Frontiere N. 1 - Shanthi

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Frontiere N. 1 - Shanthi
Anno VII N. 1/2 - Periodico quadrimestrale dell’A.M.I.
Spediz. in abbonamento postale art. 2 comma 20/c
Legge 662/96 - Filiale di Milano - Aut.del Tribunale
di Milano N. 730 del registro periodici 10.11.2000
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2010
EDITORIALE
Il grande freddo, la grande diga,
la grande foresta
MILLE E UNA NOTTE
Le Vie dei Venti
Racconti di “malati”
di viaggi
Nascere e rinascere negli altri
attraverso racconti
Etiopia: Tre matematiche nella
“Terra del Diavolo”
Kenya: Un viaggio nel tempo
Benin: Istantanee dalla “Maison
de la Joie”
L’ANIMA DEL VIAGGIATORE
Club Magellano
La continua e progressiva
scomparsa delle foreste primarie
DOSSIER
Argonauti Explorers
Swahili
La Civiltà Swahili
Atlante Swahili
Lamu, l’isola magica
Comoros
Comore: Bob Denard:
l’ultimo mercenario
Le Isole della Costa
Mozambico: Le Città dell’Oro
e degli Schiavi
Socotra: L’isola del sorriso
ITINERARI INSOLITI
Argonauti Explorers
Antartide:
rotta alla fine del mondo
Racconti per immagini
Melanesia:
i popoli delle montagne
viaggi e passaggi segreti nelle terre degli uomini
FRONTIERE
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ARGONAUTI EXPLORERS - Associazione Culturale Nazionale - Milano
Associazione di Viaggiatori, che vivono il viaggio come percorso di conoscenza, confronto e solidarietà; Luogo dove si progettano itinerari e dove conta lo
spirito con cui ci si rapporta con le altre culture e non il “con chi si viaggia”, cioè da soli, con amici o in gruppo. Un’Associazione culturale che non organizza
direttamente viaggi, ma si propone come supporto a chi li propone. Anche se il nome è legato alla risonanza di spedizioni di cui siamo orgogliosi, non per
questo ci dedichiamo solo a cose “difficili”: più semplicemente cerchiamo originalità in ogni itinerario, in questo senso esplorando sentieri non scontati.
www.argonauti.net; e-mail: [email protected]; Centro Documentazione: 02-799911
CLUB MAGELLANO - Torino
Dall’800 in molte famiglie piemontesi si raccontano storie sullo zio o sul compaesano illustre vissuto “nell’altrove”: militari della conquista coloniale, missionari Salesiani o della Consolata, veri esploratori (Bottego, Allamano, De Filippi etc.). E’ da questi racconti che nasce la spinta piemontese verso l’irrequietezza?
Dagli anni ’70 un gruppo di amici si aggrega prima attorno alla Marcopol, una piccola associazione che organizza viaggi avventurosi ed autogestiti, poi nel
Club Magellano con un programma di foto, viaggi, cultura: un punto di incontro “storico” quindi, per viaggiatori della realtà e della fantasia.
Circolo Dipendenti Comunali – Corso Sicilia 12 – Torino – Tel. 011-307066 (Anna Mina)
ITINERARI AFRICANI - Cuneo
L’associazione nasce nel 2003 da un gruppo di viaggiatori con lo scopo di promuovere e valorizzare sul territorio nazionale la cultura africana, proprio perché
è indispensabile considerare il patrimonio culturale di un popolo, un bene da salvaguardare sopra ogni cosa. A tale proposito l’associazione realizza diverse
iniziative che vanno dalle mostre tematiche, alla presentazione di libri, diaproiezioni, una rassegna culturale annuale dal titolo About Africa cronache di un
continente, progetti di solidarietà e sviluppo in Niger e Mauritania.
Donato Cianchini – www.itinerariafricani.net – e-mail: [email protected] – tel. 0171696721
LE VIE DEI VENTI - Varese
L’Associazione, fondata nel 1993, si propone di aggregare persone accomunate dal desiderio di parlare di viaggi e di varcare così i limiti del proprio mondo, al
fine di promuovere uno scambio di conoscenze ed esperienze. Documenti fotografici, ma soprattutto racconti, costituiscono testimonianze di un grande amore
per il “diverso” e per l’ambiente, che passa attraverso i rischi, le sofferenze di coloro che ne sono stati di volta in volta i protagonisti.
www.asiaroad.it – tel. 0332 231967; e-mail: [email protected] (Gianluca Torrente)
MULA MULA - Pontoglio (Bs)
Mula Mula è il nome dato dal popolo Tuareg ad un uccellino che le credenze popolari raccontano accompagni il nomade negli sconfinati orizzonti sahariani come
portafortuna. L’Associazione, fondata nel 1998, propone la “divulgazione del viaggio come cultura” e come “Università della Vita”, suggerendo l’arte di convivere con altri popoli in modo responsabile, attraverso conferenze, racconti di viaggio, sostegno a progetti di solidarietà, quali la costruzione di pozzi nel Sahel.
Tel. 030 7167244 (Lotti Brull) - e-mail: [email protected]
OBIETTIVO SUL MONDO - Associazione Culturale
L’Associazione è stata costituita nel 1992 da un gruppo di viaggiatori che intendevano proporre al pubblico i loro reportages. Non per protagonismo, ma come
occasione per avvicinare culture diverse: un libro aperto per tutti coloro che lo vogliono leggere. Proiezioni, mostre tematiche e la pubblicazione di tre libri con
il contributo CEE, hanno rappresentato un salto di qualità che ha consentito di allargare le attività ad altre città. Un’attività sempre più impegnativa, ma che non
ha perso di vista la filosofia dell’Associazione.
E.mail: [email protected] - Tel. 02-9466688 (Claudio Tirelli)
SOMMARIO
Mille e una notte: racconti di “malati” di viaggi - Le Vie dei Venti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .pag.
L’anima del viaggiatore - Club Magellano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .pag.
Dossier: Swahili - Argonauti Explorers . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .pag.
Itinerari insoliti: Antartide: rotta alla Fine del Mondo - Argonauti Explorers . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .pag.
Racconti per immagini: L’arte di ornare se stessi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .pag.
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In copertina: Indonesia (West Papua): Uomo Yally. Foto di Gino Bilardo (Torino)
All’interno foto di: Sandro Bernes, Gino Bilardo, Giovanni Busetto, Renato Civitico, Marco Di Marco, Linamaria Gulfi,
Carlo Onofri, Roberto Pattarin, Angelita Piatti, Marco Pierli, Flavia Pioltelli, Claudio Pozzati, Erika Rigamonti, Luisa Rolandi
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RONTIERE
Editoriale
Il grande freddo, la grande diga, la grande foresta
di Marco Di Marco
Quando, nel visitare un paese, si è cercato di andare al di là del
contatto superficiale, di quel paese resta in noi qualcosa. Ci è
inevitabile ripensare ai posti che abbiamo visto ed alla gente
che lì abbiamo incontrato come a luoghi e persone che fanno
parte ormai di una nostra geografia interiore, che in noi si è
strutturata con la forza delle sensazioni, intense, sperimentate
in tante occasioni d’incontro. Persone e luoghi, con cui è importante non perdere contatto, esercitando un’attenzione particolare ad ogni notizia che su di loro ci arriva.
E così, scorrendo i giornali, navigando in internet, ascoltando
quel poco che del mondo ci propongono i media... ci sembra
di essere ancora vicini, di partecipare in qualche modo - a volte con angoscia e spesso con ansia - alle cose (belle o brutte)
che accadono in quel mucchietto di “tessere” che, dal grande
puzzle del globo terrestre, abbiamo raccolto nelle nostre peregrinazioni.
Proviamo allora a ritornare in Mongolia. A questa terra abbiamo
dedicato, alcuni numeri fa, un Dossier. E’ un paese che, come
spiegammo allora, ci è particolarmente caro. E così le notizie
che arrivano in questi giorni, mentre stiamo chiudendo questo
numero di “Frontiere”, ci rattristano parecchio. Quest’inverno
è stato per la Mongolia un’autentica catastrofe. Per la quinta
volta in vent’anni si è verificato il “grande dzud” un’ondata eccezionale di gelo e nevicate, che ha ghiacciato la superficie dei
pascoli. Oltre 3 milioni di animali d’allevamento morti per il
freddo e per la fame. Migliaia di persone denutrite e ormai allo
stremo con la prospettiva di un’alluvione disastrosa al disgelo.
Il cambiamento climatico (con buona pace dei “negazionisti”),
si è manifestato nella sua tragica concretezza e ha fatto sì che
negli ultimi 20 anni si sia ripetuto ben 5 volte un fenomeno che
fino al 1990 accadeva ogni 10 anni!
Spostiamoci ora in Africa, precisamente in Etiopia, lungo la
valle del fiume Omo, luogo, anche questo, a noi tra i più cari. Ci
imbattiamo qui nel nome in codice di un progetto, “Gibe 3”. Si
tratta di una diga idroelettrica, il più grande investimento mai
concepito in Etiopia (240 metri di altezza per un bacino lungo 150 km!). Ad onta di tutte le rassicurazioni del costruttore
(italiano) è forte la preoccupazione di una catastrofe socio-ambientale. Le popolazioni coinvolte (500mila persone tra Etiopia
e Kenya) corrono grandi rischi legati a fatto che la diga muterà
drasticamente la portata del fiume, arrivando ad eliminare il
naturale ciclo delle piene. Recita il Dossier di International Rivers: “Gli agricoltori locali piantano le colture lungo le rive
del fiume dopo ogni piena annuale. Queste ridanno anche vita
ai pascoli per il bestiame e segnano l’inizio della migrazione
dei pesci. Se non si fermeranno i lavori e non si interverrà con
adeguate misure di mitigazione, la diga provocherà carestie
croniche, problemi di salute, dipendenza dagli aiuti umanitari,
e un generale disfacimento dell’economia della regione e della
stabilità del suo tessuto sociale, in un ambiente ecologicamente
già di per sè molto fragile”. Tutto questo per un progetto molto
probabilmente destinato a produrre energia per l’esportazione.
Spaziando poi sulla fascia equatoriale (accompagnati anche
dall’articolo che Renato Civitico ci propone qualche pagina
più avanti), vediamo come una parte dell’umanità, incurante
- “business as usual” - degli allarmi sempre più documentati,
continui imperterrita nello sfruttamento intensivo delle grandi
foreste, scrigno di varietà biologica e tesoro ancora inesplorato
di risorse naturali che, semmai, ci chiedono di essere avvicinate
con finezza, partendo dai depositi di saggezza accumulati in
millenni dai nativi che vi dimorano.
E potremmo continuare all’infinito, tutti insieme, questa rivisitazione del mondo in cui abbiamo viaggiato, con sentimenti
contrastanti, in cui il negativo pare spesso sopravanzare il positivo.
Come evitare un ovvio pessimismo, che, a questo punto, investe le sorti della nostra civiltà e del nostro pianeta vivente? Un
suggerimento l’ho trovato proprio in questi giorni nelle parole
con cui Jeremy Rifkin conclude la sua ultima riflessione1: “Ad
un certo punto ci renderemo conto che condividiamo lo stesso
pianeta, che siamo tutti coinvolti e che le sofferenze dei nostri
vicini non sono diverse dalle nostre [...] La civiltà dell’empatia
è alle porte. Stiamo rapidamente estendendo il nostro abbraccio empatico all’intera umanità e a tutte le forme di vita che
abitano il pianeta”.
Riusciremo, come si chiede Rifkin, ad “acquisire una coscienza
biosferica e un’empatia globale in tempo per evitare il collasso
planetario”?. La risposta è tutta da scrivere, ma di certo il rapporto che abbiamo costruito negli anni con persone e luoghi dei
nostri viaggi va esattamente in questa direzione.
1 J. Rifkin, La civiltà dell’empatia, tr. it. Mondadori, 2010, p. 570
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RONTIERE
Le vie dei venti
Mille e una notte: racconti di “malati” di viaggi
Nascere e rinascere negli altri attraverso racconti
di Gianluca Torrente
Leggendo i racconti proposti in questo numero di Frontiere, uno mi ha riportato alla memoria i tanti incontri che ho avuto la fortuna di avere in occasione dei miei viaggi.
Spesso mi è capitato di pensare ai protagonisti. Appaiono a distanza di anni quali personaggi ripresi dalle pagine di un romanzo,
figure ormai sbiadite che conservano ancora la forza delle loro parole e delle immagini che continuano ad evocare. Probabilmente
alcune delle persone incontrate sono ormai morte da anni - considerando che il tempo è assai relativo in molte aree del nostro
Pianeta dove interrogarsi sull’età di coloro che incroci è una inutile scommessa - ma l’imprinting che ne è derivato sopravvive in
noi e, sicuramente, ci permette di vivere nei racconti degli altri.
Navigando su Internet, mi sono imbattuto in questa fiaba africana:
Tanto tempo fa, la Luna, che muore e rinasce ogni quattro settimane, disse un giorno alla lepre:
“Va’ e annuncia agli uomini che come io muoio e nasco di nuovo, anch’essi moriranno e rinasceranno”. Purtroppo la lepre, nel
riferire alla gente il messaggio della Luna, fece una gran confusione. E infatti disse: “Come io muoio e non torno un’altra volta in
vita, anche voi morirete e non rinascerete più”. Quando la lepre fu di ritorno, la Luna le chiese che cosa avesse detto alla gente.
