i soggetti della filiera sez
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Cap. I I soggetti della filiera Sez. I Gli imprenditori agricoli individuali e collettivi 1. L’IMPRENDITORE AGRICOLO E L’IMPRESA AGRICOLA TRA CODICE CIVILE E LEGISLAZIONE SPECIALE.- 2. L’IMPRESA AGRICOLA NEL CODICE CIVILE DEL 1942.- 3. L’EVOLUZIONE LEGISLATIVA SINO ALLA RECENTE RIFORMA CONTENUTA NEI DECRETI LEGISLATIVI DEL 2001.- 4. IL CICLO BIOLOGICO E LE ATTIVITÀ AGRICOLE PRINCIPALI.- 5. LE ATTIVITÀ AGRICOLE CONNESSE.- 6. IMPRESA AGRICOLA INDIVIDUALE E COLLETTIVA. - 7. LO STATUTO DELL’IMPRESA AGRICOLA 8. L IMPRESA AGRICOLA E LE QUALIFICHE SOGGETTIVE. 1.- INTRODUZIONE. L’IMPRENDITORE AGRICOLO E L’IMPRESA AGRICOLA TRA CODICE CIVILE E LEGISLAZIONE SPECIALE Sul solco della disciplina vigente prima della codificazione del 1942, il progetto del libro V del nuovo codice civile era rimasto fedele all’impostazione oggettiva che nel codice di commercio del 1882 riguardava appunto gli atti di commercio. Al centro del progetto veniva collocata l’impresa con un esplicito autonomo riferimento anche a quella agricola. Nel corso dei lavori e nella stesura finale, consacrata nel codice del 1942, si preferì per varie ragioni, anche ideologiche, volgere la disciplina in termini soggettivi. Di qui l’introduzione delle definizioni dell’ imprenditore in generale ex art. 2082 c.c. e del piccolo imprenditore ex art. 2083c.c., cui seguivano quelle dettate appunto per l’imprenditore agricolo di cui all’art.2135 c.c. c.c. e per l’imprenditore soggetto a registrazione (quello commerciale) di cui all’art. 2195c.c. In realtà, come del resto evidenzia il richiamo alla impresa nel titolo stesso del capo II dedicato all’ “impresa agricola”, e del capo III dedicato alle “imprese commerciali e alle altre imprese soggette a registrazione”, il riferimento ai soggetti era chiamato a convivere con la persistente configurazione oggettiva del fenomeno. In questo senso, il riferimento anche in questa sede all’ “imprenditore agricolo” intende innanzitutto rispettare la scelta formale adottata dal codice civile. Questo, a ben vedere, non significa disconoscere che il fenomeno preso in considerazione dall’ordinamento a fini disciplinari, vale a dire la fattispecie in presenza della quale interviene come effetto la qualifica soggettiva, sia costituita dal dato oggettivo costituito dall’impresa, rispetto alla quale il soggetto è destinato a rilevare come centro di imputazione degli effetti che ne scaturiscono. Ed, infatti, nel prosieguo della presente riflessione si terrà fede a questa impostazione fatta propria dalla dottrina prevalente agraristica e commercialistica. In secondo luogo, la scelta di parlare dell’ “imprenditore agricolo” trova anche una diversa ed autonoma ragion d’essere. Come si cercherà sinteticamente di evidenziare in prosieguo, l’evoluzione della legislazione speciale intervenuta nei decenni successivi al codice civile e sino ai giorni nostri non si è limitata soltanto ad incidere, in diverse guise, sui contenuti della definizione codicistica di cui all’art.2135 c.c. In molte importanti occasioni, essa ha contribuito a relativizzare la coincidenza presente nel codice civile tra la qualificazione dell’impresa e quella del soggetto. Più precisamente, nel codice civile vi è una perfetta corrispondenza tra il modo di organizzarsi dell’impresa agricola e le qualifiche soggettive: si pensi al criterio dimensionale che permette di distinguere l’impresa in quanto tale da quella piccola e, dunque, di distinguere tra l’imprenditore agricolo e il coltivatore diretto, piccolo imprenditore ex art. 2083c.c. Ebbene, nel corso del tempo, la legislazione speciale, anche sulla scorta di interventi di fonte comunitaria, ha introdotto qualifiche soggettive che non solo riflettono, sul piano dimensionale, un dato oggettivo diverso da quello assunto dalla codificazione civile, ma si fondano talora su caratteri riferibili esclusivamente al soggetto in quanto tale, sia esso individuale o collettivo, senza alcuna rispondenza con i dati presenti nella struttura produttiva sottostante e presi in considerazione dalla fattispecie codicistica. In questo senso, “la fedeltà” al riferimento al soggetto, ossia all’imprenditore agricolo, permette di dar conto della complessità delle qualifiche soggettive, contenuta nella legislazione speciale, che altrimenti resterebbe fuori dall’indagine. Considerazione, questa ultima, confortata anche dal fatto che dopo decenni di legislazione speciale, gli interventi legislativi del 2001, finalizzati tra l’altro all’orientamento e alla modernizzazione del settore agricolo, se da una parte hanno novellato la disciplina codicistica, dall’ altra non hanno certo operato nella prospettiva della ricodificazione. Anzi, a ben vedere, la disciplina dettata per l’impresa agricola, originariamente contenuta nel solo codice civile del 1942, dopo la riforma del 2001 è presente in parte anche nella legislazione speciale e, nel volgere di pochi anni, ha registrato nuovi interventi modificativi1. 2.- L’IMPRESA AGRICOLA NEL CODICE CIVILE DEL 1942. Per comprendere le problematiche attuali dell’impresa agricola e le linee di tendenza della legislazione da ultima richiamata è necessario partire dall’impianto originario adottato dal codice civile del 1942. Con tale codice, il nostro ordinamento, innovando rispetto alla tradizione europea continentale sino ad allora seguita, ha sostituito sia il codice civile del 1865 sia il codice di commercio del 1882. Quei due codici, a ben vedere, riflettevano una società preindustriale. Il primo ruotava intorno alle vicende della proprietà agraria, fonte allora primaria della ricchezza del paese. Il secondo, concettualmente costruito sul fenomeno del commercio in senso stretto, ossia della attività di intermediazione, era stato chiamato a disciplinare, attraverso la categoria degli atti di commercio, anche le attività produttive in senso stretto, manifatturiere e non, che avessero di fatto superata la soglia rappresentata dal mestiere. In definitiva, la disciplina previgente al codice del 1942 non attribuiva rilevanza generale al fenomeno dell’impresa, come forma di esercizio dell’attività economica meritevole di un puntuale riconoscimento normativo. Al contempo, riservava all’attività agricola un trattamento nettamente distinto rispetto a quello previsto per le altre attività economiche. A conferma di questa netta separazione tra il mondo della produzione agricola e quello della produzione industriale ovvero delle attività mercantili in quanto tali, l’art. 5 c. comm. precisava che l’unica ipotesi di presenza sul mercato da parte dell’agricoltore, occasionata dalla vendita del prodotti del fondo da lui coltivato, non costituiva atto di commercio. In tal modo era escluso alla radice che, per via dell’iterazione di tali atti, l’agricoltore corresse il rischio di acquisire la qualifica di commerciante e, di conseguenza, di essere assoggettato, tra l’altro, in caso di insolvenza, alle procedure fallimentari. In definitiva, quale che fosse il livello organizzativo assunto nello svolgimento dell’attività produttiva agricola, l’attività agricola restava attività civile, soggetta al solo codice civile; come civile restava anche la vendita che l’agricoltore avesse effettuato della produzione da lui stesso conseguita. L’ ideologia fisiocratica, che aveva sublimato in chiave teorica la centralità del settore primario dell’economia, nel porre al cuore del fenomeno produttivo agricolo le potenzialità naturali della terra, contribuiva, sul piano del diritto, ad escludere che l’attività agricola potesse essere assimilata a quella manufatturiera e , dunque, che in essa potesse rinvenirsi una qualche forma di quella intermediazione la cui ricorrenza avrebbe dovuto giustificare l’attrazione verso il codice di commercio. Non è un caso, del resto, che negli ultimi decenni che hanno preceduto la codificazione del 1942, le questioni aperte alla discussione dei giuristi e alle decisioni giurisprudenziali e che hanno, poi, guidato le scelte successivamente accolte nell’art.2135 c.c., abbiano riguardato la corretta 1 In questa prospettiva, i rischi di mancata conoscenza dell’intero quadro disciplinare sono molto alti dato il livello mediocre della preparazione che si registra attualmente tra avvocati e magistrati. Esemplare si rivela la vicenda al centro della recente pronuncia di Cass. 24 marzo 2014 n.6835. Un’ associazione di produttori agricoli, da qualificarsi senza ombra di dubbio come impresa agricola ai sensi dell’art.1 comma ° del d-lgs, n.228 del 2001, è stata dichiarata fallita in quanto nel corso del giudizio si è ignorata da parte di tutti la presenza di questa disposizione! Su tale pronuncia, si rinvia alla nostra nota A proposito del singolare fallimento di una Associazione di produttori agricoli costituita in forma di società cooperativa per azioni: un caso esemplare di giustizia doppiamente beffata in Riv. dir. agr. 2014, I, 9ss. individuazione sia del contenuto dell’ attività agricola in senso stretto, con particolare riguardo all’allevamento di animali, sia del limite applicativo dell’art.5 c. comm., in riferimento, questa volta, al significato da assegnare ai termini ivi presenti relativi ai prodotti del fondo e alla loro vendita. In ordine al primo termine, infatti, risultava evidente il non potersi limitare ai soli prodotti naturali in senso stretto, in quanto, anche per ragioni legate alla difficoltà della loro conservazione, nei secoli per molti di tali prodotti gli agricoltori avevano provveduto direttamente alla loro trasformazione. Sicché, il problema riguardava esclusivamente il limite da individuare al processo di trasformazione, anche in considerazione del fatto che alcune trasformazioni ben potevano richiedere investimenti cospicui e dar vita ad una organizzazione produttiva autonoma non dissimile da quella propria delle strutture manifatturiere ed industriali. Quanto al secondo termine, la vendita, il dubbio riguardava le ipotesi in cui l’agricoltore avesse messo in piedi una vera e propria organizzazione per immettere sul mercato la propria produzione, trasformata o non, avvalendosi di spacci, di marchi per i prodotti , etc. Nel corso della revisione, prima del codice di commercio, poi anche del codice civile, sino alla definitiva unificazione culminata con il codice del 1942, in coerenza con i mutamenti intervenuti nella realtà economica, si ritenne di individuare nell’ impresa, ossia nell’attività economica organizzata e destinata a durare nel tempo, il fenomeno intorno al quale enucleare la disciplina diretta a governare i processi produttivi in funzione della tutela dei terzi coinvolti in diversa guisa: ad es. come fornitori di fattori della produzione, di finanziatori, di acquirenti di prodotti e servizi etc. Invero, la presenza di una attività economica organizzata, a sua volta consistente in una pluralità di atti coerentemente orientati ad un medesimo scopo, costituisce fondamentalmente una fonte di singolari rischi per i terzi che ne sono coinvolti2. Di qui, la particolare attenzione da parte dell’ordinamento non solo in vista della loro imputazione giuridica in capo all’imprenditore, ossia al soggetto cui si riconduce quell’attività, ma anche in vista dell’applicazione di regole destinate in primo luogo a segnalare socialmente la presenza dell’impresa e, in secondo luogo, a governarne in senso ampio la condotta. Il ricorso all’impresa, ossia alla presenza di una attività economica organizzata e destinata a durare nel tempo, non ha impedito al codice del 1942 da un lato di riformulare su basi nuove la distinzione preesistente tra l’attività agricola e le altre attività economiche, sì da continuare a dare al contenuto specifico delle attività un distinto rilievo sul piano disciplinare, dall’altro di prospettare un’ articolazione del fenomeno che tenesse conto appunto anche del profilo dimensionale delle strutture produttive: si pensi appunto alla piccola impresa. Infatti, anche per ragioni di opportunità politiche ed economiche, il codice del 1942 non si è limitato a definire l’impresa in generale attraverso l’art.2082 c.c., ma, nell’ambito di quella fattispecie, ha individuato, secondo un codice binario, da una parte l’impresa agricola ex art.2135 c.c. , dall’altra le imprese commerciali soggette a registrazione ex art.2195 c.c.. 2 Per una revisione di siffatta teoria si rinvia al nostro Appunti per una teoria giuridica del "rischio di impresa", in Studi in onore di Nicolò Lipari, Milano 2008,1233ss. Sul tema v. anche M. ALABRESE, Riflessioni sul tema del rischio nel diritto agrario, Pisa 2009. La configurazione del rischio di impresa, in termini di un singolare rischio che l’impresa produce per i suoi interlocutori più che un rischio che è l’imprenditore a correre ( e che può essere gestito in diverse guise: si v. per tutti le ricerche curate rispettivamnente dall’OECD, Managing Risk in Agriculture Policy Assessment and Design: Policy Assessment and Design, 2011 e dalla FAO,Managing Risk in Farming del 2008), permette di ben chiarire che il trattamento singolare riservato dalla legislazione per le imprese agricole è al tempo stesso coerente e rispettosa della prima costruzione nella misura in cui risponde alla situazione propria delle imprese agricole nella fase che ne ha preceduta la industrializzazione e, dunque, lo svilupparsi del suo indebitamento finanziario, dall’altro si rivela apertamente protezionistica nella misura in cui trova applicazione indifferenziata per tutte le imprese agricole senza alcuna distinzione, e, al tempo stesso, sopravvaluta, anche qui senza alcuna distinzione, le indubbie singolari difficoltà che l’attività agricola può incontrare nel suo svolgimento rispettivamente quanto ad eventi legati alla realtà ambientale ed alle caratteristiche proprie dei mercati dei prodotti agricoli. Più precisamente, il codice civile unificato del 1942 ha, in definitiva, aggiornato, pur ribadendolo, l’atteggiamento diverso che il codice civile del 1865 aveva assicurato all’agricoltura, rispetto a quello riservato dal codice di commercio del 1882 alle altre attività economiche. Salvo a verificare in prosieguo le possibili ragioni tecnico-giuridiche alla base della diversità di trattamento per l’impresa agricola e valutarne la persistente congruità, è indubbio che il codice civile del 1942, lungi dall’individuare in positivo norme specifiche da destinare all’impresa agricola, ha preferito delineare lo “statuto” della stessa in negativo, ossia sottraendola dall’applicazione delle norme dettate per l’impresa commerciale con specifico riferimento sia alla tenuta delle