo che egli ha un’anima bella. Che il Signore lo illumini! Oh! Come apprezzo sempre nel contatto con queste creature la necessità che noi siamo dolci, non irosi, longanimi e insieme pronti e chiari nell’esporre la verità, nel rispondere alle obiezioni! Altro che tuoni dal cielo! Carità ci vuole, carità e verità semplice, schietta e amorevole37». Diversamente da questo incipiente ecumenismo, il rapporto con i non cristiani appare ancora legato al principio tradizionale dell’extra ecclesiam nulla salus, cioè del pericolo di dannazione per i fedeli di una diversa religione. Nell’ospedale Banco sete v’è Salem Serdaney, un negro 34 Nelle mani di Dio,19 marzo 1917, p. 278; 8 aprile 1917, Pasqua, p.280; 20 marzo 1918, p. 312; 20 marzo 1918, p. 312; 22 marzo 1918, p. 312; 19 maggio 1918, Pentecoste, p. 325. 35 Ivi, 9 maggio 1918, p. 322. 36 MOROzzO DELLA ROCCA, La fede e la guerra, pp. 196-197. 37 Nelle mani di Dio, 17 agosto 1918, p. 354. Il tenente Bufano successivamente faceva dono a Roncalli di una copia del Nuovo Testamento e dei Salmi, accompagnata dalla seguente lettera del 14 settembre 1918: «Egregio sig. Cappellano, sebbene con ritardo – non causato però dalla mia volontà – oggi ho potuto inviarle il volume del N. T. e Salmi che le promisi. La prego tanto volerli accogliere – oltre che per le sue doti – anche come ricordo di un’Anima che quaggiù ha sofferto e soffre nella lotta incessante per la purificazione, guidata e illuminata dal Sommo Ideale Cristiano che nel suo Mistero massimo di Redenzione è tutto interiore sublimamente silenzioso, individuale! Non importa se una delle manifestazioni esteriori del Cristianesimo ci separa: la Chiesa; poiché esso è qualcosa di più grande, di più universale, e certo che le anime infrangendo gli ostacoli umani non possono che sentirsi unite, affratellate, per tutte operare all’avvento nel Regno dei Cieli per l’annunzio del vangelo alle Creature di questa terra di dolori […]». Sulla copertina del volume don Angelo Roncalli annota: «Questa versione del N.T. e dei Salmi è opera di un protestante: perciò deve trattarsi con riserva. Me la mandò oggi da Bari il sottotenente E. Bufano che fu degente all’Ospedale Rachitici agosto-settembre 1918: protestante anche lui, ma anima buona e retta». (AFGBG, serie 1.6, Vita Militare, fasc. 14). 206 | In trincea per la pace di religione mussulmana in grave pericolo di vita; Roncalli trepida per la salvezza della sua anima. Non potendo fare nulla per convertirlo, si limita a pregare38. Si consola quando viene a sapere che prima della morte è stato battezzato sotto condizione, quindi a sua insaputa, dalla superiora delle religiose che lo coadiuvano. Roncalli non giudica il gesto irrispettoso, nella convinzione che il beneficio ottenuto – la salvezza di un’anima - sia nettamente superiore al mancato rispetto della libertà personale. Naturalmente del battesimo non si fa alcun accenno al mufti, il ministro mussulmano che è venuto a celebrare le esequie39. Ma qualche giorno dopo, Roncalli ha occasione di incontrarlo e può costatare la bontà d’animo di questo non cristiano, del quale afferma che anche lui “forse è in buona fede”40. IL PATRIOTTIsmO DI RONCALLI Allo scoppio della guerra, l’ambiente cattolico bergamasco non sembra essersi scostato di molto dall’atteggiamento assunto dalla Chiesa italiana. Nel periodo della neutralità i vescovi furono sensibili al naturale pacifismo delle masse, specialmente nelle regioni meridionali e di confine con l’Austria, esponendo, nello loro pastorali, il giudizio del pontefice sulla guerra come flagello divino, ma furono egualmente disposti a riconoscere il principio dell’obbedienza all’autorità in caso di intervento dell’Italia in guerra41. Questa pare l’evoluzione tenuta dal principale organo di stampa della diocesi, “L’Eco di Bergamo” , mentre il periodico “Il Campanone”, destinato ai ceti popolari, presenta toni più marcati di neutralismo42. Il nuovo vescovo, mons. Luigi Marelli (1915-1936), nella 38 Nelle mani di Dio, 5 ottobre 1918, p. 368. IVI, 5 ottobre 1918, pp. 368; 10 ottobre, pp. 370-371: «È morto stamattina il mio povero nero Salem Serdaney: ma coll’anima bianca dalle acque del battesimo che Suor M. Ida la superiora gli ha amministrato sub conditione la notte tra il 5 e il 6 corr. Ufficialmente non se ne deve sapere nulla, e verrà il suo mufti musulmano a portarlo al Cimitero con tutte le sue cerimonie. Quanto al corpo facciano pure: è l’anima che mi premeva e questa parmi di poter dire che è salva. Oh! I misteri dell’amore di Dio!» 39 40 Ivi, 2 novembre 1918, p. 374. A. MONTICONE, L’episcopato italiano dall’Unità al Concilio Vaticano II in G. DE ROSA (a cura di) Clero e società nell’Italia contemporanea, Laterza, Bari-Roma 1992, pp. 286-288; R.P. vIOLI, Vescovi /2. Dalla svolta antimodernista a Pio XII in Cristiani d’Italia. Chiesa, Società, Stato, 1861-2011, Enciclopedia Treccani, II, Roma 2011, pp. 831-832. 41 A. CANAvERO, Bergamo tra neutralità e intervento in Cultura e spiritualità in Bergamo nel tempo di Papa Giovanni XXIII, Convegno di studio, Bergamo 19-22 novembre 1981, Bergamo 1983, pp. 185-207; C. ONGARO, Il 1915 a Bergamo: cattolici e socialisti nel primo anno di Guerra, “Studi e ricerche di Storia Contemporanea”, 14, giugno 1980, pp. 5-33. 42 / 207 lettera indirizzata ai fedeli in occasione dell’entrata in guerra, usava toni di moderato patriottismo, andando oltre la logica dell’obbedienza verso le autorità costituite, le cui decisioni erano insindacabili e come tali doverosamente accettate. Durante le fase di neutralità, i fedeli avevano pregato per la pace, ma, una volta decisa l’entrata in guerra, essi dovevano impetrare il successo, garanzia di una pace durevole e sicura43. Il cappellano don Angelo Roncalli si muove secondo questa linea, comune del resto ad altri vescovi come il card. Ferrari, arcivescovo di Milano44. Il suo pensiero è ricavabile da diversi interventi, di cui si sono conservate svariate testimonianze: omelie, conferenze, interventi a pubbliche manifestazioni patriottiche, articoli su “L’Eco di Bergamo” e “La vita Diocesana” e corrispondenza privata. In modo particolare sono da ricordare le omelie della messa del soldato che celebrava la domenica presso la chiesa di S. Spirito alle ore 8,1545 e quelle dedicate al S. Cuore, collegate all’atto di consacrazione dei militari46. La guerra come castigo ed occasione di espiazione e di rinnovamento vi sono in Roncalli vistosi lasciti della cultura intransigente, segnata da un giudizio negativo sulla moderna civiltà, generata dalla Rivoluzione Francese47. La guerra è vista come un castigo dovuto alla sua apostasia dai valori cristiani. Roncalli si richiama all’insegnamento di Benedetto XIv che aveva posto la radice della guerra nella dissoluzione dell’ordine morale e sociale creato lungo i secoli dalla Chiesa. Questo aveva proLettera di S. E. Mons. Vescovo ai Ven. Fratelli e dilettissimi Figli , 25 maggio 1915, “La vita Diocesana”, vII (1915) 6, pp. 157-159. Tra l’altro il vescovo scrive: «Gesù stesso insegna ad amare la patria terrena e spesso noi ricordiamo le sue lagrime sui dolori ed afflizioni della patria sua; ma lo vediamo poi anche amarla efficacemente, spendendo per lei le sue fatiche ed anche sacrificandosi per essa. Sentiamo quindi pure noi il dovere di amarla questa patria nostra, tanto più in questi giorni in cui le sorti sue sono affidate alla fortuna dell’armi». vocato alcune gravi conseguenze, giudicate come le vere cause della guerra: la mancanza di comune amore tra gli uomini, il disprezzo dell’autorità, l’ingiustizia dei rapporti fra le varie classi sociali e la promozione del materialismo con la ricerca sfrenata dei beni materiali48. La predicazione di Roncalli è disseminata di tali accenni. La guerra è un castigo divino, ma solo permesso e non provocato da Dio, in quanto conseguenza inevitabile di scelte umane contrarie alla sua legge: Che cosa sono i mali che ci circondano? Sono l’opera di Gesù? No anzi essi esprimono il rovescio, quasi diremmo il fallimento dell’opera sua: sono la contraddizione, la violazione flagrante della sua dottrina. La guerra gli uomini l’hanno voluta e non Iddio, e non Gesù. Iddio l’ha permessa, tanto è il suo rispetto all’umana libertà, e l’ha trasformata in un battesimo di penitenza per tutti poiché tutti abbiamo le nostre colpe49. Nel castigo l’uomo subisce una sorta di pena del contrappasso che dovrebbe portarlo a riconoscere le sue colpe. Questo ripensamento riguarda le ideologie care alla Modernità, come gli ideali di emancipazione e di libertà, smentiti clamorosamente dalla ferrea disciplina richiesta dalla guerra. In tal modo l’uomo è richiamato al principio del rispetto dell’autorità, negato dalle moderne rivoluzioni sovvertitrici dell’ordine sociale50. Ugualmente si è scordata la necessità della penitenza come condizione necessaria di rinnovamento individuale e collettivo; la guerra si è incaricata di mostrare che solo dal sacrificio possono derivare quelle virtù, che sono il sostegno della società51. Il tema dell’unione con Cri- 43 44 R.P. vIOLI, Vescovi /2. Dalla svolta antimodernista a Pio XII , pp.831-832. A Bergamo venivano celebrate altre due messe analoghe; una al Conventino alle 8,15 e a S. Pancrazio alle 8: AFGBG, serie 1.6, Vita Militare, fasc. 20, manifestino. 45 46 Roncalli partecipò a svariate cerimonie, tra cui quella a S. Spirito del 1* gennaio 1917: ANGELO RON- CALLI, La solenne consacrazione dei nostri soldati al Sacro Cuore di Gesù, “L’Eco di Bergamo” 30 dicembre 1916; Nelle mani di Dio, 1 gennaio 1917, lunedì, p. 257; 6 gennaio 1917, sabato, p. 259; ANGELO RONCALLI,“L’Eco di Bergamo”, 8 gennaio 1917, Fra i nostri soldati del nostro presidi. Sul significato di questa consacrazione promossa da fra Agostino Gemelli vedi SANTE LESTI, «Per la vittoria, la pace, la rinascita cristiana», Padre Gemelli e la consacrazione dei soldati al Sacro Cuore (1916-1917), “humanitas”, LXIII, (2008), 6, Novembre-Dicembre, pp. 959-961. AFGBG, serie 1.6, Vita Militare, fasc. 16, vIII, Omelia La Divina regalità di Gesù. I nostri bisogni: «vero è che nei tempi moderni, noverunt i cattivi e muovono omnem lapidem per soffocare la storia o quanto meno per neutralizzare la perennità dell’opera incivilitrice della Chiesa. Origine prossima e remota di questi sforzi: umanesimo, Lutero; rivoluzione francese.»; “L’Eco di Bergamo”, 15 settembre 1917, Scintille domenicali. 47 208 | In trincea per la pace BENEDETTO Xv, Ad beatissimi Apostolorum Principis , 1° novembre 1914, in Enchiridion delle Encicliche, 4, Pio X - Benedetto XV (1903-1922), Edizioni Dehoniane, Bologna 1998, nn. 371-394. 48 49 AFGBG, serie 1.6, Vita Militare, fasc. 19, Omelia della domenica 17.12.1916, tenuta da Roncalli alla messa del soldato in S. Spirito. Il medesimo principio è ripetuto i frammenti di una predica tenuta da don Angelo Roncalli nel maggio del 1917 presso la sede della Compagnia di S. Angela a Bergamo Alta, CARMELO EPIS, Consacrate secolari in mezzo al mondo. Cent’anni di presenza nella diocesi di Bergamo della Compagnia di S. Orsola Istituto secolare di S. Angela Merici, Bergamo 2000, p. 93: «La guerra è un castigo, ma non è voluta da Dio, ma bensì da noi. Noi ci siamo abusati dei suoi doni, cioè dei piaceri, delle ricchezze, degli onori [...]». AFGBG, serie 1.6, Vita Militare, fasc. 19, Omelia tenuta in S. Spirito, 7.1.1917: «Gran cosa questa obbedienza! Il mondo moderno l’avea dimenticata: la sua parola d’ordine recata in trionfo, fatta penetrare nelle masse popolari fu invece emancipazione. Ebbene guardate che cosa è accaduto: il mondo moderno emancipato ha dovuto imporre a se stesso per forza quella legge di soggezione che non si era voluta accettare dal vangelo per amore. Ecco qui milioni di uomini compressi sotto la ferrea disciplina militare, chiusi come in tante armature di ferro. Potevasi immaginare ironia più feroce degli avvenimenti?». 