Frontiere N. 1 - Shanthi
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Frontiere N. 1 - Shanthi
Anno VII N. 1/2 - Periodico quadrimestrale dell’A.M.I. Spediz. in abbonamento postale art. 2 comma 20/c Legge 662/96 - Filiale di Milano - Aut.del Tribunale di Milano N. 730 del registro periodici 10.11.2000 1/2 2010 EDITORIALE Il grande freddo, la grande diga, la grande foresta MILLE E UNA NOTTE Le Vie dei Venti Racconti di “malati” di viaggi Nascere e rinascere negli altri attraverso racconti Etiopia: Tre matematiche nella “Terra del Diavolo” Kenya: Un viaggio nel tempo Benin: Istantanee dalla “Maison de la Joie” L’ANIMA DEL VIAGGIATORE Club Magellano La continua e progressiva scomparsa delle foreste primarie DOSSIER Argonauti Explorers Swahili La Civiltà Swahili Atlante Swahili Lamu, l’isola magica Comoros Comore: Bob Denard: l’ultimo mercenario Le Isole della Costa Mozambico: Le Città dell’Oro e degli Schiavi Socotra: L’isola del sorriso ITINERARI INSOLITI Argonauti Explorers Antartide: rotta alla fine del mondo Racconti per immagini Melanesia: i popoli delle montagne viaggi e passaggi segreti nelle terre degli uomini FRONTIERE ihtnahS inimou ilged erret ellen àteiradilos id iggaiv ARGONAUTI EXPLORERS - Associazione Culturale Nazionale - Milano Associazione di Viaggiatori, che vivono il viaggio come percorso di conoscenza, confronto e solidarietà; Luogo dove si progettano itinerari e dove conta lo spirito con cui ci si rapporta con le altre culture e non il “con chi si viaggia”, cioè da soli, con amici o in gruppo. Un’Associazione culturale che non organizza direttamente viaggi, ma si propone come supporto a chi li propone. Anche se il nome è legato alla risonanza di spedizioni di cui siamo orgogliosi, non per questo ci dedichiamo solo a cose “difficili”: più semplicemente cerchiamo originalità in ogni itinerario, in questo senso esplorando sentieri non scontati. www.argonauti.net; e-mail: [email protected]; Centro Documentazione: 02-799911 CLUB MAGELLANO - Torino Dall’800 in molte famiglie piemontesi si raccontano storie sullo zio o sul compaesano illustre vissuto “nell’altrove”: militari della conquista coloniale, missionari Salesiani o della Consolata, veri esploratori (Bottego, Allamano, De Filippi etc.). E’ da questi racconti che nasce la spinta piemontese verso l’irrequietezza? Dagli anni ’70 un gruppo di amici si aggrega prima attorno alla Marcopol, una piccola associazione che organizza viaggi avventurosi ed autogestiti, poi nel Club Magellano con un programma di foto, viaggi, cultura: un punto di incontro “storico” quindi, per viaggiatori della realtà e della fantasia. Circolo Dipendenti Comunali – Corso Sicilia 12 – Torino – Tel. 011-307066 (Anna Mina) ITINERARI AFRICANI - Cuneo L’associazione nasce nel 2003 da un gruppo di viaggiatori con lo scopo di promuovere e valorizzare sul territorio nazionale la cultura africana, proprio perché è indispensabile considerare il patrimonio culturale di un popolo, un bene da salvaguardare sopra ogni cosa. A tale proposito l’associazione realizza diverse iniziative che vanno dalle mostre tematiche, alla presentazione di libri, diaproiezioni, una rassegna culturale annuale dal titolo About Africa cronache di un continente, progetti di solidarietà e sviluppo in Niger e Mauritania. Donato Cianchini – www.itinerariafricani.net – e-mail: [email protected] – tel. 0171696721 LE VIE DEI VENTI - Varese L’Associazione, fondata nel 1993, si propone di aggregare persone accomunate dal desiderio di parlare di viaggi e di varcare così i limiti del proprio mondo, al fine di promuovere uno scambio di conoscenze ed esperienze. Documenti fotografici, ma soprattutto racconti, costituiscono testimonianze di un grande amore per il “diverso” e per l’ambiente, che passa attraverso i rischi, le sofferenze di coloro che ne sono stati di volta in volta i protagonisti. www.asiaroad.it – tel. 0332 231967; e-mail: [email protected] (Gianluca Torrente) MULA MULA - Pontoglio (Bs) Mula Mula è il nome dato dal popolo Tuareg ad un uccellino che le credenze popolari raccontano accompagni il nomade negli sconfinati orizzonti sahariani come portafortuna. L’Associazione, fondata nel 1998, propone la “divulgazione del viaggio come cultura” e come “Università della Vita”, suggerendo l’arte di convivere con altri popoli in modo responsabile, attraverso conferenze, racconti di viaggio, sostegno a progetti di solidarietà, quali la costruzione di pozzi nel Sahel. Tel. 030 7167244 (Lotti Brull) - e-mail: [email protected] OBIETTIVO SUL MONDO - Associazione Culturale L’Associazione è stata costituita nel 1992 da un gruppo di viaggiatori che intendevano proporre al pubblico i loro reportages. Non per protagonismo, ma come occasione per avvicinare culture diverse: un libro aperto per tutti coloro che lo vogliono leggere. Proiezioni, mostre tematiche e la pubblicazione di tre libri con il contributo CEE, hanno rappresentato un salto di qualità che ha consentito di allargare le attività ad altre città. Un’attività sempre più impegnativa, ma che non ha perso di vista la filosofia dell’Associazione. E.mail: [email protected] - Tel. 02-9466688 (Claudio Tirelli) SOMMARIO Mille e una notte: racconti di “malati” di viaggi - Le Vie dei Venti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .pag. L’anima del viaggiatore - Club Magellano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .pag. Dossier: Swahili - Argonauti Explorers . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .pag. Itinerari insoliti: Antartide: rotta alla Fine del Mondo - Argonauti Explorers . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .pag. Racconti per immagini: L’arte di ornare se stessi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .pag. 2 9 11 18 20 In copertina: Indonesia (West Papua): Uomo Yally. Foto di Gino Bilardo (Torino) All’interno foto di: Sandro Bernes, Gino Bilardo, Giovanni Busetto, Renato Civitico, Marco Di Marco, Linamaria Gulfi, Carlo Onofri, Roberto Pattarin, Angelita Piatti, Marco Pierli, Flavia Pioltelli, Claudio Pozzati, Erika Rigamonti, Luisa Rolandi F RONTIERE Editoriale Il grande freddo, la grande diga, la grande foresta di Marco Di Marco Quando, nel visitare un paese, si è cercato di andare al di là del contatto superficiale, di quel paese resta in noi qualcosa. Ci è inevitabile ripensare ai posti che abbiamo visto ed alla gente che lì abbiamo incontrato come a luoghi e persone che fanno parte ormai di una nostra geografia interiore, che in noi si è strutturata con la forza delle sensazioni, intense, sperimentate in tante occasioni d’incontro. Persone e luoghi, con cui è importante non perdere contatto, esercitando un’attenzione particolare ad ogni notizia che su di loro ci arriva. E così, scorrendo i giornali, navigando in internet, ascoltando quel poco che del mondo ci propongono i media... ci sembra di essere ancora vicini, di partecipare in qualche modo - a volte con angoscia e spesso con ansia - alle cose (belle o brutte) che accadono in quel mucchietto di “tessere” che, dal grande puzzle del globo terrestre, abbiamo raccolto nelle nostre peregrinazioni. Proviamo allora a ritornare in Mongolia. A questa terra abbiamo dedicato, alcuni numeri fa, un Dossier. E’ un paese che, come spiegammo allora, ci è particolarmente caro. E così le notizie che arrivano in questi giorni, mentre stiamo chiudendo questo numero di “Frontiere”, ci rattristano parecchio. Quest’inverno è stato per la Mongolia un’autentica catastrofe. Per la quinta volta in vent’anni si è verificato il “grande dzud” un’ondata eccezionale di gelo e nevicate, che ha ghiacciato la superficie dei pascoli. Oltre 3 milioni di animali d’allevamento morti per il freddo e per la fame. Migliaia di persone denutrite e ormai allo stremo con la prospettiva di un’alluvione disastrosa al disgelo. Il cambiamento climatico (con buona pace dei “negazionisti”), si è manifestato nella sua tragica concretezza e ha fatto sì che negli ultimi 20 anni si sia ripetuto ben 5 volte un fenomeno che fino al 1990 accadeva ogni 10 anni! Spostiamoci ora in Africa, precisamente in Etiopia, lungo la valle del fiume Omo, luogo, anche questo, a noi tra i più cari. Ci imbattiamo qui nel nome in codice di un progetto, “Gibe 3”. Si tratta di una diga idroelettrica, il più grande investimento mai concepito in Etiopia (240 metri di altezza per un bacino lungo 150 km!). Ad onta di tutte le rassicurazioni del costruttore (italiano) è forte la preoccupazione di una catastrofe socio-ambientale. Le popolazioni coinvolte (500mila persone tra Etiopia e Kenya) corrono grandi rischi legati a fatto che la diga muterà drasticamente la portata del fiume, arrivando ad eliminare il naturale ciclo delle piene. Recita il Dossier di International Rivers: “Gli agricoltori locali piantano le colture lungo le rive del fiume dopo ogni piena annuale. Queste ridanno anche vita ai pascoli per il bestiame e segnano l’inizio della migrazione dei pesci. Se non si fermeranno i lavori e non si interverrà con adeguate misure di mitigazione, la diga provocherà carestie croniche, problemi di salute, dipendenza dagli aiuti umanitari, e un generale disfacimento dell’economia della regione e della stabilità del suo tessuto sociale, in un ambiente ecologicamente già di per sè molto fragile”. Tutto questo per un progetto molto probabilmente destinato a produrre energia per l’esportazione. Spaziando poi sulla fascia equatoriale (accompagnati anche dall’articolo che Renato Civitico ci propone qualche pagina più avanti), vediamo come una parte dell’umanità, incurante - “business as usual” - degli allarmi sempre più documentati, continui imperterrita nello sfruttamento intensivo delle grandi foreste, scrigno di varietà biologica e tesoro ancora inesplorato di risorse naturali che, semmai, ci chiedono di essere avvicinate con finezza, partendo dai depositi di saggezza accumulati in millenni dai nativi che vi dimorano. E potremmo continuare all’infinito, tutti insieme, questa rivisitazione del mondo in cui abbiamo viaggiato, con sentimenti contrastanti, in cui il negativo pare spesso sopravanzare il positivo. Come evitare un ovvio pessimismo, che, a questo punto, investe le sorti della nostra civiltà e del nostro pianeta vivente? Un suggerimento l’ho trovato proprio in questi giorni nelle parole con cui Jeremy Rifkin conclude la sua ultima riflessione1: “Ad un certo punto ci renderemo conto che condividiamo lo stesso pianeta, che siamo tutti coinvolti e che le sofferenze dei nostri vicini non sono diverse dalle nostre [...] La civiltà dell’empatia è alle porte. Stiamo rapidamente estendendo il nostro abbraccio empatico all’intera umanità e a tutte le forme di vita che abitano il pianeta”. Riusciremo, come si chiede Rifkin, ad “acquisire una coscienza biosferica e un’empatia globale in tempo per evitare il collasso planetario”?. La risposta è tutta da scrivere, ma di certo il rapporto che abbiamo costruito negli anni con persone e luoghi dei nostri viaggi va esattamente in questa direzione. 