scritture contabili ed alla registrazione, sia all’assoggettamento, in caso di insolvenza, alle procedure fallimentari. Non può negarsi che il singolare favor riservato alla impresa agricola è stato alla base di un ampio dibattito della dottrina e ha per lungo tempo inciso in maniera significativa sull’ interpretazione dello stesso art. 2135 c.c.. Infatti, una parte della dottrina commercialistica, anche per via della carenza contenutistica dello “statuto” dell’impresa agricola rispetto a quello dettato per l’impresa commerciale, ha negato addirittura che l’“impresa agricola” di cui parla il codice civile potesse ritenersi impresa in senso tecnico3. Secondo questa impostazione, l’esercizio dell’attività agricola, nelle forme della coltivazione, della silvicoltura e dell’allevamento di bestiame (di cui all’originaria stesura dell’art.2135 c.c. comma 1° c.c.) coinciderebbe in linea generale con l’esercizio dell’attività di ordinaria amministrazione di beni naturalmente produttivi. Di conseguenza, l’effettiva ricorrenza dell’impresa in quanto tale finirebbe con l’integrare, se mai, la presenza di un’impresa commerciale. Come è facile osservare, si tratta di una tesi che va ben oltre la semplice critica alla soluzione adottata dal legislatore del 1942. A tacer d’altro, stando al sistema del codice, quella agricola è impresa a tutti gli effetti e, comunque, diversa da quella commerciale, a prescindere dal fatto che il nucleo organizzativo alla sua base possa manifestarsi in forma molto esigua e, dunque, con un conseguente assai limitato coinvolgimento di terzi nel rischio di impresa, ovvero presentarsi sviluppato in misura non dissimile da quello che si rinviene nelle moderne imprese commerciali. Come dire, dunque, che l’esistenza indubbia di una difficoltà in punto di fatto a distinguere soprattutto nelle ipotesi marginali tra la mera attività di amministrazione del bene produttivo e la attività organizzata in forma di impresa non può essere aggirata negando l’esistenza stessa dell’impresa agricola, ovvero sostenendo, in senso opposto, la presenza in ogni caso dell’impresa. A ben vedere, l’ampiezza dell’area in cui è chiamata ad operare la fattispecie dell’impresa agricola, in relazione anche alla prevedibile progressiva industrializzazione della stessa attività agricola, certamente tenuta in conto dalla codificazione, ha costituito la ragione di fondo che ha favorito l’indirizzo assai cauto della giurisprudenza circa una possibile interpretazione evolutiva dell’art. 2135 c.c.: interpretazione che, allargando l’ambito operativo dell’impresa agricola, di fatto finisse con estendere oltre misura il “privilegio” costituito appunto dal conseguente mancato assoggettamento allo statuto previsto per l’ impresa commerciale, o quanto meno ad un effettivo differenziato pacchetto disciplinare. 3.- L’EVOLUZIONE LEGISLATIVA SINO ALLA RECENTE RIFORMA CONTENUTA NEI DECRETI LEGISLATIVI DEL 2001. Nell’originaria stesura accolta nel codice del 1942, l’art.2135 c.c. era composto da due commi. Il primo delineava il contenuto dell’attività esercitabile dall’ impresa agricola e distingueva tra le attività agricole “principali” e le attività da ritenersi agricole in quanto “connesse” alle prime. In ordine alle attività agricole, fondamentali per la ricorrenza dell’impresa agricola, il comma 1° faceva riferimento all’ “attività di coltivazione del fondo, di silvicoltura e di allevamento del bestiame”. Quanto poi alle attività connesse, così richiamate nel comma 1°, il successivo comma 2° 3 Si v. G. FERRI, L’impresa agraria è impresa in senso tecnico?, in Atti del Terzo Congresso nazionale di diritto agrario ( Palermo, 19-23 ottobre 1952), Milano 1954. si limitava a specificare che “ si reputano connesse le attività dirette alla trasformazione o all’alienazione dei prodotti agricoli quando rientrano nell’esercizio normale dell’agricoltura ” . Senza qui anticipare un’ analisi che verrà svolta a proposito del testo vigente dopo la novella del 2001, mette conto rammentare che l’impostazione oltremodo restrittiva in ordine all’ interpretazione dell’art.2135 c.c. si poneva in singolare coerenza con l’ormai superata visione fisiocratica dell’agricoltura, intesa quale attività “estrattiva” e basata sulla centralità della terra quale fattore naturalmente produttivo, per cui si individuava nel fondo, rectius nel suo uso naturalmente produttivo, il cuore dell’agrarietà dell’ impresa. Come corollario di questa interpretazione dell’art.2135 c.c, si individuava nella presenza aggiuntiva del rischio atmosferico e di quello ambientale, cui sono soggette in maniera particolare le colture, la giustificazione fondamentale del trattamento di favore riconosciuto ai produttori agricoli. Per questa via, se da una parte si concludeva che l’eventuale presenza di manufatti e protezioni, quali sono ad es, le serre, facendo venir meno il rischio atmosferico, avrebbe inciso sulla qualificazione dell’attività di impresa, portandola da agricola a commerciale, dall’altra si suggeriva una lettura decisamente restrittiva dell’attività agricola principale relativa appunto all’ allevamento del bestiame. In termini oltremodo sintetici, può qui limitarsi a ricordare che parte della dottrina, sulla scorta della sostenuta centralità costituita dalla coltivazione del fondo, riteneva in primo luogo che l’attività di allevamento del bestiame dovesse considerarsi agricola sempre che svolta in collegamento funzionale con la coltivazione del fondo, quasi che fosse da leggersi in termini esclusivi di una attività complementare alla coltivazione e, dunque, pur sempre finalizzata a migliorare l’utilizzazione produttiva del fondo sul presupposto che in questo caso la sua produzione vegetale dovesse essere impiegata per alimentare il bestiame. A questa impostazione, peraltro, se ne aggiungeva un‘altra che dalla funzionalità storica del “bestiame” non solo come capitale produttivo, ma anche come instrumenta fundi ( per i lavori nei campi, per il trasporto, per la concimazione etc.), traeva spunto per una interpretazione restrittiva del termine “bestiame” contenuto nell’art. 2135 c.c. chiamato così ad abbracciare solo animali destinati all’alimentazione ovvero all’utilizzo in agricoltura come forza lavoro con la esclusionem dunque, di quelli di bassa corte. Non mancò, peraltro, sin dai primi commenti, un’ interpretazione che, pur riconoscendo la natura agricola dell’attività di allevamento del bestiame, quale attività agricola principale di per sé, a nulla rilevando il legame tra l’allevamento del bestiame e la coltivazione del fondo in funzione dell’alimentazione del primo, escluse che analoga soluzione potesse ammettersi nel caso di allevamento di animali diversi dal bestiame ( si pensi agli allevamento avicoli, di conigli etc): allevamento, quest’ultimo, che avrebbe potuto ritenersi agricolo ex art.2135 c.c. solo se la relativa attività fosse stata legata ad un rapporto di complementarietà e di necessità con il fondo, quale attività agricola per connessione. A maggior ragione, ovviamente, l’esclusione avrebbe dovuto riconoscersi in presenza di allevamenti di animali da pelliccia ovvero di cavalli da corsa4. In effetti, il singolare empasse emerso a proposito dell’ interpretazione dell’art. 2135 c.c., ora richiamato, permetteva di meglio mettere a fuoco la ragione di fondo che il legislatore aveva posto a base della distinta disciplina tra l’impresa agricola e l’impresa commerciale. Infatti, la progressiva relativizzazione del fondo quale fattore della produzione agricola, già presente in nuce nell’art.2135 c.c., costituiva indubbiamente la manifestazione più significativa del crescente sviluppo in termini di impresa dell’attività agricola. Al contempo, quel medesimo fenomeno, per via del crescente ricorso al credito ed al capitale di esercizio da parte dell’impresa agricola, segnava il progressivo avvicinarsi di questa ultima al modo di essere e di agire proprio dell’impresa commerciale, con la conseguenza che nelle sue manifestazioni più avanzate risultava accentuarsi oltre misura la percezione relativa al trattamento oltremodo protettivo che la codificazione aveva assicurato a tutti gli agricoltori. 4 Si v. Cass, 25 novembre 1993 n.11648, in Giur. it. 1994, I,1, 383; e in Dir e giur. agr. 1994, 344 con nota di JANNARELLI. E’ in questo quadro che può comprendersi la progressiva consapevolezza circa il carattere inappagante della soluzione adottata nel codice del 1942. Questa da una parte alimentava una contrapposizione in dottrina circa la lettura da accogliere in ordine al fondamento dell’art.2135 c.c. e la sua interpretazione (e che vedeva sempre più distanti commercialisti e agraristi), dall’altra giustificava la resistenza della giurisprudenza verso un ampliamento dell’area operativa riconducibile all’impresa agricola, in assenza di un mutamento della disciplina statutaria. Non vi è dubbio, infatti, che la fedeltà della dottrina commercialistica alla tesi favorevole ad identificare nel “dato fondiario” il cuore dell’agrarietà si rivelava sempre di più insoddisfacente ed irrealistica, sia perché il progresso tecnologico evidenziava il crescente rilievo nell’impresa agricola del capitale circolante rispetto a quello fondiario, sia perché, stando alla lettera della norma, nell’art. 2135 c.c. l’allevamento del bestiame era presente come autonoma attività agricola principale senza alcun riferimento al necessario sfruttamento del fondo. A sua volta, una parte della dottrina agraristica, prendendo l’avvio proprio dalla constatata improponibilità del dato fondiario, quale unitario criterio da porre alla base dell’art. 2135 c.c.., prospettò una diversa e originale interpretazione dell’art.2135 c.c. secondo la quale il criterio unificante tra le attività agricole principali ivi richiamate avrebbe dovuto individuarsi nel carattere biologico del ciclo produttivo al centro di tutte le attività agricole principali ex art.2135: ciclo biologico rinvenibile infatti tanto nella coltivazione delle piante, quanto nell’ allevamento5. Di conseguenza, se per la stessa coltivazione delle piante finiva con il risultare irrilevante la presenza del fondo (si pensi alle colture idroponiche o fuori terra, in serra6 o a cielo aperto), per l’allevamento veniva meno ogni ragione per distinguere tra bestiame e animali in generale ( essendo in ogni caso non rilevante il legame con l’utilizzazione produttiva del fondo). E’ di tutta evidenza che questa seconda impostazione, nel determinare di fatto una significativa dilatazione dell’area dell’ agrarietà, è stata prevalentemente considerata una proposta intorno alla quale eventualmente orientare una riforma legislativa piuttosto che una soluzione ermeneutica dell’art.2135 c.c.7, stante la comprensibile resistenza a che, a disciplina codicistica immutata, potesse accogliersi un significativo travaso di alcune attività dalla regolamentazione contenuta nello statuto dell’impresa commerciale a quella, poco sensibile alla tutela dei terzi, che il codice aveva destinato all’impresa agricola. Non deve allora meravigliare se, nell’assenza di una modifica dell’assetto disciplinare contenuto nel codice civile, sia toccato alla legislazione speciale e a quella di fonte comunitaria, da un lato di registrare gli innegabili mutamenti in atto nel settore primario dell’economia, dall’altro, pur talora per iniziativa di contingenti pressioni lobbistiche e corporative, preparare il terreno per la riforma della stessa disciplina codicistica intervenuta appunto nel 2001. In particolare, senza pretesa di completezza, è sufficiente qui rammentare che se da una parte la legislazione destinata ai contratti agrari, alla disciplina previdenziale del lavoro in agricoltura, al trattamento fiscale dell’impresa, fu la prima a formalizzare la sostituzione del termine “bestiame” con il termine “animali”, sì da favorire indirettamente la revisione dell’ impostazione tradizionale fondata sulla centralità del fondo, dall’altra i mutamenti destinati ad incidere direttamente sull’art. 2135 c.c., intervenuti a partire dalla metà degli anni ottanta, sono stati sporadici e, al tempo stesso tecnicamente ambigui. In particolare, con la legge n.126 del 1985 si è ritenuta attività imprenditoriale agricola a tutti gli effetti l’ attività di coltivazione dei funghi, la quale, come è noto, può esercitarsi anche fuori dal legame con il fondo rustico. Successivamente, la legge n.102 del 1992 ha da un lato inquadrato tra le attività agricole ex art. 2135 c.c. anche l’attività di acquacoltura, intesa quale “insieme di pratiche volte alla produzione di proteine animali in ambiente acquatico mediante il controllo, parziale o totale, diretto o indiretto, del ciclo di sviluppo degli 5 Per questa testi resta fondamentale il contributo di A. CARROZZA, Problemi generali e profili di qualificazione del diritto agrario, I, Milano 1975. 6 In senso contrario, con la conseguente qualificazione in termini di impresa commerciale, di una attività di allevamento di piantine in serra si era espresso Trib. Treviso 14 aprile 1997, in Dir e giur. agr e ambiente, 1998, 436. 