La guerra totale? Colpa del pacifismo

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La guerra totale? Colpa del pacifismo
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Mercoledì 6 luglio 2011 il Giornale
Album
RIVELAZIONI L’ultima su Ernest Hemingway. Lo scrittore fu «sostan-
L’amico di Hemingway: «Fu spinto
al suicidio perché l’Fbi lo spiava»
zialmenteindotto»alsuicidiodall’angosciacausatadal
fatto di essere continuamente spiato dall’Fbi, che sospettavadeisuoilegamiconlaCubadiCastro.Èquanto
ha rivelato - a 50 anni dal suicidio, avvenuto il 2 luglio
1961-loscrittoreA.E.Hotchner,amicodiHemingway.
SCONTRO DI CIVILTÀ Alle radici del terrorismo
La guerra totale? Colpa del pacifismo
Si deve rileggere Carl Schmitt per capire come l’idea di «bene assoluto» rischi di generare solo il conflitto totale
Carlo Lottieri
N
ei giorni scorsi l’hanno
scritto a chiare lettere
sul New York Times
due politologi americani, Nikolas Gvosdev e Andrew Stigler, rilevando il paradosso di
un’epoca (la nostra) durante la
quale la guerra è scomparsa di nome ma non di fatto, con la conseguenza che si continua a combattere, a uccidere e a bombardare, ma
si preferisce parlare di «polizia internazionale» o «interventi umanitari». Non è solo un problema di
terminologia: alla base c’è la negazionedellaguerracomepossibilità.
Il dramma è che da tutto questo discende il venir meno di ogni limite
egaranzia.Ancheilfattocheoggile
ostilità non siano formalmente dichiarate attesta un imbarbarimento giuridico su cui è indispensabile
riflettere.
Di questo si è fatto carico Emanuele Castrucci con un volume di
notevoledensitàintitolatoNomose
guerra. Glosse al Nomos della terra
di Carl Schmitt (La scuola di Pitagora, pagg. 180, euro 14). L’autore si
confronta da anni con il grande
giurista tedesco e, per Adelphi, ha
curato in italiano proprio quel lavoro del 1950 che oggi è al cuore di
questepagine,volteariattualizzare
una ricerca che nasceva all’indomani della catastrofe bellica con
l’obiettivodiinterrogarsisuquanto
permaneva dello jus gentium nell’epoca delle democrazie di massa
edeitotalitarismi.
Se spesso le riflessioni più acute
sulla guerra si devono proprio agli
sconfitti, che nell’analisi trovano
una terapia per fare i conti con il
fallimento, una conferma l’aveva
data lo stesso Schmitt, che al termine di una fase che l’aveva visto subire processi di varia natura per il
suo coinvolgimento con il Terzo
Reich, con Il Nomos della terra ha
esaminato le ragioni e le difficoltà
dell’etàcontemporanea.
Ai suoi occhi, se la situazione è
drammatica ciò lo si deve in primo
luogo al pacifismo della cultura liberaldemocratica e alla sua spinta
(kantiana, e poi wilsoniana) a realizzare un unico ordine politico.
Quelle che Schmitt sviluppa sono
variazioni di intonazione internazionalistica dell’aforisma di Pascal,
al cui spirito giansenista già era apparsobenchiaroche«l’uomononè
angelo né bestia, e disgrazia vuole
che chi vuol fare l’angelo fa la bestia». Il venir meno di ogni possibilitàdiregolareiconflittiel’imporsidi
guerre totali, che si concludono soloconl’annientamentodelnemico,
sono la diretta conseguenza di uno
spirito da «anime belle» che ha immaginatoun’umanitàpacificata.
Purtroppo, com’è caratteristico
degli autori realisti, il fatto incontestabile secondo cui, storicamente,
il potere prescinde in larga misura
dalla giustizia tende a slittare dal
piano descrittivo a quello normativo. Insomma: non solo l’ordine vigente è ingiusto, ma nemmeno ha
senso pretendere che non lo sia.