1 J. Rifkin, La civiltà dell’empatia, tr. it. Mondadori, 2010, p. 570 F RONTIERE Le vie dei venti Mille e una notte: racconti di “malati” di viaggi Nascere e rinascere negli altri attraverso racconti di Gianluca Torrente Leggendo i racconti proposti in questo numero di Frontiere, uno mi ha riportato alla memoria i tanti incontri che ho avuto la fortuna di avere in occasione dei miei viaggi. Spesso mi è capitato di pensare ai protagonisti. Appaiono a distanza di anni quali personaggi ripresi dalle pagine di un romanzo, figure ormai sbiadite che conservano ancora la forza delle loro parole e delle immagini che continuano ad evocare. Probabilmente alcune delle persone incontrate sono ormai morte da anni - considerando che il tempo è assai relativo in molte aree del nostro Pianeta dove interrogarsi sull’età di coloro che incroci è una inutile scommessa - ma l’imprinting che ne è derivato sopravvive in noi e, sicuramente, ci permette di vivere nei racconti degli altri. Navigando su Internet, mi sono imbattuto in questa fiaba africana: Tanto tempo fa, la Luna, che muore e rinasce ogni quattro settimane, disse un giorno alla lepre: “Va’ e annuncia agli uomini che come io muoio e nasco di nuovo, anch’essi moriranno e rinasceranno”. Purtroppo la lepre, nel riferire alla gente il messaggio della Luna, fece una gran confusione. E infatti disse: “Come io muoio e non torno un’altra volta in vita, anche voi morirete e non rinascerete più”. Quando la lepre fu di ritorno, la Luna le chiese che cosa avesse detto alla gente. “Ho detto così: come io muoio e non torno un’altra volta in vita, anche voi morirete e non rinascerete più”. “Ma perché hai detto una cosa simile?” gridò la Luna infuriata. Le tirò addosso un bastone, la colpì sul muso e le spaccò il labbro. La lepre fuggì via e da allora ha sempre avuto il labbro spaccato. E gli uomini, da quel tempo, muoiono e non rinascono. Non si sa viaggiare se non si sa incontrare e non si sa incontrare se non si sa concedere all’altro di entrare per sempre in noi. Un mio caro amico protagonista di tanti viaggi, qualche giorno orsono mi ha detto: “E’ proprio vero che, quando ogni mattina ci specchiamo, vediamo l’immagine degli altri riflessa in noi”. Allora l’uomo diviene come la Luna, muore e rinasce negli altri. Non solo gli oggetti che ritroviamo in un museo o in una vecchia bottega parlano, ma anche le apparizioni che risvegliano in noi i tanti ricordi di viaggio: il problema è saperli interrogare. Ascoltiamo i racconti degli altri e lasciamo che nuovi protagonisti d’incontri, trovino in noi nuovi approdi in cui sopravvivere. KENYA: un viaggio nel tempo di Alessandra Monti 2 Sono passati molti anni, Barbara deve essere morta. Quando l’abbiamo conosciuta era già molto vecchia, oltre gli ottanta; ma ad una signora della sua età sarebbe stato scortese chiedere quanto oltre. Due righe sulla guida ed un breve accenno alla sua villa sull’Oceano Indiano vicino a Malindi. Nulla faceva immaginare che, dietro la dizione sintetica “sistemazioni economiche”, vi potesse essere, ancora miracolosamente intatto, un pezzo di storia. Nata in India e trasferitasi in Kenya dopo avere sposato un coltivatore di caffè, chissà quante cose avrebbe potuto raccontarci sull’epoca d’oro dell’impero coloniale inglese. Al posto delle parole sono stati i gesti, i piccoli cerimoniali quotidiani, a farci capire cosa significava essere i padroni del mondo. Il morning tea servitoci direttamente in camera, innanzitutto. Poi, dopo colazione, la passeggiata mattutina sulla spiaggia, accompagnata dal suo tuttofare Samson e dai bassotti, scatenati alla caccia dei grossi granchi. Il the del pomeriggio, con torte calde appena sfornate. Lunghi pomeriggi assolati trascorsi Kenya (Malindi): Sguardo sull’Oceano Indiano (Carlo Onofri - Bologna) F RONTIERE Le vie dei venti Mille e una notte: racconti di “malati” di viaggi ascoltando alla radio BBC International e sbrigando la corrispondenza con amici in tutto il mondo. Credevo che il campanello per chiamare il cameriere a portare la pietanza successiva si usasse solo nei film in costume. Sbagliato. Lì, in quel pezzo di impero coloniale dimenticato, Barbara lo usava con grande noncuranza. Sia noi che i due giovani australiani ospiti a cena rimanemmo stupiti e affascinati. Se sembrava “antico” a noi adulti europei, quanto doveva sembrare strano a due giovani del paese più lontano dalle convenzioni che c’è al mondo! Il pranzo della domenica ha rappresentato il momento in cui la sensazione di vivere nel film “La mia Africa” è stata più intensa. C’erano tutte le sue amiche delle ville vicine: l’argomento del giorno era il pallone che avevano regalato alla locale squadra di calcio. Stavo godendomi questa atmosfera d’epoca quando, all’improvviso, sono stata coinvolta nella conversazione da una domanda cui era veramente impegnativo rispondere: “quale razza di cani è di moda in Italia?” L’ultima sorpresa Barbara l’ha riservata quando, salutandoci, ci ha detto che non pensava esistessero italiani come noi, così diversi dai rumorosi proprietari di ville di Malindi. Grazie Barbara. ETIOPIA: tre matematiche nella “Terra del diavolo” gio immenso, montagne, valli, lunga strada, ponti, caprette all’ombra di ombrelli naturali (le acacie), venditori di carbone e... un bellissimo bambino che vende uova di struzzo. A Mille, cittadina a 1000Km da Asmara, nome partorito dalla fantasia italiana, un’ottima njera cotta al momento. Caprette che mangiano gli avanzi del chat (sembra che il latte bevuto dai bambini li renda dipendenti). Ancora una lunga strada, sterrata ma bella, verso Asayta, antica capitale degli Afar. Paesaggio bellissimo, primordiale, desertico, con acacie che si sviluppano in altezza e larghezza seguendo la magica legge dei frattali. Ci avviciniamo: lunga fila di pali della luce con appollaiati avvoltoi ed aquile egiziane, attenti ad agguantare i resti di qualche preda abbandonati sul terreno. E poi scimmie, gazzelle, grandi pozze di acqua piovana cui si abbeverano uccellini, alcuni rossi ed altri gialli. E ancora la visione: oltre i massi neri, enormi e di origine vulcanica, ecco il dio Awash, fiume portatore di vita, ricchezza, bellezza e gioia. L’albergo di Asayta è bellissimo: dormiamo su una terrazza in letti con baldacchino-zanzariera, sotto scorre il fiume e sopra brilla la luna piena! Notte indimenticabile per suoni, rumori della foresta, di animali, di uomini, il tutto illuminato dalla luna che, lenta, fa il suo giro. 10 Mar - A Samara, l’attuale capitale, i permessi per entrare di Angelita Piatti Febbraio 2009: tre donne decidono di realizzare un sogno da anni coltivato e partono per l’Etiopia, destinazione Dancalia. Sono tutte e tre matematiche e la Dancalia è anche terra di numeri, e molti negativi, come le quote sotto il livello degli oceani cui la sprofonda la tettonica del Grande Rift. «Ah! Ma allora è vero che quelli che vanno in Dancalia “danno i numeri”!», le ha salutate, ironico, un amico. Comunque eccole tutte e tre - Angela, Angelita e Carla - sulla strada asfaltata che da Addis Abeba in 370 km le porterà fino alla prima tappa, Kombolcha, toponimo che non meriterebbe di essere ricordato se non indicasse un luogo di sosta obbligato. Qui si fermano i camionisti nel percorso - una settimana - Gibuti-Addis (un tempo AsmaraAddis, come ci narra Tommaso Besozzi nel bellissimo libroréportage, “Il sogno del settimo viaggio”). Per Angelita, al suo quarto incontro con l’Etiopia, il viaggio inizia, dunque, su una “lunga strada di paesaggi conosciuti, senza l’incanto attonito della prima volta ma con l’emozione di rivivere sentimenti”. La mattina di lunedì 9 si riparte alla volta della Dancalia, terra degli Afar, pastori nomadi il cui nome significa “uomini liberi”. Ed è lungo questa strada che cediamo la parola all’immediatezza del diario. La terra degli “uomini liberi” 9 Lun - A Bati il lunedì mercato grandissimo: Amara, Oromo, Afar, sono circa diecimila, con le loro cose: spezie, animali, stoffe, sale e bidoni. C’è una forca, dove un tempo giustiziavano i colpevoli, nel punto più alto della leggera collina, ora trapuntata di bancarelle, gente e dromedari. Lunga discesa, con un dislivello di 1500m, verso la depressione. Paesag- Etiopia (Dancalia): Le sorgenti calde di Dallol (Angelita Piatti - Varese) 3 F RONTIERE Le vie dei venti Mille e una notte: racconti di “malati” di viaggi nella zona Afar. Città brutta con l’insieme delle due culture, la moderna con case nuove, ma brutte, e la tradizionale con capanne, ma degradate. Ah, quanto è difficile fondere il nuovo al tradizionale! Si, perché le capanne Afar, per quanto misere nelle spianate deserte, vivacizzate dalle loro donne stupende hanno il loro fascino e la loro dignità. Si prosegue su una strada nuova, inaugurata una settimana fa, in un paesaggio lunare di pietre nere, laviche: in lontananza sabbia chiara e miraggi, ovunque e in continuazione. A Sessanta (60 come i Km dal bivio Gibuti-Lago Afdera) sosta per il lunch e per il troppo caldo. Bambini belli e polverosi ci accolgono. In giro tutta ossidiana: anche il pavimento della locanda è in ossidiana battuta. E via, lungo una strada da paesaggio lunare, immense zone di lava nera, collinette sali e scendi, sempre tutto nero... perfino il cielo, pur essendo terso è grigio. Ci saranno i famosi 50°C e siamo ad altezza 0... e ora a -50! All’orizzonte una striscia azzurra: è il lago Afdera (“dove c’è acqua” in lingua Afar), 140 m. sotto il livello del mare, uno specchio d’acqua salmastra circondato da neri basalti. Visione irreale, è tutto ovattato. Facciamo subito un bagno rigenerante in una delle sorgenti calde che lo alimentano, provenienti dal sistema dell’Erta Ale. Ci accampiamo sulle rive e... magia!... vediamo sorgere la luna dal lago. Notte emozionante: vento, luna, lago. 11 Mer - Passeggiata in riva al lago lungo le saline. Il sale galleggia bianco e spumoso creando immagini uniche. La spuma salina si posa sulle sponde. Questa zona si è formata dopo il Miocene, 50 milioni di anni fa: una depressione lunga 6.000km dal Mozambico alla Siria. La distesa di sale è di 600km2 per una profondità da 1 a 3km! Con noi c’è una guida afar e avremmo diritto a due guardie ma, dato che abbiamo solo due macchine, ne otteniamo solo una. E’ un proforma: non c’è nessun problema attualmente tra governo ed Afar, ma è un pretesto per dare lavoro, infatti ne abbiamo una ma ne paghiamo due! La “Montagna con il fuoco” Paesaggio lunare tutto nero con sprazzi di sabbia e qualche cespuglio. E’ la zona dei vulcani che hanno eruttato fino a poco tempo fa, 1978, e tutta la lava ha annerito il landscape. Il caldo è tremendo, +50°C, e siamo a -25m. dal livello del mare. In un villaggio, tre capanne, il capo con la famiglia si sposta fuori all’ombra e cede a noi la capanna per pranzo e dopo pranzo: oggi come ieri dalle 12 alle 15 non ci si può muovere per il caldo. Ci accampiamo ai piedi del vulcano e, appena è buio, con una scorta (poliziotto afar, poliziotto locale, guida ufficiale e un’altra locale, cammello con i nostri sacchi a pelo) ci avviamo in processione verso il divino Erta Ale (“la montagna con il fuoco” in lingua afar). Procediamo lentamente e con fatica perché il cammino è irto di sassi, lava e sabbia. Ogni mezz’ora una sosta, per fortuna c’è un forte vento che rinfresca e poi la luna meravigliosa ancora quasi piena. Il dislivello è di 400m e dopo circa quattro ore arriviamo in cima: in fondo un bagliore rosso. “Welcome to Erta Ale!” ci dice il cammelliere. Camminiamo ancora, prima una discesa ripida che porta a una vecchia bocca, più larga. Percorso questo strato di lava raffreddata siamo alla bocca principale del vulcano. In fondo all’enorme buco lingue di fuoco, fuoco sul bordo, saette che attraversano il tutto di fuoco. Nell’aria odore di zolfo e un caldo potente che sale fino a noi. Emozione di spettacolo mai visto, grandioso e terrifico! Siamo ipnotizzate, affascinate, annientate dalla potenza e dalla bellezza violenta. 12 Gio - La mattina ci riavviciniamo alla bocca del vulcano e ora vediamo tutta la lava solidificata che forma, colta improvvisamente dal vento gelido durante il suo movimento o perché si è esaurito il materiale, bellissime figure di arte moderna. Una spianata meravigliosa, tutta lava con forme rotonde, da limone spremuto, colonne, alberi, tutto pietrificato nero. La bocca del vulcano... un urlo “ma è mercurio fuso!”. Una, dieci, cento masse in movimento, separate da lingue di fuoco, il tutto in continuo movimento e variazione d’immagine: un quadro mobile, stupendo, fascinoso come un oceano. Anche ora incantate dal gioco incessante delle masse in movimento. La discesa, sulla lava nera e sotto il sole subito cocente, è faticosa ma un vulcano simile non si trova facilmente e chiede questi sforzi per essere più intensamente ricordato. Al rientro accaldate, infuocate, ci accolgono i nostri assistenti rimasti al campo con un catino di acqua fredda per ognuna! Delizia! Lunga strada verso Amadela, villaggio Afar, punto di partenza della spedizione di domani. La “Terra degli spiriti maligni” 13 Ven - Presto partiamo per il Dallol, detto “la terra degli spiriti maligni”. Il landscape è molto simile a quello del Salar de Uyuni: stesse formazioni esagonali sul terreno. Poi, l’inimmaginabile: una distesa di formazioni giallo, rosso, amaranto, arancione e oro! E’ il sale con vari minerali composto nelle forme più strane: seggioline, piccoli presepi, montagne, montagnette, il tutto riflesso in terrazzamenti d’acqua. E poi, bianco sfavillante e arancione... mai visto niente di simile. Meraviglia, meraviglia! Rosso con righe più rosse in risalto, giallo con righe più gialle... Ricordo la bocca del cratere: grigio con righe 4 Etiopia (Dancalia): Il cratere dell’Erta Ale (Angelita Piatti - Varese) F RONTIERE Le vie dei venti Mille e una notte: racconti di “malati” di viaggi Un po’ come l’eclisse... Risaliamo l’altopiano fino a Berale, 600m. Lungo la strada siamo inizialmente avvolti nella nebbia dovuta alla calura e ai 120m sotto il livello del mare. Orizzonte plumbeo, vaghe forme di montagne ed alberi ovattati e lattiginosi. Risaliamo pian piano - una strada tremenda, quelle degli Altai mongoli in confronto erano belle - in un paesaggio primordiale tutto arido, canyon scavati da fiumi impetuosi, e poi... un anfiteatro di pietra, da una parete scende una cascata d’acqua, una doccia naturale meravigliosa, rinfrescante. Siamo ancora ai piedi di monti dalle forme strane - coni, cilindri, e comunque inusuali - e la vegetazione è quasi inesistente. A Berale, paesone polveroso punto di arrivo delle carovane del sale, ci accampiamo nel cortile Etiopia (Dancalia): Lavorazione del sale nella regione dell’Assale (Angelita Piatti - Varese) della scuola. 