“Ho detto così: come io muoio e non torno un’altra volta in vita, anche voi morirete e non rinascerete più”. “Ma perché hai detto
una cosa simile?” gridò la Luna infuriata. Le tirò addosso un bastone, la colpì sul muso e le spaccò il labbro.
La lepre fuggì via e da allora ha sempre avuto il labbro spaccato.
E gli uomini, da quel tempo, muoiono e non rinascono.
Non si sa viaggiare se non si sa incontrare e non si sa incontrare se non si sa concedere all’altro di entrare per sempre in noi. Un
mio caro amico protagonista di tanti viaggi, qualche giorno orsono mi ha detto: “E’ proprio vero che, quando ogni mattina ci specchiamo, vediamo l’immagine degli altri riflessa in noi”. Allora l’uomo diviene come la Luna, muore e rinasce negli altri.
Non solo gli oggetti che ritroviamo in un museo o in una vecchia bottega parlano, ma anche le apparizioni che risvegliano in noi i
tanti ricordi di viaggio: il problema è saperli interrogare.
Ascoltiamo i racconti degli altri e lasciamo che nuovi protagonisti d’incontri, trovino in noi nuovi approdi in cui sopravvivere.
KENYA:
un viaggio nel tempo
di Alessandra Monti
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Sono passati molti anni, Barbara deve essere morta. Quando
l’abbiamo conosciuta era già molto vecchia, oltre gli ottanta;
ma ad una signora della sua età sarebbe stato scortese chiedere
quanto oltre. Due righe sulla guida ed un breve accenno alla
sua villa sull’Oceano Indiano vicino a Malindi. Nulla faceva
immaginare che, dietro la dizione sintetica “sistemazioni economiche”, vi potesse essere, ancora miracolosamente intatto, un pezzo di storia.
Nata in India e trasferitasi in Kenya dopo
avere sposato un coltivatore di caffè, chissà quante cose avrebbe potuto raccontarci
sull’epoca d’oro dell’impero coloniale
inglese.
Al posto delle parole sono stati i gesti,
i piccoli cerimoniali quotidiani, a farci
capire cosa significava essere i padroni
del mondo. Il morning tea servitoci direttamente in camera, innanzitutto. Poi,
dopo colazione, la passeggiata mattutina sulla spiaggia, accompagnata dal suo
tuttofare Samson e dai bassotti, scatenati
alla caccia dei grossi granchi. Il the del
pomeriggio, con torte calde appena sfornate. Lunghi pomeriggi assolati trascorsi
Kenya (Malindi): Sguardo sull’Oceano Indiano (Carlo Onofri - Bologna)
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RONTIERE
Le vie dei venti
Mille e una notte: racconti di “malati” di viaggi
ascoltando alla radio BBC International e sbrigando la corrispondenza con amici in tutto il mondo. Credevo che il campanello per chiamare il cameriere a portare la pietanza successiva
si usasse solo nei film in costume. Sbagliato. Lì, in quel pezzo
di impero coloniale dimenticato, Barbara lo usava con grande
noncuranza. Sia noi che i due giovani australiani ospiti a cena
rimanemmo stupiti e affascinati. Se sembrava “antico” a noi
adulti europei, quanto doveva sembrare strano a due giovani del
paese più lontano dalle convenzioni che c’è al mondo!
Il pranzo della domenica ha rappresentato il momento in cui
la sensazione di vivere nel film “La mia Africa” è stata più
intensa. C’erano tutte le sue amiche delle ville vicine: l’argomento del giorno era il pallone che avevano regalato alla locale
squadra di calcio. Stavo godendomi questa atmosfera d’epoca
quando, all’improvviso, sono stata coinvolta nella conversazione da una domanda cui era veramente impegnativo rispondere:
“quale razza di cani è di moda in Italia?”
L’ultima sorpresa Barbara l’ha riservata quando, salutandoci,
ci ha detto che non pensava esistessero italiani come noi, così
diversi dai rumorosi proprietari di ville di Malindi.
Grazie Barbara.
ETIOPIA: tre matematiche
nella “Terra del diavolo”
gio immenso, montagne, valli, lunga strada, ponti, caprette
all’ombra di ombrelli naturali (le acacie), venditori di carbone
e... un bellissimo bambino che vende uova di struzzo. A Mille,
cittadina a 1000Km da Asmara, nome partorito dalla fantasia
italiana, un’ottima njera cotta al momento. Caprette che mangiano gli avanzi del chat (sembra che il latte bevuto dai bambini
li renda dipendenti). Ancora una lunga strada, sterrata ma bella,
verso Asayta, antica capitale degli Afar. Paesaggio bellissimo,
primordiale, desertico, con acacie che si sviluppano in altezza
e larghezza seguendo la magica legge dei frattali. Ci avviciniamo: lunga fila di pali della luce con appollaiati avvoltoi ed
aquile egiziane, attenti ad agguantare i resti di qualche preda
abbandonati sul terreno. E poi scimmie, gazzelle, grandi pozze
di acqua piovana cui si abbeverano uccellini, alcuni rossi ed
altri gialli. E ancora la visione: oltre i massi neri, enormi e di
origine vulcanica, ecco il dio Awash, fiume portatore di vita,
ricchezza, bellezza e gioia. L’albergo di Asayta è bellissimo:
dormiamo su una terrazza in letti con baldacchino-zanzariera,
sotto scorre il fiume e sopra brilla la luna piena! Notte indimenticabile per suoni, rumori della foresta, di animali, di uomini, il
tutto illuminato dalla luna che, lenta, fa il suo giro.
10 Mar - A Samara, l’attuale capitale, i permessi per entrare
di Angelita Piatti
Febbraio 2009: tre donne decidono di realizzare un sogno da
anni coltivato e partono per l’Etiopia, destinazione Dancalia.
Sono tutte e tre matematiche e la Dancalia è anche terra di numeri, e molti negativi, come le quote sotto il livello degli oceani
cui la sprofonda la tettonica del Grande Rift. «Ah! Ma allora
è vero che quelli che vanno in Dancalia “danno i numeri”!»,
le ha salutate, ironico, un amico. Comunque eccole tutte e tre
- Angela, Angelita e Carla - sulla strada asfaltata che da Addis
Abeba in 370 km le porterà fino alla prima tappa, Kombolcha,
toponimo che non meriterebbe di essere ricordato se non indicasse un luogo di sosta obbligato. Qui si fermano i camionisti
nel percorso - una settimana - Gibuti-Addis (un tempo AsmaraAddis, come ci narra Tommaso Besozzi nel bellissimo libroréportage, “Il sogno del settimo viaggio”). Per Angelita, al suo
quarto incontro con l’Etiopia, il viaggio inizia, dunque, su una
“lunga strada di paesaggi conosciuti, senza l’incanto attonito
della prima volta ma con l’emozione di
rivivere sentimenti”. La mattina di lunedì
9 si riparte alla volta della Dancalia, terra degli Afar, pastori nomadi il cui nome
significa “uomini liberi”. Ed è lungo questa strada che cediamo la parola all’immediatezza del diario.
La terra degli “uomini liberi”
9 Lun - A Bati il lunedì mercato grandissimo: Amara, Oromo, Afar, sono circa
diecimila, con le loro cose: spezie, animali, stoffe, sale e bidoni. C’è una forca,
dove un tempo giustiziavano i colpevoli,
nel punto più alto della leggera collina,
ora trapuntata di bancarelle, gente e dromedari. Lunga discesa, con un dislivello
di 1500m, verso la depressione. Paesag-
Etiopia (Dancalia): Le sorgenti calde di Dallol (Angelita Piatti - Varese)
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RONTIERE
Le vie dei venti
Mille e una notte: racconti di “malati” di viaggi
nella zona Afar. Città brutta con l’insieme delle due culture,
la moderna con case nuove, ma brutte, e la tradizionale con
capanne, ma degradate. Ah, quanto è difficile fondere il nuovo
al tradizionale! Si, perché le capanne Afar, per quanto misere
nelle spianate deserte, vivacizzate dalle loro donne stupende
hanno il loro fascino e la loro dignità. Si prosegue su una strada nuova, inaugurata una settimana fa, in un paesaggio lunare
di pietre nere, laviche: in lontananza sabbia chiara e miraggi,
ovunque e in continuazione. A Sessanta (60 come i Km dal bivio Gibuti-Lago Afdera) sosta per il lunch e per il troppo caldo.
Bambini belli e polverosi ci accolgono. In giro tutta ossidiana:
anche il pavimento della locanda è in ossidiana battuta. E via,
lungo una strada da paesaggio lunare, immense zone di lava
nera, collinette sali e scendi, sempre tutto nero... perfino il cielo, pur essendo terso è grigio. Ci saranno i famosi 50°C e siamo
ad altezza 0... e ora a -50! All’orizzonte una striscia azzurra: è
il lago Afdera (“dove c’è acqua” in lingua Afar), 140 m. sotto
il livello del mare, uno specchio d’acqua salmastra circondato
da neri basalti. Visione irreale, è tutto ovattato. Facciamo subito un bagno rigenerante in una delle sorgenti calde che lo alimentano, provenienti dal sistema dell’Erta Ale. Ci accampiamo
sulle rive e... magia!... vediamo sorgere la luna dal lago. Notte
emozionante: vento, luna, lago.
11 Mer - Passeggiata in riva al lago lungo le saline. Il sale galleggia bianco e spumoso creando immagini uniche. La spuma
salina si posa sulle sponde. Questa zona si è formata dopo il
Miocene, 50 milioni di anni fa: una depressione lunga 6.000km
dal Mozambico alla Siria. La distesa di sale è di 600km2 per
una profondità da 1 a 3km! Con noi c’è una guida afar e avremmo diritto a due guardie ma, dato che abbiamo solo due macchine, ne otteniamo solo una. E’ un proforma: non c’è nessun
problema attualmente tra governo ed Afar, ma è un pretesto per
dare lavoro, infatti ne abbiamo una ma ne paghiamo due!
La “Montagna con il fuoco”
Paesaggio lunare tutto nero con sprazzi di sabbia e qualche cespuglio. E’ la zona dei vulcani che hanno eruttato fino a poco
tempo fa, 1978, e tutta la lava ha annerito il landscape. Il caldo
è tremendo, +50°C, e siamo a -25m. dal livello del mare. In un
villaggio, tre capanne, il capo con la famiglia si sposta fuori
all’ombra e cede a noi la capanna per pranzo e dopo pranzo:
oggi come ieri dalle 12 alle 15 non ci si può muovere per il
caldo. Ci accampiamo ai piedi del vulcano e, appena è buio,
con una scorta (poliziotto afar, poliziotto locale, guida ufficiale
e un’altra locale, cammello con i nostri sacchi a pelo) ci avviamo in processione verso il divino Erta Ale (“la montagna con il
fuoco” in lingua afar). Procediamo lentamente e con fatica perché il cammino è irto di sassi, lava e sabbia. Ogni mezz’ora una
sosta, per fortuna c’è un forte vento che rinfresca e poi la luna
meravigliosa ancora quasi piena. Il dislivello è di 400m e dopo
circa quattro ore arriviamo in cima: in fondo un bagliore rosso.
“Welcome to Erta Ale!” ci dice il cammelliere. Camminiamo
ancora, prima una discesa ripida che porta a una vecchia bocca,
più larga. Percorso questo strato di lava raffreddata siamo alla
bocca principale del vulcano. In fondo all’enorme buco lingue
di fuoco, fuoco sul bordo, saette che attraversano il tutto di fuoco. Nell’aria odore di zolfo e un caldo potente che sale fino a
noi. Emozione di spettacolo mai visto, grandioso e terrifico!
Siamo ipnotizzate, affascinate, annientate dalla potenza e dalla
bellezza violenta.
12 Gio - La mattina ci riavviciniamo alla bocca del vulcano e
ora vediamo tutta la lava solidificata che forma, colta improvvisamente dal vento gelido durante il suo movimento o perché
si è esaurito il materiale, bellissime figure di arte moderna. Una
spianata meravigliosa, tutta lava con forme rotonde, da limone spremuto, colonne, alberi, tutto pietrificato nero. La bocca
del vulcano... un urlo “ma è mercurio fuso!”. Una, dieci, cento
masse in movimento, separate da lingue di fuoco, il tutto in
continuo movimento e variazione d’immagine: un quadro mobile, stupendo, fascinoso come un oceano. Anche ora incantate dal gioco incessante delle masse in movimento. La discesa,
sulla lava nera e sotto il sole subito cocente, è faticosa ma un
vulcano simile non si trova facilmente e chiede questi sforzi
per essere più intensamente ricordato. Al rientro accaldate, infuocate, ci accolgono i nostri assistenti rimasti al campo con un
catino di acqua fredda per ognuna! Delizia! Lunga strada verso
Amadela, villaggio Afar, punto di partenza della spedizione di
domani.
