IDENTITA` PRECARIE E CRISI PSICOTICHE: QUALI POSSIBILI

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IDENTITA` PRECARIE E CRISI PSICOTICHE: QUALI POSSIBILI
Identità precarie e crisi psicotiche: quali possibili nuovi assetti?
MARIA GABRIELLA MINENNA
«...Così,nella accensione tumultuosa ed esaltante
delle passioni adolescenziali,che fanno scoprire le
dimensioni nuove e sconvolgenti dell’essere-nelmondo, si nasconde il rischio della delusione e
dello scacco fatale» (E. Borgna, 2003)
Negli ultimi anni si è progressivamente affermato in campo psichiatrico un interesse specifico
per la cura della sintomatologia psicotica all’esordio che prevede allo stesso tempo trattamenti
mirati a prevenire ricadute e disabilità. Ciò implica uno sguardo più attento soprattutto alla fase
dell’adolescenza, epoca della vita in cui più frequentemente può manifestarsi la sintomatologia
psicotica. L’adolescenza, periodo di per sé turbolento e crocevia di ogni potenziale sviluppo e
risignificazione, rappresenta allo stesso tempo un caposaldo della ricerca psicoanalitica con notevoli
contributi teorici, dai più recenti di Ladame, Jeammet e Cahn alle fondamentali riflessioni teorichecliniche di Anna Freud, Winnicott, Meltzer e dei Laufer che hanno contribuito ad articolare una
visione così vasta e intrigante di tale passaggio della vita da sviluppare una cultura psicoanalitica
specifica dell’adolescenza. La mia esperienza clinica e teorica mi pone da sempre a ponte tra la
psichiatria e la psicoanalisi in un continuo dialogo interno, in un confronto e un arricchimento dato
dalla possibilità di vedere i pazienti nei vari ambiti, dal Pronto Soccorso nel momento dell’urgenza
(spesso di natura psicotica) all’ambulatorio psichiatrico fino alla stanza d’analisi. Non mancano
naturalmente momenti di confusione-scissione con la necessità urgente di trovare il tempo e lo
spazio dell’integrazione dell’esperienza e del recupero di una continuità di senso. Questo esercizio,
psicodinamicamente possibile, mi rende più fiduciosa nel lavorare con i pazienti gravi.
Il contatto prolungato con la sofferenza mentale, soprattutto con quei pazienti che hanno
frequentato a lungo gli ospedali psichiatrici o vi hanno dimorato per anni in un passato non tanto
remoto, mi ha sempre sollecitato a pensare e a riflettere rispetto alle loro storie e ai momenti più
dolorosi e determinanti per il loro futuro: i punti di «non ritorno», quei passaggi che hanno generato
appieno il loro ingresso e la residenza nel mondo della follia, per certi aspetti confortante e più
affollato rispetto al sentimento di desolazione, di smarrimento e vuoto da cui fuggivano. Negli anni
la lunga e consolidata familiarizzazione con gli antichi pazienti, la mia attenzione e la riflessione
psicoanalitica su quei passaggi così delicati e determinanti per il futuro candidato alla psicosi, mi
hanno predisposta ad una recettività specifica per i giovani pazienti al primo impatto con lo stato
psicotico, evocando altre storie del passato, spesso sovrapponendosi ad esse. Mi allerto con
preoccupazione, pertanto, pensando alle potenziali dannose evoluzioni e altresì a quella sorta di
attrazione fatale verso quel «non luogo» che tante volte ho sentito aleggiare nei racconti dei
pazienti, così fragili ed evidentemente così poco attrezzati nei confronti di un mondo esterno vissuto
come minaccioso, persecutorio, inaffrontabile.
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Giovanni, 20 anni, arriva come ultima spiaggia al Centro di Salute Mentale dove lavoro, dopo
aver vagato, accompagnato dai suoi genitori, da uno specialista privato all’altro, cambiando anche
varie città. Ha già alle spalle un ricovero in un Ospedale famoso del nord, dove gli è stata
diagnosticata l’ennesima sindrome con l’ennesima prescrizione fatta di tanti farmaci, tutti:
neurolettici, antidepressivi, stabilizzatori dell’umore. È visibilmente depresso, bloccato in casa da
mesi, non esce perché ha paura degli altri, di critiche, di tutto quello che la gente, soprattutto i
coetanei, possono pensare di lui: «Se fossi in loro, uno come me non lo prenderei neanche in
considerazione, mi sento trasparente, un niente…». È interpretativo su tutto quello che gli succede
intorno, sicuro di essere spiato e di dover scontare qualcosa di orribile: qualcuno lo sta cercando
«per farlo fuori…». Dopo una conoscenza sua e dei suoi genitori con colloqui insieme e poi
separatamente, sulla base della buona relazione che si sta formando, Giovanni mi racconta, infine,
di quanto sia insonne e angosciato, perché avrà da sostenere a breve un test d’ingresso per accedere
all’Università. Riesce a raccontarmi di quanto in realtà sia spaventato rispetto al futuro, non
sentendosi in grado rispetto alle scelte da fare o non fare; appare paralizzato e, in un momento di
particolare contatto emotivo con me e quindi con se stesso, fra le lacrime dice: «…L’attrazione per
l’ospedale è sempre molto forte; ci penso spesso: quel senso di deresponsabilizzazione, per cui gli
altri ti dicono cosa hai, quello che devi fare, le medicine da prendere… vivere la mia vita è molto
più faticoso, non so cosa fare, cosa scegliere...».
