Un Mare di Storie - Raccontarsi Raccontando

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Un Mare di Storie - Raccontarsi Raccontando
“Un
Mare di Storie”
Progetto Territoriale di Raccolta Testimonianze
Dell’Associazione di Volontariato “RaccontarsiRaccontando”
Narrazioni, Emozioni e Ricordi Legati al Territorio di Ladispoli
(Torre Flavia - foto di Alberto D’Antoni)
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Chi siamo e come lavoriamo
Aver aderito all’Associazione di Volontariato “RaccontarsiRaccontando” significa innanzitutto,
per noi soci, aver aderito ai principi della “Carta dei Valori del Volontariato” che è possibile
visionare nel nostro sito www.raccontarsiraccontando.it nella sezione documenti.
Le attività della nostra Associazione vengono portate avanti con il lavoro volontario dei soci ed il
contributo, sempre volontario, sia dei nostri collaboratori professionali che dei nostri simpatizzanti.
RaccontarsiRaccontando può contare, quale finanziamento delle proprie attività, esclusivamente
sulle quote sociali degli iscritti e, in quanto associazione di volontariato accreditata alla Regione
Lazio (codice fiscale 97800150589), è riconosciuta come possibile destinataria del 5 per mille
dell’imposta sul reddito delle persone fisiche (Irpef).
L’Associazione, iscritta all’Albo delle Associazioni Culturali del Comune di Roma è accreditata
presso la Regione Lazio, è apartitica e le nostre iniziative non hanno alcun fine di lucro, neppure
indiretto. Hanno per scopo l’elaborazione, la promozione e la realizzazione di progetti di solidarietà
sociale centrati sul rispetto della dignità e dell’unicità di ogni “la persona”. L’Associazione in
particolare si prefigge le seguenti finalità:
• Raccogliere, a titolo volontario, testimonianze personali e sociali legate al vissuto di
singole persone o gruppi sociali
• Tutelare la memoria collettiva territoriale quale riferimento per le giovani generazioni
• Diffondere la pratica di “raccoglitori volontari di testimonianze e narrazioni”.
Le finalità di cui sopra, vengono perseguite attraverso le attività di seguito elencate:
• Percorsi formativi gratuiti, eventi ed incontri che abbiano come tema la cultura del valore, del
rispetto e della tutela della “memoria individuale collettiva”
• Raccolta, a titolo volontario, di testimonianze e narrazioni di persone anziane, cittadini in stato
di fragilità sociale o in condizione di non poter scrivere la propria testimonianza
• Interventi presso le scuole di ogni ordine e grado, con il fine di implementare lo scambio
intergenerazionale attraverso “il racconto” di eventi, situazioni ed accadimenti di interesse storico e
sociale sia locale che generale, legati a testimonianze dove solidarietà, speranzosità, pace, rispetto
delle diverse culture e religioni, tolleranza e senso civico siano i valori portanti.
AnnaMaria Calore (Presidente)
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Presentazione del progetto
“Bambina che scrive” di Telemaco Signorini (1835-1901)
“La vita non è quella che abbiamo vissuto, ma quella che ricordiamo per poterla raccontare”
Gabriel García Márques, scrittore (1927-2014)
I luoghi hanno un’anima, sono evocativi e l’autobiografia, come pure la scrittura di sé, ritrovano
l’anima di quei luoghi. Quando raccontiamo di noi, i nostri ricordi premono per diventare uno
scritto, perché lo scrivere è un modo per lasciare un segno della nostra storia, ma anche per
imparare a conoscere dei lati della nostra vicenda umana.
Scrivendo, ci accorgiamo che siamo ancora vivi e che possiamo costruire nuovi ricordi da
conservare. Per questo la scrittura ha anche una destinazione sociale: lo scopo è quello di far sapere,
far conoscere e noi, rispetto alla storia raccontata, ci accorgiamo che ha sempre qualcosa di unico.
Lasciare una traccia dei propri ricordi attraverso il raccontare ad altri ed attraverso la scrittura di sé,
ci aiuta a superare momenti di disagio e ci spinge anche a confrontarci con le storie altrui. Racconti,
parte delle narrazioni ed aneddoti di vita sono una medicina narrativa: noi viviamo di narrazioni
personali ed altrui, perché siamo importanti, come tutti.
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Il “Camminare” è tra le prime esperienze autobiografiche. Camminando a ritroso è come se
dipanassimo il gomitolo della nostra vita, rincontrando persone e ambienti che abbiamo già
conosciuto; raccontarsi somiglia al camminare, in una riscoperta di un’attitudine riflessiva. Le
parole, così, diventano una forma di cura e l’autobiografia un’espressione di scrittura che si
costruisce all’insegna del bisogno di innovazione e di creatività. L’autoscrittura e l’autobiografia,
un tempo considerate un genere letterario tra gli altri, oggi sono maturate nel bisogno umano di
raccontare di sé, condividere le esperienze e costruirne una memoria collettiva.
Con il progetto “Un Mare di Storie”, abbiamo recuperato i ricordi di persone che hanno vissuto a
Ladispoli o che ad essa sono in qualche modo legati, ricordi personali che si sono intrecciati con
quelli delle famiglie storiche di Ladispoli, delle quali si è molto scritto.
Ogni storia di vita recuperata, affianca quella della cittadina e la sua evoluzione, dai territori
assegnati dall’Ente Maremma, alla prima ferrovia, dall’attesa dello sbarco degli americani, allo
sfollamento nel circondario in prossimità della via Aurelia. Ogni storia, tra l’altro, s’intreccia con le
storie di altri, creando punti di vista comuni anche se con prospettive diverse.
In questo contesto le narrazioni raccolte, diventano un documento a disposizione della collettività,
da depositare presso la Biblioteca di Ladispoli “Peppino Impastato” e di tutte le istituzioni che lo
richiederanno; inoltre il documento sarà proposto alla Libera Università dell’Autobiografia di
Anghiari (www.lua.it) per essere eventualmente postato tra le buone pratiche territoriali della
narrazione del sé e verrà postato sul sito dell’Associazione RaccontarsiRaccontando
(www.raccontarsiraccontando.it), quale buona pratica di volontariato sociale a tutela della memoria
individuale e collettiva.
Non si ha sempre voglia di sfogliare le pagine della propria vita, spesso dolorose come per tutti, ma
il risultato finale di questo progetto è stato una sorpresa: ci si è accorti di ricominciare una nuova
avventura di vita.
Anche i medici invitano a scrivere, perché stimola una sorta di autoguarigione. In questa terapia di
sé, vivere il piacere e la necessità di raccontarsi è un modo per amarsi di più e per non dimenticarsi
di esistere.
Loredana Simonetti
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Paesi e città dei partecipanti
al Progetto “Un Mare di Storie”
Licia Mampieri, nata a Introdacqua (L’Aquila), villeggiante a Ladispoli
Gastone Bolaffi, nato a Roma, villeggiante a Ladispoli
Iole La Grotteria, nata a Palo Laziale (Roma), vive a Ladispoli
Filippo Conte, nato a Minturno (Latina), vive a Ladispoli
Luigi Chiappa, nato ad Arcevia (Ancona), vive a Ladispoli
Paolo Lombardi, nato a Roma, vive a Ladispoli; la famiglia d’origine è di Polverigi (Ancona)
Rosetta Ammirato, nasce e vive a Ladispoli; la famiglia d’origine è di Pozzuoli (Napoli)
Silvio Vitone, nato a Mafalda (Campobasso), vive a Ladispoli
Marco Mellace, nato a Roma,vive a Ladispoli; la famiglia d’origine è di Tagliacozzo (L’Aquila)
Claudia Simonetti, nata a Roma, villeggiante a Ladispoli
Roberta Cerroni, nata a Roma, vive a Ladispoli
Giovanni Melis, nato a Tarquinia (Viterbo), vive a Ladispoli
Loredana Simonetti, nata a Roma, villeggiante a Ladispoli
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Memoria di un incontro
Licia Mampieri racconta
Torre Flavia, oggi (foto Silvio Vitone)
Quando si varca l’arco d’ingresso al tempio dei sogni, lì proprio lì, c’è il mare
(Luis Sepúlveda, scrittore)
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La prima volta che sono venuta a Ladispoli era un limpido mattino di settembre, nel 2007. Il mare,
dal colore azzurdo-verde, frangeva dolcemente le sue onde sulle sponde deserte. Laggiù, verso
nord, Torre Flavia, a testimoniare la storia antica di questa giovane città.
Quel giorno ho camminato tanto con i miei pensieri, tra le bancarelle del mercato, in Viale Italia e
sul lungomare, socchiuso tra i palazzi e gli stabilimenti balneari. Da allora sono tornata altre volte,
in inverno, quando il mare diviene grigio mugghioso in estate, quando la sabbia ferrosa si arroventa
al sole.
da “I pescatori di Pozzuoli a Ladispoli”
di Nardino D’Alessio e Crescenzo Paliotta , 2012, CISU Edizioni
Ed ho imparato a conoscere Ladispoli, immaginandola come la vedevano i pescatori di Pozzuoli,
restando incantata dinanzi alle foto della marina negli anni ’30 e tuffandomi, come amo, nella storia
breve di questa cittadina cresciuta troppo in fretta.
Ecco apparire il Vate, Gabriele D’Annunzio, che nel 1892 aspetta la sua Barbara sotto il lampione
della stazione ferroviaria di Palo, in attesa del treno per Roma.
Ecco Roberto Rossellini ed Anna Magnani, i grandi del nostro cinema, che vivono la loro storia
nella grande piazza che ad essi è dedicata.
Ecco i giovani, tantissimi, che scelgono di abitare a Ladispoli e la riempiono di bambini e di vita.
È così, con questa semplicità, che ho imparato ad amare Ladispoli, viva e vivace, dove ogni giorno
è una festa.
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Quando Ladispoli era un villaggio
Gastone Bolaffi racconta
Il Sindaco di Ladispoli, Crescenzo Paliotta, con Gastone Bolaffi
presso lo stabilimento Columbia (Estate 2015)
Il mare cancella, di notte. La marea nasconde. È come se non fosse mai passato nessuno. È come
se noi non fossimo mai esistiti. Se c’è un luogo, al mondo, in cui non pensare a nulla, quel luogo
è qui. Non è più terra, non è ancora mare. Non è vita falsa, non è vita vera.
È tempo. Tempo che passa. E basta.
(Alessandro Baricco, scrittore)
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Nel 1932, avevo 12 anni, trascorrevo le mie vacanze nel villaggio di Ladispoli. Villaggio, sì, perché
la cittadina si raccoglieva nella piazza della fontana. La vita di Ladispoli si consumava tutta lì: c’era
il negozio di frutta e verdura, una modesta osteria, il farmacista e l’ufficio postale, il cui capoufficio
aveva una gran pancione.
Io ero bambino e quando lo guardavo, mi veniva da ridere. Anche il treno che proveniva da Palo si
fermava in piazza: era l’unica stazione, scaricava i passeggeri e poi ripartiva a marcia indietro.
(estratto da “Nel Lazio quando c’erano i treni a vapore” di Piero Muscolino)
Noi abitavamo in una casetta in via Duca degli Abruzzi e l’acqua potabile era poca: ad una certa
ora il “fontaniere”, un dipendente del Comune, chiudeva le bocchette e noi restavamo senz’acqua
fino a nuovo ordine.
La nostra casa era poco prima della Chiesa e qualche volta vedevamo Rossellini e la Magnani, che
erano molto riservati, passeggiare lungo Via Duca degli Abruzzi. Rossellini ha spesso utilizzato
nelle sue scenografie scorci e immagini di Ladispoli e ci fu un’occasione in cui mia madre gli prestò
le sue piante fiorite, per girare una scena di un film. Papà e mamma non amavano la spiaggia, ma il
pesce a casa piaceva molto ed era frequente la mattina l’appuntamento con “Pietro o’piscatore”, che
tornando dal mare, ci vendeva cefali e polpi appena pescati. Nel pomeriggio passava il furgoncino
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della lattaia che suonava una trombetta per attirare i clienti; mi sembra di sentire ancora quel suono
sfiatato.
Noi eravamo fortunati perché nella casa che abitavamo c’era la ghiacciaia, una vera rarità per quei
tempi, mentre le altre famiglie acquistavano il ghiaccio, mezza colonna di ghiaccio per volta e per
farlo durare più a lungo possibile, lo conservavano avvolto in una coperta di lana!
Dal piccolo villaggio partiva una strada con tanti pini sulla destra e sulla sinistra. Quella era Viale
Italia, la strada che oggi è la via principale che porta alla nuova stazione ferroviaria.
Viale della Stazione, 1940 (oggi Viale Italia)
fonte “Memorie intorno – Racconti di Paola Solaroli Moretti” (2010)
Ladispoli era tutta campagna e quando il Circo Equestre piantava le tende, era una novità
straordinaria. Non era come il circo di oggi, avevano vecchi leoni e bestie spelacchiate, ma per noi
bambini era una bella occasione di festa.
Il vero grande divertimento, però, era il cinema! A Ladispoli, sul lungomare, c’era il cinema
all’aperto “Moretti”, naturalmente solo di sera: una grande terrazza con vista mare, dove tirava
sempre tanto vento e potevamo vedere i film con il rumore del mare di sottofondo e il profumo della
brezza marina. Vedere il film in quello scenario, mi faceva sentire quasi un protagonista della
pellicola. Il biglietto del cinema costava una lira e principalmente proiettavano film americani, ma i
miei attori preferiti, quelli che mi facevano sognare, erano Amedeo Nazzari e Vivi Gioi.
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Locandina del film “Dopo divorzieremo”, 1940.
Ho detto che i miei genitori non amavano il mare, ma noi bambini trascorrevamo giornate intere
sulla spiaggia rovente di Ladispoli, rovente perché contiene il ferro. Mussolini si era messo in testa
di estrarre quella preziosa risorsa dalla sabbia per costruire i cannoni. Portò sulla spiaggia anche
delle macchine che avevano delle rotative con le calamite per separare la sabbia dal ferro, ma tutto
poi finì miseramente e rinunciò all’impresa.
La spiaggia era un luogo di gioco e serenità per noi bambini, non avevamo niente, eppure ci
divertivamo lo stesso e l’unica altalena era presa d’assalto. Le donne indossavano i costumi interi e
noi le mutandine di lana, chissà perché…, con la sabbia e il sale pizzicavano da morire! Sulla
spiaggia passava “coccobello e coccofresco” ed era il mio appuntamento giornaliero e ogni tanto
una donna, con un cappello di paglia in testa che gridava “Ciambelle fritte e calde”… calde per
forza: camminava sotto il sole! Questi ricordi da bambino hanno un profumo indimenticabile…
Poi, crescendo, le nostre vacanze sono state altalenanti tra Ladispoli e Ostia, ma per Ladispoli avevo
un affetto particolare. Ricordo che in occasione della prima comunione dei miei figli, organizzai il
ricevimento all’albergo Margherita e per portarci i parenti – non tutti possedevano le macchine
negli anni ‘50 – presi in affitto un intero pullman!
Da adulto sono entrato nell’aeronautica, ero Sergente Maggiore, lavoravo come amministrativo e
spesso mi capitava di ritornare nelle vicinanze di Ladispoli, a Furbara, per motivi di lavoro.
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Nel 1940 lavoravo a Forlì e mi trovai a partecipare, il 9 maggio, alle celebrazioni per la fondazione
dell’impero fascista. Fu in quell’occasione che conobbi il Tenente Valerio Scarabellotto, un uomo
serio e cordiale, che era in rappresentanza del 30^ stormo da bombardamento.
Fu un uomo che si distinse in guerra eroicamente. Dopo un mese il suo stormo fu trasferito in
Sicilia, a Sciacca e in un’azione di guerra fu ferito gravemente. Malgrado questo, riuscì a portare a
termine la sua missione dando al pilota le istruzioni per consentire il bombardamento su Malta e per
il suo eroico gesto, dove perse la vita, gli fu conferita la medaglia d’oro al valor militare alla
memoria.
Dopo 40 anni raccontai questa storia a mia nipote e lei lo riferì a sua volta all’associazione
aeronautica di Ladispoli; così, da qualche anno, ad ogni ricorrenza militare del 25 aprile, in cui
viene ricordato Valerio Scarabellotto, sono sempre invitato.
Gastone Bolaffi con la nipote Damiana La Pera, (aprile 2014)
La casa di Via Duca degli Abruzzi è stata venduta, però mia nipote, anche lei affezionata a
Ladispoli, ha acquistato un appartamento di una palazzina sul lungomare e trascorre le sue vacanze
lì con la sua famiglia. Io dal 2005 sono ritornato a trascorrere l’estate a Ladispoli, così ho anche
occasione di rivedere i nipoti.