50 51 AFGBG Serie 1.3. Scritti e Discorsi, fasc, 49, Omelia sulla Redenzione e la Madonna di Lourdes, luglio 1915: «La penitenza non l’abbiamo voluta per amore: ecco che ci conviene prenderla per forza. Sine sanguinis effusione non fit remissio. Da questo bagno di sangue verrà la remissione. Gesù Redentore accolga il sacrificio di tante giovani vite, di tante lacrime, di tanto sangue e l’unisca al suo: e si salvi / 209 sto e alla sua passione è richiamato per motivare positivamente la sofferenza. Per questo Roncalli aspetta con fiducia un rinnovamento individuale alla luce dei principi cristiani, di cui si intravedono i segni nel risveglio religioso tra i soldati da lui assistiti52. Percepisce che il dopoguerra in Italia comporterà un rinnovamento politico-sociale cui i cattolici dovranno partecipare da protagonisti53. In lui è viva la recriminazione per i soprusi ripetutamente subiti dai cattolici da parte della classe liberale54. Il culmine della polemica avviene dopo Caporetto, quando diventano di dominio pubblico le clausole del trattato di Londra: le mire territoriali del governo Salandra, estese ben oltre Trento e Trieste, e la clausola di esclusione dalle trattative della S. Sede. Roncalli, quasi colto in contropiede, accusa la classe politica italiana di ingordigia, e confessa di capire finalmente il rifiuto da parte di Sonnino della Nota di pace del 1 agosto 1917 avanzata da Benedetto Xv55. Una classe politica simile merita di scomparire; tuttavia anche in questo frangente non venne meno la lealtà di Roncalli verso le legittime autorità56. così il mondo». Nel corso della predicazione del mese di maggio del 1917 i titoli dati alle prediche sono significativi nella loro progressione; sfortunatamente non ne possediamo i testi: AFGBG, Serie 1.6, Vita Militare, fasc. 16: La realtà della vita. Il sacrificio; Nel sacrificio il castigo; Nel sacrificio l’espiazione; Nel sacrificio la trasformazione in Cristo crocifisso. Nello stesso corso del mese di maggio alcune omelie sono dedicate ai molteplici Fiori di guerra: L’umiltà, la pazienza, l’amore di Dio, l’amore della famiglia, la preghiera, la penitenza, la misericordia, il pensiero del paradiso. 52 AFGBG, Serie 1.6, Vita Militare, fasc. 19, Omelia 10.12.1916. Tali principi erano condivisi anche dalle più alte sfere ecclesiastiche: DANIELE MENOzzI, Chiesa, pace e guerra nel Novecento. Verso una delegittimazione religiosa dei conflitti, Il Mulino, Bologna 2008, pp. 15-22. Nelle mani di Dio, 24 agosto 1918, p. 356: «ho parlato a quei buoni giovani dell’Italia di domani che tutti noi attraverso le trasformazioni della guerra dobbiamo contribuire a che sia veramente più grande, più libera, più cristiana»; 20 settembre 1918, p. 362. 53 54 AFGBG, serie 1.6, Vita Militare, fasc. 16, vIII. Omelia La Divina regalità di Gesù. I nostri bisogni: «L’atteggiamento attuale dei tristi contro la Chiesa 1) Non ha saputo impedire la guerra. 2) Italia poi tarpa le ali al patriottismo. valore di queste obiezioni di contro ai fatti di tutti i giorni. Metodi subdoli di diffusione di questi pregiudizi attraverso la stampa quotidiana e (leggi poi Corriere della sera) e le pubbliche concioni e le più o meno grandi montature.» Nelle mani di Dio, 1° dicembre 1917, p. 292: «I giornali di Russia pubblicano i documenti segreti di guerra, e da questi risulta che l’Italia non è entrata nel conflitto se non in vista di ingorde speculazioni territoriali – oltre quelle modeste e universalmente riconosciute per Trento e Trieste -: e quel che è peggio ha posto per condizione o fuori di discussione che le tre potenze alleate: Inghilterra, Francia e Russia, l’avrebbero aiutata a respingere in ogni modo ogni tentativo di qualunque interessamento della S. Sede in questioni di guerra e di pace [...] Conviene dunque conchiudere che l’Italia è una povera nazione tradita dal suo governo evidentemente asservito alle imposizioni delle sette e tutte le responsabilità della guerra gravano sopra il pregiudizio anticlericale. Altro che lotta della civiltà contro la barbarie [...] passato il pericolo tutta l’Italia cattolica deve insorgere e schiacciare finalmente questo infame liberalismo massonico e di tutte le tinte che ha rovinato la patria nostra». 55 56 Ivi, 31 gennaio 1918, p. 296: «Io amo l’Italia, ma detesto i governi che l’hanno guidata sin qui. Atro è la patria e altro è lo Stato. Bisogna distinguere sempre». 210 | In trincea per la pace Un patriottismo cristiano L’amor patrio era considerato da Roncalli espressione di carità, quindi di amore verso i fratelli. L’idea viene ribadita più volte57. Un fonte autorevole, citata da Roncalli, fu la celebre pastorale del cardinale Mercier Patriottismo e pazienza, dove si ribadisce fortemente l’idea58. In secondo luogo l’adesione alla guerra era ritenuta un dovere in forza del principio di sottomissione e di obbedienza nei confronti delle legittime autorità. All’autorità veniva riconosciuto quel “principio di presunzione” che delegava ad essa il compito di stabilire la giustezza di una guerra. Roncalli vede nella voce della Patria che chiama la voce di Dio, ne consegue la necessità dell’obbedienza59. Egli, come del resto i vescovi, si mostra preoccupato del riconoscimento della lealtà dei cattolici e quindi della loro distanza dal neutralismo socialista60. Infine il cappellano Roncalli è convinto della validità delle ragioni che militano a favore dell’Intesa: l’Italia sta combattendo una guerra giusta, perciò non trova incoerenze tra la partecipazione alla guerra e l’amore universale della legge cristiana61. La ragione è da ricercarsi nella convinzione della guerra giusta che autorizza l’uso della forza contro gli avversari in vista del raggiungimento di una pace “duratura e giusta”62. Non nasconde la sua inclinazione naturale alla pace tra i popoli, desidera perciò che la guerra finisca al più Nelle mani di Dio, 26 maggio 1917, p. 284: «Intesi subito una letizia interiore di poter ostare a fatti come io sacerdote sentivo l’amor di patria che poi non è altro che la legge della carità applicata giustamente»; GIOvANNI XXIII, Lettere ai familiari 1901-1962, I, Lettera al fratello Saverio, 6 maggio 1917, p. 48; Lettera al fratello Giuseppe, 5 dicembre 1917, p. 61. 57 58 D. MERCIER, Patriottismo e penitenza, Lettera pastorale Natale 1914, Roma 1915, p. 18: «La religione di Cristo fa del patriottismo una legge: non si è cristiano perfetto se non si è perfetto patriota». Questa lettera ebbe grande diffusione in Italia. A Bergamo se ne fece un’edizione dall’Editrice S. Alessandro nel 1915, con la stessa traduzione italiana dell’edizione romana. viene citata da Roncalli nella predica n. 8 del mese di maggio del 1917, tenuto nella chiesa di S. Pancrazio: AFGBG, serie 1.6, Vita Militare, fasc. 16, fiori di guerra. La pazienza. AFGBG, serie 1.6, Vita Militare, fasc. 19, Omelia del 7 gennaio 1917 tenuta in S. Spirito: «A parte ogni giudizio sulla legittimità e “santità” come suol dirsi, della nostra guerra questo è certo che per la coscienza di ogni soldato nella voce della patria che chiamò e impone i sacrifici c’è la voce di Dio, la volontà del Padre celeste: e ciascuno di noi servendo la patria serve a Dio.» 59 A. RONCALLI, Scintille domenicali, “L’Eco di Bergamo”, 13 aprile 1918: «In questi anni nei quali l’amor di patria ha cessato di essere una formula rettorica [...] i cattolici hanno saputo dimostrare coi fatti come la religione sia maestra di eroismi, di sudditanza e di fedeltà». 60 61 AFGBG, serie 1.6, Vita Militare, fasc. 16, Fiori di guerra: l’amore di Dio: «Ma non è un ironia parlare oggi agli uomini in guerra sanguinosa fra loro dell’amore di Dio? Non lo è affatto». Roncalli non fornisce una risposta in questa occasione, perché qui finisce la stesura dell’omelia. AFGBG, serie 1.6, Vita Militare, fasc. 11, “L’Azione” settimanale della Lega Democratica Italiana, Anno X, N.24, 13 giugno 1915, Ai soldati d’Italia. Roncalli conserva questo articolo, probabilmente perché ne condivide le idee di fondo; vi sono esposte le ragioni che militano a favore dell’intervento in guerra da parte dell’Italia: liberazione dei territori irridenti, riscatto dei popoli oppressi del Belgio, della Polonia, della Serbia. 62 / 211 Queste posizioni lo portano a scontrarsi con alcuni colleghi del seminario, inguaribili triplicisti che difendono gli Imperi Centrali e criticano le potenze dell’Intesa; Roncalli li accusa di essere fuori dalla realtà67. Troviamo tali giudizi netti nel 1918, ma questa convinzione, in fondo mai abbandonata, ha conosciuto oscillazioni. Come molti, inizialmente Roncalli sperava in una guerra breve; ne abbiamo l’eco in alcuni suoi interventi dove un insolito linguaggio bellico risuona nelle sue esortazioni, come nel dicembre del 191668. Nell’estate del 1917 risulta evidente un senso di stanchezza per il prolungarsi della guerra69. Accoglie favorevolmente la Nota del 1° agosto del 1917 di Benedetto Xv, ma questo non lo induce a sposare il pacifismo70. La conoscenza delle clausole segrete del trattato di Londra lo avvilisce per il gioco sporco effettuato dal Governo italiano alle spalle degli ignari cittadini71, tuttavia l’entità della catastrofe convince Roncalli al dovere di una resistenza ad oltranza contro l’invasore72. Nel fatale proseguimento della guerra lo vediamo impegnato in prima persona in una Nelle mani di Dio, 9 luglio 1918, pp. 339-340; Ivi, L. BUTTURINI, Servizio militare e impegni pastorali fra i giovani nell’episcopato di Marelli, p. 223, nota 15; L. BRUTI LIBERATI, Il clero italiano nella grande guerra, Roma 1982, p. 153. Un altro periodico moderatamente filotriplicista, almeno fino all’agosto del 1917, fu l’ “Unità Cattolica”, diretta da Alessandro Cavallanti (1880-1917) dal 1909 al 1917: M. TAGLIAFERRI, L’Unità Cattolica. Studio di una mentalità, Analecta Gregoriana 264, Pontificia Università Gregoriana, Roma 1993, pp. 195-243. 67 presto63; tuttavia riconosce che è inevitabile, se la giustizia è lesa64. A guerra finita non ha alcun dubbio che il Signore ha favorito la vittoria di vittorio veneto in nome degli ideali di libertà, di civiltà e di giustizia65. Questo carattere provvidenziale viene ribadito qualche giorno più tardi, in occasione della resa della Germania, quando scrive che essa segna un grave colpo per la causa luterana e il suo spirito. Era questo uno dei motivi agitati dalla propaganda francese a giustificazione della guerra contro la Germania66. 63 Fiducia e obbedienza, Lettera a don Spolverini, 2 agosto 1917, p. 155; 20 settembre 1917, p. 157. AFGBG, serie 1.6, Vita Militare, fasc. 19, Omelia 3 dicembre, 1917: « Non parliamo poi di carità e di pace fra tanto scempio di vite e di nazioni. Eppure a questo anelano le anime nostre alla luce, alla forza, alla devozione: questo vuole la società, le nazioni: questo vogliamo noi figli d’Italia la verità, la giustizia, la pace […] Oh! La pace affrettata da noi col nostro coraggio e col nostro valore, la pace bella e gloriosa dopo la nostra vittoria s’intende – mi permettete voi di nominarla, di salutarla, di invocarla come visione soave e confortatrice?». 64 65 Nelle mani di Dio, 30 settembre, 1918, p. 365; 5 novembre 1918, p. 375. Ivi, 12 novembre 1918, p. 377. Roncalli fa di Lutero l’iniziatore dell’apostasia moderna della società dalla Chiesa: “L’Eco di Bergamo”, 15 settembre 1917, Scintille domenicali. Sul motivo di Lutero vedi ROBERTO MOROzzO DELLA ROCCA, Benedetto XV e la sacralizzazione della I Guerra Mondiale in M. FRANzINELLI, R. BOTTONI, Chiesa e Guerra. Dalla “benedizione delle armi” alla “Pacem in terris”, Bologna 2006, pp. 168-169. 