Terzogenito di due genitori iper-ansiosi, protesi quotidianamente a girare-vegliare attorno alla
«malattia» del figlio, la vita famigliare si divide in «prima che Giovanni si ammalasse…» e «dopo
la malattia di Giovanni». I genitori, tuttavia, ammettono di far fatica a capire in realtà di che cosa si
tratti. Alla mia domanda: «Ma secondo voi di cosa soffre vostro figlio, che idea vi siete fatti voi
genitori? Come lo vedete adesso? Notate cambiamenti rispetto a un tempo? Parlatemi di lui…», le
risposte sono vaghe, incerte: «Non sappiamo bene, forse è un bipolare oppure ha un disturbo
borderline o narcisistico… speriamo non sia schizofrenico, sappiamo che può diventare cronico e
dover prendere medicine per tutta la vita. Passa intere giornate chiuso in camera, non vuole parlare
con noi, è spaventato da tutto e da tutti, sempre ansioso, angosciato». L’idea che mi sono fatta,
confermata nei colloqui successivi di sostegno e rassicurazione, è che non fossero in grado di
contenere le tumultuose vicissitudini che il figlio stava attraversando in questo «passaggio» così
delicato della sua vita, sospeso fra il desiderio di emancipazione, l’idea di farsi fuori e il terrore del
cambiamento da una situazione di stallo e dipendenza.
Giovanni, progressivamente meno confuso e paralizzato, viene da me incoraggiato rispetto
alla sua capacità di riflettere su quello che prova, su quel sentimento di perplessità e di
persecutorietà che lo opprime ma che, allo stesso tempo, seppur faticosamente, riesce a descrivermi.
Gli riconosco la capacità di prendere consapevolezza del suo desiderio di essere un malato
deresponsabilizzato: «Comprendo bene quello che mi stai dicendo e ti riconosco il grande sforzo
che stai facendo per cercare di contrastare questi sentimenti così forti e contraddittori; le tue sono
considerazioni acute e il fatto che tu ne riesca a parlare ci dice che non sei un niente, anche se ti è
capitato e ti capita di desiderare di scivolare via nell’ombra… non è da tutti confrontarsi con tali
sentimenti». Con l’aiuto di modeste dosi di farmaci all’interno di una consolidata alleanza
terapeutica, grazie anche all’avvio di una psicoterapia a indirizzo psicodinamico a cadenza
settimanale con un altro collega, Giovanni ha poi superato il suo esame e si è riavviato per la sua
strada, senza che, al momento, sia venuta meno da parte mia e del gruppo di lavoro, una accorta
vigilanza.
La mia attenzione e la riflessione sviluppata negli anni intorno a questi passaggi mi hanno
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resa sempre più consapevole di quanto si ripetessero nel tempo e si intrecciassero, lungo le varie
storie, vicende più recenti capaci di fare echeggiare quelle più antiche, a volte sovrapponendosi ad
esse e riproponendo temi esistenziali e dolorose vicissitudini, che avevano condotto comunque allo
stesso distacco dal reale in una sorta di «bolla» alienata dal resto del mondo. Ecco ripresentarsi la
difficoltà nella relazione con gli altri, soprattutto con i coetanei, il sentimento di non esistere agli
occhi dell’altro o ancor più spesso di esistere per essere deriso, espulso, il senso della non
appartenenza al gruppo dei pari, che violento si impadronisce di te e ti fa sentire un nulla. Quante
volte mi son sentita dire tutto ciò e quante altre vengo quotidianamente resa partecipe, in maniera
più o meno scomposta e frammentata, di questi tristi e sconfortanti vissuti da parte di ragazzi che
appaiono potenziali candidati ad un percorso senza ritorno, come congelati in una non esistenza.