Poco tempo fa, entrando nello stabilimento Columbia e guardando le foto e le cartoline d’epoca
esposte lungo le pareti, mi sono improvvisamente fermato davanti ad una cartolina in bianco e nero.
Non ci potevo credere! In quell’immagine, nella veranda dello stabilimento, il cui tetto era ancora di
paglia, seduti a un tavolino c’erano i miei genitori e mia sorella. Mamma sorrideva nella mia
direzione e dietro di lei spuntava mia sorella, anch’essa sorridente. Papà, con gli occhiali da sole,
fumava la sua sigaretta, sicuramente in un momento di serenità. Ritrovare i miei genitori in quella
cartolina a bianco e nero mi è sembrato un invito a stare insieme con loro: è stato un attimo di
commozione intensa e non ho potuto trattenere le lacrime.
Vengo qua, allora, tutti i giorni con l’aiuto di Alex, un bravo ragazzo anch’egli con il sorriso sempre
pronto, a godermi questa spiaggia ricca di ricordi, in compagnia dei miei genitori come quando ero
piccolo, che mi aspettano sereni tutte le mattine in quella cartolina, quando entro nello stabilimento
Columbia.
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La cartolina che ritrae i genitori e la sorella di Gastone
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Ai Grotti di Procoio di Ceri
Jole La Grotteria racconta
Jole La Grotteria a Ronciglione, (anni ’80)
La vita non è in ordine alfabetico come credete voi. Appare… un po’ qua e un po’ là, come
meglio crede, sono briciole, il problema è raccoglierle dopo, è un mucchietto di sabbia,
e qual è il granello che sostiene l’altro?
(Antonio Tabucchi, scrittore)
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Sono nata a Palo, nel 1935, sono la più piccola di tre sorelle e un fratello, e papà lavorava come
giardiniere al castello del principe Odescalchi. Quando sono nata, mi hanno chiamata Maria Pia, ma
la principessa Odescalchi mi chiamava sempre Jole e Jole sono rimasta. A due anni ci siamo
trasferiti a Ladispoli, in Via Duca degli Abruzzi, poche case e tanto prato.
Era pieno di tedeschi che avevano costruito sulla riva del mare alcuni bunker per poter avvistare
l’arrivo degli americani; i politici erano convinti che gli americani sarebbero sbarcati a Ladispoli.
Chi poteva, si rifugiava a Ceri.
Il bunker (fortino antisbarco) sulla spiaggia di Ladispoli
(foto del 1960 da “Ladispoli, un secolo d’immagini” di Corrado Melone)
Ricordo, avrò avuto otto anni, che mi avventuravo insieme ad un’amica sopra al ponte medievale,
(che adesso non c’è più), per vedere se arrivavano gli americani dal mare; appena sentivamo un
rumore scappavamo subito… Giocavamo ad aver paura. Poi alla fine, gli americani sono arrivati sul
serio, non dal mare… e abbiamo cominciato a mangiare gallette e caramelle.
Mamma ci faceva indossare i vestiti migliori, uno sopra all’altro, perché se i tedeschi entravano in
casa ci cacciavano via e si rubavano anche i vestiti. Allora, con tutti i vestiti indosso, ci mettevamo
a dormire sotto agli alberi. Abbiamo tribolato l’anima nostra…
Un giorno papà montò su un carretto tutte le nostre cose, lasciammo Ladispoli e ci rifugiammo
dentro i grotti di Procoio di Ceri.
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I grotti di Procoio di Ceri (foto social)
Quei grotti, quando c’era l’Ente Maremma, erano utilizzati come stalle e ci tenevano i vitelli che
venivano macellati.
I grotti erano scavati in una specie di tufo e pozzolana, terra scura e umida; noi eravamo tre
famiglie e papà per evitare che entrassero le bestie, aveva fatto una specie di cancello, intrecciando i
rami di ginestra, e sempre con la ginestra aveva foderato tutto l’interno dei grotti, per ripararci
dall’umido della terra. Papà era ingegnoso e quel sistema ci risparmiò freddo e malattie.
Mio padre ci raggiungeva la sera per prendersi un po’ di vestiario e roba da mangiare, ma una volta
i tedeschi presero anche lui. Io ero disperata! Abbiamo saputo che l’avevano portato a Osteria
Nuova a lavorare. Dopo un po’ di giorni, con mamma, siamo andati a cercarlo. Ero piccola e
piangevo, allora i tedeschi, forse impietositi, ce l’hanno rimandato a casa.
Niente scuola: la mia infanzia l’ho trascorsa con quelle tre ragazzine giocando a barattolo e a
campana, e soffrendo la fame!
Mamma mi dava un cuccumetto, come un pentolino e mi diceva: “Va’ dai tedeschi e fatti dare il
siero del latte.”. I tedeschi, in realtà, si prendevano tutto, latte, ricotta… il siero era quel liquido che
scolava dalla ricotta. Piuttosto che fallo buttà era meglio che lo davano a noi! Era come acqua, ma
meglio di niente… Un giorno un tedesco si perse l’orologio e ci venne a spaventare che se non gli
veniva restituito avrebbe preso sette padri di famiglia e li avrebbe uccisi tutti. Per fortuna il ladro
restituì l’orologio.
Siamo stati sfollati per diversi anni e quando sono tornata a Ladispoli ho fatto le scuole serali,
perché mi piaceva tanto studiare.
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La scuola di Via Lazio, inaugurata nel 1925
(foto del 1960 da “Ladispoli, un secolo d’immagini” di Corrado Melone)
Era la scuola di Via Lazio, che oggi ha soltanto l’asilo. In quel periodo mio padre, che si chiamava
Vito La Grotteria, portava il trenino dalla piazza fino a Palo. All’entrata di Ladispoli c’è ancora il
casello originale, dove fermava il treno. Le suore di Via Duca degli Abruzzi avevano l’orticello e le
galline, che confinavano questa ferrovia.
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Il casello del treno, nel 2015
L’Ente Maremma, inoltre, aveva dato a mamma e papà un terreno vicino a Torre Flavia e loro lo
coltivavano, soprattutto per venderne il raccolto. Mi ricordo che mamma portava i fagiolini e i
cocomeri sulla testa dentro ad una cesta e uno dei suoi clienti più affezionati era il farmacista De
Michelis.
La grolla teneva in equilibrio questo cesto pesante sulla testa, mi sembra ancora di vederla… Pure
se quei tempi erano brutti, io me li ricordo belli e con nostalgia.
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Donna con la grolla per portare la cesta in testa ((foto social)
Mamma era una semplice massaia, ma teneva tanto all’ordine e alla pulizia. Avevamo una casetta
con il legno per terra e luccicava! Una volta passò un controllo della giunta fascista per vedere
come erano tenute le case di Ladispoli.
Inaspettatamente, mamma venne convocata al Cinema Moretti e un personaggio importante, non
ricordo il nome, la chiamò sul palco: “Donata Soccorsa ha preso il Primo Premio per la pulizia della
casa!”. Una sorpresa di grande soddisfazione, per lei.
Il premio consisteva in una bella e grande pentola di alluminio e a me, piccolina, regalarono una
carrozzina con la bambola! Chi l’aveva mai vista?
A 14 anni ho conosciuto mio marito Armando. Era di Ronciglione e lavorava a Ladispoli, come
manovale nella fornace di mattoni Bellelli. Io abitavo in via Odescalchi e lui aveva preso una
camera vicino, in affitto. La nostra casetta oggi non c’è più, invece la casa dove alloggiava mio
marito ci sta ancora.
Lui mi guardava a distanza e io, per vederlo meglio, andavo sempre sul terrazzo a raccogliere i
fichi, avevamo una grande pianta in giardino: mamma mi diceva sempre “Madonna, ‘sti fichi non
finiscono mai…”.
Quando Armando finì di lavorare, dovette ritornare a Ronciglione, e io ero disperata. Zitta zitta,
presi le scarpe e le appoggiai sulla finestra che dava sul giardino.
Stavo con le ciabatte e dissi a mamma che avrei accompagnato Armando alla stazione, ma in realtà
volevo andare via con lui. Uscendo, presi le scarpe dalla finestra, le misi in tasca e alla stazione
confessai ad Armando che sarei partita anche io insieme a lui, ma Armando non volle e allora tornai
indietro.
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Speravo tanto in un suo ritorno e desideravo andarlo a trovare, invece mi fece lui una sorpresa a
casa mia: non ci siamo lasciati più, è stato un grande amore veramente.
A 15 anni esatti è nato il mio primo figlio, Luciano, a 17 anni è nato Gianni, e Mauro è nato quando
ho compiuto 25 anni. Quando è nato Luciano, a Ladispoli eravamo mille abitanti e tutti vennero a
vedere sto fijetto appena nato. Sono sempre rimasta a Ladispoli, le mie radici e i miei ricordi sono
qui. Oggi ho 13 nipoti, siamo tutti molto uniti, e insieme abbiamo affrontato i dolori che
inevitabilmente la vita ci ha riservato. Forse proprio per questo considero Ladispoli il mio piccolo
scrigno prezioso dove ho riposto la mia vita, anche se ho tribolato tanto.
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Le dune di sabbia, spettatrici di vita
Filippo Conte racconta
Minturno (foto proloco)
Luna, trasparente come la medusa marina,
come la brina nell’alba, labile come la neve sull’acqua,
la schiuma su la sabbia.
Gabriele D’Annunzio, poeta e scrittore, (1863-1938)
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Avevo sette anni, quando, finita la guerra nel 1945, ci siamo trasferiti a Ladispoli. Eravamo sfollati
dal mio paese nativo, Minturno.
Arrivammo da Sessa Aurunca e mia madre cercava suo marito, perché lo avevano portato via i
tedeschi e non se ne avevano notizie. Alcuni pescatori fecero circolare la voce che tanti uomini di
Minturno – un tempo chiamata Traetto - si erano rifugiati a Ostia, Fiumicino, Fregene, Ladispoli e
dissero a mia madre: “Signora Rosina, prima di Civitavecchia ci sono alcune postazioni di pesca,
suo marito Pietro, insieme ad altri che erano stati catturati dai tedeschi, sembra che sia là.”. E fu
proprio così.
I tedeschi avevano serrato tutti gli uomini nei treni per portarli via, ma si erano fermati prima di
Civitavecchia e i prigionieri ne approfittarono per saltare giù, prendendo la strada delle campagne.
In effetti mio padre da giovane era un capobarca e da Minturno andava a Fiumicino per pescare,
quindi quelle zone le conosceva bene. In quelle parole dette dai pescatori, poteva esserci del vero.
Però non si capiva perché, pur sapendo scrivere, papà non diede notizie di sé: la guerra era finita, a
Minturno c’era sua moglie con quattro figli che lo aspettavano, ma lui non tornò, pur avendo una
buona attività commerciale avviata in paese.
Mia madre, allora, si convinse che papà potesse stare a Ladispoli; prese un lenzuolo, avvolse i
pochi indumenti suoi e dei quattro figli, e partì in treno. Ricordo che faceva molto freddo e
arrivammo a Ladispoli la sera tardi.
La mamma di Filippo, Rosa Iannitti
Viale Italia era in terra battuta, piena di spine e rovi; trovammo un locale tra via Napoli e Viale
Italia, un forno bruciato dai tedeschi e ci riparammo là dentro. Passò un uomo, s’affacciò in questo
forno e ci chiese chi fossimo e che stavamo facendo. Mia madre raccontò che era venuta a Ladispoli
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per cercare suo marito, che s’era fatta notte e che aveva trovato riparo in quel forno con i suoi figli.
Allora quel signore c’indicò una grande grotta, dove avremmo potuto passare la notte più riparati.
Quella era la famosa “Grottaccia”, oggi nota perché d’estate ci fanno spettacoli di musica e teatro.
La Grottaccia in Via Rapallo (foto da “Ladispoli, un secolo d’immagini” di Corrado Melone)
Andammo lì e ci trovammo un pecoraro che ci fece spazio in un angolo della grotta; c’era la paglia
per terra e quel bravo cristiano ci diede pure del latte! Dopo un viaggio impietoso, pensammo di
essere arrivati in Paradiso…
La mattina dopo, con uno spirito diverso, andammo a cercare mio padre. Mamma andava chiedendo
se qualcuno conoscesse Pietro il Pescatore, perché a Minturno lo chiamavano così. La gente gli
indicò al banco del pesce quello che era Pietro O’Piscatore, “pozzolano”, che faceva “Maddaluno”
di cognome. Mamma, guardandolo, non lo riconobbe come suo marito! Allora le indicarono un
altro Pietro, che pescava a mare con le barche e che faceva pure il “ranocchiaro”. Mia madre
rimase perplessa: non sapeva niente del “ranocchiaro”.
Le indicarono alcune capanne, verso Torre Flavia, che poi sapemmo aveva fatto costruire proprio
mio padre. Erano capanne ben fatte, con legno di castagno e cannucce di palude, d’estate erano
freschissime e d’inverno c’era una temperatura mite! Si trovavano a pochi metri dal mare e quando
c’era una mareggiata, l’acqua entrava in casa. Dalle capanne si vedevano le dune di sabbia sulla
spiaggia.
In quella sabbia crescevano delle piante grasse e quando fiorivano, si formavano dei fiori grandi e
colorati. Da bambini, sotto alle piante, raccoglievamo le lumache, che non erano né di terra né di
mare. Erano lumacone bianche come il latte, che crescevano sulla sabbia, asciutte, senza bisogno di
niente. Si nascondevano sotto la sabbia e lasciavano un bozzetto bianco della conchiglia fuori.
Quando le trovavamo, facevamo un po’ di fuochino per terra e le cuocevamo arrosto.
Ricordo l’incontro tra mamma e papà: non vedevamo papà da anni e dopo gli abbracci e i baci, la
voce di mia madre si fece seria. “Perché tu con moglie e quattro figli non sei venuto a cercarci e
invece siamo venuti noi a cercare te?”.
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Non rispose subito, ci fece entrare in una capanna e ci fece conoscere i pescatori che vi abitavano e
che battevano i fossi: alcuni erano veramente ranocchiari, altri raccoglievano le sanguisughe. Fu a
quel punto che arrivò la risposta alla domanda di mia madre. “Come faccio a tenervi qua? Io al
massimo, posso tenere Pietro, se lui vuole rimanere .”. Pietro era mio fratello più grande, aveva 13
anni e si chiamava come mio padre e in seguito decise di rimanere, aiutandolo a preparare il pesce.
Pietro Conte e il figlio Pietro, in una buffa fotografia della 1^ sagra del carciofo, nel 1950
Papà non parlava della sua guerra, era molto schivo e, come tanti soldati che sono tornati vivi, non
raccontava nulla di quello che aveva passato.
Trascorremmo un po’ di tempo con lui, poi mio padre diede un po’ di soldi a mamma e lei, con gli
altri tre figli, ritornò a Minturno. Una volta alla settimana tornava a Ladispoli e portava un po’ di
provviste per papà, e lui, a sua volta, le dava un po’ di soldi per farla tornare indietro con qualcosa.
Mamma aveva una piccola attività commerciale e riforniva i mercati romani con i prodotti locali di
Minturno: abbacchi, uova, funghi… persino la cicoria, raccolta a Minturno, si vendeva bene a
Roma.
A primavera, tornavamo tutti a Ladispoli, perché c’era lavoro per tutti. Noi bambini lavoravamo
per la spiaggia, vendendo banane, noccioline e con poche cose si facevano un po’ di soldini fino
alla fine dell’estate.
Quella era anche la stagione dei ranocchiari. Mio padre aveva chiamato alcuni compaesani da Tufo,
un paesetto vicino Minturno, e coordinava questo gruppo di uomini. La sera si mettevano tutti
insieme a “capare” le rane. Le femmine venivano pulite e infilate nei giunchi, se ne facevano tanti
mazzetti e si vendevano ai banchi e ai ristoranti. I ranocchi maschi e le sanguisughe si mettevano
vivi dentro “boccacci” di vetro con l’acqua, e si portavano in ospedale, dove erano utilizzati per gli
esperimenti.
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Esempi di boccacci di vetro (foto social)
Mio padre era un uomo di grande iniziativa; invitava in quelle capanne professori e primari degli
ospedali e mentre offriva gli spaghetti alla pescatora, costruiva affari con loro, per le rane e le
sanguisughe. Viene ricordato come ranocchiaro, ma lui neanche sapeva come si prendevano le
rane, però organizzava le squadre di ranocchiari e a fine settimana divideva i guadagni tra tutti.
Nel 1951 mia madre rimase incinta per la quinta volta e io, che avevo 13 anni, restai con mio padre
a lavorare con lui. Nel mese di aprile mamma ritornò a Ladispoli, era iniziata la stagione delle rane
in amore e decise di rimanere qualche giorno per aiutare papà, visto che c’era tanto lavoro, anche se
aveva la pancia molto grande.