15 Dom - Stanotte ho visto bene il carro in cielo! Lunga risalita sull’altopiano. Paesagrosse, sono le linee di forza, sono disegni frattali con cui è scritgio meraviglioso e vario: dalla depressione ta la natura dai vulcani ai salar, esagoni pietrificati, spiriti ma- arriviamo a 2000 m. per strade impervie, vedendo precipizi ligni quando non si sa dare altra spiegazione a cose così strane. vertiginosi, wadi enormi, terre sconvolte da terremoti di mi50°C fuori, 40 sotto il tendone, dove passiamo un pomeriggio lioni di anni fa. Infine il paesaggio tigrino, che ai nostri occhi il cui unico obiettivo è la sopravvivenza (è venerdì e non si la- abituati al deserto appare dolce, bucolico, un presepe. Il verde e vora, domani andremo a vedere i lavoratori del sale). i fiori ci sembrano rarità preziose. Ma la Dancalia, che abbiamo 14 Sab - Sole bianco offuscato da nubi di calore. Via! Verso la appena lasciato, è una terra meravigliosa, unica. Ciò che abbiaspianata dove, in uno scenario da inferno dantesco, lavorano... mo visto è impresso nel nostro cuore e nella nostra mente. E’ i più disagiati della terra. Siamo nella regione dell’Assale nel davvero la natura all’inizio del mondo! Anche il disagio, il non punto più profondo (-116m) dei 200km per cui si estende la poter sostare in nessun posto, tutto ciò fa apparire il viaggio grande depressione dancala. In questa zona si trovano i princi- come una visione di sogno... E succede un po’ come con l’eclispali giacimenti di sale della Dancalia. L’espressione Assa Ale se: devo continuare a ripensarla, altrimenti la perdo! (in dancalo “monte rosso”) è riferita a due spuntoni di solfato di magnesio da cui prende nome il lago mobile dell’Assale (profondità massima 2m), che scivola nella piana seguendo il ciclo dei monsoni: d’estate a nord, fino a Dallol, d’inverno a sud fin verso l’Erta Ale. Nell’estrazione e lavorazione del sale cooperano tigrini dell’altopiano ed afar. I tigrini estraggono a picconate i blocchi di sale e li spezzettano in mattonelle (ganfùr) di tre pezzature diverse (4, 6 e 8kg). Le mattonelle sono squadrate dagli afar che, servendosi di una sorta di spatola, le riducono alle dimensioni richieste. In totale 300 ganfùr per lavoratore, in una giornata durissima: 7 ore di lavoro, più 2 per arrivare e 2 per tornare a casa (e pochissimi minuti per mangiare) con temperature di 4060°C all’ombra. Riposo il venerdì o la domenica a seconda della religione (gli afar sono musulmani, i tigrini cristiani). Questi ritmi e queste condizioni infernali di lavoro continuano per mesi, per interrompersi soltanto alla stagione delle piogge, quando le strade dell’altopiano tigrino diventano impraticabili. Etiopia (Dancalia): Ragazza Afar (Angelita Piatti - Varese) 5 F RONTIERE Le vie dei venti Mille e una notte: racconti di “malati” di viaggi BENIN: istantanee dalla “Maison de la Joie” di Erika Rigamonti Una magica accoglienza Non sono mai tornata nel medesimo luogo. Nonostante la bellezza dei paesaggi, la potenza della natura e la malinconia che, inevitabilmente, accompagna ogni ritorno in Italia. Nonostante gli arrivederci che sapevo essere addii, nei miei viaggi, mai ho ripercorso i medesimi luoghi né rivisto i medesimi volti. Eppure a gennaio, a soli cinque mesi di distanza, sono tornata in Benin, a Ouidah, alla Maison de la Joie. Per la prima volta nella mia vita, il desiderio di restare lì era stato più forte del desiderio di tornare al mondo a cui appartengo per nascita e cultura. Per la prima volta le lacrime, così comuni nei saluti, erano state troppo sofferte, dolorose, incapaci di accettare quel distacco prematuro e ingiusto. In quella casa caotica, immersa nella sabbia rossa di Ouidah, dove le donne sono continuamente chine sulle tinozze, dove i vestiti dei bambini sono stesi sui i fili vicino al pozzo, dove le risate riecheggiano per le scale e in cui, con un misto di commozione e titubanza, trovai allora, per la prima volta, il coraggio di scendere in cortile e mangiare insieme, intorno al tavolo di legno, con le mani, come loro. In quella grande casa avevo respirato il senso della famiglia. Ero stata travolta da un’ amore imprevisto e potente, capace di accogliere, accudire, salvare chiunque varcasse la sua porta di ferro. A gennaio ci sono tornata e mentre i bambini mi strappavano di nuovo le borse dalle mani per portarle in casa, mi sono accorta che, ai margini di quel trambusto, c’erano occhi nuovi, più ti- Benin (Ouidah): Figura di révenant (spirito di defunto che ritorna) in una danza voodoo (Erika Rigamonti - Parma) midi, più esitanti, occhi in attesa di capire se potevano essere, anche loro, parte di quella festa che ci stava travolgendo. E così, mentre vedevo Grace scrutarmi dal basso in alto con il suo sguardo impertinente, mentre mi accorgevo quanto Abbash fosse cresciuto e François mi sfoderava, tutto fiero, i suoi saluti in italiano, me li guardo meglio e in quell’istante inizio a capire. Li conto una prima volta e poi di nuovo. Arrivo sempre a 47. Non riesco a crederci! Sono 13 bambini in più che potranno finalmente sorridere, mangiare, andare a scuola, fare la gita al mare e guardare i cartoni animati. Al piano di sopra i turisti si affacciano sorridenti sulla festa dell’arrivo e, come è giusto che sia, quando si vive tutti insieme, con le stanze dalle porte aperte, la tavola in comune e le notti trascorse a parlare sotto un cielo di stelle, vengono a presentarsi e a dirci, anche loro, “benvenuti alla Maison de la Joie”. Il sibilo della notte Il festival del Voodoo era ormai finito e una lunga fila di donne, sul dosso della battigia, guardava le onde spalmarsi sulla sabbia rossa mentre i bambini, sfidandole, cercavano invano di essere più veloci del mare. Le salutai, come di rito, con un cenno del capo e mi incamminai da sola verso il palmeto al centro della laguna, senza rendermi conto, però, che la notte, più veloce dei miei passi, era quasi arrivata. Entrai a Ouidah col buio, stu- 6 Benin (Ouidah): Festival del Voodoo. Adepte della foresta sacra (Erika Rigamonti - Parma) F RONTIERE Le vie dei venti Mille e una notte: racconti di “malati” di viaggi pendomi, come una sciocca, del silenzio inusuale e della totale assenza di bambini sulla strada. Mi accesi una sigaretta e seduta davanti a una porta chiusa mi ricordai ciò che in Italia avevo liquidato con troppa leggerezza. Nei giorni del festival gli Ourò escono per tre notti consecutive. Gli Ourò, l’incarnazione dello spirito dei morti, coloro che mai avrei dovuto vedere, coloro che nessuno conosce, che nessuno deve sfidare con lo sguardo. Gli Ourò, la parte più oscura del Voodoo. E, mentre ripensavo agli avvertimenti che avevo ricevuto, un sibilo improvviso tagliò il silenzio. Nel pomeriggio, durante la festa sacra avevo sorriso della loro fede. Come potevano credere che un grosso pagliaio colorato, uno Zangbetò, potesse Togo (Lomè): Bamboline voodoo al mercato dei feticci (Erika Rigamonti - Parma) roteare da solo come un’immensa sottana dotata di vita propria? Come potevano credere che fosse“Alè!” Mi rispose. Salii sulla sua moto. ro davvero gli spiriti dei morti quelli che seminavano il terrore Arrivata a casa Justine era sulla soglia. Insieme andammo a per le strade della città durante la notte? Ma ora quel sibilo mi sprangare la porta, a chiudere le persiane, a controllare il canstava terrorizzando e anch’io, come loro, mi rivolsi a lui, la dicello e solo quando fui di nuovo sicura, mi affacciai al terrazzo. vinità che protegge la notte, per chiedergli aiuto contro l’ ignoto “Non Erikà, ne regarde pas la route! Rentre immediatemment che mi circondava. Lo pregai e mi precipitai nel buio, lungo i à la maison!” vicoli deserti, correndo davanti alle porte chiuse e, sfinita, mi La seguii dentro casa, dove i bambini, le donne e i turisti dormifermai di nuovo, col cuore in gola, ad ascoltare la notte. Il sibilo vano sereni dopo quella giornata di sole e di festa e ripensai con era svanito. E non lontano da me, in fondo alla strada, c’era gioia allo Zangbetò e al fatto che non mi importava più sapere ancora la grande piazza, con le luci colorate che addobbavano cosa animasse quel pagliaio colorato, perché per me, al di là di gli alberi e le moto taxi parcheggiate nel solito angolo. tutte le credenze, esisteva uno spirito buono che, davvero, mi “Gli Ourò!” Dissi a uno dei ragazzi, indicando un luogo indeaveva protetto nel buio della notte. finito verso il mare. Piatto tipico: igname pillè di Erika Rigamonti Viaggiare in Benin significa anche scoprire la bontà dello igname pillè. Sui tavoli di tutti i ristoranti troverete una bacinella di plastica, una caraffa e del detersivo: sono un invito a lavarsi le mani prima di iniziare, ma ricordatevi di mangiare usando soltanto la mano destra; l’altra deve restare rigorosamente pulita. A questo punto vi verranno portati due piatti coperti: il primo con gli Igname, il secondo con il sugo di arachidi e ciò che avrete ordinato: spezzatino di montone, formaggio o pesce. Inumidite tre dita, affondatele nella perfetta sfericità dello igname pillè, staccatene un pezzetto, inzuppatelo con il sugo, uniteci la pie- tanza che avete scelto e mangiate tutto insieme. L’igname è un grosso tubero originario del Sudamerica. Si narra che venne importato dal Brasile nel 1800, pare ad opera di Francisco de Souza, il Vicerè di Ouidah, che non potendo più arricchirsi con la tratta degli schiavi tentò nuove e fallimentari attività commerciali. Piatto tipico dell’intero paese, oggi cresce prevalentemente nelle regioni del nord. Una volta sbucciato e lessato viene pestato dalle donne nel mortaio fino a ridurlo a una polenta collosa. A Ouidah l’unico ristorante dove potrete assaporare questo gustoso piatto tipico, seduti all’ombra del grande mango o nella sala coperta è il “Palais de l’Igname Pillé” gestito dalle donne della Maison de la Joie. Per raggiungerlo percorrete la strada statale Cotonou - Lomè e quando sarete vicini a “la station de police” vedrete le insegne. Bon appetit! 