Basti considerare che mentre in
Lockesoloaseguitodellavorosiha
un’occupazione dello spazio in
senso autentico, in Schmitt la trasformazione della terra fa seguito
alla conquista (collettiva, da parte
del popolo occupante) e alla «divisione del bottino». Il nomos deriva
dalla semplice presa di possesso di
un territorio e solo da essa; e se in
Marx il dominio dell’uomo sull’uomo si spiega a partire dal controllo
dei mezzi di produzione e del mercatodellavoro,inSchmitt-comein
qualche post-marxista contemporaneo - è l’egemonia proprietaria
sullasuperficieterrestrechegenera
ildirittoqualesovrastruttura.
In questo orizzonte, si comprende lo «sfondamento a sinistra» del
pensiero schmittiano e, al tempo
stesso, l’assenza in tale autore di
ogniesplicitoriferimentoacriteridi
giustizia. Sebbene egli stesso non
manchi, ma solo per via indiretta,
di esprimere inquietudine e angoscia di fronte a un ordine che alla fine gli appare - difficile reperire altri
termini-sostanzialmenteingiusto.
Castrucci rilegge Schmitt con spirito simpatetico, ma utilizzando
l’antropologia giuridica egli ne sviluppa talune intuizioni, specificando come l’illusione di abolire la
IL SAGGIO Uno studio
sul giurista riflette
sulle anime belle
che peggiorano l’uomo
guerra discenda dall’incomprensione del ruolo che il capro espiatorio gioca in ogni società. Il tema fu
già al centro degli studi di René Girard, persuaso però che il sacrificio
del Figlio di Dio - la morte di Cristo
sulla croce - potesse indicare un
percorso per superare questa esi-
genza di periodici olocausti. Castrucci non la pensa così e anzi ritiene che il pacifismo pretenda proprio di «eliminare il negativo semplicemente ignorandolo: il suo programma di abolire la guerra corrisponde all’illusione di abolire la ragionevolenecessitàdelsacrificio».
Esiste, pur rifuggendo ogni irenismo, una possibile composizione
di tali esigenze? Si può accettare
l’uomo quale «legno storto» e al
tempo stesso, senza fughe in avanti, ritenere che ordini istituzionali
più ragionevoli possano limitare il
ricorso al sacrificio di innocenti? In
fondo, una delle ragioni alla base
del nostro affannarci sul diritto e
sullagiustiziaderivapropriodaqui.
E anche la riflessione di Castrucci
sulle incongruenze del diritto internazionale contemporaneo punta
proprio, riscoprendo una vecchia
saggezza, a limitare la guerra. E a limitarlagraziealdiritto.
Testimonianza Inferno di Baghdad
Quei «bravi soldati»
che non torneranno più
Matteo Sacchi
C
ATTENTATO Feriti nella metropolitana di Tokyo nel 1995
[Corbis]
GLI ITALIANI IN MISSIONE
«Ring road», un diario giornaliero degli alpini in Afghanistan
Spesso ci si dimentica della missione del contingente
militare in italiano in Afghanistan. Il libro «Ring Road»
(Mursia) scritto dal Maggiore Mario Renna, ufficiale
addetto alla pubblica informazione della Brigata
Taurinense racconta 26 mesi di missione in
Afghanistan, dall’aprile al dicembre 2010. La «Ring
Road» indica l’anello di asfalto che si snoda attraverso
l'Afghanistan, ovvero tremila chilometri che mettono in
collegamento tra loro tutte le città e le regioni del Paese.
Il libro è un vero e proprio diario della missione, durata
sei mesi, che racconta la vita di tutti i giorni degli Alpini.
Si parla anche dei combattimenti contro gli
«insurgents»: una serie di combattimenti a bassa
intensità con armi leggere e mortai, di perlustrazioni e
pattugliamenti, della concentrazione e del coraggio di
questi uomini e donne che sono consapevoli del fatto
che la morte potrebbe essere dietro l’angolo. Il libro
mette in evidenza anche lo stile italiano del contingente
nel suo approccio con la popolazione locale. Come
spiega Mario Renna: «Molti eserciti stranieri ammirano
il grado di empatia che spesso si verifica tra i nostri
militari e le comunità afgane alla base della quale c’è
rispetto e generosità. E'una terra difficile e complessa
dal punto di vista culturale. Ma l'apertura che cerchiamo
sempre di dimostrare è una costante del nostro operato,
quasi un DNA».