Una notte le presero i dolori e noi figli, quattro maschi che non avevano mai visto partorire una
donna , avemmo tutti paura quando si ruppero le acque. Decidemmo, tra fratelli di scappare in città;
quella corsa tra le dune di sabbia, alte, è un ricordo straordinario, non passavano macchine,
sembrava di stare nel deserto africano.
A fianco alle nostre capanne, c’era una piccola fattoria che ancora è rimasta così, ci abitava la
famiglia Montini; uno dei figli, Fausto, un gran lavoratore, aveva un cuore grande come una
capanna! Noi fratelli passammo sotto la recinzione per andare alla fattoria, inseguiti dai cani e dai
tacchini che urlavano nella notte. Venne fuori il compare Fausto e gli raccontammo di mamma che
stava partorendo, allora con la sua compagna, Lucia, vennero subito con noi.
Mentre Lucia aiutava mamma a preparare gli asciugamani, l’acqua calda e la biancheria pulita,
Fausto in pochi minuti mise il cavallo davanti al calesse e corse a prendere l’ostetrica di Ladispoli,
mi sembra che fosse Paola Bargiacchi, per portarla alla capanna da mamma. In pochi minuti,
nacque quel bambino, bello e pacioccone e tutti ci mettemmo a piangere; era passata la paura,
grazie alla gioia di vedere questo bel bambino.
Il compare Fausto, - si chiamava così perché tenne a battesimo a Ladispoli quel bambino – riportò
l’ostetrica anche il giorno dopo, per far controllare mamma, ma mia madre era una donna forte
come un toro, per fortuna non ebbe bisogno di nulla. Così nacque mio fratello Franco, quasi come
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Gesù Bambino, in una capanna vicino al mare, in piena notte, con lo spettacolo delle dune dai
riflessi violacei.
A fine estate mamma ritornò a Minturno con Umberto e Franco, gli ultimi due fratelli, mentre io
rimasi con Benito e Pietro a Ladispoli, insieme a mio padre.
A ottobre successe la tragedia: durante uno dei suoi viaggi a Roma, mia madre lasciò Franco ad una
ragazza che lo guardava in casa: non si seppe cosa accadde, ma questo bambino cadde per terra e
morì. La piccola vita di Franco ci lasciò un vuoto incolmabile e con grande fatica riprendemmo una
vita normale. Per assicurarsi un tetto per quando sarebbero stati anziani, mio padre prese una casa in
affitto in via Molfetta a Ladispoli.
Io, crescendo, ebbi occasione di svolgere tanti lavori a Ladispoli; mi ricordo bene di quando quelle
magnifiche dune di sabbia ferrosa vennero pettinate; non rimase più niente. Solo tra Torre Flavia e
Campo di Mare era rimasta parecchia sabbia nera, per 500 metri.
Una società di Terni, con una piccola locomotiva con i binari che volta per volta venivano spostati,
raccoglieva questa sabbia. Già da prima della guerra, raccoglievano la sabbia per estrarne il ferro.
Motrice che trainava i carrelli pieni di sabbia
(1940, foto da “Ladispoli immagini e racconti di Crescenzo Paliotta)
Il responsabile di quell’appalto era il sig. Deodato di Ladispoli, aveva la ferramenta e lo smorzo
vicino al vecchio lavatoio, in Via del Mare e assumeva gli operai. Gli occorreva un operaio a
Campo di Mare per scaricare la sabbia dai carrelli e andai a lavorare con loro; io ero il più piccolo e
quella sabbia, con il ferro, pesava il doppio della sabbia normale.
Quando arrivava un camionaccio con le gomme ci caricavamo la sabbia con la pala. Lavorai con il
sig. Deodato un breve periodo, abbastanza per veder usurpare il patrimonio storico di quelle
meravigliose dune di sabbia nera.
Ancora oggi dal nostro mare esce sabbia nera, ma mai abbastanza per ricostituire quel panorama
selvaggio meraviglioso che ho fissato nei miei ricordi di bambino.
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Ricevere un valore nella vita
La famiglia Castellano.
Filippo Conte racconta
Il Gran Bar Nazionale (1940, foto collezione Castellano)
In questo mondo, quando si può, bisogna mostrarsi cortesi con tutti, se vogliamo essere
ricambiati con pari cortesia nei giorni del bisogno.
Da “Le avventure di Pinocchio” di Carlo Collodi (1826 – 1890)
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Durante l’estate noi fratelli venivamo sempre qui a Ladispoli. Amilcare Castellano, cognato della
signora Maria, mamma di Laura Castellano, una mattina fermò mio padre per strada. Aveva saputo
che i suoi figli, un paio di “giovanottelli”, erano in cerca di lavoro per l’estate e voleva conoscerli.
Mio padre, allora, ci disse di prepararci puliti e ordinati perché il sig. Amilcare cercava qualcuno
per lavorare al bar. Io ero innamorato del Bar Nazionale e mi tremavano le gambe: mio padre ci
accompagnò fin là.
“Come ti chiami?”, chiese il Sig. Amilcare, “Io sono Filippo”, ”Te piace fare il barista? Comprati
una giacca bianca e vieni qua.”. Comprare? io non avevo una lira…
Amilcare mi presentò la mamma, - che morì a 104 anni - ; mi fece un sacco di complimenti e
sapendo che non avevo una giacca bianca, me ne prestò una di un altro cameriere, con l’impegno
che l’avrei restituita appena avessi messo due soldi da parte. Mi stava grandicella, però facevo la
mia bella figura. Il giorno dopo feci il mio ingresso al Bar Nazionale come apprendista barista; era
il 1950, avevo solo 12 anni e lavoravo con un banchista che faceva il caffè e un altro che serviva i
liquori.
La fabbrica delle gassose di Giovanni e Carlo Castellano
(foto da “Storia & Storie” di Corrado Melone)
Il Bar Nazionale aveva sul retro un piccolo piazzale dove si produceva l’aranciata, la gazosa e il
chinotto Castellano. Avevano una ruotella, le donne ci poggiavano le bottiglie e poi giravano una
macchinetta che chiudeva i tappi. Dopo incassettavano e caricavano le bevande per le consegne. Io
ero sì, un ragazzone, ma mi divertiva un sacco vedere l’imbottigliamento…
Un giorno, all’ora di pranzo, mi chiamò la mamma di Amilcare.
“Filippo, vieni a mangiare”, mi disse,
“No, signora, io vado a pranzo a casa…”.
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“Vieni a mangiare con me…”
Io mi vergognavo, sono sempre stato molto timido… Mi misi a sedere e la signora mi portò un
piatto di pasta che non finiva più, mi mise una mano sulla spalla e mi disse: “La devi mangiare
tutta, che devi ancora crescere…”. Pensavo fosse finito il pranzo, e invece mi portò anche una
bistecca e la frutta! Dio Benedetto! Se non mangiavo, strillava!
Il giorno appresso fece la stessa cosa. “Guarda, Filippo, devi mangiare!”. Noi a casa non avevamo
da mangiare così tanto, ci arrangiavamo da Rosati con un piatto di minestra; Rosati aveva una
piccola trattoria negli anni 50 in piazza, e in quel periodo mamma era a Minturno a lavorare.
Qualche volta andavamo a mangiare dal Sor Domenico all’Albergo Santa Lucia, perché ci
dormivano alcuni operai di mio padre, che d’inverno non vivevano nelle capanne sul mare. La sera
mangiavano e poi passava mio padre, che non sempre aveva i soldi per saldare il conti. Il Sor
Domenico gli diceva: “Sor Pie’, nun te preoccupà, le sanno capà le patate? Sennò, dopo làveno i
piatti…”.
Lo stabilimento Columbia (1950, foto collezione Castellano)
Avevo già familiarizzato al Bar Nazionale, quando la signora Maria mi volle portare a lavorare allo
stabilimento Columbia. Ero intimorito, ma non mi sono certo tirato indietro. Al Columbia
lavoravano già due persone che conoscevo, Francesco Marini che studiava da geometra e poi c’era
Elio Fiorini, che ancora porto nel cuore. Elio in pochi giorni m’insegnò la tecnica della conoscenza
di tutti i liquori: mi metteva di spalle alla scaffalatura dei liquori e chiedeva: “Dov’è il marsala? “ e
io pronto “Prima fila, la prima a sinistra…”.
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Quando non c’era la Signora Maria, Elio m’insegnava a fare il caffè. Ogni volta che la signora
veniva, la salutavo e lei, carina, mi rispondeva con cortesia. La sera si ballava un paio di volte a
settimana e le due figlie, che erano signorinelle, qualche volta in cassa si perdevano i soldi per terra.
Questa è una cosa che mi ha fatto sempre paura, perché io sono onesto. Non toccavo quei soldi, ma
andavo a chiamare una delle figlie alla quale erano caduti i soldi e glieli indicavo per terra. “Se poi
vi mancano i soldi, non voglio sapere niente, cercate di non farli cascà…”, dicevo.
Altre volte trovavo dei soldi nascosti dietro le bottiglie dei liquori e io glieli facevo subito vedere.
Qualche volta ho pensato che fosse “un giochetto” per vedere la mia onestà, oppure qualcuno che li
rubava e poi la sera se li portava a casa. A me non interessava, io chiamavo sempre i padroni,
volevo stare tranquillo e lavorare serenamente.
Tutte le mattine si affacciava al bar una signora molto distinta e la signora Maria le andava incontro,
la prendeva sottobraccio e prendevano il caffè insieme. Il caffè lo preparava sempre il mio amico
Elio. Una mattina Elio mi disse in un orecchio: “Se per caso venisse quella signora a prendere il
caffè e la signora Maria non ci dovesse essere, faglielo tu, quella signora è una vera intenditrice del
caffè.”.
“Ma corro questo rischio, Elio?” gli dissi preoccupato.
“Fidati, t’insegno un trucco: metti la dose di due caffè, pigialo bene e facci un solo caffè,
leggermente ristretto.”.
Una mattina che la signora Maria era assente, si affacciò la sua amica distinta e mi chiese un bel
caffè. Io, timoroso, le dissi che il barista Elio era uscito un attimo.
“Perché lei non è capace a fare il caffè?”
“Certo che sono capace!”, risposi rischiando.
“E allora lo faccia lei!”.
Mi ricordai subito il suggerimento di Elio e feci il caffè come m’aveva insegnato.
Mentre la signora stava finendo di gustare il suo caffè, arrivò la signora Maria e rivolgendosi alla
sua amica disse: “Che hai fatto?, Potevi aspettare un secondo che arrivava il banchista… Filippo
non è barista, non sa fare il caffè!”.
“Senta Maria – rispose la signora distinta – non mi dica che Filippo non sa fare il caffè! Io, un caffè
così, non l’ho mai bevuto da nessuna parte!”
Maria rimase di stucco, si avvicinò e mise un dito nella tazzina del caffè, ce n’era ancora una
lacrima, e se lo mise in bocca. Dopo qualche istante mi guardò e disse: “Filippo, fai un caffè anche
a me!”. Naturalmente anche alla signora Maria ho messo la dose doppia…
“Nemmeno una settimana di lavoro qua dentro e fa il caffè meglio di Elio!”, disse stupita. “Elio, ti
caccio via e al posto tuo metto Filippo!”, disse rivolto a Elio, il quale sorrise e mi fece l’occhiolino.
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Ancora oggi ricordo quel momento con grande soddisfazione: la signora Maria, davanti alla distinta
signora mi ha fatto un gran complimento e per me, giovanissimo e alle prime armi, è stata la spinta
necessaria per capire che fare il proprio lavoro onestamente e seriamente, ripaga sempre con grandi
soddisfazioni. Da quel giorno sono diventato barista e anche la paga non fu più da
sciacquabicchieri. A fine estate, quando lo stabilimento chiudeva, io tornavo a Minturno, perché
arrivava la stagione delle feste paesane, ma per quattro estati di seguito ho sempre lavorato come
barista al Columbia, con grande soddisfazione.
Elio Fiorini, con la sua amicizia e la signora Maria Castellano, con il suo complimento mi hanno
dato un valore nella vita, non me lo sono più dimenticato e forse per questo motivo sono ancora
legato a quella famiglia, in una gioiosa amicizia.
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Ricordi del territorio
Filippo Conte racconta
Una recente immagine di Filippo Conte, durante una mostra d’arte da lui organizzata
Oggi non è che un giorno qualunque di tutti i giorni che verranno.
Ma quello che accadrà in tutti i giorni che verranno può dipendere da quello che farai tu oggi.
Ernest Hemingway, scrittore (1899 – 1961)
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Ladispoli si estendeva tutta sul lungomare, fino alla torretta e la strada dove passavano i carretti,
Via Duca degli Abruzzi, superava il fosso Vaccina e sbucava su Via Milano. Era il 1953 e il fosso
era molto stretto, al massimo cinque metri, tant’è vero che facilmente con le piene, l’acqua
trasbordava; il ponte era costruito con quattro - cinque pali di legno, che univano le sponde e il
piano stradale era fatto con terra battuta e canne. I carretti, carichi di breccia e sabbia, anche se con
difficoltà, riuscivano ad attraversare quel ponticello.
Oggi quel ponte non esiste più, è stato progettato e realizzato verso via Roma.
Quando il primo camion di Ladispoli, che apparteneva a Marcello Guidolotti, dovette attraversare il
ponte, nessuno voleva salirci perché avevano tutti paura che crollasse. Mio fratello Pietro, che ha
lavorato con Guidolotti, scendeva sempre prima del ponte, per la paura di precipitare insieme al
camion.
Nel dopoguerra a Ladispoli incominciarono ad arrivare persone da tutt’Italia: qualche sardo e tanti
napoletani, specialmente d’estate e venivano a fare i netturbini, perché c’erano tanti turisti. Anche
quando Ladispoli è diventata comune, i netturbini erano sempre napoletani. Persone serie, nessuno
rubava, lavoravano e si arrangiavano come potevano: chi faceva lo stracciarolo, chi prendeva il
pane secco dai ristoranti, chi raccoglieva le cicche di sigarette, le apriva, faceva asciugare il tabacco
e poi lo vendeva a chi fumava la pipa… Non si rubava, erano persone “nobili”!
Ricordo d’inverno, c’era un netturbino bassetto con un carrelletto e indossava un baschetto nero in
testa; era una persona educata e precisa nel suo lavoro e manteneva Ladispoli pulita. Si chiamava,
mi sembra, Umberto Sale.
Un’estate deragliò un treno carico di pomodori a Palo Laziale: 40 vagoni carichi di pomodori e da
Palo a Ladispoli s’era formato un conservificio! La gente correva da tutte le parti del comprensorio
per raccogliere i pomodori da terra… con le biciclette, con i carretti, a mano. Anche in quella
occasione le strade furono pulite…
Mi ricordo che quando ho iniziato a lavorare in qualche piccolo cantiere di Ladispoli, si usava la
breccia donata dal mare, ottima per fare il cemento armato. Invece la pozzolana veniva da Roma,
dalle cave delle Fosse Ardeatine. Per fare i solai e gli architravi sulle porte e sulle finestre ci voleva
sabbia, breccia e cemento. Non era proprio perfetta questa soluzione, perché la salsedine, col tempo,
avrebbe marcito il ferro e sarebbe rimasto un blocco di cemento. La breccia e la sabbia venivano
lavate con acqua dolce per togliere il sale, ma non tutti facevano seriamente questa operazione…
Tutte le casette basse di Ladispoli, a un piano o due piani, erano costruite così. Ecco perché queste
costruzioni, che poi nel tempo sono state demolite, si sgretolavano pian piano.
Le prime case che stavano su Via Milano appartenevano a personaggi importanti di Ladispoli;
ricordo una villa antica in particolare, era abitata dal Questore Calcaterra, un personaggio notissimo,
che all’epoca era ancora Commissario della Polizia.
Dall’altra parte di via Duca degli Abruzzi, invece, superato l’antico lavatoio, aldilà del fosso
Sanguinara, c’era il mattatoio comunale e il primo cimitero di Ladispoli, dove erano state seppellite
una decina di salme. Una mattina piovve così tanto che tutte le casse vennero fuori dalla terra!
Allora da quel momento si utilizzò il cimitero di Cerveteri, fino a quando Ladispoli diventò comune
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autonomo, nel 1970. In quegli anni ero segretario del partito socialista e il frazionamento
territoriale per definire i confini di Ladispoli fu un vero disastro; i politici passavano da un partito
all’altro, la gente protestava con le manifestazioni, ma alla fine non c’è stato niente da fare e
Ladispoli non ha avuto territorio nell’entroterra: i nostri confini sono dalla Via Aurelia fino al mare,
con soli 25 metri quadrati di verde pubblico per ogni cittadino. La classe politica di quegli anni è
stata vergognosa!