7 F RONTIERE Argonauti Explorers L’anima del viaggiatore La continua e progressiva scomparsa delle foreste primarie aree di foresta sono minacciate dal taglio illegale di alberi, che tra il 1990 ed il 2000 ha fatto perdere oltre 55 milioni di ettari di foresta naturale. I paesi della regione hanno infatti aumentato le attività di estrazione del legno senza creare aree destinate alla conservazione. Diversi milioni di ettari di foresta incontaminata, di Renato Civitico sono stati ceduti in concessione alle compagnie del legno per estrazione industriaLa mappa delle biodiversità, aggiornata di le di tronchi. Le operazioni di taglio sono recente da Greenpeace, dimostra come le spesso condotte con metodi efficientissimi. estensioni di foreste primarie si stiano proIl taglio viene effettuato in maniera seletgressivamente riducendo, o non esistano tiva ed intensiva, spesso su alcuni alberi, quasi più in vaste aree del pianeta. Questo come il Moabi, l’Afrormosia, il Bubinga, studio ha utilizzato mappe ed immagini sal’Iroko, l’Ayous e il Wengé, che adesso ritellitari, mettendo in evidenzia come solo schiano l’estinzione. in sette aree del pianeta, le foreste primarie Molte delle imprese attive in Africa sono abbiano ancora un’estensione considerecontrollate da società europee e americane, vole. Queste regioni si trovano in Africa, che operano in più modi; alcune sono diretAmazzonia, Asia, Finlandia, Canada, Rustamente coinvolte nel taglio illegale degli sia e Cile. Le foreste primarie sono enoralberi. Di recente ed in seguito all’esaurimi aree naturali di fitta vegetazione, con mento delle foreste tropicali in Asia, anche solo un piccolo impatto da parte di attività alcune compagnie asiatiche hanno cominUganda: Semliki National Park umane. Le foreste primarie includono aree ciato ad operare in Africa. Tra queste le più (Marco Di Marco - Alessandria) tropicali, boschi di conifere, macchie pluviaimportanti sono quelle malaysiane, tristemenli, foreste di montagna e formazioni di mante note per le gravi conseguenze ambientali e grovie. Esse assicurano l’habitat naturale a moltissime specie sociali delle loro operazioni in Malaysia e nel Pacifico. animali e vegetali, oltre a rappresentare una fonte di vita per Tra gli acquirenti principali di legno africano ci sono molti centinaia di migliaia di indigeni e nativi. Le foreste purificano paesi europei (Italia, Francia, Spagna, Portogallo), mentre i l’aria che respiriamo, prevengono l’erosione del suolo e comflussi commerciali segnalano una forte crescita della domanda battono le frane. Riforniscono e preservano i bacini, assicuranda parte dei mercati asiatici. Rimedi immediati alla silenziosa do grandi riserve di acqua dolce e aiutano a combattere l’effetto scomparsa delle foreste primarie non sono facili da trovare. serra, assorbendo grandi quantità di carbonio. Una prima forma di tutela ambientale passa sempre attraverso Si calcola che circa l’80% delle aree di foresta primaria sia anun’ampia e diffusa conoscenza del problema, coinvolgendo i dato perduto, o comunque sia stato degradato. Di queste foreste principali organismi internazionali. L’Italia di recente è riuscita il Bacino Africano ricopre una vasta area, attraverso gli stati di a far dichiarare le tre cime dolomitiche patrimonio dell’umaniCamerun, Repubblica Centrafricana, Congo Brazzaville, Retà. Ovvero è riuscita a far considerare patrimonio collettivo, un pubblica Democratica del Congo, Guinea importante luogo naturale. Questa potrebEquatoriale e Gabon. be essere una prima strada per tutelare anCome estensione questa regione è seconda che queste regioni del mondo, enormi pasolo alla foresta pluviale Amazzonica, ed trimoni della biodiversità. Ma per fermare è anche l’area più ricca di specie di tutta la distruzione di queste aree è necessario l’Africa, nonché una delle difese essenziali che le nostre società occidentali, principali del pianeta contro i cambiamenti climatici. consumatrici di legni pregiati, decidano di Le foreste della sola Repubblica Democrautilizzare altri materiali, diversamente quetica del Congo ospitano oltre 1000 specie sta processo di spoliazione non si fermerà. di uccelli e 400 specie di mammiferi, molte Per questo mi domando: siamo pronti a delle quali non si trovano in nessun’altro fare questa scelta? Lo sfruttamento intenluogo del pianeta. sivo delle foreste primarie non può contiLa Foresta Africana è essenziale anche per nuare all’infinito, i principali cambiamenti la sopravvivenza dei nostri più vicini paclimatici stanno modificando lentamente e renti: il gorilla di montagna e lo scimpanzé, inesorabilmente il nostro pianeta. ma oltre a questi animali sono più di 12 miA queste conseguenze dobbiamo pensare. lioni le persone che abitano in questa vasta regione. In Africa grandi parti delle residue 8 Repubblica Democratica del Congo - Gorilla del Parco Virunga (Marco Di Marco - Alessandria) F RONTIERE Argonauti Explorers Dossier: Swahili La civiltà Swahili successivi sei: le navi a vela potevano così sfruttare questa circostanza per raggiungere di Marco Di Marco l’Africa Orientale e ritornare ai porti d’origine nel giro di Correva l’anno 1329. Ibn Battuta, giunto un anno. all’estremità meridionale dell’Arabia dopo aver Per lungo tempo si è creduto compiuto il pellegrinaggio alla Mecca, si imbarche la civiltà swahili fosse escò ad Aden su un sambuco che fece vela diretsenzialmente il frutto di una to alla costa africana. Dopo aver toccato Zeila colonizzazione di mercanti (attuale Somaliland), proseguì costeggiando il arabi e persiani, a partire dai Corno d’Africa fino a Mogadiscio, allora fiorenprimi secoli dell’Islam. Scate città-emporio. Traversato poi l’equatore, fece vi e studi approfonditi negli tappa a Mombasa, per raggiungere infine Kilwa, ultimi decenni hanno però la più potente delle città swahili, che monopolizdimostrato la presenza di inzava il commercio dell’oro estratto nelle miniere sediamenti urbani sulla costa dello Zimbabwe. Agli occhi del grande viaggiaorientale dell’Africa sin 2000 tore di Tangeri si presentava una civiltà fiorente: anni fa. Le origini della civiltà i 3500 chilometri di costa, tra il Sud della SoOceano Indiano: Dhow Swahili swahili furono dunque africamalia e il Mozambico meridionale, le isole Co(Roberto Pattarin - Sondrio) ne. I rapporti col mondo arabo more e parte del Madagascar, erano disseminati erano comunque antichissimi di centri urbani. Porti brulicanti di imbarcazioni, ed anteriori all’avvento dell’Islam. L’inizio dell’immigrazione e, una volta sbarcati, il biancore di palazzi, moschee, dimore islamica viene fatto comunemente risalire all’VIII secolo d.C., signorili (tutti edifici in pietra corallina), a costituire, insomma, quando cominciarono ad arrivare dall’Oman profughi sciiti, vere e proprie città che ospitavano una società mercantile culseguiti, un secolo dopo, dagli ortodossi sunniti di Shiraz (in turalmente evoluta. Le descrizioni di Ibn Battuta, come quelle Persia) che, dopo aver edificato alcune città sulla costa somala, di altri viaggiatori arabi, ci narrano con dovizia di particolari fondarono Kilwa, sull’attuale costa tanzaniana. In questa priquanto queste città - i centri più importanti erano Mogadiscio, ma fase, probabilmente, i coloni musulmani, in numero troppo Brava, Lamu, Malindi, Gedi, Mombasa, Pemba, Zanzibar, Kilesiguo, erano stati assorbiti dalle popolazioni locali. Nei secoli wa - fossero belle, ricche e potenti. Gli abitanti parlavano il successivi, le ondate migratorie - perlopiù pacifiche - dall’Araki-Swahili, lingua bantu che nei secoli (come accade alle lingue bia e dal Golfo Persico si erano intensificate dando progressivaparlate da mercanti, le cosiddette “lingue franche”) si era - e mente vita ad un melting pot in cui gli immigrati, pur non mesi sarebbe ancor più - arricchita di parole derivate dall’arabo e scolandosi mai completamente con le popolazioni locali, con da altri idiomi. E “Swahili” divenne per l’appunto il nome di esse realizzarono un’originalissima sintesi tra cultura islamica queste popolazioni. e cultura africana. Nel XIII secolo i Musulmani controllavano ormai la rete dei commerci nell’Oceano Indiano e con essa tutCol favore dei monsoni: le origini del “mondo” swahili ta la costa dell’Africa Orientale, che era entrata a pieno titolo La costa dell’Africa orientale costituiva da secoli un’interfacnel mondo islamico. Ma si trattava di un Islam particolare, “incia tra le civiltà dell’Oceano Indiano e l’interno del continenculturato” nelle tradizioni locali e nell’animismo africano. Le te africano, ricco di risorse naturali. Oro, avorio e prodotti di città swahili non erano quindi città arabe: erano città africane, grande pregio (corni di rinoceronte, carapaci di tartaruga, inabitate insieme da africani e da mercanti e coloni provenienti censo, mirra, ambra gialla, legno di sandalo, cristallo di rocca, dal Medio Oriente, la cui presenza si differenziava da luogo a ebano), tutti questi prodotti arrivavano dall’interno per essere luogo con esiti peculiari ad ogni situazione. avviati a bordo delle navi verso i bazar del vicino e lontano Oriente. E, purtroppo, analoga destinazione attendeva le lunghe Navi e cannoni: il dominio portoghese teorie di schiavi neri che le carovane trascinavano dai lontani Nel 1507 il viaggiatore bolognese Ludovico Varthema, di ritorvillaggi fino alla costa: anche loro “merce” destinata ad essere no, su una nave portoghese, dalle sue peregrinazioni in Oriente, venduta nei mercati oltremare. A loro volta, le navi arrivavano annotava nel suo diario: nei porti swahili cariche di merci di scambio, nonché di generi “Arrivammo all’isola di Mozambico, che appartiene al re del di lusso (ceramiche arabe e cinesi, perle di vetro, pietre semiPortogallo. E prima di arrivare a quest’isola vedemmo molti preziose e altro) e di tessuti, essenziali all’elevato tenore di vita paesi che sono soggetti al mio signore il re del Portogallo. In delle classi agiate swahili. queste città il re tiene dei buoni forti, sopratutto in Malindi (che Questa funzione di interscambio era felicemente modulata dai è un regno). Mombasa, il viceré la mise a fuoco e fiamme. A venti monsonici, che spiravano da NE per sei mesi e da SO nei 9 F RONTIERE Argonauti Explorers Dossier: Swahili Kilwa vi tiene un forte, e uno se ne stava facendo a Mozambico. Anche in Sofala c’è un ottimo forte. Io non scrivo di quello che fece il coraggioso capitano Tristan da Cunha, il quale nel viaggio di andata in India conquistò Angoche e Patta e Brava [...] e l’ottima Socotra [...] E taccio anche di molte belle isole che trovammo sul cammino, fra le quali c’è l’isola Comore con attorno altre sei isole in cui nasce molto zenzero e molto zucchero e molti frutti speciali e carne di ogni tipo in grande quantità. E anche non vi dico d’un’altra bella isola chiamata Pemba, la quale è alleata del re del Portogallo e fertilissima in ogni cosa”. In pochi anni lo scenario politico, sociale ed economico dell’Oceano Indiano era cambiato drasticamente con l’arrivo delle flotte portoghesi, lanciate, dopo aver circumnavigato l’Africa, sulla nuova rotta commerciale delle Indie. Alla prima spedizione di Vasco da Gama (1498), seguirono altre che, sfruttando la propria superiorità militare e le rivalità tra le città-stato swahili, assunsero il controllo di gran parte della costa (ad eccezione di Mogadiscio e della Somalia), ponendo le loro prime basi a Sofala, Kilwa, Socotra e Ormuz. I Portoghesi soppiantarono così la rete preesistente del commercio arabo via mare ed impedirono all’emergente potenza turca di impiantarsi nella regione. In breve molte città, fino ad allora fiorenti, subirono un processo di decadenza spesso irreversibile, a causa delle distruzioni (causate anche da attacchi di tribù dell’entroterra), ma più ancora delle tasse e delle restrizioni alla libertà di commercio imposte dai portoghesi. E’ il caso di Kilwa e Sofala, che furono abbandonate dai loro abitanti e sparirono senza quasi lasciar traccia. Altri centri, come Malindi, si allearono coi Portoghesi. Altri ancora, come Mombasa seppero resistere e, attraverso vicende alterne, riuscirono a sopravvivere. Il dominio portoghese, che fu essenzialmente commerciale e strategico e, come tale, non lasciò segni tangibili all’interno, si protrasse per ben due secoli attraverso colonie limitate alle isole sottocosta (Mozambico, Zanzibar, Pemba, Mombasa e l’arcipelago di Lamu). Ma entrò in crisi ben prima, verso la fine del 1500, con una serie di sommosse (è di questo periodo la costruzione, nel 1593, della grande cittadella di Fort Jesus a 10 Kenya (Lamu): Architettura Swahili (Marco Di Marco - Alessandria) Mombasa), che facevano perdere il controllo di fatto della costa settentrionale. L’intervento militare degli imam dell’Oman (tappe salienti la conquista di Pemba, nel 1606, e la battaglia di Ormuz, nel 1622) dava una spinta decisiva al declino irreversibile dell’egemonia lusitana. E così il XVII secolo si concludeva con la caduta, nel 1698, di Fort Jesus per mano degli omaniti. Schiavi e spezie: l’epoca omanita Agli inizi del XVIII secolo, per gran parte, la costa dell’Africa orientale aveva ormai ripristinato i suoi storici collegamenti culturali e commerciali col mondo islamico. In mano portoghese restava solamente la costa del Mozambico, che garantiva il controllo dei commerci con la regione aurifera dello Zambesi. Il XVIII secolo vide così rinascere le città-Stato swahili sotto dinastie arabe vassalle di quell’Oman che, avendo combattuto vittoriosamente contro i portoghesi, si era affermato come la nuova potenza