L’esperienza maturata in un lungo periodo mi permette di capire e comprendere profondamente
quello che mi stanno dicendo. Mi vengono alla mente, fra le altre, a riprova di questo mio essere
proiettata avanti (nella speranza di modificare gli antichi, scontati percorsi) e del trovarmi, nello
stesso tempo, testimone del passato, due esperienze recenti, accadute proprio nel periodo in cui mi
accingevo a scrivere questo lavoro.
Prima dell’estate, ad un convegno di psichiatria (in cui erano presenti anche associazioni di
familiari), proprio per sottolineare l’importanza di erogare cure e attenzioni tempestive ai giovani in
fase di esordio psicotico, ho fatto riferimento a una situazione clinica centrata sulla storia di
Giacomo, un mio paziente inserito attualmente in un programma intensivo riabilitativo, che risulta
molto soddisfacente per lui e per la sua famiglia. Giacomo, imbrigliato in dinamiche familiari
patologiche, si era «bloccato», interrompendo la scuola e bloccando qualsiasi contatto con i
coetanei, tanto da vivere per più di due anni nell’ombra e preferire uscire di notte, per il timore di
incontrare conoscenti e di dover raccontare dei suoi insuccessi. A questo punto, un paziente
«storico» attualmente ben reintegrato dopo anni di ricoveri e percorsi riabilitativi (lui ce l’ha fatta!),
si è alzato prendendo la parola e, dopo avermi chiesto ulteriori ragguagli sulla storia di Giacomo
che lo aveva molto colpito emotivamente, ha detto:
«Potrei essere io quel ragazzo; la sua storia è molto simile alla mia: vivevo anch’io di notte ed
ero molto aggressivo. Ho dovuto subire molti ricoveri anche in TSO, non capivo niente, ero
arrabbiato con tutti: con i miei genitori, con i medici, con il mondo intero… poi ho capito che avevo
anche molta paura di qualsiasi cambiamento... ma ci ho messo molti e molti anni…».
L’altra situazione cui farò un breve riferimento è la storia di una signora di mezza età,
conosciuta in piena crisi psicotica e al primo contatto con il Servizio di psichiatria. La cito per
mostrare come, facendo riferimento ai passaggi esistenziali, grazie a un ascolto attento e orientato
psicodinamicamente verso i racconti, seppur frammentati e parcellari dei nostri pazienti, sia
possibile rinvenire situazioni di blocco–indifferenziazione in tutte le epoche della vita.
Questa signora, moglie e madre, completamente immersa nel suo mondo allucinatorio (voci
cattive e deridenti) e gestita da un marito affettuoso ma del tutto inconsapevole, presenta uno
scompenso che richiede un ricovero ospedaliero: è il primo, a pochi mesi dalla morte del padre, «la
sua funzione guida, colui che nel corso degli anni l’aveva sempre capita e rassicurata…». Mi dice:
«Da sempre sono rimasta in contatto con lui», anche se si vedevano poco (il padre abitava in
un’altra città). La sofferenza per la sua morte e per la separazione dei genitori (avvenuta molti anni
prima) non si è mai sopita. Tutta la sua vita si è come congelata a quei tempi, mentre la vita attuale
viene narrata con scarse considerazioni. Risponde a domande precise riguardanti il marito, i figli, i
suoi interessi. Tutto appartiene ad un percorso doveroso: «come tutti poi ci si sposa, si fanno i figli,
ma nessuno ti può capire come un padre, solo lui ti conosce veramente e ti dà i buoni consigli… Le
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amiche, i conoscenti? «Penso spesso alle mie compagne di scuola, me le ricordo una ad una…».
Il quadro del matrimonio e dei figli appare come una apparente crescita evolutiva di una figlia
da sempre colonizzata da un padre molto bizzarro, violento e autoritario (così dirà di lui il marito
della signora). Si tratta, in realtà, di una emancipazione mai riuscita, bloccata, congelata. Anna
Maria Nicolò fa riferimento ad alcune caratteristiche delle famiglie psicotiche: «Un’organizzazione
tirannica di controllo sostituisce ogni genuina solidarietà. Gli schemi relazionali sono del tipo
“controllore-controllato” e “persecutore-vittima”. Ciascuno dei membri della famiglia può
alternativamente esercitare uno dei due ruoli opposti. Il controllo non è poi tanto esercitato sul
comportamento, ma sulle emozioni e sui pensieri di ciascuno. L’altro non è riconosciuto come altro
da sé, ma deve essere posseduto e colonizzato» ( Nicolò, 2005).