Un pizzico di verità non fa mai male, è la cosa più bella e non bisogna vergognarsene. Anche con
queste storie “povere”, nasce e cresce Ladispoli.
I confini di Ladispoli, dopo il 1970 (fonte social luniversoeluomo.org)
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Non ricordo un giorno di festa!
Luigi Chiappa racconta
Caudino, frazione di Arcevia (AN)
Non ti chiedo miracoli o visioni, ma la forza di affrontare il quotidiano.
Preservami dal timore di poter perdere qualcosa della vita.
Non darmi ciò che desidero, ma ciò di cui ho bisogno.
Insegnami l’arte dei piccoli passi.
da “Il piccolo Principe” di Antoine de Saint-Exupéry, scrittore, (1900 – 1944)
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Le mie origini sono marchigiane, sono nato a Caudino, una frazione di Arcevia in provincia di
Ancona e da piccolo ho vissuto a Mazzangrugno, vicino Jesi, in Via Venetica alta. Mio padre,
Pietro, lavorava in un campo di concentramento a Lussemburgo e Mussolini donava un ettaro di
terra per ogni figlio che nasceva. Quando avevi raggiunto quattro ettari di terra, potevi ritornare a
casa. Per questa ragione ogni volta che tornava in Italia metteva in cinta mia madre. Mancavano
circa 3000 metri quadrati di terra per poter tornare in Italia, ma ebbe un incidente.
Mio padre morì nel 1943, in quel campo di concentramento e mia madre rimase vedova da giovane
con quattro figli, tutti piccoli.
Pietro, il padre di Luigi (1940)
Io avevo tre anni quando morì mio padre e l’unico ricordo fissato nel cuore è la sua mano che si
allunga verso di me per darmi un biscotto. Non è stato facile crescere senza padre, con una misera
pensione di guerra e tante bocche da sfamare. Quando ho compiuto sei anni e mezzo, siamo andati
via da Caudino e abbiamo raggiunto i miei zii a Palo Laziale, lungo la via Aurelia, dove lavoravano
come coloni dal fattore del principe Odescalchi. Mia madre, prima di partire, non esitò a vendere
le sue mucche per poter curare mia sorella, gravemente ammalata. Malgrado questo sacrificio
economico mia sorella morì, ma i pensieri di mia madre erano tutti rivolti a noi: aveva una famiglia
da mandare avanti.
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I buoi di uno degli zii
Lungo la Via Aurelia c’era solo campagna e i miei parenti abitavano nei casali; ogni zio accolse uno
di noi in casa sua e così aiutarono la cugina, mia madre, a tirare su la sua famiglia. Nonostante tutto,
i miei ricordi di bambino di quel periodo sono bellissimi.
Mio zio aveva una bici, era l’unico a possederla e la usava solo la domenica per andare a fare la
spesa. Noi, cugini e fratelli, lo seguivamo a piedi scalzi fino al paese, eravamo sette-otto, con le
scarpe di gomma sottobraccio per non consumarle (e la gomma era quella dei camion).
Zio ci dava dieci lire a testa, andavamo in Chiesa e poi ci compravamo un torroncino. Nessuno
poteva salire in bici, perché era uno strumento di lavoro e quando la riponeva, la copriva. Qualche
volta lo zio armava il somaretto con il carretto, faceva salire tutti noi piccoletti e diceva: “Andamo a
fa’ le cozze!”. Trascorrevamo una mattinata di festa: andavamo al Castello di Palo e prendevamo le
cozze, grosse e carnose, lì a portata di mano, senza neanche mettere un piede nell’acqua!
Ricordo che una volta lo zio ci portò tutti con il carretto a fare la vaccinazione del vaiolo;
l’ambulatorio del dottore era il locale che oggi è della Caritas, vicino alla Parrocchia di Ladispoli.
Tremavamo e piagnucolavamo tutti, perché avevamo paura della puntura… Tra fratelli e cugini
eravamo una bella banda di ragazzini, ci si aiutava tutti e la famiglia era un grande sostegno.
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La Parrocchia di Ladispoli
D’estate, noi bambini ci trasferivano a casa di uno zio a Ladispoli, nella casetta di Costantini – che
era di Arcevia pure lui - su via Palermo vicino a Villa Fedeli, aveva un orto e una stalla. Noi
mungevamo le sue mucche e poi andavamo a vendere il latte in via Odescalchi e in via Duca degli
Abruzzi… lavoravamo tutti e ci davamo un gran da fare. Quando era la stagione dei carciofi, noi
ragazzini stavamo nelle carciofete ad aiutare gli zii.
La scuola elementare era a Palo ma non ho potuto studiare molto: con le mie sorelle ci chiedevamo
perché la mamma non ci avesse messo in collegio, visto che eravamo orfani di guerra, ma lei ha
preferito seguire la famiglia a Palo e averci vicini, era così giovane e quando lavorava a servizio,
stava tranquilla che noi stavamo con qualche cugino o zio. Mia madre, Teresa, non si è voluta
risposare e fino ai suoi 97 anni, è stata il mio pensiero giornaliero.
Insieme ai miei cugini, uno dei divertimenti maggiori era andare a “nidi”, per le villette. Gli uccelli
facevano i nidi tra le pignatte e noi andavamo a scovarli in Via Milano, quando il ponte attraversava
il fosso e sbucava lì. Quel ponte non ci sta più ed è stato sostituito con quello che finisce su via
Roma.
Andare a “nidi” non era proprio una cosa lecita… Un giorno il Maresciallo Onofri mi chiamò in
caserma, pensai subito che mi volesse dire qualcosa su quello che stavo facendo, ero molto
intimorito. Invece, voleva solo farmi capire che stava vegliando su di me e che conosceva la mia
disagiata situazione familiare. Mi disse: “Ragazzi’, quando hai qualche difficoltà fai il nome mio.”.
Era proprio una brava persona; in quegli anni, dal ’50 al ’55, le forze dell’ordine erano una tutela
per gli abitanti, conoscevano e controllavano tutti con discrezione, intervenendo con la loro autorità
quando qualcuno era in difficoltà. Mi ricordo che nel ’65 la finanza mi fermava per strada per
verificare se il mio accendino aveva la marca da bollo!
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Anche se la mia famiglia è stata aiutata dai parenti, non siamo mai stati un giorno senza lavorare e
non mi ricordo un giorno di festa! Non avevamo la tessera della povertà ma se qualcuno c’avesse
fatto capire i nostri diritti, saremmo stati meglio.
Un colonnello scapolo, Vincenzo Rosi, mi prese a ben volere e mi offrì un lavoro alla stazione di
servizio di Cerveteri, mentre mamma continuava a fare le supplenze da bidella. Infatti, ancora oggi,
a Ladispoli mamma la ricordano come “Teresa la bidella”.
Il colonnello era benestante, molto riservato e non aveva figli, si era affezionato a me, che gli
lavoravo e gli portavo rispetto. Poi verso i diciotto anni misi su una piccola attività edile. A San
Nicola guadambiavo bene ed ero sempre apprezzato per la mia serietà, anche perché lavoravo
sempre, non mi tiravo indietro di fronte al lavoro.
Luigi con il colonnello Vincenzo Rosi
Tanti promettevano un posto fisso, c’era una nuvola di politici tra Cerveteri e Civitavecchia che si
dava da fare… però da loro non ho mai visto niente.
Un giorno, tramite amici, seppi che per la legge 336 del 1970, come orfano di guerra, avrei potuto
avere un posto fisso e a forza di scrivere lettere, sono riuscito ad avere un posto dal presidente della
Regione, nella scuola, come operatore scolastico all’istituto alberghiero Di Vittorio. Avevo 32 anni,
cominciai a sentirmi più sereno e a pensare di costruirmi una famiglia, a Ladispoli.
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Luigi, con la moglie Fernanda
Ho conosciuto mia moglie Fernanda ad una serata di ballo e andammo subito in simpatia. Ci siamo
sposati e abbiamo trascorso 40 anni insieme. Siamo stati una bella coppia, però non abbiamo avuto
figli. Verso i 37 anni ebbi il desiderio di adottare un bambino, andammo con mia moglie al
tribunale dei minori per chiedere informazioni, però c’era qualcosa che non convinceva mia moglie.
Non ci pensammo più per altri due anni e alla fine divenne troppo tardi per chiedere un’adozione in
Italia.
In quel periodo, - erano gli anni ‘80 - frequentavo il parroco di Ladispoli, Don Italo Colombini,
che ora si trova a Palo Laziale; era proprio un brav’uomo e un bravo parroco, seguiva i ragazzi di
Ladispoli e metteva al muro quelli “scatenati”.
Don Italo Colombini
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Don Italo aveva un problema alla pelle e allora lo accompagnavo al mattino presto a Ficoncella,
dove ci sono le terme “abusive” vicino a Civitavecchia, però quell’acqua lì faceva proprio bene alla
dermatite di cui soffriva il parroco. Facevamo lunghe chiacchierate, come due vecchi amici e poi
alle 7 in punto stavamo di nuovo a Ladispoli, ognuno al proprio lavoro. Fu in una di quelle mattine
che Don Italo mi disse che se volevo adottare un bambino, mi avrebbe aiutato.
Terme libere di Ficoncella (foto social portofrome)
Partimmo con mia moglie per Bogotà e un missionario di Don Bosco, Don Giuseppe Maffei, ci
aiutò anche con la lingua e i contatti da prendere. Ci affidarono, così, un bimbo di 40 giorni che
aveva bisogno di cure. Trascorremmo due mesi in Colombia, fino a quando il bambino poté partire.
Così abbiamo iniziato una nuova vita con quel bambino: non è stato facile, non è stato facile per
niente, erano anni in cui un bambino di nazionalità diversa non era accettato facilmente dai
compagni, però penso che siamo stati lo stesso dei buoni genitori.
Luigi, Fernanda e il piccolo Marino
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Oggi mio figlio Marino ha 34 anni, lavora con la moglie Alessandra e mi ha dato pure un nipote,
Gabriel. L’unico rammarico è non avere più mia moglie vicino, avremmo potuto trascorrere ancora
qualche anno insieme serenamente con i frutti del nostro lavoro e il nipotino. A volte ci penso, la
vita prende, la vita dà.
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I ricordi legati all’acqua
Paolo Lombardi racconta
Paolo Lombardi (2^fila, 3^ da sinistra) presso la Scuola di Via Lazio
L’acqua è insegnata dalla sete. La terra, dagli oceani attraversati. La felicità, dal dolore.
La pace, dai racconti di battaglie. L’amore, da un’impronta nella memoria.
Gli uccelli, dalla neve.
Emily Dickinson, poetessa (1830 – 1886)
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Io ho sempre vissuto a Ladispoli, dal giorno che sono nato nel 1953 e ho ricordi bellissimi.
I miei genitori erano originari della provincia di Ancona; mio padre, Attilio, era un contadino nato,
aveva la passione per l’agricoltura. Era nato a Polverigi, a 20 km dal mare e mia madre, Marsilia,
era di Filottràno, Ponte Musone per la precisione. Papà partiva da Polverigi e con gli amici andava
al fosso di Ponte Musone, dove c’era un torrente: era un punto d’incontro festoso, dove gli abitanti
si ritrovavano ed è proprio lì che si sono conosciuti.
Non ho mai pensato di tornare a vivere nelle Marche, ci vado ogni tanto solo per salutare i parenti e
per andare in un paese e nell’altro, passo sempre per Ponte Musone, anche se non è di strada,
proprio per rivedere quel fosso.
Ponte Musone (Ancona)
Si sono sposati nel ‘51 e mio padre, che non aveva abbastanza lavoro, venne a visitare questa zona e
i suoi dintorni, per vedere se poteva trasferirsi con la famiglia. Mentre mamma aveva il pancione,
nel 1953 sono venuti a Ladispoli, perché una sorella di papà si era già trasferita sulla Braccianese e
aveva avuto un podere dall’Ente Maremma. Dopo le bonifiche degli anni 50, l’ente dava in
concessione i terreni incolti.
In un momento della sua vita, mio padre era quasi intenzionato a prendere una tenuta vicino
Perugia, ma mia madre non voleva muoversi da Ladispoli, perché aveva trovato un posto di lavoro
sicuro con un portierato e ci teneva molto a conservare questo angolo di sicurezza. Del resto mio
padre con l’agricoltura non aveva mai certezze, dipendeva sempre dalla stagione come andava. Poi,
un giorno, il Principe Odescalchi decise di frazionare quella parte di sua proprietà che oggi si
chiama Olmetto Monteroni.
Era tutta campagna, fino a via dell’acquedotto Statua e confinava con i contadini dell’ente
maremma. Ricordo che nel castellaccio vivevano le famiglie Guidolotti, Gennaretti, Fioravanti,
Cozzi e Mari. Il principe decise di far coltivare questo terreno vastissimo di cinque ettari e mio
padre trovò anche una vena d’acqua, un pozzo prezioso che permetteva di annaffiare facilmente,
senza andare a prendere l’acqua altrove. Questo pozzo è stato chiuso 15 anni fa, dal consorzio di
Olmetto Monteroni, perché d’inverno spesso si creavano degli allagamenti.
L’acqua è una costante che ha accompagnato la mia infanzia.
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Quando ero piccolo, non potevo restare a casa da solo, andavo sempre con mamma al fontanile;
aveva la bagnarola in testa, quella di smalto, pesante e con un pezzo di sapone di colore marrone.
L’antico lavatoio si trovava alla destra del ponte medievale sul fosso Sanguinara
(da “Ladispoli immagini e racconti” di Crescenzo Paliotta)
Estate e inverno le donne si radunavano lì e insaponavano, sbattevano e lavavano a mano i panni e
mentre lavoravano, si raccontavano il quotidiano. Percorrevamo via Duca degli Abruzzi e
arrivavamo proprio al fontanile.
Incontravo altri ragazzini dell’età mia e ci giocavo, ma non potevo allontanarmi troppo, perché mia
madre era un “maresciallo”… Aveva perso da poco una bambina, per questo il controllo su di me è
stato sempre molto alto.
Da piccolo, per fare lo spiritoso, sono caduto nella fontana in piazza, era una cosa da bambini ma
mia madre mi diede tante “legnate”…
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Mi portò nel ristorante Federici vicino al Bar Castellano (il Gran Bar Nazionale), dove per un breve
periodo mamma ci lavorava, e mi mise vicino alla grande cucina in ghisa per assorbirne il tepore.
Era inverno ed ero zuppo fino all’osso e la Sig.ra Milena Federici cercò di proteggermi dalle botte
di mamma.
Milena Federici nella cucina del ristorante in Piazza Vittoria
(fonte “Storia & Storie – Ladispoli” di Corrado Melone)
Quando venimmo ad abitare a via Ancona, le strade erano ancora bianche; il pomeriggio, a chiusura
del mercato, noi ragazzini giocavamo a pallone, in una nuvola di polvere bianca.
Ricordo che aldilà dei fossi c’erano viottoli interpoderali, cioè attraversavano i poderi in mezzo alla
campagna. L’Ente Maremma aveva dato quei terreni in funzione della numerosità delle famiglie.
Negli anni ’70, il comune di Cerveteri ha dedicato quelle strade alle famiglie che vi abitavano, come
Via Casale Caraffa (Caraffa era una famiglia che possedeva un podere ).
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Alcune delle vie interpoderali (2015)
Ho tanti ricordi della mia infanzia, conservo una foto vicino alla stazione, mentre tengo in braccio
un abbacchietto, io ero un cacietto piccolo con il grembiulino e tenevo stretto quell’agnellino.
Quella foto è stata scattata nel cortiletto davanti alla casa che avevamo preso in affitto in un
vicoletto dietro la stazione, il padrone di casa era un militare in pensione, poco paziente.
Mentre facevo avanti e indietro con il triciclo, ha cominciato a infierire contro di me, che stavo
semplicemente giocando. Mamma, ancora con il dolore della bambina persa, reagì malissimo e
diede una spazzolata in testa a quell’uomo: gli spazzoloni erano di legno, mica di plastica come lo
sono oggi! Venne denunciata e portata in caserma, ma per fortuna intervenne il Maresciallo dei
Carabinieri Onofri, per aiutarla e per riportare la pace tra loro. Era un uomo meraviglioso, ogni
tanto m’incontro con la figlia Rita e ripenso con affetto a quel brav’uomo di Onofri.
