La guerra totale? Colpa del pacifismo
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La guerra totale? Colpa del pacifismo
27 Mercoledì 6 luglio 2011 il Giornale Album RIVELAZIONI L’ultima su Ernest Hemingway. Lo scrittore fu «sostan- L’amico di Hemingway: «Fu spinto al suicidio perché l’Fbi lo spiava» zialmenteindotto»alsuicidiodall’angosciacausatadal fatto di essere continuamente spiato dall’Fbi, che sospettavadeisuoilegamiconlaCubadiCastro.Èquanto ha rivelato - a 50 anni dal suicidio, avvenuto il 2 luglio 1961-loscrittoreA.E.Hotchner,amicodiHemingway. SCONTRO DI CIVILTÀ Alle radici del terrorismo La guerra totale? Colpa del pacifismo Si deve rileggere Carl Schmitt per capire come l’idea di «bene assoluto» rischi di generare solo il conflitto totale Carlo Lottieri N ei giorni scorsi l’hanno scritto a chiare lettere sul New York Times due politologi americani, Nikolas Gvosdev e Andrew Stigler, rilevando il paradosso di un’epoca (la nostra) durante la quale la guerra è scomparsa di nome ma non di fatto, con la conseguenza che si continua a combattere, a uccidere e a bombardare, ma si preferisce parlare di «polizia internazionale» o «interventi umanitari». Non è solo un problema di terminologia: alla base c’è la negazionedellaguerracomepossibilità. Il dramma è che da tutto questo discende il venir meno di ogni limite egaranzia.Ancheilfattocheoggile ostilità non siano formalmente dichiarate attesta un imbarbarimento giuridico su cui è indispensabile riflettere. Di questo si è fatto carico Emanuele Castrucci con un volume di notevoledensitàintitolatoNomose guerra. Glosse al Nomos della terra di Carl Schmitt (La scuola di Pitagora, pagg. 180, euro 14). L’autore si confronta da anni con il grande giurista tedesco e, per Adelphi, ha curato in italiano proprio quel lavoro del 1950 che oggi è al cuore di questepagine,volteariattualizzare una ricerca che nasceva all’indomani della catastrofe bellica con l’obiettivodiinterrogarsisuquanto permaneva dello jus gentium nell’epoca delle democrazie di massa edeitotalitarismi. Se spesso le riflessioni più acute sulla guerra si devono proprio agli sconfitti, che nell’analisi trovano una terapia per fare i conti con il fallimento, una conferma l’aveva data lo stesso Schmitt, che al termine di una fase che l’aveva visto subire processi di varia natura per il suo coinvolgimento con il Terzo Reich, con Il Nomos della terra ha esaminato le ragioni e le difficoltà dell’etàcontemporanea. Ai suoi occhi, se la situazione è drammatica ciò lo si deve in primo luogo al pacifismo della cultura liberaldemocratica e alla sua spinta (kantiana, e poi wilsoniana) a realizzare un unico ordine politico. Quelle che Schmitt sviluppa sono variazioni di intonazione internazionalistica dell’aforisma di Pascal, al cui spirito giansenista già era apparsobenchiaroche«l’uomononè angelo né bestia, e disgrazia vuole che chi vuol fare l’angelo fa la bestia». Il venir meno di ogni possibilitàdiregolareiconflittiel’imporsidi guerre totali, che si concludono soloconl’annientamentodelnemico, sono la diretta conseguenza di uno spirito da «anime belle» che ha immaginatoun’umanitàpacificata. Purtroppo, com’è caratteristico degli autori realisti, il fatto incontestabile secondo cui, storicamente, il potere prescinde in larga misura dalla giustizia tende a slittare dal piano descrittivo a quello normativo. Insomma: non solo l’ordine vigente è ingiusto, ma nemmeno ha senso pretendere che non lo sia. Basti considerare che mentre in Lockesoloaseguitodellavorosiha un’occupazione dello spazio in senso autentico, in Schmitt la trasformazione della terra fa seguito alla conquista (collettiva, da parte del popolo occupante) e