egemone nella regione. Gli omaniti si erano impadroniti delle isole di Pemba e di Unguja (Zanzibar) e qui si erano stabilmente insediati. Con la loro presenza l’importanza commerciale e politica di Zanzibar aumentò a tal punto da eclissare tutte le altre città della costa orientale africana. L’isola divenne il centro più fiorente della regione, con un’economia basata sulla tratta degli schiavi. Migliaia di africani, catturati da spietati mercanti-razziatori, erano avviati alle vaste piantagioni di datteri dell’Oman o venduti agli europei, che li avrebbero impiegati nelle piantagioni di chiodi di garofano delle Indie Orientali. La potenza di Zanzibar raggiunse il suo apice nel XIX secolo, arrivando addirittura a sovvertire i rapporti con l’Oman, quando il sultano Seyyid bin Said decise di trasferire qui la capitale, e introdusse nell’arcipelago la coltivazione dei chiodi di garofano, di cui in breve tempo Zanzibar divenne il più grande produttore mondiale. Ai chiodi di garofano seguirono diversi tipi di spezie: pepe, zenzero, cumino e cannella. A questo punto Zanzibar - ormai soprannominata “Isola delle spezie” - era diventata il fulcro di un vasto impero economico. L’enorme richiesta di mano d’opera consentì agli omaniti di proseguire, anzi di intensificare il traffico schiavista proprio negli anni in cui le potenze europee cominciavano a metterlo al bando. Adesso gli schiavi servivano anche alle piantagioni dell’isola e così nel mercato di esseri umani di Stone Town inaugurato nel 1811 - si compì per più di mezzo secolo il tragico destino di un milione di africani. Alla morte di Seyyid bin Said, nel 1856, la rottura dell’unità politica con l’Oman diede l’avvio alla decadenza di Zanzibar, che si consumò in pochi decenni, pur in un contesto di prosperità economico-commerciale che vedeva arrivare al suo apice la tratta degli schiavi e l’esportazione delle spezie. Con l’accordo anglo-tedesco del 1886 e il passaggio di Zanzibar sotto il protettorato inglese si chiudeva una fase storica. Negli anni a venire, prima con la dominazione coloniale e successivamente con la nascita dei nuovi stati africani, la storia della costa swahili si sarebbe sempre più identificata con le più generali vicende dell’Africa Orientale. F RONTIERE Argonauti Explorers Dossier: Swahili Atlante Swahili cura di Gianni Oggioni e Marco Di Marco Queste le più importanti, tra le 37 città swahili dalla Somalia al Mozambico: Mogadiscio (Somalia): Fondata tra il IX e il X sec. da coloni persiani, con le sue cento moschee e il suo grande porto era una delle più importanti, ricche e popolose città swahili. Dal X sec. fu sede di un sultanato e fiorente emporio di traffici marittimi verso India e Cina. Controllò il commercio dell’oro (fin dallo Zambesi) fino al XII sec., quando le subentrò Kilwa, a sua volta soppiantata tre secoli dopo dai portoghesi. Lamu (Kenya): Uno dei primi insediamenti swahili. Fondata nel VII sec., raggiunse il massimo splendore tra il XV-XVI, con un’economia basata sul commercio di schiavi, avorio, gusci di tartarughe e legni pregiati che venivano prelevati nel ricco entroterra e scambiati con tessuti, ceramiche, olio e zucchero. Con l’arrivo dei portoghesi (1506) la vita nel piccolo arcipelago fu sconvolta, per quasi due secoli, da guerre e cambi di guida politica. Il declino coincise con la fine del commercio degli schiavi che lasciò senza lavoro i ricchi mercanti e gli armatori che avevano investito i capitali su questo ignobile traffico. Gedi (Kenya): Misteriose ed eccitanti, le rovine di questa città di pietra improvvisamente abbandonata dai suoi abitanti nel XVI sec. forse a causa dell’arrivo di nomadi Galla da Ogaden e Somalia. Il complesso archeologico rimase completamente nascosto dalla giungla per tre secoli finché fu ritrovato alla fine del XIX sec. e restaurato tra il 1948 e il 1958. E’ uno dei siti storici più importanti del Kenya e la più interessante testimonianza di centro urbano swahili. Gedi era protetta da una doppia cinta muraria. Costruzioni più significative: la Grande Moschea, il complesso di tombe rialzate secondo l’usanza swahili, l’edificio in cui il sultano dirigeva l’economia ed amministrava la giustizia, ed alcune case signorili ben conservate. Malindi (Kenya): Fondata intorno al VII sec. Nel 1498, riservò a Vasco da Gama una calorosa accoglienza, instaurando un’alleanza che durò circa due secoli ed evitò a Malindi di essere conquistata e di pagare l’imposta cui dovevano sottostare le altre città. I portoghesi vi tennero la sede della loro amministrazione fino al 1593, quando la trasferirono a Mombasa, dando inizio al declino di Malindi, definitivamente abbandonata verso la fine del XVII sec. per le incursioni omanite e le invasioni dei nomadi Galla. A metà del XIX sec. Malindi rinacque con le coltivazioni di grano e altri generi alimentari per il sultanato di Zanzibar. Mombasa (Kenya): La seconda città del Kenya fu, tra il VII e il XV sec., terminale del traffico di avorio e schiavi e si ingrandì, con eleganti palazzi e raffinate moschee. Saccheggiata da Vasco da Gama (1498), fu conquistata dai portoghesi che ne fecero la base principale sulla rotta delle Indie. Alla loro cacciata seguirono fasi alterne di indipendenza/soggezione all’Oman fino alla fine degli anni 1830, quando Mombasa fu annessa a Zanzibar per passare poi, nel 1898, sotto il controllo britannico. Nella città vecchia le case più importanti hanno graziosi balconi in legno e portoni finemente intarsiati con motivi simbolici geometrici o floreali, incontro delle culture che qui si sono confrontate per secoli. Zanzibar e Pemba (Tanzania): L’isola di Zanzibar ha avuto un ruolo assai importante nella storia dell’Africa orientale. Le prime notizie risalgono al 200 a.C., con l’arrivo di mercanti Arabi in cerca di avorio per greci e romani. Al X sec. risale l’arrivo dei Persiani di Shiraz che dominarono l’isola fino all’arrivo dei Portoghesi (1503), facendone un centro per il commercio di avorio, spezie e schiavi. I Portoghesi rimasero fino a quando (1726) Zanzibar fu conquistata dagli Omaniti, con i quali conobbe il massimo splendore. Di quest’epoca è testimonianza Stone Town, dichiarata Patrimonio dell’Umanità. Nell’isola di Pemba, che di Zanzibar condivide la storia, si trovano resti archeologici tra i più antichi e meglio conservati della regione. Kilwa (Tanzania): Fondata sull’omonima isola da persiani di Shiraz nel VII sec., crebbe nei secoli successivi fino a diventare, nel XIII (quando assunse il controllo di Sofala e quindi del commercio dell’oro), la città più potente della costa orientale dell’Africa. I suoi sultani battevano monete di rame nella prima zecca africana a sud del Sahara. A questo periodo si devono la grande moschea e il ricco palazzo. Le fortune di Kilwa ebbero termine nel XVI sec. quando i portoghesi, dopo averla depredata, la abbandonarono in decadenza. Dopo una rinascita nel XVII sec. sotto gli omaniti, la sua storia si interruppe nel 1857, con l’orrenda carneficina ad opera dei cannibali Zimba. Gli scavi archeologici ebbero inizio negli anni ‘50 del secolo scorso. Dal 1981 Patrimonio dell’Umanità. Sofala (Mozambico): Il più antico porto dell’Africa Australe si era sviluppato fin dal 700 a.C. Conquistato dai mercanti persiani attorno al 1100, fungeva da terminale per l’oro, che arrivava dalle miniere dello Zimbabwe alla costa con dei dhow via fiume. Nel XIV-XV sec. passò sotto il controllo del Sultano di Kilwa. Divenuta poi (1505) la prima colonia portoghese del Mozambico, mantenne la sua supremazia commerciale per secoli, fino a quando non fu la vicina fondata Beira (1890). Il porto si era ormai interrato per i sedimenti fluviali e la deforestazione e, cogli anni, dell’antica grandezza rimasero soltanto poche rovine. Kenya (Lamu): Souk Swahili (Linamaria Gulfi - Milano) 11 F RONTIERE Argonauti Explorers Dossier: Swahili Lamu, l’isola magica di Gianni Oggioni L’arcipelago di Lamu, baciato da un eterno sole e lambito dall’azzurro cristallino dell’oceano, si trova a due gradi sud dell’equatore, quasi al confine del Kenya con la Somalia), ed è formato da quattro isole principali (Lamu, Manda, Pate e Kiwaiyu) più una decina di isolotti disabitati. Anche se Pate è un po’ più grande e fino al XVII secolo economicamente la sopravanzava, Lamu (10km per 7) è oggi l’isola più importante per popolazione ed economia. Banchi di corallo affioranti, spiagge di sabbia bianca che scompaiono sotto l’alta marea, mangrovie intervallate da palmeti e campi coltivati, l’isola di Lamu è molto interessante per la cultura e l’architettura swahili, ma soprattutto per l’atmosfera della città, oltre che per la spiaggia di Shela. Su Manda, dove c’è l’aeroporto, si trova una delle più belle spiagge dell’arcipelago, a pochi minuti di barca da Lamu. Kiwayu, l’isola più a nord, è una striscia di sabbia bianca. Navigare con il dhow, lungo coste sabbiose od orlate da una rigogliosa mangrovia, è un’esperienza unica ed esaltante, sia per l’eccezionale sequenza di ambienti naturali che per la perizia nautica dei pescatori i quali, grazie alla perfetta conoscenza di maree, fondali e venti navigano a vista con sicurezza tra una barriera corallina e l’altra. Lamu Lamu si risvegliò da un lungo torpore negli anni ‘60 e ‘70 del XX secolo grazie al primo turismo internazionale. Pochi occidentali danarosi favorirono la comparsa di qualche albergo anche se molti di più erano i saccopelisti sulla strada delle Indie. Le spiagge bianche e l’antico fascino attrassero negli anni ‘80 investitori che realizzarono alcuni villaggi di livello elevato, facendo sperare i locali in un decollo tipo Malindi. Sfortunatamente, lo sviluppo si arrestò per il crollo del turismo americano, seguito al collasso della vicina Somalia (1991) e all’attentato contro l’ambasciata USA a Nairobi (1998). Negli ultimi anni sta ripartendo qualche investimento, anche italiano, e gli abitanti ci contano molto. Lamu è sicuramente una zona tranquilla: la tolleranza religiosa qui è di casa e tutti si danno un gran daffare per assicurare agli occidentali che sono i benvenuti. In città il colore dominante è il 12 bianco, accecante e quasi insopportabile, scandito da ombre nettissime nelle strette vie, dove gli abitanti conducono senza fretta la vita di sempre, governata da antiche tradizioni. Negli sporchi vicoli troviamo gli odori tipici della città islamica, i cocciuti asini dal basto stracarico di mercanzie incitati dagli “arr” dei proprietari, le donne vestite con il bui-bui (lungo velo nero dal quale sbucano solo gli occhi), i bambini che portano sulla testolina eleganti kofie ricamate, il gusto per la contrattazione dei negozianti e, infine, le moschee, luoghi di preghiera, di incontro e socializzazione nei quali sono ammessi, escluso rari casi, solo gli uomini. Sul lungomare, dove approdano barche di ogni tipo, si innalza una fila ininterrotta di edifici a due piani caratterizzati da tetti in makuti, portici, terrazze e verande. Questo è sicuramente il luogo più vivace della città, che quasi intimorisce per l’esuberanza di colori, rumori e odori che emanano dalle barche dei pescatori e dalle attrezzature da pesca. Salendo all’interno, lungo gli stretti vicoli, si sbuca sulla Harambee Avenue, la via principale che scorre parallela al mare e su cui si affacciano interessanti antiquari, negozi di artigianato (in particolare in legno) e argentieri che producono attraenti monili etnici. Il ciclo di marea (6 ore tra massima e minima) influenza tutte le attività. Con un dislivello di 6 metri, le barche sono all’altezza della banchina solo in alta marea, mentre in bassa sono adagiate sul fianco. Durante le ore di bassa marea tutto va a rilento ed il carico e scarico delle grosse e pesanti barche a motore è sospeso. Quando l’acqua è abbastanza alta da consentire il galleggiamento l’attività diventa (relativamente) frenetica. Sacchi di granaglie, di cemento, doppie casse di bibite. I facchini corrono su e giù dal fondo delle barche alla banchina con apparente scioltezza, ma evidente sofferenza. A terra i trasporti si fanno con gli asini o, se il carico è pesante, con carrelli a due ruote trainati da... uomini! Pate A nord di Lamu, è l’isola più estesa dell’arcipelago. Tre sono i villaggi principali: Pate, Syiu e Faza. Il più interessante è Pate, la cui struttura, anche se più povera, richiama, quella