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Il Maresciallo Onofri (anni ’60)
(Museo Civico dell’Esperienza – foto social mceladispoli.com)
Mamma tra le tante attività ha fatto anche la sensale; nel mese di marzo, quando aveva un po’ di
tempo libero, si sedeva vicino alla fontana per dare informazioni sulle case da affittare a chi voleva
trascorrere le vacanze estive a Ladispoli. Si è sempre data da fare, perché il suo lavoro era il
sostentamento quotidiano della famiglia. Mi raccontava sempre un aneddoto: una notte in cui papà
rientrava molto tardi, lei aveva preso il suo fucile da caccia e aveva sparato perché pensava che ci
fosse un malintenzionato, aveva un bambino molto piccolo e si era messa tanta paura …
Io ho iniziato a lavorare nel ‘77 come ferroviere e ho vissuto a Torino per sei anni, ma non mi ci
sono mai trovato e tutti i fine settimana tornavo a Ladispoli. Ho qualcosa dentro che mi lega a
questo paese, non so che cosa sia, forse perché mia madre mi ricordava che ero nato qui. Ladispoli
ha accolto la mia famiglia, quando mancava il lavoro, i miei genitori sono cresciuti con Ladispoli e
io con loro, ho tanti amici dall’infanzia che ancora mi tengo vicino, come posso non sentirmi legato
a questo paese? Io non capisco la gente che abita a Ladispoli da 30 anni e che si lamenta che il
paese non gli piace. Che ci state a fare? Ci sono tanti posti più belli…
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TERRA E MARE, UN SOLO AMORE
Rosetta Ammirato racconta
Valanza (antica bilancia)
Fermezza di fronte al destino, grazia nella sofferenza; non vuol dire semplicemente subire,
è un’azione attiva, un trionfo positivo
Thomas Mann, scrittore e saggista tedesco (1875 – 1955)
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Mi chiamo Rosa, ma per tutti sono Rosetta. Sono nata in Via Lazio 39, vicino alla scuola, in una
casetta piccola; la levatrice, la sig.ra Bargiacchi mi ha pesato sulla “valanza”, il piatto che usava
mio padre per il pesce: pesavo 5 chili. Poi sono nate le mie sorelle, Michela dopo tre anni e Alessia
dopo venti anni.
Da piccola andavo all’asilo delle suore, vicino a via Lazio. Non ce lo potevamo permettere, ma la
madre superiora mi prese lo stesso, così mamma poteva lavorare. Ricordo quelle suore, Suor
Consilia, Suor Marcella, stavo proprio bene con loro. Poi quando è nata mia sorella io la guardavo a
casa, anche se ero piccolina, anzi, ci guardavamo a vicenda! Avevo il chiavone di casa e quando
mamma usciva, chiudevo con il catenaccio. Noi due passavamo le giornate dietro quel muretto e
mamma stava tranquilla.
Da casa nostra si andava alla “zona ponticello”, vicino al casello, per andare a fare cicoria. Il
ponticello non esiste più, ma quella zona ancora oggi si chiama così. Anche il vecchio fontanile non
c’è più, però esiste la strada che si chiama “via del lavatore”.
La mia infanzia l’ho passata proprio sulla spiaggia e ancora adesso, se mi dici di andare al mare è
come dirmi di andare a morire, forse per il legame affettivo paterno molto forte. Invece a mio padre
davi una bacinella d’acqua e un vaso di terra era la sua vita, terra e mare! Papà, che si chiamava
Francesco, a 13 anni è partito da Pozzuoli e si è imbarcato. Nel 1957 si è sposato ed è venuto a
vivere a Ladispoli. Era pieno di abitanti di Pozzuoli perché questa zona era ricca di pesce. Le
famiglie storiche di Ladispoli, Civèro, Chiocca e Peluso crescevano con i figli maschi e quindi
lavoravano tanto; mio padre, che era solo, lavorava per i Civèro; se pescavi mangiavi, se non
pescavi facevi la fame. Io, da bambina, ho sofferto la fame e la moglie di Pietro il pescatore, la Sòra
Peppa, chiedeva sempre mie notizie a mamma.
“Rossonè, perché chiagne ‘sta criatura?” – la chiamava Rossonè perché era la moglie di Francesco
Ammirato, rosso di capelli. - “Tenisse famme?”.
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Mia madre, che si chiamava Chiara Arca, si mortificava e questa signora mi portava i ceci, i fagioli,
il pesce… Anche i vestiti erano quelli già indossati dalla gente. Forse è pure per questo che io non
sono mai stata una con le mani bucate: piuttosto che buttare le cose è meglio regalarle a chi ne ha
bisogno, e di gente così ce n’è parecchia.
Quando i pescatori andavano fuori con le barche e le lampare, la notte la trascorrevamo in una
vecchia baracca, sulla Via del Mare, dove ancora oggi c’è la colonia, all’altezza dello stabilimento
Oasi. A riva rimanevano le mogli e i figli, si stava tutti insieme, si mangiava lì, si viveva lì. Una
volta non c’erano mica le barche di oggi. Quando c’era cattivo tempo, vedevamo le barche in
lontananza con il mare che non le faceva avvicinare e se le riportava fuori. Anche se eravamo
bambini, le tensioni delle mamme si trasmettevano ai figli. Io avevo 7-8 anni e capivo che c’era
pericolo.
La spiaggia libera era uno dei punti d’incontro dei pescatori, dall’attuale stabilimento Miami fino
allo stabilimento Roma. C’era la rimessa delle barche e il mare, in quel punto era pieno di pesce.
Vicino a Torre Flavia, poi, c’erano una infinità di aragoste!
Francesco Ammirato, papà di Rosetta
Mamma ha sempre fatto la moglie e la mamma, poi quando io e mia sorella Michela siamo
diventate grandicelle, ha iniziato a lavorare, a fare le pulizie e a lavare i panni a mano per quelli che
venivano in villeggiatura. Andava al lavatoio oppure, nel cortile dove abitavamo in via Lazio, c’era
una fontana con le tavole di legno. La ricordo sempre china su quelle tavole.
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Negli anni ’60 comprammo il nostro primo televisore, al negozio di Bargiacchi e mia madre era
proprio felice. Ricordo che era un CGE con gettoniera: dietro la tivù c’era una cassetta dove
mamma inseriva la moneta. Quando finiva la “carica”, la tv si spengeva. Una volta al mese veniva
un tecnico che svuotava la gettoniera, contava i soldi e scalava dalla costo dell’acquisto del
televisore: era come pagare a rate, un finanziamento che funzionava benissimo.
Quando mio padre ha visto che il suo lavoro non bastava e che soprattutto dipendeva dal bello e dal
cattivo tempo, ha iniziato a fare il muratore con la ditta Del Greppo e ha lavorato con loro tantissimi
anni. Una vita difficile la sua, che ha vissuto anche con gravi difficoltà di alcolismo… L’osteria era
un punto di ritrovo per tanti uomini e parte di quello che guadagnava lo spendeva lì. A sostegno di
questo problema così serio, c’è stata l’amica Franca Papi e mi diede la possibilità di farlo seguire da
un medico.
Anche per questo, ho smesso di studiare, mi sono tirata su le maniche e ho iniziato a lavorare. Io
dico sempre che bisogna imparare a reagire, e mai vergognarsi di lavare i pavimenti: lavorare con
onestà, ci dona dignità. I miei genitori non sapevano né leggere né scrivere, eppure mi hanno dato
tanti valori e non mi sono mai trovata in difficoltà nella vita. Mia madre è stata veramente una
grande mamma, ha sopportato tanto e non trovo giusto che una donna debba subire e sopportare
come lo ha fatto lei, ma i matrimoni, una volta, si reggevano in piedi grazie a queste donne. Anche
quando mi sono sposata con mio marito senegalese Maghette Fall, i miei genitori lo hanno accolto
con affetto; quando gliel’ho presentato, mio padre si è girato verso di me e non ha saputo trattenere
una battuta sulla quale ancora sorrido: “ ‘Azz, comm’è niro…!”
Rosetta, nel giorno nel suo matrimonio con Maghette
Dall’età di dieci anni ho cominciato anche io ad aiutarla, andavamo insieme a pulire le scale in quei
nuovi palazzoni di Via Kennedy. A 13 anni ho iniziato a lavorare: la mattina andavo a scuola e il
pomeriggio facevo la parrucchiera, poi dopo tre anni ho avuto una intossicazione per i prodotti che
toccavo e avevo le mani ferite. Sono stata costretta ad andare via. Da quel parrucchiere venivano
Nunzia e Anna, le mogli di Renzo Rossi e Giancarlo Carosi. Avevano un piccolo supermercato su
Viale Italia che si chiamava MicroMarket e mi dissero di andare a parlare con Giancarlo.
Nel pomeriggio Giancarlo mi accolse dicendo: “Ciai voglia de lavorà?”
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“Ce posso provà!”
“Quando vòi attacca?”
“Dimmelo tu…”.
“Te va oggi pomeriggio?”
Sono entrata là dentro nel 1977 e non ne sono uscita più. Erano tempi che tutti dovevamo lavorare,
nessuno si permetteva di dire ‘non è di mia competenza’. Lavoravamo tutti insieme come una
famiglia e a prendere uno straccio in mano, “non ce cascava la corona”… Mi puoi levare tutto, ma
la dignità mai, perché per stare bene con gli altri devo vivere bene soprattutto con me stessa.
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La spiaggia delle suore
Silvio Vitone racconta
Mafalda, in provincia di Campobasso, luogo di nascita di Silvio (foto social)
Le cose hanno diverse qualità e l’anima ha diverse inclinazioni, perché niente di ciò che si
presenta all’anima è semplice, né l’anima si offre mai semplice ad alcun soggetto.
Da ciò dipende la possibilità che una stessa cosa faccia piangere o ridere.
Blaise Pascal, filosofo francese (1623 – 1662)
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Ho vissuto a Ladispoli per molti anni, perché mio padre, Giuseppe Vitone, è stato medico condotto
prima a Cerveteri e poi a Ladispoli. Mio padre era di origine molisana, di Sepino, da cui si vedeva il
Monte Saraceno, e nel 1959 vinse la “condotta” per Cerveteri, Ladispoli e frazioni. Io sono nato a
Mafalda e avevo 10 anni quando ci siamo trasferiti qui. A dir la verità, mio padre avrebbe dovuto
fare il professore, non il medico, perché era un grande intellettuale e amava trascorrere il suo tempo
libero con i libri, ma a Ladispoli aveva molto lavoro e si stancava facilmente.
Ancora oggi vivo a Ladispoli e ho molti ricordi curiosi legati alla città.
La casa delle suore agostiniane in Via Duca degli Abruzzi (foto social)
Ricordo negli anni ’70, quando studiavo all’Università, un lungomare piuttosto anonimo, verso le
suore agostiniane in via Duca degli Abruzzi, che lasciava a desiderare quanto a pulizia e buon
gusto; era un susseguirsi di stabilimenti balneari, che con le loro architetture dimesse ed
ingombranti impedivano la vista dell’unica bellezza affascinante e naturale rimasta: il mare.
Ogni tanto si apriva, nella tetra cementificazione del litorale, uno spazio non costruito, una delle
agognate spiagge libere, accesso riservato a vacanzieri frettolosi e non paganti, vero regno della
“deregulation” estiva, dove chi arrivava prima poteva occupare i posti migliori; lì non c’erano limiti
al volume delle radioline ed erano del tutto sconosciuti i divieti per gli improvvisati giocatori di
beach – volley.
Se avevo voglia di camminare ed ero incurante dell’assedio della folla schiamazzante, giungevo ad
un tratto di spiaggia delimitato da un muretto tirato su alla meglio, sormontato da una palizzata in
legno, bisognosa, da molto tempo, di una buona mano di vernice.
Non c’era nessun cartello e nessuna insegna, l’arenile, senza cartacce, era occupato solo da due file
di ombrelloni, lontani dalla strada, quasi in riva al mare e difficilmente si riuscivano a scorgere rari
profili di bagnanti.
Dominava il complesso balneare, un robusto palazzotto con qualche fregio liberty, il cui cortile
interno era riparato da un alto muro: era il convento delle suore. Sul far della sera, sospinto dalla
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brezza, un salmodiare di voci femminili ben intonate si spandeva intorno, sommesso, quasi una
dolce nenia.
Ogni mattina d’estate, verso le nove, una piccola tribù di attempate signore lasciava il convento in
direzione della spiaggia e quasi tutte avevano problemi nel camminare. In testa a tutte, una certa
Nicoletta, di bassa statura, che si appoggiava ad una stampella e capitanava la compagnia di
anziane. Nicoletta era solita brandire la sua stampella e sollevarla minacciosamente nei confronti
di quei motociclisti, che, secondo lei, non si mostravano rispettosi del malandato corteo.
Ad attendere le signore dietro il cancelletto, ossequioso e compunto come uno scolaretto, c’era il
bagnino Michele, un uomo magro, un po’ curvo e quasi calvo, che dal modo di muoversi e di
parlare tradiva ascendenze del Sud. Michele non era mai stato un lupo di mare, il suo mestiere era
l’arrotino, ma per ripulire la spiaggia e piantare ombrelloni era impareggiabile.
Un giorno la quiete sonnacchiosa di quell’angolo, discreto e perbenista, un’oasi nel disordine e nella
confusione circostanti, dove giungevano i pastosi odori della cucina delle suore, venne turbata.
Fu qualcosa di simile ad un temporale estivo, uno scroscio d’acqua improvviso e violento,
un’inzuppata tremenda, i cui segni vengono subito cancellati dal ritorno del sole. Potevano essere
circa le quattro di un pomeriggio, torrido più del solito.
Il bagnino Michele sonnecchiava e le signore del pensionato, ora che cominciava a levarsi un fresco
ponentino, tornavano alla spicciolata sotto gli ombrelloni.
Sulla strada deserta ed assolata comparve una rombante moto di grossa cilindrata, che andò a
fermarsi proprio davanti al cancelletto. La ragazza che occupava il sedile posteriore, scese
agilmente dalla moto; poteva avere poco più di vent’anni e sotto il pareo sfoggiava un ridotto bikini.
Scosse energicamente la testa lasciando che i lunghi capelli neri ricadessero scompostamente sulle
spalle, poi tentò di riavviarli.
Arrivata davanti al cancelletto, provò ad aprirlo appoggiandosi sopra con tutto il corpo, dal lato
della spalla destra, dal momento che entrambe le mani erano occupate da una pesante borsa e dalle
pinne. Il cancello non accennò ad aprirsi. Riprovò con un calcio, ben assestato con violenza e
determinazione. Nemmeno questa volta il tentativo ebbe buon esito. Finalmente spinse il cancello
con entrambe le mani e le due ante si aprirono con un astioso e lungo cigolio.
“Su, dai vieni!” si rivolse la ragazza al suo giovane amico, che aspettava sulla moto e dava segni di
impazienza.
Saltellando come due folletti sulla sabbia rovente, i due raggiunsero un ombrellone, si sdraiarono e
la ragazza accese la radiolina a tutto volume. Le note di una canzone, allora in voga, furono subito
avvertite anche dal solerte bagnino, il quale ritenne opportuno intervenire. Si avvicinò con
esitazione, si schiarì la voce, ed esordì un po’ balbettando.
”Ma voi, dico a voi… non siete di qua?”.
“Ma lei che vuole! Ma chi t’ha chiamato?” lo apostrofò la ragazza.
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“Veramente io sarei il bagnino, incaricato…”.
“Non si direbbe…” riprese la ragazza sorniona e canzonatoria.
Il buon Michele avrebbe voluto reagire, arrossì e strinse i pugni .A quel punto alle sue spalle si
materializzò un’altra figura femminile: era Nicoletta.
“Lasci perdere, Michele, non si comprometta, ci penso io a questa svergognata! Senti tu - e si
rivolse alla ragazza brandendo la sua stampella, argomento persuasivo più del tono della sua voce ma chi ti credi di essere! Vattene subito!“. La ragazza, atterrita dall’intervento di Nicoletta e dalla
sua stampella non osò replicare. I due lestamente si dileguarono lungo la battigia in direzione di
una vicina spiaggia libera.
Osservavo la scena e sorridevo: tornò a regnare la pace in quell’angolo di litorale, non una pace per
celestiali meditazioni o per elevare lo spirito, come ci si aspetterebbe dal gruppo di pie donne che
salmodiavano poco prima insieme alle suore, ma quella più terrena alla quale aspira ogni vacanziere
che si rispetti, anche se anziano, zoppicante e pieno di acciacchi.
Dal libro “Ladispoli immagini e racconti” di Crescenzo Paliotta, 2011
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L’ULTIMO MEDICO CONDOTTO DI LADISPOLI
Silvio Vitone racconta
Giuseppe Vitone, il padre di Silvio
Esistono tra gli uomini talune razze o taluni individui che somigliano ai terreni montuosi e
coverti di foreste. Esistono altri che richiamano quei suoli leggeri che sono innaffiati da
abbondanti sorgenti; taluni di essi possono essere paragonati con i prati e con le paludi;
altre a pianure secche e spogliate.