La “Terra degli spiriti maligni”
13 Ven - Presto partiamo per il Dallol, detto “la terra degli
spiriti maligni”. Il landscape è molto simile a quello del Salar
de Uyuni: stesse formazioni esagonali sul terreno. Poi, l’inimmaginabile: una distesa di formazioni giallo, rosso, amaranto,
arancione e oro! E’ il sale con vari minerali composto nelle
forme più strane: seggioline, piccoli presepi, montagne, montagnette, il tutto riflesso in terrazzamenti d’acqua. E poi, bianco
sfavillante e arancione... mai visto niente di simile. Meraviglia,
meraviglia! Rosso con righe più rosse in risalto, giallo con righe più gialle... Ricordo la bocca del cratere: grigio con righe
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Etiopia (Dancalia): Il cratere dell’Erta Ale
(Angelita Piatti - Varese)
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RONTIERE
Le vie dei venti
Mille e una notte: racconti di “malati” di viaggi
Un po’ come l’eclisse...
Risaliamo l’altopiano fino a Berale, 600m.
Lungo la strada siamo inizialmente avvolti
nella nebbia dovuta alla calura e ai 120m
sotto il livello del mare. Orizzonte plumbeo,
vaghe forme di montagne ed alberi ovattati e
lattiginosi. Risaliamo pian piano - una strada tremenda, quelle degli Altai mongoli in
confronto erano belle - in un paesaggio primordiale tutto arido, canyon scavati da fiumi
impetuosi, e poi... un anfiteatro di pietra, da
una parete scende una cascata d’acqua, una
doccia naturale meravigliosa, rinfrescante.
Siamo ancora ai piedi di monti dalle forme
strane - coni, cilindri, e comunque inusuali
- e la vegetazione è quasi inesistente. A Berale, paesone polveroso punto di arrivo delle
carovane del sale, ci accampiamo nel cortile
Etiopia (Dancalia): Lavorazione del sale nella regione dell’Assale (Angelita Piatti - Varese) della scuola.
15 Dom - Stanotte ho visto bene il carro in
cielo! Lunga risalita sull’altopiano. Paesagrosse, sono le linee di forza, sono disegni frattali con cui è scritgio meraviglioso e vario: dalla depressione
ta la natura dai vulcani ai salar, esagoni pietrificati, spiriti ma- arriviamo a 2000 m. per strade impervie, vedendo precipizi
ligni quando non si sa dare altra spiegazione a cose così strane. vertiginosi, wadi enormi, terre sconvolte da terremoti di mi50°C fuori, 40 sotto il tendone, dove passiamo un pomeriggio lioni di anni fa. Infine il paesaggio tigrino, che ai nostri occhi
il cui unico obiettivo è la sopravvivenza (è venerdì e non si la- abituati al deserto appare dolce, bucolico, un presepe. Il verde e
vora, domani andremo a vedere i lavoratori del sale).
i fiori ci sembrano rarità preziose. Ma la Dancalia, che abbiamo
14 Sab - Sole bianco offuscato da nubi di calore. Via! Verso la appena lasciato, è una terra meravigliosa, unica. Ciò che abbiaspianata dove, in uno scenario da inferno dantesco, lavorano... mo visto è impresso nel nostro cuore e nella nostra mente. E’
i più disagiati della terra. Siamo nella regione dell’Assale nel davvero la natura all’inizio del mondo! Anche il disagio, il non
punto più profondo (-116m) dei 200km per cui si estende la poter sostare in nessun posto, tutto ciò fa apparire il viaggio
grande depressione dancala. In questa zona si trovano i princi- come una visione di sogno... E succede un po’ come con l’eclispali giacimenti di sale della Dancalia. L’espressione Assa Ale se: devo continuare a ripensarla, altrimenti la perdo!
(in dancalo “monte rosso”) è riferita a due spuntoni di
solfato di magnesio da cui prende nome il lago mobile dell’Assale (profondità massima 2m), che scivola
nella piana seguendo il ciclo dei monsoni: d’estate a
nord, fino a Dallol, d’inverno a sud fin verso l’Erta Ale.
Nell’estrazione e lavorazione del sale cooperano tigrini
dell’altopiano ed afar. I tigrini estraggono a picconate i
blocchi di sale e li spezzettano in mattonelle (ganfùr) di
tre pezzature diverse (4, 6 e 8kg). Le mattonelle sono
squadrate dagli afar che, servendosi di una sorta di spatola, le riducono alle dimensioni richieste. In totale 300
ganfùr per lavoratore, in una giornata durissima: 7 ore
di lavoro, più 2 per arrivare e 2 per tornare a casa (e
pochissimi minuti per mangiare) con temperature di 4060°C all’ombra. Riposo il venerdì o la domenica a seconda della religione (gli afar sono musulmani, i tigrini
cristiani). Questi ritmi e queste condizioni infernali di
lavoro continuano per mesi, per interrompersi soltanto
alla stagione delle piogge, quando le strade dell’altopiano tigrino diventano impraticabili.
Etiopia (Dancalia): Ragazza Afar (Angelita Piatti - Varese)
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RONTIERE
Le vie dei venti
Mille e una notte: racconti di “malati” di viaggi
BENIN: istantanee
dalla “Maison de la Joie”
di Erika Rigamonti
Una magica accoglienza
Non sono mai tornata nel medesimo luogo. Nonostante la bellezza dei paesaggi, la potenza della natura e la malinconia che,
inevitabilmente, accompagna ogni ritorno in Italia. Nonostante
gli arrivederci che sapevo essere addii, nei miei viaggi, mai ho
ripercorso i medesimi luoghi né rivisto i medesimi volti.
Eppure a gennaio, a soli cinque mesi di distanza, sono tornata
in Benin, a Ouidah, alla Maison de la Joie.
Per la prima volta nella mia vita, il desiderio di restare lì era stato più forte del desiderio di tornare al mondo a cui appartengo
per nascita e cultura. Per la prima volta le lacrime, così comuni
nei saluti, erano state troppo sofferte, dolorose, incapaci di accettare quel distacco prematuro e ingiusto.
In quella casa caotica, immersa nella sabbia rossa di Ouidah,
dove le donne sono continuamente chine sulle tinozze, dove i
vestiti dei bambini sono stesi sui i fili vicino al pozzo, dove le
risate riecheggiano per le scale e in cui, con un misto di commozione e titubanza, trovai allora, per la prima volta, il coraggio di scendere in cortile e mangiare insieme, intorno al tavolo
di legno, con le mani, come loro.
In quella grande casa avevo respirato il senso della famiglia.
Ero stata travolta da un’ amore imprevisto e potente, capace di
accogliere, accudire, salvare chiunque varcasse la sua porta di
ferro.
A gennaio ci sono tornata e mentre i bambini mi strappavano di
nuovo le borse dalle mani per portarle in casa, mi sono accorta
che, ai margini di quel trambusto, c’erano occhi nuovi, più ti-
Benin (Ouidah): Figura di révenant (spirito di defunto che ritorna)
in una danza voodoo (Erika Rigamonti - Parma)
midi, più esitanti, occhi in attesa di capire se potevano essere,
anche loro, parte di quella festa che ci stava travolgendo.
E così, mentre vedevo Grace scrutarmi dal basso in alto con il
suo sguardo impertinente, mentre mi accorgevo quanto Abbash
fosse cresciuto e François mi sfoderava, tutto fiero, i suoi saluti
in italiano, me li guardo meglio e in quell’istante inizio a capire. Li conto una prima volta e poi di nuovo. Arrivo sempre a
47. Non riesco a crederci! Sono 13 bambini in più che potranno
finalmente sorridere, mangiare, andare a scuola, fare la gita al
mare e guardare i cartoni animati.
Al piano di sopra i turisti si affacciano sorridenti sulla festa
dell’arrivo e, come è giusto che sia, quando si vive tutti insieme, con le stanze
dalle porte aperte, la tavola in comune e
le notti trascorse a parlare sotto un cielo
di stelle, vengono a presentarsi e a dirci,
anche loro, “benvenuti alla Maison de la
Joie”.
Il sibilo della notte
Il festival del Voodoo era ormai finito e
una lunga fila di donne, sul dosso della
battigia, guardava le onde spalmarsi sulla
sabbia rossa mentre i bambini, sfidandole, cercavano invano di essere più veloci
del mare. Le salutai, come di rito, con
un cenno del capo e mi incamminai da
sola verso il palmeto al centro della laguna, senza rendermi conto, però, che la
notte, più veloce dei miei passi, era quasi
arrivata. Entrai a Ouidah col buio, stu-
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Benin (Ouidah): Festival del Voodoo. Adepte della foresta sacra
(Erika Rigamonti - Parma)
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RONTIERE
Le vie dei venti
Mille e una notte: racconti di “malati” di viaggi
pendomi, come una sciocca, del silenzio inusuale
e della totale assenza di bambini sulla strada. Mi
accesi una sigaretta e seduta davanti a una porta
chiusa mi ricordai ciò che in Italia avevo liquidato
con troppa leggerezza. Nei giorni del festival gli
Ourò escono per tre notti consecutive. Gli Ourò,
l’incarnazione dello spirito dei morti, coloro che
mai avrei dovuto vedere, coloro che nessuno conosce, che nessuno deve sfidare con lo sguardo.
Gli Ourò, la parte più oscura del Voodoo.
E, mentre ripensavo agli avvertimenti che avevo
ricevuto, un sibilo improvviso tagliò il silenzio.
Nel pomeriggio, durante la festa sacra avevo sorriso della loro fede. Come potevano credere che un
grosso pagliaio colorato, uno Zangbetò, potesse
Togo (Lomè): Bamboline voodoo al mercato dei feticci (Erika Rigamonti - Parma)
roteare da solo come un’immensa sottana dotata
di vita propria? Come potevano credere che fosse“Alè!” Mi rispose. Salii sulla sua moto.
ro davvero gli spiriti dei morti quelli che seminavano il terrore
Arrivata a casa Justine era sulla soglia. Insieme andammo a
per le strade della città durante la notte? Ma ora quel sibilo mi
sprangare la porta, a chiudere le persiane, a controllare il canstava terrorizzando e anch’io, come loro, mi rivolsi a lui, la dicello e solo quando fui di nuovo sicura, mi affacciai al terrazzo.
vinità che protegge la notte, per chiedergli aiuto contro l’ ignoto
“Non Erikà, ne regarde pas la route! Rentre immediatemment
che mi circondava. Lo pregai e mi precipitai nel buio, lungo i
à la maison!”
vicoli deserti, correndo davanti alle porte chiuse e, sfinita, mi
La seguii dentro casa, dove i bambini, le donne e i turisti dormifermai di nuovo, col cuore in gola, ad ascoltare la notte. Il sibilo
vano sereni dopo quella giornata di sole e di festa e ripensai con
era svanito. E non lontano da me, in fondo alla strada, c’era
gioia allo Zangbetò e al fatto che non mi importava più sapere
ancora la grande piazza, con le luci colorate che addobbavano
cosa animasse quel pagliaio colorato, perché per me, al di là di
gli alberi e le moto taxi parcheggiate nel solito angolo.
tutte le credenze, esisteva uno spirito buono che, davvero, mi
“Gli Ourò!” Dissi a uno dei ragazzi, indicando un luogo indeaveva protetto nel buio della notte.
finito verso il mare.
Piatto tipico: igname pillè
di Erika Rigamonti
Viaggiare in Benin significa anche
scoprire la bontà dello igname pillè.
Sui tavoli di tutti i ristoranti troverete
una bacinella di plastica, una caraffa e
del detersivo: sono un invito a lavarsi
le mani prima di iniziare, ma ricordatevi di mangiare usando soltanto
la mano destra; l’altra deve restare
rigorosamente pulita. A questo punto
vi verranno portati due piatti coperti:
il primo con gli Igname, il secondo
con il sugo di arachidi e ciò che avrete
ordinato: spezzatino di montone, formaggio o pesce. Inumidite tre dita, affondatele nella perfetta sfericità dello
igname pillè, staccatene un pezzetto,
inzuppatelo con il sugo, uniteci la pie-
tanza che avete scelto e mangiate tutto insieme. L’igname è
un grosso tubero originario del Sudamerica. Si narra che venne importato dal Brasile nel 1800, pare ad opera di Francisco
de Souza, il Vicerè di Ouidah, che non
potendo più arricchirsi con la tratta
degli schiavi tentò nuove e fallimentari attività commerciali. Piatto tipico
dell’intero paese, oggi cresce prevalentemente nelle regioni del nord. Una
volta sbucciato e lessato viene pestato
dalle donne nel mortaio fino a ridurlo a
una polenta collosa. A Ouidah l’unico
ristorante dove potrete assaporare questo gustoso piatto tipico, seduti all’ombra del grande mango o nella sala coperta è il “Palais de l’Igname Pillé”
gestito dalle donne della Maison de
la Joie. Per raggiungerlo percorrete la
strada statale Cotonou - Lomè e quando sarete vicini a “la station de police”
vedrete le insegne. Bon appetit!
