band: faun fables

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DEBASER
http://www.debaser.it/recensionidb/ID_21641/Black_Mountain_In_The_Future.htm
Avevamo lasciato i Black Mountain quasi 3 anni fa con l'EP "Druganaut", che seguiva di poco la pubblicazione
del primo e ottimo disco dei canadesi, e che prospettava un allargamento sonoro del gruppo verso una
cosmogonia psichedelica fortemente influenzata da tastiere spaziali. A che punto si è spinta questa
evoluzione alla luce del nuovo "In The Future"?
Verrebbe da rispondere che la sperata svolta artistica non c'è stata; o meglio che sia stata una svolta in una
strada parallela ma in senso vietato. Con tutti i rischi del caso. Come cercare di viaggiare nel senso di marcia
contrario in superstrada. Può andar bene per un po', ma alla lunga le percentuali di incidente crescono
esponenzialmente.
Gli elementi fondamentali del suono attuale dei Black Mountain si sono ridotti a due: tastiere e chitarre.
Tanto volatili e plananti le prime, quanto ctonie e percettibilmente "heavy" le seconde. Al punto di ricordare,
a seconda dei casi, gli Ash Ra Tempel con Jimmy Page alla chitarra, se va bene, o un ibrido orribile fra i
Metallica periodo "Black Album" e Jean Michel Jarre, se va male. Un sound molto più frontale, che lascia
meno spazio ai brani intimisti del primo album, eccezion fatta per l'omelia finale di Amber in "Night Walks". Il
resto è quasi totalmente dominio della sei corde di McBean e delle tastiere di Jeremy Schmidt (il quale ha
debuttato lo scorso anno con un disco solista alla Klaus Schulze, sotto pseudonimo Sinoia Caves). Se in
alcuni frangenti il rapporto è stridente (l'entrata delle tastiere su "Angels" praticamente rovina il pezzo), in
altri ci si trova di fronte a vere e proprie perle di heavy rock 70's fra le migliori sulla piazza, come dimostra
l'iniziale "Stormy High", sorretta dal bordone d'organo e da una batteria caracollante e la tribale "Evil Ways".
Gli epici 8 minuti di "Tyrants" corrono sul sottile filo del rasoio fra essere convinti e genuini, ed essere dei
tamarroni con le Flying V, col risultato di convincere a metà, vuoi anche per l'organo alla Goblin buttato
dentro quasi a caso. Epicità che sfocia nella pomposità quasi pretenziosa dell'altro lungo episodio del disco,
"Bright Lights", che parte decisamente bene col duetto ipnotico fra Mc Bean e Amber, improvvisamente
interrotto da una chitarra quasi metal, assolutamente fuori luogo. "Wucan" e "Queens Will Play" fanno
partita a sé; la prima, torbido e ipnotico viaggio nella notte, in compagnia di organi, moog e Alex di "Arancia
Meccanica"; la seconda, algido affresco a metà fra omelia cristiana e evocazione pagana, con Amber a
officiare il rito.
A dispetto del titolo, "In The Future" parla un idioma passato, e non sempre ne padroneggia i termini;
speriamo gli errori di traduzione non si tramandino troppo a lungo altrimenti ci ritroveremo con dei revivalisti
vecchi e stantii. E amiamo troppo i Mountain per lasciare che ciò avvenga. Capito Mc Bean?
DISCOCLUB65
http://www.discoclub65.it/index.php?option=com_content&task=view&id=1956&Itemid=40
Fare quello che fanno i Black Mountain, e uscire vincitori, è tutt’altro che semplice. Il collettivo (collettivo
veramente, con tanto di tendenze nuovo-hippie) canadese riavvolge il nastro su trent’anni di rock (come in
Led Zeppelin, per dire un nome) e lo aggiorna, un pochino, al gusto per la contaminazione che caratterizza
gli anni 2000. Dentro “In The Future”, disco numero due, trovate chitarre elettriche acide e aggressive,
melodie folk acustiche e delicate, voci che si incrociano, batterie che pestano, atmosfera bucolica e tempeste
di rumore. Il tutto, e qui sta il segreto, amalgamato e perfettamente coerente con se stesso. Il disco si
crogiola in un misto di melodia (ottima scrittura) e arrangiamento (i suoni sono curati e personali). Un buon
inizio anno, guardando sia indietro che avanti.
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ARTISTS AND BANDS
http://www.artistsandbands.org/ita/modules/recensioni/detailfile.php?lid=692
Provenienti dal Canada, tre anni fa in seno al loro debutto ci descrissero con un approccio delicato e
meditato la loro terra, per quello che fu considerato come una delle opere prime migliori uscite nel 2005.
Non è un caso allora che questo In The Future risulti uno dei dischi più attesi di questo primo trimestre
musicale, soprattutto tra i cultori del rock più classico.
Abbandonati certi territori più tradizionali e sicuri, oggi i Black Mountain tornano con un disco dal taglio
decisamente più aggressivo ed in parte grezzo, come a voler rinvigorire la già ampia scuola revivalistica anni
’70 degli ultimi anni.
“Stormy High” si apre con il flebile coro di Amber Webber accompagnato dalle scariche elettriche delle
chitarre per un pezzo che oggi potremmo definire al confine tra hard rock e stoner, mentre i toni sono già
più rilassati nella ballata psichedelica “Angels”, che fa da richiamo alle prime composizioni della band.
Chiude il primo trittico la vulcanica “Tyrants”, con divagazioni prog e dall’incedere epico garantito dalle
tastiere. Più alienata e piena di trip “Wucan”, che scorre piacevole senza però lasciare tracce indelebili
nell’ascoltatore il quale, arrivati a questo punto della raccolta, potrebbe emettere i primi sbadigli (noi vi
abbiamo avvisati).
Il prodotto a dire il vero è ben confezionato e suonato, però nello stesso tempo mette a fuoco in maniera
palese, tutti i limiti di un gruppo troppo legato al deja-vù e dedito più ad un recupero fin troppo eccessivo e
scontato in certi casi, del rock britannico settantiano. Esempio palese è “Evil Ways”, che pare essere una bside dei primi Black Sabbath oppure una jam tra i Led Zeppelin ed i Blue Cheer. Forse non è un caso che alla
fine, cosi come già detto per “Angels”, i brani più convincenti vengono fuori quando i Black Mountain tirano
fuori la loro vena più intimista e tranquilla, così come nel country etereo di “Stay Free” oppure nella traccia
conclusiva “Night Walks”, con ancora la Webber assoluta protagonista di un composizione spoglia dove solo
le poche note di tastiera accompagnano la sua voce sognante e ricca di spiritualità.
Un come back riuscito quindi a metà, con lo spettro dei colleghi Dead Yellow che aleggia prepotente nei
solchi, solo che quest’ultimi al secondo disco erano riusciti a dare un’impronta decisamente più personale alla
propria proposta.
I Black Mountain per adesso, sanno ancora di progetto poco definito e delineato, con qualche idea davvero
buona ma spesso realizzata male e con la testa rivolta troppo al passato.
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VITAMINIC
http://www.vitaminic.it/2008/01/black-mountain-in-the-future-jagjaguwar/
Considerando che quest’anno non si farà altro che parlare del quarantennale del 1968, i Black Mountain sono
avanti. Perché l’anno di riferimento per il secondo lavoro della band di Stephen McBean è indubbiamente il
1970. In quell’anno escono Black Sabbath e Paranoid, Barrett, e il terzo disco dei Led Zeppelin. Fa capolino
anche Atom Earth Mother dei Pink Floyd e, perché no, Déjà Vu di Crosby, Stills, Nash and Young e il primo
disco omonimo di Emerson, Lake and Palmer. E appena prima, alla fine del 1969 fa la comparsa Volunteers
dei Jefferson Airplane.
Ho elencato queste pietre miliari del rock in ordine di importanza, se riferite a In the Future. Ascoltare le
dieci tracce che lo compongono vuol dire fare un salto all’indietro nel tempo, ma un salto convinto, pesante
e pensante, lontano dalla frenesia emulativa che band di oggi nutrono verso altri decenni.
Le schitarrate di “Tyrants” sono meravigliosamente sabbathiane e fuori moda, i cambi di registro che fanno
virare le chitarre da acustiche a distorte e viceversa farebbero la gioia dei redivivi Led Zeppelin, e le voci
sono spesso eteree e rimandano alla psichedelia. Quella vera, si intende.
La band canadese non occhieggia, non ancheggia, non ha la frangetta: suona, e meravigliosamente. Mischia
timbri, ritmi, suoni in tracce lunghe (“Bright Lights” arriva a 16 minuti) e complesse, appoggiate su testi scuri
e oscuri: venti, streghe, angeli, sangue e incantesimi la fanno da padroni.
I Black Mountain riprendono un momento magico, quando l’hard rock non era ancora metal, quando “gotico”
faceva più rima con l’Ottocento o i film degli anni ’30 che con dosi massicce di eyeliner, quando il folk veniva
sporcato (in maniera filologicamente corretta, peraltro) da elementi occulti. Ascoltando il lavoro della band
canadese si torna sul crinale (per rimanere in tema alpinistico) raggiunto dopo l’estate dell’amore, mentre
tutti senza rendersene conto erano già sbilanciati verso l’altra faccia della montagna, pronti a cadere negli
anni ’70.
Se non avete paura della vostra adolescenza, se leggendo le prime righe che ho scritto vi sono venute in
mente una dopo l’altra le copertine dei dischi citati, se a volte pensate di essere nati nel decennio sbagliato,
se, come si dice in “Bright Light”, anche voi amate la notte e la stregoneria (“We love the night and the
witchery”, sic, prendere o lasciare), salite sulla montagna nera senza vergogna. Appena cala il sole, però.