alla «divisione del bottino». Il nomos deriva dalla semplice presa di possesso di un territorio e solo da essa; e se in Marx il dominio dell’uomo sull’uomo si spiega a partire dal controllo dei mezzi di produzione e del mercatodellavoro,inSchmitt-comein qualche post-marxista contemporaneo - è l’egemonia proprietaria sullasuperficieterrestrechegenera ildirittoqualesovrastruttura. In questo orizzonte, si comprende lo «sfondamento a sinistra» del pensiero schmittiano e, al tempo stesso, l’assenza in tale autore di ogniesplicitoriferimentoacriteridi giustizia. Sebbene egli stesso non manchi, ma solo per via indiretta, di esprimere inquietudine e angoscia di fronte a un ordine che alla fine gli appare - difficile reperire altri termini-sostanzialmenteingiusto. Castrucci rilegge Schmitt con spirito simpatetico, ma utilizzando l’antropologia giuridica egli ne sviluppa talune intuizioni, specificando come l’illusione di abolire la IL SAGGIO Uno studio sul giurista riflette sulle anime belle che peggiorano l’uomo guerra discenda dall’incomprensione del ruolo che il capro espiatorio gioca in ogni società. Il tema fu già al centro degli studi di René Girard, persuaso però che il sacrificio del Figlio di Dio - la morte di Cristo sulla croce - potesse indicare un percorso per superare questa esi- genza di periodici olocausti. Castrucci non la pensa così e anzi ritiene che il pacifismo pretenda proprio di «eliminare il negativo semplicemente ignorandolo: il suo programma di abolire la guerra corrisponde all’illusione di abolire la ragionevolenecessitàdelsacrificio». Esiste, pur rifuggendo ogni irenismo, una possibile composizione di tali esigenze? Si può accettare l’uomo quale «legno storto» e al tempo stesso, senza fughe in avanti, ritenere che ordini istituzionali più ragionevoli possano limitare il ricorso al sacrificio di innocenti? In fondo, una delle ragioni alla base del nostro affannarci sul diritto e sullagiustiziaderivapropriodaqui. E anche la riflessione di Castrucci sulle incongruenze del diritto internazionale contemporaneo punta proprio, riscoprendo una vecchia saggezza, a limitare la guerra. E a limitarlagraziealdiritto. Testimonianza Inferno di Baghdad Quei «bravi soldati» che non torneranno più Matteo Sacchi C ATTENTATO Feriti nella metropolitana di Tokyo nel 1995 [Corbis] GLI ITALIANI IN MISSIONE «Ring road», un diario giornaliero degli alpini in Afghanistan Spesso ci si dimentica della missione del contingente militare in italiano in Afghanistan. Il libro «Ring Road» (Mursia) scritto dal Maggiore Mario Renna, ufficiale addetto alla pubblica informazione della Brigata Taurinense racconta 26 mesi di missione in Afghanistan, dall’aprile al dicembre 2010. La «Ring Road» indica l’anello di asfalto che si snoda attraverso l'Afghanistan, ovvero tremila chilometri che mettono in collegamento tra loro tutte le città e le regioni del Paese. Il libro è un vero e proprio diario della missione, durata sei mesi, che racconta la vita di tutti i giorni degli Alpini. Si parla anche dei combattimenti contro gli «insurgents»: una serie di combattimenti a bassa intensità con armi leggere e mortai, di perlustrazioni e pattugliamenti, della concentrazione e del coraggio di questi uomini e donne che sono consapevoli del fatto che la morte potrebbe essere dietro l’angolo. Il libro mette in evidenza anche lo stile italiano del contingente nel suo approccio con la popolazione locale. Come spiega Mario Renna: «Molti eserciti stranieri ammirano il grado di empatia che spesso si verifica tra i nostri militari e le comunità afgane alla base della quale c’è rispetto e generosità. E'una terra difficile e complessa dal punto di vista