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RONTIERE
Argonauti Explorers
L’anima del viaggiatore
La continua e progressiva
scomparsa delle foreste
primarie
aree di foresta sono minacciate dal taglio illegale di alberi, che
tra il 1990 ed il 2000 ha fatto perdere oltre 55 milioni di ettari di
foresta naturale. I paesi della regione hanno infatti aumentato le
attività di estrazione del legno senza creare
aree destinate alla conservazione. Diversi
milioni di ettari di foresta incontaminata,
di Renato Civitico
sono stati ceduti in concessione alle compagnie del legno per estrazione industriaLa mappa delle biodiversità, aggiornata di
le di tronchi. Le operazioni di taglio sono
recente da Greenpeace, dimostra come le
spesso condotte con metodi efficientissimi.
estensioni di foreste primarie si stiano proIl taglio viene effettuato in maniera seletgressivamente riducendo, o non esistano
tiva ed intensiva, spesso su alcuni alberi,
quasi più in vaste aree del pianeta. Questo
come il Moabi, l’Afrormosia, il Bubinga,
studio ha utilizzato mappe ed immagini sal’Iroko, l’Ayous e il Wengé, che adesso ritellitari, mettendo in evidenzia come solo
schiano l’estinzione.
in sette aree del pianeta, le foreste primarie
Molte delle imprese attive in Africa sono
abbiano ancora un’estensione considerecontrollate da società europee e americane,
vole. Queste regioni si trovano in Africa,
che operano in più modi; alcune sono diretAmazzonia, Asia, Finlandia, Canada, Rustamente coinvolte nel taglio illegale degli
sia e Cile. Le foreste primarie sono enoralberi. Di recente ed in seguito all’esaurimi aree naturali di fitta vegetazione, con
mento delle foreste tropicali in Asia, anche
solo un piccolo impatto da parte di attività
alcune compagnie asiatiche hanno cominUganda: Semliki National Park
umane. Le foreste primarie includono aree
ciato ad operare in Africa. Tra queste le più
(Marco Di Marco - Alessandria)
tropicali, boschi di conifere, macchie pluviaimportanti sono quelle malaysiane, tristemenli, foreste di montagna e formazioni di mante note per le gravi conseguenze ambientali e
grovie. Esse assicurano l’habitat naturale a moltissime specie
sociali delle loro operazioni in Malaysia e nel Pacifico.
animali e vegetali, oltre a rappresentare una fonte di vita per
Tra gli acquirenti principali di legno africano ci sono molti
centinaia di migliaia di indigeni e nativi. Le foreste purificano
paesi europei (Italia, Francia, Spagna, Portogallo), mentre i
l’aria che respiriamo, prevengono l’erosione del suolo e comflussi commerciali segnalano una forte crescita della domanda
battono le frane. Riforniscono e preservano i bacini, assicuranda parte dei mercati asiatici. Rimedi immediati alla silenziosa
do grandi riserve di acqua dolce e aiutano a combattere l’effetto
scomparsa delle foreste primarie non sono facili da trovare.
serra, assorbendo grandi quantità di carbonio.
Una prima forma di tutela ambientale passa sempre attraverso
Si calcola che circa l’80% delle aree di foresta primaria sia anun’ampia e diffusa conoscenza del problema, coinvolgendo i
dato perduto, o comunque sia stato degradato. Di queste foreste
principali organismi internazionali. L’Italia di recente è riuscita
il Bacino Africano ricopre una vasta area, attraverso gli stati di
a far dichiarare le tre cime dolomitiche patrimonio dell’umaniCamerun, Repubblica Centrafricana, Congo Brazzaville, Retà. Ovvero è riuscita a far considerare patrimonio collettivo, un
pubblica Democratica del Congo, Guinea
importante luogo naturale. Questa potrebEquatoriale e Gabon.
be essere una prima strada per tutelare anCome estensione questa regione è seconda
che queste regioni del mondo, enormi pasolo alla foresta pluviale Amazzonica, ed
trimoni della biodiversità. Ma per fermare
è anche l’area più ricca di specie di tutta
la distruzione di queste aree è necessario
l’Africa, nonché una delle difese essenziali
che le nostre società occidentali, principali
del pianeta contro i cambiamenti climatici.
consumatrici di legni pregiati, decidano di
Le foreste della sola Repubblica Democrautilizzare altri materiali, diversamente quetica del Congo ospitano oltre 1000 specie
sta processo di spoliazione non si fermerà.
di uccelli e 400 specie di mammiferi, molte
Per questo mi domando: siamo pronti a
delle quali non si trovano in nessun’altro
fare questa scelta? Lo sfruttamento intenluogo del pianeta.
sivo delle foreste primarie non può contiLa Foresta Africana è essenziale anche per
nuare all’infinito, i principali cambiamenti
la sopravvivenza dei nostri più vicini paclimatici stanno modificando lentamente e
renti: il gorilla di montagna e lo scimpanzé,
inesorabilmente il nostro pianeta.
ma oltre a questi animali sono più di 12 miA queste conseguenze dobbiamo pensare.
lioni le persone che abitano in questa vasta
regione. In Africa grandi parti delle residue
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Repubblica Democratica del Congo - Gorilla del Parco Virunga
(Marco Di Marco - Alessandria)
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RONTIERE
Argonauti Explorers
Dossier: Swahili
La civiltà Swahili
successivi sei: le navi a vela
potevano così sfruttare questa
circostanza per raggiungere
di Marco Di Marco
l’Africa Orientale e ritornare
ai porti d’origine nel giro di
Correva l’anno 1329. Ibn Battuta, giunto
un anno.
all’estremità meridionale dell’Arabia dopo aver
Per lungo tempo si è creduto
compiuto il pellegrinaggio alla Mecca, si imbarche la civiltà swahili fosse escò ad Aden su un sambuco che fece vela diretsenzialmente il frutto di una
to alla costa africana. Dopo aver toccato Zeila
colonizzazione di mercanti
(attuale Somaliland), proseguì costeggiando il
arabi e persiani, a partire dai
Corno d’Africa fino a Mogadiscio, allora fiorenprimi secoli dell’Islam. Scate città-emporio. Traversato poi l’equatore, fece
vi e studi approfonditi negli
tappa a Mombasa, per raggiungere infine Kilwa,
ultimi decenni hanno però
la più potente delle città swahili, che monopolizdimostrato la presenza di inzava il commercio dell’oro estratto nelle miniere
sediamenti urbani sulla costa
dello Zimbabwe. Agli occhi del grande viaggiaorientale dell’Africa sin 2000
tore di Tangeri si presentava una civiltà fiorente:
anni fa. Le origini della civiltà
i 3500 chilometri di costa, tra il Sud della SoOceano Indiano: Dhow Swahili
swahili furono dunque africamalia e il Mozambico meridionale, le isole Co(Roberto Pattarin - Sondrio)
ne. I rapporti col mondo arabo
more e parte del Madagascar, erano disseminati
erano comunque antichissimi
di centri urbani. Porti brulicanti di imbarcazioni,
ed anteriori all’avvento dell’Islam. L’inizio dell’immigrazione
e, una volta sbarcati, il biancore di palazzi, moschee, dimore
islamica viene fatto comunemente risalire all’VIII secolo d.C.,
signorili (tutti edifici in pietra corallina), a costituire, insomma,
quando cominciarono ad arrivare dall’Oman profughi sciiti,
vere e proprie città che ospitavano una società mercantile culseguiti, un secolo dopo, dagli ortodossi sunniti di Shiraz (in
turalmente evoluta. Le descrizioni di Ibn Battuta, come quelle
Persia) che, dopo aver edificato alcune città sulla costa somala,
di altri viaggiatori arabi, ci narrano con dovizia di particolari
fondarono Kilwa, sull’attuale costa tanzaniana. In questa priquanto queste città - i centri più importanti erano Mogadiscio,
ma fase, probabilmente, i coloni musulmani, in numero troppo
Brava, Lamu, Malindi, Gedi, Mombasa, Pemba, Zanzibar, Kilesiguo, erano stati assorbiti dalle popolazioni locali. Nei secoli
wa - fossero belle, ricche e potenti. Gli abitanti parlavano il
successivi, le ondate migratorie - perlopiù pacifiche - dall’Araki-Swahili, lingua bantu che nei secoli (come accade alle lingue
bia e dal Golfo Persico si erano intensificate dando progressivaparlate da mercanti, le cosiddette “lingue franche”) si era - e
mente vita ad un melting pot in cui gli immigrati, pur non mesi sarebbe ancor più - arricchita di parole derivate dall’arabo e
scolandosi mai completamente con le popolazioni locali, con
da altri idiomi. E “Swahili” divenne per l’appunto il nome di
esse realizzarono un’originalissima sintesi tra cultura islamica
queste popolazioni.
e cultura africana. Nel XIII secolo i Musulmani controllavano
ormai la rete dei commerci nell’Oceano Indiano e con essa tutCol favore dei monsoni: le origini del “mondo” swahili
ta la costa dell’Africa Orientale, che era entrata a pieno titolo
La costa dell’Africa orientale costituiva da secoli un’interfacnel mondo islamico. Ma si trattava di un Islam particolare, “incia tra le civiltà dell’Oceano Indiano e l’interno del continenculturato” nelle tradizioni locali e nell’animismo africano. Le
te africano, ricco di risorse naturali. Oro, avorio e prodotti di
città swahili non erano quindi città arabe: erano città africane,
grande pregio (corni di rinoceronte, carapaci di tartaruga, inabitate insieme da africani e da mercanti e coloni provenienti
censo, mirra, ambra gialla, legno di sandalo, cristallo di rocca,
dal Medio Oriente, la cui presenza si differenziava da luogo a
ebano), tutti questi prodotti arrivavano dall’interno per essere
luogo con esiti peculiari ad ogni situazione.
avviati a bordo delle navi verso i bazar del vicino e lontano
Oriente. E, purtroppo, analoga destinazione attendeva le lunghe
Navi e cannoni: il dominio portoghese
teorie di schiavi neri che le carovane trascinavano dai lontani
Nel 1507 il viaggiatore bolognese Ludovico Varthema, di ritorvillaggi fino alla costa: anche loro “merce” destinata ad essere
no, su una nave portoghese, dalle sue peregrinazioni in Oriente,
venduta nei mercati oltremare. A loro volta, le navi arrivavano
annotava nel suo diario:
nei porti swahili cariche di merci di scambio, nonché di generi
“Arrivammo all’isola di Mozambico, che appartiene al re del
di lusso (ceramiche arabe e cinesi, perle di vetro, pietre semiPortogallo. E prima di arrivare a quest’isola vedemmo molti
preziose e altro) e di tessuti, essenziali all’elevato tenore di vita
paesi che sono soggetti al mio signore il re del Portogallo. In
delle classi agiate swahili.
queste città il re tiene dei buoni forti, sopratutto in Malindi (che
Questa funzione di interscambio era felicemente modulata dai
è un regno). Mombasa, il viceré la mise a fuoco e fiamme. A
venti monsonici, che spiravano da NE per sei mesi e da SO nei
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RONTIERE
Argonauti Explorers
Dossier: Swahili
Kilwa vi tiene un forte, e uno se ne stava facendo a Mozambico. Anche in Sofala c’è un ottimo forte. Io non scrivo di quello
che fece il coraggioso capitano Tristan da Cunha, il quale nel
viaggio di andata in India conquistò Angoche e Patta e Brava
[...] e l’ottima Socotra [...] E taccio anche di molte belle isole che trovammo sul cammino, fra le quali c’è l’isola Comore
con attorno altre sei isole in cui nasce molto zenzero e molto
zucchero e molti frutti speciali e carne di ogni tipo in grande
quantità. E anche non vi dico d’un’altra bella isola chiamata
Pemba, la quale è alleata del re del Portogallo e fertilissima in
ogni cosa”.
In pochi anni lo scenario politico, sociale ed economico
dell’Oceano Indiano era cambiato drasticamente con l’arrivo delle flotte portoghesi, lanciate, dopo aver circumnavigato
l’Africa, sulla nuova rotta commerciale delle Indie. Alla prima
spedizione di Vasco da Gama (1498), seguirono altre che, sfruttando la propria superiorità militare e le rivalità tra le città-stato
swahili, assunsero il controllo di gran parte della costa (ad eccezione di Mogadiscio e della Somalia), ponendo le loro prime
basi a Sofala, Kilwa, Socotra e Ormuz. I Portoghesi soppiantarono così la rete preesistente del commercio arabo via mare
ed impedirono all’emergente potenza turca di impiantarsi nella
regione. In breve molte città, fino ad allora fiorenti, subirono un
processo di decadenza spesso irreversibile, a causa delle distruzioni (causate anche da attacchi di tribù dell’entroterra), ma più
ancora delle tasse e delle restrizioni alla libertà di commercio
imposte dai portoghesi. E’ il caso di Kilwa e Sofala, che furono
abbandonate dai loro abitanti e sparirono senza quasi lasciar
traccia. Altri centri, come Malindi, si allearono coi Portoghesi.
Altri ancora, come Mombasa seppero resistere e, attraverso vicende alterne, riuscirono a sopravvivere.
Il dominio portoghese, che fu essenzialmente commerciale e
strategico e, come tale, non lasciò segni tangibili all’interno,
si protrasse per ben due secoli attraverso colonie limitate alle
isole sottocosta (Mozambico, Zanzibar, Pemba, Mombasa e
l’arcipelago di Lamu). Ma entrò in crisi ben prima, verso la
fine del 1500, con una serie di sommosse (è di questo periodo
la costruzione, nel 1593, della grande cittadella di Fort Jesus a
10
Kenya (Lamu): Architettura Swahili
(Marco Di Marco - Alessandria)
Mombasa), che facevano perdere il controllo di fatto della costa settentrionale. L’intervento militare degli imam dell’Oman
(tappe salienti la conquista di Pemba, nel 1606, e la battaglia di
Ormuz, nel 1622) dava una spinta decisiva al declino irreversibile dell’egemonia lusitana. E così il XVII secolo si concludeva
con la caduta, nel 1698, di Fort Jesus per mano degli omaniti.