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ONDAROCK
http://www.ondarock.it/recensioni/2008_bmountain.htm
Attesissimo e chiacchierato, questo “In The Future”, secondo lavoro dei canadesi Black Mountain, il cui
omonimo esordio aveva suscitato grandi entusiasmi, anche se, personalmente, faccio ancora fatica a
comprenderne i motivi. E, adesso, già si parla (figurarsi!) di “miglior disco dell’anno”, quasi come se si
possedesse una (difettosissima) sfera di cristallo!
Mix più o meno seducente di hard-rock, psichedelia, folk, progressive e quant’altro, questo è un disco che si
lascia, sì, ascoltare con interesse, ma non riesce mai del tutto a convincere, forse perchè mai davvero
convinto di se stesso – fosse anche solo per scherzo, per puro difetto di progettazione.
Più emozionale, a tratti anche più pesante del suo predecessore, ”In The Future” saltella gaio tra influenze
disparate, dando l’impressione di non avere ancora del tutto le idee chiare, in questo mantenendosi
perfettamente in linea con i difetti dell’omonimo (ma forse, chissà?, trattasi di vero limite congenito…).
L’incipit di “Stormy High”, un po’ Black Sabbath un po’ tanta fierezza hard dei Settanta, ha un bel tiro
spaccone, mostrando come la band riesca meglio quando evita di forzare troppo la mano. L’ipnotica “Wucan”
fa un tuffo nel calderone hard-prog, cucendosi addosso un velo scurissimo che sembra rilucere nell’oscurità
delle prospettive sonore.
L’effetto è assicurato (scontato e qualche volta finanche banalotto: “Evil Ways”), anche in grazia di un uso
smaliziato del synth, alle prese con linee ondulate di lirismo fantascientifico. Dopo l’intro propulsivo,
“Tyrants” si immerge, invece, in un deliquio folk-psichedelico (con tracce di Jefferson Airplane), che trova
un’improbabile redenzione nella solita apoteosi distorta.
Nella fiera delle incertezze e dei dejà vù, appaiono, quindi, molto più sincere e riuscite le ballate di “Angels”
e “Stay Free” (quest’ultima, un delicato falò di ricordi che sarebbe meglio gustare al chiaro di luna, senza
starci troppo a pensare), insieme con le atmosfere religiosamente sommesse di “Queens Will Play”.
Sincere, soprattutto se paragonate con quello che dovrebbe essere l’opus magnus del lotto, ovvero quella
“Bright Lights” che in diciassette minuti scarsi vuole a tutti i costi gettare un ponte tra i Pink Floyd più gotici
e classicheggianti e il prog psichedelico più abusato, senza avere dalla sua quella capacità di sintesi
necessaria al grande passo.
Sforzo che si rivela oltremodo sterile quando giungiamo dinanzi al sublime incanto free-folk di “Night Walks”
(con la voce meravigliosa di Amber Webber), capolavoro assoluto di un disco che, almeno il sottoscritto,
ricorderà solo per questi 3’55” di puro trascendentale elegiaco.
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BAND: BLACK MOUNTAIN
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PAG. 30
LIVEROCK
http://www.liverock.it/tuttarec.php?chiave=883&chiave2=Black%5EMountain
Quando, un paio di anni fa, il primo album dei Black Mountain divenne un “caso” underground, di certo non
si spesero lodi in favore del gusto avanguardistico della band statunitense. L’esordio dei Black Mountain,
difatti, poteva essere lodato per decine di buone ragioni, ma di certo non per essere una produzione
innovativa o destinata a stravolgere le prospettive storiche ed estetiche del rock contemporaneo. Di citazione
e recupero si trattava, ma della miglior specie: senza alcun anacronistico intento di riportare in auge suoni
che, nella migliore delle ipotesi, era di considerati attuali in epoca pre-punk, infatti, i Black Mountain
suonavano così perfettamente seventies da appare i più sinceri emuli sulla piazza di certe sonorità e di un
certo approccio. Vederli dal vivo e trovare conferma tangibile a quelle voci che li pitturavano come una live
band fenomenale è stata la dimostrazione più evidente di quanto sospettavamo: dietro a barbe lunghe e
capelli selvaggi vi era la sostanza di un gruppo concreto, innamorato della propria retroguardia, ma
depositario di una vena propria che sul palco esplodeva in ogni direzione. “In the future”, in questo senso, è
solo un’ulteriore conferma. Prosegue sulla scia del suo predecessore, recuperando un suono hard-rock e
psichedelico figlio da una parte dei Black Sabbath e, dall’altro di un certo folk bucolico dei ’70, ma
incanalando questo sincero amore per sonorità così poco contemporanee in brani sempre ottimi e quasi
sempre –un certo eccesso in fatto di synth, va detto, ogni tanto fa avvertire il suo peso- privi di ogni
qualsiasi inutile magniloquenza prog che, siamo pronti a scommetterci, irriterebbe ogni figlio del punk che si
rispetti. I Black Mountain proseguono quindi dritti sulla loro strada regalando passaggi interessanti che
vanno dai muscoli di Stormy high al folk acustico misto a reminescenze Jefferson Airplane di Tyrants fino a
Queens will play, ottimo brano in cui la voce di Amber Webber trova la sua espressione migliore. A
compimento dell’intero album troviamo Bright lights, una lunga suite di diciannove minuti in cui trova posto
un po’ di tutto, dalla psichedelia vicina ai tardi Pink Floyd dell’inizio alle derive psycho-hard della parte
centrale e del finale, che forse anche i primi Motorpsycho guarderebbero con una certa invidia.
Il 2008 ha il suo primo grande disco.
XL ONLINE
http://xl.repubblica.it/recensionidettaglio/62845
La psichedelia e l’hard rock come forza spirituale salvifica o, come dicono questi fricchettoni canadesi,
«healing & easy listening». E il loro secondo album è davvero «terapeutico & facile da ascoltare»,
soprattutto per gli over 45 e gli under 25: i primi riassaporeranno le atmosfere acid, hard & prog della loro
adolescenza, dai Jefferson Airplane ai Deep Purple; i secondi entreranno in una dimensione sconosciuta ai
gruppi rock attuali che li porterà a perdere la bussola nella lunga cavalcata di Tyrants, ammirando i
panorami psicofolk di Stay Free, passando dalla West Coast astrale di Queens Will Play e dalle terre
marziane di Bowie (Wild Wind). Cosmico!
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BAND: BLACK MOUNTAIN
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PAG. 31
CASTLEROCK
http://articoli.castlerock.it/articoli_musica.php/id=4140/articolo=black-mountain-la-resurrezione-dell-hardrock
La band di Vancouver recupera dalla cantina alcuni generi cari agli Anni '70 e crea un'originale sintesi di folk
acustico e psycho-prog che sorprendentemente di stantìo non ha proprio nulla.
Recensione In the Future (2008) - Black Mountain: la resurrezione dell’hard rock
Non è stato un abbaglio l'esordio dei Black Mountain.
Quella copertina così fredda ed inospitale lasciava schiudere un mondo fatto di chitarre rocciose, riff
sanguinolenti, psichedelica cristallina e, perché no, anche momenti goliardici.
Era l'anno di grazia 2005 e fu una delle più interessanti sorprese di quei mesi.
Arrivano da Vancouver, Canada, ma hanno quasi nulla in comune con le altre compagini della zona quali The
Arcade Fire o The New Pornographers: qui c'è poco da scherzare, funerali e bibbie al neon si materializzano
davvero, quasi sorrette da straordinari richiami ai Sabbath più cupi.
In the Future è il mezzo migliore per trasmettere ai posteri un pezzettino di antichità musicale, reperti di
prima scelta, selezionati accuratamente dal quintetto capitanato da Stephen McBean e composto da musicisti
che, come da miglior copione canadese, si stanno impegnando in miriadi di progetti e collaborazioni, tanto
che nel giro di due - tre anni già risulta difficilissimo riuscire a districarsi nella selva di prodotti discografici
realizzati.
Siamo nel campo minato del citazionismo selvaggio, ma i Black Mountain ne escono da grandiosi trionfatori,
infilando dieci tracce che rendono giustizia al classic hard rock, miscelandolo con spunti di psycho-prog ed
acoustic folk, e rendendo il tutto di una modernità inaudita.
La band convince sia nei momenti più granitici (l'assalto iniziale di "Stormy High", la massiccia "Tyrants",
oltre ad una "Evil Ways" strumentalmente degna dei migliori Purple), sia in quelli dove si preferisce rallentare
il ritmo (le cristallerie acustiche sul falsetto di "Stay Free", i saliscendi zeppeliniani di "Angels", l'epicità di
"Queens Will Play").
L'unico momento dove scappano un paio di sbadigli è in corrispondenza dell'esageratamente lunga "Bright
Light", dove i canadesi si lasciano prendere un po' troppo la mano da stucchevolezze hard prog,
dilungandosi un tantino oltre il necessario.
Per il resto ci si muove sugli stessi binari dell'esordio, aggiungendo una coerenza finora sconosciuta alla
band, ed insinuando un tocco folk nella conclusiva "Night Walks" dove emerge l'angelica voce di Amber
Webber, mai così prossima allo stile che fu di Sinead O'Connor.
La tensione è costantemente assicurata attraverso un sapiente gioco di salite e discese, di luci ed ombre, di
momenti epici al punto giusto, il tutto nel rispetto di un'organicità di fondo che rende il lavoro decisamente
superbo.