di Lamu: vie strette e parallele, case in legno di mangrovia e corallo fossile, solo un paio di negozietti dove, oltre alla Coca Cola, sono in vendita granaglie, enormi latte di strani grassi e candele. Le case non sono decorate come a Lamu e le porte scolpite scarseggiano, tuttavia il segno della passata grandezza, quando Pate era la città più importante dell’arcipelago prima che il ca- Kenya (Lamu): Porto di Lamu e ragazza Swahili (Linamaria Gulfi - Milano) F RONTIERE Argonauti Explorers Dossier: Swahili nale si insabbiasse, si legge nella regolarità della pianta. Poche persone per le stradine, molte che, sedute o accosciate sotto gli androni, ti salutano amichevolmente quando passi, una bambina che ti offre i bonjia appena fritti, ragazzi che ti apostrofano con nomi di calciatori italiani e, fierissimi, ti mostrano le magliette delle nostre squadre. Fino alla fine degli anni ‘80 c’era una rete elettrica, l’illuminazione pubblica, e una rete d’acqua potabile. Tutto ciò non funziona più: troppo costosi i ricambi e le necessarie manutenzioni. Solo tre pozzi a pompa manuale “made in India”, dove le donne si alternano a riempire bidoni gialli di plastica, per portarli a casa tenendoli sulla testa. L’unico gruppo elettrogeno è per la TV satellitare. Poiché il canale del villaggio non ha sufficiente fondale, persone, cose ed animali sono sbarcati a Mtangawanda. Poi si raggiunge Pate a piedi o con l’asino: un’oretta tra bush, campi coltivati, capanne sparse con orti ordinatissimi e lande sabbiose lasciate dalla marea, costeggiando i canali solcati dai barchini dei pescatori. Allo stesso modo, si raggiungono, più a nord, i villaggi di Siyu e Faza. Siyu fino al XIX secolo fu il più popoloso insediamento dell’arcipelago ed un centro intellettuale musulmano, con scuole coraniche dedite alla copia ed alla conservazione dei sacri testi. Ebbe pure un fiorente artigianato del cuoio e del legno, tant’è che le porte intarsiate di Siyu sono tra le più belle della cultura swahili. Un passato di cui non rimane quasi Le isole della costa di Roberto Pattarin Tra Kenya e Tanzania sorge una catena di isole Swahili, da sempre collegate da un costante andirivieni di dhow. Wasini: è piatta e vicino alla costa, uno zoccolo di rocce dalle stravaganti forme e mangrovie, costellato di baobab, lagune e coralli; nelle sue acque, oggi Parco Marino, corrono delfini e pesci tropicali multicolori; nei suoi villaggi di pescatori la cultura swahili è intatta e la vita scorre al ritmo di sempre, segnata dai tempi della pesca e della raccolta delle alghe, i principali alimenti dei suoi abitanti. Pemba: Al Khuthera (l’isola verde) per gli arabi, dista solo quattro ore di barca ed è invece 50km al largo, montuosa e verdissima, circondata da mangrovie e grotte, mentre l’interno è coltivato a chiodi di garofano. Poche, ma bellissime, le spiagge (Vumawimbi, Panga wa Watoro), soprattutto sugli isolotti corallini dagli splendidi fondali (Misali, Kiweni); molte le tartarughe e alcune specie di uccelli endemici. E’ ancora agli albori del turismo ed i trasporti dal capoluogo Chake Chake sono scarsi: la sua gente vive indisturbata praticando un voodoo particolare, incurante dei pochi ospiti. Zanzibar: che dire, che già non si sappia, della notissima e italianissima Zanzibar, ormai invasa dal turismo di massa? Certo, per alcuni di noi che la visitarono nel 1981, quando si girava l’isola su scassati camion di legno e sulla costa non c’era un albergo, ma si dormiva per terra in vecchie case coloniali, tutto è cambiato. Ma nonostante tutto Unguja (il suo nome in swahili) resta ancora un posto splendido: per le bianche spiagge sulle sue coste; per i profumi delle mille spezie e dei fiori dell’interno; per la magica atmosfera niente, salvo il forte, che domina con la sua mole quello che ormai appare un villaggio africano come tanti. Kiwayu L’isola più a nord, a metà strada tra Lamu ed il confine dalla Somalia, è una striscia di sabbia allungata (lunga 9km e larga 1, parallela alla costa) con pochissima vegetazione. La spiaggia occidentale, che guarda la costa ed è protetta dal mare aperto, è la più bella dell’arcipelago. Non è quindi un caso che sulla punta nord vi siano un paio di bellissimi (e piuttosto esclusivi) villaggi di cottage immersi nel verde delle palme. Il solo, ma sufficiente, motivo di andare a Kiwayu è il mare cristallino color smeraldo e la possibilità di esplorare la barriera corallina. Eccitante il viaggio a vela, con un dhow, da Lamu, che richiede 1 o 2 giorni, in funzione delle maree e del vento, mutevole nelle varie ore della giornata. La gita vale sicuramente il piacere di navigare a vela tra canali ed isolotti con queste barche robustissime, costruite quasi senza parti metalliche, in legno ad incastri legati con corde in fibra di cocco. Il tutto è ampiamente ripagato dalla notte con il vento che gonfia la vela, l’equipaggio che effettua le manovre silenziosamente, i canti e le nenie swahili, i pasti a base di pesce, pescato durante la navigazione, e riso. swahili nelle stradine di Stone Town; per il fascino della sua storia di sultani omaniti, di centro di commerci e della tratta degli schiavi, di punto di partenza per le esplorazioni nel cuore dell’Africa; per la sua gente, sempre gentile e sorridente, sia quando si muove nel brulicante e colorato mercato di Darajani, sia quando suona il Taarab, la musica locale che unisce motivi africani, arabi ed indiani. Unico problema: l’eterna rivalità tra i due partiti maggiori (CCM e CUF), che periodicamente sfocia in sanguinosi tumulti. Mafia è invece 120km al largo della foce del Rufiji, sulla rotta che collegava l’avamposto costiero di Kilwa a Zanzibar. Le sue bellezze sono prevalentemente sott’acqua: il suo parco marino è il più vasto dell’Oceano Indiano ed ospita un complesso unico al mondo di coralli ed oltre 400 specie di pesci, mentre colonie di tartarughe verdi ed embricate depongono le uova sugli isolotti di Juani e Jibondo. Kenya (Wasini): Baobab sul mare (Roberto Pattarin - Sondrio) 13 F RONTIERE Argonauti Explorers Dossier: Swahili Le città dell’oro e degli schiavi di Marco Di Marco Siamo a Ilha de Moçambique. Al centro di una piazzetta, una statua, con le sembianze stilizzate di un personaggio cinquecentesco: la mano regge un voluminoso manoscritto, mentre lo sguardo è perso verso l’Oriente, oltre la vastità dell’Oceano Indiano. Luiz Vaz de Camões fu il cantore del nascente impero portoghese e compose un poema, I Lusiadi, che voleva essere l’Eneide di questo nuovo mito, il “sogno portoghese” di dominio sui mari. E di questo sogno, e della decadenza che lo dissolse, la città di Ilha (che fu capitale del Mozambico fino al 1898) è una testimonianza palpabile. Le stesse architetture (fortezze, chiese, case signorili) che troviamo nei resti dell’impero portoghese in altri angoli del mondo. E così, quando sugli spalti della Fortaleza de São Sebastião guardiamo i cannoni ormai inoffensivi puntati verso l’oceano, per un attimo possiamo ben immaginarci di essere in un punto qualsiasi del globo in uno dei tanti forti portoghesi, a Diu come a Luanda, a Goa come a São Tomé. Costruita su un isolotto corallino (oggi collegato alla terraferma da un problematico ponte lungo 3 km) Ilha era già un approdo importante all’arrivo di Vasco da Gama. Dieci anni dopo era già diventata una base strategica della potenza portoghese, e nel 1522 vi sorgeva la Cappella di Nossa Senhora de Baluarte, il più antico edificio europeo a sud dell’Equatore. Passeggiando per le sue strade si respirano atmosfere che portano ad immaginare l’antica città coloniale, con i suoi traffici, gli schiavi, il dominio dei bianchi. Ilha è ora una città africana che, facendo leva sul riconoscimento UNESCO di “Patrimonio dell’Umanità”, cerca di darsi un avvenire turistico. Spostiamoci ora all’estremo nord del paese quasi al confine tanzaniano, nel bellissimo arcipelago costiero delle Quirimbas. Di fronte allo scenario ammaliante di spiagge bianchissime ci sembra impossibile che nel 1522 si sia svolta qui una battaglia, culminata nella sanguinosa distruzione di una città swahili, e che da questa battaglia sia nata una città, Ibo, ancor più ricca di atmosfere di Ilha. Da subito l’arrivo, governato dall’alta e bassa 14 Mozambico (Ibo, Arcipelago Quirimbas): Chiesa di São João Baptista (Marco Di Marco - Alessandria) marea - un regolare attracco al molo, nel primo caso, alcune centinaia di metri a piedi sul fondale asciutto, nel secondo - cala il visitatore in una dimensione di estraneità al mondo che si arricchisce di sfumature man mano ci si addentra nel cuore di questa Mozambico (Pangane):Donna città un po’ fantasma, passeg- Makua con la maschera di musiro giando nelle strade su cui si (Marco Di Marco - Alessandria) affacciano coi loro eleganti porticati le dimore di mercanti, funzionari, proprietari terrieri... Tutti esponenti della società coloniale (e schiavista) dissoltasi in meno di un secolo. Avendo parlato di schiavismo, non possiamo dimenticare chi di questo vergognoso commercio, e di altre forme di sopraffazione, fu vittima, i Makua, abitanti del Nord e Centro Mozambico. Subito il pensiero corre ai bellissimi volti femminili resi bianchi dal musiro, pasta protettiva ottenuta da una pianta locale, la Olax distiflora (che, pare, avrà un avvenire nella cosmesi nostrana). “Se avete educato un ragazzo, / avete formato una persona sola. / Se avete formato una ragazza, / avete formato una famiglia intera” dice un proverbio locale a sottolineare l’importanza della donna (peraltro assoggettata all’uomo) nella tradizione di in una società matrilineare come la loro. Sono quattro milioni i makua e la loro storia tormentata è emblematica di questo paese, della sua storia, del complesso rapporto di odio/amore coi portoghesi, e delle contraddizioni che il Mozambico indipendente ancora deve affrontare. Già schiavizzati dagli arabi - che li portavano alle Comore per “smistarli” - i makua resistettero tenacemente per quattro secoli alla penetrazione coloniale: i Portoghesi riuscirono infatti a sottometterli solo all’inizio del XX secolo. E, una volta vinti, misero in atto tutte le forme possibili di resistenza passiva alle corvée di lavoro coatto che venivano loro imposte, anche emigrando in massa. Appare per questo paradossale che, durante la lunga guerra di liberazione, i makua si siano poi dimostrati i meno ostili ai portoghesi, addirittura accettando di far parte delle milizie popolari anti-insurrezione. Ma la cosa è spiegabile con la politica del FRELIMO, il movimento di liberazione che, ripudiando la tolleranza - pur opportunistica - dei portoghesi, voleva fare tabula rasa delle tradizioni sostituendo con giovani indottrinati i rispettati capi locali e concentrando la gente in villaggi nuovi, lontano dai luoghi di sepoltura degli antenati. Fatto che indusse i capi makua, dopo la liberazione, ad appoggiare la guerriglia della RENAMO contro il governo FRELIMO. Questa sequenza di eventi, ha portato la più numerosa etnia del Mozambico, ad entrare in maniera problematica nella fase storica attuale, dovendo recuperare l’emarginazione legata all’etichetta di popolo collaborazionista. Di sicuro un percorso, quello dei makua, la cui conoscenza ci aiuta a leggere la realtà attuale dell’Africa al di fuori di schemi troppo lineari. F RONTIERE Argonauti Explorers Dossier: Swahili Comoros di Roberto Pattarin Djazair al Kamar, le Isole della Luna dei navigatori arabi, sono composte da quattro isole vulcaniche (Gran Comore, Moheli, Anjouan e Mayotte), 500km a nord del Madagascar, al largo della costa mozambicana. Le prime tre formano la Repubblica Islamica delle Comore, mentre l’ultima, con Reunion, è territorio francese. La popolazione è swahili (araba omanita), mescolata con navigatori persiani (shiraziani), pirati malgasci (malesi-polinesiani), schiavi bantu africani. Un motto locale recita: “Moheli dorme, Anjouan lavora, Mayotte suona e Gran Comore si lamenta”: e in effetti ognuna ha caratteristiche proprie. Eravamo là nel 1987, agli albori del turismo: atmosfera swahili della microcapitale Moroni; poche, ma belle spiagge con palme; baobab a picco sul mare. Ma tanti scogli e prezzi alle stelle (tutto veniva dalla Francia e un rollino di foto veniva inviato in aereo a Parigi per lo sviluppo). Solo la più antica, Mayotte, ha barriera