7 In questo senso, da ultima Cass. 5 dicembre 2002 n.17251, in Riv. dir. agr. 2003, II, con nota di CARMIGNANI. organismi acquatici”; dall’altro ha subordinato siffatta qualifica ad una condizione, del tutto estranea alla logica del codice civile: quella della prevalenza per l’imprenditore dei redditi provenienti da tale attività rispetto ai redditi provenienti da altre attività anche non agricole svolte dal medesimo soggetto. Condizione, questa, ribadita anche nella legge del 1993 n. 349, la quale ha qualificato come attività agricola ex art.2135 c.c. l’attività cinotecnica, intesa come attività volta all’allevamento, alla selezione e all’addestramento delle razze canine. Ancora più ambigua, per le ragioni sopra indicate, infine, la disposizione introdotta nell’art .9 del d.Lgs .n.173 del 1998 secondo cui sono da ritenersi imprenditori agricoli ex art.2135 c.c.. “coloro che esercitano attività di allevamento di equini di qualsiasi razza in connessione con l’azienda agricola”. Pur con tutte le ambiguità ora segnalate, non può negarsi che la spinta verso una progressiva revisione dell’impostazione tradizionale volta ad identificare l’agrarietà dell’impresa con la sola utilizzazione produttiva del fondo, rifletteva certamente l’indubbio progressivo avvento di una agricoltura moderna ed industrializzata destinata a sostituire sempre di più il fattore fondiario con mezzi meccanici, con la chimica, con sofisticate strutture tecnologiche. In realtà, questo processo, solo in parte è intervenuto per effetto dei mutamenti spontanei del sistema economico. Un significativo contributo, che si è accentuato nel corso del tempo, ha certamente fornito anche alla legislazione promozionale di fonte comunitaria la quale ha operato con esiti convergenti su due versanti diversi. Sul versante produttivo, la legislazione comunitaria sin dal Trattato di Roma, al fine di incidere direttamente sul mercato dei prodotti agricoli, ha assunto una nozione ampia di agricoltura, fondata su basi merceologiche, in grado non solo di comprendere le relazioni agro-alimentari presenti nella filiera che va dalla produzione di base sino ai mercati finali dei prodotti trasformati a base agricola, ma anche di andare oltre tali relazioni. Ebbene quella nozione ampia, tale da abbracciare, ad es., il settore avicolo come quello degli animali da pelliccia etc., il cognac come lo zucchero, per il suo impatto operativo non poteva non pesare in senso evolutivo, anche in termini interpretativi, sulla disciplina codicistica nazionale di cui all’art.2135 c.c., a partire dalla rivisitazione del ruolo da riconoscere, rispettivamente, tanto al fondo nella ricostruzione delle attività agricole principali, quanto al criterio della “normalità” introdotto dal comma 2° del medesimo articolo a proposito delle attività connesse ivi richiamate. In altre parole, il crescente primato del “prodotto” sulla “terra” ha indubbiamente favorito lo spostamento di attenzione sul ciclo biologico alla base della produzione agricola. D’altro canto, sul versante, prima delle strutture e, poi sempre di più, degli interventi sociali, la Comunità negli ultimi anni ha progressivamente introdotto una significativa distinzioni nell’ambito delle funzioni da riconoscere e da promuovere nelle strutture produttive agricole. Tradizionalmente, la funzione esclusiva delle strutture agricole, e dunque delle imprese agricole, era solo quella di produrre innanzitutto la materia prima, che a sua volta ha visto espandere la sua destinazione finale non più soltanto verso il circuito dell’alimentazione ma anche verso quello dell’industria ( si pensi ad es. all’impiego delle produzioni agricole per ottenere carburante ovvero bioenergie), sì da dar vita accanto alla filiera agro-alimentare anche a quella agro-industriale. Attualmente, all’attività produttiva di base, caratterizzata dunque dalla ora richiamata pluralità di sbocchi economici, si sono affiancate ulteriori attività produttive di altri beni e servizi che possono svolgersi non solo nella medesima azienda, ma anche al servizio di altre, in quanto finalizzate a valorizzare, nella prospettiva della multifunzionalità e della molteplicità delle fonti di reddito, tutto il patrimonio aziendale nell’ ambito della realtà rurale in cui l’azienda è presente. E’ in questa prospettiva, ad esempio, che sin dalla legge n.730 del 1985, le attività agrituristiche, in termini di ricezione ed ospitalità, sono state considerate come attività agricole per connessione ai sensi dell’art. 2135 c.c. 4.- IL CICLO BIOLOGICO E LE ATTIVITÀ AGRICOLE PRINCIPALI. A conclusione della parabola sin qui illustrata, è possibile passare all’analisi della normativa innovativa adottata a partire dal d.Lgs .n.228 del 2001 relativa sia alla nuova definizione dell’impresa agricola introdotta nell’art. 2135 c.c., sia al relativo statuto8. Ad una prima lettura del nuovo testo dell’art.2135 c.c., oggi composto di tre commi, emerge, innanzitutto, che la disposizione ha ribadito la fondamentale distinzione tra attività agricole principali e attività agricole per connessione. Si tratta, a ben vedere, di una distinzione inevitabile posto che la novella ha inteso rispettare tanto la distinzione tra materia agricola e materia commerciale, risalente a prima della stessa unificazione del codice civile, quanto il trattamento differenziato dell’impresa agricola rispetto a quella commerciale. Di conseguenza, spetta pur sempre al criterio della connessione il compito di delineare quel confine “mobile” in grado di assicurare l’attrazione nella sfera disciplinare prevista per l’impresa agricola dell’esercizio di alcune attività economiche, pur sempre organizzate in forma di impresa, le quali, in mancanza della connessione, resterebbe assoggettate allo statuto dell’impresa commerciale. All’infuori del dato ora richiamato, i decreti legislativi adottati nel 2001 a partire dal nuovo testo dell’art.2135 c.c. hanno introdotto modifiche di sicuro rilievo. In ordine al contenuto stesso delle attività agricole c.d. principali e al significato da assegnare all’attributo “agricolo”, il nuovo testo del comma 1° dell’art. 2135 c.c. dispone che “È imprenditore agricolo chi esercita una delle seguenti attività: coltivazione del fondo, selvicoltura, allevamento di animali e attività connesse”. Ebbene, anche a tener conto della fondamentale sostituzione del termine bestiame con quello di animali, il nuovo testo solo in apparenza riproduce quello originario del codice del 1942. Invero, se analizzato nel contesto della complessiva nuova formulazione della disposizione codicistica, il comma 1° assume un valore sensibilmente diverso. Come si è già visto, il testo originario dell’art. 2135 c.c., comma 1°, oltre a contenere in sé e ad esaurire l’individuazione del nucleo fondamentale della “agrarietà” da riferirsi all’impresa, perseguiva tale risultato mediante una formula per via della quale le attività espressamente ivi menzionate – coltivazione del fondo, silvicoltura, allevamento di bestiame – erano rappresentate sia in termini di oggetto specifico e puntuale di quelle medesime attività, sia in termini di obiettivi da perseguire. La norma infatti parlava di attività dirette alla coltivazione del fondo, silvicoltura e allevamento del bestiame: in tal modo, nel dare contestualmente rilevanza ad un profilo funzionale accanto a quello, per così dire, strutturale, la formula adottata nel lontano 1942 presentava un’elasticità adeguata a risolvere agevolmente molti problemi qualificatori (si pensi, a titolo esemplificativo, a quelli relativi alle attività preparatorie del terreno in vista della coltivazione, quali la bonifica, lo spietramento etc.). Al tempo stesso, l’indicazione puntuale degli oggetti specifici delle attività destinate a qualificare l’impresa agricola affidava agli interpreti il compito di verificare l’esistenza di un possibile criterio unificante alla base dell’ agrarietà, anche allo scopo di orientare l’ermeneutica della disposizione. Il nuovo testo dell’art. 2135 c.c. comma 1° vede sensibilmente mortificata la sua originaria valenza, posto che attualmente esso assume una funzione meramente ricognitiva. Attualmente, esso opera su 8 Sulla nuova formulazione dell’art.2135 e dell’impresa agricola si rinvia ex multis a GERMANÒ ed altri, Disposizioni generali art. 2135, in CAGNASSO e VALLEBONA (a cura di), Dell'impresa e del lavoro - artt. 2118-2187, Commentario al codice civile diretto da Gabrielli, Torino 2013; CASADEI, La nozione di impresa agricola dopo la riforma del 2001, in Riv. dir. agr.2009, I,345ss; IANNARELLI VECCHIONE, L’impresa agricola, in Trattato di Diritto Commerciale Sezione I - Tomo II.II diretta da V.Buonocore,Torino 2008; PETRELLI, Studio sull’impresa agricola, Milano 2007, 251ss. Quanto all’esperienza giurisprudenziale intervenuta dopo la riforma, si rinvia a CANFORA, L'impresa agricola nell'interpretazione della giurisprudenza di Cassazione dopo la riforma del 2001, in Riv. dir. agr. 2011, 217ss. di un piano sostanzialmente descrittivo all’insegna addirittura dell’incompiutezza: infatti, tra le attività agricole principali risulta omessa l’acquacoltura9. Invero, il comma in esame, lungi dall’esaurire la stessa individuazione della attività agricole principali, si rivela semplicemente introduttivo rispetto al successivo comma, del tutto nuovo, in cui è il legislatore stesso a specificare il senso da attribuire alle formule linguistiche – coltivazione del fondo, selvicoltura, allevamento degli animali – enunciate in precedenza. Del resto ciò non è casuale, in quanto evidenzia la centralità che assume il comma 2°, il fatto che sia proprio in questo comma e non più nel primo, come avveniva nel testo originario dell’art.2135 c.c. comma 2° , a rinvenirsi la formula “ attività dirette …..” ossia quella formula in grado di tenere legati insieme profili strutturali e profili funzionali, come sopra chiarito. Invero, anche a prescindere dallo stesso dato formale ora richiamato, il nuovo comma 2° dell’art.2135 c.c. solo apparentemente risulta strutturato in termini di semplice integrazione, in funzione esplicativa, della disposizione contenuta nel comma precedente, laddove dispone che “Per coltivazione del fondo, per selvicoltura e per allevamento di animali si intendono le attività dirette alla cura ed allo sviluppo di un ciclo biologico o di una fase necessaria del ciclo stesso, di carattere vegetale o animale, che utilizzano o possono utilizzare il fondo, il bosco o le acque dolci, salmastre o marine”. A ben vedere, esso prospetta un compiuto quanto unitario criterio di individuazione dell’agrarietà, rispetto al quale le articolazioni originarie del vecchio testo dell’art.2135 c.c. comma 1°, oggi riprese nel corrispondente comma del medesimo articolo, appaiono rifletterne soltanto semplici manifestazioni, peraltro incomplete, che rinviano pur sempre a quell’unico e fondamentale parametro ivi racchiuso. La puntuale individuazione normativa circa il significato da attribuire alle tre “attività principali” indicate nel comma 1° risulta prospettata in maniera unitaria. In tal modo il legislatore ha inteso rimarcare che il fondamento dell’ agrarietà, ai fini della qualifica dell’impresa, è esplicitamente unico: le tradizionali attività agricole principali risultano “degradate” a semplici quanto descrittive articolazioni esteriori, ovvero semplici manifestazioni applicative, del solo fondamentale criterio, quello c.d. “biologico” accolto dal legislatore nel comma 2° della disposizione in esame. Peraltro, nel rendere trasparente il criterio unitario sotteso alle tre attività principali indicate in precedenza, il comma 2° ha esplicitamente confermata l’incompiutezza dell’ elenco delle attività richiamato nel comma 1° e, al tempo stesso, ha messo a nudo il carattere solo apparente che assume il riferimento al testo “storico” dell’art. 2135 c.c. comma 1°. Infatti, la comparsa del bosco, delle acque dolci, salmastre e marine accanto al fondo ed il riconoscimento di un’ implicita equivalenza dei primi al secondo impongono all’interprete di considerare tutte le formule contenute nel nuovo comma 1° dell’art.2135 c.c. semplicemente allusive di quella ben più complessa realtà fenomenica cui si riferisce il nuovo comma 2°. In definitiva, a dispetto dell’architettura barocca del nuovo testo dell’art.2135 c.c., la ricerca delle attività da ricondurre oggettivamente nell’ambito della qualificazione propria dell’impresa agricola, va attualmente legata alla compiuta esplorazione del comma 2° del nuovo art.2135 c.c. c.c., ossia proprio di quel comma che chiaramente risulta ispirato ed in parte riproduce il cuore della disposizione introdotta di recente nel code rural francese che per prima ha adottato la tesi del “ciclo biologico” avanzata dalla dottrina giuridica italiana10. 9 Per altro verso, salvo a voler sostenere la diversità di significato tra i due termini, è evidente che mentre nel primo comma si parla solo di fondo a proposito della coltivazione, nel secondo comma si distingue tra fondo, bosco, acque dolci, salmastre o marine. 10 Il riferimento è all’articolo L 311-1 del nuovo code rural, introdotto con la legge n.1051 del 1997, secondo il quale « Sont réputées agricoles toutes les activités correspondant à la maîtrise et à l’exploitation d’un cycle biologique de caractére végétal ou animal et constituant une ou plusieurs étapes nécessaires au déroulementt de ce cycle ainsi que les activités exercées par un exploitant agricole qui sont dans le prolongement de l’acte de production ou qui ont pour support l’exploitation. Les activités de cultures marines sont réputées agricoles, nonobstant le statut social dont relévent ceux qui les pratiquent. Les activités agricoles ainsi défines ont un caractère civil ». Nella formulazione del nuovo comma 2° dell’art.2135 c.c., il dato centrale su cui riposa l’agrarietà è indubbiamente rappresentato da quella materia “vivente” a cui soltanto si può legittimamente collegare la configurabilità stessa di un ciclo biologico nel segno di quella ricorsività di fenomeni scandita da leggi “naturali”. Ciclo biologico da identificarsi, in prima approssimazione, con quel complessivo processo che si snoda nel tempo e che segna sul piano naturalistico la singolare parabola per effetto della quale entità materiali dotate di vita “organica” nascono crescono e muoiono e sono anche in grado di riprodursi, ossia di generare, a loro volta, altre entità materiali dotate anch’esse di vita. L’immediato riferimento alla contrapposizione tra organico ed inorganico, sottesa al richiamo nella disposizione de qua al dato “biologico”, è già in grado di enucleare una prima sostanziale “ragione tecnica” alla quale il legislatore ha inteso dare rilievo, al fine di individuare l’area della impresa agricola da distinguere da quella propria dell’impresa commerciale: ragione tecnica che, fondamentalmente, rinvia, a sua volta, contribuendo a darvi consistenza, alla distinzione tra processi produttivi “meccanici”, ossia quelli guidati e governati quasi esclusivamente dalla decisione e dalla volontà dell’uomo, e processi “biologici” i quali, per quanto forzati o agevolati dall’uomo, rispondono ad un proprio ordine interno. In realtà, non può negarsi che con il richiamo al “ciclo biologico”, il legislatore ha affinato, sia pure con esiti indiscutibilmente ampliativi dell’area dell’ agrarietà, l’individuazione e l’autonoma valorizzazione di un dato tecnico, quello incentrato sul profilo biologico, che certamente era immanente, sebbene non autonomamente individuato, nel criterio che storicamente, nella stagione a cavallo tra l’antico ed il moderno, ha posto al centro dei processi naturali della vita vegetale ed animale la “madre” terra: questa era assunta non già e soltanto come semplice, per quanto fondamentale, fattore della produzione in grado di uscire indenne da ogni ciclo produttivo e pronto ad un nuovo impiego, ma, all’origine, come un’ entità dotata di vita organica e di proprie energie e, però, in grado di “sfidare” il tempo, per via della sua capacità di sopravvivere agli uomini e agli altri esseri viventi animali o vegetali. In altre parole, il riferimento al ciclo biologico, ossia ad un dato