Schiavi e spezie: l’epoca omanita
Agli inizi del XVIII secolo, per gran parte, la costa dell’Africa orientale aveva ormai ripristinato i suoi storici collegamenti
culturali e commerciali col mondo islamico. In mano portoghese restava solamente la costa del Mozambico, che garantiva il
controllo dei commerci con la regione aurifera dello Zambesi.
Il XVIII secolo vide così rinascere le città-Stato swahili sotto
dinastie arabe vassalle di quell’Oman che, avendo combattuto vittoriosamente contro i portoghesi, si era affermato come
la nuova potenza egemone nella regione. Gli omaniti si erano
impadroniti delle isole di Pemba e di Unguja (Zanzibar) e qui
si erano stabilmente insediati. Con la loro presenza l’importanza commerciale e politica di Zanzibar aumentò a tal punto da
eclissare tutte le altre città della costa orientale africana. L’isola
divenne il centro più fiorente della regione, con un’economia
basata sulla tratta degli schiavi. Migliaia di africani, catturati da
spietati mercanti-razziatori, erano avviati alle vaste piantagioni
di datteri dell’Oman o venduti agli europei, che li avrebbero
impiegati nelle piantagioni di chiodi di garofano delle Indie
Orientali. La potenza di Zanzibar raggiunse il suo apice nel
XIX secolo, arrivando addirittura a sovvertire i rapporti con
l’Oman, quando il sultano Seyyid bin Said decise di trasferire
qui la capitale, e introdusse nell’arcipelago la coltivazione dei
chiodi di garofano, di cui in breve tempo Zanzibar divenne il
più grande produttore mondiale. Ai chiodi di garofano seguirono diversi tipi di spezie: pepe, zenzero, cumino e cannella.
A questo punto Zanzibar - ormai soprannominata “Isola delle
spezie” - era diventata il fulcro di un vasto impero economico. L’enorme richiesta di mano d’opera consentì agli omaniti
di proseguire, anzi di intensificare il traffico schiavista proprio
negli anni in cui le potenze europee cominciavano a metterlo
al bando. Adesso gli schiavi servivano anche alle piantagioni
dell’isola e così nel mercato di esseri umani di Stone Town inaugurato nel 1811 - si compì per più di mezzo secolo il tragico destino di un milione di africani.
Alla morte di Seyyid bin Said, nel 1856, la rottura dell’unità
politica con l’Oman diede l’avvio alla decadenza di Zanzibar,
che si consumò in pochi decenni, pur in un contesto di prosperità economico-commerciale che vedeva arrivare al suo apice la
tratta degli schiavi e l’esportazione delle spezie. Con l’accordo
anglo-tedesco del 1886 e il passaggio di Zanzibar sotto il protettorato inglese si chiudeva una fase storica. Negli anni a venire, prima con la dominazione coloniale e successivamente con
la nascita dei nuovi stati africani, la storia della costa swahili
si sarebbe sempre più identificata con le più generali vicende
dell’Africa Orientale.
F
RONTIERE
Argonauti Explorers
Dossier: Swahili
Atlante Swahili
cura di Gianni Oggioni e Marco Di Marco
Queste le più importanti, tra le 37 città swahili dalla Somalia al
Mozambico:
Mogadiscio (Somalia): Fondata tra il IX e il X sec. da coloni persiani, con le sue cento moschee e il suo grande porto era una delle
più importanti, ricche e popolose città swahili. Dal X sec. fu sede
di un sultanato e fiorente emporio di traffici marittimi verso India
e Cina. Controllò il commercio dell’oro (fin dallo Zambesi) fino
al XII sec., quando le subentrò Kilwa, a sua volta soppiantata tre
secoli dopo dai portoghesi.
Lamu (Kenya): Uno dei primi insediamenti swahili. Fondata
nel VII sec., raggiunse il massimo splendore tra il XV-XVI, con
un’economia basata sul commercio di schiavi, avorio, gusci di tartarughe e legni pregiati che venivano prelevati nel ricco entroterra
e scambiati con tessuti, ceramiche, olio e zucchero. Con l’arrivo
dei portoghesi (1506) la vita nel piccolo arcipelago fu sconvolta,
per quasi due secoli, da guerre e cambi di guida politica. Il declino
coincise con la fine del commercio degli schiavi che lasciò senza
lavoro i ricchi mercanti e gli armatori che avevano investito i capitali su questo ignobile traffico.
Gedi (Kenya): Misteriose ed eccitanti, le rovine di questa città di
pietra improvvisamente abbandonata dai suoi abitanti nel XVI sec.
forse a causa dell’arrivo di nomadi Galla da Ogaden e Somalia.
Il complesso archeologico rimase completamente nascosto dalla
giungla per tre secoli finché fu ritrovato alla fine del XIX sec. e
restaurato tra il 1948 e il 1958. E’ uno dei siti storici più importanti del Kenya e la più interessante testimonianza di centro urbano
swahili. Gedi era protetta da una doppia cinta muraria. Costruzioni
più significative: la Grande Moschea, il complesso di tombe rialzate secondo l’usanza swahili, l’edificio in cui il sultano dirigeva
l’economia ed amministrava la giustizia, ed alcune case signorili
ben conservate.
Malindi (Kenya): Fondata intorno al VII sec. Nel 1498, riservò a
Vasco da Gama una calorosa accoglienza, instaurando un’alleanza
che durò circa due secoli ed evitò a Malindi di essere conquistata
e di pagare l’imposta cui dovevano sottostare le altre città. I portoghesi vi tennero la sede della loro amministrazione fino al 1593,
quando la trasferirono a Mombasa, dando inizio al declino di Malindi, definitivamente abbandonata verso la fine del XVII sec. per
le incursioni omanite e le invasioni dei nomadi Galla. A metà del
XIX sec. Malindi rinacque con le coltivazioni di grano e altri generi alimentari per il sultanato di Zanzibar.
Mombasa (Kenya): La seconda città del Kenya fu, tra il VII e il
XV sec., terminale del traffico di avorio e schiavi e si ingrandì,
con eleganti palazzi e raffinate moschee. Saccheggiata da Vasco da
Gama (1498), fu conquistata dai portoghesi che ne fecero la base
principale sulla rotta delle Indie. Alla loro cacciata seguirono fasi
alterne di indipendenza/soggezione all’Oman fino alla fine degli
anni 1830, quando Mombasa fu annessa a Zanzibar per passare poi,
nel 1898, sotto il controllo britannico. Nella città vecchia le case
più importanti hanno graziosi balconi
in legno e portoni finemente intarsiati
con motivi simbolici geometrici o floreali, incontro delle culture che qui si sono confrontate per secoli.
Zanzibar e Pemba (Tanzania): L’isola di Zanzibar ha avuto un
ruolo assai importante nella storia dell’Africa orientale. Le prime
notizie risalgono al 200 a.C., con l’arrivo di mercanti Arabi in cerca
di avorio per greci e romani. Al X sec. risale l’arrivo dei Persiani di
Shiraz che dominarono l’isola fino all’arrivo dei Portoghesi (1503),
facendone un centro per il commercio di avorio, spezie e schiavi.
I Portoghesi rimasero fino a quando (1726) Zanzibar fu conquistata dagli Omaniti, con i quali conobbe il massimo splendore. Di
quest’epoca è testimonianza Stone Town, dichiarata Patrimonio
dell’Umanità. Nell’isola di Pemba, che di Zanzibar condivide la
storia, si trovano resti archeologici tra i più antichi e meglio conservati della regione.
Kilwa (Tanzania): Fondata sull’omonima isola da persiani di Shiraz nel VII sec., crebbe nei secoli successivi fino a diventare, nel
XIII (quando assunse il controllo di Sofala e quindi del commercio dell’oro), la città più potente della costa orientale dell’Africa.
I suoi sultani battevano monete di rame nella prima zecca africana
a sud del Sahara. A questo periodo si devono la grande moschea e
il ricco palazzo. Le fortune di Kilwa ebbero termine nel XVI sec.
quando i portoghesi, dopo averla depredata, la abbandonarono in
decadenza. Dopo una rinascita nel XVII sec. sotto gli omaniti, la
sua storia si interruppe nel 1857, con l’orrenda carneficina ad opera
dei cannibali Zimba. Gli scavi archeologici ebbero inizio negli anni
‘50 del secolo scorso. Dal 1981 Patrimonio dell’Umanità.
Sofala (Mozambico): Il più antico porto dell’Africa Australe si
era sviluppato fin dal 700 a.C. Conquistato dai mercanti persiani
attorno al 1100, fungeva da terminale per l’oro, che arrivava dalle
miniere dello Zimbabwe alla costa con dei dhow via fiume. Nel
XIV-XV sec. passò sotto il controllo del Sultano di Kilwa. Divenuta poi (1505) la prima colonia portoghese del Mozambico, mantenne la sua supremazia commerciale per secoli, fino a quando non
fu la vicina fondata Beira (1890). Il porto si era ormai interrato
per i sedimenti fluviali e la deforestazione e, cogli anni, dell’antica
grandezza rimasero soltanto poche rovine.
Kenya (Lamu): Souk Swahili (Linamaria Gulfi - Milano)
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Argonauti Explorers
Dossier: Swahili
Lamu, l’isola magica
di Gianni Oggioni
L’arcipelago di Lamu, baciato da un eterno sole e lambito dall’azzurro cristallino dell’oceano, si trova a due gradi sud dell’equatore, quasi
al confine del Kenya con la Somalia), ed è formato da quattro isole
principali (Lamu, Manda, Pate e Kiwaiyu) più una decina di isolotti
disabitati. Anche se Pate è un po’ più grande e fino al XVII secolo
economicamente la sopravanzava, Lamu (10km per 7) è oggi l’isola più
importante per popolazione ed economia. Banchi di corallo affioranti,
spiagge di sabbia bianca che scompaiono sotto l’alta marea, mangrovie intervallate da palmeti e campi coltivati, l’isola di Lamu è molto
interessante per la cultura e l’architettura swahili, ma soprattutto per
l’atmosfera della città, oltre che per la spiaggia di Shela. Su Manda,
dove c’è l’aeroporto, si trova una delle più belle spiagge dell’arcipelago, a pochi minuti di barca da Lamu. Kiwayu, l’isola più a nord, è una
striscia di sabbia bianca. Navigare con il dhow, lungo coste sabbiose od
orlate da una rigogliosa mangrovia, è un’esperienza unica ed esaltante,
sia per l’eccezionale sequenza di ambienti naturali che per la perizia
nautica dei pescatori i quali, grazie alla perfetta conoscenza di maree,
fondali e venti navigano a vista con sicurezza tra una barriera corallina
e l’altra.
Lamu
Lamu si risvegliò da un lungo torpore negli anni ‘60 e ‘70 del XX
secolo grazie al primo turismo internazionale. Pochi occidentali danarosi favorirono la comparsa di qualche albergo anche se molti di
più erano i saccopelisti sulla strada delle Indie. Le spiagge bianche e
l’antico fascino attrassero negli anni ‘80 investitori che realizzarono
alcuni villaggi di livello elevato, facendo sperare i locali in un decollo
tipo Malindi. Sfortunatamente, lo sviluppo si arrestò per il crollo del
turismo americano, seguito al collasso della vicina Somalia (1991) e
all’attentato contro l’ambasciata USA a Nairobi (1998). Negli ultimi
anni sta ripartendo qualche investimento, anche italiano, e gli abitanti
ci contano molto. Lamu è sicuramente una zona tranquilla: la tolleranza religiosa qui è di casa e tutti si danno un gran daffare per assicurare
agli occidentali che sono i benvenuti. In città il colore dominante è il
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bianco, accecante e quasi insopportabile, scandito da ombre nettissime nelle strette vie, dove gli abitanti conducono senza fretta la vita di
sempre, governata da antiche tradizioni. Negli sporchi vicoli troviamo
gli odori tipici della città islamica, i cocciuti asini dal basto stracarico
di mercanzie incitati dagli “arr” dei proprietari, le donne vestite con il
bui-bui (lungo velo nero dal quale sbucano solo gli occhi), i bambini
che portano sulla testolina eleganti kofie ricamate, il gusto per la contrattazione dei negozianti e, infine, le moschee, luoghi di preghiera, di
incontro e socializzazione nei quali sono ammessi, escluso rari casi,
solo gli uomini. Sul lungomare, dove approdano barche di ogni tipo, si
innalza una fila ininterrotta di edifici a due piani caratterizzati da tetti
in makuti, portici, terrazze e verande. Questo è sicuramente il luogo
più vivace della città, che quasi intimorisce per l’esuberanza di colori,
rumori e odori che emanano dalle barche dei pescatori e dalle attrezzature da pesca. Salendo all’interno, lungo gli stretti vicoli, si sbuca
sulla Harambee Avenue, la via principale che scorre parallela al mare
e su cui si affacciano interessanti antiquari, negozi di artigianato (in
particolare in legno) e argentieri che producono attraenti monili etnici.
Il ciclo di marea (6 ore tra massima e minima) influenza tutte le attività.
Con un dislivello di 6 metri, le barche sono all’altezza della banchina
solo in alta marea, mentre in bassa sono adagiate sul fianco. Durante le
ore di bassa marea tutto va a rilento ed il carico e scarico delle grosse e
pesanti barche a motore è sospeso. Quando l’acqua è abbastanza alta da
consentire il galleggiamento l’attività diventa (relativamente) frenetica.