corallina, mentre Moheli ed Anjouan ne posseggono solo frange. Gran Comore è un cono vulcanico ricoperto di rigogliosa vegetazione e piantagioni di ylang-ylang, da cui si ricava un olio essenziale per cosmesi: a ovest alcune spiagge (Itsandra, Mitsamiouli), ma le migliori, bianche sotto i dirupi neri di lava ed orlate di palme, sono ad est (N’droude, Hantsindzi, Bouni e Chomoni); interessanti i trekking al vulcano attivo Comore: l’ultimo mercenario di Roberto Pattarin Lo stereotipo del mercenario bianco in Africa è il Richard Burton dei “4 dell’Oca Selvaggia” o il “Leopardo” di Sordi e Manfredi in “Riusciranno i nostri eroi…”. Il mercenario vero si identifica invece con Bob Denard. Nel dopoguerra le Comore furono amministrate dalla Francia e dal 1961 dalla nuova Repubblica Malgascia. Dopo il ’68 parigino le manifestazioni studentesche represse dalla Legione Straniera, nel 1974 il referendum e l’anno dopo l’indipendenza (tranne Mayotte che votò per la Francia) sotto Ahmed Abdallah Abdelramane. I francesi sospesero i sussidi (18 milioni di dollari, un’enormità all’epoca) e l’economia crollò. Nel 1976 uno sconosciuto, Alì Soilih, assoldò dei mercenari e prese il potere: arrivarono il marxismoleninismo, come in Tanzania e ad Aden, ed il terrore rosso. Il 13 maggio 1978, 29 mercenari francesi sbarcarono a Grand Comore, assaltarono il palazzo presidenziale ed uccisero Alì Soilih: erano stati pagati da un magnate in esilio e dal vecchio presidente Abdallah, che tornò così al potere. Il capo era De- Comore (Grand Comoro) Spiaggia di Mitsamiouli (Roberto Pattarin - Sondrio) Khartala (2300m) ed al Lac Salè. Moheli è la più isolata: verde, montuosa e con belle spiagge (isolotti a Nioumachoua, Kavè Hoani, Domoni e Miringoni, con le sue tartarughe verdi). Anjouan è la più popolata e deforestata: spiagge di ciotoli e poche di sabbia (Chiroroni e Hayoho) ed il pipistrello di Livingstone endemico. Infine Mayotte (Grande Terre, con la città principale Mamudzou; Pamandzi o Petite Terre, con l’aeroporto, e la rocca di Dzaoudzi), dove vivono molti francesi: barriera corallina e isolotti (belle spiagge a Moya, Longoni e Majimeoni). nard, già legionario in Indocina e con un curriculum militare free lance (ma sempre in contatto coi servizi segreti francesi ed inglesi) di tutto rispetto (Nigeria, Rhodesia, Persia, Yemen, Gabon, Katanga, Angola, Benin). Dura la vita del mercenario: in Africa donne ed alcool, ma non pagavano; in Yemen il contrario. Si dice infatti che fosse passato al servizio di Abdallah per vendicarsi di Soilih, che non lo aveva pagato per il colpo di stato di due anni prima, che aveva deposto proprio il suo nuovo padrone! L’economia era allo sfascio ed i mercenari, finito il lavoro sporco, non poterono andarsene: Denard era a capo di una Guardia Presidenziale di 600 uomini ed altri divennero ministri: snazionalizzarono e riallacciarono i rapporti con la Francia, che non mostrò imbarazzo a trattare coi mercenari: era il neocolonialismo nella guerra fredda!! Denard voleva deporre il fucile: si sposò per la settima volta con una comoriana e si convertì all’islam col nome di Said Mustapha Mahdjoub. Ma la sua presenza ostacolava il riconoscimento dell’OUA: dovette partire, per tornare poco dopo, perchè il potere restava fragile (nel 1985 tre colpi di stato). Nel 1989 Abdallah viene ucciso dalla sua Guardia Presidenziale: Denard viene accusato dell’omicidio, espulso e portato dai parà francesi in Sudafrica. Nel 1990 il fuoruscito Said Mohammar Djohar vince le libere elezioni, abolisce il partito unico e apre all’opposizione: seguono altri tentativi di colpi di stato ed una rivolta militare capeg15 F RONTIERE Argonauti Explorers Dossier: Swahili giata da due figli di Abdallah e dal Capitano Combo, amico di Denard. Nel 1992 Djohar viene rieletto con poco scarto, ma il 27 settembre 1995 Denard, sempre con 30 uomini, sbarca di nuovo per liberare Combo e spodestare il presidente, che esilia a Reunion. Said Ali Kemal e Taki Abdul Tarim vengono nominati copresidenti e Combo Capo della Guardia. Per Parigi la situazione è imbarazzante: invia 600 parà che arrestano i mercenari e li estradano in Francia. Ma il legittimo Presidente Djiohar non fu mai reintegrato, mentre alle elezioni del 2006 vincerà guarda caso proprio quel Tarim, il filo-francese che Denard aveva insediato. L’ultimo mercenario morirà in Francia a 78 anni, il 13 ottobre 2007, malato di Alzheimer e senza soldi; i processi per i vari colpi di stato e l’assassinio di Abdallah non dimostrarono mai la sua colpevolezza e la stessa famiglia della vittima, cosciente dei servizi resi, chiese di non procedere. Eravamo a Comore nel 1987: i mercenari erano in aeroporto, negli uffici governativi di Moroni e la domenica pasteggiavano con le loro famiglie miste a pastisse, ma sempre in mimetica. Comore (Grand Comoro) Baobab sul mare (Roberto Pattarin - Sondrio) Socotra: l’isola del sorriso di Giovanni Busetto L’isola di Socotra, posta in mezzo al Golfo di Aden, appartiene allo Yemen, ma è geograficamente più vicina alla Somalia che alla penisola arabica. Socotra ci riporta agli albori del tempo: l’arcipelago, formato da tre isole (Abd Al Kuri, Samha e Dorsa) è infatti preesistente al distacco tra Arabia e Corno d’Africa, avvenuto sei milioni di anni fa. Ciò ha determinato una flora terrestre e marina di grande pregio: 500 specie di coralli e 260 specie di piante endemiche, tra cui i “bottle three” e gli “alberi dal sangue di drago”; la fauna è invece di passo, ma, in quanto tappa obbligata di sosta nel viaggio dall’Africa all’India attraverso l’Oceano Indiano, qui si concentra in gran quantità e varietà. Questa tipicità riguarda anche i suoi 3.000 abitanti, non a 16 Yemen (Socotra): Spiaggia di Qalansiah (Flavia Pioltelli - Milano) caso inclusi nell’area protetta Unesco. Chiamata Discorides dai Greci e dai Romani, Socotra fu, infatti, un centro di commerci tra Arabia e India; nel X secolo i pirati arabi e nel 1500 i Portoghesi, la occuparono per controllare l’ingresso del Mar Rosso; da qui passarono i mercanti omaniti nel loro viaggio verso la costa africana per dar vita alla cultura swahili. I socotrini sono quindi un popolo unico, generato dalle migrazioni di secoli, che hanno mescolato mercanti arabi, omaniti e portoghesi, con il sangue di marinai indiani, eritrei e somali, nonché degli schiavi africani. L’isolamento di questo popolo farebbe pensare ad una maggior chiusura rispetto agli abitanti del continente ed invece il carattere “marinaresco” della sua gente resiste ancor oggi e genera un atteggiamento molto aperto. Abbiamo incontrato persone gioviali, dal sorriso facile e molto più interessate al contatto con gli stranieri. Anche dal punto di vista religioso, pur essendo islamici, hanno un atteggiamento più “tranquillo”. Le donne, pur velate, coprono solo la nuca con un foulard colorato, evitando il burqa nero tipico di Sana’a e dello Yemen; non disdegnano inoltre il contatto al mercato o nei villaggi. In queste isole remote la nostra presenza si è rivelata una sorpresa proprio per i rapporti umani con la popolazione locale. Ma è la flora, con le sue 260 specie endemiche, a dominare: piante insolite dalle forme stravaganti, come l’albero del Sangue di Drago (Dracaena cinnabari ), che forma uno spettacolare ombrello, si colora di giallo durante la fioritura e dal cui tronco si ricava una resina medicamentosa di color rosso usata come antiemorragico o antisettico; la Rosa del Deserto (Adenium obesum socotranum), meglio conosciuta come “albero bottiglia”, per via del buffo tronco a forma di fiasco che alla sommità si prolunga in sottili rami da cui sbocciano gemme rosa; quindi Aloe, Euforbie, Fichi di Socotra, alberi di mirra e di incenso. Altrettanto stupefacente è il mondo subacqueo: una barriera corallina incontaminata con migliaia di pesci colorati ed oltre 500 specie di coralli. F RONTIERE Argonauti Explorers Itinerari insoliti ANTARTIDE: rotta alla fine del mondo di Luisa Rolandi “Oltre i 40° latitudine sud non c’è legge, oltre i 50° non c’è Dio” (antico adagio dei pescatori) La partenza col rompighiaccio Akademik Sergey Vavilov è fissata per le 18.00 del 9 dicembre 1999, dal porto di Ushuaia, capitale australe dell’Argentina. Un ambiente affascinante: lunghe notti di luce con il tramonto che si allunga senza sonno tra le montagne nere; un letto di case allineate lungo il mare che si dilatano sulle pendici come vedette di un mondo privo di confini; il vento che avvolge le strade, incurante dei freddolosi passanti che alzano il bavero della giacca a vento; il muto languore di irrealtà che rallenta il ritmo della vita. Scegliete Ushuaia come punto di partenza ed il sogno vi accompagnerà per tutto il viaggio. Un viaggio che vi metterà a dura prova, sia per il mal di mare che per la “clausura” forzata. Per arrivare alla Penisola Antartica bisogna infatti attraversare il Canale di Drake: 1.200km, tre giorni all’andata ed altrettanti al ritorno, onde alte circa 10m. e venti intorno agli 80km/h. Al termine, le Shetland del Sud, Hannah Point e Deception Island. E poi, Couverville Island, Neko Harbour, Paradise Bay, Port Lockroy, Lemaire Channel, Pleneau Bay, Petermann Island. E poi di nuovo il Canale di Drake che, sordo alle preghiere dei passeggeri, costringerà il Vavilov ad ancheggiare disperato in balia della schiuma. Un’atmosfera nobile echeggia tra le rigide strutture di ferro della nave: la memoria del fisico Sergey Vavilov, dell’Accademia delle Scienze, si nasconde tra gli angoli ormai bui di cabine un tempo dedicate alla ricerca. Ormai gli antichi splendori hanno ceduto il passo alla curiosità di turisti desiderosi di compiere la loro storia attraverso la storia del mondo. Gli ufficiali, tutti russi, vivono sulla nave dal crollo dell’URSS; mogli e fidanzate vi lavorano anch’esse, come cameriere. Esuli in una nuova patria di acqua, creature senza tempo sospese tra la forza dell’oceano e la forza di non voler cambiare. Alle 19.00 Ushuaia mi saluta, ancora illuminata dal sole. Col viso al tramonto, il rompighiaccio si dirige verso il mare aperto, all’uscita del canale Beagle, dove comanda la natura con la sua legge di rispetto. Beagle era il nome del brigantino inglese che esplorò la Terra del Fuoco tra il 29 gennaio ed il 7 marzo 1833, avendo come illustre ospite Charles Darwin. Il canale blocca le onde selvagge ed insidiose del Passaggio di Drake, cosa ormai nota ai naviganti che, alla vista dello scoglio di Capo Horn, o tirano un respiro di sollievo o si preparano per la battaglia. Come Sir Francis Drake, che vi giunse il 6 settembre 1578, scagliato da una forte tempesta, e col suo equipaggio si ritrovò là dove Pacifico ed Atlantico si mescolano in una lotta degna di un film-catastrofe. Una breve sosta, prima di affrontare il mare aperto e il Vavilov riprende intrepido la rotta: ci aspettano tre giorni prima di scorgere la terraferma. Tre giorni nel ventre della nave, o sdraiata nel buio della cabina, sbirciando a tratti attraverso l’oblò il mare agitato, o passeggiando tra la sala da pranzo e la cabina di pilotaggio, dalla cui vetrata ammiro da vicino la potenza del mare, l’acqua scura, grigia, confusa nel cielo solcato dagli spruzzi. Sempre aggrappata agli onnipresenti corrimano, per assecondare i movimenti della nave ed attutire i colpi. Alla fine o all’inizio del mondo? La sera di sabato 11 dicembre assisto ad uno degli spettacoli più incredibili che abbia mai visto. Abituata al rollio della nave, ai suoi colpi di pancia, alle sue impennate, concentrata nel sentire il ritmo delle onde nel sangue, quasi non mi accorgo che di punto in bianco il Vavilov rallenta la corsa e scivola indisturbato in una culla di acque calme. L’emozione sale, mi vesto con ogni strato di lana a disposizione e mi butto fuori. Una folata di aria fredda sveglia la testa intorpidita dalla clausura, che si gira automaticamente verso il parapetto: le Shetland del Sud seguono il fluire della nave. Alte montagne candide, coperte di neve sino al mare, scendono dolci e rilassate tra una pennellata di arancio ed una di blu cobalto. Il tramonto è senza fine, indugia sulle curve di ghiaccio che si macchiano di roccia quasi nera, il cielo è finto nella sua omogeneità di azzurro. Lo spazio è rotto solo dal passaggio di albatros fieri che corteggiano la nave. Instancabili ci osservano dall’alto virando