66 212 | In trincea per la pace 68 A. RONCALLI, La solenne consacrazione dei nostri soldati al Sacro Cuore di Gesù, “L’Eco di Bergamo” 30 dicembre 1916: «Quante volte il volere di Gesù fu compiuto, altrettanto i soldati colsero palme di trionfo. Lo sa la Francia […] l’anno scorso vide il generale Castelnau e i suoi prodi, fregiato il petto dell’emblema del S. Cuore, correre intrepidi alla battaglia della Marna e cingersi il capo di un’aureola che li dirà gloriosi nei secoli. L’eroismo è una virtù nativa della razza latina: e noi ne ammiriamo tutto di magnifiche prove. Ma la religione di Gesù amato e servito a dovere vi aggiunge gesta così sublimi, tali fiori di entusiasmo, slanci così nobili nella completa dedizione di se: una grandezza così divinamente semplice, che sarebbe un vero peccato trascurarne le risorse preziose. Soldati d’Italia – noi vi diremo con un prelato francese – siate i cavalieri della patria, siate i cavalieri del S. Cuore». 69 Fiducia e obbedienza, Lettera a don Spolverini, 2 agosto 1917, p. 155; 20 settembre 1917, p. 157. Nelle mani di Dio, 17 settembre 1918, pp. 360-361: «Eppure io penso che in un modo o nell’altro sarebbe pure bene che una buona volta ci si incontrasse sul terreno della equità e del buon senso da ambedue le parti. Finora […] la guerra politicamente e militarmente è ancora «l’inutile strage» che fu rimproverata dalla immortale Nota Pontificia. Non è forse verissimo?». Roncalli conservò alcuni articoli de “L’Italia” che difendevano la Nota di Benedetto Xv dalle accuse di ispirazione tedesca e filotriplicismo: AFGBG, serie 1.6, Vita Militare, fasc. 11. 70 71 Nelle mani di Dio, 1° dicembre 1917, p. 292; 30 settembre 1918, p. 366, nota 183. Nelle mani di Dio, 16 maggio 1918, p. 324: «Io dicevo che […] il fare opera e propaganda di resistenza rientra nel nostro dovere di cristiani e di sacerdoti e che i nostri giusti risentimenti per le offese antiche e recenti e continue fatte e permesse dal governo al Papa e ai cattolici nulla tolgono a questo dovere nell’ora presente»; Ivi, 31 gennaio 1918, pp. 296-297. Roncalli conserva l’articolo dè “L’Italia” del 29 ottobre del 1917, I Cattolici e l’ora presente, in cui il giornale pubblicava l’invito della Giunta direttiva dell’Azione Cattolica che esortava alla resistenza. Esso è conservato in AFGBG, serie 1.6, Vita Militare, fasc. 11. Anche “L’Eco di Bergamo” rinnovava gli appelli alla resistenza, vedi Nelle mani di Dio, 31 gennaio 1918, nota 6, pp. 296-297. 72 / 213 serie di iniziative per favorire la resistenza dell’intera popolazione73. Tra queste occupano un ruolo fondamentale le pubbliche preghiere per la vittoria delle armi italiane74. Roncalli ha una forte inclinazione per queste cerimonie religiose di invocazione collettiva a Dio attraverso la mediazione della vergine Maria e del patrono cittadino S. Alessandro. Esse sono la continuazione di una lunga tradizione storica, alla cui riproposizione Roncalli partecipa convintamente. Così, in occasione della solennità dell’Immacolata, celebrata in S. Maria Maggiore dopo la disfatta di Caporetto, con parole solenni e non prive di retorica, ma sincere, invita tutta la cittadinanza ad innalzare pubbliche preghiere per la salvezza della patria minacciata75. In precedenza, il 15 novembre del 1917, aveva rievocato l’anniversario dell’apparizione nel 1514 di S. Alessandro al comandante spagnolo che minacciava la città e che fu costretto a togliere l’assedio. Dopo Caporetto, rimane sotto assedio l’Italia intera, per cui è necessario ricorrere con maggior impeto di fede e di preghiera al nostro Patrono S. Alessandro, perché sopra le nostre anime fatte più pure e più degne nella mortificazione e nella prova, sulle nostre case, sui nostri soldati, sulle regioni vicine, su tutta l’Italia, rinnovi i prodigi dell’antica protezione76. Questi testi mostrano la convinzione di Roncalli circa la stretta connessione tra patriottismo e religione77. Ai liberali che si attribuiscono la prerogativa dell’autentico amor di patria che prescinde dalla religione, Ron73 Nelle mani di Dio, 1° dicembre 1917, p. 292: «Oggi e finché gli Austriaci non hanno ripassato le frontiere bisogna combattere strenuamente ed incitare tutti al compimento del proprio dovere: ma passato il pericolo tutta l’Italia cattolica deve insorgere e schiacciare finalmente questo infame liberalismo massonico e di tutte le tinte che rovinato la patria nostra»; Lettere ai familiari 1901-1962, I, Lettera al fratello Saverio, 22 novembre 1917, p. 60; lettera al fratello Giuseppe, 5 dicembre 1917, p. 61. 74 Nelle mani di Dio, 24 marzo 1918, p. 313. Roncalli fa pregare i soldati perché sia respinta l’offensiva tedesca nella primavera del 1918: «Le notizie della irruzione Tedesca in Francia fanno rabbrividire: sono ondate di vita fiorenti che si spezzano sanguinosamente contro gli scogli della resistenza tenace degli Inglesi ed eroica dei Francesi […] A S. Spirito ho fatto pregare particolarmente per gli eserciti alleati. Mi è parso cosa bella e doverosa». “L’Eco di Bergamo”, 7 dicembre 1917, Domani in S. Maria Maggiore: «L’intervento del vescovo con tutto il clero urbano, l’assistenza delle autorità civili e militari, la maestà del popolo, del popolo nostro così degno dei suoi figli gloriosi che si battono da eroi, così fiero delle sue tradizioni civili e religiose, il vibrare delle anime in un consentimento di più fervido amore, nell’ora trepida, per Iddio e per la Patria, questi elementi insieme riuniti, lassù, sotto le volte che sanno la nostra storia secolare, contribuiranno ad imprimere un carattere di incomparabile solennità al pio convegno». Resoconto della solenne celebrazione: “L’Eco di Bergamo”, 9 dicembre 1917, Nell’ora più tragica della Patria Bergamo si prostra alla Vergine. 75 76 A. RONCALLI, “L’Eco di Bergamo”, 14 novembre 1917, 15 Novembre 1514-1917. Divo Alexandro Bergomi patrono. Nelle mani di Dio, 27 maggio 1918, p. 328: «Consiglio migliore è indire solenni preghiere pubbliche per la patria e combinare la nota patriottica con quella delle fede e della pietà». 77 214 | In trincea per la pace calli auspica la fine di questo separatismo, che impoverisce e svuota di contenuti. Sostiene un patriottismo fortemente segnato dallo spirito religioso, che, a differenza di quello liberale, può richiamarsi ad una tradizione più antica ed autorevole. Nella solenne commemorazione dell’anniversario del giuramento di Pontida - 7 aprile 1167 - svoltasi a Bergamo e Pontida il 7 aprile del 1918, rileva la voluta astensione degli oratori ufficiali dal fare riferimenti religiosi nell’interpretazione di un evento profondamente marcato dalla pietà cristiana quale fu la stipulazione della Lega Lombarda78. La religione contribuisce all’elevazione soprannaturale delle virtù civiche, le purifica e conferisce loro spessore spirituale79. Nell’omelia in S. Spirito del 7 gennaio 1917 rileva l’insufficienza della motivazioni umane per la scelta del militare chiamato alle armi costretto ad abbandonare il lavoro e la famiglia. Solo la consapevolezza di obbedire alla voce di Dio presente nel richiamo dei superiori, permette di superare lo strazio del distacco e sublima il sacrificio conferendo ad esso un valore soprannaturale80. Così per la virtù della pazienza, indispensabile per la prosecuzione degli obblighi di guerra, Roncalli sottolinea l’insufficienza delle ragioni dello stoicismo, cui si richiamava la tradizione laica, rispetto alla ricchezza delle motivazioni cristiane81. Solo l’esempio di Cristo con la prospettiva della vita eterna è in grado di convincere adeguatamente gli spiriti al compimento generoso del proprio dovere82. Lo sforzo di Ron78 “L’Eco di Bergamo”, 8 aprile 1918, La commemorazione del giuramento di Pontida – a Bergamo – a Pontida; Nelle mani di Dio, 7 aprile 1918: «Fra i soldati ho voluto porre in rilievo ciò che certo non fu toccato se non per viva forza e incidentalmente dai promotori della duplice dimostrazione odierna a Bergamo e Pontida, cioè il carattere profondamente religioso della Lega Lombarda […] Tornate, tornate, glorie di Pontida e di nuovo trionfo della fede e del patriottismo». Roncalli aveva commemorato solennemente il giuramento di Pontida il 1 di settembre del 1912: AFGBG, serie 1.3. Scritti e Discorsi, fasc. 29, ANGELO RONCALLI, ‘La Lega Lombarda’ pubblicato in “Pro Fide et Libertate” numero unico a cura del Circolo Universitario bergamasco Angelo Maj in occasione della XXv Festa federale delle associazioni cattoliche bergamasche a Pontida il 1 settembre 1912. AFGBG, serie 1.6. Vita militare, fasc. 7, testo dattiloscritto e copia stampata con firma autografa di Roncalli e copia dattiloscritta del testo alle donne bergamasche firmato da lui a nome del Comitato bergamasco dell’Unione fra le Donne cattoliche d’Italia (5 novembre 1917). 79 AFGBG, serie 1.6. Vita militare, fasc. 19, Omelia 7 gennaio, 1917, chiesa S. Spirito: « Tutte le nostre piccole e grandi privazioni e separazioni – che varrebbero ben poco quando le confortasse un semplice motivo umano e naturale – acquistano un valore soprannaturale e divino e immensamente meritorio per noi, per la nostra famiglia, per la patria ove siano sostenute con spirito di fede e con sentimento di cristiana carità». 80 AFGBG, serie 1.6. Vita militare, fasc. 16, Mese di maggio S. Pancrazio 1917, 8 Fiori di guerra. La pazienza: «I moderni nei discorsi e nelle letteratura spicciola, ostentatamente areligiosa e acattolica, non sanno che richiamare quella filosofia e quegli esempi. È qualche cosa ciò: ma troppo povera cosa in confronto del pregio e della significazione cui fu elevata la virtù della pazienza dal cristianesimo.» 81 AFGBG, serie 1.6. Vita militare, fasc. 19, VII, La divina regalità del Cuore di Gesù. I nostri bisogni: « Nulla ci si capisce alla stregua dei soli criteri umani: le ragioni del patriottismo di moda ci lasciano freddi: alla luce della fede e del vangelo tutto si illumina, si accende, divampa». 82 / 215 calli è teso a mostrare come la medesima carità di Cristo ispiri una serie di comportamenti diversi esigiti dalle svariate circostanze in cui si esprime lo sforzo bellico. Si direbbe che qui Roncalli esprime una sorta di universalismo cristiano basato sulla carità, che comprende nazioni, momentaneamente divise dalla guerra, che le colpe hanno messo l’una contro l’altra, ma che dopo la guerra potranno superare tale frattura con il pieno e reciproco riconoscimento. Risulta evidente il carattere piuttosto problematico di questa concezione, la quale, se da un lato esprime la larghezza d’animo di Roncalli incline all’amore universale non contagiato da un gretto nazionalismo, dall’altro ignora le inimicizie e gli strascichi che la pratica della violenza porta inevitabilmente con sé, particolarmente gravi nella Grande Guerra per la proporzione e l’entità delle stragi83. Questa prospettiva superiore, propria del soprannaturale, è assente nella consueta la propaganda politica e militare, che si rivela tanto più chiassosa e retorica quanto più appare vuota di argomentazioni. Anzi spesso assume toni nettamente negativi, quando istiga al disprezzo e all’odio verso i nemici. Il 28 luglio 1918 Roncalli ha partecipato ad una festa patriottica a Sarnico per i caduti, i mutilati e gli invalidi. Il suo intervento ha “commossero molto”, segno che le esortazioni di contenuto religioso risultano sempre le più accette agli ascoltatori, perché trasmettono valori spirituali che sollevano gli spiriti angosciati nelle grandi tragedie collettive. Biasima il capitano Giupponi, presidente dei mutilati ed invalidi, il quale, nell’intervento successivo al suo, non esita ad eccitare all’odio contro i Tedeschi. Roncalli annota che ciò non è umano, né cristiano, né cavalleresco, ritenendo che la necessità di combattere il nemico non implica l’odio84. Ci chiediamo però se realisticamente ciò fosse possibile al fronte, quando la propaganda vi ricorreva ad esso per ridestare lo spirito bellico di soldati sfiduciati e sfibrati fisicamente e psicologicamente85. 