culturale. Ma l'apertura che cerchiamo sempre di dimostrare è una costante del nostro operato, quasi un DNA». i sono libri in cui a un certo punto diventa difficile girare pagina. Nella maggior parte dei casi è per noia. Leggendo I bravi soldati (Mondadori, pagg 306, euro 17,50) di David Finkel invece si ha sempre un po’ paura quando si tratta di voltare facciata. La paura, in aumento capitolo dopo capitolo, nasce dal fatto che, di colpo, si può scoprire che uno dei “personaggi” a cui ci si è affezionati, ha appena perso entrambe le gambe su uno Ied (Improvised Explosive Device) oppure è stato colpito da un cecchino, alla nuca, e ora è in una clinica di riabilitazione. E a testimoniare il danno, il lutto, la paura molto spesso c’è una fome quella che mostra to, cocendiato dove è morto il l’Humvee insoldato James Harrelson. E sì, perché anche se trascinati dalla narrazione di Finkel, che ha una penna incredibile, si ha l’impressione di essere in un romanzo, invece quello che si sta leggendo è tutto vero. È capitato a persone in carne e ossa. Il battaglione 2-16, comandato da Ralph Kauzlarich, è stato sul serio a Rustamiyya, una delle zone più temibili di Baghdad. Dal 6 aprile 2007 al 10 aprile 2008. Davvero per mesi e mesi dei ragazzi, spesso nemmeno ventenni, sono usciti in pattugliamento sui loro mezzi blindati, attraversando baraccopoli desolate e distese di immondizia con in testa un solo assilante pensiero: «Questa volta salto in aria, cazzo, questa volta tocca a me....». Finkel, uno degli inviati di punta del Washington Post, è riuscito a trasformare la loro storia in un racconto coinvolgente e tremendo, molto più di un reportage giornalistico. Ci è riuscito perché è stato con loro per mesi, li ha ascoltati, ha studiato nel dettaglio i rapporti dell’esercito. Ha passato il suo tempo nel punto più caldo del Surge, l’operazione voluta dal generale Petraeus per riuscire a tirare le truppe americane fuori dalle sabbie mobili - fatte di attentati e di guerra non convenzionale - in cui si erano impantanate. E se alla lunga il piano ha funzionato sono stati battaglioni come il 2-16 a pagare, sulla propria pelle, il prezzo sanguinoso del successo. Il 2-16 ha avuto 14 morti e decine e decine di feriti, alcuni gravissimi. Mentre pian piano il Paese si normalizzava, i soldati che dovevano affrontare la zona più disperata di Baghdad subivano una pressione psicologica altissima, tale da rendere, per molti di loro, assai remota la possibilità di IRAK Le corrispondenze dal fronte di David Finkel sono il racconto in presa diretta della lotta al terrore E girare la pagina, può fare paura riadattarsi alla vita di prima. Finkel racconta, appunto, tutto questo, non concedendosi mai svolazzi o «pipponi». Preferisce mettere in fila fatti e testimonianze. Mostra quanto sia diversa un «conflitto asimmetrico» (la parola «guerra» ormai i militari non la usano quasi più) quando lo si guarda da una scrivania, attraverso dei grafici a torta, rispetto a quando a separarci da quel conflitto c’è soltanto un sacco di sabbia in cui si piantano continuamente schegge di granata. Ed è proprio questa narrazione diretta, senza filtri, che mette il lettore di fronte al peso delle decisioni che schiacciano il colonnello Kauzlarich (alla fine per i suoi soldati diventerà “Lost Kauz”, «causa persa»), alle paure che distruggono le sicurezze del sergente Schumann, alla vita del traduttore iracheno che tutti conoscono come Izzy, alla morte di tanti altri soldati e civili meno fortunati. Il risultato è una piccola Iliade moderna, carica di dolore. E come nell’Iliade anche chi vince non sarà più lo stesso, dovrà fare davvero tanta strada per tornare a casa.