Ippocrate di Kos, medico (460 a.C. – 370 a.C.)
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Mio padre, Giuseppe Vitone, è stato l’ultimo medico condotto di Ladispoli.
Era originario del paese di Sepino, nel Molise, che tanto amava e ogni volta che i suoi impegni
professionali e familiari glielo permettevano, tornava al paese natio.
Insieme andavamo alle Tre Fontane con passo lento fermandoci dove sorge la croce che domina il
paese; altre volte scendevamo insieme a Convento e da lì agli scavi di Altilia .
La sera, soprattutto d’estate, non era difficile incontrare mio padre in piazza, la grande e storica
piazza di Sepino, punto di ritrovo e socializzazione.
Attraverso i suoi ricordi giovanili, gli aneddoti ed i suoi racconti sono entrati a far parte delle mie
memorie e del mio immaginario: l’Altilia, Santa Cristina e la sua festa, Campitello, il Muschiaturo e
Rimavota.
Il sito archeologico di Altilia, uno dei più importanti del Molise (foto social molisiamo.it)
Su di lui, Sepino, suo paese d’origine, esercitava il richiamo irresistibile e fascinoso della terra
amata che purtroppo come tanti emigranti aveva lasciato.
La sua esperienza di medico lo aveva portato ad approdare dapprima a Mafalda, sempre in Molise,
nelle terre bagnate dal Trigno.
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Poi era stata la volta dell’Abruzzo, alle falde della Maiella, in un paese dalle caratteristiche montane
non dissimili da quelle di Sepino. Per svolgere la sua attività di medico, a volte utilizzava un
bastone chiodato quando si recava nella vicina frazione di San Giacomo, nel caso incontrasse dei
lupi…
Ed ancora Mazzano Romano, nella Campagna Romana, per concludere la sua carriera a Ladispoli.
Una vita movimentata dunque e non facile che gli portava a ripetere, con la sua bonaria ironia i
versi del poeta Arnaldo Fusinato:
”Non c’è più dura, non c’è più rotta
di quel del medico che va in condotta”.
E già perché non fa meraviglia che nel piccolo e disadorno ambulatorio di montagna, a
Sant’Eufemia a Maiella, si respirasse non di rado l’acre e penetrante odore di stallatico, un profumo
se si vuole ecologico, ma che avrebbe fatto arricciare il naso ad un odierno ed affermato
professionista.
E poi c’era il rapporto con i pazienti, gente di montagna e di campagna, che si presentavano dal
medico, con il cappello in mano, in segno di rispetto, e che spesso, come accadeva a quei tempi, si
esprimevano solo in dialetto. Una volta un suo paziente, durante la visita gli chiese: “Dottò, sa a
murì?” e lui gli ha risposto in dialetto molisano : “Sa a murì! E chiù vu cambà!”. (Dottore, si deve
morire? – Si deve morire! E quanto vuoi campare!).
Con loro il medico condotto non era il burocrate, che firma unicamente prescrizioni sanitarie con
visite sommarie; si interessava della salute complessiva del paziente, lo aiutava e lo consigliava.
Insomma riusciva a creare quell’autentico rapporto interpersonale tanto più difficile ed importante,
in un’epoca ed in zone carenti di strutture ospedaliere ed assistenziali.
La vita di mio padre, come medico condotto, era anche una vita di solitudine e di deprivazione
culturale: troppo spesso doveva prendere decisioni gravi ed immediate, a volte decisive per la
salute dei propri pazienti.
La sera l’unico punto di ritrovo non era il caffè letterario, né il circolo degli intellettuali, ma
l’osteria, dove al massimo una sana partita a scopone con il segretario comunale concludeva una
lunga giornata lavorativa. Ripenso con amarezza che un fine umanista come mio padre, formatosi
alla severa scuola dei padri Salesiani, e che anche in età avanzata si dilettava nel tradurre brani di
classici greci e latini, avrebbe meritato ben altre condizioni professionali.
Mi piace definirlo come un “esteta dato in prestito alla medicina”, quella di frontiera di qualche
anno addietro, senza allori e senza particolari riconoscimenti.
Il miglior riconoscimento è stato, a mio giudizio, il ricordo di quanti lo hanno incontrato e da lui
hanno ricevuto non solo una cura appropriata, ma anche parole di conforto e di speranza.
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IL BAGNINO
Silvio Vitone racconta
La spiaggia nera di Ladispoli (foto depositata presso la Biblioteca Peppino Impastato di Ladispoli)
Mare fanciullo insaziato di giuoco,
vecchio mare insaziato di pianto,
tu che sei lampo e fango
e cielo e sangue e fuoco,
oggi hai lasciato alle lente rive
orgoglio e forza, gaiezza e dolore;
oggi non sei che colore,
un bel colore che vive.
Diego Valeri, poeta e traduttore italiano (1887 – 1976)
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Tra Rimini, la perla dell’Adriatico e Ladispoli, la spiaggia della salute, le differenze sono tante.
Anche i bagnini di Ladispoli (oggi si chiamerebbero baywatch) sono diversi da quelli di Rimini.
Quelli nostrani, d’inverno si sobbarcavano il duro lavoro di manovali nell’edilizia e d’estate, sulla
spiaggia, faticavano non poco a conquistarsi una discreta fama di rubacuori. Nonostante tutto, non
hanno mai ricevuto le attenzioni di cinema e televisione come i loro colleghi riminesi.
E forse è stato meglio così.
Un’estate di tanti anni fa, in un torrido luglio in cui non riuscivo a concentrarmi sull’esame che
stavo preparando, vedevo dal balcone la gente in bermuda che si avviava ciabattando verso il mare.
Decisi di mollare tutto e di correre anch’io in spiaggia. Che fortuna abitare in una località di mare!
Quanti si affannavano per ritagliarsi una vacanza di pochi giorni sulle spiagge del litorale laziale!
Invece per me, che ci abitavo, era tutto più semplice: un paio di occhiali scuri, tanto per darmi un
tono, il telo variopinto sulla spalla destra e mi trasformavo in un tipo da spiaggia.
Aprii il cancelletto in legno dello stabilimento e i miei piedi dovettero fare i conti con la sabbia
nerissima e bollente, tanto osannata all’epoca, per le sue qualità terapeutiche.
Mi diressi, saltellando per evitare scottature ai piedi, verso l’ombrellone, quello che mi era stato
assegnato in terza fila, lontano dalle ondine che si tuffavano. L’ombrellone, nonostante l’ora tarda e
a differenza delle altre mattine, era ancora inesorabilmente chiuso. Provai ad aprirlo, ma alla fine,
nonostante tutti i miei sforzi dovetti desistere dall’impresa più sudato che mai; mi ero anche un
po’innervosito per qualche commento infelice da parte delle solite signore pettegole.
Alla fine decisi di rivolgermi al bagnino. Non avevo una grande confidenza con quel giovanotto,
anche se poteva avere all’incirca la mia età, vent’anni. Poteva essere il 1970.
Lo trovai sdraiato e mal difeso dai raggi del sole sotto una verandina in plexiglas; un po’
sonnecchiava ed un po’ lanciava occhiate voluttuose ad una bionda niente male, e ogni tanto si
passava una mano sulla chioma leonina.
Ero sudato e arrabbiato e mi rivolsi a lui con il vago timore di sentirmi rifilare una rispostaccia, dal
momento che la gentilezza ed i modi garbati non erano il suo forte.
Si fece ripetere più di una volta la mia richiesta, fingendo di non sentirmi, poi mi guardò con una
certa aria di superiorità e quasi canzonatoria e a bruciapelo mi domandò: “Ma tu hai dormito
stanotte ? “.
Prima che avessi il tempo di rispondere, aggiunse:“ Ebbene io non ho dormito! Capirai quando si
ha a che fare con certe signore un po’ vogliose … “.
Mi sentii doppiamente offeso, come cliente di uno scalcinato stabilimento balneare e come uomo.
L’ostentazione della virilità (sarà stata vera la storia della notte brava?) mi mise in crisi, perché io
in quelle notti, che precedevano di poco il mio esame, avevo solo cercato di concedermi qualche
ora di sonno ristoratore nel tentativo di dominare il mio stato di ansia.
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L’ombrellone fu aperto dal poco solerte bagnino, che non mi risparmiò qualche piccante particolare
sulla sua vita notturna. Quella fu l’occasione per fare la conoscenza di quel “burino ruspante”.
Una volta superato l’esame, nei giorni seguenti ebbi modo di frequentare con più assiduità il
bagnino ed alla fine della stagione estiva si poteva dire che eravamo quasi diventati amici. Poi lo
persi di vista.
Una mattina di ottobre, mentre aspettavo il treno che mi portava a Roma per un altro esame, mi
sentii chiamare. Era lui, il bagnino dalla chioma leonina, questa volta un po’ arruffata, e con una
barbaccia incolta che non conosceva la gioia di una rasatura da almeno una settimana. Nonostante
facesse freddo, ostentava una camicia sgualcita e sbottonata sul petto villoso; tossiva vistosamente
e, mentre mi allungava un foglio spiegazzato sul quale riuscii a leggere la firma di un cancelliere
del tribunale, mi sussurrò : “Sono nei guai !“.
Mi raccontò, un po’ farfugliando, della sua relazione estiva con una ragazza, che, particolare non
secondario, era minorenne. E per questo fatto (solo per questo fatto?) era stato denunciato. Proprio
quel giorno doveva presentarsi in tribunale. Provai un po’ di compassione per quel Ganimede di
provincia poco avveduto.
Qualche anno dopo, passeggiando lungo la riva del mare, sull’ arenile del solito stabilimento
balneare scalcinato, mi sentii chiamare. Era il bagnino ruspante, sempre lui con qualche ruga in più
e con qualche capello in meno.
“Non faccio più il bagnino e quindi niente più avventure!” esordì, come se avesse ripreso un
discorso interrotto un momento prima. “Ora sono sposato e non mi è permesso sgarrare!”.
E così dicendo indicò una signora bionda, non provocante e dallo sguardo inquisitorio. Poi come se
avesse fretta e si fosse trattenuto troppo a lungo con me, si diresse rapidamente verso la donna e
insieme scomparvero tra la folla dei bagnanti. Che personaggio! Forse la mia educazione e la mia
riservatezza gli avevano dato l’impressione che potessi essere un buon confidente delle sue storie di
vita.
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LA LEGGE “PATERNA” DEL MARESCIALLO
LUIGI ONOFRI
Marco Mellace racconta
Il maresciallo Luigi Onofri (fotografia fam. Onofri)
Capita alle persone veramente sapienti quello che capita alle spighe di grano:
si levano e alzano la testa dritta finché sono vuote, ma quando sono piene di chicchi
cominciano ad umiliarsi e ad abbassare il capo.
Michel de Montaigne, filosofo francese (1533 – 1592)
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Mio nonno, Luigi Onofri, era nato a Tagliacozzo, in provincia dell’Aquila, il 2 dicembre 1912 e a
meno di vent’anni diventò carabiniere. Ha partecipato alla seconda guerra mondiale in Africa, a
Tripoli e a Suq Al-Juma. Quando è tornato dalla guerra, è stato assegnato alla caserma dei
Carabinieri di Civitella San Paolo, in provincia di Roma, dove rimase per cinque anni. Mi
raccontano in famiglia che a Civitella, con una squadra di cinque-sei carabinieri, catturò un
pericoloso bandito.
Nel 1953 viene trasferito a Ladispoli, dove assume l'incarico di Maresciallo Maggiore dei
Carabinieri, presso la Stazione di carabinieri di Ladispoli, fino a quando è andato in pensione nel
1969. Io avevo solo due anni, quando nel 1978 lui è morto, ma tutta la mia fanciullezza è stata
attraversata da continui ricordi, sia familiari che di altre persone che lo hanno conosciuto, ed è come
se avessi vissuto in prima persona le storie che mi hanno raccontato.
La prima caserma era su via Odescalchi e nonno viveva là dentro con la sua famiglia; poi dal 1958
la caserma è stata trasferita in Via Ancona. Questo trasferimento ha reso felice mia nonna
Clementina, perché la caserma era esposta al sole e non c’era umidità. Nella Stazione di Comando
vivevano i carabinieri che venivano da tutta Italia e quando c’erano le feste, che per servizio quei
ragazzi trascorrevano lì senza tornare dalle loro famiglie, mia nonna invitava tutti a mangiare con
loro, per trascorrere un Natale sereno. L’ospitalità di mio nonno Luigi era nota, anche tra i
sottoposti che avevano un grado inferiore.
Gli anni in cui mio nonno lavorava a Ladispoli, dal 1953 al 1968, sono stati anni in cui la cittadina
era veramente sicura: lui aveva un buon rapporto con i cittadini e spesso era un riferimento per quei
genitori che vedevano i loro figli prendere una brutta strada. Mi hanno raccontato in famiglia che a
metà degli anni ’60 c’è stato un ragazzo che aveva iniziato a lavorare con la criminalità, era in una
situazione difficile. Mio nonno l’ha riportato sulla retta via. Questo ragazzo ha studiato e s’è anche
laureato. A distanza di anni si sono rincontrati e quel ragazzo gli donò un quadro con una bellissima
dedica: “A papà Luigi”, perché per lui, mio nonno era stato come un papà.
Probabilmente erano altri tempi, oggi sarebbe molto più complicato mantenere il controllo della
gioventù, come lo faceva lui, però mio nonno controllava “bonariamente” le bravate dei ragazzi;
dico “bonariamente” perché qualche scappellotto non mancava mai, come paternamente avrebbe
fatto un Bud Spencer…
Mi hanno raccontato che negli anni in cui la caserma era ancora in Via Odescalchi, c’era un ladro di
galline che ripuliva i pollai delle fattorie intorno. Era difficile da pizzicare questo ladro, perché era
molto furbo e si camuffava in continuazione, adottando dei travestimenti sempre diversi. Mio
nonno, allora, si travestì anche lui, assistette al furto e inseguì il ladro fino alla fermata del pullman
– non c’era ancora la Cotral, ma la compagnia Ferri – . Una volta salito, l’ha tirato giù dal pullman e
l’ha costretto a restituire le galline rubate.
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Certo, con i ladri di polli era più facile mantenere l’ordine nella realtà cittadina…Come scrisse
Corrado Melone, il primo storiografo di Ladispoli, mio nonno “comandò con tatto e fermezza”, e
proprio per questo i ragazzi gli volevano bene. Al funerale di mio nonno, parteciparono tanti
giovani che avevano vissuto nell’illegalità, proprio per rispetto per quel maresciallo, che aveva
costruito un ponte tra la legge e l’illegalità, attraverso un comportamento paterno.
Il Maresciallo Onofri con il Re Gustavo di Svezia (fotografia fam. Onofri)
Nel 1956, il Re Gustavo VI di Svezia, grande appassionato dell’archeologia italiana, venne a fare
uno dei suoi numerosi viaggi in Italia e mio nonno fu designato dal Ministero degli Interni come
uomo di fiducia per il Re ospitato. L’anno dopo, al ritorno di Re Gustavo, venne assegnato un altro
carabiniere, ma fu proprio il Re a richiedere il Maresciallo Onofri, il suo Luigi, e l’Ambasciata di
Svezia intervenne per richiedere la collaborazione di mio nonno al Re; per oltre dieci anni, mio
nonno ebbe riconfermato questo incarico fino al 1972, e nel 1970 gli venne riconosciuto il titolo di
Cavaliere delle Spade di Svezia.
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Il maresciallo che aiuta Re Gustavo a uscire dagli scavi di San Giovenale (foto social bibliotecaviterbo.it)
Il Re Gustavo trascorreva un mese all’anno in Italia e mio nonno era il suo assistente; con l’Istituto
Svedese e la soprintendenza dell'Etruria meridionale, il Re fece diverse campagne di scavi
archeologici nel viterbese: a San Giovenale, a Luni, a Blera dove scoprirono delle necropoli e ad
Acquarossa dove è stato ritrovato un raro e importante abitato etrusco. Nel 1968, nonno andò in
pensione e nel 1972, senza alcuna campagna elettorale fu eletto consigliere comunale, eletto
dall’affetto della popolazione. Anche da consigliere, si rese disponibile a creare dei luoghi sociali
d’incontro tra i cittadini. Contribuì alla realizzazione del circolo bocciofilo in Via Bordighera, che
per tanti anni organizzò il “Trofeo Luigi Onofri”, in sua memoria.
La mia famiglia ed io viviamo a Ladispoli, siamo ben integrati, abbiamo amici affettuosi e
conserviamo un legame speciale per Ladispoli; nonno Luigi era una maresciallo che sapeva far
rispettare la legge, ma non lesinava generosità e bontà. Il paese ha riconosciuto tutto questo e
qualche anno fa ha dedicato alla sua memoria la piazza del mercato.