83 A. RONCALLI, Scintille domenicali, “L’Eco di Bergamo”, 1 giugno 1918: «L’amore di tutti gli uomini, sempre costante anche fra il tumulto degli avvenimenti più disparati e complessi, la condanna ripetuta della falsa dottrina dell’odio verso chicchessia, connazionale, alleato o nemico, e insieme la generosità del sacrificio per i propri fratelli spinta fino all’eroismo, elevata al merito di vita soprannaturale, associata ai divini dolori di Cristo: poi la larghezza incessante di cuore, di denaro, di sostanze per sovvenire i bisogni altrui; e soprattutto la sincerità e la rettitudine di questo sentimento dimostrato non a parole, ma a fatti, senza stupirsi e senza scomporsi per la malevolenza e i falsi apprezzamenti del mondo: tutto ciò è qui in questo documento apostolico [Accenno alla I lettera di Giovanni]; e tutto ciò è fiore eletto di patriottismo verace, è programma sano di pensiero, di azione, di vita per le coscienze cattoliche». 84 Nelle mani di Dio, 28 luglio 1918, pp. 346-347. PIERO MELOGRANI, Storia politica della Grande Guerra, pp. 231-241. Padre Agostino Gemelli è stato molto più realista di Roncalli nella descrizione del soldato impegnato in trincea nella sua famosa opera, Il nostro soldato. Saggi di psicologia militare, Treves, Milano 1917. 85 216 | In trincea per la pace La risposta all’appello del Governo L’8 aprile del 1918 il ministro Sacchi indirizzava ai vescovi la circolare Per la Resistenza e Mobilitazione civile, in cui chiedeva la collaborazione e il sostegno del clero per i gravi momenti attraversati dalla patria. Una settantina di vescovi risposero positivamente86. Anche Roncalli si mostrò favorevole e ne discusse animatamente con i colleghi del seminario che trovavano sempre il modo di criticare l’Italia. Roncalli riteneva invece dovere cristiano e sacerdotale aderire alla proposta e lasciar perdere i risentimenti verso un’autorità che prima e durante la guerra si era mostrata priva di riguardi versi i cattolici e avversa alle iniziative di pace di Benedetto Xv. Terminava le sue osservazioni con una nota tipicamente sua: convinto dell’enormità del male presente, vedeva però le opportunità di bene, che non andavano lasciate cadere, ma elevate e moltiplicate. Concludeva: «Dico forse male così?» 87. Su incarico del vescovo toccò a don Angelo stendere una circolare ai vicari foranei e ai parroci in cui si comunicavano le direttive da praticarsi per una resistenza cristianamente ispirata. La circolare, che porta la data del 29 maggio, si articola in cinque punti. Il primo stabilisce la preferenza da accordarsi alle cerimonie religiose con preghiere per i soldati e la patria rispetto a quelle profane. Il secondo privilegia le cerimonie all’interno di una chiesa rispetto a quelle all’aperto. Il terzo riguarda i contenuti della predicazione dei sacerdoti, che deve evitare argomentazioni politiche per attingere al vangelo e alla tradizione cristiana le motivazioni dei doveri patriottici88. Nel quarto punto si raccomanda al predicatore la debita prudenza e di fare spazio al sentimento per immedesimarsi nello stato d’animo popolare e così essere vicino alle sue sofferenze. Conviene evitare recriminazioni polemiche nei confronti dello Stato e garantire da parte dei cattolici l’adempimento del dovere per ottenere rispetto e considerazione nella futura Nelle mani di Dio, 16 maggio 1918, p. 324, nota 69. La circolare ministeriale fu pubblicata su “La vita Diocesana”, 10 (1918) 6, p. 75. Roncalli ha conservato tra le sue carte un articolo che riportava le dichiarazioni dei vescovi di Bologna, Brescia e Mantova di adesione all’invito del ministro Sacchi: “L’Italia”, L’episcopato e l’ora presente, 16 maggio 1918 in AFGBG, serie 1.6. Vita militare, fasc. 11. 86 87 Ivi, pp. 324-325. [A. RONCALLI] Per l’azione del clero nell’ora presente, “La vita Diocesana” 10(1918)6, p. 87: «Noi non abbiamo bisogno di ricorrere a profani argomenti per destare nobile e vigorosa la coscienza del proprio dovere nel nostro popolo. Il vangelo e tutto il vangelo, le lettere di Paolo, la Dottrina e la tradizione della Chiesa Cattolica, i grandi esempi antichi e recenti, sopratutto i dolori di Cristo Crocifisso e trionfatore, ecco una fonte inesauribile di principii e di pensieri sufficienti a suscitare un popolo di eroi nell’esercizio di quelle grandi virtù che il cristianesimo ha saputo sublimare e che sono la pazienza, la concordia, la disciplina, il coraggio». 88 / 217 società italiana. Infine, a modo di conclusione, Roncalli offriva preziose raccomandazioni di stile oratorio riassumibili nell’espressione nota pia, la sottolineatura tipicamente roncalliana del carattere religioso e di commossa partecipazione alla sofferenza, in modo da toccare i cuori e disporli con maggiore convinzione al proprio dovere. A questo stile Roncalli si era richiamato fin dagli esordi della sua missione di cappellano89. Infatti scrive che i concetti ivi espressi erano quelli che gli erano famigliari da tre anni. Naturalmente era soddisfatto della loro coincidenza con le intenzioni del vescovo90. Don Angelo offrì prove convincenti di questo stile in almeno due circostanze: a Terno d’Isola in occasione di una festa patriottica del 31 maggio 191891 e a Bergamo nella festa dello Statuto e dell’inizio del quarto anno di guerra, celebrata la domenica 2 giugno. Roncalli intervenne presso il direttore de “L’Eco”, don Clienze Bortolotti, perché la cerimonia avesse il suo momento religioso, inizialmente non previsto. Soddisfatto per aver ottenuto la celebrazione della messa, Roncalli avanzò riserve sul comportamento di mons. Marelli in una discussione con i superiori del Seminario. Il vescovo aveva declinato l’invito di celebrare la messa, mentre acconsentì ad essere rappresentato da una delegazione nella sfilata successiva. Secondo Roncalli, il pericolo di compromettersi troppo con la politica era insussistente nel caso della cerimonia religiosa: il vescovo avrebbe compiuto il suo dovere illustrando l’autentico amor patrio secondo lo spirito cristiano. Al contrario trovava inopportuna la presenza delle delegazione vescovile nella parata militare92. Per espresso desiderio del vescovo Roncalli fu incaricato della celebrazione della messa fissata alle 7 in piazza Baroni. Benché la vigilia si fosse coricato all’1,30 del mattino per il prolungarsi dell’assistenza ai malati, preparò il discorso nella chiesa di S. Marco. Annota che tutto andò bene e che molti rimasero commossi fino alle lacrime dalle sue parole. Egli stesso confessa che difficilmente avrebbe provato in futuro una commozione simile, per cui ci troviamo davanti a un precedente significativo del futuro papa Giovanni che in certe occasioni sapeva toccare le corde giuste del sentimento, ed entrare in piena sintonia con i suoi ascoltatori Ivi, p. 88: «Specialmente raccomando in questi discorsi la nota pia, quella che più va al cuore e lo raddolcisce e lo conforta e lo eleva e lo tempra». 89 90 Nelle mani di Dio, 16 maggio 1918, pp. 328-329: «vi ho messo i concetti che io ritengo più opportuni e che mi sono famigliari da tre anni ormai». “L’Eco di Bergamo”, [...]. Trafiletto dedicato ad una cerimonia patriottica a Terno d’Isola, tenuta il 31 maggio. 91 92 Nelle mani di Dio, 1 giugno, sabato 1918, p. 330. 218 | In trincea per la pace dando il via a incontri indimenticabili, come fu questo nel giugno del 191893. Nel testo del discoro pubblicato su “L’Eco di Bergamo”, possiamo notare come egli si sia richiamato a temi già ampiamente utilizzati e collaudati negli anni precedenti. Con un linguaggio non immune da retorica, ma sincero, Roncalli ricorda la purificazione effettuata dal sacrificio di Cristo che associa a sé quello dei fedeli. Esso eleva i propositi di servizio a favore dei fratelli, li sostiene e li porta a compimento fino al dono della vita. Infine chiede che la preghiera innalzata da Cristo sull’altare della croce abbia a discendere su tutti come potente energia divina per l’ottenimento degli scopi prefissi. Il discorso terminò con l’invito a rivolgere la preghiera al Dio salvatore del suo popolo. Il cronista afferma l’impressione enorme ricevuta dalla folla94. Come riconoscimento di questo impegno patriottico, è da ricordare l’intenzione del Prefetto di Bergamo a fine guerra di proporre il nome di don Angelo Roncalli al Governo per la onorificenza di «cavaliere della corona d’Italia», per il contributo della sua «parola sacerdotale a mantenere saldo lo spirito e il dovere patriottico durante la guerra». Roncalli però riteneva questa onorificenza troppo profana e tale da farlo passare presso l’opinione pubblica per un prete liberale, ciò che non voleva essere95. CONCLusIONI Agli inizi del Novecento l’atteggiamento dei cattolici verso lo Stato Italiano muta per il venir meno degli steccati della polemica risorgimentale, la fine del temporalismo e l’accettazione del Regno unitario. Per la generazione cattolica nata dopo il 1870 non si trattava più di rivendicare un’altra Italia, ma di mostrare come la fede religiosa fosse l’elemento di innovazione, di arricchimento, ma anche di moderazione e di Ivi, 2 giugno domenica, pp. 330-331: «Molti hanno pianto a quella cerimonia e a quelle parole: anch’io ero commosso. Certo non mi accadrà più di provare una impressione somigliante. Lasciamo sempre fare al Signore». 93 94 “L’Eco di Bergamo”, 3 giugno 1918, La giornata di ieri a Bergamo. La cerimonia religiosa: «Poiché al di fuori e al di sopra di ogni altra considerazione di carattere materiale e semplicemente umano è alla scuola di Cristo, o soldati, o concittadini, che noi uomini di fede attingiamo le ragioni supreme dell’amore verso la patria. Qui si comprende come esso sia un grande dovere. E come tale lo predichiamo e lo vorremmo scrivere su tutte le fronti, su tutti i cuori […] Ebbene , o soldati, l’altare è la più alta scuola del dovere: sull’altare Eucaristico si accende e fiammeggia la divina virtù del sacrificio». Nelle mani di Dio, 23 agosto 1919, p. 439. Il direttore dè “L’Eco”, don Clienze Bortolotti, insignito della medesima onorificenza l’anno precedente, l’aveva invece accettata, ibid. 27 aprile 1918, pp. 319-320. 