Sacchi di granaglie, di cemento, doppie casse di bibite. I facchini corrono su e giù dal fondo delle barche alla banchina con apparente scioltezza, ma evidente sofferenza. A terra i trasporti si fanno con gli asini
o, se il carico è pesante, con carrelli a due ruote trainati da... uomini!
Pate
A nord di Lamu, è l’isola più estesa dell’arcipelago. Tre sono i villaggi
principali: Pate, Syiu e Faza. Il più interessante è Pate, la cui struttura,
anche se più povera, richiama, quella di Lamu: vie strette e parallele,
case in legno di mangrovia e corallo fossile, solo un paio di negozietti
dove, oltre alla Coca Cola, sono in vendita granaglie, enormi latte di
strani grassi e candele. Le case non sono decorate come a Lamu e le
porte scolpite scarseggiano, tuttavia il segno della passata grandezza,
quando Pate era la città più importante dell’arcipelago prima che il ca-
Kenya (Lamu): Porto di Lamu e ragazza Swahili (Linamaria Gulfi - Milano)
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Argonauti Explorers
Dossier: Swahili
nale si insabbiasse, si legge nella regolarità della pianta. Poche persone
per le stradine, molte che, sedute o accosciate sotto gli androni, ti salutano amichevolmente quando passi, una bambina che ti offre i bonjia
appena fritti, ragazzi che ti apostrofano con nomi di calciatori italiani
e, fierissimi, ti mostrano le magliette delle nostre squadre. Fino alla
fine degli anni ‘80 c’era una rete elettrica, l’illuminazione pubblica, e
una rete d’acqua potabile. Tutto ciò non funziona più: troppo costosi i
ricambi e le necessarie manutenzioni. Solo tre pozzi a pompa manuale
“made in India”, dove le donne si alternano a riempire bidoni gialli di
plastica, per portarli a casa tenendoli sulla testa. L’unico gruppo elettrogeno è per la TV satellitare. Poiché il canale del villaggio non ha sufficiente fondale, persone, cose ed animali sono sbarcati a Mtangawanda.
Poi si raggiunge Pate a piedi o con l’asino: un’oretta tra bush, campi
coltivati, capanne sparse con orti ordinatissimi e lande sabbiose lasciate
dalla marea, costeggiando i canali solcati dai barchini dei pescatori.
Allo stesso modo, si raggiungono, più a nord, i villaggi di Siyu e Faza.
Siyu fino al XIX secolo fu il più popoloso insediamento dell’arcipelago
ed un centro intellettuale musulmano, con scuole coraniche dedite alla
copia ed alla conservazione dei sacri testi. Ebbe pure un fiorente artigianato del cuoio e del legno, tant’è che le porte intarsiate di Siyu sono
tra le più belle della cultura swahili. Un passato di cui non rimane quasi
Le isole della costa
di Roberto Pattarin
Tra Kenya e Tanzania sorge una catena di isole Swahili, da sempre
collegate da un costante andirivieni di dhow.
Wasini: è piatta e vicino alla costa, uno zoccolo di rocce dalle stravaganti forme e mangrovie, costellato di baobab, lagune e coralli;
nelle sue acque, oggi Parco Marino, corrono delfini e pesci tropicali
multicolori; nei suoi villaggi di pescatori la cultura swahili è intatta
e la vita scorre al ritmo di sempre, segnata dai tempi della pesca
e della raccolta delle alghe, i principali alimenti dei suoi abitanti.
Pemba: Al Khuthera (l’isola verde) per gli arabi, dista solo quattro
ore di barca ed è invece 50km al largo, montuosa e verdissima,
circondata da mangrovie e grotte, mentre l’interno è coltivato a
chiodi di garofano. Poche, ma bellissime, le spiagge (Vumawimbi,
Panga wa Watoro), soprattutto sugli isolotti corallini dagli splendidi fondali (Misali, Kiweni); molte le tartarughe e alcune specie di
uccelli endemici. E’ ancora agli albori del turismo ed i trasporti dal
capoluogo Chake Chake sono scarsi: la sua gente vive indisturbata
praticando un voodoo particolare, incurante dei pochi ospiti.
Zanzibar: che dire, che già non si sappia, della notissima e italianissima Zanzibar, ormai invasa dal turismo di massa? Certo, per
alcuni di noi che la visitarono nel 1981, quando si girava l’isola su
scassati camion di legno e sulla costa non c’era un albergo, ma si
dormiva per terra in vecchie case coloniali, tutto è cambiato. Ma
nonostante tutto Unguja (il suo nome in swahili) resta ancora un posto splendido: per le bianche spiagge sulle sue coste; per i profumi
delle mille spezie e dei fiori dell’interno; per la magica atmosfera
niente, salvo il forte, che domina con la sua mole quello che ormai
appare un villaggio africano come tanti.
Kiwayu
L’isola più a nord, a metà strada tra Lamu ed il confine dalla Somalia, è una striscia di sabbia allungata (lunga 9km e larga 1, parallela
alla costa) con pochissima vegetazione. La spiaggia occidentale, che
guarda la costa ed è protetta dal mare aperto, è la più bella dell’arcipelago. Non è quindi un caso che sulla punta nord vi siano un paio
di bellissimi (e piuttosto esclusivi) villaggi di cottage immersi nel
verde delle palme. Il solo, ma sufficiente, motivo di andare a Kiwayu
è il mare cristallino color smeraldo e la possibilità di esplorare la
barriera corallina. Eccitante il viaggio a vela, con un dhow, da Lamu,
che richiede 1 o 2 giorni, in funzione delle maree e del vento, mutevole nelle varie ore della giornata. La gita vale sicuramente il piacere
di navigare a vela tra canali ed isolotti con queste barche robustissime, costruite quasi senza parti metalliche, in legno ad incastri legati
con corde in fibra di cocco. Il tutto è ampiamente ripagato dalla notte
con il vento che gonfia la vela, l’equipaggio che effettua le manovre
silenziosamente, i canti e le nenie swahili, i pasti a base di pesce,
pescato durante la navigazione, e riso.
swahili nelle stradine di Stone Town; per il fascino della sua storia
di sultani omaniti, di centro di commerci e della tratta degli schiavi,
di punto di partenza per le esplorazioni nel cuore dell’Africa; per
la sua gente, sempre gentile e sorridente, sia quando si muove nel
brulicante e colorato mercato di Darajani, sia quando suona il Taarab, la musica locale che unisce motivi africani, arabi ed indiani.
Unico problema: l’eterna rivalità tra i due partiti maggiori (CCM e
CUF), che periodicamente sfocia in sanguinosi tumulti.
Mafia è invece 120km al largo della foce del Rufiji, sulla rotta
che collegava l’avamposto costiero di Kilwa a Zanzibar. Le sue
bellezze sono prevalentemente sott’acqua: il suo parco marino è
il più vasto dell’Oceano Indiano ed ospita un complesso unico al
mondo di coralli ed oltre 400 specie di pesci, mentre colonie di
tartarughe verdi ed embricate depongono le uova sugli isolotti di
Juani e Jibondo.
Kenya (Wasini): Baobab sul mare (Roberto Pattarin - Sondrio)
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Dossier: Swahili
Le città dell’oro
e degli schiavi
di Marco Di Marco
Siamo a Ilha de Moçambique. Al centro di una piazzetta, una
statua, con le sembianze stilizzate di un personaggio cinquecentesco: la mano regge un voluminoso manoscritto, mentre
lo sguardo è perso verso l’Oriente, oltre la vastità dell’Oceano
Indiano. Luiz Vaz de Camões fu il cantore del nascente impero
portoghese e compose un poema, I Lusiadi, che voleva essere
l’Eneide di questo nuovo mito, il “sogno portoghese” di dominio sui mari. E di questo sogno, e della decadenza che lo dissolse, la città di Ilha (che fu capitale del Mozambico fino al 1898)
è una testimonianza palpabile. Le stesse architetture (fortezze,
chiese, case signorili) che troviamo nei resti dell’impero portoghese in altri angoli del mondo. E così, quando sugli spalti
della Fortaleza de São Sebastião guardiamo i cannoni ormai
inoffensivi puntati verso l’oceano, per un attimo possiamo ben
immaginarci di essere in un punto qualsiasi del globo in uno
dei tanti forti portoghesi, a Diu come a Luanda, a Goa come a
São Tomé.
Costruita su un isolotto corallino (oggi collegato alla terraferma da un problematico ponte lungo 3 km) Ilha era già un approdo importante all’arrivo di Vasco da Gama. Dieci anni dopo
era già diventata una base strategica della potenza portoghese,
e nel 1522 vi sorgeva la Cappella di Nossa Senhora de Baluarte,
il più antico edificio europeo a sud dell’Equatore. Passeggiando
per le sue strade si respirano atmosfere che portano ad immaginare l’antica città coloniale, con i suoi traffici, gli schiavi, il
dominio dei bianchi. Ilha è ora una città africana che, facendo
leva sul riconoscimento UNESCO di “Patrimonio dell’Umanità”, cerca di darsi un avvenire turistico.
Spostiamoci ora all’estremo nord del paese quasi al confine
tanzaniano, nel bellissimo arcipelago costiero delle Quirimbas.
Di fronte allo scenario ammaliante di spiagge bianchissime ci
sembra impossibile che nel 1522 si sia svolta qui una battaglia,
culminata nella sanguinosa distruzione di una città swahili, e
che da questa battaglia sia nata una città, Ibo, ancor più ricca di
atmosfere di Ilha. Da subito l’arrivo, governato dall’alta e bassa
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Mozambico (Ibo, Arcipelago Quirimbas):
Chiesa di São João Baptista (Marco Di Marco - Alessandria)
marea - un regolare attracco
al molo, nel primo caso, alcune centinaia di metri a piedi sul fondale asciutto, nel
secondo - cala il visitatore in
una dimensione di estraneità
al mondo che si arricchisce
di sfumature man mano ci si
addentra nel cuore di questa
Mozambico (Pangane):Donna
città un po’ fantasma, passeg- Makua con la maschera di musiro
giando nelle strade su cui si (Marco Di Marco - Alessandria)
affacciano coi loro eleganti
porticati le dimore di mercanti, funzionari, proprietari terrieri...
Tutti esponenti della società coloniale (e schiavista) dissoltasi
in meno di un secolo.
Avendo parlato di schiavismo, non possiamo dimenticare chi
di questo vergognoso commercio, e di altre forme di sopraffazione, fu vittima, i Makua, abitanti del Nord e Centro Mozambico. Subito il pensiero corre ai bellissimi volti femminili
resi bianchi dal musiro, pasta protettiva ottenuta da una pianta
locale, la Olax distiflora (che, pare, avrà un avvenire nella cosmesi nostrana). “Se avete educato un ragazzo, / avete formato
una persona sola. / Se avete formato una ragazza, / avete formato una famiglia intera” dice un proverbio locale a sottolineare
l’importanza della donna (peraltro assoggettata all’uomo) nella tradizione di in una società matrilineare come la loro. Sono
quattro milioni i makua e la loro storia tormentata è emblematica di questo paese, della sua storia, del complesso rapporto di
odio/amore coi portoghesi, e delle contraddizioni che il Mozambico indipendente ancora deve affrontare. Già schiavizzati
dagli arabi - che li portavano alle Comore per “smistarli” - i
makua resistettero tenacemente per quattro secoli alla penetrazione coloniale: i Portoghesi riuscirono infatti a sottometterli
solo all’inizio del XX secolo. E, una volta vinti, misero in atto
tutte le forme possibili di resistenza passiva alle corvée di lavoro coatto che venivano loro imposte, anche emigrando in massa. Appare per questo paradossale che, durante la lunga guerra
di liberazione, i makua si siano poi dimostrati i meno ostili ai
portoghesi, addirittura accettando di far parte delle milizie popolari anti-insurrezione. Ma la cosa è spiegabile con la politica
del FRELIMO, il movimento di liberazione che, ripudiando la
tolleranza - pur opportunistica - dei portoghesi, voleva fare tabula rasa delle tradizioni sostituendo con giovani indottrinati i
rispettati capi locali e concentrando la gente in villaggi nuovi,
lontano dai luoghi di sepoltura degli antenati. Fatto che indusse
i capi makua, dopo la liberazione, ad appoggiare la guerriglia
della RENAMO contro il governo FRELIMO. Questa sequenza
di eventi, ha portato la più numerosa etnia del Mozambico, ad
entrare in maniera problematica nella fase storica attuale, dovendo recuperare l’emarginazione legata all’etichetta di popolo
collaborazionista. Di sicuro un percorso, quello dei makua, la
cui conoscenza ci aiuta a leggere la realtà attuale dell’Africa al
di fuori di schemi troppo lineari.
F
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Argonauti Explorers
Dossier: Swahili
Comoros
di Roberto Pattarin
Djazair al Kamar, le Isole della Luna dei navigatori arabi, sono
composte da quattro isole vulcaniche (Gran Comore, Moheli,
Anjouan e Mayotte), 500km a nord del Madagascar, al largo
della costa mozambicana. Le prime tre formano la Repubblica
Islamica delle Comore, mentre l’ultima, con Reunion, è territorio francese. La popolazione è swahili (araba omanita), mescolata con navigatori persiani (shiraziani), pirati malgasci (malesi-polinesiani), schiavi bantu africani. Un motto locale recita:
“Moheli dorme, Anjouan lavora, Mayotte suona e Gran Comore si lamenta”: e in effetti ognuna ha caratteristiche proprie.