Ma gli applausi a scena aperta, quelli che mi convincono a porre un rating decisamente alto al disco,
arrivano in corrispondenza di "Wucan" (eccellente nel dare un tocco meno classico all'insieme) e della
meraviglia pop di "Wild Wind" così compressa e così irrinunciabile tanto da chiedersi perché non trarne un
singolo, magari per fare in modo che i Black Mountain non restino per sempre un oggetto di culto per pochi
adepti.
Complessivamente emerge la sincera emulazione di un suono e di un'attitudine tipica del rock anni '70,
tramutata in tracce che non intendono assolutamente sposarsi con la contemporaneità, ma generarla, come
a voler creare una nuova via musicale da seguire.
E l'intento è da considerarsi raggiunto: ormai i Black Mountain suonano come nessun'altra band, sono
diventati loro stessi la pietra di paragone per chi da ora in avanti intenderà emulare questo tipo di suoni.
E' un disco che consiglio a tutti coloro che ritengono i Battles o i Pinback troppo patinati per essere credibili,
li consiglio a tutti coloro che l'ultima volta che si sono emozionati per un disco è stato per i primi Queens Of
The Stone Age, e dulcis in fundo a tutti coloro che si sentono orfani dei migliori Motorpsycho
Stephen McBean e compagnia sentivano di doverci provare, una missione generosa e sincera la loro, ed
hanno fatto bene a perseguirla: In the Future è già fra le nomination di fine anno per il miglior disco del
2008 (occhio, che è prevista una limited edition con tre tracce in più!).
Se questo è il futuro, sogniamo tutti lunghi capelli ed un ritorno all'immaginario hippy.
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PAG. 32
INDIE-EYE
http://www.indie-eye.it/recensore/2007/12/24/black-mountain-in-the-future/
A tre anni dalla prima uscita su Jagjaguwar come Black Mountain , il progetto più ambizioso di Stephen
McBean torna con un nuovo capitolo registrato quasi interamente da John Cogleton e assembla dieci tracce
che abbandonano quasi del tutto la fragilità dissipativa dell’esordio a favore di un suono molto più potente
ed emozionale; è un salto notevole almeno nelle intenzioni, valutabili solamente tappandosi occhi e bocca
sulle proprie preferenze storico musicali, al contrario non ci sarebbe scampo. Il wall of sound sabbathiano è
la superficie sulla quale si innesta questo viaggio nel futuro anteriore di una parte del suono psichedelico
come se si trattasse di un monolite temporale e oscuro; gli elementi in gioco sono i soliti ma proiettati verso
un risultato molto preciso, il contributo di Amber Webber è essenziale e si libera quasi del tutto da quella
vocalità derivativa, vibrando verso qualcosa che pur non abbandonando del tutto i rischi della nostalgia,
produce delle allusioni che in alcuni episodi bucano davvero il velo delle citazioni. Se l’incipit tutto sommato
convenzionale di Stormy High si muove tra i soliti Sabbath e i Blue Öyster Cult meno conosciuti, la triade
successiva si sbarazza di tutta questa retorica decollando verso un estremismo Kosmische grazie agli intarsi
di mellotron e synth approntati da Jeremy Schmidt; in particolare tyrants, improbabile e quindi fruttuosa
fusione tra suggestioni progressive e il neil young di zuma, uno degli amori meno mascherati da McBean
anche nelle produzioni parallele; si tratta di un mantra visionario che con le derive vocali di Amber Webber
trascolora tra il folk, lo stoner, la psichedelia progressiva, l’ombra di Klaus Shulze e una serie di stimolanti
imprecisioni che fanno pensare più alla Edgar Broughton Band che ai Pink Floyd. I Black Mountain non sono i
Melvins, lo sappiamo bene, le intenzioni della band si muovono entro un ambito da archeologia
fantascientifica, lontani anni luce da quella decostruzione contemporanea dell’immaginario psichedelico che
include l’attività di etichette come Holy Mountain, soprattutto alla luce dello straodinario Tonal ellipse of the
one de La Otracina (recensito qui su Indie-eye). Se si esclude l’episodio sfacciatamente Bowiano di Wild
Wind, In the future ha la forza pagana di un rito di passaggio realizzato con gli strumenti della memoria, una
forma esoterica che si riverbera sull’unico testo scritto da Amber Webber nel brano forse più bello di tutto
l’album, quella Night Walk che si sostiene e trascina interamente sulla sua voce, in un’immagine allo
specchio che dagli anni ‘70 passa attraverso il timbro di una Bjork classica; Night Walks with me / and the
moon leaves me just enough light to see / and my shadow my only company / and it moves just like me /
and it walks just like me.
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PAG. 33
ROCKLAB
http://www.rocklab.it/recensioni.php?id=2109
Non riusciamo ad abbandonare proprio nulla in questo secolo che se n’è andato! Terrorizzati dalla
prospettiva di una memoria a portata di Web, abbiamo passato quasi tutta la prima decade a rovistare fra gli
scatoloni delle soffitta per salvare il salvabile: come si dovesse partire da un momento all’altro per la
famigerata Isola deserta.
Non c’è troppo pericolo di confondere i Black Mountain con i tanti gruppettini dediti al revival per motivi di
moda e attitudine, non foss’altro per l’aspetto dei vancouveriani: neo-eremiti dalla barba lunga che
sembrano sul serio aver passato gli ultimi vent’anni su una Montagna a riassettare le proprie collezioni di
dischi (… pardon, vinili!) per poi scendere a valle ed orgogliosamente servirci il loro lavoro.
E il risultato è uno dei più mirabili pentoloni ci siano mai stati rifilati negli ultimi dieci anni, in grado di fare
incrociare sentieri e pezzi d’universo che mai altrimenti si sarebbero avvicinati. A giustificare tutte le volte
che incontrerete le parole “sessanta” e “settanta” in questa ed altre recensioni dello stesso disco non
basterebbe da solo il riffettone hardrock sbattuto in prima pagina di Stormy High. C’è pure Angels, un lascivo
esercizio di stile Stones che, in pochi minuti, sposta di un decennio esatto il cursore delle coordinate
temporali.
Ma è Tyrants, terza in scaletta, a dimostrare di quanta roba siano capaci di assortire i Black Mountain in
appena otto minuti: l’assolo che sembrerebbe ricalcare nota dopo nota un altro dei galoppanti brani
sabbathici (con tanto di imprecisioni di registrazione al carico!) in realtà non fa che aprire il sipario a
qualcosa di completamente diverso: nella quiete dopo la tempesta, la voce di Stephen Mc Bean prende
quota e va ad intrecciarsi con quella di madama Webber, non troppo distante per estensione e potenza
vocali dalle big mamas dell’energico soul nero. Profondamente Sessanta, una parentesi di bellezza
struggente chiusa da un altro temporale elettrico: e da qui in giù tutto quanto sarà concesso. Richiami agli
organi gotici e alle tastiere prog (settanta) alle atmosfere psichedeliche (sessanta) piuttosto che al folk
appena umettato di acidi lisergici di Stay free (ancora sessanta).
C’è già chi li ha ribattezzati la nuova frontiera del rumore bianco, ma in casi come questo il concetto di
“novità” andrebbe dosato con il contagocce: se a vincere la gara è chi ha la collezione più scintillante, allora
quel poco di davvero nuovo non starà nelle idee in sé ma piuttosto nel come si riesce a miscelarle: in questo
frangente i canadesi hanno dimostrato di essere dei coerenti selezionatori, con la cura necessaria a far stare
dentro tutto senza mai farla fuori dal vaso. Chissà che, in the future, dalla sintesi del loro ricettario non
possa nascere qualcosa di veramente innovativo.
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PAG. 34
AUDIODROME
http://www.audiodrome.it/modules.php?op=modload&name=News&file=article&sid=2889
A volte è difficile parlare di un album ancora prima di averlo ascoltato.
Di certo questo è il caso del nuovo album dei Black Mountain, Per il quale si è scatenato un inaspettato ed
esasperato hype negli ultimi mesi, vuoi per alcuni leak caduti nelle “mani sbagliate”, vuoi per alcune
anticipazioni live, vuoi ancora per le speranze nutrite sin dal valido esordio del gruppo.
Quando ci si approccia ad In The Future per la prima volta, proprio a causa di questo clamore generalizzato,
si fa fatica a coglierne la grandezza, ma svariati ascolti dopo non si può che rimanere accecati da tanta
grazia.
Non appena “Stormy High” attacca con tutta la sua forza, infatti, non si può fare a meno di sobbalzare per
una cavalcata in perfetto stile Black Sabbath come non se ne sentivano da tempo. Lo stupore rimane e, se
possibile, si accentua con la successiva “Angels”, brano scanzonato, figlio illegittimo dei Primal Scream più
rock e dei Rolling Stones più lascivi, che lascia spazio ad un sorprendente intermezzo sinfonico che conquista
sin dal primo ascolto e fa da preludio a “Tyrants”, che è semplicemente uno delle cose migliori degli ultimi
anni di tutti i generi e di tutte le arti. Non stiamo esagerando, perché un brano che, per un minuto esatto,
esplode in un riff pesantissimo e cadenzato per poi si placarsi in un’atmosfera che sembra essere uscita da
una alternative take di Echoes dei Pink Floyd e che, successivamente, riesce ad inglobare Led Zeppelin,
Jefferson Airplane (quelli di Surrealistic Pillow) ed esplodere nuovamente in puro stile sabbathiano per
concludere la sua epica corsa tra flauti e chitarre acustiche, deve essere ascritto tra le migliori espressioni
artistiche contemporanee. Nonostante le influenze di In The Future siano innumerevoli, la band riesce
sempre a rielaborarle nel modo più personale possibile, sia a livello formale (suoni eclettici come non mai,
puliti quando serve, sporchi e polverosi nelle altre occasioni), sia a livello di un’esecuzione che trova i suoi
picchi più toccanti negli intrecci tra la voce di Stephen McBean e quella incantevole di Amber Webber.