95 / 219 freno davanti all’irrompere del nuovo ruggente nazionalismo96. Roncalli appartiene a questa nuova generazione, che si sente italiana e quindi avverte la necessità di mostrare e motivare un autentico amor di patria, attingendo alla dottrina tradizionale cattolica del dovere verso la propria patria e dell’obbedienza alle legittime autorità, cui spettava il diritto insindacabile di esprimere il giudizio morale circa la “guerra giusta”, la sola che potesse giustificare la partecipazione dei cattolici. L’amor patrio era una virtù umana alla quale il cristianesimo aggiungeva un sovrappiù di motivazioni e che rendeva meritorio presso Dio. Era una tesi insufficiente per affrontare gli eventi bellici dell’età contemporanea per la natura e le proporzioni che essi stavano assumendo nel XX secolo. Il tema della “guerra giusta” andava radicalmente riesaminato da parte del pensiero teologico e del magistero ecclesiastico. Un passo significativo in questo senso era stata effettuato da Benedetto Xv che nella Nota del 1° agosto 1917 aveva definito la guerra inutile strage. Il patriottismo mostrato dai cattolici li abilitava ad una piena partecipazione alla vita politica. A guerra ultimata, la loro presenza avrebbe consentito di riparare gli errori del liberalismo e del separatismo tra Chiesa e Stato, derivati dai principi della Rivoluzione francese, e di avviare riforme sociali conformi alla dottrina della Chiesa, di cui l’Italia aveva bisogno97. Questa prospettiva è ben presente in Roncalli e si imporrà nell’immediato dopoguerra come esigenza generale, cui cercherà di dare una risposta il Partito Popolare di don Sturzo. Ma, a causa della sua impostazione aconfessionale e democratica, la sua accettazione non sarà scontata. Le difficoltà sociali e politiche offriranno invece l’opportunità a Mussolini di affermarsi ed una parte del mondo cattolico collaborerà convinta di poter immettere nello stato fascista i contenuti di un cattolicesimo dal forte spirito nazionale. Allora il patriottismo cattolico nato nelle trincee correrà il rischio di assumere quei toni nazionalisti, che Roncalli tanto biasimava, ma che troverà non pochi seguaci. SINTESI DELL’ARTICOLO SUL CAPPELLANO MILITARE DON ANGELO RONCALLI Per una serie di fortunate circostanze don Angelo Roncalli, richiamato alle armi il 23 maggio 1915, si ritrovò ad esercitare il compito di sergente di sanità esattamente nello stesso luogo da cui era partito: il Seminario Vescovile di Bergamo, che era stato requisito come ospedale. Il 28 marzo 1916 ottenne la nomina di cappellano militare e prestò prevalentemente servizio nell’ospedale del Banco sete e dei Rachitici. Dal 16 ottobre del 1918 fino al successivo 7 febbraio 1919 accettò di assistere i soldati ricoverati presso il Ricovero Nuovo della Clementina e rilasciati dai campi di prigionia austriaci perché colpiti da tubercolosi e ormai prossimi alla morte. L’esperienza di cappellano arricchì notevolmente Roncalli e contribuì ad affinare le sue doti di sacerdote e di uomo disponibile all’ascolto ed al dialogo con tutti. Durante tutto il periodo bellico, Roncalli mostrò un sincero amore verso la patria, che si fondava sull’obbedienza verso le legittime autorità e sulla doverosa solidarietà nei confronti del popolo Italiano. Tali sentimenti erano rafforzati dall’ispirazione cristiana fondata sul sacrificio e sullo spirito di servizio, evitando forme esasperate di odio verso i nemici. (don Zanchi) G. FORMIGONI, L’Italia dei cattolici. Fede e nazione dal Risorgimento alla Repubblica, il Mulino, Bologna 1998, pp. 75-76. 96 97 Nelle mani di Dio, 8 febbraio 1917, p. 269. Nell’aprile del 1917 Roncalli ritaglia e conserva un articolo di Sturzo, nel quale affrontava il problema delle riforme sociali nel dopoguerra: AFGBG, serie 1.6. Vita militare, fasc. 11, “L’Italia”, 13 aprile 1917. Il giugno successivo “L’Eco di Bergamo” presentava una sorta di programma per risolvere i problemi sociali e politici del dopoguerra: Cattolici occhio al domani, “L’Eco di Bergamo”, 9 giugno 1917. 220 | In trincea per la pace / 221 NOI, TRE ITALIANI E LA LETTERATuRA NELLA GRANDE GuERRA mAssImO sImONINI Scrittore DI quEsTE CAsE / NON è RImAsTO / ChE quALChE bRANDELLO DI muRO / DI TANTI / ChE mI CORRIsPONDEvANO NON è RImAsTO / NEPPuRE TANTO / mA NEL CuORE NEssuNA CROCE mANCA / è IL mIO CuORE IL PAEsE PIù sTRAZIATO G. UNGARETTI, SAN MARTINO DEL CARSO Sono parole che fanno venire i brividi quelle che scriveva Ungaretti cento anni fa. viveva una guerra nuova, dalle dimensioni inaspettate, lunga e dolorosa. Oggi possiamo rileggere quei versi con maggiore comprensione, ma mai con indifferenza. È da questi presupposti che è nato l’incontro tra me e un folto gruppo di studenti bergamaschi lo scorso 4 giugno 2015, presso l’Istituto Falcone di Lovere. All’interno del progetto “Giovani Guide in Trincea per la Pace”, il Ministero dell’Istruzione ha voluto raccontare la Grande Guerra sotto diverse prospettive, atte a produrre un messaggio moderno di pace e sviluppo. Ed è stato un piacere, oltre che una bella sfida, poter dare il mio personale contributo a questa affascinante iniziativa. Parlare di Grande Guerra attraverso la letteratura non è un’idea scontata, in quanto è la guerra stessa ad aver generato certo genere di prosa. I primi scrittori sono stati gli stessi soldati – Ungaretti ne è un esempio – che hanno scoperto nella letteratura uno strumento per raccontare ciò che altrimenti non è descrivibile. Diceva Carlo Emilio Gadda nel / 223 Giornale di Guerra che l’unico modo per comprendere una guerra è viverla. Per chi, come noi, vive fortunatamente distante da questa dimensione, è possibile adoperare altri strumenti. Di fronte ad una platea attenta e partecipe, ho condiviso con i ragazzi dell’Istituto Falcone la mia personale esperienza di autore letterario, dimostrando come non ci sia pretesto migliore del centenario della Grande Guerra per riscoprire un contesto storico troppo spesso trascurato. Insieme abbiamo attraversato i nomi degli scrittori più significativi, a partire dagli interventisti come Marinetti fino a narratori sul filo del thriller come Federico De Roberto. E ancora hemingway e virginia Woolf, interpreti stranieri di un sentimento di orrore e incomprensione che è stato trasversale e planetario. Sulla Prima Guerra Mondiale si sono poi cimentati registi di ogni ideologia, basti citare Francesco Rosi e Monicelli, e tutti con un solo obiettivo: raccontare per insegnare. Le future “guide” di questo ambizioso progetto del Ministero dell’Istruzione, hanno un estremo bisogno di esempi concreti con i quali confrontarsi sinceramente e fuori da ogni forma di revisionismo. Perciò ho avuto il doppio piacere di fare di uno dei miei romanzi l’oggetto di discussione e dibattito dell’incontro del 4 giugno. Nel romanzo Noi, tre italiani (Edizioni Anordest) vengono raccontate le storie di tre ragazzi realmente esistiti che della guerra proprio non sapevano nulla. Riccardo Giusto, Giovanni Coppola e Ciro Scianna nascono in Friuli, Abruzzo e Sicilia, lontani e certi che la loro vita sarebbe stato un meritato susseguirsi di successi ed insuccessi. Invece la guerra del 1915-1918 li ha catapultati in un mondo nuovo, fatto di marce, pianti, morti insensate ed atti di coraggio. I protagonisti di questo romanzo diventano, loro malgrado, eroi; questo semplicemente facendo delle scelte di coscienza basate su valori ben precisi (la famiglia e la carità su tutti). A partire da loro, è facile per un giovane di oggi farsi delle domande sulle proprie scelte, su come distinguere il bene dal male. È in questo modo che i giovani studenti bergamaschi potranno diventare a loro volta delle guide per i loro colleghi più giovani. Attraverso il racconto di Noi, tre italiani, si è arrivati ad una proficua interazione durante la conferenza: che cosa possiamo fare noi oggi? Cosa sceglieremmo se ci trovassimo al posto di quei tre ragazzi contadini? Apriremmo il nostro cuore a degli sconosciuti? Come si diventa fratelli dentro una trincea? ne: la rappresentazione teatrale di Noi, tre italiani, liberamente ispirata al romanzo, che già sta facendo il giro d’Italia con la produzione dell’Associazione Culturale Sperimentiamo. La conferenza si è così conclusa con l’invito, concretizzato il successivo 24 ottobre 2015, al Teatro San Filippo Neri di Darfo-Boario Terme. Una doppia occasione per raccontare in immagini la Prima Guerra Mondiale, ricordando che la strada da fare verso l’educazione alla pace è ancora molta, ma che è possibile percorrerla se siamo disposti ad ascoltare il nostro passato con il cuore e con la mente. LA vITA è PIENA DI COsE NON NECEssARIE ChE ANDREbbERO FILTRATE ATTRAvERsO IL CuORE. PERChé sE è vERO ChE LE mEDAGLIE NON vANNO IN PARADIsO, CI vANNO PERò LE IDEE CON LE quALI sI è vIssuTO FINO ALL’uLTImO REsPIRO. ALCuNI vI RACCONTERANNO ChE, uNA vOLTA INsIEmE, I NOsTRI NOmI sI sONO CONFusI, ChE CI sOmIGLIAvAmO TuTTI, ChE NEI CONTEGGI DI uNA GuERRA uN NumERO è uGuALE AD uN ALTRO. ALLORA vOI TORNATE quI, AsCOLTATE I NOsTRI RACCONTI, ImPARATE I COGNOmI E I sENTImENTI DI mIGLIAIA DI vENTENNI COmE vOI. E FERmATEvI A RIFLETTERE. quEsTE sONO LE NOsTRE vITE, EsEmPIO E TEsTAmENTO DI ChI NON sARà mAI PERDuTO NEL sILENZIO MASSIMO SIMONINI, NOI, TRE ITALIANI EDIZIONI ANORDEST, 2015 Il messaggio del romanzo e la mia entusiasta partecipazione al progetto “Giovani Guide in Trincea per la Pace” è passato anche per un altro importante appuntamento, fortemente voluto dal Ministero dell’Istruzio- 224 | In trincea per la pace / 225 RELAZIONE sTuDENTI LICEO FALCONE E vIsITA A REDIPuGLIA IN TRINCEA PER LA PACE suLLE TRACCE DELLA GRANDE GuERRA ChIARA GhIsALbERTI Nelle giornate di lunedì 23 e martedì 24 novembre si è svolta la visita al Redipuglia e ad Aquileia per i ragazzi che hanno partecipato al progetto “In trincea per la pace”, un progetto organizzato in occasione del centenario della prima guerra mondiale per l’Italia. Noi ragazzi siamo partiti alle 7:00 dalla sede del liceo Falcone guidati da due accompagnatori e in pullman, dopo circa quattro ore di viaggio, siamo finalmente arrivati al Redipuglia, dove abbiamo visitato subito il Sacrario Militare e il Museo della Grande Guerra. Costruito in epoca fascista il Sacrario è dedicato alla memoria di oltre 100.000 soldati italiani caduti durante la prima guerra mondiale. Alle spalle si elevano i 22 gradoni che, in ordine alfabetico, costudiscono le spoglie dei soldati identificati. Ogni loculo è sormontato dalla scritta “Presente” e sono raggiungibili grazie alle scalinate laterali che conducono in cima. Al centro del primo gradone si trova l’unica donna sepolta, una crocerossina. Arrivati al termine della scalinata e dei gradoni, una cappella custodisce alcuni resti di altri numerosissimi soldati. Il museo invece è composto da un atrio d’ingresso in cui è stata allestita una pianta dei luoghi in cui si è svolta la guerra nella regione e da tre sale dove si possono ammirare la bacheche dove sono esposte le armi usate dai combattenti durante il conflitto, alcune divise dei soldati e le attrezzature mediche. Al centro di una stanza invece sono esposte diverse attrezzature di uso quotidiano utilizzate dai soldati. Il pomeriggio, dopo aver visitato i resti di alcune trincee sempre nei pressi del Sacrario, abbiamo visitato la piccola città di Grado, per poi recarci ad Aquileia presso l’ostello Domus Augusta che ci ha ospitati. Il mattino seguente invece, accompagnati da una guida, abbiamo visitato un museo dove sono con- / 227 servati ed esposti resti romani, che testimoniano la colonizzazione ad Aquileia. I resti conservati sono di vario genere: sculture, gioielli, ceramiche, utensili di uso quotidiano, monete e nella parte esterna del museo sono esposti anche resti di pavimentazioni di antichi edifici decorati con la tecnica del mosaico. Successivamente abbiamo visitato la Basilica di Santa Maria Assunta, affascinante per via dei diversi stili che ingloba: nella pavimentazione a mosaici romani (visibile anche nella sottostante Cripta degli schiavi), al ciclo di affreschi della seconda metà del XII secolo nella Cripta degli affreschi, che racconta la storia della cristianizzazione della città di Aquileia al battistero del Iv secolo. Il più suggestivo rimane il Cristo in trincea, un crocifisso creato da un artista-soldato sopravvissuto che cercò di trasmettere le sofferenze sue e dei suoi compagni di trincea attraverso l’espressione del Cristo. Nel pomeriggio abbiamo fatto una sosta nel centro della città di Palmanova per poi rientrare a Bergamo per le ore 20.00 circa. visitare luoghi come il sacrario è molto suggestivo, e l’esperienza lascia un ricordo amaro e quasi triste, se si pensa a