nella luce trasparente. Il silenzio è rotto dal solo rumore delle macchine del Vavilov. Il tempo è fermo, incastonato come un brillante tra le pieghe d’oro bianco delle montagne: è la dorsale delle Ande che riemerge a distanza di chilometri, sbocciando in un cielo senza notte. Sia- Antartide: Isole South Shetland (Luisa Rolandi - Verona) 17 F RONTIERE Argonauti Explorers Itinerari insoliti mo alla fine o all’inizio del mondo? Saliamo sul gommone che montagne di ghiaccio che ci sovrastano dalla costa, il fronte del ci viene assegnato e ci dirigiamo, nel mare tormentato delle ghiacciaio che avanza in mare. Ogni singolo frammento che South Shetland, verso Livingstone Island, baia di Hannah Point si stacca - è bene stare alla larga dalla riva - produce un tonfo (il nome di un veliero che si inabissò contro la riva), attraver- sordo forte che agita le acque e muove onde sonore sino alle pasando il breve tratto di mare che ci separa dalla costa. L’appro- reti del gommone. Sulla costa ammiro i sentieri marrone, neve do è con gli stivali di gomma in acqua e, nonostante i calzettoni sporcata dai pinguini che salgono e scendono al mare. Lo strato pesanti, non tardiamo ad avvertire il freddo glaciale. Colonie di bianco immacolato appare pettinato da mèche spalmate da una pinguini Chinstrap, dalle sopracciglia segnate di nero, di pin- parrucchiera alle prime armi. La semplicità degli elementi del guini Gentoo, piccoli e numerosi, di pinguini Macaroni con il paesaggio stupisce per la capacità di impressionare e meraviciuffetto biondo sulla testa. Sono circondata. La neve, disciolta gliare creando una miriade di diversi scenari. Ed è strano come qua e là, è cosparsa da una miriade di piccoli puntini neri. E’ il gli stessi pezzi di acqua gelata e neve siano stati modellati dalla periodo della cova ed alcuni hanno già sotto la panciona bianca bocca del vento e dalle mani del mare. Nel pomeriggio siamo a una o due testoline pelose e bianche, nascoste al caldo. Lun- Neko Harbour nella Baia di Andvord, Penisola Antartica. Neko ghi sentieri di neve schiacciata percorrono la collina; sono le era il nome di una stazione galleggiante di lavorazione delle tracce del percorso seguito dai pinguini per andare e venire dal balene che operava in questa zona tra il 1911 ed il 1923-24. Il nido al mare. Seguono sempre, con contrasto tra la bellezza mozzafiato di imprecisione matematica, lo stesso ponenti ghiacciai ed il sangue che un tempo itinerario, e più volte mi devo fersporcava lo splendore iridescente della neve mare per lasciarli passare. I sentieri è evidente. Una fiaba custodita tra i crepacsono molto trafficati, un’intensa atci che l’uomo ha trasformato in un incubo tività di “balneazione” alla ricerca di morte, poi tornato a scintillare nella madel cibo spinge questi animaletti in gia. Colonie di pinguini Gentoo calano nei abito da sera a muoversi instancabifiordi incuranti del gelo. Macchie marroni li al ritmo dei minuti senza tempo. e grigie di leoni marini ammassano la riva. Nel pomeriggio le nuvole coprono Immobili respirano i raggi del sole e pigri il cielo perennemente luminoso. sciolgono le loro pance sulla neve. AlcuE’previsto l’approdo a Deception ni sollevano la testa piena di occhi d’iride Island, che lega la sua fama alle nera e guardano i gommoni, grossi ventri di stragi di balene, come testimoniano grasso artificiale che nuotano borbottando i resti, abbandonati nel 1967, delle il loro canto di vita. Qua e là la superficie baracche di legno e dei magazzini del mare gela formando una sottile crosta dove i mammiferi venivano uccisi che lentamente si espande. Dobbiamo stare e poi trattati per la commercializzaattenti al rientro: la glassa ghiacciata non zione. Le rovine sono parzialmente lascia scampo, blocca la via del ritorno a sepolte sotto la cenere ed il fango chi indugia. Il nostro “skipper” deve fare Antartide: Iceberg (Luisa Rolandi - Verona) di eruzioni vulcaniche del 1969-70, più tentativi prima di trovare i punti dove quasi a voler definitivamente nascondere un angolo di storia l’acqua indurita dal freddo si rende più dolce e disponibile. da cancellare. Incredibile! Appena metto un piede in acqua per sbarcare, una vampata di caldo mi entra nelle ossa, un vapore Il “prigioniero” di Port Lockroy soporifero si alza e mi accompagna sino alla spiaggia di roc- Paradise Bay, così denominata per le sue coste sicure e procetta nera spezzata, mentre i più coraggiosi si buttano in acqua. tette, si trova a lato della base militare argentina Almirante Brown. Alcune costruzioni marroni chiuse spiccato tra il nitore Le cattedrali di ghiaccio dei ghiacci: sembrano relitti umani abbandonati o comunque Dopo aver attraversato il canale che separa le Shetland del Sud anime isolate da un destino ora inutile. Sono un triste ricordo dalla Penisola Antartica, il Vavilov si avvicina a Cuverville di come anche l’angolo di natura più lontano sia oggetto delle Island all’entrata del Canale di Errara. Il mare è stranamente tentazioni umane saldamente ancorate al possesso del mondo. calmo, le nuvole lentamente si dissolvono dalla cima dei ghiac- Port Lockroy è una sorpresa: esiste una base restaurata gestita ciai che incombono come il fumo dai comignoli di una casa. da Dave Burkitt e da un biologo scozzese, Rod Downey, ed ora Il gommone ronza leggero verso la riva zigzagando tra gli ice- adibita a museo antartico. Le casette di legno marrone, in cui i berg, bianchi, azzurri, a forma di cattedrale, piatti e scavati dal- due vivono tutto l’anno, sono circondate da pinguini che nidile onde, trasparenti, opachi: una foresta di sensazioni crepitanti ficano persino sotto le fondamenta, ormai abituati alla presene scricchiolanti. E’ uno spettacolo davvero affascinante: noi za umana. Sinceramente non riesco ad immaginare quanto sia piccoli in mare che galleggiamo come microscopici iceberg, duro vivere lì. Da un lato il clima che non perdona, il vento che 18 F RONTIERE Argonauti Explorers Itinerari insoliti si infila tra le tavole delle pareti e del pavimento; il freddo che gela le ossa anche sotto le coperte di lana; il sole che non riesce a scaldare gli anfratti umani. Dall’altro l’impossibilità di muoversi oltre il palmo della mano: i ghiacci cosparsi di crepacci e la neve alta padrona delle montagne e della pianura rendono difficile ogni passo. Per non parlare della solitudine che regna tra le pieghe dei tavoli, delle sedie, delle scansie colme di scatolame, delle brande spartane, delle luci fioche... un duro confronto con se stessi che non lascia tregua. Camminando qua e là vicino ai sentieri dei pinguini mi attende un’altra sorpresa: una barca a vela, a qualche metro di distanza dai leoni marini stesi al sole. Sembrerebbe incagliata tra i ghiacci o meglio isolata da una gelata improvvisa durante un ancoraggio notturno per riposare. Appartiene a Trevor Robertson, un navigatore solitario qui ospite in attesa di prendere il largo in primavera, quando il mare tornerà a lambire la costa reale. Secondo me, in realtà, gli piace stare in questo posto e non lo abbandonerebbe neanche per una crociera nei Caraibi. Questo è ormai il suo mondo, il suo destino è stato legato, e la corda è un sentiero di pinguino. le pupille si muovano in continuazione, alla disperata ricerca di un punto fisso che non c’è: sono talmente tanti e si muovono tutti e nelle direzioni più diverse. Sembra che la collina si muova assieme alla neve, alla roccia, ai sassi, al ghiaccio... guardo il cielo, chiudo gli occhi e ascolto le loro voci. La collina dei pinguini Oggi ci aspetta un altro momento entusiasmante. All’alba di un giorno mai tramontato, squassati dal freddo, siamo tutti sul ponte del Vavilov, che ha inserito i motori supplementari e con la sua possente pancia sta spaccando il ghiaccio che durante la notte ci ha chiuso nella baia. Il crepitio delle lastre, che si ripiegano su se stesse per poi ricadere, aleggia d’infinito: davanti, una distesa completamente bianca che si perde nel vapore delle nubi all’orizzonte. Siamo soli su un enorme chiazza ghiacciata come i leoni di mare che incontriamo solitari a riposo, piccoli puntini neri in un boomerang di luce senza sosta. Stiamo attraversando il famoso Canale Lemaire, lungo sette miglia e largo soltanto un miglio. Prende il nome da un belga che ha esplorato il Congo! L’idea di foreste verdi di pioggia, di caldo umido senza respiro, di colori di vita si mescola con la spettacolare uniformità della neve. Enormi gruppi di iceberg ci scortano sino a Pleneau Bay e Petermann Island. Le isole sono già piene di visitatori alati, grassi e magri, sonnolenti ed attivi. Una colonia intera di Gentoo, almeno 700, è arroccata sul cocuzzolo di una collinetta rigata di sentieri di guano rosato. Ha la forma di un cerchio allargato dove i maschi si alternano nella posizione esterna del gruppo per dare il cambio a quelli che fino ad allora erano esposti alle secche folate di vento antartico. Alcuni piccoli più audaci tentano di conquistare l’indipendenza avvicinandosi all’acqua; altri ancor più piccoli, infagottati nella loro pelliccia bianca, rimangono immobili semi-nascosti sotto le pance adipose dei genitori; altri sono ancora sigillati nell’uovo, trattenuto nei 60 giorni di cova sui piedi dei maschi che, con grande spirito di sacrificio, non mangiano per tutto il periodo. Gli occhi hanno appena il tempo di fotografare il brulichio dei Gentoo, quando dall’altro lato della costa appare una colonia ancor più grande di Adelie, almeno un migliaio di esemplari. Le Adelie continuano a muoversi, e mi sembra che Capo Horn Ormai siamo sulla via del ritorno. Un ultimo sguardo di dolce malinconia verso quella immensa prateria bianca sormontata da montagne innevate e crepacciate. Ricominciano le onde scomposte del Canale di Drake. Il Vavilov si agita nel ventre liquido pronto per il parto. Venerdì 17 dicembre annunciano che arriveremo a Capo Horn. Imbacuccati e muniti di macchine fotografiche attendiamo che tra la nebbia degli spruzzi compaia lo scoglio del punto più australe del continente. Tutto ha un colore soffuso di luce liquefatta che sbiadisce i contorni; un alone di film in bianco e nero cattura gli obiettivi mentre sullo sfondo si va delineando la montagna di Capo Horn. A volte a destra della prua a volte a sinistra, mai esattamente davanti. Il Vavilov la punta, la cerca per ripararsi nelle sue baie, ma è ancora presto, la rotondità della terra fuoriesce dalle curve delle onde. La montagna sembra un enorme gigante guardiano che raccoglie le sue forze per lanciare un attacco a chi tenta di entrare. Un baluardo che diventa sempre più grande, mentre gli spruzzi d’acqua salata lasciano i segni sui vestiti e sugli obiettivi. Ci accalchiamo sui fianchi della nave, in equilibrio precario tra uno strattone e l’altro, finché ad un tratto ogni movimento cessa: come per incanto, ad una trentina di chilometri da Capo Horn il mare ferma il suo moto rissoso per addolcire le sue emozioni! Ed il gigante ci lascia entrare nel Canale di Beagle, lungo fiume di tenerezza che ci culla sino alla baia di Ushuaia. E’ ormai il tramonto: la cornice di montagne è nera, la parete del cielo sfuma dall’arancio all’azzurro al blu, il quadro è dipinto ad olio con piccole pennellate di giallo. Il giallo delle luci di una città che da lontano sembra addormentata nel vento australe. E’ ora. Con un profondo respiro saluto la nave e avvolgo il sogno vissuto in una carta argentata di ricordi. Ed ogni volta che la riapro sono ubriaca di sensazioni ondeggianti d’alba. Antartide: Pinguini Macaroni (Luisa Rolandi - Verona) 19 F RONTIERE Racconti per immagini: l’arte di ornare se stessi Indonesia (West Papua) - Guerrieri Dani Claudio Pozzati (Milano) Indonesia (West Papua) - Donna Dani Sandro Bernes (Udine) Indonesia (West Papua) - Guerrieri Lani Gino Bilardo (Torino) Indonesia (West Papua) - Donna Dani Sandro Bernes (Udine) Indonesia (West Papua) - Guerriero Dani Roberto Pattarin (Sondrio) Melanesia i popoli delle montagne Nuova Guinea: Parte I (West Papua) Indonesia (West Papua) - Uomini Yally al fuoco Gino Bilardo (Torino) Indonesia (West Papua) - Uomo Yally Gino Bilardo (Torino) Indonesia (West Papua) - Guerrieri Una Gino Bilardo (Torino) Indonesia (West Papua) - Tagliatore di pietre Una Marco Pierli (Modena) Indonesia (West Papua) - Uomo Una Flavia Pioltelli (Milano)