naturalistico e tecnico, si colloca nel segno della continuità con un orientamento favorevole a cogliere il tratto distintivo dell’impresa agricola, non già in una sua struttura organizzativa diversa da quella dell’impresa commerciale, bensì nella innegabile presenza al suo interno di rischi tecnici più difficilmente controllabili e governabili preventivamente: al rischio atmosferico si affiancherebbe quello biologico anche con la rigidità dei ritmi produttivi legati alle stagioni. La sostituzione del dato biologico al fondo è, d’altro canto, la conseguenza stessa del progresso scientifico, atteso che, una volta persi i suoi caratteri “magici”, la terra ha visto nettamente ridimensionato il suo ruolo. Infatti sul piano produttivo, se da una parte essa è apparsa come un semplice per quanto straordinario e preziosissimo laboratorio naturale, certamente in grado di fornire i supporti chimici indispensabili per assicurare lo sviluppo delle piante oltre che l’alimentazione degli animali, per di più assimilabile ad altri “contenitori naturali” ( il mare, altri bacini acquatici etc), e in ogni caso sempre meno autosufficiente in quanto bisognevole di soccorso da parte della chimica, dall’altra essa è diventata sostituibile in toto con altri mezzi altrettanto adeguati. Sotto questo profilo, il processo tecnico non ha mutato l’“originalità” dei fenomeni produttivi agricoli, ma certamente ha favorito, sul piano economico delle struttura organizzativa e dei rischi economici, la progressiva trasformazione dell’impresa agricola in una impresa manifatturiera, come tale lontana dal modello tradizionale basato solo sulla combinazione del fattore terra e del fattore lavoro, e dunque bisognosa oggi di una disciplina all’altezza della tutela degli interessi dei terzi coinvolti. In definitiva, la recente normativa ha formalizzato l’inadeguatezza del fondo, quale dato peculiare intorno a cui elaborare la definizione dell’agrarietà e, al tempo stesso, giustificare la specialità del trattamento giuridico da riservare alle imprese agricole, avendo preso atto dei mutamenti profondi intervenuti sul piano economico e sociale nel settore agricolo, già in parte alla base dell’ evoluzione che è stata registrata dal particolarismo legislativo intervenuto nel corso dei trascorsi decenni. Il ricorso al “ciclo biologico”, “ di carattere vegetale o animale”, quale criterio cui legare l’applicazione della disciplina di cui all’art.2135 c.c., rappresenta un’innovazione destinata sia a ridisegnare l’area stessa dell’agrarietà riferita all’impresa, sia anche ad assegnare valore ormai puramente “convenzionale” all’ attributo “agricolo”, quale indice normativo contenuto nel libro V del codice civile, volto a delineare uno autonomo statuto disciplinare per quei soggetti economici e per quelle strutture imprenditoriali sottratte all’applicazione della disciplina dettata per le imprese commerciali. Si tratta, a ben vedere, di profili intimamente connessi ed interdipendenti. Infatti, l’indubbio ampliamento dell’area dell’agrarietà, destinata attualmente ad abbracciare anche attività che si svolgono nelle acque dolci, salmastre e marine e che possono riferirsi rispettivamente alla coltivazione di piante, come anche all’ allevamento di organismi viventi, implica che la conservazione unitaria dell’attributo di “agricolo” anche per siffatte attività risponde esclusivamente all’esigenza di non alterare l’originaria architettura definitoria del codice civile e di mantenere un ossequio formale ad una tradizione culturale che, nel qualificare un particolare settore economico, ha fatto riferimento giusto appunto all’ager che di quel settore ha costituito per secoli l’elemento di base essenziale. Il nuovo testo dell’art.2135 c.c. comma 2° permette di segnalare che il “ciclo biologico”di carattere vegetale o animale assume per il legislatore rilevanza centrale posto che la cura e lo sviluppo del ciclo sono necessari ai fini della qualificazione dell’attività quale attività agricola11. Al tempo stesso, però, la presenza del ciclo biologico non è da sola sufficiente. Invero, nella prospettiva fatta propria dal legislatore, il ciclo biologico ovvero una fase necessaria dello stesso, riferibile a vegetali o a animali, identificano, come tali, un parametro di ben ampia portata. Ai fini della selezione dell’area dell’agrarietà, il legislatore ha ritenuto necessario introdurre una specificazione in funzione delimitativa di quel primo parametro. Essa è stata individuata mediante l’interrelazione di quel parametro con un altro del tutto diverso. Questo secondo parametro, che mira a segnare un sicuro confine di ordine oggettivo, di carattere naturalistico al criterio biologico, è rappresentato dal fatto che tanto la cura quanto lo sviluppo del ciclo biologico debbono quanto meno potersi svolgere mediante l’ utilizzazione del fondo, delle acque dolci, salmastre o marine. In altri termini, per via del processo tecnologico, la cura e lo sviluppo di cicli biologici riferiti a vegetali o animali possono attualmente emanciparsi dall’ effettiva utilizzazione di quel sostrato materiale rappresentato rispettivamente dal fondo, dalle acque e dal bosco, per cui l’operatore economico può decidere di fare a meno dell’ utilizzazione di siffatti “ supporti”, sostituendoli con soluzioni alternative, senza che per questo venga meno la qualifica agricola dell’attività imprenditoriale così svolta. Tuttavia, la qualifica agricola è esclusa per tutte quelle attività, pur sempre legate alla cura ed allo sviluppo di un ciclo biologico, la cui attuabilità non risulta possibile secondo un modulo operativo “ tradizionale”, ossia che permetta pur sempre l’impiego di quei supporti “naturali” rappresentati dal fondo, dal bosco etc. In definitiva, l’agrarietà si riferisce esclusivamente a tutte quelle attività di cura e sviluppo del ciclo biologico che sono in grado di attuarsi mediante l’impiego sia del fondo sia di altri supporti naturali quali il bosco, le acque dolci o salmastre, a prescindere dall’ effettiva circostanza che l’operatore abbia sostituito tali supporti naturali con altre soluzioni tecnologicamente diverse. Il che significa, a titolo esemplificativo, che, ad es., la coltivazione di piante o l’allevamento di animali in grado di attuarsi soltanto in laboratorio, ovvero in ambienti artificiali ed in presenza di condizioni complessive che non ricorrono in natura, né possono ivi riprodursi, si colloca fuori dall’area 11 La centralità del ciclo biologico nel delineare la agrarietà dell’impresa spiega anche l’estraneità a questa dell’attività di pesca. Di qui la soluzione legislativa volta ad individuare il trattamento di quest’ultima attività in termini di semplice equiparazione al trattamento giuridico previsto per l’impresa agricola ( si v. infatti l’art.2 del d. Lgs. n.226 del 2001). A tacer d’altro, l’equiparazione all’impresa agricola riprende e riflette il carattere “estrattivo”, proprio della pesca, già presente nella tradizionale configurazione fisiocratica dell’agricoltura. Sul punto v. infra la nota successiva. dell’agrarietà, sebbene pur sempre si abbia a che fare con la cura e lo sviluppo di un ciclo biologico ovvero con una parte dello stesso. La lettura dell’intera disposizione di cui al comma 2° del nuovo art.2135 c.c. permette allora di focalizzare con più attenzione il senso che il legislatore ha inteso attribuire al criterio biologico in funzione della individuazione dell’ agrarietà. Infatti, il rilievo riconosciuto alla presenza di un ciclo biologico, ai fini della qualifica agricola dell’impresa, più che realizzare il definitivo rigetto del dato fondiario ha, in effetti, in primo luogo condotto ad andare oltre questo solo dato, sì da assegnare adeguata rilevanza a tutti i supporti naturalistici in grado di ospitare e al tempo stesso favorire processi biologici di natura vegetale ed animale. In questo senso, è possibile anche cogliere la relativa continuità tra la nuova opzione ed il criterio presente nel vecchio testo dell’art.2135 c.c. Infatti, come si è cercato di chiarire, anche in passato nel fondamento dell’agrarietà era certamente implicito un riferimento al dato biologico: tuttavia, esso era del tutto secondario rispetto al rilievo assegnato al fondo, per quanto pur sempre considerato in relazione a quest’ultimo. Ebbene, il passaggio al nuovo criterio su cui basare l’agrarietà ha fondamentalmente invertito il rilievo tra il criterio biologico e l’altro termine di riferimento. Ciò se da un lato ha condotto ad affiancare al solo fondo altri supporti naturali, quali le acque ovvero il bosco, dall’altro ha pienamente confermato la prospettiva relazionale, quale via per individuare l’agrarietà e, al tempo stesso, fissarne i limiti. In conclusione, rientrano nell’agrarietà tutte le attività di cura e di sviluppo di un ciclo biologico in grado pur sempre di relazionarsi, in termini operativi, con quei precisi supporti naturali rappresentati appunto sia dal fondo sia da quegli altri puntualmente individuati dal legislatore. La complessiva area dell’agrarietà continua a comprendere le manifestazioni proprie dell’agricoltura tradizionale, ossia quella territoriale in senso stretto, e però abbraccia anche, per via del ricorso al ciclo biologico, attività di cura e di sviluppo di tale ciclo che si svolgono in supporti naturali diversi dal fondo, quali soprattutto le acque, comprese quelle marine, sino a comprendere le ipotesi in cui le attività di cura e di sviluppo del ciclo biologico ora richiamate siano in grado di esplicarsi fuori da quei precisi “contesti”produttivi, tutte le volte in cui, anche per via del processo tecnologico, siffatti contesti “naturali” risultino sostituibili da ambienti artificiali. Entro i limiti sin qui segnati, in virtù dei quali il ricorso a nuove soluzioni tecnologiche non esclude l’agrarietà dell’attività economica svolta, purché si tratti sempre di attività in grado di svolgersi nei contesti naturali rappresentati dal fondo, dal bosco, e dall’acqua, il profilo contenutistico qualificiante è rappresentato dalla fondamentale interazione che deve sussistere questa volta tra il ciclo biologico o fase necessaria dello stesso e l’attività dell’operatore economico. In altri termini, al cuore dell’agrarietà dell’attività, il legislatore ha inteso collocare l’azione dell’uomo direttamente in grado di incidere sul ciclo biologico degli organismi animali o vegetali, ossia quell’azione che si manifesta in termini di cura e sviluppo del ciclo biologico Ciò non ricorre nell’impresa ittica per la quale il legislatore (si v. infatti l’art. 2 d.lgs. 18.5.2001, n. 226, come modificato dall’art. 6 d.lgs. 26.5.2004, n. 154) ha parlato di sola «equiparazione» all’impresa agricola12. 12 A ben vedere il ricorso alla formula tecnica dell’equiparazione piuttosto che a quella della totale assimilazione, è frutto proprio della consapevole pregnanza che nell’impresa agricola si è inteso assegnare al coinvolgimento dell’attività nella cura e nello sviluppo del ciclo biologico, a fronte dell’assenza proprio di quel coinvolgimento che caratterizza e distingue la pesca la cui attività si colloca per definizione fuori dalle vicende dei cicli biologici, in quanto attività di mera cattura e raccolta di organismi acquatici prodottisi fuori dal controllo dell’impresa (sul punto v. per tutti F. BRUNO, L’impresa ittica, Giuffré Milano 2004). Ciò premesso è anche indubbio che nel settore della pesca è dato rinvenire al fondo la presenza di una relazione tra organismi viventi e uno specifico supporto naturale rappresentato dal mare o da altri “ambienti acquatici”. In questo caso, la necessità assoluta di siffatta relazione, ossia la sua non sostituibilità, unita all’aleatorietà dei risultati cui mira l’attività diretta alla catture o alla raccolta, nonché all’ inevitabile stagionalità dell’agire, dovuta ai cicli biologici di riproduzione spontanea di tali organismi, sono apparsi al legislatore elementi tecnici sufficienti perché la pesca venisse collocata, quanto a trattamento giuridico, sul versante dell’impresa agricola e non su quello dell’impresa commerciale tout court. E’ il caso di rammentare, infine, che l’accostamento dell’attività di pesca a quella agricola nel trattamento giuridico costituisce un fenomeno diffuso nella realtà giuridica: E’ sufficiente pensare non solo all’evoluzione della Nel nuovo comma 2° dell’art.2135 c.c., il cuore dell’agrarietà è affidato ad una formula orientata essenzialmente a individuare quel complesso di azioni materiali – dirette alla cura e allo sviluppo del ciclo biologico– attraverso le quali l’impresa agricola realizza pur sempre le finalità indicate nella definizione generale di impresa di cui all’ art. 2082 c. c. Per quanto difetti di eleganza, la formula adottata risulta chiaramente indirizzata a rendere inequivoco il contenuto effettivo della determinazione legislativa. Essa è volta a segnalare la centralità che, in considerazione del riferimento ad organismi viventi, il legislatore ha inteso assegnare alla presenza del “ciclo biologico” ovvero di “una fase necessaria del medesimo” quale effettivo obiettivo intermedio attraverso il cui perseguimento l’impresa agricola realizza i fini più generali indicati dall’art.208213. Il primato assegnato al ciclo biologico e il contestuale riferimento allo stesso in ordine tanto alla “cura” quanto allo “sviluppo”, legittimano la conclusione secondo cui la norma ha inteso abbracciare, tutte le attività che non si limitano semplicemente a preoccuparsi e a provvedere alla crescita e sviluppo di organismi viventi già dati. Con il richiamo in primo piano al ciclo biologico, la norma ha inteso, a scanso di equivoci, richiamare tutte quelle attività che, in quanto toccano un intero ciclo naturale a carattere biologico riferito ad organismi viventi di carattere vegetale o animale, comprendono anche la riproduzione, ossia quel fenomeno che nel suo farsi coinvolge, in molte specie, più organismi viventi dalla cui unione derivano altri, così perpetuandosi appunto il ciclo vitale. Rispetto all’obiettivo, pur sempre intermedio per le ragioni sopra indicate, rappresentato appunto dalla riproduzione, crescita e moltiplicazione di organismi viventi che possono attuarsi mediante l’impiego del fondo, ovvero del bosco e delle acque, la disposizione è indirizzata a dare rilevanza a tutte quelle attività che si rivelino in concreto strumentali al perseguimento ovvero alla concreta attuazione di quello. Il che non impedisce, peraltro, che nella specializzazione produttiva che ormai coinvolge anche il settore agricolo, l’impresa si possa dedicare esclusivamente ad una sola fase, pur