quanti uomini hanno sofferto e perso la vita in quelle terribili condizioni, senza poter più riabbracciare la propria famiglia. Percorrere i gradoni e leggere in ordine alfabetico cognomi conosciuti, di amici o familiari, o addirittura il proprio cognome provoca una sensazione definibile come un sottile confine fra l’orologio, nel pensare che questi cognomi conosciuti hanno sacrificato la vita per il proprio paese, e la sofferenza, nel pensare al dolore vissuto in trincea e a quello delle famiglie che non hanno più visto questi uomini tornare. Magari loro avevano pure promesso che sarebbero ritornati. PROGETTO “IN TRINCEA PER LA PACE” FORmENTI FRANCEsCA Nei giorni 23 e 24 novembre 2015 noi ragazzi del liceo Falcone partecipanti al progetto “In Trincea per la Pace”, iniziato la scorso Giugno, ci siamo recati con due accompagnatori in Friuli, sul Carso in conclusione del progetto. L’obbiettivo della visita era proprio quello di vedere con i nostri occhi i luoghi e i posti che hanno segnato la storia della Prima Guerra mondiale in Italia, andando oltre al semplice elenco di avvenimenti raccontatici da esperti e studiati sui libri di storia. Abbiamo avuto 228 | In trincea per la pace l’opportunità di camminare nelle trincee, simbolo della Prima Guerra mondiale, per capire effettivamente in quali condizioni i soldati fossero costretti a vivere e vedere il Sacrario Militare di Redipuglia, un cimitero dedicato alla memoria di oltre 100.000 soldati italiani caduti durante la guerra. Ciò che più impressiona di questo luogo sono proprio i nomi e i cognomi di tutti i soldati incisi sulle gradinate del Sacrario che sottolineano come la guerra (non solo la Grande Guerra ma tutte, fin dall’antichità) non sia semplice “vittoria” o “sconfitta” di uno Stato o di un esercito ma piuttosto la morte di migliaia di persone che si sacrificano per il loro Paese, ciascuna con un nome e con una vita che la guerra ha brutamente strappato via. Oltre ai luoghi della guerra abbiamo visitato la città di Aquileia, piccolo comune famoso per i resti romani di edifici e mosaici che vi sono stati trovati nella Basilica risalente al XI secolo contenente una Cripta in cui sono visibili i resti della Basilica Paleocristiana. Complessivamente il progetto è stato molto interessante e ben strutturato ma soprattutto utile per conoscere una parte della storia Italiana che a significativamente segnato il nostro Paese. / 229 PROGETTO “IN TRINCEA PER LA PACE” mIChELLE CuRNIs Nei giorni 23-24 Novembre abbiamo partecipato al progetto “In trincea per la pace”. La prima tappa è stata a Redipuglia, dove abbiamo visitato un Sacrario vedendo più di 30.000 nomi di caduti in guerra. Ciò è stato molto interessante perché a volte non ci rendiamo conto del fatto che dietro a un numero ci sono davvero tante vite, tante persone esistenti, che hanno fatto la nostra storia. Successivamente abbiamo visitato un museo di armi e oggetti vari della guerra, abbiamo pranzato e siamo andati in un museo all’aperto in cui c’erano armi più grandi. Dopo di che ci siamo recati a Grado, una città turistica, per visitarla. Infine abbiamo raggiunto Aquileia, dove abbiamo cenato e dormito nell’ostello Domus Augusta. Il mattino seguente, oggetto della nostra visita sono stati un museo romano e una chiesa di stile romanica/gotica, nei cui sotterranei erano presenti resti di Domus romane. Dopo pranzo, abbiamo deciso di recarci a Palmanova, dove abbiamo visitato il paese per poi tornare a casa. È stata una bellissima esperienza, molto interessante e ben strutturata. RELAZIONE suL PROGETTO “IN TRINCEA PER LA PACE” sELENE mAGNI Il progetto “In trincea per la pace” è un progetto organizzato dal Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca (MIUR) in occasione del centesimo anniversario dell’entrata in guerra dell’Italia nella Grande Guerra, meglio conosciuta come Prima Guerra Mondiale. Esso consiste in un corso pomeridiano e in alcune visite e/o viaggi di istruzione, allo scopo di imparare le nozioni da esprimere poi durante la nostra esperienza da guida. ho deciso di prendervi parte per due principali motivi: sono abbastanza interessata della storia, soprattutto quella moderna del nostro Paese; una delle professioni che vorrei fare in futuro è appunto quella di guida turistica; questa era un’occasione per potermi mettere alla prova e fare esperienza in questo campo. Durante il corso pomeridiano ci sono state insegnate, oltre alle nozioni principali e alle date più importanti, altri aspetti della guerra, come la corrispondenza di lettere di alcuni soldati, in cui si mostravano le reali condizioni dei soldati nelle trincee, il coinvolgimento di personaggi im- 230 | In trincea per la pace portanti, come il futuro papa Giovanni XXII. Le tre date del corso si sono svolte nella prima settimana di Giugno, dove si è appunto discusso di vari argomenti inerenti alla Prima Guerra Mondiale. Si è poi svolta nello stesso mese una visita d’istruzione sull’Adamello, al quale io non ho potuto partecipare. PROGETTO “IN TRINCEA PER LA PACE” sILvIA RIvA Il viaggio di istruzione a cui ho preso parte si è svolto il 23 e il 24 novembre presso alcune località del Friuli-venezia-Giulia. Nella prima giornata abbiamo visitato Fogliano Redipuglia, conosciuta per il Sacrario: esso è un monumento consistente in una scalinata di 22 gradoni. Ogni piano contiene i nomi e i resti di circa 4500 caduti provenienti da tutta Italia, per un totale di circa 100.000 soldati. Sulla cima di questa scalinata si trova un piccolo santuario a loro dedicato. Successivamente abbiamo visitato un museo inerente sempre all’argomento principale del progetto e un parco commemorativo. Nel pomeriggio ci siamo spostati in un parco poco distante dal paese per osservare in prima persona alcune delle trincee e dei sentieri che furono utilizzati durante la guerra. In serata ci siamo diretti verso Aquileia, dove abbiamo prenottato. La mattina successiva abbiamo fatto una visita guidata nel museo romano di Aquileia e in alcuni edifici legati al periodo romano. Nel pomeriggio abbiamo visitato la città di Palmanova per poi ritornare a Bergamo. Nonostante il progetto non ci abbia dato l’effettiva possibilità di metterci alla prova come guide turistiche, penso che il progetto sia stato molto interessante. In particolar modo mi è piaciuto il corso, poiché non ha mostrato solo gli aspetti storico-nozionistici, ma anche quelli più nascosti e prettamente umani, legati alle persone che hanno vissuto sulla loro pelle questa guerra. PROGETTO “IN TRINCEA PER LA PACE” visita a Redipuglia, Aquileia, Grado e Palmanova A seguito del progetto “in trincea per la pace” si è svolta nei giorni 23 e 24 novembre 2015 un’uscita didattica in alcuni dei luoghi della Grande Guerra. Precedentemente era già stata fatta un’uscita al museo della / 231 vamente piccolo. Nel Museo abbiamo girato da soli all’interno della sala principale, nella quale sono esposte per lo più le armi usate durante la guerra, divise militari, una ricostruzione di una trincea e anche oggetti usati quotidianamente dai soldati nelle trincee. Nel corridoio situato tra le due stanze del museo, sui due muri, vi sono inoltre affissi due pannelli che danno maggiori informazioni ad esempio sul numero di morti, di persone scomparse e i nomi delle armate, battaglioni e brigate. Mentre stavamo pranzando abbiamo inoltre incontrato un signore del posto, gentilissimo, che ci ha dato ulteriori spiegazioni riguardo, per esempio, al Milite Ignoto e anche qualche curiosità. Ad esempio ci ha raccontato che la catena, che si trova davanti al Sacrario, apparteneva ad una nave austro-ungarica poi divenuta italiana (se non ricordo male il nome della nave era “Grado”) e, la catena, è stata poi regalata al Sacrario. Ci ha inoltre raccontato che sulle lastre che si trovano, superata la catena, nel pezzo di strada che conduce al Sacrario, sono indicati i nomi delle località del Carso in cui si sono svolte le battaglie più importanti. Dopo pranzo abbiamo raggiunto il Parco della Rimembranza, che si trova sulla cima di un colle, proprio di fianco al museo. Qui in un grande spazio aperto, circondato da cipressi, si trovano, oltre ad un monumento, diversi modelli di cannoni usati all’epoca. In seguito siamo ritornati al Sacrario, di fianco al quale si trovano i resti di una trincea. Guerra Bianca in Adamello, che era stata, a mio parere, molto interessante. La mattina del 23 Novembre ci siamo incontrati di fronte alla sede di via Dunant dove abbiamo conosciuto i nostri accompagnatori, che hanno contribuito a rendere l’uscita ancora più piacevole, cercando anche di sdrammatizzare e alleggerire il clima in quella situazione un po’ più pesanti, ad esempio durante la lunga visita guidata ad Aquileia. La nostra prima “tappa” è stata la Cappella del Sacrario di Redipuglia che si trova in cima alla famosa scalinata. Qui, seduti tra i banchi della Cappella, abbiamo ascoltato il discorso del cappellano, che ci ha riassunto in breve la storia della cappella e anche, in modo molto generale, ciò che era avvenuto durante la guerra lì dove ora si trova il Sacrario. Purtroppo il resoconto del cappellano è stato forse un po’ troppo breve e generale. In seguito abbiamo sceso le scalinate del Sacrario militare e letto i nomi dei caduti e dell’unica crocerossina, la cui tomba si trova nella prima linea e si distingue dalle altre perché vi è sopra una croce. In seguito siamo andati al Museo della Grande Guerra che si trova esattamente dal lato opposto della strada, rispetto al Sacrario, ed è relati- 232 | In trincea per la pace Dopo aver visto anche la trincea siamo risaliti sul pullman che ci ha portato a Ronchi dei Legionari, in un posto lontano del centro della cittadina, dove i nostri accompagnatori ci hanno letto qualche informazione riguardante le trincee e poi, seguendo dei sentieri, ne abbiamo visto qua e là alcuni resti. In seguito siamo ritornati in pullman e siamo arrivati, quando ormai era già sera, a Grado, qui abbiamo fatto una passeggiata per le vie della cittadina e le piccole piazze, che con il buio erano ancora più suggestive. Dopo la “sosta” a Grado abbiamo infine raggiunto l’ostello ad Aquileia, dove abbiamo trascorso la notte. La mattina del giorno seguente ci siamo recati alla zona archeologica di Aquileia, dove abbiamo incontrato la guida che ci avrebbe appunto “guidato” attraverso i periodi, le fasi storiche vissute dalla città. Prima di tutto la guida ci ha portato al Museo archeologico anche della civiltà romana in generale. Il museo è abbastanza grande e con molto sale nelle quali abbiamo visto ad esempio statue, vasi, anfore mosaici, gioielli, statuette, candelabri, oggetti di vetro e in generale tutti quegli oggetti e reperti di epoca romana. Sempre parte del museo è anche un ampio giardino, nel quale abbiamo visto numerose epigrafi e mosaici. / 233 Terminata la visita al museo, abbiamo raggiunto la Basilica patriarcale di Santa Maria Assunta, dove la guida che ci ha parlato soprattutto dell’arte e dell’architettura paleocristiana e romananica. Abbiamo visitato la basilica, con i vari ampliamenti e modifiche della pianta che sono state apportate, e l’annessa cripta. A fianco della basilica si trova il Cimitero degli eroi, che avremmo dovuto visitare e che in teoria avrebbe dovuto essere la parte della visitata guidata che ci interessava di più, in quanto legata alla Prima Guerra Mondiale. Purtroppo non abbiamo potuto visitarlo, perché qualche settimana prima era caduto un cipresso sul tetto della Basilica e quindi il cimitero, e gli alberi, che la percorrevano, troppo alti non abbiamo avuto nemmeno la possibilità di vederlo fuori. Quindi la guida si