Il mio interesse specifico per queste situazioni cliniche di esordio (strettamente congiunto alla
mia formazione psicoanalitica) si è intrecciato e integrato, come valore aggiunto, con due
importanti ricerche sugli Esordi Psicotici, condotte l’una a raggio nazionale: il GET-UP (Genetics,
Endophenotypes Treatment: Understanding Early Psychosis finanziato dal Ministero della Salute
nell’ambito della Ricerca Sanitaria Finalizzata Nazionale e coordinato dall’Azienda Ospedaliera
Universitaria di Verona); l’altra di interesse internazionale, EUGEI (European Union GeneEnvironment Interaction), tuttora in corso e coordinata a Bologna dall’ Università (prof. Berardi,
prof.ssa Tarricone) in collaborazione con il DSM.
La prima ricerca di grande complessità è rivolta alla formulazione del miglior trattamento
integrato dei pazienti all’esordio e delle loro famiglie all’interno dei DSM; la seconda ricerca è
centrata soprattutto sullo studio dei fattori eziopatogenetici, circa i fattori di rischio e sugli aspetti
genetici; implica una nuova, necessaria osservazione sui pazienti migranti, sulle problematiche
relative all’abuso di sostanze e sulle nuove composizioni familiari.
Non è stato facile né scontato per me e per la mia formazione di base sintonizzarmi su nuove
metodologie che prevedono una organizzazione tanto strutturata quale è la cornice di una ricerca
così vasta e impegnativa quanto rassicurante per il fatto di costituire un contenitore, dove curanti,
pazienti e familiari hanno trovato già tracciati percorsi di cura e una maggiore attenzione alle loro
domande. Non si può che condividere e auspicare che questo riflettore sulle patologie all’esordio
resti in funzione e illumini il più possibile le numerose zone d’ombra legate all’esperienza psicotica.
Il notevole lavoro clinico ed esperienziale di tutti gli operatori coinvolti e motivati, associato a
questi significativi filoni di ricerca, dovrebbe permettere, a questo punto, una migliore evoluzione
clinica per questi pazienti e per le loro famiglie dando luogo, dove esistano gli strumenti e le
potenzialità, a sviluppi tanto imprevedibili quanto soddisfacenti, capaci di generare una ripresa di
percorsi evolutivi interrotti e di alimentare la speranza che, in alcuni casi, sia possibile evitare il
decorso verso la schizofrenia. Ho, così, pertanto partecipato e tuttora partecipo con grande interesse
alla nuova organizzazione del DSM che prevede la cosiddetta «equipe dedicata» disposta a lavorare
in una sorta di ricerca-formazione permanente e a dedicare la necessaria attenzione ai nuovi pazienti
all’esordio. Il contributo del pensiero psicoanalitico, associato alla quotidiana attività clinica
integrata dalla progressiva ricerca sul campo, si è nel tempo «tradotto» nella creazione e
coordinamento di un gruppo di lavoro, «l’equipe dedicata» (con presenza di psicologi, infermieri,
educatori, assistenti sociali) che si riunisce regolarmente nel mio Servizio per discutere dei nuovi
casi e delle eventuali criticità all’interno del percorso terapeutico e, una volta al mese, per
coordinare un gruppo clinico più vasto di operatori sugli Esordi, a livello dell’intero Dipartimento
di Salute Mentale di Bologna.
Il mio sforzo va nella direzione di sistematizzare un intervento clinico che preveda una grande
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attenzione alla storia personale e ai vissuti emotivi di ciascun paziente e che consideri la diagnosi in
fase acuta una «diagnosi aperta» in termini evolutivi, che possa stare ad indicare anche una
eventuale «crisi di passaggio», stato che prevede buone possibilità di intervento. Non a caso, infatti,
le crisi psicotiche avvengono più frequentemente nel passaggio dall’adolescenza alla maturità,
passaggio che richiede competenze emotive adeguate. Mi riferisco qui al «breakdown evolutivo»
dei Laufer ( E. e M. Laufer, 1984), termine assai pertinente per questa fase della vita, in cui si può
assistere anche a fenomeni deliranti e allucinatori, insorti come per contrastare l’inarrestabile
passaggio verso l’età adulta. Tale definizione testimonia una specificità della patologia
adolescenziale: la sua flessibilità, mobilità ed evolutività, tanto che i sintomi psicotici maggiori
possono risultare un fenomeno transitorio, legato alla difesa messa in atto contro i conflitti
evolutivi. (Nicolò, 2010). Tanto più quando si tratta di pazienti giovani all’esordio, è doveroso
muoversi con cautela e tener presente la ricaduta sul paziente stesso di una diagnosi di grave
malattia mentale, carica di conseguenze sul vissuto personale e ambientale, familiare e sociale.