sempre necessaria , dell’intero ciclo produttivo. Si pensi, ad es., all’impresa avicola che si specializzi esclusivamente nella produzione delle uova, rispetto a quella che provvede alla nascita e vendita dei pulcini, ovvero a quella che si occupa soltanto della fase relativa alla crescita. Non vi è dubbio che, grazie al riferimento anche ad una sola fase pur sempre necessaria del ciclo, la disposizione assicura che la qualifica dell’agrarietà dell’impresa asseconda i processi di specializzazione produttiva sebbene questi ultimi inevitabilmente riducano le distanze originarie rispetto ai ritmi economici propri dei processi alla base delle imprese commerciali. D’altro canto, la concreta possibilità che l’impresa agricola si dedichi esclusivamente, così specializzandosi, ad una sola fase del ciclo conduce ad una conseguenza di non poco momento al fine di cogliere la netta distanza tra l’impresa agricola di cui all’originario 2135 c.c. e l’impresa agricola di cui alla novella del 2001. Attualmente, l’impresa agricola può esser tale anche se la sua attività risulti totalmente terziarizzata nel senso di provvedere a fornire il servizio relativo alla cura e allo sviluppo del ciclo biologico riguardanti animali o vegetali di proprietà di terzi. Resta però fondamentale che la cura e lo sviluppo del ciclo biologico, ovvero di una fase necessaria dello stesso, costituiscano obiettivo diretto ed immediato della struttura produttiva, e non già un dato estraneo alla stessa, rispetto al cui perseguimento l’attività dispiegata operi solo in via indiretta disciplina comunitaria ed europea al riguardo, ma anche alla molto più risalente applicazione al settore della pesca del trattamento di favore, dal punto di vista della disciplina antitrust, riservata al settore agricolo che si rinviene nella esperienza giuridica nord-americana: sul punto si rinvia al nostro 13 A ben vedere, la distinzione tra il sostrato materiale dell’attività svolta e la forma di impresa con cui essa viene esercitata e che è necessaria perché ci si possa trovare di fronte al fenomeno disciplinato dal libro V del codice civile a partire dall’art.2082, ben si coglie nella recente legge sull’apicoltura adottata successivamente al decreto lgs, del 2001 che ha novellato l’art.2135. Infatti, l’art. 3 della legge 24 dicembre 2004 n.313, indirizzata a ribadire la natura agricola della impresa apicola anche se non correlata alla gestione agricola del terreno ( così l’art2), puntualizza che se da un lato (comma 1°) “E' apicoltore chiunque detiene e conduce alveari, dall’ altro ( comma 2°) “è imprenditore apistico chiunque detiene e conduce alveari ai sensi dell'articolo 2135 del codice civile”, ossia svolge siffatta attività materiale in termini di attività economica ricorsiva con l’obiettivo di collocare sul mercato i prodotti ottenuti e ricavarne un reddito. e strumentale. Affinché le attività svolte possano meritare la qualifica di impresa agricola, il rilievo funzionale che lega le attività poste in essere dalla struttura produttiva e la cura e lo sviluppo del ciclo biologico deve trovare la sua concretizzazione nell’ambito stesso di quella struttura. Se siffatto legame manca, l’impresa che svolge tale attività costituirebbe una semplice impresa ausiliaria, come tale non prevista in via generale nel 2135 c.c. e, dunque, da qualificarsi in termini di impresa commerciale. Questa conclusione, del resto, è in linea con le ipotesi su cui si tornerà nel paragrafo successivo, e richiamate nel comma 2 dell’art.1 del d. Lgs n.228 che detta il nuovo testo dell’artt.2135 c.c. c.c. nonché nell’art. 8 del decreto Lgs n.227 dello stesso anno. Ai fini della qualifica, infine, è rimasto del tutto indifferente la destinazione finale della produzione, come ha confermato, del resto, la disposizione di cui al comma 13quater dell’art.14 del d.Lgs n.99 del 2004 introdotto dall’artr.4 del d.Lgs n.101 del 200514 Le ampie considerazioni sin qui svolte sul ciclo biologico esimono da un’ analisi puntuale delle singole attività agricole principali relative appunto alla coltivazione del fondo, alla silvicoltura, e all’allevamento di animali, per le quali è legittimo rinviare alla trattazione tradizionale la quale ha in esse incluso tutte le attività, anche preparatorie, indirizzate appunto a che si realizzino e si portino a termine quelle specifiche attività produttive. In ordine all’attività di allevamento di animali, è opportuno rammentare che se da una parte l’eliminazione del termine bestiame ha formalmente permesso di superare le discussioni che nel passato hanno agitato la dottrina e la giurisprudenza, dall’altra il riferimento contenuto nel nuovo comma 2° dell’art.2135 c.c. alla concreta “possibilità” di utilizzare il fondo, il bosco, le acque pone pur sempre un limite al riconoscimento della qualifica agricola di tali attività. Ciò, a ben vedere, non coinvolge solo le ipotesi di allevamenti che richiedono esclusivamente ambienti artificiali ( si pensi ai laboratori), ma anche tutte quelle situazioni in cui viene a mancare l’utilizzazione produttiva del supporto naturale offerto dal fondo, dal bosco e dalle acque. A titolo esemplificativo, l’allevamento di cani è, in quanto tale, del tutto sganciato dall’utilizzazione produttiva del fondo, quale fonte del loro sostentamento, sicché, attualmente, il carattere agricolo di tale allevamento non discende certo dalla nuova disposizione del codice civile, ma può essere riconosciuto sempre e solo nei limiti di cui alla legge speciale preesistente alla riforma del 2001 e già richiamata in precedenza. Soluzione non dissimile dovrebbe ammettersi per gli allevamenti di soli uccelli insettivori. Va rammentato, infine, per completezza, che la cattiva qualità della legislazione, in particolare il sovrapporsi sempre più frequente della disciplina regolativa, propria del codice civile, con quella promozionale ha modificato la configurazione dell’impresa di acquacoltura originariamente ricompresa in quella agricola, proprio sulla scorta del criterio biologico introdotto nel nuovo testo dell’art. 2135. Infatti, l’art. 3 del d.lgs. 27.5.2005, n. 100, nel modificare, per la seconda volta, l’art. 2 del d.lgs. n. 226/2001 relativo all’imprenditore ittico, vi ha aggiunto un comma 5 secondo cui le imprese di acquacoltura sono equiparate all’imprenditore ittico il quale è a sua volta equiparato a quello agricolo. 5.- LE ATTIVITÀ AGRICOLE CONNESSE. Nella prospettiva del confermato sistema binario costruito intorno alla distinzione tra la impresa agricola e l’impresa commerciale, quali articolazioni dell’impresa in generale, la nuova versione dell’art.2135 c.c. ha richiamato tra le attività agricole anche le attività economiche esercitate in connessione con le attività agricole principali. A tale riguardo, la nuova disciplina ha da un lato fatto tesoro, in chiave di consolidazione, di alcuni indirizzi interpretativi assunti in passato dalla 14 A tenore del quale” L'attività esercitata dagli imprenditori agricoli di cui all'articolo 2135 c.c. del codice civile, di cura e sviluppo del ciclo biologico di organismi vegetali destinati esclusivamente alla produzione di biomasse, con cicli colturali non superiori al quinquennio e reversibili al termine di tali cicli, su terreni non boscati, costituiscono coltivazione del fondo ai sensi del citato articolo 2135 c.c. del codice civile e non è soggetta alle disposizioni in materia di boschi e foreste. Tali organismi vegetali non sono considerati colture permanenti ai sensi della normativa comunitaria”. giurisprudenza, dall’altro ha introdotto innovazioni di non poco momento destinate a registrare, anche sul versante di queste attività, alcuni mutamenti significativi sia nella realtà socio-economica, sia nell’ambito della politica economica relativa allo sviluppo del territorio rurale. Senza ritornare su una tematica che in passato ha registrato una singolare attenzione da parte della dottrina e della giurisprudenza, è sufficiente rammentare che l’interpretazione combinata dei due comma in cui si articolava l’originaria versione dell’art. 2135 c.c. aveva condotto a distinguere le attività connesse atipiche, ossia a quelle attività non richiamate espressamente dal codice e che fossero state esercitate dall’imprenditore agricolo in connessione con l’esercizio di una delle attività agricole principali, da quella tipiche individuate nel medesimo articolo 2135 c.c. comma 2°. Ebbene, anche nella disposizione novellata, la lettura combinata del primo e del terzo comma conferma la distinzione tradizionale, nel senso che le attività richiamate espressamente nel comma 3°, attualmente già più numerose di quelle indicate ab origine, certamente non esauriscono la categoria. E ciò, a prescindere dal fatto che, come si chiarirà in prosieguo, in alcuni provvedimenti legislativi successivi ai decreto del 2001, il legislatore abbia espressamente individuato nuove specifiche attività in quanto destinate a godere della qualificazione di attività agricole per connessione ai sensi dell’art. 2135 c.c.. In realtà, la disposizione introdotta nel comma 3° del nuovo art.2135 c.c., sostitutiva di quella contenuta nel comma 2° del vecchio testo, ha introdotto alcune modifiche di sostanza in ordine alla nozione stessa di connessione. Non vi è dubbio, infatti, che la connessione non si può esaurire semplicemente nella pura ricorrenza di un legame per effetto del quale all’attività agricola principale esercitata se ne affianchi un’altra che risulti collegata alla prima in termini tanto di prosecuzione della catena produttiva, quanto di occasionalità offerta dal modo concreto di presentarsi della struttura produttiva e delle sue componenti e della sue potenzialità. Tradizionalmente, si era posto il comprensibile problema relativo all’incidenza che sulla ricorrenza della nozione giuridica di connessione dovesse attribuirsi alla rilevanza economica ed ai relativi costi di tale attività rispetto a quelli propri dell’attività agricola c.d. principale. Al riguardo, la soluzione accolta nel codice del 1942 era stata individuata nel criterio della “normalità”che si riteneva potesse superare i problemi relativi al giudizio circa la relazione tra le attività. Infatti, a differenza di una valutazione che di volta in volta avrebbe dovuto fondarsi sul mutevole rapporto economico tra i vantaggi ed i costi rispettivamente dell’attività agricola c.d. principale e di quella da ritenersi agricola per connessione, il criterio della normalità, richiamando un dato oggettivo di agevole riscontro, si rivelava idoneo allo scopo e oltremodo duttile. Sicché, a titolo esemplificativo, si pensi, nella vigenza del vecchio testo dell’art.2135 c.c., al caso di un agricoltore che non si fosse limitato a produrre uva, ma che avesse provveduto anche con propri impianti a trasformare il prodotti in vino e poi a venderlo all’ingrosso ovvero in bottiglie. Ebbene, fermo restando, ovviamente, che tali attività avrebbero dovuto pur sempre riguardare essenzialmente la produzione di base conseguita direttamente da tale soggetto e non già quella acquistata da terzi, la qualifica di tali attività in termini di attività agricole connesse a quella di coltivazione del vigneto era del tutto sganciata dalla valutazione circa il valore della produzione di base ed il valore del prodotto finale conseguito, ovvero dalla diversa entità degli investimenti richiesti per l’esercizio dell’attività diretta alla produzione primaria e quella relativa alla sua trasformazione: valutazione non facilmente percepibile dai terzi e comunque soggetta ad oscillazioni nel tempo. Grazie al criterio della normalità sociale, ai fini della qualifica era sufficiente verificare se quell’attività di trasformazione legata da un rapporto di connessione con l’attività agricola principale potesse considerarsi normale, ossia conforme ad un modello operativo socialmente condiviso dalla comunità degli imprenditori agricoli. Per via del riferimento al riscontro circa la tipicità sociale di quell’attività nel mondo agricolo, era così possibile ritenere compreso nella normalità il fenomeno sopra descritto, laddove era da escludersi la qualifica di agricola a quell’attività che si fosse spinta a trasformare l’uva in alcool puro, posto che tuttora questa attività non si riscontra comunemente tra gli imprenditori agricoli. A prescindere dai problemi di ermeneutica in passato emersi circa la delimitazione della realtà territoriale cui legare la verifica della “normalità”, la formula presente nell’originario codice del 1942 aveva, in definitiva, individuato, a proposito delle attività connesse, un confine mobile tra impresa commerciale ed impresa agricola: solo in presenza di una pratica diffusa e ormai acquisita al livello della “normalità della condotta” degli imprenditori agricoli, un’attività economica avrebbe potuto godere della qualifica di attività agricola per connessione ed essere dunque sottratta alla sfera della commercialità a favore della sfera dell’agrarietà. Il comma 3° del nuovo art. 2135 c.c. presenta al riguardo due significative novità. In primo luogo, nel richiamare alcune attività agricole per connessione l’incipit della norma non ha ripreso la formula originaria contenuta nel vecchio testo del comma 2° dell’art.2135 c.c.. Mentre quest’ultimo recitava “ si reputano connesse ……” , sì da segnalare un criterio ermeneutico di portata generale, il comma 3° dispone che “ si intendono comunque connesse….”