Folonari, storia di una dinastia

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Folonari, storia di una dinastia
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Giovedì 24 Novembre 2016 Corriere della Sera
BS
Cultura
 Tempo libero
Cinema
Il Romanino di Sgarbi
al Torino film festival
Un nuovo capitolo del dialogo
ininterrotto tra Girolamo
Romanino e la contemporaneità.
L’artista bresciano definito da
Giovanni Testori «il più grande,
torvo e triviale dei pittori in
dialetto di ogni tempo» torna a
sollecitare riflessioni a partire
dalla sua opera, dopo gli scritti di
personalità come Pasolini,
Guttuso, Balducci, Grisoni, Reale.
Questa volta tocca a Elisabetta
Sgarbi, che già aveva dedicato
un film al Romanino di Pisogne.
Oggi viene proiettato al Torino
Film Festival il film «La lingua dei
furfanti. Romanino in Valle
Camonica», su soggetto di
Giovanni Reale ed Eugenio Lio,
con testi di Luca Doninelli
interpretati da Toni Servillo, con
musiche di Franco Battiato. Ne
«La lingua dei furfanti», Sgarbi
compone in un unico film il ciclo
di affreschi che Romanino
Cultura e impresa Hanno fatto la storia del vino italiano e hanno avuto un ruolo
di primo piano nella finanza. I due fondi che costituiscono l’archivio di famiglia
dal 1884 al 2005 sono stati donati all’Ateneo di Brescia. Domani la presentazione
Folonari, storia di una dinastia
D
opo l’Unità iniziarono anche in Italia i
primi tentativi di produrre vini di qualità
costante così come già avveniva in Francia. In questo sforzo
per migliorare la produzione
vitivinicola, un ruolo da protagonista lo ebbe la famiglia
Folonari, che da alcune generazioni aveva acquisito una
buona posizione economica
in Valcamonica commerciando vini, e che via via si specializzò nella selezione e nell’invecchiamento. Verso la fine
del secolo, furono Francesco
e Italo a permettere il grande
balzo all’impresa familiare,
trasferendo l’attività a Brescia
e realizzando nuovi impianti
enotecnici a ridosso della stazione ferroviaria.
Il fortunato modello imprenditoriale, dove si incontravano scienza e tecnica, venne nel giro di pochi anni
esportato in Puglia, regione
I documenti
Il primo fondo riunisce
carte familiari, il
secondo è ciò che resta
dell’archivio d’impresa
dalla grande produzione di vini da taglio. Sorsero così tra il
1902 e il 1910 cinque moderni
impianti industriali tra il Salento e il Foggiano. Si trattava
di una produzione che veniva
incontro al gusto dei consumatori, utilizzando vini dal
maggiore contenuto alcolico
come quelli meridionali per
correggere attraverso il taglio
il basso contenuto alcolico dei
nuovi vitigni settentrionali resistenti alla filossera.
Nel 1911, con 100 mila metri
quadrati di stabilimenti e una
capienza di 300 mila ettolitri,
la Folonari era la prima azienda enotecnica italiana. Non
contenta, acquisì la Ruffino di
Pontassieve, dotata di know
how e di una ottima reputazione internazionale per l’alta
qualità del suo Chianti.
La notevole redditività dell’impresa, che fu la prima ad
applicare il freddo artificiale
al vino comune, accantonando in anni di grande produzione i mosti per le annate più
scarse, ne permise l’autofinanziamento e diede molto
presto il via alla diversificazione degli investimenti nella
proprietà fondiaria e nella finanza. Francesco fu tra i fondatori della Banca San Paolo,
di cui divenne presidente dal
1907 al 1939, mentre il fratello
Italo sedette nel consiglio del
Credito Agrario Bresciano dal
1919 al 1942.
La Grande guerra fu una ulteriore occasione di sviluppo.
Già fornitrice della Marina
militare e della Real Casa, la
Folonari divenne il principale
venditore dell’esercito al fronte. Subito dopo il conflitto,
nel 1920, diversificò la propria
produzione, acquisendo la torinese Ballor, specializzata
L’incontro
 L’archivio
della famiglia
Folonari è stato
depositato per
volontà di
Alberto
Folonari e dei
suoi congiunti
presso l’Ateneo
di Brescia. Si
tratta di un
archivio
inventariato
organizzato in
due fondi. Il
primo,
composto da
45 faldoni, è
formato da
carte familiari
che riguardano
soprattutto
l’ingegner
Giovanni. Il
secondo,
composto da
103 faldoni, è
ciò che resta
dell’archivio
d’impresa
 Domani alle
17, nella sede
storica
dell’Ateneo in
via Tosio 12,
l’archivio verrà
presentato alla
città.
Intervengono:
Ambrogio
Folonari e
Agostino
Mantovani.
Illustrano
l’Archivio Sara
Cazzoli e
Roberta
Gallotti.
Ingresso libero
nella preparazione di vermouth e altri distillati.
Il secondo conflitto mondiale fu un momento drammatico per le sorti aziendali,
con l’Italia divisa in due e i
bombardamenti aerei che
colpirono numerosi stabilimenti Folonari. Ma mentre la
famiglia contava i danni al
nord, gli impianti nella Puglia
liberata lavoravano a pieno regime sotto l’intraprendente
guida di Tito Juffmann, che si
inventò un vino dolce che conobbe un vasto successo tra
l’esercito alleato.
Dopo la guerra, la Folonari
seppe anticipare il boom economico, dando il via nel 1954
alla produzione di un vino da
tavola, con bottiglia a rendere
e consegna a domicilio, che
con un’abile campagna pubblicitaria seppe imporsi sul
mercato nazionale con oltre
200 mila bottiglie al giorno.