«Una diagnosi può funzionare come termine denigratorio e/o occludere un percorso vitale e
terapeutico, sigillando il paziente all’interno di un aspetto, in quel momento prevalente del suo
modo di essere, senza lasciargli alcuna possibilità di uscita» ( Rossi Monti, 2008). Un altro
importante riferimento per me e il lavoro del Gruppo Esordi viene dal recente articolo di Boccara e
colleghi (Boccara et al. 2012) che considerano gli stati di breakdown psicotico come particolari stati
del Sé, in cui analista e paziente «…attivano un percorso verso riaggregazioni potenziali e nuove
che emancipano la struttura del Sé. In questo, il dialogo analitico si realizza condividendo
continuamente con il paziente soluzioni dissociative difensive insieme a soluzioni creative». Il mio
compito è anche quello di sottolineare tutti gli altri ulteriori passaggi significativi ai quali gli
operatori di un servizio per adulti generalmente non sono preparati in modo adeguato, con i relativi
riferimenti teorici. Si va, dunque, dalla necessità di un contenimento (Winnicott, 1955) della
esperienza psicotica del paziente e del suo ambiente all’importanza di leggere i comportamenti
aggressivi, spesso necessari per la crescita e l’emancipazione dall’adulto (Winnicott, 1971),
all’interno del processo di soggettivizzazione (Cahn, 2000) che inizia nell’infanzia e procede per
tutta la vita.
Un altro fondamentale impegno da parte di questi gruppi di lavoro è quello di ridurre, ove
possibile, i giorni di ricovero nel reparto di Diagnosi e Cura, grazie alla strutturazione di possibili
trattamenti ambulatoriali, domiciliari o in Day-Hospital. Condizione di base è quella di vedere il
paziente di frequente; allo stesso tempo, è necessario prendersi cura dei suoi familiari o di chi può
rappresentare un elemento significativo del suo contesto di vita, aiutare le persone del contesto a
capire che cosa stia succedendo al proprio congiunto e segnalare loro quali siano le possibili
modalità per continuare a stargli vicino nella maniera più appropriata. L’approccio al paziente, in un
clima di ascolto rispettoso, caratterizzato dall’empatia e dalla fiducia nelle sue buone potenzialità
evolutive, è determinato dall’attenzione al percorso di vita del paziente, alle esperienze di rapporto
interpersonale, soprattutto entro la famiglia d’origine. «Le prime esperienze acquisite nel rapporto
con le figure di accudimento divengono parte significativa del modo di percepirsi e di funzionare
dell’individuo, molto prima che questi possa averne consapevolezza. Alcuni aspetti si strutturano e
consolidano prima che il soggetto possa essere “presente”, nel senso di una capacità di percezione
cosciente di sé» (Bonfiglio, 1999). Indubbiamente, l’esperienza clinica, associata alla riflessione
psicoanalitica sulla situazione psicotica, non può che farci considerare l’estrema interdipendenza tra
il possibile paziente, che si fa portavoce e portatore di sintomi, e le dinamiche del suo contesto
familiare (Kaes, 1994; 1996). Le relazioni del paziente vengono fondamentalmente lette alla luce
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soprattutto del modello che descrive i passaggi della separazione-individuazione. Nell’adolescenza,
periodo in cui la schizofrenia di solito compare o si annuncia con segni prodromici disturbanti, è
attesa una fase di sviluppo della personalità caratterizzata da una maturazione del Sé con maggiore
solidificazione dell’identità e più autonomia operativa; a ciò si accompagna una modificazione dei
rapporti familiari nella direzione di un allentamento dei legami di tipo protettivo e identificativo. In
genere, tale processo appare rallentato o interrotto negli esordi schizofrenici, tanto da condurre a
dinamiche familiari complesse, confuse e ambivalenti, in cui alcune spinte non integrate di tipo
evolutivo entrano in conflitto con altre persistenti istanze regressive e fusionali, che spesso vengono
condivise sia dai pazienti sia dai loro familiari.
Torno alla storia di Giacomo e al nostro primo contatto. Paziente imbrigliato da dinamiche
familiari che lo hanno reso fragile e insicuro di fronte al resto del mondo, così da costringerlo a
muoversi solo di notte e a desiderare uno stato di estrema solitudine, perché si sentiva incapace di
stringere qualsiasi relazione significativa. Immaturo e insicuro tanto da non reggere il confronto con
gli altri, da interrompere gli studi (nonostante il buon rendimento) per aver subito attacchi di
bullismo. Ci sono state anche liti occasionali, accompagnate da veri e propri scoppi di rabbia
orientati soprattutto verso la madre, rispetto alla quale Giacomo non riusciva a prevedere nessuna
forma di autonomia. La situazione è perdurata per circa due anni, finché Giacomo, nel corso di una
scorribanda notturna, non ha messo in atto un episodio di aggressività «esplosiva» verso le cose. Il
fatto ha richiamato l’attenzione del vicinato e l’intervento di una pattuglia di Carabinieri.