. La presenza dell’ inciso “comunque”, legittima la conclusione secondo la quale nel testo attualmente vigente il criterio in base al quale individuare, in linea di principio, la connessione di cui alle attività atipiche evocate nel comma 1°, è nettamente diverso, nel segno del maggior rigore, rispetto a quelle specificatamente individuate nel comma 3°. Per le prime, dunque, il problema circa la determinazione del significato tecnico della connessione si ripresenta nella forme tradizionali preesistenti alla stessa codificazione del 1942, nell’ambito delle quali peraltro, sia pure con riferimento ai problemi legati all’art. 5 c. comm. , era stato prospettato ed accolto in dottrina ed in giurisprudenza il criterio della “normalità” poi fatto proprio dal codice del 1942. Per le attività connesse prese espressamente in considerazione dal comma 3° del nuovo artr.2135 c.c., la disposizione risulta da un lato ridondante, nella parte in cui rimarca che la connessione esige l’ identità del centro di imputazione cui riferire sia l’attività agricola principale, sia l’attività a questa connessa, dall’altro si rivela sensibilmente diversa da quella originaria, a partire innanzitutto dall’ eliminazione di quel criterio unificante rappresentato appunto dalla “normalità”. Il venir meno del criterio della normalità per le attività connesse espressamente richiamate nel comma 3° risulta compensato dalla previsione di criteri diversi in ragione di una fondamentale sottodistinzione tra le attività connesse: criteri, diversi tra loro, ma accomunati dal fatto di determinare, ad ogni modo, un’ indubbia espansione dell’area delle attività da assoggettare allo statuto dell’impresa agricola. In particolare, la norma prende in considerazione in primo luogo le attività che riguardano direttamente i prodotti conseguiti dai processi produttivi svolti dall’impresa agricola e che si collocano a valle della produzione primaria ossia nel prosieguo della filiera produttiva. Più precisamente, per le attività relative alla “manipolazione, conservazione, trasformazione commercializzazione e valorizzazione ” dei prodotti che l’ impresa ha ottenuto dalla coltivazione e dall’allevamento, ai fini della connessione, la norma considera sufficiente la sola circostanza relativa alla prevalenza dei prodotti provenienti dalla medesima azienda rispetto a quelli eventualmente acquistati da terzi, a nulla rilevando la rilevanza economica degli investimenti resisi necessari per lo svolgimento di tali attività ovvero la singolarità ed il carattere innovativo di quella iniziativa rispetto al comportamento normale degli imprenditori agricoli. Come dire, dunque, a voler riprendere anche l’esempio richiamato in precedenza, che la produzione di alcool puro, ovvero di biscotti, o di carne in scatola, sempre che sulla base della prevalente utilizzazione dei prodotti agricoli di base provenienti dalla medesima azienda agricola, va attualmente qualificata come attività agricola per connessione. Analoga soluzione dovrebbe riconoscersi al caso in cui la commercializzazione rispecchi modelli organizzativi del tutto originali per il mondo agricolo identici a quelli accolti dalle imprese commerciali15. 15 Peraltro a proposito della vendita al dettaglio, in azienda o in altre aree private, e della vendita itinerante relative tanto ai prodotti agricoli quanto a quelli ottenuti a seguito di trasformazione e di manipolazione di prodotti agricoli o zootecnici, l’art4 del d.Lgs n.99 del 2004 ha riservato un trattamento di favore agli imprenditori agricoli singoli o associati, iscritti nel registro delle imprese ex art.8 del d.Lgs n.228 del 2001, ferma restando l’applicazione della In secondo luogo, la norma prende in considerazione altre attività economiche che risultano connesse all’utilizzazione, non già dei prodotti del fondo, ma fondamentalmente della struttura aziendale e delle sue attrezzature e che, per il tramite del loro impiego, risultino dirette alla fornitura sia di beni sia di servizi al mercato. Per questa seconda tipologia di attività connesse, il limite per ammettere la connessione è affidata ad un criterio composito. Da una parte si richiede che tali attività vedano impegnate in prevalenza attrezzature e risorse dell’azienda: così ad es., nel caso di fornitura di servizi nell’area del c.d. contoterzismo, è possibile anche l’impiego di macchinari extraziendali sempre che, però, nell’esercizio di tali attività risultino prevalenti quelli propri dell’azienda. Dall’altra, si richiede altresì che le attrezzature e le risorse di provenienza aziendale debbano essere quelle normalmente impiegate nell’ attività agricola esercitata16. A titolo esemplificativo, un’ azienda agricola che attualmente produca solo frumento e che però nel parco delle attrezzature a sua disposizione abbia torchi per la lavorazione dell’uva, non esercita attività agricola per connessione ove utilizzi tali torchi per conto di terzi. Viceversa, se fosse un’azienda vitivinicola, l’utilizzazione di tali impianti anche per conto dei terzi si configurerebbe come attività agricola connessa, a nulla rilevando il fatto che il volume di attività svolta con i terzi attraverso l’utilizzazione di tali impianti risulti prevalente rispetto a quello riguardante la produzione dell’ azienda. Tra le attività connesse all’utilizzazione delle attrezzature e delle risorse dell’azienda, l’inciso finale dello stesso comma 3° dell’art.2135 c.c. richiama altresì, considerandole comprese, anche le “attività di valorizzazione del territorio e del patrimonio rurale e forestale, ovvero di ricezione ed ospitalità come definite dalla legge”. Per quanto riguarda le attività di “valorizzazione del territorio e del patrimonio rurale”, da effettuarsi pur sempre con l’utilizzazione delle strutture aziendali, il legislatore ha molto probabilmente inteso fare riferimento a quella indeterminata gamma di attività, in termini di offerta di beni ambientali e di servizi, che le imprese possono assicurare nell’ambito dei contratti con le pubbliche amministrazioni di cui parlano gli artt. 14 e 15 del dLgs . n.228 del 2001: si pensi, ad es., a visite guidate nelle aziende da parte di scolaresche, ad escursioni naturalistiche etc. In ordine, infine, alle attività di ricezione e di ospitalità, la disposizione ha inteso fare rinvio al fenomeno dell’agriturismo. A tale proposito va richiamata la legge quadro n. 96 del 2006 la quale da un lato ha individuato nell’art.2 comma 3°, sia pure in maniera non esaustiva, le attività agrituristiche, comprensive appunto delle attività di ricezione e di ospitalità richiamate nella norma codicistica, dall’altro, sulla base dell’art.4 comma 2° ha, in linea generale, affidato alle regioni il compito di definire criteri per la valutazione del rapporto di connessione di tali attività con quelle agricole che devono restare prevalenti, “con particolare riferimento al tempo di lavoro necessario all’esercizio delle stesse attività”. Al tempo stesso, però, il comma 3° del medesimo art. 4 ha introdotto una singolare presunzione legale di connessione, dichiarando in ogni caso prevalente disciplina più restrittiva, di cui al d.Lgs n.114 del 1998, nel caso in cui la vendita di prodotti non provenienti dalle proprie aziende risulti superiore rispettivamente a 160.000 euro per gli imprenditori agricoli individuali e di 4 milioni di euro per le società. 16 Indubbiamente tra queste attività, sempre che esercitata in conformità al criterio della connessione richiamato nel testo, può essere inquadrata anche quella definita come “agromeccanica” dall’art.5 del dLgs . n.99 del 2004, sebbene questa ultima norma non fornisca alcuna indicazione in ordine alla qualificazione giuridica di tale attività. Essa, infatti, si limita ad affermare che “È definita attività agromeccanica quella fornita a favore di terzi con mezzi meccanici per effettuare le operazioni colturali dirette alla cura ed allo sviluppo di un ciclo biologico o di una fase necessaria del ciclo stesso, la sistemazione e la manutenzione dei fondi agro-forestali, la manutenzione del verde, nonché tutte le operazioni successive alla raccolta dei prodotti per garantirne la messa in sicurezza. Sono altresì ricomprese nell'attività agromeccanica le operazioni relative al conferimento dei prodotti agricoli ai centri di stoccaggio e all'industria di trasformazione quando eseguite dallo stesso soggetto che ne ha effettuato la raccolta”. Senza tale connessione, in altri termini, l’attività agromeccanica andrebbe qualificata come attività commerciale: conclusione, questa rafforzata anche dalla lettura del comma 13bis dell’art.14 del d.Lgs . n.99 del 2004, introdotto dall’art.4 del d.Lgs n.101 del 2005. l’attività agricola “quando le attività di ricezione e di somministrazione di pasti e bevande interessano un numero superiori a dieci ospiti”17. Mette conto osservare che l’area delle attività agricole per connessione è quella in cui si è fondamentalmente espressa la prospettiva della multifunzionalità di provenienza comunitaria. Questa è la ragione per la quale se da un lato il criterio della tipicità sociale è stato progressivamente sacrificato a vantaggio della tipicità legale, come del resto evidenzia il comma 3° dell’art. 2135 c.c., dall’altro l’individuazione esplicita da parte del legislatore di nuove attività connesse ha continuato a svilupparsi nella legislazione speciale successiva alla modifica del codice anche a rischio di stravolgere il dato logico e funzionale alla base della “connessione”. In particolare, già a proposito dell’apicoltura considerata attività agricola dalla legge n.313 del 2004, l’art. 9 della medesima ha ritenuto l’attività di impollinazione come attività agricola per connessione [richiamando, per errore, l’art. 2135 c.c. comma secondo]. Più di recente l’art.1 comma 423 della legge 23 dicembre 2005 n.266, come sostituito18 dall’art.1 comma 369 della legge finanziaria 27 dicembre 2006 n. 296 ha stabilito che “ferme restando le disposizioni tributarie in materia di accisa, la produzione e la cessione di energia elettrica e calorica da fonti rinnovabili agroforestali e fotovoltaiche nonché di carburanti ottenuti da produzioni vegetali provenienti prevalentemente dal fondo e di prodotti chimici derivanti da prodotti agricoli provenienti prevalentemente dal fondo effettuate dagli imprenditori agricoli, costituiscono attivita' connesse ai sensi dell'articolo 2135 c.c., terzo comma, del codice civile e si considerano produttive di reddito agrario". Ebbene, nel caso di impianti fotovoltaici, manca ogni nesso tra la presenza e l’utilizzo di questi con l’uso agricolo del terreno e l’attività agricola ivi svolta. 6.- IMPRESA AGRICOLA INDIVIDUALE E COLLETTIVA. Nell’originaria versione del codice del 1942, l’attenzione del legislatore era fondamentalmente concentrata sull’esercizio individuale dell’attività economica organizzata in forma di impresa. In particolare, anche la disciplina di cui all’art. 2135 c.c. rifletteva in modo unitario, pur nella prospettiva dell’articolazione tra attività essenzialmente agricole e attività connesse alle prime, il modello dell’imprenditore individuale il quale era per di più preso in considerazione in una situazione di assoluto isolamento dal contesto economico in rispondenza del resto con l’individualismo proprio del mondo tradizionale agricolo. Sul piano dell’esercizio collettivo dell’impresa, il codice civile del 1942 aveva previsto espressamente per l’impresa agricola soltanto il modello rappresentato dalla società semplice. Ciò, ovviamente, non precludeva alle imprese agricole la possibilità di avvalersi dei modelli propri delle società commerciali previsti dallo stesso codice civile, soggiacendo, ovviamente, a tutte le prescrizioni richieste dalla disciplina, ivi compresi i relativi costi, ad eccezione del solo assoggettamento al fallimento: e ciò in ragione appunto della prevalenza accordata all’oggetto sociale, la materia agricola, sulla forma commerciale della società. In questo quadro è spettato in primo luogo alla giurisprudenza fornire una risposta al problema relativo alle ipotesi di cooperazione e di associazionismo economico tra imprenditori agricoli finalizzato appunto alla trasformazione, lavorazione e vendita dei prodotti agricoli. Si pensi, ad es. ai caseifici sociali ovvero alle cantine cooperative destinate alla lavorazione e trasformazione del prodotto agricolo di base costituito dal latte ovvero dalle uve conferiti dai soci. Per tali ipotesi si trattava di verificare se l’attività economica svolta dal soggetto collettivo potesse qualificarsi come 17 Al fine di una corretta lettura dell’artr.2135 e della legge nazionale sullè’agriturismo è bene rimarcare che ai fini della qualifica civilistica dell’impresa, ossia in chiave regolativa, la connessione va individuata sulla base dell’art.2135 comma 3° laddove l’altra disciplina deve rilevare sul piano promozionale sicché solo i parametri per la prima valutazione sono uniformi nel territorio nazionale, laddove gli altri possono divergere sulla scorta delle precisazioni introdotte dalla normativa regionale. Sul punto, si v. la preziosa pronuncia di Cass. 10 aprile 2013, n.8690. 18 Il testo originario del 2005 era il seguente “ la produzione e la cessione di energia elettrica da fonti rinnovabili agroforestali effettuate dagli imprenditori agricoli costituiscono attività connesse ai sensi dell’art.2135 c.c. terzo comma, del codice civile e si considerano produttive di reddito agrario”. agricola per connessione, ancorché tale attività fosse svolta ed imputata ad un soggetto giuridico diverso e distinto rispetto ai singoli produttori della materia prima conferita, qualificabili in termini di imprenditori agricoli. La giurisprudenza sin dalla metà degli anni settanta del Novecento ha sostenuto che nel caso della cooperativa o del consorzio, l’attività dell’ente collettivo si presenterebbe come meramente sostitutiva di quella che i singoli soci potrebbero direttamente compiere per realizzare la migliore redditività delle loro aziende ed essendo ad essi direttamente riferibile, si presenta come connessa, sotto il profilo sia soggettivo che oggettivo, con l'attività agricola primaria dei coltivatori associati:di conseguenza, l'impresa gestita dal suddetto ente doveva considerarsi agricola per connessione ai sensi degli art. 2135 c.c.. La soluzione, peraltro, venne confermata anche per le ipotesi in cui tali soggetti collettivi avessero operato anche su prodotti ottenuti da terzi estranei alla cooperativa sempre che, però, fosse stato rispettato il criterio della prevalenza, ossia che le utilità derivanti dalla lavorazione dei prodotti conferiti dai terzi fossero secondarie e marginali, rispetto alla prevalente utilità tratta dalla lavorazione dei prodotti degli associati. Ebbene, questa impostazione di origine giurisprudenziale19 è stata definitivamente avallata dal legislatore con il d.Lgs .n.228 del 2001. Infatti, il comma2° dell’ art.1 , con cui è stato novellato l’art.2135 c.c., ha stabilito che “si considerano imprenditori agricoli le cooperative di imprenditori agricoli ed i loro consorzi quando utilizzano per lo svolgimento delle attività di cui all'articolo 2135 c.c. del codice civile, come sostituito dal comma 1 del presente articolo, prevalentemente prodotti dei soci, ovvero forniscono prevalentemente ai soci beni e servizi diretti alla cura ed allo sviluppo del ciclo biologico”. Con questa norma, l’associazionismo economico tra gli imprenditori agricoli, per quanto tenuto ancora fuori dal codice civile, ha ottenuto una consacrazione legislativa ad ampio raggio a proposito della qualificazione giuridica dell’attività economica esercitata20. 