Non ci sono momenti meno ispirati ed il magma sonoro dei Black Mountain è sempre più sorprendente, sia
quando ci si sposta in territori kraut (“Wucan”), sia quando l’atmosfera si fa acustica e sognante (“Stay
Free”), sia quando Amber Webber diventa protagonista assoluta nella magnetica “Queens Will Play”. E se
questo non dovesse bastare, la seconda metà del disco cambia ancora le carte in tavola e, a questo punto, si
capisce di trovarsi di fronte a qualcosa di davvero epocale. Prima ci pensa “Evil Ways” - col suo piglio garage
e le sue tastiere potenti ed incisive - a fare da supporto, poi arriva “Wild Wind”, ballata in puro stile Bowie
periodo Hunky Dory capace di riconciliare col mondo. Poi arriva “Bright Lights”: diciotto minuti dove tutto ciò
che significa Black Mountain viene concentrato, diciotto minuti in cui la definizione che la band si dà (“psych
and prog spiritual rock”) da forma diventa sostanza. Impossibile descriverla a parole. Bisogna ascoltarla,
bisogna perdersi dentro di essa e ritrovarsi in un’atmosfera lisergica che porta alla mente un’altra montagna,
questa volta sacra, ed i suoi sette pianeti/saggi. Bisogna fare tutto ciò ad occhi chiusi solo per poterli
riaprire sulle note della conclusiva “Night Walks”, di nuovo con Amber alla voce, un brano meraviglioso che
riporta pace nell’universo e che sembra uscita dalla Roadhouse di Twin Peaks, quando Julie Cruise cantava
…The star still shine bright, the mountains still high, yet something different. Are we falling in love? Aprite i
vostri occhi e quello che vedrete, sarà davvero indimenticabile.
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BAND: BLACK MOUNTAIN
TITLE: IN THE FUTURE
LABEL: JAGJAGUWAR
PAG. 35
AUDIODROME (2)
http://www.audiodrome.it/modules.php?op=modload&name=News&file=article&sid=2889
Ritorna la Montagna. Più grande e più nera.
Come la scheggia iridescente di un monolite nero, proveniente da un retrofuturo che mai fu, atterra in
questo inizio 2008 il nuovo disco dei Black Mountain. Alla seconda prova dopo l'omonimo debutto del 2005, il
gruppo di Stephen McBean fa le cose in grande ed alla grande. In The Future è, diciamolo subito, un piccolo
Capolavoro (di genere), un disco praticamente perfetto. Certo, niente di nuovo sotto il sole, ma non è questo
il punto. I Black Mountain non hanno mai fatto mistero su chi siano le loro Muse ispiratrici: Black Sabbath,
Blue Cheer, Led Zeppelin, Velvet Underground, Buffalo Springfield, Neil Young ed una lunga teoria di veri e
propri Classici. Se (cattivi) Maestri bisogna avere, perché non ispirarsi ai migliori? Una band di nostalgici per
nostalgici, quindi? Di certo la nostalgia è di moda ed in fondo lo è sempre stata (vedasi l'odierno recupero
degli anni '80, a dir la verità attualmente già in saldo). Quindi gioite, nostalgici dei '70s, organizzate un
Sabba demoniaco alle pendici di una nera montagna (di fumo), rischiarati dal bagliore malsano di una pira
dopante. Celebrate paganamente l'uscita di questo disco. Qui tutto funziona alla perfezione: l'alternanza
delle voci maschile-femminile (con una Amber Webber spesso cantilenante), il suono delle chitarre (più
ruvide, piene, sature ed abrasive) e, soprattutto, l'uso di magnifiche tastiere vintage che elevano l'opera a
qualcosa di diverso dai soliti canoni doom/stoner tanto in voga negli ultimi anni. I suoni rigorosamente
valvolari di Hammond e sintetizzatori dipingono paesaggi mai esistiti, se non nei solchi di quei vecchi vinili
fatti girare nell'intimità delle camerette dai nostri padri. In quei neri canyon, superfici escoriate di pianeti
deserti, scorre un fiume scuro e viscoso che si attaccherà come pece alle vostre anime dannate. Dentro a
questo album c'è di tutto. Il singolo accattivante ("Tyrants"), l'omaggio de rigueur ai Black Sabbath ("Evil
Ways"), la ballad ("Stay Free"), il brano epico ("Bright Lights") e quelli notturni/sepolcrali ("Queens Will Play"
e "Night Walks With Me"). Tutto materiale di qualità. Vi basta?
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BAND: BLACK MOUNTAIN
TITLE: IN THE FUTURE
LABEL: JAGJAGUWAR
PAG. 36
STORIA DELLA MUSICA
http://www.storiadellamusica.it/Black_Mountain_-_In_The_Future_(Jagjaguwar,_2008).p-r1287
C’era una volta il rock…Quello che partiva dal blues e lo arricchiva con riff sempre più pesanti e violenti,
tanto da far coniare i termini heavy blues e hard rock. Quello che amava le dilatazioni psichedeliche e sapeva
mischiare riff duri con un soul caldo e suadente e con dolcezze folk. Era il rock dei Led Zeppelin, dei Black
Sabbath, dei Cream, degli Hawkwind, dei Blue Cheer e compagnia bella. C’era una volta e poi non fu più,
decaduto per essersi preso troppo sul serio e aver perso la freschezza degli esordi. Decaduto per aver
elevato ad apice musicale assoli e schemi sempre più pomposi e stranoti, tanto da risultare infine stagnante
e ripetitivo, finchè non fu spazzato via dall’ondata punk che pose le basi per la new wave.
Quel rock, con quelle influenze, con quegli schemi, con quei suoni, si è sentito raramente dal 1977 ad oggi.
L’ondata heavy metal ha condizionato gruppi rétro come i Guns’n’Roses e perfino il fenomeno grunge non ha
saputo prescindere dagli apporti del punk (Nirvana) e del metal (Soundgarden, Alice in Chains), con
l’eccezione forse dei Pearl Jam. Il cosiddetto “new rock” di questo inizio millennio, impastato di legami con la
rivisitazione della new wave, ha anch’esso raramente saputo ricreare quelle atmosfere, con poche
significative eccezioni come White Stripes, Dead Meadows, Comets on Fire e pochi altri.
In molti continuano a ispirarsi a quel periodo ma quasi tutti cercando di reinserirlo in un contesto che ha
visto diverse rivoluzioni stilistiche e musicali quali quelle susseguitesi dal 1977 ad oggi. La neo-psichedelia ad
esempio (Bardo Pond, Roy Montgomery, Warlocks) è andata molto avanti rispetto alle premesse space-rock
dei 70s. Oggi la rivisitazione e la contaminazione sono all’ordine del giorno e viene da pensare che il futuro
della musica e del rock in primis vadano in questa direzione.
A vecchi nostalgici come il sottoscritto non dispiace godere di questi ibridismi e delle nuove avanguardie più
meno radicali che portano avanti questi percorsi artistici ma lo spirito resta immancabilmente e
inesorabilmente rock e allora non può che far piacere sentire oggi, nel 2008, un disco tanto anacronistico
quanto impeccabile come questo In the future. I Black Mountain sono un gruppo che sembra essersi fermato
al 1973 o giù di lì, fregandosene di quello che è venuto dopo e ricreando quella magica atmosfera sonora
divenuta ormai classica per gli amanti della musica.
Il gruppo canadese esordisce nel 2005 con un disco (Black Mountain) che solo apparentemente si perde nel
calderone rock-rétro di questo decennio, facendosi subito notare per una freschezza e uno spessore
compositivo notevoli.
In the future è l’ideale prosecuzione di quel piccolo gioiello. Perde in freschezza forse, ma acquista maggiore
consapevolezza dei propri mezzi e la maturità porta a dar spazio a tonalità più epiche e maestose. Prendete
Angels: una ballad straordinaria per capacità di evocazione paradisiaca. Uno di quei lenti in cui il binomio
voce-chitarra torna in primo piano con una intensità assoluta.
Ma il pathos vero si trova in brani come Tyrants: partenza titanica a vortice, assestamento lisergico e
bucolico e di nuovo impetuosa scalata in cielo tra una batteria picchiatrice alla John “Bonzo” Bonham, gli
epici riff di Stephen McBean e il cantato sofferto di Amber Webber. Ma non è tutto. Seguendo uno schema
progressive altro cambio di tempo e nuova serie di assoli e riff alla Iommi (Black Sabbath) prima della
definitiva morbida conclusione. Giù il cappello di fronte a un hard-rock che non si sentiva da anni.
In the future è un calderone di influenze e scorre via che è un piacere: Queens will play viaggia tra Pj
Harvey e i Jefferson Airplane di Grace Slick; Evil ways potrebbe essere un’ottima jam di Cream e Blue Cheer
mentre Stormy high è un tipico hard-rock 70s in bilico tra Black Sabbath e Rainbow. Wild wind è un morbido
pop etereo che prende le mosse dal primo David Bowie mentre Night walks è una song gelida e spettrale
degna della migliore Nico. Così tra motivi folk pastorali-celestiali (Stay free) e dilatazioni psichedeliche
alienanti (Wucan) si approda a Bright lights, il pezzo più ambizioso del gruppo: sedici minuti di raffinatissimo
heavy progressive steso tra Pink Floyd, Hawkwins e gli ultimi Black Sabbath (beninteso tenendo conto del
periodo Osbourne).