Accompagnato in preda a forte crisi d’agitazione psicomotoria, confabulante e in evidente stato di
alterazione, prima in caserma poi al Pronto Soccorso, Giacomo è stato ricoverato in SPDC, dove nei
giorni seguenti sono andata con altri operatori a incontrarlo. È stata questa un’occasione di contatto
col paziente che ha dato luogo ad altri passaggi istituzionali non sempre facili. È risultato comunque
un segnale della sua esistenza al mondo, che ha consentito a Giacomo come di dare una svolta al
suo complicato sistema di vita, determinato da una rigida organizzazione familiare, fino a
permettergli la ripresa del suo percorso evolutivo, non più notturno e clandestino. Giacomo è
tornato a scuola; attualmente è iscritto all’ultimo anno in vista del conseguimento del diploma di
scuola superiore. Partecipa assiduamente al «Gruppo Giovani» in un Centro Diurno che afferisce al
Dipartimento, dove viene affiancato dagli educatori per la ripresa dello studio, per le attività
sportive e per le sue esigenze in generale. Alla progressiva stabilizzazione della sintomatologia ha
contribuito la possibilità di Giacomo di poter usufruire di una psicoterapia settimanale, a
orientamento psicodinamico e condotta da uno specializzando, formato in questo senso, con
frequenti incontri di supervisione.
L’attività terapeutica verso questi pazienti ha l’obiettivo di favorire processi di integrazione
della personalità, per consentire loro di acquisire una migliore differenziazione tra sé e gli altri, per
acquistare consapevolezza, fiducia e capacità di esprimere le proprie emozioni, fino a sperimentarsi
in relazioni significative con gli altri. All’interno di una relazione efficace e stabile sarà possibile,
nel tempo, aiutare il paziente a differenziare le dispercezioni o i nuclei deliranti da quelli che sono i
contenuti di pensiero più adeguati e aderenti alla realtà, attraverso l’apprezzamento e il
potenziamento delle sue capacità logiche e della consapevolezza. Si potrà affrontare il tema delle
difese che egli è stato costretto a mettere in atto per effetto della pressione esercitata dall’angoscia
generatrice dei sintomi deliranti e talvolta per la sussistenza di esperienze traumatiche vissute
ripetutamente nel passato.
Compito altrettanto impegnativo per lo psichiatra-psicologo, autenticamene interessato alle
vicissitudini sofferte dai pazienti sarà il rivisitare la terribile, traumatica esperienza della crisi
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psicotica, del ricovero molto spesso in TSO, dell’impatto con un ambiente «costrittivo»; riparlarne
per poter con il tempo elaborare, dare un senso (Minenna, 2006). Come scrive Manica (1999), «si
tratta infatti di poter ricostruire con il paziente il significato di una trama-lontana e originaria che a
lui e a noi appare inizialmente indicibile e terrifica, perché non ha parole per essere detta se non in
frammenti scheggiati dalla dissociazione, se non attraverso le parole ambigue ed evanescenti del
delirio e dell’allucinazione». Nel tempo sarà possibile parlare al paziente dei suoi aspetti di fragilità,
vulnerabilità e anche dei suoi limiti, comprendendoli nell’arco del suo percorso evolutivo, della
possibilità di trovare un migliore livello di integrazione e di equilibrio con le sue parti più adulte e
mature.
È un chiamarlo in campo come persona capace di comprensione, collaborazione e
responsabilità nella cura e soprattutto nel tener insieme i pezzi in uno sforzo progressivo di
elaborazione dei precedenti vissuti da frattura psichica. «Una cosa è certa: nessuna terapia della
psicosi è efficace, se terapeuta e paziente non ripercorrono il momento della perdita della realtà…
Solo l’ampia ricognizione preliminare della vivibilità possibile del mondo, può in un secondo
momento, permettere l’addentrarsi molto prudente e graduale nell’area traumatica» (Correale,
2006). Fondamentale è il lavoro del gruppo terapeutico, soprattutto in relazione alla gravità dei
contenuti dei pazienti psicotici, al senso di impotenza e inermità che questi, soprattutto quando
giovani, trasmettono. Si propone, perciò, al gruppo di lavoro istituzionale la possibilità di
rappresentare lo spazio di una holding, concepibile solo attraverso la disponibilità di divenire anche
la mente del paziente e successivamente lo spazio mentale per il paziente. Fondamentale è la
sopravvivenza del gruppo di fronte ai vissuti più destrutturati per giungere, come osservava Bion,
attraverso queste esperienze terrifiche ai «pensieri nuovi», a possibilità evolutive maggiori
(Minenna, 2006).