19 Tra le diverse pronunce, si v. la limpida massima di Cass. 20 marzo 1995 n.1843 secondo la quale: “Allorquando gli agricoltori di una determinata zona, anziché procedere singolarmente all'attività di trasformazione e alienazione dei loro prodotti, quale in particolare la vinificazione delle uve e la vendita del vino, si riuniscono in un organismo unitario consorzio, cooperativa, cantina sociale - al quale conferiscono il prodotto delle loro coltivazioni affinché esso provveda, in loro vece, a quelle operazioni di trasformazione e di vendita che altrimenti ciascuno di loro dovrebbe porre in essere per completare in normale ciclo produttivo, e vi provveda nel modo più conveniente imposto dagli attuali metodi e sistemi di lavorazione dei prodotti e di organizzazione del loro sfruttamento sul mercato, l'attività di tale organismo associativo, pur dotato di autonoma personalità giuridica, rimane sempre connessa alla primaria attività agricola dei produttori associati e conseguentemente ha essa stessa natura agricola, a nulla rilevando che il consorzio, o la cooperativa, o la cantina sociale, quali soggetti distinti dai soci, non posseggano un proprio fondo, nè che provvedano anche alla lavorazione di uva o mosti acquistati da terzi, sempre che tale attività abbia carattere marginale e comunque indispensabile per lo sfruttamento della produzione dei soci e la loro maggiore utilità, dovendosi, al fine di affermare o escludere l'anzidetto carattere, ricorrere al criterio della prevalenza”. 20 A seguito della riforma, più di un decennio le società cooperative composte da imprenditori agricoli e che “ utilizzano per lo svolgimento delle attività di cui all'articolo 2135 del codice civile, come sostituito dal comma 1 del presente articolo, prevalentemente prodotti dei soci”, sono pacificamente considerate imprese agricole, essendo, peraltro, indifferente che l’utilizzazione si traduca nella sola commercializzazione dei prodotti di base in forma concentrata, ovvero previa loro trasformazione: si pensi alle cantine c.d. sociali, alle latterie sociali e alle imprese cooperative c.d. conserviere etc. La qualifica di impresa agricola di siffatte società cooperative composte da imprenditori agricoli sussiste anche quando tali cooperative non operano soltanto sulle produzioni fornite dai propri soci: esse possono utilizzare anche produzione acquistata da produttori agricoli terzi, ossia svolgere anche vera e propria attività di intermediazione commerciale. Anche in questo caso conservano pur sempre la qualifica di impresa agricola sempre che sia rispettata la prevalenza della produzione proveniente dai soci su quella acquisita sul mercato. Tanto premesso, è indubbio, sulla base dei rilievi ora svolti con riferimento sia al quadro normativo vigente in Italia dal 2001 sia alla prassi emersa anche in precedenza, che la qualifica di impresa agricola spettante ad una società cooperativa composta da soli imprenditori agricoli ed impegnata nell’attività di commercializzazione della produzione dei propri soci spetti anche all’ipotesi in cui si sia in presenza di una organizzazione di produttori agricoli, costituita anch’essa in forma cooperativa, chiamata a svolgere compiti sia normativi sia operativi sulla scorta del diritto di origine comunitaria /europea e di fonte nazionale: si pensi per il comparto ortofrutticolo a quanto previsto dal reg. n. 2200 del 1996, poi confluito nel recente reg.1308 DEL 2014. Tra questi ultimi compiti rientra, come è noto, anche quello di La norma introdotta nel 2001 non si è limitata a prendere in considerazione, ai fini della qualifica di impresa agricola, le sole cooperative che operano a valle dell’attività dei propri soci avvalendosi, appunto, delle loro produzioni. Essa ha abbracciato, ai fini della medesima qualificazione, anche le cooperative composte sempre da imprenditori agricoli che esercitano una attività economica finalizzata a fornire ai propri soci beni e servizi necessari per lo svolgimento dell’attività agricola principale. Tra queste cooperative rientrano dunque anche quelle coinvolte nella c.d. terziarizzazione di alcune manifestazioni tipiche dell’attività agricola principale: non solo dunque le imprese cooperative che forniscono fattori della produzione (prodotti chimici, attrezzi agricoli etc.), ma anche quelle che provvedono direttamente ad arature, alle semine, alla raccolta delle produzioni nelle aziende dei soci ovvero a fornire alla stessa servizi21 e fornire la loro attività anche a terzi ma sempre nel rispetto della prevalenza22. Attraverso il criterio della connessione, la norma ha attratto nell’orbita dell’agrarietà anche quelle attività pur sempre svolte da quei soggetti collettivi, in particolare cooperative e consorzi di cooperative, composti da imprenditori agricoli, ma che si collocano a monte della produzione agricola e che si traducono appunto nella fornitura, sempre in prevalenza ai soci, di beni e di servizi strumentali all’esercizio dell’attività agricola primaria diretta alla cura e allo sviluppo del ciclo biologico ai propri soci. E’ indubbio che il venir meno del criterio della normalità sostituito, nei termini sopra delineati, da quello della prevalenza da una parte e, dall’altra, l’espansione della connessione per i soggetti collettivi anche a proposito dell’esercizio di attività strumentali alla stessa realizzazione dell’attività primaria hanno determinato un significativo ampliamento dell’area dell’agrarietà dell’impresa che va attentamente scrutinato. Infatti, sulla base del modello delineato dalla norma è oggi possibile che gli imprenditori agricoli mettano in piedi cooperative o consorzi che in astratto potrebbero non più limitarsi al semplice acquisto di prodotti chimici ovvero di attrezzi meccanici, in termini di cooperative di acquisto, da mettere a disposizione sia dei soci, sempre che prevalenti, sia anche dei terzi, bensì si spingano anche alla fase della stessa produzione industriale che, ad es., nel caso dei servizi, potrebbe riguardare in astratto non solo la vigilanza dei campi ovvero la fornitura di consulenza agronomica e veterinaria, bensì anche la stessa attività di assicurazione ad es. contro la grandine. Ed, in effetti, il riferimento indifferenziato nella disposizione alla fornitura sia di beni, sia di servizi lascia aperta la possibilità di un’espansione incontrollata dell’ agrarietà, sia sul versante a valle della produzione in termini di relazioni agr-alimentari e agro-industriali provvedere alla concentrazione dell’offerta, ossia di provvedere alla diretta commercializzazione delle produzioni conferite da propri aderenti, operando per conto di questi ultimi. Siffatti organismi associativi, originariamente presi in considerazione anche dalla esperienza giuridica europea come semplici strutture collettive finalizzate alla tutela degli operatori agricoli, e dunque inquadrabili sul piano formale tra le associazioni in senso stretto, sono state progressivamente ricondotte dalla legislazione di fonte europea e nazionale nell’ambito dell’associazionismo economico. Di conseguenza, alla luce dell’accentuata esigenza che essi siano in grado di esercitare effettivamente i compiti normativi ed operativi loro affidati, la legislazione ha ritenuto indispensabile che si strutturino sotto forma di società dotate di capitale, pur conservando le peculiari caratteristiche originarie necessarie per la compatibilità con il diritto europeo della concorrenza. In particolare, al fine di contemperare l’esigenza di una adeguata provvista di mezzi finanziari necessari per operare con l’altra esigenza di assicurare la partecipazione dei soli operatori agricoli coinvolti nel singolo comparto produttivo, si è ritenuto, come più sicuro, il ricorso, confermato dalla prassi, al modello della società cooperativa, ivi compresa quella strutturata con partecipazione azionaria. Sul punto si rinvia alla trattazione successiva presente in questo testo. 21 In effetti ancor prima della riforma, la decisione di Cass. 18 agosto 1999 n.8697 aveva qualificato come impresa agricola il consorzio o la cooperativa che svolgeva, nell'esclusivo interesse dei soci, un'attività di servizio in funzione ausiliaria: nella specie, lo svolgimento di incombenze amministrative e contabili: sul punto si v. i commenti di SGARBANTI, in Riv. Dir. Agr. 2000, II, 217 e MASINI in Dir. e giur. agr. 2000, 320. 22 Sulla singolare dilatazione dell’agrarietà conseguente a questa scelta legislativa v. le considerazioni critiche da noi avanzate in L’impresa agricola nel sistema agro-industriale che si rinviene in ABRIANI e MOTTI ( a cura di), La riforma dell’impresa agricola Atti del Convegno. Foggia, 25-26 gennaio 2002, Milano 2003, 47ss. secondo le filiere coinvolte nella diversa destinazione delle produzioni, sia sul versante a monte delle relazioni agro-industriali, strumentali alla produzione agricola di base e che vedono i singoli operatori agricoli intervenire questa volta nella veste di acquirenti ( acquisti di sementi, di prodotti chimici, di attrezzature e/o dei relativi servizi)23. In ordine all’altro problema, ossia all’esercizio in forma collettiva delle attività agricole primarie di cui ai primi due commi dell’art.2135 c.c., il processo legislativo ha visto naufragare nel corso degli anni alcuni tentativi, peraltro velleitari ed incerti nelle stesse premesse, volti ad individuare una tipologia societaria specifica ritagliata, in termini di statuto disciplinare, sugli interessi dei produttori agricoli. Al riguardo, l’unica novità introdotta di recente ha risposto soltanto all’ esigenza di rendere immediatamente trasparente e visibile ai terzi le ipotesi in cui l’oggetto sociale, quale che sia il tipo societario adottato, si identifichi con l’esercizio esclusivo delle attività di cui parla l’art.2135 c.c. e, dunque, tanto delle attività agricole primarie quanto di quelle connesse, ivi comprese dunque le situazioni sopra richiamate di cui al comma 2° del’art.1 del d.Lgs n.228 del 2001. Infatti, l’art.2 del d.Lgs n.99 del 2004, poi modificato dall’art.2 del d.Lgs n.101 del 2005, ha stabilito che in tali ipotesi, la ragione sociale o la denominazione sociale della società deve contenere l'indicazione di “società agricola”24. 7.- LO STATUTO DELL’IMPRESA AGRICOLA L’indubbio ampliamento dell’aera della agrarietà, con riferimento sia al criterio unitario fondato sul ciclo biologico posto alla base della individuazione delle attività agricole primarie, sia a criteri diversi applicabili per la limitazione delle attività agricole per connessione, ripropone in forme nuove le questioni relative da un lato alla distinzione tra l’impresa agricola e l’impresa commerciale, dall’altro all’adeguatezza e ragionevolezza, alla luce di tutti gli interessi coinvolti, della differenza di trattamento giuridico che attualmente è dato di riscontrare tra i rispettivi statuti disciplinari25. A ben vedere, entrambe le questioni appaiono oggi tanto più legittime rispetto passato ove si consideri che: a) dal punto di vista esclusivamente tecnico i processi produttivi che coinvolgono il ciclo biologico nei limiti delineati dal novellato art.2135 c.c. cod. civ., fermo restando il rischio strettamente biologico, ormai possono emanciparsi in misura crescente da quello ambientale e da quello atmosferico, tradizionalmente evocati a “discarico” dell’imprenditore agricolo; b) dal punto di vista del rischio giuridico gravante sui terzi creditori, la stessa tendenziale emancipazione tecnologica, conseguita dalla moderna agricoltura industrializzata, si è accompagnata e ha determinato in gran parte proprio la progressiva contrazione della distanza tra i rischi che gravano sui creditori dell’impresa commerciale e quelli posti a carico dei creditori dell’impresa agricola. In altri termini, diventa ineludibile il confronto tra le aspettative di tutela dei terzi, cui ha tradizionalmente inteso dare risposta lo statuto dell’imprenditore commerciale, e le aspettative di tutela dei terzi che nella veste di fornitori di fattori della produzione sono in misura crescente chiamati ad avere rapporti contrattuali con le imprese agricole. Ebbene, sul piano dello statuto disciplinare, non può negarsi che la riforma avviata nel 2001, ha confermato il sistema binario fondato sulla distinzione tra impresa commerciale e impresa agricola 23 Il che, è bene ricordarlo, avviene anche quando il singolo imprenditore agricolo si approvvigiona presso una delle cooperative agricole richiamate nel testo. 24 Il comma 2° della disposizione ha stabilito inoltre l’obbligo per le società già costituite all’entrata in vigore del decreto di provvedere all’adeguamento anche dello statuto se redatto, con l’esenzione “dal pagamento di tributi e diritti dovuti per l'aggiornamento della ragione sociale o denominazione sociale negli atti catastali e nei pubblici registri immobiliari e per ogni altro adempimento a tal fine necessario”. 