è limitata a dirci due informazioni riguardanti il cimitero e il suo collegamento con il Milite Ignoto. Qui, di fronte al Cimitero degli eroi, è finita la nostra visita guidata ad Aquileia, una visita lunga, senza dubbio interessante, ma purtroppo poco c’entrava con il progetto inerente alla Grande Guerra. Ciò non toglie, come già detto, che essa sia stata molto educativa e piacevole, avrei preferito la guida si fosse concentrata di più sul periodo della guerra mondiale e meno sul resto. Magari avrebbe avuto l’occasione si parlarne di più se non ci fosse stato l’inconveniente della caduta del cipresso e avessimo potuto visitare il cimitero. Dopo esserci separati dalla guida, dato che avanzava ancora del tempo prima di tornare a Bergamo, ci siamo fermati a Palmanova. Qui siamo rimasti un po’ nella Piazza Grande e siamo entrati nel Duomo. In serata siamo, infine, rientrati a Bergamo. Nel complesso questa visita didattica è stata, a mio parere, molto interessante e ci ha dato modo di imparare nuove cose o curiosità, che non erano state dette durante il corso, ma soprattutto di vedere, dal vero, come erano le trincee e gli oggetti, le armi che i soldati usavano e anche che indossavano, o almeno di farcene un’idea. Inoltre credo che vedendo le cose e non ascoltandole e basta, esse ci rimangono più impresse. RELAZIONE RELATIvA AL vIAGGIO DI IsTRuZIONE A REDIPuGLIA PER IL PROGETTO “IN TRINCEA PER LA PACE” AuRORA GALIERO Il giugno scorso insieme ad altri alunni delle classi terze ho frequentato le lezioni formative relative alle vicende avvenute durante la prima guerra mondiale. Queste lezioni, organizzate dal Convitto Nazionale 234 | In trincea per la pace “Cesare Battisti” di Lovere, in collaborazione con il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, avevano lo scopo di formarci per il centenario della Grande Guerra. Le lezioni formative sono state tre e i relatori che hanno presieduto ai corsi sono stati: Camillo Andreana; prefetto di Bergamo e cultore della Prima Guerra Mondiale, Lorenzo Benadusi; docente di Storia contemporanea presso l’Università e il relatore dell’ultimo incontro è stato Massimo Simonini che tramite delle letture del suo libro “Noi, tre italiani” ci ha fatto entrare nel mondo dei giovani partigiani. Il progetto è terminato con il viaggio d’istruzione sui luoghi della Grande Guerra. Il viaggio a Redipuglia si è svolto nelle giornate tra il 23 e il 24 Novembre 2015. Il nostro accompagnatore è stato il Professore Cesare Tomasoni. Lunedì 23 Novembre siamo partiti dalla sede di via Dunant dell’istituto “Giovanni Falcone” alle ore 7.00. Dopo l’arrivo a Redipuglia alle ore 11.00 abbiamo visitato il Sacrario Militare, il monumentale cimitero militare, costruito in epoca fascista a memoria degli oltre centomila soldati italiani caduti durante la Prima Guerra Mondiale. Scalino dopo scalino abbiamo letto tutti i nomi dei caduti ed è stata un’esperienza che ci ha fatto molto riflettere, parlare di soldati caduti è molto triste, ma vedere con i propri occhi quello scenario è molto più impressionante. Dopo la visita al Sacrario abbiamo visitato le vere e proprie trincee. Successivamente abbiamo pranzato e visitato il Museo della Grande Guerra, nel quale abbiamo visto le diverse armi utilizzate durante la battaglia. Nel tardo pomeriggio abbiamo visitato la cittadina di Grado e dopo ci siamo sistemati ad Aquileia nell’ostello Domus Aurea. La cena si è svolta presso il ristorante “Osteria al parco” che abbiamo raggiunto a piedi verso le 20.00/20.30. La mattina del 24 Novembre dopo la prima colazione all’ostello, siamo andati a visitare la città di Aquileia. La visita guidata al museo archeologico nazionale di Aquileia ci ha fornito informazioni sulla civiltà romana. L’ultima visita guidata si è svolta alla Basilica di Santa Maria Assunta, che è ricca di mosaici nella pavimentazione. All’esterno, attorno all’abside della Basilica, vi è il cimitero dei caduti della Guerra 1915-1918, dove riposano dieci degli undici militi ignoti tra i quali Maria Bergamas, madre di un caduto volontario di guerra, scelse quello le cui spoglie mortali riposano all’Altare della Patria a Roma dal 1921. Lei è la donna italiana che fu scelta in rappresentanza di tutte le madri italiane che avevano perso un figlio durante la Prima Guerra Mondiale, dei quali non erano state restituite le spoglie. Avremmo dovuto visitare il cimitero ma a cau- 236 | In trincea per la pace sa di lavori non è stato possibile. Dopo la visita abbiamo pranzato al ristorante “Osteria al Parco”. Nel primo pomeriggio abbiamo visitato Palmanova, un comune nella provincia di Udine. Questa città è molto particolare e viene chiamata “città stellata” per la sua pianta poligonale a stella con nove punte. A Palmanova abbiamo visitato la piazza e la chiesa. Alle ore 16.oo siamo ripartiti per tornare a Bergamo e siamo arrivati in via Dunant, presso l’Istituto Giovanni Falcone alle ore 20.00. Penso che questa esperienza sia stata estremamente educativa. Nonostante la guerra sia sempre presente in molti parti del mondo, noi giovani europei non l’abbiamo personalmente conosciuta, per questo motivo ritengo che questo progetto ci abbia avvicinato alla vita e alle emozioni provate da tanti ragazzi delle nostra età di cento anni fa. La storia si ripete e noi che siamo la nuova generazione dobbiamo fare in modo che non si ripetano gli stessi errori commessi in passato e uno dei primi modi per evitare di commettere gli stessi errori è la nostra formazione. Conoscere la storia e conoscere cosa è accaduto prima di noi ci aiuta a prendere spunto dalle situazione positive e allontanarci da quelle negative, al fine di essere cittadini migliori. PROGETTO “IN TRINCEA PER LA PACE” Il 23 Novembre ci siamo recati presso Redipuglia, una piccola ma importante località in Friuli venezia Giulia. Per mezza giornata abbiamo visitato il luogo, prestando maggior attenzione e tempo alla cappella del Sacrario dedicato ai soldati italiani caduti durante la Prima Guerra Mondiale e al cimitero monumentale, in cui erano seppelliti i loro corpi. È stata un’esperienza molto formativa; infatti, grazie all’aiuto degli accompagnatori e del cappellano militare del cimitero di Redipuglia, sono venuto a conoscenza di numerosi dettagli e informazioni interessanti riguardanti sia la Prima Guerra Mondiale sia la storia del Friuli. Conclusasi la visita al Sacrario, verso sera, ci siamo spostati a Grado, una tranquilla cittadina marittima. Trascorse un paio d’ore, dopo un breve viaggio, siamo giunti ad Aquileia. Lì abbiamo passato una notte presso un ostello e la mattina seguente abbiamo visitato l’importante museo archeologico romano delle cittadine e l’antica chiesa medievale di Aquileia e il suo cimitero militare. Terminate le visite e il pranzo, ci siamo messi in viaggio per ritornare a Bergamo. Durante il ritorno, abbiamo fatto sosta presso Palmanova, / 237 Il fulcro della giornata di lunedì 23 novembre è stata la visita al Sacrario Militare di Redipuglia, il cimitero monumentale dedicato alla memoria di oltre 100.000 soldati italiani caduti durante la Prima Guerra Mondiale. Ad accoglierci e a introdurci alla visita è stato Don Sigismondo Schiavone, cappellano del sacrario, che ha raccontato ai ragazzi la storia del monumento, ma soprattutto diversi aneddoti tratti da alcune lettere ancora inedite di soldati, veri e propri spaccati della vita di trincea che raccontano la guerra come non la si può leggere su nessun libro di storia. Scorrere poi il lunghissimo elenco di nomi, alla ricerca magari di qualche possibile antenato, ha significato per i ragazzi prendere coscienza di un sacrificio che riguarda tutti da vicino, ma che purtroppo rischia di essere già dimenticato. La visita è proseguita con il Museo della Grande Guerra, con i suoi interessanti reperti (dalle armi, alle divise, agli oggetti di uso quotidiano in trincea), e con un breve itinerario a piedi sull’area del Monte Sei Busi, dove si possono vedere diverse opere trincerate, teatro degli scontri fra le truppe italiane e quelle autro-ungariche. una cittadina costruita secondo il modello urbanistico post-rinascimentale. Paese molto interessante e importante poiché, questa era dotata di una pianta poligonale (da qui il nome “città stellata”), circondata da possenti mura. Terminata la visita siamo rientrati a Bergamo. “IN TRINCEA PER LA PACE” vIsITA AL sACRARIO DI REDIPuGLIA E AD AquILEIA Nell’ambio del progetto formativo promosso dal Miur “In trincea per la pace” in occasione del centenario dell’entrata dell’Italia nella Prima Guerra mondiale, è stata organizzata una visita di alcuni luoghi d’importanza rilevante per la Grande Guerra. Diciannove studenti del Liceo Falcone di Bergamo e una studentessa del Collegio vescovile Sant’Alessandro di Bergamo hanno preso parte all’uscita che si è svolta nei giorni 23 e 24 novembre 2015. 238 | In trincea per la pace La giornata di martedì 24 novembre è stata dedicata alla visita guidata di Aquileia, uno dei siti archeologici più importanti dell’Italia settentrionale. visitando il ricchissimo Museo Archeologico Nazionale e la Basilica con i suoi mosaici, i ragazzi hanno potuto apprendere come quello che ora è un comune di poco più di tremila abitanti, era un tempo una fiorente città e un punto nevralgico dell’impero romano, grazie alla sua posizione strategica avvantaggiata dal lungo sistema portuale e dalla raggiera di importanti strade che se ne dipartivano. Progressivamente abbandonata dai Romani, Aquileia ritornò al centro della storia con la Prima Guerra Mondiale, sempre a causa della sua posizione, contesa dall’Impero Asburgico e il Regno d’Italia, a cui fu annessa definitivamente nel 1918. La visita non poteva che concludersi con un luogo molto significativo: il Cimitero degli Eroi, che si trova proprio nel cuore della cittadina, a ridosso della Basilica, dove furono raccolti i primi caduti del 1915 sul Carso (purtroppo, la visita al cimitero è stata soltanto parziale, a causa della caduta di un cipresso ad opera del vento). Si tratta di un sito storico molto importante perché, a differenza degli altri cimiteri, sacrari ed ossari, è l’unico ad aver mantenuto la sua forma originale da quando sono iniziate le sepolture nel 1915. Inoltre, proprio da questo luogo, è partita nel 1921 la salma del Milite Ignoto verso l’Altare della Patria a Roma. / 239 3 RACCONTARE LA GuERRA NOI, TRE ITALIANI PROGETTO TEATRALE NOI, TRE ITALIANI PROGETTO TEATRALE sACERDOTI COL FuCILE, LA ChIEsA E LA GRANDE GuERRA DRAmmA IN DuE ATTI CENTENARIO DELLA PRImA GuERRA mONDIALE A CURA DI MASSIMO SIMONINI E ASSOCIAZIONE SPERIMENTIAMO DI ROMA PROGETTO DOCUMENTARISTICO Testo di Massimo Simonini Regia di Nataliia Florenskaia Scenografie e Costumi di Amedeo D’Amicis e Paola Tosti Maestro di combattimento Luca Ventura Una Produzione di Associazione Culturale Sperimentiamo di Roma PREsENTAZIONE DELL’OPERA Noi, tre italiani nasce in occasione del Centenario della Prima Guerra Mondiale ed è tratto dall’omonimo romanzo di Massimo Simonini (Edizioni Anordest, febbraio 2015) ideato e curato in collaborazione con lo Stato Maggiore della Difesa. Lo spettacolo, allestito dall’Associazione Culturale Sperimentiamo, affronta la guerra non solo dal punto di vista storico e militare, ma soprattutto da quello umano e spirituale. Tre giovani italiani realmente esistiti, un friulano, un abruzzese e un siciliano, portano in scena le loro storie e più in generale fotografano un’epoca fatta di povertà e scoperte; un’epoca trasformata dalla guerra in modo tragico e inatteso. Queste passioni rivivono sul palcoscenico per informare, formare e far crescere gli eredi di quella gioventù. 