Concludo con un riferimento a una vicenda clinica che mi ha molto coinvolta e mi ha fatto a
lungo riflettere su questi pazienti all’esordio, con il loro carico di esperienza esistenziale sulla quale
di solito è molto difficile fermarsi a pensare, senza agire, seguendo i tempi frenetici, «travolgenti»,
dell’istituzione. Conosco Alberto e i suoi genitori alla dimissione dall’ SPDC, al termine di un breve
periodo di convalescenza trascorso in famiglia nella sua cittadina d’origine del Sud Italia. Alberto,
primogenito di due fratelli (la sorella ha tre anni meno di lui), è uno studente fuori sede con un
percorso più che brillante; è stato sottoposto a TSO dopo uno scompenso psicotico acuto associato a
massiccio abuso di cannabis e alcool. Riferisce di aver avuto bisogno delle sostanze e delle
«birrette» per rilassarsi; queste lo avevano finalmente aiutato a dormire, al termine di un’insonnia
perdurante da mesi e verosimilmente relativa ad una grandissima ansia di prestazione che lo aveva
pervaso quando stava per affrontare gli ultimi esami e la tesi. Si è posto in evidenza da subito un
rapporto estremamente fusionale con la madre; i due sono geograficamente lontani, ma riescono a
comunicare al telefono più volte al giorno, tutti i giorni. Alberto manifesta profondi sensi di colpa
verso i genitori, che lo amano incondizionatamente e farebbero qualsiasi cosa per lui; si sente
inadeguato, pensa di averli delusi moltissimo: loro che hanno sempre creduto ciecamente in lui. Io
riesco a sintonizzarmi ben presto con lui, giovane iperinvestito dalla famiglia, così grande rispetto
alle sue competenze professionali, ma così bambino, semplice, immaturo e incompetente
emotivamente approdato alla «metropoli» e proveniente da un tranquillo paese immerso nella
campagna, vicino al mare, dove tutti si conoscono e dove forte si fa sentire un «senso di familiarità,
di appartenenza». Questa situazione da «fuori sede» si ripete spesso con studenti universitari o
giovani lavoratori poco «sganciati» dalle famiglie di origine, tanto che capita di frequente di entrare
in contatto con pazienti con le medesime caratteristiche. Alberto, sempre molto impegnato nello
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studio (così profondamente da non riuscire a parlare d’altro), è alle prese con la tesi. Si presenta
comunque in orario agli appuntamenti; la relazione terapeutica è buona, di fiducia. Molto difficile
risulta, invece, gestire i genitori, che chiamano subito prima o subito dopo ogni colloquio; ogni
tanto appaiono scontenti delle mie laconiche risposte, tese a far rispettare la necessaria privacy nei
confronti di Alberto. Irrompono anche al Servizio senza preavviso, portando richieste ambivalenti:
cura per il figlio, ma allo stesso tempo di negazione di qualsiasi problema: «Siamo un famiglia
felice, Alberto è sempre stato un ragazzo perfetto, un modello per la sorella minore; di sicuro è stato
drogato, lui non lo avrebbe mai fatto…». Pochi giorni prima della seduta di laurea, Alberto mostra
di nuovo una sintomatologia psicotica di tipo persecutorio: è agitatissimo, aggressivo verbalmente
con i familiari e con i suoi coinquilini, è irriconoscibile. L’aumento del dosaggio farmacologico,
associato alla frequenza ambulatoriale quotidiana, non riescono a contenere la sua angoscia
dilagante, tanto che il paziente diventa ingestibile. Con grande rammarico (mio e degli operatori che
hanno avuto diretto contatto con lui) si decide per il secondo ricovero in TSO.
Il reparto diventa un buon contenitore. Nel giro di pochi giorni, Alberto recupera un assetto
migliore, ma evidentemente non è fuori del tutto dalla crisi psicotica. Andiamo a trovarlo spesso. Io
mi trovo, come «psichiatra referente del caso», ad un crocevia. È questa una condizione complessa,
che si presenta spesso in situazioni simili, legate ai momenti di passaggio (soprattutto nel periodo
che precede la laurea o l’esame di maturità). Alberto vuole laurearsi e mi chiede, quasi mi prega, di
fare qualcosa. Ne parliamo a lungo; analizziamo il significato di affrontare la laurea da ricoverato,
del ricordo che porterebbe con sé un evento così importante ed eventualmente legato al ricovero.