Forse non ci si dovrebbe esaltare così tanto per un disco derivativo fino al midollo che non inventa
assolutamente nulla. Ma l’impressione è che un rock così puro si senta davvero raramente. E allora giù il
cappello.
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BAND: BLACK MOUNTAIN
TITLE: IN THE FUTURE
LABEL: JAGJAGUWAR
PAG. 37
INDIE FOR BUNNIES
http://www.indieforbunnies.com/2008/01/22/black-mountain-in-the-future/
Chiudi gli occhi con forza e lasciati andare al colore rosso. Caldo che scotta, che brucia e forma cenere
scura, confusa nel buio della notte. L’aria ha un odore acre, quasi acido, e il vento con il suo fruscio plasma
immagini sfocate come ombre. Nero sul nero, ti trascini via ma ne resti affascinato, inebetito. Gli occhi
immobili persi nella profondità oscura del vuoto livido che arde davanti a te.
Come i Warlocks con accento bucolico, e più profondamente radicati ai primi ’70 o meglio agli ultimi anni ’60.
Hard rock,prog, psichedelica, folk fanno di queste canzoni un unico gorgo tanto affascinante quanto classico.
Seconda corsa per i Black Mountain dopo l’esordio omonimo di qualche anno fa. Ed è subito amore,
inchiodato da queste chitarre acide che di tanto in tanto si intrecciano in escursioni progressive, per poi
deflagrare in un’implosione silenziosa che svanisce in arpeggi acustici.
Sinuosa voce di donna che riporta ai Velvet Underground della famosa banana, soluzioni comuni ai Pink
Floyd di Barrett ed a quelli immediatamente a lui successivi (la suite “Bright Lights”, invero un poco pesante,
sembra appartenere ad una registrazione perduta di “Meddle” oppure “Atom Heart Mother”). Il resto sono
lame taglienti, chitarre urticanti, synth che fanno tanto vintage e splendide pennellate acustiche a tinte
fosche che disegnano ballate capolavoro.
E’ quando i volumi si abbassano e il folk timidamente freak prende il sopravvento su tutto il resto che l’album
vive i suoi momenti migliori: “Stay Free” e soprattutto l’eterea e drogata “Night Walls” che chiude il disco
sono due piccoli capolavori in cui affondare morbidamente tutti i sensi.
E abbandonarsi, perché è il disco tutto da ascoltare da soli, chiusi claustrofobicamente nella propria stanza a
luci spente o soffuse, e metaforicamente aperti verso un’esperienza sensoriale compiuta, cerebrale e
appagante.
Clamorosamente fuori dalle mode e dalle tendenze, questo disco dal titolo che pare un ossimoro può essere
il vostro LSD naturale, innocuo e rigenerante. Quando vi sveglierete starete molto meglio di prima, ve lo
assicuro.
ROCKSHOCK
http://www.rockshock.it/news.asp?id=3064
Esaltarsi per un album che suona perfettamente in sintonia con le sonorità tipiche dei ’70 dimostra come
quella musica sia rimasta particolarmente impressa in tutti coloro che hanno amato tantissimo quel periodo.
E non parlo semplicemente di chi l’ha vissuto in prima persona – come quando il prog italiano poteva
competere con le grandi band inglesi – ma anche di tutti coloro che sono cresciuti a pane e progressive e
che magari hanno iniziato a suonare qualche strumento proprio per emulare, se non sempre le qualità
espressive e artistiche dei loro maestri, perlomeno le straordinarie possibilità tecniche che il genere offriva
potenzialmente, nell’ambito di una nuova appropriazione dello spazio musicale e delle funzionalità relative ai
singoli strumenti.
Ma ancora oggi ci sono band, come i Black Mountain, che non vogliono dimenticare del tutto le sontuosità
artistiche di quegli album e le straordinarie esibizioni dal vivo di quegli anni; allo stesso tempo, però, i Black
Mountain guardano con moltissima attenzione alla psichedelia e all’hard rock, anche se il loro approccio si
distanzia molto da un tentativo di rinnovazione, come nel caso dei Comets on Fire (nonostante i tentativi di
paragone), i quali ripartendo dallo space rock sulla falsariga degli Hawkwind, sono riusciti a creare un nuovo
modo di intendere quel sound.
Nel caso di In the Future, le frequenti incursioni nel folk donano all’album quella peculiarità in più che rende
il tutto più personale e fortemente caratteristico, anche se mi riesce difficile non considerarlo nel suo insieme
come un’opera di revival.
Se pensate che non abbia detto niente sull’album vi sbagliate, poiché a mio parere i Black Mountain saranno
pure bravissimi nel riproporre una certa “aura” tipica del periodo storico preso in questione – e forse ancor
più dal vivo – ma allo stesso tempo è proprio questo a mostrarci quali sono i loro limiti, e di conseguenza, è
proprio per questo motivo che In the Future risulta perfetto per i nostalgici e per tutti coloro che vogliono
rivivere lo spirito degli anni ’70, nel migliore dei modi possibili che poteva offrirci questo primo 2008.
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BAND: BLACK MOUNTAIN
TITLE: IN THE FUTURE
LABEL: JAGJAGUWAR
PAG. 38
PIANETAROCK
http://www.pianetarock.it/album_scheda.asp?id=54
Un album che si presenta con un titolo simile lascerebbe presagire sonorità futuristiche, elettroniche e chi
più ne ha più ne metta.
Paradossalmente, questo "In The Future" sembra uscire da qualche polveroso archivio chiuso e dimenticato
una trentina di anni fa.
Eppure i Black Mountain li conosciamo da qualche anno, più precisamente dal loro debutto discografico con il
disco omonimo del 2005; forse proprio per questo ascoltare "In The Future" consapevoli che il suo arrivo nei
negozi è datato "gennaio 2008" fa spuntare, quasi involontariamente, un sorriso di nostalgica soddisfazione,
pronto a tradire la speranza che ancora qualcuno abbia la volontà di omaggiare il periodo musicale di
maggiore splendore con nuove produzioni.
Il mio discorso vi sembra troppo complicato?
Bhe, vi basterà ascoltare l'anteprima qui in alto, sempre che non l'abbiate già fatto, per capire di cosa sto
parlando.
A tratti sembra di ascoltare una delle numerose band che negli ormai lontani anni '70 segnarono il solco per
l'evoluzione del rock, percorso ancora oggi, seppur con qualche fuori pista...
Divagazioni strumentali, sonorità dilatate e sfuriate in puro stile hard rock, liriche e cantato evocativi,
passaggi di chiaro stampo progressive. Questo è quello che aspetta l'ascoltatore in procinto di lasciarsi
trasportare dall'ora di musica raccolta dalla formazione canadese.
Lo si capisce subito dalla traccia d'apertura "Stormy high" e dal suo riff insistente sostenuto dalle tastiere e
accompagnato da cantato e cori sopra una batteria incalzante.
Con "Angels" le acque si aquietano ma è solo questione di tempo, pochi minuti prima che "Tyrants" arrivi a
mettere le cose in chiaro.
Per chi a questo punto non lo avesse ancora capito, la nebbia è pronta a diradarsi e lo stile dei cinque
ragazzi canadesi si mostrerà in quello che è sicuramente uno degli episodi più azzeccati e suggestivi
dell'intero disco. Un'altra partenza lanciata lascia ben presto il posto ad una ritmica cadenzata e al duetto tra
la coppia di voci, tanto diverse da risultare complementari, prima di un nuovo cambio di ritmo per otto
minuti di musica d'altri tempi.
Ed ecco l'ipnotica tastiera di Schmidt accompagnare dall'inizio alla fine "Wucan", alla quale si vanno a
sovrapporre la sempre presente chitarra di McBean e di nuovo l'alternanza tra le due voci.
A qualcuno "Stay Free" non suonerà nuova, la ballata è infatti inclusa nella colonna sonora del film
Spiderman 3, evento che insieme al tour del 2005 a fianco dei Coldplay, ha permesso alla band di farsi
conoscere in tutto il mondo.
Se "Queens will play" stenta a far ridecollare questo "In The Future" niente paura, è il turno di "Evil ways"
che ricorda da vicino alcune composizioni dei Black Sabbath, in buona parte per la modulazione della voce.
"Wild wind" ci da giusto il tempo per tirare il fiato, una sorta di intermezzo prima di tuffarci nel pezzo più
lungo dell'album.
Oltre sedici minuti e mezzo di armonie ammalianti, introdotte dalla cantilena che ripete il titolo del brano,
"Bright light" e che prendono forma in passaggi che, come abbiamo già riferito in precedenza, tradiscono le
più profonde fonti di ispirazione del gruppo cresciuto a pane, hard rock e progressive.
Questa è la dimostrazione che quando si ha la volontà di creare qualcosa di originale, non badando alla
purtroppo sempre più pressante legge non scritta secondo cui la musica oggi debba esprimere "tutto e
subito", i risultati possono essere davvero appaganti.
L'eterea "Night walks" chiude i giochi, confermando i Black Mountain come una delle giovani realtà più
interessanti del panorama internazionale.
Diverse sono state le critiche mosse al combo canadese in occasione di questa seconda pubblicazione,
soprattutto in merito ad un percettibile cambio di rotta rispetto alle sonorità più intimistiche ascoltate al loro
debutto e relativamente ad un missaggio che secondo alcuni, in certi momenti lascia a desiderare.