242 | In trincea per la pace / 243 ObIETTIvI Il testo di Massimo Simonini e la regia di Nataliia Florenskaia si fondono in un’importante sinergia tra una visione più letteraria della Grande Guerra ed una puramente drammaturgica ed emotiva. Il risultato è un insieme di suggestioni alle quali il pubblico non può rimanere indifferente e che fa di Noi, tre italiani un’opera assolutamente unica per contenuti e forma. LO sPETTACOLO è sTATO RAPPREsENTATO DuE vOLTE: IL 17 OTTObRE 2015 A ROmA PREssO IL TEATRO sAN GIusTINO E IL 24 OTTObRE 2015 A DARFO bOARIO TERmE (bs) PREssO IL TEATRO sAN FILIPPO NERI. 244 | In trincea per la pace Suoni, musiche, luci e combattimenti scenici rendono l’opera dinamica e invitano il pubblico a riflettere. Perché non si dimentichi ciò che abbiamo ereditato – e forse perso – in questo secolo di attesa: lo spirito di nazione ma pure il disprezzo per ogni forma di violenza. / 245 sACERDOTI COL FuCILE LA ChIEsA E LA GRANDE GuERRA PROGETTO DOCumENTARIsTICO A CURA DI OFFICINA DELLA COMUNICAZIONE DI BERGAMO Paolo è un ragazzo di diciassette anni, frequenta il liceo e il pomeriggio fa il proiezionista nel piccolo cinema della sua città. Di solito non presta molta attenzione alle immagini sullo schermo, più intento a fissare quello del suo smartphone, ma oggi qualcosa è diverso, qualcosa cattura la sua attenzione. Un soldato è seduto in una cella di prigionia e compila il suo diario. È il 9 marzo 1919 e quest’uomo, che pare aver perso ogni speranza, parla degli anni appena trascorsi, della tragedia della guerra e della bestialità a cui è stata ridotta l’umanità. Paolo sente che qualcosa dentro di lui si è smosso, vuole capire e trovare delle risposte con quello che ha a disposizione oggi. Ancora senza saperlo inizia un viaggio tra date, stralci di giornale, diari e relazioni; un viaggio che lo porterà a conoscere le storie di uomini che grazie alle loro scrupolose testimonianze hanno permesso di far giungere fino a noi il dramma vero della Grande Guerra. Sono le piccole storie quotidiane dei cappellani militari impegnati tra le fila dell’esercito italiano durante il primo conflitto mondiale, narrazioni che solitamente restano soffocate dalle vicende storiche di una guerra, e che invece danno qui volto e calore umano a date e nomi altisonanti. Il documentario In trincea. Piccole storie della Grande Guerra si propone quindi di indagare la figura del cappellano militare, in particolare modo dal momento della sua istituzione per mandato del Generale Luigi Cadorna nel 1915 fino alla fine della guerra quando i cappellani militari si trovano ad affrontare problematiche legate alla fede, alla morale e a recuperare un ruolo attivo e proattivo all’interno delle comunità profondamente turbate dalle tragedie appena trascorse. Per la realizzazione del documentario le fonti privilegiate di analisi e di studio sono state i diari e le relazioni che i cappellani compilavano privatamente o per la consegna ai loro superiori. Da queste testimonianze / 247 è stato quindi possibile ricostruire una narrazione dell’andamento della guerra vista dall’interno con la possibilità di accostare filmati originali d’archivio a piccoli episodi di ricostruzione storica in grado di restituire una dimensione umana e tangibile degli orrori quotidiani con cui gli uomini, soldati e non, erano costretti a convivere. Infatti con la Prima Guerra Mondiale l’uomo si è trovato a dover combattere in situazioni di totale impreparazione sia contro nuove e devastanti tecnologie belliche, sia contro una natura spietata sempre pronta a fare il suo corso. Tre sono i luoghi principali e punti di osservazione privilegiati nei quali vediamo coinvolte queste figure di fede e di cui abbiamo diretta testimonianza: la trincea, luogo dei combattimenti, del logoramento e sentore di morte; l’ospedale militare, spesso ambiente di conforto per i feriti e i mutilati, ma anche teatro dell’ultimo saluto e del trapasso a volte violento e crudo; infine la casa del soldato, istituita per volere dei cappellani militari che rappresenta una vera e propria bolla di sollievo e di recupero per l’animo del soldato. L’andamento del documentario si muove grazie alle ricerche di Paolo che, muovendosi concretamente nella città e sul web, trova le informazioni per restituirci un quadro che sia il più completo possibile mettendo in evidenza le figure di alcuni cappellani che si sono distinti, oltre che per le loro azioni durante la guerra, anche nel trovare un modo virtuoso per contrastare le inevitabili crisi post-belliche. In questo viaggio Paolo indaga il dramma della guerra attraverso le parole dei cappellani militari ponendo in primo piano gli uomini che si sono resi protagonisti loro malgrado di quella che è stata definita l’inutile strage. Diventano quindi importanti le parole di Padre Minzoni per respirare l’aria di trincea durante gli assalti e quelle di Don Peppino Tedeschi per raccontare non solo il dramma della guerra, ma anche la beffa della prigionia a guerra finita. Importanti sono le figure di Don Mazzolari che istituisce le prime scuole di alfabetizzazione per i soldati durante i periodi di riposo e, ancora, le azioni di Padre Semeria e Don Minozzi che si occupano degli orfani di guerra e dei figli illegittimi nati durante il conflitto. Infine le parole di disperazione di Don Angelo Roncalli e Padre Cortese con quelle di dura condanna di Padre Piantelli sono fondamentali per delineare il quadro di un’umanità distrutta dall’odio per volere dei potenti. 248 | In trincea per la pace NOTE TECNIChE Scelta produttiva e registica è stata quella di creare un documentario o meglio, un film documentario, con diversi registri visivi. La narrazione infatti è supportata da preziose immagini di repertorio accuratamente selezionate nell’immenso archivio storico dell’Istituto luce, al fine di poter dare allo spettatore, in maniera talvolta molto diretta, la percezione dell’atrocità della guerra. A queste immagini, al fine di entrare nella storia dei diversi cappellani militari si è scelto di creare veri e propri momenti di fiction. Qui, attraverso l’utilizzo delle più alte tecnologie di ripresa in 4K, carrelli, steadycam e impianti di illuminazione cinematografici si è potuto raccontare, ricreandoli, alcuni momenti drammatici della vita al fronte. La suggestione di queste riprese è avvalorata dalla scelta di location d’eccezione, testimoni reali della guerra come le trincee di Brestovic, in Friuli venezia Giulia al confine con la Slovenia. Infine sempre con le medesime tecnologie, si è girata la parte di fiction del presente, dove Paolo, studente dei giorni nostri, va alla ricerca del passato e delle storie dei cappellani che vengono raccontate. La post produzione del documentario, affidata a professionisti dell’editing cinematografico, è stata gestita con i più avanzati software di post produzione e di computer grafic. Infine una particolare attenzione è stata affidata al suono, registrato in presa diretta e post prodotto accuratamente in un laboratorio dedicato. Quello che emerge è l’insieme di tecnologie e linguaggi cinematografici che si amalgamano alla perfezione per raccontare un unico grande racconto. Il film documentario, per i suoi standard qualitativi, potrà essere distribuito oltre che nelle scuole attraverso dvd o il downloading, anche nelle tv italiane e intarnazionali, oltre che poter avere una distribuzione internet attraverso portali dedicati. / 249 CONCLusIONI IL REFERENTE PROF. FAbIO mOLINARI Il volume, che raccoglie un lavoro che si è protratto per ben due anni scolastici, rappresenta una mirabile sintesi, che unisce la dimensione teorica dell’insegnamento a quella pratica. I contributi, che affrontano il conflitto mondiale sia nella dimensione cronologica, sia cogliendone le ripercussioni nel mondo dell’arte e della letteratura, forniscono sicuramente del materiale molto importante e per alcuni aspetti inedito, che viene offerto al mondo della scuola quale supporto a quanto usualmente si può ritrovare nei manuali in adozione. Tuttavia, il maggior pregio di questo testo è quello di far sentire anche altre voci che normalmente sono escluse o, per meglio dire, non vengono coinvolte attivamente nell’elaborazione di un progetto. In questo caso gli studenti, che hanno affrontato un percorso formativo profondamente innovativo, hanno avuto anche la possibilità di raccontare la loro esperienza e la loro visione dei luoghi che hanno fatto da scenario ai momenti più terribili della Prima Guerra Mondiale. Quanto emerge da questo volume è quindi una splendida sintesi fra la voce dei discenti e quella degli accademici, che viene ulteriormente arricchita dalla presenza di contributi che provengono dal mondo del teatro e da quello cinematografico. In questo modo abbiamo reso evidente la convinzione che si possa parlare di guerra non solamente limitandoci ad una mera cronologia degli eventi, ma anche facendone uno spettacolo teatrale o addirittura ricavando da essa, o meglio da un suo aspetto piuttosto nascosto, persino un accattivante documentario cinematografico. Ritengo che la sfida maggiore che il mondo della scuola dovrà affrontare nei prossimi anni sarà quella di rendere sempre più frequente la stretta collaborazione tra linguaggi diversi, perché il prodotto finale possa essere veramente utile allo sviluppo delle conoscenze e delle competenze dei nostri studenti. In particolare il lavoro condotto con grande perizia da Officina della Comunicazione, su suggerimento di / 251 Mons. Dario viganò, ci ha consentito di aprire un capitolo nuovo relativo al grande tema della Guerra, facendoci conoscere la figura del Cappellano militare, che dimostra di essere tutt’altro che secondaria in una situazione di tragedia, disperazione e isolamento quale è quella che ha caratterizzato la Prima Guerra Mondiale. Allo stesso tempo, è apprezzabile il fatto che un congruo numero di studenti abbia volontariamente seguito un percorso di formazione denso di contenuti e abbia potuto completarlo attraverso due itinerari in loco: a Temù in valle Camonica dove è allestito il museo della Guerra Bianca e presso il sacrario militare di Redipuglia. Nessun libro è in grado di comunicare le emozioni, il dolore e le storie di tanti soldati che hanno sacrificato la propria vita per la Patria, quanto una visione guidata dei luoghi dove queste tragedie si sono consumate. Sono particolarmente compiaciuto per il fatto che questo progetto sia partito da alcune scuole di provincia e si sia rivelato talmente contagioso da includere nel suo sviluppo anche l’Ordinariato Militare, che ha offerto un prezioso sostegno e una qualificata consulenza scientifica, insieme alla Segreteria per la Comunicazione della Santa Sede; l’introduzione che il Sen. Franco Marini ha voluto donare a questa connotazione costituisce poi un sigillo di condivisione anche da parte delle nostre Istituzioni repubblicane. Il mio auspicio è quello che, grazie alla preziosa opera di sostegno ai progetti scolastici che il MIUR offre, tali iniziative possano moltiplicarsi ed abbracciare non solo la storia, ma tutte le discipline che connotano i nostri ordinamenti scolastici. 252 | In trincea per la pace / 253 sI RINGRAZIANO IN mODO PARTICOLARE PER LA COLLAbORAZIONE NELLA REALIZZAZIONE E NELLA PROmOZIONE DEL PROGETTO CAmILLO ANDREANA, GIà PREFETTO DI bERGAmO; LORENZO bENADusI, DOCENTE PREssO L’uNIvERsITà DEGLI sTuDI DI bERGAmO ChE NON hA POTuTO INsERIRE LA suA RELAZIONE NEL PREsENTE vOLumE; GIOvANNI sANGA, DEPuTATO; L’AssOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI DI bERGAmO Progetto grafico e realizzazione Orione, cultura, lavoro e comunicazione / Brescia Ottobre 2016