Eravamo là nel 1987, agli albori del turismo: atmosfera swahili
della microcapitale Moroni; poche, ma belle spiagge con palme; baobab a picco sul mare. Ma tanti scogli e prezzi alle stelle
(tutto veniva dalla Francia e un rollino di foto veniva inviato
in aereo a Parigi per lo sviluppo). Solo la più antica, Mayotte,
ha barriera corallina, mentre Moheli ed Anjouan ne posseggono solo frange. Gran Comore è un cono vulcanico ricoperto di
rigogliosa vegetazione e piantagioni di ylang-ylang, da cui si
ricava un olio essenziale per cosmesi: a ovest alcune spiagge
(Itsandra, Mitsamiouli), ma le migliori, bianche sotto i dirupi
neri di lava ed orlate di palme, sono ad est (N’droude, Hantsindzi, Bouni e Chomoni); interessanti i trekking al vulcano attivo
Comore:
l’ultimo mercenario
di Roberto Pattarin
Lo stereotipo del mercenario bianco in Africa è il Richard
Burton dei “4 dell’Oca Selvaggia” o il “Leopardo” di Sordi e
Manfredi in “Riusciranno i nostri eroi…”. Il mercenario vero
si identifica invece con Bob Denard. Nel dopoguerra le Comore furono amministrate dalla Francia e dal 1961 dalla nuova
Repubblica Malgascia. Dopo il ’68 parigino le manifestazioni
studentesche represse dalla Legione Straniera, nel 1974 il referendum e l’anno dopo l’indipendenza (tranne Mayotte che votò
per la Francia) sotto Ahmed Abdallah Abdelramane. I francesi
sospesero i sussidi (18 milioni di dollari, un’enormità all’epoca) e l’economia crollò. Nel 1976 uno sconosciuto, Alì Soilih,
assoldò dei mercenari e prese il potere: arrivarono il marxismoleninismo, come in Tanzania e ad Aden, ed il terrore rosso. Il
13 maggio 1978, 29 mercenari francesi sbarcarono a Grand
Comore, assaltarono il palazzo presidenziale ed uccisero Alì
Soilih: erano stati pagati da un magnate in esilio e dal vecchio
presidente Abdallah, che tornò così al potere. Il capo era De-
Comore (Grand Comoro) Spiaggia di Mitsamiouli
(Roberto Pattarin - Sondrio)
Khartala (2300m) ed al Lac Salè. Moheli è la più isolata: verde,
montuosa e con belle spiagge (isolotti a Nioumachoua, Kavè
Hoani, Domoni e Miringoni, con le sue tartarughe verdi). Anjouan è la più popolata e deforestata: spiagge di ciotoli e poche
di sabbia (Chiroroni e Hayoho) ed il pipistrello di Livingstone
endemico. Infine Mayotte (Grande Terre, con la città principale
Mamudzou; Pamandzi o Petite Terre, con l’aeroporto, e la rocca di Dzaoudzi), dove vivono molti francesi: barriera corallina
e isolotti (belle spiagge a Moya, Longoni e Majimeoni).
nard, già legionario in Indocina e con un curriculum militare
free lance (ma sempre in contatto coi servizi segreti francesi
ed inglesi) di tutto rispetto (Nigeria, Rhodesia, Persia, Yemen,
Gabon, Katanga, Angola, Benin). Dura la vita del mercenario:
in Africa donne ed alcool, ma non pagavano; in Yemen il contrario. Si dice infatti che fosse passato al servizio di Abdallah
per vendicarsi di Soilih, che non lo aveva pagato per il colpo di
stato di due anni prima, che aveva deposto proprio il suo nuovo padrone! L’economia era allo sfascio ed i mercenari, finito
il lavoro sporco, non poterono andarsene: Denard era a capo
di una Guardia Presidenziale di 600 uomini ed altri divennero ministri: snazionalizzarono e riallacciarono i rapporti con
la Francia, che non mostrò imbarazzo a trattare coi mercenari:
era il neocolonialismo nella guerra fredda!! Denard voleva deporre il fucile: si sposò per la settima volta con una comoriana
e si convertì all’islam col nome di Said Mustapha Mahdjoub.
Ma la sua presenza ostacolava il riconoscimento dell’OUA: dovette partire, per tornare poco dopo, perchè il potere restava
fragile (nel 1985 tre colpi di stato). Nel 1989 Abdallah viene
ucciso dalla sua Guardia Presidenziale: Denard viene accusato
dell’omicidio, espulso e portato dai parà francesi in Sudafrica.
Nel 1990 il fuoruscito Said Mohammar Djohar vince le libere
elezioni, abolisce il partito unico e apre all’opposizione: seguono altri tentativi di colpi di stato ed una rivolta militare capeg15
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Argonauti Explorers
Dossier: Swahili
giata da due figli di Abdallah e dal Capitano Combo, amico di Denard. Nel
1992 Djohar viene rieletto con poco
scarto, ma il 27 settembre 1995 Denard, sempre con 30 uomini, sbarca di
nuovo per liberare Combo e spodestare
il presidente, che esilia a Reunion. Said
Ali Kemal e Taki Abdul Tarim vengono
nominati copresidenti e Combo Capo
della Guardia. Per Parigi la situazione è
imbarazzante: invia 600 parà che arrestano i mercenari e li estradano in Francia. Ma il legittimo Presidente Djiohar
non fu mai reintegrato, mentre alle
elezioni del 2006 vincerà guarda caso
proprio quel Tarim, il filo-francese che
Denard aveva insediato. L’ultimo mercenario morirà in Francia a 78 anni, il
13 ottobre 2007, malato di Alzheimer
e senza soldi; i processi per i vari colpi
di stato e l’assassinio di Abdallah non
dimostrarono mai la sua colpevolezza
e la stessa famiglia della vittima, cosciente dei servizi resi, chiese di non
procedere. Eravamo a Comore nel
1987: i mercenari erano in aeroporto,
negli uffici governativi di Moroni e la
domenica pasteggiavano con le loro famiglie miste a pastisse, ma sempre in
mimetica.
Comore (Grand Comoro) Baobab sul mare
(Roberto Pattarin - Sondrio)
Socotra:
l’isola del sorriso
di Giovanni Busetto
L’isola di Socotra, posta in mezzo al Golfo di Aden, appartiene
allo Yemen, ma è geograficamente più vicina alla Somalia che
alla penisola arabica. Socotra ci riporta agli albori del tempo:
l’arcipelago, formato da tre isole (Abd Al Kuri, Samha e Dorsa)
è infatti preesistente al distacco tra Arabia e Corno d’Africa,
avvenuto sei milioni di anni fa. Ciò ha determinato una flora
terrestre e marina di grande pregio: 500 specie di coralli e 260
specie di piante endemiche, tra cui i “bottle three” e gli “alberi
dal sangue di drago”; la fauna è invece di passo, ma, in quanto
tappa obbligata di sosta nel viaggio dall’Africa all’India attraverso l’Oceano Indiano, qui si concentra in gran quantità e varietà. Questa tipicità riguarda anche i suoi 3.000 abitanti, non a
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Yemen (Socotra): Spiaggia di Qalansiah
(Flavia Pioltelli - Milano)
caso inclusi nell’area protetta Unesco. Chiamata Discorides dai
Greci e dai Romani, Socotra fu, infatti, un centro di commerci
tra Arabia e India; nel X secolo i pirati arabi e nel 1500 i Portoghesi, la occuparono per controllare l’ingresso del Mar Rosso;
da qui passarono i mercanti omaniti nel loro viaggio verso la
costa africana per dar vita alla cultura swahili. I socotrini sono
quindi un popolo unico, generato dalle migrazioni di secoli,
che hanno mescolato mercanti arabi, omaniti e portoghesi,
con il sangue di marinai indiani, eritrei e somali, nonché degli
schiavi africani. L’isolamento di questo popolo farebbe pensare
ad una maggior chiusura rispetto agli abitanti del continente ed
invece il carattere “marinaresco” della sua gente resiste ancor
oggi e genera un atteggiamento molto aperto. Abbiamo incontrato persone gioviali, dal sorriso facile e molto più interessate
al contatto con gli stranieri. Anche dal punto di vista religioso,
pur essendo islamici, hanno un atteggiamento più “tranquillo”.
Le donne, pur velate, coprono solo la nuca con un foulard colorato, evitando il burqa nero tipico di Sana’a e dello Yemen;
non disdegnano inoltre il contatto al mercato o nei villaggi. In
queste isole remote la nostra presenza si è rivelata una sorpresa
proprio per i rapporti umani con la popolazione locale.
Ma è la flora, con le sue 260 specie endemiche, a dominare:
piante insolite dalle forme stravaganti, come l’albero del Sangue di Drago (Dracaena cinnabari ), che forma uno spettacolare ombrello, si colora di giallo durante la fioritura e dal cui
tronco si ricava una resina medicamentosa di color rosso usata
come antiemorragico o antisettico; la Rosa del Deserto (Adenium obesum socotranum), meglio conosciuta come “albero
bottiglia”, per via del buffo tronco a forma di fiasco che alla
sommità si prolunga in sottili rami da cui sbocciano gemme
rosa; quindi Aloe, Euforbie, Fichi di Socotra, alberi di mirra e
di incenso. Altrettanto stupefacente è il mondo subacqueo: una
barriera corallina incontaminata con migliaia di pesci colorati
ed oltre 500 specie di coralli.
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Itinerari insoliti
ANTARTIDE:
rotta alla fine del mondo
di Luisa Rolandi
“Oltre i 40° latitudine sud non c’è legge, oltre i 50° non c’è
Dio” (antico adagio dei pescatori)
La partenza col rompighiaccio Akademik Sergey Vavilov è
fissata per le 18.00 del 9 dicembre 1999, dal porto di Ushuaia, capitale australe dell’Argentina. Un ambiente affascinante:
lunghe notti di luce con il tramonto che si allunga senza sonno
tra le montagne nere; un letto di case allineate lungo il mare
che si dilatano sulle pendici come vedette di un mondo privo
di confini; il vento che avvolge le strade, incurante dei freddolosi passanti che alzano il bavero della giacca a vento; il muto
languore di irrealtà che rallenta il ritmo della vita. Scegliete
Ushuaia come punto di partenza ed il sogno vi accompagnerà
per tutto il viaggio. Un viaggio che vi metterà a dura prova, sia
per il mal di mare che per la “clausura” forzata. Per arrivare
alla Penisola Antartica bisogna infatti attraversare il Canale di
Drake: 1.200km, tre giorni all’andata ed altrettanti al ritorno,
onde alte circa 10m. e venti intorno agli 80km/h. Al termine,
le Shetland del Sud, Hannah Point e Deception Island. E poi,
Couverville Island, Neko Harbour, Paradise Bay, Port Lockroy,
Lemaire Channel, Pleneau Bay, Petermann Island. E poi di
nuovo il Canale di Drake che, sordo alle preghiere dei passeggeri, costringerà il Vavilov ad ancheggiare disperato in balia
della schiuma. Un’atmosfera nobile echeggia tra le rigide strutture di ferro della nave: la memoria del fisico Sergey Vavilov,
dell’Accademia delle Scienze, si nasconde tra gli angoli ormai
bui di cabine un tempo dedicate alla ricerca. Ormai gli antichi
splendori hanno ceduto il passo alla curiosità di turisti desiderosi di compiere la loro storia attraverso la storia del mondo.
Gli ufficiali, tutti russi, vivono sulla nave dal crollo dell’URSS;
mogli e fidanzate vi lavorano anch’esse, come cameriere. Esuli
in una nuova patria di acqua, creature senza tempo sospese tra
la forza dell’oceano e la forza di non voler cambiare.
Alle 19.00 Ushuaia mi saluta, ancora illuminata dal sole. Col
viso al tramonto, il rompighiaccio si dirige verso il mare aperto,
all’uscita del canale Beagle, dove comanda la natura con la sua
legge di rispetto. Beagle era il nome del brigantino inglese che
esplorò la Terra del Fuoco tra il 29 gennaio ed il 7 marzo 1833,
avendo come illustre ospite Charles Darwin. Il canale blocca le
onde selvagge ed insidiose del Passaggio di Drake, cosa ormai
nota ai naviganti che, alla vista dello scoglio di Capo Horn,
o tirano un respiro di sollievo o si preparano per la battaglia.
Come Sir Francis Drake, che vi giunse il 6 settembre 1578,
scagliato da una forte tempesta, e col suo equipaggio si ritrovò
là dove Pacifico ed Atlantico si mescolano in una lotta degna
di un film-catastrofe. Una breve sosta, prima di affrontare il
mare aperto e il Vavilov riprende intrepido la rotta: ci aspettano
tre giorni prima di scorgere la terraferma. Tre giorni nel ventre
della nave, o sdraiata nel buio della cabina, sbirciando a tratti
attraverso l’oblò il mare agitato, o passeggiando tra la sala da
pranzo e la cabina di pilotaggio, dalla cui vetrata ammiro da
vicino la potenza del mare, l’acqua scura, grigia, confusa nel
cielo solcato dagli spruzzi. Sempre aggrappata agli onnipresenti corrimano, per assecondare i movimenti della nave ed attutire
i colpi.
Alla fine o all’inizio del mondo?