Io la vedo diversamente, sono proprio quelle piccole imperfezioni, quel volume regolato in maniera anomala
o quella linea vocale non proprio inappuntabile a donare complessivamente a questo "In The Future" un
fascino purtroppo difficilmente reperibile in altre produzioni attuali, anche ben più blasonate.
Questione di punti di vista? Può darsi, per farvi un'idea ascoltate voi stessi...
::: PROMORAMA ::: PRESS :::
BAND: BLACK MOUNTAIN
TITLE: IN THE FUTURE
LABEL: JAGJAGUWAR
PAG. 39
KALPORZ
http://www.kalporz.com/recensioni/in-the-future-black-mountain.htm
Dividendosi fra le cime rosa dei Pink Mountaintops e quelle nere dei Black Mountain, Stephen McBean si è
costruito la sua piccola comune freak nella quale sfogare il proprio ego di uomo fuori dal tempo. Se con i
primi la voglia di diventare i Velvet Underground del 2000 veniva un attimo offuscata da un interessante
suono più lo-fi e “sperimentale”, con i Black Mountain, e in particolare con questo nuovo capitolo, le cose si
fanno ben più semplici e dirette.
Per questo “Stormy High”, piazzata furbescamente in apertura, sembra un classico già al primo ascolto: un
riff che sa di Black Sabbath, un incedere tipicamente hard rock e un tappeto di tastiere e vocalizzi che danno
al tutto un tono paurosamente epico. E questo è solo l’inizio. Eppure un disco come questo, passatista fino
alla nausea (ma non è detto che questo non piaccia), va al di là del semplice rock’n’roll anni settanta. Se
infatti nel riff Sabba-Zeppelin si esauriscono pezzi come “Stormy High” o “Evil Ways”, il resto si gioca carte
ben più avvincenti.
Il primo indizio viene dall’auto-definizione scritta sull’adesivo attaccato al cd che tengo fra le mani: “psychand-prog-spiritual pioneers”. Ecco. Già da questo inquietante accostamento, che di primo acchito suona
anche un po’ ridicolo, possiamo ricavare un sacco di cose. Perchè “In The Future” non è altro che un
calderone bollente nel quale sono stati gettati ingredienti vari dell’epoca che fu (forse per questo a qualcuno
verrà in mente il nome Mars Volta, ma purtroppo qui non si toccano proprio certi picchi di ambizione).
“Wucan”, fra i pezzi migliori, viaggia così lungo il sottile confine che divide prog e kraut, mentre “Stay Free”
è una fricchettonata folk che potremmo sentire nel prossimo film di Cameron Crowe. Allo stesso modo si
passa dal pop di “Angels”, con un crescendo stupendo di mellotron, a “Tyrants”, divisa fra epiche velleità
progressive a pura tamarraggine.
Saltando un paio di momenti fra l’inutile (“Wild Wind”, ballatina un po’ glam un po’ chissenefrega) e
l’irritante (la pomposa “Queens Will Play”), non poteva mancare l’ovvio pezzo da sedici minuti e quaranta:
“Bright Lights” è infatti la summa stilistica che da contratto deve presenziare in un disco come questo. E
dopotutto ci è andata bene: la partenza sa di Pink Floyd del penultimo Waters (in zona “Animals”, per
intenderci) che sfocia nel riff più semplice ma efficace di tutto il disco; una vera botta che nel giro di qualche
minuto si esaurisce in un’atmosfera spazial-religiosa (?!?) che altro non è che la quiete prima dell’inevitabile
esplosione finale. In un certo senso tutta l’essenza dei Black Mountain è racchiusa in questo pezzo: un po’
barocca ma eccitante.
La voce di Amber Webber, sorta di moderna Grace Slick, è lo spiritual che se usato con criterio (epica in
“Bright Lights”, magica nella chiusura di Night Walks” ma davvero tediosa in “Queens Will Play”) può essere
il vero elemento capace di fare la differenza in dischi come questo.
È pur vero che le chitarre di McBean sanno di tempi che non sono più; ma messa sul piatto una grandeur
come quella di “In The Future” si realizza che questi pezzi hanno davvero tutta la dignità per farsi godere.
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BAND: BLACK MOUNTAIN
TITLE: IN THE FUTURE
LABEL: JAGJAGUWAR
PAG. 40
ROCKACTION
http://www.rockaction.it/articles.asp?id=621
Provate a guardare l’orizzonte. Avrete l’impressione di cogliere l’intero spazio che vi circonda; tuttavia,
nonostante questa sensazione di immensa percezione, verrete pur sempre schiacciati da un sentore di
inferiorità (rispetto alla grandezza del tutto).
La stessa cosa proverete ascoltando “In The Future”, nuovo album dei Black Mountain. Dopo il brillante
esordio, il secondo lavoro della band di Stephen McBean si presenta al pubblico come giusto compendio per i
migliori passi che la musica ha compiuto negli anni ’60 e ’70. Nel quadro entrano colori apparentemente
discostanti tra loro, colori che creano un sapore agro dolce che cattura fin dal primo ascolto.
L’Hard Rock di scuola Black Sabbath si schianta in un Progressive Rock che tanto ricorda i migliori Yes,
mentre la Psichedelia colorata di certi passaggi del disco riporta alla vita le intuizioni dello stralunato Syd
Barret. Ma non finisce qui. Il disco rischia di incollare le menti più statiche, esaltando invece quelle più
elastiche e tendenzialmente più ricettive.
La verve creativa del lotto non si discute nemmeno per un secondo perché se una band riesce ad accostare
piacevolmente una ballata dolce e commovente come Angels ad una cavalcata chitarristica come quella
presente in Tyrants significa che il futuro è dalla sua parte. Futuro che pende dalla corde di una chitarra
infiammata e in vena di invenzioni che fanno gridare al miracolo (fare il nome di Hendrix sembrerebbe
esagerato?).
Quanto detto fin’ora basterebbe ad una band media per costruire una discografia di successi. La compagine
americana non si accontenta e si tuffa in viaggi Folk dalla lucente carica energetica. Stay Free è una ballata
elegante e fascinosa che fà della semplicità la sua arma migliore (un innocuo falsetto si stabilizza sui delicati
fraseggi di una chitarra acustica davvero emozionata).
Ultime citazioni, ma non per questo meno importanti, quelle che dedichiamo a Wild Wind, un viaggio
pianistico nel Rock del Bowie di Ziggy Stardust e a Bright Lights, un loop psichedelico nel quale primeggia la
voce meravigliosa di Amber Webber.
Giusto omaggio questo ad un disco che siamo certi si confermerà nel tempo come una delle migliori prove di
questo 2008 appena iniziato.
DELROCK
http://delrock.it/album/2008/black-mountain-in-the-future.php
Un disco allettante e controverso, con un titolo strabico; giura di guardare al futuro ma in realtà è rivolto al
passato, un ingegnoso collage di anni '70 in cui non manca nulla, dai Pink Floyd ai Jefferson Starship, da
Crosby, Stills, Nash & Young ai Wishbone Ash ai Led Zeppelin.
I Black Mountain sono di Vancouver, Canada occidentale, un quintetto di chitarre, batteria, tastiere che
funge da braccio musicale di un collettivo artistico denominato Black Mountain Army. Hanno debuttato nel
2005 con un disco cult che ha fatto perdere a molti il lume della ragione anche se c'era poco da sbroccare;
un buon disco radicato negli anni migliori della musica rock che però mancava di coesione e più che alla
sostanza badava all'apparenza, ai profumi nostalgici. Questo seguito è fatto della medesima pasta e il
pubblico sta reagendo alla stessa maniera, santificando la band, premiando oltre misura la scelta di
riprendere gloriosi moduli stilistici che la storia rock aveva perso per strada.
Stormy High inizia nel segno dell'hard primitivo, un po' Jimmy e un po' Toni (Iommi); quelle pennate forti
sono un segno ricorrente, lampi che accendono un sereno cielo colorato da tastiere psico-prog e cori hippie.
E' una vecchia storia, le canzoni sono fragili ma l'atmosfera è avvincente; lo rivelano soprattutto i brani più
lunghi, Tyrants e specialmente Bright Lights, specie di outtake spuria di Wish You Were Here. Onore ad
Amber Webber, la cantante, che chiude l'album con una melodiosa Night Walks dove riesce a essere Grace
Slick, Sandy Denny e Björk, tutto nello spazio di una canzone sola.
::: PROMORAMA ::: PRESS :::
BAND: BLACK MOUNTAIN
TITLE: IN THE FUTURE
LABEL: JAGJAGUWAR
PAG. 41
SENTIREASCOLTARE
http://www.sentireascoltare.com/CriticaMusicale/Monografie/LightningDust.htm#int
Non per millantare capacità divinatorie di cui non siamo in possesso, ma la puzza di bruciato già si sentiva
osservando l’artwork pseudo fantascientifico di In The Future. A volte si può effettivamente giudicare un
libro dalla copertina ed ecco. Lo attendevamo al varco, Stephen McBean, dopo le buone e pure ottime cose
regalateci nell’ultimo lustro; c’era attesa per il secondo Black Mountain, nel frattempo divenuti nome
chiacchierato e forse pronto a spiccare il fatidico “salto”. Probabile che ciò accada, perché in quest’ora scarsa
di panorami un’ennesima volta cangianti, si ascoltano abbondanti dosi di “musica per le masse”, attente alla
confezione più che al contenuto, impressionabili dallo sfoggio di pretese che maschera la (speriamo
temporanea) mancanza di idee. Ottimo per quelli che, nel nostro paese moltissimi, confondono la psichedelia
col progressive e i viaggi mentali con le seghe.