Ero piccolo e non posso avere ricordi diretti, ma l’immagine che mi sono creata di lui è quella di un
uomo buono, circondato da tanti ragazzi con i quali voleva costruire qualcosa di bello, tirando fuori
il cuore, l’anima e la consapevolezza che si può vivere bene, lontano dalle cattive compagnie.
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LE ARAGOSTE
Claudia Simonetti racconta
M’affaccio alla finestra, e vedo il mare:
vanno le stelle, tremolano l’onde.
Vedo stelle passare, onde passare:
un guizzo chiama, un palpito risponde.
Ecco sospira l’acqua, alita il vento:
sul mare è apparso un bel ponte d’argento.
Ponte gettato sui laghi sereni,
per chi dunque sei fatto e dove meni?
Giovanni Pascoli, poeta e scrittore (1855 – 1912)
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Aragosta. Il colore della cucina. Nella casa dei miei genitori, in una grande città, Roma. E nella casa
delle vacanze, a Ladispoli.
Sembrava che per la nostra famiglia l’aragosta fosse il colore più adatto ad accompagnare fornelli,
frigorifero, pensili e lavello. E per lungo tempo ho pensato che l’aragosta fosse solo un colore. Ero
bambina e non immaginavo che potesse essere il nome di un animale: erano altri gli abitanti del
mare che catturavano la mia attenzione, gamberi, pesci, polpi.
I gamberi erano quelli abbrustoliti sulla brace di un piccolo barbecue allestito sulla banchina di un
porticciolo turistico dell’Adriatico, quando nel 1970 andavo con la famiglia in vacanza a Riccione.
Sulla spiaggia venivano vendute ciambelle e bombe alla crema profumate e spiedini di uva
zuccherata al grido di “Vitamine!”. Questi ultimi non erano propriamente pesci, ma il loro profumo
tende a sovrapporsi nel mio ricordo a quello dei gamberi arrostiti, mai più trovati altrove, perché
conditi dal sapore dell’infanzia.
I pesci sono diventati soprattutto quelli acquistati in pescheria a Ladispoli da “Pietro o’Piscatore”,
dal 1972 a oggi, dove l’assembramento di acquirenti era tale da ricordare quello di un viaggio in
autobus nelle ore di punta e si doveva fare attenzione al portafoglio, perché c’era sempre qualche
ladruncolo che approfittava della confusione per borseggiare i clienti più distratti, rapiti dall’occhio
languido del pesce fresco. Proprio come accadde a mia nonna Rosina, privata del suo borsellino
nell’attimo in cui valutava con attenzione l’occhio vivo di un gruppo di alici, per essere sicura di
acquistare pesce pescato da poco.
Mio padre, Gianfranco, ambiva ad oltrepassare i limiti di Pietro o’Piscatore e più di una volta
andava a stanare i pesci per mia nonna direttamente nel mare. O almeno ci provava.
Per mattinate intere, a partire da albe profumate di pane sfornato per negozi ancora chiusi fino a
quando il sole diventava inesorabilmente infuocato, sedeva paziente sul suo gommoncino di 3 metri
in attesa che i pesci abboccassero alla lenza. Spesso lo accompagnavo anche io, assieme a mia
sorella. E il canotto era sempre più piccolo perché non bastava a contenere tutto: la valigetta da
pesca, le esche scovate tra gli avanzi delle puliture in pescheria, l’àncora, il gonfietto dalla molla
arrugginita e gli asciugamani completamente infradiciati, già alla prima onda incontrata a pochi
metri dalla riva.
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Gianfranco Simonetti, sul suo piccolo gommone (1973)
Ma i pesci, quei furbacchioni, si divertivano ad apprezzare il sapore delle nostre esche, donandoci
l’ebbrezza della leggera vibrazione impartita al filo di nylon teso in acqua da un piccolo piombo:
era il segnale che qualcuno là sotto stava sbocconcellando.
Silenzio, attesa e poi un tuffo al cuore, un movimento, un altro, un affondo improvviso, un grido di
gioia -“Ha abboccato!”-, uno strattone per tirarlo su, ma lui, il pesce, era sempre più veloce:
scappava via, lasciandoci delusi con un filo di nylon diventato improvvisamente più leggero, alla
mercé della brezza marina e delle correnti.
Qualche vopa, raramente una bavosa, talvolta un pesce donzella o un’occhiata, si è imbattuta nel
nostro amo e non è riuscita a schivarlo. Ma la soddisfazione di aver finalmente pescato qualcosa era
mitigata dalla reazione della nonna che, per poterci permettere di gustarlo al meglio, doveva
sfoderare tutta la sua arte culinaria per riuscire a valorizzare una qualità di pesce da lei considerata
sicuramente inferiore.
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Torre Flavia, vista dal gommone (1973)
Nonna era nata e cresciuta a Bari, città di mare, e, esperta di pesci, molluschi e crostacei, il mondo
marino per lei non aveva segreti.
Arrivò nel 1974, il momento del polpo, sufficientemente ingenuo da farsi catturare con uno straccio
bianco appeso ad una zampa di gallina, nei fondali bassi prospicienti la casamatta, il bunker sulla
spiaggia di Palo, poco prima del castello Odescalchi. Non era necessario tuffarsi armati di forcone e
perlustrare il fondale scoglioso meta di tutti gli aspiranti subacquei di Ladispoli, equipaggiati di
maschere panoramiche e pinne da profondità per restare in apnea ad un metro e mezzo dalla
superficie dell’acqua. Il polpo sì che abboccava! Peccato che poi, anche quando era tenuto
prigioniero sul gommone, sapeva ritrovare la strada per il mare e, quando non lo faceva da solo con
un rapido tuffo, ci pensava mio padre ad indicargli la via. Una volta era andato “a polpi” insieme ad
un nostro amico d’infanzia, Sandro Bosco, il quale aveva assistito ad una scenetta, che racconta
come aneddoto ancora oggi. Mio padre aveva ingenuamente legato in un sacchetto, all’esterno del
gommone, i polpi appena presi e se lo era perso sulla strada del ritorno con tutti i polpi dentro.
Ma arrivò il giorno della rivalsa. Stavolta mio padre sarebbe riuscito a rendere felice mia nonna.
Era una di quelle mattine limpide che così spesso si vedono a Ladispoli anche quando altrove piove
o incombono nuvoloni neri, animata dai voli delle rondini e dai primi suoni di una città che si
risveglia. Avevo 9 anni, mi stavo alzando dal letto e vidi mio padre, di ritorno da un acquisto
speciale. Lo seguo in cucina, curiosa, assieme al resto della famiglia guidata dal comandante in
capo di quella parte della casa: mia nonna. Una busta di plastica bianca celava un contenuto
misterioso. Con mia grande sorpresa spuntò una zampa, anzi, una tenaglia, una chela. E si muoveva,
di vita propria. Sobbalzai e contemporaneamente emisi un grido. I familiari festanti mi spiegarono,
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allora, che si trattava di aragoste. Sedata dalla loro presentazione pensai con gioia che finalmente
avrei avuto anch’io un animale domestico, visto che non avevo mai potuto avere più di un pesce
rosso suicida, un cagnolino meccanico o una paperella in vetro di Murano. Ma il mio entusiasmo
venne prontamente messo a tacere dall’occhio cupido di mia nonna che già pregustava il sapore del
nobile crostaceo. Un pentolone gigantesco, ricolmo d’acqua, venne messo sul fuoco del fornello.
Come? Il mio animale domestico dovrà finire là dentro? E per giunta ancora vivo?
Intercettai con orrore un tuffo di crostacei in movimento tra i vapori e scappai dalla cucina per
trovare rifugio nel punto della casa più lontano: l’angolo vicino al muro, sul piano più alto del letto
a castello, nella cameretta condivisa con mia sorella e mia zia. Le ginocchia mi nascondevano il
volto, le mani mi riparavono le orecchie e gli occhi restavano serrati per non vedere quello che
avevano già colto: le povere aragoste cuocevano vive nell’acqua bollente!
Per questo, da allora, l’aragosta è rimasto definitivamente il colore della cucina dei miei genitori. E
nella casa in cui sono andata ad abitare con mio marito ed i miei figli, ora, il colore della cucina è di
un rassicurante color noce.
I fratelli Maddaluno (Pietro o’Piscatore) con un cesto di aragoste pescate a Ladispoli (1935)
(foto da “I pescatori di Pozzuoli a Ladispoli” di Nardino D’Alessio e Crescenzo Paliotta, 2012)
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LA MIA VITA CONTINUA A LADISPOLI
Roberta Cerroni racconta
Il treno a vapore su Via Odescalchi, 1932
(foto da “Ladispoli immagini e racconti di Crescenzo Paliotta)
Quando davanti a te si apriranno tante strade e non saprai quale prendere,
non imboccarne una a caso.
Siediti e aspetta.
Stai fermo, in silenzio e ascolta il tuo cuore.
Quando poi ti parla, alzati e va’ dove lui ti porta.
Susanna Tamaro, scrittrice
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La mia famiglia è sempre venuta in vacanza a Ladispoli. Mio nonno, Cesare Cerroni, mi raccontava
del treno che nel dopoguerra arrivava davanti allo stabilimento del Dispari e i villeggianti
scendevano, vicino al mare. Il sabato pomeriggio e la domenica Ladispoli si riempiva, perché gli
uomini lavoravano e tornavano il fine settimana per raggiungere le famiglie.
Io ho comprato casa nel 1989, l’anno che è caduto il muro di Berlino, ma venivo a Ladispoli da
bambina, perché mio nonno aveva una villetta dove adesso c’è la stazione ferroviaria. Sono nata del
1952 e ricordo mia nonna Bianca quando indossava un costume con le stecche e una gonnellina; il
costume era molto pesante, ma nonna era bellissima lo stesso.
Roberta e i suoi genitori sulla spiaggia
Il viale Italia c’è sempre stato, dalla stazione fino alla piazza; circolavano poche automobili e si
sentiva il rumore del vapore del treno, insieme a quello degli zoccoli. Quando facevo il viale con
mio nonno, all’avvicinarsi del treno mi nascondevo dietro di lui, perché il rumore del vapore mi
metteva paura. Vedevo gli uomini dentro la locomotiva, sporchi di nero che tiravano il carbone
nella caldaia.
Sul viale crescevano i pini e si sentiva un buonissimo profumo. Poi una decina d’anni fa li hanno
tagliati tutti, perché erano diventati molto alti e le radici avevano rovinato i marciapiedi e le strade.
Con mio nonno e con i miei genitori, uno dei divertimenti preferiti era andare al cinema Moretti,
una bellissima terrazza vicino al mare, con un telo bianco dove proiettavano i film. Andare al
cinema era proprio una festa: ricordo che indossavo le scarpe bianche, pulite con il “bianchetto”; in
realtà erano solo ricoperte di bianco, per nascondere le macchie nere inevitabili nell’uso. Io le
detestavo, perché si sporcavano subito!
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Il Cinema Moretti in un’immagine degli anni ‘40
Per arrivare al cinema, percorrevamo, mano nella mano, Via Regina Margherita che chiamavamo la
“Via dei gelsi”, perché le piante erano piene di frutti, le more gelso, di colore rosso o bianco. Mi
arrampicavo sull’albero e mi riempivo le mani dei frutti dolci e profumati. Peccato che non possa
raccontare il profumo di quei gelsi…
Il giacchetto era indispensabile, perché se tirava vento dal mare faceva proprio freddo e quando
c’era la luna piena il film non si vedeva bene, sembrava grigio. La luna, però, aveva una fascino
irresistibile, tanto che mia madre durante il film mi chiedeva: “Ti abbiamo portato al cinema e stai a
guardare la luna?”. Figuratevi quanto era bello vedere il cartone animato di Cenerentola, con lo
sfondo della luna piena…
Durante il film vendevano solo gli “stecchi”, i ghiaccioli al limone o all’amarena, non esistevano
altri gusti, eppure eravamo sempre contenti.
Il nostro stabilimento era “Il Sogno”, mi sembra che non esisti più e mio nonno anticipava la
famiglia e si avviava in spiaggia prima di noi; quando arrivavamo, lui s’era già mangiato due
panini… Le sdraio erano fatte a libretto, di legno pesante, avevano una seduta comodissima, per
una persona e mezza! Ne conservo ancora una in terrazzo.
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Roberta con il nonno Cesare, 1955
La sedia a sdraio che Roberta ancora conserva
Nonno avrebbe voluto vivere a Ladispoli, ma lavorava a Roma, prendeva le letture dei contatori
della luce; era altissimo più di due metri e per entrare in casa abbassava la testa.
In realtà quando ho voluto comprare una casa, non la volevo prendere a Ladispoli, la conoscevo
troppo bene e avevo trascorso tutte le mie estati qui con i nonni. Poi, però, stare vicino al mare, ha
prevalso su tutto. Ho cominciato a venirci un mese d’estate, poi due mesi, tre mesi… mio marito
non voleva venirci ad abitare, invece io ci stavo benissimo. Alla fine ho lasciato mio marito e sono
venuta a vivere qua.
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A Roma ho conosciuto Giovanni e nel momento in cui gli altri cominciavano ad avere i nipotini, noi
ci siamo fidanzati e viviamo da quattro anni a Ladispoli. Spesso ci sediamo al bar, il Gran Bar
Nazionale, lo stesso posto dove i miei genitori da ragazzi ci venivano a ballare e il nostro tavolino è
sempre pronto ad accogliere amici che passano di là. Sembra strano, ma a Ladispoli stiamo
ricostruendo insieme una nuova vita serena.
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MI DIVERTO PESCANDO A TORRE FLAVIA
Giovanni Melis racconta
Una delle porte di Tarquinia, Barriera San Giusto, in evidenza le cerniere dei cancelli
(foto social)
Non abbiamo bisogno di una nave, creatura mia.
Ma delle nostre speranze, finché saranno ancora belle,
non di rematori, ma di sfrenate fantasie.
Fernando Pessoa, poeta e scrittore portoghese (1888 – 1935)
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Io sono nativo di Tarquinia, una piccola e preziosa città da cui provengono anche due dei sette re di
Roma, Tarquinio Prisco e Tarquinio il Superbo. Il nucleo storico aveva i cancelli e la sera venivano
chiusi. La cittadina era piccola e arroccata e c’era un porticciolo romano con le saline di stato, attive
fino agli anni 70. Sotto al porticciolo c’era una camera per i detenuti che lavoravano nelle saline e si
chiudeva con le sbarre. Quando veniva l’alta marea qualcuno moriva sempre. Il lido turistico di
Tarquinia ha, invece, una storia recente.
Ho ripercorso recentemente le strade di Tarquinia per cercare la casa dove abitavo da piccolo, alla
fine degli anni ‘50; ricordavo tre scalini davanti alla grandissima casa, invece quando l’ho rivista la
casa era molto piccola e i tre scalini dove giocavo erano proprio minuscoli.
A Ladispoli venivo saltuariamente per andare a pesca, vicino a Torre Flavia, perché è sempre stato
un mare molto pescoso. Facevo pesca subacquea e con le canne da riva; ora vado solo a nuoto in
apnea, per il piacere di pescare.
Lo scorso anno a circa quattro metri di profondità mi è passato vicino un branco di cefali da un
chilo e mezzo l’uno! Non ho fatto in tempo ad andare giù, ma è stata una vista bellissima e me la
sono goduta tutta. Il mare è ricco di pesce, quello che rovina il fondo sono le reti a strascico che
strusciano sul fondale e strappano tutto.
Per questa ragione al largo, a un miglio dalla spiaggia tra gli stabilimenti Columbia e Arcobaleno,
hanno affondato un barcone, che si chiamava “Mobydick” in modo da non farci passare i
pescherecci. Adesso il fondale si è ripopolato di datteri di mare, che vivono incrostati nei fondali
rocciosi ed è vietato pescarli.
A circa 80 metri dalla riva, da Torre Flavia al Castello di Palo, c’è un muro antico di mattoni
sott’acqua che costeggia tutto l’arenile, l’ho visto proprio andando a pesca. Mi ha raccontato il mio
amico Antonio Cozzolino che la torre originale è crollata in mare e poi è stata ricostruita., ma non
so se sia una leggenda. Ora la storica torre, semi abbattuta dal bombardamento della seconda guerra
e mangiata dall’erosione marina, resiste con orgoglio al mare e alle intemperie, collegata alla
terraferma con una scogliera protettiva. Sarei contento se si potesse fare qualcosa per salvaguardare
il simbolo più rappresentativo della cittadina.