L’approvazione della legge del
1963 sulle Doc mutò nel giro
di qualche decennio la storia
del vino italiano e portò la
stessa Folonari a fare forti investimenti nei vini di qualità.
Con la cessione del marchio
Folonari e di tutti i relativi impianti nel 1971, la famiglia abbandonò il vino comune, per
dedicarsi alle produzioni Doc
e Docg.
L’archivio di questa famiglia, che ha fatto la storia del
vino italiano, oltre a ricoprire
un ruolo di primo piano nella
finanza, è stato depositato per
volontà di Alberto Folonari e
dei suoi congiunti presso
l’Ateneo di Brescia Accademia
di scienze, lettere e arti. Si
tratta di un archivio inventariato e ottimamente conservato organizzato in due fondi. Il
primo, composto da 45 faldoni, è formato da carte familiari
che riguardano soprattutto
l’ingegner Giovanni, dal 1954
al 1975 vicepresidente della
Banca Commerciale Italiana,
la moglie Eve Ambrosi e i loro
figli. Il secondo, composto da
103 faldoni, è ciò che resta
dell’archivio d’impresa, un
tempo ben più vasto. Documenti che vanno dal 1884 al
2005 e che testimoniano la
storia di una delle grandi famiglie imprenditoriali del nostro paese.
Sergio Onger
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realizzò, tra il 1532 e il 1541, a
Pisogne, Breno e Bienno; e
prende sul serio quello scambio
di vita e forma che sprigiona
l’energia degli affreschi nelle tre
chiese. Alla proiezione
parteciperà anche una
delegazione di cittadini e
autorità della Valcamonica. (f.l.)
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 La presentazione in Cattolica
Dostoevskij,
echi biblici
dal «sottosuolo»
T
ra i classici che più hanno anticipato le
inquietudini contemporanee vi sono i
racconti e i romanzi di Dostoevskij.
Fenomeni come il nichilismo e l’antropologia
sottesa — l’uomo che abita l’età del nichilismo
— hanno nelle pagine dello scrittore russo
una chiave interpretativa tra le più
disincantate e profonde. Una dimensione su
cui hanno insistito alcuni dei più grandi
interpreti di Dostoevskij, da Berdiaev a Sestov,
da Guardini a Pareyson. Una verità
ermeneutica che trova un’ulteriore conferma
dalla lettura della nuova traduzione degli
Scritti dal sottosuolo, a cura di Tat’jana
Kasatkina ed Elena Mazzola (ELS La Scuola),
presentati quest’oggi dalle due curatrici e da
Paola Carmignani, presso la Libreria
dell’Università Cattolica (ore 18, via Trieste
17/d) in un incontro organizzato da Editrice
Morcelliana e dalla Fondazione San Benedetto.
Una traduzione dal russo dovuta a Elena
Mazzola che, di contro ad altre traduzioni, è
«stata mossa dalla preoccupazione di non
tradire la trama di quei concetti d’autore che
sono espressi in gran parte attraverso rime
lessicali». Una traduzione nella quale emerge
il coté scritturistico e filosofico-teologico delle
pagine dostoevskiane, e sul quale insiste il
commento di Tat’iana
Kasatkina, direttrice
del dipartimento di
Teoria della
letteratura presso
l’Accademia delle
scienze di Mosca e già
autrice di monografie
su Dostoevskij. Nelle
parole dell’uomo del
sottosuolo abbiamo
da un lato la
confessione
dell’uomo
prigioniero di se
stesso, del suo io, asociale, per il quale ogni
affermazione si rovescia nell’opposto —
appunto una fenomenologia del nichilismo.
Dall’altro, e qui è la novità dell’interpretazione,
la scrittura di Dostoevskij è una scrittura
cifrata, intessuta di rimandi biblici. I
quarant’anni di cui parla l’uomo del sottosuolo
sono un’eco dei quarant’anni della traversata
del deserto del popolo ebraico. Con una
differenza: qui i quarant’anni sono l’ombra
lunga non di un cammino di liberazione, ma
di un inferno. Una discesa negli inferi della
psiche prigioniera dell’amore di sé,
biblicamente della philopsychia, del sordo
attaccamento al proprio io. L’uomo del
sottosuolo si rivolta contro il muro di pietra
delle costrizioni sociali e delle leggi
scientifiche — anela a che due più due faccia
cinque —, ma è una rivolta che ricade
nell’opposto, nella perpetuazione di un cieco
contesto di colpa e pena. Contesto cui
Dostoevskij contrappone — in modo non
apologetico, a partire dal manifestarsi del
male radicale — la figura di Cristo che rovescia
e può liberare, fin da subito, da quest’inferno.
Attraverso l’amore quale sintesi
nell’universalità di una fede, essendo Dio «la
Sintesi di tutto l’essere». In tal senso gli Scritti
dal sottosuolo sono, suggerisce Kasatkina, «un
testo cristiano». Un cristianesimo del
paradosso: l’abominio, in forza della libertà
testimoniata da Cristo, può redimersi in vita
buona. L’interesse di questa edizione sta
anche nel contesto dal quale è nato il
commento: da una pluriannuale scuola estiva
condotta dalle due curatrici con docenti e
studenti, partendo dalla lettura diretta delle
pagine di Dostoevskij. A dimostrazione che dai
classici sempre può scoccare quella scintilla
del sapere che permette, ad esempio, di capire
anche il tema della caverna platonica. Quella
caverna in cui gli uomini credono per vere le
ombre e gli idoli: appunto, il nostro
sottosuolo.
Ilario Bertoletti
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