E’ un autentico incubo anni Settanta, questo disco dal titolo di conseguenza bugiardo e ingannatore:
stracolmo ed eccessivo con i suoi riffettoni, le tastiere qui imponenti e là sinuose, le voci ieratiche (Amber
Webber impazza con un irritante vibrato tranne nella soffusa e discreta Night Walks) e la ritmica implacabile
riassunte nei sedici minuti della suite Bright Lights. Ben eseguito e ci mancherebbe, perché il quintetto ha
dimostrato adeguata conoscenza dei fondamentali, ma l’attitudine a un odierno amalgama non risiede certo
nel rievocare polverosi e rancidi fantasmi di Deep Purple, Yes o dei Pink Floyd più tronfi. Avessero optato per
i Pavlov’s Dog, almeno: invece niente. Solo vacuo e indisponente sfoggio di pretese che si risolve nel tirare
palle lunghe in tribuna, nell’indossare abiti ridicolmente sgargianti ed enfatici che ci obbligano a
ridimensionare il giudizio positivo che avevamo maturato su Mr. McBean.
Siamo amareggiati, anche se probabilmente si tratta di uno scherzo, perché se lo è non fa affatto ridere. Allo
stesso tempo, è facile auspicare a questo lavoro il successo, in virtù del bignami hardelico Stormy High, di
ballate becere da Cult bolliti come Angels (una Hey Joe malamente dissimulata) o degli accendini accesi sulle
FM di Stay Free, a stile e intenzione “prog” che esondano ovunque, a tutti i sabbathismi, cosmicismi e
glamismi di seconda mano che lo costellano. Troppa ambizione, forse dettata dalla volontà di dare alla gente
ciò che s’aspetta, ha finito per tarpare le ali a In The Future. Preferiamo, a questo punto, mettere il giudizio
nelle mani di una provvidenziale - speriamo pronta - riapparizione dei Pink Mountaintops. Qualsiasi cosa sia
accaduta, Stephen, sei vivamente pregato di lasciar perdere, poiché di Mars Volta bastano e abbondano
quelli che già ci ritroviamo tra i piedi.
::: PROMORAMA ::: PRESS :::
BAND: BLACK MOUNTAIN
TITLE: IN THE FUTURE
LABEL: JAGJAGUWAR
PAG. 42
KRONIC
http://www.kronic.it/artGet.aspx?aID=2&sID=16131
Nel futuro il suono degli anni che furono… e che saranno?
Titolo paradossale, quello scelto dai canadesi Black Mountain per il loro secondo lavoro. “In the Future”
contiene infatti nove tracce registrate e confezionate nello spirito dei grandi album del passato, con
particolare riferimento al periodo ‘fine 60s-inizio 70s’ che vide psichedelica e progressive rivoluzionare il rock
contemporaneo. ‘New-old’ la chiamerebbe qualcuno, la musica prodotta da una strumentazione vintage
filtrata attraverso produzioni moderne.
“In the Future”, avrete notato, ha suscitato parecchio scalpore ultimamente. Designato da molti disco del
mese di gennaio, ha costretto il giornalismo musicale italiano a recuperare l’omonimo debut-album della
band di Vancouver, passato praticamente inosservato tre anni fa, a tentare paragoni e ricercare evoluzioni
stilistiche tra le due sortite e non solo. Il voto di questa recensione vuole invece ridimensionare l’entusiasmo
che si è improvvisamente generato intorno a questa release, che è in ogni caso un’uscita di tutto rispetto.
Molti sono gli ingredienti di “In the Future”, e ad alcuni di essi abbiamo già accennato: il disco è un mix di
chitarre valvolari ed atmosfere del progressive che fu, di psichedelia, folk (“Stay Free”) e riffoni valvolari, con
delle citazioni inequivocabili: difficile non pensare ai Jefferson Airplane ascoltando la voce di Amber Webber,
o ai Black Widow nella breve “Evil Ways”. Il culmine è raggiunto nei sedici minuti di “Bright Lights”, canzone
in cui le componenti del sound dei Black Mountain si passano il testimone in maniera eccelsa.
Quali sono allora le pecce principali di un album formalmente ineccepibile? A mio avviso, l’incompletezza
(“Queens Will Play”) e la brevità di certe canzoni (“Wild Wind”), e lo squilibrio generato da un’eterogeneità
fin troppo spinta. Con qualche canzone in meno e qualche accorgimento in più, “In the Future” sarebbe
stato davvero perfetto. Ma resta un buon ascolto, che contribuisce a dimostrare che il rock di qualità
oggigiorno tende sempre più a rifugiarsi a casa dei propri antenati. E siccome il terreno preparato
trentacinque anni fa pare essere inesauribile, possiamo tranquillamente sperare nel passato che ci attende.
IL BUON ROCK
http://ilbuonrock.blogspot.com/2008/02/black-mountain-in-future-2007.html
Ecco finalmente un album - e un gruppo - destinato a spaccare le orecchie a tutti quelli che considerano gli
anni settanta ancora vivi e non ne possono più di ucciderli sbattendo sul piatto i soliti Hendrix, Velvet
Underground, Jefferson Airplane.
Il nuovo lavoro dei cinque ragazzi di Vancouver - In the future - è semplicemente eccezionale. Mescolando
sapientemente in dieci pezzi mai banali acidità da Summer of love, psichedelia pura, hard blues bello
scorrevole e grezzo, e annaffiando il tutto con inserimenti prog ad alta definizione il risultato non può che
essere massimo. Finalmente gli anni settanta tornano dalla porta principale e grazie soprattutto alle
eccellenti qualità tecniche del giovane gruppo canadese, si consegnano al presente belli freschi, moderni e
lontani dalle imprecisioni di chi vorrebbe scimmiottare gli Stooges senza poterselo permettere.
Secondo me con In the future siamo di fronte a un disco finalmente imprescindibile, come non se ne
vedevano da un bel pò di tempo nel panorama indie. Compratelo, scaricatelo. Ma ascoltatelo!
::: PROMORAMA ::: PRESS :::
BAND: BLACK MOUNTAIN
TITLE: IN THE FUTURE
LABEL: JAGJAGUWAR
PAG. 43
FARD-ROCK
http://fard-rock.blog.excite.it/permalink/505138
Ditemi anche voi se a guardare la copertina di In The Future non è inevitabile farsi venire in mente l’opera
dell’hipgnosis.
Beh, certo, si vede subito che non è opera del leggendario studio grafico degli anni 70 (chiuso nell’83),
autore delle più belle copertine dei Pink Floyd (ma sarebbe più giusto dire dell’intero panorama del rock
inglese, dai Genesis agli XTC), eppure quello stile ci porta istantaneamente indietro nel tempo, quel tempo in
cui, per l’appunto, certo rock britannico era colorato di pomposa epicità e non sapeva decidersi se stare dalla
parte del rock-blues o da quella baroc-classica.
Black Mountain prendono, in verità in maniera molto efficace, a piene mani da quel periodo e da quei gruppi,
riproponendo il progressive-rock nella sua forma primordiale, come se il tempo non fosse mai passato. E
poco importa se arrivano da Vancouver e non da Cambridge.
Stormy High, in apertura parla subito il linguaggio dei Deep Purple e mette in chiaro l’amore viscerale per
l’hard rock mastodontico, contrappuntato dall’organo Hammond, della leggendaria band di Paice e Gillan.
Nondimeno la lunga Tyrants si prende la briga di spolverare le gesta degli Iron Butterfly (che erano, sì,
americani ma con un gusto decisamente british) e Wild Wind ripesca con beata ingenuità il Bowie storico dei
Ragni Marziani.
Insomma, avete capito. Con In The Future (nonostante il titolo) è assicurato un bel tuffo nel passato senza
che sia necessario mettere a girare uno dei nostri vecchi dischi fruscianti.
Bello? Beh, certamente non si può dire che il disco sia sgradevole. Oltretutto si sente che i ragazzi hanno
calcato talmente tanti palchi da essere diventati una vera e propria forza della natura. Vederli dal vivo, pare
(io non li ho mai visti), è un’esperienza formidabile dove una band in stato di grazia snocciola con
disinvoltura, con amore e con grande capacità, tutto lo scibile del rock ascoltato nei dischi di mamma e
papà.
In the future, che prende il titolo da una canzone misteriosamente rimasta fuori dalla tracklist, non è che la
versione in disco della loro proposta, copertina in stile hipgnosis inclusa.
Le lunghe composizioni progressive come la bella Bright Lights (tra Meddle e Paranoid) che supera il quarto
d’ora, si contrappongono alle veloci divagazioni sull’hard rock psichedelico figlie tanto dei Black Sabbath
quanto dei Van Der Graaf Generator.
Se non bastasse, dato l’amore di Stephen MacBean per le sonorità britanniche di trent’anni fa non mancano
neppure alcune strizzate d’occhio al folk-rock bucolico di Fairport Convention e Steleeye Span.
Di positivo c’è che la band sembra davvero sincera e quasi mai si sente puzza di artefazione. Resta da capire
se questo sia o meno sufficiente a promuovere i Black Mountain o più precisamente questo loro nuovo disco
come una delle migliori cose dei nostri tempi così come molti critici (anche autorevoli) hanno fatto.
A me sembra solo un divertente campionario di musica rock vecchio stile dove, sia pure con l’accezione
positiva, quella parolina “vecchio” di certo non depone a favore del giudizio.