Una recente immagine di Torre Flavia, 2015 (foto di Daniele Mennuti)
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La pesca me la vivo da solo, entro in acqua quando sono comodo, molto comodo, anche a
mezzogiorno… e mi diverto a prendere quello che trovo con un fuciletto: qualche vopa, qualche
cefaletto, lo scorso anno ho preso anche un bel polpo, che mi ha fatto tribolare un buon quarto
d’ora…
Ricordo una ventina di anni fa, quando la torre era ancora in mezzo al mare, i pescatori andavano lì
con gli stivaloni a pescare, più avanti c’era uno scoglio, residuo delle mura di epoca romana e si
potevano pescare le orate! Io non sono mai riuscito a prenderle….
La pesca è il mio divertimento, lo faccio solo per gioco e prima di entrare in acqua, chiedo a
Roberta, la mia fidanzata, che cosa vuole che peschi, visto che lei non può mangiare molluschi e
crostacei…
Con Roberta ci siamo conosciuti a Roma, ma adesso viviamo insieme a Ladispoli, godendoci la
nostra “seconda” vita in serenità ed armonia.
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Dove volano gli aquiloni
Loredana Simonetti racconta
S’innalza; e ruba il filo dalla mano,
come un fiore che sfugga su lo stelo
esile, e vada a rifiorir lontano.
S’innalza; e i piedi trepidi e l’anelo
petto del bimbo e l’avida pupilla
e il viso e il cuore, porta tutto in cielo.
Da “L’aquilone” di Giovanni Pascoli, poeta e scrittore (1855 – 1912)
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Dal 1972 trascorro le vacanze con la mia famiglia a Ladispoli. Avevo 14 anni e all’inizio della mia
adolescenza, ho avuto la fortuna di godere di una casetta al mare, frutto dei sacrifici di mio padre
Gianfranco, che appena ha potuto, è tornato al mare di Ladispoli. Tornato, perché la scelta Ladispoli
non è stata casuale. Dal 1935 fino all’inizio della guerra, babbo veniva con i suoi fratelli al mare,
mia nonna Zoe era maestra e appena finiva la scuola, prendeva una casetta in affitto a Ladispoli, per
la precisione il Villino Clotilde, che si trova ancora oggi sul lungomare Regina Elena, con due
leoncini sgretolati dalla brezza marina, che troneggiano e fanno da guardia all’ingresso della casa.
Gianfranco, ai piedi del papà, davanti al Villino Clotilde (1935)
Mio nonno Giovanni faceva il pendolare e il fine settimana raggiungeva la sua famiglia, quattro
diavoletti scatenati, da 2 a 8 anni, che con il costumino di lana, trascorrevano tutto il giorno al mare.
A Ladispoli non si soffre il caldo, perché è una zona sempre ventilata.
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Mario, Gianfranco e Giorgio, (1935, stabilimento Dispari)
Da Palo laziale a Santa Marinella, forse per la conformazione della costa, simile a un piccolo golfo,
è una zona turbinosa; nessuna costa italiana, infatti, può vantare un numero così alto di
avvistamenti di trombe marine. Per questo la zona viene anche chiamata “Fosso di Turbino”.
Tromba d’aria sul lungomare di Marina di Palo laziale (foto di Roberta Vitali, social baraondanews)
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Gli ultimi giorni di vacanza a settembre, quando la spiaggia ha pochi villeggianti, l’aria si distende
riacquistando il suo ritmo naturale. Niente schiamazzi, niente balli di gruppo, niente tornei di carte:
il pattìno insabbiato, coperto dalla bianca salsedine marina, aspetta di essere riposto per la stagione
successiva.
Soltanto i bambini, approfittando dello spazio a disposizione, si rincorrono, giocano con il pallone e
le altalene. Qualche gridolino, “tana libera tutti”, piccoli dispetti tra bimbetti: la spiaggia appartiene
solo a loro.
Chi riesce a impedire il bagno ai bambini quando il mare è mosso! Piccoli visi rotondi, con la risata
aperta alle onde e gli occhi un po’ spaventati, ma subito pronti a sorridere: il gioco più divertente
dell’estate è saltare le onde o passarci sotto.
La brezza carezzevole, non troppo veloce, solletica la bandiera dello stabilimento. Questo è il
momento di far volare l’aquilone.
Era uno dei pochi giochi dei miei genitori da bambini, perché potevano costruirlo da soli, con un
po’ di carta e qualche bastoncino di legno trovati in casa.
La loro infanzia era inquinata dalle guerre e costruire un aquilone e farlo volare, rappresentava la
libertà e la voglia di costruire una vita nuova.
Mio padre mi raccontava che, dietro la loro casa alla Garbatella in Via Guglielmo Massaia, c’era un
prato grande, dove i ragazzi del quartiere si ritrovavano per far volare gli aquiloni.
L’oratorio di San Filippo Neri, dipinto del pittore Amedeo Garzia (1940)
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Ciascun aquilone aveva un segno di riconoscimento, una specie di marchio di autorizzazione per
volare: un bollo circolare su di un’ala e una croce sull’altra. Non so perché utilizzassero proprio
questi simboli, mio padre non ne sapeva il motivo, ma io, sempre incline a utilizzare la mia fantasia
nel dare ragionevoli spiegazioni, ho raffigurato il bollo e la croce come un identificativo di quelle
numerose famiglie della Garbatella che avevano un familiare che lavorava alle PP.TT. (Poste e
Telegrafi).
Nel dopoguerra un posto di lavoro alle poste significava ricchezza e soprattutto una dignità
riconquistata.
Gli aquiloni volavano in alto, colorati e robusti, perché erano costruiti con giornali vecchi e colla.
Quando veniva avvistato un aquilone senza il bollo e la croce, iniziava la gara tra gli aquiloni
autorizzati, per abbattere quello senza il marchio di riconoscimento. La squadra degli autorizzati
aveva come unico scopo di combattere l’intruso e far prevalere la loro supremazia in un riscatto di
vita nuova.
Vinta la battaglia, gli aquiloni tornavano a volare liberamente, ma sempre in allerta per colpire
nuovi intrusi. Anche gli aquiloni non ne potevano più d’invasori e dittatori.
La scorsa estate mio padre ha ricostruito, per i nipoti, il suo aquilone, con tanti ricordi della sua
giovinezza; i nipotini corrono a prendere l’aquilone.
Altri bambini non hanno mai visto un aquilone costruito così, conoscono solo quelli di plastica che
vendono gli ambulanti per la spiaggia.
La curiosità si trasmette velocemente tra i piccoli della spiaggia e dopo qualche minuto si forma un
cerchio di bambini di tutte le età, intorno ai miei figli e ai miei nipoti.
Sono tutti con il naso in su, a seguire l’aquilone che lentamente si fa strada verso il cielo.
Guardo quei nasini e quelle boccucce sorridenti e stupite, che seguono le vibrazioni delle ali
colorate dell’aquilone, sulle quali mio padre ha incollato un bollo e una croce.
Un bambino più grande degli altri riempie una bottiglia di plastica con la sabbia e vi lega il filo di
nylon, per garantire un ancoraggio di sicurezza all’aquilone, mentre vola.
Tutti indicano l’aquilone, mentre sale fiero verso il cielo, per tutta la lunghezza degli ottanta metri
di filo; qualche piccola perturbazione lo fa vibrare prima a destra e poi a sinistra. Il timore che possa
precipitare si riconosce dagli urletti di paura dei bambini, ma l’aquilone ritrova il vento buono e
riprende il suo volo tranquillo.
“Mandiamo un messaggio alla nonna che sta in cielo”, dice il mio nipotino Francesco di otto anni e
la frenesia di quel nuovo gioco coinvolge tutti i bambini presenti. Con un pennarello scrive, sopra
una strisciolina di carta, ‘Cara Nonna Flaminia, ti vogliamo tutti tanto bene’, precisando il nome,
perché di nonni ce ne sono tanti in cielo…
“Aspetta, manca il punto esclamativo”, dice la sorellina Chiara, una piccola correzione per essere
anche lei partecipe attiva del gioco.
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Il cartoccetto dei bambini viene arrotolato intorno al filo, con la concavità rivolta verso il vento: il
piccolo guscio di parole affettuose inizia la sua salita, a brevi tratti lungo il filo. I bambini esultano,
ci sono riusciti: in quel momento mia madre è la nonna di tutti quei piccolini.
Così, sospinti dal turbinoso vento di Ladispoli, tanti pensieri e ricordi salgono verso quell’aquilone,
piccolo “drone” che ci guarda dall’alto e sorride a tutta la nostra famiglia, che ha radicato un pezzo
importante della sua storia nella sabbia nera di Ladispoli.
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Schegge di ricordi,
alla Sagra del Carciofo
Fontana realizzata con i carciofi, 65^ Sagra del Carciofo, 2015 (foto G. D’Antoni)
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“Nel 1935 mio padre portava me e i miei fratelli lungo la strada che portava alla
stazione di Palo. Era di domenica e il premio settimanale era una ciambella fritta a
testa. Ancora oggi, a ripensarci, anche se ero piccolino, ho nel naso il profumo di quel
dolcetto zuccherato, così dolce come quegli anni, lontani dalla guerra e dalla morte
precoce di mio padre nel 1945.”
“Nel 1940, i soldati italiani erano accampati a destra e a sinistra di Viale Italia,
camminavo per mano a mia madre, a occhi bassi, perché avevo paura.”
“Io sono di Pozzuoli, i miei nonni hanno trovato rifugio qui, durante la guerra, ma io
ho preferito ritornare nel mio paese d’origine. A Ladispoli, però, non manco mai per
la sagra del carciofo.”
“Mi ricordo che sulla spiaggia c’erano tanti cappelli di tutti i colori poggiati sulla
sabbia. Sono scappata di mano a mio padre e sono corsa a raccoglierne uno, ma sotto
il cappello c’era la testa di una persona! Negli anni ’60 i bagnini facevano delle buche
lunghe nella sabbia, per consentire le sabbiature alla gente che aveva dolori alle ossa,
così il cappello serviva per ripararsi dal sole.”
“Venivo in vacanza a Ladispoli, nel 1968, un’amica mi ospitava per una settimana
erano le uniche vacanze che potevo fare… Ricordo che in fondo a Via Roma, vicino
a Torre Flavia, c’era una trattoria alla buona; noi portavamo la cena e lì compravamo
il pane e le fave, se c’erano. Un senso di ospitalità che non ho trovato altrove.”
“Ladispoli è un paese che si è ingaglioffito negli anni, come dice un poeta
romanesco.”
“Il Maresciallo Onofri è stato insieme ad Aldo Storti, un modello di riferimento
politico importante per la città.”
“Peccato che c’è stata la politica dei palazzinari e dei centri commerciali negli anni
70, lo dicono tutti che si stava meglio quando si stava peggio…”
“A Ladispoli, oggi, manca completamente la generazione dei cinquantenni, perché
negli ’70 la droga ha travolto la nostra cittadina. Tanti ragazzi sono morti e chi ha
potuto li ha rimandati nei paesi d’origine, in Umbria, nelle Marche, pur di tenerli
lontani da questo grave problema.”
“Tutte le sagre sono mie, quella della patata a Leonessa, quella del pesce a
Fiumicino, ma quella di Ladispoli è la più bella e organizzata. Ci sono tanti bambini
che vanno pazzi per i miei palloncini.”
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“Durante il 1975 c’è stato il passaggio dei russi, per Ladispoli. Si vendevano tutto
quello che avevano, orologi, penne, biancheria, per fare un po’ di soldi e raggiungere
gli Stati Uniti. Sembrava una specie di transumanza…”
“Ladispoli ha avuto una sua radio privata, quella di Nonna Gina e Nonno Baffo,
avevano sede in Via Ancona, organizzavano gite per gli anziani, riffe, feste di Natale
Nonna Gina e Nonno Baffo erano un punto di riferimento importante, poi negli anni
’90 è finito tutto.”
“Nel 1975 il Dr. Elio Buglioni aveva lo studio su Viale Italia vicino alla sua casa.
Era un medico serissimo e quando non lavorava se ne stava sulla sua sdraietta nella
loggia di casa, a riposare e a guardare la gente che passava, in parte nascosto da una
siepe di plumbago lilla. Lo vedevo sempre lì e mi chiedevo da quali pensieri venisse
attraversato, in quella confusione di gente.”
“Il Maresciallo Onofri e Don Nazzareno erano Peppone e Don Camillo di Ladispoli.
Ognuno per il suo modo di fare è stata una guardia alla gioventù e un aiuto per la
crescita delle famiglie in difficoltà. Bisognerebbe parlarne più spesso.”
Laura Mercati e Loredana Simonetti, 2015, allo stand della Proloco
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Ringraziamenti
Ringrazio tutti i narratori che hanno generosamente partecipato al progetto “Un Mare di Storie”,
dandomi fiducia e sostenendo il mio operato. In particolare ringrazio Laura Mercati, che ha
creduto con viva partecipazione al progetto, coinvolgendo le persone interessate
con grande entusiasmo.
Ringrazio le Edizioni Del Baldo di Castelnuovo del Garda (VR), per avermi liberamente consentito
l’uso degli aforismi, citazioni e poesie estratti dal libro “Aforismi e Citazioni” come introduzione
alle narrazioni presenti in questo documento.
Loredana Simonetti è nata e vive a Roma. Autrice di numerosi libri per bambini, collabora con la
rivista “Leggere:tutti” e cura la rubrica “Un Libro per Amico” per il quotidiano online “La Voce
Romana”. Socia della LUA, Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari e socia di
RaccontarsiRaccontando”, associazione di volontariato nella quale ha maturato esperienza di
raccoglitrice volontaria di testimonianze e narrazioni presso il Centro Diurno Anziani San
Frumenzio di Roma. Ha pubblicato il libro "La mia vita con ago e filo - Storia di Elda" (Edizioni
Montag), autobiografia raccolta dalla voce di Elda Lombardi De Lorenzo.
(www.loredanasimonetti.eu)
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INDICE
RaccontarsiRaccontando: chi siamo e come lavoriamo
pag. 1
Presentazione del progetto “Un Mare di Storie”
pag. 2
Paesi e città dei partecipanti
pag. 4
Licia MAMPIERI: Memoria di un incontro
pag. 6
Gastone BOLAFFI: Quando Ladispoli era un villaggio
pag. 8
Iole LA GROTTERIA: Ai Grotti di Procoio di Ceri
pag. 14
Filippo CONTE: Le dune di sabbia, spettatrici di vita
pag. 20
Ricevere un valore nella vita: la famiglia Castellano
pag. 26
Ricordi del territorio
pag. 31
Luigi CHIAPPA: Non ricordo un giorno di festa
pag. 34
Paolo LOMBARDI: I miei ricordi legati all’acqua
pag. 42
Rosetta AMMIRATO: Terra e mare, un solo amore
pag. 48
Silvio VITONE: La spiaggia delle suore
pag. 53
L’ultimo medico condotto di Ladispoli
pag. 57
Il bagnino
pag. 60
Marco MELLACE: La legge “paterna” del Maresciallo Onofri
pag. 63
Claudia SIMONETTI: Le aragoste
pag. 67
Roberta CERRONI: La mia vita continua a Ladispoli
pag. 72
Giovanni MELIS: Mi diverto pescando a Torre Flavia
pag. 77
Loredana SIMONETTI: Dove volano gli aquiloni
pag. 80
Schegge di ricordi alla Sagra del Carciofo
pag. 86
Ringraziamenti
pag. 89
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Le pubblicazioni di “RaccontarsiRaccontando” non sono in vendita, poiché sono il frutto di un
impegno territoriale dei nostri soci che, aderendo alla nostra Associazione, hanno compiuto la scelta
etica di un lavoro volontario sulla memoria.
Potete scaricare tutte le nostre pubblicazioni, gratuitamente, dal sito di RaccontarsiRaccontando,
utilizzando la seguente stringa:
http://www.raccontarsiraccontando.it/category/pubblicazioni/
oppure scaricare quelle postate sul sito della Libera Università di Anghiari (“Noi Bambini al
Tempo della Guerra” e “l’Antico Desco Racconta”) entrando nel sito della Libera Università
dell’Autobiografia di Anghiari:
www.lua.it /progetti ed attività/approdo di Ulisse /progetti giunti a buon fine
Note finali:
Tutte le fotografie e le immagini utilizzate in questo documento sono state fornite dai proprietari e se reperite altrove, ne
è stata citata la fonte. Se inavvertitamente sono state utilizzate immagini senza autorizzazione ce ne scusiamo e vi
preghiamo di segnalarcelo.
La composizione di un testo è un’operazione complessa che richiede precisione. Se il lettore dovesse ravvisare qualche
refuso, è pregato di segnalarlo all’Associazione di Volontariato “RaccontarsiRaccontando” – via Alessandria, 63 –
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[email protected] – cell. 328 9559641
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gratuitamente dal sito:
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