Ma non c’è niente da fare; progressivamente più ricomposto (ma non del tutto), Alberto riesce a
convincermi che può farcela. Io mi lascio convincere, perché comprendo la sua storia personale e
familiare, carica dei significati visibili e di quelli più nascosti. Mi riferisco qui alla possibilità di
comprendere e tenere insieme nella mente del terapeuta gli aspetti del passato, del presente e del
futuro più prossimo, della storia del paziente prima che egli stesso ne acquisisca la consapevolezza;
si tratta di un aspetto transgenerazionale implicito: questo è un elemento di chiara leggibilità nelle
dinamiche che il paziente ha sviluppato con i propri familiari. Appaiono massicci gli investimenti
compiuti, soprattutto perché supportati dai dati reali (l’eccellente carriera scolastica di Alberto che
aveva anche costituito una barriera difensiva verso le angosce di annientamento rispetto alla
famiglia «risucchiante»).
Grazie al prezioso aiuto di un tirocinante psicologo, dotato di elevate capacità empatiche e
affettive, che ogni giorno, nel periodo precedente la laurea, si è recato in reparto e ha verificato la
preparazione del paziente alla discussione della tesi, Alberto è arrivato alla vigilia dell’esame. Lo
specializzando mi ha tenuta aggiornata sulla situazione clinica; è questo un modello di intervento
giovevole che si è potuto riproporre ancora (grazie a uno specializzando in psichiatria) in una
situazione analoga. Non si è trattato di un intervento facile; anzi si è definito come un momento di
assunzione di grande responsabilità da parte mia. Mi sono fatta contenitore dell’intera vicenda e
fortunatamente ho trovato condivisione e comprensione da parte di uno dei colleghi dell’SPDC, che
ha sciolto il TSO la sera prima della laurea. Alberto ha ottenuto il massimo dei voti e la lode; poi, la
sera, è rientrato in reparto, dopo aver festeggiato con i familiari. Tutta la vicenda ha richiesto a me e
al paziente molte sedute per rielaborare le dinamiche di questo percorso..
La speranza è che queste esperienze cliniche rappresentative di una casistica già importante
numericamente possano sempre più motivare psichiatri e psicoanalisti a entrare sempre più in
contatto con i sintomi psicotici leggendoli non come inevitabilmente associati alla malattia ma
potendone cogliere tutte le potenziali benigne evoluzioni all’interno di collaudate e forti alleanze
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terapeutiche che possono sopravvivere anche se percorse da scompensi con necessità di ricoveri. Vi
faceva riferimento già Freud nel 1924: «Ritengo che l’analisi dei vari meccanismi mediante i quali
nelle psicosi si attua il distacco dalla realtà e la ricostruzione di una realtà nuova, come pure la
determinazione delle possibilità di successo di questi meccanismi, sia un compito che gli psichiatri
di professione dovrebbero risolvere e che finora non è stato preso in attenta considerazione».
Imparare a dare tempo ai giovani pazienti, a far sì che possano dare voce ai loro pensieri spesso
confusi e frammentati, aiutarli a comporli e ricomporli. Molto spesso saremo sorpresi dalle loro
potenziali capacità di dare lettura degli eventi in modo diretto e perspicace. Si tratta di aiutarli a
riconoscere, legittimare, le loro considerazioni sul mondo adulto e allo stesso tempo incuriosirli
rispetto al loro mondo interno.
Concludo con la speranza che le nuove generazioni di psichiatri rispettando la centralità della
relazione terapeutica (condivido con Foresti e Rossi Monti [2010] la preoccupazione rispetto alla
frequente mancanza di formazione psicoterapeutica nelle Scuole di Specializzazione) sappiano allo
stesso modo destreggiarsi tra distanza e vicinanza al paziente, tra diagnosi e recupero del significato
soggettivo, interessarsi al vissuto che sottende il sintomo nel recupero di senso mettendosi in gioco
con creatività e fiducia.
SINTESI
L’articolo è dedicato agli Esordi psicotici che insorgono soprattutto in adolescenza o in giovani adulti
e che evidenziano vulnerabilità di base e fragilità identitarie. L’autrice descrive un modello di trattamento
«precoce» e intensivo, cui collabora attivamente, sia per i programmi terapeutici sia con supervisioni
costanti, all’interno del Dipartimento di Salute mentale di Bologna. Viene sottolineata l’importanza del
lavoro di gruppo multidisciplinare supportato dai significativi riferimenti psicoanalitici necessari per
l’approfondimento e la comprensione delle situazioni cliniche.
PAROLE CHIAVE: Équipe dedicata, esordio psicotico, holding, identità precaria, processo di
soggettivizzazione.
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