La sera di sabato 11 dicembre assisto ad uno degli spettacoli
più incredibili che abbia mai visto. Abituata al rollio della nave,
ai suoi colpi di pancia, alle sue impennate, concentrata nel sentire il ritmo delle onde nel sangue, quasi non mi accorgo che di
punto in bianco il Vavilov rallenta la corsa e scivola indisturbato in una culla di acque calme. L’emozione sale, mi vesto con
ogni strato di lana a disposizione e mi butto fuori. Una folata di
aria fredda sveglia la testa intorpidita dalla clausura, che si gira
automaticamente verso il parapetto: le Shetland del Sud seguono il fluire della nave. Alte montagne candide, coperte di neve
sino al mare, scendono dolci e rilassate tra una pennellata di
arancio ed una di blu cobalto. Il tramonto è senza fine, indugia
sulle curve di ghiaccio che si macchiano di roccia quasi nera, il
cielo è finto nella sua omogeneità di azzurro. Lo spazio è rotto
solo dal passaggio di albatros fieri che corteggiano la nave. Instancabili ci osservano dall’alto virando nella luce trasparente.
Il silenzio è rotto dal solo rumore delle macchine del Vavilov. Il
tempo è fermo, incastonato come un brillante tra le pieghe d’oro
bianco delle montagne: è la dorsale delle Ande che riemerge a
distanza di chilometri, sbocciando in un cielo senza notte. Sia-
Antartide: Isole South Shetland (Luisa Rolandi - Verona)
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mo alla fine o all’inizio del mondo? Saliamo sul gommone che montagne di ghiaccio che ci sovrastano dalla costa, il fronte del
ci viene assegnato e ci dirigiamo, nel mare tormentato delle ghiacciaio che avanza in mare. Ogni singolo frammento che
South Shetland, verso Livingstone Island, baia di Hannah Point si stacca - è bene stare alla larga dalla riva - produce un tonfo
(il nome di un veliero che si inabissò contro la riva), attraver- sordo forte che agita le acque e muove onde sonore sino alle pasando il breve tratto di mare che ci separa dalla costa. L’appro- reti del gommone. Sulla costa ammiro i sentieri marrone, neve
do è con gli stivali di gomma in acqua e, nonostante i calzettoni sporcata dai pinguini che salgono e scendono al mare. Lo strato
pesanti, non tardiamo ad avvertire il freddo glaciale. Colonie di bianco immacolato appare pettinato da mèche spalmate da una
pinguini Chinstrap, dalle sopracciglia segnate di nero, di pin- parrucchiera alle prime armi. La semplicità degli elementi del
guini Gentoo, piccoli e numerosi, di pinguini Macaroni con il paesaggio stupisce per la capacità di impressionare e meraviciuffetto biondo sulla testa. Sono circondata. La neve, disciolta gliare creando una miriade di diversi scenari. Ed è strano come
qua e là, è cosparsa da una miriade di piccoli puntini neri. E’ il gli stessi pezzi di acqua gelata e neve siano stati modellati dalla
periodo della cova ed alcuni hanno già sotto la panciona bianca bocca del vento e dalle mani del mare. Nel pomeriggio siamo a
una o due testoline pelose e bianche, nascoste al caldo. Lun- Neko Harbour nella Baia di Andvord, Penisola Antartica. Neko
ghi sentieri di neve schiacciata percorrono la collina; sono le era il nome di una stazione galleggiante di lavorazione delle
tracce del percorso seguito dai pinguini per andare e venire dal balene che operava in questa zona tra il 1911 ed il 1923-24. Il
nido al mare. Seguono sempre, con
contrasto tra la bellezza mozzafiato di imprecisione matematica, lo stesso
ponenti ghiacciai ed il sangue che un tempo
itinerario, e più volte mi devo fersporcava lo splendore iridescente della neve
mare per lasciarli passare. I sentieri
è evidente. Una fiaba custodita tra i crepacsono molto trafficati, un’intensa atci che l’uomo ha trasformato in un incubo
tività di “balneazione” alla ricerca
di morte, poi tornato a scintillare nella madel cibo spinge questi animaletti in
gia. Colonie di pinguini Gentoo calano nei
abito da sera a muoversi instancabifiordi incuranti del gelo. Macchie marroni
li al ritmo dei minuti senza tempo.
e grigie di leoni marini ammassano la riva.
Nel pomeriggio le nuvole coprono
Immobili respirano i raggi del sole e pigri
il cielo perennemente luminoso.
sciolgono le loro pance sulla neve. AlcuE’previsto l’approdo a Deception
ni sollevano la testa piena di occhi d’iride
Island, che lega la sua fama alle
nera e guardano i gommoni, grossi ventri di
stragi di balene, come testimoniano
grasso artificiale che nuotano borbottando
i resti, abbandonati nel 1967, delle
il loro canto di vita. Qua e là la superficie
baracche di legno e dei magazzini
del mare gela formando una sottile crosta
dove i mammiferi venivano uccisi
che lentamente si espande. Dobbiamo stare
e poi trattati per la commercializzaattenti al rientro: la glassa ghiacciata non
zione. Le rovine sono parzialmente
lascia scampo, blocca la via del ritorno a
sepolte sotto la cenere ed il fango
chi indugia. Il nostro “skipper” deve fare
Antartide: Iceberg (Luisa Rolandi - Verona)
di eruzioni vulcaniche del 1969-70,
più tentativi prima di trovare i punti dove
quasi a voler definitivamente nascondere un angolo di storia l’acqua indurita dal freddo si rende più dolce e disponibile.
da cancellare. Incredibile! Appena metto un piede in acqua per
sbarcare, una vampata di caldo mi entra nelle ossa, un vapore Il “prigioniero” di Port Lockroy
soporifero si alza e mi accompagna sino alla spiaggia di roc- Paradise Bay, così denominata per le sue coste sicure e procetta nera spezzata, mentre i più coraggiosi si buttano in acqua. tette, si trova a lato della base militare argentina Almirante
Brown. Alcune costruzioni marroni chiuse spiccato tra il nitore
Le cattedrali di ghiaccio
dei ghiacci: sembrano relitti umani abbandonati o comunque
Dopo aver attraversato il canale che separa le Shetland del Sud anime isolate da un destino ora inutile. Sono un triste ricordo
dalla Penisola Antartica, il Vavilov si avvicina a Cuverville di come anche l’angolo di natura più lontano sia oggetto delle
Island all’entrata del Canale di Errara. Il mare è stranamente tentazioni umane saldamente ancorate al possesso del mondo.
calmo, le nuvole lentamente si dissolvono dalla cima dei ghiac- Port Lockroy è una sorpresa: esiste una base restaurata gestita
ciai che incombono come il fumo dai comignoli di una casa.
da Dave Burkitt e da un biologo scozzese, Rod Downey, ed ora
Il gommone ronza leggero verso la riva zigzagando tra gli ice- adibita a museo antartico. Le casette di legno marrone, in cui i
berg, bianchi, azzurri, a forma di cattedrale, piatti e scavati dal- due vivono tutto l’anno, sono circondate da pinguini che nidile onde, trasparenti, opachi: una foresta di sensazioni crepitanti ficano persino sotto le fondamenta, ormai abituati alla presene scricchiolanti. E’ uno spettacolo davvero affascinante: noi za umana. Sinceramente non riesco ad immaginare quanto sia
piccoli in mare che galleggiamo come microscopici iceberg, duro vivere lì. Da un lato il clima che non perdona, il vento che
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si infila tra le tavole delle pareti e del pavimento; il freddo che
gela le ossa anche sotto le coperte di lana; il sole che non riesce
a scaldare gli anfratti umani. Dall’altro l’impossibilità di muoversi oltre il palmo della mano: i ghiacci cosparsi di crepacci
e la neve alta padrona delle montagne e della pianura rendono
difficile ogni passo. Per non parlare della solitudine che regna
tra le pieghe dei tavoli, delle sedie, delle scansie colme di scatolame, delle brande spartane, delle luci fioche... un duro confronto con se stessi che non lascia tregua. Camminando qua e là
vicino ai sentieri dei pinguini mi attende un’altra sorpresa: una
barca a vela, a qualche metro di distanza dai leoni marini stesi
al sole. Sembrerebbe incagliata tra i ghiacci o meglio isolata da
una gelata improvvisa durante un ancoraggio notturno per riposare. Appartiene a Trevor Robertson, un navigatore solitario
qui ospite in attesa di prendere il largo in primavera, quando il
mare tornerà a lambire la costa reale. Secondo me, in realtà, gli
piace stare in questo posto e non lo abbandonerebbe neanche
per una crociera nei Caraibi. Questo è ormai il suo mondo, il
suo destino è stato legato, e la corda è un sentiero di pinguino.
le pupille si muovano in continuazione, alla disperata ricerca di
un punto fisso che non c’è: sono talmente tanti e si muovono
tutti e nelle direzioni più diverse. Sembra che la collina si muova assieme alla neve, alla roccia, ai sassi, al ghiaccio... guardo
il cielo, chiudo gli occhi e ascolto le loro voci.
La collina dei pinguini
Oggi ci aspetta un altro momento entusiasmante. All’alba di
un giorno mai tramontato, squassati dal freddo, siamo tutti sul
ponte del Vavilov, che ha inserito i motori supplementari e con
la sua possente pancia sta spaccando il ghiaccio che durante la
notte ci ha chiuso nella baia. Il crepitio delle lastre, che si ripiegano su se stesse per poi ricadere, aleggia d’infinito: davanti,
una distesa completamente bianca che si perde nel vapore delle
nubi all’orizzonte. Siamo soli su un enorme chiazza ghiacciata
come i leoni di mare che incontriamo solitari a riposo, piccoli
puntini neri in un boomerang di luce senza sosta. Stiamo attraversando il famoso Canale Lemaire, lungo sette miglia e largo
soltanto un miglio. Prende il nome da un belga che ha esplorato
il Congo! L’idea di foreste verdi di pioggia, di caldo umido
senza respiro, di colori di vita si mescola con la spettacolare uniformità della neve. Enormi gruppi di iceberg ci scortano
sino a Pleneau Bay e Petermann Island. Le isole sono già piene di visitatori alati, grassi e magri, sonnolenti ed attivi. Una
colonia intera di Gentoo, almeno 700, è arroccata sul cocuzzolo di una collinetta rigata di sentieri di guano rosato. Ha la
forma di un cerchio allargato dove i maschi si alternano nella
posizione esterna del gruppo per dare il cambio a quelli che
fino ad allora erano esposti alle secche folate di vento antartico.
Alcuni piccoli più audaci tentano di conquistare l’indipendenza avvicinandosi all’acqua; altri ancor più piccoli, infagottati
nella loro pelliccia bianca, rimangono immobili semi-nascosti
sotto le pance adipose dei genitori; altri sono ancora sigillati
nell’uovo, trattenuto nei 60 giorni di cova sui piedi dei maschi
che, con grande spirito di sacrificio, non mangiano per tutto
il periodo. Gli occhi hanno appena il tempo di fotografare il
brulichio dei Gentoo, quando dall’altro lato della costa appare
una colonia ancor più grande di Adelie, almeno un migliaio di
esemplari. Le Adelie continuano a muoversi, e mi sembra che
Capo Horn
Ormai siamo sulla via del ritorno. Un ultimo sguardo di dolce
malinconia verso quella immensa prateria bianca sormontata
da montagne innevate e crepacciate. Ricominciano le onde
scomposte del Canale di Drake. Il Vavilov si agita nel ventre
liquido pronto per il parto. Venerdì 17 dicembre annunciano
che arriveremo a Capo Horn. Imbacuccati e muniti di macchine
fotografiche attendiamo che tra la nebbia degli spruzzi compaia
lo scoglio del punto più australe del continente. Tutto ha un colore soffuso di luce liquefatta che sbiadisce i contorni; un alone
di film in bianco e nero cattura gli obiettivi mentre sullo sfondo
si va delineando la montagna di Capo Horn. A volte a destra
della prua a volte a sinistra, mai esattamente davanti. Il Vavilov la punta, la cerca per ripararsi nelle sue baie, ma è ancora
presto, la rotondità della terra fuoriesce dalle curve delle onde.
La montagna sembra un enorme gigante guardiano che raccoglie le sue forze per lanciare un attacco a chi tenta di entrare.
Un baluardo che diventa sempre più grande, mentre gli spruzzi
d’acqua salata lasciano i segni sui vestiti e sugli obiettivi. Ci accalchiamo sui fianchi della nave, in equilibrio precario tra uno
strattone e l’altro, finché ad un tratto ogni movimento cessa:
come per incanto, ad una trentina di chilometri da Capo Horn il
mare ferma il suo moto rissoso per addolcire le sue emozioni!
Ed il gigante ci lascia entrare nel Canale di Beagle, lungo fiume
di tenerezza che ci culla sino alla baia di Ushuaia. E’ ormai
il tramonto: la cornice di montagne è nera, la parete del cielo
sfuma dall’arancio all’azzurro al blu, il quadro è dipinto ad olio
con piccole pennellate di giallo. Il giallo delle luci di una città
che da lontano sembra addormentata nel vento australe.
E’ ora. Con un profondo respiro saluto la nave e avvolgo il sogno vissuto in una carta argentata di ricordi. Ed ogni volta che
la riapro sono ubriaca di sensazioni ondeggianti d’alba.
Antartide: Pinguini Macaroni (Luisa Rolandi - Verona)
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