i sono libri in cui a un certo punto diventa
difficile girare pagina. Nella maggior parte dei casi è per noia. Leggendo I bravi
soldati (Mondadori, pagg 306, euro 17,50) di David Finkel invece si ha sempre un po’ paura
quando si tratta di voltare facciata. La paura, in
aumento capitolo dopo capitolo, nasce dal fatto
che, di colpo, si può scoprire che uno
dei “personaggi” a cui ci si è affezionati, ha appena
perso
entrambe
le
gambe su uno
Ied (Improvised Explosive
Device) oppure è
stato colpito da
un cecchino, alla
nuca, e ora è in una
clinica di riabilitazione. E a testimoniare il
danno, il lutto, la paura
molto spesso c’è una fome quella che mostra
to, cocendiato
dove è morto il
l’Humvee insoldato James Harrelson.
E sì, perché anche se trascinati dalla narrazione di Finkel, che ha una penna incredibile, si ha
l’impressione di essere in un romanzo, invece
quello che si sta leggendo è tutto vero. È capitato
a persone in carne e ossa. Il battaglione 2-16,
comandato da Ralph Kauzlarich, è stato sul serio
a Rustamiyya, una delle zone più temibili di Baghdad. Dal 6 aprile 2007 al 10 aprile 2008. Davvero per mesi e mesi dei ragazzi, spesso nemmeno ventenni, sono usciti in pattugliamento
sui loro mezzi blindati, attraversando baraccopoli desolate e distese di immondizia con in testa un solo assilante pensiero: «Questa volta salto in aria, cazzo, questa volta tocca a me....».
Finkel, uno degli inviati di punta del Washington
Post, è riuscito a trasformare la loro storia in un
racconto coinvolgente e tremendo, molto più di
un reportage giornalistico. Ci è riuscito perché è
stato con loro per mesi, li ha ascoltati, ha studiato nel dettaglio i rapporti dell’esercito. Ha passato il suo tempo nel punto più caldo del Surge,
l’operazione voluta dal generale Petraeus per
riuscire a tirare le truppe americane fuori dalle
sabbie mobili - fatte di attentati e di guerra non
convenzionale - in cui si erano impantanate. E
se alla lunga il piano ha funzionato sono stati
battaglioni come il 2-16 a pagare, sulla propria
pelle, il prezzo sanguinoso del successo. Il 2-16
ha avuto 14 morti e decine e decine di feriti, alcuni gravissimi. Mentre pian piano il Paese si
normalizzava, i soldati che dovevano affrontare
la zona più disperata di Baghdad subivano una
pressione psicologica altissima, tale da rendere,
per molti di loro, assai remota la possibilità di
IRAK Le corrispondenze dal fronte
di David Finkel sono il racconto
in presa diretta della lotta al terrore
E girare la pagina, può fare paura
riadattarsi alla vita di prima.
Finkel racconta, appunto, tutto questo, non
concedendosi mai svolazzi o «pipponi». Preferisce mettere in fila fatti e testimonianze. Mostra
quanto sia diversa un «conflitto asimmetrico» (la
parola «guerra» ormai i militari non la usano
quasi più) quando lo si guarda da una scrivania,
attraverso dei grafici a torta, rispetto a quando a
separarci da quel conflitto c’è soltanto un sacco
di sabbia in cui si piantano continuamente
schegge di granata.
Ed è proprio questa narrazione diretta, senza
filtri, che mette il lettore di fronte al peso delle
decisioni che schiacciano il colonnello Kauzlarich (alla fine per i suoi soldati diventerà “Lost
Kauz”, «causa persa»), alle paure che distruggono le sicurezze del sergente Schumann, alla vita
del traduttore iracheno che tutti conoscono come Izzy, alla morte di tanti altri soldati e civili
meno fortunati. Il risultato è una piccola Iliade
moderna, carica di dolore. E come nell’Iliade
anche chi vince non sarà più lo stesso, dovrà fare
davvero tanta strada per tornare a casa.