25 Con specifico riferimento all’ esclusione dalla procedura fallimentare dell’impresa agricola, pur sempre sulla base della attività effettivamente svolta ed a prescindere dalle dimensioni della struttura, si v. Cass.10 dicembre 2010, n. 24995 nonché la decisione di Corte Costituzionale 20 aprile 2012 n.104 in materia di acquacoltura. E’ altrettanto ovvio che lo svolgimento di attività commerciale e di attività agricola non esime dal fallimento siffatta impresa: si v. al riguardo Cass.17 luglio 2012 n.12215. e, però, ha avviato al contempo un processo di rivisitazione dello statuto disciplinare dell’impresa agricola storicamente assai scarno. In verità, in assenza di una moderna distinzione circa i profili dimensionali delle strutture produttive, tuttora affidati a parametri ormai irrealistici ed obsoleti, tale processo ha condotto per ora a risultati decisamente modesti che non sono in grado di compensare l’ampliamento conseguito dall’area dell’agrarietà, soprattutto per quella riguardante le imprese agricole più tecnologicamente avanzate e coinvolte nei processi produttivi connessi a monte ed a valle con la produzione agricola primaria. È bene però evidenziare che se la distinzione disciplinare tra impresa commerciale ed impresa agricola non può dunque continuare a prospettarsi nei termini tradizionali, le ragioni della differenziazione permangono. È sufficiente osservare che l’art. 42 del Trattato istitutivo della Comunità europea, oggi art. 42 del TFEU ribadisce che, in linea di principio, la disciplina europea sulla concorrenza trova applicazione al settore agricolo nei soli limiti disposti dal Consiglio pur con le attenuazioni emerse nelle disposizioni contenute nei regg. 1184/2006 e 1234/2007 che hanno inteso favorire l’associazionismo degli agricoltori, quale rimedio alla loro debolezza negoziale. Infatti, l’unica novità introdotta dal decreto legislativo del 2001 ha riguardato l’iscrizione nel registro delle imprese degli imprenditori agricoli, dei coltivatori diretti e delle società semplici. Al riguardo, mette conto rammentare che nel 1993, l’art.8 della legge istitutiva del registro delle imprese n.580 aveva introdotto, accanto alla sezione ordinaria prevista per le imprese commerciali, alcune sezioni speciali, destinate rispettivamente all'iscrizione degli imprenditori agricoli ex art.2135 c.c., dei piccoli imprenditori ex art.2083 c.c. e delle società semplici: sezioni speciali poi unificate in una sola ai sensi dell’art.2 del d.p.r. n.558 del 1999. A sua volta , il comma 5° del medesimo art.8 delle legge n.580 del 1993 aveva specificato che “l'iscrizione nelle sezioni speciali ha funzione di certificazione anagrafica e di pubblicità notizia, oltre agli effetti previsti dalle leggi speciali”. Ebbene, la novità adottata nel 2001 dall’art.2 del d. Lgs n.228 del 2001 ha riguardato l’efficacia da attribuire alla iscrizione nel registro delle imprese la quale, a seguito della novella, oltre alle “funzioni di certificazione anagrafica ed a quelle previste dalle leggi speciali, ha l'efficacia di cui all'articolo 2193 del codice civile”. In tal modo, anche l’iscrizione nella sezione speciale degli imprenditori agricoli, dei coltivatori diretti e delle società semplici consegue l’efficacia dichiarativa propria delle iscrizione nel registro delle imprese: efficacia ovviamente destinata a valere per l’iscrizione di qualsiasi atto o fatto relativo all’esercizio dell’attività agricola posta in essere da tali soggetti26. E’ il caso di osservare che l’applicazione della iscrizione anche i coltivatori diretti, in cui si risolve la categoria dei piccoli imprenditori agricoli, costituisce una modifica di non poco momento atteso che mette in crisi la distinzione presente originariamente nel codice civile tra imprenditori agricoli in quanto tali e piccolo imprenditori agricoli oltre a determinare una disparità di trattamento rispetto ai piccoli commercianti, tuttora esenti dalla iscrizione, per non parlare, infine, della conseguente, discutibile, distinzione introdotta tra le società semplici in relazione all’attività esercitata. All’infuori della disposizione ora richiamata, lo statuto dell’imprenditore agricolo è rimasto sostanzialmente invariato. L’invarianza della disciplina ha, peraltro, riguardato anche la legislazione fallimentare novellata di recente con il d. Lgs 9 gennaio 2006 n.5 il quale, nel disporre ( art.1) che “sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori che esercitano un'attività commerciale, esclusi gli enti pubblici ed i piccoli imprenditori”, ha confermato la soluzione, ormai secolare, che esclude dall’applicazione della disciplina fallimentare gli imprenditori agricoli, eliminando altresì tutti i dubbi emersi a seguito della novella contenuta 26 Sul punto si rinvia alla dettagliata analisi avanzata in dottrina da U. BELVISO, IL regime pubblicitario dell’imprenditore agricolo ( la riforma d’inizio secolo) in N.ABRIANI e C. MOTTI ( a cura di ), La riforma dell’impresa agricola, Milano 2003, 147ss, in part.164ss. e da M. TAMPONI, Impresa agricola e registro delle imprese alla luce del d. lgs 18 maggio 2001, n.228, in Dir. e giur. agr. e dell’amb. 2001, 523ss nel d. Lgs n.228 del 2001, a proposito dell’ iscrizione di tutti gli imprenditori agricoli nel registro delle imprese, sia pure nella sezione speciale27. Non può negarsi che alla luce dell’ampiezza e al tempo stesso dell’eterogeneità delle situazioni attualmente riconducibili alla fattispecie di cui all’art.2135 c.c., la scelta di non modificare in alcun modo l’opzione previgente appare radicale al pari della proposta di segno opposto, pur avanzata nel corso dei lavori preparatori della riforma della legge fallimentare, indirizzata ad azzerare in un solo colpo qualsiasi differenza di trattamento in sede fallimentare tra impresa commerciale ed impresa agricola. Peraltro, l’irragionevolezza della drastica quanto semplicistica soluzione accolta nel 2006 è accentuata dal fatto che “paradossalmente” le modifiche sostanziali introdotte nella disciplina del fallimento segnano attualmente un netto mutamento di rotta rispetto alla funzione tradizionalmente svolta dalla legislazione chiamata a governare le situazioni di insolvenza dell’impresa. Se in passato, data la funzione “moralizzatrice” e “sanzionatoria” del fallimento, la sottrazione allo stesso è stata considerata come un privilegio assicurato all’impresa agricola rispetto a quella commerciale, attualmente data la funzione “terapeutica” assunta dalla attuale disciplina fallimentare, diventa oltremodo discutibile, anche dal punto di vista della legittimità costituzionale, che le imprese agricole, soprattutto quelle più industrializzate ed intorno alle quali ruota un ceto creditorio di non poco rilievo, siano impossibilitate ad avvalersi delle opportunità offerte dalla disciplina fallimentare. Ed infatti, a correzione di tale discutibile chiusura, l’art. 23, co. 43, della legge 15.7.2011, n. 111, «in attesa di una revisione complessiva della disciplina dell’imprenditore agricolo in crisi e del coordinamento delle disposizioni in materia» , ha ammesso la possibilità per gli imprenditori agricoli in stato di crisi o di insolvenza di avvalersi, sia degli accordi di ristrutturazione dei debiti, sia della transazione fiscale di cui parlano rispettivamente gli artt. 182 bis e 183 ter l. fall. A sua volta, la recentissima l. 27.1.2012, n. 3 nell’intervenire a proposito delle crisi di sovraindebitamento ha previsto una particolare ipotesi di accordo di ristrutturazione dei debiti da attuarsi secondo uno specifico procedimento a favore di debitori non soggetti e non assoggettabili alle procedure concorsuali tra cui rientrano senza dubbio gli imprenditori agricoli. Si è in presenza di una prima breccia aperta per favorire il compimento del processo di modernizzazione della impresa agricola28. 8.- L IMPRESA AGRICOLA E LE QUALIFICHE SOGGETTIVE. La recente riforma non ha introdotto mutamenti nella disciplina codicistica destinata a fissare distinzioni di ordine dimensionale tra le imprese, che sono pertanto rimaste ancorate alla normativa originaria del 1942. Per quanto riguarda l’impresa agricola, la distinzione è tuttora quella legata alla figura del coltivatore diretto quale richiamata nell’art.2083 c.c. come rappresentativa appunto del piccolo imprenditore agricolo, destinatario di una disciplina ancor più leggera di quella applicabile all’imprenditore agricolo non piccolo, fatta salva la recente novella relativa alla iscrizione nel registro delle imprese. In coerenza con l’obiettiva centralità della fattispecie rappresentata dalla impresa in quanto tale rispetto al profilo soggettivo legato all’imputazione della prima, l’art.2083 c.c., pur se destinato - in linea con l’ossequio formale al criterio soggettivo - ad individuare il piccolo imprenditore, ha da sempre ancorato tale qualifica ad una precisa modalità organizzativa della struttura produttiva. A ben vedere, infatti, nell’inciso di chiusura della norma, il riferimento all’esercizio di una attività di impresa, quella appunto del coltivatore diretto, organizzata prevalentemente con il lavoro proprio di tale soggetto e dei componenti della famiglia, evidenzia che il legislatore ha mirato essenzialmente a cogliere e, al tempo stesso, a valorizzare una diversità morfologica circa l’esercizio dell’attività produttiva agricola organizzata in forma di impresa. In particolare ha puntato su due dati fondamentali: il primo rappresentato dal diretto 27 Si rivelano così infondate le affrettate conclusioni suggerite in dottrina e riprese da ultimo da G.B. FERRI, La “nuova” impresa agricola, in Dir. e giur. 2005,1ss. 28 Sulla nuova disciplina applicabile al salvataggio delle imprese agricole si rinvia per tutti a F.PRETE, L’impresa agricola in difficoltà di pagamenti, Bari 2013. coinvolgimento dell’imprenditore agricolo anche nel lavoro esecutivo/materiale destinato a svolgersi nell’impresa, ossia la coltivazione, il secondo rappresentato dal coinvolgimento in misura prevalente anche del lavoro dei componenti la famiglia di tale soggetto nella forza lavoro impiegata nella medesima impresa. Come dire, dunque, che la qualifica soggettiva, peraltro richiamata anche nella disciplina codicistica dell’affitto di fondo rustico a coltivatore diretto, rispecchiava fedelmente un dato strutturale dell’impresa in quanto tale. Nella più rigida interpretazione della disposizione originaria di cui all’art. 2083 c.c., relativa appunto alla piccola impresa, autorevole dottrina commercialistica aveva rinvenuto la ratio della differenziazione tra impresa in generale e piccola impresa introdotta nell’area dell’impresa di cui al libro V del codice civile, proprio nell’assoluta prevalenza che il fattore lavoro avrebbe avuto nella seconda: prevalenza tanto rispetto al fattore capitale impiegato, quanto, nell’ambito della complessiva forza lavoro necessaria per la conduzione agricola del fondo, di quella fornita dallo stesso imprenditore e dalla sua famiglia rispetto alla forza lavoro messa a disposizione da terzi estranei29. Quella medesima letteratura sin dagli anni cinquanta ha altresì chiarito, seguita sul punto dalla giurisprudenza, che la professionalità dell’esercizio dell’attività non rinvia né riflette una situazione sociologica dell’operatore economico; come dire, dunque, che la presenza anche della piccola impresa agricola e, quindi, l’attribuzione della qualifica di coltivatore diretto possono ben sussistere anche quando l’attività economica posta in essere dal soggetto non ne costituisca l’occupazione prevalente, né rappresenti la fonte prevalente del suo reddito. Ebbene, nel corso dei trascorsi decenni, si è venuta a determinare una situazione singolare. Da un lato, il modello posto a base dell’art. 2083 c.c. non ha subito alcuna modificazione. Ciò è avvenuto per effetto anche della supervalutazione assegnata alla qualifica di coltivatore diretto, assunta come sintetica rappresentazione di un modello di impresa agricola da contrapporre, forse anche in chiave ideologica, a quella c.d. capitalistica , a dispetto, a ben vedere, di trasformazioni profonde per effetto delle quali la progressiva industrializzazione dell’agricoltura e la sempre più evidente sostituzione di forza lavoro con capitali avrebbe dovuto richiedere una rivisitazione del modello originariamente assunto. Dall’altro, nella legislazione speciale di carattere assistenziale e previdenziale ovvero promozionale, la qualifica soggettiva di coltivatore diretto si è andata progressivamente emancipando dal legame con il sottostante dato strutturale relativo all’impresa secondo il criterio contenuto nell’art.2083 c.c., per concentrarsi su paradigmi di ordine esclusivamente soggettivo. Ad esempio, la legislazione assistenziale e previdenziale ha legato la qualifica di coltivatore diretto anche alla specifica condizione professionale del soggetto, assegnando rilievo alla prevalenza dell’attività agricola svolta dal soggetto rispetto ad altre sue eventuali occupazioni diverse ( impiegato, libero professionista etc.). In tal modo, la qualifica di coltivatore diretto, originariamente unitaria nella prospettiva propria del codice civile del 1942, registra tuttora una pluralità di definizioni in contesti diversi in funzione promozionale, che nel tempo si sono tanto acuiti da favorire, per ragioni di equilibrio, l’emersione di altre qualifiche da aggiungere, anzi da contrapporre a quella di coltivatore diretto. Di qui, prima l’utilizzazione, per finalità tutte interne alla politica economica e sociale del nostro paese, della definizione di imprenditore agricolo a titolo principale che la legge n.153 del 1975 aveva introdotto per la sola gestione di provvidenze di fonte comunitaria, poi, di recente, l’introduzione della qualifica di imprenditore agricolo professionale di cui all’art.1 del d.Lgs. n.99 del 2001, poi modificato dal d. Lgs. n.101 del 2005: qualifica da riconoscere a “colui il quale, in possesso di conoscenze e competenze professionali ai sensi dell'articolo 5 del regolamento (CE) n. 1257/1999 del Consiglio, del 17 maggio 1999, dedichi alle attività agricole di cui all'articolo 2135 c.c. del codice civile, direttamente o in qualità di socio di società, almeno il cinquanta per cento del 29 Il riferimento è a BIGIAVI, La piccola impresa, Milano 1947 la cui interpretazione non è stata però seguita dalla giurisprudenza la quale ha preso in considerazione, ai fini qualificatori, solo la forza lavoro, considerando irrilevante il livello di capitalizzazione delle strutture. proprio tempo di lavoro complessivo e che ricavi dalle attività medesime almeno il cinquanta per cento del proprio reddito globale da lavoro”. Sotto questo profilo, non può negarsi che anche l’articolazione dimensionale dell’impresa agricola, tuttora consegnata alla disposizione di cui all’art.2083 c.c. attende una rivisitazione che sia adeguata, del resto, ai significativi mutamenti che l’area dell’ agrarietà ha già registrato con la riforma del 2001. Per altro verso, nonostante l’indubbia diversa funzione che le qualifiche soggettive assolvono secondo che esse siano da collocarsi nell’area del “diritto regolativo” ovvero di “quello promozionale” è sempre possibile non solo il travaso delle formule introdotto in questo ultimo nel primo, ma anche il rischio di ambigue sovrapposizioni non solo in sede ermeneutica30 dagli esiti discutibili oltre che fortemente distorsivi del diritto scritto.31 30 In questa chiave, si v. la non accoglibile proposta interpretativa, pur autorevolmente sostenuta ( si v. Buonocore,in per la quale la qualifica di imprenditore agricolo professionale di cui alla legge viene interpretata come sostitutiva di quella rilevante ai fini dell’art.2135cod. civ. 31 A titolo esemplificativo, si consideri quanto già segnalato nel testo in ordine all’oscillante qualificazione riservata all’acquacoltura, per effetto della quale il particolare favor per questa attività ha condotto al suo “degrado” da attività agricola principale ad attività soltanto equiparata e ciò in ragione proprio della funzione ancillare che a sua volta essa ha ormai assunto rispetto all’attività di pesca. Per una altra manifestazione del fenomeno sopra denunciato si consideri il trattamento riservato di recente ai Consorzi agrari: sul punto si rinvia al nostro I consorzi agrari tra diritto regolativo e diritto promozionale, in AMOROSINO S, ALPA G, TROIANO V, SEPE M, CONTE G, PELLEGRINI M, ANTONUCCI A. (a cura di), Scritti in onore di Capriglione. vol. II, 2010 Padova, 943ss.