Consigliatissimo a chi è convinto che il rock non abbia più nulla da dire fin dal 1975, obbligatorio per chi
pensa che l’arrivo del Punk nel 1976 fosse solo un’effimera moda che non è riuscita a cambiare niente ed
infine raccomandato a coloro che ancora non si capacitano dello scioglimento dei Jefferson Airplane.
Per tuti gli altri, sicuramente, c’è qualcosa di più stimolante da ascoltare.
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BAND: BLACK MOUNTAIN
TITLE: IN THE FUTURE
LABEL: JAGJAGUWAR
PAG. 44
AUDIODROME (INTERVIEW)
http://www.audiodrome.it/modules.php?op=modload&name=News&file=article&sid=3178
Nell'ambito del rock odierno, se si dovesse scegliere una band capace di portare alla mente le gloriose
sonorità di un certo rock anni '70 e allo stesso tempo di non sembrare una scialba copia di gruppi del
passato, piuttosto di esprimersi con personalità senza mai risultare banale o scontata, la scelta ricadrebbe
senza dubbio sui Black Mountain. Canadesi e fieri di esserlo, i Black Mountain, con il nuovo album In The
Future, hanno dimostrato di voler andare oltre l'ottimo debutto, cercando soluzioni sempre più eclettiche
senza però suonare ridondanti o vuoti. Un lavoro, In The Future, che ha trovato grandi consensi in tutta la
stampa specializzata e che è stato recensito col massimo dei voti sulle nostre pagine. Risponde alle nostre
domande Josh Wells, batterista della band, il quale, tra l'altro, smentisce con le sue risposte mai scontate e
sempre interessanti la "leggenda" sui Black Mountain, ovverosia il loro non essere molto amanti delle
interviste e della stampa in generale.
Anzitutto, complimenti per In The Future, un album fantastico che è stato nostro album del mese a gennaio.
Qual è stato il vostro approccio alla composizione di quest’album?
Josh Wells: Principalmente e semplicemente ci siamo messi sotto e abbiamo concentrato tutto in due mesi di
prove e registrazioni. Mentre eravamo in studio abbiamo lasciato che l’immaginazione ci guidasse e non ci
siamo fissati troppo su nostre idee preconcette riguardo le canzoni.
In The Future rappresenta una notevole evoluzione rispetto ai vostri lavori precedenti. Quali pensate siano le
ragioni di quest’evoluzione?
Andare in tour per due anni ci ha cambiato come band. Dalla chimica del live sono emerse personalità più
particolari. Inoltre, la nostra impronta musicale si è ingrandita.
Pensiamo che l’artwork si adatti molto bene all’album. Che cosa ci potete raccontare in proposito?
Jeremy Schmidt, il nostro tastierista, ha una storia personale legata alle arti visive e in particolare al collage.
Un giorno abbiamo semplicemente preso coscienza che lui dovesse occuparsi della cover art dei Black
Mountain. Ci piace.
Ci potete dire qualcosa riguardo il concept dell’album? Sembra abbiate una visione apocalittica del futuro.
Penso che talvolta sia difficile vedere un futuro per gli esseri umani. Sembra sempre che il nostro peggior
nemico siamo noi stessi. La musica può essere un modo di esorcizzare questo terrore apocalittico e di
superarlo. Non penso che la vita sia senza speranza.
Abbiamo apprezzato davvero il suono delle tastiere. Ci potete raccontare qualcosa anche su questo?
Jeremy è un collezionista di synth vintage, ma li usa per creare insana musica rock piuttosto che aprire un
museo e lasciar loro prender la polvere.
Nella vostra musica possiamo trovare diverse influenze, come Pink Floyd, Black Sabbath, Led Zeppelin e il
kraut-rock, e voi la descrivete come "psych-and-prog-spiritual" rock, come una band dei Settanta.
Ascoltando In The Future, però, possiamo sempre sentire qualcosa di nuovo e le composizioni possiedono
una forte personalità. Qual è il segreto del vostro songwriting?
Sono d’accordo sul fatto che non siamo una band “retrò”. Penso che la nostra musica sia attuale, non
bloccata in un’altra epoca, ma che piuttosto abbia a che vedere con lo spirito di un periodo più idealista. Il
segreto? Molly McButter.
I Black Mountain sono una band canadese e siamo fan del Canada possiede per la sua natura sia per la sua
scena musicale fantastica ed eclettica. Com’è per una band vivere in Canada? Che ne pensate della scena
musicale canadese di adesso e del passato?
Il Canada è un grande paese ed è molto diverso a seconda dei luoghi. È un gran posto dove vivere. Non c’è
molta gente qui, ma molto accade in ambito musicale e artistico, e alla fine adesso il mondo sembra
accorgersene. continua...
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BAND: BLACK MOUNTAIN
TITLE: IN THE FUTURE
LABEL: JAGJAGUWAR
PAG. 45
...continua
“Stay Free” appare anche nella colonna sonora di Spider Man 3. Com’è stato registrare una canzone per un
film? Vi piacerebbe realizzare una colonna sonora vera e propria?
Abbiamo registrato la canzone a Los Angeles ed è stata una bella esperienza, nonostante la canzone non
abbia nulla a che fare con il film. Non è nemmeno nel film. Mi spaventerebbe dover fare lo score di tutta una
pellicola, dando per scontato che sia una pellicola che ci interessi.
In ogni caso, v’è piaciuto Spider Man 3? Crediamo che la vostra musica abbia una forte componente visiva: il
cinema è un’influenza per voi? Quali sono i vostri film preferiti?
Non credo che quel film fosse tutta questa gran cosa. È Hollywood, comunque, penso che ai ragazzini sia
piaciuto. Sono grande fan di Werner Herzog, Dario Argento e di alcuni film di David Cronenberg.
Avete in mente qualcosa di speciale per il tour? Qual è il ruolo della parte visiva nel vostro spettacolo?
Aiuta a creare l’atmosfera giusta per la musica e – anche se non abbiamo nulla di elaborato – possediamo
qualcosa che fa al caso nostro.
Se vi chiedessero di condividere il palco con qualche grande nome, che cosa rispondereste?
Il Wu Tang Clan.
Il vostro album si intitola “In The Future”. Dunque, cosa rappresenta il futuro per voi?
Non è dato di conoscere il futuro.
COOLCLUB
http://www.coolclub.it/recensioni/dettaglio_dischi.asp?menu=6a&submenu=1&Id_Recensione=1689
Al secondo album, dopo l’omonimo esordio del 2005, i canadesi Black Mountain svaccano di brutto. Un
pastone di folk diarrotico, hard rock, psichedelia pleonastica e (NOOOOOH!!!) progressive, attuale come
l’orologio a cipolla del vostro trisavolo. Chiaro, mentre tu sei in preda a una signora dispepsia da iperacidità,
tutti i critichini che contano stanno già gridando al miracolo. Metti su questo disco e la prima cosa che ti
viene in mente è: “Maledetti fricchettoni, ma non si erano estinti?” La seconda è: “Peggio di loro solo i Mars
Volta”. E intanto sviti il tappo del flacone di Maalox Plus da 200 Ml. Automedicazione. Sospensione orale.
Automedicazione. Principio attivo: magnesio idrossido; alluminio idrossido; dimeticone. Automedicazione. C’è
un pezzo che si chiama Angels ed è l’unico passabile dell’intero lotto. Il resto fa francamente schifo.
Automedicazione. Automedicazione. Automedicazione!!!
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BAND: BLACK MOUNTAIN
TITLE: IN THE FUTURE
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PAG. 46
MOVIMENTI PROG
http://www.movimentiprog.net/modules.php?op=modload&name=Recensioni&file=view&id=2754
Eccellente heavy-prog per l'ottima band di Vancouver.
Si/ci catapultano nel futuro guardando al passato. I Black Mountain sono fatti così, viaggiano. Più che nel
tempo, fuori dal tempo. "In the Future" - secondo capitolo di un'avventura iniziata a Vancouver sul finire
degli anni '90 con i Jerk With a Bomb - prosegue e perfeziona quanto proposto nell'esordio omonimo:
attitudine moderna al servizio di uno stile vintage fiero e ostentato, che mescola psichedelia acida,
progressive, blues, folk e kraut rock.
Uno spettro sonoro ampio, retrò e al tempo stesso attuale, attento a cogliere sfumature diverse e di ogni
tipo. Certo, non tutto funziona alla perfezione. A volte le atmosfere calano di intensità, in strutture che
appaiono elaborate e ampollose si insinuano tratti fin troppo semplicistici.
È tuttavia un tratto lieve, che non inficia il livello elevato dell'album. Disco scritto e composto con gran
perizia, merito dell'alchimia creatasi tra Stephen McBean (voce, chitarre), Matthew Camirand (basso),
Jeremy Schmidt (organo, mellotron, synths), Amber Webber (voce, percussioni) e Joshua Wells (batteria).
Piace la capacità di variare registro con stile e grazia: da melodie a presa rapida ("Angels", l'acustica "Stay
Free") a brani lunghi e corposi che lasciano il segno ("Tyrants", l'odissea "Bright Lights", 17 minuti di
assoluta intensità), fino al gioiello "Queens Will Play" (dedalo di vibranti sensazioni guidate in punta di penna
dalla voce splendida di Amber), passando per le bordate di "Evil Ways" e il rock lisergico e narcolettico di
"Wucan", condotto dal fuzz delle chitarre e dai toni stanchi delle vocals.
Non certo un capolavoro, ma di sicuro il disco che lancia definitivamente i Black Mountain tra i migliori
esponenti rock del nuovo millennio.